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Full text of "Opere Volume 46 Tomo I"

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ILLUMINISTI  ITALIANI 
Tomo  i 

OPKUK  DI  PIETRO  GIANNONK 
a  cura  di  Sergio  Bertelli  e  Giuseppe  Ricuperati 

Pietro  Ciminone  <>  una  Mìe  personalità  di  maggior  rilievo 
nella  storia  politica  e  cultural/?  del  primo  Settecento,  La  sua 
latortst  civile  ebbe  una  fama  europea  e  numerose  edizioni 
fino  alla  seconda  metà  ddV  Ottocento.  La  grande  fortuna 
di  quest*  opera  rischiava  pero  di  fissare  V immagine  del  Gian- 
none  alV impegno  gìurisdtzionalistico.  È  quanto  gli  studi  più 
recenti  hanno  cercato  di  superare,  ricostruendo  V itinerario 
del  Napoletano,  dal  libertinismo  erudito  all'incontro  col 
deismo.  IH  tale  esperimma  momento  fondamentale  è  il  Tri- 
regno, Ma  sono  interessanti  altresì  le  opere  del  carcere,  dove 
il  discorso  viene  in  qualche  tnodo  attenuato^  sema  però  che 
ne  vadano  persi  i  tratti  essenziali.  La  presente  raccolta  do- 
cumenta organicamente  questa  vicenda  attraverso  Sofferta 
delle  pagine  pia  significatiti  di  quasi  tutte  le  opere,  Accanto 
alla  Vita  (data  par  intero  e  che  b  un  po'  la  filigrana  in  cui 
acquistano  face  e  rilievo  le  scelte  intellettuali)^  ai  bratti  del- 
/'littoria  civile»  dd  Triregno,  dei  Discorsi  sopra  gii  Annali 
ttì  Tito  Livio*  deWlmirh  del  pontificato  di  Gregorio 
Maglio,  tfV  una  fotta  presenza  di  inediti,  come  le  pagine 
tratte  ffe//*Àpoiagia  do*  teologi  scolastici  (che  è  forse  V  opera 
pia  importante  scritta  in  carcere),  dalVApa  ingegnosa  (che 
è  l*ttttimu)%  daW aspro  $  drammatico  epistolario.  È  così  pos- 
sibile percorrere  V itinerario  intellettuale,  politico  e  religioso 
in  tutu  k  $U€  articolazioni,  i$ma  isolare  un  momento  sin» 
gala.  &$  personalità  «te  mtrge  da  questa  proposta  non  è 
quindi  solo  quella  del  politico  e  giurisdmonalista^  ma  so- 
prattutto quella,  autentica  e  tingolaret  di  un  intellettuale 
#k+  vim  prùfmdùmtHU  la  crisi  della  coscienza  religiosa 
ture/pfo^  misvr andati  cm  la  cultura  che  va  da  Spinosa  a 
Toland. 


kansas  city 


public  library 

kansas  city,  missouri 


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LA  LETTERATURA  ITALIANA 
STORIA  E  TESTI 

DIRETTORI 

RAFFAELI'    MATTIOLI    •  l'IETRO    PANCRAZI 

ALI-REDO   SCIIIAFFINI 

Volume  46  •  Tomo  I 


ILLUMINISTI  ITALIANI 

TOMO  I 
OPERE  DI  PIETRO  GIANNONE 


ILLUMINISTI  ITALIANI 


TOMO    I 


OPERE 

DI 

PIETRO  GIANNONE 


A    CURA   DI 

SERGIO   BERTELLI 

E    GIUSEPPE   RICUPERATI 


c,v*^*-^ 


RICCARDO    RICCIARDI    EDITORE 
MILANO    ■   NAPOLI 


TUTTI  I  DIRITTI  RISERVATI  •  M.U  RI0UT8  RKKBRVKD 
PRINTBI)  IN  ITALY 


ILLUMINISTI  ITALIANI 

TOMO  I 
OPERE  DI  PIETRO  GIANNONE 


INTRODUZIONE  di  Sergio  Bertelli  XI 

BIBLIOGRAFIA  di  Sergio  Bertelli  XXVII 

VITA  DI  PIETRO  GIANNONE  (a  cura  di  Sergio  Bertelli)  3 

ISTORIA    CIVILE   DEL    REGNO    DI    NAPOLI    (a  cura  di  Sergio 

Bertelli)  349 

PROFESSIONE  DI  FEDE  (a  cura  di  Sergio  Bertelli)  475 

RAGGUAGLIO  DELL' IMPROVISO  E  VIOLENTO  RATTO  PRATI- 
CATO IN  VENEZIA  AD  ISTIGAZIONE  DE»  GESUITI  E  DEL- 
LA CORTE  DI  ROMA  NELLA  PERSONA  DELL'AVVOCATO 
P.  GIANNONE  (a  cura  di  Sergio  Bertelli)  507 

OSSERVAZIONI  CRITICHE  SOPRA  L'HISTORIA  DELLE  LEGGI 
E  DE»  MAGISTRATI  DEL  REGNO  DI  NAPOLI  COMPOSTA 
DAL  SIG.RE  GRIMALDI  (a  cura  di  Giuseppe  Ricuperati)  557 

IL  TRIREGNO  (0  cura  di  Giuseppe  Ricuperati)  581 

DISCORSI  SOPRA  GLI  ANNALI  DI  TITO  LIVIO  (0  cura  di  Giu- 
seppe Ricuperati)  731 

APOLOGIA  DE'  TEOLOGI  SCOLASTICI  (a  cura  di  Giuseppe  Ri- 
cuperati) 791 

ISTORIA  DEL  PONTIFICATO  DI  GREGORIO  MAGNO  (a  cura 
di  Giuseppe  Ricuperati)  915 


L'APE    INGEGNOSA    OVERO    RACCOLTA    DI    VARIE    OSSERVA- 
ZIONI SOPRA  LE   OPERE  DI  NATURA   E  DELL'ARTE  {a  cura 

di  Giuseppe  Ricuperati)  989 

LETTERE  {a  cura  di  Sergio  Bettolìi)  noi 

INDICE   DEI   NOMI  1197 

INDICE  1233 


INTRODUZIONE 


INTRODUZIONE 


Tre  figure  risaltano  in  modo  particolare  nel  primo  Settecento 
italiano.  Uomini  della  stessa  generazione,  con  non  pochi  punti  di 
contatto  tra  loro.  Nati  negli  stessi  anni,  scomparsi  a  poca  distanza 
l'uno  dall'altro  negli  anni  Cinquanta:  Lodovico  Antonio  Muratori 
(1676-1750),  Scipione  Maffei  (1675-1755),  Pietro  Giannone  (1676- 
1748).  Essi  attinsero,  indipendentemente  l'uno  dall'altro,  alle  stesse 
sorgenti  la  propria  metodologia  storica  (e  Muratori,  come  Gian- 
none,  partì  da  un'esperienza  giuridica,  prima  di  approdare  alla 
ricerca  storica).  Ciascuno  nel  proprio  ambiente  e  tutti  insieme  nel 
più  ampio  teatro  italiano,  svolsero  una  decisa  opera  di  sprovincia- 
lizzazione della  cultura  italiana,  inserendola  nel  dialogo  europeo. 
Ognuno  da  posizioni  proprie  e  peculiari,  ma,  in  sostanza,  con  stima 
reciproca  capace  di  far  superare  momentanei  dissensi  tra  loro,  con 
un  impegno  riformatore  che  andò  ben  oltre  le  giovanili  posizioni 
giurisdizionalistiche. 

(Come  non  ricordare,  a  questo  proposito,  quella  sincera  lettera 
di  Lodovico  Antonio  Muratori  a  Maffei,  col  quale  s'era  trovato  in 
disaccordo  -  un  disaccordo  motivato  da  considerazioni  d'opportu- 
nità politica  -  sul  problema  della  magia?  Maffei  non  s'era  limitato 
a  negare  l'esistenza  delle  streghe;  aveva  attaccato  ogni  forma  di 
superstizione,  senza  curarsi  se,  demolendo  il  soprannaturale,  avreb- 
be potuto  essere  accusato  d'eresia,  inficiando  la  battaglia  che  si 
stava  conducendo  per  salvare  delle  vite  umane  dal  rogo.  Muratori 
non  aveva  avuto  questo  ardire  e  nell'ultima  sua  lettera  all'amico, 
prima  della  morte,  ne  aveva  riconosciuto  il  coraggio:  «Siete  en- 
trato ancor  voi  nell'opinione  della  non  magia.  Non  vi  prendiate 
fastidio  s'io  l'avessi  tenuta,  è,  perché  io  non  sono  stato  animoso  co- 
me voi.  Le  Sacre  Scritture  mi  fanno  paura;  e  giacché  nulla  è  stato 
proibito  finora  del  mio,  non  vorrei,  che  fosse  neppur  da  qui  avanti. 
Di  miglior  guscio  siete  voi,  che  io;  per  me  poco  importa,  che  la 
finisca  in  breve  ...  ».  Oppure,  come  non  ricordare  il  pacato  giudizio 
sulla  vicenda  giannoniana,  espresso  a  Costantino  Grimaldi  nell'apri- 
le del  '23  ?  :  «  Agl'ingegni  focosi  e  liberi  di  Partcnope  si  dee  condona- 
re qualche  verità  detta  a  visiera  calata».  0  il  commento  dopo  la  let- 
tura della  risposta  giannoniana  al  padre  Sebastiano  Paoli:  «...  quel 
benedetto  Vesuvio  mette  un  gran  fuoco  in  voi  altri  signori»?). 


Xtt  INTRODUZIONE 

Tre  uomini,  in  qualche  modo  legati  Timo  all'altro  in  una  stessa 
battaglia  (Muratori  accorrerà  a  salutare  Giannone  in  fuga,  non  ap- 
pena a  conoscenza  del  suo  passaggio  per  Modena,  informandolo  dei 
nuovi  attacchi  che  si  tramavano  contro  Y Istoria  civile.  Quanto  al 
Maffei,  non  fu  certo  un  caso  se  nel  suo  palazzo  di  Verona  trovò 
ospitalità  Alessandro  Riccardi,  uno  dei  maggiori  esponenti  del  giu- 
risdizionalismo  napoletano,  nel  '27).  Una  stessa  battaglia,  che  ap- 
prodò alla  lotta  contro  la  molteplicità  delle  feste  religiose  e  per  una 
devozione  più  «regolata»  in  Muratori  (roso  ora  anche  dal  dubbio 
di  fronte  alla  filosofia  del  Locke);  per  affermare  la  forza  della  ra- 
gione nella  polemica  sulle  lammie  e  sulla  magia,  il  Malici;  per  esal- 
tare e  proporre  una  nuova  storia  della  religione,  alle  soglie  del 
deismo,  il  Giannone. 

Di  estrazioni  sociali  diverse,  approdarono  insieme  alla  stessa  cul- 
tura, si  aprirono  airilluminissmo  apportandovi  il  loro  non  trascu- 
rabile contributo,  conquistandosi  tutti  fama  europea.  Di  famiglia 
contadina  il  Muratori;  nobile  di  Terraferma  il  Mafici;  figlio  d'un 
povero  speziale  il  Giannone.  E  mentre  il  MafTei  seppe  ironizzare 
sui  costumi  della  sua  classe  col  Della  scienza  chiamata  cavalleresca, 
il  figlio  di  contadini  seppe  rifiutare  il  vescovado  per  mantenere 
quella  libertà  che  gli  assicuravano  i  duchi  d'Este.  Quanto  al  Gian- 
none,  il  quale  aveva  conosciuto  l'onore  della  carica  di  «Avvocato 
della  città  di  Napoli»,  anch'egli  seppe  mantenere  la  sua  indipen- 
denza intellettuale,  pur  nelle  angustie  e  nei  disagi  dell'esilio  e, 
ancora  più  tardi,  nel  chiuso  del  carcere. 

In  queste  tre  biografie  si  rispecchia  tutto  il  primo  Settecento 
italiano:  dalla  reazione  all'Arcadia  sino  all'aprirsi  del  moto  rifor- 
matore. Vi  sono  le  battaglie  per  la  fondazione  di  un  «  buon  gusto  » 
contro  l'irrazionale  barocco,  la  fondazione  d'una  nuova  storiogra- 
fia «civile»  secondo  l'indicazione  baconiana,  la  ricerca  d'una  nuova 
metodologia  sull'esempio  dell'erudizione  di  Saint-Maur,  la  riven- 
dicazione d'un  più  libero  impiego  del  danaro  senza  più  remore 
religiose,  la  lotta  contro  il  «voto  sanguinario))  dei  Gesuiti  (cioè 
l'offerta  di  offrire  il  proprio  sangue  per  sostenere  l'immacolata  con- 
cezione di  Maria)  e  per  una  più  moderna  religiosità,  la  denuncia 
del  danno  che  arrecavano  all'economia  le  troppe  festività  religiose, 
la  battaglia  contro  le  credenze  superstiziose  e,  soprattutto,  contro 
i  processi  per  stregoneria,  la  rivendicazione,  infine,  d'una  religione 
più  pura  e  svincolata  dalle  tante  superfetazioni  che,  nel  corso  dei 


INTRODUZIONE  XIII 

secoli,  si  erano  sviluppate  sul  nucleo  originario  della  Parola  di- 
vina. 

In  questa  continua,  caparbia  lotta  per  la  diffusione  dei  lumi 
Muratori  e  Maffei  ebbero  un  enorme  vantaggio  su  Giannone  :  quel- 
lo di  poter  incidere  sulla  società  e  sulla  cultura  settecentesche  lungo 
tutto  il  corso  della  loro  vita.  Una  possibilità  che  fu  invece  negata 
a  Giannone,  che  i  contemporanei  conobbero  solo  per  i  suoi  scritti 
giurisdizionalistici.  Nei  confronti  di  Muratori,  inoltre,  Giannone 
ebbe  almeno  due  svantaggi:  di  giungere  con  la  sua  opera  troppo 
tardi  rispetto  al  momento  politico-diplomatico  e  di  non  avere  alle 
spalle  un  principe  protettore  interessato  alla  sua  battaglia  giurisdi- 
zionalistica. 

La  polemica  nei  rapporti  tra  Stato  e  Chiesa  s'era  aperta  nel  pieno 
della  guerra  per  la  successione  al  trono  di  Spagna  e  aveva  conosciu- 
to il  suo  acme  con  l'occupazione  delle  valli  di  Comacchio  (passate 
sotto  sovranità  pontificia  con  la  devoluzione  del  ducato  di  Ferrara 
nel  1598,  ma  rivendicate  come  possesso  imperiale  e  quindi  distinto 
dal  ducato  ferrarese).  Tra  il  1708  e  il  171 2  Lodovico  Antonio  Mu- 
ratori fu  il  grande  polemista,  il  difensore  dei  diritti  imperiali  ed 
estensi  contro  Roma.  Contemporaneamente,  un  secondo  fronte  giu- 
risdizionalista  s'era  aperto  nel  regno  di  Napoli  dove,  tra  il  1707  e  il 
1708,  era  viceré  austriaco  quello  stesso  conte  Philipp  Lorenz  Wicrich 
von  Daun  che  avrebbe  proceduto  all'occupazione  delle  valli  comac- 
chiesi.  Anche  a  Napoli,  dove  gli  imperiali  miravano  a  strappare  a  Ro- 
ma il  riconoscimento  di  Carlo  d'Absburgo  quale  re  di  Spagna  e  la 
concessione  in  feudo  del  regno  di  Napoli,  si  erano  trovati  motivi 
d'attrito  con  Roma  nella  collazione  dei  benefìci  ecclesiastici,  riven- 
dicati ai  soli  «nazionali».  In  questa  polemica  s'erano  impegnati  i 
giuristi  della  cerchia  di  Gaetano  Argento:  Alessandro  Riccardi, 
Costantino  Grimaldi  oltre  alio  stesso  Argento,  Una  cerchia  alla 
quale  appartenne  anche  Pietro  Giannone,  il  quale  parti  da  quel- 
l'esperienza di  lotta  contro  Roma  per  affrontare  un  riesame  globale 
della  storia  del  Regno. 

Anche  se  l'autobiografia  non  lo  ricorda,  è  impossibile  che  non 
vi  fosse,  alla  base,  una  conoscenza  delle  ricerche  muratoriane  sul 
medioevo  barbarico.  La  disputa  sulle  valli  di  Comacchio  fu,  del 
resto,  cosi  celebre  (vi  intervenne  persino  il  Leibniz  a  sostegno  del 
Muratori,  assieme  a  molti  altri  storici  e  giuristi  germanici)  e  durò 
così  a  lungo  che  non  potè  certo  essere  ignorata  a  Napoli  da  uomini 


XIV  INTRODUZIONE 

che,  per  giunta,  si  tro  vii  vano  dalla  stessa  parte  della  barricata,  erano 
in  corrispondenza  epistolare  (come  il  Grimaldi  appunto)  col  mag- 
gior campione  di  quella  disputa  storico-politico-diplomatica.  La 
stessa  ricerca,  così  attenta  in  Giannone,  delle  origini  longobardo- 
beneventane  del  Regno,  ha  troppi  punti  di  contatto  con  l'analisi 
del  regno  longobardo  compiuta  dal  Muratori  in  relazione  alle  ori- 
gini della  casa  d'Kste  e  al  titolo  dei  suoi  possessi  (il  primo  volume 
delle  Antichità  estensi  apparve  nel  1717,  ma  già  nei  testi  della  pole- 
mica comacchiesc  si  possono  trovare  i  primi  risultati  delle  ricerche 
muratoriane),  perché  non  sia  lecito  pensare  ad  una  conoscenza 
dell'opera  muratoriana  da  parte  del  gruppo  dell'Argento,  Postulare 
una  discendenza  comune  da  Huig  van  Groot  non  è  sufliciente. 
Tanto  più  che  fu  Muratori,  nel  vivo  della  polemica,  a  riaprire  il 
discorso  machiavelliano  sulla  distorsione  provocata  nella  storia  ita- 
liana dalla  scomparsa  del  regno  longobardo.  Un  tema  al  quale  non 
fu  certo  insensibile  Giannone. 

Comacchio,  dunque,  e  la  disputa  de  re  beneficiaria  furono  alla 
base  dell'impresa  giannoniana.  Impresa  nata  da  discussioni  colletti- 
ve e  con  propositi  ben  chiari  di  azione  politica,  come  si  dirà  nell'in- 
troduzione alle  pagine  dell'  istoria  civile.  Senonché  l'arma  del  giu- 
risdizionalismo  era  stata  usata  da  Vienna  per  premere  su  Roma, 
al  fine  di  ottenere  concessioni  ben  precise  e  delimitate.  L'impera- 
tore Giuseppe  I,  colui  che  aveva  scatenato  la  lotta,  scese  nella 
tomba  troppo  presto,  nel  1711,  per  legare  al  suo  nome  quel  movi- 
mento riformatore  che  fu  detto  «giuseppinismo»  dal  nome  non  suo, 
ma  d'un  suo  discendente.  Quanto  a  Carlo,  ora  divenuto  VI  del 
titolo  imperiale,  o  egli  non  fu  della  tempra  del  fratello  o  bisogna 
riconoscere  che  la  nuova  situazione  europea  gli  impose  una  diversa 
condotta.  Non  per  nulla  prolungò  l'occupazione  di  Comacchio  sino 
a  che,  di  fronte  alla  necessità  d'assicurarsi  il  riconoscimento  della 
«Prammatica  sanzione»,  non  si  vide  costretto  a  liquidare  ogni  pen- 
denza con  Roma.  Ecco  perche,  in  questo  nuovo  quadro,  sarebbe 
stato  scelto  quale  viceré  di  Napoli,  nel  1722,  un  cardinale;  Frie* 
drich  Michael  dei  conti  di  Althannl  Un  gesto  pacificatore  che  rap- 
presentò» anche,  la  fine  della  polìtica  degli  anni  precedenti. 

AlFarrivo  del  nuovo  viceré  V Istoria  civile  non  era  stata  ancora  com- 
piuta. Se  ne  era  iniziata  la  stampa,  sul  principiare  dell'anno  avanti, 
in  modo  quasi  clandestino,  nella  casa  di  campagna  dell'autore  a  Po- 
sillipo,  quando  mancavano  ancora  cinque  libri  al  suo  compimento. 


INTRODUZIONE  XV 

Ancora  sulle  bozze  il  testo  veniva  ripulito  e  messo  in  miglior  italia- 
no da  Francesco  Mela  (cfr.  quanto  lo  stesso  Giannone  riferisce 
neir autobiografia  in  proposito);  sicché  può  ben  comprendersi  co- 
me, in  quelle  condizioni,  fossero  occorsi  ben  due  anni  a  stampare 
i  quattro  tomi!  Quando  finalmente  Y Istoria  civile  vide  la  luce  si  era 
nel  marzo  del  1723.  Il  clima  era  ora  ben  diverso  da  quello  in  cui 
l'opera  era  stata  concepita.  Erano  ormai  più  di  undici  anni  che  Mu- 
ratori aveva  chiuso  per  parte  sua  la  polemica  giurisdizionalistica, 
con  la  Piena  esposizione  dei  diritti  imperiali  ed  estensi  sopra  la  città  dì 
Comacchio  (Modena  171 2).  La  protezione  del  duca  Rinaldo  lo  ave- 
va assicurato  (lui  prete)  dalle  censure  ecclesiastiche  e  la  fama  con- 
quistata gli  permetteva  adesso  di  continuare  a  scavare  in  quella 
storia  medioevale  che  sarebbe  stata,  d'ora  in  poi,  il  suo  gran  cimen- 
to, portando  avanti  le  intuizioni  storiografiche  abbozzate  nel  fuoco 
della  polemica  comacchiese.  Ma  l'apparizione  àéiY Istoria  civile,  nel 
1723,  giungeva  al  contrario  quanto  mai  inopportuna,  fuori  tempo. 
Fosse  apparsa  nel  pieno  del  contrasto  tra  Vienna  e  Roma,  0  almeno 
qualche  anno  prima  dell'arrivo  del  cardinale  Althann,  ben  altra 
sorte  sarebbe  toccata  al  suo  autore.  Ora,  pur  se  l'ambiente  dei  giu- 
risti napoletani  reagì  favorevolmente  ad  essa  e  riuscì  a  far  nominare 
Giannone  «Avvocato  della  città  di  Napoli»,  il  gesto  non  fece  che 
vieppiù  imbarazzare  il  nuovo  viceré,  il  cui  compito  era,  al  contra- 
rio, proprio  quello  di  seppellire  l'ascia  di  guerra  del  giurisdiziona- 
lismo  e  di  tentare  il  riawicinamento  con  Roma.  La  gloria  raggiunse 
così  il  figlio  dello  speziale  pugliese  accompagnata  dalla  persecu- 
zione, dai  disagi  dell'esilio,  anziché  dall'agiatezza  sino  ad  allora  ap- 
pena intravista  e  subito  perduta. 

Anche  dai  suoi  amici,  dagli  uomini  della  sua  cerchia  egli  sarebbe 
stato  ben  presto  abbandonato,  quando  questi  capirono  quale  fosse 
la  nuova  politica  imperiale.  I  giuristi,  i  paglietta,  il  ceto  forense 
napoletano  aveva  creduto  nel  giurisdizionalismo  finché  aveva  in- 
travisto, in  quella  battaglia,  la  possibilità  di  rodere  il  potere  del 
foro  ecclesiastico  nel  Regno.  Ben  pochi  -  Giannone,  alcuni  suoi  più 
intimi  amici  -  ne  avevano  fatto  una  battaglia  ideale,  che  trascen- 
deva la  politica  contingente  dello  Stato  assoluto.  La  persecuzione 
romana  e,  nello  stesso  tempo,  lo  sfaldamento  del  vecchio  «partito» 
di  Gaetano  Argento  costrinsero  così  Giannone  in  un'autodifesa  e 
in  una  battaglia  politica  che  lo  impegnarono  a  lungo  sui  temi  del 
giurisdizionalismo,  impedendogli  -  almeno  sino  al  1731-1732  -  di 


affrontare  quei  problemi  di  più  ampio  respiro  sulla  storia  delle 
religioni,  che  nell'Istoria  erano  appena  sfiorati.  Problemi  sui  quali, 
invece,  egli  s'era  prestissimo  fermato,  sin  dagli  anni  giovanili,  sotto 
l'influsso  del  suo  maestro,  Domenico  Aulisio. 

«Cominciai  nella  villeggiatura  di  quest'anno  [173 1]  ad  applicar- 
mi a  studi,  che  fosser  drizzati  unicamente  alla  cognizione  di  me 
stesso  e  della  condizione  umana,  della  quale  io  era  vestito,  e  ripi- 
gliare i  miei  tralasciati  studi  di  filosofia,  e  col  soccorso  dell'istoria 
d'investigare  più  da  presso  la  fabbrica  di  questo  mondo  e  degli  anti- 
chi suoi  abitatori ...  ».  Ma  un  nuovo  impegno  politico,  la  questione 
di  Benevento,  lo  staccò  ben  presto  da  quelle  sue  ricerche,  ripor- 
tandolo ancora  una  volta  alla  battaglia  giurisdizionalistica.  Ritor- 
nato a  distanza  di  un  anno  ai  suoi  nuovi  studi,  gli  sconvolgimenti 
provocati  dalla  guerra  di  successione  per  il  trono  polacco,  nel  1734, 
avrebbero  ributtato  Giannone  nel  mare  di  sofferenze  e  di  stenti  e 
l'approdo  sarebbe  stato,  questa  volta,  la  prigione  a  vita.  Così  il 
grande  impianto  d'una  storia  della  religiosità  dagli  antichi  sino  alla 
Controriforma  rimase  incompiuto,  né  il  nuovo  messaggio  gianno- 
niano  raggiunse  mai  i  suoi  contemporanei.  Nei  due  anni  di  lavoro 
nella  quiete  dei  boschi  che  circondano  Vienna  e  poi  grazie  all'ospi- 
talità veneziana  del  senatore  Angelo  Pisani,  l'opera  era  tuttavia 
cresciuta  sino  alla  moie  di  tre  grossi  volumi  in  quarto  (si  veda  la 
copia  oggi  alla  Biblioteca  Marciana  di  Venezia!)  e  il  discorso  storico 
condotto  sino  all'età  costantiniana  inclusa.  In  molte  parti  prolisso, 
in  tante  altre  ancora  da  dirozzare,  da  limare,  troppo  spesso  compo- 
sto alla  maniera  dell'Istoria  -  con  intere  pagine  tratte  di  peso  dalla 
bibliografia  dalla  quale  dipende  -,  anche  così  il  Triregno  avrebbe 
rappresentato  una  grande  tappa  nella  religiosità  settecentesca,  se 
avesse  potuto  circolare,  anche  manoscritto,  così  come  circolarono 
manoscritte  tante  altre  opere  giannoniane. 

Il  secolo  si  era  aperto  all'insegna  dell'incertezza  e  una  grande 
crisi  della  religiosità  europea  era  in  atto.  Nel  1695  John  Locke 
aveva  pubblicato  The  Reasonableness  of  Christianity,  l'anno  stesso 
in  cui  aveva  cominciato  ad  apparire  il  Dictionnaire  historique  et  cri- 
tigne  (1695-1697)  di  Pierre  Bayle,  gran  miniera  del  pensiero  liber- 
tino. Nel  1696  John  Toland  aveva  dato  alle  stampe  il  suo  Christia- 
nity  not  Misterious  aprendo  la  strada  al  deismo.  Nel  171 3  Anthony- 
Collins  avrebbe  difeso  la  libertà  di  pensiero  col  suo  Discourse  of 
Free  Thinking,  Occasioned  by  the  Rise  and  Growth  of  a  Sect  Called 


INTRODUZIONE  XVII 

Free-Thinkers;  mentre  proprio  Tanno  avanti  l'inizio  dei  nuovi  studi 
giannoniani,  nel  1730,  Matthew  Tindal  dava  alle  stampe  il  suo 
Christianity  as  Old  as  the  Creation,  or  the  Gospels,  a  Republication  of 
the  Religion  of  Nature,  che  fu  la  vera  bibbia  del  deismo.  A  queste 
forme  estreme  di  attacco  alla  religione  cristiana  (cattolica  o  anglica- 
na o  luterana  0  calvinista  che  essa  fosse)  si  affiancavano  una  lunga 
serie  di  studi  sui  Vangeli  e  sulla  Chiesa  primitiva.  La  strada  ad  essi 
era  stata  aperta  da  Spinoza  col  Tractatus  theologico-politicus  (1670) 
e  su  di  essa  si  erano  posti  in  tanti,  seguaci  e  avversari,  tutti  comun- 
que costretti  a  seguire  il  suo  razionalismo  storicistico.  Da  Jean  Le- 
dere a  Richard  Simon  e  Pierre-Daniel  Huet,  Louis  Ellies  Du  Pin, 
Joseph  Bingham,  per  citarne  solo  alcuni.  L'opera  giannoniana  mi- 
rava, nel  suo  grandioso  impianto,  a  dare  un  immenso  affresco  del- 
l'evolversi delle  credenze  religiose,  riprendendo  tutta  la  letteratura 
contemporanea.  Il  soggiorno  viennese,  con  il  facile  accesso  alla 
Biblioteca  Palatina,  somministrava  a  Giannone  i  testi  eterodossi  e 
non,  necessari  all'impresa.  La  vicinanza  e  l'aiuto  di  amici  quali  Pio 
Niccolò  Garelli,  Nicola  Forlosia,  Bernardo  Andrea  Lama  e  la  cer- 
chia libertina  della  corte  del  principe  Eugenio  avevano  assicurato 
la  maturazione  del  progetto  giannoniano,  così  come,  in  un  tempo 
ormai  lontano,  l'atmosfera  dell'Accademia  dei  Saggi,  riunita  a  Na- 
poli attorno  a  Gaetano  Argento,  aveva  esercitato  l'arte  sua  maieu- 
tica per  la  nascita  dell'Istoria  civile. 

Quando  improvvisamente  Giannone  venne  arrestato  da  agenti 
sabaudi  a  Vezenaz,  un  voluminoso  manoscritto  dell'opera  incom- 
piuta restò  nelle  mani  del  pastore  calvinista  Jacob  Vernet.  Questi 
ebbe  contatti  con  un  libraio-editore  per  cercare  di  stamparla,  Jac- 
ques Barillot  di  Ginevra;  ma  giunto  in  possesso  del  manoscritto, 
il  Barillot  preferì  consegnarlo  all'Inquisizione  romana,  non  senza 
il  consenso  delle  stesse  autorità  ginevrine.  Ai  calvinisti,  evidente- 
mente, l'opera  non  doveva  piacere  per  il  suo  sapore  deista,  né  la 
Compagnia  dei  Pastori  amava  più  urtarsi  con  Roma.  Così,  autogra- 
fo e  apografo  del  Triregno  finirono  entrambi  sepolti  negli  archivi 
sabaudi  e  romani.  L'autografo  del  Regno  celeste^  per  la  verità,  si 
salvò  da  questo  naufragio,  e  da  esso  furono  tratte  alcune  copie,  due 
delle  quali  giunte  sino  a  noi.  Non  solo,  ma  una  copia  integrale  del- 
l'opera, per  vie  sconosciute,  capitò  nel  1768  in  mano  all'editore 
veneziano  delle  così  dette  Opere  postume)  mentre  un  certo  M.  C. 
de  Samnitibus  aveva  la  possibilità  di  copiare  per  suo  conto  l'intero 


testo  del  Triregno  a  Napoli,  nel  1783.  Né  questo  ò  tatto,  perche 
sappiamo  che  l'opera  era  conosciuta  nell'ambiente  del  cardinale 
Neri  Corsini  a  Roma,  dove  si  provvide  a  farla  copiare  assieme  ad 
altre  opere  minori  giannonianc.  Non  può  dunque  affermarsi  che 
la  caccia  data  al  Triregno  da  Carlo  Emanuele  di  Savoia  e  dall'In- 
quisizione romana  avesse  davvero  raggiunto  lo  scopo  di  impedire 
la  sua  diffusione.  Con  tutto  ciò,  l'opera  non  conobbe  ugualmente 
quella  circolazione,  sia  pure  latomica,  che  conobbero  altre  opere 
polemiche  giannonianc,  diffuse  in  innumerevoli  copie  manoscritte. 
Non  che  ostasse  la  sua  mole,  tale  certo  da  impegnare  seriamente  la 
fatica  di  qualsiasi  amanuense.  La  sua  prolissità  ?  Può  anche  darsi. 
Ma  molto  più  probabilmente,  una  volta  ancora,  le  pagine  gianno- 
nianc giungevano  in  ritardo.  A  oltre  trent'anni  dal  suo  sequestro, 
il  Triregno  capitò  nelle  mani  del  tipografo-editore  veneziano  Giam- 
battista Pasquali,  eppure  questi  non  ritenne  di  pubblicarlo.  Molto 
probabilmente  giudicò  la  sua  tematica  sorpassata.  L'autografo  del 
Regno  celeste  risultava  a  Napoli  quando  l'abate  Leonardo  Fanzini 
stese  la  sua  biografia  del  Giannone  (1765  circa).  Ebbene,  anche  da 
esso  non  ne  discesero  che  ben  poche  copie,  come  s'ò  detto,  un 
numero  davvero  irrilevante,  se  paragonato  alla  quantità  di  copie 
che  figliò  un  altro  testo,  certo  non  meno  eterodosso,  quale  la  Pro- 
fessione di  fede,  vivente  il  suo  autore  e  ancora  più  tardi. 

Bisogna  dunque  concluderne  che  il  Triregno^  in  trent'anni,  era 
così  invecchiato  da  non  invogliare  copisti  e  tipografi.  In  effetti, 
esso  avrebbe  sicuramente  esercitato  un'azione  dirompente  sulla  cul- 
tura italiana  degli  anni  Trenta;  ma  tra  il  1765-1768  e  il  1783  ben 
altri  erano  i  problemi  che  agitavano  l'Italia.  Nell'inverno  del  1754 
Antonio  Genovesi  era  salito  sulla  cattedra  di  «  meccanica  ed  ele- 
menti di  commercio».  Tra  il  1764  e  il  1765  erano  usciti  i  numeri 
del  «Caffè»  e  nel  1764  Cesare  Beccaria  aveva  pubblicato  il  suo 
Dei  delitti  e  delle  pene.  Non  solo,  ma  proprio  nel  1763  Iustinus 
Febronius  (Johann  Nikolaus  von  Honthcin)  aveva  pubblicato  il  suo 
De  stata  Ecclesiae,  riaprendo  il  dibattito  giurisdizionalistico,  conte- 
stando il  primatus  potestatis  pontificio.  Pietro  Giannone  tornava 
attuale  per  i  suoi  scritti  giurisdizionalistici,  non  per  i  suoi  studi  di 
storia  religiosa.  La  sua  fama  restò  così  legata  ad  un  momento  della 
sua  vita.  Essa  si  diffuse  in  tutta  Europa  (Edward  Gibbon  fu  un 
suo  entusiasta  lettore),  ma  lo  rese  anche  un  autore  monocorde, 
quale  sicuramente  non  era.  Tant'è  vero  che  l'analisi  dell'evolversi 


INTRODUZIONE  XIX 

del  sentimento  religioso  nei  popoli  occidentali  fu  quella  che  lo 
attrasse  maggiormente,  anche  nella  prigionia.  Tagliato  fuori  dal 
dialogo  coi  suoi  contemporanei,  privato  del  manoscritto  di  quella 
che  avrebbe  dovuto  divenire  l'opera  sua  maggiore,  egli  tornò  in- 
sistentemente su  temi  di  storia  delle  religioni.  Una  prima  volta,  nel 
carcere  di  Miolans,  servendosi  di  Tito  Livio.  Più  volte  ancora,  in 
futuro,  approfittando  dei  testi  che  gli  fu  possibile  reperire. 

È  sintomatico  che  un'opera  come  i  Discorsi  sopra  gli  Annali  di 
Tito  Livio,  che  così  da  vicino  ricalca  nel  suo  titolo  il  commento 
machiavelliano  alle  deche,  sia  al  contrario  tanto  lontana  dal  pen- 
siero del  Machiavelli.  Per  Giannone  non  v'è  un  problema  di  arte 
di  governo,  da  comprendere  e  da  sviscerare.  I  capitoli  che  lo  inte- 
ressano sono  quelli  in  cui  Livio  parla  della  religione  dei  Romani. 
Non  per  nulla  il  modello  cui  si  rifa  è  V  Adeisidaemon,  sive  Titus 
Livius  a  super stitione  vindicatus  di  John  Toland!  Siamo  ancora  nel- 
l'ambito della  disputa  spinoziana,  nella  sfera  del  Tractatus  theolo- 
gico-politicus;  stiamo  risalendo  alle  origini  della  religiosità  umana, 
sulle  orme  dei  deisti  inglesi. 

Terminati  i  Discorsi  nel  1739,  subito  Giannone  avrebbe  posto 
mano  ad  un'altra  opera,  questa  volta  esemplandola  sul  Traiti  de  la 
morale  des  Pères  (1728)  di  Jean  Barbeyrac:  V Apologia  de'  teologi 
scolastici.  Apologia  degli  scolastici,  perché  non  a  loro,  ma  agli  stessi 
Padri  della  Chiesa  va  imputata  la  corruzione  del  primitivo  cristia- 
nesimo! Sono,  ancora  una  volta,  i  temi  del  Triregno  e  non  a  caso 
V Apologia  venne  interrotta,  all'altezza  del  settimo  libro,  per  ri- 
prendere e  quasi  continuare  l'incompiuto  Regno  papale  con  l'Isto- 
ria del  pontificato  di  Gregorio  Magno. 

Tutti  questi  lavori,  che  ci  mostrano  un  Giannone  così  diverso 
da  quello  più  universalmente  noto  dell'Istoria  civile,  rimasero  se- 
polti negli  archivi  del  suo  carceriere,  Carlo  Emanuele.  Essi  non 
ebbero  nemmeno  la  sorte  del  Triregno  che,  ricopiato  su  ordine  del 
re  e  poi  inviato  al  cardinale  Alessandro  Albani  perché  a  sua  volta 
lo  consegnasse  al  Sant'Uffizio,  ebbe  più  probabilità  di  essere  letto  e 
di  conoscere  una  sia  pur  ristretta  diffusione.  I  Discorsi  su  Tito 
Livio,  l'Apologia  de'  teologi  scolastici,  il  Pontificato  di  Gregorio  Ma- 
gno passarono  direttamente  dal  tavolo  di  lavoro  del  Giannone  agli 
archivi  sabaudi.  Ma,  occorre  anche  dire,  non  si  trattava  di  lavori 
originali.  Se  il  Triregno  aveva  destato  la  curiosità  del  cardinale  Al- 
bani e,  più  tardi,  quella  del  cardinale  Neri  Corsini,  gli  ultimi  lavori 


giannoniani  sarebbero  riusciti  interessanti  solo  per  chi  avesse  vo- 
luto conoscere  l'evolversi  del  ragionare  del  prigioniero,  ma  non  si 
sarebbero  mai  imposti  per  il  loro  contenuto.  La  genialità  dell'im- 
pianto dell'Istoria  civile  s'era  ormai  persa  nel  tempo.  La  grandio- 
sità dell' affresco  tentato  col  Triregno,  la  grande  trilogia  del  regno 
terreno,  celeste  e  papale  s'era  spezzata  a  Vezenaz.  La  rilettura  del 
Toland  o  di  Barbeyrac,  i  saccheggi  a  man  salva  dalle  Stuore  di 
Giovanni  Stefano  Menochio  o  dalle  Origines  ecclcsiasticae  di  Joseph 
Bingham,  anche  se  conosciuti,  avrebbero  sicuramente  interessato 
ancor  meno  di  quanto  non  interessò  il  Triregno  a  quanti  lo  ebbero 
tra  le  mani,  a  distanza  di  trent'anni  dalla  sua  stesura.  Quanto  a  noi, 
non  prenderemo  certo  per  elaborazione  originale  tante  pagine  gian- 
noniane  che,  molto  spesso,  giannoniane  non  sono.  Non  cadremo, 
insomma,  nell'errore  (come  spesso  è  avvenuto)  di  attribuire  a  Gian- 
none  idee  che  questi  aveva  tolto  di  peso  dai  testi  dai  quali  dipen- 
deva. L'importanza  di  questo  «secondo  Giannone»,  il  Giannone 
del  Triregno  e  degli  altri  scritti  del  carcere,  mi  sembra  risiedere 
non  tanto  in  un'elaborazione  originale,  quanto  nell'essere  specchio 
d'una  crisi,  quella  della  religiosità  europea  dopo  l'apparizione  di 
Spinoza.  Seguire  Giannone  nelle  sue  letture  è  seguire,  nello  stesso 
tempo,  la  crisi  dell'uomo  di  cultura  settecentesco,  giunto  alle  so- 
glie del  deismo.  Attraverso  le  sue  pagine  è  tutto  il  mondo  del 
libertìnage  erudii  che  ci  si  apre  dinanzi.  Un  mondo  che,  natural- 
mente, conosciamo  anche  senza  Giannone;  ma  attraverso  le  sue 
letture  noi  abbiamo  modo  di  apprendere  le  reazioni  dell'uomo  del 
tempo,  possiamo  evitare  quel  diaframma  che,  inevitabilmente,  si 
pone  tra  noi  carichi  d'una  diversa  cultura  e  quei  testi  sei-sette- 
centeschi. Giannone,  dunque,  specchio  del  tempo,  infaticabile  let- 
tore di  testi  eterodossi. 

A  petto  degli  scritti  del  carcere,  però,  il  Triregno  fu  anche  qual- 
cosa di  più.  Non  v'ò  dubbio  che  anche  per  quest'opera  si  pone  il 
problema  della  dipendenza  dalle  fonti  (dei  plagi),  cosi  come  il  pro- 
blema esiste  per  V Istoria  civile.  Su  questo  punto  va  detto,  tuttavia, 
dopo  tante  accuse  denigratorie  (dal  Bonacci  al  più  recente  Caristia), 
che  Pietro  Giannone  menò  vanto  di  aver  sempre  allegato  «gli  au- 
tori più  gravi  e'  più  contemporanei  che  si  fosse  potuto  »  (vedi  nel 
Ragguaglio),  mirò  dunque  sempre  a  fornire,  con  la  sua  opera,  una 
narrazione  storica  aggiornata.  Né  ritenne  colpa  il  riferire  ampia- 
mente brani  d'autori  coi  quali  al  momento  concordava  (o  servirsi 


INTRODUZIONE  XXI 

di  essi  per  descrivere  un  fatto  storico  che,  pur  con  altre  parole, 
sarebbe  sempre  rimasto  lo  stesso)  senza  apporvi  le  fatidiche  vir- 
golette. Anzi  si  prese  apertamente  beffe  del  povero  padre  Sanfelice, 
che  aveva  creduto  di  criticare  Fautore  àt\Y  Istoria  civile,  senza  sa- 
pere di  avere  a  che  fare  con  una  pagina  della  Storia  della  repubblica 
veneta  di  Giovan  Battista  Nani!  In  realtà,  non  chiediamo  a  Gian- 
none  di  essere  quello  che  non  fu.  Non  pretendiamo  di  far  di  lui 
un  secondo  Muratori,  un  ricercatore  e  illustratore  di  fonti  inedite. 
Non  fu  questo  il  suo  impegno.  Fu  piuttosto  quello  di  fornire,  ba- 
sandosi sui  testi  più  aggiornati,  nuove  interpretazioni  storiche  glo- 
bali, secondo  un  punto  di  vista  che  era  politico  prima  che  storico. 
Con  la  sua  prima  opera,  in  effetti,  egli  non  mirò  a  scoprire  nuove 
fonti,  nuovi  dati,  ma  a  rompere  la  diade  tra  storia  politica  e  storia 
ecclesiastica.  Tentò  di  unificarle  sulla  base  del  giudizio  di  Ottato 
Afro  vescovo  di  Milevi  -  tante  volte  da  lui  ricordato  -:  che  la 
Chiesa  faceva  parte  dell'Impero,  non  già  l'Impero  della  Chiesa 
(cfr.  De  schismate  Donatistarum>  3).  Così  nel  tracciare  il  grande  pro- 
getto dei  tre  regni,  terreno,  celeste  e  papale,  intese  servirsi  dell'im- 
mensa  bibliografia  uscita  negli  ultimi  decenni,  da  Henry  Dodwell 
a  Joseph  Bingham,  da  Richard  Simon  a  Pierre-Daniel  Huet,  da 
John  Locke  a  John  Toland,  dall' Aulisio  delle  Scuole  sacre  a  Jean 
Ledere,  non  per  tornare  anch' egli  a  discutere  il  Tractatus  theologi- 
co-politicus,  ma  per  ripercorrere,  alla  luce  di  quella  bibliografia,  in 
maggioranza  eterodossa  quando  non  addirittura  deista,  il  cammino 
della  religione  umana,  fornendo  in  modo  originale  un  grande  affre- 
sco della  condizione  umana,  sino  ad  arrivare  al  deteriorarsi  della 
Parola  divina,  al  crescere  di  istituzioni  chiesastiche  (tra  gli  Ebrei 
prima,  tra  i  cristiani  poi),  sino  alla  distorsione  storica  del  papato, 
ai  trionfo  controriformistico.  La  sua  era  dunque  una  proposta  di 
ritorno  alla  Parola,  fortemente  influenzata  non  solo  dalle  nuove 
correnti  deiste,  ma  da  quel  mondo  protestante  (già  eterodosso  al- 
l'interno dello  stesso  protestantesimo)  che  gravitava  all'ombra  del- 
la corte  del  principe  Eugenio.  Si  trattava  di  un  disegno  storico  che, 
sviluppando  e  ampliando  gli  antichi  temi  giurisdizionalistici,  do- 
veva dimostrare  l'estraneità  della  Roma  triumphans  dal  ceppo  ori- 
ginario del  messaggio  cristiano. 

Forse  per  questo  Giannone  è  stato  detto  un  riformatore  religio- 
so. Tale,  almeno,  lo  hanno  proposto  Antonio  Corsano  e  Natalino 
Sapegno.  Certamente,  come  s'è  visto,  all'impegno  giurisdizionali- 


stico  egli  venne  sempre  più  sostituendo  l'interesse  per  la  sfera  reli- 
giosa delPuomo.  Ma,  mentre  l'impegno  giurisdizionalistico  lo  portò 
ad  un'attività  esterna,  che  può  ben  configurarsi  in  azione  cosciente- 
mente politica  alla  testa  del  suo  gruppo,  l'analisi  dell'evolversi  della 
religiosità  umana  lo  portò  al  dialogo  intcriore,  agli  incontri  Intornici 
con  pochi  altri  intimi  esprit s  forts.  Anche  se  (almeno  nei  giorni 
veneziani)  egli  raggiunse  o  si  avvicinò  al  deismo,  non  riversò  mai 
apertamente  le  proprie  convinzioni  religiose  nella  sua  opera.  Gli 
mancò,  pertanto,  la  caratteristica  prima  del  riformatore  religioso  : 
il  proselitismo,  ottenuto  con  la  predicazione  della  propria  idea  di 
riforma.  Né  questo,  del  resto,  era  lo  scopo  del  Triregno,  ma,  come 
s'è  detto,  quello  di  condurre  per  mano  il  lettore  alla  scoperta 
d'un'evoluzione  del  credo,  del  costruirsi  sulla  religiosità  umana 
d' un'organizzazione  sacerdotale  che  snaturava,  di  per  se  stessa,  la 
Parola.  Un  programma  dunque  riformatore,  ma  nel  senso  d'un 
illuminismo  ch'era,  di  nuovo,  più  politico  che  religioso. 

Il  che  non  significa,  naturalmente,  che  Giannone,  con  quest'o- 
pera, non  operasse  anche  una  presa  di  posizione  religiosa,  che  lo 
poneva  ben  più  dell'Istoria  civile  al  di  fuori  di  santa  romana  Chie- 
sa. Nell'abiura  egli  affermò  che  quelle  carte,  scompaginate  ad  arte 
dal  Vernet  prima  di  consegnare  l'autografo  del  Triregno  agli  agenti 
sabaudi,  erano  «  picciole  memorie,  che  secondo  andava  leggendo  al- 
cuni autori  io  notava,  ed  ancorché  avessero  relazione  fra  di  loro,  e 
portassero  seco  un  gruppo  di  diversi  errori,  non  furono  da  me  ab- 
bracciati, ma  unicamente  per  notare  gli  altrui  sentimenti  ».  Tentò, 
insomma,  di  rifiutare  la  paternità  d'un'opera  quale  il  Triregno  e, 
davanti  all'inquisitore,  lo  si  comprende  bene.  Ma  molti  anni  prima, 
a  Vienna,  non  si  era  comportato  diversamente.  Nel  dicembre  del 
1731,  richiesto  di  un  parere  sulla  Philosophia  adamito-noetica  divina 
mundana  del  frate  calabrese  Antonio  Costantino  (un  testo  dunque 
che  collimava  in  molti  punti  con  i  suoi  nuovi  studi),  si  era  mostrato 
scandalizzato  per  l'eterodossia  di  cui  appariva  permeato,  «L'in- 
tento dell'autore»  scriveva  «è  di  dimostrare  col  soccorso  dell'antica 
istoria  profana,  che  presso  tutte  le  nazioni  del  mondo,  sicome  da 
Adamo  e  da'  figliuoli  di  Noè  fu  propagato  tutto  il  genere  umano 
sopra  la  terra,  cosi  si  fosse  diffusa  l'istessa  religione,  e  sapienza 
divina  e  mondana . . .  L'impegno  è  molto  pericoloso  sottoponen- 
dosi il  tutto  a  discorsi  umani,  a  raziocinii  e  deduzioni  e  conietture 
prese  dall'istoria  profana,  dalla  quale  si  vuole  illustrare  la  divina. 


INTRODUZIONE  XXIII 

Se  la  cosa  si  vorrà  ridurre  a  quest'esame  dubbito  forte  che  gli 
scrittori  libertini  e  spezialmente  gli  inglesi  e  qualche  olandese  e 
germano,  che  han  sopra  questo  soggetto  vomitate  più  bestemmie 
in  alcuni  loro  libri  dati  alle  stampe,  non  abbiano  vinta  la  lor 
causa ...  ».  Eppure  il  sincretismo  religioso  del  Costantino  (non 
nuovo,  che  lo  aveva  già  tentato,  tra  gli  altri,  Pierre-Daniel  Huet 
nella  sua  Demonstratzo  evangelica  contro  Spinoza)  era  ben  poca  cosa 
di  fronte,  per  esempio,  alla  negazione  dell'immortalità  dell'anima 
(come  la  si  può  ritrovare  nel  Regno  terreno)  o  alla  negazione  d'ogni 
premio  e  ricompensa  nell'ai  di  là  e  ai  dubbi  espressi  sulla  resurre- 
zione (come  accade  nel  Regno  celeste).  Quel  che  è  certo  è  che  Gian- 
none,  nel  1731,  non  reputava  «bestemmie»  le  argomentazioni  sto- 
riche d'un  Toland,  d'un  Locke,  tant'è  vero  che  le  faceva  abbondan- 
temente sue,  riprendendole  nelle  sue  pagine.  È  dunque  evidente 
che  a  Vienna  solo  pochi  intimi  dovevano  essere  al  corrente  degli 
indirizzi  che  stava  prendendo  il  suo  lavoro.  Di  nuovo  una  cortina 
di  protettivo  silenzio  era  stesa  attorno  alle  sue  ricerche,  così  come 
era  accaduto  al  tempo  della  stesura  dell'Istoria  civile. 

Al  Triregno  Giannone  lavorava  ancora  quando  fu  arrestato  e, 
certamente,  doveva  aver  messo  al  corrente  dei  suoi  studi  se  noti  il 
Turrettini,  almeno  il  Vernet.  Lo  dimostra  la  preoccupazione  di  que- 
st'ultimo, al  momento  della  consegna  d'una  parte  dell'autografo  agli 
agenti  sabaudi  (che  affermavano  richiederlo  in  nome  dell'autore,  si 
badi  bene!),  tanto  da  scompaginarlo  ad  arte,  per  renderlo  irricono- 
scibile. Ma  proprio  a  Ginevra  la  prima  cura  del  Giannone  fu  quella 
di  dimostrarsi  cattolico  osservante  (e  per  tanto  zelo  fini  misera- 
mente nelle  mani  dei  Savoia!).  Certo,  così  facendo  egli  salvava 
V Istoria  civile  dall'accusa  di  essere  opera  d'un  eretico.  Ma,  sotto- 
lineare il  proprio  cattolicesimo  non  era  anche  la  via  migliore  per 
mantenere  la  propria  indipendenza  di  pensiero  in  un  ambiente 
calvinista?  Non  era  l'unica  sua  possibilità  di  svincolarsi  da  quella 
cappa  confessionale  contro  la  quale  si  sarebbe  scagliato,  vent'anni 
dopo,  il  Voltaire?  La  sua  professione  di  ortodossia  cattolica  non 
era  dunque  che  un  mezzo  per  continuare  a  mantenersi  libero.  Potè 
persino  prendersi  il  vezzo  di  curiosare,  di  andare  a  sentire  alcune 
prediche  calviniste,  per  poi  parlarne  coi  suoi  ospiti,  criticandole 
in  nome  della  tolleranza!  Ma  c'è  da  chiedersi  se  avrebbe  potuto 
continuare  a  vestirsi  di  quei  panni  anche  dopo  la  pubblicazione  del 
Triregno . . . 


Come  che  sia,  la  biografia  sua  è  esemplare  del  cammino  di  tanti 
intellettuali  del  tempo,  posti  di  fronte  a  Spinoza  e  a  Locke.  Gian- 
none  era  partito  dall'esperienza  dell'Oratorio  -  cosi  come  il  coe- 
taneo Muratori  era  partito  dall'esperienza  rigorista  del  Bacchi  ni  - 
per  approdare  al  deismo.  Era  il  tempo  in  cui  Muratori  arretrava 
spaventato  di  fronte  alla  voragine  che  si  apriva  nella  sua  fede  alla 
lettura  del  Essay  on  Human  Learning  (« . . .  Ma  per  la  Dio  grazia, 
ricorro  sempre  al  Credo,  e  qui  starò  saldo  fino  alle  ceneri», 
scrisse  al  Tartarotti  nel  '33).  Era  il  tempo  in  cui  Alberto  Radicati 
di  Passerano  pubblicava  il  suo  Nazarenus  et  Lycurgos  mis  en  paral- 
lèle (Rotterdam?  1736),  dove  Gesù  appariva  un  legislatore  sag- 
gio che,  come  appunto  Licurgo,  mirava  a  «délivrer  Ics  hommes  de 
toute  tyrannie». 

Spinoza  aveva  dimostrato  come  i  Testi  non  fossero  discesi  sino  a 
noi  incorrotti,  come  la  loro  «sacralità»  non  li  avesse  affatto  preser- 
vati dalle  ingiurie  dei  tempo.  I  Vangeli  sinottici  di  Richard  Simon 
erano  stati  uno  scavo  archeologico  nelle  coscienze  religiose  euro- 
pee. Bernard  Le  Bouyer  de  Fontenellc  aveva  demistificato  oracoli 
e  miracoli-  Balthazar  Bckker  aveva  addirittura  voluto  disincantare 
il  mondo:  De  betooverte  Wereld  (1691).  Pierre  Bayle,  il  patriarca 
dei  libertini,  aveva  spiegato,  nelle  sue  Pensées  a  proposito  della 
cometa  del  1680,  che  anche  l'ateo  può  essere  virtuoso  e  che  la  mo- 
rale non  coincide  necessariamente  con  una  religione.  Chi  era  dispo- 
sto a  continuare  in  quest'opera  di  diffusione  della  ragione  ?  Ad  illu- 
minare gli  uomini  svincolandoli  da  quel  mondo  magico  che  essi 
stessi  avevano  creato,  proiettando  le  loro  ansie,  le  loro  paure  nel- 
l'ai di  là?  Chi  era  pronto  ad  abbattere  le  superfetazioni  che  nascon- 
devano all'occhio  umano  il  dio  copernicano  ? 

Giannone,  imbevuto  di  cultura  eterodossa,  vi  si  cimentò.  Il  gran- 
de affresco  stava  nascendo.  Come  la  storia  ecclesiastica  era  stata  da 
lui  ricondotta  nell'alveo  della  storia  politica,  cosi  ora  la  storia  re- 
ligiosa sarebbe  stata  ricondotta  nell'alveo  del  cammino  umano.  Il 
cielo  sarebbe  sceso  in  terra.  Ma  Vezenaz  segnò  la  fine  di  questo 
programma  illuminista.  Rinchiuso  nel  castello  di  Miolans,  ma  non 
ancora  impedito  nella  sua  libertà  intellettuale,  Giannone  offrì  qtie- 
sta  volta  se  stesso  come  modello  di  vita,  interrogandosi  e  ponendosi 
a  nudo  perché  i  contemporanei  potessero  imparare  ad  essere  «  probi 
ed  onesti  ed  amanti  del  vero».  Ancora  un  programma  illuminista 
e  ne  risultò  quello  che  è  senz'altro  il  suo  capolavoro,  uno  dei  libri 


INTRODUZIONE  XXV 

più  belli  di  tutto  il  Settecento  italiano,  per  forza  espressiva,  per 
lucidezza,  drammaticità.  Non  a  caso,  nelP autobiografia,  egli  riserbò 
tanta  parte  alla  genesi  del  Triregno,  più  di  quanta  non  ne  riserbò 
alla  genesi  àéìY Istoria  civile.  A  quell'opera  incompiuta  egli  attri- 
buiva un  valore  liberatorio  ben  più  grande,  di  quello  insito  nella 
battaglia  giurisdizionalistica.  Ma  anche  quest'autobiografia,  che 
avrebbe  forse  potuto  uscire  dal  carcere,  se  fosse  stato  concesso  al 
figlio  di  salutare  il  padre  prima  di  tornare  in  libertà,  rimase  sepolta 
negli  archivi  sabaudi. 

Quando  per  Giannone  si  aprirono  le  porte  del  duro  carcere  to- 
rinese, per  costringerlo  all'abiura,  egli  avrebbe  trovato  al  suo  fianco, 
a  rammentargli  il  giovanile  rigorismo,  il  padre  filippino  Giambat- 
tista Prever.  Nell'abiura,  a  ben  guardare,  egli  non  rinnegò  un  bel 
nulla,  o  assai  poco.  Tant'è  vero  che  quel  testo  non  piacque  affatto 
a  Roma,  lo  si  considerò  una  magra  vittoria,  della  quale  non  si 
menò  vanto,  almeno  finché  il  prigioniero  rimase  in  vita.  Ma  i  col- 
loqui col  Prever  valsero  ad  allontanare  sempre  più  Giannone  dal 
precedente  deismo,  a  farlo  ripiegare  in  una  introspezione  via  via 
sempre  più  incoerente.  Anche  nei  momenti  di  più  aperta  adesione 
al  deismo  di  un  Toland,  Giannone  non  era  mai  riuscito  ad  aderire 
completamente  alle  tesi  più  radicali  spinoziane.  Non  per  nulla  il 
punto  di  partenza  erano  state  le  Scuole  sacre  di  Domenico  Aulisio 
che,  come  la  Demonstratio  evangelica  di  Huet,  erano  state  un  ten- 
tativo (ugualmente  abortito)  di  replicare  al  Tractatus  theologico- 
politicus.  Forse  proprio  per  questo  Giannone,  anche  nel  Triregno, 
non  riuscì  ad  essere  chiaro.  Troppe  volte  anche  quella  che  doveva 
essere  la  sua  opera  maggiore  mostra  la  trama  su  cui  è  costruita,  in 
una  acritica  o  contraddittoria  dipendenza  dalla  bibliografia  cui  si 
rifa.  Il  passo  che  avrebbe  dovuto  portarlo  ad  un  professato  deismo, 
cosi,  non  fu  mai  compiuto.  Gli  incontri  col  Prever  ve  lo  ritrassero 
completamente  e  mentre  Muratori  volle  rifugiarsi  nella  preghiera, 
Giannone  si  inviluppò  in  una  ricerca  storica  sempre  più  contorta, 
cercando  di  autoconvincersi  di  essere  ortodosso  nell'eterodossia, 
osservante  della  vera  Chiesa  all'interno  di  quella  attuale,  costruita 
gerarchicamente  e  dogmaticamente. 

In  fin  dei  conti,  il  più  coraggioso,  il  più  conseguente  fu  Scipione 
Maffei  che  pure,  dei  tre,  ebbe  meno  tentennamenti  e  crisi  religiose. 
Maffei  non  retrocesse  di  fronte  alle  conseguenze  della  sua  battaglia 
per  la  negazione  della  stregoneria  e  della  magia:  l'abolizione  del 


soprannaturale  in  favore  della  ragione.  Non  era  il  diavolo  l'angelo 
caduto,  la  divinità  stessa  con  segno  negativo?  Abolendo  l'Inferno 
non  si  sarebbe  negato  anche  il  Paradiso?  Certamente.  Ma  alla  ra- 
gione non  poteva  che  repugnare  l'esistenza  di  diavoli  e  di  sabbah, 
di  incubi  e  di  succubi,  ài  streghe  e  di  maghi.  SI,  anche  di  quel  Si- 
mon mago  di  cui  parlano  gli  Atti  degli  apostoli  o  dei  Magi  del- 
l'Epifania. La  luce  della  ragione,  per  Maffei,  non  si  sarebbe  spenta 
nemmeno  dinanzi  a  così  gravi  conseguenze. 

Sergio  Bertelli 


BIBLIOGRAFIA 


Una  bibliografia  critica  su  Pietro  Giannone  si  forma  molto  tardi,  si  può 
dire  solo  alla  fine  del  secolo  scorso.  D'altronde  le  opere  giannoniane  co- 
minciarono ad  essere  conosciute  nella  loro  interezza  solo  dopo  che  l'esule 
Pasquale  Stanislao  Mancini  (i 817-1888),  rifugiatosi  da  Napoli  a  Torino 
dopo  il  fallimento  dei  moti  quarantotteschi,  ebbe  modo  di  entrare  negli  ar- 
chivi sabaudi  e  di  accedere  alle  carte  giannoniane  che  vi  erano  conservate. 

Lungo  tutto  il  Settecento  furono  solo  l'Istoria  civile  e  gli  scritti  apolo- 
getici ad  essa  relativi  ad  essere  conosciuti.  La  prima  edizione  dell'Istoria, 
Napoli  1723,  fu  di  cento  esemplari  su  carta  speciale  e  di  mille  su  carta 
più  ordinaria.  Ma  poiché  almeno  una  parte  della  tiratura  fu  sequestrata 
presso  i  librai  napoletani,  prima  che  l'autore,  avvisato,  riuscisse  a  metterne 
in  salvo  le  copie,  dobbiamo  presumere  che  la  diffusione  di  questa  prima 
edizione  sia  stata  abbastanza  limitata.  Una  seconda  edizione,  «  con  accresci- 
mento di  note,  riflessioni  e  moltissime  correzzioni  date  e  fatte  dall'Autore  », 
fu  quella  con  la  data  fittizia  de  L'Aia  (ma  Ginevra)  «  a  spese  di  Errigo-Alber- 
to  Gossc  e  Comp.  »,  nel  1753.  Ma  già  nel  1738,  ad  Amsterdam,  presso  Jean 
CatufTe,  era  apparsa  la  traduzione  francese  dei  capitoli  sulla  «polìtia  eccle- 
siastica »,  forse  dovuta  a  Desmonceaux  de  Villeneuve,  col  titolo  :  Anecdoles 
ecclésiastìques  contenant  la  polke  et  la  discipline  de  VÉglise  chrétienne  depuis 
son  établissement  jusqu'au  XIe  siede,  les  intrigues  des  évèques  de  Rome  et  leurs 
usurpations  sur  le  temporel  des  souverams  tirées  de  VHistoire  du  royaume  de 
Naples  de  Giannone,  brùlée  à  Rome  en  1726,  Tra  il  1729  e  il  173 1  era  intanto 
apparsa  la  traduzione  inglese  dell'intera  opera  :  The  Cimi  History  ofthe  King- 
doni  of  Naples . . .  Translated  into  English  by  Captain  James  Ogilvie,  London 
1729-1731.  La  traduzione  completa  in  francese  giunse  nel  1742,  a  Ginevra, 
a  cura  dello  stesso  H.-A.  Gosse,  benché  sul  frontespizio  vi  fosse  apposta 
la  data  de  L'Aia  e  l'indicazione  «chez  Pierre  Gosse  et  Isaac  Beauregard». 
Traduttori,  questa  volta,  Charles- Guillaume  Loys  de  Bochat  e  Jean  Bed- 
devole  (cioè  quel  famigerato  Bentivoglio  che  fu  al  centro  di  tutte  le  mac- 
chinazioni per  consegnare  all'Inquisizione  il  manoscritto  del  Triregno  ri- 
masto in  possesso  del  Vernet,  dopo  la  consegna  dell'autografo  agli  agenti 
sabaudi). 

Queste  traduzioni  permisero  dunque,  abbastanza  presto,  al  Giannone  di 
raggiungere  un  pubblico  europeo.  Ad  esse  si  aggiunse,  nel  1758,  la  tra- 
duzione in  lingua  tedesca:  Bùrgerliche  Geschichte  des  Kò'nigreichs  Neapel, 
pubblicata  a  Lipsia  «Auf  Kosten  der  Gaumschen  Handlung»  a  cura  di 
Otto  Christian  von  Lohenschiold  e  di  Johann  Friedrich  Le  Bret.  Una 
nuova  edizione  italiana,  con  la  data  «Palmyra,  All'Insegna  della  Verità, 
1762»  e  1763,  fu  compiuta  a  Losanna  dal  tipografo  Francois  Grasset. 
Solo  nel  1766,  a  Venezia,  per  i  tipi  di  Giambattista  Pasquali  si  aveva  la 
prima  ripresa  italiana  dell'intona  civile.  A  questa  edizione  segui,  nel  1770, 
la  «  Quinta  edizione  italiana  e  seconda  napoletana  »  :  quella  curata  dall'abate 
Lionardo  Panzini  per  l'editore  Giovanni  Gravier. 

Anche  le  cosi  dette  Opere  postume  (cioè  l'insieme  di  scritti  composti  in 


epoche  diverse  dal  Giurinone  come  Apologia  dell'Istoria  civile  e  destinati 
a  formarne  un  quinto  tomo,  nonché  alcuni  altri  scritti  polemici,  come  le 
Ragioni  sull'arcivescovado  beneventano,  la  Breve  relazione  de*  Consigli  e 
Dicasteri  della  città  dì  Vienna,  la  ProJessio?w  dijede  e  pochi  altri)  conobbero 
nel  Settecento  una  discreta  diffusione. 

Intanto,  la  Professione  di  fede  conobbe  una  stampa  alla  macchia,  dopo 
il  1734-1735;  mentre  la  Breve  relazione,  tradotta  in  latino,  fu  data  alle 
stampe  con  l'indicazione  di  luogo  «Halac  Magdeburgicae  »  (probabilmente 
veritiera),  nel  1732.  Quanto  alle  Opere  postume,  esse  apparvero  per  la 
prima  volta  dedicate  «a  Sua  Eccellenza  la  Nobil  Donna  Fiorenza  Ravagnini 
Vendramin»  in  «Palmyra,  All'Insegna  della  Verità»,  nel  1755,  (ìli  edi- 
tali erano  Claude  e  Antoinc  Phihbcrt,  di  Ginevra,  lina  «Nuova  edizione 
augmentata»  (vi  sono  aggiunte  le  Annotazioni  del  padre  Sebastiano  Paoli 
e  la  replica  giannoniana)  fu  preparata  cinque  anni  dopo,  nel  1760,  da 
Francois  Grasset  a  Losanna.  Sempre  in  quel  torno  di  tempo  e  sempre  a 
Losanna  fu  eseguita  una  contraffazione  di  questa  edizione,  probabilmente 
da  parte  di  Antoine  Chapuis,  per  conto  di  Marc-Michel  Bousquet.  Una 
nuova  edizione,  molta  più  ricca  delle  precedenti,  fu  miìne  ciucila  appron- 
tata da  Lionardo  Panzini  per  il  Gravier,  e  stampata  a  Napoli  con  la  data 
«Londra  1766».  Ad  essa  seguì  l'edizione  veneziana  del  Pasquali,  nel  1768, 
nella  quale  -  per  la  prima  volta  -  era  dato  l'intero  piano  (o  Tavola  de' 
capitoli)  del  Triregno,  una  cui  copia  integra,  come  s'è  detto,  era  capitata 
nelle  mani  dell'editore.  Una  ristampa  panziniana,  sempre  per  i  tipi  di 
Giovanni  Gravier,  si  ebbe  nel  1770- 1777  (in  quarto  e,  contemporaneamen- 
te, tra  il  1773  e  il  1777,  in  ottavo). 

Queste  le  edizioni  settecentesche  delle  opere  giannoniane.  Ma  non  bi- 
sogna pensare  che  gli  scritti  apologetici  del  Giannone  raggiungessero  i 
contemporanei  solo  a  partire  dal  1755.  Il  Settecento  conobbe  -  almeno 
in  Italia  -  una  vastissima  diffusione  di  copie  manoscritte  di  opere  gian- 
noniane, soprattutto  di  quei  testi  che  poi  confluirono  a  formare  i  vo- 
lumi delle  Opere  postume,  via  via  che  essi  venivano  scritti.  Una  delusione 
molto  spesso  organizzala  dallo  stesso  autore  e  dalla  sua  cerchia.  Per  que- 
sta clandestina  diffusione  si  veda  S.  Bertelli,  Giannoniana.  Autografi, 
manoscritti  e  documenti  della  fortuna  di  Pietro  Giannone,  Milano-Napoli 
1968. 

Giannone  ebbe  inoltre  l'onore  di  tre  biografie  settecentesche:  la  prima 
fu  quella  di  M.  M.  Vecchioni,  Vita  di  P.  Giannone  dottore  di  leggi  e  cele* 
berrimo  ìstorico  del  regno  di  Napoli,  apparsa  anonima  con  l'indicazione 
«Palmyra  [ma  Lucca],  Panno  MDCCLXV,  All'Insegna  della  Verità»  e  ri- 
stampata a  Venezia  nello  stesso  anno.  La  seconda»  molto  più  ampia  e  scrit- 
ta servendosi  del  carteggio  giannoniano,  nonché  dell'aiuto  di  Giovanni 
Giannone  e  degli  amici  superstiti,  fu  quella  di  L.  Panzini,  inserita  nell'e- 
dizione delle  Opere  postume  del  1766.  Terza  quella  di  A.  Faimoni  nel  do- 
dicesimo volume  delle  Vitae  Italorum  doctrina  cxcellentium  qtd  saecutis 
XVII  et  XVIII  floruerunt,  Pisis  X787. 


BIBLIOGRAFIA  XXIX 


II 


A  metà  Ottocento  l'interesse  per  il  Giannone  fu  risuscitato  da  Pasquale 
Stanislao  Mancini,  il  quale,  nei  primi  giorni  dell'esilio  torinese,  studiò  le 
carte  conservate  in  quell'Archivio  reale,  impegnandosi  coi  «Cugini  Pom- 
ba  e  C.  »,  nel  1851,  a  dare  alle  stampe  tre  volumi  di  inediti  giannoniani: 
r.  Discorsi  storici  e  politici  sopra  gli  Annali  di  Tito  Livio  ;  11.  La  Chiesa  sotto 
il  pontificato  di  Gregorio  il  Grande;  in.  Delle  dottrine  morali,  teologiche  e 
sociali  degli  antichi  Padri  della  Chiesa  (cioè  V Apologia  deì  teologi  scolastici). 
Vi  avrebbe  dovuto  inoltre  aggiungere  una  biografia  dell'autore  e  arricchire 
l'edizione  di  altri  documenti,  tratti  sempre  dall'Archivio  reale.  I  primi  due 
volumi  erano  già  stampati  nel  1852,  ma  non  messi  in  commercio  in  attesa 
del  terzo.  Il  Mancini,  che  nel  frattempo  si  era  spostato  sempre  più  dagli 
studi  alla  politica  militante  (nel  1860  sarebbe  stato  eletto  deputato  al  par- 
lamento nazionale  per  la  sinistra  democratica),  non  tenne  più  fede  agli 
impegni  editoriali,  sicché  passati  i  due  volumi  già  stampati  all'Unione 
Tipografico-Editrice,  questa  li  mise  in  commercio  nel  1859  con  un  «Ma- 
nifesto» nell'ultima  pagina  di  copertina  del  primo  volume,  in  cui  si  di- 
ceva a  chiare  lettere  che  «il  cav.  Mancini,  divenuto  uno  dei  primi  avvo- 
cati del  fòro  torinese,  trascurò  questi  suoi  lavori,  lasciandoli  per  più  anni, 
e  anzi  da  quel  tempo  in  poi  [cioè  dopo  la  stampa  dei  primi  due  volumi] 
in  una  totale  dimenticanza;  non  diede  più  il  manoscritto  necessario  per 
condurre  a  compimento  la  terza  opera;  né  fece  mai  le  prefazioni  ai  tre 
volumi,  e  meno  ancora  la  vita  del  Giannone  ». 

Si  chiudeva  cosi,  in  modo  quasi  fallimentare,  il  primo  tentativo  di  dare 
alle  stampe  gli  inediti  giannoniani.  Tentativo  ancor  più  ambizioso  di  quan- 
to non  dicesse  il  contratto  cogli  editori  Pomba,  perché  la  relazione  presen- 
tata al  Ministero  dell'Interno  sabaudo  nel  185 1  (è  stata  successivamente  edi- 
ta dal  Pierantoni  in  appendice  alla  sua  edizione  dell'autobiografia)  pre- 
vedeva la  stampa  di  tutte  le  opere  giannoniane  del  carcere,  compresa  VApe 
ingegnosa  e  la  Vita. 

Il  compito  di  coltivare  gli  studi  giannoniani,  in  verità,  passò  al  genero 
del  Mancini,  Augusto  Pierantoni.  Il  quale  provvide  a  pubblicare:  V Auto- 
biografia di  P.  Giannone.  I  suoi  tempi.  La  sua  prigionia.  Appendici,  note  e 
documenti  inediti,  Roma,  Stab.  tip.  dell'ed.  E.  Perino,  1890;  Lo  sfratto  di 
P.  Giannone  da  Venezia.  Auto-narrazione,  con  prefazione  e  documenti  ine- 
diti, Roma,  Nuova  tipografia  di  S.  Maria  degli  Angeli,  1892;  II  Triregno  di 
P.  Giannone,  pubblicato  con  prefazione  da  A.  Pierantoni,  professore  della 
R.  Università  di  Roma,  senatore  del  Regno,  Roma,  Tip.  Elzeviriana,  1895. 

Solo  ora  dunque,  a  fine  secolo  Diciannovesimo,  si  aveva  a  disposizione 
(sia  pure  in  edizioni  assai  scorrette,  talvolta  con  arbitrari  interventi  dei 
due  curatori,  che  avevano  mutilato  o  modificato  passi  giannoniani  per 
fare  di  lui  un  precursore  dell'Unità!)  tutto  il  corpus  degli  scritti,  salvo  po- 
che cose:  l'Ape  ingegnosa  e  V Apologia  de*  teologi  scolastici.  Del  Triregno, 
però,  già  anni  prima  avevano  diffusamente  trattato  C.  Castellani,  Del 
Triregno  di  P.  Giannone,  Firenze  1867  e  R.  Biamonte,  La  Storia  civile  e 
il  Triregno.  Esposizione  critica,  Napoli  1878.  Mentre  per  parte  sua  P.  Oc- 


cella,  col  saggio  P.  Giannone  negli  ultimi  dodici  anni  della  sua  vita  (ry^6- 
1748),  apparso  m  Curiosità  e  ricerche  di  storia  subalpina,  m,  l'orino  1879, 
aveva  completato  le  notizie  biografiche  col  racconto  degli  anni  della  pri- 
gionia, condotto  su  fonti  sino  ad  allora  inedite. 


Benedetto  Croce,  recensendo  sull'«  Archivio  storico  per  le  provinole  na- 
poletane)) (a.  xv,  1890,  pp.  681  sgg.)  l'edizione  pierantoniuna  dell'auto- 
biografìa, scriveva  a  proposito  di  studi  giannonianì:  «...  Le  trattazioni 
che  io  conosco  sono  tutte  incidentali.  E,  tra  queste  incidentali,  la  più 
giusta  ed  acuta  e,  al  solito,  quella  di  Francesco  De  Sanctis  ...»  Ma  an- 
che il  De  Sanctis,  nella  sua  Storia  della  letteratura  italiana  (1870-1872), 
non  conobbe  che  il  Giannone  giurisdizionalista,  L'Istoria  civile  era  por  lui 
«una  requisitoria»,  dove  «la  lotta  tra  le  leggi  canoniche  e  le  civili  è  come  il 
centro  di  un  vasto  ordito,  che  abbraccia  tutta  la  stona  della  legislazione, 
illuminata  dalla  storia  de'  governi  e  delle  mutazioni  politiche».  Un  giu- 
dizio che  pesò  a  lungo,  anche  nella  critica  posteriore,  sino  al  Gentile  e  al 
De  Ruggiero. 

Sul  finire  del  secolo  il  Croce  s'era  intanto  stretto  in  affettuoso  soda- 
lizio con  Fausto  Nicolini,  che  strappava  agli  studi  musicali  per  convertirlo 
all'erudizione.  Lo  aveva  cercato  sapendolo  depositario  delle  carte  (  Jaliani, 
incitandolo  a  farsene  editore.  Un  altro  suo  suggerimento  fu  ciucilo  di  ri- 
prendere, questa  volta  con  ben  altri  criteri  filologici,  l'autobiografia  gian- 
noniana.  Mentre  il  Nicolini  travagliava  sull'autografo  della  Vita,  apparve 
alle  stampe  a  Firenze,  presso  l'editore  Bemporad,  il  Maggio  sulla  Istoria 
civile  del  Giannone  (1903)  di  G.  Bonacci.  Si  trattava  di  un  pesante  attacco, 
questa  volta  documentato,  all'Istoria.  Le  accuse  mosse  dal  Manzoni  veni- 
vano riprese  dimostrando  l'ampiezza  dei  plagi,  relativamente  ai  primi 
ventitré  libri.  Per  il  Bonacci,  inoltre,  Giannone  non  era  che  un  servile 
difensore  dell'assolutismo  e  anche  contraddittorio,  non  mostrandosi  sem- 
pre e  conseguentemente  anticlericale.  Il  rigido  positivismo  del  Bonacci 
portava  cosi  all'aberrante  conclusione  che  Giunnone  divulgasse  «il  fior 
fiore  della  dottrina  clericale»  (p.  174).  Tuttavia  l'opera  aveva  un  suo  im- 
portante pregio:  quello  di  aver  dimostrato  l'ampiezza  e  la  gravita  dei  plagi 
giannoniani,  ciò  che  avrebbe  dovuto  rendere  più  guardinga  e  prudente 
l'utilizzazione  dell'Istoria  civile.  Essa  fu  invece  vista  semplicemente  come 
un  attacco  denigratorio,  un'offesa  alla  cultura  meridionale.  Della  difesa 
del  Giannone  si  incaricò  Giovanni  Gentile  (era  stato  di  fresco  trasferito 
a  Napoli  come  professore,  nel  1901,  e  già  nel  novembre  dell'anno  seguente 
aveva  deciso  col  Croce  di  dar  vita  a  «  La  Critica,  rivista  di  storia,  letteratura 
e  filosofia»).  Gentile  scrisse  dunque  un  saggio  per  la  nuova  rivista,  che  era 
tutto  una  terribile  stroncatura  del  Bonacci:  P.  Giannone  plagiario  e  gran» 
d'uomo  per  equivoco  («La  Critica»,  il,  1904,  pp.  216-$%).  Vi  era  ripreso  il 
giudizio  desanctisiano:  Giannone  «non  intendeva  fare  un'opera  letteraria, 
ma  scrivere  una  colossale  memoria  defensionale  »  (p.  246).  Non  si  aveva  dun- 
que a  che  fare  con  uno  storico,  ma  con  un  «politico».  La  difesa  d'ufficio, 
insomma,  era  risultata  altrettanto  denigratoria! 


BIBLIOGRAFIA  XXXI 

Nel  1905,  per  1  tipi  napoletani  di  Luigi  Pierro,  vedeva  finalmente  la  luce 
la  Vita  di  P.  Giannone  scritta  da  lui  medesimo,  per  la  prima  volta  integral- 
mente pubblicata  con  note,  appendice  ed  un  copioso  indice,  a  cura  di  F. 
Nicolini.  Il  quale  volle  anch'egli  rispondere  al  Bonacci  e  lo  fece  leggendo 
una  sua  memoria  nella  tornata  del  9  dicembre  del  1906  dell'Accademia 
Pontaniana:  L'Istoria  di  P.  Giannone  ed  i  suoi  critici  recenti  (la  si  veda  negli 
«Atti»  dell'Accademia,  Napoli  1907).  Era  accaduto,  infatti,  che  in  soccorso 
del  Bonacci  fosse  intervenuto  sul  fiorentino  «  Archivio  Storico  Italiano  »  G. 
A.  Andriulli,  P.  Giannone  e  V anticlericalismo  napoletano  sui  primi  del  'joo 
(vedi  alle  pp.  93-136  dell'annata  1906).  Dove  era,  si  chiedeva  l'Andriulli, 
il  grande  anticlericale  tanto  esaltato  dagli  anticlericali  di  oggi  ?  Uno  scrit- 
tore -  come  aveva  osservato  il  Bonacci  -  che  per  scrivere  la  storia  dei 
rapporti  tra  Stato  e  Chiesa  nel  Regno  era  andato  a  saccheggiare  la  storia 
napoletana  ...  di  un  padre  gesuita,  Claude  Buffier!  A  Firenze,  in  quegli 
anni,  esercitava  la  sua  dittatura  intellettuale  il  neo-guelfo  Pasquale  Villari, 
che  sin  dal  1859  aveva  proposto  come  eroe  positivo  Girolamo  Savonarola, 
ribadendone  l'attualità  in  un  discorso  pronunciato  il  io  giugno  del  1898 
(e  non  1897  come  erroneamente  è  stampato  nell'edizione  della  Storia  del 
1930):  Girolamo  Savonarola  e  l'ora  presente.  Ben  si  comprende,  dunque, 
come  vi  fossero  tutte  le  premesse  ambientali,  nell'Italia  d'inizio  di  secolo, 
per  uno  scontro  più  politico  che  critico  sulla  figura  del  Giannone.  Tant'è 
vero  che  anche  il  Nicolini,  come  prima  il  Gentile,  rimase  ancorato  allo 
schema  «  Giannone  grande  politico  più  che  storico  »,  né  da  esso  si  distaccò 
più,  anche  in  tempi  recenti. 

Al  Nicolini,  tuttavia,  va  riconosciuto  il  merito  di  aver  aperto  la  strada 
ad  una  diversa  era  di  studi  giannoniani.  È  del  191 3  la  pubblicazione  presso 
l'editore  Giuseppe  Laterza  di  Bari  del  volume  Gli  scritti  e  la  fortuna  di  P. 
Giannone.  Ricerche  bibliografiche,  che  tanta  importanza  ebbe  nel  ricostruire 
la  fortuna  delle  opere  giannoniane,  pur  con  lacune  ed  errori.  Segui  il  sag- 
gio su  Le  teorie  politiche  di  P.  Giannone,  Napoli  1915,  in  cui  ribadì  le  posi- 
zioni precedenti.  Dopo  di  allora,  il  Nicolini  non  si  interessò  più  espressa- 
mente del  Giannone,  salvo  stendere  la  voce  a  lui  relativa  per  V Enciclopedia 
italiana,  nel  1933.  Nel  1925,  sempre  a  Napoli,  aveva  tuttavia  pubblicato 
il  suo  studio  Sulla  vita  civile,  letteraria,  religiosa  napoletana  alla  fine  del 
Seicento,  che,  se  pur  indirettamente,  interessò  senza  dubbio  gli  studi  gian- 
noniani. Al  Giannone  ritornò  invece  nel  1937,  pubblicando  presso  l'edi- 
tore Cappelli  di  Bologna  un'antologia  allestita  in  collaborazione  col  figlio 
Nicola  :  P.  Giannone,  Stato  e  Chiesa.  Scelta  degli  scritti.  Alla  raccolta  fece 
precedere  un'ampia  introduzione  che  è  forse  lo  scritto  più  importante  suo 
sul  Giannone.  A  Milano,  nel  1942,  appariva  un  altro  utile  contributo  agli 
studi  giannoniani:  una  sorta  di  dizionario  biografico  (da  Acampora  a  Au- 
lisio)>  col  titolo  Uomini  di  spada  di  chiesa  di  toga  di  studio  ai  tempi  di  Giam- 
battista Vico.  Un  tentativo  che  riprese  vent'anni  dopo,  col  Saggio  d'un 
repertorio  biobibliografico  di  scrittori  nati  0  vissuti  nell'antico  regno  di  Na- 
poli che  venne  pubblicando  a  puntate  sul  «Bollettino  dell'Archivio  sto- 
rico» del  Banco  di  Napoli  tra  il  1962  e  il  1964  e  che  rimase  incompiuto. 
Un  ultimo  contributo  giannoniano,  apparso  mentre  era  in  bozze  il  mio 
saggio  sul  Muratori,  fu  quello  che  il  Nicolini  volle  pubblicare,  ripescando 


vecchie  schede,  sul  terzo  fascicolo  d'una  sua  rivista  ch'ebbe  breve  vita  e 
scarsissima  diffusione:  «Biblion»:  Una  bugia  pietosa  di  Ludovico  Antonio 
Muratori,  Notizie  e  documenti  (vedi  alle  pp.  219-2*)  del  fascicolo  cit., 
Napoli  1959). 


La  bandiera  del  neo-gucltismo  e  stata  successivamente  raccolta  da  Car- 
melo Caristia,  amico  e  compagno  di  partito  di  don  Sturzo,  studioso  di 
diritto  costituzionale.  Kgh  ha  dedicato  a  Giannonc  diversi  scritti:  P.  (kan- 
tiane e  V Istoria  civile,  in  «Critica  fascista»,  vi,  n.°  6  (giugno  i03())>  PP» 
523-41  ;  P.  Giannone  e  la  Monarchia  sicula,  in  Scritti  giuridici  in  onore  di 
Santi  Romano,  IV,  Padova  1940,  pp.  499-537;  P.  Giannone  «giureconsulto» 
e  «politico».  Contributo  alla  storia  del  giurisdizionale  mo  italiano,  Milano 
1947;  P.  Giannone  e  V Istoria  civile,  in  «Atti  dell'Accademia  di  Scienze  Let- 
tere Arti  di  Palermo»,  s.  iv,  voi.  vai,  1947- 1948;  Dall'Istoria  civile  al 
Triregno,  in  «Atti  del  Seminano  giuridico  dell'Università  di  Catania»,  n» 
1947-1948;  Ì\  Giannone  e  V Istoria  civile  e  altri  scritti  giannoniani,  Milano 
1955  (v*  sono  riuniti  saggi  già  precedentemente  pubblicati).  Si  tratta  però, 
sempre,  di  una  ripresa  delle  vecchie  tesi  del  guelfismo  ottocentesco,  rin- 
verdite con  una  più  attenta  conoscenza  dei  testi  e  tenendo  conto  delle  opere 
del  Nicolini.  Anche  se  scrive  in  epoca  recente,  il  Caristia  e  in  realtà  un 
sorpassato. 

Con  ben  altra  lucidezza  aveva  dedicato  alcune  pagine  al  Giannone  K, 
Ftjeter  nella  sua  Geschichte  der  neueren  Ilistoriographie  {uni  ;  1936*;  tra- 
duzione italiana  1943-1944;  X97oa).  Egli  conosceva  sia  il  saggio  del  Uo- 
nacci  sia  la  risposta  del  Nicolini  a  questi  e  ull'Andriulli  e  anche  per  lui 
V Istoria  è  «  un'infìammata  protesta  contro  le  "usurpazioni"  politiche  del 
potere  ecclesiastico»  (cfr.  a  p.  356  della  traduzione  italiana  1970),  Ma 
Fueter  notava  anche  come  il  Giannone  fosse  «  fondatore  della  storia  giu- 
ridica e  costituzionale»  (ibUL)  e  giustamente  osservava:  «l'importanza  del 
Giannone  non  si  basa  sull'indipendenza  delle  sue  ricerche  storiche.  Il  suo 
merito  è  quello  di  aver  messo  a  disposizione  del  pubblico  i  risultati  dei 
tecnici,  e  di  aver  reso  la  materia  erudita  utilizzabile  ad  un  grande  fine  pra- 
tico» (p.  357).  Fueter  evitava,  dunque,  l'astratta  semplificazione  del  (Sen- 
tile e  del  NicoUni,  d'un  Giannone  semplicemente  «politico»  e  sottoli- 
neava, al  contrario,  anche  se  non  esplicitamente,  il  valore  suo  di  illumi- 
nista. 

Altro  contributo,  questo  di  gran  lunga  più  importante  di  tutti  i  prece- 
denti, era  quello  fornito  da  A.  C.  Jemoi.O  col  libro  Stato  e  Chiesa  negli 
scrittori  politici  italiani  del  *6oo  e  del  '700,  Torino  1:9x4.  Giannone  appariva 
qui  in  un  più  ampio  contesto,  con  tutti  i  suoi  legami,  debiti  e  dipendenze 
e,  per  la  prima  volta,  si  affacciava  Pidca  di  lui  come  di  un  riformatore 
religioso. 

H  suggerimento  sarebbe  stato  ripreso  da  A,  Coivano,  Il  pensiero  religioso 
italiano  dalV umanesimo  al  giurisdizionalismo,  Bari  1937.  Finalmente  Gian- 
none  usciva  dal  chiuso  ambito  politico  del  giurisdizionalismo,  nel  quale 
ancora  recentemente  il  Gentile,  il  Nicolini,  il  Do  Ruggiero  e  il  Salvatorelli 


BIBLIOGRAFIA  XXXIII 

(come  vedremo)  lo  avevano  tenacemente  rinchiuso.  Il  Corsano  sottolineava 
Tinflusso  che  l'Oratorio,  attraverso  il  padre  Antonio  Torres,  aveva  avuto 
col  suo  rigorismo  sul  Giannone  e  accostava  all'Istoria  civile,  quale  suo  ideale 
modello,  1  Discours  sur  Vhistoire  ecclésiastique  del  gallicano  Claude  Fleury: 
«...  la  storiografia  del  gallicanesimo  »  scriveva  «  è  dominata  dalle  due  fi- 
gure del  Fleury  e  del  Du  Pin,  che  sono  i  veri  maestri  del  Giannone  »  (p. 
131).  È  attraverso  i  loro  scritti,  e  quelli  di  Huig  van  Groot,  che  Giannone 
«scopre  il  problema  del  Medio  Evo»  (p.  133).  La  polemica  giannoniana 
contro  la  Chiesa  di  Roma  diviene,  nel  saggio  del  Corsano,  la  ricerca  d'una 
nuova  religiosità  fondata  sulla  consapevolezza  storica  della  caduta  e  corru- 
zione del  primitivo  cristianesimo. 

Questa  nuova  tematica  negli  studi  giannoniani  troverà  concorde  Nata- 
lino Sapegno,  che  nel  1951,  m  un  saggio  su  Giannone  e  la  riforma  teli- 
giosa,  apparso  su  «Società»,  a.  vii,  pp.  35-53,  scriverà:  «L'importanza  sto- 
rica del  pensiero  di  Giannone  non  può  essere  colta  ed  intesa  in  tutta  la 
sua  portata  da  chi  si  illude  d'averla  descritta  coll'applicarvi  l'etichetta 
alquanto  generica  del  regalismo  o  giurisdizionalismo,  e  non  ne  avverte  la 
specifica  funzione  nell'ambito  di  una  condizione  politica  sociale  e  religiosa 
ben  detcrminata,  qual'era  quella  dell'Italia  meridionale  nei  primi  decenni 
del  Settecento»  (p.  35).  La  frecciata  è  evidentemente  diretta  contro  Guido 
De  Ruggiero  e  contro  Luigi  Salvatorelli,  i  quali  si  erano  limitati  a  ripren- 
dere i  giudizi  del  Gentile  e  del  Nicolini,  sia  pure  sviluppandoli  in  un  più 
ampio  contesto,  ora  che  lo  studio  dello  Jemolo  (tanto  per  citare  un  nome) 
soccorreva  loro  allargando  l'orizzonte  degli  studi  giannoniani.  Il  De  Rug- 
giero, ne  II  pensiero  politico  meridionale,  Bari  1921  ;  il  Salvatorelli  ne 
Il  pensiero  politico  italiano  dal  ijoo  al  1870,  Torino  1935.  Per  il  primo 
V Istoria  si  rivelava  «opera  di  un  giurista,  di  un  avvocato,  vissuto  nella 
tradizione  anticuriale  del  regno  napoletano  »  (una  tradizione  che,  però,  era 
ancora  tutta  da  dimostrare!).  Anzi  il  De  Ruggiero  arrivava  ad  affermare 
che  per  Giannone  l'«  aggettivo  "civile"  posto  a  specificazione  del  suo  lavoro 
storico  non  aveva  altro  significato  che  quello  di  "giuridico"»  (p.  35). 
Quanto  al  Salvatorelli,  Giannone,  «per  i  nuovi  indirizzi  del  pensiero  poli- 
tico settecentesco,  era  troppo  giurista»  (p.  25).  L'opera  di  Giannone,  con- 
cludeva sbrigativamente,  «ha  un'importanza  pratica  per  le  lotte  del  secolo 
XVIII  fra  Stato  e  Chiesa,  e  di  conseguenza  per  la  laicizzazione  dello  Stato 
e  della  società,  per  l'abbassamento  dell'autorità  di  Roma.  Ma  a  questa  lai- 
cizzazione della  società,  a  questo  abbassamento  dell'autorità  curiale  egli 
non  ha  offerto  un'ispirazione  nuova  di  pensiero,  un  fondamento  ed  una 
nuova  tavola  di  valori»  (p.  24). 

Drastici  giudizi  fondati,  ancora  una  volta,  sulla  sola  lettura  dell'Istoria 
civile,  che  l'edizione  del  Triregno  tentata  dal  Pierantoni  non  aveva  convinto 
nessuno.  Ma  nel  1940  appariva,  nella  collana  degli  «Scrittori  d'Italia» 
dell'editore  Laterza,  una  nuova  edizione  dell'opera  giannoniana,  allestita 
da  Alfredo  Parente.  Purtroppo  il  Parente  si  basò,  per  la  sua  edizione,  solo 
su  i  due  codici  peggiori  di  tutto  lo  stemma  dei  manoscritti  sino  a  noi  per- 
venuti, quelli  napoletani,  senza  collazionare  le  più  importanti  e  fedeli  copie 
conservate  presso  la  Biblioteca  Marciana  di  Venezia  e  la  Biblioteca  Ambro^ 
siana  di  Milano  (su  tutto  questo  si  veda  in  Giannoniana,  cit.,  pp.  338  sgg.). 


Anche  così,  però,  il  passo  avanti  era  innegabile.  Si  poteva  cominciare  ad 
utilizzare  questa  seconda  importante  opera  giannoniana,  a  fianco  deH7.s7<>- 
ria  civile.  Primo  a  farlo  fu  A.  Omodko,  in  quella  che  fu  qualcosa  di  mollo 
più  che  una  recensione  alla  nuova  edizione  latcrziana,  pubblicata  su  «La 
Critica»  del  194  x  (pp.  43  sgg. ;  e  poi  in  FI  senso  della  storia,  Torino  104S). 
Il  punto  di  partenza,  per  l'Omodeo,  è  giustamente  il  saggio  del  Coi  sano, 
che  aveva  còlto  per  il  primo  certi  motivi  fondamentali  del  pensiero  ginn- 
noniano.  Ma  nessuno  meglio  dcll'Omodeo,  studioso  del  cristianesimo  pri- 
mitivo, poteva  ora  discutere  la  trilogia  tentata  dal  Giannone  Comincia 
cosi  ad  apparire  il  «secondo  Giannone»,  la  cui  cultura,  scrive  l'Omodeo, 
«si  trasforma  in  una  missione,  che  lo  trascina  fin  nella  triste  prigionia  pie- 
montese. La  liberazione  dai  terrori  è  anche  liberazione  morale,  e  l'ali  er- 
mazione  sincera  del  libero  pensiero»  (FI  senso  della  stona  cit.,  p.  250). 
Anche  per  l'Omodeo,  come  già  per  il  Fueter,  il  merito  del  Giannone  è 
stato,  ancora  una  volta,  quello  di  «aver  raggruppato  questi  risultati  sparsi» 
raggiunti  dalia  cultura  europea  a  cavallo  tra  Seicento  e  Settecento,  «in 
una  visione  organica  dello  sviluppo  della  religione  umana»  (p.  251). 


Gli  ultimi  ventanni  hanno  conosciuto  una  vivace  ripresa  di  studi,  non 
solo  sul  Giannone,  ma,  piti  in  generale,  sull'intero  Sei-Settecento  napoleta- 
no. Per  la  critica  giannoniana  ricorderò  i  numerosi  scritti,  innanzi  tutto, 
di  L.  Marini,  il  quale  per  primo  riaprì  il  discorso  col  suo  P.  Giannone  e  il 
giannonismo  a  Napoli  nel  Settecento.  Lo  svolgimento  della  coscienza  politica 
del  ceto  intellettuale  del  Regno,  Bari  1950,  ritornando  sullo  schema  proposto 
dal  Nicolini.  Nello  stesso  anno  usciva,  sempre  dovuto  al  Marini,  un  primo 
censimento  di  manoscritti  giannoniani  :  Per  il  testo  critico  degli  scritti  politici 
minori  di  P.  Giannone,  m  «Annali  delia  Scuola  Nonnaie  Superiore  di 
Pisa»,  xix  (1950),  s.  11,  pp.  35-49;  seguito  da  Altri  codici  per  /' 'edizione 
critica  delle  gì annoniane  «Apologia  deW  Istoria  civile»  e  «  Professione  di  fede », 
ivi,  xx  (1952),  pp.  104-13.  Altri  suoi  saggi  e  recensioni  sono  stati  da  lui 
stesso  recentemente  raccolti  nel  volume  //  Mezzogiorno  d*  Italia  di  fronte  a 
Vienna  e  a  Roma  e  altri  studi  di  storia  meridionale,  Bologna  1070» 

Un  originale  contributo  alla  biografia  giannoniana  usciva  nello  stesso 
1950  che  vedeva  la  pubblicazione  dello  studio  dei  Marini:  C.  Cannakozsh» 
P.  Giannone  nei  primi  diciotto  anni  di  vita,  s.n.t.  (ma  Firenze  1950),  Alla 
vita  del  Giannone  si  interessava  anche  A.  Morskuli,  Per  la  biografia  di  P. 
Giannone,  in  «Atti  e  Memorie  dell'Accademia  di  Sciente  Lettere  e  Arti 
di  Modena»,  s.  v,  xm  (19SS),  PP-  345-5*  ;  mentre  si  occupava  degli  ultimi 
anni  R.  Rossini,  La  prigionia  e  la  morte  di  un  grande  storico,  Torino  1959. 
Nel  i960,  a  Milano,  usciva  infine  una  nuova  edizione  dell'autobiografia, 
curata  da  chi  scrive. 

La  denigrazione  neo-guelfa,  tenuta  desta  dal  Caristia,  come  s'è  detto, 
trovava  altri  corifei  in  V.  Titonb,  La  storiografia  dell'Illuminismo  in  Italia, 
Palermo  1953;  e  in  G.  Pepe,  II  Mezzogiorno  d'Italia  sotto  gli  Spagnoli.  La 
tradizione  storiografica,  Firenze  1953.  Mentre  più  obicttivo  è  il  diligente 
V.  Guadagno,  Gli  studi  di  P.  Giannone,  in  «Japigia»  (1953),  pp.  61-B4; 


BIBLIOGRAFIA  XXXV 

Un  illustre  avvocato  riformatore  di  università.  Con  il  «Parere»  inedito  di  P. 
Giannone,  Napoli  1956;  Il  pensiero  religioso  di  P,  Giannone,  Napoli  s.  d. 
(ma  1958). 

Un  contributo  alla  stona  della  fortuna  apportava  F.  Venturi  con  una 
comunicazione  apparsa  m  «Banco  di  Napoli.  Bollettino  dell'Archivio  sto- 
rico», n.°  8  (1954),  pp.  249-54:  Giannomana  britannica. 

Alle  tesi  del  Nicolmi  si  riallacciava  E.  Malato,  Introduzione  a  P.  Gian- 
none  nel  quadro  delU antìcuriahsmo  napoletano  del  Settecento,  Pozzuoli  1956; 
mentre  più  eclettico  si  dimostrava  C.  Curcio,  II  Giannone  ieri  ed  oggi,  m 
«Rivista  internazionale  di  filosofia  del  diritto»  (1956),  pp.  779-85.  Utile, 
pur  nella  sua  essenziale  stringatezza  di  conferenza  radiofonica,  fu  la  pre- 
sentazione di  Giannone  fatta  da  R.  Romeo,  poi  stampata  nel  volume  La 
cultura  illuministica  in  Italia,  Torino  1957,  curato  da  M.  Fubini. 

Nel  «Giornale  storico  della  letteratura  italiana»,  cxxxvi  (1959),  pp.  169- 
235,  usciva  il  mio  saggio  Appunti  e  osservazioni  in  margine  ad  una  nuova 
edizione  dell* autobiografia  giannomana.  Due  anni  dopo  B.  Vigezzi  dava  alle 
stampe  il  suo  P.  Giannone  riformatore  e  storico,  Milano  1961,  in  cui  si 
rovesciano  le  tesi  del  Nicolini  e  si  sostiene  al  contrario  la  grandezza  di 
Giannone  come  storico  con  una  troppo  visibile  forzatura  (ma  la  prima 
parte  del  libro  è  di  grande  utilità  :  vi  si  ristampa  un  saggio  che  con  lo  stesso 
titolo  il  Vigezzi  aveva  pubblicato  su  «Lo  Spettatore  italiano»,  ix,  1956,  pp. 
213-22;  270-82;  352-66,  discutendo  criticamente  i  precedenti  studi  sul 
Giannone).  Nel  1962,  tra  le  «Memorie  dell'Accademia  delle  Scienze  di 
Tonno.  Classe  di  Scienze  Morali,  Storiche  e  Filologiche»,  s.  iv,  n.°  4,  si 
ha  la  pubblicazione  de  Le  carte  torinesi  di  P.  Giannone,  a  cura  di  G.  Ricu- 
perati, primo  censimento  di  tutti  i  materiali  giannoniani  conservati  a  To- 
rino, sia  nell'Archivio  di  Stato,  sia  presso  la  Biblioteca  Reale  e  quella  Ci- 
vica. Da  allora  i  contributi  del  Ricuperati  si  succedono  con  una  progressi- 
vità costante  :  «  Istoria  civile  »  e  storia  ecclesiastica  in  P.  Giannone,  relazione 
tenuta  al  V  Congresso  di  studi  sulla  Riforma  ed  i  movimenti  religiosi  in 
Italia,  Torre  Pellice,  agosto  1962,  in  «Bollettino  della  Società  di  studi  val- 
desi», dicembre  1963,  pp.  25-40;  La  difesa  dei  «Rerum  Italicarum  Scripto- 
res*  di  L.  A.  Muratori  in  un  inedito  giannomano,  in  «Giorn.  stor.  d.  lett. 
ital. »,  cxlii  (1965),  pp.  388-418;  Alle  origini  del  «Triregno»:  la  «Philoso- 
phia  adamito-noetica*  di  A.  Costantino,  in  «Rivista  storica  italiana»,  a. 
lxxvxx  (1965),  fase,  ni,  pp.  602-38;  Giannone  e  i  suoi  contemporanei:  Len- 
glet  du  Fresnoy,  Matteo  Egizio  e  Gregorio  Grimaldi,  in  Miscellanea  Maturi, 
Torino  1966,  pp.  57-87;  Libertinismo  e  deismo  a  Vienna.  Spinoza,  Toland 
e  il  «Triregno»,  m  «Rivista  storica  italiana»,  a.  lxxix  (1967),  fase,  ni,  pp. 
628-95;  Alessandro  Riccardi  e  le  richieste  del  «ceto  civile»  aW Austria  nel 
170?,  ivi,  a.  lxxxi  (1969),  pp.  745-77;  La  prima  formazione  diP.  Giannone: 
V Accademia  Medina-Coeli  e  Domenico  Aulisio,  in  Saggi  e  ricerche  sul  Sette- 
cento, raccolta  di  contributi  di  vari  autori  edita  dall'Istituto  Italiano  per 
gli  Studi  Storici,  Napoli  1968,  pp.  94-171;  P.  Giannone  a  Torino.  Riflusso 
del  deismo  e  «  cristianesimo  ragionevole»  nelle  opere  del  carcere,  in  «Bollet- 
tino storico-bibliografico  subalpino»,  lxvii  (1969)»  fase.  1-2,  pp.  69-140. 
Questi  studi  dell'amico  Ricuperati  sono  infine  culminati  nel  volume  Vespe- 
rienza  civile  e  religiosa  dì  P.  Giannone,  Milano-Napoli  1970. 


Assai  importante  per  la  storia  della  fortuna  e  della  diffusione  delle  opere 
giannonianc  è  stato  il  saggio  di  G.  Bonnant,  P.  datinone  à  Genève  et  la 
publicatìon  de  ses  eeuvres  en  Suisse  au  XVIIIC  et  au  X1XV  sihles,  apparso 
in  «Annali  della  Scuola  Speciale  per  archivisti  e  bibliotecari  dell'Univer- 
sità di  Roma»,  m  (1963),  pp.  119-39.  Oltre  a  correggere  diversi  errori  del 
Nicolini  de  Gli  scrìtti  e  la  fortuna,  chiarisce  numerosi  legami  e  rapporti 
del  periodo  ginevrino  di  Giannone.  Per  la  documentazione  sui  plagi  del- 
Ylstoria  è  a  sua  volta  essenziale  l'accurata  analisi  di  F.  Fiorentino,  Le 
fonti  dell' « Istoria  civile»  di  P.  Giannone,  in  «Belfagor»,  xix  (1064),  pp. 
i4i-53">  397-533-  l^i  b<in  scarso  valore  si  presenta,  al  contrario,  I\  Gian- 
nantonio,  P.  Giannone,  1,  Tempi,  cultura  e  Istoria  civile,  Napoli  1964. 

Un'analisi  degli  ultimi  contributi  agli  studi  giannoniani  è  uscita  su  «  Cri- 
tica storica  »,  ìv  (1965),  pp.  342-66  :  La  figura  di  P.  Giannone  in  alcune  recenti 
interpretazioni,  a  cura  di  G.  Ricuperati. 

Nel  1968  usciva,  per  i  tipi  Ricciardi,  il  mio  Giannoniana,  censimento 
degli  autografi,  dei  manoscritti  e  dei  documenti  riguardanti  Giurinone  e  la 
sua  fortuna.  A  completamento  di  questo  lavoro  pubblicavo,  sempre  in  quel- 
ranno,  l'articolo  su  V incartamento  originale  del  Sant'Uffizio  relativo  a  P. 
Giannone,  in  «Il  Pensiero  politico»,  a.  1,  n.°  1  (1968),  pp.  16-38. 

Sul  problema  della  lingua  del  Giannone  cfr.  I\  Giann Antonio,  La  lin- 
gua di  P.  Giannone,  in  «Filologia  e  letteratura)),  a.  xvi  (1970),  fase.  1, 
n.°  61. 


Dicevo  più  sopra  come  gli  studi  sul  Sei-Settecento  meridionale  si  siano 
intensificati  in  questi  ultimi  vent'anni.  Non  è  qui  possibile  darne  una  bi- 
bliografia completa,  anche  perché  molti  di  essi  si  riferiscono  ad  un  periodo 
posteriore  alla  Napoli  giannoniana.  Si  daranno  perciò  solo  ciuci  titoli  più 
direttamente  vicini  al  nostro  assunto,  assieme  a  quelle  opere,  di  più  vec- 
chia data,  che  serbano  però  ancora  intatta  la  loro  importanza. 

Tra  le  opere  di  più  alta  data  ricorderò  :  3VL  Landau,  Moni,  Wien,  Neapel 
wahrend  des  spanischen  Erbfolgelmeges,  Leipzig  1885;  F.  Scaduto,  Stato  e 
Chiesa  nelle  Due  Sicilie  dai  Normanni  ai  nostri  giorni,  Palermo  1887  ;  L.  Ama* 
bile,  Il  Sant'Officio  della  Inquisizione  in  Napoli,  Citta  di  Castello  1892;  M* 
Schipa,  Problemi  napoletani  al  principio  del  secolo  XVI li,  Napoli  1898; 
R.  Trifone,  La  Giunta  di  Stato  a  Napoli  nel  secolo  XVIII,  Napoli  1909; 
R.  Trifone,  Fetidi  e  demani,  Milano  1909;  T.  Persico,  Gli  scrittori  politici 
napoletani  dal  1400  al  xjqo,  Napoli  19 12;  M.  Sciupa,  //  regno  di  Napoli 
al  tempo  di  Carlo  di  Borbone,  Milano  1923*;  G»  Rispou,  L'Accademia  pa- 
latina del  Medina-Coeli:  contributo  alla  storia  della  cultura  napoletana,  Na- 
poli 1924;  B.  Croce,  Storia  del  regno  di  Napoli,  Bari  X925;  Studi  di  storia 
napoletana  in  onore  di  Michelangelo  Schipa,  Napoli  1926;  H.  Benkdikt, 
Das  Kònigreich  Neapel  unter  Kaiser  Karl  VI,  Wien-Leipzig  1927;  E. 
Pontieri,  II  tramonto  del  baronaggio  siciliano,  in  «Archivio  storico  sicilia- 
no», 1931-1933  (successivamente  raccolto  in  volume,  con  lo  stesso  titolo, 
Firenze  1943)  ;  E.  Pontieri,  Aspetti  e  tendenze  dell'assolutismo  napoletano, 
in  «Rivista  storica  italiana»,  s.  v,  1934  (e  ristampa  in  II  riformismo  borbonico 


BIBLIOGRAFIA  XXXVII 

nella  Sicilia  del  Sette  e  dell'Ottocento,  Napoli  1945);  F.  Ferrara,  Stato  e 
Chiesa  nel  regno  delle  Due  Sicilie  durante  il  secolo  XVIII,  Napoli  1935;  C, 
Morandi,  Partiti  politici  a  Napoli  durante  la  guerra  di  successione  spagnuola, 
in  «Rivista  storica  italiana»,  s.  v,  1939;  G.  Monti,  Per  la  storia  dei  baroni 
di  Napoli,  Trani  1939. 

Un  ampio  quadro  delle  ricerche  di  storia  meridionale  più  recenti  può. 
trovarsi  nella  rassegna  critica  di  P.  Villani,  Economia  e  classi  sociali  nel 
regno  di  Napoli  (1734-1860)  negli  studi  dell'ultimo  decennio,  apparsa  su 
«Società»,  xi  (1955),  pp.  665-95  (e  ristampa  con  aggiornamenti  in  Mezzo- 
giorno fra  riforme  e  rivoluzione,  Bari  1962).  Altro  strumento  bibliografico 
di  grande  utilità  è  il  Bollettino  bibliografico  per  la  storia  del  Mezzogiorno 
d'Italia  (ro 57- ig 6ó)1  a  cura  di  G.  Meter  Vitale,  Napoli,  Società  Napole- 
tana di  Storia  Patria,  1961. 

Nel  campo  della  Kulturgeschichte  gli  studi  si  aprono,  come  ho  detto,  col 
saggio  del  Marini.  Ad  esso  fa  seguito  la  monografia  di  B.  Dì  Giovanni, 
Filosofia  e  diritto  in  F.  D'Andrea.  Contributo  alla  storia  del  previchismo,  Mi- 
lano 1958.  Quindi  l'articolo  di  P.  Piovani,  Il  pensiero  filosofico  meridionale 
tra  la  «nuova  scienza»  e  la  «Scienza  nuova)),  in  «Atti  dell'Accademia  na- 
zionale di  Scienze  morali  e  politiche  di  Napoli»,  lxx,  n.s.  (1959),  pp.  77- 
109.  Una  grande  discussione  suscita  inoltre  (in  cui  sono  maggiori  i  dis- 
sensi dei  consensi)  il  libro  di  R.  Colapietra,  Vita  pubblica  e  classi  politiche 
del  Viceregno  napoletano  (16 56-1  j  34),  Roma  1961.  Esso  ha  tuttavia  il  me- 
nto di  riprendere  la  discussione  avviata  da  Lino  Marini  sul  «ceto  civile» 
e,  più  in  generale,  sui  caratteri  del  Viceregno,  già  affrontati  da  G.  Coniglio, 
II  viceregno  di  Napoli  nel  secolo  XVII,  Roma  1955.  Contemporaneamente 
al  libro  del  Colapietra  si  ha  l'importante  Introduzione  a  G.  B.  Vico  di  N. 
Badaloni,  Milano  1961,  indispensabile  per  la  comprensione  dei  precedenti 
filosofici  anche  del  Giannone.  Sempre  il  1961  vede  l'apparizione  d'un  altro 
importante  contributo,  quello  di  R.  Ajello,  II  problema  della  riforma  giu- 
diziaria e  legislativa  nel  regno  di  Napoli  durante  la  prima  metà  del  secolo 
XVIII,  1,  La  vita  giudiziaria,  Napoli  1961.  Si  tratta  di  un  libro  originale, 
che  si  è  dimostrato  fondamentale  per  la  comprensione  della  stessa  battaglia 
giurisdizionalistica  condotta  dal  gruppo  di  giuristi  riuniti  attorno  all'Ar- 
gento. 

Un'ampia  ripresa  delle  discussioni  sollevate  dai  saggi  precedenti,  con 
apporto  nuovo,  è  stato  il  saggio  Pensiero  politico  e  vita  culturale  a  Napoli 
nella  seconda  metà  del  Seicento  di  S.  Mastellone,  Messina-Firenze  1965. 

A  sua  volta  il  Coniglio  è  ritornato  sui  suoi  precedenti  studi  col  libro 
I  viceré  spagnoli  di  Napoli,  Napoli  1967.  Nel  1968  si  aveva  un  poderoso 
volume  di  Saggi  e  ricerche  sul  Settecento,  quasi  tutto  accentrato  su  problemi 
del  Mezzogiorno  e  composto  di  contributi  di  ex-allievi  dell'Istituto  Ita- 
liano per  gli  Studi  Storici.  Il  volume  era  il  frutto  di  un  seminario  tenutosi, 
nella  sede  napoletana  dell'Istituto  e  nella  Certosa  di  Padula,  nell'ottobre 
del  1964. 

Alla  precedente  tematica  è  recentemente  tornato  il  Mastellone,  con 
la  monografia:  Francesco  D9 Andrea  politico  e  giurista  (1648-1698).  L'ascesa 
del  ceto  civile,  Firenze  1969.  È  infine  recentissima  l'uscita  di  un'altra  mo- 
nografia, ugualmente  importante  per  le  ricerche  giannoniane:  quella  di 


V.  I.  Comparato,  Giuseppe  Valletta,  Un  intellettuale  napoletano  della  fine 
del  Seicento,  Napoli  1970. 

Due  direzioni  di  ricerca  infine  devono  essere  ricordate  per  la  loro  im- 
portanza anche  ai  fini  della  comprensione  del  pensiero  giannoniano  da 
un  punto  di  vista  più  complesso:  le  ricerche  di  stona  economica,  aperte 
da  L.  De  Rosa  con  Studi  sugli  arrendamenti  del  regno  di  Napoli,  Napoli 
1958,  e  sviluppate,  per  il  periodo  che  ci  interessa,  da  A.  Di  Vittorio, 
Gli  Austriaci  e  il  regno  di  Napoli  1707-1734.  Le  finanze  pubbliche,  Napoli 
1969.  L'altra  direzione  è  l'approfondimento  della  storia  cittadina,  come  sta 
emergendo  dalla  Stona  di  Napoli,  di  cui  è  stato  edito  il  volume  vi,  Napoli 
s.  d.  (ma  1971),  e  stanno  per  uscire  il  vii  e  l'vin,  dedicati  alla  ricostruzione 
di  tutti  gli  aspetti  della  vita  e  delia  società  napoletana  tra  Seicento  e  Set- 
tecento. 

Sergio  Bertelli 


TAVOLA  DELLE  ABBREVIAZIONI 


Bertelli  S.  Bertelli,  Appunti  e  osservazioni  in  margine  ad  una 

nuova  edizione  delV autobiografia  giannoniana,  in  «  Giorn. 
stor.  d.  lett.  ital.  »,  cxxxvi  (1959),  PP-  169-235. 

Giannoniana  S.  Bertelli,  Giannoniana.  Autografi,  manoscritti  e  docu- 

menti della  fortuna  di  Pietro  Giannone,  Milano-Napoli 
1968.  (Il  riferimento  al  regesto  del  carteggio,  conservato 
presso  la  Biblioteca  Nazionale  di  Roma,  è  dato  con  l'in- 
dicazione del  numero  della  lettera,  anziché  della  pa- 
gina). 

Istoria  civile  P.  Giannone,  Istoria  civile  del  regno  di  Napoli,  Napoli 

1723,  in  quattro  tomi. 

Nicolini,  Scritti  F.  Nicolini,  Gli  scritti  e  la  fortuna  di  Pietro  Giannone. 
Ricerche  bibliografiche,  Bari  191 3. 

Opere  postume,  l  Opere  postume  di  Pietro  Giannone  in  difesa  della  sua  Sto- 
ria civile  del  regno  di  Napoli.  Con  la  di  lui  Professione 
di  fede,  Losanna  1760. 

Opere  postume,  n  Delle  opere  postume  di  Pietro  Giannone  giureconsulto  ed 
avvocato  napoletano  tomo  secondo,  contenente  alcune  sue 
opere  finora  inedite  precedute  dalla  vita  del  medesimo 
autore,  Venezia  1768. 

Panzini  [L.  Panzini],  Vita  di  Pietro  Giannone:  premessa  a  Opere 

postume,  li,  cit. 

Triregno  P.  Giannone,  Il  Triregno,  a.  cura  di  A.  Parente,  Bari 

1940,  in  tre  volumi. 

Vita,  ed.  Nicolini  Vita  di  Pietro  Giannone  scritta  da  lui  medesimo,  per  la 
prima  volta  integralmente  pubblicata  con  note,  appendice 
ed  un  copioso  indice  da  Fausto  Nicolini,  Napoli  1905. 


VITA  DI   PIETRO   GIANNONE 


NOTA  INTRODUTTIVA 


Questa  è  la  vita  d'un  libertino  secentesco,  drammatica,  tragica  nel 
suo  finale,  e  cosi  profondamente  diversa  dalle  carriere  d'un  libertino 
del  secolo  successivo,  quale  visivamente  ce  la  raffiguriamo  con  Wil- 
liam Hogarth,  o  letterariamente  con  Casanova;  anche  se  Giannone  è 
un  coetaneo  di  Hogarth,  maggiore  d'una  sola  generazione  del  Casa- 
nova. Ma  il  taglio  che  egli  dà  a  queste  sue  memorie  è  quello  del 
libertinage  érudit  del  tempo  di  Gabriel  Naudé,  di  Spinoza,  al  massimo 
del  tempo  di  Pierre  Bayle.  Una  vita  che,  nel  racconto  delle  persecu- 
zioni, ha  molti  punti  di  contatto  con  quella,  inedita,  del  perugino 
amico  del  Naudé,  Secondo  Lancillotti,  capace  di  giocar  tristemente 
sul  suo  nome,  sì  da  intitolarla  Vita  del  Lancillotti  a  ninn  fra*  suoi 
d'avversità  Secondo.  Così  anche  questa  giannoniana  autobiografia, 
come  ci  dice  lo  stesso  autore,  non  è  ripiena  di  «fatti  illustri  ed  egreg- 
gi »,  ma  è  piuttosto  la  descrizione  del  navigare  d'una  barca  in  un  mare 
«  crudele  e  tempestoso,  pieno  di  sirti  e  di  perigliosi  scogli,  dove  facil- 
mente potrebbe  urtare  e  sommergersi  ».x  Aver  saputo  mantenere  saldo 
il  timone,  cioè  diritta  la  propria  coscienza  morale,  l'aver  saputo  essere 
sempre  coerente  con  se  stesso  (questa  Vita,  ricordiamolo,  è  stesa  pri- 
ma del  duro  carcere  di  Torino,  che  lo  costringerà  all'abiura),  l'aver 
dunque  saputo  restare  fedele  al  proprio  imperativo  categorico  è  l'esem- 
pio ch'egli  può  offrire  con  orgoglio  al  lettore  della  sua  autobiografia, 
stesa  tra  il  1736  e  il  1737,  nel  chiuso  del  castello  sabaudo  di  Miolans. 
Una  vita  tutta  spesa  in  difesa  del  potere  monocratico  del  principe,  a 
sostegno  del  suo  assolutismo  :  «Nella  mia  Istoria  civile  e  nell'Apologia, 
che  fui  costretto  a  dar  fuori,  non  ebbi  altro  scuopo  che  di  manifestare 
e  porre  in  più  chiara  luce  i  confini  che  framezzano  tra  l'imperio  e  il 
sacerdozio  ...  E  pure  tutto  ciò  e  l'aver  sacrificato  la  mia  vita,  i  miei 
studi  e  i  miei  pochi  talenti  da  Dio  concessimi,  niente  giovommi»  nei 
confronti  dei  principi  «per  acquistarne  una  valida  lor  protezione; 
né  pure  per  potermi  sottrarre  dalle  umane  necessità,  e  vivere  sicu- 
ro in  qualche  angolo  della  terra;  anzi  il  duro  mio  destino  me  gli  ri- 
volse in  contrario,  e  fece  che  io  gli  sperimentassi  sdegnati  ed  av- 
versi ».2 

Come  il  suo  coetaneo,  il  conte  Alberto  Radicati  di  Passerano,  anche 
il  Giannone  dovette  sperimentare  quanto  i  principi,  gli  Absburgo  co- 
me i  Borbone  come  i  Savoia,  fossero  interessati  all'indipendenza  dal 
potere  ecclesiastico  soltanto  in  funzione  del  loro  assolutismo,  ben 
fermi  a  non  scambiare  una  lotta  beneficiaria,  una  difesa  del  diritto 

1.  Cfr.  Vita,  qui  a  p.  14-    a*  Cfr.  Vita,  qui  a  pp.  237-8. 


di  excquatur  con  una  critica  delle  istituzioni,  con  progetti  di  riforma 
religiosa.  Lo  Stato  assoluto  si  reggeva  ancora  ben  saldo  sul  principio 
cuius  regio  eìus  religio,  e  un  Giannone  o  un  Radicati,  che  volevano 
rimettere  in  discussione  modi  e  forme  del  credo,  travalicando  così 
i  confini  della  lotta  giurisdizionalistica,  non  potevano  trovare  a  lungo 
appoggi. 

Sarebbe  infatti  errato  pretendere  di  ridurre  tutta  la  vita  di  Pietro 
Giannone  al  solo  impegno  politico,  e  non  anche  religioso,  alla  sua  sola 
Istoria  civile  del  regno  di  Napoli,  dimenticandoci  dei  suoi  libri  Del  re- 
gno terreno  e  celeste  .  .  .  Dove  ampiamente  si  ragiona  della  natura  dello 
stato  delle  anime  umane  separate  da'  loro  corpi  e  della  resurrezione  degli 
stessi  corpi  nel  fine  del  mondo,  a  quali  si  sono  aggiunti  diece  altri  libri, 
che  contengono  altrettanti  periodi  del  nuovo  ed  agli  antichi  incognito 
regno  papale.  È  vero,  a  prima  lettura  questa  autobiografìa  non  è  che 
una  epistola  calamitatum  (secondo  la  definizione  che  ne  diede  il  De 
Ruggiero)  ;  ma  intanto,  si  veda  lo  spazio  in  essa  riserbato  alla  genesi 
del  Triregno)  e  se  si  avrà  poi  la  pazienza  di  ricomporre,  accanto  ad 
essa,  frammenti  dell'epistolario,  pagine  dalla  sua  Apologia  e  dalla  sua 
Professione  di  fede,  ricordi  autobiografici  sparsi  nell'opere  del  carcere, 
allora  certi  passaggi  della  Vita  acquisteranno  un  diverso  valore,  ver- 
ranno letti  in  una  diversa  prospettiva:  ci  si  parerà  innanzi,  insomma, 
il  messaggio  autobiografico  d'un  esprit  fort,  d'un  libertino  erudito  che 
a  lungo  ha  meditato  sulle  opere  di  Baruch  Spinoza,  oltre  che  sugli 
scritti  di  Cartesio  e  Gassendi,  che  conosce  a  fondo  il  De  rerum  natura 
e  Plinio  e  Seneca  e  Galeno,  che  ha  letto  e  apprezzato  le  lettore  di 
John  Toland  alla  principessa  Sofia  Carlotta  di  Prussia  (le  Lettcrs  to 
Serena)  e  che  conosce  il  suo  libro  Christianity  not  Mystvrious,  che  è 
al  corrente  delle  polemiche  d'un  Dodwe.ll,  d'un  Louis  Kllies  I)u  Pin; 
d'un  libertino,  insomma,  che  lungo  tutta  la  sua  vita  restò  coerente 
alle  proprie  convinzioni  filosofiche,  morali  e  religiose,  almeno  fmo  al 
momento  dell'abiura,  strappatagli  dopo  una  prova  di  carcere  duro, 
ventiquattro  mesi  dopo  aver  posto  fine  alle  sue  memorie. 

Il  suo  è  un  appello  all'indipendenza,  al  diritto  di  pensare,  «  al  mio 
esser  d'uomo  intcriore»,  sia  pure  «non  tralasciando,  per  ciò  che  ri- 
guarda all'esteriore,  di  conformarmi  a  tutto  ciò  che  la  prudenza  uma- 
na dettavami  dover  praticare,  conversando  con  gli  altri,  essendo  nella 
loro  società  civile,  non  dando  ad  alcuno  occasione  di  scandalo,  ov- 
vero turbando  in  minima  cosa  l'ordine  della  repubblica  ».x  Non  però 
in  modo  da  venire  a  patti  colla  propria  coscienza.  Questo  Rousseau 
avant  la  lettre,  pur  se  non  abbandonerà  i  figli  al  brefotrofio  (anche  se 


i.  Cfr.  Vita,  qui  a  p.  237. 


NOTA   INTRODUTTIVA  5 

si  preoccuperà  che  Giovanni,  una  volta  fattosi  raggiungere  da  lui  a 
Venezia,  passi  per  un  suo  giovane  servitore),  ugualmente  rifiuterà  di 
inginocchiarsi  davanti  all'altare  per  unirsi  all'Elisabetta  Angela  Ca- 
stelli, che,  ricorderà,  «  con  volere  di  sua  madre  vedova,  e  de*  fratelli, 
ebbi  verginella  in  mio  potere  ».  «  Con  lei,  che  m'amava  tanto  quanto 
era  da  me  riamata,  e  che  io  avea  posta  in  città,  in  sicura  custodia  di 
donne  oneste  e  sovente  l'avea  per  compagna  nelle  mie  solitudini  di 
Posilipo  e  "Due  Porte",  alleggeriva  le  mie  tetre  e  malinconiche  occu- 
pazioni ;  e  poiché  teneva  somma  cura  del  mio  corpo  e  delle  mie  cose 
domestiche,  io  riposava  in  lei,  né  mi  dava  altro  impaccio  che  de'  miei 
studi».1  E  quando,  uscita  alla  luce  Y Istoria  civile,  i  suoi  detrattori 
lo  accuseranno  di  concubinato,  riempirà  pagine  e  pagine  d'una  lunga 
dissertazione  sul  Concubinato  de'  Romani,  dimostrandone  la  legit- 
timità ben  dopo  la  predicazione  cristiana  e  rigorosamente  distin- 
guendolo dalla  fornicazione:  «Avere  nello  stesso  tempo  e  moglie  e 
concubina  non  era  permesso,  siccome  né  tampoco  avere  assieme  due 
mogli,  o  due  concubine.  Queste  concubine  erano  molto  alle  mogli 
somiglianti,  e  perciò  si  chiamavano  semimogli,  ed  il  concubinato  se- 
mimatrimonio  ...»;«  Era  quest'una  congiunzione  di  uomo  sciolto  con 
una  donna  sciolta,  approvata  dalle  leggi  e  pattuita;  non  a  fine  di 
aver  prole,  ma  per  soccorrere  alla  fragilità  umana,  ed  alle  cure 
domestiche  ».2 

Questa  rigorosa  distinzione  tra  sfera  pubblica  e  sfera  privata  egli  la 
manterrà  anche  durante  gli  anni  dell'esilio  viennese.  È  vero  che  il 
fratello,  l'8  novembre  del  1735,  gli  scriveva  come  don  Silvestro  To- 
sques  avesse  sparso  per  Napoli  la  voce  che  «in  Vienna  eravate  da 
tutti  odiato  e  disprezzato,  che  miserabilmente  vestivate  e  che  sosteni- 
vate  un  pubblico  concubinato  in  mezzo  a  tante  donne  che  davate  a 
vivere  spendendo  tutto  il  vostro  in  queste  »,3  e  il  pettegolezzo  può 
anche  avere  un  fondo  di  verità,  se  sono  della  Ernestine  Leichsen- 
hoffen  quelle  prove  di  scritture  tracciate  su  di  un  foglietto  poi  riuti- 
lizzato dal  Giannone  per  una  minuta  di  lettera  al  principe  Alessandro 
Teodoro  Trivulzio  :4  ma  anche  se  la  diceria  fosse  vera,  non  confer- 
merebbe che  quanto  già  sapevamo  dei  suoi  principi:  libero  di  for- 
marsi un  focolare  a  Napoli,  libero  di  ricostruirselo  a  Vienna.  E  gli 
accenti  di  dolore  per  il  distacco  dalla  famiglia  dell'Ernestine,  la  di- 
sperazione per  non  poter  più  soccorrere  lei  e  la  madre  abbandonate 
a  Vienna  sono  di  una  tale  umanità,  che  ci  dissuadono  dal  cercare 
di  penetrare  nel  segreto  del  suo  focolare,  ci  ammoniscono  a  rispettare 


1.  Cfr.  Vita,  qui  a  pp.  75-6.     z.  Cfr.  in  Opere  postume,  1,  pp.  no  e  112. 
3.  Cfr.  Giannoniana,  p.  441.    4.  Cfr.  Giannoniana,  p.  406. 


la  sua  coraggiosa  affermazione  d'aver  diritto  ad  una  condotta  privata 
kantianamente  intesa,  proclamata  ben  innanzi  alla  Critica  della  ra- 
gion pratica. 

Se  dunque  non  ci  interessa  la  verifica  del  fatto  in  se  (che  scadrem- 
mo anche  noi,  come  il  Tosqucs,  nel  più  basso  pettegolezzo),  ce  ne 
interessa  però,  eccome!,  la  sua  teorizzazione  da  parte  dello  stesso 
Giannonc,  dal  momento  che  questa  norma  di  vita  che  egli  s'impose, 
è  tanto  strettamente  connessa  al  suo  credo  filosofico-religioso.  A 
Ginevra,  cioè  in  un  diverso  mondo,  in  un  mondo  non  suo  di  ribelle 
o  eretico  nel  cattolicesimo,  egli  terrà  ben  in  vista,  nella  sua  camera, 
una  statuetta  di  san  Giuseppe:  «Quegli  che  mi  ospitava  vedendo 
che  spesso  venivano  a  visitarmi  pastori  e  ministri,  voleva  nasconde- 
re una  piccola  statua  di  gesso  di  S.  Giuseppe  ch'era  nella  miti  stan- 
za. Gli  dissi  che  no  '1  facesse,  poiché  quelli  erano  sì  savii  e  discreti 
che  se  ne  sarebbero  scandalczzati  ove  io  non  l'avessi  cola  lasciata 
stare  ;  ed  in  fatti  mai  di  ciò  non  si  curarono.  Io  poi  per  celia  soleva 
lor  dire  ch'io  teneva  immagine  di  un  santo,  il  processo  della  cui 
santificazione  non  si  era  fabbricato  in  Roma,  ma  dall'evangelista  S. 
Matteo  in  Gerusalemme».1  La  battuta  di  spirito  mitiga  il  fatto  in  sé, 
della  statuetta  nella  stanza,  fatto  che  ci  lascia  stupiti  dopo  aver  letto, 
in  tutte  le  precedenti  pagine  di  questa  stessa  sua  opera  del  carcere, 
V Istoria  del  pontificato  di  Gregorio  Magno ,  una  solenne  diatriba  con- 
tro un  uso  delle  immagini  che  sa  di  idolatria.  Ma  allora?  Giannonc 
improvvisamente  devoto  a  san  Giuseppe?  Un  san  Giuseppe  «raffi- 
gurato sempre  vecchio  eziandio  quando  sposò  la  Vergine  Maria», 
come  egli  stesso  ironizza  parlando  dell'iconografìa  cattolica  nella  pa- 
gina innanzi? 

La  verità  è  che,  anche  a  Ginevra,  egli  si  conformava  alla  società 
nella  quale  viveva.  A  Ginevra,  in  terra  protestante,  vi  si  conformava 
a  suo  modo,  accentuando  certi  atti  esteriori  di  culto  cattolico,  proprio 
per  distanziarsi  dai  suoi  ospiti,  per  sottolineare  anche  negli  atti  este- 
riori una  propria  fede:  si  veda  con  quanta  cura,  non  appena  ar- 
rivato, egli  aveva  avvertito  Marc-Michel  Bousquet  «  che  palesasse  a* 
suoi  amici  la  vera  cagione  della  mia  venuta,  la  qual  non  era  per  cam- 
biar religione,  ma  per  trovar  quivi,  giacché  non  poteva  trovarlo  in 
Italia,  un  onesto  modo  di  poter  vivere  colle  mie  fatiche  ».s  E  al  suo 
arrivo,  non  era  stato  subito  a  far  visita  al  residente  francese,  chieden- 
dogli il  permesso  di  assistere  alla  messa  nella  cappella  del  suo  palaz- 
zo ?  Tant'oltre  si  spinse  in  questo  atteggiamento,  da  voler  ricevere  il 

i.  Cfr.  P.  Giannone,  La  Chiesa  sotto  il  pontificato  di  Gregorio  il  Grande, 
in  Opere  inedite,  rivedute  ed  ordinate  dai  cav.  I\  S.  Mancini,  Torino  1852 
(ma  1859),  n,  pp.  1x6-7.    a-  Cfr.  Vita,  qui  a  p.  314. 


NOTA   INTRODUTTIVA  7 

precetto  pasquale  in  terra  cattolica,  a  Vezenaz,  cadendo  nell'agguato 
tesogli  dal  conte  Picon! 

Per  un  duplice  motivo:  innanzi  tutto,  egli  sapeva  bene  che  una 
sua  conversione  avrebbe  minacciato  l'intero  edificio  giurisdizionalista 
da  lui  innalzato.  Indicando  V Istoria  civile  quale  opera  di  eretico, 
la  vittoria  sarebbe  spettata  indubbiamente  a  quelle  forze  che  egli 
con  tanta  tenacia  aveva  combattuto.  Ma,  in  secondo  luogo,  questa 
sua  improvvisa  professione  d'ortodossia  gli  permetteva  di  distan- 
ziarsi vieppiù  da  un  altro  mondo  religioso  -  e  quanto  oppressivo  - 
quale  era  la  calvinista  Ginevra.  È  lui  stesso  a  spiegarcelo,  nella  stessa 
pagina,  più  sopra  e  subito  dopo  il  passo  che  abbiamo  riferito:  «Nel 
tempo  delle  mie  persecuzioni,  essendo  costretto  per  dura  necessità 
a  ricoverarmi  a  Ginevra  ...  in  que'  pochi  mesi  che  vi  dimorai  ebbi 
occasione  di  conversare  con  que'  pastori  e  ministri  delle  sue  chiese, 
fra'  quali  col  dottissimo  Alfonso  Turrettino  professore  di  teologia  e 
di  storia  ecclesiastica  in  quella  Università  di  studi,  col  ministro  Ver- 
net  pastore  della  chiesa  di  S.  Gervasio,  e  con  altri  saggi  professori 
di  scienze:  ed  ebbi  la  curiosità  di  entrare  ne'  loro  tempii  e  di  ascol- 
tare qualche  lor  sermone.  Li  vidi  vacui,  nudi,  che  ispiravano  malinco- 
nia. Le  loro  prediche  per  lo  più  erano  invettive  contro  la  Chiesa  di 
Roma  ...  Da  pochi  era  inculcata  la  carità  ed  amore  col  prossimo  ;  l'ab- 
bonimento dalle  frodi,  inganni  e  dagli  altri  vizi ...  Né  potei  contener- 
mi benanche  di  manifestar  loro  il  mio  desiderio  che  le  loro  prediche  e 
sermoni  non  si  fosser  rimaste  a  sole  invettive,  ma  avessero  inculcato 
quello  di  cui  il  paese  avea  maggior  bisogno,  la  dilezione  del  prossi- 
mo, la  pace  fra  i  cittadini  ch'erano  allora  tutti  in  rivolta  e  discordia, 
l'abborrimcnto  dalle  frodi  e  dagl'inganni».1  Mostrandosi  cattolico  in 
terra  protestante,  Giannone  manteneva  dunque  la  propria  libertà  di 
pensiero,  poteva  criticare  il  fanatismo  religioso  -  come  già  lo  aveva 
criticato  in  terra  cattolica  -,  propagandare  il  suo  ideale  d'una  reli- 
gione «tutta  pura  e  tutta  semplice,  niente  operosa  e  che  non  avea 
bisogno  né  di  tempii,  né  di  sacerdoti,  né  di  altari».2 

Perché  avrà  un  bel  dire,  nel  suo  manifesto  contro  l'espulsione 
decretata  nei  suoi  confronti  dagli  inquisitori  veneziani,  ch'egli  nulla 
sapeva  d'una  setta  d'ateisti,  e  di  ragionamenti  sulla  lingua  fresca 
di  sant'Antonio  e  dell'odore  di  rose  della  sua  Arca,  e  in  genere 
sulle  imposture  dei  frati.3  Intanto,  non  era  lui  l'autore  di  quella  ter- 
ribile Professione  di  fede,  che  esamineremo  a  suo  luogo  ?  Ma  ba- 
sterebbe, a  denunciarci  l'ambiente  libertino  in  cui  egli  visse  a  Ve- 

x.  La  Chiesa  sotto  il  pontificato  di  Gregorio  il  Grande,  loc.  cìt.  a.  Cfr.  Del 
regno  terreno,  qui  a  p.  604.  3.  Cfr.  Ragguaglio  dell'improvviso  e  violento 
ratto,  qui  a  p.  538. 


nezia,  la  presenza  al  suo  fianco,  al  momento  dell'arresto,  dell'abate 
Antonio  Conti,  l'amico  e  corrispondente  del  Newton,  filosofo  e  mate- 
matico egli  stesso,  tessitor  d'intrighi  (a  lui  si  deve  buona  parte  di 
responsabilità  nella  polemica  sul  calcolo  infinitesimale),  vero  avven- 
turiero nella  respublica  litteraria  del  tempo.  Ma,  soprattutto,  ce  lo 
svelerà  un  passo  d'una  lettera  del  principe  Trivulzio  al  Giannone 
ormai  in  salvo  a  Ginevra:  «Pensate  poi  con  comodo,  e  con  tempo  a 
trovarmi  qualche  libro,  che  dica  male,  e  non  mi  basta  l'ordinaria  sa- 
tira, e  frizzi,  voglio  che  dica  male  con  tutta  la  rabbia  più  mordente, 
e  che  vi  sii  zolfo  del  più  distillato,  acciocché  la  mia  bile  possi  im- 
parare nuovi  termini,  e  nuove  foggie  di  dir  male».1 

Giannone,  dunque,  l'ultimo  dei  nicodemisti  nostrani  ?  O  invece  il 
primo  dei  nostri  illuministi  ?  Forse  né  l'uno  né  l'altro,  ma  piuttosto, 
come  dicevamo,  l'erudito  libertino,  il  ribelle  disposto  a  transigere 
in  tutti  quegli  atti  che  non  violino  la  propria  coscienza,  e  in  questo 
nicodemista,  ma  pronto  a  pagare  di  persona,  quando  il  suo  gesto  può 
assurgere  a  normatività  per  i  suoi  contemporanei,  con  una  fede  nel- 
l'azione educativa  («populistica»,  l'ha  definita  il  Sapegno,  ma  noi  non 
intendiamo  usare  questo  termine)  che  lo  fa  ritenere  senz'altro  un  illu- 
minista. Non  a  caso,  sapendo  che  cosa  rischiava,  egli  rifiutò  di  sot- 
toporre la  sua  Istoria  civile  alla  censura  ecclesiastica:  non  per  tema 
di  tagli  che  lo  avrebbero  costretto  al  compromesso  (chi  gli  impe- 
diva d'uscire  con  falso  luogo  di  stampa,  alla  macchia,  e  magari  sotto 
falso  nome?),  ma  per  provocare  il  censore  ecclesiastico,  per  creare 
attorno  a  sé  il  caso  clamoroso,  per  ribadire  la  sovranità  del  censore 
laico. 

La  stesura  dell'autobiografia  iniziò  nell'estate  del  1736,  quando, 
«ritenuto  fra  le  angustie  d'un  castello,  . . ,  privo  di  ogni  umano  com- 
mercio», per  non  morire  intellettualmente  («per  alleggerire  in  parte 
la  noia  ed  il  tedio  »)  si  tuffò  nella  memoria  della  sua  vita  passata, 
non  già  indagandosi  e  scrutandosi,  che  non  aveva  nulla  da  rinnegare, 
ma  anzi  cercando  di  documentare,  per  ammonimento  ai  posteri,  la 
sua  tragedia.  La  dichiarazione  iniziale,  di  non  presumere  «di  pro- 
porla a'  lettori  per  cssempio  da  imitare  »,a  ò  puramente  di  circostanza. 
Già  quel  presupporre  ch'essa  sarà  un  giorno  letta,  dice  come  non 
fosse  un  soliloquio.  Ma  l'impegno  didascalico  affiora  quasi  ad  ogni 
pagina;  né  certi  silenzi,  certe  omissioni  sarebbero  altrimenti  conce- 
pibili. Come  l'attenuazione  della  sconfìtta  personale  e  del  proprio 
gruppo  al  momento  dell'uscita  dell'istoria  civile,  quando  tace  delle 
pressioni  del  viceré  perché  fosse  revocata  la  sua  nomina  ad  avvocato 

1.  Cfr.  Giannoniana}  pp.  528-9.    2.  Cfr.  Vita%  qui  a  p.  13. 


NOTA   INTRODUTTIVA  9 

della  città,  non  dice  della  proibizione  del  libro  perché  «contra  bonos 
mores  »  imposta  dall'Althann  al  Collaterale,  pur  formato  in  maggio- 
ranza da  uomini  del  suo  partito,  non  dice  dell'ordine  d'arresto  nei 
suoi  confronti.1  O,  ancora,  quando  sorvola  sui  retroscena  della  sua 
assoluzione,  non  ammettendo  che  quel  gesto  fu  da  molti  criti- 
cato,2 ecc. 

Lavorò  a  queste  memorie  con  grande  lena,  e  nel  gennaio  del  1737 
le  aveva  già  condotte  a  termine.  Vi  aggiunse  notizia  d'una  malattia 
che  lo  colpi  nel  gennaio  e  di  nuovo  nel  marzo  di  quell'anno  ;  infine 
due  pagine  di  commiato  dal  mondo,  affidando  proprio  a  questo  suo 
scritto  il  ricordo  di  sé  per  i  posteri  («ho  voluto,  dandomene  opportu- 
nità quest'ozio  e  questa  solitudine,  dar  al  mondo  una  verace  e  fedel 
narrazione  della  mia  vita»).3  Il  7  settembre  fu  separato  dal  figlio,  ri- 
messo in  libertà  d'improvviso  e  senza  permettere  ai  due  prigionieri 
un  abbraccio  di  commiato,4  e  poco  dopo  tradotto  nel  carcere  tori- 
nese di  Porta  Po,  dove  fu  costretto  ad  abiurare.  A  Miolans,  come  rife- 
risce il  Panzini,  il  governatore  del  castello  gli  aveva  accordato  «la 
libertà  di  passeggiare  ne'  termini  del  castello,  almeno  per  un  paio 
d'ore  al  giorno  in  sua  compagnia»,  e  dato  ordine  «che  le  stanze  che 
il  Giannone  colà  teneva,  potessero  restar  aperte  per  tutto  il  giorno, 
e  si  chiudessero  solo  di  notte  »  ;5  il  prigioniero  aveva  inoltre  a  dispo- 
sizione libri,  carta  e  inchiostro  per  scrivere.  Strappatagli  l'abiura, 
fu  nuovamente  trasferito,  questa  volta  nel  forte  di  Ceva.  In  esso,  se- 
condo una  descrizione  del  13  febbraio  1765,  vi  erano  «tredici  camere 
per  ricovero  de*  prigionieri,  e  capaci  tutte  di  due,  ed  alcuna  di  tre 
letti  per  ciascuna,  cioè  :  sei  di  esse  sono  situate  alla  sinistra  del  pian 
terreno  all'ingresso  del  forte  colle  finestre  a  Mezzogiorno,  riparate 
dalla  Mezzanotte  dalla  rocca  denominata  Cavagliè.  Tutte  le  camere 
sono  sane,  e  di  buon'aria,  e  di  lunghezza  ciascuna  trabucchi  tre  circa. 
Alla  destra  di  detto  ingresso  vi  sono  due  camere,  ciascuna  di  esse 
ha  un'anticamera;  queste  camere  sono  di  lunghezza  di  tre  trabucchi 
circa  come  le  antecedenti,  e  sono  capaci  cioè  una  di  quattro  letti  e 
l'altra  solamente  di  due  per  essere  un  poco  più  stretta,  ed  hanno  le 
finestre  a  Levante  e  Ponente,  e  sono  egualmente  sane  col  suolo  di 
tavole,  essendo  pure  l'interno  delle  loro  muraglie  rivestito  di  tavole 
per  l'altezza  di  un  trabucco,  ed  inservivano  altre  volte  per  i  prigio- 
nieri di  stato  ».6  In  una  di  queste  ultime  stanze,  dunque,  il  Giannone 
visse,  isolato,  sino  al  I  settembre  del  1744,  quando  per  l'incalzare 


1.  Cfr.  Giannoniana,  pp.  9  e  52.  2.  Cfr.  Vita,  qui  a  p.  108,  e  Bertelli, 
p.  187.  3.  Cfr.  Vita,  qui  a  p.  343.  4.  Si  veda  nell'autobiografia  di  Gio- 
vanni, in  Giannoniana,  p.  194.  5.  Cfr.  Panzini,  p.  98.  6.  Archivio  di 
Stato  di  Torino,  Materie  economiche,  carceri,  b.  7,  Carceri  del  Forte  di  Ceva. 


xv  VII  A  DI    PIETRO   GIANNONE 

della  guerra,  fu  giudicato  più  sicuro  il  suo  trasferimento  nella  citta- 
della di  Torino.  A  Ceva  la  sua  vita  non  era  stata  dissimile  da  quella 
di  Miolans:  vi  aveva  avuto  la  possibilità  di  stendere  i  Discorsi  sopra 
gli  Annali  di  Tito  Livio  (1739)  e  la  Istoria  del  pontificato  di  Gre- 
gorio Magno  (1742),  avendo  a  disposizione  libri  della  stessa  biblio- 
teca reale.1  Sempre  a  Ceva,  proprio  alla  vigilia  della  traduzione  a 
Torino,  il  26  agosto,  terminava  l'ultima  sua  opera,  VApe  ingegnosa. 
A  Torino,  d'improvviso,  il  rispetto  del  quale  sinora  era  stato  cir- 
condato venne  improvvisamente  a  mancare;  non  già  per  ordine  so- 
vrano, ma  per  lo  zelo  d'un  carceriere,  l'ufficiale  Caramelli,  come  c'è 
rimasta  notizia  da  un  lungo  esposto  del  Giannone  al  marchese  di 
Cortanzc,  presentato  dopo  quasi  due  anni  di  sofferenze,  nel  maggio 
del  '46.  L'ordine  sovrano,  trasmesso  il  24  dicembre  1744  al  marchese 
di  Cortanzc,  era  che  si  garantisse  al  prigioniero  «di  prender  l'aria 
aperta  per  la  cittadella  un'ora  0  due  in  ogni  giorno,  con  destinargli 
però  in  tal  tempo  un  ufrizialc,  od  altra  persona  della  di  lei  confidenza, 
su  cui  si  possa  contare,  che  gli  tenga  compagnia  e  lo  governi  a  vi- 
sta; .  .  .  proibendogli  di  intrare  con  lui  in  discorsi  particolari,  massi- 
mamente di  religione  .  .  .  Vuole  altresì  la  Maestà  Sua  che  gli  si  dia 
la  libertà  ed  il  comodo  di  leggere  e  scrivere,  ma  con  avvertenza  parti- 
colare che  nulla  de  suoi  scritti  esca  dalle  sue  mani  senza  passare 
immediatamente  in  quelle  di  Vostra  Eccellenza».2  Senonché  l'uffi- 
ciale scelto  per  accompagnarlo  fu  di  nuovo  il  Caramelli,  che  già  lo 
aveva  accolto  incivilmente  al  suo  arrivo  nella  cittadella,  ora  ancor 
più  invelenito  per  un  ricorso  del  Giannone  al  re  (donde  il  ribadire 
delle  disposizioni  in  suo  favore,  nel  biglietto  sopra  citato).  L'elenco 
dei  soprusi  e  delle  privazioni  ci  mostra  un  vecchio  ormai  rassegnato 
al  suo  destino,  ma  ancora  in  lotta  per  la  sopravvivenza.  Una  minuta 
d'una  sua  lettera,  del  16  ottobre  1747,  ce  lo  mostra  in  atto  di  ringra- 
ziare perché  finalmente  gli  si  e  ricoperto  il  pavimento  della  stanza 
d'un  assito  di  legno.3  In  lotta  per  la  sopravvivenza  anche  intellettuale, 
che  se  anche  non  scriverà  più  (salvo  rivedere,  correggere  e  aggiungere 
note  alle  sue  precedenti  opere  del  carcere),  sarà  sempre  immerso 
nella  lettura  di  libri  tratti  sia  dalla  biblioteca  reale,  sia  ora  anche  da 
quella  dell'ambasciatore  d'Inghilterra  a  Torino,  Arthur  de  Villettes*4 
Egli  è  insomma,  anche  nella  cittadella  di  Torino  e  a  malgrado  delle 


1.  Cfr.  la  lettera  al  marchese  di  Caraglio  del  25  ottobre  1747,  in  Giannonia- 
na,  p.  488.  2.  Cfr.  Giannoniana,  p.  487;  la  Reiasione .  .  .a  S.  E*  il  sig, 
Marchese  di  Cortanze  è  stata  edita  in  appendice  all'edizione  déV Autobio- 
grafia, curata  da  A.  Pierantoni  (Roma  1890,  pp.  514-31).  3.  La  lettera  e 
edita  in  Giannoniana,  p.  49 1 .  4.  Elenchi  di  libri  chiesti  in  prestito  in  Gian- 
noniana, pp.  488  e  490. 


NOTA    INTRODUTTIVA  II 

angherie  d'un  suo  carceriere,  un  prigioniero  illustre,  vera  vittima 
della  ragion  di  Stato  di  quell'assolutismo  del  quale  egli  s'era  fatto 
difensore  e  paladino. 

Nella  cittadella  di  Torino,  a  settantadue  anni,  si  spense,  come  è 
annotato  nel  libro  dei  morti  della  fortezza:  «  Il  sig.  avvocato  don  Pie- 
tro Giannonc  della  città  di  Napoli,  in  questa  cittadella  detenuto, 
munito  dei  SS.  Sacramenti  è  morto  il  17  marzo  1748  e  li  18  del 
medesimo  è  stato  sepolto  nella  Chiesa  Vecchia  di  questa  parrocchia- 
le ».  Così  si  chiudeva,  tragicamente,  la  carriera  d'un  erudito  libertino. 

Sergio  Bertelli 


VITA  DI  PIETRO  GIANNONE 

SCRITTA  <IN  SAVOIA  >  NEL  CASTELLO  DI  MIOLANS  <  DA  LUI 

MEDESIMO  E  CONTINUATA  NELLA  LIGURIA  NEL 

CASTELLO  DI  CEVA> 

[PROEMIO] 

Prendo  a  scrivere  la  mia  vita  e  quanto  siami  accaduto  nel  corso 
della  medesima,  non  già  che  io  presuma  di  proporla  a'  lettori  per 
essempio  da  imitare  le  virtù  forse  da  me  essercitate,  o  da  sfuggire  i 
vizi  de*  quali  fui  contaminato  ;  ovvero  perché  contenesse  fatti  egregi 
e  memorandi  e  fuor  del  corso  ordinario  delle  umane  cose  adoperati - 
poiché  son  persuaso  che,  sicome  in  me  non  furono  estreme  virtù  od 
estrema  dottrina  da  imitare,  cosi  mi  lusingo  che  non  vi  saran  estremi 
vizi  oppure  estrema  ignoranza  da  fuggire.  Prendo  a  scriverla  per- 
ché, trovandomi  ritenuto  fra  le  angustie  d'un  castello,  dove  privo 
di  ogni  umano  commercio  traggo  miseramente  i  miei  giorni;  e  du- 
bitando, per  la  mia  età  cadente,  non  dovessi  quivi  finirla;  quindi, 
e  per  alleggerire  in  parte  la  noia  ed  il  tedio,  e  perché,  avvicinan- 
domi alla  fine,  rammentando  con  la  mente  tutte  le  mie  passate  ge- 
sta, possa1  ritrarre  conforto  dalle  buone  e  pentimento  delle  ree. 
Sono  ancora  a  ciò  spinto  dal  riflettere  che,  avendomi  il  mio  de- 
stino condannato  ad  esser  bersaglio  delPinvida  maladicenza  di 
molti  miei  nemici,  i  quali  non  meno  presero  a  malmenare  i  miei 
libri  che  a  detrarre  e  malignare  le  mie  azioni,  intendo  che  gli  ama- 
tori della  verità  ne  abbiano  una  sincera  e  fedele  narrazione,  e  non 
si  dia  occasione  a'  maligni  di  oscurarle,  o  lividamente  rapportarle. 
E  poiché,  dopo  il  mio  naufragio,  vari  miei  scritti  andarono  sparsi 
di  qua  e  di  là,  perché  tutti  sappiano  separare  i  veri  da'  falsi,  che 

La  presente  è  fedele  trascrizione  dell'autografo  giannoniano  conservato 
all'Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mozzo  in,  ins.  2.  So- 
no registrate,  senza  unificarle,  tutte  le  varianti  grafiche  e  le  oscillazioni  di 
una  stessa  parola.  Cosi  pure  è  rispettata  la  punteggiatura  originaria,  salvo 
una  più  accentuata  introduzione  di  capoversi,  che  è  stata  giudicata  indi- 
spensabile per  non  affaticare  la  lettura,  E  stata  abolita  la  profluvie  di  maiu- 
scole presenti  nell'originale.  Le  aggiunte  apposte  all'autografo  dall'autore 
in  un  secondo  momento  (negli  anni  attorno  al  173 9-1 741)  e  distinguibili  nel 
manoscritto  per  il  diverso  e  più  forte  inchiostro,  sono  state  poste  tra  paren- 
tesi uncinate.  Sono  invece  tra  parentesi  quadre  gli  interventi  integrativi 
dell'editore. 

1.  possa:  è  retto  dalla  proposizione  principale  Prendo  a  scrìverla  perché . . . 


A+  VITA   DI    PIKTRO    GIANNONK 

potrebbero  gli  invidiosi,  forse,  a  me  ascrivere,  manifesto  qui  fe- 
delmente, uno  per  uno,  quali  fosscr  i  miei  propri  e  legittimi  parti. 
Ma  sopra  tutto  prendo  a  scriverla  perché  sia  a  gli  altri  di  docu- 
mento, e  spezialmente  a  gli  uomini  probi  ed  onesti  ed  amanti  del 
vero,  quanto  sia  per  essi  dura  e  malagevole  la  strada  che  avran  da 
calcare,  per  passar  la  loro1  in  questo  mondo  liberi  e  sicuri,  fra  la 
turba  di  gente  improba  ed  infedele  e  tra  l'infinito  numero  degli 
sciocchi  e  de5  malvaggi,  massimamente  a  chi  avrà  sortito  la  disgra- 
zia di  nascere  sotto  grave  e  pesante  cielo,  ed  in  terreno  servo  e 
soggetto  e  ferace  di  pungenti  spine  e  d'inestricabili  pruni  e  triboli; 
e  molto  più  in  questi  tempi  ne'  quali,  spento  ogni  raggio  di  virtù, 
sembra  che  l'invida  maldicenza,  l'ambizione,  l'avidità  delle  ric- 
chezze e  degli  onori,  l'avarizia  e  tutte  le  umane  scelleratezze  abbia- 
no date  le  ultime  prove;  sicché  a  ragione,  chi  attentamente  vi  ri- 
flette, non  più  dubiti  il  mondo  esser  retto  e  governato  da  spirito 
pravo  e  maligno,  secondo  che  pure  la  divina  Sapienza  ci  palesò, 
dicendo  ch'era  posseduto  da  Satan;  che  gli  uomini  per  proprio  istin- 
to, fin  dalla  loro  adolescenza  sono  portati  al  male,  e  che  il  mondo 
fosse  positus  in  maligno.2 

Se  adunque  in  essa  non  vi  leggeranno  fatti  illustri  ed  egreggi, 
avrà  almanco  questo  preggio:  che  altri,  avendola  innanzi  gli  occhi, 
prenda  da  sé  guardia  ed  abbiala  per  guida  e  scorta  in  passando  un 
mare  sì  crudele  e  tempestoso,  pieno  di  sirti  e  di  perigliosi  scogli, 
dove  facilmente  potrebbe  urtare  e  sommergersi-  Forse  potrà  anche 
riuscire  di  loro  utile,  in  leggendo  nel  corso  della  medesima  quanto 
gli  uomini  sovente  si  affatichino  indarno  fra  studi  vani  od  inutili,  e 
le  preziose  ore  del  tempo  inutilmente  consumino  fra  ricerche  di 
cose  vane  che  niente  conducono,  né  per  regger  la  nostra  vita  nella 
strada  della  virtù,  de'  buoni  costumi  e  delie  opere  oneste  e  com- 
mendabili presso  Dio  e  presso  gli  uomini  probi,  né  per  illuminare 
le  nostre  menti  nelle  cognizioni  delle  scienze  utili  e  necessarie; 
anai  per  maggiormente  invilupparle  tra  questioni  vane  ed  astratte, 
delle  quali,  doppo  essersi  lungamente  affaticati,  ne  sapranno  molto 
meno  che  prima,  quando  cominciarono  ad  investigarle. 


i.  la  loro:  sottinteso  «vita»,     z. positus  in  maligno:  cfr.  /  loann.,  5»  19. 


CAPITOLO  PRIMO 

[Anni  I6j6-i6g2\ 

Io  nacqui  da  onesti  parenti1  a'  sette  di  maggio  dell'anno  1676, 
in  una  terra  del  monte  Gargano,  nella  Puglia  de'  Dauni  chiamata 
Ischitella,  prossima  a'  lidi  del  mare  Adriatico,  dirimpetto  all'isole 
Diomedee,  ora  dette  di  Tremiti.  Allevato  nell'infanzia  dalla  non 
men  pia  che  savia  mia  madre,  Lucrezia  Micaglia,2  ed  erudito  negli 
esercizi  di  pietà  con  somma  accuratezza  e  religione,  fui  mandato  a 
scuola  ad  apprender  grammatica  dall'arciprete  di  quella  chiesa,3 
uomo  versato  nella  lingua  latina  per  quanto  comportava  la  condi- 
zione del  luogo,  ma  molto  più  commendabile  per  la  sua  probità  e 
per  l'esemplari  ed  incorrotti  suoi  costumi. 

Nella  mia  adolescenza  mancò  poco  che  non  tornassi  in  quello 
stato  nel  qual  fui  prima  di  nascere,  poiché,  infermato  di  febre  an- 
corché non  gravemente,  il  medico,  poco  riflettendo  al  mio  gracile 
temperamento,  mi  diede  una  purgazione  preparata  con  antimonio 
superiore  alle  mie  forze;  sicché,  di  sopra  con  vomiti,  e  di  sotto  con 
profluvi  continui,  mancò  poco  che  non  esalassi  l'anima  fra  le  braccia 
della  mia  cara  madre.  Ma,  sicome  il  pericolo  fu  grave,  così,  quel- 
li cessati,  in  breve  tempo  tornai  al  pristino  stato  di  perfetta  salute. 
Adulto  che  fui,  nell'età  di  quindici  anni,  da  Scipione  mio  padre 
fui  mandato  a'  studi  di  filosofia  sotto  la  disciplina  e  direzione  d'un 
frate  franciscano  de'  zoccoli,  valente  professore  e  teologo  rinomato 
nel  suo  Ordine,  il  quale,  dopo  aver  occupato  i  gradi  più  cospicui 
della  sua  religione,  fu  fatto  lettore  giubilato:4  onore  non  solito 

1.  da  onesti  parenti:  latinismo,  «da  genitori  di  condizione  dignitosa»,  cioè 
non  infima.  Il  Panzini,  p.  1,  scrive  che  «Scipione  ebbe  nome  suo  padre, 
di  professione  speziale  . . .  Pretendesi  che  il  padre  traesse  sua  origine  dalla 
nobile  famiglia  de*  Giannoni-Alitto,  oggidì  anco  risedente  nella  città  di  Bi- 
tonto.  Ma  non  cercò  giammai  il  nostro  autore  sì  ridicoli  vanti . . .,  comec- 
ché pronti  fossero  i  signori  Giannoni-Alitto  a  dichiararlo  per  sanguinità 
lor  congiunto  ».  È  pur  vero,  infatti,  che  gli  Alitto  furono  in  rapporti  col 
nostro,  quando  questi  raggiunse  una  stimata  posizione  sociale,  ma  le  sue 
origini  furono  poverissime.  Il  padre,  in  gioventù  chierico,  aveva  abbando- 
nato l'abito  talare  per  sposare  Lucrezia  Micaglia,  dalla  quale  ebbe  cinque 
figli:  Pietro,  Francesca,  Vittoria,  Carlo  e  Teresa.  Cfr.  C.  Cannarozzi, 
Pietro  Giannone  nei  primi  diciotto  anni  di  vita,  s.n.t.,  p.  11.  2.  Lucrezia 
Micaglia:  figlia  di  Matteo  e  di  Isabella  Sabatelli,  era  nata  nel  1653.  Morì 
il  29  luglio  1709.  3.  arciprete  di  quella  chiesa:  don  Gaetano  Serra,  for- 
se parente  della  bisnonna  materna  del  Giannone,  Giulia  Serra.  4.  un  fra- 
te. .  .giubilato:  forse  il  padre  Daniele  da  Ischitella,  ricordato  come  «Mi- 
nore osservante,  dottore  giubilato  [cioè  collocato  in  riposo  con  pensione] 


conferirsi,  se  non  a  coloro  i  quali,  doppo  lunghi  anni  di  lettura  e  di 
aver  dato  pruove  ben  chiare  de'  loro  talenti,  se  l'avrai*  meritato.  E 
poiché,  fra  l'altre  prerogative  che  seco  porta  la  giubilazione,  ò  di 
rimanere  ad  arbitrio  del  giubilato  d'eleggersi  un  convento  che 
fosse  di  suo  piacere,  per  menar  ivi  il  rimanente  di  sua  vita  in  quiete 
e  riposo,  questi,  ch'era  naturale  del  luogo,  s'elesse  il  convento  de' 
suoi  frati,  costrutto  da  antichissimi  tempi  in  Ischitella  sua  patria,  e 
quivi  venne  a  dimorare.  Questa  occasione  fu  riputata  da'  miei  pa- 
renti opportuna  e  come  venuta  dal  Cielo,  per  mandarmi  sotto  la 
disciplina  del  medesimo  ad  apprender  filosofia,  per  la  gran  fatila  di 
dottrina,  che  in  quella  provincia  si  avea  di  lui.  Egli  adunque  co- 
minciò ad  insegnarmela  con  grande  amore  e  diligenza;  e  nello  spa- 
zio di  tre  anni,  applicandovi  io  con  somma  attenzione,  finito  il  corso 
della  logica,  fisica  e  metafisica,  divenni  filosofo  scolastico-scotista,1 
e  disputava  co'  miei  uguali,  con  energia  e  sottigliezza,  di  quelle 
cose  che  io  stesso  non  intendeva,  né  distintamente  capiva;  ma  Tem- 
pito  ed  il  fervore  della  disputa  somministravami  parole  ed  argo- 
menti tali  che,  a  mio  e  lor  credere,  sembravano  forti  ed  invincibili. 

Queste  vaghe  e  confuse  idee,  che  io  avea  di  quelle  cose  che  m'eran 
da  quella  filosofia  state  somministrate,  se  bene  l'averla  appresa 
mi  cagionasse  la  perdita  di  tanto  tempo,  che  io  avrei  potuto  impie- 
gare a  studi  propri  di  quella  età  giovanile,  come  delle  lingue,  della 
geografia  e  cosmografia,  per  sapere  dove  io,  uscito  alla  luce  di  que- 
sto mondo,  era  venuto,  per  non  dimorarci  da  ospite  e  peregrino,  e 
non  perderlo  tra  questioni  astratte  e  metafisiche,  delle  quali  non 
era  io  capace,  nulladimanco  produssero  in  me  questo  buon  effetto 
che,  giunto  in  Napoli,  mi  disposero  a  studi  più  sodi,  i  quali  mi  fecer 
dimenticare  quanto  in  que*  tre  anni  confusamente  avea  appreso: 
sicché  quelle  vaghe  e  confuse  immagini,  non  avendo  fatte  profonde 
impressioni  nel  mio  cerebro,  né  lungamente  dimoratevi,  poterono 
tosto  dileguarsi  per  le  nuove  e  più  solide  cognizioni  che  io  andava 
acquistando. 

Finito  adunque  il  corso  della  filosofia  d'Aristotele,  secondo  la 
mente  e  sposizione2  di  Scoto,  perché  non  vi  era  altro  ivi  che  fare  ed 

della  scuola  di  Sorona»  in  F,  A.  Donato,  Cenno  storico  intorno  V antica 
città  di  Uria  Marittima  nel  Gargano,  Napoli  1886,  p.  22,  e  spentosi  in 
Ischitella  nel  1698;  de*  zoccoli:  0  zoccolante,  denominazione  popolare  da- 
ta ai  frati  minori  osservanti.  1.  filosofo  scolastico-scotista:  aveva  cioò  ter- 
minato gli  studi  sulla  filosofia  scolastica  di  Giovanni  Duna  Scoto  (xa66 
circa-1308).    2,  sposizione:  esposizione. 


CAPITOLO   PRIMO  17 

i  miei  genitori  pensavano  di  applicarmi  allo  studio  delle  leggi; 
lontani  di1  mettermi  nello  stato  ecclesiastico,  sicché  dovessi  intra- 
prender gli  studi  di  teologia  presso  lo  stesso  padre  teologo;  si  ri- 
solvettero di  mandarmi  a  Napoli,  col  certo  soccorso  che  avrebbe  lor 
somministrato  per  mio  sostentamento  uno  zio  di  mia  madre,  prete,3 
non  men  agiato  di  beni  di  fortuna,  che  verso  di  me  molto  tenero 
e  benefico  e  che  mi  portava  grand'amore  ed  affezione. 


1.  lontani  di:  lontani  dall'idea  di.  Questa  notizia  non  è  esatta,  e  nasconde 
una  ben  diversa  realtà.  Vero  è  che  nello  Stato  d'Anime  del  1692,  alla  descri- 
zione della  famiglia  di  Scipione  Giannone,  troviamo  che  Pietro  è  definito 
«l'acolito  Pietro,  di  anni  16  »  e  l'accolitato  è  un  vero  e  proprio  ordine  mino- 
re, ed  egli  fu  dunque  chierico,  probabilmente  sino  al  momento  della  sua 
partenza  per  Napoli,  2.  uno  zio  .  . .  prete:  non  già  Matteo  Micaglia,  come 
riferì  il  Fanzini,  p.  1,  perché  questi  era  il  nonno,  e  non  lo  zio  di  Pietro. 
Il  sacerdote  al  quale  qui  si  allude  fu  invece  il  prozio  del  Giannone  don 
Carlo  Sabatclli,  figlio  di  Leonardo  Sabatelli  e  di  Giulia  Serra,  il  quale,  nel- 
lo Stato  d'Anime  del  1692  figura  convivente  con  la  famiglia  di  Scipione 
Giannone. 


CAPITOLO  SECONDO 

Anno  1694,  sotto  il  regno  di  Carlo  II  re  di  Spagna  e  sotto  il  governo  del 
conte  di  S.  Stefano1  e  poi  del  duca  di  Medina  Coelt2  viceré 


Giunsi  in  Napoli  ne'  princìpi  del  mese  di  marzo  deiranno  1694, 
e  que'  a*  quali  io  fui  raecomandato,  non  per  mancanza  di  affetto, 
ma  per  poca  conoscenza  che  aveano  de'  più  insigni  professori  di 
legge  che  erano  in  quella  città,  mi  mandarono  ad  apprender  legge 
civile  e  canonica  in  casa  d'un  lettore,  il  quale,  secondo  che  col  pro- 
gresso e  più  per  l'avvertimento  di  altri  più  saggi  conobbi  dapoi, 
poco  sapeva  dell'una  e  meno  dell'altra,  del  di  cui  nome  io  non  vo- 
glio per  ciò  ricordarmi;3  poiché,  oltre  di  insegnare  sopra  alcuni 
scritti  da  altri  scipitamente  composti,  l'avea  ripieni  d'inutili  que- 
stioni, le  quali  non  solo  niente  rischiaravano  le  Istituzioni*  piane  e 
semplici  deirimperadore  Giustiniano,  per  le  civili  e,  per  le  cano- 
niche, quelle  di  Lancellotto,5  ma  tutte  le  confondevano  ed  oscu- 
ravano; e  se  io  le  leggi  ed  i  canoni  che  si  allegavano  voleva  cercarli 
e  riscontrargli  nel  Corpo  del  ius  civile  0  canonica,  0  non  le  trovava 
affatto,  0  pure  le  ravvisava  tutte  mal  a  proposito  alligate,  guaste  e 
non  intese:  ciò  che  mi  dava  indizio  che  il  mio  maestro  orasi  pog- 
giato su  l'altrui  fede,  non  ch'egli  l'avesse  mai  lette  ed  osservate. 
Posto  in  questa  confusione  ed  intrighi,  da'  quali,  come  poteva 
il  meglio,  m'andava  distrigando  colla  lettura  de*  testi  originali  e 
con  communicarc  le  mie  difficoltà  ad  altri  d'età  e  di  dottrina  più 

1.  conte  di  S.  Stefano:  Francisco  de  Benavidcs  y  Aragón,  conte  di  KantiKte- 
ban  del  Puerto.  Fu  viceré  di  Sardegna  nel  1676,  poi  di  Sicilia  nel  1678-1687, 
infine  di  Napoli,  dal  1687  al  1696.  A  lui,  all'atto  della  partenza  per  la  Spa- 
gna, indirizzò  un'orazione  G.  B.  Vico,  premessa  a  Vari  componimenti  in  lo- 
de dell' eccellentissimo  signore  don  Francesco  Beiuwides,  ecc.,  raccolti  da  Nic- 
colò Caravita,  Napoli  1696:  cfr.  G.  B.  Vico,  Scritti  vari  e  pagine  sparse,  a 
cura  di  F.  Nicolini,  Bari  1940,  pp,  8$  sgg.,  e  la  nota  del  Nicolini,  ivi,  pp. 
272-3.  2.  Il  conte  Luis  Francisco  de  la  Cerda  y  Aragón  (1660-17x1), 
duca  di  Medina  Coeli,  successo  al  Benavides  nel  viccregno  di  Napoli  dal 
1696  al  1702.  3.  un  lettore  . . .  ricordarmi:  ne  abbiamo  il  nome  in  Panzxnx, 
p.  1  ;  si  chiamava  Gian  Battista  ComparelU  ed  esercitava  nel  foro  napoletano 
come  procuratore.  4.  Le  Institutiones,  pubblicate  il  2t  novembre  533, 
erano  un  testo  ad  uso  della  scuola,  compilato  su  ordine  dell'imperatore 
da  Triboniano,  Teofilo  e  Doroteo,  durante  la  redazione  del  Digesto. 
5.  quelle  di  Lancellotto:  le  Institutiones  iuris  canonici,  quibus  ius  pontiflcium 
singulari  methodo  libris  quatuor  comprehenditur,  Lugduni  1578,  di  Giovan 
Paolo  Lancellotti  (1522-1590),  detto  «il  Triboniano  di  Perugia»  sua  città 
natale,  nel  cui  Studio  insegnò  prima  diritto  civile,  poi  diritto  canonico. 


CAPITOLO    SECONDO  19 

avanzata,  de'  quali  io  cominciava  ad  acquistar  conoscenza  ed  ami- 
cizia; per  mia  buona  sorte  ebbi,  dopo  qualche  tempo,  opportunità 
di  conoscere  un  sacerdote  assai  dotto  e  di  grande  erudizione  e 
probità,  del  di  cui  nome  e  beneficenza  non  potrò  mai  dimenticar- 
mene, poiché  fu  il  primo  ad  illuminarmi  e  per  suo  mezzo  ad  acqui- 
star conoscenza  de*  primi  e  più  rinomati  professori  e  letterati  delia 
città  suoi  amici.  Questi  fu  don  Giovanni  Spinelli,  erudito  in  tutte 
le  scienze,  e  che  nella  sua  avanzata  età  si  era  anche  applicato  nello 
studio  della  giurisprudenza  romana;  al  quale  avendo  io  esposte  le 
mie  confusioni  nelle  quali  era  sotto  il  mio  istruttore  di  legge,  com- 
passionando il  mio  stato  d'ignoranza,  mi  sollevò  dal  fango  e,  po- 
stomi nella  dritta  via,  mi  additò  il  segno  verso  dove  dovea  incami- 
narmi;  e  che,  per  poterci  arrivare,  era  mestieri  cambiar  maestro  ed 
apprender  la  giurisprudenza  non  già  dalle  pozzanchere,1  sicome  fin 
ora  io  aveva  fatto,  ma  da'  fonti  limpidi  e  chiari,  che  me  l'avrebbe 
additati  un  altro  insigne  maestro  ;  il  qual  era  il  celebre  Domenico 
Aulisio,2  professore  del  ius  civile  dell'Università  de'  regi  studi  di 
Napoli,  profondo  in  tutte  le  scienze  ed  ornato  non  men  di  latina 
che  di  greca  erudizione,  e  sopra  tutto  a  fondo  inteso  non  pur  delle 
leggi,  ma  dell'istoria  romana,  senza  la  quale  non  poteano  perfetta- 
mente capirsi  ed  intendersi  ;  ch'egli3  come  suo  amico  mi  averebbe 
condotto  e  raccomandato  con  fervore  ed  efficacia,  sicché  di  me 
avesse  particolar  cura  e  pensiero,  sicome  fece. 

Trovavasi  già  TAulisio,  e  molto  più  dopo  avere  ottenuta  la  cat- 
tedra primaria  vespertina  del  ius  civile,4  aver  dismessa  affatto  la  sua 
scuola  privata,  ove,  secondo  il  prescritto  delle  Istituzioni  di  Giusti- 
niano, insegnava  a'  giovani  la  giurisprudenza;  ma  allora  pubblica- 
mente ne*  regi  studi,  secondo  l'istituto  di  quella  Università,  spie- 
gava le  più  difficili  materie  di  testamenti,  legati,  istituzioni,  fide- 

1.  pozzanchere*.  pozzanghere.  2.  Domenico  Aulisio  (1 639-1717)  fu  uno 
dei  più  celebri  giuristi  napoletani  della  generazione  precedente  quella  del 
Giannone.  Su  di  lui,  oltre  quanto  è  detto  in  L.  Giustiniani,  Memorie 
isteriche  degli  scrittori  legali  del  regno  di  Napoli,  Napoli  1787-1788,  i,  pp. 
91  sgg.,  e  in  G.  M.  Mazzuchelli,  Gli  scrittori  d'Italia,  1,  Brescia  1753, 
ad  vocem  Aulisio,  si  veda  la  voce  stesa  da  F.  Nicouni,  in  Uomini  di  spada, 
di  chiesa,  di  toga,  di  studio  al  tempo  di  Giambattista  Vico,  Napoli  1941  (e  Mi- 
lano 1942).  3.  egli:  cioè  lo  Spinelli.  4.  la  cattedra  .  . .  civile:  l'Aulisio  vi 
era  stato  nominato  nel  1695.  Professore  privato  di  diritto  civile  sin  dal 
1675,  era  stato  lettore  straordinario  e  quindi  professore  di  diritto  canonico 
all'ateneo  napoletano  dal  1682  ;  vespertina:  pomeridiana.  I  corsi  e  le  catte- 
dre erano  distinti,  anche  per  importanza,  in  «mattutini»  e  in  «vespertini». 


commisi,1  successioni  ab-intestato2  ed  altre  leggi  oscure  ed  intricate 
del  Digesto  che  chiamano  inforziate?  dividendole  in  quattro  trat- 
tati, leggendone  in  ciaschedun  anno  uno  e,  finito  il  quatriennio, 
si  replicavano  a*  nuovi  discepoli,  che  in  ogni  anno  ivi  concorrevano 
ad  apprender  le  leggi  civili. 

Io,  se  bene  sotto  il  primo  maestro  avea  fatti  piccioli  progressi 
nella  giurisprudenza,  nulladimcno,  con  attenermi  più  a'  quattro 
libri  delle  Istituzioni  di  Giustiniano,  al  Perez,  a  Giulio  Patio4  e  ad 
alcuni  pochi  autori  che  con  particolari  note  e  sposizioni  le  illustra- 
vano, che  a'  scritti  del  maestro,  avea  acquistata  conoscenza  tale, 
che  PAulisio  stesso  riputò  che  fosse  bastante  per  i  primi  rudimenti 
e  per  esser  capace  d'intendere  i  trattati  che  e5  insegnava  nel  pub- 
blico: sicché  mi  consigliò,  senza  altro  maestro,  di  non  tralasciare  lo 
studio  sopra  le  Istituzioni  di  Giustiniano,  colPaiuto  di  quo'  sposi- 
tori,5  a*  quali  volle  che  io  ne  aggiungessi  un  altro,  che  e'  riputava 
migliore  di  tutti,  e  questi  fu  Arnoldo  Vinnio,  celebre  professore 
ollandese,  il  quale,  oltre  le  note,  avea  con  dotti,  utili  ed  accurati 
Commentari  illustrate  le  Istituzioni  di  Giustiniano;6  soggiungen- 
domi che  questi  dovessero  essere  i  miei  studi  della  mattina.  11 
doppo  desinare,  avendo  egli  la  lezione  vespertina,  che  andassi  da 
lui  ad  apprendere  ne*  pubblici  studi  i  suoi  trattati,  con  trascrivergli, 
sicome  è  Puso  di  quella  Università,  e  sentirne  la  sposizione;  e  sopra 
tutto  di  venir  poi  da  lui,  o  in  casa  sua,  ovvero,  dopo  la  lezione,  in 
quella  mezz'ora  che  sono  i  lettori  obligati  trattenersi  per  risolvere 


i.  istituzioni:  istituzioni  d'erede;  fideconmtisi:  fedecommessi.  z.  ah-ittte~> 
stato:  prive  di  testamento.  3.  La  seconda  parte  del  Digesto,  pervenutaci 
nel  testo  detto  Littera  Bononiensìs>  0  vulgata,  venne  rinforzata,  cioè  aumen- 
tata, con  la  restituzione  di  un  frammento  che  era  prima  attaccato  al  Dìge* 
sto  nuovo  costituendone  il  principio.  Da  qui  il  nome  di  inforziate .  4,  An- 
tonio Perez  (1583-1672),  giurista  spagnolo,  professore  destituzioni  all'Uni- 
versità di  Lovanìo,  fu  nominato  consigliere  del  re  di  Spagna.  Lasciò  nu- 
merose opere  di  commento  al  codice  giustinianeo;  Giulio  Pace,  latino 
Pacius  (1550-X635),  giureconsulto,  filologo  e  filosofo  vicentino,  si  converti 
al  protestantesimo  e  insegnò  diritto  a  Heidelberg.  Scrisse  numerose  opere 
di  diritto  civile  e  curò  un'edizione  del  Corpus  iuris  civilis*  Suo  è  anche  un 
trattato  filo-veneziano,  De  dominio  Maris  Adriatici  5.  spettori;  esposito- 
ri, commentatori.  6.  questi. . .  Giustiniano:  Arnold  Vinnen,  latino  Vin- 
nius  (1588-1657),  fu  tra  i  più  famosi  giureconsulti  del  suo  tempo,  rettore 
del  Collegio  di  umanità  all'Università  dell'Aia  dal  1619  al  1633,  quindi 
professore  di  Digesto  a  Leida.  Qui  il  Giannone  fa  riferimento  al  6W- 
mentarius  in  quattuor  libros  Instituttonum  impmalixm,  Amstaelodami  1642* 
e  all'opera  Institutiones  Imtiniani  cum  notis,  Amstaelodami  XÓ46. 


CAPITOLO   SECONDO  21 

a'  scolari  le  difficoltà  che  l'occorrono,  a  communicarli  i  dubbi  ed 
a  ricercarlo  di  quanto  mi  bisognava  per  maggior  intelligenza  delle 
cose  lette  o  scritte,  o  nella  cattedra  esposte. 

Eseguii  con  accuratezza  quanto  m'impose:  lasciai  con  urbane 
maniere  il  primo  maestro,  mi  providi  delle  Note  e  Commentari  di 
Vinnio,  ed  andai  ad  apprender  da  lui  i  trattati  che  leggeva  nel  pub- 
blico, non  tralasciando,  doppo  la  lezione,  in  quella  mezza  ora,  di 
comunicargli  i  miei  dubbi  e  dimandargli  più  cose  per  maggior 
mia  istruzione  e  lume;  il  che  egli  faceva  con  tanta  cordialità  ed  af- 
fezione che  sovente,  finito  il  tempo  ma  non  già  il  mio  dimandare, 
per  non  lasciarmi  in  secco1  conducevami  seco  a  sua  casa  ed  io 
aveva  il  vantaggio,  seguitandolo  nel  lungo  cammino  fino  che  vi 
giungesse,  di  istruirmi  delle  più  rare  e  pellegrine  erudizioni  e,  so- 
pra tutto,  della  maniera  che  dovea  io  tenere  in  regolare  i  miei  stu- 
di. Egli  fu  che  m'inculcò  lo  studio  dell'istoria  romana,  dicendomi 
che  quanto  era  nelle  Pandette  di  Giustiniano,  nel  suo  Codice  e 
Novelle?  non  potea  esattamente  intendersi,  se  non  si  sapeva  l'istoria 
romana  e  le  varie  vicende  di  quell'Imperio:  che  i  responsi  di  que' 
giurisconsulti,  onde  Giustiniano  avea  composte  le  sue  Pandette,  e 
le  costituzioni  de'  principi,  onde  s'eran  compilati  più  codici  e 
fatte  più  raccolte  delle  novelle  loro  costituzioni,  non  potevan  ben 
capirsi,  se  non  si  sapevano  le  occasioni  perché  furon  date  o  stabi- 
lite, i  costumi  di  que'  tempi  e  la  costituzione  d'allora  d'Italia  e 
delle  province  che  componevano  l'Imperio  romano,  molto  di- 
versa e  tutto  altra  di  quella  che  presentemente  abbiamo.  Biso- 
gnava per  ciò  allo  studio  delle  leggi  accoppiare  la  cognizione  del- 
l'istoria romana,  fin  dal  principio  che  surse  quell'Imperio  e  si 
distese  nelle  tre  parti  del  mondo  allor  conosciuto  ;  e  per  poter  con 
metodo  apprenderla  era  mestieri  cominciare  dall'Istoria  di  Tito 
Livio;  e  per  supplire  la  mancanza  de'  suoi  libri,  de'  quali,  o  per 
negligenza  degli  uomini,  o  per  ingiuria  del  tempo,  oggi  siamo  privi,3 

i .  per  non  lasciarmi  in  secco  :  per  non  abbandonarmi.  2.  Pandette . . .  Novel- 
le; la  legislazione  giustinianea  rappresentò  l'unificazione  legislativa  dell'Im- 
pero, con  la  stesura  di  un  nuovo  codice  (7  aprile  529  dell'Era  volgare).  Suc- 
cessivamente l'imperatore  ordinò  la  raccolta  di  citazioni  dalle  opere  dei 
giuristi,  preponendo  a  quest'opera  un'apposita  commissione.  L'opera,  pub- 
blicata nel  533,  venne  detta  Digesta  o  Pandectae.  Le  Novellae  Institutiones, 
invece,  raccolgono  a  parte  tutte  le  costituzioni  emanate  da  Giustiniano 
dal  535  sino  alla  morte  e  sono,  naturalmente,  opera  posteriore  al  suo  regno. 
3.  la  mancanza .  .  .privi:  su  centoquarantadue  libri,  quanti  ne  compone- 
vano l'opera  liviana,  ne  sono  giunti  soltanto  i  primi  dieci  e  il  gruppo  dal 


22  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

bisognava  ricorrere  ad  altri  antichi  scrittori  romani  o  greci,  che 
trattarono  delle  cose  romane,  per  avere  un'accurata  notizia  della 
costituzione  di  quell'Imperio  fino  a'  tempi  di  Ottavio  Augusto;  ed 
in  cotal  maniera,  si  avrà  una  chiara  e  distinta  notizia  dell'antica 
giurisprudenza  romana.  Questa  poi,  sotto  Augusto  e  gli  altri  impe- 
radori  suoi  successori,  fino  all'imperadore  Costantino  Magno,  prese 
altro  aspetto  e  varie  forme;  e  questo  stato  dell'Imperio  esser  quello 
che  si  comprende  nelle  Pandette  e  nelle  costituzioni  di  que'  principi, 
i  quali  a  Costantino  precedettero,  le  quali  formano  un'altra  giu- 
risprudenza, che  potrà  chiamarsi  media,  come  posta  nel  mezzo  tra 
l'antica  e  Vinfima,  che  comincia  da  Costantino  e  finisce  colla  do- 
struzione  dell'Imperio  romano.  E  per  apprendere  questo  stato  di 
mezzo,  non  mancavano  altri  scrittori,  non  meno  romani  che  greci, 
anzi  che  soprabbondavano,  sicome  sotto  gli  imperadori  Vespasiano, 
Tito,  Nerva,  Traiano  ed  altri  fiorirono  i  due  Plinii,  Svetonio  Tran- 
quillo, Cornelio  Tacito,  Dione1  e  tanti  altri  scrittori  delle  cose  ro- 
mane di  que'  tempi,  de'  quali  io  poteva  aver  notizia  dalle  varie  Rac- 
colte, che  si  erano  a'  nostri  tempi  compilate.  A'  quali,  per  ciò  che 
riguarda  la  giurisprudenza,  poteva  io  aggiungere  i  moderni,  che 
con  indefessa  ed  instancabile  applicazione  aveano  da'  volumi  de' 
scrittori  romani  compilati  particolari  trattati  dell'origine  e  cangia- 
menti delle  loro  leggi,  plebisciti,  e  senatusconsulti,*  de'  magistrati, 
forinole  e  giudici,  delle  condizioni  delle  città  e  province  romane,  ed 
infino  a  tessere  particolari  vite  di  que'  giurisconsulti  e  delle  loro 
scuole  e  sette,  de'  quali  Giustiniano,  nelle  sue  Pandette,  ci  conservò 
i  nomi  ed  in  gran  parte  le  opere.  Fra  questi  moderni  scrittori,  per- 
ché mi  si  fosse  reso  il  cammino  meno  duro  ed  alpestre,  mi  additò 
Carlo  Sigonio,  Barnaba  Brissonio,  spezialmente  nelle  sue  Formale, 
Antonio  Agostino,  Ritersuzio3  ed  alquanti  altri. 

ventunesimo  al  quarantacìnquesimo,  più  alcuni  frammenti  e  i  sommari 
(periochae)  dei  rimanenti,  i.  Dione  Cassio  Cocceiano  (prima  del  163  K. 
v.-dopo  il  329),  originario  della  Bitinia,  scrisse  una  Storta  romana  in  ot- 
tanta libri,  di  cui  restano  soltanto  venticinque,  z,  senatusconsultl:  i  pareri 
espressi  dal  Senato  romano,  su  problemi  sottopostigli  dal  magistrato  che  lo 
convocava  e  presiedeva.  Avevano  carattere  consultivo,  ma  di  fatto  erano 
vincolanti  per  chi  li  aveva  sollecitati.  Nella  teoria  delle  fonti  del  diritto  il 
senatusconsultum  indica  quelle  decisioni  del  Senato  che  introducevano  nuo- 
ve norme  giuridiche.  3.  Carlo  Sigonio  (1520  circa-i^),  storico  modenese» 
professore  a  Venezia,  a  Padova  0  a  Bologna,  fu  autore  al  quale  guardarono  i 
giurisdizionalisti  del  Settecento,  contrapponendo  la  sua  storia  «civile»  De 
Regno  Italìae  all'annalistica  ecclesiastica  di  Cesare  Baronio  ;  Barnabé  Bris- 
son  (1531-1501)  fu  presidente  del  Parlamento  di  Parigi  durante  le  guerre 


CAPITOLO   SECONDO  23 

Ma  ciocché  egli  riputava  impresa  più  difficile,  piena  di  travagli 
o  di  fatiche,  sicome  io  in  processo  di  tempo  sperimentai,  era  il  di- 
strigarmi dagl'inviluppi,  ne*  quali  m'avrebbe  condotto  il  desiderio 
di  sapere  l'infima  e  bassa  giurisprudenza  da  Costantino  Magno, 
Teodosio  e  Giustiniano  fino  alla  decadenza  dell'Imperio  non  meno 
di  Occidente  che  di  Oriente  :  «  hoc  opus,  »  egli  mi  diceva,  «  hic  la- 
bor  ».x  I  lunghi  suoi  studi  ed  ostinate  fatiche  sofferte  nelle  cognizio- 
ni dell'istorie,  scienze  ed  erudizioni  greche  e  latine,  e  l'avere  stan- 
chi2 non  men  gli  uni  che  gli  altri  antichi  scrittori  e  quanto  i  moder- 
ni vi  aveano  sopra  qui  travagliato  intorno,  infino  a  sazietà  e  noia; 
ed  all'incontro  il  vedere  che  pochi  si  eran  applicati  a'  studi  di  que- 
st'infima e  bassa  età,  riputandola  barbara  ed  incolta,  facea  ch'egli 
riponesse  fra  le  cose  più  ardue  l'intraprendergli,  cosi  che  di  somma 
gloria  sarebbe  riuscito  a  chi  gli  tentasse  e  procurasse  di  venirne 
a  capo.  Quanti  scrittori,  e'  dicea,  noi  abbiamo,  che  han  travagliato 
sopra  la  giurisprudenza  antica  e  media  romana?  e  pure  quasi  tutti 
furon  contenti  di  fermarsi  a  Costantino,  sdegnando,  secondo  che  si 
avanzavano  ne'  tempi  incolti  e  barbari,  di  proseguire  più  oltre  le 
loro  ricerche,  poco  curando  di  questa  infima  e  bassa  giurisprudenza  I 
Non  era  tanto  la  barbarie  che,  più  inoltrandosi,  incontravano,  che 
gli  sgomentava,  quanto  l'immensa  e  noiosa  fatica,  che  dovean  so- 
stenere fra  quei  incolti  e  rozzi  scrittori  d'andarla  rintracciando  e 
metterla  in  più  chiara  luce. 

Per  isporrc  con  esattezza  le  costituzioni  non  men  numerose  che 
ampie  e  verbose  degli  imperadori  -  le  quali,  da  Costantino  Magno 
fino  a  Teodosio  il  Giovane  e  Valentiniano  III,3  furon  racchiuse 
nel  Codice  teodosiano,  e  le  altre  proprie  che  poi  vi  aggiunse  l'impe- 
dì religione  ;  moderato  partigiano  dei  Guisa,  venne  impiccato  per  non  aver 
secondato  i  voleri  della  Lega.  La  sua  opera  maggiore,  qui  ricordata,  è  il  De 
formulis  et  sollemnibus  populi  romani  verbis  libri  Vili,  Parisiis  1583;  An- 
tonio Agustin  y  Agustin  (1517-1586)  fu  un  celebre  canonista,  antiquario  e 
numismatico  spagnolo,  vescovo  di  Tarragona.  Appartenne  alla  Compagnia 
di  Gesti,  e  fu  tra  i  padri  del  Concilio  di  Trento;  Konrad  Rittershausen 
(1560-1 6 13),  giurista  e  filologo  tedesco,  fu  professore  di  Istituzioni  ad 
Altdorf,  Pubblicò  numerose  opere  a  commento  delle  Istituzioni  giusti- 
nianee. 1.  «hoc . . .  labore:  cfr.  Virgilio,  Aen.t  vi,  129  («questa  l'impresa, 
questa  la  fatica»).  2.  avere  stanchi:  aver  letti  lungamente  e  più  volte,  sino 
a  renderli  consunti.  3.  Teodosio  II,  z/  Giovane  (401-450  dell'Era  volga- 
re), figlio  di  Arcadio,  fu  imperatore  d'Oriente.  A  lui  si  deve  la  prima  gran- 
de raccolta  delle  costituzioni  imperiali,  da  Costantino  in  poi,  fatta  appron- 
tare nel  438  e  che  da  lui  prese  il  nome  di  Codex  Theodosianus;  Valenti- 
niano III  fu  imperatore  d'Occidente  dal  425  al  455. 


24  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

radore  Giustiniano  nel  suo  Codice:  faceva  mestieri  di  rivolgere  gli 
scrittori  di  que*  tempi  bassi,  la  lezione  de'  quali,  a  chi  era  avvezzo 
a  gli  antichi  Romani,  certamente  che  riusciva  ristucchevolc  e  pe- 
nosa. Dovcan  ricercarsi  le  opere  che  ci  lasciarono  Latino  Pacato, 
Mamertino,  Nazario,  Eumenio,  Eunapio,  Ausonio,  Claudiano,  Am- 
miano  Marcellino,  Libanio,  Sidonio  Apollinare,  Orosio,  Giornan- 
des,  Procopio,  Filostorgio1  e  tanti  altri,  da'  quali  si  apprende  la  co- 
stituzione e  forma  dell'Imperio  di  que'  secoli,  per  capire  con  di- 
stinzione e  chiarezza  le  leggi  e  costituzioni  di  que'  principi.  Insigne 
documento  ne  lasciò  a  noi  l'incomparabile  Giacopo  Gotofrcdo,  il 
quale  può  dirsi  il  primo  che  s'incaminasse  per  questo  duro  e  di- 
sagevol  calle  ne*  suoi  laboriosi  e  stupendi  Commentari  sopra  il  Co- 
dice teodosiano.  Non  ebbe  il  piacere  di  sopravivcre  a  questa  im- 
mortale sua  opera,  lasciandola  non  compita,  avendogli  la  morte  im- 
pedito di  poterci  porre  l'ultima  mano,  né  si  è  trovato  chi  dapoi  la 
riducesse  nell'ultimo  punto  di  sua  perfezione.2 

L'Aulisio,  come  peritissimo  antiquario,  solea  perciò  farmi  un 
paragone  tra  questi  giurisconsulti,  che  sdegnano  l'infima  e  bassa 
giurisprudenza,  e  gli  antiquari  de'  nostri  tempi:  questi  han  fatto 
ricerche  stupende  sopra  le  medaglie  e  monete  antichissime  de*  Greci 

I.  Latinio  Drepanio  Pacato  fu  un  retore  nativo  delle  Gallio,  vissuto  nel  IV 
secolo  dell'Era  volgare;  Claudio  Mamertino  altro  retore,  questo  latino,  vis- 
suto nello  stesso  periodo  ;  lo  stesso  dicasi  per  'Nazario  ;  Eumenio,  di  origine 
greca,  ma  romano,  visse  a  cavallo  tra  il  III  e  il  IV  secolo;  Eunapio  fu  uno 
storico  greco,  vissuto  tra  il  345  circa  e  il  420;  Decimo  Magno  Ausonio  fu 
un  poeta  latino  del  IV  secolo,  maestro  di  Paolino  da  Nola;  Claudio  Clau- 
diano, anch'egli  poeta,  visse  a  cavallo  tra  il  IV  e  il  V  secolo;  Affittuario 
Marcellino:  storico  romano  del  IV  secolo  (nato  nel  330  circa),  autore  di  una 
storia  in  trentadue  libri,  che  abbraccia  il  periodo  da  Ncrva  a  Valente 
(96-378),  proseguendo  la  trattazione  tacitiana;  Libanio  (3x4-393)  fu  un 
retore  greco;  Sidonio  Apollinare  (431  circa-487),  vescovo  di  Arverna, 
santificato,  di  origine  gallo-romana,  ha  lasciato  carmi  e  lettere  che  sono 
buona  fonte  per  la  storia  del  suo  periodo;  Paolo  Orosio  fu  un  erudito  e 
visse  tra  il  IV  e  il  V  secolo  ;  Giordane  fu  uno  storico  dei  Goti,  vissuto  nel 
VI  secolo,  autore  di  una  storia  De  origine  actibusque  Getarum  ricalcata  sulla 
perduta  storia  di  Cassiodoro;  Procopio  di  Cesarea  (morto  nel  565  circa), 
greco,  scrisse  tra  l'altro  una  Storia  delle  guerre  in  cui  trattò  le  lotte  dei 
Romani  con  i  Persiani,  i  Vandali,  i  Goti,  conducendo  la  narrazione  sino 
all'età  giustinianea  (554);  Filostorgio  (368  circa  -  morto  dopo  il  43  3 ) ,  origi- 
nario della  Cappadocia,  scrisse  una  Historia  ecclesiastica  in  dodici  libri» 
proseguendo  quella  eusebiana,  e  conduccndola  sino  al  425.  2.  Giacopo  . . . 
perfezione:  Jacques  Godefroy  (1587-1652)  fu  professore  di  diritto  a  Gi- 
nevra; l'opera,  citata  dal  Giannone,  fu  edita  da  Antoine  Marvill:  Code» 
theodosianus  cum  perpetuis  commentariis  J.  Gothofredi. . .  opus  posthumum .  ♦ . 
recognitum . . .  opera  et  studio  Antonii  Marmila,  Lugduni  1665,  in  sei  tomi. 


CAPITOLO   SECONDO  25 

e  de'  Romani  ;  intendono  a  maraviglia  le  monete  che  si  sono  trovate, 
e  tuttavia  si  scavano,  de'  popoli  antichi  dell'Asia  e  della  Grecia  e 
di  altre  città  greche  d'Italia;  sanno  le  romane,  quali  fossero  le  con- 
sulari  e  le  tribunizie,  quali  degli  imperadori,  e  tutto  ciò  che  si 
appartiene  alle  più  remote  e  recondite  antichità;  ma,  avvicinandosi 
poi  a'  tempi  bassi  e  meno  a  noi  remoti,  sono  muti  ed  affatto  ignari; 
e  se  bene  negli  ultimi  tempi  alcuni  abbiano  intrapresa  una  tal  ri- 
cerca, sicome  il  Paruta,  il  Bandurio1  e  pochissimi  altri;  con  tutto 
ciò  rimane  ancora  questa  parte  mancante  e  difettosa,  poiché  tutti 
si  applicano  alP antiche  greche  o  romane  e  lasciano  quelle  de*  bassi 
tempi,  sicché  fin  ora  non  han  potuto  mostrare  niuna  delle  monete 
de'  re  longobardi,  i  quali,  per  lo  spazio  poco  meno  di  ducento  anni, 
ressero  l'Italia  avendo  Pavia  per  loro  sede  regia.  E  pure,  lo  studio 
e  conoscenza  di  questi  tempi  bassi  dovrebbe  essere  a  noi  la  più 
utile,  anzi  necessaria,  poiché  ha  maggiore  rapporto  a'  nostri  ultimi 
tempi  ed  alla  presente  costituzione  di  Europa  ed  a'  nuovi  domìni  in 
essa  stabiliti,  doppo  la  decadenza  del  romano  Imperio. 

Questi  discorsi,  che  sovente  soleva  replicarmi,  impressero  nel 
mio  animo  idee  conformi,  sicché  di  proposito,  secondo  il  metodo 
prescrittomi,  cominciai  a  mescolare  a'  studi  legali  l'istoria  romana, 
principiando  da  quella  di  Tito  Livio  e  proseguendo  di  passo  in  pas- 
so, secondo  la  cronologia  de'  tempi,  la  lettura  degli  altri  seguenti 
romani  scrittori.  E  su  '1  fatto,  conoscendo  che  non  ben  potea  capir 
Livio  senza  il  soccorso  della  geografia,  per  sapere  con  distinzione  i 
paesi  ove  dimoravano  tanti  popoli  de'  quali,  a  que'  tempi,  l'Italia 
si  componeva,  ed  il  sito  delle  province  delle  Gallie,  della  Spagna  e 
dell'Africa,  e  molto  più  della  Grecia,  Macedonia,  Illirico  e  dell'al- 
tre più  remote  dell'Asia,  della  Siria  e  dell'Egitto,  sopra  le  quali 
l'Imperio  romano  distese  le  vittoriose  sue  armi:  procurai  d'aggiun- 
gere all'istoria  la  geografia  antica,  apprendendola  da  Tolomeo,  se- 
condo le  tavole  ed  esposizioni  del  Magino,2  poiché  la  notizia  della 


i,  Filippo  Paruta  (1550  circa- 1629),  numismatico  siciliano,  autore  di  un'im- 
portante raccolta  Della  Sicilia  . .  .  descritta  con  medaglie,  Palermo  16 12.  Su 
di  lui  cfr.  A.  Mongitore,  Bibliotheca  Sicula,  11,  Panormi  1714,  pp.  173-6; 
il  Bandurio:  Anselmo  Banduri  (1670-1743),  ragusano,  archeologo  benedet- 
tino, autore  di  un'opera  dal  titolo  Numismata  imperatorum  romanorum  a 
Traiano  Decio  ad  Palaeologos  Augustos,  Lutetiae  Parisiorum  171 8.  2.  To- 
lomeo .  .  .  Magino:  dell'Introduzione  geografica  di  Claudio  Tolomeo  (100 
circa  dell'Era  volgare- 178)  fu  redatta  una  prima  edizione  latina  (Venetiis 
1596;  ma  cfr.  anche  la  postuma  Geografia,  cioè  descrittone  universale  della 


20  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

geografia  di  Mela  e  di  Straberne1  e  degli  altri  più  esatti  geografi 
moderni  mi  giunse  molto  tardi.  Ma  tutti  questi  studi  io  non  l'avca 
come  fine,  ma  Pindrizzava  come  efficaci  mezzi  per  intendere  le  ori- 
gini ed  i  cangiamenti  dell'Imperio  romano  e  come,  poi  minato,  fos- 
sero surti  tanti  nuovi  domìni,  tante  nuove  leggi,  nuovi  costumi  e 
nuovi  regni  e  repubbliche  in  Europa. 

Per  quattro  anni  continui,  dopo  avere  appreso  nel  miglior  modo 
che  potei  i  primi  rudimenti  della  giurisprudenza  romana,  continuai 
queste  fatiche  sopra  tali  autori  e  sopra  le  Pandette  di  Giustiniano, 
le  di  cui  leggi,  secondo  che  dali'Aulisio  ne1  quattro  suoi  trattati  si 
allegavano,  io  diligentemente  osservava,  onde  sovente  mi  occorreva 
volgerle  e  rivolgerle;  e  sentendo  spesso  da  lui  alligare  Giacomo 
Cuiacio  di  cui,  sopra  tutti  gli  altri  spositori  delle  Pandette,  lacca 
molta  stima,  io  che  non  avea  allor  modo  di  comprarmi  le  sue  opere, 
che  le  credea  molto  rare  e  di  gran  valore,  ebbi  la  sorte  che  un  mio 
amico,  che  avea  le  opere  priori?  me  le  prestasse.  Sicché  posi  ogni 
mio  studio  sopra  di  quelle  e  per  sei  mesi  continui  non  feci  altro, 
secondo  che  m'incontrava  ne'  commentari  di  qualche  legge  o  titolo 
specioso,  di  trascrivergli,  e,  sopra  tutto,  mi  trascrissi  interamente 
molte  Osservazioni  di  quell'opera  veramente  divina,  che  mi  sem- 
bravano incomparabili  e  stupende.  Ma  quando  vidi  che,  oltre  la 
giurisprudenza  romana,  questo  maraviglioso  ingegno  si  era  invo- 
gliato di  commentare  anche  i  libri  de'  feudi,  ch'egli,  per  dargli 
miglior  disposizione  ed  ordine,  avea  divisi  in  cinque  libri,3  e  che, 
quando  gli  altri  sdegnando  questi  studi  come  creduti  barbari,  egli 
vi  avea  impiegati  i  suoi  alti  e  sublimi  talenti,  mi  rallegrai  tutto  e 
n'ebbi  sommo  piacere  e  compiacimento;  così  perché  conobbi,  per 
un  esempio  si  illustre,  che  tali  studi  non  erano  da  disprezzati, 
come  anche  perché  maggiormente  mi  confermai  nel  concetto  col 

terra,  Padova  1621)  dall'astronomo,  geografo  e  matematico  patavino  Gio- 
vanni Antonio  Magini  (1555-1617).  1.  Pomponio  Mela  fu  un  geografo 
latino  vissuto  nel  I  secolo  dell'Era  volgare;  su  Strabene  cfr.  hi  nota  3  a 
p>  204.  2.  Giacomo  . .  .  priori:  Jacques  Cujas,  latino  Cuiacius  (1532-1500), 
giureconsulto  francese,  raccolse  nel  1577  parie  delle  sue  opere  in  un'edi- 
zione che  era  divenuta  assai  rara  già  al  tempo  del  Giannone,  il  quale  si 
riferisce  qui  agli  Opera  omnia  in  decem  tomos  distributa.  Quibus  contìnentur 
tam  priora,  sive  quae  ipse  superstes  edi  curavit;  gitani  postcriora,  sivt  yuan 
post  obitum  eius  edita  sunt,  vel  nunc  primum  prodeunt . ,  ,  opera  et  cura  Ca- 
roli Annibalis  Fabroti>  Lutetiac  Parisiorum  1658.  3.  cinque  libri:  cfr.  De 
feudis  libri  quinque,  et  in  eos  commentarti.  Sono  editi  negli  Opera  omnia  .  .  . 
quae  de  iurejecit .  . .  ab  ipso  auctore  disposita  et  recognita,  IV,  Pariaiis  1577. 
Fanno  parte,  perciò,  degli  opera  priora* 


CAPITOLO    SECONDO  27 

quale  intrapresi  i  precedenti,  che  doveano  servirmi  come  mezzi  per 
discendere  ne'  studi  de'  tempi  bassi,  i  quali  riputai  sempre  i  più 
utili  e  necessari,  come  quelli  che  aveano  maggior  rapporto  allo  stato 
presente  di  Europa  ed  alla  costituzione  de'  regni  e  nuovi  domìni 
in  essa  stabiliti.  Preso  adunque  da  tal  amore  cominciai  attentamente 
a  leggergli;  e  credendo  che,  dovendo  restituirgli  al  padrone  che  me 
l'aveva  prestati,  io  sarei  rimaso  senza  questo  per  me  inestimabile 
tesoro,  immaginandomi  che  altronde  non  avrei  potuto  avergli, 
presi  sollecitamente  a  trascrivere  tutti  i  cinque  libri  de'  feudi,  per 
avergli  sempre  meco  manuscritti,  se  non  poteva  avergli  impressi; 
sopra  i  quali,  secondo  che  andava  acquistando  maggior  conoscenza, 
andava  aggiungendo  altre  note  e  nuove  riflessioni,  accommodate  a 
gli  usi  de'  feudi  del  regno  di  Napoli. 

Ma  poiché  in  Napoli  chi  aspira  al  dottorato  deve  insieme  pren- 
dere il  grado  di  dottore  del  ius  civile  e  della  legge  canonica,1  e  per 
ciò  i  candidati  devono  essere  istrutti  non  men  dell'una  che  dell'altra 
legge,  insegnandosi  nell'Università  de'  studi  e  nelle  case  de'  lettori 
le  Istituzioni  di  Giustiniano  per  la  civile  e  quelle  di  Lancellotto 
per  la  canonica,  quindi  mi  convenne  applicare  anche  i  miei  studi 
sopra  la  medesima.  Alla  quale  incamminandomi  per  le  volgari  e  trite 
vie,  m'incontrava  in  maggiori  oscurità  e  tenebre;  e  se  bene  dal  pri- 
mo mio  maestro  avessi  appreso  le  Istituzioni  di  Lancellotto  di  ius 
canonico,  ne  sapeva  molto  meno  che  prima.  Sentiva  parlare  del 
Decreto  di  Graziano  e  delle  Decretali,2,  dove  questo  nuovo  diritto 
era  compreso,  ma  non  sapeva  donde  e  come  nel  mondo  fosse  ve- 
nuto. La  ricerca  delle  quali  cose  io  con  ardore  cominciai  ad  intra- 
prendere, perché  era  uno  studio  che  si  apparteneva  all'infima  e 
bassa  età,  per  rischiaramento  della  quale  io  avea  incaminato  tutti  i 
miei  precedenti  studi.  E  poiché,  intanto,  avea  acquistata  più  stretta 
familiarità  ed  amicizia  colPAulisio,  nelP accompagnarlo  che  io  fa- 
ceva in  sua  casa  dopo  terminata  la  lezione  nel  pubblico,  spesso  gli 
domandava  della  maniera  e  metodo  che  io  dovessi  tenere,  per  bene 

1.  il  grado  .  . .  canonica:  cioè  la  laurea,  come  allora  dicevasi,  in  utroque. 

2.  Il  Decretum  Gratiani,  come  più  comunemente  fu  detta  una  raccolta  do- 
vuta al  monaco  camaldolese  Graziano  da  Chiusi  (morto  avanti  il  1179),  in- 
segnante di  diritto  a  Bologna,  è  una  vasta  compilazione  di  canoni,  ordinati 
per  materia  e  seguiti  da  spiegazioni  (i  dieta  Gratiani,  o  glosse),  che  tendeva 
a  dare  una  regolamentazione  giuridica  a  rapporti  e  negozi  in  materia  di 
fede.  Le  Decretales  sono  le  costituzioni  pontificie,  redatte  in  forma  di  let- 
tera (litterae  decretales).  Assieme  al  Decretum  concorrono  a  formare  il  Cor- 
pus iuris  canonici* 


28  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

apprendere  il  diritto  canonico  ;  ed  egli,  non  mcn  di  ciò  che  uvea  fat- 
to per  lo  civile,  mi  diede  lumi  bastanti  per  nettamente  capirlo  e  mi 
suggerì  regole  piane  e  semplici,  per  isfuggire  le  tante  vane  ed  inutili 
quistioni,  onde  i  moderni  scrittori  romani  canonisti  Pavcano  guasto 
ed  inviluppato.  Da'  savi  suoi  discorsi  compresi  più  verità  a  me  fin 
allora  ignote,  le  quali,  poi,  col  tempo,  mi  fecero  accorto  di  molte 
altre,  che  successivamente  andai  scoprendo. 

Compresi  che,  sicome  per  lo  studio  della  legge  civile  l'istoria 
romana,  così  per  la  canonica  era  necessaria  ristoria  ecclesiastica. 
Da  questa  avrei  io  avuta  bastante  conoscenza  donde  fusse  sorto 
questo  nuovo  diritto,  donde  venisse  la  compilazione  del  Decreto  e 
delle  Decretali,  e  l'uso  che  si  ebbe  di  queste  nuove  altre  compila- 
zioni in  Europa  fatte.  Da'  miei  precedenti  studi  nell'istoria  e  giu- 
risprudenza romana  avea  già  compreso  che  gli  antichi  Romani  del 
loro  ius  pontificio  non  ne  facevano  corpo  a  parte,  ma  l'univano  in- 
sieme col  pubblico,  del  quale  era  una  minima  parte,  non  essendo 
cotanto  multiplice  ed  operoso,  restringendosi  solamente  alle  loro 
cose  sacre  e  religiose,  alla  norma  del  legittimo  culto  de'  loro  dii, 
ed  a'  loro  riti  e  celesti  cerimonie;  laonde  questo  nuovo  diritto  ca- 
nonico dovea  riguardarsi  come  tutto  altro  e  molto  diverso  e  diffe- 
rente. Ebbi  estremo  contento  in  conoscere  che,  per  saperne  i  suoi 
princìpi  ed  origini,  non  dovea  ricorrersi  a*  tempi  molto  lontani; 
anzi  che  venivano  a  cadere  giustamente  ne'  tempi  dell'impera- 
dore  Costantino  Magno,  donde  pure  cominciava  la  nuova  e  bassa 
giurisprudenza  romana.  Il  quale,  essendo  stato  il  primo  impcradore 
che,  tolto  ogni  divieto,  permise  nell'Imperio  che  la  religione  cri- 
stiana potesse  abbracciarsi  e  pubblicamente  da  tutti  professarsi, 
sicome  da  lui  cominciò  per  le  nuove  leggi  hi  nuova  giurisprudenza, 
così,  per  ciò  che  riguarda  il  ius  pontificio,  da  lui  prese  nuova  forma 
ed  aspetto,  e  si  diede  origine  a  tanti  altri  strani  e  mostruosi  can- 
giamenti, onde  fosse  surto  questo  nuovo  diritto  canonico;  sicché 
io  nel  tempo  istcsso  poteva,  con  passo  uguale,  proseguire  i  miei 
studi  per  la  conoscenza  non  mcn  dell'una  che  dell'altra;  ed  avendo 
con  tal  metodo  e  con  tal  antivedere  proseguito  ad  apprenderlo,  co- 
nobbi che  ne'  princìpi  nonché  doppo  che  fu  ricevuta  nell'Imperio 
la  religione  cristiana,  questo  dritto  non  faceva  corpo  a  parte,  ma 
dagli  imperadori  cristiani  era  stato  rinchiuso  ne'  loro  Codici  e  nello 
compilazioni  delle  loro  Novelle;  e  la  ragione  era,  sicome  conobbi 
dapoi,  perché  Costantino  Magno  volle  egli  prender  cura  dell'oste- 


CAPITOLO    SECONDO  2C; 

rior  politia1  e  governo  della  Chiesa,  dichiarandosi  che,  sicome  i 
vescovi  n'erano  ispettori  per  ciò  che  riguarda  l'interno,  la  predica- 
zione del  Vangelo,  la  correzione  de'  costumi,  l'amministrazione  de' 
sacramenti  e  le  altre  cose  sacre  e  religiosi  riti;  cosi  egli  della  Chiesa 
esterna,  che  riguardava  la  nuova  esterior  sua  gerarchia,  acquistata 
dopo  che  fu  ricevuta  nell'Imperio,  la  nuova  forma  e  disposizione 
non  men  delle  cose  temporali  a  lei  appartenenti,  che  delle  persone 
ascritte  al  suo  ministerio:  ne  fosse  egli  capo  ed  ispettore,  e  che, 
sicom'era  capo  dell'Imperio,  cosi  dovea  prender  cura  di  tutto  ciò 
che  dentro  di  quello  era.  E  non  si  movea  allora  dubbio  che  la  Chiesa 
fosse  nell'Imperio  e  non  già  questo  nella  Chiesa,  sicome  i  Padri 
antichi,  e  fra  gli  altri  Ottato  Milevitano,3  ingenuamente  afferma- 
vano; onde  avvenne  che  Costantino  e  gli  altri  imperadori  suoi 
successori,  per  questo  riguardo,  ancorché  cristiani,  ritenessero  fra 
gli  altri  titoli  tramandatogli  da'  loro  predecessori  quello  di  ponte- 
fice massimo,  riguardando  la  religione  gentile,  la  quale,  nell'Impe- 
rio non  mai  proibita,  era  professata  pubblicamente  non  meno  che 
la  cristiana;  e  prendessero  anche  il  titolo  di  episcopus  ad  extra,  ri- 
guardando la  religione  cristiana:  le  quali  due  religioni  erano  pro- 
fessate nell'Imperio,  del  quale  gl'imperadori  erano  capi  e  mode- 
ratori. E  quindi  questo  nuovo  diritto  pontificio  non  dovea  ricer- 
carsi fuori  del  corpo  de'  loro  Codici  e  delle  compilazioni  delle  loro 
Novelle. 

Ciocché  rendeva  evidente  il  Codice  teodosiano,  compilato  per  au- 
torità dell'imperadore  Teodosio  il  Giovane,  ove  sono  racchiuse  le 
costituzioni  de'  principi  cristiani,  da  Costantino  Magno  fino  a' 
suoi  tempi,  il  decimosesto  libro  del  quale  racchiude  le  costituzioni 
a  questo  diritto  appartenenti.  Molto  più  ciò  poneva  in  chiara  luce 
il  Codice  di  Giustiniano  e  le  tante  sue  Novelle  2,  ciò  riguardanti, 
le  altre  compilazioni  greche  seguite  appresso  sotto  gli  altri  impera- 
dori d'Oriente,  suoi  successori,  e  spezialmente  le  tante  Novelle  di 
Lione  il  Sapiente3  e  di  tanti  altri,  per  le  quali  è  manifesto  che 
i  Greci,  per  l'esterna  politia  delle  chiese  dell'Imperio  d'Oriente, 

1.  politia:  ordinamento  politico.  2.  Ottato  Milevitano:  Ottato,  vescovo  di 
Milevi,  in  Numidia,  vissuto  nella  seconda  metà  del  secolo  VI,  santificato. 
Fu  il  primo  polemista  antidonatista,  avanti  Agostino  d'Ippona.  Per  que- 
sta citazione,  tratta  dal  libro  iv  del  De  schismata  Donatistarum,  cfr.  anche 
P.  Giannone,  Del  concubinato  dei  Romani,  in  Opere  postume,  1,  pp.  122  sgg. 
Z.Lione  U  Sapiente:  Leone  VI  (866-911),  detto  il  Filosofo,  imperatore 
d'Oriente. 


30  VITA   DI    PIETRO    GIANNONH 

non  riconoscevano  altro  dritto  canonico,  che  quello  che  da'  regola- 
menti de'  loro  imperadori  era  stato,  per  le  loro  leggi  e  novelle  co- 
stituzioni, stabilito. 

Da  ciò  conobbi  che  in  Occidente  tutt'altro  fosse  seguito  e  che 
l'origine  più  immediata  di  questo  diritto,  che  ora  si  ricava  dal  De- 
creto di  Graziano  e  dalle  Decretali  de'  romani  pontefici,  dovea  in 
Occidente  investigarsi  dopo  la  ruina  di  questo  Imperio,  quando  si 
estinse  nella  persona  di  Augustolo.1  I  di  lui  princìpi  e  progressi  e 
cangiamenti  doveano  apprendersi  dalle  varie  secondarie  vicende 
seguite  doppo,  e  quando  risurse  nella  persona  di  Carlo  Magno,  e 
quando,  estinta  la  maschile  sua  prosapia,  l'Imperio  d'Occidente 
passò  presso  i  Germani;  e  dalle  tante  rivoluzioni  di  cose  seguite, 
spezialmente  in  Italia,  doppo  il  lungo  interregno  deirimpentdoro 
Federico  II,2  e  doppo  tanti  altri  avvenimenti  e  strani  e  portentosi 
cangiamenti  seguiti  in  Europa;  onde,  sicorne  sursero  tanti  nuovi 
domìni  e  nuovi  costumi,  non  dovea  recar  maraviglia,  se  ne  scris- 
sero altri  nuovi  regolamenti  e  nuove  compilazioni  di  diritti,  a  gli 
antichi  affatto  ignoti  e  sconosciuti. 

Dalla  considerazione  delle  quali  cose  compresi  che  molto  più 
rimaneva  di  travaglio  a  chi  intendeva  applicarsi  a'  studi  de'  tempi 
bassi  ed  oscuri,  e  a'  secoli  meno  a  noi  remoti,  pieni  d'ignoranza, 
madre  di  tanti  errori  e  superstizioni,  che  andar  vagando  sopra  le 
vetuste  ed  antiche  romane  memorie.  Ma  nel  tempo  stesso  mi  rin- 
corava col  riflettere  che,  se  bene  quelli  studi  fusser  noiosi  e  pieni 
di  travaglio,  nulladimanco  l'applicarvici  era  più  utile  e  necessario, 
non  solo  per  lo  rapporto  che  aveano  a'  nostri  ultimi  tempi,  per  ben 
intendere  la  presente  costituzione  delle  cose,  ma  perché  il  corso  eli 
tanti  secoli,  quanti  sono  da  Costantino  Magno  fino  a  noi,  uvea  re- 
cate mutazioni  così  stupende,  introdotti  costumi  sì  strani  ed  altre 
cose  portentose,  che  pareva  che  il  genere  umano  istesso  si  fosse 
tutto  cambiato  e  gli  uomini,  fino  nel  pensare,  ne*  loro  discorsi,  ra- 
ziocini e  giudici,  non  pur  ne'  costumi,  fossero  tutto  altro  di  quel  che 

i.  quando  . . .  Augustolo:  cioè  con  la  caduta  di  Roma  e  hi  deposizione  del- 
l'imperatore Romolo  Augusto  (detto  spregiativamente  Augustolo)  da  parte 
di  Odoacrc,  nel  476.  z.  Federico  II  di  HohenstautTen  (x  194-1250),  figlio 
dell'imperatore  Enrico  VI  e  di  Costanza  d'Altavilla,  rimasto  orfano  di  en- 
trambi i  genitori  a  soli  quattro  anni  (1198),  fu  posto  sotto  la  tutela  di  papa 
Innocenzo  III,  mentre  l'impero  restava  in  balla  dei  feudatari.  Il  lun^o 
interregno  si  concluse  solo  dopo  la  battaglia  di  Bouvines  (1214)  contro 
Ottone  di  Brunswick,  e  con  l'incoronazione  a  Roma  nel  xaao. 


CAPITOLO    SECONDO  31 

prima  già  furono.1  Ciocché  io  reputava  dover  tirare  la  curiosità  di 
tutti,  per  conoscere  le  origini,  le  occasioni  e  le  maniere  di  tanti  e 
si  strani  cangiamenti.  E  reputando  che  senza  l'istoria  era  impossi- 
bile venirne  a  capo,  colPoccasione  che,  per  ben  capire  il  diritto 
canonico  dovea  svolgere  gl'istorici  ecclesiastici:  a'  medesimi  ag- 
giunsi i  civili,  sicché,  nel  tempo  stesso,  potessi  ricever  lume  non 
meno  per  le  cose  canoniche  riguardanti  la  Chiesa,  che  per  le  civili 
appartenenti  all'Imperio,  e  per  conoscere  le  origini  ed  occasioni 
delle  tante  altre  nuove  compilazioni  seguite  dapoi,  delle  leggi  lon- 
gobarde, oltre  delle  feudali,  e  delle  tante  altre  raccolte  delle  nostre 
costituzioni  ed  altre  ordinanze,  riti  ed  usi  appartenenti  alle  nostre 
patrie  leggi  ed  alla  presente  costituzione  del  regno  di  Napoli. 

Per  ristoria  ecclesiastica  mi  furono  additati  Eusebio,  Socrate, 
Sozomeno,  Sulpicio  Severo,  Teodoreto,  Zonara*  ed  altri  antichi; 
ma  poiché  in  questa  parte  si  eran  fatti  in  Francia  gran  progressi, 
volli  avere  per  soccorso  i  moderni  e,  sopra  gli  altri,  quella  di  Fleury 
e  di  Tillemont;3  e,  per  ciò  che  riguarda  la  particolar  istoria  delPori- 
gine  e  progressi  del  dritto  canonico,  gran  sollievo  mi  fu  quella  di 
Von  Mastrich  e  di  Doujat,4  che  furono  i  primi  libri  da  me  letti  in- 

1.  il  corso  .  .  .furono:  cfr.  Machiavelli,  Istorie  fiorentine,  1,  5:  «si  potrà .  . . 
facilmente  immaginare  quanto  in  quelli  tempi  patisse  la  Italia  e  l'altre  Pro- 
vincie romane;  le  quali  non  solamente  variorono  il  governo  e  il  principe, 
ma  le  leggi,  i  costumi,  il  modo  del  vivere,  la  religione,  la  lingua,  l'abito,  i 
nomi  ».  2.  Eusebio  (265  circa-340  circa),  vescovo  di  Cesarea,  scrittore  e 
polemista  ecclesiastico,  sostenitore  di  Ario.  Tra  i  suoi  scritti  importano, 
per  la  storia  della  Chiesa,  il  Chronicon  (tradotto  in  latino  e  proseguito  sino 
al  378  da  san  Girolamo)  e  la  Storia  ecclesiastica,  che  giunge  sino  alla  vit- 
toria dell'imperatore  Costantino  su  Licinio  (324);  Socrate  lo  Storico, 
che  prosegui  la  Storia  eusebiana,  vissuto  a  Costantinopoli  nel  IV  secolo; 
Ermia  Sozomeno,  fiorito  sotto  l'imperatore  Teodosio  II,  autore  di  una 
Storia  della  Chiesa,  in  nove  libri,  comprendente  (nel  testo  pervenutoci)  il 
periodo  dal  324  al  425;  Sulpicio  Severo  (360  circa-413  circa)  originario 
dell' Aquitania,  scrisse  un  Chronicon  e  opere  agiografiche;  Teodoreto  (393 
circa-458),  vescovo  di  Ciro  e  sostenitore  di  Nestorio,  scrittore  e  polemista 
ecclesiastico;  Giovanni  Zonara  (morto  nel  11 30  circa),  vissuto  a  corte  a 
Bisanzio,  poi  ritiratosi  in  monastero,  scrisse  un'epitome  storica  dalla  crea- 
zione del  mondo  ai  tempi  di  Alessio  I  (11 18).  3.  Claude  Fleury  (1640- 
1723),  giurista  e  storico  francese,  fu  sostenitore  della  chiesa  gallicana  e  le 
sue  ideo  furono  apertamente  espresse  nella  celebre  Histoire  ecclésiastique, 
uno  dei  testi  più  famosi  della  prima  metà  del  secolo  XVIII;  Louis-Séba- 
stien  Le  Nain  de  Tillemont  (163 7- 1698),  autore  di  una  famosa  Histoire  des 
empereurs  et  des  autres  princes  qui  ont  regné  durant  les  six  premiers  siècles 
de  VÉglise,  e  dei  Mémoires  pour  servir  à  Vhistoire  ecclésiastique  des  sixpremiers 
siècles.  4.  Mastrich  :  Peter  von  Mastricht  (1 630- 1706),  teologo  protestante 
di  Colonia,  insegnò  a  Francoforte  sull'Oder  teologia  ed  ebraico,  quindi  a 


ó*  VJLJLA   DI   PIETRO   GIANNONE 

torno  a  questa  materia.  E  così,  proseguendo  di  passo  in  passo,  se- 
condo l'ordine  e  cronologia  de'  tempi,  andava  avvicinandomi  negli 
istorici  ed  altri  scrittori  non  men  civili  che  ecclesiastici,  di  secoli 
men  remoti  ed  a  noi  più  prossimi  e  vicini  ;  e  poiché  la  tenuità  del 
mio  corto  patrimonio  non  mi  dava  modo  di  poter  comprar  libri  a 
ciò  necessari,  e  per  la  poca  conoscenza  che  avea  allora  di  altri  amici 
non  avea  chi  potesse  prestarmigli,  essendosi  in  Napoli  pochi  anni 
prima,  per  munificenza  del  cardinal  Brancaccio,1  aperta  nel  seggio2 
di  Nido  una  magnifica  e  doviziosa  biblioteca  alla  quale,  oltre  i  libri 
di  due  cardinali  di  quella  non  men  illustre  che  antica  famiglia,3 
l'ultimo  cardinale  avea  lasciati  fondi,  non  solo  per  sostentamento 
del  bibliotecario  e  custodi,  ma  eziandio  per  compra  di  nuovi  libri 
che,  nel  processo  di  tempo,  fossero  stati  impressi  ed  espostala  ad 
uso  e  comodità  del  pubblico,  io  non  tralasciava  spesso  andarci  e 
consumare  in  quella  l'ore  de'  giorni  che  stava  aperta;  e  non  posso 
negare  che  mi  fu  di  molto  aiuto  e  gran  profitto,  non  solo  per  la  co- 
pia de'  libri  che  vi  trovava,  appartenenti  a'  miei  intrapresi  studi, 
ma  per  la  conoscenza  che  ivi  presi  degli  uomini  dotti  e  letterati 
della  città  che  la  frequentavano,  i  saggi  discorsi  de'  quali  maggior- 
mente m'illuminarono;  sicché,  conferendo  io  coll'Aulisio  le  cose  ivi 
lette  ed  intese  e  di  aver  acquistata  notizia  di  soggetti  veramente  de- 
gni d'essere  ascoltati,  mi  solea  dire  che  nella  mia  adolescenza  era 
venuto  in  Napoli  nell'età  dell'oro,  quando  la  sua  avea  dovuto  pas- 
sarla in  quella  di  ferro,  nella  quale  trovò  pochi  o  rari  uomini,  né 
si  pronta  commodità  di  libri  e  d'ogni  genere;  e  ch'egli,  per  poter 
leggere  qualche  buon  libro,  dovea  correre  fino  al  convento  di  San 
Giovanni  a  Carbonara  ed  impetrar  da  quo'  monaci,  per  grazia  e 
favore,  che  lo  facessero  entrare  nella  libraria  lor  lasciata  dal  cardi- 
nal Seripando,4  sicché,  per  breve  ora  potesse  profittare  della  lettura 
di  alcuni  rari  e  dotti  libri. 

Duisbourg  e  a  Utrecht;  Jean  Doujat  (1609-1688),  giureconaulto  e  lettera- 
to francese,  fu  professore  di  diritto  canonico  al  College  Uoyal  e  precettore 
del  Delfino.  1.  Stefano  Brancaccio  (16x8-1683),  creato  cardinale  da  In- 
nocenzo XI  nel  1681.  z.  seggio:  la  sezione  urbana  nella  quale  erano  riu- 
niti i  nobili  napoletani,  in  corrispondenza  della  circoscrizione  (o  quartiere) 
cittadina.  Ma  cfr.  Istoria  civile,  tomo  1,  lib.  1,  cap.  iv,  par.  i,  pp.  15  agg,; 
tomo  in,  lib.  xx,  cap.  iv,  pp.  30  sgg.  3.  due  .  .  .famiglia;  Stefano  era  ni- 
pote del  cardinale  Francesco  Maria  (1592-1675),  La  biblioteca  brancao- 
ciana  è  ora  uno  dei  fondi  della  Biblioteca  Nazionale  di  Napoli,  4.  Giro- 
lamo Seripando  (1493-1563),  vescovo  di  Balenio  nel  1554,  cardinale  nel 
1561.  Notizie  su  questo  lascito  anche  noli' Istoria  civile,  tomo  xv,  lib.  xxxn, 
cap.  v,  par.  1,  p.  81. 


CAPITOLO    SECONDO  33 


II 

Intanto,  per  consimili  ed  altre  opportunità,  acquistando  io  mag- 
giore cognizione  non  men  di  cose  che  conoscenza  di  altri  dotti  ami- 
ci ;  fra  questi,  venni  per  mia  buona  sorte  ad  incontrarmi  con  uno  il 
quale,  per  essere  stato  il  primo  ad  illuminarmi  in  cose  di  solida 
filosofia  e  di  altre  lettere  umane,  la  gratitudine  ricerca  che  io  con 
le  debite  lodi  non  debbia  tralasciarlo.  Questi  fu  Filippo  de  Angelis,1 
onesto  cittadino  napolitano  versatissimo  nello  studio  delle  buone 
lettere  e  sopra  tutto  amante  de*  poeti  toscani  ed  intendentissimo 
non  meno  dell'arte  poetica  ed  oratoria  che  dello  stile  de*  più  ce- 
lebri e  famosi  oratori  e  poeti;  e  sovente  solea  anch' egli  esercitarsi 
nel  poetare,  di  cui  ne  abbiamo  anche  impresse  alcune  dotte  canzo- 
ni e  culti  sonetti.  Era  eziandio  ornato  di  filosofia,  e  di  altre  scienze; 
ma  poiché  in  Napoli  la  prima  filosofia,  che  di  Francia  venne  ed 
atterrò  la  scolastica  professata  ne'  chiostri,  fu  quella  di  Pietro  Gas- 
sendo,2 i  di  cui  libri,  per  la  molta  erudizione  e  gran  eloquenza, 
avean  tirati  gli  animi  di  tutti,  e  spezialmente  della  gioventù,  ad 
apprenderla:  quindi  egli  avea  abbracciata  questa  dottrina,  la  quale 
poi  sempre  ritenne,  non  ostante  che  la  filosofia  di  Renato  delle 
Carte,3  che  vi  fu  più  tardi  introdotta,  avesse  cangiati  i  sentimenti 
di  molti,  i  quali  da  gassendisti  si  mutaron  poi  in  cartesiani. 

Io,  per  compensare  la  grave  perdita  fatta  di  que'  tre  anni  inutil- 
mente consumati  nella  scolastica,  secondo  l'indirizzo  del  medesimo 
volli  apprendere  quella  di  Gassendo,  alla  quale  niente  mi  furono 
di  ostacolo  i  precedenti  studi  sopra  la  filosofia  di  Scoto,  poiché,  non 
lasciandomi  se  non  confuse  immagini,  l'avea  già  quasi  tutte  dimen- 
ticate; sicché  l'eloquenza  ed  erudizione  del  nuovo  filosofo  Gassendo 
mi  prese  tutto,  e  con  indicibil  piacere  leggeva  le  di  lui  opere;  e 

1.  Filippo  de  Angelis,  leccese,  fu  poeta  arcade,  e  pubblicò  un  volume  di 
Rime  in  Napoli,  nel  1698.  Su  di  lui  cfr.  G.  M.  Mazzuchelli,  Gli  scrittori 
d'Italia,  i,  cit.,  advocem  Angelis  ;  E.  D'Afflitto,  Memorie  degli  scrittori  del 
regno  di  Napoli,  X,  Napoli  1782,  p.  357;  C.  Minieri  Riccio,  Notizie  biogra- 
fiche e  bibliografiche  degli  scrittori  napoletani  fioriti  nel  sec.  XVII,  1,  Milano- 
Napoli-Pisa  1875,  p.  35;  C.  Villani,  Scrittori  ed  artisti  pugliesi  antichi, 
moderni  e  contemporanei,  Trani  1904,  p.  47.  a.  la  prima  .  .  .  Gassendo: 
Pierre  Gassendi  (1592-1655),  filosofo  e  medico  francese,  rimise  in  circo- 
lazione la  filosofia  epicurea,  con  un  notevole  apporto  originale.  Queste  e  le 
notizie  che  seguono  sono  confermate  anche  dall' Autobiografia  di  Giam- 
battista Vico  (cfr.  Opere,  a  cura  di  F.  Nicolini,  Milano-Napoli  1953,  p.  19). 
3.  Renato  delle  Carte:  René  Descartes  (latino  Cartesius). 


34  VITA   DI    PIETRO    GIANNONR 

poiché  mi  sgomentavano  tanti  volumi,  ed  io  non  voleva  tralasciare 
l'intrapresi  studi  della  giurisprudenza  ed  istoria  romana,  fui  con- 
tento delle  Epitome,  che  Gassendo  esattamente  avea  a  questo  line 
compilate,1  le  quali  lessi  tutte  con  avidità  e  sommo  contento,  rav- 
visando in  quelle  una  solida  e  più  verisimile  filosofia,  la  quale  tolse 
tutte  quelle  tenebre  e  caligini,  nelle  quali  fino  allora  era  stato  io 
immerso.  Egli  è  vero  che  non  potei  allora  comprendere  quel  savio 
ammonimento  che  ivi  s'inculcava,  il  qual  poi,  col  tempo  e  colPespe- 
rienza  conobbi  essere  verissimo  :  che  tutte  le  conoscenze  non  men 
metafisiche  che  fisiche  e  quanto  gli  uomini  apprendevano,  riguar- 
dando questa  gran  fabbrica  del  mondo,  doveano  indrizzarle  alla 
morale,  la  qual,  per  ciò,  in  quella  filosofia  s'insegnava  nell'ultimo 
luogo,  e  servirsene  non  per  altro  fine,  se  non  per  ben  diriggere, 
nella  lor  vita  morale,  sue  opere,  suoi  andamenti  e  costumi. 

Coll'occasione  di  questi  studi,  lessi  i  sei  libri  Della  natura  delle 
cose  di  Tito  Lucrezio  Caro,2  e  quanto  Gassendo  si  adoperasse, 
confutando  alcuni  errori  della  gentilità,  per  mostrare  che  in  tutto 
il  resto  la  sua  dottrina  fosse  sana  e  da  non  rifiutarsi  da  quo'  che 
professavano  la  cristiana  religione,  come  quella  che  a  lei  non  si 
opponeva.  Lessi  pure,  contale  occasione,  i  libri  di  Sesto  Empirico,3 
spesso  dal  Gassendo  allegati,  i  quali  allora  erano  in  Napoli  raris- 
simi, e  per  buona  sorte  un  mio  amico,  che  l'avea,  fecemi  il  favore 
di  prestarmigii.  Lessi  le  Vite  de'  filosofi  di  Diogene  Laerzio4  ed  altri 
libri  a  questi  studi  filosofici  appartenenti,  sicché  divenni,  come  gli 
altri  miei  coetanei,  filosofo  gassendista. 

A  confermarmi  in  questa  dottrina  si  aggiunse  che,  avendomi  in- 
tanto lo  Spinelli  fatto  prendere  amicizia  con  un  famoso  medico  e 
filosofo  di  quo'  tempi,  chiamato  Agnello  di  Napoli,5  questi,  ancor- 


i.  Epitome  .  .  .  compilate':  cfr.  P,  Gasrendi,  Syntagma  philosophtcum  com~ 
plectens  logicatn,  physkam  et  ethicam.  Occupa  i  primi  due  volumi  in  folio 
degli  Opera  omnia,  Lugduni  1658.  2.  lessi .  . .  ("aro:  per  hi  fortuna  del  De 
rerum  natura  in  questi  anni,  cfr.  G.  Maugain,  Ètude  sur  Vévolution  intel~ 
lectuelle  de  V Italie  de  xùffl  à  1750  cnviron,  Paris  XO09,  pp.  130  sgg.  Ma  si 
veda  anche  G.  B.  Vico,  Autobiografia,  ed.  cit.,  pp.  19-20.  3.  Sesto  Empi* 
rico,  filosofo  e  medico  greco  -  forse  africano  dì  nascita  -  vissuto  nella  se- 
conda metà  del  II  secolo  dell'Era  volgare,  appartenne  alla  scuota  scettica»  e 
di  quella  filosofia  stese  un  sommario  giunto  sino  a  noi;  Lineamenti  dì  pirro- 
nismo. Altra  sua  opera  pervenutaci  sono  i  dodici  libri  Adversus  mathcmuticos. 
4.  Diogene  Laerzio,  scrittore  e  biografo  greco,  fiorito  intorno  alla  metà  del 
III  secolo  dell'Era  volgare,  scrisse  la  vita  dei  più  illustri  filosofi,  sino  a  Kpicu- 
ro.    5.  Agnello  di  Napoli  (1658-  ?)  fu  lettore  di  medicina,  ma  insegnò  anche 


CAPITOLO    SECONDO  35 

che  gli  altri  medici,  e  spezialmente  i  giovani,  cominciavano  ad  al- 
lontanarsi da  Gassendo  ed  appigliarsi  alla  filosofìa  di  Cartesio,  egli 
però  non  si  smosse  e  stette  fermo  e  finché  visse  tenne  la  dottrina  di 
Gassendo,  e  nella  stessa,  per  suoi  discorsi  che  meco  spesso  avea, 
m'inculcava  che  io  permanessi  ;  sicché,  da  una  parte  il  de  Angelis, 
che  me  l'avea  additata,  e  dall'altra  il  di  Napoli,  che  me  l'avea  con- 
fermata, mi  tennero  fermo  in  questa  filosofia,  dalla  quale  non  ne  fui 
smosso  se  non  nell'ulteriori  anni,  secondo  che  sarà  esposto  nel  pro- 
gresso di  questa  mia  Vita. 

Al  de  Angelis  io  pur  debbo  non  pur  questi  studi,  ma  di  avermi 
istradato  nella  conoscenza  de'  buoni  poeti  e  de'  più  culti  scrittori 
toscani,  onde  io  potessi  apprendere  non  meno  l'eloquenza,  che  un 
più  culto  ed  elegante  stile  e  la  proprietà  e  sceltezza  delle  voci  e  frasi 
toscane.  Egli  fu  il  primo  che  mi  scovrì  le  bellezze  del  Petrarca1  e 
degli  altri  nostri  eminenti  e  rinomati  poeti,  dalla  dolcezza  de'  quali 
io  preso,  non  mi  stancava  di  spesso  leggere  e  rileggere  i  loro  poemi, 
e  quanto  da  altri  sopra  il  maraviglioso  loro  artificio  e  sapienza  era 
stato  osservato.  È  però  vero  che,  quantunque  mi  piacesser  tanto  e 
gli  avessi  nelle  ore  meridiane  quasi  sempre  nelle  mani,  non  mi  re- 
sero mai  abile  di  poter  per  me  stesso  comporre  un  solo  verso. 

La  Comedia  di  Dante,  in  questi  princìpi,  non  in  tutto  arrivò  a 
piacermi;  ma  ammirava  solamente  alcuni  canti,  come  la  dura  morte 
del  conte  Ugolino,  il  racconto  degli  amori  di  Francesca  per  occa- 
sione della  lettura  di  Galeotto,  l'altro  del  re  Manfredi,  la  proprietà 
ed  evidenza  de*  paragoni,  e  consimili  ed  altri  pezzi.  E  gl'intendenti 
della  lingua  e  del  suo  stile  mi  dicevano  che  ciò  dava  indizio  che  io 
non  ne  avea  ancora  acquistata  piena  conoscenza,  e  giunto  all'ultimo 
punto  di  perfezione,  al  quale  ci  sarei  arrivato  quando  questo  divino 
poeta  finisse  di  piacermi  in  tutte  le  sue  parti,  sicome  dapoi  conobbi 
che  dicevan  vero. 

Come  vago  nelle  scienze  ed  arti  liberali  di  sapere  i  primi,  ebbi 
desiderio,  per  la  poesia,  legger  Omero.  Ma  letta  Ylliade  secondo  la 


filosofia  sin  da  giovanissimo,  secondo  quanto  riferisce  G.  G.  Origlia,  Sto- 
ria dello  Studio  H  Napoli,  il,  Napoli  1754,  p.  11»,  che  pone  l'inizio  del  suo 
insegnamento  nel  1683.  Su  di  lui  cfr.  inoltre  G.  Gimma,  Elogi  accademici 
della  Società  degli  Spensierati  di  Rossano,  Napoli  1 703 ,  p.  1 93 .  1 .  l'eloquen- 
za .  .  .  Petrarca  :  dunque  un  insegnamento  improntato  ai  canoni  barocchi, 
come  conferma  più  sotto  l'accenno  alla  poesia  di  Dante  e  i  riferimenti  al 
Bembo,  al  Delminio  e  al  Salviati. 


36  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

traduzione  latina  di  Lorenzo  Valla,  e  l'Odissea*  come  ignaro  allora 
della  costituzione  della  Grecia  e  molto  più  dell'Asia,  e  de*  popoli 
che  le  componevano  a  que'  antichissimi  tempi,  e  sprovvisto  di  altre 
conoscenze  necessarie  per  intender  bene  quo'  poemi,  ne  cavai  po- 
co profitto,  ed  appena  mi  restarono  in  mente  i  principali  fatti  ed  i 
nomi  di  que'  più  insigni  eroi;  sicché,  nell'età  avanzata,  tornando 
a  leggergli,  mi  sembraron  nuovi  e  degni  veramente  di  essere  riletti 
ed  ammirati. 

Per  gli  autori  toscani  che  aveano  scritto  in  prosa,  il  de  Angelis 
mi  additò,  fra'  primi,  i  due  Giovanni  -  Boccaccio  e  Villano  -  ed 
altri  scrittori  fiorentini;  e  per  apprender  l'arte  dell'eloquenza  ed  i 
vari  generi  dello  stile,  mi  propose  i  Commentari  del  Panigarola 
sopra  Demetrio  Falereo*  che  io  lessi  con  somma  cura  ed  attenzione. 
A  questi  aggiunsi  le  prose  del  Bembo,  i  discorsi  di  Giulio  Camillo 
Delminio,  del  Muzio,  del  Salviati  ed  altri.3  Ma  intorno  allo  stile  di 
quanti  trattati  avea  letti,  niuno  mi  parve  più  savio  e  dotto  che  quello 
che  compose  il  padre  Pallavicino,  gesuita  poi  cardinale,  Dell9 arte 
dello  stile?  il  quale  con  acute  riflessioni  ed  accurati  accorgimenti 


i.  V Iliade  .  .  .  Odissea:  il  Giannone  si  riferisce  con  molta  probabilità 
airedizionc  Homeri  poeiarum  principisi  cum  lliados,  tum  Odysscac  libri 
XLVIIX,  Laurentio  Vallen.  et  Rapimele  Volaterrano  interpr.,  s.  L  (ma 
Antwerpen),  1528.  Lorenzo  Valla  (1407-1457),  uno  dei  più  grandi  nostri 
umanisti,  è  celebre  per  la  sua  negazione,  con  rigore  storico-filologico,  del- 
l'autenticità del  constitutum  costantiniano  con  la  De  falso  eredita  et  ementita 
Constantini  donatione  declamatio.  2.  Demetrio  di  Palerò,  //  predicatore, 
overo  . . .  DelVelocutione,  con  le  parafrasi,  e  commenti,  e  discorsi  ecclesiastici 
di  Mo?is.  Francesco  Panicarola,  s.  1.,  1642.  Francesco  Panigarola  (1548- 
1594),  vescovo  di  Chrysopohs,  poi  di  Asti,  fu  un  celebre  predicatore  e 
polemista  della  Controriforma.  Demetrio  Falereo,  uomo  politico  e  scrittore 
ateniese  nato  intorno  al  350  avanti  l'Era  volgare,  scrisse  sui  poemi  omerici, 
raccolse  massime  e  si  occupò  di  retorica;  ma  le  sue  opere  sono  andate  per- 
dute. 3.  le  prose  . . .  altri:  Pietro  Bembo  (1470- 1547),  cardinale,  umanista, 
sostenne  il  volgare  fiorentino  come  lingua  letteraria  e  propose  come  mo- 
delli il  Petrarca  e  il  Boccaccio;  Giulio  Camillo  Delminio  (1485  circa- 1544) 
fu  anch' egli  letterato  petrarchista  ;  Girolamo  Muzio  (1496- 1 576)  sostenne, 
nel  dibattito  sulla  lingua,  le  posizioni  di  Gian  Giorgio  Trissino,  in  un'ope- 
ra uscita  postuma  {Battaglie  in  difesa  dell'italica  lingua,  1582);  Leonar- 
do Salviati  (1540-1589)  fu  tra  i  promotori  dell'Accademia  della  Crusca. 
4.  Ma  . . .  stile:  cfr.  Considerazioni  sopra  Varte  dello  stile  e  del  dialogo,  Ro- 
ma 1646,  opera  del  gesuita  Pietro  Sforza  Pallavicino  (1607-X667):  dal  1639 
professore  di  filosofia,  poi  di  teologia  al  Collegio  Romano,  cardinale  nel 
'57,  fu  l'avversario  di  Paolo  Sarpi,  contro  la  cui  storia  del  Concilio  triden- 
tino ne  contrappose  un'altra  scopertamente  apologetica.  Su  di  lui  cfr.  X. 
Affò,  Memorie  della  vita  e  degli  studi  di  Sforza  cardinale  Pallavicino, 
Venezia  1780. 


CAPITOLO    SECONDO  37 

avea  superato  la  diligenza  ed  osservazioni  degli  altri;  e  secondo  che 
io  colPetà  m'avanzava  a  questi  studi;  e  dapoi,  per  la  conoscenza 
de'  tempi  meno  a  noi  lontani,  pervenni  alla  cognizione  delle  istorie 
d'Italia  degli  ultimi  secoli.  Da  quelle  del  Guicciardini  e  del  Macchia- 
vello  appresi  lo  stile:  se  bene  sembravami  più  piano,  facile  e  cor- 
rente quello  del  Macchiavello,  che  quello  contorto,  avviluppato  e 
laborioso  del  Guicciardino  ;  onde  mi  attenni  più  al  primo  che  a 
questo  secondo. 

Fra  questi  studi  occupato,  poiché  non  prendeva  né  misura,  né 
modo  in  trattargli,  ma  spinto  da  gio vanii  ardore  poco  curava  di 
tralasciargli  nell'ore  dopo  pranzo,  né  di  esercitarmi  col  corpo  in 
camminare,  ma  star  sempre  fisso  in  casa,  col  tratto  del  tempo  ne 
acquistai  una  ostruzione  sì  grande,  che  arrivò  a  farmi  itterico  e  sof- 
frire per  più  mesi  questo  morbo  chiamato  «regio».1  Sperimentai 
inutili  tutti  i  rimedi,  che,  fino  dagl'idioti,  per  guarire  mi  erano  addi- 
tati. Infra  gli  altri,  dicendomi  un  avvocato  mio  amico,  che  nel 
monistero  delle  monache  di  Regina  Coeli  v'era  una  monaca  che 
guariva  gl'itterici,  io,  coll'occasione  che  andava  spesso  a  visitare 
Agnello  di  Napoli,  che  abitava  ivi  vicino,  volli  una  mattina  tentare 
anche  se  per  la  medesima  potessi  guarire;  e  fattala  chiamare,  sco- 
prendogli il  mio  male,  la  pregai  che  avesse  pietà  di  me.  Ed  ella, 
fattomi  animo,  dimandatomi  se  io  avea  moglie  e  rispostogli  di  no, 
mi  fece  inginocchiare,  e  recitatomi  sopra  il  capo  certe  parole,  delle 
quali  sol  me  ne  ricordo  due,  che  diceano  arcum  conterei,  e  prescrit- 
tomi alcuni  sciroppi  ed  acque  distillate  che  dovessi  prender  la 
mattina,  me  ne  mandò  via,  imponendomi  che,  per  otto  giorni,  ogni 
mattina  dovessi  tornar  da  lei,  poich'ella,  nella  sua  stanza,  avrebbe 
proseguito  ciò  che  gli  rimaneva  di  fare  per  la  mia  guarigione.  Rac- 
contai al  di  Napoli  di  aver  trovata  per  me  una  medica  si  pietosa  e, 
ridendo  sopra  il  mescuglio  degli  antidoti  di  sciroppi  ed  acquette 
con  le  divozioni  e  detti  de'  salmi,  la  lasciai  con  le  sue  percantazioni, 
né  più  vi  feci  ritorno.  E  proseguendo  la  strada  additatami  dal  me- 
desimo, se  ben  lunga,  dell'esercizio,  acciaio2  e  di  astenermi  dalle 

1.  «regio»:  «vogliono,  perché  da  curarsi  con  morbida  vita  e  quasi  da  re.  Io 
piuttosto  direi  perché  le  umane  felicità  generano  livore;  o  accennando  al 
noto  re  che  convertiva  in  giallo  d'oro  ogni  cosa»  (Tommaseo-Bellini). 
z.  acciaio:  cosi  dicevasi  una  cura  di  ferro,  che  consisteva  nel  bere  acqua 
in  cui  erano  stati  immersi  per  un  dato  tempo  dei  chiodi  arrugginiti.  A 
questa  cura  il  Giannone  restò  sempre  fedele,  solo  sostituendo  all'acqua  -  su 
consiglio  di  Pio  Niccolò  Garelli,  al  tempo  del  suo  soggiorno  viennese  -  il 


30  VITA   DI    PIETRO   GIANNONE 

paste  e  di  altri  cibi  grossolani,  crudi,  salsi  ed  acetosi,  cominciai  a 
perdere  quella  stanchezza  di  membra,  che  mi  sentiva  più  quando 
era  in  quiete  che  in  moto,  e  finalmente  a  liberarmene  affatto.  Ciocché 
servi  per  mio  ammaestramento,  come  dovessi  per  l'avvenire  rego- 
lare le  ore  de'  mici  studi,  e  di  non  tralasciare  i  mattutini  cammini 
ed  altri  esercizi  del  corpo. 


vino  d'assenzio:  cfr.  la  lettera  al  fratello  Carlo  del  a  giugno  X731  (danno- 
niana,  n.°4i2).  Ma  si  veda  anche,  prima,  la  lettera  del  x$  luglio  1730,  dove 
scrive  che  il  suo  rimedio  per  mantenersi  in  buona  salute  ò  «gambe  e  ac- 
ciaio» (Giannoniana,  n.°  364). 


CAPITOLO  TERZO 

Anno  i70I>  sotto  il  regno  di  Filippo  V,  re  di  Spagna,  e  sotto  il  governo  del- 
lo stesso  duca  di  Medina  Coeli  e  poi  del  duca  d'Escalona,  marchese  di  Vi- 
gliena,1  viceré. 


Intanto,  erasene  passato  il  decimosettimo  secolo  ed  eramo  en- 
trati nel  decimottavo.  Ed  a  me,  doppo  scorsi  sei  anni  da  che  era 
arrivato  in  Napoli,  ne'  quali  avea  atteso  a  questi  studi,  faceva  me- 
stieri che  pensassi  ad  applicarmi  nel  foro  e  calcar  la  polvere  de* 
tribunali,  per  poter  trovare  qualche  onesto  modo  da  vivere,  senza 
aspettar  di  mia  casa  altro  soccorso.  La  quale,  per  la  morte  accaduta 
del  zio  di  mia  madre,  e  perché  non  si  era  fatto  poco  per  lo  spazio  di 
sei  anni  mantenermi  in  Napoli  e  somministrarmi  anche  il  denaro 
per  ascendere  al  grado  di  dottore,  non  era  in  istato  di  potermi  di 
vantaggio  sovvenire;  e  mi  credeano  di  età  tale,  essendo  nel  venti- 
cinquesimo anno,  che  io  per  me  stesso,  co*  primi  guadagni  del  foro, 
ancorché  piccioli,  potessi  sostentarmi.  Sicché  mi  risolsi,  doppo  pre- 
so il  dottorato,  d'incaminarmi  per  la  strada  de'  tribunali,  ed  a  que- 
sto fine  cercare  un  avvocato  sotto  il  quale  potessi  acquistarne  la 
pratica,  non  meno  che  istradarmi  e  rendermi  abile  di  trattar  qual- 
che causa. 

Nella  città  di  Napoli  i  gradi  del  dottorato  non  si  conferiscono 
dall'Università  degli  studi,  sicome  è  in  altre  città,  ma  dal  Gran 
Cancelliero  del  Regno  e  suo  Collegio  de*  dottori,  i  quali  esamina- 
no i  candidati  e,  trovatigli  idonei,  gli  crean  dottori.2  Fui  esaminato 
nel  diritto  civile  e  canonico  ed  esposi,  secondo  è  ristituto,  in  pre- 
senza del  Collegio,  alcune  leggi  e  decretali  che  mi  furon  prescritte; 
e  dal  suffragio  di  tutti  approvato  che  fui,  mi  vestirono  di  toga,  mi 
posero  una  berretta  in  capo  ed  un  anello  nel  dito,  ed  apertomi  in- 
nanzi il  Corpo  delVius  civile  e  canonico,  con  ampie  forinole  mi  die- 
dero facoltà  di  poter  allegare,  interpretare,  insegnare  ed  esporre  le 
leggi  ed  i  canoni,  creandomi,  usando  altri  riti  e  cerimonie,  dottore 
della  legge  civile  e  del  diritto  canonico;  e  me  ne  spediron  diploma 
in  carta  pergamena,  col  suggello  pendente,  per  futura  memoria  de* 
posteri.3 

i.duca . . .  Vigliena:  Juan  Manuel  Femandez  Pacheco,  marchese  di  Vilhena, 
duca  d'Escalona,  viceré  dx  Napoli  dal  1702.  2.  Nella . . .  dottori;  sulla  ceri- 
monia dell'addottorato  dv.  Istoria  civile,  tomo  in,  lib.  xxv,  cap.ix,  pp.  349-52* 
3.  apertomi. .  .posteri:  il  giuramento  dottorale  fu  prestato  il  4  settembre  1698, 


-r-  viia   jl»i   PIETRO    GIANNONK 

Nel  cercare  un  avvocato,  per  apprender  la  pratica  de'  tribunali, 
incontrai  sorte  uguale  di  quella  ch'ebbi  nel  cominciar  gli  studi 
delle  Istituzioni,  poiché  mi  fu  proposto  un  avvocato1  se  bene  di 
somma  probità  e  riputato  fra'  primi  della  città,  nulladimanco  era 
un  puro  forense,  sprovvisto  di  ogni  altra  cognizione,  illittcratissimo 
e  che  appena  sentiva  il  goffo  latino  de*  volumacci  forensi,  inetto  nel 
parlar  le  cause  nelle  Ruote2  e  molto  più  nello  scrivere  e  nel  com- 
porre allegazioni  legali,  ancorché  forensi,  del  quale  non  se  n'era 
veduta  alcuna  che  meritasse  esser  letta.  Aggiungevasi  che,  seguitan- 
dolo io  la  mattina  ne*  tribunali,  il  dopo  desinare  andando  in  sua  casa 
per  studiare  nella  di  lui  libraria,  non  ci  trovai  se  non  libracci  insi- 
pidi e  sciapiti,  tutti  forensi;  ed  io,  che  non  voleva  perdere  i  mici 
studi,  fatti  sopra  autori  eruditi  e  classici,  soffriva  per  ciò  una  gran 
pena.  Fra  tanti  volumacci  non  vi  ravvisai  che  i  tomi  di  Antonio 
Fabro,  che  stavano  ivi  condennatì  per  non  essere  mai  aperti,  cover- 
ti di  polvere  e  di  tele  di  ragni.  Così  andava  frammezzando  colla 
noiosa  lettura  de*  forensi  qualche  ora  sopra  il  Codice  di  Fabro,  so- 
pra la  di  lui  Giurisprudenza  papinianea  e  sopra  i  libri  dal  medesi- 
mo compilati  Intorno  agli  errori  de'  prammatici?  Ma  a  lungo  anda- 
re, scorgendo  il  poco  profitto  che  se  ne  ricavava  e  che  inutilmente 
vi  consumava  il  tempo,  scovrii  al  carissimo  Spinelli  le  mie  scia- 
gure d'aver  incontrata,  nell'elezione  dell'avvocato  che  dovea  esser 
mia  guida  e  scorta,  si  cattiva  sorte.  Il  quale,  appena  intese  il  nome, 
del  quale  ora  non  voglio  ricordarmi,  acremente  mi  riprese  dell'ele- 
zione fatta  e  mi  diede  non  pur  consiglio,  ma  aiuto  di  cambiarlo 
ed  eleggerne  un  altro,  di  cui  egli  era  stretto  amico:  e  questi  fu 
Gaetano  Argento4  di  cui  egli  avea  conoscenza  fin  da  ch'era  disce- 

c  il  testo  è  stato  pubblicato  da  L.  Settembrini,  Le  carte  della  scuola  di  Sa» 
terno  e  gli  autografi  di  illustri  napoletani  laureati  neW  Università  di  Napoli,  in 
«Nuova  Antologia»,  xxvi  (1874),  p.  956.  1.  un  avvocato;  anche  di  questo 
procuratore  ci  resta  il  nome  dal  Panzini,  p,  3  :  Giovanni  Musto,  a.  nelle 
Ruote:  nei  tribunali.  3.  i  tomi . .  .prammatici:  si  parla  di  Antoino  Favre 
(1 5 57- 1 624),  giureconsulto  sabaudo,  le  cui  opere,  nell'ordine  in  cui  sono 
ricordate  dal  Giannone,  recano  i  seguenti  titoli:  Codex  Fabrianus  definitìo- 
numforensium  et  rerumin  sacro  Sabaudiaesenatu  tractatarum,  Lugduni  1606  ; 
Iurisprudentiae  papinianeae  scìentia  ad  ordinem  Institutionum  imperiatimi  ef- 
f ormata^  Lugduni  1607;  De  erroribus  pragmaticorum  et  ìnterpretum  iuris . .  M 
Lugduni  159$.  4.  Gaetano  Argento  (1661-X730),  nativo  di  Cosenza,  giuri- 
sta, salì  alle  più  alte  cariche  della  magistratura  napoletana:  consigliere  del 
Sacro  Real  Consiglio  nel  1707,  reggente  del  Collaterale  nei  1709,  consultore 
del  Cappellano  Maggiore,  vice-protonotario  e  presidente  del  Sacro  Real 
Consiglio  nel  17x4,  delegato  della  Rea!  Giurisdizione,  fu  creato  duca  dal- 


CAPITOLO    TERZO  41 

polo  del  famoso  avvocato  Serafino  Biscardi1  poi  reggente,  il  quale, 
avanzatosi  per  la  sua  gran  dottrina  nelPawocazione,2  era  a  questi 
tempi,  ne*  princìpi  del  nuovo  secolo,  giunto  ad  essere  uno  de*  primi 
e  più  insigni  avvocati.  Con  forti  ed  efficaci  parole,  conducendomi 
seco,  mi  raccomandò  al  medesimo;  e  non  bastandogli  di  avere 
reiterate  più  volte  le  raccomandazioni,  volle  che  altri  personaggi 
di  conto  passassero  per  me  coir  Argento  i  medesimi  uffici. 

Il  cangiamento  fu  per  me  d'inestimabil  acquisto:  trovai  in  lui 
profonda  erudizione  e  notizia  non  meno  di  scrittori  latini,  che  gre- 
ci, e  profonda  conoscenza  non  solo  del  dritto  feudale  e  municipale, 
ma  di  giurisprudenza  romana,  che  avea  tratta  da  limpidissimi  fonti; 
la  sua  biblioteca  ornata  de'  migliori  e  de'  più  scelti  giurisconsulti 
e  canonisti:  ivi  erano  le  opere  di  Andrea  Alciato,  di  Budeo,  di  Gia- 
como Cuiacio,  di  Duareno,  di  Connano,  di  Balduino,  di  Brissonio, 
di  Otomano,  di  Mornacio,  di  Antonio  Augustino,  di  Contio,  di 
Dionisio  e  Giacomo  Gotofredo,  di  Cironio,  del  Gonzales,  del 
Van-Espen,3  e  di  chi  no?  Niente  mancava  degli  altri  scrittori  fo- 

F imperatore.  Restano  di  lui  manoscritte  numerose  consulte  in  materia  giu- 
risdizionale, custodite  presso  le  Biblioteche  Nazionali  di  Roma  e  di  Napoli. 
Su  di  lui  si  veda  D.  Zangari,  Gaetano  Argento,  reggente  e  presidente  del  Sa- 
cro Real  Consiglio,  Napoli  1922.  1.  Serafino  Biscardi  (1643-1711),  concit- 
tadino dell'Argento,  ebbe  onori  e  cariche  di  rilievo,  divenendo  reggente 
del  Collaterale.  Schieratosi  in  favore  della  Spagna  al  tempo  della  guerra 
di  successione,  con  l'occupazione  austriaca  del  Regno  fu  rimosso  da  ogni 
carica  (1707),  ma  poi  reintegrato  nell'ufficio.  La  sua  fama  fu  soprattutto 
affidata  alla  propria  eloquenza  ed  erudizione,  che  lo  fecero  paragonare  a 
Francesco  D'Andrea  (cfr.  Istoria  civile,  tomo  iv,  lib.  xl,  cap.  v,  p.  490).  Su 
di  lui  si  veda  N.  Cortese,  Serafino  Biscardi,  in  «Bollettino  della  Società  Ca- 
labrese di  Storia  Patria  »,  11  (1918),  nn.  1-2,  e  la  voce  di  G.  Ricuperati  nel  Di- 
zionario biografico  degli  Italiani,  X,  Roma  1 968.  2.  avocazione  :  avvocatura. 
3.  Andrea  Alciato  (1492-1550),  giureconsulto  e  professore  di  diritto  civile 
ad  Avignone,  Bourges,  Bologna  e  Ferrara,  fu  tra  i  maggiori  del  suo  tempo 
e  capo  del  nuovo  indirizzo  umanistico  nel  diritto  ;  Budeo  :  Guillaume  Bude 
(1467- 1540),  filologo  e  grecista,  bibliotecario  del  re  di  Francia.  A  lui  si 
deve  la  fondazione  del  Collegio  di  Francia;  Duareno;  Francois  Douaren 
(1509-155 9),  allievo  di  Andrea  Alciato,  insegnò  diritto  a  Bruges  ;  Connano  : 
Francois  Connan  (1 508-1 551),  giurista  e  magistrato  francese,  signore  di 
Coulon,  fu  pubblico  ministero  sotto  Francesco  I;  Balduino:  Francois 
Bauduin  (1520-1573),  teologo  e  giureconsulto  francese,  fu  mediatore  tra 
ugonotti  e  cattolici  durante  le  guerre  di  religione;  Otomano:  Francois 
Hotman  (1 524-1 590),  signore  di  Villers-St.-Paul,  giureconsulto  francese, 
ugonotto,  consigliere  di  Stato  sotto  Enrico  di  Navarra,  fu  uno  dei  capi- 
scuola dei  monarcomachi;  Mornacio:  Antoine  Mornac  (1554-1619  circa), 
avvocato  del  Parlamento  di  Parigi;  Contio:  Antoine  Leconte,  latino  Con- 
tius  (1526-15 86),  professore  di  diritto  a  Bourges  e  Orléans,  fu  costante 
oppositore  della  Riforma;    Dionisio  . . .  Gotofredo:  Denis  Godefroy  (1549- 


rensi;  ma  erano  ben  distinti,  tra  forensi  stessi,  gli  goffi  e  sciupiti  da 
quelli  che  la  giurisprudenza  romana  aveano  adattata  all'uso  del 
foro,  e  che  aveano  saputo,  ne'  loro  dotti  volumi,  la  dottrina  forense 
condirla  e  trattarla  da  gravi  e  seri  giurisconsulti.  Vi  erano  libri  eru- 
ditissimi di  ogni  genere,  di  poeti,  istorici,  oratori  e  fino  di  filosofi  e, 
fra  gli  altri,  tutti  i  volumi  di  Pietro  Gassendo. 

Ma  sopra  tutto,  quel  che  rendevami  estremo  contento1  fu  che 
vi  trovai  giovani  della  mia  età  ed  alcuni  più  avanzati,  i  quali  sotto  la 
disciplina  del  medesimo  si  erano  avviati  nella  strada  dell'avvoca- 
tone, assai  dotti,  di  buon  senso,  ed  amanti  non  men  degli  studi 
forensi  che  delle  belle  lettere  e  di  varia  erudizione;  i  quali,  quasi 
tutti  ho  poi  veduti  ascendere  a*  primi  onori  della  toga.  Con  questi 
avendo  preso  amicizia,  spesso  comunicando  insieme  i  nostri  stu- 
di avanzava  sempre  più  le  mie  conoscenze;  e,  sorta  fra  di  noi  qual- 
che emulazione,  si  resero  quelli  più  assidui  ed  intensi.  Intanto,  per 
questo  cangiamento  di  miglior  avvocato,  lasciai  il  primo,  il  quale, 
poco  dapoi,  se  ne  morì.  E  non  debbo  tralasciare  che,  se  bene  presso 
di  lui  poco  profittassi  nel  foro,  nulladimanco  per  la  sua  divota  vita 
che  menava,  diedemi  occasione  di  farmi  acquistar  conoscenza  col 
padre  Antonio  Torres,*  non  men  dotto  che  savio  e  discreto  prete 
dell'Oratorio,  istituito  in  Napoli  dal  padre  Caracciolo,3  il  quale  di- 


1621),  francese  e  ugonotto,  riparato  a  Ginevra  dove  insegnò  diritto  in 
quella  università,  detto  V Ancien  per  distinguerlo  da  Jacques  Godefroy, 
anch' egli  professore  di  diritto  a  Ginevra,  e  che  fu  tre  volte  sindaco  di 
quella  città;  Cironio:  Innocent  Ciron  (morto  nel  XÓ50  circa),  cancelliere 
della  Chiesa  e  dell'Università  di  Tolosa,  professore  di  diritto;  Uanzales: 
Emmanuel  Gonzalcz  y  Virtus  (morto  nel  1713),  canonista  spagnolo,  fu 
vescovo  di  Tucuman  (oggi  Santiago  del  Estero);  #oger  Hcmard  van 
Espen  (1646- 1728),  professore  di  diritto  canonico  a  Lovanio,  fu  giansenista 
e  legato  all'ambiente  di  Port-Royal.  La  sua  opera  maggiore,  il  lus  ercìe- 
siasticum  universum,  Levami  1700,  fu  posta  all' Indice.  Schieratosi  in  favo- 
re della  validità  dell'elezione  del  vescovo  di  Utrecht,  contrastata  da  Roma, 
fu  processato  e  condannato  (1725),  e  dovette  fuggire  da  Lovanio.  È  uno 
degli  autori  più  frequentemente  citati  dai  giurisdizionalisti  italiani  della 
prima  metà  del  secolo  XVI II;  le  sue  opere  erano  tra  le  più  frequente- 
mente utilizzate  dal  Giannone.  x,  contento:  gioia.  2,  Antonio  Torres 
(1636-17 13),  preposito  generale  dei  l*u  Oporari,  una  congregazione  eccle- 
siastica fondata  in  Napoli  da  Carlo  Carafa  nel  xòoo  e  destinata  all'organiz- 
zazione di  «missioni».  Sul  Torres  si  veda  O.  8.  Toccr,  21  padre  Antonio 
Torres  e  l'accusa  di  quietismo,  Montalto  Uffugo  (Cosenza)  1958.  3.  isti" 
tutto ,  .  <  Caracciolo:  non  già  dal  Caracciolo,  ma  dal  Carafa,  come  sopta 
s'è  detto.  Forse  il  Giannone  si  riferisce  qui  a  Fabrizio  (al  secolo  Agostino) 
Caracciolo,  abate  di  Santa  Maria  Maggiore  in  Napoli,  cofondatore  del- 
l'Ordine dei  Chierici  Regolari  Minori  insieme  a  Giovanni  Adorno,  0  ad- 


CAPITOLO   TERZO  43 

inorando  nella  casa  chiamata  di  San  Niccolò  alla  Carità,  presiedeva 
in  una  particolar  congregazione  dov'eran  frequenti  più  avvocati, 
nella  quale,  ne'  giorni  di  domenica,  la  mattina,  oltre  altri  spirituali 
esercizi,  faceva  sermoni  sì  dotti,  fervorosi  e  seri,  che  tirava  la  divo- 
zione di  molti  di  andarlo  a  sentire.  Ond'io  mi  ascrissi  in  quella 
congregazione,  e  non  tralasciando  di  frequentarla  ebbi  la  sorte  di 
avere  per  mio  padre  spirituale  lo  stesso  Torres,  il  quale  m'instruì 
nella  vera  e  solida  morale  cristiana,  e  mi  fece  accorto  di  non  por 
fiducia  in  alcune  vane  superstizioni  ed  in  altre  appariscenti  ed 
estrinseche  dimostranze,  le  quali  erano  da  riputarsi  piuttosto  fari- 
saiche e  pagane,  che  evangeliche  e  cristiane. 

Leggeva  spesso  YArte  della  perfezion  cristiana1  del  cardinale 
Sforza-Pallavicino  e,  sopra  gli  altri  libri  spirituali,  niuno  lessi  con 
maggior  divozione,  che  le  Confessioni  di  sant'Agostino,  se  bene  in 
quell'età  mal  comprendessi  la  mistura  che  in  quelle  osservava  di 
cose  puerili  e  basse  colle  grandi  e  sublimi,  spezialmente  quando 
s'innalzava  nelle  più  alte  speculazioni  teologiche  e  platoniche.  Am- 
mirava il  suo  ingegno  nelle  cose  filosofiche,  ma  sembravami  che 
l'esser  troppo  attaccato  alle  splendide  idee  di  Platone  l'avesse  al- 
terato l'intelletto  e  resolo  sottil  metafisico  e  la  sua  prima  professione 
di  retorico  l'avesse,  purtroppo,  reso  amante  di  strane  ed  ardite 
metafore,  di  contrapposti  e  di  fredde  antitesi,  solite  per  altro  de' 
cervelli  africani. 

Proseguendo  a  calcar  la  via  de'  tribunali  dietro  il  rinomato 
Argento,  cominciai  ad  acquistar  miglior  conoscenza  di  altri  avvo- 
cati, sentendogli  parlar  nelle  Ruote  del  Consiglio  di  Santa  Chiara;3 
e  se  bene  io  ci  venissi  tardi  sicché  non  potei  avere  il  piacere  d'am- 
mirare l'eloquenza  dell'incomparabile  Francesco  di  Andrea3  ed  il 

dirittura  allo  stesso  san  Francesco  Caracciolo  (1 563-1608),  il  terzo  fonda- 
tore dell'Ordine,  che  venne  beatificato  da  Clemente  XIV.  1.  Arte  . .  . 
cristiana:  Roma  1665.  2.  Consiglio  di  Santa  Chiara:  così  era  detto,  dal 
luogo  dove  anticamente  soleva  riunirsi,  il  Sacro  Real  Consiglio,  magistra- 
tura suprema  napoletana,  corrispondente  grosso  modo  alla  nostra  Corte  di 
Cassazione.  Però  sin  dal  Cinquecento  la  sua  sede  era  stata  trasferita  in 
Castelcapuano.  3.  Francesco  D5 Andrea  (1625-1698)  fu  uno  dei  maggiori 
giuristi  del  tempo.  Le  sue  consulte  sono  tuttora  conservate,  manoscritte, 
presso  le  biblioteche  di  Napoli  e  l'arcivescovile  di  Brindisi.  I  suoi  Avverti- 
menti ai  nipoti  sono  stati  editi  a  cura  di  N.  Cortese  in  «Archivio  Storico 
per  le  Provincie  Napoletane»,  N.  S.,  v  (1920),  e  successivamente  ristampati 
a  parte  col  titolo  /  ricordi  di  un  avvocato  napoletano  del  Seicento,  Fran- 
cesco D*  Andrea,  Napoli  1923.  Oltre  alla  prefazione  ivi  apposta  dal  Cortese, 
si  veda  ancora  B.  De  Giovanni,  Filosofia  e  diritto  in  Francesco  Andrea, 


46  VITA    DI    PIETRO    GIANNONF, 

né  cotanto  diffuso;  nelle  ultime  sembrava  un  fiume  impetuoso  e 
grande  che,  rotto  ogni  argine,  diffondeva  ampiamente  le  sue  co- 
piose acque  da  per  tutto;  ma  se  ben  copiose,  tutte  però  limpide 
e  chiare,  non  più  mescolate  di  loto,  di  arena,  sterpi  o  sassi;  sic- 
ché io,  avendole  come  tante  ampie  e  dilatate  selve,  trovava  sempre 
pronta  la  materia  a'  miei  piccoli  lavori,  che  cominciava  allora  a 
tessere. 

In  cotal  guisa  avanzandomi  ne*  tribunali,  sotto  la  scorta  e  gui- 
da di  un  tanto  maestro,  ed  acquistando  da  ciò  conoscenza  di  al- 
tre persone,  che  per  occasioni  di  liti  frequentavano  il  foro,  venni 
ad  esser  noto  ad  alcuni  provinciali;  ed  i  primi  furono  alcuni  della 
provincia  di  Lecce,  i  quali  conoscendo  in  me  qualche  abilita,  e 
che  io  militava  sotto  un  sì  gran  capitano,  non  si  diffidarono1  di 
commettermi  la  difesa  di  qualche  lor  causa,  e  procurarmi  da'  loro 
compatriota  delle  consimili.  Le  quali,  ancorché  non  di  molto  va- 
lore, servirono  e  per  meglio  esercitarmi  nel  foro,  e  perché  dagli 
emolumenti,  ancorché  piccioli,  che  ne  ritraeva,  potessi  tirar  avanti 
e,  senz'incomodar  di  vantaggio  la  povera  mia  casa,  sostentarmi  in 
Napoli  nel  miglior  modo  che  poteva;  confortandomi  in  queste  mie 
strettezze  l'aver  in  mente  quel  savio  detto,  nato  dall'esperienza, 
che  spesso  sentiva  dire  dagli  avvocati  vecchi:  che  per  coloro  che  si 
avviavano  per  la  strada  dell'awocazionc  vi  erano  tre  tempi:  il  pri- 
mo, nel  quale  bisognava  travagliare  senza  0  con  poco  guadagno  ;  il 
secondo,  nel  quale  la  fatica  era  compensata  con  ugual  mercede;  ed 
il  terzo,  dove  poco  era  il  travaglio  e  molto  il  guadagno.  Qual  felice 
tempo  io  non  vidi  giammai.  Così,  colie  cause  di  alcuni  Leccesi, 
che  furon  le  prime  ad  esser  da  me  trattate,  cominciai  a  farmi  no- 
to; ed  essendo  occorso  in  una  di  doversi  scrivere,  ne  composi  io 
l'allegazione,  la  quale  essendo  piaciuta  al  cliente,  volle  che  si  im- 
primesse, che  fu  la  prima  che  io  dessi  fuori  alle  stampe.3 

1.  non  si  diffidarono:  non  ebbero  sfiducia,  a.  la  prima  ,  .  .  stampe:  di  que- 
sta allegazione  non  è  rimasta  traccia,  né  ve  n'e  ricordo  in  Fanzini,  do- 
ve invece  si  registra,  tra  le  prime  allegazioni  giannoniane,  una  «  in  favore 
del  vescovo  di  Capaccio  contro  l'Abate  della  Real  Badia  e  cappella  di  S. 
Egidio  »  (p.  3).  In  essa  il  Giannonc  esaminava  il  diritto  dei  vescovi  sulle 
cappelle  reali,  e  l'argomentazione  può  essere  parzialmente  ricostruita,  se- 
condo quanto  afferma  lo  stesso  Panzini,  ivi,  da  uno  scritto  di  I.  ().  Vi- 
tagliano,  V antico  dritto  de*  regi  cappellani  a  onore  della  real  cappella  di 
Napoli  dimostrato  e  sostenuto  contro  le  nuove  pretensioni  de*  regi  cappellani 
stipendiati  della  medesima,  Napoli,  a*  25  del  mese  di  marzo  dell'anno  1738; 
nonché  dalle  Osservazioni  del  dottor  Pietro  datinone  sopra  la  scrittura  ititi- 


CAPITOLO    TERZO  47 

Di  tempo  in  tempo,  come  suole  avvenire,  mi  furon  commesse 
altre  cause  da  altri  provinciali,  che  io,  acquistando  maggior  pra- 
tica e  conoscenza  de'  ministri,  maneggiava  con  più  franchezza; 
ed  avendone  guadagnato  alcune,  e  sempre  più  venendone  delle 
nuove,  mi  posi  in  istato  di  far  venire  in  Napoli  un  mio  fratello 
minore1  presso  di  me,  ed  istradarlo  pria  ne'  studi  di  filosofia,  poi 
in  quelli  di  legge  e,  finalmente,  metterlo  nella  strada  de'  tribunali. 

Avvenne  dapoi  che,  per  la  morte  della  principessa  di  Marano, 
si  ebbe  a  disputare  della  di  lei  successione;  ed  aspirandovi  donna 
Isabella  Spinelli,  contessa  di  Bovalino,  che  avea  preso  per  suo  av- 
vocato l'Argento,  questi,  impedito  da  altre  gravi  sue  occupazioni, 
mi  diede  l'incombenza  di  attendere  alle  liti  della  medesima  e,  so- 
pra tutto,  a  quella  che  intorno  alla  successione  suddetta  teneva  col 
Caracciolo,  principe  di  Marano.  E  poiché  in  questa  causa  occorreva 
disputarsi  non  già  di  successioni  feudali,  ma  di  tenute,  le  quali 
nel  regno  di  Napoli  doveano  riputarsi  burgensatiche,2  e  questa 
materia  da'  forensi  non  era  stata  trattata  con  quella  dignità  e  chia- 
rezza che  conveniva;  quindi,  essendomi  stato  imposto  che  io  vi 
dovessi  scrivere,  mi  fu  data  occasione  di  esaminare  come  si  fossero 
introdotte  nel  Regno  le  tenute  e  dimostrare  che  potessero  costituirsi 
sopra  i  feudi,  non  pur  ne'  contratti  tra  vivi,  ma  eziandio  ne'  testa- 
menti, nelle  ultime  volontà:  per  le  quali  non  s'induceva  servitù 
alcuna  ne'  feudi,  non  importando  usufrutto,  ma  una  semplice 
commodità  di  goderne  i  frutti,  la  quale  era  distinta  dall'usufrutto: 
ciò  comprovando  non  solo  per  autorità  di  scrittori  forensi,  sicome 
erasi  sin  allora  fatto,  ma  con  i  princìpi  della  giurisprudenza  romana 
istessa,  additando  più  leggi  delle  Pandette,  dalle  quali  dimostrai 
con  evidenza  che  i  giurisconsulti  romani,  quando  non  potevasi  ne' 
fondi  e  ne'  predii3  e  nelle  doti  costituire  usufrutto,  consigliavano  che 
si  concedesse  facoltà  di  poterne  percepir  i  frutti,  la  quale  non  im- 
portava servitù  alcuna;  onde  a  ragione  da'  nostri  maggiori  si  eran 
introdotte  le  tenute  sopra  i  feudi,  le  quali  doveano  riporsi  nelPere- 

tolata  «Difesa  della  Redi  Giurisdizione  intorno  a'  regi  diritti  di  S.  Maria 
della  Cattolica  della  città  di  Reggio  »  (uno  scritto  del  Vitagliano  nel  quale 
si  erano  criticati  passi  dell'Istoria  civile:  cfr.  infra  alla  nota  i  di  p.  129). 
Queste  Osservazioni  si  trovano  ristampate  in  Opere  postume,  il,  pp.  143-50. 
i.  un  mio  fratello  minore:  Carlo,  il  quale  sarebbe  divenuto  T amministra- 
tore di  tutti  i  suoi  beni  dopo  la  fuga  a  Vienna.  Morì  il  14  febbraio  1755- 
2.  burgensatiche:  burghensatiche,  allodiali,  cioè  di  possessi  non  vincolati  al 
feudo,  allodio.     3.  predii:  possessioni  terriere  (latinismo). 


48  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

dita  burgensatica,  non  feudale,  lasciata  da'  defunti,  in  vigore  delle 
quali,  i  tenutari,  ancorché  non  eredi  ne*  feudali,  potevano  godere 
di  tutti  i  frutti  del  feudo,  anche  della  giurisdizione,  come  frutto 
del  medesimo. 

Quest'allegazione,  che  fu  data  alle  stampe,1  letta  con  piacere 
non  men  dagli  avvocati  che  da'  ministri,  mi  rese  più  noto  ne*  tribu- 
nali e  cominciai  dopo  ad  acquistar  qualche  nome  :  poiché,  occorren- 
do a  gli  avvocati  di  trattar  cause  consimili  di  tenute,  mi  ricercavano 
questa  scrittura  e,  secondo  i  princìpi  e  dettami  della  medesima, 
regolavano  le  lor  difese  e  formavano  le  loro  allegazioni. 


il 

Mentre  io  proseguiva  ed  avanzava  nella  strada  dell'avvocazione, 
non  per  ciò  furon  da  me  tralasciati  gPintrapresi  studi  della  filo- 
sofia, dell'istoria,  e  delle  altre  lettere  umane,  conversando  co'  pri- 
mi letterati  della  città,  co'  quali,  intanto,  avea  io  presa  conoscenza. 
Ed  intesi  alcune  dotte  loro  esposizioni,  che  recitavano  avanti  il 
duca  di  Medinacoeli  viceré,  il  quale  sovente  faceva  ragunargli  nel 
regal  palazzo,  ed  in  una  ben  ornata  e  magnifica  sala,  alla  di  lui  pre- 
senza e  consesso  della  primaria  nobiltà  e  ministero  ed  intervento 
di  molti  avvocati  ed  altre  persone  letterate,  si  udivano  vari  compo- 
nimenti di  sublime  e  scelta  materia,  non  meno  in  prosa  che  in  versi 
o  rime,  ed  in  più  lingue  :  greca,  latina,  toscana  e  spagnola.3 

Fra  gli  altri  di  questi  accademici,  mi  strinsi  con  nodi  di  perfetta 

i.  Quest'allegazione  . .  .  stampe:  anche  di  questo  scritto  non  si  hanno  ulte- 
riori notizie,  né  lo  ricorda  il  Fanzini,  p.  4,  il  quale,  dopo  aver  segnalato  Tal- 
legazione  in  favore  del  vescovo  di  Capaccio,  registra  di  seguito  l'altra  in  fa- 
vore del  principe  d'Ischitella,  sulla  quale  cfr.  p.  70.  2.  il  duca . . .  spagnola: 
nell'Istoria  civile,  tomo  iv,  lib.  xl,  cap.  ni,  p.  477,  aveva  scritto  che  il  viceré, 
sin  dal  suo  giungere  a  Napoli  «  favorì  le  lettere,  e  sopra  modo  i  letterati,  ragu- 
nandogli  spesso  nel  regal  palazzo,  dove  egli  con  somma  attenzione  e  compia- 
cimento ascoltava  nell'assemblee  i  loro  vari  componimenti.  Tal  che  le  buo- 
ne lettere,  che  nel  preceduto  governo  s'erano  presso  noi  stabilite,  a'  suoi 
tempi,  per  li  suoi  favori,  presero  maggior  vigore,  e  più  fermamente  si 
confermarono  ».  Così  a  sua  volta  Giambattista  Vico,  che  di  questa  acca- 
demia fu  anch'egli  membro,  definì  il  duca  «infinitae  procerum  Regni  po- 
tentiae  pene  extinctor,  durus  vectigalium  exactor,  acer  criminum  iudex», 
elogiando  gli  anni  del  suo  governo  (cfr.  Scritti  storici,  a  cura  di  F.  Nicolini, 
Bari  1939,  p.  305).  Testimonianze  di  questa  accademia  ci  sono  conservate 
nel  manoscritto  della  Biblioteca  Nazionale  di  Napoli  segnato  xni.B.69-73 : 
sono  cinque  volumi  dal  titolo  Lesioni  accademiche  de'  diversi  valentuomini 
de'  nostri  tempi  recitate  avanti  l'eccellentissimo  signor  duca  di  Medinacoelù 


CAPITOLO   TERZO  49 

amicizia  con  due:  con  don  Niccolò  Capasso,1  allora  cattedratico 
deìVtus  canonico  dell'Università  de*  studi,  e  con  Niccolò  Cirillo,2 
professore  di  medicina  in  quella  Università,  profondo  filosofo,  gran 
botanico  e  peritissimo  medico  e  notomico.  Questi,  come  immerso 
nella  filosofìa  di  Cartesio,  della  quale  era  a  fondo  istrutto,  cominciò 
a  farmi  allontanare  da  alcune  opinioni  del  Gassendo,  e  fece  ch'io 
leggessi  le  opere  del  Cartesio,  spezialmente  le  di  lui  Meditazioni,  i 
Princìpi,  la  Diottrica  ed  il  trattato  Delle  meteore.2  E  non  posso  ne- 
gare che,  leggendole,  intesi  farmi  di  me  stesso  maggiore,  per  le 
tante  belle  scoverte  e  sode  speculazioni  degne  di  quel  divino  inge- 
gno, e  sopra  tutto,  poi,  il  metodo  ch'egli  avea  tenuto  ne'  studi,  leg- 
gendo Pammirabile  trattato  Delle  passioni  dell 'animo,  e  gli  altri  due, 
ancorché  lasciati  imperfetti,  Dell'uomo  e  Del  feto  umano.4 

Questi  studi  mi  fecero  daddovero  comprendere  il  nostro  basso 
essere  umano  e  quale  miserabilissima  parte  noi  siamo,  riguardando 

i.  Nicola  Capasso  (1671-1745),  napoletano,  subentrò  alPAulisio,  alla  morte 
di  questo  (17 17),  sulla  cattedra  di  diritto  civile,  dopo  aver  insegnato,  nella 
stessa  Università  di  Napoli,  diritto  canonico  «secondo  i  veri  principi  tratti 
da'  concili  e  da*  Padri,  col  soccorso  deiristorìa  ecclesiastica,  e  secondo  l'in- 
terpretazione de'  più  culti,  ed  eruditi  canonisti  »  (Istoria  civile,  tomo  IV,  lib. 
XL,  cap.  v,  p.  492).  Appunti  manoscritti  di  sue  dispense  universitarie  sono 
conservati  presso  la  Biblioteca  Arcivescovile  di  Brindisi.  La  sua  biografia  è 
in  L.  Giustiniani,  Memorie  istoriale,  cit.,  11,  1788,  pp.  298  sgg.  e  in  G. 
G.  Origlia,  Storia  dello  Studio  di  Napoli,  cit.,  p.  279.  2.  Niccolò  Cirillo 
(1671-1735),  nato  a  Grumo,  vicino  Aversa,  fu  allievo  di  Nicola  Partenio 
Giannettasio,  poi  di  Luca  Tozzi,  celebre  medico,  seguace  della  filosofia 
cartesiana.  Membro  dell'Accademia  palatina  del  Medinacoeli,  professore  di 
fisica  nello  Studio  napoletano,  primario  dell'ospedale  degli  Incurabili,  col- 
l'aiuto  di  Pio  Niccolò  Garelli  ottenne  nel  1726  la  cattedra  primaria  di  me- 
dicina. Fu  amico  di  Celestino  Galiani,  e  fu  in  corrispondenza  con  Antonio 
Vallisnieri  e  col  Newton  (due  sue  dissertazioni  vennero  pubblicate,  tramite 
il  Newton,  sulle  «  Philosophical  Transactions  »  della  Royal  Society,  della 
quale  fu  anche  membro).  I  suoi  Consulti  medici  furono  editi  in  Napoli,  nel 
1738.  La  sua  biografia  è  in  testa  a  questa  edizione,  a  cura  di  Francesco  Serao. 
Un  maldestro  plagio  di  essa  è  il  saggio  di  A.  Russo,  Profilo  di  Nicolò  Cirillo 
medico,  filosofo,  scienziato,  in  «Atti  e  Memorie  dell'Accademia  di  Storia  del- 
l'Arte Sanitaria»,  appendice  alla  «Rassegna  di  Chimica  e  Terapia  e  Scienze 
affini»,  S.  11,  xxiii,  2  (1957).  3.  le  opere  . . .  meteore:  R.  Descartes,  Medi- 
tationes  de  prima  philosophia,  in  qua  Dei  existentia  et  animae  immortalitas  de- 
monstratur,  Pansiis  1641  ;  Principia  philosophiae,  ivi  1644.  Sono  invece  pre- 
cedenti a  queste  opere  i  due  saggi  che  il  Giannone  rammenta  qui,  apparsi 
in  un  unico  volume  in  Olanda  col  titolo  composito  :  Discours  de  la  Méthode 
pour  bien  condurre  sa  raison,  et  chercher  la  verità  dans  les  sciences.  Plus  la 
Dioptrique,  les  Météores  et  la  Geometrie,  qui  soni  des  essais  de  cette  Méthode, 
Leyde  1637.  4.  V ammirabile  . .  .  umano-,  nell'ordine:  Les passions  de  Vdme 
(1649)  e  il  Tractatus  de  nomine,  et  de  formatione  foetus,  quorum  prior  notis 
perpetuìs  Ludovici  de  la  Forge  M.  D.  illustratur  (1677). 


50  VITA   DI    PIETRO   GIANNONE 

questo  mondo  aspettabile1  e  tutto  l'ampio  universo,  mi  scovrirono 
un'altra  verità,  cotanto  da  Cartesio  istesso  inculcata:  che  in  filosofia 
niuno  dee  astringersi  a  militare  sotto  un  particolar  duce,2  ma  Tuni- 
ca sua  scorta  e  guida,  in  investigando  l'opre  stupende  di  natura, 
dover  essere  la  sola  ragione  e  l'esperienza.  E  d'allora  in  poi  sti- 
mai leggerezza  o  vanità  il  seguitare  il  partito  o  di  Gasscndo  o 
di  Cartesio  o  di  qualunque  altro  filosofo;  ma,  doppo  un  maturo 
esame  ed  esatto  scrutinio,  appigliarsi  a  quella  dottrina,  che  tro- 
verà più  conforme  alla  ragione  ed  all'esperienza.  E  la  maniera 
di  indagar  nelle  cose  la  verità,  rivocandole  ad  esame,  mi  fu  mo- 
strata da  quel  dotto  ed  acuto  libro  di  Malebranche,  De  mquiren- 
da  'ventate?  che  io  lessi  per  consiglio  del  cattedratico  Capasso, 
che  me  ne  diede  notizia  e  m'invogliò  a  studiarlo.  Compresi  ciò 
che  importasse  quel  savio  ammonimento  di  dover  drizzare  tutte 
le  conoscenze  fisiche  e  naturali,  e  spezialmente  la  cognizione  di 
noi  stessi,  non  ad  altro  scuopo,  che  per  acquistare  una  buona 
morale,  la  quale,  peregrinando  in  questo  mondo,  ci  potesse  essere 
non  sol  di  guida  per  ben  reggere  la  nostra  vita  ed  i  nostri  costumi, 
ma  per  renderci  forti,  pazienti  alle  sciagure  ed  avversità,  per  mezzo 
delle  quali  deesi  camminare,  in  passando  questo  mar  procelloso, 
pieno  di  sirti,  di  pirati  e  di  duri  scogli. 

Ed  in  vero  nelle  mie  fiere  ed  incessanti  persecuzioni,  che  ho 
sofferte  nel  corso  di  mia  penosa  vita,  come  si  udirà  più  innanzi, 
non  ebbi  altro  conforto,  che  mi  desse  coraggio  a  pazientemente 
soffrirle,  se  non  la  cognizione  delle  mondane  cose,  del  nostro  basso 
essere  e  della  miserabile  umana  condizione,  sottoposta  a  varie  vi- 
cende; le  quali  accadendo,  non  devon  riputarsi  strane  e  portentose, 
ma  secondo  il  corso  dell'immutabile  serie  e  concatenazione  degli 
effetti  con  le  loro  più  immediate  cagioni. 

Questo  frutto  ritrassi  da'  miei  studi  di  filosofia,  che  per  me,  in 
tante  calamità  e  sciagure,  non  è  da  dubbitare  che  fummi  di  gran 
sollievo  e  ristoro.  Benedico  per  ciò  il  tempo  che  vi  consumai,  e  le 
fatiche  e  gli  incommodi  che  per  apprenderla  vi  soffersi,  poiché 


i.  aspettàbile:  visibile  (latinismo).  2.  sotto  un  particolar  duce:  seguendo 
una  sola  scuola  filosofica.  Le  parole  che  seguono  sono  tratte  dalla  de- 
dicatoria della  Professione  di  fede  (cfr.  qui  a  p.  483)*  3.  Cfr.  N.  db  Male- 
branche, De  la  recherche  de  la  vérité,  Paris  1674- 1675.  Nicolas  de  Male~ 
branche  (1638-1715),  oratoriano  francese,  riprese  la  tematica  filosofica  carte- 
siana, in  chiave  occasionalistica. 


CAPITOLO   TERZO  51 

se  bene  dovessi  ravvolgermi  fra  l'improba  e  cavillosa  turba  forense 
e  fra  i  tumulti  e  romori  de'  tribunali,  non  abbandonai  giammai, 
nell'ore  solitarie  e  di  quiete,  i  di  lei  studi;  anzi  un  anno,  dicendomi 
il  dotto  Cirillo  che  in  quel  semestre  insegnava  nel  pubblico  a'  suoi 
discepoli  il  trattato  Delle  cause  de9  morbi,1  e  che,  dovendo  trattar  di 
quelli  appartenenti  al  capo,  l'era  convenuto  descrivere  la  costru- 
zione del  cerebro,  degli  spiriti  animali,  dell'origine  de'  nervi,  della 
fabbrica  degli  occhi,  delle  orecchie,  delle  narici,  della  bocca  e  di 
tutte  le  parti  che  compongono  il  capo,  affinché  meglio  capissero 
onde  provenisse  la  memoria  e  la  riminiscenza,  e  le  cagioni  onde 
sovente  venisse  a  mancare  0  a  perdersi,  e  donde  provenissero  gli 
altri  mali  che  alteravan  la  nostra  fantasia  ed  immaginazione,  sicché 
spesso,  per  lo  sregolato  corso  degli  spiriti,  ne  venivan  gl'insogni,2 
le  illusioni  ed  altri  vani  fantasmi  e  spettri,  sicome  onde  fosser  ca- 
gionati gli  altri  morbi  de'  nostri  sensi  esterni  ;  quindi  io,  tratto  da  sì 
nobil  materia,  rubava  come  meglio  poteva  l'ora  di  qualche  giorno 
per  andarlo  a  sentire.  Sicome,  sempre  che  al  medesimo  occorreva 
far  qualche  privata  osservazione  notomica,  o  pure  mi  era  riferito 
che  il  celebre  filosofo  e  medico,  Lue' Antonio  Porzio,3  il  quale  al- 
lora occupava  la  cattedra  di  notomia  nell'Università  degli  studi, 
dovea  far  qualche  sezione  di  cadavere  umano  o  di  altro  animale, 
non  mancava  d'intervenirci.  E  con  tal  occasione  venni  a  conoscere 
il  famoso  Gregorio  Caloprese,4  profondo  filosofo  cartesiano,  il  qua- 

1.  Delle  cause  de*  morbi:  cioè  il  De  caussù  morborum  liber  di  Claudio  Gale- 
no (129-201),  celebre  medico  aristotelico  la  cui  fama,  nell'antichità,  fu  pari, 
in  medicina,  a  quella  goduta  da  Aristotele  in  filosofia,  lì  De  caussù  si  può  ve- 
dere nell'edizione  Medicorum  graecorum  opera  quae  extant,  vii,  Lipsiae  1 824, 
pp.  1-41.  2.  gVinsogni:  i  sogni.  3.  Lue* Antonio  Porzio  (1634-1723),  napole- 
tano, fu  un  celebre  medico  la  cui  fama  varcò  l'ambito  cittadino.  Fu  a  Roma 
nel  1670,  dove  insegnò  alla  Sapienza;  quindi  a  Vienna  tra  il  1684  e  il  1687, 
per  rientrare  infine  a  Napoli,  dove  rimase  sino  alla  morte.  A  Vienna  pub- 
blicò i  suoi  studi  sulle  malattie  più  diffuse  tra  gli  eserciti.  Su  di  lui  si  veda 
in  D.  Martuscelli,  Biografia  degli  uomini  illustri  del  regno  di  Napoli,  11,  Na- 
poli 1809,  pp.  125  sgg.;  C.  Minieri  Riccio,  Memorie  storiche  degli  scrittori 
nati  nel  regno  dì  Napoli,  Napoli  1844,  p.  283;  L.  Nicodemo,  Addizioni  co- 
piose alla  Biblioteca  napoletana  del  dottor  Niccolò  Toppi,  Napoli  1683,  p.  157. 
La  sua  opera  fu  raccolta  da  Francesco  Porzio  e  edita  in  due  volumi  a  Napo- 
li nel  1736.  4.  Gregorio  Caloprese  (1650-1715),  originario  delle  Calabrie, 
maestro  del  cugino  Gian  Vincenzo  Gravina  e  di  Pietro  Metastasio,  deve  la 
sua  fama  all'opera  di  divulgazione  della  filosofia  cartesiana  da  lui  fervida- 
mente compiuta  nella  Napoli  secentesca.  Commentò  il  Canzoniere  del  Pe- 
trarca, annotò  e  tradusse  la  Logica  di  Pierre-Sylvain  Régis  (un  filosofo  di 
scuola  cartesiana  di  indubbia  originalità),  e  stese  un  trattato  contro  lo  Spi- 
noza di  cui  ci  ha  tramandato  notizia  G.  B.  Rinucci  nella  sua  Vita  di  G. 


52  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

le  non  tralasciava  di  esser  presente  nell'osservazioni  notomiche  che 
faceva  il  Porzio. 

Ebbi  ancora  occasione  di  continuar  questi  studi,  perché,  avendo 
mandato  mio  fratello  dal  Cirillo  ad  apprender  filosofia,  sovente, 
per  indagare  il  profitto  che  vi  faceva,  gli  domandava  di  più  cose 
a  quella  appartenenti  e  rivedeva  i  suoi  scritti,  e  se  da  lui  si  erano 
ben  capiti  ed  intesi.  Così,  avendogli  sempre  innanzi  a  gli  occhi, 
ne'  dì  feriati,1  l'avea  per  mio  sollievo  e  diporto.  E  mi  ricordo  che, 
alquanti  anni  appresso,  essendosi  nelle  ferie  del  Carnevale  mossa  da 
alcuni  curiosità  di  sapere  per  qual  cagione  le  nevi,  che  cadono  nel 
Vesuvio  nell'orlo  della  bocca  che  butta  fiamme  e  fuoco,  durano 
più  lungamente  che  quelle  che  cadono  nell'altra  cima  dell'istes- 
so  monte,  che  non  butta  fiamme  ed  è  alquanto  più  alta,  io  dallo 
scolo  che,  cadute  in  quel  sabionc,  fassi  delle  lor  acque,  sciolsi  il 
problema;  poiché,  non  mescolandosi  colla  neve  rimasa,  fa  che  più 
lungamente  la  conservi;  ciocché  non  accade  nell'altra  cima,  che 
non  ha  sabia,  ma  terren  duro  e  forte,  sicché  l'acque  della  neve  li- 
quefatta, non  trovando  scolo  e  mescolandosi  colla  rimasa,  fa  che 
tosto  la  risolva  e  converta  in  piccioli  e  minuti  rivi.4 


in 

[1702} 

Intanto,  i  progressi  che  sotto  l'Argento  io  faceva  ne'  tribunali 
eran  notabili;  e  proseguendo  gl'intrapresi  studi  dell'istoria  e  giu- 
risprudenza, si  aggiunse  un'occasione  assai  propria  e  pili  acconcia 
per  avanzargli  e  stendergli  all'ultimo  punto  di  perfezione;  poiché 
la  casa  dell'Argento,  più  di  qualunque  altra  casa  d'avvocato  essendo 
fioritissima  di  giovani  eruditi  e  dotti,  che  si  erano  avviati  per  l'av- 

Caloprese,  fra  gli  Arcadi  Alcimedonte  Cresio,  edita  nello  Notizie  {storiche  de- 
gli Arcadi  morti,  Roma  1720,  n,  pp.  11 1  sgg.  Da  essa  apprendiamo  anche 
che  partecipò  all'Accademia  del  duca  di  Medinacoeli,  svolgendovi  una  serie 
di  lezioni  antimachiavelliche.  Su  di  lui  cfr.  R.  Cotugno,  Gregorio  Calopre- 
se,  Trani  191 1.  x.  feriati:  festivi  (latinismo).  2.  E , . .  rivi*,  questa  breve 
trattazione  fu  pubblicata  dal  Giannone,  anagrammando  il  proprio  nome, 
col  titolo  :  Lettera  scritta  da  Giano  Percntino  ad  un  suo  amico  che  lo  richie- 
deva onde  avvenisse  che  nelle  due  cime  del  Vesuvio  in  quella  che  butta  fiamme 
ed  è  più  bassa,  la  neve  lungamente  si  conservi,  e  nelV altra  ch'è  alquanto  più 
alta  ed  intera,  non  vi  duri  che  per  pochi  giorni,  Napoli,  26  febbraio  17x8. 
Questo  opuscolo,  un  esemplare  del  quale  è  conservato  presso  la  Biblioteca 
Nazionale  di  Napoli,  è  stato  ristampato  in  appendice  alla  Vita,  ed.  Nicolini, 
PP.  4*9-3*. 


CAPITOLO   TERZO  53 

vocazione,  venne  a  tutti  desiderio  destituire  fra  noi,  tra  le  domesti- 
che pareti  di  quella,  un'accademia1  nella  quale,  in  certi  stabiliti 
giorni,  si  dovesser  recitare  lezioni  sopra  qualche  diffidi  testo  delle 
Pandette  o  del  Codice,  secondo  che  ciascuno  se  l'avesse  eletto,2 
per  mostrare  sua  dottrina  e  valore,  ovvero  disputarsi  sopra  qualche 
causa  ed  articolo  forense,  nella  guisa  che  facevasi  nelle  Ruote  del 
Consiglio  di  Santa  Chiara.  Due  giovani  assumevan  la  parte  degli 
avvocati  contendenti,  gli  altri,  più  provetti,  la  parte  de'  giudici 
che  dovean,  co'  loro  voti  ben  ragionati  e  pubblicamente  esposti, 
deciderle. 

Avvenne,  tra  questi  esercizi,  ch'essendosi  proposto  di  doversi  in 
più  lezioni  esporre  la  legge  seconda  de  origine  iuris,  della  quale  se 
ne  fa  autore  Pomponio3  giurisconsulto,  per  aver  un'esatta  notizia 
dell'origine  e  progressi  della  giurisprudenza  romana,  io  volentieri 
cedei  ad  un  mio  collega  che  bramava  di  sottentrar  egli  a  questo 
peso,  pur  che  mi  fosse  permesso,  dov'egli  finiva,  cominciar  le  mie 
lezioni,  intendendo  di  proseguire  l'istoria  legale  de'  tempi  bassi, 
e  continuarla  fino  a'  di  nostri.  L'impresa,  sicome  parve  dura  e 
malagevole,  così  da  tutti  era  commendata  e,  per  conseguenza,  era 
vie  più  stimolato  ad  intraprenderla.  Io  intanto  mi  esposi  a  questo 
cimento,  perché  i  precedenti  miei  studi  l'avea  sempre  indrizzati  a 
questo  fine,  riputando  che  abbastanza  si  era  scritto  dell'antica  e 
media  giurisprudenza  romana,  sua  origine  e  progressi,  ma  dell'in- 
fima non  già,  e  molto  meno  delle  origini  delle  leggi  di  altre  nazioni 
succedute  in  Italia  a'  Romani,  e  spezialmente  al  nostro  regno  di 
Napoli. 

Mi  avea  a  ciò  maggiormente  spinto  l'esempio  di  Arturo  Duck 
inglese,  il  di  cui  aureo  libretto,  De  u$u  et  auctoritate  iuris  Romanorum 
etc.,4  in  Napoli  allor  rarissimo  ed  a  pochi  noto,  mi  avea  mostrata 
la  via,  ciocch'egli  fece  esattamente  ne'  regni  della  Gran  Brettagna, 
di  poter  far  io  nel  regno  di  Napoli,  senza  dilungarmi  in  altri  remoti 
paesi.  Poiché,  se  bene  egli  avesse  scorso  quasi  tutti  i  regni  e  le 
Provincie  di  Europa,  nulladimanco  l'opera  sua  stessa  dimostrava 


i.  un'accademia:  l'Accademia  dei  Saggi.  Cfr.  I.  Rinieri,  Rovina  d'una  mo- 
narchia, Torino  1901,  p.  xxni.  2.  eletto:  scelto.  3.  Sesto  Pomponio,  giu- 
rista romano  vissuto  nel  II  secolo  dell'Era  volgare;  ai  suoi  scritti  si  riferi- 
rono ampiamente  i  giuristi  che  compilarono  il  Digesto  giustinianeo.  4.  Il 
De  usu  et  authontate  iuris  civilis  Romanorum  in  dominiis  principum  christia- 
norum,  Londini  1653  (postumo)  del  giurista  Arthur  Duck  (15  80- 1648). 


54  VITA   DI    PIETRO   GIANNONE 

che  non  era  impresa  d'un  solo  ;  ma  che  ciascuno  dovea  raggirarsi  in 
quella  provincia  ov'era  nato  e,  lungamente  dimoratovi,  avesse  po- 
tuto minutamente  avvertire  le  vicende  ed  i  vari  cangiamenti  del 
suo  stato  politico  e  civile. 

E  nel  progresso1  conobbi  che  non  poteva  esattamente  capirsi 
Tistoria  delle  leggi,  se  alla  medesima  non  si  accoppiava  l'istoria  ci- 
vile, per  sapere  gli  autori,  le  occasioni,  il  fine,  l'uso  e  l'intelligenza 
che  si  era  lor  data,  e  per  conoscere  i  vari  stati,  cangiamenti  e  co- 
stituzione delle  cose,  che  dieder  causa  a  tanti  vari  e  multiplici 
regolamenti.  In  questo  concetto  maggiormente  mi  confermò  un 
altro  inglese,  e  questi  fu  Bacon  di  Verulamio,  il  quale,  in  quel  savio 
suo  libro  De  augumentis  scientiarum?  fra  le  cose  desiderate  ripone 
un'esatta  istoria  civile,  poiché  e'  saviamente  riflette  che  nell'altre 
istorie,  eziandio  nella  naturale,  s'eran  fatti  gran  progressi,  ma  non 
già  nella  civile. 

Cominciai  adunque,  coll'occasione  di  queste  lezioni,  che  dovean 
recitarsi  nella  nostra  accademia,  a  volgere  e  rivolgere  i  libri,  che 
a  questo  fine  io  reputai  necessari,  alcuni  de'  quali,  per  essere  in 
Napoli  rari  e  sconosciuti,  m'erano  con  somma  cortesia  sommini- 
strati da'  nipoti  Valletta,  i  quali  ancor  serbavano  intatta  la  famosa 
biblioteca  lasciatagli  dall'avo  Giuseppe  Valletta.3  E  prima  d'ogni 

I.  nel  progresso:  in  seguito.  2.  De  dìgnitate  et  augmentis  scientiarum  li- 
bri IX,  Londini  1623.  Ma  si  veda,  di  contro,  G.  Bonacci,  Saggio  sul- 
la Istoria  civile  del  Giannone,  Firenze  1903,  p.  42,  il  quale  rileva  come 
Bacone  avesse  scritto:  «Historiam  civilem  in  tres  species  recte  dividi 
putamus.  Primo  sacram  sive  ecclesiasticam;  deinde  eam,  quae  generis 
nomen  retinet,  civilem;  postremo  litcrarum  et  artium  .  . .  Ordiemur  autem 
ab  ea  specie,  quam  postremo  posuimus,  quia  reiiquae  duae  -  sacram 
et  civilem  -  habentur;  illam  autem  inter  desiderata  referre  visum  est». 
3.  Giuseppe  Valletta  (1636-1714),  napoletano,  fu  un  grande  erudito,  seguace 
in  filosofia  del  cartesiancsimo,  poi  del  gassendismo,  secondo  una  parabola 
che  fu  comune  a  molti  intellettuali  napoletani  e  che  abbiamo  già  visto  qui 
descritta  dallo  stesso  Giannone.  Assai  importanti,  per  l'influenza  che  eser- 
citarono sul  movimento  giurisdizionaiista,  sono  lo  scritto  Intorno  al  pro- 
cedimento ordinario  e  canonico  nelle  cause  che  si  trattano  nel  tribunale  del  S. 
Ufficio  nella  città  e  regno  di  Napoli,  steso  tra  il  1694  e  il  1696,  e  il  Discorso 
filosofico  in  materia  di  inquisizione  et  intorno  al  cor  reggimento  della  filosofia 
di  Aristotele,  nato  come  appendice  al  primo  lavoro,  quindi  ampliato  col 
titolo  di  Istoria  filosofica  e  parzialmente  dato  alle  stampe  nel  1703.  L1 Istoria 
venne  successivamente  ristampata  -  nella  primitiva  stesura  -  da  Girolamo 
Tartarotti  nel  1732  con  l'indicazione  (esatta,  anche  se  da  molti  posta  in 
dubbio)  di  Rovereto  come  luogo  di  stampa.  La  ricchissima  biblioteca  del 
Valletta  -  qui  ricordata  dal  Giannone  ancora  in  possesso  dei  nipoti  Niccolò 
e  Francesco  -  passò  ben  presto  al  convento  napoletano  dei  Girolamini, 
dove  si  fuse  con  quella  dell'Oratorio.  Una  descrizione  del  fondo  vallettiano 


CAPITOLO   TERZO  55 

altro,  stancai  il  Codice  teodosiano  co*  commentari  di  Giacomo  Go- 
tofredo,  e  gli  scrittori  di  sopra  accennati,  che  furon  coetanei  di 
quegli  imperadori,  dalle  costituzioni  de'  quali  fu  quel  codice  compi- 
lato: cioè  di  Costantino  Magno  fino  a  Teodosio  il  Giovane  e  Valen- 
tiniano  III.  E  quantunque  ciò  mi  fosse  d'un  gran  travaglio  e  di 
somma  fatica,  io  la  soffriva  per  le  cose  nuove  che  vi  scovriva,  da 
altri  non  avvertite,  spezialmente  per  aver  una  chiara  e  distinta 
idea  delle  provincie,  onde  allora  si  componeva  il  regno  di  Napoli, 
e  de'  rettori  che  le  governavano.  Questi  secoli  fra  noi  erano  affatto 
oscuri  ed  ignoti.  I  nostri  istorici  eran  tutti  muti,  e  qualche  cosa 
accennavano  de'  seguenti  tempi  dell'imperadore  Giustiniano,  se- 
condo che  Procopio,  che  nella  sua  Istoria  ne  gli  avea  suggerite  le 
notizie,  della  quale  nemmeno  seppero  ben  profittarsi. 

Lessi  indi  i  libri  di  Cassiodoro  e  di  Giornandes,1  e  più  lumi  da 
quelli  ebbi  per  li  tempi  seguenti  de'  Goti,  pure  fra  noi  inviluppati 
ed  oscuri.  U Istoria  di  Procopio,  che  io  lessi  seguendo  la  traduzione 
latina  di  Ugon  Grozio,2  ed  i  suoi  dotti  Prolegomeni,  rendeva  più 
chiari  i  tempi  di  Giustiniano.  Dalla  compilazione  del  Codice  di 
questo  imperadore  e  dalle  tante  non  men  sue  Novelle,  che  de'  suoi 
successori,  più  cose  potevan  ricavarsi  per  rischiarimento  delle  nostre 
province,  e  spezialmente  di  quelle  città  che  sotto  l'imperio  greco 
lungamente  dimorarono;  ma  bisognava  andarle  rintracciando  di 
qua  e  di  là,  con  gran  pena,  fra  tante  altre  compilazioni  greche  e  fra 
le  innumerevoli  Novelle  degli  altri  seguenti  imperadori  d'Oriente. 

Seguivano  poi  tempi  più  tenebrosi,  quando  pervennero  sotto  i 

è  stata  compiuta  dal  padre  A.  Bellucci,  Il  fondo  vallettiano  dell'Oratorio 
filippino)  in  «Fuidoro»,  1954,  nn.  5  e  6.  La  storia  dell'edificio  che  la  ospita 
in  M.  Borrelli,  //  largo  dei  Girolamìni,  Napoli  1962.  Sul  Valletta  si  veda 
il  necrologio  apparso  sul  «Giornale  de'  Letterati  d'Italia»  nel  17 16,  t.  xxrv, 
e  la  biografia  del  padre  A.  P.  Berti,  per  la  raccolta  di  G.  M.  Crescimbeni, 
Le  vite  degli  Arcadi  illustri,  iv,  Roma  1727,  pp.  37-76.  1.  Flavio  Magno 
Aurelio  Cassiodoro  (490  circa-583  deirEra  volgare)  fu  senatore  romano, 
console  e  magister  officiorum  (cioè  capo  della  cancelleria  imperiale  per  la 
politica  interna)  alla  morte  di  Teodorico.  Fallito  il  suo  sogno  di  coesisten- 
za tra  Romani  e  Goti,  si  ritirò  in  monastero  vicino  alla  sua  città  natale  di 
Squillace.  Famosi,  tra  i  suoi  scritti,  il  De  anima  e  una  Historia  ecclesiasti- 
ca tripartita;  Giornandes:  Giordane.  2.  L'Istoria  .  .  .  Grozio:  cfr.  l'opera 
di  Huig  van  Groot,  latino  Grotius  (1583-1645),  Vandalica  et  Gotthica 
Procopii.  Excerpta  ex  arcana  Procopii  historia  ad  res  vandalicas  et  gotthicas 
pertinentia;  sta  in  Historia  Gotthorum,  Vandalorum  et  Langobardorum, 
Amstelodami  1655.  Fanno  parte  dell'apparato  erudito  dell'opera  del  Gro- 
zio anche  il  De  gestis  Langobardorum  libri  VI  di  Paolo  Warnefrido  e  il  De 
origine  actibusque  Getarum  di  Giordane,  ricordati  più  avanti. 


56  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

Longobardi;  ed  in  tanta  oscurità,  non  era  da  sperar  soccorso  se 
non  da  Paolo  Warnefrido,  Eremperto1  e  da  qualche  antica  cronaca 
de'  monaci  benedittini,  e  sopra  l'altre  da  quella  di  Lione  Ostiense.2 
Poiché,  credendo  di  potermi  giovare  delle  moderne  istorie  napoli- 
tane  -  scritte  da  gravi  ed  accurati  autori,  come  furono  Angelo  Co- 
stanzo e  Francesco  Capecelatro  -  giacché  dalla  turba  degli  altri 
sciapiti  e  goffi  scrittori  non  era  niente  da  sperare,  -  trovai  che  il 
Costanzo,  atterrito  dalle  dense  tenebre  che  incontrava  canùnando 
verso  questi  oscuri  tempi,  com'egli  stesso  confessò,  avea  comin- 
ciata la  sua  Istoria  dagli  Angioini;3  ed  il  Capecelatro  non  potè 
dar  alla  sua  più  alto  principio,  che  cominciandola  da  Ruggero  I, 
re  di  Sicilia,  tralasciando  i  primi  Normanni  che  vennero  in  Pu- 
glia, e  gli  altri  della  razza  di  Tancredi  onde  uscirono  i  duchi  di 
Puglia  ed  i  primi  conti  di  Sicilia.4 

Ma  l'inviluppo  maggiore  era  che,  discendendosi  a'  tempi  ne' 
quali  Italia  ed  il  regno  di  Napoli  sofferse  maggiori  alterazioni, 
quando  i  romani  pontefici,  innalzando  sempre  più  la  lor  monarchia, 
aveano  dentro  i  domini  de'  principi  stabilito  un  altro  imperio, 
secondo  questo  nuovo  sistema,  per  ben  tessere  un'esatta  istoria 
civile,  non  bastava  fermarsi  nel  solo  governo  de'  principi,  delie 
loro  leggi  e  stato  civile  de'  loro  reami;  ma  bisognava  conoscere 
quest'altro  nuovo  imperio  ne'  medesimi  stabilito,  e  molto  più  nel 
regno  di  Napoli,  il  quale  aveva  quasi  assorbito  il  civile,  e  resolo, 
o  si  riguardano  le  persone,  ovvero  i  beni,  quasi  tutto  ccclesiasti- 

i.  Paolo  Warnefrido  (720  circa-79a  circa),  conosciuto  anche  come  Paolo 
Diacono,  è  con  la  sua  cronaca  un'importante  fonte  per  la  storia  elei  I  longo- 
bardi, assieme  a  quella  del  cronista  Erchempert  (seconda  meta  del  secolo 
IX),  Historia  Langobardortmi  Beneventanorum  ab  anno  ?J4  usqtte  ad  annum 
889.  Il  testo  di  questa  cronaca  fu  pubblicato  da  Antonio  Caracciolo  (1562- 
1642),  in  uno  con  altri  tre  cronisti,  col  titolo  Antiqui  chronologì  quatuor, 
in  Napoli  nel  1626.  2.  Leone  Marsicano  (1045  circa-uxs),  vescovo  di 
Ostia,  fu  cronista  del  monastero  di  Montecassino.  3.  trovai . . .  Angioini: 
cfr.  Dell'istorie  della  sua  patria^  Napoli  1572,  dello  storico  e  poeta  napole- 
tano Angelo  di  Costanzo  (1507-1591).  Questa  storia,  che  e  ira  quelle  più 
sfruttate  dal  Giannone  per  la  sua  opera,  abbraccia  il  periodo  che  va  dal 
1250  al  i486.  4.  Capecelatro  . . .  Sicilia:  lo  storico  Francesco  Capecelatro 
(1596  circa- x  670)  è  l'autore  di  una  Historia  della  città  e  regno  di  Napoli, 
detto  di  Cicilia,  Napoli  1640,  dalle  origini  a  Federico  II;  per  Ruggero  X 
cfr.  la  nota  1  a  p.  159;  Tancredi  (morto  nel  1194),  figlio  di  Ruggiero,  du- 
ca di  Puglia,  e  di  Emma  dei  conti  di  Lecce,  conte  di  Lecce  dal  1 149,  fu 
proclamato  re  di  Sicilia  nel  1 189.  Sostenne  una  dura  lotta  contro  i  rivali 
al  trono  Enrico  VI  e  Riccardo  Cuor  di  Leone.  Mori  lasciando  erede  il 
figlio  Guglielmo  III. 


CAPITOLO   TERZO  57 

co.  Il  diritto  canonico  non  dovea  più  riguardarsi  come  apparte- 
nenza del  civile  e  ravvisarlo  ne*  codici  degrimperadori  Teodosio  e 
Giustiniano,  e  nelle  Novelle  degli  altri  imperadori  d'Oriente,  ed  in 
Occidente  ne'  Capitolari1  di  Carlo  Magno,  di  Lodovico  e  degli  altri 
successori  imperadori.  Se  n'era  già  fatto  corpo  a  parte,  separato  ed 
independente,  che  riconosceva  altro  monarca  e  legislatore,  anzi, 
emulo  delle  leggi  e  del  diritto  civile,  cercava  abbatterlo  e  sottoporlo 
a*  suoi  piedi.  Così,  ad  emulazione  delle  Pandette,  si  era  veduto  sor- 
gere il  Decreto,  al  Codice  emulavan  le  Decretali,  alle  Novelle  le 
tante  Estravaganti  e  nuove  collezioni  di  Bolle  papali,  ed  infine 
alle  Istituzioni  di  Giustiniano  quelle  di  Paolo  Lancellotti;  e  perché 
nulla  mancasse,  alla  materia  feudale  contrapposero  la  beneficiaria.7. 

Conosciuta  da  ciò  e  da  altri  portentosi  cangiamenti  la  necessità 
che  a'  di  nostri  non  poteva  scriversi  un'esatta  Istoria  civile,  se  non 
si  teneva  conto  non  men  dell'uno  che  dell'altro  stato,3  mi  vidi 
atterrito  dall'ardua  impresa,  quasi  fuor  di  speranza  di  poterne  ve- 
nire a  capo.  Avea  cominciato  il  lavoro,  ed  ancorché,  crescendo  le 
occupazioni  del  foro,  finisse  presto  la  nostra  accademia,  sicché 
poche  lezioni  furon  ivi  recitate,  nulladimanco,  sicome  suole  avve- 
nire, invogliato  dalla  materia  e  più  dal  lavoro,  che  io  lo  riputava 
nuovo  e  da  altri  nostri  scrittori  non  ancor  tentato,  non  tralasciai  di 
proseguirlo.  Ma  quanto  più  avanzava  di  cammino,  invece  di  sce- 
marsi la  via  s'allungava  assai  più,  poiché,  inoltrandomi,  entrava 
in  maggior  vastità  e,  come  in  un  vasto  e  profondo  pelago  immerso, 
non  ne  vedea  più  né  fondo  né  riva  sicché  più  volte  fui  tentato  di 
abbandonarlo.  Potè,  infine,  più  la  mia  ardente  brama  ed  il  con- 
forto che  me  ne  davano  alcuni  amici,  che  il  terrore  e  spavento, 
che  mi  si  offeriva  davanti,  di  tante  lunghe  ed  ostinate  fatiche  che 
dovean  soffrirsi  per  giungere  al  desiato  porto.  Non  vi  aggiungeva 
allora  le  tante  persecuzioni,  patimenti  e  sciagure  che,  ancorché 
giunto  in  porto,  mi  stavano  preparate  da'  duri  ed  acerbi  miei  fati 
e  dall'inesorabile  e  crudel  mio  destino. 

Questo  mio  travaglio  si  cominciò  sotto  il  regno  di  Filippo  V,  re 
di  Spagna  (che  io,  prima,  in  quelle  settimane  che  dimorò  in  Na- 


i.  Capitolari:  le  ordinanze  emanate  dai  Carolingi.  Delle  varie  raccolte  fat- 
te, la  prima  fu  composta  sotto  Ludovico  il  Pio  dall'abate  di  Fontanelle, 
Ansegiso  (827).  2.  la  beneficiaria:  cioè  quella  parte  del  diritto  che  riguarda 
i  benefìci  ecclesiastici,  in  contrapposizione  al  possesso  feudale.  3.  del- 
l'uno .  .  .  stato  :  del  potere  politico  e  del  potere  ecclesiastico. 


58  VITA   DI   PIETRO   GIANNONE 

poli,  donde  passò  all'esercito  di  Lombardia,1  ebbi  la  sorte  di  veder 
più  volte  mangiare  in  pubblico,  fra  la  corona  di  tanti  illustri  per- 
sonaggi non  meno  italiani  che  spagnoli  e  francesi)  e  sotto  il  go- 
verno del  duca  di  Escalona  viceré,  intorno  Tanno  1702. 

Questo  viceré,  non  meno  che  il  duca  di  Medina  Coeli,  favoriva 
i  letterati,  ma  molto  più  le  buone  lettere;  ed  amante  delle  scienze 
e  delle  arti  liberali,  applicò  a  riformare  la  Università  de*  studi  di 
Napoli  di  alquanti  abusi  ne'  quali  era  caduta,  e  con  sua  prammati- 
ca ne  abolì  molti.2  Ed  il  nostro  Aulisio  l'era  entrato  in  tanta  gra- 
zia che,  se  le  vicende  delle  mondane  cose  non  avessero  portato  in 
Napoli  quel  cangiamento,  che  poi  si  vide,  l'avrebbe  sicuramente 
innalzato  a*  primi  onori  della  toga  0  di  consigliere  del  Consiglio 
di  Santa  Chiara  ovvero  di  presidente  della  Regia  Camera. 

Io,  ancorché  col  progresso  del  tempo  le  occupazioni  del  foro 
mi  crescessero,  non  tralasciava,  ne'  dì  feriati  e  nelle  ferie  estive  o 
vindemmiali,3  quando  i  tribunali  cessavano,  di  ripigliarlo.4  Ed  aven- 
do acquistato  qualche  merito  per  le  fatiche  a  prò  di  lei  impiegate, 
nella  causa  della  successione  di  Marano  con  la  contessa  di  Bovalino, 
donna  Isabella  Spinelli,  la  quale  possedeva  nella  riviera  di  Posilipo 
un  palazzo  antico  di  sua  famiglia,  chiamato  degli  Spinelli:  io,  per 
beneficenza  della  medesima,  avea  ogni  anno  permissione,  termi- 
nati i  tribunali,  ne'  princìpi  di  luglio,  d'andarmene  ad  abitare  in 
alcune  stanze  di  quello,  per  que'  studi,  proseguiva  l'intrapreso  la- 
voro, conducendo  meco  que'  libri  che  mi  eran  necessari;  e  nel 
mese  di  settembre  solea  in  Napoli  far  ritorno. 

Tali  studi,  in  questi  princìpi,  poiché  non  era  caricato  di  molti 
negozi,  non  mi  davano  alcun  impaccio  nella  strada  de'  tribunali, 

1.  Filippo  .  .  .  Lombardia'.  Filippo  d'Angiò  (1683- 1746)  era  salito  sui  trono 
di  Spagna  con  il  nome  di  Filippo  V  alla  morte  del  predecessore  Carlo  II 
(1  novembre  1700).  Nel  1701  il  re,  recatosi  in  Italia  per  visitare  i  domini 
spagnoli  di  Napoli  e  Milano,  dovette  interrompere  il  suo  viaggio  per  lo 
scoppio  della  guerra  di  successione  spagnola  (1701-17x4)  e  raggiungere 
P esercito  in  Lombardia,  dove  gli  Imperiali,  al  comando  di  Eugenio  dt 
Savoia,  erano  penetrati,  con  il  pretesto  che  si  trattava  di  un  feudo  del- 
l'Impero rimasto  vacante.  2.  applicò  . .  .  molti:  ò  la  riforma  del  febbraio 
1703,  sulla  quale  cfr.  G.  G.  Origlia,  Storia  dello  Studio  di  Napoli,  cit.,  n, 
pp.  232-8.  Ad  un'altra  riforma,  quella  proposta  da  monsignor  Celestino 
Galiani  nel  1732,  si  interessò  il  Giannone,  durante  il  suo  soggiorno  vien- 
nese, stendendo  un  Parere  intorno  alla  riforma  de*  Regi  Studi  di  Napoli, 
edito  da  V.  Guadagno,  Napoli  X958.  3.  vindemmiali:  del  periodo  della 
vendemmia,  in  autunno.  4.  di  ripigliarlo:  s'intende,  il  travaglio,  lo  stu- 
dio a  cui  prima  accennava. 


CAPITOLO   TERZO  59 

ma  secondo  che  io,  inoltrandomi,  acquistava  maggior  conoscenza  e 
numero  di  clienti,  mi  si  rendevano  più  gravi  e  pesanti.  Finché 
l'Argento  esercitò  Pawocazione,  io  dietro  di  lui,  seguendo  le  sue 
orme,  acquistai  anche  la  conoscenza  de'  più  dotti  ministri  e,  sopra 
gli  altri,  conducendomi  sovente  in  casa  del  reggente  Gennaro  di 
Andrea,1  fratello  del  famoso  Francesco,  ebbi  la  sorte  di  ammirare 
quel  grave  e  savio  ministro:  uomo  veramente  senatorio  e  degno 
di  sedere  fra  romani  senatori,  della  cui  virtù  e  sapienza  era  viva 
immagine.  Questi  ed  il  di  lui  esempio  rese  a  me  quasi  perpetua  la 
lezione  delle  Deche  di  Livio,  che  egli  avea  sempre  nelle  mani;  e 
n'era  cotanto  preso  che,  se  Plinio  il  Giovane  scrive  che  un  Gadi- 
tano  dall'estrema  Spagna  corse  fin  a  Roma,  sol  per  veder  Livio,2 
egli,  se  gli  fosse  stato  coetaneo,  sarebbe  corso  fin  dall'America,  co- 
tanto era  adoratore  de'  suoi  libri,  i  quali,  se  bene  avea  stanchi,  non 
era  però  mai  sazio  di  leggerli  e  rileggerli.  E  non  posso  negare  che 
io,  spinto  dall'esempio  d'un  tant'uomo,  avendogli  quasi  sempre  in- 
nanzi a  gli  occhi,  ne  ritrassi  gran  profitto  riguardando  alla  maniera 
nobile,  seria  e  grande,  colla  quale  egli  tessè  quella  incomparabile  e 
divina  sua  istoria. 


i.  Gennaro  di  Andrea  (i  637-1710)  fu  allievo  di  Tommaso  Cornelio  per  la  fi- 
sica e  la  matematica.  Addottoratosi  in  diritto  a  soli  diciassette  anni,  percor- 
se trionfalmente  il  proprio  cursus  honorum',  auditore  di  Cosenza,  fiscale  di 
Salerno,  consigliere  di  Santa  Chiara,  presidente  della  Regia  Camera,  capo- 
ruota  nella  Gran  Corte  della  Vicaria.  Passato  in  Ispagna  nel  1689,  fu  nomi- 
nato presidente  del  Consiglio  d'Italia.  Rientrato  a  Napoli,  fu  reggente  del 
Collaterale.  Membro  di  numerose  accademie,  tra  le  quali  quella  napoletana 
degli  Investiganti,  fu  arcade  col  nome  di  Filermo  Driodio.  La  sua  biogra- 
fia, compilata  da  G.  Caputo,  tra  le  Notizie  istoriche  degli  Arcadi  morti, 
cit.,  I,  pp.  218  sgg.  e  in  G.  M.  Mazzuchelli,  Gli  scrittori  d'Italia,  I,  cit., 
ad  vocem  Andrea.  2.  Plinio  . . .  Livio  :  cfr.  Epist.,  11,  in,  8  ;  Gaditano  :  cit- 
tadino di  Cadice  (latino  Gadis). 


CAPITOLO  QUARTO 

Anno  1707,  sotto  il  regno  del  ref  poi  imperadore,  Carlo  VI*  e  wtto  il  governo 
del  conte  Daun  e  cardinal  Gr intani t2  e  poi  dt  nuovo  wtto  il  conte  Datw,  vicoé. 


L'anno  1707  portò  in  Napoli  grandi  cangiamenti  e  grandi  rav- 
volgimenti non  pur  alle  fortune  de*  privati,  ma  al  pubblico  stato, 
sicome  soglion  apportare  le  mutazioni  di  nuovo  dominio.  Kntrale 
che  furon  l'arme  alemanne  ne'  confini  del  Regno  e,  ne'  sette  del 
mese  di  luglio,  dentro  la  città  di  Napoli,  in  breve  tempo  si  vide 
tutto  il  Regno  passato  sotto  la  dominazione  di  Carlo  d'Austria, 
allora  re,  che  teneva  in  Barcellona  sua  sede  regia,  fratello  dcll'im- 
peradorc  Giuseppe  e  poi,  per  la  costui  morte,  seguita  nel  X711, 
anche  imperadore  romano,  detto  Carlo  VI.3 

In  questa  rivoluzione  di  cose,  essendo  piaciuto  ad  alcuni  ministri 
spagnoli  seguitare  il  partito  del  re  Filippo  V,  e  partir  da  Napoli, 
lasciando  quasi  vóti  i  nostri  tribunali,  fu  d'uopo  al  conte  Martiniz,4 
ch'era  stato  mandato  dall'imperadore  Giuseppe  ministro  plenipo- 
tenziario nel  politico  (sicome  nel  militare  il  supremo  comando 
l'avea  il  conte  Daun),  in  luogo  de'  medesimi  rifar  altri  ministri, 
prendendogli  per  la  maggior  parte  dall'Ordine  degli  avvocati:  fra 
quai  fu  il  nostro  Argento,  promosso  a  consigliere  del  Consiglio  di 
Santa  Chiara. 

In  questo  passaggio  i  giovani  avvocati,  più  avanzati  che  io,  pro- 
fittarono di  aver  molti  clienti,  da  lui  e  da  altri  lasciati.  A  me  rimasse, 
dopo  secata  la  messe,  lo  spicilegio,5  sicché  pochi  furon  gli  acquisti  ; 
tanto  maggiormente  che  io  non  era  dotato  di  quella  accortezza, 
vigilanza  ed  audacia,  colla  quale  altri,  spingendo  ed  urtando  di 

1.  Carlo  VI  d*Absburgo  (1685-1740),  secondo  figlio  di  Leopoldo  I  e  di 
Eleonora  del  Palatinato,  eletto  re  di  Spagna  come  Carlo  III,  nel  1704  ave- 
va occupato  temporaneamente  la  Catalogna.  Dopo  la  morte  del  fratello 
Giuseppe  I  (171 1)  diventerà  imperatore  (Carlo  III  come  re  d'Ungheria). 

2.  Philipp  Lorenz  Wierich  von  Daun  (1669-1741),  conte  di  Teano,  marche- 
se di  Rivoli,  fu  viceré  di  Napoli  nel  1707-1708,  e  di  nuovo  nei  1713-1719, 
governatore  di  Milano  dal  1728  (cfr.  p.  239)  ;  il  cardinale  Vincenzo  Grimani 
(1655-17x0)  fu  viceré  nel  1708.  3.  Entrate  . . .  VI:  per  la  storia  di  questo 
periodo  si  vedano  le  opere  citate  nella  bibliografìa  generale;  Giuseppe  i 
d'Absburgo  (1678-1711)  era  salito  al  trono  nel  1705,  4.  Martinìst:  il  boe- 
mo lift  Adam  z  Martinic  (morto  nel  17 14)  fu  il  primo  viceré  austriaco  di 
Napoli,  dal  luglio  al  settembre  1707.  5.  dopo  . .  .  spicilegio:  dopo  falciata 
la  messe,  la  spigolatura. 


CAPITOLO    QUARTO  6l 

qua  e  di  là,  si  facevan  innanzi  con  supplicazioni  e  con  pregar  som- 
messo, e  sovente  con  viltà  ed  altri  indegni  modi,  estorquendo1  ed 
a  viva  forza  involandogli. 

La  mia  natura  fu  sempre  in  ciò  inetta  e  mal  a  proposito,  anzi 
avversa  d'usar  sottili  artifici,  e  con  umili  e  basse  preghiere  di  an- 
dargli cercando.  Mi  rimasero  dell'Argento  alcune  poche  cause, 
che  io  sotto  la  sua  awocazione  avea  cominciato  a  trattar  da  pro- 
curatore, e  ch'egli  stesso  ne  aveva  a  me  appoggiata  la  difesa,  scri- 
vendovi da  avvocato;2  onde  mi  rimasero  quelle  della  contessa  di 
Bovalino  (se  bene,  doppo  essersi  maritata,  il  marito  adoperasse  poi 
piuttosto  i  suoi  avvocati  che  me)  e  del  duca  di  Frosolone  e  marchese 
di  Baranello,  don  Francesco  Carafa,  rampollo  degli  antichi  conti  di 
Maddaloni,  il  quale  giovanetto  era  sotto  la  cura  della  duchessa  di 
Frosolone  sua  madre,  dama  spagnola  dell'illustre  famiglia  Quiro- 
ga,  di  grande  spirito  e,  se  le  forze  fossero  state  eguali  al  magnanimo 
suo  cuore,  grata  non  meno  che  liberale  e  munificentissima,  la  qua- 
le sopra  le  mie  spalle  appoggiò  la  difesa  di  più  cause,  così  sue 
come  del  duca  suo  figliuolo,  onde  mi  fu  data  occasione,  spezial- 
mente quando  questi  prematuramente  morto  senza  lasciar  di  sé 
prole,  ebbi  a  contrastar  col  fisco  sopra  le  tenute  delle  terre  di  Ba- 
ranello e  di  Frosolone,  di  farmi  maggiormente  noto  a'  tribunali,  e 
di  acquistar  tra  gli  avvocati  qualche  stima  e  nome. 

E  quantunque  del  passaggio  dell'Argento  al  ministerio,  per  que- 
sta parte,  io  poco  profittassi  a  riguardo  de'  miei  compagni  che  lo 
seguivano,  nulladimanco  per  la  profonda  sua  dottrina  legale,  es- 
sendo riuscito  fra'  consiglieri  di  Santa  Chiara  il  più  eminente,  il 
più  laborioso  ed  indefesso,  e  che  i  suoi  dotti  voti  tiravan  a  sé  le 
sentenze  degli  altri  suoi  colleghi,  quindi  per  la  famigliarità  che  io 
avea  con  lui,  e  per  mostrar  con  gli  altri  di  far  di  me  qualche  stima, 
ne  avvenne  che  io  facessi  acquisto  di  altri  nuovi  clienti,  tratti  più 
da  questo  che  da  ogni  altro  riguardo.  E  maggiormente  si  spin- 
gevano a  ricorrer  da  me,  perché  l'Argento,  in  alcune  proprie  sue 

i.  estorquendo:  estorcendo.  2.  Mi . . .  avvocato:  cfr.  Panzini,  p.  3:  «pri- 
ma che  nondimeno  egli  salisse  in  estimazione  di  valente  avvocato,  lungo 
tempo  passò  ;  né  per  la  sua  infelice  maniera  di  dire  ebbe  nel  foro  per  pa- 
recchi anni,  salvo  che  piccolo  nome  e  troppo  mezzana  fortuna.  Il  mestier, 
ch'esercitò  da  prima,  fu  quello  di  proccuratore,  ed  assidue  e  penose  fati- 
che sostenne  non  già  tanto  per  affari  confidati  al  suo  patrocinio,  quanto 
per  altre  più  rilevanti  cause  ad  alcuno  celebre  avvocato  commesse,  a  cui 
egli  forniva  le  scritture  forensi  per  certo  convenuto  prezzo  ». 


02  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

cause,  valevasi  nello  scrivere  della  mia  persona;  e,  infra  l'altre,  in 
una  causa  di  precedenza  ch'ebbe  co'  suoi  colleghi,  per  un'occasione 
che  non  mi  rincrescerò  qui  di  rapportare. 

Il  conte  di  Martiniz,  se  bene  in  vigor  della  plenipotenza  datale 
dairimperadore  Giuseppe,  avesse  creati  tanti  ministri  in  Napoli, 
nulladimanco  dal  re  Carlo,  suo  fratello,  e  dalla  corte  di  Barcellona 
si  reputavano  nullamentc  creati,  come  da  chi  non  avea  potestà  di 
fargli;  poiché  l'imperadore  Giuseppe  allora  Re  de'  Romani,1  dopo 
la  rinuncia  fatta  nel  1703,  coll'imperadore  Leopoldo  suo  padre, 
della  monarchia  di  Spagna,  in  beneficio  del  re  Carlo  allora  arcidu- 
ca di  Austria,2  erasi  spogliato  di  ogni  diritto  sopra  tutti  i  regni 
che  componevano  quella  monarchia:  sicché  il  conte  Martiniz  non 
poteva  giovarsi  di  quella  plenipotenza;  e  se  bene  l'avesse  creati 
interini,3  finché  non  fossero  confermati  dal  re  Carlo,  nulladimanco 
diccasi  che  qui  non  dovea  trattarsi  di  conferma,  come  nullamentc 
creati,  ma  di  nuova  creazione,  sicomc  dalla  corte  di  Barcellona  fu 
riputato;  poiché  avea  spediti  nuovi  privilegi  ad  altri,  ed  anche  a 
que'  ch'eran  stati  fatti  dal  Martiniz,  non  già  di  conferma,  ma  di 
nuova  creazione,  non  facendosi  memoria  alcuna  del  fatto  di  Mar- 
tiniz; e  quelli  a'  quali  non  furon  spediti  i  privilegi  rimaser  privati, 
com'eran  prima,  non  riconoscendogli  per  ministri. 

All'Argento  fu  pur  mandato  il  privilegio,  ma,  come  a  gli  altri, 
non  già  di  conferma,  ma  di  nuova  creazione.  Nacque  per  ciò  con- 
tesa di  precedenza  tra  quelli  che  aveano  la  data  de*  privilegi  ante- 
riore, se  ben  posteriore  alla  promozione  di  Martiniz,  e  quelli  i 
quali  eran  stati  creati  dal  Martiniz,  se  bene  la  data  de'  lor  privilegi, 
mandatigli  da  Barcellona,  fosse  posteriore,  I  primi  pretendevano 
che,  non  dovendosi  tener  conto  di  quanto  era  seguito  sotto  Mar- 
tiniz, come  nullo,  ed  invalido,  dovea  attendersi  la  data  anteriore 
de'  loro  privilegi;  i  secondi,  fra'  quali  era  l'Argento,  pretendevan 
che  per  la  precedenza  bastasse  d'aver  prima  esercitate  le  medesime 

1.  Re  de'  Romani:  nel  Sacro  Romano  Impero  era  questo  il  titolo  che  pre- 
cedeva l'incoronazione  imperiale  e  che,  dopo  la  rinuncia  all'incoronazione 
da  parte  di  Massimiliano  I,  finì  per  indicare  il  principe  ereditario.  2.  do* 
pò  * . .  Austria:  spentosi  nel  1700  senza  eredi  il  re  di  Spagna  Carlo  II,  alla 
sua  successione  concorsero  Filippo  d'Angiò»  nipote  di  Luigi  XIV  di  Fran- 
cia, e  il  secondogenito  dell'imperatore,  Carlo  d'Austria.  La  rinuncia  da 
parte  di  Leopoldo  I  d'Absburgo  (1658-1705)  mirava  a  rassicurare  le  po- 
tenze europee  impegnate  nella  lotta  di  successione,  che  non  si  sarebbe  più 
verificata  una  situazione  egemonica  del  tipo  di  quella  dell'impero  di  Car- 
lo V.     3.  interini:  cioè  ad  interim,  provvisori. 


CAPITOLO    QUARTO  63 

cariche.  Ebbi  io  l'incombenza  di  scrivere  a  prò  di  questi  secondi  ; 
ed  esaminando  la  questione  co'  princìpi  ed  essempi  tratti  dal  C0- 
dice  teodosiano,  e  secondo  le  regole  prescritte  ed  avvertite  da  Gia- 
como Gotofredo  in  quel  suo  accurato  trattato  De  praecedentia,1 
mostrai  che,  qualunque  si  fosse  stato  il  titolo,  ancorché  fosse  vizioso, 
bastava  per  la  precedenza  l'esercizio,  nel  quale  erano  prima  stati 
della  medesima  carica.  La  scrittura  non  dispiacque  all'Argento,  e 
si  comunicò  a'  reggenti  del  Consiglio  Collaterale,2  che  dovean  deci- 
derla; e  se  bene  non  si  fosse  venuto  alla  decisione,  si  lasciarono 
però  come  prima  nelle  stesse  sedi,  con  precedere  a  gli  altri.  E 
passata  quest'allegazione  in  altre  mani,  e  letta  con  piacere,  comin- 
ciai ad  essere  noto  a  que'  ministri,  presso  i  quali  il  mio  nome  era 
prima  sconosciuto  ed  ignoto. 

Il  conte  di  Martiniz,  appena  trattenutosi  in  Napoli  tre  mesi, 
mal  gradito  dal  re  Carlo,  il  quale  avea  creato  per  suo  viceré  il 
conte  Daun,  erasene  già  tornato  a  Vienna;  onde  il  Regno  rimase 
sotto  il  governo  del  Daun,  e  poi  passò  sotto  quello  del  cardinal 
Grimani,  viceré,  da  cui  fu  data  incombenza  al  consigliere  Argento 
di  scrivere  in  difesa  del  regio  editto  spedito  a  Barcellona,  col  quale 
si  comandava  che  tutti  i  vescovadi,  badie,  prelature,  dignità,  bene- 
fìci così  maggiori  come  minori,  anche  quelli  che  non  obbligavano 
a  residenza,  anzi  fino  le  pensioni  del  Regno,  non  potessero  confe- 
rirsi da  chi  si  sia,  se  non  a'  nazionali  di  quello,  esclusi  affatto  gli 
esteri  e  peregrini.3 

Clemente  XI,  che  occupava  allora  il  pontificato  romano,4  forte- 
mente contrastava  all'editto,  qualificandolo  come  offensivo  della 
libertà  ecclesiastica  ed  ingiurioso  alla  Santa  Sede.  Si  ebbe  per  ciò 
a  dimostrare  che  l'editto  fosse  conforme  non  pur  alle  leggi  e  costi- 
tuzioni di  altri  principi  ed  all'uso  e  costume  di  tutte  l'altre  nazioni 
d'Europa,  ma  eziandio  a'  sacri  canoni,  alle  costituzioni  istesse  de' 
romani  pontefici,  ed  all'antica  ed  inconcussa  pratica  della  Chiesa, 
e  conforme  all'ecclesiastica  disciplina. 

1.  J.  Godefroy,  Diatriba  de  iure  praecedentiae  repetitae  praelectiotris .  .  ., 
Genevae  1627  (seconda  edizione  aumentata,  ivi,  1664).  2.  Consiglio  Colla- 
ferale:  era  la  magistratura  suprema  del  Regno,  e  nella  sua  storia  non  sono 
infrequenti  i  casi  in  cui  essa  si  sostituì  allo  stesso  viceré  nel  governo  dello 
Stato.  Il  suo  compito,  donde  il  nome,  era  quello  di  assistere  a  latere  il  vi- 
ceré, sia  su  questioni  politiche,  sia  giudiziarie  e  amministrative.  3.  re- 
gio . . .  peregrini',  cfr.  A.  Vario,  Collezione  delle  prammatiche,  1,  Napoli  1772, 
pp.  361-4.  4.  Clemente  .  .  .  romano'.  Gianfrancesco  Albani  (1 644-1 721)  era 
salito  al  soglio  il  23  novembre  del  1700. 


64  VITA   DI    PIETRO   GIANNONE 

Entrò  l'Argento  in  questi  studi  affatto  nuovo  e  niente  versato 
nelle  cose  ecclesiastiche,  essendo  stati  tutto  altri  i  suoi  precedenti 
studi;  ma  tanto  più  rilusse  il  suo  maraviglioso  ingegno  poiché, 
applicatosici  con  quest'occasione,  in  breve  tempo  ne  divenne  mae- 
stro, e  diede  fuori  quelle  dotte  sue  tre  dissertazioni  sopra  la  mate- 
ria beneficiaria,1  le  quali  emularono  le  due  altre  dotte  scritture, 
uscite  nel  tempo  istesso,  composte  dal  Grimaldi2  e  Riccardi:3  sog- 
getti, i  quali  non  erano  così  nuovi,  ma  aveano  prima  sopra  studi 
ecclesiastici  impiegati  i  lor  talenti. 

Clemente,  con  un  sol  colpo,  pensò  di  atterrarle  tutte  tre,  poiché, 


i .  Cfr.  G.  Argento,  De  re  beneficiaria  dissertationes  tres,  ubi  Caroli  III  Au« 
stri-Hisp.  regis  etc,  edictum  quo  fructuum  capionem  in  sacerdotiis  externorum 
et  vagantium  clericorum  iubet,  tum  summo  tum  optimo  iure  recte  atque  ordine 
factum  demonstratur,  s.  1.  (ma  Napoli),  1707.  2.  C.  Grimaldi,  Conside- 
razioni teologico~politiche  fatte  a  prò9  degli  editti  di  S.  M.  Cattolica  intorno 
alle  rendite  ecclesiastiche  nel  regno  di  Napoli,  Napoli  1707- 1708.  Costantino 
Grimaldi  (1667-1750)  fu  tra  i  più  vivaci  esponenti  di  quel  moto  rinnovatore 
al  quale  appartenne  il  Giannonc.  Cartesiano,  partecipò  alla  polemica  anti- 
aristotelica ingaggiata  contro  Gian  Battista  De  Benedictis,  con  tre  succes- 
sive risposte,  Colonia  (ma  Ginevra)  1699;  Colonia  (?),  1702;  Colonia  (ma 
Napoli),  1703.  Si  cfr.  quanto  egli  stesso  narra  nella  Istoria  dei  libri  di  don 
Costantino  Grimaldi  scritta  da  lui  medesimo  (Biblioteca  Nazionale,  Napoli, 
ras.  XV.  B.  32)  ora  edita  a  cura  di  V.  I.  Comparato  col  titolo:  Memorie  di 
un  anticurialista  del  Settecento,  Firenze  1964.  3,  R.  Skura  DTsca  (alias 
F.  A.  Riccardi),  Ragioni  del  regno  di  Napoli  nella  causa  de*  suoi  benefici 
ecclesiastici,  s.  1.  (ma  Napoli),  1708.  Si  veda  anche,  dello  stesso  autore  —  in 
risposta  all'abate  C.  Maiello,  che  lo  aveva  attaccato  col  Regni  Neapoli- 
tani  erga  Retri  cathedram  religio  adversus  calumnias  anonymi  vindicata,  Nca- 
polis  1708  -,  le  Considerazioni  sopra  al  nuovo  libro  intitolato  «  Regni  Nea  po- 
litani  ...  »,  distinte  in  cinque  parti.  Colonia  (ma  Napoli)  1709.  A  sua  volta 
il  Maiello  replicò  con  VApologeticus  christianm  quo  anonymi  conviciatoris 
error  ventate,  livor  charitate  dispellitur,  Romau  1709.  Un  altro  attacco  giunse 
al  Riccardi  da  G.  Bortone,  il  quale  sulla  fine  del  1708  pubblicò  una  Risposta 
alla  scrittura  pubblicata  addì  18  giugno  1708  col  titolo  «  Ragioni . . .»,  s.  n.  t. 
Sull'intera  controversia  giurisdizionalistica  si  veda  innanzi  tutto  quanto  lo 
stesso  Giannone  riferisce  nella  sua  Apologia  deW  Istoria  civile,  in  Opere 
postume,  1,  pp.  169  sgg.;  e  inoltre  L.  Giustiniani,  Memorie,  isteriche,  cit., 
in,  pp.  99-103;  F.  Nicolini,  Uomini  di  spada,  cit.,  pp.  270-1  (ad  vocem  ih 
Argento);  L.  Marini,  Pietro  Giannone  e  il giannonismo,  Napoli  1950,  pp. 
60  e  passim.  Su  Francesco  Alessandro  Riccardi  (1660-1726),  che  fu  profi- 
scale del  Consiglio  di  Spagna  e  prefetto  della  Biblioteca  Palatina  di  Vienna, 
numerose  notizie  si  hanno  in  questa  stessa  autobiografia  giannoniana.  Ma 
si  veda  anche  L.  Giustiniani,  Memorie  istoriale,  loc.  cit.;  C.  Mini  eri 
Riccio,  Memorie  storiche,  cit.,  pp.  294  sgg.;  C.  Frati,  Dizionario  bio- 
bibliografico dei  bibliotecari  e  bibliofili  italiani,  Firenze  1933,  pp»  493  sgg. 
Presso  la  Osterreichische  Nationalbibliothek  si  conserva  manoscritta  una 
sua  ultima  opera,  lo  Zibaldone  di  buone  e  ree  considerazioni,  essempU,  dot- 
trine  che  difendono  ovvero  offendono  la  verità,  di  impianto  eterodosso. 


CAPITOLO    QUARTO  65 

con  particolar  suo  breve,1  qualificò  alla  rinfusa  tutte  queste  scrit- 
ture per  empie,  scismatiche,  temerarie,  erronee,  distruttive  della 
libertà  ecclesiastica,  ed  infìno  eretiche  ;  proibì  di  leggerle  o  tenerle, 
sotto  pena  di  scomunica  a  lui  riserbata,  e  comandò  che  fossero 
tutte  gettate  nelle  divoratrici  fiamme;  ma  questi  fulmini  furono 
lanciati  indarno:  niuna  delle  scritture  fu  tocca  dal  fuoco,  anzi 
furon  ricercate  e  tenute  care  e  lette  da  tutti,  con  somma  lode  e 
commendazione  degli  autori. 

Da  queste  cagioni  fu  mosso  poi  l'Argento  a  studiare  di  proposito 
e  più  agiatamente  le  cose  ecclesiastiche,  ed  a  conoscere  le  tante 
sorprese  che  si  erano  fatte  sopra  i  diritti  de5  principi,  e  per  l'avve- 
nire a  star  cauto  e  vigile,  perché  almanco  sopra  i  vecchi  abusi  non 
se  ne  introducesser  altri  nuovi,  dove  pareva  che  papa  Clemente 
fosse  tutto  applicato  ed  intento.  Si  aggiunse  che,  conosciuta  in 
Barcellona  l'eminente  sua  dottrina,  in  premio  di  questa  sua  glo- 
riosa fatica  fu  promosso  al  grado  di  reggente  del  Consiglio  Colla- 
terale, sicome  il  Grimaldi  a  quello  di  consigliere  di  Santa  Chiara, 
e  fu  a  lui  appoggiata  la  Delegazione  della  real  giurisdizione. 

Or  occupando  egli  questa  carica  di  delegato  nel  pontificato  di 
Clemente,31  fu  sempre  essercitato,  per  doversi  opporre  con  vigore 
alle  tante  sorprese  che  si  tentavano  dalla  corte  di  Roma,  spezial- 
mente sotto  il  conte  Daun;  il  quale,  dopo  la  morte  del  cardinal 
Grimani,  seguita  in  Napoli,3  e  dopo  l'interino  viceregnato  del 
conte  Carlo  Borromeo,4  fu  nuovamente  mandato  in  Napoli  per 
viceré.  Si  ebbero  a  questi  tempi  più  fiere  ed  ostinate  contese  giu- 
risdizionali colla  corte  di  Roma,  spezialmente  intorno  alla  pretesa 
immunità  locale  delle  chiese,  presumendo  di  qualificar  essa  i  de- 
litti che  dovean  godere  o  non  godere  dell'asilo;  altre  intorno  al- 
l'immunità delle  persone  ecclesiastiche  e  de'  loro  beni;  altre  in- 

1.  Clemente .  .  .  breve:  il  pontefice  condannò  queste  opere  con  due  suc- 
cessivi brevi,  del  17  febbraio  (contro  l'Argento,  il  Riccardi  e  la  prima  parte 
del  lavoro  del  Grimaldi),  e  del  24  marzo  17 io  (contro  la  seconda  parte 
dell'opera  del  Grimaldi);  ambedue  questi  brevi  sono  riportati  integral- 
mente e  commentati  dal  Giannone  nella  sua  Apologia  dell'Istoria  civile,  in 
Opere  postume,  1,  pp.  170-3.  2.  nel  pontificato  di  Clemente:  cioè  tra  il  1700 
e  il  172 1,  periodo  di  regno  di  papa  Gianfrancesco  Albani.  3.  dopo  . . .  Na- 
poli: il  26  settembre  17 io.  Sul  suo  viceregno  e  sulla  sua  morte  notizie  det- 
tagliate nel  Racconto  di  varie  notizie  accadute  nella  città  di  Napoli  dalVanno 
1700  al  1732,  in  «Archivio  Storico  per  le  Province  Napoletane»,  xxxii 
(1907).  4.  Il  marchese  Carlo  Borromeo-Arese  (1657-1734),  il  quale  fu  vice- 
ré di  Napoli  dall'ottobre  1 710  al  maggio  171 3.  Il  Giannone  lo  ricorda  qui 
col  titolo  di  «conte  del  Sacro  Romano  Impero». 


66  VITA   DI    PIETRO   GIANNONE 

torno  alla  chiamata  de*  vescovi  in  Napoli  d'ordine  de7  viceré,  del 
regio  exequatur,  testamenti  ad  pias  causas,  patronati  regi,1  e  consi- 
mili. Queste  contese  somministrarono  più  occasioni  di  studiare 
sopra  tali  materie;  e  per  opporsi  con  maggior  vigore,  non  si  rimase, 
sicome  si  era  fatto  per  lo  passato  sotto  gli  Spagnoli,  a'  soli  essempi 
ed  alle  loro  massime,  cavate  da  un  immaginario  e  non  ben  sodo 
e  stabile  diritto  canonico,  ma  si  passò  più  avanti,  a  gli  origini,  a' 
canoni,  alla  dottrina  de*  Padri,  ed  all'antica  ed  incorrotta  disciplina 
della  Chiesa;  sicché  si  cominciavano  a  dimostrare  con  maggior 
evidenza  le  usurpazioni  ed  attentati  e,  per  conseguenza,  a  più  forte- 
mente resistergli.  Le  investigazioni  delle  quali  cose,  poiché  l'Ar- 
gento per  alleviar  tanta  fatica  solca  valersi  della  mia  opera  e  di  altri 
suoi  allievi,  fecero  che  io  maggiormente  stendessi  le  mie  conoscen- 
ze e  toccassi  più  a  fondo  le  origini,  onde  tante  contese  giurisdi- 
zionali provenissero,  ed  a  che  deboli  ed  arenosi  fondamenti  si 
appoggiassero  le  macchine  che  la  Corte  romana,  più  per  altrui 
debolezza  o  ignoranza,  che  per  propria  virtù,  avea  innalzate,  e  che 
la  sola  dottrina  delle  origini  e  la  sola  istoria  delle  occasioni  de'  loro 
progressi  bastava  a  rovesciarle. 

Conobbi,  applicandomi  a  questi  studi  di  quanto  giovamento 
mi  fossero  stati  i  precedenti  sopra  l'istoria  ecclesiastica,  sopra  l'o- 
rigine e  progressi  dclVius  canonico,  e  la  cognizione  de'  bassi  ed  in- 
colti secoli,  da'  quali  tanti  cangiamenti  eran  derivati;  poiché,  non 
ignorando  l'antico  stato  delle  cose  e  le  origini  di  tante  mutazioni, 
vedeva  con  chiarezza  gli  abusi  seguiti  e  le  tante  corruttele  ed  at- 
tentati fatti  sopra  la  real  potestà  de'  principi.  Onde  tanto  più  mi 
invogliai  a  proseguire  l'intrapreso  mio  lavoro  dell' Is torta  civile,  ri- 
putando che  come  propria  materia  trattando  di  queste  contese,  di 
poter  porre  in  più  chiara  luce  i  confini,  che  si  era  procurato  con- 
fondergli, tra  l'imperio  ed  il  sacerdozio. 

Compresi  eziandio  che  l'Argento,  perché  molto  tardi  erasi  dato 
a  tali  studi,  i  quali  aveali  presi  non  già  da'  suoi  princìpi,  ma  se- 
condo le  occasioni  di  esaminare  alcuna  particolar  contesa  che  oc- 


i.  exequatur:  il  controllo  esercitato  dallo  Stato  sugli  atti  della  politica  e  della 
legislazione  ecclesiastica  (in  particolare  sulle  scomuniche  e  il  conferimento 
di  benefici);  testamenti  ad  pias  causas}  cioè  in  favore  di  enti  religiosi; 
patronati  regi,  cioè  il  diritto  del  sovrano  di  proporre,  per  la  nomina  a  sedi 
vescovili  o  a  benefìci  ecclesiastici,  persone  di  proprio  gradimento  e  suddite 
del  regno. 


CAPITOLO    QUARTO  67 

correva,  non  era  sempre  uguale  ed  uniforme,  in  alcuni  punti  mo- 
strandosi forte,  in  altri  debole,  e  più  che  femmina  scrupoloso  e 
vacillante;  sicché  avea  bisogno  che  altri  gli  desse  coraggio,  per 
farlo  star  fermo  e  costante.  E  da  questo  principio  immagino  che 
nella  sua  canizie,  o  perché  negli  ultimi  tempi  non  era  cotanto  so- 
stenuto dalla  corte  di  Vienna,  sicome  fu  ne'  princìpi  da  quella  di 
Barcellona,  divenisse  pur  troppo  contemplativo  e  lento  e  sottoposto 
alle  lusinghe  ed  allettamenti  della  corte  di  Roma. 


11 

[1715-1720] 

Intanto,  essendo  accaduta  la  morte  di  mia  madre,  per  me  doloro- 
sissima, e  lasciando  una  sola  figliuola  d'età  nubile,1  senz'altra  guida 
di  donne,  se  non  quella  di  mio  padre,  già  vecchio  :  bisognò  pensare 
di  collocarla  in  matrimonio  quanto  più  presto  si  potesse  sicome, 
co'  beni  rimasi  in  Ischitella,  datele  congrua  dote,  fu  da  mio  padre 
con  mio  consenso  maritata  con  un  dottor  di  medicina  nella  città  di 
Vesti*  dove  passò  a  far  domicilio,  in  casa  di  suo  marito.  Sicché, 
rimaso  solo  mio  padre,  pensai  farlo  venire  in  Napoli,  perché  nel- 
la sua  vecchiaia  avesse  la  consolazione  di  vivere  e  morire  fra  le 
braccia  de'  suoi  figliuoli.  Io  era  già  in  istato  di  poter  soffrire  questa 
nuova  spesa  poiché,  avanzando  sempre  più  nella  strada  dell' awo- 
cazione,  mi  era  a  bastanza  fatto  noto  ne'  tribunali.  Tanto  maggior- 
mente che,  promosso  dapoi  l'Argento  alla  suprema  carica  di  pre- 
sidente del  Consiglio  di  Santa  Chiara,  non  mancavano  nuovi  clienti 
che  sopra  di  me  appoggiassero  la  difesa  delle  lor  cause;  fra  le 
quali  pervennemene  una  che,  per  le  forti  e  strepitose  contenzioni 
che  si  accesero  fra  me  e  l'avvocato  contrario,  fece  gran  romore  in 
Napoli,  la  qual  mi  rese  presso  tutti  pur  troppo  noto  e  distinto. 

Litigavano  i  cittadini  di  San  Pietro  in  Lama  col  vescovo  di  Lecce 
intorno  alla  prestazione  delle  decime  dell'ulive,  pretese  dal  me- 
desimo non  già  come  baronali,  ma  come  ecclesiastiche  e,  per  con- 
seguenza, che  da  tutti  gli  alberi  degli  ulivi  dovessero  prestarle  e 
condurle  a  loro  spese  fino  a'  trappeti3  del  vescovo.  Que'  cittadini,  de* 
quali  io  presi  la  difesa,  pretendevano  al  contrario,  che  al  vescovo  si 
appartenessero  come  barone  di  quel  feudo,  e  non  sopra  tutti  gli 

1.  una  sola  .  .  .  nubile:  Vittoria.     2.  un  dottor  .  . .  Vesti:  Domenico  Tura. 
3.  trappeti:  frantoi. 


68  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

alberi,  spezialmente  non  sopra  gli  alberi  antichi  d'ulivi  già  in  più 
inventari  numerati,  i  quali  ancor  duravano  ;  ed  essendo  queste  de- 
cime baronali,  dovesse  il  vescovo  esiggerle  sotto  gli  alberi  stessi, 
ed  a  sue  spese  far  condurre  l'olive  a'  suoi  trappeti. 

L'avvocato  del  vescovo  volle,  in  una  scrittura  data  alle  stampe,1 
far  pompa  di  sua  erudizione  ed  entrare  a  disputar  lungamente 
sopra  la  prestazione  delle  decime,  che  le  voleva  ecclesiastiche  e 
dovute  al  vescovo  per  dritto  divino,  non  già  come  barone,  e  sopra 
tutti  gli  alberi.  E  riputando  che  l'esigesse  da  tutti  come  nuovi, 
supponendo  che  i  vecchi  numerati  negli  antichi  inventari  fossero 
tutti  periti,  volle  entrar  anche  a  disputar  sopra  la  durata  della  vita 
degli  alberi  degli  ulivi,  che  voleva  che  non  fosse  più  lunga  di  due- 
cento anni.  Mi  fu  data  con  ciò  occasione  d'esaminar  a  fondo  que- 
sta materia  e  fargli  conoscere  i  tanti  abbagli  presi,  confondendo 
le  decime  ecclesiastiche  colle  baronali  e  con  autorità  di  antichi 
scrittori,  non  men  latini  che  greci,  confonderlo  intorno  alla  durata 
degli  ulivi,  da'  quali  eragli  data  vita,  sicome  alle  annose  quercic,  di 
più  e  più  centinaia  di  anni. 

Questa  mia  scrittura,  che  pur  si  diede  alle  stampe,2  sicome  fece 
arrossire  all'avversario,  così  lo  stimolò,  vedendo  che  da  tutti  era 
applaudita  e  commendata,  a  volerci,  colPaiuto  di  molti,  rispondere. 
Ma  l'avvenne,  sicome  per  difendere  un  errore  suol  darsi  di  piglio 
ad  altri  errori,  che  questa  sua  risposta3  riuscisse  assai  più  sciapita, 

i.  V avvocato  .  .  .  stampe:  cfr.  N.  D'Afflitto,  Ragioni  della  Mensa  Vesco- 
vile di  Lecce,  intorno  all'esazione  della  decima  co'  posseditori  di  uliveti  nel 
feudo  di  S.  Pietro  in  Lama,  Napoli  171 5.  Nicola  D'Attlitlo  sarebbe  entrato 
l'anno  seguente  nella  magistratura,  divenendo  auditore  generale  dell'eser- 
cito. 2.  Questa  . .  .  stampe:  P.  Giannonk,  Per  li  possessori  degli  oliveti  net 
feudo  di  S.  Pietro  in  Lama,  contro  Monsignor  Vescovo  di  Lecce,  barone  di 
quel  feudo,  intorno  all'esazione  della  decima  dell'ulive.  Commissario  il  Reg. 
Consigliero  Sig.  /),  Costantino  Grimaldi,  Napoli  1715.  Ne  esiste  una  ri- 
stampa in  G.  M.  Novauio,  De  vassallorum  gravaminibus  tractatus,  in,  Nea- 
polis  1777,  pp.  278-320.  Cfr.  anche  Panzini,  p.  4:  «poiché  gli  fu  d'uopo 
d'entrar  in  esame  d'alcuni  articoli  di  storia  naturale  intorno  alla  vita,  ed 
al  frutto  degli  ulivi,  si  il  fece  egli  con  somma  perizia  ed  erudizione,  giovan- 
dosi in  qualche  parte  de'  lumi,  che  somministrati  gli  furono  dal  Signor 
Niccolò  Cirillo,  insigne  medico  di  que'  tempi  e  suo  intimo  amico  ».  Ma  si 
veda  inoltre  la  nota,  a  piò  della  stessa  pagina,  dove  si  rinvia  ai  consulti 
medici  dello  stesso  Cirillo,  editi  a  Napoli  nel  1738,  tra  i  quali  appaiono 
due  memorie  che  riguardano  da  vicino  questa  causa,  una  sull'età  dell'olivo, 
l'altra  in  risposta  all'interrogativo  se  debba  considerarsi  per  . . .  frutto  del- 
l'olivo l'oliva,  oppure  l'olio  che  se  ne  ricava.  3.  questa  sua  risposta:  N. 
D'Afflitto,  Confutazione  della  nuova  scrittura  composta  a  prò  de1  posses- 
sori di  S.  Pietro  in  Lama  contra  il  Vescovo  di  Lecce.  Cfr.  Pancini,  p,  4,  nota. 


CAPITOLO    QUARTO  69 

verbosa  ed  in  gran  parte  anche  contumeliosa.  Sicché,  in  brevi  gior- 
ni, io  potei  confutarla  con  pochi  fogli1  e  metter  Fautore  in  mag- 
gior confusione,  scovrendogli  nuovi  errori,  ed  assai  palmari,  e  farlo 
cadere  nella  derisione  di  molti. 

Parve  a'  vecchi  ministri  ed  avvocati  de*  nostri  tribunali  questa 
contenzione  un  nuovo  modo  di  scrivere  nelle  cause;  ed  i  rigidi 
non  l'approvavano.  Ma  altri  più  saviamente  riflettendo  che  tali 
litterarie  contese  invogliavano  assai  più  i  giovani  a'  studi  legali  e 
che,  con  tali  brighe  e  coir  occasione  di  leggere  queste  scritture,  si 
erano  veduti  molti  applicare  più  del  solito  alle  buone  lettere,  si 
lasciaron  correre;  ond'eran  ricercate  con  avidità;  ed  i  Leccesi  n'em- 
pirono la  lor  provincia:  sicché  ed  in  Napoli  ed  in  Lecce,  non  si 
parlava  di  altro  che  di  questa  causa,  onde  gli  avvocati,  che,  o  per 
Funa  o  per  l'altra  parte,  la  difesero,  si  resero  assai  rinomati  e 
celebri. 

Altra  non  meno  strepitosa,  che  grave,  mi  accadde  di  trattare  ne' 
seguenti  anni,  quando  io  era  già  di  molto  avanzato;  e  questa  fu 
l'intricata  e  diffidi  causa  de'  confini,  che  verteva  tra  il  comune  di 
Campochiaro  e  del  Vinchiaturo  -  terre  poste  nel  contado  di  Molise. 
Campochiaro  fondava  sue  ragioni  a'  termini  manufatti,2  che  li  pre- 
tendeva divisori  di  ambedue  le  giurisdizioni.  Io  che  difendeva  que' 
del  Vinchiaturo,  mi  appoggiava  a'  termini  naturali  di  un  rio  di 
acque  e  d'un  fiume  che  le  dividea,  e  feci  conoscere  che  que'  termi- 
ni manufatti  non  eran  divisori  di  giurisdizione,  ma  di  territori  par- 
ticolari. Essendosi,  col  ministro  ed  avvocati  d'ambe  le  parti,  andato 
su  la  faccia  del  luogo,  in  re  presenti  maggiormente  si  conobbe  que- 
sta verità;  date  alle  stampe  più  allegazioni,  poiché  in  una  dell'av- 
versario si  cercava  con  cavilli  confonderla  ed  oscurarla:  bisognò  che 
scoverti  i  sofismi  e  le  fallacie,  si  ponesse  in  più  chiara  luce,  con 
poco  gusto  dell'oppositore,  il  quale  di  ciò  crucciato,  volle  con  nuo- 
va scrittura  difendersi  ;  ma  fece  peggio,  poiché  mi  diede  occasione, 
confutandola,  di  maggiormente  mostrare  i  suoi  errori  e  di  con- 
fonderlo. Resesi  per  ciò  questa  causa  strepitosa  e,  trattasi  nel 

Il  Nicolini,  Scrittiy  p.  26,  confonde  questa  scrittura  con  la  prima  allega- 
zione del  D'Afflitto.  1.  con  pochi  fogli:  P.  Giannone,  Ristretto  delle  ra- 
gioni de*  possessori  degli  olvoeti  nel  feudo  di  S.  Pietro  in  Lama,  contro  Mon- 
sig.  Vescovo  di  Lecce,  barone  di  quel  feudo.  Dove  brevemente  si  risponde 
alla  lunga  confutazione  della  nuova  scrittura  composta  a  prò  de*  possessori 
suddetti.  Cfr.  Panzini,  p.  4.  2.  termini  manufatti:  confini  segnati  da  opere 
murarie  o  simili. 


70  VITA   DI    PIETRO   GIANNONE 

Consiglio  di  Santa  Chiara  con  ministri  aggiunti  di  altre  Ruote 
e  coir  intervento  del  presidente  Argento,  ebbi  la  sorte  di  riportarne 
intera  vittoria,  dichiarandosi  i  confini  che  dividevano  le  giurisdi- 
zioni essere  i  naturali  da  me  dimostrati,  non  già  i  manufatti,  che 
non  erano  se  non  divisori  di  particolari  territori. 

Queste  cause,  sicomc  mi  portarono  notabili  guadagni,  cosi  mi 
accrebbero  il  numero  de7  clienti,  facendo  sempre  più  acquisto  de' 
nuovi,  e  fra  gli  altri  del  barone  di  Cassano,  del  principe  d'Ischitel- 
la,1  e  di  altri  signori.2  Ed  avrei  potuto  accrescere  più  il  numero,  se 
avessi  voluto  imitare  gli  esempi  degli  altri  d'andargli  cercando  e 
pregando;  ma  il  mio  temperamento,  niente  disposto  a  far  tali  ri- 
cerche, fece  che  io  fossi  di  pochi  contento. 

A  questo  mio  naturale  si  aggiunse,  che  oltre  l'occupazione  de* 
tribunali,  tenendo  sopra  le  spalle  il  grave  peso  ond'io  volli  cari- 
carmi, di  proseguire  l'intrapresa  Istoria  civile  del  Regno,  temeva 
non  mi  fosse  d'impedimento,  accrescendo  maggiori  occupazioni 
forensi.  A  questo  fine,  per  non  mancare  ad  ambidue,  avea  distri- 
buito così  i  mesi  ed  i  giorni  dell'anno.  I  quindici  giorni  delle 
ferie  pasquali  e  gli  altri  tanti  delle  feste  natalizie,  sicomc  quelle  del 
Carnevale  e  tutti  gli  altri  giorni  festivi  che  occorrono  nel  corso 
dell'anno,  quando  non  fossi  stato  impedito  da  qualche  scrittura 
forense  che  non  pativa  dilazione,  io  l'impiegava  al  lavoro  <Xu\V Isto- 
ria civile.  Ma,  sopra  tutto,  mi  giovava  delle  ferie  estive  e  vinde- 
miali,  come  più  lunghe,  le  quali  io,  lontano  dagli  strepiti  del  foro, 
solca  passarle  nella  solitudine  di  Posilipo,  nella  casa  Spinelli;  ma, 
dapoi,  per  un'occasione  per  me  propizia,  che  sarò  a  narrare,  mutai 
luogo,  trasferendo  a  «Due  Porte»  le  mie  villeggiature. 

i.fra. .  .Ischitella:  della  causa  col  barone  di  Cassano  non  ai  hanno  al- 
tre notizie;  sui  rapporti  del  Giannone  con  il  principe  d' Ischitella  France- 
sco Emanuele  Pinto  y  Mendoza  (morto  noi  1767),  e  il  cattivo  trattamen- 
to ricevuto  per  le  sue  prestazioni  d'avvocato,  si  veda  la  lettera  al  fra- 
tello Carlo,  in  data  30  dicembre  1724  (Giannoniana,  n.°  76).  Per  una  causa 
di  questo  principe  il  Giannone  diede  alle  stampe  un'allegazione  col  titolo 
Ragioni  per  V illustre  Principe  d* Ischitella  contro  Ciro  Gioserani,  nel  1717: 
cfr.  Panzini,  p.  4.  Si  tenga  presente  che  i  Giannone  erano  feudatari  del 
principe.  a.  e  di  altri  signori:  tra  questi,  in  Panzini,  p.  5,  e  rammentato 
il  marchese  di  Rofrano  e  la  scrittura  giannoniana  stesa  iti  forma  di  supplica 
nell'aprile  del  1720,  con  titolo:  Ragioni  per  le  quali  si  dimostra  V uffizio  del 
Corner  Maggiore  del  regno  di  Napoli  non  dover  essere  compreso  nella  reci- 
proca restituzione  de*  beni  da  stabilirsi  negli  articoli  della  futura  pace  (di 
Vienna,  del  30  aprile  1725).  Questa  allegazione  è  stata  ristampata  in  Opere 
postume,  il,  pp.  127  sgg. 


CAPITOLO    QUARTO  71 

Erasene  in  Napoli  morta  una  vedova,  senza  lasciar  di  sé  e  di 
suo  marito  figliuoli,  i  quali  erano  a  lei  premorti;  e  di  tutti  i  beni 
stabili  lasciati  dal  marito,  ne'  quali  ella  era  succeduta  doppo  la 
morte  de'  figli,  ne  fece  erede  una  chiesa  amministrata  da  preti,  in 
Napoli,  chiamata  di  Santa  Maria  delle  Grazie  fuori  porta  Medina. 
I  preti  tosto  si  poser  in  possesso  de'  beni,  credendo  che  non  vi 
fusser  altri  congionti  del  marito,  che  potessero  aspirare  alla  suc- 
cessione de'  medesimi;  ma  scovertosi  che  nella  città  di  Vesti  e 
nella  terra  di  Peschici  del  monte  Gargano,  il  marito,  dond'egli  era 
oriundo  avea  lasciati  molti  parenti  poveri,  a'  quali,  secondo  la  con- 
suetudine della  città  di  Napoli,  non  poteva  negarsegli  la  succes- 
sione nella  metà  de'  beni  antichi  lasciati  dalla  vedova,  presi  io  la 
difesa  di  questi  miserabili,  i  quali,  non  potendo  soffrir  le  spese  del- 
la lite,  fu  d'uopo  che  io  somministrassi  il  denaro  e  tutto  ciò  che 
bisognava.  E  poiché  mio  fratello  erasi  alquanto  istrutto  della  pra- 
tica de*  tribunali,  feci  trattar  dal  medesimo  questa  causa  da  pro- 
curatore, così  per  non  dispendiarmi  di  vantaggio,  valendomi  di 
altro  estraneo,  come  perché  gli  servisse  di  essercizio  per  meglio 
istruirsi  nella  pratica  del  foro.  Si  opposero  i  preti,  pretendendo  di 
escludergli,  su  '1  supposto,  che  nella  persona  della  defonta,1  tutti  i 
beni  rimasi  dovessero  riputarsi  nuovi,  non  già  antichi  ;  e  dovendosi 
trattar  la  causa  nel  tribunale  della  Gran  Corte  della  Vicaria,2  ov'e- 
rasi  introdotta  da'  preti  per  ottener  da  quel  tribunale  il  preambolo 
per  l'immissione  di  tutti  i  beni,  io  per  più  mattine,  nella  Ruota  del 
medesimo  trattandosi  dell'articolo  con  molta  contenzione  fra  me 
e  gli  avvocati  contrari,  dimostrai  che  que'  beni  doveano  riputarsi 
tutti  antichi  nella  persona  della  testatrice,  come  da  lei  non  acqui- 
stati, ma  pervenutigli  per  successione  de'  suoi  figliuoli  premorti,  e 
per  conseguenza  la  chiesa,  in  vigor  del  testamento,  non  potea  pre- 
tender immissione  se  non  per  la  metà,  e  l'altra  metà,  in  vigor  della 
consuetudine,  appartenersi  a'  congionti  più  prossimi  del  marito, 
che  l'avea  acquistati,  dal  quale  eran  passati  a'  figli,  e  da  questi 
alla  madre.  In  effetto,  da  quel  tribunale  fu  giudicato  doversi  dar 
l'immissione  alla  chiesa  in  vigor  del  testamento,  ma  tolta  prima  la 
metà  de'  beni,  che  come  antichi,  in  vigor  della  consuetudine  si 
appartenevano  a'  congionti  del  marito,  donde  eran  pervenuti. 

i.  defonta:  defunta.  2.  tribunale  . . .  Vicaria:  tribunale  napoletano  di  pri- 
ma istanza,  nelle  due  sezioni  civile  e  penale.  La  sua  sede,  come  per  il  tri- 
bunale d'appello,  o  Sacro  Real  Consiglio,  era  in  Castelcapuano. 


72  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

Non  si  quietaron  gli  avversari  per  questa  decisione,  ma  ebber 
ricorso  nel  Consiglio  di  Santa  Chiara;  e  con  nuove  allegazioni  date 
alle  stampe,  s'ingegnavano  sostenere  la  pretensione  che  fosser  tutti 
beni  nuovi  e,  per  ciò,  doversi  rivocare  il  decreto  interposto  dalla 
Gran  Corte.  Mi  fu  d'uopo,  comporre  nuova  allegazione  e  più  dif- 
fusa, per  convincer  gli  avversari  e  confutare  tutti  i  loro  argomenti, 
la  qual  fu  pure  a  mie  spese  data  alle  stampe.1  Ma  mentre  era  per 
trattarsi  di  nuovo  la  causa,  stimaron  finalmente  que'  preti  che 
avean  l'amministrazione  della  chiesa,  i  quali,  per  buona  sorte,  s'in- 
contrarono esser  dotati  di  somma  probità  e  che  sapevano  la  vera 
chiesa  esser  i  poveri,  di  non  proseguir  la  lite.  Onde,  commiscrando 
lo  stato  miserabile  de'  miei  clienti  e  che  sarebbe  stata  empietà  dif- 
ferirgli quel  sollievo,  che  la  lor  giustizia  e  la  decisione  di  quel  tri- 
bunale gli  dava,  volentieri  si  confermarono  all'interposizione  e  pa- 
rere di  buoni  amici,  i  quali  consigliavano  che,  tolta  ogni  lite  di 
mezzo,  dovesse  terminarsi  con  amicatale2  accordo.  Sicché,  tenute 
fra  noi  più  sessioni,  si  venne  ad  una  discreta  ed  equabile  divisione 
de'  beni:  alla  chiesa  rimasero  alcune  case  e  rendite  poste  dentro 
Napoli;  a'  miei  clienti  alcune  rendite  e  case  poste  fuori  della  città, 
nella  vicina  villa  chiamata  «Due  Porte»,  o  perché  ivi  si  mostrano 
due  antiche  porte,  ovvero,  sicome  scrissero  alcuni,  che  ivi  aveano 
le  lor  ville  i  due  famosi  fratelli  Porta,  celebri  filosofi  e  letterati 
napolitani.3 

Ma  perché  questi,  essendo  lontani,  potessero  godere  il  frutto 
della  vittoria,  bisognò  pensare  il  valore  de'  beni  assegnatigli  con- 
vertirlo in  denaro,  perché,  impiegato  in  Puglia  ne'  loro  paesi,  gli 
recasse  maggior  frutto  di  quello  che  potevano  sperare  da  rendite 

i.  Mi . . .  stampe  ecc.  :  il  Nicolini,  nella  sua  edizione  della  Vita,  p.  64,  in  nota, 
osserva  che  «  di  questa  causa  il  Panzini  dice  soltanto  che  ebbe  luogo  nel  1 721 . 
Però,  dall' insieme  del  racconto  giannoniano,  a  me  pare  che  tale  data  si  debba 
anticipare  di  qualche  anno  ».  Senonche"  in  Panzini,  p.  7,  è  detto  (erronea- 
mente) che  nel  172 1  fu  acquistato  il  casino  di  Due  Porte,  «in  premio  d'una 
lite  guadagnata  ad  alcuni  suoi  paesani  »,  e  non  si  accenna  affatto  alla  data  in 
cui  la  causa  sarebbe  stata  sostenuta.  2.  amicatile:  amichevole.  3.  0  per- 
ché . .  .  napolitani',  delle  due  versioni  il  Giannonc  propese  sempre  per  que- 
st'ultima che  faceva  risalire  la  proprietà  ai  fratelli  Giovan  Battista  (1535- 
1615)  e  Niccolò  Della  Porta;  anzi  volle  tramandarla  in  un'epigrafe  che  si 
sarebbe  dovuta  apporre,  dopo  la  sua  morte,  sulla  facciata  della  villa:  cfr. 
la  lettera  al  fratello  Carlo,  del  22  dicembre  1730  (Giannoniana,  n.°  386).  Il 
testo  dell'epigrafe  è  riportato  in  Vita,  ed.  Nicolini,  p.  xxxi.  Sull'ubicazione 
della  villa  cfr.  T.  Fasano,  Lettere  villeresche  scritte  da  un  anonimo  ad  un 
amico,  Napoli  1779,  pp.  52  sgg.,  e  Vita,  ed.  Nicolini,  pp,  65-6,  nota. 


CAPITOLO    QUARTO  73 

sì  lontane.  Onde,  fatti  estimare,  si  venderono;  ed  io,  detratte  le 
spese  e  le  fatiche  da  me  fatte  ed  il  palmario1  dovutomi,  colle  fa- 
tiche di  mio  fratello,  mi  presi  le  case  di  «  Due  Porte  »  con  un  picciol 
podere  a  quelle  congiunto,  e  gli  mandai  il  compimento  del  prezzo. 
Di  che  ne  rimasero  contentissimi,  e  ne  fu  stipulato  pubblico  istro- 
mento  di  cessione  e  vendita. 

Fatto  ch'ebbi  tal  acquisto,  ridussi  in  istato  migliore  quell'abita- 
zione e,  fornitala  di  tutti  gli  arredi  e  suppellettili,  nelle  ferie  estive 
e  vindemiali  trasferiva  ogni  anno  a  «Due  Porte»  il  mio  domicilio, 
dove,  non  tralasciando  il  mio  matutino  e  vespertino  esercizio  in 
camminare  per  quelle  campagne,  tutto  il  rimanente  dell'ore  si  con- 
sumava in  proseguire  il  lavoro  dell'intrapresa  Istoria.  Per  questo 
mio  ritiro,  e  perché,  anche  dimorando  in  città,  poco  solea  farmi 
vedere  nelle  conversazioni  e  nelle  altre  brigate  d'amici  a  passar  il 
tempo  allegro  (poiché,  se  altri  potevan  farlo,  non  io,  che  oltre  le 
occupazioni  del  foro  avea  sopra  le  spalle  quest'altro  peso),  ne  ac- 
quistai presso  gli  amici  il  sopranome  di  «  solitario  Piero  »,  alludendo 
all'eremita  del  Tasso.2  E  se  bene  alcuni  sapessero  che  io  travaglia- 
va per  dover  dare  alla  luce  qualche  opera,  nulladimanco,  poiché 
io  non  communicai  se  non  all'Aulisio  ed  al  Capasso  e  ad  alcuni  po- 
chi strettissimi  miei  amici  l'idea  di  quella:  chi  s'immaginava  che  io 
componessi  l'istoria  delle  leggi  e  magistrati  del  regno  di  Napoli, 
altri  che  io  tessessi  le  vite  de'  giureconsulti  napolitani,  e  chi  una 
cosa  e  chi  un'altra.  Ed  io  gli  lasciava  con  questi  pensieri,  per  non 
insospettir  alcuno;  ed  ancorché  avessi  compiti  più  libri,  sicché 
avrei  potuto  dar  alla  luce  il  primo  tomo,  nulladimanco  ebbi  a  que- 
sto riguardo  la  sofferenza  di  non  cominciar  la  stampa,  se  non  mi 
fossi  veduto  vicino  al  porto.  Né  m'ingannai,  poiché  l'evento  dimo- 
strò che,  se  io  avessi  dato  fuori  il  primo  tomo,  sarei  stato  sicura- 
mente impedito  di  dar  il  secondo,  e  molto  più  il  terzo  ed  il  quarto, 
e  così  lasciar  l'opera  manca  ed  imperfetta. 

I  primi  soli  tre  libri,  che  io  feci  di  buon  carattere  trascrivere  da' 
miei  originali,  furon  letti  dall'Aulisio,  il  quale,  approvando  l'idea 
e  piacendogli  la  maniera  e  la  disposizione  che  io  avea  data  all'o- 
pera, mi  animò  a  proseguirla.  Ma  non  potei  far  lo  stesso  ne'  se- 
guenti libri,  sicome  io  avea  proposto,  poiché  oltre  vari  impedimenti 
frapposti  e,  sopra  tutto,  di  non  consumar  il  tempo  che  dovea  im- 

i.  il  palmario:  il  compenso  dell'avvocato.  2.  solitario  .  .  .  Tasso',  cfr.  Ger. 
lib.f  I,  29,  2. 


74  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

piegare  in  emendare  e  configgere1  le  copie,  differendo  di  farlo, 
ecco  che  poi  il  medesimo  venne  ad  infermarsi  d'una  sì  grave  in- 
fermità, che  lo  condusse  alla  morte.2  Avrei  fatto  lo  stesso  col  presi- 
dente Argento;  ma  era  impresa  disperata  ed  impossibile  di  poter 
ottenere  dal  medesimo  che  potesse  leggergli,  poiché  le  sue  gravi 
e  continue  occupazioni,  spezialmente  sotto  il  conte  Daun  viceré, 
erano  tali  che  non  avea  un  momento  di  tempo  di  poter  applicare 
ad  altro.3 

Intanto,  proseguendo  con  ostinazione  queste  lunghe  fatiche, 
ancorché  proccurassi  tener  un'esatta  regola  di  vivere,  né  trala- 
sciassi gli  esercizi  del  corpo,  fui  assalito  da  una  grave  ipocondria, 
che  mi  cagionava  incessanti  rutti  ed  acetosi,  e  ben  si  vedeva  che  lo 
stomaco  e  le  viscere  eran  viziate.  Presi  consiglio  dal  Cirillo  per 
trovar  la  maniera  di  liberarmene  e,  dopo  lungo  pensare  e  riflettere, 
si  credette  che  ciò  provenisse,  oltre  dall'applicazione  a'  studi,  dal 
vino,  che  non  ben  si  conformava  al  mio  stomaco  che  lo  rendeva 

i.  corriggere:  correggere.  2.  una  si .  .  .  morte:  nella  fine  dell'Aulisio  non 
mancò  il  sospetto  di  veleno  (cosa  comune  in  quel  tempo,  per  tutte  le 
morti  non  diagnosticate  con  esattezza)  e  l'accusa,  non  provata,  contro  il 
nipote  di  lui,  Niccolò  Ferrara.  Arrestato  e  processato  davanti  al  tribunale 
dei  venefici  (o  Giunta  dei  veleni),  fu  rinchiuso  in  carcere  per  ordine  del 
presidente  di  quello,  l'Argento,  «per  vendicare  la  crudo!  morte  d'un 
tant'uomo  e  suo  grande  amico  »,  come  riferisce  il  Fanzini,  p.  6.  Dopo  due 
anni  di  carcere,  «e  non  veggendo  in  fine  alcuno  scampo  alla  sua  salvez- 
za, impetrò  dal  Giannone  il  suo  patrocinio,  il  quale  trovando  incerte  e 
difettose  le  pruove  del  delitto,  s'adoperò  talmente  col  presidente  Argento 
e  co'  ministri  suoi  colleghi,  che  il  fé  porre  fuor  di  prigione,  il  Ferrara  ap- 
pena messo  in  libertà  donò  al  Giannone  in  merito  della  ricuperata  salvezza 
alquanti  scelti  libri  ch'erano  dell'Aulisio,  e  diverse  opere  manoscritte, 
ch'avea  questo  valentuomo  dettate  sopra  vari  argomenti,  delle  quali  ne  dà 
il  catalogo  il  sig.  Biagio  Troisc  nella  picciola  vita  dell'Aulisio  preposta  al 
libro  delle  Scuole  sagre  di  cotesto  autore  »  (Panzini,  pp.  6-7).  Ciò  non  accad- 
de, precisa  lo  stesso  biografo  del  Giannone,  prima  dell'anno  171 9.  Già  però 
in  quello  stesso  anno  il  Giannone  riusciva  ad  iniziare  la  pubblicazione  di 
tredici  corsi  universitari  dell'Aulisio,  i  Commentarionm  iiirìs  civilis  to?ni  ///, 
a  cui  seguirono,  nel  1721,  i  Commentarla  in  TV  Institutiomim  canonicarum 
libros.  Due  anni  dopo,  sempre  dietro  incitamento  del  Giannone,  uscivano 
in  Napoli  i  due  libri  Delle  scuole  sacre  . .  .  pubblicati  dal  suo  erede  e  nipote 
Nicolò  Ferrara-Aulisio,  presso  Francesco  Ricciardo.  3.  Avrei  .  »  .  altro  x 
il  Panzini,  p.  14,  riferisce  che  l'Argento  lesse  l'opera  solo  «poiché  ella  fu 
terminata»  e  che  una  volta  presane  visione,  commentò:  «Sig.  Pietro,  voi 
vi  sete  posto  nel  capo  una  corona,  ma  di  spine».  Sia  la  precisazione  del 
Giannone  qui  sopra,  sia  l'avvertenza  del  Panzini  che  l'Argento  leggesse 
Ylstoria  civile  solo  dopo  che  essa  fu  compiuta,  sono  dettate  dalla  stessa 
preoccupazione  di  smentire  le  accuse  di  quanti  sospettarono  una  diretta 
collaborazione  sua  al  lavoro  giannoniano.  Cfr.  infra. 


CAPITOLO    QUARTO  75 

acetoso;  sicché  bisognava  tórre  o  l'uria  o  l'altro.  De'  studi  era  im- 
possibile privarmene,  per  la  mia  professione  che  mi  dava  il  pane, 
onde  si  venne  a  tormi  il  vino,  e  si  prese  il  tempo  opportuno  d'una 
està,  nella  quale  pian  piano,  frammezzando  il  ber  dell'acqua,  mi 
ridussi  ad  un  sol  bicchiere  di  vino  al  fine  della  tavola:  qual  pur  si 
tolse,  surrogando  in  sua  vece  un  grappolo  d'uva. 

Per  tre  mesi  questo  passaggio  dal  vino  all'acqua  chiara  mi  diede 
pena  ed  una  grande  languidezza,  che  m'istigava  a  ripigliarlo,  ma 
io  fermo  nel  proposito,  non  mi  smossi  ;  sicché,  passatami  poi  quella 
languidezza,  lo  stomaco  si  rese  più  forte  alla  digestione,  mi  liberai 
da  quel  acido  e  da  altri  piccioli  mali;  e  benedico  sempre  la  presa 
risoluzione,  poiché,  in  tutto  il  corso  di  mia  vita  fino  al  presente, 
che  sono  in  età  molto  avanzata,  mi  trovo  coll'acqua  pura  assai 
migliore  e  sano,  che  non  era  quando  bevea  vino  :  almanco  sono  si- 
curo di  non  esser  assalito  da  dolori  nefritici,  da  pietre1  e  calcoli, 
da  podagra  e  di  altri  consimili  morbi  gottosi.  Egli  è  però  vero  che, 
non  potendomi  privare  de'  studi,  non  ho  potuto  liberarmi  dall'i- 
pocondria, la  quale  sovente  mi  cagiona  de'  rutti  pur  troppo  mo- 
lesti e  penosi. 

Non  devo  tralasciare  fra  tante  mie  fatiche  e  noiose  occupazioni, 
che  per  rilasciar  alquanto  il  mio  animo  non  trovassi  due  maniere 
di  sollevarlo:  la  prima  innocente,  la  seconda  da  condonarsi  alla 
debolezza  e  fragilità  dell'umana  natura.  Prendeva  gran  piacere 
degli  ameni  lidi  del  mare  di  Posilipo  e  delle  campagne  e  deliziose 
vedute  di  «  Due  Porte  »,  dove  io  solea  portarmi.  Queste  mi  facevan 
dimenticare  e  posporre  tutti  i  diporti  della  città,  de'  teatri  ed  altre 
feste  e  pompe  del  real  palazzo.  Ogni  tumultuoso  spettacolo,  ogni 
concorso  della  moltitudine  era  da  me  lontano,  e  fui  sempre  amante 
della  solitudine  fra  colli,  pianure  e  valli.  L'altro  mio  sollievo  e 
ristoro  era  di  godere  non  men  delle  belle  fattezze  del  corpo  che 
delle  belle  doti  dell'animo  d'una  donzella,2  che  io,  con  volere  di 
sua  madre  vedova,  e  de'  fratelli,  ebbi  verginella  in  mio  potere; 
e  non  fu  se  non  per  tema  di  maggior  male,  poiché  la  loro  povertà,  e 
l'avvenenza  della  giovane,  forse  l'avrebbe  condotta  a  peggior  de- 
stino. Con  lei,  che  m'amava  tanto  quanto  era  da  me  riamata,  e  che 
io  avea  posta  in  città,  in  sicura  custodia  di  donne  oneste  e  sovente 
l'avea  per  compagna  nelle  mie  solitudini  di  Posilipo  e  «Due  Porte», 

i.  da  pietre:  dal  mal  della  pietra,  come  dicevasi  allora  la  calcolosi  vescicale. 
2.  una  donzella:  Elisabetta  Angela  Castelli. 


76  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

alleggeriva  le  mie  tetre  e  malinconiche  occupazioni;  e  poiché  te- 
neva somma  cura  del  mio  corpo  e  delle  mie  cose  domestiche,  io 
riposava  in  lei,  né  mi  dava  altro  impaccio  che  de'  mici  studi. 

Ebbi  da  questa  onesta  e  castissima  donna  due  figliuoli:1  un  ma- 
schio ed  una  femmina.  E  ben  si  conobbe  quanto  ella  fosse  savia 
e  dotata  di  somma  pietà  e  virtù;  che,  costretto  io  a  partir  da  Na- 
poli per  Timperial  corte  di  Vienna,  ella  volle  chiudersi  in  mona- 
stero2 con  la  bambina  che  avea  seco,  dove,  menando  una  vita  san- 
tissima, non  ne  volle  uscir  mai,  lasciando  il  figliuol  maschio  alla 
cura  di  mio  fratello. 


ni 

[1721-1722] 

Cominciava  io  intanto  col  progresso  degli  anni  e  del  lavoro  a 
veder,  se  ben  da  lontano,  il  porto  delle  mie  lunghe  fatiche.  E  già 
de'  quaranta  libri,  onde  V Istoria  civile  era  divisa,  non  me  ne  man- 
cavano se  non  gli  ultimi  cinque;  sicché  mi  risolsi  di  cominciar  la 
stampa  de'  primi,  la  quale,  richiedendo  tempo,  mi  faceva  sicuro 
che  frattanto  io  avrei  potuto  compire  il  rimanente.  Ed  incontrai, 
per  cominciarla,  un'opportuna  occasione,  la  quale  mi  liberò  di 
commetterla3  a*  stampatori,  i  quali  tenendo  le  loro  stamperìe  nelle 
pubbliche  piazze  della  città,  oltre  che  avrei  avuta  gran  difficoltà 
di  persuadergli  che  senza  licenza  dell'Ordinario4  potessero  comin- 
ciarla, erano  esposti  i  fogli,  secondo  che  si  stampavano,  a  gli  occhi 
de'  più  curiosi. 

Avea  Ottavio  Vitagliano,5  avvocato  napolitano  mio  amico,  ot- 
tenuta licenza  dal  viceré  e  Collateral  Consiglio  di  poter  avere  in 

1.  due  figliuoli:  Giovanni,  nato  nel  marzo  del  171 5,  e  Carmina  Fortunata, 
nata  nel  novembre  del  1721.  2.  monastero:  il  Real  Conservatorio  di 
Sant'Antoniello  alla  Vicaria,  come  riferisce  nella  propria  autobiografia  il 
figlio  Giovanni.  Scnonché  è  dubbio  che  la  decisione  di  entrare  in  convento 
venisse  dalla  Castelli,  perché  l'intero  carteggio  del  Giannone  col  fratello 
Carlo  è  pieno  dei  lamenti  delle  due  donne,  che  chiedono  di  poter  uscire 
dal  monastero.  Qualche  notizia  anche  in  C,  Caristia,  Pietro  Giannone  e  i 
suoi  familiari^  in  Scritti  di  sociologia  e  politica  in  onore  di  L,  Sturzo,  Bolo- 
gna 1953.  3.  commetterla:  commissionarla  (latinismo).  4.  dell* Ordinario: 
del  tribunale  vescovile.  5.  Ignazio  Ottavio  Vitagliano  (?~i74o),  nato  a 
Bari  secondo  il  Giustiniani,  avrebbe  in  seguito  criticato  alcuni  passi  del- 
l'opera giannoniana  (cfr.  infra,  e  la  nota  1  a  p.  129).  Per  una  sua  bio- 
grafia si  veda  L.  Giustiniani,  Memorie  isteriche,  cit.,  in,  pp,  283-5; 
C.  Minieri  Riccio,  Memorie  storiche,  cit.,  p.  372;  C.  Villani,  Scrittori  ed 


CAPITOLO    QUARTO  77 

sua  casa  una  stamperia,  alla  quale  egli  avea  preposto  un  diligente 
stampatore,  chiamato  Niccolò  Naso,  che  la  reggesse:  e,  convenuti 
fra  di  loro  del  guadagno,  il  peso  di  ottener  le  licenze  rimase  al  Vi- 
tagliano.1  Fu  facile  persuadere  al  medesimo  che,  contenendo  la 
mia  opera  più  controversie  giurisdizionali  che  si  risolvevano  con- 
tro la  giurisdizione  ecclesiastica,  secondo  che  s'era  negli  ultimi 
tempi  esorbitantemente  innalzata,  non  avea  bisogno  di  licenza  de- 
gli ecclesiastici  ;  e  sarebbe  stata  impertinenza  cercar  da  essi  ciocché 
non  potevano  concedere,  poiché  la  formola  da  essi  introdotta  in 
concederla,  non  si  restava  più  che  nell'opere  da  stamparsi  non  vi 
fosser  cose  contrarie  alla  santa  fede  e  buoni  costumi,  ma  volevano 
che  non  vi  fosser  eziandio  cose  contrarie  alla  loro  pretesa  giuris- 
dizione. E  mostratigli  più  essempi  che  per  i  libri  ove  si  trattava 
di  contese  giurisdizionali  niuno  l'avea  cercata,  si  rimase  fra  noi, 
che  bastasse  solo  la  licenza  del  viceré  e  del  Consiglio  Collaterale, 
della  quale  volli  io  caricarmi  e  mandarcela.  A  tutto  ciò  si  aggiunse 
un'altra  opportunità  per  me  assai  più  acconcia  e  propizia,  poiché, 
tenendo  il  Vitagliano  una  casa  di  campagna  prossima  a  «Due 
Porte»,  la  stamperia  che  avea  nella  di  lui  casa  dentro  Napoli  l'avea 
trasferita  ivi,  lontana  da  ogni  commercio  ;z  sicché  mi  riusciva  più 
commodo  nelle  mie  villeggiature  di  «Due  Porte»  di  poter  assistere 
alla  stampa.  Si  convenne  pertanto,  fra  noi  del  denaro  che  io  dovea 
somministrar  per  le  spese,  e  poiché  il  carattere  che  avea  era  quasi 
tutto  logoro,  mi  convenne  somministrargli  anche  il  denaro  per 
fonderne  un  nuovo,  sicome  altresì  per  un  nuovo  torchio.  Poteva 
io  allora  sostener  queste  spese,  poiché  i  guadagni  dell' awocazione 
ed  i  palmarii  di  alcune  cause  vinte  mi  posero  in  istato,  oltre  di 
mantener  mia  casa  con  decoro,  con  carrozza  e  servidori,  di  po- 
terlo fare. 

Si  cominciò  la  stampa  ne'  princìpi  dell'anno  1 721,  la  qual  durò 
per  due  anni  continui:  ciocché  mi  diede  tempo  di  terminare,  in- 
tanto, gli  ultimi  libri.  Né  posso  negare  che  questo  biennio  fu  per 
me  il  più  travaglioso  e  molesto,  poiché  alle  occupazioni  del  foro 
ed  al  travaglio  di  dar  l'ultima  mano  all'opera,  si  aggiunse  di  do- 


artisti  pugliesi,  cit,  pp.  1170-1;  G.  De  Crescenzio,  Dizionario  storico-bio- 
grafico degli  illustri  e  benemeriti  Salernitani,  Salerno  1937»  P-  524.  1.  con- 
venuti . .  .  Vitagliano-.  il  contratto,  conservato  presso  l'Archivio  di  Stato  di 
Torino,  mazzo  n,  ins.  4,  M  (cfr.  Giannomana,  pp.  419-20),  fu  stipulato  il  23 
agosto  1720.     2.  commercio:  pratica,  relazione  (latinismo). 


78  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

ver  rivedere  i  fogli,  secondo  che  uscivano  dal  torchio,  ed  emen- 
dargli dagli  errori  occorsi  nella  stampa.  Nel  che  gran  sollievo  ri- 
trassi dall' amorevolissimo  Capasso,  il  quale,  ancorché  per  la  morte 
dclPAulisio  si  trovasse  occupare  la  cattedra  primaria  vespertina 
déiVius  civile,  nulladimanco,  sempre  che  poteva,  non  mancava  di 
riveder  i  fogli,  spezialmente  quelli  dove  trattavasi  della  politia 
ecclesiastica,  e  d'avvertire  qualche  abbaglio  o  errore  occorso.  Ma 
poiché  le  sue  occupazioni  non  permettevano  che  potesse  riveder- 
gli tutti,  non  devo  tralasciare  che  mi  fu  di  grande  e  continuo 
sollievo  Tindustria  ed  esattezza  d'un  altro  mio  carissimo  amico, 
del  quale  e  per  questo  e  perché  non  m'abbandonò  mai  in  altri 
miei  bisogni  e,  sopra  tutto  ne'  tempi  delle  mie  più  fiere  persecu- 
zioni, la  gratitudine  ricerca  che  io  ne  abbia  fin  che  viva  cara  ed 
indelebil  memoria.  Questi  fu  il  gentilissimo  Francesco  Mela,  il 
quale,  oltre  di  esser  ornato  di  molte  virtù,  era  dotato  di  gran 
perizia  di  lingua  toscana,  e  si  avea  acquistato  uno  stile  così  puro 
e  limpido,  che  le  sue  lettere,  ancorché  familiari,  riuscivano  cosi 
terse  sia  nelle  voci,  o  nelle  frasi,  che  meritavano  esser  proposte  a 
gli  altri  per  essempio  da  imitare.1  Questi  non  si  stancò  mai,  se- 
condo che  uscivano  i  fogli  dalla  stampa,  di  rivedergli  tutti  e  corri- 
gergli  con  somma  esattezza  non  men  dagli  errori  grammaticali  che 
di  ortografia;  sicché  pochi  ne  scapparono  dalla  sua  oculatezza  e 
diligenza. 

Avvicinandomi,  dunque,  al  termine  del  quarto  ed  ultimo  tomo, 
verso  la  fine  dell'anno  1722  ebbi  ricorso  al  viceré,  allora  cardinale 
Althan,2  e  suo  Collateral  Consiglio,  cercando  la  licenza  della  stampa 

1.  Questi  .  .  .  imitare:  anche  V Apologia  dell'Istoria  civile  fu  sottoposta  per 
la  revisione  e  la  rifinitura,  anche  linguistica,  al  Mela,  oltre  che  al  Riccardi 
e  all'abate  Pietro  Contegna:  cfr.  la  lettera  al  fratello  in  data  16  giugno 
1725  (in  Giannoniana,  n.°  98,  parzialmente  riportata  in  Bertelli,  p,  199). 
Dal  Libro  dei  Cresimati  dell'archivio  della  chiesa  di  Santa  Maria  Maggioro 
d'Ischitclla,  voi.  n,  f.  6r,  si  ricava  che  «compare»  per  il  giovane  Pietro  fu 
un  certo  don  Antonio  Miele  di  Napoli  (cfr,  C.  Cannarozzi,  Pietro 
Giannone,  cit.,  p.  16),  Ora  sembra  molto  probabile  che  Francesco  Mela 
possa  essere  il  figliolo  di  don  Antonio.  Solo  un  vincolo  di  parentela  (e 
il  comparaggio,  allora,  lo  era)  spiegherebbe  d'altra  parte,  meglio  d'una 
semplice  amicizia,  perché  al  Mela  il  Giannone  affidò  la  cura  della  moglie 
e  della  figlia,  rinchiuse  in  convento  al  momento  della  fuga  da  Napoli. 

2.  Friedrich  Michael  von  Althann  (1682- 1734),  cardinale,  fu  viceré  di 
Napoli  dal  1722  al  1728.  Su  di  lui  si  consulti  H.  Benedikt,  Dos  Kò'nigreich 
Neapel  unter  Kaiser  Karl  VI,  Wien-Leipzig  1927,  passim.  Era  fratello  di 
quel  conte  Venccslao,  spentosi  nel  1722,  la  cui  moglie,  Marianna  Pigna- 
telli,  fu  la  favorita  dell'imperatore,  e  più  tardi  l'amica  del  Mctastasio. 


CAPITOLO    QUARTO  79 

e  pubblicazione  dell'opera.  E  commessa  dal  Collaterale  allo  stesso 
Capasso  la  revisione,  per  dover  far  relazione  al  viceré  del  contenuto 
dell'opera,  questi,  che  in  gran  parte  coll'occasione  di  riveder  i  fogli, 
aveala  letta,  non  tardò  molto  di  fare  una  rappresentanza1  al  viceré, 
colla  quale  rendeva  testimonianza  l'opera  esser  degna  delle  stampe, 
così  perché  niente  conteneva  che  fosse  contrario  a'  buoni  costumi, 
ma  molto  più  perché  in  essa  si  sostenevano  i  reali  diritti  e  regie 
preminenze,  e,  per  quanto  ad  un  istorico  si  conviene,  con  forti 
ragioni  erano  manifestate  e  difese. 

Fu  pertanto  conceduta  licenza  di  stamparsi  e  pubblicarsi,  con 
imporsi,  secondo  il  prescritto  delle  prammatiche,  di  darne  gli 
essemplari  a  que'  ministri  a'  quali  si  appartengono,  sicome  fu 
prontamente  eseguito.2  Venne  a  pubblicarsi  l'opera  in  Napoli3  nel 
mese  di  marzo  del  nuovo  anno  1723.  Ma  poiché  qui  per  me  co- 
mincia una  nuova  e  dolorosa  epoca  bisognerà  riportarla  nel  ca- 
pitolo seguente. 


1.  una  rappresentanza:  una  relazione.  2.  Fu  . .  .  eseguito;  il  testo  della  li- 
cenza è  stato  inserito  in  Opere  postume,  I,  p.  37,  assieme  alla  domanda 
dell'autore,  nel  capitolo  vili  dell'Apologia  dell'Istoria  civile.  3.  Venne  .  .  . 
Napoli:  il  frontespizio  dell'ito  Oria  civile  reca  in  tutti  e  quattro  i  suoi  vo- 
lumi l'indicazione:  «In  Napoli,  MDCCXXIII,  per  lo  stampatore  Nicco- 
lò Naso  »,  Sino  ad  allora,  per  un  tacito  accordo  tra  gli  scrittori  e  l'autorità 
vicereale,  le  opere  che  si  volevano  sottrarre  al  visto  ecclesiastico  uscivano 
liberamente  in  Napoli,  ma  con  una  falsa  indicazione  di  luogo  di  stampa 
sul  frontespizio.  Giannone,  in  questo,  contravvenne  a  quello  che  possia- 
mo definire  un  gentlemerìs  agreement,  coinvolgendo  nella  responsabilità 
della  stampa  lo  stesso  cardinale  Althann.  Di  questo  ci  resta  precisa  la  te- 
stimonianza di  Costantino  Grimaldi,  che  nella  citata  Istoria  dei  libri  (ms. 
XV.B.32,  f.  35  a,  e  ora  vedi  nell'edizione  a  cura  di  V.  I.  Comparato,  cit., 
pp.  49-50)  riferendo  un  colloquio  avuto  col  viceré,  il  quale  intendeva  proi- 
bire la  ristampa  dei  testi  della  polemica  col  De  Benedictis,  scrive  che  a 
sua  difesa  egli  fece  osservare  «che  credeva  aver  portato  un  rispetto  al- 
l'Arcivescovo» col  porre  la  falsa  indicazione  di  Lucca  sul  frontespizio, 
«invece  con  sfrontatezza  ponerci  la  data  di  Napoli;  ed  in  effetto  facendosi 
in  detto  modo  si  spacciavan  pubblicamente  tali  libri  »  (cioè  quelli  privi  di 
autorizzazione  ecclesiastica).  «Ma  allora  fu  che  replicògli  il  signor  Viceré, 
che  in  questo  appunto  era  riprensibile  il  Grimaldi,  perché  spacciava  la 
mensogna.  Mensogna  era  si,  gli  disse  il  Grimaldi,  ma  officiosa,  per  non 
mettere  in  cimento  l'Arcivescovo  di  far  ciò  usò  col  signor  D.  Pietro  Gian- 
none,  che  forza  ebbe  scomunicarlo  per  aver  voluto  porre  la  data  di  Napoli, 
senza  aver  chiesto  il  suo  permesso  ». 


CAPITOLO  QUINTO 

Anni  1723  e  1724,  i>otto  il  tegno  delV imperadore  Carlo  VI,  e  sotto  il  governo 
del  cardinal  Althan,  viceré  -  Napoli  e  Vienna. 


Compita  la  stampa  e  fatti  condurre  gli  esscmplari  in  mia  casa, 
al  numero  di  mille  ~  che  tanti  se  ne  imprimerono  in  carta  ordinaria, 
ed  altri  cento  in  carta  reale,  col  ritratto  dell'imperadore,  a  chi 
l'opera  era  stata  dedicata,  e  con  mia  divota  lettera  al  medesimo 
consecrata,  -  ne  feci  di  questi  ligar  uno  nobilmente  ornato,  e  lo 
presentai  al  cardinal  viceré;  il  quale  lo  ricevè  con  molta  umanità  e 
cortesia  e,  come  intesi  dopo  da'  suoi  famigliari,  non  isdegnava 
averlo  sopra  il  suo  tavolino  e  sovente,  nell'ore  disoccupate,  di  leg- 
gerlo. Di  questi  medesimi  esscmplari  di  carta  reale  ne  feci  ligar 
altri,  e  gli  presentai,  uno  per  uno,  a  tutti  i  reggenti  del  Collaterale 
ed  a  gli  altri  supremi  ministri  a  cui  eran  dovuti,  i  quali,  oltre  di 
cortesemente  ricevergli,  me  ne  rendettero  molte  grazie.  Presentai 
de*  consimili  esscmplari,  uno  per  uno,  a  tutti  gli  Eletti  della  città 
di  Napoli,  in  nome  della  quale  mi  furon  rese  le  grafie,  accom- 
pagnate con  un  dono  d'argento,  in  memoria  della  loro  gratitudine, 
e  con  eleggermi  avvocato  ordinario  della  Città.1  Altro  essemplarc, 
riccamente  ornato,  come  quello  che  dovea  presentarsi  alla  Maestà 
di  Cesare,  fu  disposto  per  l'imperiai  corte  di  Vienna,  insieme  con 
altri  essemplari  che  doveano  presentarsi  al  presidente,  a'  reggenti 
ed  altri  consiglieri,  secretari  e  ministri,  che  componevano  in  Vien- 
na il  Consiglio  di  Spagna.3  Altri  si  presentarono  a'  miei  amici,  e 

1.  a  tutti .  . .  Città:  il  Consiglio  municipale  napoletano  (gli  Eletti)  nella  sua 
seduta  del  17  marzo  1723  decise  di  concedere  al  Giannone  un  regalo  in 
argento  del  valore  di  195  ducati,  e  di  nominarlo  avvocato  ordinario  della 
città;  ma  già  il  7  aprile  era  costretto  a  ritornare  sulla  propria  decisione» 
sospendendo  nomina  e  regalia,  e  dando  invece  mandato  a  due  giuristi, 
Nicola  Galizia  e  Matteo  Egizio,  di  riferire  sul  valore  dell'opera  giannoniana. 
Relazione  che  sarebbe  stata  molto  probabilmente  favorevole  allo  storico 
-  data  l'amicizia  che  lo  legava  al  Galizia  e  all'Egizio  -,  ma  che  fu  invece 
scavalcata  da  un  intervento  del  viceré  cardinale  Althann,  il  quale  disap- 
provò pubblicamente,  nella  riunione  del  Consiglio  del  Collaterale  del  12 
aprile,  la  decisione  degli  Eletti  di  Napoli.  Cù\  Bbrtblli,  pp.  178-81.  2.  il 
Consiglio  di  Spagna-,  ossia  l'antico  Consiglio  d'Italia  istituito  per  il  disbri- 
go degli  affari  italiani  dagli  Spagnoli  e  che,  trasferito  a  Vienna  dopo  la 
caduta  dei  possedimenti  spagnoli  in  mano  impenale,  ebbe  mutato  il  titolo 
(ma  non  le  funzioni).  Era  retto  da  un  presidente  affiancato  da  sei  reggenti 
(due  per  ogni  Stato  sottomesso:  Sicilia,  Napoli  e  Milano);  sulla  sua  strut- 


CAPITOLO    QUINTO  8l 

molti  di  ordinaria  carta  se  ne  mandarono  a  due  librari  della  città, 
ad  esporgli  venali1  nelle  loro  librarie,  per  un  discreto  prezzo.2 

Non  passarono  quindici  giorni,  che  leggendosi  questa  mia  opera 
a  pezzi,  quasi  tutti  si  arrestavano  a  gli  ultimi  capitoli  de'  libri  ove 
trattasi  della  politia  ecclesiastica;  e  dall'indice  de'  capitoli  sco- 
verta l'idea  dell'opera,  sembrò  nuova  e  da  altri  non  ancor  tentata. 
Alla  plebe  de'  letterati  e  degli  avvocati,  ed  a'  mezzi  dotti  ciò  recò 
invidia,  e  con  lividi  occhi  cominciarono  a  leggerla,  attenti  a  notare 
solamente  ciò  che  ne'  capitoli  della  politia  ecclesiastica  sembrava  lo- 
ro di  strano  ;  poiché,  ignari  dell'origine  e  progressi  di  questo  Stato, 
credevano  che  il  mondo  così  fosse  sempre  stato,  com'essi  l'avean 
trovato:  e  sentendo  da'  profondi  e  dotti  uomini  lodarla,  ciò  mag- 
giormente aguzzò  l'invida  loro  maladicenza.  Que'  medesimi  che 
prima,  per  la  mia  ritiratezza,  mi  avean  dato  il  sopranome  di  «  soli- 
tario Piero»,  ora,  dimenticati  della  mia  solitudine  e  del  corso  di 
tanti  anni,  cominciarono  a  dire  che  io  non  poteva  essere  stato 
solo  l'autore  di  una  sì  voluminosa  e  laboriosa  opera,  ma  che  altri 
mi  avesser  somministrato  aiuto  e  la  materia,  chi  nominando  l'Ar- 
gento, chi  l'Aulisio,  e  chi  altri  miei  amici.3 

Fu  veramente  cosa  di  maraviglia  e  di  stupore  che,  niente  riguar- 
dando al  lume  col  quale  si  erano  rischiarati  i  secoli  più  oscuri  di 
quelle  provincie  ond'ora  si  compone  il  regno  di  Napoli;  niente 
curando  d'essersi  posto  in  chiara  luce  l'origine  e  l'uso  nel  Regno 
delle  leggi  romane  e  longobarde,  delle  normanne,  sveve  ed  altre 
patrie  leggi,  di  cui  erano  ignorantissimi;  niente  delle  origini  delle 
papali  investiture,  delle  pretensioni  de'  principi  di  varie  nazioni 
sopra  il  regno  di  Napoli,  delle  loro  imprese,  nuovi  sistemi  e  governi, 
delle  istituzioni  di  tanti  nuovi  magistrati,  ufficiali  e  tribunali,  di 

tura  e  il  suo  funzionamento  a  Vienna  cfr.  P.  Giannone,  Breve  relazione  de* 
Consigli  e  Dicasteri  della  città  di  Vienna,  in  Opere  postume,  il,  pp.  195  sgg. 
1.  venali:  in  vendita.  2.  per  un  discreto  prezzo",  furono  venduti  a  quattro 
ducati.  3.  altri  miei  amici'.  Niccolò  Capasso  e  Vincenzo  Ippolito.  Ma  so- 
prattutto si  accusava  il  Giannone  di  aver  sfruttato  i  manoscritti  dell' Aulisio, 
come  riferisce  Panzini,  p.  7  e  pp.  13-4.  A  sua  volta  un  sonetto  dialettale 
accennava  invece  all'Argento:  «Ma  chi  l'ha  dato  mano  a  chessa  'rnpresa?  / 
È  n'auto  senza  legge  e  senza  fede  /  ha  lo  gnomme  d'Argiento  e  l'arma 
lesa  /  e  'mpastata  de  chiummo  e  niente  crede»  («Ma  chi  ha  dato  mano  a 
questa  impresa  ?  È  un  altro  senza  legge  e  senza  fede,  ha  il  nome  d'Argento 
e  l'arma  infida  impastata  di  piombo,  e  a  niente  crede»:  cfr.  il  sonetto  n.  7 
della  raccolta  manoscritta  conservata  presso  la  biblioteca  della  Società 
Napoletana  di  Storia  Patria,  XXVIII.D.15;  su  di  essa  vedi  inoltre  Gian- 
noniana,  pp.  30  sgg.)- 


82  VITA    DI    PIETRO    GIANNONE 

tanti  cangiamenti  e  di  tante  altre  investigazioni  e  nuove  scoverte 
fatte  sopra  il  governo  civile  del  Regno  :  tutte  queste  cose  non  mi 
giovarono  a  niente;  tanto  è  vero  che  gli  uomini,  sicome  sono  più 
inclinati  al  male  che  al  bene,  così  si  trovano  più  disposti  al  bia- 
simo che  alla  lode.  E  conobbi  esser  pur  troppo  vero  ciò  che  Pli- 
nio il  Giovane  scrisse  a  Capitone,  nell'epistola  8a  del  v  libro, 
che  ristorico,  ponendosi  a  scrivere  cose  nuove  e  da  altri  non  trat- 
tate, non  altro  ne  ritrae,  se  non  «graves  offensac,  levis  gratia».1 
E  come  se  nella  mia  opera  non  si  trattasse  di  altro  che  dell'ec- 
clesiastica politia,  cominciarono  a  malmenare  alcuni  mici  detti  da 
essi  non  intesi,  e  sconciamente  -  anzi  sovente  falsamente  -  ad 
altri  esposti,  non  con  altro  animo  che  di  calunniarmi  e  farmi  ca- 
dere nell'odio  di  tutti,  spezialmente  de'  preti  e  de'  monaci  ;  sicome 
ottennero.  Poiché  questi,  non  leggendo  l'opera,  ma  secondo  che 
gli  era  dato  a  credere,  o  mostrati  alcuni  pezzi  tronchi,  come  gli 
veniva  più  acconcio  all'impostura,  furon  subbito  persuasi  che  io 
negassi  ne'  vescovi  l'ordinazione;  negassi  i  miracoli;  insegnassi  il 
concubinato  esser  lecito;  i  pellegrinaggi  a'  santuari  esser  vani  ed 
inutili;  negassi  il  Purgatorio,  la  venerazione  ed  intercessione  de' 
santi.  Ma,  sopratutto,  per  maggiormente  istigare  i  frati  e  monaci, 
[ottennero]  di  fargli  credere  che  io  deridessi  le  particolari  divozioni 
de'  loro  Ordini,  sicome  a'  Dominicani  quella  del  rosario,  a'  Franci- 
scani  l'altra  del  cordone,  a  gli  Agostiniani  quella  della  correggia, 
ed  a'  Carmelitani  l'altra  degli  abitini  e  loro  scapulari;  e,  per  ciò 
che  riguarda  a'  Napolitani,  non  si  potè  inventare  calunnia  più 
acconcia  a'  loro  perversi  fini,  che  di  fargli  credere  che  io  negassi  il 
miracolo  del  sangue  di  san  Gennaio.3 

I  frati  ed  i  monaci,  temendo  non  per  ciò  gli  venissero  a  mancare 
gli  emolumenti  che  traggono  da  queste  loro  particolari  devozioni, 
come  tanti  baccanti  cominciarono  a  declamare  nelle  loro  chiese  e 
ne'  confessionari,  e  di  predicarmi  per  eretico  marcio;  ed  un  gesuita 
non  si  ritenne,  fin  sopra  i  pulpiti,  far  lo  stesso.3  Talché  fu  d'uopo 
al  cardinal  viceré,  per  evitare  i  tumulti,  che  alla  giornata  cresce- 

i.  «.graves . .  .gratia*:  cfr.  v,  vili,  xa  («gravi  offese,  magro  compenso»). 
z.  il  miracolo .  ,  .  Gennaio  :  il  miracolo  di  san  Gennaro,  cioè  lo  sciogli- 
mento del  sangue  del  vescovo  martire,  che  si  ripete  in  Napoli  due  volte 
l'anno,  e  che  ha  sempre  rivestito  una  particolare  importanza  nella  vita  re- 
ligiosa della  città.  3.  un  gesuita  . . .  stesso;  il  padre  Francesco  Franchis, 
dai  pulpiti  del  Gesù  Nuovo  e  di  Santa  Maria  di  Costantinopoli:  cfr.  la 
lettera  al  fratello  Carlo  del  29  settembre  173 1  (Giarmoniana,  n."  439)  e  in 


CAPITOLO   QUINTO  83 

vano,1  di  mandar  ordine  a'  capi  de'  conventi  di  Napoli,  che  proi- 
bissero a'  loro  monaci  e  frati  di  parlar  più  di  me  e  della  mia  opera, 
ed  al  gesuita  di  partir  da  Napoli;  sicome  fu  eseguito.2  E  poiché 
la  città  erasi  posta  in  tanta  agitazione  e  curiosità,  che  non  si  par- 
lava di  altro  in  tutte  le  piazze  e  contrade,  non  che  nelle  private 
case  e  radunanze:  riputò  il  viceré  col  Consiglio  Collaterale,  per- 
ché ogni  rumore  si  quietasse,  di  far  sospendere  la  vendita  degli 
essemplari  mandati  nelle  pubbliche  librarie,  finché,  avocata  l'o- 
pera a  nuovo  esame,  non  si  fosse  altrimenti  comandato.  Questo 
divieto  fece  maggiormente  crescere  la  curiosità  ed  il  prezzo  de' 
libri,  ond'erano  assai  più  avidamente  cercati  e  letti.3  E  secondo  che 
s'andavan  leggendo,  venivano  pian  piano  a  dileguarsi  le  calunnie, 
che  da'  frati  e  monaci,  che  non  l'avean  letti,  si  erano  disseminate 
e  sparse. 

Io,  intanto,  non  mi  sgomentai  da  tali  romori,  e  proseguendo 
sicome  dianzi  i  miei  fatti,  andava  a'  tribunali,  trattava  le  cause  che 
occorrevano,  andava  nelle  chiese  ad  intervenire  ne5  divini  uffici, 
ed  a  far  tutto  ciò  che  m'era  di  mestieri.  Ma  per  le  strade  vedeva 
affollar  la  gente  per  conoscermi,  mostrandomi  l'uno  all'altro  a  dito, 
ed  osservava  che  della  minuta  plebe  alcuni,  doppo  avermi  veduto, 
par  che  mostrassero  pentimento  di  averci  avuta  tanta  curiosità, 
poiché  vedevano  un  uomo  come  gli  altri,  non,  come  mi  avean  di- 
pinto i  frati,  per  un  demonio  orrendo  e  spaventevole.4  Lo  stes- 


Giannoniana,  pp.  330-1  ;  Apologia  dell* Istoria  civile,  in  Opere  postume,  I, 
pp.  1-4;  Panzini,  p.  15  ;  Vita,  ed.  Nicolini,  p  48,  nota,  e  pp.  458-9.  1.  i  tu- 
multi .  . .  crescevano',  notizie  sulle  proteste  suscitate  da  monaci  e  Gesuiti,  e 
sulla  commozione  della  plebe  napoletana  in  M.  M.  Vecchione,  Vita  di 
Pietro  Giannone  dottore  in  leggi  e  celeberrimo  istonco  del  regno  di  Napoli,  Pal- 
myra  (ma  Lucca)  1765,  pp.  13  sgg.  ;  nonché  in  S.  Volpicella,  Parere  del  Col- 
laterale  sui  tumulti  avvenuti  per  la  pubblicazione  della  Storia  Civile  di  Gianno- 
ne, m  «Archivio  Storico  perle  Province  Napoletane»,  1  (1876),  pp.  118-22. 
Per  i  sonetti  antigiannoniani  sparsi  in  Napoli  in  quei  giorni  si  veda  Gian- 
noniana,  pp.  108  sgg.  2.  ordine  .  . .  eseguito:  il  verbale  della  riunione  con 
le  decisioni  qui  ricordate  è  stato  edito  da  S.  Volpicella,  Parere,  cit.,  pp. 
118-22.  Si  tratta  di  quella  stessa  riunione  in  cui  fu  disapprovata  la  deci- 
sione degli  Eletti  di  Napoli.  3.  Questo  .  . .  letti:  dai  quattro  ducati  ini- 
ziali il  prezzo  sali  sino  ai  quaranta  ducati  richiesti  in  Sicilia  nel  1725  :  cfr. 
la  lettera  del  Giannone  al  fratello,  del  9  giugno  1725  (Giannoniana,  n.°97). 
4.  un  uomo  .  .  .  spaventevole:  un  ritratto  del  Giannone,  inciso  da  Jeremias 
Jakob  Sedelmayr  (1 706-1 761),  è  nel  primo  volume  dell'edizione  La  Haye 
1742.  Una  sua  descrizione  in  un  foglietto  accluso  al  dispaccio  dell'inqui- 
sitore di  Ferrara  al  collega  modenese,  in  data  30  settembre  173  5,  in  Gian- 
noniana, p.  552. 


84  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

so  più  volte  mi  avvenne  stando  a'  tribunali,  dove  non  potea  dar 
passo,  che  non  mi  vedessi  premuto  dalla  calca  di  simili  curiosi. 
E  poiché  fra  l'altre  imposture  si  era  dato  a  credere  che  io  repu- 
tassi lecito  il  concubinato,  non  capendo  -  o  non  volendo  intendere  - 
che  io  parlava  dell'antico  concubinato  de'  Romani;  alcuni,  con- 
fondendo questo  concubinato  colla  semplice  fornicazione,  ripu- 
tarono che  io  non  la  tenessi  per  peccaminosa.  La  qual  dottrina  a 
molti,  i  quali  forse  n'eran  contaminati,  piaceva  assai  ;  onde  uno  di 
costoro,  sedendo  io  a'  tribunali,  mi  si  accostò  e,  presami  la  mano, 
forte  me  la  strinse,  dicendomi  che  finalmente  avea  io  discoverta 
questa  verità.  Ma  io,  non  intendendo  ciò  che  si  volesse  dire  e 
dimandatogli  di  chi  intendesse,  mi  rispose  con  soghigno  e  faccia 
allegra,  ch'egli  si  rallegrava,  perch'era  stato  sempre  d'opinione  che 
la  semplice  fornicazione  non  fosse  peccato,  sicomc  io  avea  ben 
dimostrato.  Allora,  con  riso  anch'io,  gli  replicai  che  volontieri  l'a- 
vrei compiaciuto,  se  avessi  potuto  farlo,  e  nella  mia  opera  avessi 
avuta  occasione  di  trattarne,  sicome  in  due  luoghi  l'ebbi,1  trattando 
dell'antiche  concubine,  non  già  della  semplice  fornicazione;  ma 
che  n'incolpasse  san  Paolo,  il  quale  nelle  sue  Epìstole,  condannan- 
dola, me  l'avea  proibito.3  Che  io  non  parlava  ivi  della  semplice 
fornicazione  ma  del  concubinato  antico  de'  Romani,  riputato  le- 
cita congiunzione,  ch'era  tutto  altro  di  quello  che  al  presente  s'in- 
tende, e  molto  differente.  Ciò  inteso,  chinò  il  viso,  e  voltatemi  le 
spalle  se  n'andò  via  tutto  cruccioso  e  malinconico. 

Da  questa  falsa  credenza,  e  dall'aver  i  monaci,  fra  l'altre  calunnie 
addossatemi,  sparso  da  per  tutto  che  io  riputassi  lecito  il  concubi- 
nato presente,  fui  costretto,  per  disingannar  i  semplici,  di  dar  fuori 
una  dissertazione,  non  però  data  alle  stampe:  Dell'antico  concubi- 
nato de7  Romani  ritenuto  nell'Imperio  anche  doppo  la  conversione  di 
Costantino  Magno? 

Intanto,  il  Nunzio  che  risiedeva  in  Napoli  era  rimproverato  da 
Roma  come  fosse  stato  così  trascurato,  che  non  avesse  scovcrto  e 
dato  notizia  alla  Corte  d'una  opera  cosi  voluminosa  che  si  travaglia- 
va in  Napoli,  e  che  almanco  per  lo  spazio  di  due  anni  che  durò  la 


i.  sicome  . . .  ebbi:  cfr.  Istoria  civile,  tomo  i,  lib.  v,  cap.  v,  p.  357;  tomo  11, 
lib.  xi,  cap.  ult,  par.  1,  pp.  226-7.  2.  san  . . .  proibito:  in  particolare  nelle 
lettere:  Rom.,  1, 29;  I  Cor.,  5,  1  sgg.;  6,  18-9;  Eph.,  5,  3  sgg.;  Coi,  3,  5-6; 
/  Thess.,  4,  3  sgg.  3.  una  dissertazione . . .  Magno:  apparve  come  parte  in- 
tegrante della  Apologia  dell'Istoria  civile:  cfr.  Opere  postume,  I,  pp.  xo8  sgg. 


CAPITOLO    QUINTO  85 

stampa  avrebbe  potuto  saperla,  e  fosse  stato  l'ultimo  ad  avvisarla,1 
quando  in  Roma  n'erano  venute  più  casse  d'essemplari  e  s'erano, 
ancor  ivi,  da  per  tutto  sparsi.  Ond'egli,  per  compensare  in  parte 
alla  negligenza  a  torto  imputatagli,  non  cessava  presso  il  viceré 
di  dolersene  e  contro  di  me  passar  uffici  di  accuse,  incolpandomi 
d'ingiurioso  alla  Santa  Sede,  e  che  meritassi  severo  castigo.  Ma  il 
viceré  non  si  smosse,  rispondendogli  sempre  ch'egli  avea  dato  a 
riveder  l'opera  a  persone  dotte  e  che,  secondo  la  relazione  che  ne 
l'avrebber  fatta,  vi  avrebbe  data  provvidenza. 

Dall'altra  parte  la  Curia  arcivescovile  di  Napoli,  istigata  da'  mo- 
naci e  da'  preti  e  da'  curiali  istessi,  non  volle  in  ciò  mostrarsi 
oziosa  e  lenta.  Vedendo  che  per  l'impressione  dell'opera  non  si  era 
a  lei  cercata  licenza,  riputò  essersi  dallo  stampatore  offesa  la  giu- 
risdizione ecclesiastica;  ed  ancorché  il  peso  d'ottener  le  licenze  non 
s'appartenesse  a  lui,  ed  avesse  in  quella  Curia  fatte  sue  difese, 
niente  li  valsero  sue  preghiere  e  ragioni,  ma,  invece  di  riportarne 
scusa,  o  almeno  perdono,  vi  fu  scommunicato.2 

Il  vicario  che  reggeva  allora  quella  Curia  era  il  vescovo  di  Ca- 
stellaneta,  il  quale,  non  facendo  scrupolo  di  lasciar  la  sua  chiesa  e 
diocesi  così  lontana  -  come  posta  nella  provincia  di  Lecce  -  senza 
pastore,  era  stato  dall'arcivescovo  Pignatelli  invitato  con  grossi 
stipendi,  quanti  potevan  promettergli  i  doviziosi  emolumenti  di 
quel  tribunale,  a  presedere  nel  medesimo,  come  vicario  dell'arci- 
vescovo: ed  invitato  perché,  prima  d'esser  vescovo,  avendo  esser- 
citati  più  vicariati  e  reso  pratico  degli  affari  e  stili  forensi,  potesse 
più  fruttuosamente  reggerlo.  Egli  ci  venne  vecchio,  con  deliberato 
animo  di  non  far  più  ritorno  alla  vedova  sua  chiesa,  sicome  l'e- 
vento il  dimostrò:  poiché,  dopo  molti  anni  che  vi  stette,  se  ne 
morì  in  Napoli  di  vecchiaia,  non  già  nel  suo  vescovado.3  Or  a  co- 

1.  Intanto  .  .  .  avvisarla:  monsignor  Girolamo  Vicentini,  nunzio  aposto- 
lico a  Napoli,  avvisò  la  Segreteria  di  Stato  il  2  marzo;  cfr.  in  Archivio 
Segreto  Vaticano,  Nunziatura  di  Napoli,  voi.  165.  a.  vi  fu  scommunicato: 
copia  del  cedolone  a  stampa  della  scomunica  è  tra  gli  atti  inquisitonali 
conservati  presso  la  Biblioteca  Apostolica  Vaticana,  manoscritto  Rossiano 
1180.  3.  Il  vicario  .  . .  vescovado:  monsignor  Onofrio  Montesoro  (1647-  ?) 
era  stato  creato  vescovo  di  Castellaneta  nel  1696.  Fu  successivamente 
vicario  del  vescovo  di  Pozzuoli  e,  trasferitosi  a  Napoli,  preferì  resignare 
il  proprio  vescovado,  nel  dicembre  1722.  A  sua  volta  Francesco  Pignatelli 
(1652-1734),  vescovo  di  Taranto  nel  1683,  nunzio  in  Polonia  nel  1700, 
arcivescovo  di  Napoli  dal  1703,  era  stato  creato  cardinale  nel  1704  e  risie- 
deva perciò  a  Roma. 


86  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

stui,  stimulato  da'  suoi  curiali,  venne  fantasia,  non  contento  d'aver 
ingiustamente  scommunicato  lo  stampatore,  di  voler  lanciare  i  suoi 
irragionevoli  fulmini  anche  sopra  l'autore  dell'opera.1  Ed  ancorché 
la  bolla  stessa  di  Lione  X,2  non  ricevuta  nel  Regno,  e  le  regole  stesse 
dell'Indice,  e  gli  editti  degli  arcivescovi  di  Napoli  non  compren- 
dessero che  i  soli  stampatori,  non  giammai  gli  autori,  egli  pretese 
far  ancor  quest'altro  passo,  e  già  sentivano  le  minaccie  di  que' 
curiali,  che,  sicome  si  era  fatto  collo  stampatore  dell'Istoria  civile, 
si  sarebbe  anche  fatto  coll'autore. 

Ma  cure  assai  più  gravi  angustiavano  il  mio  animo;  poiché  es- 
sendosi malignamente  sparso  fra  la  vii  plebe  napolitana  che  io 
negassi  il  miracolo  del  sangue  di  san  Gennaio,  colla  quale  niente 
mi  giovava  se,  col  libro  in  mano,  faceva  veder  l'impostura,  da  me 
non  si  negava  il  miracolo;  ma  rapportando  l'assedio  col  quale  Lau- 
trech  strinse  la  città  di  Napoli,  e  la  costernazione  nella  quale  erano 
i  Napolitani,  che  si  credevano  perduti  a  cagion  che,  quell'anno,  il 
sangue  non  si  era  disciolto  -  ciocch'essi  aveano  per  infausto  au- 
gurio; e  che  poi  l'evento  mostrò  il  contrario,  poiché  l'esercito  di 
Lautrech  assalito  da  una  crudel  pestilenza,  bisognò  ritirarsi  e  la 
città  fu  liberata  non  mcn  dall'assedio  che  dalla  fame  e  dalla  peste; 
ciocché  non  dinotava  altro,  se  non  di  non  dover  dar  credenza  a  tali 
sciagurati  ed  infelici  pronostici.3 

i.  non  .  .  .  operai  il  testo  della  scomunica  è  riportato  dal  Gl'arnione  nella 
sua  Apologia  dell'Istoria  civile:  cfr.  in  Opere  postume,  i,  pp.  7-8.  2.  la  bol- 
la ...  X:  il  papa  Lione  X  (1475-1521)  emanò  una  bolla  il  4  maggio  15x5 
con  cui  si  vietava  la  stampa  di  libri  senza  la  licenza  del  vescovo  e  del- 
l'inquisitore o,  per  Roma,  del  Vicario  e  del  Maestro  del  Sacro  Palazzo; 
cfr.  Apologia  dell* Istoria  civile,  in  Opere  postwne,  1,  pp.  28  sgg.  ;  ma  anche 
Istoria  civile,  tomo  in,  lib.  xxvii,  cap.  IV,  pp.  427  sgg.  3.  rapportan- 
do ..  .  pronostici:  cfr.  Istoria  civile,  tomo  iv,  lib.  XXXI,  cap.  iv,  p.  25, 
dove  si  legge  testualmente  che  in  Napoli  «  non  si  vedea  altro  per  le  stra- 
de che  processioni,  e  non  s'udivano,  che  pubbliche  preci,  e  dimandar 
pietade;  tanto  che  il  Marchese  del  Vasto  fu  costretto  ricorrere  al  Viceré 
Moncada,  perché  quelle  si  proibissero,  come  fu  fatto,  con  ìncoraggir  il 
popolo,  che  stasse  di  buon  animo,  e  che  lo  orazioni  si  facessero  privata- 
mente nelle  Chiese,  e  ne*  Monasteri.  Ma  tutte  queste  insinuazioni  niente 
giovarono,  quando  il  primo  sabato  di  maggio,  che  in  quell'anno  fu  siili  2 
di  quel  mese,  non  si  vide  secondo  il  solito  liquefarsi  il  Sangue  alla  vista  del 
Capo  di  S.  Gennaro  lor  Protettore.  Allora  sì  che  s'ebbero  per  perduti,  e 
la  città  nell'ultima  costernazione.  Ma  come  più  innanzi  diremo,  fur  vani 
gl'infausti  pronostici,  e  seguirono  effetti  tutti  contrari».  Per  le  calunnie 
lanciate  contro  il  Giannone  si  veda  anche  quanto  egli  stesso  scrive  nel- 
V Apologia  dell1  Istoria  civile,  in  Opere  postume,  r,  pp.  95  sgg.;  Lautrech: 
Odet  de  Foix,  visconte  di  Lautrec  (1485-1528),  maresciallo  di  Francia, 


CAPITOLO   QUINTO  87 

Questi  maligni  interpretavano  da  ciò  che  io  negassi  il  miracolo, 
e  così  aveano  dato  a  credere  alla  semplice  e  superstiziosa  plebe,  la 
quale  non  poteva  ricredersi  del  contrario,  come  quella  che  si  tira 
più  coll'orecchie  che  colla  ragione.  A  tutto  ciò  aggiungevan  che  il 
santo,  per  questa  mia  tenacità  e  bestemmia,  erasi  sdegnato  e  che 
in  pena  d'un  tanto  oltraggio  non  avrebbe,  nell'avvenire,  fatto  il 
miracolo,  togliendo  con  ciò  a'  Napolitani  la  sua  protezione  ed  aiuto, 
lasciandogli  in  continue  calamità  e  miserie. 

Può  ciascuno  da  ciò  comprendere  qual  fosse  stato  il  mio  pericolo 
e,  per  conseguenza,  l'agitazione  nella  quale  io  era;  poiché  questi 
romori  vennero  a  crescere  verso  la  metà  del  mese  d'aprile,  e  nel 
primo  sabato  dell'entrante  mese  di  maggio,  secondo  il  solito,  do- 
vea,  in  pubblica  celebrità,  farsi  il  confronto  della  testa  del  santo 
col  sangue.  Alcune  volte  era  accaduto  che  non  seguisse  lo  sciogli- 
mento :  ciocché  dava  indizio  a'  Napolitani  di  sciagure  imminenti. 
Poteva  questa  volta  accader  lo  stesso  e  certamente  che  si  sarebbe 
imputato  a  mia  miscredenza,  e  datane  a  me  la  colpa;  ed  esser  io 
con  ciò  esposto  a  scempi  crudeli  e  barbari,  ad  essere  sbranato 
a  pezzi  e  fattane  mille  strazi,  avendoci  tanti  essempi,  non  men  di 
antiche  che  moderne  istorie,  fatti  certi,  non  esservi  cosa  più  pro- 
clive e  pronta  alle  sceleraggini  e  crudeltà,  quanto  una  prava  e 
corrotta  religione,  covrendosi  sotto  il  manto  della  medesima,  col 
pretesto  spezioso  di  maggior  riverenza  a'  numi,  le  maggiori  em- 
pietà e  sceleratezze.  Documento  che  dovrebbe  essere  a5  principi  di 
non  far  allignare  ne'  loro  reami  perniciose  superstizioni,  le  quali 
pongono  in  balìa  altrui  la  sicurezza  o  vacillamento  de'  propri  loro 
scettri  e  corone:  e  niun  altro,  quanto  il  regno  di  Napoli,  ne  ha  di 
ciò  negli  ultimi  nostri  tempi  date  pruove  ben  chiare  e  distinte. 

Vedendomi  adunque  in  sì  gravi  pericoli,  col  consiglio  de'  buoni 
amici  si  deliberò  che  io  dovessi  partire  per  l'imperiai  corte  di  Vien- 
na, giacché  non  vi  era  umano  aiuto  che  potesse  scamparmi  in 
Napoli  da  sì  fiera  procella,  che  mi  soprastava.  Si  aggiungeva  che, 
avendo  dedicata  la  mia  opera  alla  Maestà  di  Cesare,  era  proprio  e 
più  conveniente  che  io,  di  persona,  andassi  a  presentarcela,  sicome 
a  gli  altri  principali  ministri  di  quella  Corte;  affinché,  espostala 

che  nel  1527  aveva  il  comando  dell'armata  d'Italia.  Occupato  il  Milanese, 
Lautrec  si  era  accinto  alla  conquista  del  regno  di  Napoli;  ma  la  defezione 
dell'alleato  Andrea  Doria  e  un'epidemia  di  peste,  che  colpì  il  campo  fran- 
cese e  lo  stesso  Lautrec,  portarono  alla  più  completa  disfatta. 


88  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

a  gli  occhi  ed  esame  di  tutti,  conoscessero  i  torti  che  mi  eran  fatti 
in  Napoli,  per  opra  de'  miei  invidi  e  maligni  persecutori,  che, 
con  sediziosi  tumulti,  irritavano  contro  me  la  cieca  e  sciocca  molti- 
tudine. Tanto  maggiormente  che,  per  ciò,  alla  giornata  io  vedeva 
rendersi  tepidi,  anzi  freddi  e  paurosi,  quegli  stessi  che  prima  si 
mostraron  per  me  forti  e  fervorosi,  e  già  vedeva  crollare  le  prime 
colonne  nelle  quali  io  era  appoggiato. 

Poiché  il  presidente  Argento  stesso,  ancorché  delegato  della  rcal 
giurisdizione,  cominciava  a  raffreddarsi;  e  quando  prima  con  sol- 
lecitudine mi  richiese  un  essemplare,  per  esser  il  primo  a  mandarlo 
in  Vienna  all'arcivescovo  di  Valenza,  allora  presidente  del  Consi- 
glio di  Spagna1  -  che  io,  ben  ligato,  glielo  presentai  subbito  :  seppi 
che  l'era  passata  la  voglia,  e  se  lo  ritenne,  temendo  ch'essendo  pre- 
corsi a  Vienna  i  romori  per  quest'opera  seguiti  in  Napoli,  non  fosse 
ivi  ben  ricevuto  ;  sicché  mi  convenne,  per  altra  strada,  incaminarne 
un  altro,  sicuro  che,  leggendosi  da  persone  dotte  in  quella  Corte, 
si  sarebbero  dileguati  i  tanti  falsi  rapporti,  che  dagli  invidi  si  scri- 
vevano da  per  tutto.  Ma  nemmeno  ciò  giovommi,  poiché  la  per- 
sona alla  quale  s'inviò,  come  se  avesse  un  serpente,  se  lo  tenne 
chiuso,  né  fecelo  comparire  ;  onde  tanto  più,  al  mio  arrivo  in  Vien- 
na, conobbi  essere  stata  la  mia  venuta  alla  Corte  necessaria  ed 
opportuna. 

Erasi  l'Argento  anche  intepidito,  perché  non  avea  presso  il  car- 
dinal Althan,  viceré,  quel  favore  ch'ebbe  prima  col  conte  Daun, 
non  adoperandolo,  ma  valendosi  di  altri  ministri  per  consiglio  ;  ed, 
o  fosse  perché  le  materie  ecclesiastiche  e  giurisdizionali,  non  aven- 
dole apprese  da'  suoi  principi,  lo  tenesscr  dubbioso  e  vacillante, 
o  perché  s'avvicinasse  alla  vecchiaia,  erasi  reso  cotanto  timido  e 
superstizioso,  che  arrivò  fino  ad  avere  scrupolo  se,  avendo  Cle- 
mente XI  proibito  il  suo  libro  De  re  beneficiaria?  potesse  tenerlo 
presso  di  sé;  e  per  liberar  il  suo  animo  da  questa  vana  religione, 
il  suo  confessore  ed  altri  preti  e  monaci,  già  resi  consiglieri  di 
sua  coscienza,  lo  consigliarono  ad  impetrarne  da  Roma  licenza; 
la  quale  volentieri  ce  la  mandò  ampissima,  come  in  segno  di  suo 
trionfo. 

Mi  accorsi  ancora,  che  s'era  dato  tutto  in  balìa  di  questo  suo 

i.  arcivescovo  .  . .  Spagna:  Antonio  Folch  De  Cardona  (1658  circa- 1724), 
creato  arcivescovo  di  Valenza  nel  1700,  era  divenuto  presidente  del  Con- 
siglio di  Spagna  nel  171 5.     2.  Clemente . . .  beneficiaria:  cfr.  la  nota  1  a  p.  6$. 


CAPITOLO   QUINTO  89 

confessore,  chiamato  il  padre  Cillis,1  dello  stesso  oratorio  del  padre 
Torres,  già  morto,  e  dal  medesimo  pur  troppo  diverso,  poich'era 
quanto  ignorante,  altrettanto  vafro,2  accorto  ed  intrigante;  e  che, 
per  favorire  gli  altri  suoi  penitenti,  si  framezzava3  nelle  liti  ed  in 
quasi  tutti  gli  affari  avanti  l'Argento  pendenti,  estorquendo  dal 
medesimo  favori  ed  arbìtri:  sicché  la  Curia  arcivescovile  di  Napoli 
non  potè  trovare  più  efficace  mezzo,  per  addormentarlo  in  qualche 
sorpresa,  che  si  tentava  sopra  la  regal  giurisdizione,  che  il  padre 
Cillis.  Onde  lo  vedeva  spesso,  nell'ore  solitarie,  frequentar  la  casa 
dell'Argento,  ch'era  alla  mia  congiunta;  e  scoprii  che  l'arcivescovo 
Pignatelli,  istigato  dal  suo  vicario,  lo  mandava,  perché  non  si  op- 
ponesse alla  sua  Curia,  che  intendeva  scomunicarmi,  per  non  aver 
io  cercata  la  sua  licenza  per  l'impressione  dell'Istoria  civile;  e  che 
l'Argento,  in  vece  di  reprimer  l'attentato,  mostravasi  vacillante  e 
fiacco,  sicome  tosto  me  n'avvidi.  Poiché,  avendogli  parlato  forte- 
mente, ch'era  ciò  un  attentato  nuovo,  non  essendovi  essempio  che 
gli  autori  siano  compresi  e  fatto  un  sol  fascio  cogli  stampatori, 
non  ne  ebbi  altra  risposta,  se  non  che  io  ne  avessi  parlato  col  padre 
Cillis  e  veduto  di  persuaderlo.  Ben  mi  accorsi  da  ciò,  che  mi  sa- 
rebbe riuscita  ogni  opra  vana,  per  impedire  il  lor  mal  concepito 
disegno  ;  e  tanto  più  ch'essendo  stato  ad  informarne  il  Cillis,  con 
parlar  grave  e  misterioso  mi  rispose  che  avrebbe  informato  di 
quelle  mie  ragioni  il  cardinale  arcivescovo,  non  potendo  egli  farci 
altro.4 

Vedendo,  adunque,  il  tutto  riposto  alla  discrezione  di  que'  cu- 
riali, pensai  affrettar  maggiormente  la  mia  partenza  per  Vienna; 
tanto  più  che  si  avvicinava  il  primo  sabato  di  maggio,5  che  in 

1.  Roberto  De  Cillis,  preposito  dei  Pii  Operari,  era  il  confessore  del  car- 
dinale Pignatelli.     2.  vafro:  astuto.     3.  si  framezzava:   si  intrometteva. 

4.  essendo .  .  .  altro:  ben  diverso  il  Panzini,  p.  17:  «com'egli  si  portò  al 
monistero  di  S.  Niccolò  della  Carità  per  favellare  a  quel  Padre,  il  quale 
ivi  risedeva,  costui  no'l  volle  ricevere,  né  anche  vedere  a  patto  veruno, 
via  cacciandolo  da  sé,  non  pure  qual  uomo  malvagio  e  scellerato,  a'  quali 
non  si  dinega  alla  fin  fine  l'udienza,  ma  qual  mostro  esecrabile  d'empietà, 
che  gli  animi  altrui  offendesse  colla  sola  veduta  e  col  semplice  favellare  ». 

5.  il  primo  sabato  di  maggio:  la  liquefazione  del  sangue  di  san  Gennaro 
avviene  in  uno  dei  nove  giorni  dal  sabato  avanti  la  prima  domenica  di 
maggio,  nonché  il  19  settembre,  anniversario  del  martirio  del  vescovo  di 
Pozzuoli.  Queste,  almeno,  sono  le  due  date  in  cui  l'avvenimento  è  celebrato 
con  regolarità;  ma  scioglimenti  del  sangue  avvengono  anche  il  19  dicembre, 
anniversario  dell'eruzione  del  Vesuvio  del  1631,  e  in  occasione  di  gravi 
calamità  che  colpiscano  la  città  di  Napoli. 


90  VITA    DI    PIETRO    GIANNONE 

quest'anno  1723  veniva  a  cadere  al  primo  dì  del  mese.  E  perché 
la  mia  partenza  fosse  tenuta  nascosta,  mi  giovò  la  somma  cordialità 
e  diligenza  del  consigliero  don  Muzio  di  Maio,1  che  si  trovava 
allora  Auditor  generale  dell'essercito,  ed  in  somma  grazia  presso  il 
cardinale  Althan,  viceré,  il  quale  sollecitamente  mi  procurò  dal 
viceré  il  passaporto;2  e  dato  sesto,  nel  miglior  modo  clic  potei,  a* 
miei  interessi  di  casa,  lasciando  a  mio  fratello  ampia  procura  d'am- 
ministrargli, e  fatti  prestamente  riporre  più  csscmplari  dell'opera 
dentro  una  cassa,  che  portai  meco,  con  quello  già  apparecchiato 
per  Cesare,  partii  da  Napoli,  verso  la  fine  di  aprile,  per  Manfre- 
donia, dove  credeva  trovar  pronto  imbarco  per  Fiume  o  Triesti.3 

In  questo  mio  viaggio  da  Napoli  a  Manfredonia  fu  d'uopo  che 
io  cambiassi  nome,  poiché,  in  passando  per  gli  alberghi,  non  tro- 
vava osteria  nella  quale  da'  viandanti  partiti  da  Napoli  per  loro 
affari  non  si  parlasse  che  del  fatto  mio;  e,  se  vi  capitava  qualche 
frate  0  monaco,  i  discorsi  ed  1  contrasti  erano  più  lunghi  e  fervorosi, 
che  io  sovente  sentiva  colle  proprie  orecchie,  chi  prendendo  un 
partito,  come  suole  avvenire,  e  chi  un  altro;  e  con  mio  stupore, 
mi  avvidi  che  i  monaci  ne  aveano  empite  le  provincie  e  tutti  i  loro 
conventi:  desiderosi  di  vedere  o  intendere  ciò  che  di  me  fosse 
seguito  se,  nel  dì  del  confronto  del  sangue  di  san  Gennaio  con  la 
testa,  non  si  fosse  fatto  il  miracolo. 

Mentre,  presso  il  ponte  di  Bovino,  io  proseguiva  il  viaggio  in  un 
galesse,4  conducendo  meco  una  persona  per  mia  compagnia,5  si 

1.  Muzio  di  Maio  (morto  nel  1733),  avvocato  della  Vicaria,  giudice  di  Santa 
Chiara,  proreggente  e  infine  presidente  della  Vicaria  (cfr.  H.  Bknkmkt, 
Dos  Kònigreich  Neapcl,  cit,  pp.  134-5).  L'anonimo  autore  delle  Notizie  per 
il  governo  del  regno  di  Napoli  (Biblioteca  della  Società  Napoletana  di  Sto- 
ria Patria,  XXI,  A,  7)  lo  annovera  tra  i  migliori  consiglieri  del  Sacro  Real 
Consiglio  (e.  37 v).  2.  mi ..  .passaporto:  sappiamo  dal  Panzini,  p.  17, 
che  il  Giannone,  oltre  che  al  di  Maio,  si  rivolse  anche  al  barone  Ansclm 
Franz  von  Fleischmann,  consigliere  economico  imperiale  presso  il  viceré 
Althann,  il  quale  «s'addossò  volentieri  il  carico  d'interporsi  a  suo  favore 
col  Viceré,  e  di  disporre  il  costui  animo  a  ben  riceverlo,  ed  a  benignamente 
ascoltarlo  in  una  privata  udienza,  ch'egli  proccurò  che  il  Giannone  s'aves- 
se ».  I  risultati  di  questo  colloquio  furono  che  il  cardinale  consigliò  il  Gian- 
none  «  amichevolmente  e  per  la  privata  sua  sicurezza,  e  per  la  tranquillità 
pubblica  a  torsi  via  da  Napoli  il  più  sollecitamente  ch'e'  si  potesse,  e  condur- 
si in  Vienna  affine  di  rappresentare  all'Imperador  Carlo  VI  i  gravi  torti  0 
le  sediziose  contrarietà  che  provate  avea  dagli  ecclesiastici  »  (p .  1 8).  3 .  Trie- 
sti :  Trieste.  4.  galesse  :  calesse.  5 .  una  persona . . .  compagnia  :  il  Giannone, 
nel  suo  viaggio,  si  era  fatto  accompagnare  dal  fratello  di  Elisabetta  Angela 
Castelli,  la  donna  con  cui  conviveva. 


CAPITOLO   QUINTO  91 

fece  incontro  un  galesse  che  avea  dentro  due  frati  franciscani, 
detti  de'  zoccoli;  i  quali,  appena  vedutici,  ed  immaginando  esser 
da  Napoli  partiti,  furon  pronti  a  domandarci  se  san  Gennaio  avea 
fatto  il  miracolo.  E  l'uomo  di  mia  compagnia  rispondendogli  che 
no,  senza  dargli  tempo  di  soggiungere:  «perché  non  era  ancora 
venuto  il  giorno  del  confronto,  che  dovea  farsi  nel  primo  di  mag- 
gio», tosto  uno,  con  voce  più  alta,  ricercò:  «e  di  Pietro  Giannone 
che  si  è  fatto?»;  e,  rispostogli:  «niente»,  tutto  crucciosi,  borbot- 
tando e  bestemmiando,  perché  i  galessi  non  si  fermaron  punto, 
passarono  e  ci  sparirono  davanti.1 

D'allora  si  procurò  andar  più  cauto,  e,  giunto  che  fui  a  Manfre- 
donia,2 scopertomi  ad  un  gentiluomo  di  quella  città,  mio  amico, 
che  io  avea  conosciuto  in  Napoli,  chiamato  don  Tommaso  Cessa, 
ed  al  console  imperiale  Fiore,3  per  cui  io  portava  lettere  commenda- 
tizie e  mostrandogli  il  passaporto  del  viceré,  gli  pregai  mi  procu- 
rassero presto  imbarco  per  Fiume  o  Triesti  ;  e  dal  Fiore  dettomi 
che  non  ve  n'era  ivi  pronto,  ma  che  io  facilmente  l'avrei  trovato  a 
Barletta,  si  spedì  colà  corriero  al  vice-console  imperiale,  che  ce  ne 
desse  avviso.  Il  quale  rispose  al  Fiore,  ch'eravi  un  padron  di  nave, 
venuto  a  caricar  sale  in  quelle  marine,  il  qual  dovea  fra  pochi 
giorni  far  ritorno  a  Triesti;  sicché,  il  seguente  giorno,  partii  per 
Barletta;  e,  nel  partire,  non  senza  riso  mi  disse  il  Cessa  che, 
avendo  saputo  un  canonico,4  suo  parente,  che  si  qualificava  per 
delegato  0  fiscale  del  Santo  Ufficio,  che  io  era  ivi,  voleva  farmi 
arrestare,  ma  da  tutti  schernito,  e  fattolo  arrossire  non  men  della 
sua  temerità  che  ignoranza,  si  tacque. 

Giunto  a  Barletta,  il  vice-console  fecemi  parlare  col  padron  del- 
la nave,  e,  convenuti  del  nolo,  si  aspettava  che  fornisse5  il  suo 
carico,  ed  il  tempo  fosse  propizio  per  partire;  ma,  di  giorno  in 
giorno,  per  suoi  affari,  prolungava  la  partenza,  talché  mi  trattenne 
ivi  otto  giorni  ;  ed  intanto,  essendo  già  entrati  nel  mese  di  maggio, 

1.  due .  .  .  davanti:  questo  stesso  racconto  nella  lettera  al  fratello  da  Lu- 
biana,  in   data   28   maggio    1723:    vedila  più   oltre   in   questo   volume. 

2.  giunto  .  .  .  Manfredonia:  vi  giunse  il  27  aprile,  come  risulta  dalla  prima 
lettera  spedita  al  fratello  da  quella  città,  in  data  30  aprile  (Giannoniana}  n.°  1). 

3.  Niccolò  Fiori,  o  Fiore.  Una  Relation  de  los  servicios  de  D.  Nicolas  de 
Fiori,  Consul  Supremo  Imperiai  en  la  ciudad  de  Manfredonia  si  conserva  a 
Vienna,  tra  le  carte  dell'archivio  del  Consiglio  di  Spagna  (cfr.  H.  Benedikt, 
Dos  Kò'nigreich  Neapelf  cit.,  p.  690).  4.  un  canonico:  il  canonico  Perucci, 
reggente  l'arcivescovado.  Maggiori  notizie  nella  citata  lettera  da  Lubiana 
del  28  maggio.     $.  fornisse:  finisse,  completasse. 


92  VITA   DI    PIETRO   GIANNONE 

venne  ivi  novella  da  Napoli  che,  nel  dì  stabilito  al  confronto,  il 
sangue  di  san  Gennaio  erasi  disciolto  ed  avea,  con  giubilo  uni- 
versale, fatto  il  solito  miracolo. 

Non  poco  mi  sollevò  tal  notizia,  avendo  ingombra  la  mente  di 
tetre  e  malinconiche  imagini  e  di  funesti  successi,  che,  non  se- 
guendo, avrebber  potuto  accadere  alla  povera  mia  casa;  e  dalle 
lettere  che,  giunto  a  Vienna,  trovai  di  mio  fratello,  conobbi  che  1 
miei  timori  non  cran  vani,  poiché  mi  scriveva  ch'egli,  il  giorno 
precedente,  tolto  il  migliore  dalla  casa,  erasi  ritirato  in  luogo  ignoto 
e  lontano  dalla  città;  e  che  il  viceré,  per  tema  di  qualche  sedizioso 
tumulto,  avea  disposte  milizie  intorno  al  quartiere  di  Pontccorvo, 
ov'era  posta  la  mia  casa  e  quella  ove  abitava  l'Argento,  per  evitar 
qualche  disordine,  che  avrebbe  potuto  nascere  non  facendosi  il  mi- 
racolo; ma  che  per  buona  sorte,  essendo  seguito,  tutto  era  in  cal- 
ma ed  in  quiete. 

In  Barletta,  ancorché  io  procurassi  poco  farmi  vedere  e  starci 
sconosciuto,  con  tutto  ciò,  per  occasione  di  dover  prendere  nel 
partire  le  fedi  della  sanità,1  quell'ufficiale  che  avea  l'incombenza 
di  darle,  nel  trascrivere  il  mio  nome,  avvertito  da  un  prete  che 
Fera  accanto,  chi  io  fossi,  divolgò  ad  altri  la  mia  persona;  e  comin- 
ciava ad  esser  mostrato  a  dito,  ed  il  giudice  di  quella  città,  ch'era 
napolitano,  venne  a  visitarmi,  e  già  altri  si  accingevano  a  far  lo 
stesso.  E  mi  disse  poi  il  reggente  Alvarcz,a  il  quale,  alquanti  anni 
appresso,  giunse  a  Vienna  ad  occupar  la  carica  di  fiscale  nel  Consi- 
glio di  Spagna,  che  per  occasione  d'un  accesso,3  essendo  in  questi 
giorni  passato  per  Barletta,  subbito  alcuni  zelanti  vennero  a  dirgli 
che  nella  città  era  una  persona  sconosciuta,  che  non  facea  vedersi. 
E  poiché  allora  erano  accadute  le  brighe  pel  duello  tra  il  conte  di 
Conversano  ed  il  marchese  di  Oira,4  altri  erano  entrati  in  sospetto 


x.  le  fedi  della  sanità',  l'attestato  di  buona  salute,  necessario  a  chi  intrapren- 
deva un  viaggio  ;  una  misura  intesa  a  prevenire  il  diffondersi  delle  epidemie. 
2.  Femandez  Manuel  Aharez,  lettore  di  diritto  all'Università  di  Pavia, 
quindi  reggente  del  Collaterale  a  Napoli,  dal  1727  reggente  per  Milano 
nel  Consiglio  di  Spagna  a  Vienna  (cfr.  H.  Benedikt,  Das  Kà'nigreich  Neapcl, 
cit.,  pp.  242, 429,  e  M.  Schipa,  II  regno  di  Napoli  al  tempo  di  Carlo  di  Bor- 
bone) Napoli  1904,  pp.  7  e  50),  3.  accesso:  visita  giudiziaria.  4.  erano  . . . 
Oira:  del  duello  tra  il  conte  di  Conversano  Giulio  Antonio  Acquaviva  d'A- 
ragona e  il  principe  di  Francavilla  Michele  Imperiali,  marchese  d'Oira,  re- 
sta un  lungo  resoconto  nel  manoscritto  della  Società  Napoletana  di  Storia 
Patria,  n.  XXVIII,  e.  21,  Racconto  di  varie  notizie  accadute  nella  città  di  Na- 
poli dalVanno  1700*  PP-  5*-4-  Nell'Archivio  di  Stato  di  Torino,  tra  i  mano- 


CAPITOLO    QUINTO  93 

che  fosse  il  conte  di  Conversano;  ma  dapoi  egli,  informatosi  me- 
glio, scovrì  chi  fosse.  E  mi  disse  che  mandò  nel  mio  albergo  per 
parlarmi,  sapendo  che  io  viaggiava  per  Vienna,  ma  che  gli  fu 
risposto  che  io  era  già  partito,  sicom'era  vero.  Poiché,  vedendomi 
già  scoverto  ed  avendomi  detto  il  padrone  che  la  sua  nave  era  già 
alle  saline  per  caricar  il  sale,  e  che  mi  accingessi  alla  partenza, 
uscii  da  Barletta  ed  andai  alle  saline,  poste  quasi  due  miglia  lon- 
tane dalla  città;  ed  ivi  aspettai  due  giorni,  finché  finisse  il  carico, 
in  un  casino  che  per  cortesia  del  fratello  del  consiglier  Fraggianni,1 
mio  amico,  mi  fu  offerto;  il  qual,  anche  per  sua  gentilezza,  volle 
ivi  trattenersi  meco  e  farmi  compagnia,  finché  non  partissi. 

Si  partì  infine  da  quelle  spiagge,  e  ne'  primi  giorni  si  ebbe  pro- 
spero vento,  ma  dapoi  si  ebbe  una  calma,  che  rese  la  nave  immo- 
bile: talché  si  contrastò  dieci  giorni,  per  arrivare  a  prender  porto 
a  Triesti.2  Portava  io  lettere  commendatizie  del  console  Fiore  a' 
giudici  di  questa  città,  li  quali  benignamente  mi  accolsero  e  mi 
provvidero  di  cavalli,  per  proseguire  il  viaggio  fino  a  Lubiana 

scritti  Giannone,  mazzo  li,  ins.  4,  N  e  O  (Giannoniana,  p.  420),  è  conserva- 
to un  fascicolo  a  stampa  di  dodici  pagine,  col  titolo  Le  riflessioni  nel  fatto  del 
Conte  di  Conversano  contra  ti  Marchese  d'Oira,  e  insieme  accanto  le  risposte 
in  contrario,  in  Augusta  MDCCXXIII,  presso  Ulderico  Mayer,  e  la  Difesa 
del  signor  Duca  di  Limatola  dalla  impostura  di  certa  lettera  finta  e  stampata 
in  suo  nome  negli  affari  de'  Signori  Marchese  D'Oira  e  Conte  di  Conversano, 
m  Montechiaro,  MDCCXXIII,  presso  Biagio  di  Amato.  1.  del  fratello  . . . 
Fraggianni:  del  fratello  del  marchese  Niccolò  Fraggianni  (1686-1763), 
consigliere  di  Santa  Chiara,  consultore  di  Stato  in  Sicilia,  segretario  del 
Regno  (cioè  del  Collaterale)  dal  1725,  caporuota  del  Sacro  Real  Consiglio 
e  delegato  della  Real  Giurisdizione.  Sue  consulte,  in  dieci  volumi,  sono 
conservate  presso  la  biblioteca  della  Società  Napoletana  di  Storia  Patria. 
La  nota  personale  che  lo  riguarda,  nelle  Biografie  di  magistrati,  cit.,  dice: 
«È  fratello  del  vescovo  di  Venafro.  Questo  ministro  avendo  accudito  in 
Vienna  da  Aiutante  di  studio  al  Reggente  Ravaschiere,  ne  ebbe  la  fiscalia 
di  Lucerà,  e  servi  molto  tempo  con  credito  nelle  Provincie,  e  poscia  fu 
fatto  segretario  del  Regno  ;  dopo  d'aver  esercitata  tal  carica  con  soddisfa- 
zione di  tutti,  con  onore  e  pontualità,  fu  promosso  al  posto  di  Consigliere 
con  soddisfazione  pure  del  pubblico,  per  essere  egli  uomo  dotto  pontuale 
e  capace  ...  è  amicissimo  del  Cappellano  Maggiore  »  (Archivio  di  Stato  di 
Napoli,  Segreteria  di  Giustizia,  Biografie  di  magistrati,  ce.  231^-232).  Su 
di  lui  si  veda  L.  Giustiniani,  Memorie  {storiche,  cit.,  11,  1788,  pp.  30  sgg.  ; 

D.  Martuscelli,  Biografia  degli  uomini  illustri,  cit.,  v,  18 18,  pp.  127  sgg.; 

E.  De  Tipaldo,  Biografia  degli  Italiani  illustri,  vili,  Venezia  i84i,p.  144  sgg.  ; 
R.  Aiello,  Il  problema  della  riforma  giudiziaria  e  legislativa  nel  regno  di 
Napoli  durante  la  prima  metà  del  secolo  XVIII,  Napoli  1961,  I,  La  vita 
giudiziaria,  p.  291.  2.  per  .  .  .  Triesti:  Giannone  vi  giunse  il  25  maggio,  e 
ne  diede  avviso  al  fratello  il  giorno  seguente,  con  una  breve  lettera  {Gian- 
noniana,  n.°  2). 


94  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

-  poiché  non  erasi  allora  costrutta  quella  commoda  strada  gales- 
sabile,1  che  trovai  undici  anni  doppo,  al  mio  ritorno;  ma  faceva  me- 
stieri cavalcare  per  quelli  alpestri  monti  dell' Istria. 

Giunto  a  Lubiana,2  città  metropoli  della  Carinola,3  per  mia  buo- 
na sorte  m'incontrai,  in  quell'osteria,  con  un  galantuomo4  di  Fiume, 
chiamato  Stefano  Bensoni,  il  quale,  per  i  precedenti  romori,  avea 
di  me  notizia.  Saputo  che  io  era  ivi,  venne  a  visitarmi  e,  facendo 
egli  lo  stesso  cammino,  si  offerse  di  farmi  compagnia.  La  quale  mi 
sollevò  non  poco,  poiché  -  come  pratico  di  que'  luoghi,  avendogli 
più  volte  scorsi  in  più  viaggi  fatti  nella  città  di  Vienna,  dove  egli 
avea  presa  moglie,  di  cui  rimasone  di  fresco  vedovo,  andava  ivi 
per  aggiustar  suoi  interessi  co'  cognati  -  mi  alleviò  di  molte  cure 
nel  viaggio:  ciocché  non  avrei  potuto  sperare  dal  mio  uomo  di 
compagnia,  che  condussi  da  Napoli.  E,  preso  insieme  un  galesse, 
proseguimmo  il  cammino  fino  a  Gratz,  città  metropoli  della  Stiria, 
e  di  là  fino  a  Vienna. 

Giunsi  a  Vienna  ne'  princìpi  di  giugno,5  e  rimaso  per  pochi 
giorni  in  un'osteria  d'un  borgo  prossimo  al  convento  de'  Minimi 
di  san  Francesco  di  Paula,  detti  in  Vienna  «paulani»,  finché  dal 
mio  uomo  non  mi  si  fosse  trovato  alloggio  dentro  la  città;  passai 
indi  ad  albergarvi  a  gli  otto  di  giugno;  e  datone  avviso  alla  per- 
sona a  cui  era  raccomandato,  ed  alla  quale  si  erano  indrizzate  da 
Napoli  mie  lettere,  per  dovermele  consignare  al  mio  arrivo  :  que- 
sta venne  a  portarmele,  con  dirmi  che  io  era  da  molti  con  impazienza 
aspettato,  resi  curiosi  non  pur  da'  privati  avvisi  venuti  da  Napoli 
della  mia  partenza,  ma  da  più  gazzette  pubbliche,6  che  ne  parla- 
vano, che  me  le  portò  a  leggere;  ed  in  quelle  lessi  non  pur  la  mia 
partenza,  ma  la  scomunica,  che  la  corte  arcivescovile  di  Napoli 
aveami  lanciata  appresso;  e  credendola  una  delle  solite  fole  de* 
gazzettieri,  mi  affrettai  ad  aprir  il  piego,7  che  mio  fratello  mi  man- 
dava da  Napoli,  e  trovai  che  quelle  dicevan  vero.  Poiché  m'avvisava 
che  il  vicario,  credendo  che  io  stassi  nascosto,  non  già  che  fossi 
partito,  mandò  un  cursore  della  sua  Curia  in  mia  casa  col  monito- 
rio, per  intimarmelo;  e  dicendogli  mio  fratello  che  io  non  vi  era, 

x.galessabile:  che  si  può  percorrere  in  calesse,  z.  a  Lubiana',  il  zy  mag- 
gio. Cfr.  la  già  citata  lettera  del  giorno  seguente.  3.  La  Camìcia,  o  Krain, 
era  un'antica  provincia  dell'Impero.  4.  galantuomo',  cittadino  benestante, 
borghese,  distinto  da  «  gentiluomo  ».  5.  Giunsi , . .  giugno  :  cfr.  la  sua  prima 
lettera  da  Vienna,  in  data  xz  del  mese,  qui  la  n.  6.  gazzette  pubbliche; 
fogli,  avvisi  volanti.     7.  il  piego  :  il  plico. 


CAPITOLO   QUINTO  95 

gli  rispose  che  avea  ordine  di  lasciarlo  a  chiunque  trovava  in  casa, 
e  che  stasse  pur  sicuro  che  avrebbe  fatta  sua  relazione  d'averlo 
così  lasciato,  non  già  d'averlo  di  persona  a  me  intimato,  come  as- 
sente. Con  tutto  ciò  mio  fratello,  consapevole  dell'animosità  di 
quella  Curia,  per  prevenire  qualche  frode  o  inganno  la  mattina 
seguente  comparve  ivi,  come  mio  escusatore,  ad  allegar  la  mia  as- 
senza ;  e,  per  pruova  del  vero,  presentò  copia  autentica  (che  io  l'a- 
vea  lasciata)  del  passaporto  speditomi  dal  viceré,  perché  maggior- 
mente si  accertassero  che  io  era  in  viaggio  per  l'imperiai  corte  di 
Vienna.1  Ma  perché  il  vicario  avea  in  testa  in  tutte  le  maniere  voler- 
mi scommunicare,  dicendo  che  nel  mio  caso  non  era  bisogno  di 
citazione,  essendo  notoria  la  mia  trasgressione  di  non  aver  cercata 
licenza  dalla  sua  Curia  di  stampar  l'opera  -  assicurato  dal  padre 
Cillis  che  il  delegato  della  real  giurisdizione2  non  si  sarebbe  op- 
posto, -  non  si  ristette,  mentr'io  era  in  viaggio,  contro  un  assente 
scagliar  sua  scomunica,3  ed  affigger  cedoloni  per  tutti  gli  angoli 
della  città;  e  fu  notato  d'avergli  affissi  anche  ne'  luoghi  insoliti 
più  bassi  della  città,  dov'è  più  numerosa  la  vii  plebe,  perché  anche 
per  questa  via  mi  rendesse  più  odioso  alla  cieca  multitudine.  Ma 
poiché,  pochi  giorni  appresso,  seguì  il  miracolo  di  san  Gennaio,  e 
sempre  più  avverandosi4  la  mia  partenza  per  Vienna,  e  con  ciò 
riputandosi  la  scomunica  nulla  ed  invalida,  non  fece  alcun  ef- 
fetto, e  si  ebbe  come  se  non  si  fosse  scagliata;  sicché  fra  poche  set- 
timane, non  si  videro  più  i  cedoloni  che  si  erano  affissi,  ed  il  tutto 
posto  in  calma  ed  in  una  gran  quiete. 

Nel  mio  arrivo  in  Vienna,  trovai  l'imperadore  con  sua  corte  essere 
a  Laxemburg,5  villaggio  dalla  città  lontano  dodici  miglia,  ove  ogni 
anno  suol  condursi  alla  caccia  degli  aironi,  a  che  di  là,  fra  pochi 
giorni,  dovea  coll'imperadrice6  portarsi  a  Praga,  per  esser  incoro- 
nati re  di  Boemia,  ed  ivi  trattenersi  per  quattro  mesi;  onde  i  su- 
premi ministri,  che  doveano  seguirlo,  erano  tutti  occupati  per  que- 

i.  Poiché .  .  .  Vienna:  ampiamente  tratta  di  tutto  questo  il  Panzini,  pp.  18 
sgg.  La  protesta  di  Carlo  Giannone  è  inserita  nella  prima  parte  dell'Apolo- 
gia dell  Istoria  civile,  in  Opere  postume,  i,  pp.  5-6.  2.  il  delegato  .  .  .  giu- 
risdizione: l'Argento.  3.  non  . .  .  scomunica:  la  difesa  del  Giannone  contro 
la  sentenza  di  scomunica  si  basò,  tra  l'altro,  anche  sulla  nullità  della  cita- 
zione, intimata  quando  chi  si  intendeva  colpire  era  assente  da  Napoli. 
Sulla  composizione  di  quella  che  sarà  V Apologia  dell1 Istoria  civile  si  cfr. 
Giannoniana,  pp.  3  sgg.  4.  avverandosi:  riscontrandosi  per  vera.  5.  La- 
xemburg: Laxenburg.  6.  imperadrice:  Elisabetta  Cristina  di  Brunswick- 
Wolfenbiittel  (1691-1750). 


96  VITA    DI    PIETRO    GIANNONE 

sta  partenza.  Ed  intanto,  essendo  stato  io  caldamente  raccoman- 
dato dal  Cirillo  al  cavalier  Pio  Niccolò  Garelli,1  medico  dell'im- 
peradore,  suo  grand'amico,  e  che  si  trovava  anche  bibliotecario 
della  cesarea  biblioteca  di  Vienna,  fui  dal  medesimo  a  presentargli 
un  essemplare  della  mia  opera,  ed  a  pregarlo  che,  avendo  meco 
l'cssemplare  riccamente  adorno  da  presentarsi  alla  Maestà  dcll'im- 
pcradore,  a  chi  l'opera  era  dedicata,  mi  additasse  la  maniera  come 
potessi  farlo,  pria  che  partisse  per  Praga;  e  mi  rispose  che,  come 
bibliotecario,  era  ciò  sua  incombenza  di  farlo,  e  ch'egli  in  mio 
nome  ce  l'avrebbe  presentato  a  Laxemburg;  e  dicendomi  che  alla 
Corte  erano  precorse  voci  di  quest'opera  molto  a  me  pregiudiziali, 
e  che  bisognava  purgarmi  di  tante  accuse  fattele:  gli  risposi  che 
a  questo  fine  io  l'esponeva  a  gli  occhi  di  tutti,  pronto  a  dar  conto 
di  quanto  attorto  mi  s'imputava;  e  che  la  mia  disgrazia  era  stata 
che  le  voci  maligne  eran  precorse,  ma  non  già  l'opera,  della  quale 
non  vedeva  esser  a  Vienna  capitato  alcun  essemplare;  e  che  uno, 
che  io  procurai  stradarne,  la  persona  a  cui  fu  mandato  non  Pavca 
fatto  veder  luce  di  sole,  tenendoselo  nascosto,  come  se  avesse  un 
serpente;  ma  che  ora  si  sarebbe  manifestata  la  verità,  avendone 
meco  portati  più  essemplari  per  presentargli  a'  supremi  ministri, 
e  porgli  sotto  il  loro  esame,  per  emendargli  se  mai  fossevi  cosa 
contraria  alla  nostra  religione  ed  a'  buoni  costumi;  che  io,  certa- 
mente, non  Pavea  composta  per  piacere  a'  preti  ed  a'  monaci  ed 
alla  corte  di  Roma,  donde  procedevano  tanti  romori;  ma  unica- 
mente per  rischiarare  le  cose  oscure  ed  ignote  del  regno  di  Napoli, 
e  sostenere  le  supreme  regalie  ed  alte  preminenze  de*  re  di  Napoli, 
facendo  conoscere  che  in  ciò  non  doveano  riputarsi  inferiori  a 

1.  Pio  Niccolò  Garelli  (1 670-1739)  è  una  figura  poco  studiala  del  nostro  Set- 
tecento, ma  che  meriterebbe  invece  particolare  attenzione.  Suoi  manoscrit- 
ti nella  Osterreichische  Nationalbibliothek.  Lettore  di  medicina  a  Bologna 
nel  171 9,  seguì  in  Vienna  il  padre  Giovan  Battista,  quando  questi  fu 
nominato  archiatra  dell'imperatore  Leopoldo,  e  nella  carica  successe  al  geni- 
tore nel  1733;  ma  già  da  tempo  ricopriva  quella  di  protomedico  e  consi- 
gliere di  gabinetto  dell'imperatore  Carlo  VI.  Nel  1724  divenne  prefetto 
della  Biblioteca  Palatina.  Fu  insignito  del  titolo  di  conte.  In  Vienna  acqui- 
stò una  posizione  preminente,  non  soltanto  nella  colonia  italiana,  e  fece 
parte  del  gruppo  di  intellettuali  che  si  riunivano  attorno  al  principe  Euge- 
nio. Ebbe  modo  di  costituirsi  una  propria  biblioteca,  di  notevoli  dimensio- 
ni, della  quale  ci  resta  un  catalogo,  più  tardo,  ma  pur  sempre  prezioso: 
M.  Denis,  Die  Merkwurdigkeiten  der  k.  k.  garellischen  iìffenthche  Biblio- 
thek  am  Theresiano,  Wien  1780.  Sui  Garelli  a  Vienna  ctr.  G.  Suttniìr,  Die 
Garelli,  Wien  1885  e  ivi,  edizione  più  completa,  1888. 


CAPITOLO    QUINTO  97 

quelle,  che  i  re  di  Francia  essercitano  nel  loro  reame;  e  che  non 
curava  punto  lo  sdegno  di  quella  Corte,  se  adempendo  alle  parti 
d'un  leale  e  fedel  vassallo  verso  il  mio  principe,  fossi  meritevole 
della  grazia  e  protezione  della  Maestà  di  Cesare,  a  chi  io  avea  l'o- 
pera consecrata. 

Il  Garelli  promise  di  volermi  in  ciò  favorire,  e  venne  in  mia  casa 
a  prendersi  l'essemplare  destinato  per  l'imperadore,  e  seco  lo 
condusse  a  Laxemburg,  e  lo  presentò  a  Cesare.  Il  qual  lo  ricevè 
con  piacere,  e  mostrò  curiosità  di  leggerlo;  poiché  disse  al  Garelli 
che,  sicom'era  involto  con  coverta  di  fine  velluto  cremisi,  e  tutto 
bordato  di  ricamo  e  f reggi  di  oro,  ne  avesse  fatto  togliere  quella 
coverta,  e  porre  un'altra  schietta  di  pelle  rossa,  per  esser  più  ac- 
concio ad  esser  rivoltato  e  letto;  sicome  prestamente  fece  fare, 
riponendolo  poi  nel  suo  gabinetto:  ciò  che  avendomi  il  Garelli 
riferito,  fecemi  respirare  alquanto.  E  poiché  era  quello  rimaso  per 
uso  di  Cesare,  bisognò  che  per  la  Biblioteca  si  fosse  proveduto 
d'un  altro;  sicome  feci,  collocandolo  nella  medesima,  ad  uso  di 
que'  che  la  frequentavano. 

E  mostrò  poi  l'imperadore  essergli  l'opera  stata  grata,  che,  si- 
come  mi  riferiva  lo  stesso  Garelli,  fra  i  libri  che  ogni  anno  dovea 
preparargli,  per  condur  seco  nella  villeggiatura  di  Laxemburg,  vo- 
leva che  vi  fosser  anche  i  quattro  tomi  dell'Istoria  civile  di  Napoli. 
E,  se  mal  non  ricordo,  nell'anno  1729,  essendo  io  a  Pettersdorf,1  il 
conte  di  Sifuentes,2  che  faceva  le  veci  del  Camerier  maggiore,  per 
trovarsi  questi  impedito,  mi  disse  che  avea  veduto  a  Laxemburg 
i  miei  libri  su  '1  tavolino  dentro  il  gabinetto  cesareo,  rallegrando- 
sene meco  ;  di  che  io  ne  le  resi  molte  grazie,  mostrando  di  essermi 
ignoto  che  que'  libri,  ogni  anno,  eran  ivi  portati. 

Cominciai,  doppo,  a  presentarne  a  lui,  a'  cesarei  ministri  e, 
trovandosi  allora  avvocato  fiscale  nel  Consiglio  di  Spagna  Ales- 
sandro Riccardi,3  nostro  napolitano,  di  profonda  dottrina  ed  in- 

i.  Pettersdorf:  Perchtoldsdorf,  «villaggio  .  .  .  lontano  da  Vienna  dodici  mi- 
glia» (cfr.  qui  a  p.  no),  a.  ti  conte  di  Sifuentes:  Fernando  de  Silva  y 
Menezes,  conte  di  Cifuentes  e  marchese  di  Alcanchel,  fratello  del  conte 
di  Montesanto  Joseph  (cfr.  la  nota  2  a  p.  119).  Filoaustriaco  e  compro- 
messo nelle  agitazioni  del  1704  in  Andalusia,  aveva  seguito  l'imperatore  a 
Vienna,  dove  assunse  una  posizione  di  notevole  rilievo  in  corte,  anche  per 
vincoli  di  parentela.  Il  fratello  era  infatti  il  genero  del  marchese  di  Villasor, 
il  quale  dal  1726  fu  il  presidente  del  Consiglio  di  Spagna  (cfr.  H.  Benedikt, 
Dos  Konigreich  Neapel,  cit.,  pp.  85  sgg.  e  passim).  3.  Alessandro  Riccardi: 
cfr.  la  nota  3  a  p.  64. 


98  VITA    DI   PIETRO    GIANNONE 

tendentissimo  delle  materie  giurisdizionali  ed  ecclesiastiche  -  quel- 
lo stesso  che  avea  scritto  a  difesa  del  rcgal  editto  intorno  a'  bene- 
fìci del  Regno  da  doversi  conferire  a*  nazionali,  -  fui  dal  medesi- 
mo a  presentarcene  uno,  ed  a  pregarlo  che  l'esaminasse  e  rendesse 
testimonianza  a  gli  altri  del  Consiglio  di  ciò  che  gli  pareva.  E  lo 
stesso  feci  col  reggente  Positano,  ministro  provinciale  per  Napoli, 
co*  reggenti  Bolagno  e  Pertusati  per  Milano,  e  poi  co'  reggenti 
Almarz  e  Perlongo  per  Sicilia.1 

All'arcivescovo  di  Valenza,  presidente  del  Consiglio,  prima  che 
partisse  per  Praga,  gliene  presentai  un  altro  ;2  il  quale  mi  disse  che 
l'aspettava  con  impazienza,  come  colui  che,  amante  di  libri,  avendo 
una  magnifica  ed  ampia  biblioteca,  desiderava  essere  de'  primi  ad 
avere  que'  che  si  davano  alle  stampe.  Al  che  risposi  che  certamente 
sarebbe  stato  il  primo  ad  averlo,  se  il  presidente  Argento,  che  aveva 
prima  tanta  ardenza3  di  mandarglielo,  non  si  fosse  poi  raffreddato, 
temendo  per  i  tanti  romori  insorti,  che  non  fosse  qui  ben  ricevuto. 

Al  marchese  di  Rialp,4  secretano  di  Stato  e  del  dispaccio  uni- 
versale di  Spagna,  glielo  presentai  pure,  prima  che  partisse  per 
Praga;  ma,  occupato  per  questa  imminente  partenza,  che  dovea 

1.  Il  duca  Giuseppe  Positano,  fratello  del  vescovo  di  Accrcnaa,  poi  arcivesco- 
vo di  Salerno»  Giuseppe  Maria,  era  entrato  nel  Consiglio  di  Spagna  alla  mor- 
te del  conte  Giovan  Battista  Ravaschiero,  nel  1715-17x6;  il  conte  Joseph 
Bolafios  (morto  nel  173»),  senatore  di  Milano  e  dal  1710  luogotenente  della 
Camera  di  Napoli,  nel  17x4  reggente  per  Napoli  nei  Consiglio  di  Spagna, 
quindi  per  Milano  -  nello  stesso  Consiglio  -  dal  1717,  infine  ambasciato- 
re a  Venezia  dal  1727;  il  conte  Carlo  Pertusati  di  Castelfcrro  (1674-1755), 
già  presidente  del  Senato  milanese  ;  il  conte  Domingo  de  Almarza  (morto 
nel  173 1)  aveva  lasciato  nel  1723  il  tribunale  di  Santa  Chiara  por  la  carica 
di  reggente  per  la  Sicilia  nel  Consiglio  di  Spagna;  lo  era  assieme  al  conto 
Gaetano  Perlongo.  2.  All'arcivescovo  ,  .  .  altro:  Gian  none  consegnò  i  vo- 
lumi dell'istoria  civile  ai  primi  di  giugno,  ma  fu  ricevuto  dall'arcivescovo 
di  Valenza,  Antonio  Folch  de  Cardona  (sul  quale  cfr.  la  nota  1  a  p.  88), 
solo  il  mese  seguente.  Cfr.  le  lettere  al  fratello  del  12  giugno  (qui  la 
n)  e  del  3  luglio  (qui  la  in).  3.  ardenza:  ardore.  4.  Ramon  Perla» 
de  Vilhena,  marchese  di  Rialp.  Protonotario  di  Catalogna  sotto  Carlo 
d'Absburgo,  quando  il  re  lasciò  il  paese  per  assumere  la  direzione  dell'im- 
pero alla  morte  del  fratello  Giuseppe,  egli  restò  al  servizio  della  regina  in 
Barcellona,  come  segretario  della  Reggenza.  Nominato  nel  X722  segretario 
del  dispaccio  per  il  regno  di  Napoli,  vi  riorganizzò  l'intero  servizio  po- 
stale, passando  poi  a  Vienna  con  la  carica  di  Segretario  di  Stato  per  l'uni- 
versai  dispaccio  delle  provincie  di  Spagna  (su  questa  segreteria  cfr.  quanto 
scrive  lo  stesso  Gìannone  nella  Breve  relazione  de'  Consigli  e  Dicasteri  della 
città  di  Vienna,  cit.,  p.  204).  In  realtà,  forte  anche  dell'appoggio  dell'im- 
peratrice, egli  divenne  l'eminenza  grigia  del  governo  imperiale,  uno  dei 
più  potenti  ministri  in  Vienna. 


CAPITOLO    QUINTO  99 

fare  coll'imperadore,  poiché  l'arcivescovo  partì  doppo,  non  potei 
parlargli,  se  non  doppo  il  suo  ritorno. 

Ed  in  effetto,  pochi  giorni  dapoi,  l'imperadore,  tornato  da  La- 
xemburg  a  Vienna,  partì  subito,  né  io  ebbi  opportunità  di  potermi 
inchinare  a'  suoi  piedi.  Ebbi  però  la  sorte  di  vederlo,  la  sera  prece- 
dente al  giorno  della  partenza;  poiché,  cenando  quella  sera  presso 
la  vedova  imperadrice  Amalia,1  fui  avvisato  dal  conte  Ildaris,2  il 
quale  ebbe  la  cortesia  di  condurmi  seco  nelP appartamento  del- 
l'imperatrice. Ed  in  una  gran  sala,  ove  era  preparata  la  tavola,  ed 
eravi  gran  concorso  della  primaria  nobiltà  e  di  tanti  signori  e 
principi,  vidi  tutta  l'augustissima  famiglia,  poiché  coll'imperadore 
e  l'imperatrice  regnante  vi  cenarono  anche  l'arciduchesse.3  E  fin- 
ché durò  la  cena,  non  solo  ebbi  il  piacere  di  fisamente  guardargli, 
ma  di  conoscere  altri  illustri  personaggi,  che  li  facevan  corona,  e 
fra  gli  altri  l'abate  Zinzendorf,  figliuolo  del  Gran  Cancelliere  di 
Corte,  ora  cardinale,4  che  mi  usò  gentili  cortesie  e  generose  di- 
mostranze. 

Conobbi  sempre  più  quanto  fosse  stata  necessaria  la  mia  venuta 
a  Vienna,  poiché  la  sera,  trattenendomi  in  casa  del  Riccardi,  ov'e- 
ra  una  fioritissima  conversazione  d'uomini  letterati,  fra'  quali  an- 
che alcuni  nostri  Napolitani,5  questi  mi  dissero  che  eran  da  Na- 

i.  Guglielmina  Amalia  di  Brunswick-Lùneburg  (morta  nel  1742),  l'impe- 
ratrice vedova  di  Giuseppe  I,  che  aveva  sposato  nel  1699.  Sulla  sua  vita 
in  Vienna,  cfr.  H.  Benedikt,  Dos  Konigreich  Neapel,  cit.,  pp.  658  sgg. 
2.  Cesare  Ildaris.  3.  V arciduchesse:  Maria  Teresa  (1717-1780),  che,  in 
virtù  della  Prammatica  Sanzione  del  19  aprile  1713,  sarebbe  divenuta 
imperatrice  alla  morte  del  padre  Carlo  VI  (20  ottobre  1740),  e  Marianna 
(171 8-1744).  4.  V abate  .  . .  cardinale:  Philipp  Joseph  Ludwig  von  Sinzen- 
dorff  (1699-1747),  figlio  del  Gran  Cancelliere  Philipp  Ludwig  (per  cui  cfr. 
la  nota  2  a  p.  116),  altra  figura  tra  le  più  importanti  della  corte  imperiale, 
assieme  al  Rialp.  Vescovo  di  Gyor  nel  1726,  traslato  a  Breslavia  nel  1732, 
fu  creato  cardinale  del  titolo  di  Santa  Maria  sopra  Minerva  in  ricompensa 
(scrive  G.  Moroni,  Dizionario  di  erudizione  storico-ecclesiastica,  v,  Venezia 
1840,  p.  11)  deiraiuto  prestato  per  la  restituzione  di  Comacchio  alla  Chie- 
sa. Fu  tra  gli  elettori  di  Clemente  XII.  5.  una  fioritissima  .  .  .  Napolitani: 
dal  Pakzini,  passim,  nonché  dall'epistolario,  possiamo  ricostruire  abba- 
stanza bene  l'ambiente  italiano  a  Vienna.  Tra  i  Napoletani  ricorderemo  i 
sacerdoti  Pietro  Contegna,  fiscale  nel  Consiglio  di  Spagna,  e  Carlo  Baro- 
ne, l'abate  Francesco  Tosques,  e  ancora  Giuseppe  Proccurante  e  Ferdi- 
nando Porcinari,  il  medico  Gabriele  Longobardi.  Tra  gli  Italiani  che  eb- 
bero contatti  frequenti  segnaliamo  Apostolo  Zeno,  il  marchese  Clemente 
Dona,  ambasciatore  della  repubblica  di  Genova  a  Vienna  dal  171 9  al 
173 1,  il  marchese  Giuseppe  Roberto  Solaro  di  Breglio,  rappresentante 
del  duca  di  Savoia,  il  principe  Tiberio  di  Chiusano,  il  duca  di  Maddaloni 
Maurizio  Carafa. 


100  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

poli  venute  lettere  così  velenose  e  maligne  che,  fingendosi  a  lor 
capriccio  l'eresie  e  bestemmie  che  m'imputavano  avere  io  scritto, 
arrivarono  a  tanta  impudenza  di  citare  fino  i  fogli  dell'opera,  della 
quale  non  essendo  capitato  in  Vienna  alcun  esscmplare,  non  potc- 
van  riscontrargli;  sicché  tutti  ne  rcstavan  almen  in  dubbio,  ed  alcu- 
ni vi  prestavan  anche  credenza:  ma  che  ora,  tenendola  il  Riccardi 
esposta  a  gli  occhi  di  tutti,  si  erano  ricreduti  delle  calunnie  ed 
imposture.  Né  posso  negare  d'esser  il  Riccardi  stato  il  primo  a 
dileguarle,  come  colui  che  si  prese  la  pena,  sicom'era  in  ciò  labo- 
riosissimo, di  leggere  da  capo  a'  piedi  i  mici  libri;  ed  essendo 
franco  e  libero  di  dire  i  suoi  sentimenti,  sicome  non  si  ritenne  di 
avvertirmi  di  alcuni  abbagli,1  cosi  non  mancò  di  far  a  molti  ricre- 
dere delle  false  accuse  ed  imputazioni,  e  qualificare  la  mia  J storia 
civile  per  dotta,  sincera  ed  innocente.  E  non  pure  co'  reggenti  del 
Consiglio  e  spezialmente  col  reggente  Bolagno  e  con  quanti  s'in- 
contrava de'  suoi  amici  in  Vienna,  ma  anche  ne  scrisse  a  que'  di 
Napoli,  maravigliandosi  come  l'invida  maladicenza  de'  compatrioti 
avesse  potuto  giungere  a  tanto,  di  falsare  fino  i  passi  e  le  parole, 
ed  inventare  tante  calunnie  e  menzogne. 

Fecene  ancor  di  ciò  avvertito  monsignor  Gentilotti,3  il  qual, 
promosso  allora  da  Cesare  da  bibliotecario,  in  luogo  del  quale  suc- 
cede il  Garelli,3  alla  carica  di  auditor  della  Ruota  romana,  dovea 
partir  per  Roma;  e  perché  co'  propri  suoi  occhi  si  assicurasse  di 
quanto  egli  diceva,  volle  che  io  gli  presentassi  un  esscmplare  del- 
l'opera, sicome  feci,  pregandolo  a  prendersi  l'incomodo  di  osservar- 
lo, che  avrebbe  trovato  per  vero  quanto  il  Riccardi  testificava,  lì  co- 
sì, pregando  altri  a  leggere  e  riflettere,  finirono  a  dileguarsi  l'impo- 
sture. Ma  non  potei  sfuggire  la  maladicenza  di  alcuni,  e  spezialmente 
Napolitani,  che  si  trovavano  in  Vienna  addetti  alla  corte  di  Roma,4 
dalla  quale  ne  speravano  dignità  e  benefìci;  i  quali  mi  riputavano 

i.  non  ...  abbagli:  cfr.  la  lettera,  piena  di  critiche,  in  data  13  maggio 
1723,  riportata  nel  testo  in  Panzini,  p.  27.  2.  Il  conte  Johann  Ifcncdikt 
Gentilotti  von  Engelsbrunn  (morto  nel  1725),  prefetto  della  Biblioteca 
Palatina,  quindi  Auditore  di  Ruota  a  Roma  nel  1724,  vescovo  di  Trento 
nel  1725.  3.  in  luogo  . . .  Garelli:  il  Garelli  era  stato  consigliere  dell'ar- 
ciduca Carlo  al  tempo  della  guerra  di  successione  per  il  trono  di  Spagna 
e  da  questi,  una  volta  passato  dal  trono  spagnolo  a  quello  imperiale,  eleva- 
to a  consigliere  del  gabinetto  dell'imperatore.  4.  alcuni .  .  .  di  Roma:  che 
cioè  facevano  parte  à^W  entourage  del  nunzio  Girolamo  Grimaldi.  Cfr.  a 
questo  proposito  il  dispaccio  del  nunzio  da  Vienna,  in  data  29  maggio  1723 
(Archivio  Segreto  Vaticano,  Nunziatura  di  Germania,  voi.  279,  ce-  316-7). 


CAPITOLO    QUINTO  IO! 

ingiurioso  ed  irriverente  alla  Sede  Apostolica,  biasimando  ezian- 
dio l'amicizia  che  io  avea  contratta  col  Riccardi,  come  odioso  alla 
medesima,1  ed  alcuni,  di  me  più  teneri,  mi  scusavano  con  dire  che 
io,  come  naufrago,  mi  era  appigliato  alla  prima  tavola,  che  erami 
capitata  nelle  mani.  E  pure  niuno  di  loro,  giunto  a  Vienna,  venne 
a  porgermi  la  mano,  per  darmi  aiuto,  ma  aspettavan  forse  che  il 
naufrago  si  affondasse;  ed  uno  di  essi  fu  che,  avendo  la  mia  opera, 
colla  quale  poteva  smentire  le  tante  calunnie  sparse,  tacque  e  ten- 
nela  nascosta,  osservando  solo  dove  le  cose  andasser  a  terminare,  e 
regolarsi  secondo  i  successi  rei  o  prosperi,  chiamando  questa  ma- 
niera versicolore  ed  ambigua,  ingegnosa  arte  di  saper  ben  vivere 
in  questo  mondo. 

Partito  adunque  l'imperadore  per  Praga,  seguitato  da'  primi  del- 
la Corte,  ma  non  già  dal  Consiglio  di  Spagna,  che  rimase  a  Vienna, 
se  ben  dapoi  il  presidente  anche  ivi  s'incaminasse,  riputai  fer- 
marmi, così  per  evitar  la  spesa  ed  il  travaglio  di  nuovo  viaggio, 
come  anche  perché  la  mia  andata  e  dimora  a  Praga  mi  sarebbe  riu- 
scita quanto  dispendiosa  altrettanto  inutile,  essendo  la  Corte  ad 
altro  intesa.  Ed  a  me  premeva  di  far  ricredere  a*  reggenti  di  quel 
Consiglio,  ch'eran  rimasi,  delle  calunnie  addossatemi  e,  sopra- 
tutto, ch'esaminassero  la  mia  opera,  per  farne  rapporto  alla  Mae- 
stà dell'imperadore,  per  riceverne  premio  o  castigo,  secondo 
che  l'imperiai  clemenza  o  giustizia  avesse  giudicato.  Ed  essen- 
do sopragiunti  a  Vienna  li  reggenti  Almarz  e  Perlongo  per  Sici- 
lia, usai  co'  medesimi  quello  stesso  che  avea  fatto  con  gli  altri. 
Ed  ebbi  gran  contento  di  vedere  l'Almarz,  col  quale  io  in  Na- 
poli avea  contratta  qualche  familiarità  ed  amicizia,  essendo  uo- 
mo di  molta  probità  e  che  mi  amava,  e  di  me  avea  qualche  stima  e 
concetto.  Questi  mi  disse  che,  se  bene  in  Napoli  fosser  cessati 
tanti  romori,  avea  però  lasciato  l'Argento  ancora  in  aggitazione, 
temendo  che  io  non  fossi  stato  ben  ricevuto  nella  Corte  ;  e  secondo 
questo  timore,  variamente  parlava,  ora  biasimandomi,  ora  compa- 
tendomi. Ed  un  mio  amico,  al  quale  era  ignota  la  sua  natura,  con 
maraviglia  me  ne  fece  anche  avvertito,  al  quale  si  rispose,  che  tosto 
l'Argento  avrebbe  mutato  stile,  doppo  che  si  fosse  assicurato  che 
io  e  la  mia  opera  in  Vienna  fossero  stati  ben  accolti  e  ricevuti; 
sicome  in  effetto  di  ciò  reso  certo,  cominciò  poi  a  scrivere  qualche 

i.  come  odioso  alla  medesima-,  per  la  polemica  de  re  beneficiaria,  di  cui  già 
s'è  detto. 


102  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

lettera  all'arcivescovo  di  Valenza  in  mia  lode  e  commendazione, 
ed  a  biasimare  il  passo  irragionevolmente  dato  dal  vicario  di  mia 
scomunica,  e  che  bisognava  rivocarla. 

Il  reggente  Almarz  fummi  anche  di  gran  sollievo  in  paese  stra- 
nio,1 perché,  convenendo  la  sera  in  casa  sua  molti  Napolitani,  non 
meno  che  Siciliani  ed  altri  Italiani,  si  passavano  quelle  ore  allegre  ; 
sicché  io,  ora  in  quella  del  Riccardi,  ora  in  questa,  allegeriva  i 
passati  affanni;  poiché,  nella  casa  del  proprio  ministro  nazionale, 
del  reggente  Positano,  i  Napolitani  trovavano  più  tosto  solitudine, 
tetraggine  e  sbigottimento,  che  consiglio,  aiuto  o  conforto,  per  es- 
sere di  natura  restìo,  difficile  ed  inesorabile,  badando  unicamente 
a  gli  avanzamenti  di  sua  casa. 

Intanto,  per  i  romori  accaduti  in  Napoli  doppo  essersi  la  mia 
opera  pubblicata,  pervenutine  in  Roma  più  esscmplari,  cominciò 
anch'ivi  a  farsi  strepitosa,  per  i  tanti  clamori  de'  monaci  e  de'  frati, 
i  quali  la  predicavano  per  empia,  eretica  ed  alla  Santa  Sede  ingiu- 
riosa. Sedeva  in  quella  il  pontefice  Innocenzio  XIII,  della  non 
men  illustre  che  antica  famiglia  Conti,*  il  quale  per  lunga  esperien- 
za era  ben  inteso  dell'audacia,  impudenza  e  procacità  de'  frati  ;  ed 
avvertito  da  savi  e  dotti,  che  avcanla  letta,  che  non  era  cotanto 
esecranda  quanto  costoro  declamavano,  anzi  molto  commendan- 
dola, fu  fama  che  lo  stesso  pontefice,  invogliatosene,  consumasse 
qualche  ora  del  giorno  in  leggerla,  e  che  non  le  dispiacesse;  anzi 
sovente,  co'  suoi  più  intimi  famigliari,  prorompesse  in  dire,  che 
piacesse  a  Dio  che  non  così  fosser  le  cose,  come  io  l'avea  scritte; 
ma  non  potendo  allontanarsi  dallo  stile  inconcusso  di  quella  Corte 
d'esaminar  qualunque  libro  e  proibirlo,  quando  non  fosse  in  tutto 
conforme  alle  massime  della  medesima,  si  diede  l'opera  ad  esami- 
nare a'  qualificatori  del  Santo  Ufficio,  fra'  quali  non  mancarono  de' 
frati  e  monaci;  e  pure,  non  ostante  la  loro  animosità  e  gli  stimoli 
che  l'cran  dati  da  gli  altri  lor  simili,  non  poterono  avanzar  tanto  la 
livida  lor  censura,  che  potessero  qualificare  in  essa  alcuna  proposi- 
zione ereticale:  sicome  Clemente  XI,  nel  suo  breve,  col  quale  con- 
dannò i  libri  dell'Argento,  Riccardi  e  Grimaldi,  non  si  ritenne  solo 
alle  solite  e  consuete  condanne,  di  contenere  proposizioni  erronee, 


i.  stranio:  straniero.  2.  Michelangiolo  Conti  dei  duchi  di  Poli  (1655- 
1724)  salì  al  soglio  nel  1721.  Da  lui  Carlo  VI  ottenne  rinvestitura  del 
regno  di  Napoli. 


CAPITOLO    QUINTO  IO3 

scandalose,  empie,  scismatiche,  età;  ma  vi  aggiunge  «imo  etiam 
haereticas».1  Ma  i  miei  qualificatori  si  ristettero  alle  ordinarie  for- 
inole, solamente  aggiungendovi  «  et  haeresim  ut  minimum  sapien- 
tes».2  Inoltre,  Clemente  XI  con  due  particolari  suoi  brevi  gli  con- 
dannò ;  ma  la  mia  opera  fu  proibita  con  decreto  della  Congregazione 
del  Santo  Ufficio  di  Roma,  interposto  nel  dì  primo  di  luglio  di  que- 
st'anno 1723, 3  il  qual,  certamente,  nel  regno  di  Napoli,  sicome  in 
altri  paesi  che  non  riconoscono  tribunale  alcuno  di  Santo  Ufficio, 
non  poteva  aver  alcun  effetto.  Di  vantaggio,  Clemente  commandava 
ne'  suoi  brevi,  che  que'  libri  da'  vescovi  ed  inquisitori  si  fosser 
ricercati  e  gettati  alle  fiamme  ad  esser  bruggiati,  e  che  coloro  che 
gli  ritenessero,  leggessero  o  reimprimessero,  fossero  scommunicati, 
né  potesser  da  altri  ottener  assoluzione  e  perdono,  se  non  da  lui  o 
da'  pontefici  romani,  suoi  successori  ;  all'incontro,  in  quel  decreto 
non  si  leggevano  fiamme  e  fuoco,  né  la  scomunica  riserbarsi  al  solo 
romano  pontefice;  ma  semplicemente  sottoporsi  i  trasgressori  alle 
pene  contenute  nell'Indice  proibitorio  de'  libri. 

Fu  adunque  proibita  la  mia  opera,  non  già  che  quella  Congrega- 
zione di  Roma  istessa  ed  i  suoi  qualificatori  avesser  potuto  ravvisare 
in  essa  alcuna  proposizione  ereticale,  ma  perché,  secondo  le  loro 
massime,  la  credettero  contenere  proposizioni  erronee,  empie,  of- 
fensive alle  pie  orecchie,  calunniose,  scismatiche,  che  rovescia- 
vano la  gerarchia  ecclesiastica,  ingiuriose  alla  Santa  Sede,  e  che  sa- 
pessero d'eresia.  Ciascun  sa,  che  in  Roma  si  è  introdotto  formolario 
di  queste  proibizioni  e  non  vi  è  libro,  che  si  opponga  alle  sue  mas- 
sime, che  non  vi  stia  soggetto.  E  a'  qualificatori  costa  poca  fatica, 
così  perché  non  espongono  le  loro  censure  a  gli  autori,  affinché  si 
difendano,  ma  si  guardano  molto  bene  di  tenerle  secrete  ed  ascose, 
come  anche  perché  non  sono  astretti4  a  separatamente  manifestare 
quali  fossero  le  proposizioni  scismatiche,  empie,  ingiuriose,  erro- 
nee, etc.  ;  ma  se  ne  sbrigano  con  una  sola  parola,  respective,  e  così 
lasciano  gli  autori  ed  i  lettori  in  maggior  confusione  ed  oscurità  di 
prima.  E  Roma,  così  facendo,  fa  saviamente;  ed  è  questo  un  sortii 
artificio  di  sua  fina  politia.  Ella,  con  queste  sì  spesse  ed  incessanti 
proibizioni,  prende  tutta  la  cieca  e  semplice  multitudine,  alla  quale 


1.  «  imo  .  .  .  haereticas»;  «perfino  eretiche».  2.  «et . . .  sapientes»:  «e  che, 
come  minimo,  sanno  di  eresia».  3.  la  mia  . .  .  1723:  il  testo  del  decreto 
è  riportato  integralmente  in  Panzini,  p.  28,  nota.     4.  astretti:  costretti. 


104  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

sol  bada,  sapendo  che  di  questa  si  compone  il  mondo,  e  sopra  i 
quali  profitta,  e  si  cura  poco  de'  savi,  dotti  ed  intendenti,  che,  a 
proporzione  de'  primi,  sono  rari  e  pochi.  A  ciò  si  aggiunge  che, 
proibendo  ogni  libro,  che  non  sia  conforme  alle  sue  idee,  ne  ri- 
cava, che  se  mai  questo  libro  volesse  in  qualche  contesa  allegarsi, 
ancorché  scritto  da  persona  cattolica,  savia,  dotta  e  di  autorità,  e 
contenente  dottrina  sana,  si  sbrigano  presto  per  la  risposta  e  sen- 
za impegnarsi  ad  altro,  basta,  perché  non  facci  alcuna  autorità  e 
riesca  di  niun  peso,  che  si  dichi  esser  dottrina  di  libro  proibito  e 
dannato. 

La  maniera  colla  quale  proibisce  è  molto  acconcia  al  suo  fine; 
poiché,  se  volesse  astringere  i  suoi  qualificatori  di  dar  fuori  le 
loro  censure,  ed  a  separatamente  additare,  una  per  una,  le  pro- 
posizioni che  qualificano  per  empie,  erronee,  scismatiche,  etc,  sa- 
rebbe esporgli  ad  un  gran  cimento,  ed  a  fargli  arrossire  della  loro 
ignoranza  ed  animosità.  Ed  a'  tempi  nostri  se  ne  vide  un  illustre 
essempio  nella  proibizione  della  Istoria  ecclesiastica  del  padre  Natal 
di  Alessandro1  il  quale,  per  mezzo  d'un  cardinale,  avendo  avuta  la 
sorte  di  aver  nelle  mani  le  censure  fatte  da'  qualificatori,  onde  la 
sua  opera  fu  proibita,  si  videro  così  sciapite,  sciocche  e  livorose,2 
che  fattasi  poi  della  medesima,  in  Parigi,  una  nuova  e  magnifica 
ristampa  in  foglio,  stimò  il  padre  Natale  inserirle  ne'  suoi  luoghi, 
colle  risposte  datele;3  dalle  quali,  sicome  fu  scoverta  la  loro  pro- 
digiosa ignoranza,  così  si  scovrì  l'arcano,  perché  queste  censure  si 
tenevano  con  tanta  cura  scerete  e  nascoste,  li)  d'allora  in  poi,  si 
fecero  più  impenetrabili  e  recondite,  sicché  niuno,  ancorché  po- 
sto in  sublime  grado,  potè  poi  darsi  vanto  d'averle  vedute,  o  lette. 

Doppo  la  proibizione  della  mia  Istoria,  fatta  in  Roma,  venne  ar- 
dente desìo  al  cardinal  Althan,  viceré,  di  aver  in  mano  le  censure 

i.  un  illustre .  .  .  Alessa?idro:  il  padre  Noiil  Alexandre  (X639-1724),  teolo- 
go e  provinciale  domenicano  a  Parigi,  giansenista,  dottore  alla  Sorbon- 
ne, fu  tra  gli  «appellanti»  contro  la  bolla  Unigcnitus,  salvo  ritrattarsi  in 
un  secondo  tempo.  La  sua  Historia  ecclesiastica  Veteris  Novique  Testa- 
menti ab  orbe  condito  ad  annum  post  Christum  natum  millesimum  sexcentesi- 
mwn,  Parisiis  1699,  benché  posta  all'Indice,  ebbe  grande  diffusione,  ed  è 
uno  dei  testi  che  il  Giannone  seguì  con  particolare  attenzione  durante  la 
stesura  del  Triregno.  L'Alexandre  scrisse  anche  due  commentari  al  Vangelo 
(1703)  e  alle  epistole  paoline  (17 io),  e  una  Theologia  dogmatica  et  moralis 
secundum  ordinem  Concila  Tridentini  (1694).  Su  di  lui  si  veda  A.  IIXnogx, 
Der  Kirchenhistoriker  Natalis  Alexander  (/639-1724),  Freiburg  (Svizzera) 
i955-#  2.  livorose:  piene  di  livore,  3.  che  . . .  datele:  l'edizione  della  quale 
qui  si  parla  uscì  a  Parigi  nel  1714. 


CAPITOLO    QUINTO  105 

de'  qualificatori,1  onde  la  Congregazione  del  Santo  Ufficio  s'era 
mossa  a  proibirla;  ed  il  consiglier  Maio,2  che  lo  stimolava  a  procu- 
rarle, scriveva  in  Vienna  che  si  sarebbero  certamente  avute,  per 
l'impegno  che  aveane  preso  il  viceré  presso  i  suoi  amici  in  Roma. 
Ma  io  diceva  al  Riccardi,  che  n'era  impaziente,  che  non  si  sarebbero 
ottenute  giammai;  sicome  il  successo3  il  dimostrò,  poiché,  doppo 
averlo  lungamente  lusingato,  infine  gli  scrissero,  ch'era  impossi- 
bile averle. 

Essi,  in  qualificare  le  proposizioni,  si  han  fatto  un  particolar 
vocabolario,  e  danno  alle  voci  altra  intelligenza  di  quel  che  sarebbe 
la  propria.  Chiamano  la  corte  di  Roma  «sede  appostolica »,  la 
quale  è  dalla  Corte  tutta  diversa  e  differente;  sicché  tutto  ciò  che 
scrivesi  contro  gli  abusi,  corruttele  ed  intraprese  della  medesima, 
che  tenta  sopra  la  potestà  de'  principi,  si  qualifica  per  ingiurioso 
alla  Santa  Sede,  eversivo  dell'immunità  ecclesiastica,  scandaloso  e 
temerario.  Tutto  ciò  che  non  si  uniforma  alle  massime  di  quella  ed 
alle  stravaganti,  sconcie  ed  ambiziose  opinioni  de'  loro  teologi  e 
canonisti,  che  l'adulano,  si  chiama  erroneo  e  falso.  Tutto  ciò  che 
si  oppone  alla  pretesa  lor  monarchia  sopra  il  temporale  de'  prin- 
cipi, si  qualifica  per  scismatico  e  ruinoso  alla  gerarchia  ecclesia- 
stica; i  tanti  ordini  religiosi  di  frati  e  monaci  si  reputano  che  fos- 
sero gli  ordini  della  Chiesa,  sicché,  chi  contro  di  loro  scrive,  av- 
vertendo i  semplici  ed  ignoranti  delle  loro  furberie  ed  accorti  modi 
d'ingannarli,  si  chiama  calunnioso,  irriverente,  e  che,  così  di  lor 
parlandosi,  offenda  alle  pie  orecchie  e  senta  d'eretico  e  miscredente. 
Or,  secondo  queste  ed  altre  consimili  regole,  essi  qualificano  e 
proibiscono  i  libri. 

Quando  s'intese  a  Vienna  la  proibizione  dell3 'Istoria  civile,  fatta 
in  Roma,  e  letto  il  decreto,  alcuni  miei  amici  mi  consigliavano  a 
farne  risentimento,  e  mostrare  l'ingiustizia  ed  invalidità  del  mede- 
simo; ma  gli  risposi  che  sarebbe  stata  cosa  inutile  e  superflua: 
chiunque  leggeva  quella  Istoria,  spezialmente  il  terzo  tomo,  ove 
si  tratta  di  queste  proibizioni,4  ben  si  ricredeva  del  conto  che  do- 
vea  farsi  delle  medesime;  questo  esser  un  colpo  già  da  me  preve- 


1.  le  censure  de1  qualificatori:  sono  state  pubblicate  dal  Pierantoni  in  ap- 
pendice alla  propria  edizione  dell' 'Autobiografia  giannoniana,  pp.  406-16. 

2.  il  consiglier  Maio:  Muzio  di  Maio,  sul  quale  cfr.  la  nota  1  a  p.  90. 

3.  il  successo:  ciò  che  accadde  in  seguito.     4,  chiunque .  .  .proibizioni:  cfr. 
Istoria  civile,  tomo  in,  hb.  xxvn,  cap.  iv,  pp.  427  sgg. 


IOÓ  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

duto,  come  solite  cose  da  Roma  praticate;  anzi  che  peggiore  me 
l'aspettava,  riguardando  a  ciò  ch'era  accaduto  a'  libri  dell'Argen- 
to, Riccardi  e  Grimaldi,  li  quali  non  trattavano  se  non  della  difesa 
d'un  regio  editto,  conforme  a'  sacri  canoni  ed  alle  costituzioni 
stesse  de'  romani  pontefici;  che  Roma  facea  quel  che  dovea  fare; 
così  sapessero  far  le  corti  de'  principi,  e  dal  suo  essempio  imparas- 
sero che,  sicome  quella  non  tralascia  di  sostenere,  come  meglio 
può,  e  difendere,  a  dritto  ed  a  torto,  le  sue  intraprese,  cosi  sapes- 
simo far  noi;  che  io  non  pretendeva  impedirla,  ma  solo,  che  al- 
l'incontro i  principi  facessero  quel  che  lor  conviene,  per  difesa 
delle  loro  alte  preminenze  e  supreme  regalie,  i  quali  per  se  soli 
sarebbero  bastanti  per  reprimerli;  e  che,  sovente,  non  per  di  lei 
vigore,  ma  per  nostra  debolezza,  venivano  gli  abusi  e  gli  attentati. 
E,  con  tal  occasione,  distesi  un  particolar  trattato  De*  rimedi  con- 
tro le  proibizioni  de  libri  che  si  decretano  in  Roma  e  della  potestà  de' 
principi  in  non  farle  valere  ne'  loro  Stati,1  non  già  per  pubblicarsi 
alle  stampe,  ma  per  istruzione  delle  coscienze  pavide  e  timorose 
di  alcuni  non  ben  informati  di  questa  materia.2 

A  me  più  premea,  che  si  fosse  corretto  l'ingiusto  passo  del  vi- 
cario intorno  alla  scomunica  nullamente  lanciata  contro  un  assente, 
per  causa  sì  leggiera  e  vana.  E  per  non  consumare  intanto  inutil- 
mente il  tempo,  che  dovea  aspettare  il  ritorno  delFimperadore  a 
Vienna,  essendo  quivi  rimasi  i  reggenti  che  componevano  il  Con- 
siglio di  Spagna,  procurai  che,  la  mia  opera  tuttavia  leggendosi,  si 
rendesse  più  manifesto  che  trattandosi  in  quella  di  varie  contese 
giurisdizionali,  che  si  risolvevano  contro  la  giurisdizione  eccle- 
siastica secondo  l'alto  concetto  che  ne  avean  gli  ecclesiastici,  non 
fossi  io  obbligato  chieder  licenza  per  stamparla  da  chi  me  l'avrebbe 
certamente  negata;  ma  che  bastasse  quella  del  viceré  e  suo  Consi- 
glio Collaterale,  che  me  l'avea  data.  Lo  stampatore  era  stato  già 

i.È  stato  inserito  nell'Apologia  dell1  Istoria  civile^  come  capitoli  xvn-xix 
della  seconda  parte  (cfr.  in  Opere  postume^  I,  pp.  167  sgg.).  2.  non  . .  . 
materia-,  il  Panzini,  p.  29,  scrive  che  il  Giannonc,  una  volta  compiuta 
questa  sua  difesa,  e  vedutola  approvata  dal  Garelli  e  dal  Riccardi,  pensò 
di  darla  alle  stampe,  «  e  conciossìacché  diffìcilmente  ciò  ai  sarebbe  potuto 
eseguire  in  Vienna  per  diversi  riguardi,  egli  s'avea  già  trovata  persona  che 
volea  addossarsi  il  carico  di  farlo  nel  miglior  modo  riuscire  in  Tirnaw  città 
dell'Ungheria.  Ma  fu  opportunamente  sconsigliato  da  quegli  stessi  ch'erano 
per  altro  approvatori  della  privata  sua  scrittura,  di  renderla  pubblica  colle 
stampe,  per  non  dare  nuova  cagione  a'  suoi  nimici  d'inferocire  via  più, 
e  così  guastare  del  tutto  i  fatti  suoi». 


CAPITOLO    QUINTO  107 

assoluto,  onde  l'autore,  che  non  era  compreso  negli  stessi  loro 
editti,  che  allegavano,  tanto  maggiormente  si  vedea  essere  stato 
invalidamente  scomunicato. 

I  reggenti  essendo  stati  da  me  pienamente  informati,  conobbero 
l'insussistenza  della  censura;  ed  appartenendo  al  Consiglio  Colla- 
terale di  Napoli  di  usare  i  consueti  rimedi  per  farla  abolire,  alcuni 
scrivendo  a'  loro  amici  in  Napoli  che  restavano  maravigliati  come 
il  delegato  della  real  giurisdizione  ed  il  Collaterale  non  si  fossero 
opposti  al  vicario;  ed  altri  dicendomi  che  io  procurassi  in  quel 
Consiglio  far  proporre  l'affare,  il  quale,  se  non  ci  avesse  data  prov- 
videnza, ne  avrebber  essi  presa  conoscenza;  disposi  le  cose  in  ma- 
niera, scrivendo  a  mio  fratello  ed  altri  avvocati  miei  amici  in  Na- 
poli, che  il  Collaterale,  col  delegato  della  real  giurisdizione,  ne 
procurasse  l'ammenda. 

II  presidente  Argento  delegato,  doppo  avere  scorti  tali  sentimen- 
ti, e  che  io  era  stato  ben  ricevuto  nella  Corte,  erasi  tutto  cangiato  e 
mostrava  gran  fervore  di  conferire  anch'esso  all'opra,  anzi  d'averci 
la  maggior  parte.  Ed  essendosi  destinate  le  giornate  per  trattar- 
sene in  Collaterale,  coli' intervento  de'  capi  del  tribunale  e  delle 
Ruote  del  Consiglio  di  Santa  Chiara,1  allora  il  cardinale  arcivesco- 
vo Pignatelli  -  il  quale,  più  tratto  dalle  istanze  del  vicario  e  suoi 
curiali,  e  da'  clamori  de'  frati,  che  per  proprio  istinto,  avea  dato 
mano  alla  censura:  sentendo  l'apparecchio  che  facevasi,  di  doversi 
trattare  della  medesima  in  un  sì  pieno  consesso  de'  primi  ministri 
regi,  cominciò  a  trattare  coli' Argento  dell'abolizione,  per  mezzo 
del  padre  Cillis,  della  maniera  che  fosse  a  lui  più  decorosa,  senza 
strepito  e  tanti  romori.* 

Credendo  io  che  innanzi  a  sì  gravi  ministri,  e  con  tanto  scrutinio, 
dovesse  esaminarsi  questo  affare,  m'indussi  a  scrivere  un  altro 
trattato  de'  Rimedi  contro  le  scommuniche  invalide  e  della  potestà  de' 


1.  essendosi .  .  .  Chiara:  la  riunione  della  Giunta  di  giurisdizione  si  tenne 
il  26  ottobre,  e  una  relazione  di  essa  venne  inviata  a  Roma  dai  segreta- 
ri della  Nunziatura  apostolica,  il  13  novembre,  allegando  al  dispaccio 
una  copia  della  relazione  distribuita  ai  partecipanti,  ora  in  Giamioniana, 
pp.  149-56.  2.  sentendo  .  .  .  romori:  la  prima  riunione  si  sciolse  senza 
giungere  a  conclusioni  di  sorta,  perché  i  reggenti  -  che  pure  si  dichiara- 
rono in  maggioranza  per  un  invito  ufficiale  al  cardinale  affinché  questi 
ritirasse  le  proprie  censure  -  preferirono  attendere  i  risultati  della  tratta- 
tiva che  lo  stesso  arcivescovo  Pignatelli  aveva  aperto  coli' Argento  e  con 
Carlo  Giannone.  Su  tutto  questo  cfr.  Bertelli,  pp.  i8ysgg. 


108  VITA    DI    PIETRO    GIANNONE 

principi  intorno  a'  modi  di  farle  cassare  ed  abolire,1  nel  quale  doppo 
aver  dimostrata  la  nullità  ed  ingiustizia  della  censura,  trattai  de* 
modi  propri  e  legittimi  da  adoperarsi  per  la  avocazione  ;  pure, 
non  già  per  doversi  dare  alle  stampe,  ma  unicamente  per  valer- 
mene nella  occasione  presente.  Non  fu  però  d'uopo  di  tanto  appa- 
recchio, poiché  il  cardinal  Pignatelli,  il  quale,  a  questo  fine,  nella 
censura  avea  a  sé  riserbata  l'assoluzione,  mostrossi  propenso  a 
darla.  Onde,  concertala  la  maniera  coll'Argento  come  io,  per  mezzo 
d'una  mia  lettera2  ne  la  chiedessi,  egli  con  suo  decreto  spedito 
nel  mese  di  ottobre  di  questo  istesso  anno  1723,  tolse  la  scomu- 
nica, l'abolì  e  rimosse;  e  datone  all'Argento  autentico  documento, 
firmato  dallo  stesso  arcivescovo  e  con  proprio  suo  suggello  segnato, 
questi  lo  diede  a  mio  fratello,  il  quale  me  lo  mandò  subito  in  Vien- 
na, con  avvisarmi  d'essersi  tolti  tutti  i  cedoloni,  ch'erano  rimasi 
ancor  affissi  alle  porte  di  alcune  chiese,  ed  essersi  l'affare  già  finito 
e  disciolta  la  giunta  de'  ministri  e  posto  il  tutto  in  obblivione  e 
tranquilla  quiete.  Ricevuto  che  io  l'ebbi,  lo  mostrai  a'  reggenti  del 
supremo  Consiglio  di  Spagna,  i  quali  se  ne  mostrarono  soddisfat- 
ti, e  che  non  bisognava  farci  altro,  godendo  non  meno  della  mia 
pace,  che  d'essersi  con  ciò  tolta  ogni  briga,  che  avrebbe  potuta 
nascere  colla  corte  di  Roma,  nel  caso  che  non  abolendola  l'arcive- 
scovo, si  avesse  dovuto  dar  di  piglio  a'  consueti  espedienti  econo- 
mici, per  farla  rimovere. 

1.  Questo  trattato  trae  la  forza  delle  sue  argomentazioni  dall'altro  di  L, 
E.  Du  Pin,  Tratte  historique  des  exeommunications,  Paris  1716-1719  (due  vo- 
lumi). Anch'esso  fu  rifuso  nella  Apologia  delV Istoria  civile.  2.  per  mcs~ 
20  .  .  .  lettera:  il  Panzini,  pp.  31  sgg.,  riferisce  diversamente  da  quanto  af- 
fermato qui.  Proprio  per  prevenire  ogni  azione  del  potere  civile,  e  per 
porre  la  Giunta  di  giurisdizione  di  fronte  al  fatto  compiuto,  «  fu  presto  il 
padre  Cillis  a  proporre  per  espediente,  che  poiché  non  v'era  bastante 
tempo  ad  attendere  di  Vienna  l'originai  lettera  del  Giannone,  la  si  scri- 
vesse da  chicchessia  a  nome  di  costui  ed  anzi  che  giugnesse  il  dì  stabi- 
lito in  Collaterale  per  la  Giunta,  si  presentasse  al  cardinal  arcivescovo. 
Di  fatto  la  lettera  fu  concepita  e  distesa  nella  stanza  del  padre  Cillis,  colla 
data  de  2  ottobre  1723  ».  Questa  lettera,  che  il  Panzini  riporta  in  nota, 
dichiarando  di  conservarne  presso  di  so  l'originale,  fu  di  una  gravità  ec- 
cezionale, perché  vi  si  ritrattava  tutta  l'azione  condotta  sino  allora  per 
svincolare  la  pubblicazione  dei  libri  dal  controllo  ecclesiastico.  Lo  stesso 
Giannone  non  si  salvò  da  aspre  critiche  per  questo,  come  risulta  sia  dallo 
stesso  racconto  del  Panzini,  sia  da  numerosi  accenni  nel  carteggio  col  fra- 
tello (cfr.,  in  particolare,  le  lettere  del  22  gennaio  1724,  del  5  e  del  12  feb- 
braio, in  Gìannoniana,  nn.  33,  36  e  38).  Per  le  reazioni  che  si  ebbero  a 
Roma,  si  veda  S,  Bertelli,  L'incartamento  originale  del  San?  Uffizio  rela~ 
tivo  a  Pietro  Giannone,  in  «Il  Pensiero  Politico»,  I  (1968),  pp.  18-9. 


CAPITOLO    QUINTO  109 

Aspettava  io  intanto  a  Vienna  il  ritorno  di  Cesare,  che  già  s'av- 
vicinava; e  tanto  più  caro  e  da  tutti  sospirato,  perché  tornava  col- 
rimperatrice  già  gravida,  dal  cui  parto  si  sperava  la  quiete  d'Eu- 
ropa.1 E  prevedendo  la  mia  dimora  dover  essere  quivi  lunga,  li- 
cenziai l'uomo  di  compagnia  che  meco  condussi,  perché  a  Napoli 
ed  a  sua  moglie  facesse  ritorno  ;2  e  passai  ad  abitare  nella  casa  del- 
la baronessa  Linzval,3  la  quale,  secondo  il  frequente  e  quasi  co- 
mun  uso  di  altre  case,  pigliava  volentieri  persone  di  qualche  conto, 
dandole  commodità  non  men  di  stanze  che  di  vitto:  e  tanto  più  mi 
c'indussi,  perché  tenea  a  pensione,  ovvero  «in  costo»,4  sicome  ivi 
dicesi,  due  piccioli  figliuoli  del  baron  di  Orman,5  castellano  di 
Barletta,  mio  amico. 

Era  questa  vedova  e  di  età  evanzata,  figliuola  del  referendario 
Ernesto  Plekner,6  col  quale  io,  per  tal  occasione,  presi  amicizia, 
essendo  un  vecchio,  sopra  quanti  Viennesi  che  conobbi  poi,  il  più 
versato  in  legge,  che  sentiva  e  parlava  la  lingua  italiana  e  pratico 
degli  affari  della  Corte,  come  quello  che,  a'  tempi  degli  imperadori 
Leopoldo  e  Giuseppe,  per  lunghi  anni,  come  referendario,  avea 
retta  la  cancelleria  di  Corte.  Né  vi  era  allora  cosa  grave,  che  non 
passasse  per  le  di  lui  mani;  e  quando  nel  1703,  per  far  partire  da 
Vienna  l'arciduca  Carlo,  in  qualità  di  re  di  Spagna,  e  mandarlo 
nelle  Spagne  contro  il  suo  competitore,  fu  d'uopo  che  l'imperadore 
Leopoldo  e  Giuseppe,  allora  Re  de'  Romani,  rinunciassero  all'arci- 
duca7 tutte  le  ragioni  che  aveano  sopra  la  monarchia  di  Spagna, 
le  minute  dell'istromento  di  questa  cessione  furon  dettate  dal 
Plekner,  sicome  me  le  mostrò  originali  secondo  le  quali  si  stipulò 


1.  dal  cui  .  .  .  Europa:  a  corte  si  attendeva,  infatti,  l'erede  al  trono,  che  pe- 
rò non  venne:  così  come  la  Prammatica  Sanzione  del  171 3  che  regolava  la 
successione,  in  mancanza  di  discendenza  maschile,  non  assicurò  la  pace  in 
Europa.  2.  licenziai . . .  ritorno  :  cfr.  la  lettera  al  fratello  del  13  maggio  1724 
(Giannonianaf  n.°  50).  3.  la  baronessa  Linzval:  Therese  LeichsenhofTen, 
baronessa  di  Linzwal.  In  una  lettera  al  fratello  del  22  gennaio  1724  il 
Giannonc  accenna  a  favori  da  lui  fatti  alla  baronessa  col  raccomandarla  al 
barone  Darmon  (Giannoniana,  n.°  34).     4.  «wi  costo»:  tedesco  in  Kost. 

5.  baron  di  Orman:  Johann  Alexander  Darmon,  forse  dal  Giannone  cono- 
sciuto a  Napoli,  subito  dopo  l'occupazione  austriaca  del  Regno,  quando 
egli  era  il  secondo  ufficiale  -  per  anzianità  -  di  Castel  Nuovo  (cfr.  H. 
Benedikt,  Dos  Konigreich  Neapel,  cit.,  p.  52),  o  più  probabilmente  a  Bar- 
letta,  durante  il  suo  breve  soggiorno  in  attesa  di  salpare  per  Trieste. 

6.  Emesto  Plekner:  Jakob  Ernst  Edler  von  Ploikner,  referendario  della 
Reichshofratskanzlei  sotto  gli  imperatori  Leopoldo  I  e  Giuseppe  I.  7.  al- 
l'arciduca: in  favore  dell'arciduca  (cfr.  la  nota  2  a  p.  62). 


HO  VITA   DI    PIETRO   GIANNONE 

Tistromento,  che  leggesi  ora  impresso  nella  raccolta  fatta  da  Lùnig 
del  suo  Codice  diplomatico  d'Italia.1 

Fra  le  altre  doti  che  adornavano  il  suo  animo  era  la  fortezza 
colla  quale  egli  pazientemente  tollerava  le  strettezze  di  sua  casa, 
nelle  quali,  doppo  una  vita  lauta  e  doviziosa,  era  caduto.  E  quanto 
sotto  gli  imperadori  Leopoldo  e  Giuseppe  era  adoperato  ed  in 
floridezza,  altrettanto  sotto  l'imperadore  Carlo  rimase  depresso2  e 
povero,  poiché,  secondo  suole  avvenire,  la  nuova  Corte  di  questo 
principe  scacciò  la  vecchia;  e  gli  emoli  ed  invidiosi  dei  Plekner 
tanto,  co'  loro  pessimi  uffici,  si  adoperarono  presso  il  nuovo  im- 
pcradore  che,  costretto  a  resignar  la  carica  che  occupava,  rimase 
con  un  picciol  stipendio,  che  gli  fu  lasciato  per  suoi  alimenti,  di 
duemila  fiorini  Tanno,  e  l'abitazione  del  quartiere3  ov'era,  fin  che 
durasse  la  sua  vita.  Con  questi  dovea  egli  mantenere  la  necessaria 
sua  servitù  e  famiglia,  tenendo  presso  di  so  una  povera  vedova, 
sua  figliastra,  chiamata  Teresa  di  LeichscnhofTen,  alla  quale,  mor- 
to il  marito,  che  fu  consigliero  della  Camera  di  Gratz,  bisognò 
darle  ricetto  in  sua  casa  con  cinque  figliuoli,  quattro  femmine  ed 
un  maschio,  che  avea  lasciati. 

Delle  sue  ampie  facoltà  non  Fera  rimaso  che  un  magnifico  pa- 
lazzo e  delizioso  giardino,  con  alcune  vigne  intorno,  che  possedeva 
nel  villaggio  di  Pettersdorf,  lontano  da  Vienna  dodici  miglia.  Quivi 
egli  soleva  condursi  Testa,  e  dimorarvi  sino  al  tempo  delle  vendem- 
mie, quali  finite,  tornava  in  città.  E  sovente  andava  ivi  a  ritrovarlo, 
dove,  con  suo  sommo  piacere,  soleva  trattenermi  seco  qualche 
settimana;  ed  egli,  con  molta  cortesia  e  cordialità,  avrebbe  voluto 
che  la  mia  dimora  fosse  stata  più  lunga,  ma  io  non  voleva  lascia- 
re gli  amici  di  Vienna,  i  quali  potevan  aiutarmi  ne*  miei  bisogni 
in  quella  Corte,  con  preparar  gli  animi  e  disporgli,  affinché,  al  ri- 
torno di  Cesare,  fosser  passati  per  me  buoni  uffici.  Ed  in  effetto, 
leggendosi  tuttavia  la  mia  opera,  ed  invogliati  molti,  anche  te- 
deschi, per  averla,  ebbi  più  richieste  e  da  librari  e  da  altri,  per- 
ché ne  facessi  venire  più  esscmplari,  essendo  già  finiti  quelli  che 
io  avea  meco  portati;  sicché  scrissi  in  Napoli,  che,  condotti  a 
Manfredonia  o  Barletta,  per  la  via  di  Fiume  e  di  Triesti  me  ne 

i.  Il  Codex  Italiae  Diplomaticus,  Francofurti  et  Lipsiac,  i,  1725,  coli.  2331 
sgg.;  Johann  Christian  Lilnig  (1662-1740),  erudito  tedesco,  pubblicò  va- 
rie raccolte  di  documenti  d'interesse  storico  e  giuridico.  2.  depresso  :  mi- 
sero.    3.  quartiere:  appartamento. 


CAPITOLO    QUINTO  III 

mandassero,  di  volta  in  volta,  più  balle.1  E,  sicome  venivano, 
non  si  dovea  aspettar  molto  tempo  in  alienarle;  poiché,  oltre  di 
que'  essemplari  che  rimanevano  a  Vienna,  se  ne  mandavano  in 
altre  città  della  Germania,  in  Fiandra,  in  Ollanda,2  Svezia  e  Da- 
nimarca. Ed  il  general  Marnili,3  nostro  napolitano,  che  io  ebbi  la 
sorte  di  conoscere  a  Vienna,  il  quale  avea  allora  il  comando  di 
Belgrado  sotto  il  generale  commendator  duca  di  Wuttemberg,4  ne 
provvide  in  Ungheria  a  molti  suoi  amici.  Ed  in  Boemia,  coll'oc- 
casione  della  dimora  della  Corte  in  Praga,  se  n'inviarono  altresì; 
anzi  fu  da  quivi  scritto,  che  parlandosi  di  quest'opera  in  Praga,  in 
un  magnifico  pranzo  dov'era  invitato  il  principe  Eugenio  di  Sa- 
voia,5 questo  signore  se  n'invogliò  tanto,  che  scrisse  al  suo  agente 
in  Vienna,  che  ne  l'avesse  tosto  mandato  un  essemplare,  sicome, 
avendone  io  avuta  notizia,  procurai  subito  che  s'inviasse,  facendo 
noto  a  Sua  Altezza  che  io  al  suo  ritorno  ne  avea  apparecchiato 
uno  della  miglior  carta  e  riccamente  adorno,  che  avrei  avuto  l'o- 
nore di  presentarcelo  in  persona.  Ed  avendo  il  suo  agente  passato 
per  me  questo  riverente  ufficio,  egli,  con  somma  umanità,  mi  fece 
avvertire  dal  medesimo,  che  gli  sarebbe  stata  più  grata,  se  l'opera 
fosse  sciolta,  affinché  potesse  farla  ligare  conforme  a  gli  altri  libri, 
onde  si  componeva  la  sua  magnifica  biblioteca.  Sicome  feci;  e 
vidi  poi  nella  medesima  occupare,  fra  gl'istorici,  onorato  luogo. 
Ritornò  finalmente  Cesare,  coll'imperadrice  gravida  e  tutti  que* 
che  lo  seguirono  in  Vienna,  verso  la  fine  del  mese  di  ottobre;  ed 
io,  facendo  passare  alquante  settimane  doppo  l'arrivo,  quando  mi 
parve  che  fosse  il  tempo  opportuno  per  aver  udienza,  feci  scrivere 
il  mio  nome,  secondo  il  costume,  fra  gli  altri  che  la  dimandavano  ; 
e  nell'ora  stabilita  alle  udienze,  aspettando  con  gli  altri  nella  ca- 


i.  leggendosi . .  .  balle:  cfr.  le  lettere  al  fratello  in  data  20  e  27  maggio,  e  3 
giugno  (Giannoniana,  nn.1 51,  52  e  53).  2.  se  ne  . . .  Ollanda:  un  ordine  ÓÙ 
spedizione  in  Olanda  nella  lettera  al  fratello  del  22  luglio  1724  (Gianno- 
niana,  n.°  59).  3.  Francesco  Saverio  Marnili  (1675-1751).  Da  altra  lettera 
del  Giannone  al  fratello,  in  data  9  settembre  1724,  risulta  che  anche  Apo- 
stolo Zeno  si  interessò  per  la  diffusione  dell'opera  giannoniana,  consiglian- 
do al  Giannone  di  indirizzare  i  libri  al  libraio  Niccolò  Pezzana  (Giannonta- 
nat  n.°  64).  4.  Wuttemberg:  il  principe  Eberhard  Ludwig  von  Wurttem- 
berg  (1676-1733).  5.  Eugenio  di  Savoia-Soissons  (1663-1736)  entrò  al  ser- 
vizio dell'imperatore  Leopoldo  I  al  tempo  dell'assedio  di  Vienna  (1683) 
e  dieci  anni  dopo  diveniva  feldmaresciallo  dell'impero.  Capo  dell'esercito 
imperiale  in  Italia  durante  la  guerra  per  la  successione  al  trono  di  Spagna, 
presidente  del  Consiglio  aulico  di  guerra  dal  1703,  la  sua  corte  viennese 
rivaleggiò  a  momenti  con  la  stessa  corte  imperiale. 


112  VITA    DI    PIETRO    GIANNONE 

mera  precedente  a  quella  dove  suol  darle,  fui  chiamato  dal  genti- 
luomo di  camera,  che  m'introdusse.  Ed  avvicinato,  doppo  i  tre 
soliti  inchini,  avanti  l'imperiai  persona,  ch'era  all'implodi,  assicu- 
rato dalla  clemenza  dei  suo  volto  e  da  un  atto  di  sua  mano,  che 
mi  fece  segno,  essendo  io  in  ginocchio,  che  mi  alzassi,  cominciai 
ad  esporgli  brevemente  la  dolente  istoria  delle  mie  avventure  doppo 
la  pubblicazione  dell'opera,  la  quale  m'avea  mosse  tante  persecu- 
zioni, perché  io,  in  quella  sostenendo  come  suo  di  voto  e  fedel  vas- 
sallo, le  alte  preminenze  e  sovrane  regalie  de'  re  di  Napoli,  le 
quali  possono  legittimamente  in  quel  Regno  esercitarle,  non  meno 
di  quel  che  si  faccino  i  re  di  Francia  nel  lor  reame,  mi  avea  ad- 
dossato la  malevolenza  de'  preti  e  monaci  e  della  corte  di  Roma. 
Ma  che,  confidando  nell'imperial  clemenza  della  Maestà  Sua, 
alla  quale  l'opera  era  consecrata,  e  che  in  quella  non  vi  era  cosa 
che  si  opponesse  alla  nostra  Santa  Fede  e  perché  ciò  maggiormente 
si  manifestasse,  l'avea  esposta  a  gli  occhi  di  tutti  ;  vivamente  pregava 
la  Maestà  Sua  ad  aver  protezione  non  men  dell'opera  che  del  suo 
autore,  il  qual  prostrato  a'  suoi  piedi,  implorava  quella  pietà  e  cle- 
menza, ch'era  ereditaria  nell'augustissima  sua  famiglia,  e  che  rende- 
va sicuri  coloro  che  vi  ricorrevano  da  ogni  oltraggio  ed  oppressione.1 

L'imperadore  rispose  a  queste  mie  umili  preghiere  con  brevi  pa- 
role: le  prime  furon  da  me  intese,  colle  quali  mostrava  gradimento 
dell'opera,  e  d'aver  di  me  cura;  ma  non  già  l'ultime,  che  pronunciò 
con  voce  tacita  e  sommessa.  Nell'atto  che  io  feci  di  presentargli 
una  mia  memoria,  stese  la  mano  e  se  la  prese,  ed  io  ebbi  l'onore  di 
baciarla.  E  ritrattomi  indietro  uscii  fuori  e  narrato  a'  miei  amici  il 
successo,  concepirono  per  me  buone  speranze. 

Fui  ad  inchinarmi  al  principe  Eugenio  di  Savoia,  il  quale  mi 
accolse  con  somma  umanità  e  cortesia,  e  mi  tenne  seco  più  d'un 
quarto  d'ora  a  ragionare  di  varie  cose,  mostrando  aver  letto  in 
parte  la  mia  opera,  dicendomi  averle  piaciuta  l'idea  e  la  disposi- 
zione, con  dimandarmi  più  cose  di  Napoli,  e  spezialmente  del  mi- 
racoloso scioglimento  del  sangue  di  san  Gennaio,  e  di  quanto 
erami  occorso  su  la  divolgata  impostura  addossatami,  che  io  lo 
negassi.  Lo  pregai  della  sua  protezione  presso  la  Maestà  dell'im- 

i.  Ritornò  .  . .  oppressione:  questa  udienza  avvenne  in  epoca  posteriore  al- 
l'i i  dicembre,  poiché  in  quel  giorno  il  Giannone  scriveva  al  fratello  di 
essersi  sollecitato  un  intervento  del  principe  Eugenio,  e  che  il  cavalier 
Garelli  aveva  parlato  a  fortemente»  all'imperatore,  pregandolo  di  riceverlo: 
«onde  ora  si  sta  attendendo  da  lui  la  giornata»  (Giannoniana,  n.°  38). 


CAPITOLO    QUINTO  113 

peradore,  che  promise  di  farlo  volentieri;  sicome  con  effetto  spe- 
rimentai, mostrandosi  verso  la  mia  persona,  in  tutte  le  occasioni, 
benefico  e  cortese.  Sicché,  assicurato  di  tanta  umanità,  non  man- 
cai, doppo,  quasi  ogni  domenica,  la  mattina,  ch'era  il  tempo  più 
opportuno,  di  andare  a  riverirlo  nel  suo  palazzo,  essendo  in  città, 
ovvero,  nell'està,  nel  delizioso  e  magnifico  suo  giardino,  sperimen- 
tandone sempre  graziose  accoglienze  e  cortesissime  dimostrarle.1 
Non  mancai  altresì  far  lo  stesso  col  marchese  di  Rialp,  il  quale, 
la  prima  volta  vedutomi,  cominciò  a  dirmi  che  avea  la  mia  Istoria 
fatto  tanto  romore,  che  non  erasi  inteso  altre  volte  accaduto  per  la 
pubblicazione  di  altri  libri  ;  che  la  corte  di  Roma  mostrava  averne 
avuto  dispiacere,  supponendola  a  sé  ingiuriosa  e  temeraria.  Gli 
risposi,  che  ben  erano  a  Sua  Eccellenza  note  le  cagioni  di  tanti 
romori,  sicome  n'era  stato  informato  dal  cardinale  Althan,  viceré; 
e  che,  in  quanto  alla  corte  di  Roma,  io  certamente  non  l'avea 
scritta  perché  le  fosse  piaciuta;  poiché,  così  facendo,  averi  mancato 
al  mio  onore  ed  alla  lealtà,  che  dee  avere  ciascun  fedele  vassallo 
al  proprio  suo  principe  ;  esser  questa  solita  disgrazia  di  coloro  che 
si  mettono  a  scrivere  delle  preminenze  e  regalie  de'  loro  sovrani, 
alle  quali  io  fui  tratto  dall'istituto  dell'opera,  non  già  per  offender 
altrui.  Che  questo  era  il  vantaggio  che  aveano  gli  scrittori  addetti 
alla  corte  di  Roma,  che  potevano  scrivere  ciò  che  si  volessero  in 
abbassamento  delle  regie  preminenze  ed  innalzamento  della  giu- 
risdizione ecclesiastica;  che  niuno  prendevasene  impaccio,  ed  era- 
no da  quella  Corte  premiati;  all'incontro,  eran  perseguitati  quelli 
che  scrivevano  per  la  potestà  regale;  e  che  a  torto  s'imputava  la 
mia  opera  per  temeraria,  poiché,  se  in  Roma  non  sembravano  te- 
merarie ed  ingiuriose  le  prediche  del  padre  Casini,  non  pur  reci- 
tate dentro  il  palazzo  apostolico,  ma  impresse  in  Roma,  e  reim- 
presse, poi,  a  Milano,2  molto  meno  si  dovea  riputar  temeraria  la 
mia  Istoria-,  e  che  io  volentieri  mi  offeriva  a  farne  confronto,  ed 
al  paragone  si  sarebbe  veduto  quale  delle  due  opere  fosse  più  o 

1.  Fui  .  .  .  dimostrarne  :  il  Giannone  entrò  ben  presto  nella  cerchia  del  prin- 
cipe Eugenio,  stringendo  amicizia  anche  col  conte  Claude-Alexandre  de 
Bonneval  (cfr.  Bertelli,  p.  186).  Il  racconto  di  una  seduta  scientifica  nella 
villa  del  principe  sabaudo  è  nella  lettera  al  fratello  del  24  giugno  1724,  qui 
la  vii.  2.  le  prediche  .  .  .  Milano  :  le  prediche  del  cardinale  F.  M.  Casini 
(morto  nel  17 19):  Delle  prediche  dette  nel  palazzo  apostolico  da  fra'  Fran- 
cesco Maria  d'Arezzo  cappuccino,  oggi  cardinale  di  S.  Prisca,  dedicate  alla 
Santità  di  N.  S.  papa  Clemente  XI,  Roma  171 3  e  di  nuovo  Milano  1714- 
I7IS- 


114  VITA  DI    PIETR0    GIANNONE 

meno  a  lei  ingiuriosa  e  temeraria.  Che  per  ciò  pregava  a  Sua  Ec- 
cellenza di  rispondere  a  coloro,  che  o  da  Roma  l'avean  scritto,  o 
in  Vienna  di  ciò  informato,  che  io  era  pronto  a  venire  a  questo 
cimento,  e  che  fosse  uscito  un  di  loro  a  farne  pruova;  pregandolo 
ancora,  se  mai  le  sue  gravi  occupazioni  il  permettessero,  di  dar 
qualche  ora  alla  lettura  della  mia  opera,  che  si  sarebbe  assicurato 
di  quanto  io  umilmente  l'esponeva,  e,  con  ciò,  farmi  degno  della 
valevole  sua  protezione  presso  Sua  Maestà,  e  di  sospender  ogni 
credenza  prima  di  accertarsi  del  vero  di  quanto  da'  miei  malevoli 
fossegli  suggerito. 

Il  marchese,  con  un  soghigno,  mi  rispose  ch'egli,  fino  a  quell'ora, 
non  avea  avuto  tempo  di  leggerla,  ma  che  vi  farà  osservazione,  e 
che  avrebbe  riferito  a  Sua  Maestà  le  mie  discolpe  e  quanto  con- 
veniva. Era  io  ben  consapevole  del  doppio  nodo,  col  quale  egli 
erasi  stretto  colla  corte  di  Roma:  avea  un  suo  figliuolo1  in  Roma, 
istradato  per  la  prelatura,  e  si  speravano  dignità  maggiori  ;  teneva 
un  suo  fratello  arcivescovo,  il  qual,  passato  da  quello  di  Brindisi 
all'arcivescovado  ricchissimo  di  Salerno,  aspirava  al  cardinalato.2 
Mandò  poi  in  Roma  due  altri  suoi  nipoti,  figliuoli  della  contessa 
Figheroa,  sua  figlia;  e  teneva  della  contessa  Vernerà  sua  sorella, 
altri  figliuoli  che  fatti  ecclesiastici,  aspiravano  a  prelature,  ricche 
commende  e  doviziosi  benefìci.3  Con  tutto  ciò  non  disperai,  poi- 
ché, istrutto  della  sua  natura  ed  andamenti,  non  mi  sgomentai; 
sicome  poi  conobbi  di  non  dover  disperare. 

Il  marchese  Rialp,  oltre  il  grado  eminente  nel  qual  si  trovava, 
di  secretano  di  Stato,  ed  essere  in  piena  grazia  di  Cesare,  che  lo 
rendeva  superiore  a'  rispetti  ed  alle  contemplazioni  per  Roma  era 
per  natura  benefico  ed  avverso  di  far  male  e  dar  dispiacere  ad 
alcuno.  E  se  ad  altri,  sovente,  il  suo  governo  riusciva  grave,  di- 
spiacevole e  dannoso,  non  era  se  non  per  essere  troppo  indulgente 
de'  suoi  congiunti,  e  favorire  i  suoi  raccomandati;  onde  avveniva 
che  gli  altri  pretensori,  che  forse  avean  maggior  merito,  restassero 

i.  un  suo  figliuolo:  Juan  Perlas  de  Vilhena.  z.  un  suo  fratello  . .  .  cardi- 
nalato: Paul  Perlas  de  Vilhena  (1669-1729),  nominato  vescovo  di  Brindisi 
nel  1700,  divenuto  assistente  al  Soglio  nel  17 16,  e  traslato  all'arcivescova- 
do di  Salerno  nel  1723.  Morì  senza  aver  raggiunto  l'ambito  cappello 
cardinalizio.  3.  Mandò  . .  .  benefici:  due  figli  della  contessa  Vernerà  erano 
chierici  e  ottennero  ricchi  benefici  ecclesiastici;  altri  due  nipoti  del  Rialp, 
figli  della  contessa  Figueroa,  risultano  anch'essi  in  Roma,  alla  corte  di 
Benedetto  XIII  (cfr.  H.  Benedikt,  Dos  Kò'nigreich  Neapel,  cit.,  p.  231). 


CAPITOLO    QUINTO  115 

esclusi  e  dolenti.  Per  questi  rispetti  non  trascurava,  ne'  giorni 
dell'udienze,  di  raccomandarmici,  e  cercar  altri  intercessori,  suoi 
amici,  che  per  me  presso  di  lui  passassero  qualche  buon  ufficio. 
Fra  questi,  la  mia  buona  sorte  mi  offerì  il  marchese  Clemente 
Doria,1  che  si  trovava  allora  in  Vienna,  inviato  della  repubblica  di 
Genova.  Questi  tenendo  una  grave  lite  in  Genova,  nella  quale  si 
disputava  di  certo  fidecommisso,  in  vigor  del  quale  pretendeva 
escludere  altri  in  quello  ancorché  compresi,  ma  in  linea  e  grado 
più  remoti,  mi  fece  richiedere  che  sarebbegli  sommamente  caro, 
se  io  sopra  l'articolo  controverso  scrivessi  un'allegazione  a  suo 
favore,  la  quale,  in  Genova,  era  certo  che  sarebbe  stata  ben  rice- 
vuta e  riputata  di  gran  peso  ed  autorità. 

Io,  ancorché  senza  libri  forensi,  avendone  il  reggente  Almarz 
seco  portati  alquanti,  che  bastavano  al  mio  intento,  me  gli  feci 
prestare;  ed  avendo  composta  l'allegazione  nel  miglior  modo  che 
potei,  piacque  tanto  non  pur  a  lui,  ma  a'  suoi  avvocati  di  Genova, 
a'  quali  la  mandò,  che  pensava  generosamente  rimunerarmi.  Ma 
io  avendogli  detto  che  non  pretendeva  altro  che  la  sua  buona 
grazia  e  la  sua  intercessione  per  me  presso  il  marchese  Rialp,  di 
cui  era  stretto  amico,  egli  volentieri  si  offerse  di  passar  col  mede- 
simo gli  uffici  più  fervorosi  ed  efficaci,  che  io  potessi  immaginar- 
mi; sicome,  con  effetto  o  seco  conducendomi,  ovvero  per  sé  solo 
facendolo,  fece  sì  che,  nell'avvenire,  trovassi  presso  il  marchese 
non  pur  compatimento  delle  mie  sventure,  ma  che  pensasse  di 
darci  qualche  sollievo  e  conforto. 


11 
[1724] 

Eravamo  già  entrati  nel  nuovo  anno  1724,  ed  io  avendo  dovuto 
abbandonar  la  mia  professione  di  avvocato,  ch'essercitava  in  Na- 
poli, vivea  in  Vienna  sopra  quel  poco  denaro  che  portai  meco,  e 
sopra  il  prezzo  de'  miei  essemplari  che  faceva  venire;  ma,  a  lungo 
andare,  sarebbe  tutto  finito.  Sicché  sollecitava  o  che  Sua  Maestà 
mi  facesse  tornar  in  Napoli  con  qualche  carica  conveniente  alla 
mia  graduazione  di  avvocato  poiché,  impiegandomi  al  suo  rea! 

1.  Documenti  concernenti  Clemente  Doria  (per  cui  cfr.  la  nota  5  a  p.  99) 
in  Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  11,  ins.  4,  RR 
(Giannoniana,  pp.  423-4). 


Il6  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

servizio,  ed  avrei  avuto  modo  di  sostentarmi,  e  sarei  coperto  e 
sicuro  dalle  insidie  de'  miei  malevoli;  ovvero,  piacendole  tenermi 
nella  sua  imperiai  Corte,  mi  dasse  mezzi  di  potermici  mantenere. 
A  questo  fine  io  drizzava  i  mezzi,  ora  pregando,  ora  raccomandan- 
domi non  pure  a'  ministri  che  componevano  il  Consiglio  di  Spa- 
gna, ma  eziandio  a  quelli,  che  eran  per  li  loro  impieghi  più  da 
presso  alla  persona  deirimperadore. 

Non  tralasciava  farmi  vedere  spesso  dall'arcivescovo  di  Valenza 
presidente,  il  quale  da  che  cominciò  ad  aver  lettere  dai  presidente 
Argento  in  mia  commendazione,  mi  riguardava  con  occhi  più  beni- 
gni. Ed  una  volta,  avendomi  domandato  quanto  tempo  io  aveva 
impiegato  in  comporre  la  mia  Istoria,  e  rispostogli  :  «  non  meno  di 
venti  anni  »,  egli  mi  replicò  che  ben  mostrava,  per  le  cose  recondite 
e  nuove,  che  vi  avea  scorte,  che  le  fatiche  dovettero  esser  lunghe  ; 
ed  egli  la  credea  opera  di  trenta,  non  pur  di  venti  anni  ;  e  da  quanto 
e*  ne  parlava  con  altri  ministri  di  quel  Consiglio,  io  certamente  ne 
avrei  potuto  sperare  ogni  favore;  ma  sopragiuntali,  doppo,  una 
grave  infermità,  fu  tale  che  nell'està  di  questo  medesimo  anno  1724 
gli  tolse  la  vita:1  sicché  io  perdei  tutti  gli  ossequi  fattigli,  e  le  rac- 
comandazioni che  l'Argento  ed  altri  amici  vi  aveano  per  me  im- 
piegate. 

Non  tralasciai  di  raccomandarmi  anche  al  Gran  Canccllier  di 
Corte,  conte  di  Zinzendorf,2  al  quale  mi  condusse  il  cavalier  Garelli. 
E  presentatogli  un  essemplare  ben  ligato  della  mia  opera,  lo  riceve 
con  piacere,  e  mi  fece  esibizioni  generose,  lungamente  trattenen- 
domi in  vari  discorsi,  con  tanta  cortesia  e  gentilezza,  che  io  non 
potea  desiderar  maggiori.  Sicché,  da  tutte  le  parti  ricevendo  grate 
accoglienze,  cominciai  a  sperare  dalla  mia  venuta  a  Vienna  prosperi 
successi. 

A  tutto  ciò  si  aggiungeva  che,  in  tutto  il  tempo  che  durò  il  pon- 
tificato di  Innocenzio  XIII,3  da  Roma  non  venivano  doglianze,  e 

1.  ma . . .  vita:  cfr.  la  lettera  al  fratello,  del  29  luglio  (Gìannoniana,  n.°  60)  : 
l'arcivescovo  «ha  lasciato  un  nome  infamassimo  per  le  tante  ribalderie  e 
sceleragìni  che  si  sono  scoverte  dopo  la  di  lui  morte . . .  Non  si  ricorda 
morte  cotanto  gradita  da  tutti  universalmente,  e  dagli  stessi  Spagnoli,  che 
questa;  ed  un  cavaliere  Valentiniano  argutamente  disse  quella  mattina,  che 
fu  esposto  il  suo  cadavere,  che  quella  era  stata  la  prima  volta,  che  Sua 
Eccellenza  avea  data  udienza  ».  2.  conte  di  Zinzendorf:  Philipp  Ludwig  von 
Sinzendorff  (1 671 -1742)  era  il  cancelliere  dell' imperatore.  Su  di  lui  cfr.  IL 
Benedikt,  Dos  Konigreich  Neapel,  cit.,  passim.  3.  in  tutto  .  .  .  XIII :  cioè 
dal  1721  al  1724.  Cfr.  la  nota  2  a  p.  102. 


CAPITOLO   QUINTO  117 

questo  pontefice  non  se  n'impacciava,  e  lasciava  a  lor  posta  grac- 
chiar i  frati,  de'  quali  non  era  molto  amante;  sicome,  poi,  tutto  al 
contrario  sperimentai  del  suo  successore,  Benedetto  XIII,1  come 
più  innanzi  dirassi.  Ed  il  nunzio  Grimaldi,2  ch'era  allora  in  Vienna, 
molto  meno  voleva  saperne,  né  per  sua  bocca  si  passò  contro  di  me 
alcun  ufficio  coll'imperadore:  ciocché  avrebbe  potuto  nuocermi, 
essendo  Innocenzio  ed  il  Nunzio  da  Cesare  molto  ben  veduti  ed  in 
sua  somma  grazia. 

Conferiva  anche  il  tempo  grazioso,  che  si  sperava  imminente, 
poiché  il  parto  delTimperadrice  era  già  maturo,  e  ciascuno  si  lu- 
singava che  dovess'esser  maschile.  E  dava  forza  alla  lusinga  una 
profezia,  che,  per  opera  d'un  frate,  si  sparse  per  tutta  Vienna; 
e  poiché  a  quelle  cose  che  si  desiderano  suol  darsi  facile  credenza, 
erasele  prestata  intera  fede.3 

La  profezia  si  appoggiava  ad  una  lettera  scritta  da  un  frate, 
nella  quale  leggevasi,  che  per  intercessione  di  san  Vincenzo  Fer- 
reri4  Timperadrice  dovea  partorire  un  figliuol  maschio;  e  perché 
non  potesse  ad  altro  santo  ascriversi  il  miracolo,  si  soggiungeva  che 
avrebbe  dato  alla  luce  il  parto  il  giorno  stesso  di  san  Vincenzo, 
che  veniva  a'  5  di  aprile.  I  Catalani  ch'erano  nella  Corte,  sicome  tut- 
ti gli  Spagnoli,  per  esser  il  santo  di  lor  nazione,  la  predicavano  per 
certa  ed  infallibile;  ed  oltre  di  aver  fatto  imprimere  più  sue  im- 
magini in  seta  ed  in  carta,  che  dispensavano  da  per  tutto,  fecero 
stampare  fino  l'ufficio  particolare  del  santo,  anche  tradotto  in  te- 
desco, perché  tutti  ne  pigliassero  divozione  e  l'avessero  per  ispe- 
ziale  loro  protettore,  giacché  per  sua  intercessione  erasi  data  pace 
all'Europa.  In  questo,  fuwi  qualche  gara  e  contrasto  co'  Boemi,  i 
quali  riputavano  che  ciò  dovea  più  tosto  attribuirsi  alla  mediazione 

1.  Benedetto  XIII 1  al  secolo  Pietro  Francesco  Orsini  (1 649-1730),  del  ra- 
mo degli  Orsini- Gravina,  duchi  di  Bracciano,  il  quale,  entrato  diciottenne 
nell'Ordine  domenicano,  fu  creato  cardinale  a  soli  ventitré  anni.  Fu  vescovo 
di  Manfredonia  (1675),  di  Cesena  (1680),  di  Benevento  (1686).  Fu  eletto 
papa  il  29  maggio  1724.  2.  Girolamo  Grimaldi  (1674-1733),  internunzio 
a  Bruxelles  nel  1705,  nunzio  in  Polonia  nel  1712,  assistente  al  Soglio  l'an- 
no seguente,  fu  nominato  nunzio  all'imperatore  nel  1720.  Ottenne  la  por- 
pora nel  1730.  3.  Conferiva  .  .  .fede:  altre  notizie  aneddotiche  su  quanto 
è  narrato  qui  di  seguito  si  hanno  in  due  lettere  del  Giannone  al  fratello,  in 
data  8  e  15  aprile  (Giannoniana,  nn.*  45,  46),  delle  quali  il  Panzini,  p.  42, 
ha  pubblicato  due  ampi  brani  (il  primo  di  questi  ripreso  anche  m  Vita, 
ed.  Nicolini,  p,  122,  nota).  4.  san  Vincenzo  Ferreri  (1 350-1419),  dome- 
nicano spagnolo,  sostenne  Clemente  VII,  papa  d'Avignone,  contro  Urba- 
no VI,  papa  di  Roma.  Fu  canonizzato  da  Pio  II  nel  1458. 


Il8  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

di  san  Giovanni  Neopomiceno,  santo  tutelare  della  Boemia,  poiché 
Timperadrice  avea  concepito  in  Praga,  ed  ivi  si  erano  scoverti  pri- 
ma i  segni,  e  poi  la  certa  sua  gravidanza;  onde  non  doveasi  usar 
questo  torto  al  lor  santo,  e  posporlo  ad  un  forestiero  catalano  ;  ma 
la  fazione  degli  Spagnoli,  in  Corte  e  nella  città,  era  più  forte  e  nu- 
merosa, e  maggiormente  ravvaloravano  il  principe  di  Cardona,1 
spagnolo,  che  si  trovava  allora  maggiordomo  delPimperadrice,  e  la 
principessa  Cardona  sua  moglie* 

Or  mentre  si  era  in  questa  aspettazione,  sopraggiunse  il  quinto 
giorno  di  aprile  -  dì  nel  quale,  celebrandosi  la  festa  di  san  Vincen- 
zo Ferreri,  dovea,  secondo  la  profezia,  seguire  il  parto.  L'impe- 
radrice,  né  la  mattina  di  quel  giorno,  e  molto  meno  nel  precedente, 
avea  dato  alcun  segno  d'imminente  parto;  sicché  la  profezia  co- 
minciava a  svanire.  E  mi  ricordo  che,  nel  giorno  stesso,  doppo 
pranzo,  essendo  venuto  il  reggente  Almarz  a  prendermi  seco  in 
carrozza,  per  spasseggiare  secondo  il  solito  intorno  alla  spianata 
fuori  la  città,  ritornando  verso  la  sera  in  sua  casa  e,  nel  cammino 
favellando  della  burla  del  frate,  che  avea  tenuti  tanti  sospesi  in- 
vano, non  senza  riso  rammentammo  li  tanti  apparecchi  ed  illusioni 
de'  visionari  Spagnoli.  Ma  appena  smontati  di  carozza,  entrati  in 
sua  casa,  trovammo  molti  amici  che  ci  aspettavano  e  ci  dissero 
che  Timperadrice  era  già  co*  dolori  di  parto,  e  non  si  attcndcvan 
che  pochi  momenti,  per  sapere  ciò  che  dasse  alla  luce;  essersi  già 
avverata  la  profezia  intorno  al  preciso  giorno,  onde  dovriamo  or- 
mai esser  sicuri  che,  se  non  s'ingannò  nel  tempo,  nemmeno  errerà 
nel  sesso. 

Nel  tempo  stesso,  sicome  mi  riferì  poi  il  cavalier  Garelli,  che 
come  medico  assisteva  colla  levatrice  ed  altre  matrone  al  parto, 
gli  Spagnoli,  ch'erano  in  Corte,  già  senz'esitazione  alcuna  aspet- 
tavano l'arciduca,  ch'essi  chiamavano  il  principe  d'Asturia,  come 
primogenito  dell'imperadore  ed  insieme  re  di  Spagna;  ed  il  prin- 
cipe Cardona  non  si  ritenne,  mentre  Timperadrice  era  nel  colmo 
de'  dolori,  di  bussar  la  porta  della  camera  e  far  chiamare  il  Garelli, 
al  quale  consignò  più  immagini  di  seta  di  san  Vincenzo,  con  inca- 
ricargli che  quelle  ponesse  sulle  spalle  delTimperadrice,  perché  il 
santo  Tavrebbe  subito  facilitato  il  parto.  E  la  principessa  Cardona 
non  cessava,  intanto,  in  un  picciolo  oratorio  ivi  vicino,  pregarlo, 

i.  il  principe  di  Cardona:  Joseph  Folch  de  Cardona,  maggiordomo  delTim- 
peratrice  e  presidente  del  Consiglio  di  Fiandra. 


CAPITOLO   QUINTO  I19 

che  agevolasse  l'uscita  nel  mondo  al  principe  d'Asturia.  Il  Garelli 
fece  quanto  dal  Cardona  gli  fu  imposto;  e,  poco  dapoi,  sgravossi 
rimperadrice,  ed  in  vece  d'un  principe,  diede  alla  luce  una  prin- 
cipessa.1 

Dissemi  il  Garelli,  che  con  tutto  che  gli  altri  rimasero  freddi  e 
mutoli,  né  potessero  dissimulare  il  dispiacere  per  la  preceduta  lu- 
singa, nulladimanco  gli  Spagnoli  non  si  sgomentaron  punto,  ma 
franchi  ed  intrepidi  rispondevano  che  un'altra  volta  il  santo  l'a- 
vrebbe esauditi;  e  la  principessa  Cardona,  inteso  ch'ebbe  esser 
nata  una  principessa,  rispose  subbito  senza  smarrirsi,  che  ciò  poco 
importava,  perché  nel  seguente  anno,  in  questo  stesso  giorno, 
avrebbe  dato  alla  luce  un  principe. 

Niun  poi  si  prese  pensiero  di  sapere  chi  fosse  o  non  fosse  il 
frate  indovino,  né  si  ricercò  più  di  lui,  né  parlossene  di  vantaggio. 
Tanto  è  vero  l'arte  d'indovinare  esser  sicura  e  non  mai  dannosa 
per  chi  l'essercita,  se  non  sono  avverati  i  pronostici;  ma  se  il  caso 
o  la  serie  e  concatenazione  delle  cose  gli  avvera,  essi  si  mettono  in 
istato  assai  sublime,  non  men  di  straordinari  guadagni,  che  di  fa- 
ma, di  santità,  di  sommi  onori  e  venerazione. 

Indarno  adunque  essendosi  aspettata  dall'imperadrice  prole  ma- 
schile, e  portatosi  l'imperadore,  nel  fin  d'aprile,  secondo  il  solito, 
a  Laxemburg,  mi  riusciva  più  incommoda  e  dispendiosa  la  mia 
dimora  a  Vienna.  Poiché  i  ministri,  sparpagliati  di  qua  e  di  là, 
in  vari  villaggi  intorno,  mi  obbligavano  a  seguitargli,  per  rinovare 
nella  lor  memoria  le  mie  domande,  le  quali  erano  o  di  ritornar  in 
Napoli  con  qualche  carica,  ovvero,  se  piacesse  a  Sua  Maestà  che 
io  fossi  a  Vienna,  di  darmi  modo  da  sostentarmi.  L'arcivescovo  di 
Valenza  presidente,  se  ne  morì,  come  si  è  detto,  in  quest'està,  nel 
suo  giardino  ;  né  fu  rifatto  altro  in  suo  luogo,  ma  il  conte  di  Mon- 
tesanto,2  che  si  trovava  consigliero  del  Consiglio  per  Napoli,  come 
decano  lo  governava.  E  nella  persona  del  marchese  di  Rialp  si  era 
ridotto  l'arbitrio  di  tutte  le  cose;  sicché  io,  per  me  stesso  e  per  l'in- 
terposizione del  marchese  Clemente  Doria,  sovente  replicava  le 
mie  suppliche,  alle  quali  aggiunsi  anche  gli  unici,  che  il  cavalier 
Garelli  spesso  per  me  gli  faceva,  come  colui  ch'era  meglio  degli  altri 
informato,  che  io  non  poteva  più  a  proprie  spese  mantenermi  nella 

1 .  una  principessa:  Maria  Amalia.  2.  Joseph  Villasor,  conte  di  Montesanto, 
reggente  per  la  Sardegna  nel  Consiglio  di  Spagna  nel  17 14,  e  dal  1724 
presidente  del  Consiglio  stesso. 


120  VITA  DI   PIETRO   GIANNONE 

Corte.  Ed  in  questo  se  ne  passò  tutta  l'està;  né  frattanto  ebbi  altro 
sollievo,  se  non,  o  portandomi  a  Pettersdorf  a  dimorare  qualche 
settimana  col  referendario  Plekner,  o  pure  le  sere  in  casa  del  reg- 
gente Almarz,  e  più  spesso  in  quella  del  fiscal  Riccardi,  dove,  a'  più 
amici  ragunati  insieme,  soleva  il  Riccardi  esporre  la  Comedia  di 
Dante,  e  scoprirci  le  bellezze  di  quel  poeta;  e  poi,  si  prese  ad  espor- 
re le  Meditazioni  ed  i  Princìpi  di  Cartesio,1  che  io  sentiva  con 
molto  piacere  e  contento.  Venni  poi,  ne'  princìpi  di  ottobre,  ad 
infermare  di  febre  terzana;  ma  Gabriele  Longobardi,  nostro  napo- 
litano, medico  pure  dell' imperadore  e  mio  carissimo  amico,  me 
ne  liberò  in  pochi  giorni,  colla  china-china. 

Ritornato  poi,  verso  la  fine  d'ottobre,  l'imperadore  dalla  Favo- 
rita2 nel  palazzo  di  Vienna,  si  strinsero  e  replicarono  assai  più  gli 
uffici  col  marchese  di  Rialp;  il  quale  finalmente,  esposte  le  mie 
suppliche  ed  estremi  bisogni  a  Sua  Maestà,  ottenne  dalla  medesima 
real  decreto,  col  quale  si  comandava  che  io  dovessi  trattenermi 
nella  sua  imperiai  corte  di  Vienna,  ed  infino  a  tanto  che  non  fossi 
impiegato  in  qualche  carica  nel  suo  real  servizio,  mi  fossero,  per 
mio  sostentamento,  somministrati  da'  reali  diritti  della  spedizione 
della  Secreteria  di  Sicilia  venti  ungheri  d'oro  il  mese,  che  face- 
vano la  somma  di  circa  mille  fiorini  di  Germania  Tanno.3  La  quan- 
tità fu  riputata  da  molti,  e  spezialmente  dagli  Spagnoli,  avvezzi  a 
ricevere  profuse  pensioni,  meschina  e  tenue,  ed  anche  i  più  econo- 
mici credettero,  che  almanco  mi  si  dovessero  assignare  cento  fio- 
rini il  mese;  ed  il  marchese  Clemente  Doria  mi  disse  che  fossi 
contento,  per  ora,  di  questa  somma,  ch'egli  penserebbe  di  farmela 
accrescere,  ed  i  fiorini  farli  cambiare  in  talleri.4  Ma  il  marchese  di 


i.  in  quella .  .  .  Cartesio',  la  notizia  di  queste  letture  in  casa  del  Riccardi  è 
assai  preziosa  per  individuare  gli  interessi  del  gruppo  italiano  in  Vienna, 
e  dovrà  essere  accomunata  all'altra  che  traiamo  dalla  lettera  del  Giannone 
al  fratello,  del  24  giugno  1724,  qui  la  vii;  Meditazioni:  cfr.  Meditationes 
de  prima  philosophia,  in  qua  Dei  eocìstentia  et  animae  ìmmortalitas  demon- 
stratur,  Parisiis  1641.  Le  Meditationes,  erano  seguite,  sin  dalla  prima  edi- 
zione, da  una  serie  di  obbiezioni  e  dalle  risposte  ad  esse  dell'autore  (più 
esattamente  da  sei  obbiezioni:  una  settima  se  ne  aggiunse  nell'edizione  di 
Amsterdam  dell'anno  seguente).  Princìpi:  cfr.  Principia  philosophiae,  Pa- 
risiis 1644.  2.  Favorita:  palazzo  imperiale  nei  dintorni  di  Vienna.  3.  ot- 
tenne.  . .  anno:  il  testo  del  decreto  imperiale,  tradotto  in  italiano  dallo 
spagnolo  dallo  stesso  Giannone,  è  stato  inserito  nella  biografia  dal  Panci- 
ni» p.  40.  4.  i  fiorini . .  .  talleri:  cfr.  quanto  su  tutto  questo  scrisse  il 
Giannone  al  fratello  il  giorno  xi  novembre  (qui  la  ix  lettera). 


CAPITOLO   QUINTO  121 

Rialp,  se  non  usò  meco  quella  liberalità  solita  praticarsi  con  gli 
Spagnoli,  almanco  compensò  la  tenuità  colla  sicurezza  del  paga- 
mento, poiché  me  l'assignò  sopra  i  reali  diritti  della  Secreteria  di 
Sicilia,  i  quali  non  s'erano  allora  incorporati  e  confusi  con  gli  di- 
ritti delle  spedizioni  di  Napoli  e  di  Milano,  ch'erano  sotto  l'am- 
ministrazione e  libera  disposizione  del  Consiglio  di  Spagna;  ma 
l'arcivescovo  di  Valenza  avea  voluto  tener  separati  quelli  di  Si- 
cilia, perché  Sua  Maestà  potesse  disporne  a  prò  di  qualche  suo 
benemerito,  senza  partecipazione  alcuna  del  Consiglio.  Ed  in  ef- 
fetto, finché  non  s'incorporasser  e  confondesser  poi  con  gli  altri 
diritti,  mi  erano  puntualmente  pagati  mese  per  mese.  Ed  io  mi  eb- 
bi pazienza  che,  se  bene  non  potessi  mantenermi  in  Vienna  con 
carrozza,  come  faceva  in  Napoli  essercitando  la  professione  di  av- 
vocato, nulladimanco,  lusingato  di  maggior  augumento,  o  pure  di 
esser  impiegato  nel  real  servizio,  sicome  promettevasi  nell'imperial 
decreto,  tirava  avanti,  nel  miglior  modo  che  poteva,  senza  incom- 
modare  di  vantaggio  la  povera  mia  casa  di  Napoli. 

Questo  decreto  fu  pubblicato  coll'occasione  di  altre  mercedi  con- 
ferite da  Sua  Maestà,  ne'  4  di  novembre,  giorno  di  san  Carlo,  ove 
in  Corte  era  pubblica  gala,  per  ragion  del  nome  dell'imperadore  ; 
ed  io  non  mancai,  verso  la  fine  di  questo  mese,  cercar  udienza  da 
Sua  Maestà,  che  mi  fu  data.  Nella  quale,  doppo  avere  rese  umili 
grazie  alla  clemenza  di  Cesare,  di  avermi  dato  sustentamento  in- 
flno  che  non  fossi  impiegato  al  suo  regal  servizio,  lo  pregai  vi- 
vamente che  non  mi  tenesse  lungamente  ozioso  ed  inutile,  affinché 
la  Maestà  Sua  maggiormente  si  accertasse  quanto  fosse  intenso  il 
mio  desiderio  d'impiegare  il  rimanente  di  mia  vita  in  servirla,  e 
che,  forse,  in  me  avrebbe  sperimentato  non  minor  fede,  fervore  e 
vigilanza,  di  quanti  aveano  l'onore  d'essere  ascritti  nel  numero  de' 
suoi  umili  e  fedeli  servitori  e  vassalli.  L'imperadore  benignamente 
intese  queste  mie  riverenti  suppliche,  e  porgiutami  la  mano,  umil- 
mente gliela  baciai,  e  mi  ritrassi,  uscendo  fuori,  nell'anticamera, 
ove  trovai  alcuni  amici,  che  si  rallegravan  meco  della  mercede 
conferitami  da  Sua  Maestà  e  della  benigna  udienza  che  mi  avea  da- 
ta.1 Non  mancai  altresì  di  passar  i  medesimi  uffici  col  marchese  di 
Rialp  e  con  gli  altri  che  avean  conferito  ad  agevolarmela,  sicome 
di  darne  parte  a'  ministri  del  Consiglio  di  Spagna,  i  quali  mostra- 

1.  ed  io  .  . .  data:  il  racconto  dell'udienza  è  rifatto  dal  Giannone  in  una 
lettera  al  fratello  del  2  dicembre  1724  {Giannoniana,  n.°  73). 


122  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

rono  averne  piacere  e  contento.  Ma  non  potei  sfuggire  l'invidia  e 
scontentezza  d'alcuni  nostri  Napolitani,  i  quali  mal  poterono  co- 
vrire, sotto  sforzate  parole  di  rallegrarsene  meco,  l'animo  loro  tur- 
bato e  mesto. 

Ed  in  ciò  passossene  l'anno  1724. 


CAPITOLO  SESTO 
Anni  1725,  IJ26  e  ij2j.  In  Vienna. 


NelPentrar  del  nuovo  anno  1725,  si  cominciarono  a  sentire  da 
Roma,  per  questa  mercede  fattami  da  Sua  Maestà,  nuove  doglianze 
e  querele,  le  quali  certamente  non  si  sarebbero  intese,  se  Inno- 
cenzio  XIII  avesse  avuta  più  lunga  vita.  Egli  erasene  morto  nel 
precedente  anno,1  ed  in  suo  luogo  rifatto  il  cardinal  Orsino,  mo- 
naco domenicano,  al  quale  più  arcivescovadi,  l'illustri  suoi  natali 
e  la  stessa  porpora  cardinalizia  non  poterono  farli  dimenticare  Tes- 
sere di  frate;  anzi  nemmeno  bastò  il  papato  istesso,  poiché,  fatto 
papa,  non  lasciò  i  vecchi  suoi  costumi  ed  andamenti.  Egli,  come 
prima,  godeva  di  trattar  familiarmente  co'  monaci,  da'  quali  era 
quasi  sempre  circondato;  e  come  uomo  semplice  e  da  bene,  age- 
volmente era  tratto  nelle  loro  reti,  né  si  accorgeva  de'  loro  intrighi 
e  gabale.  Sicché  fu  lor  facile  dargli  a  credere  che  la  mia  Istoria 
civile  fosse  empia,  eretica  ed  ingiuriosa  non  meno  alla  Santa  Sede, 
che  a  tutti  gli  ordini  religiosi,  e  spezialmente  a'  Domenicani,  poi- 
ché malmenava  la  divozione  del  rosario  e,  parlando  del  martirio  di 
Pietro  da  Verona,  detto  san  Pietro  Martire,  domenicano,  par  che 
lo  qualificasse  piuttosto  per  un  assassinamento  di  ribaldi,  che  per 
un  martirio  vero  ?  e  che  Fautore  fosse  un  eretico  marcio,  il  quale 
invece  di  essere  punito,  era  stato  accolto  in  Vienna  dall'impera- 
dore,  e  di  vantaggio,  con  pubblico  scandalo,  averlo  ritenuto  nella 
sua  Corte,  con  assignarli  annuo  stipendio  per  suo  sostentamento, 
infino  che  non  fosse  impiegato  nel  suo  real  servizio;  e  furono  cosi 

1.  Egli  . .  .  anno:  Innocenzo  XIII  si  spense  il  7  marzo  1724.  2.  dargli . . . 
vero:  cfr.  Istoria  civile,  tomo  11,  lib.  xix,  cap.  ult.,  par.  rv,  p.  561  :  «Furono 
pertanto  deputati  li  frati  di  S.  Domenico  inquisitori  in  Lombardia,  Ro- 
magna e  Marca  Trivisana,  li  quali  adempiendo  al  loro  ufficio  con  molto 
rigore,  cagionarono  in  Lombardia  qualche  tumulto  ;  perciocché  avendo  nel 
seguente  anno  [1252]  Innocenzio  deputato  inquisitore  di  Milano  Fr.  Pie- 
tro da  Verona  . .  .  alcuni  principali  Milanesi,  dubitando  della  lor  vita  per 
li  processi,  che  avean  presentito  aver  loro  fatti  fabricare  l'Inquisitore,  si 
congiurarono  insieme,  e  risolvettero  di  prevenir  1*  Inquisitore  con  farlo 
morire;  onde  accordati  gli  assassini,  questi  postisi  in  aguato  in  ima  solitu- 
dine fra  Milano  e  Como,  dove  all'Inquisitore  occorreva  passare,  quando  lo 
videro,  gli  corsero  subito  colle  spade  nude  addosso,  e  l'uccisero.  Di  che  fat- 
tosene in  Milano  gran  rumore,  e  preso  de'  delinquenti  severo  castigo:  In- 
nocenzo per  questo  martirio  sofferto,  volle  canonizarlo  per  santo  ». 


124  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

spessi  ed  efficaci  i  loro  cattivi  uffici  presso  questo  semplice  e  buon 
pontefice,  che  l'indussero  a  farne  doglianza  co'  ministri  di  Cesare 
in  Roma;  anzi  corse  voce  in  Vienna,  che,  di  pugno  proprio,  avesse 
scritta  una  lettera  all'imperadore,  nella  quale  altamente  si  fosse  di 
ciò  doluto. 

O  vera  o  immaginaria  che  fosse,  questa  lettera,  non  avrebbe 
fatta  impressione  alcuna  nell'imperial  Corte,  poiché  già  si  sapeva 
che  il  papa  di  simili  lettere,  scritte  di  suo  carattere,  ne  avea  empito 
Napoli  e  Benevento,  essendo  facilissimo  a  scriverle  ad  ogni  sorta 
di  persona,  sino  a'  suoi  arcipreti,  parochi  e  compari,  de'  quali,  in 
tempo  che  fu  arcivescovo  di  Benevento,  avea  avuta  conoscenza  e 
contratta  familiarità;  ed  in  Vienna  pur  si  sapeva,  che  n'erano  capi- 
tate alcune,  scritte  in  raccomandazione  di  persone,  che  non  me- 
ritavano alcun  riflesso,  e  per  cose  frivole  e  da  poco.  E  si  sapeva  che 
così  faceva  in  Roma,  essendo  papa,  come,  in  Benevento,  essendo 
arcivescovo,  non  comprendendo,  finché  visse,  che  si  fosse  l'esser 
papa;  e  per  ciò  niente  curando  delle  cose  grandi  di  Stato,  né  della 
papàl  monarchia,  era  tutto  inteso  alle  funzioni  e  cerimonie  eccle- 
siastiche, a  battesimi,  a  consacrar  tempii  ed  altari,  a  benedir  cam- 
pane, alla  mondizia  e  polizia  degli  abiti  ed  ornamenti  di  sacristia, 
e  cose  simili;  sicché  gli  altri,  scaltri  ed  accorti,  che  gli  stavano 
attorno,  lasciando  a  lui  queste  occupazioni,  a  cui  bene  stavano, 
seppero  ben  profittarsi  del  loro,  e  non  suo  pontificato.  Da  questo 
principio  nacque,  che  disprezzava  i  nunzi  ch'erano  nelle  corti  de' 
principi,  sicché  niuno  fu  da  lui  promosso  al  cardinalato,  chiaman- 
dogli gazzettieri,  li  quali  non  facesser  altro  che  spiare  i  secreti 
delle  corti  e  farne  a  Roma  rapporto;  e  de'  pieghi  che  da'  nunzi 
eran  mandati  in  Roma,  egli  non  voleva  saperne  cos'alcuna,  né  se 
ne  pigliava  impaccio;  ma  così,  puri  e  semplici,  si  mandavano  al 
secretano  di  Stato,  di  cui  era  il  pensiero  di  darci  quelle  risposte 
che  gli  pareva. 

Quest'umore  del  papa,  se  ben  mi  nocesse  per  un  verso,  per  que- 
st'altro mi  giovò,  poiché  il  nunzio  Grimaldi,  ch'era  nella  corte  di 
Vienna,  non  si  prese  cura  alcuna  di  ciò  che  il  papa  co'  suoi  mona- 
ci sentisse  per  me  e  della  mia  opera;  né  con  l'imperadore  o  con 
altri  ministri  passò  contro  di  me  doglianze.  Ma  i  mali  uffici  veni- 
vano a  dirittura  da  Roma;  né  mancarono  chi,  per  acquistarsi  meri- 
to col  papa,  ed  ivi  ed  in  Vienna  cooperassero  per  farmi  cadere 
dalla  grazia  di  Cesare  e  de'  suoi  ministri. 


CAPITOLO   SESTO  125 

Da'  stimoli  de'  frati  e  monaci  fu  indotto  pure  il  papa  a  dar  un 
passo,  che  lo  rese  non  pur  leggiero,  ma  che  manifestò  maggior- 
mente quanta  forza  in  lui  avessero  i  Dominicani  ;  poiché,  se  bene 
Clemente  XI,  non  bastandogli  aver  proibita  Y  Istoria  ecclesiastica  di 
Natal  d'Alessandro,  con  particolar  suo  breve,  dannandola,  coman- 
dasse che  fosse  eccettuata  nelle  licenze,  che  Roma  dispensa  per 
legger  libri  proibiti,  papa  Benedetto  XIII,  come  domenicano,  e 
perché  Natal  d'Alessandro  fu  pur  monaco  dell'istesso  ordine,  te- 
nendo altro  concetto  della  di  lui  Istoria  che  Clemente,  tolse  dal- 
l'eccettuazione delle  licenze  l'opera  di  Natale;1  e,  per  far  cosa  più 
grata  a'  monaci,  in  sua  vece  posevi  la  mia  Istoria  civile.  E  quando  il 
suo  predecessore,  Innocenzio  XIII,  si  era  contentato  di  semplice- 
mente proibirla,  né  veniva  eccettuata  nelle  licenze,  egli  comandò 
ch'espressamente  si  eccettuasse;  sicome  poi  se  n'introdusse  stile. 
Sicché,  coll'opere  di  Carlo  Molineo,2  Macchiavelli  ed  altri,  venne 
anche  ad  eccettuarsi  la  mia. 

Ebbero  largo  campo  non  meno  i  frati  che  altri,  di  mostrar  con 
Benedetto  contro  di  me  la  loro  animosità  e  bravura,3  offrendosi  di 
scrivere,  e  confutar  la  mia  Istoria)  e  ciascuno  prometteva  d'ucci- 
dere il  gigante.  Infra  gli  altri  monsignor  Anastaggi,4  arcivescovo  di 


i.papa  Benedetto  .  .  .  Natale:  cfr.  su  questo  quanto  il  Giannone  scriveva 
ai  fratello  in  data  20  gennaio  1725  (Giannoniana,  n.°  79).  2.  Carlo  Molineo  : 
Charles  Dumoulin  (1 500-1 566),  giurista  francese  convertitosi  al  calvini- 
smo, passò  quindi  tra  i  luterani  e  fu  esule  in  Germania,  dove  insegnò  di- 
ritto nelle  università  di  Tubinga  e  di  Strasburgo.  Tenace  giurisdizionalista, 
avversò  il  diffondersi  della  Compagnia  di  Gesù  e,  rientrato  a  Parigi  nel 
I557>  si  batté  contro  l'accoglimento  in  Francia  dei  deliberati  tridentini. 
Scrisse  numerose  opere  di  diritto  e  fu  il  primo  ad  avviare  il  discorso  critico 
sul  testo  del  Decretum  di  Graziano,  con  la  propria  edizione  di  esso,  apparsa 
nel  1554.  3.  bravura-,  spavalderia.  4.  monsignor  Anastaggi'.  «degli  Ana- 
stagi  »  è  la  grafia,  ìnnobilìta,  usata  da  Filippo  d'Anastasio  (1656- 1735)  dopo 
il  1694.  Napoletano,  professore  di  diritto  civile  allo  Studio  tra  il  1687  e  il 
1690,  e  di  nuovo  di  diritto  canonico  nel  1697,  membro  dell'Accademia 
Palatina  del  Medinacoeli  sin  dalla  sua  fondazione  (1698),  appartenne  alla 
cerchia  di  Giuseppe  Valletta  e  ne  condivise  le  idee  giurisdizionalistiche, 
sinché,  nel  giugno  del  1699,  non  venne  creato  arcivescovo  di  Sorrento. 
Appena  preso  possesso  della  diocesi,  si  impelagò  in  una  disputa  giurisdi- 
zionale che  lo  portò  a  scontrarsi  con  il  delegato  della  Real  Giurisdizione 
(allora  ricopriva  la  carica  Gennaro  d'Andrea,  per  cui  cfr.  la  nota  1  a  p.  59) 
finendo  espulso  dal  Regno.  Riparato  a  Roma,  divenne  assistente  al  Soglio 
nel  1706.  Rientrato  in  Sorrento  nel  1710,  dopo  i  mutamenti  politici  in- 
tanto avvenuti,  resignò  nel  1723  in  favore  del  nipote  Ludovico  Agnello, 
dopo  essersi  invischiato  in  nuove  beghe  giurisdizionali,  ottenendo  in  cam- 
bio la  nomina,  da  parte  di  Benedetto  XIII,  a  patriarca  di  Antiochia.  Su 


I2Ó  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

Sorrento,  il  quale  dimorava  in  Roma,  essendo  stato  scacciato  dalla 
sua  sede  e  dal  regno  di  Napoli,  come  colui  che  avea  posto  in  iscom- 
piglio  quella  diocesi  ed  attaccando  brighe  di  giurisdizione  e  stra- 
pazzando quella  del  re,  avea  finalmente  costretto  il  viceré  e  suo 
Collateral  Consiglio  a  farlo  uscir  dai  Regno.1  Questi  ritiratosi  in 
Roma,  nel  pontificato  di  Clemente  XI  e  Innocenzio  XIII  fu,  per 
l'animo  suo  torbido  ed  ambizioso,  mal  visto  e  mal  gradito;  sicché, 
per  lunghi  anni,  vi  dimorò  inutile,  né  mai  potè  ottenere  di  far  ri- 
torno alla  sua  chiesa.  Ma  assunto  al  trono  papa  Orsino,  egli  si  me- 
scolò con  la  turba  degli  altri  assentatori;2  ed  entrato  in  concetto 
del  papa  d'uom  dotto  e  letterato,  per  darne  saggio,  senza  che  vi 
fosse  bisogno  o  occasione,  diede  alla  luce  un' Apologia?  nella  quale 
pretese  difendere  se  stesso,  e  qualificare  per  legittimi  tutti  i  suoi 
attentati,  che  avea  commessi  in  Sorrento  sopra  la  real  giurisdizio- 
ne ;  ed  ancorché  il  libro  fosse  ingiurioso  a*  reali  diritti,  con  tutto  ciò 
lo  dedicò  al  papa  e,  con  licenza  de*  superiori,  fu  impresso  in  Ro- 
ma. Ma  dall'opera  stessa  ben  si  conosceva  che  l'avea  data  fuori  non 
già  per  sua  difesa,  poiché  ogni  contesa  giurisdizionale  di  Sorrento, 
per  lo  corso  di  tanti  anni,  erasi  già  terminata,  né  facevascne  più 
motto;  ma  si  osservò  che  fu  un  pretesto  per  malmenare  l'autore 
dell'Istoria  civile,  strapazzandolo  di  qua  e  di  là  in  più  luoghi,  ma 
a  disaggio,  poiché  non  entrava  punto  alla  sua  materia  ciò  che  quel- 
l'autore avea  scritto  nella  sua  Istoria.4  E  con  tal  pretesto,  per  ren- 


di lui  si  veda  G.  M.  Mazzuchelli,  Gli  scrittori  d'Italia,  cit.,  i,  ad  vocem 
Anastasio,  pp.  669  sgg.  ;  E.  D'Afflitto,  Memorie,  cit.,  1,  pp.  324  sgg.  ;  F.  Ni- 
colini,  Saggio  d'un  repertorio  bibliografico  di  scrittori  nati  0  vissuti  nell'antico 
regno  di  Napoli,  Napoli  1962,  advocem  Anastasio,  pp.  165  sgg.;  per  la  sua 
appartenenza  all'Accademia  si  veda  la  raccolta  di  componimenti  poetici  per 
la  recuperata  salute  di  Carlo  II  di  Spagna,  curata  da  G.  L.  Acampora,  Na- 
poli 1701,  e  G.  Risfoli,  V Accademia  Palatina  del  Medinaceli.  Contributo 
alla  storia  della  cultura  napoletana,  Napoli  1924;  una  breve  notizia,  infine, 
in  R.  Colapietra,  Vita  pubblica  e  classi  politiche  del  viceregno  napoletano 
(1636-1 J34)>  Napoli  1961,  pp.  126-7.  1.  essendo  . . .  Regno:  la  controversia 
giurisdizionalistica  che  fu  all'origine  dell'espulsione  è  narrata  ampiamen- 
te in  F.  Nicolini,  Saggio  d'un  repertorio,  cit.,  pp.  168-70.  2.  assentatori: 
adulatori  smaccati.  3.  Cfr.  F.  Anastasio,  Apologia  di  quanto  l'arcivescovo 
di  Sorrento  ha  praticato  cogli  economi  de'  beni  ecclesiastici  di  sua  diocesi,  con~ 
segrata  alla  Santità  di  Nostro  Signore  papa  Benedetto  XIII,  Roma  1724. 
4.  Ma  . .  .  Istoria:  i  capitoli  x-xm  dell'Apologia  sono  una  violenta  critica 
antigiannoniana,  pur  senza  che  dello  storico  si  faccia  il  nome,  se  non  lad- 
dove l'autore  promette  di  stendere  in  futuro  «una  dissertazione  istorico- 
teologica,  divisa  in  quattro  capitoli,  e  con  ordine  geometrico  distesa,  per 
ritrarre  il  Giannone  dalla  falsa  dottrina  e  dalle  temerarie  opinioni  che  avea 


CAPITOLO   SESTO  127 

dersi  più  grato  al  papa  ed  alla  corte  di  Roma,  prometteva  in  questa 
sua  opera,  ch'egli  ne  avrebbe  data  alla  luce  un'altra,  nella  quale 
avrebbe  fatto  conoscere  i  tanti  errori  ed  abbagli  di  quell'autore, 
così  nell'istoria  come  nella  cronologia,  e,  sopra  tutto,  nelle  cose 
ecclesiastiche  e  teologiche;  dando  divantaggio  un'idea  dell'opera, 
ed  in  quanti  capitoli  egli  aveala  divisa,  soggiungendo,  che  lo  faceva 
mosso  da  spirito  misericordioso  e  caritatevole,  per  ridurre  quella 
smarrita  pecorella  al  suo  ovile.  U Apologia  essendosi  data  alle  stam- 
pe e  divolgata,  pose  tutti  in  aspettazione  di  quest'altra  opera  che 
prometteva. 

S'intese  ancora  che  un  frate  franciscano  de'  zoccoli1  pur  si  era 
accinto  a  scrivere,  per  confutare  Ylstoria  civile  e  che  il  cardinal 
Annibale  Albani2  gli  avrebbe  somministrato  le  spese  per  la  stam- 
pa. Ma  nell'istesso  tempo  che  in  Roma  questi  campioni  si  accin- 
gevano all'impresa,  non  si  tralasciavano  i  mali  uffici  alla  corte  di 
Vienna,  ascrivendo  a  me  ciò  ch'essi  facevano.  Il  marchese  di  Rialp 
mi  disse  che  veniva  scritto,  che  io  in  Vienna  preparava  un  altro  li- 
bro, per  darlo  presto  alla  luce.  Non  potei  contenermi  in  rispon- 
dergli, che  mal  conoscevano  questi  maligni  non  meno  che  ignoranti 
quanto  duro  e  diffidi  fosse  il  dar  libri  alle  stampe,  giacché  immagi- 
navano che  io,  in  mezzo  a  tanti  travagli  ed  angosce,  fossi  in  istato 
di  stampar  libri,  che  forse  si  credevano  che  fosser  frittole3  o  fo- 


questi  attinto  da  torbide  fonti»  (cfr.  Apologia,  p.  134).  Contro  l'Anastasio  il 
Giannone  stese  una  Risposta,  i  cui  appunti  autografi  si  conservano  assieme 
alla  copia  di  amanuense  nell'Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Gianno- 
ne, mazzo  1,  ins.  5  (Giannoniana,  p.407).  Questo  scritto  giannoniano,  datato 
1725,  era  destinato  alle  stampe,  ma  vi  si  oppose  il  marchese  di  Rialp.  Quanto 
alla  dissertazione  promessa  dall'Anastasio,  la  si  è  voluta  riconoscere  in  uno 
zibaldone  manoscritto  conservato  presso  la  biblioteca  della  Società  Napo- 
letana di  Storia  Patria  (cfr.  F.  Nicolini,  L'Istoria  civile  di  Pietro  Giannone 
ed  i  suoi  critici  recenti,  in  «Atti  dell'Accademia  Pontaniana»,  xxvn,  1907, 
memoria  seconda;  e,  dello  stesso  autore,  Saggio  d'un  repertorio,  cit.,  p.  174; 
ma  di  contro  si  veda  Giannoniana,  pp.  32  sgg.).  1.  un  frate  .  .  .  zoccoli:  il 
padre  Giovanni  Antonio  Bianchi  (1686-1758),  teologo  e  consultore  del 
Sant'Uffizio  ;  provinciale  del  suo  Ordine  e  polemista  per  parte  della  Curia 
romana  nella  controversia  con  i  Savoia.  Fu  arcade  col  nome  di  Laurisio 
Tragiense.  L'opera  alla  quale  si  riferisce  qui  il  Giannone  è  il  lavoro  di  mag- 
giore impegno  che  egli  abbia  compiuto,  e  cioè  i  voluminosi  Della  potestà 
e  della  politia  della  Chiesa  trattati  due,  contro  le  nuove  opinioni  di  P.  Gian- 
none,  dedicati  al  Principe  degli  Apostoli.  L'opera  vide  la  luce  in  Roma  tra 
il  1745  e  il  175 1,  sei  tomi  in  sette  volumi.  2.  Annibale  Albani  (1682-1751) 
era  nipote  di  papa  Clemente  XI  (e  cfr.  p.  144).     3.  frittole:  frittelle. 


128  VITA   DI    PIETRO   GIANNONE 

caccie.  Che  se  essi  aveano  questa  facilità  io  non  ce  l'invidiava; 
attendessero  pure  a  sfornar  presto  i  loro  che  millantavano,  che  io 
l'avrei  reso  pane  per  focaccia.  Che  io  me  ne  stava  co'  miei  guai,  né 
pensava  a  libri  ;  e,  se  non  me  ne  dessero  occasione,  io  me  ne  starei 
in  perpetuo  in  un  profondo  silenzio.1  Ma  che  la  facenda  era  tutto  al 
rovescio,  poiché  in  Roma  erasi  già  mosso  il  vespaio,  ed  alcuni 
eransi  accinti  a  scrivere  e,  per  ora,  si  aspettavano  due  confutazio- 
ni: quella  di  monsignor  Anastaggi  e  l'altra  del  padre  franciscano. 
E  perché  maggiormente  il  marchese  se  n'accertasse,  e  per  l'av- 
venire non  dasse  orecchio  a  simili  falsi  rapporti,  e  conoscesse  co' 
propri  suoi  occhi  i  raggiri  e  tranelli  de*  corteggiarli  di  Roma,  i 
quali  nel  tempo  stesso  che  non  vogliono  che  altri  scriva,  essi  stan 
facendo  ciò  che  in  altri  riprendono  e  biasimano,  pochi  giorni  dapoi 
tornai  da  lui,  e  gli  mostrai  l' Apologia  dell'Anastaggi  ed  i  passi  in 
quella  notati  ingiuriosi  alla  regal  giurisdizione;  e  pure  il  libro  erasi 
di  fresco  stampato  in  Roma,  e  dedicato  al  papa;  dicendogli  che  io 
d'una  sola  cosa  vivamente  lo  pregava,  non  già  che  pretendessi 
d'impedire  che  essi  stampassero  e  divolgassero  le  loro  confutazio- 
ni; scrivessero  pure  e  schiccherassero2  quanta  carta  ha  il  mondo; 
ma  che  Tarmi  ed  il  campo,  fosse  uguale  ;  e  che,  sicom'essi  avean  am- 
pio arbitrio  di  scrivere,  così  mi  si  permettesse,  se  pur  lo  meritasse- 
ro, di  rispondergli.  Alle  contumelie  e  strapazzi,  che  avea  di  me 
fatto  monsignor  Anastaggi,  io  non  rispondeva,  poiché  non  voglio 
con  essi  contendere  chi  meglio  sappia  lanciar  ingiurie,  lasciandole 
ad  essi,  a  cui  bene  stanno  ;  ma  se  l'opera  che  prometteva,3  o  pure 
l'altra  che  apparecchiava  il  franciscano4  o  qualunque  altra  che 


i.  Che  io  . . .  silenzio:  nella  corrispondenza  giannoniana  vi  sono  diverse 
lettere  che  trattano  la  questione  di  un'eventuale  risposta  all'Anastasio;  le 
ripetute  assicurazioni  di  non  aver  intenzione  di  replicare  sembrano  provo- 
cate da  raccomandazioni  alla  prudenza,  giuntegli  da  Napoli  e  dagli  amici 
viennesi.  È  ben  vero  che  il  31  marzo  del  1725  -  quando  ancora  non  aveva 
letto  la  recensione  stesagli  da  Biagio  Garofalo  (cfr.  qui  a  p.  174)  per  sua 
informazione  -  scriveva  di  desiderare  attorno  a  sé  il  silenzio  e  di  temere  le 
polemiche,  sino  ad  affermare  :  «  io  contrasto  qui  con  quei  signori  di  Lipsia  » 
per  la  nota  che  si  preparava  per  gli  «Acta  Eruditorum  Lipsiensum  »  ;  ma 
più  interessante  sembra  l'assicurazione  data  al  fratello  il  9  di  giugno  (cfr. 
Giannoniana,  n.°  97),  che  non  avrebbe  risposto  all'Anastasio  «senz'ordini 
superiori»,  2.  schiccherassero  \  scarabocchiassero.  3.  V  opera  che  promette- 
va', cfr.  alla  nota  4  di  p.  126.  4.  il  franciscano:  Giovanni  Antonio  Bian- 
chi. Sui  vari  tentativi  di  rispondere  all'Istoria  civile  si  veda  in  Gianno- 
niana, pp.  32-6,  502-3. 


CAPITOLO   SESTO  120, 

uscisse  fuori,  fosser  tali  che  mi  obbligassero  a  difendermi  e  pur- 
garmi d'alcuna  macchia  o  calunnia,  che  cercassero  addossarmi,  lo 
pregava  a  non  togliermi  quella  naturai  difesa,  che  tutte  le  leggi 
permettono  a  gli  assaliti  ed  oppressi,  per  vindicare  la  lor  fama  ed 
onore.1 

Il  marchese  mi  rispose  che  stessi  io  saldo  e  quieto,  perché  spe- 
rava che  non  vi  sarebbe  altro,  che  dasse  occasione  di  risposta  o  di 
replica.2  In  effetto,  passò  molto  tempo  che  non  si  vide  0  intese 
libro  alcuno  de'  promessi  e  minacciati;  anzi  si  scovrì  dapoi,  che 
monsignor  Anastaggi  a  tutto  altro  dovea  pensare,  che  di  attendere 
a  ciò  ch'egli,  forse  per  non  mai  adempirlo,  avea  millantato;  poiché 
si  seppe,  ch'era  occupato  a  distrigarsi  d'una  accusa  fattagli  d'avere 
espilata3  l'eredità  d'una  sua  nipote,  figliuola  del  fratello,  il  quale 
avendo  a  lui  lasciato  il  pensiero  e  la  cura  d'amministrarla,  finché 
la  minore  non  giungesse  ad  età  matura,  il  misericordioso  arcive- 
scovo aveasela  a  sé  appropriata,  e  ridotta  la  nipote  a  chiudersi  in 
monastero.  E  le  monache,  in  nome  della  medesima,  l'avean  mossa 
lite  nel  tribunale  della  Vicaria  di  Napoli,  a  darne  conto  e  restituir 
la  roba  occupata  alla  nipote.  Onde  da  Napoli,  dove  io  avea  scritto 
ad  alcuni  amici,  che  uscendo  l'opera  che  prometteva  l'Anastaggi 
non  tardassero  di  mandarmela  subito  in  vece  di  questa,  mi  man- 
darono alcune  allegazioni  stampate,  nelle  quali  era  a  pel  rovescio 
ben  pelato  monsignore,  e  scoverta  a  minuto  e  provata  l'espilazione 
con  documenti  chiari  ed  autentici.  Dell'opera  del  franciscano  non 

x.  fosser  .  .  .  onore:  al  posto  del  Giannone,  rispose  all'Apologia  quell'Ignazio 
Ottavio  Vitagliano  che  dell3 'Istoria  civile  era  stato  l'editore,  a  ciò  sollecitato 
dall'Argento.  Sennonché  nella  sua  Difesa  della  real giurisdizione  intorno  a1  re- 
gi dritti  su  la  chiesa  collegiata  appellata  dì  S.  Maria  della  Cattolica  della  città 
di  Reggio -,  Napoli  1727,  fini  per  criticare  anche  il  Giannone,  a  proposito  della 
giurisdizione  del  Gran  Cancelliere  di  Sicilia  sotto  la  dominazione  normanna 
e  angioina.  Il  Giannone,  che  già  aveva  espresso  il  suo  stupore  per  l'iniziati- 
va del  Vitagliano  (cfr.  la  lettera  al  fratello  del  16  giugno  1725,  in  Gianno- 
niana,  n.°  98),  quando  ebbe  in  mano  una  copia  del  lavoro  non  potè  esimersi 
dallo  stendere  alcune  note  assai  vivaci,  che  inviò  al  fratello  l'ii  agosto 
{Giannoniana,  n.°  106).  Questi  appunti  furono  debitamente  ricopiati  e  dif- 
fusi per  Napoli  -  si  veda  la  raccomandazione  per  la  loro  diffusione  nella 
lettera  del  3  novembre,  in  Giannoniana,  n.°  119  -,  per  Vienna  (lettera  del 
27  ottobre,  Giannoniana,  n.°  118),  e  inseriti  infine,  dal  Panzini,  tra  le  Opere 
postume,  nell'edizione  del  1766  e  nelle  successive.  Ma  cfr.  per  questa  vicen- 
da Giannoniana,  pp.  io  e  128-30.  2.  Il  marchese  .  .  .  replica:  cfr.  la  lettera 
al  fratello  da  Vienna  (ma  Perchtoldsdorf),  del  1  settembre  1725  {Giannonia- 
na, n.°  109),  in  cui  si  comunica  che  si  è  parlato  con  l'imperatore  de\V Apolo- 
gia dell'Anastasio.     3.  espilata:  sottratta. 


130  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

s'intese  poi  altro,  se  non  che,  se  bene  il  cardinal  Albani  in  una 
stamperia  ad  Urbino  ne  avesse  fatti  tirar  più  fogli  del  primo  to- 
mo, non  si  era  però  questo  mai  veduto.  E  molto  più  si  tenne  cela- 
to e  soppresso,  quando  si  vide,  nell'anno  1729,  l'esito  infelice  del- 
l'opera del  padre  Sanfelice,  gesuita,  della  quale  favelleremo  più 
innanzi.1 

Riputavano  in  Roma  allora  i  più  fini  politici,  che  si  dovesse 
lasciar  da  parte  l'opera,  ed  a  torto  ed  a  diritto  perseguitar  l'autore, 
per  ogni  strada;  che  questa  sarebbe  stata  la  migliore  e  più  accer- 
tata risposta  e  confutazione.  Ma  i  frati  e  monaci,  de'  quali  il  papa 
era  quasi  sempre  circondato,  volevano  che,  non  omessa  questa 
via,  non  si  tralasciasse  l'altra  de'  libri  e  delle  scritture,  ciascuno 
pensando,  con  tal  occasione,  vantaggiar  sua  condizione  e  far  mo- 
stra de'  suoi  talenti.  Non  è  credibile  quanto  fossero  scossi  questi 
ed  i  curiali  di  Roma  dalla  notizia  avuta,  che  l'imperadore  pensasse 
ad  impiegarmi  in  suo  real  servizio,  ed  intanto  avermi  assignato 
stipendio,  per  mio  sostentamento,  nell'imperial  Corte.  Non  si  sen- 
tivano in  Roma  che  minacce,  e  cercar  maniera  di  attraversar  ogni 
mio  avanzamento. 

A  questi  tempi,  venne  voglia  al  reggente  fiscal  Riccardi  di  por- 
tarsi in  Napoli,  per  dimorarvi  qualche  mese,  credendo  ristabilirsi 
meglio  in  salute,  e  far  poi  ritorno  a  Vienna,  donde,  ottenuta  per 
sei  mesi  licenza  da  Cesare,  partì  verso  la  fine  del  precedente  anno 
1734.  E  passato  per  Roma,  e  fermatosi  ivi  alquanti  giorni  in  casa 
del  cardinal  Sinfuego,2  ministro  cesareo,  intese  colle  sue  proprie 

1. 1* esito  .  .  .  innanzi:  cfr.  pp.  167  sgg.  e  la  nota  3  a  p.  167.  2.  Sinfuego:  Al- 
varez  Cienfuegos  (1657-1739),  teologo  gesuita  spagnolo,  salito  alla  porpora 
nel  172 1  ;  fu  ministro  plenipotenziario  dell'imperatore  in  Curia.  Nel  codice 
miscellaneo  della  Biblioteca  Nazionale  di  Napoli,  X.D.8.,  alle  ce.  414-6  v  è 
contenuta  una  breve  biografia  sua,  stesa  poco  dopo  il  1721  (vi  si  parla 
della  nomina  a  cardinale)  e  dalla  quale  stralciamo  i  passi  più  interessanti: 
«  Il  P.  Albaro  Cienfuegos  nacque  nel  principato  di  Asturias  .  .  .  non  sono 
titolati  1  suoi  genitori,  sono  però  del  ceppo  dell'Eccmi  signori  di  Pegno- 
randa  e  conti  di  Miranda.  Egli  fu  il  3 °  de  suoi  fratelli,  il  p.mo  de*  quali 
tirò  avanti  la  Casa,  il  secondo  fu  vescovo  di  Popajan  e  viceré  del  Perù,  il 
quarto  è  Inquisitore  del  Messico ...  In  Salamanca  entrò  nel  Collegio  de 
los  Berdes  proprio  della  nazione  asturiana  .  . .  qui  studiò  sei  anni  la  legge 
e  facendo  gl'esercitii  di  S.  Ignatio  tocco  da  Dio  entrò  nella  Compagnia  . . . 
i  padri  lo  scelsero  per  istruttore  e  padre  degl'Accademici . .  .  Arrivò  la 
fama  della  sua  capacità  a  Carlo  20  che  per  conoscerlo  e  trattarlo  lo  chiamò 
a  Madrid,  dove  lo  fece  ministro  del  gran  Consiglio,  chiamato  da'  Spagnuoli 
la  Giunta  Magna  . . .  Sono  cinque  anni  che  sta  in  Vienna,  0  lamentandosi 
gì* Augustissimi  Principi  che  non  sia  a  visitarli,  già  mai  i  suoi  amici  han 


CAPITOLO   SESTO  131 

orecchie  queste  minacce.  E  mancò  poco,  per  essere  anch'egli  odioso 
di  quella  Corte,  che,  se  non  fosse  stato  accolto  in  casa  di  quel 
cardinale  ed  insignito  col  carattere  di  ministro  dell'imperadore, 
non  ricevesse  qualche  affronto  ;  facendosi  per  Roma  insorger  voce, 
che  il  papa  voleva  che  fosse  posto  in  arresto.  Sicché,  impaurito, 
bisognò  che  tosto,  colla  carrozza  del  cardinale,  scappasse  via  ed 
affrettasse  il  suo  viaggio  per  Napoli;  da  dove  scrisse  a*  suoi  e 
miei  amici  di  Vienna,  che  mi  avvertissero  a  star  cauto,  poich'egli 
avea  inteso  parlar  di  me  in  Roma  con  tanta  malevolenza  ed  odio, 
più  che  se  fossi  un  Lutero  o  Calvino,  e  che  tentavano  tutte  le  vie 
per  minarmi,  e  farmi  perdere  quanto  io,  con  tanti  stenti  e  preghiere, 
avea  conseguito.1 

Per  queste  notizie  io  non  era  ad  altro  inteso,  che  a  raccomandar- 
mi nella  clemenza  di  Cesare  e  pregare  i  supremi  ministri,  e  spe- 
zialmente il  principe  Eugenio,  a  volermi  mantenere  sotto  la  sicura 
loro  protezione,  la  quale  era  valevole  a  potermi  scampare  da'  mali, 
che  m'erano  da  Roma  minacciati.  E  poiché  era  assicurato  che  Sua 
Maestà  non  sarebbe  per  abbandonarmi,  e  con  effetto  mi  si  conti- 
nuava puntualmente,  mese  per  mese,  il  pagamento  del  mio  soste- 
gno: pensai  di  non  esser  più  a  costo  in  casa  altrui,  ma  viver  per 
me  solo,  in  casa  propria  e  con  propria  servitù.  Onde  mi  appigionai 
una  picciola  casa,  e  vissi  senz'altra  compagnia,  che  di  alcuni  libri, 
de'  quali  mi  era  provveduto  per  mio  sollievo,  e  perché  mi  si  ren- 
desse meno  noiosa  la  mia  solitudine. 

Per  la  partenza  del  Riccardi  per  Napoli  erasi  dismessa  la  radu- 
nanza d'amici,  che  le  sere  si  univano  in  sua  casa,  e  non  vi  rimaneva 
altra  conversazione,  che  quella  che  aveasi  in  casa  del  reggente 

potuto  ottenere,  che  dia  questo  gusto  a  quelle  Maestà,  le  quali  solo  visita 
nella  Pasqua,  e  giorni  loro  natalizi . .  .  Tutto  che  sia  sua  professione  la 
teologia  speculativa,  e  morale,  è  ancora  eccellente  in  belle  lettere,  in  Istorie 
sagre  e  profane.  E  finalmente  in  tutto  ciò,  che  può  formare  un  soggetto 
grande  in  ogni  lustro.  Siane  in  pruova  la  vita  di  S.  Francesco  Borgia,  che 
ne  scrisse,  e  corre  con  universale  applauso  di  tutta  Europa  ...  E  spen- 
dendo la  maggior  parte  del  giorno  in  gravissimi  negotii,  spettanti  al  pro- 
prio ufficio,  la  notte  ritiratosi  nel  Collegio  di  S.  Antonio  magno,  dove  ri- 
siedeva, compose  i  due  tomi  de  Tnnitate,  in  cui  si  vede  con  un  grande 
ingegno  accompagnata  buona  e  soda  dottrina».  1.  scrisse .  .  .  consegui- 
to: altrettale  raccomandazione  di  prudenza  inviava  allarmato  il  Gian- 
none  da  Vienna  al  Riccardi,  il  3  febbraio  1725,  dicendo  che  da  Napoli 
erano  giunte  proteste  per  i  discorsi  che  l'amico  teneva  pubblicamente  e 
che  anche  il  Garelli  intendeva  scrivere  a  sua  volta  in  tal  senso  al  Riccardi 
(Giannoniana,  n.°  81). 


132  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

Almarz,  dove  io  non  mancava,  non  essendovi  in  Vienna  per  noi 
altro  luogo,  ove  convenissero  più  Italiani,  spezialmente  Napoli- 
tani e  Siciliani,  e  più  opportuno  per  sapere  ciò  che  di  rimarco1  si 
passava2  nella  Corte  o  nella  città,  e  ciò  che  s'avvisava  di  nuovo,  oc- 
corso in  Italia,  e  massimamente  in  Napoli. 

Nel  mese  di  aprile  di  quest'anno  1725,  si  seppe  la  pace  con- 
chiusa tra  l'imperadore  e  Filippo,  re  di  Spagna,  stipulata  in  Vien- 
na e  maneggiata  secretamente,  per  parte  del  re  Filippo,  dal  duca 
Riperta,3  che  per  più  mesi  dimorò  sconosciuto  a  Vienna,  trattan- 
dola col  conte  di  Zinzendorf,  gran  cancelliere  di  Corte,  e  col  mar- 
chese di  Rialp,  ministri  deputati  dall'imperadore,  senza  parteci- 
pazione di  altri  principi.  Si  pubblicò  nel  mese  di  maggio  e  più 
istromenti  di  questa  pace  furon  impressi,  che  ora  si  leggono  rac- 
colti nel  Codice  diplomatico  d'Italia  di  Lìinig.4  Tutti  gli  afflitti 
Napolitani,  Siciliani  e  Milanesi  si  rallegrarono,  in  sentirla  con- 
chiusa, poiché  si  credea  che  la  corte  di  Vienna  venisse  a  sgravarsi 
di  tanti  Spagnoli,  i  quali,  stante  la  vicendevole  restituzione  de' 
beni,  dignità  ed  onori,  convenuta  nel  nono  articolo  della  medesima, 
dovessero  ritornare  in  Ispagna,  nelle  loro  paterne  case;  e  di  ve- 
dersi con  ciò  la  beneficenza  cesarea  ristretta  a'  suoi  propri  e  fedeli 
sudditi  e  vassalli  de'  regni  e  Stati  d'Italia,  che  stabilmente  rimane- 
vano sotto  il  clementissimo  suo  dominio.  Ma  ecco  come  i  giudici 
umani  spesso  s'ingannano.5  Questa  pace  produsse  effetti  contrari: 
non  solo  quelli  che  vi  erano,  maggiormente  vi  si  stabilirono,  ma 
ne  vennero  poi  a  truppe  degli  altri  da  tutti  i  regni  della  Spagna,  e 
spezialmente  dalla  Catalogna,  Valenza  e  d'Aragona;  i  quali  a  guisa 
di  locuste  corrodevano  tutti  gli  emolumenti,  che  da'  domìni  d'Italia 
provenivano,  non  lasciando  a'  nazionali  che  qualche  miserabile 
spicilegio  che,  doppo  raccolta  la  messe  rimaneva.  Il  Consiglio  non 
per  ciò  lasciò  di  chiamarsi  di  Spagna,  come  prima;  né  nelle  spedi- 
zioni si  lasciò  la  lingua  spagnola,  ancorché  non  avesse  da  impac- 

1,  di  rimarco-,  di  notevole  (francesismo),  a.  si  passava:  accadeva  (fran- 
cesismo). 3.  Nel ...  Riperta:  il  barone  Johan  Willem  van  Ripperda 
(1680-1737)  fu  una  tipica  figura  del  Settecento  europeo.  Olandese  di  na- 
scita, vero  avventuriero,  fa  il  favorito  di  Elisabetta  di  Spagna,  sinché  non 
cadde  in  disgrazia,  nel  1726.  La  pace  alla  quale  qui  si  allude  è  quella  che 
concludeva  il  lungo  dissidio  sorto  attorno  alla  corona  di  Spagna  all'aprirsi 
del  secolo,  con  la  morte  di  Carlo  II  di  Absburgo.  4.  J.  Ch.  Lùnig, 
Codex  Italiae  Diplomaticus,  cit,  ni,  1732,  coli.  885  sgg.  5.  ecco . . .  sHngan- 
nano:  cfr.  Ariosto,  Ori.  fur .,  1,  7,  2:  «ecco  il  giudicio  uman  come  spesso 
erra». 


CAPITOLO   SESTO  I33 

darsi  che  de'  soli  regni  e  Stati  d'Italia.  Sicome  i  nomi  dell'inqui- 
sitore e  del  commissario  della  cruciata1  non  si  ristrinsero  alla  sola 
Sicilia,  poiché  Napoli  e  Milano  non  han  crociate;  ed  in  quanto  al- 
l'Inquisizione,  quella  di  Milano  non  è  sottoposta  a  quella  di  Spa- 
gna, e  Napoli  non  ne  riconosce  alcuna,  ma  si  ritennero  come  prima 
quelli  d'Inquisitore  generale  e  Commissario  generale  delle  Spagne. 
E  se  doppo  questa  pace,  si  vide  assai  più  multiplicare  il  numero 
degli  Spagnoli  in  Vienna  e  negli  altri  Stati  d'Italia,  sottoposti  al- 
Timperadore,  ch'empivano  le  secreterie  ed  i  tribunali,  meritamente 
non  si  dovea  lasciar  il  nome  e  l'idioma  di  Spagna;  poiché  questi 
Stati  d'Italia  eransi  resi  fondi  fruttiferi  ed  ubertosi,  destinati  non 
pur  a  satollar  quanti  Spagnoli  venivano  di  Spagna,  ma  a  ripulirgli  e 
mettergli  in  agiatezza  e  commodità  ed  in  istato  splendido  e  de- 
coroso, ornandogli  di  cariche,  toghe,  ufHci  ed  altri  onori  e  dignità; 
e  perché  la  maggior  parte  era  gente  inetta,  inutile  e  sfaccendata, 
molti  eran  provveduti  di  pensioni,  benefìci,  diarie  ed  altre  sovven- 
zioni. Fu  cosa  veramente  da  stupire  in  loro  la  franchezza  colla 
quale  ci  venivano,  come  se  fosser  invitati  a  certi  e  non  dubbi  gua- 
dagni e  mercedi;  e  se  alcuni  di  loro  eran  dimandati  perché,  la- 
sciando la  propria  patria,  eran  venuti  in  paese  sì  stranio  e  lontano, 
rispondevano  :  per  aver  la  consolazione  di  vedere  la  faccia  del  lor 
padrone.  Riputavano  come  se  l'imperadore  fosse  il  vero  re  di 
Spagna,  giacché  in  vigor  della  pace  stessa  gli  era  conservato  il  titolo 


1.  dell'inquisitore  .  .  .  cruciata:  il  Tribunale  dell'Inquisizione  di  Spagna 
era  un  tribunale  d'appello  per  reati  compiuti  nel  Regno  di  Sicilia  con 
sede  a  Vienna,  al  quale  «rare  volte  accade  che  da  Sicilia  vengano  ri- 
corsi o  se  gli  somministri  materia  per  aver  da  fare;  e  se  pur  vengono  casi 
da  risolvere,  si  riducono  a  fanatismi,  a  stregherie  di  visionari  ed  a  bestem- 
mie, le  quali  tosto  si  qualificano  per  ereticali,  a  sortilegi,  bigamie  e  cose 
simili;  e  poiché  sovente  manca  affatto  la  materia  da  impiegarsi  agl'Inqui- 
sitori stessi  di  Sicilia,  essi  per  non  rimanere  oziosi  si  danno  in  cerca  di  fare 
e  procurano  di  qualificare  ogni  delitto  per  ereticale  »  così  il  Giannone,  nella 
sua  Breve  relazione  de1  Consigli  e  Dicasteri  della  città  di  Vienna,  in  Opere  pò- 
stume,  ir,  p.  202.  Quanto  al  Tribunale  del  commissariato  generale  della 
crociata,  «  la  sua  principale  incombenza  non  si  riduce  ad  altro,  che  a  rive- 
dere i  conti  della  esazione,  e  tener  ragione  del  numero  de'  biglietti  che  si 
dispensano  in  quel  regno  per  obbligar  quei  sudditi,  pagando  il  dazio,  a  ri- 
ceversi le  indulgenze  plenarie,  ad  eleggersi  proprio  confessore,  che  tosto 
che  sarà  da  essi  eletto,  se  gl'infonde  la  potestà  di  potergli  assolvere  da  tutti 
i  casi  riservati,  a  poter  mangiare  cacio  ed  uova  ed  altri  si  fatti  cibi  ne* 
giorni  quaresimali,  ed  in  altri  dì  in  Italia  vietati,  e  ad  ottenere  simili  agia- 
tezze di  palato  e  comodità  di  vivere  ».  Così  sempre  il  Giannone  nella  rela- 
zione citata,  pp.  202-3. 


134  VITA  DI    PIETRO   GIANNONE 

di  Re  Cattolico  e,  per  questa  cagione,  la  prima  arciduchessa1  la 
chiamavano  principessa  d'Asturia.  E  come  se  Filippo  V  fosse  ri- 
maso  in  Ispagna  governadore  di  que'  regni,  pensavano  che  Cesare 
potesse  a  suo  arbitrio  disporre  di  essi  e  di  quel  principe;  il  quale, 
per  importargli  molto  la  sua  confederazione  ed  amicizia,  sarebbegli 
stato  ubbidiente,  e  come  uom  ligio  secondarebbe  i  suoi  voleri  e 
desideri. 

Quindi  sursero  le  strane  voci  e  fantasie  di  nuove  nozze  e  pa- 
rentadi, affin  di  stringere  maggiormente  questa  alleanza,  e  che 
Timperadore,  avendo  con  sé  la  Spagna,  poteva  burlarsi  di  tutti  gli 
altri  principi  di  Europa.  Questa  fu  la  radice  della  mala  pianta  che 
germogliò  poi  tanti  triboli,  sterpi  e  pruni.  Questa  pace  tirò  seco 
l'alienazione  dell'Inghilterra  e  dell'Olanda  dall' imperadore,  e  l'al- 
leanza che  poi  l'Inghilterra  strinse  colla  Francia  ed  altri  principi,2 
a'  danni  del  medesimo.  Quindi  vennero  gli  sconcerti  di  nuova 
guerra  della  Spagna  con  gl'Inglesi,3  e  poi  la  pace  di  Siviglia4  colla 
Spagna,  Francia  ed  Inghilterra,  escludendone  Timperadore,  e  tanti 
altri  cangiamenti  e  variazioni  di  sistemi,  e  nuove  idee  de'  principi 
d'Europa  sopra  la  misera  Italia  rimasa  per  segno  e  come  bersaglio 
delle  altrui  voglie  ed  invasioni. 

Gli  Spagnoli  di  Vienna  nudrivano  allora  concetti  tutto  diversi  e 
lontani:  che  non  vi  sarebbe  potenza  che  potesse  contrastare  col- 
Timperadore,  avendo  seco  unita  la  Spagna,  lusingandosi  che  fosse 
impossibile  che  questa  potesse  da  lui  staccarsi  e  far  leghe  con  altri 
principi.  Sembrava  ad  essi  esser  un  sol  corpo,  e  reggersi  da  un 
sol  capo,  qual  era  Timperadore;  e  da  ciò  nasceva  che  tutti  gli  Spa- 
gnoli si  riputavano  di  lui  fedeli  sudditi,  anzi  che  l'Italia  non  po- 
tesse reggersi  senza  gli  Spagnoli,  come  quegli  ch'erano  più  esperti 
nell'arte  del  governo  e  nell'amministrazione  della  giustizia,  ne' 
Consigli  e  ne'  tribunali,  degl'Italiani  stessi  e  molto  più  de'  Tede- 
schi.5 Quindi  si  procurava  che,  in  luogo  de'  vecchi  e  degli  estinti, 

i.  la  prima  arciduchessa:  Maria  Teresa.  2.  V alleanza . .  .principi:  la  Lega 
di  Hannover,  del  settembre  1725,  tra  Inghilterra,  Francia  e  Prussia,  a  cui 
aderirono  anche  i  Paesi  Bassi,  la  Svezia  e  la  Danimarca,  contro  la  costitu- 
zione della  Compagnia  di  Ostenda.  3.  gli  sconcerti . . .  Inglesi:  l'assedio  di 
Gibilterra  del  1727.  4.  la  pace  di  Siviglia:  fu  firmata  il  9  novembre  1729, 
tra  Francia,  Spagna  e  Inghilterra.  Vi  aderì,  il  zi  di  quel  medesimo  no- 
vembre, anche  l'Olanda.  5,  anzi . . .  Tedeschi:  Tironia  è  palesemente  ama- 
ra, riferendosi  alla  personale  esperienza  del  Giannone,  il  quale  trovò  in 
Corte  sempre  la  strada  sbarrata  da  Catalani  e  Spagnoli,  nella  sua  ricerca 
di  un  incarico. 


CAPITOLO   SESTO  135 

si  sorrogasser  altri  Spagnoli;  e,  dolendosi  sovente  l'imperadore, 
quando  accadeva  la  morte  di  qualche  ministro  spagnolo,  che  gli 
andavano  mancando  gli  Spagnoli,  essi  intrepidamente  gli  rispon- 
devano che  non  ne  sarebbero  a  Sua  Maestà  mancati  in  eterno, 
poiché  vi  erano  in  Castiglia,  Lione,  Aragona,  Valenza,  Catalogna 
e  negli  altri  regni  di  Spagna  soggetti  eminenti,  da  potergli  impie- 
gare in  suo  real  servizio,  nell'imperial  Corte  e  ne'  Consigli  e  tri- 
bunali d'Italia  e  di  Fiandra.  E  questo  concetto,  che  senza  Spagno- 
li Timperadore  non  potesse  ben  governare  gli  Stati  d'Italia  e  di 
Fiandra,  fu  presso  di  loro  non  men  fermo  e  costante  che  antico, 
finché  ne  fece  acquisto;  poiché  soleami  dire  il  conte  di  Serbellon,1 
consigliero  del  Consiglio  di  Spagna  per  Sicilia,  che  l'arcivescovo  di 
Valenza,  ch'egli  chiamava  suo  zio,  quando  si  mandarono  da  Vien- 
na i  plenipotenziari  nel  congresso  della  pace,  apertosi  in  Cambra!,* 
gli  disse  che  avea  raccomandato  all'imperadore  che  nelle  istruzioni 
che  dovea  dargli,  non  si  fosse  dimenticato  fra  l'altre  aggiungervi, 
che  rimanendo  la  Spagna  al  re  Filippo,  fosse  in  suo  arbitrio  di 
chiamare  a  Vienna  que'  soggetti  spagnoli,  che  gli  bisognassero,  per 
impiegargli  nel  governo  de'  suoi  Stati  d'Italia  e  di  Fiandra;  e,  se 
non  si  potesse  ciò  ottenere  indefinitamente,  almanco  che  si  conve- 
nisse d'un  certo  e  determinato  numero. 

La  pace  di  Vienna  di  quest'anno  produsse  ancora  altri  non  cre- 
duti effetti,  poiché  invece,  secondo  la  comune  credenza  che  distac- 
cati questi  regni  e  provincie  dalla  Spagna  non  si  dovessero  per 
l'avvenire  adoperar  ministri  spagnoli,  non  solamente  vie  più  si 
stabilirono,  ma  resero  il  lor  governo  più  assoluto  e  vigoroso,  ad 
esclusione  di  tutti  gli  altri  che  non  fossero  di  lor  nazione;  anzi 
n'erano  così  gelosi  che  altri  non  se  n'impacciasse,  che  pian  piano 
si  procurava  da'  viceregnati  stessi  di  Napoli  e  di  Sicilia  e  da'  go- 
verni di  Fiandra  e  di  Milano  d'escluderne  ogni  altra  nazione,  per 
fargli  cadere  nelle  loro  mani. 

In  effetto,  il  viceregnato  di  Sicilia  erasi  già  reso  spagnolo,  suc- 

i.  Serbellon:  il  conte  Juan  Basilio  Castelvi  di  Cerbellon,  nipote  ed  erede 
deirarcivescovo  di  Valenza.  Fu  reggente  prima  per  la  Sardegna,  quindi  per 
la  Sicilia  nel  Consiglio  di  Spagna.  Cfr.  H.  Benedikt,  Dos  Kónigreich  Neapel, 
cit.,  p.  240  e  passim.  2.  congresso  . .  .  Cambrai:  il  lungo  e  infruttuoso 
congresso  apertosi  nel  gennaio  del  1722  e  protrattosi  sino  al  1725,  per  il 
regolamento  delle  pretese  imperiali  e  spagnole.  La  soluzione  fu  raggiunta 
al  di  fuori  del  suo  ambito,  nelle  trattative  dirette  e  segrete  che  lo  stesso 
Giannone  ha  rammentato  più  sopra. 


136  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

cedendo  al  duca  di  Montelione  napolitano,  il  marchese  d' Almenara 
spagnolo  ;x  e  doppo  due  trienni  che  lo  tenne,  vi  fu  sustituito  il  conte 
di  Sastago*  pure  spagnolo,  al  quale,  se  le  moderne  rivoluzioni  di 
cose  non  avesscr  tutto  cambiato,  se  gli  era  dato  per  successore  il 
marchese  Rubi,3  catalano.  E  se  non  fossero  accadute  queste  ultime 
mutazioni  di  dominio,  lo  stesso  sarebbe  accaduto  del  regno  di 
Napoli;  e  già  si  era  cominciato;  poiché,  rimosso  il  cardinal  Althan, 
vi  fu  mandato  da  Sicilia  per  viceré  interino  lo  stesso  marchese  di 
Almenara,  che  lo  tenne  sei  mesi,  fino  all'elezione  del  conte  d'Har- 
rac,4  tedesco;  e  si  millantava  che,  non  essendovi  di  altre  nazioni 
persone  idonee  e  capaci,  finalmente  doveasi  ricorrere  a'  Spagnoli, 
de'  quali  era  propria  l'arte  del  governo,  e  spezialmente  de'  vice- 
regnati. 

In  Fiandra  quali  accorgimenti  e  machine  non  si  usarono,  per 
far  che  il  principe  Eugenio  di  Savoia,  che  n'era  governadorc,  con 
proporre  all'imperadore,  che  quo'  popoli  resterebbero  contentis- 
simi, se  avessero  la  consolazione  di  avere  per  govcrnatrice  l'arci- 
duchessa sua  sorella,5  da  far  sì  che  il  principe,  accortosi  delle  loro 
gabale,  resignasse6  il  governo  in  man  di  Cesare,  il  quale  lo  diede 
all'arciduchessa,  che  si  portò  a  Bruselles  per  amministrarlo?  E 

1.  In  .  .  .  spagnolo:  Nicola  Pignatelli,  duca  di  Monteleone,  fu  viceré 
di  Sicilia  dal  17 19.  Gli  subentrò,  nel  1722,  il  marchese  di  Almenara  y 
Palma,  Joaquim  Fcrnandez  Portocarrero,  il  quale  passò  a  sua  volta,  ira 
l'agosto  e  il  dicembre  del  1728,  a  Napoli,  dove  resse  interinaimente  quel 
viceregno.  Sul  suo  governo  in  Napoli  si  veda  quanto  è  narrato  nel  Racconto 
di  varie  notizie,  cit.,  pp.  128-47.  Non  va  confuso  con  l'omonimo  patriarca 
di  Antiochia  (168 1- 1760),  ministro  plenipotenziario  di  Spagna  presso  la 
Santa  Sede,  prefetto  della  Congregazione  delle  Indulgenze  e  infine  creato 
cardinale  nel  concistoro  del  9  settembre  1743.  2.//  conte  di  Sastago: 
Cristóbal  Fernandcz  de  Cordoba,  marchese  di  Aguilar  e  conte  di  Sastago 
y  Murato,  fu  viceré  di  Sicilia  dal  1728,  subentrando  al  Portocarrero.  Fu 
rimosso  e  destituito  dalla  carica  nel  1734,  non  avendo  retto  all'urto  delle 
armate  borboniche.  3.  il  marchese  Rubi:  José  Antonio  Rubi  y  De  Bo- 
xadors  (1669-1741)  fu  viceré  di  Sardegna  dal  1717,  dopo  averne  partecipato 
alla  conquista  alla  testa  delle  truppe  imperiali.  Nel  1734  venne  precipito- 
samente nominato  viceré  di  Sicilia,  in  luogo  del  conte  di  Sastago  (cfr.  p.  250), 
4.  Aloys  Thomas  Raimund  von  Harrach  (1669- 1742),  conte,  viceré  di  Na- 
poli dal  dicembre  1728  al  giugno  1733.  5.  V arciduchessa  sua  sorella:  Ma- 
ria Elisabetta  d'Absburgo  (1 680-1 741),  figlia  dell'imperatore  Leopoldo  I  e 
perciò  sorella  di  Carlo,  ebbe  il  titolo  di  arciduchessa  reggente  di  Fiandra. 
6.  resignasse:  rassegnasse.  Tòltogli  nel  1717,  dopo  la  pace  di  Rastadt,  il  go- 
vernatorato di  Milano,  gli  era  stato  assegnato  quello  delle  Fiandre,  dal 
quale  dovette  dimettersi,  ancora  una  volta  per  gli  intrighi  di  Corte,  nel 
1724,  ottenendo  in  compenso  il  titolo  onorifico  di  «vicario»  in  Italia  del- 
l'imperatore. 


CAPITOLO    SESTO  137 

ciò  non  fu  per  altro,  che  trovandosi  il  principe  di  Cardona  presi- 
dente del  Consiglio  di  Fiandra  in  Vienna,  il  quale,  avendone  il 
principe  Eugenio  il  governo,  mal  potea  col  suo  Consiglio,  che  per 
la  maggior  parte  si  componeva  di  Spagnoli,  disporre  delle  cose  di 
quelle  province  a  lor  arbitrio  e  talento  :  s'ingegnarono  farlo  cadere 
in  man  di  femmina,  affinché  francamente  ne  potesser  disporre  si- 
come  l'evento  il  dimostrò.  E  fu  veduta  allora  cosa  molto  maravi- 
gliosa  e  stupenda,  che  per  compensare  profusamente  al  principe 
Eugenio  il  soldo  e  gli  emolumenti  che  ritraeva  da  quel  governo, 
pensarono  che  Pimperadore  gli  conferisse  una  nuova  carica,  quanto 
splendida  e  illustre  altrettanto  vana  ed  immaginaria,  senza  funzio- 
ne ed  esercizio  alcuno,  qual  fu  quella  di  vicario  generale  d'Italia, 
ma  nel  diploma,  che  pur  si  legge  impresso  nel  Codice  diplomatico 
d'Italia  di  Lùnig,1  fu  chiaramente  espresso  che  non  ne  avesse  es- 
sercizio,  né  tutto  ciò  che  seco  portava  la  carica  di  onori  e  premi- 
nenze, se  non  quando  il  principe  fosse  in  Italia:  cosa  che  ben  pre- 
vedevano esser  impossibile;  poiché,  per  le  altre  gravi  cariche  che 
occupava  il  principe,  come  di  presidente  del  Consiglio  di  guerra,  di 
generalissimo  delle  truppe  cesaree,  d'esser  il  primo  nel  Consiglio  di 
Stato  e  della  Conferenza:  l'imperadore  non  l'avrebbe  mai  allonta- 
nato dalla  sua  persona  ed  imperiai  sua  Corte,  se  non  in  qualche 
grave  spedizione  militare.  Ma  il  più  sorprendente  fu,  che  poco  cu- 
rando della  miseria  nella  quale  si  sarebbero  ridotti  gli  Stati  d'Italia, 
con  altro  nuovo  ed  insopportabil  peso:  nel  diploma  istesso  fu  costi- 
tuito al  principe,  come  vicario  generale  d'Italia,  che  non  si  voleva 
se  non  ideale  ed  immaginario,  il  soldo  di  centoventimila  fiorini  l'an- 
no, da  pagarsigli  sopra  gli  Stati  suddetti,  anticipatamente  e  con  pre- 
lazione a  gli  stessi  soldi  de'  viceré  di  Napoli  e  di  Sicilia  e  del  gover- 
nadore  di  Milano  ;  ripartendosi  la  somma,  la  metà  che  dovesse  pa- 
garla il  regno  di  Napoli,  importante2  fiorini  sessantamila,  e  dell'altra 
metà  trentamila  il  regno  di  Sicilia,  ed  altrettanti  lo  Stato  di  Milano. 
Questi  nuovi  pesi  non  si  ebbe  difficoltà  d'imporgli  sopra  Italia  e 
far  sì  che  puntualmente,  anno  per  anno,  gli  si  fosse  pagata  la  som- 
ma, purché  sodisfacessero  a'  loro  fini  e  raddolcissero  l'animo  esa- 
cerbato del  principe  contro  di  loro;  il  quale,  a  tutto  altro  pen- 
sando, che  per  una  tal  carica,  che  ben  sapeva  dover  riuscire  im- 
maginaria, dovesse  pagarsegli  vero  e  real  soldo,  ricusava  riceverlo; 

1,  J.  Ch.  Lùnig,  Codex  Italìae  Diplomaticus,  cit.,  1,  coli.  335-8.  z.  im- 
portante: assommante  a. 


138  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

ma  Timperadorc  volle  che,  in  tutte  le  maniere,  l'accettasse.  E  fu 
allora  per  Vienna  divolgato  che  il  principe,  quando  la  prima  volta 
gli  furon  portate  le  polizze  del  pagamento,  avesse  detto  che  gli 
Spagnoli  volevano  che  ancor  lui  divenisse  spagnolo;  essendo  fra 
di  essi  introdotto  costume  che  si  profondessero  soldi,  mercedi  e 
pensioni,  non  già  a  chi  avea  servito  o  stesse  in  attuai  servizio  di 
Cesare,  e  colla  sua  opera  conferisse  in  qualche  cosa  al  pubblico 
bene,  ma  unicamente  si  badava  al  maggior  agio,  commodità  e  pri- 
vata fortuna  del  provisto. 

Il  tempo  dimostrò  che  volevano,  che  il  principe  fosse  sol  con- 
tento di  questa  paga,  e  non  s'impicciasse  punto  delle  cose  d'Italia; 
e  n'erano  così  gelosi,  che  se  bene  il  principe  mal  volentieri  s'intri- 
gasse delle  cose  loro,  se  mai  occorreva  che  alcuno  ricorresse  alla 
sua  protezione,  per  ottener  qualche  grazia  0  favore,  questo  istesso 
bastava  per  esserne  escluso,  sicome  sperimentai  nella  mia  persona, 
poiché  sapendosi  che  io  frequentava  la  casa  del  principe,  non  era 
ciò  da'  Spagnoli  molto  gradito,  e  bisognava  con  molta  riserba  e 
destrezza  portarmi,  per  non  guastare  i  miei  fatti,  e  mostrare  una 
total  dipendenza  da  loro;  la  quale  nemmeno  mi  giovò,  perch'essi 
erano  intenti  a  favorire  quelli  della  propria  nazione,  e  non  pensare 
ad  altri. 

Nell'està  di  quest'anno  ebbi  da  Napoli  l'infausto  avviso  della 
morte  del  mio  vecchio  padre:1  rimanendo  mio  fratello  solo  ad 
amministrare  ed  aver  pensiero  delle  robe  ivi  rimase  e  di  tutta  la 
casa.  Ed  inchinando  quest'istesso  anno  verso  il  fine,  avvenne  che 
il  Riccardi,  volendosene  da  Napoli  tornar  in  Vienna,  navigando 
per  l'Adriatico  nella  stagione  molto  avanzata  d'autunno,  corse  for- 
tuna in  quel  mare;  e  dimorato  più  settimane  in  un'isola  deserta 
di  quel  golfo,  prese  porto  a  Venezia,  dove  trattenutosi  pochi  giorni, 
passò  in  Verona,  invitato  e  ben  accolto  dal  marchese  Maffei,*  pen- 
sando ivi  trattenersi  fin  che  non  passasse  la  rigidezza  dell'inverno  ; 
ma,  o  fossero  i  passati  patimenti  e  disaggi  della  sofferta  borasca, 
0  le  troppe  carezze  del  Maffei,  mentr'era  in  Verona,  una  notte,  fu 


x.  Nell'està  .  . .  padre:  ma  si  veda  invece  la  lettera  al  fratello  Carlo  in  data 
13  ottobre  1725  (Giannoniana,  n.a  116):  «Quanto  inaspettata,  altrettanto 
dolorosa  m'è  riuscita  la  novella,  che  in  questa  settimana  mi  dà  della  morte 
del  nostro  vecchio  padre».  Evidentemente  la  memoria  ha  fatto  qui  difetto 
al  Giannone.  2.  Lo  storico,  erudito  e  antiquario  Scipione  Maffei  (1675- 
I75S)»  una  delle  figure  di  maggior  rilievo  del  nostro  Settecento. 


CAPITOLO    SESTO  139 

assalito  da  apoplessia  così  grave,  che  in  pochi  momenti  gli  tolse  la 
vita.1 

Pervenuta  la  rea  novella  di  questa  improvvisa  morte  a  Vienna, 
dovendosi  provveder  la  carica  di  avvocato  fiscale,  che  rimaneva 
vacante,  i  Napolitani  si  credevano  di  poterla  ottenere  e  si  facevano 
innanzi:  lo  stesso  fecero  i  Siciliani,  i  quali  pretendevano  che,  aven- 
dola prima  ottenuta  un  milanese,  qual  fu  Belgredi,2  dipoi  un  napo- 
litano, qual  era  Riccardi,  dovea  ora  conferirsi  ad  un  siciliano.  I 
pretensori  italiani  erano  molti,  lusingandosi  che,  sicome  prima  non 
era  stata  provveduta  se  non  a  nazionali  di  que'  regni  e  Stati,  sopra 
i  quali  si  raggirava  il  Consiglio  di  Spagna:  così  ora  non  se  gli  do- 
vesse fare  questo  torto,  con  vederla  passata  negli  Spagnoli. 

Gli  amici  mi  consigliavano  con  gli  altri  a  doverla  ancor  io  pre- 
tendere ;  e  tanto  più,  che  in  ciò  dal  principe  Eugenio  ne  avrei  potuto 
ottenere  ogni  mediazione  e  favore.3  Sicome,  avendolene  io  fatto 

1.  una  notte  .  .  .  vita:  cfr.  la  lettera  del  Maffei  ad  Antonio  Vallisnieri, 
del  29  marzo  1726:  «Il  Sig.  Riccardi  non  può  più  portare  le  vostre 
copie  se  non  all'altro  mondo,  per  il  quale  ha  fatto  viaggio  la  passata 
notte.  Il  poveretto  è  stato  colto  da  un  colpo  di  apoplessia,  che  in  mez- 
z'ora l'ha  finito,  senza  ch'abbia  potuto  dir  parola.  Questo  accidente 
m'ha  grandemente  afflitto.  Benché  stravagante  in  alcune  opinioni,  e  giu- 
dica, egli  era  però  uno  di  gran  letterati  che  io  abbia  mai  conosciuto,  e 
dovevo  avergli  obligo  per  l'affetto  e  stima,  che  mostrava  verso  di  me» 
(Epistolario,  a  cura  di  C.  Garibotto,  1,  Milano  1955,  pp.  Si 3-4)-  Ma  si 
veda  anche  la  lettera  del  Giannone  al  fratello,  del  30  aprile  (Giannoniana, 
n.°  143),  nella  quale  egli  dice  di  sperare  che  il  Riccardi  sia  morto  ignorando 
quanto  si  è  detto  contro  di  lui  negli  ultimi  tempi.  Le  sue  esequie  diedero 
occasione,  a  Napoli,  ad  una  manifestazione  di  solidarietà  con  le  idee  che 
egli  aveva  professato,  tanto  da  essere  espressamente  portate  ad  esempio 
della  difficile  situazione  in  cui  versava  la  Chiesa  nel  Regno,  nell'istruzione 
della  Segreteria  di  Stato  per  il  nuovo  nunzio  a  Vienna,  Passionei:  «Mori 
il  Riccardi:  el  Ministero  con  tutti  1  curiali  in  corpo,  e  buon  numero  di 
prima  nobiltà,  celebrò  con  ovazione  e  pompa  funebre  solennissimo  fune- 
rale .  .  .  onore  non  mai  fatto  a  i  patrizi  più  benemeriti  della  patria  ne' 
grandi  affari  o  di  guerra  o  di  pace  »  (Archivio  Segreto  Vaticano,  Nunziatura 
di  Germania,  501,  ce.  193,  istruzione  del  28  gennaio  1731).  2.  Belgredi: 
Giambattista  Belcredi,  conte,  fu  fiscale  nel  Consiglio  di  Spagna  dal  17 13 
(cfr.  H.  Benedikt,  Dos  Konigreich  Neapel,  cit.,  p.  227),  avendo  sotto  di  sé, 
come  profiscale,  il  Riccardi.  Sulle  cupidigie  spagnole  alla  morte  del  Ric- 
cardi si  veda  la  lettera  del  Giannone  al  fratello,  del  18  maggio  1726  (Gian- 
noniana, n.°  147).  Lo  stipendio  del  Riccardi,  in  qualità  di  fiscale,  era  di 
seimila  fiorini,  stipendio  al  quale  andavano  sommati  i  tremila  che  gli  spet- 
tavano in  quanto  prefetto  della  Biblioteca  Palatina:  cfr.  p.  141.  3.  Gli .  . . 
favore:  il  16  marzo  di  quell'anno  il  Giannone  aveva  scritto  al  fratello: 
«contro  il  mio  naturale  mi  sono  avvezzato  a  far  tanto  del  corteggiano,  che 
non  me  l'avrei  mai  creduto,  o  che  da  me  stesso  avessi  potuto  prometter- 
melo» (Giannoniana,  n.°  138). 


140  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

motto,  non  me  ne  riputò  immeritevole,  anzi  mi  disse,  che  gli  avessi 
portato  il  memoriale,  ch'egli  l'avrebbe  dato  in  mano  di  Sua  Maestà, 
con  raccomandarmici,  sicome  feci;  ed  il  principe,  che  fra  l'altre 
ammirabili  sue  doti  adempiva  esattamente  quanto  prometteva,  non 
mancò  di  parlarne  all'imperadore  e  darlcne  memoria. 

I  Tedeschi  che  frequentavano  la  Corte,  a'  quali  io  era  ben  noto, 
parimente  procuravano  di  aiutarmi,  per  quanto  essi  potevano; 
ma  io,  con  tutto  ciò,  non  c'entrai  in  alcuna  speranza,  sapendo  che 
dovea  tal  prò  vista  passare  per  le  mani  de'  Spagnoli,  i  quali  ne 
avrebbero  escluso  ogni  altro,  per  farla  cadere  in  persona  d'un  loro 
nazionale.  Essi,  a  questo  fine,  lasciarono  passare  la  furia  e  gl'im- 
pegni di  tanti,  né,  per  più  e  più  mesi,  si  parlava  di  provvederla, 
dando  a  credere  a  molti,  che  questa  carica  fosse  inutile  nel  Consi- 
glio, poiché  tutti  i  reggenti  erano  fiscali;  ma  all'imperadore  la 
predicavano  per  utilissima  e  necessaria;  sicché,  doppo  passati  quasi 
due  anni,  quando  altri  meno  sei  pensava,  si  vide  provveduta  in 
persona  del  reggente  Alvarez,1  spagnolo  di  Salamanca,  il  quale 
dimorava  in  Napoli  con  posto  di  reggente  di  quel  Consiglio  Col- 
laterale. 

Rimaser  tutti  sorpresi,  in  vedere  che  dal  supremo  Consìglio  di 
Napoli  si  prendesse  un  reggente,  per  occupare  in  Vienna  la  carica 
di  fiscale,  quando  prima,  ed  in  Vienna  istessa  ed  in  Madrid,  nel 
Consiglio  d'Italia,  si  chiamavano  da  Napoli  i  consiglieri  di  Santa 
Chiara  ed  i  presidenti  della  Regia  Camera,  non  già  i  reggenti,  ad 
occupare  gli  stessi  posti  di  reggentati,  non  pur  di  fiscale,  solito  ad 
eleggersi  dall'Ordine  degli  avvocati;  tanto  maggiormente,  che  il 
fiscal  di  Vienna  avea  da  contrastar  co'  secretari  di  precedenza, 
poiché  questi  pretendevano,  ch'essendo  essi  decorati  col  titolo  di 
consiglieri,  doveano  nel  sedere  ed  in  ogni  funzione  precedere  al 
fiscale.  Ma  gli  Spagnoli  altramente  l'intendevano,  poiché,  per  far 
entrare  nella  loro  nazione  quella  carica,  ch'era  stata  prima  occupata 
dagli  Italiani,  scelsero  tutto  un  reggente  del  Collaterale  di  Napoli, 
spagnolo,  perché  niuno  potesse  con  lui  contendere  per  graduazione 
e  per  merito,  qualificandolo  ancora  per  un  gran  cattedratico:  che 
non  si  sapeva,  e  poi  si  seppe,  che  era  in  sua  gioventù  stato  catte- 
dratico, non  già  in  Salamanca,  ma  a  Pavia,  procuratagli  questa 
cattedra  da  un  suo  fratello,  che  si  trovava  senatore  in  Milano,  dove 

1.  reggente  Alvarez:  cfr.  la  nota  2  a  p.  92. 


CAPITOLO   SESTO  14I 

queste  cattedre  soglionsi  dispensare  a'  figliuoli  o  parenti  di  que' 
ministri,  come  se  fossero  benefìci  semplici. 

Entrata  questa  carica  nella  nazione  spagnola,  non  ne  uscì  mai 
più  :  poiché,  passato  dapoi  l' Alvarez  ad  esser  reggente  per  Milano  ; 
fu  rifatto  fiscale  Esmandia,1  pure  spagnolo,  che  si  trovava  senatore 
a  Milano;  e  quando  prima  non  gli  era  assignato  altro  soldo,  se 
non  di  seimila  fiorini  l'anno,  poiché  al  Riccardi  se  gli  pagavano 
novemila,  esiggendo  gli  altri  tremila  come  altro  bibliotecario  cesa- 
reo, occupata  che  fu  dagli  Spagnoli,  il  soldo  si  accrebbe  a  novemila, 
come  pagavasi  a  tutti  gli  altri  reggenti. 

Col  progresso  degli  anni,  sicome  sempre  più  crescevan  l'avi- 
dità e  '1  potere  degli  Spagnoli  nell'imperial  corte  di  Vienna,  ed  alla 
svelata  eran  da  essi  trattati  gli  Stati  d'Italia  come  propri  patri- 
moni; così  si  scemavano  le  speranze  de'  nazionali  di  quella,  i  quali 
assolutamente  doveano  dagli  Spagnoli  mendicar  grazie  e  favori,  e 
raccogliere  le  miche  che  cadevano  dalle  lor  mense. 

A  me  non  solo  portava  nocumento  questo  sistema,  ch'era  un 
mal  comune,  ma  si  opponeva  la  corte  di  Roma,  la  quale  sotto 
Benedetto  non  cessava  di  perseguitarmi;  tanto  maggiormente  che 
alla  giornata,  nel  processo  del  tempo,  la  mia  opera  era  da  tutte 
le  nazioni  ricercata  ed  avidamente  letta  e  commendata;  ed  in  Na- 
poli avea  rischiarati  molti,  spezialmente  la  gioventù;  sicché  co- 
minciavano nelle  loro  menti  a  germogliare  altre  idee  di  quelle,  che 
i  libracci  forensi  e'  goffi  canonisti  le  tenevan  ingombrate,  e  le 
scritture  che  uscivano  ne'  tribunali,  per  occasione  di  qualche  con- 
tesa d'immunità  locale  0  personale,  ovvero  reale  delle  persone  e 
beni  ecclesiastici,  erano  dettate  secondo  i  veri  princìpi  d'una  solida 
giurisprudenza.  La  gente  si  rese  più  cauta  di  colmare  di  maggiori 
averi  e  ricchezze  le  chiese  ed  i  monasteri,  e  si  procurava  d'impedirgli 
ulteriori  acquisti  di  beni  stabili;  e  moltissimi  eran  ricreduti  di 
tante  vane  ed  inutili  superstizioni,  rendendosi  più  accorti  per  elu- 
dere le  ippocrisie  e  li  sottili  artifici  de'  preti  e  de'  monaci. 

In  Fiandra,  spezialmente  in  Bruselles  e  Lovanio,  dove  più  es- 
semplari  della  mia  Istoria  eran  pervenuti,  era  da  molti  stanca  e 
riletta;  sicché  si  scrivea  da'  Fiaminghi  a  Vienna,  ch'essi  ora  sape- 
vano più  del  regno  di  Napoli,  che  delle  proprie  loro  provincie;  e 
poiché  io,  in  più  luoghi  dell'opera,  non  lasciai  di  far  onorata  me- 

1.  Esmandia-.  le  uniche  notizie  su  questo  personaggio  sono  quelle  qui  ri- 
ferite dal  Giannone. 


142  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

moria  di  Van-Espen,  famoso  professore  di  Lovanio  e  celebre  per  le 
insigni  sue  opere,1  questo  savio  e  venerando  vecchio,  che  ancor 
vivea,  me  ne  fece  render  le  grazie,  ed  avendo  allora  dato  alla  luce 
quel  dotto  libro  De  recursu  ad  principem,7,  me  ne  mandò  in  dono 
un  esscmplare,  perché  io  avessi  di  lui  qualche  memoria. 

In  Francia  non  era  meno  ricercata,  e  da  Parigi  ne  vennero  più 
richieste  al  cavalier  Garelli,  il  quale  non  mancò,  di  que*  essem- 
plari  che  io  feci  venire  a  Vienna,  di  mandarne  alcuni  a'  suoi  amici, 
che  gli  richiesero. 

Tutte  queste  cose  maggiormente  irritavano  i  curiali  di  Roma, 
talché  le  loro  persecuzioni  si  resero  più  fiere  ed  incessanti;  ed 
arrivò  la  loro  animosità  ed  odiosa  malevolenza  a  tale  estremità, 
che  tutti  quelli  che  leggevano  quest'Istoria,  e  mostravano  esser 
persuasi  della  sua  dottrina,  preti  o  monaci  che  si  fossero,  si  acqui- 
stavano la  loro  indignazione,  e  gli  chiamavano,  per  rendergli  odiosi 
alla  corte  di  Roma,  «  giannonisti  ».  Come  se  io  insegnassi  cose  nuo- 
ve, e  non  già  vecchie,  scritte  da'  più  accurati,  dotti,  seri  e  gravi 
scrittori,  che  io,  fuor  del  costume  degli  altri  storici,  additava  nel 
margine,  perché  ciascuno  potesse  riscontrargli  e  non  si  abbando- 
nasse alla  sola  mia  narrazione;  sicché  io  soleva  dire  a  coloro  che 
mal  riferivano,  che  mi  mostrassero  qual  fosse  questa  nuova  dottri- 
na che  io  insegnava,  giacché  mi  riputavano  capo  d'una  nuova  set- 
ta. Ma  per  mia  buona  sorte  le  loro  detrazioni  e  maladicenzc  sparse 
per  Italia,  e  le  loro  insidiose  gabale  non  poterono  tesserle  a  questi 
tempi  neirimperial  corte  di  Vienna,  per  un'occasione  a  me  favo- 
revole: e  fu,  che  non  ostante  che  Timperadorc,  per  i  preceduti 
trattati  avuti  col  pontefice  Innocenzio  XIII,  avesse  restituito  alla 
Chiesa  di  Roma  Comacchio3  su  la  fiducia  che  non  si  sarebbe  fatta 

1.  Van-Espen  . . .  opere:  cfr.  la  nota  3  alle  pp.  41-2.  2.  De  recursu  adprinci- 
pem  :  vedilo  negli  Opera  omnia  canonica,  integra  et  completa,  Venetiis  1769,  vr, 
n.°  5.  Cfr.  anche  la  lettera  del  Giannone  al  fratello,  in  data  29  agosto  1725 
(Giannoniana,  n.°  ioo),  in  cui  avvisa  di  aver  ricevuto  l'opera  in  omaggio  dal- 
l'autore. 3.  Vimperadore  . . .  Comacchio :  le  Valli  Comacchiesi,  considerate 
feudo  imperiale  distinto  dal  ducato  di  Ferrara,  erano  state  occupate  dalle 
truppe  del  generale  Daun  al  cornando  di  Claude  de  Bonneval  nel  1708 
e  avrebbero  dovuto  essere  restituite  al  duca  d'Este,  al  quale  erano  ap- 
partenute sino  alla  devoluzione  alla  Chiesa  del  ducato  di  Ferrara.  Sul 
problema  storico-giuridico  di  questo  possesso  si  accese  una  vivace  po- 
lemica, che  ebbe  come  principale  protagonista  Ludovico  Antonio  Mura- 
tori, in  quegli  anni  consultore  del  duca  di  Modena  Rinaldo  d'Este,  ma 
alla  quale  parteciparono  largamente  anche  giuristi  tedeschi  e  persino  il 
Leibniz.  Restate  sotto  occupazione  austriaca  sino  al  1725,  le  Valli  furono 


CAPITOLO    SESTO  I43 

eseguire  in  Sicilia  la  bolla  di  papa  Clemente  XI  intorno  all'aboli- 
zione del  tribunale  della  Monarchia,1  ma  che  le  cose  fossero  in 
quello  stato,  nel  quale  prima  erano,  né  sopra  ciò  si  tentasse  alcuna 
novità;  papa  Benedetto,  istigato  da  alcuni  ippocriti  zelanti,  senza 
participazione  del  collegio  de5  cardinali,  restituito  che  fu  Comac- 
chio  mandò  a'  vescovi  di  Sicilia  suoi  brevi,  co'  quali  se  gl'impone- 
va  ch'esercitassero  lor  giurisdizione  in  quell'isola  secondo  il  pre- 
scritto della  bolla  di  Clemente,  niente  curando  gli  antichi  stili  ed 
usi,  che  e'  riputava  abusi,  del  tribunal  della  Monarchia;  ed  il 
modo  che  tenne  di  far  pervenire  in  man  de'  vescovi  i  brevi  fu  di 
mandar  il  piego,  nel  qual  erano  chiusi,  al  cardinal  Sinfuego  mini- 
stro cesareo,  perché  lo  istradasse  per  Sicilia;  ed  a  lui,  come  arci- 
vescovo di  Monreale,2  fu  drizzato  altro  consimile  particolar  breve, 
affinch'eseguisse  quanto  in  quello  si  conteneva.  E  quel  buon  cardi- 
nale, per  ubidire  a  Sua  Santità,  si  ricevè  il  breve  e  mandò  il  piego 
in  Sicilia  all'arcivescovo  di  Palermo,3  a  cui  era  drizzato;  il  quale  di- 
spensò i  brevi  a  tutti  i  vescovi  dell'isola,  mettendola  in  iscompi- 
glio  per  la  novità  che  si  pretendeva  introdurre,  in  tempo  che  i 
Siciliani  men  se  '1  pensavano. 

Pervenuta  all'imperadore  una  tal  notizia,  se  ne  sdegnò  forte- 
mente; ed  ancorché  il  Gran  Cancelliere,  conte  di  Zinzendorf,  ed  il 
marchese  di  Rialp,  l'uno,  per  non  guastar  i  suoi  trattati,  che  avea 

infine  sgomberate  e  riconsegnate  al  pontefice,  in  cambio  del  riconosci- 
mento da  parte  di  questi  della  Prammatica  Sanzione,  con  la  quale  Pim- 
peratore  intendeva  assicurare  la  continuità  del  proprio  trono.  In  ricompen- 
sa per  il  buon  esito  delle  trattative  diplomatiche,  Benedetto  XIII  elevò  alla 
porpora  il  figlio  del  conte  Sinzendorff,  Philipp  Joseph  Ludwig.  Sulla  polemi- 
ca comacchiese  e  la  sua  importanza  per  il  movimento  giurisdizionalista,  cfr. 
S.  Bertelli,  Erudizione  e  storia  in  Ludovico  Antonio  Muratori,  Napoli  i960, 
pp.  100-74.  1.  la  bolla, . .  Monarchia-,  sull'intero  problema  si  veda  G. 
Catalano,  Le  ultime  vicende  della  Legazia  Apostolica  di  Sicilia.  Dalla  con- 
troversia liparitana  alla  legge  delle  Guarentigie  (1711-1871),  Catania  1950; 
nonché  l'ormai  vecchia  opera  di  F.  Scaduto,  Stato  e  Chiesa  nelle  Due  Sicilie 
dai  Normanni  ai  nostri  giorni,  Palermo  1887.  Qui  basti  ricordare  che  Filip- 
po II  nel  1579  aveva  istituito  in  Sicilia  un  tribunale  stabile,  denominato 
ludex  monarchiae  siculae,  al  quale  delegava  l'esercizio  della  giurisdizione 
ecclesiastica,  in  nome  della  monarchia  sicula,  di  quel  diritto,  cioè,  preteso 
dai  re  di  Sicilia,  di  esercitare  nel  loro  regno  anche  il  supremo  potere  eccle- 
siastico, in  quanto  rappresentanti  della  Santa  Sede.  Il  20  febbraio  17 15 
Clemente  XI  soppresse  il  tribunale  con  la  costituzione  Romanus  Pontifex. 
2.  Sinfuego  .  .  .  Monreale:  il  Cienfuegos,  dopo  un  breve  possesso  della  dio- 
cesi di  Catania  (1722- 1725),  era  stato  traslato  alla  sede  di  Monreale,  che 
mantenne  sino  alla  morte  (pur  risiedendo  in  Curia,  quale  rappresentante 
dell'imperatore).  3.  arcivescovo  di  Palermo:  Joseph  Gasch  (1653  circa- 
1729). 


144  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

in  Roma  del  cardinalato  dell'abate  Zinzendorf,  suo  figliuolo,1  aven- 
dosi procurata  la  nomina  del  re  di  Polonia;2  l'altro,  per  non  inter- 
rompere le  speranze  del  cardinalato  all'arcivescovo  di  Salerno,  suo 
fratello,  ed  il  corso  delle  fortune  che  si  prometteva  per  l'abate 
Pcrlas,  suo  figliuolo,  e  suoi  nepoti  che  teneva  in  Roma3  s'ingegnas- 
sero di  raddolcire  il  giusto  sdegno  di  Cesare  ;  nulladimanco  -  poi- 
ché tutto  il  Consiglio  di  Spagna  fortemente  si  opponeva  alla  novità, 
riputandola  un  manifesto  attentato,  e  di  continuo  rappresentava  a 
Sua  Maestà  che  non  si  dovesse  soffrire,  ma  che  le  cose  rimanessero 
in  Sicilia  nel  primiero  stato,  cassando  1  brevi  mandati,  né  permet- 
tendo a'  vescovi  di  attentar  cose  nuove:  l'imperadore  si  appigliò 
a  questo  savio  lor  parere  e  comandò  a  quel  viceré  che  impedisse 
ogni  novità  che  mai  tentassero. 

A  questa  briga,  poco  dapoi,  se  n'aggiunse  un'altra,  e  fu  per  l'oc- 
casione che  il  cardinal  Annibale  Albani  fece  in  magnifica  forma 
imprimere  un  nuovo  Bollarlo*  di  tutte  le  costituzioni,  bolle,  brevi 
ed  infino  i  biglietti,  che  papa  Clemente  suo  zio,  in  tempo  del  suo 
pontificato,  avea  fatti,  li  quali,  raccolti  in  questo  volume,  si  pre- 
tendeva farli  passare  per  leggi  universali  e  che  servissero  prò  regi- 
mine urbis  et  orbisi  nel  quale  erano  inserite  più  bolle,  brevi  ed  atti 
pregiudizialissimi  alle  reali  preminenze,  e  spezialmente  al  tribu- 
nale della  Monarchia  di  Sicilia;  sicché,  esposto  a  gli  occhi  di  Cesare, 
co*  fogli  segnati  dove  si  leggevano  tante  offese  e  strapazzi,  che  si 
facevano  non  meno  de'  reali  diritti,  che  de'  ministri  di  Sua  Mae- 
stà, ciò  pur  mosse  l'indignazione  di  Cesare  a  far  sì  che  quello 
non  fosse  ricevuto  in  tutti  i  regni  ed  ampi  suoi  domìni  ;  ed  ancor- 
ché dal  Consiglio  di  Spagna  si  rappresentasse  che  dovesse,  con 
pubblico  editto,  proibirsi  ne'  suoi  Stati,  e  l'imperadore  mostrasse 
d'uniformarsi  al  lor  parere,  nulladimanco  il  marchese  di  Rialp, 
per  man  di  cui,  come  secretano  di  Stato,  dovean  passar  gli  ordini, 
gli  andò  differendo  in  guisa,  che  col  tempo  raffreddate  le  cose  e 
l'imperadore  ad  altro  inteso  :  finalmente  tanti  romori  si  ridussero, 
che  il  marchese  di  Rialp  scrivesse  una  lettera  al  viceré  di  Sicilia, 

i.  per  . . .  figliuolo',  trattative  che  ebbero  buon  esito,  come  già  s'è  detto, 
alla  nota  4  di  p,  99.  z.  re  di  Polonia-.  Augusto  II  il  Forte  (1679-1733), 
già  elettore  di  Sassonia,  salito  sul  trono  polacco  nel  1697.  3.  V altro  . .  . 
Roma:  sulle  ambizioni  della  famiglia,  e  in  particolare  di  Paul  Perlas  de 
Vilhena,  fratello  del  ministro,  e  di  Juan,  figlio  di  questi,  si  vedano  le 
note  2e3  ap.  114.  4.  Clementi  Undecimi  pont.  max.  Bullarium)  Romae 
1723. 


CAPITOLO   SESTO  145 

colla  quale,  con  molta  cautela  e  secretezza,  se  l'imponeva,  che  nel- 
l'immissione de5  libri  in  quell'isola,  avvertisse  di  non  farci  intro- 
durre il  Bollano  dementino,  con  darne  ordini  secreti  a'  guardiani 
de'  porti.  Ciò  che  niente  giovò  ;  poiché  si  intese  dapoi,  che  in  Pa- 
lermo, Messina  e  nell'altre  città  di  Sicilia,  se  n'erano  introdotti  e 
se  n'introducevan  tanti,  quanti  n'erano  da  Roma  mandati. 

Pendenti  queste  brighe,  e  mostrando  la  corte  di  Vienna  esser 
mal  soddisfatta  della  corte  di  Roma,  o  contro  di  me  non  s'indriz- 
zavan  mali  uffici,  o  se  pur  si  tentavano  erano  infruttuosi,  mal  in- 
tesi e  non  curati. 


11 

[1726] 

Intanto  eravamo  già  nell'anno  1726.  Ed  io,  a  mio  danno,  avea 
sperimentato  quanto  fossi  stato  mal  consigliato,  in  volere,  essendo 
solo,  prender  casa  da  per  me,1  e  mettermi  nelle  mani  di  servitori 
stranieri,  che  avesser  cura  delle  mie  cose  domestiche:  non  solo  la 
spesa  erami  cresciuta  e  resa  insopportabile,  ma  era  pessimamente 
servito  e,  quel  che  fu  peggio,  due  volte  fui  rubato  :  una  da  un  ser- 
vitore trentino,  l'altra  da  un  tedesco  di  Linz,  capitale  dell'Austria 
superiore;  i  quali  se  ne  scapparon  via,  doppo  avermi  votati  i 
scrigni,  dove  teneva  riposto  qualche  contante,  e  se  bene  non  fosse 
molto,  nulladimanco  a  me  che  non  avea  altro,  se  non  quello  che 
m'era  somministrato  dalle  mie  mesate,  ogni  scossa  di  queste  mi 
metteva  a  terra. 

Conobbi  da  ciò,  che  saviamente  facevan  coloro,  i  quali,  non  aven- 
do grossi  stipendi  che  potessero  sostener,  per  sé  soli,  la  spesa  d'una 
casa,  procuravano  entrar  in  costo  in  un'altra  e,  communicate  le 
facoltà,2  vivere  più  agiatamente,  senza  darsi  in  mano  de'  servidori, 
per  esser  rubati  e  mal  serviti.  A  me  si  aggiunse,  per  farmi  risolvere 
a  questo  partito,  una  particolar  cagione  ;  e  fu  che,  avendo  contratta 
amicizia  e  familiarità  colla  casa  del  vecchio  Plekner  e  conosciuta 
la  sua  famiglia,  che  si  componeva  di  donne  discrete,  da  bene  ed 
affezionate,  volentieri  mi  deliberai  ad  unirmi  con  loro:  e  tanto 
maggiormente  che,  oltre  al  maggior  aggio  e  cura,  che  per  le  mie 
cose  domestiche  n'avrei  ritratto,  avrei  potuto  molto  giovarle  e  sol- 

x.  Intanto  .  .  .me:  cfr.  p.  131.     2.  communicate  le  facoltà:  messi  in  comune 
i  mezzi  di  sostentamento. 


146  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

levarle  dalle  strettezze,  nelle  quali  erano  cadute  doppo  la  morte  di 
quel  buon  vecchio. 

Erasene  egli  morto  nel  mese  di  ottobre,  a  Pettersdorf,  dell'anno 
1724,  lasciando  la  povera  vedova  Leiscenhoffen,  sua  figliastra  con 
tre  donzelle,  sue  figlie;  poiché  un'altra,  la  maggiore  erasi  già  ma- 
ritata, ed  un  figliuol  maschio  s'incamminò  per  la  strada  della  mili- 
zia. L'afflitta  vedova,  con  queste  tre  sue  figlie,  perduto  il  marito, 
e  poi  il  padrigno,  vivea  senz'altro  appoggio  che  di  picciole  sovven- 
zioni, che  l'eran  somministrate  dalla  principessa  Montecuccoli,1 
grata  alla  memoria  ed  a'  servigi  prestatigli  dal  vecchio  Plekner, 
quando  era  in  fiore,  e  sopra  una  picciola  pensione,  assignatale  poi 
dall'imperadore,  nella  Camera  di  Vienna.  E  se  bene  il  Plekner 
avesse  lasciato  un  figlio  già  stabilito,  essendo  consigliere  della  Ca- 
mera, nulladimanco  da  questi  non  era  da  sperar  soccorso  ;  poiché, 
avendo  presa  moglie  e  tenendo  figli,  faceva  assai  a  provvedere  alla 
propria  famiglia. 

Si  pensò,  adunque,  che  appigionata  una  casa  capace,  nella  strada 
d'Italia,*  con  stanze  separate,  sicché  non  si  ricevesse  0  si  dasse 
vicendevolmente  incommodo  e  soggezione  veruna,  si  vivesse  uniti 
e  la  tavola  fosse  comune,  sicome  si  pose  in  effetto  ne'  princìpi  di 
maggio  di  quest'anno,  somministrando  io  il  piggione  per  le  mie 
stanze  e  quanto  bisognava  per  le  serve  e  vitto.  Sperimentai  che, 
se  bene  non  vi  fosse  risparmio  e  mi  costasse  la  stessa  spesa,  che  mi 
bisognava  essendo  solo,  con  tutto  ciò  era  trattato  meglio,  che  se 
fossi  in  Napoli  in  casa  propria,  ben  aggiato  e  pulitamente  servito  ; 
e  sopra  tutto  piacevami  che  fossi  di  gran  giovamento  e  sollievo  a 
quelle  infelici,  le  quali,  molto  grate  e  riconoscenti  di  quanto  io  le 
giovava,  non  è  da  esprimere  l'affezione  e  la  cordialità,  colla  quale 
io  era  trattato. 

Fra  le  tante  mie  persecuzioni  e  sciagure,  par  che  la  divina  prov- 
videnza mi  avesse  serbata  questa  unica  consolazione  e  conforto: 
di  aver  trovate  in  Vienna  persone  cotanto  amorevoli  ed  affezionate, 
che  con  difficoltà  avrei  potuto  trovare  fra'  miei,  in  Napoli.  Era 
la  LeichsenhofTen  madre,  una  donna,  quanto  d'età  avanzata,  al- 
trettanto onesta,  divota  e  d'incorrotti  costumi.  Le  sue  occupazioni 

1.  principessa  Montecuccoli:  la  moglie  del  conte  di  Montecuccoli,  Ercole  Pio 
(1 664-1729),  feldmaresciallo  dell'impero,  a.  strada  d'Italia  :  la  Italienische 
Strasse.  Si  veda  inoltre  la  lettera  al  fratello  del  iz  ottobre  1726  (Gianno- 
niana,  n.°  167). 


CAPITOLO    SESTO  147 

non  erano  che,  di  continuo,  o  nelle  chiese  0  in  casa,  pregare  a  Dio 
ed  a'  santi:  caritatevole  verso  i  poveri,  a'  quali  somministrava  al- 
cuni salutari  rimedi,  ch'essa  fabbricava  colle  sue  proprie  mani, 
per  la  perizia  che  n'avea,  secondo  il  costume  di  alcune  case  tede- 
sche, nelle  quali  le  donne  si  applicano  volentieri  a  tali  lavori,  non 
si  sentiva  da  lei  parola,  che  non  fosse  modesta  e  savia;  nemica 
delle  nuove  rilasciate  usanze,  che,  alla  giornata,  vedeva  introdotte 
in  Vienna,  e  rigida  osservatrice  dell'antiche.  Ma  molto  più  risplen- 
devano le  sue  virtù,  per  l'educazione  colla  quale  avea  allevate  le 
tre  sue  figliuole,  gentili,  modeste,  discrete,  ben  accreanzate  e  di 
costumi  santissimi,  che  tiravan  la  benevolenza  ed  amore  di  quanti 
le  trattavano. 

Ma  sopra  le  altre  sorelle  s'innalzava  la  mezzana,  Ernestina  di 
Leischsenhoffen,1  la  quale  alla  onestà,  modestia,  civiltà  ed  altre  e- 
roiche  virtù,  delle  quali  era  ornata,  accoppiava  in  tutte  le  cose  una 
somma  diligenza,  sincerità,  acutezza  e  prudenza,  e,  sopra  tutto, 
d'esser  discreta,  economica  ed  in  tal  grado  di  perfezione,  che, 
essendo  ancor  giovinetta,  il  vecchio  Plekner,  suo  avo,  aveale  ap- 
poggiata l'economia  della  sua  casa,  che  trattava  con  tanta  saviezza, 
avvedutezza  e  sollecitudine,  che  mi  soleva  dire  quel  buon  vecchio, 
che  se  non  avesse  in  sua  casa  la  Frailé1  Ernestina,  che  la  reggesse, 
avrebbe  in  istato  assai  peggiore  passati  gli  anni  della  sua  vecchiaia; 
ma  che  Iddio  l'avea  lasciato  almanco  questo  conforto,  d'aver  per- 
sona non  men  fedele  che  affezionata,  la  quale  tenesse  esatta  cura 
non  men  del  suo  corpo,  che  delle  cose  sue  familiari  e  domesti- 
che. Questa  savia  donzella,  adunque,  avendo  preso  sopra  di  sé  la 
cura  de'  miei  affari  domestici  e  di  tutto  ciò  che  si  apparteneva  ad 
abiti,  mobili  di  casa  ed  ogni  altro  che  mi  bisognasse,  e  facendolo 
con  molta  affezione,  lealtà  ed  esattezza,  mi  alleggerì  di  molte  fa- 
stidiose cure,  alle  quali,  massimamente  in  paese  forastiere,  io  era 
inetto  ed  impaziente,  sottraendomi  dagl'inganni  e  furberie  de' 
servidori:  sicché,  d'allora  in  poi,  non  attesi  che  a'  miei  studi  ed  a 
procurare  che  non  si  differisse  di  vantaggio  l'adempimento  di 
quanto  nell'imperial  decreto  stavami  promesso. 

Essendo  io  sì  ben  aggiato  ed  in  mezzo  a'  Tedeschi,  ciascuno 
crederà  che  io  avessi  dovuto  perfettamente  apprendere  la  lor  lin- 
gua; ed  in  vero,  tali  e  tanti  furono  gli  sforzi  delle  mie  commensali, 

i.  Ernestina  di  Leischsenhqffen:  vedi  a  p.  5.     2.  Fraile:  deformazione  di 
Fràulein. 


I48  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

le  quali  s'ingegnavano  che  io  dovessi  impararla,  che  cosi  avrebbe 
dovuto  succedere;  ma  avvenne  il  contrario,  poiché,  invece  d'ap- 
prender io  la  lingua  tedesca,  impararono  esse  l'italiana;  sicché,  tol- 
tone la  madre,  ch'era  d'età  molto  avanzata,  le  tre  figlie,  e  spezial- 
mente l'Ernestina,  in  poco  tempo  l'appresero  si  perfetta,  che  spedi- 
tamente poi  la  parlavano.  Da  ciò  avvenne  che  io  non  ci  avessi 
più  cura,  ed  avendo  resa  quasi  tutta  la  casa  italiana,  parlava  sempre 
col  mio  linguaggio,  col  quale  era  ben  inteso;  oltre  che  la  mia  età 
avanzata  non  era  acconcia  a  poter  ridurmi  a  fissarmi  ad  una  sì 
vasta  ed  intricata  lingua,  che  ha  voci  composte  di  tante  consonanti 
e  poche  vocali,  che  mal  si  adatta  alla  pronuncia  degl'Italiani. 
Si  aggiungeva  il  gran  numero  degl'Italiani  ch'erano  in  Vienna, 
co'  quali  io  conversava,  e  che  nelle  case  nobili  tedesche  si  parlava 
e  s'intendeva  non  men  il  francese  che  l'italiano;  sicché  non  vi  era 
quella  necessità,  ch'è  la  maggior  maestra  delle  lingue,  che  m'obbli- 
gasse ad  apprenderla.  Ed  intorno  a'  libri,  gli  scrittori  più  dotti  e 
savi  non  si  valevano  della  tedesca,  dandoli  alla  luce,  ma  sì  bene  del- 
la latina,  perché  fossero  letti. 

Proseguendo  adunque  con  maggior  aggio  la  mia  dimora  in  Vien- 
na, e  reso  noto  non  meno  a'  personaggi  illustri  della  Corte  tedeschi, 
che  forastieri  che  vi  dimoravano,  o  impiegati  con  pubblico  mini- 
stero servendo  qualche  principe,  ovvero  per  privati  loro  interessi  ; 
se  occorreva  trattarsi  di  qualche  grave  lor  causa,  sapendo  la  mia 
professione  d'avvocato,  non  mancarono  alcuni  di  richiedermi  del 
mio  patrocinio.  E  poiché  in  tutti  i  Consigli  e  dicasteri  di  Vienna 
non  è  costume  di  parlarsi  le  cause  in  Ruota,  ma  solamente  di  scrivere 
su  gli  articoli  controversi,  ed  informarne  i  ministri  nelle  loro  case, 
sovente  era  ricercato,  spezialmente  dagl'Italiani,  di  farlo  nelle  lo- 
ro liti. 

Così,  tenendo  il  console  imperiale  Mariconi,1  agente  di  Sua  Mae- 
stà cesarea  in  Genua,  una  lite  con  alcuni  mercanti  catalani,  monsi- 
gnor Mariconi,  suo  fratello,  che  dimorava  a  Vienna,  mi  richiese 
che  io  prendessi  la  sua  difesa;  sicome  feci,  distendendo  alcune  al- 


1.  Il  barone  Bartolomeo  Mariconi.  In  questa  causa  il  Giannone  fu  aiutato 
da  Francesco  Mela  (su  cui  cfr.  la  nota  1  a  p.  78):  cfr.  la  lettera  al  fratello 
del  io  agosto  1726  (Giannoniana,  n.°  159)  e  lettere  seguenti  dell'agosto,  del- 
l'ottobre e,  in  particolare,  quella  del  16  novembre  (Giannoniana,  n.°  173), 
nella  quale  indica  le  fonti  di  cui  si  è  servito,  per  la  discussione  sulla  valuta 
e  sui  cambi. 


CAPITOLO    SESTO  149 

legazioni,1  che  dimostravano  l'insussistenza  della  pretensione  de* 
Catalani.  Parimente  il  duca  della  Saponara,  siciliano,  decorato  con 
titolo  di  Principe  dell'Imperio,  avendo  una  grave  lite  nella  confe- 
renza delle  poste  sopra  rufficio  di  Corrier  maggiore  delle  poste  di 
Sicilia,  si  valse  dell'opera  mia  in  sua  difesa:  la  qual  lite,  finalmente, 
fu  terminata  per  mezzo  d'un  amichevole  accordo,  in  vigor  del 
quale  gli  fu  conservato  l'ufficio,  transiggendo  le  pretensioni  fiscali, 
collo  sborso  di  non  picciola  somma  di  denaro.2 

Fui  dapoi  richiesto  dal  marchese  di  Corese,  Maffeo  Barberini,3 
romano,  di  scrivere  nella  causa,  che  avea  col  cardinal  Barberini4 
intorno  all'intelligenza  del  testamento  di  papa  Urbano  Vili,5  ch'e- 
scludeva le  femmine  nella  successione  de'  fideicommissi  ordinati, 
essendovi  maschi  naturali,  ancorché  non  legitimi.  E  vi  composi 
un'allegazione,6  nella  quale  dimostrai  non  pur  la  chiamata  del 
marchese,  ad  esclusione  delle  femmine;  ma  eziandio  le  alte  pre- 
minenze e  sovrane  potestà,  che  i  monarchi  tengono  sopra  i  matri- 
moni delle  persone  illustri,  loro  suddite  e  vassalle,  che  era  l'altro 
articolo,  che  ivi  occorreva  d'esaminarsi.  E  da'  Genovesi,  per  mezzo 
del  marchese  Clemente  Doria,  era  ancor  richiesto  per  difesa  di 
qualche  lor  causa.7 

Da  Napoli  non  mancavano  gli  avvocati  miei  amici  di  commetter- 

i.  alcune  allegazioni:  la  scrittura  relativa  a  questa  causa  è  in  Archivio 
di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  n,  ins.  4,  GGG  {Gianno- 
mana,  p.  436).  2.  Parimente .  .  .  denaro  :  questa  causa,  intentata  dal  du- 
ca della  Saponara,  Vincenzo  Di  Giovanni  e  Zappata,  principe  del  Sacro 
Romano  Impero  e  membro  del  Consiglio  di  Spagna,  è  cosa  diversa  dal- 
l'altra, ricordata  a  p.  70,  riguardante  il  marchese  di  Rofrano,  Girolamo 
Capece.  Il  fascicolo  autografo  di  questa  ultima  causa  è  nell'Archivio  di 
Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone,  loc.  cit.,  FFF  (Giannoniana,  p.  426). 
Anche  per  questa  causa  il  Giannone  chiese  l'aiuto  del  Mela:  cfr.  la  lettera 
del  19  luglio  1727  (Giannoniana,  n.°  208).  3.  Maffeo  Barberini:  costui  era 
figlio  naturale  di  don  Urbano  (morto  nel  1722).  4.  Il  cardinale  Francesco 
Barberini  (1662-1738).  La  causa,  secondo  quanto  riferisce  il  Panzini,  p-44> 
era  in  realtà  tra  il  marchese  e  la  figlia  legittima  di  don  Urbano,  Cornelia. 
Il  cardinale  intervenne  presso  l'imperatore,  in  favore  della  nipote.  5.  Ur- 
bano Villi  al  secolo  Maffeo  Barberini  (15  68-1 644),  eletto  pontefice  nel 
1623.  6.  un'allegazione-,  cfr.  Ragioni  del  marchese  D.  Maffeo  Barberini  so- 
pra la  successione  della  casa  Barberini  derivanti  dalle  disposizioni  del  pontefice 
Urbano  Vili,  Vienna  1726.  È  stata  ristampata  dal  Panzini  tra  le  Opere 
postume,  11,  pp.  207  sgg.  7.  da*  Genovesi .  .  .  causa:  dì  questa  causa  man- 
cano notizie  precise  ;  però  il  Panzini,  p.  44,  riferisce  che,  su  incarico  del 
Doria,  il  Giannone  si  occupò  di  una  causa  di  fidecommesso  a  favore  della 
duchessa  di  Nevers.  Materiali  concernenti  il  marchese  Doria  nell'Archivio 
di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone,  loc.  cit.,  RR  {Giannoniana,  p.  423)- 


150  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

mi  la  difesa  di  qualche  grave  causa  de'  loro  clienti,  che  occorreva 
doversi  trattare  nei  Consiglio  di  Spagna;  sicome  fu  quella  sopra 
la  visita  particolare  istituita  contro  il  presidente  di  Camera  Lione;1 
l'altra,  che  dapoi  fummi  commessa,  a  difesa  del  duca  di  Maddaloni,* 
imputato,  di  suo  ordine  ed  intelligenza,  essersi  commesso  in  Na- 
poli un  omicidio  in  persona  d'un  notaio;  ed  altre  di  vari  signori, 
come  della  principessa,  e  poi  del  principe  di  Tarsia  suo  nipote, 
del  principe  di  Montemilctto,3  del  duca  di  Sant'Agapito,  ed  altre 
cause  di  baroni,  sicome  di  comunità  ed  altre  città  del  Regno,  le 
quali  ne'  seguenti  anni,  secondo  le  occasioni,  mi  eran  commesse. 
Dagli  emolumenti  e  ricognizioni,  che  m'eran  somministrate  per 
queste  mie  fatiche,  non  solo  potei  fornire  di  migliori  mobili  le  mie 
stanze  e,  di  volta  in  volta,  comprar  qualche  libro,  sicché,  in  decorso 
di  tempo,  potei  farmi  una  picciola  biblioteca;  ma,  ponendo  da 
parte  qualche  contante,  arrivai  sino  alla  somma  di  fiorini  mille, 
li  quali,  nel  mese  di  decembre  del  seguente  anno  1727,  per  non 
tenerli  oziosi,  gli  posi  nel  Banco  della  città  di  Vienna,  con  trarne 
profitto  di  fiorini  cinquanta  l'anno. 

[17271 

In  questo  nuovo  anno  1727,  mentre  era  occupato  nelle  liti  del 
console  Mariconi,  del  presidente  Lione  e  del  duca  della  Saponara, 
dovendo  distendere  alcune  allegazioni  per  lor  difesa,  e  la  Corte  es- 
sendosi, secondo  il  solito,  trasferita  nel  £xi  d'aprile  a  Laxemburg, 
pensai,  per  più  aggiatamente  farlo,  di  passare  a  Petterdorf  con  le 


1.  il  presidente  . . .  Lione:  cfr.  la  lettera  al  fratello,  del  9  novembre  1726 
(Giannoniana,  n.°  172)  ;  e  ancora  l'altra  del  20  settembre  1727  (Giannoniana, 
n.°  217).  Da  un'altra  lettera,  sempre  al  fratello,  del  4  dicembre  1728  (Gian- 
noniana, n.°279),  sembra  che  alla  causa  fosse  interessato  anche  l'abate  Pietro 
Contegna,  amico  del  Giannone.  Questa  causa  si  trascinava  ancora  nell'aprile 
del  1730  e  nel  maggio  di  quell'anno  il  Giannone  finiva  per  disinteressarsene. 

2.  duca  diMaddaloni:  Maurizio  Carafa.  Cfr.  la  lettera  al  fratello,  del  29  mar- 
zo 1727  (Giannoniana,  n.°  192),  dove  dice  di  non  voler  essere  nominato  avvo- 
cato del  duca.  3.  ed  altre .  .  .  Montemilettoi  materiali  della  causa  del  prin- 
cipe d'Acaya  e  Montemiletto  Leonardo  di  Tocco,  nell'Archivio  di  Stato 
di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  n,  ins.  4,  T  (Giannoniana,  p,  421); 
la  sua  Supplica  . . .  a  S.M.C,  affinché  interponga  il  suo  real  assenso  per  la 
vendita  di  Fontanarosa  e  Torre  delle  Nocelle,  ivi,  manoscritti  Giannone,  maz- 
zo 11,  ins.  3  (Giannoniana,  p.  418).  Per  la  causa  della  principessa  di  Tarsia 
contro  il  conte  della  Cerra  numerose  notizie  si  hanno  dal  carteggio  col  fra- 
tello, a  partire  dal  20  luglio  1726.  La  fatica  del  Giannone  non  fu  in  questo 
caso  ricompensata,  ed  egli  se  ne  lamentò  a  lungo. 


CAPITOLO    SESTO  151 

genti  di  casa,  le  quali  ivi  aveano  non  meno  stima  e  rispetto,  che 
tutto  l'aggio  e  commodità:  sicché  nel  mese  di  maggio  ancor  io  vi 
fui,  e  non  posso  negare,  che  la  villeggiatura  mi  riuscì  non  men 
acconcia,  per  finir  ivi,  con  riposo  e  quiete,  quelle  mie  fatiche,  ma 
molto  utile  per  lo  ristabilimento  di  mia  salute  ;  né  ci  restituimmo  in 
città,  se  non  a*  princìpi  di  luglio,  dove  arrivati,  mi  sopragiunse 
un'occasione,  la  quale,  se  la  presunzione,  l'invidia  e  l'ambizione 
degli  uomini  non  mi  fossero  stati  d'impedimento,  mi  avrebbe  per 
nuovo  merito  agevolato  l'adempimento  della  promessa,  fattami  da 
Sua  Maestà,  nell'imperial  suo  decreto. 

La  corte  di  Roma,  vedendo  che  Cesare  ed  il  Consiglio  di  Spagna 
eran  fìssi  nel  proposito  di  non  far  seguire  novità  alcuna  in  Sicilia, 
riguardante  il  tribunal  della  Monarchia,  né  far  ivi  valere  i  brevi 
del  papa,  con  sottil  artificio  propose  questa  controversia  della  Mo- 
narchia di  finirla  per  via  d'una  amicabile  composizione;  ed  in 
Roma,  non  meno  i  ministri  del  papa  che  que'  di  Cesare,  spezial- 
mente il  cardinal  Sinfuego  vi  davano  mano,  ciascuno  prometten- 
dosi, i  pontifici  dalla  corte  di  Roma,  i  cesarei  da  quella  di  Vienna, 
ampi  premi  e  mercedi,  se  mai  per  le  loro  mani  un  affare  cotanto 
scabroso  e  grave,  che  per  lunghi  anni  erasi  aggitato  e  mosso,  ve- 
nisse a  terminarsi  amichevolmente  e  per  via  d'un  concordato.  Ma 
non  avrebbero  i  pontifici  conseguito  il  lor  intento,  se  non  avesser 
procurato  trar  alla  lor  parte  due  principali  ministri,  per  i  quali 
allora  reggevasi  la  corte  di  Vienna:  il  Gran  Cancellier  di  Corte, 
conte  di  Zinzendorf,  ed  il  marchese  di  Rialp.  Quali  fu  facile  trargli 
a  sé:  il  primo,  per  lo  cardinalato  già  accordato  al  figlio;1  il  secondo, 
per  l'altro  che  sperava  doversi  conferire  al  fratello,2  oltre  alle  alte 
speranze  concepite  per  lo  figliuolo,3  che  tenea  in  Roma,  ben  istra- 
dato nella  prelatura.  Questi  si  adoperarono  in  guisa  coll'impera- 
dore,  che  acconsentisse  che  si  aprisse  in  Roma  il  trattato  di  accor- 
do, lusingandolo,  che  avendo  dalla  lor  parte  il  cardinal  Coscia,4 

1.  lo  cardinalato  .  .  .figlio:  cfr.  la  nota  4  a  p.  99  e  la  nota  iap.  144.  2.  al 
fratello:  cfr.  la  nota  2  a  p.  114.  3.  lo  figliuolo:  cfr.  la  nota  1  a  p.  114. 
4.  Niccolò  Coscia  (1682-1755),  segretario  dell'arcivescovo  di  Benevento  Pie- 
tro Francesco  Orsini,  ne  fu  il  conclavista  nei  conclavi  del  1721  e  del  1724, 
nel  quale  ultimo  condusse  le  trattative  per  l'elezione  dell'arcivescovo  al 
Soglio.  Ricambiato  con  la  nomina  a  segretario  dei  memoriali  e  l'elezione 
ad  arcivescovo  di  Traianopoli  in  partibusy  fu  il  favorito  di  Benedetto  XIII 
e,  alla  morte  del  cardinal  Fabrizio  Paolucci  (12  giugno  1726),  gli  subentrò 
nella  carica  di  Segretario  di  Stato,  dopo  essere  stato  elevato  alla  porpo- 
ra nell'anno  precedente,  e  aver  ricevuto  la  carica  di  vescovo  coadiutore  di 


152  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

cotanto  dal  papa  favorito,  non  poteva  riuscire  se  non  per  lui  van- 
taggioso. E  si  guardavano  di  mescolarvi  il  Consiglio  di  Spagna, 
temendo  non  questo  rendesse  vani  tutti  i  lor  disegni. 

Datane  adunque  commissione  al  cardinal  Sinfuego  di  trattarlo, 
valendosi  di  quelle  persone  ch'egli  riputasse  capaci  ed  idonee,  fu 
cosa  veramente  da  muovere  insieme  riso  e  compassione;  poiché 
in  un  affare  sì  grave  e  cotanto  scabroso  e  vasto,  il  cardinale,  che 
per  se  stesso  non  ne  era  capace,  in  vece  di  valersi  di  ministri  pro- 
vetti, dotti  ed  informati,  facendogli,  bisognando,  venir  da  Palermo, 
come  più  istrutti,  o  pur  da  Napoli,  che  non  ne  mancavano  intesis- 
simi di  tali  reali  preminenze,  si  pose  nelle  mani  di  alcuni  monaci 
ed  altri  soggetti,  che  non  sapevano  che  si  fosse  ed  in  che  consi- 
stesse questo  tribunal  della  Monarchia;1  e,  sopra  tutto,  d'un  tal 
Perelli:z  uomo  idiota  e  senza  lettere,  il  qual  non  ne  intendeva 

Benevento,  con  diritto  alla  successione.  Spentosi  il  suo  protettore  il  21 
febbraio  del  1730,  il  giorno  dopo  egli  fu  cacciato  dai  palazzi  pontifici  su 
ordine  del  cardinale  camerlengo,  mentre  in  Roma  si  avevano  dimostrazio- 
ni contro  il  suo  malgoverno  e  la  corruzione  della  sua  corte.  Apertosi  un 
processo,  venne  condannato  il  9  maggio  1733  a  dicci  anni  dì  carcere,  come 
ladro  e  falsario,  e  rinchiuso  in  Castel  Sant'Angelo;  passò  poi  alla  resi- 
denza coatta  del  monastero  di  Santa  Prassede,  dalla  quale  fu  liberato  solo 
con  la  morte  del  suo  nemico,  papa  Clemente  XII.  Graziato  dal  nuovo 
pontefice,  Benedetto  XIV,  si  ritirò  in  Napoli.  1.  Datane  .  .  .  Monarchia: 
la  storia  di  queste  trattative  è  stata  ampiamente  descritta  da  F.  Scaduto, 
Stato  e  Chiesa  nelle  Due  Sicilie,  cit.,  da  L.  v.  Pastor,  Storia  dei  papi,  xv, 
Roma  1933,  passim,  e  ultimamente  da  G.  Catalano,  Le  ultime  vicende  della 
Legazìa  Apostolica  di  Sicilia,  cit.  I  monaci,  ai  quali  il  Giannone  allude, 
altri  non  sono  che  il  vescovo  di  Tcodosia  e  segretario  della  Congregazione 
del  Concilio  Prospero  Lambertini  (il  futuro  Benedetto  XIV),  e  l'abate  Ce- 
lestino Galiani,  uomini  che  non  appartenevano  certo  al  partito  degli  «ze- 
lanti »,  né  potevano  dirsi  imperiti  come  qui  afferma  il  Giannone,  il  quale  in- 
tende criticare,  soprattutto,  i  termini  del  concordato  che  venne  raggiunto, 
a.  Pietro  Perrelli,  duca  di  Monasterace,  giurista  napoletano.  Tra  le  carte 
Galiani  conservate  presso  la  Biblioteca  della  Società  Napoletana  di  Storia 
Patria,  XXX.  A.  io.,  ai  fl".  1-1 1  si  ha  una  Copia  di  relazione  fatta  a  S.  M.  sotto 
il  x  gennaio  xj2<j  dal  Signor  Duca  Pietro  Perrelh  da  Roma,  nella  quale  si 
danno  importanti  notizie  su  una  sua  missione  a  Napoli:  «Subico,  che  fui 
giunto  a  Napoli . . .  cominciai  dal  raccogliere  le  notizie  necessarie,  e  molti 
ottimi  lumi  furono  a  me  suggeriti  dal  Viceré  e  dal  Presidente  del  Consiglio. 
Volli  ancora  parlare,  ma  sempre  con  molta  riserva,  a  qualche  reggente  del 
Collaterale;  ma  in  molti  di  essi,  a  tenore  delle  relazioni  già  da  me  ricevute, 
trovai  o  poca  esperienza  in  simili  affari,  o  troppa  ostinazione  in  non  voler 
andare  al  bene,  ed  anche  in  taluno  molta  inclinazione  per  la  parte  di  Roma; 
quindi  confrontando  queste  osservazioni  colle  notizie  raccolte  da  uomini 
savi,  senza  ch'essi  scoprissero  lo  scopo  delle  mie  ricerche,  mi  avvidi  non 
essere  sperabile  un  buon  accomodamento,  qualora  il  disegno  del  trattato 
si  comunicasse  a'  suddetti  reggenti,  o  anche  solamente  fosse  da  loro  pene- 


CAPITOLO    SESTO  153 

nemmeno  i  termini,  sol  perché  questi  avea  acquistata  familiarità 
e  dimestichezza  col  cardinal  Coscia,  e  questi  era  da  lui  riputato 
Tistromento  più  efficace,  per  ridurre  il  trattato  a  buon  fine. 

Gli  accorti  e  scaltri  pontifici  non  ne  vollero  altro,  per  aggirargli 
dov'essi  volevano,  e  trattando  con  tali  persone  imperite,  le  quali 
erano  volentieri  entrate  neir affare,  per  far  cosa  grata  più  al  papa, 
dal  quale  ne  speravano  maggior  ricompensa  che  dall'imperadore, 
gli  fu  facile,  co'  loro  arzigogoli  e  raggiri,  tirarli  non  solo  a  ciò  ch'essi 
desideravano,  ma  di  dargli  a  sentire  che  la  conchiusion  del  trat- 
tato, secondo  ch'essi  avean  concertato,  fosse  più  vantaggiosa  per 
Cesare  che  per  Roma.  Ed  in  vece  d'un  concordato,  la  cosa  si  ri- 
dusse ad  una  costituzione,  che  il  pontefice  avrebbe  stabilita,  colla 
quale  si  sarebbe  data  nuova  forma  e  metodo,  per  regolare  nell'avve- 
nire le  cause  ecclesiastiche  del  regno  di  Sicilia.  Stesero  per  ciò 
una  minuta  di  questa  costituzione,  la  quale  veduta,  postillata  ed 
esaminata  in  Roma  da  que'  campioni  che  il  cardinal  Sinfuego  avea 
scelti  per  parte  dell'imperadore,  pareva  ad  essi  che  fosse  da  ac- 
cettarsi, e  non  frapporre  momento  di  tempo  per  venirsi  alla  pub- 
blicazione, come  cosa  cotanto  vantaggiosa;  e  farsi  presto  acciocché 
i  pontifici  non  si  accorgessero  del  loro  svantaggio;  ed  avendone 
persuaso  a  quel  buono  e  semplice  cardinale,  questi  in  diligenza 
spedì  lo  stesso  Perelli  a  Vienna,1  a  portar  la  minuta  della  bolla 
concertata;  il  quale,  come  se  portasse  una  novella  d'essersi  in 
battaglia  sconfitto  qualche  numeroso  essercito  nemico,  ovvero  pre- 
sa per  assalto  un'importantissima  ed  inespugnabil  piazza,  andava  da 
per  tutto  gridando  vittoria,  vittoria;  e  portatosi  dal  marchese  di 
Rialp  e  dal  conte  di  Zinzendorf,  diedegli  per  finita,  con  vantaggio 
di  Cesare,  ogni  cosa:  e  questi,  come  imperiti  di  tal  materia,  leg- 

trato.  Tra  essi  il  solo  conte  Pery  mi  parve  il  meno  trasportato  e  sarei 
per  dire  il  più  fornito  delle  vere  massime,  che  possono  agevolare  la  riu- 
scita dell'affare  ».  Dal  che  si  ricava  come  la  trattativa  abbia  scavalcato  l'in- 
tero Consiglio  del  Collaterale,  suscitando  ire  delle  quali,  ad  evidenza, 
il  Giannone  si  fa  qui  portavoce.  Segnalo  che  altra  relazione,  questa  stesa 
a  dieci  anni  di  distanza,  per  informazione  di  Carlo  III  di  Borbone,  è  con- 
servata presso  la  Biblioteca  Nazionale  di  Palermo.  Quanto  alle  relazioni 
del  cardinal  Cienfuegos,  utilizzate  dal  Pastor,  ma  non  dal  Catalano,  queste 
si  conservano  nell'Archivio  Reuss  di  Ernstbrunn;  esse  giungono  però  solo 
al  termine  dell'anno  1727.  Una  bibliografia  delle  opere,  a  stampa  e  mano- 
scritte, che  la  controversia  originò,  in  G.  Catalano,  op.  cit.,  pp.  151  sgg. 
1.  spedì .  .  .  Vienna:  il  Perrelli  giunse  a  Vienna  il  5  settembre  1727.  Sul- 
l'udienza e  il  colloquio  con  l'imperatore  si  veda  L.  v.  Pastor,  Storia  dei 
papi,  cit.,  xv,  p.  519. 


154  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

gendo  la  minuta  e  credendola  quale  il  Perelli  la  decantava,  anda- 
rono a  rallegrarsene  coll'imperadore,  dicendogli  aver  avuto  ot- 
timo successo  il  trattato  con  Roma,  secondo  la  minuta  mandata; 
e  che  non  si  ricercava  altro,  che  Sua  Maestà  comandasse  al  cardi- 
nal Sinfuego  (il  quale  aveagli  pure  scritto  di  tenor  conforme  a 
quanto  il  Perelli  millantava),  che  procurasse  farne  dal  papa  stender 
la  bolla,  per  mandarla  in  Sicilia.  L'imperadore  mostrossene  con- 
tento, ma  volle  che  prima  la  minuta  si  mandasse  ad  esaminare  nel 
Consiglio  di  Spagna,  se  mai  occorresse  qualche  altra  cosa  da  av- 
vertire. Il  marchese  di  Rialp  ed  il  conte  di  Zinzendorf,  persuasi 
che,  come  vantaggiosa,  non  vi  avrebbe  il  Consiglio  niente  da  ag- 
giungere o  levare,  ma  che  in  tutto  l'avrebbe  approvata  e  commen- 
data, non  vi  posero  alcun  ostacolo,  ma  la  mandarono  sotto  Tesarne 
del  medesimo,  di  buona  voglia. 

Quando  nel  Consiglio  fu  letta  la  minuta,  tutti,  e  spezialmente  i 
reggenti  provinciali  di  Sicilia,  Almarz  e  Perlongo,  rimasero  sor- 
presi che,  in  vece  d'un  concordato,  la  facenda  si  fosse  ridotta  in 
Roma  ad  una  costituzione,  nella  quale  il  papa  tanto  era  lontano 
che  rivocasse  quella  di  Clemente  XI,  che  abolì  il  tribunale,  che 
sembrava  più  tosto  che  la  confermasse;  e  che,  non  facendosi  me- 
moria delle  antiche  reali  preminenze,  né  degli  antichi  stili  ed  usi 
di  quel  tribunale,  il  papa  di  pianta1  par  che  nuovamente  volesse 
egli  regolare  e  dar  nuovo  sistema  in  Sicilia  intorno  al  modo  di 
trattar  le  cause  ecclesiastiche,  e  che  non  si  concedesse  altro  a  Sua 
Maestà,  se  non  che  la  nomina  o  reiezione  del  giudice,  il  qual  era 
dal  papa,  in  vigor  di  questa  bolla,  costituito  tale,  dandogli  giuris- 
dizione, e  limitandogliela  in  certi  casi;  e,  sopra  tutto,  si  voleva 
che  quel  giudice,  il  qual  non  si  chiamava  mai  della  Monarchia, 
ubbidisse  a'  chirografi  che  fossero  firmati  da  Sua  Santità,  e  che  in 
qualunque  causa  eseguisse  quanto  per  quelli  gli  fosse  commandato. 
Si  accorsero  ancora  del  sottil  artificio  praticato,  per  ingannare  que' 
semplici  ed  imperiti,  co'  quali  fu  in  Roma  la  minuta  concertata; 
poiché,  per  non  fargli  accorgere  di  questi  gravissimi  pregiudizi, 
che  s'inferivano  alle  reali  preminenze,  gli  gettarono  polvere  a  gli 
occhi,  per  certe  nuove  facoltà  che  si  concedevano  al  giudice,  le 
quali,  se  bene  con  magnifiche  parole  si  descrivessero  per  grandi, 
sicché  da  ciò  credettero  che  fosse  l'accordo  vantaggioso,  in  realtà, 
oltre  di  star  sottoposte  ad  essergli  rivocate,  ben  esaminate  si  ridu- 
rr dì  tianta:  dalle  fondamenta. 


CAPITOLO   SESTO  155 

cevano  a  picciole  cose  e  Roma,  concedendole,  niente  veniva  a 
perderci,  ed  avrebbe  importato  poco  che  il  giudice  l'avesse  o  non 
l'avesse. 

Non  mancò  il  Consiglio,  in  ciò  tutto  uniforme,  di  rappresentare 
alla  Maestà  dell' imperadore  gli  danni  notabilissimi  e  sommi  pre- 
giudizi, che,  con  accettarsi  la  minuta,  s'inferirebbero  al  tribunal 
della  Monarchia;  che,  per  ciò,  si  dovesse  rifiutare  e  sciogliersi 
ogni  trattato  con  Roma,  che  non  poteva  riuscire  se  non  in  maggior 
ruina  di  quel  tribunale;  ma  che  Sua  Maestà,  per  sé  medesima, 
che  poteva  ben  farlo,  desse  ordini  in  Sicilia  di  non  far  seguire 
novità  alcuna,  ma  il  tribunale  fosse  conservato  in  quella  stessa 
forma  che  l'avean  fatto  essercitare  i  re  di  Spagna,  suoi  predecessori, 
senza  mendicar  da  Roma  altro  aiuto  o  soccorso. 

Il  marchese  di  Rialp  ed  il  conte  di  Zinzendorf,  vedendo,  fuor 
di  ogni  loro  aspettazione,  che  il  Consiglio  minava  quanto  essi 
avean  fabbricato,  prevennero  coll'imperadore,  dandogli  a  credere 
che  il  Consiglio  per  astio,  che  senza  sua  partecipazione  erasi  in 
Roma  aperto  quel  trattato,  procedeva  con  tanta  animosità,  e  con 
intento  di  distruggere  quanto  ivi  erasi  fatto,  ma  che  non  bisognava 
perdere  sì  opportuna  occasione;  e,  se  mai  nella  minuta  vi  fosse  cosa 
da  meglio  spiegarsi  e  moderarsi,  si  facesse,  ma  non  già  rompersi 
ogni  trattato,  poiché  essi  non  conoscevano  altro  modo  per  quietare 
quel  Regno  e  le  coscienze  de'  Siciliani,  se  non  per  mezzo  d'una 
bolla  pontificia,  che  fosse  discreta  e  moderata,  sicché  non  pregiu- 
dicasse a'  reali  diritti  ed  altre  preminenze,  che  teneva  in  quel  Re- 
gno; che  poteva  la  minuta  ben  rivocarsi  a  nuovo  esame,  ed  eleg- 
gere dal  Consiglio  di  Spagna  quattro  reggenti  togati,  i  quali  col 
presidente  l'esaminassero  e  notasser  ciò  che  l'occorreva  d'aggiun- 
gere, mutare  o  cassare;  e,  poiché  il  cardinal  Sinfuego  avea  man- 
dato il  Perelli,  ch'era  ben  istrutto  di  quest'affare,  poteva  ben  questi 
intervenire  nelle  sessioni,  per  informargli  e  meglio  istruirgli  di 
quanto  in  Roma  erasi  passato. 

Fu  per  tanto  istituita  una  particolare  giunta,  composta  dal  pre- 
sidente già  in  questo  tempo  rifatto  in  luogo  del  defunto,  che  fu  lo 
stesso  conte  di  Montesanto,  che  prima  l'avea  retto  come  decano, 
e  da  quattro  reggenti,  li  quali  furono  li  due  provinciali  Almarz  e 
Perlongo,  e  li  reggenti  Positano  e  Bolagnos.  Fu  veduta  allora  in 
Vienna  una  cosa  mostruosa,  non  meno  che  ridicola;  poiché  in 
questa  giunta,  che  si  teneva  in  casa  del  presidente,  si  vide  inter- 


156  VITA   DI    PIETRO   GIANNONE 

venire  il  Perelli,  e  disputare  co'  reggenti  di  cose,  ch'egli  non  in- 
tendeva nemmeno  i  vocabili.  E  pure  si  ebbero  ad  aver  la  pazienza 
di  sentire  tante  scempiaggini,  inezie  e  rodomontate;  e  non  si  fece 
poco,  che  si  contentasse,  se  ben  di  mala  voglia,  di  quella  sedia 
destinatagli,  perché  la  pretendeva  uguale  a'  reggenti,  poiché,  fra 
le  altre  doti  che  adornavano  il  Perelli,  una  era  che  a  maraviglia 
sapeva  imitar  bene  le  parti  d'un  valente  Trasonc.1 

I  reggenti  col  presidente  stettero  saldi  e  fermi  ne'  primi  senti- 
menti, e  furon  tutti  concordi  in  rifiutar  la  minuta;  e  se  era  volere 
di  Sua  Maestà  di  non  rompere  il  trattato,  che  se  ne  dovesse  dettar 
altra,  che  avesse  forma  di  concordato,  non  già  di  costituzione.  Con 
tutto  ciò  il  Perelli,  oltre  di  dolersi  non  essersegii  data  sedia  uguale, 
millantava  col  marchese  di  Rialp,  col  conte  di  Zinzendorf  e  con 
altri,  che  era  tutta  la  loro  ostinazione  e  pertinacia;  poich'egli  avea 
con  dimostrazioni  chiare  convinti  e  confusi  que'  dottorclii,  che 
cosi  chiamava  i  reggenti,  non  avendo  che  rispondergli.2  Talché  al- 
cuni di  allegro  umore,  come  vanaglorioso,  e  prendendo  per  vero 
quel  ch'era  scherno,  non  si  ritenevano,  in  vederlo,  d'esclamare: 

Viva  [viva]2  il  gran  Perelli 
che  ha  confusi  i  dottor  e  Ili. 

Finalmente,  vedendo  que'  due  ministri,  che  mal  potevano  arri- 
vare al  lor  intento,  se  in  questo  affare  ci  avesse  parte  il  Consiglio, 
procurarono  d'escludcrnclo  affatto;  e  fecero  che  l'imperadore  lo 
commettesse  alla  Conferenza  di  Stato,  la  qual  dovesse  in  tutte  le 
maniere  finirlo  con  accordo  ed  amicabile  composizione.  La  Confe- 
renza era  composta  dal  principe  Eugenio,  dal  conte  di  Zinzendorf, 
dal  marchese  di  Rialp  e  da  alcuni  pochi  Tedeschi,  i  quali  a  tutto 
altro  pensavano,  che  invilupparsi  in  questi  intrighi  ;  e  del  principe 
Eugenio,  occupato  ad  altri  importanti  e  gravi  affari,  il  minor  suo 
pensiero  era  questo:  sicché  la  faccenda  si  ridusse  a  due  soli,  al 
conte  ed  al  marchese,  ch'era  quello  che  cercavano,  per  comporla 
secondo  la  minuta  ed  i  dettami  di  Roma. 

1 .  Trasone  :  il  soldato  millantatore  della  commedia  di  Terenzio  VEwiuchtcs. 

2.  I  reggenti . .  .  rispondergli:  qui  il  Giannone  è  inesatto.  I  reggenti  rin- 
viarono a  Roma  il  Perrelli  con  un'istruzione,  al  principio  del  febbraio  del 
1728.  In  essa  si  chiedevano  modifiche  soprattutto  nel  preambolo  ai  capitoli 
della  bolla,  preambolo  steso  dallo  stesso  Benedetto  XI IL  Questa  volta  toc- 
cò a  Celestino  Galiani  approntare  una  nuova  bozza,  che  fu  spedita  a  Vien- 
na il  27  marzo.     3.  L'integrazione  è  proposta  dal  Nicolini. 


CAPITOLO    SESTO  157 

In  questo,  essendo  io  dalla  villeggiatura  di  Pettersdorf  ritornato 
in  città,  sentendo  le  tacite  mormorazioni  e  doglianze  de'  reggenti 
della  Giunta,  ch'erano  stati  prima  condennati  a  disputar  con  Pe- 
relli  del  tribunal  della  Monarchia,  e  poi  esclusi  dall'affare,  con 
essersi  rimesso  alla  Conferenza,  che  in  sostanza  era  agli  stessi 
Zinzendorf  e  Rialp:  dissi  a'  provinciali  di  Sicilia,  che  pareami  che 
si  disputava,  non  men  dall'una  che  dall'altra  parte,  sopra  fonda- 
menti falsi  ed  erronei  ;  e  che,  fin  ora,  non  si  era  conosciuto  dove  si 
appoggiasse  °xue*  tribunale  e  la  sua  vera  origine,  poiché  tutti  cre- 
devano che  avesse  per  base  e  sostegno  la  bolla  di  papa  Urbano  II;1 
ciocché  dava  le  armi  in  mano  a'  pontefici  di  poter,  con  altre  loro 
bolle,  minarlo,  moderarlo  e  disporlo  in  quella  maniera,  che  essi 
volessero.2  Ma  che  la  bisogna  era  tutt'altra,  e  che,  se  si  fossero 
scoverte  le  vere  origini  ed  i  giusti  e  legittimi  titoli,  donde  a'  re  di 
Sicilia  derivava  quella  giurisdizione,  ch'essercitavano  in  quel  tri- 
bunale, cessarebbero  tutte  le  contese,  se  volesse  Sua  Maestà  con 
vigore  farli  valere:  che  ben  giustamente  potrebbe  per  sé  farlo,  sen- 
za aver  bisogno  di  Roma. 

Questo  mio  parlare  pose  in  curiosità  i  reggenti  ed  altri  che  mi 
sentivano  ;  e  poiché  erano  uscite  molte  scritture,  che  giravano  per 
Vienna,  per  le  quali  pure,  sopra  i  soliti  appoggi,  si  credea  abbattere 
le  prescrizioni  di  Roma,  le  quali  non  molto  soddisfacevano,  per 
impulso  d'amici,  e  sopra  tutto  del  reggente  Almarz,  fui  tanto  sti- 
molato e  scosso,  che  finalmente  gli  promisi  di  volergli  con  una 
mia  scrittura  manifestare;  della  quale,  se  bene  per  le  circostanze 
ree  che  correvano  non  era  da  sperarne  alcun  frutto,  nulladimanco, 
essendovi  nella  Conferenza  il  principe  Eugenio,  io  l'avrei  al  mede- 
simo presentata,  per  farne  quell'uso  che  riputasse  migliore,  non 
essendovi  con  altri  speranza,  che  potessero  indursi  a  leggerla;  sa- 

1.  Urbano  III  Ottone  di  Lagery,  cluniacense,  fatto  pontefice  nel  1088, 
riprese  il  programma  teocratico  di  Gregorio  VII,  appoggiandosi  ai  Nor- 
manni. La  bolla,  con  la  quale  si  conferiva  in  perpetuo  la  carica  di  Legato 
ai  re  di  Sicilia,  fu  emessa  nel  1098.  2.  ciocché .  .  .  volessero-,  il  privilegio 
di  Urbano  II,  che  accordava  ai  re  normanni  la  qualifica  di  Legato  per  la 
Sicilia,  era  stato  menzionato  nella  bozza  inviata  per  l'approvazione  a  Vien- 
na, benché  da  parte  degli  scrittori  curialisti  se  ne  contestasse  l'autenticità. 
Tuttavia,  benché  questa  suonasse  come  una  conferma  della  Monarchia  di 
Sicilia  da  parte  romana,  il  Giannone  non  l'accettava  ritenendo  che  i  ter- 
mini dovessero  essere  rovesciati,  insistendo  (sulla  scia  di  Marc' Antonio 
De  Dominis)  sull'indipendenza  del  potere  regale.  Il  ricordo  di  quella  bol- 
la, insomma,  avrebbe  fatto  più  risaltare  il  carattere  octroyé  del  tribunale 
siciliano. 


158  VITA    DI    PIETRO    GIANNONE 

pendo  che  impegnati  per  raccordo,  si  sarebbero  turate  le  orecchie 
e  chiusi  gli  occhi,  per  non  sentire  o  vedere  ciò  che  potesse  essergli 
di  ostacolo  o  d'impedimento. 

Composi  in  men  di  due  mesi  la  scrittura,  in  forma  di  rappre- 
sentazione a  Sua  Maestà,  nella  quale  trattai  De*  veri  e  legitimi  l itoli 
delle  reali  preminenze  che  i  re  di  Sicilia  esercitano  nel  tribunale  detto 
della  Monarchia:1  dimostrando  che  non  derivavano  dalla  bolla  di 
papa  Urbano  II,  ma  l'esercitavano  iure  imperii,  come  successori 
degli  imperadori  d'Oriente,  sotto  i  quali  la  Sicilia  lungamente  era 
dimorata  fin  che  da'  Normanni  non  ne  fossero  stati  scacciati  i 
Greci  ;  e  succeduti  essi  in  luogo  degli  imperadori  di  Costantinopoli, 
si  mantennero  quelle  stesse  preminenze  che  quelli  aveano  intorno 
all'esterior  politica  ecclesiastica  in  tutte  le  chiese  al  trono  di  Costan- 
tinopoli sottoposte,  fra  le  quali  cran  quelle  di  Sicilia  e  di  Calabria. 
Che  da'  due  Codici,  teodosiano  e  giustinianeo,  si  dimostravan  con 
evidenza  i  supremi  diritti  ed  altre  preminenze,  che  nella  Chiesa 
orientale  vi  aveano  gli  imperadori  di  Costantinopoli.  Maggior- 
mente ciò  dimostravano  le  Novelle  dell'imperadorc  Giustiniano,  e 
molto  più  quelle  dell'ìmpcradore  Lione  il  Filosofo  e,  sopra  tutto, 
la  disposizione  del  trono  costantinopolitano,  e  delle  chiese  a  quel- 
lo sottoposte,  e  loro  gerarchia,  che,  per  costituzione  dello  stesso 
Lione,  che  leggiamo  presso  Leunclavio,2  fu  statuita;  nella  quale 
delle  chiese  di  Sicilia,  in  quel  tempo  tutte  sottoposte  al  metropo- 
litano di  Siracusa,  fassi  speziai  memoria  come  sottoposte  non  già 
al  trono  romano,  ma  al  costantinopolitano  ;  che  nella  Chiesa  greca 
di  Oriente  non  poser  mai  piede  né  Decreto,  né  Decretali,  né  si  co- 
nosceva quel  nuovo  dritto  canonico,  che  invase  ed  occupò  le 
chiese  dell'imperio  di  Occidente.  Che  i  Normanni,  conti  e  poi  re 
di  Sicilia,  avrebber  potuto,  come  successori  degli  imperadori  greci, 
essercitare  maggiori  preminenze,  e  quante  ne  leggiamo  nelle  iVo- 

i.  Edita  dal  Picrantoni,  col  mutato  titolo  II  tribunale  della  Monarchia  di 
Sicilia,  Roma  1892.  La  minuta  autografa  nell'Archivio  di  Stato  di  Torino, 
manoscritti  Giannone,  mazzo  11,  ins.  6  {Oiannoniana,  p.  427)  datata  «Vienna, 
li  12  novembre  1737».  Ma  si  veda  ancora,  nello  stesso  fondo,  mazzo  11,  ins. 
14,  A,  una  Memoria  intorno  agli  abusi  della  potestà  ecclesiastica  {Oiannoniana, 
p.  430),  databile  dopo  il  1727,  e  che  è  in  realtà  un  fotte  attacco  all'operato 
del  Perrelli.  2.  Leunclavio  :  cfr.  l'opera  dello  storico  ed  orientalista  Johann 
Lowenklav  (1541  ?-i594),  meglio  conosciuto  con  il  nome  umanistico  di 
Iohannes  Leunclavius,  LX  librorum  (SaatXtxcov,  id  est,  Universi  iuris  roma- 
ni,  auctorìtate  principum  Rom.  in  graecam  linguam  traditeti  ecloga  sive  sy~ 
nopsis .  .  .  Item  Novellarum  antehac  non  publicatarum  liber,  Basileae  1575. 


CAPITOLO    SESTO  159 

velie  di  Giustiniano  e  di  Lione;  ma  si  astennero  di  molte,  come 
quelli,  che  procurarono  le  chiese  di  Sicilia  restituirle  al  trono  ro- 
mano ;  e  che,  sicome  questi  principi  ritennero  la  cancellaria  greca, 
dettando  in  questa  lingua  lor  diplomi  e  bolle,  così  ritennero  non 
men  la  stessa  cura  dell'esterna  politia  e  governo  di  quelle  chiese, 
che  il  rito  greco  e  tante  altre  usanze,  dignità,  nomi  e  stili  della  Chie- 
sa greca  orientale. 

Si  dimostrò,  che  la  bolla  d'Urbano  II  della  legazione  giovò  al 
conte  Roggiero  di  Sicilia,1  per  non  fargli  perdere  queste  preminen- 
ze, non  già  che  gliele  desse  ;  poiché,  prima  di  questa  bolla  Roggiero 
l'essercitava,  sicome  è  manifesto  da'  diplomi  e  bolle  di  questo 
principe,  d'erezioni  di  chiese  cattedrali,  d'esenzioni  ed  immunità 
concesse  a  chiese  e  monasteri,  e  di  giurisdizione  conceduta  loro  e 
tanti  altri  atti  consimili,  essercitati  prima  d'Urbano,  sicom'è  mani- 
festo da'  diplomi  stessi,  rapportati  dalTUghelli,  dal  Pirro2  ed  altri 
scrittori  siciliani;  anzi,  conformi  a  questi  furono  i  diplomi  dell'al- 
tro Roggiero,  duca  di  Calabria,3  il  quale  certamente  non  ebbe  le- 
gazione alcuna  da  papa  Urbano,  e  pure  nelle  chiese  di  Calabria 
essercitava  ristesse  giurisdizioni  e  preminenze,  non  con  altro  titolo, 
se  non  quello  che  gli  proveniva  iure  imperii,  per  esser  egli  succeduto 
in  Calabria  in  quelle  stesse  ragioni,  che  vi  essercitavano  gl'impe- 
radori  d'Oriente.  La  bolla  di  Urbano  giovò  al  conte  di  Sicilia,  per 
non  fargliele  perdere,  sicome  furon  perdute  in  Calabria,  sul  sup- 
posto, ancorché  falso,  che  le  chiese  di  Calabria  non  fosser  comprese 
nella  bolla  d'Urbano,  conceduta  al  solo  conte  di  Sicilia. 

Fu  dimostrato,  in  ultimo  luogo,  che  tutti  gli  accordi  tentati  con 
Roma  sopra  questo  tribunale  o  furon  vani,  o  pregiudiziali  alle  reali 
preminenze,  e  che  la  via  più  ruinosa  questa  fosse;  ma  che  Sua  Mae- 
stà potea,  da  se  stessa,  senza  aver  bisogno  di  Roma,  stabilire  ciò 

1.  Ruggiero  I  (morto  nel  noi),  conte  di  Sicilia.  Dopo  la  conquista  dell'i- 
sola, vi  ristabili  la  religione  cattolica,  ponendo  a  capo  della  diocesi  vescovi 
da  lui  nominati.  L'osservazione  del  Giannone  è  storicamente  esatta. 
a.  Ferdinando  Ughelli  (1594-1670),  cistercense,  con  Italia  Sacra,  Romae 
1644- 1662,  diede  per  primo  una  storia  delle  diocesi  italiane,  con  notizie 
biografiche  di  vari  vescovi,  documenti  inediti  e  cenni  storici  delle  varie 
chiese.  Rocco  Pirri  (1577-1651),  erudito  siciliano,  storiografo  regio  (di 
Filippo  IV  di  Spagna  dal  1643),  autore  di  Sicilia  Sacra,  Panormi  1644- 
1647.  3.  Non  di  Calabria,  ma  di  Puglia.  Ruggiero  (morto  nel  ini)  era 
figlio  di  Roberto  il  Guiscardo,  e  perciò  nipote  del  conte  di  Sicilia,  dal 
quale  ebbe  più  volte  aiuti  militari  contro  Cosenza  e  Amalfi,  in  cambio  della 
cessione  dell'intera  Calabria. 


IÓO  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

che  stimerà  più  opportuno  per  norma  e  regola  di  quel  tribunale. 
E  che,  se  Roma  non  vuol  attendere  né  alla  bolla  d'Urbano,  né  a 
prescrizione,  né  a  tanti  secoli,  ne'  quali  furono  in  pacifico  possesso 
i  predecessori  re  di  Spagna  e  di  Sicilia,  Sua  Maestà  volentieri  ci 
dia  mano  ;  tolga  pure  ogni  bolla  e  prescrizione,  e  riduca  le  cose  in 
quel  pristino  stato,  nei  qual  erano  le  chiese  di  Sicilia  sotto  gl'impe- 
radori  Giustiniano  e  Lione,  che  furono  cattolicissimi  e  passimi, 
ed  altri  imperadori  d'Oriente,  de*  quali,  come  re  di  Sicilia,  rappre- 
senta le  veci  e  le  prerogative.  E  si  vedrà,  se  in  questa  maniera  ella 
verrà  a  perderci  o  a  guadagnare. 

Questi,  in  breve,  erano  gli  articoli  principali  di  questa  scrittura, 
la  quale,  copiata  ch'ebbi,  fecila  trascrivere  da  buona  mano,  e  pri- 
ma che  gli  altri  la  vedessero,  la  presentai  al  principe  Eugenio, 
dicendogli,  che  già  che  tutti  erano  in  moto  per  questa  contesa 
della  Monarchia  di  Sicilia,  avea  voluto  anch'io,  come  Diogene, 
muovere  la  mia  botte,  affinché  altri  travagliando,  non  fossi  io 
solo  riputato  ozioso  ed  infingardo,  come  se  niente  mi  dovesse  im- 
portare la  conservazione  de'  supremi  diritti  ed  alte  preminenze, 
che  Sua  Maestà  tiene  in  quel  regno  ;  avea  per  ciò  composta  quella 
scrittura,  che  umilmente  gliela  presentava;  affinché,  se  mai  le  sue 
gravi  occupazioni  gli  permettessero  darci  occhio,  conoscesse  che  la 
strada,  che  in  essa  veniva  additata,  era  molto  breve  e  corta,  per 
uscire  da  ogni  labirinto  e  da  tutti  gli  intrighi  della  corte  di  Roma; 
e  che  se  pure  non  volesse  tentarsi,  almeno  si  lasciassero  le  cose  ri- 
manere come  stavano,  e  non  precipitare  e  metter  a  terra  con  una 
nuova  bolla,  che  se  gli  dà  nome  di  concordato,  quell'antico  tribu- 
nale, conservato  sempre  da'  predecessori  re  di  Spagna  con  tanta 
gelosia  ed  accuratezza,  come  la  gioia  più  preziosa  della  lor  corona. 

Il  principe  ancorché  cortesamente  si  ricevesse  la  scrittura,  non 
potè  dissimularmi  il  tedio  e  la  noia  che  l'era  data  per  questo  affare, 
dicendomi  che  l'avean  caricato  di  tanti  volumi  di  scritture  concer- 
nenti al  medesimo,  che  non  ci  bastarebbero  più  mesi  interi  per 
leggergli;  e  spezialmente  i  voti  de'  reggenti  cosi  diffusi,  che  quello 
solo  del  reggente  Perlongo  occupava  una  mezza  resima1  di  carta, 
ed  egli  non  avea  tempo  per  consumarlo  in  queste  cose  ;  ed  avendogli 
io  risposto,  che  non  vi  era  alcuna  necessità  di  travagliarsi  con  più 
sottil  esame,  quando  non  possa,  bastando  che  in  Sicilia  si  lascias- 

i.  resima:  risma. 


CAPITOLO    SESTO  l6l 

sero  le  cose  come  si  trovavano  :  replicommi  che  questa  era  la  diffi- 
coltà, che  si  voleva  che  in  tutte  le  maniere  l'affare  amichevolmente 
si  terminasse  con  bolla  pontificia,  dando  a  sentire  che  altrimenti  le 
coscienze  tenere  e  delicate  de'  Siciliani  non  si  sarebbero  quietate; 
e  dicendomi  ciò  con  un  soghigno,  mi  animò  a  replicargli  che  vera- 
mente era  a  tutti  nota  e  palese  la  teneritudine  dilicatezza  di  co- 
scienza di  que'  insulani;  sicché  si  dovesse  temere,  che  le  sole  leggi 
del  lor  sovrano  non  bastassero  per  tenergli  in  freno  ed  in  quiete. 

Scorto  da  ciò  i  sentimenti  del  principe,  e  che  di  mala  voglia  ci 
sarebbe  entrato,  compresi  che  tutto  l'affare  verrebbe  finalmente  a 
cadere  sopra  le  braccia  del  conte  e  del  marchese,  sicome  il  successo 
il  dimostrò  ;  poiché,  ad  arte  non  facendosene  più  parola,  e  lasciato 
passar  molto  tempo,  sicché  finissero  i  discorsi  della  gente,  mentre 
tutti  erano  ad  altro  intesi,  si  seppe  che  le  scritture  tutte  dalla  Con- 
ferenza erano  passate  nelle  mani  del  marchese  di  Rialp,  il  quale  si 
pose  a  regolar  l'affare,  secondo  che  gli  veniva  più  in  acconcio. 
E  se  bene  la  minuta  si  fosse  moderata  in  alcune  parole,1  nulladi- 
manco  se  ne  sorrogarono  altre,  che  aveano  la  stessa  forza;  e  secondo 
quella,  senza  partecipazione  alcuna  del  Consiglio  di  Spagna,  si 
scrisse  in  Roma,  che  papa  Benedetto  stendesse  e  pubblicasse  la 
bolla,  sicome  fu  fatto;  ed  è  quella  che,  datasi  poi  alle  stampe,  ne 
furon  da  Roma  mandati  più  essemplari  in  Vienna  ed  in  Sicilia.2 

Letta  che  fu  da'  ministri  del  Consiglio  di  Spagna  (ad  alcuni  de' 
quali  avea  io,  con  molta  cautela  e  secretezza,  communicata  la  mia 
scrittura)  e  da  altri  uomini  probi,  dotti  e  savi,  non  poterono  non 
compiangere  il  misero  stato,  nel  quale  le  cose  eransi  ridutte,  ve- 
dendo che  sicome  in  Roma  a'  tempi  di  Tarquinio  il  Superbo,  il 
quale  tolto  il  costume,  come  dice  Livio,  «de  omnibus  senatum 
consulendi,  domesticis  consiliis  rempublicam  administravit»:3  così 
in  Vienna  i  regni  e  Stati  d'Italia  s'amministravano  per  privati  con- 
sigli di  coloro,  i  quali  non  aveano  altro  scuopo,  che  ingrandire, 

i .  la  minuta  .  .  .  parole  :  la  lettera  della  Cancelleria  imperiale,  datata  2  giu- 
gno 1728,  con  le  richieste  modifiche,  è  conservata  presso  l'Archivio  del- 
l'ambasciata austriaca  presso  la  Santa  Sede,  ed  è  stata  utilizzata  nella  sua 
celebre  Storia  dei  papi  dal  Pastor,  che  la  definisce  «lunghissima»  (voi.  xv, 
cit.,  p.  520).  2.  quella .  .  .  Sicilia:  il  testo  della  bolla  è  ristampato  in  ap- 
pendice al  citato  studio  di  G.  Catalano,  pp.  179  sgg.,  il  quale  l'ha  tratto 
dal  Magnum  Bullarium  Romanum  seu  eiusdem  continuatio,  Luxemburgi,  IV, 
1730»  PP-  37o  sgg.  Reca  la  data  del  30  agosto  1728.  3.  «de  omnibus  .  .  . 
administravit »:  cfr.  Livio,  1,  49,  7  («di  dover  consultare  il  Senato  su  ogni 
cosa,  governò  lo  stato  con  dei  consigli  privati  »). 


IÓZ  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

con  onori  e  ricchezze  le  proprie  case;  ed  i  ministri  spagnoli  se 
stessi  e  quelli  della  loro  nazione.  Ed  avendo  io,  doppo  aver  ben 
considerata  la  bolla,  notato  i  tanti  pregiudizi  e  svantaggi  che  s'eran 
inferiti  alle  reali  preminenze,  uno  per  uno  gli  distesi  in  altra  breve 
scrittura,  la  qual  letta  da'  pochi  a'  quali  io  l'avea  confidata,  di- 
mostravano la  bolla  ruinosa  e  pregiudizialissima  a  quel  tribunale, 
che  potea  dirsi  nuovo  e  tutt'altro  dell'antico,  del  quale  crasi  pro- 
curato di  abolirne  ogni  vestigio.  Ma  dapoi  bisognò  di  questo  affa- 
re non  parlarne  affatto  ;  sicché  queste  mie  scritture  rimasero  in  un 
profondo  silenzio,  non  arrischiandomi  di  più  mostrarle  ad  alcuno; 
poiché  da'  fabbri,  nella  fucina  de'  quali  erasi  fatto  questo  lavoro, 
era  riputato  delitto  il  parlarne  con  biasimo:  anzi  si  voleva  che 
tutti  l'applaudissero,  e  si  stimasse  la  «costituzione»,  ch'essi  chia- 
mavano «concordia»,1  vantaggiosa  per  Cesare,  il  quale  avea  otte- 
nuto ciò  che  Filippo  II,  re  di  Spagna,  non  potè  mai  conseguire. 
Ed  i  cortiggiani  di  Roma,  con  sottil  artificio,  perché  la  lusinga 
acquistasse  maggior  forza,  se  ne  mostravano  mal  soddisfatti,  e  ad 
arte  facevan  correr  voce,  che  la  bolla  fosse  di  gran  pregiudizio 
alla  Santa  Sede,  e  che  i  ministri  dell'imperadore  avean  avuta  la 
sorte  di  trattare  con  un  buono  e  semplice  pontefice,  il  qual  volen- 
tieri si  facea  tirar  per  naso  dal  cardinal  Coscia  e  dagli  altri  Beneven- 
tani, suoi  favoriti;  ma  che  da  altri  pontefici  non  l'avrebbero  certa- 
mente ottenuta. 

Queste  voci  giovarono  grandemente  al  Porcili  ed  agli  altri,  de' 
quali  il  cardinal  Sinfucgo  erasi  servito  come  ministri,  per  concer- 
tarla in  Roma,  da'  quali  venivano  ingrandite  e  sparse;  sicché  ne 
ottennero  ampi  premi  non  meno  dalla  corte  di  Vienna,  che  da 
quella  di  Roma,  come  assuefatti  a  mangiar  a  due  ganassc,  ed  ingran- 
dire con  ciò  la  loro  condizione  e  quella  delle  loro  famiglie.  All'in- 
contro que'  che,  investigando  la  verità  nelle  cose  cercavano  di 
manifestarla  e  di  scoprire  gl'inganni  e  le  frodi,  che  sotto  mentite 
apparenze  si  nascondevano,  erano  mal  visti  e  mal  graditi  e  tenuti 
lontani  da  ogn'impiego,  perché  non  frapponessero  ostacolo  ed  im- 
pedimento a'  loro  propri  vantaggi  ed  alla  smisurata  ambizione, 
che  nudrivano  ne'  loro  petti. 


▼  1a  bolla  è  infatti  comunemente  chiamata  «Concordia  benedettina». 


CAPITOLO  SETTIMO 

Anni  1728)  IJ2Q  e  1730.  In  Vienna. 

I 

Con  questi  strani  successi1  eravamo  entrati  già  nell'anno  1728, 
ed  avanzati  molto  nel  decorso  del  medesimo  ;  nel  quale,  a'  princìpi 
di  maggio,  io  con  le  mie  ospiti  era  passato  ad  un  più  comodo 
quartiere,2  presso  alla  casa  professa  de'  Gesuiti,  nella  strada  che 
chiamano  «il  piccolo  Parigi».  Assestati  i  mobili  e  postolo  in  ordine, 
si  passò  verso  la  fine  del  medesimo  a  Pettersdorf  nella  solita  vil- 
leggiatura; ed  in  quest'anno  il  nuovo  presidente,  conte  di  Monte- 
santo,3  ottenne  dall'imperadore,  che  sicome  gli  altri  Consigli  lo 
seguivano,  passando  a  Laxemburg  alla  caccia  d'aironi,  così  potesse 
far  anche  il  Consiglio  di  Spagna,  che  non  era  a  quelli  inferiore; 
onde  furon  con  nuovo  peso  gravati  i  villaggi  d'intorno  di  sommi- 
nistrare i  quartieri  a  ciascuno  de'  consiglieri,  reggenti,  secretari  ed 
ufficiali  della  secreteria  spagnola;  ed  in  Medeling4  fu  assignato  al 
presidente  un  capace  quartiere,  dove  oltre  le  stanze  per  la  sua  abi- 
tazione, potesse  ivi  tenersi  Consiglio;  e  poiché  Medeling  non  era 
sufficiente  a  dar  quartiere  a  tanti,  bisognò  che  gli  altri  reggenti  e 
secretari  ed  ufficiali  fosser  ripartiti  ne'  vicini  villaggi,  per  trovarsi 
la  mattina  a  Medeling  a  tener  Consiglio. 

Il  presidente  defonto5  non  avea  a  ciò  pensato,  poiché  tenendo  egli 
un  giardino  e  casa  nel  borgo  di  Josephstat,6  dove  solea  passare  ad 
abitare,  partito  l'imperadore  per  Laxemburg,  e  dimorarci  fino  ad 
ottobre,  non  fece  partir  mai  il  Consiglio  dalla  città;  ma  il  conte  di 
Montesanto,  che  non  avea  quest'aggio,  volle  procurarsi  per  questa 
via  anch'esso  la  sua  villeggiatura.  Ad  alcuni  reggenti  in  questo 
primo  anno  dispiacque  la  novità  per  gl'incommodi  che  s'immagi- 
navano dover  soffrire,  ma  dapoi  ben  si  ci  accomodarono,  e  conob- 
bero quanto  l'abitare  in  tal  tempo  a  que'  villaggi  conferisse  alla 
lor  salute.  Il  presidente  Montesanto,  ne'  seguenti  anni,  pensò 
a  stabilirsi  un  più  comodo  albergo,  per  un'occasione  che  sa- 
remo a  rapportare.  Il   marchese    Stella,  nipote   ed  erede  del 

1.  successi:  accadimenti.  2.  quartiere:  appartamento.  3.  conte  di  Monte- 
santo:  cfr.  la  nota  2  a  p.  119.  4.  Medeling:  Modling.  5.  Il  presidente  de- 
fonto :  cioè  l'arcivescovo  di  Valenza  Antonio  Folch  de  Cardona  (per  cui  cfr. 
la  nota  1  a  p.  88).  6.  Josephstat:  Iosephstadt  è  uno  dei  quartieri  del 
centro  di  Vienna. 


164  VITA    DI    PIETRO    GIANNONE 

conte  Stella1  cotanto  favorito  dall' imperadore,  al  quale2  avea  do- 
nato un  palazzo  in  Medeling,  che  poi  ridusse  in  magnifica  forma, 
possedeva  questo  edificio,  e  doppo  la  morte  del  zio  riuscendogli 
inutile,  pensò  di  venderlo,  e  profittò  molto  del  desiderio  che  mo- 
strava il  conte  di  Montcsanto  di  comprarlo  per  suo  uso  e  del  Con- 
siglio, poiché  non  trovando  prima  chi  volesse  comprarlo,  ed  a 
prezzo  sì  caro  quanto  egli  ne  pretendeva:  col  presidente,  che  non 
dovea  sborsar  suo  denaro,  trovò  facilità  di  pagarglielo  quanto  volea, 
che  fu  la  somma  di  ottomila  fiorini.  La  difficoltà  era  di  trovar  il 
denaro,  ed  a  ciò  fu  dato  presto  rimedio,  poiché,  contrastando  in- 
vano la  Casa  dell'Annunziata3  di  Napoli  di  poter  ottener  l'assenso 
regio  ad  un  contratto  stipulato  con  i  suoi  creditori,  per  tante  diffi- 
coltà ed  ostacoli  fattigli  dal  Consiglio:  questo  bisogno  di  denaro 
glielo  facilitò  subbito.  Furon  presto  risolute  le  difficoltà  ed  ogni 
dubbio:  fu  dato  l'assenso,  e  fattasi  tassa  di  quanto  importasse  la 
somma  de*  diritti  di  spedizione  e  suggello,  che  si  fece  ascendere  a 
più  di  quel  che  importava  il  prezzo  del  palazzo  di  Medeling,  fu- 
rono sborsati  i  fiorini  ottomila  e  pagati  al  marchese  Stella,  il  quale 
ne  diede  il  possesso  al  presidente,  in  nome  del  Consiglio  che  lo 
comprò,  e  da  indi  in  poi,  quivi  ebbe  ferma  abitazione,  dove  ogni 
anno  si  portava  il  presidente  con  tutta  la  sua  famiglia,  per  dimo- 
rarci non  solo  il  tempo  che  l'imperadore  si  tratteneva  a  Laxem- 
burg,  ma  l'intiera  estate,  avendola  fornita  di  propri  mobili,  rima- 
nendo due  sole  stanze  per  uso  del  Consiglio. 

Questa  traslazione  mi  riuscì  molto  commoda,  e  rese  la  mia  vil- 
leggiatura di  Pettersdorf  più  cara  e  gradita,  non  solo  per  la  faci- 
lità che  avea  di  trattar  co'  reggenti  di  qualche  affare,  avendogli 
vicini,  ma  anche  per  la  conversazione  che  godeva  del  reggente 
Almarz  e  degli  altri  amici,  che  venivano  spesso  da  Vienna  a  visi- 
tarlo, o  per  loro  negozi;  e  tanto  più,  che  il  quartiere  assignato  al 
reggente  Almarz  era  nel  villaggio  di  Prun,4  prossimo  a  Pettersdorf; 


i.  Rocco  Stella  (1661-1720),  conte  di  Santa  Croce,  era  figlio  di  un  medico 
di  Modugno.  Lasciò  il  regno  di  Napoli  nel  1684  arruolandosi  negli  eserciti 
impenali  e  con  una  brillantissima  carriera  giunse  al  grado  di  maggiore  nel 
reggimento  del  Montecuccoli  nel  1701.  Fu  quindi  consigliere  di  guerra 
nella  giunta  dei  Consiglio  d'Italia  e  aiutante  deirarciduca  Carlo,  che  seguì 
poi  a  Vienna.  Qui  mantenne  la  sua  carica  di  reggente  per  gli  affari  militari 
del  regno  di  Napoli  nel  Consiglio  di  Spagna,  assieme  a  Girolamo  Capcce, 
marchese  di  Rofrano.  2.  al  quale:  soggetto  è  Yimperadore.  3.  la  Casa  del- 
»»  ^i«w#ww/7f/2:  osdìzì0  e  luogo  pio  per  i  fanciulli  esposti.     4.  Prun:  Brunn. 


CAPITOLO    SETTIMO  165 

sicché  io,  la  mattina  o  la  sera,  facendo  i  miei  soliti  essercizi,  avea 
per  termine  di  riposarmi  la  di  lui  casa,  e  sovente  era  invitato  a  ri- 
manere ivi  a  pranzar  seco  con  altri  amici;  sicché  in  que*  due  mesi 
godeva  non  pur  l'amenità  della  campagna,  ma  la  conversazione 
non  meno  de'  Tedeschi,  che  de'  nostri  Italiani  e  sopra  tutto  di 
avere  alcune  ore  del  giorno,  spezialmente  della  mattina,  solitarie  e 
quiete,  da  impiegare  a'  miei  non  isforzati,  ma  volontari  e  non  men 
seri  che  ameni  studi. 

In  questi  tempi,  divolgandosi  sempre  più  la  mia  Istoria  civile  per 
tutte  le  province  della  Germania,  cominciai  ad  acquistar  la  cono- 
scenza di  molti  letterati  tedeschi,  westfali,  sassoni,  svevi  e  di  altre 
città  libere  imperiali,  i  quali  ebbero  la  cortesia  non  solo  scrivermi 
gentilissime  lettere  latine,  ricercandomi  di  qualche  notizia  istorica 
delle  cose  d'Italia  e  spezialmente  dell'ultimo  concilio  romano,  che 
tenne  papa  Benedetto  XIII,  e  per  quali  cagioni  non  fosse  stato 
ricevuto  nel  regno  di  Napoli;  ma  anche,  dando  alle  stampe  qualche 
loro  opera,  di  allegar  la  mia  e  far  di  me  onorata  memoria.1  Conob- 
bi, per  loro  cortesissime  lettere  che  mi  scrissero,  i  due  Menckeni,2 
padre  e  figlio,  al  quale  mandai  più  riposte  notizie  intorno  alla 
vita  d'Angelo  Poliziano,  ch'era  tutto  inteso  di  dar  alla  luce.3  Per 

1.  spezialmente  .  .  .  memoria:  il  Panzini,  p.  71,  spiega  questo  passo  scri- 
vendo che  «  il  signor  Giovanni  Erardo  Kappio  da  Lipsia,  amico  del  signor 
Ottone  Menchenio,  .  .  .  avendo  impreso  intorno  all'anno  1729  a  scrivere 
la  storia  dell'ultimo  Concilio  di  Laterano,  tenuto  nel  1726  ...  ed  insieme 
con  essa  un* ampia  descrizione  dello  stato  presente  d'Italia  ...  si  rivolse 
al  Giannone,  siccome  a  colui  il  cui  particolare  conoscimento  in  così 
fatte  materie  era  in  Lipsia,  più  che  in  altro  luogo  della  Germania,  ben 
conto  ed  apprezzato  ».  L'opera,  alla  quale  si  fa  qui  riferimento,  è  la  Historia 
Condili  Lateranensis  a  Benedicto  XIII  P.  M.  172$  Romae  celebrati,  ab 
Anonymo  hetrusce  conscripta,  ex  ms.  primum  edita,  latine  conversa,  foliolis, 
in  congregationibus  praesynodalibus  distributis,  adaucta  notisque  subinde  illu- 
strata. Praemissa  est  Caroli  VI,  Rom.  imp.  Animadversio  in  Iosephum 
Sanfelìcium,  iesuitam,  eiusque  Considerationes  morales  et  theologicas  contra 
Petri  Giannoni,  viri  clarissimi,  Historiam  Civilem  regni  Neapolitani  evul- 
gatas,  tanquam  novissimum  iuris  imperatorii  circa  sacra  exercitium,  ex  actis 
publicis,  fata  memorabilia  laudatae  historiae  exhtbentibus,  hisque  ex  ms.  incer- 
tis,  luculenter  descripta. . .,  Lipsiae  173 1.  Cfr.  la  lettera  al  fratello  del  25  feb- 
braio 1730  in  cui  dice  di  aver  ricevuto  il  frontespizio  dell'opera  (Giannoma- 
na,  n.°  344).  2.  *  due  Menckeni'.  Johann  Burckard  (1674-1732)  e  Friedrich 
Otto  Mencke  (1708- 1754),  ambedue  storici  ed  eruditi,  professori  nel- 
l'università lipsiense,  oltre  che  alle  loro  opere,  dovettero  la  loro  fama  alla 
pubblicazione  degli  «Acta  Eruditorum  Lipsiensium  »,  uno  dei  più  famo- 
si periodici  della  repubblica  letteraria  settecentesca.  3.  notizie  .  .  .  luce: 
cfr.  F.  O.  Mencke,  Historia  vitae  et  in  literas  meritorum  Angeli  Politiani, 
ortu  Ambrogini . .  .,  Lipsiae  1736.  Nell'Archivio  di  Stato  di  Torino,  maz- 


IÓ6  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

la  via  stessa,  ebbi  conoscenza  del  famoso  antiquario  Sigismondo 
Liebe,1  e  d'altri  uomini  dotti,  i  quali  si  eran  resi  celebri  per  le  loro 
opere  date  alle  stampe.  Ebbi  infine  il  piacere,  che  non  vi  era  viag- 
gentea  tedesco,  fiamingo  o  d'altra  nazione,  che  passando  per  Vienna 
non  avesse  la  curiosità  di  venire  a  visitarmi.  Ma  tutta  questa  stima, 
che  per  me  aveano  i  forastieri,  non  mi  valse  niente  presso  gli  Spa- 
gnoli ed  i  nostri  nazionali. 

Intanto  sempre  più  andando  io  perdendo  la  speranza  d'essere 
impiegato  in  Vienna  in  qualche  carica  (poiché  gli  Spagnoli  preve- 
nivano in  occuparle  tutte,  ed  i  mali  uffici  che  contro  di  me  si 
facevano  dalla  corte  di  Roma,  servivano  per  pretesto  d'escluder- 
mene), mi  risolsi  a  volgere  altrove  gli  uffici  e  la  mediazione  de' 
miei  amici  e  protettori,  perché  almanco  potessi  tornare  in  Napoli 
con  posto  conveniente  alla  mia  graduazione3  d'avvocato,  ed  otte- 
nerlo in  que'  medesimi  tribunali,  o  di  consiglier  di  Santa  Chiara 
o  di  presidente  della  Camera,4  ne'  quali  avea  esercitata  Invoca- 
zione. Più  volte  pregatone  il  marchese  di  Rialp  mostrava  non 
averci  difficoltà,  tanto  maggiormente  che  l'era  da  me  suggerito 
che,  rimandandomene  in  Napoli  con  carica,  Sua  Maestà  rispar- 
miava ogni  anno  que'  mille  fiorini  che  mi  eran  somministrati  per 
mio  sostentamento,  de'  quali  poteva  valersene  ad  altri  usi,  gratifi- 
cando altri  suoi  benemeriti.  Ma  poiché  la  provista  di  tali  cariche 
dipendeva  dalle  nomine  de'  soggetti,  che  i  viceré  di  Napoli  man- 
dano alla  Corte  in  occasione  di  vacanze,  il  marchese  mi  disse  che 
bisognava  che  il  viceré,  fra  gli  altri  anche  me  nominasse,  affinché 
se  gli  dasse  l'apertura  di  propormi  a  Sua  Maestà  e  facilitar  la 
provista. 

Pareva  che  a  questi  principi  secondasse  la  sorte  ;  poiché  essendosi 
l'imperadore  risoluto  di  rimovere  dal  governo  di  Napoli  il  cardi- 
nal Althan,  e  mandargli  per  successore  il  conte  d'Harrach,  col 
quale  e  co'  di  lui  dignissimi  figliuoli  io  avea  contratta  qualche 

20  i,  ins.  9,  sono  raccolti  appunti  del  Giannone  sul  Poliziano,  assieme  ad 
una  minuta  di  lettera  indirizzata  a  Friedrich  Otto  in  data  28  luglio  1728, 
Neil' epistolario  della  Biblioteca  Nazionale  di  Roma,  a  seguito  della  lettera 
del  Giannone  al  fratello  da  Vienna  del  7  agosto  1728  (Giannoniana,  n.°  263) 
è  copiata  una  memoria  sulla  vita  del  Poliziano,  stesa  dall'abate  Giovan 
Lorenzo  Acampora,  che  fu  dal  Giannone  rimessa  al  Mcncke  il  28  settem- 
bre di  quello  stesso  anno  (cfr.  la  lettera  a  Carlo  di  quel  giorno,  Giannonia- 
na,  n.°  269).  1.  Christian  Siegmund  Liebe  (1 687-1 736),  erudito  e  anti- 
quario tedesco.  2.  viaggente:  viaggiatore.  3.  graduazione;  rango»  condi- 
zione.    4.  Camera:  della  Sommaria,  ossia  real  patrimonio. 


CAPITOLO   SETTIMO  167 

servitù,  pensai  che,  trovandosi  l'Harrach  in  Napoli  avrei  potuto 
dal  medesimo  ottenere,  che  nell'occasioni  di  nomine  non  si  dimen- 
ticasse della  mia  persona.  Differì  egli  molto  la  sua  partenza,  sicché 
diede  aggio  al  marchese  d'Almenara,1  che  da  Sicilia  erasi  portato 
in  Napoli,  doppo  esserne  partito  il  cardinale,  di  proseguire  il  go- 
verno interino  per  più  di  sei  mesi;  onde  in  questo  tempo  che 
l'Harrach  si  trattenne  a  Vienna  procurai  che  in  mia  raccomanda- 
zione gli  parlasse  il  principe  Eugenio,  sicome  fece  con  molta  ef- 
ficacia; ed  io  non  mancai  prima  di  partire  di  raccomandarmici, 
con  presentargli  un  essemplare  della  mia  opera,  pregandolo  di 
rivoltar  qualche  foglio  del  quarto  tomo,  dove  avrebbe  trovati  de- 
scritti tutti  i  governi  de5  predecessori  viceré  di  Napoli,  da'  quali 
forse  avrebbe  potuto  ricavarne  qualche  profitto,  con  imitare  i 
buoni  e  saggi,  e  schifare  i  cattivi  e  perniciosi.  Me  ne  rese  molte 
grazie,  e  con  somma  cortesia  si  esibì  di  volermi  nelle  occasioni  favo- 
rire; ed  il  principe,  pochi  giorni  prima  della  sua  partenza,  gli  man- 
dò il  suo  secretano  a  ricordarglielo,  e  di  mettermi  in  nota  fra  gli 
altri  suoi  raccommandati.  Partì  finalmente  l'Harrach  da  Vienna  nel 
mese  di  novembre  di  quest'anno  1728  ;  e  giunto  a  Napoli,  comin- 
ciò il  suo  governo  con  fama  d'un  ministro  savio,  incorrotto  e 
niente  contemplativo  per  la  corte  di  Roma,  ancorché  tenesse  un 
figliuolo  stradato2  per  la  Chiesa,  che  poi  abbiam  veduto  auditor 
di  Rota  e,  se  morte  non  l'avesse  sottratto,  si  sarebbe  veduto  anche 
cardinale. 


il 

[J729] 

Nel  cader  di  quest'anno  e  cominciar  del  nuovo  1729,  ebbi  noti- 
zia che  finalmente,  doppo  sei  anni,  da  Roma  era  uscita  in  due  tomi 
in-quarto,  la  confutazione  dell'Istoria  civile,  composta  dal  padre 
Sanfelice3  napolitano,  gesuita,  il  quale,  doppo  averci  travagliato 

1.  marchese  d'Almenarax  cfr.  la  nota  1  a  p.  136.  2.  stradato:  istradato,  av- 
viato alla  carriera  ecclesiastica.  Si  tratta  di  Johann  Ernst,  spentosi  nel  1739. 
3.  Giuseppe  Sanfelice  (1665-1737),  gesuita,  figlio  illegittimo  del  cavaliere 
napoletano  Alfonso  Sanfelice.  Si  noti  che  il  Giannone  era  in  ottimi  rap- 
porti con  un  consanguineo  di  Giuseppe,  il  cavaliere  Ferdinando  Sanfelice, 
al  quale  ricorse  perché  convincesse  il  padre  gesuita  a  desistere  «  dal  minare 
la  mia  opera  »  (cfr.  la  lettera  al  fratello,  del  4  ottobre  1727,  Giannoniana, 
n.°  219).  Ancora  il  15  novembre  il  Giannone  sperava  che  il  cavaliere  Ferdi- 


IÓ8  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

per  tanto  tempo  in  Napoli,  era  passato  in  Roma  per  darla  alle 
stampe.  Era  prima  precorsa  voce,  che  questo  gesuita  stasse  in  ciò 
occupato,  ma  poiché  il  soggetto  non  si  reputava  idoneo,  né  che 
questo  peso  fosse  delle  sue  spalle,  non  era  da  molti  creduto;  ma 
dapoi  si  seppe,  ch'egli  più  volte  erasi  portato  in  Roma,  e  commu- 
nicato  co'  suoi  amici,  che  bisogna  che  fossero  della  stessa  sua  fa- 
rina, il  suo  disegno,  ne  ricevesse  applauso  e  maggiore  stimolo,  sic- 
ché con  più  alacrità  prosegui  il  lavoro;  e  tanto  maggiormente, 
che  gli  diedero  a  sentire  che  il  papa  ne  l'avrebbe  molto  grazia; 
ed  il  cardinale  Pico  della  Mirandola1  era  persuaso  che  potesse  da 
lui  uscirne  cosa  buona,  e  che  discreditare  non  men  quell'Istoria, 
che  il  suo  autore;  sicché  per  l'avvenire  non  fosse  più  letta,  né 
guardata.  Credcasi  che  ne  fosse  stato  anche  inteso  il  cardinal  Sin- 
fuego,2  il  quale,  per  essere  gesuita,  avea  sommo  piacere  che,  non 
fidandosi  altri  frati  e  monaci3  che  stavano  attorno  al  papa,  final- 
mente uscisse  un  gesuita,  che  il  valesse  e  che  rovinasse  tutta  quella 
macchina.  Fu  fama  che  la  spesa  della  stampa  P  avesse  somministra- 
ta il  cardinal  Pico,  vedendosi  che  non  si  guardò  a  risparmio  ;  poi- 
ché un'opera,  che  si  avrebbe  potuto  ristringere  con  mezzano  carat- 
tere4 in  un  picciol  volume,  si  volle  far  comparire  in  due  in-quarto, 
valendosi  d'un  carattere  pontificale5  e  di  carta  con  spazioso  e  ben 
ampio  margine.  Usci  sotto  il  finto  nome  di  Eusebio  Filopatro,  e  se 
ben  si  fosse  impressa  in  Roma  e,  come  ivi  si  leggeva,  «  con  licenza 
de'  superiori)),  portava  la  data  di  Colonia. 

Il  gesuita  Sanfelice,  in  forma  di  più  lettere,  introduce  vari  amici 
che  si  scrivono  a  vicenda,  nelle  quali  è  trattato  quel  meschino 
istorico  civile  con  tanta  piacevolezza  e  mansuetudine,  quanta  usò 


nando  sarebbe  riuscito  a  convincerlo  «a  non  lasciarsi  tirare  dall'ambizione 
o  da  qualche  altro  fine  di  risvegliare  questo  vespaio  »  (Gìannoniana>  n.°  225)  ; 
ma  ogni  speranza  cadeva  nel  dicembre  :  il  27  di  quel  mese  scriveva  infatti 
al  fratello  pregandolo  di  ringraziare  il  cavaliere  per  quanto  aveva  fatto  in 
suo  favore,  aggiungendo:  «intorno  a  questo  affare  mi  regolerò  secondo  i 
riscontri  che  si  avranno  da  Roma»  (Giannoniana,  n.°  231).  1.  Ludovico 
Pico  della  Mirandola  (1669-1743),  vescovo  in  partibus  di  Costantinopoli  dal 
1706,  cardinale  nel  17 12,  prefetto  dei  Palazzi  Apostolici,  quindi  della 
Sacra  Congregazione  delle  indulgenze.  2.  il  cardinal  Sinfuego  :  cfr.  la  no- 
ta 2  a  p.  130,  3.  non  fidandosi . . .  monaci:  sembrerebbe  un'allusione  al 
padre  Giovanni  Antonio  Bianchi,  il  quale  attese  sino  al  1745  per  pubbli- 
care la  sua  opera  (cfr.  la  nota  1  a  p.  127).  4.  con  mezzano  carattere:  con 
caratteri  tipografici  né  grandi  né  eccessivamente  piccoli.  5.  carattere  pon- 
ti-ficaie: carattere  di  eccezionali  dimensioni,  usato  per  libri  liturgici. 


CAPITOLO   SETTIMO  169 

Apollo  scorticando  Marsia.1  Non  si  tiene  gran  conto  àt\Y  Istoria, 
né  molto  si  bada  a  rispondervi,  ma  s'imperversa  ed  incrudelisce 
contro  Fautore,  che  si  vorrebbe  martirizato  e  morto.  Non  vi  è 
contumelia,  opprobrio,  scherno  o  ingiuria  quanto  gravissima  im- 
maginar si  possa,  che  non  si  fosse  adoperata.  Lo  chiama  eretico, 
malvaggio,  concubinari, 3  non  meno  in  iure  che  in  facto,  villano, 
dottorello,  leguleio  ;  e  gli  ordinari  e  spessi  aggiunti3  sono  d'empio, 
scellerato,  capo-demonio,  ateo,  senza  Dio  e  senza  croce;  e,  nel- 
Tistesso  tempo  che  vuole  che  nella  sua  Istoria  insegni  l'ateismo, 
vuol  anche  che  insegni  il  macomettismo.4  Lo  finge  epicureo,5  che 
neghi  la  divina  provvidenza  e  supponendolo  tale,  senza  mostrarne 
la  cagione,  terminate  le  lettere  vicendevolmente  scritte  da'  finti 
amici,  ne  indirizza  egli  tre  altre  nominatamente  all'autore  delTIrto- 
ria  civile,  nelle  quali  con  ogni  sforzo  l'esorta  che,  lasciata  la  dot- 
trina d'Epicuro  e  di  Lucrezio,  voglia  ridursi  alla  sana  credenza; 
ed  assumendo  le  parti  di  un  garrulo  e  sciapito  predicatore,  vuol 
che  lasci  la  dottrina  seguitata  fin  ora,  e  si  appigli  alla  sua  dimostra- 
ta in  quelle  lettere,  ed  apprenda  quelle  massime,  spezialmente  del 
papato  e  delle  particolari  divozioni  a'  santi  di  più  ordini  religiosi, 
ne'  quali  e'  riputa  consistere  la  gerarchia  della  Chiesa,  ch'egli  in 
essa  cotanto  inculca.  Procura,  in  queste  tre  ultime  lettere,  mostrarsi 
non  men  valente  filosofo  di  quello  che  s'era  mostrato  nelle  pre- 
cedenti, consumato  teologo  e  moralista.  Intitola  per  ciò  questa 
sua  opera:  Riflessioni  morali  e  teologiche.6 

Ma  ciò  che  reca  più  stupore  che  meraviglia  è  che  nell'istesso 
tempo  che  fa  il  correttor  di  costumi  ed  il  morale,  adopra  le  più 
maligne  calunnie  ed  imposture,  che  i  più  neri  diavoli  dell'Inferno 
non  mentiron  tanto.  Mendace  da  per  tutto,  stroppiatore  de'  sensi 
e  delle  parole  deWIstoria  civile,  mutilandole,  viziandole  e  falsifi- 

1.  quanta  usò  .  .  .  Marsia:  nel  mito  greco  il  satiro  Marsia,  in  una  gara  di 
doppio  flauto,  vinse  il  dio  Apollo  e  questi,  offeso  per  l'oltraggio,  lo  appese 
ad  un  albero  scorticandolo  vivo.  2.  concubvnario:  a  sua  volta  il  Gian- 
none  ripagò  con  la  stessa  moneta.  In  una  lettera  al  fratello,  del  19  feb- 
braio 1729  (Giannoniana,  n.°  290),  si  raccomandava:  «Vorrei  che  frattanto 
mi  appurasse  se  veramente  fosse  bastardo,  e  se  nato  d'adulterio,  ovvero  di 
donna  libera.  Ciò  desidero  saperlo,  se  mai  potesse  servir  la  notizia  »  :  sicco- 
me appunto  servì  nella  replica  (cfr.  Professione  di  fede,  in  Opere  postume,  1,  p. 
275)-  3-  aggiunti:  aggettivi.  4.  il  macomettismo:  la  religione  di  Maometto 
(Macometto).  5.  epicureo:  le  tre  ultime  Lettere  delle  Riflessioni  del  San- 
felice  esaminano  appunto  l'epicureismo  giannoniano.  6.  Riflessioni  morali 
e  teologiche  sopra  V Istoria  civile  del  regno  di  Napoli.  Esposte  al  pubblico  in  più. 
lettere  familiari  di  due  amici  da  Eusebio  Filopatro,  Colonia  (ma  Roma)  1728. 


170  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

candole;  e  l'impudenza  e  sfacciataggine  è  tanta,  che  non  si  ritiene 
di  allegar  le  pagine,  ancorché  fosse  certo  che  i  lettori  riscontrandole, 
facilmente  si  accorgerebbero  della  falsità  ed  impostura.  E  per  darne 
di  ciò  l'ultime  pruove,  nel  fine  del  secondo  volume  vi  attacca  un 
Indice,1  nel  quale  divide  in  più  classi  le  proposizioni,  che  e'  dice 
aver  notate  ne'  libri  àtWIstoria  civile,  che  sotto  varie  rubriche  le 
qualifica  di  suo  capriccio  ora  per  eretiche,  per  empie,  schismatiche 
e  scandalose,  ora  per  ingiuriose,  temerarie,  false,  erronee,  etc.  E 
questo  Indice,  ancorché  dovesse  andar  sempre  attaccato  all'opera, 
nulladimanco  egli  lo  divise  e  mandava  attorno  senza  l'opera,  af- 
finché chi  lo  leggeva  almanco  si  mettesse  in  dubbio,  non  potendolo 
riscontrar  coll'opera,  se  fosser  vere  0  false  le  accuse  ed  imputa- 
zioni che  ivi  si  notavano. 

Di  quest'opera  del  gesuita  Sanfelice  ne  furon  da  Roma  trasmessi 
in  Napoli  molti  essemplari,  i  quali  si  vendevano  nella  porteria2  del 
maggior  collegio  de'  Gesuiti,  ma  poiché  rari  erano  i  compratori, 
si  pensò  d'esporgli  venali3  nelle  botteghe  de'  librari,  e  per  darne  a 
tutti  notizia,  ne*  pubblici  Avvisi  che  sogliono  stamparsi  in  Napoli 
si  additava  il  libraro,  e  per  maggiormente  invogliare  la  gente  si 
espresse  ch'era  un'opera  scritta  contro  V Istoria  civile  del  Giannoni. 
Gli  amici  non  mancarono  di  mandarmene  in  Vienna  un  essemplare, 
tosto  che  poterono,  e  fu  molto  opportuno  l'avermelo  trasmesso, 
non  solo  per  avermi  liberato  dalla  pena  che  avea  in  aspettandolo, 
credendo  che  doppo  sei  anni  di  tempo,  finalmente  dovesse  uscir 
fuori  cosa  da  pensarci,  non  cotanto  sciocca,  sciapita  e  satirica;4 
ma  eziandio  perché  da  Roma  in  Vienna  non  si  mandava  l'opera, 
ma  pieghi,  ne'  quali  erano  acchiusi  i  soli  fogli  dell'iWzce,  i  quali, 
capitati  in  mano  d'alcuni  Gesuiti  napolitani  e  siciliani,  ch'erano  in 
Vienna,  questi  (poiché  i  Tedeschi  non  se  n'impacciavano)  Tan- 
davan  mostrando  a'  nostri  Italiani,  e  sotto  mentito  zelo  farisaico, 
quasi  compassionando  il  mio  stato  infelice,  nel  quale  era  caduto 

1.  Indice  delle  proposizioni  che  nella  Storia  civile  più  spiccano  meritevoli  di 
censura  e  che  si  rabbattono  a  suo  luogo.  Quest'indice  presenta  una  numera- 
zione indipendente  dai  volumi  delle  Riflessioni^  appunto  perché  destinato 
-  come  lo  stesso  Giannone  dirà  qui  sotto  -  a  circolare  indipendentemente 
dall'opera.  2.  porterìa:  portineria.  3.  venali:  in  vendita.  Esemplari  del 
libro  furono  venduti  nella  bottega  del  libraio  Francesco  Forastieri  (cfr. 
Memoria  per  S.  A.  S.  Eugenio  di  Savoia,  in  Giannoniana,  p.  435).  Copie 
dell'opera  vennero  in  seguito  sequestrate  nelle  botteghe  dei  librai  napo- 
letani Luca  Valerio  e  Nicola  Monaco:  cfr.  H.  Benedikt,  Dos  Kdnigreich 
Neapel,  cit.,  p.  380.    4.  satirica:  degna  di  satira. 


CAPITOLO   SETTIMO  171 

essendomisi  scoverti  tanti  errori  ed  eresie,  mostravano  desiderare 
che  io  mi  emendassi,  e  tornassi  dalla  smarrita  alla  dritta  strada 
che  conduce  alla  salute.  Ma  dall'opera  istessa,  che  solo  io  avea,  e 
che  a  questo  fine  offeriva  a  tutti  per  leggerla,  facilmente  si  scovri- 
rono le  calunnie  ed  imposture:  poiché  le  pagine  ch'eran  citate 
nz\Y  Indice  non  pruovavano  niente  di  quanto  si  asseriva,  ma  si  ri- 
ducevano in  ciarle,  prediche  ed  esclamazioni  vane.  Fu  eziandio  da 
tutti  osservato,  che  quell'opera  non  era  che  una  rabbiosissima  sa- 
tira, colma  di  sfacciate  contumelie  ed  impudenti  ingiurie,  ed  oltre 
a  ciò  ripiena  di  massime  ingiuriose  alla  potestà  de'  principi  e  pre- 
giudizialissime  alla  regal  giurisdizione,  cotanto  ingrandendosi  la 
papale,  che  si  voleva  essere  venuta  al  papa  dirittamente  ed  imme- 
diatamente da  Dio,  e  quella  de'  principi  mediatamente,  per  mezzo 
del  papa,  per  cui  regnavano  i  re  ed  i  principi  della  terra  ed  am- 
ministravan  giustizia. 

Riputatasi  da  tutti  l'opera  non  meno  sciocca  e  satirica,  che  in- 
giuriosa alla  potestà  de'  principi,  non  mancarono  de'  zelanti  del 
real  serviggio  e  de'  buoni  costumi  di  scrivere  in  Napoli  al  conte 
di  Harrac  viceré,  ed  al  suo  secretano  di  Stato  e  guerra,1  maravi- 
gliandosi come  permettessero  di  far  girare,  liberi  e  franchi  per 
Napoli  libri  di  tal  fatta,  che  non  erano  se  non  libelli  famosi2  e 
cotanto  ingiuriosi  a'  principi,  e  come  i  ministri,  di  cui  era  il  peso 
d'invigilare  a  supprimergli,  si  mostrassero  cotanto  negligenti  e  son- 
nacchiosi. Il  viceré,  avvisato  da  Vienna  di  ciò  che  dovea  esserne  av- 
vertito in  Napoli,  e  spezialmente  dal  delegato  della  real  giurisdizio- 
ne,3 ordinò  che  dal  secretano  di  Stato  (il  quale  da'  librari  n'ebbe 
un  essemplare)  immantinente  si  scrivesse  un  biglietto  al  delegato 
suddetto,  mandandogli  il  libro,  maravigliandosi  come  s'era  lasciato 
correre  e  che  fin  da  Vienna  dovea  egli  averne  notizia,  non  essen- 
dovi chi  ce  la  desse  in  Napoli,  imponendogli  che  l'esaminasse  e 
proponesse  nel  Consiglio  Collaterale,  per  darvi  la  dovuta  provvi- 
denza.4 Per  maggiormente  affrontarlo  e  scuoterlo  dal  suo  letargo, 

1.  secretorio . .  .guerra'.  JuanTomàs  de  Peralta,  sul  quale  cfr.  H.  Benedikt, 
Dos  Konigreich  Neapel,  cit.,  pp.  397-9  e  493.  2.  libelli  famosi:  già  secondo 
il  diritto  romano  (e  si  veda  il  famosus  libellus  in  Tacito,  Svetonio,  ecc.) 
qualsiasi  scritto,  stampato  anonimo  o  sotto  falso  nome,  con  cui  si  attribui- 
vano a  taluno  per  infamarlo  {famosi',  infamatori)  atti  o  azioni  disonoranti. 
3.  dal  delegato  .  .  .giurisdizione:  Gaetano  Argento.  4.  ordinò  .  .  .provvi- 
denza: cfr.  su  tutto  questo  H.  Benedikt,  Dos  Konigreich  Neapel,  cit., 
pp.  555  sgg.,  il  quale  pubblica  le  due  lettere  del  viceré,  la  prima  all'Argen- 
to (del  18  marzo)  e  la  seconda  al  presidente  del  Consiglio  di  Spagna  (in 


172  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

gli  mandò  un  nuovo  Ufficio,  che  s'era  stampato  in  Napoli,  di 
Gregorio  VII,  il  quale  papa  Benedetto  XIII  voleva  che  fosse 
adorato  per  santo  in  tutto  l'universo  orbe,  nel  quale  si  leggevano 
tre  lezioni  ingiuriose  alla  potestà  de'  re  e  imperadori,  e  pregiudi  - 
zialissime  alla  real  giurisdizione;  e  pure,  di  questi  Uffici,  che  in 
Francia,  Germania  ed  altri  regni  non  erano  stati  ricevuti,  Napoli 
era  piena;  anzi  che  per  i  tribunali  si  andavano  ad  alta  voce  ven- 
dendo, ed  il  delegato  della  giurisdizione  Argento,  che  si  trovava 
anche  presidente  del  Consiglio  di  Santa  Chiara,  come  se  niente  ciò 
l'appartenesse,  chiudeva  gli  occhi  e  si  turava  le  orecchie.1 

Ma  ciò  che  fecemi  maggiormente  accorto  quanto  possa  ne*  petti 
umani  la  smoderata  ambizione,  e  quanto  ampia  fosse  la  rete  colla 
quale  Roma  tutti  prende  ed  involve,  fu  che  il  reggente  Ventura,3 

data  5  aprile),  nonché  il  verbale  della  riunione  del  Collaterale  e  il  testo 
del  decreto  di  proibizione.  La  risposta  dell'Argento  alla  lettera  del  Harrach 
nella  Biblioteca  della  Società  Napoletana  di  Stona  Patria,  Ms.  XXVII,  A, 
7,  ff.  215-8  (con  la  data  del  18  marzo);  ma  vedi  anche  prima,  altra  mi- 
nuta di  lettera,  ai  ff.  213-5.  1.  Ufficio  .  .  .  orecchie:  ristampato  in  Napoli 
dal  tipografo  Luca  Valier  nel  1729,  V  Ufficio  fu  fatto  sequestrare  ancora  in 
tipografia.  Gli  atti  del  processo  in  data  16  marzo  1729,  e  le  copie  seque- 
strate, in  Archivio  di  Stato  di  Napoli,  Delegazione  della  R.  Giurisdizione, 
Processure,  1730,  voi.  iv,  ce.  495  sgg.  Sull'atteggiamento  dell'Argento  cfr. 
l'esame  dell'  Ufficio  da  lui  fatto  nella  seduta  del  Collaterale  del  23  marzo 
1729,  e  la  discussione  sul  sequestro  nella  seduta  del  19  luglio  1730,  in  Ar- 
chivio cit.,  Notamenti  del  Collaterale,  1730,  rispettivamente  voli.  142  e  144. 
2.  Francesco  Ventura  (1680-1759),  giudice  di  Vicaria  e  auditore  generale 
dell'esercito  nel  1715,  consigliere  del  Sacro  Real  Consiglio  due  anni  dopo, 
reggente  del  Collaterale  nel  1725,  epurato  dai  ranghi  della  magistratura  nel 
1734»  fu  tuttavia  fatto  presidente  del  Supremo  Tribunale  del  Commercio 
nel  1739.  Nelle  note  personali  segrete  dell'inchiesta  borbonica  del  1734  egli 
viene  definito:  «uomo  nuovo  disprezzatore  della  Nobiltà  e  del  Popolo, 
stimatore  di  sé  e  promotore  di  tutti  gli  adulatori  del  suo  nipotismo,  creduto 
imperiale,  e  poco  affezionato  a  S.  A.  Reale;  da  sacrificarsi  al  Popolo  e  alla 
Nobiltà  per  conservarsene  l'affetto  »  (Archivio  di  Stato  di  Napoli,  Segreteria 
di  Giustizia,  Biografie  di  magistrati,  e.  100).  In  altra  nota  della  medesima 
inchiesta  si  legge  di  lui  :  «  Egli  è  un  calabrese  dotto,  ma  presontuoso  ed  al- 
tiero, e  facile  a  prender  impegni  sulla  insinuazione  d'una  sua  nipote,  È 
stato  inalzato  agli  impieghi  per  li  meriti  del  fu  reggente  Argento  suo  zio, 
che  fu  uno  de'  più  confidenti  ministri  dell' Imperadore.  Per  questa  causa 
egli  ha  dell'attaccamento  colla  Corte  di  Vienna.  È  poco  ben  visto  dal 
Publico  per  il  suo  tratto  alto,  ed  austero,  e  per  la  facilità  che  ha  ad  impe- 
gnarsi, a  segno  che  essendo  venuto  ordine  da  Vienna  per  la  giubilazione 
del  Reggente  Ulloa  il  Vice  Re  non  la  volle  eseguire  perché  in  tal  caso  esso 
reggente  Ventura  avrebbe  dovuto  restare  decano  del  Collaterale,  cosa  che 
sarebbe  stata  di  dispiacere  al  Pubblico.  Egli  era  delegato  della  fu  Ser.ma 
Casa  di  Parma  e  mostrò  qualche  parzialità  per  la  medesima  nelle  cose 
regolari  e  correnti  e  che  non  potevano  essere  pregiudiziali  agli  interessi 
dell'Imperadore,  ma  quando  si  trattò  in  Collaterale  l'affare  dell'Isola  di 


CAPITOLO   SETTIMO  173 

nipote  del  presidente  Argento,  il  quale  ed  in  Napoli  e  mentr'era  a 
Vienna  continuò  meco  una  grande  amicizia,  cominciata  fin  da  che 
giovani  militammo  insieme  sotto  gli  auspici  del  zio,  e  che  non  vi 
era  settimana  che  non  mi  scrivesse  delle  cose,  anche  minute,  che 
accadevano  in  Napoli,  dell'opera  satirica  e  contumeliosa  del  San- 
felice  non  me  ne  fece  motto  alcuno  ;  e  se  non  ne  fossi  stato  avvisato 
dagli  altri  amici,1  ne  sarei  stato  per  lungo  tempo  ignaro;  e  di  van- 
taggio, dovendosene  trattare  nel  Consiglio  Collaterale,  egli  con 
vari  pretesti  cercò  di  non  intervenirci,  per  non  essere  a  parte  della 
provvidenza  che  dovea  darsi,2  la  quale  ben  previde,  che  dovea 
recare  alla  corte  di  Roma  gran  dispiacere.  E  ciò  perché  avea  sti- 
molato il  zio  di  mandare  in  Roma  un  suo  fratel  cugino,  del  quale 
già  se  ne  concepivano  alte  speranze  di  cariche  ed  onori,  per  illu- 
strar la  lor  casa  non  meno  di  toghe,  per  parte  delFimperadore, 
che  di  dignità  ecclesiastiche  per  via  del  papa;  né  voleano  disgustar 
in  minima  cosa  quella  Corte,  onde  speravano  grandi  emolumenti. 
E  lo  stesso  presidente  Argento,  o  che  indotto  a  mandar  questo 
suo  nipote,  figliuolo  di  sua  sorella,  in  Roma,  sperava  d'avanzarlo 
nelle  prelature,  sicome  già  per  mezzo  del  cardinal  Coscia  era  ivi 
mantenuto  a  spese  della  Camera  appostolica,  ed  aveane  ottenuto 
un  canonicato;  o  pure  fossene  stata  cagione  la  sua  avanzata  e 
cagionevole  età,  sottoposta  ad  insulti  apoplettici  (da'  quali  nuova- 
mente assalito  nel  seguente  anno,  ne  restò  morto)  ;  o  l'aver  sempre 
a*  fianchi  il  padre  Cillis,3  suo  confessore,  stipendiato  dal  cardinal 
Pignatelli  arcivescovo,  perché  lo  tenesse  addormentato  ed  ille- 
targhito,  avea  già  perduto  il  primier  vigore,  ed  era  divenuto 
tutt'altro  e  molto  diverso  da'  princìpi  suoi  ;  ma  non  potendo  questa 
volta  sottrarsi  dalle  premure  che  l'eran  date  dal  viceré  d'esaminar 

Ponza,  egli  non  si  oppose,  ma  si  unì  al  sentimento  degli  altri  Reggenti,  per 
sostenere  la  pretesa  sovranità  del  Regno  sopra  quell'isola  »  (ivi,  ce.  1 1-1 1  v). 
Per  la  rottura  dei  rapporti  tra  il  Giannone  e  lui,  si  veda  la  lettera  a  Carlo 
del  21  maggio  1729  (Giannonìana,  n.°  303).  1.  se .  . .  amici:  non  è  noto 
chi  provvedesse  ad  avvisare  il  Giannone,  il  quale,  in  data  1  gennaio  1729, 
scriveva  al  fratello  pregandolo  di  far  preparare  dall'abate  Biagio  Garofalo 
un  sommario  delle  Riflessioni  morali,  sommario  che  gli  giunse  a  metà  feb- 
braio, dopo  che  già  Nicola  Capasso  aveva  provveduto  ad  inviarne  un  altro 
a  Vienna  (cfr.  lettere  del  1  gennaio  e  del  19  febbraio  1729,  Giannoniana, 
nn.  283  e  290).  Cfr.  anche  Panzini,  pp.  54-5.  2.  dovendosene  .  .  ,  darsi: 
numerosi  furono  gli  assenti,  perché  il  decreto  di  proibizione  reca  le  sole 
firme  di  Tommaso  Mazzaccara  duca  di  Castel  Arignano,  del  duca  di 
Lauria  Adriano  Cala  de  Lanzina  y  Ulloa  e  di  Domenico  Castelli  (su  que- 
st'ultimo vedi  la  nota  1  a  p.  183).     3.  il  padre  Cillis:  cfr.  la  nota  1  a  p.  89. 


174  VITA  DI  PIETRO   GIANNONE 

il  libro  e  proporlo  in  Collaterale,  finalmente  vi  si  pose,  ma  di  mala 
voglia;  e  se  non  fossero  stati  il  consiglier  Grimaldi1  e  l'abate 
Biaggio  Garofalo,2  che  gli  fecer  catalogo3  di  tutte  le  proposizioni 
ingiuriose  alla  potestà  de'  principi,  che  aveano  notate  nelPopera  del 
Sanfelice,  egli  non  ne  avrebbe  certamente  trovata  la  via  per  rico- 
noscerle; e  mi  scrisse  il  consiglier  Grimaldi,  che  si  mostrava  co- 
tanto restio  e  freddo,  che  sempre  ch'egli  li  parlava  e  mostrava 
l'impudenza  e  le  tante  sfacciate  contumelie  e  menzogne,  delle  quali 
era  l'opera  piena,  l'Argento,  come  stordito  non  gli  rispondeva,  ma 
facevagli  un  viso,  per  valermi  delle  sue  parole,  d'una  vacca  che 
piscia. 

Essendosi  intanto  i  libri  da  altri  letti,  e  sentendoli  l'Argento 
comunemente  qualificare  per  libelli  famosi,  sciocchi,  impudenti  ed 
ingiuriosi  alla  potestà  regale,  scosso  dalle  voci  di  tanti,  si  pose  con 
attenzione  e  seriamente  a  leggergli,  e  trovato  esser  verissimo  quan- 
to la  fama  predicava,  essendosi  destinata  giornata  dal  Collaterale 
per  doverne  far  relazione,  finalmente  la  fece  esattissima  avanti  il 
viceré  ed  i  reggenti  di  quel  Consiglio,  i  quali  rimasero  attoniti  e 
sorpresi,  in  sentire  tante  contumelie  e  gravi  ingiurie,  delle  quali 
era  caricato  non  solo  l'autore  dell'Istoria  civile,  ma  il  Comune  di 
Napoli  e,  sopra  tutto,  strapazzata  la  potestà  de'  principi,  e  che 
que'  libri  non  erano  se  non  libelli  famosi  ed  una  perpetua  satira. 
Con  voti  concordi  ed  unanimi  di  tutto  il  Collaterale,  con  pubblico 
decreto  interposto  a'  13  d'aprile4  di  quest'anno  1729,  furono  di- 
chiarati per  libelli  famosi  ed  ingiuriosi  a'  principi,5  e  severamente 
proibito  di  leggergli,  tenergli,  vendergli,  o  in  qualunque  modo 
avergli,  anche  manuscritti,  come  satirici  contro  i  buoni  costumi 
e  potestà  regia,  imponendosi  a'  trasgressori  pena,  a'  nobili  di  tre 
anni  di  relegazione,  ed  altri  tanti  a  gl'ignobili  di  galera.6  Fu  pa- 
rimente ordinato,  che  dovesse  di  tal  proscrizione  emanarsi  pub- 

1.  il  consiglier  Grimaldi:  Costantino.  2.  Biagio  Garofalo  (1677-1762),  eru- 
dito e  antiquario  napoletano,  della  cerchia  giannoniana.  Notizie  biografi- 
che su  di  lui  si  ricavano  da  un  gruppo  di  sue  lettere  al  Giannone,  edite 
in  Giannoniana,  pp.  520  sgg.  3.  gli  fecer  catalogo:  il  Garofalo  stese  delle 
Osservazioni  critiche  sopra  le  Riflessioni  morali  e  teologiche  esposte  in  più  let- 
tere da  Eusebio  Filopatro,  date  più  tardi  alle  stampe  dal  Panzini,  assieme 
alle  giannoniane  Opere  postume,  n,  pp.  151  sgg.  4. 13  d'aprile:  non  il  13, 
ma  il  4  aprile.  5.  furono . . . principi:  « Dominus  Vicerex . . .  damnat  librum 
. . .  tanquam  contra  bonos  mores,  laicae  potestati  iniuriosum,  conviciis 
et  contumeliis  refertum,  et  satyram  perpetuam  contra  privatos  et  publi- 
cum  agentem ...  ».  6.  di  galera:  di  servizio  ai  remi  delle  galee  della  flotta 
inroeriale. 


CAPITOLO   SETTIMO  175 

blico  editto  e  banno,1  da  pubblicarsi  nella  città  di  Napoli  ed  in 
tutto  il  Regno,  ed  alla  Gran  Corte  della  Vicaria  ed  alle  regie  udienze 
provinciali  imposto,  che  contro  i  trasgressori  procedessero  irre- 
missibilmente all'esecuzione  delle  imposte  pene. 

Il  viceré  fu  di  parere  che  si  dovesse  far  bruggiar  l'opera  per  man 
del  boia,2  al  cospetto  del  popolo,  ma  ne  fu  dissuaso  da'  reggenti, 
per  non  attaccar  con  Roma,  donde  era  venuta  e  dov' erasi  impressa, 
nuove  brighe  usando  modi  sì  strepitosi.  Fu  però  conchiuso,  che  il 
Viceré  scrivesse  una  forte  lettera  al  cardinal  Sinfuego,  acchiuden- 
dogli il  decreto  della  proscrizione  e  banno,  che  facesse  sentire 
al  padre  Sanfelice,  che  dimorava  in  Roma,  per  mezzo  del  generale 
de'  Gesuiti  o  per  altra  via,  che  non  ponesse  più  piede  in  Napoli  e 
nel  Regno  ed  in  tutti  i  domìni  dell'imperadore,  come  proscritto; 
sicome  dal  viceré  fu  esattamente  adempito  ;  ed  essendosi  in  esecu- 
zione del  riferito  decreto,  disteso  il  banno  e  quello  dato  alle  pub- 
bliche stampe,3  fu  pubblicato4  per  i  luoghi  soliti  della  Città  e 
Regno  a  suon  di  tromba;  e  sparsi  gli  essemplari  stampati  da  per 
tutto,  perché  a  ciascuno  ne  pervenisse  notizia;  sicome  furon  fatte 
perquisizioni  a'  librari,  se  avessero  essemplari  dell'opera,  e  quanti 
n'eran  trovati  o  rivelati  erano  presi  e  confiscati  ;  e  vi  furono  anche 
de'  privati,  i  quali,  per  isfuggire  i  primi  rigori  delle  pene  minac- 
ciate, andarono  spontaneamente  a  presentare  gli  essemplari  che 
aveano  in  mano  del  secretarlo  del  Regno,5  da  cui  eran  riposti 
nella  regia  Cancellarla,  secondo  il  prescritto  del  banno.  E  poiché 
l'opera  del  Sanfelice  erasi  stampata  in  Roma  ed  introdotta  nel 
Regno  senza  permissione,  controvenendosi  a  più  prammatiche 
che  proibiscono  introdur  nel  Regno  libri  stampati  fuori  di  quello 
senza  licenza,  fu  da  ciò  data  occasione  di  promulgar  una  nuova 
prammatica,  per  la  quale,  rinnovandosi  l'antiche,  si  comandava 
rigorosamente  l'osservanza  e  puntual  esecuzione  delle  medesime. 
Fatto  tutto  ciò  il  viceré  diedene  distinta  relazione  a  Cesare6  ed 

i.  banno:  idiotismo  per  a  bando  ».  z.  per  man  del  boia:  cfr.  quanto  è  detto 
nel  manoscritto  conservato  presso  la  Biblioteca  della  Società  Napoletana 
di  Storia  Patria,  XXVII,  A,  7,  a  ce.  196  sgg.,  dove  è  conservata  la  minuta 
della  relazione  dell' Argento  alla  seduta  del  Collaterale.  3.  dato  . .  .  stampe: 
il  testo  è  riportato  anche  in  Opere  postume y  1,  pp.  299-300,  e  reca  la  data  del 
16  aprile.  4.  fu  pubblicato:  fu  letto  in  pubblico  dal  banditore.  5.  secreta- 
no del  Regno:  il  segretario  del  Collaterale,  in  quel  tempo,  era  il  marchese 
Niccolò  Fragianni  (per  cui  cfr.  la  nota  1  a  p.  93),  amico  del  Giannone. 
6.  il  viceré .  . .  Cesare:  la  lettera  del  Harrach  all'imperatore  è  pubblicata  in 
H.  Benedikt,  Dos  Kò'nigreich  Neapel}  cit.,  p.  558.  Ma  cfr.  anche  la  lettera 


176  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

alla  sua  imperiai  Corte,  mandando  in  Vienna  l'opera  intera  del 
Sanfelice,  col  decreto  della  proscrizione,  il  banno  e  nuova  pram- 
matica, colla  notizia  di  quanto  erasi  in  Roma  scritto  al  cardinal 
Sinfuego.  La  cui  savia  deliberazione  tanto  più  era  applaudita  e 
commendata,  quanto  più  si  leggeva  Popera  del  Sanfelice,  riputato 
da  tutti  meritevole  non  sol  di  questo,  ma  d'altro  più  severo  ca- 
stigo.1 

Quest'opera,  per  essere  cotanto  sciapita  e  sciocca,  non  si  sarebbe 
nemmen  fiutata,  non  che  letta,  ma  questi  romori  mossero  la  cu- 
riosità ad  alcuni  di  guardarla,  e  si  vide  che,  fra  l'altre  sciocche  men- 
zogne, l'autore  con  inudita  impudenza  avea  scritto,  che  il  tribunal 
del  Sant'Ufficio3  non  era  universalmente  aborrito  da'  Napolitani, 
ma  che  solamente  alcuni  pochi  libertini  l'aveano  in  odio,  e  che 
l'imperadore  per  suoi  editti  non  avealo  affatto  estinto.  Cosa  non 
men  falsa,  che  pur  troppo  sensibile  a'  deputati  della  Città,  che 
invigilano  in  quest'affare,  i  quali  tosto  che  n'ebber  notizia,  aven- 
do unita  la  Città,  rappresentata  per  suoi  Eletti  in  San  Lorenzo, 
con  pubblica  conchiusione3  stabilirono  che  si  dovesse  smentire  il 
falso  scrittore,  e  gli  Eletti  portarsi  dal  viceré,  e  dichiarare  a  Sua 
Eccellenza  che  l'odio  e  l'abominazione  di  quel  tribunale  era  di 
tutti,  non  di  alcuni  pochi  Napolitani;  e  di  rendere  al  viceré  molte 


al  fratello  del  9  aprile  1729  (Giannoniana,  n.°  297),  dove  il  Giarmone  riferisce 
della  poca  soddisfazione  espressa  dall'imperatore  per  la  lentezza  dei  ministri 
napoletani  in  tutta  la  faccenda.  Cfr.  infine  la  Memoria  del  Giannone  per  il 
principe  Eugenio,  cit.,  in  Giannonianay  pp.  434-6.  1.  pia  si  .  .  .  castigo:  si 
veda  quanto  il  nunzio  Girolamo  Grimaldi  da  Vienna  scriveva  alla  Segreteria 
di  Stato,  il  6  agosto  1729  (Archivio  Segreto  Vaticano,  Nunziatura  di  Germa- 
nia, voi.  285,  ce.  461  v):  il  testo  è  pubblicato  in  L.  Marini,  //  Mezzogiorno 
d'Italia  di  fronte  a  Vienna  e  a  Roma  (1707-1734),  in  «Annuario  dell'Istitu- 
to storico  italiano  per  l'età  moderna  e  contemporanea»,  v  (1953),  p.  52. 
2.  il  tribunal  del  San?  Ufficio  :  il  tribunale  inquisitoriale  spagnolo,  che  si 
sarebbe  voluto  imporre  anche  al  viceregno  napoletano.  Contro  la  sua  costi- 
tuzione Napoli  si  ribellò  nel  1547  e  di  nuovo  nel  1564.  Nel  1661,  infine, 
•  si  giunse  alla  istituzione,  contro  la  stessa  autorità  vicerealc,  di  una  Depu- 
tazione del  Sant'Ufficio,  cioè  di  una  commissione  permanente  di  vigilanza 
contro  il  pericolo  dello  stabilimento  del  tribunale  inquisitoriale  in  Napoli. 
Il  Giannone,  nella  sua  Istoria  civile,  tomo  iv,  hb.  xxxn,  cap.  v,  pp.  72  sgg., 
ha  dedicato  numerose  pagine  a  questa  lunga  storia  di  difesa  della  propria 
libertà  da  parte  della  città  di  Napoli,  con  accenti  fortemente  illuministici, 
ed  è  naturale  che  il  Sanfelice  polemizzasse  con  lui.  Per  un  quadro  comple- 
to della  lotta  contro  l'estensione  del  Sant'Uffizio  a  Napoli  si  veda  L.  Ama- 
bile, //  Santo  Officio  della  Inquisizione  in  Napoli.  Narrazione  con  molti 
documenti  inediti,  Città  di  Castello  1892.  3.  con  pubblica  conchiusione:  il 
testo  di  essa  in  Opere  postume,  1,  p.  300. 


CAPITOLO   SETTIMO  177 

grazie  della  proscrizione  d'un  sì  pernicioso  libro,  la  quale  era 
stata  ben  propria  e  dovuta,  e  che  ridondava  in  gran  benefìcio  del 
pubblico.  E  destinarono  il  principe  di  Valle  Piccolomini1  per  ora- 
tore, il  quale,  accompagnato  dagli  Eletti  in  pubblica  forma,  si  por- 
tò dal  viceré  e  furon  da  lui,  con  molta  eloquenza,  passati  gli  uffici 
di  rendimento  di  grazie  per  la  proscrizione,  e  data  testimonianza 
delFuniversal  orrore  che  i  Napolitani  tengono,  tramandatogli  co- 
me per  eredità  da'  suoi  maggiori,  del  tribunal  del  Sant'Ufficio. 
Il  viceré  cortesemente  l'accolse,  lodò  il  zelo  che  aveano  non  meno 
della  reale  potestà  che  del  pubblico  bene,  e  si  offerì  di  mantenere 
e  di  essergli  sempre  a  cuore  i  privilegi  e  prerogative,  che  la  Maestà 
dell'  imperadore  avea,  con  tanta  giustizia  e  clemenza,  concedute 
alla  Città  e  fedelissimo  suo  Regno. 

Tutti  questi  prosperi  successi  e  perché  l'opera  del  gesuita  noi 
meritava,  mi  disobbligarono  d'apparecchiarmi  ad  una  risposta;  e 
così  dagli  amici  n'era  consigliato,  non  solo  perché  bastantemente  si 
era  risposto  colla  proscrizione,  che  la  dichiarava  libello  famoso, 
ma  perché  non  vi  era  niente  di  solido,  riducendosi  tutta  a  vane 
ciarle,  a  calunnie  manifeste,  a  contumelie  e  falsificazione  di  passi 
e  di  parole,  che  fino  i  ciechi  l'avrebbero  scoperte;  e  tanto  maggior- 
mente, ch'era  da  tutti  biasimata  e  derisa;  anzi  da  Roma  si  scrivea 
che  i  cardinali  stessi,  i  prelati  e  tutti  gli  uomini  savi  e  dotti  di 
quella  città  la  riputavano  sciocca  e  sciapita,  e  n'erano  fortemente 
sdegnati,  come  da  Roma,  doppo  sei  anni  fosse  uscita  una  sì  ridicola 
risposta,  quasi  che  non  vi  fosser  altri  che  avrebber  potuto  farla 
più  degnamente,  e  d'essersi  eletto  uno  scimunito  e  prodigioso 
ignorante.  Ed  il  marchese  Almenara,  che  all'arrivo  del  conte  di 
Harrac  in  Napoli,  tornando  a  Vienna,  si  fermò  per  qualche  set- 
timana in  Roma,  mi  disse  che  parlando  con  alcuni  cardinali  e 
prelati,  mostravano  esserne  mal  contenti,  dolendosi  di  coloro  i 
quali  stando  attorno  al  papa  qualificavano  per  idonei  e  sufficienti 
tali  soggetti,  nelle  mani  de'  quali  sarebbe  più  propria  la  zappa  che 
la  penna. 

Per  queste  potenti  cagioni  io  non  pensava  di  risponderci  affatto;2 


1.  Un  membro  della  famiglia  Piccolomini  d'Aragona,  principi  di  Valle. 

2.  Per  .  . .  affatto:  il  19  marzo  il  Giannone  scriveva  al  fratello  assicuran- 
dolo di  non  aver  intenzione  di  rispondere  al  Sanfelice  (Giannoniana,  n.* 
294);  il  7  maggio  si  rivolgeva  ancora  al  fratello  {Giannoniana,  n.°  301) 
perché  questi  pregasse  Nicola  Capasso  di  stendere  una  notizia  in  latino, 


178  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

fui  sì  bene  dal  marchese  di  Rialp,  dolendomi  che  Roma  vuol  che 
altri  si  tacciano,  e  nel  tempo  stesso  permette  che  eschino  dal  Va- 
ticano non  libri,  ma  libelli  famosi,  per  i  quali  sia  strapazzata  la 
fama,  l'onore  e  la  stima  degli  uomini  probi  ed  onesti,  e  da  ciò  co- 
noscesse quanto  poco  gli  cale  che,  con  tutto  che  io  fossi  neh"  im- 
periai Corte,  ed  accolto  da  Sua  Maestà  con  tanta  clemenza,  e  go- 
dessi dell'alta  sua  protezione,  di  non  riputarla  niente,  e  strapazzar- 
mi colle  più  atroci  e  gravi  contumelie  che  si  potessero  scagliare  a' 
più  vili  e  sozzi  uomini  della  terra.  Il  marchese,  che  per  queste  cose, 
che  e'  riputava  da  poco  e  da  non  farsene  conto,  non  voleva  guastar 
i  suoi  fatti  colla  corte  di  Roma,1  mi  rispose  con  un  soghigno, 
dicendomi  che  non  dovessi  turbarmene,  ma  prenderle  a  riso  e 
burlarmene;  tanto  maggiormente,  che  dal  viceré  erasene  preso 
condegno3  castigo.  Li  replicai  che  così  avrei  fatto,  e  tanto  più  che 
i  libri  del  Sanfelice  erano  così  sciocchi,  che  non  m'obbligavano  a 
veruna  risposta. 

Ma  mentre  erasi  in  questo,  ecco  che  da  Roma  furon  mandati  più 
pieghi  in  Vienna,  drizzati  al  Nunzio  ed  altre  persone  pubbliche, 
ne'  quali  erano  inchiusi  più  essemplari  d'una  nuova  scrittura  fatta 
dal  Sanfelice  e  stampata  in  Roma,3  nella  quale,  con  inudita  im- 
pudenza e  protervia,  non  solo  si  replicavano  le  stesse  ingiurie  e 
satire,  ma  si  attaccava  il  decreto  regio  e  si  malmenavano  i  reggenti 
del  Consiglio  Collaterale  di  Napoli,  con  modi  sì  aspri  e  contume- 
liosi, che  non  si  ritenne  l'impudente  di  chiamargli  calunniatori, 
sciocchi  ed  ignoranti  ;  e  non  ostante  che  la  di  lui  opera  fosse  stata 
da  tutti  derisa  e  riputata  falsa,  satirica  e  calunniosa,  egli  con  tutto 
ciò,  fermo  e  costante  ne'  suoi  deliri,  imperversava  contro  tutti  e 
minacciava  altre  lettere,  nelle  quali  avrebbe  fatto  conoscere  quanto 
egli  avea  nelle  precedenti  risparmiata  la  potestà  de'  principi;  e  che 
quel  regio  decreto  e  banno  avea  recato  più  nocumento  ed  infamia 
a  coloro  che  l'avean  proferito,  che  a  lui,  non  avendogli  tocco  un 
sol  pelo,  e  che  se  ne  burlava  e  facevane  poco  conto,  poich'egli  non 

destinata  agli  «  Acta  Eruditorum  Lipsiensium  ».  Ma  sino  a  quel  momento  il 
Giannone  non  conosceva  direttamente  l'attacco  del  Sanfelice,  perché  solo 
nella  lettera  al  fratello  del  14  maggio  egli  dirà  di  aver  ricevuto  il  libro  e  di 
aver  cominciato  a  leggerlo  (Giannoniana,  n.°  302)  :  una  lettura  che  lo  convin- 
cerà, invece,  della  necessità  di  rispondere.  1.  Il  marchese  .  .  .  Roma:  cfr. 
infray  p.  196.  2.  condegno:  adeguato,  proporzionato  (latinismo).  3.  una 
nuova . . .  Roma:  sono  quattro  fogli  a  stampa,  col  titolo:  Difesa  del  libro  delle 
Riflessioni  sopra  V Istoria  di  P.  G,  dalle  censure  fattegli  contro  in  Napoli. 


CAPITOLO   SETTIMO  179 

si  sgomitava1  dell'autorità,  quando  fosse  destituita  dalla  ragione. 

Letta  quest'altra  sfacciata  scrittura,  della  quale  il  Nunzio  stesso 
non  potè  non  stomacarsene:  allora  si  pensò  di  dovergli  daddovero 
levare  la  mattìa  dal  capo,  dubbitandosi  che  sicome  avea  fatto 
con  quel  Consiglio,  non  facesse  qualche  altra  scappata  contro  gli 
Eletti  della  città,  i  quali  pure  con  pubblica  conclusione  l'aveano 
smentito,  e  fatte  render  grazie  in  nome  del  pubblico  al  viceré, 
della  proscrizione.  Sicché  essendo  io  passato  nel  mese  di  maggio 
di  quest'istesso  anno  1729  alla  solita  mia  villeggiatura  di  Pettersdorf, 
pensai  in  quella  solitudine,  lontano  da'  romori  della  città,  di  sten- 
dere una  scrittura  e  vedere  di  levargli  la  pazzia  di  testa,  e  così  di 
quietarlo;  né  trovai  altra  maniera  di  poterlo  curare  d'un  male  sì 
grave  e  pertinace,  se  non  fingendo  d'essere  stato  già  convinto  dalle 
sue  prediche,  e  spezialmente  da  quelle  tre  ultime  sue  lettere  filo- 
sofiche, che  m'avea  indrizzate,  e  che  io  vinto  da'  suoi  forti  ed  effi- 
caci argomenti  mi  era  convertito  ed  avea  abbracciata  quella  cre- 
denza, eh' e'  inculcava  nelle  sue  Riflessioni  morali  e  teologiche. 

Dalle  medesime  cavai  le  massime  che  teneva  intorno  la  monar- 
chia papale  ed  assoluto  imperio,  che  vuole  che  abbia  non  meno 
sopra  lo  spirituale  che  il  temporale  de'  principi,  e  quella  credenza, 
divozione  e  concetto,  che  vuol  che  ciascuno  debba  avere  delle  par- 
ticolari divozioni  degli  ordini  religiosi,  confermate  da  tanti  mira- 
coli ch'e'  rapporta.  E  sicome  in  Francia  non  erano  mancati  nobili 
ed  ingegnosi  spiriti,  dalle  opere  del  gesuita  Pallavicino,  poi  cardi- 
nale, e  spezialmente  dall'Istoria  del  concilio  di  Trento  cavarne  un 
Nuovo  evangelio,  compilato  dalle  di  lui  novelle  massime  sparse  ne' 
suoi  libri,  le  quali  unite  insieme  e  ridotte  in  un  picciol  volume, 
che  fu  stampato  a  Parigi,*  si  promulgò  nel  mondo  questa  nuova 
dottrina:  così  procurai  far  io  dall'opera  del  Sanf elice  cavarne  una 

1 .  sgomitava  :  sgomentava.  2.  volume . . .  Parigi  :  cf  r.  J.  Le  Nora,  Les  nouvelles 
Lumières  politiques  pour  le  gouvernement  de  l'Église,  ou  VÉvangile  nouveau  du 
cardinal  Palavicin,  révélépar  lui  dans  son  Histoire  du  Concile  de  Trente,  Paris 
1676.  In  questa  indicazione  di  modelli  per  la  Professione  di  fede  bisognerà 
includere  anche  quanto  riferisce,  a  sua  volta,  il  Panzini,  p.  58,  e  che  cioè 
il  Giannone  prese  l'idea  «  e  qualcheduna  delle  cose  che  in  essa  si  leggono,  da 
un  libro  franzese  impresso  in  Parigi ...  e  dalla  Confessione  cattolica  di  Mr. 
de  Sancy,  libro  pieno  di  satira  e  di  maldicenza  pubblicato  in  Francia  a' 
tempi  di  Arrigo  IV  e  diretto  al  Cardinal  du  Perron  vescovo  d'Evreux  dal 
Sig.  d'Aubigné  ugonotto,  per  porre  in  beffe  quel  cardinale  ed  altri  insigni 
personaggi  della  Comunione  Cattolica».  Il  titolo  completo  di  questa  se- 
conda fonte  giannoniana  è:  T.-A.  d'Aubigné,  La  Confession  Catholique  du 
Sieur  de  Sancy,  et  Déclaration  des  causes  tant  d'état,  que  de  Réligion,  qui  Vont 


l8o  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

nuova  Professione  di  fede*  nella  quale,  in  xn  articoli  fondamentali 
professava  quella  credenza,  ch'egli  ed  i  scrittori  romani  della  stessa 
farina  vogliono  che  si  abbia  del  papa  e  suo  illimitato  potere.  Dapoi, 
in  altri  ix  articoli  secondari,  professava  di  credere  tutti  que'  stu- 
pendi e  portentosi  miracoli,  che  per  confermare  le  particolari  di- 
vozioni degli  Ordini  religiosi  si  leggevano  in  tante  leggende,  e  spe- 
zialmente nelle  Conformità  franciscane?  per  ciò  che  riguarda  il 
cordone  di  san  Francesco,  e  nelle  Cronache  di  san  Antonino,3  per 
quella  de*  Domenicani  del  rosario. 

A  questa  Professione  di  fede  aggiunsi  alquanti  Dubbi  intorno  alla 
morale  che  vedeva  praticata  dal  Sanfelice  nella  sua  opera,  cercan- 
dogli che  mi  risolvesse,  se  chi  teneva  quella  credenza  ch'e'  incul- 
cava, e  che  io  ne*  precedenti  articoli  avea  già  professata,  era  libero 
e  franco,  senza  che  se  l'imputasse  a  peccato,  di  poter  malignare  il 
suo  prossimo  presso  il  principe  e  suoi  supremi  ministri,  per  mi- 
narlo ;  se  impunemente  potea  calunniarlo  con  imposture,  falsità  ed 
altre  indegne  ed  infami  arti  ;  se  era  lecito  di  falsare  passi,  parole,  e 
storcere  a  maligni  sensi  il  concetto  degli  scrittori  ;  se  contro  il  suo 
prossimo  si  potevano  scagliare  ingiurie  gravi  ed  orrende,  e  se  l'in- 
giurie, passando  non  pure  in  iscritto,  ma  in  istampa,  poiché  erano 
praticate  da  tali  credenti  ne'  loro  scritti,  dovessero  questi  o  no 
riputarsi  libelli  famosi;  e  se  una  tal  credenza  gli  dava  impunità 
di  mentire  e  facoltà,  essendo  ignorantissimi,  di  parer  dotti  e  di 
rendergli  presuntuosi,  arroganti  e  superbi. 

Secondo  che  a  ciascheduno  di  questi  dubbi  si  apparteneva,  in 
più  classi  ridussi  le  tante  calunnie,  maledicenze,  imposture,  fal- 
sità, menzogne,  cavilli,  ingiurie  e  gravi  contumelie,  che  in  tutta 
l'opera  erano  sparse,  che  dimostrai  e  posi  nell'ultima  evidenza;  e 
sopra  tutto  in  quelle  cose  che  e'  pretese  corrigermi  o  di  errore  o 

mèu  à  se  remettre  augiron  de  VÉglise  Romaine.  Apparve  in  Recueil  de  diverses 
pièces  servarti  à  Vhistoire  de  Henry  III  roi  de  France,  Cologne  1 660.  1 .  Pro- 
Sessione  dì  fede:  cfr.  qui  a  pp.  475  sgg.  2.  Conformità  franciscane:  il  Gian- 
none  si  riferisce  alla  celebre  opera  agiografica  che  Bartolomeo  di  Rinonico 
scrisse  tra  il  1385  e  il  1390:  De  conformitate  vitae  Beati  Francisci  ad  vitam 
Domini  Iesu}  e  della  quale  si  veda  la  moderna  edizione  critica  in  «  Analccta 
Franciscana»,  Ad  Claras  Aquas  (Quaracchi),  1906-19x2.  Sulle  fonti  della 
Professione  di  fede  cfr.  anche  la  lettera  al  fratello  Carlo,  dell'8  ottobre  1729 
{Giannoniana,  n.°  323).  3.  Cronache  di  san  Antonino:  Antonino  Pierozzi 
(13  89-1459),  arcivescovo  di  Firenze,  canonizzato  da  Adriano  IV,  scrisse  di 
ascetica  e  di  teologia,  oltre  ad  un  Chronicon,  che  fu  edito  per  la  prima 
volta  a  Norimberga  nel  1484. 


CAPITOLO    SETTIMO  l8l 

miscredenza,  mostrai  quanto  fosse  grande  la  sua  prodigiosa  igno- 
ranza, con  maniera  non  acre,  ma  derisoria,  qual  si  conveniva  ad  un 
sì  sciocco  e  scimunito  scrittore.1  Nell'ultimo,  l'avvertiva  e  pro- 
testava, che  io  questa  mia  Professione  e  questi  Dubbi  glieli  inviava 
manuscritti,  perché  non  si  fossero  da  altri  letti,  ma  unicamente  per 
suo  uso  e  perché  si  rallegrasse  della  mia  conversione,  mercé  delle 
sue  dotte  e  vigorose  lettere  che  mi  avea  scritte  in  abscondito* 
affinché  la  correzione  fosse  fraterna  e  caritatevole  fra  noi  due  soli  ; 
se  bene  non  sapessi  qual  fosse  stata  la  cagione  che  io  non  potessi 
leggerle  se  non  in  stampa,  e  doppo  che  si  erano  già  da  per  tutto 
pubblicate,  in  Roma  ed  altrove. 

Terminata  che  io  ebbi  questa  scrittura  nella  solitudine  di  Pet- 
tersdorf,  tornato  nel  mese  di  luglio  in  città,  la  mostrai  ad  alcuni 
amici,  a'  quali  piacque  sopra  modo,  e  mi  stimolavano  a  doverla 
dare  alle  stampe;  ma  stetti  saldo  in  non  permetterlo;  e  se  bene  per 
alcuni  amici  che  l'avean  letta  fosse  arrivata  alla  notizia  dell'impe- 
radore,  e  molto  lodandogliela  consigliavano  che  si  fosse  impressa, 
io  vi  ripugnai  sempre;  e  si  prese  il  partito  che  se  ne  mandasse  solo 
una  copia  in  Roma,  e  si  tenesse  modo  di  farla  pervenire  nelle 
proprie  mani  del  Sanfelice;  sicome  si  fece,3  indrizzandola  a  lui, 
e  per  sicuro  ricapito  con  sopracarta  diretta  al  rettore  de'  Gesuiti  in 
quel  collegio  o  casa  professa,  dov'egli  dimorava;  ed  un'altra  copia  si 
fece  pervenire  a7  Gesuiti  napolitani  e  siciliani,  ch'erano  in  Vienna, 
a'  quali  il  padre  Sanfelice  avea  indrizzati  i  pieghi  dell'Indice  e 
dell'ultima  scrittura  fatta  contro  il  decreto  regio  della  proscri- 
zione. 

Se  ne  mandò  un'altra  copia  in  Napoli  a  gli  amici,  e  questa  sola 
bastò,  non  stancandosi  di  leggerla  e  rileggerla  a  gli  altri,  per  l'e- 
stremo piacere  che  ne  sentivano,  che  si  diffondesse  da  per  tutta  la 
città,  né  si  ristette  a  questi  limiti,  che  volò  in  Roma,4  dove  ne  furon 
fatte  innumerabili  copie.  Ciocché  io  sentiva  con  infinito  dispiacere, 

i.  non  acre  . .  .  scrittore:  diverso  fu  il  parere  degli  amici  napoletani,  una 
volta  letto  il  manoscritto  della  replica  giannoniana,  come  può  dedursi  dalla 
lettera  del  Giannone  dell'8  ottobre,  più  sopra  ricordata.  2.  in  abscondito: 
in  segreto  (latinismo).  3.  sicome  si  fece:  cfr.  le  lettere  al  fratello  del  3 
settembre  e  del  12  e  19  novembre  (Giannoniana,)  nn.  318,  328  e  329). 
4.  volò  in  Roma:  cfr.  la  lettera  al  fratello  del  24  dicembre  (Giannoniana, 
n.°  334)  dove  si  dice  contento  che  sia  stata  inviata  a  Roma  una  copia  della 
Professione  di  fede  e  suggerisce  che,  divulgandosene  altre  copie  in  Napoli, 
si  dica  che  esse  sono  giunte  da  Roma.  Questa  lettera,  naturalmente,  smen- 
tisce quanto  lo  stesso  Giannone  afferma  qui  sotto. 


l82  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

poiché  correndo  manuscritta,  temeva  che  non  fosse  trasformata  e 
guasta,  e  sopra  tutto  che  i  miei  invidi  e  malevoli  non  la  difTormas- 
sero  o  macchiassero  con  qualche  bestemmia  o  eresia,  che  vi  ag- 
giungessero. A  questo  fine  io  feci  trascrivere  un  correttissimo  es- 
semplare,  ed  in  forma  di  libro  lo  presentai  al  cavalier  Garelli, 
bibliotecario  di  Sua  Maestà,  affinché  lo  collocasse  nella  biblioteca 
cesarea,  dove  come  autografo  si  potesse  ricorrere,  nel  caso  si  tro- 
vasse in  altre  copie  trasformato  e  guasto.  Da  Napoli  erami  scritto, 
che  alcuni  volevano  in  tutte  le  maniere  stamparla,  ma  io  l'impedii 
sempre,  e  scrissi  ed  istantemente  pregai  a*  miei  amici,  che  faces- 
sero ogni  sforzo  d'impedirlo,  sicome  fecero;  affinché  tutti  conosces- 
sero che,  dal  mio  canto,  erasi  adempita  la  promessa,  e  che  se  ben 
Roma  avesse  quella  prerogativa  di  dar  licenza,  che  in  mezzo  di 
quella  città  si  stampassero  libelli  famosi,  Napoli  e  Vienna  non  vole- 
vano in  ciò  imitarla,  ancorché  la  mia  scrittura  non  fosse  che  per 
difesa,  mostrando  le  calunnie,  le  imposture  e  prodigiosa  ignoranza 
dell'avversario.  Ma  con  tutto  che  si  procurasse  impedirne  la  stam- 
pa, non  fu  possibile  impedire  il  corso  delle  copie  manuscritte;1 
sicché,  divolgatasi  da  per  tutto  questa  contesa  e  resa  manifesta 
non  meno  che  la  scipitezza  de'  libri  del  Sanfelice,  non  tralascia- 
rono i  compilatori  degli  «Atti  eruditi»  di  Lipsia  di  rapportarla,2  si- 
come  fecero  i  «Giornali  de'  letterati»  d'Ollanda,  Francia  ed  Inghil- 
terra;3 onde  i  Gesuiti,  vedendo  che  da  tutte  le  parti  correva  per 
iscostumato,  satirico  ed  ignorante  della  loro  società,  per  rimediare 
nel  miglior  modo  che  potessero,  da'  giornalisti  di  Trévoix  della  lor 
farina,  i  quali  riducono  in  compendio  libri  sciapiti  dagli  altri  rifiu- 
tati, fecero  riferir  l'opera  di  Sanfelice,  raccorciandola  e  dandole 
altro  aspetto  che  il  naturale  e  proprio,  s'ingegnarono  farla  apparire 
meno  deforme,4  ma  poiché  de'  giornali  di  Trévoix  niuno  ticn  conto, 

i.  non  fu .  . .  manuscritte-.  un  censimento  delle  copie  esistenti  nelle  bi- 
blioteche italiane  è  in  Gìannoniana,  passim.  2.  non  tralasciarono  .  .  . 
rapportarla:  la  notizia  della  polemica,  come  s'è  annotato  più  sopra,  fu 
stesa  in  latino  da  Nicola  Capasso  dietro  richiesta  del  Giannone  e  del  Ga- 
relli, i  quali  provvidero  a  farla  pervenire  a  Johann  Burckard  Mencke.  Non 
fu  tuttavia  pubblicata  cosi  come  il  Capasso  l'aveva  stesa,  ma  venne  rima- 
neggiata a  Lipsia,  senza  darne  partecipazione  al  Giannone  (cfr.  la  sua  let- 
tera al  fratello  del  15  ottobre,  Giannonianat  n.°  324),  il  quale  se  ne  giustificò 
coll'amico  napoletano  (cfr.  la  lettera  del  26  novembre,  Giamtonianat  n.°  330, 
ma  anche  la  lettera  del  7  gennaio  1730,  Giannoniana}  n.°  337).  3.  sico- 
me .  . .  Inghilterra:  questa  affermazione  non  è  stata  sin  qui  da  nessuno  stu- 
dioso controllata,  4.  da3  giornalisti . .  .  deforme:  nel  periodico  dei  padri 
gesuiti,  le  «Mémoires  de  Trévoux»  del  1730  apparvero  tre  articoli  di  fila: 


CAPITOLO    SETTIMO  183 

e  come  sciocchi,  e  perché  ciascun  sa  che  i  compilatori  sian  gente 
venale  e  stipendiata  da'  Gesuiti,  si  rimasero  quelli  del  Sanfelice  in 
quel  disprezzo  e  perpetua  dimenticanza  che  meritavano;  anzi  Ro- 
ma stessa  si  affaticava  che  se  ne  perdesse  ogni  memoria. 


ni 

I1730] 

Intanto  in  queste  occupazioni  ed  altre  appartenenti  alla  difesa 
delle  cause  che  m'eran  commesse,  spezialmente  d'alcune  sue  pro- 
prie dal  marchese  Clemente  Doria,  se  ne  passò  Tanno  1729,  ed 
eravamo  entrati  nel  1730  nel  quale  mi  scrisse  il  reggente  Castelli1 
del  Consiglio  Collaterale  di  Napoli,  mio  amico,  ed  al  quale  pro- 
fessava molti  obblighi  per  aver  prese  con  fervore  le  mie  parti  nel- 
la proscrizione  del  Sanfelice,  che  dovessi  mandarli  una  esatta  rela- 
zione di  tutti  i  Consigli  e  dicasteri  della  città  di  Vienna,  con  distin- 
zione delle  loro  origini,  giurisdizione,  numero  e  qualità  de'  mini- 
stri che  gli  componevano.  Io  nella  villeggiatura  di  quest'anno  a 
Pettersdorf  la  distesi;  ma  come  che  in  villa  mi  mancavano  alcuni 
libri  a  ciò  necessari,  tornato  in  città  la  perfezionai,  e  manuscritta 
gliela  mandai,  che  dovesse  servire  unicamente  per  sua  istruzione 
e  degli  avvocati,  suoi  e  miei  amici,  che  ne  mostravano  desiderio, 
né  permettessero  farne  altro  uso  mostrandola  ad  altri.  Ma  essen- 
do molto  piaciuta,  e  di  mano  in  mano  passata  alla  notizia  del  conte 
Ferdinando  d'Harrac,  figliuolo  del  viceré,  che  dimorava  in  Napoli 
con  suo  padre,  questi  parlandone  con  altri  fece  che  io  ne  fossi  ri- 
chiesto a  Vienna  d'una  copia  da  alcuni  Tedeschi,  non  viennesi, 
ma  sassoni,  a'  quali  non  potei  negarla,  dicendomi  che,  non  es- 
sendovi alcun  autore  che  trattasse  di  proposito  di  questi  Consigli 

il  primo  (pp.  5-1 1)  con  la  recensione  dell'Istoria  civile,  il  secondo  (pp.  12- 
68)  dedicato  alle  Riflessioni  del  Sanfelice,  il  terzo  (pp.  69-71)  alla  sua 
Difesa  (che  fu  la  replica  del  Sanfelice  alle  Osservazioni  del  Garofalo). 
1.  Domenico  Castelli,  oriundo  di  Nocera  dei  Pagani,  reggente  del  Colla- 
terale e,  dal  1730,  presidente  interinale  della  Giunta  dei  Veleni.  Era  il 
fratello  di  Francesco,  vicario  del  cardinale  Francesco  Pignatelli.  Nell'in- 
chiesta sulla  magistratura  napoletana,  del  1734,  la  sua  nota  personale  dice: 
«  È  un  napolitano  di  mediocre  dottrina,  ma  di  buona  morale,  puntuale  ed 
incorrotto.  Non  ha  altro  attacco  colla  Corte  di  Vienna,  che  per  aver  com- 
perato da  quella  con  danari  il  posto  di  Reggente.  Non  è  affatto  amato  dal 
pubblico  perché  è  tardo  nel  risolvere,  e  si  regola  secondo  il  vento  che  spira  » 
(Archivio  di  Stato  di  Napoli,  Segreteria  di  Giustizia,  Biografie  di  magistrati, 
ff.  12*7-13). 


184  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

e  dicasteri,  gli  farei  somma  grazia  se  ne  avessero  da  me  un'esatta 
notizia.  Gliela  diedi  in  fine,  su  la  lor  fede  che  non  dovesse  servire 
se  non  per  loro  informazione.  Seppi  dapoi,  che  passati  alquanti 
anni,  l'avean  fatta  tradurre  in  latino,  ed  imprimerla  nell'anno  1732 
ad  Ala  di  Magdemburg,  sotto  anagrammato  nome  di  Giano  Feren- 
tino.1 Né  certamente  potea  immaginarmi  che  di  questo  libretto  se 
n'avesse  da  doler  poi  cotanto  il  nunzio  Passionei,  che  era  succe- 
duto al  Grimaldi,2  e  farne  tanti  strepiti  e  romori,  tutti  indrizzati 
per  rumarmi,  come  dirassi  a  suo  luogo  e  tempo,  e  che  < assai  mag- 
giori di  quelli  che  ne  fecero >  gli  Spagnoli  di  Vienna,  sicome  intesi 
partito  che  fui  da  Vienna,  nella  mia  dimora  di  Venezia,  ne  facesse- 
ro tante  doglianze  con  altri  e  con  Cesare  istesso. 

In  quest'anno  Menckenio  padre  mi  mandò  da  Lipsia  la  tradu- 
zione in  lingua  inglese  della  mia  Istoria  civile,  stampata  in  Londra 
nel  precedente  anno  1729,  in  due  tomi  in-foglio,  ne'  quali  eran 
compresi  i  quattro  dell'edizione  napoletana  ;3  ed  ancorché  io  non 

1.  Giano  Ferentino  :  con  questo  stesso  anagramma  il  Gìannone  aveva  firmato 
la  giovanile  dissertazione  sulle  nevi  del  Vesuvio.  Questa  Breve  relazione  de* 
Consigli  e  Dicasteri  della  città  di  Vienna  era  datata  nell'autografo  19  gennaio 
1731  (cfr.  Panzini,  p.  63)  e  fu  edita  a  cura  del  Panzini,  Londra  (ma  Napoli) 
1766.  Tradotta  in  latino,  col  titolo  De  Consilus,  ac  Dicasteriist  quae  in  Urbe 
Vindobona  habentur,  liber  singulans,  recò  l'indicazione  di  stampa:  Halae 
Magdeburgicae  1732.  Il  Panzini,  p.  64,  afferma  che  la  stampa  dell'opera 
fu  vietata  a  Lipsia,  dove  avrebbe  dovuto  vedere  la  luce  a  cura  di  Frie- 
drich Otto  Mencke,  per  cui  il  Giannone  provvide  egli  stesso  a  farla  stam- 
pare «nell'anno  1734  o  in  su'  princìpi  del  1735  da  Francesco  Pitteri  in 
Venezia».  Questa  notizia  è  ora  confermata  da  L.  Marini,  L'opposizione 
curiale  a  Pietro  Giannone,  1723-1735,  in  «Archivio  Storico  per  le  Provincie 
Napoletane»,  S.  in,  voi.  v  (1965),  pp.  40-1.  2.  il  nunzio  .  .  .  Grimaldi'. 
Domenico  Passionei  (1 682-1 761),  già  nunzio  agli  Svizzeri,  sostituì  il  Gri- 
maldi il  31  marzo  173 1.  Divenne  in  seguito  cardinale  e  prefetto  della  Bi- 
blioteca Apostolica  Vaticana,  dopo  essere  stato  segretario  ai  Brevi  (1738). 
Avverso  ai  Gesuiti  e  di  sentimenti  filogiansenistici,  aperto  alle  nuove  cor- 
renti di  pensiero,  osteggiò  ciononostante  il  Giannone  con  ogni  mezzo, 
ancora  dopo  la  partenza  di  questi  da  Vienna  (cfr.  p.  265).  La  sua  ric- 
chissima biblioteca  privata  è  ora  uno  dei  fondi  più  importanti  della  Bi- 
blioteca Angelica  di  Roma.  3.  hi . . .  napolitano:  cfr.  The  Civil  History  of 
theKingdom  ofNeaples . . .  Translated  into  English  by  Captain  James  Ogilvie, 
London  1729-173 1.  In  Panzini,  p.  60,  è  riferita  una  lettera  del  traduttore 
al  Giannone,  «nella  quale  lo  informava  de'  motivi  dell'opera  da  lui  intra- 
presa di  trasportare  nel  natio  linguaggio  la  Storia  Civile  del  Regno  di  Na- 
poli, la  quale  egli  vedeva  d'essere  tenuta  in  grande  stima  dagli  uomini  più 
dotti  e  rinomati  non  meno  dell'altre  nazioni  che  della  sua  propria:  ch'egli 
perciò  vi  si  era  applicato  con  molt'assiduità  nell'ozio  di  un  viaggio,  che  in 
qualità  di  capitano  di  vascello  aveva  fatto  alla  Nuova  Zembla:  che  avendola 
dipoi,  tornato  in  Inghilterra,  compita  ed  emendata  la  dette  alle  stampe  ...  ; 


CAPITOLO    SETTIMO  185 

intendessi  la  lingua,  procurai  che  que'  che  la  sapevano  m'interpre- 
tassero  alcuni  passi,  che  io,  come  non  conformi  alla  Chiesa  angli- 
cana, temeva  non  Pavesser  tronchi  o  alterati;  ma  si  trovarono  in- 
tatti, così  com'erano  nell'autografo,  sicché  potei  promettermi  una 
traduzione  leale  e  fedele,  tanto  più  che  i  nomi  delle  città  e  provin- 
ce si  lasciavano  intatti,  sicome  altre  voci  proprie  del  latino  o 
italiano. 

Stupii  in  vedere  l'ampio  numero  di  coloro  i  quali  s'erano  sotto- 
scritti, per  agevolarne  l'impressione,  e  la  loro  qualità,  non  man- 
candovi de'  milordi,  arcivescovi,  vescovi  ed  altre  persone  illustri  e 
letterate;  e  ve  n'eran  di  que',  che  la  sottoscrizione  l'avean  stesa 
chi  a  quattro,  chi  a  sei  copie,  ed  il  numero  era  così  grande,  che 
bisognò  farne  catalogo  de'  nomi  in  un  lungo  alfabeto,  che  occupava 
più  fogli.  In  oltre,  nel  frontispizio  si  additavano  non  uno,  ma  sette 
librari  di  Londra,  dove  i  compratori  dovessero  ricorrere,  dan- 
dogli notizia  de'  loro  nomi,  delle  strade  ove  tenevano  le  biblioteche 
e  loro  insegne. 

Non  posso  negare  ch'ebbi  estremo  piacere  in  vedere  che  in 
Inghilterra,  ove  presentemente  fioriscono  cotanto  le  scienze  e  le 
buone  lettere,  sicome  è  manifesto  da'  dotti  e  preziosi  libri  che 
n'escono  alla  giornata,  Y Istoria  mia  fosse  stata  così  ben  ricevuta,  ed 
il  mio  nome  reso  cotanto  rinomato  e  celebre.  E  tanto  maggiormen- 
te che,  avendo  ivi  una  società  d'uomini  savi  ed  eruditi  preso  l'as- 
sunto di  dar  al  mondo  un  nuovo  «  Giornale  de'  letterati»,  nel  quale 
fossero  in  breve  accorciate  in  lor  lingua  l'opere  che  si  davano  alla 


per  la  qual  cosa  avea  cercata  l'opportunità  di  fargli  capitare  questa  sua 
lettera,  in  cui  gli  dava  di  tutto  ciò  distinto  ragguaglio,  ed  insieme  gli  rimet- 
teva in  contrassegno  della  sua  osservanza  io  esemplari  della  sua  traduzione, 
per  comodo  di  lui  e  de*  suoi  amici,  ed  una  cambiale  di  500  o  600  fiorini 
di  Germania,  da  torsene  qualche  singoiar  cosa  in  sua  memoria».  Sulla 
divulgazione  in  Inghilterra  delle  vicende  del  Giannone  si  veda  inoltre  F. 
Venturi,  Giarmoniana  britannica,  in  «  Banco  di  Napoli,  Bollettino  dell'Ar- 
chivio Storico»,  11  (1954),  pp.  249-54.  L'8  aprile  del  1730»  cercando  di 
spiegare  al  fratello  il  ritardo  nell'uscita  delle  traduzioni  latina  e  francese 
della  sua  opera,  il  Giannone  diceva  che  l'edizione  inglese  aveva  preceduto 
le  altre  «perché  gl'Inglesi  fanno  presto,  perché  hanno  denari  colla  pala,  e 
nelle  edizioni  de'  libri  non  hanno  risparmio,  perché  trovano  compratori  che 
li  pigliano  a  qualunque  prezzo  che  li  stimano»  (cfr.  Giannoniana,  n.°  350). 
Ma  si  veda  anche  la  lettera,  sempre  al  fratello,  del  io  giugno  1730  (Gian- 
noniana, n.°  359),  dove  dice  di  ritenere  che  se  non  fossero  state  già  annun- 
ciate le  traduzioni  dell'Istoria  civile  in  latino  e  in  francese,  l'uscita  dell'edi- 
zione inglese  avrebbe  fatta  apparire  l'opera  ancor  più  eretica. 


l86  VITA  DI   PIETRO   GIANNONE 

luce  in  quel  regno,  cominciarono  a  darle  principio  dalla  mia  opera; 
ed  i  primi  quattro  tometti  che  uscirono  furono  i  compendi  de* 
miei  quattro  tomi  adii  Istoria  civile,  non  dimenticandosi  nel  quinto 
di  trattar,  come  si  meritava,  dell'impudenza,  ignoranza  e  protervia 
del  padre  Sanfelice  gesuita.1  Perciò  non  eravi  inglese  di  conto,  che 
viaggiando,  o  per  altri  suoi  affari  capitando  a  Vienna,  non  fosse  a 
visitarmi  per  conoscer  di  vista  chi  avea  conosciuto  per  fama; 
e  trattandosi  in  Londra  di  dar  una  nuova  e  magnifica  edizione 
dell'Istoria  del  presidente  Tuano,  il  famoso  Buckley,  che  n'avea  la 
direzione  e  principal  cura,2  scrisse  al  cavalier  Garelli,  biblioteca- 
rio delPimperadore,  che  gli  somministrasse  qualche  manuscritto, 
se  mai  si  trovasse  nella  biblioteca  cesarea,  o  altra  notizia  apparte- 
nente a  quell'Istoria,  affinché  niente  mancasse  di  raro  e  pellegrino 
in  questa  nuova  edizione  che  si  preparava.  Il  Garelli  non  mancò 
di  mandargli  quanto  potè  trovare  ne'  codici  manuscritti;  ed  aven- 
domi richiesto  di  conferir  anch'io  in  parte  a'  buoni  desideri  del 
Buckley,  gli  risposi  che  volentieri  l'avrei  fatto,  e  spezialmente  per 
occasione  di  questa  ristampa,  di  avvertire  la  varia  lezione  che  si 
osservava  tra  le  prime  stampe  di  quell'Istoria  e  l'edizione  di  Gine- 
vra del  1620  (se  bene  alcuni  essemplari  portino  la  data  di  Orléans), 
intorno  alla  moneta  di  oro  di  Ludovico  XII,  re  di  Francia,  che 
porta  l'epigrafe:  perdam  babillonis  nomen,  la  quale  il  Tuano, 
nel  primo  libro  delle  sue  Istorie,  narrava  essersi  coniata  in  Napoli, 
e  che  avesse  l'insegne  di  Napoli,  sicome  leggevasi  nelle  prime 

1 .  un  nuovo . . .  gesuita  :  la  «Historia  Literaria»  o,  come  diceva  il  sottotitolo,  An 
Exact  and  Early  Account  of  the  most  Valuable  Books  Published  in  the  Several 
Parts  of  Europe,  il  cui  primo  numero  usci  a  Londra  nel  1730,  recando  nei 
primi  quattro  fascicoli  un  sommario  dei  singoli  volumi  dell'opera  gianno- 
niana  e,  nel  quinto  fascicolo,  un  attacco  ai  «Mémoires  de  Trévoux»  per 
la  loro  recensione  alle  Riflessioni  del  Sanfelice.  Promotore  del  periodico  era 
un  ex-gesuita  inglese,  Archibald  Bower,  vissuto  in  Italia  sino  all'estate  del 
1726,  e  rientrato  a  Londra  in  quell'anno  dopo  aver  abbandonato  la  reli- 
gione cattolica.  La  prima  notizia  divulgata  in  Inghilterra  dell'opera  sul 
regno  di  Napoli  è  tuttavia  quella  -  qui  non  ricordata  dal  Giannone  -  di 
R.  Rawlinson,  nel  suo  A  New  Method  of  Studying  History,  11,  London  1 728, 
p.  407.  Cfr.  su  tutto  ciò  Bertelli,  pp.  208-9.  2.  Istoria  .  . .  cura:  cfr.  J,-A. 
DE  Thou,  Historiarum  sui  temporis  libri  XXIV,  Londinii,  excudi  curavit 
Samuel  Buckley,  1733.  Lo  storico  e  bibliofilo  francese  Jacques-Auguste 
de  Thou  (1 553-1617),  eletto  nel  1595  presidente  del  Parlamento,  oltre  che 
alla  propria  opera,  ha  affidato  la  sua  memoria  alla  celebre  «Bibliotheca 
Thuana  »,  ancor  più  ampliata  dal  figlio  e  che  è  oggi  uno  dei  fondi  della 
Bibliothèque  de  l'Arsenal  di  Parigi;  Samuel  Buckley:  erudito  e  bibliofilo 
inglese  del  XVII-XVIII  secolo. 


CAPITOLO   SETTIMO  187 

edizioni.  Ciocché  poi  si  emendò  nelle  altre  posteriori  edizioni,  poi- 
ché né  quella  moneta  porta  l'insegna  di  Napoli,  né  fu  coniata  in 
Napoli.  E  che  questo  era  un  punto  da  ben  esaminarsi,  né  trascu- 
rarsi: poiché,  se  si  dovessero  attendere  le  prime  edizioni,  si  con- 
fermerebbe l'interpretazione  data  a  capriccio  dal  padre  Arduino 
gesuita  all'epigrafe,  che  non  avesse  voluto  Ludovico  intender  per 
Babilonia  Roma,  ma  il  Cairo  d'Egitto,  che  chiamossi  pure  Babi- 
lonia.1 

Ma  poiché  la  verità  era,  che  quella  moneta  fu  fatta  imprimere 
dal  re  Ludovico,  per  rintuzzare  l'orgoglio  e  temerario  ardire  di 
papa  Giulio  II,  e  che  volesse  per  quella  minacciar  Roma,  né  fosse 
coniata  in  Napoli,  né  portasse  l'insegne  di  Napoli,  ma  di  Francia, 
quindi  bisognava  con  più  vigorosi  argomenti  di  quello  che  fin  ora 
erasi  fatto,  spezialmente  da  Sigismondo  Liebe,2  confutar  la  strana 
e  capricciosa  interpretazione  dell'Arduino,  e  manifestare  con  più 
chiare  pruove  che  Ludovico,  ancorché  s'intitolasse  nella  moneta 
re  di  Francia  e  di  Napoli,  e  tacitamente  con  ciò  volesse  inferirsi 
che  fosse  anche  re  di  Gerusalemme,  non  poteva  intendere  del 
Cairo,  posseduto  dal  soldano3  di  Egitto,  perché  allora  Gerusalem- 
me si  apparteneva  al  soldano  di  Damasco,  e  non  già  a  quello  di 
Egitto  ;  sicché  le  minaccie  avrebbero  dovuto  indrizzarsi  contro  co- 
lui, non  contro  quel  d'Egitto,  come  fantasticava  l'Arduino.  E  che 
vi  era  anche  molto  con  tale  occasione  da  avvertire  sopra  i  tanti 
altri  errori  ed  abbagli  presi  dal  gesuita,  per  render  vanissima  la  sua 
interpretazione.  La  materia  e  l'opportunità  meritava  la  pena  di 
farlo;  sicché  gli  promisi  che  n'avrei  distesa  una  dissertazione,  e 
fattala  poi  tradurre  in  latino,  si  sarebbe  potuta  mandare  in  Lon- 
dra a  Buckley,  perché  communicata  con  que'  savi,  ne  avesser  fatto 


1.  L'interpretazione  .  . .  Babilonia:  cfr.  J.  Hakdoutn,  Opera  selecta,  Amstae- 
lodami  1709,  pp.  905-6.  L'epigrafe  è  tratta  da  Isai.,  14,  22  e  la  coniazione 
della  medaglia  si  riferisce  all'urto  tra  Luigi  XII  e  Giulio  II,  sfociato  nella 
convocazione  del  Conciliabolo  pisano,  nel  151 1.  Jean  Hardouin  (1646- 
1729),  gesuita,  fu  bibliotecario  al  collegio  Louis-le-  Grand  di  Parigi.  Molto 
ammirato  per  la  sua  erudizione  (vedi  i  dodici  volumi  della  Conciliorum 
collectio  regia  maxima,  Parishs  1714-1715),  venne  però  ripreso  per  certe 
sue  opinioni  sulla  non  autenticità  di  talune  opere  classiche  e  della  patri- 
stica. 2.  spezialmente  .  .  .  Liebe:  cfr.  Prodromi  reformationis  pia  memoria 
recolendae,  sive  Nummi  Ludovici  XII,  regis  Gallorum,  epigraphe  «perdoni 
Babylonis  nomen*  vel  «perdam  Babylonem^  insignes  illustrati  et  impnmis 
contrajo.  Harduinum  defensi  a  Christiano  Sigismondo  Liebe,  Lipsiae  1717. 
3.  soldano:  sultano. 


l88  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

quell'uso  che  li  paresse.  Fu  la  dissertazione  distesa,  tradotta  in 
buon  latino  e  mandata  a  Buckley,  il  quale  scrisse  essere  stata  da 
tutti  sommamente  applaudita  e  che  si  sarebbe  impressa  nell'ul- 
timo tomo,  dov'erano  raccolte  tutte  l'altre  memorie  e  scritture 
appartenenti  non  men  all'Istoria,  che  al  suo  autore. 

In  effetto,  terminata  ne'  seguenti  anni  la  stampa,  e  riuscita  vera- 
mente magnifica  ed  accurata,  divisa  per  le  nuove  giunte  in  sette 
volumi  in-foglio,  nel  settimo  si  legge  la  Dissertazione  suddetta, 
senza  che  si  fosse  espresso  il  nome  dell'autore,  sicome  si  scrisse 
che  fosse  taciuto,1  e  per  maggior  intelligenza  della  medesima,  fu 
impressa  la  moneta  di  oro,  sicome  trovasi  in  più  musei;  ed  oltre 
a  questa  l'altra  consimile,  rapportata  da  Lukhio3  e  riferita  nella 
Dissertazione,  nella  quale,  leggendosi  l'anno  15 12,  vengono  non 
pur  confermati  gli  argomenti  addotti,  ma  resa  più  manifesta  la 
vanità  e  stranezza  dell'interpretazione  del  padre  Arduino  ;  sicome 
ciascuno  per  se  stesso  potrà  conoscere  leggendola  nel  riferito  set- 
timo tomo  di  questa  nuova  edizione. 

Veduta  che  fu  la  traduzione  inglese  dell'Istoria  civile,  s'invoglia- 
rono altre  nazioni  a  far  lo  stesso  ed  i  Francesi  non  furon  pigri  per 
darne  un'altra  francese;  ed  alcuni  professori  francesi,  che  partiti 
di  Francia  eransi  stabiliti  nell'Università  di  Losanna3  fra'  Svizzeri, 


I.  nel  settimo  .  .  .  taciuto',  cfr.  J.-A.  de  Thou,  Histotiarum  sui  temporis  libri 
XXIV,  cit.,  vii,  Sylloge  Scriptorum  varii  generis  et  argumenti  . .  .,  parte  vili, 
pp.  34-42.  La  dissertazione  è  stata  ristampata  dal  Panzini,  in  Opere  postume, 

II,  pp.  285  sgg.  La  stesura  originale  in  italiano  è  conservata  in  Archivio 
di  Stato  di  Tonno,  mazzo  1,  ins.  8  (Giannoniana,  pp.  408-9).  2.  Lukhio: 
Johann  Jacob  Luckh,  erudito  tedesco  del  XVII  secolo.  Giannone  si  rife- 
risce qui  alla  sua  Sylloge  numismatum  elegantiorum  quae  diversi  impp.  reges 
pnncipes  comites  respubhcae  diversas  ob  causas  ab  anno  1500  ad  annum  usque 
1600  cudifecerunt,  concinnata  et  historica  narratione  (sed  brevi)  illustrata,  Ar- 
gentinae  1620,  p.  23.  3.  alcuni . . .  Losanna:  tra  il  1728  e  il  1734  vide  la  lu- 
ce, a  Ginevra,  la  «Bibliothèque  italique»,  promossa  da  studiosi  di  Losanna, 
Ginevra  e  Neuchàtel  e  appoggiata  all'editore  Marc-Michel  Bousquet  (per 
cui  cfr.  la  nota  4  a  p.  212).  Nei  volumi  ix  e  x  del  periodico  fu  pubblicato 
un  rendiconto  del  primo  volume  dell' Istoria  civile,  curato  da  Babaud  du 
Lignon,  dietro  suggerimento  da  Parigi  dell'abate  Grane!.  Dopo  la  rottura 
dei  rapporti  tra  il  Bousquet  e  il  du  Lignon,  il  compito  di  continuare  la 
presentazione  dell'opera  fu  assunto  da  Charles-Guillaume  Loys  de  Bochat; 
però  la  sua  fatica  risultò  inutile,  per  la  cessazione  delle  pubblicazioni  della 
«Bibliothèque».  Su  tutto  questo  cfr.  G.  Bonnant,  Pietro  Giannone  à 
Genève  et  la  pubhcation  de  ses  oeuvres  en  Suisse  au  XVIII*  et  au  XIX* 
siècles,  in  «Annali  della  Scuola  speciale  per  archivisti  e  bibliotecari  del- 
l'Università di  Roma»,  in  (1963),  pp-  124-5-  Non  ebbe  invece  alcun  se- 
guito un  tentativo  di  traduzione  in  francese  al  quale  aveva  dato  mano  un 


CAPITOLO    SETTIMO  189 

erano  occupati  di  presto  mandarla  alla  luce,  poiché  una  società  di 
librari  di  Ginevra  se  ne  avea  preso  il  carico  d'imprimerla,  sicome 
si  dirà  innanzi.1  E  Menckenio  figlio  mi  scrisse  da  Lipsia,  che  già 
nell'interior  Germania  si  preparava  altra  traduzione  in  lingua  ale- 
manna, per  uso  de'  Tedeschi.2 

Ma  tutte  queste  grate  notizie  eran  per  me  dolci  cose  ad  udire, 
non  già  che  valessero  a  sottrarmi  dalle  miserie  e  strettezze,  nelle 
quali  in  quest'anno  mi  vidi  posto  dalla  voracità  ed  ingordigia  de* 
Spagnoli,  spezialmente  de'  Catalani,  di  Vienna;  i  quali  quel  poco, 
che  in  ciaschedun  mese  m'era  somministrato  da'  diritti  delle  spe- 
dizioni di  Sicilia,  per  mio  alimento,  l'avean  confuso  col  denaro 
del  Consiglio  :  sicché  erami  ritardato  il  pagamento,  per  supplire  a' 
loro  bisogni  e  quartali.3 

Il  nuovo  presidente,  conte  di  Montesanto,  avea  ottenuto  dalPim- 
peradore  che  questi  diritti  di  spedizione  e  suggello  della  Secreteria 
di  Sicilia,  che  prima  erano  separati,  si  confondessero  con  tutti  gli 
altri  del  Consiglio,  sicom' erano  quelli  di  Napoli  e  di  Milano. 
Venne  con  ciò  a  mutarsi  la  persona  che  soleva  somministrarmi 
le  mie  mesate,  ed  in  vece  d'esiggerle  dal  secretano  di  Sicilia,  co- 
me prima,  m'era  bisogno  di  ricorrere  all'ufficiai  maggiore  della 
Secreteria  del  Suggello,  ch'era  un  vecchio  catalano,  chiamato  don 
Giovanni  Llacuna,  ricevitore  di  tutto  il  denaro  che  proveniva  dalle 
spedizioni  così  di  Sicilia,  come  di  Napoli  e  di  Milano,  nelle  cui 
mani  era  riposto  a  disposizione  del  Consiglio  e  del  presidente;  il 
quale,  ora  per  un  bisogno,  ora  per  un  altro,  che  non  ne  manca- 
vano (poich'erasi  giunto  a  somministrar  estraordinari  soccorsi  di 
denaro  a  gli  Spagnoli,  non  pur  per  i  funerali  di  loro  defonti  o  per 
qualche  loro  infermità,  ma  sino  per  i  loro  viaggi,  per  le  spese  delle 
nozze  delle  loro  figlie,  se  si  maritavano,  o  pure  ne'  parti  delle  loro 

avvocato  del  Parlamento  di  Parigi  (cfr.  Panzini,  p.  52)  e  per  il  quale  il 
Giannone  approntò  alcune  correzioni,  tramite  l'abate  Pellegrini,  già  let- 
tore di  diritto  a  Pisa,  da  lui  conosciuto  a  Vienna,  e  che  Apostolo  Zeno 
definiva  «  gran  viaggiatore  e  gran  parabolano,  e  che  spaccia  la  sua  mercan- 
zia più  di  quello  che  è,  e  che  vale»  (cfr.  Lettere,  rv,  Venezia  1785,  p.  122). 
1.  sicome  .  .  .  innanzi',  cfr.  pp.  212-4.  z-  nell'interior  . . .  Tedeschi:  anche 
per  questa  iniziativa  il  Giannone  fu  informato  tramite  Johann  Burckard 
Mencke,  il  quale  gli  scrisse  il  22  novembre  1732  dando  per  imminente  l'u- 
scita della  traduzione  tedesca  dell'icona  civile  (cfr.  Panzini,  p.  52).  Sen- 
nonché questa  edizione  non  vide  mai  la  luce.  Uscì  invece  a  Lipsia,  in 
quattro  volumi,  un'altra  traduzione,  tra  il  1758  e  il  1770,  curata  da  Otto 
Christian  von  Lohenschiold  e  da  Johann  Friedrich  Le  Bret:  Bùrgerliche 
Geschichte  des  Kdnigreichs  Neapel.     3.  quartali:  parti  di  stipendio. 


190  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

mogli),  teneva  quasi  sempre  vota  la  borza  del  ricevitore;  e  dall'al- 
tra parte,  per  lentezza  e  trascuraggine  del  medesimo  in  esigger 
da  Sicilia  i  diritti  di  spedizione,  sempre  che  io  mandava  per  riscuo- 
ter le  mesate,  la  risposta  del  catalano  era:  «no  hai  dinero».1 

Soffrii  per  due,  tre  e  quattro  mesi,  ma  vedendo  che  la  cosa  si 
prolungava  ed  il  mio  bisogno  mi  stringeva,  da  necessità  costretto, 
vedendo  che  niente  mi  giovavano  le  doglianze  che  faceva  col  pre- 
sidente ed  i  reggenti  di  quel  Consiglio,  ebbi  ricorso  da  Sua  Maestà, 
e  con  pieno  memoriale2  l'esposi,  che  dalla  confusione  del  denaro 
de'  diritti  di  Sicilia  con  quelli  di  Napoli  e  di  Milano  proveniva  la 
tardanza  del  mio  pagamento,  valendosi  il  Consiglio  di  tutto  il 
denaro;  e  se  ve  n'era  della  spedizione  di  Milano  e  di  Napoli, 
come  più  ubertosa,  non  per  questo  era  io  soddisfatto,  replicandomi 
che  il  mio  assignamento  era  sopra  quella  di  Sicilia;  onde  pregava 
Sua  Maestà  che  sicome  il  Consiglio  valevasi  de'  diritti  di  Sicilia 
confondendogli  con  gli  altri,  così  il  mio  assignamento  si  stendesse 
sopra  quelli  di  Napoli  e  Milano,  affinché  se  si  trovassero  spesi 
quelli  di  Sicilia,  avessi  io  donde  ricompensargli;  tanto  maggior- 
mente, che  F  assignamento  della  mia  mercede  fu  dimostrativa- 
mente fatto  sopra  Sicilia,  come  allora  più  sicuro,  non  già  tassati- 
vamente, sicché  non  potessi  ricorrere  alle  altre  spedizioni. 

Ne  informai  pienamente  il  marchese  di  Rialp,3  al  quale  diedi  il 
memoriale,  perché  da  Sua  Maestà  impetrassi  questa  giustizia;  ed 
il  marchese,  persuaso  della  mia  ragione,  non  tardò  guari  che  ot- 
tenne da  Sua  Maestà  decreto,4  col  quale,  perché  non  mi  fosse  dif- 
ferito il  pagamento,  si  ordinava  che  nelF assignamento  fattomi  ci 
andasser  anche  compresi  i  diritti  delle  spedizioni  di  Napoli  e  di 
Milano  ;  e  se  ne  spedì  dispaccio  diretto  al  Consiglio. 

Replicarono  al  decreto  que'  signori  che  lo  componevano,  gelosi 
che  non  se  gli  toccasser  i  loro  fondi,  rappresentando  a  Sua  Maestà 
che  i  diritti  delle  spedizioni  di  Napoli  e  di  Milano  erano  stati  prima 
incorporati  al  Consiglio,  come  sua  dote,  e  che  non  potevano  ad 
altri  assignarsi;  sicché  il  mio  assignamento5  dovesse  rimaner  ri- 
stretto a  quelli  soli  della  Sicilia.  Non  bastava  a  que'  signori,  perché 


1 .  «  no  hai  daterò  »  :  «  non  ho  danaro  ».  2.  memoriale  :  il  testo  di  esso  non  ci  è 
pervenuto.  3.  Ne . . .  Rialp:  cfr.  la  Memoria  per  VEcc.mo  Sig.  Marchese  di 
Rialp,  in  Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  11,  ins. 
15,  C,  4  (Giannonianay  pp.  439-40).  4.  decreto:  del  14  gennaio  1730. 
5.  assignamento:  assegno,  stipendio. 


CAPITOLO   SETTIMO  191 

fosser  sicuri  de'  loro  quartali,  aversi  fatti  assignare  nel  regno  di 
Napoli  e  nello  Stato  di  Milano  i  migliori  corpi  dell'entrate  regie; 
non  gli  bastava,  per  essere  puntualmente  pagati,  il  denaro  che  ri- 
traevan  ogni  anno  dagli  uffici  vendibili,  non  tanti  altri  diritti  ed 
emolumenti  ;  che  vollero  pur  guardare  attentamente  a  questa  mi- 
nuzia e  bagattella,  quasi  che  facendomi  entrare  in  sì  minutissima 
parte,  che  non  era  che  una  gocciola  a  riguardo  delP ampio  oceano 
dov'essi  nuotavano,  non  venisser  a  mancargli  Tacque. 

Ma  informato  che  io  fui  dell'animosa  ed  ingorda  replica,  vi  ac- 
corsi subbito  con  altro  memoriale,1  rappresentando  a  Sua  Maestà 
che  già  che  il  Consiglio  ripugnava  e  che  voleva  che  non  se  li  toc- 
cassero le  spedizioni  di  Napoli  e  di  Milano,  la  stessa  ragion  vo- 
leva che  a  me  non  si  toccassero  quelle  di  Sicilia,  poiché  furono  a 
me  assignate,  prima  che  si  confondessero  e  s'incorporassero  al 
Consiglio;  onde  non  potessero  valersene,  se  prima  non  era  io  pa- 
gato, e  così,  se  ne  spedissero  ordini  al  pagatore  Llacuna.  La  mia 
domanda  Sua  Maestà  la  riputò  giusta  e  che  non  ammettesse  al- 
tra replica;  sicché  con  altro  decreto2  commandò  che  delli  diritti 
delle  spedizioni  di  Sicilia  fossi  io  prima  pagato,  né  il  Consiglio 
potesse  toccarli,  se  non  doppo  la  mia  soddisfazione;  ed  avver- 
tisse a  chi  si  apparteneva  esser  questa  la  sua  real  volontà.  Esegui- 
rono senz'altra  replica  il  decreto,  e  furono  spedite  al  ricevitor 
Llacuna  istruzioni  conformi;  ma  per  farle  capire  a  quello  stupido 
vecchio,  bisognò  stentar  molto.  Così  fui  pagato  delle  passate  me- 
sate e  presenti,  e  per  l'avvenire  se  bene  non  mi  fosser  pagate  mese 
per  mese,  con  tutto  ciò  non  passavano  i  due,  ancorché  qualche 
volta  anche  i  tre,  poiché,  passando  le  spedizioni  per  le  lor  mani, 
niuno  poteva  sapere  che  denaro  vi  fosse,  e  sovente  bisognava  chi- 
nar il  capo  alla  terribile  voce  del  catalano:  «no  hai  dinero  ». 

A  questi  tempi,  il  Consiglio  di  Spagna  erasi  ridotto  ad  una  vana 
apparenza,  poiché  le  cose  gravi  e  di  momento  erano  risolute  dalla 
Secreteria  di  Stato,  ed  il  marchese  di  Rialp  n'era  l'arbitro  e  dispo- 
sitore,  lasciandosi  al  Consiglio  le  cose  minute;  e  se  nelle  gravi  si 
cercavano  le  sue  consulte,  o  era  per  ludibrio,  o  pure  per  iscorgere 
se  fossero  conformi  a  ciò  che  erasi  già  il  marchese  deliberato  di 

1.  altro  memoriale:  il  testo  di  questo  è  conservato  nell'Archivio  di  Stato 
di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  il,  ins.  15,  A,  io  (Giannonìana, 
p.  434).     2.  altro  decreto:  del  17  marzo;  cfr.  Panzini,  p.  40,  in  nota. 


I92  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

fare.  Per  ciò  i  reggenti  che  lo  componevano,  ciascuno  non  atten- 
deva che  al  proprio  utile  e  d'avanzar  le  loro  case;  ed  il  marchese, 
purché  gli  lasciasse  di  ciò  appagati  e  non  fossero  d'ostacolo  colle 
loro  repliche  ed  opposizioni  a  quanto  egli  intendeva  di  fare,  volen- 
tieri ci  dava  mano  ;  sicché  il  minimo  de'  loro  pensieri  era  il  servizio 
del  re  ed  il  pubblico  bene.  Per  ciò  le  spedizioni  di  giustizia,  e 
quelle  che  non  recavan  grandi  emolumenti  eran  tarde,  e  sovente 
affatto  trascurate;  onde  avvenne  che  i  provinciali  di  Napoli,  Si- 
cilia e  Milano  non  cosi  spesso,  come  prima,  ci  avean  ricorso; 
sicché  le  spedizioni  sensibilmente  venivano  a  scemarsi,  sicome  le 
commissioni  a  gli  aggenti,  i  quali  toltone  alcuni  pochi  che  aveano 
il  favore  del  marchese  di  Rialp,  eransi  ridotti  in  un'estrema  men- 
dicità; sicome  anch'io  conobbi  per  proprio  esperimento,  che  sem- 
pre più  si  scemavano  le  commissioni,  che  prima  mi  eran  date  per 
difesa  di  qualche  causa;  e  molto  più  si  videro  cessare  ne'  seguenti 
anni,  quando  i  provinciali,  annoiati  di  sì  lungo  aspettare,  nel  mi- 
glior modo  che  potevano  accomodavano  i  loro  fatti  nelle  loro  città, 
senza  ricorrer  più  a  Vienna. 

Di  ciò  i  reggenti  se  ne  caravan  poco,  soverchiandoli  i  grossi 
stipendi,  che  sopra  fondi  sicuri  e  certi  erano  stati  loro  assignati;  e 
già  era  fatta  lor  consueta  e  propria  frase,  che  spesso  replicavano, 
dicendo:  «quartali  vengano  e  non  curiamo  del  resto»;  e  tutto  il 
loro  scopo  non  era  altro  che  questo,  e  di  profittare  ciascuno  per 
se  stesso.  Ne  diedero  un  chiaro  documento  quando,  per  lo  pas- 
saggio del  reggente  Bolagno  all'ambascieria  di  Venezia,  fu  rifatto 
in  suo  luogo  il  reggente  Alvarez1  per  Milano;  e  dapoi  creato  pre- 
sidente del  Consiglio  di  Santa  Chiara  di  Napoli  il  reggente  Sola- 
nes,a  a  chi  dovea  darsi  successore  per  Napoli,  fu  fatto  Esmandia3 
reggente. 

Ciascuno  credea  ch'Esmandia,  come  quello  ch'era  stato  lunghi 

1.  Bolagno  . .  .  Alvarez:  cfr.  le  note  1  p.  98  e  2  a  p.  92.  2.  Francisco 
Solanes,  giurista,  conte,  professore  di  diritto  all'Università  di  Barcellona  e 
sin  d'allora  amico  del  Rialp,  nel  1708  era  passato  a  Napoli  consigliere  di 
Santa  Chiara.  A  Vienna  nel  1726,  successe  all'Argento  come  presidente  del 
tribunale  di  Santa  Chiara  e  giudice  delegato  in  Collaterale.  Cfr.  H.  Bene- 
dikt,  Dos  Kónìgreìch  Neapel,  cit.,  p.  239  e  passim.  Ma  vedi  anche  la  let- 
tera profetica  del  Giannone  al  fratello,  m  data  29  luglio  1730,  dove  scrive 
che  «avendo  il  reggente  Solanes  impresso  ora  un  libro  di  sette  disserta- 
zioni legali»,  dubita  che  ciò  non  sia  per  fargli  avere  la  presidenza  del 
Sacro  Real  Consiglio  (Giannoniana,  n.°  366).  3.  Esmandia:  cfr.  la  nota 
a  p.  141. 


CAPITOLO    SETTIMO  193 

anni  senatore  a  Milano  ed  istrutto  a  minuto  dello  Stato,  né  mai 
avea  veduto  Napoli,  né  in  qual  parte  d'Italia  si  fusse,  dovesse  oc- 
cupare il  reggentato  per  Milano,  perché  le  provvidenze  fosser  più 
accertate,  trattando  di  paese  a  sé  noto.  All'incontro,  il  reggente 
Alvarez,  che  giovane  appena  avea  veduto  Milano,  e  ch'era  stato 
in  Napoli  reggente  di  Collaterale  molti  e  molti  anni,  il  quale  era 
istrutto  della  Città  e  Regno,  dovesse  passar  reggente  per  Napoli. 
Con  ammirazione1  di  tutti,  si  vide  il  contrario:  poiché  rimase  Alva- 
rez per  Milano,  ed  Esmandia  per  Napoli. 

I  curiosi  vollero  indagare  la  cagione,  e  non  trovarono  essere 
stata  altra,  se  non  perché  TAlvarez  non  volle  muoversi  dal  reggen- 
tato di  Milano  e  passar  in  quello  per  Napoli,  per  non  perdere  il 
piggione  che  pagava  Milano  a*  suoi  reggenti  provinciali  della  loro 
abitazione:  ciò  che  non  facea  Napoli  a'  suoi:  credendo  bastargli  i 
novemila  fiorini  Tanno,  che  Sua  Maestà  gli  paga  di  soldo.  Tanto 
bastò,  perché  si  riputasse  ragionevole  la  sua  ripugnanza,  niente 
curando  ch'era  di  maggior  servizio  del  re  e  del  pubblico,  che  l'uno 
più  istrutto  di  Milano  passasse  per  Milano,  e  l'altro  ben  infor- 
mato delle  cose  di  Napoli  fosse  per  Napoli,  come  quelli  che  eran 
venuti  di  fresco,  l'un  da  Napoli  e  l'altro  da  Milano,  e  conoscessero 
le  persone  e  l'ultimo  stato  di  quel  regno  e  di  quel  ducato,  nel  quale 
eglino  l'avean  lasciati. 

Parimente,  passato  l'Esmandia  da  fiscale  al  reggentato  per  Na- 
poli, non  fu  più  rifatto  fiscale,  dicendo  che  nel  Consiglio  questa 
carica  era  superflua  e  vana,  bastando  che  l'ultimo  reggente  sup- 
plisse alle  sue  veci;  e  così  rimase  la  carica  estinta.  Ciò  non  fu  per 
altro,  se  non  perché  il  soldo  assignato  al  fiscale  di  novemila  fiorini 
Tanno  s'incorporasse  al  Consiglio  e  [i  consiglieri]  fortificasser  me- 
glio i  loro  quartali,  affinché  non  venisser  a  mancare;  poiché,  esau- 
rita la  mina*  degli  uffici  vendibili,  che  per  lo  più  per  mercedi  si 
concedevano  dalla  Secreteria  di  Stato  a'  Spagnoli  ed  altri  favoriti 
dal  marchese  di  Rialp,  senz' esporsi  venali,  mancando  tuttavia  i 
ricorsi  de'  provinciali  e  le  spedizioni,  onde  prima  si  ritraean  grossi 
emolumenti,  e  seccandosi  gli  altri  fondi,  onde  derivan  altre  acque, 
volevano  per  altri  modi  esser  sicuri  che  non  si  scemasser  punto  o 
ritardassero  i  loro  soldi,  ch'era  l'unico  loro  scopo  ed  intento. 

Dall'altra  parte  il  marchese  di  Rialp,  per  la  sua  secreteria,  reg- 

1.  ammirazione-,  meraviglia.     2.  la  mina',  la  miniera. 
13 


194  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

geva  le  divine  ed  umane  cose:  le  cariche,  le  toghe,  i  regi  vescovadi, 
le  badie  regie,  i  benefìci  di  collazione  o  presentazione  regia,  e 
tutto  per  le  sue  mani  si  dispensavano.  E  la  norma  che  si  teneva  in 
dispensargli  si  vide  esser  questa:  se  concorrevano  al  posto  Spa- 
gnoli e  nazionali,  questi  eran  esclusi,  e  preferiti  i  primi  ;  sicome  se 
si  contendeva  fra'  Spagnoli,  eran  preferiti  i  Catalani.  E  ciò  avve- 
niva, quando  la  carica  soleva  darsi  o  per  merito  o  per  favore, 
senza  sborzo  di  denari.  Ma  quando  occorrevan  bisogni  di  denaro, 
che  non  ne  mancaron  mai,  o  per  qualche  dote  che  bisognava  as- 
signare  alle  donzelle  o  vedove  spagnole,  ovvero  per  qualche  soc- 
corso secreto,  che  si  voleva  dare  a  qualche  favorito  spagnolo  per 
le  spese  delle  nozze,  per  viaggi  o  altri  suoi  bisogni,  eziandio  che 
non  fosser  necessari,  ma  voluttuosi  o  pomposi,  allora  le  toghe,  le 
cariche,  ed  altri  magistrati  ed  impieghi  si  davano  a  quelli  che 
offerivano  più  denaro;  e  vi  erano  particolari  proxeneti,1  fra'  quali 
due  ecclesiastici  nostri,  napolitani,  per  mezzo  de*  quali  si  contrat- 
tava; e  questi  eran  divenuti  ricchissimi,  ancorché  appena  sapessero 
leggere  e  scrivere,  senz'altro  capitale,  se  non  che,  commessi  stessi 
vantavano,  «d'aver  le  orecchie  del  marchese»,  cioè  perché  Rialp 
sentiva  volentieri  da  loro  le  domande  e  la  somma  del  denaro  che 
offerivano,  e  perciò  eransegli  destinate  due  giornate  della  setti- 
mana, il  mercoledì  e  sabbato,  nelle  quali  si  trattava  di  tali  faccende. 
Sicché  per  Napoli  non  vi  era  toga  o  ministero  che  dovesse  prov- 
vedersi, se  non  eransi  prima  aggiustate  le  somme  che  per  mezzo  di 
questi,  eran  offerte  da'  pretenzori.  E  la  bisogna  si  ridusse  a  tale, 
che  anche  il  meritevole,  graduato,2  dotto  ed  intero,  ancorché  fosse 
stato  nominato  dal  viceré,  dovea  passare  sotto  il  giogo,  altrimenti 
non  avrebbe  già  mai  conseguito  il  posto.  Questo  sol  vantaggio  vi 
era  per  lui,  che  se  le  somme  offerte  da  più  fosser  pari,  era  il  più 
meritevole  preferito. 

Or  vedendo  io  ridotte  le  cose  in  questo  sistema,  cominciai  a 
perdere  ogni  speranza  di  mio  accomodamento,  anche  con  qualche 
posto  in  Napoli;  poiché  se  bene  io  più  volte  avessi  ricordato  al 
marchese  di  Rialp  che  Sua  Maestà  conferendomelo  ci  guadagnava 
mille  fiorini  Tanno,  che  avrebbe  potuto  impiegargli  ad  altro  uso; 
nulladimanco  ciò  niente  mi  giovava,  poiché  il  marchese  nella  prov- 
vista delle  toghe  cercava  denari  contanti,  che  fossero  in  quantità 

i.  proxeneti:  sensali  (grecismo),  z.  graduato  :  che  ha  grado,  cioè  che  ha  già 
coperto  cariche  nelle  magistrature  o  negli  uffici  inferiori. 


CAPITOLO    SETTIMO  195 

considerabile,  per  supplire  a'  bisogni  de*  suoi  favoriti  spagnoli,  a' 
quali  non  era  sufficiente  il  mio  picciolo  assignamento,  col  quale 
non  avrebbe  potuto  gratificare  che  ad  un  solo. 

Il  conte  d'Harrac  viceré  mostrava  tutta  la  propensione  di  favo- 
rirmi;1 e  su  la  credenza  che  fosse  richiesto  di  far  nomina  di  sog- 
getti per  empire  la  piazza  vacante  di  fiscale,  per  lo  passaggio 
d'Esmandia  al  reggentato,  si  era  palesato  con  alcuni  miei  amici  in 
Napoli,  che  m'avrebbe  nominato,  non  sapendo  che  il  Consiglio 
pensava  d'estinguer  la  piazza,  sicome  Pestinse.  Non  gli  rimaneva 
altra  strada,  se  non  nelle  occasioni  di  vacanze  di  piazze  del  Con- 
siglio di  Santa  Chiara,  o  pure  della  Camera  di  Napoli,  e  cercava 
aiutarmi,  in  voler  nelle  nomine  non  dimenticarsi  di  me;  ma  era 
consigliato  in  Napoli  che,  trovandomi  io  nella  Corte,  né  sapendosi 
qual  fosse  l'intenzione  di  Sua  Maestà,  prima  di  farlo  ne  ricevesse 
istruzione  da  Vienna,  per  regolarsi;2  onde  mi  scrisse3  che,  non  sa- 
pendo se  Sua  Maestà  voleva  che  io  tornassi  a  Napoli,  per  non 
consumar  in  vano  il  nominarmi,  potendo  giovar  ad  altri,  gli  facessi 
scrivere  una  lettera  dal  marchese  di  Rialp  o  dal  presidente,  conte 


x.  Il  conte .  .  .favorirmi:  cfr.  Panzini,  pp.  65-6:  «Questo  Viceré  aveva 
avuto  innanzi  di  partire  di  Vienna  le  più  premurose  sollecitazioni  dal  Prin- 
cipe Eugenio  di  Savoia,  cui  deferiva  non  poco,  perché  adoperato  si  fosse 
a  collocare  il  Giannone  in  qualche  carica  conveniente  alla  sua  dottrina  ed 
al  suo  merito.  Non  v'era  quasi  persona  nella  Corte,  che  mostrasse  verso  di 
lui  animo  più  ben  disposto  e  meglio  intenzionato  del  conte  di  Harrach; 
e  ciò  non  tanto  per  le  raccomandazioni  del  Principe  Eugenio,  quanto 
pe  '1  grande  ed  alto  concetto  che  gliene  avea  formato  suo  figliuolo  il  con- 
te Ferdinando,  giovine  ...  di  rara  erudizione  e  d'esatto  discernimento  ». 
2.  era  .  .  .  regolarsi:  cfr.  ancora  in  Panzini,  p.  66:  «Tutte  coteste  fa- 
vorevoli disposizioni  furono  nondimeno  attraversate  da'  suoi  malevoli,  i 
quali  non  so  per  quali  vie  seppero  artifiziosamente  rappresentare  al  Viceré, 
che  dopo  1  rumori  ed  i  tumulti  ch'avea  il  libro  della  Storia  Civile  eccitati 
fra  '1  popolo,  pericolosa  cosa  sarebbe  il  promuoverne  a  qualche  dignità 
l'autore,  del  quale  non  era  il  pubblico,  se  non  se  malcontento  ».  Il  Panzini, 
allo  stesso  luogo,  ci  dice  anche  chi  fossero  gli  unici  sostenitori  del  Gian- 
none  in  Napoli,  e  cioè  il  Grimaldi,  il  Garofalo  e  il  Fraggianni.  A  questo 
proposito  si  veda  la  lettera  indirizzata  dal  Giannone  al  viceré  il  18  novembre 
1730  da  Vienna  (Giannoniana,  n.°  383)  e  la  lettera  senza  data,  ma  risalente 
a  quello  stesso  periodo  di  tempo,  inviata  al  Giannone  da  Napoli  dal  Ga- 
rofalo (Giannoniana,  n.°  384)  e  nella  quale  si  dà  notizia  di  una  visita  com- 
piuta dall'amico  presso  l'Harrach,  per  raccomandare  la  nomina  del  Gian- 
none  «  in  ministeno  di  sommo  grado  ».  La  risposta  del  viceré  fu  «  di  avere 
avuto  informazione  da  un  suo  amico  di  cotesta  Corte  di  nominare  V.  S. 
Ill.ma  in  una  terna  di  Consiglio  di  S.  Chiara,  ma  che  temeva  di  qualche 
rumore  del  popolo».  3.  mi  scrisse:  il  15  dicembre  1730;  cfr.  Panzini,  p. 
66,  in  nota. 


196  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

di  Montesanto,  che  l'assicurassero  che  Sua  Maestà  sarebbe  con- 
tento di  questo,  e  non  l'avesse  a  discaro. 

Il  presidente,  ancorché  l'avessi  fatto  istantemente  pregare  dal 
reggente  Almarz  suo  intimo  amico,  non  volle  impacciarsene,  di- 
cendo che  egli  non  s'era  intrigato  mai  col  viceré  di  scrivergli  in 
occasioni  di  nomine;  che  altri  sì  bene  se  n'impacciava,  volendo 
intendere  di  Rialp.  Mi  volsi  con  ciò  al  marchese,  e  fecilo  anche  pre- 
gare dal  cavalier  Garelli;  al  quale  rispose,  che  ne  avrebbe  parlato 
all'imperadore  e,  secondo  che  Sua  Maestà  l'avesse  risposto,  si  sa- 
rebbe regolato.  Fu  il  Garelli,  alquanti  giorni  dopo,  per  sentire  la 
risposta;  la  qual  fu,  che  avendone  parlato  coll'imperadore,  l'avea 
risposto  che  io  tenessi  pazienza  per  altro  poco  tempo. 

Questa  risposta  fu  da  noi  prevista,  perché  il  marchese,  quando 
gli  parlò  la  prima  volta  il  Garelli,  mostrò  poco  gusto  che  io  volessi 
imbarazzargli  le  proviste  di  Napoli,  ch'egli  avea  destinate  a  sog- 
getti che  potevano  somministrargli  denari.  Oltracché  non  voleva  di- 
sgustar la  corte  di  Roma,  la  quale  avrebbe  amaramente  inteso  il 
mio  ritorno  a  Napoli  con  carica,  nell'istesso  tempo  che  egli  trat- 
tava in  Roma  d'un  chiericato  di  Camera  per  l'abate  Perlas  suo 
figlio,  per  renderlo  più  prossimo  al  cardinalato  ;  giacché  erano  riu- 
scite vane  le  speranze  di  vederlo  in  persona  dell'arcivescovo  di  Sa- 
lerno,1 suo  fratello,  il  quale  opportunamente  se  n'era  morto  in 
Napoli,  in  tempo  che  per  acquistarsi  maggior  merito  con  Roma, 
era  stato  proposto  da  Vienna,  per  terminare  con  amichevole  ac- 
cordo insieme  col  presidente  Argento  alcune  contese  giurisdizio- 
nali riguardanti  il  regno  di  Napoli,  le  quali  se  vivea  si  sarebbero 
certamente  composte  con  total  mina  e  precipizio  delle  reali  pre- 
minenze; poiché,  in  premio  di  opera  sì  degna,  eragli  stato  promesso 
il  cappello  cardinalizio.  Or,  il  marchese,  ciò  che  importuna  morte 
gli  tolse,  volea  risarcir  la  perdita,  per  quest'altra  via;  e  con  ogni 
sforzo  tirava  a  vedersi  il  figlio  per  ora  chierico  di  Camera,  per  me- 
glio disporlo  al  cardinalato.  Ma  Roma  accorta  prolungava  le  spe- 
ranze per  trarne  intanto  suoi  vantaggi;  e  tanto  seppe  differire, 
sicché  sopragiunti  gl'ultimi  cangiamenti  d'Italia,  non  ebbe  que- 
sta sorte  di  veder  adempiti  i  suoi  vasti  desideri. 

Qual  speranza,  adunque,  potea  io  avere  d'essere  promosso,  e 
che  mi  fosse  adempita  la  real  promessa  di  contentarmi  di  quel  pic- 

1.  arcivescovo  di  Salerno',  cfr.  la  nota  2  a  p.  114. 


CAPITOLO   SETTIMO  197 

dolo  sostentamento,  fin  che  non  fossi  impiegato  nel  real  servizio  ? 
Questo  interim  me  lo  vedeva  prolungato,  non  altrimenti  che  Vinte- 
rim  di  Carlo  V;1  onde  bisognò  aver  pazienza,  e  quietarmi  fin  che 
Dio  non  disponesse  altrimente  le  cose,  pregandolo  a  dar  fine  a 
tante  mostruosità  e  sconcezze,  con  por  argine  a  sì  strane  confu- 
sioni e  disordini;  poiché  si  vedeva  che  tutti  eravamo  divenuti  e 
fatti  eredità  unius  domus.2  Presso  il  marchese  di  Rialp  era  l'arbitrio 
di  tutte  le  cose.  Egli  inalzava  ed  abbassava;  egli  faceva  il  negro 
bianco  ed  il  bianco  negro,  l'ignorante  dotto,  e  rinsufEciente  abile 
ed  idoneo  ;  sicome  chiaramente  si  vide  nella  provista  del  presiden- 
tato di  Napoli,  rimaso  vacante  per  l'improvisa  morte  del  presiden- 
te Argento.3 

Certamente  che  per  darsi  successore  ad  un  uomo  cotanto  rino- 
mato e  dotto,  bisognava  por  ogni  studio  d'elegger  un  soggetto 
eminente,  che  potesse  degnamente  occuparlo.  Fra  i  pretenzori, 
quattro  reggenti  del  Consiglio  di  Spagna  erano  i  più  avanzati:  il 
reggente  Positano,4  nazionale;  il  reggente  Almarz,5  nato  pur  in 
Napoli,  ma  oriundo  spagnolo;  il  reggente  Alvarez,  di  Salamanca; 
ed  il  reggente  Solanes,  catalano.  I  due  primi  per  molti  anni  aveano 
essercitato  il  posto  di  consigliero  in  quel  medesimo  Consiglio  ove 
ora  pretendevan  essere  presidente;  ed  oltre  essere  istrutti  del  tri- 
bunale che  dovean  reggere,  erano  ben  veduti  da'  Napolitani  per 
le  loro  maniere  gentili  e  cortesi,  e  molto  più  l'Almarz,  amabilissi- 
mo per  la  gran  sua  affabilità  e  schiettezza;  e  se  bene  per  dottrina 
non  potessero  pareggiar  coli' Argento,  niente  però  l'erano  inferiori 
per  probità,  incorruttibilità  e  candore  de'  costumi.  Degli  altri  due, 
Alvarez  era  pur  troppo,  ignudo  di  lettere  e  di  giurisprudenza,  che 
amava  far  più  il  cavaliere  che  il  ministro  ;  e  se  ben  avesse  conoscen- 
za di  Napoli,  per  esservi  stato  più  anni  reggente  del  Consiglio  di 
Santa  Chiara,  de'  stili  e  modi  co'  quali  ivi  si  trattavano  le  cause 
forensi  non  avea  pratica  alcuna.  Il  Solanes,  per  essere  stato  cat- 
tedratico in  Barzellona,  e  poi  per  più  anni  consigliero  dello  stesso 
Consiglio,  avea  acquistato  qualche  pratica  del  medesimo,  né  era 

1.  interim  di  Carlo  V:  raccordo  coi  protestanti,  del  1548,  detto  «interim 
di  Augusta  »,  col  quale  si  concedeva  una  tregua  agli  aderenti  alla  confes- 
sione Augustana.  2.  unius  dormisi  d'una  sola  casa.  3.  improvisa  . .  »  Ar- 
gento: cfr.  la  lettera  a  Carlo,  del  24  giugno  1730  (Giannoniana,  n.°  361),  e 
ancora  le  due  lettere  del  luglio  dello  stesso  anno,  dove  si  parla  della  vedova, 
donna  Costanza  (Giannonìana,  nn.  363  e  364).  4.  Positano:  cfr.  la  nota  1 
a  p.  98.     5.  Almarz:  cfr.  la  nota  1  a  p.  98. 


198  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

cotanto  nudo  di  scienza  legale;  ma  il  suo  naturale  un  poco  rustico 
e  ributtante,  ancorché  incorrotto  ed  amante  della  giustizia,  lo  ren- 
deva poco  grato  ed  accetto  a'  Napolitani.  Si  aggiungeva  che  l'avan- 
zata età  e  Tesser  sottoposto  ad  insulti  apoplettici  l'avean  reso  quasi 
stupido  ed  illetarghito. 

Con  tutto  ciò  questi  sopra  gli  altri  fu  eletto,  e  non  già  per  serbar 
l'alternativa,  poiché  l'Almarz  era  pure  oriundo  spagnolo,  e  come 
tale  era  reggente  per  Sicilia  insieme  col  nazionale  Perlongo;  ma 
perch'era  compatrioto  del  marchese  Rialp,  suo  amico,  sin  da  ch'era 
cattedratico  in  Barzellona,  e  perché  sicome  possedeva  nella  Regia 
Camera  di  Napoli  per  luogotenente  Aghir,1  catalano,  così  pure 
presidesse  nel  Consiglio  di  Santa  Chiara  un  altro  catalano  ;  poiché 
la  mira  e  scuopo  era  che  tutti  i  posti  maggiori,  0  sian  di  Napoli,  o 
di  Sicilia,  o  di  Milano,  fosser  occupati  da'  Spagnoli,  e  sopra  questi 
da  Catalani  se  si  potesse. 

Ma  il  più  curioso  insieme  e  ridicolo,  che  in  questa  elezione 
intervenne  si  fu,  che  l'istesso  marchese  e  gli  altri  Catalani,  perché 
si  rendesse  il  Solanes  sopra  gli  altri  pretensori  più  meritevole  e 
distinto,  lo  spinsero  a  dar  fuori  alle  stampe  un  libro  legale;2  onde 
quel  povero  vecchio  scimunito  de'  vecchi  scritti  delle  Istituzioni  di 
Giustiniano,  ch'egli  avea  insegnato  nell'Università  de'  studi  di  Bar- 
zellona, prestamente  ne  compose  un  libro,  e  lo  diede  alle  stampe, 
e  andò  a  presentarlo  all'imperadore,  nel  tempo  ch'era  ancor  dub- 
bio e  vacillante  nell'elezione.  Tanto  bastò  che,  esaggerando  a  Ce- 
sare (il  quale  non  avea  certamente  tempo  di  guardar  che  conte- 
nesse il  libro)  che  fosse  un'opera  insigne,  delle  migliori  ch'erano 
uscite  da  Spagna,  e  che  l'autore  fosse  il  più  dotto  che  avesse  fra' 
suoi  ministri  e  degno  d'occupar  quel  posto,  non  passarono  dieci 
giorni  da  che  fu  presentato  a  Sua  Maestà  questo  libro,  che  si 
vide  calare  il  decreto  dell'elezione  in  sua  persona;  ed  i  Catalani, 

i.  Aghir:  il  conte  Joseph  Aguirre,  presidente  della  Regia  Camera  dal 
1727,  fratello  di  Domingo  (morto  nel  1744),  a  sua  volta  uno  dei  più  an- 
tichi seguaci  di  Carlo  VI,  essendo  stato  sin  dal  1705  nel  Consiglio  d'Ara- 
gona, poi  presidente  di  Santa  Chiara  e  reggente  per  la  Sardegna  nel  Con- 
siglio di  Spagna  nel  171 3.  Su  questa  nomina  cfr.  la  lettera  del  Giannone 
al  fratello,  in  data  27  maggio  1730  (Giannoniana,  n.°  357).  2.  legale:  di 
materie  giuridiche.  Il  libro  era  il  De  iure  et  edicto  praetoris,  Vindobonae 
1730.  L'opera  maggiore  del  Solanes  è  però  quella,  in  tre  volumi,  uscita  a 
Barcellona  nel  1700:  El  emperador  politico  y  politica  de  emperadores.  Sul 
libro  pubblicato  in  Vienna  in  questa  occasione  vedi  quanto  ne  scrisse  il 
Giannone  al  fratello,  il  5  di  agosto  1730  (Giannonìana,  n.°  367). 


CAPITOLO   SETTIMO  199 

per  lo  più  ignoranti,  commendandola  andavano  presentando  il  li- 
bro a'  loro  amici,  sicché  si  rese  a  tutti  noto.  Cosa  che  fece  tutti 
stupire  ed  esclamare:  «  conclamatimi  est  iam»;1  poiché  non  vi  è  li- 
bro, nel  quale  si  fossero  affastellate  tante  sciocchezze,  tante  puerili- 
tà, cose  goffe,  sciapite  e  dozinali,  che  questo,  pieno  di  solecismi  e 
barbarismi,  ed  un  fanciullo,  che  andasse  a  scuola,  non  potrebbe 
commettere  tanti  errori  in  grammatica  e  tante  mellonaggini,2  quante 
ivi  si  leggevano,  non  essendovi  pagina  che  non  ne  abbondasse. 
E  questo  libro  fu  riputato  istromento  efficace,  ed  una  macchina 
sì  vigorosa  per  abbattere  l'animo  di  Cesare  ancor  dubbio  e  farlo 
inchinare  a  rendersi  a'  loro  voleri;  poiché  di  continuo  standogli  a' 
fianchi,  sapevano  coglier  il  tempo  giusto  per  farlo  cadere  nelle  loro 
reti,  e  pure  questo  libro  sarebbe  stato  bastante,  non  dico  ad  esclu- 
derlo dal  posto  che  pretendeva,  ma  fargli  perdere  il  reggentato 
che  teneva.  D'altra  parte  non  era  tanto  da  incolparne  l'autore,  ma 
coloro  che  lo  stimolarono  a  questo  :  ciò  che  da  un  vecchio  stupido 
e  scimunito  era  facile  ad  ottenere. 

Da  ciò  maggiormente  tutti  si  certificarono,  che  nelle  provviste 
non  si  riguardava  il  tribunale  che  dovea  ristabilirsi  o  migliorarsi, 
per  l'elezione  di  soggetti  idonei  e  sufficienti,  non  il  servizio  del  re  e 
del  pubblico,  ma  tutto  regolava  il  riguardo  della  nazione  e  di  acco- 
modar le  persone  promosse,  non  già  il  tribunale;  sicome  pur  si 
vide  a  Milano,  dove  si  mandò  per  presidente  il  Mendozza,3  non 
già  per  ristabilire  quel  tribunale,  ma  per  dargli  impiego  lucroso  e 
per  maggior  suo  aggio,  niente  curando,  che  quel  posto  erasi  sem- 
pre occupato  da  togati,  uomini  dotti  e  letterati;  ma  si  mandò  il 
Mendozza,  ch'era  un  cavaliere  di  spada,  senza  lettere  e  senza  al- 
cuna conoscenza  di  tribunali  di  giustizia  né  di  lor  pratica. 

Sempre  più  col  decorso  del  tempo  si  scovrivano  i  disegni,  che 
sopra  gli  Stati  d'Italia  aveano  gli  Spagnoli,  di  avergli  come  tante 
borze  che  fosser  sempre  piene  per  satollare  le  avide  lor  brame,  e 
di  pascere  il  lor  fasto  e  pompa.  Quindi  erano  intesi  con  piacevo- 
lezza e  piacere  i  tanti  progettanti,  che  offerivano  di  scovrir  nuove 
mine,  onde  potessero  straricchire,  chi  proponendo  un  proggetto  e 
chi  un  altro;  ed  ancorché  si  fossero  coli' esperienza  conosciuti  vani 

1.  «conclamatimi  est  iam*:  cfr.  Terenzio,  Eun.y  348:  «tutto  è  perduto»; 
l'espressione  è  ormai  divenuta  proverbiale.  2.  mellonaggini',  balordaggini. 
3.  il  Mendozza:  Fernandez  Mendoza  y  Alarcon,  marchese  di  Valle  Si- 
ciliana. 


200  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

ed  impertinenti,  non  per  questo  non  si  sentivano  i  secondi,  terzi, 
quarti,  e  quanti  ne  capitavano.  In  breve  pervennesi  ad  una  cor- 
ruzione non  men  parziale  che  totale,  poiché  ciascuna  delle  guaste 
parti  concorreva  al  precipizio  ed  alla  universal  ruina.  Par  che  tutti 
cospirassero  a  questo;  e  per  ciò  ciascuno  attendeva  a  se  stesso, 
come  se  nulla  gli  dovesse  importare  la  rovina  delle  pubbliche  cose, 
e  che  gli  Stati  d'Italia  andassero  a  ruba  e  saccomanno,1  esposti  alla 
voracità  di  tanti. 

Alcuni  pochi  piangevan  meco,  prevedendo  da  ciò  funesti  ed  in- 
felici successi,  poiché  si  vedevano  tutti  i  segni,  che  soglion  pre- 
correre alle  decadenze  degl'imperi  e  monarchie.  All'imperadore 
fuor  di  ogni  speranza  di  prole  maschile,  quasi  stufo  di  più  regnare, 
eragli  resa  ogni  cura  noiosa  e  rincrescevole;  e  l'ordinaria  e  conti- 
nua sua  applicazione  non  era  che  quella  della  caccia,  lasciando  con 
ciò  a  que'  che  gli  stavan  d'attorno,  libere  le  redini  del  governo  di 
far  ciò  che  volessero.  E  quel  che  recava  maggior  confusione  era, 
che  di  questi  nemmeno  poteva  capirsi  il  sistema  col  quale  si  re- 
golavano, scorgendosi  dalli  loro  fatti  vari  ed  incostanti,  che  so- 
vente volevano  ciò  che  prima  disvollero  :  onde  il  volerne  indagare 
le  cagioni  era  veramente  «cum  ratione  insanire».2 

Il  marchese  di  Rialp  nell'istesso  tempo  che  trattava  in  Roma  il 
chiericato  di  Camera  per  suo  figlio,  morto  papa  Benedetto  XIII  e 
rifatto  in  suo  luogo  Clemente  XII  fiero  persecutore  del  cardinal 
Coscia,  di  monsignor  Targa  suo  fratello,  e  di  tutti  i  favoriti  del 
suo  predecessore:3  prese  la  difesa  de'  Coscia,  e  dando  a  sentire 
che  Timperadore  avea  preso  la  protezione  de'  medesimi,  procu- 
rava con  ciò  sgomentare  la  corte  di  Roma,  perché  non  procedesse 
oltre  ad  inquìrere4  e  punire  i  lor  enormi  delitti,  commessi  nel  pas- 
sato pontificato.  Ma  in  questa  istessa  vantata  protezione  pur  si 
mostrava  vario  e  difforme:  ora  la  invigoriva,  ora  la  rallentava; 
sicché  diede  materia  a  vari  discorsi.  Chi  interpretava  che  ciò  fa- 
cesse, secondo  le  speranze  prossime  o  lontane  che  se  li  davan  da 

i.  saccomanno:  saccheggio.  2.  «  cum  ratione  insanire»:  cfr.  Terenzio,  Eun>f 
63  :  «diventar  pazzo,  pur  essendo  colla  mente  a  posto»,  3.  morto  .  .  .  pre- 
decessore: Lorenzo  Corsini  (1652-1740),  eletto  papa  con  il  nome  di  Cle- 
mente XII  il  12  luglio  1730,  subito  dopo  l'elezione  si  sbarazzò  del  cardinal 
Coscia,  il  potente  favorito  del  suo  predecessore,  intentandogli  un  processo 
per  malversazione.  Cfr.,  qui,  la  nota  4  a  p.  151.  Monsignor  Targa  era  detto 
Filippo  Coscia  (1692-1759),  fratello  del  cardinale  e  vescovo  di  Targa  (Tu- 
nisia')  dal  1725.     4-  mquìrere:  istruire  processi  (latinismo). 


CAPITOLO   SETTIMO  201 

Roma  del  chiericato  di  Camera,  del  quale  era  lusingato  per  suo 
figlio;  chi  che  questa  protezione  s'invigoriva  o  rallentava,  a  pro- 
porzione dell'abbondante  o  scarsa  misura  de  los  doblones,  de'  quali 
i  Coscia  erano  smunti;  e  chi  ad  altre  cagioni.  In  breve,  la  corte  di 
Roma,  che  era  ben  avvisata  che  la  protezione  dell' imperadore 
non  era  tanta,  quanto  era  esaggerata  dal  Rialp,  tirò  innanzi  i  suoi 
processi  e  condanne:  ciocché  presso  coloro  che  la  credevano  tale 
quaFegli  la  vantava,  era  riputato  come  un  affronto  di  Cesare,  che 
un  cardinale  del  quale  egli  avea  presa  protezione  le  fosse  valuta 
così  poco  e  quasi  che  niente. 

In  questi  inviluppi  erano  intricate  le  menti  degli  uomini,  così  in 
questo,  come  in  ogni  altro  affare,  andandosi  lambiccando  il  cer- 
vello sopra  il  perché,  il  fine  :  non  avvertendo  che  andavan  cercando 
ordine  e  sistema  in  un  tenebroso  caos  e  tra  le  perpetue  confusioni 
e  disordini. 


CAPITOLO  OTTAVO 
Anni  1731,  32  e  33.  In  Vienna. 


Intanto  eravamo  entrati  nell'anno  1731,  nel  principio  del  quale 
cominciò  ad  infermarsi1  il  reggente  Almarz,  col  quale,  spesso  ra- 
gionando delle  confusioni  e  disordini  ne'  quali  vedevamo  ridotte 
le  cose,  compiangendole  a  vicenda,  disacerbavamo  alquanto  il  no- 
stro dolore.  Venner  dapoi  le  sue  indisposizioni  ad  avanzarsi,  e 
cadde  in  una  languida  e  rìncrescevole  malattia,  la  quale,  o  fosse  per 
malinconia  d'animo,  0  altro  vizio  di  corpo,  gli  cagionò  una  febre 
grave  e  pericolosa;  sicché  i  medici  cominciarono  a  disperar  di  sua 
salute;  e  tentati  invano  tutti  i  rimedi  ed  ogni  umano  aiuto,  final- 
mente ne'  princìpi  d'aprile  rese  lo  spirito  al  suo  Datore. 

I  suoi  amici,  e  spezialmente  io  da  cui  era  cotanto  amato,  rimasero 
inconsolabili  e  dolenti  per  la  perdita  di  un  uomo  cotanto  caro  ed 
amabile,  ma  non  già  i  suoi  parenti,  che  avea  seco  condotti  in  Vien- 
na, i  quali  allegri  per  la  pingue  eredità  rimastali,  accresciuta  dal 
molto  denaro  esatto  in  tanti  anni  del  reggentato,  che  gli  fruttava 
quasi  undicimila  fiorini  l'anno,  di  ciò  non  contenti,  vollero  pure 
profittare  sopra  l'onorate  ossa  di  quel  buon  vecchio;  poiché  sopra 
i  meriti  del  medesimo,  poich'essi  non  ne  aveano  alcuno,  con  inu- 
dita avidità  ed  impudenza  cercarono  ed  ottennero  tante  grazie  e 
mercedi,  che  l'istesso  imperadore  finalmente  s'annoiò  in  vedere 
che  non  finivano  i  tanti  memoriali  che  alla  giornata  se  gli  pre- 
sentavano. 

Nel  mese  di  maggio  fummo  obbligati  mutar  quartiere,  e  dal 
«Piccolo  Parigi»  passare  ad  altra  casa,  posta  vicino  a  San  Salva- 
tore ed  al  Banco  della  città,  nella  contrada  detta  il  «  Grande  Cri- 
stofaro»;2 ed  in  quest'anno  si  mutò  eziandio  villeggiatura,  poiché 
in  vece  di  portarci  a  Pettersdorf,  fu  trasferita  a  Medeling,  che  mi 
riuscì  più  amena,  poiché  ne'  miei  mattutini  esercizi  avea  ivi  una 
vicina  valle,  che  al  ritorno  mi  copriva  dal  sole  fino  a  casa.  Si  prese 
tal  luogo,  così  perché  madama  LeichsenofFen  trovò  ivi  una  sua 
amica,  che  l'offerì  quartiere  a  minor  prezzo  di  quello  che  si  pagava 
a  Pettersdorf,  come  anche  perché  morto  il  reggente  Almarz,  che 

1.  infermarsi:  ammalarsi,     z.  nella .  . .  Cristofaro:  nella  zona  compresa  tra 
Judenplatz  e  Hohen  Markt,  poco  distante  dal  Donaukanal. 


CAPITOLO    OTTAVO  203 

soleva  venire  al  vicino  Prun,  non  avendo  più  la  sua  compagnia  e 
quella  degli  amici  che  venivano  a  trovarlo,  curai  poco  d'allontanar- 
mene. E  se  ben  da  ora  innanzi  si  differisse  l'andare  a*  princìpi  o 
metà  di  giugno,  nulladimanco  si  prolungava  assai  più  del  solito  la 
dimora,  fino  al  mese  di  agosto  ;  poiché  io  stufo  della  Corte  e  sempre 
più  perdendo  speranza  che  mi  fosser  attese1  le  promesse,  vedendole 
tirar  in  lungo,  mi  quietai,  aspettando  tempi  migliori,  che  mi  lusin- 
gava poter  arrivare;  ed  intanto  mi  disposi  a  vivere  a  me  stesso  ed 
a'  miei  studi;  tanto  maggiormente  che  per  le  cagioni  già  dette, 
cominciando  a  cessare  le  occupazioni  che  prima  avea  di  qualche 
causa,  non  avea  tanta  necessità  di  trattar  co*  ministri,  e  volentieri 
me  n'asteneva;  oltre  che,  morto  Almarz  e  disciolta  la  conversa- 
zione che  aveasi  in  sua  casa,  mi  ritirava  nella  mia,  e  qualche  sera 
in  quella  del  cavalier  Garelli,  prossima  alla  mia. 

Cominciai2  nella  villeggiatura  di  quest'anno  ad  applicarmi  a  studi, 
che  fosser  drizzati  unicamente  alla  cognizione  di  me  stesso  e  del- 
la condizione  umana,  della  quale  io  era  vestito,  e  ripigliare  i  miei 
tralasciati  studi  di  filosofia,  e  col  soccorso  dell'istoria  d'investigare 
più  da  presso  la  fabbrica  di  questo  mondo  e  degli  antichi  suoi  abi- 
tatori: dell'uomo,  della  sua  condizione  e  fine,  e  quanto  sopra  la 
terra  fossesi  col  suo  discorso  e  riflessione  avanzato  sopra  tutto  il 
mortai  genere,  e  avesse  dato  principio  alla  società  civile,  onde  sur- 
ser  le  città,  i  regni,  il  culto  e  le  repubbliche,  lasciando  la  vita  sil- 
vestre e  ferale  a  gli  altri  animali,  a'  quali  non  fu  concesso  tanto 
acume,  industria  ed  intelletto  da  potersene  spogliare.  E  tralasciata 
la  considerazione  de'  moderni  imperi,  regni  e  monarchie,  delle  quali 
abbastanza  era  istrutto,  volli  andar  indietro  quanto  più  si  potesse, 
seguendo  le  memorie  che  sottratte  alle  ingiurie  degli  uomini,  e 
de'  tempi  erano  a  noi  rimase. 

Ebbi  sommo  contento  che  fra  quanti  libri  a  noi  furon  traman- 
dati da'  secoli  vetusti,  i  più  antichi  fossero  i  cinque  libri  del  Penta- 
teuco di  Mosè,  come  quelli  che  ci  dan  notizia  di  popoli  e  regioni 
assai  più  vetuste  di  quelle  che  ci  somministra  Omero,  di  più  secoli 
posteriore  a  Mosè.  Cominciai  adunque  da  questi;  ed  i  libri  che 
eran  da  me  stanchi,  e  che  erano  la  mia  assidua  ed  ordinaria  lezione, 
era  la  Biblia  sacra  ed  i  poemi  d'Omero.  A  questi  poi  aggiunsi,  per  le 
cose  giudaiche,  Giuseppe  Ebreo,  che  lessi  tutto  secondo  l'ultima 

1.  attese',  mantenute.  2.  Cominciai',  inizia  da  qui  la  descrizione  del  lavoro 
preparatorio  a  quelli  che  saranno  i  volumi  del  Triregno. 


204  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

ed  accurata  edizione  di  Ollanda,  divisa  in  due  tomi  in  foglio;1 
e  per  le  cose  asiatiche,  egizie  e  greche,  V Istoria  d'Erodoto  Alicar- 
nasseo,  e  sopra  tutto  i  primi  cinque  libri  della  Biblioteca  istorica 
di  Diodoro  Siciliano,  che  io  avea  colla  traduzione  di  Roterdamo,2 
e  la  Geografia  di  Strabone.3 

Ebbi  gran  piacere  d'avvertire  che,  intorno  al  principio  e  durata 
dell'imperio  degli  Assiri,  Erodoto  si  conformasse  più  a'  libri  di 
Mosè  e  de*  profeti,  che  a  quanto  ne  scrissero  poi  Diodoro,  <Euse- 
bio  e>  gli  altri  greci  scrittori;  sicome  gran  maraviglia  recommi 
come  Cornelio  Tacito,  il  quale  scrisse  doppo  Giuseppe  Ebreo  e 
che  non  poteva  ignorare  la  di  lui  Istoria,  che  avea  presentata  a 
Vespasiano  Cesare,  da  cui  fu  caramente  accolta  e  riposta  nella 
sua  biblioteca,  avesse  delle  origini  ed  altre  cose  giudaiche  scritto 
altrimenti;  se  non  forse,  disprezzando  i  Romani  gli  scrittori  ebrei, 
come  creduli,  superstiziosi  e  puerili,  o  non  si  fosse  curato  di  legger- 
la, o  non  vi  prestasse  intera  fede.  Egli  volle  più  tosto  seguitare  Stra- 
bone, Diodoro  Siciliano  e  gli  altri  greci  e  latini  scrittori,  i  quali  a 
quel  popolo  dieder  altra  origine,  sicome  al  tempio  e  città  di  Ge- 
rusalemme, che  sconciamente4  ne  fanno  fondatore  Mosè,  che  at- 
tendere le  vere  e  più  vetuste  antichità  giudaiche.  Né  posso  negare 
che  a  questi  studi  mi  fu  di  molto  aiuto  il  tomo  della  Biblioteca 
istorica  di  Dupino,5  il  quale  raccolse  quanto  più  di  certo  e  sicuro 

i.  Giuseppe. .  .foglio:  cfr.  J.  Hudson,  Flavii  Josephi  quae  reperivi potuerunt 
opera  omnia  graece  et  latine,  cum  notis  et  nova  versione  J.  II.,  Amstclaedami 
1726.  Giuseppe  Flavio,  storico  giudeo  della  setta  dei  Farisei,  nacque  nel  37 
dell'Era  volgare  e  morì  attorno  all'anno  100.  2.  Roterdamo:  così  per  «  Ro- 
domano  ».  Fu  infatti  Lorenz  Rhodomann  che  tradusse  la  Bibliotheca  histo- 
rica  di  Diodoro  Siculo  (lo  storico  vissuto  circa  tra  l'8o  e  il  20  avanti  l'JEra 
volgare),  apparsa  per  la  prima  volta  ad  Hannover  nel  1604.  3.  Strabone: 
storico  e  geografo  greco,  nato  attorno  al  60  avanti  l'Era  volgare  ad  Amasia 
nel  Ponto  e  morto  nel  20  circa  dell'Era  volgare.  La  sua  Geografia  ebbe 
grande  fortuna  a  partire  dal  VI  secolo.  Fu  data  per  la  prima  volta  alle  stam- 
pe da  Aldo,  nel  15 16,  ma  già  ne  era  apparsa  una  versione  latina  di  Guarino 
Veronese,  a  Roma,  sin  dal  1471.  Il  Giannone  la  utilizzò  in  uno  dei  miglio- 
ri commenti  del  tempo,  quello  di  Isaac  Casaubon,  del  1587,  con  versione 
latina  di  Wilhelm  Holtzmann  (Xylander)  riveduta  dallo  stesso  Casaubon, 
secondo  l'edizione  parigina  del  1620:  cfr.  infatti  nell'Archivio  di  Stato 
di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  1,  ins.  11  (Giannoniana,  p.  410),  il 
suo  Ristretto  della  Geografia  di  Strabone,  basato  su  quest'ultima  edizione. 
4.  sconciamente:  arbitrariamente.  5.  Cfr.  L.  E.  Du  Pin,  Btbliothèque  uni- 
verselle  des  hùtoriens,  contenant  leurs  vies,  V abrégé,  la  chronologie,  la  géo~ 
graphie  et  la  critique  de  leurs  histoires,  unjugement  sur  leur  style,  et  leur 
caractère,  Amsterdam  1708.  Louis  Ellies  Du  Pin  (1657-1719),  scrittore  gal- 
licano, autore  di  una  monumentale  storia  della  letteratura  ecclesiastica,  la 


CAPITOLO    OTTAVO  205 

potea  additarsi  intorno  a  questi  non  meno  antichi  che  inviluppa- 
ti tempi,  tirandolo  sino  a'  tempi  di  Alessandro  Magno,  ch'era  la 
cosa  più  intricata  e  difficile;  poiché  da  Alessandro  in  poi  le  cose 
si  rendono  più  facili  e  piane,  per  i  molti  scrittori  che  l'illustrarono. 
Si  cominciarono  tali  studi  in  questa  villeggiatura,  nelle  solitu- 
dini di  Medeling.  Né  tornato  in  città  ne'  princìpi  d'agosto  furon 
da  me  tralasciati;  poiché  essendosi  posta  in  ordine  la  magnifica 
biblioteca  cesarea,  e  di  tre  ampissime  fattane  una,  riposta  in  un 
superbo  edificio  costrutto  vicino  all'imperiai  palazzo,1  dalla  mede- 
sima m'eran  somministrati  tutti  que'  libri,  così  antichi  come  mo- 
derni, che  a  questi  studi  eran  propri  ed  acconci;  onde  non  trala- 
sciava di  frequentarla;  tanto  maggiormente  che  il  primo  custode  di 
quella,  Niccolò  Forlosia,2  mio  amico,  con  somma  cortesia  e  genti- 
lezza mi  offeriva  tutto  ciò  che  ivi  eravi  di  raro  e  pellegrino. 


11 

Furono  interrotti  tali  studi,  in  questo  anno,  da  due  occasioni, 
che  mi  obbligarono  a  rivolgergli  altrove.  La  prima  fu  che,  avendo 
il  nuovo  pontefice  Clemente  XII  costretto  il  cardinal  Coscia3  di  re- 
signar  in  sue  mani  l'arcivescovado  di  Benevento,  sicome  fece,  il 
papa  lo  conferì  a  monsignor  Doria,4  genovese  :  il  quale,  senza  aver 
dal  viceré  ottenuto  alle  bolle  di  sua  istituzione  regio  exequatur,  e 
senza  sua  participazione,  da  Roma  dirittamente  portossi  a  Bene- 
vento, e  prese  possesso  dell'arcivescovado,  che  si  compone  di  più 
diocesi,  poste  tutte  nel  regno  di  Napoli,  sopra  le  quali  cominciava 

Nouvelle  bibliothèque  des  auteurs  ecclésiastiques,  Paris  1 686-1 714,  e  delle 
non  meno  famose  De  antiqua  Ecclesiae  disciplina  dissertationes  historicae, 
Parisiis  1686,  tra  i  testi  più  consultati  dal  Giannone.  Professore  di  filoso- 
fia alla  Sorbona,  fu  aspramente  attaccato  dal  Bossuet,  e  finì  coll'essere 
estromesso  dall'università  parigina  quando  si  oppose  alla  bolla  Unigenita. 
1 .  biblioteca . . .  palazzo  :  la  Biblioteca  Palatina  (oggi  Nationalbibliothek),  fon- 
data da  Ferdinando  I  nel  1526,  fu  interamente  ricostruita  tra  il  1723  e  il  1729, 
su  progetto  dell'architetto  Joseph  Emanuel  Fischer  von  Erlach.  2.  Nicola 
Forlosia,  già  profiscale  nel  Consiglio  di  Spagna,  fu  custode  della  Biblioteca 
Palatina  sotto  la  prefettura  di  Giovanni  Benedetto  Gentilotti  di  Engels- 
brunn,  poi  di  Francesco  Alessandro  Riccardi  e  di  Pio  Niccolò  Garelli.  Una 
sua  lettera  al  Giannone  in  Giannonìana,  pp.  530-1.  3.  il  cardinal  Coscia: 
cfr.  la  nota  4  a  p.  151.  4.  Il  cardinale  Sinibaldo  Doria  (1664-1733)  fu 
una  vittima  di  Benedetto  XIII.  Già  maestro  di  camera  di  Innocenzo  XIII, 
per  tutto  il  pontificato  seguente  subì  un'eclissi,  e  si  spiega  quindi  perché 
venisse  scelto  a  subentrare  al  Coscia  in  Benevento,  ricevendo  anche,  di  11 
a  poco,  nel  settembre  del  1731,  la  dignità  cardinalizia. 


20Ó  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

ad  esercitar  giurisdizione,  pretendendo  di  convocar  sinodi  ed  usar 
altri  atti  pregiudiziali  alle  regie  preminenze  e  supremi  diritti  reali. 
Non  meno  il  viceré  che  la  Città  di  Napoli  si  scossero  a  tali  no- 
vità ed  imperiosi  modi  :  il  viceré,  per  non  essersi  avuto  da  lui  pri- 
ma ricorso;  e  la  Città,  perché  s'erano  violate  le  grazie,  che  la  Maestà 
dell'imperadore  avea  concedute  alla  Città  e  Regno,  di  doversi  tutti 
gli  arcivescovadi  del  Regno  conferire  a'  nazionali,  sicome  di  que- 
st'istesso  arcivescovado  fece  papa  Benedetto,  conferendolo  al  car- 
dinal Coscia,  ch'era  naturale  del  Regno  e  non  già  a'  forastieri, 
qual  era  il  Doria  genovese.  Ebbene  la  Città  ricorso  al  viceré  e  suo 
Collateral  Consiglio,  perché  si  purgassero  gli  attentati;  e  poiché 
il  Collaterale,  in  un  affare  di  tanto  momento  non  ardiva  metter 
mano,  senza  che  prima  non  si  fosser  ricevute  le  istruzioni  dell'impe- 
riai corte  di  Vienna;  la  Città,  perché  questa  fosse  pienamente  in- 
formata delle  sue  ragioni,  diede  incombenza  al  suo  agente,  che 
mantiene  nella  Corte,  trasmettendoli  le  scritture  e  documenti  ne- 
cessari, perché  ne  facesse  ricorso  a  Cesare  ed  al  supremo  Consiglio 
di  Spagna. 

L'agente,  ancorché  patrizio  napolitano,  come  imperito  di  queste 
cose,  fu  in  nome  della  Città  a  richiedermi  della  difesa  e  di  voler 
manifestare  i  torti  che  s'eran  ricevuti,  perché  se  ne  fosse  presa 
emenda.  Li  risposi  che  volentieri  n'avrei  preso  il  carico,  così  per- 
ché dovea  abbracciare  ogni  occasione  per  difendere  i  diritti  della 
patria,  come  anche  perch'era  particolar  mio  obbligo  di  farlo,  es- 
sendo stato  eletto  prima  di  partir  per  Vienna  da  que'  che  la  reg- 
gevano avvocato  della  Città;  onde  lasciatemi  le  scritture  attesi  at- 
tentamente ad  esaminarle,  e  m'accinsi  a  quanto  bisognava;  e  con 
maggior  fervore  quando  dopo  ricevei  lettera  della  Città,  nella  quale, 
mostrando  di  ciò  gran  contento,  me  n'incaricava  la  difesa  con  vi- 
gore e  fermezza.1 

Il  marchese  di  Rialp,  che  avea  preso  a  difendere  il  cardinal  Co- 
scia e  a  biasimar  quanto  contro  di  lui  da  Roma  si  facea,  favoriva  il 

i.  m'accìnsi . .  .fermezza:  primo  atto  del  Giannone  fu  la  stesura  di  una 
Supplica  umiliata  alla  S.  C.  R.  e  C.  M.,  che  Dio  guardi,  dalli  deputati  sopra 
la  collazione  de*  benefizi  ed  offizi  della  fedelissima  città  e  regno  di  Napoli, 
per  la  provvisione  delV arcivescovato  di  Benevento,  con  ristretto  di  documenti 
e  ragioni  che  ne  giustificano  l'esposto,  successivamente  inserita  tra  le  Opere 
postume,  il,  pp.  259  sgg.  Sulle  ripercussioni  in  Roma  alla  notizia  dell'in- 
carico affidato  al  Giannone  per  la  questione  beneventana  cfr.  in  Gianno- 
niana,  pp.  157  sgg. 


CAPITOLO    OTTAVO  207 

ricorso  avuto  dalla  Città;  e  molto  più  detestava  l'attentato  d'essersi 
dal  nuovo  arcivescovo  preso  possesso,  senza  partecipazione  del  vi- 
ceré e  senza  averne  ottenuto  prima  regio  exequaiur;  ed  ebbe  a  caro 
che  io  avessi  preso  la  difesa  della  Città,  la  quale  istava  eziandio, 
che  fosse  dichiarato  il  regio  exequaiur  essere  necessario  non  meno 
nelle  bolle  d'istituzioni  degli  altri  arcivescovadi  del  Regno,  che  di 
quello  di  Benevento;  affinché  dovendosi  presentare  le  bolle  nel 
Collaterale,  avesse  agio  di  potere  opporsi  ed  impedirlo,  nel  caso  si 
trovassero  contrarie  e  destruttive  delle  grazie  e  privilegi  conce- 
dutigli ;  ond'essendo  stato  io  coll'agente  della  Città  ad  informarlo, 
non  solo  mostrò  esser  persuaso  di  quanto  l'esposi,  ma  m'incaricò 
la  difesa  eziandio  sul  punto  dt\Y  exequaiur;  sicome  ne  avrebbe  an- 
che data  premura  al  reggente  Esmandia,  che  faceva  le  parti  di 
fiscale,  affinché  si  andasse  di  concerto,  ed  insieme  si  fosser  commu- 
nicate  le  ragioni  per  una  più  valida  difesa  presso  il  presidente 
e  gli  altri  ministri  del  Consiglio;  e  che  io,  doppo  avergli  infor- 
mati, avessi  distesa  una  piena  allegazione  sopra  i  due  punti,  e 
portatala  a  lui,  sicome  a  tutti  gli  altri  ministri;  e  facessi  presto, 
perch'egli  non  farebbe  trattar  la  causa  nel  Consiglio,  se  prima  non 
si  fosse  letta  e  ponderata  da'  medesimi. 

Adempii  quanto  mi  fu  imposto,  ed  in  meno  di  venti  giorni 
composi  l'allegazione,  nella  quale,  trattando  Dell'origine  ed  istitu- 
zione dell' arcivescovado  di  Benevento,  sua  qualità  e  natura*  dimo- 
strai «esser  quello  compreso  dalle  grazie  concedute  dalla  maestà 
dell' imperadore,  ed  esser  sottoposto  al  regio  exequaiur,  non  me- 
no che  tutti  gli  altri  arcivescovadi  del  Regno».  Questa  scrittura 
prima  d'ogni  altro  fu  portata  al  marchese  di  Rialp,  il  quale,  es- 
sendogli estremamente  piaciuta,  volle  che  si  desse  alle  stampe, 
anche  per  più  facilità  e  maggior  commodo  de'  ministri,  che  dovean 
leggerla.  L'agente  ne  fece  imprimere  in  Vienna  non  più  che  cento 

1.  Dell'origine .  .  .  natura:  il  titolo  esatto  è  Ragioni  per  le  quali  si  dimostra 
che  V arcivescovado  beneventano,  non  ostante  che  ti  dominio  temporale  della  città 
di  Benevento  fosse  passato  af  Romani  Pontefici,  sia  compreso  nella  grazia 
conceduta  da  Sua  Maestà  Cesarea  e  Cattolica  a?  nazionali,  e  sottoposto  al 
regio  exsequatur,  come  tutti  gli  altri  arcivescovadi  del  Regno ,  s.n.t.  (ma  Vienna 
173 1).  Anche  questa  allegazione  è  stata  successivamente  inserita  tra  le 
Opere  postume,  11,  pp  233  sgg.  Ad  essa  fu  risposto  con  l'anonima  Archiepi- 
scopatus  Beneventani,  necnon  Archiepiscopatuum  inferiorumque  Regni  Nea- 
politani  Beneficiorum  libertas  vindicata  adversus  argumenta  anonymi  recen- 
tioris,  auctore  saeculari  presbytero,  s.L,  1738,  opera  attribuibile  a  Giovanni 
De  Vita.  Ma  cfr.  anche  Giannoniana,  pp.  157  sgg. 


208  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

essemplari,  de'  quali  cinquanta  bastarono  per  i  ministri  e  per  altri 
amici,  che  mostrarono  desiderio  di  averla. 

Il  nunzio  Passionei,  incaricato  dalla  corte  di  Roma  di  opporsi 
a'  ricorsi  della  Città,  fece  ogni  sforzo  per  rendergli  vani;  e  procu- 
rato uno  essemplare  della  medesima  pur  lo  riputava  ingiurioso  alla 
Santa  Sede  :  poiché  ogni  cosa  si  qualifica  per  tale,  quando  si  cerca, 
ancorché  con  molti  legittimi  e  con  manifeste  ragioni,  d'impedire  le 
sorprese  che  si  tentano  sopra  i  reali  diritti  e  sopra  i  privilegi  delle 
nazioni;  e  sopra  i  vecchi  delitti  m'imputava  quest'altro  nuovo, 
per  maggiormente  rendermi  odioso  in  Roma  ed  in  quella  Corte. 
Altri  cinquanta  essemplari  furon  mandati  in  Napoli  a  gli  Eletti 
della  Città:  dove  letti  che  furono,  essendo  molto  piaciuti  ed  estre- 
mamente commendali,  crebbe  a  gli  altri  il  desiderio  d'avergli,  ma 
non  bastando  gli  essemplari  mandati,  ne  fu  fatta  ivi  nuova  ristam- 
pa di  più  centinaia,  i  quali  per  le  continue  ricerche  nemmeno 
bastando,  fu  d'uopo  farne  altra  impressione,  che  fu  la  terza.1 

Doppo  essersi  pienamente  da  me  informati  i  ministri  del  Con- 
siglio, fu  trattata  la  causa,  e  fatta  relazione  all'imperadore  di  ciò 
che  conveniva  per  istruzione  del  viceré  e  Consiglio  Collaterale,  fu 
spedito  da  Sua  Maestà  lungo  dispaccio  per  la  Secreteria  di  Stato, 
con  accordo  del  Consiglio,  dirizzato  al  viceré  conte  d'Harrach, 
col  quale  si  davan  provvidenze  ed  istruzioni  favorevoli,  non  solo 
per  ciò  che  riguardava  il  regio  exequatur,  ma  eziandio  per  l'altro 
punto  della  comprenzione  dell'arcivescovado  di  Benevento  nelle 
grazie  di  Sua  Maestà,  come  ogni  altro  arcivescovado  del  Regno. 
Nel  dispaccio  era  io  nominato,  facendosi  menzione  dell'allegazione 
da  me  composta,  che  s'era  avuta  presente,  sicome  delle  altre  ri- 
flessioni del  reggente  fiscale.2 

Per  vedersi  in  quella  allegazione  dimostrate  e  poste  in  chiara 
luce  le  ragioni  della  Città,  alla  quale  par  che  si  fosse  appoggiato 
il  dispaccio,  gli  Eletti  della  Città  si  posero  in  grandissima  speranza 
di  doversi  presto  sentire  dal  Collaterale  provvidenze  vigorose  e 
forti,  per  riparare  i  torti  inferiti;  e  gli  avvocati  della  Città  mi  scri- 
vevano commendando  la  mia  difesa,  alla  quale  attribuivano  il  tutto, 


i.  nuova .  .  .la  terza:  anche  le  ristampe  apparse  senza  note  tipografiche. 
z.  altre . .  .fiscale:  anche  l'Esmandia  aveva  steso  «una  particolar  memoria 

0  sia  voto  fiscale  per  questo  affare,  formata  colla  direzione  del  nostro  au- 
tore »,  come  assicura  il  Panzini,  p.  76.  Il  dispaccio  al  viceré  reca  la  data  del 

1  marzo  1732. 


CAPITOLO    OTTAVO  20C; 

sicuri  che  ne  avrebbero  veduti  gli  effetti.  Ma  io  che  sapeva  l'arcano, 
gli  risposi  con  sincerità,  che  le  loro  speranze  dipendevano  da' 
trattati  di  Roma,  e  che  ivi  riguardassero,  come  stella  polare:  e  che 
se  vedevano  le  cose  del  cardinal  Coscia  e  dell'abate  Perlas  andar 
male,  sicché  il  marchese  di  Rialp  sdegnato  persistesse  nel  fervore 
che  mostrava,  poteva  la  Città  sperarne  profitto  di  quanto  si  era 
fatto  ;  ma  se  queste  contemplazioni1  cessassero  e  ne  venisser  delle 
nuove,  la  Città  sarebbe  abbandonata,  né  più  si  parlerebbe  di  Be- 
nevento. 

In  effetto  Roma,  che  ben  sapeva  i  fini  di  Rialp,  cercò  con  sue 
lusinghe  raddorcirlo,  e  venuta  opportuna  occasione,  che  il  conte  di 
Sinzendorf  ebbe  bisogno  di  quella  Dataria,  per  ottener  un  breve 
d'eliggibilità  per  il  cardinal  suo  figlio,  che  voleva,  da  un  vescovado 
che  teneva  in  Ungheria,  ascendere  ad  un  altro  vescovado  più  ricco 
della  Slesia,  qual  fu  quel  di  Breslavia,*  mostrandosi  restia  la  Da- 
taria di  concederlo  e  facendo  al  cardinal  Sinfuego  sentire  che  la 
ripugnanza  derivava  per  gli  strapazzi  che  si  facevano  in  Napoli 
all'arcivescovo  di  Benevento,  di  che  il  papa  sdegnato  avea  ordinato 
che  per  Dataria  non  si  fosse  spedita  cos'alcuna  che  si  cercasse  da' 
Germani;  questo  bastò,  che  il  conte  di  Sinzendorf,  lagnandosi 
pubblicamente  del  Consiglio  di  Spagna,  che  ne  voleva  troppo  dal- 
la corte  di  Roma  e  che  non  bisognava  disgustarla,  ottenesse  che 
per  la  Secreteria  di  Stato  fosse  spedito  ordine  secreto  al  viceré 
conte  d'Harrac  accompagnato  da  pressanti  familiari  lettere,  col 
quale  se  l'imponeva  che  vedesse  col  buono  amichevolmente  com- 
porre quelle  contese,  e  contentarsi  di  ciò  che  l'era  da  Roma  offerto. 

Presto  presto  fu  tutto  finito.  Il  viceré  si  contentò  che  l'arcivesco- 
vo di  Benevento  gli  scrivesse  una  lettera,  nella  quale  gli  dava  parte 
d'essere  stato  eletto  da  Sua  Santità  arcivescovo  di  Benevento, 
dov'egli  si  ritrovava,  aspettando  suoi  comandi  in  ciò  che  potesse 
servirlo,  con  simili  altre  cerimonie  ed  espressioni  di  lettere  cortig- 
giane,  che  niente  conchiudono.  E  questo  si  riputò  bastante  per 
Yexequatur  regium;  ed  intorno  alla  pretenzione  della  Città  vi  fu 

1.  contemplazioni:  considerazioni.  2.  venuta  .  . .  Breslavia:  cfr.  la  nota  4  a 
p.  99;  Dataria:  ufficio  della  Curia,  sorto  originariamente  per  datare  i  do- 
cumenti pontifici  (donde  il  suo  nome),  estese  la  sua  competenza  nel  Quat- 
trocento all'accettazione  delle  suppliche,  alla  concessione  di  dispense  e  al 
conferimento  dei  benefici.  La  sua  importanza  crebbe  così  enormemente  e 
fu  sancita  da  Sisto  V  col  breve  Decet  romanum  pontificem,  che  la  riorganiz- 
zò come  massimo  ufficio  di  Curia. 


210  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

posto  silenzio,  né  parlossene  di  vantaggio  né  trattossi  mai  più  in 
Collaterale  della  causa;  anzi  morto  il  Doria,  il  papa  ne  rifece  un 
altro,  pur  forastiere;*  né  niuno  ebbe  ardire  di  farne  motto,  non  che 
di  dolersene.  E  quel  che  maggiormente  dimostrò  essersi  perduta 
ogni  verecondia  e  rossore,  nella  stessa  settimana  che  da  Napoli 
venne  l'avviso  di  questo  accordo,  giunse  al  conte  di  Sinzendorf  il 
breve  dell' eligibilità,  spedito  da  Roma  al  cardinal  suo  figlio  per- 
ché potesse  essere  eletto,  ed  occupare  l'altra  più  ricca  cattedra  da 
lui  ambita.  Ed  io  non  pur  ne  venni  ad  acquistare  maggior  odio  col- 
la corte  di  Roma,  che  amaramente  intese  le  lodi  ed  applausi  di  quel- 
la scrittura,  divolgata  da  per  tutto  in  tanti  essemplari,  ma  tante  mie 
fatiche  se  le  portò  il  vento,  senza  averne  avuta  dalla  Città  ricogni- 
zione alcuna;  poiché  l'agente  procurava  per  se  stesso,  credendo 
che  tanto  si  sarebbe  scemato  a  lui,  quanto  si  dava  a  me;  onde, 
dimenticatosi  delle  promesse,  che  la  Città  sarebbesi  meco  portata 
grata  e  riconoscente,  non  scriveva  alla  Città  se  non  per  lui,  né  di 
me  faceva  alcun  motto.  Sicché  avvisato  da  Napoli  del  modo  di 
procedere  di  costui,  fu  d'uopo  che  altri  per  me  parlasse,  ma  pure 
infruttuosamente;  poiché,  sopragiunte  dapoi  le  novità  e  cambia- 
menti che  portò  l'ultima  guerra,2  le  cose  rimasero,  sicome  sono 
ancora,  sospese  e  in  pendenti. 


in 

L'altra  occasione,  che  in  questo  anno  interruppe  i  miei  studi, 
che  avea  intrapresi  per  la  cognizione  di  me  stesso  e  del  mio  es- 
sere, fu  l'avviso  ch'ebbi  da  Napoli,  d'essere  uscita  dalle  stampe 
una  critica  sopra  il  nono  libro  della  mia  Istoria  civile  del  padre 
Sebastiano  Paoli,  de'  cherici  regolari  della  congregazione  di  Lucca.3 
Questi  era  lucchese,  che  io  conobbi  a  Vienna  coll'occasione  d'esser 

i.  il  papa  .  .  .f or  ostiere:  fu  il  romano  Serafino  Cenci  (1676- 1740),  il  quale, 
creato  subito  dopo  cardinale,  nel  settembre  del  1733,  lasciò  la  diocesi  nelle 
mani  di  un  vicario,  Domenico  Antonio  Manfredi,  a.  Vultima  guerra',  la 
guerra  di  successione  polacca,  conclusasi  con  la  pace  di  Vienna  del  18 
novembre  1738,  col  riconoscimento  a  re  di  Polonia  del  candidato  imperiale 
Federico  Augusto  II  di  Sassonia.  3.  Sebastiano  Paoli  . . .  Lucca',  cfr.  le 
lettere  del  Giannone  al  fratello,  del  28  febbraio,  13  marzo  e  3  aprile  1728 
(Giannomana,  nn.1 240, 242  e  245).  Per  una  biografia  del  Paoli  (1684-1751), 
predicatore,  teologo  e  archeologo,  si  veda  C.  A.  Erra,  Memoria  de*  religiosi 
per  pietà  e  dottrina  insigni  della  Congregazione  della  Madre  di  Dio,  II,  Ro- 
ma 1760,  p.  282. 


CAPITOLO   OTTAVO  211 

venuto,  una  quadragesima,  a  predicare  in  Corte,  sicom'è  il  costume 
di  chiamar  da  Italia  ogni  anno  un  predicatore  italiano.  Faceami 
dell'amico,  e  mostrava  aver  di  me  stima  ed  affezione. 

Tornato  in  Italia,  e  vagando  per  molte  città  di  quella,  ora  in 
Napoli  ed  in  Roma,  ora  in  Bologna,  ora  altrove,  si  diede  a  credere 
che  niuna  cosa  fosse  più  acconcia  di  facilitargli  in  Roma  un  vesco- 
vado, al  qual  egli  aspirava,  che  di  scrivere  contro  la  mia  Istoria 
cotanto  da  Roma  invisa  e  perseguitata.  ColT aiuto  d'un  antiquario 
napolitano  suo  amico,1  poich'egli  d'istoria  non  seppe  mai,  compose 
un  libriccino,  sotto  il  titolo  :  Annotazioni  critiche  sopra  il  nono  libro 
dell'Istoria  civile  di  Napoli?  dove  vantava  d'avere  scoverti  più 
errori  in  quell'Istoria,  intorno  alla  venuta  de'  Normanni  in  Italia, 
di  cronologia,  ed  altri  difetti;  e  credette,  avendo  ciò  fatto,  d'aver 
dimostrata  la  falsità  di  quell'Istoria;  né  si  ritenne  di  porre  in  fronte 
al  libro  un  passo  di  sant'Agostino,3  appropriandolo  a  sé:  che  si- 
come  colui  avea  scoverte  le  fallacie  e  menzogne  del  Manicheo, 
così  egli  le  mie;  sicome  in  finirlo  d'aggiungervi  un  altro  passo  di 
san  Girolamo,4  millantando  che  gli  errori  che  egli  avea  palesati,  a 
riguardo  degli  altri  che  avea  omessi,  erano  leggieri,  né  tanto  gravi 
e  pesanti. 

Non  vi  fu  cardinale  o  prelato  in  Roma,  al  quale  non  si  presen- 
tasse il  libro  con  molte  lodi  ed  encomi  dell'autore;  ed  oltre  averne 
molti  sparsi  per  le  altre  città  d'Italia,  in  Napoli  s'eran  esposti 
venali  nella  porteria  d'una  casa  di  questi  cherici  regolari,  chiamata 
di  Santa  Brigida,  dove  si  vendevano  a  buon  mercato. 

Fummene  mandato  da  Napoli  un  essemplare,  ed  insieme  scritto 
che  non  me  ne  prendessi  fastidio,  poiché  quelle  Annotazioni  eran 
state  dagli  uomini  dotti  riputate  così  da  poco,  puerili,  sterili  ed 
asciutte,5  che  non  meritavano  d'esser  lette,  non  che  la  pena  di 
farci  risposta;  ed  in  effetto,  avendole  io  lette,  sicome  avendole 

i.  CoW aiuto  .  .  .  amico:  il  Giannone  si  riferisce  qui  all'archeologo  e  giurista 
napoletano  Matteo  Egizio  (i 674-1745),  che  sospettò,  sembra  con  fonda- 
mento, d'aver  fornito  le  sue  osservazioni  sull'Istoria  civile  al  Paoli.  Cfr.  per 
questo  Giannoniana,  pp.  125  sgg.  2.  Annotazioni  .  . .  Napoli:  apparse  con 
l'indicazione  di  Colonia  (ma  Roma),  nel  1732,  provocarono  la  sollecita  rea- 
zione del  gruppo  giannoniano.  Una  recensione  critica  fu  pubblicata  dagli 
«Acta  Eruditorum  Lipsiensium  »  del  1732,  p.  292.  3.  un  passo  di  sant'A- 
gostino :  dal  Contra  Epistolam  Manichaei,  guani  vocant  Fundamenti,  xiv-xv. 
4.  passo  di  san  Girolamo:  cfr.  Epistola  ad  Sàbinianum,  xlviii:  «Magna  qui- 
dem  ista  sunt  pondere  suo:  sed  fiunt  eorum,  quae  illaturus  essem,  compa- 
ratione  leviora».     5.  asciutte:  aride. 


212  VITA  DI   PIETRO   GIANNONE 

fatte  leggere  ad  altri,  si  trovò  che  que'  di  Napoli  scrivevan  il  vero. 
Ma  due  forti  cagioni  mi  mossero  al  contrario.  Primieramente  la 
natura  del  padre  Paoli  a  me  nota,  piuttosto  propensa  al  trasonico1 
e  millantatore,  il  quale,  in  ogni  angolo  d'Italia,  già  vantava  d'aver 
ucciso  il  gigante.  L'altra,  che  scovrendo  con  maniere  un  poco  aspre 
la  di  lui  ignoranza,  fosse  repressa  non  pur  la  sua  petulanza  e  traso- 
neria, ma  fosse  d'essempio  a  gli  altri  frati  e  monaci,  che  non  ve- 
nissero ad  inquietarmi  ad  ogni  poco,  con  le  loro  scipitezze,  ma  mi 
lasciassero  in  pace:  poiché  io  a  tutto  altro  intendeva  impiegar  gli 
ultimi  anni  di  vita  che  mi  restavano,  che  a  queste  brighe,  le  quali 
non  mi  avean  recato  altro  che  persecuzioni,  invidie,  malevolenza 
ed  inquietudini. 

Così,  verso  il  fine  di  quest'anno  mi  posi  a  rispondere  una  per 
una  alle  critiche,  dimostrandole  sciocche,  puerili  e  sciapite,  trat- 
tando l'autore  qual  si  meritavano  le  sue  trasonerie  e  rodomontate; 
e  poiché  egli  aveale  date  alle  stampe  e  sparse  da  per  tutto,  si  reputò 
di  rendergli  il  pari,  e  far  imprimere  anche  questa  risposta,  che  ha 
per  titolo:  Risposta  alle  Annotazioni  critiche  sopra  il  nono  libro 
dell'Istoria  civile  del  regno  di  Napoli ?  della  quale  non  si  dimenti- 
carono i  collettori  di  Lipsia  di  rapportarla  ne'  loro  Atti.3 

Questa  Risposta  in  Vienna,  e  più  in  Napoli,  fece  gran  romorc, 
essendo  stata  ricevuta  con  piacere  e  con  applauso;  sicché  rimase 
confuso  non  pur  il  padre  Paoli,  ma  tutti  i  suoi,  che  prima  lo  cre- 
devano qualche  cosa;  e  d'allora  in  poi  non  s'è  inteso  che  da 
Roma,  o  altronde,  venisse  voglia  d'inquietarmi  con  critiche  o  nuovi 
libri;  ma  questo  fu  per  me  il  peggior  partito;  poiché  Roma,  vedendo 
che  riuscivano  vani  ed  infelici  gli  assalti,  che  si  tentavano  contro 
la  mia  opera  per  via  di  libri  e  di  carte,  rivolse  tutti  i  suoi  ingegni  ed 
arti,  valendosi  di  altre  armi,  contro  l'autore,  per  abbatterlo  ed 
interamente  rovinarlo;  sicome,  con  l'aiuto  di  molti  al  fin  l'uccise. 

In  quest'istesso  anno  1731  ebbi  lettere  di  Marco  Michele  Bous- 
quet,4  mercante  libraro  di  Ginevra,  il  quale  avendo  prima  fatto 
precorrere  negli  avvisi  di  Ollanda  la  notizia  di  essersi  tradotta  la 
mia  Istoria  civile  in  lingua  francese,  e  che  si  sarebbe  fra  poco  data 

i.  trasonico:  smargiasso  (da  Trasone,  per  cui  cfr.  la  nota  1  a  p.  156!). 
2,  Risposta  . . .  Napoli:  edita  nel  1732,  è  stata  inserita  nelle  Opere  postume, 
I,  alla  fine,  con  numerazione  propria,  assieme  alle  Annotazioni.  3 .  non  si... 
Atti:  cfr.  «Acta  Eruditorum  Lipsiensium  »,  1732,  pp.  458-9.  4.  Marc- 
Michel  Bousquet  (1696- 1762)  fu  stampatore  e  libraio  a  Ginevra  dal  1712 
al  1736,  a  Losanna  dal  1736  alla  morte. 


CAPITOLO    OTTAVO  213 

alle  stampe  dalla  sua  società,  mi  scriveva,  che  desiderando  egli  ed 
i  suoi  soci,  senza  aver  riguardo  a  risparmio,  di  dare  alle  stampe 
questa  traduzione  con  ogni  accuratezza  e  magnificenza,  volessi 
anch'io  contribuir  dal  mio  canto  di  mandargli  le  note  ed  altre 
aggiunte,  sicome  la  mia  vita  e  quanto  era  avvenuto  dopo  la  pub- 
blicazione della  medesima;  e  sopra  tutto  di  far  intagliare  in  rame 
il  mio  ritratto  al  naturale  per  metterlo  nel  frontispizio  affinché 
questa  edizione  in  francese  riuscisse  migliore  e  più  adorna  dell'in- 
glese. Io  che  coli* occasione  delle  tante  precedute  brighe  sopra 
quest'Istoria,  mi  trovava  aver  notate  più  cose  che  la  confermavano 
e  maggiormente  Pillustravano,  volentieri  m'esibii  di  farlo,  sicome 
di  somministrargli  le  notizie  delle  contese  insorte  per  la  medesima; 
ma  non  già  la  mia  vita,  che  sarebbe  stata  cosa  pur  troppo  lunga  e 
noiosa. 

Ebbi  dapoi  lettere  del  traduttore  stesso,  monsieur  Bochat1  fran- 
cese, che  si  trovava  ministro  e  professore  dell'Università  degli  studi 
in  Losana,  cercandomi  la  resoluzione  di  alcuni  dubbi  e  rischiara- 
mento de'  passi  oscuri,  che  l'occorrevano  in  tradurla;  i  quali  da  me 
gli  furon  spianati  ed  illustrati;  e  seguitando  il  Bousquet  a  premere, 
e  dando  incombenza  a  Vienna  ad  un  altro  mercante  libraro  suo 
corrispondente,  di  somministrar  le  spese  per  l'intaglio  e  disegno 
del  ritratto,  sicome  d'alcune  monete  e  medaglie  che  doveano  col- 
locarsi ne'  loro  luoghi  in  questa  nuova  impressione,  fu  nel  seguente 
anno  intagliato  in  rame  il  ritratto,*  che  se  gli  mandò,  e  designate 
le  monete  e  le  medaglie,  che  parimente  se  le  mandarono.  Le 
nuove  giunte  ed  annotazioni  se  gli  promisero,  secondo  che  si 
sarebbero  ripulite  ed  ordinate,  e  che  se  gli  sarebbero  mandate 
fra  poco  tempo  quelle  del  primo  tomo,  e  così  si  sarebbe  fatto  degli 
altri;  sicome  di  tempo  in  tempo  fu  il  tutto  adempito.  E  certa- 
mente non  meno  per  le  note  e  giunte,  tratte  da  monumenti  au- 
tentici e  da  varie  raccolte  di  diplomi  ed  istrumenti  pubblici, 
sarebbe  questa  edizione  francese  riuscita  migliore  della  inglese, 
e  che  per  quelle  monete  e  medaglie,  le  quali  eran  rare  e  pro- 
prie per  confermare  ed  illustrare  molti  passi  dell'Istoria;  le  quali 
io  avea  fatto  delineare  dalle  originali  del  museo  cesareo  di  Vienna, 

1.  Charles- Guillaume  Loys  de  Bochat  (1695-1753),  professore  di  diritto 
naturale  a  Losanna,  controllore  generale  di  quel  cantone,  tra  i  fondatori 
della  «Bibliothèque  italique»,  proseguì  la  traduzione  dell'Istoria  civile,  ini- 
ziata e  condotta  già  a  buon  punto  dal  padre  Isaac  (1663-1733).  2.  il  ritrat- 
to :  fu  eseguito  da  Jeremias  Jakob  Sedelmayr. 


214  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

mercé  la  cortesia  e  gentilezza  dell'abate  Panagia1  mio  amico,  che 
vi  presideva  come  insigne  antiquario,  il  quale,  oltre  avermi  mo- 
strate le  antiche  monete  de'  Goti  re  d'Italia,  che  illustravano  e 
confermavano  quanto  io  de'  medesimi  mi  trovava  avere  scritto 
della  dipendenza  che  aveano  con  gl'imperadori  d'Oriente,  mi  mo- 
strò la  moneta  d'oro  che  Grimoaldo2  duca  di  Benevento  fece  co- 
niare col  nome  di  Carlo  Magno:  e  ciò  per  adempimento  degli  arti- 
coli della  pace  fra  lor  conchiusa,  uno  de'  quali  era  che  Grimoaldo, 
così  nelle  scritture,  come  nelle  monete,  dovesse  al  suo  preporre  il 
nome  di  Carlo  Magno,  sìcome  avea  io  scritto  nel  primo  tomo,3 
parlando  di  questa  pace;  ma  ciò  che  recommi  estremo  contento,  fu 
d'aver  trovata  in  questo  museo  la  medaglia,  che  fece  coniar  in 
Napoli  il  viceré  don  Pietro  di  Toledo,4  col  motto  erectori  iustitiae, 
della  quale  io  parlo  nel  quarto  tomo,5  la  quale  fu  da  me  in  vano 
ricercata  a  Napoli,  che  trovai  poi  a  Vienna. 

Di  questi  e  simili,  sicuri  e  certi  monumenti,  veniva  adornata 
l'edizione  francese,  la  quale,  secondo  le  vicende  delle  mondane 
cose,  passò  poi  que'  infortuni  che  saranno  più  innanzi  ricordati. 


IV 

Intanto,  con  queste  cure  ed  occupazioni  eravamo  entrati  nel- 
l'anno 1732,  nel  quale  tanto  più  a  Vienna  crescevano  le  confusioni 
e  disordini,  quanto  che  stabilita  nuova  pace  con  la  Spagna  e  non 
più  prolungato  il  possesso  all'infante  don  Carlos  del  ducato  di 
Parma,  sembrava  a'  Spagnoli  di  Vienna  che,  stretto  ora  l'impera- 
dore  con  nuovo  vincolo  colla  Spagna,  non  avesse  più  che  temere 
di  altra  potenza;  ed  il  marchese  di  Rialp,  col  numeroso  seguito 
di  tutti  gli  altri  Spagnoli,  spezialmente  i  Catalani,  vantavano  che 
l'imperadore  col  solo  suo  nome  farebbe  ora  tremar  il  mondo;  e 
quindi  derivava  il  disprezzo  che  si  faceva  degli  altri  principi, 

1.  Giambattista  Panagia,  custode  del  Museo  Cesareo  di  Vienna.  2.  Gri~ 
moaldo  III  (morto  nell'8o6),  principe  di  Benevento.  Secondo  un  accordo 
stipulato  dal  padre  Arechi  II  con  Carlo  Magno  a  Capua  nel  786,  il  princi- 
pe di  Benevento,  oltre  a  prestare  giuramento  di  fedeltà  e  pagare  tributi, 
avrebbe  dovuto  battere  moneta  e  rilasciar  diplomi  in  nome  di  Carlo.  3.  nel 
primo  tomo:  cfr.  Istoria  civile,  tomo  1,  lib.  vi,  cap.  iv,  p.  398.  4.  Pedro  de 
Toledo  (15 14-1578),  marchese  di  Villafranca,  viceré  di  Napoli  dal  1532  alla 
morte.  5.  nel  quarto  tomo:  cfr.  Istoria  civile,  tomo  iv,  lib.  xxxii,  cap.  il, 
par.  n,  pp.  60-2. 


CAPITOLO   OTTAVO  215 

spezialmente  di  quelli  d'Italia,  e  de*  loro  inviati  che  erano  in  Corte. 
Dall'altra  parte,  il  conte  di  Sinzendorf,  cancelliere  di  Corte,  ch'era 
tornato  di  Francia  da'  congressi  di  Soyson,1  vantando  d'aver  pe- 
netrati l'intimi  consigli  del  gabinetto  di  quel  giovane  re,3  e  le  forze 
e  disciplina  militare  di  quel  regno,  la  quale  a  lui  sembrava  esser 
venuta  all'ultima  decadenza,  millantava  che  la  Francia  non  era  in 
istato  di  mover  guerra  all'imperadore,  e  ch'era  sicuro,  che  fin  a 
tanto  che  vivea  il  cardinal  Fleury,3  primo  ministro  di  quella  Corte, 
amante  di  pace,  non  vi  sarebbe  guerra;  e  riposando  l'imperadore 
sopra  questi  due  ministri,  che  gli  promettevano  lungo  e  tranquillo 
ozio  e  sicura  e  stabil  quiete  in  tutti  i  suoi  Stati  e  domìni,  fecero 
che  riformasse  la  milizia,  cassando  molti  reggimenti,  né  più  si 
pensasse  a  munizioni  di  piazze,  né  a  fortificazioni,  anzi  riputandosi 
spese  vane  tutto  ciò  che  si  impiegava  in  mantenerle,  il  denaro 
ch'era  a  ciò  destinato  s'impiegava  ad  altri  usi,  e  con  tutto  che  gli 
Stati  e  regni  d'Italia  fossero  tassati  a  mantener  certo  numero  di 
truppa,  che  fosse  bastante  per  lor  difesa,  ed  effettivamente  si 
pagassero  le  somme  secondo  il  numero  prescritto,  nulladimanco 
le  truppe,  che  doveano  esser  ivi,  non  arrivavano  nemmeno  alla 
metà;  sicome  si  rese  a  tutti  manifesto,  coll'occasione  di  quest'ulti- 
ma guerra,4  quando,  invaso  lo  Stato  di  Milano  da'  Francesi  e 
Piemontesi,  non  si  trovarono  per  la  difesa  che  sette  in  ottomila 
soldati  e  pure  lo  Stato  pagava  per  diciottomila;  ed  il  regno  di 
Napoli,  che  contribuiva  per  lo  mantenimento  di  ventiduemila  sol- 
dati, non  potè  resistere  a  gli  Spagnoli,  non  avendo  per  sua  difesa 
altro  numero  di  soldati  che  di  soli  ottomila;  e  molto  minore  la 
Sicilia,  la  quale  fu  pur  costretta  a  rendersi. 

Tutte  queste  mine  e  precipizi  nacquero  da  quella  sicurezza  che 
si  avea,  che  niuno  avrebbe  ardimento  di  muover  guerra  all'impe- 
radore, e  dal  basso  concetto  che  si  avea  delle  forze  degli  altri  prin- 
cipi; e  per  conseguenza,  che  fosse  tutta  spesa  perduta  di  mantenere 
numerosi  eserciti,  e  di  spendere  in  riparazioni  e  fortificazioni  di 
piazze.  Quindi  tutto  lo  scuopo  era  di  convertire  in  altri  usi  il 

1 .  Soyson  :  Soissons.  2.  giovane  re  :  Luigi  XV  (  17 10-1774),  uscito  dalla  mi- 
norità e  svincolatosi  dalla  reggenza  del  duca  Filippo  d'Orléans  nel  1723. 
3.  André-Hercule  Fleury  (1653-1743),  elemosiniere  di  Luigi  XIV,  nel  1683, 
precettore  dell'erede  al  trono  nel  1715,  quindi  cardinale  e  primo  ministro 
di  Luigi  XV  nel  1726.  Fu  il  presidente  del  congresso  di  Soissons  (1728)  e 
l'artefice  dei  trattati  di  Siviglia  (1729)  e  di  Vienna  (173  0-  4-  quest'ultima 
guerra:  la  guerra  di  successione  polacca. 


2l6  VITA    DI    PIETRO    GIANNONE 

denaro  che  dovea  consumarsi  a  questo,  e  di  cumular  denari  per 
altre  vie,  le  quali  si  tentavano  da  per  tutto,  per  maggiormente 
accrescer  dovizie,  fasto  e  pompa,  ed  aprirsi  altre  mine,  per  estin- 
guer l'ingorda  fame  di  tanti,  non  aspirandosi  ad  altro  che  a  questo; 
e  quindi  i  progettanti  eran  più  caramente  accolti,  ed  ogni  altro 
che  suggeriva  maniere  donde  potesse  trarsi  denaro,  per  supplire 
alle  magnifiche  doti  che  si  assignavano  alle  spese  spagnole  :  poiché 
erasi  già  fatto  costume,  che  maritandosi  le  lor  figliuole,  comincian- 
dosi da'  primi  ministri  ed  ufficiali  spagnoli  fino  a  gl'infimi,  l'impe- 
radore  l'avesse  da  costituire  ampie  doti  e  somministrare  le  spese  del- 
le nozze,  sicome  sovvenirgli  in  ogn'altra  loro  spesa  di  viaggi,  d'infer- 
mità, o  altra  ancorché  fosse  voluttuosa  e  niente  forzata  o  necessaria. 
Or  avvertendosi  dagli  uomini  saggi  e  prudenti  queste  confu- 
sioni e  disordini,  ciascuno  pensava  di  salvar  se  stesso  dal  naufragio, 
che  si  prevedeva  imminente,  e  badare  a'  suoi  fatti,  giacché  nulla 
valevano  né  ricordi,  né  ammonimenti,  né  affettuose  preghiere,  né 
lagrime,  né  sospiri.  In  quanto  a  me,  era  già  risoluto,  con  quel  poco 
che  m'era  somministrato  dalle  spedizioni  di  Sicilia,  di  vivere  in 
quiete,  ritirato  in  un  angolo,  ed  attendere  a*  miei  studi,  e  di  restrin- 
germi nelle  spese  quanto  più  fosse  possibile;  poiché  da  Napoli 
da  mio  fratello  non  era  da  sperarne  soccorso  ;  il  quale,  scorgendo 
che  io  non  vi  sarei  più  tornato,  quanto  più  si  prolungava  la  mia 
dimora  in  Vienna  e  sminuiva  la  speranza  del  mio  ritorno  a  Napoli, 
tanto  più  si  mostrava  a  me  riottoso,  ed  affettava  libero  ed  assoluto 
dominio  sopra  quanto  di  mio  lasciai  sotto  la  sua  amministrazione; 
e  da  procuratore,  non  pur  con  altri,  ma  meco  stesso,  voleva  esser 
creduto  signore:  sicché  oltre  d'appropriarsi  le  rendite  de'  miei 
beni  ed  il  prezzo  di  più  centinaia  d'essemplari  della  mia  Istoria,  e 
più  palmarii  esatti  dalle  cause  da  me  difese  e  vinte,  trattava  male 
le  persone  da  me  raccomandategli,  quelle  che  sopra  tutte  merita- 
vano maggior  consuolo1  ed  aiuto,  strapazzando  quella  onesta  e 
savia  donna,  che  erasi  ritirata  in  monastero  con  sua  figliuola  di 
me  natagli,  negandogli  sovente  il  necessario  alimento:  sicché  fui 
costretto,  che  de'  frutti  d'un  capitale  di  ducati  mille,  esatto  da' 
miei  palmarii  e  fatiche  fatte  nella  difesa  di  più  cause  della  marchesa 
di  Baranello,  ch'era  presso  d'un  mercante,  mio  amico,2  egli  non 
più  si  avvalesse;  e  scrissi  al  mercante,  che  gli  pagasse  al  monastero 

i.  consuolo:  consolazione.     2.  mio  amico:  Francesco  Mela,  per  cui  cfr.  la 
nota  1  a  p.  78. 


CAPITOLO   OTTAVO  217 

per  alimento  non  men  della  figliuola  che  della  madre.  In  oltre  il  fi- 
gliuol  maschio  ch'io  lasciai  sotto  la  sua  cura,  egli  per  disbrigarsene 
lo  mandò  nella  città  di  Vesti  a  nostra  sorella,  ivi  maritata;  e  poi 
scordatosene  affatto,  senza  mandargli  soccorso  l'avea  abbandonato 
alla  altrui  discrezione  e  misericordia  :  sicché  adulto,  per  non  soffrir 
tante  miserie,  scappò  via  ed  andossene  in  Napoli;  dove,  da  lui 
barbaramente  scacciato,  bisognò  che  io  da  Vienna  provvedessi  di 
quanto  era  bisogno,  per  non  farlo  andar  ramingo  e  vagabondo.1 

Tanto  è  vero,  che  gli  uomini  beneficati  e  stretti  che  fossero  di 
sangue,  una  volta  che  si  veggono  posti  in  istato  di  non  aver  più  de* 
benefattori  bisogno,  ovvero  che  non  possono  più  giovargli,  massi- 
mamente se  siano  lontani,  perdono  ogni  verecondia,  e  dimenti- 
catisi de*  benefici,  riescono  i  congionti  più  ingrati  e  sconoscenti 
che  gl'ignoti  ed  estranei.  In  breve  sperimentai  esser  vero  quel 
comunal  detto,  se  ben  sembri  fiero  ed  inumano,  che  deesi  «  allevare 
il  capo  dell' animale,  e  quello  dell'uomo  annegare»;  poiché  a  chi 
considera  la  prava  condizione  dell'uomo,  fin  dalla  sua  adolescenza 
inclinato  al  male,  troverà  verissimo  quell'altro  detto  :  «  homo  homini 
lupus».3  Quantunque  io  reputassi  non  esser  ciò  universalmente  vero, 
ed  esser  stata  questa  mia  disgrazia  e  fatai  destino,  che  mi  si  rivol- 
gessero i  benefici  in  malefici,  e  le  grazie  in  detestabili  ingratitudini; 
poiché  conosco  fratelli  fra  di  loro  amantissimi;  e  per  ciò  soleva 
tacitamente  invidiare  la  fortuna  del  Forlosia,  primo  custode  della 
biblioteca  cesarea,  nostro  napolitano  e  mio  buon  amico,  il  quale 
tenea  fratelli  in  Napoli  così  cari  ed  amabili,  sicome  egli,  dall'al- 
tra parte,  niente3  gli  cedea,  che  sembravan  esser  più  corpi,  ma 
una  sola  anima:  cotanto  fra  di  loro  era  concordia  ed  amor  vicen- 
devole, che  l'un  men  curava  se  stesso,  purché  potesse  giovare  al- 
l'altro. «  Felices  animae!  »,  essendo  ora  nel  mondo  questi  molto  rari 
e  pochi,  «  quos  aequus  amavit  Iuppiter  ».4 

Da  queste  non  men  pubbliche  che  domestiche  mie  sventure, 
mi  mossi  daddovero  a  pensar  a  me  stesso,  e  provvedere  al  rima- 
nente di  mia  vita  di  una  quiete  solida  ed  interna.  A  questo  fine, 


1.  In  .  .  .  vagabondo:  cfr.  Pautobiografia  di  Giovanni,  in  Giannoniana,  pp. 
184  sgg.  2.  &homo  . . .  lupus»',  k l'uomo  è  lupo  per  l'uomo»,  detto  prover- 
biale derivato  da  Plauto  (cfr.  Asinana,  495:  «lupus  est  homo  homini, 
non  homo»)  e  divenuto  motto  del  filosofo  utilitarista  inglese  Thomas 
Hobbes  (1588-1679).  3.  niente:  in  niente.  4.  «  Felices  .  . .  Iuppiter»:  «  Fe- 
lici anime  »  ;  «che  il  giusto  Giove  amò  »  :  cfr.  Virgilio,  Aen.,  vi,  669  e  129-30. 


2l8  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

colla  mia  cara  e  dolce  famigliuola  viennese,  sopragiunto  il  mese  di 
giugno,  si  affrettò  con  madama  Leichsenhoffen  la  nostra  villeg- 
giatura di  Medeling,  che  la  continuai  più  del  solito,  parendomi  più 
acconcia  quella  solitudine,  che  tornando  in  città  sentire  e  vedere 
tante  sconcezze  e  difformità. 

E  proseguendo  i  miei  intermessi  studi,  conferendo  gli  antichi 
scrittori  profani  co'  libri  della  Bibbia,  se  bene  gli  trovassi  difformi 
in  più  cose,  spezialmente  nella  formazione  del  mondo  e  dell'uomo, 
nella  origine  delle  lingue,  delle  arti,  de'  popoli  e  nazioni  onde  la 
terra  fossesi  empita,  ed  in  molte  altre;  nulladimanco  eran  concordi 
per  ciò  che  riguardavano  il  fine  e  concetto  dell'uomo,  che  in  que- 
sto primo  stato  di  natura  non  fosse  stato  altro  che  di  regno  terreno 
e  di  felicità  mondane. 

Notai  che  sicome  questo  era  il  concetto  di  tutti  gli  antichi  po- 
poli, de*  quali  è  a  noi  rimasa  memoria,  lo  stesso  fosse  del  popolo 
ebreo,  secondo  che  da  Mosè,  suo  legislatore  e  duce,  eragli  stato 
impresso.  Egli  nel  Genesi,  che  possiamo  chiamarlo  il  primo  libro 
delle  origini,  tratta  della  creazione  del  mondo,  delle  parti  che  lo 
compongono,  del  cielo,  stelle,  sole,  luna,  aria,  terra  e  mare,  degli 
animali,  delle  piante,  alberi,  e  di  quanto  sopra  la  terra  si  muove  e 
cresce,  per  quanto  dovea  aver  relazione  all'uomo,  formato  da  Dio 
per  possederla,  non  già  fisicamente,  come  a  filosofo  si  converrebbe, 
sicome  fecero  i  Caldei  e  gli  Egizi  e  poi  i  filosofi  greci  :  non  era  que- 
sto il  suo  scuopo,  ma  unicamente  per  far  comprendere  a  gli  Ebrei, 
che  Iddio  avea  create  e  disposte  tutte  queste  cose  per  l'uomo,  al 
quale  diede  la  dominazione  della  terra,  delle  piante  e  degli  animali, 
e  quanto  in  essa  si  vede,  perché  se  ne  valesse  per  suo  uso  ;  e  quindi 
la  formazione  dell'uomo  si  descrive  doppo  tutte  l'altre  cose  ordi- 
nate a  questo  fine,  avendo1  dotato  l'uomo  d'uno  spirito  di  vita  più 
sublime  di  quello  che  diede  a  gli  altri  animali,  perché  potesse  do- 
minargli e  rendersi  ad  essi  superiore:  onde  avvenne  che  i  bruti, 
che  non  eran  dotati  di  tanto  acume,  sagacità  ed  ingegno,  rimasero 
per  sempre  nella  vita  selvaggia  e  ferina;  all'incontro  l'uomo  s'in- 
nalzasse sopra  i  medesimi,  e  s'avanzasse  nel  culto,  nella  società 
civile,  nelle  arti  e  nelle  altre  discipline. 

E  da  tutto  il  Pentateuco  manifestamente  si  scorge  che,  in  questo 
primo  stato  di  natura,  dell'uomo  non  si  ebbe  altro  concetto  che 

i.  avendo:  il  soggetto  è  Dio, 


CAPITOLO   OTTAVO  2IO, 

d'essere  stato  formato  per  posseder  la  terra  e  quanto  in  essa  si 
muove  e  cresce  ;  e  tutte  le  sue  felicità  o  miserie  non  fossero  se  non 
mondane  e  terrene.  Quindi  le  benedizioni  che  si  promettevano  a 
questi  primi  popoli  osservando  i  precetti  e  comandamenti  che  Iddio 
avea  lor  tramandati,  per  Noè  per  tradizione,  e  per  Mosè  per  legge 
scritta,  non  erano  che  abbondanza  e  fertilità  di  campi,  e  fecondità 
di  greggi  e  d'armenti,  longa  vita,  sanità,  abbattimento  de'  nemici, 
estenzion  di  dominio  e  tutte  altre  cose  mondane  e  terrene  ;  all'in- 
contro le  maledizioni  a'  disubbidienti  erano  di  siccità  ne'  campi, 
pestilenze,  carestie,  infermità,  morti,  povertà,  servitù  e  tutte  altre 
misure  e  calamità  mondane.  La  morte  presso  di  loro  era  l'ultimo 
de'  mali,  come  quella  che  gli  tuffava  in  un  profondo  sonno,  e  gli 
riduceva  in  quello  stato  nel  qual  erano  prima  di  nascere.  E  l'In- 
ferno presso  di  loro  non  esser  altro,  che  la  profondità  della  terra, 
ove  seppelivano  i  loro  morti.  <E  questo  medesimo  osservai  nel 
libro  di  Giob,  libro  che  per  antichità  non  cede  al  Pentateuco  di 
Mosè,  nel  quale  presso  gli  Idumei  ed  i  vicini  Arabi,  popoli  anti- 
chissimi, non  vi  era  altra  idea  che  di  felicità  o  di  miserie  tutte  mon- 
dane e  terreno.1 

Lo  stesso  concetto  per  l'uomo  di  regno  terreno  e  mondano  tro- 
vai negli  altri  vecchi  scrittori  gentili,  presso  gli  antichissimi  po- 
poli di  tutta  la  terra  ed  i  primi  suoi  abitatori,  secondo  le  memorie 
che  ci  restano.  I  primi  cinque  libri  della  Biblioteca  {storica  di  Dio- 
doro Siciliano  possono,  a  riguardo  de*  Gentili,  riputarsi  i  libri 
delle  loro  origini,  rapportandosi  ivi  i  più  antichi  popoli,  de'  quali 
è  a  noi  rimaso  vestigio  de'  loro  nomi,  così  de'  primi  abitatori  del- 
l'Asia rivolta  ad  Oriente  ed  Occidente,  come  al  Mezzogiorno  e 
Settentrione.  Questi  popoli  asiatici  vantano  essere  stati  i  primi 
che  abitasser  la  terra.  Ma  gli  Affricani  ce  lo  contrastano,  e  gli 
Etiopi  vantano  essere  stati  progenitori  degli  Egizi  istessi:  popoli 
che  si  danno  il  vanto  in  antichità  precedere  a  tutti.  I  popoli  set- 
tentrionali d'Europa  pur  vantano  inarrivabile  antichità.  In  breve, 
non  vi  è  nazione,  o  sia  nell'Asia,  o  neh" Affrica,  o  in  Europa,  che 
non  pretenda  per  sé  questo  preggio.  In  tutti  questi  non  si  troverà 
altro  concetto  dell'uomo,  che  di  regno  terreno,  e  che  la  morte 
recasse  loro  un  perpetuo  e  tenebroso  sonno;  quindi,  l'uman  ge- 
nere era  creduto,  e  per  ciò  detto,  mortale  genus. 

1.  E  questo  .  . .  terrene:  cfr.  quanto  il  Giannone  scriveva  nella  lettera  al 
fratello  del  12  agosto  1730  (Giarmonianay  n.°  368). 


ZZO  VITA  DI   PIETRO   GIANNONE 

Gli  Egizi  furono  i  primi,  che  per  le  tante  celebrità1  e  riti  che  in- 
trodussero nel  seppellire  i  loro  morti,  diedero  occasioni  a  gli  ar- 
diti ed  audaci  poeti  greci  di  fantasticar  tanto  sopra  Acheronte, 
Averno,  Cocito,  le  paludi  Stigi,  Campi  Elisi  e  tante  altre  splen- 
dide e  feconde  fantasie;  ed  avesse  piaciuto  al  Cielo,  che  nella 
Grecia  il  male  che  venne  da  Egitto  si  fosse  contenuto  ne'  soli 
poeti,  poiché  a  lungo  andare  corruppe  anche  le  menti  di  alcuni 
loro  fantastici  ed  astratti  filosofi,  i  quali  si  lasciarono  abbagliare 
dallo  splendore  delle  favole  de'  lor  poeti. 

I  Greci,  gente,  sopra  tutte  l'altre  portata  al  maraviglioso  e 
sorprendente,  con  avidità  l'appresero,  ed  accresciutele,  empiron 
poi  la  Grecia,  le  vicine  e  lontane  parti  di  tante  favole  e  sogni, 
spezialmente  al  poco  numero  degli  antichi  dii  d'Egitto  accrescen- 
done tanti  altri,  che  arrivarono  a  tesserne  genealogie,  e  ne  fecero 
una  nuova  scienza,  detta  presso  di  loro  «mitiologia».  I  libri  d'O- 
mero sono  perciò  pieni  di  tante  deità,  che  le  fa  prender  cura  non 
pur  delle  cose  umane,  ma  mescolarle  in  ogni  cosa,  ancorché  minuta, 
vile  e  bassa,  ed  infino  a  far  congiungere  dii  e  dee  celesti  con  uo- 
mini e  donne  terrene,  e  da'  lor  concubiti  farne  anche  nascere  altri 
dii  ed  eroi.*  Ma  Omero,  se  ben  come  poeta  si  spazi  e  si  rivolga  fra 
tante  favole,  non  lascia  nel  tempo  istesso  mostrarsi  un  profondo  fi- 
losofo ed  esatto  istorico.  A'  suoi  poemi,  non  meno  che  a'  libri  di 
Mosè,  dobbiamo  la  notizia  di  tanti  antichi  e  vetusti  popoli,  non  pur 
della  Grecia  e  dell'Asia,  che  dell'Affrica,  de'  quali,  senza  di  lui,  non 
sapremmo  ora  nemmeno  i  nomi.  Di  tutti  questi  popoli,  de'  Greci 
istessi,  non  fa  chi  dell'uomo  avesse  altro  concetto,  che  di  regno 
terreno.  Egli  mescola  i  dii  colle  cose  umane,  e  che  ne  avesser  cura; 
ma  essendo  irati  non  si  minaccia  a'  colpevoli  se  non  castighi  ter- 
reni, sconfitte  d'eserciti,  città  arse  e  depredate,  pestilenze,  servitù, 
straggi  e  morti  ;  all'incontro  a'  benemeriti  vittoria,  ingrandimento 
di  domìni,  sanità,  abbondanza  e  tutte  altre  mondane  felicità.  Egli 
se  ben  come  poeta  per  conformarsi  alla  sua  nazione  avida  del  ma- 
raviglioso e  sorprendente,  a  dii  celesti  aggiunga  gl'infernali,  Coci- 
to, Plutone  e  Flegetonte  e  simili  ciance  de'  favolosi  poeti;  nulladi- 
manco  del  morire,  come  sapiente,  ebbe  lo  stesso  concetto  degli 
altri  antichi  savi,  paragonando  il  morir  degli  uomini  alle  foglie 

i.  celebrità:  cerimonie,  solennità.  2.  I  libri .  .  .  eroi:  si  ricordi  come  la 
questione  omerica  fosse  dibattuta,  in  quegli  stessi  anni,  da  Giambattista 
Vico,  ben  conosciuto,  anche  se  disprezzato,  dal  Giannone. 


CAPITOLO    OTTAVO  221 

d'alberi,  le  quali,  scosse  al  fin  d'autunno  e  cadute  a  terra,  non 
più  risorgon  esse,  ma  altre  nella  primavera  in  lor  vece  rinascono.1 

Erodoto,  che  meritamente  dicesi  padre  della  greca  istoria,  poi- 
ché i  nove  suoi  libri  d'Istoria  sottratti  dall'ingiuria  de'  tempi  e 
degli  uomini,  sono  stati  a  noi  avventurosamente  serbati,  ancor- 
ché si  fosse  perduta  Y Istoria  degli  Assiri,  la  quale  avrebbe  sommi- 
nistrato gran  lume  al  libro  del  Genesi  di  Mosè:2  Erodoto,  dico, 
non  altro  concetto  ci  rappresenta  di  que'  antichi  popoli  de'  quali 
ragiona,  che  di  regno  terrestre  ;  e  se  ben  mescoli  i  dii,  gli  oracoli  e 
le  Pizie3  colle  cose  umane,  nulladimanco  non  si  promettevan  altro 
da'  celesti  numi,  se  non  felicità  mondane,  e  che  gli  scampassero  da 
flagelli,  miserie  e  tutte  altre  calamità  terrene. 

Leggasi  infine  quanto  mai  è  rimaso  a  noi  dell'istoria  greca, 
quante  memorie  ci  han  lasciate  gli  scrittori  greci  (poiché  degli 
egizi,  caldei,  fenici  ed  altri  antichi  non  è  stato  a  noi  tramandato 
libro  alcuno,  se  non  alquanti  tronchi  monumenti,  che  pur  a'  Greci 
gli  dobbiamo),  che  di  quanti  antichi  popoli  e  nazioni  trattano,  di 
tutte  non  si  troverà  dell'uomo  altro  concetto  che  questo.  Leggasi 
la  Geografia  di  Strabone,  la  Biblioteca  istorica  di  Diodoro,  le  quali, 
non  meno  che  Y Istoria  di  Erodoto,  devono  riputarsi  tanti  tesori, 
ove  sono  riposte  le  più  vetuste  memorie  che  possano  aversi  del 
genere  umano,  che  non  si  troverà  per  lui  altro  che  un  regno  ter- 
reno. In  breve  si  spazi  ogni  uno  e  trascorra  per  tutti  gli  ampi 
regni  ed  imperi,  che  si  videro  stabiliti  sopra  la  terra,  degli  Assiri, 
Egizi,  Medi,  Persi,  Macedoni,  Indi,  Chinesi,  Greci  -  e  di  chi  no  ?  -, 
che  troverà  lo  stesso.  In  fine  se  si  fermerà  nell'Imperio  romano, 
che  colla  mina  de'  preceduti  imperi  crebbe  cotanto,  e  si  distese  non 
pur  sopra  l'Europa,  ma  nell'Asia  e  nell'Affrica,  per  quanto  era  del 
mondo  allora  conosciuto  :  scorgerà  che  mescolavan  anche  i  Roma- 
ni, come  i  Greci  e  gli  antichi  Etruschi  da  chi  l'appresero,  i  loro 
dii  colle  cose  umane,  ma  non  per  altro,  che  per  avergli  propizi 
nell'ingrandimento  della  loro  republica,  che  la  rendesser  potente, 

i.  paragonando . . .  rinascono:  cfr.  Omero,  //.,  vi,  146-9.  2.  Erodoto  .  , . 
Mosè:  la  divisione  della  stona  di  Erodoto  in  nove  libri  è  opera  dei  gram- 
matici alessandrini.  Quanto  alla  perduta  Istoria  degli  Assiri  qui  ricordata 
dal  Giannone,  si  tratta  in  realtà  di  una  supposizione  ricavata  dallo  stesso 
testo  della  storia  di  Erodoto,  laddove  egli  promette  (1, 184)  di  dare  la  serie 
dei  re  di  Babilonia  (che  egli  riteneva,  appunto,  in  Assiria),  promessa  non 
più  mantenuta.  3.  le  Pizie:  erano  le  sacerdotesse  dell'oracolo  di  Apollo 
in  Delfi. 


222  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

felice  ed  eterna;  e  così  in  pubblico,  come  in  privato,  non  erangli 
resi  voti  e  sacrifici  se  non  per  impetrarne  felicità  terrene,  e  che  gli 
scampassero  da  mali  parimente  mondani;  e  della  lor  morte  non 
avean  altro  concetto,  se  non  che  gli  recasse  un  perpetuo  e  tene- 
broso sonno,  non  avendo  idea  di  altra  vita,  doppo  la  lor  morte, 
che  della  gloria,  riputandola  una  seconda  vita,  che  gli  rendesse 
eterni  ed  immortali  nelle  bocche  degli  uomini  ed  alle  future  genti. 

L'istoria  romana,  e  spezialmente  quella  incomparabile  di  Tito 
Livio,  il  quale  da'  princìpi  di  Roma  continuò  i  suoi  ingrandimenti 
fino  a'  tempi  d'Ottavio  Augusto,  ne*  quali  egli  fiorì,  manifesta  non 
pur  i  Romani  dell'uomo  e  del  suo  morir  non  aver  avuto  altro 
concetto,  ma  eziandio  tanti  altri  innumerabili  popoli,  de'  quali  egli 
fa  memoria,  e  che  furono  da'  Romani  vinti  e  debellati.  E  se  bene, 
per  l'inestimabil  perdita  dell'altre  sue  Deche,  non  abbiamo  ora 
di  lui  un  intiero  corpo  d'istoria  di  quest'Imperio,  nulladimanco 
ben  può  supplirsi  la  mancanza  da  altri  istorici  e  scrittori  che  gli 
precederono,  o  suoi  contemporanei,  spezialmente  da  Strabone  e 
Diodoro,  i  quali  pur  fiorirono  nell'aureo  secolo  d'Augusto,  ovvero 
d'altri  scrittori  romani  a  sé  posteriori;  donde  si  conosce  che  il  ge- 
nere umano,  che  non  può  dubbitarsi  non  essersi  veduto  in  tanta 
eminenza,  sia  per  culto,  sia  per  le  arti  e  per  le  discipline,  quanto 
s'estolse  a'  tempi  d'Augusto,  non  ebbe  di  sé  altro  concetto  che  di 
vita  mortale  e  di  regno  terreno  ;  e  che  i  loro  dii  prendessero  di  lor 
cura  e  pensiero,  per  quanto  riguarda  alle  felicità  mondane,  pre- 
gandogli per  impetrar  queste,  e  che  gli  scampasser  da'  mali  e 
miserie  di  questa  mortai  vita.  Gl'infernali  dii,  i  Mani,  Orco,  Oo- 
cito ed  Acheronte  gli  lasciavano  alle  splendide  fantasie  de'  poeti 
ed  al  volgo  imperito  ed  alla  semplice  e  credula  moltitudine.  Per 
la  qual  cosa  chiunque  porrà  attenzione,  riandando  i  secoli  vetusti, 
da  che  potrà  aversi  notizia  del  mondo  e  dell'uomo,  fino  al  secolo 
di  Augusto,  in  tutti  i  popoli  e  nazioni,  non  eccettuandone  nemmeno 
l'ebrea,  non  troverà  dell'uomo  e  suo  morire  altra  idea  che  questa. 

Si  accorgerà  eziandio,  che  sopra  tutti  gli  altri  popoli  della  terra 
gli  Ebrei  fossero  più  commendabili,  per  aver  avuto  di  Dio  un'idea 
più  giusta  ed  alla  ragion  conforme,  secondo  che  gli  fu  impressa 
dal  lor  savio  duce  Mosè,  tanto  più  commendabile  che,  uscito  da 
Egitto,  dove  fece  lunga  dimora,  non  per  questo  rimase  contami- 
nato dalle  tante  lor  superstizioni  ed  idolatrie.  Egli  propose  al  suo 
popolo  un  Dio  che  fosse  solo,  unico,  sapiente,  giusto  ed  onnipo- 


CAPITOLO   OTTAVO  223 

tente,  creatore  del  cielo  e  della  terra,  facitore  e  dispositore  di  quan- 
to si  ammira  sotto  di  quello  e  sopra  di  questa,  ed  in  tutto  il  nostro 
mondo  aspettabile.  A  lui  solo  dover  l'uomo  ricorrere  con  puro  e 
casto  cuore  e  divoto  culto  per  impetrar  felicità  e  per  iscamparlo 
da  miserie  in  questa  vita  mortale. 

Per  tener  mondi  i  loro  cuori,  gli  prescrisse  savie  leggi,  dove 
non  meno  ravvisavano  l'amore  e  venerazione  che  doveano  avere 
verso  il  lor  creatore  e  benefattore,  che  le  vere  norme  di  giustizia 
e  di  carità  verso  i  loro  fratelli  e  suo  prossimo.  Per  render  a  Dio 
onore  e  culto  sincero  e  divoto,  gli  prescrisse  molti  e  vari  riti  e 
cerimonie,  colle  quali  doveano  adorarlo;  aftinché  applicati  a  ciò 
s'allontanassero  dalle  tante  superstizioni  ed  idolatrie  degli  altri 
popoli,  delli  quali  erano  circondati.  E  gli  stessi  Strabone  e  Diodoro, 
gentili  che  fossero,  non  possono  non  commendare  le  savie  leggi 
che  Mosè  diede  al  suo  popolo. 

Quindi  nacque  che  i  loro  poeti,  che  chiamavano  profeti,  non  fos- 
sero contaminati  di  quelle  illusioni  e  delle  tante  favole  onde  i  poeti 
gentili  eran  cotanto  fecondi.  Non  si  leggono  ne'  loro  profeti,  ancor- 
ché sovente  s'innalzassero  ad  un  stile  e  parlar  magnifico  e  meta- 
forico, tante  arditezze,  e  molto  meno  si  mostrano  vaghi  di  splen- 
dide fantasie  e  di  tante  vane  deità,  di  dii  celesti  ed  infernali,  di 
Sisifo  e  di  Tantalo,  e  di  tante  altre  fole  e  ciancie,  onde  la  gentilità 
era  ripiena.  Questo  fu  un  preggio,  del  quale  meritamente  la  gente 
ebrea,  sopra  l'altre  del  mondo,  può  vantarsi;  e  per  ciò  Iddio  l'eles- 
se in  proprio  popolo,  dichiarandosene  egli  particolar  re  e  signore, 
e  che  da  questo  popolo  dovesse  sorgere  al  mondo  il  suo  liberatore 
e  redentore. 

Egli  è  vero  che,  negli  ultimi  tempi,  gli  Ebrei  cominciarono  a 
contaminarsi,  non  pur  ne*  costumi,  ma  di  peregrine  dottrine,  e 
ad  allontanarsi  dalla  sapienza  solida  de'  loro  maggiori.  <Ciò  av- 
venne doppo  che  si  costrusse  il  secondo  tempio,  quando,  tornati 
gli  Ebrei  doppo  la  cattività  babilonica  nella  Giudea,  da  varie  città 
degli  Assiri  e  de'  Medi  e  de'  Persi  dov'erano  sparsi,  ci  vennero 
contaminati  da  nuove  e  peregrine  dottrine;  quindi  si  vide  che  al- 
cuna abbracciassero  la  dottrina  del  fato  ed  altre  splendide  fantasie 
ed  illusioni  de'  favolosi  Greci,  sicome  ce  ne  rende  testimonianza 
non  pur  Strabone,  ma  l'istesso  Giuseppe  Ebreo,  di  lor  nazione; 
<e  toltone  i  Sadducei,  i  quali  furono  fermi  e  rigidi  osservatori 
dell'antica  dottrina  e  disciplina,  gli  altri,  spezialmento  i  Farisei, 


224  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

ed  assai  più  nel  decorso  del  tempo  gl'ultimi  lor  rabbini  e  cabalisti, 
si  resero  al  mondo,  per  le  tante  lor  ciance  ed  illusioni,  non  men 
degni  di  riso  che  di  compassione. 

Ma  in  questo  stato  ridotto  il  mondo,  e  a  tal  corruzione  il  popolo 
ebreo,  opportunamente  fu  mandato  in  terra  chi  dovesse  redimer- 
lo; e  non  pur  liberare  l'uman  genere  da  tanti  errori  ed  inganni, 
ma  innalzarlo  a  più  sublime  stato  e  condizione;  e  quando  prima 
non  era  riputato  se  non  capace  d'un  mortai  regno  terreno,  farlo 
degno  e  partecipe  d'un  per  lui  nuovo  regno  immortale  e  celeste; 
e  fu  mandato  non  pur  alla  gente  ebrea,  ma  a  tutte  l'altre  nazioni, 
poiché,  sicome  per  Adamo  tutti  gli  uomini  si  reser  mortali  e  ter- 
reni, così  per  questo  liberatore  fosser  tutti  resi  immortali  e  celesti. 

Questa  dottrina  e  questo  concetto  del  mondo  e  dell'uomo  pa- 
reami  aver  scorto,  riandando  tutti  i  secoli  vetusti,  presso  le  più 
antiche  nazioni;  e  che  in  ciò  concordasse  tutta  la  gentilità  non  mi 
giunse  nuovo,  né  strano;  ma  che  questo  concetto  trovassi  pari- 
mente essersi  tenuto  dagli  antichi  Ebrei,  e  che,  confrontando  i  libri 
de'  Gentili  con  quelli  di  Mosè  e  degli  altri  del  vecchio  Testamento, 
<scritti  sotto  il  primo  tempio,  e  prima  de'  libri  di  Esdra>,  gli  scor- 
gessi in  ciò  uniformi  e  concordi,  parvenu  ciò  da  notare  e  non  trascu- 
rarlo, sicome  fin  allora  avea,  e  comunemente  vedea  fare  a  gli  altri. 

Ebbi  sommo  contento  e  piacere,  che  ne'  libri  di  sant'Agostino 
e  negli  altri  antichi  Padri  della  Chiesa,  leggessi  d'avere  essi  eziandio 
notato  che  dall'uomo,  secondo  il  suo  primiero  stato  di  natura, 
descritto  ne'  libri  dell'antica  legge,  non  aveasi  altro  concetto,  che 
di  regno  terreno  e  di  felicità  mondana,  e  sant'Agostino  in  più 
luoghi  avverte,  che  bisognava  che  per  l'uomo  il  regno  terreno 
precedesse  al  celeste,  affinché  dalle  cose  mortali  e  terrene  s'innal- 
zasse poi  alle  immortali  e  celesti;  ed  il  regno  terreno  precedesse, 
e  fosse  all'uomo  terreno,  come  simbolo  ed  immagine  di  quanto 
dovea  avvenire  allo  stesso  uomo,  nello  stato  di  grazia,  nel  regno 
celeste.  Tertulliano1  chiama  per  ciò  il  celeste  nuovo  regno,  a  ri- 
guardo dell'uomo,  e  nuova  promessa,  dicendo:  «novam  promis- 
sionem  regni  coelorum».2  E  san  Giovan  Crisostomo3  rende  grazie 

i.  Quinto  Settimio  Florio  Tertulliano  (secolo  II-III  dell'Era  volgare),  apo- 
logista cristiano,  z.  «  novam  . . .  coelorum  »  :  cfr.  Liber  de  praescrìptionibus 
adyersus  haereticos,  xm.  3.  Giovanni  Crisostomo  (344  circa-407),  oratore 
cristiano,  vescovo  di  Costantinopoli,  autore  di  numerose  omelie,  trattati, 
panegirici  e  sermoni.  La  citazione  che  segue  nel  sermone  In  ascensionem 
Domini,  homilia  xlv. 


CAPITOLO    OTTAVO  22$ 

al  Signore,  il  quale  erasi  compiaciuto  d'innalzar  l'uomo  cotanto 
che,  quando  prima  appena  era  stimato  meritevole  del  regno  ter- 
reno, avealo  reso  degno  del  celeste. 

Pareami  adunque  doversi  considerar  l'uomo  secondo  questi  due 
differenti  stati,  riguardando  il  primo  di  natura,  ed  il  secondo  di 
Grazia.  Il  primo  esserci  rappresentato  nel  vecchio  Testamento  ;  il 
secondo  nel  Nuovo.  E  del  mondo  doversi  considerare  due  princi- 
pali epoche  :  la  prima,  che  comincia  dalla  sua  creazione,  e  continua 
sino  all'imperio  di  Ottavio  Augusto,  dove  non  si  ravvisa  l'uomo  se 
non  nel  suo  primiero  stato  di  natura,  mortale  e  terreno  ;  la  seconda 
dalla  sua  redenzione,  quando  il  Verbo,  disceso  in  terra  e  presa 
carne  umana,  conversò  fra  gli  uomini,  e  mostratigli  nuovo  lume 
ed  altro  sentiero,  gl'innalzò  dal  fango  e  resegli  immortali  e  celesti. 
Il  principio  di  questa  nuova  epoca  viene  a  noi  additata  ne'  libri 
del  Testamento  nuovo,  spezialmente  da'  quattro  evangelisti,  da- 
gli Atti  degli  Apostoli  di  san  Luca  e  dalle  Epistole  di  san  Paolo  ; 
e  viene  a  cominciare  ne'  tempi  d'Augusto,  quando  avendo  data 
pace  all'universo  orbe  romano,  il  genere  umano  riposava  sotto  un 
equabile,  giusto  e  clemente  imperio,  ed  i  costumi  degli  uomini 
eransi  resi  più  culti,  docili  e  mansueti;  e  sant'Agostino  riflette,  che 
piacque  al  sommo  Iddio,  in  premio  della  lor  giustizia  e  d'altre 
virtù,  ond'eran  i  Romani  adorni,  di  concedergli  l'imperio  del  mon- 
do ;  affinché,  resolo  più  culto  e  docile,  fosser  disposti  gli  uomini  a 
ricever  que'  ammaestramenti  e  quella  dottrina,  che  dovea  a  questo 
tempo  recargli  il  suo  Redentore.1 

Questi  studi  mi  fecero  in  quest'anno  prolungare  la  mia  villeg- 
giatura di  Medeling;  sicché  non  mi  ridussi  in  città,  se  non  ne' 
princìpi  di  settembre,  con  animo  di  proseguirgli;  e  disbrigato  di 
quanto  pareami  bastante  intorno  al  primo  stato  di  natura  dell'uo- 
mo, mi  posi  ad  investigare  il  suo  secondo  stato  di  Grazia,  che  non 
potea  altronde  apprendersi  se  non  da'  libri  del  nuovo  Testamento 
e  da  quanto  i  più  seri  e  dotti  espositori  vi  avean  lavorato  intorno, 
de'  quali  m'era  somministrata  abbondante  copia  dalla  biblioteca 
cesarea,  la  quale  era  per  ciò  da  me  frequentata. 

Non  fui  impedito  ne'  rimanenti  mesi  di  quest'anno  di  affari 
forensi,  poiché  da  Napoli  pochi  ricorsi  si  aveano  al  Consiglio  di 
Spagna  di  Vienna;  mi  convenne  però  prender  la  difesa  nel  Consi- 
glio Imperiale  Aulico  della  vedova  marchesa  di  Balestrino,  dama 

i.  Agostino . . .  Redentore:  cfr.  i  capitoli  xii-xrx  del  libro  v  del  De  civ.  Dei. 


226  VITA  DI   PIETRO   GIANNONE 

lorinese,  dell'illustre  famiglia  Leoncourt,  la  quale  erasi  portata  a 
Vienna  per  una  causa  che  ivi  teneva  contro  il  marchese  suo  figlio, 
la  quale  per  l'eternità  di  quel  Consiglio  e  per  i  nuovi  cangiamen- 
ti delle  cose  d'Italia,  accaduti  per  quest'ultima  guerra,  e  per  lei 
e  per  me  riuscì  inutile  ed  infruttuosa.1 


A  questo  tempo  per  la  morte  di  re  Augusto  di  Polonia,  si  co- 
minciarono a  sentire  in  Vienna  gli  apparecchi  che  si  facevano  per 
far  cadere  l'elezione  del  nuovo  re  in  persona  del  duca  di  Sassonia, 
figliuolo  del  re  defonto.2  Né  si  potè  mai  sapere  a  qual  fine  et  cui 
bono,  l'imperadore  si  fosse  mosso  ad  intraprender  l'elevazione  di 
quel  principe  al  trono  di  Polonia  <se  non  quello,  per  indurlo  a 
consentire  alla  «prammatica  sanzione»,  avendo  per  moglie  la  pri- 
mogenita dell'imperadore  Giuseppe>,3  non  ostante  che  la  Francia 
fosse  tutta  intesa  a  riporci  il  re  Stanislao,  padre  della  regina  e 
suocero  del  re.4  Ma  il  basso  concetto  che  s'avea  delle  forze  di  quel 
regno,  e  che  non  v'era  da  temere  che  l'impresa  non  fosse  riuscita, 
massimamente  per  essersi  congiunte  le  forze  dell'imperadrice  di 
Moscovia,5  la  qual  mal  volentieri  soffriva  che  Stanislao  regnasse  in 
Polonia,  fecer  sì,  nulla  curando  de'  mali  che  potevan  da  ciò  nascere, 
avendosi  per  lontani  ed  impossibili,  che  scovertamente  s'indriz- 
zassero  i  mezzi  a  questo  fine. 

Si  credette  che  il  conte  di  Sinzendorf,  cancellier  di  Corte,  fosse 
stato  il  principal  autore  del  consiglio  ;  e  furon  mandate  in  Moscovia 

1.  mi . .  .infruttuosa:  è  rimasta  l'allegazione  a  stampa,  che  il  Giannone 
scrisse  per  questa  causa:  Ristretto  della  causa  tra  V illustrissima  signora  mar- 
chesa donna  Cristina  Maurizia  di  Leoncourt  vedova  del  fu  illustrissimo  sign. 
marchese  di  Ballestrino  don  Ottaviano  del  Carretto,  per  una  parte,  e  V illu- 
strissimo sig.  marchese  Domenico  Donato  Carretto  di  lei  figlio  per  l'altra,  s.  n.  t. 
(ma  Vienna  1735).  Una  copia  in  Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti 
Giannone,  mazzo  il,  ins.  4,  PP  (Gìannoniana,  p.  423).  2.  L'elettore  di 
Sassonia  Federico  Augusto  (1679-1733),  succeduto  nel  1697  a  Giovanni 
Sobieski  sul  trono  polacco  con  il  nome  di  Augusto  II,  si  era  spento  tra- 
smettendo il  regno  di  Polonia  e  l'elettorato  di  Sassonia  al  figlio  Federico 
Augusto  (1696-1763);  questi  salì  sul  trono  polacco  con  il  nome  di  Augu- 
sto III.  Vedi  anche  la  nota  2  a  p.  144.  3.  la  primogenita . . .  Giuseppe:  Ma- 
ria Giuseppa  (1699-1757).  4.  Stanislao  Leszczynski  (1677-1766),  già  rivale 
di  Augusto  II,  era  il  suocero  di  Luigi  XV,  che  ne  aveva  sposato  la  figlia 
Maria  (1703-1768).  5.  imperadrice  di  Moscovia:  Anna  Joannovna  (1693- 
1740),  figlia  di  Ivan,  fratello  di  Pietro  il  Grande,  era  zarina  dal  1730. 


CAPITOLO   OTTAVO  227 

grosse  somme  di  denaro,  affinché,  sicome  l'imperadore  sommini- 
strava il  denaro,  così  quella  imperadrice  sormninistxasse  le  truppe. 
Oltre  a  ciò,  tutta  quella  milizia  cesarea  che  potè  unirsi  fu  mandata 
in  Slesia  a'  confini  della  Polonia,  per  accorrere,  in  caso  di  bisogno. 
E  con  tal  occasione  si  manifestò  quanto  fossero  scemate  le  forze 
ed  il  numero  degli  eserciti,  che  pria  si  vantavano  :  poiché  bisognò 
fin  dallo  Stato  di  Milano  far  venire  alcuni  reggimenti,  per  supplire 
al  numero  delle  truppe  destinate  per  Slesia.  Sicché  il  Milanese, 
non  temendosi  d'alcun  insulto,  rimase  esposto  alle  invasioni,  lu- 
singandosi che,  per  conservare  gli  Stati  d'Italia,  bastasse  il  solo 
nome  di  Cesare.  Gli  animi  eran  tutti  rivolti  a'  successi  di  Polonia, 
e  niente  si  pensava  o  temeva  de'  propri  regni  e  domini. 

Intanto,  come  a  spettatori  oziosi,  riguardando  gli  altrui  pericoli, 
non  ci  accorgevamo  degrimminenti  propri  mali  e  sciagure  che  ci 
soprastavano;  e  con  questa  aspettazione,  eravamo  già  entrati  nel- 
l'anno 1733. 

Anno  1733.  Nel  principio  del  quale,  e  molto  più  approssiman- 
dosi la  primavera,  crebbero  i  romori  e  gli  apparecchi  marziali, 
ma  tutti  drizzati  per  la  Polonia,  resasi  già  campo  di  confusioni, 
di  disordini  e  di  guerre,  nommeno  intestine  che  straniere.  Infra 
gli  altri  anch'io  gli  rimirava  come  se  nulla  mi  calessero,  ed  at- 
tendeva a  me  medesimo  ed  a'  miei  studi;  i  quali,  in  questo  nuovo 
anno,  mi  furono  amareggiati  per  i  disgusti,  che  sempre  più  rice- 
veva da  mio  fratello  da  Napoli;  poiché,  fra  l'altre  ingratitudini 
usatemi,  essendosi  affatto  dimenticato  di  quel  figliuolo  che  io  lasciai 
alla  sua  cura,  avendolo  costretto  di  scappar  via  da  Vesti  e  di  riti- 
rarsi a  Napoli,  egli,  come  si  è  detto,  non  volle  riceverlo,  lasciandolo 
a  perir  di  disaggi  e  di  miserie;  onde  fu  d'uopo  che  io,  facendolo  al- 
levare in  altra  casa,  lo  provvedessi  del  bisognevole  e  lo  facessi 
stradare  per  gli  studi,  e  cominciar  da  capo  la  grammatica  e  l'orto- 
grafia e  l'arte  di  scrivere  emendato  e  corretto;  poiché  non  solo 
tutto  ciò  erasi  trascurato,  ma  erasi  fatto  allevare  in  Vesti  da  rustico 
e  selvaggio,  onde,  ancorché  adulto  intorno  a'  diciotto  anni,  non 
avea  ivi  appreso  né  lettere,  né  civili  costumi.1 


1.  non  avea .  . .  costumi:  cfr.  la  lettera  al  fratello  del  2  maggio  1733  (Gian- 
noniana,n.° 504):  «Non  occorre  rinfrescar  più  la  memoria  di  quel  fuggitivo, 
o  scacciato  figliuolo.  Io  ho  qui  bisogno  d'un  giovane  che  abbia  buon  carat- 
tere, per  servirmene  di  scrittore,  e  penso  di  far  allevare  questo  ad  un  per 
me  si  necessario  fine,  né  credo  che  in  ciò  vi  bisogna  gran  talento,  ed  acume  ». 


228  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

Fui  allora  per  togliergli  la  procura  ed  amministrazione,  che  l'a- 
vea  lasciata  della  mia  roba,  e  commetterla  ad  altri  ;  ma  gli  amici  da 
Napoli  mi  avvertirono,  che  sarebbe  stato  lo  stesso  che  rovinarlo, 
senza  che  io  ne  ricavassi  alcun  profitto,  e  che  a*  nostri  invidi  e 
malevoli,  che  non  mancavano,  sarebbe  riuscito  di  lor  diporto  que- 
sta nostra  discordia,  ed  a  me  di  poca  stima.  Fui  vinto  dalle  loro 
esortazioni  e  mi  ritenni,  aspettando  che  il  tempo  forse  cangiasse 
i  costumi,  o  pure  mi  desse  più  opportuna  occasione  di  farlo.  Ed 
essendosi  intanto  avvicinato  il  mese  di  giugno  di  quest'anno  1733, 
si  pensò  di  passare  a  Medeling,  ed  ivi  lontano  dalla  città  e  da 
altre  cure  noiose  di  proseguire  in  quella  solitudine  i  miei  studi: 
sicome  si  fece,  con  animo  di  non  tornare  dalla  campagna  in  città, 
se  non  quando  ne  fussimo  cacciati  da'  rigori  del  freddo. 


vi 

Adunque  seriamente  riflettendo  sopra  il  libro  degli  Evangeli  e 
gli  Atti  di  san  Luca,  e  spezialmente  YEpistole  di  san  Paolo,  che 
avea  sempre  nelle  mani,  compresi  che  l'immutazione  dell'uomo 
dallo  stato  di  natura  in  quello  della  Grazia  consisteva  l'avere  Iddio 
per  infinita  sua  bontà  e  beneficenza  mandato  il  suo  Verbo  nel 
mondo,  ad  assumer  carne  umana  nell'utero  d'una  vergine  ebrea, 
che  lo  concepì  senza  ministero  d'uomo  terreno,  ma  di  spirito  di- 
vino, affinché  questo  Messo,  uomo  insieme  e  Dio,  conversando 
fra  gli  uomini  gli  fosse  di  lume  e  scorta,  additandogli  la  vera  e  si- 
cura strada,  onde  da  terreni  e  mortali  potessero  rendersi  immortali  e 
celesti:  questi  essere  il  solo  ed  unico  mediatore,  che  potesse  con- 
ciliar l'uomo  con  Dio  ;  e  chi  l'udiva  e  facea  quanto  Egli  l'avrebbe 
prescritto  e  commandato,  stesse  pur  sicuro  che,  ancorché  morto, 
sarebbe  risorto  ed  immutato,1  e  fatto  coerede  del  Padre  e  partecipe 
del  Regno  celeste.  All'incontro,  coloro  i  quali  non  lo  credevano,  o 
credendolo  trasgredivano  i  suoi  precetti  e  commandamenti,  sa- 
rebbero si  bene  risuscitati,  ma  non  immutati  in  celesti;  anzi  come 
terreni  sterpi  o  tronchi  sarebbero  gettati  nel  fuoco,  ad  ardere 
perpetuamente.  Iddio  averlo  mandato  per  ridimere  l'uman  genere 
dal  peccato  ond'era  absorto,  e  che  sicome2  tutti  in  Adamo  pecca- 
rono, così  tutti  in  Cristo  si  sarebbero  giustificati;  e  sicome  per 

i.  immutato:  mutato,  cambiato.  È  latinismo,  da  immuto.  Cfr.  /  Cor.,  15, 
51-2.     2.  che  sicome  ecc.:  cfr.  Rom.,  5,  12  sgg. 


CAPITOLO   OTTAVO  229 

Adamo  era  entrato  nel  mondo  il  peccato,  e  pe  '1  peccato  la  morte, 
cosi  per  Cristo  la  giustificazione,  e  per  lei  la  vita  celeste  ed  eterna. 
E  poiché  tutto  ciò  dipendeva  da  gratuita  e  divina  beneficenza, 
quindi  questo  secondo  stato  dovea  riputarsi  di  Grazia  che  rendeva 
l'uomo  da  terreno,  celeste.  L'uomo  erasi  perduto,  l'uomo  dovea 
salvarsi;  e  per  ciò,  la  resurezione  della  carne  dovea  precedere  alla 
vita  eterna,  non  potendosi  concepir  l'uomo  senza  colpa,  compo- 
nendosi come  sue  parti  intrinseche  ed  essenziali,  non  men  del- 
l'anima che  del  corpo.  Quindi  san  Paolo  inculcava1  tanto  il  punto 
della  resurezione  de'  corpi  contro  coloro  che  non  volevan  crederla, 
dicendo  che  se  negavano  la  resurezione  era  vana  ogni  lor  cre- 
denza, invano  si  affaticavan  cotanto,  ed  era  delusa  ogni  loro  spe- 
ranza; ma  tenesser  per  fermo  e  costante  che,  sicome  Cristo  risu- 
scitò, così  dovean  risorger  tutti  coloro  che  in  lui  credettero;  e  per 
ciò  era  detto,  che  fosse  il  «primogenito  dei  morti»,  poiché  egli  fu 
il  primo  a  risorgere,  e  poi  visitando  le  tombe  de'  Padri  fece  risor- 
gere anche  tutti  quelli,  che  seco  condusse  nel  celeste  regno. 

Questo  era  il  punto  principale,  sopra  il  quale  dovea  egli  combat- 
tere co'  Gentili,  i  quali,  sentendolo  inculcar  tanto  la  resurezione 
de'  morti,  se  ne  burlavano,  come  coloro  che  non  potevano  indursi 
a  credere  che  i  corpi  morti  potessero  di  nuovo  tornar  in  vita,  e 
negavano  la  resurezione  di  Cristo.  E  pur  Cristo  risurse  ed  ascese 
al  Padre  in  corpo  ed  anima,  vedendolo  co'  propri  occhi  gli  Appo- 
stoli, i  quali  mangiaron  seco,  lo  palparono  e  toccarono  le  cicatrici 
delle  piaghe  sofferte,  e  che  avea  carne  ed  ossa,  come  l'ebbe  prima 
d'esser  posto  in  croce  e  morto.  Quindi  i  primi  Padri  della  Chiesa, 
Atenagora,3  Tertulliano  ed  altri  combattevano  contro  i  Gentili  ed 
eretici  de'  loro  tempi,  scovrendo  i  di  loro  errori,  ne'  quali  erano 
non  credendo  alla  resurrezione,  ch'era  lo  stesso  che  render  vana 
ogni  lor  fede  e  speranza;  e  Tertulliano  non  inculcava  altro  a'  Cri- 
stiani, che  la  lor  fiducia  era  riposta  nella  resurezione,  dicendo:  «re- 
surrectio  mortuorum  fiducia  Christianorum».3  E  sant'Agostino 
solea  per  ciò  dire  che,  togliendosi  la  resurezione,  cade  e  va  a  terra 
tutta  la  religione  de'  Cristiani:  «tolle  resurrectionem  mortuorum, 
tolles  religionem  Christianorum».4 

I.  san  Paolo  inculcava:  cfr.  I  Cor.t  15.  2.  Atenagora  fu  un  apologista  e  fi- 
losofo cristiano  di  Atene,  vissuto  nel  II  secolo.  Scrisse  un  trattato  Sulla 
resurrezione  dei  morti.  3.  «resurrectio  . . .  Christianorum  »  :  cfr.  Tertulliano, 
Liber  de  resurrectione  carnis,  in  Migne,  P.  L.,  il,  col.  841.     4.  Cfr.  Triregno, 

II,  Del  Regno  celeste}  p.  82. 


230  VITA   DI   PIETRO   GIANNONE 

Gli  uomini  adunque  mortali  e  terreni  saranno  resuscitati  e  ri- 
dotti in  quello  stato  nel  qual  erano  prima  di  morire,  e  saranno 
resi  eterni  ed  immortali;  ma  con  disugual  sorte:  coloro  che  cre- 
dendo in  Cristo  adempiranno  i  suoi  precetti  e  commandamenti 
saranno  immutati,  e  da  terreni  saran  resi  celesti,  godendo  con  Cri- 
sto (che  fattigli  suoi  fratelli,  gli  rese  coeredi  del  regno  del  Padre) 
una  vita  beata  e  gioconda,  non  soggetta  a  morte;  quelli  che  in 
loro  vita  non  dieder  frutto  di  buone  opere,  come  inutili  spine  e 
triboli  e  come  gl'infruttuosi  oleastri  saran  gettati  nel  fuoco,  ad 
essere  arsi  da  fiamme  inestinguibili.  Per  far  acquisto  d'un  tanto 
regno,  bisogna  all'uomo  che,  nella  mortai  sua  vita,  non  pur  creda 
in  Cristo,  ma  osservi  le  sante  sue  leggi,  dov'è  insegnata  una  per- 
fetta morale,  ed  adatti  i  suoi  costumi  ad  una  perfezione,  quanto 
più  si  possa,  eminente. 

In  quanto  alla  credenza,  fa  d'uopo  che  confessi  esservi  un  Dio, 
creatore  del  cielo  e  della  terra,  di  tutte  le  cose  visibili  ed  invisibili; 
che  questo  Dio  mandò  il  Verbo  suo  figliuolo  in  terra  a  prender 
carne  umana,  il  qual  fattosi  uomo  insegnò  all'uman  genere  la 
strada  di  sua  salute:  questi  essere  il  suo  Messo  ed  il  solo  mediatore 
tra  Dio  e  l'uomo;  aver  questi  sofferto  per  noi  e  per  la  nostra  salute, 
passione  e  morte;  che  trionfando  della  morte  risuscitò,  e  visitando 
le  tombe  de'  Padri,  gli  ridusse  in  vita  e  seco  condusse  nel  celeste 
Regno;  che  lo  stesso  farà  di  tutti  gli  altri  morti  nel  giorno  novissimo, 
nel  quale,  risorti,  saranno  giudicati  e  secondo  le  di  loro  opere,  i 
giusti  ed  eletti  saran  condotti  nel  Regno  celeste,  ed  i  reprobi  e 
malvagi  precipitati  nel  Tartaro.  E  sicome  la  credenza  che  vuole 
che  si  abbia  in  lui  è  tutta  schietta,  semplice  e  pura,  della  quale  ne 
fosse  capace  ogni  rustico  villano  e  ogni  rozza  e  vile  feminetta,  così 
i  riti  che  ci  lasciò  furon  pochi,  semplici  e  schietti,  niente  operosi, 
non  sacrifici  cruenti,  non  multipli,  non  pomposi,  non  magichi. 
Egli  non  pretese  dagli  uomini  se  non  un  cuor  puro,  umiliato  e  con- 
trito ;  la  sua  religione  la  fondò  sopra  la  carità,  che  ciascuno  deve, 
doppo  Dio,  al  suo  prossimo.  In  lui  cessarono  li  tanti  appariscenti 
riti  ed  operose  cerimonie  degli  Ebrei,  poiché  il  fine  della  legge  non 
riguardava  un  regno  mondano  e  sensibile,  ma  un  altro  più  subli- 
me, spirituale  e  celeste. 

Voleva  gli  uomini  solleciti  e  pien  di  zelo  nell'amore  e  carità 
verso  di  Dio  ed  il  prossimo,  donde  pendevan  le  leggi  ed  i  profeti. 
Questo  dovea  essere  il  principal  lor  sforzo  e  l'unico  scuopo,  dove 


CAPITOLO   OTTAVO  231 

doveano  indrizzare  tutte  le  loro  opere,  i  lor  pensieri  e  lor  parole. 
Serbare  i  divini  commandamenti,  esser  casti,  sobri,  moderati,  umi- 
li, pazienti,  benefici,  misericordiosi:  in  breve,  non  far  ad  altri  ciò 
che  per  te  non  vuoi,  e  far  al  tuo  prossimo  quel  che  per  te  vorresti 
che  altri  facesse.1  E  tutto  ciò  operare  essendo  in  questa  mortai 
vita;  né  dopo  morto,  sperare  che  tu  o  altri  potesse  giovarti.  «Men- 
tre siam  vivi»  -  dicea  saviamente  David  -  «possiamo  lodarti,  o 
Signore,  ed  operare  secondo  la  tua  legge,  ma  nel  sepolcro,  essen- 
do morti,  non  potremo  più  lodarti,  né  oprare,  immersi  in  profondo 
e  tenebroso  sonno,  cosa  che  possa  piacerti».3  E  poiché  essendo 
vivi  e  terreni  in  questa  mortai  vita  dovemo  ingegnarci  esser  mondi 
e  perfetti,  per  esser  meritevoli  del  Regno  celeste;  ed  all'incontro, 
essendo  quasi  che  impossibile  «  in  tot  humanis  erroribus,  sola  in- 
nocentia  vivere»,3  quindi  il  nostro  buon  Redentore  ci  lasciò  rimedi 
ed  ammaestramenti  così  efficaci  e  salutiferi,  che  ricorrendo  a  lui, 
ci  offre  pronto  rimedio  ed  aiuto,  volentieri  aprendo  le  sue  pietose 
braccia  a  chi  a  lui  si  rivolge;  e  ci  lasciò  fino  la  forinola,  colla  quale, 
indrizzando  le  nostre  orazioni  al  Padre,  dobbiamo  pregarlo,  perché 
ci  rimetta  i  nostri  difetti,  e  ci  allontani  dalle  tentazioni,  e  ci  liberi 
da'  mali  e  dalla  contagione  di  questo  presente  mondo. 

Scorsi  da  questi  sacri  libri  questa  essere  in  breve  la  somma  delle 
cose,  e  qui  consistere  la  perfezione  d'un  vero  cristiano;  e  queste 
essere  le  vere  massime  e  la  sana  dottrina  che  illumina  le  nostre 
menti,  e  la  vera  strada  che  conduce  alla  nostra  salute.  Saper  que- 
sto, dicea  Tertulliano,4  esser  il  vero  sapere;  tutto  il  rimanente, 
che  non  conduce  a  questo  fine,  meglio  sarà  ignorarlo,  che  andargli 
dietro,  investigando  ciò  che,  doppo  mille  ricerche,  ne  sapremo 
meno  che  prima.  A  questo  fine  inculcava  san  Paolo5  che  si  fossero 
sfuggite  le  contenzioni  e  le  vane  curiosità  e  ricerche  di  cose  super- 
flue ed  inutili,  che  niente  conducono  alla  nostra  salute.  E  sant'Ago- 
stino diceva6  che  in  tali  questioni,  per  lo  più  astratte  e  metafisiche, 


1.  non  far  . .  .facesse:  cfr.  Toè.,4, 15;  Matth.y'j,  12;  Lue,  6, 31.  2.  «  Men- 
tre .  ,  .piacerti y>:  cfr.  Psalm.,  113,  17-8:  «Non  mortili  taudabunt  te,  Do- 
mine, /  neque  omnes  qui  descendunt  in  infernum;  /  sed  nos,  qui  vivimus, 
benedicimus  Domino  /  ex  hoc  nunc  et  usque  in  saeculum».  Il  Giannone 
cita  a  memoria.  3.  «z«  tot .  .  .  vivere»:  cfr.  Livio,  il,  3,  4:  «periculosum 
esse  in  tot  humanis  erroribus  sola  innocentia  vivere  ».  4.  dicea  Tertullia- 
no: nel  Liber  de  praescritìonibusì  cit.,  vii.  5.  san  Paolo:  cfr.  Col.,  2,  8; 
I  Tim.,  1,  3-4;  6,  4;  II  Tim.,  4,  3-4.  6.  san? Agostino  diceva:  cfr.  l'epi- 
stola cxcvii,   Hesychio  Salonitano   episcopo,  de  die  supremo  mundi  non 


23^  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

nelle  quali  l'ingegno  umano  si  sforza  di  saper  ciò  che  nulla  rilieva 
né  alla  credenza,  né  alla  norma  de*  costumi,  meglio  sarà  confessare 
la  propria  ignoranza,  che  andar  inutilmente  lambiccandosi  il  cer- 
vello, vaneggiando  sopra  ciò  che  Iddio  non  ha  voluto  rivelarci,  e 
che  l'uomo  sapesse. 

Saviamente  per  ciò  ammoniva  Eusebio,  vescovo  di  Cesarea,  che 
Iddio  ha  per  mezzo  del  suo  Verbo  rivelato  all'uomo  ciò  che  fosse 
bastante  per  la  sua  salute;  e  per  ciò  non  doversi  ricercar  altro;1 
che  se  fosse  altrimenti,  bisognarebbe  dire  che  ci  avesse  lasciata 
mozza  la  sua  legge,  ed  i  suoi  precetti  fossero  difettosi  e  mancanti  : 
sicché  fosse  stato  bisogno  di  venir  altri  a  supplirne  il  difetto.  Que- 
sta sarebbe  un'empia  bestemmia,  e  riputar  la  divina  Sapienza  mon- 
dana ed  imperfetta,  e  che  per  suo  difetto  lasciasse  perire  tanti,  i 
quali  prima  non  ne  erano  istrutti.  Quanto  bisognava  per  la  nostra 
salute  -  dice  Eusebio  -  fu  a  noi  tramandato  per  le  divine  Scritture, 
che  contengono  l'intiera  e  solida  credenza  che  l'uom  dee  avere,  e 
la  vera  regola  de'  costumi,  alla  quale  dee  attenersi,  per  essere  im- 
mutato, e,  da  terreno  farsi  degno  d'un  regno  celeste.  «(Lattanzio 
Firmiano,2  per  ciò,  nelle  sue  Divine  in$titiizioni>  insegnava  che 
Iddio  «ea  sola  scire  nos  voluit  quae  interfuit  hominem  scire  ad 
vitam  consequendam»>.3 

Da  ciò  compresi  altre  verità,  fin  qui  a  me  ignote;  e  mi  avvidi 
quanto  in  vano  si  travagliassero  gli  uomini  sopra  inutili  ricerche 
ed  intorno  a  studi  vani,  i  quali  non  han  altro  sostegno,  che  le 
proprie  e  singolari  opinioni  umane  ;  le  quali,  essendo  varie,  poiché 
gli  uomini  per  natura  sono  portati  a  dissentir  fra  di  loro,  han  ca- 
gionato tante  confusioni,  e  ridottigli  miseramente  ad  occupazioni 
vane,  e  a  disputar  di  cose,  che  ne  sapran  tanto  meno,  quanto  più 
si  saranno  affaticati  di  saperle. 

Compresi  eziandio,  ed  in  più  chiara  luce  mirai  l'aspetto  delle 
mondane  vicende,  che  si  vider  dapoi  sopra  la  terra;  ed  a  questi 
studi  accoppiando  quelli  che  io  avea  fatti  de'  tempi  men  a  noi 
rimoti,  vidi  con  istupore,  come  sopra  tali  fondamenti  d'una  reli- 


inquirendo,  degue  Hebdomadibus  Danielis,  in  Migne,  P.  L.,  n,  coli.  899  sgg. 
1.  Saviamente  .  . .  altro:  cfr.  De  fide  adversus  Sabellium,  in  Migne,  P.  G.f 
vi,  coli.  1059-70.  2.  Lattanzio . . .  consequendam:  cfr.  Div.  Inst.,  11,  8,  70-1 
(«  quelle  sole  cose  volle  che  noi  conoscessimo,  che  importava  che  l'uomo 
sapesse  per  conseguire  la  retta  vita»);  Lattanzio  Firmiano  (secolo  III-IV 
dell'Era  volgare),  apologista  cristiano,  di  origine  africana. 


CAPITOLO    OTTAVO  233 

gione  sì  schietta,  umile  e  spazzatrice  di  cose  terrene,  si  avesse 
dapoi  potuto  innalzare  una  macchina  cotanto  sublime  e  vasta, 
quanto  niun'altra  religione  del  mondo,  ancorché  mondana,  e  che 
non  avea  altro  fine  che  felicità  terrene,  potè  aspirarvi,  non  che  giun- 
gervi o  pareggiarla.  E  dall'istoria  de*  tempi  che  a  Costantino  Magno 
seguirono,  facilmente  ne  compresi  le  occasioni  ed  origini;  sicome 
ciascuno  potrà  comprenderle,  riguardando  che,  insegnata  ed  am- 
ministrata questa  nuova  religione  dagli  uomini  infra  gli  altri  uo- 
mini, i  quali  da  amministratori  e  depositari  fattisi  credere  pa- 
droni e  signori,  e  dall'esposizioni  ed  esortazioni  passando  poi  a 
stabilir  leggi,  ridotta  nella  lor  mano  la  norma  del  giusto  e  dell'e- 
quo, e  di  bilanciare  le  azioni  umane  qualificandole  a  lor  arbitrio 
ora  lecite,  ora  illecite,  dieder  in  que'  secoli  incolti  a  credere  alla 
semplice  ed  imperita  moltitudine,  che  in  lor  balìa  fosse  chiu- 
dere ed  aprir  le  porte  del  celeste  Regno;  quindi  avvenne  che 
invece  d'un  regno  celeste,  si  fabbricasser  essi  in  terra  un  nuovo 
regno  terreno,  a  gli  antichi  affatto  incognito  e  sconosciuto;  poiché, 
surto  dapoi  ed  innalzato  fra  questi  ministri  e  dispensatori  uno 
che,  riducendo  gli  altri  da  fratelli  e  compagni  del  suo  ministero, 
a  suoi  propri  ministri  e  servidori,  potè  stabilire  il  nuovo  regno 
papale,  sopra  le  spoglie  degli  altri  vescovi;  ma  più  sopra  l'igno- 
ranza de'  principi  e  semplicità  de*  popoli;  e  con  tanto  maggior 
successo,  quanto  che  gli  uomini  persuasi  dalle  novelle  dottrine, 
sparse  a  questo  fine,  che  le  cose  temporali  potessero  cambiarsi 
colle  spirituali,  e  le  ricchezze  facilitassero  l'acquisto  del  regno  ce- 
leste, e  che  le  donazioni,  i  legati  ed  eredità  lasciate  alle  chiese 
materiali  valessero  a  ridimere  le  loro  anime  da'  peccati  e  farle  vo- 
lare in  Cielo,  aprirono  questa  nuova,  facile  e  piana  strada,  massi- 
mamente a'  facoltosi  e  potenti;  ed  a  riguardo  di  tutti  gli  altri  addi- 
tarono cammini  più  facili  d'esteriori  riti  e  cerimonie,  di  pellegri- 
naggi, di  particolari  divozioni  a'  santi,  di  novene  ed  altre  tante 
vane  superstizioni,  le  quali,  adoperandole,  gli  rendesser  sicuri  del- 
la lor  salute. 

Donde  ne  seguirono  due  cose,  le  quali,  sicome  rovesciarono  la 
vera  religione  da  Cristo  insegnataci,  così  stabilirono  meglio  il  re- 
gno papale.  La  prima,  che  si  vide  ridotta  la  nostra  religione  ad 
un'arte  meccanica  e  puramente  estrinseca;  poiché,  con  mover  li 
labbri  a  formar  certe  parole,  ancorché  non  si  capisse  il  senso,  col 
battersi  co'  pugni  il  petto,  con  movere  piedi,  andando  alle  visite 


234  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

delle  chiese,  o  ne'  pellegrinaggi  a'  santuari,  con  intinger  la  fronte 
d'acqua  lustrale,  con  baciar  reliquie  e  portare  addosso  scapulari  ed 
amuleti,  con  accender  lampadi  e  candele  avanti  le  immagini  de' 
santi,  e  tanti  altri  atti  estrinseci,  crediamo  aver  saldato  con  Dio 
ogni  conto,  ed  esserci  assicurati  della  nostra  salute.  La  seconda, 
che  non  contenti  d'aver  quei  pochi,  semplici  e  schietti  riti,  affin 
d'introdurne  de'  nuovi,  multiplici,  pomposi  ed  operosi,  siasi  ri- 
corso a  prenderne  altri,  non  pur  dagli  Ebrei,  ma  da'  Gentili  stessi  ; 
e  con  ciò  aver  resa  la  religione  tutta  pagana  ed  estrinseca:  anzi 
d'aver  superati  i  pagani  istessi  ne'  superbi  e  magnifici  tempii, 
negli  altari,  nelle  pompose  vesti,  ne'  ricchi  vasi  ed  arnesi,  nelle 
statue  ed  in  altre  tante  nuove  ed  operose  cerimonie;  e  chi  ne  farà 
paragone  con  la  religione  degli  Egizi,  de'  Greci  e  Romani,  anzi 
di  tutte  le  religioni  del  mondo  delle  quali  è  rimasa  a  noi  notizia, 
ch'ebber  tante  e  sì  innumerabili  nazioni  che  abitaron  la  terra, 
troverà  che  la  cristiana,  e  per  il  numero  e  varie  divise  de'  sacrifi- 
canti, e  per  la  multiplicità,  apparato,  magnificenza  e  pomposità  de* 
riti,  sia  di  gran  lunga  a  tutte  superiore,  anche  paragonandola  con 
tutte  l'altre  unite  insieme:  sicché  non  pur  abbiam  fatto  ritorno 
all'antico  gentilesimo,  ma  di  gran  lunga  l'abbiam  superato;  ed  i 
popoli  son  divenuti  già  tutti  pagani  e  superstiziosi,  assai  più  che 
non  eran  i  Gentili. 

Ma  ciò  che  apprestò  materia  più  atta  all'innalzamento  d'un  sì 
nuovo  imperio  sopra  i  regni  e  domìni  de'  principi  fu  la  lor  tra- 
scuragine  ed  ignoranza  di  que'  secoli  incolti,  di  non  fargli  accorti, 
che  per  le  nuove  massime  e  dottrine  si  tentava  stabilire  ne'  loro 
imperi  un  altro  imperio,  che  non  pur  scemasse  e  corrodesse  i  pro- 
pri, ma  se  gli  rendesse  soggetti,  e  finalmente  l'assorbisse  in  tutto  ; 
sicome  già  gli  tolse  quasi  la  metà  de'  sudditi,  sottraendoli  dalla  lor 
giurisdizione  e  sottoponendogli  alla  propria,  rendendogli  franchi  ed 
immuni  de'  pubblici  pesi,  non  sol  per  ciò  che  riguarda  le  persone, 
ma  anche  i  loro  beni;  e  quando  Iddio  avea  riposto  nelle  mani  de' 
principi  la  giustizia  ed  il  giudizio,  se  le  vider  togliere,  e  la  norma 
del  giusto  e  del  lecito  passare  in  altrui  mano;  sicché  altri  regolasse 
la  giustizia  ne'  contratti,  ne'  giudici,  ne'  testamenti  ed  in  tutte 
l'altre  umane  faccende;  onde  si  vider  sorgere  ne'  loro  propri  do- 
mìni nuovi  tribunali,  nuove  leggi  e  nuovi  istituti. 

E  ben  poteano  accorgersi  che  l'intento  era  di  spogliargli  affatto 
di  tutti  i  loro  reali  diritti  e  sovrane  preminenze;  giacché  alla  sve- 


CAPITOLO   OTTAVO  235 

lata1  fin  nelle  medaglie  a  questo  nuovo  principe  se  gli  dava  il 
titolo  di  re  e  di  monarca  della  repubblica  cristiana,  di  principe 
supremo  ;  che  di  lui  s'intendesse  di  dover  dominare  tutta  la  terra, 
dalPun  mare  all'altro;  e  che  egli  dovrebbe  ridurre  in  un  ovile 
tutto  l'uman  gregge,  e  divenire  unico  e  sol  pastore;  ed  infine  non 
s'isdegnava  il  titolo  di  «vice-Dio»,  né  si  reputava  bestemmia;  anzi 
era  applaudito  e  caramente  accolto  ed  inteso,  quando  s'udiva  e  si 
leggeva  nelle  pubbliche  tesi  e  ne*  frontispizi  de'  libri  stampati. 
Importava  poco  che  a  questo  intento  vi  repugnasse  tutto,  non 
men  l'antico  che  il  nuovo  Testamento,  e  tutta  la  divina  tradizione. 
Potea,  a  sua  posta,  gridar  quanto  si  volesse  Giob  :  «  Quis  constituit 
super  terram,  aut  quis  posuit  super  orbem,  quem fabricatus  est?».2 
Ecco  che  il  papa  dovea  essere  costituito  da  Dio  sopra  la  terra, 
per  reggerla  ed  esserne  suo  vicario  e  vice-Dio.  Esclami  pur  ed 
altamente  si  protesti  il  nostro  buon  Redentore,  che  il  regno  suo, 
che  venne  a  rivelare  ed  a  promettere  all'uman  genere,  non  era  di 
questo  mondo.  Canti  eziandio  ne'  suoi  inni  la  Chiesa  istessa,  che 
egli  non  venne  in  terra  a  toglier  a'  re  gl'imperi  lor  terreni  e  mor- 
tali, ma  a  dar  agli  uomini  regni  immortali  e  celesti;  che  i  principi, 
come  se  niente  loro  importasse  vedersi  costituito  in  terra  un  vice- 
Dio,  che  gli  corroda  i  loro  regni  e  dentro  i  loro  imperi  stabilisca 
un  altro  imperio,  illusi  dalle  nuove  dottrine,  che  <ancorché  empi 
e  malvagi>,  salderebbero  con  Dio  ogni  conto  commutando  le  cose 
temporali  colle  spirituali,  volentieri  si  lasciaron  lusingare,  apren- 
dosi così  questa  facile  e  sicura  strada  di  acquistare,  col  prezzo  del 
terreno,  un  regno  spirituale  e  celeste. 

Bisognava  però  a'  principi  per  quietar  meglio  le  loro  coscienze 
e  non  esporre  gli  uomini  ragionevoli,  a  cui  Dio  provvide  di  sano 
intelletto  e  diritto  discorso,  alle  persecuzioni,  a'  martìri  ed  alli 
strazi,  che  non  men  il  papa  ne'  suoi,  ch'essi  ne'  loro  Stati  facessero 
ogni  sforzo  e  ponessero  ogni  studio  di  far  abbolire,  brugiare,  ed 
affatto  estinguere  ogni  memoria  degli  Evangeli  di  Cristo,  degli 
Atti  degli  Apostoli,  dell'  Epistole  di  san  Paolo,  e  di  quanto  è  com- 
preso ne'  libri  del  nuovo  Testamento;  e  ciò  nemmeno  basta.  Bi- 
sognava cancellar  ogni  memoria  di  quanto  da'  Padri  vecchi  erasi 
scritto  intorno  all'antica  disciplina  della  Chiesa;  in  breve,  quanto 
da  una  sincera  e  fedele  istoria  ecclesiastica  è  stato  a  noi  tramandato. 

1.  alla  svelata:  palesemente.  2.  «Quìs  .  . .  est?»:  citazione  a  memoria  di 
Iob,  34,  13,  che  ha:  «  quem  constituit  alium . . .  aut  quem  posuit»  ecc. 


336  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

Non  bastava  essersi  insegnate  nuove  dottrine,  disseminate  altre 
massime  e  fatti  nuovi  Evangeli:  bisognava  estinguere  quelli  di 
Cristo;  poiché  sempre  che  questi  rimangono,  altro  ora  non  si  fa, 
che  metter  gli  uomini  in  una  perpetua  confusione,  e  pretender  da' 
medesimi  che  si  abbino  a  storcere  il  cervello  e  perdere  ogni  di- 
ritto discorso,  con  fargli  divenire  peggiori  di  bruti  ;  e  di  vantaggio 
non  volendo  abusarsi  del  loro  lume  e  naturai  discorso,  esporgli  a 
persecuzioni,  a  ruine  e  calamitosi  pericoli.  Bruggiati  che  fossero 
gli  antichi  sacri  libri  e  spenta  di  lor  ogni  memoria,  si  vedrebber 
gli  uomini  in  calma,  ed  adatterebbero  la  lor  mente  alle  nuove 
dottrine  ed  al  nuovo  sistema,  che  si  vuole  che  oggi  si  abbia  della 
religione  cristiana. 

Narra  Livio,1  che  doppo  cinquecento  anni  dalla  morte  di  Numa 
Pompilio  furon  scavate  vicino  Roma  due  casse  di  pietra.  In  una 
eravi  stato  riposto  il  corpo  di  Numa,  che  dal  tempo  si  trovò  tutto 
consunto;  e  nell'altra  eranvi  riposti  alcuni  libri  lasciati  da  Numa, 
ne'  quali  trattavasi  dell'antico  ius  pontificio  e  della  sapienza  degli 
antichi.  Letti  che  furono  dal  pretore  urbano,  questi  riferì  al  Se- 
nato che  doveano  bruggiarsi,  poiché  la  lor  dottrina  rovesciava  le 
religioni  che  si  professavan  allora  in  Roma;  poiché  Numa,  che  fu  il 
primo  ivi  a  stabilirla,  fu  contento  di  pochi  dii,  di  pochi  ministri, 
di  pochi  riti  semplici  e  schietti;  e  Livio  stesso  ci  assicura,  che  in 
Roma  prima  si  prestava  culto  a'  propri  dii  «pie  magis  quam  magni- 
fice  »  f  ma  che  dapoi  fu  invasa  di  tante  peregrine  religioni  e  di  tanti 
sacrificuli,  di  tanti  pomposi  e  nuovi  riti  e  multiplici  cerimonie, 
che  sovente  bisognò  al  Senato  metterci  argine;  e  Porcio  Catone, 
in  una  sua  orazione  rapportata  da  Livio,3  si  duole  che  il  lusso  del- 
l'Asia e  della  Grecia  avea  penetrato  e  corrotto  fino  l'antica  reli- 
gione de'  Romani,  e  che  trasportate  da  Siracusa  e  dalla  Grecia  le 
statue  di  tanti  nuovi  dii,  con  mirabil  magistero  ed  arte  scolpite  in 
finissimi  marmi,  in  bronzo  0  altro  eletto  metallo,  avean  cagionato 
che  a'  suoi  dì  i  Romani  si  burlavano  e  deridevano  i  loro  antichi  dii, 
rozzamente  fatti  di  creta  0  di  legno,  facendone  beffe  e  brutti 
scherni  ;  ma  ch'egli  più  tosto  voleva  che  questi  gli  fosser  propizi, 
che  i  nuovi  e  peregrini.  Quindi  il  Senato,  su  la  fede  del  pretore, 
comandò  che  i  libri  di  Numa  trovati,  per  i  quali  venivano  a  sov- 
vertirsi le  religioni  che  si  professavan  allora  in  Roma  e  con  ciò  a 

1.  Narra  Livio:  cfr.  xl,  29.     2.  «  pie  . .  .  magnifice»:  «con  maggior  pietà  che 
magnificenza».     3.  Porcio  .  .  .  Livio:  cfr.  Livio,  xxxiv,  4. 


CAPITOLO    OTTAVO  237 

porsi  in  iscompiglio  la  città,  si  fossero  nel  cospetto  del  popolo 
bruggiati;  sicome  da'  vittimari,1  acceso  un  gran  fuoco  nel  comizio, 
ci  furon  gettati  dentro  e  consumati  ed  arsi. 

Lo  stesso  bisognerebbe  far  de'  nostri  antichi  libri  sacri,  affinché, 
togliendosene  ogni  memoria,  gli  uomini  potessero  accornmodarsi 
alle  nuove  dottrine  e  sistemi:  altrimenti,  rimanendo,  non  potran 
loro  apportare  se  non  confusioni,  e  costringergli  a  far  forza  a* 
loro  intelletti  di  altrimente  pensare,  e  torcere  i  lor  discorsi  contro 
ciò  che  la  natura,  la  ragione,  l'esperienza  ed  il  comun  senso  gli 
guida  e  detta:  cosa,  alla  quale  non  arrivarono  i  più  crudeli  e  spietati 
tiranni,  che  avesse  avuto  il  mondo  giammai. 

In  questi  studi,  e  fra  tali  considerazioni  passando  in  solitudine 
i  mesi  della  mia  villeggiatura,  istruiva  me  stesso,  drizzandogli  uni- 
camente per  essere  di  norma  così  nella  credenza,  come  ne'  costumi 
al  mio  esser  d'uomo  interiore;  non  tralasciando,  per  ciò  che  riguarda 
all'esteriore,  di  conformarmi  a  tutto  ciò  che  la  prudenza  umana 
dettavami  dover  praticare,  conversando  con  gli  altri,  essendo  nella 
loro  società  civile,  non  dando  ad  alcuno  occasione  di  scandalo, 
ovvero  turbando  in  minima  cosa  l'ordine  della  repubblica.2  Né  io, 
così  ne'  miei  discorsi  come  nelle  opere  da  me  date  alla  luce,  en- 
trai a  disputar  di  cose  che  appartenessero  a'  punti  capitali  di  nostra 
religione,  né  pretesi  mai  di  fare  in  ciò  il  censore  o  riformatore. 

Nella  mia  Istoria  civile  e  nell'Apologia,  che  fui  costretto  a  dar 
fuori,  non  ebbi  altro  scuopo  che  di  manifestare  e  porre  in  più 
chiara  luce  i  confini  che  framezzano  tra  l'imperio  e  il  sacerdozio  ; 
affinché,  resigli  più  apparenti  e  chiari,  ciascuno  potesse  accorgersi 
delle  sorprese  che  eransi  fatte  dal  sacerdozio  sopra  la  potestà  de' 
principi,  e  quanto  da  ciò  fossesi  scemato  al  loro  imperio,  che  Iddio 
glielo  diede  sovrano,  intero  e  perfetto  sopra  i  di  loro  Stati,  per 
governar  essi  e  non  altri,  i  loro  sudditi;  e  trattando  del  regno  di 
Napoli,  dove  si  tentava  ridurre  le  cose  fino  all'ultima  estremità, 
per  interamente  assorbirlo,  ebbi  più  occasioni  d'avvertirne  i  sot- 
tili artifìci,  de  additare  i  fonti  onde  tanti  mali  e  disordini  prove- 
nivano. E  pure  tutto  ciò  e  l'aver  sacrificato  la  mia  vita,  i  miei 
studi  e  i  miei  pochi  talenti  da  Dio  concessimi,  niente  giovommi, 
per  acquistarne  una  valida  lor  protezione;  né  pure  per  potermi 
sottrarre  dalle  umane  necessità,  e  vivere  sicuro  in  qualche  angolo 

1.  vittimari:  sacerdoti  addetti  alle  vittime.    2.  repubblica:  nel  senso  latino 
originario  di  «  cosa  pubblica  ». 


238  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

della  terra;  anzi  il  duro  mio  destino  me  gli  rivolse  in  contrario,  e 
fece  che  io  gli  sperimentassi  sdegnati  ed  avversi;  sicome  dal  rima- 
nente di  questa  dolente  istoria  ciascuno  vedrà.  La  quale,  se  mai 
avrà  la  sorte  d'essere  posta  sotto  i  loro  occhi,  sicome  trarrà  loro 
qualche  lagrima,  così  spero  che  da'  loro  animi  trarrà  sensi  di  pietà 
e  compassione. 

Fu  continuata  la  villeggiatura  di  quest'anno  fino  a'  princìpi  di 
ottobre;  né  ebbi  occasione  di  condurmi  in  città,  se  non  qualche 
volta,  sollecitato  dalla  marchesa  di  Balastrino1  ad  intervenire  in 
alcune  sessioni,  che  si  tenevano  avanti  due  consiglieri  del  Consiglio 
Imperiale  Aulico,  a  fine  di  comporre,  con  amichevole  accordo,  la 
lite  che  avea  col  marchese  suo  figlio. 

Ed  in  Vienna  i  pubblici  discorsi  non  si  raggiravano  che  sopra  le 
cose  di  Polonia;  e  nella  mia  lunga  dimora  in  Medeling,  trovandosi 
ancor  ivi  a  villeggiare  il  conte  di  Montesanto,  presidente  del  Con- 
siglio di  Spagna,  ed  il  conte  di  Sifuentes,  suo  fratello,  i  quali  spesso 
eran  da  me  visitati,  non  si  parlava  che  de'  successi  vari  accaduti 
in  quel  regno,  ora  a  prò  del  Sassone,  ora  di  Stanislao,2  senza  che 
punto  si  temesse  dalla  Francia  d'improvisa  invasione  ne'  Stati  pro- 
pri dell'imperadore;  e  pure  il  conte  di  Montesanto,  come  presi- 
dente, e  suo  fratello,  a  cui  sovente  toccava  adempir  l'officio  di 
Camerier  maggiore,  erano  frequentissimi  nella  Corte,  né  mai  n'in- 
tesero cos' alcuna  che  potesse  almanco  mettergli  in  sospetto. 

E  tornato  ch'io  fui  a  Vienna,  dopo  le  vindemie,  a'  princìpi  di 
ottobre,  se  bene  fin  nelle  pubbliche  gazzette  si  leggesse  che  le 
truppe  francesi  erano  nel  Delfinato  in  gran  moto,  ed  alcuni  in- 
viati cesarei,  ch'erano  nelle  corti  d'altri  principi,  avvisassero  a  Vien- 
na gli  apparati  marziali  della  Francia,  tutto  s'interpretava  che  fosse 
dirizzato  per  la  Polonia;  ed  il  conte  Sinzendorf  assicurando  dal- 
l'altra parte,  che  finché  vivea  il  cardinal  Fleury  non  aveva  l'impera- 
dore  da  temere  che  la  Francia  si  movesse  contro  i  suoi  Stati,  si 
prolungava  la  lusinga,  e  continuavan  tutti  a  starsene  spettatori 
oziosi  delle  cose  di  Polonia;  ed  ancorché  crescesse  la  fama  le 
truppe  francesi  muoversi  per  lo  Delfinato  verso  Italia,  non  era  at- 
tesa; poiché  si  lusingavan  che  il  re  di  Sardegna,  duca  di  Savoia,3 

1.  marchesa  di  Balastrino:  o  Balestrino,  della  quale  ha  parlato  a  p.  225. 

2.  Sassone  .  . .  Stanislao  :  cioè  Federico  Augusto  e  Stanislao  Leszczynski. 

3.  il  re...  Savoia:  Carlo  Emanuele  III  (1701-1773),  salito  al  trono  per  l'ab- 
dicazione del  padre,  Vittorio  Amedeo  II,  nel  1730. 


CAPITOLO   OTTAVO  239 

non  gli  accorderebbe  il  passaggio  per  li  suoi  Stati;  onde,  non  se 
per  l'aria,  fra  le  nubi,  potevan  condursi  in  Italia;  e  stavan  sicuri, 
che  Savoia  non  ce  l'avrebbe  permesso,  né  rotta  la  pace  unendosi 
colla  Francia,  per  non  addossarsi  la  collera  e  l'indignazione  di 
Cesare,  il  quale  l'avrebbe  sconvolti  e  dissipati  i  suoi  Stati,  e  sotto- 
postolo al  banno  imperiale. 

Mentre  la  gente  pascevasi  di  vento  dietro  queste  vane  lusinghe, 
ecco  che  alla  metà  d'ottobre,  per  più  corrieri,  si  ebbe  l'avviso  che 
le  truppe  francesi  eran  nel  Piemonte,  le  quali  unite  colle  piemontesi 
e  savoiarde,  s'avviavano  nello  Stato  di  Milano,  ed  erano  già  presso 
il  Ticino.  Il  conte  Daun,1  che  trovavasi  governatore  in  Milano, 
inteso  il  prodigioso  numero  degli  assalitori  così  vicini,  scappò  tosto 
via  da  Milano,  e  ricovrossi  a  Mantua:  egli  non  avea  che  pochi 
reggimenti:  e  pure  lo  Stato  avea  contribuito  e  contribuiva  per 
il  numero  di  diciottomila  soldati,  pagati  già,  secondo  il  conto  tra- 
smesso per  tutto  quel  corrente  mese  di  ottobre.  Le  piazze  eran 
tutte  sfornite  di  munizioni,  di  presidio  e  di  fortificazioni;  poiché 
gli  appaldatori,  che  a  Vienna  trattavano  i  loro  appaldi,2  facevano 
ciò  che  volevano,  ed  era  rimesso  al  loro  arbitrio  e  discrezione  di 
fornirle,  senza  doverne  dar  conto  ad  altri,  se  non  a'  ministri  di 
Vienna,  da'  quali  l'avean  ricevuti.  In  breve  si  arrivò  a  tal  precipi- 
zio, che  non  vi  era  settimana  che  non  si  sentiva  essersi  resa  qualche 
piazza,  ed  il  presidio  mandato  in  Mantoa.  Fu  resa  tosto  Novara, 
Pavia,  Tortona,  Pizzichitene;3  e  se  ben  entrati  già  nell'inverno, 
credeasi  che  dovessero  cessar  Tarmi,  nulladimanco  la  stagione  riu- 
scì così  placida,  serena  ed  asciutta,  che  non  recò  impedimento 
alcuno  a  gli  assalitori  di  proseguire  le  loro  conquiste.  S'intese  presa 
la  città  di  Milano,  e  posto  al  castello  stretto  assedio,  il  qual  in 
pochi  giorni  fu  reso  e  mandato  il  presidio  a  Mantoa. 

Una  sì  grave  mina  pose  tutti  in  somma  costernazione  e  sbigot- 
timento, non  leggendosi  nelle  nuove  o  vecchie  memorie  di  Lom- 
bardia, che  in  così  breve  tempo  lo  Stato  di  Milano,  sempre  di 
armi  fioritissimo  e  di  piazze  munitissimo  e  che  un  palmo  di  ter- 
reno costò,  altre  volte,  fiumi  di  sangue,  non  men  a  gli  Francesi 


1.  Il  conte  Daun  (cfr.  la  nota  2  a  p.  60),  generale  delle  truppe  imperiali,  di- 
fensore di  Torino  nel  1705-1706,  era  nel  1733  governatore  di  Milano. 

2.  appaldatori . . .  appaldi:  appaltatori  . .  .  appalti.  3.  Pizzichitone:  Pizzi- 
ghettone,  difesa  dal  principe  Ian  Iiri  Kristiàn  z  Lobkovic  (1 686-1755), 
dal  1732  governatore  della  Sicilia,  poi  di  Milano,  cadeva  il  30  novembre. 


240  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

che  a  gli  Spagnoli  :  ora  a  man  salva  ritolto  al  possessore  passasse 
all'inimico,  senza  perderci  un  soldato.  E  pure  gli  Spagnoli  di 
Vienna  di  ciò  non  si  sgomentaron  punto  ;  anzi  gravidi  di  speranza 
che  presto  si  sarebbe  riacquistato,  minacciavano  al  duca  di  Savoia 
d'invadere  i  suoi  Stati,  ed  aggiungere  al  Milanese  il  Monferrato 
[e]  il  Piemontese;  e  non  mancarono  ufficiali  della  secreteria  di 
Rialp  vantar  pubblicamente,  che  si  sarebbe  vantaggiosamente  com- 
pensata la  perdita;  poiché,  se  prima  dalla  loro  secreteria  non  ne 
uscivan  dispacci  che  per  lo  Stato  di  Milano,  col  tempo  si  sarebbero 
distesi  nel  Piemonte,  Monferrato  e  nella  Savoia  stessa. 

E  questo  spirito  trasonico  avea  invaso  non  pur  gli  animi  degli 
Spagnoli  di  Vienna,  ma  di  quanti  ne  venivano  dallo  Stato  di  Mi- 
lano, ch'erano  stati  colà  impiegati  ne'  magistrati  e  nelle  civili 
cariche  de'  tribunali  e  delle  secretane;  i  quali  a  truppe  tornavano 
a  Vienna  con  visi  allegri  e  festosi,  come  se  da  Milano  venissero 
non  vinti,  ma  vincitori;  e  nelTistesso  tempo  assordavan  la  Corte, 
ch'essi  avendo  lasciate  le  loro  cariche  per  non  servire  ad  altro  prin- 
cipe che  all'imperadore  naturale  lor  padrone,  ed  essendo  rimasi 
senz'impieghi  donde  potessero  sostenere  se  stessi  e  le  loro  fami- 
glie, dovesse  l'imperadore  somministrargli  soccorso  di  denaro  per 
vivere,  finché  non  si  fusse  riacquistato  lo  Stato  di  Milano.  Sicché, 
alli  tanti  altri  ch'erano  in  Vienna,  si  aggiunsero  questi  nuovi  che 
cercavan  soccorsi.  E  trovaron  pietose  orecchie  che  gli  sentisse  ed 
esaudisse,  poiché  in  questo  stato  deplorabile  invece  di  por  argine 
a  preceduti  disordini  sopra  i  regni  di  Napoli  e  di  Sicilia,  aggiun- 
sero peggiori  mali,  riducendogli  all'ultime  estremità  e  desolazioni  ; 
poiché  per  trarne  denaro,  per  supplire  alla  mancanza  di  Milano 
e  sovvenire  a'  nuovi  Spagnoli  di  là  venuti,  si  tentarono  nuovi  modi, 
ed  infra  gli  altri  d'esporre  venali  le  toghe,  con  tassarne  i  prezzi  ed 
accrescere  i  tribunali  di  nuovi  ministri  sopranumerari;  sicché  il 
Consiglio  Collaterale  di  Napoli,  che  non  si  componeva  che  di 
cinque  soli  reggenti,  si  vide  accresciuto  di  altri  tanti  sopranume- 
rari, con  animo  di  accrescere  il  numero  de'  consiglieri  del  Consi- 
glio di  Santa  Chiara,  de'  presidenti  della  Regia  Camera  e  de' 
giudici  della  Gran  Corte  di  Vicaria,  secondo  che  si  trovassero  com- 
pratori, che  volessero  spender  denaro,  per  esserne  decorati;  e  si 
trovò  in  Vienna  un  infame  e  sfacciato  napolitano,  il  quale  scrivea 
lettere  circolari  a  gli  avvocati  e  ministri  di  Napoli,  invitandogli  ad 
applicar  alle  compre  con  designar  il  prezzo;  a  gli  avvocati,  de* 


CAPITOLO    OTTAVO  241 

magistrati  de'  quali  desideravan  esser  decorati  ;  ed  a'  ministri,  quel- 
lo de'  magistrati  superiori  a'  quali  aspiravano;  non  astenendosi, 
perché  se  gli  prestasse  maggior  fede,  di  scrivergli  svelatamente 
che  ciò  faceva  per  ordine  avutone  dal  marchese  di  Rialp,  secreta- 
rlo di  Stato,  e  dal  conte  di  Montesanto,  presidente  del  Consiglio, 
affinché  stessero  sicuri,  trasmesso  il  denaro,  d'ottener  le  cariche. 
Queste  lettere,  l'un  mostrandole  all'altro,  che  si  trovavano  scritte 
di  tenor  conforme,  divolgate  da  per  tutto  posero  i  Napolitani  in 
una  grandissima  costernazione,  e  sentendo  che  si  tentavano  altri 
modi  per  cavar  dal  Regno  denari,  ed  essersi  perduto  lo  Stato  [di] 
Milano,  prima  che  sapessero  essersi  dalla  Francia  e  Savoia  mossa 
guerra  all'imperadore,  si  credettero  abbandonati,  e  che  non  si 
cercasse  altro  prima  di  ceder  il  Regno,  ch'esaurirlo:  onde  molti 
scrissero  a  gli  amici  in  Vienna  lettere  dolenti  per  un  abbandona- 
mene così  improviso  e  spietato.  E  pure  si  trovarono  degli  ambi- 
ziosi, i  quali  non  curando  d'impoverire  le  lor  case  e  l'imminente 
pericolo  di  mutar  padrone,  mandarono  denaro  in  Vienna;  e  furon 
vendute  due  piazze1  di  reggentati  ed  altre  di  Camera,  il  prezzo  del- 
le quali  fu  prestamente  diviso  fra  que'  Spagnoli,  i  quali  eran  usciti 
da  Milano. 

In  tanta  costernazione  e  disordine,  pensava  ciascuno  di  scampar 
come  poteva  il  meglio  dall'imminenti  mali,  che  soprastavano.  A 
me,  se  bene  la  perdita  dello  Stato  di  Milano  dovesse  importar 
poco,  poiché  niente  da  quello  mi  veniva,  nulladimanco  cominciai 
a  tremare;  poiché  il  denaro  delle  spedizioni  di  Sicilia,  capitando  in 
mano  degli  ufficiali  spagnoli,  e  stando  esposto  all'arbitrio  del  pre- 
sidente, il  quale  erasi  in  ciò  unito  col  marchese  di  Rialp  di  soccor- 
rere gli  Spagnoli  venuti  da  Milano,  e  supplire  per  Napoli  e  Sicilia 
la  mancanza  di  quello  Stato,  temeva  che,  non  ostanti  i  precisi  ordini 
di  Sua  Maestà  di  non  doversi  confondere  il  mio  denaro  con  gli 
altri  emolumenti  del  Consiglio,  non  se  ne  valessero  per  propri 
bisogni;  ed  in  fatti  l'ufficiai  Llacuna  fecemi  stentar  molto  per 
esigger  le  due  ultime  mesate  di  quest'anno,  quelle  di  novembre  e 
dicembre  onde  a  ragion  temeva,  che  crescendo  vieppiù  il  bisogno 
co'  mali  peggiori  che  soprastavano,  che  il  seguente  anno  mi  si 
fosse  resa  l'esazione  più  difficile. 

Con  tutto  ciò  mi  lusingava,  che  drizzandosi  gli  apparati  che 

1. piazze:  francesismo  per  «posti»,  «incarichi». 


242  VITA   DI   PIETRO   GIANNONE 

si  facevano  di  guerra,  per  ricuperare  lo  Stato  di  Milano,  che  la 
sede  della  guerra  dovess'essere  in  Lombardia,  dalla  quale  doves- 
s'esserne  esente  il  regno  di  Napoli,  e  molto  più  quello  di  Sicilia. 
Ed  a  gli  amici  di  Napoli  scriveva  che  non  si  sgomentassero,  poiché 
la  lor  sorte  dipendeva  dall'evento  delle  cose  di  Lombardia,  dove 
la  guerra  sarebbe  stata  non  men  atroce  che  lunga,  indrizzando 
l'imperadore  le  più  valide  sue  forze  in  quella  parte;  sicome,  in 
effetto,  sotto  il  general  Merci,1  destinato  supremo  comandante  di 
quell'impresa,  si  disponevano  i  migliori  reggimenti  che  fossero  in 
tutta  la  milizia  cesarea,  con  intento  di  scacciar  di  Lombardia  i 
Francesi  ed  i  Savoiardi. 

Dall'altra  parte,  gli  Spagnoli  di  Vienna  erano  ostinati  in  dire 
che  nella  lega  della  Francia  colla  Savoia  non  erasi  mescolata  la 
Spagna,  la  quale  stava  ferma  di  serbar  quella  pace,  che  coll'im- 
peradore  erasi  ultimamente  fermata  e  stabilita;  e  che  l'imperadore 
non  dovea  combattere  che  co'  Francesi  e  Piemontesi,  i  quali  sa- 
rebbero stati  presto  vinti  e  scacciati  di  Lombardia.  E  quantunque 
da  tutte  le  parti  si  avvisasse  che  nella  lega  eravi  anche  la  Spagna, 
ed,  oltre  alla  comune  fama,  si  accoppiasse  il  gran  ammasso  di 
truppe  spagnole  che  si  facevano  in  Barzellona,  e  l'imbarco  da  quel 
porto  e  da  altri  di  Spagna,  e  le  navi  istradate  già  per  Livorno, 
onuste  di  grossa  artiglieria  e  di  altri  attrezzi  militari,  e  che  i 
generali  conte  di  Montemar3  e  duca  di  Liria3  eran  passati  in  Lom- 
bardia ed  aveano  stretti  colloqui  col  marescial  Villars,4  general  de' 
Francesi;  nulladimanco  costantemente  affermavano  che  ciò  fosse, 
non  per  unirsi  a  gli  alleati  a  danno  dell'imperadore,  ma  che  la 
regina  di  Spagna,  tenendo  a  Parma  un  così  caro  pegno,  qual  era 
l'infante  don  Carlos,5  suo  figliuolo,  non  voleva  che,  ardendo  in 
Lombardia  una  sì  fiera  guerra,  rimanesse  esposto  alle  incursioni 
militari;  ma  potesse,  colle  sue  armi,  conservar  i  suoi  Stati  in  sicu- 
rezza, e  sottrargli  dall'insulti  stranieri.  Ed  il  marchese  di  Rialp 

i.  general  Merci:  Florimond-Claude  de  Mercy  (1666-1734),  comandante 
in  capo  delle  forze  imperiali  in  Italia,  a.  José  Carrillo  de  Albornoz  (1671- 
1747),  conte  di  Montemar,  generalissimo  dell'esercito  spagnolo.  3.  Jacob 
Francis  Fitz-James  Stuart,  duca  di  Berwick  e  di  Lina  (morto  nel  1738), 
generale  dell'esercito  spagnolo.  4.  Louis-Hector  duca  di  Villars  (1653- 
1743),  maresciallo  di  Francia,  e  capo  delle  armate  francesi.  5.  la  regina  . .  . 
Carlos:  Elisabetta  Farnese  (1692-1766),  figlia  del  duca  di  Parma  e  sposa, 
nel  1714,  di  Filippo  V  di  Spagna,  si  era  assicurata  con  la  pace  dell'Aia 
(1720)  la  successione  sul  ducato  di  Parma  e  Piacenza  in  favore  del  primo- 
genito Carlo. 


CAPITOLO    OTTAVO  243 

mostrava  di  ciò  esserne  sì  persuaso,  che  non  s'asteneva  pubblica- 
mente di  dire,  ch'egli  metterebbe  il  suo  capo  sotto  il  taglio  d'una 
scure,  se  mai  gli  Spagnoli  fossero  intricati  nella  lega  che  la  Fran- 
cia avea  fermata  colla  Savoia. 

E  con  questi  discorsi  e  vane  lusinghe,  erasene  già  passato  l'an- 
no 1733. 


CAPITOLO  NONO 

Anno  1734.  Vienna  e  Venezia. 

Cominciarono  in  questo  nuovo  anno  i  miei  concatenati  dolori  <a 
rendersi  più  sensibili^  i  quali  sempre  più  esacerbandosi,  per  pro- 
prio esperimento  mi  fecer  conoscere  che  la  fortuna  non  comincia 
mai  per  poco.1  Nel  tempo  istesso  che  gli  Spagnoli  di  Vienna  per- 
sistevano in  dire  che  nella  lega  non  eravi  compresa  la  Spagna,  s'in- 
tese che  i  generali  Montemar  e  Liria,  partiti  da  Lombardia,  eransi 
fermati  nella  Toscana,  e  che  ne*  campi  intorno  Siena  il  conte  Mon- 
temar faceva  rassegna  delle  truppe  spagnole,  le  quali  sbarcate  in 
Livorno  e  ne'  vicini  porti  s'univano  insieme  per  qualche  spedizio- 
ne. Il  luogo  dove  si  rassembravano  dava  manifesto  indizio,  che  la 
spedizione  s'indrizzasse  al  regno  di  Napoli  :  ciocché  fu  tosto  avve- 
rato, essendosi  saputo  che  dal  papa  non  pur  se  gli  era  accordato  il 
passaggio  per  li  suoi  Stati,  ma  destinati  fino  i  commissari  per  la 
provvisione  di  quanto  bisognava  all'esercito  spagnolo  sino  a'  con- 
fini del  Regno  ;  e  che  da  Spagna  l'infante  don  Carlos  erasi  costituito 
generalissimo  dell'armata. 

Intanto  in  Vienna  s'eran  fatti  e  tuttavia  si  proseguivano  gli  ap- 
parati di  guerra,  e  s'erano  incaminati  gli  attrezzi  militari  e  le  trup- 
pe per  Mantoa,  e  tutti  gli  sforzi  erano  drizzati  in  Lombardia, 
per  combattere  i  Francesi  e  Piemontesi,  e  discacciargli  dallo  Stato 
di  Milano  ;  ed  il  Consiglio  di  guerra  e  tutti  i  Tedeschi,  che  si  cura- 
van  poco  del  regno  di  Napoli,  e  molto  meno  di  Sicilia,  avean  per- 
suaso all'imperadore  che  tutto  lo  sforzo  dovea  farsi  in  Lombardia, 
né  scemar  i  reggimenti,  per  mandargli  in  Napoli;  poiché  chi  era 
padrone  dello  Stato  di  Milano,  con  facilità  potea  riacquistar  quan- 
to si  fosse  perduto  in  Napoli;  e  con  tanta  forza  impressero  nella 
mente  dell'imperadore  questo  sistema  doversi  tenere  nella  guerra 
d'Italia,  che  quando  gli  Spagnoli  e  spezialmente  il  conte  di  Mon- 
tesanto,  vedendo  ora  l'imminente  pericolo  che  soprastava  al  regno 
di  Napoli,  ebber  ricorso  a  Cesare  vivamente  pregandolo  che  dal- 
l'armata destinata  per  Milano  mandasse  in  Napoli  non  più  che 
cinque  0  sei  reggimenti  che  tanti  basterebbero,  con  quelli  che  ivi 
teneva  il  general  Carafa2  per  sua  difesa  ad  impedire  agli  Spagnoli 
l'entrata  a'  confini:  l'imperadore  stette  fermo,  con  rispondergli 

1 .  la  fortuna . . .  poco  :  cfr.  Ariosto,  OrLfur.,  vili,  50.    2.  Il  maresciallo  Gio- 
vanni Cor  afa  (morto  nel  1743). 


CAPITOLO   NONO  245 

che  non  poteva  indebolir  l'esercito  destinato  per  Lombardia,  dove 
si  dovea  principalmente  insistere. 

I  Napolitani  intanto  cercavan  soccorso,  ed  il  marchese  di  Rialp 
gli  pasceva  di  vane  speranze;  e  gridando  che  almanco  vi  mandassero 
le  reclute  per  fornire  i  reggimenti  scemati  del  general  Carafa, 
non  si  trovò  la  via  nemmeno  di  farle  giungere  a  tempo,  poiché 
avviandole  per  imbarcarle  in  Fiume  e  Triesti  furon  le  marcie  e 
grimbarchi  guidati  con  tali  disordini  e  confusioni,  mancando  il 
bisognevole,  che  parte  rimasero  per  istrada,  parte  giunsero  quan- 
do il  Regno  era  in  mano  de*  nemici,  per  restarvi  prigionieri.  E 
scorgendo  gli  Spagnoli  che  a'  Tedeschi  nulla  caleva  la  perdita  de' 
regni  di  Napoli  e  di  Sicilia,  e  più  volte  sentendo  colle  proprie 
loro  orecchie  le  voci  di  molti,  che  sicome  erano  stati  buoni  ad 
esaurirli,  così  ora  pensassero  a  difendergli,  il  marchese  di  Rialp 
pensò,  finalmente,  ad  una  difesa  pur  troppo  ingegnosa  e  valida. 
Fra  l'infinita  turba  de'  Catalani  che  dimoravano  oziosi  a  Vien- 
na a  spese  di  Cesare,  erano  molti  scherani  e  fuorusciti,  chiamati 
«micheletti»;1  di  questi  ne  fece  una  compagnia,  a'  quali  diede  per 
capo  un  famoso  catalano,  il  quale  presso  di  loro  era  stimato  un 
altro  Rocco  Guinart,2  spezialmente  per  la  perizia  negli  agguati 
dentro  i  boschi  e  fra  le  montagne,  ad  ingaggiar  scaramucce  e 
tender  insidie;  e  fornita  la  compagnia  di  pistoletti  ed  altre  armi, 
si  avviò  in  Napoli,  con  fiducia  che,  posta  in  aguato  tra'  confini 
in  que'  boschi,  e  scovertasi  a  gli  .altri  Catalani  che  militavano 
sotto  l'infante  don  Carlos,  l'avrebber  fatti  tutti  disertare;  ed  ac- 
cresciuta di  numero,  avrebbe  impedita  l'entrata  de'  Spagnoli  nel 
Regno;  e  costò  all'imperadore  questa  spedizione  più  se  si  fos- 
se mandato  un  reggimento,  poiché  non  si  risparmiò  spesa  negli 
abiti,  nelle  armi  e  nel  bagaglio,  che  si  volle  magnifico  e  pomposo. 
E  con  questo  e  colle  poche  truppe,  ch'erano  in  Napoli  sotto  il 
general  Carafa,  si  pretendeva  d'impedire  l'entrata  all'esercito  spa- 
gnolo ne'  confini  del  Regno.  Ma  il  marchese  di  Rialp,  perché  cor- 
rispondesse il  fine  al  principio  ed  a'  mezzi  co'  quali  avea  governa- 
to il  regno  di  Napoli,  volle  terminarlo  con  una  gloriosa  azione,  che 


1.  micheletti:  fanti  leggeri,  armati  di  moschetto,  che  formavano  truppe  vo- 
lontarie e  locali,  così  chiamate  in  ricordo  delle  milizie  mercenarie  assoldate 
dalle  città  basche  e  organizzate  militarmente  da  Miguelot  de  Prats  nel  1674. 
a.  Il  brigante  catalano  Perot  Roque  Gvxnart  (1582-?),  ricordato  dal  Cer- 
vantes, nei  capitoli  50  e  51  della  seconda  parte  del  Don  Quijote. 


246  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

certamente  lo  renderà,  per  tutti  i  secoli,  illustre  ed  immortale. 
Scrisse,  a  nome  delFimperadore,  una  pampinosa1  lettera  alla  città 
di  Napoli,  nella  quale,  con  circuita  di  vane  parole,  si  pretendeva 
che  i  Napolitani  dovessero,  per  mostrare  la  loro  fedeltà,  impedire 
l'entrata  a'  Spagnoli  a  costo  non  pur  delle  loro  facoltà,  ma  del  pro- 
prio sangue,  con  sacrificare  le  lor  vite  ed  opporsi  vigorosamente 
alFinimico  ;  e  quel  che  recò  stupore,  s'incoraggivano  i  Napolitani  a 
farlo,  con  una  menzogna  manifesta,  scrivendogli  che  s'era  già  com- 
mandato all'esercito  ch'era  in  Lombardia  di  far  distaccamento  di 
più  reggimenti,  per  venire  a  soccorrergli;  trattando  i  Napolitani 
da  stupidi  ed  insensati,  come  se  non  sapessero  che  non  vi  era  tal 
comando,  e  se  pur  vi  fosse  gli  sarebbe  stato  inutile,  poiché  già  gli 
Spagnoli  erano  ne'  confini,  ed  era  facile  a  gli  alleati  e  d'impedirlo, 
ovvero  seguitandolo  porlo  in  mezzo  fra  le  loro  truppe  e  le  spagnole. 

Si  sentì  allora  il  marchese  di  Rialp  una  risposta  fattagli  dalla 
Città,  di  poco  suo  gusto,  rinfacciandogli  i  tanti  milioni  che  s'erano 
esauriti  dal  Regno  ;  la  cassa  militare2  più  volte  rifatta  per  mantenere 
per  la  custodia  del  Regno  ventiduemila  soldati,  e  pure  non  esser- 
vene  che  pochi  reggimenti;  i  tanti  donativi  e  le  sovvenzioni  som- 
ministrate per  le  munizioni  e  fortificazioni  de'  castelli  e  delle  piazze, 
e  pure  vedersi  di  tutto  sproviste;  l'aver  con  somma  istanza  e  pre- 
mura chiesto  soccorso  di  truppe,  in  tempo  opportuno  che  per 
l'Adriatico  potevan  mandarsi,  né  furon  mandate;  onde  i  Napoli- 
tani, credendo  che  fossero  abbandonati,  sicome  presso  tutti  me- 
riteran  lode  e  commendazione  d'avere  fin  qui  serbata  quella  fedeltà 
che  doveano  alla  Maestà  di  Cesare,  così  troveranno  non  pur  per- 
dono, ma  compatimento,  se  abbandonati  e  posti  nell'ultima  ne- 
cessità, prenderanno  quel  partito  che  fosse  per  riuscir  loro  più 
salutare,  e  che  apportasse  alla  Città  e  Regno  tranquillità  e  riposo,3 

Questi  sforzi,  ancorché  inutili,  che  si  facevano  dagli  Spagnoli  di 
Vienna,  per  la  conservazione  de'  regni  di  Napoli  e  di  Sicilia,  con- 
vincono che  non  fossero  stati  traditori,  come  comunemente  si  vo- 
ciferava e  da  tutti  era  creduto,  che  intesi  colla  Spagna,  avessero  ri- 
dotti que'  regni  così  esausti  di  gente  e  di  denaro,  perché  riuscisse  fa- 

1.  pampinosa:  piena  di  pampini,  ampollosa.  Un  sunto  del  proclama  in  M, 
Schifa,  Il  regno  di  Napoli,  cit.,  pp.  110-1.  2.  la  cassa  militare:  su  di  essa 
cfr.  M.  Schipa,  Il  regno  di  Napoli,  cit.,  p.  23.  3.  Si . . .  riposo  :  il  testo  della 
risposta  della  città  in  G.  Senatore,  Giornale  storico  di  quanto  avvenne  nei 
due  reami  di  Napoli  e  Sicilia  . . .  Vanno  1734  e  1735,  Napoli  1742,  p*  50. 


CAPITOLO   NONO  247 

cile  a  gli  Spagnoli  di  sorprendergli.  Non  furon  traditori,  che  pur 
per  essi  sarebbe,  se  ben  d'infamia,  di  qualche  vanto  ài  aver  saputo, 
con  tant'arte  ed  industria,  venirne  a  capo  :  fu  tutta  loro  presunzio- 
ne, fasto  ed  albagia,  credendo  che  il  solo  nome  dell' imperadore 
bastasse  per  conservarli,  e  che  la  Spagna  non  avrebbe  avuto  mai 
quest'ardimento  d'assalirgli.  Questo  concetto  gli  rese  negligenti, 
scioperati  e  quasi  che  stupidi  ed  insensati,  non  avendo  questi  re- 
gni che  come  tante  lor  inesauste  borse,  né  badando  che  ad  estra- 
ricchire1  e  cumular  tesori;  i  quali,  però,  sicome  con  avida  ed  in- 
gorda mano  gli  rapivano,  così,  dall'altra,  prodigamente  gli  profon- 
devano in  fasto,  in  lusso  ed  in  pompose  apparenze;  affinché,  ancor- 
ché fosser  in  Germania,  in  Italia,  in  Fiandra  ed  in  altri  paesi  stra- 
nieri, potessero  gareggiare,  anzi  soprafare  gli  stessi  nazionali,  ricchi, 
potenti  e  nobilissimi  che  si  fossero. 

A  qual  fine,  cui  bono,  dovean  essere  traditori,  quando  non  po- 
tevano sperare  dal  principe,  per  cui  il  tradimento  si  facea,  se  non 
minima  particella  del  molto  ch'essi  venivano  a  perdere  ?  Potea  mai 
la  Spagna  compensargli  per  tante  cariche,  magistrati,  signorie, 
ricchezze  e  tanti  lucrosi  impieghi,  inventati  unicamente  per  arric- 
chirgli per  tante  pensioni,  soccorsi  ed  infiniti  altri  emolumenti, 
ch'essi  venivano  a  perdere?  Non  furon,  dunque,  traditori;  ma 
quanto  presuntuosi,  fanatici,  illusi  e  fastosi,  altrettanto  sciocchi, 
da  poco  ed  inutili,  i  quali  la  fortuna  l'avea  esaltati,  non  per  go- 
vernare, ma  per  esaurire  la  misera  ed  afflitta  Italia. 

Intanto  l'esercito  spagnolo,  il  qual  tra  la  cavalleria  ed  infan- 
teria,2 era  composto  di  quattordici  in  qumdicimila  soldati,  <se  bene 
altri  accrescevan  il  numero  fino  a  diciottomila>,  comandato  dal 
general  Montemar,  sotto  gli  auspici  del  giovane  principe  don  Car- 
los, erasi  ne'  princìpi  di  marzo  avvicinato  a'  confini,  e  proseguendo 
le  marcie  senza  alcun  ostacolo,  entrarono  nel  Regno,  e  superando 
il  passo  di  Mignano,3  ove  credevasi  trovar  chi  glielo  contrastasse, 
s'avanzarono  nel  mese  di  aprile  a  Capua,  ove  eransi  ritirate  le  po- 
che truppe  alemane,  affinché  unite  con  quelle  del  presidio  potes- 


1.  estraricchire:  divenire  straricchi,  z.  infanteria:  fanteria.  3.  Il  conte 
Otto  Ferdinand  Traun  (1677- 1748)  teneva  le  posizioni  di  Mignano,  dalle 
quali  dipendeva  la  salvezza  di  Capua,  con  cinquemila  uomini  ;  cfr.  M.  Schi- 
pa,  Il  regno  di  Napoli,  cit.,  p.  115.  Per  la  ricostruzione  della  marcia  degli 
Spagnoli  si  veda  D.  Sterpos,  Comunicazioni  stradali  attraverso  i  tempi: 
Roma-Capua,  Roma  1966,  pp.  178  sgg. 


248  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

sero  difendere  quella  piazza;  la  quale  bloccata  da'  Spagnoli,  senza 
impegnarsi  a  stretto  assedio,  passarono  oltre,  proseguendo  le  con- 
quiste in  Terra  di  Lavoro;  e  giunti  ad  Aversa  la  città  di  Napoli 
per  suoi  deputati  mandò  a  presentar  le  chiavi  al  principe  don 
Carlos,  che  si  trovava  a  Maddaloni.1 

Erano  usciti  già  dalla  città  il  viceré,  conte  Visconti,2  successore 
del  conte  di  Harrach,  il  general  Carafa  ed  altri  comandanti  ed 
ufficiali  tedeschi:  questi  si  avviarono3  colle  loro  truppe  verso  la 
Puglia,  con  intento  di  conservarla  colle  province  vicine,  e  quan- 
do non  potessero,  ritirarsi  in  Calabria,  per  preservare  almanco 
quelle  province  alla  Sicilia  prossime.  Dall'altra  parte  gli  Spagnoli, 
entrati  in  Napoli  senza  scompiglio  e  con  somma  tranquillità  e 
quiete  di  tutti,  cominciarono  a  stringer  d'assedio  i  castelli.  Presto 
se  gli  rese  quel  di  Sant'Ermo,  indi  quel  dell'Uovo,  poi  Castelnuovo4 
e  gli  altri  intorno,  rimanendo  i  presìdi  tutti  prigionieri  di  guerra. 
Furon  poi  rivolti  all'assedio  di  Gaeta,  ed  una  piazza,  un  tempo 
riputata  inespugnabile,  in  meno  di  dieci  giorni  fu  resa;5  almanco 
Pescara  resistè  quaranta  giorni;6  ed  i  presìdi  rimaser  tutti  prigio- 
nieri di  guerra.  In  breve,  i  due  Abruzzi,  Terra  di  Lavoro,  le  Pro- 
vincie di  Capitanata  e  del  contado  di  Molise,  e  quelle  di  Principato 
citra  ed  ultra,  di  repente  passaron  tutte  sotto  il  nuovo  conquista- 
tore, il  quale  s'era  avviato  in  Puglia,  seguitando  la  traccia  de' 
nemici. 

Intesa  in  Vienna  tanta  precipitosa  mina,  riempì  gli  animi  di 
•molti  di  confusione  e  di  spavento  ;  ma  sopra  tutto  degli  Spagnoli  i 
quali  miravan  già  da  vicino  le  imminenti  miserie  nelle  quali,  per- 
duto il  regno  di  Napoli  ch'era  per  essi  la  sorgiva  più  abbondante  e 
copiosa,  di  necessità  dovean  cadere.  Fremevano  contro  il  general 
Carafa,  biasimando  la  sua  condotta,  imputandolo  vile  e  codardo, 
che  dovea  opporsi  al  nemico  a'  confini  ed  impedirgli  l'entrata  e 
non  ritirarsi  in  Puglia;  ed  i  loro  clamori  in  Corte  fecer  sì,  che  il 
Carafa  fu  chiamato  in  Vienna  a  render  conto  della  sua  condotta,  e 


1.  a  Maddaloni'.  il  19  aprile;  cfr.  M.  Schipa,  II  regno  di  Napoli,  cit.,pp.  1 15-9. 

2.  Giulio  Visconti  (1664-1750)  era  stato  nominato  viceré  e  capitano  gene- 
rale delle  truppe  imperiali.  3.  si  avviarono:  il  3  aprile;  cfr.  M.  Schipa,  II 
regno  di  Napoli,  cit.,  p.  115.  4.  Presto  . .  .  Castelnuovo:  le  fortezze  cadde- 
ro, nell'ordine,  il  26  aprile,  il  3  e  il  4  maggio  ;  cfr.  M.  Schifa,  Il  regno  di 
Napoli,  cit.,  p.  124.  5.  Furon  .  . .  resa:  Gaeta  si  arrese  il  6  agosto.  6.  al- 
manco  —  giorni:  la  città  cadde  il  23  luglio. 


CAPITOLO   NONO  249 

dato  il  comando  delle  truppe  alemanne  al  principe  di  Belmonte.1 
Donde  credean  sperar  salute,  trovarono  l'ultimo  eccidio  e  mina: 
poiché,  premuto  questo  nuovo  generale  di  dover  venire  co*  nemici 
a  battaglia,  incautamente  incontrando  l'esercito  spagnolo  nelle  pia- 
nure di  Bitonto,  dove  per  le  spesse  vigne  e  siepi  di  macere  e  folte 
macchie,  che  le  confinavano,  la  cavalleria  tedesca  si  rendeva  inuti- 
le, senza  pensare  a  farla  smontare,  volle  attaccar  la  pugna;  che  gli 
riuscì  così  infelice  e  vergognosa,  che  gli  fu  d'uopo  posar  Tarmi 
e  rendersi  prigionier  di  guerra,  con  gli  altri  generali  ed  ufficiali  e 
tutta  la  milizia:  sicché  il  conte  di  Montemar  ebbe  il  piacere  trion- 
far pienamente  del  nemico,  ed  in  una  azione  ridurre  tutte  le  rima- 
nenti province  del  Regno,  la  Puglia,  Basilicata,  Terra  d'Otranto  e 
le  due  Calabrie  sotto  la  dominazione  del  suo  sovrano. 

Del  regno  di  Napoli  non  rimaneva  altro  che  la  città  di  Capua, 
la  quale,  per  essersi  al  presidio  unite  le  truppe  che  s'eran  ritirate 
dal  passo  di  Mignano,  potè  lungamente  sostener  l'assedio  ;  ma  es- 
sendo destituito  il  comandante2  d'ogni  speranza  di  soccorso,  ripu- 
tò finalmente  renderla  con  onorate  condizioni,  poiché  il  presidio 
e  le  truppe  che  vi  erano  fu  convenuto  che  potessero  imbarcarsi  ne' 
porti  dell'Adriatico,  e  salve  condursi  a  Fiume  o  Triesti. 

Ecco  come  gli  Spagnoli  di  Vienna  si  videro,  in  pochi  mesi,  vo- 
lare dalle  lor  mani  il  regno  di  Napoli,  e  che  il  prossimo  di  Sicilia 
era  per  far  lo  stesso,  e  con  maggior  precipitanza;  poiché  quel  Re- 
gno, assai  più  che  Napoli  era  destituito  ed  esausto  di  forze,  di 
munizioni  e  di  gente.  Ed  i  Siciliani,  avendo  innanzi  gli  occhi  l'e- 
sempio di  Napoli,  e  che  gli  Spagnoli  aveano  ne'  mari  di  Napoli 
navi  e  vascelli  bastanti  per  intraprenderne  l'acquisto,  volontaria- 
mente si  offerirono  di  ricevergli,  e  s'intese  che  avean  mandati  lor 
legati  a  Napoli,  per  rendersi  ;  e  già  Lipari  avea  inalberate  l'insegne 
di  Spagna,  ed  i  Lipariotti  avean  unite  le  loro  navi  a  quelle  degli 
Spagnoli.3  E  pure  chi  '1  crederebbe?  In  tale  stato  di  cose  il  mar- 
chese di  Rialp,  essendosi  il  conte  Visconti  imbarcato  alle  marine 
di  Bari  e  salvatosi  ad  Ancona  per  indi  passare  a  Triesti  e  condursi 

1.  Ferdinando  Pignatelli  di  Belmonte  (1689-1767),  fratello  di  Marianna 
Althann  (per  cui  cfr.  la  nota  2  a  p.  78),  pare  avesse  avuto  mano  nel  richia- 
mo del  Carafa:  cfr.  M.  Schipa,  Il  regno  di  Napoli,  cit.,  p.  127.  2.  il 
comandante:  era  il  conte  Traun.  La  città  si  arrese  il  24  novembre:  cfr. 
M.  Schipa,  Il  regno  di  Napoli,  cit.,  pp.  131  sgg.  3.  Ed  i .  .  .  Spagnoli: 
sulla  conquista  della  Sicilia  cfr.  M.  Schipa,  II  regno  di  Napoli,  cit.,  pp. 
133  sgg. 


250  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

a  Vienna,  gii  scrisse  che  non  si  partisse  da  Ancona,  ma  che  quivi 
fermasse  sua  residenza,  attendendo  gli  ordini  di  Sua  Maestà  per 
ciò  che  conveniva  di  fare  intorno  al  regno  di  Napoli.  E  stando  la 
Sicilia  per  rendersi  agli  Spagnoli,  fu  rimosso  il  conte  di  Sastago, 
che  si  trovava  ivi  viceré,  e  rifatto  in  suo  luogo  il  marchese  Rubi1 
catalano,  e  mandato  in  Sicilia,  con  istruzione  che,  se  mai  al  suo 
arrivo  trovasse  quel  Regno  essere  in  mano  de'  nemici,  passasse  a 
Malta,  dove  aspettasse  gli  ordini  di  Sua  Maestà,  per  ciò  che  ri- 
guardava quel  Regno.  E  ciò  perché  dalla  sua  secretarla  si  ostentasse 
ancora  che,  come  prima,  si  spedivan  dispacci  a*  viceré  di  Napoli 
e  di  Sicilia,  ma  uno  risiedeva  ad  Ancona,  e  l'altro  dovea  regger  la 
Sicilia  da  Malta.  Dall'altra  parte  il  conte  di  Montesanto  presiden- 
te, con  tutto  che  non  vi  era  più  che  fare  per  Milano,  e  molto  me- 
no per  Napoli,  e  che  da  Sicilia  periclitante  non  venivan  più  ricorsi, 
nulladimanco  non  fece  cessar  il  Consiglio,  obbligando  i  consiglieri, 
reggenti  e  secretari,  con  gli  ufficiali  di  secreteria,  a  venir  come 
prima,  i  quali,  dimandati  che  cosa  andasser  ivi  a  fare,  rispondeva- 
no :  «  a  passar  quelle  ore  nella  lettura  delle  gazzette,  ed  a  discorrere 
del  più  e  del  manco  intorno  alla  guerra  presente». 

Ciascuno  da  quest'infelice  stato,  nel  quale  eransi  le  cose  ridotte, 
potrà  comprendere  qual  fosse  la  mia  aggitazione  e  sbigottimento. 
Poiché,  se  ancora  non  perduta  la  Sicilia  io  sperimentava  difficile 
l'esazione  del  mio  assegnamento,  qual  dovea  essere  infelice  il  mio 
stato,  quella  perduta,  quando  non  vi  era  per  me  speranza  alcuna 
dove  altronde  potessi  trovar  maniera  di  poter  sostentarmi  in  Vien- 
na ?  Da  Napoli  non  era  da  sperar  soccorso  alcuno,  poiché  mio  fra- 
tello non  solamente  non  era  niente  disposto  per  mandarmelo,  ma 
di  vantaggio  mi  scriveva  miserie,  e  che  il  nuovo  governo  spagnolo 
era  sì  rigido  e  severo  contro  coloro  che  aveano  corrispondenza  di 
lettere  a  Vienna,  ch'egli  con  pericolo  si  metteva  a  scrivermi,  e 
che  io  per  non  rovinarlo  stessi  cauto  nello  scrivere,  e  che  meglio 
farei  d'astenermene;  e  ben  compresi  che  fosse  per  lui  quest'occa- 
sione molto  acconcia  di  continuare  a  godersi  della  mia  roba,  sen- 
z' alcun  timore  di  dovermene  dar  conto.  Rivolgendomi  a  gli  amici 
di  Vienna  in  questa  comune  costernazione,  trovava,  invece  di  con- 
forto, disperazione  e  presaggi  di  maggiori  calamità  e  miserie,  e 
ciascuno  procurava  in  sì  universal  naufragio  di  salvar  se  medesimo, 

1.  il  marchese  Rubi:  cfr.  la  nota  3  a  p.  136. 


CAPITOLO   NONO  251 

non  che  di  prestar  aiuto  ad  altri.  Dall'altra  parte  m'atterriva  l'infi- 
nito numero  degli  Spagnoli  ch'era  a  Vienna,  i  quali  tutti  viveano 
sopra  i  regni  di  Napoli  e  di  Sicilia  e  lo  Stato  di  Milano,  e  che  erano, 
nelle  sovvenzioni,  a  tutti  preferiti  ;  spezialmente  i  Catalani,  i  quali 
altamente  gridavano  che  sarebber  periti  di  fame,  se  Pimperado- 
re  non  gli  soccorreva. 

E  già  cominciava  a  sperimentare  che,  non  perduta  ancora  la 
Sicilia,  quel  poco  mio  denaro  che  dovea  pagarmi  l'ufficiai  Llacuna, 
sovente  dal  presidente  si  convertiva  ad  altro  uso,  per  supplire  a' 
bisogni  di  tanti  Spagnoli;  e  lusingandomi  che  almanco  essendosi 
per  Sicilia  rifatto  un  nuovo  viceré,  i  diritti  della  spedizione  de' 
suoi  dispacci  e  patenti  potevan  bastarmi  per  più  mesi,  rimasi  de- 
luso ;  poiché  essendo  il  marchese  Rubi  catalano,  fu  reso  franco  ed 
immune  d'ogni  diritto  di  spedizione  e  di  suggello,  sicome  erano 
regolarmente  franchi  tutti  gli  Spagnoli.  Sicché  avea  ragion  di  te- 
mere che,  anche  se  la  Sicilia  non  fosse  invasa,  pure  il  mio  paga- 
mento mi  sarebbe  riusciuto  difficile;  ed  in  effetto  penai  non  poco, 
con  esclamazioni  e  gridi  presso  il  presidente,  per  esigger  due  me- 
sate, che  per  me  furon  le  ultime  e  finali. 

Tutti  i  forastieri,  ignari  di  tutto  ciò,  partito  io  da  Vienna,  in 
passando  per  le  lor  città  si  maravigliavano  come  io  fossi  stato  da 
dura  necessità  costretto  di  partir  da  Vienna,  per  non  potermisi 
somministrare  non  più  che  mille  fiorini  Tanno  per  mio  sostenta- 
mento da  tutto  un  imperadore.  Ma  cesseranno  di  maravigliarsi,  se 
consideraranno  le  circostanze  che  accompagnarono  l'infelice  per- 
dita de'  regni  di  Napoli  e  di  Sicilia  e  dello  Stato  di  Milano.  Non 
è  -  essi  dicevano  -  cosa  strana  e  nuova,  che  un  monarca  venga  a 
perdere  un  regno  o  più  province:  le  mondane  vicende  spesso  ca- 
gionano tali  perdite;  ma  non  per  questo  sono  abbandonati  coloro 
che  s'han  meritata  qualche  mercede,  e  che  stanno  alla  faccia  del 
principe,  mantenuti  nella  sua  corte,  prowedendosegli,  se  manca  un 
fondo,  altronde,  per  loro  sostentamento. 

Tutto  è  vero,  ma  il  mio  fatai  destino  ha  fatto  che  il  caso  occorso 
fosse  nuovo,  né  altre  volte  inteso  ;  sicché  a  me  tutto  un  imperadore 
non  abbia  potuto  giovarmi;  ch'era  quello  che  più  volte  lagrimando 
solea  dire:  che  le  mie  sventure  erano  sì  spietate,  terribili  e  potenti, 
che  avean  fatto  crollare  e  cadere  a  terra  le  più  forti  colonne  ov'era 
io  appoggiato  e  dalle  quali  era  sostenuto.  Il  caso  seguito  è  tutto 
nuovo,  né  si  leggerà  nell'antiche  o  moderne  istorie  un  simil  esem- 


Z$Z  VITA  DI   PIETRO   GIANNONE 

pio.  Non  è  mai  occorso  che  un  principe  abbia  sopra  di  sé  voluto 
trarre  un  infinito  numero  di  persone  da  altrui  regni  e  provincie, 
e  per  lo  corso  di  tanti  anni  invitar  sempre  delle  nuove;  e  se  fosse 
stato  possibile  di  trasportare  in  Vienna  ed  in  Italia  quanti  Spagnoli 
fossero  ne'  regni  di  Spagna,  e  questi  tenerli  nella  sua  Corte  e  nella 
città  di  sua  residenza,  per  la  maggior  parte  inutili;  infiniti  altri, 
con  uffici,  cariche,  pensioni  ed  altre  mercedi,  empire  i  regni  di 
Napoli  e  di  Sicilia  e  lo  Stato  di  Milano.  Tanta  moltitudine  si  so- 
steneva sopra  i  domìni  d'Italia,  donde  venivano  i  grossi  stipendi 
per  mantenere  in  Vienna  il  Consiglio  di  Spagna,  numeroso  per 
tanti  reggenti,  consiglieri,  secretari,  e  per  l'immensa  turba  di  tanti 
ufficiali  delle  secreterie;  donde  venivano  i  salari  per  mantenere  la 
secretarla  spagnola  di  Stato  ;  donde  venivano  le  pensioni  assignate 
a  tanti  Spagnoli  ch'erano  alla  Corte,  per  i  quali  fu  istituita  una 
delegazione  a  parte,  invigilando  perché  le  fossero  puntualmente 
pagate;  donde  venivano  le  diarie  ed  altre  sovvenzioni  destinate  al- 
l'infinita altra  turba  di  Spagnoli  ch'erano  in  Vienna,  inutili,  sen- 
z'impiego ed  oziosi,  tenuti  unicamente  per  far  letame  ed  accrescer 
numero;  e  donde  finalmente  veniva  il  denaro  per  soccorrergli  nel- 
le doti  per  le  loro  figliuole  e  sorelle,  ne'  viaggi,  nelle  infermità, 
funerali,  ed  infino  alle  spese  voluttuose.1  La  borza,  che  si  credeva 
dover  essere  sempre  sicura  ed  inesausta,  era  la  misera  Italia  ;  poi- 
ché dalla  Fiandra  poco  era  da  esaurire,  e  quel  poco  appena  bastava 
per  mantenere  il  Consiglio  di  Fiandra,  composto  per  la  maggior 
parte  di  Spagnoli  stessi.  Ne'  regni  d'Ungheria  e  di  Boemia  non  vi 
era  niente  che  fare,  poiché  oltre  essere  caricati  di  pesi  ed  assigna- 
menti,  i  nazionali  si  facevan  valere  i  loro  diritti  e  prerogative  di 
non  ammettere  forastieri  a  parte  delle  rendite  che  provenivano  da' 
loro  paesi.  Lo  stesso  era  in  tutti  gli  altri  Stati  austriaci  ereditari,  i 
quali  nemmeno  bastavano  a  supplire  i  pesi  e  le  pensioni  antiche 
ond'erano  caricati,  e  sovente  mancava  il  denaro  per  i  salari  degli 
Austriaci  stessi,  ed  altri  ch'erano  in  Corte  nell' attuai  servizio  del- 
Fimperadore.  Perduti  adunque  sì  miseramente  gli  Stati  d'Italia, 
che  era  l'unico  fonte  perenne  onde  derivavan  l'acque  per  estinguer 
la  sete  di  tanti,  non  vi  era  altronde  da  supplire  una  sì  grave  e  rui- 
nosa  perdita.  Né  bastavano  piccioli  torrenti  o  rivi,  ma  bisognavan 
altri  ampi  ed  inesausti  fiumi,  per  compensarla. 

i.  voluttuose:  voluttuarie. 


CAPITOLO    NONO  253 

Infinite  altre  volte  è  accaduto  che,  perdutasi  una  provincia  o  un 
regno,  non  sia  riuscito  al  principe  molto  difficile  d'accomodar  al- 
tronde le  persone,  ch'erano  nella  sua  corte  impiegate  negli  uffici 
riguardanti  i  paesi  perduti,  perch'eran  poche;  e  quando  mancas- 
sero impieghi,  sovvenirgli  intanto  con  pensioni  o  altri  soccorsi. 
Quando,  sotto  il  re  Filippo  IV,  la  Spagna  perde  il  regno  di  Por- 
togallo,1 a'  Portoghesi  ch'erano  in  Madrid  e  negli  altri  regni  di 
Spagna  impiegati,  se  gli  diede  licenza  di  tornarsene  ne'  loro  paesi, 
onde  venne  Madrid  a  sgravarsi;  e  que'  a'  quali  non  era  sicuro  il 
ritorno,  essendo  pochi,  fu  facile  provvedergli  o  d'altro  impiego, 
ovvero  di  pensioni  per  loro  sussistenza.  La  Spagna  istessa,  per- 
duto nel  1706-07  lo  Stato  di  Milano  ed  il  regno  di  Napoli,  e  poi 
quello  di  Sicilia  e  di  Sardegna,2  abolì  tosto  il  Consiglio  d'Italia, 
ed  a'  nazionali  che  vi  erano  impiegati  diede  licenza  d'andarsene 
alle  lor  case;  ed  a  gli  altri,  ch'eran  pochi,  fu  facile  impiegare 
negli  altri  Consigli  a  somiglianti  cariche. 

Ma  tutto  altro  fu  il  caso  presente  di  Vienna.  Non  si  trattava  di 
pochi,  ma  d'un  numero  infinito  di  Spagnoli,  de'  quali,  parte  o 
non  potevano  per  tema  di  non  incontrar  peggio,  parte  non  vole- 
van  tornarsene  in  Ispagna  ne'  loro  paesi,  dove  molti  non  aveano 
né  ciel  che  gli  coprisse,  né  terra  che  gli  sostenesse;  ed  avvezzi  al- 
l'abbondanza e  fasto,  col  quale  eransi  fin  qui  mantenuti,  non  vo- 
levano essere  di  ludibrio,  tornando  miseri  e  tapini,  a'  loro  compa- 
trioti ;  e  pretendevano  che  l'imperadore,  per  gratitudine  della  loro 
fedeltà  in  aver  seguito  le  sue  parti,  dovesse  soccorrergli;  e  dall'altra 
parte  l'imperadore  mostrava  d'averne  tutto  il  compatimento,  e  che 
non  gli  avrebbe  abbandonati;  onde  non  solo  non  si  vedeva  sce- 
mare in  Vienna  il  lor  numero,  anzi  accrescersi  ;  poiché  tutti  que', 
che  erano  impiegati  in  Napoli  ed  in  Sicilia  e  volevano  mostrarsi 
zelanti  al  suo  servizio,  lasciate  le  lor  cariche  venivano  a  Vienna, 
con  certa  fiducia  che  l'imperadore  l'avrebbe  accolti  e  mantenuti. 

All'incontro,  a'  Milanesi,  Napolitani  e  Siciliani  se  gli  dava  facile 
e  presta  licenza  che  se  ne  tornassero  a'  loro  paesi,  anche  a  que'  che 
avean  in  quest'occasione  prese  l'armi  per  Cesare;  apertamente  fa- 
cendosegli  sentire,  che  l'imperadore  non  poteva  compensargli  del- 

1.  Quando  .  .  .  Portogallo:  sotto  Filippo  IV  (1605- 1665)  si  accese  la  guerra 
d'indipendenza,  durata  ventiquattro  anni,  e  sancita  col  trattato  di  Lisbona 
nel  1668.  3.  La  . . .  Sardegna:  con  la  pace  di  Utrecht  (1713)  e  di  Ra- 
stadt  (1714)  a  conclusione  della  guerra  per  la  successione  del  trono  di 
Spagna. 


254  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

le  perdite  che  avrebbon  fatte  de'  loro  feudi  e  beni,  rimanendo  al 
suo  servizio,  né  poteva  mantenergli  o  impiegargli  altrove,  e  ciò 
perché  gli  Spagnoli  fosser  soli,  né  avesser  compagni  che  potessero 
scemargli  le  sovvenzioni  secrete  che  speravano.  Soli  a*  due  reg- 
genti nazionali,  un  per  Napoli  e  l'altro  per  Milano,  non  se  gli 
dava  licenza  di  tornarsene,  ancorché  non  tirasser  soldo;  poiché 
non  si  voleva  così  presto  dismettere  il  Consiglio  di  Spagna,  e, 
per  quel  di  Milano,  durava  la  lusinga  che  presto  si  sarebbe  lo 
Stato  ricuperato. 

I  Napolitani  ch'erano  a  Vienna,  quasi  tutti,  nel  mese  di  maggio, 
tornaron  in  Napoli  alle  lor  case. 

Io,  ancorché  niente  più  esiggessi  dalle  mie  mesate,  e  la  Sicilia, 
se  non  perduta,  fosse  presto  per  perdersi,  con  tutto  ciò  mi  restai, 
volendo  sperimentar  Tubimi  rimedi  e  veder  l'evento  delle  cose  di 
Lombardia,  lusingandosi  molti  che,  avendo  il  general  Merci  pas- 
sato il  Po,  sarebbe  in  istato  di  venir  a  battaglia  coli' esercito  nemico 
e  riportarne  vittoria,  onde  forse  si  sarebbe  cangiato  sistema  alle 
cose  d'Italia.  Riuscir  anche  vane  queste  lusinghe,  poiché  la  bat- 
taglia di  Guastalla  e  l'altra  di  Parma  ebber  contrari  successi;1  e 
sempre  più  di  Sicilia  venivan  ree  novelle:  essere  disposta  a  ren- 
dersi, sicome  all'apparir  dell'armata  navale  spagnola  tosto  Palermo 
fu  resa,  e  così  di  mano  in  mano  facevan  l'altre  città  e  piazze  di 
quel  Regno.2  Mi  rivolsi  finalmente  ad  implorar  aiuto  e  consiglio 
dagli  amici  e  da  que'  ministri,  che  credetti  potermi  giovare  presso 
la  Maestà  dell'imperadore,  manifestandogli  il  mio  infelice  stato  e 
la  poca  sicurezza  che,  tornando  a  Napoli,  avrei  avuta  dalle  perse- 
cuzioni della  corte  di  Roma,  ora  che  quel  Regno  era  in  mano  degli 
Spagnoli;  i  quali,  per  gratitudine  d'avergli  Sua  Santità  facilitato 
l'acquisto,  e  l'Infante  don  Carlos  tenendo  in  sua  Corte  il  principe 
Corsini,3  nipote  del  papa,  dichiarato  suo  Cavallerizzo  maggiore, 
non  volessero  sacrificarmi  ed  espormi  alla  ira  ed  indignazione  di 
quella  Corte. 

Trovai  presso  tutti  compassione  e  dispiacenza  del  mio  ritorno  a 
Napoli;  ma  la  costernazione  era  presso  tutti  sì  grande,  che  niuno 

i.  la  battaglia  .  . .  successi:  furono  combattute,  rispettivamente,  il  i  maggio 
e  il  29  giugno  del  1734.  2.  sempre .  . .  Regno:  le  ultime  città  a  cadere 
furono  Messina  (22  febbraio),  Siracusa  (16  giugno)  e  Trapani  (12  luglio 
1735)-  3-  Bartolomeo  Corsini  (1683-1752),  marchese  di  Casigliano,  duca 
di  Santa  Colomba  e  principe  di  Pitigliano,  nipote  di  papa  Clemente  XII, 
divenuto  viceré  di  Sicilia  nel  1737. 


CAPITOLO   NONO  255 

in  tanta  afflizione  e  miseria  nella  quale  eransi  le  cose  ridotte 
fldavasi  o  poteva  trovarci  rimedio,  sapendo  che  io  sarei  stato  assor- 
bito dall'infinito  numero  di  tanti  famelici  Spagnoli,  a'  quali  biso- 
gnava dar  alimento.  Non  potei  in  quest'estremo  mio  caso  giovarmi 
del  principe  Eugenio,  il  quale  aggravato  da  moleste  cure,  era  tutto 
inteso  alla  spedizione  dell'esercito,  ch'egli  dovea  comandare  al  Re- 
no, per  fronteggiare  a'  Francesi  ed  impedirgli  da  quella  parte  nuovi 
acquisti. 

Non  tralasciai  rivolgermi  a  gli  Spagnoli  stessi,  se  ben  sapessi 
che  tutto  mi  sarebbe  riuscito  inutile;  e  più  volte  pregai  il  conte  di 
Montesanto  presidente,  che  vedesse  non  dimenticarsi  di  me,  ne' 
soccorsi  che  si  davano  a'  Spagnoli  ;  trovai  sì  bene  compatimento, 
ma  da  non  sperarci  niente,  poiché  non  vi  era  nemmen  per  essi  tanto 
che  potesse  bastare.  Fui  dal  marchese  di  Rialp,  che  trovai  pur 
troppo  diverso  da  quel  di  prima,  tutto  abbattuto  e  costernato,  il 
quale  tant'era  lontano  di  potermi  aiutare,  che  piuttosto  mi  consi- 
gliava a  ritirarmi,  sicome  dicea  ch'egli  stesso  avrebbe  fatto,  per 
viver  in  pace  que'  pochi  anni  di  vita  che  gli  restavano.  Ma  ciò 
che  in  fine  fecemi  perdere  ogni  speranza  e  pensar  daddovero  a 
ricovrarmi  come  potea  meglio  altrove,  fu  il  cavalier  Garelli,  nel 
quale,  in  vece  di  conforto,  trovai  maggior  sbigottimento  e  coster- 
nazione. Egli,  che  come  bibliotecario  e  come  primo  medico  della 
persona  dell'imperadore  e  delPimperadrice  frequentava  spesso  la 
Corte,  ed  era  ben  veduto  non  men  dall'uno  che  dall'altra,  sa- 
pendo la  confusione  e  disordine  che  vi  era  dentro,  mi  disse  che, 
s'egli  fosse  solo  e  non  si  trovasse  con  tre  piccioli  figliuoli,  due 
femmine  e  un  maschio,  scapperebbe  anch'egli,  per  non  vedere 
tante  desolazioni,  e  non  essere  spettatore  di  disordini,  che  preve- 
deva in  Vienna  dover  succedere  per  tanti  Spagnoli,  che  finalmente 
dovean  vivere;  e  non  essendovi  donde  provvedergli  del  necessa- 
rio alimento,  erano  esposti  i  Viennesi  a  mille  insulti  e  pericoli  ; 
che  egli,  perché  mancavano  alla  Biblioteca  le  sovvenzioni  che  veni- 
vano da  Napoli,  Sicilia  e  Milano,  avrebbe  detto  all'imperadore  di 
voler  licenziare  i  custodi  ed  altri  ch'eran  ivi  impiegati,  e  di  serrarla 
e  portargli  le  chiavi,  affinché  ognuno  da  ora  pensasse  di  provedersi 
altrove  d'altro  impiego,  prima  che  venissero  a  mancargli  i  salari; 
onde,  come  buon  amico  mi  consigliava  a  partire  e  ricovrarmi 
come  meglio  poteva  in  Napoli,  giacché  la  dura  necessità  mi  co- 
stringeva a  farlo,  per  non  morir  in  Vienna  con  gli  altri  di  disagio 


256  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

e  di  fame,  né  bisognava  più  lusingarmi  che  l'imperadore  potesse 
altronde  assignarmi  l'equivalente;  poiché  si  era  arrivato  a  tale 
estremità,  che  nemmeno  quelli  ch'erano  neh' attuai  servizio  in  Cor- 
te, ed  i  medici  stessi  della  persona  dell' imperadore  eran  pagati 
per  più  quartali  dei  loro  salari.  Awanzandosi  di  vantaggio  a  dirmi 
che  prima,  a'  tempi  dell' imperadore  Liopoldo  e  Giuseppe,  che  non 
aveano  l'Italia,1  si  vivea  in  Vienna  meglio  e  sempre  in  abbondanza 
e  dovizia,  ed  i  costumi  de'  Viennesi  eran  più  sinceri,  leali  e  probi  ; 
ma  che  poi,  sotto  questo  imperadore,  con  tutta  l'Italia  e  Fiandra, 
le  miserie  eran  cresciute  insieme  co'  vizi  e  dissolutezze,  per  tanti 
Spagnoli  venutici;  i  quali,  profondendo  i  tesori  che  gli  venivan 
d'Italia,  aveano  ogni  cosa  corrotta,  resi  carissimi  i  prezzi  delle  ro- 
be, le  piggioni  delle  case,  i  salari  de'  servidori  e  delle  serve,  e 
tutto;  e  che  a'  Viennesi  niente  importava  la  perdita  d'Italia,  ma  i 
mali  che  temevan  eran  per  gli  Spagnoli  che  ci  restavano;  poiché  se 
coli' Italia  avessero  anche  perduto  gli  Spagnoli:  questo  per  essi 
sarebbe  stato  acquisto,  non  perdita. 

Or  chi  mi  dava  questi  consigli  e  m'esortava  a  partire  era  per- 
sona colla  quale  io  per  undici  anni  continui  ne'  quali  era  dimorato 
a  Vienna  avea  procurato  mantenermi  in  una  stretta  amicizia, 
frequentando  spesso  la  di  lui  casa;  ed  egli  mostrava  meco  tanta 
affezione  e  confidenza  che,  dovendo  seguire  l'imperadore  e  l'im- 
peradrice,  quando  si  condussero  a  prendere  le  acque  di  Carlspak2 
in  Praga,  e  poi  a  Linz,  non  ostante  che  lasciasse  suo  padre,3  vec- 
chissimo, gravemente  infermo  e  con  poca  speranza  di  trovarlo  vivo 
al  suo  ritorno,  a  niun  altro  che  a  me  raccomandò  che  dovessi  assi- 
sterlo; e  di  avvisargli  in  ogni  settimana  del  suo  stato;  sicome, 
durante  la  sua  assenza,  che  non  fu  meno  di  sei  mesi,  feci  con  tutta 
esattezza;  e  Dio  si  compiacque  di  farlo  vivere  fino  al  suo  ritorno, 
ed  alquanti  mesi  doppo,  di  ch'egli  mostravasi  meco  tanto  obbli- 
gato e  soddisfatto.  Era  persona  alla  quale  niente  era  in  corte  ascoso 
e  che  sapeva  gPintimi  penetrali  di  quella  e  quanto  valesse;  ma, 
sopra  tutto  persona  cotanto  doviziosa  e  ricca,  che  al  vasto  suo  patri- 
monio aggiunta  l'eredità  opulentissima  lasciatagli  dal  padre,  co- 
munemente si  credea  che  possedesse  per  almanco  mezzo  milione 
di  fiorini. 

1.  a*  tempi ,  . .  Italia:  i  possessi  spagnoli  in  Italia  passarono  all'impero  al 
seguito  della  guerra  per  la  successione  al  trono  di  Spagna.  2.  Carlspak: 
Karlsbad.     3.  suo  padre:  Giovan  Battista  Garelli  (e  cfr.  la  nota  a  p.  96). 


CAPITOLO    NONO  257 

Or,  chi  non  si  sarebbe  sgomentato,  sentendo  da  un  tal  uomo  sì 
infelici  pronostici  di  mali  più  gravi  che  soprastavano  ?  Io  gli  risposi 
che  mi  sarei  appigliato  a*  suoi  consigli,  ma  lo  pregava  che,  prima 
di  dar  questo  passo,  mi  facesse  la  grazia,  avendo  sì  spesse  occasioni 
di  parlare  alla  Maestà  dell' imperadore,  che  per  me  lo  pregasse; 
e  se  mai  non  vi  fosse  speranza  d'altro  soccorso,  che  mi  desse  per- 
missione di  tornarmene  in  Napoli,  o  dove  il  mio  fatai  destino  m'a- 
vrebbe condotto.  Mi  promise  di  farlo,  e  finalmente  n'ebbi  questa 
risposta:  che  avendone  parlato  con  Sua  Maestà,  mostrò  rincre- 
scergli la  mia  partenza,  ma  che  bisognava  cedere  al  tempo  ;  ch'egli 
avea  per  ciò  fatto  intendere  al  conte  di  Conversano,1  al  principe  di 
Ottaiano3  ed  altri  Napolitani,  che  avean  prese  per  lui  l'arme  e 
che  si  trovavano  a  Venezia,  che  tornassero  in  Napoli  alle  lor  case; 
e  che,  se  le  cose  cambiassero  aspetto,  non  si  sarebbe  dimenticato 
della  loro  divozione  e  lealtà  usata  verso  di  lui. 

Questa  fu  la  scure  che  recise  tutte  le  mie  speranze;  sicché  mi 
determinai  a  partire,  e  lasciando  Vienna  per  dura  necessità,  espormi 
alla  discrezione  de'  miei  persecutori,  incolpando  la  mia  rea  sorte, 
che  avea  permesso  che,  per  altrui  trascuraggine,  sciocca  presun- 
zione e  stupidezza,  venisser  a  mancarmi  le  più  forti  colonne, 
ond'io  era  sostenuto. 

Intanto  tirava  avanti  in  Vienna  a  mie  proprie  spese;  e  finito 
quel  poco  contante  che  avea,  non  mi  rimaneva  altro  ricorso,  se 
non  dar  di  piglio  al  capitale  de'  mille  fiorini,  che  teneva  nel  Banco 
della  città.  Tentai  di  vender  qualche  libro  della  mia  picciola  bi- 
blioteca, che  a  poco  a  poco  avea  accresciuta  al  valore  di  circa  mille 
altri  fiorini;  ma  per  Puniversal  costernazione,  o  non  si  trovavano 
compratori,  essendosi  tutti  ristretti  nelle  spese,  o  pure  bisognava 
buttargli  per  vilissimo  prezzo:  ciocché  non  volli  fare.  Adunque 
pensai  di  valermi  di  parte  di  quel  capitale;  ed  essendo  già  entrati 
nel  mese  di  giugno,  mandai  al  Banco,  per  riscuoterne  duecento 
fiorini;  e  mi  fu  risposto  che,  correndo  tutti  a  prendersi  i  loro  capi- 
tali, si  era  dato  ordine  di  non  restituirgli,  poiché  altrimenti  il 
Banco  sarebbe  fallito  ;  ma  che  si  desse  un  poco  di  tempo,  che  fra 


1.  conte  di  Conversano:  il  conte  Giulio  Antonio  Acquaviva  d'Aragona,  sul 
quale  cfr.  la  nota  4  a  p.  92.  2.  Giuseppe  Medici  di  Ottaiano  (morto  nel 
I743)>  duca  di  Sarno  e  principe  del  Sacro  Romano  Impero.  Fu  reggente 
di  Vicaria,  ministro  plenipotenziario  imperiale,  pretendente  al  granducato 
di  Toscana  dopo  la  morte  di  Gian  Gastone  nel  1737. 


258  VITA  DI    PIETRO    GIANNONE 

breve  i  capitali  piccoli  sarebbero  interamente  restituiti,  ed  i  grossi 
parte  a  parte  con  qualche  intervallo  di  tempo. 

Cominciava  già  co*  propri  occhi  a  vedere  le  miserie  presaggite; 
ciascuno  dalle  grandi  abbitazioni  passava  alle  picciole;  chi  di  qua 
levava  la  carrozza,  e  chi  di  là  scemava  il  numero  de*  servidori  e 
delle  serve.  Non  vi  era  da  sperar  da  altri  soccorso;  anzi,  in  vece  di 
conforto,  si  trovavano  guai  peggiori,  lamenti  e  finimondi.  Ma  il 
maggior  mio  cordoglio  e  51  dolore  che  amaramente  mi  trapassava 
il  cuore,  era  il  vedere  la  mestizia  e  l'afflizione  delle  mie  ospiti,  le 
quali  né  potevano  esser  da  me  soccorse,  né  io  dalla  lor  povertà 
potea  sperarne  aiuto. 

Tentai  infine  ogni  mezzo,  passato  come  Dio  volle  il  mese  di 
giugno,  che,  con  molti  impegni  d'amici  mi  fossero  restituiti  dal 
Banco  nel  mese  di  luglio  seicento  fiorini.  Così  respirai;  e  pagato  il 
piggione  ed  il  salario  del  servidore  e  delle  serve,  mi  determinai 
partire  verso  la  fine  dell'entrante  mese  d'agosto.  Avrei  potuto  tirar 
la  mia  dimora  in  Vienna  l'imminente  inverno;  ma  sempre  più  le 
cose  peggiorando,  e  pensando  che  prolungandola  fin  alla  ventura 
primavera  io  mi  avrei  consumato  il  contante  e  ridottomi  in  istato 
di  non  aver  denaro  per  un  sì  lungo  viaggio,  fu  dura  necessità  di 
affrettarlo  quanto  più  presto  si  potesse;  e  dovendomi  condurre  a 
Napoli  per  la  via  di  Triesti,  ed  imbarcarmi  ivi,  e  per  l'Adriatico 
far  la  strada  di  Venezia  e  di  là  portarmi  a  Manfredonia,  non  voleva 
che  la  stagione  si  avanzasse  tanto,  sicché  quel  mare  si  rendesse 
infesto  e  procelloso.  Trovai  per  buona  sorte  per  compagno  l'abate 
Cusani1  mio  amico,  che  ritornavasene  pure  a  Napoli  facendo  la 
stessa  strada,  il  quale  non  poco  mi  allegerì  la  cura  e  l'incommodo 
del  viaggio. 

Avvisai  intanto  a  Napoli  a  mio  fratello  la  dura  necessità  che  mi 
costringeva  di  ritirarmi,  e  vivere  que'  pochi  anni  che  mi  restavano 
a  me  stesso,  nella  solitudine  di  «Due  Porte»,  dove  io  pensava, 
fuor  d'ogni  umano  consorzio,  finire  i  miei  giorni;  il  quale,  nel 
tempo  stesso  che  mostrava  di  compatirmi,  non  potè  nascondere 
la  dispiacenza  che  avea  del  mio  ritorno,  come  quello  che  avrebbe 
dissipati  tutti  i  mal  concepiti  disegni  sopra  la  mia  roba. 

1.  Cusani:  Marcello  Papiniano  Cusano,  professore  di  diritto  civile  a  Tori- 
no dal  1725  al  1727.  Conobbe  a  Vienna  il  Giannone  di  cui  divenne  amico. 
Dal  1734  insegnò  all'Università  di  Napoli,  dove  ebbe  come  discepoli  An- 
tonio Genovesi  e  Ferdinando  Galiani.  Nel  1753  vescovo  di  Otranto  e  Tan- 
no seguente  di  Palermo.  Morì  nel  1766. 


CAPITOLO   NONO  259 

Non  mancai  di  prender  concedo  da'  ministri  del  Consiglio  di 
Spagna  e  dal  presidente,  i  quali  compatendo  il  mio  caso,  deplo- 
ravano se  stessi  e  lo  stato  infelice  nel  quale  eransi  ridotte  le  cose, 
che  non  pativa  alcun  rimedio  ;  sicome  feci  con  tutti  gli  altri  buoni 
amici,  i  quali  accrescevano  maggiormente  la  mia  afflizione,  mo- 
strando di  questo  mio  partire  intenso  dolore  e  somma  dispiacen- 
za. Infra  gli  altri,  l'amatissimo  Forlosia,  il  caro  Gabriel  Longo- 
bardi, medico  della  persona  dell'imperadore  e  mio  affettuosissimo 
amico,  ed  il  dotto,  savio  e  gentile  Bernardo  Lama,1  di  cui  io  am- 
mirava non  meno  la  somma  perizia  delle  lingue,  che  la  profonda 
dottrina  in  tutte  le  più  serie  scienze  che  adornavano  il  suo  bell'ani- 
mo. Solo  il  cavalier  Garelli,  come  se  si  togliesse  dalle  sue  spalle  un 
grave  peso,  mostrò  del  mio  partire  non  già  dispiacere,  ma  con- 
tento ;  o  perché  vedesse  allontanarmi  dalle  miserie  che  presaggiva, 
ovvero  perché  temesse,  essendo  quanto  ricco  altrettanto  avaro, 
non  dovess'io,  ne'  miei  bisogni,  incommodarlo  con  chiedergli  soc- 
corso. Il  tempo,  scopritore  del  vero,  forse  ne  manifesterà  le  vere 
cagioni. 

Intanto,  io  ricuperai  al  Banco  i  restanti  quattrocento  fiorini; 
ed  intorno  a'  libri,  vedendo  che  avrei  dovuto  gittarli  per  ritrarne 
qualche  somma,  stimai  meglio  portarli  meco;  e  fattigli  ben  acco- 
modare in  casse,  gli  stradai  per  Triesti.  Tutti  i  mobili  e  suppellet- 
tili delle  mie  stanze  gli  lasciai  alla  Fraile  Ernestina  di  Laxenhoffen, 
per  gratitudine  dell'amore  e  sollecitudine  che  teneva  di  me  e  delle 
cose  mie,  e  per  compensarle  in  parte  de'  tanti  incommodi  presisi 
per  me  con  tanta  affezione  e  cordialità,  che  nell'età  mia  avanzata 
e  bisognosa  d'affettuosa  cura,  non  avrei  potuto  ottener  maggiore 
se  fossi  stato  fra'  miei  più  stretti  congionti.  E  la  gratitudine  che 
le  devo  e  gli  obblighi  che  le  professo,  mi  costringono  ad  averne 
perpetua  ed  indelebil  memoria.  Né  fin  che  io  viva,  o  lontananza 
di  luogo  o  lunghezza  di  tempo,  né  le  tante  persecuzioni,  angoscie 
e  patimenti  sofferti  han  potuto,  o  potranno  cancellar  dalla  mia 
mente  le  sublimi  virtù  sue  ed  i  suoi  innocentissimi  costumi.  E 
credo  fermamente  che,  grande  che  fosse  l'affezione  che  io  le  por- 
to, non  m'inganni,  né  ingrandisca  fuor  del  vero  l'eminenti  e  rari 
suoi  preggi,  ed  oso  dire  che  poche,  a'  dì  nostri,  possino  pareg- 

1.  Bernardo  Andrea  Lama  (morto  nel  1760  circa),  napoletano,  professore 
di  greco,  poi  di  eloquenza  allo  Studio  torinese  dal  1717,  trasferitosi  a 
Vienna  nel  1730. 


2Ó0  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

giarla,  almanco  di  quante,  nel  corso  di  mia  vita,  ho  avuta  oppor- 
tunità di  conoscere  in  Germania  ed  in  Italia. 

Ravvisava  in  lei  una  somma  pietà,  non  tralasciando,  Tore  mat- 
tutine alzata  di  letto  impiegarle  in  divote  orazioni,  e  dopo  portarsi 
in  chiesa  ed  intervenire  al  sacrificio  della  messa;  indi,  ritirata  a 
casa  con  indefessa  applicazione  regolare  le  cose  domestiche  ed  at- 
tendere a'  suoi  lavori.  Nelle  domeniche  ed  altri  giorni  festivi  ces- 
savano le  opere  manuali,  ed  era  tutta  intesa  o  nelle  chiese  ad  ascol- 
tar le  prediche,  o  in  casa  a  leggere  e  rileggere  la  Scrittura  santa  del 
vecchio  e  nuovo  Testamento,  che  teneva  tradotta  in  lingua  aie- 
mana;  ed  erane  così  istrutta,  che  sovente  conferendo  i  passi  ed  i 
luoghi  allegati  da'  predicatori,  né  trovandogli  conformi,  notava  gli 
abbagli,  desiderando  in  quelli  maggior  memoria  ed  accuratezza. 
Riponeva  in  Dio  ogni  sua  fiducia,  ed  in  Giesù  Cristo,  come  unico 
e  solo  mediatore  fra  Dio  e  gli  uomini,  e  de'  santi  avea  quella  vene- 
razione che  lor  deesi  come  a*  servi  di  Dio  ed  imitatori  di  Cristo. 

Verso  madama  Laxenhoffen  sua  madre  aveva  un  rispetto  ed  una 
riverenza  sì  grande,  che  anche  i  di  lei  difetti  con  l'altre  due  so- 
relle qualificava  per  leggieri  e  degni  di  compatimento  ;  sicché  do- 
vessero pazientemente  tollerarli,  ed  amarla  e  rispettarla  come  lor 
madre.  La  concordia  ed  union  d'animo  fra  di  loro  era  mirabile: 
sembravami  che  uno  spirito  reggesse  i  tre  loro  corpi  :  non  vidi  mai 
nascer  fra  di  loro  briga  o  contensione  alcuna  e  la  Fraile  Ernestina 
ancorché  fosse  minore  a  riguardo  della  prima,  con  tutto  ciò  que- 
sta, per  l'eccellenti  virtù  che  ammirava  in  lei,  volentieri  la  secon- 
dava; ed  all'incontro  ella  con  moderazione,  senz'abusarsene,  va- 
levasi  di  quella  subordinazione,  che  tutti  di  casa  le  mostravano. 
Ed  a  ragione  il  facevano,  poiché  per  accuratezza,  sollecitudine  ed 
abilità,  bisognava  che  tutti  le  cedessero.  Ella  nell'economia  e  go- 
verno di  casa,  ne'  sottili  e  delicati  lavori  delle  dita,  nelle  maniere 
gentili  e  cortesi,  nella  soavità  delle  parole  e  nel  tratto,  non  avea 
pari:  sicché  tirava  l'amore  di  quanti  avean  occasione  di  trattarla, 
e  dalle  serve  stesse  era  non  più  temuta,  che  amata  e  rispettata. 
Ma  sopra  tante  virtù  che  l'adornavano  s'innalzava  in  lei  la  for- 
tezza d'animo  in  pazientemente  tollerare  le  mondane  sciagure,  dal- 
le quali  sovente  si  vide  premuta  e  quasi  che  oppressa.  Ella  soffrì 
doppo  la  morte  del  vecchio  Plekner1  suo  avo,  le  miserie  più  estreme 

i.  Plekner:  cfr.  la  nota  6  a  p.  109. 


CAPITOLO   NONO  2ÓI 

che  possano  accadere  a'  più  disgraziati  uomini  della  terra,  che  in 
narrandole  non  poteva  non  trarre  dalle  bocche  e  dagli  occhi  de* 
più  duri  se  non  sospiri  e  copiose  lagrime;  ma  la  tolleranza  con  la 
quale  le  sosteneva,  fu  maggiore  delle  calamità  sofferte:  sempre 
confidando  in  Dio,  fervorosamente  pregandolo  che  le  desse  forza 
in  sostenerle,  quando  non  le  piaceva  di  darle  fine.  Da  ciò  avvenne 
che  verso  i  poveri  e  bisognosi  era  sì  misericordiosa  e  benefica,  che 
sovente  toglieva  di  sua  bocca  il  cibo,  per  somministrarlo  ad  essi; 
e  solea  dire  che  niuno  sapeva  meglio  aver  compassione  degli  afflitti, 
se  non  quelli  i  quali  aveano  provato  quanto  fosse  terribile  la  faccia 
della  miseria,  e  ne'  loro  bisogni  avean  trovato  chi  gli  desse  aiuto 
e  conforto. 

Or  come  io,  commemorando  queste  insigni  virtù  che  Tornava- 
no, potrò  contenermi  dalle  lagrime,  avendomi  il  duro  mio  fato 
diviso  da  persona  cotanto  cara  ed  amabile,  ed  averla  dovuto  lasciare, 
forse  in  pericolo  di  non  tornar  all'antiche  miserie,  senza  che  io  da 
sì  lontani  paesi  o v'era  mcamminato  potessi  sovvenirla  e  sottrarla 
da  qualche  necessità,  dove  il  suo  e  mio  crudel  destino  potesse  con- 
durla ?  Ciascuno  da  ciò  potrà  comprendere  qual  fosse  stato  il  no- 
stro comun  dolore  per  una  sì  dura  divisione.  E  qual  fosse  stata  la 
mia  indignazione  in  maledire  coloro  che  furon  cagione  di  tante 
confusioni  e  disordini;  poiché  tanti  mali  non  da  altro  provenivano 
che  dalla  lor  sciocchezza,  fatuità  e  pazza  presunzione  ed  alteriggia. 
Bisognò  adunque  cedere  a'  fati,  e  l'unico  mio  conforto  era  la  di 
lei  sperimentata  costanza,  la  quale,  sicome  l'avea  fatto  paziente- 
mente soffrire  le  passate  sciagure,  così  coraggiosamente  sostenesse 
le  presenti.  Ed  ella  era  disposta  di  farlo,  tanto  maggiormente  che 
io  le  promisi  che,  in  qualunque  luogo  io  fossi,  non  avrei  mancato 
soccorrerla  ne'  suoi  bisogni,  per  quanto  la  mia  fortuna  e  le  poche 
mie  forze  avrebber  permesso  ;  sicome  non  mancai,  non  solo  prima 
di  partire,  ma  dimorando  a  Venezia,  di  confermare  co'  fatti  queste 
mie  sincere  e  leali  promesse. 

Partii  coli' abate  Cusani  da  Vienna,  a'  29  di  agosto  di  quest'anno 
1734,  dopo  esserci  dimorato  undici  anni  e  tre  mesi,  e  ritornando 
per  la  medesima  strada  di  Gratz  e  Lubiana  giunsi  dopo  dieci  gior- 
ni di  cammino  a  Triesti;  dove  dimorati  due  dì,  fin  che  non  si  tro- 
vasse imbarco,  fatte  trasportare  le  casse  de'  miei  libri  sopra  una 
peota  veneziana,  ci  avviammo  per  Venezia,  e  ci  riuscì  così  infelice 


2Ó2  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

questo,  ancorché  breve,  viaggio  marittimo,  che  ci  convenne  due 
giorni  fermarci  in  un  canale  dentro  le  lacune  prossime  a  Caurli,1 
poiché  il  vento  contrario  c'impediva  prender  mare,  per  condurci  a* 
porti  di  Venezia.  Finalmente,  cessato  il  vento  dopo  tre  notti  di 
patimenti,  si  proseguì  il  viaggio,  e  si  giunse  a  Venezia  a'  14  di 
settembre;  e  fummo  dal  padron  della  peota  condotti  nelle  stanze 
d'una  locandiera,  alla  casa  detta  «della  Verona». 

Quivi,  malconcio  da'  sofferti  patimenti  di  quelle  tre  notti  in 
mezzo  alle  lacune,  cominciai  ad  infermarmi;  ed  avendo  fatte  con- 
durre le  casse  de'  libri  nella  doana,  affinché  non  si  aprissero  do- 
vendo essere  trasportate  altrove,  attesi  a  ristabilirmi  in  salute  nel 
meglio  che  poteva,  e  sollecitare  la  partenza  per  Manfredonia,  pri- 
ma che  avanzandosi  la  stagione,  i  tempi  non  ci  rendessero  pericolo- 
sa, o  almanco  più  incommoda  la  navigazione.  Per  far  ciò,  due  cose 
bisognavano  :  trovar  commoda  nave  che  ci  conducesse,  ed  ottenere 
dalPambasciador  di  Spagna,  residente  a  Venezia  i  passaporti,  si- 
come  gli  altri  Napolitani  facevano,  volendo  condursi  nel  regno  di 
Napoli,  passato  già  sotto  la  dominazione  di  Spagna. 

Ristabilitomi  alquanto,  mi  portai  dall'ambasciadore,  ch'era  il 
conte  di  Fuenclara  :2  gli  dissi  chi  io  era,  e  narrandogli  i  miei  suc- 
cessi e  la  dura  necessità  che  mi  costringeva  a  ritirarmi  a  Napoli, 
lo  pregai  concedermi  il  passaporto,  sicome  faceva  a  gli  altri  Na- 
politani. Con  molta  cortesia  e  gentilezza  si  offerì  di  darmelo,  e 
che  avrebbe  imposto  al  secretano  di  spedirmelo;  anzi,  occorrendo 
ne'  di  prossimi  di  dover  celebrare  nel  suo  palazzo  il  compleanno 
del  principe  d'Asturias,3  m'invitò  la  sera  d'intervenirvi,  ed  a  go- 
dere de'  rinfreschi  e  di  una  scelta  musica  che  avea  fatto  preparare. 
Le  resi  molte  grazie,  e  promisi  che  non  avrei  mancato  d'adem- 
pire al  mio  dovere  e  di  godere  delle  benignissime  sue  grazie;  sico- 
me ci  andai,  ed  ebbi  l'opportunità  di  incontrarmi  ivi  col  principe 
Trivulzi4  e  col  marchese  Visconti,  che  io  avea  conosciuto  a  Vienna, 
col  marchese  Valignani,  col  duca  di  Mondragone  ed  altri  nostri 

1.  le  lacune  v  .  Caurli:  le  lagune  di  Caorle,  tra  il  Tagliamento  e  il  Piave. 

2.  Il  conte  di  Fuenclara,  in  un  primo  tempo,  servi  anche  come  rappresen- 
tante di  Carlo  III.  Fu  trasferito  alla  sede  di  Vienna  nel  1736:  cfr.  M. 
Schip  a,  Il  regno  di  Napoli,  cit.,  pp.  149,  166  sgg.  3.  principe  d'Asturias: 
il  futuro  re  di  Spagna  Ferdinando  VI  (1713-1759).  4.  principe  Trivulzi: 
Alessandro  Teodoro  Trivulzio  (1694-1763),  conte  e  principe  del  Sacro  Ro- 
mano Impero,  fondatore  della  celebre  Biblioteca  Trivulziana.  Rimasto  fe- 
dele all'imperatore,  durante  la  dominazione  sabauda  della  Lombardia  pre- 
ferì trasferirsi  a  Venezia. 


CAPITOLO   NONO  263 

Napolitani  ;  ed  ebbi  la  fortuna  di  conoscere  l'ambasciador  di  Fran- 
cia, il  quale  mi  usò  gran  gentilezze  e  cortesie. 

Nel  tempo  stesso,  saputosi  a  Venezia  il  mio  arrivo,  essendomi 
una  mattina  portato  nella  piazza  di  San  Marco,  mi  vidi,  fuor  d'ogni 
mia  aspettazione,  circondato  da  un  gran  numero  di  gentiluomini; 
tutti  salutandomi  per  nome,  e  l'uno  additandomi  all'altro,  concor- 
revano per  vedermi  e  farmi  esibizioni  così  affettuose  e  gentili,  che 
io,  pieno  di  confusione,  appena  bastava  a  rendergli  grazie  ed  a 
rispondere  alle  tante  domande  che  mi  facevano,  spezialmente  della 
mia  partenza  da  Vienna,  e  dove  pensava  incamminarmi.  Dettagli 
la  cagione,  ed  il  mio  intento  di  ritirarmi  in  Napoli  e  vivere  que' 
pochi  anni  che  mi  restavano  a  me  stesso  ed  a'  miei  studi,  comin- 
ciarono a  pregarmi  che  io  rimanessi  presso  di  loro,  che  non  mi 
sarebbe  riuscita  ingrata  la  dimora  in  una  città  dove,  per  la  mia 
Istoria  civile  che  teneano  riposta  nella  loro  pubblica  biblioteca, 
il  mio  nome  erasi  reso  cotanto  chiaro  ed  illustre;  e  che  non  poteva 
altrove  trovar  quella  stima,  che  i  Veneziani  avrebbero  avuto  della 
mia  persona,  e  replicandogli  che  la  mia  età  avanzata  dovea  ormai 
farmi  pensare  ad  un  onesto  ritiro,  non  per  questo  cessavano  d'in- 
sistere che  io  non  partissi.  Ed  erami  non  men  di  confusione  che 
di  stupore  il  vedere  che,  camminando  per  le  strade,  non  vi  era 
gentiluomo  col  quale  io  m'incontrava,  che  non  mi  salutasse  per 
nome,  e  non  si  fermasse  per  parlarmi.  Se  passava  per  la  strada  de' 
librari,  si  affollavan  tutti  per  conoscermi,  ed  ogni  cittadino  mostra- 
va la  stessa  curiosità;  e  sempre  che  io  era  nella  piazza  di  San  Mar- 
co, si  tornava  allo  stesso  ;  sicché  rincrescendomi  di  vedermi  sempre 
esposto  a  gli  occhi  di  tanti,  che  sovente  m'impedivano  di  far  i  fatti 
miei,  dissi  all'abate  Cusani  che  affrettasse  il  padron  della  nave,  col 
quale  si  era  già  convenuto  del  nostro  imbarco  per  Manfredonia,  e 
procurasse  di  far  trasportare  le  casse  de'  libri  e  l'altre  robe  su  la 
nave,  per  partire;  ma  colui,  anche  dopo  il  trasporto  della  roba, 
prolungava  la  partenza,  ora,  come  sogliono  i  marinari,  perché  il 
vento  non  era  propizio,  ora  sotto  altro  pretesto. 

In  questo  vennemi  a  parlare  Domenico  Pasqualigo,  gentiluomo 
veneziano  di  famiglia  tanto  antica  quanto  illustre,  e  fratello  del 
Riformatore  degli  studi  di  Padoa,  dicendomi  che  vacando  in 
quella  Università  la  cattedra  primaria  del  ius  civile,  i  riformatori 
volentieri  l'avrebbero  a  me  conferita,  pur  che  fosse  di  mio  piacere, 
e  che,  a  mio  riguardo,  avrebbero  accresciuto  il  soldo,  affinché  io 


264  VITA    DI    PIETRO    GIANNONE 

non  partissi  da  Venezia,  poiché  la  Repubblica  cercava  ogni  mezzo, 
per  avermi  a'  suoi  stipendi.1 

Le  resi  molte  grazie  dell'offerta,  ma  che  con  somma  mia  di- 
spiacenza non  poteva  accettarla,  poiché  se  bene  la  mia  professione 
d'avvocato  mi  obbligasse  di  sapere  il  ius  civile,  sicome  non  ne  era 
ignaro,  nulladimanco  non  avendolo  mai  come  lettore  insegnato 
nelle  cattedre,  mancavami  l'esercizio;  ed  ora,  ch'era  d'età  avanzata, 
pareami  difficile  di  poterlo  fare  con  quell'esattezza  e  magistero 
che  si  converrebbe  in  una  sì  degna  Università  ornata  di  tanti  illustri 
professori;  e  la  mia  vecchiaia  non  permetteva  di  affaticarmi  in 
un  mestiere,  che  per  me  sarebbe  nuovo,  nel  quale  ci  sarei  riuscito 
pur  troppo  infelice  ed  infacondo.  Ma  che  io,  costretto  da  tanta 
beneficenza  ed  affezione,  ancorché  fossi  deliberato  di  ritirarmi,  con 
tutto  ciò  per  mostrar  gratitudine  e  corrispondere  ad  un  tanto 
favore,  io  offeriva  ogni  mia  opera,  che  fosse  propria  della  mia  pro- 
fessione e  de'  miei  studi,  e  di  rimanermi,  impiegandomi  in  altre 
cariche,  che  fossero  a  me  proporzionate  e  di  maggior  servizio  della 
Repubblica. 

Questa  mia  moderata  e  sincera  risposta  crebbe  maggiormente 
presso  que'  gentiluomini  la  mia  stima  ed  il  desiderio  di  ritenermi  ; 
sicché  soddisfatti  delle  mie  ragionevoli  scuse,  ancorché  trattenes- 
sero più  mesi  di  provveder  ad  altri  la  cattedra,  si  posero  a  pensar 
altre  occasioni  di  mio  accommodamento,  nel  caso  volessi  fermarmi 
a  Venezia.  Intanto,  non  cessavano  a  gara  onorarmi  ora  con  visite, 
ora  con  inviti  alle  loro  tavole,  ora  in  condurmi  a  scórre  le  cose  più 
rimarcabili  della  città  e  più  magnifici  edifici  delle  chiese,  conventi 
e  de'  superbi  loro  marmorei  palazzi,  ed  ora  nelle  splendide  e  son- 
tuose lor  feste. 

Mentre  io  mi  tratteneva  a  Venezia,  ecco  che  l'ambasciador  di 
Spagna  mi  manda  ad  avvisare  che  io  differissi  la  partenza,  per 
nuovo  accidente  sopragiunto;  ed  essendomi  portato  dal  medesimo 
insieme  col  marchese  Valignani,  per  saperne  la  cagione,  mi  disse 
ch'eragli  stato  proibito  di  darmi  passaporto  per  Napoli,  finché  non 
ricevesse  lettera  dal  conte  di  Santo  Stefano,2  primo  ministro  del- 

1.  vennemi  , . .  stipendi:  su  questa  offerta  cfr.  L.  Marini,  Documenti  del- 
l'opposizione curiale  a  Pietro  Giannone,  in  «  Rivista  Storica  Italiana  »,  lxxix 
(1967),  doc.  n.°  xxxii.  Riformatore  degli  studi  di  Padoa  era  Giovanni  Pasqua- 
Ugo  (1 667-1752);  su  di  lui  cfr.  J.  Facciolati,  De  Gymnasio  patavino  syn- 
tagmata,  Patavii  1753,  pp.  162-3.  2.  conte  di  Santo  Stefano:  Manuel  de 
Benavides  y  Aragón,  conte  di  Santisteban  del  Puerto  (1682-dopo  il  1738), 


CAPITOLO   NONO  265 

l'Infante  don  Carlos  in  Napoli,  per  sua  regola.  Rimasi  sorpreso 
delle  novità;  e  poiché  dall' ambasciador  di  Francia  residente  in 
Venezia  riceveva  continui  favori,  sovente  invitandomi  seco  a  pran- 
zo, fui  a  pregarlo,  che  se  mai  sapesse  donde  fosse  venuta  tal 
novità,  non  volesse  nascondermela  per  mia  istruzione.  E  mi  palesò 
che  l'ambasciador  di  Spagna  avea  ricevuta  lettera  da  Roma  da 
monsignor  Ratto,1  vescovo  di  Cordova,  che  si  trovava  allora  in 
Roma  ministro  del  re  di  Spagna,  colla  quale  se  l'imponeva  a  non 
darmi  passaporto  per  Napoli,  se  prima  non  ne  avesse  avviso  dal 
conte  di  Santo  Stefano. 

Compresi  subito  che  il  colpo  veniva  dalla  corte  di  Roma;  la 
quale,  sicome  mal  soffriva  la  mia  dimora  nell'imperial  corte  di 
Vienna,  non  voleva  che  io  tornassi  in  Napoli,  temendo  forse  che  io, 
nella  Corte  d'un  nuovo  principe,  non  fossi  adoperato  e  sommini- 
strassi materia  di  nuove  brighe  e  contese  giurisdizionali:  nel  che 
molto  s'ingannava,  poiché  io  né  presso  quella  Corte  avea  alcun 
merito  o  stima  che  volesse  valersi  della  mia  persona,  né  mi  ri- 
tirava in  Napoli,  se  non  per  vivere  a  me  stesso,  in  una  solitudine. 

La  mia  partenza  da  Vienna,  sicome  la  cagione,  erasi  resa  a  tutti 
palese  e  manifesta;  ed  il  nunzio  Passionei  immantinente  l'avvisò  in 
Roma,3  colle  minute  circostanze  del  cammino  preso  per  Venezia, 
per  avere  il  passaporto  per  Napoli,  sicome  gli  altri  Napolitani, 
che  partivano  da  Vienna,  facevano:  e  ciò  facendo  credette  fare 
un'opera  egreggia  e  meritoria,  adempiendo  il  dovere  del  suo  uffi- 
cio, il  quale,  secondo  il  concetto  che  n'avea  papa  Benedetto  XIII, 
in  queste  cose  consiste  e  si  riduce.3  Sicché  in  Roma  si  ebbe  tempo 
di  poter  circonvenire  quel  ministro  e  come  nuovo  e  che  di  me 
forse  e  della  mia  Istoria  non  avea  notizia  alcuna,  descriverla  come 
si  facea  con  quelli  che  non  l'avean  letta,  per  empia  ed  eretica,  ed 
il  suo  autore  per  non  meno  empio  e  miscredente. 

Né  io  mi  lusingava  che  le  stesse  arti  maligne  non  si  fossero 


figlio  del  viceré  di  Napoli  Francisco,  precettore  di  don  Carlos,  quindi  suo 
maggiordomo  (e  primo  ministro  effettivo  dal  1734),  fu  la  mente  grigia  della 
nuova  monarchia,  pur  senza  ricoprire  cariche  specifiche,  sino  al  1738.  Su 
di  lui  cfr.  M.  Schipa,  II  regno  di  Napoli,  cit.,  pp.  71-2  e  passim.  1.  mon- 
signor Ratto:  Thomaso  Rato  y  Ottonelli  (1 682-1738),  vescovo  di  Cordoba 
dal  1731,  e  ambasciatore  di  Spagna  presso  la  Curia  romana.  Il  testo  della 
lettera  in  Guznnoniana,  p.  40.  2.  il  nunzio  . .  .  Roma:  cfr.  Bertelli,  pp. 
193-4;  Giannoniana,  p.  160;  L.  Marini,  Documenti  dell'opposizione  curiale, 
cit.,  doc.  n.° xxii.     3.  il  quale . . .  riduce:  cfr.  quanto  ha  già  scritto  a  p.  124. 


2Ó6  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

adoperate  col  conte  di  Santo  Stefano  in  Napoli,  sicché  dal  mede- 
simo non  s'avesse  da  ricevere  un  simile  divieto  ;  sicome  l'evento  il 
dimostrò;  poiché  non  passarono  molti  giorni,  che  l'ambasciador  di 
Spagna  ebbe  lettera  da  Napoli  dal  conte,  che  mi  negasse  il  passa- 
porto; anzi  seppi  dapoi,  che  avea  mandati  ordini  a'  confini  del 
Regno  a'  commandanti  di  quelle  piazze,  che  ancorché  fossi  mu- 
nito di  passaporti  de'  ministri  di  Spagna  o  di  Francia,  non  mi 
lasciassero  entrare  nel  Regno.1 

Non  meno  l'ambasciador  di  Spagna  che  quello  di  Francia  rima- 
ser sorpresi  della  proibizione  che  si  faceva  ad  un  naturale  del  Re- 
gno di  non  potersi  ritirare  in  sua  patria,  quando  di  là  non  era  uscito 
bandito  o  esiliato,  ma  per  portarsi  all'imperiai  corte  di  Vienna,  a' 
piedi  dell'imperadore,  allora  suo  sovrano,  dal  quale  era  stato  be- 
nignamente accolto  e  mantenuto  nella  sua  Corte,  con  assignargli 
certo  stipendio;  dov'era  dimorato  per  undici  anni  e  tre  mesi,  e 
che  ancor  ivi  sarebbe,  se  la  mutazione  de'  domìni  e  Stati  d'Italia 
non  avesser  cambiate  le  cose;  e  che  se,  portatosi  a  Venezia,  si  fa- 
ceva da  quella  Repubblica  ogni  sforzo  per  ritenerlo  e  non  farlo 
partire,  ora  dovesse  impedirseli  il  ritorno  alla  sua  propria  patria, 
e  non  per  altro,  se  non  per  compiacere  alla  corte  di  Roma,  che 
non  lo  voleva  in  Napoli.  Da  ciò  mosso,  l'ambasciador  di  Spagna, 
compatendo  il  mio  caso  infelice,  mi  incoraggi  a  star  di  buon  animo, 
ch'egli  ne  avrebbe  scritto  alla  corte  di  Madrid,  e  che  io  formassi 
un  pieno  memoriale  alla  Maestà  del  re  di  Spagna,  Filippo  V, 
che  l'avrebbe  trasmesso  ed  accompagnato  con  le  sue  lettere  alla 
Corte,  e  scritto  al  primo  ministro  Patigno,2  di  cui  egli  avea  la  ni- 
pote per  moglie,  il  torto  che  mi  si  faceva  d'impedirmi  il  ritorno  a 
Napoli.  Di  che  io  gli  resi  molte  grazie,  e  promisi  portargli  il  me- 
moriale. 

Intanto,  per  una  sì  improvisa  novità  mandai  a  tòr  le  mie  robe 
e  le  casse  de'  libri  dalla  nave,  e  procurai  partendo  l'abate  Cusani, 
di  cercar  altra  abitazione  più  commoda,  giacché  dovea  trattenermi 
in  quell'imminente  inverno  a  Venezia.  E  trovatala  acconcia  a'  miei 


i.  mandati . . .  Regno:  cfr.  Vita,  ed.  Nicolini,  p.  295,  in  nota,  e  Giannoniana, 
pp.  40  sgg.  2.  Patigno  :  Joseph  Patino  (1666-1736),  nato  a  Milano  da  nobi- 
le famiglia  aragonese,  gesuita,  lasciò  l'ordine  per  porsi  al  servizio  di  Fi- 
lippo V  di  Spagna,  e  dal  1726,  senza  ricoprire  cariche  ufficiali,  ebbe  di  fatto 
in  mano  il  governo  di  Spagna,  forte  dell'appoggio  della  regina  Elisabetta 
Farnese. 


CAPITOLO  NONO  267 

bisogni,  passai  a'  24  del  mese  d'ottobre  ad  abitarvi,  ove  feci  tra- 
sportare e  collocare  i  miei  libri  in  nuove  scanzie,  nel  miglior  modo 
che  potei,  per  averne  uso  in  que'  rigidi  mesi  che  soprastavano. 
I  Veneziani,  ignorandone  la  vera  cagione,  si  rallegrarono  della 
mia  risoluzione  di  trattenermi  a  Venezia;  e  nella  nuova  abitazione, 
come  vicina  alla  piazza  di  San  Marco,1  le  visite  erano  più  frequenti, 
ed  io  non  mancava  con  niuno,  in  questa  parte  di  civiltà  di  restituir- 
le; e  con  tal  occasione  acquistai  la  conoscenza  di  vari  letterati 
veneziani,  non  men  nobili  che  cittadini,  i  quali  mi  rendevano  som- 
mo onore  per  la  stima  che  mostravano  avere  della  mia  persona;  e 
ne  trovai  alcuni  veramente  dotti  e  nelle  scienze  profondi;  e  fra* 
nobili  l'abate  Conti,  Antonio  Cornaro,  Domenico  Pasqualigo,  Fran- 
cesco Bettoni,  il  padre  Rota,  benedittino,  il  marchese  Ghezzi3  ed 
altri,  di  cui  ora  non  mi  sovvengono  i  nomi;  e  fra  i  cittadini,  l'abate 
Moazzi,  Apostolo  Zeno,3  che  io  conobbi  a  Vienna,  il  padre  teologo4 
della  Repubblica,  servita,  il  padre  Lodoli,5  franciscano,  rivisore 

1.  nella .  . .  Marco:  scrive  il  Panzini,  p.  78,  che  il  Giannone  trovò  abi- 
tazione presso  un  certo  Antonio  Mazzoleni,  al  ponte  Sant'Angelo  (cioè 
alla  Giudecca),  il  che  contrasta  con  quanto  qui  scrive  il  Giannone; 
più  probabilmente  il  Panzini  equivocò  tra  il  ponte  e  l'omonimo  campo, 
questo  posto  tra  San  Marco  e  l'Accademia.  2.  Nell'ordine,  si  tratta  del 
celebre  Antonio  Conti  (1667- 1749),  poligrafo,  filosofo  e  matematico,  corri- 
spondente del  Newton  e  del  Leibniz  ;  di  un  membro  della  famiglia  patri- 
zia dei  Corner  ;  del  già  ricordato  patrizio  veneziano  Domenico  Pasqualigo 
(1674-?),  fratello  del  riformatore  allo  Studio  patavino;  del  padre  Fran- 
cesco Rota  (1694-?),  filosofo  e  matematico,  benedettino  cassinense,  cor- 
rispondente del  Muratori  (su  di  lui  cfr.  A.  Armellini,  Biblioiheca  Cas- 
sinensis,  1,  Assisi  173 1,  p.  175;  J.  Francois,  Bibliothèque  generale  des 
écrivains  de  VOrdre  de  S.  Benott .  .  .,  11,  Bouillon  1777,  p.  510).  Nul- 
la sappiamo  di  Francesco  Bettoni  e  del  maschese  Ghezzi.  3.  Apostolo  Ze- 
no (1 668-1750)  fu,  col  Muratori  e  il  Maffei,  una  delle  figure  di  primo 
piano  del  nostro  Settecento,  e  col  Maffei  e  il  Vallisnieri  fondò  e  di- 
resse dal  17 io  il  «Giornale  dei  Letterati»,  sul  modello  degli  «Acta  Eru- 
ditorum  Lipsiensium  ».  Erudito  e  letterato,  acclamato  librettista,  venne 
chiamato  a  Vienna  con  la  carica  di  «poeta  cesareo»  nel  171 8,  alla  quale 
aggiunse  successivamente  anche  l'altra  di  «storiografo  imperiale».  Di  lui, 
non  appena  conosciutolo,  scrisse  il  Giannone  al  fratello,  il  26  giugno 
1723  {Giamioniana,  n.°  8):  «Del .  .  .  signor  Apostolo  devo  molto  lodarmi 
che  è  interessato  al  mio  partito.  Egli  è  un  gentilissimo  letterato . .  .  Ha 
raccolti  qui  buoni  libri,  e  ne  ha  formata  una  picciola  libreria  che  con  tanta 
gentilezza  m'offerì  in  caso  mi  bisognassero  libri  nella  mia  dimora  qui  ».  Lo 
Zeno  rientrò  a  Venezia  abbandonando  gli  incarichi  a  corte  sul  finire  del 
1729.  4.  il  padre  teologo:  era  il  servita  Paolo  Celotti,  che  ricoprì  la  carica 
dal  1717  al  1752.  5.  il  padre  Lodoli:  Carlo  dei  conti  Lodoli  (1690-1761), 
autore  di  un  volume  di  Elementi  delV architettura  lodoliana,  editi  postu- 
mi da  Andrea  Menomo,  Roma  1786.  B.  Gamba,  Galleria  dei  letterati  ed 
artisti  illustri  della  Provincia  Veneziana  nel  secolo  Decimottavo,  1,  Venezia 


268  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

per  la  Repubblica  de*  libri  che  si  stampano  o  si  introducono  a 
Venezia,  il  padre  Crivelli,1  il  Tucci  ed  alquanti  altri;  e  poiché 
le  sere,  in  casa  del  gentiluomo  Giustiniani,2  solevasi  avere  un'as- 
semblea d'uomini  eruditi,  vi  fui  anche  invitato,  ma  poi  non  potei 
continuarla,  riuscendomi  non  solo  incommoda,  ma  perniciosa  alla 
salute,  dovendomi  ritirar  a  casa  di  notte,  fra  dense  e  gravi  caligini, 
delle  quali  sovente  è  la  città  coverta  e  le  strade  ingombre. 

Prima  che  io  vedessi  Venezia,  credetti  che  come  città  fondata 
nel  mare  il  suo  clima  dovesse  riuscirmi  salubre,  essendo  io  nato  e 
cresciuto  in  una  terra  del  monte  Gargano,  non  più  che  mille  passi 
lontana  dal  mar  Adriatico,  e  poi  dimorato  in  Napoli,  città  maritti- 
ma, poco  men  di  trenta  anni;  ma  sperimentai  tutto  il  contrario, 
poiché  io  era  in  una  falsa  supposizione,  credendo  che  la  città  fosse 
stata  costrutta  in  quell'angolo  sopra  più  isolette  e  scogli  di  mare 
vicini  fra  loro,  congiunti  poi  con  ponti  ed  altre  fabbriche  ;  onde  se 
le  fosse  dato  aspetto  d'una  città  non  men  magnifica,  che  nuova  e 
sorprendente,  vedendosi  sorgere  in  mezzo  il  mare,  il  qual  colle 
sue  acque  empie  le  sue  strade  e  circonda  tutti  i  dilatati  suoi  edi- 
fici. Ma  non  è  così:  ella  fu  costrutta  in  quell'angolo  tutto  paludoso 
e  pieno  di  stagni  e  di  lacune,  che  formano  i  tanti  fiumi,  che  in 
quella  parte  e  nelle  vicine  mettono  in  mare;  nel  che  contribuiscono 
non  pur  la  Brenta  ed  altri  minori,  ma  l'Adige  e  il  Po,  ampi  e  super- 
bissimi fiumi,  allagando  colle  loro  acque,  per  più  miglia,  il  ter- 
reno di  quell'intimo  recesso;  sicché  gli  edifici  non  sono  fondati 
sopra  scogli,  ma  sopra  terreno  limaccioso  e  molle,  nel  quale  con- 
ficcando grosse  travi  strettamente  congiunte  sopra  la  punta  delle 
medesime  innalzano  la  mole  degli  edifici  ;  e  se  non  fossero  queste 
acque  irrigate  da'  flutti  marittimi,  che  le  rende  salse,  ed  il  flusso  e 
riflusso  del  mare  non  le  desse  moto,  certamente  che  come  sta- 
gnanti renderebbero  la  città  pestifera,  da  non  potersici  abitare;  e 
per  ciò  fa  mestieri  tener  i  canali  sempre  purgati  e  netti,  perché 
l'acqua  fluisca  e  non  impaduli;  e  con  tutta  la  diligenza  che  s'usi, 

1824,  ad  vocem,  lo  dice  «Impetuoso,  al  cinismo  proclive,  di  singolari  modi 
né  sempre  misurati,  non  mancò  d'avversari  che  lo  perseguitarono  sin  là 
dove  gli  odi  e  le  invidie  ammutiscono  ».  Su  di  lui  cfr.  anche  Sigismondo 
da  Venezia,  Biografia  serafica  degli  uomini  illustri  che  fiorirono  nel  fran- 
cescano istituto,  Venezia  1846,  p.  789.  1.  il  padre  Crivelli:  forse  Giovanni 
Crivelli  (1690-1743),  somasco,  poligrafo,  fisico  e  matematico  veneziano. 
2.  Giustiniani:  altra  famiglia  patrizia  veneziana.  Non  vi  sono  elementi  ba- 
stevoli  per  individuare  di  quale  membro  della  famiglia  si  parli  qui. 


CAPITOLO   NONO  269 

pure,  l'està,  alcuni  danno  un  fetore  sì  grave,  che  se  non  quelli  che 
ci  sono  nati  possono  viverci  lungamente  sani.  Sicché  non  bisogna 
concepir  Venezia  esser  posta  in  mare,  o  a'  lidi  del  mare,  ma  sopra 
stagni  irrigati  da  flutti  marittimi.  Ed  è  ciò  sì  vero,  che  i  Veneziani 
stessi,  spezialmente  le  donne,  i  quali  non  sono  usciti  dalle  loro 
lacune,  non  hanno  idea  del  mar  sonante  ed  orgoglioso  ;  e  mi  ricor- 
da che,  condotto  dal  senator  Pisani  fuori  al  lido,  in  una  peota  nella 
quale  erano  alcune  donne  di  nostra  compagnia,  queste  appena 
veduto  il  mare  spumante  ed  ondoso  ed  inteso  il  fremito  e  il  romo- 
re,  si  atterrirono  come  se  avessero  veduto  un  mostro  spaventevole 
ed  orrendo. 

Questa  situazione,  sicome  rende  sicura  la  città  da  pericoli  ed 
insulti  di  nemiche  armate  e  classi1  marittime,  e  per  le  navi  fluviatili 
agevola  il  trasporto  delle  merci,  sicché  la  rende  abbondante;  così 
rende  l'aria  che  si  respira,  massimamente  quando  soffia  vento  au- 
strale, gravosa,  umida  e  caliginosa,  e  se  non  quelli,  che  vi  sono 
nati  ed  assuefatti,  possono  abitarci  sani  ed  incolumi.  A  me,  certa- 
mente che  non  mi  conferiva  punto  ;  e  tanto  più  che,  avvezzo  ne* 
mesi  di  està,  all'apriche  ed  amene  campagne,  mi  rincresceva  veder- 
mi in  luogo,  dove  altro  non  guardava  che  pietre  ed  acqua,  e  nem- 
meno di  mare,  ma  di  stagni  e  di  paludi;  sicché  non  potei  mai  rista- 
bilirmi in  una  perfetta  salute. 

Fra  gli  altri  gentiluomini,  che  con  tanta  cortesia  e  gentilezza 
mi  favorivano,  volle  distinguersi  il  senator  Angelo  Pisani  di  San- 
t'Angelo, il  quale  con  somma  cordialità  ed  amore  spesso  seco 
m'invitava  a  pranzo,  facendomi  cortesi  ed  affettuose  offerte  di 
quanto  fosse  per  occorrermi;  ed  ancorché  fossimo  alla  fine  di  ot- 
tobre, prolungandosi  in  Italia  le  villeggiature  per  tutto  il  mese  di 
novembre,  dovendo  egli  condursi  nella  sua  villa  di  Rovere  di  Crè, 
presso  Rovigo  nel  Polesine,  istantemente  mi  richiese  che  io  dovessi 
tenerli  compagnia  e  venire  a  godere  l'amenità  di  quelle  campagne, 
le  quali  non  mi  sarebbero  riuscite  ingrate.  Io,  che  non  desiderava 
altro  che  questo,  pensando  così  ristabilirmi,  prima  che  sopraggiun- 
gessero i  rigidi  mesi  dell'inverno,  volentieri  promisi  di  seguitarlo. 

Intanto  i  Gesuiti  emissari  della  corte  di  Roma  mal  sofferendo 
che  io  in  Venezia  era  stato  sì  ben  ricevuto,  e  da  tutti  i  gentiluo- 
mini sì  caramente  accolto  e  trattato,  cominciarono  ad  usar  le  solite 

1.  classi:  flotte  (latinismo). 


270  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

lor  arti,  per  malignarmi1  presso  di  quelli,  spargendo  che  immeri  - 
tacciente  mi  si  facevano  tante  grate  accoglienze,  quando  io  nella 
mia  Istorie?  avea  trattato  i  Veneziani  di  «corta  fede»,  e  che  intorno 
al  dominio  del  mar  Adriatico  non  mi  conformava  co'  sentimenti 
della  Repubblica;  sicome  d'altra  maniera  rapportava  il  fatto  di 
papa  Alessandro  III  coll'imperadore  Federico  Barbarossa,  e  la  di- 
sfatta della  sua  armata  navale  per  i  Veneziani,  e  riputarsi  favolosa 
la  vile  sommissione  di  Federico  e  l'orgoglio  del  papa,  che  si  narra 
aver  usato  a  quelTimperadore.3 

Per  ciò  che  riguardava  l'imputarmi  aver  io  qualificato  i  Vene- 
ziani esser  di  «  corta  fede  »,  fu  facile  fargli  ricredere  dell'impostura, 
poiché  io  non  parlava  nel  passo  additato  del  secondo  tomo  di  mio 
proprio  sentimento,  ma  riferendo,  come  istorico,  il  concetto  che 
n'aveano  allora  i  partegiani  di  Federico.  Più  operosa  faccenda  era 
dileguare  l'altre  imposture,  le  quali  per  manifestarle  non  bastavano 
poche  parole;  onde  consigliato  da  alcuni  gentiluomini  stessi  miei 
amici,  mi  risolsi  in  due  brevi  dissertazioni  dimostrare  che,  così  per 
ciò  che  s'attiene  al  dominio  del  mar  Adriatico,  come  all'istoria 
d'Alessandro  III,  non  avea  in  minima  parte  pregiudicato  alla  Re- 
pubblica; anzi  che  nel  fatto  di  Alessandro,  secondo  che  io  lo  rap- 
portava, riluceva  assai  più  il  decoro  e  la  dignità  del  doge  e  del 
Senato. 

Per  far  ciò  agiatamente,  tanto  più  volentieri  abbracciai  l'offerta 
del  senator  Pisani  di  seguitarlo  in  villa,  per  dove  si  partì,  per  acqua, 
a'  princìpi  di  novembre,  navigando,  passate  le  lacune,  per  l'Adige, 
ed  indi  un  ramo  di  questo  istesso  fiume  ci  portò  a  Rovigo;  e 
giunto  che  fui  a  Rovere  di  Crè,  non  posso  negare  che  intesi  al- 
quanto ristorarmi  da  quelle  ancor  verdi  campagne;  e  ripigliando  il 
mio  tralasciato  esercizio,  cominciai  a  vagare  per  quelle  pianure, 
secondo  che  i  tempi  e  l'avanzata  stagione  permettevano. 

1.  malignarmi:  calunniarmi.  Cfr.  la  lettera  di  Domenico  Passionei  del  13 
novembre  1734  (Giannoniana,  p.  160)  e  L.  Marini,  Documenti  dell'oppo- 
sizione curiale,  cit.,  doc.  n.°  xxxi.  2.  Cfr.  Istoria  civile,  tomo  11,  hb.  xm, 
cap.  1,  par.  1,  pp.  282-5.  3.  sicome  —  imperadore:  su  una  donazione  del 
Mare  Adriatico  ai  Veneziani,  compiuta  in  premio  per  la  disfatta  di  Ottone, 
figlio  di  Federico  Barbarossa,  da  parte  di  Alessandro  III,  si  fondava  la  legit- 
timazione del  controllo  del  golfo  (cfr.  P.  Giustinian,  Rerum  venetarum  ab 
urbe  condita  ad  annum  M.  D.  LXXV  historta,  Argentorati  1 610,  pp.  25-8). 
Il  Giannone,  sia  nell'Istoria  civile,  sia  nel  trattato  che  stese  per  rispondere 
alle  accuse,  sostenne  che  non  apparteneva  al  papa  Pautorità  di  concedere  il 
dominio  di  un  mare,  riprendendo  così  la  tematica  del  Valla. 


CAPITOLO   NONO  271 

È  vero  che,  trovandosi  la  villa  da  spessi  fossi  di  acque  circon- 
data e  alcuni  piani  paludosi,  e  le  possessioni  non  aver  altri  termini 
che  la  dividevano,  se  non  stretti  e  lunghi  canali  dove  Tacque  sta- 
gnavano, compresi  che  l'aria  per  me  non  potesse  molto  giovarmi; 
sicome  a  lungo  andare  sperimentai;  poiché,  aggiunte  a  ciò  le  so- 
verchie carezze  e  le  profuse  tavole,  che  il  Pisani,  coll'occasione  di 
più  conviti  fatti  al  vescovo,  al  podestà  ed  altri  gentiluomini  di 
Rovigo,  spesso  apparecchiava,  fecer  sì  che  io  venni  ad  infermarmi 
con  febre:  dalla  quale  un  medico  ebreo  di  Rovigo  me  ne  liberò, 
non  con  altro,  che  con  una  rigida  e  severa  dieta  di  più  giorni. 
Cominciai  da  ciò  a  star  più  cauto  nell'avvenire,  vedendo  che  niente 
giovavami  l'aria  di  quelle  campagne  per  la  digestione;  sicché  con 
poco  mangiare  e  molto  camminare  si  tirò  ivi  avanti  più  settimane, 
nelle  quali  potei  compire  le  due  dissertazioni,  avendo  a  questo 
fine  portato  que'  libri  che  credetti  esser  bastanti  per  venirne  a  capo. 

Conobbi  con  tal  occasione  monsignor  Soffietti1  vescovo  d'Adria, 
che  tiene  ora  la  sua  residenza  a  Rovigo,  prelato  non  men  dotto  che 
savio  ed  amante  di  buoni  studi  e  di  storia  ecclesiastica;  e  mi  disse 
che,  essendo  egli  d'origine  greco,  avea  per  le  mani  un'opera  dove 
trattava  della  politia  e  della  disciplina  della  Chiesa  greca.  Conobbi 
parimente  il  conte  Silvestri,31  figliuolo  di  quel  Silvestri  noto  alla 
repubblica  de'  letterati  per  la  traduzione  e  sposizione  italiana  di 
Persio3  e  per  altre  sue  opere  date  alle  stampe,4  onde  i  compatriotti 
credono  che  abbia  illustrata  la  patria,  non  meno  di  Celio  Rodigino.5 
Fra  le  sue  opere  io  prepongo  quella  latina  Della  cronologia  de9 
tempi?  dove  con  maggior  esattezza  degli  altri  tratta  del  vero  anno 
della  natività  di  Cristo,  e  concilia  l'antinomia  che  sembra  essere 
tra  il  Vangelo  di  san  Matteo  e  quello  di  san  Luca.  Mi  mostrò  al- 
cuni manuscritti  di  suo  padre  ed  alcuni  monumenti  d'antichità 
romane,  delle  quali  facea  ricerca,  così  di  medaglie,  come  di  marmi, 
ed  un  libro  ch'egli  era  per  dar  alla  luce,  appartenente  alla  topogra- 

1.  Giovanni  Soffietti  (1675-1742),  vescovo  di  Chioggia  nel  1716,  di  Adria 
dal  1733.  2.  Carlo  Silvestri  (1690-1754),  storico  e  archeologo.  3.  sposi- 
zione .  .  .  Persio  :  cfr.  Giuvenale  e  Persio  spiegati  con  la  dovuta  modestia  in 
versi  volgari,  Padova  1711,  di  Camillo  Silvestri  (1645-1719).  4.  altre  . . . 
stampe:  cfr.  M.  Zorzi,  Vita  del  signor  conte  Camillo  Silvestri,  Padova  171 1. 
5.  Celio  Rodigino;  Lodovico  Bicchieri  (1469-1525),  umanisticamente  chia- 
mato Caelius  Rodiginus  dalla  città  natale,  Rovigo,  grande  erudito  come  testi- 
moniano le  sue  Antiquae  Lectiones,  date  alla  luce  nel  15 16.  6.  Cfr.  C.  Sil- 
vestri, Chronologia  in  tres  partes  divisa . . .  opus  posthumum  italice  ab  auctore 
scriptum  et  Carolo  eiusfilio  curante  latine  redditum,  Lipsiae  1726. 


272  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

fia  del  Polesine  e  descrizione  di  que'  luoghi  palustri  intorno  Adria.1 
Fu  continuata  la  villeggiatura  fin  che  il  freddo  non  ce  ne  scac- 
ciasse; e  tornossi  a  Venezia  a'  5  di  decembre.  Il  Pisani,  con  af- 
fettuose e  sincere  espressioni  mi  offeriva  che  io  rimanessi  in  sua 
casa,  dov'egli  avea  un  appartamento  vóto,  che  più  volte  mi  mostrò 
a  questo  fine.  Gli  risposi  che,  non  sapendo  se  dovea  fermarmi  a 
Venezia,  ed  il  quartiere  essendo  per  me  solo  molto  ampio,  non  vo- 
leva entrarci  d'inverno,  dove  avrei  dovuto  soffrire  freddi  estremi, 
essendo  io  accostumato  alle  stufe  di  Vienna:  onde  lo  pregava  che 
mi  lasciasse  stare  quell'inverno  nelle  stanze  da  me  prese,  le  quali 
io  avea  già  premunite  con  stuore2  ed  altri  ripari;  ma  che,  se  dovea 
restar  a  Venezia,  nella  primavera  ventura,  non  mi  sarei  abusato 
delle  benignissime  sue  grazie. 

Tornato  a  Venezia,  attesi  a  far  trascrivere  in  buon  carattere  le 
dissertazioni,  che  avea  composte  in  villa,  intorno  al  Dominio  del 
mar  Adriatico,  ed  Atto  di  papa  Alessandro  con  Federico  Barbarossa,3 
e  prima  di  pubblicarle  le  feci  leggere  ad  alcuni  gentiluomini,  da' 
quali  potea  compromettermi  un  sincero  e  sano  consiglio,  ed  un 
esatto  giudicio  ed  emenda  per  corrigerle;  i  quali  sommamente  l'ap- 
provarono e  fuwi  chi  mi  consigliasse  anche  di  darle  alle  stampe; 
ma  io  non  volli,  bastandomi  che  girassero  manuscritte  per  ricredere 
coloro  che  ignoravano  il  vero  di  que'  successi,  che  io,  sicome  non 
offesi  il  dritto  della  Repubblica,  così  avea  adempite  le  parti  non 
men  di  un  buon  cittadino  napolitano,  che  d'un  fedele  e  verace 
istorico.  Appena  se  ne  trascrissero  alcuni  esemplari,  che,  letti  da 
molti  ed  altamente  commendati,  si  sparsero  da  per  tutto;  sicché 
essendo  la  gente  non  men  garrula  che  curiosa  si  arrivò  che  non  vi 
era  gentiluomo  o  cittadino  che  non  ne  volesse  copia. 

Si  dileguarono  per  ciò  le  calunnie  che  s'erano  sparse  da'  Gesuiti 
per  farmi  cadere  dalla  grazia  ed  affezione  che  mostravano  di  me  i 
Veneziani;  ma  non  per  ciò  si  ristettero.  Non  passarono  molti  gior- 
ni, che  sparsero  che  in  Francia  era  uscito  un  libretto  in  lingua 
francese,  nel  quale  si  malmenava  non  pur  la  Istoria  civile^  ma  il 
di  lui  autore,  trattandolo  per  empio  e  miscredente,  mostrandolo  ad 

1.  un  libro  . . .  Adria:  cfr.  C.  Silvestri,  Isterica  e  geografica  descrizione  del- 
le antiche  paludi  Adriane,  ora  chiamate  lagene  di  Venezia,  Venezia  1736. 

2.  stuore:  stuoie.  3.  Dominio  . . .  Barbar  ossa:  cfr.  J.  Bonnant,  Pietro  Gian- 
none  à  Genève,  cit.,  p.  131  ;  e  Giannoniana,  pp.  405-6  e  327.  L'opera  fu  inse- 
rita nell'eduzione  delle  Opere  postume,  1,  pp.  213  sgg.,  come  capitolo  finale 
dell'Apologia. 


CAPITOLO   NONO  273 

alcuni  ed  additando  ad  altri  anche  la  biblioteca  dov'era,  ch'era 
quella  del  Pisani  di  Santo  Stefano,  fatto  poi  doge,1  perché  chi  ne 
ayea  voglia  potesse  leggerlo.  Il  senator  Pisani  fu  il  primo  che  mi 
diede  notizia  del  romore  sparso;  alla  quale  io  rimasi  sorpreso, 
non  sapendo  che  si  fosse  questo  libretto  ed  il  suo  autore.  Lo  pre- 
gai che  dal  Pisani  suo  gentile2  lo  procurasse  per  leggerlo,  giungen- 
domi strano  e  nuovo  che,  nel  tempo  istesso  che  si  stava  traducendo 
in  francese  V Istoria  civile,  per  darsi  alle  stampe,  fosse  uscita  in 
Francia  questa  inclementissima  censura  contro  la  medesima. 

Non  mancò  il  Pisani  di  averlo  e,  mostratomelo  mi  accorsi  subito 
che  quel  libretto  non  era  che  un  tometto  de'  «  Giornali  di  Trevoix  », 
dove  in  breve  era  stata  compendiata  l'opera  del  padre  Sanfelice, 
di  che  io  già  avea  notizia;  poiché  i  Gesuiti,  a  conto  de'  quali  si  com- 
pilavano a  Trevoix  quelli  «Giornali»,  vedendo  che  l'opera  di  uno 
della  loro  società  era  stata  negli  «  Atti  »  di  Lipsia  e  negli  altri  giornali 
rapportata  qual  era,  per  sciocca,  satirica  e  calunniosa,  per  riparar 
al  meglio  che  si  potea  la  fama  del  Sanfelice  l'aveano  accorciata  ne' 
loro  «Giornali»,  dandogli  meno  sconcio  e  deforme  aspetto.3  Dissi 
per  ciò  ridendo  al  Pisani,  che  i  Gesuiti  di  Venezia  erano  pur  troppo 
sciocchi  nel  tessere  imposture,  le  quali  presto  si  sarebbero  mani- 
festate. Guardassero  bene,  che  quel  libretto  non  era  opera  nuova, 
ma  vecchia,  alla  quale  bastantemente  si  era  risposto;  e  che  face- 
van  male  d'andar  rotolando  queste  cose,  dalle  quali  non  potevan 
ritrarre  se  non  rossore  e  vergogna. 

Tanto  più  si  accese  al  Pisani  desiderio  di  legger  la  risposta  che 
si  era  data  al  Sanfelice;  ed  io  che  per  quattro  mesi  ch'era  dimorato 
a  Venezia  non  ne  avea  fatto  alcun  motto,  fui  costretto  confidarla  al 
Pisani,  a  cui  professava  tanti  obblighi,  con  legge  che  non  l'avesse 
ad  altri  mostrata.  Ma  fu  difficile  che  il  medesimo,  avendola  letta 
potesse  contenersi,  sicché  non  la  desse  a  leggere  ad  altri  gentiluo- 
mini suoi  amici;  onde  si  divolgò  a  Venezia,  non  men  di  ciò  che 
gli  anni  scorsi  si  era  divolgata  in  Roma,  Napoli  e  Vienna.  Di  che 
non  io,  ma  i  Gesuiti  stessi  furono  la  vera  e  sola  cagione. 

Intanto,  per  adempire  alle  promesse  date  all'ambasciador  di  Spa- 
gna, avendo  disteso  un  pieno  memoriale  per  la  Maestà  del  re  Fi- 

1.  Pisani  . .  .  fifone:  Luigi  Pisani  di  Santo  Stefano  (1664-1741),  creato  doge 
nel  1735.  2.  gentile:  parente  (latinismo).  3.  Vaveano  .  . .  aspetto:  cfr.  p. 
182  e  la  nota  4  ivi. 

18 


274  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

lippo  V,  glielo  portai  pregandolo  che  con  efficacia  mi  raccoman- 
dasse in  quella  Corte,  perché  io  potessi  ritirarmi  a  Napoli,  a  finir 
ivi  in  riposo  i  miei  giorni  ;  ed  avendolo  Pambasciador  letto,  e  det- 
tomi che  andava  a  dovere,  mi  promise  ch'egli  l'avrebbe  acchiuso 
nel  suo  piego,  ed  efficacemente  raccomandato  a  Madrid  a'  suoi 
amici  e  congionti;  e  poiché  avea  tutta  la  premura  di  favorirmi, 
m'impose  che  ne  formassi  un  altro  consimile,  diretto  in  Napoli 
all'Infante  don  Carlos;  poiché,  governandosi  il  Regno  con  altro 
sistema  di  quello  di  prima,  era  facile  che  la  corte  di  Madrid  non 
volesse  per  se  medesima  darvi  provvidenza,  ma  rimetterlo  alla  nuo- 
va corte  di  Napoli,  dove  l'Infante  non  da  generalissimo  delle  armi 
di  Spagna,  né  come  vicario  del  re  Filippo  suo  padre,  ma  coman- 
dava in  Napoli  ed  in  Sicilia  come  proprio  e  particolar  re  di  que' 
regni. 

Fin  da  che  io  era  a  Vienna,  s'intese  che  l'Infante  don  Carlos, 
mutato  il  titolo  di  Generalissimo,  secondo  lo  qualificavano  gli  editti, 
che  il  re  di  Spagna  suo  padre  avea  fatto  precorrere,  presa  la  città 
di  Napoli  e  gran  parte  del  Regno,  avea  assunto  quello  di  re;  e 
ciò  per  una  lettera,  che  diceasi  avere  scritta  il  re  Filippo  alla  città 
di  Napoli,  nella  quale  commendando  la  fedeltà  de'  Napolitani  ver- 
so l'antico  e  naturai  suo  signore  d'avere  ricevute  le  sue  armi  nel 
Regno  e  nella  lor  città,  colPInfante  suo  figliuolo,  in  gratitudine 
di  tanto  amore  glielo  dava  per  loro  re  proprio,  al  quale  dovessero 
ubbidire;  sicome  anche  avrebbe  fatto,  conquistata  che  fosse  la  Si- 
cilia, affinché  questi  due  regni,  separati  dalla  corona  di  Spagna, 
avessero  un  lor  proprio  e  particolar  re,  il  qual  collocando  la  sua 
sede  regia  in  Napoli,  l'avesse  da  quivi  retti  e  governati.1 

Non  poteva  proporsi  a'  Napolitani  cosa  più  grata  e  desiderabile 
che  questa;  poiché  doppo  il  corso  di  poco  men  che  due  secoli  e 
mezzo,  si  toglievano  d'esser  provinciali,  e  riacquistavano  un  par- 
ticolar re,  che  a  lungo  andare  sarebbesi  reso  lor  proprio  e  nazio- 
nale. Ma  credeasi,  che  questa  fosse  un'ambiziosa  e  fantastica  idea 
della  regina,2  madre  dell'Infante,  la  quale  non  contenta  di  averlo 
stabilito  in  Italia  co'  ducati  di  Parma  e  di  Toscana  un  gran  prin- 
cipe, volesse  ora  colla  giunta  di  due  regni,  costituirlo  un  gran  re. 
Esser  certamente  per  i  Napolitani  cosa  molto  pregievole  e  speciosa, 

i.  Fin  . . .  governati-,  cfr.  M.  Schipa,  U  regno  di  Napoli,  cit.,  p.  128.  2.  re- 
gina: Elisabetta  Farnese,  che  Filippo  aveva  sposato  in  seconde  nozze.  Cfr. 
la  nota  5  a  p.  242. 


CAPITOLO    NONO  275 

ma  non  si  comprendeva  come  potesse  esser  durabile  e  ferma;  poi- 
ché sotto  pretesto  d'essersi  nullamente,  colla  pace  di  Vienna  del 
1725,  staccati  questi  due  regni  dalla  corona  di  Spagna,  si  era  mossa 
la  guerra  per  ricuperargli.  Il  re  Filippo,  colF armata  e  cogli  eserciti 
spagnoli  e  colle  forze  della  Spagna,  avergli  ricuperati:  come  ora, 
restituiti  alla  corona  di  Spagna,  con  una  semplice  lettera  del  re, 
senza  il  consenso  de'  parlamenti  e  delle  corti  di  Spagna,  smem- 
brargli e  cedergli  all'Infante,  che  non  era  successore  della  corona, 
e  farsi  questo  torto  al  principe  di  Asturias  P1  Sapersi  che  i  regni  di 
Napoli  e  di  Sicilia  gli  antichi  re  di  Spagna  l'aveano  uniti  ed  incor- 
porati alla  corona  d'Aragona,  ed  esser  noto  che  il  re  Alfonso,2  se 
bene  per  l'adozione  della  regina  Giovanna  II,  e  più  col  suo  valore 
ed  industria  avesse  acquistato  il  regno  di  Napoli;  onde  sembrava 
che  potesse  legittimamente  lasciarlo  a  Ferdinando  suo  fìgliuol  na- 
turale legitimato  ;  nulladimanco  Ferdinando  il  Cattolico  riputò  in- 
giusta la  separazione,  e  scacciandone  Federico3  discendente  di  Fer- 
dinando, lo  restituì  alla  corona  d'Aragona,  dicendo  che  Alfonso 
avea  acquistato  quel  Regno  colle  armi  e  colle  forze  de'  regni  d'A- 
ragona. 

Or  come  ora  questi  regni  riacquistati  colle  truppe  ed  armate  di 
Spagna,  e  la  spedizione  essendosi  fatta  in  nome  del  re  di  Spagna, 
nella  quale  comandarono  generali  spagnoli,  e  l'istesso  Infante  non 
se  non  come  generalissimo  dell'armata  vi  comparve  :  potevansi  con 
una  lettera  staccarsi  dalla  corona  di  Spagna  e  trasformarsi  il  gene- 
ralissimo in  re  sovrano,  il  qual  non  ha  propri  eserciti  né  armate, 
e  la  stessa  dignità  regale  non  può  sostenerla,  se  non  colle  truppe 
e  milizie  di  Spagna?  Se  la  Spagna  richiama  a  sé  i  suoi  eserciti 
ed  armate,  come  rimarrà  questo  nuovo  re,  non  avendo  Napoli  e 

1.  questo  . . .  Asturias:  Ferdinando  era  infatti  il  primogenito  del  re  Filippo, 
mentre  Carlo  era  il  primo  dei  figli  di  secondo  letto.  2.  Alfonso  V  il  Ma- 
gnanimo (1396-1458),  dal  1416  re  di  Aragona,  Sicilia  e  Sardegna,  adotta- 
to dalla  regina  Giovanna  II  di  Napoli  (1371-1435)  che  lo  oppose  a  Luigi 
III  d'Angiò  (1403-1434),  dovette  battersi  per  la  successione,  dopo  la  morte 
della  regina,  contro  il  fratello  ed  erede  di  Luigi,  Renato.  Riuscì  vittorioso 
solo  nel  1442,  e  si  stabilì  a  Napoli,  partecipando  attivamente  alle  vicende 
italiane,  sino  alla  morte.  Gli  successe  il  fratello  Giovanni  II  (1397-1479) 
sul  trono  di  Aragona,  e  il  figlio  naturale  Ferdinando  (143 1  circa-1494),  non 
senza  contrasti,  sul  trono  di  Napoli.  Tale  successione  di  Ferdinando,  con- 
siderata illegittima,  diede  parvenza  di  legalità  all'occupazione  proditoria 
del  Regno  (trattato  di  Granata,  1500)  compiuta  da  Ferdinando  il  Catto- 
lico (1452-15 16),  figlio  e  successore  in  Aragona  di  Giovanni  II.  3.  Fede- 
rico I  d'Aragona  (1451  circa-1504),  re  di  Napoli  dal  1496  al  1501. 


276  VITA  DI    PIETRO   GIANNONE 

Sicilia  propria  milizia;  e  sono  ormai  due  secoli  che  i  Napolitani  e 
Siciliani  han  tralasciato  le  armi  ed  ogni  militar  esercizio  ? 

Questi  discorsi  si  facevan  allora  a  Vienna;  ma  intanto,  P Infante 
don  Carlos  era  in  Napoli  salutato  re  e  ne'  dispacci  e  scritture  così 
nomato.  Si  aggiunse  doppo  la  notizia  che  da  sua  parte  si  facevano 
istanze  in  Roma,  nella  vigilia  di  san  Pietro  voler  egli  presentar  la 
chinea,1  pretendendo  che  il  papa  dovesse  dargli  rinvestitura  del 
Regno;  e  se  bene  il  papa  quest'anno  1734,  poiché  ancor  Capua  ed 
altre  città  eran  in  mano  di  Cesare,  non  gliela  accordasse,  riceven- 
dola dalPimperadore,  nulladimanco  nel  seguente  anno  che  il  Re- 
gno interamente  fu  evacuato  dalle  truppe  tedesche,  non  volle  più 
riceverla  dall' imperadore,  e  riputò  sospendere  il  tutto  fin  che  non 
si  vedesse  ove  andassero  a  terminar  i  moti  d'Italia. 

Ed  essendo  io  già  a  Venezia,  ove  spesso  capitavano  Napolitani, 
questi  mi  mostrarono  le  nuove  monete  d'argento,  fatte  coniar  in 
Napoli  dall'Infante,  nelle  quali  leggevasi  il  nome  di  Carlo,  coll'ag- 
giunta  di  Neapolis  Rex.  Egli  è  vero  che  i  Napolitani  non  si  avanza- 
rono a  determinare  il  numero,  non  sapendo  se  dovessero  dirlo 
sesto,  o  settimo,  0  pure  ottavo.  Se  non  si  voleva  tener  conto  del- 
l'imperadore,  era  d'uopo  chiamarlo  Carlo  VI;  ma  se  come  fran- 
cese della  famiglia  Borbone  si  volesse  fra  la  serie  de'  re  di  Napoli 
porre  Carlo  VIII,  re  di  Francia,  bisognava  dirlo  Carlo  VII.  Ma 
in  ciò  fortemente  ripugnavano  gli  Spagnoli,  che  non  volevan  sof- 
frire che  di  quel  re  francese  si  avesse  conto;  sicché,  saviamente, 
non  vi  poser  numero  alcuno  ;  se  bene  non  si  arrivasse  mai  a  capire 
che  volesse  dinotar  quel  motto,  posto  nella  moneta  stessa,  sopra 
il  Sebeto:  de  socio  princeps,  che  non  può  riferirsi  né  alla  città, 
né  al  nuovo  re  rifatto.2  Ma  i  Siciliani,  poiché  essi  non  aveano  l'im- 
broglio del  re  Carlo  VIII,  francamente  omesso  l'imperadore,  nelle 
loro  monete,  che  pur  mi  furon  mostrate  a  Venezia,  determina- 
rono il  numero,  e  dissero  Carolus  III,  Siciliae  Rex;  poich'essi,  che 


1.  presentar  la  chinea:  il  regno  di  Napoli  era  infeudato  al  pontefice  al 
quale,  in  segno  di  vassallaggio,  i  suoi  sovrani  offrivano  un  censo  annuo  in 
moneta  aurea,  portato  dal  loro  ambasciatore  su  di  una  mula  bianca  (in 
francese  antico  ihaquenée),  nel  giorno  dei  santi  Pietro  e  Paolo.  La  cerimo- 
nia risaliva  ai  tempi  di  Carlo  d'Angiò  (1266).  2.  le  nuove .  .  .  rifatto: 
queste  monete,  su  disegno  di  Francesco  Solimena  (1657-1747),  recavano 
nel  recto  le  armi  di  Spagna  e  nel  verso  la  personificazione  del  fiume 
Sebeto  con  intomo  il  motto,  proposto  da  Matteo  Egizio,  e  che  voleva  si- 
gnificare come,  da  «alleato»  in  guerra,  Carlo  fosse  divenuto  re. 


CAPITOLO   NONO  277 

non  erano  stati  sotto  i  re  angioini,  non  riconoscevano  altri  Carli 
re  di  Sicilia  se  non  Carlo  V  imperadore  e  Carlo  II  re  di  Spagna. 

Or  governandosi  il  regno  di  Napoli  con  questo  nuovo  sistema 
di  aver  proprio  re,  riputò  l'ambasciadore  di  Spagna  che  dovessi 
formar  altro  memoriale1  per  don  Carlos,  re  di  Napoli;  e  se  bene 
allora  si  trovasse  partito  per  Sicilia,  per  ivi  incoronarsi,  preparan- 
dosi intanto  a  Palermo  gli  apparati  d'una  celebrità  sì  solenne  e 
magnifica;2  nulladimanco  stimò  non  per  questo  doversi  rimanere, 
affinché  arrivasse  prima  che  da  Madrid  potesse  il  conte  di  Santo 
Stefano  aver  notizia  del  mio  ricorso  fatto  in  quella  Corte;  ed  ac- 
chiusolo nel  suo  piego,  lo  stradò  per  Sicilia,  scrivendo  al  conte 
essersi  inviato  a  Spagna  un  simil  memoriale  al  re  Filippo,  con 
raccomandargli  efficacemente  di  far  sì  che  io  potessi  tornar  in 
Napoli,  dove  forse  la  mia  persona  non  le  sarebbe  riuscita  inutile. 
E  mentre  si  stavano  attendendo  le  risposte  non  men  da  Sicilia 
che  da  Madrid,  avvicinandosi  il  Carnevale  del  nuovo  anno  1735, 
giunse  da  Napoli  a  Venezia  il  principe  della  Torella  Caracciolo,3 
molto  ben  veduto  dalla  nuova  corte  di  Napoli,  e  ch'era  adoperato 
non  meno  nelle  cose  militari  che  negli  affari  politici  di  quel  Regno; 
onde  stimai,  avendo  già  saputo  che  io  era  a  Venezia,  di  andare  a 
visitarlo;  il  quale  accoltomi  con  molta  cortesia  e  gentilezza,  fra 
le  altre  cose  mi  disse  che  io  non  m'impegnassi  co'  Veneziani  di 
rimaner  ivi  impiegato  a'  servizi  di  quella  Repubblica,  poich'egli, 
avendo  di  me  più  volte  parlato  con  Tambasciador  di  Spagna, 
l'avea  detto  che  nelle  variazioni  e  nuovi  sistemi  che  doveano  darsi 
a  Napoli,  egli  stimava  ivi  necessaria  la  mia  persona,  come  quella 
che  era  più  versata  ed  istruita  delle  cose  di  quel  Regno  ;  onde  che 
non  mi  lasciassi  piegare  dalle  lusinghe  de'  Veneziani,  perché  si 
era  per  me  efficacemente  scritto  non  meno  alla  corte  di  Madrid, 
che  a  quella  di  Napoli  pel  mio  ritorno. 

Li  risposi  che  così  avrei  fatto,  né  dato  co'  medesimi  alcun  passo 
che  fosse  irretrattabile,  e  che  io  avea  riposta  tutta  la  mia  fiducia 
nelle  mani  delTambasciadore,  il  quale  con  tanta  affezione  ed  effi- 
cacia avea  prese  le  mie  parti  non  men  nell'una  che  nell'altra  Corte; 
e  così  pregava  che  volesse  anche  egli  conferire  i  valevoli  suoi  uffici 

1.  altro  memoriale:  cfr.  il  testo  in  Vita,  ed.  Nicolini,  Appendice,  pp.  441-6. 

2.  preparandosi . .  .  magnifica:  la  cerimonia  dell'incoronazione  avvenne  il  3 
luglio  1735.  3.  Antonio  Carmine  Caracciolo  di  Torella  (1692-1740),  che 
fu  ambasciatore  a  Parigi  dal  1735  al  1739. 


278  VITA   DI    PIETRO   GIANNONE 

in  Napoli,  scrivendo  a'  suoi  amici  e  congionti  e  tornando  colà 
aggevolar  l'impresa,  poiché  io  fortemente  temeva  che  la  corte  di 
Roma  avrebbe  fatto  ogni  sforzo  d'impedirmelo,  e  tentato  ogni  mez- 
zo col  conte  di  Santo  Stefano  di  far  riuscir  vana  ogni  opera,  che 
per  me  si  tentasse  o  nell'una  o  nell'altra  Corte.  Promise  di  farlo,  e 
che  io  fossi  stato  in  ciò  fermo  e  di  buon  animo,  poiché  le  cose  s'e- 
rano incamminate  in  guisa  ch'egli  ne  sperava  prosperi  successi. 
Ed  in  questo  erasene  già  passato  il  mese  di  dicembre,  ed  entrati 
già  per  più  settimane  nel  nuovo  anno  1735. 


CAPITOLO  DECIMO 
Anno  1735-  Venezia,  Modena  e  Milano. 

Proseguiva  intanto  la  mia  dimora  a  Venezia,  sofferendo  come 
poteva  il  meglio  la  rigidezza  di  quell'orrido  inverno,  in  paese  ove 
non  si  badava  di  scacciar  il  freddo,  se  non  con  pelliccie  e  fascetti 
efimeri  ne'  camini,  non  già  con  fuoco  stabile  o  stufe,  sicom'era  io 
avvezzo  di  fare  a  Vienna,  dove,  ancorché  sotto  cielo  più  aspro,  si 
era  pensato  efficacemente  di  scacciarlo  affatto:  sicché  mi  riusciva 
più  incommoda  e  noiosa  la  dimora,  ed  aspettava  con  impazienza 
l'imminente  primavera,  così  perché  i  tempi  si  raddolcissero,  come 
perché  mi  lusingava  di  poter  ricever  riscontri  di  mio  sollievo  o  da 
Madrid  o  da  Sicilia. 

Intanto  non  cessavano  nel  Carnevale  que'  gentiluomini  di  conti- 
nuarmi le  grate  lor  accoglienze,  e  d'invitarmi  sovente  a  guardare 
dalle  lor  finestre  gli  spettacoli  che  si  facevano  nella  piazza  di  San 
Marco,  ovvero  nelle  opere  de'  lor  teatri;  e  spezialmente  da'  gentilis- 
simi fratelli  Grimani  riceveva  in  ciò  spessi  favori  ;  e  se  bene  io  non 
fossi  niente  inclinato  a  veder  spettacoli,  o  sentir  opere  o  comedie 
ne'  teatri,  nulladimanco,  per  non  abusarmi  delle  lor  grazie,  faceva 
forza  a  me  medesimo  per  compiacergli. 

A  lungo  andare  fui  avvertito,  che  i  Gesuiti  fortemente  sdegnati 
che  la  risposta  data  al  Sanfelice1  correva  per  le  mani  di  molti  e 
ch'era  con  piacere  letta  e  commendata,  mi  tendevano  insidie,  e 
sempre  che  io  capitava  nella  piazza  di  San  Marco,  tenevan  ivi 
persone  che  notassero  tutti  i  miei  detti  ed  andamenti;  onde  che 
fossi  nel  parlar  cauto  e  ritenuto:  anzi  meglio  avrei  fatto,  se  me 
n'astenessi;  poiché  ad  ogni  mia  parola  si  davano  maligne  interpre- 
tazioni, e  sovente  era  calunniato  di  cose  da  me  non  pur  pensate, 
non  che  dette.  <  Seppi  dapoi  che,  oltre  i  Gesuiti,  si  era  dalla  Congre- 
gazione del  Santo  Ufficio  di  Roma  data  premurosa  incombenza 
all'Inquisitor  di  Venezia,  che  invigilasse  sopra  i  miei  andamenti  e 
s'ingegnasse  di  farmi  reo  nel  di  lui  tribunale>.z 

Feci  buon  uso  del  consiglio,  e  di  rado  mi  feci  poi  ivi  vedere  e 
qualche  mattina,  quando  il  tempo  il  permetteva,  solea  trattenermi 

i.  la  risposta  .  . .  Sanfelice:  cioè  la  Professione  di  fede.  2.  Seppi . . .  tri- 
bunale: per  questa  aggiunta  cfr.  S.  Bertelli,  U incartamento  originale^  cit., 
pp.  20-1. 


280  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

nella  libraria  del  Pitteri1  mercante  di  libri,  dove  alle  volte  ci  tro- 
vava gli  abati  Conti  e  Moazzi,  o  qualche  altro  gentiluomo,  mio 
amico;  e  passar  co*  medesimi  in  eruditi  discorsi  qualche  ora.  Il 
dopo  desinare  solea  portarmi  in  casa  del  Bettoni,  ove  si  trovava  il 
Pasqualigo  ed  altri  gentiluomini;  e  poiché  il  medesimo  avea  una 
biblioteca  di  libri  scelti,  ed  era  vago  di  aver  de'  nuovi,  che  uscivano 
alla  luce  o  dalla  Francia,  Ollanda  o  da  Inghilterra,  regolarmente  si 
discorreva  o  sopra  le  nuove  opere  che  si  eran  date  alle  stampe,  o 
pure  sopra  i  successi  della  guerra  di  Italia,  di  Polonia,  del  Reno, 
o  del  Turco  col  Persiano. 

Prossimo  alla  casa  del  Bettoni  era  il  monastero  delle  monache 
di  San  Lorenzo,*  dove  io  avea  presa  conoscenza  con  donna  Maria 
Riva,3  gentildonna  quanto  avvenente  per  le  fattezze  del  corpo,  al- 
trettanto ornata  di  belle  doti  d'animo  e  di  lettere,  mostrando  uno 
spirito  ed  acutezza  di  pensare  superiore  al  suo  sesso.  Sovente  per 
ciò  andava  a  riverirla;  e  poiché  Tambasciador  di  Francia  solea 
spesso  andar  ivi  a  visitarla,  più  volte  occorreva  che,  incontrandoci, 
non  permetteva  che  io  mi  partissi,  anzi  mostrava  piacere  che  io  gli 
facessi  compagnia,  discorrendo  sopra  varie  materie;  e  dicendomi 
una  volta,  che  avea  inteso  che  la  mia  Istoria  civile  s'era  tradotta 


i.  Forse  Francesco  Pitteri,  libraio  e  stampatore  veneziano,  primo  editore 
del  Goldoni  (cfr.  C.  Goldoni,  Memorie,  a  cura  di  G.  Mazzoni,  Firenze 
1907,  11,  pp.  366-7;  e  vedi  anche  in  H.  F.  Brown,  The  Venetian  Printing 
Press,  London  1891,  p.  413,  che  lo  registra  attivo  nel  1728).  Ma  si  ricordi 
che  in  quegli  anni  lavorava  a  Venezia  anche  Marco  (1702-1786),  celebre 
incisore  e  tipografo,  sul  quale  si  veda  A.  RavÀ,  Marco  Pitteri  incisore 
veneziano,  Firenze,  s.  a.  (ma  1923),  e  G.  A.  Moschini,  Dell *  incisione  a 
Venezia,  Venezia  1926,  ad  vocem.  2.  monastero  .  .  .  Lorenzo  \  cfr.  quanto  è 
ricordato,  sotto  il  giorno  20  maggio  1664,  in  F.  Pizzichi,  Viaggio  per  Volta 
Italia  del  Ser.mo  principe  di  Toscana  poi  Granduca  Cosimo  III,  Firenze 
1828,  pp.  35-6:  «è  il  più  ricco  monastero  di  Venezia,  e  vi  sono  sopra  100 
madri  tutte  gentildonne.  Vestono  leggiadrissimamente,  con  abito  bianco 
come  alla  franzese,  il  busto  di  bisso  a  piegoline,  e  le  professe  trina  nera 
larga  tre  dita  sulle  costure  di  esso  ;  velo  piccolo  cinge  loro  la  fronte,  sotto 
il  quale  escono  i  capelli  arricciati,  e  lindamente  accomodati,  seno  mezzo 
scoperto,  e  tutto  insieme  abito  più  da  ninfe  che  da  monache».  3.  donna 
Maria  Piva  era  l'amante  dell'ambasciatore  di  Francia  marchese  di  Froul- 
lay.  Divenuta  di  dominio  pubblico  la  relazione,  prima  il  Senato  veneziano 
vietò  alla  Riva  di  incontrare  nel  parlatolo  del  monastero  l'ambasciatore, 
poi  la  fece  trasferire  a  Ferrara.  Il  Panzini,  p.  81,  scrive  che  era  «donna  di 
molto  spirito  ed  ornata  d'una  erudizione  non  volgare,  perché  s'attirava  al 
giorno  nel  suo  monistero  la  conversazione  de'  migliori  uomini  e  de'  più 
distinti  personaggi  ch'erano  in  Venezia». 


CAPITOLO    DECIMO  281 

in  lingua  francese,  e  ch'egli  non  avea  ancora  potuto  averne  da 
Francia  un  esemplare,  gli  risposi  che  non  dovea  maravigliarsi,  poi- 
ché la  traduzione  non  era  ancor  compita;  ma  che  io  avrei  scritto 
a  Bousquet,  mercante  di  libri  in  Ginevra,  per  le  cui  mani  passava 
la  stampa,  che,  se  mai  si  fosse  impresso  il  primo  tomo,  me  lo 
mandasse  subito  affinché  Sua  Eccellenza  fosse  il  primo  ad  averlo. 
Con  premura  mi  raccomandò  di  farcelo  pervenire,  mostrandone 
grandissimo  desiderio;  onde  io  scrissi  a  Bousquet,  maraviglian- 
domi di  tanta  lentezza,  ch'erano  ormai  scorsi  quattro  anni  che  io 
l'avea  mandate  le  giunte,  le  correzioni  ed  illustrazioni  che  mi  avea 
cercate,  col  rame  del  mio  ritratto  ed  il  disegno  delle  medaglie,  e 
non  si  vedea  che  ancora  fosse  almanco  impresso  il  primo  tomo; 
che,  se  mai  si  fosse  dato  alla  stampa,  me  lo  mandasse,  avendone 
con  gran  premura  richiesta  dall' ambasciador  di  Francia  residente 
a  Venezia,  dove  io  mi  trovava,  e  dove  dovesse  trasmetterlo. 

Il  Bousquet  mi  rispose  che  non  men  egli,  che  quelli  della  sua 
compagnia  si  rallegravano  che  io  mi  trovava  in  Venezia,  poiché  co- 
me più  vicino  potessi  meglio  regolar  l'impressione,  e  rischiarare  i 
traduttori  delli  dubbi,  che  alla  giornata  l'occorrevano  nella  tradu- 
zione; li  quali,  ancorché  avessero  sotto  gli  occhi  la  traduzione  in- 
glese, non  sapevano  risolvergli,  e  che  per  ciò  la  traduzione  non 
era  ancor  finita;  e  che  essi  non  volevan  cominciar  la  stampa,  se 
non  si  fosse  tutto  esattamente  compito,  pregandomi  della  mia  assi- 
stenza e  che  non  mi  rincrescesse,  sicome  m'avrebbero  mandati  i 
dubbi,  così  di  rischiarargli,  affinché  nel  tradurre  non  si  commettes- 
sero errori.1  Da  ciò  compresi,  che  non  era  così  presto  da  vederne 
il  fine;  sicome  dissi  alTambasciadore  che  era  d'uopo  aspettar  più 
tempo,  stante  la  lentezza  non  men  degli  impressori,  che  della  poca 
perizia  de'  traduttori  delle  cose  del  regno  di  Napoli. 

Intanto  la  mia  dimora  in  Venezia  avendo  acceso  di  desiderio 
moltissimi  di  aver  la  mia  opera,  ed  essendosi  resa  molto  rara,  né 
da'  librari  di  Venezia,  né  da  quelli  stessi  di  Napoli  potendo  spe- 
rarsene alcun  essemplare,  poiché  non  ne  aveano,  invogliarono  il 
Pitteri  ed  il  Berardi,  che  somministrava  al  Pitteri  il  denaro  per 


1.  Il .  .  .  errori',  si  veda  in  Giannomana,  pp.  524-5,  la  lettera  del  Bousquet 
del  29  gennaio  1735,  con  un  richiamo  a  questa,  qui  ricordata,  del  6  novem- 
bre, e  che  testimonia  come  il  Giannone,  sin  d'allora,  pensasse  ad  un  even- 
tuale suo  trasferimento  a  Ginevra. 


282  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

mantener  la  sua  stamperia,  a  volerla  ristampare  in  Venezia;  ed 
avendo  saputo  che  la  traduzione  francese  andava  in  lungo,  ed  era 
ornata  di  nuove  note  e  giunte,  furon  a  communicarmi  il  lor  pen- 
siere  di  ristamparla  e  richiedermi  in  ciò  della  mia  assistenza  e  di 
volergli  somministrare  quanto  avessi  di  nuovo,  affinché  questa 
ristampa  riuscisse  migliore  non  pur  della  prima  stampa  fatta  in 
Napoli  e  della  traduzione  inglese,  ma  anche  della  francese,  e  ch'es- 
si sarebbero  stati  con  me  grati  ed  avrebber  corrisposto  quanto 
conveniva,  secondo  che  io  l'avessi  prescritto. 

Gli  risposi  che  se  essi  daddovero  volevan  mettersi  a  questa  im- 
presa, io  non  solamente  l'avrei  somministrato  quanto  mandai  a' 
traduttori  francesi  di  nuove  giunte  e  medaglie,  ma,  di  più  aveva 
tanto  in  mano  appartenente  a  quella  Istoria,  in  continuazione  della 
medesima,  che  avrebbe  potuto  formarsene  un  altro  tomo;  sicché 
questa  nuova  ristampa  sarebbe  assai  più  desiderata  che  la  prima 
colla  giunta  non  pur  delle  note  e  medaglie  riguardanti  i  quattro 
tomi,  ma  d'un  quinto  tomo,  fin  qui  non  impresso.  Ma  che  avver- 
tissero che,  stando  in  Venezia  esposto  a  gli  occhi  di  tutti,  e  spezial- 
mente de'  Gesuiti,  i  quali  attentamente  spiavano  tutti  i  miei  anda- 
menti, se  mai  ciò  pervenisse  a  lor  notizia,  avrebber  frapposti  tutti 
gli  ostacoli  per  impedirla,  e  datane  subito  parte  alla  corte  di  Roma, 
la  quale  non  avrebbe  mancato  di  far  lo  stesso  <ignaro  allora  d'essersi 
già  data  commissione  all'Inquisitore>  e  che  io,  per  quel  tempo  che 
era  dimorato  in  Venezia,  avea  scorto  i  Veneziani  essere  non  men 
garruli  che  curiosi,  i  quali  amano  saper  più  Ì  fatti  di  altri  che  i 
propri;  onde,  se  in  ciò  non  si  serbava  un  impenetrabil  secreto, 
non  ne  sarebbero  venuti  mai  a  capo. 

In  oltre  che  io,  per  la  stampa,  non  voleva  assumermi  il  peso 
d'impetrarne  licenza  dal  magistrato  a  chi  ciò  si  appartiene,  ma  che 
questo  fosse  di  lor  carico  ;  ben  mi  esibiva  di  dare  i  miei  manuscritti 
al  rivisore,  a  chi  sarebbe  stato  commesso  di  esaminargli,  e  ciò  che 
forse  gli  sembrasse  di  levare,  di  mutare  o  di  meglio  spiegare, 
volentieri  avrei  fatto,  stando  sicuro  che  questo  quinto  tomo,  non 
contenendo  cosa  che  fosse  contraria  alla  nostra  religione  ed  a' 
buoni  costumi,  e  molto  meno  a'  diritti  de'  principi,  le  variazioni  o 
cangiamenti  non  potrebber  ridursi  che  a  picciole  cose,  le  quali  non 
altererebbero  la  sostanza  dell'opera.  E  per  ultimo,  per  ciò  che  ri- 
guardava il  mio  onorario,  la  mia  proposizione  era  che  degli  essem- 
plari  di  questa  ristampa  fossero  miei  cento  corpi,  de'   quali  mi 


CAPITOLO   DECIMO  283 

dovessero  pagar  il  prezzo  di  cinquanta  in  denaro,  secondo  che  si 
sarebbero  venduti  a  gli  altri,  e  degli  altri  cinquanta  fosse  in  loro 
elezione  a  darmene  il  prezzo,  ovvero  gli  essemplari  stessi.  Questa 
credea  che  fosse  una  proposizione  discreta  e  ragionevole,  della  qua- 
le dovrebbero  essere  contenti  e  soddisfatti. 

Assai  più  il  Berardi  ed  il  Pitteri  s'invogliarono,  sentendo  che  la 
ristampa,  oltre  delle  giunte  a*  quattro  tomi,  veniva  accresciuta  d'un 
altro  tomo,  onde  più  fervorosamente  instavano  di  darci  principio  ; 
e  che,  in  quanto  al  secreto,  a  niuno  dovea  importar  tanto  che  fosse 
impenetrabile,  quanto  che  ad  essi,  e  che  di  ciò  mi  stessi  sicuro; 
per  la  licenza  sarebbe  rimaso  a  lor  peso  d'impetrarla;  e  quando  non 
avessero  potuto  ottenere  che  si  ponesse  nel  frontispizio  la  data  di 
Venezia,  tanto  gli  bastava  che  si  mettesse  altra  città  d'Italia  o  di 
Germania;  ed  intorno  al  mio  onorario,  ch'essi  erano  contenti  del- 
la proposizione  fattale,  e  che  così  avrebbero  adempito  con  lealtà; 
e  bisognando  stipularne  scrittura,  volentieri  l'avrebbero  fatta.  Gli 
risposi  che  attendessero  prima  a  quel  che  più  importava,  d'in- 
camminar PafTare  della  licenza;  poiché  io  intanto  avrei  comin- 
ciato a  rivedere  i  manuscritti  e  mettergli  in  ordine,  e  che  secon- 
do si  vedeva  la  disposizione  di  potersi  ottenere,  così  ci  sariamo 
regolati. 

Con  questi  trattati  ed  occupazioni  eravamo  già  entrati  nel  mese 
di  marzo,  ed  il  senator  Pisani  cominciava  a  ricordarmi  della  pro- 
messa, che  io  l'avea  fatta  di  passare  in  sua  casa  nell'imminente 
primavera.  Io  fin  allora  non  avea  perduta  affatto  la  speranza  di 
poter  ritirarmi  a  Napoli,  per  l'impegno  che  n'avea  preso  l'amba- 
sciador  di  Spagna,  ancorché  avesse  ricevuta  risposta  dal  conte  di 
Santo  Stefano  non  molto  cortese,  scrivendogli  che  sopra  il  mio 
memoriale  non  poteva  il  re  Carlo  darci  provvidenza,  se  prima, 
già  che  s'era  avuto  anche  ricorso  a  Madrid,  non  si  ricevessero  da 
quella  Corte  riscontri;  ma  dapoi,  essendosi  da  Madrid  avuto  av- 
viso che  il  re  Filippo  avea  rimessa  la  provvidenza  del  mio  ricorso 
all'Infante,  re  di  Napoli,  al  quale  si  era  trasmesso  il  mio  memoriale, 
e  che  il  tutto  dipendeva  dal  conte  di  Santo  Stefano,  che  disponeva 
di  quel  giovane  principe  come  le  veniva  più  in  acconcio,  non 
men  io  che  l'ambasciador  istesso  cominciò  a  dubbitarne,  sapendo 
la  dipendenza  che  mostrava  colla  corte  di  Roma  e  la  propensione 
del  suo  animo  di  compiacerle,  e  che  gli  faceva  più  forza  una  let- 
tera d'un  cardinale,  che  tutte  le  raccomandazioni  di  qualunque 


284  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

regio  ministro.  E  se  bene  <il  marchese  di  Montallegro1  secretano 
di  Stato  e  guerra  dell*  Infante  don  Carlos,  <ed  il  Tanucci  secreta- 
no^ di  giustizia,  mostrasser  tutta  l'inclinazione  di  favorirmi,  nulla- 
dimanco  da'  riscontri  che  si  ebbero  di  Napoli  della  total  dipendenza 
del  conte  alla  Corte  romana;  il  qual,  sicome  promovea  ne*  magi- 
strati i  soggetti  raccomandatigli  da  quella  Corte,  così  abbassava 
quelli  che  non  aveano  la  di  lei  grazia  e  favore;  non  era  da  sperare 
che  il  secretano  potesse  resistere. 

Da  ciò  mosso  per  prevenire  ogni  sinistro  evento,  mi  deliberai 
passare  in  casa  del  Pisani,  al  quale  ratificando  le  mie  promesse, 
dissi  che  vi  sarei  passato  verso  la  fine  del  mese  ;  onde  avendo  fatto 
ripulire  il  quartiere,  andai  ad  abitarci  a'  24  di  marzo.  Non  fu  mi- 
nore la  compiacenza  del  Pisani  in  vedermi  in  sua  casa,  che  la  mia 
vedendo  con  quanta  affezione  e  piacere  mi  ricevè  per  suo  ospite; 
e  tanto  più  che  le  mie  stanze  erano  nel  piano  superiore,  non  dando 
né  ricevendo  suggezione  alcuna:  dove  feci  trasportare  le  mie  scan- 
zie  co'  libri  e  tutta  quella  poca  roba  che  avea;  sicché  separato  da 
tutti  poteva  attendere  a'  miei  studi;  e  quando  non  era  da  altri  in- 
vitato, senza  che  io  soffrissi  spesa  alcuna  di  cucina,  avea  sempre 
pronta  ed  apparecchiata  la  sua  tavola,  alla  quale,  contro  il  costume 
degli  altri  gentiluomini  veneziani,  soleva  spesso  invitare  altri  gen- 
tiluomini suoi  amici  0  persone  dotte  e  letterate. 

Per  non  abusarmi  di  tanta  cortesia  e  non  incommodar  alcuno 
della  sua  servitù,  avendo  bisogno  di  chi  avesse  cura  di  me  e  delle 
mie  poche  cose,  mi  risolsi  di  far  venire  da  Napoli  quel  mio  figliuolo, 
che  io  faceva  ivi  istruire,  del  quale,  trovandosi  già  adulto  di  circa 
venti  anni,  e  che  in  Napoli  erasi  alquanto  esercitato  nella  gramma- 
tica e  nell'arte  di  ben  scrivere,  poteva  valermi  non  solo  ne'  miei 
studi,  ma  anche  in  ciò  che  fosse  necessario  per  altri  miei  bisogni; 
tanto  maggiormente  che  essendo  solo  ed  abitando  in  camere  sepa- 
rate e  lontane  dalla  famiglia  del  Pisani,  avea  preciso  bisogno  di 
persona  che  mi  tenesse  compagnia,  per  qualunque  accidente  che 

1.  il  marchese  dì  Montallegre:  José  Joaquin  de  Montealegre,  marchese, 
poi  duca  di  Salas,  segretario  di  Stato  e  guerra  di  Carlo  III,  dopo  il  licen- 
ziamento del  Santisteban  divise  col  Tanucci  il  potere  a  Corte.  Veime 
congedato  nel  1746.  2.  Bernardo  Tanucci  (1698-1783),  professore  di  di- 
ritto all'Università  di  Pisa,  divenne  consigliere  di  Carlo  III,  suo  ministro 
di  giustizia,  degli  affari  esteri  e  della  casa  reale.  Salito  Carlo  sul  trono  di 
Spagna,  ne  divenne  la  longa  mamis  nel  regno  di  Napoli,  in  qualità  di 
membro  del  consiglio  di  reggenza. 


CAPITOLO   DECIMO  285 

potesse  occorrermi.  Scrissi  per  ciò  in  Napoli  al  mio  amico  Mela 
che  con  opportuna  commodità  lo  mandasse,  con  avvertire  al  gio- 
vane di  non  iscoprire  che  fosse  mio  figliuolo  ;  sicome  io  avea  pre- 
venuto col  Pisani  che,  avendo  bisogno  d'un  giovane  per  mia  assi- 
stenza e  volendo  essere  discreto  di  non  incommodar  le  genti  di 
sua  famiglia,  facea  venirlo  da  Napoli,  senza  però  che  dovesse  por- 
tarli alcuna  spesa;  ed  il  Pisani,  colla  medesima  affezione  e  cordialità, 
mi  rispose  ch'era  suo  piacere  quanto  fosse  per  piacermi,  e  che  avessi 
disposto  come  meglio  riputava,  per  mio  sollievo  e  comodo. 

Giunse  il  giovane  a  Venezia  verso  la  fine  d'aprile;1  e  riuscendomi 
a  proposito  a'  miei  bisogni,  proseguiva  la  mia  dimora  con  maggior 
aggio,  avendo  propria  persona  che  mi  assistesse.  Ma  nel  tempo 
stesso  dovea  pensare  che,  se  bene  sparamiava  la  spesa  della  tavola 
e  delle  stanze,  con  tutto  ciò  bisognava  far  altre  spese  d'abiti  per 
me  e  pel  giovane,  e  per  altri  bisogni  che  alla  giornata  occorrono  ; 
e  de'  denari,  che  io  avea  esatti  dal  Banco  di  Vienna,  era  gran  parte 
consumata  per  viaggi  ed  altre  spese,  e  sopra  tutto,  per  sette  mesi 
che  io  a  mio  costo  era  dimorato  a  Venezia;  né  mi  eran  rimasi 
che  cento  ungheri;  sicché  a  lungo  andare  questi  riniti,  non  era 
altronde  da  sperar  soccorso,  non  volendo  abusarmi  della  cortesia 
del  Pisani,  il  quale  ben  sapeva  che  non  poteva  per  me  far  di  van- 
taggio, essendo  quanto  d'animo  benefico  e  magnanimo,  altrettanto 
non  provveduto  abbastanza  di  beni  di  fortuna;  e  non  mancarono 
degl' invidi,  i  quali,  sicome  biasimarono  il  Pisani,  che  sopra  le  sue 
forze  aveasi  adossato  questo  peso,  così  procuravano  farmi  sapere 
che  io  era  appoggiato  ad  una  colonna  ruinosa  e  frale,  e  che  debil 
sostegno  avrei  potuto  sperare  da  un  povero  gentiluomo.  A'  quali 
rispondeva  che  non  mi  era  ciò  ignoto,  ma  che  io,  considerando  che 
poteva  il  Pisani  giovarmi,  senza  che  gli  accrescessi  spesa,  volen- 
tieri avea  abbracciata  l'offerta;  poiché  per  quel  che  riguardava 
la  tavola  l'istesso  Pisani  mi  diceva,  ed  io  l'aveva  già  osservato,  che 
la  spesa  sarebbe  stata  la  stessa,  scorgendo  che  io  per  cibo  mi  con- 
tentava quanto  bastasse  a  supplire  la  naturai  indigenza,  che  non 
bevea  vino,  e  non  cenava  la  sera;  ed  intorno  all'abitazione  niente 
a  lui  si  scemava,  tenendo  vote  quelle  camere,  né  i  gentiluomini 
veneziani  sogliono  affittar  ad  altri  stanze  del  proprio  palazzo,  dove 
essi  abitano:  sicché  non  doveano  costoro  mostrar  zelo  e  del  mio 

1.  Giunse . . .  aprile:  cfr.  l'autobiografìa  di  Giovanni,  in  Giannoniana, p.  188. 


286  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

sostegno  e  dell'economia  del  Pisani,  né  essere  tanto  curiosi  e  cen- 
sori degli  altrui  fatti. 

Ciocché  maggiormente  mi  angustiava  era  che,  con  tutto  questo 
aiuto,  non  poteva  tirar  molto  in  lungo  la  dimora,  senz'altro  soc- 
corso; né  da  Napoli  da  mio  fratello  era  da  sperarlo;  anzi  dal  mede- 
simo sperimentai,  in  questo  mio  infelice  stato,  le  più  estreme  ed 
inudite  crudeltà;  poiché,  istantemente  ricercato  da  molti,  che  non 
potendo  aver  da'  librari  la  mia  Istoria,  procurassi  farne  io  venir  da 
Napoli  più  essemplari,  ch'essi  l'avrebber  comprati  a  qualunque 
prezzo,  scrissi  a  mio  fratello  che,  per  la  strada  di  Mandredonia,1 
di  quelli  che  l'eran  rimasi  ne  mandasse  quanti  più  potesse,  poiché 
in  Venezia  l'avrei  venduti  il  doppio  ch'egli  vendeva  in  Napoli,  che 
così,  almanco,  poteva  riparare  a'  miei  bisogni  ;  ed  egli,  con  inudita 
sfacciataggine,  mi  rispose  che,  se  io  li  voleva,  mandassi  denari, 
perch' egli  que'  che  avea  l'avea  impegnati;  onde  mi  fu  d'uopo 
acremente  replicargli  e  scrivere  a  gli  amici  che  lo  persuadessero  a 
mandarmigli,  poiché  altrimenti  l'avrei  rivocata  la  procura  e  man- 
datala ad  altri;  e  con  molti  stenti  e  dura  forza  appena  potei  averne 
dieci  essemplari,  i  quali  mi  furono  opportuni;  poiché,  avendone 
donati  due  corpi  al  Pisani  (e  poi  mi  convenne  donarne  un  altro  a 
Benedetto  Pisani,  suo  figlio),  un  altro  all'ambasciador  di  Spagna, 
i  rimasi  vendutili,  di  volta  in  volta,  per  sei  zecchini  il  corpo,  il 
prezzo  de'  medesimi  mi  aiutò  che  potessi  supplire  all'altre  mie 
spese  che  mi  bisognavano,  senza  toccare  quel  poco  denaro  che 
m'era  rimaso  di  Vienna. 

Mentre  nel  meglio  che  io  poteva  tirava  innanzi  la  mia  dimora 
in  Venezia,  lusingandomi  che  cessato  il  rigore  dell'inverno  dovessi 
almanco  nella  primavera  ristabilirmi  in  perfetta  salute,  sperimentai 
il  contrario,  poiché  le  continue  nebbie,  e  sovente  le  dirotte  piogge 
mi  rendevano  noiosa  la  dimora,  non  men  di  quello  che  aveami 
cagionato  il  passato  inverno  ;  ed  ancorché  fra  questo  tempo  io  avessi 
avuta  la  sorte  di  trovarmi  nelle  più  solenni  funzioni  e  nelle  maggiori 
celebrità  e  spettacoli,  che  sogliono  accadere  a  Venezia,  sicome  per 
la  morte  del  doge  Ruzini2  di  veder  i  pomposi  funerali  che  gli  furon 


i.  Mandredonia:  Manfredonia.  2.  per  la  .  .  .  Ruzini:  Cado  di  Marco  Ruz- 
zoli fu  doge  di  Venezia  per  soli  tre  anni,  dal  1732  al  5  gennaio  1735,  gior- 
no della  sua  morte.  Era  nato  nel  1653  ed  era  stato  uno  dei  più  attivi  diplo- 
matici della  repubblica,  partecipando,  tra  l'altro,  alle  conferenze  di  Passa- 
rowitz  e  di  Utrecht. 


CAPITOLO    DECIMO  287 

celebrati;  di  trovarmi  nell'elezione  del  nuovo  doge  Pisani  e  nelle 
feste  della  di  lui  intronizazione  ;  sicome,  dopo  morto  il  Patriarca 
di  vedere  il  magnifico  ingresso  del  nuovo  rifatto,1  de'  nuovi  Pro- 
curatori di  San  Marco3  ed  altri  pomposi  apparati  e  feste,  le  quali 
avrebbero  dovuto,  se  non  rallegrarmi,  almanco  togliermi  da  quella 
malinconia  e  tetraggine  nella  quale  era  caduto;  con  tutto  ciò,  nel 
tempo  stesso  che  per  l'invito  di  que'  gentiluomini  (i  quali,  con 
molta  cortesia  procuravano  che  io  le  vedessi  tutte  con  ogni  com- 
modità  ed  aggio),  mi  era  apparecchiato  d'andar,  nel  dì  dell'Ascen- 
sione, che  in  questo  anno  accadde  a'  19  di  maggio,  a  veder  la 
festa  del  Bucentoro,  ecco  che  gravemente  mi  ammalai  con  febre 
terzana,  della  quale  i  medici  per  la  mia  gracile  complessione  ed 
avanzata  età,  facevan  qualche  conto,  sicché  pensarono  valersi  del- 
la china-china  per  liberarmene;  ma  quantunque  fossi  risanato,  poi- 
ché per  dura  necessità,  né  poteva  secondo  il  mio  istituto  goder  della 
campagna,  né  continuare  i  miei  mattutini  esercizi,  non  m'intesi 
mai  perfettamente  sano  e  valido;  e  continuando  la  stagione  sem- 
pre varia  e  piovosa,  ancorché  si  fosse  ne'  princìpi  di  està,  non 
passarono  quattro  0  cinque  settimane  che  non  ricadessi  di  nuovo, 
e  la  febre,  più  vigorosa  che  prima,  mi  tolse  tutte  le  forze  riducen- 
domi in  istato  peggiore.  I  medici  tornarono  all'uso  della  china- 
china,  la  qual  mi  tolse  la  febre,  ma  non  già  la  languidezza.  Il  Pisani, 
con  molta  affezione  e  cordialità,  non  mancava  d'assistenza;  ma  io 
gli  diceva  che  non  sarei  mai  ristabilito,  se  non  uscito  da  quelle 
lacune  mi  fossi  veduto  in  campagna;  onde  lo  pregava  d'affrettare 
la  sua  villeggiatura  di  Rovere  di  Crè,  dov'egli  soleva  condursi, 
che  questa  sarebbe  stata  per  me  la  più  efficace  medicina;  ma  gli 
affari  suoi  domestici,  ancorché  fossimo  verso  la  fine  di  giugno, 
non  glielo  permettevano,  dicendomi  che  presto  sperava  di  svilup- 
parsene e  subbito  per  colà  partire. 

Sopra  queste  mie  afflizioni  si  aggiunse  la  notizia  datami  dall' am- 


1.  morto  .  .  .  rifatto:  Francesco  Antonio  Correr  (1 676-1 741)  successe  a  Mar- 
co Gradenigo,  spentosi  il  14  dicembre  1734.  2.  Procuratori  di  San  Mar- 
co: una  delle  più  antiche  e  importanti  magistrature  veneziane.  Sorta  sin 
dal  IX  secolo  come  sovrintendenza  all'amministrazione  della  basilica 
(donde  il  nome),  questa  magistratura  aveva  finito  per  allargarsi  da  uno  a 
nove  membri,  estendendo  la  propria  competenza  all'amministrazione  delle 
entrate  di  tutto  lo  Stato  e  alla  sorveglianza  sulla  tutela  e  sull'esecuzione 
dei  testamenti.  Aveva  i  suoi  uffici  nei  due  splendidi  palazzi  prospicienti 
la  piazza  San  Marco  (le  «  procuratie  vecchie  »  e  le  «  procuratie  nuove  »). 


288  VITA   DI   PIETRO   GIANNONE 

basciador  di  Spagna,  che  il  conte  di  Santo  Stefano  l'avea  scritto 
che  non  pensassi  di  tornar  più  in  Napoli,  e  che  tale  fosse  la  prov- 
videnza che  la  Maestà  del  re  Carlo  avea  dato  al  mio  memoriale, 
rimessogli  di  Spagna.1  Il  sentimento  che  n'ebbe  Pambasciadore  in 
dirmelo,  mi  fece  comprendere  ch'egli  ne  avesse  avuta  somma  di- 
spiacenza; onde  non  mancai  di  renderle  molte  grazie  degli  uffici 
per  me  fin  qui  passati,  e  che  io  n'incolpava  il  mio  duro  destino, 
che  per  tutti  i  lati  non  mancava  di  perseguitarmi;  che  io  già  da  Na- 
poli avea  riscontri  di  non  doverne  aspettare  altra  risposta  che  que- 
sta, per  la  total  soggezione  e  dipendenza  che  il  conte  non  pur  avea 
colla  corte  di  Roma,  ma  ostentava  con  tutti  d'averla  e  ne  facea 
pompa;  anzi,  che  ritirato  il  principe  della  Torella  in  Napoli,  aven- 
dogli scritto  che  intercedesse  per  me  presso  quel  primo  ministro, 
non  mi  fece  degno  nemmeno  di  sua  risposta;  e  poi  si  seppe  che  il 
conte  si  preggiava  che,  con  tutti  gl'impegni  che  s'erano  usati  di 
farmi  tornar  in  Napoli,  non  ne  avea  voluto  far  niente;  e  che  di 
questa  sua  costanza  ne  avea  data  parte  in  Roma;  e  non  potè  con- 
tenersi di  dirlo  al  vicario  di  Napoli  perché  lo  communicasse  al 
nuovo  arcivescovo  Spinelli,2  rifatto  in  luogo  del  defonto  Pignatelli, 
sicome  venendogli  opportunità  non  mancava  di  dirlo  a  quanti  gli 
venivan  davanti,  mostrando  compiacenza  d'aver  in  ciò  ben  servito 
al  papa  ed  alla  sua  Corte. 

E  pure  tanta  animosità  non  meritava  la  mia  moderazione,  usata 
nel  quarto  tomo  della  mia  Istoria,  in  descrivere  il  governo  del  conte 
di  Santo  Stefano  suo  padre,  che  fece  in  Napoli  quando  negli  ultimi 
anni  del  re  Carlo  II  vi  fu  viceré.3  Io  m'astenni  di  favellar  della  fa- 
volosa genealogia  tessuta  dal  Vidania  della  famiglia  Benavides;4 
tacqui  le  mormorazioni  che  s'intesero  per  Napoli,  quando  non 


i .  la  notizia . . .  Spagna  :  cfr.  Giannonianay  pp.  42  e  406.  2.  Giuseppe  Spinelli 
(1694-1763),  napoletano,  già  nunzio  in  Fiandra  e  arcivescovo  di  Corinto, 
chiamato  in  Curia  nel  1731,  subentrò  tre  anni  dopo  a  Francesco  Pignatelli 
nelTarchidiocesi  napoletana  e  fu  creato  cardinale  di  11  a  poco,  nel  gennaio 
1735.  A  lui  si  deve,  al  tempo  della  sua  nunziatura,  la  cacciata  del  Van  Espen 
dall'Università  di  Lovanio,  episodio  al  quale  si  interessò  direttamente  il 
Giannone  (cfr.  Giannonianay  pp.  131,  226  e  228).  3.  nel .  .  .  viceré:  cfr. 
Istoria  civile,  tomo  iv,  lib.  xl,  cap.  11,  pp.  472-6.  4.  genealogia  .  .  .  Bena- 
vides: cfr.  Al  Rey  Nuestro  Senor  Don  Francisco  de  Benavides . . .  Representa 
los  servicios  heredados  y  proprios  y  los  de  sus  hijos  Don  Diego  . .  .  y  Don 
Luis  . .  .  3;  la  Antiguedad  y  Cakdad  de  su  Casa,  y  de  las  incorporadas  en  ella, 
Napoles  1696,  opera  del  cappellano  maggiore  e  prefetto  all'Università  di 
Napoli  Diego  Vincente  De  Vidania  (1650-1731). 


CAPITOLO   DECIMO  289 

curando  il  pubblico  danno,  per  proprio  utile  alterò  la  seconda 
volta  il  valore  della  nuova  moneta,  e  l'altre  maniere  praticate  per 
istraricchire.  Tanto  è  miserabile  ed  infelice  la  condizione  degli 
scrittori  de'  dì  nostri,  che  non  gli  basta,  per  isfuggire  l'odio  e  la 
malevolenza,  di  tacere  i  vizi,  ma  si  pretende  che  con  isfacciate 
adulazioni  i  difetti  stessi  si  abbiano  a  trasformare  in  virtù,  ed 
encomiargli  ed  avergli  per  sommi  preggi,  degni  di  lode  e  di  com- 
mendazione. <  Conobbi  per  proprio  esperimento  essere  vero  ciò 
che  Plinio  il  Giovane,  rispondendo  a  Capitone  che  lo  consigliava 
a  scriver  istoria,  gli  scrisse  nella  sua  epistola  ottava  del  quinto  libro, 
che  ciò  a'  suoi  tempi  era  cosa  molto  pericolosa,  poiché,  e'  gli  di- 
ceva: «si  laudaveris,  parcus;  si  culpaveris,  nimius  fuisse  dicaris, 
quamvis  illud  pienissime,  hoc  restrictissime  feceris»>.1 

Ricevuta  dall' ambasciadore  questa  risposta,  nel  licenziarmi  gli 
dissi  che  non  imputasse  a  mia  poca  urbanità  o  a  disdegno,  se  nel- 
l'avvenire non  mi  vedesse  porre  più  piede  nel  suo  palazzo;  poiché 
essendo  passato  ad  abitare  nella  casa  del  senator  Pisani,  ancorché 
come  suo  ospite  e  non  a'  suoi  stipendi  non  fossi  compreso  nelle 
scrupolose  leggi  di  quella  repubblica,  che  proibisce  a'  nobili  ogni 
commercio  con  gli  ambasciadori,  nulladimanco  stando  io  esposto 
alla  malevolenza  de'  Gesuiti  e  degli  altri  satelliti  della  corte  di 
Roma,  non  voleva  dargli  minimo  pretesto  di  calunniarmi;  che  io 
quella  sola  volta,  doppo  questo  passaggio,  ci  era  venuto,  costretto 
dalla  necessità  di  sapere  l'ultima  risoluzione  che  erasi  presa  in 
Napoli  del  mio  ritorno.  Lo  stesso  praticai  coll'ambasciador  di 
Francia,  il  quale,  se  bene  più  volte  incontrandoci  nel  monastero 
di  San  Lorenzo  m'invitasse  seco  a  pranzo,  con  vari  pretesti  me  ne 
scusava;  e  dolendosi  sovente  di  questa  mia,  che  egli  credea  repu- 
gnanza,  pregai  il  principe  Trivulzi  che  le  manifestasse  la  vera  ca- 
gione, e  non  m'avesse  per  sì  poco  riconoscente  delle  benignissime 
sue  offerte,  che  io  riputava  per  me  somme  grazie  ed  onori. 

Vedutomi  adunque  affatto  escluso  dal  ritorno  in  Napoli,  pensai 
accomodarmi  come  poteva  il  meglio  al  soggiorno  di  Venezia.  Né 
era  da  pensare  al  ritorno  in  Vienna,  poiché  non  sol  durava  la  ca- 
gione che  mi  obligò  a  partire,  ma  secondo  i  riscontri  che  avea 
dagli  amici  colà  lasciati,  le  miserie  vieppiù  crescevano,  senza  spe- 


li. ««  .  .  .feceris»:  cfr.  v,  vili,  13  («la  lode  sembrerà  insufficiente,  la  ripren- 
sione eccessiva,  pur  se  quella  sarà  pienissima,  e  questa  moderata  »). 

19 


290  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

ranza  di  dover  aver  presto  fine;  anzi  invidiavano  la  mia  sorte  d'es- 
sermene sottratto  e  d'aver  trovato  in  Venezia  ricovero. 

Essendo  in  queste  angustie,  non  poco  mi  sollevò  il  Pitteri,  il 
qual,  tutto  allegro,  venne  a  trovarmi  e  mi  disse  che  i  riformatori, 
magistrato  che  soprastà  alle  stampe,  di  buona  voglia  aveano  rice- 
vuto il  memoriale  datogli  per  la  ristampa  della  mia  Istoria  coli' ag- 
giunta del  quinto  tomo,  la  quale  avrebbe  maggiormente  rialzate  le 
stamperie  di  Venezia,  e  fatto  che  più  denaro  per  questa  via  en- 
trasse nella  città;  e  che  per  facilitarla  avean  commessa  la  rivisione 
al  padre  teologo  della  Repubblica,  servita,1  il  quale  se  in  queste 
nuove  aggiunte  e  quinto  tomo  non  trovasse  cosa  che  offendesse  la 
religione  ed  i  diritti  de'  principi,  o  fosse  contro  i  buoni  costumi, 
ne  avesse  fatto  ad  essi  relazione  anche  a  voce,  che  tanto  gli  bastava, 
perché  volentieri  Pavrebber  data  licenza;  e  che  per  isfuggire  ogni 
briga  con  Roma,  tanto  si  sarebber  contentati,  che  la  ristampa  appa- 
risse sotto  nome  di  altra  città.  E  ch'egli  avea  già  parlato  col  padre 
teologo,  il  quale  aspettava  i  miei  manuscritti  per  leggergli,  e  che 
l'avrebbe  presto  sbrigati;  onde  mi  sollecitava  che  io  glieli  dessi, 
per  portarceli  e  non  doversi  perder  tempo. 

Non  mancai  di  subito  consignarceli,  e  se  bene  non  fosser  tutti 
posti  in  ordine,  nulladimanco,  poiché  tanto,  doppo  avergli  letti, 
ciò  poteva  farsi,  non  volli  frapporre  minimo  impedimento,  inca- 
ricando al  Pitteri,  ora  più  che  mai,  di  serbar  il  secreto,  che  fu 
difficile  poterlo  ottener  da'  Veneziani;  e  che  dicesse  al  padre  teo- 
logo che,  doppo  avergli  letti,  sarei  stato  da  lui  per  conferire  insie- 
me di  ciò  che  forse  avrebbe  stimato  di  togliere,  mutare,  o  in  altra 
guisa  esporre  ed  emendare.  I  manuscritti  furono  le  note,  corezioni 
e  nuove  giunte,  colle  medaglie  che  doveano  collocarsi  ne'  loro 
luoghi,  in  ciaschedun  libro  de'  quattro  tomi.  Seguivano  gli  altri, 
che  componevano  il  quinto  tomo,  con  le  varie  critiche  ed  apologie 
per  difesa  ed  illustrazione  dell'opera,  ed  altre  dissertazioni  e  trattati 
appartenenti  alla  medesima. 

Respirai  alquanto,  vedendo  che  col  guadagno  che  io  avrei  ritrat- 
to da  questa  ristampa  avrei  potuto  tirar  avanti  per  più  anni  la  mia 
dimora  a  Venezia  ed  intanto,  da  sicura  parte  essere  spettatore  de' 
successi  della  guerra,  e  vedere  a  lungo  andare  dove  andassero  a 
terminare  le  cose  d'Italia.  Quello  che  mi  rimaneva  da  ristaurare 

1.  padre  . . .  servita'.  Paolo  Celotti. 


CAPITOLO   DECIMO  Zgi 

era  la  mia  salute,  che  tuttavia  minava,  onde  facendo  sentire  al 
Pisani  che  io  non  ci  trovava  altro  rimedio,  che  andarmene  in  Me- 
stri1  o  in  qualche  altra  vicina  campagna,  se  più  dovea  differirsi  la 
villeggiatura  di  Rovere  di  Crè,  egli  l'affrettò  il  meglio  che  potè;  e 
finalmente,  non  prima  che  a'  6  di  luglio,  per  acqua  si  partì  per 
Rovigo  ;  dove  giunti,  cominciai  a  migliorare  e  ristabilirmi  alquanto 
col  mattutino  esercizio,  in  riandando  per  quelle  campagne. 

Ma  misero!  Mentr'io  così  credea  aver  riparato  alquanto  alle  mie 
sciagure,  non  sapeva  che  altre  insidie  ed  altri  mali  peggiori  mi  si 
apparecchiavano  in  Venezia  da'  Gesuiti  e  dalla  corte  di  Roma,  la 
quale,  non  soddisfatta  di  avermi  escluso  da  Napoli,  vedendo  che  in 
Venezia  io  era  in  tanta  stima  e  sì  ben  veduto,  e  che  la  mia  Istoria 
era  cotanto  ricercata  e  commendata,  anzi  che  si  trattava  d'una  nuo- 
va ristampa  accresciuta  d'un  altro  tomo:  pensò  adoperare  le  solite 
arti  maligne,  per  mezzo  de'  Gesuiti,  <del  nunzio  Oddiz  e  dell'In- 
quisitore>  ;  sicché  io  pur  da  quella  città  fossi  escluso,  e  con  ciò  inter- 
rompere ogni  trattato  di  ristampa  ed  ogni  altro  mio  vantaggio,  che 
io  avrei  potuto  sperare  dimorando  a  Venezia.  I  Gesuiti,  fortemente 
sdegnati  che,  avendone  essi  medesimi  data  occasione,  la  risposta 
al  Sanfelice,  dove  si  manifestava  la  lor  perversa  morale,  erasi  di- 
volgata in  Venezia  e  letta  con  piacere  da  tutti,  con  fervore  ne  pre- 
sero l'impresa;  e  non  tralasciavono  da  per  tutto  tendermi  insidie, 
detraendo  la  mia  fama  presso  i  di  loro  penitenti,  descrivendomi 
per  un  eretico  e  miscredente. 

Chi  avrebbe  creduto  che  i  Gesuiti,  scacciati  sotto  Paolo  V  da 
Venezia,  come  sediziosi  e  perturbatori  della  Repubblica,  i  quali 
anche  doppo  scacciati  tentarono  nelle  città  finitime  dello  Stato, 
come  lontane  dalla  metropoli,  nuove  sedizioni  e  tumulti,  tornati 
dapoi  in  Venezia  sotto  Alessandro  VII3  fossero  stati  non  pur  rein- 
tegrati nello  stato  primiero,  ma  dovessero  acquistare  ivi  maggiori 
ricchezze,  autorità  e  credito  ?  Tutto  devono  alla  lor  morale  ed  allo 
scadimento  di  quella  Repubblica,  la  quale  sempre  più  precipitando 
nella  dissolutezza  e  ne'  vizi  trovò  chi,  con  false  dottrine  e  rilasciate 


x.  Mestri:  Mestre.  2.  Iacopo  Oddi  (1679-1770),  vescovo  di  Laodicea, 
nunzio  a  Venezia  dal  1735  al  i739>  divenne  cardinale  nel  1743.  3.  i  Ge- 
suiti .  .  .  VII:  la  Compagnia  di  Gesù,  bandita  al  tempo  dell'interdetto  nel 
1608  sotto  il  pontificato  di  Paolo  V  (1552-1621),  venne  riammessa  solo  nel 
1657,  quando  era  papa  Alessandro  VII  (i599-l667)-  I  P^si  cne  seguono 
riprendono  l'invettiva  del  Ragguaglio  (cfr.  qui,  a  pp.  538  sg.). 


292  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

massime  di  morale,  accelerasse  il  corso,  ed  a  chi  correva  alFingiù 
aggiungesse  stimoli  di  sproni  più  acuti  e  pungenti. 

Né  può  dubitarsi  che  la  morale  che  insegnano  i  Gesuiti  a  Vene- 
zia abbia  date  l'ultime  pruove  della  sua  perfezione;  poiché  a'  loro 
divoti  e  penitenti  tutto  lece  ed  è  permesso:  quindi,  negli  arteggiani 
tante  frodi  ed  inganni;  quindi,  ne'  traffichi  tanto  dolo;  quindi,  ne' 
curiali  tanta  vafrizie1  e  prevaricazione,  e  ne*  magistrati  tanta  coru- 
zione  e  sordidezza;  quindi,  ne*  lupanari  tanta  frequenza,  sporcizie 
e  sfacciataggine;  ne*  giochi  tanta  assiduità  e  licenza;  ma  ciò  che  sor- 
prende e  rende  gli  uomini  stupefatti  è  il  vedere  ch'essi  sono  i  con- 
fessori e  direttori  di  coscienza  della  maggior  parte  della  nobiltà,  ed 
uno  stesso  sarà  il  confessore  della  dama  e  del  gentiluomo,  cioè 
della  putta  e  del  drudo;  poiché  già  corre  ivi  per  nuova  moda  ed 
usanza  che  a  vicenda  si  cambino  le  mogli  e  si  mescolino  le  stirpi 
e  le  schiatte.  Il  gesuita  confessa  l'uno  e  l'altra  ed  assolve  tutti  due, 
e  sovente  si  vedono  accostarsi  all'altare  l'amico  e  l'amica  a  cibarsi 
dell'Ostia  sacrata,  e  così  credon  aver  con  Dio  saldato  ogni  conto, 
e  cominciar  poi  a  metter  nuove  partite  e  calcular  nuovi  conti,  es- 
sendo pronto  il  computista  per  appianarli  tutti! 

Or  questi  zelanti  della  salute  delle  nostre  anime,  <coll'Inquisi- 
tore>  avea  io  per  ispettori  de'  miei  andamenti  e  costumi:  curiosi 
di  sapere  se  io  ascoltava  o  no  ne'  dì  festivi  messa,  e  se  aveva  adem- 
pito al  precetto  pasquale;  e  trovando  che  io  non  pur  ne'  dì  festivi, 
ma  sovente  anche  in  quelli  di  lavoro  l'ascoltava  regolarmente  nella 
chiesa  di  San  Salvatore,  e  che  nella  mia  parocchia  di  Sant'Angelo, 
prossima  alla  casa  del  Pisani,  aveva  adempito  al  precetto  pasquale 
il  Giovedì  Santo,  che  in  quest'anno  cadea  a'  7  di  aprile,  comincia- 
rono a  calunniarmi:  che  io  ne'  miei  discorsi  dava  indizio  di  non 
sentir  bene  de'  santi  e  loro  particolari  divozioni,  e  che  l'ascoltar 
messa  ed  aver  adempito  al  precetto  erano  tutte  mie  apparenze  e 
finzioni. 

Era  partito  da  Venezia  il  nunzio  Piazza,2  della  primaria  nobiltà 
milanese,  savio  e  discreto  prelato,  al  qual  niente  piacevano  le  ip- 
pocrisie,  ed  in  suo  luogo  fu  rifatto  un  altro  nunzio,  <monsignor 
Oddi>,  d'umor  contrario,  solenne  picchiapetto   e  spigolistra,3  il 

1.  vafrizie:  astuzia  (latinismo).  2.  il  nunzio  Piazza:  il  Giannone  dev'es- 
sere incorso  in  un  errore.  Il  predecessore  dell'Oddi  fu  in  realtà  Gaetano 
Carlo  Stampa  (1678-1742)  :  nel  1717  vescovo  di  Calcedonia,  fu  nunzio  pri- 
ma alla  corte  di  Toscana,  poi  a  Venezia  fino  al  1735.  Nel  1737  arcivescovo 
di  Milano,  cardinale  nel  1739.     3-  spigolistra:  bacchettone. 


CAPITOLO   DECIMO  293 

quale  volentieri  unitosi  co'  Gesuiti  <e  coU'Inquisitore>,  cautamen- 
te gli  dava  fomento  e  coraggio  di  proseguire  nell'impresa. 

Nel  mio  soggiorno  in  villa  a  Rovere  di  Crè  era  ignaro  di  tutto 
ciò,  ma  poi  tornato  in  città  nella  fine  di  luglio,  trovai  tante  novità, 
ed  infra  l'altre  mi  fu  riferito  dagli  amici,  che  i  Gesuiti  andavan 
spargendo  che  in  Venezia  s'era  scoverta  una  gran  turba  di  gentiluo- 
mini, nella  quale  erano  eziandio  alcune  gentildonne,  ed  anche  de* 
religiosi  e  cittadini  al  numero  di  ottanta,  li  quali  deridevano  nelle 
loro  conversazioni  le  tante  confratanze1  de'  secolari  ch'erano  in 
Venezia,  e  le  particolari  devozioni  a'  loro  santi;  che  non  osserva- 
vano i  digiuni,  ed  alcuni  non  si  astenevano  di  mangiar  carne  nel 
venerdì  e  sabato;  che  i  tanti  miracoli  che  si  raccontavano  erano 
imposture  de'  frati,  sicom'erasi  già  scoverto  che  la  lingua  rubi- 
conda e  fresca  di  sant'Antonio,  che  si  mostrava  in  Padoa  da  que' 
Franciscani,  non  era  di  carne,  ma  di  legno  dipinto  a  color  di 
carne;  che  l'odor  di  rose,  che  dava  l'arca  ov'era  il  deposito  del 
santo,  veniva  da'  profumi  che  i  frati,  industriosamente  vi  replica- 
vano, per  ingannar  la  semplice  e  divota  moltitudine;  e  che,  per 
questi  e  simili  scandalosi  discorsi,  davano  indizio  che  non  ben  sen- 
tissero della  nostra  Santa  Fede;  onde  il  Nunzio  ed  il  Patriarca,  per 
non  far  maggiormente  diffondere  il  male,  erano  tutti  intesi  per 
estirparlo,  e  che  già  dal  tribunal  dell'Inquisizione  di  Venezia  si 
fabbricavan  processi  sopra  varie  persone  indiziate;  né  si  astene- 
vano di  additare  fino  i  loro  nomi,  con  le  più  minute  circostanze  de' 
loro  pretesi  delitti,  e  che  fra  breve  se  ne  sarebbe  veduto  condegno 
ed  esemplar  castigo. 

Queste  voci,  con  tanta  pubblicità  da  per  tutto  sparse,3  mi  fecero 
entrar  in  sospetto  non  fosse  una  gabala  tessuta  per  me  solo,  ripu- 
tando inverosimile  che  un  tribunale  come  quello  dell'Inquisizione, 
che  procede  con  tanta  accortezza  e  con  un  impenetrabile  secreto, 
permettesse  che  si  divolgassero  i  suoi  processi,  i  nomi  de'  rei,  e 
fino  le  minute  circostanze  de'  loro  delitti.  Ne  avvertii  per  ciò  il 
senator  Pisani,  pregandolo  che  come  patrizio  vecchio  ed  inteso, 
e  che  avea  amicizia  co'  ministri  di  quel  tribunale  e  con  altri  sena- 
tori, i  quali  potevano  indagarne  il  vero,  s'informasse  con  diligenza 

1.  confratanze".  confraternite.  2.  Queste . . .  sparse:  cfr.  la  lettera  dell'agen- 
te piemontese  da  Venezia  al  marchese  d'Ormea,  del  17  settembre  i735>  'm 
P.  Occella,  Pietro  Giannone  negli  ultimi  dodici  anni  della  sua  vita  (1736- 
1748),  in  Curiosità  e  ricerche  di  storia  subalpina,  in,  Torino  1879,  p.  499, 
in  nota. 


294  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

del  fatto,  che  io  lo  credeva  una  favola  ed  inventata  per  isgomen- 
tarmi  e  mettermi  in  costernazione  ;  se  ben  io  non  temessi,  pur  che  si 
fosse  dato  luogo  alla  difesa,  d'espormi  ad  ogni  cimento  e  smentire 
l'indegne  imposture;  poiché  era  sicuro,  che  ne'  miei  discorsi  avuti 
in  Venezia  non  avea  più  detto  di  quanto  era  nelle  mie  opere  date 
alle  stampe,  ch'erano  sotto  gli  occhi  del  mondo;  e  sicome  fin  ora 
avea  saputo  darne  a  tutti  conto  e  render  ragione,  così  avrei  con 
maggior  facilità  potuto  darla  a'  censori  veneziani;  né  io  era  stato 
a  Padova,  né  sapeva  niente  di  lingua  e  di  profumi.  Il  Pisani  ed  altri 
senatori  suoi  amici  non  mancarono  esattamente  informarsene,  e 
doppo  molte  ricerche  trovarono  che  fosse  una  favola,  né  che  mai 
in  quel  tribunale  si  fosse  fatto  di  ciò  motto,  né  posto  rigo  in  carta, 
ma  che  fossero  vane  voci,  sparse  da'  Gesuiti  ed  altri  della  lor 
farina. 

Parimente  pregai  il  Pisani  che  fossimo  insieme  a  visitare  il  pa- 
dre teologo  della  Repubblica;  sicome  si  andò,  per  sapere  se  avea 
letti  i  miei  manuscritti,  e  se  mai  in  quelli  avesse  trovata  cosa  da 
emendare  o  togliere,  che  volentieri  F avrei  fatto.  Il  padre  teologo 
mi  rispose  ch'egli  Favea  attentamente  letti,  e  che  non  solo  non 
avea  trovata  cosa  che  offendesse  la  nostra  Santa  Fede  o  i  diritti  de* 
principi,  ma  gli  riputava  commendabili,  per  sostenersi  con  vigore 
e  chiarezza  le  supreme  ed  alte  loro  preminenze  e  regalie:  ch'egli 
questa  testimonianza  ne  avrebbe  data  a*  riformatori,  e  che  n'avrebbe 
aggevolata  la  stampa,  perché  la  Repubblica  non  perdesse  l'occa- 
sione di  maggiormente  arricchire  le  sue  stamperie  d'un' opera,  che 
sarebbe  da  tutta  Europa  ricercata  e  commendata.  Dopo  resele  le 
dovute  grazie,  lo  pregai  che  facesse  presto  e  con  secretezza,  poiché 
vedeva  che  i  Gesuiti  troppo  invigilavano  sopra  di  me  e  delle  mie 
cose,  e  che  avrebbero  colla  corte  di  Roma  adoprati  tutti  gl'indegni 
ed  insidiosi  mezzi  per  impedirla. 

Non  per  ciò  mi  quetai  affatto,  poiché  dovunque  capitava  era 
dimandato  a  che  termine  si  trovava  la  ristampa,  quando  mai  po- 
tessero aver  la  consolazione  di  leggere  il  quinto  tomo  che  con 
impazienza  era  aspettato,  che  cosa  conteneva,  e  cento  di  simili  im- 
pertinenti dimande.  Io  ancorché  rispondessi  che  non  sapeva  co- 
s'alcuna  e  che  non  m'impacciava  più  né  di  stampe  né  di  ristampe 
e  mi  lasciassero  in  pace,  non  era  creduto  affatto;  ed  i  Gesuiti  spes- 
so mandavano  esploratori  al  Pitteri  ed  a'  miei  amici,  per  meglio 
accertarsene.  Era  per  ciò  in  continue  angustie,  maledicendo  la  mia 


CAPITOLO   DECIMO  295 

dura  sorte,  che  m'avea  ridotto  fra  gente  cotanto  curiosa,  garrula  e 
loquace,  in  mezzo  alla  quale  pareami  impossibile  che  potesse  ve- 
nirsi a  capo  di  qualunque  cosa  che  si  tentasse,  dove  il  segreto  ed 
il  silenzio  fosser  necessari;  e  tanto  più  a  me,  che  stava  esposto  a 
gli  occhi  di  tanti  invidi  e  maledici. 

Procurava  di  sfuggir  sempre  tali  discorsi,  e  m'ingegnava  di  non 
farmi  vedere  così  spesso  nella  piazza  di  San  Marco,  frequentando 
il  giorno  la  casa  del  Bettoni,  dove  trovava  il  Pasqualigo,  il  quale 
solea  con  la  sua  gondola,  doppo  avere  spasseggiato1  il  Canal  Gran- 
de ed  osservati  gli  ampi  edifici  della  sua  riva,  condurmi  la  sera  in 
casa  dell'avvocato  Terzi,2  non  molto  lontana  da  quella  del  Pisani. 
Ivi  trovava  alquanti  eruditi  gentiluomini,  e  sovente  l'abate  Conti, 
co*  quali  fino  alle  tre  della  notte3  soleva  trattenermi;  e  poi,  con  un 
servitore  del  Pisani  che  veniva  a  prendermi  col  lume,  mi  ritirava 
a  casa;  e  così  proseguendo,  eravamo  già  entrati  ne'  princìpi  del 
mese  di  settembre. 

Il  giorno  13  di  questo  mese,  martedì,  giorno  per  me  sempre 
memorando,  ebbi  la  mattina  una  lunga  visita  dal  senatore  Antonio 
Cornaro,4  col  quale  fin  ad  ora  di  pranzo  tenni  lunghi  discorsi  so- 
pra varie  materie  istoriche  e  filosofiche.  Il  dopo  desinare,  secondo 
il  solito,  mi  portai  in  casa  del  Bettoni,  dove  trattenutomi  alquanto 
con  que'  gentiluomini  soliti  ivi  a  ragunarsi,  dal  Pasqualigo  in  sua 
gondola  fui  condotto  al  solito  spasseggio  del  Canal  Grande;  e  fat- 
tasi sera,  lo  pregai  che  mi  conducesse  in  casa  dell'avvocato  Terzi. 
Trovai  ivi  la  solita  radunanza  di  gentiluomini,  alla  quale  poco  dapoi 
sopragiunse  l'abate  Conti:  sonate  le  tre  della  notte,  ciascuno  prese 
la  via  di  ritirarsi  a  sua  casa,  chi  per  acqua,  chi  per  terra;  quella 
notte  l'abate  Conti,  calandocene  insieme  secondo  che  portava  il 
discorso  cominciato,  non  si  staccò  da  me  per  lungo  tratto  di  cam- 
mino, avviandosi  meco  e  tenendomi  compagnia  per  tutto  il  campo 
di  Santo  Stefano;  quando  poi  si  prese  il  vicolo  stretto,  che  con- 
duce al  ponte  avanti  il  monastero,5  ci  licenziammo  insieme,  egli 
tornando  indietro  per  condursi  in  sua  casa,  io  proseguendo  oltre 
col  servidore  del  Pisani  che  portava  avanti  il  lume  passai  il  ponte 


1.  spasseggiato:  percorso  lentamente,  come  a  passeggio.  2.  Giuseppe  Ter- 
zi; il  Panzini,  p.  81,  lo  chiama  conte  e  «avvocato  di  gran  fama».  3.  tre 
della  notte  :  cioè  tre  ore  dopo  il  vespro,  le  ventidue  circa.  4.  Cornaro  :  Cor- 
ner. 5.  il  monastero  :  degli  eremiti  agostiniani,  che  diede  il  nome  al  campo. 
6.  il  ponte:  probabilmente  il  Ponte  dei  Frati. 


296  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

e  giunsi  al  campo  di  Sant'Angelo  ;  nel  volgermi  a  man  sinistra  per 
entrare  nel  palazzo  Pisani,  che  era  poco  discosto:  ecco  che  da* 
lati  m'usciron  due  nomini  innanzi,  i  quali  postomi  in  mezzo  mi 
dissero  che  io  era  preso;  ed  intanto,  dando  segno  co'  loro  fischi 
a  gli  altri,  mi  vidi  circondato  da  gran  turba  di  birri,  che  in  Vene- 
zia chiamano  «zaffi»,  e  dicendogli  chi  io  era,  e  che  forse  prendevan 
abbaglio,  e  per  uno  avesser  fatta  preda  di  un  altro,  mi  replicarono 
ch'essi  ben  mi  conoscevano,  e  che  bisognava  venire  dov'essi  mi 
avrebber  condotto  ;  e  frettolosamente  traversato  il  campo  di  San- 
t'Angelo e  postomi  sul  capo  un  mantello,  perché  non  fossi  cono- 
sciuto, mi  condusser  per  que'  stretti  vicoli,  senza  sapere  dov'io 
fossi,  fin  che  non  giungessi  nella  piazza  di  San  Marco.  Se  ben  di 
notte  fossi  così  rapito,  nulladimanco  non  essendo  ancor  le  botteghe 
tutte  chiuse,  la  gente  curiosa,  secondo  che  più  s'avanzava  di  ca- 
mino, più  cresceva,  ed  accorrendo  da  tutte  le  parti  maggior  nu- 
mero di  zaffi,  mi  vidi  in  mezzo  la  piazza  di  San  Marco,  circondato 
da  un  immenso  stuolo  di  vii  plebaccia,  che  quasi  empiva  tutto 
quello  spazio. 

Allora  più  cose  si  ravvolgevano  per  la  mia  mente,  fra  l'altre 
pensando  che  finalmente  la  corte  di  Roma  ed  i  Gesuiti  eran  venuti 
a  capo  delle  loro  gabale  ed  insidie,  dalle  quali  era  difficile  di  po- 
terne un  uomo  onesto  scampare,  ed  a  quali  duri  strazi  ed  altro 
infelice  fine  sarei  stato  io  riserbato.  Considerava  quanto  instabili  e 
volubili  fossero  le  umane  vicende  e  quanto  folle  era  colui  che  in 
lor  poneva  speranza:  quella  stessa  piazza,  dove  sovente  circondato 
dalla  primaria  nobiltà,  a  gara  senatori  ed  altri  gentiluomini  con- 
correvan  in  rendermi  onore  e  cortesia,  la  vedeva  cambiata  in  uno 
sconcio  e  rozzo  teatro,  dove  in  mezzo  alla  vile  e  succida1  plebe  era 
miserando  spettacolo  della  loro  compassione,  e  forse  anche  delli 
loro  scherni  e  derisione.  Avendo  io  però  preparato  l'animo  ad 
ogni  sinistro  caso,  seguitava  i  miei  rattori3  ove  mi  traevano,  per 
vederne  il  successo. 

Mi  condussero  nelle  stanze  del  «Misser  grande»  (che  così  chia- 
mano in  Venezia  il  Bargello  Maggiore)3  il  quale  abitava  alle  Pro- 

1.  succida:  sudicia.  2.  rattorti  rapitori.  Tutto  l'incartamento  dell'arresto, 
già  pubblicato  dal  Pierantoni  in  appendice  alla  sua  edizione  del  Rag- 
guaglio, è  ora  in  Giannoniana,  pp.  370  sgg.  3.  Misser . . .  Maggiore:  rico- 
priva l'ufficio,  in  quegli  anni,  Sebastiano  Bonapace,  del  quale  ci  sono 
pervenute  le  relazioni  dei  pedinamenti  predisposti  e  dell'arresto  (cfr.  in 
f^iirnntjìnna*  loc.  Clt.). 


CAPITOLO    DECIMO  297 

curatie  Vecchie  di  San  Marco.  Questi,  in  vedermi,  mi  disse  che  io 
non  mi  sgomentassi,  poiché  non  era  stato  preso  per  condurmi  in 
carcere,  ma  per  ordine  degl'Inquisitori  di  Stato,  i  quali  volevano 
che  io  tosto  uscissi  da  Venezia  e  da'  suoi  domìni,  fuori  de'  quali 
sarei  stato  condotto,  e  che  si  mandava  ora  un  fante,1  che  dovea 
accompagnarmi,  in  casa  Pisani  perché  si  facesse  consignare  tutta 
la  mia  roba,  per  meco  portarla  dovunque  uscito  da'  confini  mi 
piacesse  andare.  A  ciò  gli  risposi  che,  per  far  questo,  non  ci  biso- 
gnavano tanti  apparati  e  tante  turbe:  bastava  a'  signori  Inquisitori, 
se  non  per  mio  riguardo,  almanco  per  rispetto  d'un  lor  senatore  in 
casa  di  chi  io  dimorava,  che  mi  facessero  sentire  esser  questo  lor 
piacere,  che  sarebbero  stati  immediatamente  ubbiditi,  di  immanti- 
nente partire  ;  poiché  a  me  la  sola  necessità  mi  costringeva  a  dimo- 
rar a  Venezia,  non  già  voglia  o  piacere  che  n'avessi.  Intorno  alla 
mia  roba,  non  era  sì  poca  che  potesse  farsene  subito  fagotto  e  por- 
tarlo meco  ;  che  io  aveva  una  piccola  biblioteca,  la  quale  ben  pote- 
va rimanere  in  casa  del  Pisani,  che  sarebbe  rimasa  in  buone  mani 
fin  a  tanto  che  io,  fermato  altrove  il  mio  domicilio,  non  avessi  colà 
potuto  farla  trasportare.  Intanto,  bastava  che  si  facesse  consignare 
il  mio  forziere,  ov' erano  alquanti  miei  denari  ed  altre  robe,  per 
supplire  a'  bisogni  del  viaggio,  poiché  il  rimanente  si  avrebbe  po- 
tuto mandar  doppo. 

Ma  mentre  io  così  parlava  al  «Misser  grande»,  il  fante  era  già 
partito  per  casa  Pisani,  senza  che  si  fosse  dato  tempo  di  dirli  che 
cosa  dovesse  portarmi;  né  frattanto  dalla  casa  Pisani,  il  quale  dal 
suo  servidore  avea  già  saputo  il  mio  arresto,  vedeva  persona  colla 
quale  potessi  tutto  ciò  dire,  rimanendo  colla  speranza  che  il  fante, 
communicando  al  Pisani  la  mia  sollecita  partenza  per  ordine  degli 
Inquisitori  di  Stato,  i  quali  volevano  che  mi  si  fosse  data  la  mia 
roba,  il  Pisani  gli  consignasse  ciò  che  era  necessario  per  un  sì 
improviso  e  sollecito  viaggio. 

Il  «Misser  grande»,  sicome  mi  sollevò  in  dirmi  che  questo  fosse 
ordine  degli  Inquisitori  di  Stato,  poiché  era  sicuro  che  la  calunnia 
tosto  si  sarebbe  scoverta,  non  avendo  io  né  per  pensiero  macchinata 
cos' alcuna  contro  la  Repubblica;  così  mi  attristò,  quando  poi  mi 
soggiunse  che  l'ordine  era  di  condurmi  per  acqua  a'  confini  dello 
Stato  ecclesiastico,  in  Crespino,  villaggio  del  Ferrarese.  Allora  co- 

1.  un  fante:  si  chiamava  Isepo  (o  Giuseppe)  Bartoletti. 


298  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

minciai  a  pregarlo  che  mi  portassero  in  altro  confine,  o  in  Triesti, 
0  altra  parte  che  non  fosse  dello  Stato  del  papa,  sapendo  tutti  le 
persecuzioni  che  m'eran  date  da  quella  Corte,  e  che  io  non  era  si- 
curo, capitando  in  luogo  sì  inimico  e  sospetto;  che  ben  si  sarebbe 
adempito  l'ordine  degli  Inquisitori  portandomi  altrove,  i  quali  for- 
se, se  avessero  a  ciò  avvertito,  avrebbero  prescritto  altro  confine, 
non  credendogli  cotanto  spietati  e  barbari,  che  volessero  darmi  in 
preda  de'  miei  fieri  ed  implacabili  nemici;  ma  colui  si  scusava  non 
poter  un  punto  trasgredire  gli  ordini  dati,  né  vi  era  questo  tempo, 
essendo  ormai  la  mezzanotte,  di  potergli  parlare;  ingegnandosi  di 
persuadermi  che  non  dubitassi  di  funesto  accidente,  poiché  in  Cre- 
spino avrei  trovata  pronta  comodità  di  passar  presto  in  altro  Stato, 
che  non  fosse  della  Chiesa  romana. 

Con  questa  aggitazione  io  era,  aspettando  il  ritorno  del  fante 
dalla  casa  Pisani  colla  roba  per  partire.  Era  questi  un  vecchio  sci- 
munito, il  quale  giunto  che  fu  dal  Pisani,  non  gli  disse  altro  che 
per  ordine  degl'Inquisitori  di  Stato  gli  consignasse  tutta  la  mia 
roba,  senza  dirgli  che  io  dovea  partir  subito,  e  che  la  roba  si  cer- 
cava per  meco  portarla:  ciocché  ben  potea  dire,  poiché  il  «Misser 
grande»  l'avea  a  me  palesato,  non  già  in  secreto,  ma  in  sua  pre- 
senza e  di  quante  persone,  ch'eran  molte,  erano  nelle  sue  stanze. 
E  pure  egli,  con  mozze  parole,  non  cercava  altro  che  la  mia  roba  ; 
sicché,  come  seppi  dapoi,  pose  la  casa  Pisani  in  una  grandissima 
costernazione,  credendo  tutti  che  io  per  delitto  di  Stato  fossi  stato 
preso,  e  che  la  roba  si  cercasse  come  confiscata.  Né  in  quella  per- 
turbazione così  il  Pisani  padre,  come  suo  figlio,  ebber  tanto  d'in- 
dustria o  di  coraggio,  dal  fante  o  da  altri,  o  pure  con  mandar  per- 
sona dal  «Misser  grande»,  nelle  cui  stanze  io  era,  d'informarsi 
meglio  del  successo.  Mi  ebbero  per  ciò  per  perduto  e  morto;  e 
cercando  tutti  salvar  se  stessi,  ne  mandaron  tosto  di  casa  quel  gio- 
vane mio  figliuolo,  occultando  il  meglio  che  potevano  le  mie  scrit- 
ture e  robe;  ed  insistendo  il  fante  che  gli  si  fosse  consignata  la  mia 
roba,  il  Pisani  finalmente  gli  disse  che  non  vi  era  di  me  in  sua 
casa  altra  roba  che  libri  ed  alcune  poche  cose,  ch'egli  ce  l'avrebbe 
consignati;  e  portatolo  nella  stanza  ov' erano  i  miei  libri,  si  co- 
minciò a  levargli  dalle  scanzie,  e  fattane  più  cumuli  da'  marinari, 
si  trasportarono  nella  peota  che  dovea  condurmi  a  Crespino,  em- 
pendone la  prora  e  la  poppa  di  quella,  alla  rinfusa  ed  a  mucchi, 
secondo  che  li  venivano  alle  mani. 


CAPITOLO    DECIMO  299 

Questa  era  la  cagione  perché  il  fante  non  si  vedea  mai  tornare: 
sicché,  doppo  averlo  aspettato  due  ore,  venne  finalmente,  e  det- 
tomi che  tutto  era  già  stato  riposto  in  barca,  affrettò  il  partire. 
Ed  avendogli  dimandato  se  avea  ivi  riposto  il  mio  forziere,  ov'erano 
alquanti  miei  denari  e  gli  abiti,  mi  rispose  che  il  Pisani  non  Tavea 
consignati  se  non  libri,  che  per  esser  tanti  avea  dovuto  impiegare 
tutto  quel  tempo  ed  i  marinari,  per  trasportarli  in  barca.  E  che  ho 
da  far  io  de'  libri  -  gli  dissi,  -  che  più  tosto  mi  saranno  d'impaccio, 
quando  il  più  necessario  mi  mancava?  come  senza  denari  poteva 
io  partire,  e  senz'abiti,  fuor  che  di  quelli  che  avea  addosso  ?  Tor- 
nasse a  farsi  consignar  almanco  il  forziere  e  dire  al  Pisani  che  io 
dovea  partire,  che  ciò  sapendo,  non  avrebbe  mancato  di  consi- 
gnarcelo  subito;  ma  furono  gettate  al  vento  le  mie  parole  e  pre- 
ghiere, replicandomi  ch'era  già  tardi  ed  a  mezzanotte  tutti  dormi- 
vano, e  non  poteva  differir  di  vantaggio  la  partenza;  ma  che  biso- 
gnava tosto  imbarcarci,  per  poter  arrivare  la  notte  seguente  a 
Crespino.  Fu  dura  necessità  ubbidirlo  ;  e  posto  in  barca,  verso  le 
cinque  ore  della  notte,1  così  come  fui  preso,  con  que'  pochi  denari 
ed  abiti  che  mi  trovava  addosso,  si  navigò  tutta  quella  notte,  in 
compagnia  del  fante  e  d'un  soldato  di  guardia  e  de'  marinari  che 
guidavano  la  peota. 

All'apparir  del  giorno  14  del  mese,  non  senza  lagrime  vidi  quel 
doloroso  spettacolo  de'  miei  libri,  con  tanta  diligenza  e  spesa  da 
me  raccolti,  gettati  di  qua  e  di  là  per  la  nave,  il  numero  e  disordine 
de'  quali  mosse  anche  la  compassione  del  fante  istesso,  e  cominciò 
a  conoscer  l'errore;  sicché  lo  pregai  che,  vedendo  l'impossibilità  di 
poterli  meco  condurre  per  terra,  sbarcato  che  io  fossi  a  Crespino, 
mi  facesse  la  grazia  di  riportarseli  seco  e  consignarli  al  Pisani, 
perché  avrei  io  dapoi  pensato  di  fargli  trasportare  altrove;  ma  negò 
prima  di  poterlo  fare,  persuadendomi  che  io,  piuttosto,  gli  la- 
sciassi in  poter  dell'oste  a  Crespino,  da  dove  poi  avrei  potuto 
fargli  trasportare  in  altro  luogo  che  volessi;  né  fu  possibile,  pro- 
seguendo il  cammino  di  quel  giorno,  di  piegarlo;  ma  dapoi,  la- 
sciate le  lacune  e  navigando  incontro  Tacque  del  Po,  avvicinandoci 
la  sera  a  Crespino,  il  fatto  istesso,  ciò  che  non  avean  potuto  le 
mie  preghiere,  lo  arrese  e  convinse;  poiché  ad  un'ora  di  notte 
giunti  nel  confine  del  Ferrarese,  si  trovò  che  l'osteria  dove  dovea 

1.  le  cinque  ore  della  notte:  cioè  le  cinque  dopo  il  vespro,  che  corrispondono 
presso  a  poco  alla  mezzanotte. 


300  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

posarmi,  essendo  Tacque  del  fiume  basse,  era  molto  discosta  dalla 
riva,  né  potea  la  barca  condursi  fin  là,  ma  per  giungervi  era  d'uopo, 
per  terra,  far  lungo  camino  a  piedi,  né  vi  era  modo  di  poter  far 
trasportare  ivi  tanti  libri,  essendo  di  notte,  né  per  quelle  campagne 
si  vedea  persona:  allora  il  fante,  scorgendo  l'impossibilità  della 
cosa,  si  persuase  e  mi  promise  che  avrebbe  seco  riportati  i  libri,  e 
restituiti  al  Pisani;  di  che  io  sopra  la  sua  fede  rimanessi  pur  sicuro, 
che  avrebbe  esattamente  adempito  quanto  prometteva. 

Poi,  per  ordine  degl'Inquisitori  di  Stato  fattomi  sentire  che  io, 
sotto  pena  della  vita,  non  facessi  più  ritorno  a  Venezia,  né  a*  Stati 
di  quella  Repubblica,  mi  espose  alla  riva  del  Po;  e  datomi  il  sol- 
dato di  guardia  con  un  marinaro,  che  mi  accompagnassero  fino 
all'osteria,  si  camino  a  piedi  lungo  tratto,  per  arrivarci;  dove  non 
si  giunse  se  non  passate  le  due  ore  di  notte.  Quivi  mi  lasciaron  solo, 
se  non  con  un  garzone  dell'oste  (poiché,  essendo  l'ora  tarda,  l'oste 
e  tutti  gli  altri  dormivano),  e  tornarono  in  dietro  al  fante,  che  l'a- 
spettava in  barca.  E  questo  fu  il  frutto  che  io  trassi  dalle  tante 
carezze  ed  accoglienze  usatemi  in  Venezia,  sperimentando  in  mia 
persona  qual  veramente  fosse  la  fede  e  lealtà  veneziana. 

Il  giovane  dell'oste  si  scusava  che,  essendo  tardi,  non  avea  che 
darmi  per  cena:  gli  risposi  che  per  questo  non  si  afHiggesse;  mi 
desse  solo  un  poco  di  pane  ed  un  bicchier  di  acqua,  e  letto  per 
ristorarmi  dalla  stanchezza  del  cammino  dalla  barca  fin  qui.  Mi 
offerì  vino,  ed  io  dicendogli  che  non  ne  bevea,  di  ciò  sorpreso  mi 
portò  del  pane  e  dell'acqua;  ed  intanto  dimandandogli  se  vi  era 
commodità  di  poter  la  mattina  per  tempo  partire  per  Modena,  mi 
rispose  che  vi  era  in  quelle  campagne  un  villano,  che  teneva  un 
galesse  con  due  giumente,  ma  non  sapeva  se  potesse  condurmi 
fino  a  Modena,  non  facendo  viaggi  se  non  ne'  luoghi  vicini;  lo 
pregai  che  la  mattina  a  buon'ora  lo  chiamasse  e  conducesse  seco, 
per  parlargli,  e  mi  promise  di  farlo;  onde,  postomi  in  letto,  passai 
come  Dio  volle  quella  notte,  aggirato  di  mente  da  mille  pensieri 
torbidi  e  funesti. 

Venne  l'alba,  e  levato  di  letto  trovai  che  il  giovane  avea  già 
avvisato  il  villano,  il  quale  venne  da  me  coll'oste;  e  dettogli  il  mio 
bisogno  si  scusava  che,  non  essendo  pratico,  non  poteva  condurmi 
se  non  al  Ponte  di  Lago  oscuro,1  pure  nel  Ferrarese,  dove  io  avrei 

t    P/v»**  j;  Lago  oscuro  :  ora  Pontelagoscuro. 


CAPITOLO    DECIMO  3OI 

potuto  provvedermi  per  Modena  d'altra  commodità;  ma  dicendogli 
che  non  voleva  perder  tempo  in  trattenermi  per  ciò  in  altri  luoghi, 
lo  pregava  che  quel  guadagno,  meglio  e  di  più  buona  voglia,  l'avrei 
a  lui  dato  che  a  qualunque  altro,  onde  facesse  animo  che,  con 
dimandare,  facilmente  gli  sarebbe  mostrata  la  via  che  conduce  a 
Modena.  L'oste  era  dalla  mia  parte,  e  sopragiungendo  un  altro 
vecchio,  pratico  de'  luoghi,  questi  l'incoraggi  istruendolo  delle 
strade,  e  che  non  avrebbe  potuto  disperderle.1  Finalmente  si  con- 
tentò, e  datogli  quanto  pretese,  prestamente  quella  mattina  stessa 
de'  15  mi  posi  in  galesse  e  tirai  avanti,  e  con  dimandare  a  quanti 
per  via  s'incontravano  la  strada  di  Modena:  si  giunse  la  sera  a 
Cento  e  la  mattina  del  dì  seguente,  16  del  mese,  ad  ora  di  pranzo, 
arrivai  a  Modena;  e  posato  nell'osteria  del  Gadi  nella  parrocchia 
di  Sant'Agata,  vicino  la  chiesa  di  San  Domenico,  essendo  venerdì, 
giorno  di  posta  per  Venezia,  immantinente  scrissi  al  Pisani  ed  al 
principe  Trivulzi,  dandogli  avviso  del  mio  arrivo  a  Modena,  dove 
pensava  trattenermi  sconosciuto  fin  che  non  potessi  risolvermi  ad 
altro  partito,  aspettando  intanto  con  impazienza  da  essi  riscontri, 
per  sapere  la  cagione  onde  si  fossero  mossi  gl'Inquisitori  di  Stato 
di  dar  un  passo  sì  precipitoso  e  barbaro,  e  come  in  Venezia  si 
fosse  inteso  ;  e  sopra  tutto  pregai  il  Pisani  che  m'avvisasse  se  il  fan- 
te avea  riportati  i  miei  libri,  e  se  il  mio  giovane,  l'altre  mie  robe, 
denari  e  scritture  fossero  in  salvo,  e  mi  mandasse  denari,  perché 
io  non  avea  se  non  que'  pochi  che  mi  trovai  addosso;  pregandogli 
a  rispondermi  in  Modena  sotto  altro  nome,2  che  io  gli  additai,  e 
che  tenessero  a  tutti  nascosta  la  mia  dimora  in  quella  città. 

Non  prima  de'  29  di  questo  mese  ebbi  risposta  dal  Pisani,  il 
quale  mi  avvisava  che,  se  bene  quella  notte  che  fui  preso,  non  sa- 
pendo che  di  me  e  di  loro  si  facessero  gl'Inquisitori,  la  sua  casa 
fosse  tutta  costernata  e  piena  di  spavento,  nulladimanco  la  mattina 
si  seppe  subbito  per  tutta  Venezia  la  mia  partita,  onde  tutti  di 
sua  casa  respirarono  alquanto,  ed  egli  fece  richiamare  il  mio  gio- 
vane in  sua  casa;  e  tanto  maggiormente  si  calmarono,  perché  si 
divolgò  la  cagione  o  '1  pretesto  che  allegavano  gl'Inquisitori:  la 
quale  non  era  altra,  se  non  perché  io,  dimorando  in  casa  d'un  sena- 
tor  veneto,  frequentava  spesso  la  casa  dell'ambasciador  di  Spagna 

1.  disperderle:  smarrirle.  2.  sotto  altro  nome:  Giannone  scelse  il  nome  dì 
Antonio  Rinaldi.  In  Modena  fu  raccomandato  dal  Pisani  ad  Antonio  Gui- 
detti, fattore  di  casa  d'Este  e  conoscente  del  Muratori. 


302  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

e  quella  di  Francia;  ma  che  tutti  gli  uomini  di  senno  ed  accorti, 
sicome  riprovavano  il  precipitoso  passo,  così  credevano  che  questo 
fosse  un  mendicato  pretesto,  ma  che  in  realtà  il  colpo  fosse  venuto 
dalla  corte  di  Roma,  la  quale,  mal  sofferendo  che  io  in  Venezia 
fossi  ben  veduto  e  che  si  trattava  di  ristampar  ivi  la  mia  Istoria 
coli' aggiunta  d'un  quinto  tomo,  per  mezzo  del  Nunzio,  <dell'In- 
quisitoro  e  de'  Gesuiti,  vedendo  preclusa  ogni  altra  strada  per  ro- 
vinarmi, tentarono  quella  degli  Inquisitori  di  Stato,  per  l'oppor- 
tunità che  i  Gesuiti  ebbero,  d'essere  in  quel  mese  due  de'  tre  In- 
quisitori loro  penitenti,  sopra  i  quali  aveano  tutta  l'autorità;  ed 
affrettarono  il  passo  poiché  forse  non  gli  sarebbe  riuscito  nel  se- 
guente mese,  che  doveano  gl'Inquisitori  mutarsi.  De'  tre  Inquisi- 
tori,1 principalmente  ad  uno  se  ne  dava  la  colpa,  ch'era  il  più 
liggio  e  dipendente  de'  Gesuiti,  il  qual  mosse  l'altro;  poiché  il 
terzo  protestava  non  averci  avuta  parte  alcuna.  Che  tutti  i  gentil- 
uomini, sicome  compativan  il  mio  duro  caso,  così  non  lasciavano 
di  biasimarne  l'autori;  e  che  alcuni,  riguardando  che  fosse  ciò 
seguito  dal  capriccio  di  uno  o  due,  senza  partecipazione  del  Senato, 
pensavano  alla  maniera  come  io  potessi  con  onore  farci  ritorno. 
Lo  stesso  vennemi  confermato  da  altre  lettere,  che  ricevei  dal 
senator  Antonio  Cornaro  e  da  altri  amici;  ed  il  principe  Trivulzi 
mi  scrisse  che  non  si  dubbitava  che  fosse  stata  gabala  della  corte 
di  Roma,3  tessuta  per  le  mani  del  Nunzio  e  de'  Gesuiti;  ed  ebbi 
anche  altri  riscontri,  che  l'ambasciador  di  Spagna,  essendogli  rife- 
rito il  caso  e  la  cagione  che  si  divolgava  per  Venezia,  per  aver  io 
frequentata  la  di  lui  casa,  non  lasciava  con  tutti  di  dire  che  questo 
era  un  pretesto  troppo  miserabile  e  buggiardo,  rendendo  a  tutti 
testimonianza  che,  in  tutto  il  tempo  ch'era  io  stato  a  Venezia, 
non  l'avea  visitato  che  cinque  o  sei  volte;  e  queste  furono  prima  di 
passar  io  nella  casa  Pisani,  poiché  doppo  questo  passaggio  non  vi 
fui  che  una  sol  volta,  per  sapere  che  risoluzione  si  fosse  presa  dalla 
Corte  del  re  Carlo  intorno  al  mio  ritorno  in  Napoli.  Lo  stesso  di- 
ceva l'ambasciador  di  Francia,  che  ciò  fosse  un  mendicato  colore,3 
poich'egli  non  mi  vedeva  se  non  quando  il  caso  portasse  che  ci 
fossimo  incontrati  nel  monastero  di  San  Lorenzo,  e  che  più  volte 
invitatomi  a  pranzo,  dopo  che  passai  in  casa  Pisani,  me  n'era  sem- 

i.  tre  Inquisitori:  erano  Giorgio  Contanni,  Alvise  Mocenigo  e  Federico 
Tiepolo.  2.  il  principe  .  .  .  Roma:  cfr.  Giannoniana,  p.  526,  e  S.  Bertelli, 
r  ^nrartamento  originale,  cit.,  pp.  20-1.     3.  mendicato  colore-,  pretesto. 


CAPITOLO   DECIMO  303 

pre  scusato;  che  ben  si  sapeva  donde  e  per  mano  di  chi  si  fosse 
tessuta  la  macchina,  e  che  non  se  non  a  fanciulli  potevano  gPIn- 
quisitori  dar  a  credere  la  favola  ed  il  pretesto  cercato,  il  quale  mag- 
giormente qualificava  il  passo  per  imprudente  e  capriccioso,  e  dato 
unicamente  per  compiacere  a*  Gesuiti  ed  alla  corte  di  Roma. 

Ed  in  vero  a  chi  poteva  venir  in  mente  che  io,  che  non  era  a' 
stipendi  della  Repubblica,  ma  un  forastiere  che  dimorava,  come 
ospite,  nella  casa  del  Pisani,  fossi  compreso  dalle  scrupolose  leggi 
che  i  Veneziani  a  se  stessi  han  imposte  ?  Quando  al  contrario  non 
si  tien  conto  che  le  mogli,  le  figliuole,  le  sorelle  e  nipoti  de'  senatori 
e  gentiluomini  abbian  commerci  e  trattino,  nelle  conversazioni  ed 
altrove,  con  gli  ambasciadori,  secretari  ed  altri  di  lor  famiglia?  E 
pure,  sopra  di  me  eran  vòlti  gli  occhi  de'  Gesuiti  per  notare  ogni 
mio  detto  o  passo,  per  che  fosser  somministrati  i  fili  per  ordire  le 
insidiose  lor  reti.  E  forse  sarò  io  l'unico  essempio  ?  e  che  in  Venezia, 
la  quale  per  esser  ricettacolo  di  tutti  i  ribaldi  solea  chiamarsi  la 
ricevitrice  di  ogni  sozzura:  ora  i  forastieri,  ancorché  onesti,  non  vi 
sian  più  sicuri,  poiché  sempre  che  i  Gesuiti,  i  quali  avran  la  dire- 
zione delle  coscienze  degli  Inquisitori  di  Stato,  vorranno  rovinargli, 
hanno  facile  la  via  di  farlo,  dipendendo  dal  capriccio  d'uno  o  due 
Inquisitori  la  fama,  la  roba  e  la  vita  di  qualunque  uomo  onesto, 
da  bene  e  morigerato  che  e'  si  fosse. 

Fui  ancora  dal  senator  Pisani  avvisato  che  il  Pitteri,  saputa  la 
notte  stessa  la  mia  disgrazia,  prestamente  si  portò  la  mattina  se- 
guente di  buon'ora  dal  padre  teologo,  e  con  sollecitudine  gli  richie- 
se tutti  i  miei  manuscritti,  che  l'avea  consignati,  il  quale  ce  gli 
restituì  subito;  talch' essendovi  egli  poche  ore  doppo  giunto  per 
avergli,  ed  avendogli  il  padre  teologo  detto  che  già  il  Pitteri  avea- 
segli  ripigliati,  immantinente  si  portò  dal  medesimo  per  ricuperar- 
gli; ma  il  Pitteri  negava  di  darceli,  dicendo  che,  avendogli  da  me 
ricevuti,  senza  mio  ordine  non  poteva  ad  altri  consignarli;  sicché 
bisognò  con  molti  stenti  e  con  precisi  ordini  del  magistrato  co- 
stringerlo ad  esibirgli;  e  ch'erano  già  in  suo  potere,  sicome  tutte 
le  altre  mie  scritture,  robe  ed  i  denari  erano  in  salvo  e  nelle  sue 
mani.  Intorno  a'  libri,  il  fante  non  averceli  riportati,  secondo  pro- 
mise; ma  che  fu  d'uopo  per  avergli  ricorrere  dagl'Inquisitori,  li 
quali  in  ciò  si  mostrarono  facili  ed  indulgenti,  commandando  che 
fossero  tutti  restituiti  e  consignati  in  suo  potere,  sicome  fu  fatto; 
se  bene,  al  confronto  che  si  fece  col  mio  catalogo,  si  vide  che  ne 


304  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

mancavano  alcuni,  che  fu  il  manco  male  a  riguardo  de'  passati 
pericoli. 

Mi  scrisse  perciò  che  l'avesse  io  avvisato  di  quel  che  dovea  farne; 
sicome  se  il  mio  giovane,  ch'era  in  sua  casa,  dovea  farlo  tornare  in 
Napoli,  o  pure  stradarlo  per  dove  io  era,  co*  denari  e  colla  roba  che 
mi  bisognasse;  e  che  intorno  alla  mia  persona,  vedessi  quanto  più 
presto  fosse  possibile  uscir  d'Italia,  poiché  la  corte  di  Roma,  in 
qualunque  luogo  fossi  di  quella,  non  avrebbe  tralasciato  di  perse- 
guitarmi; e  che  il  più  sano  consiglio,  ch'egli  ed  i  buoni  amici 
potevan  darmi,  era  che  io  me  n'andassi  ne'  Svizzeri,  o  in  Ollanda, 
o  se  potessi  in  Inghilterra,  ove  sarei  stato  ben  ricevuto  e  più  sicuro. 
Lo  stesso  mi  scrivea  il  principe  Trivulzi,  sollecitandomi  a  partir  da 
Modena,  che  non  era  per  me  luogo  sicuro;  <e  scrivevan  il  vero  poi- 
ché, come  seppi  dapoi,  da  Roma  si  eran  dati  ordini  a  tutti  gl'Inqui- 
sitori di  Lombardia,  di  Fiorenza,  di  Genua  e  dove  capitassi,  di 
arrestarmi^1  Ed  io  ben  conosceva  che  questo  sarebbe  stato  il  più 
savio  consiglio;  ma  come  poteva  intraprendere  sì  lunghi  viaggi,  in 
età  così  avanzata  e  con  pochi  denari,  non  essendomi  rimasi  che 
ottanta  ungheri,  fra  quelli  che  io  avea  lasciati  in  Venezia  e  portava 
meco  ? 

Mi  risolsi  infine,  <sconosciuto>,  di  passare  a  Milano,  e  di  là  scri- 
vere a  Bousquet  in  Genevra,  che  se  mai  ivi  fosse  necessaria  la  mia 
assistenza  per  la  traduzione  francese,  e  la  sua  compagnia  volesse 
intraprendere  la  stampa  di  quanto  erasi  disposto  a  Venezia  d'altre 
mie  opere  italiane,  me  l'avvisasse,  perché  dalla  sua  risposta  avrei 
presa  di  me  risoluzione.  Rescrissi  per  ciò  a  Venezia  al  Pisani  ed  al 
Trivulzi,  che  volentieri  mi  sarei  appigliato  a'  consigli  loro  e  degli 
altri  buoni  amici,  ma  che  senza  soccorso  di  denaro  non  poteva 
intraprendere  sì  lunghi  viaggi;  che  a  me,  presentemente,  bisognava 
trovar  modo  di  poter  in  qualche  luogo  onestamente  vivere  colle 
mie  fatiche,  e  che  non  mi  restava  altro  più  vicino  rifuggio,  se  non 
di  tentarlo  in  Genevra,  dove  forse  avrei  opportunità  di  trovarlo; 
ch'era  per  ciò  risoluto  passare  a  Milano,  dove  più  da  presso  avrei 
potuto  con  Bousquet  trattare  de'  miei  interessi. 

Scrissi  per  ciò  al  Pisani,  che  volendosene  tornar  il  mio  giovane 


i.  ordini . . .  arrestarmi:  questi  ordini  sono  raccolti  nel  già  citato  mano- 
scritto vaticano  Rossiano  1180.  Cfr.  S.  Bertelli,  V incartamento  originale, 


CAPITOLO  DECIMO  305 

a  Napoli,  gli  desse  quanto  bisognava  pe  '1  viaggio;  ma  se  pure  vo- 
leva seguitarmi  ed  essere  a  parte  de'  miei  travagli,  lo  stradasse 
con  buona  compagnia  per  Modena,  al  quale  poteva  consignare  il 
mio  denaro  e  le  scritture,  e  sopra  tutto  i  manuscritti  che  avea  ricu- 
perati dal  Pitteri,  gli  abiti  e  quella  mia  roba  che  potea  portar  seco, 
essendo  sicuro  che  dal  medesimo  avrei  ricevuto  il  tutto  con  pun- 
tualità ed  esattezza.  Intorno  a'  libri,  che  avesse  la  bontà  di  tenergli 
in  suo  potere,  infino  che  io  non  risolvea  o  di  vendergli,  ovvero  di 
fargli  trasportare  altrove,  pregandolo  che  in  ciò  si  compiacesse  di 
usar  meco  la  solita  sua  affezione  e  beneficenza,  della  quale  il  caso 
mio  infelice,  ora  più  che  mai,  n'era  ben  degno  e  meritevole. 

Pregai  affettuosamente  il  principe  Trivulzi  che,  dovendo  passare 
a  Milano,  mi  facesse  la  grazia  di  raccommandarmi  alla  principessa 
Trivulzi,  sua  moglie,1  la  quale  fin  che  io  fossi  a  Milano,  prendesse 
di  me  cura  e  protezione;  e  risposi  alle  gentili  ed  affettuose  lettere 
del  senator  Cornaro,  nelle  quali  mi  dava  notizia  d'essere  stato  in 
Venezia  da  tutti  il  mio  caso  non  pur  compatito,  ma  gli  autori  uni- 
versalmente biasimati;  che  era  contento  che  presso  i  Veneziani 
fossi  nel  medesimo  concetto  di  prima,  ed  avesser  ben  conosciuta 
la  gabala,  e  donde  e  da  chi  fosse  stata  tessuta;  ma  che  di  questo 
stesso,  per  mio  onore,  bisognava  che  ne  fossero  consapevoli  anche 
l'altre  città  d'Italia,  sicome  io  non  avrei  mancato  di  far  pervenire 
alla  notizia  di  tutti,  non  meno  la  protervia  e  malignità  degli  autori, 
che  il  sentimento  mostratone  dalla  parte  più  sana  de'  savi  che  com- 
pongono il  Senato  e  sì  degna  Republica. 

Mi  convenne  por  ciò  trattenermi  sconosciuto  in  Modena  e  fuor 
del  consorzio  umano  per  più  settimane,  fin  che  non  giungesse  il 
giovane  mio  figliuolo  colla  mia  roba,  manuscritti,  scritture  ed  abiti, 
e  sopra  tutto  col  denaro  per  poter  proseguire  avanti  il  viaggio.* 
Giunse  finalmente  a  Modena,  non  prima  de'  26  di  ottobre,  mer- 
cordì  la  sera,  e  portò  seco  il  mio  forziere,  con  gli  abiti  e  scritture 
ed  il  denaro  che  dal  Pisani  oragli  stato  consignato;  ma  non  portò  i 
manuscritti  che  si  erano  ricuperati  dal  Pitteri,  scrivendomi  il  Pi- 
sani che  per  compiacere  ad  alcuni  gentiluomini,  suoi  amici,  che 

x.  pr ina f>m<*  •  -  <  "«**'>'•  Margherita,  figlia  di  Carlo  Pertusati  (sul  quale 
efr  la  noia  x  a  p.  <>8).  2.  A  questa  altezza,  a  margine,  il  Giannone  ha 
scritto  Heuss»  indicanone  di  inserzione:  «A'  3  dì  questo  mese  di  ottobre 
I71S  furono  firmati  a  Vienna  gli  articoli  preliminari  della  pace,  concniusa 
poi  V  x«  ottobri'  173**  *  pubblicata  dopo  nel  1739». 


306  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

aveano  gran  desiderio  di  leggergli,  glieli  avea  confidali,  ma  che 
me  l'avrebbe  trasmessi  a  Milano,  per  commodità  sicura.  Rimasi 
sorpreso,  ma  non  dubbitando  della  di  lui  lealtà,  prima  di  partir 
da  Modena  gli  scrissi  che,  ricuperati  che  l'avesse,  gli  consignasse  al 
principe  Trivulzi,  il  quale  (sicome  con  altre  mie  lettere  lo  pregava) 
non  avrebbe  mancato  sicuramente  farmeli  pervenire  a  Milano. 
Partii  col  mio  giovane  da  Modena  il  sabbato  la  mattina,  29  di 
ottobre,  e  la  sera  si  arrivò  a  Parma.  Il  di  seguente  si  partì  per 
Piacenza,  dove  si  giunse  la  mattina  dell'altro  giorno,  lunedì,  ul- 
timo del  mese. 

La  mattina  del  martedì,  primo  di  novembre,  si  arrivò  a  Milano  ; 
dove,  fermato  nell'osteria  di  Bigatti  al  vico  de'  Visconti,  la  princi- 
pessa Trivulzi,  secondo  l'avviso  datoli  dal  principe  suo  marito, 
che  io  sarei  fermato  a  Milano  in  casa  Bigatti,  non  mancò  di  mandar 
il  suo  secretario,  don  Francesco  Canari,  un  gentilissimo  cavalier 
sardo,  il  quale,  dopo  aver  in  nome  della  medesima  fattemi  corte- 
sissime  esibizioni,  dicendomi  che  avendo  la  principessa  desiderio 
di  parlarmi,  l'avvisassi  in  qual  ora  dovesse  mandar  sua  carozza  a 
prendermi,  avendole  rese  le  dovute  grazie  gli  risposi  che  io  era  a 
disposizione  di  Sua  Eccellenza,  e  che  la  mandasse  quando  fosse 
di  suo  comodo,  perch'era  sempre  pronto  per  ricevere  un  tanto 
favore,  e  che  non  minore  era  il  mio  desiderio  di  venire  a  riverirla; 
ma  che  intanto  la  pregava  di  tener  secreto  il  mio  arrivo,  poiché  io 
sotto  altro  nome  era  entrato  a  Milano  e  dimorava  in  quella  casa, 
sicome  pregai  il  secretario  che  non  facesse  ad  altri  motto  di  mia 
persona. 

Scrissi  a  Bousquet  in  Ginevra,  dandogli  parte  del  mio  arrivo  a 
Milano  e  che,  se  la  sua  compagnia,  oltre  la  mia  direzione  per  ciò 
che  s'attiene  all'impressione  della  traduzione  francese,  voleva  as- 
sumer il  carico  di  stampare  quanto  io  avea  preparato  a  gli  stam- 
patori di  Venezia,  volentieri  mi  sarei  colà  portato,  perché  l'opera, 
essendo  italiana  e  dovendosi  imprimere  sopra  manuscritti,  ricer- 
cava il  proprio  autore  per  venire  corretta  ed  esatta,  e  con  tal  op- 
portunità si  avrebbe  potuto  anche  tradurre  in  francese  il  quinto 
tomo,  sicché  l'opera  riuscisse  più  compita  e  perfetta;  ma  che  la 
mia  dura  sorte  avendomi  ridotto  nell'ultima  necessità,  non  poteva 
a  ciò  risolvermi,  se  non  avessi  riscontro  che  fosse  lor  a  grado,  e  che 
si  contentassero  somministrarmi  quanto  avea  convenuto  con  gli 
stampatori  di  Venezia. 


CAPITOLO   DECIMO  307 

Aspettando  tali  riscontri  da  Bousquet  fui,  secondo  ciò  che  s'era 
stabilito  col  secretano,  dalla  principessa  Trivulzi,  la  quale  mi  ricevè 
con  somma  cortesia  e  gentilezza,  ed  ebbi  occasione  di  conoscere 
una  dama  molto  discreta,  savia  e  prudente,  alla  quale  narrai  i  miei 
infelici  successi,  e  che  prevedendo  che  la  corte  di  Roma  non  mi 
lasciarebbe  viver  quieto  in  Italia,  dove  mostrava  non  volermici 
avendomi  impedito  il  ritorno  a  Napoli  e  la  dimora  in  Venezia, 
avea  pensato  di  passare  in  Ginevra,  non  già  per  mutar  religione, 
ma  dove  forse  colle  mie  fatiche  avrei  trovato  modo  di  poter  one- 
stamente vivere,  credendomi  abbandonato  da  tutti  e  dalli  stessi 
miei  congionti;  e  che  i  buoni  amici  mi  consigliavano  ad  uscir  d'Ita- 
lia e,  se  io  potessi,  andarmene  in  Inghilterra,  non  che  a'  Svizzeri 
ed  in  Ollanda;  e  che  a  far  lo  stesso  veniva  consigliato  dal  principe 
suo  marito,  al  quale  anche  la  mia  dimora  a  Milano  era  sospetta, 
scrivendomi  che  affrettassi  al  possibile  di  pormi  presto  fra'  Sviz- 
zeri: che  con  somma  mia  dispiacenza  ero  costretto  di  farlo,  ma 
la  dura  necessità,  sicome  per  un  verso  mi  costrinse  uscir  da  Ger- 
mania, così  ora  per  un  altro  mi  obbligava  uscir  d'Italia,  per  non 
esser  bersaglio  delle  persecuzioni  della  corte  di  Roma,  la  quale  par 
che  abbia  rivolte  tutte  le  sue  insidiose  macchine  contro  di  me, 
per  atterrarmi. 

Mossesi  la  principessa  a  gran  compassione  per  le  mie  parole, 
e  considerando  il  duro  passo  che  la  necessità  mi  costringeva  a 
dover  dare,  mi  rispose  che  sospendessi  la  partenza,  poich'ella,  per 
quanto  avea  potuto  scorgere  dal  marchese  Olivazzi,1  Gran  Cancel- 
lier  di  Milano  e  suo  amico,  credeva  che  la  mia  dimora  a  Milano  non 
poteva  essermi  sospetta;  palesandomi  che,  doppo  l'avviso  ch'ebbe 
dal  principe  di  essermi  incamminato  per  Milano,  avealo  con  som- 
mo secreto  communicato  al  medesimo  affinché,  se  mai  dalla  corte 
di  Torino  vi  fosse  istruzione  o  ordine  di  non  ricevermi,  potesse 
prevenire  prima  che  io  vi  giungessi,  o,  giunto  appena,  farmene 
consapevole,  perché  io  altrove  volgessi  il  cammino;  e  che  l'avea 
risposto  che  non  vi  era  tal  ordine,  né  fin  allora  se  n'era  fatto  alcun 
motto;  onde  mi  consigliò  a  rimanere,  anzi  che  stimava  che  io  mi 
fossi  scoverto  al  Gran  Cancelliere,  ed  ella  avrebbe  mandato  il  suo 

1.  Giorgio  Olivazzi  (1667-1742),  già  ambasciatore  del  duca  di  Modena  a 
Roma  per  la  controversia  sulle  Valli  Comacchiesi,  agente  modenese  a  Mi- 
lano, senatore  di  quella  città  e  infine  reggente  del  Supremo  Consiglio 
d'Italia  e  Gran  cancelliere. 


308  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

secretarlo  Canari  a  dargli  avviso  del  mio  arrivo,  ed  a  pregarlo 
che  volesse  stabilirmi  un'ora  che  li  fossi  più  commoda,  perché  io 
sarei  venuto  a  riverirlo  ed  informarlo  di  tutti  i  miei  successi;  e 
che  intanto,  essendo  solito  il  Gran  Cancelliere  ed  il  general  Petit,1 
sopraintendente  generale  delle  finanze,  le  sere,  portarsi  in  sua  casa, 
l'avrebbe  parlato  in  buona  forma  in  mia  commendazione,  essendo 
allora  l'Olivazzi  ed  il  general  Petit  i  due  primi  ministri,  da'  quali 
per  la  corte  di  Torino  reggevasi  la  città  e  lo  Stato  di  Milano. 

In  effetto,  essendo  stato  il  secretano  dall'  Olivazzi,  tornato  che 
fu  dalla  sua  villa,  a  dargli  l'avviso  che  io  era  a  Milano  e  se  permet- 
teva che  io  venissi  a  visitarlo,  ne  mostrò  compiacenza  e  che  volen- 
tieri mi  avrebbe  parlato;  e  gli  designò  il  giorno  del  mercordì  la 
mattina,  che  furono  i  16  del  mese,  che  m'avrebbe  aspettato  in  sua 
casa.  Ed  io  intanto  dovendo  trattenermi,  pregai  il  secretano  che 
mi  alleggerisse  dalla  spesa  che  soffriva  in  casa  Bigatti,  e  vedesse 
trovarmi  un  paio  di  stanze  in  una  casa  privata;2  sicome,  con  somma 
sollecitudine  ed  accuratezza,  me  le  trovò  prossime  al  palazzo  de' 
Trivulzi,  ove  abitava  la  principessa. 

Il  mercordì  la  mattina  fui  dal  Gran  Cancelliero,  il  qual  mi  ricevè 
con  somma  benignità,  ed  avendogli  minutamente  esposti  tutti  i 
miei  successi  e  la  dura  necessità,  che  mi  costringeva  di  cercar  fuori 
d'Italia  luogo  che  per  me  fosse  sicuro,  ed  il  consiglio  della  princi- 
pessa di  fermarmi  a  Milano,  dove  forse  non  avrebbe  dispiaciuta 
la  mia  dimora:  ciò  mi  avea  animato  di  ricorrere  alle  sue  benignissi- 
me  grazie,  affinché  scrivesse  alla  corte  di  Torino  in  mia  commenda- 
zione, e  che  se  mai  potessi  aver  l'onore  d'essere  impiegato,  o  in 
Torino,  o  in  Milano,  a'  servizi  d'un  principe  cotanto  savio  e  glo- 
rioso, quanto  era  il  re  Carlo  Emanuele,3  il  qual  non  degenerando 
dagli  augusti  e  magnanimi  suoi  predecessori,  avea  empita  l'Europa 
de'  suoi  fatti  egreggi,  non  meno  in  pace  che  in  guerra,  io  l'avrei 
ricevuto  per  singoiar  grazia;  tanto  più  che  non  era  ignoto  in  quella 
Corte,  sicome  in  Vienna  era  ben  veduto  dal  marchese  Breglia,4  in- 
viato di  Sua  Maestà  nella  Corte  cesarea,  e  dal  presidente  Siccardi,5 

i.  il  general  Petit:  il  conte  Antonio  Petitti  di  Roreto,  intendente  di  guerra. 
2.  in  una  casa  privata:  cfr.  Panzinx,  p.  84,  che  dice  come  il  proprietario 
fosse  un  certo  Pietro  Cattaneo.  3.  Carlo  Emanuele:  cfr.  la  nota  3  a  p.  238. 
4.  marchese  Breglia:  Giuseppe  Roberto  Solaro  di  Breglio  (1680-1764),  am- 
basciatore sabaudo  a  Napoli,  poi  a  Vienna,  governatore  del  principe  Vit- 
torio Amedeo  nel  1733.  5.  Forse  Michele  Siccardi,  sul  quale  cfr.  C.  Dio- 
kttcattt.  Stòria  dei  magistrati  piemontesi,  11,  Torino  1896,  p.  289. 


CAPITOLO   DECIMO  309 

che  si  trovava  ivi  incaricato  pure  dal  re  de'  pubblici  affari;  e  che 
nemmeno  era  ignoto  al  marchese  di  Ormea,1  primo  ministro  e  se- 
cretano di  Stato  di  Sua  Maestà  al  quale  avrei  anche  scritto,  pre- 
gandolo della  sua  buona  grazia  e  protezione. 

L'Olivazzi  mi  rispose  che  per  Milano  non  vi  era  opportunità  di 
mio  accomodamento  ;  ma  potea  sì  ben  incontrarsi  per  Torino,  al- 
manco per  la  carica  d'istorico  del  re:  ch'egli,  per  la  premura  anche 
datale  dalla  principessa  Trivulzi,  n'avrebbe  efficacemente  scritto 
alla  Corte;  e  che  ben  poteva  io  anche  scriverne  al  marchese  di 
Ormea  e  mandar  a  dirittura  a  lui  la  lettera,  ed  aspettar  i  riscontri 
che  si  fossero  ricevuti.  Scrissi  per  ciò  al  marchese  una  molto  umile 
e  dimessa  lettera,3  esponendogli  i  miei  duri  casi,  e  pregandolo 
fervorosamente  della  sua  intercessione  presso  la  Maestà  del  re; 
al  qual  io,  con  tutto  lo  spirito,  avrei  in  suo  servizio  sacrificato  tutto 
il  rimanente  di  mia  vita,  in  qualunque  occasione  che  la  mia  opera 
e  la  mia  penna  potesse  esser  di  suo  gradimento  ;  ed  il  Gran  Cancel- 
liere disse  alla  principessa  aver  anch' egli  scritto  a  Torino  con  fer- 
vore, in  mia  commendazione. 

Intanto,  ascoltando  io  la  mattina  d'una  domenica  messa,  capitò 
in  quella  stessa  chiesa  il  senator  Cola,3  che  io  non  conobbi,  pel 
nuovo  abito  di  toga  talare  del  quale  era  adorno  ;  ma  sì  bene  egli 
ravvisò  me,  come  quello  che  più  volte  aveami  veduto  a  Vienna  e 
trattato  insieme.  Terminata  la  messa  si  avvicinò,  e  presami  la  mano 
fecemi  grate  dimostranze,  ed  usciti  di  chiesa,  mi  dimandò  qual 
fato  aveami  tratto  a  Milano,  e  rispostogli  che  io  vi  era  di  passag- 
gio, brevemente  gli  narrai  le  mie  disavventure;  ed  entrati  in  vari 
discorsi  sopra  il  nuovo  sistema  d'Italia  e  della  presente  guerra, 
egli  fu  il  primo  che,  con  afflitte  parole,  mi  disse  che  già  era  immi- 
nente la  pace,  che  l'imperadore  trattava  colla  Francia,  e  che  fra 
breve  la  città  e  lo  Stato  di  Milano  sarebbe  tornato  a  Cesare,  fuor 
quella  parte  di  là  del  Ticino  che  sarebbe  rimasa  a  Savoia;  e  che 
l'imperadore  faceva  male  fidarsi  della  Francia,  la  quale  l'avrebbe 
ingannato  e  posto  in  maggiori  inviluppi.  Gli  risposi  che  questa  era 
la  prima  volta  che  io  lo  sentiva,  poiché  né  a  Venezia,  né  a  Modena, 

1.  Carlo  Vincenzo  Ferrerò  di  Roasio,  marchese  di  Ormea  (1680-1745),  mi- 
nistro sabaudo  per  gli  affari  interni  nel  1730,  per  gli  affari  esteri  nel  1732, 
Gran  cancelliere  dal  1742.  2.  Scrissi  .  .  .  Ietterai  l'autografo  in  Archivio  di 
Stato  di  Torino,  manoscritti  donnone,  mazzo  ili,  ins.  3,  B,  1  (Giannonia- 
na,  p.  448)  e  P.  Occella,  Pietro  Giannone  negli  ultimi  dodici  anni,  cit., 
pp.  502  sgg.     3.  Antonio  Cola, 


3IO  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

di  dove  veniva,  ne  avea  intesa  parola,  ma  che  io  ne  dubbitava  assai, 
non  potendone  capire  né  il  modo,  né  la  cagione.  Ma  egli  si  osti- 
nava che  sicuramente  così  era,  e  presto  se  ne  sarebbero  veduti  gli 
effetti. 

Narrai  quest'incontro  e  questa  novità  al  secretano  Canari,  es- 
sendo la  principessa  andata  in  villa,  il  qual  mi  rispose  che  correva 
questa  voce  per  Milano;  ma  che  gli  dispiaceva  essermi  incontrato 
col  senator  Cola  perché  questi,  come  timoroso  di  perder  la  toga 
senatoria  tornando  Milano  all'imperadore,  ogni  cosa  lo  sgomen- 
tava, e  forse  l'avermi  veduto  a  Milano  lo  farà  entrare  in  sospetto 
che  questo  fosse  un  nuovo  indizio  di  presta  mutazione,  ed  inter- 
pretare che  ci  fossi  venuto  per  dover  ivi  occupare  qualche  carica, 
designatami  forse  dall'imperadore;  ed  alcuni,  presso  i  quali,  come 
Finalino,1  era  il  Cola  in  concetto  d'uomo  sofistico,  torbido  ed  in- 
quieto, soggiungevano  che  non  avrebbe  mancato  scrivere  alla  corte 
di  Torino  questa  mia  venuta  a  Milano  per  misteriosa  e  sospetta. 
Checché  si  fosse,  o  che  le  lettere  mie  e  dell' Olivazzi  fossero  giun- 
te tardi  a  Torino,  o  pure  per  questo  sospetto,  ovvero  perché  quella 
Corte  fosse  stata  prevenuta  da  quella  di  Roma,  mentre  io  mi  trat- 
teneva a  Milano  aspettando  di  là  i  riscontri,  un  giorno  doppo 
pranzo,  che  fu  il  martedì  22  novembre,  fu  in  mia  casa  un  ufficiale 
del  Capitan  generale  di  giustizia  di  Milano  ad  intimarmi  un  or- 
dine, con  lasciarmene  copia  in  iscritto,  col  quale  per  esecuzione  di 
speziai  comando  di  Sua  Maestà  spedito  da  Torino  il  giorno  pre- 
cedente, mi  s'imponeva  che  io,  sotto  pena  di  carcerazione  in  caso 
d'inobbedienza,  dovessi  fra  due  giorni  dopo  l'intimazione  uscire 
dalla  città  e  domìni  di  Milano.  Risposi  all'ufficiale  che  Sua  Maestà 
sarebbe  stata  prontamente  ubbidita;  e  trovandosi  la  principessa 
Trivulzi  in  villa,  mandai  ad  avvisarne  il  secretano  Canari,  il  quale 
essendo  da  me  rimase,  non  men  che  io,  sorpreso  ed  attonito  ;  e  la 
confusione  era  maggiore  non  sapendo  indagarne  la  vera  cagione, 
se  ciò  fosse  per  quel  sospetto  del  senator  Cola,  ovvero  l'ordine 
procedesse  da  più  alti  ed  arcani  princìpi,  a  noi  occulti  ed  ignoti, 
vedendosi  prestamente  l'ordine  spedito  e  giunto  a  Milano,  prima 

1.  Finalino:  la  maiuscola,  usata  nell'autografo,  indica  forse  qui  il  cognome 
d'una  persona,  rimastaci  sconosciuta,  e  non  già,  come  a  suo  tempo  cre- 
demmo, un  aggettivo  riferito  al  senatore  Cola.  Ma  questi  sospetti  sulla 
presenza  del  Giannone  a  Milano  erano  dello  stesso  Olivazzi,  come  risulta 
dalla  lettera  che  questi  inviò  alTOrmea  il  15  novembre,  edita  in  P.  Occel- 
la,  Pietro  Giannone  negli  ultimi  dodici  anni,  cit,  p.  501. 


CAPITOLO   DECIMO  311 

che  si  avessero  le  risposte  alle  lettere  scritte  dall' Olivazzi  e  da  me 
a  Torino.  Ed  il  riflettere  che  mi  si  vietava  lo  stare  nella  città  e 
dominio  di  Milano,  non  già  negli  altri  Stati  di  Sua  Maestà,  dava 
indizio  che  forse  la  cagione  ne  fosse  per  toglier  ogni  sospetto  ed 
ogni  sinistra  interpretazione,  che  poteva  darsi  colà  del  mio  sog- 
giorno. Dissi  per  ciò  al  Canari  che  già  conosceva  la  mia  sinistra 
fortuna,  la  qual  non  era  ancor  sazia  di  perseguitarmi;  che  bisognava 
cedere  al  fato  ed  immantinente  partire. 

Avea  io  intanto  ricevute  lettere  dal  Bousquet,1  nelle  quali  non 
solo  m'esprimeva  il  contento  del  mio  arrivo  a  Milano  e  la  speranza 
che  avea  di  vedermi  presto  a  Ginevra,  per  regolar  la  traduzione 
franzese;  ma  che  volentieri  avrebbe  la  sua  compagnia  intrapresa  la 
stampa  dell'altra  mia  opera,  secondo  ciò  che  si  era  convenuto  con 
gli  stampatori  di  Venezia;  e  che  io  non  dubbitassi  che  si  sarebbe, 
per  ciò  che  si  attiene  al  mio  onorario,  avuta  tutta  la  stima  ed  il  ri- 
guardo ;  e  mi  mandò  alcuni  dubbi  sorti  al  traduttore,2  perché  io 
intanto  ce  li  sciogliessi,  per  potersi  proseguire  avanti.  Sicché  ri- 
spostogli che,  già  ch'eran  contenti  di  quanto  l'avea  scritto,  io  sarei 
partito  da  Milano  e  portatomi  in  Ginevra;  che  le  mandava  in 
risposta  le  spiegazioni  che  cercava  il  traduttore;  ed  intanto  vedesse 
di  procurarmi  due  stanze  commode,  per  me  ed  un  mio  giovane, 
che  portava  meco,  affinché  non  fossi  obbligato  dimorare  lungo 
tempo  nell'osteria,  ove  il  galessiere  ne  avrebbe  posato. 

Scrittagli  questa  lettera  il  martedì  stesso,  doppo  che  ricevei  l'or- 
dine, dissi  al  Canari  che  bisognava  trovar  galesse  per  Torino,  da 
dove  avrei  indi  potuto  trovar  altra  commodità  per  Ginevra;  e 
mostrandogli  la  lettera  di  Bousquet,  dove  anche  mi  dava  notizia 
d'un  mercante  milanese,  suo  corrispondente  ed  amico,  del  quale 
io  poteva  valermi  per  indirizzo,  in  caso  di  viaggio,  si  stimò  chia- 
marlo ;  il  quale,  fattogli  leggere  il  foglio  di  Bousquet,  prestamente 
mi  trovò  il  galesse  per  Torino,  e  per  sue  lettere  mi  raccomandò 
anche  ad  altri  mercanti  torinesi  suoi  amici,  i  quali  mi  avesser  pro- 
curata consimil  commodità  per  Ginevra. 

Raccomandai  efficacemente  al  Canary  che,  avendomi  da  Vene- 
zia il  principe  Trivulzi  dato  avviso  d'avermi  trasmessi  in  un  fagotto 

1.  lettere  dal  Bousquet:  una  di  esse  in  Giannoniana,  pp.  534-5-  Per  le  rac- 
comandazioni del  libraio  ginevrino  a  mercanti  torinesi,  cfr.  P.  Occella, 
Pietro  donnone  negli  ultimi  dodici  anni,  cit,  p.  508  in  nota.  2.  tradutto- 
re: il  Bochat  (per  cui  cfr.  la  nota  1  a  p.  213). 


312  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

i  manuscritti  ivi  lasciati,  giunti  che  fosser  a  Milano  me  l'istradasse 
per  Ginevra,  da  dove  io  l'avrei  data  notizia  del  mio  arrivo;  pre- 
gandolo di  adempir  le  mie  parti  colla  principessa,  la  quale  fu 
immantinente  avvisata  dell'improvviso  ordine,  da  lei  inteso  con 
somma  dispiacenza,  che,  trovandosi  in  villa,  il  poco  tempo  che 
avea  non  mi  dava  aggio,  prima  di  partire,  di  prender  da  lei  con- 
cedo; ma  che  in  qualunque  luogo  io  fossi,  non  si  dimenticas- 
se di  me  suo  umil  servitore  e  di  conservarmi  nella  sua  buona 
grazia. 

Partii  da  Milano  il  giovedì  doppo  pranzo,  24  del  mese.  Si  passò 
per  Novara,  indi  per  Vercelli,  San  Germano,  Cigliano  e  Chivasso; 
donde  partito,  si  giunse  a  Torino  la  mattina  della  domenica,  27. 
Quivi,  fermati  nell'osteria  della  Doana  vecchia,1  feci  richiedere 
i  due  mercanti  torinesi,  a'  quali  io  era  stato  raccommandato  ;  i 
quali,  vedute  le  lettere  di  quel  di  Milano,  si  offerirono  di  trovarmi 
buona  commodità  di  galesse  per  Ginevra;  e  considerando  la  mia 
avanzata  età,  che  mal  avrei  potuto  a  cavallo  passare  il  Monceniso, 
uno  de'  monti  alpini,  alto  ed  asprissimo,  che  divide  il  Piemonte  dalla 
Savoia,  stabilito  il  prezzo  convennero  col  galessiere,  che  a  sue  spese 
dovesse  da'  portantini,  che  sono  a  pie  di  quel  monte  destinati  per 
questo,  farmi  condurre  in  sedia  di  mano. 

Mi  trattenni  a  Torino  il  giorno  della  domenica  ed  il  lunedì 
seguente,  vedendo  la  città,  le  sue  strade,  il  Palazzo,2  le  piazze,  la 
cittadella  ed  altre  sue  fortificazioni,  senza  sospetto  o  timor  alcuno 
di  sinistro  successo,  sicome  feci  in  tutto  il  mio  viaggio  per  Piemon- 
te e  per  la  Savoia,  poiché  nell'ordine  non  mi  era  proibito  se  non 
la  dimora  in  Milano  e  nel  suo  dominio. 

Si  partì  il  lunedì  sera  da  Torino  ed  indi,  passata  la  città  di  Susa, 
si  giunse  poi  a  pie  del  Monsenise;  e  rimirando  la  stupenda  sua 
altezza,  non  più  mi  parve  inverisimile  che  a*  Galli,  passando  sotto 
Bellovenso  la  prima  volta  in  Italia,  sembrassero  i  gioghi  di  que' 
monti  esser  congiunti  col  cielo;  e  che  i  soldati  d'Annibale  ripu- 
tassero il  passaggio  insuperabile,  credendo  che  le  nevi  di  que' 
monti  fossero  miste  co'  cieli.3  Il  mio  destino  trassemi,  in  età  così 
avanzata,  di  doverlo  sormontare  sopra  le  spalle  di  que'  portantini, 

1.  osteria  della  Doana  vecchia:  su  questo  albergo,  ancor  oggi  esistente,  cfr. 
D.  Ribaudengo,  Vecchia  Torino,  Torino  1961,  pp.  110-5.  %.  il  Palazzo: 
il  palazzo  reale,  realizzato  nel  1658  da  Amedeo  di  Castellamonte  (morto 
nel  1683).  3.  cu  Galli  .  . .  cieli:  cfr.  Livio,  rispettivamente  v,  34,7  e  xxi, 
32,7- 


CAPITOLO   DECIMO  313 

i  quali  nel  discenso,  per  la  lor  velocità  in  camminar  si  frettolosa- 
mente sopra  que'  chini  sassi  e  scoscese  rocche,1  mi  fecero  più 
volte  accricciar  le  carni,  temendo  in  ogni  passo  che  non  mi  preci- 
pitassero fra  que'  dirupi  e  mi  riducessero  in  pezzi.  Resi  molte 
grazie  al  Cielo  quando  mi  vidi  al  piano;  e  proseguendo  poi  il 
cammino  col  mio  giovane,  in  galesse,  per  quelle  vie  tutte  tortuose, 
disuguali  e  pietrose,  traversando  le  orride  montagne  della  Savoia, 
non  so  se  il  mio  fato,  per  scamparmene,  o  pure  per  avermi  desti- 
nato a  peggiori  strazi,  fece  che  in  passando  per  un  luogo  declivo, 
discendemmo  dal  galesse;  ed  ecco,  che  pochi  passi  più  avanti  vi- 
dimo2 co'  propri  occhi  precipitare  il  galesse  con  un  cavallo  fuor 
di  strada  in  un  dirupo,  a  basso  rotolando  sino  al  piano. 

Come  si  potè  meglio,  col  galesse  e  cavallo  fracassato,  si  giunse 
finalmente  a  Champéry,3  città  metropoli  della  Savoia,  da  Grano- 
ble4  non  molto  lontana,  a*  3  di  decembre;  dove  ci  convenne  aspet- 
tare una  mezza  giornata,  fin  che  il  galessiere  non  trovasse  ivi  altro 
galesse  e  cambiasse  cavalli,  per  proseguire  il  viaggio. 

Si  camminò  un  altro  giorno,  e  nel  seguente  vidi  da  lontano  il 
lago  Lemano,  ed  il  galessiere  ci  mostrò  dapoi  la  città  di  Genevra, 
postagli  ad  un  lato,  in  quella  parte  ove  il  Rodano  uscendone  ripi- 
glia il  suo  corso  mediterraneo  e  va  a  mettersi,  presso  Marsiglia,  nel 
Mare  Gallico.5 

Giunsi  a  Genevra  la  sera  del  lunedì,  5  di  decembre,  e  si  alloggiò 
nell'osteria  «de'  Tre  Re»,  dove  la  sera  stessa,  secondo  l'avviso 
datoli,  fu  a  trovarmi  il  Bousquet,  mostrando  gran  contento  del 
mio  arrivo,  dicendomi  aver  trovate  le  stanze  dove  io  il  dì  seguente 
poteva  passare,  e  che  stessi  sicuro  ch'egli  e  la  sua  compagnia  non 
avrebber  mancato  di  somministrarmi  quanto  faceva  bisogno  per 
la  mia  dimora  nella  lor  città.  Le  resi  molte  grazie  e  dissi  che  per 
ora  non  bisognava  altro  che  trarmi  da  quella  osteria;  e  posato  che 
io  fossi  nel  nuovo  albergo,  che  fosse  per  me  commodo,  per  risto- 
rarmi da'  passati  disaggi  del  cammino,  si  sarebbe  cominciato  a 
trattare  de'  nostri  interessi  e  disporre  le  cose  in  guisa  che  tutto 
riuscisse  con  buona  fede  ed  accuratezza.  Si  passò  dapoi,  il  giorno 
seguente  doppo  pranzo,  nelle  stanze  trovatemi,  dove  ad  un  discre- 
to prezzo  convenni  coli' ospite  di  quanto  faceva  bisogno  per  me  e 

1.  rocche',  roccie.  2.  vidimo  :  vedemmo.  3.  Champéry:  Chambéry.  4.  Gra- 
nóble:  Grenoble.  5.  Mare  Gallico:  l'odierno  golfo  del  Leone  (cfr.  Usimts 
Gallicus  dei  Romani). 


314  VITA  DI    PIETRO    GIANNONE 

pel  mio  giovane.  Era  questi  monsieur  Chénevé,1  genevrino,  che 
soleva  in  sua  casa  alloggiar  qualche  sconosciuto  forastiero,  tenendo 
moglie  ed  una  figliuola,  le  quali  erano  ben  proprie  ed  acconce  a 
tener  ben  trattati  coloro  che  ci  capitavano,  ed  io  era  ben  contento 
della  loro  attività  ed  affezione. 

Avvertii  al  Bousquet  che  palesasse  a'  suoi  amici  la  vera  cagione 
della  mia  venuta,  la  qual  non  era  per  cambiar  religione,  ma  per  tro- 
var quivi,  giacché  non  poteva  trovarlo  in  Italia,  un  onesto  modo  di 
poter  vivere  colle  mie  fatiche;  e  che  gli  rendesse  testimonianza 
della  nostra  antica  corrispondenza,  [e]  de'  trattati  avuti  insieme,  i 
quali  mi  deliberarono  a  prender  questo  partito;  e  col  medesimo 
mi  condussi  poi  dal  Residente  di  Francia,  al  quale  avendo  esposto 
i  miei  travagli,  che  mi  aveano  per  dura  necessità  costretto  di  por- 
tarmi ivi,  lo  pregai  della  sua  protezione;  e  che  vedendo  un  cattolico 
forastiere  i  giorni  festivi  e  di  domenica  nel  suo  palazzo,  ove  si 
celebrava  messa,  venire  ad  ascoltarla,  non  si  maravigliasse  se  lun- 
gamente si  trattenesse  in  quella  città,  sapesse  per  ciò  la  cagione 
della  mia  dimora,  e  non  riputasse  che  io  ci  fossi  venuto  per  motivo 
di  religione.  Il  Residente  benignamente  mi  accolse,  e  mi  rispose 
che  non  dovea  ciò  recargli  maraviglia  alcuna,  poiché  in  Ginevra, 
per  loro  traffichi  ed  affari,  vi  eran  tanti  Savoiardi  e  Francesi  cat- 
tolici, che  la  sua  chiesetta,  che  prima  bastava,  ora  non  era  capace 
di  riceverne  tanti;  ed  a  molti,  per  ascoltar  messa,  bisognava  ve- 
derla ed  anche  sentirla  fuori,  nel  cortile,  per  la  porta  e  per  le  fine- 
stre, nel  miglior  modo  che  potevano.  Il  Bousquet  gli  rese  anche 
testimonianza  del  nostro  affare,  che  richiedeva  molto  tempo  per 
condurlo  a  fine;  e  così  con  sua  buona  grazia  partimmo  da  lui. 

Divolgatosi  in  Ginevra  il  mio  arrivo  e  la  cagione  ond'era  stato 
mosso  a  condurmici:  questa  maggiormente  mi  affezionò  gli  animi 
di  tutti,  a'  quali,  essendo  io  noto  per  la  mia  Istoria  civile,  che  con 
somma  stima  tenevano  riposta  nella  lor  pubblica  e  magnifica  biblio- 
teca, piacque  assai  più  la  cagione,  che  l'arrivo  stesso;  e  conobbi 
che  coloro  i  quali  ci  venivano  col  pretesto  di  mutar  religione  erano 
mal  veduti  ed  in  poco  loro  stima,  per  lunga  esperienza  avendo 
scorto,  che  per  lo  più  erano  frati  o  monaci,  i  quali  scappati  da' 
loro  monasteri  per  loro  delitti  o  dissolutezza,  si  ricovravan  ivi  per 


i.  Charles  Chénevé  era  un  sarto  ;  la  sua  casa  si  trovava  presso  «  la  Fusterie  »  : 
cfr.  la  relazione  di  Jacob  Vernet,  in  Giannonùma,  p.  577. 


CAPITOLO   DECIMO  315 

prender  moglie  e  vivere  sciolti  da  tanti  legami,  con  cui  le  loro  parti- 
colari religioni  gli  tenevan  avvinti  ed  inceppati. 

Furono  per  ciò  a  visitarmi  i  primi  letterati  e  professori  di  quella 
Università  de*  studi,  alcuni  de*  quali  erano  anche  pastori  nelle  loro 
Chiese,  e  notai  fra  loro  una  discretezza  e  prudenza  mirabile,  che 
si  astenevano  ne*  loro  discorsi  d'entrar  meco  in  punti  di  religione; 
e  se  taluno  mostrava  di  volerci  entrare,  tosto  dagli  altri  era  inter- 
rotto, e  si  passava  a  ragionar  di  scienze  e  di  altre  professioni  ed 
arti  liberali;  e  poiché  io  industriosamente  feci  cadere  in  discorso  la 
risposta  che  avea  in  costume  dar  Giacomo  Cuiacio,  quando,  ar- 
dendo allora  la  Francia  non  men  di  civili  discordie,  che  di  religio- 
ne, alcuni  gli  domandavano  ciò  che  sentisse  di  quelle  dispute,  ed 
egli  con  poche  parole  se  ne  sbrigava,  dicendogli:  «nihil  hoc  ad 
edictum  praetoris».1  Sicché  accortisi  di  questa  mia  condotta,  vo- 
lentieri si  passava  ad  altro  discorso  e  solamente  alcuni  per  loro 
cortesia  soleanmi  dire:  «talis  cum  sis,  utinam  noster  esses»* 

Vi  trovai  de'  profondi  filosofi,  de'  professori  peritissimi  del  ius 
civile,  i  quali  a  ragione  tengono  in  somma  stima  e  venerazione  le 
opere  di  Giacopo  Gottofredo,  lor  compatriotta,  e  meritamente  si 
preggiano  sotto  quel  cielo  avere  quell'accuratissimo  giurisconsulto 
distesi  que'  dotti  ed  elaborati  suoi  Commentari  sopra  il  Codice 
teodosiano;3  ed  i  medici  si  pregiano  pure  del  lor  famoso  Le  Clerc, 
autore  dell'Istoria  della  medicina*  sicome  gli  altri  professori  de' 
loro  insigni  antecessori,  de'  quali  fu  quell'Università  sempre  dovi- 
ziosa ed  adorna;  e  molti,  intendentissimi  d'istoria,  di  varia  erudi- 
zione e  di  altre  lettere  umane,  a  dovere  recavansi  a  gloria  d'aver 
avuto  l'altro  Clerc5  di  lui  fratello  in  Ollanda,  il  quale  aveva  empita 
l'Europa  di  tante  dotte,  varie  ed  insigni  sue  opere;  ma  sopra  tutti 
risplendeva  fra  loro,  con  più  chiara  luce,  Alfonso  Turrettino,6  non 
men  insigne  professore  <di  teologia  e>  di  storia  ecclesiastica  di 
quell'Università,  che  ministro  di  quella  Chiesa,  avuto  per  la  sua 

i,  la  risposta  . . .  praetoris:  cfr.  in  Jacobi  CujaciiJ.  C.  vita  Papirii  Massoni 
opera  et  stilo  conscripta,  anteposta  a  J.  Cuyas,  Opera  omnia,  1,  Neapoli  1722, 
p.  n.n.  (a nessun  commento  all'editto  del  pretore»).  2.  a  talis  . .  .  esses*: 
a  oh  se,  essendo  tale,  tu  fossi  dei  nostri  I».  3.  Gottofredo  . . .  teodosiano: 
cfr.  la  nota  2  p.  24.  4.  Le  Clerc . .  .  medicina:  cfr.  YHistoire  de  la  Me" 
decine,  où  Von  voit  V origine  et  le  progrès  de  cet  art ...  ,  Genève  1696,  del 
medico  ginevrino  Daniel  Le  Clerc  (1 652-1728).  5.  V altro  Clerc  Jean  Le 
Clerc  (1657-1736),  storico  e  critico  dell'antico  Testamento.  6.  Alfonso 
Turrettino:  Jean-Alphonse  Turrettini  (1671-1737),  professore  di  storia  ec- 
clesiastica dal  1697,  teologo  e  riformatore  protestante. 


316  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

dottrina  e  probità  in  tanta  stima  e  venerazione  presso  tutti  i  Gine- 
vrini, che  lo  chiamavano  alcuni  il  papa  di  Ginevra.  Questi  era  per 
origine  della  città  di  Lucca,  della  illustre  non  men  che  antica  fa- 
miglia Torrentina,  trasportata  ivi,  sicome  furon  altre  nobili  fami- 
glie lucchesi  che  ancor  durano,  fin  da'  tempi  della  Riforma,  si- 
come  a  que'  tempi  molte  famiglie  d'altre  città  d'Italia  vi  si  con- 
dussero; e  da  Napoli  Galeazzo  Caracciolo,  marchese  di  Vico,1  vi 
avrebbe  anche  fatta  germogliar  la  sua,  se  fatto  il  divorzio  colla 
prima  moglie,  lasciata  in  Napoli,  che  non  volle  seguitarlo,  mari- 
tatosi in  Ginevra  con  una  dama  francese  non  gli  fosse  questa  riu- 
scita sterile,  dalla  quale  non  ebbe  prole;  ma  dura  quivi  ancora  la 
nobil  famiglia  Carduino,  la  quale  se  ben  fosse  estinta  in  Napoli, 
un  ramo  di  là  staccato  germogliò  in  questo  terreno;  poiché,  a* 
tempi  stessi  di  Galeazzo,  un  Carduino*  si  portò  a  Ginevra,  dal 
quale  per  retta  linea  furon  procreati  i  presenti  Carduini  che  sono 
in  Ginevra:  sicome  il  professor  Carduino,  padre  di  più  figliuoli, 
mi  mostrò  con  chiari  e  legittimi  documenti,  estratti  dagli  archivi 
della  Camera  di  Napoli,  da'  quali  apparisce  che  i  suoi  maggiori 
furono  baroni  di  Pareto  e  d'altri  feudi  nel  regno  di  Napoli,  ch'eran 
allora  posseduti  da  questa  famiglia. 

L'esser  venuto  il  professore  Turrettino,  per  sua  cortesia,  a  visi- 
tarmi, subbito  che  seppe  il  mio  arrivo,  fu  cagione  che  tutti  gli 
altri  cominciassero  ad  avere  di  me  maggiore  stima.  E  per  sua  genti- 
lezza offerendomi  il  Turrettino  ciò  che  mi  bisognava  di  libri  della 
sua  biblioteca  e  quel  che  altro  mi  occorresse  di  sua  casa,  fece  che  io 
stesso  andassi  a  visitarlo,  e  con  tal  occasione  presi  conoscenza  di 
più  soggetti  d'autorità,  i  quali  occupando  vari  magistrati  ed  am- 
ministrando quella  repubblica,  mi  offerirono  tutto  il  lor  favore  in 
facilitare  i  mezzi  per  condurre  a  buon  fine  i  miei  affari,  per  i  quali 
sapevano  essermi  io  portato  a  Ginevra. 

i.  Giovan  Galeazzo  Caracciolo  di  Vico  (1517-1586),  paggio  dell'imperatore 
Carlo  V,  seguace  del  Valdès,  amico  del  marchese  d'Oyra  Giovanni  Bernar- 
dino Bonifacio,  abbracciò  la  fede  protestante  e  si  rifugiò  in  Ginevra,  dove 
finì  i  suoi  giorni.  Su  di  lui  cfr.  N.  Balbani,  Historia  della  vita  di  Galeazzo 
Caracciolo ,  Ginevra  1587  (altra  edizione,  con  prefazione  e  note  di  E.  Com- 
ba,  Roma-Firenze  1875),  e  J.-B.-G.  Galiffe,  Le  refugeitalien  de  Genève  au 
XVIe  et  XVIIe  siècles,  Genève  1881.  2.  Cesare  Carduino,  Esiste  una  Jfo- 
latione  di  Ginevra  .  .  .  dall'anno  1535  che  vi  fu  introdotto  il  calvinismo  e  mu- 
tato governo  fin  al  giorno  seguente,  dovuta  ad  Andrea  Cardoino  e  dedicata  a 
Filippo  IV  di  Spagna  (1622- 1665),  nella  Biblioteca  Nazionale  di  Napoli,  ma- 
noscritto X.  F.  1.  In  essa  alcune  notizie  del  ramo  protestante  della  famiglia. 


CAPITOLO   DECIMO  317 

Al  Bousquet  sommamente  piaceva  aver  io  incontrato  sì  bene  co' 
medesimi,  e  che  il  Turrettino  fosse  stato  a  visitarmi;  onde  tanto 
maggiormente  si  accese  il  desiderio  di  attendere  alla  stampa  delle 
mie  opere;  e  sollecitandolo  io  che  ormai  si  accingesse  a  darvi 
principio,  mi  rispose  che,  terminando  in  quest'anno  la  società  che 
avea  con  Pellissari,1  mercante  di  Ginevra,  e  con  un  altro  mercante 
di  Ollanda,  ed  avendone  contratta  una  nuova  con  altri  mercanti 
più  ricchi,  che  cominciava  nel  nuovo  anno,  avessi  io  la  pazienza  di 
aspettare  altre  poche  settimane,  che  si  sarebbe  dato  principio,  con 
speranza  di  più  utile  e  fortunato  successo.  Mi  quietai  alle  sue  paro- 
le, aspettando  il  nuovo  anno  ;  ed  intanto  avvisai  a  Venezia,  al  Pisani 
ed  al  principe  Trivulzi,  il  mio  arrivo  a  Ginevra,  e  di  avere  con 
Bousquet  trovata  quella  disposizione  che  io  desiderava;  sicché  spe- 
rava, senza  dispendiarmi  in  più  lontani  viaggi  di  Ollanda  o  Inghil- 
terra, ch'essi  desideravano,  aver  trovato  in  Ginevra  onesto  modo 
di  poter  mantenermi,  fin  che  a  Dio  piacesse  disporre  altramente  di 
me  e  delle  mie  venture. 

Scrissi  a  Milano  al  secretarlo  Canary,  che  avvisasse  alla  princi- 
pessa Trivulzi  il  mio  arrivo  e  che,  colla  prima  congiuntura,  mi 
stradasse  i  manuscritti  che  l'erano  stati  mandati  da  Venezia,  dal 
principe  ;  poiché  aveva  io  già  con  Bousquet  convenuto  di  doversi 
fra  breve  dar  principio  alla  stampa;  ed  affinché  da'  miei  amici, 
nell'istesso  tempo  che  avessero  la  notizia  del  mio  soggiorno  a  Gi- 
nevra, si  sapesse  che  io  mi  ci  era  portato  non  già  per  cambiar  reli- 
gione, ma  perché  ivi  avea  trovato  onesto  modo  di  poter  vivere, 
scrissi  a  Vienna  ed  altrove  il  medesimo,  affinché  saputasi  la  cagione, 
non  si  dasse  pretesto  a'  miei  nemici  di  maggiormente  malignarmi. 
Ma  misero,  credea  io  da  ciò  trovar  compassione;  questo  stesso, 
sicome  il  successo  il  dimostrò,  recommi  maggior  precipizio.  Poiché 
la  corte  di  Roma  non  si  sarebbe  curato  punto  di  me  se,  ricovrato 
in  Ginevra,  avessi  io  colà  mutata  religione;  anzi  quest'appunto  ella 
desiderava;  ma  amaramente  intese,  che  io  ci  fossi  andato  per  dar 
fuori  alla  luce  altre  mie  opere  ed  attendere  alla  nuova  traduzione 
francese  àà^  Istoria  civile,  accresciuta  con  nuove  giunte:  sicché  ri- 
prese con  maggior  vigore  le  insidiose  sue  armi,  per  all'intutto  at- 
terrarmi, e  perché  fossi  d'esempio  al  mondo  che  non  vi  era  per  me 
scampo,  ovunque  io  fossi,  che  potesse  sottrarmi  dalla  sua  ira  ed 
indignazione. 
1.  Jean-Antoine  Pellissari  (1702-1738),  stampatore  e  libraio  ginevrino. 


CAPITOLO  DECIMOPRIMO 

Anni  1736  e  1737.  Ginevra,  Champéry  e  castello  di  Miolans. 

Il  nuovo  anno  1736,  non  meno  che  i  due  precedenti,  entrò  per 
me  pur  troppo  maligno  e  funesto.  Credeva  che  il  mio  fiero  destino 
sazio  ormai  di  tante  avversità  dovesse  lasciarmi  in  pace,  sicome  mo- 
strava ne'  princìpi  del  primo  mese;  poiché,  accolto  sì  umanamente 
da'  Ginevrini,  proseguendo  a  favorirmi  m'invitavano  nelle  loro 
dotte  radunanze,  le  quali  a  vicenda  un  giorno  di  ciascuna  setti- 
mana tenevano  nelle  loro  case  alcuni  professori,  dove  in  eruditi 
discorsi  sopra  vari  soggetti  che  si  proponevano  nel  finirsi  dell'una, 
perché  nell'altra  venisser  tutti  svolti,  si  passavano  tre  o  quattro 
ore  del  giorno  fruttuosamente. 

SÌ  erano  instituite  queste  private  adunanze  anche  per  riguardo 
di  due  giovani  principi  di  Germania,  i  quali  erano  stati  da'  loro 
parenti  mandati  in  Ginevra  per  istruirsi  non  meno  della  lingua 
francese  e  latina,  che  di  altre  liberali  professioni  e  scienze  più  serie 
e  convenienti  al  loro  stato,  sicome  di  giurisprudenza,  d'istoria, 
del  ius  pubblico  ed  anche  di  filosofia,  avendo  ciascuno  un  particolar 
professore  che  ne  gli  insegnasse:  li  quali  non  mancavano  non  solo 
d'intervenirvi,  ma  anche  con  gli  altri  esporre  i  loro  discorsi  sopra 
le  proposte  materie.  Questi  erano  il  principe  di  Hassia-Cassel1  ed 
il  principe  di  Sax-Gottha  ;z  due  giovanetti  quanto  avvenenti  di 
corpo  altrettanto  di  spirito  sublime  ed  adorno  di  virtù  veramente 
regie  e  magnanime,  gentilissimi,  cortesi,  e  sopra  tutto  desiderosi 
ed  amanti  non  men  delle  lettere,  che  de'  letterati. 

Era  io  a'  medesimi  noto  a  cagion  che  i  loro  governatori  mi  avean 
conosciuto  a  Vienna,  e  Sigismondo  Liebe,3  antiquario  del  duca  di 
Sax-Gottha,  avea  dato  al  principe  di  me  bastante  notizia:  siedi' es- 
sendo stato  a  visitargli,  mi  ricolmarono  d'infinite  cortesie,  ed  in- 
stantemente  mi  richiesero  che  io  venissi  nelle  radunanze  ch'essi 
tenevano  in  ciaschedun  giorno  di  settimana,  nelle  quali  soleva  an- 
che intervenire  il  professor  Torrettino,  e  far  suoi  discorsi  come  gli 
altri;  sicome  il  Torrettino  stesso  e  M.  Vernet,4  pastore  e  ministro 

1.  il  principe  di  Hassia-Cassel:  Federico  (1720-1785),  divenuto  nel  1760 
langravio  di  Hessen-Kassel.  2.  il  principe  di  Sax-Gottha:  Federico,  terzo 
duca  di  Saxe-Gotha,  spentosi  nel  1772.  3.  Liebe:  cfr.  la  nota  1  a  p.  166. 
4.  Jacob  Vernet  (1698-1789),  pastore  e  riformatore  ginevrino.  Su  di  lui  e 
sulla  parte  che  egli  ebbe  nelle  vicende  del  Giannone  cfr.  quanto  è  detto  in 


CAPITOLO   DECIMOPRIMO  319 

di  San  Gervasi,1  più  volte  mi  si  erano  offerti  di  condurmici.  Io  gli 
risposi  che  volentieri  vi  sarei  intervenuto,  per  apprendere  da  uo- 
mini cotanto  dotti  e  saggi  i  loro  insegnamenti.  Ed  avendomi  M. 
Vernet  fatta  compagnia,  fui  la  prima  volta  ad  ascoltare  i  loro  di- 
scorsi; quali  finiti,  proponendosi  il  tema  per  la  futura  radunanza 
m'invitarono  che  io,  in  quella,  dovessi  sopra  la  proposta  materia 
dar  il  mio  parere.  Me  ne  scusai  con  dire  che,  se  ben  io  sentissi  i 
loro  discorsi,  ancorché  pronunciati  in  lingua  francese,  nulladiman- 
co  non  avea  della  medesima  tanta  perizia  ed  esercizio,  sicché  po- 
tessi speditamente  parlarne;  ma  tosto  mi  convinsero,  con  rispon- 
dermi che  io  poteva  ben  valermi  della  propria  lingua  italiana,  poi- 
ch'essi, se  ben  non  la  parlassero,  l'intendevan  sì  bene,  come  la 
francese.  Sicché  fu  d'uopo  compiacergli,  e  tanto  maggiormente, 
perché  notai  anche  in  ciò  la  loro  discrezione  e  prudenza:  poiché  li 
soggetti  ch'eran  proposti  non  eran  di  controversie  di  religione,  ma 
sopra  punti  indifferenti  di  scienze,  di  morale  o  di  pratica;  ed  il 
tema  allor  proposto  fu:  Se  la  mercatura  essercitata  dd  nobili  oscu- 
rasse la  loro  nobiltà. 

Tennesi  l'assemblea  nel  di  stabilito,  in  presenza  de'  due  giovani 
principi,  i  quali  con  molto  spirito  e  grazia  recitaron  i  loro  discorsi. 
Il  Turrettino  ragionò  sopra  la  proposta  materia,  con  non  minor 
dottrina  che  eleganza,  e  lo  stesso  fecero  il  ministro  Vernet  e  gli 
altri  professori  ivi  ragunati.  Il  mio  discorso  non  dispiacque;  sicché, 
propostosi  secondo  il  costume  il  soggetto  per  la  seguente  settimana, 
che  fu:  Qual  fosse  stata  r origine  ed  il  primo  istituto  de9  cavalieri  di 
San  Giovanni,  detti  poi  di  Rodi,  e  presentemente  di  Malta,  parimente 
m'invitarono  a  dirne  il  mio  parere;  sicome  feci  la  seconda  volta, 
ed  avrei  fatto  anche  la  terza,  sopra  il  tema  proposto  intorno  alle 
virtù  morali,  se  le  mie  nuove  disavventure  non  avessero  il  tutto 
turbato  ed  interrotto. 

Non  cominciando  la  rea  fortuna  mai  per  poco,  mentre  io  solle- 
citava il  Bousquet  a  dar  principio  a'  nostri  affari,  dicendogli  che 
ormai  eran  passati  due  mesi  che  io,  a  proprie  spese,  dovea  sosten- 
tarmi in  Ginevra,  e  che  quel  poco  contante  che  io  avea  presto  sa- 
rebbe finito,  egli  mi  rispose  che  colla  nuova  società  si  sarebbe  dato 
principio;  la  quale  non  era  cominciata,  a  cagion  che  i  vecchi  soci 


Giannonìana,  pp.  569  sgg.,  nonché  in  S.  Bertelli,  V incartamento  origi- 
nale, cit.,  pp.  28  sgg.     1.  San  Gervasi:  St.  Gervais. 


320  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

volevan  prima  seco  aggiustar  i  loro  conti,  i  quali  presto  si  sarebber 
terminati;  che  per  ciò  avessi  la  pazienza  di  aspettare  qualche 
altra  settimana,  che  tutto  si  sarebbe  adempito.  Cominciai  dapoi  a 
sentir  da  altri,  che  non  così  facilmente  il  Bousquet  si  sarebbe  di- 
strigato con  Pellissari,  il  quale  mal  soffriva  che  avesse  fatta  con 
altri  nuova  società,  senza  prima,  a'  debiti  tempi,  avvisarcelo  ed 
appianare  i  loro  conti.  Poiché  il  Bousquet,  nella  società,  non  vi 
conferiva  se  non  la  sua  personale  industria,  e  tutto  il  denaro  eragli 
sornministrato  dal  Pellissari. 

Postomi  da  ciò  in  qualche  aggitazione:  ecco  che  sento  che  il 
Pellissari,  in  sua  casa  contrastando  con  Bousquet,  mosso  da  ira 
aveagli  dato  uno  schiaffo,  e  preso  poi  un  bastone,  se  non  gli  sfug- 
giva dalle  mani  l'avrebbe  ben  bastonato  ;  né  in  ciò  fu  minore  l'im- 
prudenza del  Bousquet,  che  lo  sdegno  del  Pellissari;  poiché  il 
Bousquet,  ricevuto  lo  schiaffo,  invece  di  tacerlo  per  essergli  stato 
dato  nelle  stanze  di  Pellissari,  essendo  soli,  egli  corse  al  pubblico 
magistrato  a  farne  querela:  sicché  il  fatto  si  divolgò  per  tutta  la 
città,  ed  il  Pellissari,  chiamato  dal  magistrato,  negò  il  fatto;  anzi 
l'accusò  di  calunniatore,  dicendo  che  per  isfuggire  di  dargli  conto 
de'  denari  sornrninistratigli,  andava  cercando  tali  sotterfugi.  Né  il 
Bousquet  avendo  testimoni  per  pruovarlo,  ed  all'incontro  il  Pellis- 
sari instando  per  la  reddizione  de'  conti  e  di  proibitegli  intanto 
ogni  nuova  società,  con  farsi  sequestro  de'  suoi  mobili,  per  sua 
sicurtà  ottenne  commissario,  per  astringerlo  a  dar  i  conti,  ed  anche 
il  sequestro  e  quanto  cercava;  poiché  il  Pellissari  era  in  Ginevra 
ben  veduto  ed  avea  il  favore  non  pur  del  magistrato,  ma  di  tutti 
i  cittadini;  i  quali,  sapendo  che  co'  denari  somministratigli  dal 
Pellissari,  il  Bousquet  ch'era  un  pover  uomo,  erasi  rialzato,  gl'im- 
putavano  d'aver  usata  somma  ingratitudine  contro  un  tanto  suo 
benefattore. 

Quanto  io  rimanessi  afflitto  per  un  successo  che  minava  tutte 
le  mie  speranze,  ciascuno  da  se  stesso  potrà  comprenderlo;  né 
posso  negare  che  mi  costernò  in  maniera,  che  mi  era  venuto  a 
noia  il  vivere,  scorgendo,  che  la  rea  mia  fortuna  non  cessava  per 
tutti  i  lati  combattermi,  per  atterrarmi;  e  tanto  maggiormente, 
che  Bousquet,  o  sia  per  rossore  dell'affronto,  o  perché  con  tal  oc- 
casione, avendo  io  scoverto  i  suoi  intrighi,  non  soffriva  di  più  ve- 
dermi, mi  sparve  davanti,  né  mai  più  il  vidi;  né  con  tutte  le  dili- 
genze usate  fu  possibile,  o  in  casa,  o  altrove,  di  trovarlo,  nascon- 


CAPITOLO    DECIMOPRIMO  321 

dendosi  dal  cospetto  di  tutti:  sicché,  lasciandomi  in  abbandono, 
mi  costrinse  a  scrivergli  una  lettera,  ed  usar  tutti  gl'ingegni  per- 
ché pervenisse  nelle  sue  mani;  nella  quale,  dolendomi  del  suo  modo 
di  procedere,  gli  cercava  che  mi  spiegasse  il  suo  animo  e  si  risol- 
vesse di  quel  che  intendeva  di  fare,  affinché  potessi  io  prender  altre 
misure,  e  non  lasciarmi  così  sospeso  e  confuso.  Appena  potei  rice- 
verne breve  risposta,  dicendomi  che  io  mi  consigliassi  col  ministro 
Vernet,  suo  amico;  il  quale,  stando  inteso  di  tutto,  poteva  darmi 
sano  consiglio  di  ciò  che  dovessi  fare. 

Fui  dal  Vernet,  al  quale  avendo  esposto  il  caso  mio  infelice  e 
la  confusione  nella  quale  mi  avea  lasciato  Bousquet,  lo  pregai  non 
meno  del  suo  consiglio,  che  d'aiuto,  come  potessi  risorgere  dal 
fosso  nel  quale  era  caduto;  mostrandoli  più  lettere  di  Bousquet, 
scrittemi  in  nome  della  compagnia,  nelle  quali  era  assicurato  che 
avrei  trovato  in  Ginevra  l'adempimento  di  quanto  erasi  fra  noi 
convenuto,  per  le  quali  io  fui  mosso  a  venirci,  con  tanta  mia  spesa 
e  travaglio.  Vernet,  leggendo  le  lettere  scrittemi  con  tanta  sicu- 
rezza, non  potè  nell'istesso  tempo  che  biasimava  la  facilità  e  fran- 
chezza di  Bousquet  di  compatire  il  mio  duro  caso,  dicendomi 
schiettamente  che  io  non  dovea  riporre  più  in  lui  speranza  alcuna, 
poiché  Pellissari  l'impediva  contrar  nuova  società,  se  prima  non 
saldava  i  suoi  conti  e  lo  pagasse  di  quanto  credea  rimanergli  debi- 
tore, avendo  per  ciò  ottenuto  sequestro  di  tutti  i  di  lui  beni;  e 
di  vantaggio,  che  i  nuovi  soci,  avendo  inteso  tanti  romori  ed  im- 
brogli, non  volevano  con  Bousquet  società  alcuna,  sicché  sarebbe 
fuor  dell'una  e  dell'altra:  onde  pensava  di  andarsene  in  Ollanda  e 
trovar  ivi  onesto  modo  di  vivere,  né  rimanersi  a  Ginevra,  dove  per 
raffronto  ricevuto  e  da  lui  stesso  divolgato  era  da  tutti  schivato  e 
fuor  d'ogni  umano  commerzio. 

Sentendo  ciò,  gli  dissi  che  per  quel  che  riguardava  la  stampa 
del  quinto  tomo  e  delle  altre  mie  opere  inedite,  poteva  ben  pen- 
sarsi ad  altro  ;  ma  in  quanto  alla  traduzione  francese,  colle  nuove 
giunte  e  medaglie  trasmessegli,  credeva  che  ciò  dovesse  andar  a 
conto  della  prima  compagnia,  la  quale  avea  speso  il  denaro  del 
disegno  e  gravatura1  del  mio  ritratto  in  rame;  onde  avrebbe  impor- 
tato poco  che  Bousquet  se  n'andasse  in  Ollanda,  purché  Pellissari 
volesse  continuarla,  col  quale  io  sarei  convenuto.  Si  esibì  pertanto 

i.  gravatura*.  incisione  (francesismo). 


322  VITA  DI    PIETRO    GIANNONE 

il  Vernet  di  parlare  a  Pellissari;  e  per  la  stampa  dell'altra  opera  mi 
propose  un  altro  mercante  libraro,  suo  amico,  al  quale  egli  avrebbe 
anche  parlato  per  disporlo.  E  questi  fu  M.  Barrillot,1  amico  anche 
del  Turrettino;  onde  stimò  che  io  ne  dovessi  anche  pregare  il 
medesimo,  affinché  con  efficacia  gli  parlasse. 

Non  mancai  istantemente  pregarne  il  Turrettino,  il  quale,  com- 
passionando il  mio  caso,  tanto  più  si  mosse  con  fervore  a  persuadere 
il  Barrillot,  che  volesse  sottentrare  in  luogo  di  Bousquet  nell'im- 
presa, che  sarebbegli  riuscita  utile,  assicurandolo  che  le  nuove  mie 
stampe  sarebbero  state  con  desiderio  da  tutti  ricercate,  non  meno 
che  le  prime;  anzi  che  il  guadagno  che  avrebbe  ritratto  dal  quinto 
tomo  era  sicuro,  poiché  tutti  que'  che  aveano  i  quattro  precedenti, 
certamente  avrebber  desiderato  il  quinto,  per  aver  l'opera  intera  e 
compita;  e  che  l'accordo,  prima  fatto  co'  stampatori  di  Venezia  e 
poi  con  Bousquet,  era  molto  discreto,  sì  che  poteva  senza  dubbio 
alcuno  accettarlo. 

Non  ci  bisognò  meno  che  tutta  l'autorità  ed  il  credito  del  Tor- 
rettino  e  di  Vernet  perché,  finalmente,  il  Barrillot  si  contentasse; 
poiché  gli  stampatori  di  Ginevra  hanno  tutta  la  ripugnanza,  quan- 
do non  siano  opere  latine  o  francesi,  di  impiegare  le  loro  stampe  a 
libri  italiani;  ma  dicendosegli  ch'essendo  l'autore  presente,  pote- 
va star  sicuro  che  l'edizione  sarebbe  riuscita  correttissima,  si  per- 
suase, e  sol  richiese  qualche  tempo;  poiché,  dovendo  partire  per 
rimminente  fiera  di  Francfort,2  non  poteva  se  non  al  suo  ritorno 
darci  principio. 

Questa  dilazione  importava  lo  spazio  di  cinque  o  sei  settimane, 
ed  io  volentieri  ce  la  diedi,  così  perché  frattanto  potessi  preparargli 
alcuni  pochi  manuscritti  che  avea  meco,  come  anche  perché  da 
Milano  non  avea  ricevuti  ancora  que'  che  rimasi  a  Venezia,  i  quali 
componevano  il  quinto  tomo;  onde  scrissi  al  secretano  Canari, 
che  se  fin  allora  non  l'avea  scritto  di  sollecitar  la  missione,  a  cagion 
de'  nuovi  miei  guai  accadutimi  con  Bousquet,  ora  che  con  altro 
mercante  libraro  avea  ristabilito  il  mio  affare,  non  mancasse  di 
mandarmegli  quanto  più  sollecitamente  potesse,  per  sicura  com- 
modità.  Scrissi  parimente  a  Venezia  al  principe  Trivulzi  ed  al  se- 
nator  Pisani  i  miei  travagli  passati  con  Bousquet,  i  quali  avean 

i.  Sul  libraio  Jacques  Barrillot  (i  684-1748)  e  le  sue  responsabilità  per  la 
consegna  dell'originale  del  Triregno  all'Inquisizione  si  veda  S.  Bertelli, 
JJ incartamento  originale,  cit.,  pp.  28-30.     2.  Francfort:  Francoforte. 


CAPITOLO   DECIMOPRIMO  323 

differito  ed  erano  ancora  per  differire  qualche  soccorso  che  potessi 
avere  in  Ginevra  di  denari,  onde  mi  conveniva  tirar  avanti  a  mie 
proprie  spese;  e  prevedendo  che  questo  sarebbe  per  finire  quel 
poco  contante  che  io  avea,  gli  pregai  che  sopra  i  miei  libri  lasciati 
a  Venezia  mi  mandassero  qualche  picciola  rimessa  di  denaro,  fin 
al  ritorno  di  Barrillot  da  Francfort,  per  poter  supplire  intanto  a' 
miei  bisogni. 

Per  ciò  che  riguardava  la  traduzion  francese  :  avendo  saputo  che 
le  mie  giunte  ed  annotazioni,  che  da  Vienna  mandai  a  Bousquet, 
erano  in  potere  di  monsieur  Bochat,  professore  in  Losanna,  scrissi 
al  medesimo  che  essendosi  con  Bousquet  disciolto  ogni  trattato, 
me  li  mandasse,  con  restituirgli  al  padrone;  ed  il  medesimo  non 
mancò,  usando  somma  puntualità,  di  tosto  mandarmigli  ;  sicché,  es- 
sendo in  mio  potere,  mi  assicurai  che  senza  di  me  non  avrebbe 
potuto  altri  proseguirla.  Ed  avendomi  monsieur  Vernet  riferito 
che,  essendosi  saldati  i  conti  con  Bousquet,  al  Pellissari  era  rimaso 
tutto  ciò  ch'erasi  preparato  per  la  stampa  della  traduzione,  e  che 
quella  rimaneva  ad  utile  dell'antica  società,  feci  per  mezzo  suo 
intendere  al  Pellissari  ch'erano  in  mio  potere  le  giunte  e  le  anno- 
tazioni, le  quali,  sempre  che  avesse  voluto  intraprenderne  l'edi- 
zione, non  avrei  mancato  di  somministrarcele,  e  convenire  con  lui 
quanto  erasi  trattato  con  Bousquet. 

Pellissari  mandò  a  dirmi  che  volentieri  sarebbe  egli  sottentrato 
alla  spesa,  e  che  sarebbe  passata  quest'edizione  per  suo  conto;  e 
non  dubbitassi,  che  disbrigato  ch'egli  fosse  da  altri  suoi  premurosi 
affari,  ci  avrebbe  dato  principio.  Così  nel  meglio  che  si  potè,  col 
favore  ed  autorità  del  professor  Turrettino  e  di  monsieur  Vernet, 
fu  ristabilito  con  Barrillot  e  con  Pellissari  il  trattato  da  più  anni  co- 
minciato con  Bousquet;  il  quale  erasi  già  partito  per  Ollanda  per 
istabilirsi  ivi,  o  pure  in  Losana,1  come  poteva  il  meglio,  dopo  la 
disavventura  accadutale  in  Ginevra. 

Intanto  eravamo  entrati  nel  mese  di  marzo  ed  io  aspettava  il 
ritorno  di  Barrillot  da  Francfort  ed  i  manuscrirti  da  Milano,  per 
dar  principio  alla  stampa,  donde  potessi  ritrarre  qualche  emolu- 
mento per  poter  onestamente  vivere  con  le  mie  fatiche  in  Ginevra 
infino  a  tanto  che  il  Cielo  di  me  non  avesse  altramente  disposto; 
frequentando  la  casa  del  professor  Torrettino,  dal  quale  riceveva 

1.  Losana:  Lausanne. 


324  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

estraordinari  favori,  offerendomi  dalla  scelta  sua  biblioteca  que' 
libri  che  mi  fosser  di  bisogno,  di  che  io  era  contento,  poiché  ivi 
trovai  d'ogni  materia  libri  rari  ed  elettissimi.  Ma  sopra  tutto  gode- 
va della  utile  e  piacevole  conversazione  d'un  uomo  veramente  sa- 
vio e  profondo  nelle  scienze,  nell'istoria  ecclesiastica  e  nell'altre 
serie  discipline,  e  sopra  tutto  intendentissimo  della  greca,  ebraica 
ed  altre  lingue  orientali,  e  che  nella  latina  aveasi  acquistato  uno 
stile  proprio,  così  terso,  pulito  ed  elegante,  che,  nello  spiegarsi 
con  proprietà  e  nettezza,  avea  pochi  che  l'uguagliassero.  Ciò  che 
potrà  renderne  al  mondo  chiara  testimonianza  quel  dotto  ed  ele- 
gante Compendio  dell'istoria  ecclesiastica,  ultimamente  dato  alla  lu- 
ce,1 del  quale  mi  fece  presente,  che  io  ricevei  come  una  gemma 
tersa  e  pulita,  senza  ruga  né  macchia  alcuna  che  l'adombrasse.2 
Egli  avea  date  alle  stampe  in  varie  occasioni  altre  picciole  opere, 
delle  quali  ne  faceva  raccolta,  per  darne  al  pubblico  un  giusto 
volume;3  né  dubbito  che  dalla  repubblica  letteraria  sarà  ricevuto 
con  quegli  applausi  e  commendazioni,  delle  quali  furon  sempre 
degni  gli  illustri  monumenti  de'  suoi  rari  ed  incomparabili  talenti, 
onde  meritamente  ed  appresso  il  magistrato  e  nell'Università  di 
que'  studi  e  presso  tutti  aveasi  acquistata  quell'autorità  e  riverenza 
che  se  gli  prestava;  e  mi  solea  dire  che  gli  dispiaceva  esser  io  colà 
giunto  in  tempo  non  cotanto  felice  per  quella  repubblica  <per  in- 
terne discordie  già  tutta  sconvolta>  la  quale,  in  altri  tempi,  si  vide 
assai  più  fiorire,  e  per  insigni  professori  e  per  più  frequente  e 
dilatato  commercio  ;  il  quale  avea  ricevuto  una  terribile  scossa  dal- 
l'ultima peste  di  Marsiglia,4  che  avea  sconvolti  e  divertiti5  i  cammini 

i.  quel  —  luce:  cfr.  J.  A.  Tukrettini,  Historiae  ecclesiasticae  compendium 
a  Christo  nato  usgue  ad  annum  MDCC,  Genevae  1734.  Di  lui  possediamo 
anche  l'epistolario,  edito  a  cura  di  E.  de  Bude:  Lettres  inédites  adressées  de 
1686  à  IJ3J  àJ.-A.  Turrettini,  ihéologien  genevois,  Paris  et  Genève  1887  (nel 
tomo  in,  alle  pp.  223  e  226  ci  sono  due  lettere  di  F.-J.  de  Pesmes  de  Saint- 
Saphorin  concementi  Giannone,  in  data  20  maggio  1736  e  3 1  gennaio  1737). 
2.  io,,,  adombrasse:  ma  si  veda  anche  il  giudizio  dato  dal  Giannone  ne  La 
Chiesa  sotto  il  pontificato  di  Gregorio  il  Grande,  in  Opere  inedite,  a  cura  di  P. 
S.  Mancini,  cit. ,  Torino  1 852  (ma  1859),  11,  pp.  1 1 6-7.  3 .  un  giusto  volume  : 
numerosi  discorsi,  dissertazioni,  tesi  accademiche  del  Turrettini  furono 
raccolti  in  tre  volumi  in  quarto,  apparsi  a  Ginevra  nel  1734.  In  altri  dieci 
volumi,  a  cura  del  Vemet  -  che  del  Turrettini  fu  allievo  -  uscirono  i  suoi 
scritti  di  religione  naturale  e  sulla  divinità  del  cristianesimo  :  Traiti  de  la 
verité  de  la  religìon  chrétienne,  Genève  1730  e,  di  nuovo,  ivi,  1748.  Le  sue 
opere  vennero  successivamente  raccolte,  col  titolo  di  Opera  omnia  theo- 
logica,  philosophica  et  philologica,  Leovardiae  et  Franequerae  1774- 1776. 
4.  peste  di  Marsiglia:  del  1722.     5.  divertiti:  allontanati. 


CAPITOLO   DECIMOPRIMO  325 

de'  negozianti  ;  e  dicendogli  io  che  per  le  savie  leggi  ed  istituti  co* 
quali  era  amministrata,  meritava  un  più  dilatato  territorio,  avendo 
fuori  di  ogni  mia  credenza  scorto  che  vien  terminata  quasi  colle 
mura  della  città,  poiché  da  tutti  i  lati  coli' occasione  de'  miei  con- 
sueti esercizi  girandola  attorno,  ora  mi  trovava  ne*  confini  di  Sa- 
voia, ora  di  Francia  ed  ora  de*  Svizzeri,  fra'  quali  era  chiusa; 
egli  mi  rispondeva,  che  appunto  per  questo  avea  conservata  per 
tanti  anni  la  sua  libertà,  poiché,  contenta  del  poco,  non  dava  a' 
vicini  alcuna  invidia  0  sospetto,  sicché  la  lasciavano  vivere  in  pace 
ed  in  tranquillità. 

Mentre  io  in  tali  occupazioni  proseguiva  il  mio  soggiorno  a  Gi- 
nevra, aspettando  il  ritorno  di  Barrillot  ed  i  manuscritti  da  Mi- 
lano, dall'altra  parte  la  corte  di  Roma,  molto  più  sollecita  per  la 
mia  persona  che  prima  -  avendo  saputo,  e  per  i  molti  suoi  emissari 
ed  esploratori  che  non  mi  lasciavano  di  vista,  e  per  le  mie  lettere 
istesse,  scritte  a  Milano  a  Venezia  ed  in  Vienna,  nelle  quali  mani- 
festava a  gli  amici  che  io  non  per  cambiar  religione,  ma  per  averci 
colle  mie  fatiche  trovato  onesto  modo  di  vivere,  erami  portato  a 
Ginevra,  ripigliò  più  fiera  che  mai  le  solite  insidiose  sue  armi, 
per  atterrarmi.  Non  si  sarebbe  curata  punto  se  io  avessi  mutata 
religione;  anzi  il  mutarla  sarebbe  stato  forse  e  per  lei  di  piacere, 
e  per  me  di  quiete;  poiché  con  ciò  si  sarebbe  smorzata  la  sua  ira  ed 
indignazione;  ma  l'aver  saputo  la  cagione  ed  il  fine,  nulla  giovan- 
domi il  riflettere  che  io,  non  lasciandomi  luogo  in  Italia  da  poter 
vivere,  dovea  finalmente  in  qualunque  maniera  trovarlo  altrove 
per  sostentarmi:  imperversò  in  guisa  che  non  lasciava  di  muover 
pietra,  per  abbissarmi.1 

Furono  incredibili  le  tante  ciarle  che  s'inventarono  in  Roma, 
delle  quali  empivano  le  gazzette,  sopra  la  mia  uscita  da  Venezia  e 
da  Milano,  ed  il  mio  ricovro  a  Ginevra.  Le  calunnie  per  discredi- 
tarmi anche  nella  corte  di  Vienna,  arrivarono  fino  ad  inventarci 
che  io  dalla  biblioteca  cesarea  avea  sottratto  un  raro  manuscritto 
dell'imperador  Federico  II,  e  che  Favea  mostrato  ad  alcuni  gentil- 
uomini veneziani;2  ma  l'impostura  fu  presto  chiarita;  poiché  aven- 

1.  abbissarmi:  subissarmi,  perdermi.  2.  che  io  —  veneziani:  scrive  il  Pan- 
zini,  p.  79,  che  «un  tale  abate  Ruelin  ch'era  in  Roma,  scrisse  in  Vienna 
d'aver  saputo  da  persona  di  conto  che  il  Giannone  involato  avesse  dalla 
biblioteca  cesarea  un  manoscritto  che  conteneva  le  lettere  dell'imperador 
Federigo  II,  e  che  portandolo  seco  in  Venezia  lo  avea  quivi  mostrato  a 
qualcheduno  ».  Il  Garelli,  direttamente  chiamato  in  causa  nella  sua  veste 


326  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

done  scritto  un  romano  in  Vienna  al  secondo  custode  della  bi- 
blioteca, suo  amico,  e  datali  notizia  della  voce  sparsa  per  Roma, 
questi  portò  la  lettera  al  cavalier  Garelli,  bibliotecario,  il  quale  si 
accorse  subito  della  calunnia;  e  fattasi  esatta  diligenza  fra'  manu- 
scritti,  se  mancava  quello  che  diceasi  aver  io  sottratto,  si  trovò 
ivi  che  era:  sicome  degli  altri  manuscritti,  fattosi  confronto  col 
catalogo,  non  ne  mancava  alcuno.  Fu  smentita  in  Roma  l'impostura, 
e  scritto  ivi  ed  in  Venezia  come  si  conveniva,  manifestando  la  sozza 
ed  indegna  maniera  di  procedere  de'  vili  calunniatori  romani  ;  ed  il 
primo  custode,  Forlosia,  a  nome  del  cavalier  Garelli,  mi  scrisse 
una  lettera,1  mentr'io  era  a  Ginevra,  nella  quale,  per  mio  consuolo, 
mi  diede  notizia  di  tutto  il  successo;  e  poiché  io  aveagli  avvisato 
il  mio  arrivo  a  Ginevra,  e  che  forse,  trovandomi  vicino,  sarei  pas- 
sato a  Lione  per  vedere  quella  città,  mi  avvertiva  a  non  trattener- 
mici  lungo  tempo  ;  poiché  Roma  non  avrebbe  mancato,  anche  ivi, 
tendermi  insidie,  sicome  tentava  da  per  tutto. 

Il  luogo  per  me  meno  sospetto  riputava  la  corte  di  Torino,  poi- 
ché avea  fatta  esperienza  che  di  me  non  ne  pretese  altro,  se  non 
che  uscissi  dalla  città  e  Stato  di  Milano.  Era  in  suo  arbitrio  di 
farmi  arrestare  a  Milano,  dove  dimorai  quasi  un  mese;  passai  con 
sicurezza  per  le  città  del  Piemonte,  ed  a  Torino  mi  trattenni  due 
giorni;  traversai  la  Savoia,  ed  a  Champéry  mi  fermai  una  notte  e 
mezza  giornata.  Nel  partire  da  Milano  la  principessa  Trivulzi,  com- 
passionando il  mio  caso,  si  dolse  col  gran  cancelliere  Olivazzi, 

dì  bibliotecario  cesareo,  non  solo  smentì  l'accusa,  ma  chiese  la  solidarietà 
dei  colleghi,  e  Apostolo  Zeno,  da  Venezia,  gli  rispose  che,  pur  non  avendo 
avuto  occasione  di  incontrarsi  col  Giannone  a  se  non  alla  sfuggita  nella 
piazza  di  S.  Marco  »,  tuttavia  aveva  parlato  «  con  più  d'uno  di  que'  signori, 
che  gli  erano  più  dimestici,  ed  espressamente  con  uno  di  essi,  che  gli  avea 
steso  il  catalogo  di  tutti  i  libri  che  seco  egli  aveva;  e  tanto  questi,  quanto 
gli  altri  mi  hanno  assicurato  di  non  aver  veduto  presso  di  lui  le  lettere  ma- 
noscritte dell' imperador  Federigo  II  né  anche  le  stampate  col  nome  di 
Pier  delle  Vigne,  che  ne  fu  il  segretario,  soggiungendomi  che  di  ciò  non 
avea  mai  fatta  parola  ne'  suoi  privati  ragionamenti.  Di  tutto  questo  »  con- 
cludeva lo  Zeno  «l'accerto  in  mia  piena  fede,  e  può  per  me  affermarlo 
anche  alla  Maestà  Imperadrice»  (cfr.  Lettere  di  A.  Zeno,  cit-,  v,  pp.  160-1). 
L'accusa  del  Ruelin  traeva  origine  da  un  progetto  di  edizione  delle  lettere 
di  Pietro  della  Vigna,  che  risaliva  al  1725,  e  al  quale  era  stato  interessato, 
oltre  allo  stesso  Garelli,  l'abate  napoletano  Giovanni  Lorenzo  Acampora 
(spentosi  nell'ottobre  1728):  si  vedano  per  questo  le  lettere  del  Giannone 
al  fratello,  in  data  23  giugno  (qui  la  x)  e  4  agosto  1725  (Giannoniana,  nn. 
99  e  105).  Il  codice  faceva  però  parte  della  biblioteca  del  principe  Eugenio. 
1.  una  Ietterai  il  testo  di  essa  in  Giannonianat  pp.  530-1. 


CAPITOLO    DECIMOPRIMO  327 

che  finalmente  la  dura  necessità  mi  avea  costretto  di  passare  in 
Torino  e  di  là  condurmi  a  Ginevra,  giacché  non  trovava  in  Italia 
alcun  rifugio;  onde  non  era  a*  ministri  di  quella  Corte  ignota  la 
mia  sforzata  e  necessaria  risoluzione  di  passare  ivi,  né  mi  fu  im- 
pedito il  passaggio. 

Avea  adunque  forti  ragioni  di  non  temere  da  quella  alcun  male, 
e  che,  pur  che  non  fossi  suo,  si  curasse  poco  di  me  e  che  cercassi 
altrove  scampo:  tanto  maggiormente,  che  io  non  avea  offeso  in 
cos' alcuna  quel  re;  anzi,  come  a  principe  magnanimo  e  clemente, 
e  che  in  valore,  prudenza  e  sapienza  non  men  civile  che  militare 
avea  superato  gli  augusti  suoi  predecessori,  era  io  ricorso  a  lui, 
implorando  la  benigna  e  vigorosa  sua  protezione,  della  quale  se 
non  ne  fui  degno,  non  incolpava  altri,  se  non  il  poco  mio  merito 
ed  il  duro  ed  acerbo  mio  destino.  Tutte  queste  riflessioni  mi  ren- 
devan  sicuro  e  senz'alcun  sospetto;  e  se  io,  giunto  a  Ginevra, 
non  trapassava  ne*  vicini  confini  della  Savoia,  era  perché,  giuntovi 
d'inverno,  que'  mesi  rigidi  non  permettevano  che  io  dilungassi  i 
miei  cammini  in  più  spaziose  campagne;  ma  il  freddo  mi  obbli- 
gava starmene  per  lo  più  in  casa,  0  pure  qualche  giorno  sereno, 
far  piccioli  giri  intorno  la  città,  e  presto  ricovrarmi  sotto  il  tetto 
proprio  o  di  qualche  amico. 

Ma  la  corte  di  Roma  cui  molto  premeva  che  mi  si  togliesse  il 
modo  di  poter  vivere  colle  mie  opere,  le  quali  non  potevano  pia- 
cerle, poiché  per  più  e  reiterate  pruove  non  avea  altra  maniera  di 
risponderci,  se  non  perseguitando  l'autore:  dando  a  sentire  alla 
corte  di  Torino  che  la  mia  dimora  in  Ginevra  sarebbe  stata  per- 
niciosa non  meno  a  lei  che  a  gli  altri  principi,  poiché  io  avrei  pub- 
blicati alle  stampe  libri  a  tutti  ingiuriosi,  empi  ed  eretici,  fece  sì  co' 
suoi  accorti  modi  e  lusinghe,  che  trasse  quel  principe  a  dar  mano 
adiutrice  alle  sue  inique  ed  ingiuste  voglie,  e  procurare  che  io 
fossi  tratto  da  Ginevra,  e  posto  in  arresto,  in  sicura  custodia.  E 
pure  le  mie  opere,  che  io  preparava  di  dar  alle  stampe  in  Ginevra 
unicamente  per  trovar  modo  da  vivere,  non  erano  che  quelle  stesse, 
che  gli  stampatori  di  Venezia  dovean  imprimere,  e  che  io  avea  sot- 
toposte alla  censura  del  padre  teologo  di  quella  Repubblica!  E 
l'altre  mie  opere  impresse  avean  dato  bastante  e  chiaro  saggio  al 
mondo  quanto  fossi  lontano  di  scrivere  contro  i  principi,  quando 
tutti  i  miei  pochi  talenti  da  Dio  concessimi  non  l'avea  impiegati, 
che  per  maggiormente  stabilire  i  loro  sovrani  diritti  ed  alte  pre- 


328  VITA    DI    PIETRO    GIANNONE 

minenze  ne*  loro  domini  ed  imperi.  Ma  il  mio  duro  e  crudel  de- 
stino, non  mai  stanco  di  perseguitarmi  per  ogni  verso,  fece  che 
V esecuzione  del  mio  arresto  si  fosse  commessa  a  persona  la  quale, 
per  porlo  in  effetto,  non  tralasciò  d'usare  i  più  orribili  tradimenti 
e  le  maniere  più  indegne,  inospitali  ed  inumane,  che  fossero  un- 
quemai  accadute  ed  immaginate. 

L'ordine  che  io  fossi  tratto  da  Ginevra  e  posto  in  arresto  e  con- 
dotto a  Champéry,  fu  mandato  al  general  conte  Picon,  governa- 
tore di  Champéry  e  luogotenente  generale  della  Savoia.1  Questi  si 
trovava  aver  per  suo  aiutante  di  campo  un  tal  Guastaldi,  piemon- 
tese, il  quale  avea  un  suo  fratello  a  Vesenà,3  picciolo  villaggio, 
posto  a'  confini  della  Savoia,  prossimo  a  Ginevra,  impiegato  a 
riscuoter  i  diritti  di  una  picciola  doana  che  ivi  era  ;  al  quale  fu  data 
dal  governadore  commissione  del  mio  arresto,  ma,  secondo  che  poi 
mi  mostrò  lo  stesso  Guastaldi3  doaniere,  con  termini  umani  e  molto 
discreti,  senza  usar  strapazzi,  ma  con  tutta  destrezza  e  piacevolez- 
za, perch'io  non  soffrissi  disagio  alcuno.  Dalla  commessione  datali 
e  dalle  lettere  mostratemi  poi,  mi  accorsi  che  l'incombenza  eragli 
stata  data  fin  da'  io  di  dicembre  scorso;  sicché  appena  saputosi  il 
mio  arrivo  a  Ginevra  si  cominciò  a  tendermi  insidie,  e  quanto  più 
si  differiva  l'esecuzione,  tanto  maggiormente  il  Guastaldi  riceveva 
da  Champéry  impulsi,  secondo  che  crescevano  gl'impegni  e  le  pre- 
mure che  ne  faceva  Roma  alla  corte  di  Torino. 

Trovavasi  per  mia  disgrazia  costui  amico  di  più  anni  con  Ché- 
nevé,  mio  ospite,  e  soleva  spesso  venire  in  sua  casa,  e  da  buoni 
compagnoni  beeno  e  mangiavano  insieme;  ed  a  vicenda  sovente  il 
Chénevé  si  conduceva  a  Vesenà,  a  far  gozzoviglia  e  darsi  insieme 
bel  tempo.  Con  tal  occasione  venni  io  a  conoscere  questo  Guastaldi 
doaniere,  il  quale  spesso  mi  visitava,  e  mostrava  aver  di  me  somma 
stima  ed  affezione.  M'invitava  con  molta  istanza,  che  piacendomi 
tanto  la  campagna  venissi  a  dimorare  per  qualche  giorno  a  Vesenà, 
che  mi  sarei  ristabilito  in  perfetta  salute.  Ed  io,  non  che  n'avessi 

1.  L'ordine  —  Savoia:  sugli  avvenimenti  che  seguono  si  veda  P.  Occella, 
Pietro  Giannone  negli  ultimi  dodici  anni,  cit.,  il  quale  ampiamente  utilizza 
una  Relazione  istorica  di  ciò  che  è  passato  all'occasione  dell'arresto  del  Gian- 
none,  seguito  nelle  vicinanze  di  Ginevra,  sino  alla  di  lui  morte  succeduta 
nella  cittadella  di  Torino,  stesa  attorno  al  1832  da  un  archivista  sabaudo, 
certo  Filippi,  e  oggi  conservata  nell'Archivio  di  Stato  di  Torino,  mano- 
scritti  Giannone,  mazzo  ni,  ins.  2,  E.  2.  Vesenà:  Vezenaz.  3.  Giuseppe 
Guastaldi. 


CAPITOLO   DECIMOPRIMO  329 

alcun  sospetto,  me  ne  scusava  dicendogli  che  i  mesi  di  quel  rigido 
inverno  non  permettevano  che  io  uscissi  di  casa,  non  pur  dalla  città; 
ma  che  nella  prossima  primavera,  quando  le  campagne  erano  al- 
legre e  verdeggianti,  non  avrei  mancato  di  profittarmi  de'  suoi 
inviti. 

Intanto  egli  prese  dimestichezza  col  mio  giovane  figliuolo  e  gli 
faceva  somme  carezze;  e  non  potendo  trar  me  di  città,  mi  richiese 
che  almanco  permettessi  che,  in  compagnia  di  Chénevé,  ci  man- 
dassi lui,  il  quale,  essendo  giovane,  poco  dovrebbe  curare  la  rigi- 
dezza della  stagione.  Ed  io  non  ci  ebbi  difficoltà;  e  da  due  o  tre 
volte  che  ci  fu  con  Chénevé,  gli  fece  grandi  cortesie,  trattandolo 
lautamente. 

Mostrava  sommo  contento  di  aver  presa  questa  conoscenza; 
spesso  mi  dimandava  del  mio  affare  che  trattava  con  Bousquet,  ma 
più  sollecitudine  ne  mostrava  col  mio  giovane  e  con  Chénevé,  ri- 
chiedendogli ciò  che  io  facessi.  E  sovente,  trovando  che  io  era  in- 
teso a  rivedere  i  manuscritti,  che  mi  avea  Bousquet  fatti  portare 
dalla  traduzion  francese  della  mia  Istoria,  mi  domandava  quando 
si  sarebbero  dati  alle  stampe,  e  cose  simili.  Egli  di  quanto  vedea  e 
sentiva  da  me,  dal  mio  giovane  e  da  Chénevé,  ne  faceva  rapporto 
al  suo  fratello  a  Champéry,  sicome  mi  confessò  dapoi,  scrivendogli, 
essendo  persona  idiota  e  senza  lettere,  più  cose  false  e  sciocche, 
e  sopra  tutto  che  io  stava  tutto  inteso  a  scrivere  contro  il  papa. 
Passavano  tre  e  quattro  settimane  che  non  si  vedea;  poi  tornava, 
secondo  i  nuovi  impulsi  che  Teran  dati  in  risposta  de'  suoi  rap- 
porti. E  mostrando  maggior  affezione  ed  ardore  di  nostra  amicizia, 
mi  richiese  d'alcuni  libretti  italiani  che  io  avea,  per  leggergli. 
Glieli  prestai,  ancorché  sapessi  che  poco  l'intendesse;  ed  egli  me 
li  cercava  non  per  altro,  se  non  per  scrivere  a  Champéry  che  libri 
fossero,  e  mostrar  con  ciò  di  aver  meco  contratta  molta  familiarità, 
onde  stesser  sicuri  che  sarei  caduto  nelle  sue  reti. 

Il  Chénevé  avea  procurato  un  mio  ritratto,  di  quelli  impressi 
sopra  il  rame,  che  si  gravò1  a  Vienna  ed  io  avea  mandato  a  Ginevra; 
ed  aveane  fatto  un  quadro,  con  cornice  di  legno  negro  intorno  e 
vetro  davanti,  e  tenevalo  nella  sua  stanza.  Glielo  richiese  con  mol- 
ta istanza,  dicendogli  che  voleva  tenerlo  per  mia  memoria;  ed  avu- 
to che  l'ebbe,  lo  mandò  a  Champéry  al  fratello,  il  quale  glielo 
rimandò  indietro,  scrivendogli  che  Sua  Maestà  desiderava  avere 
1.  si  gravò:  si  incise  (francesismo). 


33°  VITA  DI    PIETRO    GIANNONE 

nelle  mani  l'originale,  non  il  ritratto;  e  che  stesse  pur  sicuro,  che 
se  egli  veniva  a  capo  di  quest'affare,  avrebbe  mutata  condizione 
e  sarebbe  stato  premiato  dal  re  con  cariche  onorevoli  e  vantag- 
giose. Da  queste  lusinghe  maggiormente  si  accese,  ed  avrebbe  com- 
messa ogni  scelleraggine  pur  che  gli  fosse  riuscito  d'involarmi. 
Le  care  dimostranze  sempre  più  crescevano:  volle  che  io  vedessi 
i  magazzini  del  sale  e  del  tabacco,  che  il  re  teneva  in  Ginevra; 
e  dall'ardore  che  mostrava  in  condurmi  in  tali  luoghi,  e  dall'infelice 
caso  indi  seguito,  compresi  ch'egli  dentro  la  stessa  città  di  Ginevra 
cercava  modo  di  togliermi  dal  cospetto  degli  uomini  e  portarmene 
via,  tutto  covrendo  sotto  il  manto  di  amicizia  e  di  affettuose  espres- 
sioni di  venerazione  e  stima,  che  mostrava  verso  di  me. 

Io,  non  che  avessi  alcun  sospetto  di  sinistro  successo,  pure,  sem- 
brandomi eccessiva  in  un  uomo  idiota  e  senza  lettere  tanta  corte- 
sia e  cordialità,  dissi  a  Chénevé  che  io  restava  maravigliato  in 
vedere  in  un  piemontese  tanta  affezione,  e  molto  più  in  un  de- 
forme e  monoculo;  poiché,  oltre  di  mancargli  un  occhio,  dall'al- 
tro era  guercio;  ma  il  Chénevé  mi  rispondeva  che  l'era  amico  di 
quattro  anni,  e  che  sempre  l'avea  sperimentato  leale,  di  buon  cuore 
ed  affezionato  con  gli  amici;  e  così  mi  dicean  la  moglie  e  gli  altri 
di  sua  casa. 

Per  più  di  tre  mesi,  da  che  arrivai  a  Ginevra,  seguitò  costui  la 
mia  traccia  per  cogliermi  nella  rete,  non  usando  altre  armi  che 
quelle  di  Giuda.  Finalmente,  approssimandosi  la  fine  di  marzo  e 
raddolciti  i  tempi,  cominciando  le  campagne  a  rendersi  amene, 
riputò  tempo  opportuno  di  poter  venirne  a  capo;  e  prima  avendo 
invogliato  il  mio  giovine  di  andar  un  giorno  a  Vesenà  per  goder 
di  quell'aria,  furon  ambidue  con  Chénevé  a  dirmi  che  essendo  i 
giorni  sereni  non  bisognava  perderne  l'occasione.  Gli  risposi  che 
per  me  non  erano  abbastanza  raddolciti:  andassero  pur  essi,  che 
nell'entrante  mese  d'aprile  non  avrei  mancato  fargli  compagnia. 
Ma  mi  lasciai  poi  persuadere,  per  una  cagione  ch'era  molto  effi- 
cace, a  deliberarmi  di  seguitarli. 

In  quest'anno  il  dì  dell'Annunziata  25  di  marzo,  venne  a  cadere 
nella  Domenica  delle  Palme,  e  prevedendo  la  difficoltà  che  s'incon- 
trava di  soddisfare  al  precetto  pasquale  nella  piccola  cappella  del 
Residente  di  Francia,  dove  non  vi  era  che  un  cappellano,  ed  all'in- 
contro il  numero  de'  Savoiardi  e  Francesi  cattolici  era  immenso,  si 
stimò  per  adempierlo  senza  calca  di  tanta  gente  e  più  devotamente, 


CAPITOLO   DECIMOPRIMO  331 

di  andare  nel  più  vicino  villaggio  di  Savoia.1  Il  Guastaldi  esagge- 
rava  che  non  vi  era  più  opportuno  luogo  che  Vesenà,  dov'egli 
avrebbe  fatto  avvisare  quel  paroco,  che  intendeva  la  lingua  italia- 
na; e  la  mattina  stessa  della  Domenica  delle  Palme,  sicome  avrebbe 
fatto  anch'egli,  poteva  io  ed  il  mio  giovane,  con  tutto  aggio,  con- 
fessarmi e  prender  l'Eucarestia;  e  che  per  far  ciò  meglio  era  di 
portarci  la  sera  del  sabato  in  sua  casa,  affinché  la  mattina  della  do- 
menica fossimo  i  primi,  senza  turba  ad  adempirla,  e  rimaner  ivi  il 
giorno  a  goder  la  campagna.  Non  dispiacque  l'offerta;  ed  io,  con 
tutto  ciò,  gli  dissi  che  sarei  venuto  pur  che,  però,  il  tempo  fosse 
placido  e  sereno.  Egli  contentissimo  ci  disse  che,  tornando  a  Ve- 
senà, avrebbe  subito  fatto  avvisare  il  paroco,  aspettandoci  in  sua 
casa  il  sabato  la  sera.  Questo  giorno,  per  mio  fatai  destino,  riuscì 
chiaro,  placido  ed  ameno  ;  sicché,  stimolato  anche  dal  mio  giovane 
e  da  Chénevé,  sbrigato  della  posta,  il  dopo  pranzo  al  tramontare 
del  sole,  per  non  stancarmi  del  cammino,  ci  posimo  tutti  e  tre  in 
una  barchetta,  e  solcando  il  lago  Lemano  agiatamente  ci  condus- 
simo  al  lido,  e  smontati  a*  confini,  si  fece  a  piedi  quel  piccolo  trat- 
to che  vi  era,  per  giungere  a  Vesenà. 

Il  Guastaldi,  che  ci  aspettava,  quando  ci  vide  si  fece  incontro 
festivo  e  cortese  ;  e  condottici  in  casa  sua,  ci  disse  aver  già  avvisato 
il  paroco,  il  quale  la  mattina  seguente  ci  attendeva  in  chiesa,  per 
esser  sbrigati  i  primi.  Poi  si  pose  a  prepararci  la  cena,  la  quale  fu 
propria  e  moderata,  secondo  che  io  li  richiesi;  ed  egli  postosi  a 
cenar  con  noi,  si  passò  quel  tempo  allegro,  replicando  egli  e  '1 
Chénevé,  gran  bevitori,  più  brindisi  in  nostra  salute.  Mi  mostrò  il 
mio  ritratto,  ch'egli  avea  nella  sua  stanza,  dicendomi  che  non  avea 
più  cara  cosa  di  quella. 

Doppo  cena  mi  disse,  che  vedendo  l'angustia  di  sua  casa,  avea 
pregato  un  ginevrino,  suo  amico,  che  teneva  a  canto  una  più  com- 
moda abitazione,  di  preparargli  una  stanza  con  letto  commodo, 
dove  io,  col  mio  giovane  figliuolo,  poteva  quella  notte  dormire; 
poiché,  in  quanto  a  Chénevé,  potea  ben  ritenerlo  seco  in  sua  casa: 
e  che,  quando  volessi  passarci,  mi  avrebbe  accompagnato;  gli  ri- 


1.  In  .  .  .  Savoia:  sulla  cappella  del  residente  di  Francia  a  Ginevra  cfr.  F. 
Fleury,  Histoire  de  VÉglise  de  Genève,  li,  Genève  1880,  pp.  274  sgg.  Quan- 
to ai  motivi  che  spinsero  il  Giannone  ad  accettare  l'invito  del  Guastaldi, 
non  molto  diversamente  è  spiegato  nelle  Memorie  di  Giovanni:  cfr.  in  Gian- 
noniana,  pp.  190  sgg. 


332  VITA  DI    PIETRO    GIANNONE 

sposi  ch'era  ormai  tempo  di  andarci  a  riposare,  essendo  notte; 
ed  egli  con  Chénevé  ci  accompagnò,  né  si  partì  fin  che  non  ci  vide 
posti  in  letto.  Nel  chiuder  da  dietro  la  porta,  si  osservò  non  esserci 
chiave;  ma  egli  ci  disse  che  non  bisognava,  essendo  in  casa  sicura 
e  d'un  uomo  da  bene.  Con  tutto  ciò,  il  mio  figliuolo  la  chiuse 
come  potè  il  meglio,  con  altra  chiave;  e  partito  che  fu  con  Chénevé, 
ci  posimo  a  dormire. 

Il  mio  figliuolo  tosto  prese  sonno,  io  era  per  prenderlo,  quando 
non  era  ancor  passata  un'ora  che  intesi  un  romore  nella  camera 
precedente,  e  poi  urtar  con  impeto  la  porta,  e  mezzo  sonnacchioso, 
gridando  «  chi  era  »,  ecco  la  vidi  aperta,  ed  entrar  con  una  lanterna 
più  uomini  armati,  che  parean  tanti  orsi;  così  erano  ruvidamente 
vestiti,  senza  schioppi,  ma  con  forche  di  ferro,  lance  e  lunghi  spie- 
di; i  quali,  dando  certi  urli  dissoni  e  confasi,  si  avvicinarono  al 
letto,  e  postoci  la  punta  delle  lame  alla  gola,  mostravano  volerci 
scannare;  io  credendogli  ladri,  gridava  che  si  prendesser  ogni  cosa 
e  ci  lasciasser  nudi,  pur  che  ci  salvasser  la  vita.  Il  mio  figliuolo, 
che  profondamente  dormiva,  svegliato  a  tanti  strepiti,  appena  aperti 
gli  occhi,  vedendosi  alla  gola  le  punte  delle  forche  e  quelle  or- 
rende figure,  cominciò  dirottamente  a  piangere,  cercando  miseri- 
cordia, perché  non  l'uccidessero. 

In  questo,  fra  la  turba  di  que'  che  io  credeva  ladri,  raffigurai  uno 
vestito  rosso  che  gli  guidava;  onde,  pel  dubbio  lume  non  conoscen- 
dolo, indirizzai  a  lui  le  mie  preghiere,  che  gli  trattenesse  e  si  pren- 
desse tutto,  con  lasciarci  la  vita.  Allora  questi,  dando  di  piglio  a' 
miei  abiti,  fece  che  gli  altri  alzassero  le  forche  e  le  lance;  e  con  voce 
orrida  e  contraffatta  imponeva  che  si  facesse  ricerca  di  tutto,  e 
sopra  ogni  altro,  delle  scritture  o  lettere,  forse  che  io  avessi  sopra 
[di  me],  né  fin  qui  lo  conobbi;  ma  dapoi,  gridando  egli  che  fossimo 
presi  e  ligati,  perché  tale  era  l'ordine  del  re  e  del  papa,  mi  accorsi 
che  non  erano  ladri,  ma  sbirri;  né  però  credea  che  fosse  il  Guastaldi 
stesso  che  gli  guidasse,  ma  altri  con  sua  intelligenza  però,  e  tradi- 
mento; ma  presto  mi  tolsi  di  quest'altro  errore;  poiché,  facendo 
ricerca  ne'  miei  abiti  e  prendendosi  quelle  lettere  che  io,  per  caso, 
mi  trovava  addosso,  e  minacciando  con  voce  contraffatta  per  dar- 
mi maggior  terrore,  si  avvicinò  in  maniera  che  io,  finalmente,  lo 
ravvisai.  Allora,  con  debile  ed  afflitta  voce,  gli  dissi:  «Questi  frutti, 
adunque,  signor  Guastaldi,  suol  dare  la  vostra  ospitalità  ed  amici- 
zia a'  vostri  ospiti  ed  amici?».  E  replicando  egli  che  dovea  ubbi- 


CAPITOLO   DECIMOPRIMO  333 

dire  al  suo  re,  che  l'avea  comandato,  gii  soggiunsi  che  avendomi 
in  sue  mani  non  vi  era  bisogno,  di  notte  tempo,  d'un  sì  funesto  e 
terribile  apparato  :  bastava  che,  appena  giunto  in  sua  casa,  facesse 
ivi  arrestarmi,  con  palesare  che  tal  fosse  l'ordine  del  re;  che  io, 
che  non  era  uomo  facinoroso  e  che  potessi  attaccar  per  ciò  briga 
o  far  alcuna  resistenza,  mi  sarei  volentieri  sottomesso  a'  coman- 
di del  re,  dalla  cui  clemenza  e  giustizia,  non  avendolo  offeso 
in  cos' alcuna,  era  sicuro  che  non  avrei  potuto  temer  alcun  male. 
Ma  quello  che  mi  dava  pena,  era  d'aver  da  lui  inteso  che  mi 
arrestava  per  ordine  non  meno  del  re,  che  del  papa:  cosa  che  io 
non  poteva  comprendere,  sapendo  che  nella  Savoia  il  re  solo  co- 
manda, e  non  il  papa.  Egli,  con  faccia  truce,  mi  rispose  che  così 
era,  per  essermi  io  portato  a  Ginevra,  per  scrivere  contro  il  papa; 
e  come  se  mai  avessemi  conosciuto,  imperversava  a  straziarmi, 
con  farmi  sollecitamente  alzar  di  letto,  e  che  presto  mi  vestissi; 
e  poi,  preso  un  mio  cinto,  comandò  a  que'  masnadieri  che  con 
quello  mi  avesser  ligato  le  mani  e  le  braccia;  ma  ciò  che  mi  diede 
orrore  e  spavento  del  suo  animo  perverso  e  ferino,  fu  che  contro 
un  innocente,  qual  era  mio  figliuolo,  di  cui  mostrava  essergli  stret- 
to amico  e  contro  il  quale  non  vi  era  alcun  ordine  di  arresto,  egli 
stesso  prese  una  fune  e  lo  fece  strettamente  ligare;  e  così  avvinti, 
quella  notte,  ci  condusse  in  sua  casa,  che  la  trovammo  piena  di 
gente  armata,  in  mezzo  alla  quale  era  ritenuto  Chénevé,  perché 
non  scappasse  per  darne  avviso  a  Ginevra. 

Nel  calar  le  scale  del  genevrino,  nella  di  cui  casa  fummo  im- 
prigionati, si  attaccò  fra  costui  ed  il  Guastaldi  una  rissa,  chiaman- 
dolo infame  traditore,  che  avendogli  cercate  quelle  stanze  per  no- 
stro alloggio,  se  ne  fosse  poi  abusato,  con  far  venir  di  notte,  in  sua 
casa,  gente  ribalda;  avendo  anch' egli  prima  creduto,  per  i  modi 
usati,  che  fosser  venuti  per  assassinarci,  non  per  arrestarci. 

Fummo  così  trattenuti  nella  casa  del  Guastaldi  tutta  quella  notte, 
circondati  d'uomini  armati;  de'  quali  sempre  più  cresceva  il  nu- 
mero, poiché  il  Guastaldi,  lasciatici  con  guardie,  ch'erano  anche 
superflue,  non  che  bastanti,  per  render  più  strepitosa  e  grande 
l'eroica  sua  azione  partì  da  noi,  e  quanti  armati  potè  raccòrre  da' 
vicini  villaggi,  tutti  gli  mandava  in  sua  casa,  per  nostra  custodia; 
di  poi  partì  per  Ginevra  per  provvedersi  di  galesse,  per  condurci 
a  Champéry,  sicom'era  l'ordine  di  quel  governadore;  e  tornato  la 
mattina  molto  tardi,  si  mostrò  non  men  allegro  che  un  poco  più 


334  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

umano,  mostrandomi  l'ordine  del  mio  arresto  in  nome  del  re  e  le 
lettere  nelle  quali,  sempre  più  con  premura,  se  gli  imponeva  d'e- 
seguirlo; dicendomi  che  anche  se  non  gli  fosse  riuscito  ivi  d'arre- 
starmi, il  re  ne  avrebbe  scritto  a  quella  repubblica,  perché  in 
tutte  le  maniere  non  voleva  che  io  dimorassi  a  Ginevra;  e  che  non 
era  vero  quel  che  soggiunse  del  papa,  avendolo  detto  per  maggior- 
mente atterrirmi;  e  pregandolo  istantemente,  che  non  essendo 
nell'ordine  compreso  mio  figliuolo,  lo  lasciasse  libero,  non  fu  pos- 
sibile persuaderlo,  dicendomi  che  bisognava  condurlo  meco  a 
Champéry,  ed  avesse  pensato  quel  governadore  di  fare  ciò  che 
stimava  più  convenirci. 

Due  ore  prima  del  mezzo  giorno  di  quella  domenica  si  parti 
da  Vesenà,  e  neh"  entrar  col  mio  figliuolo  nel  galesse,  io  vidi  che 
avea  raccolto  più  di  cinquanta  uomini  armati,  i  quali,  a  forma  di 
sguadone,1  circondavano  il  galesse;  i  quali,  secondo  che  si  passava 
per  i  villaggi  che  s'incontravano  per  istrada,  si  mutavano,  affinché 
la  mostra  fosse  più  pomposa.  Posti  che  fummo  in  galesse,  fu  licen- 
ziato Chénevé,  al  quale  raccomandai  le  mie  robe  lasciate  in  sua 
casa,  e  che  avrei  da  Champéry  scritto  a  monsieur  Vernet  ciò  che 
dovea  farne.  Fu  veramente  cosa  non  men  degna  di  compassione 
che  di  riso,  il  vedere  il  Guastaldi  alla  testa  delle  sue  truppe,  a 
cavallo,  col  mio  ritratto  alla  mano,  secondo  ch'entrava  in  un  vil- 
laggio mostrarlo  a  que'  contadini,  i  quali,  uomini  e  donne,  corre- 
vano a  truppe  allo  spettacolo;  e  come  se  conducesse  preso  re 
Marcone  di  Calabria,  o  Rocco  Guinart  di  Barzellona,  l'un  famoso 
bandito  del  regno  di  Napoli,  l'altro  di  Catalogna,  vantava  a  quella 
rozza  e  credula  gente  sue  prodezze;  e  mossi  alcuni  da  curiosità, 
dimandandogli  chi  io  fossi  e  qual  delitto  avea  commesso,  egli  non 
rispondeva  altro,  se  non  che  avea  preso  un  grand'uomo.  Alcuni 
semplici,  spezialmente  le  donne,  alla  risposta  rimanevano  stupidi. 
Altri,  più  accorti,  fra  di  loro  pien  di  maraviglia,  borbottavano: 
«costui  va  preso,  per  essere  un  grand'uomo.  Bisognerà,  adunque, 
esser  uom  picciolo  e  da  niente,  per  non  inciampare  a  simili  di- 
sgrazie». NelTentrar  d'una  grossa  terra,  chiamata  San  Giuliano, 
ci  avvenne  un  fatto,  non  men  da  compiangere  che  da  ridere.  Il 
Guastaldi  precorse,  col  ritratto  in  mano,  e  postosi  nella  piazza, 
a  cavallo,  a  guisa  di  ciarlatano  facevane  mostra,  e  per  esser  gior- 

i.  sguadone1:  squadrone. 


CAPITOLO   DECIMOPRIMO  335 

no  di  domenica,  unì  gran  moltitudine  di  gente  che  vi  accorse.1 
Eravi  ivi  il  governadore,  che  chiamavano  il  Barone,  il  quale, 
mosso  anch' egli  da  curiosità,  fu  ad  incontrarci;  e  fatteci  mille  grate 
accoglienze  e  cortesie,  volle  che  smontassi  dal  galesse  e  mi  fermassi 
in  una  vicina  casa,  fin  che  il  Guastaldi  non  unisse  la  nuova  gente, 
per  cambiarla  con  quella  che  ci  avea  ivi  condotto.  Smontati  che 
fummo,  ci  offerì  del  caffè,  ed  ancorché  si  rifiutasse,  volle  che  in 
ogni  modo  lo  prendessimo;  sicome,  per  non  abusarci2  di  tanta 
gentilezza,  si  fece;  ed  avuti  insieme  vari  discorsi,  ed  egli  mostrando 
gran  compatimento  del  mio  caso,  fecemi  grandi  esibizioni,  piene 
di  somma  cordialità  ed  affezione.  Licenziato  che  si  fu,  appena  vol- 
tate le  spalle,  nel  volerci  riporre  nel  galesse  ci  vidimo  un  suo 
ufficiale  avanti,  il  quale  ci  fece  un  presente  di  un  paio  di  manette 
di  ferro,  dicendoci  che  il  costume  ivi  era  che  a'  priggionieri  che 
passavano  per  quella  terra  e  suo  distretto,  perché  fosse  più  sicura 
la  lor  custodia,  si  ponevan  le  manette;  onde  avessi  la  pazienza  di 
sofferirle,  e  preso  il  mio  braccio  sinistro  col  destro  del  mio  figliuolo, 
ci  avvinse  chiudendo  colla  chiave  i  ferri,  dandoci  un  soldato  af- 
finché ci  accompagnasse  fino  la  sera,  nell'osteria  dove  dovevamo 
pernottare;  il  quale  ce  le  avrebbe  tolte  e  riportate  indietro,  come 
fu  fatto;  e  ritornandosene  il  soldato,  gli  dissi  che  in  mio  nome 
rendesse  al  signor  barone  le  debite  grazie,  per  tanta  cura  che  s'era 
compiaciuto  avere  della  mia  persona,  riputandola  così  cara  che, 
non  bastandogli  la  custodia  di  quel  numeroso  accompagnamento 
del  Guastaldi,  avea  voluto  aggiungervi  anche  la  sua. 

La  sera  del  dì  seguente,  lunedì,  si  giunse  a  Champéry,  verso  le 
due  ore  di  notte,  poiché  il  Guastaldi,  non  potendo  in  quella  capitale, 
dove  risiedeva  il  general  conte  Picon,  far  sua  mostra,  procurò  che 

i.  Fu . .  .  accorse;  cfr.  quanto  riferisce  il  Panzini,  p.  96,  seguendo  la  te- 
stimonianza di  Giovanni:  il  Guastaldi,  durante  la  marcia,  «portava  in  ma- 
no un  ritratto  del  Giannone,  del  quale  questi  gliene  avea  fatto  un  presente 
in  Ginevra,  e  veniva  di  passo  in  passo  gridando  per  via:  "un  grand'uomo, 
un  grand'uomo";  cosicché  tutta  la  gente  ch'udiva  sì  fatte  parole,  credeva 
di  sicuro,  non  essendo  ancor  fatta  la  pace  di  quella  guerra,  che  fin  dal  1733 
erasi  accesa,  che  qualche  generale,  o  altro  gran  personaggio  del  partito  au- 
striaco fosse  condotto  prigioniero»;  re  Marcone:  soprannome  del  brigante 
Marco  Berardi  (seconda  metà  del  XVI  secolo).  Nativo  di  Cosenza,  riunì 
una  forte  banda  di  briganti,  costituendo  una  specie  di  governo  ed  esigen- 
do tributi  locali.  Fu  debellato  dal  viceré  di  Napoli  (1559-1571)  Pedro  Afàn 
de  Rivera,  duca  di  Alcalà;  per  Rocco  Guinart  cfr.  la  nota  2  a  p.  245;  San 
Giuliano:  St.-Julien-en-Genevois,  allora  bailliage  di  Ternier.  2.  abusarci: 
usar  male. 


336  VITA  DI    PIETRO    GIANNONE 

s'entrasse  di  notte.  Ed  avendo  avvisato  all'altro  Guastaldi,  aiu- 
tante di  campo  del  generale,  del  mio  arrivo,  venne  costui  con 
molta  cortesia  e  civiltà  a  dirmi,  in  nome  del  suo  generale,  che  non 
sapendo  la  cagione  del  mio  arresto  comandatoli  dal  re,  fin  che 
non  se  gli  desse  notizia  d'esser  seguito,  e  ricevesse  istruzioni  come 
dovesse  regolarsi,  mi  trattenessi  in  casa  del  carcerier  maggiore, 
dove  sarei  stato  ben  trattato. 

Condotto  ivi,  non  posso  negare  che  fui  ricevuto  col  mio  figliuolo 
con  somma  umanità  e  cortesia,  non  men  dal  carceriere  che  da  sua 
moglie,  ch'erano  gentili,  rimanendo  nel  lor  quartiere  in  libera  cu- 
stodia; né  il  generale  mancava  ogni  dì  mandare  il  suo  aiutante 
Guastaldi  a  vedermi  ed  offerirmi  ciò  che  mi  faceva  di  bisogno. 
Sicché  dall'uno  passai  all'altro  Guastaldi,  molto  però  diverso  dal 
primo,  usandomi  ogni  amorevolezza  e  cortesia.  L'altro  non  lo  ve- 
dea  se  non  rade  volte,  tutto  turbato  e  malinconico  poiché,  fuor 
d'ogni  sua  aspettazione,  non  vedeva  che  il  conte  Picon  molto  si 
curasse  di  premiarlo  d'una  sì  eroica  azione,  ch'egli  credea  aver 
fatta,  per  la  quale  aveasi  immaginato  di  dover  conseguire  sommi 
gradi  ed  onori. 

Il  general  governadore  mandò  a  dirmi  che  sarebbe  venuto  un 
giorno  per  parlarmi,  cercando  intanto  da  me  la  cagione  che  avesse 
potuto  movere  il  re  all'arresto,  e  se  io  avessi  scritto  o  commessa 
cosa  tale,  che  me  l'avesse  meritato.  Io,  non  meno  per  Guastaldi 
che  per  altri  a'  quali  dava  permissione  di  visitarmi,  l'assicurava 
che  non  avea  offesa  in  minima  cosa  la  Maestà  del  re,  e  che  le  mie 
disgrazie  venivano  dalla  corte  di  Roma;  ma  ch'era  sicuro  nella  giu- 
stizia e  clemenza  del  re,  che  non  avrebbe  permesso  di  sacrificarmi 
alla  di  lei  ira  ed  indignazione;  ed  era  contento  ch'egli  mi  giudicasse 
e  conoscesse  de'  miei  delitti,  pregandolo  che  mi  permettesse  di 
scrivere  in  una  lettera  al  marchese  di  Ormea  questi  miei  sentimenti, 
ratificandogli  la  divozione  del  mio  animo,  che  ho  sempre  profes- 
sato verso  Sua  Maestà,  la  quale  avrei  conservata  fin  all'ultimo  di 
mia  vita.  Mi  permise  di  scriverla;  che  aperta  mandai,  per  Guastal- 
di in  sue  mani,  il  qual  poi  mi  disse  averla  già  stradata  per  Torino. 

Lo  pregai  ancora  che  non  avendo  di  abiti  e  camicie  se  non  que' 
che  portava  addosso,  mi  permettesse  di  scrivere  a  Ginevra  a  mon- 
sieur  Vernet,  che  mi  mandasse  quanto  mi  facesse  di  bisogno  ;  si- 
come  volentieri  acconsentendovi  io  feci,  scrivendogli  che,  non  sa- 
pendo la  volontà  del  re  [e]  dove  fossi  destinato,  tenesse  cura  delle 


CAPITOLO   DECIMOPRIMO  337 

mie  robe,  ed  intanto  mi  mandasse  il  più  necessario,  eh' e'  stimasse 
per  casa,  o  per  viaggio.  E  la  lettera,  aperta,  si  diede  al  Guastaldi, 
che  da'  riscontri  che  poi  n'ebbi  capitò  in  Ginevra,  donde  mi  furon 
mandati  alcuni  abiti  e  camicie.  Vennero  finalmente  da  Torino  le 
risposte  di  ciò  che  il  conte  Picon,  generale,  dovea  fare;  al  quale  il 
re  scrisse  che  il  mio  arresto  non  era  per  alcun  delitto,  ma  per 
ragion  politica  e  di  Stato  ;  onde  che  mi  avesse  fatto  trasportare  nel 
castello  di  Miolans,  dove  a  quel  governadore  comandante  si  eran 
dati  gl'ordini  di  tenermi  in  arresto  in  libera  custodia,  fin  a  tanto 
che  non  disponesse  altramente,  ed  al  quale  si  eran  dati  i  dovuti 
provvedimenti  pel  mio  sostentamento  e  del  mio  giovane,  che  Sua 
Maestà  non  intendeva  che  si  fosse  da  me  allontanato,  per  mia  as- 
sistenza e  compagnia. 

Doppo  undici  giorni  di  dimora  a  Champéry  fummo  condotti,  a' 
7  d'aprile,  nel  castello  di  Miolans,  lontano  da  Champéry  dodici 
miglia,  e  sei  da  Momigliano,1  posto  alla  costa  d'un  monte  che  ha 
l'aspetto  a  mezzogiorno,  e  sotto  un'altissima  rocca  che  lo  copre  da 
tramontana.  <A  piedi  ha  una  larghissima  pianura,  per  la  quale 
passa  il  fiume  Isara;2  ed  in  questa  pianura  immagino  che  seguisse 
quella  famosa  battaglia,  che  Fabio  Massimo  console  diede  a  gli 
Allobrogi  ed  Arverni,  secondo  che  Plinio  lib.  Nat.  hist.  cap.  50 
descrivendo  il  luogo  del  campo  presso  il  fiume  Isara  rapporta; 
il  quale  aggiunge  che  nel  tempo  istesso  che  Fabio  vinse  la  batta- 
glia, data  nel  mese  di  agosto,  si  liberò  nell'arie  della  febre  quar- 
tana,3 che  lungo  tempo  avealo  tenuto  mal  sano  e  languido.4 

Quivi  giunti  accompagnati  dall'aiutante  di  campo  Guastaldi  sen- 
za turba,  con  quattro  soli  soldati,  fummo  ricevuti  cortesemente 
dal  comandante,  il  cavalier  Le  Blanc,  savoiardo  di  non  men  probi 
che  gentili  costumi,  il  quale  ci  assegnò  una  stanza  che  ci  disse 
esser  la  migliore  del  castello;  sicome  poi  sperimentai,  avendo  una 
finestra  in  oriente  e  posta  in  sito  comodo,  non  meno  per  rintuzzare 
la  forza  de'  venti  che  i  rigori  del  freddo;  e  non  mancava  ogni 
giorno  visitarci,  ed  il  doppo  pranzo,  verso  la  sera,  di  condurci  per 
un'ora  a  spasseggiare  per  la  piazza  del  castello,  in  luogo  aperto, 
donde  si  vedevano  i  monti  che  circondavano  il  castello,  e  la  bassa 

1.  Momigliano:  Montméhan.  Una  descrizione  del  castello  è  nelle  Memorie 
ài  Giovanni,  in  Giannonianat  pp.  192-3.  2.  Isara:  Isère.  3.  quella  .  . . 
quartana:  cfr.  Plinio,  Nat.  hist.,  vii,  50, 166.  4.  Questo  passo,  poi  cancel- 
lato, è  stato  ripreso  dall'autore  più  oltre,  con  alcune  varianti.  Cfr.  qui,  a 


338  VITA    DI   PIETRO    GIANNONE 

e  distesa  pianura  che  gli  sta  a'  piedi  e  gli  framezza;  e  nulla  mancava 
alla  nostra  tavola  di  quanto  produce  quel  terreno  e  può  sommini- 
strare il  villaggio  di  San  Pietro,  che  è  vicino. 

Il  luogo  deserto,  il  sito  del  castello,  posto  sopra  una  gran  rupe, 
e  la  solitudine,  certamente  che  ne'  princìpi  ci  diede  orrore  e  sbi- 
gottimento. Ma  compensava  il  tutto  la  gentilezza  del  comandante  : 
il  tenerci  liberi,  non  sotto  chiave,  il  condurci  ogni  dì  festivo,  la 
mattina,  nella  chiesa  del  castello  ad  udir  messa,  ed  il  giorno  alle 
esposizioni  del  Sacramento  dell'Altare,  ed  il  somministrarci  quanto 
ci  faceva  di  bisogno,  faceami  parere  men  noioso  l'arresto.  Ma  sopra 
tutto  mi  dava  conforto  il  riflettere,  che  era  stato  ivi  condotto  per 
ordine  d'un  principe,  al  quale  io  non  avea  offeso  in  cosa  alcuna; 
e  volendo  che  non  si  allontanasse  da  me  il  mio  innocente  figliuolo, 
era  da  sperare  che,  compassionando  il  mio  stato  infelice,  avrebbe 
dato  presto  fine  a'  miei  travagli. 

Pochi  giorni  dapoi  del  mio  arrivo  a  Miolans  ricevei  dal  general 
conte  Picon  una  gentilissima  lettera  de'  1 1  d'aprile,  accompagnan- 
dola con  un  dono  di  cafè,  zucchero  e  tabacco  per  nostro  uso,  nella 
quale,  dandomi  avviso  di  mandarmi  que'  abiti  e  camicie  che  avea 
cercati  a  monsieur  Vernet,  m'imponeva  che  le  mie  robe,  scritture 
e  quanto  avea  lasciato  a  Ginevra  le  facessi  pervenire  a  Champéry, 
in  sue  mani,  che  avrebbe  egli  pensato  di  mandarmele.1  Compresi 
da  ciò,  che  non  si  voleva  che  io  più  pensassi  al  ritorno  di  Ginevra; 
onde  scrissi  a  monsieur  Vernet  che  que'  miei  pochi  libri,  scritture 
ed  il  forziere,  con  altri  miei  abiti  che  avea  lasciati,  gl'inviasse  a 
Champéry;  e  sopra  tutto,  aspettando  io  da  Milano  i  manuscritti 
che  dovean  servire  per  la  stampa  del  quinto  tomo,  che  facesse  di- 
ligenza se  fosser  capitati,  e  gli  mandasse  pure  a  Champéry,  al 
governadore;  e  che  mi  scusasse  presso  Barrillot,  se  non  poteva 
adempire  a  quanto  erasi  fra  noi  convenuto,  vedendo  la  dura  neces- 
sità che  me  lo  proibiva;  sicome  lo  stesso  dicesse  al  Pellissari,  che 
intorno  alla  traduzione  francese  pensasse  ad  altri,  poiché  io  non 
poteva  più  pensarci,  disciogliendo  con  ambidue  ogni  trattato. 

Acchiusi  la  lettera  aperta  nella  risposta  che  feci  al  generale,  ren- 
dendole molte  grazie  della  cortesia  usatami;  e  che,  sicome  avea 
ubbidito  a  quanto  mi  avea  imposto,  così  era  per  eseguire  in  tutto 
ciò  che  fosse  per  ordinarmi,  pregandolo  della  sua  protezione  presso 

i.  ricevei. .  .mandarmele',  sulla  sorte  delle  carte  giannoniane  si  veda  S. 
Bertelli,  U incartamento  originale,  cit.,  pp.  23  sgg. 


CAPITOLO   DECIMOPRIMO  339 

la  Maestà  del  re,  non  avendo  io  nella  corte  di  Torino  persona  che 
potesse  per  me  intercedere;  e  gli  acchiusi  parimenti  una  lettera 
scritta  per  Milano  al  secretano  Canary,  colla  quale  lo  pregava  d'im- 
petrare dalla  principessa  Trivulzi  qualche  buon  ufficio  per  me  in 
quella  Corte,  sapendo  quanto  fossero  per  riuscire  efficaci  e  frut- 
tuose le  sue  interposizioni.  Di  questa  ed  altre  mie  lettere  scritte  a 
Milano1  non  ebbi  alcun  riscontro  ;  e  avendomi  detto  il  comandante 
Le  Blanc  che  non  occorreva  scriver  più  a  Milano,  non  potendo 
ricever  egli  altre  mie  lettere,  se  non  quelle  che  scriveva  a  Champéry 
ed  a  Ginevra,  compresi  che  non  si  mandarono  ;  né  potei  saper  mai 
se  i  manuscritti  che  aspettavo  da  Milano  si  fosser  mandati  a  Gi- 
nevra, ovvero  fosser  rimasti  ivi,  o  capitati  in  altre  mani. 

L'aiutante  di  campo  Guastaldi  mi  scrisse  doppo  che  M.  Vernet 
avea  mandato  a  Chamberì,  al  governadore,  il  mio  forziere  con 
Paltre  mie  robe,  scritture  e  libri;  ma,  secondo  la  nota  che  mi  man- 
dò, mancavano  più  cose:  riscrissi  che  vedesse  di  ricuperare  il 
rimanente,  sicome  m'avvisò  d'aver  fatto  ;  ma  ritenendo  in  suo  po- 
tere ogni  cosa,  non  vedeva  che  ne  mandasse  alcuna.  Me  ne  dolsi 
con  altra  mia  lettera  scritta  al  governadore,  il  quale  fecemi  sentire 
da  monsieur  Le  Blanc,  che  essendo  partito  per  Torino  il  Guastal- 
di, che  teneva  in  suo  potere  il  tutto,  non  poteva  riceverlo  se  non 
al  di  lui  ritorno.  Aspettai  fin  che  non  tornasse,  e  finalmente  fummi 
mandato  il  mio  forziere  con  gli  abiti  ed  alcune  robe,  scrivendomi 
il  Guastaldi  che  il  rimanente,  come  a  me  non  necessario,  era  rima- 
so  in  suo  potere,  e  che  sperava  fra  breve,  riacquistando  la  mia  li- 
bertà, di  consignarlo  egli  nelle  mie  proprie  mani. 

Così  come  a  naufrago  vidi  sparpagliate  di  qua  e  di  là  quelle 
poche  reliquie  de'  miei  stracci,  in  gran  parte  rimase  a  Venezia, 
altre  forse  in  Milano  o  pur  disperse,  altre  in  Ginevra,  ed  altre  a 
Champerì.  Niente  mi  curava  di  non  avermi  mandati  gli  avanzi 
delle  mie  scritture,  né  delle  altre  robe;  ma  affliggevami  di  non  avere 
que'  pochi  libretti,  i  quali,  nel  disperato  ozio  nel  quale  era  ed  in 
quella  solitudine,  mi  avrebbero  alleggerita  la  noia  ed  il  tedio.  Pure 
io,  ciò  prevedendo,  nel  partir  da  Champerì,  nel  miglior  modo  che 
potei  mi  provvidi  d'un  Livio,  comprato  ivi  da  un  libraro,  che  fu 
pur  miracolo  di  trovarlo,  ancorché  l'edizione  fosse  cattiva  e  scor- 
retta. Non  posso  negare  che  fummi  di  gran  sollievo,  consumando 

x.  Di' .  .  .  Milano:  cfr.  V.  Cian,  V  agonia  d'un  grande  italiano)  in  a  Nuova 
Antologia»,  lxxxvii  (1903),  pp.  6-7  dell'estratto. 


340  VITA   DI   PIETRO    GIANNONE 

più  ore  del  giorno  in  leggerlo  e  rileggerlo,  e  così  rendere  meno 
noiosa  la  mia  solitudine. 

Avendo  scorto  dalle  lettere  del  general  governadore  e  del  Gua- 
staldi,  che  il  volere  del  re  fosse  di  non  pensar  più  a  Ginevra,  né  a 
stampe  o  ristampe,  ed  avendo  eseguito  quanto  m'era  stato  imposto, 
stimai  nel  mese  di  maggio  comporre  un  pieno  memoriale  a  Sua 
Maestà,1  nel  quale  esponendo  la  serie  de'  miei  successi  da  che 
partii  da  Vienna,  e  la  dura  necessità  che  mi  avea  costretto  di  passare 
a  Ginevra  non  già  per  cambiar  religione,  ma  per  aver  ivi  trovato 
onesto  modo  da  vivere;  pregava  la  clemenza  del  re  ch'essendo 
nelle  sue  mani  e  disposto  di  adempire  a  quanto  m'avrebbe  co- 
mandato, non  volesse  permettere  che  io  lungamente  dovessi  sof- 
frire l'angustie  nelle  quali  vedeami  posto,  non  avendo  bisogno  di 
custodia,  quando  io,  non  pur  liberamente,  ma  con  piacere,  avea 
protestato  e  le  protestava  di  voler  sacrificare  il  rimanente  di  mia  vi- 
ta in  suo  real  servizio,  potendo  disporre  di  me  come  le  piaceva;  e 
sopra  tutto  le  poneva  innanzi  gli  occhi  ch'essendo  un  povero  fo- 
rastiere  abbandonato  da  tutti,  non  aspettasse  che  per  me  alcuno 
intercedesse  presso  la  Maestà  Sua;  sicché,  ragionevolmente,  teme- 
va che  non  fossi  posto  in  dimenticanza.  Avrei  sì  bene  dalla  corte 
di  Roma  avuti  molti  accusatori,  ma  mi  facesse  la  grazia  di  manife- 
stare le  loro  accuse,  con  fari' esaminare;  perché  avrebbe  scorto  es- 
serli io  venuto  in  odio  ed  abbominazione,  non  già  perché  io  avessi 
sentimenti  contrari  alla  nostra  Santa  Fede,  né  perché  discordassi 
ne'  punti  principali  della  religione  cattolica,  ma  unicamente  perché: 
non  volli  con  vile  adulazione  adottare  per  vere  le  false  massime 
della  papale  monarchia  sopra  tutti  i  principi  della  terra,  e  per  avere 
manifestate  le  sorprese  fatte  sopra  la  potestà  de'  medesimi,  e  poste 
in  più  chiara  luce  le  regali  preminenze  ed  alti,  sovrani  ed  indipen- 
denti diritti,  che  Iddio  ha  lor  conceduti  sopra  i  loro  Stati  e  domìni. 
Che  ciò  e  non  altro  mi  avea  cagionato  la  di  loro  ira  ed  indignazione; 
onde  lo  pregava,  come  a  principe  savio  e  giusto,  a  non  dar  facile 
credenza  alle  imputazioni  addossatemi,  farle  esaminare  da  uomini 
dotti  e  spassionati,  e  dar  luogo  che  io  potessi  difender  la  mia  inno- 
cenza contro  le  insidiose  armi  d'una  livida  ed  animosa  maladicenza. 

Fu  mandato  questo  memoriale  al  governadore  di  Champéry,  il 

i.  un  pieno  . . .  Maestà:  steso  in  data  4  maggio  1736,  è  stato  pubblicato 
dal  Pierantoni  in  appendice  alla  propria  edizione  dell'Autobiografia,  pp. 
457-66,  con  la  data  errata.  Cfr.  in  Giannoniana,  p.  483. 


CAPITOLO   DECIMOPRIMO  341 

quale  mi  fece  assicurare  da  monsieur  Le  Blanc  eh' erasi  già  tra- 
smesso al  re  nella  corte  di  Torino.  Aspettai  lungo  tempo  e  non 
vidi  essersi  data  provvidenza  alcuna;  e  intanto  si  prolungava  il  mio 
penoso  arresto.  M.  Le  Blanc  mi  confortava,  con  dirmi  ch'essendo 
la  corte  di  Torino  occupata  in  altri  più  importanti  e  gravi  affari, 
trattandosi  della  pace  fra  l'imperadore  ed  i  principi  collegati  nel- 
l'ultima guerra1  mossa  contra  il  medesimo,  non  era  maraviglia  che 
non  si  pensasse  alle  altre  cose  minute. 

Passai  con  questa  lusinga  il  meglio  che  si  potè  i  tre  mesi  dell'està; 
e  per  render  men  noiosa  la  mia  dimora  e  non  marcire  in  un  sì 
penoso  ozio,  cominciai  a  scrivere  queste  memorie,  le  quali  se  non 
sono  compite,  è  perché  non  è  ancor  finita  la  mia  vita,  non  sapendo 
se  dovrò  qui  finirla,  ovvero  il  rimanente  non  l'avesse  il  mio  fiero 
destino  serbato  a  più  duri  e  crudeli  strazi. 

L'està  di  quest'anno  1736,  passata  in  mezzo  a'  monti  della  Sa- 
voia, mi  mostrò  più  cose  altrove  non  osservate.  Vidi  che  in  ciascun 
mese,  fosse  stato  di  giugno,  luglio  o  d'agosto,  sopra  la  cima  di 
que'  monti,  quando  nel  piano  pioveva,  cadeva  ivi  nuova  neve; 
ne'  dì  piovosi,  verso  la  sera,  vedersi  l'iride  a'  piedi  de'  medesimi 
spezzata,  e  formare  ora  una  figura  di  colonna  curva,  ora  altra  irre- 
golare, secondo  che  i  raggi  del  sole  percotevano  lo  spruzzo  delle 
spezzate  nebbie;  alle  volte  il  suo  arco  cominciava  da  pie  d'un 
monte  e  si  terminava  in  un  altro,  senza  passare  la  sommità  de' 
medesimi;  sicché  vedeasi  dal  castello  l'arco  tutto  fra  la  pianura  e  i 
monti,  senza  avanzarsi  sopra  di  quelli,  nell'alto  cielo.  Nel  calor 
più  forte  o  nelle  dirotte  piogge  i  gran  massi  di  neve  formati  so- 
pra quelle  alte  rocche,  nel  precipitare  in  giù,  formavano  un  fra- 
gore sì  spaventoso,  che  da  lontano  sembravano  colpi  di  grossi 
cannoni,  spiantando  e  portando  seco  ciò  che  si  fa  loro  incontro  di 
alberi,  grosse  rupi,  tetti  e  capanne.  E  nella  primavera  ed  autunno 
i  venti  soffiano  così  impetuosi  e  forti,  che  sembravami  dovesse 
rovinare  non  pure  il  castello,  ma  tutta  la  macchina  del  mondo.  E 
pure  tali  spettacoli,  fragori  e  procelle  mi  servivano  per  sollevare  in 
parte  il  mio  animo  dal  lungo  e  penoso  tedio,  e  volgerlo  da'  miei 
pensieri  tetri  e  funesti  a  nuovi  oggetti,  ancorché  pieni  di  orrore  e 
di  spavento. 

<  Spesso  mi  riduceva  in  mente  che  avendo  quel  monte,  alla  costa 
del  quale  fu  fabbricato  il  castello,  a'  suoi  piedi  una  larghissima 

1.  ultima  guerra:  la  guerra  per  la  successione  al  trono  polacco. 


342  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

pianura,  che  si  distende  fra  que'  monti  per  più  miglia,  per  mezzo 
della  quale  passa  il  fiume  Isara,  questo  campo  fosse  quello  dove 
accadde  quella  famosa  e  sanguinolenta  battaglia,  che  Quinto  Fabio 
Massimo  console  diede  agli  Allobrogi  ed  Averni,  della  quale  Plinio 
il  Vecchio,  descrivendo  il  luogo  del  campo  presso  Isara,  fa  memo- 
ria, non  essendovi  fra  que'  monti  pianura  sì  ampia  che  questa,  la 
quale  fosse  stata  capace  di  racchiudere  eserciti  sì  numerosi.  Plinio, 
nel  capitolo  50  del  libro  vìi  della  sua  Istoria  di  natura,  commemora 
questa  battaglia,  per  occasione  che  Fabio  nel  calore  di  quella,  su 
'1  campo,  si  liberò  d'una  febre  quartana  della  quale  lungo  tempo 
era  stato  travagliato.  Egli  qui  si  liberò  dalla  febre;  ma  io  non  già 
dalla  mia  prigionia>. 

Nell'autunno,  vedendo  che  si  prolungava  il  mio  arresto  e  l'in- 
verno si  avvicinava,  mandai  al  governadore  di  Champéry  altra  mia 
memoria  per  Sua  Maestà,  nella  quale  instantemente  la  pregava  di 
non  permettere  che  io  dovessi  fra  quelle  orride  montagne  passarci 
l'inverno,  con  evidente  pericolo  per  la  mia  gracile  complessione  ed 
avanzata  età,  di  lasciarci  la  vita;  ma  quando  pure  a  Sua  Maestà 
così  piacesse,  almanco  ordinasse  che  mi  fossero  mandati  que'  po- 
chi miei  libri  rimasi  a  Champéry,  e  provvedesse  di  farmene  man- 
dar alcuni  altri,  affinché  potessi  sostener  la  dimora  con  minor  tedio, 
in  tanta  solitudine.  Ed  aggionta  a  questa  memoria,  mandai  pure  al 
governadore  la  piccola  nota  de'  libri  che  cercava,  pregandolo  ad 
intercedere  per  me  presso  il  re,  almanco,  non  potendo  altro,  che 
in  tal  maniera  sollevasse  l'animo  mio  angustiato  ed  oppresso.  Non 
passarono  tre  o  quattro  settimane,  che  mi  furono  mandati  da 
Champéry  i  libri,  donde  compresi  che  io  dovea  in  quel  castello  pas- 
sarci tutto  l'inverno;  ma  non  tutti.  E  cercando  io  fra  gli  altri 
VIstoria  naturale  di  Plinio,  in  vece  di  quella  mi  mandarono  le 
Epistole  ed  il  Panegirico  dell'altro  Plinio,1  forse,  o  perché  lo  cre- 
dettero lo  stesso,  ovvero  che  a  Champéry  non  si  trovasse  altro. 

Con  tal  soccorso  mi  disposi  a  soffrire  pazientemente  quivi  quel- 
Torrido  inverno,  fra  le  angustie  d'una  stanza;  poiché,  toltone  d'an- 
dare i  dì  festivi  ad  ascoltar  la  messa,  non  si  poteva  fuori  dar  un 
passo,  senza  intirizzire  per  l'estremo  freddo.  Ed  ancorché  io  fossi 
avvezzo  a'  freddi  di  Germania,  oltre  che  ivi  abbastanza  si  è  oc- 
corso coll'uso  delle  stufe,  mi  riuscivano  però  più  sensibili  e  molesti 

1.  le  Epistole  . .  .  Plinio:  cioè  le  Epistolae  e  il  Panegyricus  Traiano  impera- 
tori di  Plinio  il  Giovane. 


CAPITOLO   DECIMOPRIMO  343 

questi  di  Savoia,  come  più  acuti  e  penetranti;  a*  quali  mal  si 
rintuzzava  col  semplice  camino,  il  quale  non  riscaldava  tutta  la 
stanza;  sicché  non  bisognava  allontanarsi  un  passo  dal  fuoco,  per 
non  sentirne  i  rigori. 

Due  volte,  in  gennaro  del  nuovo  anno  1737  e  ne'  princìpi  di 
marzo,  m'infermai  di  febre  lenta,  nata  da  ostruzione  di  viscere; 
ma  coli' assistenza  d'un  perito  medico  del  vicino  villaggio  di  San 
Pietro,  il  quale,  stipendiato  dal  re,  avea  la  cura  del  castello,  con 
leggiere  purghe  ed  esatta  dieta  me  ne  liberai. 

[*737l 

È  già  scorso  un  anno  e  siamo  entrati  nel  secondo,  che  in  questa 
solitudine  soffro  la  pena  ed  il  tedio  d'una  vita  misera  e  noiosa; 
e  come  fuori  del  mondo,  da  che  ci  fui  menato  niente  so  di  ciò  che 
sia  avvenuto  in  quello  o  di  pace,  o  di  guerra,  o  di  altro,  e  molto 
meno  de'  miei  congionti  ed  amici;  sicché  sembrami  il  mio  vivere 
un'immagine  di  morte.  Né  so  quel  che  fia  di  noi;  ma  temo  e  pa- 
vento che,  sembrando  alla  corte  di  Roma  troppo  lungo  l'aspettare 
la  morte  d'un  vecchio,  qual  io  mi  sono,  non  procuri  co'  suoi 
accorti  artifici  ed  ingegni  di  far  prolungare  qui  il  mio  incolato,1 
in  sì  misero  ed  infelice  stato,  per  affrettarla,  quanto  fia  possibile, 
almanco  con  incomodi,  disaggi  e  patimenti,  a'  quali  la  mia  grave 
età  d'uopo  è  che,  finalmente,  soccomba. 

A  questo  fine,  se  mai  venissi  io  qui  a  mancare,  avendomi  ella 
esposto  come  bersaglio  a  gli  occhi  di  tutti,  e  resomi  noto  assai  più 
per  l'incessanti  e  fiere  sue  persecuzioni,  che  per  le  mie  opere  di- 
volgate  alle  stampe,  affinché  tutti  siano  informati  de'  miei  avveni- 
menti e  sappiano  discernere  il  vero  da  falsi  rapporti,  de'  quali 
non  dubbito  che  avrà  ingombrate  le  menti  de'  più  semplici,  ho 
voluto,  dandomene  opportunità  quest'ozio  e  questa  solitudine,  dar 
al  mondo  una  verace  e  fedel  narrazione  della  mia  vita  e  quanto  nel 
corso  della  medesima  siami  avvenuto. 

Forse  avverrà  che  alcuni,  mossi  da  spirito  di  pietà  e  di  compas- 
sione sospireranno,  morto  chi,  vivo,  disprezzarono  o  non  curarono. 
Forse  dal  mio  essempio  si  accorgeranno  non  avere  la  corte  di 
Roma  altra  difesa  o  schermo,  per  mantenere  gl'ingiusti  acquisti 
fatti  sopra  la  potestà  e  giurisdizione  de'  principi,  se  non  quella  di 

1.  incolato:  dimora  (latinismo). 


344  VITA  DI   PIETRO    GIANNONE 

perseguitare  gli  autori,  non  già  di  rispondere  alle  di  loro  opere, 
nelle  quali  con  manifeste  pruove  sono  dimostrate  e  poste  in  chiara 
luce  le  tante  sorprese  ed  usurpazioni.  Ma  ciò  che  forse  sembrerà  lo- 
ro più  strano,  e  portentoso,  stupiranno  come,  per  abbattergli  e  rovi- 
nargli, cerchi  e  trovi  aiuto  da'  principi  stessi,  «cut  haberet  instru- 
menta servitutis  et  reges)»:1  sicché  ora  più  non  dubiteranno  essersi 
san  Girolamo  apposto  al  vero,  quando  scrisse  che  il  vangelista 
Giovanni,  nell'Apocalisse,  per  la  grande  città  da  lui  chiamata  Ba- 
bilonia intese  di  parlar  di  Roma  corrotta;2  e  di  lei  pur  intese, 
quando  ci  descrisse  quella  meretrice  ornata  di  porpora,  gemme  ed 
oro,  la  quale,  prostituita  sovra  sette  colli,  fu  veduta  sfacciatamente 
puttaneggiar  co'  reggi;3  sicome  Dante  ce  ne  fece  pur  accorti.4 

A  me,  che  non  per  odio  altrui  o  per  disprezzo,  ma  unicamente 
per  amor  della  verità  e  per  investigarla  fra  Poscurità  de'  più  incolti 
e  tenebrosi  secoli  ho  sofferte  tante  fatiche  e  travagli,  se  accaderà 
fra  queste  alpestri  rupi  lasciar  il  mio  corpo  esanime,  pregherò  Id- 
dio, eh' è  la  Verità  istessa,  che  accolga  il  mio  spirito  in  pace:  e 
sicome  per  lei  ho  sofferti  tanti  strazi  e  martìri,  giusto  è  che  final- 
mente diale  tranquillità  e  riposo. 

Pregherò  pure  i  paesani  e  viandanti  che  traversando  per  questi 
monti,  e  dovendo,  nel  passar  per  la  Savoia  in  Francia,  calcar  la 
strada  donde  non  molto  lontano  vedesi  il  castello  di  Miolans,  volti 
i  loro  pietosi  occhi  al  gran  sasso  sotto  il  quale  giaceranno  sepolte 
le  mie  fredde  ossa,  mossi  da  spirito  di  pietà,  in  passando  lor  dica- 
no :  «  Ossa  aride  ed  asciutte,  abbiate  quella  pace  e  riposo  che  vive 
non  poteste  ottener  giammai». 

<Di  nuove  pene  mi  convien  far  versi>.s 

*737 

15  settembre.  -  Da  Miolans  giunsi  alle  carceri  della  Porta  del  Po. 
20  settembre  1737.  -  A  Torino.6 

1.  «ut . .  .  reges»:  «avendo  gli  stessi  re  per  strumenti  di  servitù».  2.  san 
Girolamo  .  . .  corrotta:  cfr.  Lìber  de  virìs  illustrìbus,  in  Migne,  P.  L.,  xxui, 
col.  654  (Gerolamo  cita  non  V Apocalisse,  ma  I  Petr.,  5,13).  3.  quella  me- 
retrice . .  .  reggi:  cfr.  Apoc,  17, 1-4.  4.  Dante  .  .  .  accorti:  cfr.  In/.,  xix,  108. 
5.  Cfr.  Dante,  In/.,  xx,  1  :  «Di  nova  pena  mi  conven  far  versi».  6.  A  To- 
rino: in  una  lettera  da  Ceva,  del  6  luglio  1738,  edita  in  P.  Occella,  Pietro 
Giannone  negli  ultimi  dodici  anni,  cit.,  p.  689,  in  nota,  il  Giannone  scrive- 
va di  andar  riprendendosi,  nella  nuova  prigione,  «dalli  patimenti  che  ho 
sofferti  nelle  carceri  di  Porta  del  Po  dove,  se  io  fossi  più  dimorato,  ci  avrei 
sicuramente  perduta  la  vita  ». 


CAPITOLO   DECIMOPRIMO  345 

1738 

27  gennaio  1738.  -  Il  padre  Prever.1 

15  marzo.  -  Precedenti  informo3  del  suddetto  padre  e  lettera 
del  re  a  Roma,  fu  spedita  dalla  Sacra  Congregazione  del  Santo 
Ufficio  commissione  al  padre  maestro  fra  Giovanni- Alberto  Alfe- 
rio,3  vicario  generale  del  Santo  Ufficio  di  Torino,  di  ricevere  la  mia 
retrattazione,  con  istruzioni  per  sé  ed  il  padre  Prever,  mio  con- 
fessore e  direttore  di  mia  coscienza;  il  quale,  portatosi  in  dette 
carceri  col  detto  padre,  a'  4  aprile  riceve  la  mia  deposizione,  ed  in 
conseguenza  la  retrattazione,  secondo  l'istruzione  mandata  sopra  i 
punti  in  essa  prescritti.  In  esecuzione  di  detta  commissione  funa- 
mi data  assoluzione  di  tutte  le  censure,  interdetti,  etc,  e  data  li- 
cenza al  detto  padre  Prever  di  ricevere  la  mia  confessione,  ed  as- 
solvermi di  tutti  i  peccati  e  casi  riserbati  in  Roma  alla  Sacra  Con- 
gregazione del  Santo  Ufficio.4 

Il  libretto  Jani  Perontini  etc.5  fu  condennato  in  Roma  a'  17  ago- 
sto 1735,  come  continente  «  propositiones  respective  falsas,  con- 
tumeliosas,  scandalosas,  simplicium  seductivas,  iurisdictioni  Ec- 
clesiae  iniuriosas,  temerarias,  erroneas  et  haeresi  proximas».6 

Questo  libretto  diede  motivo  alla  Sacra  Congregazione  del  Santo 
Ufficio  di  scrivere  all'Inquisitore  di  Venezia  di  stargli  sopra;  ma 
non  potè  conseguir  niente,  perché  andava  molto  riguardoso,  per 
non  perder  quell'asilo  e  per  poter  conseguire  nell'Università  di 
Padoa  una  lettura,  sicome  significò  quell'Inquisitore. 

Poco  dopo  si  seppe  che  in  Venezia,  di  notte  tempo,  era  stato 
arrestato  e  posto  in  una  peota,  affine  di  sbarcarlo  fuori  di  Stato. 
L'avviso,  però,  giunse  troppo  tardi,  non  ostanti  le  precedenti  dili- 
genze usate  dalla  Sacra  Congregazione  in  ordinare  alli  Inquisitori 
di  Ferrara,  Genova,  Firenze,  Pisa  e  della  Lombardia,  perché  doves- 

1.  Giovan  Battista  Prever  (1 684-1751),  canonico  di  Giaveno.  2.  infor- 
mo :  informazione.  3 .  Alferio  :  Giovanni  Alberto  Alfieri  da  Magliano  (mor- 
to nel  1742).  4.  fu  spedita . . .  Ufficio  :  sulle  trattative  intercorse  tra  la  Curia 
e  la  Corte  sabauda  per  far  abiurare  il  Giannone,  si  veda  P.  Occella,  Pietro 
Giamtone  negli  ultimi  dodici  anni,  cit.,  pp.  680  sgg.  Per  la  storia  della  dif- 
fusione del  testo  dell'abiura,  sino  alla  sua  stampa,  si  veda  S.  Bertelli,  L'in- 
cartamento originale,  cit.,  pp.  31-6.  5.  Il  libretto  . . .  etc.  :  il  De  Consiliis,  ac 
Dicasteriis,  quae  in  Urbe  Vindobona  habentur,  sul  quale  vedi  la  nota  iap. 
184.  6.  a  propositiones  . . .  proximas  »  :  «proposizioni  rispettivamente  false, 
calunniose,  scandalose,  corruttrici  dei  semplici,  ingiuriose  verso  la  giuri- 
sdizione della  Chiesa,  temerarie,  erronee  e  prossime  all'eresia  ». 


346  VITA   DI    PIETRO    GIANNONE 

sero  arrestarlo  ;  poiché,  giunto  l'avviso  da  Venezia,  era  già  passato 
alla  volta  di  Ginevra. 

I  manuscritti  lasciati  a  Milano  si  mandarono  dal  re  al  papa,  il 
quale,  per  mezzo  del  cardinal  Alessandro  Albani,1  li  fece  consignare 
in  Sacra  Congregazione,  con  ordine  di  ritenerli  sotto  chiave;  sicome 
dopo  mandò  gli  altri  manuscritti  che  si  ricuperarono  da  Ginevra. 

A'  5  aprile  fu  a  visitarmi  l'abate  Palazzi.2 

A'  15  giugno,  domenica,  partii  da  Torino  e  fui  condotto  nel 
castello  di  Ceva,  dove  giunsi  la  mattina  de'  17  del  suddetto  mese. 

In  novembre  caddi  infermo,  e  durò  la  grave  mia  infermità  per 
tutto  febbraio  del  1739. 

1739 

Fui  con  carità  assistito  dal  signor  cavalier  de  Magistris.3 
Liberato  che  fui  dalla  malattia,  cominciai  a  stendere  da'  mie 
cartuccie  i  Discorsi  sopra  Livio,  nel  principio  di  marzo,  e  gli  termi- 
nai al  dì  15  maggio.  E  furono  mandati  a  Torino  con  lettera  al 
signor  marchese  D'Ormea,  pregandolo  di  presentarli  al  re,  a  cui 
erano  dedicati,  li  8  giugno. 

A'  4  novembre  di  nuovo  m'infermai  dell'istessa  malattia,  non 
così  forte  come  l'anno  scorso,  e  mi  durò  due  mesi,  con  tre  altri 
mesi  di  convalescenza. 

1740 

Quest'anno,  per  gli  eccessivi  freddi  e  per  la  morte  di  papa  Cle- 
mente XII,  seguita  a'  6  febbraio,  fu  memorabile,  sicome  per  l'ele- 
zione del  nuovo  papa  Lambertini,4  seguita  li  16  agosto;  ma  assai 
più  memorabile  per  la  morte  dell'imperadore,  da  me  saputa  la 
domenica  30  ottobre,  seguita  in  Vienna  li  20  del  suddetto  mese. 

Pure  a'  princìpi  di  novembre  m'infermai,  e  durò  la  malattia  fino 
ad  aprile  del  seguente  anno. 

1741S 

1.  Alessandro  Albani  (1692-1779),  nipote  di  Clemente  XI,  era  il  cardinale 
protettore  del  re  di  Sardegna  in  Curia.  Sul  suo  ruolo  nella  vicenda  gianno- 
niana  cfr.  S.  Bertelli,  L'incartamento  originale,  cit.,  pp.  23  sgg.  2.  l'abate 
Palazzi:  l'abate  Palazzi  di  Selve.  3.  Il  conte  Giuseppe  Amedeo  de  Magi- 
stris, colonnello  comandante  del  Forte  di  Ceva  dal  1726  al  1739.  4.  Pro- 
spero Lambertini  (1675-1758),  salito  al  soglio  nel  1740  con  il  nome  di  Be- 
nedetto XIV.     5.  17 41-.  così  termina  il  manoscritto. 


ISTORIA  CIVILE  DEL  REGNO  DI  NAPOLI 


NOTA  INTRODUTTIVA 

Quando  Giusto  Fontanini  scriveva  a  Domenico  Passionei,  avvisan- 
dolo che  «  a  Napoli  un  tal  Giannone  con  la  direzione  di  altri  settari  » 
aveva  stampato  una  storia  del  Regno  «piena  di  orrendissime  furfan- 
terie contro  il  papato  »,r  il  nome  dello  storico  era  del  tutto  sconosciuto, 
la  sua  opera  cominciava  appena  a  circolare  ed  era  forse  già  celebre 
non  tanto  per  il  contenuto,  ma  per  la  vicenda  dell'autore,  costretto  a 
scappare  da  Napoli  appena  quindici  giorni  prima,  a  cercar  rifugio  a 
Vienna.  L'arcivescovo  di  Andra  quell'opera  non  l'aveva  mai  aperta; 
ne  conosceva  degli  stralci  dal  primo  e  dal  secondo  volume,  che  il 
bibliotecario  del  cardinale,  Renato  Imperiali,  gli  aveva  letto  giorni 
prima.  Eppure  egli  era  già  al  corrente  di  come  V Istoria  civile  fosse 
stata  compiuta  sotto  «la  direzione  di  altri  settari»,  non  fosse  insom- 
ma parto  d'un  singolo  autore,  come  appariva  dal  frontespizio  suo. 
Questa  afTermazione  può  ritrovarsi  nella  polemica  risposta  del  ge- 
suita Giuseppe  Sanfelice,  laddove  questi  scrive  che  l'opera  era  nata 
«coll'aiuto  ed  industria  di  altri  eruditi,  e  riguardevoli  letterati»:2  do- 
ve, si  noti,  l'avviso  non  ha  ancora  il  valore  di  accusa  dispregiativa, 
ma  solo  di  constatazione  d'un  fatto.  Ben  altrimenti  questa  notizia 
sarebbe  stata  sfruttata  nel  libello  del  Sanfelice,  se  questi  ne  avesse 
compreso  l'insito  valore  denigratorio.  Per  lui,  invece,  non  era  che 
un  puro  dato  di  fatto,  utile  soltanto  a  coinvolgere  nell'accusa  di 
ateismo  l'intero  gruppo  d'intellettuali  napoletani  che  attorno  a  Gae- 
tano Argento  si  era  riunito. 

Saranno  per  i  primi  Bernardo  Tanucci  e  Pietro  Metastasio  ad  usare 
questa  notizia  nel  senso  di  svilire  l'impegno  giannoniano.  Il  Tanucci, 
dicendo  ad  un  suo  ignoto  corrispondente:  «Non  vi  faccia  specie 
Giannone.  Egli  all'opera  forense  contribuì  con  pochi  materiali  fo- 
rensi e  la  sfacciataggine,  il  resto  fu  di  Capasso,  di  Cirillo,  d'Aloisio, 
gente  di  cattedra  che,  come  sapete,  è  inquieta  in  tutte  le  parti  del 
mondo  »  ;3  il  Metastasio  scrivendo  al  grecista  napoletano  Saverio  Mat- 
tei  nell'ottobre  del  1775,  sullo  stesso  tono  del  Tanucci,  aggiungendo 
di  suo  i  nomi  dell'Argento  e  dell'Ippolito.4 

«  Inverisimilissima  leggenda  »  la  definì  il  Nicolini,  servita  ai  deni- 
gratori del  Giannone,  a  cominciare  da  quell'arcivescovo  di  Bostra, 
Domenico  Arcaroli,  autore  d'un  Ristretto  della  vita  di  Pietro  Giannone 
(1787),  giù  giù  sino  a  Giovanni  Bonacci;  e  aspramente  ribattuta  da 

1 .  C  f r.  Bertelli,  p.  1 8 1 .  2 .  Cfr.  Riflessioni  morali  e  teologiche  sopra  V Istoria 
civile  del  regno  di  Napoli.  Esposte  alpublico  in  più  lettere  familiari  di  due  ami- 
ci da  Eusebio  Filopatro . . .,  Colonia  (ma  Roma)  1728, 1,  p.  45.  3 .  Cfr.  Gian- 
noniana,  pp.  x  e  124.  4.  Cfr.  S.  Mattei,  Memorie  per  servire  alla  vita  del 
Metastasio .  . .,  in  Colle  1785,  p.  33. 


350  ISTORIA    CIVILE   DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

tutti  i  suoi  sostenitori,  da  Leonardo  Giustiniani  sino  al  Croce  e  al 
Nicolini  stesso.1  Gli  uni  e  gli  altri  fermi  alle  sole  affermazioni  del 
Metastasio,  ignorando  non  solo  le  due  sino  ad  oggi  inedite  lettere 
del  Fontanili  e  del  Tanucci,  ma  non  rilevando  come  la  stessa  notizia 
fosse  anche  nel  libello  del  Sanf elice.  Ancorati,  tutti,  al  fatto  personale, 
alla  necessità  di  sminuire  o  sostenere  la  figura  del  Giannone,  presa 
a  sé,  avulsa  dal  contesto  storico  politico  in  cui  essa  venne  formandosi. 

Per  la  verità,  lo  stesso  Giannone,  nella  sua  autobiografia,  ci  informa 
come  l'accusa  fosse  nata  concomitante  all'apparizione  dell9 Istoria  ci- 
vile :  «  Que'  medesimi  che  prima,  per  la  mia  ritiratezza,  mi  avean  dato 
il  sopranome  di  "solitario  Piero",  ora,  dimenticati  della  mia  solitu- 
dine e  del  corso  di  tanti  anni,  cominciarono  a  dire  che  io  non  poteva 
essere  stato  solo  l'autore  di  una  sì  voluminosa  e  laboriosa  opera,  ma 
che  altri  mi  avesser  somrninistrato  aiuto  e  la  materia,  chi  nominando 
l'Argento,  chi  l'Aulisio,  e  chi  altri  miei  amici».2  In  tal  caso,  dunque, 
l'arcivescovo  di  Andra  non  avrebbe  fatto  che  raccogliere  voci  napo- 
letane, d'invidi  e  malevoli,  facendole  proprie.  Già,  ma  per  lo  storico 
anche  il  falso  ha  valore,  e  noi  che  non  ci  ergiamo  a  giudici,  né  con- 
danniamo o  assolviamo,  dobbiamo  porci  la  domanda  del  fondamento 
d'una  simile  accusa;  e  ci  sembra  che  lo  stesso  Giannone,  nelle  pagine 
precedenti  della  autobiografia,  ne  fornisca  la  spiegazione. 

L'origine  dell'Istoria  civile  è  remota,  risale  ad  almeno  vent'anni 
prima  della  sua  pubblicazione,  quando  le  discussioni  nell'Accademia 
dei  Saggi  in  casa  dell'Argento  misero  a  fuoco  la  necessità  di  affron- 
tare lo  studio  dell'età  di  mezzo,  di  quel  diritto  longobardo  «a  quo 
feudalia  iura  fluxerunt»,  come  aveva  notato  per  il  primo  Francesco 
D'Andrea  nella  sua  Disputatio  anfratres  infeuda  nostri  Regni  succe- 
dant  (1694),  definita  «stupenda»  dal  Giannone.  In  quell'opera  un 
intero  capitolo  era  stato  dedicato  al  ius  Longobardorum  e  alla  disamina 
«qua  ratione  in  nostro  regno  esset  ius  commune».  Il  D'Andrea, 
insomma,  apriva  le  menti  dei  giuristi  meridionali  sulla  disputa  tra 
lois  civiles  e  coutumes,  parlava  di  ius  naturae  et  gentium  sulle  orme  del 
van  Groot  e  di  Samuel  Pufendorf,  polemizzava  col  potere  feudale, 
intaccava  le  prerogative,  anche  giudiziarie,  del  baronaggio  nel  Re- 
gno. Non  è  il  caso  di  richiamare  il  significato  di  questa  battaglia, 
quali  forze  si  muovessero  dietro  questi  testi  giuridici,  del  D'Andrea 
come  di  Serafino  Biscardi,  del  van  Groot  come  del  Pufendorf  o  di 
Jacques  Cujas.3  Quello  che  importa  qui  notare  è  come  su  questi  testi 
si  venissero  formando  i  giovani  praticanti  dell'Argento,  quanto  la  lo- 

1.  Cfr.  Nicolini,  Scritti,  p.  94,  dove  sono  tutti  i  rinvìi  bibliografici  in  merito. 
a.  Cfr.  Vita,  qui  a  p.  81.  3.  Basti  il  rinvio  agli  studi  del  Marini  citati  in 
bibliografia,  e  a  S.  Mastellone,  Pensiero  politico  e  vita  culturale  a  Napoli 
nella  seconda  metà  del  Seicento,  Messina-Firenze  1965. 


NOTA   INTRODUTTIVA  351 

ro  ricerca  fosse  nel  campo  della  storia  del  diritto,  quanto  essi  fossero 
più  storici  che  glossatori,  più  interessati  al  de  origine  iuris  che  non 
all'analisi  di  questa  o  quella  pandetta,  di  questa  o  quella  novella.  È 
in  un  tale  ambiente  che  nasce  la  prima  idea  dell'Istoria  civile,  o  più 
precisamente  di  un'opera  che  riprendesse,  per  il  regno  di  Napoli, 
la  tematica  affrontata  da  Arthur  Duck  nel  suo  De  usu  et  authoritate 
iuris  civilis  Romanorum  in  dominiis  principimi  christianorum  (1653).  In 
questo  senso  può  ben  dirsi  che  non  si  trattasse  d'un'opera  d'un  sin- 
golo -  anche  se  materialmente  stesa  e  portata  avanti  da  uno  solo  dei 
membri  di  quell'Accademia. 

U Istoria  civile  nacque  dunque  da  una  discussione  e  da  un'elabo- 
razione collettiva;  e  fu  inizialmente  indirizzata  secondo  gli  interessi 
e  la  problematica  dell'intero  gruppo  che  attorno  all'Argento  si  riu- 
niva. La  svolta  decisiva  in  questa  impostazione,  il  contributo  origi- 
nale che  impose  il  Giannone  alla  testa  del  gruppo,  fu  lo  scarto  dalla 
discussione  sui  diritti  feudali  del  baronaggio  laico,  a  quella  sui  diritti 
della  feudalità  ecclesiastica.  Una  volta  stabilita  l'impossibilità  di  af- 
frontare la  storia  del  diritto  senza  inglobarla  nella  più  ampia  a  storia 
civile»  (secondo  l'indicazione  baconiana,  come  lo  stesso  Giannone 
riconosce),  ci  si  accorse  che  «  Il  diritto  canonico  non  dovea  più  ri- 
guardarsi come  appartenenza  del  civile  e  ravvisarlo  ne'  codici  de- 
gl'imperadori  Teodosio  e  Giustiniano,  e  nelle  Novelle  degli  altri  im- 
peradori  d'Oriente,  ed  in  Occidente  ne'  Capitolari  di  Carlo  Magno, 
di  Lodovico  e  degli  altri  successori  imperadori.  Se  n'era  già  fatto  cor- 
po a  parte,  separato  ed  independente,  che  riconosceva  altro  monarca 
e  legislatore,  anzi,  emulo  delle  leggi  e  del  diritto  civile,  cercava  ab- 
batterlo e  sottoporlo  a'  suoi  piedi».1  Facendo  una  simile  scoperta,  il 
Giannone  era  ben  conscio  delle  difficoltà  dell'impresa:  «Conosciuta 
da  ciò  e  da  altri  portentosi  cangiamenti  la  necessità  che  a'  dì  nostri 
non  poteva  scriversi  un'esatta  Istoria  civile,  se  non  si  teneva  conto 
non  men  dell'uno  che  dell'altro  stato,  mi  vidi  atterrito  dall'ardua 
impresa,  quasi  fuor  di  speranza  di  poterne  venire  a  capo  ».z  Proseguì 
tuttavia  nell'impresa,  lavorandovi  con  accanimento  anni  ed  anni. 

Si  è  detto  che  questa  fu  una  svolta:  e  una  svolta  fu  in  effetti  non 
solo  storiografica,  ma  politica.  Occorre  infatti  chiedersi  perché  mai  i 
seguaci,  gli  allievi  del  D'Andrea,  anziché  proseguire  l'attacco  alla 
feudalità  laica,  abbiano  preferito  la  lotta  giurisdizionalistica,  abbiano 
spostato  il  tiro  della  loro  polemica  contro  la  feudalità  ecclesiastica. 
Le  linee,  i  fini  generali  della  battaglia  non  mutano.  Si  tratta,  sempre, 
nell'uno  come  nell'altro  caso,  della  difesa  del  regius  fiscus,  della  difesa 
dello  stato  assoluto  contro  la  frantumazione  della  sovranità  nelle  tante 

1.  Cfr.  Vita,  qui  a  p.  57.     2.  Cfr.  Vita,  ivi. 


352  ISTORIA    CIVILE   DEL    REGNO    DI    NAPOLI 

isole  baronali,  vescovili  ed  arcivescovili.  Questa  difesa  delle  «regalie» 
ha,  nel  Regno,  contorni  e  significati  assai  precisi,  come  ha  ben  di- 
mostrato Raffaele  Ajello  recentemente.1  Nella  carenza  del  potere  cen- 
trale, nella  difficoltà  di  un  immediato  recursus  adprincipem  da  parte  dei 
sudditi  del  Regno,  la  nobiltà  di  toga  tende  a  riempire  questo  vuoto 
di  potere,  facendosi  depositaria  del  diritto.  Essa  è  naturaliter  portata 
a  contrastare  la  legittimità,  della  giurisdizione  feudale  nobiliare  ed 
ecclesiastica.  La  lotta  delle  magistrature  napoletane  si  rivela  sempre 
nella  continua  ed  esasperante  e  tenace  avocazione  a  sé  di  tutte  le 
cause  del  Regno  (e  tralasciamo  qui,  perché  esorbita  dalla  nostra 
indagine,  l'osservazione  di  come  questa  rivalità  fosse  anche  all'in- 
terno della  magistratura  regia,  tra  tribunale  e  tribunale),  nel  contra- 
stare passo  passo  la  sfera  giurisdizionale  del  primo  e  del  secondo  stato. 
Il  Collaterale  diviene  il  centro  di  questa  lotta,  così  come,  pochi  anni 
dopo,  apparirà  dilatata,  al  suo  fianco,  la  magistratura  del  Cappellano 
maggiore,  nella  lotta  specifica  contro  la  giurisdizione  ecclesiastica. 
Questa  battaglia  di  predominio  si  ammanta  e  si  avvale,  ovviamente, 
di  argomentazioni  ideologiche.  Diritto  di  natura  e  diritto  delle  genti 
appaiono  potenti  leve  ideali  contro  la  difesa  del  droit  coutumier;  sicché 
l'offerta  di  collaborazione  avanzata  da  questi  giuristi  al  monarca  non 
è  già,  come  a  prima  vista  potrebbe  apparire,  una  adesione  loro  al- 
l'assolutismo, ma,  nella  particolare  situazione  napoletana,  una  richie- 
sta di  mandato  rappresentativo  del  regius  fiscus  ai  togati,  da  far  va- 
lere nei  confronti  della  nobiltà  laica  ed  ecclesiastica.  La  contestazione 
del  potere  baronale  è  portata  innanzi,  come  s'è  detto,  dal  D'Andrea, 
nella  sua  Disputatio  come  nella  sua  più  celebre  Risposta  al  trattato 
delle  ragioni  della  Regina  Cristianissima  sopra  il  ducato  del  Brabante 
(1667- 1676).  Su  questa  strada  non  fu  però  seguito  dalla  massa  dei 
togati  e  tra  questi  proprio  dal  fratello  Gennaro,  il  quale  aveva  invece 
mirato  all'acquisto  d'un  titolo  nobiliare  pur  essendo  salito  alle  più 
alte  cariche  nella  magistratura  del  Regno.3  Il  piano  di  Francesco,  di 
«ascendere  al  comando  e  all'amministrazione  di  tutta  la  repubblica» 
(cioè,  della  respublica)  e  di  poter  «comandare  a  tutto  il  baronaggio  »,3 
si  scontrava  così  con  una  più  complessa  realtà,  nella  quale  quello 
che  fu  detto  il  «ceto  civile»  non  si  presentava  affatto  omogeneo  né 
con  unità  d'intenti  e  di  scopi.  Troppo  stretti  erano  i  legami  tra  giu- 
risti, avvocati  e  magistrati  da  una  parte,  e  baronaggio  dall'altra,  per- 
ché la  lotta  antibaronale  potesse  essere  spinta  oltre  certi  limiti.  Man- 

1.  Cfr.  Il  problema  della  riforma  giudiziaria  e  legislativa  del  regno  di  Napoli 
durante  la  prima  metà  del  sec.  XVIII,  Napoli  1964.  2.  Su  di  lui  si  veda 
la  nota  1  a  p.  59.  3.  Cfr.  Avvertimenti  ai  nipoti,  editi  col  titolo  I  ricordi 
di  un  avvocato  napoletano  del  Seicento,  Francesco  D'Andrea  da  N.  Cortese, 
Napoli  1923,  pp.  173  e  207. 


NOTA   INTRODUTTIVA  353 

cava  a  questo  «ceto»,  soprattutto,  un  suo  carattere  distintivo,  una 
coesione  che  lo  opponesse  dialetticamente  al  baronaggio,  e  questo  fu 
il  suo  più  grave  limite,  che  gli  impedì,  appunto,  di  riconoscersi 
come  ceto. 

Più  facile,  invece,  la  battaglia  contro  la  feudalità  ecclesiastica,  con- 
tro rintromissione  di  Roma  negli  aflari  del  Regno.  Qui  era  possibile 
ritrovare  un'unità  politico-ideologica,  su  questo  terreno  era  persino 
facile  stabilire  un  accordo,  un'alleanza  col  potere  baronale.  Oltre- 
tutto, questo  era  il  terreno  più  debole,  dove  l'avversario  aveva  meno 
possibilità  di  difesa,  che  non  fossero  le  armi  spirituali,  la  messa 
all'Indice  dei  libri,  la  scomunica  di  magistrati  o  di  autori  di  trattati 
de  re  beneficiaria.  Come  si  sperimentò  appunto  nella  prima  di  queste 
battaglie,  con  l'uscita  delle  opere  dell'Argento,  di  Costantino  Gri- 
maldi e  di  Alessandro  Riccardi,  nel  1707. 

La  svolta  pare  vada  situata  proprio  in  quell'anno;  anche  se  il 
Giannone,  nell'autobiografia,  sembra  porla  in  un  momento  imme- 
diatamente precedente;  ma  non  è  escluso  che  la  necessità  di  non 
interrompere  il  discorso  lo  abbia  costretto  ad  anticipare  nell'ultimo 
paragrafo  del  terzo  capitolo  dell'autobiografia,  ciò  che  avrebbe  do- 
vuto porre  in  apertura  del  quarto  capitolo.  In  realtà,  il  1707  è  una 
data  importante  nella  vita  del  Regno:  essa  segna,  per  la  prima  volta, 
il  passaggio  dalla  corona  spagnola  alla  corona  imperiale,  corona  che 
da  due  anni  gravava  sul  capo  di  Giuseppe  I,  un  imperatore  il  cui 
regno  fu  troppo  breve  perché  si  potesse  attribuire  a  lui,  e  non  al  suo 
più  tardo  successore,  la  politica  che  fu  detta  «  giuseppinismo  ».  Per- 
ché è  ben  vero  che  Napoli,  come  parte  integrante  della  monarchia  di 
Spagna,  rimaneva  sotto  la  sovranità  del  fratello  dell'imperatore,  Car- 
lo, e  della  sua  corte  di  Barcellona,  opposta  a  quella  di  Madrid  di 
Filippo  d'Angiò;  ma  è  anche  vero  che  a  capo  del  viceregno  furono 
successivamente  posti  due  uomini  della  corte  di  Vienna,  ben  più 
legati  a  Giuseppe  che  a  Carlo  :  il  conte  Georg  Adam  von  Martinitz 
prima,  il  conte  Philipp  Lorenz  Wierich  von  Daun  poi.  Non  solo,  ma 
la  necessità  di  costringere  il  papa  a  schierarsi  dalla  propria  parte 
spingeva  i  due  fratelli,  a  Vienna  e  a  Barcellona,  ad  attuare  una  me- 
desima politica  dai  caratteri  fortemente  giurisdizionalistici  che  so- 
lo più  tardi,  scomparso  Giuseppe  e  succedutogli  sul  trono  imperiale 
Carlo,  verranno  attenuati  sino  a  scomparire  del  tutto  in  cambio  del 
riconoscimento  della  Prammatica  Sanzione,  attorno  al  1725. 

Il  nuovo  dominio  in  Napoli  si  aprì  quindi  con  una  forte  carica  giu- 
risdizionalistica  e  il  primo  importante  scontro  con  Roma  fu  sull'ap- 
plicazione e  l'osservanza  dell'editto  di  Carlo  sulla  collazione  dei  be- 
nefìci ecclesiastici.  Tra  il  1707  e  il  1709  si  ebbero  perciò  una  serie 
di  scritti,  «a  prò'  degli  editti  di  Sua  Maestà  Cattolica  intorno  alle 


354  ISTORIA    CIVILE   DEL   REGNO   DI    NAPOLI 

rendite  ecclesiastiche»  (per  dirla  col  titolo  dell'opera  del  Grimaldi), 
tutti  usciti  dal  gruppo  dell'Argento.  E  fu  proprio  questi  ad  aprire  il 
fuoco,  con  le  tre  dissertazioni  De  re  beneficiaria,  che  apparvero  una 
novità  per  il  programma  politico  dei  giovani  dell'Accademia  dei  Sag- 
gi; come  testimonia  ancora  una  volta  il  Giannone,  quando  nell'auto- 
biografia ci  dice  che  il  loro  maestro  «entrò  in  questi  studi  affatto 
nuovo  e  niente  versato  nelle  cose  ecclesiastiche,  essendo  stati  tutto 
altri  i  suoi  precedenti  studi  ».x  Dalla  tematica  antibaronale  del  D'An- 
drea si  passava  infatti,  ora,  alla  tematica  giurisdizionalistica.  Gian- 
none,  che  pensava  ancora  ad  uno  sviluppo  dell'opera  del  Duck  in  una 
prospettiva  regnicola,  capì  quali  enormi  implicazioni  avesse  in  sé 
questa  svolta  e  fu  pronto  ad  abbandonare  le  precedenti  impostazioni 
per  la  nuova.  Del  resto,  la  sua  pratica  nei  tribunali  l'avrebbe  portato 
quasi  di  necessità  ad  una  simile  decisione.  Come  scrive  uno  dei  suoi 
biografi  settecenteschi,  Michele  Maria  Vecchioni,3  fra  «le  prime  pro- 
cure, ch'egli  ricevette,  e  dalle  quali  cominciò  a  trarre  profitto,  e  so- 
stegno della  sua  povera  vita,  una  fu,  e  forse  la  principale,  quella  del 
principe  d'Ischitella  suo  barone».  Accanto  a  questa  causa  (ed  altre 
baronali,  come  quelle  in  difesa  di  don  Francesco  Carafa  duca  di 
Frosolone  e  marchese  di  Baranello  o  l'altra  in  difesa  di  Isabella  Spi- 
nelli contessa  di  Bovalino),  egli  sostenne  anche  la  difesa  dell'univer- 
sità di  San  Pietro  in  Lama  contro  il  vescovo  di  Lecce,  conoscendo 
così  due  aspetti  peculiari  della  società  regnicola.  Egli  fu  contempora- 
neamente l'avvocato  del  proprio  barone,  e  l'avvocato  di  comunità 
angariate  dalla  feudalità  ecclesiastica.  Ma  non  fu  mai,  invece,  il  di- 
fensore degli  oppressi  contro  il  potere  baronale.  Pertanto,  nella  di- 
fesa del  regalismo,  dell'assolutismo,  egli  preferì  le  nuove  posizioni 
giurisdizionalistiche,  a  quelle  antibaronali  d'un  D'Andrea. 

Una  tale  scelta  ebbe,  naturalmente,  implicazioni  anche  nel  giudi- 
zio storico  ch'egli  s'accingeva  a  dare.  I  Longobardi,  nel  cui  diritto 
il  D'Andrea  aveva  indicato  la  fonte  degli  abusi  feudali,  si  mutarono 
nell'Istoria  civile  nel  popolo  che  più  aveva  rispettato  e  salvaguardato 
il  diritto  romano;  ma  soprattutto  gli  apparvero  come  i  fondatori  del 
nuovo  stato,  anzi  della  «nazione»  napoletana.  Il  ducato  di  Benevento 
e  la  sua  storia  divennero  la  matrice  della  storia  del  Regno. 

Accanto  a  questa  ricerca  sulla  storia  medievale  del  Regno,  ne  af- 
fiancò un'altra,  sull'evoluzione  dei  revenus  ecclesiastici,  alla  quale 
consacrò,  a  chiusura  d'ogni  libro,  una  trattazione  specifica.  Sua  guida 
furono  in  particolare  due  autori:  Huig  van  Groot  per  l'alto  medioevo 


i.  Cfr.  Vita,  qui  a  p.  64.  2.  Vita  di  Pietro  Giannone  dottore  di  leggi  e  cele- 
berrimo  istorìco  del  regno  di  Napoli  scritta  dal  signore  N...N...  giureconsul- 
to napoletano,  in  Palmira  l'anno  MDCCLXV,  All'insegna  della  Verità,  p.  5. 


NOTA    INTRODUTTIVA  355 

e  per  la  storia  longobarda;  Louis  Ellies  Du  Pin  per  la  storia  eccle- 
siastica. A  questo  nesso  per  lui  inscindibile  tra  storia  profana  e  storia 
ecclesiastica,  a  questa  «  umanizzazione  »  della  storia  della  Chiesa,  egli 
tenne  particolarmente,  giudicando,  a  ragione,  di  aver  compiuta  opera 
nuova  e  mai  prima  d'allora  tentata.  Quando  Nicolas  Lenglet  Du 
Fresnoy  ripubblicò,  aggiornata  nel  catalogo  dei  principali  scrittori, 
la  sua  Méthode  pour  étudier  Vhistoire,  e  tra  gli  scrittori  di  storia  napo- 
letana inserì  anche  una  Istoria  del  regno  di  Napoli  che  era  poi  la  sua 
Istoria  civile,  egli  prese  in  mano  la  penna  non  tanto  e  non  solo  per 
ribattere  all'accusa  di  essere  un  «auteur . . .  scavant  et  nardi  et  mème 
extremèment  téméraire  »,  ma  per  insistere  su  quell'aggettivo  «civile », 
perché  la  sua  fatica  «per  la  nuova  forma,  e  per  la  materia,  che  tratta, 
è  tutta  differente  dalle  altre  istorie  di  quel  Regno,  e  perciò  porta  il 
titolo  d'Istoria  civile,  e  non  semplicemente:  d'Istoria».1 

Se,  in  questa  sua  impresa,  egli  sia  o  meno  riuscito  a  darci  una  sto- 
ria globale  e  unitaria,  è  tutt' altro  problema.  Non  si  può  certo  pre- 
tendere che  il  tentativo  d'unire  i  due  filoni  storiografici  tradizionali 
giungesse  a  risultati  sensazionali  da  questo  punto  di  vista.  In  verità, 
i  due  temi,  della  storia  profana  e  della  storia  ecclesiastica,  raramente 
si  fondono  in  un  discorso  unitario  ;  anzi,  proprio  la  particolare  trat- 
tazione, in  capitoli  distinti,  della  storia  del  progresso  dei  beni  tem- 
porali della  Chiesa,  è  palese  dimostrazione  di  come  le  difficoltà  non 
siano  state  del  tutto  superate.  E  tuttavia,  quale  scossone  fu,  l'appa- 
rizione di  quest'opera,  nel  mondo  d'allora! 

I  contemporanei  non  tardarono  ad  accorgersi  della  forza  dirom- 
pente del  lavoro  giannoniano,  forza  ch'esso  serbò  a  lungo  intatta.  Se 
il  materiale  dell'opera,  per  il  primo  e  il  secondo  tomo,  era  fornito  in 
prevalenza  dal  Du  Pin  e  dal  van  Groot,  in  effetti  la  tematica  che  vi  era 
sviluppata  non  era  sorretta  soltanto  o  principalmente  dalle  posizioni 
giusnaturalistiche  o  gallicane  di  quegli  autori,  ma  dal  più  radicale  e 
rivoluzionario  discorso  dello  spinoziano  Tractatus  theologico-politi- 
cus,  che  il  Giannone  aveva  conosciuto,  probabilmente,  per  il  tramite 
d'un  altro  suo  maestro,  Domenico  Aulisio.2  La  riduzione  che  il  Gian- 
none  operava  della  religione  a  fatto  umano,  l'osservazione  distaccata 
delle  pratiche  di  culto  e  dell'evolversi  della  teologia  cattolica,  la  lai- 

i.  Il  testo  della  lettera  in  Giannoniana,  pp.  71-2.  È  da  rilevare  che  nella 
edizione  veneziana  del  1726,  «appresso  Sebastiano  Coleti»,  nel  volume  11, 
a  p.  273,  la  citazione  è  corretta,  e  la  nota  mitigata.  2.  La  tematica  spino- 
ziana  è  chiaramente  rilevabile  in  un'opera  postuma  dell'  Aulisio,  uscita  per 
interessamento  del  Giannone  :  Delle  scuole  sacre  libri  due  postumi . . .  ove 
s'ha  V  origine,  miràbile  progresso  e  sacrilego  fine  delle  scuole  sacre  fra  gli  Ebrei, 
Napoli  1723.  Degli  excerpta  spinoziani,  dal  Tractatus  e  dall' Ètnica,  erano 
posseduti  manoscritti  dal  Giannone  sin  dagli  anni  napoletani:  cfr.  Gian- 
noniana,  p.  414. 


356  ISTORIA    CIVILE   DEL    REGNO   DI    NAPOLI 

cizzazione  della  Sedia  apostolica,  l'ideale  panteistico  d'una  religione 
ricondotta  alle  origini  del  cristianesimo  (e  più  tardi,  addirittura,  alla 
mitica  età  noetica)  erano  tutti  motivi  spinoziani,  sviluppati  ora  in  un 
preciso  contesto  storico,  nella  storia  dell'Italia  meridionale. 

Il  discorso  giannoniano,  naturalmente,  era  arricchito  da  vaste  let- 
ture di  autori  eterodossi,  ch'egli  aveva  potuto  conoscere  sfruttando, 
soprattutto,  la  biblioteca  di  Giuseppe  Valletta.  Per  averne  la  prova, 
basti  scorrere  rapidamente  le  note  apposte  ai  brani  dell'Istoria  che 
qui  presentiamo.  Le  sue  letture  appaiono  vaste,  ma  indirizzate  sempre 
in  ben  precise  correnti  erudite.  Come  ci  informa  ancora  il  Vecchioni, 
«  il  non  aver  egli  quasi  niun  libro  in  casa,  per  non  aver  giammai  atteso 
alla  compra  di  essi,  tra  per  l'angustia  del  suo  patrimonio,  e  per  l'op- 
portunità ch'avea  di  rinvenirli  nelle  biblioteche  degli  amici,  e  pub- 
bliche, sempre  che  volea,  facea  sì,  che  più  spesso  di  quel  che  sarebbe 
stato  suo  piacere,  veniva  astretto  ad  uscire,  ed  a  conversare  con  let- 
terati amici,  o  per  istudiare  nelle  loro  librerie,  o  per  isciegliere  nelle 
medesime  i  libri  che  bisognavangli,  ed  impetrare  da  loro  di  portarseli 
in  casa:  il  che  non  gli  fu  mai  negato,  e  negli  ultimi  anni  fin  da'  cu- 
stodi delle  biblioteche  pubbliche  gli  venne  permesso».1  In  effetti, 
la  sua  bibliografia  è  non  solo  vasta,  ma  molto  spesso  aggiornata, 
diremmo  in  modo  talvolta  inusitato  e  non  sempre  riscontrabile  tra 
gli  storici  del  suo  tempo.  Quest'ampiezza  di  informazioni  bibliogra- 
fiche ebbe  però  anche  il  suo  rovescio:  Giannone,  scrisse  Gian  Do- 
menico Rogadeo,  «volle  lavorare  sempre  sulle  fatiche  altrui,  e  però 
né  poco  né  molto  si  intrigò  ne'  punti,  la  cui  strada  non  era  stata  da 
altri  appianata  .  .  .  Ond'è  che  la  parte  maggiore  dei  punti  trattati  in 
questa  .  .  .  opera  si  veggono  da  lui  omessi ...  La  cagione  di  questa 
omissione  derivò  dall'avere  trascurato  le  fonti,  sicché  si  fermò  solo 
in  quel  che  dagli  altri  era  stato  prima  ponderato  .  .  .  Non  lieve  di- 
fetto è  ancora,  in  un'opera  così  illustre,  il  non  aver  l'Autore  di  lei 
avuto  ricorso  alle  fonti,  che  di  radissimo  .  .  .  Egli  riposò  sulla  fede 
altrui,  onde  avviene  che  l'opera  si  scuovre  piena  d'innumerevoli 
falli».2 

Il  giudizio  del  Rogadeo  può  ancor  oggi  sottoscriversi.  Non  vi  è, 
in  questa  Istoria  civile,  alcuna  messa  a  frutto  di  documenti,  di  mate- 
riale archivistico.  Eppure  varrà  la  pena  avvisare  come,  per  un  par- 
ticolare settore  di  quest'opera,  egli  sia  ricorso  alle  fonti,  sia  pure 
alle  fonti  già  edite:  per  la  storia  dei  Longobardi  questo  sforzo  fu 
fatto.  Non  a  caso  per  quella  storia,  e  non  per  altri  momenti  della  vita 

1.  Cfr.  Vita  di  Pietro  Giannone,  cit.,  pp.  8-9.  2.  Cfr.  Saggio  di  un* opera 
intitolata  «77  diritto  pubblico  e  politico  del  regno  di  Napoli^  Cosmopoli 
(Lucca)  1767,  p.  85. 


NOTA   INTRODUTTIVA  357 

del  Regno.  Perché  in  essa  egli  aveva  individuato  il  nodo  centrale 
dell'evoluzione  delle  provincie  meridionali  e  capì  che  per  il  suo  scio- 
glimento non  potevano  soccorrergli  i  precedenti  autori.  Che  poi  ab- 
bia peccato  d'ambizione  e  abbia  voluto  mostrare  d'esser  ricorso 
direttamente  alle  fonti,  facendosi  cogliere  in  castagna  dal  Troya, 
non  ha  molta  importanza.1  Più  importante  è  osservare  come  la  man- 
canza di  scavo  originale  l'abbia  costretto  a  farsi  condizionare  dai 
testi  editi.  La  sua  visione  della  storia  longobarda  si  basa  infarti  essen- 
zialmente sugli  autori  sincroni  pubblicati  dal  van  Groot  nella  sua  iiZz- 
storia  Gotthorum,  Vandahrum  et  Langobardorum,  e  da  Camillo  Pelle- 
grino ;  conosce  e  utilizza  ampiamente  le  raccolte  di  leggi  longobarde, 
ma  dipende  da  una  pessima  edizione  di  esse,  quella  del  1537;  per 
l'analisi  del  feudo  è  strettamente  condizionato  da  Jacques  Cujas  ;  per 
il  ducato  beneventano  e  in  generale  per  la  storia  dei  Longobardi 
nell'Italia  meridionale  sfrutta  soltanto  Antonio  Caracciolo  e  ancora 
il  Pellegrino  o  il  commento  al  Chronicon  casinense  dell'abate  Angelo 
della  Noce,  e  così  via. 

Va  da  sé  che  in  un'età  «muratoriana»  questi  rilievi  sono  assai  gravi. 
Non  per  nulla  il  Giannone,  invitato  dal  Muratori  a  collaborare  ai 
suoi  Rerum  Italicarum  Scriptores  fini  per  declinare  l'invito,  limitando- 
si a  rispondere  con  pochi  e  generici  consigli  di  circostanza.2  Evidente- 
mente sapeva  che  non  era  questo  il  suo  campo.  Eppure  resta  sempre 
da  chiedersi  se  tali  rilievi  inficino  davvero  l'impalcatura  della  sua 
Istoria  civile,  o  se  invece  il  suo  valore,  la  sua  validità  non  risiedano 
altrove,  cioè  nel  giudizio  globale  che,  in  sede  storiografica,  egli  seppe 
dare  delle  origini  della  storia  del  Regno,  nonché  dello  sviluppo,  nel 
suo  interno,  di  un  secondo  potere,  opposto  e  concorrente  con  quello 
regio  :  il  potere  dei  vescovi,  dei  grandi  abati,  degli  Ordini  religiosi. 
Perché  quello  che  è  certo  è  che  la  storiografia  napoletana,  sino  ai 
suoi  giorni,  si  era  dimostrata  incapace  non  diciamo  di  affrontare  il 
problema  della  presenza  di  questo  potere  indipendente  nel  Regno, 
ma  persino  di  individuare  i  tratti  caratteristici  della  «nazione»,  e 
perciò  di  fissarne  le  sue  stesse  origini.  Lo  aveva  tentato,  in  tempi 
ormai  lontani,  sul  finire  del  Cinquecento,  Angelo  Di  Costanzo, 
dichiarando  in  apertura  delle  Istorie  della  sua  patria  come  fosse  stato 
suo  desiderio  prender  le  mosse  dall'età  longobarda;  ma,  aggiungeva, 
il  suo  proposito  si  era  presto  rivelato  irrealizzabile,  avendo  trovato 
«le  cose  de'  Longobardi . .  .tanto  oppresse  dalle  tenebre  dell'anti- 
chità», da  perdere  ogni  speranza  di  poterne  scrivere,  «non  avendosi 


1.  Sull'appunto  delTroya,ra  proposito  del  codice  membranaceo  Cavense, 
si  veda  più  oltre  la  nota  3  a  p.  429.  2.  Cfr.  la  lettera  del  Giannone  al 
fratello,  del  20  novembre  1723  (Giannoniana,  n.°24). 


358  ISTORIA   CIVILE  DEL   REGNO   DI   NAPOLI 

di  quelle  altra  notizia,  che  quanto  ne  scrive  Eremperto  ».*  Sicché 
questa  sognata  periodizzazione,  che  pure  avrebbe  permesso  di  co- 
struire su  basi  nuove  la  storia  del  Regno,  s'era  immediatamente 
perduta,  e  gli  storici  a  lui  posteriori  erano  tranquillamente  ritornati 
alle  origini  mitologiche,  da  Giovanni  Antonio  Summonte  sino  allo 
stesso  Camillo  Pellegrino. 

Al  Di  Costanzo  poteva  ben  obiettarsi  che,  oltre  alla  cronica  di 
Erchemperto,  esistevano  ancora  sepolti  negli  archivi  diplomi  e  pri- 
vilegi e  bolle  e  cronache  di  quell'età  che  andavano  riportati  alla  luce, 
da  Montecassino  a  Cava  de'  Tirreni.  Purtroppo  gli  studiosi  napoleta- 
ni si  dimostrarono  sempre  allergici  alla  polvere  degli  archivi.  Alla 
cultura  storica  napoletana  mancò  quella  formidabile  spinta  dell'eru- 
dizione cattolica  e  protestante  che  agi  invece  così  potentemente  nel- 
l'avanzamento delle  conoscenze  storiche  altrove,  modificando  sino 
la  metodologia.  Per  tutto  il  Seicento  napoletano  non  siamo  in  grado 
di  citare  che  due  eruditi:  Antonio  Caracciolo,  che  nel  '26  dava  alle 
stampe,  assieme  ad  Erchemperto,  Lupo  Protospata,  Falcone  di  Be- 
nevento e  l'Anonimo  Cassinense;  e  Camillo  Pellegrino,  che  ripren- 
dendo l'edizione  del  Caracciolo,  vi  aggiungeva  i  capitolari  di  Sicardo 
e  di  Radelchi,  le  cronache  sincrone  di  Salerno  e  di  Benevento,  la 
serie  degli  abati  di  Montecassino. 

Anche  per  questo  ci  sembra  diffìcile  accusare  Giannone  di  non 
aver  compiuto  ricerche  d'archivio,  d'essersi  basato  solo  ed  unica- 
mente su  fonti  edite.  Il  suo  ambiente  culturale  non  poteva  spronarlo 
né  sorreggerlo  in  questa  direzione.  La  sua  fu  dunque  una  storia 
«ideologica»,  se  così  possiam  dire;  una  proposta  di  nuova  interpre- 
tazione storiografica,  in  base  ai  materiali  già  in  precedenza  scoperti. 
Anche  se  poi  essa  si  paluda  e  si  ammanta  di  un'erudizione  che, 
se  vista  più  da  vicino,  non  si  fatica  a  scoprire  tutta  di  seconda  mano, 
questo  resta  pur  sempre  un  fatto  marginale,  rispetto  alla  forza  di- 
rompente insita  nel  giudizio  globale  delle  vicende  del  Regno  che 
fornisce. 

Sin  qui,  come  si  sarà  notato,  non  abbiamo  parlato  che  del  pri- 
mo tomo  dell'opera,  che  ne  comprende  invece  quattro.  Ma  lo  ab- 
biamo fatto  perché,  in  realtà,  solo  in  quello  è  la  parte  originale  della 
fatica  giannoniana,  e  non  a  caso.  Interessava  a  lui  chiarire  i  nodi,  gli 
impulsi,  le  molle  di  certi  sviluppi  abnormi  nella  storia  meridionale; 
non  mirava  astrattamente  ad  una  ennesima  narrazione  di  fatti.  C'e- 
rano già  le  storie  «scritte  da  gravi  ed  accurati  autori,  come  furono 
Angelo  Costanzo  e  Francesco  Capecelatro  »3  o  la  più  recente  (ma 

1.  Cfr.  Dell'istorie  della  sua  patria,  Napoli  1572,  Proemio,  p.  n.  n.     2.  Cfr. 
Vita,  qui  a  p.  56. 


NOTA   INTRODUTTIVA  359 

questa  Giannone  non  la  ricorda)  Histoire  de  V origine  dn  royaume  de 
Sicile  et  de  Naples,  del  gesuita  Claude  Buffier,  apparsa  nel  1701.  Per 
tutti  e  tre  questi  scrittori  varrà  ciò  che  egli  stesso  ebbe  a  confessare 
esternando  la  sua  ammirazione  per  il  Di  Costanzo:  «Per  questa  ca- 
gione l'istoria  di  questo  insigne  scrittore  sarà  da  noi  più  di  qualun- 
que altra  seguitata,  né  ci  terremo  a  vergogna,  se  alle  volte  colle  sue 
medesime  parole,  come  assai  gravi  e  proprie,  saranno  narrati  i  loro 
avvenimenti».1 

Tocchiamo  qui  il  problema  dei  plagi  giannoniani,  che  diede  luogo 
ad  una  non  ancora  conchiusa  querelle,  aperta  dai  neoguelfì  contro  il 
«ghibellino  »  Giannone,  e,  in  primis,  dal  Manzoni  in  una  pagina  della 
sua  Colonna  infame  dove,  dopo  aver  elencato  i  plagi  dell'Istoria  civile, 
concludeva:  «  E  chi  sa  quali  altri  furti  non  osservati  di  costui  potrebbe 
scoprire  chi  ne  facesse  ricerca;  ma  quel  tanto  che  abbiam  veduto 
d'un  tal  prendere  da  altri  scrittori,  non  dico  la  scelta  e  l'ordine  de' 
fatti,  non  dico  i  giudizi,  l'osservazioni,  lo  spirito,  ma  le  pagine,  i  ca- 
pitoli, i  libri,  è  sicuramente,  in  un  autor  famoso  e  lodato,  quel  che 
si  dice  un  fenomeno.  Sia  stata,  o  sterilità,  o  pigrizia  di  mente,  fu  certa- 
mente rara,  come  fu  raro  il  coraggio  ;  ma  unica  la  f elicità  di  restare, 
anche  con  tutto  ciò  (fin  che  resta),  un  grand'uomo  ».2  Pietro  Gian- 
none,  dunque,  «plagiario  e  grand'uomo  per  equivoco»,  come  si  do- 
mandava Giovanni  Gentile  ?3  Per  la  verità,  Alessandro  Manzoni,  con 
quel  suo  attacco,  non  faceva  che  mettere  in  pratica  quanto  molto 
prima  di  lui  aveva  raccomandato  Matteo  Egizio  in  una  lettera  a  Cele- 
stino Galiani,  dopo  lo  scandalo  della  Professione  di  fede:  «Il  giudicio 
che  dà  Vostra  Paternità  Reverenda  dell'apologia  ironica  del  Giannone 
egli  è  assai  giusto.  Egli  trionfa  sulla  debolezza  dell'avversario  :  ma  del 
rimanente  non  può  far  giammai  a  meno  di  non  mostrare  il  suo  spi- 
rito contumace,  superbo,  e  niente  affatto  rispettoso  alla  Santa  Se- 
de ..  .  Anche  in  Napoli  ha  guasta  la  mente  di  molti  giovani  :  i  quali 
manchevoli  di  buone  conoscenze,  e  di  libri,  ammirano  in  Giannone 
la  copia  delle  cose,  da  essi  ignorate.  Naturalmente  dalla  maraviglia 
viene  la  stima,  e  dalla  stima  il  credito,  dal  credito  l'assenso.  Il  modo 
di  correggerli  sarebbe  di  mostrare  un  per  uno  gli  errori,  gli  abbagli, 
le  false  citazioni  dell'uomo  in  cose  non  ecclesiastiche:  perché  per- 
duta la  opinione  di  dotto,  caderebbe  da  sé  ogni  sua  dottrina.  Parlo 
appresso  i  giovani,  perché  gli  uomini  maturi  discernono  la  verità,  in 
qualunque  aspetto  ella  sia  posta».4 

Perché,  la  domanda  sorge  spontanea,  tanto  accanimento,  in  vita 

1.  Cfr.  Istoria  civile,  tomo  in,  Kb.  xx,  pp.  3-4.  2.  Cfr.  Storia  della  colonna 
infame,  Milano  1840,  p.  862.  3.  Cfr.  Pietro  Giannone,  plagiario,  e  gran- 
d'uomo  per  equivoco,  in  «La  Critica»,  il  (1904),  pp.  216  sgg.  4.  Cfr.  Gian- 
noniana,  p.  127. 


360  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO   DI   NAPOLI 

e  in  morte,  contro  un  autore  che  non  sarebbe  stato  capace  che  di 
ammassare  e  affastellare  pagine  scritte  da  altri  ?  Già  il  Rogadeo,  no- 
tando la  profonda  diversità,  fin  nello  stile,  tra  le  varie  parti  dell'opera, 
ne  aveva  tentato  una  giustificazione  :  «  Egli  aveva  ammassato  il  mate- 
riale di  quell'opera  nello  spazio  di  più  anni,  e  come  suole  avvenire 
l'abbozzo  formato  in  più  parti  contenea  pezzi  intieri  degli  autori, 
donde  si  erano  raccolte  le  notizie,  sulla  idea  di  aggiungere,  cambiare 
ciò  che  avrebbe  stimato  opportuno  allora  che  dovea  dare  all'opera 
l'ultimo  ritocco,  ma  di  poi  non  gli  fu  permesso  eseguire  un  tale  di- 
segno, perché  essendosi  divulgata  la  fama  di  tale  opera,  e  che  l'og- 
getto di  quella  era  tutto  contro  degli  ecclesiastici,  il  Nunzio  facea 
delle  gran  premure,  perché  dalla  Reggenza  di  Napoli,  non  solo  se  ne 
vietasse  la  edizione,  ma  benanche  si  involassero  i  fogli,  e  si  dessero 
alle  fiamme.  Consapevole  di  tali  premure  il  Giannone  stimò  oppor- 
tuno frettolosamente  fare  la  edizione  di  tutta  l'opera,  e  cacciarla  fuori 
tutta  in  un  tratto.  In  tali  angustie  non  potè  aver  tempo  di  ammendare 
l'opera,  come  avea  meditato,  e  però  lo  stile  ne'  due  ultimi  tomi  è 
troppo  diverso  dai  primi,  perché  a'  primi  dato  avea  l'ultima  mano 
che  non  fu  permesso  darla  ai  secondi».1  Che  è,  suppergiù,  la  stessa 
giustificazione  data  dall'autore  nella  sua  autobiografia,  anche  se  in 
essa  è  contraddetta  l'asserzione  nei  riguardi  dell'intervento  della  Nun- 
ziatura.2 A  riprova  della  veridicità  di  questa  versione  può  citarsi  una 
lettera  che  Costantino  Grimaldi  inviò  al  Muratori  il  22  settembre  del 
1722  :  «  qui  uscirà  tra  brieve  un'opera  istorica  di  Pietro  Giannone  »  ;3  e 
può  ben  supporsi  che  lui,  come  tanti  altri  amici  della  cerchia  del- 
l'Argento, si  fossero  vantati  e  avessero  divulgato  la  notizia  dell'immi- 
nente apparizione  d'un'opera  che  giudicavano  espressione  del  loro 
gruppo,  in  Napoli  e  coi  loro  corrispondenti. 

Tuttavia,  come  già  osservò  il  Bonacci  a  commento  del  passo  del 
Rogadeo,  i  libri  non  ancora  stesi,  al  momento  dell'inizio  della  com- 
posizione tipografica  dell'Istoria  civile,  erano  solo  gli  ultimi  cinque 
sui  quaranta  complessivi;4  il  che  significa  che  non  solo  il  terzo  tomo, 

1.  Cfr.  Saggio  di  un* opera,  cit.,  p.  85.  2.  Cfr.  Vita,  qui  a  p.  84:  «il  Nunzio 
che  risiedeva  in  Napoli  era  rimproverato  da  Roma  come  fosse  stato  così 
trascurato,  che  non  avesse  scoverto  e  dato  notizia  alla  Corte  d'una  opera 
così  voluminosa  che  si  travagliava  in  Napoli».  3.  In  L.  A.  Muratori, 
Epistolario,  a  cura  di  M.  Campori,  Modena  1901-1922,  lettera  n.°  2169,  p. 
2321.  4.  Cfr.  Saggio  sulla  Istoria  civile  del  Giannone,  Firenze  1903,  p.  25. 
Cfr.  ancora  in  Vita,  qui  a  p.  78:  «Avvicinandomi  ...  al  termine  del  quarto 
ed  ultimo  tomo,  verso  la  fine  dell'anno  1722  ebbi  ricorso  al  viceré  .  .  .  cer- 
cando la  licenza  della  stampa»;  e  prima,  a  p.  76:  «E  già  de'  quaranta  libri, 
onde  V Istoria  civile  era  divisa,  non  me  ne  mancavano  se  non  gli  ultimi  cin- 
que; sicché  mi  risolsi  di  cominciar  la  stampa  de'  primi»;  e  infine  a  p.  77: 
«Si  cominciò  la  stampa  ne'  princìpi  dell'anno  1721  ». 


NOTA  INTRODUTTIVA  361 

ma  anche  la  metà  del  quarto  doveva  considerarsi  compiuta  agli  inizi 
del  1722.  Certo  il  Rogadeo  non  errava,  quando  notava  la  diversità 
di  stile  tra  i  primi  due  tomi  e  i  seguenti;  eppure  sta  di  fatto  che  i 
plagi  non  iniziano  solo  col  terzo,  ma  si  ritrovano  abbondanti  sin 
dal  nono  libro,  che  apre  il  secondo  tomo.  Plagi  che  Fautore  non  ha 
mai  nascosto,  come  s'è  visto  più  sopra  per  la  sua  dichiarazione  ammi- 
rativa nei  confronti  del  Di  Costanzo,  e  dei  quali,  anzi,  si  servì  ad- 
dirittura per  fare  dell'ironia  e  cogliere  in  castagna  il  padre  Sanfelice!1 

Sarà  bene,  a  questo  punto,  ritornare  al  discorso  iniziale,  alle  accuse 
del  Tanucci  e  del  Metastasio,  che  hanno  anch'esse  un  loro  fondamen- 
to veritiero  e  che  ci  riconducono,  a  loro  volta,  daccapo  al  problema 
dei  plagi.  Perché  ci  sembra  che  sino  a  quando  l'Istoria  civile  sarà 
considerata  alla  stregua  di  un  qualunque  testo  di  storia  regnicola  e  si 
vorranno  discutere  le  capacità  erudite  dell'autore,  sempre  ci  si  tro- 
verà dinanzi  allo  squilibrio  non  già  tra  i  primi  due  e  gli  ultimi 
tomi  dell'opera,  ma  tra  il  primo  e  i  restanti  tre.  In  tal  caso  è  innega- 
bile che  il  problema  dei  plagi  assumerebbe  un  valore  così  ampio  da 
costringerci  nuovamente  a  ergerci  a  giudici,  o  peggio  ancora  a  dover 
parteggiare  o  per  la  requisitoria  del  Bonacci  (il  quale  -  sia  detto 
spassionatamente,  ora  che  la  infuocata  polemica  s'è  da  tempo  raf- 
freddata —  aveva  indubbiamente  numerose  frecce  per  il  suo  arco),  o 
per  le  appassionate  arringhe  difensive  del  Gentile  e  del  Nicolini. 
Noi  crediamo,  invece,  che  il  problema  vada  posto  su  tutt'altre  basi. 
Per  far  questo,  è  necessario  tentare  di  ricostruire  i  criteri  e  i  modi 
coi  quali  il  Giannone  usava  procedere  nel  proprio  lavoro.  Non  ne 
abbiamo  documentazione  per  Y Istoria  civile,  ma  per  nostra  fortuna 
ne  abbiamo  invece  abbastanza  per  le  altre  sue  fatiche  del  periodo 
viennese,  soccorrendoci  qui  largamente  il  suo  carteggio  col  fratello. 

È  necessario,  preliminarmente,  avvertire  come  nella  produzione 
giannoniana  VIstoria  civile  non  sia  un  episodio  a  sé  stante.  Sino  ad 
oggi  tutta  la  critica  si  è  sempre  soffermata  sui  plagi  nella  sua  opera 
storica  del  Regno,  senza  accorgersi  che  con  la  medesima  frequenza  e 
abbondanza  i  plagi  ricompaiono  nell'Apologia  dell'Istoria  civile  come 
nel  Triregno.  Questo  perché,  purtroppo,  né  Pasquale  S.  Mancini,  né 
Augusto  Pierantoni,  né  lo  stesso  Alfredo  Parente  ci  hanno  fornito  edi- 
zioni degli  scritti  giannoniani  corredate  d'un  commento  degno  di  tal 

1.  Cfr.  in  Professione  di  fede,  «Dubbio  primo»  (in  Opere  postume,  1,  p. 
262):  «Ma  come  facciamo  per  quel  passo,  che  soggiungete,  tratto  dal 
tom.  4  pag.  370  .  .  .  che  niente  ristorico  civile  ripone  del  suo,  ma  non  fa 
altro,  che  trascrivere  le  parole  stesse  di  Battista  Nani  ?  ...  E  pure  quelle 
non  sono  mie  parole,  ma  del  Nani  stesso  ».  Ora  si  cfr.  VIstoria  civile  alla 
pagina  indicata,  e  si  vedrà  come  manchi  in  essa  ogni  rinvio  allo  storico 
veneziano! 


362  ISTORIA    CIVILE   DEL   REGNO   DI    NAPOLI 

nome.  Le  scarne  note  che  possono  ritrovarsi  a  pie  di  pagina  nelle  loro 
edizioni  (già  così  discutibili  dal  punto  di  vista  del  testo!)  non  sono  in 
realtà  che  ...  le  note  dello  stesso  Giannone,  asportate  arbitraria- 
mente dal  testo  senza  avvertenza,  talvolta  cammuffate  da  confronti 
con  edizioni  di  testi  ottocentesche  o  dei  primi  di  questo  secolo 
(com'è  il  caso,  ad  esempio,  per  i  rinvìi  alla  patrologia  greca  e  latina 
del  Migne),  col  risultato  aberrante  di  correggere  le  citazioni  dell'au- 
tore in  base  a  testi  ch'egli  non  poteva  conoscere.1  Ora  è  indubbio  che 
un  buon  commentatore  non  avrebbe  faticato  ad  indicare,  anche  per 
queste  fatiche  giannoniane,  fonti  e  ampiezza  di  plagi,  della  medesima 
entità  di  quelli  appena  intravisti  dal  Bonacci,  il  quale  fermò  la  sua 
attenzione  su  ventitré  libri  soltanto,  dei  quaranta  che  compongono 
V Istoria  civile, 

Qual  era,  dunque,  il  metodo  di  lavoro  del  Giannone  ?  Non  si  tar- 
derà ad  accorgersi,  scorrendo  l'epistolario,  come  il  Giannone  non 
abbia  mai  lavorato  da  solo,  ma  abbia  sempre  sfruttato  una  nutrita 
équipe  di  amici,  i  quali  compivano  con  lui  le  ricerche  e  gli  fornivano 
materiali.  Da  quel  che  sappiamo  dall'autobiografìa,  occorre  aggiun- 
gere che  anche  la  traccia,  l'impostazione  nasceva  da  una  discussione 
comune.  Per  V Istoria  civile  sappiamo,  intanto,  che  il  suo  disegno  era 
stato  discusso  con  l'Aulisio,  Nicola  Capasso,  professore  di  diritto  ca- 
nonico nell'Università  di  Napoli,  ed  «  alcuni  pochi  strettissimi . . .  ami- 
ci», tra  i  quali  annovereremo  Vincenzo  Ippolito  e  il  Grimaldi.  Al- 
l'Aulisio,  inoltre,  furono  sottoposti  per  la  revisione  «i  primi  soli  tre 
libri»,  mentre  non  fu  possibile  fare  altrettanto  con  l'Argento,  per 
i  troppi  impegni  della  sua  carica.2  Giunto  a  Vienna  con  un  primo 
abbozzo  dell'Apologia  dell'Istoria  civile*  egli  si  rivolse  ad  Alessandro 
Riccardi  e  a  Pio  Niccolò  Garelli,  ma  insistè  anche  perché  da  Napoli 
l'Ippolito  e  l'Acampora  continuassero  a  fornirgli  aiuto.4  Da  una  let- 
tera al  fratello  dell' 8  aprile  del  1724,  sembra  che  anche  Apostolo 

1.  Per  questo,  per  parte  nostra,  come  il  lettore  potrà  da  sé  verificare,  ci 
siamo  sforzati  sin  dove  ci  è  stato  possibile  di  proporre  i  confronti  soltanto 
con  edizioni  di  testi  e  con  la  bibliografia  critica  che  poteva  realmente 
essere  a  disposizione  dell'autore.  Per  far  questo  dobbiamo  riconoscere  che 
un  grande  aiuto  ci  è  stato  l'aver  lavorato  nella  stessa  biblioteca  frequentata 
dal  Giannone  al  tempo  della  composizione  della  sua  Istoria  civile:  la 
biblioteca  del  Valletta,  oggi  inglobata  nella  biblioteca  oratoriana  dei  Giro- 
lamini  di  Napoli.  Non  poche  volte,  durante  il  nostro  lavoro  di  commen- 
tatori, ci  è  stata  riserbata  la  soddisfazione  di  rintracciare  in  quella  biblio- 
teca volumi  postillati  dal  Giannone,  a  conferma  della  giustezza  della  trac- 
cia che  seguivamo.  2.  Cfr.  Vita,  qui  a  pp.  73-4.  3.  Per  la  cronologia  delle 
singole  parti  dell'opera  si  veda  quanto  abbiamo  cercato  di  ricostruire  in 
Giannoniana,  pp.  3  sgg.  4.  Cfr.  le  lettere  al  fratello  Carlo  del  3  luglio 
1723»  1  gennaio  e  11  marzo  1724,  rispettivamente  in  Giannonianat  nn.i  io, 
30  e  41. 


NOTA   INTRODUTTIVA  363 

Zeno  fosse  stato  interessato  alla  sua  Apologia.1  Comunque,  questa 
elaborazione  collettiva  della  difesa  dell'Istoria  civile  appare  chiara 
da  un  passo  d'un'altra  lettera  al  fratello  del  3  luglio  1723,  dove  è 
scritto  :  «  Qui  tuttavia  si  sta  travagliando  su  la  scrittura  che  vi  scrissi, 
e  può  essere  che  riesca,  tenendo  il  sig.  Riccardi  una  famosa  libraria. 
Ci  mancano  gli  esempi  domestici,  e  perciò  il  sig.  Presidente  po- 
trebbe darcene  lume,  siccome  veda  informarsi  dal  sig.  Grimaldi 
di  quel  fatto,  che  mi  scriveste,  che  accadde  per  l'occasione  del  Sinodo 
di  Cantelmo  ».z  II  plurale  non  è,  in  questo  passo,  un  pluralis  maiesta- 
tis,  ma  indica  proprio  un  lavoro  di  équipe. 

Più  tardi,  nel  1729,  in  occasione  della  risposta  al  padre  Sanf elice, 
di  nuovo  questa  partecipazione  collettiva  al  suo  impegno  appare 
chiara.  Il  Garelli  lo  segue  da  vicino,3  mentre  a  Napoli  sono  impegnati 
nella  lettura  e  correzione  il  Capasso  e  Biagio  Garofalo.4  E  va  aggiun- 
to che  il  Giannone  considera  questo  impegno,  questo  aiuto,  come 
dovutigli.  È  appena  arrivato  a  Vienna,  ad  esempio,  e  non  dubita  che 
sia  dovere  del  Riccardi  difenderlo  in  nome  dell'imperatore.5  Dovere, 
si  badi  bene. 

Avevano  dunque  ragione  il  Tanucci  e  il  Metastasio,  e  prima  il 
Fontanini  e  il  Sanfelice  ?  In  un  certo  senso  sì,  almeno  nella  misura 
in  cui  riconoscevano  l'espressione  della  voce  d'un  gruppo  allo  scritto 
giannoniano.  U  Istoria  civile  sarà  allora  «una  colossale  memoria  de- 
fensionale »,  come  ebbe  a  definirla  il  Gentile  e  ripetè  il  De  Ruggiero  ?6 
Nemmeno  questa  definizione  ci  soddisfa,  non  solo  perché  troppo 
limitativa,  ma  perché  in  effetti,  anziché  esaltarlo,  svilisce  l'impegno 
del  Giannone  e  dei  suoi  amici.  I  quali,  tutti,  vollero  invece  davvero 
affrontare  un  problema  nodale  nella  storia  del  Regno  e  costruire, 
per  la  loro  battaglia  politica,  un  valido  strumento  di  rottura,  e  com- 
pirono perciò  opera  altamente  storiografica,  e  non  già  avvocatesca. 
Ma  ci  sembra,  giunti  a  questo  risultato,  che  il  problema  dei  plagi  ne 
esca  di  molto  ridimensionato.  Ai  fini  d'un'util  izzazione  strumentale 
dell'Istoria  civile  esso,  ovviamente,  resta  un  doveroso  impegno  di 
commentatore,  preminente  su  ogn'altro.  Ma  ai  fini  dell'interpreta- 
zione in  sede  di  storia  della  storiografia  riveste  importanza  solo  in 
quanto  ci  ha  consentito  di  stabilire  l'originalità  e  il  maggiore  impe- 
gno del  primo  tomo  sugli  altri.  Impegno,  occorre  ancora  avvertire, 
che  ritorna  intatto  nei  restanti  tomi  per  le  pagine  dei  paragrafi  sulla 

1.  In  Giamtonìana,  n.°  44.     2.  C£r.  qui,  nella  scelta  delle  lettere,  la  in. 

3.  Cfr.  la  lettera  al  fratello  del  1  ottobre  1729,  in  Giannoniana,  n.°  322. 

4.  Cfr.  le  lettere  del  6  e  13  agosto  e  io  settembre  1729,  in  Giannoniana, 
nn.i  314,  315  e  319.  5.  Cfr.  la  lettera  del  26  giugno  1723,  al  fratello,  in 
Giannoniana,  n.°  9.  6.  27  pensiero  politico  meridionale  nei  secoli  XVIII  e 
XIX,  Bari  19462,  p.  25  e  passim. 


364  ISTORIA    CIVILE   DEL   REGNO   DI    NAPOLI 

«politia  ecclesiastica».  Lasciamo  dunque  da  parte  gli  sdegni  mo- 
ralisteggianti  d'un  Bonacci,  come  il  sacro  amor  patrio  d'un  Gentile 
o  d'un  Nicolini;  e  riconosciamo  ali3 Istoria  civile  quel  valore  e  quella 
forza  di  rottura  che  i  contemporanei  mai  si  sognarono  di  negarle. 
In  una  simile  elaborazione  collettiva  del  lavoro,  non  stupisce  se  si 
siano  raccolte  intere  pagine  da  diverse  fonti,  e  se  il  Giannone  le 
abbia  pazientemente  e  abilmente  riunite  dando  loro  forma  di  un 
discorso  continuato.  In  definitiva,  l'impegno  preso  con  la  stesura  di 
questa  nuova  ricostruzione  della  storia  regnicola  non  mirava  a  dare 
nuovi  contributi  eruditi,  ma  una  visione  unitaria  in  base  ad  una 
chiave  interpretativa  originale,  che  si  volle  definire  «civile».  Al  cen- 
tro di  tutta  questa  attività,  durata  un  ventennio,  troviamo  sempre  il 
Giannone,  figura  egemone  del  gruppo  e  suo  intelligente  portavoce. 
Figura  egemone  anche  più  tardi,  nel  periodo  viennese,  quando  si 
tratterà  di  difendere  l'impostazione  ideologica  raggiunta,  in  un  mo- 
mento di  generale  involuzione,  come  altrove  diciamo. 

Sergio  Bertelli 


DALLA 
«ISTORIA  CIVILE  DEL  REGNO  DI  NAPOLI» 

INTRODUZIONE 

L  istoria,  che  prendo  io  a  scrivere  del  regno  di  Napoli,  non  sarà  per 
assordare  i  leggitori  collo  strepito  delle  battaglie  e  col  romor  del- 
l'armi, che  per  più  secoli  lo  renderon  miserabil  teatro  di  guerra; 
e  molto  meno  sarà  per  dilettar  loro  colle  vaghe  descrizioni  degli 
ameni  e  deliziosi  suoi  luoghi,  della  benignità  del  suo  clima,  della 
fertilità  de'  suoi  campi,  e  di  tutto  ciò  che  natura,  per  dimostrar  suo 
potere  e  sua  maggior  pompa,  profusamente  gli  concedette:  né  sarà 
per  arrestargli  nella  contemplazione  dell'antichità  e  magnificenza 
degli  ampi  e  superbi  edifici  delle  sue  città,  e  di  ciò  che  l'arti  mec- 
caniche maravigliosamente  vi  operarono:  altri  quest'uficio  ha  for- 
nito, e  forse  se  ne  truova  dato  alla  luce  vie  più  assai  che  non  si 
converrebbe.  Sarà  quest'istoria  tutta  civile,  e  perciò,  se  io  non  sono 
errato,  tutta  nuova,  ove  della  politia1  di  sì  nobil  Reame,  delle  sue 
leggi  e  costumi  partitamente  tratterassi  :  parte,  la  quale  veniva  di- 
siderata  per  intero  ornamento  di  questa  sì  illustre  e  preclara  region 
d'Italia.  Conterà,  nel  corso  poco  men  di  quindici  secoli,  i  vari  stati 
ed  i  cambiamenti  del  suo  governo  civile  sotto  tanti  principi  che  lo 
dominarono;  e  per  quanti  gradi  giugnesse  in  fine  a  quello  stato  in 
cui  oggi  '1  veggiamo:  come  variossi  per  la  politia  ecclesiastica  in 
esso  introdotta,  e  per  gli  suoi  regolamenti:  qual  uso  ed  autorità3 
ebbonvi  le  leggi  romane,  durante  l'Imperio,  e  come  poi  dichinas- 
sero: le  loro  obblivioni,  i  ristoramenti,  e  la  varia  fortuna  delle 
tant' altre  leggi  introdotte  dapoi  da  varie  nazioni:  l'accademie,  i 
tribunali,  i  magistrati,  i  giureconsulti,  le  signorie,  gli  uffici,  gli  or- 
dini; in  brieve,  tutto  ciò  che  alla  forma  del  suo  governo,  così  politi- 
co e  temporale,  come  ecclesiastico  e  spiritual  s'appartiene. 

Se  questo  Reame  fosse  surto,  come  un'isola  in  mezzo  all'Oceano, 
spiccato  e  diviso  da  tutto  il  resto  del  mondo,  non  s'avrebbe  avuta 


Il  testo  è  tratto  dalla  edizione  napoletana  del  1723. 1  brani  inseriti  tra  aste- 
rischi sono  del  Giannone,  secondo  il  testo  datone  dalTabate  Leonardo 
Panzini  nell'edizione  Gravier,  Napoli  1770,  in  8P. 

1.  politia:  ordinamento  politico.  2.  qual  uso  ed  autorità:  richiamo  al  titolo 
dell'opera  del  Duck,  più  oltre  citata. 


366  ISTORIA    CIVILE   DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

gran  pena  a  sostenere,  per  compor  di  sua  civile  istoria  molti  libri  ; 
imperciocché  sarebbe  bastato  aver  ragione  de*  principi  che  lo  do- 
minarono, e  delle  sue  proprie  leggi  ed  instituti  co'  quali  fu  gover- 
nato. Ma  poiché  fu  egli  quasi  sempre  soggetto  e  parte,  o  d'un 
grand* Imperio,  come  fu  il  romano,  e  dapoi  il  greco,  o  d'un  gran 
regno,  come  fu  quello  d'Italia  sotto  i  Goti  e  sotto  i  Longobardi, 
o  finalmente  ad  altri  principi  sottoposto,  che  tenendo  collocata  al- 
trove la  regia  lor  sede,  quindi  per  mezzo  de'  loro  ministri  '1  regge- 
vano; non  dovrà  imputarsi,  se  non  a  dura  necessità,  che  per  ben 
intendere  la  sua  speziai  politia  si  dia  un  saggio  della  forma  e  di- 
sposizione dell'Imperio  romano,  e  come  si  reggessero  le  sue  Pro- 
vincie, fra  le  quali  le  più  degne,  ch'ebbe  in  Italia,  furon  certamente 
queste  che  compongono  oggi  il  nostro  Regno.  Non  ben  potrebbe 
comprendersi  loro  cambiamento,  se  insieme  non  si  manifestassero 
le  cagioni  più  generali,  onde  variandosi  il  tutto,  venisse  anche  que- 
sta parte  a  mutarsi;  e  poiché  queste  regioni,  per  le  loro  nobili  pre- 
rogative invitarono  molti  principi  d'Europa  a  conquistarle,  furon 
perciò  lungamente  combattute,  ciascheduno  pretendendo  avervi 
diritto,  e  chi  come  tributarie,  chi  in  protezione,  e  qual  finalmente 
come  feudatarie  le  pretese:  si  è  riputato  perciò  pregio  dell'opera1 
che  i  fonti  di  tutte  queste  pretensioni  si  scovrissero  ;  né  potevano 
altramente  mostrarsi,  se  non  col  dare  una  general'idea  e  contezza 
dello  stato  d'Italia  in  vari  tempi,  e  sovente  degli  altri  principati 
più  remoti,  e  de'  trasportamenti  de'  reami  di  gente  in  gente,  onde 
sursero  le  tante  pretensioni  che  diedon  moto  all'imprese  e  fomento. 
Né  cotali  investigamenti  sono  stati  solamente  necessari  per  dare 
un'esatta  e  distinta  cognizione  dello  stato  politico  e  temporale  di 
questo  Regno,  come  per  avventura  sarà  da  alcuni  riputato;  ma 
eziandio  per  quello  che  s'aspetta  ad  ecclesiastici  affari  ;  imperocché 
non  minori  furon  le  contese  fra'  principi  del  secolo,  che  fra'  mag- 
giori prelati  della  Chiesa.  Fu  anche  questo  Regno  combattuto  da' 
due  più  celebri  patriarchi  del  mondo,  da  quel  di  Roma  in  Occiden- 
te, e  dall'altro  di  Costantinopoli  in  Oriente.  Per  tutte  le  ragioni 
apparteneva  il  governo  delle  nostre  Chiese  al  pontefice  romano,  non 
pur  come  capo  della  Chiesa  universale,  ma  anche  come  patriarca 
d'Occidente,  eziandio  se  l'autorità  sua  patriarcale  avesse  voluto 
restringersi  alle  sole  città  suburbicarie?  ma  il  costantinopolitano 

1.  pregio  dell'operai  che  valesse  la  pena  (latinismo).     2.  città  suburbicarie: 
Albano,  Frascati,  Ostia,  Palestrina,  Porto  e  Santa  Rufina,  Sabina  e  Poggio 


INTRODUZIONE  367 

con  temerario  ardire  attentò  usurpare  le  costui  regioni:  pretese 
molte  chiese  di  questo  Reame  al  suo  patriarcato  d'Oriente  appar- 
tenersi :  che  di  lui  fosse  il  diritto  di  erger  le  città  in  metropoli,  e 
d'assegnar  loro  que'  vescovi  suffraganei  che  gli  fossero  piaciuti. 
Era  perciò  di  mestiere  far  vedere  come  questi  due  patriarcati  di- 
latassero pian  piano  i  loro  confini:  il  che  non  potea  ben  farsi  senza 
una  general  contezza  della  politia  dello  stato  ecclesiastico,  e  della 
disposizione  delle  sue  diocesi  e  provincie. 

L'istoria  civile,  secondo  il  presente  sistema  del  mondo  cattolico, 
non  può  certamente  andar  disgiunta  dall'istoria  ecclesiastica.  Lo 
stato  ecclesiastico,  gareggiando  il  politico  e  temporale  de'  principi, 
si  è  per  mezzo  de'  suoi  regolamenti  così  forte  stabilito  nell'Imperio, 
e  cotanto  in  quello  radicato  e  congiunto,  che  ora  non  possono  per- 
fettamente ravvisarsi  li  cambiamenti  dell'uno,  senza  la  cognizione 
dell'altro.  Quindi  era  necessario  vedere  come  e  quando  si  fosse 
l'ecclesiastico  introdotto  nell'Imperio,  e  che  di  nuovo  arrecasse  in 
questo  Reame:  il  che  di  vero  fu  una  delle  più  grandi  occasioni  del 
cambiamento  del  suo  stato  politico  e  temporale;  e  quindi  non  senza 
stupore  scorgerassi  come,  contro  a  tutte  le  leggi  del  governo,  abbia 
potuto  un  imperio  nell'altro  stabilirsi,  e  come  sovente  il  sacerdozio, 
abusando  la  divozion  de'  popoli  e  '1  suo  potere  spirituale,  intra- 
prendesse sopra1  il  governo  temporale  di  questo  Reame:  che  fu 
rampollo  delle  tante  controversie  giurisdizionali,  delle  quali  sarà 
sempre  piena  la  repubblica  cristiana,  e  questo  nostro  Regno  più 
che  ogni  altro;  onde  preser  motivo  alcuni  valentuomini  di  trava- 
gliarsi per  riducere  queste  due  potenze  ad  una  perfetta  armonia  e 
corrispondenza,  e  comunicarsi  vicendevolmente  la  loro  virtù  ed 
energia;  essendosi  per  lunga  sperienza  conosciuto  che  se  l'imperio 
soccorre  con  le  sue  forze  al  sacerdozio,  per  mantenere  l'onor  di 
Dio  ;  ed  il  sacerdozio  scambievolmente  stringe  ed  unisce  Paffezion 
del  popolo  all'ubbidienza  del  principe,  tutto  lo  Stato  sarà  florido 
e  felice;  ma  per  contrario,  se  queste  due  potenze  sono  discordanti 
fra  loro,  come  se  il  sacerdozio,  oltrepassando  i  confini  del  suo  po- 
tere spirituale,  intraprendesse  sopra  l'imperio  e  governo  politico, 
ovvero  se  l'imperio  rivolgendo  contra  Dio  quella  forza,  che  gli  ha 

Mirteto,  Velletri,  sono  le  diocesi  suburbicarie  (cioè  sottoposte  all'Urbe), 
ma  il  termine  valeva  più  latamente  a  indicare  ogni  diocesi  posta  sotto  Ve- 
piscopus  urbìcus,  il  vescovo  di  Roma.  1.  intraprendesse  sopra:  scaval- 
casse. 


368  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO   DI   NAPOLI 

messa  tra  le  mani,  volesse  attentare  sopra  il  sacerdozio,  tutto  va  in 
confusione  ed  in  mina;  di  che  potranno  esser  gran  documento  i 
molti  disordini  che  si  sentiranno  perciò  in  quest'istesso  nostro  Rea- 
me accaduti. 

Nel  trattar  dell'uso  e  dell'autorità  ch'ebbero  in  queste  nostre 
Provincie  così  le  leggi  romane,  come  i  regolamenti  ecclesiastici,  e 
le  leggi  dell'altre  nazioni,  non  si  è  risparmiato  né  fatica,  né  trava- 
glio :  e  forse  il  veder  l'opera  in  questa  parte  abbondare,  farà  scoprir 
la  mia  professione,  palesandomi  al  mondo  più  giureconsulto  che 
politico.  Veracemente  meritava  questa  parte  che  fosse  fra  noi  ben 
illustrata;  poiché  non  in  tutti  luoghi,  né  in  tutti  tempi  fu  cotal 
uso  ed  autorità  delle  romane  leggi  sempre  uniforme:  onde  avendo 
i  nostri  giureconsulti  trascurata  questa  considerabilissima  parte, 
siccome  altresì  quella  dell'origine  ed  uso  dell'altre  leggi,  che  dapoi 
nello  stesso  nostro  Regno  da  straniere  nazioni  s'introdussero;  è 
stata  potissima1  cagione  ch'abbian  costoro  riempiuti  i  lor  volumi 
di  gravi  e  sconci  errori,  da'  quali  con  chiaro  documento  siamo 
ancora  ammaestrati  quanto  a  ciaschedun  sia  meglio  affaticarsi  per 
andar  rintracciando  in  sua  contrada  le  varie  fortune  ed  i  vari  casi 
delle  leggi  romane  e  delle  proprie,  che  con  dubbio  e  poco  accerta- 
mento andar  vagando  per  le  provincie  altrui.  Imperocché,  quan- 
tunque si  possa  per  un  solo  tesser  esatta  istoria  dell'origine  e  pro- 
gressi delle  lettere  nell'altre  professioni,  e  della  varia  lor  fortuna 
per  tutte  le  parti  d'Europa,  siccome  veggiamo  esser  ad  alcuni  talora 
riuscito;  nientedimeno  quanto  è  alla  giurisprudenza,  la  quale  spesso 
varia  aspetto  al  variar  de'  principi  e  delle  nazioni,  egli  non  è  carico 
che  possa  già  per  un  solo  sostenersi,  ma  dee  in  più  esser  ripartito, 
ciascun  de'  quali  abbia  a  raggirarsi  nell'uso,  nell'autorità  e  nelle 
varie  mutazioni,  che  troverà  nella  propria  regione  essere  accadute. 
Così  scorgiamo  essersi  della  giurisprudenza  romana  per  alcuni  ec- 
cellenti scrittori  compilata  qualche  istoria;  però  quasi  tutti  si  son 
affaticati  a  renderla  chiara  ed  illustre,  in  narrando  la  sua  origine  ed 
i  progressi  ne'  tempi  che  l'Imperio  romano  nacque,  crebbe  e  si 
stese  alla  sua  maggior  grandezza;  ma  i  vari  casi  di  quella,  quando 
l'Imperio  cominciò  poi  a  cader  dal  suo  splendore,  la  sua  dichina- 
zione,  obblivione  e  ristoramento,  l'uso  e  l'autorità  che  le  fu  data 
ne'  nuovi  domìni,  dopo  l'inondazione  di  tante  nazioni  in  Europa 

1.  potissima:  principalissima,  fondamentale  (latinismo). 


INTRODUZIONE  369 

stabilite;  quando  per  le  nuove  leggi  rimanesse  presso  che  spenta, 
e  quando  ristabilita  quelle  oscurasse:  non  potranno  certamente  in 
tutte  le  parti  d'Europa  da  un  solo  esattamente  descriversi.  Per- 
ciò ben  si  consigliarono  alcuni  nobili  spiriti,  dopo  aver  dato  un 
saggio  delle  cose  generali,  nel  proprio  regno  o  provincia  a  figgersi 
i  confini,  oltre  a'  quali  di  rado  0  non  mai  trapassarono. 

Un  uom  di  Bretagna,  e  dal  mondo  diviso,  reputando  gli  altri  in 
troppo  brevi  chiostri  aver  ristretto  l'ardire  dell'ingegno  umano, 
mostrò  d'aver  coraggio  per  tant' impresa.  Fu  questi  il  celebre  Ar- 
turo Duck,a  il  quale  oltre  a'  confini  della  sua  Inghilterra  volle  in 
altri,  e  più  vicini  e  più  lontani  paesi,  andar  rintracciando  l'uso 
e  l'autorità  delle  romane  leggi  ne'  nuovi  domini  de'  principi  cristia- 
ni ;  e  di  quelle  di  ciascheduna  nazione  volle  ancora  aver  conto  :  le 
ricercò  nella  vicina  Scozia  e  nell'Ibernia;  trapassò  nella  Francia  e 
nella  Spagna;  in  Germania,  in  Italia  e  nel  nostro  Regno  ancora: 
si  stese  inoltre  in  Polonia,  Boemia,  in  Ungheria,  Danimarca,  nella 
Svezia,  ed  in  più  remote  parti.  Ma  l'istessa  insigne  sua  opera  ha 
chiaramente  mostrato  al  mondo  non  esser  questa  impresa  da  un 
solo;  poiché  sebbene  la  gran  sua  diligenza,  e  la  peregrinazione  in 
vari  paesi  d'Europa,  come  nella  Francia,  nella  Germania  e  nell'Ita- 
lia, avessero  potuto  in  gran  parte  rimuovere  le  molte  difficoltà  al 
proseguimento  della  sua  impresa,  nondimeno  il  successo  poi  ha 
dimostrato  essersi  ciò  ben  potuto  da  lui  esattamente  adempiere 
nella  sua  Inghilterra,  nella  Scozia,  nell'Ibernia,  ed  in  alcune  re- 
gioni da  sé  meno  lontane;  ma  nell'altre  parti,  e  spezialmente  nel 
nostro  Reame,  si  vede  veramente  essersi  da  pellegrino1  diportato  ; 
conciossiecosaché,  seguendo  le  volgari  scorte,  cadde  in  molti  er- 
rori, non  altro  avendoci  soniministrato  che  una  molto  leggier  con- 
tezza dell'uso  e  dell'autorità  delle  leggi,  così  romane,  come  proprie, 
qui  introdotte  da'  vari  principi  che  lo  ressero.  Ned  egli,  per  la  sua 
ingenuità,  nella  conchiusion  del  libro  potè  dissimularlo,  prometten- 
dosi appo  stranieri  trovar  perdono,  se  trattando  delle  loro  leggi  e 
costumi,  così  parco  stato  fosse;  e  confessò  altro  non  essere  stato 
suo  intendimento  che  d'invogliare  i  giureconsulti  d'altri  paesi,  ac- 

a)  Arthur.  Duck,  De  usu  et  auth.  tur.  civ.  Rom.  in  dominiis  principum 
christianorum.3, 

1. pellegrino:  straniero.     2.  Vedi  la  nota  4  a  p.  53. 
24 


370  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO   DI   NAPOLI 

ciocché  prendendo  esempio  da  lui,  quel  che  egli  aveva  adempiuto 
nella  sua  Inghilterra,  volessero  essi  fare  con  più  diligenti  trattati 
ne'  propri  loro  regni  o  provincie.  Per  questa  cagione,  poco  prima 
d'Arturo,  alcuni  scrittori,  senz'andar  molto  vagando,  alle  proprie 
regioni  si  restrinsero.  Innocenzio  Cironioa  cancellier  di  Tolosa 
volle  raggirarsi  per  la  sola  Francia,  ancorché  assai  leggiermente  la 
scorresse.  Ma  Alteserrab  ciò  con  maggior  esattezza  e  più  minuta- 
mente volle  ricercare  in  quella  provincia  ove  ei  nacque,  cioè  nel- 
l'Aquitania.  E  Giovanni  Costa,1  eccellente  cattedratico  in  Tolosa, 
promise  di  far  lo  stesso  con  maggior  diligenza  in  tutto  il  regno  di 
Francia:  ma  questa  sua  grand'opera,  che  con  impazienza  era  aspet- 
tata dal  Cironio,c  da  Arturod  e  da  tutti  gli  altri  eruditi,  non  sap- 
piamo ancora  a'  dì  nostri  se  mai  uscita  sia  alla  luce  del  mondo. 
Giovanni  Dovjate  fece  da  poi  lo  stesso,  non  oltrapassando  i  confini 
della  Francia;  e  talora  è  accaduto  che  volendo  alcuni  esser  troppo 
curiosi  nelle  altrui  regioni,  abbiano  nelle  proprie  trascurate  le  mi- 
gliori ricerche,  ed  in  mille  errori  esser  per  ciò  inciampati. 

Alla  Germania  non  manca  il  suo  istorico  intorno  a  questo  sug- 
getto.  Ermanno  Coringiof  compilò  un  trattato  dell'origine  e  va- 
ria fortuna  delle  leggi  romane  e  germaniche,  del  quale  fassi  ono- 
rata memoria  presso  a  Giorgio  Pasquio;g  ed  a'  dì  nostri  Burcardo 

a)  Ciron.,  Observat.  tur.  con.  lib.  5.2  b)  Alteserra,  Rerum  aquitanic. 
lib.  3.3  e)  Ciron.,  lib.  5  Obser.  tur.  can,,  cap.  6  et  7.  d)  Arthur., 
Kb.  2,  cap.  5,  num.  43.  e)  Dovjat.,  Hist.  iur.  civ.*  f)  Erm.  Co- 
ringio,  De  orig.  iuris  germanici?    g)  Georg.  Pasquio,  De  novis  inventa 

1.  Giovarmi  Costa:  si  tratta  di  Jean  Lacoste  (latino  Ianus  a  Costa,  1560- 
1637),  allievo  del  Cujas  e  professore  a  Tolosa,  autore  di  un  commentario 
alle  istituzioni  di  diritto  civile.  2.  Innocent  Ciron  (cfr.  la  nota  3  a  pp.  41- 
2),  Observationum  in  ius  canonicum  libri  quinque,  in  I.  Cironii  Opera  in  ius 
canonicumt  Tolosae  1645.  3.  Antoine  Dadin  de  Hauteserre  (1602-1682), 
giurista  e  storico,  Rerum  aquitanicarum  libri  quinque,  in  quibus  vetus  Aquitania 
illustratur,  Tolosae  1648.  4.  Del  giurista  tolosano  Jean  Doujat  (cfr.  la 
nota  4  a  pp.  31-2)  è  qui  citata  VHistoria  iuris  civilis  Romanorum,  qua  eius 
tum  origo  et  progressus,  autoritas  et  utilitast  tum  iustinianaei  partes  atque 
ordo  partium  demonstrantur  ubi  et  gallici  iuris  origo  perstringitur,  Lutetiae 
Parisiorum  1678.  5.  Hermann  Conring  (1606-1681),  giurista  ed  econo- 
mista tedesco,  De  origine  iuris  germanici  liber  unus,  Helmstadìi  1665. 
6.  Si  tratta  di  Georg  Pasch  (1661-1707),  celebre  teologo  di  Danzica,  autore 
di .  .  .  Schediasma  de  curiosis  huius  saeculi  inventis,  quorum  accuratiori  cultui 
facem  praetulit  antiquitas,  Kiloni  1695.  È  probabile  però  che  il  Giannone 
si  riferisca  all'edizione  aumentata  di  Lipsia,  col  titolo  Tractatus  de  novis 
inventis  quorum  accuratiori  cultui  facem  praetulit  antiquitas,  Lipsiae  1700. 


INTRODUZIONE  371 

Struvioa  ne  ha  compilato  un  altro  più  diffuso,  rapportando  altri 
autori  che  per  l'Alemagna  fecero  lo  stesso. 

Non  manca  all'Ollanda  il  suo,  e  Giovanni  Voezio1  compilò  un 
libro  intitolato  :  De  usu  ìuris  cwilis  et  canonici  in  Belgio  unito. 

Per  la  Spagna  abbiamo  che  Michele  Molino*  ne  distese  un  con- 
simile per  lo  regno  d'Aragona.  Giovanni  Lodovico  Cortes3  scrisse 
ristoria  Iuris  hispanici;  e  Gerardo  Ernesto  di  Frankenau4  sopra 
questo  argomento  si  distese  più  d'ogni  altro.b  Hanno  pure  intorno 
a  ciò  i  loro  istorici  la  Svezia,  la  Danimarca,  la  Norvegia,  e  l'altre 
Provincie  settentrionali.  Né  ve  ne  mancano  ancora  in  alcune  parti 
della  nostra  Italia,  come  in  Milano  per  l'industria  di  Francesco 
Grasso,0  ed  in  altri  paesi  ancora  della  medesima. 

Nel  nostro  Regno  solamente,  ciò  che  gli  altri,  tratti  dall'amor 
della  gloria  della  loro  nazione  fecero,  è  stato  sempre  trascurato. 
Né  per  certo  dovrebb' essere  maggior  l'espettazione  e  '1  disiderio 
che  vi  si  provedesse,  della  maraviglia  come  in  un  Regno  così  am- 
pio e  fecondo  di  tanti  valorosi  ingegni,  che  con  le  loro  opere  han 
dato  saggio  al  mondo,  null'altro  studio  esser  loro  più  a  cuore  che 
quello  delle  leggi,  abbian  poi  tralasciato  argomento  sì  nobile  ed 
illustre.  Imperciocché  una  storia  esatta  dell'uso  ed  autorità  che 
nel  nostro  Regno  ebbero  le  leggi  romane,  e  de'  vari  accidenti  del- 
l'altre leggi,  che  di  tempo  in  tempo  furon  per  diverse  nazioni  in 


a)  Struv.,  Hist.  iur.  germ.,  cap.  6.s     b)  V.  Struvio  in  Prolegom. 
ad  Histor.  iur.,  §  28.     e)  Frane.  Grass.  in  Libello  de  orig.  tur.  mediol.6 


1.  Giovanni  Voezio:  in  realtà  il  Giannone  confonde.  Non  si  tratta  di  Jean 
Voet  (1647-1714),  ma  del  di  lui  padre  Paul  (1619-1677),  giurista  olandese, 
autore  del  De  usu  iuris  civilis  et  canonici  in  Belgio  Unito,  deque  more  promo- 
vendi doctores  utriusque  iuris liber  singularis,  Ultraiecti  1657.     2.  Micer 

Miguel  del  Molino,  giurista  aragonese  della  seconda  metà  del  XV  secolo, 
autore  del  Repertorium  fororum  et  observantiarum  regni  Aragoniae,  edito 
per  la  prima  volta  nel  15 17  (Caesaraugustana  civitate).  3.  Giovanni  Lodo- 
vico Cortes:  probabilmente  Juan  Lucas  Cortes,  scrittore  spagnolo  nato  a 
Siviglia  nel  XVII  secolo  e  avvocato  del  Consiglio  reale.  4.  Gerhard 
Ernst  Franck  von  Franckenau,  autore  della  Biblìotheca  hispanica  historico- 
genealogico-heraldica,  Lipsiae  1724,  e  soprattutto  di  Sacra  Themidis  Hispa- 
niae  arcana,  iurium,  legumque  ortus,progressus,  varietates  et  observantiam  . . ., 
Hannoverae  1703,  a  cui  fa  riferimento  lo  Struve.  5.  Burkhard  Gotthelf 
Struve  (1671-1738),  erudito  e  bibliografo  tedesco,  Historia  iuris  romani  iusti- 
nianaeiygraeci,  germanici,  canonici  feudalis,  criminalis  etpublici  ex  genuinis  mo- 
numentis  illustrata . . .  Prolegomena ...,  Ienae  171 8.  6.  Si  tratta  di  Francesco 
Grasso,  giurista  milanese  del  XV  secolo,  che  oltre  il  De  origine  iuris  medio- 
lanensis  compilò  una  raccolta  delle  costituzioni  di  Milano  più  volte  edite. 


372  ISTORIA    CIVILE   DEL    REGNO    DI    NAPOLI 

esso  introdotte,  onde  ne  vennero  le  prime  oscurate,  e  come  poi 
risorte  avessero  racquistato  il  loro  antico  splendore  ed  autorità,  e 
siansi  nello  stato  in  cui  oggi  veggiamo  restituite  ;  dovrebbe  in  vero 
essere  una  delle  cose  appresso  noi  più  desiderabili,  non  per  leggieri 
e  vane,  ma  per  gravi  ed  importantissime  cagioni.  Non  perché  per 
troppa  curiosità,  e  forse  inutile,  si  dovesse  esser  ansioso  di  spiar  le 
varie  vicende  di  quelle  ;  non  perché  ne  ricevano  esse  maggior  pom- 
pa e  lustro,  né  per  ostentazione  di  peregrina  e  non  volgar  erudi- 
zione; ma  per  più  alte  cagioni:  queste  sono,  perché  da  un'esatta 
notizia  di  tutto  ciò  che  abbiam  proposto,  oltre  alP accrescimento 
della  prudenza  per  Puso  delle  leggi  e  per  un  diritto  discernimento, 
ciascuno  potrà  ritrarne  l'idea  d'un  ottimo  governo;  poiché  notan- 
dosi nell'istoria  le  perturbazioni  ed  i  moti  delle  cose  civili,  i  vizi  e  le 
virtù,  e  le  varie  vicende  di  esse,  saprà  molto  ben  discernere  quale 
sia  il  vero,  ed  al  migliore  appigliarsi. 

Ma  sopra  ogni  altro,  da  ciò  dipende  in  gran  parte  il  rischiara- 
mento delle  nostre  leggi  patrie  e  de'  nostri  propri  instituti  e  costu- 
mi; le  quali  cose  non  per  altra  cagione  veggonsi  da'  nostri  scrittori 
sì  rozzamente  trattate,  e  sovente,  senza  comprendersene  il  senti- 
mento, sì  stranamente  a  noi  esposte,  se  non  perché  ignari  della 
storia  de'  tempi,  de'  loro  autori,  dell'occasioni  onde  furono  stabi- 
lite: ignari  dell'uso  e  dell'autorità  delle  leggi  romane  e  delle  lon- 
gobarde, sdrucciolaron  perciò  in  quei  tant' errori,  de'  quali  veg- 
gonsi pieni  i  lor  volumi,  e  di  mille  puerilità  e  cose  inutili  e  vane 
caricati;  e  tanta  ignoranza  avea  loro  bendati  gli  occhi  che  si  pre- 
giavano d'essere  solamente  leggisti,  e  non  istorici  ;  non  accorgendosi 
che  perché  non  erano  istorici,  eran  perciò  cattivi  leggisti,  e  rende- 
vansi  dispregevoli  appo  gli  estranei  ed  a  molti  ancora  de'  loro 
compatrioti.  Carlo  Molineoa  di  quanti  sconci  errori  riprese,  per 
ignoranza  d'istoria,  non  pur  Baldo,1  ma  eziandio  il  nostro  Andrea 
d'Isernia?2  E  di  quanto  scherno  furono  perciò  i  nostri  agli  altri 

a)  Molin.,  in  Comment,  ad  Consuet.  paris.,  par.  i,  tit.  I,  num.  91 
et  num.  g6.3 


1.  Baldo  degli  Ubaldi  (13 19  o  1327-1400),  discepolo  di  Bartolo  di  Sasso- 
ferrato,  fu  tra  i  più  celebri  giuristi  del  suo  tempo,  autore  di  vasti  commen- 
tari al  Corpus  iuris  e  alle  Decretali.  2.  Andrea  d'Isernia:  vedi  più  oltre  la 
nota  1  a  p.  456.  3.  Sul  Molineo  vedi  la  nota  2  a  p.  125.  Qui  sono  citati 
i  Commentarvi  in  consuetudines  parisienses . . .,  Parisiis  1576. 


INTRODUZIONE  373 

scrittori  ?  Di  quanto  riso  fu  a  costoro  cagione  Niccolò  Boerio,1  che 
scrisse  i  Longobardi  essere  stati  certi  re  venutici  dalla  Sardegna, 
il  nostro  Matteo  degli  Afflitti,2  e  tanti  altri. 

Si  aggiugne  eziandio  Futilità  grande  che  dalla  cognizione  di 
tal'istoria  si  ritrae  per  Fuso  del  foro  e  de*  nostri  tribunali,  e  per  le 
controversie  medesime  forensi.  Nel  che  non  possiamo  noi  in  que- 
sti tempi  allegar  miglior  testimonio  che  il  Cardinal  di  Luca,  stato 
celebre  avvocato  in  Roma,  ed  uomo  nel  foro  compiutissimo,  il  quale 
in  quasi  tutti  i  suoi  infiniti  discorsi,  onde  furon  compilati  tanti 
volumi,  con  ben  lunga  esperienza  ha  dimostrato  in  mille  luoghia 
non  altronde  esser  derivati  i  tanti  abbagli  de'  nostri  scrittori  se 
non  dall'ignoranza  dell'istoria  legale,  tanto  che  non  predica  altro, 
così  a'  giudici,  come  agli  avvocati,  che  l'esatta  notizia  di  quella, 
senza  la  quale  sono  inevitabili  gli  errori  e  le  scipitezze.  Ma  fra' 
nostri,  niun  altro  rendè  più  manifesta  questa  verità,  quanto  quel 
lume  maggiore  della  gloria  de'  nostri  tribunali,  l'incomparabile 
Francesco  d'Andrea,  il  quale  in  quella  dotta  disputazione  feudale,0 
che  diede  alla  luce  del  mondo,  ben  a  lungo  dimostrò  che  non  al- 
tronde che  da  questa  istoria  potevan  togliersi  le  difficoltà,  dove 
aveano  inviluppata  tal  materia  i  nostri  scrittori;  onde  si  videro 
perciò  in  milF errori  miseramente  caduti.  Ciò  che  dovea  essere  a 
tutti  d'ammonimento,  quanto  la  cognizione  dell'istoria  legale  sia 
necessaria  a  tutte  l'altre  controversie  del  foro.  Né  lasciò  questo 
gran  letterato,  per  quanto  comportava  il  suo  instituto,  di  darci  di 
quella  non  debil  lume.  E  veramente  nostra  disavventura  fu  che 
ciò  che  gli  altri  scrittori  fecero  per  gli  loro  paesi,  non  avesse  egli 

a)  Card,  de  Luca,  De  servii,  disc,  i  De  iudiciis,  disc.  35  Deregularib., 
disc.  161  in  Miscellaneo ,  et  alibi  saepe.3  b)  Frane,  de  Andreys, 
Disp.  an  fratres  in  fenda  nostri  regn.  succed.  etc.4 


1.  Niccolò  Boerio  :  si  tratta  di  Nicolas  Bohier  (latino  Boerius,  1469- 153  9), 
professore  a  Bourges.  2.  Matteo  degli  Afflitti:  vedi  più  oltre  la  nota  2  a 
p.  408.  Giudice  di  Vicaria,  raccolse  per  primo  le  decisioni  del  Sacro  Regio 
Consiglio.  3.  Giovanni  Battista  De  Luca  (1614-1683),  giurista  venosino 
creato  cardinale  nel  1681  da  Innocenzo  XI.  Il  Giannone  si  riferisce  al 
Theatrum  veritatis  et  iustitiae  sive  decisivi  discursus  per  materias  seu  titulos 
distincti,  Romae  1669- 1673,  in  ventuno  tomi.  Da  quest'opera,  che  riassu- 
meva la  sua  attività  legale,  fu  tratta  una  versione  italiana,  Il  dottor  volgare, 
ovvero  il  compendio  di  tutta  la  legge  civile,  canonica,  feudale  e  municipale 
ecc.,  in  quindici  libri  (Roma  1673).  4.  Su  Francesco  D'Andrea  e  l'opera 
qui  citata  vedi  rispettivamente  le  note  3  a  p.  43  e  5  a  p.  44. 


374  ISTORIA   CIVILE   DEL    REGNO   DI   NAPOLI 

tentato  di  far  per  lo  nostro  Reame,  che  certamente  non  avremmo 
occasione  di  dolerci  oggi  di  tal  mancanza.  Poiché  qual  cosa  non  ci 
avremmo  potuto  promettere  dalla  forza  del  suo  divino  ingegno, 
dalla  gran  perizia  delle  leggi,  dell'istoria  e  dell'erudizione;  da  quel- 
la maravigliosa  eloquenza,  e  dall'infaticabile  applicazione  ed  esatta 
sua  diligenza?  Né  minori  prerogative,  a  mio  credere,  si  ricercano 
per  riducere  una  tal'impresa  al  suo  compiuto  fine,  le  quali,  se  di- 
sgiunte pur  con  maraviglia  osserviamo  in  molti,  tutte  congiunte  in 
lui  solo  s'ammiravano. 

Grave  dunque,  e  per  avventura  superiore  alle  mie  poche  forze, 
sarà  il  peso  ond'io  ho  voluto  caricarmi  ;  e  tanto  più  grave,  ch'aven- 
do riputato  che  non  ben  sarebbe  trattata  l'istoria  legale,  senza  ac- 
coppiarvi insieme  l'istoria  civile,  ho  voluto  congiungere  in  uno 
la  politia  di  questo  Reame  con  le  sue  leggi,  l'istoria  delle  quali 
non  avrebbe  potuto  esattamente  intendersi,  se  insieme,  onde  sur- 
sero  e  qual  disposizione  e  forma  avessero  queste  provincie,  che 
con  quelle  eran  governate,  non  si  mostrasse.  E  quindi  è  avvenuto 
che  attribuendosi  il  lor  cambiamento  a'  regolamenti  dello  stato 
ecclesiastico,  che  poi  leggi  canoniche  furono  appellate,  siasi  veduta 
avvolgersi  questa  mia  fatica  in  più  alte  imprese,  ed  in  più  viluppi 
essermi  intrigato,  da  non  poter  così  speditamente  sciormene  :  per- 
ciò fui  più  volte  tentato  d'abbandonarla,  imperocché,  pensando 
tra  me  medesimo  alla  malagevolezza  dell'impresa,  a'  romori  del 
foro,  che  me  ne  distoglievano,  e  molto  più  conoscendo  la  debolezza 
delle  mie  forze,  ebbi  credenza  che  non  solamente  ogni  mio  sforzo 
vano  sarebbe  per  riuscire,  ma  che  ancora  di  soverchia  audacia  po- 
trebbe essere  incolpato;  onde  talora  fu,  che  atterrito  da  tante  diffi- 
coltà, rimossi  dall'animo  mio  ogni  pensiero  di  proseguirla,  riser- 
bando a  tempo  migliore  ed  a  maggior  ozio  queste  cure. 

S'aggiungeva  ancora  che  fin  dalla  mia  giovanezza  aveva  io  in- 
teso che  il  P.  Partenio  Giannettasio1  nelle  solitudini  di  Surrento, 
sciolto  da  tutte  le  cure  mondane,  con  grandi  aiuti  e  grandi  appa- 
rati, erasi  accinto  a  scrivere  l'istoria  napoletana;  e  se  ben  mio  'nten- 
dimento  fosse  dal  suo  tutto  differente;  nientedimeno  dovendoci 
amendue,  avvegnaché  con  fine  diverso,  raggirare  intorno  ad  un 
medesimo  soggetto,  e  ch'egli  spiando  più  dentro,  mi  potesse  to- 
glier la  novità  di  molte  cose  ch'io  aveva  notate,  ed  altre  forse  me- 

i.  Partenio  Giannettasio  :  vedi  più  oltre  la  nota  2  a  p.  440. 


INTRODUZIONE  375 

glio  esaminarle  che  non  poteva  io,  a  cui  e  tanti  aiuti  e  tant'ozio 
mancava:  fui  più  volte  in  pensiero  d'abbandonar  l'impresa. 

Ma  per  conforto,  che  me  ne  davano  alcuni  elevati  spiriti,1  non 
tralasciai  in  tanto  di  proseguire  il  lavoro,  con  intendimento  che  per 
me  solo  avesse  avuto  a  servire,  e  per  coloro  che  se  ne  mostravan 
vaghi;  fra'  quali  non  mancò  chi,  oltre  d'approvare  il  fatto,  e  di 
spingermi  al  proseguimento,  con  acuti  stimoli,  di  soverchia  viltà 
accagionandomi,  più  audace  perciò  mi  rendesse.  Considerava  an- 
cora che  queste  fatiche,  quali  elle  si  fossero,  non  doveano  esporsi 
agli  occhi  di  tutti  :  esse  non  dovevan  trapassare  i  confini  di  questo 
Reame;  poiché  a'  curiosi  solamente  delle  nostre  cose  erano  indi- 
rizzate; e  che  se  mai  dovessero  apportar  qualche  utilità,  a  noi  me- 
desimi fossero  per  recarla,  e  spezialmente  a  coloro  che  ne'  magistrati 
e  nell'awocazione  sono  impiegati,  l'umanità  de'  quali  essendo  a 
me  per  lunga  sperienza  manifesta,  m'assicurava,  non  dover  essere 
questo  mio  sforzo  riputato  per  audace,  e  che  appo  loro  qualunque 
difetto  avrebbe  trovato  più  volentieri  scusa  e  compatimento,  che 
biasimo  o  disprezzo. 

Ma  mentre  io  così  spinto  per  tanti  stimoli  proseguiva  l'impresa, 
ecco,  ch'appena  giunto  al  decimo  libro  di  quest'opera,  si  vide  uscire 
alla  luce  del  mondo  nell'anno  17 13  la  cotanto  aspettata  istoria  na- 
poletana, dettata  in  idioma  latino  da  quel  celebre  letterato.  Fu 
immantenente  da  me  letta,  e  contro  ad  ogni  mia  espettazione,  non 
si  può  esprimere  quanto  mi  rendesse  più  animoso  al  prosegui- 
mento ;  poiché  conobbi  altro  quasi  non  essere  stato  l'intendimento 
di  quel  valentuomo  che  in  grazia  di  coloro,  che  non  hanno  della 
nostra  italiana  favella  perfetta  contezza,  trasportare  in  buon  latino 
l'istoria  del  Summonte.2 

Essendomi  pertanto  liberato  da  questo  timore,  posso  ora  impro- 
metter con  franchezza  a  coloro  che  vorranno  sostenere  il  travaglio 
di  legger  quest'istoria,  d'offerirne  loro  una  tutta  nuova,  e  da  altri 
non  ancor  tentata. 

Mi  sono  studiato  in  oltre,  tutte  quelle  cose,  che  da  me  si  narrano, 
di  fortificarle  coll'autorità  d'uomini  degnissimi  di  fede,  e  che  fu- 

1.  Ma  per  conforto  .  .  .  spiriti:  fra  gli  altri  Domenico  Aulisio,  Gaetano  Ar- 
gento, Vincenzo  D'Ippolito,  Nicolò  Capasso,  Nicola  Cirillo,  Francesco 
Mela.  2.  Giovanni  Antonio  Summonte  (1550  circa  -  1602),  cronista  na- 
poletano, autore  della  Historia  della  città  e  regno  di  Napoli,  edita  a  Napoli 
in  quattro  tomi  nel  1601,  poi  accresciuta  d'un  altro  tomo  nell'edizione 
del  1676. 


376  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO   DI    NAPOLI 

rono  o  contemporanei  a'  successi  che  si  scrivono,  o  i  più  diligenti 
investigatori  delle  nostre  memorie.  Il  mio  stile  sarà  tutto  schietto 
e  semplicissimo,  avendo  voluto  che  le  mie  forze,  come  poche  e 
deboli,  s'impiegassero  tutte  nelle  cose  più  che  nelle  parole,  con 
indirizzarle  alla  sola  traccia  della  verità;  ed  ho  voluto  ancora  che 
la  sua  chiarezza  dipendesse  assai  più  da  un  diritto  congiungimento 
de*  successi  colle  loro  cagioni,  che  dalla  locuzione  o  dalla  com- 
messura delle  parole.  Non  ho  voluto  nemmeno  arrogarmi  tanto 
d'autorità,  che  si  dovesse  credere  alla  sola  mia  narrazione  ;  ho  per- 
ciò proccurato  additar  gli  autori  nel  margine,  il  più  contemporanei 
agli  avvenimenti  che  si  narrano;  0  almeno  de'  più  esatti  e  diligenti; 
e  tutto  ciò  che  non  s'appoggiava  a'  documenti  legittimi,  o  come 
favoloso  l'ho  ricusato,  o  come  incerto  l'ho  tralasciato. 

Io  non  son  cotanto  ignaro  delle  leggi  dell'istoria  che  non  m'av- 
vegga alcune  volte  non  averle  molto  attentamente  osservate;  e  che 
forse  l'aver  voluto  con  troppa  diligenza  andar  ricercando  molte 
minuzie,  abbia  talor  potuto  scemarle  la  dignità;  e  che  sovente,  ti- 
rando le  cose  da'  più  remoti  princìpi,  siami  soverchio  dilungato 
daU'instituto  dell'opera.  Ma  so  ancora  che  non  ogni  materia  può 
adattarsi  alle  medesime  forme,  e  che  il  mio  suggetto  raggirandosi 
intorno  alla  politia  e  stato  civile  di  questo  Reame,  ed  intorno  alle 
sue  leggi,  siccome  la  materia  era  tutt'altra,  così  ancora  doveasi  a 
quella  adattare  altra  forma;  e  pretendendo  io  che  qualche  utilità 
debba  ricavarsene,  anche  per  le  cose  nostre  del  foro,  non  mi  s'im- 
puterà a  vizio,  se  discendendo  a  cose  più  minute  venga  forse  in 
alcuna  parte  a  scemarsene  la  gravità,  perché  finalmente  non  do- 
vranno senza  qualche  lor  frutto  leggerla  i  nostri  professori,  a'  quali 
per  la  sua  maggior  parte,  e  massimamente  in  ciò  che  s'attiene 
all'istoria  legale,  è  indirizzata;  anzi  alcune  cose  avrebbero  perav- 
ventura  richiesto  più  pesato  e  sottile  esaminamento,  ma  non  po- 
tendomi molto  giovar  del  tempo,  sarebbe  stato  lo  stesso  che  non 
venirne  mai  a  capo.  E  l'essermi  io  talora  dilungato  ne'  princìpi 
delle  cose,  fu  perché  non  altronde  poteano  con  maggior  chiarezza 
congiugnersi  gli  avvenimenti  alle  cagioni;  il  che,  oltre  alla  no- 
tizia, mena  seco  anche  la  chiarezza,  come  si  scorgerà  nel  corso  di 
quest'istoria. 

Ma  sopra  quali  più  stabili  fondamenti  potea  io  appoggiar  l'istoria 
civile  del  nostro  Reame,  se  non  cominciando  da'  Romani,  de'  quali 
fu  propria,  per  così  dire,  l'arte  del  governo  e  delle  leggi:  quando 


INTRODUZIONE  377 

queste  istesse  nostre  provincie  ebbero  la  sorte  d'esser  per  lungo 
tempo  da  essi  signoreggiate  ?  Per  questo  fine  nel  primo  libro,  anzi 
che  si  faccia  passaggio  a'  tempi  di  Costantino  Magno,  che  sarà  il 
principio  della  nostra  istoria,  si  darà,  come  per  apparato^  un  saggio 
della  forma  e  disposizione  dell'Imperio  romano  e  delle  sue  leggi: 
de'  favori  de'  principi,  onde  furon  quelle  sublimate:  della  prudenza 
delle  loro  constituzioni :  della  sapienza  de'  giureconsulti;  e  delle 
due  celebri  accademie  del  mondo,  una  di  Roma  in  Occidente,  l'altra 
di  Berito  in  Oriente;1  poiché  conoscendosi  in  brieve  lo  stato  florido, 
in  cui  eran  queste  nostre  provincie,  così  in  riguardo  di  ciò  che  s'at- 
tiene alla  loro  politia,  come  per  le  leggi,  ne'  tempi  ch'a  Costantino 
precederono,  con  maggior  chiarezza  potranno  indi  ravvisarsi  il  di- 
chinamento,  e  le  tante  rivolte  e  mutazioni  del  loro  stato  civile,  che 
seguiron  dapoi  che  a  questo  principe  piacque  di  trasferire  la  sede 
dell'Imperio  in  Costantinopoli,  e  d'uno,  ch'egli  era,  far  due  Imperi. 


i.  due  célèbri . . .  Oriente:  l'Ateneo  di  Adriano  e  l'Accademia  di  Bery- 
tus  (l'odierna  Beirut). 


Libro  III 

I  vari  moti  civili,  le  grandi  mutazioni  di  Stato  e  le  vicende  della 
giurisprudenza  romana,  che  avvennero  dopo  la  morte  di  Valenti- 
niano  III  in  fin  al  regno  di  Giustino  II  imperadore,1  saranno  il 
soggetto  di  questo  libro.  Si  narreranno  gli  avvenimenti  di  un  secolo 
nel  quale  nuovi  domini,  straniere  genti  e  nuove  leggi  vide  l'Italia, 
e  videro  queste  nostre  provincie  che  ora  compongono  il  regno  di 
Napoli.  Infino  a  questo  tempo  non  altri  magistrati  si  conobbero, 
non  altre  leggi,  se  non  quelle  de'  Romani:  da  ora  innanzi  si  ve- 
dranno mescolate  con  quelle  di  straniere  nazioni,  le  quali,  ancorché 
barbare,  meritan  però  ogni  commendazione,  non  solo  per  le  molte 
ed  insigni  virtù  loro,  ma  anche  perché  furon  delle  leggi  romane  così 
ossequiose  e  riverenti,  che  non  pur  non  osaron  oltraggiarle,  ma 
con  somma  moderazione,  contro  alle  leggi  della  vittoria,  che  det- 
tavano di  far  passare  i  vinti  sotto  le  leggi  de'  vincitori,  le  ritennero. 
Non  aspettino  per  tanto  i  lettori  che  dovendo  io  in  questo  e  ne' 
seguenti  libri  favellar  de'  Goti,  de'  Longobardi  e  de'  Normanni, 
ch'hanno  una  medesima  origine,  debbia,  come  han  fatto  moltissi- 
mi, aspramente  trattargli  da  inumani,  da  fieri  e  da  crudeli,  ed  avere 
le  loro  leggi  per  empie,  ingiuste  ed  asinili,  come  vengon  per  lo  più  da' 
nostri  scrittori  riputate.2  Splenderà  ancora  nelle  gesta  de'  loro  prin- 
cipi, non  meno  la  fortezza  e  la  magnanimità,  che  la  pietà,  la  giusti- 
zia e  la  temperanza;  e  le  loro  leggi  e  i  loro  costumi,  se  bene  non 
potranno  paragonarsi  con  quelli  degli  antichi  Romani,  non  do- 
vranno però  posporsi  a  quelli  degli  ultimi  tempi  dello  scadimento 
dell'Imperio,  ne'  quali  la  condizione  d'esser  romano  divenne  più 
vile  ed  abietta  che  quella  di  coloro  che  barbari  e  stranieri  furono 
riputati. 

Dovendo  adunque  prima  d'ogn'altro  favellar  de'  Goti,  non  è  del 
mio  instituto  che  venga  da  più  alti  princìpi  a  narrar  la  loro  origine 
e,  da  qual  parte  del  Settentrione  usciti,  venissero  ad  inondare  que- 
ste nostre  contrade.  Non  mancano  scrittori  che  ci  descrissero  la 
loro  origine,  i  progressi  e  le  conquiste  sopra  varie  regioni  d'Europa; 


i.  dopo  la  morte . . .  imperadore:  cioè  dal  455  al  578.  2.  debbia  . . .  riputate: 
è  il  medesimo  richiamo  del  Muratori,  Antichità  estensi,  1,  Modena  1717, 
cap.  x,  pp.  70  sgg. 


libro  in  379 

ed  ultimamente  l'incomparabile  Ugone  Grozioa  ne  trattò  con  tanta 
esattezza  e  dignità  che  oscurò  tutti  gli  altri:  quel  che  però  dee 
sommamente  importare  sarà  il  distinguere  con  chiarezza  i  Goti 
orientali  dagli  occidentali;  poiché  dalTavergli  alcuni  de'  nostri 
autori  confusi  e  non  ben  distinti,  han  parimente  confuse  le  loro 
leggi  e  costumi,  ed  appropriato  agli  uni  ciò  che  s'apparteneva 
agli  altri,  come  si  vedrà  chiaro  più  innanzi  nel  corso  di  questo 
libro. 

L'origine  del  lor  nome  non  è  molto  oscura:  essi,  che  per  l'ospita- 
lità e  cortesia  verso  i  forastieri  furono  assai  rinomati  e  celebri,  an- 
che prima  che  abbracciassero  il  cristianesimo,  s'acquistarono  presso 
a'  Germani  il  nome  di  buoni:  «Boni»  dice  Groziob  «Germanis 
sunt  Goten,  aut  Guten»;  onde  avvenne  che  poi  presso  a  tutte 
l'altre  nazioni  d'Europa  Goti  s'appellassero.  Furono  divisi  secondo 
i  siti  delle  regioni  che  abitarono  in  Goti  orientali,  o  siano  Ostrogoti, 
e  Goti  occidentali,  ovvero  Westrogoti,  che  i  Latini  corrottamente 
chiamarono  Visigoti.  Quegli  ch'abitarono  le  regioni  più  all'Oriente 
rivolte  verso  il  Ponto  Eussino,  insino  al  fiume  Tiras,  e  che  poi  con 
permissione  degl'imperadori  orientali  ebbero  la  Pannonia,  la  Tracia 
ed  ultimamente  l'Illirico  per  loro  sede,  furon  appellati  Ostrogoti; 
ed  eran  governati  da'  principi  della  non  meno  antica  che  illustre 
casa  degli  Amali,  donde  trasse  la  sua  origine  Teodorico  ostrogoto, 
che  resse  queste  nostre  provincie.  Gli  altri,  che  verso  Occidente 
furono  rivolti,  e  che  a'  tempi  d'Onorio  ressero  l'Aquitania  e  la 
Narbona,  e  dapoi  molte  provincie  della  Spagna,  Westrogoti  furon 
nomati:  questi  erano  comandati  da'  principi  della  casa  de'  Baiti: 
gente  illustre  altresì,  ma  non  quanto  la  stirpe  degli  Amali,  la  quale 
in  nobiltà  teneva  il  vanto  :x  Tolosa  fu  la  loro  sede,  capitale  della  pro- 
vincia, detta  poi  per  la  loro  residenza  questa  contrada  Guascogna, 
che  tanto  vuol  dire  in  loro  lingua  quanto  Gozia  occidentale;0  ben- 


a)  Grot.,  in  Prolegom.  in  Hist.  Got.2,    b)  Grot.,  in  Proleg.,  pag.  13.3 
e)  Paulus  AemiL,  De  reb.  Frane,  lib.  i.4 


1.  Furono  divisi,  .  .vanto:  cfr.  ancora  Grozio,  Prolegomena,  pp.  41  sgg. 

2.  Del  Grozio  (cfr.  la  nota  2ap.  55),  è  citata  la  Historia  Gotihorum,  Van- 
dalorum  et  Langobardorum,  ab  H.  Grotto  partim  versa,  partim  in  ordinem 
digesta:  praemissa  sunt  eiusdem  Prolegomena  . . .  Accedunt  Nomina  appella- 
tiva ecc.,  Amstelodami  1655.  3.  Cfr.  op.  cit.,  p.  14  (e  non  13).  4.  Paolo 
Emilio  (morto  nel  1529),  umanista  veronese,  De  rebus  gestis  Francorum  . . . 
libri  decerti,  Parisiis  1539. 


380  ISTORIA    CIVILE   DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

che  altri  dicano  che  da'  Vasconi,  popoli  dTspagna  che  varcati  i 
Pirenei  occuparono  questa  provincia,  fosse  detta  Guascogna. 

cap.  1 
de'  goti  occidentali  e  delle  loro  leggi 

I  principi  westrogoti  della  stirpe  de*  Baiti,  essendo  stata  loro 
sotto  Timperio  d'Onorio  da  questo  principe  stabilmente  assegnata 
PAquitania  e  molte  altre  città  della  Narbona,  in  Tolosa  fermaron 
la  loro  sede,  onde  poi  re  di  Tolosa  si  dissero.  Essi  a  tutto  potere 
proccuravano  stendere  il  lor  dominio  nell'altre  provincie  della  Gal- 
lia  e  delle  Spagne,  le  quali  eran  da  Vandali  malmenate  ed  oppresse. 
Più  volte  a  Vallia,  che,  come  si  disse  nel  precedente  libro,  a  Rige- 
rico  successor  d'Ataulfo  succede,  fortunatamente  avvenne  che  nelle 
Spagne  trionfasse  d'essi  e  lor  desse  molte  gravi  e  memorabili  rotte. 
Morì  Vallia,  dopo  aver  riportate  contro  a'  Vandali  tante  vittorie,  in 
Tolosa  l'anno  di  Cristo  428  ed  a  lui  succede  nel  regno  Teodorico.a 
Gli  scrittori  variano  nel  nome  di  questo  principe:  Gregorio  di 
Toursb  lo  chiama  Teudo;  Isidoro,  Teudorido;  Idacio,  Teodoro; 
ma  noi  seguendo  Giornandes0  scrittore  il  più  antico  e  '1  più  accu- 
rato delle  cose  de'  Goti  lo  chiameremo  con  Alteserrad  Teodorico. 
Resse  questo  principe  l'Aquitania  anni  ventitré,  prode  ed  eccellente 
capitano,  che  contro  ad  Attila  ne'  campi  di  Chaalons  diede  l'ultime 
prove  del  suo  valore:  fu  egli  in  questa  battaglia  gravemente  ferito, 
e  sbalzato  di  cavallo  restò  tutto  infranto  ed  indi  a  poco  morì.1 
Lasciò  di  lui  sei  figliuoli  maschi,  Torrismondo,  Teodorico  il  gio- 
vane, Frederico,  Evarico,  Rotemero  ed  Almerico,  ed  una  figliuola, 
che  collocolla  in  matrimonio  con  Unnerico  figliuolo  di  Gizerico  re 
de'  Vandali. 

Torrismondo  adunque  succede  nel  reame,  il  quale  ancorché  si 

a)  Paul.  Aemil. ,  loc.  cit.  b)  Greg.  ,1.2  Hist.  Frane. ,  cap .  7 ,2  e)  Ior- 
nand,,  De  reb.  Getic,  cap.  24J5     d)  Altes.,  Rer.  aquit.,  lib.  5,  cap.  12.4 


1.  e  sbalzato  .  . .  morì:  cfr.  Giordane,  in  Grozio,  op.  cit.,  p.  669.  2.  Grego- 
rii  Turonici  Hùtoriae  Francorum  libri  decerti,  nella  collezione  curata  da 
Marguerin  de  La  Bignè  Maxima  bibliotheca  veterum  Patrum  ecc.,  Lugduni 
1677,  xi,  p.  717.  3.  Giordane  (cfr.  la  nota  1  a  p.  24),  De  Getarum,  sive 
Gottkorum  origine  et  rebus  gestis,  cap,  xxxrv  (e  non  24),  in  Grozio,  op.  cit., 
PP-  659-60.     4.  Cfr.  la  nota  3  a  p.  370.  Op.  cit.,  1,  pp.  351  sgg. 


LIBRO    III    •    CAP.  I  381 

fosse  trovato  insieme  col  padre  contro  ad  Attila,  e  fosse  stato  in 
quella  battaglia  ferito,  intesa  ch'ebbe  la  morte  del  medesimo,  tornò 
subito  in  Tolosa,  ove  con  universale  acclamazione  fu  nel  trono 
regio  assunto. a  II  regno  di  questo  principe  ebbe  brevissima  durata, 
e  se  dee  prestarsi  fede  ad  Isidoro,  non  imperò  più  che  un  sol  anno  ; 
poiché  per  opera  di  Teodorico  e  Frederico  suoi  fratelli,  che  mal 
soffrivan  il  suo  governo,  fu  crudelmente  ucciso.b 

Teodorico  il  giovane  suo  fratello  gli  succede  nel  regno  :  principe, 
secondo  Sidonio  Apollinare,0  dotato  di  nobili  ed  eccellenti  virtù; 
ed  ancorché  il  genio  degli  Westrogoti  mal  s'adattasse  alle  leggi  ro- 
mane, contra  il  costume  degli  Ostrogoti,  che  l'ebbero  sempre  in 
somma  stima  e  venerazione,  fu  non  però  Teodorico  II  amantissimo 
delle  medesime  e  n'ebbe  grandissima  stima. 

Gli  Westrogoti,  per  le  continue  guerre  ch'ebbero  co'  Romani, 
furon  non  poco  avversi  alle  leggi  romane;  tanto  che  parlando  de' 
loro  tempi,  ebbe  a  dire  Claudiano  :d  «  Moerent  captivae  pellito  iu- 
dice  leges».1  Ataulfo  loro  re,  che  come  si  disse  ad  Alarico  I  succede, 
per  la  ferocia  del  suo  animo  già  meditava  d'esterminarle  in  tutto  ; 
ma  raddolcito  per  le  continue  persuasioni  e  conforti  di  Placidia  sua 
moglie,  cotanto  da  lui  amata,  se  n'astenne,  e  mutò  consiglio;  ed 
ancorché  i  suoi  Goti  mal  ciò  soffrissero,  pur  egli  appresso  Orosioe 
confessò  che  non  poteva  senza  quelle  la  repubblica  perfettamente 
conservarsi,  né  gli  dava  il  cuore  di  toglierle  affatto:  «Neque  Go- 
thos»  e'  dice  «ullo  modo  parere  legibus  posse,  propter  effraenatam 
barbariem,  neque  reip.  interdici  leges  oportere,  sine  quibus  resp. 
non  est  respublica».*  Onde  narrasi f  che  questo  principe  nell'anno 
412  avesse  per  pubblico  editto  comandato  a'  suoi  sudditi  che  le 


a)  Iornand.,  De  reb.  Getic,  cap.  41. 3  Paul.  Aemil.,  loc.  cit.  b)  Al- 
tes.,  1.  cit.,  e.  13. 4  e)  Sidon.,  lib.  1,  Ep.  2.5  d)  Claud.,  lib.  2  ad 
Rufino  e)  Oros.,  lib.  7,  cap.  29.*  f)  Artur.  Duck,  De  usu  et  auth. 
tur.  civ.,  lib.  2,  cap.  6,  num.  14.8 

1.  «Moerent .  .  .  leges»:  a  Piangono  in  servitù,  corrotto  il  giudice,  le  leggi». 

2.  «Neque  Gothos .  . .  respviblica^'.  «Né  in  alcun  modo  i  Goti  possono  ub- 
bidire alle  leggi,  per  la  loro  sfrenata  barbarie,  né  lo  stato  può  dare  il  bando 
alle  leggi,  senza  le  quali  uno  stato  non  è  più  uno  stato».  3.  In  Grozio, 
op.  cit.,  p.  672.  4.  Isidoro  di  Siviglia  (santo,  560  circa  -  636),  in  Grozio, 
op.  cit.,  p.  718.  Diversamente  in  Giordane,  cap.  xliii,  ivi,  p.  675.  Cfr.  in- 
fine Hauteserre,  Rer.  aquit.,  cit.,  I,  pp.  357-9.  5.  Cfr.  la  nota  1  a  p.  24. 
6.  Cfr.  la  nota  1  a  p.  24.  7.  Vedi  la  nota  1  a  p.  24.  8.  Del  De  usu  et  autho- 
ritate  iuris  civilis  Romanorum  ecc.  si  veda  l'edizione  di  Napoli  17 1 9,  p.  214, 


382  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO    DI   NAPOLI 

leggi  de'  Romani  insieme  co'  costumi  de'  Goti  osservassero.  Gol- 
dastoa  tra  le  Costituzioni  imperiali  ne  rapporta  l'editto,  ma  si  vede 
esser  conceputo  coll'istesse  parole  poc'anzi  riferite  d'Orosio,  e  mol- 
te cose  in  esso  aggiunte,  che  in  quell'autore  non  sono. 

Ma  a  Teodorico  il  giovane,  del  quale  si  favella,  fu  in  tanto  pregio 
lo  studio  delle  romane  leggi,  che  Sidonio  Apollinare,1*  introducen- 
dolo  in  un  suo  carme  a  parlar  con  Avito,  così  gli  fa  dire: 

. . .  mihi  romula  dudum 
per  te  iura  placenta 

Ed  altrove0  chiamò  questo  Teodorico  «...  romanae  columen,  sa- 
lusque  gentis  ».3  Ed  appresso  Claudiano,  parlandosi  di  questo  prin- 
cipe, come  osservò  Groziod  pur  si  legge:  «Vindicet  arctous  viola- 
tas  advena  leges».3  Né  gli  Westrogoti,  ne'  tempi  di  questo  re  o  de' 
suoi  predecessori,  ebbero  proprie  leggi  scritte,  né  si  presero  mai  cura 
di  formarle. 

Ma  morto  Teodorico  nel  decimo  terzo  anno  del  suo  regno,  es- 
sendogli stato  renduto  da  Evarico  ciò  ch'egli  fece  a  Torrismondo, 
succedette  nel  reame  Evarico  suo  fratello.  Questi  fu  il  primo  che 
diede  a'  Goti  le  leggi  scritte,  come  ce  n'accerta  Isidoro  :e  «  Sub  hoc 
rege  Gothi  legum  instituta  scriptis  habere  coeperunt,  nam  antea 
tantum  moribus  et  consuetudine  tenebantur»:4  per  la  qual  cosa  da 
Sidoniof  in  una  epistola,  che  dirizzò  all'imperadore  Lione,  fu  cele- 
brato Evarico  per  principe  saggio  e  conditor  di  leggi  :  «  Modo  per 

a)  Goldast.,  Const.  imp.,  tom.  3.*  b)  Sidon.,  carm.  7.  e)  Carm. 
de  Narbon.6  d)  Grot,  in  Proleg.  Hist.  GotP  e)  Isid.,  in  Chronic^ 
era  504.8    f)  Sidon.,  lib.  8,  Epist.  3.* 


che  è  quella  dedicata  a  Domenico  Caravita,  famoso  avvocato  napoletano, 
dal  tipografo  editore.  Si  veda  inoltre  la  nota  4  a  p.  53.  1.  mihi  .  .  .  piacenti 
a  a  me  da  tempo,  per  merito  tuo,  piacciono  le  leggi  romane».  2.  «roma- 
nae . . .  gentis »:  «sostegno  e  fortuna  della  romana  gente  ».  3.  «  Vindicet . .  . 
leges -a:  «delle  violate  leggi  sarà  vindice  uno  straniero  del  settentrione». 
4.  «Sub  hoc  rege  . . .  tenebantur»:  «Sotto  questo  re  i  Goti  cominciarono  ad 
avere  per  iscritto  i  principi  delle  leggi;  prima  infatti  erano  posseduti  solo 
per  costume  e  consuetudine».  5.  Melchior  Goldast  (1578- 163 5),  giurista 
e  storico  tedesco,  Collectio  constitutionum  imperiahum . . .,  Francofordiae 
ad  Moenum  16 13.  Ma  la  citazione  è  nel  De  usu  del  Duck,  loc.  cit.  6.  Nel- 
l'opera del  Grozio,  p.  80:  C.  Sollius  Apollinaris  Sidonius  Carmine  de  Nar- 
bone.  7.  Nei  Prolegomena,  a  p.  35.  8.  Nella  cit.  Historia  del  Grozio, 
pp.  719-20.     9.  Cfr.  Hauteserre,  op.  cit.,  1,  p.  363. 


LIBRO    III    •    CAP.  I  383 

promotae  limitem  sortis,  ut  populos  sub  armis,  sic  fraenat  arma 
sub  legibus».1 

Nel  regno  di  questo  principe  cominciaron  le  leggi  de'  Romani  ad 
oscurarsi,  non  già  in  Italia,  ma  neU'Aquitania  e  nella  Narbona,  ed 
in  alcun'altre  provincie  della  Spagna;  poiché  queste  nuove  leggi, 
che  teodoriciane  furon  dette,  proposte  per  opera  de*  Goti  a'  pro- 
vinciali, si  fece  in  modo  che  le  teodosiane  non  cotanto  s'apprez- 
zassero; ed  al  deterioramento  di  quelle  non  poco  vi  cooperò  ancora 
la  malvagità  de*  propri  romani  ufiziali,  e  particolarmente  di  Sero- 
nato  prefetto  allora  delle  Gallie,  il  quale  favorendo  le  parti  de' 
Goti,  e  tradendo  il  suo  proprio  principe,  era  a'  Romani  awersis- 
simo  ;  tanto  che  da  Sidonioa  era  chiamato  il  Catilina  di  quel  secolo. 
Costui  pernizioso  a'  Romani  stessi,  non  solamente  per  le  gravi  per- 
dite cagionate  dalla  sua  ribalderia  all'Imperio  d'Occidente  nella 
Gallia,  ma  molto  più  per  lo  disprezzo  e  vilipendio  che  faceva  delle 
leggi  teodosiane,  con  innalzare  all'incontro  quelle  de'  Goti.  An- 
cor oggi  appresso  Sidoniob  si  leggono  le  querele  de'  provinciali 
contra  costui:  «Exultans  Gothis,  insultans  Romanis,  illudens  prae- 
fectis,  colludensq.  numerariis,  leges  theodosianas  calcans,  theodo- 
ricianasque  proponens,  veteres  culpas,  nova  tributa  perquirit».s 
Onde  si  vide  in  questi  tempi  la  condizione  de'  Romani,  per  la  rapa- 
cità di  quest'uomo  pestilente,  che  d'eccessivi  ed  esorbitanti  tributi 
gli  caricava,  ridotta  in  tale  stato,  che  come  fu  detto  nel  primo  libro 
i  provinciali  eleggevan  più  tosto  la  servitù  de'  Goti  che  la  libertà 
de'  Romani;  onde  Salvianoc  d'essi  parlando  disse:  «Passim,  vel  ad 
Gothos,  vel  ad  Bagaudas,  vel  ad  alios  ubique  dominantes  barbaros 
migrant,  et  commigrasse  non  poenitet;  malunt  enim  sub  specie 
captivitatis  vivere  liberi,  quam  sub  specie  libertatis  esse  captivi. 
Itaque  nomen  civium  Romanorum  aliquando  non  solum  magno 


a)  Sidon.,  lib.  3,  cap.  i.3     b)  Sidon.,  lib.  2,  Ep.  i.4    e)  Salvian., 
lib.  5  De  guber.  Dei.5 

1.  «  Modo  .  .  .  legibus»:  «Ora,  nel  territorio  dell'ingrandito  dominio,  come  i 
popoli  sotto  le  armi  cosi  doma  queste  sotto  le  leggi».  2.  ^Exultans . .  .per- 
quirìt  »  :  «  Innalzando  i  Goti,  abbassando  i  Romani,  ingannando  i  prefetti, 
facendosela  con  i  contabili,  conculcando  le  leggi  teodosiane  e  imponendo 
le  teodoriciane,  persegue  vecchie  colpe,  cerca  nuovi  tributi».  3.  Cfr. 
Hauteserre,  op.  cit.,  1,  p.  364;  ma  il  luogo  di  Sidonio  è,  anche  in  Hau- 
teserre,  lib.  li,  ep.  1.  4.  La  citazione  che  segue  è  tratta  da  Hauteserre, 
op.  cit.,  1,  pp.  363-4.  5.  Cfr.  la  nota  2  a  p.  411  {De  gub.  Dei,  ed.  cit., 
p.  360;  e  cfr.  Hauteserre,  op.  cit.,  1,  pp.  364-5). 


384  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO    DI   NAPOLI 

aestimatum,  sed  magno  emptum,  nunc  ultro  repudiatur  ac  fugitur, 
nec  vile  tantum,  sed  etiam  abominabile  pene  habetur  a.1  Paolo  Oro- 
sioa  attesta  ancora  che  i  provinciali  eleggevan  più  tosto  tra'  barbari 
vivere  che  tra'  Romani  :  «  Qui  malint  inter  barbaros  pauperem  liber- 
tatem,  quam  inter  Romanos  tributariam  sollicitudinem  substi- 
nere».3  Quindi  Isidorob  potè  conchiudere:  «Unde,  et  hucusque  Ro- 
mani, qui  in  regno  Gothorum  consistunt,  adeo  amplectuntur  ut 
melius  sit  illis  cum  Gothis  pauperes  vivere,  quam  inter  Romanos 
potentes  esse,  et  grave  iugum  tributi  portare  ».3  Ma  cotanta  ribalde- 
ria di  Seronato  non  rimase  lungo  tempo  impunita,  poiché  strasci- 
nato in  Roma  fugli  tronco  il  capo,  in  cotal  guisa  soddisfacendo  la 
pena  di  tante  sue  scelleratezze. 

Furon  le  leggi  da  Evarico  stabilite  chiamate  teodoriciane,  non 
perché  riconoscessero  per  loro  autori  i  due  Teodorici  di  sopra  me- 
morati, come  diedesi  a  credere  il  Baronio,c  che  ne  fece  autore  Teo- 
dorico il  giovane  predecessore  d'Evarico,  poiché  a  tempo  de*  me- 
desimi niuna  legge  scritta  ebbe  questa  nazione.  Molto  meno  furon 
così  appellate  perché  forse  l'autore  di  quelle  fosse  stato  Teodorico 
ostrogoto  re  d'Italia,  come  altri  si  persuasero:  perocché  questo 
principe,  come  diremo  più  innanzi,  ebbe  sentimenti  assai  diversi 
intorno  alla  cura  delle  leggi  romane,  e  regnò  molto  tempo  dapoi  in 
Italia,  morto  già  Sidonio  Apollinare,4  il  quale  non  poteva  nomar 

a)  Oros.,  Kb.  7,  e.  28.5  b)  Isid.,  in  Chron.,  era  447.^  e)  Baron., 
Ann.,  tom.  5,  a.  468,  num.  n.7 


1.  «Passim .  , .  habetur»;  «Emigrano  qua  e  là  in  direzione  dei  Goti  o  dei 
Bagaudi  o  di  altri  barbari  ovunque  dominanti,  né  si  pentono  di  aver  emi- 
grato :  preferiscono  infatti  vivere  liberi  sotto  apparenza  di  servitù,  che  schia- 
vi sotto  sembianza  di  libertà.  Pertanto  il  nome  di  cittadino  romano,  un 
tempo  non  solo  molto  stimato,  ma  anche  acquistato  a  caro  prezzo,  è  ora 
addirittura  ripudiato  e  fuggito,  e  viene  considerato  non  solo  senza  valore, 
ma  quasi  abominevole».  2.  «Qui  malint .  . .  substinere»:  «Preferendo  una 
disagiata  libertà  tra  i  barbari  all'esosità  fiscale  tra  i  Romani  ».  3 .  «  Unde  .  . . 
portare »:  «Onde  finora  i  Romani  che  risiedono  nel  regno  dei  Goti  a  tal 
punto  considerano  che  sia  meglio  per  loro  vivere  poveri  assieme  ai  Goti, 
che  essere  potenti  tra  i  Romani  e  dover  sopportare  il  grave  giogo  fiscale  ». 
4.  Apollinare-,  vescovo  gallo-romano,  nato  a  Lione  nel  431/432,  si  spense  at- 
torno al  487.  5.  Anche  la  seguente  citazione  è  tratta  da  Hauteserre,  op. 
cit.,  I,  p.  365.  6.  Cfr.  Isidoro,  De  Gothis  Wandalis  et  Svevis  Historia  sive 
Chronicon,  in  Codicis  legum  Wisigothorum  libri  XII,  edidit  P.  Pithoeus,  Pa- 
risiis  1579,  p.  2;  cfr.  anche  Hauteserre,  loc.  cit.  7.  Cesare  Baronio,  An- 
nales  ecclesiastici,  tomo  vi  (e  non  5),  Romae  1595,  p.  279.  Ma  l'accenno  è 
in  Ciron,  op.  cit.,  pp.  70-1. 


LIBRO    III    •    CAP.  I  385 

queste  leggi  teodoriciane  perché  questo  Teodorico  ne  fosse  autore. 
Teodorico  ostrogoto,  come  durassi,  regnò  in  Italia  ne'  tempi  d'A- 
nastasio imperador  d'Oriente  nell'anno  493  e  500,  quando  Sidonio 
Apollinare  era  già  morto,  com'è  manifesto  appresso  Gregorio  di 
Tours;a  laonde  meritamente  fu  da  Cironiob  incolpato  d'errore 
Cujacio,1  che  autore  di  queste  leggi  ne  fece  Teodorico  re  d'Italia. 
Sirmondo  e  Dadino  Alteserrac  saviamente  dissero  che  fossero 
queste  leggi  chiamate  teodoriciane  per  paranomasia,  per  opporle 
alle  teodosiane,  acciocché  sicome  i  Romani  valevansi  delle  teodo- 
siane,  così  i  Goti  avessero  leggi  proprie,  che  con  diverso  senso, 
ma  con  conforme  suono  si  dicessero  teodoriciane:  ma  sicome  os- 
servò Cironio,d  sarebbe  questa  una  paranomasia  troppo  insulsa,  se 
Evarico  non  fosse  stato  ancora  chiamato  Teodorico;  onde  il  dot- 
tissimo Savarone6  sopra  quel  luogo  di  Sidonio  Apollinare  assai 
chiaro  dimostra  che  il  vero  nome  di  questo  principe  fosse  stato 
quello  di  Teodorico  :  Groziof  poi  nel  suo  Nomenclatore  ci  fa  vedere 
che  questo  re  si  fosse  chiamato  anche  Evarico  per  questo  stesso 
che  fu  il  primo  fra'  re  goti  a  compor  leggi:  «Evarix»  e'  dice  ce  alias 
Evaricus.  Ewa  ricch,  legibus  pollens.  In  glossis,  lex  ewa».2, 

1.  Del  codice  d'Alarico. 

Poterono  sotto  il  regno  d'Evarico,  ma  molto  più  per  la  ribalderia 
di  Seronato  sofferire  questi  oltraggi  le  leggi  romane,  ma  tolto  dal 
mondo  sì  reo  uomo,  ed  essendo  dapoi  nell'anno  484  morto  Evarico, 
sursero  quelle  di  bel  nuovo  e  tornarono  nell'antico  lor  vigore; 
poiché  d'Alarico  figliuol  d'Evarico,  che  nel  reame  gli  succede,  fu- 


a)  Greg.  Tur.,  Hist.  Frane,  lib.  2,  cap.  23. 3  b)  Ciron.,  Obs.  tur. 
can.,  lib.  5,  cap.  i.4  e)  Altes.,  Rer.  aquit.,  lib.  5,  cap.  i$.5  d)  Ciron., 
lib.  5,  e.  1.  e)  Savaro  in  lib.  2  Sid.,  Epist.  I.6  f)  Grot.,  in  Nomen- 
clat.  in  Hist.  Got.7 


1.  Cujacio:  cfr.  la  nota  2  a  p.  26.  2.  «Evarix  o  altrimenti  Evaricus:  ewa 
ricch,  valente  nelle  leggi.  Legge  ewa  nelle  glosse».  3.  In  Maxima  biblio- 
theca  veterum  Patrum  cit.,  xi,  p.  722  (cap.  24  e  non  23).  4.  Cfr.  Ciron,  op. 
cit.,  p.  71.  5.  Il  rinvio  a  Jacques  Sirmond  (1559-1651)  è  nel  Ciron,  loc. 
cit.;  per  Hauteserre  cfr.  op.  cit.,  1,  p.  364.  6.  C.  S.  Apollestaris  Sedo- 
nii  .  .  .  Opera.  Io.  Savaro  [Jean  Savaron,  1 566-1622,  storico  e  magistrato] 
recognovit  et  librum  commentarium  adiecit .  . .,  Parisiis  1599,  p.  96.  7.  In 
Grozio,  op.  cit.,  p.  589.  Il  Nomenclatore  è  V Index  propriorum  nominum  got- 
thicorum,  vandalicorum,  langobardicorum,  quae  in  hoc  volumine  reperiuntur. 

35 


386  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO   DI   NAPOLI 

rono  i  sentimenti  assai  diversi;  imperocché  le  querele  de'  provin- 
ciali, che  mal  sofferivan  l'abbassamento  delle  medesime,  trovaron 
quel  luogo  presso  ad  Alarico  che  appo  al  padre  non  ebbon  giammai. 
Erano  note  a  questo  principe  le  doglianze  degli  Aquitani  e  degli 
altri  suoi  sudditi,  i  quali  mal  volentieri  si  sarebbon  accomodati 
alle  leggi  teodoriciane,  e  che  a  gran  torto  lor  involavansi  le  leggi 
romane,  colle  quali  eran  nati  e  cresciuti.  Era  altresì  a  lui  noto  con 
quanta  stima  venivan  ricevute  da  Teodorico  ostrogoto,  che  già  ne' 
suoi  tempi  regnava  in  Italia,  la  cui  figliuola  Teodelusa  egli  aveva 
per  moglie,1  e  perciò  da  Teodorico  veniva  suo  figliuolo  chiamato, 
come  si  vede  appresso  Cassiodoro  in  quella  affettuosa  epistola  che 
gli  scrisse  :a  fu  per  tanto  risoluto  nel  ventesimo  secondo  anno  del 
suo  regno  di  compiacergli;  onde  avendo  trascelti  uomini  pruden- 
tissimi,  ed  i  più  insigni  giureconsulti  che  fiorissero  nella  sua  età,  a' 
quali  prepose  Goiarico,b  non  altramente  che  di  Triboniano  fece 
Timperador  Giustiniano  nella  compilazione  delle  Pandette  e  del 
suo  codice,  impose  a'  medesimi  che  dalle  costituzioni  del  Codice 
Teodosiano,  e  dalle  sentenze  di  vari  giureconsulti  sparse  in  diversi 
libri,  ne  formassero  un  nuovo  codice.  E  perché  non  si  diminuisse 
la  maestà  del  suo  imperio,  quasi  che  di  leggi  straniere  d'altri  principi 
avesse  bisogno  per  governare  i  popoli  a  sé  soggetti,  volle  che  questo 
nuovo  codice  in  suo  nome  si  pubblicasse,  e  che  le  leggi  in  quello 
contenute  da  lui  ricevessero  la  forza  ed  il  nerbo,  perché  potessero 
costringersi  i  suoi  sudditi  ad  ubbidirle. 

I  più  vulgati  e  celebri  libri,  ne*  quali  in  questi  tempi  contenevasi 
la  ragion  civile  de*  Romani,  se  riguardansi  le  costituzioni  de'  prin- 
cipi, eran  i  codici  Gregoriano,  Ermogeniano  e  quel  di  Teodosio 
con  le  di  lui  Novelle,  e  l'altre  di  Valentiniano  a  quello  aggiunte, 
e  fra  i  volumi  de'  giureconsulti  fiorivan  in  questa  età,  sopra  tutti, 
le  Sentenze  di  Paolo  e  lTnstituzioni  di  Caio;  perciò  per  opera  di 
que'  valenti  uomini0  fu  dalle  costituzioni  di  que'  codici,  dal  corpo 
di  quelle  Novelle  e  dalle  sentenze  di  questi  giureconsulti  compi- 

a)  Cassiod.,  lib.  3  Var.,  e.  i.2  b)  Got.,  in  Prolegom.  C.  Th.9  cap.  5, 
num.  6.3    e)  Got.,  in  Proleg.  C.  Th.y  cap.  5.4 

i.per  moglie:  cfr.  Grozio,  op.  cit.,  pp.  698  sgg.  2.  Cfr.  M.  A.  Cassio- 
dori  . . .  Variarum  libri  XII. . .,  Edictum  Theoderici  .  .  .  Ennodii .  . .,  Pa- 
rìsiis  1579»  P-  54-  Cfr.  anche  Hauteserre,  op.  cit.,  1,  p.  386.  3.  Sono  citati 
i  Prolegomena  al  Codex  theodosianus  del  Godefroy  (cfr.  la  nota  2  a  p.  24), 
tomo  1,  p.  cxcni.    4.  Cfr.  ivi,  p.  exen. 


LIBRO    III   •    CAP.  I  387 

lato  questo  nuovo  ristretto  codice,  laonde  perciò  anche  Breviario 
del  Codice  Teodosiano  fu  dagli  scrittori  di  que*  tempi  e  della  se- 
guente età  nominato,  il  quale  secondo  il  computo  del  Gotofredoa 
fu  condotto  a  fine  Tanno  506.  La  cui  compilazione  dee  a  Goiarico 
e  suoi  colleghi  attribuirsi,1*  non  già  ad  Aniano  cancellier  d'Alarico, 
come  stimarono  Giovanni  Tillio  e  Cujacio,1  ingannati  forse  da  ciò 
che  scrisse  Sigeberto.c  Aniano  nella  fabbrica  del  medesimo  non 
v'ebbe  alcuna  parte,  ma  solamente  da  lui  d'ordine  d'Alarico  fu 
pubblicato  e  sottoscritto  in  Ayre  città  della  Guascogna  nel  Concilio 
d'ambedue  gli  ordini,d  cioè  degli  ecclesiastici  e  de'  nobili,  poiché 
di  questi  tempi  in  Francia  il  terzo  ordine  non  era  d'alcun  momento, 
né  d'autorità  veruna.®  La  qual  pubblicazione  e  sottoscrizione  d'A- 
niano  rendesi  manifesta  dal  Co-monitorio  d'Alarico  diretto  al  conte 
Timoteo,  che  va  innanzi  al  Codice  Teodosiano,  nel  quale  si  leg- 
gono queste  parole  :f  «Anianus  vir  spectabilis,  ex  praecepto  D.  N. 
gloriosissimi  Alarici  regis,  hunc  codicem  de  theodosianis  legibus 
atque  sententiis  iuris,  vel  diversis  libris  electum,  Aduris  anno 
xxii  eo  regnante  edidit,  atque  subscripsit».2 
Alcuni  per  questo  stesso  rispetto  han  creduto  che  nel  medesimo 


a)  Gotof.,  in  Prolegom.  C.  Th.,  cap.  5-3  b)  Alteser.,  Rer.  aquit., 
lib.  3,  cap.  7.4  e)  Sigeber.,  De  Eccl.  script  e.  70:  «Anianus  vir 
spectabilis,  iubente  Alarico  r.,  volumen  unum  de  legibus  Theodosii 
imp.  edidit».5  d)  Got.,  in  Prolegom.,  cap.  5.  e)  Loyseau,  Des  Or- 
dres.7  f)  Altes.,  loco  cit.,  Cironio,  lib.  5  Obs.  ìur.  can.}  cap.  2,  Go- 
tof r.,  in  Proleg.,  cap.  5.8 


1.  Il  rinvio  a  Jean  Du  Tillet  sieur  de  La  Bussière  (morto  nel  1570),  Recueil 
des  roys  de  France,  leurs  couronne  et  maison  .  .  .,  Paris  1580,  e  al  Cujas  è 
tratto  da  Hauteserre,  loc.  cit.  2.  «Ardano,  ragguardevole  persona,  per  or- 
dine del  gloriosissimo  nostro  signore  Alarico  re,  nel  ventesimo  anno  del 
suo  regno,  pubblicò  e  sottoscrisse  ad  Aire  questo  Codice,  scelto  dalle  leggi 
teodosiane  e  dalle  sentenze  giuridiche  o  da  altri  libri».  3.  Cfr.  Godefroy, 
op.  cit.,  p.  cxcin.  4.  Hauteserre,  op.  cit.,  1,  p.  191.  5.  La  citazione  di  Si- 
geberto  di  Gembloux  (1030  circa  -  11 12),  presente  anche  in  Hauteserre,  è 
presa  dal  Godefroy,  loc.  cit.  6.  Cfr.  Codex  theodosianus,  loc.  cit.,  dove  il 
nome  della  città  è  «Aduris  . . .,  idest  Arurribus  in  Novempopulania»,  cioè, 
appunto,  Aire.  Ma  si  veda  anche  Hauteserre,  op.  cit.,  i,  pp.  386-7.  7.  Char- 
les Loyseau  (1566-1627),  Les  CEuvres,  contenans  le  cinq  livres  du  droict  des 
offices,  avec  autres  livres,  tant  des  Seigneuries,  des  Ordres,  du  déguerpissement 
et  délaissement  par  hypothèque,  que  de  la  garantie  des  rentes  et  des  àbus  des 
justìces,  Paris  1640.  8.  Hauteserre,  op.  cit.,  1,  p.  191;  Ciron,  op.  cit., 
pp.  72-3  ;  Codex  theodosianus  cit.,  loc.  cit. 


388  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO   DI    NAPOLI 

tempo  Aniano  avesse  composte  ancora  le  note  nelle  Sentenze  di 
Paolo  e  nell'Instituzioni  di  Caio,  come  scrissero  Decianoa  ed  Arturob 
con  manifesto  errore;  poiché  in  questo  Breviario,  oltre  alle  leggi 
trascelte  dal  Codice  Teodosiano,  vi  furon  anche  riposte  le  sentenze 
di  questi  giureconsulti  da'  mentovati  compilatori,  non  già  da  Ania- 
no. E  quelle  interpetrazioni  che  s'osservano  nel  Codice  di  Teodosio, 
non  ad  Aniano,  ma  a  coloro  debbon  attribuirsi,  come  diligentemen- 
te osservò  Gotofredo  ne'  Prolegomeni  di  quel  codice.0  È  da  notarsi 
ancora,  ch'essendo  state  unite  queste  note  ed  interpetrazioni  a  quel 
codice,  ne  nacque  presso  agli  scrittori  de'  seguenti  secoli  un  errore, 
che  volendo  allegar  le  leggi  di  quel  codice,  allegavan  sovente,  come 
costituzioni  del  medesimo,  una  di  queste  interpetrazioni  o  note  di 
Paolo  giureconsulto,  sicome  fu  avvertito  da  Savaroned  sopra  Sido- 
nio  Apollinare.  Così  veggiamo  che  Ivone  di  Chartres,6  che  fiorì 
nell'anno  1092,  sovente  allega  per  leggi  di  questo  codice  ciò  ch'era 
dell'interpetrazione  di  Paolo  giureconsulto;  Graziano f  poi  nel  suo 
Decreto  prende  moltissimi  di  somiglianti  abbagli,  sicome  fu  da 
Gotofredog  e  da  altri  osservato. 

III.  Del  nuovo  codice  delle  leggi  degli  WestrogotL 

Presso  a  tutti  questi  principi1  le  leggi  romane  non  furon  in  molta 
stima  avute,  e  molto  meno  presso  a  Leovigildo,  il  quale  portando 
gli  stessi  sentimenti  d'Evarico  volle  alle  sue  leggi  gotiche  aggiun- 
gerne dell'altre,  e  ciò  che  nelle  medesime  egli  credette  fuor  d'ordine 

a)  Decian.,  in  Apolog.  adver.  Alciat.,  lib.  2,  cap.  y.z  b)  Arthur. 
Duck,  lib.  2,  cap.  6,  num.  14.3  e)  Got.,  in  Proleg.,  cap.  5.4  d)  Sa- 
varo, sup.  Sidon.,  lib.  2,  ep.  i.5  e)  Ivo  Carnut.,  Ep.  112:  «quod  ex 
legib.  Theod.  laudat,  id  habet  ex  interpretat.  ad  Paul.  5  sent.  11  ».6 
f)  Gratian.,  2,  qu.  6,  e.  «id  ex  interpretat.  in  5  Paul.  sent.  tit.  de  cau. 
et  poenis  appellat,  §  1  ».7    g)  Got.,  in  Proleg.,  e.  6.8 

1.  I  principi  vestrogoti  in  Ispagna,  dei  quali  ha  trattato  nel  paragrafo  pre- 
cedente, qui  non  riprodotto.  2.  Tiberio  Deciano  (1509-1582),  Apologia 
prò  iuris  prudentibus,  qui  responsa  sua  edunt  imprimenda  adver sus  dieta  per 
Alcìatum,  TOxpépyow  lib.  XII,  cap.  ultimo,  Venetiis  1602.  3.  Ed.  cit.„ 
pp.  214-5.  4.  Codex  theodosianus  cit.,  p.  cxciil.  5.  Cfr.  Sidonio,  Opera 
cit.,  loc.  cit.  Questo  e  i  rinvìi  che  seguono  a  Ivo  di  Chartres  e  al  decreto  gra- 
zianeo  sono  tutti  tratti  dal  Godefroy  più  sotto  citato.  6.  Ivo  di  Chartres, 
Epistolae,  in  Opera  omnia,  Parisiis  1647.  7.  Il  Decretum  (o  meglio  Concor- 
dantia  discordantium  canonum)  di  Graziano  (vedi  la  nota  2  a  p.  27).  8.  Co- 
dex theodosianus  cit.,  p.  exerv. 


LIBRO   III   •   CAP.  I  389 

o  superfluo,  volle  correggere  e  togliere  e  con  miglior  metodo  ordi- 
nare: «In  legibus  quoque  (narra  Isidoro)a  ea  quae  ab  Evarico  in- 
condite constituta  videbantur,  correxit,  plurimas  leges  praeter- 
missas  adiiciens,  plurasque  superfluas  auferens».  Accrebbe  ancora 
questo  principe  di  molto  l'erario,  e  dopo  diciotto  anni  di  regno, 
nell'anno  586,  morì  in  Toledo  sua  sede  reggia. 

Non  diversi  sentimenti  intorno  alle  leggi  romane  portarono  i 
suoi  successori:  Reccaredo  suo  figliuolo  (che  fu  il  primo  il  quale 
lasciò  P arianesimo  per  abbracciare  la  religione  cattolica,1  dal  che  fu 
nomato  il  Re  Cattolico,  sopranome  poi  ripigliato  da  Alfonso  e 
Ferdinando  re  d'Aragona  e  da'  suoi  successori),  Liuba  II,  Witterico, 
Gundemaro,  Sisebuto,  Reccaredo  II,  Svintila,  Sisenando,  Cintila, 
Tulca  e  Chindesvindo,  principi  tutti  cattolici  e  religiosi,  aggiun- 
gendo le  loro  leggi  all'altre  de'  loro  predecessori,  fecion  sì  che  ne 
surse  col  correr  degli  anni  questo  nuovo  Codice,  delle  leggi  westro- 
gote  detto.b  Le  leggi  che  si  hanno  in  quello,  alcune  portano  in 
fronte  il  nome  degli  autori,  come  di  Gundemaro  re,  e  degli  altri  che 
regnarono  dopo  Evarico  e  Leovigildo;  altre  sono  sotto  il  nome  di 
legge  antica,  che  potrebbero  attribuirsi  ad  Evarico,  o  più  tosto  a 
Leovigildo,  che  corresse  ed  accrebbe  le  costui  leggi.  Fu  tanta  l'au- 
torità di  questo  codice  che  oscurò  in  queste  provincie  affatto  lo 
splendore  delle  leggi  romane;  poiché  Chindesvindo0  re  de'  We- 
strogoti,  che  a  Tulca  succede,  promulgò  un  editto  per  cui  sbandì 
la  legge  romana  da  tutti  i  confini  del  suo  regno,  e  ordinò  che  solo 
questo  codice  s'osservasse,  sotto  vano  e  stupido  protesto  perché 
quella  ricercava  troppo  sottile  interpetrazione.  Ecco  le  parole  del 
suo  editto  :d  «  Alienae  gentis  legibus,  ad  exercitium  utilitatis  imbuì, 
et  permittimus  et  optamus;  ad  negotiorum  vero  discussionem,  et 
resultamus  et  prohibemus.  Quamvis  enim  eloquiis  polleant,  tamen 


a)  Isid.,  in  Chron.,  era  608.2  b)  Ciron.,  lib.  5  Obser.  tur.  can.9 
cap.  2.3  e)  Altes.,  Rer.  aquit.,  lib.  3,  cap.  11.  Got.,  in  Proleg.  C.  Th., 
cap.  7*    d)  Leg.  Wisig.,  lib.  2,  tit.  1,  e.  9.5 


1.  Reccaredo  . .  .  cattolica:  cfr.  ancora  Grozio,  op.  cit.,  p.  726.  2.  Era  606 
(e  non  608),  in  Grozio,  op.  cit.,  p.  725  ;  ma  nel  De  Gothis  . . .  Chronicon,  cit., 
p.  5:  «EraDCVHi».  3.  Ed.  cit.,  pp.  71-2.  4.  Hauteserre,  op.  cit.,  1,  p.  206; 
Codex  theodosianus  cit.,  p.  excvi.  5.  Cfr.  Codicis  legum  Wisigoihorum  libri 
XII,  cit.,  p.  23.  Cfr.  anche  Hauteserre,  op.  cit.,  1,  p.  206,  dove  però  si  rin- 
via al  cap.  8  anziché  al  9.  La  citazione  è  presente  anche  in  Ciron,  op.  cit., 
p.  75,  che  a  sua  volta  rinvia  ai  capitoli  9  e  io. 


390  ISTORIA   CIVILE  DEL   REGNO   DI   NAPOLI 

difficultatibus  haerent:  adeo  cum  sufficiat  ad  iustitiae  plenitudi- 
nem,  et  praesentatio  rationum  et  competentium  ordo  verborum, 
quae  codicis  huius  series  agnoscitur  continere,  nolumus,  sive  ro- 
manis  legibus,  sive  alienis  institutionibus  amodo  amplius  conve- 
xari».1  Questa  costituzione  ritrovandosi  per  errore  di  Benedetto 
Levita2  reggistrata  tra*  capitolari  di  Carlo  M.  diede  occasione  al 
Gonzalez*  di  credere  che  Carlo  fosse  stato  il  primo  a  sterminare 
dal  foro  l'uso  delle  romane  leggi.  Reciswindo  suo  figliuolo,  che 
nel  regno  gli  succedette,  rinovò  gli  ordinamenti  del  padre,  e  volle 
che  fuor  di  questo  codice  non  s'ubbidissero  altre  leggi,  siano  ro- 
mane ovvero  teodosiane,  o  d'altre  straniere  genti.  «Nullus»  e'  dice 
«  prorsus  ex  omnibus  regni  nostri  praeter  hunc  librum,  qui  nuper 
est  editus,  atque  secundum  seriem  huius  omnimode  translatum, 
alium  librum  quocumque  negotio  in  iudicio  offerre  pertentet  ».b 
Tenne  Reciswindo  il  regno  dopo  la  morte  del  padre  tredici  anni,  e 
morì  in  Toledo  Tanno  di  nostra  salute  672,°  nel  quale  Vamba  fu 
eletto  suo  successore. 

Egli  è  però  vero  che  questo  codice  ad  emulazione  di  quello  di 
Giustiniano  fu  compilato,  e  diviso  perciò  in  dodici  libri.  I  compila- 
tori ebbero  presente  ancora  il  Codice  Teodosiano  e  quello  d'Ala- 

a)  Gonzal.,  in  e.  super  specula,  de  priviL,  num.  2.3  b)  Cod.  LL. 
Wisig.y  lib.  2,  tit.  1,  cap.  io;  Got.,  in  Proleg.  Cod.  Th.y  cap.  7.4 
e)  Goth.,  loc.  cit. 


1.  *Alienae gentis  —  convexari»\  «Che  ci  si  istruisca,  a  scopo  di  profitte- 
vole esercizio,  nelle  leggi  di  una  nazione  straniera  lo  permettiamo  e  anche 
lo  desideriamo;  ma  per  la  discussione  delle  cause  e  lo  rifiutiamo  e  lo 
proibiamo.  Sebbene  infatti  abbiano  vigor  d'eloquio,  tuttavia  si  soffermano 
troppo  in  sottigliezze.  Poiché  alla  pienezza  della  giustizia  bastano  davvero 
e  la  presentazione  delle  ragioni  e  la  misura  di  parole  appropriate  contenute 
nel  testo  di  questo  codice,  non  vogliam  più  d'ora  innanzi  essere  infastiditi 
né  dalle  leggi  romane  né  da  istituzioni  straniere».  2.  Benedetto  Levita: 
sotto  questo  nome  del  diacono  (levita)  Benedetto,  fu  compilata  in  Tours 
una  raccolta  di  capitolari,  apocrifa,  tendente  a  rivendicare  alcune  riforme 
richieste  dai  vescovi,  attorno  agli  anni  847-852.  Il  primo  a  negare  l'auten- 
ticità di  questi  testi  fu  Pierre  Pithou  nel  1588.  3.  Geronimo  Gonzalez 
(morto  nel  1609),  Dilucidami,  ac  perniile  glossema,  seu  commentano  ad  regulam 
octavam  Cancellariae  de  reservatione  mensium  et  alternativa  episcoporum  .  .  ., 
Romae  1604.  4.  Cfr.  Codicis  legum  Wisigothorum  cit.,  p.  24;  Godefroy, 
op.  cit.,  p.  excvi,  da  dove  è  tratta  la  citazione  («Assolutamente  nessuno 
tra  i  sudditi  del  nostro  regno  si  periti  di  presentare  in  giudizio,  per  qual- 
siasi causa,  un  libro  diverso  da  questo  testé  pubblicato,  o  che  non  sia 
trascritto  sotto  ogni  rispetto  secondo  il  testo  di  questo  »). 


LIBRO   III   •    CAP.  I  391 

rico,  come  è  manifesto  dalle  costituzioni  che  in  esso  si  leggono. a 
Si  valsero  ancora  del  codice  di  Giustiniano,  connumerandob  i  gradi 
della  consanguinità  coll'istesso  ordine,  e  quasi  consistesse  parole,  di 
cui  si  valse  Giustiniano  ne*  libri  delle  Instituzioni;  e  quel  ch'è  più 
notabile,  fu  con  puro  latino  scritto,  e  non  già  con  quello  stile  insulso 
e  barbaro  del  quale  valevansi  l'altre  nazioni;  tanto  che  Cujacioc 
perciò  ne  prende  argomento  che  fosse  quella  gente  più  eulta  di 
tutte  Paltre.  E  fu  cotanta  l'autorità  di  questo  codice,  che  non  solo 
presso  agli  Westrogoti,  ma  anche  appo  l'altre  nazioni  ebbe  vigore 
e  fermezza,  sicome  presso  a'  Borgognoni  ed  a'  Sassoni;  anzi  ne* 
concili  tenuti  in  Toledo1  spesso  le  sue  costituzioni  s'allegano,  e  di 
quelle  sovente  fassene  illustre  ed  onorata  memoria:  onde  si  videro 
nella  Spagna  in  cotal  guisa  mescolate  le  leggi  romane  con  quelle  de' 
Goti;  e  non  pure  in  questa  età,  ma  anche  ne'  tempi  susseguenti 
furon  osservate  non  solo  da'  Goti,  ma  anche  da'  Saraceni,d  i  quali 
dopo  l'anno  715  avendo  inondata  la  Spagna,  le  ritennero,  né  nuove 
leggi  v'introdussero,  salvo  che  alcune  poche  intorno  a'  giudici  cri- 
minali, come  della  bestemmia  del  falso  lor  profeta  Maometto;  ed 
ultimamente  questi  essendo  scacciati,  da'  re  spagnuoli  stessi  furon 
ritenute,  come  per  la  testimonianza  di  Roderico  scrisse  Grozio,6 
fino  al  regno  d'Alfonso  IX  o  X  il  quale,  essendo  cancellate  in 
buona  parte  per  disusanza  le  leggi  de'  Goti,  introdusse  nella  Spagna 
le  romane,  che  nell'idioma  spagnuolo,  per  opera  di  Pietro  Lopez 
e  di  Bartolomeo  d'Arienza,  fece  tradurre  e  divulgare,  le  quali  ora 
ritengono  tutto  il  vigore,  e  leggi  delle  Partite  s'appellano.5 

a)  Cod.  LL.  Wisig.y  lib.  5,  tit.  5,  cap.  9;  1.  1  C.  Th.,  de  usuris. 
Cod.  LL.  Wisig.y  lib.  3,  tit.  1,  cap.  1, 1.  un.  C.  Th.t  de  nupt.  b)  LL. 
Wisig.,  lib.  4,  cap.  11.  e)  Cujac,  Defeud.,  lib.  2,  tit.  n.2  d)  Artur. 
Duck,  lib.  2,  cap.  6,  num.  15.3  e)  Grot.,  in  Proleg.  Hist.  Got.i 
«Postquam  e  Saracenorum  marni  recuperari  partes  Hispaniae  coe- 
pere,  resuscitatae  a  Veremundo,  Aldelfunso,  Ferdinando,  ut  Rodovi- 
cus  nos  docet,  gotthicae  leges  :  quarum  Corpus  Forum  Iudicum,  et 
olim,  et  nunc  dicitur  fons  verus  hispanici  iuris».4  f)  Covar.,  lib.  1 
Var.  resoL,  cap.  14,  num.  5;  Artur.  Duck,  loc.  cit.,  num.  16.5 

1.  Cfr.  Ciron,  lib.  v,  cap.  2,  ed.  cit.,  pp.  71-3.  2.  In  Opera  omnia  ecc.,  cit., 
ed.  1658,  11,  col.  666  (cfr.  le  note  2  e  3  a  p.  26).  3.  Ed.  cit.,  pp.  215-6. 
4.  Grozio,  op.  cit.,  p.  64.  5.  Diego  Covarrubias  y  Leyva  (1512-1577),  giu- 
rista spagnolo,  Opera  omnia,  il,  Variarum  resolulionum  libri  quatuor, 
Lugduni  1661,  p.  70;  A.  Duck,  De  usut  ed.  cit.,  pp.  216-7.  Alfonso  il  Sag- 
gio o  il  Dotto,  decimo  del  nome  re  di  Castiglia  (1 221-1284),  svolse  un'in- 


392  ISTORIA    CIVILE    DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

Questo  codice  delle  leggi  degli  Westrogoti,  noi  lo  dobbiamo  alla 
diligenza  di  Pietro  Piteo,1  il  qual  fu  il  primo  che  comunicollo  a 
Giacomo  Cujacio,  della  qual  cortesia  tanto  se  gli  dimostra  tenuto. 
Né  io  voglio  che  mi  rincresca  di  qui  recarne  le  sue  parole  :a  «  Gotho- 
rum,  sive  Wisigothorum  reges,  qui  Hispaniam  et  Galiciam  Toleto 
sede  regia  tenuerunt,  ediderunt  xn  constitutionum  libros,  aemu- 
latione  codicis  Iustiniani,  quorum  auctoritate  utimur  saepe  liben- 
ter,  quod  sint  in  eis  omnia  fere  petita  ex  iure  civili,  et  sermone 
latino  conscripta,  non  ilio  insulso  caeterarum  gentium,  quem  non- 
numquam  legimus  ingratis  :  ut  gens  illa  maxime,  quae  consedit  in 
Hispania  piane  cultior  caeteris,  hoc  argumento  fuisse  videatur. 
Communicavit  autem  mihi  ultro  Petrus  Pitheus,  quem  ego  homi- 
nem, et  si  amore,  et  perpetuo  quodam  iudicio  meo  dilexi  semper 
vix  iam  ex  ephebo  prcfatus  fore,  ut  probitate  et  eruditione  aequa- 
lium  suorum  nemini  cederet:  tamen  prò  singulari  isto  beneficio, 
maximam  modo  animi  benevolentiam  et  summa  ac  singularia  studia 
omnia  me  ei  debere  confiteor,  idemque  erit  erga  eum  animus  hono- 
rum omnium,  si,  quod  vehementer  exopto,  eos  libros  in  publicum 
conferre  maturaverit».2  Ciò  che  Cujacio  desiderava,  fu  da  Piteo 
già  adempiuto;  poiché  non  guari  dapoi  permise  che  questi  libri  si 

a)  Cujac,  loc.  cit. 

tensa  attività  legislativa,  provvedendo  ad  unificare  i  vari  diritti  locali  e 
personali  nel  Libro  del  Èspéculo  (o  Espejo  de  todos  los  derechos)  e  ristabilen- 
do nel  suo  regno  il  diritto  romano  con  il  Libro  de  las  Lleyes  (o  Las  siete 
partidas),  una  delle  più  importanti  collectio  del  medio  evo  giuridico,  ispi- 
rate soprattutto  all'insegnamento  dell'Università  bolognese,  i .  Pietro  Pi- 
teo: Pierre  Pithou  (1539-1596),  celebre  giureconsulto  e  storico  francese.  I 
suoi  Opera  sacra,  iuridica,  historica,  miscellanea  furono  editi  a  Parigi  da 
Charles  Labbé  nel  1609.  Per  l'edizione  delle  Leges  Wisigothorum  cfr.  la  nota 
6  a  p.  384.  2.  «  I  re  dei  Goti  o  Visigoti,  che  occuparono  la  Spagna  e  la  Ga- 
lizia con  reggia  a  Toledo,  pubblicarono  dodici  libri  di  costituzioni,  a  emu- 
lazione del  codice  giustinianeo,  della  cui  autorità  spesso  ci  serviamo  volen- 
tieri poiché  in  esse  quasi  tutto  è  tratto  dal  diritto  civile  e  steso  in  lingua  la- 
tina; non  quel  latino  insipido  di  tutti  gli  altri  popoli  che  mal  volentieri  ta- 
lora leggiamo:  quasiché  da  ciò  si  possa  arguire  che  quel  popolo,  che  abita 
la  Spagna,  sia  di  gran  lunga  nettamente  più  colto  degli  altri.  Me  ne  ha 
spontaneamente  data  notizia  Pierre  Pithou,  che  per  quanto  abbia  sempre 
onorato  con  un  amore  e  con  una  stima  per  cosi  dire  perenne,  avendo 
previsto,  fin  da  quando  era  giovinetto,  che  non  sarebbe  stato  inferiore  in 
probità  e  dottrina  a  nessuno  dei  suoi  coetanei,  tuttavia  confesso  che  per 
questo  singolare  favore  gli  devo  la  massima  benevolenza  e  ogni  più  grande 
e  particolare  deferenza.  Uguale  sarà  il  sentimento  di  tutti  i  buoni  se,  ciò 
che  ardentissimamente  desidero,  si  affretterà  a  pubblicare  questi  libri  ». 


LIBRO    III   •    CAP.  I  393 

dassero  alle  stampe,  come  e'  dice  scrivendo  ad  Odoardo  Moleo: 
«Imo  etiam,  ne  quid  Orienti  Occidens  de  eadem  gente  invideret, 
legis  Wisigothorum  libros  xn  ut  tandem  aliquando  ederentur  con- 
cessi ».a  A  costui  parimente  dobbiamo  Y Editto  di  Teodorico  Ostro- 
goto re  d'Italia,  di  cui  più  innanzi  favelleremo.1 

Né  perché  la  Spagna  fu  poi  invasa  da'  Saraceni  mancò  ivi  affatto 
il  nome  e  '1  sangue  de'  Goti,  sicome  non  mancarono  le  loro  leggi. 
Vanta  con  ragione  la  maggior  parte  della  nobiltà  di  quel  regno 
ritenerne  non  meno  il  sangue  che  i  nomi  :  ed  in  fatti,  come  osservò 
Grozio,b  nomi  gotici  sono  quelli  di  Ferdinando,  di  Frederico,  Ro- 
derico,  Ermanno,  e  altri  consimili  che  gli  Spagnuoli  ritengono.  I  re 
medesimi  di  Spagna  vantarono,  e  vollero  esser  creduti,  discender 
essi  dal  figliuolo  di  Favilla,  Pelagio,  nato  di  regia  stirpe,  il  quale 
nell'irruzione  saracinesca  avendo  raccolte  le  reliquie  delle  sue  genti 
in  Asturia,  quivi  si  mantenne,  ancor  che  in  tenue  fortuna,  ma  con 
nome  regio,  sperando  che  la  sua  posterità  un  tempo,  come  poi 
avvenne,  potesse  ricuperare  i  loro  aviti  regni:  «Ad  hunc»  come  dice 
Mariana,2  «  Hispaniae  reges  nunquam  intercisa  serie,  cum  semper, 
aut  parentibus  filli,  aut  fratres  fratribus  successerint,  clarissimum 
genus  referunt».  Frouliba  moglie  di  Pelagio  fu  ancor  ella  gota,  ed 
il  suo  genero  Aldefonso  fu  parimente  goto  del  sangue  del  re  Rec- 
caredo.  Goti  furon  dunque,  e  della  regal  stirpe  de'  Baiti,  i  re  di 
Spagna,  i  quali  per  lo  spazio  di  settecento  anni  avendo  con  istan- 
cabili  e  continue  fatiche  purgata  la  Spagna  dall'inondamento  ara- 
bico, stesero  finalmente  il  loro  dominio  non  pure  sopra  gran  parte 
d'Europa,  dell'Affrica  e  dell'Asia,  ma  si  sottoposero  un  nuovo  e 


a)  Piteus  Ad  Edoard.  in  Ep.  pr deposita  ad  Edictum  Theoderici  in 
Oper.  Cassiod.3    b)  Grot.,  in  Proleg.  hist.  Got.,  pag.  51.4 


1.  A  costui  . .  .favelleremo:  nel  cap,  11,  par.  11,  qui  a  p.  403.  2.  come  dice 
Mariana:  cfr.  Juan  de  Mariana  (1545 -1624),  Historìa  general  de  Espana, 
Toledo  i6ox,  ma  la  citazione  è  ripresa  da  Grozio,  Prolegomena,  p.  52 
(«  A  costui  i  re  di  Spagna,  non  essendosi  mai  interrotta  la  discendenza,  poi- 
ché son  sempre  succeduti  i  figli  ai  padri  o  i  fratelli  ai  fratelli,  fanno  risalire 
Tillustrissima  schiatta»).  3.  P.  Pitkoeus  e.  v.  Edoardo  Molaeo  senatori  s., 
in  Cassiodoro,  Variarum  libri  XII  cit.,  appendice,  p.  2  (a  Che  anzi,  perché 
l'Occidente  non  avesse  alcunché  da  invidiare  all'Oriente  riguardo  alla  stes- 
sa gente,  ho  acconsentito  a  che  i  dodici  libri  delle  leggi  visigote  venissero 
alla  fine  editi»).     4.  Cfr.  op.  cit,  p.  52  (e  non  51). 


394  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO   DI    NAPOLI 

sconosciuto  mondo,  e  ressero  ancora  per  lunga  serie  d'anni  queste 
nostre  provincie,  che  ora  compongono  il  regno  di  Napoli. 

Abbiam  riputato  diffonderci  alquanto  intorno  alla  serie  di  que- 
sti principi  westrogoti,  ed  intorno  alla  varia  fortuna  della  giuri- 
sprudenza romana,  ch'ebbe  presso  a'  medesimi  nella  Francia  e 
nella  Spagna,  con  parlarne  separatamente  da  quello  che  n'avvenne 
fra  gli  Ostrogoti  nell'Italia,  non  solamente  per  additar  l'origine  de* 
re  di  Spagna,  da'  quali  ne*  secoli  più  a  noi  vicini  fu  questo  nostro 
reame  governato;  ma  anche  perché  si  distinguessero  le  vicende  della 
giurisprudenza  romana  appresso  queste  due  nazioni,  le  quali  non 
ebbero  in  ciò  uniformi  sentimenti,  ma  totalmente  opposti  e  diversi. 
E  tanto  maggiormente  dovea  ciò  farsi,  quanto  che  gli  scrittori  mi- 
schiano le  leggi  degli  uni  e  degli  altri;  né  ponendo  mente  alla  serie 
e  geneologia  di  questi  principi,  e  alle  varie  abitazioni  ch'ebbero, 
confondono  gli  uni  cogli  altri,  e  credon  che  in  Italia  appresso  gli 
Ostrogoti  avesse  avuta  parimente  autorità  questo  codice,  con  ascri- 
vere a'  principi  ostrogoti  ciò  che  gli  westrogoti  fecero.  Nel  qual 
errore  non  possiamo  non  maravigliarci  d'esserv'incorso  eziandio  il 
diligentissimo  Arturo  Duck,a  il  quale  senza  tener  conto  de'  tempi 
e  delle  regioni  diverse  dominate  da  questi  principi,  fra  i  re  westro- 
goti confonde  Atalarico  ostrogoto,  e  con  ordine  alquanto  torbido  e 
confuso  tratta  questo  soggetto. 

CAP.    II 
DE»   GOTI  ORIENTALI,  E  LORO  EDITTI 

I.  Di  Teodorico  ostrogoto,  re  d'Italia. 

. . .  Teodorico,  dopo  la  morte  di  Teodemiro  suo  padre  assunto 
al  paterno  reame,  dominava  nell'Illirico,  ove  gli  Ostrogoti,  come 
dicemmo,  dopo  quelle  conquiste,  posando  rarmi  si  fermarono. 
Reggeva  allora  F  Oriente  Zenone,  il  quale  nell'anno  474  era  alPim- 
perador  Lione  succeduto  in  Oriente:  questi  avendo  inteso  che 
Teodorico  era  stato  dagli  Ostrogoti  eletto  re,  dubitando  che  per  lo 
troppo  suo  potere  non  inquietasse  il  suo  imperio,  stimò  richiamarlo 

a)  Artur.  Duck,  De  usu  et  aut.  tur.  civ.,  cap.  6,  num.  14.1 
1.  Ed.  cxt.,  pp.  214-5. 


LIBRO    III    •    CAP.  II  395 

in  Costantinopoli,  ove  giunto  con  incredibili  segni  di  stima  l'accolse 
e  fra  i  primi  signori  del  palazzo  lo  fece  in  prima  arroliare;  non 
guari  dapoi  per  suo  figliuolo  l'adottò  e  creollo  ordinario  console, 
dignità  in  que'  tempi  la  più  eminente  del  mondo:  né  gli  bastò 
questo,  ma  volle  ancora  che  per  gloria  d'un  sì  ragguardevol  perso- 
naggio gli  fosse  eretta  avanti  la  regia  dell'imperiai  palagio  una  statua 
equestre.  Ma  mentre  questo  principe  godeva  in  Costantinopoli 
tutti  quegli  agi  e  quegli  onori  che  da  mano  imperiale  potevan  di- 
spensarsi, il  generoso  suo  animo  però  mal  sofferiva  di  veder  la  sua 
gente,  che  nell'Illirico  era  trattenuta,  invilita  nell'ozio  ed  in  povertà 
ed  angustie,  ed  egli  starsene  oziosamente  godendo  quelle  delizie, 
menando  una  vita  neghittosa  e  lenta  :  da  sì  potenti  stimoli  riscosso, 
si  risolve  a  più  magnanime  imprese,  e  portatosi  alTimperador  Ze- 
none, secondo  che  narra  Giornande,a  così  gli  parla.  Ancorché  a 
me,  ed  a'  miei  Goti,  che  al  vostro  imperio  ubbidiscono,  niente 
manchi  per  la  vostra  magnanimità  e  grandezza,  piacciavi  nondi- 
meno udire  i  voti  e'  desideri  del  mio  cuore,  che  son  ora  liberamente 
per  esporvi.  L'Imperio  d'Occidente,  che  lunga  stagione  fu  gover- 
nato da'  vostri  predecessori,  va  tutto  in  guerra,  e  non  vi  è  barbara 
nazione  che  non  lo  devasti,  scompigli  e  manometta:  Roma,  che  fu 
già  capo  e  signora  del  mondo,  con  l'Italia  tutta  dalla  tirannide 
d'Odoacre  è  oppressa:  voi  solo  permetterete  che,  stando  noi  qui 
oziosi  e  infingardi,  altri  depredino  sì  bella  parte  del  vostro  Imperio  ? 
che  non  mandi  me  colla  mia  gente  a  portar  ivi  le  nostre  armi? 
Noi  vendicheremo  i  vostri  torti  e  le  vostre  onte,  ed  oltre  che  rispar- 
mierete  le  gravi  spese,  che  stando  noi  qui  sostenete,  se  io  coll'aiuto 
del  Signore  vincerò,  risonerà  la  fama  della  vostra  pietà  e  del  vostro 
onore  per  tutto  il  mondo.  Io  son  vostro  servo  e  vostro  figliuolo  an- 
cora, onde  sarà  più  espediente  e  ragionevole  che  se  vincerò  abbia 
io  per  vostro  dono  a  posseder  quel  regno  che  ora  è  premuto  dalla 
tirannide  di  straniere  genti,  che  tengono  il  vostro  Senato  e  gran 
parte  della  vostra  repubblica  in  vile  servitù  e  cattività:  se  io  trion- 
ferò d'esse,  per  tua  munificenza  possederò  l'Occidente:  se  resterò 


a)  Iornand.,  De  réb.  Gei? 


i.  Giordane,  op.  cit.,  cap.  lvii,  in  Grozio,  Historia,  pp.  696-7;  ma  vedi 
anche  Procopio  di  Cesarea,  Gottkica  historia,  lib.  I,  in  Grozio,  op.  cit., 
p.  140;  Evagrio  Scolastico,  Historia  ecclesiastica,  in  Maxima  bibliotheca  ve- 
terum  Patrum  cit.,  xi,  p.  989. 


396  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

vinto,  al  vostro  imperio  ed  alla  vostra  pietà  niente  si  toglie,  anzi 
ne  guadagnerete  queste  gravi  e  rilevanti  spese. 

Sì  magnanima  risoluzione  di  Teodorico,  ancorché  forte  spia- 
cesse alTimperador  Zenone,  che  mal  sofferiva  il  suo  allontanamento, 
pure,  e  per  non  contristarlo,  e  seco  medesimo  pensando  che  meglio 
fosse  che  i  suoi  Goti,  di  riposo  impazienti,  portassero  altrove  le 
loro  armi  e  non  inquietassero  le  parti  orientali,  volle  compiacerlo, 
e  concedendogli  tutto  ciò  che  domandava,  caricatolo  di  ricchissimi 
doni,  lo  lasciò  andare,  raccomandandogli  sopra  ogni  altra  cosa  il 
Senato  ed  il  popolo  romano,  di  cui  dovesse  averne  ogni  stima  e 
rispetto.  Esce  fuor  di  Costantinopoli  Teodorico  ripieno  d'altissime 
speranze,  e  ritornando  a'  suoi  Goti  fa  sì  che  molti  lo  seguissero, 
e  per  cammin  diritto,  avviandosi  per  la  Pannonia,  verso  Italia 
drizza  il  suo  esercito.  Indi  entrando  ne'  confini  di  Vinezia,  presso 
al  ponte  di  Lisonzo  non  lungi  d'Aquileia  pone  i  suoi  alloggiamenti. 

I  messi  in  tanto  di  questa  mossa  eran  precorsi  ad  Odoacre,  il 
quale  sentendo  essersi  Teodorico  già  accampato  in  quel  ponte, 
gli  muove  incontro  il  suo  esercito.  Ma  Teodorico  prevenendolo  ne* 
campi  di  Verona,  gli  presenta  la  battaglia,  pugnasi  ferocemente,  e 
Teodorico  delle  genti  nemiche  fa  strage  crudele;  onde  audacissi- 
mamente entrando  in  Italia,  passato  il  Po,  presso  a  Ravenna  ac- 
campa il  suo  esercito,  ed  all'assedio  di  questa  imperiai  città  è  tutto 
rivolto.  Odoacre,  che  si  ritrova  dentro,  fa  ogni  sforzo  in  munirla, 
e  sovente  con  notturne  scorrerie  inquieta  l'esercito  de'  Goti  ;  ed  in 
questa  guisa  pugnando,  ora  perdente,  ora  vincente,  si  giunge  al 
terzo  anno  di  quest'assedio  :  ma  invano  s'affatica  Odoacre,  poiché 
fra  tanto  da  tutta  Italia  era  Teodorico  per  suo  re  e  signore  accla- 
mato, ed  ogni  cosa  così  pubblica  come  privata  i  suoi  voti  secondava. 
In  tale  stato  scorgendo  Odoacre  esser  ridotta  la  sua  fortuna,  e 
riguardandosi  solo  in  Ravenna,  e  che  già  per  lo  continuo  e  stretto 
assedio  mancavano  i  viveri,  diliberò  rendersi,  onde  mandò  legati  a 
Teodorico  a  chiedergli  pace:  fugli  accordata;  ma  dapoi  entrato 
in  sospetto  che  Odoacre  gl'insidiasse  il  regno,  gli  fece  toglier  la 
vita.1 

In  tanto  di  sì  avventurosi  successi  diede  Teodorico  distinti  rag- 

i.Ma  Teodorico  prevenendolo  ...  vita:  sconfitto  sull'Isonzo  e  a  Verona 
(489),  rifugiatosi  a  Ravenna,  Odoacre  si  arrese  dopo  una  lunga  resistenza, 
con  promessa  di  aver  salva  la  vita.  Ma  fu  invece  ucciso  (493)  e  sterminata 
la  sua  famiglia  e  i  suoi  seguaci. 


LIBRO    III    •    CAP.  II  397 

guagli  alFimperador  Zenone,  avvisandolo  non  rimanergli  altro 
che  Ravenna  sola  per  l'intera  conquista  dell'Italia;  ebbene  sommo 
piacere  Zenone,  onde  con  suo  imperiai  decreto  confermogli  l'impe- 
rio d'Italia;  e  per  suo  consiglio  deponendo  l'abito  goto,  non  già 
d'imperiai  diadema,  ma  di  regie  insegne  e  di  regale  ammanto  si 
cuopre,  e  re  de'  Goti  e  de'  Romani  è  proclamato.3  Indi  nel  secondo 
anno  dell'imperio  d'Anastasio,  che  a  Zenone  succedette,  prese, 
per  la  morte  d'Odoacre,  Ravenna,  e  nell'anno  493  fermò  in  questa 
città,  come  avevan  fatto  i  suoi  predecessori,  la  regia  sede. 

Se  fu  mai  principe  al  mondo,  in  favor  del  quale  nell'acquisto  de' 
suoi  regni  concorressero  tanti  giusti  titoli,  certamente  dovrà  repu- 
tarsi Teodorico  a  rispetto  del  regno  d'Italia.  Era  già  a'  suoi  dì 
l'Imperio  d'Occidente,  per  la  morte  d'Augustolo,  finito  affatto  ed 
estinto:  la  Spagna  da'  Vandali,  dagli  Westrogoti  e  da'  Svevi  era 
occupata:  la  Gallia  da'  Franzesi  e  da'  Borgognoni:  la  Germania 
dagli  Alemanni  e  da  altre  più  inculte  e  barbare  nazioni  :  l'Italia  non 
potendo  esser  difesa  dagl'imperadori  d'Oriente,  era  stata  da  essi 
abbandonata  e  lasciata  in  preda  di  più  barbare  genti:  Gizerico  re 
de'  Vandali  la  devasta  e  depreda:  Odoacre  l'invade,  e  sotto  la  sua 
tirannide  la  fa  gemere.  Giunge  Teodorico  a  liberarla,  ed  a  suo  costo 
per  mezzo  d'infiniti  perigli,  col  valor  delle  sue  armi  e  colle  forze 
della  sua  propria  nazione  supera  il  tiranno,  lo  discaccia  e  l'uccide. 
Tutti  i  popoli  per  loro  re  e  signore  l'acclamano  ed  il  suo  regno 
desiderano.  Se  v'era  chi  sopra  Italia  avesse  alcun  diritto  era  l'im- 
perador  d'Oriente,  ma  Teodorico  mandato  da  lui  viene  a  conqui- 
starla ed  a  discacciarne  l'invasore.  Conquistata  che  l'ebbe  colle  pro- 
prie forze,  gli  vien  da  Zenone  confermato  l'imperio,  e  per  suo  con- 
siglio ed  autorità  dell'insegne  regali  s'adorna,  e  re  d'Italia  è  gridato, 
transfondendo  nella  sua  persona  i  più  supremi  diritti,  niente  presso 
di  lui  ritenendosi.  Nel  che  non  vogliamo  altri  testimoni  che  i  Greci 
stessi;  niente  dico  di  Giornande,  che  come  goto  potrebbe  forse 
ad  alcuni  sembrar  sospetto  ;  niente  d'Ennodio,  quel  santo  vescovo 
di  Pavia,  che  per  la  giustizia  del  suo  regno  gli  stese  una  orazione 


a)  Iornand.,  De  reb.  Get.:  «Zenonisq.  imperatoris  consulto  pri- 
vatimi habitum  suaeque  gentis  vestitum  deponens,  insigne  regii 
amictus,  quasi  iam  Gothorum  Romanorumque  regnator,  adsumit».1 


1.  Cap.  lvii,  in  Grozio,  op.  cit.,  p.  698  (recte:  «privatim  habito»). 


398  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

panegirica ;a  vagliami  Procopiob  di  nazione  greca,  il  quale  nella  sua 
storia,  sicome  tanto  si  compiace  de'  suoi  Greci,  così  a'  Goti  non 
fu  molto  favorevole:  ecco  ciò  eh' e'  narra  di  questo  fatto,  secondo 
la  traduzione  di  Grozio.  «At  Zeno  imperator,  gnarus  rebus  uti  ut 
dabant  tempora,  Theoderico  hortator  est  ut  in  Italiani  iret,  Odoa- 
croque  devicto  sibi  ipse  ac  Gothis  pararet  Occidentis  regnum. 
Quippe  satius  nomini  in  Senatum  allecto,  Romae  atque  Italis  im- 
perare, invasore  pulso,  quam  arma  in  imperatorem  cum  periculo 
experiri».1  Per  la  qual  cosa  i  miserabili  Goti,  quando  nel  regno  di 
Teia  ultimo  loro  re  furono  costretti  da  Giustiniano  a  lasciar  l'Italia, 
ricorrendo  a*  Franzesi  per  aiuto,  fra  l'altre  cose  che  per  movergli 
alla  lor  difesa  poser  loro  innanzi  gli  occhi,  fu  il  dire  che  ciò  che  i 
Romani  allora  facevano  ad  essi,  avrebbon  un  dì  fatto  a  loro  altresì; 
poiché  or  che  vedevan  le  loro  forze  abbattute,  con  ispeziosi  prete- 
sti movean  loro  guerra,  con  dire  che  Teodorico  invase  l'Italia,  che 
a'  Romani  s'apparteneva:  «Cum  tamen»  essi  dicevano  appresso 
Agatiac  «Theodericus  non  ipsis  nolentibus,  sed  Zenonis  quondam 
imperatoris  concessu  venisset  in  Italiani,  neque  eam  Romanis 
abstulisset,  qui  pridem  eam  amiserant,  sed  depulso  Odoacro  inva- 
sore peregrino,  belli  iure  quaesivisset  quaecumque  ille  possederat  ». 

a)  Ennodii  Panegiricus,  apud  Cassiodor.2    b)  Procop.,  lib.  1  Hist. 
Got?     e)  Agatia,  lib.  I.4 


1.  «At  Zeno  . . .  experiri»:  «Ma  Zenone  imperatore,  abile  nello  sfruttare 
le  occasioni  come  le  circostanze  permettevano,  esorta  Teodorico  a  recarsi 
in  Italia  e,  debellato  Odoacre,  ad  acquistare  per  sé  e  per  i  Goti  il  regno 
d'Occidente.  Ed  era  certo  meglio  per  lui,  allettato  dal  Senato,  signoreggiare 
Roma  e  gli  Italici,  dopo  aver  cacciato  l'usurpatore,  che  rischiar  la  guerra 
perigliosamente  contro  l'imperatore».  2.  Magno  Felice  Ennodio  (473- 
521),  vescovo  di  Pavia  dal  513.  Le  sue  opere  in  Maxima  bibliotheca  cit.,  ix, 
e  tra  esse  il  Panegyricus  dìctus .  . .  regi  Theoderico,  alle  pp.  371  sgg.  (Testo 
critico  di  G.  Hartel  nel  Corpus  scriptorum  ecclesiasticorum,  vi,  Vindobonae 
1882,  pp.  261-86).  Per  il  riferimento  giannoniano  cfr.  la  citata  edizione  di 
Cassiodoro,  appendice,  pp.  22-34.  3.  Procopio  (cfr.  la  nota  1  a  p.  24),  Got- 
thica  htstoria,  citato  in  Grozio,  op.  cit.,  pp.  139  sgg.  La  citazione  che  segue 
è  alla  p.  140.  4.  Agazia  Scolastico  (536  circa  -  582)  proseguì  la  storia  di 
Procopio,  conducendola  sino  al  558:  De  imperio  et  rebus  gestis  Iustiniani 
imperatoris  libri  quinque,  Lugduni  Batavorum  1594.  La  citazione  in  Grozio, 
op.cit.,p.  535  («Mentre  invece  Teodorico  era  venuto  in  Italia  non  contro 
il  lor  volere,  ma  per  concessione  di  Zenone  un  tempo  imperatore,  né  l'aveva 
sottratta  ai  Romani,  che  l'avevano  da  tempo  perduta,  ma  cacciato  Odoacre, 
invasore  straniero,  per  diritto  di  guerra  s'era  preso  tutto  ciò  che  quello 
possedeva»). 


LIBRO    III    •    CAP.  II  399 

E  morto  Pimperador  Zenone,  Anastasio,  che  gli  succede  nel- 
l'Imperio d'Oriente,  portò  gli  stessi  sentimenti  del  suo  predeces- 
sore, avendolo  per  giusto  e  legittimo  principe;  poiché  se  bene  ap- 
presso l'Anonimo  Valesiano,  che  fu  fatto  imprimere  da  Errico 
Valesio  dopo  Ammiano,  rapportato  da  Pagi  nella  sua  Dissertazione 
hypatica  de  consulibus,  si  legga  che  i  Goti,  morto  nell'anno  493 
Odoacre,  «sibi  confirmaverunt  Theodoricum  regem,  non  expec- 
tantes  iussionem  novi  principis»1  (intendendo  d'Anastasio,  che  al- 
lora era  a  Zenone  succeduto),  ciò  che,  come  avverte  Pagi,a  insino 
ad  ora  fu  ignorato;  nulladimanco  dall'epistole  di  Cassiodoro  si 
vede  che  Anastasio  approvò  poi  ciò  che  i  Goti  aveano  per  propria 
autorità  fatto  ;  anzi  finché  visse  mantenne  con  Teodorico  una  ben 
ferma  e  sicura  amicizia,  esortandolo  sempre  che  amasse  il  Senato, 
abbracciasse  le  leggi  de'  principi  romani  suoi  predecessori,  e  proc- 
curasse  sotto  il  suo  regno  mantener  l'Italia  unita  in  una  tranquilla 
e  sicura  pace:  di  che  Teodorico  ne  l'accertava  con  promesse  e  con 
effetti,  come  si  vede  dalle  sue  epistole,  che  appresso  Cassiodoro  si 
leggono  dirizzate  ad  Anastasio.15 

Giustiniano  stesso,  che  discacciò  i  Goti  d'Italia,  non  potè  non 
riputar  giusto  e  legittimo  il  regno  di  Teodorico  e  degli  altri  re 
d'Italia  suoi  successori;  poiché  conquistata  che  l'ebbe  per  opera  di 
que'  due  illustri  capitani,  Belisario  e  Narsete,  abolì  sì  bene  tutti 
gli  atti,  concessioni  e  privilegi  di  Totila  da  lui  reputato  invasore  e 
tiranno,  ma  non  già  quelli  di  questo  principe  e  degli  altri  suoi 
successori.0 

*La  subordinazione  e  riverenza,  nella  quale  furono  i  re  goti 
agl'imperadori  d'Oriente,  si  convince  apertamente  dalle  monete  di 
questi  re  che  si  conservano  ancora  ne'  più  rinomati  musei  d'Europa, 
nelle  quali  in  una  parte  si  vede  l'effigie  degl'imperadori,  nell'altra 

a)  Pagi,  Dissert.  de  consultò.,  pag.  300.2  b)  Cassiod.,  lib.  1,  Ep.  I.3 
e)  Pragm.  Sonetto  Iustin.  post  Nov.,  cap.  1  et  2.4 


1.  vì sibi  confirmaverunt . .  .principisi:  «senza  attendere  disposizioni  del 
nuovo  imperatore,  confermarono  loro  re  Teodorico  ».  2.  Antoine  Pagi 
(1624- 1699),  Dissertato  hypaticat  seu  de  consulibus  caesareis,  ex  occasione 
inscriptionis  forojuliensis  Aureliani  Augusti,  Lugduni  1682.  Ristampata  in 
Critica  historico-chronologica  in  universos  Annales  ecclesiasticos  .  . .  Baronuy 
I,  Antverpiae  1728.  3.  Cfr.  Variarum  libri  XII  cit.,  pp.  5-6.  4.  La  Sonetto 
pragmatica  prò  petitione  Vigilii,  del  554,  con  la  quale  vennero  promulgate 
per  l'Italia  numerose  Novellae  già  emanate  in  Oriente. 


400  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO   DI   NAPOLI 

non  già  immagine  alcuna  di  re  goto,  ma  solo  i  loro  nomi;  toltone 
alcune  monete  di  rame,  nelle  quali  forse  per  concessione  avutane 
dagl'imperadori  se  ne  vede  anche  l'effigie.  Di  quelle  d'argento  nel 
Museo  Cesareo  di  Vienna  se  ne  veggono  alcune,  le  quali  da  una 
parte  hanno  l'effigie  dell'imperadore  Giustiniano,  e  dall'altra  i  no- 
mi di  questi  re:  Athalaricus  Rex.  Theodatus  Rex.  Vitigis  Rex. 
Baduela  Rex.  Il  Bandurio1  le  ha  pure  impresse,  ed  il  Parata*  porta 
anche  una  consimile  moneta  del  re  Teia.  Il  dubbio  che  sorge,  come 
Giustiniano  permettesse  a  Baduela,  ch'è  lo  stesso  che  Totila,  coniar 
monete  colla  sua  immagine  ed  il  di  lui  nome,  quando  lo  riputava 
invasore  e  tiranno,  viene  sciolto  dal  Bandurio,  al  quale  volentieri  ci 
rimettiamo 


#a 


In  fatti  Teodorico,  ancorché  non  gli  fosse  piaciuto  d'assumere  il 
nome  d'imperadore,  era  in  realtà  da  tutti  i  suoi  popoli  tenuto  per 
tale,  e  Procopio  stesso  dice3  che  niente  gli  mancava  di  quel  decoro 
che  ad  uno  imperador  si  conveniva;  anzi  Cassiodoro  reputò  che 
questo  nome  stava  assai  più  bene  a  lui  che  a  qualunque  altro  an- 
corché chiarissimo  imperador  romano;  ed  in  effetto  questo  prin- 
cipe sia  per  riverenza  degPimperadori  d'Oriente,  sia  perché  Odoa- 
cre  non  prese  altra  qualità  che  di  re,  sia  perché  queste  nazioni  stra- 
niere riputassero  più  profittevole  e  vigoroso  il  titolo  di  re,  come 
dinotante  una  signoria  affatto  indipendente  e  libera,  che  quello 
d'imperadore,  non  volle  giammai  assumere  tal  nome  d'imperadore 
di  Occidente,  come  fece  dapoi  Carlo  M.  E  pure,  o  si  riguardi  l'e- 
stensione del  dominio,  o  l'eminenti  virtù  che  l'adornavano,  non 
meno  che  Carlo  M.  sarebbe  stato  meritevole  di  tal  onore.  Egli  pos- 
sedeva l'Italia  con  tutte  le  sue  provincie,  e  la  Sicilia  ancora.  Né 
questa  parte  d'Europa  solamente  era  sotto  la  sua  dominazione. 


a)  Vid.  Eccardum  in  Epist.  de  numm.  quibusd.  sub  regim.  Theodor. 
Goth.  reg.  in  honor.  impp.  Zenon.  et  Anastas.  ausisi 


i.  Bandurio-.  cfr.  la  nota  i  a  p.  25.  A  Parigi  dal  1702  alla  scuola  dei  confra- 
telli del  monastero  di  Saint-Maur  scrisse  i  suoi  tre  lavori:  Imperium  orientale 
sive  Antiquitates  constantinopolitanae  (171 1),  i  Numismata  cit.  e  la  Bibliothe- 
ca  nummaria,  pubblicata  assieme  ai  Numismata.  2.  Parata-,  vedi  la  nota  1 
a  p.  25.  3.  Procopio  stesso  dice:  nella  Gotthica  historia,  in  Grozio,  op.  cit., 
pp.  141-2.  4.  Johann  Georg  Eckhardt  (1664-1730),  Epistola  de  numis 
qmbusdam  sub  regimine  Theoderici,  Ostrogothorum  regis,  in  honorem  impera- 
torum  Zenonis  et  Anastasii  cusis  .  . .,  Hanoverae  1720. 


LIBRO    IH    •    CAP.  II  401 

Tenne  la  Rezia,  il  Norico,  la  Dalmazia  colla  Liburnia,  l'Istria  e 
parte  della  Svevia:  quella  parte  della  Pannonia,  ove  sono  poste 
Sigetinez  e  Sirmio  :  alcuna  parte  della  Gallia,  per  la  quale  co'  Fran- 
zesi  sovente  venne  all'armi,  e  per  ultimo  reggeva,  come  tutore 
d' Amalarico  suo  nipote,  la  Spagna;  tanto  che  Giornandea  ebbe  a 
dire  :  «  Nec  fuit  in  parte  occidua  gens,  quae  Theodorico,  dum  vi- 
veret,  aut  amicitia  aut  subiectione  non  deserviret».1 

Non  ancora  in  Occidente  erasi  introdotto  quel  costume,  che  i  re 
s'ungessero  ed  incoronassero  per  mano  de'  vescovi  delle  città  me- 
tropoli. In  Oriente  cominciava  già  a  praticarsi  questa  cerimonia; 
ed  in  questi  medesimi  tempi  leggiamo  che  Lione  il  Trace,  dopo  es- 
sere stato  dal  Senato  di  Costantinopoli  eletto  imperadore,  fu  inco- 
ronato da  Anatolio  patriarca  di  quella  città.  Se  questa  usanza  si 
fosse  trovata  introdotta  in  Italia,  e  fosse  piaciuto  a  Teodorico  por- 
tarsi in  Roma  a  farsi  incoronare  imperadore  da  papa  Gelasio,  si- 
come  fece  Carlo  M.  con  papa  Lione  III,  certamente  che  oggi  pure 
si  direbbe  essere  stato  trasferito  l'Imperio  d'Occidente  da'  Romani 
ne'  Goti  per  autorità  della  Sede  Apostolica  Romana. 

11.  Leggi  romane  ritenute  da  Teodorico  in  Italia, 
e  suoi  editti  conformi  alle  medesime. 

Ma  avvegnaché  a  questo  principe  non  fosse  piaciuto  assumere  il 
nome  d'imperador  d'Occidente,  egli  però  resse  l'Italia,  e  queste 
nostre  provincie,  non  come  principe  straniero,  ma  come  tutti  gli 
altri  imperadori  romani.  Ritenne  le  medesime  leggi,  i  medesimi 
magistrati,  l'istessa  politia,  e  la  medesima  distribuzione  delle  Pro- 
vincie. Egli  divise  prima  gli  Ostrogoti  per  le  terre  co'  capi  loro, 
acciocché  nella  guerra  gli  comandassero  e  nella  pace  gli  reggessero, 
ed  eccetto  che  la  disciplina  militare  rendè  a'  Romani  ogni  onore.* 

a)  Iornand.,  De  reb.  Getic.3 


1.  «Nec fuit .  .  .  deserviret»:  «Né  vi  fu  popolo  in  Occidente  che  per  amicizia 
o  sottomissione  non  servisse  con  zelo  a  Teodorico  finché  egli  visse». 

2.  Egli  divise  . .  .  (more:  cfr.  Machiavelli,  Istorie  fiorentine,  1,  rv:  «Fu  Teo- 
derigo  uomo  nella  guerra  e  nella  pace  eccellentissimo  . .  .  Divise  costui  gli 
Ostrogoti  per  le  terre,  con  i  capi  loro,  acciò  che  nella  guerra  gli  comandasse- 
ro e  nella  pace  gli  correggessero;  accrebbe  Ravenna,  instaurò  Roma,  ed 
eccetto  che  la  disciplina  militare,  rendè  a*  Romani  ogni  altro  onore». 

3.  In  Grozio,  op.  cit.,  p.  700. 

36 


402  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO   DI    NAPOLI 

Comandò  in  prima  che  le  leggi  romane  si  ritenessero  ed  inviolabil- 
mente s'osservassero,  ed  avessero  quel  medesimo  vigore  ch'ebbero 
sotto  gli  altri  imperadori  d'Occidente;  anzi  fu  egli  di  quelle  cotanto 
riverente  e  rispettoso,  che  sovente  appresso  Cassiodoro  in  cotal 
guisa  ne  favella:  «Iura  veterum  ad  nostram  cupimus  reverentiam 
custodiri».  Ed  altrove:  «Delectamur  iure  romano  vivere»;  ed  in 
altri  luoghi:  «Reverenda  legum  antiquitas,  etc.».a  Laonde  i  pon- 
tefici romani  si  rallegravano  con  Teodorico,  che  come  principe 
saggio  e  prudente  avesse  ritenuta  la  legge  romana  in  Italia.  Così 
Gelasio,  secondo  rapporta  Gotofredo,b  ower  Simmaco  suo  suc- 
cessore, secondo  vuole  Altesserra,c  si  congratulava  con  Teodorico  : 
«Certe  est  magnificentiae  vestrae,  leges  romanorum  principum, 
quas  in  negotiis  hominum  custodiendas  esse  praecepit,  multo  ma- 
gis  circa  Beati  Petri  apostoli  Sedem  prò  suae  felicitatis  augumento 
velie  servari».1  E  per  questa  cagione  ne'  primi  cinque  libri  di  Cas- 
siodoro, che  dell'epistole  et  editti  di  Teodorico  si  compongono, 
non  vedesi  inculcar  altro  a'  giudici  ed  a'  magistrati  che  la  debita 
osservanza  e  riverenza  delle  leggi  romane:  e  moltissime  costitu- 
zioni del  Codice  Teodosiano,  e  molte  Novelle  di  Teodosio,  di  Valen- 
tiniano  e  di  Maioriano  in  que'  libri  s'allegano,  delle  quali  lungo 
catalogo  ne  tessè  il  diligentissimo  Gotofredo  ne'  suoi  Prolegomeni 
a  quel  codice.d 

Né  altra  fu  l'idea  di  questo  principe,  che  mantenere  il  regno 
d'Italia  con  quelle  stesse  leggi,  e  col  medesimo  spirito  ed  unione 
con  cui  Onorio,  Valentiniano  III  e  gli  altri  imperadori  d'Occidente 
l'avean  governato.  Così  egli  se  ne  dichiarò  con  Anastasio  imperador 
d'Oriente:  «Quia  pati  vos  non  credimus  inter  utrasque  respublicas, 
quarum  semper  unum  corpus  sub  antiquis  principibus  fuisse  de- 

a)  Cassiod.,  lib.  3,  e.  43  et  lib.  1,  cap.  27.*  b)  Got.,  in  Proleg.  ex 
Gelasti  PP.  Ep.  in  decreto  Ivonis,  part.  1,  cap.  18,  ad  Theodoricum.3 
e)  Àltes.,  Per,  aquit.,  lib.  3,  e.  14,  ex  decreto  Gratiani,  can.  certum  12, 
dist.  io.4    d)  Got.,  in  Proleg.,  cap.  3.5 

1.  «  Certe  est . . .  servari»:  «È  certo  proprio  della  vostra  magnificenza,  che 
ha  stabilito  di  conservare  le  leggi  degli  imperatori  romani  negli  affari 
umani,  di  volerle  assai  più  mantenere  attorno  alla  Sede  di  san  Pietro  aposto- 
lo, ad  accrescimento  della  sua  prosperità  ».  2.  Dal  Godefroy  citato  alla  no- 
ta seguente.  Ma  cfr.,  anche,  Variarum  libri  XII  cit.,  lib.  rv,  ep.  xxxin, 
p.  91;  lib.  ni,  ep.  XLiii,  p.  72.  3.  Cfr.  op.  cit.,  cap.  ni,  p.  cxci.  4.  Hau- 
teserre,  op.  cit.,  1,  p.  213.  5.  Cfr.  op.  cit.,  pp.  clxxxvii  sgg.  (cap.  11  e 
non  3). 


LIBRO    III    •    CAP,  II  403 

claratur,  aliquid  discordiae  permanere;  quas  non  solum  oportet 
inter  se  otiosa  dilectione  coniungi,  verum  etiam  decet  mutuis  viri- 
bus  adiuvari.  Romani  regni  unum  velie,  una  semper  opinio  sit».a 
Per  la  qual  cosa  da  Teodorico  nuove  leggi  in  Italia  non  furono 
introdotte,  credendo  bastar  le  romane,  per  le  quali  lungo  tempo 
s'era  governata.  E  se  bene  ancor  oggi  si  legga  un  suo  editto0  con- 
tenente cento  cinquanta  quattro  capi  (il  quale  lo  debbiamo  alla 
diligenza  di  Pietro  Piteo,  che  lo  fece  imprimere),1  però,  toltone 
alcuni  capi,  che  del  gotico  rigore  sono  aspersi,  come  il  capo  56,  61 
ed  alcuni  altri,  tutto  il  rimanente  è  tolto  dalle  leggi  romane,  sicome 
Teodorico  stesso  lo  confessa  nel  fine  del  medesimo  :  «  Nec  cuiuslibet 
dignitatis,  aut  substantiae,  aut  potentiae,  aut  cinguli,  vel  honoris 
persona,  contra  haec,  quae  salubriter  statuta  sunt,  quolibet  modo 
credat  esse  veniendum,  quae  ex  novellis  legibus  ac  veteris  iuris 
sanctimonia  prò  aliqua  parte  collegimus  ».a  Né  vi  è  quasi  capo  del 
sudetto  editto  che  disponga  cosa  la  quale  nelle  leggi  romane  non 
si  trovi.  Onde  sovente  Teodorico  per  corroborar  il  suo  comando, 
o  divieto,  alle  medesime  si  riporta.  Così  nel  cap.  24  «  secundum  le- 
gum  veterum  constituta»:  e  nel  cap.  26  «secundum  leges»:  e  nel 
cap.  36  «legum  censuram»,  ed  altrove. 

Ma  ciò  che  rende  più  commendabile  questo  principe,  fu  che 
volle  eziandio  che  queste  leggi  fossero  comuni  non  solo  a'  Romani, 
ma  a*  Goti  stessi  che  fra'  Romani  vivevano,  come  è  manifesto  per 
questo  suo  editto,  lasciando  a'  Goti  poche  leggi  proprie,  le  quali, 
come  più  a  loro  usuali,  più  tosto  lor  proprie  costumanze  erano 
che  leggi  scritte:  ma  in  ciò  ch'era  di  momento,  come  di  successioni, 
di  solennità  di  testamenti,  d'adozioni,  di  contratti,  di  pene,  di  de- 
litti, ed  in  somma  per  tutto  ciò  che  s'appartiene  alla  pubblica  e 


a)  Cassiod.,  lib.  1,  Ep.  i.3     b)  Edict.  Theod.  in  operib.  Cassiod.4 


1.  il  quale  . .  .  imprimere:  cfr.  p.  393  e  la  nota  3  ivi.  2.  «  Nec  cuiuslibet .  . . 
collegimus  »  :  «  Nessuno,  di  qualunque  dignità,  ceto,  autorità,  grado  militare 
e  onore,  creda  di  potersi  opporre  in  alcun  modo  a  ciò  che  è  stato  salutevol- 
mente prescritto,  che  abbiamo  raccolto  dalle  Novelle  e  per  certa  parte  dal- 
la purezza  dell'antico  diritto  ».  3.  Cfr.  op.  cit.,  p.  5  («Poiché  pensiamo  che 
non  tolleriate  contrasto  di  sorta  tra  i  due  stati  che  notoriamente  han  sem- 
pre formato  un'unità  sotto  i  principi  del  passato  e  che  non  solo  debbono 
unirsi  tra  loro  in  tranquillo  amore,  ma  anche  soccorrersi  con  aiuto  recipro- 
co. Del  regno  romano  uno  il  volere,  uno  sia  sempre  il  pensiero  »).  4.  Ed. 
cit.,  appendice,  p.  19. 


404  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

privata  ragione,  le  leggi  romane  erano  a  tutti  comuni.  Né  altre 
leggi,  contendendo  il  goto  col  romano,  o  il  romano  col  goto,  volle 
che  i  giudici  riguardassero  per  decidere  le  loro  liti,  come  espressa- 
mente Teodorico  rescrisse  ad  un  tal  Gennaro  preside  del  nostro 
Sannio:  «Intra  itaque  provinciam  Samnii,  si  quod  negotium  ro- 
mano cum  gothis  est,  aut  gotho  emerserit  aliquod  cum  romanis, 
legum  consideratione  definias;  nec  permittimus  discreto  iure  vi- 
vere, quos  uno  voto  volumus  vindicare».*  Solamente  quando  le 
liti  s'agitavan  fra  goto  e  goto  volle  che  si  decidessero  dal  proprio 
giudice,  ch'egli  destinava  in  ciascuna  città,  secondo  i  suoi  editti, 
i  quali,  come  s'è  detto,  ancorché  contenessero  alcune  cose  di  gotica 
disciplina,  non  molto  però  s'allontanavan  dalle  leggi  romane;  ma 
in  ciò  i  Romani  anche  venivan  privilegiati,  poiché  solo  se  la  lite 
era  fra  goto  e  goto  poteva  procedere  il  lor  giudice:  ma  se  in  essa 
occorreva  che  v'avesse  anche  interesse  il  romano,  attore  o  reo  che 
questi  si  fosse,  doveva  ricorrersi  al  magistrato  romano  :  ed  in  que- 
sta maniera  era  conceputa  da  Teo  dorico  la  formola  della  Comitiva^ 
che  si  dava  a  coloro  che  da  lui  erano  eletti  per  giudici  de'  Goti  in 
ciascheduna  provincia,  rapportata  da  Cassiodoro  nel  settimo  libro 
fra  le  molt'altre  sue  formole.b 

ili.  La  medesima  politia  e  magistrati  ritenuti 
da  Teodorico  in  Italia. 

Sicome  somma  fu  la  cura  di  Teodorico  di  ritenere  in  Italia  le 
leggi  romane,  non  minore  certamente  fu  il  suo  studio  di  ritenere 
ancora  Pistessa  forma  del  governo,  così  per  quel  che  s'attiene  alla 
distribuzione  delle  provincie,  come  de*  magistrati  e  delle  dignità. 
Egli  ritrovando  trasferita  la  sede  imperiale  da  Onorio  e  Valenti- 
niano  suoi  predecessori  in  Ravenna,  che  non  a  caso,  e  per  allonta- 
narsi da  Roma,  ivi  la  collocarono,  ma  per  esser  più  pronti  ed  appa- 
recchiati a  reprimer  l'irruzioni  de'  barbari,  che  per  quella  parte 

a)  Cassiod.,  lib.  2  Var.,  ep.  13.1     b)  Cass.,  lib.  7,  cap.  3.* 


1.  Cfr.  op.  cit.,  lib.  ni  (e  non  z),  p.  61  («Pertanto,  se  nella  provincia  del 
Sannio  un  romano  ha  una  controversia  con  dei  goti,  o  un  goto  con  dei 
romani,  definiscila  conformemente  alle  leggi;  né  permettiamo  che  vivano 
con  diritto  distinto  quelli  che  con  un  unico  voto  proteggiamo  »).  2.  Cfr. 
la  Formula  Comitìvae  Gothorumper  singulas  provincias,  in  ed.  cit.,  pp.  147-8. 


LIBRO    III   •    CAP.  II  405 

s'inoltravan  ne*  confini  d'Italia,  ivi  parimente  volle  egli  fermarsi; 
onde  le  querele  de*  Romani  erano  pur  troppo  ingiuste  e  irragione- 
voli, quando  di  lui  si  dolevano  perché  in  Ravenna  e  non  in  Roma 
avesse  collocata  la  sua  sede  regia.  Ben  del  suo  amore  inverso  quel- 
l'inclita città  lasciò  egli  manifestissimi  documenti,  ornandola  di 
pubbliche  e  chiare  memorie  della  sua  grandezza  e  regal  animo  e 
della  sua  magnificenza,  cingendola  ancora  di  ben  forti  e  sicure 
mura.  Non  fu  minore  il  suo  amore  e  riverenza  verso  il  Senato  ro- 
mano, come  ne  fanno  pienissima  fede  le  tante  affettuose  epistole 
da  lui  a  quel  Senato  dirizzate  piene  d'ogni  stima  e  rispetto,  che  si 
leggono  presso  a  Cassiodoro.  In  Ravenna  adunque,  come  avean 
fatto  i  suoi  predecessori,  collocò  la  sua  regia  sede;  e  quindi  resse 
l'Italia  e  queste  nostre  provincie  che  ora  compongon  il  regno  di 
Napoli,  con  quelli  magistrati  medesimi  co'  quali  era  stata  governata 
dagl'imperadori  romani. 

De'  magistrati  e  degli  altri  ufficiali  del  palazzo  e  del  regno,  ancor- 
ché alcuni  ne  fossero  stati  sotto  il  suo  governo  nuovamente  rifatti, 
e  ne'  nomi  e  ne'  gradi  qualche  diversità  vi  si  notasse;  se  ne  ritennero 
però  moltissimi,  se  non  in  tutto  nella  potestà  e  giurisdizione  simili  a 
quelli  de'  Romani,  molti  però  nel  nome,  ed  assaissimi  anche  in 
realtà  a'  medesimi  conformi.  Si  ritennero  i  senatori,  i  consoli,  i 
patrizi,  il  prefetto  al  Pretorio,  i  prefetti  della  città  ed  i  questori. 
Si  ritennero  i  consolari,  i  correttori,  i  presidi  e  moltissimi  altri. 
Qualche  mutazione  solamente  fu  negli  ufficiali  minori,  essendo 
stata  usanza  de'  Goti  in  ogni,  benché  piccìola  città,  mandare  i 
Corniti,  e  particolari  giudici  per  ramministrazione  del  governo  e 
della  giustizia,  e  di  creare  alcuni  altri  ufficiali,  di  cui  nella  Notizia 
delle  dignità  dell'Imperio  è  ignoto  il  nome. 

Ma  se  in  questo  divario  de'  magistrati  introdotto  da'  Goti  voglia- 
mo seguire  il  sentimento  dell'accuratissimo  Ugon  Grozio,  biso- 
gnerà dire  che  in  ciò  fecero  cosa  assai  più  commendabile  che  i  Ro- 
mani stessi  ;  imperciocché,  e'  dice,  appresso  a'  Romani  furon  molti 
nomi  di  dignità  affatto  vani  e  senza  soggetto:  «Multa  apud  Ro- 
manos  eiusmodi  inani  sono  constantia,  vacantium,  honorariorum, 
etc.  ».a  All'incontro  i  Goti  ebbero  sentimenti  contrari,  come  si  legge 


a)  Grot.,  in  Prolegom.  ad  Hist.  Gothor.1 
1.  Grozio,  op.  cit.,  p.  65. 


406  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO   DI   NAPOLI 

in  Cassiodoro:a  «Grata  sunt  omnino  nomina,  quae  designant  pro- 
tinus  actiones,  quando  tota  ambiguitas  audiendi  tollitur  ubi  in 
vocabulo  concluditur,  quid  geratur».1  In  oltre  Grozio  riflette  che  i 
Romani,  mandando  per  ciascheduna  provincia  un  consolare  o  un 
preside,  il  qual  dovesse  avere  il  governo  e  la  cura  di  tutte  le  città 
e  castelli  della  provincia,  molti  de'  quali  eran  assai  distanti  dalla 
sua  sede:  quindi  avveniva  che  non  potendo  il  preside  esser  pre- 
sente in  tutti  que'  luoghi,  venivan  perciò  a  gravarsi  i  provinciali 
d'immense  e  rilevanti  spese,  poiché  bisognava  ch'essi  ricorressero 
a  lui  da  parti  remotissime.  Presso  a'  Goti  la  bisogna  in  altro  modo 
procedeva:  avevan  bensì  le  provincie  i  loro  consolari,  i  correttori  ed 
i  presidi,  nulladimeno  non  solamente  alle  più  principali  città,  ma 
eziandio  a  ciascheduno  benché  piccolo  castello  mandavansi  i  Corniti 
o  altri  magistrati  inferiori,  fedeli,  incorrotti,  e  dal  consentimento  de' 
popoli  approvati,  acciocché  potessero  render  loro  giustizia  ed  aver 
cura  de'  tributi  e  altri  bisogni  di  que'  luoghi. 

Tanto  che  questa  disposizione  di  magistrati,  che  oggidì  ancora 
nel  nostro  Regno  osserviamo,  di  mandarsi  governadori  e  giudici  ad 
ogni  città,  la  dobbiamo  non  a*  Romani,  ma  a'  Goti. 

E  se  ne'  tempi  nostri  si  praticassero  que'  rigori  e  quelle  diligenze 
che  a'  tempi  di  Teodorico  usavansi  nella  scelta  di  tali  ministri,  cioè 
di  mandare  uomini  di  conosciuta  integrità  e  dottrina,  e  a'  popoli 
accettissimi,  vietando  perciò  l'appellazioni  ad  altri  tribunali  lon- 
tani, e  sol  permettendole  quando  o  la  gravità  degli  affari  o  una  ma- 
nifesta ingiustizia  il  richiedesse,  certamente  d'infinite  liti  e  di  tanti 
gravi  dispendi  vedrebbonsi  libere  queste  nostre  provincie,  ch'ora 
non  sono.  E  per  questa  cagione  presso  a  molti  scrittori  tanto  s'esa- 
gera il  governo  de'  popoli  orientali  ed  affricani,  che  noi  sovente 
nelle  comuni  querele  sogliamo  perciò  invidiargli,  perocché  questi 
non  pur  nelle  città,  ma  in  ogni  piccolo  castello  hanno  i  lor  giudici 
sempre  pronti  ed  apparecchiati,  e  le  liti  non  tantosto  sono  fra  essi 
insorte  che  subito  veggonsi  terminate,  radissime  volte,  o  non  mai, 

a)  Cassiod.,  lib.  6,  cap.  j.z 


i.  «  Grata  sunt .  .  .  geratur»:  «Son  del  tutto  graditi  i  titoli  che  designano 
senz'altro  le  attività,  quando  è  esclusa  ogni  ambiguità  di  senso  allorché 
nel  vocabolo  è  racchiuso  ciò  di  cui  si  tratta».  2.  Cfr.  la  Formula  Comi- 
tivae  sacrarum  largitionum,  in  ed.  cit.,  pp.  13 1-2. 


LIBRO    III   •    CAP.  II  407 

ammettendo  appellazioni;  perché  la  gente  tenendo  nella  venera- 
zione dovuta  il  magistrato,  a'  suoi  decreti  tosto  s'acqueta,  e  soffre 
più  volentieri  che  se  le  tolga  la  roba  controvertita  che  andar  gi- 
rando in  parti  lontane  e  remote  con  maggiori  dispendi,  e  coll'in- 
certezza  di  vincere,  e  sovente  col  timore  di  tornar  a  perdere;  e  sti- 
man  esser  di  loro  maggior  profitto  che  ad  essi  s'usi  una  ingiustizia 
pronta  e  sollecita,  che  una  giustizia  stentata  e  tarda.  Perciò  Cle- 
nardo,a  avendo  lasciata  Europa,  e  in  Affrica  nel  regno  di  Feza  rico- 
vratosi,  soleva  a  molti  suoi  amici  europei  scrivere  ch'egli  non  in- 
vidiava le  magnificenze  e  grandezze  di  tante  belle  città,  solamente 
perché  non  dovea  più  nel  foro  rivoltarsi  tra  tanta  gente  malvaggia 
e  piena  di  cavilli:  né  ivi  faceva  uopo  de'  loquaci  causidici:  ma  se 
occorreva  tra  quegli  affricani  qualche  lite,  era  sempre  presto  il 
giudice  a  deciderla,  né  tornavan  a  casa  i  litiganti  se  non  terminato 
il  litigio.  Ma  questo,  nello  stato  delle  cose  presenti,  è  più  tosto  da 
desiderarsi  che  da  sperarsi;  poiché  il  male  è  nella  radice;  oltracché 
nell'elezione  de'  magistrati  non  s'attendon  più  quelle  prerogative, 
che  forse  in  quei  tempi,  ch'ora  noi  chiamiamo  barbari,  accurata- 
mente s'attendevano:  ciò  che  allora  era  rimedio,  presentemente  in 
mortifero  veleno  si  trasmuterebbe,  giacché  fin  da'  tempi  d'Alfonso  I 
aragonese  si  trasfuse  il  male  di  concedere  a'  baroni  del  Regno  ogni 
giurisdizione  ed  imperio.  E  oggi  sono  più  i  governi  che  si  conce- 
dono da'  medesimi,  che  quelli  che  sono  dal  re  provveduti,  e  la  mag- 
gior parte  del  Regno  è  governata  da  essi  nelle  prime  istanze;  onde 
era  espediente  che  s'ammettessero  que'  tanti  ricorsi  a'  tribunali 
superiori  che  oggi  giorno  osserviamo;  giacché  non  potè  praticarsi 
il  disegno,  che  Carlo  Vili  re  di  Francia,  in  que'  pochi  mesi  che 
tenne  questo  Regno,  avea  conceputo,  di  togliere  a'  baroni  ogni 


a)  Clenardi  Epistolae  ad  Amoldum  Streyterium  et  ad  Jacobum  La- 
tomum,  a  1541.  Geor.  Pasquius,  De  nov.  ino.  de  varia  fortuna.  Doct. 


1.  Nicolaus  van  der  Beke  (Clenardus,  1493/4  -  1542),  professore  di  lettere 
greche  a  Lovanio,  fu  a  Salamanca  dal  153 1  al  1533,  dove  studiò  l'arabo; 
fu  quindi  precettore  del  fratello  del  re  del  Portogallo  Giovanni  III,  e  ac- 
carezzò l'ambizioso  proposito  di  convertire  i  musulmani  per  mezzo  della 
persuasione,  recandosi  per  questo  in  Marocco  tra  il  1540  e  il  1541.  Per  le 
lettere  qui  ricordate  cfr.  N.  Clenardi  Epistolarum  libri  duo,  Antverpiae 
1566,  pp.  3  sgg.  e  60  sgg.  -  Per  il  Pasquius  vedi  la  nota  6  a  p.  370. 


408  ISTORIA   CIVILE  DEL   REGNO   DI   NAPOLI 

giurisdizione  ed  imperio,  e  ridurgli  a  somiglianza  di  quelli  di 
Francia  e  dell'altre  provincie  d'Europa.* 

Ma  ritornando  onde  siamo  dipartiti  :  i  Goti,  secondo  che  ci  rap- 
presentano i  libri  di  Cassiodoro,  furon  molto  avvertiti  nella  scelta 
de'  magistrati,  e  non  meno  nell'elezione  de'  maggiori  ufficiali  che 
in  quella  de'  minori  che  mandavano  in  ciascuna  città,  ponendovi 
ogni  lor  cura  e  diligenza  :  quindi  presso  a  Cassiodoro  leggiamo  tanti 
nuovi  ufficiali,  i  cancellieri,  i  canonicali,  i  corniti,  i  referendari;  e 
le  tante  forinole,  colle  quali  eran  tante  e  sì  varie  dignità  conferite  a* 
soggetti  di  conosciuta  bontà  e  dottrina.  Pietro  Pantinob  scrisse  un 
non  dispregievol  libro  delle  dignità  della  Camera  Gotica:  ma  come 
fu  osservato  da  Grozio,c  senza  la  costui  fatica  e  diligenza,  ben  po- 
tevano quelle  ravvisarsi  e  comprendersi  dal  libro  sesto  e  settimo  di 
Cassiodoro,  ove  tutte  queste  dignità  ci  vengono  rappresentate  e 
descritte. 

v.  I  medesimi  codici  ritenuti  e  le  medesime  condizioni 
delle  persone  e  de'  retaggi. 

Quindi  può  distintamente  conoscersi  che  le  nostre  provincie, 
estinto  l'Imperio  romano  d'Occidente,  ancorché  passassero  sotto 
la  dominazione  de'  Goti,  non  sentirono  quelle  mutazioni  che  rego- 
larmente ne'  nuovi  domìni  di  straniere  genti  soglion  accadere.1 
Non  furon  in  quelle  nuove  leggi  introdotte,  ma  si  ritennero  le  ro- 
mane, e  la  legge  comune  de'  nostri  provinciali  fu  quella  de'  Roma- 
ni, ch'allora  ne'  codici  Gregoriano,  Ermogeniano  e  sopra  ogn'altro 

a)  V.  Afflict.  in  Praelud.  ad  Constit.  regn.  Phil.  Comin.  Koppin, 
De  demanio  Franciae.2  b)  Pet.  Pantinus,  De  dignit.  Goth.  aulae? 
e)  Grot.,  in  Prolegom.  ad  Hist.  Gothor.4 

i.  Quindi  può  . .  .  accadere:  la  polemica  è  qui  con  la  storiografia  umanista, 
e,  in  primis,  col  giudizio  del  Machiavelli  in  apertura  delle  sue  Istorie 
fiorentine,  z.  Nell'ordine:  Matteo  D'Afflitto  (1448-1528),  giurista  napo- 
letano, In  utriusque  Siciliae,  Neapolisq.  sanctiones  et  constitutiones  novissima 
praelectio  .  .  .,  Venetiis  1612,  Praeludia,  e.  15  v;  i  Mémoires  di  Philippe  de 
Commynes  (i445  circa  - 151 1  ;  vedi  la  traduzione  italiana  di  M.  C.  Daviso 
di  Charvensod,  Torino  i960,  lib.  vii,  cap.  xvn,  p.  435),  e  René  Choppin 
(1537-1606),  giurista  francese,  De  domanio  Franciae  libri  III,  Parisiis  1621, 
p.  7.  3.  Petri  Pantini  De  dzgnitatibus  et  officiis  regni  ac  domus  regiae  Go- 
thorum  Commentarius,  in  Hispaniae  illustratae,  seu  rerum  urbiumque  Hispa- 
niaef  Lusitaniae,  Aetiopiae  et  Indiae  scriptores  varii,  11,  Francofurti  1603, 
pp.  195  sgg.    4.  Grozio,  op.  cit.,  p.  65. 


LIBRO   III    •   CAP.    II  409 

nel  Codice  di  Teodosio,  e  nel  Corpo  delle  Novelle  di  questo  impe- 
radore,  di  Valentiniano,  Marziano,  Magioriano,  Severo  ed  Ante- 
mio  suoi  successori  si  contenevano:  ed  a'  libri  di  quelli  giurecon- 
sulti, che  Valentiniano  trascelse,  era  data  piena  autorità  e  forza. 

Non  s'introdusse  nuova  forma  di  governo,  e  si  ritennero  i  mede- 
simi ufficiali;  né  la  variazione  de'  magistrati  fu  tanta  che  non  si 
ritenessero  le  dignità  più  cospicue  e  sublimi.  Poiché  l'idea  di  Teo- 
dorico e  poi  del  suo  successore  Atalarico  fu  di  reggere  l'Italia  e 
queste  nostre  provincie  col  medesimo  spirito  e  forma  colla  quale 
si  resse  l'Imperio  sotto  gl'imperadori  ;  ed  è  costante  opinione  de' 
nostri  scrittori  che  le  cose  d'Italia  sotto  il  suo  regno  furon  più  quiete 
e  tranquille  che  ne'  tempi  degli  ultimi  imperadori  d'Occidente, 
e  ch'egli  fosse  stato  il  primo  che  facesse  quietare  tanti  mali  e  di- 
sordini. 

Quindi  è  avvenuto  che  ancor  che  queste  nostre  provincie  pas- 
sassero da'  Romani  sotto  la  dominazione  de'  Goti,  non  s'introdu- 
cessero, sicome  nell'altre  provincie  dell'Imperio  romano,  quelle 
servitù  ne'  popoli,  che  passati  sotto  altre  nazioni  sofFerirono.  Così 
quando  la  Gallia  fu  conquistata  da'  Franzesi,  fu  trattata  come  paese 
di  conquista  ;  essendo  cosa  certa  che  si  fecero  signori  delle  persone 
e  de'  retaggi  di  quella,  cioè  si  fecero  signori  perfetti,  così  nella  si- 
gnoria pubblica,  come  nella  proprietà  e  signoria  privata:*  ed  in 
quanto  alle  persone,  essi  fecero  i  naturali  del  paese  servi,  non  già 
d'un'intera  servitù,  ma  simili  a  quelli  che  i  Romani  chiamavan 
censiti  overo  ascrittizi  o  coloni  addetti  alla  glebe.b  Non  così  trat- 
taron  i  Goti  l'Italia,  la  Sicilia  e  queste  nostre  provincie,  ma  lascia- 
ron  intatta  la  condizione  delle  persone,  poiché  non  gli  governava 
un  principe  straniero,  ma  un  re  che  si  pregiava  di  vivere  alla  roma- 
na e  di  serbare  le  medesime  leggi  ed  instituti  de'  Romani.  Furon 
bensì  in  molti  villaggi  delle  nostre  provincie  di  questi  ascrittizi  e 
censiti  (sicome  vi  furon  anche  de'  servi,  perché  a'  tempi  de'  Goti 

a)  Loyseau,  Des  seign.,  cap.  i.1  b)  Cod.  de  agrìc*  et  cens.}  lib.  11. 
Connan,  in  Comm.  tur.  civ.,  lib.  2.z 


1.  Charles  Loyseau,  in  Les  (Euvres  ecc.,  cit.,  p.  9.  2.  De  agricolis  et  censitis 
et  colonis  servis,  in  Francois  de  Connan  (1508-1551),  Commentariorum  iuris 
civilis  libri  X,  stimma  cura  atque  dUigentia  a  Bariholomaeo  Faio  .  . .  reco- 
gniti et  collati,  atque  etiam  locupletiores  factit  Lutetiae  Parisiorum  1658, 
ce.  io8v  sgg. 


410  ISTORIA   CIVILE    DEL    REGNO   DI    NAPOLI 

l'uso  de'  medesimi  non  s'era  dismesso), a  ma  quelli  stessi,  o  loro  di- 
scendenti, in  quella  maniera  che  prima  si  tenevano  da'  Romani,  e 
di  essi  ci  restano  ancora  molti  vestigi  ne'  codici  di  Teodosio  e  di 
Giustiniano,  che  poi  i  secoli  seguenti  chiamaron  angarii  e  paran- 
garii.b  Ciò  che  si  conferma  per  un  avvenimento  rapportato  da 
Ugone  Falcando  in  Sicilia  a'  tempi  del  re  Guglielmo  II,  poiché 
essendo  i  cittadini  di  Caccamo  ricorsi  al  re  contra  Giovanni  La- 
vardino  franzese,  il  quale  affliggeva  i  terrazzani  con  esiggere  la 
metà  delle  lor  entrate,  secondo  che  diceva  esser  la  consuetudine  delle 
sue  terre  in  Francia;  e  riportate  queste  querele  al  G.  cancelliero, 
ch'era  allora  Stefano  di  Parzio,  perché  questi  era  ancor  egli  fran- 
zese, lasciò  la  cosa  senza  provvedimento,  onde  i  suoi  nemici  gli 
concitaron  l'odio  di  tutti  i  Siciliani  e  di  molti  cittadini  e  terrazzani, 
gridando  ch'essi  eran  liberi,  e  che  non  dovea  permettere,  secondo 
l'uso  di  Francia:  «Ut  universi  populi  Siciliae  redditus  annuos  et 
exactiones  solvere  cogerentur  iuxta  Galliae  consuetudinem,  quae 
cives  liberos  non  haberet».1 

Ed  in  quanto  a'  retaggi  e  terre  della  Gallia,  i  Franzesi  vittoriosi 
le  confiscaron  tutte,  attribuendo  allo  Stato  l'una  e  l'altra  signoria 
di  quelle.0  E  fuori  di  quelle  terre  che  ritennero  in  demanio  del  prin- 
cipe, distribuiron  tutte  l'altre  a'  principali  capi  e  capitani  della  loro 
nazione;  a  tal'uno  dando  una  provincia  a  titolo  di  ducato;  ad  un 
altro  un  paese  di  frontiera  a  titolo  di  marchesato  ;  a  costui  una  città 
col  suo  territorio  adiacente  a  titolo  di  contea  ;  e  ad  altri  de'  castelli 
e  villaggi  con  alcune  terre  d'intorno  a  titolo  di  baronia,  castellania  o 
semplice  signoria,  secondo  i  meriti  particulari  di  ciascheduno  ed  il 
numero  de'  soldati  ch'aveva  sotto  di  sé;  poiché  davansi  così  per 

a)  Leon.  Ostiens.  in  Ckronic.  cassiti.  Glossator  in  notis,  cap.  6, 
num.  532.2  b)  Got.,  in  Cod.  Theod.,  lib.  8,  tit.  de  curs.  pub.  et  angar., 
1.  4-3    e)  Loyseau,  loc.  cit. 


i.  «  Ut  universi  . . .  haberet»:  Ugo  Falcando  (XII  secolo),  De  rebus  gestis  in 
Siciliae  regno  .  . .,  Parisiis  1550,  p.  169  (e  cfr.  R.I.S.,  vii,  col.  332:  «Che 
tutti  i  popoli  di  Sicilia  fossero  costretti  a  pagare  redditi  annui  ed  esazioni 
secondo  le  consuetudini  della  Francia,  che  non  aveva  cittadini  liberi»). 
2.  Leone  Marsicano  (cfr.  la  nota  2  a  p.  56),  Chronicon  monasterii  casinensis, 
utilizzato  dal  Giannone  nell'edizione  di  A.  della  Noce  (vedi  più  oltre  la 
nota  3  a  p.  422),  p.  113,  ad  annum  528.  Ma  vedi  anche  Procopio,  in  Gro- 
zio,  op.  cit.,  p.  344  e  passim.  3.  Codex  theodosianus  cit,  11,  tit.  v:  De 
cursu  publico,  angariis  et  parangariis,  pp.  515  sgg. 


LIBRO    HI   •   CAP.  II  411 

essi  che  per  li  loro  soldati.  Non  così  fecero  i  Goti  in  Italia  ed  in 
queste  nostre  provincie,  poiché  si  lasciarono  le  terre  a  loro  pos- 
seditori, né  s'inquietò  alcuno  nella  privata  signoria  de'  loro  retaggi  : 
e  le  provincie  e  le  città  eran  amministrate  da'  medesimi  ufficiali 
che  prima,  secondo  che  si  governavano  sotto  l'imperio  di  Valenti- 
niano  e  degli  altri  imperadori  d'Occidente  suoi  predecessori.  Né  in 
Italia  ed  in  queste  nostre  provincie  l'uso  de'  feudi  e  de'  ducati  e 
contadi  fu  introdotto,  se  non  nel  regno  de'  Longobardi,  come  dire- 
mo nel  quarto  libro  di  questa  istoria. 

vi.  Insigni  virtù  di  Teodorico  e  sua  morte. 

Fu  veramente  Teodorico  di  tutte  quelle  rade  e  nobili  virtù  orna- 
to, che  fosse  mai  qualunque  altro  più  eccellente  principe  che  van- 
tassero tutti  i  secoli.  Per  la  sua  pietà  e  culto  al  vero  Iddio  fu  con 
immense  lodi  celebrato  da  Ennodio  cattolico  vescovo  di  Pavia.  E 
se  bene  istrutto  nella  religione  cristiana,  i  suoi  dottori  gliele  aves- 
sero renduta  torbida  e  contaminata  per  la  pestilente  eresia  d'Arrio, 
sicome  fecero  a  tutti  i  Goti  ;  questa  colpa  non  a'  Goti  dee  attribuirsi, 
ma  a'  Romani  stessi  e  spezialmente  all'imperadore  Valente,  che 
mandando  ad  istruir  questa  nazione  nella  religione  cristiana,  vi 
mandò  dottori  arriani;1  tanto  che  Salviano,a  quel  santo  vescovo  di 
Marsiglia,  nomò  questa  loro  disgrazia,  fallo  non  già  de'  Goti,  ma 
del  magisterio  romano,  e  testifica  questo  santo  vescovo  che  nel 
medesimo  lor  errore  non  altro  fu  da  essi  riguardato,  se  non  che  il 
maggior  onore  di  Dio;  e  per  questa  pia  loro  credenza  ed  affetto 
non  dover  essere  i  Goti  reputati  indegni  della  fede  cattolica,  i  quali, 
comparate  le  lor  opere  con  quelle  de'  cattolici,  di  gran  lunga  eran 
a  costoro  in  bontà  e  giustizia  superiori,  o  si  riguardi  la  venerazione 
delle  chiese,  o  la  fede,  o  la  speranza,  o  la  carità  verso  Dio  ;  quindi  è 
che  Socrate,b  scrittore  dell'Istoria  ecclesiastica,  a  molti  Goti,  che 


a)  Salvian.,  lib.  5  Degubern.  Dei.2    b)  Socr.,  lib.  4,  cap.  53. 3 


1.  questa  colpa  . .  .  arriani:  cfr.  Isidoro,  in  Grozio,  op.  cit.,  pp.  710-1. 

2.  Salviano  (nato  nel  400  circa),  De  gubernatione  Dei,  in  Maxima  bibliotheca 
veterum  Patrum  cit.,  vili,  p.  359.  (Degli  Opera  omnia  di  Salviano  esistevano 
numerose  edizioni,  da  quella  di  Konrad  Rittershausen  del  161 1  a  quella 
del  Baluze  del  1686).  3.  Socrate  lo  Storico  o  Scolastico  (cfr.  la  nota  2 
a  p.  31),  Historia  ecclesiastica,  non  già  cap.  53,  ma  33.  Questo  capitolo, 
con  tale  numerazione,  si  presenta  soltanto  nell'edizione  del  Valesio:  So- 


412  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

per  la  religione  furono  da'  pagani  uccisi,  dà  il  titolo  di  martiri,  come 
quelli  che  con  semplice  e  divoto  cuore  eransi  a  Cristo  lor  Reden- 
tore dedicati.  E  se  per  altrui  colpa  incorsero  i  Goti  in  quest'errore, 
ben  fu  questa  macchia  tolta  e  compensata  col  merito  di  Riccaredo 
del  loro  sangue,  che  purgò  dalTarianesmo  tutta  la  Spagna. 

E  fu  singular  pietà  de'  Goti  e  di  Teodorico  precisamente  d'aste- 
nersi da  ogni  violenza  co*  suoi  sudditi  intorno  alla  religione,  né 
perché  essi  eran  de'  dogmi  arriani  aspersi  proibiva  perciò  a'  suoi 
popoli  di  confessar  la  fede  del  gran  Concilio  di  Nicea;a  anzi  Teo- 
dorico, in  tutto  il  tempo  che  resse  l'Italia  e  queste  nostre  provincie, 
non  pure  lasciò  inviolata  ed  intatta  la  religione  cattolica  a'  suoi  sud- 
diti, ma  si  permetteva  ancor  a'  Goti  stessi,  se  volessero  dall'aria- 
nesmo  passare  alla  fede  di  Nicea,  che  liberamente  fosse  a  lor  lecito 
di  farlo. 

Maggiore  rilucerà  la  pietà  di  questo  principe  in  considerando  che 
della  cattolica  religione,  ancorché  da  lui  non  professata,  ebbe  egli 
tanta  cura  e  pensiero  che  non  permetteva  che  al  governo  della  me- 
desima s'eleggessero  se  non  vescovi  di  conosciuta  probità  e  dot- 
trina, de'  quali  fu  egli  amantissimo  e  riverente:  di  ciò  presso  a 
Cassiodorob  ce  ne  dà  piena  testimonianza  il  suo  nipote  stesso  Ata- 
larico:  «Oportebat  enim  arbitrio  boni  principis  obediri,  qui  sa- 
pienti deliberatione  pertractans,  quamvis  in  aliena  religione,  talem 
visus  est  pontificem  delegisse,  ut  agnoscatis  illum  hoc  optasse 
praecipue,  quatenus  bonis  sacerdotibus  ecclesiarum  omnium  religio 
pullularet».1 

Quindi  avvenne,  come  Paolo  Warnefrido  e  Zonara  raccontano,0 


a)  Grot.,  in  Proleg.  ad  Hist.  Goth.2     b)  Cas.,  lib.  8,  cap.  14.3 
e)  Grot.,  loc.  cit. 

crati  Scholastici  et  Hermiae  Sozomeni  Historia  ecclesiastica.  Henricus 
Valesius  graecum  textum  collatis  mss.  codicibus  emendami,  latine  vertit  et 
annotationibus  illustravi^  Parisiis  1668,  p.  251;  manca  invece  sia  nella 
precedente  edizione  di  Colonia  del  1621,  sia  nella  Massima  bibliotheca  cit. 
Tutte  e  tre  queste  edizioni  sono  presenti  nel  Fondo  Vallettiano  della  bi- 
blioteca dei  Girolamini  di  cui  s'è  parlato  nella  Nota  introduttiva  (cfr.  la 
nota  1  a  p.  362).  1.  «Oportebat .,  .pullular et»:  «Era  infatti  necessario 
ubbidire  alle  disposizioni  di  un  buon  principe,  che  operando  con  saggia 
deliberazione,  pur  a  proposito  di  una  religione  che  non  era  la  sua,  scelse 
un  tale  vescovo  da  farvi  comprendere  quanto  egli  soprattutto  auspicava: 
che  il  culto  di  tutte  le  chiese  fiorisse  di  buoni  ministri».  2.  Grozio,  op. 
cit.,  p.  31.  3.  Cfr.  op.  cit.,  ep.  xv  (e  non  14),  Senatui  urbis  Romae  Atha- 
laricus  rex,  p.  179. 


LIBRO    III    •    CAP.  II  413 

ch'essendo  nato  ne'  suoi  tempi  quel  grave  scisma  nella  Chiesa  ro- 
mana, tosto  fu  da  lui  tolto  col  convocamento  d'un  concilio,  e  le  cose 
restituite  in  una  ben  ferma  e  tranquilla  pace.  Si  leggon  ancora  di 
questo  principe  rigidissimi  editti,  come  similmente  d'Atalarico  suo 
nipote,  per  li  quali  severamente  vengon  proibite  tutte  quelle  ordi- 
nazioni di  vescovi,  che  per  ambizione  o  interveniente  denaro  si 
facessero,  annullandole  affatto,  e  di  niun  momento  e  vigore  ripu- 
tandole;* sicome  più  distesamente  diremo,  quando  della  politia 
ecclesiastica  di  questo  secolo  favelleremo.  E  pur  di  Teodorico  si 
legge  che,  quantunque  nudrisse  altra  religione,  volle  che  i  vescovi 
cattolici  per  lui  porgessero  calde  preghiere  a  Dio,  delle  quali  soven- 
te credette  giovarsi.  Per  la  qual  cosa  non  dee  parere  strano,  sicome 
dice  Grozio,  che  Silverio  vescovo  cattolico  romano  fosse  stato  a' 
Greci  sospetto,  quasi  che  volesse  e  desiderasse  più  la  signoria  de' 
Goti  in  Italia  che  quella  de'  Greci  stessi.1 

Ed  alla  pietà  di  questo  principe  noi  dobbiamo  che  queste  nostre 
Provincie,  ch'ora  formano  il  regno  di  Napoli,  ancorché  sotto  la  do- 
minazione de'  Goti  arriani  poco  men  che  70  anni  durassero,  non 
fossero  di  quel  pestilente  dogma  infestate,  ma  ritenessero  la  cat- 
tolica fede,  così  pura  ed  intatta  come  i  loro  maggiori  l'avevan  ab- 
bracciata, e  che  potè  poi  star  forte  e  salda  alle  frequenti  incursioni 
de'  Saraceni  che  ne'  seguenti  tempi  l'invasero  e  le  combatterono: 
imperocché  piacque  a  Teodorico  non  pur  lasciarla  così  stare,  come 
trovolla,  ma  di  favorirla  ed  esser  eziandio  della  medesima  custode 
e  difensore:  dal  cui  esemplo  mossi  Atalarico  e  gli  altri  goti  suoi 
successori,  si  fece  in  modo  che  durante  il  loro  dominio  non  restò 
ella  né  perturbata,  né  in  qualunque  modo  contaminata. 

Della  giustizia,  umanità,  fede,  e  di  tutte  l'altre  più  pregiabili  e  no- 
bili virtù  di  questo  principe,  non  accade  che  lungamente  se  ne  ra- 
gioni: Cassiodoro  ne'  suoi  libri  ci  fa  ravvisare  una  immagine  di 
regno  così  culto,  giusto  e  clemente,  che  a  ragione  potè  Groziob  dire: 
«planeque  si  quis  eultissimi  clementissimique  imperii  formam  con- 


a)  Cas.,  lib.  9,  e.  15.2    b)  Grot.,  in  Prolegom.  ad  Hist.  Goth? 

1.  Per  la  qual  cosa  . . .  stessi:  cfr.  Procopio,  in  Grozio,  op.  cit.,  pp.  209-10; 
e  il  Breviarium  causae  Nestorianorum  et  Eutychianorum  collectum  a  sancto 
Liberato  archidiacono  Ecclesiae  carihaginensis  regionis  sextae,  in  Conciliorum 
tomus  duodecimus,  ab  armo  DLIJI  ad  ammm  DLXXIII,  Parisiis  1644,  pp. 
488-91.  2.  Ioanni  papae  Athalaricus  rex>  in  ed.  cit.,  pp.  203-5.  3.  Gro- 
zio, op.  cit.,  pp.  33-4. 


414  ISTORIA    CIVILE    DEL    REGNO    DI    JNAFUH 

spicere  voluerit,  ei  ego  legendas  censeam  regum  Ostrogothorum 
epistolas,  quas  Cassiodorus  collectas  edidit».1  Onde  non  senza  ca- 
gione potevan  i  Goti  appresso  Belisario  vantarsi  di  questa  lode:a 
né  senza  ragione  Teodorico  stesso  potè  dire:  «Aequitati  fave: 
eminentiam  animi  virtute  defende,  ut  inter  nationum  consuetudi- 
nem  perversam,  Gothorum  possis  demonstrare  iustitiam»:2  ed  al- 
trove: «Imitamini  certe  Gothos  nostros,  qui  foris  praelia,  intus 
norunt  exercere  iustitiam  ».3  E  fu  cotanto  lo  studio  e  la  cura  di  que- 
sto principe  nel  reggere  i  suoi  sudditi  con  una  esatta  e  perfetta 
giustizia,  che  si  dichiarò  co*  medesimi  volersi  portar  con  esso  loro 
in  modo  che  si  dolessero  più  tosto  d'esser  così  tardi  venuti  sotto 
l'imperio  de'  Goti.  Procopio,  ancorché  greco,  non  può  non  in- 
nalzare queste  regie  ed  insigni  sue  virtù  :4  egli  custode  delle  leggi, 
giusto  nelP assegnare  i  prezzi  all'annona,  esatto  ne'  pesi  e  nelle  mi- 
sure e  nell'imporre  tributi,  fu  maravigliosa  la  sua  equabilità,  e  so- 
vente per  giuste  cagioni  era  pronto  a  rimettergli  :  se  i  suoi  eserciti 
in  passando  danneggiavan  i  paesani,  soleva  Teodorico  a'  vescovi 
mandare  il  denaro  per  risarcirgli  de'  patiti  danni;5  se  v'era  bisogno 
di  materia  per  fabbricar  navi,  o  di  munire  d'altra  guisa  i  suoi  cam- 
pi, pagava  immantenente  il  prezzo:6  egli  libéralissimo  co'  poveri; 
e  la  maggior  parte  del  suo  regal  impiego  era  il  sowenimento  e  la 
cura  de'  pupilli  e  delle  vedove,7  di  che  chiara  testimonianza  ce  n'ha 
data  Cassiodoro. 
La  moderazione  di  questo  principe  da'  suoi  fatti  di  sopra  esposti 


a)  Procop.,  Hist.  Goth* 


1.  «planeque .  .  .  edidit»;  «e  se  qualcuno  vorrà  attentamente  scorgere  un 
genere  di  governo  coltissimo  e  clementissimo,  penserei  che  deve  leggere  le 
lettere  dei  re  ostrogoti,  raccolte  e  pubblicate  da  Cassiodoro  ».  2.  ne  senza  ra- 
gione .  . .  demonstrare  iustitiam:  cfr.  Cassiodoro,  op.  cit.,  lib.  in,  ep.  xxiii, 
p.  64  (a  Promuovi  l'equità,  tutela  con  la  virtù  l'altezza  dell'animo,  per  far 
riconoscere,  in  mezzo  ai  costumi  perversi  dei  popoli,  la  giustizia  dei  Go- 
ti»), 3.  ed  altrove .  . .  exercere  iustitiam:  cfr.  Cassiodoro,  op.  cit.,  lib.  ni, 
ep.  xxrv,  p.  65  («Imitate  senz'altro  i  nostri  Goti,  che  all'esterno  la  guer- 
ra, all'interno  sanno  esercitare  la  giustizia»).  4.  Procopio  . .  .  virtù:  cfr. 
Gotthica  historiat  lib.  I,  in  Grozio,  op.  cit.,  p.  142.  5.  se  i  suoi  eserciti  .  .  . 
danni:  cfr.  Cassiodoro,  op.  cit.,  lib.  li,  ep.  vili,  p.  35.  6.  se  v'era  bisogno  . . . 
prezzo:  cfr.  Cassiodoro,  op.  cit.,  lib.  v,  ep.  xvr,  p.  109.  7.  egli  libéralis- 
simo . . .  vedove:  cfr.  Cassiodoro,  op.  cit.,  lib.  1,  ep.  vili,  p.  11  ;  lib.  rv,  ep. 
xl,  ep.  xlii,  p.  94  e  p.  95  (dove  la  frase  iniziale  della  lettera  presenta  sot- 
tolineate le  parole  «parente  publico»  nella  copia  del  citato  Fondo  Vallet- 
tiano).     8.  In  Grozio,  Prolegomeni  cit.,  p.  34. 


LIBRO    III    •    CAP.  II  415 

è  pur  troppo  nota;  e'  potendo  far  passare  i  vinti  sotto  le  leggi  de* 
Goti  vincitori,  volle  che  colle  leggi  proprie,  colle  quali  eran  nati  e 
nudriti,  vivessero.  Permise  che  sotto  il  suo  regno  Roma  fosse  dallo 
stesso  romano  Senato  governata:  che  giudicasse  il  romano  tra' 
Romani  :  tra*  Goti  e  Romani,  il  goto  ed  il  romano.1  Che  quella  re- 
ligione ritenessero  ch'avevan  succhiata  col  latte,a  awersissimo  d'in- 
trodurre novità,  come  quelle  che  sogliono  essere  sempremai  alle 
repubbliche  pemiziosissime,  e  cagione  di  molti  e  gravi  disordini. 

La  sua  temperanza  fu  da  Ennodio  chiamata  modestia  sacerdo- 
tale :2  e'  secondo  l'usanza  della  sua  nazione  parchissimo  ne'  cibi  e 
molto  più  sobrio  nelle  vesti.  Nel  suo  regno  i  Goti  si  mantennero 
continentissimi  e  casti,  né  fu  insidiata  la  pudicizia  delle  donne: 
«Quae  Romani  polluerant  fornicatione,  »  dice  Salvianob  «mun- 
dant  barbari  castitate»:  ed  altrove:  <c Impudicitiam  nos  diligimus, 
Gothi  execrantur,  puritatem  nos  fugimus,  illi  amant».  Vivevan  di 
cibi  semplicissimi,  di  pane,  di  latte,  di  cascio,  di  butiro,  di  carne, 
e  sovente  cruda,  macerata  solamente  nel  sale.  Tralascio  per  brevità 
le  sue  virtù  regie:  infin  oggi  s'ammirano  in  Roma  ed  in  Ravenna 
i  monumenti  della  sua  magnificenza  negli  edifici,  negli  acquedotti, 
ed  in  altre  splendide  opere.  Dal  corso  de'  suoi  fatti  egregi,  inco- 
minciando dalla  puerizia,  è  pur  troppo  noto  il  suo  valore,  la  for- 
tezza, la  sua  magnanimità,  il  suo  sublime  spirito  ed  il  suo  genio 
sempre  a  grandi  e  difficili  imprese  prontissimo.  Principe  e  nella 
guerra  e  nella  pace  espertissimo,  donde  nell'una  fu  sempre  vinci- 
tore, e  nell'altra  beneficò  grandemente  le  città  ed  i  popoli  suoi:  e 
la  virtù  sua  giunse  a  tanto  che  seppe  contenere  dentro  a'  termini 
loro,  senza  tumulto  di  guerre,  ma  solo  con  la  sua  autorità,  tutti  i 
re  barbari  occupatori  dell'Imperio.  E  per  restituire  l'Italia  nell'an- 
tica pace  e  tranquillità  molte  terre  e  fortezze  edificò  infra  la  punta 
del  mare  Adriatico  e  l'Alpi,  per  impedire  più  facilmente  il  passo  a' 


a)  P.  Garet.,  in  Vita  Cos.,  part.  1,  §  12.3    b)  Salvian.,  loc.  cit.4 


1.  Permise  .  . .  romano:  cfr.  la  Formula  Comìtivae  Gothorum  per  singulas 
provincias,  in  Cassiodoro,  op.  cit.,  pp.  147-8.  2.  La  sua  . . .  sacerdotale: 
cfr.  Ennodio,  Panegyricus  dictus  clementissimo  regi  Theoderìco,  in  Maxima 
bibliotheca  veterum  Patrum  cit.,  rx,  p.  375  ;  ma  cfr.  anche  Grozio,  Proleg., 
p.  34.  3.  Cfr.  M.  A.  Cassiodori  . . .  Opera  omnia,  in  duos  tomos  distri- 
buta .  .  .  notìs  et  observatìonibus  illustrata  . .  .  opera  et  studio  J.  Garetti,  Ro- 
tomagi  1679,  1,  pp.  4-5.  4.  De  gubernatione  Dei,  lib.  vii,  in  Maxima  bi- 
bliotheca cit.,  vili,  p.  370. 


4IÓ  ISTORIA    CIVILE   DEL   REGNO   DI    NAPOLI 

nuovi  barbari  che  volessero  assalirla.  Tanto  eh' è  costantissima  opi- 
nione di  tutti  gli  scrittori  che  mediante  la  virtù  e  la  bontà  sua,  non 
solamente  Roma  ed  Italia,  ma  tutte  l'altre  parti  dell'occidental  Im- 
perio libere  dalle  continue  battiture,  che  per  tanti  anni  da  tante 
inondazioni  di  barbari  avevan  sopportate,  si  sollevarono  ed  in  buon 
ordine  ed  assai  felice  stato  si  ridussero. 

So  che  alcuni  credono  esser  queste  tante  virtù  di  Teodorico  state 
imbrattate  dall'insidie,  e  morte  finalmente  fatta  dare  ad  Odoacre; 
e  nell'ultimo  della  sua  vita  da  alcune  crudeltà  cagionate  per  vari 
sospetti  del  regno  suo,  con  avere  ancora  fatto  morire  Simmaco  e 
Boezio  suo  genero  senatori  ed  al  consolato  assunti:  uomini  di 
nobilissima  stirpe  nati,  nello  studio  della  filosofia  consumatissimi, 
religiosissimi,  e  per  fama  di  pietà  e  di  dottrina  assai  insigni. 

Ma  se  vogliano  questi  fatti  attentamente  considerarsi,  la  ragion 
di  Stato  difende  il  primo;  e  dell'essere  stato  crudele  con  Simmaco 
e  Boezio  dobbiamo  di  quello  stesso  incolpar  Teodorico  di  che  fu 
incolpato  da'  suoi  domestici:  «Id  illi  iniuriae»  come  dice  Proco- 
pio «in  subditos  primum,  ac  postremum  fuit,  quod  non  adhibita, 
ut  solebat,  inquisitione  de  viris  tantis  statuerat».1  In  questo  sola- 
mente mancò  Teodorico,  ch'essendo  stati  per  invidia  imputati  Sim- 
maco e  Boezio  di  macchinar  contro  alla  sua  vita  ed  al  suo  regno,  gli 
avesse  senza  usare  molta  inquisizione  in  caso  sì  grave,  in  cui  richie- 
devasi  somma  avvedutezza,  condennati  a  morte;  del  resto,  come 
ben  osservò  Grozio,a  «  Actum  ibi,  non  de  religione,  quae  Boethio  sa- 
tis  platonica  fuit,  sed  de  Imperii  statu».2  Non  fu  mosso  certamente 
Teodorico  da  leggier  motivo,  ma  per  cagione  di  Stato,  non  già  di 
religione,  come  alcuni  credono.  Ben  si  sono  scorti  quali  sentimenti 
fossero  di  questo  principe  intorno  a  lasciare  in  libertà  le  coscienze 
degli  uomini  ed  appigliarsi  a  quella  religione  che  lor  piacesse.  Né 
per  Boezio  poteva  accader  ciò,  la  cui  religione  fu  più  platonica  che 
cristiana.  E  se  dee  credersi  a  Procopio,  ben  di  quel  suo  fallo  poco 
prima  di  morire  ne  pianse  Teodorico  amaramente  con  intensissimo 


a)  Grot.,  loc.  cit.3 

i.  *Id  illi  iniuriae  . . .  statuerat»:  cfr.  Gottkica  Ustoria,  lib.  i,  in  Grozio, 
op.  cit.,  p.  143  («Questo  gli  viene  soprattutto  rimproverato  nei  riguardi 
dei  suoi  sudditi,  di  aver  deciso  la  sorte  di  cosi  grandi  uomini  senza  aver 
prima,  com'era  suo  costume,  fatta  un'inchiesta  »).  2.  «  Actum  ibi . . .  statu  »  : 
«  Si  trattò  qui,  non  di  religione,  che  in  Boezio  fu  passabilmente  platonica, 
ma  della  sicurezza  dello  Stato».     3.  Grozio,  op.  cit.,  Prolegomenat  p.  32. 


LIBRO    III    •   CAP.  II  417 

dolore  del  suo  spirito;  poiché  essendosegli,  mentre  cenava,  appre- 
stato da'  suoi  ministri  un  pesce  di  grossissimo  capo,  se  gli  attraver- 
sò nella  fantasia  così  al  vivo  Pimmagine  di  Simmaco  che  parvegli 
quello  del  pesce  essere  il  costui  capo,  il  quale  con  volto  crudele  ed 
orribile  lo  minacciasse  e  volesse  della  sua  morte  prender  vendetta; 
tanto  che  spaventato  per  sì  portentosa  veduta,  corsegli  per  le  vene 
un  freddo  che,  obbligatolo  a  mettersi  a  giacere,  si  fece  coprir  di 
molti  panni;  ed  avendo  raccontato  ad  Elpidio  suo  medico  ciò  che 
gli  era  occorso,  «  In  Simmacum  ac  Boethium  quod  peccaverat  de- 
flevit:  poenitentiaeque  ac  doloris  magnitudine  non  multo  post 
obiit  »,  come  narra  Procopio.1 

Giornande2  niente  dice  di  sì  strano  successo,  ma  lo  fa  morire  di 
vecchiezza,  narrando  che  Teodorico  «postquam  ad  senium  perve- 
nisset,  et  se  in  brevi  ab  hac  luce  egressurum  cognosceret  »,3  fece 
avanti  di  lui  convocare  i  Goti  e'  principali  signori  del  regno,  a' 
quali  disegnò  per  suo  successore  Atalarico,  figliuolo  d'Amalasunta 
sua  figliuola,  il  quale,  morto  Eutarico  suo  padre  pur  dell'illustre 
stirpe  degli  Amali,  non  avendo  più  che  dieci  anni,  sotto  la  cura  ed 
educazione  di  sua  madre  viveva.  Non  tralasciò  morendo  di  racco- 
mandare a*  medesimi  la  fedeltà  che  dovevan  portare  al  re  suo  nipo- 
te; raccomandò  loro  ancora  l'amore  e  riverenza  verso  il  Senato  e 
popolo  romano,  e  sopra  tutto  incaricò  che  dovesser  mantenersi 
amico  e  propizio  l'imperadore  d'Oriente,  col  quale  proccurassero 
tener  sempre  una  ben  ferma  e  stabil  pace  e  confederazione:  il  qual 
consiglio  avendo  religiosamente  custodito  Amalasunta,  le  cose  de' 
Goti  infinché  visse  il  suo  figliuolo  Atalarico  andaron  assai  prospe- 
ramente; poiché  per  lo  spazio  d'otto  anni  che  regnarono  manten- 
nero il  lor  reame  in  una  ben  ferma  e  tranquilla  pace.  Tale  fu  la 
morte  di  questo  illustre  principe,  che  avvenne  nell'anno  526  di 
nostra  salute,  dopo  aver  regnato  poco  men  che  38  anni,  e  ridotta 
l'Italia  e  queste  nostre  provincie  nell'antica  pace  e  tranquillità. 


1.  In  Simmacum  .  .  .  Procopio:  in  Grozio,  op.  cit.,  pp.  142-3:  «Pianse  per 
aver  peccato  contro  Simmaco  e  Boezio,  e  per  la  grandezza  del  pentimento  e 
del  dolore  non  molto  dopo  morì».  2.  Giornande'.  op.  cit.,  cap.  ldc;  cfr. 
in  Grozio,  op.  cit.,  p.  700.  3.  «  postquam  . . .  cognosceret  »:  «giunto  a  vec- 
chiaia e  accorgendosi  che  in  breve  si  sarebbe  spento». 


418  ISTORIA    CIVILE   DEL   REGNO    DI    NAPOLI 


Libro  IV 

CAP.   II 

Del  ducato  Beneventano  e  di  Zotone  suo  primo  duca. 

Aveva  Aiitari,  ciò  che  non  fecero  i  suoi  maggiori,  soggiogata  quasi 
tutta  P Italia  citeriore;  toltone  il  ducato  Romano  e  PEsercato  di  Ra- 
venna, che  allora  veniva  governato  da  Romano,a  avendone  poco 
prima  Pimperador  Maurizio  levato  Smaragdo,  tutto  il  resto  era  in 
sua  mano  ;  ma  restavagli  ancora  da  conquistare  la  più  bella  e  pre- 
clara parte  d'Italia,  cioè  quella  parte  e  quelle  provincie  che  oggi 
compongono  questo  regno  di  Napoli.  Infino  a  questi  tempi  eransi 
queste  provincie  mantenute  sotto  Pimperio  degPimperadori  orien- 
tali, che  le  governavano  secondo  quella  forma  che  da  Longino  v'era 
stata  introdotta:  avevan  quasi  tutte  le  città  più  principali  il  lor 
duca:  Napoli  aveva  il  suo,  Sorrento,  Amalfi,  Taranto,  Gaeta,  e  così 
di  mano  in  mano  Paltre,  tanto  che  quello,  che  ora  è  regno,  intorno 
aU'amministrazione,  in  più  ducati  era  distinto,  tutti  però  immedia- 
tamente sottoposti  all'esarca  di  Ravenna  e  dopo  costui  agl'impe- 
radori  d'Oriente;  e  se  bene  nella  forma  del  governo  tenessero  appa- 
renza di  repubblica,  nulladimeno  è  somma  sciocchezza  il  credere  che 
fossero  così  liberi  che  non  riconoscessero  l'imperadore  d'Oriente 
per  loro  sovrano,  sotto  la  cui  dominazione  vivevano  :  quantunque 
per  la  debolezza  degli  esarchi  di  Ravenna,  e  per  la  lontananza 
della  sede  imperiale,  il  governo  de*  duchi  si  rendesse  un  poco  più 
libero  e  pieno,  tanto  che  sovente  arrivavano  infino  a  manifeste  fel- 
lonie, con  ribellarsi  dal  loro  principe,  la  qual  cosa  più  volte  tenta- 
ron  di  fare  i  duchi  di  Napoli,  come  più  innanzi  nel  suo  luogo  diremo. 
Queste  provincie,  come  quelle  ch'erano  più  lontane  da  Pavia, 
sede  de'  Longobardi,  e  che  potevano,  in  caso  che  fossero  assalite, 
ricever  tosto  soccorsi  per  mare,  onde  sono  quasi  tutte  circondate, 
con  picciolissimi  presìdi  da'  Greci  eran  guardate;  onde  Autari 
espertissimo  principe  pensò  dalle  provincie  mediterranee  comin- 


a)  Marq.  Freher,  in  Chronologia,  SmaragduSy  a.  584.   Romanus, 
a.  587.1 


i.  Marquard  Freher  (1565-1614).  Il  Giannone  fa  probabilmente  riferi- 
mento alla  Utriusque  imperii  chronologia,  più  volte  ristampata. 


LIBRO    IV   •   CAP.  II  419 

ciar  le  sue  conquiste;  e  lasciandosi  in  dietro  Roma  e  Ravenna,  delle 
quali  non  così  di  leggieri  potevasi  venire  a  capo,  avendo  nella 
primavera  di  quest'anno  589  nel  ducato  di  Spoleti  unito  il  suo 
esercito,  fingendo  di  dirizzare  il  suo  cammino  in  altre  parti,  di 
repente  lo  torse  e  nel  Sannio  si  gittò.  Colti  così  alTimproviso  i 
Greci,  entrarono  in  tale  stordimento  e  costernazione  che  senza 
molto  contrasto  venne  fatto  ad  Autari  di  conquistare  in  un  tratto 
tutta  questa  provincia  e  finalmente  Benevento,1  città,  come  cre- 
dette il  Sigonio,  fin  da  questi  tempi  capo  e  metropoli  del  Sannio. 
Indi  si  narra  che  questo  principe  al  calore  di  sì  ragguardevole  con- 
quista spingesse  oltre  il  suo  cammino,  e  traversando  tutta  la  Cala- 
bria insino  a  Reggio  scorresse,  città  posta  nell'ultima  punta  d'Ita- 
lia lungo  il  mare,  e  che  quivi,  essendo  ancor  a  cavallo,  percotendo 
colla  sua  asta  una  colonna  posta  ne'  lidi  di  quel  mare,  dicesse: 
«Fin  qui  saranno  i  confini  de*  Longobardi  »  ;a  ond'è  che  l'Ariosto, 
de'  fatti  di  questo  glorioso  principe  cantando,  disse  che 

.  . .  Corse  il  suo  stendardo 
da'  pie  de'  monti  al  Mamertino  lido.2. 

Narrasi  ancora  che  ritornato  a  Benevento  riducesse  quella  provin- 
cia in  forma  di  ducato  e  che  ne  creasse  duca  Zotone,  ed  a'  due  ce- 
lebri ducati  di  Friuli  e  Spoleti  v'aggiungesse  il  terzo,  il  quale  col 
correr  degli  anni  si  rendè  tanto  superiore  agli  altri  due  primi  quan- 
to questi  sopravanzavan  gli  altri  ducati  minori  d'Italia. 

Ma  poiché  del  principio  ed  instituzione  del  ducato  Beneventano 
non  è  di  tutti  conforme  il  parere,  e  questo  ducato  dee  occupare 
una  gran  parte  della  nostra  istoria,  per  lo  spazio  di  500  e  più  anni, 
sicome  quello  il  quale  non  solamente  per  la  durata,  ma  per  la  sua 
ampiezza  si  stese  tanto  che  abbracciò  quasi  tutto  quel  ch'è  ora 
regno  di  Napoli,  non  rincrescevol  cosa  doverà  perciò  essere  che  di 
esso  più  partitamente  si  ragioni. 

Il  ducato  di  Benevento  credesi  comunemente  che  da  Autari  in 
questo  anno  589  fosse  stato  la  prima  volta  instituito,  e  che  Zotone 


a)  P.  Warnefr.,  lib.  3,  cap.  16.3 

1.  venne  fatto  . . .  Benevento:  cfr.  Paolo  Diacono,  De  gestis  Langobardorum, 
in  Grozio,  op.  cit.,  p.  823.  Il  seguente  rinvio  è  al  De  regno  Italiae  del  Sigo- 
nio. 2.  Cfr.  Stanze,  frammento  11,  stanza  io,  w.  6-7,  in  L.  Ariosto, 
Lirica,  a  cura  di  G.  Patini,  Bari  1924,  p.  150.  3.  Paolo  Diacono  (o  Paolo 
Varnefrido:  cfr.  la  nota  1  a  p.  56),  in  Grozio,  loc.  cit.,  cap.  xxxm  (altri,  16). 


420  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

ne  fosse  stato  creato  duca  da  questo  stesso  principe.  Passa  per  in- 
dubitato presso  a  tutti  gl'istorici  che  questo  Zotone  fosse  il  primo 
duca  di  Benevento;  ma  chi  ve  l'avesse  fatto,  ed  in  quali  tempi, 
non  è  di  tutti  concorde  il  sentimento.  Carlo  Sigonioa  e  Wolfango 
Lazio ,b  non  avendo  ben  esaminate  le  parole  e  la  frase  usata  da 
Paolo  Warnefrido,c  quando  di  questa  instituzione  favella,  tennero 
costantemente  per  la  costui  autorità  che  fosse  stato  instituito  da 
Autari  in  questo  stesso  anno  ch'egli  conquistò  il  Sannio  e  Beneven- 
to, creduto  da  essi  in  questi  tempi  capo  di  quella  provincia;  ma  dal 
modo  istesso  con  cui  ne  parla  Warnefrido,  che  non  con  fermezza, 
ma  con  un  putatur,  refertur,  fama  est  se  ne  disbriga,  e  da  ciò  che 
ne  vien  da  lui  soggiunto,  che  Zotone  tenne  il  ducato  di  Benevento 
venti  anni:  il  che  non  s'accorderebbe  colla  serie  delle  cose  dapoi 
avvenute  e  colla  cronologia  de'  tempi  degli  altri  duchi  che  seguiro- 
no, se  da  questo  anno  589  si  volessero  cominciare  a  numerare  i 
venti  anni  del  ducato  di  Zotone;  perciò  alcuni  altri,  fra  i  quali 
Scipione  Ammirato  nelle  dissertazioni  de*  duchi  e  principi  di  Be- 
nevento, ed  Antonio  Caracciolo,d  hanno  cominciato  a  dubitare  se 
si  dovesse  ne'  tempi  più  antichi  fissar  l'epoca  di  questo  ducato.  Ma 
ciò  che  poi  loro  fece  rifiutar  deliberatamente  l'opinione  tenuta  dal 
Sigonio  e  dal  Lazio,  fu  l'autorità  di  Lione  Ostiense,6  il  quale  an- 

a)  Sigon.,  De  r.  ItaL,  lib.  I.1  b)  Wolfgan.  Laz.,  lib.  12  De  migrai. 
gent.z  e)  P.  Warn.,  lib.  3,  e.  16.3  d)  Ant.  Carac,  in  Propylaeo  ad 
quatuor  chron.4    e)  Leo  Ostiens.,  Chron*,  lib.  I,  cap.  48.5 


1.  Carlo  Sigonio  (cfr.  la  nota  3  a  p.  22),  Historiarum  de  regno  Italiae  libri 
viginti,  Hanoviae  1613,  p.  15.  La  copia  del  citato  Fondo  Vallettiano  (xlv, 
8,  14)  reca  un  richiamo  a  margine  e  una  sottolineatura  in  corrispondenza 
della  frase  «  Beneventum  ad  deditionem  adduxerit  ».  2.  Wolfgang  Lazius 
(1514-1565),  De  alìquot  gentium  migrationibus,  sedibus  fixis,  rehquiis  lingua- 
rumque  initiis  et  immutationibus  ac  dialectis  libri  XII,  Basileae  1572.  La  cita- 
zione è  copiata  da  Camillo  Pellegrino  (1598-1663),  Libri  secundi  Historiae 
principimi  Langobardorum  pars  prima,  quae  continet  dissertationes  de  institu- 
ti<me,finibus  et  descriptione  antiqui  ducatus  beneventani,  Neapoli  1644,  p.  2. 
Ma  del  resto  tutto  il  discorso  del  Giannone  si  basa  interamente  sulla  pri- 
ma delle  dissertazioni  del  Pellegrino:  Ducatus  beneventanus  quando  insti- 
tutus.  3.  Cfr.  in  Grozio,  loc.  cit.,  ancora  cap.  xxxiii  (altri,  16);  cfr.  anche 
C  Pellegrino,  op.  cit.,  p.  1.  4.  Antonio  Caracciolo  (cfr.  la  nota  1  a  p.  56), 
Antiqui  chronologi  quatuor:  Herempertus  Langobardus,  Lupus  Protospata, 
Anonymus  Cassinense,  Falco  Beneventanus,  cum  appendicibus  historiczs  .  .  ., 
Neapoli  1626,  pp.  6  sgg.  Ma  vedi  anche  in  R.LS.,  v,  pp.  8-9.  La  discussio- 
ne col  Caracciolo,  come  prima  il  rinvio  al  Lazius,  è  anch'essa  tratta  dal  Pel- 
legrino, op.  cit.,  pp.  2  sgg.     5.  Cfr.  anche  C.  Pellegrino,  op.  cit,  p.  5. 


LIBRO    IV    •   CAP.  II  421 

corché  fiorisse  trecento  anni  dopo  Warnefrido,  non  con  incertezza, 
ma  con  molta  asseveranza  scrisse  nella  sua  cronaca,  secondo  l'edi- 
zione napoletana,  che  i  Greci  ritolsero  a'  Longobardi  Benevento 
nell'anno  891,  dopo  trecento  venti  anni  da  che  Zotone  ne  fu  duca; 
onde  secondo  1'  Ostiense  il  principio  del  ducato  di  Zotone  dovrebbe 
riportarsi  nell'anno  571,  0  sicome  vuole  TArrimirato  all'anno  573, 
il  quale,  per  accordarlo  colla  serie  delle  cose  accadute  dapoi  e  colla 
cronologia  degli  altri  duchi  tenuta  dalTistesso  Warnefrido,  emenda 
il  luogo  dell'Ostiense,  e  vuol  che  si  legga  non  trecento  venti,  ma 
trecento  diciotto  :  in  guisa  che,  secondo  il  parer  di  costoro,  il  ducato 
Beneventano  prima  che  Autari  conquistasse  il  Sannio,  ed  alquanti 
anni  dopo  la  venuta  d'Alboino  in  Italia,  ebbe  il  suo  principio.  Altri 
trovarono  l'origine  di  questo  ducato  in  tempi  più  lontani,  cioè 
nell'istesso  anno  568,  quando  Alboino,  uscito  dalla  Pannonia,  ven- 
ne alla  conquista  d'Italia,  e  che  oltre  alla  provincia  di  Venezia, 
una  banda  di  Longobardi  s'inoltrasse  infino  a  Benevento,  e  quivi 
fermati  eleggessero  Zotone  per  lor  duca:  il  che  comprovano  per 
un  catalogo  antico  de'  duchi  e  principi  beneventani  fatto  da  un 
ignoto  monaco  del  monastero  di  S.  Sofia  di  Benevento,  che  va 
innanzi  all'istoria  dell'Anonimo  Salernitano,  ove  questo  scrittore 
dice:a  «Anno  ab  Incarnatione  Domini  quingentesimo  sexagesimo 
octavo,  principes  coeperunt  principari  in  principatu  Beneventano, 
quorum  primus  vocabatur  Zotto  »,*  al  quale  dà  egli  ventidue  anni 
di  ducato,  non  venti,  come  Warnefrido. 

Ma  non  finisce  qui  la  varietà  de'  pareri,  né  si  contentano  i  più 
diligenti  investigatori  di  questo  principio,  ma  un  altro  più  remoto 
ed  in  tempi  più  lontani  se  ne  cerca:  questo  viene  additato  da  Lione 
Ostiense  medesimo  nella  sua  cronaca,  nella  quale,  se  bene  giusta 
l'edizione  napoletana2  si  legga  che  corsero  trecento  venti  anni  da 
che  fu  creato  Zotone  duca  infino  all'anno  891  che  fu  da'  Greci 
riacquistato  Benevento  ;  nulladimanco  il  suo  originale,  che  si  con- 


a)  Leggesi  presso  Camil.  Pel.,  in  Hist.  princ.  long? 


1.  «  Anno  .  .  .  Zotto  m  «Nell'anno  568  dell'incarnazione  del  Signore,  i 
principi  cominciarono  a  governare  nel  principato  beneventano  :  il  primo  ài 
questi  si  chiamava  Zotone  ».  2.  Chronicon  antiquum  sacri  monasteni  cas- 
sinensis,  olim  a  Leone  cardinali  et  episcopo  ostiensi  conscriptum,  nunc  vero 
a  rev.  patre  D.  Matthaeo  Laureto  hispano  . .  .  recognitum  . . .  et  auctum, 
*  Neapoli  1616.    3.  Op.  cit.,  p.  3. 


422  ISTORIA    CIVILE   DEL    REGNO    DI    NAPOLI 

serva  nelP Archivio  Cassinese,  è  molto  discorde  dall'edizione  napo- 
letana; poiché  ivi  si  legge  che  da  Zotone  insino  all'anno  891  non 
320  overo  318,  ma  ben  330  anni  passarono:  conformi  a  questa  le- 
zione sono  l'edizioni  di  Venezia,1  quella  di  Parigi,2  e  l'ultima  data 
fuori  dall'abate  della  Noce:3  l'una  e  l'altra  molto  più  appurate  che 
quella  di  Napoli  intorno  al  numero  degli  anni,  in  guisa  che  secondo 
questo  conto  bisognerà  confessare  che  il  ducato  di  Benevento  aves- 
se il  suo  principio  da  Zotone  nell'anno  561.  Ma  sembrerà  senza  alcun 
dubbio  cosa  molto  strana  e  assai  nuova  che  in  questo  anno  si  do- 
vesse dire  di  essersi  instituito  quel  ducato,  quando  verrebbe  ad 
aver  il  suo  principio  sette  anni  prima  che  i  Longobardi  usciron 
dalla  Pannonia  per  l'impresa  d'Italia,  e  quando  i  Greci  dominavano 
con  vigore  tutte  le  provincie  della  medesima. 

In  tanta  varietà,  a  noi  giova  seguitare  il  parere  del  diligentissimo 
Camillo  Pellegrino,*  scrittore  accuratissimo  e  che  con  più  diligenza 
di  tutti  gli  altri  trattò  di  proposito  questo  soggetto  :  parere,  che  vien 
sostenuto  da  ciò  che  sull'arrivo  de'  Longobardi  in  Benevento  ci 
lasciò  scritto  Costantino  Porfirogenito  :  autore  ancorché  alquanto 
favoloso  intorno  a  ciò  che  scrive  della  venuta  de'  Longobardi  in 
Italia,  nulladimeno  in  mezzo  delle  sue  favole  riluce  pure  qualche 
raggio  di  vero,  che  può  in  cosa  tanto  difficile  e  dubbia  additarci  il 
cammino  per  trovare  il  principio  e  instituzione  di  questo  ducato. 
Narra  questo  scrittore13  che,  chiamati  i  Longobardi  da  Narsete  in 
Italia,  questi  venissero  con  le  loro  famiglie  in  Benevento,  ma  che 
non  ammessi  da'  Beneventani  dentro  alla  città,  fuori  delle  mura  si 
fabbricassero  le  loro  abitazioni,  e  con  ciò  venisse  a  formarsi  una 


a)  Cam.  Pel.,  in  Dis.  de  Due.  Ben.,  dis.  i.4    b)  Constant.  Porphyr., 
De  admin.  Imp.,  cap.  zy.s 


1.  di  Venezia:  cfr.  Chronìca  sacri  casinensis  coenobiì,  nuper  impressoriae  arti 
tradita  ac  nunguam  alias  impressa,  in  qua  totius  monasticae  religionis  stimma 
consistit,  Venetiis  15 13.  2.  quella  dì  Parigi:  cfr.  Aimoini  .  .  .  Libri  quinque 
de  gestìs  Francorum  .  . .  Chronicon  casinense  Leonis  Marsicanì .  .  .,  Parisiis 
1603  (Aimoin,  monaco  di  Fleury  morto  nell'889).  3,  V ultima  .  .  .  della 
Noce:  cfr.  Chronica  sacri  monasterii  casinensis . . .  ex  manu  scriptis  codicibus 
quarta  hac  eàitione  primus  evulgat  D.  Angelus  de  Nuce  . . .,  Lutetiae  Pari- 
siorum  1668.  4.  Op.  cit.,  dissertazione  1  cit.,  pp.  1  sgg.  5.  Costanti- 
no VII  Porfirogenito  (905-959),  imperatore  d'Oriente,  De  administrando 
Imperio-,  vedi  sia  nell'edizione  J.  Meursius,  Lugduni  Batavorum  161 1,  sia 
nell'altra  del  Banduri,  Imperium  orientale,  Parisiis  171 1,  p.  82.  Anche  que- 
sta citazione  è  tratta  dal  Pellegrino,  op.  cit.,  p.  6. 


LIBRO    IV   •    CAP.  II  423 

picciola  città  che  fin  da'  suoi  tempi  riteneva  ancora  il  nome  di 
Città  nova:  e  che  quivi  fermati,  ne'  tempi  seguenti  loro  venisse 
fatto  per  inganno  d'entrare  in  Benevento  armati,  e  posta  sossopra 
la  città  uccidessero  tutti  i  cittadini,  e  che  preso  Benevento  scorser 
dapoi  per  tutta  la  provincia  e  la  sottoposero  al  dominio  de'  Lon- 
gobardi, e  stendessero  il  loro  imperio  dalla  Calabria  infino  a  Pavia, 
toltone  le  città  d'Otranto,  Gallipoli,  Rossano,  Napoli,  Gaeta,  Sor- 
rento ed  Amalfi. 

Ciò  che  narra  costui,  che  i  Longobardi  usciti  da  Benevento  sten- 
dessero il  loro  imperio  per  tutta  Italia,  ben  si  vede  esser  favoloso  e 
contrastare  a  tutta  l'istoria,  dalla  quale  abbiamo  che,  usciti  dalla 
Pannonia  sotto  Alboino,  i  primi  acquisti  furono  nella  provincia  di 
Venezia,  e  dapoi  tratto  tratto  nella  Liguria,  nell'Emilia,  nella  To- 
scana e  nell'altre  provincie.  Favola  eziandio  è  ciò  che  dice  della 
Città  nova,  la  quale  molto  tempo  dopo  la  venuta  d'Alboino  in 
Italia,  cioè  ducento  anni  appresso,  fu  da  Arechi  per  timor  de'  Fran- 
zesi  costrutta,  come  diremo  a  suo  luogo.  Ma  ciò  che  questo  autore 
narra  de'  Longobardi,  che  sotto  Narsete  si  ricovrarono  in  Beneven- 
to, non  è  certamente  favoloso;  poiché  da  quel  che  si  è  di  sopra  nar- 
rato è  costantissimo  che  Narsete,  prima  dell'invito  fatto  ad  Alboino 
e  della  universal  trasmigrazione,  in  quasi  tutte  le  sue  guerre  soleva 
valersi  in  Italia  de'  Longobardi;  né  fu  questa  la  prima  volta  che 
furono  da  lui  chiamati:  gli  ebbe  ausiliari  nella  guerra  contro  a  To- 
tila,  e  sicome  dice  Warnefrido,  avvegnaché  dopo  aver  riportata 
quella  vittoria,  carichi  di  molti  doni,  fossero  stati  rimandati  alle 
proprie  stanze,  in  tutto  il  tempo  però  che  possederono  la  Pannonia 
furon  sempre  in  aiuto  de'  Romani;  onde  è  molto  probabile  che, 
quantunque  Narsete  gli  licenziasse,  non  però  tutti  ritornassero  alle 
paterne  case:  ma  che  intorno  all'anno  552  ovvero  553,  molti  di 
essi  ritenuti  dall'amenità  del  paese  in  Italia  si  fermassero,  ed  a 
guisa  di  predoni  andassero  vagando  ora  in  questo  ora  in  quell'altro 
luogo,  del  che  Procopio  ancora  rende  testimonianza;  e  che  in  fine 
spontaneamente  o  pure  per  comandamento  di  Narsete,  per  tener- 
gli in  freno  e  per  impedire  que'  disordini,  che  l'andar  così  dispersi 
cagionava,  fosse  stata  loro  assegnata  per  abitazione  la  città  di  Be- 
nevento, e  che  poi  nell'anno  561  l'avessero  occupata,  nella  qual 
azione  avessevi  avuta  la  principal  parte  Zotone  lor  capo.  Così  da 
quest'anno  potremo  dire  con  Ostiense  che  cominciassero  i  Lon- 
gobardi a  dominar  Benevento  sotto  Zotone,  perché  infìno  all'anno 


424  ISTORIA   CIVILE  DEL   REGNO   DI   NAPOLI 

891,  nel  quale  furon  discacciati  da'  Greci,  corsero  appunto  trecento 
trenta  anni:  ma  non  già  che  in  questi  tempi  si  fosse  instituito  il  du- 
cato, e  che  quando  la  dominazione  de'  Greci  era  in  questa  provin- 
cia vigorosa  e  potente  avessero  quei  pochi  Longobardi  potuto  ri- 
durre il  Sannio  in  forma  di  ducato  e  stabilirvi  Zotone  per  duca. 
Per  accordare  poi  gli  anni  del  ducato,  che  Warnefrido  dà  a  Zotone, 
colla  serie  de*  fatti  e  cronologia  degli  altri  duchi  successori  tenuta 
da  quest'istesso  scrittore,  bisognerà  ponere  per  primo  anno  di  que- 
sto ducato  l'anno  571,  cioè  quando,  essendo  entrato  già  Alboino 
in  Italia  e  conquistate  più  provincie,  fatti  più  audaci  que'  Longo- 
bardi ch'erano  in  Benevento,  scossero  apertamente  il  giogo  de' 
Greci,  e  ribellandosi  da  loro  avessero  occupata  la  regione  convicina 
e  n'avessero  poi  in  questo  anno  571  creato  Zotone  della  lor  propria 
gente  duca,  il  quale  per  così  oscuro  principio  avesse  cominciato 
a  governargli.  Venuto  poscia  Autari  ad  invadere  la  nostra  Cistibe- 
rina  Italia,  ed  avendo  al  suo  dominio  sottoposta  l'intera  provincia 
del  Sannio,  trovando  Benevento  occupato  da'  Longobardi,  i  quali 
ubbidivano  a  Zotone  lor  duca,  ne  confermò  a  costui  il  governo,  e 
fattolo  tributario,  come  furono  in  appresso  tutti  i  duchi  di  Bene- 
vento a'  re  longobardi,  lasciò  quel  ducato  sotto  la  sua  amministra- 
zione; onde  avvenne  che  presso  a'  scrittori  il  principio  del  ducato 
di  Zotone  si  prese,  non  dal  tempo  che  Autari  occupò  il  Sannio, 
e  ridottolo  in  forma  di  ducato  lo  commise  al  suo  governo,  ma 
dal  tempo  che  Zotone  cominciò  per  quegli  oscuri  princìpi  e  per 
questo  ordine  di  cose  ad  avere  il  governo  di  Benevento  e  di  que' 
Longobardi  che  come  narra  Porfirogenito  prima  l'aveano  occupato. 
Il  ducato  adunque  di  Benevento  da  sì  bassi  e  tenui  princìpi  ebbe 
il  suo  nascimento,  qual  narrasi  che  sortirono  ancora  le  più  celebri 
repubbliche  ed  i  più  famosi  principati  del  mondo  :  col  correr  poi  de- 
gli anni,  non  pur  agguagliò  quello  di  Spoleti  e  di  Friuli,  ma  di  gran 
lunga  superogli,  e  lo  vedremo  un  tempo  occupare  quasi  tutta  l'Ita- 
lia Cistiberina,  anzi  verso  Settentrione  stendere  i  suoi  confini  più 
di  quel  che  presentemente  verso  quella  parte  si  stende  il  nostro 
Regno.  Incominciò  da  que'  pochi  Longobardi  che  sotto  Narsete  in 
Benevento  si  fermarono  ;  e  sopra  sì  deboli  fondamenti  pian  piano 
venne  dapoi  ad  introdurvisi  quella  politia  e  quella  forma  di  go- 
verno che  sotto  i  duchi  successori  di  Zotone  per  più  secoli  si  man- 
tenne. Autari  fu  il  primo  che  gli  diede  più  stabile  e  certa  forma,  e 
che  cominciò  a  dilatare  i  suoi  confini;  imperocché  tutta  la  provincia 


LIBRO    IV   •   CAP.  II  425 

del  Sannio  sottopose  egli  a  questo  ducato;  e  come  vedremo  gli 
altri  re  longobardi  suoi  successori  per  mezzo  de*  duchi  maraviglio- 
samente Tacerebbero,  Benevento  ebbe  la  fortuna  d'esser  capo  e 
metropoli  di  un  tanto  ducato,  non  per  elezione,  né  perché  forse  nel 
regno  d'Autari  questa  città  s'innalzasse  tanto  sopra  tutte  le  altre 
città  di  quelle  provincie,  che  poi  dominò,  onde  forse  per  questa  sua 
eminenza  avesse  avuto  d' anteporsi  a  tante  altre:  vi  erano  nel  San- 
nio altre  città  non  meno  celebri  ed  antiche,  come  Isernia,  Boiano 
ed  altre:  ed  assai  più  ragguardevoli  ve  n'erano  nella  Campania; 
all'incontro  Benevento,  quantunque  a  tempo  de'  Romani  fosse 
stata  una  delle  più  celebri  colonie  che  avesse  quella  repubblica, 
nulladimeno  per  le  invasioni  de'  Goti  pati  sovente  di  quelle  cala- 
mità che  soglion  nascere  da  sì  strani  ravolgimenti,  né  in  tempo  di 
costoro  riteneva  più  quella  sua  antica  dignità;  anzi  sotto  il  regno 
di  Totila,  per  aver  fatto  demolire  questo  principe  le  sue  mura,a  si 
ridusse  in  istato  pur  troppo  lagrimevole.  Fu  dunque  per  certo  fato 
e  per  sua  prospera  fortuna  che  Benevento,  costituita  sede  di  questo 
ducato,  si  rendesse  dapoi  capo  e  metropoli  delle  provincie  a  sé 
vicine;  ma  questo  pregio  lo  venne  ad  acquistar  molto  tempo  dapoi. 
Ben  ne'  tempi  ne'  quali  scrisse  Warnefrido  avea  questa  città  innal- 
zata la  fronte  sopra  tutte  l'altre;  ma  questo  fu  due  secoli  dopo  il 
regno  d'Autari.  Perlaqualcosa,  quando  questo  autore  descrivendo 
le  dicisette  provincie  d'Italia,  e  collocando  nel  Sannio  Benevento, 
nomò  questa  città  capo  delle  provincie  circonvicine,1  ciò  disse  aven- 
do riguardo  a'  tempi  che  scriveva,  ne'  quali  la  sede  di  questo  ducato 
s'era  renduta  ampissima  e  ricchissima,  e  Benevento  fu  innalzato  ad 
esser  capo  non  pur  d'una,  ma  di  molte  provincie,  come  del  Sannio, 
della  Campania,  della  Puglia,  della  Lucania  e  de'  Bruzi,  o  in  tutto, 
ovvero  in  parte,  come  appresso  diremo.  Sicome  tutto  a  rovescio, 
quando  questo  scrittore  collocò  Benevento  nel  Sannio,  ciò  non 
fece  riguardando  i  tempi,  ne'  quali  dominarono  i  Longobardi,  ma 
tenne  presente  la  vecchia  descrizione  d'Italia  de'  tempi  degli  anti- 
chi Sanniti;  poiché  secondo  l'altra  più  recente  d'Augusto,  come  ce 


a)  Procop.,  lib.  ult.2 


1.  descrivendo  . . .  circonvicine:  cfr.  Paolo  Diacono,  Degestis  Langobardorum, 
in  Grozio,  op.  cit.,  p.  789.  Il  passo  è  copiato  di  peso  dal  Pellegrino,  op.  cit., 
p.  14.  2.  Cfr.  Gotthica  historia,  lib.  in  (e  non  ultimo),  in  Grozio,  op.  cit., 
p.  318. 


426  ISTORIA    CIVILE   DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

n'assicura  Plinio,a  Benevento  non  nel  Sannio,  ma  nella  Puglia  era 
collocato;  e  nelle  altre  descrizioni  seguite  appresso  si  vide  questa 
città  posta  dentro  a'  confini  della  Campania;  ond'è  che  negli  atti 
di  Gennaro,1  quel  santo  vescovo  di  Benevento,  oggi  primo  tutelare 
di  Napoli,  osserviamo  che,  patendo  egli  il  martirio  sotto  Diocle- 
ziano, fu  al  preside  della  Campania,  cui  appartenevasi,  commesso 
quell'affare.  E  ritroviamo  ancora  che  Ausonio,3  favoleggiando  di 
coloro  che  mutarono  sesso,  e  narrando  che  in  Benevento  non  avea 
molto  tempo  che  un  giovanetto  divenne  femmina,  chiamò  Bene- 
vento città  campana: 

Nec  satis  antiquum,  quod  campana  in  Benevento 
unus  epheborum  virgo  repente  futi. 

E  per  questa  ragione  nell'Itinerario,  che  s'attribuisce  ad  Anto- 
nino, il  confine  della  Campania  si  figge  ad  Equo  Tutico,  che  secondo 
l'osservazione  di  Filippo  Cluveriob  è  quella  città  che  noi  oggi  vol- 
garmente chiamiamo  Ariano,  posta  più  in  là  di  Benevento;  come 
sono  le  parole  dell'Itinerario:  «A  Capua  Equo  Tutico  m.  p.  Lini 
ubi  Campania  limitem  habet.  Caudis  m.  p.  xxi.  Benevento  m.  p.  xi. 
Equo  Tutico  m.  p.  xxi».3 

Né  per  altra  ragione  ancora  avvenne  che  i  Beneventani,  come  s'è 
detto,  posero  più  marmi  cogli  elogi  de'  consolari  della  Campania, 
sicome  altresì  facevano  i  Campani,  i  Napoletani  e  le  altre  città  che 
dal  consolare  della  Campania  eran  governate.  Da'  quali  documen- 
ti manifestamente  apparisce  per  qual  ragione  l'altro  Gennaro  pur 
vescovo  di  Benevento,  essendo  anch' egli  intervenuto  nel  concilio 
di  Sardica  celebrato  nell'anno  347,  e  correndo  allora  il  costume  di 


a)  Plin.,  lib.  3,  cap.  n.4    b)  Cluver,  in  Antiq.  Ita!.,  lib.  4,  cap.  8.5 

1.  atti  di  Gennaro:  cfr.  gli  Acta  Sanctorum  bollandiani,  Antverpiae  1757, 
voi.  vi  di  settembre,  Acta  SS.  lanuarii  episc,  Sosti,  Festi  .  .  .,  auctore  Ioan- 
ne  diacono  ecclesiae  S.  lanuarii,  cap.  11  (p.  877).  La  notizia  è  copiata  dal 
Pellegrino,  loc.  cit.  2.  Ausonio  :  cfr.  la  nota  1  a  p.  24.  Anche  la  citazione 
che  segue  {Epigram.,  lxxvi,  13-4)  è  in  C.  Pellegrino,  op.  cit.,  pp.  14-5. 
3.  «A  Capua  .  .  .m.  p.  XXI»:  «Da  Capua  a  Equo  Tutico  (Ariano  Irpino), 
ove  è  il  confine  della  Campania,  ci  sono  cinquantaquattro  miglia.  Da  Ca- 
pua a  Caudio  (Montesarchio)  ventuno;  da  Caudio  a  Benevento  undici;  da 
Benevento  a  Equo  Tutico  ventuno  ».  4.  Anche  questa  citazione  della 
Naturalis  historia  di  Plinio  è  tratta  dal  Pellegrino,   p.   14.      5.  Philipp 

Cluver  (15  80- 1623),  Italia  antiqua eiusdem  Sicilia,  Sardinia  et  Corsica, 

il,  Lugduni  Batavorum  1624,  P»  1202.  Ma  la  citazione  è  tratta  dal  Pellegri- 
no, op.  cit.,  p.  15. 


LIBRO   IV  •    CAP.  II  427 

sottoscriversi  i  vescovi  col  nome  della  propria  città  e  della  provincia 
ove  quella  era  posta,  si  fosse  ivi  sottoscritto  in  questa  forma: 
«Ianuarius  a  Campania  de  Benevento».1 

Non  altrimente  fece  Warnefrido  quando  ci  descrisse  le  dicisette 
Provincie  d'Italia,  rappresentandole  sicome  le  ritrovò  nella  notizia 
dell'uno  e  dell'altro  Imperio  fatta  sotto  Teodosio  il  giovane  intorno 
l'anno  del  Signore  440,  poiché  ne'  suoi  tempi  le  provincie  d'Italia, 
ancorché  ritenessero  i  medesimi  nomi  presso  agli  scrittori,  come 
anche  facciamo  oggi,  che  per  ostentar  erudizione  nello  scrivere 
non  pur  ricorriamo  a'  tempi  di  Teodosio,  ma  a  più  alto  principio 
volgendoci  diamo  i  nomi  a  ciascuna  delle  dodici  nostre  provincie, 
che  oggi  compongono  il  Regno,  secondo  erano  ne'  tempi  della  li- 
bera repubblica,  con  nomare  i  loro  popoli  Sanniti,  Lucani,  Hir- 
pini,  Salentini  e  simili;  nulladimeno  era  variata  in  tutto  la  loro  am- 
ministrazione, e  fu  divisa  l'Italia  in  più  ducati  che  non  furono  prima 
provincie;  onde  avvenne  che  quello  che  ora  è  Regno,  e  che  prima 
non  era  diviso  che  in  quattro  provincie,  se  ne  fossero  dapoi  for- 
mate dodici,  che  acquistarono  altri  nomi  ed  altri  confini,  come  nel 
proseguimento  di  questa  istoria  vedremo. 

Or  ritornando  in  cammino,  l'istituzione  di  questo  ducato,  se  si 
riguardano  i  suoi  bassi  princìpi,  fu  a  caso,  non  ad  arte,  in  Beneven- 
to stabilita,  sicome  furono  non  solo  tutti  gli  altri  ducati  minori  da' 
Longobardi  in  diverse  città  istituiti,  ma  quel  di  Friuli  ancora  e 
l'altro  di  Spoleti,  e  sicome  sogliono  essere  tutte  le  altre  cose  di 
questo  mondo:  che  se  si  riguarda  la  lor  origine,  surte  a  caso  da 
tenuissimi  princìpi  s'innalzano  al  sommo,  ove  poi  giunte,  uopo  è 
che  retrocedano  ed  allo  stato  di  prima  ritornino,  come  portano  le 
leggi  delle  mondane  cose:  leggi  indispensabile  alle  quali  l'umana 
sapienza  non  vale  ad  opporsi,  né  a  darvi  riparo.  Non  è  però  che 
stabilite  col  correr  degli  anni  le  fortune  de'  Longobardi  in  Italia, 
avendo  i  loro  re  scorto  che  il  perpetuare  con  lunga  serie  tanti  ducati 
sarebbe  tener  troppo  diviso  il  loro  regno,  non  pensassero  dapoi 
d'estinguerne  moltissimi,  e  ritener  quelli  solamente  che  potevano 
più  giovare  alla  conservazione  dello  Stato.  In  fatti  Warnefrido 
istesso  ne  accerta  che  a'  suoi  tempi  molti  erano  estinti,  non  facendo 
questo  scrittore  ne'  seguenti  anni  della  sua  istoria  menzione  d'altri 
ducati  se  non  di  quel  di  Trento,  di  Turino,  di  Bergamo,  di  Brescia 

1.  «  Ianuarius  . .  .Benevento»:  cfr.  ancora  Pellegrino,  loc.  cit. 


428  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO   DI    NAPOLI 

e  di  questi  altri  tre  che  sopra  tutti  s'estolsero,  cioè  di  Spoleti,  di 
Friuli  e  questo  di  Benevento. 

Né  egli  è  fuor  di  ragione  il  credere  che  questi  ultimi  tre  sopra 
tutti  gli  altri  si  fosse  proccurato  avanzargli,  perché  stando  così  di- 
stribuiti veniva  il  regno  a  conservarsi  con  più  sicurtà  ed  a  poter 
estendere  assai  più  oltre  i  suoi  confini  :  imperocché,  essendo  situato 
il  ducato  del  Friuli  all'ingresso  dell'Italia,  si  potesse  quindi  con 
maggior  prontezza  resistere  alle  incursioni  di  straniere  genti  che 
tentassero  invaderla:  dall'altro  di  Spoleti  collocato  in  mezzo  Italia 
si  potesse  con  più  faciltà  contrastare  a'  moti  de'  Romani  e  de' 
Greci,  da  quali  in  Ravenna  e  in  Roma  fortificati  venivan  sovente 
con  varie  scorrerie  molestati  :  ed  il  terzo  di  Benevento  era  posto  a 
reggere  l'inferior  parte  d'Italia,  donde  si  potesse  fare  argine  a' 
Greci  stessi  ed  a'  Romani,  da*  quali  spesso  per  questi  lati  maritimi 
erano  assaliti  ed  in  continue  guerre  esercitati.  Perlaqualcosa  Mat- 
teo Palmerio*  accuratamente  ci  rappresentò  la  politia  e  forma  del 
governo  de'  re  longobardi,  quando  disse  che,  avendo  costituita  la 
loro  regia  in  Pavia,  avevano  vari  principati  per  Italia  distribuiti,  a' 
quali  preponevano  i  duchi;  fra'  quali  i  più  cospicui,  e  per  succes- 
sione osservati,  erano  quel  di  Friuli  nell'ingresso  dell'Italia,  l'altro 
di  Spoleti  posto  quasi  nell'umbilico  di  quella,  ed  il  terzo  di  Bene- 
vento per  regger  l'inferior  parte  della  medesima;  dappoiché  questi 
tre  ducati  furono  sempre  a'  re  sottoposti,  e  con  uno  spirito  e  colle 
medesime  leggi  si  governavano,  formando  una  sola  repubblica, 
ed  in  questa  maniera  stabiliti  si  renderon  più  celebri,  e  pian  piano 
stendendo  i  lor  confini  (nel  che  sopra  tutti  gli  altri  s'avanzò  quel  di 
Benevento)  poterono  lungamente  conservare  in  Italia  il  dominio 
de'  Longobardi . . . 

a)  M.  Palmer.,  in  Chron.,  ad  a.  776.1 


1.  Matteo  Palmieri  (1406- 1475),  storico  fiorentino,  Chronicon  ex  libro  eius 
de  temporibus  sive  Chronicon  florentinum,  449-144.9.  Dopo  la  prima  edi- 
zione milanese  di  Boninus  Monbritius  (circa  1475,  L.  Hain,  Repertorium 
bibliographicum,  Berlin  1925,  n.°  6716),  fu  ristampato  a  Venezia  nel  1483, 
a  Parigi  nel  15 12  e  nel  15 18,  dal  Sichard  a  Basilea  nel  1529,  e  infine  ripreso 
soltanto  nel  1748  nella  continuazione  fiorentina  dei  R.I.S.  (1,  pp.  216  sgg.). 


LIBRO    V  429 


Libro  v 


.Luitprando  re  de*  Longobardi,  avendo  nell'anno  711  fermato  il 
soglio  del  suo  regno  in  Pavia,  siccome  i  suoi  predecessori  avean 
fatto,  cominciò  a  dar  saggi  grandissimi  della  sua  bontà  e  prudenza 
civile.  Egli,  imitando  suo  padre  e  gli  altri  re  suoi  predecessori, 
nella  religion  cattolica  fu  costantissimo,  ed  alla  di  lui  pietà  dee 
Pavia  Tossa  gloriose  d'Agostino;  poiché  egli  le  vendicò  dalle  mani 
de'  Saraceni,  dopo  avergli  discacciati  da  Sardegna,  dove  trovavasi 
il  prezioso  deposito.1  Egli  seguendo  Tessempio  di  Rotati  e  di  Gri- 
moaldo  volle  eziandio  esser  partecipe  della  gloria  di  savio  facitor 
di  leggi;  poiché  nel  primo  anno  del  suo  regno,  avendo  in  Pavia, 
secondo  il  costume,  ragunati  gli  ordini  del  regno,  ordinò  altre  leggi 
e  l'aggiunse  agli  editti  di  Rotari  e  di  Grimoaldo;a2  né  di  ciò  ben 
soddisfatto,  ne'  seguenti  anni,  secondo  che  il  bisogno  richiedeva, 
altre  ne  stabilì:  tanto  che  fra  i  re  longobardi,  dopo  Rotari,  Luit- 
prando fu  quegli  che  più  di  ogn'altro  empiè  il  suo  regno  di  leggi. 

1.  Leggi  di  Luitprando. 

Molte  leggi  di  questo  principe  piene  di  somma  prudenza  ed  uti- 
lità sono  ancor  oggi  a  noi  rimase  nel  volume  delle  leggi  longobarde; 
ma  nel  codice  membranaceo  Cavense3  si  leggono  interi  i  suoi  editti, 

a)  P.  Warnefr.,  lib.  6,  e.  58.  Bernard.  Saccus,  Hist.  ticin.,  lib.  9, 
e.  5.  Sigon.,  ad  a.  713. 

1,  edalla  di  lui  pietà  . . .  deposito:  cfr.  Paolo  Diacono,  Degestis  Longobardo- 
rum,  in  Grozio,  op.  cit.,  p.  922.  2.  Nell'ordine:  Paolo  Diacono,  in  Grozio, 
op.  cit.,  p.  932;  Bernardo  Sacco,  Ticinensis  kistoria,  Papiae  1565,  cap.  v  del 
libro  x  (e  non  già  ne:  vedi  anche  a  p.  359  della  ristampa  in  Thesaurus  antiqui- 
tatum  et  Historiarum  Italiae ...  del  Graevius,  tomo  in,  parte  1,  Lugduni  Ba- 
tavorum  1704)  ;  C.  Sigonio,  Historiarum  de  regno  Italiae  libri  viginti  cit.,  pp. 
5  8  sgg.  3 .  nel  codice  membranaceo  Cavense  :  di  questo  codice  ha  già  parlato  al 
libro  rv,  cap.  vi  :  «  Fra  gli  altri  monumenti  dell'antichità,  che  serba  l'archivio 
del  Monastero  della  Trinità  della  Cava  dell'ordine  di  S.  Benedetto,  il  qual 
dopo  quello  di  M.  Casino  è  il  più  antico  che  abbiamo  nel  Regno,  èwi  un  co- 
dice membranaceo  da  noi  con  propri  occhi  attentamente  osservato,  scritto  in 
lettere  longobarde,  dove  non  solamente  gli  editti  de*  re  longobardi . . .  ma  an- 
che degl'imperadori  franzesi  e  germani,  che  furono  re  d'Italia,  vi  sono  inseri- 
ti». A  proposito  di  questo  codice,  nell'edizione  dell'Istoria  civile  di  Donato 
Campo  (Napoli  1792- 1793)  posseduta  dalla  Biblioteca  Nazionale  di  Napoli 
(con  la  segnatura  nei  fondi  manoscritti  x.c.  1 13-1 14),  vi  è  una  nota  autografa 
di  Carlo  Troya  al  libro  v,  cap.  11,  par.  3,  a  margine  del  capoverso  «Astolfo  in- 


430  ISTORIA    CIVILE   DEL    REGNO   DI   NAPOLI 

donde  le  prese  il  compilatore  di  quel  volume.  Ivi  si  legge  il  suo 
primo  editto  che  e*  promulgò  nel  primo  anno  del  suo  regno,  con- 
tenente sei  capitoli,  fra'  quali  il  primo  ha  questo  titolo  :  de  successione 
filiarum.  Si  leggono  ancora  gli  altri  editti  che  e'  fece  ne*  seguenti 
anni;  poiché  nel  quinto  del  suo  regno  ne  promulgò  un  altro  che 
contiene  sette  altri  capitoli:  nell'ottavo,  dieci:  nel  decimo  anno, 
cinque:  nell'undecimo,  trentatré:  nel  decimo  terz'anno,  cinque:  nel 
decimoquarto,  quattordici:  nel  decimoquinto,  dodici:  nel  decimo- 
sesto, otto:  nel  decimosettimo,  tredici:  nel  decimonono,  tredici: 
nel  ventunesimo,  nove  :  nel  ventesimosecondo,  quattro  :  nel  vente- 
simoterzo, cinque:  ed  alcuni  altri  ne  promulgò  negli  anni  seguenti. 
Di  maniera  che  le  leggi  di  questo  principe,  siccome  vengono  regi- 
strate nello  stesso  codice  che  si  conserva  nell'Archivio  della  Cava, 
arrivano  al  numero  di  cento  cinquantadue,  alle  quali  nel  codi- 
ce suddetto  si  veggono  aggiunti  sette  altri  capitoli,  i  cui  titoli  o 
sommari  sono  :  I.  De  mercede  magistri.  il.  De  muro.  in.  De  annona. 
iv.  De  opera,  v.  De  caminata.  vi.  De  fumo.  vii.  De  puteo.1 

tanto  ...  »,  nella  quale  si  dimostra  come  il  Giannone  non  abbia  mai  visto  il 
codice,  ma  si  sia  servito  della  ristampa  veneziana  del  Sessa  del  1537.  Ne  tra- 
scrivo qui  il  testo  :  «  In  Lindebrogio  ed  in  tutte  le  edizioni  delle  leggi  longo- 
barde di  Herold,  Boherio,  Goldasto,  Muratori,  Georghis  [sic],  Canciani,  due 
sono,  e  non  sette,  le  leggi  di  Astolfo  sotto  il  titolo  qualiter  quis  se  defendere  de- 
beat per  guardiani.  Or  dunque  19  sono  le  leggi  qui  malamente  ricordate  da 
Giannone  come  leggi  inserite  nel  volume  della  Lombardia:  togliendone  cin- 
que restano  le  quattordici  che  appunto  abbiamo  in  essa  lombarda  di  Linde- 
brogio e  nella  muratoriana.  Senza  dubbio  Giannone  si  è  servito  di  una  qual- 
che edizione  delle  leggi  longobarde  stampate  in  qualche  corpus  iurisf  che  io 
non  ho  ancora  trovato,  e  nella  quale  per  errore  di  stampa  si  è  omesso  di  met- 
tere il  nome  di  Carlomagno,  in  una  legge  che  segue  alle  due  leggi  di  Astolfo  : 
e  si  è  detto  Item  e  poi  altre  sei  volte  Item.  Un  simile  errore  mi  rammento  esse- 
re corso  nella  edizione  del  Boerio  delle  leggi  longobarde,  Napoli,  28  Xbre 
183 1 .  -  Or  mi  ricordo  :  leggendo  in  Roma  all'Angelica  nel  7  gennaio  di  questo 
anno  la  rarissima  edizione  del  15 12  delle  leggi  longobarde  di  Boerio,  notai 
che  per  errore  certamente  di  stampa  la  legge  5 a  del  lib.  40  di  Liutprando  è  at- 
tribuita al  re  Rotari.  Napoli,  Regia  Biblioteca  degli  Studi,  16  gennaio  1832  ». 
In  seguito,  a  questa  nota  ne  aggiungeva  un'altra,  che  testualmente  dice: 
«Qual  piacere!  Oggi  si  sono  trovate  l'editio  princeps  del  15 12  di  Boerio  e  la 
stampa  veneta  del  Sessa  del  1537  col  commento  di  Carlo  di  Tocco  -  l'editio 
princeps  del  1512  ha  tre  leggi  sole  di  Astolfo  come  tutti  gli  altri;  ma  l'edizio- 
ne del  1537  sbaglia  ed  è  quella  confrontata  dal  Giannone,  attribuendo  alle 
leggi  di  Astolfo  altre  quattro  altre  leggi  che  sono  di  Carlo  Magno.  Ed  avendo 
riportate  queste  quattro  leggi  ho  veduto  che  sono  le  leggi  28,  38,  39,  66  d'es- 
so Carlo  Magno  in  Muratori,  Canciano,  Georghis  e  tutto.  Però  è  chiaro  che 
Giannone  non  istudiò  il  codice  cavense.  Così  son  sette  per  errore  di  stampa 
nell'edizione  veneta  del  1537  ».  1.  Cfr.  Leges  Longobardorum  cum  argutissi- 
mis  glosis  D.  Caroli  de  Tocco  sicculi  •  multis  marginalibus  postillis  decorate.  Una 


LIBRO   V  43I 

Di  queste  leggi,  solamente  137  furono  inserite  nel  volume  delle 
leggi  longobarde  dal  suo  compilatore.  Nel  primo  libro  se  ne  leg- 
gono 48  e  nel  secondo  89,  poiché  nel  terzo  non  ne  abbiamo.  La 
prima  che  si  legge  nel  primo  libro  è  sotto  il  tit.  de  illicito  Consilio: 
l'altra  sotto  il  tit.  8,  nove  altre  se  ne  leggono  sotto  il  tit.  de  homicidiù: 
un'altra  sotto  quello  de  parricidiis;  un'altra  sotto  il  titolo  decimo- 
quarto dell'istesso  libro:  quattro  sotto  quello  de  iniuriis  mulierum: 
tre  nel  titolo  decimosettimo:  una  sotto  il  tit.  de  sedutone  contro, 
iudicem:  altra  nel  titolo  decimonono:  un'altra  sotto  quello  de  pau- 
perie:  quattro  nel  titolo  vigesimoterzo  :  dodici  sotto  quello  defurtis, 
et  servisfugacibus:  una  sotto  il  tit.  de  invasionibus:  un'altra  sotto  il 
vigesimonono :  altra  sotto  il  tit.  de  raptu  mulierum:  un'altra  sotto 
quello  de  fornicatione:  tre  sotto  il  tit.  de  adulterio:  una  nel  titolo 
trigesimo  quarto  :  e  l'altra  sotto  quello  de  culpis  servorum,  ch'è  l'ul- 
tima del  primo  libro. 

Nel  secondo  ne  leggiamo  assai  più  insino  ad  ottantanove;  due 
sotto  il  titolo  secondo;  una  sotto  il  terzo:  tre  nel  quarto;  una  nel 
quinto:  altra  nel  sesto:  un'altra  nel  settimo:  otto  sotto  il  tit.  de 
prohibitis  nuptiis:  una  nel  nono:  un'altra  nel  decimo:  altra  nelTun- 
decimo:  tre  sotto  quello  de  coniugiis  servorum:  altra  sotto  il  titolo 
decimoterzo:  un'altra  sotto  quello  de  donationibus:  un'altra  sotto  il 
tit.  de  ultimis  voluntatibus:  tre  sotto  il  ventesimo:  sedici  nel  tit.  de 
debitis  et  guadimoniis:  una  sotto  quello  de  treugis:  due  sotto  il  ven- 
tesimo quinto  :  un'altra  sotto  il  ventesimo  sesto  :  altra  sotto  quello 
de  depositis:  altra  sotto  il  tit.  de  rebus  intertiatis:  sette  nel  tit.  de 
prohibita  alienatone:  due  sotto  il  trentesimo:  una  sotto  quello  de 
prohibita  alienatione  servorum:  quattro  sotto  il  tit.  de  praescrìptio- 
nibus:  due  sotto  quello  de  evictionibus:  quattro  sotto  l'altro  de  sanc- 
timonialibus:  due  nel  tit.  de  ariolis:  quattro  sotto  il  tit.  de  rever enfia 
Ecclesiae,  seu  immunitatibus  debita:  cinque  sotto  l'altro,  quaUter  iu- 
dices  iudicare  debeant:  una  sotto  il  tit.  de  consuetudine,  un'altra  sotto 
quello  de  testibus:  quattro  sotto  il  tit.  qualiter  quis  se  defen.  deb.  ed 
una  in  quello  de  periuriis,  ch'è  il  penultimo  titolo  del  libro  secondo. 

Nel  terzo  leggi  di  Luitprando  non  abbiamo,  come  quello  che 
per  lo  più  fu  composto  dalle  leggi  di  quegPimperadori  che  l'Italia, 

cum  capitulari  gloriosissimi  Caroli  Magni .  .  .  Addita  fuere  insuper  in  easdem 
leges  luculentissima  commentaria . . .  domini  Andree  de  Bando.  Necnon  annota- 
tiones  clarissimi  iuris  utriusque  interpretis  Nicolai  Boctii  — ,  Venetiis,  impen- 
siis  Melchiorris  Sessa,  1537.  La  minuta  descrizione  che  segue  corrisponde 
a  questa  edizione  veneziana. 


432  ISTORIA   CIVILE   DEL   REGNO   DI   NAPOLI 

come  successori  de'  re  de'  Longobardi,  signoreggiarono,  dopo  aver- 
gli da  questa  provincia  discacciati:  tutto  che  alcune  pochissime 
leggi  di  Rotari,  di  Rachi  e  di  Astolfo  pure  i  compilatori  v'inserisse- 
ro. Alcune  altre  leggi  di  questo  re  possono  vedersi  appresso  Mar- 
colf  oa  e  Goldasto.1 

Ma  la  saviezza  che  mostrò  questo  principe  in  comporre  il  suo 
regno  con  sì  provide  leggi,  e  tutti  gli  altri  suoi  pregi,  fur  non  poco 
oscurati  dalla  soverchia  ambizione  di  dominare  e  dal  desiderio 
estremo  di  stendere  i  confini  del  suo  regno  oltre  a  quello  che  i  suoi 
predecessori  gli  avean  lasciato,  la  quale  portò  egli  tanto  avanti  che 
finalmente  cagionò  ne'  suoi  successori  la  mina  dell'imperio  de* 
Longobardi  in  Italia;  poiché  non  contento  di  aver  ritolto  al  ponte- 
fice romano  il  patrimonio  delle  Alpi  Cozie,3  che  poco  innanzi  il  re 
Ariperto  avea  confermato  alla  Chiesa  romana,  invase  anche  il  pa- 
trimonio sabinense;3  e  tutto  intento  ad  approfittarsi  e  ad  investigar 
qualunque  opportunità  d'ampliare  il  suo  dominio,  secondando  gli 
avidi  consigli  con  una  presta  e  destrissima  esecuzione,  gli  venne 
fatto  d'allargare  grandemente  il  suo  regno  sopra  le  rovine  de'  Gre- 
ci.4 Tanto  che  la  sua  potenza  rendutasi  ormai  sospetta  a'  pontefici 
romani,  finalmente  veggendo  costoro  depressa  e  poco  men  che 
estinta  in  Italia  l'autorità  degl'imperadori  d'Oriente,  e  non  fidan- 
dosi più  de'  Greci,  ch'erano  divenuti  loro  capitalissimi  nemici, 
pensarono  nella  maniera  che  ora  diremo  di  ricorrere  alle  forze  stra- 
niere per  abbassare  imperio  sì  grande. 

IV.  Origine  del  dominio  temporale  de7  romani  pontefici  in  Italia. 

Trovavasi  veramente  Gregorio  in  angustie  grandi,  perché  se 
bene  Luitprando  co'  Longobardi  mostravano  di  difenderlo  contra 
gli  sforzi  di  Lione,  conosceva  però  assai  bene  che  questo  zelo  lo 

a)  Marcul.,  tit.  55,  §  4.s  Goldast,  tom. . . . 

1.  Di  Melchior  Goldast  si  veda  la  Collectio  constitutionum  imperialium  cit. 

2.  Ma  la  saviezza  .  .  .  Cozie:  il  discorso  che  qui  fa  il  Giannone  è  copiato 
dal  terzo  libro  delle  Historiae  de  regno  Italiae  del  Sigonio,  ad  annum  716. 

3.  patrimonio  sabinense:  cfr.  C.  Sigonio  cit.,  ad  annum  713.  4.  e  tutto  in- 
tento .  .  .  Greci:  cfr.  Paolo  Diacono,  lib.  vi,  capp.  49  e  56,  in  Grozio,  op.  cit., 
pp.  923-4  e  928-9.  5.  Marcolfo  fu  un  monaco  francese  vissuto  probabil- 
mente nel  VII  secolo,  e  autore  di  una  raccolta  di  formulari,  divisa  in  due 
libri:  causae  regales  (cioè  atti  pubblici)  e  causae  pagenses  (atti  privati), 
pubblicata  per  la  prima  volta  con  il  titolo  Formularum  libri  duo,  Lutetiae 
Parisiorum  16 13,  da  Jerome  Bignon. 


libro  v  433 

dimostravano  non  tanto  per  di  lui  servigio  e  conservazione,  quanto 
per  approfittarsi  sopra  l'altrui  discordie;  per  la  qual  cagione  non 
aveva  in  che  molto  fidarsi  di  loro,  come  l'evento  il  dimostrò.  Quindi 
i  Romani  abbominando  dall'un  canto  l'empietà  di  Lione,  alla  quale 
voleva  tirargli  per  quel  suo  editto,1  e  dall'altro  essendo  loro  sospet- 
ta l'ambizione  di  Luitprando,  che  non  cercava  altro  in  questi  tor- 
bidi che  d'impadronirsi  del  ducato  Romano,  si  risolsero  finalmente, 
scosso  il  giogo  di  Lione,  mantenersi  uniti  sotto  l'ubbidienza  del 
papa,  al  quale  giurarono  di  volerlo  difendere  contra  gli  sforzi  e  di 
Lione  e  di  Luitprando.  Questo  fu  l'origine  e  questi  furono  i  primi 
fondamenti  che  si  buttarono,  sopra  de'  quali  col  correr  degli  anni 
venne  a  stabilirsi  il  dominio  temporale  de'  pontefici  romani  in 
Italia.  Cominciò  il  lor  dominio  da  questo  interregno  che  fecero  i 
Romani,  i  quali,  liberatisi  da  Lione,  eran  tutti  uniti  sotto  il  papa 
lor  capo,  ma  non  già  ancora  lor  principe.2 

Ma  non  perché  tanta  avversità  a'  suoi  disegni  scorgesse  Eutichio, 
si  perde  d'animo  a  proseguire  il  suo  disegno;  imperocché  rifatta 
come  potè  meglio  la  sua  armata,  si  portò  in  Ravenna,  e  durando 
ancora  le  fazioni  in  quella  città,  gli  fu  facile,  veggendosi  i  suoi 
partiggiani  soccorsi  con  sì  valide  forze,  ricuperarla  e  ridurre  i  Ra- 
vignani  nella  fede  del  suo  principe.  Questi  ponderando  che  tutta 
l'Italia  era  per  lui  perduta,  e  che  non  potrebbe  mai  opprimere  il 
papa  e  l'ostinazione  de'  Romani,  sempre  che  Luitprando  era  per 
soccorrergli,  impiegò  tutta  la  sua  destrezza  e  politica  per  distaccar 
questo  principe  dagl'interessi  del  pontefice  e  de'  Romani  ed  obbli- 
garlo ne'  suoi.  Erasi  in  questo  incontro  ribellato  a  Luitprando  Tra- 
simondo  duca  di  Spoleto,  e  trovandosi  Luitprando  impiegato  a 
reprimer  la  costui  fellonia,  ardeva  di  desiderio  di  farne  aspra  e 
presta  vendetta.  Si  era  ancora  il  re  accorto,  per  la  resoluzione  ferma 
de'  Romani  di  darsi  al  papa,  che  niente  potrebbero  giovargli  con 
essi  le  arti  e  le  lusinghe  per  tirargli  alla  sua  ubbidienza,  ma  che 
restava  la  sola  forza  per  far  questo  colpo.  Per  questi  rispetti  offe- 
rendogli l'esarca  il  suo  esercito  per  reprimere  prima  la  fellonia  di 
Trasimondo,  come  che  non  per  altri  fini  s'era  intrigato  in  questa 


i.  per  quel  suo  editto :  furono  due  gli  editti  iconoclasti  di  Leone  III,  un  pri- 
mo nel  726,  e  l'altro  nel  730.  Giannone  ne  ha  parlato  nel  secondo  paragrafo, 
qui  non  riprodotto,  di  questo  stesso  capitolo.  2.  Il  discorso  giannoniano 
è  qui  e  in  seguito  sorretto  dalla  narrazione  di  C.  Sigonio,  Historiae  cit.,  ad 
annos  727-730. 


434  ISTORIA    CIVILE    DEL    REGNO    DI    NAPOLI 

guerra,  che  per  approfittar  delle  occasioni  ch'ella  gli  avrebbe  som- 
ministrate di  tirar  grandi  vantaggi  o  dall'una  o  dall'altra  parte:  non 
ebbe  Eutichio  a  durar  molta  fatica  per  tirarlo  ne'  suoi  disegni; 
per  questo  dimenticatosi  dell'obbligo  ch'egli  aveva  co'  Romani,  e 
della  parola  da  lui  data  di  difendere  il  papa  e  la  religione  contra 
gl'insulti  dell'imperadore,  accettò  queste  offerte  e  conchiuse  con 
Eutichio  il  trattato,  il  quale  infatti  congiunse  tosto  la  sua  armata  a 
quella  del  re  e  seguitollo  alla  guerra  ch'egli  andò  a  portare  contra 
il  duca  di  Spoleti  suo  ribelle;  la  quale  non  durò  troppo,  poiché 
Trasimondo  restò  così  sorpreso  di  questa  colleganza,  la  quale  non 
aspettava  punto,  che  subito  che  Luitprando  fu  arrivato  innanzi 
Spoleti  venne  a  gittarsi  a'  di  lui  piedi  chiedendogli  perdono,  e  l'ot- 
tenne: fu  medesimamente  ristabilito  nel  suo  ducato,  facendo  di 
nuovo  al  re  il  giuramento,  e  dandogli  ostaggi  della  sua  fedeltà.1 
Mancata  così  tosto  l'occasione  d'impiegar  le  armi  contra  ribelli, 
in  adempimento  del  trattato  con  Eutichio  furon  quelle  voltate  contra 
i  Romani,  e  venne  Luitprando  con  le  due  armate  a  presentarsi 
sotto  Roma,  accampandosi  nelle  praterie  di  Nerone,  che  sono  tra 
'1  Tebro  e  la  chiesa  di  S.  Pietro,  dirimpetto  al  Castel  S.  Angelo. 
Presentendo  Gregorio  l'apparecchi  di  Luitprando,  aveva  fatto  mu- 
nire come  potè  il  meglio  la  città  di  Roma;  ma  scorgendo  che  mal 
colla  forza  poteva  resistere  a  tanto  apparato  di  guerra,  avendo  in- 
nanzi agli  occhi  l'esempio  del  duca  di  Spoleti,  che  colle  preghiere 
ottenne  dalla  pietà  di  Luitprando  quel  che  non  avrebbe  potuto 
sperar  colle  armi,  volle  imitarlo,  e  senza  consultar  la  prudenza 
umana,  la  quale  non  poteva  mai  persuadere  ch'egli  fosse  andato  a 
mettersi  nelle  mani  de'  suoi  nemici,  senza  grandi  precauzioni  e 
senza  aver  ben  prima  prese  le  sue  misure,  accompagnato  dal  clero 
e  da  alcuni  baroni  romani  andò  egli  stesso  a  trovare  il  re.  Sorpreso 
Luitprando  da  quest'atto  non  preveduto,  non  potè  resistere  agl'im- 
pulsi della  cortesia,  che  gli  erano  molto  naturali,  e  di  riceverlo  con 
tutto  il  rispetto  dovuto  alla  santità  della  vita  ed  all'augusto  carat- 
tere del  sovrano  pontificato.  Allora  fu  che  Gregorio  pigliando  quel- 
l'aria di  maestà,  che  la  sola  virtù  suprema  accompagnata  da  una  sì 
alta  dignità  può  ispirare,  cominciò  con  tutta  la  forza  immaginabile 
temperata  con  una  grave  benignità  a  spander  fiumi  d'eloquenza, 


i.  Per  la  stretta  dipendenza  di  Giannone  dal  Sigonio,  cfr.  la  p.  65  dell'edi- 
zione citata  delle  sue  Historiae. 


libro  v  435 

rimproverandogli  la  fede  promessa:  il  torto  che  faceva  alla  religio- 
ne, della  quale  era  tanto  zelante,  e  ponendogli  avanti  gli  occhi  i 
danni  gravissimi  che  poteva  apportare  al  suo  regno,  se  mancasse 
di  protegger  la  Chiesa,  lo  scongiurava  a  desistere  dall'impresa,  al- 
trove le  sue  armi  rivolgendo.  Luitprando  o  tocco  internamente  da' 
stimoli  di  religione,  o  che  vedesse  in  quell'istante  molte  cose  ch'egli 
non  aveva  considerate  nell'ardore  della  sua  passione,  o  perché  sic- 
come gli  uomini  non  sanno  essere  in  tutto  buoni,  nemmeno  sanno 
essere  in  tutto  cattivi,1  rimase  così  tocco  di  queste  dimostrarle  di 
Gregorio  che  senza  pensare,  né  a  giustificar  la  sua  condotta,  né  a 
cercare  scusa  per  metter  in  qualche  modo  a  coperto  l'onor  suo, 
gettossi  alla  presenza  di  tutti  a'  di  lui  piedi,  e  confessando  il  suo 
errore  protestò  di  voler  ripararlo  allora  e  di  non  mai  soffrire  per 
l'avvenire  che  si  facesse  alcun  torto  a'  Romani,  né  che  si  violasse 
nella  di  lui  persona  la  maestà  della  Chiesa  di  cui  era  egli  padre  e 
capo.  Ed  istando  l'esarca  che  s'adempiessero  gli  ordini  dell'impe- 
radore,a  non  solo  non  vi  diede  orecchio,  ma  per  dare  al  papa  un 
più  sicuro  pegno  della  sua  parola  pregollo  che  andassero  insieme 
nella  basilica  di  S.  Pietro,  la  qual'era  ancora  in  quel  tempo  fuori 
delle  mura  della  città,  e  quivi  in  presenza  di  tutti  i  capi  della  sua 
armata,  che  l'avevano  seguitato,  fattosi  disarmare,  pose  sopra  il 
sepolcro  dell'Appostolo  le  sue  armi,  la  cinta  e  la  spada,  il  bracciale, 
l'ammanto  regale,  la  sua  corona  d'oro  ed  una  croce  d'argento: 
supplicò  dapoi  il  papa  che  ricevesse  nella  sua  grazia  l'esarca  Euti- 
chio,  di  cui  non  potevasi  più  temere,  quando  non  avesse  l'aiuto 
de'  Longobardi.  Gregorio  sperando  sempre  che  Lione  avrebbe  un 
dì  riconosciuti  i  suoi  errori,  acconsentì  a  questa  dimanda:  dimodo- 
ché ritiratosi  Luitprando  coli' esercito  ne'  suoi  stati,  l'esarca  fu  ri- 
cevuto in  Roma,  e  trattennevisi  qualche  tempo  molto  quieto  in 
buona  intelligenza  col  papa;  in  guisa  che  essendo  succeduto  me- 
desimamente in  questi  tempi  che  un  impostore,  il  quale  facevasi 
chiamar  Tiberio,  e  che  vantavasi  della  stirpe  degl'imperadori,  aveva 
sedutti  alcuni  popoli  della  Toscana,  che  lo  proclamarono  Augusto,b 


a)  Sigon.,  ad  a.  729.     b)  Anast.  Bibliot.,  in  Greg.  IL2 


1.  gli  uomini  .  . .  cattivi:  è  il  celeberrimo  commento  del  Machiavelli  a  pro- 
posito di  Giampaolo  Baglioni,  in  Discorsi,  1,  xxvn.  2.  Di  Anastasio  Biblio- 
tecario (815  circa-  878  circa),  antipapa,  lino  dei  personaggi  più  colti  del 
suo  tempo,  vedi  l'edizione  Étstoria  de  vitis  romanorum  pontificum  a  B. 


436  ISTORIA   CIVILE  DEL   REGNO   DI   NAPOLI 

Gregorio,  che  non  trascurava  occasione  d'obbligarsi  Lione,  veg- 
gendo  che  l'esarca  n'era  entrato  in  pensiero  per  non  aver  forze 
bastanti  ad  opprimerlo,  si  maneggiò  tanto  appresso  i  Romani  che 
l'accompagnarono  in  questa  guerra  contra  il  tiranno,  il  quale  fu 
assediato  e  preso  in  un  castello:  donde  fu  mandata  la  di  lui  testa 
all'imperadore. 

Ma  Lione  indurato  sempre  più  portò  la  sua  passione  fino  all'ul- 
time estremità,  perché  in  Oriente,  ove  era  più  assoluto  il  suo  impe- 
rio, e  che  non  aveva  chi  se  gli  opponesse,  riempie  di  stragi,  di  la- 
grime e  di  sangue  il  tutto:  fece  cancellar  quante  pitture  erano  in 
tutte  le  chiese  :  indi  fece  pubblicar  un  ordine,  col  quale  s'incaricava 
a  tutti  gli  abitanti,  principalmente  a  quelli  che  avevan  cura  delle 
chiese,  di  riporre  nelle  mani  de'  suoi  ufficiali  tutte  le  immagini, 
acciocché  in  un  momento  potesse  purgar  la  città,  facendole  bruciare 
tutte  insieme.  Ma  l'esecuzione  riuscendo  strepitosa,  non  perdo- 
nandosi né  a  sesso  né  ad  età,  fu  questa  finalmente  la  cagione  che 
senza  speranza  di  riacquistarlo  fece  perdere  a  Lione  ed  a'  suoi 
successori  ciò  che  restava  loro  in  Occidente.  Imperocché  il  papa, 
disperando  all'intuito  la  riduzione  di  questo  principe,  e  temendo 
che  un  giorno  non  si  facesse  nelle  provincie  d'Occidente  ciò  che 
egli  vedeva  con  estremo  dolore  essersi  fatto  in  quelle  d'Oriente, 
rallentò  quel  freno  che  e'  per  lo  passato  avea  tenuto  forte  a  non 
permettere  che  i  Romani  scotessero  affatto  il  giogo  del  lor  principe, 
ma  lasciando  al  loro  arbitrio  di  far  ciò  che  volessero,  approvò  fi- 
nalmente quello  che  egli  infino  allora  erasi  sempre  studiato  impe- 
dire e  ciò  che  Ì  popoli  aveano  già  cominciato  a  fare  da  loro  stessi; 
onde  i  Romani,  tolta  ogni  ubbidienza  a  Lione,  si  sottrassero  affatto 
dal  suo  dominio,  impedendo  che  più  se  gli  pagassero  i  tributi,  e 
s'unirono  insieme  sotto  l'ubbidienza  di  Gregorio  come  lor  capo, 
non  già  come  lor  principe. 

Alcuni  nostri  scrittori,1  per  l'autorità  di  Teofane,  Cedreno,  Zo- 

Petro  apostolo  usque  ad  Nìcolaum  I  nunguam  hactenus  typis  excusa,  Mogun- 
tiae  1602,  p.  100;  la  copia  del  citato  Fondo  Vallettiano  (vii.  4.  31)  con- 
tiene in  margine  numerose  note  autografe  del  Giannone;  ma  vedi  anche 
C.  Sigonio,  Historiae  cit.,  ad  annum  729 .  1 .  Alcuni  nostri  scrittori  :  lo  stesso 
Sigonio,  Historiae  cit.,  ad  annum  725,  Roberto  Bellarmino  nel  capitolo  vili 
del  suo  Tractatus  depotestate  summi  pontificis  in  rebus  temporalibus,  adversus 
Gulielmum  Barclaium,  Coloniae  Agrippinae  161 1  (ma  si  veda  anche  di  lui 
il  De  translatione  Imperii  romani  a  Oraecis  ad  Francos,  adversus  Matthiam 
Flaccium  Illyricum,  Antverpiae  1589),  e  infine  il  Baronio,  Annales  ecclesia- 
siici  cit.,  ix,  1600,  ad  annum  730,  pp.  97  sgg. 


libro  v  437 

nara  e  di  Niceforo1  autori  greci,  e  che  fiorirono  molto  tempo  dopo 
Gregorio,  Paolo  Warnefrido  ed  Anastasio  Bibliotecario,  rappor- 
tano che  i  Romani,  scosso  il  giogo,  elessero  Gregorio  per  lor  prin- 
cipe, dandogli  il  giuramento  di  fedeltà;  e  che  il  papa,  accettato  il 
principato  di  Roma  ordinasse  a'  Romani  ed  a  tutto  il  resto  d'Italia 
che  non  pagassero  più  tributo  alPimperadore  e  che  di  più  assolvesse 
dal  giuramento  i  vassalli  dell'Imperio  :  scomunicasse  con  pubblica 
e  solenne  celebrità  l'imperador  Lione:  lo  privasse  non  pur  de'  do- 
mìni che  egli  avea  in  Italia,  ma  anche  di  tutto  l'Imperio:  e  che 
quindi  fosse  surto  il  dominio  independente  del  papa  sopra  di 
Roma  e  del  suo  ducato  :  che  poi  per  la  munificenza  di  Pipino  e  di 
Carlo  M.  si  stese  sopra  l'esarcato  di  Ravenna,  di  Pentapoli  e  di 
molte  altre  città  d'Italia. 

Gli  scrittori  franzesi,  fra'  quali  l'arcivescovo  di  Parigi  P.  di  Mar- 
ca,* e  que'  due  celebri  teologi  Natale3  e  Dupino,b  niegano  che  Gre- 
gorio, savio  e  prudente  pontefice,  avesse  dato  in  tali  eccessi:  le 
epistole  di  questo  stesso  pontefice,0  Warnefrido,  Anastasio  Biblio- 
tecario, Damasceno,  l'epistole  ancora  di  Gregorio  III  e  di  Carlo  M. 
a  Costantino  ed  Irene,  convincono  per  favolosi  questi  racconti; 
per  la  testimonianza  de'  quali  tanto  è  lontano  che  Gregorio  avesse 

a)  P.  de  Marca,  De  concord.  Sacerd.  et  Imp.,  lib.  3,  cap.  11,  num.  2.3 
b)  Dup.,  De  antiq.  Eccl.  disc,  diss.  7.4  e)  Greg.  II,  in  Ep.  1  ad 
Leonem.5 

1.  Teofane  nacque  sotto  il  regno  di  Costantino  Copronimo  (741-775)  e 
morì  nell'817  ;  la  sua  Chronographia  fu  edita  nel  Corpus  bìzantinae  historiae, 
vii,  Parisiis  1655;  Giorgio  Cedreno  è  autore  di  una  storia  universale  che 
giunge  sino  all'impero  di  Isacco  Comneno  (1057)  e  basata  in  gran  parte  su 
Teofane  e  altri  cronografi  bizantini;  edita  nel  1566  dallo  Xylander,  fu  poi 
ripresa  da  Carlo  Annibale  Fabrotus  per  il  Corpus  bìzantinae  historiae  (1647); 
per  Giovanni  Zonara  cfr.  la  nota  2  a  p.  31.  La  sua  Epitome  venne  tradotta 
in  latino  da  Girolamo  Wolff  nel  1557  e  successivamente  in  italiano  dal 
Fiorentino  (1560)  e  da  Ludovico  Dolce  (1564);  fu  anch'essa  inserita  nel 
citato  Corpus  con  a  fronte  la  traduzione  del  Wolff;  Niceforo  Grègoras  visse 
tra  il  1269  e  il  1360;  autore  di  una  Storia  bizantina,  fu  edito  anch'esso  dal 
Wolff  nel  1562  e  ripreso  nel  Corpus  del  Fabrotus.  2.  Natale:  si  tratta  di 
Noél  Alexandre  (cfr.  la  nota  1  a  p.  104),  Historia  ecclesiastica  Veteris  No- 
vique  Testamenti,  ab  orbe  condito  ad  armum  post  Christum  natura  millesimum 
sexcentesimum  . . .,  Parisiis  1714,  v,  pp.  733  sgg.  3.  Pierre  de  Marca  (1594- 
1662),  De  concordia  Sacerdotii  et  Imperii,  seu  de  libertatibus  Ecclesiae  galli- 
canae  libri  odo,  Parisiis  1704,  col.  280.  4.  Per  Louis  Ellies  DuPin  e  l'opera 
qui  citata  vedi  la  nota  5  a  pp.  204-5.  Il  riferimento  nell'edizione  ivi  cit., 
pp.  508  sgg.  5.  La  fonte  già  nel  Du  Pin  cit.  ;  ma  si  veda  anche  la  discus- 
sione fattane  contro  il  Baronio  dal  Pagi,  ad  annum  730. 


438  ISTORIA    CIVILE   DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

scomunicato  Lione,  accettato  il  principato  di  Roma,  sciolti  i  vas- 
salli dell'Imperio  dal  giuramento  e  da'  tributi  e  deposto  l'impera- 
dore:  che  anzi  ci  accertano  che  Gregorio,  ancorché  in  mille  guise 
offeso,  fosse  stato  sempre  a  Lione  ufficioso  e  riverente,  ed  avesse  in 
tutte  le  occasioni  impedite  le  rivolte  de'  popoli  e  proccurato  che  non 
si  sollevassero  contro  al  lor  principe.  Si  oppose  egli  è  vero  agli  editti 
di  Lione  per  l'abolizione  delle  immagini,  comandando  che  non 
s'ubbidissero,  ed  esortando  quel  principe  che  lasciasse  il  disegno 
in  cui  era  entrato;  ma  appresso  sì  gravi  autori  non  si  legge  che  lo 
scomunicasse.  Il  primo  pontefice  romano  che  si  die  vanto  di  aver 
adoperati  i  suoi  fulmini  sopra  le  teste  imperiali,  fu  il  famoso  Ilde- 
prando  Gregorio  VII,  come  noteremo  a  suo  luogo,  non  già  Gre- 
gorio II.  Ciò  che  più  chiaro  si  manifesta  per  quello  che  scrive 
Anastasio, a  narrando  che  avendo  Lione  deposto  dal  patriarcato  di 
Costantinopoli  Germano,  per  non  aver  voluto  acconsentire  al- 
l'editto, e  sustituito  Anastasio  Iconoclasta,  dice  egli  che  Gregorio 
scomunicò  bene  sì  Anastasio  perseverando  nell'errore,  ma  che  al- 
l'imperadore  solo  sgridava  con  lettere,  ammoniva,  esortava  che 
desistesse  dall'impresa,  non  già  che  lo  scomunicasse,  come  scrisse 
di  Anastasio.  Più  favolosa  è  la  deposizione  che  si  narra  fatta  da 
Gregorio;  poiché  questo  pontefice  riconobbe  Lione  per  imperadore 
finché  visse;  e  lo  stesso  fece  il  suo  successore  Gregorio  III  il  quale 
comunicò  col  medesimo,  e  di  lui  si  leggono  molte  lettere  dirizzate 
all'imperadore  piene  di  molta  umanità  e  riverenza.  Anzi  tanto  è 
vero  che  lo  riconobbe  sempre  per  tale,  che  le  date  delle  sue  lettere 
portano  gli  anni  del  suo  imperio,  come  è  quella  di  Gregorio  diriz- 
zata a  Bonifacio,  Imperante  domino  piissimo  Augusto  Leone,  imperii 
eius  XXIILh 

I  nostri  moderni  scrittori  latini,  tratti  dall'autorità  di  que'  greci, 
riceverono  come  vere  le  loro  favole;  ma  non  avvertirono  che  dovea 
preponderare  assai  più  l'autorità  de'  nostri  antichi  latini  scrittori, 
che  fiorirono  prima  e  che  narravano  cose  accadute  in  tempo  ed  in 
parte  da  loro  non  cotanto  rimota  e  lontana.  Non  avvertirono  ancora 


a)  Anast.  Bibliotec,  ad  a.  658.1     b)  Greg.  Ili,  Ep.  3  ad  Bonifac. 
P.  de  Marca,  De  conc.  Sac.  et  Imp.,  lib.  3,  cap.  n,  num.  5.* 

1.  Historia  de  vitis  romanorum  pontificum  cit.,  p.  99.  2.  P.  de  Marca, 
De  concordia,  ed.  cit.,  col.  281,  dove  è  anche  il  riferimento  all'epistola  di 
Gregorio  III. 


libro  v  439 

che  i  Greci  di  quegli  ultimi  tempi,  oltre  al  carattere  della  loro  na- 
zione, che  gli  ha  sempre  palesati  al  mondo  mendaci  e  favolosi, 
erano  tutti  avversi  alla  Chiesa  romana,  e  per  commover  gli  animi 
di  tutti  ad  odio,  e  per  recar  invidia  a'  pontefici  romani,  gli  rappre- 
sentarono al  mondo  per  autori  di  novità  e  di  rivoluzioni,  imputando 
ad  essi  la  mina  dell'Imperio  d'Occidente,  accagionandogli  di  no- 
vatori, ambiziosi,  usurpatori  dell'autorità  temporale  de'  principi  :  e 
che  mal  imitando  il  nostro  capo  e  maestro  Giesù,  fossero  divenuti 
da  sacerdoti  principi. 

Le  favole  di  questi  Greci  scismatici  furono  poi  con  avidità  e  con 
applauso  ricevute  da'  moderni  novatori  e  da'  più  rabbiosi  eretici 
degli  ultimi  nostri  tempi.  Essi  ancora,  per  l'autorità  di  costoro, 
vogliono  in  tutti  i  modi  che  veramente  Gregorio  scomunicasse 
Lione,  che  assolvesse  i  vassalli  dell'Imperio  dal  giuramento,  che 
deponesse  l'imperadore,  ordinasse  che  non  se  gli  pagassero  i  tri- 
buti, e  che  da'  Romani  ribellanti  essendogli  offerta  la  signoria  di 
Roma,  avesse  accettato  d'esserne  signore,  onde  ne  divenisse  prin- 
cipe. Spanemio,a  fra  gli  altri,  si  scaglia  contra  gli  scrittori  franzesi 
che  hanno  per  favolosi  nella  persona  di  Gregorio  questi  racconti: 
dice  che  essi,  scrivendo  sotto  il  regno  di  Lodovico  il  Grande,  han 
voluto  negar  questi  fatti,  «ne  sub  Ludovico  M.  in  romano  ponti- 
fice  huiusmodi  potestatem  agnoscere  viderentur»:1  ma  essi  intanto 
vogliono  che  fossero  veri  per  farne  un  tal  paragone  tra  Cristo  S.  N. 
ed  il  P.  romano.  Cristo,  volendo  quella  innumerabile  turba,  tratta 
da'  suoi  miracoli,  farlo  re,  tosto  fuggì,  e  loro  rispose  che  il  suo  regno 
non  era  di  questo  mondo:  il  papa,  avendo  i  ribellanti  Romani 
scosso  il  giogo  di  Lione  ed  offerto  il  principato  a  Gregorio,  tosto 
acconsenti  e  ne  divenne  principe.  Cristo  espressamente  comandò 
che  si  pagasse  il  tributo  a  Cesare:  il  papa  ordinò  che  non  si  pagasse- 
ro più  i  tributi  a  Lione;  per  queste  e  simili  antìtesi^  per  queste  vie, 

a)  Spanem.  contra  Maimburg.,  in  Histor.  imag.,  pag.  52.* 


i.  &ne  sub  Ludovico  .  .  .  viderentur»:  «perché  non  sembrassero  riconoscere 
un  simile  potere  nel  romano  pontefice  sotto  Luigi  il  Grande  ».  2.  Cfr. 
Louis  Maimbourg  (1610-1686),  Histoire  de  Vhérésie  des  iconoclastes  et  de  la 
translation  de  l'Empire  aux  Francois,  Paris  1686,  e  la  risposta  ad  essa  di 
Ezechiel  Spanheim  (1629-1710),  in  Opera,  ir,  Lugduni  Batavorum  1703: 
Liber  VI  continens  restitutam  historiam  imaginum,  praecipue  a  Lionis  Isauri 
sec.  Vili  et  deinceps,  contra  Histor.  iconoclastarum  Lud.  Maimburgii  et  NaU 
Alexandrum,  pp.  707  sgg. 


44©  ISTORIA   CIVILE   DEL    REGNO    DI   NAPOLI 

non  tenendo  né  modo,  né  misura,  han  prorotto  poi  in  quella  be- 
stemmia di  aver  il  papa  per  Anticristo. 

Or  chi  crederebbe  che  i  più  parziali  de'  Greci  scismatici,  ed  i 
maggiori  sostenitori  di  questi  rabbiosi  eretici,  sieno  ora  i  moderni 
Romani  e  gli  scrittori  più  addetti  a  quella  corte  ?  Questi,  ancorché 
ad  altro  fine,  pur  vogliono  che  Gregorio  avesse  scomunicato  Lione, 
avesselo  deposto,  comandando  che  non  se  gli  pagasse  il  tributo,  e 
quel  che  è  più,  che  offerendosegli  il  principato  da'  ribellanti  Ro- 
mani l'avesse  accettato;  onde  surse  il  dominio  temporale  de'  ro- 
mani pontefici  in  Italia.  Ecco,  per  tacer  degli  altri,  come  ne  scrive 
il  nostro  istorico  giesuita  autor  della  nuova  Istoria  Napoletana:3 
«Tum  tandem  Romani  orientalis  Imperii  iugum  excusserunt, 
Gregorium  dominum  salutarunt,  eique  sacramentum  dixerunt  etc. 
Gregorius  oblatum  ultro  principatum  suscepit:  quem  non  arma, 
non  humanae  vires  artesque,  sed  populorum  studia  anno  727 
auspicato  contulerunt».1  Questo  principio  appunto  vorrebbero  gli 
eretici  dare  al  dominio  temporale  de'  papi,  fondarlo  su  la  fellonia 
de*  Romani,  e  che  Gregorio  mal  imitando  Cristo  N.  S.  avesse  ac- 
cettato il  principato,  ed  il  Servo  de'  servi  fosse  divenuto  Signore. 
Ma  per  quel  che  diremo  più  innanzi,  si  conoscerà  chiaramente  che 
se  bene  da  questi  deboli  princìpi  si  cominciasse,  non  fu  però  che  il 
papa  acquistasse  allora  la  signoria  di  Roma,  ma  ben  molti  anni  in 
appresso;  né  con  tutto  l'interregno  che  far  pretesero  i  Romani  di 
loro  propria  autorità,  mancarono  affatto  gli  ufficiali  dell'imperador 
greco  in  Roma;  e  possiamo  con  verità  dire  che  i  primi  acquisti 
furono  nell'esarcato  di  Ravenna,  in  Pentapoli,  e  poi  nel  ducato 
Romano,  per  quelle  occasioni  che  saremo  or  ora  a  narrare,  non  già 
nella  città  di  Roma. 


a)  Giannettas.,  Htst.  Neap.,  lib.  5,  pag.  94/ 


1.  «Tum  tandem  —  contulerunt»-.  «Allora  finalmente  i  Romani  scossero  il 
giogo  dell'Impero  d'Oriente,  acclamarono  Gregorio  loro  signore  e  gli  fe- 
cero giuramento  ecc.  Gregorio  accettò  il  principato  spontaneamente  offerto  : 
glielo  conferirono  non  le  armi,  non  la  forza  o  l'astuzia,  ma  il  favore  popola- 
re, dopo  aver  preso  gli  auspici,  nell'anno  727  ».  2.  Nicolò  Partenio  Gian- 
nettasio  (1648-1715),  gesuita,  Historia  neapolitana,  Neapoli  1713,  in  tre 
tomi. 


LIBRO    V   •    CAP.  V  441 

CAP.   V 

LEGGI  DE»  LONGOBARDI   RITENUTE  IN  ITALIA, 

ANCORCHÉ  DA   QUELLA  NE  FOSSERO   STATI   SCACCIATI: 

LORO   GIUSTIZIA  E   SAVIEZZA 

Le  leggi  de'  Longobardi,  se  vorranno  conferirsi1  colle  leggi  ro- 
mane, il  paragone  certamente  sarà  indegno,  ma  se  vorremo  pareg- 
giarle con  quelle  dell'altre  nazioni  che  dopo  lo  scadimento  dell'Im- 
perio signoreggiarono  in  Europa,  sopra  l'altre  tutte  si  renderanno 
ragguardevoli,  così  se  si  considera  la  prudenza  e  i  modi  che  usavano 
in  istabilirle,  come  la  loro  utilità  e  giustizia,  e  finalmente  il  giudicio 
de'  più  gravi  e  saggi  scrittori  che  le  commendarono.  Il  modo  che 
tennero,  e  la  somma  prudenza  e  maturità  che  praticarono  i  re 
quando  volevan  stabilirle,  merita  ogni  lode  e  commendazione.  Essi, 
come  s'è  veduto,  convocavano  prima  in  Pavia  gli  ordini  del  Regno, 
cioè  i  nobili  e'  magistrati,  poiché  l'ordine  ecclesiastico  non  era  da 
essi  conosciuto,  né  avea  luogo  nelle  pubbliche  deliberazioni,  e  né 
meno  la  plebe,  la  quale,  come  disse  Cesare  parlando  de'  Galli, 
«nulli  adhibebatur  Consilio»:2  si  esaminava  quivi  con  maturità  e 
discussione  ciò  che  pareva  più  giusto  ed  utile  da  stabilire:  e  quello 
stabilito,  era  poi  pubblicato  da'  loro  re  negli  editti.  Maniera,  se- 
condo il  sentimento  di  Ugon  Grozio,a  forse  migliore  di  quella  che 
tennero  gl'imperadori  stessi  romani,  le  cui  leggi  dipendendo  dalla 
sola  volontà  loro,  soggetta  a  vari  inganni  e  suggestioni,  cagionarono 
tant'incostanza  e  variazioni  che  del  solo  Giustiniano  vediamo  d'una 
stessa  cosa  aver  tre  e  quattro  volte  mutato  e  variato  parere  e  sen- 
tenza. Presso  a'  Longobardi,  prima  di  pubblicarsi  le  leggi  per  mez- 
zo de'  loro  editti,  erano  dagli  ordini  del  Regno  ben  esaminate  e  di- 
scusse; onde  ne  seguivano  più  comodi.  Il  primo,  che  non  v'era  ti- 
more di  potersi  stabilire  cosa  nociva  al  ben  pubblico,  quando  v'era- 
no tanti  occhi  e  tanti  savi  a'  quali  non  poteva  esser  nascosto  il  dan- 
no che  n'avesse  potuto  nascere.  Il  secondo,  ch'era  da  tutti  con 
pronto  animo  osservato  ciò  che  piacque  al  comun  consentimento  di 


a)  Ug.  Grot.,  in  Prolegom.  ad  HisU  Got? 


1.  conferirsi',  confrontarsi  (latinismo).  2.  Cesare  . .  .  Consilio:  cfr.  De  beli, 
gali.,  vi,  13  («non  veniva  consultata  su  nulla»).  3.  Grozio,  op.  cit.,  pp. 
63  sgg. 


442  ISTORIA    CIVILE   DEL   REGNO   DI    NAPOLI 

stabilire.  E  per  ultimo,  che  non  così  facilmente  eran  soggette  a 
variarsi,  se  non  quando  una  causa  urgentissima  il  ricercasse:  come 
abbiam  veduto  essersi  fatto  da  que'  re  che  dopo  Rotari  successero, 
i  quali  se  non  facto  periculo,  e  dopo  lunga  esperienza,  conoscendo 
alcune  leggi  de'  loro  predecessori  alquanto  dure  ed  aspre  e  non 
ben  conformarsi  a*  loro  tempi  renduti  più  docili  e  culti,  le  varia- 
vano e  mutavano  col  consiglio  degli  ordini.  Il  qual  sì  prudente  e 
saggio  costume  lodò  anche  e  commendò  presso  a*  Sueoni  popoli 
del  Settentrione  quella  prudente  e  saggia  donna  Brigida,  a  cui  oggi 
rendiamo  noi  gli  onori  che  non  si  danno  se  non  a'  Santi.1 

Se  si  voglia  poi  riguardare  la  loro  giustizia  ed  utilità,  e  prima  di 
quelle  leggi  accommodate  agli  affari  e  negozi  de'  privati,  ed  alla 
loro  sicurità  e  custodia,  come  sono  i  matrimoni,  le  tutele,  i  contratti, 
le  alienazioni,  i  testamenti,  le  successioni  ab  intestato,  la  sicurezza 
del  possesso,  non  potremo  riputarle  se  non  tutte  utili  e  prudenti.2 

Per  li  matrimoni  molte  provide  leggi  s'ammirano  nel  libro  secon- 
do di  quel  volume.a  L'ingenuo  non  s'accoppiava  con  la  libertina, 
né  il  nobile  coll'ignobile;  quindi  essendo  i  re  collocati  sopra  la 
condizione  di  tutti,  quelli  morti,  le  loro  vedove  non  si  collocavan 
poi  con  altri  se  non  eran  di  regal  dignità  decorati.  Ma  Giustiniano 
prese  Teodora  dalla  scena  con  gran  vituperio  del  principato.  Quelli 
che  non  eran  nati  da  giuste  nozze,  non  si  creavano  cavalieri,  non 
eran  ammessi  al  magistrato,  anzi  né  meno  a  render  testimonianza. 
Le  profuse  donazioni  tra'  mariti  e  mogli  eran  vietate  :  prudentissi- 
ma  fu  perciò  la  legge  di  Luitprando  colla  quale  fu  posto  freno  al 
dono  maturino  che  solevan  i  mariti  fare  alle  mogli  il  mattino  dopo 
la  prima  notte  del  loro  congiungimento,  che  i  Longobardi  chiama- 

a)  LL.  Longob.,  lib.  2,  tit.  4,  5,  6,  7,  8,  o.3 

1.  Il  primo .  .  .  Santi:  cfr.  Grozio,  op.  cit.,  Prolegomeni,  p.  65:  «Apud 
vestros  illos  populos  e  principe  ordinumque  dilectis  bene  expensae  leges 
tria  habebant  commoda,  quod  nihil  publice  noxium  latere  poterat  inter 
tot  monitores,  quod  prompto  animo  servabantur  quae  communis  consensus 
sanxerat,  quod  eadem  nunquam  aut  non  nisi  summa  causa  urgente  muta- 
bantur:  morem  hunc  apud  Sueones  et  laudat  et  commendat  Brigitta  pru- 
dens  femina».  Cfr.  inoltre  L.  A.  Muratori,  Antiquitates  italicae  Medii 
Aevi,  diss.  xxii.  2.  Se  si  voglia  .  .  .  prudenti:  cfr.  Grozio,  loc.  cit.  :  «Priva- 
torum  negotiorum  summa  genera  sunt,  matrimonia,  tutelae,  contractus, 
alienationes,  testamenta,  successiones  ab  intestato,  possidendi  securitas». 
3.  Le  già  citate  Leges  Longobardorum  cum  argutissimis  glosis  D.  Caroli  de 
Tocco  ecc.,  Venetiis  1537.  Cfr.  anche  L.  A.  Muratori,  Antiquitates  italicae 
Medii  Aevi,  diss.  xv. 


LIBRO    V  -    GAP.  V  443 

vano  morgongapf  solevan  sovente  i  mariti  d'amor  caldi,  allettati  da' 
vezzi  delle  novelle  spose,  donar  tutto:  Luitprandob  proibì  tanta 
profusione,  e  stabilì  che  non  potessero  eccedere  la  quarta  parte 
delle  loro  sostanze.  E  per  gli  esempi  che  rapporta  Ducange,1  si 
vede  che  per  tutto  l'undecimo  secolo  fu  la  legge  osservata.  Ed  è 
veramente  nuovo  e  singolare  ciocché  l'abate  Fontanini  nel  suo  li- 
bro contra  il  P.  Germonio2  rapporta  di  alcuni  atti  che  pubblicò 
d'una  notizia  privata  dell'anno  1162,  nella  quale  si  legge  che  un 
tal  Folco  da  (Dividale  del  Friuli  dona  a  Gerlint  sua  moglie  tutto  il 
suo,  «  omnia  sua  propter  pretium  in  mane  quando  surrexit  de  lecto  ». 
Gli  adultèri  erano  severamente  puniti;  le  nozze  fra'  congionti,  se- 
condo il  prescritto  non  men  delle  leggi  civili  che  de'  canoni,  erano 
vietate;  e  Luitprandoc  istesso  rende  a  noi  testimonianza  che  fu 
mosso  a  vietarle  anche  con  sue  leggi:  «Quia,»  com'è'  dice  «Deo 
teste,  papa  urbis  Romae,  qui  in  omni  mundo  caput  ecclesiarum 
Dei  et  sacerdotum  est,  per  suam  epistolam  nos  adhortatus  est,  ut 
tale  coniugium  fieri  nullatenus  permitteremus».3 

Alcuni  s'offendono  che  in  questo  secondo  libro  delle  leggi  de' 
Longobarda  si  legga  permesso  il  concubinato,  vietandosi  solamente 
che  in  un  istesso  tempo  si  possa  tener  moglie  e  concubina,  non 
altrimente  che  due  mogli,  essendo  anche  presso  a'  Longobardi 
vietata  ogni  poligamia.  Ma  tralasciando  che  quella  legge  fu  di 
Lotario,  non  già  d'alcuno  de'  re  longobardi,  questa  maraviglia  na- 
sce dal  non  sapere  che  presso  a'  Romani  il  concubinato  fu  una 
congiunzione  legittima,6  non  pur  tollerata,  ma  permessa,  ed  era 


a)  Vide  Grot.  in  Lexico.4  b)  Luitpran.,  LL.  Long.,  lib.  2,  tit.  4.5 
e)  Luitpr.,  leg.  4,  tit.  deproh.  nupt.  d)  LL.  Long.,  lib.  2,  tit.  13, 1.  7. 
e)  L.  si  qua  illusi.  C.  ad  S.  C.  Orf. 

1.  E  per  gli  esempi  . .  .  Ducange:  cfr.  Charles  Dufresne  Du  Cange  (16 10- 
1688),  Glossarium  ad  scriptores  mediae  et  infimae  latimtatis,  Lutetìae  Pari- 
siorum  1678,  alla  voce  Morganegiba.  2.  Fontanini ...  Germonio:  cfr. 
Giusto  Fontanini  (1 666-1736),  Vindiciae  antiquorum  diplomatimi  adversus 
Bartholomaei  Germonii  disceptationem  de  veteribus  regum  Francorum  diplo- 
matibus  et  arte  secernendi  antiqua  diplomata  vera  afalsis  libri  duo  .  .  .,  Romae 
1705.  Barthélemy  Germon  (1663-17 12),  erudito  gesuita.  3.  «Quia... 
permitteremus»:  a  Poiché,  testimone  Iddio,  il  papa  romano,  che  in  tutto  il 
mondo  è  il  capo  delle  chiese  di  Dio  e  dei  sacerdoti,  con  sua  lettera  ci  ha 
esortato  a  non  permettere  che  avvenga  una  tale  unione  in  nessun  modo  ». 

4.  Grozio,  Nomina  appellativa  et  verba  gotthica,  vandalica,  et  longobardica, 
quae  in  hoc  volumine  reperiuntur,  cum  explicatione,  in  op.  cit.,  p.  578. 

5.  Leges  Longóbardorum,  ed.  cit. 


444  ISTORIA    CIVILE   DEL    REGNO   DI   NAPOLI 

perciò  detto  semimatrimonium,  e  la  concubina  era  chiamata  perciò 
semiconiux?  e  lecitamente  l'uomo  poteva  avere  per  sua  compagna 
o  la  moglie  o  la  concubina,  non  però  in  un  medesimo  tempo  e  mo- 
glie e  concubina  insieme,  perché  questa  era  riputata  poligamia,  non 
altrimente  se  tenesse  due  mogli.b  Questo  istituto  fu  continuato  an- 
che dapoiché  per  Costantino  Magno  l'Imperio  abbracciò  la  nostra 
religione,  il  quale  ancorché  ponesse  freno  al  concubinato,  non  però 
lo  tolse;  ed  appresso  i  cristiani  di  più  nazioni  d'Europa  per  molti 
secoli  fu  ritenuto  ;  di  che  fra  gli  altri  ce  ne  rende  certi  un  concilio 
di  Toledo,  ove  fu  parimente  stabilito  che  l'uomo,  sia  laico,  sia 
cherico,  d'una  sola  debba  contentarsi,  o  di  moglie  o  di  concubina, 
non  già  che  possa  ritenere  in  uno  stesso  tempo  tutte  due.c  Ma  vie- 
tatosi poi  nella  Chiesa  latina  a'  preti  affatto  di  aver  moglie,  ed  in 
conseguenza  di  tener  anche  concubine,  poiché  gli  ecclesiastici  per 
la  loro  incontinenza  non  potevan  vivere  soli,  si  ritennero  le  con- 
cubine: fu  per  isradicar  questo  costume  in  vari  concili  severamente 
proibito  loro  di  tenerle:  non  ebbero  queste  proibizioni  gran  suc- 
cesso e  furon  di  poco  profitto  :  rada  era  l'osservanza,  ed  i  preti  non 
potevano  a  patto  alcuno  distaccarsene:  furono  perciò  replicati  i  di- 
vieti :  non  vi  era  concilio  che  si  convocasse  che  con  severe  minaccie 
non  inculcasse  sempre  il  medesimo,  detestandosi  il  concubinato,  e 
predicandosi  peggior  dell'adulterio,  dell'incesto  e  più  grave  d'o- 
gn' altro  vizio.  Quindi  nelle  seguenti  età  il  nome  del  concubinato, 
che  prima  era  riputato  una  congiunzion  legittima,  fu  renduto  odio- 
so ed  orrendo  in  quella  maniera  ch'oggi  si  sente.  Nel  regno  d'Italia 
non  pur  presso  a'  Longobardi,  ma  anche  quando  passò  sotto  la 
dominazione  de'  Franzesi,  durava  ancora  l'istituto  de'  Romani.  Ap- 
presso alcune  altre  nazioni  d'Europa  era  anche  il  concubinato  ripu- 
tato legittimo,  e  Cujaccio  testimonia  che  anche  a'  suoi  tempi  era 
ritenuto  da'  Guasconi  e  da  altri  popoli  presso  i  Pirenei.d  In  Oriente 

a)  Cujac,  in  Parai,  in  Pand.,  tit.  de  concitò.1  b)  V.  Connan,  lib.  8 
Commenta  Arnis.,  De  tur.  connubi  e)  Gratian.,  in  Decreta  dist.  34, 
cap.  4  et  5.  d)  Cujac,  loc.  cit.  :  «Audio  tamen  eum  retinere  districte 
Vascones  et  Pyreneos  ». 


I.  J.  Cujas,  Paratitla  in  libros  IX  Codicis  Ivstiniani,  in  Opera  omnia,  ed.  1658, 

II,  pp.  182-3.  2.  F.  Connan,  Commentariorum  iuris  civilis  libri  X,  cit.,  il, 
lib.  vili,  cap.  xiii  De  concubinis,  ce.  558  v  sgg.;  Henning  Arnisaeus  (1580- 
1636),  De  iure  comtubiorum  commentarius  politzcus,  Argentorati  1586. 


libro  v  •  cap.  v  445 

per  le  Novelle  di  Basilio  Macedone*  e  di  Lione  fu  il  concubinato 
proibito  ;  ma  quelle  non  ebbero  alcun  vigore  nelle  provincie  d'Eu- 
ropa, come  quelle  ch'erano  state  sottratte  dall'Imperio  ed  ubbidi- 
vano a5  loro  principi  independentemente  dagl'imperadori  d'Orien- 
te: ciocché  meriterebbe  un  discorso  a  parte,  ma  tanto  basterà  per 
ciò  che  riguarda  il  nostro  istituto. 

Intorno  alle  tutele,  furon  dati  savi  provvedimenti:  eran  i  pupilli 
raccomandati  ugualmente  agli  agnati  che  a'  cognati  :  ma  de'  pupilli 
nobili  il  principal  tutore  era  il  re.b  Quindi  appresso  noi  nacque 
l'istituto  di  darsi  dal  re  il  balio  a'  baroni,  e  prendersi  da  lui  le  let- 
tere del  baliato.  Davano  ancora  alle  donne  per  la  loro  imbecillità 
un  perpetuo  tutore,  ch'essi  chiamavano  Mundualdo,  il  quale  s'as- 
somigliava in  gran  parte  al  tutore  cessizio  de'  Romani  antichi,  sotto 
la  cui  autorità  eran  sempre  le  donne  di  qualunque  età  fossero  ed 
ancorché  a  nozze  passassero  :  ond'è  che  ancor  oggi  in  alcuni  luoghi 
del  nostro  Regno  sia  rimaso  di  loro  alcun  vestigio. 

Ne'  contratti,  l'equità  e  la  giustizia  fu  unicamente  ricercata:  i 
contratti  de'  maggiori,  difrinendo  la  maggior  età  nell'anno  de- 
cim'ottavo,  eran  ben  fermi,  né  alle  restituzioni  soggetti.  I  creditori 
ed  i  compratori  erano  sicuri  di  non  esser  fraudati  e  delusi  per  le 
tacite  ipoteche  e  per  gli  occulti  fedecommessi;  imperocché  si  fa- 
cevan  passare  tutti  i  contratti,  le  vendite,  i  pegni,  i  testamenti 
stessi  sotto  gli  occhi  ed  avanti  i  magistrati  ed  al  cospetto  del  popolo. 
L'ordine  di  succedere  ab  intestato  era  semplicissimo  :  colui  ch'era 
più  prossimo  in  grado  era  l'istesso  che  l'erede,  eccetto  solamente 
che  i  figliuoli  e*  lor  descendenti  erano  preferiti  a*  genitori. 

I  giudici,  che  appresso  i  Romani  eran  tratti  in  immenso1  con 
grave  dispendio  delle  proprie  sostanze  e  cruccio  dell'animo,  appo 
i  Longobardi  eran  brevi  e  meno  travagliosi.  La  temerità  de'  liti- 
ganti era  frenata  da'  pegni  e  dalle  pleggiarie.  A'  giudici  niente  era 

a)  Novel.  Basii.  Maced.  apud  Leuncl.,  Iur.  gr.  rom.,  lib.  2,  num.  2, 
tom.  i.z    b)  Grot.,  in  Prolegom.  ad  HisL  Got? 


1. 1  giudici .  .  .in  immenso:  intendi,  le  cause  si  protraevano  per  un  tempo 
eccessivo.  Sarà,  questo,  uno  dei  temi  ripresi  anche  dal  Muratori,  più 
tardi,  nei  suoi  Difetti  della  giurisprudenza.  Per  questa  frase  cfr.  Grozio, 
op.  cit.,  p.  67:  «ludicia  apud  Romanos  in  immensum  tracta».  2.  Johann 
Loewenklau  (1533-1593),  Iuris  graeco-romani  tam  canonici  quam  civilis  tomi 
duo,  Francofùrti  1596,  p.  87.  3.  Grozio,  op.  cit.,  p.  66.  Il  Giannone 
compendia  qui,  e  più  avanti,  quanto  scrive  il  Grozio. 


446  ISTORIA    CIVILE   DEL    REGNO   DI    NAPOLI 

più  facile  e  spedito:  nelle  quistioni  di  fatto  portava  Fattore  i  suoi 
testimoni  ed  il  reo  i  suoi,  e  colui  guadagnava  che  dal  suo  canto 
avea  di  lor  maggior  numero  ed  autorità.  Nelle  cose  dubbie  ed  am- 
bigue si  ricorreva  alla  religione  de'  giuramenti;  questo  si  dava  al 
reo,  ma  con  molto  riguardo,  cioè  se  produceva  testimoni  di  pro- 
vata fama  che  deponessero  ed  attestassero  della  di  lui  probità  e 
religione,  e  che  essi  volentieri  crederebbero  al  suo  giuramento. a 
Rade  eran  le  quistioni  di  legge,  e  se  pur  accadevano,  non  dagli  infi- 
niti volumi  degl'interpetri,  ma  da'  semplici  e  piani  detti  delle  lor 
leggi,  dal  giusto  e  dal  ragionevole  prestamente  eran  decise.  Pronto 
era  il  remedio  nelle  perturbazioni  di  possesso  e  subita  la  restitu- 
zione, andando  il  giudice  co*  testimoni  in  su  '1  luogo  a  conoscer 
dello  spoglio  e  ad  immantenente  ripararlo.1 

Nella  cognizion  criminale  de*  delitti  erano  due  cose  saggiamente 
osservate.  La  violazione  della  ragione  e  società  pubblica,  e  di  quella 
del  privato.  Per  questo,  due  multe  furono  introdotte:  colTuna  si 
riparava  al  danno  del  privato,  che  chiamarono  Wedrigeldium,  cioè 
quel  che  si  dava  per  lo  taglione;  coli' altra  si  riparava  alla  pubblica 
pace,  che  dissero  per  ciò  Fedra,  e  si  dava  al  re  o  al  comune  di 
qualche  città.  Commenda  Ugone  Groziob  questo  lor  istituto  di  non 
spargere  il  sangue  de'  cittadini  per  leggieri  cagioni,  ma  solo  per 
gravissime  e  capitali.  Ne'  minori  delitti  bastava  che  per  danaro  si 
componessero,  ovvero  che  il  colpevole  passasse  nella  servitù  del- 
l'offeso, in  cui  s'era  peccato. 

I  beni  de*  condannati  erano  salvi  a'  loro  figliuoli,  né  stavano 
soggetti  a  confiscazioni.  Nelle  cause  criminali  non  ammettevano 
appellazioni,  né  questo  portò  a  Grozio  alcuna  maraviglia,  come  non 
debbono  altri  averla;  poiché  i  pari  della  Curia  con  somma  religione 
e  clemenza  de'  lor  pari  giudicavano.  Quindi  presso  di  noi  nacque 
l'istituto  che  le  cause  capitali  de'  baroni  non  potessero  decidersi 
senza  quelli  che  diciamo  Pares  Curiae. 

I  riti  e  le  solennità  ch'essi  usavano  nelle  manumissioni  e  nel- 
l'adozioni eran  conformi  a'  lor  costumi  feroci  e  guerrieri.  Le  manu- 

a)  V.  Struvium,  Hist.  tur.  crimine  b)  Ugo  Grot.,  in  Prolegom.  ad 
Hìst.  Got? 

1.  Pronto  era.  .  .ripararlo:  cfr.  Grozio,  op.  cit.,  p.  67:  «possessionis  vi 
turbatae  subita  reformatio,  eunte  in  rem  praesentem  cum  testibus  iudice  ». 

2.  Cfr.  Historia  iuris  cit.,  cap.  ix,  Historia  iuris  criminalis,  §  x,  pp.  760  sgg. 

3.  Grozio,  loc.  cit. 


libro  v  •  cap.  v  447 

missioni  come  c'insegna  Paolo  Warnefrido1  si  facevano  «per  sag- 
gittam»,  le  adozioni  «per  arma»,  siccome  le  alienazioni  «per  glebae 
festucaeve  coniectionem  in  sinum  emptoris».2 

Dispiacque  a  molti  queirantica  consuetudine  de'  Longobardi  che 
in  alcune  cause  dubbie  ed  ambigue  e  ne*  gravi  delitti  se  ne  com- 
mettesse la  decisione  alla  singular  pugna  di  due,  che  chiamiamo 
duello.  Fu  veramente  il  duello  antica  usanza  de'  Longobardi,  che 
poi  passata  in  legge  fu  per  molto  tempo  praticata  non  pur  da  loro, 
ma  da  molte  altre  nazioni  le  quali  da'  Longobardi  rappresero.  In 
fatti  ristorie  loro  sono  piene  di  questi  duelli;  e  memorando  fu 
quello  di  Adalulfo  che  di  adulterio  aveva  tentata  la  regina  Gunde- 
berta,a  ed  avutane  ripulsa,  per  vendicarsene  ricorse  al  re  Arioaldo 
suo  primo  marito,  al  quale  accusandola  falsamente  che  insieme  con 
Dato  duca  della  Toscana  gl'insidiasse  la  vita  ed  il  regno,  fece  impri- 
gionare quella  infelice  principessa.  Di  che  offeso  Clotario  re  di 
Francia,  dal  cui  sangue  discendeva,  mandò  legati  ad  Arioaldo  con 
gagliarde  richieste  di  dover  tosto  liberarla;  al  che  avendo  il  re  ri- 
sposto ch'egli  aveva  cagioni  giustissime  di  tenerla  prigione,  e  ne- 
gando i  legati  ciò  che  s'imputava  alla  regina,  affermando  che  men- 
tivano gli  autori  di  taTimpostura,  finalmente  Ansoaldo  uno  di  essi 
richiese  al  re  che  per  duello  il  dubbio  dovesse  terminarsi.  Vennero 
alla  pugna  Cariberto  per  la  regina,  e  l'impostore  Adalulfo  pel  re, 
nella  quale  restando  l'ultimo  vinto  fu  la  regina  liberata  e  restituita 
al  suo  antico  onore.  Questo  genere  di  purgazione  fu  cotanto  com- 
mendato presso  a  tutte  le  nazioni  che  Cujaciob  dice  che  anche  fra' 
cristiani,  così  nelle  cause  civili  come  nelle  accusazioni  criminali  fu 
il  duello  lungamente  praticato,  ed  i  nostri  Franzesi  Normanni, 
finché  tennero  questo  Regno,  sovente  l'usarono.  Era  ben  da'  re 
longobardi  istessi  riputato  un  esperimento  fiero  ed  irragionevole; 
ma  assuefatti  que'  popoli  lungamente  a  tal  usanza,  e  reputando  mi- 


a)  Sigon.,  ad  a.  Ó32.3  b)  Cujac,  lib.  i  defeud.,  tit.  I,  §  si  autem 
controversia  :  «  Et  hoc  genere  purgationis  diu  usi  sunt  christiani,  tam 
in  civilibus,  quam  in  criminalibus  causis,  re  ornili  duello  commissa  ».4 

i.  Le  manumissioni  . . .  Warnefrido:  cfir.  Paolo  Diacono,  De  gestis  Langobar- 
dorum,  lib.  I,  cap.  XIII,  in  Grozio,  op.  cit.,  pp.  752-3,  e  Prolegomeni,  ivi, 
p.  68.  2.  «  per  glebae  .  .  .  emptoris»:  la  frase  è  di  Grozio,  Prolegomeni,  loc. 
cit.  («con  il  lancio  di  una  zolla  o  di  un  fuscello  in  seno  al  compratore»). 
3.  C.  Sigonio,  Historiae,  ed.  cit.,  p.  37.  4.  J.  Cujas,  Opera  omnia,  ed.  1658, 
il,  col.  606. 


448  ISTORIA   CIVILE   DEL    REGNO   DI    NAPOLI 

nor  male  per  placar  Tira  e  lo  sdegno  di  quegli  animi  feroci  com- 
metter l'affare  al  periglio  di  pochi  che  di  vedere  ardere  di  discordie 
civili  le  intere  famiglie,  loro  non  parve  grave  se  non  necessario  il 
ritenerlo.  Luitprando  principe  prudentissimo  ben  lo  conobbe,  ma 
ad  esempio  di  Solone,  che  dimandato  se  egli  avesse  date  le  migliori 
leggi  che  aveva  saputo  agli  Ateniesi,  rispose  le  migliori  che  potevan 
confarsi  a*  loro  costumi,  così  egli  in  una  sua  legge  altamente  di- 
chiarò questi  suoi  sensi,  dicendo  che  ben  egli  era  incerto  del  giu- 
dicio  di  Dio,  e  molti  sapeva  che  per  duello  senza  giusta  causa  re- 
stavan  perditori,  ma  soggiunse:  «  Sed  propter  consuetudinem  gentis 
nostrae  Longobardorum  legem  impiam  vetare  non  possumus».a 
La  religione  cristiana  tolse  poi  questa  usanza,  ma  non  si  veggono 
tolte  le  radici,  onde  con  tanta  facilità  cotali  effetti  germogliano: 
ella  è  nata  per  isradicarle  interamente,  ma  noi  medesimi  siamo 
quelli  che  le  facciamo  contrasto  e  frapponghiamo  impedimenti. 
La  tolsero  poi  gli  altri  principi,  e  presso  a  noi  l'imperadore  Fede- 
rico II  e  più  severamente  gli  altri  re  suoi  successori. 

Dispiacque  ancora  quell'altro  genere  di  prova  del  ferro  rovente, 
dell'acqua  fervente,  ovvero  ghiacciata;13  ma  di  ciò  non  debbono 
imputarsi  i  soli  Longobardi,  ma  tutte  l'altre  nazioni  d'Europa,  e  più 
i  cristiani  nostri,  i  quali  lungamente  lo  ritennero  e  l'abbracciorono 
più  tenacemente;  imperocché  credettero  derivare  il  costume  da  Mo- 
sè  istesso,  il  quale  comandò  che  si  dasse  alle  donne  imputate  di 
stupro  certa  pozione  per  conoscere  il  loro  fallo  o  l'innocenza.1 
Non  fu  dunque  maraviglia  se  i  Longobardi  portando  la  cosa  più 
avanti  ne  stabilissero  anche  sopra  ciò  delle  leggi,  per  le  quali  co- 
mandarono che  per  determinare  le  liti  si  servissero  anche  de'  vo- 
meri infocati,  ovvero  dell'acqua  fredda  o  bollente.  S'aggiunse,  per- 
ché l'error  durasse,  e  tal  costume  si  ritenesse,  la  credulità  e  stupi- 
dezza degli  uomini,  i  quali  eran  così  persuasi  e  certi  di  questa  pruo- 
va  che  sovente  diedero  facile  e  sicura  credenza  a  ciò  che  gli  storici, 
o  altri  che  se  ne  spacciavan  testimoni,  ne  favoleggiavano  e  per  cosa 

a)  Lib.  i,  1.  23,  tit.  9  de  homicid.  liber.  hom?  b)  V.  Struvium, 
HisU  iur.  crimin? 

1.  Mosè  —  innocenza:  da  J.  Cujas,  op.  cit.,  De  feudis,  loc.  cit.,  come  di- 
mostra la  citazione  dello  stesso  Giannone,  più  sotto  riportata  (nota  a  a  p. 
449).  2.  Cfr.  Leges  Longobardorum,  ed.  cit.  («Ma  a  motivo  della  consue- 
tudine del  nostro  popolo  non  possiamo  vietare  Tempia  legge  dei  Longo- 
bardi »).     3.  Cfr.  Historia  iuris  cit.,  cap.  rx,  §  vili,  pp.  750-1  ;  §  rx,  pp.  756-7. 


libro  v  •  cap.  v  449 

certa  gliele  descrivevano.  Né  mancarono  di  raccontar  fatti  vera- 
mente strani  e  maravigliosi,  non  perché  essi  veri  fossero  in  realtà, 
ma  prodotti  da  una  fantasia  sì  fortemente  accesa  che  faceva  lor 
vedere  uomini  posti  dentro  il  fuoco  non  ardere,  e  buttati  dentro  i 
fiumi  non  sommergersi.  Celebre  appresso  gPistorici  è  quel  fatto 
accaduto  ne*  tempi  d'Ottone  a  quella  innocente  contessa  che,  ac- 
cusata falsamente  dall'imperadrice  sua  moglie,  se  ne  purgò  con  un 
ferro  rovente  da  cui  non  fu  tocca.  *I  più  accurati  scrittori  riputano 
favolosi  tutti  questi  racconti  delPimperadrice  moglie  d'Ottone,  e 
della  pruova  del  ferro  rovente.  Intorno  a  che  sono  da  vedersi  coloro 
che  vengono  rapportati  da  Struvio  in  Syntag.  Hist.  Germ.,  in  Ot- 
tone, pag.  371  et  Muratori,  Diss.  38.  *x  Ma  assai  più  celebre  e  memo- 
rabile è  quell'altro  a'  tempi  d'Alessandro  II  accaduto  in  Firenze 
di  Pietro  Aldobrandino,  che  uscì  al  cospetto  di  tutto  il  popolo  im- 
mune e  salvo  dalle  fiamme,  onde  acquistonne  il  nome  di  Pietro 
Igneo.2  Non  senza  ragione  adunque  Federico  imperadore  tra  le 
sue  leggi  militari  stabilì  ancora  che  questa  pruova  si  praticasse  nelle 
cause  dubbie,  come  Radevico  e  Cujacioa  testificano.  Ma  conosciu- 
tosi dapoi,  seriamente  pensandovi,  la  sua  incertezza,  e  che  molti 
innocenti  ne  riportavano  pena  maggiore  di  quella  che  anche  legitti- 
mamente convinti  per  rei  non  avrebbero  potuto  temere,  e  che  all'in- 
contro ne  uscivan  liberi  i  colpevoli,  e  che  con  troppo  ardimento  si 
pretendesse  tentar  i  giudici  divini,  fu  da'  romani  pontefici  proibito. 
E  Cujaciob  rapporta  che  questo  costume  nella  Lombardia  cominciò 


a)  Cujac,  lib.  1  de  feud.,  loc.  cit.:  «Tertium  genus  purgationis 
est  periculum  aquae  ferventis,  vel  frigidae,  vel  laminae  candentis, 
quo  etiam  diu  usi  sunt  christiani,  ducto  more,  argumento  nescio  an 
bono,  a  potione  illa,  quam  stupri  insimulatis  mulieribus  dari  iussit 
Moses,  quod  usque  eo  processit,  ut  et  leges  scriptae  iuberent  adhi- 
beri  ignitos  vomeres,  vel  aquam  frigidam  aut  calidam  litium  diri- 
mendarum  causa,  ut  Longobardae  saepe  et  militares  Friderici  im- 
peratoris  apud  Radevicum  ».3  b)  Cujac,  loc.  cit.  :  «  Quod  tamen 
primum  omnium  exolevit  in  Longobardia  ». 

1. I  più  accurati  .  .  .  Diss.  38:  Finterò  brano  è  una  delle  aggiunte  del  Gian- 
none.  Cfr.  per  queste  indicazioni  bibliografiche  B.  G.  Struve,  Syntagma 
historiae  germanicae  a  prima  gentis  origine  ad  annum  usque  MDCCXVI, 
Ienae  1716;  L.  A.  Muratori,  Antiquitates  italicae  MediiAevi,  diss.  xxxvin, 
De  iudiciis  Dei.  2.  Ma  assai .  .  .  Igneo  :  cfr.  C.  Baronio,  Annales  ecclesia- 
tici  cit.,  xi,  1605,  ad  annum  1063,  p.  344.  3.  Cfr.  J.  Cujas,  Opera  omnia 
cit.,  loc.  cit. 


450  ISTORIA   CIVILE   DEL    REGNO   DI    NAPOLI 

prima  di  tutti  gli  altri  paesi  a  mancare  e  ad  andare  in  disusanza. 
Presso  a  noi  andò  parimente  in  obblivione,  ed  ancorché  i  Ba- 
resi lungamente  ritenessero  l'usanze  de'  Longobardi,  onde  il  li- 
bro delle  loro  Consuetudini  fu  compilato,  pur  confessano  che 
fin  da'  tempi  del  re  Rugiero  era  già  tal  costume  affatto  mancato: 
«Ferri  igniti,  aquae  ferventis,  vel  frigidae,  aut  quodlibet  iudi- 
cium,  quod  vulgo  paribole  nuncupatur,  a  nostris  civibus  penitus 
exulavit».a 

Parve  anche  a  molti  fiero  e  crudele  quel  costume  di  render  cat- 
tivi i  cristiani  e  riceverne  per  la  libertà  riscatti,  come  s'è  veduto 
che  fecero  co'  Crotonesi,  e  con  altre  genti  delle  città,  ch'erano  in 
poter  de'  Greci  loro  nemici:  del  che  altamente  si  querelava  S. 
Gregorio  M.  Ma  questo  costume,  siccome  fu  narrato  nel  precedente 
libro,  era  allora  indifferentemente  da  tutti  praticato:  né  mancano 
scrittori  che  lo  difendono  per  giusto. 

Per  queste  cagioni  leggiamo  noi  ne'  più  gravi  autori  cotanto 
commendarsi  sopra  tutte  le  straniere  nazioni  la  longobarda  per 
gente  savia  e  prudente,  e  che  meglio  di  tutte  le  altre  avesse  saputo 
stabilire  le  leggi,  con  tanta  perizia  ed  avvedimento  dettate.  Niente 
dico  di  Groziob  che  perciò  tante  lodi  l'attribuisce,  niente  di  Paolo 
Warnefrido.  Guntero1  secretarlo  che  fu  di  Federico  I  imperadore, 
e  famoso  poeta  di  que'  tempi,  così  nel  suo  Ligurino  cantò  de' 
Longobardi  : 


a)  Consuet.   Bar.,   rubr.    de   immunità    §   Monomachia. z     b)  Ugo 
Grot.,  in  Prolegom.  ad  Hist.  Got. 


i.  Guntero:  Gunther  de  Pairis,  monaco  cistercense  vissuto  tra  la  fine  del 
secolo  XII  e  gli  inizi  del  XIII,  fu  precettore  del  quarto  dei  figli  di  Federico  I, 
Corrado.  Il  titolo  del  suo  poema,  Ligurinus,  basato  sulla  cronaca  di  Ottone 
di  Frisinga,  prende  origine  dal  nome  col  quale  egli  chiama  i  Longobardi  : 
Ligures.  Non  sappiamo  di  quale  edizione  il  Giannone  si  sia  servito.  Avanti 
il  1723  esistevano  comunque  le  edizioni  del  Peutinger,  Augustae  Vindeli- 
corum  1507;  dello  Spiegel,  Argentorati  1531;  del  Pithou,  Basileae  1569; 
del  Reuber  nei  Veterum  scriptorum,  qui  Caesarum  et  imperatorum  germani- 
corum  res  per  aliquot  saecula  gestas  literis  mandarunt,  tomus  unus,  Franco- 
furti 1584;  infine  del  Rittershusius,  Tubingae  1598.  2.  Cfr.  Vincenzo 
Maxilla  o  Massilia,  Commentarti  super  consuetudinibus  praeclarae  civitatis 
Bari  — ,  Patavii  1550  («La  prova  del  ferro  rovente,  dell'acqua  bollente  o 
gelata,  o  qualunque  altra,  detta  volgarmente  paribole,  andò  del  tutto  in  di- 
suso fra  i  nostri  sudditi»). 


LIBRO   V   •   CAP.  V  451 

Gens  astuta,  sagax,  prudens,  industria,  solers, 
provida  Consilio,  legum  iurisque  perita. 

Né  lo  stile  con  cui  furono  quelle  leggi  scritte  è  cotanto  insulso  ed 
incolto  come  pur  troppo  lo  riputarono  i  nostri  scrittori:  ben  furono 
elle  giudicate  dall'incomparabile  Grozio  degno  soggetto  delle  sue 
fatiche  e  de'  suoi  elevatissimi  talenti  :  aveva  ben  egli  apparecchiato 
loro  un  giusto  commentario,  siccome  dell'altre  leggi  dell'altre  na- 
zioni settentrionali,  così  ancora  di  queste  de'  Longobardi.  Ma  pur 
troppo  presto  tolto  a  noi  da  immatura  morte,  non  potè  perfezio- 
narlo. È  bensì  a  noi  di  lui  rimaso  un  Sillabo2  di  tutti  i  nomi  e  verbi 
ed  altri  vocaboli  de'  Longobardi,  per  cui  si  scuoprono  i  molti  ab- 
bagli presi  da'  nostri  scrittori  che  vollero  interpretarle:  e  Giacomo 
Cujaciob  ne'  suoi  libri  de'  feudi,  i  quali  in  gran  parte  da  queste 
leggi  dipendono,  sovente  ne  mostra  molte  voci  delle  medesime 
reputate  dalla  comune  schiera  per  barbare  ed  incolte,  ed  a  cui  die- 
dero altro  senso,  essere  o  greche  o  latine,  o  dipendere  con  perfetta 
analogia  da  queste  lingue:  così  quella  voce  arga,  che  s'incontra 
spesso  in  queste  leggi,  riputata  barbara,  e  che  i  nostri  vogliono  che 
significhi  cornuto,  come  fra  gli  altri  espose  Maxilla  nelle  Consuetu- 
dini di  Bari,c  che  da  queste  leggi  in  gran  parte  derivano,  presso  a 
Paolo  Warnefrido,d  non  significa  altro  che  inerte,  scimunito,  stupido 
et  inutile,  e  la  voce  deriva  dal  greco  àpyóc,  che  appo  i  Greci  signi- 
fica lo  stesso,  come  dice  Cujacio,6  e  lo  conferma  coll'autorità  di 
Didimo.  E  ciò  che  sovente  occorre  in  questi  libri  astalium1  facete, 
non  vuol  dir  altro  che  ingannare,  e  mancare  al  principe  o  al  com- 
militone del  suo  aiuto  e  soccorso,  mentre  nella  pugna  ne  tiene  il 
maggior  bisogno  ed  è  in  periglio  di  vita.  Così  ancora  farsi  una  cosa 
osto  animo,  come  sovente  leggiamo  in  queste  leggi,  da  voce  latinis- 


a)  Questo  Sillabo  si  legge  appresso  V Istoria  de'  Goti  di  Grozio.2 
b)  Cujac,  Defeud.,  lib.  1,  tit.  2.3  e)  Maxilla,  in  Consuet.  Bar.,  rub. 
de  Arga:  «Istud  nomen  Arga  est  Longobardorum,  et  idem  importat 
quod  vocare  aliquem  cornutum».  Vedi  Carlo  Du  Fresne  in  Lexic. 
latinóbarbar*    d)  Paul.  Warnefr.,  lib.  6,  cap.  8.5     e)  Cujac,  loc.  cit. 


1.  astalium:  cfr.  Ch.  Du  Cange,  Glossarium  cit.,  ad  vocem.  2.  Grozio, 
Nomina  appellativa  ecc.,  cit.,  pp.  574  sgg.  3.  J.  Cujas,  Opera  omnia  cit., 
n,  coli.  612  sgg.  4.  È  il  citato  Glossarium  del  Du  Cange.  5.  Paolo  Dia- 
cono, De  gestis  Langobardorum,  in  Grozio,  op.  cit.,  pp.  907-8. 


452  ISTORIA    CIVILE   DEL    REGNO   DI    NAPOLI 

sima  deriva,  eh' è  il  medesimo  che  d'animo  vafro  ed  ingannevole: 
Plauto  in  Paenulo  : 

Mea  sor  or  ita  stupida  est  sine  animo  osto.1 

Ed  Accio  appresso  Nonio: 

Nisi  ut  asta  mgenium  lingua  laudem.2. 

Parimente  quell'altra  voce  Strigae,  che  in  queste  leggi  s'incontra, 
e  che  presso  a  Festo3  è  Pistesso  che  malefica,  si  ritrova  ancora  in 
Plauto  in  Pseudolo  : 

Strigibus  vivis  convivis  intestmaque  exedunt* 

che  i  Longobardi  con  voce  propria  della  nazione  chiamarono  anche 
Mosca,  ed  oggi  noi  chiamiamo  maga  o  strega. 

L'uso  del  talenone  dichiarato  da  Festo,  Vegezio  ed  Isidoro,5 
viene  anche  nettamente  spiegato  da  queste  leggi. a  II  talenone,  co- 
me anche  spiega  la  legge,  non  era  altro  che  una  trave  librata  sopra 
una  forca  di  legno,  per  la  quale  si  tirava  con  secchi  l'acqua  da' 
pozzi. 

Il  chiamare  le  donne  non  casate  vergini  in  capillo,  non  altronde 
deriva  che  dall'istituto  de'  Romani,  i  quali  distinguevan  le  vergini 
da  quelle  che  avean  contratte  nozze  perché  queste  velavano  il  lor 
capo,  ed  all'incontro  le  vergini  andavan  scoverte  e  mostravano  i 
loro  capelli. 

Galeno  credette  che  i  cavalli,  e,  toltone  i  cani,  ogni  sorta  di  qua- 
drupedi non  potessero  esser  mai  rabbiosi.  All'incontro  Absirto  e 


a)  LL.  Longob.y  lib.  2,  tit.  de  homicid.  liber.  hom.f  1.  24/ 


1.  Plauto  .  .  .  asto:  è  il  verso  1250  (che  gli  editori  moderni  leggono  e  inter- 
pretano in  altro  modo).  2.  Ed  Aedo  . .  .  laudem:  Nonio  Marcello,  filologo 
romano  del  IV  secolo  d.  C,  autore  del  De  compendiosa  doctrina  per  litteras. 
Ma  cfr.  anche  in  Du  Cange,  Glossarium  cit.,  alla  voce  Asto  animo.  («Ameno 
che  io  non  voglia  lodare  l'accortezza  per  ingannevole  lingua»).  3.  Pom- 
peo Festo,  glossografo  romano,  vissuto  probabilmente  tra  il  II  e  il  III  se- 
colo d.  C,  autore  del  De  significata  verbo-rum.  Ma  cfr.  anche  in  Du  Cange, 
Glossarium  cit.,  ad  vocem.  4.  Plauto  ...  exedunt:  w.  820-1.  S.Flavio 
Vegezio  Renato,  vissuto  probabilmente  alla  fine  del  IV  secolo  d.  C,  è 
autore  di  una  Epitome  rei  militaris;  Isidoro  di  Siviglia  (cfr.  la  nota  4  a 
p.  381)  è  a  sua  volta  autore  di  venti  libri  di  Etymologiae.  6.  Cfr.  nell'edi- 
zione cit.,  lib.  1  (e  non  li),  tit.  rx. 


libro  v  •  cap.  v  453 

Hierocle  mulomedicia  e  Porfirio1  ancora,  contra  il  sentimento  di 
Galeno,  scrissero  che  potevan  ancora  quelli  esser  rabbiosi.  I  Lon- 
gobardi in  queste  loro  leggib  ricevettero  l'opinione  di  costoro,  e 
rifiutarono  come  falsa  quella  di  Galeno.  Molt'altri  consimili  vestigi 
di  loro  erudizione  si  scorgono  in  quelle  e  molte  altre  voci  di  questo 
genere  che  ad  altri  sembrano  barbare,  quando  traggon  la  loro  ori- 
gine dalla  greca  o  latina  lingua,  e  sono  sparse  in  questi  libri,  che 
non  accade  qui  tesser  di  loro  più  lungo  catalogo:  ciascuno  per  sé 
potrà  avvertirle,  e  potrà  anche  osservarle  nel  Sillabo  che  ne  fece 
Grozio,  del  quale  poc'anzi  si  fece  da  noi  memoria. 


I.  Leggi  longobarde  lungamente  ritenute  nel  ducato  Beneventano, 

e  poi  disseminate  in  tutte  le  nostre  Provincie  ond'ora 

si  compone  il  Regno. 

L'eminenza  di  queste  leggi  sopra  tutte  le  altre  delle  nazioni  stra- 
niere, e  la  loro  giustizia  e  sapienza  potrà  comprendersi  ancora  dal 
vedere  che,  discacciati  che  furono  i  Longobardi  dal  regno  d'Italia,  e 
succeduti  in  quello  i  Franzesi,  Carlo  re  di  Francia  e  d'Italia  lasciolle 
intatte;  anzi  non  pur  le  confermò,  ma  volle  al  corpo  delle  medesime 
aggiungerne  altre  proprie,  che  come  leggi  pure  longobarde  volle 
che  fossero  in  Lombardia,  e  nel  resto  d'Italia,  che  a  lui  ubbidiva, 
osservate. 

Egli  ne  aggiunse  molte  altre  agli  editti  de'  re  longobardi  suoi  pre- 
decessori, che  stabilì  non  come  imperadore  o  re  di  Francia,  ma  co- 
me re  d'Italia  ovvero  de'  Longobardi.  E  siccome  la  legge  longobarda 
non  ebbe  vigore  presso  a'  Franzesi,  così  ancora  la  legge  salica  o 
francica  non  fu  da  Carlo  né  da'  suoi  successori  introdotta  in  Italia; 


a)  De'  mulomedici  vedi  G.  Gotofredo  nel  Cod.  Tk.  sotto  il  tit. 
de  cursu  publico.2,     b)  LL.  Longobar.y  de  pauperie,  1.  2.3 


i.  Porfirio  di  Tiro  (232  o  233  -primi  del  secolo  IV  d.  C),  discepolo  di 
Plotino,  del  quale  pubblicò  le  Enneadi.  È  autore  di  numerose  opere,  e  una 
di  esse,  sul  modo  in  cui  gli  embrioni  divengono  animati,  fu  a  lungo  attri- 
buita allo  stesso  Galeno.  2.  Codex  theodosianus  cit.,  n,  lib.  vili,  tit.  v,  lex 
xxxi,  p.  541.  Claudio  Hermerote  (Absirto)  è  il  probabile  autore  di  un 
trattato  di  veterinaria,  Mulomedicina,  risalente  al  IV  secolo  d.  C.  Ierocle  è 
veterinario  dell'antichità,  di  cui  si  conosce  solo  il  nome.  3.  Cfr.  ed.  cit., 
lib.  1,  tit.  xxi. 


454  ISTORIA   CIVILE   DEL    REGNO   DI   NAPOLI 

onde  si  vede  l'error  del  Sigonio,a  il  quale  tre  leggi  vuole  che  nel- 
l'imperio de'  Franzesi  fiorissero  in  Italia:  la  romana,  la  longobarda 
e  la  salica.  Senonse  forse  volesse  intendere  che  appo  i  soli  Franzesi 
che  vennero  con  Carlo  in  Italia  quella  avesse  forza  e  vigore.  Pipino 
suo  figliuolo,  e  successore  nel  regno  d'Italia,  e  gli  altri  re  ed  impe- 
radori  che  gli  succederono,  come  Lodovico,  Lotario,  Ottone,  Cor- 
rado, Errico  e  Guido,1  non  pur  le  mantennero  intatte  ed  in  vigore, 
ma  altre  leggi  proprie  v'aggiunsero;  e  quindi  nacque  che  l'antico 
compilatore  di  queste  leggi  raccolse  in  tre  libri  non  pur  le  leggi  di 
que'  cinque  re  longobardi,  ma  anche  quelle  di  Carlo  M.  e  degli 
altri  suoi  successori  insino  a  Corrado,  che  come  signori  d'Italia  le 
stabilirono,  le  quali  tutte  leggi  longobarde  furon  dette. 

Ma  presso  di  noi  per  altre  più  rilevanti  cagioni  furono  mantenute 
e  lungamente  osservate.  Nel  ducato  Beneventano,  che  abbracciava 
la  maggior  parte  di  queste  nostre  provincie  che  ora  compongono  il 
Regno,  sotto  i  re  longobardi  loro  autori  furono  con  somma  venera- 
zione ubbidite.  Questo  ducato,  ch'era  ancor  parte  del  regno  loro, 
si  reggeva  colle  medesime  leggi.  I  re  aveano  la  sovranità  di  quello, 
ed  i  duchi  che  lo  governavano  erano  a  loro  subordinati,  e  Desiderio 
ultimo  re  vi  avea  creato,  come  s'è  detto,  duca  Arechi  suo  genero. 
Ma  mancati  in  Italia  i  re  longobardi,  non  per  questo  mancarono 
nel  ducato  Beneventano  i  duchi  ;  anzi  Arechi,  come  diremo  nel  se- 
guente libro,  toltasi  ogni  soggezzione  de'  Franzesi,  lo  resse  con  asso- 
luto ed  independente  imperio.  Volle  di  regali  insegne  ornarsi  con 
scettro,  corona  e  clamide,  e  farsi  ungere  ed  elevare  in  principe  so- 
vrano, lo  mantenne  perciò  esente  da  qualunque  altra  dominazione; 
onde  maggior  piede  e  forza  presero  in  questo  ducato  le  leggi  lon- 
gobarde, le  quali  poi  si  ritennero  costantemente  da  tutti  i  principi 

a)  Sigon.,  De  r.  ItaL,  lib.  8.2 


i.  Lodovico  . .  .  Ouidoi  Ludovico  il  Pio,  figlio  cadetto  di  Carlo,  fu  associato 
all'Impero  nell'813  e  morì  nelT840  ;  gli  successe  Lotario,  già  più  volte  ribelle 
al  padre,  assieme  ai  fratelli,  e  spentosi  nelP855  ;  Ottone  il  Grande,  della  casa 
di  Sassonia,  resse  l'Impero  dal  936  al  973;  Corrado  il  Salico  fu  eletto 
imperatore  nel  1034  e  si  spense  nel  1039;  Enrico  I  fu  imperatore  dal  936 
e  padre  di  Ottone;  Guido,  duca  di  Spoleto,  nipote  di  Pipino  per  parte  di 
madre,  ottenne  la  corona  imperiale  nelF89i  dopo  una  lunga  lotta  con 
Berengario  e  scomparve  nell'894.  2.  Ma  vedi  piuttosto  gli  inizi  del  libro 
quarto,  ed.  cit.,  p.  90.  La  copia  posseduta  dal  citato  Fondo  Vallettiano 
(XLV.  8.  14)  presenta  dei  richiami  a  margine,  alle  righe  che  qui  interessano, 
attribuibili  con  buona  probabilità  al  Giannone. 


libro  v  •  cap.  v  455 

beneventani  successori.  E  diviso  dapoi  il  principato,  e  moltiplicato 
in  tre,  cioè  nel  Beneventano,  Salernitano  e  Capuano,  che  abbrac- 
ciavano quasi  tutto  il  Regno,  maggiormente  si  dimisero  le  leggi 
longobarde.  Il  ducato  Napoletano,  e  le  altre  città  della  Calabria  e 
de'  Bruzi,  Gaeta,  ed  alcune  altre  città  maritime,  che  anche  dapoi 
durorono  per  qualche  tempo  sotto  la  dominazione  de'  Greci,  rice- 
vettero più  tardi  queste  leggi.  Questi  luoghi,  come  soggetti  agl'im- 
peradori  d'Oriente,  si  governavano  colle  leggi  loro;  e  quali  queste 
si  fossero  sarà  esaminato  nel  settimo  libro,  ove  delle  loro  Novelle 
e  delle  tante  loro  compilazioni  faremo  parola.  Ma  discacciati  che 
ne  furono  i  Greci  da'  Normanni,  e  ridotte  tutte  queste  provincie 
sotto  il  dominio  d'un  solo,  i  Normanni  a*  Longobardi  succeduti 
ritennero  le  loro  leggi  e  le  diffusero  per  tutto,  anche  nelle  città  che 
essi  tolsero  a*  Greci,  come  vedremo  ne*  seguenti  libri;  onde  av- 
venne che  dall'essere  state  queste  leggi  mantenute  in  Italia  sotto 
altri  principi,  che  non  erano  longobardi,  lungamente  quelle  du- 
rassero e  mettessero  più  profonde  radici  in  queste  nostre  provin- 
cie. Quindi  avvenne  ancora  che  sebbene  si  lasciassero  intatte  le 
leggi  romane,  e  che  ciascuno  potesse  vivere  sotto  quella  legge,  o 
romana  o  longobarda  ch'e'  si  eleggesse,21  nulladimeno  per  più  se- 
coli la  fortuna  delle  longobarde  fu  tanta  che  bisognò  che  le  romane 
cedessero.  Poiché  essendo  in  Italia  e  nelle  nostre  provincie  intro- 
dotti in  più  numero  i  feudi,  e  per  conseguenza  più  baroni,  i  quali 
non  con  altre  leggi  vivevano  che  con  quelle  de'  Longobardi,  si 
fece  che  tutti  i  nobili,  al  loro  esempio,  vivessero  colle  medesime 
leggi;  onde,  toltone  gli  ecclesiastici,  i  quali  anche  per  esecuzione 
dell'editto  di  Lodovico  Piob  viveano  (di  qualunque  nazione  si  fos- 
sero) colle  sole  leggi  de'  Romani,  queste  appo  gli  altri,  come  per 
tradizione  e  come  per  antico  costume,  ebbero  uso  e  vigore;  ed 
essendosi  per  l'ignoranza  del  secolo  trascurati  tutti  i  codici  ove 
eran  registrate,  si  rimasero  presso  alla  gente  vulgare  ed  ignobile, 
la  quale  così  nelle  leggi  come  nell'usanze  è  l'ultima  a  deporre  gli 
antichi  istituti  de'  loro  maggiori,  come  più  minutamente  vedremo 
ne'  seguenti  libri. 

E  quindi  parimente  nacque  che  nel  nostro  Regno,  a  riguardo 

a)  In  LL.  Longob.,  lib.  2,  tit.  58.1    b)  Ed.  Lud.  Pii  in  LL.  Longob., 
lib.  3,  1.  37.  In  LL.  Ripuar.,  cap.  Ecclesia  iure  romano  vivit. 

1.  Cfr.  ed.  cit.,  tit.  Lvn  (e  non  58),  lex  1. 


456  ISTORIA   CIVILE   DEL    REGNO   DI   NAPOLI 

delle  nuove  costituzioni  che  s'introdussero  dapoi  da  altri  princi- 
pi normanni,  suevi  e  franzesi,  la  legge  longobarda  fu  detta  ius 
commune,  siccome  quella  de*  Romani  ;a  ma  con  questa  differenza 
che  il  ius  commune  de*  Longobardi  era  il  dominante  ed  in  più 
vigore:  quello  de'  Romani  di  minor  autorità,  ed  al  quale  ricorre- 
vasi  quando  mancassero  le  longobarde  :  e  ciò  nemmeno  sempre  ed 
indistintamente.  Per  questa  cagione  avvenne  ancora  che  la  legge 
longobarda  fosse  allegata  ne'  tribunali,  commendata  da  tutti  e  ri- 
putata fonte  ancora  dell'altre  leggi  che  si  andavano  da'  nuovi  prin- 
cipi stabilendo.  Così  veggiamo  che  i  pontefici  romani  spesso  ne' 
loro  decreti  se  ne  valsero  e  l'approvarono.15  La  legge  feudale,  che 
oggi  appresso  tutte  le  nazioni  d'Europa  è  una  delle  parti  più  nobili 
del  ius  commune,  non  altronde  che  dalle  leggi  longobarde  ricevè  il 
sostegno,  e  sopra  le  quali  è  fondata,  come  non  solo  fra'  nostri 
scrissero  Andrea  d'Isernia  ed  il  vescovo  Liparulo,1  ma  l'avvertì 
ancora  l'incomparabile  Ugon  Grozio. 

Le  costituzioni  stesse  di  Federico  II  del  nostro  Regno  quasi  tutte 
dalle  leggi  de'  Longobardi  procedono,  come,  oltre  a'  nostri,  scrisse 
anche  Grozio,0  ed  è  per  se  medesimo  palese.  Le  Consuetudini  di 
Bari  dalle  leggi  longobarde  derivano,  come  diremo  quando  della 
compilazione  di  quel  volume  ci  tornerà  occasione  di  favellare. 

Ma  ciocché  non  dee  tralasciarsi,  e  che  maggiormente  fa  cono- 
scere l'autorità  loro  ed  il  credito  col  quale  lungamente  si  manten- 
nero in  queste  nostre  provincie,  egli  è  il  vedere  che,  restituita  già 
la  giurisprudenza  romana  nell'accademie  d'Italia  ne'  tempi  di  Lo- 
tario II,  dopo  l'avventuroso  ritrovamento  delle  Pandette  in  Amalfi, 
e  posto  ancor  piede  nella  nostra  accademia  a'  tempi  dell'imperador 
Federico  II,  non  per  questo  mancò  l'uso  e  l'autorità  delle  medesime. 
Anzi  i  nostri  scrittori  allora  più  che  mai  posero  la  maggior  cura 

a)  Const.  Guliel.  Puritatem.2,  b)  Gregor.,  e.  devotis  12,  qu.  2. 
e)  Grot.,  in  Prolegom.  ad  Hist.  Got.  :  «lana  vero,  quae  in  Regno  nea- 
politano  siculoque  valent  Constitutiones  a  Federico  II  collectae, 
pene  omnes  fluunt  e  legibus  Longobardorum».3 


1.  Andrea  d'Isernia  (1220  circa  -  13 16)  scrisse  i  Commentarla  in  usus  feudo- 
rum,  che  vennero  per  la  prima  volta  dati  alle  stampe  in  Napoli  nel  1477. 
Il  Giannone  ha  utilizzato  Pedizione  Neapoli  1571,  a  cura  di  Nardo  Lipa- 
rulo (morto  nel  1578).  2.  Lib.  1,  tit.  63  delle  cit.  Leges  Longobardorum. 
3.  Grozio,  op.  cit.,  p.  64. 


libro  v  •  cap.  v  457 

e  studio  in  commentarle;  non  altrimente  che  fecero  Gregorio  ed 
Ermogeniano,1  i  quali  allora  compilarono  i  loro  codici,  per  li  quali 
proccurarono  che  l'antica  romana  giurisprudenza  non  si  perdesse, 
quando  videro  che  Costantino  M.  colle  nuove  leggi  tirava  a  di- 
struggere l'antiche  de'  Romani  gentili.  Così  veggiamo  che  le  fati- 
che postevi  da  Carlo  di  Tocco2  commentandole,  non  furon  fatte  se 
non  a  tempo  di  Guglielmo  re  di  Sicilia;  e  quell'altro  commento 
ch'abbiamo  delle  medesime  d'Andrea  da  Barletta3  avvocato  fiscale 
che  fu  dell'imperador  Federico  II,  mostra  più  chiaramente  che  sino 
a'  tempi  di  questo  principe  le  leggi  longobarde  nel  nostro  Regno 
alle  romane  erano  superiori;  e  più  ancora  ne'  tempi  posteriori,  per 
l'altro  che  vi  fece  Biase  da  Morcone,4  che  fiorì  sotto  il  re  Roberto. 

Nella  considerazione  delle  quali  cose  se  per  un  poco  si  fossero 
fermati  i  nostri  scrittori,  a'  quali  l'istoria  fu  sempre  inimica,  e  che 
non  fece  loro  distinguere  i  tempi,  come  in  ciò  si  conveniva,  non 
avrebbono  ricolmi  i  loro  commentari  d'infinite  sciocchezze,  insino 
a  dire  (non  sapendo  quali  si  fossero  gli  autori  di  queste  leggi) 
ch'elle  furono  fatte  da  certi  re  che  si  chiamavano  longobardi,  cioè 
pugliesi,  i  quali  venuti  dalla  Sardegna  prima  si  fermarono  nella 
Romagna  ed  indi  passarono  nella  Puglia,  come  scrissero  Odofredo, 
Baldo,  Alessandro  e  Francesco  di  Curte  e,  quel  ch'è  più  strano, 
seguitati  da  Niccolò  Boerio,5  che  volle  più  tosto  credere  a  questi 
sogni  che  dare  orecchio  alla  vera  istoria. 

Né  Luca  di  Penna,6  seguitato  dapoi,  come  spesso  accade,  incon- 
sideratamente da  Caravita,  Maranta,  Fabio  d'Anna7  e  da  altri  no- 


i.  Gregorio  ed  Ermogeniano:  Gregoriano,  o  Gregorio,  raccolse  le  costituzioni 
imperiali,  probabilmente  al  tempo  di  Diocleziano  {Codex  gregorianus)  ; 
Ermogeniano  fu  un  giurista  romano  del  IV  secolo  d.  C,  e  forse  il  compi- 
latore del  Codex  hermogenianus,  nel  quale  erano  raccolte  le  costituzioni 
imperiali  da  Diocleziano  a  Valentiniano.  2.  Carlo  di  Tocco  :  il  già  men- 
zionato glossatore  delle  Leges  Longobardorum  (XIII  secolo).  3.  Andrea  da 
Barletta:  Andrea  Bonello  da  Barletta  (1190  circa-  1275  circa),  glossatore 
civilista.  4.  Biase  da  Morcone:  Biagio  da  Morcone,  giurista  del  XIV  se- 
colo, autore  del  De  differentiis  inter  ius  LangoÒardorum  et  ius  Romanorum. 
5.  Odofredo  Denari  (morto  nel  1265),  giurista  bolognese;  Baldo:  vedi 
la  nota  1  a  p.  372;  Alessandro  è  probabilmente  il  giurista  meridionale 
Alessandro  d'Alessandro  (1461-1523);  Francesco  di  Curte  forse  Francesco 
Curti,  giurista  lombardo  del  XVI  secolo  ;  Niccolò  Boerio  :  vedi  la  nota  1  a 
p.  373.  6.  Luca  di  Penna:  Luca  da  Penne  (lat.  Lucas  de  Penna,  morto  nel 
1390  circa),  giurista  abruzzese.  Il  Giannone  si  riferisce  a  Placito  principimi 
seu  Constitutiones  Regni  neapolitani  cum  glossis  .  .  .  Lucae  de  Pernia,  Lugdu- 
ni  1534.     7.  Prospero  Caravita  (morto  nel  1580  circa),  giurista  di  Eboli, 


458  ISTORIA   CIVILE    DEL   REGNO   DI    NAPOLI 

stri  scrittori,  avrebbe  avuta  occasione  di  declamar  tanto  contra  il 
ius  de'  Longobardi,  e  di  chiamarlo  asinino,  barbaro  ed  incolto,  e 
fece  più  tosto  che  legge.  Egli  diceva  così  perché  non  seppe  distin- 
guere i  tempi,  ne*  quali  scriveva,  da'  secoli  trascorsi,  ne*  quali  queste 
leggi  furono  reputate  le  più  colte  e  prudenti  di  quante  mai  ne  fio- 
rissero in  Italia:  e'  scrisse  ne'  tempi  ultimi  sotto  il  regno  di  Gio- 
vanna I,  dalla  quale  nell'anno  1366  fu  creato  giudice  della  Gran 
Corte,  quando,  avanzandosi  sempre  più  l'autorità  e  lo  splendore 
della  legge  romana,  cominciava  già  fra  gli  avvocati  a  disputarsi 
qual  delle  due  leggi  dovesse  prevalere;  onde  è  che  egli,  trovando 
altri  che  contra  il  suo  sentimento  contendevano  a  favor  delle  lon- 
gobarde, si  scagliava  contro  di  loro,  cumulando  di  tante  ingiurie 
queste  leggi.  E  non  fu  se  non  a'  tempi  degli  Aragonesi  che  queste 
leggi  dal  nostro  Regno  finalmente  con  disusanza  mancassero  af- 
fatto, e  le  romane  si  restituirono,  come  buon  testimonio  è  a  noi 
Matteo  degli  Afflitti,1  il  quale,  se  bene  dica  che  a'  suoi  tempi  non 
vide  mai  che  ne'  nostri  tribunali  le  leggi  de'  Longobardi  prevales- 
sero a  quelle  de'  Romani,  testifica  però  di  avere  inteso  dagli  avvo- 
cati vecchi  che  ne'  tempi  antichi  fu  osservato  il  contrario.  Ma  delle 
vicende  e  varia  fortuna  di  queste  leggi  non  mancheranno  nel  pro- 
gresso di  questa  istoria  più  opportune  occasioni  di  lungamente 
ragionare. 

CAP.  ULT. 

Della  politia  ecclesiastica. 

Le  Chiese  d'Occidente  si  videro  in  questo  ottavo  secolo  in  grandi 
disordini,  e  quella  di  Roma,  che  dovea  esser  chiaro  esempio  per 
l'altre,  fu  la  più  disordinata.  Morto  che  fu  Paolo  nell'anno  767, 
invase  la  cattedra  Costantino  fratello  di  Totone  conte  di  Nepi:z 
questi  con  violenza  e  per  via  di  trattati  si  fece  prima  elegger  papa; 


autore  di  una  raccolta  di  editti  e  prammatiche  del  regno  di  Napoli  edite 
la  prima  volta  a  Venezia  nel  1585  ;  Roberto  Mar  anta  (morto  nel  1530  circa), 
giurista  di  Venosa;  Fabio  d'Anna  (1555-1605),  giurista  napoletano  autore 
di  una  raccolta  di  prammatiche  edite  a  Venezia  nel  1587.  Sia  queste,  sia 
quelle  raccolte  dal  Caravita  furono  riedite  insieme  da  Biagio  Altimari 
(Neapoli  1682-1695,  in  tre  volumi).  1.  Matteo  degli  Afflìtti:  vedi  la  nota  2 
a  p.  408.  2.  Morto  .  .  .  Nepi:  la  fonte  del  Giannone  è  qui  il  Sigonio, 
Historiae,  ad  annum  767,  ed.  cit.,  p.  82. 


LIBRO   V   •    CAP.  ULT.  459 

e  poi  fecesi  ordinar  sottodiacono,  diacono  e  vescovo:  alcuni  uffi- 
ciali della  Chiesa  di  Roma,  non  potendo  soffrire  questa  violenza, 
ricorsero  a  Desiderio  re  de'  Longobardi,  ed  avendo  ottenuto  brac- 
cio ritornarono  a  Roma  con  una  truppa  di  genti  armate.  Totone 
gli  assalì,  ma  nel  combattimento  essendo  rimaso  ucciso,  Costantino 
fu  scacciato  ed  in  suo  luogo  fu  eletto  Filippo  sacerdote  e  monaco; 
ma  non  essendo  stato  trovato  abile  al  posto,  fu  costretto  ritirarsi  in 
un  monasterio,  e  Stefano  IV  fu  di  comun  consenso  eletto  nel  mese 
d'agosto  dell'anno  768.  Dopo  la  costui  elezione,  Costantino  fu  igno- 
miniosamente  deposto  e  trattato  d'una  maniera  crudele  fu  posto 
prigione  e  gli  furono  cavati  gli  occhi:  Stefano  non  trovandosi  ben 
sicuro,  inviò  un  deputato  in  Francia,  a  fine  di  far  regolare  quanto 
apparteneva  agli  affari  della  Chiesa  di  Roma.  Carlo  e  Carlomanno, 
a'  quali  il  deputato,  dopo  la  morte  del  loro  padre  Pipino,  consegnò 
le  lettere,  inviarono  dodici  vescovi  in  Roma,  i  quali  adunatisi  in 
un  concilio  con  un  vescovo  d'Italia  confermarono  Stefano  e  di- 
chiararono nulla  l'ordinazione  di  Costantino.  Stefano  restò  paci- 
fico possessore  di  questa  sede;  ma  poi,  insorte  per  l'elezione  del- 
l'arcivescovo di  Ravenna,  e  per  altre  cagioni  rapportate  di  sopra, 
gravi  discordie  tra  lui  e  Desiderio,  questi,  portando  l'assedio  a  Ro- 
ma, esercitò  ivi  tanto  rigore  che  il  papa  pien  di  spavento  se  ne  mo- 
rì il  primo  di  febbraio  dell'anno  772,  lasciando  successore  Adriano. 

Non  minori  disordini  accadevano  nell'elezione  delle  altre  sedi 
minori.  I  favori  de'  principi,  le  violenze,  i  negoziati  e  le  simonie  vi 
aveano  la  maggior  parte.  La  disciplina  era  quasi  che  all'intutto 
mancata:  vi  era  molta  ignoranza  e  molta  licenza  fra  i  vescovi  e  fra 
i  cherici.  Non  vi  era  dissolutezza  che  non  commettevasi,  tenevano 
femmine  in  casa,  andavano  alla  guerra,  si  arrollavano  alla  milizia 
militando  sotto  gli  altrui  stipendi;  e  scotendo  il  giogo  non  ubbi- 
divano più  a'  loro  vescovi.  I  pontefici  romani,  divenuti  potenti 
signori  nel  temporale  per  la  donazione  fatta  alla  Chiesa  di  Roma  da 
Pipino  e  da  Carlo  suo  successore,  cominciarono  sopra  i  principi  a 
stendere  la  loro  potenza:  Zaccheria  per  aver  avuto  gran  parte  alla 
translazione  del  regno  di  Francia  ne'  Carolingi,  ed  Adriano  del 
regno  d'Italia  ne'  Franzesi,  reseli  tremendi.  Si  pensava  con  mag- 
gior sollecitudine  alle  cose  temporali  che  alle  divine  e  sacrate;  e 
seguitando  gli  altri  vescovi  il  loro  esempio,  venne  a  corrompersi 
ed  a  mancare  affatto  l'antica  disciplina. 

Dall'altro  canto  i  principi  del  secolo  vedendo  tanta  corruzione, 


460  ISTORIA    CIVILE   DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

s'affaticavano  a  tutto  potere  alla  riforma  del  clero  e  della  Chiesa; 
ed  oltre  a  ciò,  dandosi  loro  così  opportuna  occasione,  s'intriga- 
vano molto  più  che  prima  nelP  elezione  de'  vescovi  e  degli  altri 
ministri  della  Chiesa,  ed  a  disporre  delle  loro  entrade.  Lione  Isau- 
rico  e  gli  altri  imperadori  d'Oriente  suoi  successori  volevano  esser 
tenuti  per  moderatori  non  meno  della  politia  ecclesiastica  e  della 
disciplina  che  de'  dogmi  ancora:  promulgavano  editti  intorno  alla 
adorazione  dell'immagini,  e  toltone  il  solo  ministerio  del  sacrifi- 
care, essi  volevan  esser  riputati  i  monarchi  e'  presidenti  delle  chie- 
se; presidevano  a'  sinodi  e  lor  davano  vigore:  davano  le  leggi  e 
componevano  gli  ordini  ecclesiastici;  soprastavano  alle  liti  ed  a' 
giudici  de'  vescovi  e  de'  cherici,  alle  elezioni  che  doveano  farsi 
nelle  sedi  vacanti,  e  ne'  suffragi  che  doveano  darsi:  trasferivano  i 
vescovi  da  una  sede  ad  un'altra:  abbassavano  ed  innalzavano  le 
cattedre  a  lor  modo,  dal  vescovado  al  metropolitano  ed  arcivesco- 
vado :  disponevano  essi  i  gradi  ed  i  troni  per  la  gerarchia:  partivano 
le  diocesi  a  lor  modo,  ed  ergevano  le  chiese  in  nuovi  vescovadi  o 
metropoli.  Quindi  cominciossi  il  disegno  d'attribuire  al  patriar- 
cato di  Costantinopoli  molte  chiese  con  toglierle  a  quello  di  Roma, 
siccome  nel  seguente  secolo  fu  ridotto  a  compimento;  le  tolsero 
infra  l'altre,  come  diremo  a  suo  luogo,  la  Sicilia,  la  Calabria,  la 
Puglia  e  la  Campania,  le  quali  quel  patriarcato  ritenne  finché  per 
l'opera  de'  nostri  Normanni,  e  particolarmente  del  nostro  Rogiero  I 
re  di  Sicilia,  non  si  fossero  restituite  a  quello  di  Roma:  e  maggiori 
stravaganze  si  videro  ne'  seguenti  tempi  nella  declinazione  del  loro 
imperio,  quando  proccurarono  interamente  sottopporre  il  sacerdo- 
zio all'Imperio,  intorno  a  che  potranno  vedersi  Giovanni  Filosacoa 
e  Tommasino,b  che  distesamente  ne  ragionano. 

I  principi  d'Occidente,  ancorché  non  osassero  tanto,  nondimeno, 
collo  spezioso  pretesto  di  riparare  alla  difformità  del  clero  ed  alla 
perduta  disciplina,  s'intrigavano  assai  più  di  ciò  che  importava  la 

a)  Filesac.,  De  sacr.  episc.  aut.9  e.  7,  §  7.1  b)  Tomasin.,  Vet.  et 
noi).  EccL  disc,  p.  1,  1.  1,  e.  52,  n.  6.2 


1.  Jean  Filesac  (lat.  Filesacus;  1556-1638),  teologo  e  controversista  fran- 
cese. Il  datinone  si  riferisce  al  De  sacra  episcoporum  auctoritate  .  .  .  Com- 
mentarius,  Parisiis  1606.  2.  Louis  Thomassin  (1619-1695),  oratoriano 
francese,  Vetus  et  nova  Ecclesiae  disciplina  circa  beneficia  et  beneficiarios, 
Parisiis  1691,  1,  p.  198,  cap.  lvi  (e  non  52). 


LIBRO    V  •    CAP.  ULT.  461 

protezione  e  la  tutela  delle  lor  chiese;  anzi  ne*  primi  anni  di  questo 
secolo,  non  meno  che  gli  ecclesiastici,  deformarono  lo  stato  di 
quelle.  Carlo  Martello,  dopo  aver  preso  il  governo  del  regno  di 
Francia,  in  vece  d'apportar  rimedio  a*  disordini  che  regnavano,  si 
pose  in  possesso  de*  beni  delle  chiese;  donò  le  badie  ed  i  vesco- 
vadi a'  laici;  distribuì  le  decime  a'  soldati,  e  lasciò  vivere  gli  ec- 
clesiastici ed  i  monaci  in  maggiore  dissolutezza. 

In  Italia  ed  in  queste  nostre  provincie  che  ubbidivano  a'  duchi  di 
Benevento,  i  re  ed  i  duchi  longobardi  per  le  continue  inimicizie 
che  tenevano  co'  romani  pontefici  fautori  prima  de*  Greci,  e  poi 
de'  Franzesi,  cagionarono  non  minore  deformità.  Il  re  Desiderio, 
per  le  contese  avute  col  pontefice  Stefano  IV  intorno  all'elezione 
fatta  da  lui  di  Michele  in  arcivescovo  di  Ravenna,  fatto  scacciare 
dal  papa,  per  vendicarsene  fece  cavar  gli  occhi  a  Cristofano  ed  a 
Sergio  uomini  del  papa,  e  poi  fece  anche  morir  Cristofano,  ed  inti- 
morì di  maniera  il  papa  che  Paccellerò  la  morte.1 

Furono  i  Longobardi  non  meno  che  i  Goti,  e  gl'imperadori  d'Oc- 
cidente suoi  predecessori,  molto  accorti  a  ritenere  tutti  i  diritti 
che  lor  dava  la  ragion  dell'imperio.  Il  dichiarare  le  chiese  per  asili, 
e  prescriver  le  leggi  per  quali  delitti  potessero  i  sudditi  giovarsi 
dell'asilo,  e  per  quali  il  confugio  ad  essi  non  giovasse,  era  della  loro 
potestà.  Il  re  Luitprando,  imitando  gl'imperadori  d'Occidente,  de' 
quali  ci  restano  molte  loro  costituzioni  nel  Codice  di  Teodosio  e  di 
Giustiniano  a  ciò  attinenti,  stabilì  ancor  egli  che  gli  omicidi  ed 
altri  rei  di  morte  non  potessero  giovarsi  dell'asilo.41  Impone  a' 
vescovi,  abati  e  ad  altri  rettori  delle  chiese  o  monasteri  di  non 
ricettargli,  di  non  impedire  il  magistrato  secolare  volendogli  estrar- 
re, e  se  daranno  mano  a  fargli  fuggire  o  occultargli,  ovvero  ad 
impedire  che  non  siano  estratti,  loro  si  prescrive  ancora  pena  pecu- 
niaria di  600  soldi.b  Ritennero  ancora  i  nostri  re  longobardi  la 
ragione  di  stabilire  leggi  sopra  i  matrimoni,0  di  vietargli  con  chi 


a)  L.  2  De  kis  qui  ad  EccL  confugiunt,  tit.  39,  lib.  2  in  LL.  Longob.2 
b)  L.  4  cit.,  tit.  39,  lib.  2.3  e)  Launojus,  Regia  in  matrim.  poteste 
part.  3,  art.  2,  cap.  7-4 


1.  In  Italia morte:  cfr.  C.  Sigonio,  Historiae,  ed.  cit.,  p.  83.     2.  Cfr.  ed. 

cit.,  tit.  xxxviii  (e  non  xxxix;  la  legge  11  è  di  Carlo  Magno).  3.  Cfr.  ivi, 
tit.  xxxviii  (e  non  xxxix;  anche  la  legge  rv  è  di  Carlo  Magno).  4.  Jean 
de  Launoy  (1603  circa  -  1678),  Regia  in  matrimonium  potestas,  Parisiis  1674. 


462  ISTORIA   CIVILE   DEL    REGNO   DI   NAPOLI 

l'onestà  o  parentela  0  affinità  recava  impedimento:  diffinire  l'età  di 
contraergli:  dichiarare  T illegittimità  delle  nozze,  degli  sponsali  e 
della  prole,  e  di  stabilire  tutto  ciò  che  riguarda  il  maggior  decoro 
ed  onestà  di  quelli,  com'è  chiaro  dalle  loro  leggi.a 

GPimperadori  d'Oriente  a'  quali  ubbidivano  in  questi  tempi  il 
ducato  Napoletano,  gran  parte  della  Calabria  e  della  Puglia  e  molte 
città  maritime  di  queste  nostre  provincie,  parimente  inimici  de* 
romani  pontefici,  esercitavano  sopra  le  chiese  delle  città  a  lor  sog- 
gette assoluto  arbitrio.  Costantino  e  Lione  suo  figliuolo  volevano 
far  valere  in  quelle  i  loro  editti  per  l'abolizione  delle  immagini: 
non  vollero  far  ammettere  Paolo  eletto  vescovo  di  Napoli  come 
aderente  al  pontefice,  e  fecero  che  i  Napoletani  non  lo  ricevessero 
dentro  la  lor  città.  Né  fu  veduta  maggior  diformità  nella  Chiesa  di 
Napoli  che  in  questi  tempi:  si  vide  nel  medesimo  tempo  Stefano, 
che  n'era  duca,  e  che  come  ufficiale  dell' imperadore  teneva  il  go- 
verno del  ducato,  morta  sua  moglie,  essere  stato  eletto  vescovo,  e 
non  deponendo  l'antica  carica  amministrare  insieme  le  umane  e  le 
divine  cose.  Morto  che  fu,  e  succeduto  nel  ducato  Teofilatto  suo 
genero,  dovendosi  venire  all'elezione  del  nuovo  pastore,  Esprassia, 
figliuola  di  Stefano  e  moglie  di  Teofilatto,  crucciata  contra  il  clero, 
che  avea  mostrato  della  morte  di  suo  padre  gran  contento  ed  alle- 
grezza, giurò  che  non  avrebbe  fatto  eleggere  niun  di  loro  per  ve- 
scovo ;  ed  il  duca  suo  marito,  sia  per  non  contristarla,  o  per  avarizia, 
faceva  perciò  differire  l'elezione,  tanto  che  i  Napoletani,  attediati 
della  lunga  vedovanza  della  lor  Chiesa,  andarono  uniti  insieme,  e 
clero  e  popolo,  a  gridare  avanti  il  ducal  palagio  che  loro  dassero 
per  vescovo  chi  volevano.  Allora  Esprassia,  tutta  d'ira  e  di  furore 
accesa,  prese  dal  popolo  un  uomo  laico,  chiamato  Paolo,  e  loro  il 
diede  per  vescovo  :  né  alcuno  avendo  ardire  di  contrastarle,  presero 
Paolo,  lo  tosarono  e  l'elessero  vescovo,  il  quale  gito  a  Roma,  il 
pontefice  per  la  corruttela  del  secolo  non  ebbe  alcuna  difficoltà  di 
consecrarlo  e  confermarlo.b 


a)  LL.  Longob.y  lib.  2,  tit.  de  prohibitis  nuptiis,  Kb.  2,  tit.  1  de 
sponsalib.     b)  Io.  Diac,  De  epis.  neap.  Chioc,  De  epis.  neap.,  a.  795. * 


1.  Si  tratta  rispettivamente  di  Giovanni  di  Napoli  (IX-X  secolo),  diacono 
della  chiesa  di  San  Gennaro,  autore  di  un  Chronicon  episcoporum  S.  Nea- 
politanae  Ecclesiae  ab  eorum  exordio  usque  ad  annum  872,  edito  dal  Muratori 
in  R.LS.,  tom.  I,  par.  li,  1723;  e  di  Bartolomeo  Chioccarelli  (1575  circa  - 


LIBRO   V   •    CAP.  ULT.  463 

In  tanta  corruttela,  ed  essendo  giunte  le  cose  in  tale  estremità, 
si  scossero  finalmente  non  meno  i  prelati  della  Chiesa  che  i  prin- 
cipi del  secolo  a  darvi  qualche  riparo:  in  Francia  morto  Carlo 
Martello,  avendosi  diviso  il  regno  Carlomanno  e  Pipino  suoi  fi- 
gliuoli, benché  non  avessero  la  qualità  di  re,  formarono  il  disegno 
di  operare  in  guisa  che  fosse  in  qualche  modo  riformata  la  discipli- 
na. Carlomanno  principe  d'Austrasia  fece  nel  742  convocare  un 
concilio  in  Alemagna,  e  vi  pubblicò  col  consenso  de*  vescovi  molti 
regolamenti  per  riforma  della  disciplina  e  de*  costumi:  vietò  agli 
ecclesiastici  d'andare  alla  guerra:  ordinò  a'  curati  di  essere  sotto- 
messi a'  loro  vescovi  :  fece  degradare  e  mettere  in  penitenza  alcuni 
ecclesiastici  convinti  di  delitti  d'impurità;  e  nell'altra  adunanza, 
che  Tanno  seguente  fece  tenere  in  Lestines  vicino  a  Cambray,  ol- 
tre di  aver  confermato  tutto  ciò,  vietò  ancora  gli  adultèri,  gl'incesti, 
i  matrimoni  illegitimi  e  le  superstizioni  pagane.1 

Pipino  principe  di  Neustria  si  affaticò  parimente  dal  suo  canto 
perché  la  disciplina  ecclesiastica  fosse  riformata:  fece  tener  un'a- 
dunanza di  23  vescovi  e  molti  Grandi  del  regno  in  Soisson  nel- 
l'anno 744,  nella  quale  furono  confermati  i  canoni  de'  concili  pre- 
cedenti ed  ordinato  che  inviolabilmente  fossero  osservati:  che  in 
ogni  anno  dovessero  convocarsi  i  sinodi:  che  i  sacerdoti  dovessero 
esser  soggetti  a'  loro  vescovi:  che  i  cherici  non  potessero  aver 
femmine  nelle  lor  case,  eccettuatene  le  loro  madri,  sorelle  e  nipoti; 
né  i  laici  vergini  a  Dio  sacrate.  Ne'  seguenti  anni  752,  755,  756  e 
757  furono  tenute  altre  consimili  adunanze,  nelle  quali  si  stabilirono 
altri  regolamenti  sopra  i  costumi.  E  Carlomanno  sopra  ogn' altro 
quasi  ogni  anno  fece  tener  queste  adunanze;  nelle  quali  parimente 
furono  stabiliti  molti  capitulari  per  mantenere  la  disciplina,  rino- 
vando  gli  antichi  canoni  e  facendo  de'  nuovi  regolamenti  sopra  i 
pressanti  bisogni  della  Chiesa.  Queste  adunanze  non  erano  pro- 
priamente concili:  elle  non  erano  composte  solamente  di  vescovi, 
ma  eziandio  di  signori  e  di  Grandi  del  regno  convocati  da'  principi. 
I  vescovi  stendevano  gli  articoli  per  la  politia  ecclesiastica,  ed 
i  signori  per  quello  apparteneva  allo  Stato  ;  e  poi  erano  autorizzati 

1647  circa),  Antistitum  praeclarissimae  Neapolitanae  Ecclesiae  Catalogus, 
ab  Apostolorum  temporibus  ad  hanc  usque  nostrani  aetatem  et  ad  annum 
MDCXLIII,  Neapoli,  s.  a.  (ma  1643),  pp.  77-9.  1.  In  tanta  corruttela  . . . 
pagane:  questa  e  le  notizie  che  seguono  possono  essere  state  tratte  da  P.  De 
Marca,  De  concordia  cit.,  lib.  vi,  cap.  xxrv,  coli.  980  sgg. 


464  ISTORIA   CIVILE    DEL   REGNO   DI    NAPOLI 

e  pubblicati  da'  principi,  affinché  avessero  forza  di  legge.1  Questi 
articoli  erano  chiamati  capitoli,  ovvero  capitolari.  E  questa  fu  la 
maniera  colla  quale  era  regolata  la  disciplina  della  Chiesa  di  Fran- 
cia e  di  Alemagna  sotto  la  seconda  stirpe  di  que'  re  in  questo 
secolo. 

In  Italia2  furono  parimente  da  alcuni  pontefici  romani  stabiliti 
molti  canoni  per  riparo  della  caduta  disciplina.  Papa  Zaccheria 
tenne  perciò  due  concili  in  Roma,  uno  nell'anno  743  composto 
d'intorno  a  quaranta  vescovi  d'Italia,  ove  fu  rinovata  la  proibizione 
fatta  tante  volte  a'  vescovi,  a'  sacerdoti  ed  a'  diaconi  di  abitare  in- 
sieme con  femmine,  e  dati  altri  provvedimenti;  l'altro  nel  745, 
composto  di  sette  vescovi  e  d'alcuni  sacerdoti,  dove  furono  discusse 
alcune  accuse  fatte  a'  vescovi  e  trattati  alcuni  dogmi  intorno  all'ido- 
latria, e  dichiarato  che  molti  angioli  che  venivano  invocati  erano  i 
loro  nomi  ignoti,  e  che  non  si  sapevano  se  non  i  nomi  di  tre,  cioè 
Michele,  Raifaele  e  Gabriele.  Anche  in  Aquileia  Paolino  suo  vesco- 
vo nell'anno  791  tenne  un  concilio,  ove  dopo  una  confessione  di 
fede  stabilì  quattordici  canoni  sopra  la  disciplina  de'  cherici,  so- 
pra i  matrimoni  e  sopra  le  obbligazioni  delle  monache,  e  sopra  altri 
bisogni. 

In  Oriente,3  dapoi  che  l'imperadrice  Irene  prese  il  governo  del- 
l'Imperio, si  pensò  a  ristabilir  la  disciplina:  prese  risoluzione  di 
far  ragunare  un  nuovo  concilio  per  esaminare  ciò  che  l'altro  fatto 
tenere  da  Costantino  Copronimo  nell'anno  753  avea  stabilito  intor- 
no al  culto  delle  immagini.  Ne  diede  ella  avviso  al  pontefice  Adria- 
no, che  vi  condescese  e  vi  mandò  due  sacerdoti  per  tenervi  il  suo 
luogo.  L'adunanza  del  concilio  cominciò  in  Costantinopoli  nell'an- 
no 786,  ma  essendo  stata  turbata  dagli  ufficiali  dell'esercito  e  da' 
soldati  eccitati  da'  vescovi  opposti  al  culto  delle  immagini,  fu  tra- 
sferita in  Nicea  l'anno  787. 

I  legati  del  papa  vi  tennero  il  primo  luogo;4  Tarasio  patriarca  di 
Costantinopoli  il  secondo:  i  deputati  de'  vescovi  d'Oriente  il  terzo: 


1.  Queste  adunanze .  .  .  legge:  anche  per  questo  cfr.  P.  De  Marca,  op.  cit., 
lib.  vi,  cap.  xxv,  coli.  985-6.  2.  In  Italia  ecc.  :  le  notizie  che  qui  seguono 
sono  probabilmente  tratte  dalla  Histoire  ecclésiastique  di  Claude  Fleury 
(cfr.  la  nota  3  a  p.  31),  lib.  xlii,  passim.  3.  In  Oriente  ecc.  :  anche  per  que- 
ste notizie  cfr.  Fleury,  op.  cit.,  lib.  xliv,  nn.  25  e  26.  4.  I  legati  .  .  .  luogo: 
cfr.  Fleury,  op.  cit.,  lib.  xliv,  n.  29:  «Les  deux  Légats  du  pape  sont  nom- 
mez  les  premiers  dans  les  actes». 


LIBRO   V   •    CAP.  ULT.  465 

dopo  essi  Agapeto  vescovo  di  Cesarea  in  Cappadocia,  Giovanni 
vescovo  di  Efeso,  Costantino  metropolitano  di  Cipri,  con  250  arci- 
vescovi e  vescovi  e  più  di  cento  sacerdoti  e  monaci.  Vi  assisterono 
ancora  due  commessari  dell'imperadore  e  delPimperadrice,  ed  in 
più  azioni  fu  lungamente  dibattuto  il  dogma  del  culto  delle  imma- 
gini e  stabiliti  sopra  ciò  molti  regolamenti.  Non  meno  che  a'  dogmi, 
fu  provveduto  sopra  la  disciplina  ecclesiastica  per  22  canoni:  fu 
data  norma  all'esame  de*  vescovi,  prescrivendosi  di  non  poter  esser 
ammessi  se  non  fossero  atti  ad  ammaestrare  i  popoli  e  se  non  sape- 
vano il  Salterio,  il  Vangelo,  l'Epistole  di  S.  Paolo  ed  i  canoni.  Si 
dichiarano  nulle  tutte  l'elezioni  de'  vescovi  o  sacerdoti  fatte  da' 
principi,  e  l'elezione  d'un  vescovo  si  commette  a'  vescovi  convicini. 
Si  procede  severamente  contra  i  vescovi  che  ricevessero  denari  per 
deporre  ovvero  fulminar  le  scomuniche.  Si  ordina  che  tutte  le 
chiese  ed  i  monasteri  debbiano  avere  i  loro  economi  :  che  i  vescovi 
e  gli  abati  non  possano  senza  necessità  vendere  o  donare  le  tenute 
delle  loro  chiese  e  monasteri.  Che  non  debbano  le  loro  case  vesco- 
vili e  monasteri  fargli  servire  per  osterie.  Che  un  cherico  non  possa 
essere  ascritto  a  due  chiese:  che  i  vescovi  e  gli  altri  ecclesiastici  non 
possano  portare  abiti  pomposi.  Si  proibisce  la  fabbrica  degli  oratòri 
ovvero  cappelle,  se  non  vi  si  possiede  un  fondo  sufficiente  per  sommi- 
nistrar le  spese.  Si  vieta  alle  femmine  d'abitare  nelle  case  de'  vesco- 
vi, ovvero  ne'  monasteri  d'uomini.  Si  proibisce  di  prendere  cos'al- 
cuna  per  gli  ordini,  né  per  l'ingresso  ne'  monasteri,  sotto  pena  di 
deposizione  a'  vescovi  ed  a'  sacerdoti;  ed  in  quanto  alle  badesse  ed 
agli  abati  che  non  sono  sacerdoti  di  essere  cacciati  da*  monasteri; 
permette  però  a  coloro  che  sono  ricevuti  ne'  monasteri,  ovvero  a' 
loro  parenti,  il  donar  volontariamente  o  denaio,  o  altro,  sotto  la 
condizione  però  che  que'  donativi  debbano  rimanere  a'  monasteri, 
o  che  colui  che  v'entra  vi  dimori,  o  che  n'esca,  quando  i  superiori 
non  siano  cagione  della  loro  uscita.  Si  vieta  il  far  monasteri  doppi 
d'uomini  e  di  femmine,  e  si  comanda  che  rispetto  a  quelli  che  sono 
già  stabiliti  i  monaci  e  le  monache  debbiano  abitare  in  due  case 
diverse;  e  che  non  possano  vedersi,  né  aver  familiarità  insieme.  Si 
proibisce  a'  monaci  il  lasciar  i  loro  propri  monasteri  per  andarsene 
in  altri;  e  per  ultimo  il  mangiar  insieme  con  femmine,  quando  ciò 
non  fosse  necessario  per  lo  bene  spirituale,  ovvero  per  accogliere 
qualche  parente,  o  pure  in  occasione  di  viaggio. 

Tali  e  tanti  provvedimenti,  perché  la  caduta  disciplina  in  qualche 


466  ISTORIA   CIVILE    DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

modo  si  ristabilisse,  fur  dati  in  questi  tempi  :  dove  i  vizi  abbonda- 
vano, bisognavano  molte  leggi  per  reprimergli;  ma  questa  non  era 
bastante  medicina  a  tanti  mali:  a  questo  fine  alcuni  vescovi  per 
riformar  il  lor  clero  fecero  vivere  i  loro  preti  in  comune  dentro 
un  chiostro,  ed  alla  lor  vigilanza  è  debitrice  la  chiesa  dell'ordine  de' 
Canonici  Regolari,  de'  quali  Crodegando  vescovo  di  Mets  sembra 
essere  stato  l'institutore,  ovvero  il  restauratore.1  Le  chiese  delle 
nostre  provincie,  le  quali  parte  ubbidivano  agli  imperadori  d'O- 
riente, parte  a'  duchi  longobardi,  furono  perciò  alquanto  rialzate, 
ma  non  tanto,  sì  che  per  la  barbarie  ed  ignoranza  del  secolo  non  si 
vedessero  per  anche  disordinate,  e  pochi  vestigi  in  quelle  rimanes- 
sero dell'antica  disciplina. 

il.  Monaci,  e  beni  temporali. 

I  nostri  principi  ed  i  signori  grandi  non  cessavano  di  far  delle 
donazioni  considerabili  alle  chiese,  ed  a  fondare  de'  nuovi  mona- 
steri ed  arricchire  i  già  costrutti.  Fu  veramente  questo  il  secolo  de' 
monaci:  l'ignoranza  e  la  superstizione  non  men  de'  laici  che  de' 
preti  era  nell'ultimo  grado:  solo  ne'  monaci  eravi  rimasa  qualche 
letteratura,  onde  con  facilità  tiravano  per  le  orecchie  la  gente  a 
ciò  ch'essi  volevano  :  i  tanti  miracoli,  le  tante  nuove  divozioni  in- 
ventate a  qualche  particolar  santo,  l'istruir  essi  per  l'ignoranza  e 
dissolutezza  de'  preti  il  popolo,  operò  tanto  che  tirarono  a  sé  la  divo- 
zione e  rispetto  di  tutti.  Il  re  Luitprando  costrusse  non  pur  da 
pertutto  dove  soleva  dimorare  molte  chiese,  ma  anche  ben  ampi 
monasteri.  Costui  edificò  il  monastero  di  S.  Pietro  fuori  le  mura 
di  Pavia,  che  a'  tempi  di  Paolo  Warnefridoa  per  la  sua  ricchezza 
si  chiamava  Cielo  d'oro.  Edificò  ancora  in  cima  delle  Alpi  di  Bar- 
done  il  monastero  di  Berceto;  ed  oltre  a  ciò  fabbricò  in  Holonna 
un  tempio  con  mirabil  lavoro  in  onore  di  S.  Anastasio  Martire,  dove 
fece  anche  costruire  un  ampio  monastero.2  Egli  con  molta  magni- 
ficenza per  tutti  i  luoghi  ordinò  chiese,  e  fu  il  primo  che  dentro 

a)  Paul.  Warnefr.,  lib.  6,  cap.  18.3 


1.  Crodegando ...  restauratore-,   cfr.   Fleury,   op.   cit.,   lib.  xliii,   n.  37. 

2.  Edificò  ancora  . . .  monastero:  per  queste  notizie  cfr.  Paolo  Diacono,  De 
gestis  Langobardorum,  in  Grozio,  op.  cit.,  p.  930.  3.  Cfr.  in  Grozio,  loc. 
cit.,  al  cap.  lviii  e  non  già  18. 


LIBRO    V    •    CAP.  ULT.  467 

il  suo  palazzo  edificò  un  oratorio  dedicato  al  Salvatore,  ordinandovi 
sacerdoti  e  cherici,  i  quali  ogni  giorno  vi  cantassero  i  divini  ufEci.1 
Quindi  cominciarono  appo  noi  a  rilucere  con  maggior  dignità  e 
splendore  le  cappelle  regie,  le  quali  da'  sommi  pontefici  arricchite 
poi  di  molte  prerogative  ed  esenzioni  per  compiacere  a'  princi- 
pi che  glie  le  richiedevano,  non  meno  esse  che  i  loro  cappellani 
s'elevarono  cotanto,  quanto  ravviseremo  ne'  seguenti  libri  di  que- 
st'istoria. 

I  nostri  duchi  di  Benevento,  seguitando  l'esempio  de'  loro  re, 
non  meno  in  Benevento  che  in  tutto  il  loro  ampio  ducato  ne  fonda- 
rono de'  nuovi  ed  arricchirono  i  già  costrutti,  e  sopra  ogni  altro 
quello  di  M.  Casino.  Arechi  ingrandì  quello  di  S.  Sofia  in  Beneven- 
to e  di  profuse  donazioni  lo  cumulò.  A  questi  tempi  nel  707  fu 
costrutto  da  que'  tre  famosi  nobili  longobardi  beneventani  Paldo, 
Taso  e  Tato  il  famoso  monastero  di  S.  Vincenzo  a  Vulturnoa  con 
tanta  magnificenza  che  ne'  seguenti  tempi,  quasi  emulo  di  quello  di 
M.  Casino,  innalzò  i  suoi  abati  a  tanta  dignità  ch'erano  adoperati 
ne'  più  importanti  affari  della  sede  di  Roma  e  de'  più  potenti  signori 
d'Occidente.  Non  meno  in  questo  ducato  che  nel  Napoletano  e 
nelle  altre  città  sottoposte  agl'imperadori  d'Oriente,  i  monasteri  si 
multiplicarono,  non  pure  quelli  sotto  la  Regola  di  S.  Benedetto 
che  di  S.  Basilio;  non  solamente  degli  uomini  che  delle  donne. 
In  Napoli  Stefano  duca  e  vescovo  costrusse  molte  chiese  e  più 
monasteri,  dotandogli  d'ampi  poderi  e  rendite;  così  quello  di  S. 
Festo  Martire,  ora  unito  a  quello  di  S.  Marcellino,  come  l'altro  di 
S.  Pantaleone,  di  cui  oggi  non  vi  è  vestigio  ;  e  restituì  in  più  magni- 
fica forma  quello  di  S.  Gaudioso.15  Antimio  console  e  duca  ne 


a)  Ostiens.,  lib.  1,  cap.  4.  V.  Pellegr.  in  serie  abbai,  cassiti.  Theo- 
demar.  Vedi  UgheL,  tom.  6,  pag.  470,  ove  si  legge  la  Cronaca  d'Aut- 
perto  Abate.2    b)  Chioc,  De  epis.  neap.  in  Stephano,  a.  7Ó4-3 


1.  dentro  il  suo  palazzo  . . .  uffici',  cfr.  Paolo  Diacono,  loc.  cit.:  «Intra  suum 
quoque  palatium,  oraculum  domini  Salvatoris  aedificavit,  et  quod  nulli 
alii  reges  habuerant,  sacerdotes  et  clericos  instituit,  qui  ei  quotidie  divina 
officia  decantarent  ».  2.  Per  la  Cronaca  di  Leone  Ostiense  si  veda  non  già 
il  capitolo  4,  ma  il  9.  Per  il  Ckronicon  vulturnense  di  Ambrogio  Autperto, 
abate  di  San  Vincenzo  al  Volturno  morto  nel  781,  cfr.  F.  Ughelli  (vedi  la 
nota  2  a  p.  159),  Italia  sacra,  vi,  Romae  1659,  coli.  369  sgg.  Questa  cronaca 
fu  utilizzata  da  Camillo  Pellegrino.  3.  B.  Chioccarelli,  Antistitum  praecla- 
rissimae  ecc.,  cit.,  pp.  72  sgg. 


468  ISTORIA   CIVILE   DEL    REGNO   DI    NAPOLI 

fondò  altri,  quello  de'  SS.  Quirico  e  Giulitta,  la  chiesa  di  S.  Paolo, 
che  la  congiunse  col  monastero  di  S.  Andrea;  e  così  anche  fecero 
non  meno  i  vescovi  e'  duchi  di  Napoli  che  gli  altri  ufficiali  e'  pre- 
lati delle  altre  città  di  queste  provincie,  onde  ora  si  compone  il 
Regno,  i  quali  possono  osservarsi  nella  laboriosa  opera  dell'Italia 
sacra  d'Ughello.  Crebbero  perciò  i  monaci  e  le  loro  ricchezze  in 
immenso;  e  non  minore  fu  l'accrescimento  della  loro  autorità  e 
riputazione  a  cagion  dell'ignoranza  negli  altri,  e  delle  lettere  che 
nel  miglior  modo  che  si  potè  in  tanta  barbarie  fra  loro  si  con- 
servavano. 

Fondati  perciò  tanti  monasteri,  i  monaci,  cotanto  arricchiti  e 
vedutisi  in  tanta  elevatezza,  tentarono  ora  più  che  mai  di  scuotere 
affatto  il  giogo  de'  vescovi.  Cominciarono  egli  è  vero  nel  precedente 
secolo  i  monasteri  ad  esenzionarsi  dalla  giurisdizione  de*  vescovi, 
ma  ciò,  secondo  narra  Alteserra,a  non  si  usava  che  di  radissimo. 
*(Ne'  precedenti  secoli  furono  rarissime  l'esenzioni  de'  monaci,  ed 
Isacco  Haberto  Archiep.,  pag.  595  crede  che  il  primo  abate  esente 
fosse  stato  quello  del  monastero  Lirinese,  a  cui  dal  concilio  Are- 
latense  III  fosse  stata  conceduta  la  prima  volta  esenzione  circa  le 
cose  temporali  intorno  l'anno  460) .*b L'esempio  che  in  questo  seco- 
lo diede  Zaccheria  col  monastero  di  Monte  Casino  fece  che  gli  altri 
di  tempo  in  tempo  si  rendessero  tutti  esenti.  Lo  splendore  nel 
quale  era  il  medesimo  in  questi  tempi  trasse  a  sé  tutto  il  favore  de' 
romani  pontefici,  i  quali,  come  se  fossero  presaghi  che  da  quello 
come  dal  cavallo  troiano  ne  doveano  uscire  tanti  pontefici  suoi  suc- 
cessori, non  mai  si  stancarono  di  cumularlo  di  privilegi  e  di  preroga- 
tive. Lo  rendevano  più  augusto  essersi  ivi  resi  monaci,  oltre  a  Rachi, 
Carlomanno  e  tanti  altri  personaggi  regali  ed  illustri;  perciò,  ristabi- 
lito col  favore  de'  due  Gregori  II  e  III  da  Petronace  in  quella  magni- 
fica forma,  Zaccheria  emulando  i  suoi  predecessori  volle  di  maggiori 
preminenze  arricchirlo.  Volle  egli  di  sua  man  propria  consecrarlo, 

a)  Alteser.,  Asceticon,  Kb.  7,  cap.  12.1  b)  Vid.  Fleury,  Hist.  eccL, 
1.  29,  nu.  19.  Thomas.,  par.  1,  1.  3,  cap.  26,  num.  16.2 

1.  A.  Dadin  de  Hauteserre,  Asceticon,  sive  originum  rei  monasticae  libri 
decem>  Parisiis  1674,  pp.  393  sgg.  Ma  cfr.  anche  P.  De  Marca,  De  concor- 
dia cit.,  coli.  325  sgg.  2.  Il  brano  tra  parentesi  è  aggiunta  del  Gianno- 
ne;  il  riferimento  è  a  Isaac  Habert  (morto  nel  1668),  vescovo  di  Vabres, 
autore  del  De  consensu  hierarchiae  et  monarchiae  .  .  .,  Parisiis  1640,  e  del 
De  cathedra  seu  primatu  singulari  S.  Petti . .  .,  Parisiis  1645. 


LIBRO   V  -   CAP.  ULT.  469 

ed  ivi  portatosi  con  tredici  arcivescovi  e  sessantotto  vescovi,  rendè 
più  augusta  e  magnifica  la  consecrazione.  Furono  i  monaci  pronti  a 
richiederlo  che  sì  famoso  ed  illustre  monastero  dovesse  esentarsi 
affatto  dalla  giurisdizione  del  proprio  vescovo  nella  cui  diocesi  era; 
Zaccheria  volentieri  gli  concedè  ampia  esenzione,  e  ne  spedì  privi- 
legio, col  quale  non  solo  quel  monastero,  ma  tutti  gli  altri  apparte- 
nenti a  quello,  ovunque  posti,  fossero  esenti  e  liberi  dalla  giurisdi- 
zione di  tutti  i  vescovi,  «ita  ut  nullius  iuri  subiaceat,  nisi  solius 
romani  pontificis»,  come  sono  le  parole  di  Lione  Ostiense.*  Oltre 
a  ciò  lo  decorò  ancora  d'altre  preminenze,  che  in  tutti  i  concili 
l'abate  cassinense  sopra  tutti  gli  altri  abati  sedesse,  e  prima  degli 
altri  desse  il  suo  voto;  ch'eletto  da'  monaci  dovesse  consacrarsi  dal 
pontefice  romano  ;  che  il  vescovo  entrando  nella  sua  dizione  non 
potesse  celebrare  né  far  altra  pontificai  funzione,  se  non  fosse  in- 
vitato dall'abate  o  dal  proposito;  che  non  gli  fosse  lecito  esigger 
decime  da  lui,  né  interdire  i  suoi  sacerdoti,  né  chiamarli  a'  concili 
sinodali;  che  gli  abati  di  questo  monastero  potessero  tener  ordina- 
zioni, consecrar  altari  e  ricevere  per  qualsisia  vescovo  il  Crisma. 
Gli  confermò  ancora  con  suo  precetto  la  possessione  di  tutti  que' 
beni  che  per  munificenza  di  tanti  principi  longobardi  e  di  vari  si- 
gnori avea  acquistati.  Gli  altri  pontefici  successori,  seguitando  le 
medesime  pedate  accrebbero  questi  privilegi,  de'  quali  l'abate  della 
Noceb  ne  ha  tessuto  un  lungo  catalogo. 

Gli  altri  monasteri  sotto  altre  regole,  ed  i  loro  abati  di  non  infe- 
rior  fama  e  valore  con  facilità  impetravano  da'  romani  pontefici 
d'esser  ricevuti  sotto  la  protezion  di  S.  Pietro,  ed  immediatamente 
sotto  alla  soggezion  pontificia,  perché  questa  esenzione  accresceva 
in  gran  parte  la  lor  potenza  e  portava  grande  estenzione  della  loro 
autorità  appresso  tutte  le  nazioni  dell'Occidente;  poiché  costruen- 
dosi tuttavia  grandi  e  numerosi  monasteri  retti  da  abati  di  gran 


a)  Ostiens.,  lib.  1,  cap.  4.  V.  l'Abate  della  Noce,  che  testifica  ser- 
barsi ancora  questo  privilegio  nelPArchiv.  Cassin.1  b)  Ab.  della 
Noce,  in  Excurs,  hist.  ad  Chron.  Ost.,  lib.  1,  e.  4.2 


1.  Cfr.  Leone  Ostiense,  Chronica,  ed.  cit.  di  A.  della  Noce,  p.  103.  Ma 
sull'autenticità  di  questa  bolla  cfr.  L.  A.  Muratori,  Antiqmtates  italicae 
Medii  Aevi,  diss.  lxx.  («  Così  che  non  dipenda  dalla  giurisdizione  di  nessu- 
no, se  non  da  quella  del  solo  pontefice  romano  »).  2.  Cfr.  Leone  Ostiense, 
Chronica,  ed.  cit.,  pp.  103-7. 


470  ISTORIA    CIVILE   DEL   REGNO   DI    NAPOLI 

fama,  i  quali  per  la  lor  dottrina  oscuravano  i  vescovi,  nacque  infra 
di  loro  qualche  gara;  onde  gli  abati  per  sottrarsi  dalla  loro  sogge- 
zione ricorrevano  al  papa  e  tosto  impetravano  esenzioni  con  sot- 
toporsi immediatamente  sotto  alla  soggezion  pontificia.  Ne  rice- 
vevano oltre  a  ciò  altri  privilegi,  di  far  essi  li  lettori  per  i  loro  mo- 
nasteri, d'esser  ordinati  da'  corevescovi,1  e  tanti  altri.  Quindi  nac- 
que che  il  pontificato  romano  acquistasse  molti  defensori  della  sua 
autorità  e  potestà  ;  poiché,  ottenendo  i  monaci  tanti  privilegi  e  prero- 
gative, per  conservarsegli  erano  obbligati  di  sostener  l'autorità  del 
concedente;  il  che  facendo  ottimamente  i  monaci,  ch'erano  i  più 
letterati  del  secolo,  non  passarono  molti  anni  che  si  videro  tutti  i 
monasteri  esentati.  Ed  in  decorso  di  tempo  i  capitoli  ancora  delle 
cattedrali,  essendo  per  la  maggior  parte  regolari,  co*  medesimi 
pretesti  impetrarono  anch'essi  esenzione:  e  finalmente  le  congre- 
gazioni Cluniacense  e  Cisterciense  tutte  intere  furono  esentate  con 
gran  augumento  dell'autorità  pontificia,  la  quale  veniva  ad  aver 
sudditi  propri  in  ciascun  luogo,  ancorché  da  Roma  lontanissimo, 
li  quali,  nell'istesso  tempo  ch'erano  difesi  e  protetti  dal  papato, 
scambievolmente  erano  i  difensori  e  protettori  della  sua  potestà.  S. 
Bernardo  ancorché  cisterciense  non  lodava  l'invenzione,  e  di  tal 
corruttela  ne  portava  spesso  le  doglianze  non  pur  ad  Arrigo  arci- 
vescovo di  Sens,a  ma  ammoniva  l'istesso  pontefice  Eugenio  III  a 
considerare  che  tutti  erano  abusi,  né  si  doveva  aver  per  bene  se  un 
abate  ricusava  di  sottomettersi  al  vescovo,  ed  il  vescovo  al  metropo- 
litano. Riccardo  arcivescovo  di  Contorberyb  pur  lo  stesso  esclamava 

a)  S.  Ber.,  Epist.  42  et  lib.  3  De  consta,  ad  Eugeni    b)  P.  Blesen., 
Ep.  68.3 


1.  corevescovi:  o  corepiscopi  (letteralmente  vescovi  della  campagna),  ausi- 
liari del  vescovo  titolare.  2.  Cfr.  Sancti  Bernardi  abbatìs  primi  Clarae- 
Vallensis . . .  genuina  sancti  doctoris  opera  . . .  post  Horsùum  denuo  recognita, 
atleta  .  .  .  secundis  curis  dormii  Iohannis  Mabillon  . . .,  Parisiis  1690.  Tutta- 
via, poiché  il  Mabillon  espunge  l'epistola  xlii  dalla  collezione  delle  lettere 
per  considerarla  un  trattato  a  sé  stante,  De  moribus  et  officio  episcoporum 
(1,  pp.  461  sgg.),  è  più  probabile  che  il  Giannone  si  sia  servito  della  pre- 
cedente monumentale  edizione  parigina,  «e  typographia  regia»,  del  1640- 
1642  (per  questa  cfr.  rv,  pp.  109  sgg.).  Quanto  al  trattato  De  consideratone 
si  veda,  in  quest'ultima  edizione,  in  particolare  il  cap.  2  del  libro  ni,  pp.  48 
sgg.  Avverto  però  che  quest'ultimo  rinvio  è  anche  in  P.  De  Marca,  De 
concordia  cit.,  col.  329.  3.  Pietro  Blesense  (Peter  of  Blois,  1 160-1204).  Cfr. 
in  Maxima  bibliotheca  cit.,  xxiv,  pp.  987-8.  Ma  cfr.  P.  De  Marca,  De  con- 
cordia cit.,  col.  329. 


LIBRO    V   •    CAP.  ULT.  471 

con  Alessandro  III.  Ma  costoro,  che  non  ben  intendevano  questi 
tratti  di  Stato,  non  furono  intesi,  né  alle  loro  querele  si  diede  orec- 
chio ;  anzi  ne*  tempi  posteriori  battendosi  la  medesima  via,  si  pro- 
cede più  avanti;  poiché  dapoi  gli  Ordini  Mendicanti  non  solo  ot- 
tennero ogni  esenzione  dall'autorità  episcopale,  e  generalmente 
ovunque  fossero,  ma  anche  facoltà  di  fabbricar  chiese  in  qualunque 
luogo  ed  in  quelle  eziandio  ministrar  Sacramenti:  e  negli  ultimi 
secoli  s'era  tanto  innanzi  proceduto  che  ogni  privato  prete  con 
poca  spesa  s'impetrava  un'esenzione  dalla  superiorità  del  suo  ve- 
scovo, non  solo  nelle  cause  di  correzione,  ma  anche  per  poter  esser 
ordinato  da  chi  gli  piaceva,  ed  in  somma  di  non  riconoscere  il  vesco- 
vo in  conto  alcuno;  e  quantunque  nel  concilio  di  Costanza  alle 
calde  e  ripetite  querele  del  famoso  Gersonea  moltissime  esenzioni 
s'annullassero,  ed  ultimamente  nel  concilio  di  Trentob  si  procu- 
rasse a  tanti  eccessi  qualche  compenso,  non  sono  però  dapoi  man- 
cati modi  alla  corte  di  Roma  di  far  ricadere  la  bisogna,  salva  l'au- 
torità del  medesimo,  in  quello  stato  che  oggi  tutti  veggiamo. 

Questi  ingrandimenti  dello  stato  monastico  portarono  non  solo 
a'  monaci  grandi  ricchezze,  ma  in  conseguenza  assai  più  alla  corte 
di  Roma,  ove  finalmente  vennero  quelle  a  terminare.  Si  proccurava 
non  solo  favorire  l'acquisti  e  tener  sempre  aperte  le  scaturigini, 
ma  con  severi  anatemi  proibir  le  alienazioni  e  scagliargli  ancora 
contro  chi  ardiva  di  turbar  l'acquistato.  Per  l'ignoranza  e  supersti- 
zione de'  popoli  i  pellegrinaggi  erano  più  freguenti:  l'orazioni  ed 
i  sacrifici  a  fin  di  liberar  l'anime  de'  loro  defonti  dal  Purgatorio 
erano  vie  più  raccomandati  e  molto  più  praticati.  Si  vide  per  ciò 
in  questo  secolo  una  gran  cura  del  canto,  de'  riti  e  di  ben  ufficiare: 
le  campane  cominciarono  ad  esser  comuni  in  tutte  le  chiese  e 
monasteri  ;  e  le  particolari  devozioni  a'  Santi,  de'  quali  eransi  com- 
poste innumerabili  vite  e  miracoli,  tiravano  molti  a  donare  alle  lor 
chiese  e  monasteri.  Ma  i  monaci  non  contenti  di  ciò,  favoriti  da' 
pontefici  romani,  invasero  anche  le  decime  dovute  a'  vescovi  ed  a' 


a)  Gerson.,  Traci,  depotest.  eccl.,  cons.  io  etDestatib.  eccl.,  consid. 
9.1     b)  Sess.  14  de  refor.,  e.  4  ed  altrove. 


1.  Cfr.  Jean  de  Gerson  (1363-1429),  Opera  multo  quam  antéhac  auctiora  et 
castigatiora,  Parisiis  1606:  Tractatus  de  potestate  ecclesiastica,  et  de  origine 
iuris  et  legum,  1,  coli.  125  sgg.,  e  Tractatus  de  statibus  ecclesiasticis,  «De 
statu  prelatorum»,  ivi,  col.  190. 


472  ISTORIA   CIVILE    DEL   REGNO    DI    NAPOLI 

parrochi  da'  loro  parrocchiani.  Pretesero,  e  l'ottennero  da'  creduli 
devoti,  che  impiegandosi  essi  assai  meglio  che  i  preti  alla  cura  delle 
loro  anime,  come  quelli  che  più  esperti  sapevan  far  delle  prediche 
e  de'  sermoni,  ed  istruirgli  nella  dottrina  cristiana,  le  decime  non 
a*  parrochi,  ma  ad  essi  dovessero  pagarle;  ed  in  effetto  per  lungo 
tempo  vi  diedero  un  guasto  grandissimo  non  inferiore  a  quello  che 
v'avea  dato  in  Francia  Carlo  Martello,  tanto  che  bisognò  ne*  secoli 
seguenti  penar  molto  a  ritoglierle  e  ristituirle  a'  propri  preti,  a* 
quali  s'erano  involate. 

Niun' altra  provincia  del  mondo  quanto  il  nostro  Reame  ha  fatto 
conoscere  quanto  importava  a  Roma  la  ricchezza  de5  monaci:  le 
maggiori  commende,  i  più  grandi  benefizi  ch'ella  oggi  dispensa  a' 
suoi  cardinali  e  ad  altri  suoi  prelati  per  mantener  la  pompa  e  lo 
splendore  della  sua  Corte,  non  altronde  dipendono  ed  hanno  la  di 
loro  origine  se  non  da  queste  profusioni  de'  nostri  principi  e  de' 
nostri  fedeli.  I  monasteri  più  ricchi  perciò  si  videro  dare  in  com- 
mende. Quelli  che  il  tempo  consumò  sono  rimasi  fondi  di  tante 
rendite  che  ora  ne  traggono  :  e  le  entrate  di  que'  tanti  monasteri  di 
che  ora  appena  sene  serba  vestigio,  tutte  in  Roma  vanno  a  colare. 
Quindi  i  pontefici  romani  gareggiando  co'  principi,  siccome  quelli 
investono  i  loro  fedeli  de'  feudi,  così  essi  a'  suoi  conferiscono  bene- 
fizi; e  siccome  per  la  materia  feudale  ne  è  surto  un  nuovo  corpo  di 
leggi,  così  per  la  benefiziarla  se  n'è  fatta  una  nuova  giurisprudenza, 
che  occupa  tanti  volumi  quanti  ne  ha  occupati  la  feudale;  ma  di  ciò 
a  più  opportuno  luogo. 


PROFESSIONE  DI  FEDE 


NOTA  INTRODUTTIVA 

L  apparizione  dell'Istoria  civile  del  regno  di  Napoli  produsse  un  no- 
tevole choc  tra  i  monsignori  della  Curia  romana,  anche  se  non  solo 
fra  essi.  Per  capire  la  reazione  romana  occorre  tener  presente  la  data 
di  pubblicazione  delTopera:  nel  1723  Gianfrancesco  Albani  è  appena 
appena  sceso  nella  tomba.  Era  stato  il  papa  della  Unigenitus  e  della 
Pastoralis  officii,  cioè  della  grande  lotta,  sul  piano  del  credo,  contro 
il  movimento  giansenista;  era  stato  inoltre  il  papa  del  grande  scontro 
giurisdizionalista,  contro  Giuseppe  I  e  Carlo  VI  per  il  possesso  delle 
valli  di  Comacchio,  e  contro  Vittorio  Amedeo  II  per  la  Sicilia.  Era 
stato  il  papa  che  aveva  nuovamente  usato  l'arma  dell'interdetto  per 
sostenere  il  proprio  potere  temporale.  Il  suo  successore,  Innocenzo 
XIII,  che  lo  avrebbe  seguito  nella  tomba  di  lì  a  poco,  ne  aveva  eredi- 
tato la  politica  senza  molti  entusiasmi,  preoccupato  soprattutto  di 
sanare  le  ferite  della  lotta  giurisdizionalista,  come  quelle  della  ribel- 
lione giansenista.  Accantonata  la  disputa  sull'Apostolica  Legazia  di 
Sicilia,  ora  che  anche  l'interlocutore  era  mutato  e  al  Savoia  s'era 
sostituito  l'Absburgo,  concessa  a  Carlo  VI  l'investitura  di  Napoli  die- 
tro riconoscimento  di  vassallaggio  alla  Chiesa,  aveva  avviato  trat- 
tative concordatarie  anche  con  la  Spagna.  Rigido  difensore  della  Uni- 
genitus sino  a  condannare  i  vescovi  «appellanti»,  s'era  però  mostrato 
abbastanza  ostico  nei  confronti  della  Compagnia  di  Gesù,  così  da 
bilanciare  gli  opposti  schieramenti.  Un  pontificato  tuttavia  troppo 
breve  perché  questa  nuova  politica  potesse  produrre  effetti  di  lunga 
durata,  atta  insomma  soltanto  ad  allarmare,  a  seminare  il  panico  tra 
i  monsignori  di  Curia,  legati  all'oltranzismo  di  Clemente  XI. 

Così  Giusto  Fontanini,  che  sotto  papa  Albani  era  stato  il  campione 
di  Curia  nella  polemica  per  le  Valli  comacchiesi,  T8  maggio  del  1723 
scriveva  a  Domenico  Passionei:  «Adesso  a  Napoli  un  tal  Giannone 
con  la  direzione  di  altri  settari  ha  stampata  una  Istoria  di  Napoli . . . 
piena  di  orrendissime  furfanterie  contro  il  papato  ex  professo . , , 
Intendo  che  l'autore  sia  rifuggito  agli  ateisti  di  Vienna  e  passato  an- 
che di  qua,  dove  con  la  massima  di  non  rispondere  ai  libri  scellerati 
si  crederà  di  rimediare  con  decreto  di  proibizione  e  qui  tutti  i  zeli 
vanno  a  finire.  Io  non  ho  veduto  l'opera,  ma  il  bibliotecario  d'Impe- 
riali è  venuto  a  leggermi  gli  spogli  letterali,  che  ha  fatti  di  due  tomi, 
«  sono  cose  di  spavento,  né  mai  più  scritte  in  terre  cattoliche,  arri- 
vando a  dire  che  i  papi  e  i  vescovi  si  sono  sempre  serviti  d'imposture 
di  religione  per  gabbare  i  popoli  e  i  grandi;  e  questo  lo  dice  e  ridice 
mille  volte  qua  e  là  in  varie  occasioni,  citando  con  elogi  i  più  esa- 


476  PROFESSIONE   DI    FEDE 

grandi  scrittori  che  anno  scritto  contro  alla  S.  Sede  .  .  .  ».x  Assertore 
della  massima  quieta  non  movere  sembra  fosse,  in  Curia,  il  segretario 
ai  Brevi  monsignor  Matteo  Scagliosi,  il  quale  aveva  consigliato  al 
pontefice  «che  non  serve  rispondere  e  scrivere,  che  è  stato  scritto 
abbastanza»,  per  usare  le  parole  stesse  riferite  a  Giusto  Fontanini 
dal  cappellano  segreto  e  bibliotecario  di  Innocenzo  XIII,  Giovanni 
Bortoni,  e  dal  Fontanini,  a  sua  volta,  riferite  al  Passionei.  Natural- 
mente il  Fontanini  se  ne  adontava,  e  diceva  al  suo  corrisponden- 
te che  «se  si  fosse  scritto  e  bene  contro  i  libelli  del  Riccardi,  Gri- 
maldi e  Argento,  invece  di  contentarsi  di  proibirgli  con  un  breve, 
forse  il  Giannone  non  avrebbe  ardito  di  scrivere  . . .  ».2 

Successo  a  Innocenzo,  nel  maggio  del  1724,  Francesco  Orsini,  un 
altro  monsignore,  questo  non  ancora  identificato,  ma  probabilmente 
napoletano  e  della  cerchia  di  Filippo  Anastasio  arcivescovo  di  Sor- 
rento, si  rivolgeva  al  nuovo  pontefice  insistendo  anch'egli  sulla  ne- 
cessità di  una  risposta  all'opera  giannoniana:  «È  bensì  da  compatire 
la  comune  miseria  de'  grandi,  che  in  moltissime  cose  avendo  neces- 
sità di  valersi  dell'altrui  opera,  non  sempre  sono  fedelmente  serviti, 
e  perciò  soggiacciono  a  frequenti  inganni  ed  a  non  pochi,  né  piccoli 
tradimenti ...  ».  Inganno  e  tradimento,  secondo  l'anonimo  polemista, 
era  stato  appunto  l'aver  consigliato  nuovamente  il  pontefice  che  non 
metteva  conto  affrontare  di  petto  il  Giannone:  «Vostra  Beatitudine 
s'è  abbattuta  in  un  teologo  parzialissimo  di  quell'autore.  Ecco  il  giu- 
dizio di  questo  teologo  intorno  2IY  Istoria  civile:  "Che  contiene  molte 
verità  le  quali  non  si  possono  impugnare;  che  per  quella  parte  ch'è 
contaminata  si  scredita  da  per  se  stessa  e  che  impugnandola  s'eccite- 
rebbono  le  penne  de'  compagni  del  Giannone,  o  quella  di  lui  medesi- 
mo a  fare  nuovi  insulti  alla  Chiesa;  che  allora  si  potrebbe  risponde- 
re quando  la  risposta  fosse  tale  che  chiudesse  la  bocca  agli  avver- 
sari" . . .  ».3 

Agli  atteggiamenti  di  prudenza  sempre  più  si  veniva  opponendo, 
in  Curia,  la  perentoria  richiesta  di  attaccare  il  Giannone  e  il  suo 
gruppo;  e  ora  che  il  triennio  di  regno  di  Michelangiolo  Conti  era 
terminato,  le  voci  oltranziste  tornavano  ad  avere  ascolto  presso  le 
auguste  orecchie.  «Non  dubito»  scrisse  il  Giannone  al  fratello  il  13 
gennaio  1725  «che  nel  pontificato  passato  non  era  per  seguire  che 
una  indifferenza,  ma  nel  presente  bisogna  star  cauto  per  la  strava- 
ganza di  chi  ora  governa.  Io  dal  mio  canto  procuro  di  evitar  tutte  le 
occasioni  di  nuove  brighe,  ed  avendomi  il  sig.  Menckenio  .  . .  autore 
degli  "Atti  di  Lipsia",  mandato  a  dire  che  stava  facendo  un  ristretto 

1.  Cfr.  Bertelli,  pp.  181-2.     2.  Cfr.  ivi,  pp.  182-3.     3-  Cfr.  Giannoniana, 
pp.  96  sgg. 


NOTA   INTRODUTTIVA  477 

della  mia  opera,  per  porla  negli  atti  sudetti,  l'ho  fatto  pregare  che 
lasciasse  da  parte  l'istoria  accaduta  dopo  la  pubblicazione,  e  che  mi 
facesse  il  piacere  di  non  offender  la  corte  di  Roma,  come  sogliono  in 
simili  occasioni,  ma  si  portasse  con  modestia  e  moderazione . . .  ».x  E 
sì  che  di  materiale  contro  i  suoi  detrattori,  il  Giannone  ne  aveva  ap- 
prontato abbastanza!  Aveva  steso,  in  più  occasioni  e  momenti  suc- 
cessivi, un'Apologia  della  sua  Istoria  ch'era  ormai  giunta  alla  mole 
d'un  quinto  volume;  ma  non  aveva  voluto  stamparla,  accontentan- 
dosi solo  d'una  circolazione  clandestina  di  copie  manoscritte,  entro 
la  ristretta  cerchia  dei  suoi  amici;  i  quali,  anche  essi,  erano  convinti 
che  non  fosse  prudente  riaprire  polemiche,  attirarsi  nuovi  anatemi. 
La  scomunica  arcivescovile,  in  un  certo  senso,  era  già  stata  preven- 
tivata tra  le  passività  al  momento  della  pubblicazione  dell'istoria 
civile.  Non  era  stata  prevista  la  reazione  d'un  viceré  dimostratosi  più 
cardinale  che  rappresentante  dell'imperatore;  neppure  l'esilio  del- 
l'autore era  stato  inserito  nella  previsione  del  passivo.  Era  necessario 
che  le  acque  ora  si  calmassero,  non  già  che  venissero  di  nuovo  agi- 
tate. La  bomba  era  stata  gettata  in  campo  nemico;  bisognava  che  si 
diradasse  il  fumo,  per  constatarne  gli  effetti  distruttivi. 

Ma,  come  aveva  intuito  lo  stesso  Giannone,  il  pontificato  di  Be- 
nedetto XIII  era  ben  diverso  da  quello  di  Innocenzo.  Si  sarebbe  ri- 
tornati presto  al  clima  dei  tempi  di  Clemente,  la  Unigenitus  sarebbe 
stata  dichiarata  materia  di  fede,  tutte  le  lotte  giurisdizionali  si  sareb- 
bero riaperte,  la  pressione  inquisitoriale  sul  suo  gruppo  si  sarebbe 
accentuata.  Sicché,  quando  egli  seppe  che  il  padre  gesuita  Giuseppe 
Sanf elice  veniva  preparando  una  risposta  alla  sua  opera,  cercò  in  ogni 
modo  di  dissuaderlo,  di  farlo  desistere  dall'impresa,  pregò  un  suo 
congiunto,  il  cavaliere  Ferdinando  Sanfelice,  perché  lo  ammonisse 
«a  non  lasciarsi  tirare  dall'ambizione  o  da  qualche  altro  fine  di  risve- 
gliare questo  vespaio»,3  fece  intervenire  il  Garofalo:3  tutto  inutil- 
mente. Sul  finire  del  1728  vedevano  la  luce  in  Roma,  con  la  falsa 
data  di  Colonia,  le  Riflessioni  morali  e  teologiche  sopra  V Istoria  civile 
del  regno  di  Napoli.  Esposte  al  publico  in  pia  lettere  familiari  di  due 
amici  da  Eusebio  Filopatro,  e  divise  in  due  tomi,  il  primo  di  dician- 
nove lettere,  di  sedici  il  secondo,  che  si  immaginano  scambiate 
tra  un  «Vestino»  e  un  «Campano»,  fuorché  le  ultime  tre,  indiriz- 
zate direttamente  al  Giannone  da  Eusebio  Filopatro.  Il  program- 
ma del  Sanfelice  è  presto  detto,  secondo  le  sue  stesse  parole:  «Or  a 
seguirlo  di  passo  in  passo  per  tutti  que'  suoi  grossi  volumi,  era  un 
perdere  opera  e  tempo  col  lungo  rispondere  a  ben  40  libri  di  stuc- 

1.  Cfr.  Giannoniana,  lettera  n.°  78.     2.  Cfr.  ivi,  lettera  n.°  225.     3.  Cfr. 
ivi,  lettere  nn.i  224  e  232. 


478  PROFESSIONE   DI    FEDE 

chevolissime  dicerie.  Conveniva  rispondere  a  i  soli  empi  sentimenti, 
a  gl'errori  e  a  i  detti  or  temerari  or  avvelenati,  li  quali  si  trovano  di- 
spersi di  tratto  in  tratto  in  luoghi  vari  e  di  diverso  argomento»:1 
errori  ed  empietà  che  egli  raggruppa  in  sette  classi:  proposizioni 
empie;  proposizioni  eretiche  o  che  sentono  d'eresia;  proposizioni 
temerarie;  proposizioni  scandalose;  proposizioni  offensive  alle  orec- 
chie pie;  proposizioni  sediziose;  proposizioni  ingiuriose.  Il  livello  di 
tutte  queste  lettere  non  s'alza  al  di  sopra  della  predica  domenicale, 
v'è  ben  poco  di  critica,  molto  di  calunnia,  non  solo  nei  confronti 
dell'autore  dell'Istoria  civile,  ma  di  tutto  il  suo  gruppo. 

Davanti  a  questo  libello  v'erano  tre  strade  da  percorrere  :  la  repli- 
ca erudita,  puntuale,  su  tutti  i  dati  di  fatto  criticati  dal  Sanf elice  ;  la 
reazione  in  sede  giudiziaria,  denunciando  la  diffamazione  per  otte- 
nere il  sequestro  del  libro;  la  replica  in  chiave  politico-religiosa, 
ribadendo  la  giustezza  della  posizione  dell'intero  gruppo.  Furono 
scelte  tutte  e  tre.  La  risposta  erudita  fu  lasciata  all'abate  Biagio  Ga- 
rofalo;3 il  Collaterale  fu  investito  della  questione,  e  la  maggioranza 
giannoniana  impose  il  sequestro  delle  Riflessioni  e  l'espulsione  dal 
Regno  dell'autore.3  Giannone,  per  suo  conto,  s'incaricò  invece  del 
compito  più  arduo,  quello  cioè  di  mantenere  l'unità  ideologica  del 
«  partito  »,  con  una  replica  che  divenisse,  in  realtà,  un  nuovo  mani- 
festo di  rottura:  e  fu  la  Professione  di  fede,  uno  dei  pochi  scritti  ita- 
liani del  tempo  che,  per  causticità,  per  ironia,  per  coraggio,  possono 
stare  alla  pari  colla  corrosività  degli  scritti  volterriani. 

Naturalmente  l'unità  ideologica,  attorno  ad  un  simile  testo,  fu 
mantenuta  per  modo  di  dire.  Su  questa  strada  non  erano  in  molti  a 
sentirsela  di  continuare  a  seguire  il  Giannone,  persino  tra  i  suoi  più 
intirni  amici.  Il  Capasso,  ad  esempio,  letti  i  primi  fogli  giunti  da 
Vienna  se  ne  spaventò,  ed  espresse  il  suo  dissenso,  meravigliando 
sia  il  Giannone  che  il  Garelli:  «Credevamo  col  signor  cavaliere  sen- 
tire una  censura  molto  severa  e  rigida,  ma  così  acerba  e  crudele  non 
potevamo  aspettarcela,  né  credercela  ...  ».  Si  era  forse  dimenticato, 
il  Capasso,  di  quéll'Évangile  nouveau  du  cardinal  Palavicin  pubbli- 
cato a  Parigi  nel  1676,  «che  contiene  articoli  di  dottrina  assai  più 
scandalosa  e  ridicola  che  non  è  quella  contenuta  nella  Professione  »  ? 
E  non  aveva  notato  come  gli  articoli  «secondari»  fossero  stati  tutti 
tratti  dal  De  conformitate  vitae  beati  Francisci  ad  vitam  Domini  Iesu 
di  Bartolomeo  da  Rinonico,  e  dal  Chronicon  di  sant'Antonino  ?4  Se- 


1.  Cfr.  Riflessioni  cit,  I,  p.  XV.  2.  Vedila  pubblicata  in  Opere  postume,  11, 
pp.  151  sgg.  3.  Il  verbale  della  riunione  del  Collaterale,  del  4  aprile  1729, 
è  integralmente  pubblicato  in  Giannoniana,  pp.  49  sgg.  4.  Cfr.  qui,  nella 
scelta  delle  lettere,  la  xv. 


NOTA   INTRODUTTIVA  479 

nonché  la  pietà,  la  crudeltà,  la  superstizione  non  stupivano  se  lette 
in  quei  contesti.  Al  più,  gli  uomini  di  cultura  potevano  sorriderne. 
Ben  diverso  era  invece  parodiare  il  Simbolo  apostolico,  sfruttare 
dialetticamente  sino  a  porne  in  luce  il  carattere  blasfemo  testi  di 
agiografia  come  le  conformità  tra  la  vita  di  Francesco  d'Assisi  e  quella 
di  Gesù  di  Nazareth.  Nella  sua  Apologia  dell'Istoria  civile  l'autore  si 
era  difeso  dalle  accuse  «che  da  alcuni  ecclesiastici,  e  specialmente  da' 
frati,  furono  inventate»,  «per  concitar  sedizione  nella  plebe,  appog- 
giate sopra  la  calunnia  che  io  negassi  il  miracoloso  scioglimento  del 
sangue  di  S.  Gennaro,  negassi  i  Santi,  e  loro  martiri  e  miracoli,  e 
deridessi  le  particolari  divozioni  delle  Religioni  mendicanti»;1  ma 
ora,  queste  accuse  trovavano  ben  validi  fondamenti! 

Negli  «  articoli  primari  »,  l'attacco  è  tutto  volto  alla  supremazia  ro- 
mana. Il  papa  può  tutto,  è  signore  del  Cielo  e  della  terra,  ha  il  potere 
di  decidere  l'ultima  sede  delle  anime,  dacché  può  canonizzare  i  defun- 
ti; tutti  i  principi  della  terra  sono  sottomessi  al  suo  volere,  è  il  vica- 
rio di  Dio,  anzi,  un  vice-Dio.  Dunque  può  tramutare  il  male  in  bene, 
l'ingiustizia  in  giustizia,  i  vizi  in  virtù.  In  questa  sua  illimitata  po- 
testà ha  origine  lo  sfarzo  di  Roma,  così  stridente  coi  princìpi  di  carità, 
di  umiltà  della  predicazione  cristiana  primitiva.  E  il  Cerimoniale  ro- 
mano è  qui  abbondantemente  saccheggiato,  a  conferma  della  monda- 
nità della  Chiesa.  Negli  «articoli  secondari»  invece  i  protagonisti 
divengono  gli  ordini  religiosi,  che  hanno  soppiantato  l'antica  gerar- 
chia ecclesiastica,  dei  diaconi,  dei  preti,  dei  vescovi.  Non  ha  scritto 
il  Sanfelice  che  sono  oggi  gli  ordini  a  lume  e  sostegno  del  cristiane- 
simo»?2 E  chi  può  più  negare  che  essi  siano  oggi  «tante  legioni  per 
conservare  e  mantenere  la  monarchia  romana  »?  «  I  pontefici  romani 
non  essendo  stati  mai  dagli  altri  cotanto  ben  serviti  quanto  da  costo- 
ro, i  quali  han  militato  sempre  con  ogni  fervore  per  inalzare  in  infi- 
nito e  sostenere  anche  per  proprio  interesse  la  loro  autorità;  a  dovere 
di  tanti  privilegi  e  prerogative  li  cumularono.  Chi  può  negare  ancora 
che  il  lor  credito,  e  più  le  loro  ricchezze,  importava  molto  a  Roma  di 
accrescerle,  perché  finalmente  ivi  doveano  andare  a  terminare  i  loro 
acquisti?  Le  tanto  ricche  commende,  i  tanto  doviziosi  benefìzi:  i 
tributi,  le  decime,  onde  di  quando  in  quando  sono  tassati,  gli  emolu- 
menti delle  liti,  che  spesso  fra  di  loro  sorgono,  i  diritti  de'  privilegi, 
e  brevi  e  bolle,  che  a  gara  sono  richieste  e  con  danaro  concedute; 
l'esenzioni,  elezioni,  e  tante  altre  preminenze  ambite,  forniscone  que- 
sta reggia  e  di  stipendi  e  di  soldati  . . .  ».3  Quanto  a  deridere  le  parti- 
colari devozioni  dei  singoli  ordini,  sappia  il  Sanfelice  che  «non  si 

i.  Cfr.  in  Opere  postume,  i,  p.  93  e  p.  95.     2.  Cfr.  Riflessioni  cit.,  1,  p.  148. 
3.  Cfr.  Professione  di  fede,  Articoli  secondari,  in  Opere  postume,  1,  p.  248. 


480  PROFESSIONE   DI    FEDE 

biasima  l'aver  i  Domenicani  introdotta  la  divozione  del  Rosario,  i 
Francescani  quella  del  cordone;  gl'Agostiniani  quella  della  correg- 
gia; i  Carmelitani  l'altra  degli  abitini:  ma  gli  abusi  che  essi  ne  fecero 
per  arricchire  con  pocco  onesti  mezzi  ;  procurando  seguaci,  e  mostran- 
dosi gelosi  che  un  ordine  non  si  valesse  della  divozione  dell'altro  suo 
emulo,  esagerando  ciascuno  la  propria,  in  depressione  dell'altra;  con 
far  quindi  insorgere  gravi  contese  fra  loro,  sino  ad  istituire  liti  in  Roma 
con  formali  processi;  onde  a  tal  fine  i  Domenicani  impetraron  che 
di  loro  sol  fosse  il  rosariare  ;  e  di  questi  abusi,  per  fine  di  accrescere 
beni  temporali  alle  lor  chiese,  si  parla,  non  già  delPinstituzione,  la 
quale  quando  sia  discompagnata  dall'interesse  puoi  rimanersi  pietosa 
ed  innocente  w.1  Ma,  a  quanto  pare,  sono  proprio  queste  osservazioni 
che  più  offendono  il  gesuita  Sanfelice.  E  allora  Giannone  sarà  più 
realista  del  re,  più  curiale  del  monsignore  di  Curia,  più  superstizioso 
del  terziario  francescano,  più  fazioso  d'un  penitente  di  san  Domeni- 
co. Proclamerà  l'identità  di  Francesco  d'Assisi  col  Salvatore,  crederà 
«veri  tutti  i  miracoli  che  si  contano  di  tanti  salvati,  perché  sol  cin- 
gevano i  loro  lombi  di  quella  corda,  poiché,  che  non  si  possono  pro- 
mettere i  cordonati  dall'intercessione  di  questo  santo,  quando  il  suo 
domicilio  in  cielo  co'  suoi  frati  non  è  come  gli  altri  fra  i  cori  degli 
angeli  e  degl'altri  santi  del  Paradiso  ?  Hanno  colà  i  Francescani  il  loro 
nido,  dentro  il  torace  stesso  di  Cristo.  Narra  questo  stesso  scrittore 
delle  Conformità  francescane,  pag.  66,  ch'essendo  stato  rapito  in  Cielo 
un  lor  divoto,  vide  Gesù  Cristo  colla  Vergine  Maria  e  gli  altri  santi,  i 
quali  santi  processionalmente  andavano  a  prestar  riverenza  a  Cristo 
ed  alla  sua  madre.  Non  vidde  fra  tanti  Francesco  co'  suoi  monaci; 
domandò  perciò  all'angelo,  che  lo  guidava:  "ubi  est  beatus  Franci- 
scus  cum  suis  in  isto  loco?".  L'angelo  gli  rispose:  "expecta,  etvidebis 
beatum  Franciscum  et  quem  statum  habet.  Et  ecce  Christus  elevavit 
brachium  dexterum,  et  de  ipsius  vulnere  laterali  exivit  B.  Franci- 
scus,  cum  vexillo  crucis  explicito  in  manibus  ;  et  post  ipsum  maxima 
multitudo  fratrum  et  aliorum"  . . .  ».2  Ma  non  si  creda  che  Giannone 
sia  solo  un  simpatizzante  dei  Francescani!  «Non  essendovi  voi  di- 
menticato de'  Domenicani,  né  pur  voglio  scordarmene  io,  tanto  più 
che  pure  li  trovo  collocati  in  Paradiso  in  sede  a  parte,  e  se  bene  non 
così  degna,  come  i  Francescani,  con  tutto  ciò  assai  più  onorevole  e 
distinta  degli  altri  santi  ;  poiché  mi  assicura  un  testimonio  degnissimo 
di  fede,  quale  e  quanto  è  un  S.  Antonino  arcivescovo  di  Fiorenza . . ., 
che  rapito  una  notte  S.  Domenico  in  Cielo,  vidde  ivi  Gesù,  e  a  destra 
la  sua  madre  Maria,  la  qual'era  ammantata  di  una  gran  cappa  "coloris 
saphyrini",  e  girando  gl'occhi  intorno,  vidde  un'innumerabile  mol- 

1.  Professione  di  fede,  ed.  cit.,  p.  249.     2.  Ibid.>  p.  253. 


NOTA    INTRODUTTIVA  481 

titudine  di  religiosi  di  tutti  gl'ordini  e  d'ogni  nazione;  ma  ancorché 
diligentemente  fissasse  il  guardo  da  per  tutto,  non  vidde  in  alcun 
luogo  i  suoi  figliuoli  Domenicani  ;  onde  tutto  contristato  e  dolente, 
prostratosi  in  terra  si  pose  amaramente  a  piangere:  ma  il  Signore, 
sentendo  questo  piagnisteo,  f ecelo  alzare  e  lo  chiamò  a  sé  interro- 
gandolo. "Cur  sic  amarissime  ploras?".  Domenico  gli  rispose:  co- 
me volete  che  10  non  versi  lagrime,  se  io  guardo  nel  cospetto  della 
tua  gloria  gl'uomini  di  tutte  le  religioni:  "de  mei  vero  ordinis  filiis 
hic  proh  dolor!  nullum  aspicio?".  Il  Signore  gli  disse:  "vis  videre 
ordinem  tuum?".  Ed  egli:  "hoc  desidero,  Domine".  Allora  Gesù 
stesa  la  sua  mano,  e  postala  sotto  lo  scapulare  di  sua  madre,  voltatosi 
a  lui  gli  disse:  "ordinem  tuum  Matri  commisi".  Ma  non  rimanendo 
di  ciò  Domenico  niente  sodisfatto,  e  sempre  più  mostrando  l'arden- 
tissimo  desiderio  di  vedere  i  frati  del  suo  ordine,  di  nuovo  il  Signore 
gli  disse:  "omnino  vis  eum  videre?".  Ed  egli:  "hoc  affecto,  mi  Do- 
mine". Ed  ecco  allora,  "Mater  Domini  complacuit  filio,  cappamque 
decoratam,  qua  operiri  videbatur,  evidenter  patefaciens,  aperuit,  et 
expandit  coram  lacrymoso  Dorninico  servo  suo  ;  eratque  hoc  tantae 
capacitatis  et  immensitatis  vestimentum,  quod  totam  caelestem  pa- 
triam  amplexando  dulciter  continebat ...  ;  conversus  est  ergo  luctus 
in  gaudium,  et  lamentum  in  iubilum"  ».x  E  con  questo  spogliarello 
celestiale,  crediamo  di  poter  far  punto. 

Può  ben  comprendersi  quali  reazioni  suscitasse  un  testo  simile. 
Come  aveva  previsto  monsignor  Scagliosi,  provocare  Giannone  non 
avrebbe  portato  che  ad  una  recrudescenza  della  polemica,  ciò  che 
puntualmente  avvenne.  L'opera,  che  in  un  primo  tempo  si  pensava 
di  dare  alle  stampe,  non  venne  più  consegnata  alla  tipografia;  ma 
circolò  in  tali  e  tante  copie  manoscritte,  che  una  stampa  non  avrebbe 
certo  avuto  maggior  diffusione.  Con  questo  testo  davvero  Giannone 
rompe  i  legami  con  la  Chiesa  romana,  ben  più  di  quanto  non  avesse 
fatto  al  tempo  dell' Istoria  civile,  quando  era  in  discussione  solo  il 
tema  giurisdizionale,  e  ancora  sporadici  erano  gli  accenni  alla  di- 
sciplina della  Chiesa  primitiva,  rare  seppur  già  precise  le  accuse  alla 
corruzione,  alla  decadenza  romana.  Questa  Professione  appare  dav- 
vero il  fatidico  Rubicone  da  Giannone  incontrato  lungo  il  cammino 
della  sua  vita  e  senza  esitazioni  attraversato.  Assolto  dalla  scomunica 
per  l'Istoria,  ora  la  persecuzione  contro  di  lui  si  rinnoverà,  caparbia, 
tenace,  sino  a  quando  non  gli  sarà  strappata  l'abiura,  e  oltre  ancora, 
col  carcere  a  vita. 

Sergio  Bertelli 


1.  Professione  di  fede,  ed.  cit.,  p.  254. 
31 


DALLA  «PROFESSIONE  DI  FEDE» 

Molto  Reverendo  Padre, 

Chi  avrebbe  potuto  resistere,  Padre  Santo,1  a'  vostri  pungentissimi 
coltelli  ed  a  quelle  ardenti  spade  onde  tutte  le  vostre  lettere  sono 
infiammate  e  cinte?  Chi  qualsifosse  più  audace  e  robusto,  non  si 
sarebbe  dato  per  vinto  agl'invincibili  ed  irrefragabili  vostri  argo- 
menti ?  Ogni  vostro  detto  è  sì  forte  e  penetrante  che  non  che  il  mio 
cuore,  ma  qualunque  altro  si  fosse  vie  più  duro  ed  impenetrabile 
che  lo  scudo  stesso  d' Aiace,  si  sarebbe  intenerito  ed  in  mille  par- 
ti infranto.  Vi  siete  adoperato  tanto  per  la  salute  dell'anima  mia 
che  certamente  sarete  per  ciò  al  mondo  unico  e  raro  mostro.  Non 
era  però  mestieri  votar  tante  faretre  e  consumar  tante  munizioni. 
Bastavano  quelle  tre  ultime  Lettere  filosofiche?  che  con  tanta  cor- 
dialità vi  degnaste  sviatamente  indrizzarmi,  affinché  fra  noi  due 
soli  soli,  ed  a  quattr'occhi,  come  dite,  si  tenesse  ragione  del  fatto 
mio,  per  potermi  toglier  da  ogni  errore  e  da  ogni  inganno.  Seb- 
bene non  so  donde  V.  P.  prendesse  argomento  di  credere  che  io 
fossi  seguace  della  filosofia  d'Epicuro,  e  non  più  tosto  della  carte- 
siana; ancorché  a  confessarvi  il  vero  io  séguito  la  dottrina  di  Carte- 
sio, per  quanto  insegnò,  e  disse  vero,  che  in  filosofia  niuno  dee 
militare  sotto  gli  altrui  stipendi,  dietro  particolar  bandiera,  né  giu- 
rar fedeltà  ad  alcun  capitano,  ma  il  suo  solo  duce  e  condottiere 
dee  esser  la  sola  ragione  e  la  sola  sperienza.3  Non  so  ancora  come 
sia  avvenuto  ch'io  non  potessi  leggere  quelle  vostre  amorevolissime 
Lettere,  se  non  in  istampa,  dopo  che  doveano  esser  passate  sotto  gli 
occhi  di  molti.  Ma  che  potea  riparare  in  ciò  la  vostra  bontà  e  mo- 
destia, se  prima  di  mandarmele  foste  importunato  a  darle  alle 


Per  il  testo  abbiamo  seguito  quello  edito  dal  Gravier  in  Opere  postume  di  P. 
Giarmone  colla  di  lui  vita  ecc.,  I,  Napoli  1770,  Ì1140,  pp.  347  sgg.  Il  titolo  per 
esteso  è:  Professione  di  fede,  scritta  da  Pietro  Giarmone  al  P.  Giuseppe  San- 
felice,  gesuita,  dimorante  in  Roma,  per  la  cui  santità,  fervoroso  zelo  e  calde 
esortazioni  si  è  il  medesimo  convertito  a  questa  credenza,  che  egli  inculca  nel- 
le sue  «Riflessioni  morali  e  teologiche»,  co9  Dubi  propostigli  intorno  alla  sua 
morale. 

1.  Padre  Santo:  sul  Sanfelice,  oltre  a  quanto  detto  qui  nella  Nota  introdut- 
tiva, cfr.  la  nota  3  a  p.  167.  2.  Lettere  filosofiche:  in  Riflessioni  cit.,  11, 
PP-  353-444-  3-  *°  séguito  . . .  sperienza:  cfr.  Vita,  qui  a  pp.  33  sgg.,  dove 
il  Giannone  descrive  il  suo  itinerario  filosofico. 


484  PROFESSIONE   DI    FEDE 

stampe  in  mezzo  a  Roma,  perché  fossero  da  tutti  lette  ?  Oltreché  la 
vostra  carità  non  dovea  essere  ristretta  da  sì  angusti  confini,  né 
doveva  ammettere  alcuno  umano  rispetto.  Ella  mi  voleva  conver- 
tito, ed  importava  poco  della  maniera,  publica,  contumeliosa  o 
incivile  che  si  fosse.  O  inudito  e  memorando  esempio  d'amore  e  di 
carità!  Purché  si  salvasse  un  reo  e  scellerato  uomo,  non  si  è  curata 
la  P.  V.  apparire  al  mondo  per  un  conviziatore,  per  un  falsario, 
per  un  calunniatore,  per  un  maligno,  e  per  un  prodigioso  igno- 
rante, anzi  per  un  frenetico  e  matto  da  catene.  Ah  quanto  bene  vi 
stanno  impressi  i  sentimenti  di  S.  Paolo,  che  non  si  curò  d'esser 
riputato  stolto  in  Atene,1  e  altrove,  purché  adempisse  bene  la  sua 
missione,  alla  quale  era  stato  da  Dio  eletto!  A  voi  era  stata  destinata 
questa  grand'opera  della  mia  conversione,  poiché  ad  un  altro2  della 
vostra  Società,  che  si  pose  in  Napoli  su  i  pulpiti  a  tentar  lo  stesso, 
gli  riuscì  l'impresa  senza  successo  e  pur  troppo  infelice,  essendo 
stato  costretto  a  tacere  ed  a  scappar  tosto  via;  onde  per  conseguirla 
non  dovevate  curar  punto  né  lode,  né  infamia,  né  qualunque  altra 
cosa  che  il  mondo  stima  ed  onora.  Egli  è  vero  che,  se  non  il  vostro, 
almeno  dovea  un  poco  toccarvi  l'onore  della  Compagnia  a  cui  siete 
ascritto,  la  quale,  se  pur  vi  ha  tenuta  parte,  ciò  che  gli  uomini  savi 
non  possono  affatto  credere,  non  potrà  farvi  altra  comparsa  che 
d'una  madre  che  abbia  nudrito  in  seno  parto  sì  gentile  e  così  bene 
accostumato,  che  limatolo  poi  co'  ferri  della  sua  morale,  abbialo 
dato  in  fine  alla  luce  del  mondo  per  un  più  ben  fatto  e  perfetto 
modello  della  medesima.  Se  più  d'appresso  aveste  voi  bene  scor- 
ti i  miei  andamenti  e  la  mia  indole,  come  vantate,  non  avreste  avuto 
bisogno  di  ricorrere,  come  il  cane  o  il  villano  dopo  la  percossa,  a' 
digrigni,  agli  urli  ed  alle  contumelie:  avreste  trovato  un  cuor  docile 
e  mansueto,  ed  un  sol  vostro  argomento  addirizzato  con  quella  fina 
logica,  della  quale  vi  mostrate  espertissimo,  avrebbe  fatto  in  me 
più  forza  che  non  fece  quello  di  frate  Rinaldo  a  madonna  Agnesa.3 
Immantinente  avreste  da  me  udito  quelle  stesse  parole  che  colui 
a  suo  prò  s'intese:  «  Chi  saprebbe  rispondere  alle  vostre  savie  paro- 
le ?  ».  E  pari  sarebbe  stato  il  vostro  contento,  anzi  incomparabilmen- 
te maggiore.  Colui  non  ottenne  che  un  fragile  e  caduco  mondano 

1.  «  sentimenti..  .Atene:  cfr.  Act.  ap.t  17,  16-33.  2.  un  altro:  il  padre 
Franchis,  dai  pulpiti  del  Gesù  Nuovo  e  di  Santa  Maria  di  Costantinopoli, 
come  già  detto  nella  Vita  (vedi  la  nota  3  a  p.  82).  3.  che  non  ,  . .  Agnesa: 
cfr.  Boccaccio,  Decam.,  vii,  3. 


ARTICOLI    PRIMARI    E   FONDAMENTALI  485 

piacere;  voi  all'incontro  ne  conseguite  un  eterno  ed  inestimabile, 
qual  è  quello  d'aver  posto  in  cammin  dritto,  che  conduce  all'eterna 
salute,  un  traviato  e  perduto. 

Dal  concetto  che  si  ha  delle  vostre  Riflessioni  morali  e  teologiche, 
ben  si  vede  chiaramente  che  per  la  mia  conversione  non  sarebbe 
stato  niente  sufficiente,  come  già  fu  a*  tempi  antichi,  se  io  vi  avessi 
mandato  la  professione  della  fede  contenuta  nel  Simbolo  chiamato 
apostolico.  L'avreste  riputato  molto  difettosa  e  mancante.  So  che 
ne  chiedete  un'altra,  che  mi  costerà  non  picciola  fatica  ;  perché  io 
intendo  soddisfarvi  in  tutto,  e  pretendo  non  tralasciar  alcuno  de- 
gli articoli  da  voi  creduti,  e  che  credete  esser  necessari  per  la  salute 
delle  nostre  anime.  E  se  pure  ne  scapperà  qualcuno,  perché  è  ora 
quasi  impossibile  farne  un  esatto  e  compiuto  catalogo,  vi  do  ampia 
facoltà  di  aggiungercelo  ;  anzi  prego  voi,  ed  i  vostri  amici,  che  chi 
più  ne  ha,  più  ne  metta,  poiché,  oltracché  così  facendo  meglio  le 
converrà  il  nome  di  Simbolo,  io  son  disposto,  trattandosi  della  sa- 
lute dell'anima  mia,  di  piegar  il  capo  a  quanto  mi  sarà  suggerito 
dal  vostro  zelo  e  dalla  vostra  carità. 


ARTICOLI  PRIMARI   E  FONDAMENTALI 


Primieramente  io  credo  il  pontefice  romano  essere  signore  di 
tutto  il  mondo,  non  meno  nello  spirituale  che  nel  temporale,  e  che 
non  solo  indirettamente,  ma  direttamente  abbia  autorità  sopra  tutta 
la  terra  e  quanto  in  quella  si  move  ed  intende;  e  di  potersi  valere  di 
tutti  i  mezzi,  sieno  spirituali,  sieno  temporali,  di  multe,  carceri, 
esìli,  relegazioni,  ergastoli,  fiamme  infine  e  fuoco,  perché  non  sono 
adoperati  se  non  per  fine  della  salute  eterna  del  genere  umano. 

11 

Che  perciò  tutti  i  principi  e  somme  potestà  anche  nel  temporale 
sien  a  lui  sottoposti,  siccome  fra  i  vostri  moralisti  m'insegna  il  ge- 
suita Azorio  nelle  sue  Istituzioni  morali*  lib.  io,  cap.  6,  e  che 

1.  Assorto  . . .  morali:  Juan  Azor  (1536- 1603),  gesuita  spagnolo,  Institutio- 
num  moralium,  in  quibus  universae  quaestiones  ad  conscientiam  recte  aut  prave 
factorum  pertinentes  breviter  tractantur,  partes  tres,  Romae  1 600-161 1,  più 
volte  ristampate. 


486  PROFESSIONE    DI   FEDE 

reggano  i  loro  regni  e  provincie  non  per  immediata  autorità  che 
Iddio  gli  abbia  concessa,  poiché  questo  è  un  pregio  del  quale 
sol  può  vantarsi  il  pontefice  romano,  siccome  m'insegnate  nella 
vostra  Lettera  24  alla  pag.  79,  ma  per  autorità  mediata  conferitagli 
dal  vicario  di  colui  il  quale  disse:  «per  me  reges  regnant».1  E  che 
quindi  sia  nato  quel  costume,  del  quale  ce  ne  rende  testimonianza 
il  Cerimonial  pontificale?  lib.  1,  tit.  7,  di  benedir  il  papa  nella 
notte  di  Natale  una  spada,  «quem  postea»  sono  sue  parole  «donat 
alicui  principi  in  signum  infinitae  potentiae  pontifici  collatae,  iuxta 
illud:  Data  est  mihi  potestas  in  Coelo  et  in  Terra».3 


ni 

Che  da  ciò  ne  deriva  il  diritto,  che  ha  il  romano  pontefice,  di 
spiantare  i  regni  e  fargli  risorgere  a  suo  arbitrio,  e  che  a  questo 
proposito  ben  se  gli  adatti  qatVH evellat  et  plantet  etc.4  Possa  perciò 
deporre  imperadori,  re  e  qualunque  altro  principe  da'  suoi  regni  e 
stati:  prosciogliere  i  loro  sudditi  dal  giuramento  di  fedeltà  ed  as- 
solvergli dal  pagare  i  tributi:  che  possan  questi  resistere  in  faccia 
a'  loro  sovrani,  se  imporranno  nuovi  dazi  e  gabelle  senza  papale 
assenso.  Possa  in  fine  trasferire  gl'imperi  ed  i  regni  da  una  famiglia 
in  un'altra  e  di  gente  in  gente:  investire  delle  terre  e  isole  discoperte 
e  da  discoprirsi  a  chi  sarà  di  suo  grado,  e  renderle  a  sé  tributarie. 
L'Imperio  Romano  Germanico  essere  suo  beneficio,  e  perciò  l'im- 
peradore  sia  obbligato  prestar  giuramento  al  papa  di  fedeltà  e  d'ub- 
bidienza; e  perché  non  si  facesse  errore  in  concepirlo,  dico  esser- 
si saviamente  fatto  d'inserirne  la  forinola  nel  Decreto,  che  si  leg- 
ge nel  Canone  33,  dist.  63,  che  incomincia  «Tibi  Domino».5  Es- 
sere suoi  uomini  ligi  i  re  di  Germania,  di  Francia,  di  Spagna, 
d'Inghilterra,  di  Scozia,  d'Aragona,  di  Sicilia,  di  Napoli,  d'Unghe- 
ria, di  Polonia,  della  Russia,  di  Danimarca,  della  Croazia  e  Dalma- 

1.  «per  me  reges  regnarti*:  Prov^  8,  15.  2.  Cerimonial  pontificale:  è  il  Cae- 
rimoniale  romanum,  compilato  dal  cerimoniere  pontificio  Agostino  Patrizi 
Piccolomini  che  lo  dedicò  a  Innocenzo  Vili  nel  1488.  Fu  edito,  con  alcuni 
mutamenti,  da  Cristoforo  Marcello  :  Rituum  ecclesiasticorum  sive  sacrarum 
cerimoniarum  S.  S.  Romanae  Ecclesiae  . . .,  Venetiis  15 16.  3.  a  quem  po- 
stea . .  .  Terra*',  cfr.  ed.  cit.,  e.  37U,  libera  citazione  («che  poi  dona  ad  un 
principe  in  segno  dell'infinita  potenza  conferita  al  pontefice,  secondo  il 
detto:  "Mi  è  stata  data  sovranità  in  cielo  e  in  terra"»).  4.  evellat  et 
pianteti  cfr.  Ier.,  24,  6  e  42,  io.  5.  la  formolo  . . .  Domino:  cfr.  Decretimi 
Gratiani,  Lugduni  1606,  dist.  63,  cap.  33,  Tibi  Domino ,  col.  330. 


ARTICOLI    PRIMARI    E   FONDAMENTALI  487 

zia,  e  di  chi  no?  La  sua  dominazione  stendersi  non  solo  sopra  la 
superfìcie  della  terra  continente,  ma  sopra  il  mare  e  sopra  tutte 
le  sue  isole;  talché  niente  fu  improprio  a  Bonifacio  Vili  di  po- 
tere investire  altri  delle  iscoperte  nel  Mediterraneo,  e  ad  Ales- 
sandro VI  nell'Oceano  occidentale,  tirando  a  sua  posta  linee  da 
un  polo  all'altro,  e  ripartendo  le  terre  del  nuovo  mondo  disco- 
perto a'  re  di  Castiglia  e  d'Aragona.1  E  che  molto  meglio  possa 
adattarsi  a  lui  quel  titolo  :  «  Ego  quidem  mundi  dominus,  lex  autem 
maris»,2  che  non  fece  Timperador  Antonino,3  poiché  del  papa  fu 
detto  :  «  Dominabitur  a  mari  usque  ad  mare,  et  a  flumine  usque  ad 
terminos  orbis  terrarum».4  Quindi  non  posso  per  tenerezza  conte- 
ner le  lagrime  dagli  occhi,  quando  io  leggo  nella  iv  Lezione  del  li 
Notturno  dell'Officio  di  S.  Gregorio  VII5  che  essendo  egli  figliuolo 
di  un  carpentiere,  scherzando,  come  i  fanciulli  sogliono,  colle  scheg- 
ge di  legno  che  cadeano  da'  lavori  del  fabro,  senza  che  sapesse 
lettere,  formò  di  quelle  a  caso  quel  vaticinio  di  Davide:  «Domina- 
bitur a  mari  usque  ad  mare.  Manum  pueri»  così  leggo  nel  Brevia- 
rio «  ductante  Numine,  quo  significaretur  eius  fore  amplissimam  in 
mundo  auctoritatem».6  Con  ragione  adunque  Giulio  III  in  una 
sua  medaglia  impressa  non  men  dal  Luckio  che  dal  vostro  gesuita 
Bonanni,7  e  che  si  conserva  nel  museo  cesareo  di  Vienna,  fece  in- 
torno alla  sua  immagine  mettere  questa  iscrizione:  «D.  Iulius  III 
Reipubl.  Christianae  Rex  ac  Pater». 

i.  Alessandro  VI .  . .  Aragona:  fra  il  3  e  il  4  maggio  1493  Alessandro  VI 
promulgò  tre  atti  distinti:  la  «donazione»  alla  Spagna  di  tutte  le  terre 
scoperte  o  da  scoprirsi  da  Cristoforo  Colombo,  con  l'impegno  di  pro- 
pagare la  religione  cristiana;  un  secondo  atto,  con  l'elencazione  dei  pri- 
vilegi e  grazie  già  conferiti  al  Portogallo,  e  ora  estesi  alla  corona  d'Aragona 
per  i  possedimenti  africani;  un  terzo  aveva  invece  valore  di  lodo  arbitrale, 
e  tracciava  le  zone  d'influenza  riserbate  alla  Spagna  e  al  Portogallo:  una 
linea  meridiana  tracciata  dai  due  poli,  a  cento  leghe  spagnole  ad  occidente 
delle  Azorre,  fungeva  da  demarcazione:  le  terre  ad  ovest  e  sud  di  questa 
linea  erano  assegnate  alla  penetrazione  aragonese.  2.  *Ego  quidem  . . .  ma- 
ris»:  «Poiché  sono  signore  del  mondo,  sono  legge  del  mare».  3.  Antoni- 
no Pio,  imperatore  dal  138  al  161  d.  C.  4.  ((Dominabitur . .  .  terrarum*: 
Psalm.,  71,  8:  «Dominerà  da  mare  a  mare  e  dal  fiume  fino  ai  confini  della 
terra».  La  citazione  è  ripresa  dal  Cerimoniale,  ed.  e  loc.  cit.  5.  Officio  di 
S.  Gregorio  VII:  si  veda  la  nota  1  a  p.  172.  6.  «  Dominabitur  —  aucto- 
ritatem »  :  «  Dominerà  da  mare  a  mare.  Dio  infatti  reggeva  la  mano  al  fan- 
ciullo, quasi  a  voler  dire  che  grandissima  sarebbe  stata  la  sua  autorità  nel 
mondo».  7.  dal  Luckio  .  . .  Bonanni:  per  il  Luckh  e  l'opera  cui  qui  si 
allude  vedi  la  nota  2  a  p.  188.  Filippo  Buonanni  (1638-1725),  Numismata 
pontificum  romanorum  quae  a  tempore  Martini  V  usque  ad  armum  MDCXCIX 
. .  .in  lucem  prodiere,  Romae  1699. 


488  PROFESSIONE   DI   FEDE 


IV 

Che  questa  sua  potestà  non  si  restringa  nella  sola  superficie  della 
terra  e  del  mare,  ma  si  approfondi  più  in  giù  ne*  due  altri  sotterra- 
nei mondi,  nel  Purgatorio  e  nell'Inferno.  Seguitando  perciò  le  pe- 
date di  Clemente  VI  confesso  con  S.  Antonino  arcivescovo  di  Fi- 
renze, part.  3,  tit.  22  «papam  tantam  habere,  tum  in  Purgatorio, 
tum  in  Inferis  potestatem,  ut  quantum  velit  animarum  numerum, 
quae  in  illis  locis  cruciantur,  per  suas  indulgentias  liberare  et  con- 
festim  in  Caelis  et  Beatorum  sedibus  collocare  possit».1  E  quella 
disputa,  che  verte  fra'  vostri  teologi  scolastici:  «An  papa  possit 
universum  Purgatorium  tollere»,  io  brevemente  la  risolvo,  e  dico 
di  sì.  Anzi  se  me  ne  darete  permissione,  io  colla  stessa  prontezza 
risolverò  quell'altra:  «An  clementior  sit  papa  quam  fuerit  Chri- 
stus,  cum  is  non  legatur  quemquam  a  Purgatorii  poenis  revocasse  »  ? 
e  dirò  che  l'esperienza  ci  ha  dimostrato  esser  assai  più  clemente, 
anzi  clementissimo  il  papa  per  le  tante  liberazioni,  che  da  più  secoli 
in  qua  sono  seguite  e  tuttavia  seguono  di  tante  e  sì  innumerabili 
anime  da  quelle  pene  per  le  sue  indulgenze.  Per  la  qual  cosa  non 
ho  più  dubbio  alcuno  di  credere  la  liberazione  dell'anima  di  Fal- 
conala, e  di  tante  altre,  e  spezialmente  di  quella  dell'imperador 
Traiano  dalle  pene  infernali  per  le  preghiere  di  papa  Gregorio  Ma- 
gno, gentili  che  stati  si  fossero  ;  anzi  ho  per  temerari  que'  presun- 
tuosi ed  impertinenti  critici,  i  quali  ultimamente  hanno  avuto  ardi- 
mento di  metter  in  dubbio  una  sì  verace,  fedele  ed  autentica  storia, 
siccome  non  dubito  che  per  tale  la  crediate  ancor  voi,  e  che  se  mai 
avreste  avuta  opportunità  di  prenderne  perciò  briga  col  P.  Natale 
di  Alessandro,  colla  vostra  finissima  logica  e  nerboruto  stile  l'avere- 
ste  ben  battuto  e  confuso  per  tanta  temerità  ed  audacia  ch'ebbe  di 
riputarla  finta  e  favolosa.3  Ammetto  perciò  per  vera  la  dottrina  di 


1.  S.  Antonino  .  > .  possit:  cfr.  la  nota  3  a  p.  180.  «Il  papa  ha  tanta  potestà, 
sul  Purgatorio  come  sopra  l'Inferno,  da  poter  liberare  con  le  sue  indul- 
genze quante  anime  voglia,  che  in  quei  luoghi  vengon  tormentate,  e  collo- 
carle tosto  in  Cielo  e  nelle  sedi  dei  Beati».  2.  <tAn  clementior .  .  .  revocas- 
se»: «Se  il  papa  sia  più  clemente  di  quel  che  lo  sia  stato  Cristo,  poiché  di 
Cristo  non  si  legge  che  abbia  mai  liberato  alcuno  dalle  pene  del  Purgato- 
rio». 3.  la  liberazione. .  .favolosa:  di  questi  miracoli  attribuiti  a  papa 
Gregorio  parla  Noél  Alexandre  (cfr.  la  nota  iap.  104)  che  è  qui  la  fonte 
del  Giannone. 


ARTICOLI    PRIMARI    E    FONDAMENTALI  489 

Felino1  nel  e.  Si  papa,  dist.  40,  che  siccome  può  liberare  quante 
anime  vorrà  dalle  pene  infernali,  così  possa  mandarvi  a  migliaia 
dell'altre  a  farle  ivi  eternamente  penare.  «Si  papa»  dice  quell'in- 
signe decretista  «catervas  animarum  in  Inferos  detruderet,  non 
tamen  cuiquam  liceret  ex  ilio  quaerere:  Cur  ita  facis?».2 


Confesso  questa  potestà  non  esser  circoscritta  dal  nostro  terra- 
queo  globo,  ma  che  sorvoli  più  in  alto  in  tutta  l'ampiezza  del  cielo, 
sicché  non  pur  possa  esercitarla  sopra  i  maligni  spiriti,  che  hanno  il 
lor  soggiorno  nell'aria,  che  col  vostro  Marchetti3  (perché  non  mi  fido 
nominarvi  Lucrezio)  chiamiamo  cielo  ;  ma  vie  più  alto,  e  nell'Em- 
pireo stesso  può  correggere  e  comandare  agli  angioli  del  Paradiso. 
Sicché  a  quell'altra  disputa  fra  i  vostri  pur  agitata:  «Utrum  papa 
possit  praecipere  angelis»,4  io  risolutivamente  rispondo  di  sì,  poiché 
fu  data  a  lui  potestà  «in  Coelo  et  in  Terra»;  siccome  ebbe  diritto 
di  fare  e  di  fatto  fece  Clemente  VI  in  quella  sua  bolla,5  la  quale  io 
credo  che  co'  migliori  critici  la  crediate  per  vera,  poiché  sebbene  nel- 
la vostra  Lettera  19,  tom.  1,  pag.  403,  francamente  dite  che  non 
fu  parto  della  penna  di  Clemente,  però,  secondo  il  costante  vostro 
tenore,  non  apportandone  prova,  o  almen  congettura  alcuna  in 
contrario,  crederò  che  si  rimanga  nel  suo  essere  come  prima,  e  per 
vera  la  teniate  ancor  voi,  non  potendo  io  supporre  dalla  vostra 
discretezza  che  abbiate  tale  presunzione  che  si  debba  credere  alla 
vostra  sola  asserzione.  In  conseguenza  di  che  tengo  con  voi  che  il 
papa  può  collocare  e  mettere  nella  possessione  di  quel  Regno  cele- 

1.  Felino  Sandeo  (1444-1503),  professore  di  diritto  canonico  a  Ferrara, 
poi  a  Pisa,  vescovo  di  Atri  nel  1495,  traslato  alla  sede  di  Lucca  quattro  anni 
dopo,  fu  Auditore  di  Rota  in  Curia  e  autore  di  Consilia  e  di  un  commento 
Ad  quinque  libros  Decretalium.  2.  «  Si  papa  . .  .  facis?  »  :  «  Se  il  papa  facesse 
sprofondare  nell'Inferno  un  infinito  numero  di  anime,  non  sarebbe  tutta- 
via lecito  ad  alcuno  chiedergli:  Perché  fai  così  ?  ».  3.  col  vostro  Marchetti: 
cfr.  T.  Lucrezio  Caro,  Della  natura  delle  cose  libri  sei,  tradotti  da  Alessandro 
Marchetti,  Londra  1717.  4.  «-Utrum . . .  angelis»:  «Se  il  papa  possa  co- 
mandare agli  angeli».  5.  siccome  . .  .  bolla:  si  tratta  della  bolla  Cum  natura 
fiumana,  la  cui  autenticità  è  invero  per  lo  meno  dubbia  (cfr.  Dictiomtaire 
d'histoire  et  degéographie  ecclésiastìque,  xn,  Paris  1953,  col.  1143).  Nell'Isto- 
ria civile,  tomo  in,  Kb.  xxil,  cap.  ult.,  par.  I,  p.  218,  Giannone  cita  di  questa 
bolla  il  passo  cui  fa  qui  riferimento  :  «Et  nihilominus  prorsus  mandamus 
angelis  Paradisi,  quatenus  animam  illius  a  Purgatorio  penitus  absolutam 
in  Paradisi  gloriam  introducant». 


49©  PROFESSIONE   DI   FEDE 

ste  chi  vuole,  ed  assegnargli  quelle  sedi  e  graduazioni  che  gli  aggrada, 
né  possa  essere  a  niuno  impedita  l'entrata  in  quello,  sempre  che  ne 
l'abbia  egli  spedito  diploma,  ancorché  vi  repugnassero  i  vescovi,  i 
cardinali  e  tutto  il  mondo.  Mi  conformo  perciò  alla  sana  dottrina  di 
Troilo  Malvito  in  Traci,  de  canoniz.  Sanctorum,  3  dub.,  che  m'inse- 
gna: «papam  habere  tantam  in  Coelo  potestatem,  ut  quem  velit 
hominem  defunctum  canonizare,  et  in  Divorum  numerum  referre, 
possit  etiam  invitis  episcopis  et  cardinalibus».1  E  perciò  confesso 
la  mia  ignoranza  di  non  aver  saputo  tanti  papi  santi,  de'  quali  voi 
nella  Lettera  19,  tom.  1,  pag.  80  e  86,s  mi  date  notizia,  e  ch'io  prima 
non  leggeva  nel  mio  Calendario,  e  detesto  i  temerari,  sediziosi  ed  im- 
pertinenti rumori  che  si  sono  fatti  in  tutta  l'Europa  per  aver  voluto 
il  presente  pontefice  far  adorare  per  santo  da  tutto  il  mondo  catto- 
lico papa  Gregorio  VII,  non  conosciuto  in  molte  provincie  e  regni 
che  sotto  il  famoso  nome  di  Ildebrando.  Non  reputo  più  perniciose 
alla  potestà  de'  principi  e  per  sorgive  di  sediziose  conseguenze 
quelle  lezioni  del  suo  Uffizio,3  nelle  quali  si  celebrano  come  vir- 
tù eroiche  ed  ispirate  da  divin  nume  l'aver  deposto  l'imperadore 
Errico  dal  regno  e  prosciolti  dal  giuramento  di  fedeltà  i  suoi  sud- 
diti; anzi  che  fu  ben  fatto  di  farle  passare  ne'  breviari,  affinché  i 
popoli  fra'  divini  uffizi  e  nelle  publiche  preci  s'imbevino  di  quelle 
salutari  e  religiose  massime.  Egli  è  però  vero  che  se  il  vostro  libro 
delle  Riflessioni,  appena  nato  dopo  la  publicazione  di  quest'Uffizio 
gregoriano,  non  fosse  stato  bandito  e  proscritto,  sicché  avessero 
potuto  leggerlo  que'  temerari,  vi  sarebbe  corso  gran  pericolo  di 
non  fargli  maggiormente  ostinare  ne'  loro  errori;  poiché  il  vostro 
zelo  suole  talmente  accendersi  per  la  salute  delle  nostre  anime,  che 
allo  spesso  vi  fa  dare  in  frenesie  e  deliri  tali  che  fanno  a  tutti  com- 
passione, siccome  vi  è  intervenuto  anche  sopra  questo  soggetto, 
lasciandovi  scappar  dalla  penna,  tom.  1,  pag.  265,  che  quell'infame 

1.  «Il  papa  ha  tanto  potere  in  Cielo,  che  se  volesse  canonizzare  un  defunto 
e  annoverarlo  tra  i  beati,  può  farlo  anche  contro  il  parere  dei  vescovi  e  dei 
cardinali  ».  Troilo  Malvito  o  Malvezzi  (o  Malvetius),  morto  nel  1496,  giu- 
rista e  decretalista  bolognese;  l'opera  qui  citata  fu  edita  per  la  prima  volta 
a  Bologna  nel  1487.  Cfr.  Tractatus  non  infestivus  de  sanctorum  canoniza- 
tione,  Troylo  Malvitio  iurisconsult.  authore,  edito  in  Tractatus  illustrium . .  . 
iurisconsultorum,  xiv,  Venetiis  1584,  ce.  97-103,  dove  però  non  si  trova  il 
passo  citato  dal  Giannone.  A  conclusione  del  secondo  «  dubbio  »  il  Malvito 
si  limita  a  dire:  a  papa  in  canonizatione  sancii  debet  consulere  cardinales, 
eorum  tamen  consilium  sequi  non  tenetur  ».  2.  pag.  80  e  86:  rectius  380-6. 
3.  IS  Uffizio  di  Gregorio  VII,  del  quale  s'è  detto. 


ARTICOLI   PRIMARI   E   FONDAMENTALI  491 

autore  della  Istoria  civile  mentisce  quando  scrive  che  Gregorio 
lasciasse  appresso  alcuni  scrittori  suoi  contemporanei  fama  diversa; 
e  come  se  fosse  universale  e  comune  il  sentimento  di  tutti  gli  scrit- 
tori di  averlo  per  santo,  pio,  misericordioso  e  giusto,  stupite  di 
tanta  impudenza  e  temerità  ed  esclamate:  «E  chi  sono  per  vita  vo- 
stra questi  scrittori  contemporanei,  presso  i  quali  lasciò  Gregorio 
sì  mala  fama  ?  ».  Come  (averebbero  detto  que'  temerari),  così  igno- 
rante d'istoria  è  l'autor  di  queste  Riflessioni,  che  non  sappia  quanto 
di  Gregorio  variamente  si  è  scritto  e  publicato  ?  Non  sa  egli  dun- 
que ciò  che  ne  scrisse  a  suo  prò  Bertoldo  Costanziense  ad  ann. 
1073,  Geroho  Reichersbergense,1  ed  alcuni  altri,  ed  al  rovescio  i 
più  numerosi  esser  quei  che  scrissero  il  contrario?  Non  ha  egli 
letto,  oltre  il  cardinal  Benno,  Alboino  prete,  Lamberto  Scafnabur- 
gense,  e  il  suo  Continuatore,  Alberto  Stadense,  Brunone,  Goffredo 
Viterbiense,  il  Monaco  Helveldense,  il  Cronografo  Sassone,  Cor- 
rado Wespergense,  gli  Annali  Hildesheimensi,  la  Cronaca  Span- 
genbergense,  Golschero  De  gestis  Trevirorum,  Sigisberto  Gembla- 
cense,a  Alberico,  Giorgio  Calisto,  Schiltero,  Reichembergio,3  e  tanti 


1.  Bertoldo  .  . .  Reichersbergense:  Bertoldo  di  Reichenau  (morto  nel  1088 
circa),  autore  di  un  Chronicon  edito  in  C.  Wurstisen,  Germaniae  histori- 
corum  ilhistrium  . . .  tomus  unus,  Francofurdi  1585, 1,  pp.  345  sgg.  ;  Gerhoh 
di  Reichersberg  (1 093-1 169),  teologo  della  cattedrale  di  Augusta.  2.  car- 
dinal Benno  . . .  Gemblacense:  si  tratta,  nell'ordine,  della  Vita  et  gesta  Hil- 
debrandi  del  cardinale  Beno  (morto  verso  il  11 00);  delle  Epistolae  de  co- 
niugio sacerdotum  per  Hildébrandum  damnato  del  presbitero  Alboino  (se- 
conda metà  del  secolo  XI);  del  De  rebus  gestis  Germanorum  di  Lamberto 
di  Hersfeld  (1028  circa-dopo  il  1077),  detto  anche  Schafhaburgensis:  cfr. 
in  Rerum  germanicarum  scrtptores,  Ratisbonae  17263,  pp.  301-424  (alle  pp. 
425-40  le  Additiones  di  ignoto,  nelle  quali  però  non  si  parla  di  Gregorio 
VII);  del  Chronicon  di  Alberto  di  Santa  Maria  di  Stade  (morto  dopo  il 
1261);  del  De  bello  saxonico  (1073-108 1)  di  Bruno  di  Magdeburg  (seconda 
metà  del  secolo  XI)  ;  del  Pantheon,  seu  memoria  saeculorum  di  Goffredo  da 
Viterbo  (1120  circa- 1 191)  ;  del  Chronicon  .  . .  auihore  monacho  quodam  Her- 
veldensi  (cioè  ancora  Lamberto  di  Hersfeld);  del  Chronographus  Saxo  edito 
dal  Leibniz  nelle  sue  Accessiones  historicae,  Lipsiae  1698  e  Hanoverae  1700; 
di  un  Chronicon  già  attribuito  a  Corrado  di  Lichtenau  (priore  del  mo- 
nastero di  Ursperg  dal  1226  al  1240);  degli  Annales  di  Hildesheim,  editi 
dal  Leibniz  negli  Scriptores  rerum  brunsvicensium  (1707);  probabilmente 
della  Sàchssische  Chronica  (1585)  di  Cyriacus  Spangenberg  (1528- 1604), 
teologo  e  storico;  dei  Gesta  archiepiscoporum  trevirensium  del  monaco 
Golscherus,  anch'essi  nelle  Accessiones  del  Leibniz;  e  della  Chronographia 
di  Sigeberto  di  Gembloux  (1030  circa-1112).  3.  Alberico  —  Reichember- 
gio:  Alberico  delle  Tre  Fontane  (morto  nel  1241  circa),  monaco  cistercense, 
autore  di  un  Chronicon  edito  dal  Leibniz  nel  1698;  Georg  Callisen  (lat. 
Georgius  Calixtus,  1586-1656),  teologo  luterano,  di  cui  cfr.  De  coniugio 


492  PROFESSIONE   DI   FEDE 

e  tanti  altri?  Non  ha  egli  dunque  mai  letti  i  Dittati  di  Gregorio1 
stesso,  ed  i  tanti  propri  monumenti  che  ci  lasciò,  i  quali  soli  baste- 
rebbero a  qualificarlo  per  un  ambizioso,  e  che  avesse  voluto  stabi- 
lire nella  Chiesa  un  dominio  insoffribile,  tanto  sopra  lo  spirituale, 
quanto  sopra  il  temporale  ?  Ed  il  fatto  sta  che  non  vi  manderebbero 
a  quegl'istorici,  che  hanno  ultimamente  scritto  delle  cose  di  Ger- 
mania più  accuratamente  e  sopra  autentici  documenti,  come  ad  uno 
Struvio,  Syntagm.  Historiae  germ.,  in  HenricoIV,  a  Weltramo,3  allo 
Scrittore  della  Vita  d'Errico  presso  Urstisio3  ed  a  Simone  Hans,4 
Historia  German.  perché  dopo  esservene  informato,  subito  gridere- 
ste: Eretici,  eretici;  ma  agli  scrittori  cattolici  romani,  siccome  sono 
quasi  tutti  que'  di  sopra  rammentati.  Sicché  se  tanto  è  permesso 
ad  un  vostro  umil  discepolo,  io  vi  consiglierei  a  non  entrar  in  briga 
co'  medesimi  sopra  punti  d'istoria,  perché  il  concetto  che  si  ha  di 
voi  è  che  non  ne  sappiate  verbo,  e  che  stante  la  vostra  ritiratezza 
in  speculare  e  riflettere  sopra  la  vostra  morale  e  teologia,  del  mondo 
materiale  e  sensibile,  e  di  quanto  in  quello  sia  accaduto,  non  ne 
sapete  nulla,  e  ci  state  dentro  sol  per  lasciarci  letame.  E  questa 
è  la  ragione  che  vi  ha  fatto  credere  di  potere  impugnare  un'isto- 
ria senza  libri,  come  se  aveste  dovuto  comporre  un  poema.  Sicché 
fate  una  volta  a  mio  senno,  e  non  v'impacciate  di  queste  cose;  ed 
abbiate  a  grado  la  proscrizione  delle  vostre  Riflessioni,  perché  se  si 
fossero  lette,  si  sarebbe  molto  scemata  la  divozione  ad  un  sì  chiaro 
e  rinomato  santo.  Ma  rimettendoci  in  cammino,  dico  : 


clericorum  tractatus,  Francofurti  1653,  pp.  412  sgg.;  Johann  Schilter  (1632- 
J705)»  giureconsulto  e  storico,  autore  di  De  liberiate  Ecclesiarum  Germaniae 
libri  VII,  Ienae  1683.  Con  Reichembergio  Giannone  si  riferisce  forse  al 
Chronicon  monasterii  reicherspergensis  (in  Scriptores  rerum  germanicarum, 
Francofurti  et  Lipsiae,  11, 1 7 1 8) .  1 .  Il  Dictatus  papae,  consistente  in  venti- 
sette proposizioni,  nelle  quali  è  enunciata  la  professione  teocratica  del  po- 
tere papale.  Esse  sono  inserite  nel  registro  delle  lettere  di  Gregorio  VII, 
tra  quelle  del  3  e  quelle  del  4  marzo  1075.  2.  Dello  Struve  (cfr.  le  note  5 
a  p.  371  e  1  a  p.  449)  cfr.  Syntagma  cit.,  p.  417.  Con  Weltramo  si  riferisce  al 
De  imitate  Ecclesiae  conservartela,  et  schiomate  quod  fuit  inter  Henricum  IV 

imp.  et  Gregorium  VII  Pont.  Max liber,  Moguntiae  1520,  di  Walramus, 

vescovo  di  Naumburg  (XII  secolo).  3.  Cfr.  Henrici  imp.  eius  nominis  IIII 
. . .  vita,  in  C.  Wurstisen  (lat.  Christianus  Urstisius,  1544- 15 88),  Germaniae 
historicorum  ecc.,  cit.,  1,  pp.  280-93.  4.  Simone  Hans:  nella  Nota  de*  libri 
in  Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  v,  ins.  12,  è 
elencato  «  Simon  Hank  Historia  di  Germania  tomi  rv  voi.  2  »  (cfr.  Gianno- 
niana,  p.  475). 


ARTICOLI   PRIMARI   E   FONDAMENTALI  493 


VI 

Che  riconoscendosi  nel  papa  sì  alta,  indefinita,  sovrana  ed  illimi- 
tata potestà,  ben  gli  stia  il  nome  di  Vice-Dio,  che  non  pur  nelle 
pubbliche  tesi,  ma  ne'  libri  stampati,  che  se  gli  dedicano  in  Roma 
ed  altrove,  tutto  dì  leggiamo.  Talché  tengo  essersi  oggi  già  decisa 
la  questione,  che  pur  si  vide  posta  in  campo  :  «  Utrum  papa  simplex 
homo  sit,  an  quasi  Deus  participet  utramque  naturam  cum  Chri- 
sto».1  Gli  antichi  chiosatori  delle  Decretali  ci  si  confusero,  e  la 
Glos.  in  praefat.  Clem.  reputò  che  fosse  non  Dio,  non  uomo,  ma 
un  neutro  tra  queste  due  nature,  «papa  nec  Deus  est,  nec  homo, 
sed  neuter  est  inter  utrumque».2  Altri  riguardando  sì  alta  ed  illi- 
mitata potestà,  e  che  non  era  sottoposto  ad  alcuno,  lo  credettero 
non  uomo,  ma  vicario  di  Dio,  siccome  c'insegnò  la  Gloss.  nel  e. 
fundamenta  de  elect.  in  6  dicendo:  «Et  in  hac  parte  papa  non  est 
homo,  sed  Dei  vicarius»;3  sicché  a  ragione  fugli  attribuito  il  no- 
me di  Vice-Dio.*  E  se  V.  P.  non  la  stimasse  bestemmia,  io  m'avan- 
zerei con  Agostino  Steuco5  eugubino,  bibliotecario  del  papa,  a  chia- 
marlo anche  Dio;  poiché,  se  secondo  questo  scrittore,  alla  cui  fede 
io  m'attengo,  così  lo  chiamava  quel  grande  imperadore  del  mondo 
Costantino,  anzi  come  Dio  l'adorava,  perché  non  debbo  anch'io 
così  chiamarlo  e  adorarlo,  che  sono  un  verme  della  terra?  <r Audis 
(mi  sgrida  quel  bibliotecario  in  lib.  de  donai.  Constant.,  pag.  141, 
edit.  Lugduni  anno  1547)  summum  pontifìcem  a  Constantino 
Deum  appellatum  et  habitum  prò  Deo  ?  Hoc  videlicet  factum  est, 


1.  «  Utrum  .  . .  Ckristo*:  «  Se  il  papa  è  semplice  uomo,  o  quasi  Dio  parteci- 
pi con  Cristo  alle  due  nature  ».     2.  la  Glos.  in  praefat utrumque:  cfr.  in 

Liber  sextus  Decretalium  D.  Bonifacii  papae  Vili.  Clementis  papae  V  Consti- 
tutiones.  Extravagantes  tum  viginti  D.  Ioannis  papae  XXII  tum  communes. 
Haec  omnia  cum  suis  glossis  suae  integrìtatt  restituta  ecc.,  Lugduni  1606, 
Clementis  papae  Quinti  Constitutiones,  col.  4  («il  papa  non  è  Dio  né  uomo, 
ma  un  neutro  tra  i  due»).  3. siccome.  .  .vicarius:  cfr.  in  op.  cit.  Sexti 
Decretalium  lib.  1,  tit.  vi  De  electione  et  electi  potestate,  cap.  xvn  Funda- 
menta,  col.  132  («in  questa  parte  il  papa  non  è  uomo,  ma  vicario  di  Dio»), 
4.  Vice-Dio:  cfr.  in  op.  cit.  Clementis  papae  Quinti  Constitutiones,  col.  4: 
«vices  Dei  in  terris  gerit».  5.  Agostino  Steuco  (1497  circa- 1548),  pre- 
fetto della  Biblioteca  Vaticana,  vescovo  di  Kìsamos  in  Creta,  fu  l'avver- 
sario del  Valla,  nella  polemica  sull'autenticità  della  donatio  costantiniana, 
col  suo  Cantra  L.  Vallam  de  falsa  donatione  Constantini,  pubblicata  nel 
1547. 


494  PROFESSIONE   DI   FEDE 

cum  eum  praeclaro  ilio  edicto  decoravit,  adoravit  uti  Deum,  ut 
Christi  ac  Petri  successorem:  divinos  honores  ei,  quoad  eius  potuit, 
contulit,  velut  vivam  Christi  imaginem  veneratus  est  ».x 


VII 

Che  difficoltà  adunque  posso  aver  io  ora,  che  a  tutto  ciò  s'ac- 
coppiano le  vostre  esortazioni,  anzi  dimostrazioni,  in  credere  che 
possa  tutto  tutto  tutto  ?  Non  ho  difficoltà  da  ora  avanti  di  confes- 
sare con  Baldo*  nella  L.  tilt.  C.  de  seni,  rescinda  che  «papa  est  Deus 
in  terris»;  con  Decio3  in  cap.Ide  Constit.  e  con  Felino  in  C.  ego  N. 
de  iureiur.  che  «Papa  et  Christus  faciunt  unum  concistorium:  ita 
quod  excepto  peccato,  potest  papa  quasi  omnia  facere  quae  potest 
Deus,  et  a  nernine  potest  iudicari»;4  coir  Abate  in  cap.  licei,  de  elect. 
che  ciò  che  «papa  facit,  facit  ut  Deus,  non  ut  homo»;5  col  cardinal 
Parisio,6  consil.  63,  n.  162,  voi.  4,  che  «papa  est  quoddam  numen 
et  quasi  visibilem  quemdam  prae  se  ferens»;  con  Baldo  stesso  in  C. 
Ecclesia,  ut  lite pend.  che  «papa  est  causa  causarum:  unde  non  est 
de  eius  potestate  inquirendum,  quum  primae  causae  nulla  sit  cau- 


1.  «Audis  . . .  veneratus  est»:  «Senti  come  il  sommo  pontefice  fosse  chia- 
mato da  Costantino  Dio  e  tenuto  per  Dio  ?  Ciò  è  manifesto  dal  fatto  che, 
quando  lo  onorò  con  quel  suo  celebre  editto,  lo  adorò  come  Dio,  come 
successore  di  Cristo  e  di  Pietro;  divini  onori,  per  quanto  potè,  gli  tributò, 
come  viva  immagine  di  Cristo  lo  venerò  ».  2.  Baldo  (cfr.  la  nota  iap.  372), 
Super  Decretalibus  . . .  commentarla  . . .,  Lugduni  1551,  f.  232.  3.  Filippo 
Decio  (1454- 153 6  circa),  uno  dei  più  celebri  giuristi  del  suo  tempo,  fu  tra  le 
personalità  di  primo  piano  del  concilio  di  Pisa  del  1511-1512.  Scomunicato 
da  Giulio  II,  si  rifugiò  in  Francia,  divenendo  consigliere  del  Parlamento  di 
Grenoble:  fu  assolto  nel  15 15.  Insegnò  diritto  a  Pavia,  Pisa  e  Siena.  Cfr.  In 
Decretales  commentaria  — ,  Romae  1579,  ce.  6^-7.  4.  con  Felino iudi- 
cari: «il  papa  e  Cristo  formano  una  sola  unione  :  cosicché,  eccetto  il  peccato, 
il  papa  può  fare  tutto  ciò  che  può  Dio,  né  può  essere  giudicato  da  alcuno  ». 
5.  coli1  Abate . . .  homo:  si  tratta  forse  di  Bernardo  di  Montmirat  detto  Abbas 
Antiquus,  canonista  provenzale  i  cui  scritti  si  collocano  tra  il  126 1  e  il  1275. 
Il  suo  commento  alle  Decretali  di  Gregorio  IX  è  edito  in  PerUlustrium 
doctorum  tam  veterum  quam  recentiorum  in  lib.  Decretalium  aurei  Commen- 
tarti, videlicet  Abbatis  Antiqui  età,  Venetiis  1588.  Qui,  al  capitolo  licet  de 
electione,  la  frase  citata  però  non  compare.  Più  oltre,  in  un  altro  capitolo, 
p.  26r,  c'è  «quod  facit  papa,  facit  ut  deus»,  senza  il  «non  ut  homo»  della 
citazione  giannoniana.  6.  cardinal  Parisio:  Pier  Paolo  Parisio  (1473- 
1 545) ,  professore  di  diritto  civile  a  Padova  e  Bologna,  divenne  cardinale 
nel  1539.  Scrisse  numerose  opere  di  diritto  e  quattro  volumi  di  Consilia, 
apparsi  postumi  nel  1570. 


ARTICOLI   PRIMARI   E   FONDAMENTALI  495 

sa»;1  collo  Speculatore2  in  tit.  de  leg.  §  nunc  ostendendum  vers.  89 
e  con  Giasone3  in  cons.  145,  voi.  I,  n.  3  et  voi.  4,  cons.  95,  col. 
pen.,  che  «nemo  potest  dicere  papae:  Cur  ita  facis?».  E  final- 
mente con  tutti  i  decretisti  che  «  de  potentia  papae  dubitare  sacri- 
legium  est».  Non  deve  imputare  V.  P.  a  poco  mio  rispetto  se  io 
vengo  in  questi  articoli  ad  annoiarla  con  citazioni  di  curiali,  perché 
alla  pag.  78  del  tom.  2  delle  vostre  Riflessioni  mi  sgridate  ch'io 
siegua  il  costume  degli  eretici  in  spacciare  queste  odiose  esagera- 
zioni, che  il  papa  possa  tutto,  senza  additare  que'  curiali  che  così 
scrissero.  Ecco  per  qual  fine  io  ora  gli  addito,  che  non  è  altro  che 
per  soddisfare  in  tutto  al  vostro  zelo  e  cristiana  carità,  ed  adempire 
al  desiderio  che  avete  di  vedermi  purgato  da  questa  macchia  di 
aver  in  ciò  seguito  il  costume  degli  eretici. 


vili 

Qual  difficoltà  potrò  ora  avere  di  confessare  che  possa  tramuta- 
re il  male  in  bene,  l'ingiustizia  farla  giustizia,  ed  i  vizi  virtù;  ed 
al  rovescio  il  bene  in  male,  la  giustizia  in  ingiustizia  e  le  virtù  in 
vizi,  il  quadrato  in  rotondo,  ed  il  rotondo  in  quadrato  ?  In  fine  che 
sia  sopra,  contro  e  fuori  d'ogni  legge  e  d'ogni  dritto  anco  natu- 
rale ed  apostolico.  Confesso  colla  Glossa  di  Graziano,4  e  15,  qu. 
6,  e.  authoritatem,  e  dico  «  quod  papa  potest  dispensare  contra  ius 
naturale  et  apostolicum».  Confesso  con  Lodovico  Gomes5  in 
Reg.  cancell.  che  «papa  potest  de  iniustitia  facere  iustitiam».  Con- 
fesso con  Baldo  in  L.  Barbarius  de  officio praet.  che  «papa  est  omnia 
et  super  omnia»;  e  col  medesimo  in  cap.  cum  super,  de  caus.  pro- 
prietà et  possess.  che  «papa  supra  ius,  contra  ius  et  extra  ius  omnia 


1.  zpapa  . .  .  causa»:  «il  papa  è  causa  di  tutte  le  cause:  perciò  non  si  deve 
indagare  sulla  sua  potestà,  perché  non  vi  è  causa  d'una  prima  causa». 

2.  Speculatore:  Guilelmus  Durantis  (1237-1296),  autore  dello  Speculum 
indiciate;  compilò  anche  un  Repertorium  aureum  iuris  canonici,  un  Ponti- 
ficaie,  un  Rationale  divinorum  officiorum  e,  infine,  glosse  alle  costituzioni  di 
Gregorio  X  e  Niccolò  III.  3.  Giasone  del  Maino  (1435-1519),  professore 
di  diritto  a  Pavia,  lasciò  un  ampio  commento  al  Corpus  iuris,  e  numerosi 
Consilia',  ma  per  questa  citazione  cfr.  nella  seconda  parte  del  I Decretalium, 
n.  22.  4.  Graziano:  vedi  la  nota  2  a  p.  27.  5.  Luis  Gomes  (1484-1542), 
giurista  e  canonista  spagnolo,  auditore  di  Rota  in  Curia,  ha  lasciato  due 
libri  di  Decisiones  Rotae,  e  i  commentari  In  regulas  cancellariae  apostolicae, 
pubblicati  entrambi  nel  1546. 


496  PROFESSIONE  DI   FEDE 

potest»;1  con  Ostiense*  in  C.  cum  venissent  de  indie,  che  «papa  po- 
test  mutare  quadrata  rotundis  ».  Sicché  non  mi  sembra  più  bestem- 
mia quella  che  al  rapporto  del  Varchi  nella  sua  Storia  di  Fiorenza 
solea  spesso  aver  in  bocca  il  cardinal  Lorenzo  Pucci,  che  al  papa, 
che  tutto  può,  non  si  disdice  cosa  alcuna,  anzi  che  tutte,  ancorché  in- 
giustissime, gli  fossero  lecite.3  Posso  ancora  con  franchezza  decidere 
tutte  quelle  questioni  che  tennero  lungamente  esercitati  i  vostri  in- 
gegni e  le  vostre  scuole:  «  An  papa  possit  abrogare  id,  quod  scriptis 
apostolicis  decretum  est.  An  possit  novum  articulum  condere  in 
fidei  symbolo.  An  possit  aliquid  statuere,  quod  pugnet  cum  doctri- 
na  evangelica.  Utrum  maiorem  habeat  potestatem  quam  Petrus,  an 
parem.  An  solus  omnium  non  possit  errare  »,4  e  mille  e  mille  altre, 
delle  quali  i  vostri  religiosi  d'ogni  Ordine,  che  vi  sono  tanto  a 
cuore,  ne  hanno  empiti  più  volumi  :  che  io  a  tutte  resolutivamente 
rispondo,  e  dico  di  sì.  Onde  ammetto  per  veri  e  legittimi  i  Dettati 
di  papa  Gregorio  VII  e  per  niente  stravagante  la  bolla  TJnam  sane- 
tam  di  papa  Bonifacio  Vili,5  l'altra  In  Coma  Domini?  e  quante  di 


1.  Cfr.  Super  Decretalibus  cit.,  f.  zizv:  a  il  papa  è  tutto  e  sopra  tutto»;  a  il 
papa,  sopra  il  diritto,  contro  il  diritto  e  al  di  fuori  del  diritto,  può  ogni 
cosa».  2.  Enrico  Ostiense  (morto  nel  1271),  vescovo  di  Ostia  dal  1262, 
d'ignota  famiglia  piemontese,  insegnò  diritto  a  Bologna,  poi  a  Parigi, 
infine  in  Inghilterra.  Fatto  cardinale  si  trasferì  a  Roma,  dove  scrisse  i 
Commentari  alle  Decretali,  lasciati  in  legato  all'Università  di  Bologna,  e  una 
Summa  delle  stesse,  comunemente  detta  Summa  ostiensis,  stampata  per  la 
prima  volta  a  Basilea  nel  1537.  3.  Sicché , .  .  lecite,  cfr.  Benedetto  Varchi, 
Storia  fiorentina,  a  cura  di  L.  Arbib,  11,  Firenze  1843,  p.  556.  Lorenzo 
Pucci,  datario  di  Giulio  II,  poi  di  Leone  X,  divenne  cardinale  nel  15 13. 
Conobbe  una  breve  eclissi  sotto  il  pontificato  di  Adriano  VI,  ma  ritornò 
nella  pristina  potenza  in  Curia  col  nuovo  papa  mediceo,  Clemente  VII. 
A  lui  Erasmo  dedicò  le  proprie  annotazioni  sulle  opere  di  san  Cipriano. 
4.  «An  papa . .  .  errare»:  «Può  il  papa  abrogare  ciò  che  è  stato  stabilito 
dagli  scritti  apostolici?  Può  creare  nuovi  articoli  del  simbolo  apostolico? 
Può  stabilire  cose  che  ripugnano  alla  dottrina  evangelica?  Ha  maggiore 
potestà  di  Pietro,  o  uguale?  Può,  lui  solo  tra  tutti,  non  sbagliare? ».  5.  la 
bolla  . .  .  Bonifacio  Vili:  la  bolla  emanata  il  18  novembre  1302,  nella  quale 
è  enunciata  la  supremazia  temporale  della  Chiesa  sopra  «ogni  creatura 
umana».  6.  l'altra  In  Coma  Domini:  questa  bolla,  al  contrario  di  tutte 
le  altre  bolle  pontificie,  è  così  denominata  non  dalle  parole  deWincipit, 
ma  perché  letta  davanti  al  papa  il  Giovedì  santo,  cioè,  appunto,  «in 
coena  Domini».  Elaborata  e  rimaneggiata  da  molti  pontefici,  ebbe  origine 
verso  la  metà  del  Duecento,  ed  ebbe  la  stesura  definitiva  da  parte  di  Ur- 
bano Vili,  con  la  costituzione  Pastoralis  romani pontìficis  (1627).  Contiene 
l'elenco  dei  delitti  per  i  quali  è  comminata  la  scomunica,  talmente  ampio 
da  ledere  sensibilmente  il  potere  dei  principi. 


ARTICOLI   PRIMARI   E   FONDAMENTALI  497 

simil  farina  se  ne  leggono  nel  Bollano  Romano,  anche  in  quello  di 
Clemente  XI  dato  ultimamente  alle  stampe1  prò  regimine  Urbis  et 
Orbis.  Confesso  ora  col  vostro  P.  Bellarmino,  tom.  i,  lib.  4,  de  rom. 
poni.,  cap.  5,  che  se  il  papa  errasse  «praecipiendo  vitia,  vel  prò- 
hibendo  virtutes,  teneretur  Ecclesia  credere  vitia  esse  bona  et  vir- 
tutes  malas,  nisi  vellet  contra  conscientiam  peccare.  Tenetur  enim 
in  rebus  dubiis  Ecclesia  acquiescere  iudicio  summi  pontificis  et 
facere  quod  ille  praecipit,  non  facere  quod  ille  prohibet;  ac  ne 
forte  contra  conscientiam  agat,  tenetur  credere  bonum  esse,  quod 
ille  praecipit,  malum,  quod  ille  prohibet».2 


IX 

Ora  conosco  e  detesto  il  mio  errore  d'aver  creduto  che  il  ponte- 
fice romano  fosse  un  pastore,  a  cui  fu  commessa  la  cura  di  una  greg- 
gia non  sua,  ma  di  Cristo,  e  che  questi  fosse  il  solo  Sposo  e  il  Signore 
della  sua  Chiesa.  E  perciò  chiedo  perdono,  se  tali  sentimenti  voi 
avrete  scorti  ne*  primi  miei  libri  deST  Istoria  civile,  e  che  a  ragione 
gli  avete  altamente  sgridati  sì,  ma  non  giammai  convinti  per  falsi  ed 
erronei.  Contuttociò  io  ora  li  detesto,  e  quando  prima  S.  Paolo  ed 
i  Padri  vecchi  diceano  che  lo  Sposo  della  Chiesa  era  Cristo,  io  ora 
dico  meglio  che  sia  il  papa,  e  m'uniformo  al  detto  di  Bonifacio  Vili, 
il  quale  nel  cap.  quoniam  de  immunit.  in  6  se  stesso  così  chiamò,  di- 
cendo: «Nos  iustitiam  nostrani  et  Ecclesiae  Sponsae  nostrae  no- 
lentes  negligere».3  Anzi  non  la  dirò  più  sposa  del  papa,  ma  sua 


1.  in  quello  . . .  stampe-,  cfr.  Clementi  Undecimi  pont.  max.  Bidlarium,  Ro- 
mae  1723.  Questo  Bollano  fu  edito  dal  cardinale  Annibale  Albani,  nipote 
di  Clemente,  ad  esaltazione  della  politica  dello  zio.  Delle  reazioni  che  tale 
pubblicazione  suscitò  parla  lo  stesso  Giannone  nella  Vita,  capitolo  vi,  qui 
a  pp.  144-5.  2.  Bellarmino ...  prohibet:  cfr.  Disputationes  R.  Bellarmi- 
ni . .  .de  controversiis  christianae  fidei  adversus  huius  temporis  haereticos, 
quatuor  tomis  comprehensae,  Venetiis  1599,  tom.  1,  Tertia  controversia  gene- 
ralis,  De  summo  poritifi.ee,  quinque  libris  explicata,  lib.  rvT,  De  potestate  spiri- 
inali  summi  pontificis,  cap.  v,  De  decretis  morum,  coli.  804-5  (« . . .  prescri- 
vendo i  vizi  o  proibendo  le  virtù,  la  Chiesa  sarebbe  obbligata  a  credere 
che  i  vizi  sono  buoni  e  cattive  le  virtù,  se  non  volesse  peccare  contro  co- 
scienza. La  Chiesa  è  infatti  tenuta  ad  acconsentire  nelle  cose  dubbie  col 
giudizio  del  sommo  pontefice  e  a  fare  ciò  che  egli  comanda,  e  a  non  fare 
ciò  che  proibisce;  e  perché  non  abbia  ad  agire  per  avventura  contro  co- 
scienza, è  tenuta  a  credere  che  è  bene  ciò  che  egli  comanda,  male  ciò  che 
proibisce»).     3.  Bonifacio  Vili negligerei  cfr.  Liber  sextus  Decretalium 


498  PROFESSIONE   DI   FEDE 

serva,  e  non  tanto  m'induco  a  crederlo  dall'insegnamento  del  vostro 
P.  Bellarmino,  ma  da  quello  che  leggo  ancora  nel  Decreto  di  Gra- 
ziano, che  so  che  per  voi  passa  per  libro  canonico,  dove,  e.  1, 
dist.  93,  a  chiare  note  si  legge:  «papa  is  est,  cui  tota  parere  debet 
Ecclesia».1  E  la  ragione  mi  vien  additata  nel  cap.  inter  corporalia 
de  translat.  episcopor.  poiché  essendo  un  Dio  in  terra,  deve  in 
conseguenza  la  Chiesa  tutta  soggettarsi  e  dipendere  da'  suoi  co- 
mandi; e  così  «quando  papa»  come  ivi  si  legge  «  dissolvit  matrimo- 
nium,  videtur  quod  solus  Deus  dissolvit,  quia  papa  canonice  elec- 
tus  est  Deus  in  terris»;2  e  da  Felin.  nel  cap.  Ego  N.  de  iureiur. 
che  pur  m'intuona  all'orecchio:  «papa  gerit  vicem  in  terris  non 
puri  hominis,  sed  veri  Dei  ».3  Sicché  avendomi  voi  messo  in  questa 
buona  strada,  che  per  dritto  cammino  mi  conduce  alla  vita  eterna, 
non  avete  più  da  sgridarmi  ed  a  disputar  meco  se  il  papa  possa 
errare  o  no  ;  se  sia  sopra  la  Chiesa  rappresentata  in  general  Concilio  ; 
se  abbia  solo  egli  il  diritto  di  convocarlo  ;  e  se  gl'imperadori  abbian 
alcuna  ragione  di  convocargli,  0  di  esserne  solamente  intesi  e  con- 
sapevoli. Non  avrete  più  occasione  di  contender  meco  del  suo  asso- 
luto imperio  sopra  tutti  i  vescovi,  arcivescovi  e  patriarchi,  che  non 
sono  finalmente  che  suoi  uffiziali  e  ministri,  poiché  egli  lor  dà  tutta 
quella  giurisdizione  che  esercitano  nelle  loro  diocesi;  ed  i  metropo- 
litani, se  non  se  gli  mandasse  il  pallio,  «  in  quo  est  plenitudo  ponti- 
ficane officii  »,4  non  valerebbero  un  fico,  né  potrebbero  esercitare 
funzione  alcuna  pontificale  nelle  loro  provincie;  e  perciò  come  suoi 
uffiziali  meritamente  vengon  costretti  a  prestar  giuramento  di  fe- 
deltà al  papa,  siccome  glielo  prestano.  Non  mi  fa  ora  più  maravi- 
glia che  possa  crear  tanti  vescovi  quanti  ne  vuole,  ed  in  Asia,  ed  in 
Africa  ed  in  tutta  quanta  è  lata  e  grande  la  terra,  che  possa  abbas- 
sargli ed  ingrandirgli  a  sua  posta,  denudargli  degli  antichi  lor  diritti 
e  prerogative,  e  ridurgli  ad  esser  servi  vilissimi,  non  pur  suoi,  ma  de' 
cardinali,  che  son  oggi  i  primi  ed  i  Grandi  della  sua  Corte,  e  al  dire 


D.  Bonifacìi  papae  Vili  ecc.,  cit.,  col.  590,  Sexti  Decretaliwn  lib.  ni,  tit. 
xxiii  De  immunitate  ecclesiarum,  cap.  iv  Quoniam  ut  intelleximus  («Non 
volendo  noi  trascurare  la  giustizia  nostra  e  della  Chiesa  nostra  sposa  .  .  .  »). 
1.  nel  Decreto  . . .  Ecclesia:  ma,  nel  luogo  citato  dal  Giannone,  questo  passo 
non  esiste.  2.  *  quando  papa  .  . .  terris»:  «quando  il  papa  scioglie  un  ma- 
trimonio, è  evidente  che  è  solo  Dio  a  scioglierlo,  dacché  il  papa  canonica- 
mente eletto  è  Dio  in  terra».  3.  «papa  gerit . . .  Dei »:  «il  papa  tiene  in 
terra  il  luogo  non  di  semplice  uomo,  ma  di  vero  Dio  ».  4.  «zn  quo  est .  . . 
officii»:  «in  cui  sta  la  pienezza  dell'ufficio  pontificale». 


ARTICOLI    PRIMARI    E   FONDAMENTALI  499 

del  vostro  P.  Pallavicino,1  suoi  grandi  senatori,  che  formano  la 
regia  universale  di  sì  gran  principe. 


Non  mi  sorprendono  più  ora  le  cerimonie  e  le  celebrità  ch'io  leg- 
go nel  libro  del  Cerimoniale  pontificale,  quando  vien  eletto  e  inco- 
ronato un  sì  gran  principe,  ch'è  il  signore  de*  signori  e  il  re  de'  re, 
e  protesto  essergli  ben  dovute.  Eletto  ch'egli  è  in  Roma,  s'incam- 
mina a  S.  Pietro,  e  i  cardinali  diaconi  che  gli  sono  al  lato  gli  sosten- 
gono le  fimbrie  del  pluviale.  Ma  chi  gli  alzerà  la  coda  dietro  ?  Se  si 
troverà  in  Corte  l'imperadore,  avrà  egli  quest'onore;  se  no,  un  re, 
che  per  sua  ventura  vi  si  trovasse;  altrimenti  l'alzerà  un  laico  più 
nobile;  ed  otto  altri  nobili,  ovvero  ambasciadori  di  principi  soster- 
ranno le  otto  aste  del  suo  baldacchino.  «Caudam  autem  pluvialis» 
sono  le  parole  del  Cerimoniale  «.  portabit  nobilior  laicus,  qui  erit  in 
Curia,  etiamsi  esset  imperator  vel  rex;  supra  eum  octo  nobiles 
sive  oratores  portant  umbrellam  hastilibus  octo  sustentatam,  quam 
hodie  baldacchinum  appellant».2  Le  acclamazioni  devono  esser 
concepite  dal  popolo  consimili  a  quelle  che  si  usarono  quando  fu 
eletto  imperadore  in  Roma  Carlo  Magno,  «  Carolo  Augusto,  a  Deo 
coronato,  Magno  et  pacifico  Romanorum  imperatori,  vita».3  Così 
pure  il  Cerimoniale  fa  gridare  al  popolo:  «Domino  nostro  Inno- 
centio,  a  Deo  decreto  summo  pontifici  et  universali  papae,  vita».4 
Finita  la  consegrazione  vien  elevato  al  Soglio  sopra  un'eminente 
sede,  e  deposta  la  mitra  se  gli  adatta  sul  capo  il  Triregno,  detto 
così  perché  è  ornato  non  di  una,  ma  di  tre  corone.  Queste  tre  co- 
rone, secondo  m'insegna  Angelo  Rocca5  in  Bibliotheca  Vaticana 
Commentario  illustrata,  p.  5  (libro  impresso  in  Roma  l'anno  1591 
nella  stamperia  vaticana)  rappresentano  nel  papa  «tres  potestates, 

1.  Pallavicino:  cfr.  la  nota  4  a  p.  36.  2.  *Caudam  autem  . . .  appellanti*: 
cfr.  Bituma  ecclesiasticorum  ecc.,  cit.,  ce.  12^-13:  «Lo  strascico  del  piviale 
poi  sarà  portato  dal  più  nobile  dei  laici  che  sarà  presente  in  Curia,  anche  se 
sia  imperatore  o  re;  sopra  di  lui  otto  nobili,  o  ambasciatori,  porteranno 
l'ombrello  sorretto  da  otto  pali,  detto  oggi  baldacchino  ».  3.  «  Carolo  . .  . 
vita*:  «Viva  Carlo  Augusto,  incoronato  da  Dio,  grande  e  pacifico  impera- 
tore dei  Romani».  4.  «Domino  . . .  vita*:  cfr.  JRituum  ecclesiasticorum  ecc., 
cit.,  e.  15©:  «Viva  il  signore  nostro  Innocenzo,  dichiarato  da  Dio  sommo 
pontefice  e  papa  universale».  5.  Angelo  Rocca  (1545-1620),  agostiniano, 
direttore  della  tipografia  vaticana,  possessore  di  un'importante  biblioteca 
da  lui  lasciata  al  convento  romano  di  Sant'Agostino  e  che  prese  il  nome 
di  «Angelica». 


500  PROFESSIONE   DI   FEDE 

hoc  est  imperatoriam,  regiam  et  sacerdotalem,  plenariam  scilicet 
et  universalem  totius  orbis  auctoritatem  repraesentantes  w.1  Si  di- 
spone dipoi  una  solenne  cavalcata,  nella  quale  cavalca  il  papa  sopra 
un  cavallo  bianco  ben  corredato,  sotto  il  baldacchino  sostenuto  da 
otto  nobili,  ovvero  ambasciatori.  Ma  chi,  mentre  cavalca,  gli  terrà 
la  staffa  e  guiderà  il  freno?  Se  si  troverà  Pimperadore,  o  un  re, 
avrà  egli  questo  onore:  se  vi  si  troveranno  presenti  Pimperadore  ed 
il  re,  ovvero  due  re,  il  più  degno  guiderà  il  cavallo  alla  man  destra, 
e  l'altro  alla  sinistra  per  un  poco;  dapoi  saranno  sostituiti  in  lor 
luogo  due  grandi  nobili.  «  Cum  papa  ascendit  equum,  maior  prin- 
ceps,  qui  praesens  adest,  etiamsi  rex  esset  aut  imperator,  stapham 
equi  papalis  tenet,  et  deinde  ducit  equum  per  frenum  aliquantulum. 
Si  imperator  aut  rex  soli  essent,  idest  non  esset  alius  rex,  soli  equum 
ducerent  cum  dextera  manu;  sin  vero  esset  alius  rex  dignior  a 
dextera,  alius  a  sinistra  frenum  tenerent;  si  non  sint  reges,  digniores 
ducant  equum.  Et  postquam  imperator,  rex,  sive  alius  magnus 
princeps  aliquantulum  equum  duxerit,  substituantur  alii  duo  ma- 
gni nobiles  eorum  loco  et  mutentur».2  Ma  se  o  per  vecchiaia  o  per 
qualche  altra  indisposizione  il  papa  non  può  cavalcare,  sicché  sia 
d'uopo  mettersi  in  sedia  da  mano,  chi  dovrà  collarla  su  le  sue 
spalle  almeno  per  breve  cammino  ?  In  questo  caso  devono  scegliersi 
quattro  più  gran  principi,  e  se  fra  questi  vi  si  troverà  Pimperadore, 
o  uno  o  più  re,  devono  questi  in  onore  di  Gesù- Cristo  collare  sotto 
Pincarco,  e  colle  proprie  spalle  sostenerlo  e  portarlo  per  picciolo 
tratto.  Indi  saranno  sostituiti  altri  quattro  familiari  del  pontefice 
più  validi  e  robusti.  «  Si  vero  pontifex  non  equo,  sed  sella  veheretur, 
quatuor  maiores  principes,  etiamsi  inter  eos  imperator,  aut  quivis 
maximus  princeps  adesset,  in  honorem  Salvatoris  Iesu  Christi, 
sellam  ipsam  cum  pontifice  humeris  suis  portare  aliquantulum 

i.  utres  potestates  . . .  repraesentantes»:  «le  tre  potestà,  cioè  la  imperatoria, 
la  regia  e  la  sacerdotale,  che  appunto  rappresentano  il  pieno  e  universale 
potere  su  tutta  la  terra».  2.  «.Cum  papa  ascendit . . .  mutentur  *i  cfr.  B£- 
tuum  ecclesiasticorum  ecc.,  cit.,  e.  17:  a  Quando  il  papa  sale  a  cavallo,  il 
maggiore  dei  principi  presenti,  anche  se  fosse  un  re,  o  imperatore,  terrà 
la  staffa  del  cavallo,  quindi  lo  condurrà  per  un  pezzo  tenendolo  per  il 
morso.  Se  l'imperatore  o  il  re  sono  soli,  cioè  se  non  vi  fosse  altro  re,  soli 
condurranno  il  cavallo  con  la  mano  destra;  se  invece  vi  sarà  un  altro  re, 
il  più  degno  terrà  il  morso  a  destra,  l'altro  a  sinistra.  Se  non  vi  fossero  re, 
i  più  degni  conducano  il  cavallo.  E  dopo  che  l'imperatore,  il  re  o  alcun 
altro  gran  principe  avranno  condotto  per  un  pezzo  il  cavallo,  siano  sosti- 
tuiti da  altri  due  eccellenti  nobili,  e  così  via  ». 


ARTICOLI   PRIMARI   E   FONDAMENTALI  5OI 

debent  ».x  In  questa  cavalcata,  siccome  in  tutti  i  viaggi  che  dal  papa 
si  fanno,  si  vuole  per  cerimoniale  che  sia  accompagnato  anche  dal- 
l'Eucaristìa, che  dentro  una  valigia  vien  adattata  sopra  un  cavallo 
bianco,  mansueto  e  ben  ornato,  che  deve  aver  nel  collo  una  campa- 
nella ben  sonante,  guidato  da  un  famigliare  del  sagrestano  vestito 
di  rosso.  «Vehitur  etiam  super  equo  albo,  mansueto,  ornato,  ha- 
bente  ad  collum  tintinnabulum  bene  tinniens,  Sacramentum  Cor- 
poris  Christi».2  Protesto  ancora  essergli  ben  meritati  consimili  onori 
che  il  Cerimonial  pontificale  vuole  che  se  gli  rendano  ne'  solenni 
conviti  co*  cardinali  e  prelati.  Sorgerà  in  capo  della  sala  un  talamo 
quadrato,  sopra  il  quale  sarà  collocata  la  mensa  papale,  ed  al  muro 
si  porrà  una  ornata  sede  del  papa,  che  avrà  un  panno  d'oro  pen- 
dente sopra  il  suo  capo.  Se  nel  convito  interverrà  Pimperadore, 
«paratur  prò  eo  sedes  ad  dexteram  pontificis,  et  mensa  super  plano 
suggesta,  super  quam  solus  comedet  imperator.  Sedes  habebit  sca- 
bellum  parvum  viride,  et  erit  ornata  panno  aureo,  non  tamen  ha- 
bebit pendentem  supra  caput».3  Se  per  sua  sorte  vi  si  troverà  qual- 
che re,  non  avrà  sede  a  parte,  perché  gli  converrà  sedere  nella  men- 
sa de'  cardinali  dopo  il  primo  vescovo  cardinale,  preparandosegli 
solo  una  credenza  poco  da  quella  lontana.  «Si  vero  adesset  rex 
aliquis,  paratur  credentia  prò  eo  paulo  remotior  ab  ea:  sedes  vero 
nulla  paratur,  quia  sedet  in  mensa  post  primum  episcopum  cardi- 
nalem».4  Se  vi  saranno  più  re,  «misti  erunt  cum  primis  cardinali- 
bus:  primo  cardinalis,  deinde  rex  successive.  Si  erunt  mixtim  prin- 
cipes  aut  filli  vel  fratres  regum,  si  non  serviunt  papae,  debent  sedere 
inter  diaconos  cardinales,  vel  post  eos,  prò  eorum  dignitate  et  con- 
ditione.  Primogenitus  autem  regis,  quia  rex  futurus  putatur,  post 
primum  presbyterum  cardinalem  erit;  sed  nullo  modo  inter  episco- 
pos.  Et  hoc  tam  in  conviviis  quam  in  aliis  publicis  actibus  ».s  Qui 

1.  *Si  vero  pontifex  .  .  .  debent*:  cfr.  op.  cit.,  ibid.:  «Se  invece  il  papa  non 
cavalcherà,  ma  procederà  in  portantina,  i  quattro  maggiori  principi,  e  tra 
essi  anche  l'imperatore  o  qual  più  illustre  principe  sia  presente,  in  onore 
del  Salvatore  Gesù  Cristo,  porteranno  per  un  tratto  la  portantina  con  il  pa- 
pa sulle  spalle  ».  2.  «  Vehitur . . .  Christi  *  :  cfr.  op.  cit.,  e.  1 6v  (citazione  mol- 
to libera).  3.  tparatur  . .  .  caput*:  cfr.  op.  cit.,  e.  19:  «si  prepara  per  lui 
un  seggio  alla  destra  del  pontefice,  e  una  mensa  apparecchiata  su  un  piano, 
alla  quale  l'imperatore  mangerà  da  solo.  Il  seggio  avrà  un  piccolo  sgabello 
verde  e  sarà  adorno  di  un  panno  aureo,  ma  non  ne  avrà  uno  che  pende 
sopra  il  capo».  4.  *Si  vero  .  . .  cardinalem*:  cfr.  op.  cit.,  ibi d.  5.  «mixti 
erunt . . .  actibus*:  cfr.  op.  cit.,  e.  19*?:  a  staranno  mischiati  tra  i  primi  car- 
dinali: prima  un  cardinale,  poi  un  re,  e  cosi  via.  Se  vi  saranno  indi- 


502  PROFESSIONE   DI   FEDE 

fa  una  chiosa  l'autor  del  Cerimoniale,  e  dice:  «Quod  autem  de  im- 
peratore dicimus,  intelligimus  de  imperatore  Romanorum,  non  au- 
tem Graecorum;  nam  ille  ut  rex  tractatur».1  Ma  chi  sarà  il  primo 
che  avrà  Ponore  di  portar  l'acqua  a  lavar  le  mani  al  papa  ?  «  Nobilior 
laicus,  »  ci  risponde  colui  «  etiam  imperator  aut  rex,  aquam  ad  la- 
vandas  pontificis  manus  primo  ferat.  Et  dum  papa  lavat  manus, 
praelati  et  laici  omnes  genuflectunt,  cardinales  et  praelati  stant 
capite  detecto  ».2  Chi  sarà  il  primo  a  portargli  da  mangiare  ?  Eccolo  : 
«  Primum  ferculum  portabit  nobilior  princeps,  sive  imperator,  sive 
rexsit:  secundum  alius  dignior  post  eum,  et  sic  successive».3  Quali 
saranno  que'  favoriti  che  avran  l'onore  di  servirlo  a  tavola,  fin  che 
quella  duri?  Eccoli:  «Pontifici  servire  solent  nobiliores,  qui  sunt  in 
Curia,  laici,  etiamsi  sint  fratres  aut  filii  regum,  praesertim  in  ilio- 
rum  praesentia».4  Ora  sì  che  confesso  e  chiedo  a  V.  P.  perdono  de' 
miei  trascorsi,  se  ne'  miei  libri  dell'Istoria  civile  non  ho  tenuto  del 
ponteficato  romano  que'  concetti  che  voi  e  queste  Pandette  mi 
suggeriscono  ed  inculcano.  Gli  detesto  ora  e  gli  abbomino,  e  dirò 
per  l'avvenire  che  in  onore  di  Gesù-Cristo  tutto  se  gli  dee. 


XI 

Confesso  ancora  doversi  a'  suoi  cardinali,  che  sono  i  grandi  se- 
natori di  questa  regia  universale,  maggiori  o  almeno  uguali  onori 
di  quelli  che  si  danno  a'  re  della  terra.  Non  solo  che  ne'  papali 
conviti  debbano  sedere  prima  i  cardinali  vescovi,  e  poi  i  re,  ma 
ch'essi  sieno,  siccome  sembrarono  all'ambasciadore  del  re  Pirro  i 

stintamente  principi  o  figli  e  fratelli  di  re,  a  meno  che  non  servano  il  papa, 
devono  prender  posto  tra  i  cardinali  diaconi,  o  dopo  di  questi,  in  ragione 
della  loro  dignità  e  condizione.  Ma  il  primogenito  di  re,  poiché  si  ritiene 
che  sarà  re,  starà  dopo  il  primo  cardinale  presbitero,  ma  in  nessun  modo 
tra  i  vescovi.  E  ciò  tanto  nei  banchetti  che  nelle  altre  funzioni  pubbliche  ». 
i.  «Quod  autem . .  .  tractatur-»:  cfr.  op.  cit.,  e.  20:  «Quando  diciamo  im- 
peratore, intendiamo  l'imperatore  dei  Romani  e  non  quello  dei  Greci; 
costui  infatti  è  trattato  come  re».  2.  «Nobilior  .  . .  detecto »:  cfr.  op.  cit., 
e.  19:  «Il  laico  più  nobile,  anche  imperatore  o  re,  porti  in  primo  luogo 
l'acqua  per  lavare  le  mani  del  pontefice.  E  mentre  egli  si  lava  le  mani,  i 
prelati  e  tutti  i  laici  si  inginocchiano,  i  cardinali  e  i  prelati  stanno  a  capo 
scoperto  ».  3.  «Primum  .  . .  successive**,  cfr.  op.  cit.,  e.  20:  «Il  principe  più 
nobile,  sia  egli  imperatore  o  re,  recherà  la  prima  portata:  la  seconda  l'altro 
più  degno  dopo  di  lui,  e  così  via».  4.  «Pontifici .  .  .praesentia»:  cfr.  op. 
cit.,  e.  19:  «  Sogliono  servire  il  pontefice  i  laici  più  nobili  della  Curia,  anche 
se  siano  fratelli  o  figli  di  re,  specie  in  presenza  di  questi». 


ARTICOLI    PRIMARI   E   FONDAMENTALI  503 

senatori  romani,  tanti  re,  e  che  formano  il  Senato  ed  il  Concistoro 
a  sì  gran  principe:  che  sieno,  quando  gli  sarà  data  qualche  legazio- 
ne, tanti  proconsoli,  siccome  gli  chiamava  Clemente  IV,  e  che 
siccome  a'  proconsoli  erano  proprie  divise  ed  insegne,  così  questi 
legati,  quando  gli  toccherà  uscire  dalla  città  di  Roma,  avranno  pro- 
prie insegne,  come  le  vesti  di  porpora,  la  mazza,  il  cavallo  bianco, 
il  freno  e  gli  sproni  d'oro. 


XII 

Confesso  col  vostro  cardinal  Pallavicino  che  per  mantenere  con 
decoro  e  pompa  conveniente  a'  re  questi  grandi  senatori,  e  per 
conservar  con  splendore  questa  regia  universale  del  cristianesimo, 
abbia  ben  fatto  il  papa,  principe  supremo,  di  tirare  a  sé  tutte  le 
grazie,  le  dispense,  le  collazioni  de'  benefìci,  e  tanti  altri  emolu- 
menti per  le  rassegnazioni,  regressi,  annate,  pensioni  e  spogli,  e 
siensi  a  questo  fine  introdotti  con  molta  sapienza  infiniti  altri 
modi  per  tirar  danaro  in  Roma.  Ammetto  per  veri  e  ben  propri  que' 
paragoni  che  in  conferma  di  ciò  mi  suggerisce  lo  stesso  cardinale, 
dicendo  che  siccome  qualunque  principe  riscuote  senza  biasimo  i 
diritti  per  le  grazie  e  per  le  dispensazioni  che  egli  concede,  secondo 
le  tasse  del  governo,  così  non  debba  biasimarsi  il  papa,  principe  su- 
premo e  monarca,  per  ciò  che  esigge  per  le  concessioni  e  dispen- 
se nel  cristianesimo;  e  che  i  mezzi  più  propri  per  conservar  con 
isplendore  questa  regia  sien  la  copia  e  l'unione  di  più  benefìci  in 
una  persona  senza  obligarla  a  residenza.  E  che  siccome  l' erario  del 
principe,  per  ben  governarsi  lo  Stato,  bisogna  che  stia  sempre 
pieno;  così  tenere  il  papa  principe  supremo  vóto  l'erario,  è  lo  stesso 
che  allentare  la  disciplina^  onde  il  riformar  la  Dataria,1  proibire  a' 
giudici  ecclesiastici  d'impor  pene  pecuniarie,  ed  il  levar  i  diritti 
delle  dispensazioni,  è  lo  stesso  che  rallentar  la  disciplina  ecclesia- 
stica. E  per  non  annoiarvi  con  un  più  tedioso  catalogo  di  consimili 
articoli,  che  si  leggono  sparsi  nelle  opere  di  questo  vostro  insi- 
gne dottore,  spezialmente  nella  sua  Istoria  del  Concilio  di  Trento, 
essendosene  già  fatta  raccolta,3  che  fu  impressa  in  Parigi  l'anno 
1676  sotto  questo  titolo:  Les  noiwelles  lumieres  politiques  pour  le 

1.  la  Dataria:  vedi  la  nota  a  a  p.  209.  3.  essendosene . . .  raccolta:  allude 
all'opera  di  Jean  Le  Noir,  menzionata  anche  nella  Vita:  eh*,  p.  179  e  la 
nota  2  ivi. 


504  PROFESSIONE    DI    FEDB 

gauoamament  da  VEghse,  ou  VBwmgda  nouuaou  du  cardinal  Palamene 
raoalépar  ha.  don»  san  Htstotre  du  Cimala  da  Tranta,  e  che  dopo  il 
Hìn^g^n  e  divisione  dell'opera  comincia  Chopttra  premier.  La  ne- 
camté,  utihté,  natura  et  axcaUanea  da  lapohttqua  rabgtausa,  orttc.  J,  e 
prosegue  per  più  capitoli  dmai  in  più  articoli,  e  termina  alla  pag. 
064  fine  anche  della  conchiusnone  del  libro  :  voglio  che  di  parola  111 
parola  questo  nuovo  vangelo  si  abbia  qui  per  inserito  «iurta  sui 
senem,  continentiam  et  tenorem»,  secondo  il  quale  intendo  di  fare 
la  presente  professione  di  fede,  per  ciò  che  riguarda  questi  primari 
e  principali  articoli,  colle  cose  a"  medesimi  annesse,  connesse,  di- 
pendenti ed  emergenti  Scusi  la  P-  V.  se  queste  frasi  le  sembras- 
sero un  poco  goffe,  perché  essendo  10  un  misero  canaletto,  non  so 
allontanarmi  dalle  consuete  forinole  nostre  forensi. 


RAGGUAGLIO 

DELL' IMPROVISO  E  VIOLENTO  RATTO  PRATICATO  IN 

VENEZIA   AD    ISTIGAZIONE    DE'  GESUITI    E  DELLA 

CORTE  DI  ROMA  NELLA  PERSONA  DELL'AVVOCATO 

PIETRO  GIANNONE 


NOTA  INTRODUTTIVA 

«  Toccante  quella  scrittura,  che  mi  confidaste,  vi  dico  che  sarebbe 
un  sproposito  il  pubblicarla,  è  fatta  in  tempo  che  la  colera  vi  ha 
offuscato  l'intendimento;  non  avete  detto  male  bene,  e  poi  vi  sono 
errori  di  fatto,  che  non  vi  farebbero  credito,  fidatevi  di  me,  fate  il 
vostro  negozio  costì,  e  scordatevi  di  questo  cielo  e  di  questo  clima, 
e  fate  capire  che  sprezzate  le  piccole  cose  e  che  vi  siete  superiore  >•>  : 
chi  scriveva  così  al  Giannone  era  il  principe  Alessandro  Teodoro 
Trivulzio  da  Venezia,  il  5  gennaio  1736,  dopo  aver  letto  il  Ragguaglio 
delVimproviso  e  violento  ratto.1  Ancora  una  volta,  come  già  al  tempo 
della  polemica  risposta  al  gesuita  Sanfelice,  gli  amici  lo  dissuade- 
vano dal  pubblicare  un  suo  scritto  polemico.  E  anche  ora,  per  la  ve- 
rità, c'era  davvero  di  che  tirarsi  addosso  l'odio  di  tutto  il  mondo  .  .  . 
I  Veneziani  puttanieri,  adulteri,  ruffiani,  sodomiti,  la  città  corrotta 
in  tutti  i  suoi  abitanti,  sì  da  auspicare  «  che  finalmente  Iddio  irritato 
non  piova  sopra  le  piume  dell'alato  veneto  lione  fiamma  dal  cielo, 
che  tutto  Tarda  e  consumi»:3  siamo  ormai  ai  toni  dell'invettiva 
biblica. 

Perché  fu  espulso  da  Venezia?  I  giorni  del  suo  soggiorno  non  fu- 
rono affatto  calmi  :  prima  fu  accusato  di  aver  calunniato  la  Repubblica 
nella  sua  Istoria  civile,  sicché  si  vide  costretto  a  dar  fuori,  in  copie 
manoscritte,  una  dissertazione  stesa  in  tutta  furia,  sul  Dominio  del 
mare  Adriatico',  poi  un'improvvisa  diffusione  di  estratti  delle  recen- 
sioni al  Sanfelice  apparse  prima  sui  «Mémoires  de  Trévoux»  lo 
convinse  a  far  circolare  anche  a  Venezia,  sempre  in  copie  manoscritte, 
la  Professione  di  fede,  cioè  un  testo  nel  quale  è  messo  in  burletta  il 
Simbolo  apostolico,  irriso  il  primato  di  san  Pietro,  denunciati  i  culti 
e  le  devozioni  superstiziose  sulle  quali  poggiano  il  loro  potere  mo- 
naci e  frati,  monache  e  preti  regolari.  In  quel  medesimo  torno  di 
tempo  «l'Inquisizione  di  Venezia  con  concerto  del  nunzio  e  del 
patriarca  andava  facendo  perquisizione  sopra  molti  gentiluomini  al 
numero  di  80  ed  alcune  dame,  contro  altri  soggetti  eziandio  preti, 
monaci  e  frati,  imputati  di  parlar  licenziosamente  di  alcuni  riti  e 
delle  instituzioni  in  Venezia  di  tante  confraternite  e  superstizioni; 
aver  notato  in  un  gentiluomo  che  il  Venerdì  Santo  mangiasse  carne, 
in  altri  che  le  particolari  divozioni  le  reputassero  impostura  de'  frati, 
altri  che  non  ben  sentissero  delle  tante  perdonanze  de'  lor  santuari, 
e  cose  simili;  e  che  l'occasione,  che  s'era  data  a  fame  inquisizione, 
era  stato  l'avere  alcuni  scoverto  che  la  lingua  fresca  di  S.  Antonio, 

1.  Cfr.  in  Giamioniana,  p.  527.    2.  Cfr.  qui,  a  p.  540. 


508        RAGGUAGLIO   DEL    RATTO    PRATICATO    IN   VENEZIA 

che  si  adora  in  Padoa  come  naturale  di  quel  santo,  non  era  che 
di  legno  dipinto  a  color  di  carne,  e  che  l'arca  del  sacro  deposito 
dava  quell'odor  di  rose,  perch'era  spesso  profumata  da'  frati,  che 
ne  avevan  custodia  .  .  .  ».x  Ora,  come  non  mettere  in  relazione  que- 
sti fatti  con  la  diffusione  della  Professione  di  fede  ?  Come  non  so- 
spettare una  responsabilità  giannoniana,  da  parte  del  patriarca  ? 

Del  resto  Pietro  Giannone  s'era  subito  ritrovato  a  suo  agio,  in 
un  nuovo  ambiente  di  hbertinage  erudii,  coli' abate  Antonio  Conti  e 
col  principe  milanese  Alessandro  Teodoro  Trivulzio,  nonché  con  la 
monaca  Maria  Riva,  amante  dell'ambasciatore  di  Francia  (per  inciso, 
pare  proprio  che  questi  ambasciatori  di  Francia  amassero  le  suore 
chiuse  in  convento:  nel  1705  amante  dell'ambasciatore  francese  era 
suor  Maria  Candida  Canal,  monaca  di  Sant'Alvise!).  Basta  scorrere 
un  momento  le  lettere  del  Trivulzio,  al  Giannone  in  fuga,  per  capire 
i  discorsi  che  dovevano  tenersi  nel  loro  circolo  a  Venezia:  «Parlatemi 
del  sistema  delle  cose;  qui  siamo  all'oscuro,  e  densa  caligine  ci  im- 
pedisce di  vedere  »  (Giannone,  invece,  era  a  Ginevra .  .  .)  ;  o  ancora 
la  preghiera  di  procurargli  qualche  libro  «  che  dica  male  »,  non  d'or- 
dinaria satira,  ma  «che  dica  male  con  tutta  la  rabbia  più  mordente, 
e  che  vi  sii  zolfo  del  più  distillato  »  ;  o  la  richiesta  di  abbonarlo  alle 
«Lettres  juives  ». 

Le  lunghe  serate  nel  salotto  dell'avvocato  Giuseppe  Terzi  doveva- 
no dunque  essere  abbastanza  animate,  ripetendo  in  piccolo  quelle 
d'un  tempo  d'un'accademia  degli  Incogniti  qual'era  stata  quella  riu- 
nita attorno  al  patrizio  Giovan  Francesco  Loredan,  cent'anni  innanzi. 
I  contatti  e  le  relazioni  sociali  del  Giannone  dovettero  tuttavia  essere 
più  ampi  della  cerchia  d'amici  qui  ricordati:  intanto  il  libraio  edi- 
tore Francesco  Pitteri  (il  primo  editore  del  Goldoni)  e  la  sua  bot- 
tega, centro  di  ritrovo  d'intellettuali.  Il  Pitteri  avrebbe  dovuto  es- 
sere il  nuovo  editore  agl'Istoria  civile  e  delle  Brievi  addizioni,  non- 
ché àe\Y  Apologia,  e  anche  questa  notizia,  insieme  ai  sospetti  sulla 
setta  di  a  ateisti»,  allarmò  non  poco  il  nunzio  apostolico.2  L'ospita- 


1.  Cfr.  qui,  a  p.  528.  2.  Il  Pitteri  sarebbe  stato  l'editore  della  traduzione 
latina  del  suo  saggio  De  Consiliis  ac  Dicasteriis  quae  in  urbe  Vindobona  haben- 
tur,  secondo  quanto  asserisce  il  Panzini,  p.  64,  sulla  scorta  d'una  lettera 
del  Giannone  a  Johann  Burckard  Mencke,  dei  12  d'agosto  1733.  Purtroppo 
il  Panzini  non  cita  la  lettera  ma,  come  al  solito,  si  limita  a  rinviare  ad  essa, 
e  noi  non  possiamo  che  constatare  le  stridenti  contraddizioni  tra  la  data  di 
questa  lettera  e  Tanno  dell'asserita  stampa  veneziana,  che  avrebbe  dovuto 
essere  o  il  1734  o  il  1735.  Come  poteva  il  Giannone  affermare  nell'agosto 
del  1733»  essendo  ancora  a  Vienna  (se  ne  allontanò  il  29  agosto  dell'anno  do- 
po) che  avrebbe  fatto  stampare  la  sua  opera  in  traduzione  latina  a  Venezia 
uno  o  due  anni  dopo,  facendovi  apporre  la  falsa  indicazione  Halae  Magde- 


NOTA    INTRODUTTIVA  509 

lità  di  Angelo  Pisani  di  Sant'Angelo  apriva  inoltre  al  Giannone  le 
porte  di  molte  case  nobiliari,  come  ricorda  Giovanni  nelle  sue  memo- 
rie: il  loro  ospite  «non  solo  procurava  incontrare  il  piacere  di  mio 
padre,  ma  bensì  sforzarsi  più  del  proprio  dovere:  non  lasciava  festa, 
inviti,  che  si  facevano  in  Venezia,  che  non  dovesse  portar  o  condurre 
mio  padre.  E  questo  lo  era  in  città  e  nella  terra  ferma,  ne'  nobili 
casini  di  campagna  di  suo  trattenimento».1  Infine,  non  ultimo  epi- 
sodio e  motivo  di  apprensione  per  il  nunzio,  l'offerta  giunta  al  profugo 
da  parte  dell'Università  di  Padova  di  subentrare  nella  cattedra  di 
belle  lettere  rimasta  vacua  per  la  morte  dell'abate  Domenico  Laz- 
zarini,  e  per  la  quale  si  erano  anche  fatti  i  nomi  di  Biagio  Garo- 
falo e  di  Bernardo  Andrea  Lama,  cioè  di  altri  due  amici  del  Gian- 
none. 

Davvero  non  si  sa  a  chi  credere,  se  a  Pietro  che  nella  sua  autobio- 
grafia afferma  di  aver  declinato  una  così  lusinghiera  offerta  (ma 
nelle  sue  memorie  egli  parla  solo  d'una  cattedra  di  ius  primario, 
mentre  Carlo  Luigi  Caissotti  parla  di  due  cattedre  alle  quali  il  Gian- 
none  avrebbe  mirato:  quella  di  diritto  ernie,  e  l'altra  di  belle  let- 
tere), o  se  invece  si  debba  prestar  fede  al  nunzio  a  Vienna  Domenico 
Passionei,  il  quale  attribuiva  a  sé  e  al  collega  accreditato  a  Venezia 
il  merito  se  si  era  «  presentemente  prodotta  l'esclusione  da  una  delle 
cattedre  di  Padova,  ch'egli  ardentemente  bramava».2 

Insomma,  qual  si  fosse  la  verità,  resta  però  documentata  la  con- 
tinua apprensione  e  l'assidua  vigilanza  della  corte  di  Roma  sulle 
mosse  giannoniane.  L'autore  dell'Istoria  civile  era  sempre  un  pericolo 
per  lei  :  pur  non  essendo  matematicamente  sicuri  della  paternità  della 
Professione  di  fede,  restava  pur  sempre  il  Giannone  l'autore  della 
allegazione  sulla  Chiesa  di  Benevento,  che  tanto  scalpore  e  non  picco- 
lo incomodo  aveva  causato  nei  rapporti  di  Roma  con  Napoli  e  con 
Vienna.3  Figuriamoci  ora,  ad  apprendere  i  progetti  di  edizione  del 
Pitteri!  L'occasione  tanto  attesa  per  agire  si  offrì  con  l'elezione  ad 
Inquisitori  di  Stato  di  Giorgio  Contarmi,  Alvise  Mocenigo  e  Federico 
Tiepolo,  disposti  ad  accogliere  la  richiesta  di  espulsione  dal  territo- 
rio veneto  avanzata  dal  nunzio:  «Per  me  assolutamente  credo»  gli 
scrisse  il  Trivulzio  il  12  novembre  1735  «che  la  corte  di  Roma  abbia 
avuto  mano  in  tutto  ciò  che  è  succeduto,  e  che  ciò  che  è  stato  detto 


burgicae  1732?  O  forse  ci  troviamo  davanti  ad  un  errore  di  stampa  nell'in- 
testazione della  lettera  al  Mencke  ?  Solo  il  suo  ritrovamento  potrebbe  chia- 
rire i  dubbi  sull'asserzione  del  Panzini.  1.  Cfr.  Giannomana,  p.  189. 
2.  Su  tutto  questo  episodio  vedi  Bertelli,  pp.  214  sgg.  3.  Si  vedano  i 
dispacci  della  Segreteria  di  Stato  e  del  nunzio  Passionei,  in  proposito,  in 
Giannoniana,  pp.  157  sgg. 


5IO        RAGGUAGLIO   DEL   RATTO    PRATICATO    IN    VENEZIA 

qui,  sii  stato  un  solo  pretesto».1  E  un  pretesto  fu  infatti  quello  di 
accusarlo  di  aver  contatti  frequenti  cogli  ambasciatori  di  Spagna  e 
di  Francia,  essendo  ospite  d'un  patrizio  veneziano.  Apostolo  Zeno, 
scrivendo  a  sua  volta  a  Giusto  Fontanini,  gli  diceva  il  24  settembre 
di  queir  anno:  «È  stato  così  strepitoso  lo  sfratto  dato  da  questo 
prudentissimo  governo  la  settimana  passata  all'avvocato  Pietro  Gian- 
none,  che  è  cosa  facile  che  alla  notizia  di  lei  ne  sia  pur  giunto  il 
romore.  Le  persone  dabbene  tutte  qui  esultano,  e  ne  sono  sbalorditi 
e  mesti  gli  ammiratori  e  partigiani  di  lui,  che  non  sono  pochi,  né 
dell'ultima  sfera.  Con  questa  occasione  si  sussurra  di  altre  persone 
che  professano  moderne  opinioni  e  nuove  filosofie,  le  quali  quanto 
sieno  pericolose,  ella  lo  sa  meglio  di  me,  senza  che  io  gliene  sog- 
giunga di  vantaggio  ».2  Parole  di  circostanza,  che  non  debbono  farci 
credere  che  Apostolo  Zeno,  amico  d'antica  data  del  Giannone,  si 
trovasse  ora  dalla  parte  delle  «persone  dabbene»;  certo  non  poteva 
scrivere,  al  più  acerrimo  campione  del  curialismo  settecentesco,  di 
essere  dalla  parte  dei  suoi  arrimiratori,  anche  se  non  certo  immischia- 
to nell'inchiesta  sugli  «ateisti»:  non  era  stato  proprio  lo  Zeno,  a 
Vienna,  ad  aprire  la  sua  biblioteca  allo  storico  napoletano,  ad  offrir- 
gli per  prima  cosa  le  opere  di  fra  Paolo  Sarpi?3  Naturalmente  la 
testimonianza  dello  Zeno  è  per  noi  preziosa  proprio  per  quell'accenno 
alla  setta  di  arnmiratori  d'opinioni  moderne  e  di  nuove  filosofie,  che 
ci  riconduce  sempre  più  al  gruppo  riunito  attorno  all'avvocato  Terzi 
e  al  principe  Trivulzio. 

Ad  avere  la  pazienza  di  spogliare  gli  inediti  epistolari  settecen- 
teschi conservatici  e  custoditi  nelle  biblioteche  d'Italia  (e  non  solo 
d'Italia),  credo  sarebbe  possibile  trovare  larghe  eco  del  provvedimen- 
to persecutorio  preso  dagli  Inquisitori  di  Stato.  La  patria  del  Sarpi 
rinnegava  se  stessa!  «Crescerà  assai  più  la  maraviglia,  se  si  vorrà  at- 
tribuire la  mia  proscrizione  all'avere  io  dimorando  a  Venezia  invo- 
gliati molti  alla  lettura  de'  miei  libri,  ne'  quali  si  scuoprono  i  maneggi 
e  le  arti  sottili  della  corte  di  Roma,  per  le  quali  pretende  a  sé  tirar 
tutto,  e  che  insegnino  massime  a  quella  Corte  contrarie,  le  quali  sono 
distruttive  della  pretesa  monarchia  papale,  onde  sicome  mi  meritai 
l'odio  di  quella  Corte,  così  doveano  seguitar  il  suo  essempio  l'altre 
d'Italia.  Se  da  altre  città,  non  da  Venezia  fosse  venuto  il  colpo,  sa- 
rebbe un  tal  pretesto  alquanto  specioso,  ancor  che  per  se  stesso  vano 
ed  insussistente;  ma  i  Veneziani,  i  quali  adorano  come  un  nume  il 
lor  famoso  teologo  fra  Paolo  Sarpi,  il  quale,  tralasciando  le  altre  sue 

1.  La  lettera  in  Giarmonùma,  p.  526.  2.  Lettere  di  A.  Zeno,  v,  Venezia  1785, 
p.  151.  3.  Cfr.  la  lettera  di  Pietro  al  fratello,  del  26  giugno  1723,  in  Gian- 
nonzana,  n.°  8. 


NOTA   INTRODUTTIVA  511 

opere,  nella  sua  Istoria  del  Concilio  di  Trento  si  mostrò  inclinatissimo 
alla  religione  protestante,  questo  sì  che  a  gli  uomini  saggi  e  di  buon 
senso  non  lo  persuaderanno  giammai»!1 

E  un  attestato  di  solidarietà  il  Giannone  lo  ebbe  ben  presto,  negli 
stessi  giorni  in  cui,  nascosto  a  Modena  sotto  falso  nome,  sfogava 
il  suo  sdegno  in  queste  pagine,  nelle  quali  senza  tema  di  peccare  di 
ambizione  si  paragonava  al  Sarpi.  Come  scrisse  egli  stesso  al  Trivul- 
zio  una  volta  raggiunta  Ginevra,  il  19  marzo  1736:  «.  .  .mentre 
trattenevami  in  Modena  con  lusinga  tener  celato  il  mio  nome,  mi  vidi 
un  giorno  di  repente  il  Muratori  a  farmi  una  visita,  che  non  potei 
sfuggire  avendomi  colto  alTimproviso,  e  dopo  vari  discorsi  che  vi  cor- 
sero ben  due  ore,  mi  diede  distinto  ragguaglio  del  padre  Bianchi  San- 
ciscano, che  io  anni  a  dietro,  mentre  dimoravo  in  Vienna  intesi  che 
travagliava  sopra  V Istoria  civile  per  confutarla;  e  che  a  spese  del 
cardinal  Albani  ne  avea  già  in  Urbino  dato  alle  stampe  il  primo 
tomo,  ma  lo  teneva  suppresso  aspettando  forse  tempo  migliore  per 
farlo  apparire  alla  luce  del  mondo.  Ma  avendomi  il  Muratori  palesa- 
to la  tessitura  e  la  forza  della  confuta,  mi  ave  con  ciò  detto  che  non 
potea  per  ora  sì  tosto  uscire  alla  luce,  essendo  la  fatiga  laboriosa  di 
più  volumi,  copiando  quasi  intiera  V Istoria  Ecclesiastica  e  la  mia,  dove 
fa  vedere  la  sua  erudizione,  dando  per  assunto  del  libro  che  li  papi 
sono  stati  quelli,  che  han  dato  la  giurisdizione  a'  principi,  ed  i  princi- 
pi Phan  ricevuta  da'  papi,  essendo  la  giurisdizione  de  iure  divino  e  non 
di  ragion  positiva,  che  perciò  fu  lodevolmente  variato,  e  che  la  Chiesa 
variamente  praticò  quest'elezioni.  Il  mio  dolore  si  è  che  non  sarà  a* 
miei  tempi,  e  non  avrò  la  congiuntura  fargli  gustare  una  minestra 
simile  a  quelle  feci  gustare  tanto  al  padre  Sanfelice,  come  al  padre 
Pauli;  sicché  poi  non  dovrà  lagnarsi,  che  una  berlina  sosterrà  tutti  tre 
insieme  e  finire  non  solo  a  lividure,  ma  a  sangue  come  andaron  pelati 
quei  due  teste  d'asini  presuntuosi.  Come  dunque  la  penna  deve  star 
quieta,  e  non  è  tempo  ài  tentare  i  cani  che  dormano,  quando  questi 
stan  desti  più  che  cani  levrieri,  e  vogliono  approfittarsi  del  tempo  ?  ».2 

Sembrano  le  ultime  zampate  del  leone,  prima  d'esser  rinchiuso! 
Del  resto,  quanta  carica  di  sdegno,  di  furore  il  Giannone  avesse  in  sé 
appare  chiarissimo  dalla  lettura  di  questo  Ragguaglio.  Quale  diversi- 
tà di  toni,  d'atmosfera,  quanto  dolore  e  rassegnazione,  invece,  nella 
autobiografia,  in  quelle  amare  constatazioni  che  un  imperatore  come 
Carlo  VI  non  fosse  stato  capace  di  salvarlo,  che  Carlo  di  Borbone 
lo  respingesse,  che  un  Rinaldo  d'Este  non  potesse  aiutarlo,  che  un 

1.  Cfr.  qui,  a  p.  541.  2.  Cfr.  in  Giamtomana,  lettera  n.°  600.  Sui  rapporti 
tra  i  due  si  veda  S.  Bertelli,  Erudizione  e  storia  in  L.  A.  Muratori,  Napoli 
i960,  pp.  407  sgg. 


512        RAGGUAGLIO    DEL   RATTO    PRATICATO    IN   VENEZIA 

Savoia  giungesse  ad  imprigionarlo!  Quanto  stupore  nel  dover  alla 
fine  sperimentare  i  principi  «  sdegnati  ed  avversi  »  contro  di  lui,  che 
pure  aveva  sacrificato  vita  e  studi  in  difesa  del  potere  monocratico 
del  sovrano! 

Sergio  Bertelli 


RAGGUAGLIO 
DELL' IMPROVISO  E  VIOLENTO  RATTO 

PRATICATO  IN  VENEZIA  AD  ISTIGAZIONE  DE»  GESUITI  E 
DELLA  CORTE  DI  ROMA  NELLA  PERSONA  DELL'AVVOCATO 
P.  G.,  IL  QUAL  ESPOSTO  ALLA  RIVA  DEL  PO  IN  PAESE  DE- 
SERTO E  NEMICO,  FU  QUIVI  LASCIATO  SOLO  O  A  PERIR  DI 
DISAGGIO,  OVVERO  AD  ESSER  PREDA  DE'  SUOI  FIERI 
ED   IMPLACABILI  NEMICI 

Colle  querele  del  medesimo  contro  gV istigatori  e  coloro  che  7  com- 
mandarono, ciecamente  eseguendo  i  for  perversi  ed  iniqui  consigli. 
Helmstat,  A.  MDCCXXXV 

JL  ingiurioso  e  violento  attentato  per  autorità  pubblica  pratica- 
to nella  mia  persona  in  Venezia,  se  sol  riguardasse  l'aspra  con- 
tumelia inferitami  ed  i  disaggi  e  patimenti  sofferti,  doppo  essere 
stato  improvisamente  di  notte  tempo  da  numerosa  famiglia  arma- 
ta rapito  ed  esposto  alla  riva  del  Po  ne'  confini  dello  Stato  Eccle- 
siastico, e  quivi  lasciato  solo  in  una  misera  osteria  per  esser  o 
preda  de'  miei  nemici,  ovvero  a  perir  di  dura  fame,  o  d'altro  più 
crudel  disaggio,  non  m'avrebbe  dovuto  certamente  spingere  a 
manifestare  al  mondo  in  questa  scrittura  le  querele  ed  i  gran  torti 
per  un  atto  sì  spietato  e  barbaro.  Fin  che  Tuoni  vive,  per  sinistro 
fato  può  esser  tratto  a  simili  sciagure,  le  quali  avvenendo,  quanto 
più  saran  sofferte  con  pazienza  ed  intrepidezza  d'animo,  tanto  mag- 
giore rilucerà  la  di  lui  virtù  e  la  sua  costanza,  e  non  picciol  con- 


II  testo  del  Ragguaglio  ci  è  pervenuto  attraverso  tre  manoscritti:  la  minuta 
autografa  (Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giarmone,  mazzo  in, 
ins.  i,A)  mancante  dell'ultima  carta;  un  apografo  tratto  da  questa  e  an- 
ch'esso privo  della  parte  finale  (ivi,  mazzo  ni,  ins.  i,  B);  una  copia  ottocen- 
tesca basata  su  un  manoscritto  oggi  perduto  (Venezia,  Biblioteca  Correr, 
Prov.  Diverse  415,  b  xi).  La  copia  Correr  è  pertanto  la  sola  a  trametterci  il 
testo  completo.  Essa,  inoltre,  ci  conserva  un  gruppo  di  lettere  e  documenti 
relativi  allo  sfratto,  che  apparivano  anche  in  un  quarto  manoscritto,  già 
conservato  all'Archivio  di  Stato  di  Napoli  (Segreteria  Acton,  Scritture  di- 
verse, xrv,  n.  14)  e  andato  distrutto  durante  l'ultima  guerra  mondiale 
(cfr.  Giannoniana,  pp.  39,  378-81).  Certamente,  accanto  alla  minuta,  do- 
vette esistere  o  un  secondo  manoscritto  autografo  o  una  copia  fatta  eseguire 
direttamente  dall'autore,  perché  giudizi  e  consigli  a  non  pubblicare  il  libello 
gli  venivano  dati  sia  dal  Trivulzio  sia  dal  Pisani  dopo  la  sua  lettura  (cfr. 
Giartnomana,  pp.  527  e  321).  Da  questa  copia  o  autografo  che  fosse  di- 

33 


514   RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA 

forto  ritrarrà  da  innumerevoli1  essempi  delle  passate  età,2  ne*  quali 
scorgerà  uomini  santi  e  prudenti,  e  d'una  vita  irreprensibile,  non 
avere  potuto  sfuggire  la  forza  d'un  simile  infelice  destino.3  Ma  il 
mio  caso  è  tutto  altro,  ed  il  tacere  potrebbe  presso  molti  farmi  pas- 
sare per  reo  di  un  qualche  grave  delitto,  poich' essendo  divolgata  e 
pur  troppo  nota  la  cortesia  e  gentilezza  colla  quale  io  fui  accolto  in 
Venezia  da  quella  illustre  nobiltà  e  da  tutti  gli  ordini,  non  men  de* 
cittadini  che  de'  forastieri,  note  le  care  rimostranze4  e  Tuniversal 
contento  d'avermi  presso  di  loro  (le  quali  cose  per  lo  corso  non 
interrotto  d'un  anno  intero  sempre  più  crescendo  m'aveano  ricol- 
mato in  guisa  di  tanti  lor  favori  e  grazie,  che  a  me  tutto  confuso 
mancavan  parole  sufficienti  per  dinotarli  l'infinito  ossequio  e  l'e- 
terna obligazione  nella  quale  m'avean  posto);  il  sentirsi  ora  di 
repente  tutto  mutato  ed  in  un  subbito  essersi  sopra  di  me  scagliato 
un  fulmine  sì  terribile  e  spaventoso,  forse  altri  riputerà  essersi 


scesero  sia  il  manoscritto  Correr  sia  il  perduto  manoscritto  napoletano. 
La  presente  edizione  si  basa,  pertanto,  sulla  minuta,  ma  con  rocchio  at- 
tento, anche,  alla  copia  Correr.  Limitatamente  ad  alcuni  casi,  laddove  la 
minuta  è  meno  sicuramente  decifrabile,  ci  è  parso  opportuno  riportare 
anche  l'interpretazione  data  dall'apografo,  che  fu  compiuto  per  ordine 
del  Savoia  subito  dopo  Parresto  del  Giannone.  In  ogni  caso,  sia  delle  va- 
rianti Correr,  sia  dell'interpretazione  del  copista  settecentesco  della  minuta, 
si  è  sempre  dato  avviso  in  nota.  I  nostri  interventi,  per  1  quali  al  contrario 
non  ci  è  parso  necessario  far  menzione  nelle  note,  concernono  solo  lo  scio- 
glimento delle  abbreviazioni  (Venezia,  ad  es.,  è  quasi  sempre  abbreviato  con 
V.)  e  la  semplificazione  della  punteggiatura,  o  sono  di  ordine  meramente 
tipografico  (corsivi  ecc.).  -  Helmstat,  A.  MDCCXXXV  sta  a  indicare  l'in- 
tenzione dell'autore  di  dar  subito  alle  stampe  lo  scritto.  Ne  fu  dissuaso  dagli 
amici,  primo  fra  tutti  il  Trivulzio  (cfr.  Giannonianat  pp.  526,  527  e  529). 
Va  ricordato  che  Helmstedt,  antica  cittadina  della  Sassonia  inferiore,  sede 
di  università,  veniva  allora  usato,  anche  nella  grafia  che  qui  ricorre,  come  fal- 
so luogo  di  stampa  (per  es.  per  opere  del  Sarpi  uscite  in  realtà  a  Verona, 
171 8,  e  a  Venezia,  1750  e  176 1).  In  una  prima  redazione  il  titolo  dello  scrit- 
to era  leggermente  diverso  ed  è  rimasto,  non  cancellato,  nella  minuta,  assie- 
me a  quello  definitivo:  «querela  di  P.  G.  g[iureconsul]to  ed  [awocajto 
Napolitano].  Per  l'improvviso  e  violento  ratto  praticato  in  Venezia  nella  di 
lui  persona  ad  istanza  de'  Gesuiti  e  della  corte  di  Roma,  poi  barbaramente 
esposto  alla  riva  del  fiume  Po'  in  paese  nemico,  e  quivi  lasciato  solo  o  a  perir 
di  disaggio  overo  ad  esser  preda  de'  suoi  fieri  ed  implacabili  nemici,  rapito 
da  numerosa  famiglia  armata». 

1.  innumerevoli:  l'apografo  scioglie  il  segno  di  abbreviazione  in  «innumera- 
bili  ».  2.  da  innumerevoli .  . .  età-,  correr  «  da  passati  esempi  ».  3.  d'un  si- 
mile infelice  destino  :  correr  «  d'un  simil  destino  ».  4.  rimostranze  :  dimo- 
strazioni di  stima. 


RAGGUAGLIO    DEL   RATTO    PRATICATO    IN   VENEZIA        515 

da  me  commessa  cosa  pur  troppo  empia  e  scellerata,  che  avesse 
giustamente  meritata  una  sì  ignominiosa  proscrizione.  Inoltre  dura 
ancora  il  comune  concetto  presso  gli  uomini  essere  Venezia  un 
sicuro  asilo  per  tutti,  e  che  quivi  s'accolgono  eziandio  i  sicari,  gli 
assassini,  i  pirati,  gli  apostati,  i  felloni,  i  traditori,  ed  i  più  scellerati 
uomini  del  mondo  ;  tal  che  fin  da  antichissimi  tempi  di  questa  città 
fu  detto  che  fosse  d'ogni  sozzura  ricevitrice;1  onde  il  non  avermi 
voluto  più  sostenere  darà  ad  altri  forse  indizio  ch'io  abbia  com- 
messo delitto  tale,  che  superi  in  scelleratezza  ogni  altro  più  enor- 
me ed  infame  che  si  possa  mai  commettere  da'  più  malvaggi  e  per- 
versi uomini  della  terra.  A  tutto  ciò  si  aggiunga  ch'essendo  venuto 
il  colpo  dalle  sole  mani  delli  tre  Inquisitori  di  Stato,2  forse  altri 
entrerà  in  sospetto  non  io  avessi  ordita  qualche  congiura  contro  la 
veneta  libertà,  e  sacrilegamente  cospirato  di  dare  in  mano  agl'infe- 
deli e  nemici  del  nome  cristiano  la  loro  Repubblica. 

Adunque  trattandosi  di  vindicare3  la  mia  stima  ed  il  mio  onore, 
non  dovea,  o  poteva  tacendo  sacrificarlo,  sicome  volentieri  avrei 
fatto  di  tutti  gli  altri  oltraggi  e  patimenti,  anzi4  della  vita  propria. 
Questo  mi  spinge  a  far  palese  al  mondo  la  mia  discreta5  ed  innocen- 
te vita  menata  in  Venezia  per  un  intero  anno,  che  vi  ho  dimorato,  e 
che  non  men  vana  che  capricciosa  cagione  fu  quella  che  mosse  sì 
precipitosamente,  senza  consiglio,  i  tre  Inquisitori  di  Stato  ad  un 
atto  sì  crudele,  i  quali,  se  mai  non  già  per  sinistre  ed  occulte  in- 
formazioni de'  miei  invidi  e  malevoli,  ma  si  fosser  presa  la  pena, 
senza  preoccupazione,  di  maturamente  esaminar  i  falsi  lor  rapporti, 
li  avrebber  con  facilità  riconosciuti  animosi  e  maligni,  e  che  non  po- 
tevon  in  me  riconoscere  ombra  di  delitto  che  mi  potesse  rendere 
meritevole  di  castigo  alcuno.6 

I.7  Dopo  la  mia  dimora  di  più  di  n  anni  fatta  nell' imperiai  corte 
di  Vienna,  dove  fui  sostenuto  da  Cesare8  con  quella  stessa  benefica 
mano,  colla  quale  clementissimamente  accolse  me  e  la  mia  ope- 
ra dell'Istoria  civile  del  regno  di  Napoli,  dedicata  all'augusto  suo 

1.  ricevitrice:  correr  «meritrice».  Ma  sembra  piuttosto  un  errore  di  lettura. 

2.  tre  Inquisitori  di  Stato  :  cfr.  Vitay  qui  a  p.  302  e  la  nota  1  ivi.  3.  vindicare  : 
reclamare  con  la  forza  del  diritto  (latinismo).  4.  anzi:  perfino.  5.  di- 
screta: appartata.  6.  correr  prosegue:  «e  molto  meno  di  una  proscrizione 
sì  obbrobriosa».  7. I:  la  divisione  in  paragrafi  è  presente  solo  in  correr 
e  l'abbiamo  introdotta  nel  testo.  Qui,  secondo  l'uso  giannoniano,  sul  quale 
cfr.  Giannoniana,  p.  17,  è  segnato  il  1  paragrafo.  8.  Cesare:  Carlo  VI  :  vedi 
la  nota  1  a  p.  60. 


516        RAGGUAGLIO   DEL   RATTO    PRATICATO   IN  VENEZIA 

nome,  essendo  per  le  nuove  rivoluzioni  d'Italia  mutate  le  cose, 
ed  il  reame  di  Sicilia,  sopra  il  quale  erano  assignati  i  miei  stipendi, 
passato  in  altrui  dominio,  mancandomi  in  Vienna  il  proprio  su- 
stentamento,  né  per  le  dure  circostanze,  che  accompagnarono  sì 
gravi  perdite,  essendovi  speranza  che  mi  si  potesse  altronde  assi- 
gnar  l'equivalente,  da  dura  necessità  fui  costretto  ad  abbandonar 
quella  Corte,  doppo  aver  preso  concedo  da  Sua  Maestà  Cesarea  e 
da'  supremi  suoi  ministri,  i  quali  compassiando1  il  mio  infelice 
stato,  né  potendo  darci  rimedio,  volentieri  me  l'accordarono,  e  verso 
Italia  drizzar  il  mio  ritorno.3 

Giunto  che  fui  a  Venezia  circa  la  metà  del  mese  di  settembre3 
dell'anno  scorso  1734  con  intenzione  di  passar  altrove,  trovai  in 
questa  città  fuor  d'ogni  mia  credenza  il  mio  nome  in  grandissima 
stima  e  credito  acquistato  per  la  lettura  de'  miei  libri,  de'  quali  per 
lo  corso  di  quasi  undici4  anni,  da  che  furon  impressi,  eran  colà  per- 
venuti più  essemplari,  avuti  non  men  cari  ch'essercitati  e  resi  stan- 
chi.5 Al  comparir  che  io  feci  per  la  prima  volta  nella  piazza  di  S. 
Marco  mi  vidi  circondato  da  molti  gentiluomini6  delle  più  cospicue 
famiglie,  i  quali  con  desiderio  cercavan  conoscermi  per  tener  meco 
diffusi  ragionamenti,  ne'  quali  ebbi  occasione  di  restar  confusissi- 
mo  per  li  tanti  encomi  ed  affettuose  espressioni  di  stima  e  di  cor- 
dialità, che  io  come  sorpreso  non  avea  parole  sufficienti  per  render 
loro  quelle  grazie,  che  a  tanta  cortesia  e  gentilezza  eran  dovute.  Nel 
camminar  per  le  strade  non  incontrava  gentiluomo,  che  salutandomi 
per  proprio  nome  non  volesse  trattenermi  per  parlarmi  con  sensi 
di  tanta  affezione  e  stima  che  sempre  più  cresceva  la  mia  confusione, 
riguardando  il  poco  mio  merito,  che  non  era  capace  di  sostener  il 
peso  di  tante  lodi  e  commendazioni.  Ciò  ch'io  dico  de*  gentiluomi- 
ni, lo  stesso  sperimentava  con  tutti  gli  ordini  di  persone,  avvocati, 

1.  compassiando:  sic.  correr  «compasionando»;  apografo  «compassio- 
nando ».  2.  Dopo  la  una  dimora  . . .  ritorno  :  cfr.  su  tutto  questo  quanto  scri- 
verà nella  Vita,  capitolo  ix,  qui  a  pp.  244-61.  3.  la  metà  .  . .  settembre:  il 
14  settembre.  Era  partito  da  Vienna  il  29  agosto.  Cfr.  Vita,  capitolo  ix,  qui  a 
p.  261.  4.  quasi  undici:  la  stampa  dell'istoria  ebbe  termine  nel  marzo  del 
1723  e  il  Giannone  giunse  a  Venezia  il  14  settembre  del  1734:  passarono 
dunque  più  di  undici  anni.  Il  quasi  è  stato  aggiunto  dopo  e  undici  appare 
corretto  su  un  precedente  «dodici».  L'apografo  ha  «quasi  undici»,  mentre 
correr  reca  «quasi  dodeci».  5.  eh*  esser  citati  e  resi  stanchi:  correr  «che 
letti  ed  esercitati  ».  6.  molti  gentiluomini  :  alcuni  nomi  vengono  riferiti  dallo 
stesso  Giannone  nella  lettera  al  duca  di  Lauria,  Adriano  Cala  de  Lanzina 
y  Ulloa,  del  25  settembre  1734,  qui  edita  col  n.°  xx. 


RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA   517 

medici,  negozianti,  e  di  chi  no  ?  Non  passarono  molti  giorni  che  tro- 
vandosi vacante  la  cattedra  primaria  del  ius  civile  nello  Studio  di  Pa- 
dova,1 venne  con  molta  premura  ad  offerirmela  il  sig.  Domenico 
Pasqualigo,2  fratello  del  Riformatore  di  quello  Studio,  persuaden- 
domi d'accettarla,  poiché,  oltre  che  a  mio  riguardo  si  sarebbe  ac- 
cresciuto il  solito  stipendio,  portando  l'istituto3  di  quella  accademia 
che  i  soldi,  secondo  il  soggetto  e  gli  anni  impiegati  in  insegnare, 
ricevevano  sempre  maggior  incremento,  mi  poteva  esser  di  scala 
per  occupar  altri  posti  vantaggiosi,  rammentandomi  Pessempio 
del  famoso  presso  di  loro  Peregrino,4  il  quale  dalla  cattedra  passò 
ad  esser  Consultore  della  Repubblica.  Ala  avendogli  io  risposto 
che  con  mio  rincrescimento  non  poteva  ricever  un  tanto  onore, 
poiché  la  mia  professione  era  tutta  altra  che  di  far  il  cattedratico, 
non  avendo  alcun  esercizio  di  lettura,  e  la  mia  avanzata  età  e  debole 
complessione5  non  permetteva  di  espormi  ad  un  tal  faticoso  cimen- 
to, non  mostrandone  io  alcun  desiderio,  fu  interrotto  ogni  trattato  ; 
onde  persistendo  io  in  questo  proponimento  si  pensò  poi  dopo 
pochi  mesi  di  provvederla  ad  altri.6 

il.  Intanto  sempre  più  crescevano  in  me  i  favori  della  nobiltà, 
invitandomi  alcuni  a  desinar  nelle  loro  case,  dove  era  onorato  delle 
prime  sedi7  e  ricolmato  de'  più  segnalati  onori;  altri  invitandomi  a 

1.  vacante  .  . .  Padova*,  per  la  morte  dell'abate  Domenico  Lazzarini  (1668- 
1734),  avvenuta  nel  settembre.  Alla  sua  successione  furono  proposti  il 
Giannone  e  l'abate  Biagio  Garofalo.  2.  Di  Domenico  Pasgualigo  (nato  nel 
1674)  non  si  hanno  notizie  biografiche.  Sul  fratello,  Giovanni,  cfr.  la  nota  1 
a  p.  264.  3.  portando  l'istituto:  prescrivendo  lo  statuto.  4.  Si  tratta  pro- 
babilmente di  Marco  Antonio  Peregrino  (1 530-1616),  giurista  nato  a  Vicen- 
za, professore  a  Padova  di  istituzioni  civili.  Fiscale  del  Senato  di  Venezia, 
divenne  segretario  del  Senato  (era  «  Senatus  veneti  consultor  »).  Cfr.  Teatro 
d^huorrdni  letterati  aperto  dall' 'abate  Ghilini  Girolamo,  Venezia  1647, 
pp.  166-7.  5-  complessione:  costituzione.  6.  onde  . . .  altri:  il  Panzesti, 
pp.  80-1,  nota,  pubblica  un  biglietto  di  Domenico  Pasqualigo  che  con- 
ferma i  motivi  addotti  dal  Giannone  nel  declinare  l'offerta  dell' Unive- 
versità  di  Padova.  In  esso,  infatti,  si  chiede  al  Giannone  di  porre  per  iscritto 
«  il  suo  animo  alieno  da  leggere  in  cattedra,  come  altre  volte  me  ne  ha  co- 
mandato, per  sincerare  la  volontà  di  que'  Signori  che  lo  desiderano  ...  ». 
Però  il  Giannone  tace  qui,  come  il  rifiuto  fosse  originato  in  realtà  dalla 
ferma  convinzione  di  poter  ottenere  il  permesso  di  rientrare  in  patria,  e 
forse  anche  un  posto  dal  nuovo  governo  borbonico.  Senonché  in  nessun 
caso  egli  avrebbe  potuto  avere,  anche  se  avesse  voluto,  la  cattedra  che  gli 
veniva  offerta:  quando  si  seppe  delle  due  candidature  (anche  il  Garofalo 
apparteneva  alla  scuola  regalista  napoletana),  si  mosse  a  contrastarle  il 
nunzio  a  Venezia,  sostenuto  dal  Passionei  che -nunzio  a  Vienna -non 
aveva  perso  di  vista  il  Giannone  dal  momento  della  sua  partenza.  Su  questo 
retroscena  cfr.  Bertelli,  pp.  213-4.     7.  delle  prime  sedi:  dei  primi  posti. 


518        RAGGUAGLIO    DEL   RATTO    PRATICATO    IN   VENEZIA 

diporto  nelle  loro  ville  ed  a  più  deliziosi  spasseggi  nelle  isolette 
intorno  alla  città;  altri  essendo  sopragiunto  il  Carnevale  in  con- 
durmi ne'  teatri  ad  ascoltar  opere  e  comedie,  altri  invitandomi  a 
riguardare  da'  loro  balconi  i  pubblici  spettacoli,  che  in  tempo  della 
mia  dimora  se  ne  offeriron  molti,  così  per  la  morte  del  doge  Ru- 
zini1  e  per  la  nuova  elezione  fatta  del  doge  Pisani,2  come  per  gl'in- 
gressi pubblici  del  nuovo  Patriarca3  e  de'  nuovi  Procuratori  di 
S.  Marco;4  ed  alcuni,  che  nelle  lor  case  solevan  tenere  conversa- 
zione di  persone  erudite  e  dotte,  delle  quali  io  in  questo  tempo 
avea  acquistata  qualche  conoscenza,  non  mancaron  con  reiterate 
istanze  premer  tanto,  sì  che  non  potei  scusarmi  di  non  far  loro 
qualche  volta  compagnia:  ma  questo  avveniva  ben  di  rado,  poiché, 
sopragiunto  un  orrido5  inverno,  la  mia  età  e  gracile  temperamento 
m'obbligava  le  sere  starmene  ritirato  in  casa.6 

Questo  rigido  per  me  e  penoso  inverno  m'obbligò  a  differire  a 
tempi  migliori,  nella  ventura  primavera,  il  proseguimento  del  mio 
cammino,7  e  presi8  a  mese  alcune  picciole  stanze  per  ripararmi 

i .  del  doge  Ruzini:  su  Carlo  Ruzzini  vedi  la  nota  2  a  p.  286.  2.  Luigi  Pisani 
di  Santo  Stefano  :  vedi  la  nota  1  a  p.  273 .  3 .  nuovo  Patriarca  :  Francesco  An- 
tonio Correr  :  vedi  la  nota  1  a  p.  287.  4.  Procuratori  di  S.  Marco  :  vedi  la  nota 
2  a  p.  287.  5 .  orrido  :  correr  «  crudo  ».  6.  starmene . . .  casa  :  correr  «  quasi 
sempre  ritirato  in  casa  k  7.  ti  proseguimento . .  cammino  :  il  Giannone,  appe- 
na ristabilitosi  dal  lungo  viaggio,  si  era  subito  recato  dall'ambasciatore  spa- 
gnolo a  Venezia,  il  conte  di  Fuenclara,  al  quale  chiese  il  passaporto  per  Napoli 
(cfr.  Vita,  qui,  a  p.  262  e  la  nota  2  ivi).  Questi  accolse  favorevolmente  la  do- 
manda, e  lo  consigliò  intanto  di  rivolgersi  direttamente  al  conte  di  Santi- 
steban,  Manuel  de  Benavides  (cfr.  la  nota  2  a  p.  264),  dal  quale  dipendeva 
in  pratica  il  nuovo  governo  borbonico  napoletano.  Così  il  Giannone  stese 
una  lettera,  che  è  stata  edita  per  la  prima  volta  da  A.  Pierantoni,  La  mente 
diP.  Giannone,  introduzione  al  Triregno,  Roma  1895, 1,  p.  xc,  nella  quale, 
tra  l'altro,  diceva:  «  La  dura  necessità  mi  costringe  di  cercare,  essendo  ormai 
vecchio,  in  proprio  suolo  l'ultimo  porto  de'  miei  travagliosi  errori  e,  ri- 
patriando,  cercare  un  sicuro  ricovero,  per  passare  quei  pochi  anni  di  vita, 
che  la  bontà  divina  mi  concederà,  in  riposo  e  quiete,  vivendo  a  me  stesso  ». 
Dove,  come  ben  si  legge,  il  Giannone  si  impegnava  a  tacere  per  il  resto  dei 
suoi  giorni,  pur  di  ottenere  il  sospirato  permesso  di  rientro  in  patria.  Ma  po- 
co tempo  dopo  la  visita  dell'esule  napoletano,  il  conte  di  Fuenclara  ricevette 
una  lettera  del  vescovo  di  Cordoba,  Tommaso  Ratto  (sul  quale  cfr.  la  nota  1 
a  p.  265),  «en  que  me  partizipava  la  instancia  que  se  havia  hecho  por  parte 
del  papa,  afin  que,  en  caso  de  transitar  por  està  ciudad  para  Napoles  er 
refendo  abogado  [cioè  il  Giannone],  non  le  acompanase  con  pasaporte  mio  ». 
Fu  questo  improvviso  intervento  da  Roma  che  obbligò  pertanto  il  Gian- 
none  a  rinviare  il  viaggio  verso  il  sud,  non  già  il  rigore  della  stagione.  Ma  si 
veda,  su  tutto  questo,  la  Vita,  capitolo  ix,  qui  a  pp.  273  sgg.,  e  Giannoniana, 
pp.  39-42.  8.  cammino,  e  presi:  correr  «  cammino  e  da  fermarmi,  pren- 
dendo intanto». 


RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA   519 

al  possibile  dal  freddo,  poiché,  avvezzo  in  Germania  all'uso  delle 
stufe,  se  ben  il  clima  veneto  non  fosse  come  ivi  cotanto  rigido, 
nulladimanco,  poiché  i  Veneziani  non  sapevan  schermirsene  se  non 
con  pellicce  e  con  efimere  e  passeggiere  fiamme  di  fascetti1  ne*  loro 
cammini  :  questo  per  me  niente  era  sufficiente  per  scamparne2  i  ri- 
gori. 

Mentr'io  era  così  alloggiato,  fra  gli  altri  gentiluomini  venne 
per  mia  sorte  ad  offerirmi  la  gentilissima  sua  protezione  e  grazia 
uno,  di  cui  per  me  fin  che  viva  saranno  eterne  le  obbligazioni, 
sicome  immortale  la  memoria.  Questi  fu  un  senator  gravissimo, 
di  gran  probità  e  per  la  lunga  esperienza  delle  prime  cariche  es- 
sercitate  nella  Repubblica  prudentissimo  e  saggio.  Io  parlo  del 
munificentissimo  sig.  Angelo  Pisani  di  S.  Angelo,3  il  quale  in  cor- 
dialissima benificenza  volle  distinguersi  sopra  tutti  gli  altri,  poiché, 
oltre  di  volermi  suo  a  pranzo  quasi  tutte  le  mattine,  con  affezione 
ed  amor  sincero  procurava  ogni  mio  sollievo  ed  i  maggiori  miei 
vantaggi:  egli  per  sua  bontà  con  gli  altri  senatori  suoi  amici  era 
profuso,  fuor  d'ogni  mio  merito,  in  ricolmarmi  di  lodi  e  di  com- 
mendazione; ed  avendogli  per  la  dimestichezza  seco  contratta  dato 
saggi  bastanti  del  mio  sincero  costume  e  della  mia  cristiana  morale, 
tanto  maggiormente  cresceva  in  lui  verso  di  me,  dirò  così,  il  fra- 
terna!4 suo  amore;  ed  essendo  solito  ne'  mesi  d'ottobre  o  di  no- 
vembre di  condursi  nella  sua  villa  a  Rovere  di  Crè  presso  Rovigo, 
volle  in  tutte  le  maniere  che  io  le  facessi  compagnia,  sicome  feci 
dimorando  ivi  seco  per  tutto  il  mese  di  novembre,  né  se  non 
verso  i  princìpi  di  dicembre  ritornammo  in  città,  egli  nella  sua  ed  io 
nella  mia  picciola  casa.  Ma  non  potendo  egli  per  sua  grazia5  più 
soffrire  questa  benché  breve  lontananza,  riflettendo  anche  alla  spe- 
sa, che  io  soffriva  dell'alloggio,  cominciò  ad  insistere  che  io  dovessi 
ritirarmi  in  sua  casa,  dov'era  un  quartier6  vóto,  nel  quale  con  tutto 
il  mio  commodo  avrei  potuto  dimorare  e  quivi  riposatamente  vivere 
a  me  stesso  ed  a'  miei  studi.  Non  potendo,  senza  taccia  d'inur- 
banità e  scortesia,  più  resistere  a  sì  affettuosi  e  replicati  inviti,  gli 
promisi  di  farlo;  ma  lo  pregai  a  differire  le  sue  grazie  finché  fos- 


1 .  fascetti  :  fascine.  2.  scamparne  :  correr  «  causarne  ».  3 .  La  casa  patrizia 
dei  Pisani  era  suddivisa  in  più  rami,  di  cui  il  maggiore  fu  quello  di  Santo 
Stefano,  già  ricordato  sopra.  Questo  di  Sant'Angelo  era  un  ramo  minore. 
4.  fraterna!:  fraterno.  5.  per  sua  grazia:  correr  «per  la  sua  beneficenza  ». 
6.  quartier:  appartamento. 


520         RAGGUAGLIO   DEL    RATTO    PRATICATO    IN   VENEZIA 

sero  passati  que'  mesi  d'inverno  che  correvano,  poiché  il  quar- 
tiere del  suo  palazzo,  dove  io  dovea  passare,  lo  considerava  per  le 
sue  ampie  stanze  che  mi  dovesse  riuscire  assai  rigido;  ma  che  vi 
sarei  passato  ne'  princìpi  di  primavera,  ed  intanto  mi  lasciasse  stare 
nelle  mie  picciole  stanze,  alle  quali  avea  io  già  fatte  fare  le  dovute  pre- 
cauzioni. Compiacquesi  il  sig.  Pisani  accettare  le  mie  scuse  aspet- 
tando che  finisse  la  rigidezza  della  stagione  per  ricevermi  in  sua 
casa,  ed  io  intanto  continuai  nel  picciolo  mio  albergo.  Quivi  ebbi 
l'onore  d'esser  visitato  da  più  gentiluomini  ed  infra  gli  altri  dal 
dottissimo  sig.  abate  Conti,1  dal  sig.  Antonio  Cornaro,2  dal  reve- 
rendo P.  Rota  benedettino,3  dal  sig.  marchese  Ghezi4  e  da  altri 
rinomati  non  men  per  dottrina  che  per  probità  di  costumi.  Furono 
ad  onorarmi  oltre  i  già  detti  altri  letterati,  i  più  insigni  della  città,  si- 
come  reruditissimo  sig.  abate  Moazzi,  il  sig.  Francesco  Fabri,5  il  P. 
Maestro  Lodoli  franciscano,6  che  per  lo  carattere,  che  rappresentava 
di  ministro  della  Repubblica,  a  cui  stava  appoggiata  la  carica  di 
invigilare  sopra  i  libri,7  che  da  fuori  s'introducono  nella  città,  e 
d'esser  destinato  per  uno  de'  Revisori  de'  medesimi  se  dovessero 
porsi  in  istampa,  io  dovea  avere  tutta  quella  stima  e  rispetto,  al 
meno  riguardando  il  suo  carattere,  del  quale  era  adorno.8  Vi  furono 
altri  garbatissimi9  signori,  de'  quali  non  mi  sovvengono  ora  i  nomi. 
Per  l'opportunità  del  sito  delle  mie  stanze  e  per  non  esser 
molto  lontane,  il  dopo  desinare  cominciai  a  frequentare  la  casa 
dell'eruditissimo  gentiluomo  Francesco  Bertoni10  presso  il  monaste- 
ro di  S.  Lorenzo,11  dove  nella  sceltissima  sua  libraria  solevan  radu- 
narsi alcuni  gentiluomini,  infra  gli  altri  il  sig.  Domenico  Pasquali- 
go  ;  e  gli  ordinari  nostri  discorsi  non  erano  che  de'  correnti  affari  e 
guerre  d'Europa,  osservar  carte  geografiche  e  notar  ivi  le  distanze 
de'  luoghi  e  delle  regioni;  e  poi  che  il  sig.  Bertoni,  come  amanrissi- 

i.  Antonio  Conti',  vedi  la  nota  2  a  p.  267.  2.  Antonio  Cornaro:  Antonio 
Corner,  senatore  veneziano,  appartenente  ad  una  delle  maggiori  casate  cit- 
tadine. 3.  Francesco  Rota:  vedi  la  nota  2  a  p.  267.  4.  marchese  Ghezi: 
menzionato  anche  nella  Vita,  qui  a  p.  267.  5.  Moazzi . .  .  Fabri:  non  si 
hanno  notizie  di  questi  due  personaggi.  6.  «Z  P.  Maestro  Lodoli:  vedi  la 
nota  5  a  p.  267.  7.  che  per  lo  . .  .  libri:  correr  «del  quale  vedendolo  ono- 
rato dalla  Repubblica  della  carica  d'ispettore  sopra  i  libri  ».  8.  il  suo  ca- 
rattere . . .  adorno:  correr  «le  cariche  delle  quali  era  adorno».  9. garba- 
tissimi: correr  «  cortesissimi  ».  io.  Francesco  Bettoni:  ricordato  anche 
nella  Vita,  qui  a  p.  267.  11.  lontane  . . .  S.  Lorenzo  :  correr  «lontane  dalla 
casa  dell'eruditissimo  gentiluomo  Sig.  Francesco  Bettoni  presso  il  mona- 
stero di  S.  Lorenzo,  cominciai  il  dopo  desinare  a  frequentarla». 


RAGGUAGLIO   DEL    RATTO   PRATICATO   IN   VENEZIA        521 

mo  de'  buoni  libri  soleva  provvedersi  de'  migliori  che  uscivan,  o  ài 
Francia  o  d'Ollanda,  con  tal'occasione  avevo  discorso1  su  qualche 
nuovo  libro  dato  alla  luce,  o  di  qualche  magnifica  ristampa  fattane, 
di  medaglie  o  monete  o  d'altri  studi  d'antichità,  e  cose  simili.  Ma 
tosto  la  conversazione  finiva,  poiché  all'imbrunire,  uscendo  di  casa 
il  sig.  Bertoni,  ciascuno  sen  giva  altrove  o  alla  sua  faceva  ritorno.  In 
casa  del  gentiluomo  sig.  Giustiniani2  alle  due  della  notte3  solevasi 
unire  una  più  numerosa  compagnia  di  gentiluomini  e  letterati,  ed 
in  questa  per  l'incessanti  inviti,  che  me  ne  fece  quel  gentilissimo  si- 
gnore, vi  fui  una  sera  condotto  da  due  gentiluomini,  dove  fui  accolto 
con  tanta  affezione  e  gentilezza,  che  per  tanto  eccesso  di  cortesia  io 
tutto  confuso  non  sapeva  renderle  proporzionate  grazie.  Fioritis- 
sima era  la  conversazione,  e  d'uomini  dotti  e  saggi,  fra'  quali  erano 
il  sig.  abate  Conti,  il  sig.  abate  Moazzi,  il  P.  divelli4  e  tanti  altri,  e 
la  materia  de'  loro  discorsi  per  lo  più  non  era  che  di  filosofia,  di 
scienze  matematiche  e  di  lettere  umane.  Ma  non  potei  continuarla, 
se  non  per  due  o  tre  sere,  poiché,  tenuta  di  notte,  non  poteva  sof- 
frire in  andarvi  la  rigidezza  del  tempo;  e  stimai  meglio  le  sere  di 
starmene  a  casa  senza  uscirne.  Narro  tutte  queste  minute  circostan- 
ze forse  con  qualche  sazietà  non  ad  altro  fine,  perché  si  sappia  che  io 
ho  tanti  uomini  probi  ed  insigni,  i  quali  possono  render  testimo- 
nianza in  tutti  quest'incontri  quali  fossero  stati  i  miei  discorsi  fra 
di  lor  tenuti,  se  mai  avesser  traviati  punto  dall'onestà  o  dalla  nostra 
sincera,  solida  e  cristiana  religione.  E  non  devo  tacere  quel  che  per 
me  riesce  d'una  nota  distinta  della  mia  moderazione  e  discretez- 
za, che  fra  le  altre  lodi,  che  per  lor  bontà  comunemente  solevano 
tutti  attribuirmi,  era  questa:  che  io  per  me  stesso  avrei  sempre 
taciuto,  e  che  non  se  non  richiesto  parlava  e  rispondeva  alle  di- 
mande  che  mi  eran  fatte. 

in.  Stando  le  cose  in  questo  stato,  ecco  che  comincio  a  sentire 
gli  effetti  della  maledica  invidia,  poiché  alcuni5  cominciarono  a 
susurrare  negli  orecchi  de'  semplici  ed  ignoranti,  fra'  quali  è 
l'ordinaria  loro  pastura,  che  io  era  immeritevole  di  tanti  onori 
che  mi  eran  resi  da'  Veneziani,  quando  nel  2°  tomo  della  mia  Istoria 


i.  avevo  discorso:  correr  «si  ragionava».  2.  Giustiniani:  vedi  la  nota  2  a 
p.  268.  3.  alle  due  della  notte:  due  ore  dopo  l'Avemmaria,  donde  iniziava 
il  computo  delle  ore.  4.  U  P.  GriveUi:  cfr.  la  nota  1  a  p.  268.  5.  alcuni: 
cfr.  quanto  scrive  nella  Vita,  qui  a  pp.  269-70,  dove  l'accusa  è  più  precisa  e 
rivolta  alla  Compagnia  di  Gesù. 


522        RAGGUAGLIO    DEL   RATTO    PRATICATO   IX   VENEZIA 

civile  parlo  di  essi  con  qualche  strapazzo  imputandoli  di  «  corta  fe- 
de», e  di  più,  che  del  dominio  del  mar  Adriatico  io  non  sentiva  be- 
ne per  i  Veneziani,  e  che  altramente  rapportava  Tatto  di  papa  Ales- 
sandro III  con  Timperadore  Federico  Barbarossa1  di  quello  che  si 
rappresentava  nelle  dipinture  della  sala  del  loro  Maggior  Consiglio.3 
La  prima  imputazione  fu  facile  dileguarla,  facendogli  avvertiti  che 
in  quel  passo  ristorico  non  vi  mette  niente  del  suo,  ma  raccontando 
il  dubbio  e  l'irresoluzione  di  alcuni  di  non  fidarsi  totalmente  in 
quell'incontro  ne'  Veneziani,  non  fa  altro  che  rapportare  le  loro 
parole  che  denotavano3  non  doversi  fidare  de'  Veneziani  per  la  lor 
corta  fede;  questi  la  riputavan  corta,  non  già  ristorico,  che  non  en- 
trò punto  a  decidere  la  questione,  se  fosse  corta  o  lunga;  se  bene 
presentemente  non  penarebbe  molto  a  deciderla,  avendo  avuta 
la  rea  sorte  di  sperimentarla  pur  troppo  breve,  corta  e  vacillante. 

Ym  romori  si  facevano  per  gli  altri  due  punti,  per  dilucidazione 
de'  quali  non  bastavano  poche  parole,  onde  per  convincere  affatto 
tali  calunniatori  bisognò  che  in  una  diffusa  scrittura  facessi  vedere 
che  io  come  napolitano,  e  che  scriveva  l'istoria  di  quel  Regno,  dedi- 
candola a  Cesare,  non  men  arciduca  d'Austria  e  dei  Stati  austriaci 
adiacenti  che  re  di  Napoli  e  d'Ungheria,  non  poteva  d'altra  maniera 
parlare  del  dominio  del  Mar  Adriatico,  e  che  con  tutto  ciò,  facendo 
le  parti  di  leale  e  fedel  istorico,  non  avea  pregiudicato  punto  le 
ragioni  della  Repubblica,  anzi  che  secondo  i  princìpi  ivi  stabiliti, 
sempre  che  saprà  conservarsi  nell'interrotta  possessione  di  quello, 
niuno  potrà  contrastargliele  il  dominio.  Intorno  all'atto  di  papa 
Alessandro  III  dimostrai  che  maggior  lode  e  commendazione  risul- 
ta alla  Repubblica  veneta  di  conformarsi  a  ciò  che  ne  lasciaron 
scritto  gli  storici  antichi  e  contemporanei,  che  appoggiarsi  a'  ca- 
pricci di  favolosi  pittori.  Compita  ch'ebbi  questa  scrittura,4  prima 

i.  quando  . .  .  Barbarossa:  cfr.  Vita,  qui  a  p.  270  e  le  note  2  e  3  ivi.  2.  quel- 
lo . . .  Consiglio:  la  vicenda  di  Alessandro  III  e  di  Federico  Barbarossa 
costituisce  uno  dei  temi  dei  dipinti  apologetici  della  sala  del  Maggior  Con- 
siglio in  Palazzo  Ducale.  3.  le  loro  parole  che  denotavano',  correr  «li  lor 
sentimenti,  che  erano  di  ».  4.  questa  scrittura:  diffusa  in  copie  manoscritte, 
fu  data  alle  stampe  a  Losanna,  dopo  l'arresto  dell'autore,  e  inserita  nelle 
Opere  postume,  1,  pp.  213  sgg.,  col  titolo  Risposta  di  Pietro  Giannone  giuris- 
consulto  ed  avvocato  napolitano  ad  una  lettera  scrittagli  da  un  amico,  nella 
gitale  l'avvisava  della  poca  sodisi azione  d'alcuni  in  leggendo  nel  lib.  13  della 
di  lui  Storia  civile  del  regno  di  Napoli,  al  cap.  I,  la  pretenzione  de3  Napolitani 
intorno  al  dominio  del  mare  Adriatico  e  la  storia  ࣠ trattati  seguiti  in  Venezia 
con  Frederico  I  imperatore,  ed  atto  di  papa  Alessandro  III. 


RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA   523 

di  divulgarla,  la  feci  passare  sotto  gli  occhi  purgatissimi  d'alcuni 
dotti  e  savi  gentiluomini,  particolari  miei  padroni,  i  quali,  corret- 
tone alcune  cose  ed  aggiunte  dell'altre,  mi  consigliarono  a  darla 
fuori,  come  feci.  Pubblicata  che  fu,  le  richieste  che  io  n'ebbi  furono 
incredibili,  sicome  non  meno  le  lodi  e  le  commendazioni.  Ciascuno 
volle  averla,  e  si  stancarono  i  copisti  a  farne  tante  e  sì  innumerabili 
copie,  che  neppure  bastando,  vi  fu  chi  consigliava  a  darla  alle  stam- 
pe, al  che  io  non  volli  acconsentire  giammai.  Così  furono  dileguate 
quelle  nebbie,  che  i  miei  malevoli  tentarono  spargere  a  gli  occhi 
de'  semplici,  e  rilusse  maggiormente  la  mia  sincerità,  e  si  accrebbe 
la  stima  ed  il  concetto  e  l'affezione  di  tutti  verso  la  mia  persona. 
Svanite  queste  ombre,  non  passò  guari  che  si  posero  in  opra 
altri  insidiosi  mezzi  per  discredito  mio.  Un  di  que'  negri  animali,1 
che  odiano  la  luce,2  di  soppiatto  andava  mostrando  a  qualche  lor 
divoto  certo  libricciolo  francese,  nel  quale  si  leggeva  una  satira 
inclementissima,  non  meno  contro  la  Istoria  civile,  che  contro  il  suo 
autore,  trattandolo  per  miscredente,  per  eretico  e  per  uno  senza  Dio 
e  senza  croce;  e  subbito  fu  sparsa  voce  che  era  uscito  in  Francia  un 
libro,  che  gettava  a  terra  tutta  quell'Istoria.  Rimasi  sorpreso  alla 
novità,  avendo  io  riscontri  tutti  contrari:  che  colà  quella  mia  opera 
era  stata  tanto  ben  ricevuta,  che  s'erano3  invogliati  a  tradurla  in  lor 
idioma,  anzi  che  la  traduzione  francese  era  già  finita,  ed  essersi  il 
primo  tomo  già  dato  alle  stampe;4  onde,  fatta  più  esatta  perquisizio- 
ne per  sapere  che  mai  si  fosse  questo  libro,  si  scoprì  finalmente  che 
quello  non  era  altro  che  un  tometto  de*  a  Giornali  di  Trévoux»,  che 
fanno  ivi  compilar  i  Gesuiti,  ove  consarcinano5  alcuni  sciapiti  libri 
d'autori  benemeriti  della  Compagnia,  i  quali  per  la  loro  scipitezza 


1.  animali:  correr  «arcadi».  2.  Un  di  que' . .  .  luce:  un  gesuita.  3.  s'era- 
no: correr  «alcuni  s'erano  ».  4.  che  s'erano  . . .  stampe:  sin  dal  1730  Isaac 
Loys  de  Bochat  (nipote  d'una  sorella  di  Claude  Saumaise)  aveva  iniziato 
la  traduzione  dell'istoria  civile,  per  conto  dell'editore  ginevrino  Marc- 
Michel  Bousquet.  Dell'impresa  ne  era  stato  pubblicato  anche  un  breve 
avviso  nella  «  Bibliothèque  italique  ».  Tuttavia  la  morte  del  Bochat,  avvenuta 
a  Losanna  nel  1733,  interruppe  il  lavoro,  che  fu  ripreso  dal  figlio  Charles- 
Guillaume.  Sulle  vicende  di  questa  traduzione  si  veda  quanto  è  nar- 
rato nella  Vita  dallo  stesso  Giannone,  qui  a  pp.  212-4,  281  e  319-23  (cfr. 
inoltre  pp.  304,  306,  311,  317,  329  e  338);  e  in  G.  Bonnant,  P.  Giannone 
à  Genève  et  la  publication  de  ses  ceuvres  en  Suisse  au  XVIIF  et  au  XIXe  siè- 
cles,  in  «Annali  della  Scuola  Speciale  per  Archivisti  e  Bibliotecari  dell'Uni- 
versità di  Roma»,  ni,  n.  1-2  (1963),  pp.  125-7.  5.  consarcinano:  rattoppa- 
no, cioè  cercano  di  migliorare  riassumendo  (latinismo). 


524        RAGGUAGLIO   DEL   RATTO   PRATICATO    IN   VENEZIA 

sono  rifiutati  da'  giornalisti  di  Francia,  d'Ollanda,  e  d'Inghilterra  e 
da'  compilatori  degli  «Atti  di  Lipsia».1  Di  questo  io  già  avea  notizia, 
poiché  quando  il  P.  Sanfelice  gesuita,  sotto  nome  di  Eusebio 
Filopatro  diede  fuori  in  Roma  que'  due  suoi  volumacci  delle  Ri- 
flessioni  morali  e  teologiche  sopra  V Istoria  civile ,z  vedendo  i  Gesuiti 
ch'erano  stati  dal  viceré  e  Consiglio  Collateral  di  Napoli  dichia- 
rati «libelli  famosi»,3  e  sotto  gravi  pene  proscritti  insieme  col  suo 
autore;4  che  per  la  loro  scipitezza,  mordacità  e  prodigiosa  ignoranza 
dagli  autori  degli  «Atti  di  Lipsia»  e  da*  giornalisti  di  Francia,  d'In- 
ghilterra e  d'Olanda  erano  stati  riferiti  con  quel  disprezzo  e  deri- 
sione che  si  meritavano,  e  che  erano  universalmente  ed  in  Roma 
istessa  derisi  e  beffati  ;  per  rimediare  come  si  potè  al  meglio  alla  ri- 
putazione d'un  lor  compagno,  pensarono  di  fargli  da'  loro  giornalisti 
inserire  in  un  tometto  de'  loro  «  Giornali  »,5  ed  abbreviarli6  in  lingua 


1.  zAtti  di  Lipsia»:  gli  «Acta  Eruditorum  Lipsiensium»  tennero  una  posi- 
zione fHogiannoniana:  cfr.  nel  loro  Supplementum  del  1729,  numero  di 
settembre,  pp.  194-206,  la  recensione  all'Istoria  civile.  L'accenno  ai  giorna- 
listi d'Inghilterra  richiama  alla  mente  un'altra  rivista  letteraria  che  sostenne 
il  Giannone  nella  polemica  coi  «Mémoires  de  Trévoux»,  e  cioè  l'«Histona 
literaria»  di  Archibald  Bower:  cfr.  Vita,  qui  a  p.  186  e  la  nota  1  ivi.  2.  il 
P.  Sanfelice . .  .  civile:  vedi  le  note  3  a  p.  167  e  6  a  p.  169.  3.  erano  stati  . .  . 
famosi:  cfr.  la  Vitay  qui  a  p.  171  e  le  note  ivi.  4.  dal  viceré . . .  autore:  la 
proibizione  del  Collaterale  e  il  bando  del  viceré  sono  stampati  nelle 
Opere  postume,  I,  pp.  298-300.  Il  Giannone  ricalca  qui  il  testo  del  bando, 
laddove  dice,  in  apertura:  «La  saggia  sperienza  ha  dimostrato  che  certi  li- 
bri di  niuno  o  poco  conto,  i  quali  troppo  per  loro  stessi,  mercé  la  loro  insi- 
pidezza o  sfacciata  malignità,  resterebbero  negletti,  sogliono  il  più  delle 
volte  ricever  pregio  e  corso  dalla  proibizione  ...  Su  questo  piede  dovrebbe 
abbandonarsi  nella  sua  ben  degna  oscurità  un  certo  libro  di  consimil  fa- 
rina, o  piuttosto  un  libello  famoso ...  ».  Il  testo  del  bando  fu  steso  dal 
segretario  Niccolò  Fraggianni,  e  reca  la  data  del  16  aprile  1729.  «Sento 
con  piacere»  scrisse  il  Giannone  in  quella  occasione  al  fratello,  il  30  aprile 
«quanto  è  occorso  in  Collaterale  intorno  alla  proscrizione  del  libro  e  del- 
l'autore delle  Riflessioni  morali,  e  della  renovazione  della  prammatica,  ed  i 
vostri  riscontri  concordano  con  gli  altri  avuti  da  vari  buoni  amici,  i  quali 
in  questa  occasione  mi  riarmo  con  mia  confusione  accresciuto  di  molte 
obbligazioni.  Certamente  che  in  tanta  corruzione  non  si  è  fatto  poco». 
Tra  gli  amici,  il  più  solerte  fu  Biagio  Garofalo,  il  quale  stese  delle  Osserva- 
zioni sopra  le  Riflessioni  morali  e  teologiche  (vedi  in  Opere  postume,  il,  pp. 
151  sgg.)  che  provocarono  una  replica  da  parte  del  Sanfelice.  5.  pensa- 
rono —  ^Giornali*:  cfr.  la  Vita,  qui  a  p.  182  e  la  nota  4  ivi,  e  p.  273.  I 
tre  articoli  pubblicati  dai  «Mémoires  de  Trévoux»  furono  in  seguito  rac- 
colti in  estratto  e  divulgati  in  numerosissime  copie,  una  delle  quali  capi- 
tò nelle  mani  del  Giannone,  come  egli  stesso  ricorda.  Su  questo  episo- 
dio si  veda  Bertelli,  pp.  204-6.  6.  ed  abbreviarli:  correr  «racconcian- 
dogli ». 


RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA   525 

franzese,  riuscendo  così1  meno  noiosi,  e  covrendo  al  possibile  que' 
tanti  errori,  spropositi  e  scipitezze,  che  si  leggono  nell'originale. 
Or  essendosi  tutto  ciò  scoverto,  ragion  voleva  che  si  manifestasse 
eziandio  la  risposta,  che  usci  allora  alle  suddette  Riflessioni  morali? 
del  compendio  delle  quali  si  faceva  tanta  pompa.  Questa  risposta  a 
pochi  in  Venezia  era  nota;  se  ben  poi  si  trovò  che  n'era  prima  capita- 
ta qualche  copia  ancorché  cattiva  e  scorrettissima.  Né  io  fin  qui, 
se  ben  ne  conservassi  una  emendatissima,  per  tutto  il  tempo  ch'era 
dimorato  a  Venezia  ne  feci  motto,  né  mostratala  mai  ad  alcuno. 
Con  tal  occasione  venne  ad  alcuni  curiosità  di  leggerla,  ed  io  an- 
corché la  negassi  a  molti,  non  potei  schermirmi  dalle  continue  ri- 
chieste del  sig.  Pisani,  al  quale  professava  tanta  obbligazione  di 
darcela,  però  con  quella  confidenza  e  stretto  secreto,  che  soglio 
praticar  sempre  in  cose  simili.  Ma  essendo  la  lettura  di  quella 
estremamente  piaciuta,  non  potè  contenersi  il  sig.  Pisani  di  non 
communicarla  ad  altri  gentiluomini  suoi  amici,  i  quali,  non  con- 
tenti di  leggerla,  ciascuno  volle  per  sé  tenersi  copia;  onde  in  breve 
tempo  si  vide  quella  girare  per  le  mani  di  molti;  non  senza  indigna- 
zione di  que'  medesimi,  ch'erano  stati  la  cagione  perché  se  ne  favel- 
lasse, poiché  se  essi  non  avessero  stuzzicato  il  vespaio  di  far  girar 
attorno  quel  «Giornale»,  certamente  non  se  ne  sarebbe  detta  pa- 
rola, sicome  per  tre  o  quattro  mesi  avanti  non  se  n'era  fatto  motto 
alcuno.  Non  a  me  dunque,  ma  a  se  stessi  devono  imputare  la  divol- 
gazione  di  quella  risposta  in  Venezia,  nella  quale  io  non  ebbi  parte 
alcuna.  Oltreché  non  so  in  questo  trovarci  colpa  veruna,  poiché 
quella  già  per  più  anni  correva  in  Roma  per  le  mani  di  molti,  e  fatta- 
sene tante  e  sì  innumerabili  copie  ch'era  nota  sino  a'  barbieri;  onde 
non  si  capisce  perché  se  ne  dovesse  mostrar  tanta  dispiacenza  in 
Venezia,  quando  né  in  Roma,  né  in  Napoli,  né  in  Vienna,  né  in  altre 
città  d'Italia,  come  volgatissima,3  se  n'era  fatto  tanto  arcano  e  mi- 
sterio.  Parimente  che  io  avessi  fatto  venire  da  Napoli  alcuni  pochi 
essemplari  della  mia  opera,  feci  quel  che  per  gratitudine  dovea  per 
gli  obblighi  immensi  contratti  con  alcuni  gentiluomini,  i  quali 
ardentemente  desideravano  averla,  poiché  più  volte,  datane  com- 
missione a'  librari  di  Venezia,  non  aveano  veduto  niun  adempimento 


1.  riuscendo  cosi:  correr  «perché  così  riuscissero».  2.  la  risposta  . . .  mo- 
rali: il  Giannone  rispose  all'attacco  del  Sanfelice  con  la  celebre  Professione 
di  fede  (cfr.  qui,  alle  pp.  475  sgg,).     3.  volgatissima:  divulgatissima. 


52Ó        RAGGUAGLIO    DEL   RATTO    PRATICATO    IN   VENEZIA 

delle  lor  promesse,  che  gli  davano,  credendo  che  potessero  avergli 
da'  librari  di  Napoli  con  far  cambio  de*  loro  libri  :  nel  che  viveano 
molto  ingannati,  poiché  in  Napoli  non  a  librari,  che  non  ne  aveano, 
ma  ad  altri  dovea  ricorrersi.1  Sicché  ne  le  procurai  da  chi  l'avea 
otto  essemplari,  quanti  appunto  furono  coloro  che  gli  richiesero, 
non  già  per  farne  traffico,  o  per  voglia  che  io  avessi  di  diffondergli, 
di  che  non  avea  certamente  bisogno,  essendosi  abbastanza  diffusi  da 
per  tutto,  anche  per  ristampe  e  traduzioni  in  più  idiomi  delle  più 
eulte  e  dotte  nazioni  d'Europa.2  E  se  da  Roma  si  davano  commis- 
sioni in  Napoli  di  farne  venire  casse  intere,  sicome  con  effetto  fu- 
ron  mandate,  qual  delitto  sarebbe  stato,  se  lo  stesso,  ad  imitazione 
di  Roma,  avesse  fatto  Venezia? 

rv.  Ma  ritornando  in  cammino,  dileguate  l'imposture,  che  per 
via  del  compendio  francese  dell'opera  del  P.  Sanfelice,  di  soppiat- 
to, secondo  è  il  costume  de'  notturni  insidiatori,3  si  tentavano  presso 
la  gente  idiota  e  semplice,  tanto  maggiore  crebbe  verso  di  me  la 
stima  e  l'affezione  de'  signori  veneziani,  spezialmente  de'  gentiluo- 
mini; e  scorsi  già  i  mesi  di  quel  rigido  inverno,  non  potendo  più 
differire  le  promesse  fatte  al  sig.  Pisani,  passai  verso  la  fine  di  marzo 
nel  suo  palazzo;  dove  in  un  nobile  appartamento  fui  alloggiato  con 
tanta  assistenza  e  cordialità  di  quel  signore  e  del  sig.  Benedetto 
Pisani,  suo  figliuolo,  in  cui  ammirava  un  vivacissimo  talento  e  pe- 
netrazione di  spirito  singolare,  che  sicuro  della  loro  sincera  affezio- 
ne, mi  abbandonai  nelle  loro  amorevoli  braccia  ed  a  vivere  quivi  a 
me  stesso  ed  a'  miei  studi. 

La  mia  vita  era  tale  ed  in  tal  guisa  avea  distribuite  le  ore  del 
giorno.  La  mattina  a  buon'ora,  quando  i  tempi  lo  permettevano, 
non  tralasciava  secondo  il  mio  costume  esercitarmi  in  camminare 
per  quanto  comportavano  le  strade  ed  i  campi4  d'una  città  posta 
in  mezzo  all'acque;  e  con  tal  occasione  alle  volte  visitava  qualche 


i.  non  a  librari . . .  ricorrersi:  l'Istoria  civile  fu  stampata  nel  casino  di  Due 
Porte,  direttamente  dal  Giannone  con  l'aiuto  dello  stampatore  Niccolò 
Naso.  Le  copie  dell'opera  erano  vendute  dal  fratello  dell'autore;  la  richie- 
sta di  alcuni  esemplari  per  i  lettori  veneziani  è  nella  lettera  del  25  dicembre 
1734  (efr-  Giaimoniana,  n.°  565).  2.  ristampe  . .  .  Europa:  di  ristampe  non 
se  n'era  avuta  nessuna;  di  traduzioni,  oltre  quella  iniziata  in  lingua  francese 
dal  Bochat,  ma  a  quel  tempo,  come  s'è  detto,  ancora  non  condotta  a  termine, 
s'era  avuta  solo  la  versione  in  lingua  inglese:  cfr.  la  nota  3  a  p.  184.  3.  not- 
turni insidiatori:  cfr.  sopra,  p.  523,  dove  li  ha  definiti  «negri  animali,  che 
odiano  la  luce».    4.  campi:  in  veneziano,  le  piazze. 


RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA   527 

amico,  ma  per  breve  tempo,  altre  volte  mi  fermava  nella  libreria  del 
Pitteri,1  e  nel  tornare,  passando  per  la  chiesa  de'  Canonici  Regolari 
di  S.  Salvatore,  ascoltava  ivi  messa  ed  indi  a  casa  facea  ritorno,  dove 
le  rimanenti  ore  fino  a  quella  di  pranzo  le  consumava  ne'  miei  studi, 
i  quali  alle  volte  venivano  interrotti  da  qualche  amico,  che  veniva  a 
favorirmi,  spezialmente  dal  gentilissimo2  sig.  Antonio  Cornaro,  di 
cui  ammirava  la  profonda  letteratura  e  la  notizia  de*  più  dotti  e  rari 
libri.  Il  dopo  desinare  mi  tratteneva  in  casa  sino  alle  ventidue  ore,3 
indi  n'usciva,  e  se  la  buona  sorte  portava  che  fosse  una  bella  e  sere- 
na giornata  (grazie  che  il  cielo  veneto  di  rado  dispensa),  me  n'anda- 
va nel  convento  de'  PP.  Benedettini  in  S.  Giorgio  Maggiore4  a  spas- 
seggiare per  quel  delizioso  giardino,  ovvero  per  quelli  ampli  e 
maestosi  corridori  ed  amene  logge  :  dove  alle  volte  riceveva  l'onore 
d'essere  caramente  accolto  dal  dottissimo  P.  Rota  nella  biblioteca 
di  quel  monistero,  e  da'  altri  gentilissimi  padri  di  quell'insigne  ordi- 
ne e  d'alcuni  gentiluomini,  che  ivi  si  sogliono  condurre  per  godere 
la  sera  l'amenità  di  quel  luogo.  Ma  non  sempre  i  tempi  o  ventosi  o 
nubilosi  ciò  permettendo,  regolarmente  io  soleva  portarmi  in  casa 
del  sig.  Bertoni  presso  S.  Lorenzo,  dove  in  compagnia  di  que' 
garbatissimi  gentiluomini,  che  vi  trovava,  si  passava  il  tempo  fino 
all'imbrunire:  alle  volte  il  sig.  Domenico  Pasqualigo  mi  faceva 
l'onore  condurmi  seco  nella  sua  gondola,  scorrendo  il  Canal  Gran- 
de ;  ed  additandomi  i  sontuosi  palazzi  di  quella  riviera,  m'instruiva 
degl'artefici  insigni,  che  gli  costrussero,  e  dei  nomi  delle  famiglie, 
che  al  presente  gli  possedono.  Qualche  sera,  prima  di  ritirarmi  a  ca- 
sa, solea  per  breve  ora  fermarmi  nella  Piazza  di  S.  Marco  sotto  le 
Procuratie  Nuove  nella  bottega  d'acque  d'un  nostro  napolitano,  più 
per  secondar  il  costume  del  paese,  pur  troppo  dedito  alla  bevanda 
del  cafè,  e  per  non  rifiutare  l' offerte,  che  me  ne  facevan  gli  amici, 
che  per  gran  voglia  che  ne  avessi  ;  ma  non  passava  l'ora  di  notte 
che  io  non  mi  trovassi  a  casa,  ovvero  in  quella  del  sig.  avvocato 
Giuseppe  Terzi,5  prossima  alla  mia,  dove  la  sera  infino  alle  tre 
della  notte6  solevano  convenire  alcuni  gentiluomini  per  profittare 
de'  savi  consigli  di  quel  dotto7  vecchio,  di  una  probità  e  saviez- 


i.  Francesco  Pitteri:  c£r.  la  nota  i  a  p.  280.  2.  gentilissimo:  correr  «gen- 
tiluomo». 3.  alle  ventidue  ore:  cioè  alle  quattro  del  pomeriggio  circa. 
4.  in  S,  Giorgio  Maggiore:  nell'isola  di  San  Giorgio.  5.  Giuseppe  Terzi: 
cfr.  la  nota  2  a  p.  295.  6.  alle  tre  della  notte:  tre  ore  dopo  rAvemmaria. 
7.  dotto:  correr  «dotto  e  sperimentato». 


528        RAGGUAGLIO   DEL   RATTO    PRATICATO    IN   VENEZIA 

za  sì  incomparabili,  che  io  lo  riguardava  come  un  altro  Catone. 
Così  si  passarono  i  tre  mesi  di  aprile,  maggio  e  giugno;  ne' 
princìpi  di  luglio  il  signor  Pisani,  volendo  secondo  il  solito  andar 
nella  sua  villa  a  Rovere  di  Crè,  volle  che  io  le  facessi  compagnia, 
sicome  feci;  e  quivi  quasi  tutto  quel  mese  stiedi  in  una  vera  so- 
litudine, poiché  sfuggiva  sempre  di  esser  con  lui  a  Rovigo  per 
rimaner  solo  a  godere  di  quelle  amene  campagne:  né  se  non  due 
sole  volte  vi  fui,  la  prima  per  visitar  monsig.  Soffietti,1  vescovo 
d'Adria,  che  ivi  dimora,  prelato  di  una  gran  probità  di  costumi  e 
ài  una  profonda  cognizione  di  storia  ecclesiastica  e  di  teologia,  e  la 
seconda  per  invito  fattomi  dal  P.  abate  del  convento  di  S.  Barto- 
lomeo dell'ordine  degli  Olivetani  ad  intervenire  in  un'accademia 
d'eloquenza,  che  ivi  si  tenne  sotto  la  direzione  dell'erudito  P.  Castro 
olivetano.3  Verso  la  fine  di  luglio  fecimo  ritorno  in  Venezia,  e  si  rivi- 
dero gli  amici,  da'  quali  fummo  informati  delle  varie  novità  frattan- 
to occorse  in  città  in  tempo  della  nostra  assenza.  Infra  l'altre  ce  ne 
raccontarono  una,  che  per  la  città  vi  era  un  susurro,  che  l'Inqui- 
sizione di  Venezia  con  concerto  del  nunzio  e  del  patriarca  andava 
facendo  perquisizione  sopra  molti  gentiluomini  al  numero  di  80  ed 
alcune  dame,  contro3  altri  soggetti  eziandio  preti,  monaci  e  frati, 
imputati  di  parlar  licenziosamente  di  alcuni  riti  e  delle  istituzioni 
in  Venezia  di  tante  confraternite  e  superstizioni;4  aver  notato  in  un 
gentiluomo  che  il  Venerdì  Santo  mangiasse  carne,  in  altri  che  le 
particolari  divozioni  le  reputassero  impostura  de'  frati,  altri  che  non 
ben  sentissero  delle  tante  perdonanze5  de'  lor  santuari,  e  cose  simi- 
li; e  che  l'occasione,6  che  s'era  data  a  farne  inquisizione,  era  stato 
l'avere  alcuni  scoverto  che  la  lingua  fresca  di  S.  Antonio,  che  si 
adora  in  Padoa  come  naturale  di  quel  santo,  non  era  che  di  legno 
dipinto  a  color  di  carne,  e  che  l'arca  del  sacro  deposito  dava  quel- 
l'odor di  rose,  perch'era  spesso  profumata  da'  frati,  che  ne  ave- 
van  custodia.7  Rimasi  sorpreso8  in  sentir  tal  novella,  e  tanto  più, 
quando  poi  scorsi  che  ad  arte  si  andava  spargendo  per  le  piazze,  e 

1.  monsig.  Soffietti:  la  nota  1  a  p.  371.  2.  P.  Castro  olivetano:  nulTaltro 
conosciamo  di  questo  religioso  erudito.  3.  contro:  CORRER  «e  sopra». 
4.  confraternite  e  superstizioni:  correr  a  confraternite  di  secolari,  e  di  al- 
cune altre  superstizioni  e  delle  tante  perdonanze  de  loro  santuari  ».  5.  per- 
donarne: indulgenze.  6.  de*  frati . .  .  occasione:  correr  «di  frati  e  cose 
simili,  e  che  l'occasione».  7.  I*  avere  alcuni .  .  .  custodia:  cfr.  Vita,  qui  a 
p.  293.  8.  sorpreso:  aveva  prima  scritto  «turbato»,  correggendo  poi  in 
«sorpreso». 


RAGGUAGLIO   DEL    RATTO   PRATICATO    IN   VENEZIA        529 

sino  nelle  botteghe  pubblicamente  se  ne  parlava,  anzi  sfacciata- 
mente si  nominavano  sino  le  persone  de'  nobili,  delle  dame,  e  de' 
preti,  monaci  e  frati,  i  pretesi  delitti  e  le  più  minute  circostanze; 
cosa  nuova  di  quel  tribunale,  il  quale  procede  con  un  impenetrabil 
secreto  per  vie  pur  troppo  ignote  ed  occulte;  onde  cominciai  sub- 
bito  a  sospettare  non  s'ordisse  qualche  insidiosa  rete  per  invillup- 
par  anche  me  in  quella  da  non  potermene  così  facilmente  districare. 
Ma  non  passarono  molti  giorni  che,  come  sono  tutte  le  nuove  di 
piazza,  cominciò  la  voce  a  svanire;  ed  usate  da  alcuni  accorti  gen- 
tiluomini migliori  ricerche  per  scovrirne  il  vero,  non  trovaron  niente 
di  fermo  e  si  credette  che  fosse  una  delle  solite  dicerie  di  bottega,  e 
per  ciò  non  doversene  pur  cercar1  molto.  Mi  quietai  intanto,  non 
solo  perché  così  ne  fui  anche  assicurato  da  gravissimi  senatori, 
quanto  riguardando  la  mia  coscienza  e  la  passata  vita,  che  avea 
menata  in  que'  nove  mesi  a  Venezia,  poiché  due  l'avea  passati  nelle 
solitudini  di  Rovere  di  Crè  presso  Rovigo;  ed  a  coloro  i  quali  mi 
dicevano  che  ancor  io  era  notato  nel  catalogo  de*  miscredenti,  che  si 
vociferava,  solea  rispondere  che  io  avea  un  vantaggio  sopra  gli 
altri,  che  non  già  di  soppiatto,  ma  palesamente  avea  parlato,  e  che  i 
miei  sensi  e  la  mia  credenza  erano  ne'  miei  libri  stampati  già  palesi 
e  pubblici  ;  ne'  quali  la  più  rigida  ed  animosa  censura  di  Roma  non 
aveva  potuto  rinvenire  né  pur  una  proposizione,  che  avesse  potuto 
qualificarla  per  eretica,  sicom'è  manifesto  dal  decreto  della  con- 
danna e  proibizione;  onde  i  miei  discorsi  non  contenendo  più  di 
quel  che  io  avea  scritto,  stava  pur  sicuro  di  poter  ridarguire  di 
falso  e  d'impostore  chiunque  avesse  voluto  notarli  per  ereticali 
ed  empi;  e  che  se  questi  calunniatori,  lasciando  le  tenebre,  uscisse- 
ro un  poco  fuori  alla  luce  del  sole,  e  manifestassero  quali  fossero 
l'eresie  che  han  notato  nei  miei  discorsi,  gli  farei  ben  vergognare  con 
palesargli  per  maligni  non  meno  che  per  sciocchi  e  prodigiosi  igno- 
ranti. 

v.  Passato  in  tanto  il  mese  di  agosto,  né  più  sentendosi  di  ciò 
parlar  altro,  si  venne  nel  mese  di  settembre,  nel  quale  io,  prose- 
guendo il  mio  costume,  visitava  la  mattina  qualche  amico,  il  dopo 
desinare  mi  portava  o  dal  sig.  Bertoni,  od  in  S.  Giorgio  Maggiore, 
e  la  sera  o  in  casa  o  in  quella  del  sig.  avvocato  Giuseppe  Terzi 
godendo  della  stessa  familiarità  e  cortesia  come  prima  di  que* 

1.  cercar:  correr  «curar». 


530        RAGGUAGLIO   DEL    RATTO    PRATICATO    IN   VENEZIA 

garbatissimi  signori.  Ma  ecco  che  stando  in  questa  placidezza  e 
tranquillità  d'animo  giunse  per  me  il  giorno  fatale  che  turbò  ogni 
mia  quiete  e  contristò  tutti  i  miei  pensieri,  ponendomi  nel  fondo 
de'  più  travagliosi  affanni  e  miserie.  Il  martedì  13  di  settembre 
doppo  il  mio  maturino  essercizio,1  ritiratomi  a  casa,  ebbi  l'onore 
d'esser  visitato  dal  sig.  Antonio  Cornaro,  con  cui  sino  ad  ora  di 
pranzo  si  tennero  discorsi  vari  e  di  scienze  e  di  lettere  umane  secon- 
do il  nostro  consueto  stile.  Doppo  desinare  mi  trattenni  a  casa  sino 
alle  22  ore,  indi  passai  in  quella  del  sig.  Bettoni,  dove  trovai  il  sig. 
Pasqualigo,  il  quale,  trattenuti  che  ivi  fummo  da  un'ora,  mi  invitò  al 
solito  spasseggio  del  Canal  Grande,  il  quale  dopo  essersi  scorso,  mi 
lasciò  la  sera  nella  piazza  di  S.  Marco.  All'imbrunire,  di  là  passai  in 
casa  del  sig.  avvocato  Terzi,  ove  trovati  i  gentiluomini  soliti  ivi  a 
convenire,  i  signori  Priuli,  il  giovane  Cornaro  ed  altri,  di  cui  ora  non 
mi  sovvengono  i  nomi,  vi  sopragiunse  dopo  il  sig.  abate  Conti.  So- 
nate le  tre  ore,  segno  del  nostro  ritiro,  ci  alzammo  tutti,  e  calando 
giù  per  le  scale,  ciascun  prese  il  cammino  verso  la  propria  casa,  chi 
per  acqua  chi  per  terra.  Volle  quella  sera  accompagnarsi  meco  il 
sig.  abate  Conti,  e  poiché  per  andar  in  casa  Pisani  di  S.  Angelo,  deve 
traversarsi  il  campo  di  S.  Stefano;  quivi  col  sig.  abate  fermati 
alquanto,  vidimo  una  turba  di  birri,  chiamati  in  Venezia  zaffi,  i 
quali  oltrepassando  il  campo,  ove  noi  eravamo,  finsero  andar  altro- 
ve. Io,  a  tutto  altro  pensando,  seguitai  il  mio  cammino,  e  giunto  ad 
un  vicoletto,  che  conduce  al  ponte  avanti  il  chiostro  di  S.  Stefano 
de'  PP.  Agostiniani,  il  sig.  abate  Conti  si  licenziò  da  me,  ed  io  pro- 
seguii avanti  col  servidore  del  sig.  Pisani,  che  m'accompagnava  con 
una  lanterna:  passato  il  ponte,2  mentr'era  nel  campo  di  S.  Angelo 
per  voltar  a  man  sinistra  ed  entrar  nel  portone  del  palazzo  Pisani,  ecco 
che  mi  veggo  venire  addosso  alcuni,  che  m'arrestarono,  e  dati  alquan- 
ti fischi,  mi  vidi  circondato  da  una  turba  di  birri,  i  quali,  copertomi 
d'un  mantello,  mi  rapirono,  e  frettolosamente  mi  condussero  per 
oblique  strade  nella  piazza  di  S.  Marco.  Ancorché  di  notte  tempo, 
nulladimanco  lo  stuolo  che  mi  circondava  movendo  curiosità  agli 
altri  lor  compagni  ed  a  que'  bottegai  i  quali  tenevan  ancor  aperte 
le  lor  botteghe,  crebbe  a  guisa  d'un  raccolto  diluvio,  che  giunto  che 
fui  in  quella  piazza  la  turba  era  cresciuta  in  immenso,  alla  quale  io 
era  non  so  se  di  compassionevole  o  di  dilettevole  spettacolo.  Allora 

1.  matutino  essercizio:  l'ha  descritto  sopra,  p.  526.  2.  il  ponte:  forse  il  ponte 
detto  «dei  Frati». 


RAGGUAGLIO   DEL    RATTO    PRATICATO    IN   VENEZIA        53I 

fra  me  stesso  dissi  :  Oh  incostanza  delle  umane  cose,  e  quanto  folle 
è  colui,  che  in  lor  pone  speranza.  Ora  conosco  per  proprio  espe- 
rimento quanto  siano  variabili  e  vacillanti  le  umane  vicende.  Que- 
sta istessa  piazza,  che  solea  esser  per  me  teatro  di  tanta  stima,  e 
che  quasi  sempre  circondato  da  gentiluomini,  era  da'  medesimi  co- 
tanto onorato  e  riverito,  ora  in  un  baleno  la  veggo  cangiata  in  mio 
obbrobrio,  dove  sono  esposto  ad  esser  un  miserabil  spettacolo  del- 
la feccia  d'un  vile  e  sozzo  popolaccio.  Sperimentai  dagl'insulani 
veneti,  se  ben  con  successo  contrario,  quella  stessa  inconstanza,  che 
con  S.  Paolo  praticarono  gFinsulani  di  Malta.  Egli  scampato  dal 
naufragio,  avendo  posto  piede  a  terra,  fu  assalito  da  una  vipera,  che 
l'addentò  in  una  mano,  e  credendo  i  Maltesi  che  gonfio  tosto 
dovesse  cader  morto  a  terra,  dissero  fra  di  loro:  veramente  dee 
esser  costui  il  più  empio  e  scellerato  uomo  del  mondo,  giacché  né  il 
mare,  né  la  terra  vogliono  sostenerlo;  ma  quando  videro  Paolo  con 
una  gran  intrepidezza  avere  scossa  dalla  mano  la  bestia,  la  quale 
caduta  a  terra  non  gli  recò  nocumento  alcuno,  allora  in  un  subbito 
cangiati,  lo  riputarono  un  dio,  e  prostrati  a  terra  volevano  in  tutti 
i  modi  come  un  nume  adorarlo  e  rendergli  divini  onori.1 

Fui  condotto  da'  birri  alle  Procuratorie  Vecchie  nelle  camere 
del  Bargel  Maggiore,  chiamato  in  Venezia  Messer  Grande,2  il  quale 
avendomi  prima  interrogato  chi  io  fossi  e  dattoli3  il  mio  nome,  mi 
soggiunse  che  per  ordine  de'  Signori  Inquisitori  di  Stato  io  dovea 
partir  tosto  da  Venezia  e  suoi  domini,  né  sotto  pena  di  vita  farvi 
più  ritorno,  e  che  per  tal  effetto  era  pronta  la  nave  per  condurmi 
a'  confini,  e  che  si  mandava  allora  il  fante,4  che  dovea  accompagnar- 
mi, in  casa  Pisani  a  prender  la  mia  roba  per  portarla  meco.  Gli 
risposi  che  senza  tanti  strepitosi  e  militari  apparati  avrebbe  bastato 
un  sol  cenno  di  que'  signori  che  io  partissi,  che  tosto  sarebbero 
stati  ubbediti;  che  la  mia  roba  non  era  sì  poca,  spezialmente  la 
mia  biblioteca,5  che  potesse  farsi  sì  prestamente  fagotto  per  meco 
subito  imbarcarla;  ma  che  per  non  fraporre  dimora  alcuna  mi  sarei 
contentato  del  puro  necessario  per  farla  poi  trasportare  dove  io 
pensava  di  fermarmi  uscito  che  fossi  dal  confine  veneto.  Ma  intanto 
il  fante  era  partito  senza  poterli  dire  che  cosa  dovesse  il  sig.  Pisani 

1.  con  S.  Paolo  .  .  .  onori:  cfr.  Act.,  27-8.  2.  Fui  condotto  .  .  .  Grande:  cfr. 
la  Vita,  qui  a  p.  296  e  la  nota  3  ivi.  3.  dattoli:  correr  «dettogli».  4.  il 
fante:  vedi  la  nota  a  p.  297.  5.  spezialmente  la  mia  biblioteca:  correr 
«avendo  meco  la  mia  picciola  biblioteca». 


532        RAGGUAGLIO   DEL    RATTO    PRATICATO    IX   VENEZIA 

mandarmi  per  i  miei  bisogni.  Pregai  il  Bargello  che  dovendo  es- 
ser io  condotto  a'  confini,  non  fossero  quelli  dello  Stato  Ecclesia- 
stico, come  a  me  infidi  e  sospetti,  ma  qualunque  altro;  ma  non 
potei  ottenerlo,  poiché  l'ordine  era  che  mi  conducessero  a  Crespino, 
picciola  terra  a'  confini  del  Ferrarese.  Qual  fosse  il  mio  turbamen- 
to in  sentir  questo  ciascuno  può  comprenderlo,  la  malinconia  sve- 
gliandomi mille  tetre  imagini  di  tradimenti  e  di  funesti  successi.  Ma 
il  Bargello,  che  mostrassi  meco  tutto  umano  e  gentile,1  mi  diede 
coraggio,  dicendomi  che  colà  avrei  potuto  trovar  pronta  occasione 
di  vettura  da  poter  subbito  proseguir  il  cammino  dove  volessi,  e 
sfuggire  qualunque  pericolo  che  io  fossi  per  incorrere,  traversando 
que'  paesi  per  me  sospetti.  Fu  dura  necessità  di  acquietarmi  come 
potei  al  meglio,  aspettando  intanto  il  fante,  che  tornasse  col  mio 
bisognevole  per  intraprendere  un  sì  lungo  ed  improviso  viaggio. 
Venne  finalmente  doppo  due  ore  di  penoso  aspettare,  ma  il  suo 
ritorno  invece  di  sollevarmi  accrebbe  maggiormente  le  mie  ango- 
scie,  poiché  senza  palesare  al  sig.  Pisani  che  io  dovea  prestamente 
partire,  anzi  lasciandolo  nella  credenza  che  io  fossi  ditenuto  in 
carcere  dopo  l'arresto,  del  quale  era  stato  informato  dal  suo  ser- 
vidore, che  m'accompagnava,  gli  chiese  per  ordine  de'  Signori 
Inquisitori  di  Stato  la  mia  roba  per  dovermela  consignare  ;  onde  cre- 
dendomi nella  prigione,  mi  mandò  quasi  tutti  i  miei  libri,  i  quali  al- 
manco mi  servissero  ivi  di  compagnia,  ed  alcuni  pochi  abiti  necessari 
per  camera,  non  gìk  per  viaggio.  Dimandai  al  fante  se  m'avesse  por- 
tato il  mio  forziere,  ov'erano  que'  pochi  denari  che  avea,  ed  altre 
mie  cose  necessarie  per  viaggiare,  e  mi  rispose  che  non  avea  ricevuto 
altro  dal  sig.  Pisani  che  i  libri  ed  alcuni  drappi  ed  abiti  avvolti  in  una 
tela  bianca,  e  che  la  cagione  della  sua  dimora2  era  stata  perché  i  libri 
essendo  molti,  dovette  farli  tutti  trasportare  nella  barca  apprestata, 
de'  quali  la  poppa  e  la  prora  era  piena.  —  E  che  ho  da  far  io  de' 
libri  —  gli  replicai  —  che  mi  sono  più  tosto  d'impaccio,  e  che  non 
avendomi  portato  il  mio  forziere,  non  ho  mezzi  di  far  la  spesa  che  bi- 
sogna per  trasportarli  meco,  dove  io  dovrò  andare  ?  Non  potevi  tu  dire 
al  sig.  Pisani  che  io  dovea  partire  e  non  rimaner  qui  prigione  ?3  —  Ma 
quel  vecchio  scimunito  bruscamente  mi  rispose  ch'egli  non  teneva 
quest'ordine  di  dirlo,  ma  solo  di  cercargli  la  roba;  esser  già  quella 
imbarcata,  e  non  bisognava  differir  più  la  partenza,  essendo  già  pas- 

i.  gentile:  correr  «gentile,  vedendomi  sì  turbato».  2.  dimora:  indugio. 
3.  qui  prigione:  correr  «qui  in  prigione». 


RAGGUAGLIO   DEL   RATTO   PRATICATO    IN   VENEZIA        533 

sata  la  mezza  notte,  che  tutti  eran  in  letto,  e  non  voleva  inquietar  più 
nissuno.  In  breve,  per  dura  forza  bisognò  partire  con  que'  abiti  che 
avea  addosso,  e  con  que'  pochi  denari,  che  mi  trovava  in  sacca.  Si 
navigò  tutta  la  notte  insieme  col  fante  e  con  un  soldato  di  guardia,  ed 
all'apparir  del  giorno  vidi  quel  doloroso  spettacolo,  gittati  a  mucchi 
nella  estremità  della  nave  i  miei  libri  di  qua  ed  in  là.  Gli  accommodai 
come  potei  al  meglio,  pregando  il  fante,  che  ben  vedendo  essere  im- 
possibile che  io  potessi  meco  portarli,  dovendomi  esporre  ad  un 
luogo,  dove  nemmeno  io  era  certo  di  poter  per  me  solo  trovar 
vettura  per  proseguire  il  cammino  e  pormi  in  paese  sicuro,  mi  fa- 
cesse la  grazia  di  ricondurseli  seco  e  riconsignarli  al  sig.  Pisani, 
perché  io  l'avrei  poi  scritto  dove  avrebbe  dovuto  mandargli.  Ma 
ricusava  di  farlo,  perché  dicendomi  che  in  Crespino  io  avrei  trovata 
ogni  commodità  e  se  non  poteva  soffrir  la  spesa  del  trasporto,  tanto 
avrei  potuto  lasciargli  in  una  stanza  dell'osteria,  perché  sarebbero 
stati  intanto  ben1  custoditi,  per  poi  di  colà  fargli  trasportare  ove  io 
volessi.  Barbara  risposta,  che  condennava  que'  infelici  libri  a  starse- 
ne in  paese  nemico2  ed  alla  discrezione  d'un  oste.  Ala  all'esperienza 
ed  evidenza  del  fatto  fu  poi  d'uopo  che  finalmente  s'arrendesse  ed 
esaudisse  le  mie  preghiere,  poiché  navigatosi  tutto  quel  giorno  14 
di  settembre  si  giunse  ad  un'ora  di  notte  a  Crespino,  che  si  trovò 
un  luogo  deserto,  senz'osteria  e  senz'alcuna  di  quelle  commodità 
che  si  promettevano;  onde  avendo  fatto  calare  a  terra  un  marinaro 
col  soldato  per  vedere  se  mai  in  quel  contorno  si  trovasse  albergo, 
giraron  un  pezzo,  e  dopo  un'ora  tornò  il  marinaro,  dicendoci 
che  un  miglio  lontano  s'era  trovata  in  campagna  un'osteria,  alla 
quale  la  barca  non  poteva  avvicinare  per  la  secca  del  fiume  Po,  ma 
che  bisognava  smontare  quivi  e  far  a  piedi  quel  cammino  per 
arrivarci.  Allora  il  fante  conobbe  l'impossibilità  del  trasporto  di 
tanti  libri  per  terra,  di  notte  tempo  e  senza  veder  ivi  anima  viven- 
te, onde  bisognò  calare  a  riva,  e  dato  il  mio  involto  di  panni  ad  un 
marinaro*  che  lo  portasse,  ci  posimo  a  caminar  a  piedi,  finché  si 
giunse  ad  una  misera  osteria,  ove  non  trovai  nemmeno  un  calamaio 
ed  un  poco  di  carta  per  iscrivere  un  biglietto  al  sig.  Pisani,  dandogli 
ragguaglio  come,  per  l'impossibilità  del  trasporto,  gli  rimandava  i 
libri,  confidando  alla  lealità  del  fante,  che  gliele  avrebbe  puntual- 
mente riconsignati;  sicché  non  potendolo  fare  in  iscritto,  m'ab- 

1 .  ben  :  correr  «  ivi  ben  »,     2.  nemico  :  ciò  fa  pensare  che  il  Giannone  temesse 
un  loro  sequestro. 


534        RAGGUAGLIO   DEL   RATTO    PRATICATO    IN   VENEZIA 

bandonai  unicamente  alla  fede  e  discrezione  di  colui,  pregandolo  che 
l'eseguisse  con  esattezza;  ed  egli  mi  promise  di  farlo,  e  che  io  punto 
non  ne  dubbitassi,  sicome  n'avrei  avuto  certo  riscontro  dal  Pisani. 
Il  fante,  scorgendo  la  miseria  del  luogo,  non  volle  meco  fermarsi 
quella  notte,  ma  immantinente  ritornò  co'  suoi  alla  barca,  e  mi  la- 
sciò ivi  solo,  se  non  accompagnato  da'  miei  torbidi  e  funesti  pensieri, 
e  con  l'aggitazione  di  ciò  che  dovesse  farmi  in  luogo  sì  deserto  e 
sospetto,  e  d'aver  commessi  alla  fede  e  discrezione  d'un  fante,  di 
quattro  marinari  ed  un  soldato  que'  miei  libri,  per  i  quali  avea  im- 
piegato qualche  denaro  e  gran  tempo  per  metterli  insieme.  Chiesi 
da  cena,  e  mi  fu  risposto  da  un  giovane  dell'oste,  il  quale  era  già 
andato  a  dormire,  ch'essendo  così  tardi,  non  vi  era  altro  che  un  poco 
di  pane  e  di  vino:  —  porgimi  del  pane  —  gli  risposi  —  ed  un  poco 
d'acqua,  perché  io  non  bevo  vino  —  ;  e  questi  sentendo  che  io  non 
beveva  vino,  mi  portò  di  mala  voglia  del  pane  e  dell'acqua  de'  peg- 
giori che  fossero  in  osteria.  Gli  dimandai  se  vi  fosse  commodità 
di  galesse  per  partir  di  man  mattino  per  tempo,  e  mi  rispose  che 
non  vi  era  nella  vicinanza  che  un  villano  che  teneva  due  giumente 
con  una  sedia,  ma  che  i  suoi  viaggi  non  eran  più  lunghi  che  infino 
al  vicino  Ponte  di  Lago  oscuro,1  non  essendo  pratico  di  altre  strade 
per  far  più  lungo  cammino  ;  e  che  ivi  averei  potuto  provvedermi  di 
altra  vettura.  —  Bene  sta  —  gli  replicai  —,  andiamo  a  dormire,  e 
dimani  per  tempo  mi  facci  qui  trovar  quest'uomo.  —  Si  dormì 
quella  notte  come  si  potè  il  meglio.  La  mattina  trovai  nell'oste  più 
cortesia,  poiché  avendogli  detto  che  mi  rincresceva  trattenermi2  in 
quel  Ponte  per  cercar  nuova  vettura,  essendo  il  mio  disegno  di  pas- 
sar in  Modena  quanto  più  presto  si  potesse,  disse  al  villano,  il  qual 
era  già  venuto,  che  ben  poteva  ivi  condurmi,  additandogli  le  strade, 
per  le  quali  senza  passar  per  Ferrara  e  per  Bologna  poteva  la  sera 
pernottare  a  Cento,  ed  indi  la  mattina  essere  in  Modena.  Bisognò 
penar  molto  così  per  istruirlo,  come  perché  si  contentasse,  temendo 
di  non  errare;  finalmente  si  diede  animo,  mi  posi  in  galesse,  e  di- 
mandando a  quanti  passaggieri  s'incontravano  le  vie  che  condu- 
cevano a  Cento,  caminandosi  tutto  quel  giorno  di  giovedì  15  del 
mese,  vi  si  giunse  felicemente  la  sera,  e  la  mattina  seguente  de'  16 
prestamente  proseguendo  il  camino  arrivai  a  Modena  alle  17  ore, 


1.  Ponte  di  Lago  oscuro:  Pontelagoscuro.     2.  trattenermi:  apografo;  nel- 
l'autografo «  trattenni». 


RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA    535 

ove  stimai  come  in  sicuro  luogo  fermarmi,1  per  aspettare  riscontri 
da  Venezia  se  mai  il  fante  avea  restituiti  i  libri  al  sig.  Pisani,  e  per- 
ché mi  si  provedesse  a'  miei  bisogni,  ma  sopra  tutto  per  sapere 
qual  delitto  mi  s'imputava  perché  m'avessi  meritata  una  sì  improv- 
visa ed  ingiuriosa2  proscrizione. 

Fu  duro  l'aspettare  in  tanta  aggitazione  e  solitudine,  essendomi 
convenuto  trattenermi  ivi  sconosciuto,  senza  communicar  con  al- 
cuno,3 ed  avvisando  il  mio  arresto  colà4  a'  miei  amici  di  Venezia, 
l'avvertii  a  scrivermi  a  Modena  sotto  altro  nome.5  Dopo  quindici 
giorni  ebbi  finalmente  i  cotanto  aspettati  riscontri,  i  quali  furono  che 
il  fante  non  restituì  subito  i  libri  secondo  la  fede  datami,  ma  volle 
nuovo  ordine  de'  sig.  Inquisitori,  sicché  il  sig.  Pisani  fu  obbligato 
ricorrere  a'  medesimi  per  ricuperargli.  Che  in  quanto  alla  cagione 
della  mia  proscrizione,  incerta  e  varia  era  la  fama:  chi  l'attribuiva 
a'  romori  che  s'eran  sparsi  esser  io  nel  numero  di  que'  imputati  di 
miscredenza;  chi  alle  sinistre  insinuazioni  de'  Gesuiti,  che  aveano 
gran  potere  sopra  gli  spiriti  deboli  de'  tre  Inquisitori;  e  chi  che 
dimorando  io  in  casa  d'un  gentiluomo6  veneziano,  avea  dato  sospet- 
to d'inconfidente,  praticando  spesso  in  casa  co'  sig.  ambasciadori  di 
Francia  e  di  Spagna,  e  con  molta  familiarità  co'  loro  domestici;  ma 
la  comune  vera  credenza  de'  più  avveduti  e  ben  informati  era  che 
sotto  questo  pretesto  di  pratticar  in  casa  de'  suddetti  ambasciadori, 
si  fosse  tessuta  la  gabala  dalla  corte  di  Roma  e  da'  Gesuiti,7  li  quali 
mal  sofferivano  che  io  fossi  in  Venezia  così  ben  veduto,  e  che  le  mie 
opere  ivi  cotanto  si  commendassero,  e  maggiormente  si  diffondesse- 
ro ;  e  che  tutti  i  savi  senatori  e  la  gente  più  illuminata  condennava 
Tatto  spietato  ed  ingiusto,  e  che  se  non  si  fosse  proceduto  con  tanta 


1. fermarmi:  lezione  dell'apografo.  L'autografo  forse  «fermarsi».  2. in- 
giuriosa: correr  «obbrobriosa».  3.  senza  .  . .  alcuno:  il  Giannone  tace  qui, 
per  ovvi  motivi  di  opportunità,  trattandosi  di  uno  scritto  che  egli  intendeva 
divulgare,  il  suo  incontro  con  Ludovico  Antonio  Muratori.  Giunto  infatti  a 
Modena,  lo  storico  del  regno  di  Napoli  trovò  ospitalità  presso  il  fattore 
di  Casa  estense  Antonio  Guidetti,  al  quale  l'aveva  raccomandato  il  Pisani 
(cfr.  Panzini,  p.  83  **);  e  in  casa  di  questi  gli  fece  visita  il  Muratori,  trat- 
tenendosi a  lungo  a  parlare  e  dandogli  «  distinto  ragguaglio  del  padre  Bian- 
chi franciscano  »,  il  quale  stava  stendendo  un  nuovo  attacco  contro  V Istoria 
civile  (cfr.  la  lettera  del  Giannone  al  principe  Alessandro  Teodoro  Trivul- 
zio,  del  19  marzo  1736,  qui  edita  col  n.°  xxin).  4.  il  mio  arresto  colà: 
correr  «la  mia  dimora».  5.  altro  nome:  aveva  scelto  il  nome  di  Antonio 
Rinaldi:  cfr.  Panzini,  loc.  cit.  6.  gentiluomo:  correr  «patrizio».  7.  Ge- 
suiti: correr  «Gesuiti,  sopra  gli  animi  di  quei  inquisitori  assai  potenti». 


536         RAGGUAGLIO   DEL    RATTO   PRATICATO    IN   VENEZIA 

precipitarla,  forse  non  sarebbe  seguito,  0  almeno  usata  maniera  di- 
screta ed  urbana;  anzi  che  vi  eran  alcuni  senatori,  i  quali  detestan- 
do pubblicamente  il  fatto,  riputavano  che  per  decoro  della  Repub- 
blica e  risarcire  la  mia  fama,  dovessi  io  esser  richiamato  con  maniere 
decorose  ed  onorevoli.1 

vi.  Ecco  la  dolente  istoria  della  mia  proscrizione  da  Venezia,  dalla 
quale  ciascuno  comprenderà  quanto  infelice  fosse  in  Venezia  la  con- 
dizione d'un  pover  disgraziato  uomo  esposto  all'arbitrio  e  capriccio 
di  due  o  tre  Inquisitori  di  Stato  ad  esser  improvvisamente  ruinato 
nella  stima,  nella  roba  e  nell'onore,  e,  quel  che  dà  più  orrore,  sen- 
z'esser inteso,  senza  processo,2  e  senza  potersi  difendere  dall'altrui 
false  ed  animose  imputazioni  e  di  vedersi  prima  eseguita  la  sen- 
tenza che  si  sappia  il  delitto,  di  che  vien  imputato.  Quindi  anche 
comprenderà  quanto  facile  e  spedita  cosa  fosse  a  questi  tali3  Inqui- 
sitori, che  prestono  volentieri  orecchio  a'  lor  consultori  di  coscienza, 
di  malmenare  così  ignominiosamente  i  poveri  forastieri,  ancorché 
prima  ben  accolti  e  careggiati,4  e  come  lor  sembra  un  divertimento 
assai  dilettevole  e  soave  de  cario  hominis  ludere*  nulla  curando 
d'esporgli  a'  più  duri  patimenti  e  disaggi,  anzi  ad  evidenti  pericoli  di 
perdere  o  la  libertà  o  la  vita  istessa.  E  questi  lor  consultori  di  co- 
scienza, che  si  mostrano  cotanto  delicati  e  teneri,  non  tanto  del- 
l'onor  di  Dio  che  de'  santi,  e  così  zelanti  della  salute  delle  anime 
umane,  con  qual  arte  magica  o  trasformatrice  possano  fargli  trave- 
dere, e  così  tosto  cangiargli  il  bene  in  male  ed  il  male  in  bene  ?  Chi 
crederà  che  in  Venezia  oggi  i  Gesuiti  possin  cotanto,  quando  in 
tempo  delle  contese,  ch'ebbe  con  Paolo  V,6  non  sperimentò  la 
Repubblica  nemici  fra'  più  fieri,  sicché  fu  obbligata  cacciargli  dalla 
città  e  da'  suoi  domìni,7  i  quali  nell'atto  stesso  d'esser  cacciati 


1.  e  risarcire  .  . .  onorevoli:  correr  «e  risarcimento  della  mia  stima  dovessi 
io  esser  richiamato  con  invitti  onorevoli  e  decorosi  ».  Nell'autografo  maniere 
è  stato  poi  cancellato  e  sostituito  da  parole  illeggibili.  2.  senz'esser  .  .  .  pro- 
cesso: correr  «senz'aver  inteso,  o  almanco  estragiudizialmente  ammonito, 
senza  processo».  3.  a  questi  tali:  correr  «a  sì  fatti».  4.  careggiati:  acca- 
rezzati. 5.  de  corio  hominis  Inderei  «  scherzare  con  la  pelle  dell'uomo  »,  pro- 
verbiale (cfr.  Marziale,  Epigr.,  iii,xvi,4  ecc.).  6.  quando...  Paolo  V:  nel  1605 
la  Repubblica  aveva  promulgato  alcune  leggi  in  materia  di  proprietà  eccle- 
siastica sgradite  a  Roma.  L'arresto  e  processo  di  due  preti  accusati  di  reati 
comuni  diede  l'occasione  per  un  diretto  intervento  papale  in  difesa  del  foro 
ecclesiastico;  intervento  che  giunse  sino  a  comminare  l'interdetto  contro 
Venezia,  provocando  una  grave  crisi,  risolta  solo  con  la  mediazione  di  Fran- 
cia e  Spagna.    7.  cacciargli . . .  domìni:  tutto  il  clero  regolare  che  non  ob- 


RAGGUAGLIO   DEL    RATTO    PRATICATO    IN   VENEZIA        537 

tentarono  di  sollevargli  contro  il  popolo,  e  dopo  non  mancarono 
nelle  città  dello  Stato  più  lontane  alla  metropoli  di  tesser  insidie 
e  congiure,  perché  si  rivoltassero  contro  la  città  dominante  ?  Certa- 
mente che  per  ciò  che  riguarda  i  miei  libri,  non  potevano  con  verità 
dipingergli1  per  eretici,  quando  l'istessa  censura  di  Roma  non  gli  ha 
qualificati2  per  tali.  De'  miei  andamenti  e  della  mia  vita  menata  in 
Venezia  in  un  anno  che  vi  son  dimorato,  potevano  i  sig.  Inquisitori 
averne  fedel  testimonianza  da  tanti  uomini  dotti  e  da  bene  di  sopra 
riferiti,  co'  quali  io  ho  praticato,  e  non  da'  Gesuiti,  co'  quali  non 
ebbi  mai  che  fare.  Il  paroco  di  S.  Angelo  potea  testificargli  ne'  prin- 
cìpi d'aprile  il  giovedì  aver  io  nella  sua  parocchia  adempito  al  pre- 
cetto pascale  ;  i  Canonici  Regolari  di  S.  Salvatore,  quasi  ogni  matti- 
na essere  stato  nella  lor  chiesa  ad  ascoltar  messa;  ed  il  P.  Teolo- 
go della  Repubblica,3  ch'ebbi  la  fortuna  conoscerlo  e  trattarci  per 
mezzo  del  sig.  Pisani,  l'avrebbe4  potuto  pure  render  testimonianza 
essere  i  miei  sentimenti  cattolici,5  e  che  la  mia  credenza  fosse  in  tut- 
to conforme  alla  nostra  S.  Fede  ed  alla  dottrina6  della  venerata 
Chiesa  cattolica.  Se  pur  tali  consultori  non  mi  avessero  imputato  a 
delitto  di  non  aver  secondato7  il  costume  del  paese,  cioè  appena 
giunto  di  non  essermi  provveduto  d'una  amica  o  d'un  cinedo,8  di 
non  scorrere9  i  postriboli  fra  meretrici,  di  non  frequentar  i  giuochi 
e  consumarvi  almeno  otto  o  dieci  ore  del  giorno,  ovvero  di  non  es- 
ser ogni  sera  andato  ne'  teatri  a  sentir  opere  o  comedie. 

I  miei  discorsi  furono  pubblici  e  palesi  :  sovente  che  occorreva 
parlarsi  delle  particolari  divozioni  a'  Santi,  e  di  altri  istituti  divoti, 
che  riguardavano  o  la  maggior  venerazione  de'  medesimi,  ovvero  la 
pietà  religiosa,  io  soleva  dir  sempre  che  tutte  queste  lor  istituzioni 
possono  esser  buone  e  sante,  quando  siano  discompagnate  dagl'in- 
teressi mondani  e  praticate  con  sentimenti  di  vera  pietà  cristiana; 


bedì  all'ordine  della  Repubblica  di  ignorare  l'interdetto  fu  espulso  dallo 
Stato  veneziano.  Vi  venne  riammesso  una  volta  chiusa  la  controversia, 
ad  eccezione  dei  Gesuiti;  questi  poterono  rientrare  solo  nel  1657.  1.  di- 
pìngergli', lezione  poco  chiara  dell'autografo,  confermata  da  correr  (l'apo- 
grafo ha  «  discrivergli  »).  2.  non  gli  ha  qualificati',  correr  «  non  li  ha  potuti 
qualificare  ».  3.  il  P.  Teologo  della  Repubblica:  Paolo  Celotti:  cfr.  la  nota  4 
a  p.  267.  4.  V avrebbe:  correr  «l'avrebbe  eziandio  ».  5.  testimonianza . . . 
cattolici:  correr  «testimonianza  de'  miei  cattolici  sensi  ».  6.  alla  dottrina: 
correr  «alla  sana  dottrina».  7.  secondato:  correr  «secondato,  come  per- 
mettono agli  altri».  8.  d'una  amica  0  d'un  cinedo:  d'un'amante  o  di  un  gio- 
vane efebo.     9.  scorrere:  correr  a  aver  scorso». 


538        RAGGUAGLIO   DEL    RATTO   PRATICATO    IN   VENEZIA 

ma  lusingarsi  che  senza  le  buone  opere1  possano  giovare,  anzi  che, 
secondo  le  perverse  dottrine,  che  s'istillano  negli  animi  de'  semplici, 
per  quegli  esteriori  atti  si  saldi  con  Dio  ogni  conto,  e  ridurre  con 
ciò  la  religione  cristiana  ad  un'arte  meccanica,  questi  non  eran  che 
sentimenti  del  diavolo,  che  gli  somministrava  per  mezzo  di  colo- 
ro che  essi  credevano  operari  della  vigna  di  Dio  ;  ma  erano  in  realtà 
più  tosto  suoi  ministri  malvaggi,  ipocriti  e  farisei  marci,  contro  i  qua- 
li per  questo  appunto  declamò  cotanto  il  nostro  buon  Redentore  re- 
plicando spesso  quelle  sue  divine  parole:  «  Haec  oportet  facere,  Illa 
vero  non  omittere  ».3  L'importanza  era  d'operar  bene  :  esser  casti, 
sobri,  giusti,  misericordiosi,  abbonir  gl'inganni  ne'  traffici  e  nelle 
altre  umane  facende,  non  usar  frodi  nelle  arti,  soccorrere  i  bisognosi 
ed  amar  il  prossimo  come  se  stesso:  «Haec  oportet  facere».  Non 
omettere  sì  bene  gli  altri  riti  ed  istituti,  ma  non  credere  che  questi 
facendo  e  quelle  omettendo  si  possa  giammai  sperar  salute.  Questi 
furon  sempre  i  miei  sentimenti  ne'  discorsi  alle  volte  tenuti  sopra 
questo  soggetto.  Del  rimanente  io  non  dovea  esser  mallevadore 
degli  altrui  ragionamenti,  che  forse  alcuni  fra  di  lor  tennero,  men- 
tr'io  era  assente:3  in  fra  gli  altri  su  la  lingua  fresca  di  S.  Antonio,  e 
dell'odor  di  rose  della  sua  Arca  e  di  quanto  mai  altri  avessero  par- 
lato su  l'imposture  de'  frati.  Né  io  fui  mai  a  Padoa  per  veder  quel 
santuario,  né  sapeva  niente  di  lingua,  né  d'odori,  e  sol  in  questa 
occasione  ne  intesi  parlare.4  Se  dispiace  la  discoverta  fatta,  io  che 
non  ci  ebbi  parte  alcuna,  né  mi  curava  certamente  di  farne  perqui- 
sizione, che  entro,  e  che  colpa  ho  se  altri  abbia  rivelato  quell'utile  e 
fruttuoso  arcano? 

vìi.  Ma  non  si  arriva  a  comprendere  come  questi  consultori  di  co- 
scienza mostrino  in  Venezia  tanta  dilicatezza  e  zelo  in  cose  per  altro 
che  non  s'appartengono  punto  agli  articoli  fondamentali  della  no- 
stra religione,  e  stiano  sì  attenti  a  queste  esteriorità  e  minuzie,  nelle 
quali  come  indifferenti  è  in  libertà  di  ciascuno  di  crederle  o  non 
crederle,  di  farle  o  non  farle;  e  dapoi  nelle  cose  massime  e  di  gran 
peso,  dove  è  unicamente  appoggiata  la  salute  delle  nostre  anime, 
non  pur  usino  connivenza,  ma  aggevolino  colle  false  ed  empie5  lor 


1.  senza  le  buone  opere:  la  salvazione  secondo  le  buone  opere  e  non  solo 
per  fede  fu  uno  dei  temi  centrali  della  disputa  tra  cattolici  e  luterani. 

2.  *Haec  oportet . . .  omittere  »  :  cfr.  Matth.,  23,  23.  3.  mentr'io  era  assente: 
correr  «in  mia  assenza».  4. parlare:  correr  «favelare».  5.  empie:  cor- 
rer «perverse». 


RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA   539 

dottrine  le  scelleraggìni  ed  iniquità?  Pruova  manifesta1  che  gli  quali- 
fica per  veri  farisei  e  sfacciati  ippocriti  e  malvaggi.  Essi  dan  fomento 
e  pabolo2  che  l'adultero  coll'adultera,  il  concubino  colla  concubina 
prosieguan  pure  i  lor  illeciti  congiungimenti,  i  quali  si  veggono  pro- 
tratti per  più  e  più  anni,  ed  alle  volte  finché  duri  la  lor  vita;  anzi  que- 
sti sono  i  lor  più  cari  e  ben  voluti.  È  pur  troppo  noto  in  Venezia  che 
uno  stesso  di  questi  consultori  di  coscienza,  sia  il  confessore  dell'ami- 
co e  della  amica,  dell'adultero  e  dell'adultera,  al  quale  si  va  nel  con- 
fessionario non  gik  per  detestar  il  vizio  con  fermo  proponimento  di 
lasciarlo,  ma  a  confessarlo  per  ricever  da  quella  farmacopea  una 
medicina  come  si  possa  con  quiete  della  lor  coscienza  tirar  più  in 
lungo;  e  gli  vien  tosto  somministrato  un  efficace  rimedio,  non  già 
dissolvente,  ma  vie  più  stringente,3  sicché  il  nodo  resti  più  forte- 
mente stretto  ed  indissolubile.  Quindi  si  replicano  spesso  le  confes- 
sioni per  renderlo  più  tenace  ed  indissolubile.  Vi  va  il  mercante 
fraudolento,  l'artista  ingannevole,  l'avvocato  cavilloso,  e  vi  ritornan 
più  fraudolenti  e  calunniosi  che  prima;  e  questi,  perché  spesso  si 
confessano  ed  adempiono  con  ipocrisia  quegli  atti  divoti  esterni,  che 
se  l'impongono,  passano  per  essi  i  più  uomini  da  bene  e  perfetti 
cristiani,  e  così  gli  decantano  con  gli  altri. 

Nella  pubblica  Piazza  di  S.  Marco  all'imbrunire  si  veggono  fra 
la  gente  sozza  e  vile  della  minuta  plebbe  i  sodomiti  a  truppe,  i 
quali  al  tocco  dell'Ave  Maria  s'inginocchiano  con  gran  divozione 
per  recitarla,  ma  succeduta  poi  la  notte  oscura,  sotto  que'  portici  si 
contaminano  fra  di  loro  di  mille  sozze  e  nefande  libidini.  Nel 
tempo  delle  maschere,  che  abbraccia  più  della  metà  dell'anno,  e 
spezialmente  nel  Carnevale,  nelle  piazze  e  nelle  pubbliche  contrade 
le  donne  di  qualunque  stato  e  condizione,  maritate,  donzelle  o  ve- 
dove, si  mescolano  insieme  colle  meretrici,  poiché  la  maschera  ogni 
disuguaglianza  agguaglia,  e  non  vi  è  sporcizia  che  non  si  commetta 
ad  occhi  veggenti  con  i  loro  drudi,  giovani  o  vecchi  che  siano,  a' 
quali,  essendo  abituati  nel  vizio,  ancorché  deboli  ed  impotenti,  si 
soccorre  colle  mani  mastupratrici.  E  non  già  nelle  camere,  ma  nelle 
pubbliche  piazze  le  fanciulle  co'  vecchi  vanno  trescando  e  Belzebù 
in  mezzo.  I  preti,  frati  e  monaci  non  si  vergognano  far  quivi 
comparsa  colle  loro  amiche,  anzi  per  farne  pompa  s'alzano  la 


1 .  manifesta  :  correr  r  evidente  v.    2.  pabolo  :  alimento  (latinismo).     3.  strin- 
gente: correr  «stringente  ed  incessante». 


540        RAGGUAGLIO   DEL    RATTO    PRATICATO    IX   VENEZIA 

maschera  dal  volto  per  esser  conosciuti,  perché  ciascun  vegga  in 
qual  buon  uso  essi  convertano  le  rendite  delle  lor  chiese  e  mo- 
nasteri e  gli  emolumenti  che  ritraggono  da'  confessionari,  dalle 
prediche  e  dalle  messe.  A'  giochi  ruinosi,  e  che  sono  cagione  non 
men  della  desolazione  delle  famiglie,  che  di  mille  altri  vizi  e  scel- 
leratezze per  potergli  continuare  se  gli  presta  nel  Ridotto  pub- 
blica autorità;  anzi  coloro  che  vi  presiedono,  per  accrescer  la  loro 
legitirnità,  vi  compariscono  con  veste  senatoria.  Or  io  dimando  a 
cotesti  consultori  di  coscienza:  perché  contro  sì  enormi  abusi  e 
sceleraggini  non  ardono  di  zelo,  non  gridano  ed  esclamano  per 
impedirgli?  Per  questi  non  vi  è  Patriarca,  non  vi  sono  ricorsi  al 
Supremo  Magistrato,  non  vi  sono  ricordi,  increpazioni1  o  minaccie, 
che  finalmente  Iddio  irritato  non  piova  sopra  le  piume  dell'alato 
veneto  lione  fiamma  dal  cielo,  che  tutto  Tarda  e  consumi.  Gli  pre- 
me solo  che  troppo  si  parli  della  lingua  di  S.  Antonio,  che  si  deri- 
dano le  inutili  e  vane  superstizioni,  e  che  tal  uno  per  qualche  sua 
indisposizione  senza  lor  licenza  abbia  ne'  di  vietati  mangiato  carne, 
o  non  frequenti  le  lor  chiese  o  congregazioni,  non  visiti  spesso  i 
lor  santuari,  e  non  ascolti  messa  ogni  giorno  avanti  i  loro  altari? 
Questi  sono  gli  empi  ed  i  miscredenti  che  non  bisogna  tollerare,  ma 
per  far  salva  la  Repubblica  mandarli  via.  Meglio  direbbero  :  perché 
guastano  i  fatti  nostri,  che  procediam2  fuggendo  da  ogni  fatica  e 
travaglio,  viviamo  della  credulità  e  dabbenaggine  de'  semplici  e 
sciocchi. 

Non  si  sa  ancor  comprendere  tanta  dilicatezza  e  tenerezza  di 
coscienza  de*  signori  Inquisitori  di  Stato  di  Venezia,  i  quali  non 
han  voluto  che  io  più  dimori  nella  lor  città,  quando  sono  pur  troppo 
note  le  massime  del  lor  governo,  e  di  coloro  che  ne  hanno  le  redini, 
i  quali  riputano  un  saggio  tratto  di  fina  politica  di  mantenere  ivi  la 
dissolutezza  ed  una  vita  licenziosa  e  libera,  affinché  non  potendo 
più  tirar  a  sé  i  forastieri  come  prima  col  negozio3  e  col  commercio, 
ora  quasi  che  spento,  almanco  siano  invitati  da'  vizi  che  vi  trion- 
fano, da'  pubblici  giochi,  dalle  meretrici,  da'  teatri,  da  scelte  voci 
e  sinfonie,  da  ludicri  spettacoli  e  da  altri  ameni  e  piacevoli  diporti. 
E  io  non  ho  potuto  aver  questa  grazia  di  potervi  dimorare,  forse 


i.  increpazioni:  rimproveri,  riprensioni  (latinismo).  i.  che  procediam:  pa- 
rola di  difficile  lettura,  non  letta  nell'apografo,  correr:  «che  per  amor  di 
Dio  sfuggendo  . .  .».     3.  negozio:  correr  «traffico». 


RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA   54I 

perché  non  era  niente  vago,  né  di  giochi,  né  di  teatri,  né  di  mere- 
trici, né  di  musici. 

vili.  Crescerà  assai  più  la  maraviglia,  se  si  vorrà  attribuire  la  mia 
proscrizione  all'avere  io  dimorando  a  Venezia  invogliati  molti  alla 
lettura  de'  miei  libri,  ne'  quali  si  scuoprono  i  maneggi  e  le  arti  sot- 
tili della  corte  di  Roma,  per  le  quali  pretende  a  sé  tirar  tutto,  e  che 
insegnino  massime  a  quella  Corte  contrarie,  le  quali  sono  distruttive 
della  pretesa  monarchia  papale,  onde  sicome  mi  meritai  l'odio  di 
quella  Corte,1  così  doveano  seguitar  il  suo  essempio  l'altre3  d'Italia. 
Se  da  altre  città,3  non  da  Venezia  fosse  venuto  il  colpo,  sarebbe  un  tal 
pretesto  alquanto  specioso,  ancor  che  per  se  stesso  vano  ed  insus- 
sistente; ma  i  Veneziani,  i  quali  adorano  come  un  nume  il  lor  fa- 
moso teologo  fra  Paolo  Sarpi,4  il  quale,  tralasciando  le  altre  sue 
opere,  nella  sua  Istoria  del  Concilio  di  Trento5  si  mostrò  inclinatis- 
simo  alla  religion  protestante,  questo  sì  che  a  gli  uomini  saggi  e  di 
buon  senso  non  lo  persuaderanno6  giammai.  I  Veneziani  tengono 
per  indubbitato,  come  lo  è,  essere  egli  stato  l'autore  dell'istoria  di 
quel  Concilio,  fatta  da  lui  stampare  in  Londra  da  Marc' Antonio  de 
Dominis,7suo  amico,  sotto  il  nome  di  Pietro  Soave  Polano,  le  cui  let- 
tere disposte  in  altra  guisa8  contengono  il  vero  suo  nome.  Or,  secon- 
do il  giudizio  di  tutti  i  dotti  ed  accurati  critici,  anche  di  que'  teo- 
logi che  furon  perseguitati  dalla  corte  di  Roma,  come  Dupino, 
Van-Espen9  ed  altri,  il  Soave  è  imputato  che  nelle  relazioni  ed 

1.  di  quella  Cortei  correr  adi  Roma».  2.  V altre:  correr  d'altre  città». 
3.  Se  da  altre  città:  correr  a  Se  da  altri».  4.  Paolo  Sarpi  (1552-1623), 
servita,  provinciale  del  suo  Ordine  nel  1579  a  soli  ventisette  anni,  procura- 
tore generale  nel  1585,  fu  nominato  teologo  della  Repubblica  di  Venezia 
al  momento  della  controversia  con  papa  Paolo  V,  il  28  gennaio  1606,  e  in 
tale  veste  scrisse  numerose  consulte  e  un  Trattato  dell'Interdetto  della  San- 
tità di  papa  Paulo  V.  5.  U  Istoria  del  concilio  tridentino  è  l'opera  maggiore 
del  Sarpi.  Iniziata  nel  1608,  fu  pubblicata  a  Londra  nel  161 9  presso  lo 
stampatore  del  re  John  Bill  e  con  un  titolo  apposto  da  De  Dominisi  Histo- 
ria  del  concilio  tridentino  nella  quale  si  scoprono  tutti  gli  artificii  della  corte 
di  Roma,  per  impedire  che  né  la  verità  di  dogmi  si  palesasse,  né  la  riforma  del 
papato  e  della  Chiesa  si  trattasse.  Di  Pietro  Soave  Polano,  6.  non  lo  persua- 
deranno :  correr  «  non  lo  possono  persuadere  i>.  7.  Marc* Antonio  de  Domi- 
nis  (1560  circa  -  1624),  arcivescovo  di  Spalato,  si  recò  a  Londra  nel  1616, 
dove  aderì  alla  Chiesa  anglicana  e  pubblicò  il  suo  De  republica  ecclesiastica, 
uno  dei  maggiori  e  più  celebri  testi  del  giurisdizionalismo.  Ritornato  alla 
sottomissione  a  Roma  nel  1623,  fu  però  arrestato  e  chiuso  in  Castel  Sant'An- 
gelo dove  si  spense.  In  un  processo  celebrato  dopo  la  sua  morte  fu  dichia- 
rato eretico  e  il  suo  cadavere  bruciato.  8.  in  altra  guisa:  anagrammate 
danno  Paolo  Sarpi  Veneto.  9.  Dupino,  Van-Espen;  cfr.  rispettivamente 
la  nota  5  a  p.  204  e  la  nota  3  a  p.  41. 


J42        RAGGUAGLIO   DEL   RATTO    PRATICATO   IN    VENEZIA 

issai  più  nelle  riflessioni*  mal  eseguendo  gl'uffici  d'istorico,  che 
dee  serbar  un  esatto  equilibrio,  senza  farsi  parteggiano  o  del- 
l'uno o  dell'altro,  sia  tutto  portato  dal  canto  de'  protestanti,  am- 
plificando i  loro  fatti  e  ragioni  ed  estenuando  quelle  de'  pon- 
tifici; tal  che  se  Giovanni  Sleidano3  stesso,  protestante,  di  cui  il 
Soave  si  valse  in  gran  parte,  avesse  dovuto  comporla,  non  avrebbe 
potuto  mostrare  maggior  parzialità  per  quel  partito  che  mostrò 
ne'  suoi  Commentari  istorici?  Per  ciò  che  riguarda  i  sentimenti  e  la 
sua  condotta,4  è  noto  abastanza  ch'egli  teneva  corrispondenza  co' 
letterati  più  insigni  de'  suoi  tempi,  luterani  e  calvinisti,5  che  egli, 
sendo  strettissimo  amico  di  M.r  Bedel6  inglese,  che  dimorava  a 
Venezia,  teneva  col  medesimo  secreti  colloqui  intorno  alla  maniera 
di  toglier  da  Venezia  tante  vane  superstizioni,  e  ritenuti  i  principali 
riti  e  la  stessa  esterior  forma  di  chiesa,  separarsi  dalla  communione 
della  Chiesa  romana  ed  unirsi  in  stretta  confederazione  con  gPIn- 
glesi,  non  men  la  Repubblica  col  loro  re  che  la  Chiesa  veneta  col- 
l'anglicana,  togliendosi  da  ogni  subordinazione7  di  Roma,  e  scuo- 
tendo affatto  il  giogo  papale;  ond'è  che  il  duca  d'Ossuna,  viceré 
di  Napoli,  lor  nemico,  soleva  dire  ch'egli  non  avea  potuto  arrivare 
a  sapere  di  qua!  religione  fossero  i  Veneziani.8  E  se  la  corte  di  Roma 
prevedendo  questa  scissura,  per  la  costanza  e  fortezza  di  spirito 
mostrata  in  quell'occasione  da'  Veneziani,  non  avesse  ceduto  alle 
sue  pretensioni  in  quella  briga  dell'interdetto  di  Paolo  V,  certa- 


i.  nelle  relazioni  —  riflessioni:  cioè  nella  narrazione  dei  fatti  e  nelle  con- 
siderazioni personali  che  vi  fa  sopra,  com'è  proprio  del  procedimento  sar- 
piano  nella  stesura  dell'Istorila  del  concilio  tridentino.  2.  Giovanni  Sleidano  : 
nome  umanistico  (Iohannes  Sleidanus)  dello  storico  e  riformatore  religioso 
Johann  Philippson  (1 506-1 556),  tratto  dal  paese  d'origine,  Schleiden. 

3.  Commentari  istorici',  i  De  stata  religionis  et  reipublicae,  Carolo  Quinto 
Coesore,  commentarli,  Argentorati  1555,  più  volte  ristampati,  di  cui  fu  fatta 
anche  un'edizione  in  italiano:  Commentarii  o  vero  Historie  . .  .ne  le  quali  si 
tratta  de  lo  stato  de  la  republica  e  de  la  religione  cristiana,  [Basilea]  1557. 

4.  i  sentimenti  e  la  sua  condotta:  correr  «condotta  e  sentimenti».  5.  cor- 
rispondenza .  . .  calvinisti:  cfr.  le  sue  Lettere  ai  protestanti,  nell'edizione  cri- 
tica curata  da  M.  D.  Busnelli,  Bari  193 1,  in  due  volumi.  6.  Bedel:  Wil- 
liam Bedell  (1570-1642),  cappellano  dell'ambasciata  inglese  a  Venezia  e 
futuro  vescovo  di  Kilmore,  aveva  ricevuto  l'incarico  di  promuovere  la  dif- 
fusione della  riforma  protestante  in  Italia.  7.  subordinazione  :  CORRER  «  sog- 
gezione». 8.  il  duca  . . .  Veneziani:  Pedro  Téllez-Girón  y  Guzmàn  (1574- 
1624),  duca  di  Osuna,  fu  viceré  di  Napoli  dal  1616  al  1620,  e  fu  tra  i  più 
attivi  nemici  di  Venezia  al  tempo  della  guerra  degli  Uscocchi.  L'afferma- 
zione qui  riportata  è  in  una  lettera  a  Paolo  V:  cfr.  quanto  lo  stesso  Gian- 
none  scrive  nella  sua  Istoria  civile,  tomo  rv,  lib.  xxxv,  cap.  iv,  p.  323. 


RAGGUAGLIO   DEL    RATTO    PRATICATO   IN   VENEZIA        543 

mente  che  la  separazione  sarebbe  seguita;  poiché  il  re  inglese  la 
fomentava,  promettendo  a*  Veneziani  la  sua  alleanza  e  di  som- 
ministrargli ogni  suo  aiuto  e  favore.  Ma  il  papa  da  una  parte  spinto 
da  questo  timore,  e  la  Repubblica  dall'altra  che  mal  volentieri  ve- 
niva a  quella  separazione,  fecer  sì  che  tosto  si  conchiudesse  il  trattato 
di  pace  e  svanisser  tutti  i  negoziati  di  fra  Paolo,  il  quale  mancò  poco 
per  i  pressanti  inviti,  che  gli  faceva  M.r  Bedel  e  gli  altri  suoi  amici 
riformati,  che  non  passasse  con  lui  in  Londra1  a  finir  ivi  la  sua  vita; 
ma  egli  non  si  lasciò  smuovere,  e  saviamente  volle  rimanersi  in  sua 
patria  e  quivi  morire.  Questi  fu  fra  Paolo,  a  cui  per  altro  merita- 
mente i  Veneziani  per  la  profonda  sua  dottrina  e  probità  di  costumi 
rendono  que'  onori,  e  ne  han  quella  stima  e  venerazione,  che  l'è 
ben  dovuta.  E  gli  anni  scorsi,  essendosi  scoverto  il  suo  sepolcro,  e 
que'  frati  testificando  che  dopo  un  secolo  aveano  trovato  il  suo  ca- 
davere incorrotto,  mancò  poco  che  accorso  al  tumulo  numeroso  po- 
polo non  l'adorasse  per  santo;  e  presso  i  Veneziani  è  trito  il  detto 
che,  se  fra  Paolo  avesse  avuto  amica  la  corte  di  Roma,  sarebbe  stato 
certamente  canonizato  per  santo  ed  adorato  ora  sopra  gli  altari.  Or 
se  i  Veneziani  hanno  tanta  venerazione  all'opere  di  questo  loro 
insigne  teologo,  tra  le  quali  annoverano  anche  Y Istoria  del  Concilio 
di  Trento,  ogni  uno  ora  facci  confronto  tra  quella  Istoria  e  la  mia,  e 
vedrà  se  possono  i  signori  Inquisitori  di  Stato  allegare  per  motivo 
della  mia  proscrizione  l'aver  io  in  quella  insegnate  massime  con- 
trarie e  distruttive  alla  pretesa  romana  monarchia. 

IX.  L'altro  pretesto,  che  dimorando  io  in  casa  d'un  patrizio 
veneto  era  stato  veduto  praticare  spesso  co'  signori  ambasciadori 
di  Francia  e  di  Spagna,  è  assai  più  vano  ed  insussistente,  poiché  io 
prima  di  passare  in  casa  Pisani  non  già  frequentava  le  case  di 
que'  signori,  ma  come  napolitano  in  giungere  a  Venezia,  tenendo3 
allora  intenzione  di  passare  a  Napoli,  ove  tengo3  la  mia  casa,  un  mio 
fratello  avvocato4  e  la  maggior  parte  del  mio  patrimonio,  ragione 
voleva  che  io  fossi  da  quello  di  Spagna  a  raccommandargli  la  mia 
persona,  quella  di  mio  fratello  ed  i  miei  interessi,  che  teneva  in 
quel  Regno  passato  già  sotto  il  dominio  dell'Infante  di  Spagna,5 


ì.fra  Paolo Londra:  correr  «fra  Paolo  con  Mr  Bedel,  da  cui  era  sti- 
molato, dopo  l'accordo  seguito  con  Roma,  di  passare  seco  in  Londra». 
2.  tenendo:  avendo  (voce  gergale  napoletana).  3.  ove  tengo:  correr  «ove 
era».  4.  un  mio  fratello  avvocato:  Carlo  (cfir.  la  nota  1  a  p.  47).  5,  quel 
Regno  . .  .  Spagna:  cfr.  Vita^  qui  a  p.  274. 


544        RAGGUAGLIO   DEL    RATTO    PRATICATO    IN   VENEZIA 

sicome  facevano  tutti  gli  altri  Napolitani,  che  venuti  dalla  corte  di 
Vienna  si  fermavano  a  Venezia  per  indi  passare  a  Napoli:  ma 
fraposti  in  ciò  alcuni  ostacoli,1  e  sopragiunto  l'invito  del  sig.  Pi- 
sani, che  volle  che  io  mi  trattenessi  a  Venezia  in  sua  casa,  doppo 
questo  passaggio,  in  casa  de  l'ambasciadore  di  Spagna  non  vi  fui 
che  una  o  due2  volte  a  visitarlo,  per  mostrargli  quella  attenzione  e 
gratitudine  che  io  gli  dovea  per  la  cortesia  ed  affezione  prima  mo- 
stratami, non  già  che  io  avessi  a  trattar  d'alcun  affare,  se  non  di 
raccomandargli3  i  miei  interessi  che  teneva  in  Napoli.  E  per  quel 
che  s'appartiene  a  quello  di  Francia,  sarei  stato  pur  troppo  discor- 
tese ed  incivile,  se  incontrandoci  alle  volte  nel  monastero  di  S.  Lo- 
renzo per  visitare  la  signora  Maria  Riva,4  dama  ornata  di  tante 
belle  doti  e  di  sì  rare  prerogative,  e  ricolmandomi  quel  gentilissi- 
mo signore  di  tanti  onori  e  cortesie,  non  avessi  corrisposto  con 
segni  di  venerazione5  e  di  rispetto  a  quella  stima  che  per  sua  bontà 
avea  della  mia  persona,  sicome  sarei  stato  discortese  ed  inurbano, 
se  incontrando  nella  Piazza  di  S.  Marco  i  di  loro  familiari  e  do- 
mestici, non  avessi  co'  medesimi  continuati  quei  atti  civili  ed  ur- 
bani, che  nella  società  umana  sono  dovuti  e  quali  sono  indispen- 
sabili. Né  io  perch'era  in  casa  del  sig.  Pisani  essercitava  qualche 
carica  della  Repubblica,  ovvero  che  il  medesimo  mi  tenesse  sti- 
pendiato a'  suoi  servizi,  ma  vi  dimorava  come  un  ospite  forastiere 
accolto  dalla  benignità  di  quel  signore,  che  mi  trattava  con  quella 
stima,  distinzione  e  cordialità,  che  suol  praticarsi  fra  buoni  e  leali 
amici,  sicché  io  avessi  dovuto  perciò  a  disumanarmi  e  cagliarmi,6 
e  stringermi  a  quelle  scrupolose  leggi  di  non  trattarci  affatto  ed 
usar  inciviltà  con  quelle  persone,  le  quali,  non  essendo  io  di  così 
oscuro  ed  ignoto  nome,  non  già  che  il  meritassi,  ma  tratti  alme- 
no dalla  buona  o  sia  cattiva  mia  fama,  aveano  di  me  qualche  sti- 
ma, e  mi  rendevano  que'  onori,  che  io  non  avrei  saputo  desiderar 
maggiori  <,  oltraché  non  si  arriva  a  capire  tanta  dilicatezza  e  scru- 
polosità de'  sig.1  Inquisitori  quando  permettono  che  le  moglie  de' 


i.  ma  fraposti . .  .  ostacoli:  cfr.  la  nota  7  a  p.  518.  2.  una  o  due:  correr 
«una,  due  o  tre».  3.  se  non  di  raccomandargli:  così  correr  trascrive  cor- 
rettamente il  tormentato  testo  giannoniano,  che  Papografo  non  è  riuscito  a 
leggere.  4.  signora  Maria  Riva:  vedi  la  nota  3  a  p.  280.  5.  venerazione: 
correr  «vera  affezione».  6.  cagliarmi:  venir  meno;  è  parola  di  diffìcile 
lettura  nell'autografo,  non  trascritta  dall'apografo. 


RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA   545 

nobili  e  le  di  loro  strette  parenti  possano  anche  praticar  con  gli 
ambasciatori  anzi1  stretta  amicizia  e  confidenza,  e  offendersi  poi 
cotanto  di  questi  atti  civili  ed  urbani  praticati  da  me  coi  medesimi. 
Chi  è  più  stretto  congiunto,  la  moglie  col  marito,  la  sorella  col 
fratello,  la  figlia  col  padre,  la  nipote  col  zio,  ovvero  io  col  sig.e  Pi- 
sani, che  non  l'era  che  un  rispettoso  amico  ed  un  ospite  forestiero 
che  per  sua  bontà  volle  ricevermi  in  casa  sua?>2 

x.  Adunque  non  rimane  altro  per  vera3  ed  unica  cagione  della 
mia  disgrazia  che  il  compiacere  a'  Gesuiti,  e  la  contemplazione, 
che  han  voluto  avere  i  signori  Inquisitori  di  Stato  alla  corte  di 
Roma,  alla  quale  han  preteso  di  sacrificare  la  mìa  persona  ed  il  mio 
onore  con  una  sì  obbrobriosa  proscrizione;  e  che  sia  così,  si  rende 
evidente  dalla  maniera  barbara  ed  inumana  praticata,  poiché  se  mai 
gli  fosse  stata  sospetta  o  molesta  la  mia  dimora  in  Venezia,  essi 
ben  sapevano  che  io  era  alloggiato  in  casa  del  sig.  Pisani,  senatore 
quanto  venerando,  altretanto  benemerito  della  Repubblica;  che  io 
non  era  venuto  in  Venezia  come  fuggitivo,  ma  dopo  aver  dimorato 
undici  anni  a  Vienna4  pensionario  di  Cesare,  seguendo  la  commu- 
ne  fatai  sciagura  degli  altri  trattenuti  in  quella  imperiai  Corte  cogli 
stipendi  situati  sopra  gli  Stati  e  regni  d'Italia:  questi  perduti,  fu 
dura  necessità  d'abbandonarla  e  cercar  altrove  sostentamento  :  ben 
sapevano5  che  io  non  era  di  sì  oscuro  nome  e  condizione,  e  con 
quanta  stima6  fossi  stato  accolto  e  careggiato  dalla  nobiltà  veneziana 
e  da  tutti  gli  ordini  della  cittadinanza;  sapevano  le  incessanti  per- 
secuzioni, che  mi  dava  la  corte  di  Roma  per  mezzo  de'  Gesuiti; 
meritavano  almanco  tutte  queste  riflessioni  che  dovessero  usare 
con  me  un  poco  d'equità  e  discretezza;  bastava  prescrivermi  quel 
tempo  che  a  lor  fosse  piaciuto,  dentro  il  quale  dovess'io  partir  da 
Venezia  e  suoi  domìni,  che  da  me  sarebbero  stati  esattamente 
ubbiditi  i  lor  comandi,  poiché  finalmente  io  non  ci  venni  per  lunga- 
mente dimorarvi  :  e  se  non  fossero  stati  i  reiterati  inviti  fattimi  dal 
signor  Pisani  di  rimanere  in  sua  casa  ed  il  desiderio  universale7  de' 
signori  veneziani  d'avermi  presso  di  loro  sino  ad  offerirmi  una  cat- 


1.  anzi:  sarà  forse  errore  di  trascrizione,  per  «una  sì».  2.  <oltraché . . . 
sua>  :  la  frase  tra  parentesi  è  assente  dall'autografo,  ma  presente  nella  copia 
correr.  3.  vera:  correr  «mera».  4.  a  Vienna:  correr  «nelTimperial 
corte  di  Vienna».  5.  sapevano:  correr  «sapendo».  6.  stima:  correr 
«  stima  e  contentezza  ».     7.  universale  :  correr  «  comune  ». 

35 


546        RAGGUAGLIO    DEL    RATTO    PRATICATO    IN    VENEZIA 

tedra  di  Padoa,1  non  però  sarei  certamente  dimorato  un  intero  anno 
inutilmente  ed  a  mie  spese,  ma  sarei  passato  altrove  ;  tanto  maggior- 
mente che  il  clima  umido  e  caliginoso  di  quelle  paludi  ed  i  venti  gra- 
vosi, che  vi  soffiano,  niente  conferivano  alla  mia  salute  ;  tal  che  ci  ebbi 
a  soffrire  in  sì  corto  tempo  tre  malarie  ;  e  le  febbri  terzane,  dalle  quali 
spesso  era  assalito,3  ancor  che  mi  dassero  tregua  di  lunghi  intervalli, 
non  mi  lasciavano  mai  perfettamente  sano  e  senza  timore  di  ri- 
cidive.  E  se  a  mio  riguardo  non  avessero  voluto  usare  questa  equità, 
almanco  dovea  movergli  la  veneranda  canizie  d'un  senatore,  in 
casa  di  cui  io  dimorava,  cotanto  benemerito  della  Repubblica,  e  per 
propri  meriti  e  per  quelli  di  casa  Pisani,  ch'essi  ben  sapevano  esser 
molti  e  segnalatissimi,  a  cui  un  solo  lor  cenno  bastava  per  essere 
ubbiditi,3  e  non  farsi  trasportar  cotanto  dalle  maligne  ed  animose  in- 
sinuazioni de'  Gesuiti,  sicché  per  compiacergli  e  per  far  un  tal  sagri- 
ficio  alla  corte  di  Roma,  avessero  da  commandare  un  atto  così  spie- 
tato e  barbaro,  di  cui  non  si  troverà  un  simile  essempio  nell'altre 
proscrizioni  praticate  ne'  passati  tempi.  Io  non  fui  proscritto,  ma 
rapito  ed  involato,  e  rapidamente  trasportato  ed  esposto  alla  riva 
d'un  fiume  in  paese  nemico.  Per  me  inerme  e  solo,  che  sicuramente 
praticava  per  le  piazze  e  nelle  pubbliche  contrade,  ed  era  sempre 
esposto  a  gli  occhi  di  tutti,  non  bisognavano  aguati,  insidie  e  turme 
di  satelliti,  come  se  avessero  ad  andare  incontro  ad  un  disrobador  di 
strade,4  ad  un  assassino,  ad  un  sicario,  o  ad  un  pubblico  ladrone. 
Ma  si  volle  che  l'atto  fosse  obbrobrioso,  impensato  e  strepitoso,  e  si 
commandò  che  io  fossi  esposto  a'  confini  dello  Stato  papale,  e  non 
in  altro  confine,  per  render  la  cosa  più  grata  e  di  sollazzo  a'  Gesuiti5 
ed  alla  corte  di  Roma.6  Fu  dunque  lealtà  veneziana  questa  prati- 
cata da'  signori  Inquisitori,  con  uno  cotanto  prima  da'  gentiluomi- 

1.  di  Padoa:  correr  a  dello  Studio  di  Padova».  2.  ci  ebbi  . . .  assalito:  di 
queste  malattie  parla  nella  Vita:  cfr.  qui,  pp.  271  e  286-7.  3-  ubbiditi: 
nelTautografo  seguono  due  o  tre  parole  non  chiare,  che  l'apografo  non  de- 
cifra. In  correr  la  frase  è:  a  bastava  di  farmi  insinuare  che  io  andassi  via, 
che  sarei  subbito  partito».  4.  disrobador  di  strade:  brigante.  5. per  ren- 
der . . .  Gesuiti:  correr  «per  rendere  così  l'opera  più  grata  e  pregevole  agli 
occhi  de'  Gesuiti».  6.  a'  confini . .  .  Roma:  il  Giannone  si  salvò  solo  per- 
ché l'avviso  dell'espulsione,  inviato  all'inquisitore  di  Ferrara  dal  nunzio  a 
Venezia,  giunse  tardi,  quando  lo  storico  aveva  già.  potuto  riparare  nel  ducato 
estense.  Naturalmente  le  ricerche  furono  estese  subito  a  Modena,  ma  il  pa- 
dre Martini,  del  Sant'Uffizio  modenese,  al  quale  venne  addirittura  comu- 
nicato che  il  Giannone  poteva  esser  ospitato  dal  Muratori,  lasciò  trascorrere 
troppo  tempo  prima  di  intervenire.  L'intero  carteggio  al  riguardo  è  conser- 
vato presso  l'Archivio  di  Stato  di  Modena,  Archivio  dell'Inquisizione,  b.  123. 


RAGGUAGLIO   DEL    RATTO    PRATICATO   IN   VENEZIA        547 

ni1  veneziani  ben  veduto  e  caramente  accolto,  e  che  s'era  totalmente 
abbandonato  nelle  loro  braccia]"?].  Ed  essendo  pur  troppo  nota  la 
cortesia  e  gentilezza  colla  quale  m'accolsero,  e  la  stima,  che  fuor 
d'ogni  mio  merito  di  me  facevano,  sentendosi  dopo  una  proscri- 
zione3 sì  ignominiosa,  certamente  che  tutti  avrebber  creduto  che 
io  avessi  commesso  un  qualche  grave  ed  enorme  delitto,  che  me 
l'avesse  giustamente  meritata,  poiché  tutti  supporranno  forse  in 
una  città  che  vien  retta  da  una  sì  ampia  e  numerosa  radunanza  di 
tanti  preclari  e  savi  senatori,  che  vi  avesser  anch'essi  avuta  parte, 
ignorando  che  fu  unicamente  commandata  dal  capriccio  di  due  o 
tre,  sorpresi  dalle  gabale  della  corte  di  Roma  e  dalle  maligne  insi- 
nuazioni de'  Gesuiti.  A  questo  fine  per  vindicar  il  mio  onore  e  la 
mia  riputazione,  la  quale  presso  coloro  che  ne  ignorano  la  cagione 
e  gli  autori,  avrebbe  forse  potuto  rimaner  offesa  e  contaminata,  da 
dura  necessità  sono  stato  costretto  a  manifestare  al  mondo  la  dolo- 
rosa istoria  di  questo  successo  colle  sue  vere  cagioni,  onde  i  soli 
tre  signori  Inquisitori  di  Stato  di  Venezia  furon  mossi  a  commanda- 
re un  atto  sì  crudele  e  barbaro.  La  di  cui  ammenda,  se  io,  cotanto 
umile  e  basso,  non  la  posso  sperare  da  umani  aiuti  e  da  mondane 
protezioni,  delle  quali  son  destituto,3  rivolto  a  quel  Supremo  e 
Sovrano  Signore,  presso  cui  s'uguaglia  ogni  umana  disuguaglianza, 
e  ponendo  in  sue  mani  l'oltraggio  e  l'offesa  ricevuti4  lo  pregherò 
vivamente  ch'egli,  a  cui  niente  essendo  nascosto,  sono  ben  note  non 
pur  le  mie  parole  ed  operazioni,  mas  i  più  riposti  miei  pensieri,  ne 
prenda  quel  dovuto  compenso,  ch'è  ben  proprio  dell'immutabile6 
ed  eterna  sua  giustizia,  e  dia  a  gli  autori  e  lor  consultori  quella 
retribuzione,  che  la  alta,  potente  e  vindicatrice  sua  mano  suol  pra- 
ticare contro  gl'ingiusti  e  violenti  oppressori  dell'altrui  fama,  vita  ed 
onore.7 

XI.  Per  quel  che  poi  riguarda  alle  incessanti  persecuzioni  della 
corte  di  Roma,  a  me  certamente  non  doveano  sembrar  inusitate  e 
nuove.8  Ella  da  che  fu  pubblicata  la  mia  Istoria  civile,  non  attese 

1.  da'  gentiluomini:  correr  «da  i  patrizi».  2.  sentendosi .  .  .proscrizione: 
correr  «  sentendosi  ora  di  me  una  persecuzione  ».  3.  son  destituto  :  correr 
«mi  veggo  destituito».  4.  ricevuti:  è  lettura  dubbia  di  parola  abbreviata, 
non  ritrascritta  nell'apografo.  5.  ed  operazioni,  ma:  correr  «ed  opere,  ma 
eziandio».  6.  immutabile:  correr  «inviolabile».  7.  A  questo  punto,  tra 
dei  ghirigori  a  penna,  è  segnata  nell'autografo  la  data:  «Mjpdena]  9  8bre 
1735».  Le  pagine  che  seguono  sono  state  aggiunte  dopo  questa  data. 
8.  nuove:  segue  un  periodo  poi  parzialmente  cassato:  «sicome  potrà  anche 


548        RAGGUAGLIO   DEL   RATTO    PRATICATO    IX   VENEZIA 

ad  altro  che  a  proscriverla1  ed  a  combatterla.  Sotto  il  pontificato 
d'Innocenzo  XIII  dalla  Congregazione  del  S.  Ufficio  di  Roma  fu 
proibita  ;2  Benedetto  XIII,3  frate4  dominicano,  suo  successore,  nel- 
l'eccettuazione de*  libri  dalle  licenze  che  dispensa  Roma,  tol- 
se Visiona  ecclesiastica  del  P.  Xatal  d'Alessandro  dominicano,5 
ch'era  stata  eccettuata  da  Clemente  XI,  ed  in  sua  vece  vi  fece 
porre  la  mia,  ancorché  in  tutto  il  pontificato  del  suo  predecessore 
non  si  fosse  mai  eccettuata,  ma  solamente  proibita  con  le  forinole 
consuete  ed  ordinarie  di  qualunque  altro  libro,  che  contenga  pro- 
posizioni, che  non  possono  piacere  alla  corte  di  Roma.  Passati 
sei  anni  dopo  la  pubblicazione  della  mia  opera,  nel  pontificato 
stesso  di  Benedetto  XIII,  comeché  circondato  quasi  sempre  da 
frati  e  monaci,  fra'  quali  era  allevato,  questi,  trovando  in  lui  terren 
dolce  e  da'  loro  ferri,  gli  proposero  per  mezzo  del  card.  Pico  della 
Mirandola6  un  campione,  che  stimarono  a  proposito  di  poter 
rispondere  e  confutare  la  mia  Istoria,  e  questi  si  fu  il  P.  Sanfelice 
gesuita.  Schiccherò  egli  i  due  volumacci  delle  Riflessioni  morali,7 
che  si  stamparono  in  Roma,  ancorché  sotto  la  falsa  data  di  Colonia, 
e  con  qual  infelice  successo,  già  tutti  i  dotti  '1  sanno.  Il  card.  Albani8 
sono  più  anni  che  fa  travagliare  un  frate  franciscano  de'  zoccoli9 
per  combatterla,  e  se  ben  corresse  voce  che  a  sue  spese  ne  avesse 
fatto  ad  Urbino  stampare  il  primo  tomo,  ma  non  si  è  però  fin  ora 
veduto  alla  luce  del  mondo.  Gli  anni  scorsi  saltò  fuori  un  cherico 
regolare  della  Congregazione  di  Lucca  con  alcune  sue  Annotazio- 
ni critiche  sopra  il  nono  libro  delV Istoria  civile  di  Napoli™  e  gli 
fu  risposto  secondo  meritavan  le  sue  trasonerie11  e  rodomonta- 


essere  a  tutti  palese  che  non  invigila  ad  altro  che  per  la  mia  mina  e  perdi- 
zione »,  mancante  nell'apografo,  i .  proscriverla  :  correr  «  prostituirmela  », 
ma  sembra  un  caso  di  corruzione  del  testo.  2.  Sotto  . . .  proibita:  cfr.  Vita, 
qui  a  p.  103.  ^.Benedetto  XIII:  cfr.  la  nota  1  a  p.  117.  4. frate:  in 
correr  c'è  qui  una  omoteleutia:  «Innocenzo  XIII  frate».  5.  P.  Natal 
d'Alessandro:  vedi  la  nota  1  a  p.  104.  6.  card.  Pico  della  Mirandola:  vedi  la 
nota  1  a  p.  168.  7.  morali:  correr  «morali  e  teologiche».  8-  Probabil- 
mente il  cardinale  Annibale  Albani,  per  cui  cfr.  la  nota  2  a  p.  127.  9.  fra- 
te .  . .  zoccoli:  il  padre  Giovanni  Antonio  Bianchi:  cfr.  la  nota  1  a  p.  127. 
L'opera  del  Bianchi,  come  s'è  detto,  uscì  tra  il  1745  e  il  1751.  La  notizia 
qui  datane  dal  Giannone  conferma  che  questi  ultimi  paragrafi  del  suo  ma- 
nifesto furono  stesi  dopo  l'incontro  che  egli  ebbe  col  Muratori  in  Modena, 
io.  un  cherico  . . .  Napoli:  il  padre  Sebastiano  Paoli.  Vedi  le  note  3  a  p.  210 
e2ap.2ii.  11.  Il  termine  trasone  e  il  derivato  trasoneria,  assai  volentieri 
usato  dal  Gl'annone,  è  derivato  dal  nome  del  soldato  millantatore  della 
commedia  Eunuchus  di  Terenzio. 


RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA   549 

te.1  Tutto  va  bene  :  questa  sarebbe  la  vera  maniera  e  la  pugna  giusta 
ed  uguale.  Io  ho  scritta  un'istoria,  e,  fuor  del  costume  degli  altri 
istorici,  mi  sono  astretto  d'allegare  nel  margine  gli  autori  più  gravi 
e'  più  contemporanei  che  si  fosse  potuto  a'  successi  che  si  narra- 
no.2 Venghi  adunque  0  il  gesuita,  o  il  franciscano,  o  il  frate,  0  il 
monaco,  o  pur  un  di  que'  neutri  che  non  vogliono  essere  né  frati, 
né  monaci,  e  la  convinca  per  falsa,  per  animosa,  per  infedele,  per 
ingannevole,  per  alterata  ne'  fatti,  e  livorosa  nelle  riflessioni,  che  io, 
ancorché  siano  già  passati  dodici  anni  e  non  se  ne  sia  veduto  alcuno 
che  il  vaglia,  con  tutto  ciò  l'attendo  e  l'aspetterò  fin  che  io  viva  per 
rispondergli,  e  sarà  giudice  il  mondo  savio  ed  illuminato  per  deci- 
dere chi  di  noi  difenda  il  torto.  Né  mi  curerò,  come  è  l'ordinario  lor 
costume,  che  prorompino  alle  onte,  alle  satire  ed  alle  contumelie 
contro  l'autore,  sicome  fece  il  P.  Sanfelice,  perché  io  gli  le  condo- 
nerò tutte  e  le  lascierò  ad  essi,  a  cui  bene  stanno,  non  intendendo 
contender  con  loro  a  chi  si  mostri  più  bravo  conviciatore  o  satirico.3 
xii.  Ma  nel  caso  mio  la  corte  di  Roma  non  molto  si  cura  che  si  ri- 
sponda ad  un  libro  con  altri  libri,  e  si  combatta  con  armi  uguali,  ma 
lasciando  V Istoria  da  parte,  imperversa  contro  la  mia  persona,  per- 
seguitandola di  qua  e  di  là,  e  con  una  nuova  maniera,  non  poten- 
do convincerla  di  errore  o  di  provarla  per  falsa,4  vuol  combat- 
tere ed  atterrare  l'autore.  Ella,  essendo  io  ricorso  in  Vienna  sotto 
l'alta  e  potente  protezione  della  Maestà  dell'imperadore,  a  cui  la 
mia  Istoria  era  dedicata,  ed  accolto  con  clemenza  e  sostenuto  dalla 
benefica  sua  imperiai  mano,  sotto  il  pontificato  di  Benedetto  XIII, 
non  sono  credibili  le  arti  maligne,  che  adoperò  per  i  suoi  curiali, 
Gesuiti,5  frati,  e  monaci,  che  stavano  sempre  attorno  al  papa,  per 
discreditarmi  in  quella  Corte,  e  farmi  perdere  la  grazia  di  Cesare. 
Avendo  saputo  la  mercede  fattami  d'un  annuo  stipendio  arrivarono6 
sino  a  far  che  quel  semplice  e  buon  pontefice  mandasse  una  lettera 

1.  gli  fu  risposto  .  .  .  rodomontate-,  il  Giannone  replicò  sollecitamente  con 
una  Risposta  alle  Annotazioni  critiche  ...»  data  immediatamente  alle  stampe, 
al  contrario  della  Professione  di  fede,  2.  mi  sono  astretto  . .  .  narrano  :  si 
tratta  di  una  preziosa  indicazione  di  metodo,  che  nessuno  dei  critici  e  degli 
studiosi  del  Giannone,  impegnati  nella  disputa  sui  plagi,  ha  mai  rilevato 
sinora.  Cfr.  su  questo  l'introduzione  generale.  3.  o  satirico:  correr  «o 
più  vanamente  satirico».  4.  non  potendo.  .  .falsa:  l'autografo  è  qui  in 
parte  illeggibile,  né  aiuta  l'apografo.  Seguiamo  perciò  la  lezione  del  mano- 
scritto correr.  5.  Gesuiti:  correr  «e  per  mezzo  de  Gesuiti».  6.  arriva- 
rono :  il  soggetto  manca,  ma  il  verbo  va  riferito  ai  Gesuiti,  frati,  e  monaci  di 
più  sopra. 


55°        RAGGUAGLIO    DEL   RATTO    PRATICATO    IX   VENEZIA 

alla  Maestà  dell' imperadore  scritta  tutta  di  suo  proprio  carattere,1 
nella  quale  si  maravigliava  come  un  principe  austriaco  cotanto  pieto- 
so e  benemerito  alla  Sede  Apostolica  permettesse  che  nella  sua  im- 
periai residenza  dimorasse  un  empio  ed  un  eretico  qual  io  era,  e  quel 
che  più  che  mi  sostentasse  con  regio2  stipendio  :  l'esortava  per  ciò  a 
sradicar  dal  suo  terreno  pianta  sì  pestifera  e  velenosa,  altrimenti  pre- 
sto avrebbe  veduto  i  flaggelli  che  la  vindicatrice  mano  del  Signore 
avrebbe  scagliati  contro  di  lui  e  de'  suoi  regni.  La  buona  sorte  che 
mi  salvò  fu  non  tanto  che  i  miei  libri  in  Vienna  non  pur  eran  già 
palesi,  letti  e  commendati,  ne'  quali  non  trovavano3  ciò  che  la  corte 
di  Roma  dava  a  sentire  a'  semplici  ed  ignoranti  ;  quanto  che  in  quel 
tempo  si  era  saputo  che  quel  papa  era  così  facile4  e  pronto  a  scriver 
a  tutti  lettere  di  suo  pugno  che  in  Benevento  se  ne  leggevano  delle 
centinaia  scritte  fino  agli  arcipreti,  parochi  e  compari,  co'  quali,  in 
tempo  che  vi  fu  arcivescovo,  avea  contratta  familiarità  ed  affezio- 
ne; poiché  sotto  altri  pontefici  chi  non  si  sarebbe  smosso  da  una 
lettera  scritta  di  proprio  carattere  papale,  quando  sono  in  ciò  co- 
sì ritenuti  ed  alti,  che  non  si  degnano  ne'  brevi  che  scrivono 
a*  principi  di  far  comparire  la  firma  propria  del  lor  nome?5  Fra 
que*  molti,  che  non  avean  letto  i  miei  libri,  per  mezzo  de'  Gesuiti 
italiani,  che  si  trovano6  in  Vienna,  poiché  i  tedeschi  non  ci  davano 
orecchio,  facevan  girare  certo  Indice  stampato  in  Roma  dal  P.  San- 
felice,7  nel  quale  si  leggevano  mille  proposizioni  ereticali  ed  empie 
come  estratte  dalla  mia  Istoria,  ma  tosto  fur  scoverte  le  maligne 
imposture,  poiché  in  quella  non  se  ne  trovò  pur  una  delle  eresie  ed 
empietà  notate. 

E  per  tralasciarne  altre  si  arrivò  presso  la  minuta  gente,  sem- 
plice e  spigolista,8  sino  a  spargere  che  la  mancanza  di  prole  ma- 
schile nella  famiglia  austriaca  proveniva  dal  protegere  l'imperado- 
re  me  eretico  e  miscredente.  Niente  sgomentandosi  de*  preceden- 
ti vani  e  ridicoli  lor  pronostici,  co'  quali  francamente9  afferma- 


i.  una  lettera  .  .  .  carattere:  di  questa  missiva  il  Giannone  non  fa  menzione 
nella  Vita.  z.  regio  :  prima  aveva  scritto  «pubblico  ».  L'apografo  non  legge 
la  correzione  e  registra  «  con  un  stipendio  ».  Più  fedele  invece  il  manoscritto 
correr.  3.  non  trovavano-,  correr  «non  si  trovava».  4.  era  cosi  facile: 
correr  «era  egli  facile».  5.  nome:  correr  et  cognome».  6.  che  si  trovano: 
correr  «che  dimoravano  ».  7.  Indice  . .  .  Sanf elice:  cfr.  quanto  scrive  nella 
Vita,  qui  a  p.  170  e  la  nota  1  ivi.  8.  spigolista:  bacchettona.  9.  franca- 
mente: correr  «concordemente». 


RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA    551 

vano  che  se  si  fosse  restituito  Comacchio  alla  S.  Sede,1  certamen- 
te Timperadrice  avrebbe  partorito  un  figliuol  maschio.  Ciascuno 
resterà  attonito  e  sorpreso  in  sentir  tanta  protervia  e  malignità,  e 
pure  io  narro  cose  vere,  ed  a  molti  ben  note  e  palesi.  Quali  empi  e 
perversi  consigli  non  si  tennero,  quando  succeduta  la  grave  perdita 
de'  regni  di  Napoli  e  di  Sicilia,  per  la  conquista  da  essi  aggevolata 
fattane  dall'Infante  di  Spagna  D.  Carlo,  intesero  che  io,  mancando- 
mi in  Vienna  il  necessario  sustentamento,  pensava  ritornar  in  Ita- 
lia ?  Il  nunzio  Passionei,2  avutane  prima  degli  altri3  la  notizia  per  la 
confidenza  che  io  ne  feci  con  un  amico,4  il  quale  in  vece  d'aiutarmi 
in  quel  caso  per  me  tanto  infelice,  e  di  trovar  in  lui  qualche  confor- 
to, esaggerandomi  maggiori  miserie  e  calamità  non  solo  mi  consi- 
gliò a  partire  quanto  più  sollecitamente  potessi:  ma  tosto  ne  avvisò 
il  nunzio,  il  quale  per  segnalarsi  colla  Corte  romana  per  un  sì 
importante  servigio,  immantinente  ne  diede  parte  a  Roma  colle  più 
minute  circostanze  del  mio  viaggio,  che  io  era  per  intraprendere  fra 
breve  a  Venezia,  per  indi  passare  a  Napoli.5  Sicché  prima  che  io 
fossi  partito  da  Vienna,  si  cominciarono  a  tessere  insidie  in  Roma 
presso  monsig.  Ratto,  vescovo  di  Cordova,  che  si  trovava  allora 
ministro  del  re  di  Spagna,  e  col  conte  di  S.  Stefano  in  Napoli  primo 
ministro  dell'Infante  D.  Carlo,  i  quali  sorpresi  dalle  maligne  ed 
animose  informazioni,  che  gli  fecero  della  mia  persona,  scrissero 
all'ambasciador  di  Spagna  residente  in  Venezia  che  mi  negasse  i 
passaporti  per  Napoli.6  Ed  il  conte  di  S.  Stefano  non  contento  di  ciò, 
mandò  dispacci  fino  a'  commandanti  delle  piazze  a'  confini  del- 
l'Apruzzo,  che  non  mi  lasciassero  entrar  nel  Regno,  ancorché  avessi 
passaporti  di  chi  si  sia  ministro  di  Spagna,  dichiarandosi  aperta- 

1.  restituito  . . .  Sede:  Comacchio  era  stata  occupata  con  tutto  il  suo  terri- 
torio dalle  truppe  del  generale  Claude  de  Bonneval,  nel  1708,  su  istanza  del 
duca  Rinaldo  I  d'Este,  che  rivendicava  il  possesso  di  quelle  valli,  in  quanto 
feudo  imperiale,  e  quindi  ne  contestava  l'occupazione  fattane  al  tempo 
della  devoluzione  alla  Chiesa  del  ducato  di  Ferrara  (e  cfr.  la  nota  2  a  p.  142). 

2.  Domenico  Passionei:  cfr.  la  nota  2  a  p.  184.  3.  avutane  prima  degli  altri: 
correr  «  autane  il  primo  ».  4.  un  amico  :  molto  probabilmente  Pio  Niccolò 
Garelli  (sul  quale  si  veda  la  nota  a  p.  96).  Cfr.  Vita,  qui  a  p.  255.  5.  ne 
diede  .  . .  Napoli:  il  dispaccio  del  Passionei  alla  Segreteria  di  Stato  porta  la 
data  del  24  luglio  1733  (Archivio  Segreto  Vaticano,  Nunziatura  di  Germa- 
nia, 294,  ce.  171-172*;.  Cfr.  Giamtoniana,  p.  160).  6.  presso  monsig.  Rat- 
to .. .  Napoli:  sull'intervento  di  Tommaso  Ratto  vescovo  di  Cordoba  vedi 
la  nota  7  a  p.  5 18.  Il  carteggio  tra  il  conte  di  Fuenclara  e  i  ministri  di  Carlo 
di  Borbone  è  conservato  in  Archivio  di  Stato  di  Napoli,  Affari  Esteri,  Vene- 
zia, n.°  2215;  cfr.  Giamtoniana,  pp.  40-2. 


553   RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA 

mente  che  io  non  pensassi  por  piede  ne'  domìni  del  suo  sovrano;1 
onde  giunto  che  fui  a  Venezia,  e  portatomi  dall'ambasciador  di 
Spagna  per  avergli,  con  suo  rincrescimento  mi  disse  che  non  po- 
teva darmeli  a  cagion  che  gli  veniva  proibito  non  men  dall'uno  che 
dall'altro  ministro.  Mi  acquietai,  rispondendogli  che  chi  non  mi 
voleva  in  casa  sua,  era  impertinenza  entrarci  contro  la  volontà  de* 
padroni.  Fermatomi  adunque  a  Venezia,  credeva  con  ciò  che  si  fosser 
quietati  e  soddisfatti;  ma  dalla  dolente  istoria  di  sopra  esposta  si  è 
ben  veduto  che  l'odio  ed  il  livore  non  si  è  scemato  punto,  non 
volendomi  nemmeno  a  Venezia,  e  si  vorrebbe  che  uscissi  dal  mondo, 
non  già  d'Italia. 

xiii.  Che  dunque  si  ha  da  fare  ?  Posso  io  contendere  con  essi  in 
questa  sorte  di  pugna?  Niuno  ha  preteso  in  tanta  disuguaglianza 
d'uscire  in  campo  e  molto  meno  ài  lusingarsi  di  vincergli.  Io  per  me 
gli  cedo,  rendo  le  armi,  e  mi  dò  per  vinto.  Non  credo  però  che 
questa  vittoria  gli  riesca  di  molta  gloria  e  vanto,  mostrando  sua 
possanza  contro  una  foglia  ch'è  dal  vento  rapita.2  Chi  ha  preteso  mai 
contrastare  alla  sua  forza  e  potente  suo  braccio,  ovvero  di  potersi 
distrigare  dalle  sottili  sue  reti  e  gabale,  ed  artificiosi  ed  ingannevoli 
suoi  raggiri,  oppure  scampare  dalle  insidiose  ed  occulte  sue  mac- 
chine, che  suol  fabbricare3  nelle  corti  de'  principi,  per  rovinare  i 
poveri  innocenti  ?  È  pur  gran  tempo  che  fu  scoverta  questa  occul- 
ta sua  possanza,4  quando  in  lei  si  ravisarono  tutte  quelle  marche 
colle  quali  ci  vien  descritta  nell'Apocalisse  quella  meretrice  che 
suole  spesso  farsi  vedere  puttaneggiar  co'  principi,  di  cui  Dante  ben 
seppe  scovrirne  le  proprietà  e  le  maniere.5  Ella  oltre  a  ciò  ha  tante 


i.  mandò  dispacci . . .  sovrano-,  non  già  il  conte  di  Santisteban,  ma  il  mar- 
chese José  Joaquin  de  Montealegre  (sul  quale  cfr.  la  nota  i  a  p.  284)  sotto- 
scrisse il  dispaccio  inviato  a  tutti  i  comandanti  delle  città  di  confine.  Cfr. 
Giannoniana,  p.  40.  2.  Ninno  ha  preteso  . . .  rapita:  è  un  brano  che  il 
Giannone  aveva  già  scritto  prima,  con  qualche  variante,  dimenticandosi  poi 
di  cassarlo,  3.  fabbricare-,  correr  «tessere».  4.  questa  occulta  sua  pos- 
sanza: lezione  di  correr,  probabilmente  esatta,  di  parole  che  nell'autografo 
riescono  di  difficile  lettura.  Nello  stesso  correr  l'intero  brano  si  presenta 
così  :  «  per  abbattere  i  deboli  e  gl'impotenti  ?  È  pur  gran  tempo  che  fu  scover- 
ta questa  occulta  sua  possanza:  quando  in  lei  si  ravvisarono  tutti  quei  segni, 
e  marche  colle  quali  ci  vien  descritta  nell'Apocalisse  quella  meritrice,  che  fu 
veduta  spesso  puttaneggiar  co'  regi,  di  cui  Dante  ben  seppe  esprimerne 
le  proprietà  e  le  maniere  e  molto  più  acco[n]ciamente  adattarle  a  lei». 
5.  quella  meretrice  —  maniere',  cfr.  Inf.,  xix,  106-8  :  «  Di  voi  pastor  s'accorse 
il  Vangelista,  /  quando  colei  che  siede  sopra  l'acque  /  puttaneggiar  coi  regi 
a  lui  fu  vista  ».  E  cfr.  Vita,  qui  a  p.  344. 


RAGGUAGLIO  DEL  RATTO  PRATICATO  IN  VENEZIA   553 

legioni  in  tutto  Torbe  cattolico  romano  quante  sono  le  innumerabili 
religioni1  de'  frati  e  de'  monaci.  Ha  tante  rocche  inespugnabili, 
quanti  sono  i  numerosi  e  quasi  che  infiniti  collegi  de*  Gesuiti,  tanti 
capitani3  quanti  sono  i  metropolitani  nelle  lor  provincie,  ed  i  ve- 
scovi nelle  loro  diocesi  ed  i  generali  ed  abati  ne'  lor  conventi,  tanti 
bravi  e  valorosi  soldati  quanto  è  l'infinito  numero  de*  preti  e  chie- 
rici :  ed  ha  tanti  fondi  inesausti  e  fertili  da  poter  somministrare  pre- 
mi e  stipendi  profusi  ed  abbondanti,  che  pochi  principi  al  mondo 
in  ciò  Tagguagliano.  Or  non  sarebbe  follia  entrar  con  lei  in  contesa 
con  tanta  sproporzione  e  disuguaglianza  ?  Io  cedo  e  gli  lascio  libero 
il  campo,  non  essendo  cotanto  scemo  di  cervello  che  non  conosca 
il  mio  povero  stato  e  le  mie  poche  e  deboli  forze. 

Ella  non  mi  voleva  in  Germania,  non  mi  vuole  nel  regno  di 
Napoli  ed  in  tutti  i  domìni  di  quel  principe,  non  mi  vuole  in  Ve- 
nezia ed  in  tutti  i  Stati  di  quella  Repubblica,  non  mi  vuole  in  fine 
in  tutta  Italia  e  Spagna,  anzi  in  tutto  il  suo  orbe  romano.  Che  dun- 
que si  ha  da  fare?  Bisogna  ubbidirla.  Vorrebbe  che  io  uscissi  dal 
mondo;  oportet  e  mundo  exire,  mi  sgrida  con  S.  Paolo:3  ed  in  que- 
sto non  posso  compiacerla,  poiché  la  vita  degli  uomini  è  in  mano 
di  Dio,  di  cui  n'è  il  solo  Signore  e  proprietario,  e  noi  non  ne  siamo 
che  semplici  usuari  :  quando  piacerà  a  lui  tormela,  volontieri  ce  la 
renderò,  e  forse  si  compiacerà  non  averla  io  inutilmente  menata  in 
questo  mondo,  per  non  esservi  dimorato  solamente  ad  empir  di 
cibo  il  sacco  e  per  lasciarvi  sol  letame;  e  spero  di  restituircela  con 
usura,4  lusingandomi  que*  talenti  o  pochi  o  molti,  che  per  sua  in- 
finita benificenza  mi  ha  concessi,  non  avergli  malamente  impiegati, 
avendo  procurato  d'indrizzarli  tutti  alla  ricerca  della  verità,  che  vuol 
dire  alla  conoscenza  di  lui  stesso,  ch'è  la  sola  verità  che  rischiara 
tutto  il  mondo.  L'ubbidirò  dunque  in  quel  che  io  posso:  uscirò  dal 
suo  orbe  papale,  e  spero  presso  gli  amatori  della  verità  e  coloro  che 
saranno  informati  de*  miei  sì  strani  ed  infelici  successi,  di  trovar 
non  pur  perdono,5  ma  pietà  e  compatimento,  se  mi  sentiranno  o 

1.  religioni:  ordini  religiosi.  2.  tanti  capitani:  correr  «tanti  generali  e 
capitani».  3.  oportet . . .  Paolo:  «occorre  uscire  dal  mondo»,  che  è  però 
parafrasi  di  quanto  dice  san  Paolo  :  «  Ne  commtsceamini  fornicanis  :  non  uti- 
que  fornicariis  huius  mundi  aut  avaris  aut  rapacibus  aut  idolis  servientibus; 
alioquin  debueratis  de  hoc  mundo  exisse»  (ICor.t  5,  9-10).  4.  con  usura: 
correr  «  con  stima  ».  5.  non  pur  perdono  :  nell'apografo  «  non  pur  persona  ». 
Qui  si  interrompono,  incompleti,  l'autografo  e  l'apografo.  La  parte  restan- 
te è  perciò  tratta  dalla  copia  correr. 


554        RAGGUAGLIO   DEL   RATTO    PRATICATO    IN   VENEZIA 

fra  gli  Svizzeri  o  in  Olanda  ovvero  in  Inghilterra.  Non  di  mio  li- 
bero volere  mi  son  deliberato  a  questo  poiché  io  dove  nacqui  in- 
tesi sempre  morire;  ma  ci  vengo  tratto  da  dura  necessità  dove  Ro- 
ma a  viva  forza  mi  caccia,  per  iscamparre  dalle  sue  crudeli  ed 
incesanti  persecuzioni.  Forse  dimorando  in  sì  remote  parti,  ove  i 
fulmini  del  Vaticano  non  han  forza,  il  campo  sarà  uguale  e  si  com- 
batterà con  forze  ed  armi  uguali:  le  mie  armi  non  saranno  sangui- 
nolenti o  mortali,  non  porteranno  seco  proscrizioni,  esilii,  carceri, 
mutilazioni  di  membra,  fiamme  in  fine  e  fuoco  :  saranno  pacifiche 
ed  innocenti,  di  libri,  carte  e  parole.  Ciascuno  avrà  libertà  d'esami- 
nargli, e  se  traligneranno1  dal  vero,  dal  giusto  e  dall'onesto,  ri- 
butargli  a  suo  arbitrio.  Forse  per  divina  Providenza  sarà  disposto 
che  que'  miei  scritti,  sopra  i  quali  ho  travagliato  in  comporgli  di 
quasi  dodeci  anni  che  sono  dimorato  fermo  in  Vienna  (poiché 
Roma  non  potendo  ottener  altro  impedì  sempre  che  io  fossi  im- 
piegato nelle  pubbliche  cariche  de'  magistratti),  ne'  quali  sono 
dimostratte  verità  di  gran  momento  ed  importanti,  non  meno  a 
principi  cattolici,  perché  si  accorgano  delle  tante  usurpazioni  e 
sorprese  fattegli  sopra  i  loro  principati,  togliendosegli  più  della 
metà  dell'imperio  che  Iddio  sopra  medesimi  l'ha  conceduto;  che 
a'  loro  sudditi,  prosciogliendogli  da  tante  e  sì  dure  catene,  nelle 
quali  la  vana  superstizione,  l'altrui  ambizione,  avarizia  e  fasto  gli 
tiene  miseramente  legati  ed  avvinti;  le  quali  fatiche  avea  io  già 
destinate  a'  tarli  ed  alle  tigniuole,  poiché  sotto  cielo  ed  in  terreno 
italiano  non  avrebbero  certamente  potuto  allignare:  forse  dico  av- 
verà che  in  altro  clima  potranno  vedere  la  chiara  luce  del  sole, 
crescere,  farsi  grandi  e  volare  da  per  tutto.  Iddio  difenderà  me  e 
questi  miei  sudori  e  travagli,  i  quali  non  furono  impiegati  che  per  la 
sola  ricerca  del  vero,  cioè  della  conoscenza  di  lui  medesimo.2  Cu- 
rerò poco  le  altrui  insidie,  proscrizioni  e  maledizioni,  purché  egli 
gli  protegga  e  benedichi:  sicché  io  possa  con  verità  e  sicurezza 
replicare  con  il  santo  re  Davide  «  Maledicent  illi,  et  tu  benedices».3 


i.  traligneranno:  «traineranno»  nell'originale.  Il  copista  non  ha  tenuto 
conto  del  segno  di  abbreviazione  che  doveva  esser  posto  al  di  sopra  della 
lettera £,  nel  testo  che  aveva  dinnanzi,  2.  Forse  per  divina  .  . .  medesimo:  il 
brano  è  ripreso  quasi  testualmente  nella  lettera  al  principe  Alessandro 
Teodoro  Trivulzio  del  19  marzo  1736:  cfr.  G.  Ricuperati,  V esperienza 
civile  e  religiosa  di  P.  Giannone,  Milano-Napoli  1970,  pp.  517-8.  3.  Psalm., 
108,  28:  «Maledicano  quelli,  ma  tu  benedici». 


OSSERVAZIONI  CRITICHE 

SOPRA  L'HISTORIA  DELLE  LEGGI  E  DE'  MAGI- 
STRATI DEL  REGNO  DI  NAPOLI  COMPOSTA 
DAL  SIG.RE  GRIMALDI 


NOTA  INTRODUTTIVA 


La  scrittura  contro  il  Grimaldi  nasce  in  un  clima  abbastanza  teso 
per  il  Giannone.  Il  tono  duro  e  acerbamente  polemico  si  spiega  solo 
facendo  riferimento  al  momento  in  cui  essa  vien  concepita. 

Figlio  di  Costantino  Grimadi,  compagno  di  ideali  del  Giannone  e 
\ittima  di  analoghe  persecuzioni  da  parte  curiale,1  Gregorio  (1694- 
1760)  era  stato  allievo  di  Giambattista  Vico  e  di  Pietro  Contegna. 
Laureatosi  in  legge  nel  171  o  e  legato  alle  fortune  del  padre  (ormai 
uno  dei  più  noti  anticurialisti  napoletani),  aveva  subito  di  riflesso  le 
conseguenze  del  diffìcile  rapporto  con  il  cardinale  Althann,  che 
aveva  cercato  a  tutti  i  costi  ài  impedire  la  pubblicazione  delle 
Discussioni.2  Con  i  viceré  successivi,  Joaquim  Fernandez  Portocar- 
rero,  marchese  di  Almenara,  e  soprattutto  con  Alois  Thomas  Raimund 
von  Harrach,  ritornando  in  auge  il  padre,  ebbe  maggiori  possibilità 
e  pensò  di  riprendere  il  discorso  giannoniano,  dando  al  paese  una 
storia  giuridica  che  lasciasse  ai  margini  i  problemi  politici  e  religiosi. 
Già  questo  programma  logicamente  non  poteva  piacere  al  Giannone, 
ma  vi  si  aggiunsero  altri  motivi  di  attrito.  Nello  stesso  anno  in  cui 
Gregorio  Grimaldi  pubblicò  il  primo  tomo  dell'Istoria  delle  leggi  e 
de*  magistrati  del  regno  di  Napoli?  il  padre  Sebastiano  Paoli  aveva 
scritto  le  Annotazioni  critiche  sopra  il  nono  libro  della  Storia  civile.* 
Il  Giannone  sospettava  che  quest'operetta  -  uscita  anonima  -  fosse 
stata  composta  dal  Paoli  con  materiale  fornitogli  da  un  antiquario 
napoletano,  Matteo  Egizio,5  Inoltre  la  collegava  in  qualche  modo  al 
lavoro  del  Grimaldi.  Qualcuno  infatti  gli  aveva  scritto  che  Mat- 
teo Egizio,  nel  rivedere  le  bozze  del  primo  tomo  del  Grimaldi,  aveva 


1.  C.  Grimaldi,  Memorie  di  un  anticurialista  del  Settecento,  a  cura  di  V.  I. 
Comparato,  Firenze  1964.  2.  C.  Grimaldi,  Discussioni  istoriche,  teologiche 
e  filosofiche  fatte  per  occasione  delle  Risposte  alle  lettere  apologetiche  di  Be- 
nedetto Aletino,  Lucca  (ma  Napoli)  1725,  in  tre  tomi.  3.  Lucca  (ma  Na- 
poli) 1731.  L'opera  è  dedicata  al  potente  marchese  Rialp  con  lettera  del 
20  novembre  173 1.  Dato  che  il  Giannone  la  recensì  il  io  agosto,  significa 
che  potè  vederne  una  copia  non  «ufficiale»  senza  dedica.  Lo  conferma  in- 
fatti l'epistolario  in  cui  egli  comunica  al  fratello  di  averla  letta  tramite  il 
Forlosia  (lettera  del  6  ottobre  173 1).  Cfr.  il  mio  Giannone  e  i  suoi  contem- 
poranei: Lenglet  du  Fresnoy,  Matteo  Egizio  e  Gregorio  Grimaldi,  in  Miscel- 
lanea Maturi,  Torino  1966,  pp.  55-88.  Il  riferimento  a  p.  74.  4.  [Seba- 
stiano Paoli],  Annotazioni  critiche  sopra  il  nono  libro  del  tomo  II  della 
Storia  civile  di  Napoli  del  sig.  Pietro  Giannone.  Il  guai  nono  libro  è  compreso 
in  cinquantasei  pagine  in  quarto  (Lucca  173 1).  Cfr.  [P.  Giannone],  Risposta 
alle  Annotazioni  critiche  sopra  il  nono  libro  della  Storia  civile,  s.  1.  173 1. 
5.  Su  questo  cfr.  il  mio  Giannone  e  i  suoi  contemporanei  ecc.,  cit,,  pp.  65-75. 


55$       OSSERVAZIONI    SOPRA    L'HISTORIA   DI    G.   GRIMALDI 

scoperto  gli  «  errori  »  dell'Istoria  civile  e  li  aveva  comunicati  al  Paoli.1 
Dalla  coscienza  di  questo  legame  fra  l'erudita  (e  perciò  più  insidiosa) 
polemica  del  Paoli  e  il  lavoro  del  Grimaldi,  nasce  il  tono  della 
scrittura  giannoniana,  inviata  a  Napoli  al  fratello,  con  molte  rac- 
comandazioni di  farla  leggere  solo  agli  amici  più  fidati,  il  15  dicembre 
173 1.2  Nella  corrispondenza  successiva  con  il  fratello  Carlo,  gli  accen- 
ni polemici  contro  Gregorio  Grimaldi  sono  numerosi.  Il  6  dicembre 
1732  comunicava  a  Napoli  di  aver  risposto  direttamente  all'autore, 
ringraziandolo  ironicamente  di  esser  evenuto  a  levar  da  peccato 
V Istoria  civile  del  regno  di  Napoli  .  .  .  j.3 

Rileggendo  V Istoria  delle  leggi  e  de*  magistrati  a  una  distanza  per 
cui  perdono  valore  i  motivi  polemici  più  contingenti,  il  giudizio  del 
Giannone  rimane  però  sostanzialmente  valido.  Esistono  naturalmen- 
te, fra  le  due  opere,  mutuate  anche  dall'ambiente  e  dalle  fonti,  ana- 
logie e  atteggiamenti  comuni.  Ciò  che  però  si  nota  immediatamente 
è  l'attenuazione  dello  spirito  anticuriale,  tanto  che  nella  prefazione 
non  si  accenna  neppure  all'esistenza  del  problema.  È  presente  invece 
l'esigenza  di  offrire  una  storia  giuridica  neutrale  e  un'esposizione  e 
un'interpretazione  corretta  delle  Prammatiche,  in  lingua  italiana  (più 
accessibile  del  testo  latino  delle  varie  raccolte),  cogliendo  il  legame 
fra  conoscenza  della  legge  e  ubbidienza  consapevole. 

L'attenuazione  del  tono  anticuriale  è  solo  in  parte  spiegabile  con 
una  scelta  individuale.  In  realtà,  dopo  gli  anni  più  intensi  di  lotta, 
c'era  stato  un  certo  ripiegamento  nel  ceto  civile,  o  almeno  nella  par- 
te che  aveva  condiviso  il  tipo  di  politica  gestita  da  Gaetano  Argento, 
un  giurisdizionalismo  puntiglioso  e  insieme  cauto,  tutto  risolto  nella 
raffinatezza  tecnica,  timoroso  dei  risvolti  politici  e  religiosi  a  cui 
inevitabilmente  portava  invece  il  discorso  giannoniano.  Questo  può 
spiegare  il  rapporto,  ma  anche  la  profonda  differenza  fra  le  due  ope- 
re, una  scritta  in  nome  della  passione  politica  e  civile  e  l'altra  con  un 
certo  frigido  voluto  tecnicismo,  che  di  volta  in  volta  riprendeva  e 
impoveriva  la  sostanza  dell'Istoria  civile.  Il  primo  libro  è  veramente 
l'unico  in  cui  il  Grimaldi  non  segue  pedissequamente  il  testo  gian- 
noniano, perché  mentre  il  Giannone  affronta  il  rapporto  con  Roma 
in  soli  cinque  capitoli,  ponendo  originalmente  il  nucleo  della  nuova 
civitas  come  centro  del  suo  racconto,  il  Grimaldi  si  diffonde  minu- 
tamente a  descrivere  «la  polizia  delle  leggi  e  de'  magistrati  romani 


1.  Come  si  apprende  dalla  lettera  già  citata  del  6  ottobre  1 731  al  fratello 
Carlo  questo  «qualcuno»  era  stato  l'abate  Biagio  Garofalo,  a  sua  volta 
sospettato  dal  Giannone  di  aver  «revisionato»  il  lavoro  del  Grimaldi.  Cfr. 
il  mio  Giannone  e  i  suoi  contemporanei  ecc.,  cit.,  p.  74.  z.  Ibid.,  p.  75. 
3.  Ibid.,  pp.  75-6. 


NOTA   INTRODUTTIVA  559 

dalla  fondazion  di  Roma  per  insino  alla  decaduta  dell'Imperio  ;>.  La 
differenza  è  evidente:  per  il  Giannone  la  struttura  arriministrativa  e 
politica  romana  è  il  punto  di  partenza  di  una  realtà  che  ha  avuto 
un  successivo  e  originale  arricchimento,  mentre  per  il  Grimaldi  la 
legislazione  romana  è  il  modello  sul  quale  bisogna  misurare  ogni 
vicenda.  L'interesse  del  Giannone  era  rivolto  al  terreno  su  cui  si 
formarono  il  diritto  successivo  e  gli  organismi  che  gli  diedero  vita  e 
forza,  mentre  il  Grimaldi  vede  in  Roma  un  paradigma  in  qualche 
modo  rigido  dalla  cui  conoscenza  non  si  può  prescindere.  Infatti 
in  questo  primo  libro  le  fonti  particolarmente  utilizzate  sono  Tito 
Lino  (a  cui  dà  la  preferenza  fra  tutti  gli  storici  romani),  Gian  Vincen- 
zo Gravina  e  Cornelis  van  Bynkershoek.  Il  secondo  libro  tratta  delle 
leggi  da  Teodorico  a  Carlo  Magno.  j\ lanca  ogni  legame  con  il  primo 
e  la  derivazione  di  ogni  paragrafo  dall'Istoria  civile  è  continua.  Il 
ritratto  di  Teodorico  è  ripreso  dal  Giannone,  anche  se  nel  Grimaldi 
manca  la  chiarezza  e  la  capacità  di  isolare  la  potente  personalità  del 
sovrano  barbaro.  A  proposito  di  Giustiniano  utilizza  il  capitolo  ni 
del  libro  ni  dell'Istoria  giannoniana,  Di  Giustiniano  imperadore  e  sue 
leggi.  Conclude  rapidamente  con  i  Goti  ed  affronta,  con  la  stessa 
incapacità  a  distaccarsi  dal  modello  che  però  risulta  esteriorizzato  e 
peggiorato,  i  Longobardi.  Qui  cita  per  la  prima  volta  il  Giannone, 
che  non  vien  chiamato  per  nome,  ma  semplicemente  come  l'autore 
dell'Istoria  civile.  Tutte  le  osservazioni  sui  Longobardi  e  l'origine 
dei  feudi  derivano  dal  paragrafo  ni,  capitolo  I,  libro  iv  dell'Istoria  ci- 
vile, paragrafo  intitolato  Origine  de'  feudi  in  Italia,  dove  il  Giannone 
afferma  che  contemporaneamente  i  Franchi  in  Gallia  e  i  Longo- 
bardi in  Italia  fondarono  il  sistema  feudale.  In  questo  n  libro  del- 
Ylstoria  delle  leggi  sono  rifusi  i  libri  v  e  vi  dell'Istoria  civile.  Il  Gri- 
maldi ripete  quanto  il  Giannone  aveva  affermato  sul  valore  della 
legislazione  longobarda  e  sul  fatto  che  Carlo  Magno,  restaurando 
l'Impero,  non  abbia  toccato  le  leggi  longobarde,  che  ormai  rispon- 
devano meglio  alle  esigenze  dei  tempi. 

Il  libro  in  riguarda  le  leggi  da  Carlo  Magno  a  Corrado  il  Salico  e 
qui  le  citazioni  dal  Giannone  si  fanno  più  fitte,  mentre  il  libro  iv  ap- 
pare come  un'ampia  parentesi  perché  è  una  descrizione  delle  con- 
suetudine feudali  secondo  Ugolino.  Anche  in  questo  libro  (fra  i  più 
interessanti  nel  complesso  del  lavoro),  nonostante  che  la  fonte  princi- 
pale sia  in  questo  caso  l'opera  di  Burkhard  Gotthelf  Struve,  si  utilizza 
ancora  il  Giannone,  del  quale  sono  riprese  (e  anticipate)  le  osserva- 
zioni dei  paragrafi  i  e  n,  capitolo  ultimo  del  libro  xin,  riguardanti 
la  codificazione  di  Federico  II. 

Gli  ultimi  due  libri  del  tomo  primo,  sui  Normanni,  seguono  nuo- 
vamente il  Giannone,  con  la  sola  differenza  che  il  Grimaldi  si  abban- 


560       OSSERVAZIONI    SOPRA   L'HISTORIA   DI    G.   GRIMALDI 

dona  alla  descrizione  e  al  catalogo  delle  leggi  normanne.  Appartiene 
completamente  al  Giannone  (e  a  Camillo  Tutini,  che  era  già  stato 
traccia  per  questi)  Pesame  delle  cariche  normanne,  che  sono  il  primo 
nucleo  della  struttura  nazionale  del  regno  meridionale  :  le  pagine  del 
Grimaldi  si  ispirano  soprattutto  al  paragrafo  1,  capitolo  vi,  libro  xi, 
Degli  uffici  della  corona. 

Il  Giannone  in  questa  recensione  tratta  soltanto  del  primo  tomo. 
Il  4  luglio  1733  comunicherà  al  fratello,  senza  alcun  commento,  di 
aver  ricevuto  anche  il  secondo.1  L'opera  fu  infatti  proseguita  dal 
Grimaldi  fino  al  regno  di  Federico  d'Aragona  e  portata  a  termine  dal 
fratello  Ginesio  sempre  con  lo  stesso  tono  di  riferimento  continuo 
e  di  attenuazione  dei  temi  politici  presenti  nell'Istoria  civile. 

L'accusa  di  non  aver  saputo  intendere  l'originalità  e  il  significato 
dell'Istoria  civile,  di  averla  seguita  senza  il  coraggio  di  citare  diret- 
tamente l'autore,  è  certamente  esatta,  e,  in  sede  storiografica,  l'opera 
dei  Grimaldi,  pur  meritando  di  essere  ricordata  fra  le  storie  del 
diritto  «  nazionale  »,  è  abbastanza  povera  cosa,  pur  nascendo  da  un 
programma  e  da  un'educazione  intellettuale  «giannoniani».2 

Della  recensione  rimane  invece  valida  la  sottintesa  affermazione 
del  carattere  distintivo  ed  originale  della  storiografia  «civile»,  che 
non  coincide  né  con  la  storia  dei  principi  o  delle  loro  imprese  militari, 
né  con  il  catalogo  delle  loro  leggi.  È  inoltre  significativa  la  sotto- 
lineatura dell'importanza  delle  leggi  longobarde,  concreto  substrato 
giuridico  della  storia  meridionale.  Sono  interessanti  le  pagine  sulla 
storia  normanna  e  il  ritratto  del  «savio»  principe  Ruggero,  di  cui 
il  Giannone  apprezzava  profondamente  la  politica  giurisdizionale. 

Le  conclusioni  mostrano  ancora  una  volta  come  i  privilegi  ecclesia- 
stici siano  il  frutto  di  una  concessione  del  sovrano,  lentamente  trasfor- 
matasi in  un  diritto  per  la  rapacità  della  Sede  apostolica.  Il  Giannone 
supera  la  tradizione  giurisdizionalistica  non  solo  perché  si  mostra 
ancora  una  volta  polemico  anche  nei  confronti  del  potere  statale  che 
ha  permesso  tali  abusi,  ma  soprattutto  perché  polemizza  contro  il 
tentativo  di  trasformare  queste  concessioni,  carpite  dalla  Chiesa  sul 
terreno  della  forza,  in  qualcosa  che  le  spetta  de  iure  divino. 

Il  libro  del  Grimaldi  è  cosi  l'oggetto  di  una  violenta  polemica  tipi- 
camente giannoniana,  acre  e  insistente,  ma  è  soprattutto  (come  già  la 
lettera  a  Nicolas  Lenglet  du  Fresnoy)3  il  pretesto  per  difendere  la 


1.  Cfr.  il  mio  Giannone  e  i  suoi  contemporanei  ecc.,  cit.,  pp.  76-7.  G.  Gri- 
maldi, Istoria  delle  leggi  e  de'  magistrati  del  regno  di  Napoli,  ir,  Lucca  (ma 
Napoli)  1733.  Il  ni  tomo  uscirà  nel  1736  sempre  col  falso  luogo  di  Lucca. 

2.  Cfr.  G.  Grimaldi,  Istoria  cit.,  I,  Prefazione  di  tutta  V opera,  pp.  1  sgg. 

3.  Vedila  in  Giannoniana,  pp.  71-2. 


NOTA    INTRODUTTIVA  561 

propria  opera  e  per  ribadire  le  tesi,  sia  sul  piano  storiografico  sia  su 
quello  politico,1  che  costituiscono  l'originalità  dell'Istoria  civile,  che 
come  tale  si  doveva  imporre  non  solo  al  Grimaldi,  ma  anche  allo 
stesso  Giovan  Donato  Rogadeo2  come  un  modello  difficile  da  su- 
perare. 

Giuseppe  Ricuperati 

1.  Fondamentale  è  in  questo  senso  la  conferma  e  lo  sviluppo  delle  tesi 
espresse  nell'Istoria  civile  sul  tema  della  Monarchia  di  Sicilia.  Cfr.  Istoria 
civile,  tomo  11,  lib.  x,  cap.  vtii,  pp.  96-102,  e  cap.  ult.,  pp.  129-36.  Dopo 
questo  primo  incontro  con  il  problema  della  Monarchia  e  della  Legazia, 
in  cui  la  fonte  principale  era  stata  l'opera  di  Louis  Ellies  Du  Pin,  Défense 
de  la  monarchie  de  Sicile  cantre  les  entreprises  de  la  cour  de  Rome,  s.  1.  1716, 
il  Giannone  aveva  ripreso  il  tema  nel  1727  scrivendo  il  trattato  De'  veri  e 
legittimi  titoli  delle  regali  preminenze,  che  i  re  di  Sicilia  han  sempre  conservato 
in  quel  regno,  e  esercitato  per  messo  del  Tribunale  della  Monarchia  edito  da 
A.  Pierantoni  con  il  mutato  titolo  di  II  tribunale  della  Monarchia  di  Sicilia, 
Roma  1892.  Il  Giannone  ampliava  il  discorso  implicito  nell'Istoria  civile 
(anche  per  influenza  del  De  republica  ecclesiastica  di  M.  A.  De  Dominis)  e 
sviluppava  la  tesi,  ribadita  in  questa  scrittura,  che  la  concessione  della 
Legazia  da  parte  di  Urbano  II  confermava  preminenze  di  origine  bizanti- 
na, che  i  Normanni  avevano  ereditato.  Quindi  la  bolla  (lungi  dal  fondare  il 
diritto  sovrano)  era  stata  soltanto  uno  strumento  per  rafforzare  (e  non  per- 
dere) un  diritto  già  posseduto  de  iure  proprio.  È  ormai  evidente  il  distacco 
dalle  tesi  del  Du  Pin,  che  come  tutti  i  giurisdizionalisti  precedenti  si  era 
limitato  a  difendere,  contro  il  Baronio,  la  tesi  dell'autenticità  della  bolla. 
Il  Giannone  aveva  fatto  invece  notare  al  sovrano  austriaco  quanto  fosse 
pericoloso  accettare  che  un  proprio  diritto  finisse  per  dipendere  da  una 
concessione  papale.  Sul  Giannone  e  la  Monarchia  di  Sicilia  cfr.  C.  Cari- 
stia,  Pietro  Giannone  «  giureconsulto  »  e  «politico».  Contributo  alla  storia 
del  giurisdisionalismo  italiano,  Milano  1947,  pp.  83-120,  che  ha  avuto  il 
merito  di  sottolineare  il  rapporto  con  l'opera  del  De  Dominis,  ma  che  ri- 
duce il  discorso  in  un  disaccordo  troppo  apertamente  e  passionalmente 
polemico  contro  il  Giannone.  Sul  tema  della  Legazia  cfr.  G.  Catalano, 
Le  ultime  vicende  della  Legazia  apostolica  di  Sicilia  dalla  controversia  li- 
pantana  alla  legge  delle  Guarentigie  (1711-1871),  Catania  1950.  Cfr.  ancora 
S.  Fodale,  Comes  et  legatus  Siciliae.  Sul  privilegio  di  Urbano  II  e  la  pretesa 
apostolica  Legazia,  Palermo  1970,  soprattutto  le  pp.  47-9  riguardanti  il 
Giannone.  Vale  la  pena  di  notare  che  il  Giannone  tornò  ancora  una  volta 
sul  tema  della  Monarchia  di  Sicilia  in  un'opera  del  carcere,  VIstoria  del 
Pontificato  di  Gregorio  Magno.  Cfr.  P.  Giannone,  Opere  inedite,  a  cura  di 
P.  S.  Mancini,  Torino  1852  (ma  1859),  11,  La  Chiesa  sotto  il  pontificato  di 
Gregorio  il  Grande,  pp.  385-93.  In  quest'ultimo  intervento,  che  risale  al 
1742,  il  Giannone  confermava  quanto  si  è  detto:  la  bolla  di  Urbano  II 
serviva  a  non  far  perdere  gli  antichi  diritti.  La  Legazia  non  è  quindi  un 
atto  di  munificenza  di  Urbano  II,  ma  la  conferma  di  un  diritto  regale  già 
presente  nella  tradizione  bizantina.  Anzi  a  p.  392  il  Giannone  polemizzava 
con  il  Du  Pin  che  nella  Défense  aveva  fondato  tutto  sulla  bolla  di  Urbano  IL 

2.  [G.  D.  Rogadeo],  Saggio  di  un' opera  intitolata  il  Diritto  pubblico  e  politico 
del  regno  di  Napoli  intorno  alla  sovranità,  all'economia  del  governo,  ed  agli 
ordini  civili.  Cosmopoli  (ma  Lucca  1767).  Il  giudizio  è  di  L.  Marini,  Pie- 
tro Giannone  e  il  giannonismo  a  Napoli  nel  Settecento,  Bari  1950,  pp.  128-9. 

36 


OSSERVAZIONI  CRITICHE  SOPRA  L'HISTORIA 

DELLE  LEGGI  E  DE*  MAGISTRATI  DEL  REGNO 

DI  NAPOLI  COMPOSTA  DAL  SIG.RE  GRIMALDI 

Dell'Istoria  delle  leggi  e  de'  magistrati  del  regno  di  Napoli. 

Questo  è  il  titolo  che  si  premette  a  ciaschedun  libro;  ma  non 
sappiamo  qual  dovrà  esser  il  titolo  che  porteranno  i  primi  fogli  del 
frontispizio  dell'opera,  che  sono  gli  ultimi  a  darsi  alle  stampe:  poi- 
ché l'opera  niente  corrispondendo  a  questo  titolo,  bisognerà,  quel- 
la finita,  pensarne  un  altro  che  le  sia  più  proprio  e  conveniente. 
L'epoche,  che  si  prefiggono  a  ciascun  libro,  l'autore  istesso,  che 
spessissime  volte  chiama  corso  della  sua  istoria  la  narrazione  de* 
fatti,  e  digressioni  il  trattar  delle  leggi:  ci  fa  comprendere  che  altro 
sia  il  suo  scopo  che  quello  di  trattar  dell'istoria  delle  leggi  e  de* 
magistrati  del  regno  di  Napoli:  e  non  sia  forse  «mosso  da  pietà 
cristiana  di  purgare  quella  scommunicata  Istoria  civile  del  Regno 
da  tante  eresie,  empietà  e  maldicenze»  e  darne  fuori  un'altra  tutta 
pura,  innocente  e  dìvota.  Non  sarà  però  egli  il  primo  che  abbia 
dato  al  mondo  quest'esempio  di  dovere  pensare,  finita  l'opera,  a 
mutarne  il  titolo,  e  comminciare  il  catalogo  degli  errori  e  delle 
correzioni  dall'emendazione  del  titolo.  Ce  ne  diede  un  esempio 
assai  recente  non  ha  guari  il  marchese  Maffei,1  il  quale  si  pose  a 
scrivere  àzYUArte  critica  diplomatica:  e  questo  titolo  avea  posto 
nel  primo  e  secondo  libro,  dove  presto  finì  Popera.  Nel  primo 
libro  tutt'altro  si  leggea  che  precetti,  metodi  o  regole  di  quest'arte  ; 
ma  il  secondo  riuscì  più  curioso,  poiché  non  fece  altro  che  affastel- 
lare in  quello  alcune  antiche  carte;  sicché  avrebbe  potuto  far  cre- 
scere in  infinito  il  numero  dei  libri,  secondo  che  le  sarebbero 

Questo  parere  del  Giannone  è  in  Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti 
Giannone,  mazzo  i,  inserto  4,  apografo.  È  inedito.  Per  i  rapporti  fra  il 
Giannone  e  Gregorio  Grimaldi  sul  piano  storiografico  e  politico,  rimando  al 
mio  lavoro  Giannone  e  i  suoi  contemporanei  ecc.,  cit.,  in  cui  fra  l'altro,  con- 
tro il  Nicolini,  Scritti,  pp.  72-3,  si  dimostra  come  sia  esatta  la  datazione 
della  scrittura  giannoniana  «  io  agosto  1 731  »  (e  non  1732,  come  proponeva 
il  Nicolini,  sul  falso  presupposto  che  l'opera  del  Grimaldi  fosse  uscita  nel 
1732)- 

1.  Ce  ne  diede  .  . .  Maffei:  Scipione  Maffei  (cfr.  la  nota  2  a  p.  138),  Istoria 
diplomatica  che  serve  d'introduzione  aìTarte  critica  in  tal  materia  . . .,  Man- 
tova 1727. 


564       OSSERVAZIONI    SOPRA   L'HISTORIA   DI    G.  GRIMALDI 

cresciute  in  mano  le  carte,  che  andava  di  qua  e  di  là  togliendo 
ad  imprestito  dagli  antiquari  suoi  amici.  Impaziente  di  maggior 
dimora  volle  dar  presto  fuori  quest'opera,  dalla  quale,  come  va- 
naglorioso, si  prometteva  gran  fama;  ma  avvertito  da  alcuni  uomini 
da  bene  che  quel  titolo,  che  le  avea  dato,  non  corrispondeva  a  ciò 
che  avea  fatto,  poiché  qual  arte  critica  diplomatica  avea  egli  inse- 
gnata, quando  quei  due  libri  di  tutt'altro  trattavano  che  di  regole 
e  precetti  per  saper  distinguere  i  veri  dai  falsi  diplomi?  La  cosa 
era  molto  chiara  e  manifesta:  si  pensò  pertanto  a  rimediare,  come 
si  potè  il  meglio,  ne'  fogli  del  frontispizio  dell'opera  che  dovevano 
ancora  imprimersi,  e  doppo  molto  pensare  e  ripensare,  finalmente 
si  conchiuse  che  all'opera  dovesse  darsi  questo  altro  titolo  Istoria 
diplomatica,  che  serve  d'introduzione  all'arte  critica  di  tal  materia 
(che  Dio  sa  quando  l'avremo)  e  così  fu  fatto.  Ma  bisognava  emen- 
dare il  titolo  che  portavano  i  due  libri  ne'  fogli  già  impressi; 
onde  il  primo  errore  ad  emendarsi  fu  questo,  dicendosi  :  «  nel  titolo 
che  siegue  sta  per  errore  arte  critica,  invece  d'Istoria»;  siccome 
non  senza  riso  si  legge  nell'edizione  fatta  in  Mantua  del  1727. 

Così  appunto  sarà  di  mestieri  praticar  in  questa  nuova  Istoria  del- 
le leggi.  Ma  io  fortemente  temo  che  sarà  assai  maggiore  il  travaglio 
e  l'ambascia  che  dovrà  soffrirsi  in  metter  un  titolo  proprio  e 
proporzionato  a  quel  che  fin  ora  si  è  fatto  ed  a  quel  che  sarà  per 
riuscire  ;  poiché,  a  quel  ch'io  preveggo,  siccome  gli  è  improprio  il 
titolo  dell'Istoria  delle  leggi  e  magistrati  del  Regno,  così  molto  più 
lo  sarà  quello  secco  ed  asciutto  di  sola  Istoria  ovvero  Catalogo  delle 
leggi  del  Regno,  o  altro  che  se  ne  potesse  mai  inventare.  Ma  di  ciò 
bisogna  lasciarne  la  cura  all'autore  e  suoi  consultori,  che  siccome 
non  l'hanno  spinto  a  questo,  così  dev'esser  di  loro  il  peso  di  saperne 
trovare  un  migliore. 

L'epoche  che  prefige  a  ciaschedun  libro  certamente  che  non 
appartengono  all'istoria  delle  leggi  e  de'  magistrati  di  Napoli.  Ecco 
l'epoca  del  primo  libro. 

Lib.  1 

Delle  leggi  e  de'  magistrati  romani  dalla  fondazione  di  Roma 

per  insino  alla  decadenza  dell' Imperio. 

In  tutto  questo  libro  si  vede  chiaro  che  l'autore  vuol  trattare 
delle  leggi  e  magistrati  di  Roma,  e  questo  esser  il  principale  suo 


OSSERVAZIONI    SOPRA   L'HISTORIA   DI    G.   GRIMALDI      565 

intento,  sì  come  lo  fa  in  tutto  il  libro:  materia  per  altro  che  me- 
ritava, come  nuova  e  da  altri  non  trattata,  che  occupasse  un  libro 
intero;  ma  il  più  curioso  è  che  lo  discendere,  che  fa  di  quando  in 
quando,  a  far  breve  paragone  di  tali  magistrati  con  quei  di  Napoli, 
egli  lo  reputa  digressione  per  maggiormente  far  conoscere  che  il 
suo  principale  intento  sia  per  Roma,  e  non  per  Napoli.  Ecco  come 
alla  pag.  36  n.  50  ei  dice:  «doppo  di  aver  dato  or  noi  chiara  idea 
dello  stato  e  polizia  della  città  di  Napoli,  egli  è  dovere  al  nostro 
intralasciato  sentiero  ritornare,  e  ragionar  di  nuovo  de'  magistrati 
di  Roma». 

Non  ha  voluto  però  mancare,  anche  ravvolgendosi  fra'  gentili,  di 
mostrarsi  alla  pag.  22  n.  3  quella  graziosa  etimologia  del  lustro,  che 
fu  detto  così  perché  da'  censori  ogni  cinque  [anni]  era  Roma  illustra- 
ta,  e  di  mostrar  la  sua  pietà  e  divozione,  poiché  alla  pag.  35  n.  47, 
favellando  delle  Fratrie1  de'  Napolitani,  a  quel  «  nume  »,  che  ivi  sacri- 
ficavano, vi  mette  l'aggiunto  di  «falso»:  per  tema  che  leggendosi 
«nume»  così  in  secco  nell'Istoria  civile?  non  si  desse  scandalo  ed 
occasione  a'  lettori  di  crederlo  per  vero;  siccome  alla  pag.  64  di 
edificarli  con  quel  pio  racconto  della  profezia  avventurosa  che  pro- 
nunziò Severino  in  favor  di  Odoacre,  perfido  e  crudel  tiranno, 
animandolo  all'invasione  d'Italia. 


Lib.  11 

È  assai  più  curiosa  quest'altra  epoca  delle  leggi  e  magistrati  del 
regno  di  Napoli,  dalla  venuta  di  Teodorico  per  insino  alla  coro- 
nazione di  Carlo  Magno.  Che  han  che  fare  questi  due  principi  colle 
leggi  e  magistrati  di  Napoli?  I  Goti  lasciaron  vivere  i  Provinciali 
con  quelle  stesse  che  aveano,  né  v'introdussero  nuove  scritte  leggi: 
e  Carlo  Magno  non  s'impacciò  di  Napoli,  né  della  Puglia,  né  della 
Calabria,  ch'eran  de'  Greci;  e  del  ducato  Beneventano  si  lasciò 
la  cura  e  il  governo  ad  Arechi  e  Grimoaldo,  che  vi  statuirono  spe- 
ziali capitolari:  pretendendone  Carlo  M.  solo  la  sovranità,  che  pur 
gli  venne  contrastata  da  quei  due  principi.  Piuttosto  de'  Longo- 
bardi, che  furono  i  primi  a  promulgar  in  Italia  leggi  in  iscritto, 


1.  Fratrie:  abbiamo  corretto  il  «Franie»  del  manoscritto.     2.  Istoria  civile, 
tomo  1,  lib.  1,  cap.  rv,  par.  i,  p.  15. 


566       OSSERVAZIONI    SOPRA    L'HISTORIA    DI    G.   GRIMALDI 

onde  surse  il  corpo  delle  leggi  longobarde,  dovea  tenersi  ragione 
e  non  omettersi  questa  parte,  siccome  vedesi  fatto. 

Ma  così  sarebbe  se  l'autore  avesse  voluto  in  questo  libro  trattar 
di  leggi  e  magistrati:  tutt'altro  era  il  suo  intento.  Egli  volle  scri- 
vere l'istoria  de'  principi  e  de'  fatti  succeduti  in  questi  tempi;  e 
se  pur  tocca  qualche  cosa  delle  leggi,  si  dichiara  in  più  luoghi  che 
lo  fa  per  digressione  e  per  suo  diporto.  Si  comincia  perciò  dal  re 
Teodorico:  indi  si  passa  al  re  Atalarico,  dove  è  da  avvertire  l'ab- 
baglio preso  alla  pag.  71  n.  5,  facendo  questo  principe  figliolo  di 
Teo dorico,  quando  gli  fu  nipote,  come  nato  da  Amalasunta  figlia 
di  Teodorico  e  da  Eutarico  della  stirpe  pure  degli  Amali,  a  chi 
Teodorico  la  diede  in  moglie. 

Notisi  ancora  il  grazioso  passaggio  nella  pag.  72  dalla  morte 
d' Atalarico  e  di  Amalasunta  alla  distinzione  tolta  da  Giustiniano 
rerum  mancipi  et  nec  mancipi,  e  nella  pag.  74  n.  7  di  far  Amalasunta 
madre  di  Teodato;  siccome  l'altro  alla  pag.  79  da  Alboino  a  trattar 
delle  varie  opinioni  intorno  all'origine  de'  feudi  :  fra  la  varietà  delle 
quali  non  si  dimenticò  pag.  80  di  trascriver  pure  quella  inezia, 
ch'ebber  i  feudi  principio  dalla  creazione  del  mondo;  poiché  la 
Giudea  fu  destinata  ab-eterno  per  feudo  ai  figlioli  d'Israele.  Notisi 
pure  alla  pag.  82  n.  17  che  seguendo  l'error  comune  novera  doppo 
la  morte  di  Clefi  30  duchi  longobardi;  quando  non  pur  30  ma 
fino  a  36  giungeva  il  loro  numero.  Più  rara  è  l'altra  notizia  che  ci 
dà  alla  pag.  86  n.  26  facendo  venire  fin  da  Germania  un  duca  per 
succedere  al  re  Ariovaldo,  qual  fu  Rotari,  che  lo  fa  duca  di  Ba- 
viera, quando  era  duca  di  Brescia. 

E  perché  meglio  in  questo  libro  si  manifestasse  il  suo  principa- 
le intento  essere  di  scriver  istoria  di  fatti,  e  non  di  leggi,  in  più 
luoghi,  dove  gli  accade  far  queste  menzioni,  torna  presto  al  «  corso 
di  nostra  istoria»  come  è  la  consueta  sua  frase.  Ecco  alla  pag.  82, 
doppo  aver  finito  di  parlare  dell'origine  de'  feudi  e  della  varia 
loro  natura,  soggiunge  al  n.  16:  «Doppo  sì  necessaria  e  utile  di- 
gressione egli  è  pur  d'uopo  che  di  nostra  istoria  al  corso  ritornia- 
mo ».  E  seguita  a  raccontar  poi  di  Alboino,  di  Clefi  etc.  Alla  pag.  89 
doppo  aver  parlato  di  duchee  e  contee,  soggiunge  al  n.  34:  «Per 
ritornare  ora  adunque  della  nostra  istoria  al  corso  :  e  seguita  a  nar- 
rare i  fatti  del  re  Grimoaldo,  la  venuta  de'  Bulgari  etc.  Alla  pag. 
116,  poiché  prima  si  era  divagato  alquanto  fra  leggi  longobarde  e 
sopra  tutto  fra  rituali,  cerimonie  e  benedizioni  dell'acqua,  e  del 


OSSERVAZIONI    SOPRA   L'HISTORIA   DI   G.   GRIMALDI      567 

ferro  purgatorio,  fra  marchesati  e  gastaldie,  soggiunge  poi  al  n.  67: 
<  Ma  tempo  è  ornai  di  ritornare  a  pigliare  il  filo  della  nostra  isto- 
riai; e  seguita  a  narrare  i  fatti  di  Arechi  duca  di  Benevento  e  di 
Grimoaldo,  dove  finisce  il  libro. 

Così  se  l'epoca  prefissa  non  ha  che  far  niente  colle  leggi,  alman- 
co valerà  qualche  cosa  per  ciò  che  ha  di  rapporto  alla  narrazione 
de'  fatti  la  cui  istoria  era  suo  intento  di  scrivere.  In  questo  libro 
l'autore  mostra  gran  pietà  e  divozione  in  narrare  alla  pag.  109  e 
no  minutamente  le  funzioni  che  prima  la  Chiesa  soleva  praticare 
intorno  ai  riti,  benedizioni,  oremus  e  sacre  preci,  ed  altri  esorcismi 
sopra  l'acqua,  o  ferro  destinato  per  le  purgazioni;  onde  ad  uno 
storico  sì  divoto  mal  si  conveniva  quel  racconto  che  fa  alla  pag.  85 
n.  22  della  regina  Teodolinda,  la  quale  voleva  essere  bacciata  da 
Agilulfo  in  bocca  e  non  nelle  mani. 

Lib.  ni 

Delle  leggi  e  magistrati  del  regno  di  Napoli,  dalla  coronazione 
di  Carlo  Magno  imperatore  fino  a  Corrado  il  Salico. 

Epoca  di  due  imperatori  che  non  han  che  far  niente  con  Napoli 
e  molto  meno  colle  sue  leggi  e  magistrati;  ma  poiché  il  libro  prin- 
cipalmente per  l'istoria  fu  compilato,  quindi  si  prosiegue  il  filo 
della  medesima  e  se  di  quando  in  quando  si  fa  menzione  delle  leggi, 
si  torna  presto  «di  nostra  istoria  al  corso».  Alla  pag.  135,  doppo 
aver  brevemente  parlato  della  compilazione  de'  Basilici  si  soggiun- 
ge al  n.  29  :  «  Or  ritorniamo  doppo  sì  necessaria  digressione  al 
corso  della  nostra  istoria»;  e  si  prosiegue  la  narrazione  de'  fatti  ài 
Landolfo  conte  di  Capua,  d'Ajone  etc.  e  così  fa  per  tutto  il  libro. 
Dove  è  da  notare  ciò  che  si  legge  alla  pag.  146  n.  44,  dicendo  ch'egli 
seguita  «Torme  d'un  sì  celebre  istorico  qua!  fu  Carlo  Sigonio, 
che  per  noi  in  quest'opera  è  la  principal  face,  al  di  cui  lume  presso 
n'andiamo  per  porre  in  chiaro  di  questi  tempi  l'istoria».  Ma  chi 
farà  confronto  di  quest'opera  coli' Istoria  civile  del  Regno  s'accorgerà 
presto  dietro  qual  lume  ei  cammini.  Ed  avendosene  voluto  un  poco 
allontanare,  e  seguitar  l'orme  del  Sigonio,  si  vede  alla  pag.  155 
caduto  in  quella  favola  del  brugiamento  di  Maria  moglie  di 
Ottone  III,  riputandola  di  più  per  un  fatto  degno  d'istoria.  Se 
avess'egli  letto  gli  ultimi  scrittori  germani  e  spezialmente  Burcar- 


568       OSSERVAZIONI    SOPRA   L'HISTORIA   DI    G.   GRIMALDI 

do  Struvio,  che  ha  tanto  alla  penna,  nel  Syntag.  Hist.  Gertn.,  in 
Ottone  III,  pag.  37 1,1  non  avrebbe  dato  sì  facile  credenza  a  tali 
portentosi  racconti. 

Notisi  in  fine  la  gran  divozione  che  mostra  l'autore  di  S.  Gen- 
naro, che  alla  pag.  125  n.  9,  parendogli  poco  d'esser  vescovo,  lo  fa 
arcivescovo  di  Benevento,  nome  incognito  a  quei  tempi  per  i 
vescovi  d'Italia  e  molto  più  per  quei  di  Campagna. 

Notisi  alla  pag.  140  n.  36  che  parlando  della  bussola  ignota 
agli  antichi,  porta  Kippingio,  de  expeditione  maritima  lib.  3,  cap.  6,3 
che  confuta  Fullero,  lib.  4  miscel.  cap.  [19],3  e  Levino  Lemnio,  de 
occultis  nature  miraculis,  e.  4,4  ch'ebbero  credenza  che  fosse  lor  nota, 
e  tralascia  Boccarto,5  il  quale  meglio  di  tutti  prova  essere  stata  a' 
medesimi  incognita. 

Lib.  iv 

In  questo  libro  si  cangia  sistema;  non  si  tien  più  conto  d'epoche 
d'imperatori,  ma  se  ne  forma  un'altra  tutta  nuova,  inaspettata,  e 
stravagante.  Si  dice:  Libro  IV,  in  cui  si  riferiscono  le  consuetudini 
feudali  secondo  la  di  lor  compilazione  del  G.  C.  Ugolino. 

Ci  lascia  adunque  a  Corrado  il  Salico  e  passa  alle  consuetudini 
feudali  secondo  la  compilazione  d'Ugolino,6  e  non  per  altra  ra- 
gione se  non  perché  Corrado  il  Salico  fu  il  primo  a  stabilir  legge 
scritta  sopra  i  feudi.  Ma  seguendo  la  compilazione  d'Ugolino  nel 
catalogo  che  fa  non  pur  de'  titoli,  ma  di  ciascun  paragrafo,  gli  è 
d'uopo  affastellar  anche  le  leggi  di  Corrado  e  di  Federico  I,  onde 


1.  Burcardo  Struvio  .  .  .  pag.  3J1:  è  qui  citato  il  Syntagma  historiae  germa- 
nicae  a  prima  gentis  origine  ad  amami  usque  MDCCXVI,  Ienae  171 6,  p. 
371,  dello  Struve  (cfr.  la  nota  5  a  p.  371).  z.  Kippingio  . .  .  cap.  6:  Hein- 
rich Kipping  (1623 -1678),  erudito  tedesco,  Antiquttatum  Romanorum  li- 
bri quattuor,  Franequerae  1684,  lib.  in,  cap.  vi,  De  expeditione  maritima. 

3.  Fullero miscel.  cap.  \19\1  Nicholas  Fuller  (1557  circa  -  1626),  ebraista 

inglese,  Miscellaneorum  theologicorum,  quibus  non  modo  Scripturae  Divi- 
noe  . . .  explicantur  atque  illustrantur,  Heidelbergae  16 12;  altra  edizione, 
Londini  1617.  L'edizione  di  Heidelberg  era  piena  d'errori,  per  cui  fu  rifat- 
ta in  Inghilterra.  4.  Levino  .  . .  miraculis,  e.  41  Levino  Lemnio  (nato  nel 
1505),  celebre  medico  olandese,  De  occultis  naturae  miraculis  .  .  .  libri  tres, 
Coloniae  Agrippinae  1573.  5.  Boccarto  :  Samuel  Bochart  (1599-1667),  teo- 
logo e  orientalista  protestante  francese,  Geographia  sacra,  Phaleg  et  Cha- 
naan,  Francofurti  ad  Moenum  1674,  lib.  1,  cap.  xxxviii,  p.  716.  6.  e  pas- 
sa. . .  Ugolino:  cfr.  Istoria  civile,  tomo  il,  lib.  xui,  cap.  ult.,  parr.  I  e  n, 
pp.  299  sgg. 


OSSERVAZIONI    SOPRA   L'HISTORIA   DI    G.   GRIMALDI      569 

trattar  di  ciò  il  luogo  più  proprio  era  ai  tempi  di  questo  imperatore, 
quando  seguì  la  prima  compilazione  de'  libri  feudali.  Questo  libro 
è  il  più  lungo  e  diffuso  de'  precedenti,  poiché  l'autore  ha  voluto 
prendersi  la  pena,  non  già  di  tessere  istoria  delle  consuetudini  e 
leggi  feudali,  ma  di  far  un  catalogo  longhissimo  di  tutti  i  paragrafi, 
che  quei  libri  contengono,  esponendogli  uno  per  uno.  Questo  non 
è  comporre  istoria  di  leggi,  ma  far  sposizioni,  parafrasi,  compendi 
o  come  voglia  chiamarli  delle  leggi.  Altro  deve  essere  l'intento  e  la 
maniera  di  coloro  che  si  mettono  a  comporre  simili  istorie,  siccome 
lo  dimostrano  infiniti  autori  che  han  compilato  speziali  libri  su 
questo  soggetto,  li  quali,  se  avessero  voluto  far  lo  stesso,  non 
sarebbero  mai  venuti  a  capo  delle  loro  opere  ;  poiché  in  questa  ma- 
niera il  numero  de*  libri  potrebbe  crescere  in  infinito  :  siccome  non 
sappiamo  a  quale  prodigioso  numero  potranno  arrivare  questi  li- 
bri del  nostro  autore,  poiché  se  lo  stesso  vorrà  fare  delle  costitu- 
zioni del  Regno  secondo  la  compilazione  di  Piero  delle  Vigne  delli 
capitoli  emanati  in  tutto  il  corso  del  tempo  dei  re  angioini;  dei  riti 
della  Camera  e  dei  riti  della  Vicaria:  delle  Prammatiche  stabilite 
sotto  i  re  aragonesi:  delle  altre  sotto  i  re  austriaci,  secondo  le  varie 
compilazioni  seguite  di  tempo  in  tempo  ;  non  gli  basteranno  venti 
volumi  per  tirar  a  fine  questa  sua  istoria.  Si  aggiunga  che  qualifi- 
cando egli  per  digressioni  tutti  quei  racconti  che  fa  sopra  le  leggi, 
le  digressioni  verranno  ad  occupare  più  libri  di  quest'istoria.  Ecco 
che  questo  40  libro  si  consuma  tutto  trattando  delle  consuetudini 
feudali,  di  sole  digressioni:  poiché  l'autore  istesso  avendolo  finito, 
nel  cominciar  del  quinto  dice  chiaramente  alla  pag.  259  che  nel 
precedente  libro  «per  esporre  minutamente  le  consuetudini  feu- 
dali, intralasciato  abbiamo  della  nostra  storia  il  corso;  ora  egli  è 
dovere  che  in  questo  libro  di  bel  nuovo  ripigliandolo,  entriamo  a 
ragionare  di  ciò  che  avvenne  doppo  la  morte  dell'imperatore  Errico 
il  Santo  circa  l'elezione  del  suo  successore».  Onde  ripiglia  a  narrare 
i  fatti  di  Corrado  il  Salico  e  così  viene  continuato  questo  libro  col 
terzo,  lasciandosi  il  quarto  fuori  del  corso  di  nostra  istoria^  come 
una  digressione,  poiché  tratta  d'altro  che  d'istoria. 

Ma  consumando  egli  il  più  voluminoso  libro  sopra  le  consuetu- 
dini feudali  che  da  Lombardia  passarono  nel  Regno,  nel  quale  più 
per  uso  che  per  legge  scritta  da  alcun  principe  acquistarono  in 
quello  autorità:  meritamente  le  leggi  longobarde  si  dolgono  perché 
non  far  ad  esse  pure  quest'onore,  perché  non  dargli  eziandio  un 


570       OSSERVAZIONI    SOPRA   L'HISTORIA   DI    G.   GRIMALDI 

libro  intiero  per  loro  più  agiata  e  spaziosa  abitazione,  con  metterle 
pure  co'  loro  paragrafi  in  processione,  come  si  è  fatto  delle  consue- 
tudini e  leggi  feudali;  in  vece  di  contentarsi  solo  sparpagliarle  nei 
libri  precedenti  di  qua  ed  in  là  e  farne  sì  poco  conto  e  sì  breve 
motto,  sicché  appena  fra  il  corso  di  nostra  istoria  si  possono  ravvi- 
sare? Forse  non  meritavan  elle  più  che  le  feudali,  quando  queste 
per  uso  e  le  longobarde  per  leggi  scritte  di  propri  principi  furono 
nel  Regno  stabilite  ed  ebbero  autorità  e  lungamente  durarono, 
non  men  sotto  i  re  e  principi  longobardi,  che  sotto  i  Normanni, 
sotto  li  Svevi  ed  Angioini  e  fin  sotto  i  re  Aragonesi  e  delle  quali 
anche  oggi  serba  il  Regno  non  pochi  vestigi  e  costumi  ?  Ala  che  si 
vuol  fare?  Ciascuno  ha  il  suo  proprio  destino:  chi  è  condennato 
a  perpetua  dimenticanza  e  chi  corre  luminoso  e  risplendente  su  le 
carte  d'immortali  storie. 

Lib.  v 

Si  torna  in  questo  libro  a  Corrado  il  Salico  ;  e  ripigliandosi  l'in- 
tralasciata epoca,  da  questo  imperatore  si  continua  l'istoria  per 
('infino  alla  morte  del  gran  Ruggieri  primo  re  di  Sicilia». 

Or  qui  sì  che  si  giuoca  di  sbaraglio,  poiché  l'epoca  prefissa  non 
conviene  all'istoria  del  Regno,  e  molto  meno  alle  sue  leggi;  e 
perciò  in  questo  non  si  tiene  ordine  e  disposizione  alcuna,  ma 
vedesi  una  confusione  ed  un  mesculio  tale  che  i  poveri  lettori  in 
leggendolo  si  espongono  ad  un  evidente  pericolo  di  essere  assaliti 
da  qualche  vertigine  o  capogiro.  Alla  rinfusa  si  mischiano  leggi 
con  fatti  istorici:  le  digressioni  sono  più  spesse,  ma  però  presto  si 
torna  della  nostra  istoria  al  corso.  Alla  pag.  270  fa  compassione 
veder  confuse  in  guisa  le  leggi  feudali  di  Corrado  e  di  Errico  col- 
l'istoria,  che  spariscono  come  nebbia  al  vento  ;  poiché  doppo  essersi 
di  quelle  fatte  brevi  parole,  presto  alla  pag.  272  al  n.  30  si  soggiun- 
ge: «Ritorniamo  or  noi  doppo  la  brieve  esplicazione  di  tali  costi- 
tuzioni della  nostra  istoria  al  corso  »,  e  si  prosiegue  a  parlar  d'Er- 
rico, de'  Normanni  età,  infino  alla  pag.  291.  Qui  al  n.  87  s'inter- 
rompe il  corso  e  parlasi  brevemente  di  leggi,  ma  tosto  al  n.  seguente 
88  pag.  293  si  ripiglia  l'istoria,  dicendo  l'autore:  «doppo  sì  brieve 
idea  etc.  egli  è  d'uopo  ripigliar  della  nostra  istoria  il  filo:  e  ri- 
tornando a  favellar  de'  Ruggieri,  egli  è  da  sapere»  etc. 

Alla  pag.  296  perché  «nel  corso  di  nostra  istoria»  si  era  breve- 


OSSERVAZIONI   SOPRA   L'HISTORIA   DI    G.   GRIMALDI      571 

mente  parlato  d'una  legge  di  Lotario,  presto  al  n.  95  si  soggiunge: 
(>  Torniamo  or  noi,  doppo  aver  tali  costituzioni  riferite  »  (è  una  sola 
di  Lotario  II)  «  di  nostra  istoria  al  sentiero  ».  E  nella  pag.  297,  n.  97 
framezzando  alcune  altre  costituzioni  di  Lotario  appartenenti  a 
feudi,  tosto  alla  pag.  299  n.  98  ne  ripiglia  il  filo  dicendo:  "  Ritornia- 
mo or  noi  della  nostra  istoria  al  corso». 

E  questo  libro  molto  più  che  i  precedenti  fa  chiaramente  cono- 
scere che  il  principal  suo  intento  è  di  tessere  istoria  di  fatti  e  non  di 
leggi;  poiché  ne'  punti  più  principali,  che  incontra  appartenenti 
all'istoria  legale,  gli  sfugge  e  solo  gli  addita  e  passa.  Non  vi  era 
cosa  più  propria  all'istoria  delle  leggi  del  Regno  che  esaminar  bene 
quel  punto  del  ritrovamento  delle  Pandette  in  Amalfi  posto  in 
dubbio  a'  nostri  giorni  per  leggieri  e  vani  argomenti  da  alcuni 
amatori  di  novità;  ma  il  nostro  autore  sfuggendo  il  disaggio  per 
amor  di  Dio,  brevemente  se  ne  disbriga  alla  pag.  300  n.  100,  e 
lascia  a'  lettori  la  pena  di  esaminarlo,  con  rimetterli  alle  scritture 
date  fuori  ultimamente  sopra  questo  soggetto  dal  Tanucci,1  dal 
padre  Grandi2  e  dal  nostro  Asti:3  ignorando  che  il  celebre  Errico 
Brencmann  nella  sua  Istoria  Pandectarum?  data  non  ha  guari  alla 

1.  dal  Tanucci'.  Bernardo  Tanucci  (vedi  la  nota  2  a  p.  284),  Epistola  de 
Pandectis  in  amalphìtana  direptione  inventis  ad  academicos  etruscos,  Floren- 
tiae  1731.  Il  Tanucci  era  intervenuto  a  sostenere  le  tesi  del  Brenkman 
contro  il  Grandi,  suo  collega.  Cfr.  Difesa  seconda  deWuso  antico  delle 
Pandette  e  del  ritrovamento  del  famoso  manoscritto  di  esse  in  Amalfi  contro  le 
Vindiciae  delp.  G.  Grandi,  Firenze  1729.  La  tesi  del  Tanucci,  come  quella 
del  Brenkman,  era  che  il  diritto  romano  giustinianeo  fosse  stato  ripropo- 
sto dal  ritrovamento  delle  Pandette  in  Amalfi.  Si  rifaceva  cioè  al  primo 
editore  delle  Pandette,  Francesco  Torelli.  2.  dal  padre  Grandi*.  Guido 
Grandi  (1 671 -1742),  matematico  e  filosofo  dell'università  di  Pisa,  sosteneva 
la  tesi  della  continuità  del  diritto  romano.  Cfr.  Vindiciae  prò  sua  epistula 
de  Pandectis  adversus  inanes  querelas  Tanucci,  Pisis  1728.  Ma  cfr.  preceden- 
temente Epistola  de  Pandectis ;  Pisis  1724  (seconda  edizione  1727),  e,  con  lo 
pseudonimo  Luccaberti  Bortolo,  Nuova  disanima  della  storia  delle  Pandette 
pisane,  collo  scioglimento  delle  difficoltà  opposte  alla  Epistola  de  Pandectis  e 
alle  Vindiciae,  s.  1.  1730.  3.  dal  nostro  Asti:  Donato  Antonio  d'Asti  (1673- 
1743),  giurista  napoletano,  DelTuso  e  autorità  della  ragion  civile  nelle  Provin- 
cie dell'Impero  occidentale  .  . .,  1,  Napoli  1720;  n,  Napoli  1722;  ebbe  come 
censore  per  il  primo  tomo  lo  stesso  Giannone.  Il  d'Asti  sosteneva  le  tesi 
della  non  estinzione  del  diritto  romano  nell'Occidente,  che  più  tardi  sareb- 
bero state  riprese  dal  Grandi  contro  il  Brenkman  e  il  Tanucci.  Natural- 
mente il  Giannone,  che  era  un  ammiratore  del  Duck,  a  cui  in  parte  si 
contrapponeva  il  d'Asti,  era  d'accordo  con  il  Brenkman  e  il  Tanucci. 
4.  il  celebre Pandectarum:  Hendnk  Brenkman  (1680  circa  -  1736),  giu- 
rista olandese,  Historia  Pandectarum  seufatum  exemplaris  fiorentini,  Traiecti 
ad  Rhenum  1722.  Nel  1709  il  Brenkman  andò  in  Toscana  per  studiare 


572       OSSERVAZIONI    SOPRA    L'HISTORIA   DI    G.   GRIMALDI 

luce  in  Utrech  nell'anno  1722,  esaminando  questo  passo  d'istoria 
tolse  ogni  dubbio,  con  far  imprimere  le  parole  della  Cronaca  antica, 
o  siano  Annali  Pisani,  ch'egli  trascrisse  da  un  antico  manuscritto 
trovato  nella  Biblioteca  de'  Domenicani  di  Bologna:  dove  par- 
landosi della  guerra  che  Lotario  ed  Innocenzio  coll'aiuto  de'  Pisani 
mosser  contro  il  re  Ruggieri  di  Sicilia,  si  leggono  queste  parole: 
«Li  Pisani  pridie  nonas  Augusti  armarono  46  galee  e  furono  alla 
costa  di  Malfi,  e  quello  dì  per  forzia  lo  presero  con  septe  galee,  e 
doe  nave,  in  le  quali  ritrovorono  le  Pandette  composte  dalla  regia 
maestà  di  Iustiniano  imperadore,  e  da  poi  quelle  brusorono  etc.  ».* 

Parimente  favellando  della  vulgata  compilazione  delle  leggi  lon- 
gobarde appena  accenna  la  controversia  che  verte  per  appurarne 
il  vero  l'autore  alla  pag.  304  n.  107,  che  presto  torna  della  «nostra 
istoria  al  corso»;  anzi  averlo  solamente  accennato  pur  gli  par 
soverchio,  poiché  soggiunge  al  n.  108  queste  parole:  «siam  pur- 
troppo fuori  del  cammino  di  questa  istoria  usciti,  a  favellar  per 
altro  di  cosa  che  è  molto  propria  al  fine,  per  cui  la  intessiamo  ;  ma  è 
pur  dovere  che  ora  noi  nelPintralasciato  sentiero  facciam  ritorno. 
Morto  adunque  Lotario»  etc. 

Or  se  gli  pare  esser  uscito  fuori  del  cammino  di  questa  istoria 
trattando  delle  leggi,  quale  dunque  sarà  il  titolo  che  finita  l'opera 
dovrà  darsegli  ?  Dire  delle  leggi  e  magistrati  del  Regno,  questo  tito- 
lo li  conviene  tanto  quanto  convenivano  le  brache  per  saltero  de 
veli  a  quella  Reverenda  Badessa  del  Boccaccio.2  Dire  poi  così  in 
secco  :  Istoria  del  Regno,  nemmeno  ci  calza,  perché  vi  dovranno 
essere  libri  interi  ne'  quali  non  si  dovrà  far  altro  che  porre  in  ordi- 
nanza ed  in  processione  le  costituzioni  del  Regno,  i  suoi  capitoli, 
riti  e  Prammatiche,  siccome  si  è  fatto  nel  40  delle  consuetudini 
feudali:  qual  sarà  dunque  egli?  Quello  che  Dio  vorrà  e  quel  che 
vorranno  i  pii  e  devoti  consultori  dell'autore,  li  quali  non  manche- 
ranno di  trasceglierne  uno  tutto  cristiano,  spirituale  e  divoto. 


il  manoscritto  delle  Pandette  della  Biblioteca  Medici;  pubblicò  nel  1722 
il  suo  lavoro  e  nel  1735  l'Epistola  ad  Franciscum  Hesselium,  Traiecti  1735, 
in  cui  discusse  le  tesi  del  Grandi  confutandole.  Cfr.  A.  Momigliano, 
Scipione  Maffei  ed  Hendrik  Brenkman.  Due  progetti  di  collaborazione  in-» 
tellettuale  italo-olandese  nel  '700,  in  «Atti  dell'Accademia  Nazionale  dei 
Lincei»,  anno  ccclek  (1962),  s.  8.  Rendiconti,  estr.  dal  voi.  xvn,  fase.  8-12 
(luglio-dicembre  1962,  pp.  7-20).  1.  «Li  Pisani .  . .  brusorono  etc.»:  in  H. 
Brenkman,  op.  cit.,  pp.  409-10.  Cfr.  anche  pp.  24-50.  2.  le  brache . . .  Boc- 
caccio: cfr.  Decameron,  E£,  2. 


OSSERVAZIONI   SOPRA   L'HISTORIA  DI    G.  GRIMALDI      573 

Non  ha  tralasciato  eziandio  in  questo  libro  l'autore  di  mostrare 
in  più  occasioni  il  rispetto  e  divozione  verso  il  vicario  di  Cristo, 
poiché  alla  pag.  306  n.  no  fa  «buttare  a'  piedi  di  papa  Innocenzio» 
il  re  Ruggieri  et  il  duca  di  Puglia  suo  figliolo,  siccome  alla  pag.  338 
n.  7  fa  prostrare  cC  piedi  del  pontefice  Adriano  il  re  Guglielmo  I  ;  né 
mancano  in  tutto  il  corso  del  libro  altri  consimili  saggi  della  gran 
sua  pietà  e  divozione.  In  oltre  non  si  ardisce  di  nominar  mai  per 
proprio  nome  e  cognome  l'autore  dell'istoria  civile  ^  per  non  con- 
taminar i  fogli  de'  suoi  libri  con  un  nome  sì  scommunicato  e  nefan- 
do ;  anzi  sovente  per  non  rinovellarne  la  memoria,  lo  denota  sotto 
la  voce  «altri»,  siccome  fa  alla  pag.  304  n.  107  dove  non  è  nomi- 
nato quell'autore,  che  si  oppone  al  sentimento  di  coloro  che  ri- 
putano per  compilatore  delle  leggi  longobarde  Pier  Diacono,  che 
sotto  il  nome  d'« altri».  Non  si  sa  però  come  i  suoi  consultori  di 
coscienza  non  gli  abbino  posto  in  iscrupolo  di  nominar  più  volte 
nettamente  Carlo  Molineo1  e  non  chiamarlo  o  l'autor  della  Glossa 
Parzsiense,  ovvero  non  designarlo  con  qualche  aggiunto  d'autor 
dannato,  di  dannata  memoria,  o  con  simili  carezze,  colle  quali 
soglion  trattarlo. 

Si  trascrive  in  questo  libro  il  catalogo  delle  leggi  stabilite  dal  re 
Ruggieri  tolto  dall'autore  dell'Istoria  civile.  Il  quale  intanto  si  prese 
questa  briga  d'annoverarle  e  determinarne  il  numero,  poiché  nel 
volume  delle  costituzioni  del  Regno  alcune  portavano  l'iscrizione 
di  Ruggieri,  le  quali  doveano  attribuirsi  a  Guglielmo  ed  altre  tutto 
l'opposto;  sicché  per  toglier  questa  confusione  ed  avvertire  gli 
abbagli  per  ciò  presi  da'  nostri  scrittori,  si  procurò  fissarne  il  nu- 
mero, con  ridurlo  a  soli  39  o  40.2  Ma  il  novello  scrittore  delle 
leggi  del  Regno  vuole  alla  pag.  309  n.  116  che  siano  44,  asseren- 
done il  numero  di  4  o  5  di  più,  non  per  altro  se  non  perché  in  quel 
volume  le  leggeva  sotto  al  nome  de'  Ruggieri.  Ma  non  si  può 
esprimere  abbastanza  quanto  sian  graziose  le  cagioni  che  adduce 
per  accrescer  la  quarantunesima,  che  si  legge  sotto  il  titolo  de 
adulteriis  coercendisy  che  l'autore  dell'intona  civile  l'avea  tolta  a 
Ruggieri  ed  attribuita  a  Guglielmo  II  non  tanto  per  quella  postilla, 
che  si  legge  nel  margine:  «alias  rex  Guglielmus»,  quanto  che  se- 


1.  Carlo  Molineo:  Charles  Dumoulin  (vedi  la  nota  2  a  p.  125),  Commentarìì 
in  Consuetudines  parìsienses  authore  Carolo  Molinaeo . . .,  Parisiis  1576. 

2.  a  soli  39  o  40:  cfr.  Istoria  civile,  tomo  11,  Hb.  xi,  cap.  v,  pp.  180  sgg. 


574       OSSERVAZIONI    SOPRA    L'HISTORIA    DI    G.   GRIMALDI 

condo  i  documenti  rapportati  dal  Tutini1  e  dal  Ughello2  si  convince 
che  ad  istigazione  di  Gualtieri  arcivescovo  di  Palermo  fu  indotto 
quel  buon  e  semplice  principe  a  dar  la  conoscenza  degli  adultèri 
a'  vescovi  del  Regno.  Volete  sapere  le  ragioni  perché  ora  si  toglie 
al  re  Guglielmo  II  e  si  restituisce  al  re  Ruggieri?  Eccole  esposte 
alla  pagina  319  n.  152.  La  prima  perché,  come  sono  le  sue  parole: 
«leggendola  noi  sotto  al  nome  di  Ruggieri,  abbiamo  voluto  tra  le 
di  lui  leggi  rapportarla».  Dunque  se  si  vorrà  andar  così  ciecamente 
dietro  alle  iscrizioni  che  porta  la  vulgare  edizione  delle  costituzioni 
del  Regno  e  senza  esaminar  se  vi  possa  esser  accaduto  errore  o  no, 
starne  alla  sola  epigrafe,  a  che  serviva  il  travaglio  di  separar  l'une 
leggi  dalle  altre,  con  riportarle  a'  veri  facitori,  quando  quel  volume 
ce  l'avrebbe  abbastanza  dimostrato  con  additarne  in  fronte  gli 
autori? 

La  seconda  è  assai  più  graziosa;  soggiungendo:  «non  essendo 
per  altro  verisimile  che  Guglielmo  avesse  voluto  pregiudicare  a  suoi 
diritti  di  sovrano  e  di  legato  nato  in  quel  reame». 

Si  crederebbe  in  sì  poche  parole  un  mucchio  di  tanti  spropositi  ? 
Come  la  Legazione  di  Sicilia,  alla  quale  si  dà  principio  fin  dal 
diploma  d'Urbano  II  conceduto  al  conte  Ruggieri,  ed  essere  ri- 
putati quei  re  legati  nati3  in  quel  reame,  venne  a'  tempi  di  Gu- 
glielmo, e  non  vi  furono  anche  il  re  Ruggieri  e  Guglielmo  I  padre 
del  II.  E  chi  fu  che  meglio  stabilisse  ivi  la  monarchia  che  il  gran 
Ruggieri  I  re  di  Sicilia?  Certamente  che  presso  questo  savio  prin- 
cipe sarebber  riuscite  vane  ed  inutili  le  istigazioni  dell'arcivescovo 
di  Palermo,  in  conceder  a'  vescovi  la  conoscenza  di  quel  delitto,  le 
quali  ebbero  felice  successo  nell'animo  pur  troppo  divoto  e  dimesso 
di  quel  buono  e  semplice  re.  Così  questa  ragione,  che  si  adduce, 
piuttosto  convince  al  contrario  e  maggiormente  fa  conoscere  che 
non  Ruggieri,  ma  il  buon  Guglielmo  funne  l'autore.  In  oltre  che  ha 
che  fare  qui  monarchia  di  Sicilia  con  questa  legge?  Dalla  quale  in 
niente  vien  quella  offesa,  anzi  per  la  medesima  si  accresceva  mag- 

1.  dal  Tutini  :  Camillo  Tutini  (morto  nel  1667  circa),  I  discorsi  de*  sette 
offici,  o  vero  de*  sette  grandi  del  regno  di  Napoli,  Roma  1666.  Autore  ancora 
Dell* origine  etfundatione  de1  seggi  di  Napoli,  del  tempo  in  che  furono  institui- 
ti . .  .,  Napoli  1644.  2.  dal  Ughello:  Ferdinando  Ughelli  (cfr.  la  nota  2  a 
p.  159),  Italia  sacra  sive  de  episcopis  ItaUae  . . .,  Romae  1644-1662.  Ultalia 
sacra  fu  ampliata  e  ristampata  da  Nicola  Coleti  a  Venezia,  1717-1722,  in 
dieci  volumi.  3.  legati  nati',  cfr.  Istoria  civile,  tomo  li,  lib.  x,  cap.  vili, 
p.  98. 


OSSERVAZIONI   SOPRA   L'HISTORIA   DI    G.   GRIMALDI      575 

giormente  la  conoscenza  delle  cause  del  giudice  della  monarchia, 
al  quale  in  grado  di  appellazione  dovevano  ripportarsi  tutte  le  cause 
agitate  in  prima  istanza  ne*  tribunali  de*  vescovi  ed  arcivescovi  di 
quel  reame. 

Dimostrasi  poi  assai  più  grazioso  l'autore  nell'intelligenza  che 
dà  a  questa  legge,  con  quella  sognata  distinzione  ed  emendazione 
che  fìnge.  D'onde  ci  fa  avvertiti  ch'egli  non  ne  abbia  intesa  la  forza 
e  sia  perciò  caduto  in  altri  errori,  credendola  pregiudiziale  alla 
real  giurisdizione,  se  non  veniva  a  soccorrerla  con  quella  distin- 
zione di  adultèri  commessi  da  chierici,  ovvero  da  laici;  ^ond'eragli 
paruto  necessario  dilungarsi  alquanto  su  questa  materia,  che  per 
l'autorità»  (sono  sue  parole  alla  pag.  321)  (di  questa  legge,  e  de' 
suoi  chiosatori  non  creda  alcuno  che  il  delitto  d'adulterio  sia  delitto 
canonico,  o  ecclesiastico,  o  almeno  mixtifori».  Né  la  corte  di  Ro- 
ma, e  molto  meno  i  nostri  magistrati  regi  gli  sono  molto  obbligati 
di  questa  sognata  distinzione,  con  separare  gli  adultèri  commessi 
da  chierici,  de'  quali  solo  debbe  intendersi  la  legge,  e  di  quelli 
commessi  da  laici.  La  legge  è  generale  ed  abbraccia  non  men  gli 
uni  che  gli  altri,  per  ciò  che  riguarda  il  delitto  d'adulterio.  E  sic- 
come il  punir  gli  insulti  e  le  violenze  usate  forse  in  commettergli 
era  riserbato  al  magistrato  regio  non  men  degli  uni  che  degli  altri 
(del  che  gli  ecclesiastici  nemmeno  son  contenti,  pretendendo  che  i 
loro  giudici  debbano  punire  nei  chierici  non  men  gli  adultèri  che 
tutte  le  violenze  che  mai  commettessero),  così  parimente  era  rip- 
portata  a'  tribunali  de'  vescovi  la  conoscenza  del  delitto  d'adulterio 
indistintamente.  Ciò  è  manifesto  dalle  parole  istesse  della  legge  e 
dall'Editto  rapportato  dall' Ughello  (in  appendici  tomo  7  De  episcop. 
pennensi)1  spedito  in  esecuzione  della  medesima  dalla  regina  Co- 
stanza in  Palermo  l'anno  1197,  dove  impone  a'  conti  giustizieri, 
baroni,  camerari  ed  a'  bagheri  della  diocesi  del  vescovato  di  Penne 
ed  espressamente  loro  proibisce  di  procedere  nei  delitti  d'adulte- 
rio, ma  che  lascino  procedere  in  quelli  la  giustizia  ecclesiastica.  E 
quando  accadesse  che  negli  adultèri  si  fosse  usata  violenza,  il  giu- 
dice ecclesiastico  conosceva  dell'adulterio  ed  il  magistrato  secolare 
della  violenza. 

Ma  tutto  ciò  niente  pregiudica  alla  real  giurisdizione,  che  è  l'in- 

1.  Ciò  è  manifesto  .  .  .  pennensi:  cfr.  F.  Ughelli,  Italia  sacra,  ed.  Coleti  cit., 
ma  tomo  i,  Pennenses  et  hadrianenses  episcopi,  coli.  11 11-53.  Il  documento 
citato  a  coli.  1129-30. 


576       OSSERVAZIONI    SOPRA    L'HISTORIA   DI    G.   GRIMALDI 

ganno  nel  quale  si  vive.  Che  i  principi  abbiano  per  loro  leggi  e  costi- 
tuzioni conceduto  alla  Chiesa  sovente  il  poter  conoscere  d'alcune 
cause  e  delitti,  non  è  nuovo.  Hanno  fatto  male  di  farlo  per  le  ree 
conseguenze  che  ne  sono  seguite;  poiché  da  poi  i  vescovi  quel  che 
fu  privilegio  e  concession  di  principi  l'hanno  voluto  tirare  a  propria 
autorità  e  potere  e  per  non  farsela  scappar  più  dalle  mani  sono 
andati  inventando  titoli  assai  più  potenti  e  speziosi  e  dicendo  che 
tal  podestà  venga  loro  de  iure  divino.  Così  Roma  niuna  cosa  ab- 
borisce  tanto  quanto  il  dire  che  la  conoscenza  d'alcune  cause  e 
delitti  fosse  passata  a'  vescovi  per  privilegio  e  concessione  de'  prin- 
cipi, li  quali  ben  sanno  che  abusandone  possono  revocarlo,  re- 
stringerlo ed  interpretarlo  come  lor  piace.  Infatti  fin  che  durò  il 
regno  d'una  femina,  qual  fu  la  regina  Costanza,  fu  fatta  valere  la 
concessione.  Ma  succeduti  nel  regno  i  Suevi,  e  spezialmente 
l'imperatore  Federico  II,  non  si  permise  che  i  vescovi  s'intricassero 
più  nella  conoscenza  de'  delitti  di  adulterio,  ma  tutto  era  ripportato 
a  magistrati  regi  così  per  quel  che  riguardava  la  violenza,  come  la 
punizione  dell'adulterio.  E  lo  stesso  seguitossi  a  praticare  nel 
regno  degli  Angioini,  degli  Aragonesi  ed  Austriaci,  non  dandosi 
luogo  a  prevenzione,  né  riputandosi  per  delitto  ecclesiastico,  ovvero 
di  foro  misto. 

Ma  stanco  l'autore,  ed  annoiato  di  parlar  di  leggi,  de'  magistrati 
e  de*  sette  uffiziali  del  Regno,  non  men  ch'io  d'andar  dietro  a 
queste  sue  frasche,  ritorna  egli  alla  pag.  330  in  cammino,  e  dice 
al  n.  168  :  «  Ritornando  ora  al  corso  della  nostra  istoria»  e  prossiegue 
i  fatti  di  Ruggieri,  finendo  il  libro  colla  sua  morte. 

Lib.  vi 

A  questo  libro  si  prefigge  pure  un'epoca  che  non  conviene  né 
all'istoria  né  alle  leggi.  Dice:  Dal  principio  del  governo  di  Guglielmo 
per  insino  alla  morte  del  re  Tancredi^  ultimo  della  stirpe  normanna. 

Non  conviene  all'istoria  normanna  perché  si  lasciano  fuori  Rug- 
gieri re  e  gli  altri  conti  di  Sicilia  e  di  Calabria  e  duchi  di  Puglia 
suoi  predecessori  e  non  si  tiene  conto  né  di  Guglielmo  III  figliolo 
e  successore  di  Tancredi,  né  della  regina  Costanza,  ultima  del  san- 
gue legittimo  normanno. 

Non  conviene  all'istoria  delle  leggi  normanne,  perché  si  lasciano 
fuori  le  leggi  del  re  Ruggieri,  delle  quali  trattò  nel  libro  precedente; 


OSSERVAZIONI    SOPRA    L'HISTORIA    DI    G.   GRIMALDI      577 

e  molto  più  che  quest'epoca  si  fa  finire  in  Tancredi,  del  quale  non 
abbiamo  legge  alcuna 

In  questo  libro  èwi  un  intricato  mescolamento  di  fatti  istorici  e 
di  leggi  alla  rinfusa.  Ma  sempre  però  che  gli  tocca  parlar  di  leggi, 
dà  a  intendere,  seguendo  il  suo  intrapreso  stile,  che  lo  fa  per  di- 
gressione, tornando  presto  «della  nostra  istoria  al  corso».  Ecco 
alla  pag.  361,  dopo  avere  nelle  precedenti  favellato  de'  fatti  del  re 
Guglielmo  I  e  dell'imperatore  Federico  Barbarossa,  delle  costui 
leggi  feudali  e  delle  Regalie  ristabilite  in  Italia,  soggiunge  al  n.  17: 
0  Ora  convien  ripigliare  l'intralasciato  filo  della  nostra  istoria  ».  E 
prossiegue  a  narrare  i  disgusti  passati  tra  Federico  e  papa  Adriano, 
gli  avvenimenti  del  re  Guglielmo  e  le  rivoluzioni  di  Sicilia  insino 
alla  pag.  370. 

Qui  finisce  l'istoria  ed  al  n.  35  si  comincia  il  catalogo  delle  21 
leggi  lasciate  da  Guglielmo  I,  che  va  ampiamente  una  per  una 
sponendo,  né  sappiamo  a  quanto  dovrà  crescere  la  mole  di  questo 
libro,  poiché  l'ultimo  foglio  non  arriva  che  alla  legge  tredicesima. 
Insino  al  re  Tancredi  si  dee  credere  che  con  questo  sesto  libro  si 
terminerà  il  primo  volume,  che  crescerà  ad  una  giusta  mole.  Se  lo 
stesso  si  vorrà  fare  nella  rimanente  istoria  e  sopra  le  leggi,  costitu- 
zioni, capitoli,  riti  e  prammatiche  di  ciascun  re  e  viceré,  sino  a' 
nostri  tempi,  secondo  il  calcolo  fattone  a  proporzione  potrebbe 
arrivare  a  venti  volumi.  Iddio  conceda  tanta  lena  e  forza  all'autore, 
sicché  possa  vederne  il  fine. 

Vienna,  io  agosto  1731. 


37 


IL  TRIREGNO 


NOTA  INTRODUTTIVA 

Il  Triregno  è  senza  dubbio  l'opera  più  complessa  del  Giannone,  e 
fra  le  più  significative  della  cultura  europea  della  prima  metà  del 
Settecento.  Diverse  componenti  contribuiscono  a  renderla  interes- 
sante. C'è  la  tradizione  meridionale1  che  si  può  riassumere  nella  fi- 
gura suggestiva  del  suo  maestro,  Domenico  Aulisio.  Il  rapporto  del 
Giannone  con  la  cultura  meridionale  affonda  le  radici  nel  liberti- 
nismo erudito  della  fine  del  Seicento.  In  quel  mondo  paradossale  e 
contraddittorio,  il  Parere  sull'incertezza  della  medicina  di  Lionardo 
di  Capua3  -  significativamente  una  delle  più  importanti  opere  di 
svecchiamento  culturale  -  riprendeva  i  temi  umanistici  della  pole- 
mica contro  la  medicina.  Il  pirronismo  storico  agiva  come  dissolvente 
non  solo  contro  la  storiografia  seicentesca,  ma  contro  la  stessa  ragion 
di  Stato,  contro  la  saldezza  del  giusnaturalismo.  Il  relativismo  scien- 
tifico poneva  fecondamente  in  crisi  la  validità  di  ogni  scienza.  Era 
il  mondo  in  cui  Gassendi  era  penetrato  più  che  non  Cartesio  e  Spi- 
noza; dietro  Gassendi,  letto  soprattutto  nell'Abrégé  di  Francois  Ber- 
nier,  Lucrezio,  e,  dopo  Lucrezio,  ancora  Guillaume  Lamy,  il  medico 
francese  materialista,  dai  cui  De  principiis  rerum  e  soprattutto  dai 
Discours  anatomiques,  gli  «ateisti»  napoletani  avevano  appreso  il  loro 
materialismo,  come  testimoniano,  più  che  le  accuse  del  gesuita  Be- 
nedetto Aletino,  le  acute  pagine  dell'opera  di  Giacinto  Gimma,3 
significativamente  contemporanea  a  quella  giannoniana.  Poi  c'era 
stato  Spinoza,  e  un'ulteriore  crisi  della  tradizione,  e  i  faticosi  ten- 
tativi di  costruire  una  visione  antiscolastica,  che  permettesse  il  supe- 
ramento del  dubbio  e  insieme  l'acquisizione  della  scienza  e  della  cul- 
tura moderne.  Il  Giannone  si  inserisce  nel  dibattito  intellettuale 
mentre  la  crisi  stava  per  essere  superata:  dal  Parere  di  Lionardo  di 
Capua,  che  metteva  sotto  accusa  una  tradizione  di  medicina  anti- 
scientifica, gli  a  antichi»,  ma  anche  (ed  era  la  persistenza  di  un  mo- 


i.  Studiata  da  Nicola  Badaloni  nella  sua  Introduzione  a  G.  B.  Vico,  Mi- 
lano 1961.  Per  il  rapporto  fra  il  Giannone  e  T Aulisio  cfr.  G.  Ricuperati, 
L'esperienza  civile  e  religiosa  di  Pietro  Giannone,  Milano-Napoli  1970, 
pp.  47-78.  2.  Parere  del  Signor  Lionardo  di  Capoa  divisato  in  otto  ragiona- 
menti ne*  quali  partitamente  narrandosi  l'origine  e  7  progresso  della  medicina, 
chiaramente  l'incertezza  della  medesima  si  fa  manifesta,  Napoli  1681.  Cfr. 
ora  M.  Rak,  Una  teoria  dell'incertezza.  Note  sulla  cultura  napoletana  del 
secolo  XVII,  in  «  Filologia  e  letteratura  »,  anno  xv  (1969),  fase.  3,  pp.  233-97. 
3.  G.  Gimma,  Idea  della  storia  dell'Italia  letterata,  Napoli  1723,  in  due 
volumi.  Per  un'analisi  di  quest'opera  e  per  i  riferimenti  cfr.  G.  Ricuperati, 
L'esperienza  ecc.,  cit.,  pp.  155-6. 


582  IL   TRIREGNO 

tivo  umanistico)  la  scienza  stessa,  si  passava  al  De  difficultate  medi- 
cinae  di  Lucantonio  Porzio,1  in  cui  la  medicina  era  vista  come  la 
sintesi  più  alta  di  tutte  le  scienze  e  di  tutte  le  forme  di  conoscenza. 
Contemporaneamente  il  Vico  scriveva  il  De  uno  e  il  De  constantia 
iurisprudentis  per  fondare  la  certezza  del  diritto. 

Il  Giannone  aveva  frequentato  con  il  Vico  l'Accademia  Medina 
Coeli,  dove  accanto  ai  vecchi  campioni  del  libertinismo  erudito,  co- 
me Giuseppe  Valletta,  c'erano  tutti  i  giovani  che  avrebbero  dominato 
intellettualmente  e  politicamente  durante  il  viceregno  austriaco. 
L'Accademia,  nei  suoi  temi,  è  tipica  di  questa  transizione,  fra  il  pir- 
ronismo e  la  storia,  fra  il  relativismo  e  la  scienza,  fra  l'erudizione  e 
la  politica.  Il  Giannone,  per  scrivere  l'Istoria,  si  era  appartato,  non 
partecipando  che  da  spettatore  attento  e  curioso  a  tutte  le  vicende 
della  cultura  napoletana,  per  esempio  ai  ludi  contro  l'Aletino  del  suo 
amico  Costantino  Grimaldi  (il  più  giovane,  ma  presto  anche  il  più 
autorevole  fra  gli  oppositori  del  gesuita),  le  cui  Lettere,  più  tardi 
raccolte  in  un'opera  rimeditata,2  sono  ben  più  vivaci  che  non  le 
inedite  risposte  di  Francesco  d'Andrea.3 

I  temi  storiografici  dell'età  del  Vico,  che  il  Momigliano  ha  recen- 
temente riproposto,4  sono  già  presenti  nel  primo  lavoro  del  Gianno- 
ne: la  storia  civile,  deteologizzata  secondo  l'insegnamento  di  Ba- 
cone, si  intreccia  con  la  storia  ecclesiastica,  proponendo  un  rapporto 
nuovo  fra  storia  sacra  e  storia  profana;  il  diritto  non  è  più  inteso  in 
una  dimensione  di  eternità  che  ipostatizzi  il  modello  romano,  ma 
piuttosto  nella  sua  storicità  concreta.  Inoltre  c'era  stato  l'incontro 
con  i  grandi  storici  civili  del  Rinascimento,  da  Machiavelli  a  Guic- 
ciardini fino  a  Sarpi  e  Marc' Antonio  De  Dominis,  con  i  gallicani,  co- 
me Jacques-Auguste  De  Thou,  Claude  Fleury,  Louis  Ellies  Du  Pin, 
con  i  protestanti,  come  Grozio,  William  Cave,  Gilbert  Burnet,  con  lo 


1.  Cfr.  L.  A.  Porzio,  Opera,  a  cura  di  F.  Porzio,  Napoli  1736,  1,  pp.  291 
sgg.  3.  C.  Grimaldi,  Discussioni  istoriche,  teologiche  e  filosofiche  fatte  per 
occasione  della  Risposta  alle  lettere  apologetiche  di  B.  Aletino,  Lucca  (ma 
Napoli)  1725,  in  tre  volumi.  Cfr.,  oltre  alle  Memorie  di  un  anticurialista  del 
Settecento,  a  cura  di  V.  I.  Comparato,  Firenze  1964,  dello  stesso  Compa- 
rato, Ragione  e  fede  nelle  discussioni  istoriche,  teologiche  e  filosofiche  di  Co- 
stantino Grimaldi,  in  Autori  vari,  Saggi  e  ricerche  sul  Settecento,  Napoli 
1968,  pp.  48-93.  3.  Cfr.  B.  De  Giovanni,  Filosofia  e  diritto  in  Francesco 
D'Andrea.  Contributo  alla  storia  del  previchismo,  Milano  1958;  S.  Mastel- 
lone,  Francesco  D'Andrea  politico  e  giurista  (1648-1698).  L'ascesa  del  ceto 
civile,  Firenze  1969.  Per  una  precisa  messa  a  punto  filologica  sulle  risposte 
del  D'Andrea  cfr.  ora  A  Quondam,  Minima  Dandreiana,  in  a  Rivista  storica 
italiana»,  anno  t.xxxti  (1970),  fase,  rv,  pp.  887-916.  4.  A.  Momigliano, 
La  nuova  storia  romana  di  G.  B.  Vico,  in  «Rivista  storica  italiana»,  anno 
Lxxvn  (1965),  PP-  773  sgg. 


NOTA   INTRODUTTIVA  583 

stesso  Pierre  Bayle,  citato,  sia  pur  fuggevolmente,  nell'Istoria  a  pro- 
posito di  Giordano  Bruno. 

A  Napoli  non  mancava  un  certo  tipo  di  informazione  europea:  le 
biblioteche  del  Valletta  e  di  Sant'Angelo  al  Nido  erano  ricchissime 
di  tutte  le  grandi  opere  della  «crisi  della  coscienza  europea j».1  Inoltre 
non  mancavano,  come  è  noto,  né  i  rapporti,  diretti,  ma  necessaria- 
mente saltuari,  con  gli  eruditi  protestanti,  né  quelli  con  le  grandi 
riviste  europee,  che  sono  quasi  tutte  presenti  nella  biblioteca  di 
Sant'Angelo  al  Nido. 

Pur  distratto  dall'istoria,  il  Giannone  seguiva  sia  il  dibattito  scien- 
tifico, con  gli  amici  Nicola  Cirillo  e  Lucantonio  Porzio  che  riceve- 
vano le  «Philosophical  Transactions  »,  sia  quello  erudito-religioso, 
attraverso  l'amicizia  con  PAulisio.  Costui  lesse  e  rivide  i  primi  tre 
tomi  dell'Istoria,  ma  fece  ben  altro,  suggerendogli  quell'interesse  per 
il  mondo  della  storia  ebraica,  che  doveva  raccogliersi  e  condensarsi 
nel  primo  libro  del  Triregno.  Il  maestro,  che  non  solo  si  occupava 
di  storia  (secondo  Lorenzo  Giustiniani  fu  l'ispiratore  e  la  guida  di 
Domenico  Antonio  Parrino),3  di  diritto,  di  medicina  e  di  erudizione 
sacra,  è  già  in  un  certo  senso  un  modello  per  il  Giannone.  Ma  c'è 
una  dipendenza  più  diretta,  ed  è  quella  tra  l'opera  dell' Aulisio  inti- 
tolata Delle  scuole  sacre3  e  il  Triregno.  Le  Scuole  sacre  sono  un  ten- 
tativo simile  a  quello  di  Pierre-Daniel  Huet  di  polemizzare  contro 
Spinoza,  assorbendone  in  parte  lo  spirito,  nel  senso  che,  come  l'Huet, 
l'Aulisio  è  costretto  a  sviluppare  negativamente  la  dicotomia  posta 
da  Spinoza  nel  Tractatus  iheologico-politicus  tra  filosofia  e  teologia. 
Per  Spinoza  era  un'operazione  liberatrice,  che  completava,  nel  campo 
della  filosofia,  il  discorso  del  Machiavelli  ;  per  Huet  e  per  l'Aulisio  è 
una  forma  di  pessimismo  radicale  verso  la  ragione.  Ma  nel  complesso 
l'Aulisio  applica  e  a  volte  allarga  i  risultati  di  Spinoza;  così  farà 
anche  il  Giannone,  conservando,  significativamente,  rispetto  allo 
Spinoza,  certi  atteggiamenti  di  relativismo  e  di  sfiducia  nella  ragione 
che  gli  derivano  dal  maestro.4 

Inoltre  il  Triregno  accetta,  sia  pur  allargandolo,  anche  lo  schema 
dell' Aulisio  :  fra  scuole  ebree  e  cristiane  (pretesti  per  un  discorso 
che  investe  differenze  e  continuità  delle  due  civiltà),  e  i  tre  regni,  ci 
sono  più  punti  in  comune  di  quanto  non  sia  stato  sottolineato.5  Il 
Giannone  rivede,  sotto  una  dimensione  intellettuale  che  è  ormai 


1.  Cfr.  V.  I.  Comparato,  Giuseppe  Valletta.  Un  intellettuale  napoletano 
della  fine  del  Seicento,  Napoli  1970,  pp.  86-138.  2.  Cfr.  G.  Ricuperati, 
Uesperienza  ecc.,  cit.,  p.  153.  3.  Napoli  1723,  in  due  volumi.  4.  Cfr. 
G.  Ricuperati,  Uesperienza  ecc.,  cit.,  pp.  58-60.  5.  Per  un'analisi  delle 
Scuole  sacre  cfr.  G.  Ricuperati,  L'esperienza  ecc.,  cit.,  pp.  60-78. 


584  IL   TRIREGNO 

dominata  da  altre  esperienze  europee,  lo  stesso  mondo  ebreo-cri- 
stiano dell'Aulisio.  Vi  aggiunge  il  Regno  papale-,  ed  è  quanto  egli  ha 
decisamente  in  più,  come  storico  e  come  intellettuale,  rispetto  all'e- 
rudito napoletano,  una  dimensione  politica  e  religiosa  che  si  muove 
ormai  verso  l'IUuminismo. 

A  Vienna  il  Giannone  trova  l'ambiente  adatto  per  scrivere  il  Tri- 
regno :  i  suoi  amici  coltissimi,  Pio  Nicolò  Garelli,  Alessandro  Riccardi, 
Nicola  Forlosia,  Francesco  Antonio  Spada  e  più  tardi  Biagio  Garo- 
falo e  Bernardo  Andrea  Lama,1  gravitano  intorno  alla  Biblioteca 
Palatina  e  quindi  hanno  la  possibilità  di  avere  a  disposizione  libri 
rarissimi.  Inoltre,  fin  dai  tempi  del  prefetto  Giovanni  Benedetto 
Gentilotti,  che  il  Giannone  conobbe  appena,  cioè  dalla  fase  di  rias- 
sestamento della  Palatina,  i  bibliotecari  han  rapporti  con  gli  eruditi 
protestanti,  con  i  dotti  luterani  di  Lipsia  che  pubblicano,  sotto  il 
segno  di  uno  spirito  universalistico  e  religiosamente  aperto  perché 
di  eredità  leibniziana,  gli  «Acta  Eruditorum  Lipsiensium  ». 

Vienna,  durante  la  guerra  di  successione  spagnola,  aveva  inaugu- 
rato un  rapporto  nuovo,  più  polemico  e  duro,  nei  confronti  della 
Santa  Sede,  di  cui  l'episodio  di  Comacchio  era  stato  soltanto  il  segno 
più  esterno.  Una  confusa,  ma  percettibile  volontà  di  egemonia  sui 
paesi  tedeschi,  protestanti  e  cattolici,  contro  l'emergere  della  Prus- 
sia, aveva  avuto  come  conseguenza  un  certo  interconfessionalismo, 
che  circola  soprattutto  nel  mondo  della  diplomazia.2  Inoltre  Cle- 
mente XI,  tentando  di  contrastare  l'elezione  a  imperatore  di  Carlo 
attraverso  il  voto  dei  tre  vescovati  cattolici,  aveva  provocato  la  rea- 
zione degli  scrittori  giurisdizionalisti  imperiali.  E  ancora,  a  Vienna 
non  era  mancato  il  lavoro  dei  diplomatici  europei  per  la  successione 
protestante  sul  trono  d'Inghilterra.  La  diplomazia  intorno  al  prin- 
cipe Eugenio  era  in  parte  protestante  e  decisamente  libertina,  come 
quell'affascinante  figura  di  aiutante  del  principe,  il  barone  Georg 
Wilhelm  Hohendorf,3  che  tenne  le  fila  dei  rapporti  con  l'Inghilterra 
e  con  la  Francia,  guadagnandosi,  in  queste  segrete  manovre  che  con- 
cludevano una  vita  avventurosa  trascorsa  in  Oriente,  la  possibilità 
di  raccogliere  una  splendida  biblioteca  e  di  contribuire,  anche  nei 
lunghi  soggiorni  olandesi,  a  quella  del  principe  Eugenio. 

Quando  il  Giannone  giunse  a  Vienna,  si  viveva  in  realtà  il  riflusso 

1.  Cfr.  ibid.,  pp.  231  sgg.  2.  Cfr.  M.  Braubach,  Geschickte  und  Abenteuer. 
Gestalten  um  den  Prinzen  Eugen,  Miinchen  1950.  Cfr.  ancora,  dello  stesso, 
Versailles  und  Wien  von  Ludwig  XIV  bis  Kaunitz,  Bonn  1952  ;  Die  Geheìm- 
diplomatie  des  Prinzen  Eugen  von  Savoyen,  Kòln  und  Opladen  1962; 
Prinz  Eugen  von  Savoyen,  Miinchen  1963-1965,  in  cinque  volumi.  3.  Ol- 
tre alle  citate  opere  del  Braubach  cfr.  G.  Ricuperati,  L'esperienza  ecc., 
cit.,  pp.  397  sgg. 


NOTA   INTRODUTTIVA  585 

di  questa  esperienza,  che  aveva  coinvolto  politica,  religione  e  cultura:1 
il  viaggio  di  Leibniz  nella  capitale  asburgica  era  un  ricordo  lontano; 
anche  i  contatti  con  John  Toland,  che  era  stato  l'agente  librario  e 
l'amico  dell'Hohendorf  e  quindi  del  principe  Eugenio,  erano  ormai 
perduti  nel  tempo.  Il  principe  stesso  aveva  smorzato,  nella  nuova 
fase  della  politica  austriaca  (di  tentato  riavvicinamento  alla  Francia 
e  al  papato)  la  carica  interconfessionalistica  e  libertina  dei  suoi  anni 
giovanili,  o  almeno  la  mascherava  dietro  il  cinismo  intelligente  del 
grande  collezionista,  che  guarda  i  fatti  contingenti  con  la  saggezza 
amara  ed  esperta  del  protagonista  ormai  stanco.  In  un  impero  che 
poco  prima  della  pubblicazione  dell'Istoria  aveva  chiesto  rinvesti- 
tura al  papa  per  il  regno  di  Napoli,  e  che  aveva  scelto  come  viceré 
dello  stesso  stato  Friedrich  Michael  Althann,  il  cardinale  che  aveva 
avuto  il  merito  di  ottenerla,  un  anticurialista  come  Alessandro  Ric- 
cardi era  per  tutti  un  pittoresco,  ma  anche  un  pericoloso  soprav- 
vissuto.2 

Restavano  i  rapporti  con  i  protestanti  di  Lipsia  e  soprattutto  i 
libri  libertini  e  deistici  e  di  polemica  antiromana  raccolti  dall'Ho- 
hendorf  e  da  Eugenio,  dall'arcivescovo  di  Valenza  Folch  de  Cardona, 
oltre  che  dal  Riccardi  stesso.  E  non  solo  i  libri,  ma  anche  i  mano- 
scritti, le  primizie  del  pensiero  deistico,  collezionate  dalTHohendorf 
in  Inghilterra,  in  Francia  e  in  Olanda,  o  inviate,  come  missive  ben 
più  ardite  dei  testi  che  saranno  stampati,  dallo  stesso  Toland  ai  suoi 
amici  nobili  e  libertini.3  Di  questo  mondo  in  riflusso,  proprio  nella 
misura  in  cui  il  suo  impiego  politico  diventava  impossibile,  il  Gian- 
none  prese  la  guida,  nei  rapporti  con  i  protestanti,  collaborando  agli 
«Acta»  e  utilizzandoli  non  solo  per  difendere  l'Istoria  di  fronte  a  un 
tribunale  europeo,  ma  per  conoscere  il  mondo  anglicano  e  confron- 
tarlo con  le  proprie  esperienze.  Inoltre  leggeva  e  studiava  i  testi  li- 
bertini e  deistici  della  letteratura  post-spinoziana  che  si  accumula- 
vano, dopo  la  morte  dell'Hohendorf,  del  Cardona  e  del  Riccardi, 
nella  Palatina.  Il  Triregno  nasce  significativamente  negli  ultimi  anni 
della  permanenza  viennese:  dal  173 1  al  1734  diventa,  a  poco  a  poco, 
l'esperienza  dominante.  Ma  non  si  deve  dimenticare  quel  documento, 
di  cui  altrove  ho  sottolineato  la  perplessità  e  la  drammaticità,  che  è 
la  recensione  alla  Pkilosophia  adamito-noetica  di  Antonio  Costantino.4 
Mentre  sta  raccogliendo  il  materiale  per  il  Triregno,  il  Giannone  è 
angosciato  di  fronte  al  vuoto  che  vede  aprirsi  dinnanzi.  Se  questo 


1.  Cfr.  ibid.,  cap.  vi.  2.  Cfr.  ibid.,  pp.  274  sgg.  3.  Cfr.  ibid.,  cap.  vi. 
4.  Cfr.  G.  Ricuperati,  Alle  origini  del  «  Triregno  *:  la  «  Pkilosophia  adamito- 
noetica'»  di  Antonio  Costantino,  in  «Rivista  storica  italiana»,  anno  lxxvii 
(1965),  fase.  3,  pp.  602-38. 


586  IL   TRIREGNO 

documento  è  della  fine  del  1731,  come  ho  tentato  di  dimostrare,  si- 
gnifica che  all'inizio  della  ricerca  egli  volle  porre  a  sé  i  limiti  che 
nella  recensione  pone  al  Costantino,  le  stesse  barriere  che  la  coscien- 
za europea  più  sensibile,  cattolica  e  protestante  nelle  diverse  con- 
fessioni, andava  cercando  di  innalzare  di  fronte  all'offensiva  deistica, 
post-spinoziana.  In  questo  momento  il  Giannone  si  scontra  con  le 
stesse  preoccupazioni  che  avevano  mosso  il  vecchio  vescovo  d'A- 
vranches,  l'Huet,  da  parte  cattolica,  Jacques  de  La  Faye  ed  Elie 
Benoist  fra  i  calvinisti,  e  da  parte  luterana  Salomon  Deyling  e  il 
giovane  Johann  Laurenz  Mosheim.1 

Ma  nel  lavoro  egli  non  tenne  più  conto  di  nulla;  fatalmente,  come 
il  maestro  aveva  subito  Spinoza,  il  Giannone  subisce  la  lezione  della 
letteratura  postspinoziana  e  deistica.  I  grandi  motivi  del  Triregno 
sono  soprattutto  tre:  il  rapporto  con  Spinoza,  o  meglio  con  la  lette- 
ratura che  parte  da  Spinoza;  il  rapporto  con  Cartesio,  cioè  con  la 
letteratura  materialistica  europea  che  dalla  bète  machine  giungerà  al- 
Yhomme  machine-,  il  rapporto  con  una  religiosità  che  non  è  più  cat- 
tolica o  protestante,  ma  che  si  compone  nello  spirito  di  tolleranza 
nato  in  seno  al  luteranesimo,  al  calvinismo  e  all'anglicanesimo.  Il 
Giannone,  riallacciandosi  all'irenismo,  alla  tradizione  di  pace  reli- 
giosa che  si  coglie  così  intensamente  nell'esperienza  gallicana  del  De 
Thou,  ma  confrontando  questi  valori  con  il  presente,  rappresenta 
(e  in  questo  ci  può  essere  spirito  riformatore)  il  contributo  del  suo 
punto  di  partenza  cattolico  alla  circolazione  europea  delle  idee. 

Per  quanto  riguarda  Spinoza,  il  Giannone  lo  accetta  o  lo  discute 
serenamente,  con  la  piena  acquisizione  del  suo  pensiero  e  con  la 
perfetta  conoscenza  della  grande  quérelle  successiva.  Ma  se  Spinoza 
può  essere  perfino  scavalcato  a  sinistra  (anche  se  è  infelice  il  giudi- 
zio di  «vecchio  rabbino  »  datogli  da  Guido  De  Ruggiero  in  un  con- 
fronto col  napoletano),2  il  Giannone  è  consapevole  che  quelli  con 
cui  bisogna  fare  i  veri  conti  sono  ormai  i  nuovi  libertini,  i  deisti.  Si 
apre  il  problema  del  rapporto  fra  il  Giannone  e  il  Toland,  che  può 
essere  studiato  solo  tenendo  conto  che  a  Vienna,  nelle  mani  del 
gruppo  giannoniano,  manoscritte  o  stampate,  circolavano  in  fran- 
cese o  in  latino  tutte  le  opere  del  deista  irlandese.3 

Da  costui  (Letters  to  Serena  e  Origines  iudaicae)  il  Giannone  ricava 
la  teoria  che  gli  Ebrei  non  conoscessero  immortalità  dell'anima  e  che 
avessero  una  concezione  puramente  terrena  della  vita.  Tutto  il  Regno 
terreno  è  un  comporsi  in  discorso  storico  delle  intuizioni  radicali, 

1.  Cfr.  G.  Ricuperati,  V esperienza  ecc.,  cit.,  pp.  446-55.  2.  G.  De  Rug- 
giero, U  pensiero  politico  meridionale  nei  secoli  XVIII  e  XIX,  Bari  1946, 
p.  34.     3.  Cfr.  G.  Ricuperati,  L'esperienza  ecc.,  cit.,  pp.  409  sgg. 


NOTA   INTRODUTTIVA  587 

ma  un  po'  giornalistiche  del  Toland,  risalendo  naturalmente  ai  suoi 
maestri,  lo  Spinoza,  John  Spencer  e  John  Marsham. 

Il  Giannone,  accettando  le  tesi  del  Toland,  non  solo  le  allarga  e 
le  consolida,  inserendole  nel  proprio  discorso,  ma  le  confronta  con 
tutta  la  polemica  antitolandiana  che  il  mondo  protestante,  nelle  varie 
componenti,  ha  articolato;  si  serve  del  luterano  Salomon  Deyling  per 
ricostruire  tutto  il  dibattito  sul  problema,  risollevato  almeno  in  parte 
da  Spinoza,  dell'immortalità  o  meno  dell'anima.  Ma  naturalmente 
egli  rovescia  le  tesi  del  Deyling,  o  meglio  le  utilizza  dialetticamente; 
riesce  ad  inserire,  sia  pure  per  informazione  indiretta,  in  un  quadro 
europeo,  le  proprie  idee,  che  coincidono  con  quelle  di  William  Co- 
ward,  del  Toland  e  di  Henry  Dodwell.1 

Il  rapporto  con  la  cultura  post-cartesiana  si  può  capire  solo  tor- 
nando un  momento  indietro,  alla  formazione  stessa  del  Giannone: 
antico  scotista,  poi  gassendiano  e  solo  più  tardi  cartesiano,  attraverso 
Malebranche.  La  scoperta  del  De  inquirenda  meritate  si  inseriva  in 
quella  fase  di  ricostruzione  di  cui  si  è  parlato  prima.  A  Vienna  aveva 
riletto  Cartesio,  ma  mentre  scriveva  il  Triregno  era  in  atto  la  crisi 
della  fisica  cartesiana,  sotto  l'assalto  del  newtonianesimo.2  Alla  me- 
tafisica cartesiana  il  Giannone  non  si  era  mai  avvicinato  con  troppo 
interesse  ;  per  quanto  riguardava  la  fisica  gli  permanevano  un  atteg- 
giamento empirista  e  alcune  obiezioni  di  origine  gassendiana.  Contro 
Cartesio,  il  Giannone,  che  è  decisamente  anti-dualista,  compone  ar- 
gomenti tratti  dalla  formazione  gassendiana,  dal  materialismo  tolan- 
diano  e  anche  dal  newtonianesimo. 

Se  ciò  riguarda  soprattutto  i  primi  due  temi,  sul  terzo,  cioè  il 
significato  storiografico  e  i  suoi  riflessi  religiosi,  occorre  dire  che  il 
Giannone  nel  Triregno  accentua  il  rapporto  di  apertura  e  di  simpatia 
verso  le  fonti  protestanti.  Accoglie  entusiasticamente  l'opera  di  Jo- 
seph Bingham,  le  Origines  sive  antiquìtates  ecclesiasticae,  il  più  grande 
lavoro  della  storiografia  erudita  anglicana  (frutto  di  una  tradizione 
che  dal  De  Dominis  passa  attraverso  William  Cave,  James  Usher, 
Edward  Brerewood)  e  lo  confronta  con  le  esperienze  di  Louis  Ellies 
Du  Pin  e  di  Zeger  Bernard  van  Espen.  Utilizza  Salomon  Deyling,  uno 
dei  primi,  con  le  Observatùmes  sacrae  (assieme  al  giovane  Mosheim), 
ad  avvertire  i  rischi  impliciti  nel  discorso  del  Toland  e  a  collegare 
l'esperienza  del  deista  con  Spinoza,  Richard  Simon,  Marsham  e 
Spencer.  L'opera  del  Deyling  era  una  poderosa  risposta  allo  spino- 


1.  Cfr.  ìbid.,  pp.  467-70.  2.  Cfr.  la  mia  rassegna  Studi  recenti  sul  primo 
Settecento  italiano:  G.  V.  Gravina  e  A.  Conti,  in  «Rivista  storica  italiana», 
anno  lxxxii  (1970X  fase.  3,  pp.  611-44. 


588  IL    TRIREGNO 

zismo,  di  cui  denunciava  materialismo  e  panteismo,  e  la  minaccia 
contro  la  tradizione. 

L'opera  del  Mosheim,  rivolta  contro  le  Origines  iudaicae,  ma  so- 
prattutto contro  il  Nazarenus,1  conteneva  addirittura  una  proposta 
di  alleanza  fra  cattolici  e  protestanti  per  combattere  il  nuovo  mostro, 
il  Toland,  dietro  il  quale  coglieva  il  richiamo  al  radicalismo  anabat- 
tista e  al  comunismo  evangelico,  una  minaccia  che  perciò  andava 
ben  oltre  le  istituzioni  religiose  e  investiva  un  discorso  politico.  In 
realtà  il  Giannone  si  serve,  per  verificare  la  sua  verità,  del  confronto 
con  gli  autori  che  polemizzano  contro  il  Toland,  e  talvolta  ne  accetta 
provvisoriamente  l'alleanza;  ma  più  spesso,  come  nel  caso  del  Dey- 
ling,  li  forza  fino  a  farsi  rivelare  -  e  quindi  apprendere  -  proprio  quel 
deismo  che  essi  volevano  combattere.2 

Resta  da  affrontare  la  proposta  storiografica:  del  cristianesimo  sin- 
golare che  emerge,  di  tipo  deistico,  si  è  già  detto. 

Il  Salvatorelli,3  in  una  rassegna  di  studi  sulla  storia  del  cristiane- 
simo, sottolineava  l'importanza  del  Toland  per  le  modernissime  in- 
tuizioni. Altrettanto  avrebbe  potuto  sostenere  del  Giannone,  se  aves- 
se avuto  a  disposizione  una  migliore  edizione  del  Triregno,  perché 
quest'opera  raccoglie,  con  maggiore  serietà  storiografica  ed  uma- 
na, le  migliori  intuizioni  del  Toland.  Lo  capì,  con  felicissima  sensi- 
bilità, l'Omodeo,  che  trasformò  la  sua  recensione  al  Triregno  in  un 
vero  e  proprio  saggio4  parlandone  come  di  una  grande  opera  di 
storia  religiosa  che  vive  un  complesso  rapporto  con  tutta  la  lettera- 
tura dell'età  del  Bayle  e  che  avrebbe  potuto  avere  una  profonda 
incidenza,  se  messa  in  circolazione,  sulle  origini  dellTUurriinismo 
europeo. 

Certo,  nel  Regno  celeste  il  Giannone  ha  utilizzato,  più  che  non  il 
Toland,  la  storiografia  protestante,  polemica  contro  la  paganizza- 
zione  di  Roma  e  tutta  volta  a  cogliere  il  significato  della  venuta  di 
Gesù,  la  radicale  cesura  spirituale  con  il  mondo  di  prima.  Il  Cristo 
del  Toland,  più  che  il  grande  impostore  della  tradizione  libertina, 
era  piuttosto  un  personaggio  storico  del  mondo  settario  ebraico.  Al 
Nazareno  il  Toland  contrappone  il  discorso  di  Paolo,  vero  fondatore 
del  cristianesimo.  Il  Fariseo  ellenizzante  però  ha  tradito  la  tradizione 
mosaica,  viva  tra  gli  Ebioniti  e  i  Nazareni,  e  che  si  ritrova  piuttosto 


1.  Cfr.  G.  Ricuperati,  L'esperienza  ecc.,  cit.,  pp.  452-5.  2.  Cfr.  ibid., 
pp.  439  sgg.  3.  L.  Salvatorelli,  Da  Locke  a  Reitzenstein,  in  «Rivista 
storica  italiana»,  anno  xlv  (1928),  pp.  341-69 ;  e  anno  xlvt  (1929),  pp.  5-66. 
4.  A.  Omodeo,  recensione  al  Triregno  edito  da  A.  Parente  (Bari  1940,  in  tre 
volumi),  in  «La  Critica»  (1941),  ora  in  II  senso  della  storia^  Torino  1948, 
ristampa  del  1955,  pp.  245  sgg. 


NOTA   INTRODUTTIVA  589 

(in  un'analisi  in  cui  l'elemento  comparatistico   è  squilibrato  dalla 
carica  polemica)  nel  maomettanesimo.1 

Per  il  Giannone,  che  proviene  da  un'esperienza  profondamente 
diversa,  la  storicizzazione  della  venuta  ài  Cristo  è  più  difficile;  il 
senso  del  primo  messaggio  cristiano  più  autentico.  Ma  coglie  subito 
l'istituzionalizzarsi  della  speranza,  il  politicizzarsi  delle  gerarchie, 
che  strumentalizzano  ai  loro  fini  anche  la  delusione  provocata  dal- 
l'attesa chiliastica.  Il  cristianesimo  primitivo  è  una  realtà  molto  com- 
plessa in  cui  sulla  matrice  ebraica  (che  viene  a  contare  profondamente 
per  la  prima  diffusione,  legata  alla  distribuzione  delle  comunità  ebree 
e  alle  sinagoghe)  si  inserisce  la  dimensione  romana,  cioè  l'assorbi- 
mento sempre  più  profondo  delle  strutture  dell'Impero  da  parte 
della  Chiesa.  Sulla  strada  della  deteologizzazione  della  storia,  anche 
rispetto  al  Toland,  il  Triregno  non  è  un  passo  indietro.  Inoltre  apre 
il  problema  (e  significativamente  anche  il  Mosheim  si  muoverà  su 
questa  strada)  di  una  visione  comparatistica  del  fenomeno  religioso. 
Tale  prospettiva  sarà  posta,  almeno  come  esigenza,  nell'ultimo  im- 
portante libro,  F Istoria  del  pontificato  di  Gregorio  Magno,  fra  le  opere 
del  Giannone  del  carcere  quella  che  si  riallaccia  significativamente 
di  più  ai  temi  e  alle  ipotesi  previste,  ma  ancora  da  svolgere,  nel 
Regno  papale. 

Alla  luce  di  quanto  si  è  detto  prima  è  possibile  misurare  Fimpor- 
tanza  dell'ultima  parte  del  Triregno,  che,  non  bisogna  dimenticarlo, 
è  soltanto  un  abbozzo.  Se  nel  Regno  terreno  e  in  quello  celeste  avevano 
dominato  come  impulsi  unificanti  gli  interessi  filosofici  e  religiosi 
(dal  deismo  al  protestantesimo),  nella  terza  parte  prevale  piuttosto 
l'interesse  storico  e  politico,  che  naturalmente  trova  la  sua  giustifica- 
zione nell'impianto  precedente.2  In  questo  senso  il  Triregno  voleva 
essere  un'opera  di  storia  a  contemporanea  »,  cioè  voleva  affrontare  e 
risolvere,  in  termini  non  più  riconducibili  al  giurisdizionalismo  o  al 
gallicanesimo,  i  problemi  del  potere,  di  un  potere  ecclesiastico  ancora 
molto  forte  nel  mondo  contemporaneo  al  Giannone,  ma  ormai,  sia 
pur  per  segni  quasi  impercettibili,  in  crisi.  Studiarne  storicamente 
l'evoluzione  fino  al  proprio  tempo  sarebbe  stato  un  modo  per  tra- 
durre in  tennini  politici  la  «rottura»  spinoziana  e  post-spinoziana, 
allargare  la  crisi  della  coscienza  religiosa  europea,  aprire  quel  pro- 
cesso di  «  decristianizzazione  »  di  fronte  al  quale  egli  stesso  ambigua- 
mente arretrava.  Avrebbe  voluto  essere  quindi,  nella  parte  appena 
abbozzata,  una  storia  civile  e  religiosa  della  società  occidentale,  in 
cui  tutte  le  fila  del  discorso  precedente,  sul  mondo  gentile,  ebreo  e 

1.  Cfr.  G.  Ricuperati,  V esperienza  ecc.,  cit.,  pp.  410  sgg.     2.  Cfr.  B.  Vi- 
gezzi,  Pietro  Giannone  riformatore  e  storico,  Milano  1961,  pp.  278-300. 


590  IL   TRIREGNO 

cristiano,  fossero  ricondotte  alla  spiegazione  della  realtà  presente. 
Che  cos'è  il  Regno  papale  ?  Non  è  la  storia  del  «  dominio  che  i  pon- 
tefici romani  di  volta  in  volta  si  hanno  acquistati  sopra  alcuni  stati 
d'Italia,  ed  in  Provenza  sopra  Avignone,  e  nella  nostra  Campagna 
sopra  Benevento.  Questi  acquisti  si  appartengono  al  regno  terreno, 
perché  derivano  da  prescrizioni  e  titoli  umani,  e  non  differiscono 
dagli  acquisti  degli  altri  principi  del  secolo  .  .  .  ».z  La  realtà  tempo- 
rale, vista  acutamente  come  una  sopravvivenza  del  regno  terreno,  è 
soltanto  una  delle  conseguenze  politiche  del  «nuovo  regno  chiamato 
papale»,  cioè  il  potere  che  i  pontefici  «tengono  sopra  il  mondo  e  so- 
pra le  teste  coronate  stesse  degli  imperatori,  re  e  de'  più  potenti 
principi  della  terra.  In  vigor  di  questo  regno  essi  pretendono  spian- 
tare i  regni  e  fargli  risorgere  a  loro  arbitrio;  deporre  gl'imperatori, 
i  re  e  tutti  i  principi  da'  loro  imperi,  da'  loro  regni  e  stati,  e  tra- 
sferirgli ad  altre  famiglie  e  nazioni;  che  possino  assolvere  i  loro 
sudditi  da'  giuramenti  di  fedeltà,  e  disobbligarli  di  pagar  loro  i 
tributi,  e  muovere  eziandio  le  armi  contro  gli  stessi  loro  legittimi  e 
naturali  sovrani;  che  possino  investire  delle  terre  ed  isole  discoperte 
e  da  scoprirsi  chi  sarà  di  loro  grado,  e  rendersele  a  sé  tributarie  .  .  .  ».2 

La  storia  di  questo  potere  (che  utilizzerà  proprio  le  caratteristiche 
diverse  del  cristianesimo  rispetto  alle  altre  religioni,  volte  piuttosto 
a  migliorare  la  vita  civile)  si  svolge  attraverso  una  serie  di  vicende 
in  qualche  modo  parallele  a  quelle  già  tracciate  nell'Istoria  ;  ripro- 
pone quindi  per  tutta  la  società  umana  i  temi  già  percorsi  e  indicati 
per  il  regno  di  Napoli. 

Il  Regno  papale  prevedeva  una  suddivisione  in  dieci  periodi  :  Gian- 
none  ne  scrisse  per  intero  soltanto  il  primo  e  parte  del  secondo  ;  degli 
altri  ci  ha  lasciato  una  consistente  traccia.3  Gran  parte  del  periodo  ili 
(che  appare  progettato  anche  nella  suddivisione  in  capitoli  e  para- 
grafi)4 sarà  ripresa  nell'Istoria  del  pontificato  di  Gregorio  Magno.  I 
periodi  iv  e  v  dovevano  essere  dedicati  ai  rapporti  fra  papato  e 
Impero  dalla  crisi  carolingia  a  Innocenzo  III,  cioè  al  momento  di 
massima  espansione  del  discorso  teocratico.  Il  periodo  successivo 
«termina  col  ponteficato  di  Bonifacio  Vili,  che  fu  il  fine  della  mag- 
gior grandezza  del  papato,  e  '1  principio  della  sua  decadenza».5  I 
periodi  vii  e  vili  avrebbero  compreso  la  storia  della  Chiesa  dalla 
cattività  avignonese  alla  rottura  della  res  publica  Christiana  ad  opera 
del  protestantesimo.  Il  Giannone  mostra  -  in  questo  schema  -  di 
valutare  il  significato  politico-religioso  di  tale  rottura,  non  compen- 
sata dai  «nuovi  acquisti  dell'America  e  dell'Indie  Orientali».6  I  due 

i.  Cfr.  Il  Triregno,  ed.  Parente  cit.,  in,  p.  3.  2.  Ibid.,  pp.  4-5.  3.  Ibid.9 
pp.  14-5.    4.  Ibid.,  pp.  216-9.     5-  Ibid.,  pp.  220-1.     6.  Ibid.,  p.  222. 


NOTA  INTRODUTTIVA  591 

ultimi  periodi  tendevano  a  descrivere  il  comportamento  del  papato 
dopo  la  rottura  protestante  :  dalla  politica  nepotistica  rinascimentale, 
che  avrebbe  abbracciato  tutto  il  nono  periodo  fino  a  Sisto  V,  alle 
conseguenze  della  Controriforma,  con  il  piccolo  nepotismo  e  la  ten- 
denza del  potere  papale  a  sopravvivere  a  co*  maneggi  e  sottili  artifizi 
praticati  nelle  corti  de'  principi  d'Europa*^.1  Ma  egli  coglieva  -  sia 
pur  nella  schematicità  dell'abbozzo  -  il  mutamento  che  si  stava  veri- 
ficando non  solo  nella  politica  della  Chiesa,  ma  anche  nella  società 
civile  europea.  La  prima  si  misurava  infatti  non  solo  più  con  l'asso- 
lutismo statale,  ma  con  un'opinione  pubblica  e  una  circolazione  delle 
idee  che  avevano  infranto  in  qualche  modo  la  censura  ecclesiastica; 
in  questa  fase,  che  giungeva  fino  a  Clemente  XII,  la  politica  papale 
sarebbe  stata  descritta  dal  Giannone  in  tutta  la  sua  strategia  difen- 
siva e  minimale  (ma  ancora  pericolosa  e  soprattutto  da  non  sottova- 
lutare perché  sottilmente  corruttrice)  nei  confronti  della  nascente 
società  illuminata:  <?e  scorgendo  di  non  potere  più  porre  in  opra  le 
scomuniche  e  gl'interdetti,  per  non  esporsi  a  grandi  pericoli,  tutti  i 
loro  pensieri  furono  finalmente  rivolti,  affin  di  sostenere  l'autorità 
loro,  a  tenersi  ben  affetti  i  primi  ministri  delle  principali  corti  di 
Europa  con  promesse  di  cardinalati  e  di  altre  prelature,  di  dispense, 
grazie,  privilegi  ed  indulgenze;  e  sopratutto  di  pensioni,  benefizi 
semplici,  i  quali  non  obbligano  a  residenza,  e  di  tutto  ciò  che  può 
dispensare  la  dataria,  la  penitenzieria  e  la  cancellaria  di  Roma  a. z 
Queste  conclusioni  possono  oggi  apparirci  in  qualche  modo  pro- 
fetiche, se  per  esempio  vengono  riferite  alle  stesse  vicende  umane 
del  Giannone,  vittima  esemplare  della  paziente  ed  inflessibile  trama 
curiale  che  implicò  non  solo  ecclesiastici,  ma  anche  uomini  politici, 
dal  marchese  d'Ormea  a  Carlo  Emanuele  III.3  Ma  valgono  ancora 
di  più  in  un  certo  senso  a  prefigurare  quanto  sarebbe  accaduto  alla 
stessa  sua  opera.  La  Curia  romana  utilizzò  la  Corte  piemontese  non 
solo  per  l'arresto  e  la  detenzione,  ma  anche  per  averne,  in  tutti  i 
modi,  i  manoscritti,  fra  cui  (almeno  in  parte)  l'autografo  del  Triregno.* 
Successivamente  riuscì  a  procurarsi  anche  l'apografo,  facendolo  ac- 
quistare a  Ginevra,  con  l'inganno,  da  un  proprio  agente,5  che  sarà 
premiato  con  una  somma  di  denaro  e  una  pensione  ecclesiastica  per 
il  proprio  figlio.6  Ma  l'operazione,  che  pur  impedi  l'uscita  dell'opera 
quando  questa  avrebbe  avuto  un  profondo  significato  politico-reli- 
gioso, non  riuscì  a  cancellarne  definitivamente  ogni  traccia.  L'auto- 


1.  Il  Triregno,  ed.  cit.,  p.  223.  2.  Ibid.,  p.  223.  3.  Cfr.  G.  Ricuperati, 
L'esperienza  ecc.,  cit.,  pp.  543-6.  4.  Cfr.  Giannoniana,  p.  341.  5.  Si  trat- 
ta di  Jean  Bentivoglio,  su  cui  cfr.  G.  Ricuperati,  V esperienza  ecc.,  cit., 
PP-  533-5-     6.  Ibid.,  p.  536. 


592  IL   TRIREGNO 

grafo  del  Regno  celeste  raggiunse  Napoli  molto  prima  del  17661  e  fu 
utilizzato  da  Leonardo  Panzini  per  la  Vita  del  Giannone.  Fra  il  1766 
e  il  1768  una  copia  dell'apografo,  fatta  fare  probabilmente  da  un 
ecclesiastico  influente,  lasciò  Roma  e  iniziò  la  fortuna  sotterranea  di 
questo  grande  lavoro,  di  cui  si  parla  compiutamente  nell'edizione 
delle  Opere  postume  del  1 76  S3  e  di  cui  Pietro  Verri  annunciava  negli 
stessi  anni  la  prossima  pubblicazione  in  Olanda.3 

Tale  progetto  non  fu  realizzato  ;  l'opera  continuò  la  sua  latomica, 
ma  precisa  circolazione  nei  frammenti,4  nelle  copie  parziali  e  com- 
plete. Ma  anche  quanto  era  richiamato  nei  cenni  riassuntivi  di  Leo- 
nardo Panzini  (che  con  la  sua  attività  di  editore  e  biografo  aveva 
aperto  il  a  giannonismo  »  dell'età  tanucciana)  faceva  affiorare  un  di- 
scorso politico-religioso  così  complesso  e  inquietante  che  andava  oltre 
la  dimensione  meramente  regalistica  e  giurisdizionalistica  in  cui  si 
tendeva  ad  utilizzarlo  in  quegli  anni. 

Giuseppe  Ricuperati 


1,  Cfr.  P.  Giannone,  Opere  postume,  a  cura  di  L.  Panzini,  Napoli  1766, 
pp.  102  sgg.  2.  Panzini,  pp.  85  sgg.  Cfr.  Giannoniana,  p.  342.  3.  Cfr. 
Carteggio  di  Pietro  e  di  Alessandro  Verri,  I,  parte  11,  Milano  1923,  p.  124. 
Cfr.  Giannoniana,  p.  349.     4.  Cfr.  Giannoniana,  p.  xi. 


DAL  .TRIREGNO.) 

LIBRO   PRIMO 
DEL  REGNO  TERRENO 

PARTE   I 

IX    CUI  SI    CONTIENE   LA   DOTTRINA  DEGLI   EBREI, 
PALESATACI   NE»    LIBRI    DEL  VECCHIO  TESTAMENTO 

CAP.   IV 

Come  in  tutta  la  posterità  di  Xoè,  donde  si  vuole  empita  la  terra 

di  abitatori,  si  fosse  mantenuta  la  stessa  credenza  e  concetto  che 

si  ebbe  per  Vuomo  di  regno  terreno y  solo  di  felicità  o  miserie 

mondane  e  lo  stesso  concetto  del  suo  essere  e  morire. 

Se  gli  uomini  avessero  seriamente  atteso  ai  successi  che  si  nar- 
rano dopo  questa  dispersione  delle  genti  e  princìpi  di  tanti  regni 
ed  imperi  sopra  la  terra  stabiliti,  a  quella  religione  che  fu  da  Noè 
tramandata  a'  suoi  figliuoli  e  da  questi  a*  loro  posteri,  alle  loro 
leggi  e  costumi,  ed  a'  premi  che  speravano  ed  a'  castighi  che  te- 
li Triregno  ebbe  la  sorte  di  restare  inedito  fino  al  1895,  quando  fu  pubblicato 
a  Roma  da  Augusto  Pierantoni,  genero  di  Pasquale  Stanislao  Mancini 
(l'editore  delle  Opere  postume  del  Giannone),  in  una  edizione  scorrettissi- 
ma. Fu  ripubblicato  a  Bari  nel  1940  a  cura  di  Alfredo  Parente,  il  quale 
ebbe  il  mento  di  correggere  gli  errori  più  grossolani.  Però  anche  questa 
edizione  oggi  non  è  più  soddisfacente,  perché  si  basa  su  una  ricerca  di  co- 
dici manoscritti  molto  limitata.  Quello  su  cui  egli  ha  condotto  la  propria 
edizione  (Biblioteca  Nazionale  di  Napoli,  mss.  D.  5-6-7)  è  una  copia  del 
1783  dell'intero  Triregno  eseguita  da  un  certo  M.  C.  de  Samnitibus;  non 
ha  invece  conosciuto  la  copia  integra  che  è  oggi  presso  la  Biblioteca  Mar- 
ciana di  Venezia  (It.  ci.  XI  codd.  262-263-264).  Inoltre  a  Vienna,  alla 
òsterreichische  Nationalbibliothek  (codd.  11581-11582),  c'è  una  copia  del 
Regno  celeste,  da  cui  derivano  sia  il  codice  della  Biblioteca  Ambrosiana  di 
Milano  (y  171  sup.),  utilizzato  dal  Pierantoni,  sia  i  codici  napoletani  (una 
copia  del  Regno  celeste  alla  Biblioteca  Arcivescovile  di  Napoli,  O.  4.  24, 
da  cui  deriva  quella  della  Società  napoletana  di  Storia  patria,  xxi  D.  21). 
Oggi  un'edizione  critica  del  Triregno  dovrebbe  essere  condotta  sul  codice 
della  Marciana,  collazionato,  per  quanto  riguarda  il  Regno  celeste,  con  il  co- 
dice di  Vienna  e  per  il  Regno  papale  con  un  lungo  frammento  presente  nella 
Biblioteca  Corsiniana  di  Roma  (cod.  1577)-  Così  è  stato  fatto  per  le  parti 
qui  riprodotte,  non  senza  tuttavia  accettare  in  alcuni  casi  la  lezione  del 
testo  Parente,  e  precisamente  là  dove  questo  offre  un'interpretazione  plau- 
sibile di  contro  alla  trascrizione  palesemente  scorretta  di  quei  codici. 
Per  una  ricostruzione  dei  codici  del  Triregno  cfr.  Giarmoniana,  pp.  338-63. 
Oltre  che  nella  punteggiatura  e  in  altre  particolarità  di  ordine  tipografico, 
siamo  intervenuti,  senza  tuttavia  farne  menzione  in  nota,  nelle  citazioni 

38 


594  IL    TRIREGNO 

mevano;  certamente  che  saremmo  ora  fuori  di  tante  vane  larve  e 
di  tanti  errori  ed  illusioni  e  di  tanti  vani  timori  e  pregiudizi  che 
abbiamo  succhiato  col  latte  delle  nostre  madri.  Ci  han  dipinta 
quest'infausti  e  malaventurosi  indovini1  tutta  la  posterità  di  Noè  per 
una  massa  perduta  e  dannata,  e  che  tutti  gli  uomini  dopo  il  peccato 
d'Adamo  per  propria  natura  ed  originai  vizio  fossero  destinati  alla 
perdizione  e  ad  eternamente  penare  nel  Tartaro  ne'  più  profondi 
e  ciechi  abissi  dell'inferno,  dove  in  compagnia  de'  neri  e  tristi 
diavoli  che  foron  scacciati  come  ribelli  dal  cielo,  miseramente  do- 
vran  essere  tormentati  ed  afflitti;  che  l'essere  stati  alcuni  sottratti 
dal  comune  flagello,  come  gl'antichi  patriarchi  Noè,  Abramo, 
Isaac,  Giacobbe,  e  tutti  coloro  che  furono  a  Dio  cari,  ciò  gli  av- 
venne per  ispecial  sua  grazia  e  privilegio  e  fuori  del  naturai  corso 
della  loro  condizione,  che  gli  porta  tutti  all'inferno  come  a  suo 
centro  ed  ultimo  fine;  che  perciò  niuno  ha  ragione  di  dolersi  per- 
ché fu  riposto  fra  l'infinito  numero  de'  reprobi  e  non  in  quello  assai 
corto  degl'eletti,  poiché  niun  torto  od  ingiustizia  se  gli  fa,  avvenen- 
do ciò  per  proprio  e  naturai  istinto  ;  e  siccome  niuno  si  maraviglia 
perché  l'acqua  corre  all'ingiù,  così  non  dobbiamo  maravigliarci,  e 
molto  meno  dolerci,  se  tutti  come  massa  dannata  corriamo  alla 
perdizione;  né  dev'esser  tocchi  d'invidia  se  Iddio  alcuni  pochi  sot- 
traga  da  questa  fatai  rovina,  avvenendo  ciò  per  suo  special  favore 
e  grazia,  che  dispensa  gratuitamente  a  suo  arbitrio  ed  a  chi  gli 
piace,  valendosi  della  parabola  dell'Evangelio  e  di  quelle  parole: 
«Amice,  non  facio  tibi  iniuriam,  tolle  quod  tuum  est  et  vade».*  E 
se  gli  dimandate  dov'essi  han  letto  sentenza  sì  terribile  e  crudele 
e  scritta  con  sì  fieri  caratteri  di  sangue  ?  Essi  presto  si  mettono  in 
bocca  quelle  parole  di  S.  Paolo  :  «  Omnes  in  Adam  peccaverunt  et 


latine,  là  dove  i  copisti  sono  incorsi  in  veri  e  propri  svarioni  o  hanno  grosso- 
lanamente fraintese  le  abbreviazioni.  Per  questo  lavoro  di  restauro  ci  siam 
valsi,  fin  dove  ci  è  stato  possibile,  delle  stesse  edizioni  di  cui  si  servì  il 
Giannone. 

i.  Ci  han  dipinta  .  . .  indovini:  il  Giannone  polemizza  con  tutte  le  interpre- 
tazioni pessimistiche  del  cristianesimo,  da  quelle  cattoliche  a  quelle  pro- 
testanti. Egli  respinge  soprattutto  l'idea  dell'umanità  dannata  a  priori, 
perché  ogni  forma  di  predestinazione  è  contraria  alla  libertà  dell'uomo: 
questi  concetti,  che  chiariscono  le  precedenti  polemiche  contro  i  teologi, 
troveranno  un  largo  sviluppo,  come  si  vedrà,  nell'Apologia  de*  teologi  sco- 
lastici, Cfr.  le  osservazioni  di  B.  Vigezzi,  Pietro  Giannone  riformatore  e  sto- 
rico cìt.,  pp.  233  sgg.    2.  «  Amice . . .  vade»:  cfr.  Matth.,  20,  13. 


DEL   REGNO   TERRENO   •  PARTE   I   •  CAP.  IV  595 

per  peccatimi  in  mundum  intravit  mors».1  Tutti  adunque  pec- 
cammo in  Adamo,  e  per  conseguenza  tutti  siamo  condannati  a 
perdizione  ed  irreparabil  morte. 

ì\Ia  se  costoro  avessero  ben  letta  in  Dio  questa  faccia  e  con- 
siderata attentamente  la  divina  sua  parola  e  specialmente  questi 
primi  capitoli  del  Genesi,  non  avrebbero  certamente  trovata  scritta 
sì  terribile  e  fiera  sentenza.  La  maledizione  che  Iddio  dopo  la 
trasgressione  di  Adamo  diede  all'uomo,  non  fu  che  ài  dover  pas- 
sare la  sua  misera  vita  fra  travagli  ed  angoscie,  in  tribolazioni, 
stenti  e  dure  fattiche  :  che  la  terra  gli  porterà  spine,  ortiche  e  triboli, 
e  che  nel  sudore  della  sua  fronte  gli  converrà  mangiar  il  suo  pane; 
che  finalmente  dovrà  morire  e  ridursi  in  polvere  e  terra,  donde 
ebbe  sua  origine  e  principio.  Da  questa  maledizione  ne  derivò  an- 
cora che  la  sua  natura  fosse  più  inclinata  al  male  che  al  bene, 
quindi  Iddio  pentissi  d'averlo  fatto,  siccome  egli  chiaramente  ce 
lo  spiegò  quando  disse  a  Noè,  Gen.,  8,21  :  <f  Sensus  enim  et  cogita- 
tiones  humani  cordis  in  malum  prona  sunt  ab  adolescentia  sua». 
Questi  furono  i  perniciosi  effetti  della  trasgressione  d'Adamo,  e 
questa  fu  la  sorgiva  donde  derivarono  nell'uomo  tante  calamità  e 
miserie  che  chiamansi  efletti  del  peccato  di  Adamo  e  maledizione 
di  Dio  trasfusa  a  tutta  la  sua  posterità.  Questa  naturai  propensione 
al  male  l'espose  a  mille  e  spesse  trasgressioni  a'  divini  precetti,  e 
per  conseguenza  a  doverne  riportare  altrettanti  castighi,  flagelli, 
desolazioni  e  morti;  ma  tutto  ciò  non  oltrepassava  l'istessa  sua 
naturai  condizione.  Egli  fu  fatto  mortale;  mortali  per  conseguenza 
doveano  essere  non  meno  i  suoi  premi  che  i  suoi  castighi  e  suplizi.2 


1.  <*Omnes  .  .  .  mors*:  cfr.  Rom.,  5,  12.  Sul  significato  di  questo  brano  cfr. 
K.  Barth,  L'Epistola  ai  Ramarri,  a  cura  di  Giovanni  Miegge,  Milano  1962, 
pp.  153-5.  Sul  rapporto  fra  il  Giannone  e  san  Paolo  cfr.  la  Vita,  qui  a 
p,  228:  «Adunque  seriamente  riflettendo  sopra  il  libro  degli  Evangeli  e  gli 
Atti  di  san  Luca,  e  spezialmente  l'Epistole  di  san  Paolo,  che  avea  sempre 
nelle  mani  ...  ».  Cfr.  le  interessanti  osservazioni  del  Vigezzi,  op.  cit.,  pp. 
252-5,  dove  si  mostra  fra  l'altro  che  il  richiamo  a  san  Paolo  per  definire  i 
dogmi  cristiani  è  prevalente  nel  Triregno,  anche  se  il  Giannone  proprio 
in  queste  pagine  attenua  la  drammatica  cesura  fra  il  mondo  antico  e  T  espe- 
rienza cristiana.  2.  Egli  fu  fatto  . .  .  suplizi:  questa  concezione  riassume 
quanto  il  Giannone  ha  precedentemente  affermato,  cioè  che  gli  Ebrei  non 
avevano  altra  idea  di  felicità  o  di  castigo,  se  non  terreni.  Questa  tesi  risale 
a  John  Spencer  (De  legìbus  Hébraeorum  ritualibus  et  earum  ratiombus  libri 
tres,  Hagae  1686,  soprattutto  il  capitolo  hi,  p.  1 1)  e  a  John  Toland  (Adeisi- 
daemon  sive  Titus  Livius  a  superstitione  vindicatus  , . .  Armexae  sunt  eiusdem 
Origines  iudaicae,  Hagae-Comitis  1709). 


596  IL   TRIREGNO 

La  trasgressione  ed  il  peccato  d'Adamo  introdusse  nel  mondo  al- 
l'uomo le  miserie,  i  travagli  e  la  morte,  ultimo  de'  mali,  ma  morte 
nella  quale  per  lui  tutto  finiva,  e  lo  riduceva  in  quelTesser  nel  qual 
era  prima  che  fosse  nato.  Questo  era  il  concetto  che  costatamente 
si  teneva  della  morte  dell'uomo,  e  non  altro. 

Falsissima  adunque,  crudele  e  che  fa  somma  ingiuria  ad  un  Dio 
cotanto  giusto,  sapiente  e  misericordioso,  è  la  fiera  idea  che  si  vuol 
far  concepire  agl'uomini,  che  tutta  la  posterità  di  Noè  fosse  massa 
perduta  e  dannata:  anzi  è  apertamente  contraria  alle  benedizioni 
che  Iddio  gli  diede  quando  gli  salvò  dalla  comune  sciagura  del 
diluvio  e  quando,  serenato  il  cielo,  usciti  dall'arca,  gli  diede  la  do- 
minazione sopra  la  terra  e  sopra  gl'animali  e  sopra  quanto  in  quella 
si  muove  e  cresce.  Né  ad  altro  fine,  come  si  è  veduto,  Iddio  avea 
fatto  gli  uomini,  a'  quali  non  altro  regno  che  terreno  fu  promesso 
e  con  effetto  dato.  Questa  istessa  dominazione  confermò  a'  figliuoli 
di  Noè  ed  ai  loro  posteri  e  discendenti,  loro  dicendo  che  cresces- 
sero, moltiplicassero  ed  empissero  la  terra.  «Et  terror  vester  ac 
tremor  sit  super  cuncta  animalia  terrae  et  super  omnes  volucres 
coeli;  cum  universis  quae  moventur  super  terram,  omnes  pisces 
maris  manui  vestrae  traditi  sunt,  et  omne  quod  movetur  et  vivit 
erit  vobis  in  cibum:  quasi  olerà  virentia  tradidi  vobis  omnia», 
Gen.,  9,1. x 

Se  si  riguardava  poi  le  benedizioni  che  partitamente  furon  date 
a  ciascheduno  de'  figliuoli  di  Noè  e  loro  particolare  progenie,  ecco 
quelle  che  si  diedero  a  Iafet,  figliuol  primogenito  :  ch'egli  colla  sua 
discendenza  dilaterà  i  confini  della  dominazione  sopra  la  terra  assai 
più  dell'altre  due  famiglie,  anzi  che  abiterà  negli  stessi  paesi  desti- 
nati a  Semo  ed  alla  di  lui  posterità:  «Dilatet  Deus  Iaphet  et  habitet 
in  tabernaculis  Sem»,  Gen.,  9,27.  Alla  numerosa  discendenza  di 
Iafet  però  si  attribuiscono  tante  ampie  e  vaste  regioni,  non  meno 
in  tutta  Europa  che  nelle  parti  settentrionali  d'Asia.  Quindi  leg- 
giamo nel  Genesi,  cap.  10,5:  «Ab  his  divisae  sunt  insulae  gentium 
in  regionibus  suis,  unusquisque  secundum  linguam  suam  et  fa- 
milias  suas  in  nationibus  suis». 


1.  Et  terror . . .  Gerì,,  9, 1:  «Abbiano  timore  e  tremore  di  voi  tutti  gli  ani- 
mali della  terra  e  tutti  gli  uccelli  del  cielo.  Assieme  a  tutti  gli  esseri  che  si 
muovono  sulla  terra,  sono  consegnati  nelle  vostre  mani  tutti  i  pesci  del 
mare.  Tutto  ciò  che  si  muove  e  vive  sarà  vostro  cibo.  Tutto  vi  ho  conse- 
gnato, al  pari  delle  erbe  verdeggianti». 


DEL    REGNO    TERRENO    •  PARTE    I   *  CAP.  IV  597 

Chi  potrà  ancor  dubitare  delle  benedizioni  date  a  Semo,  altro 
figliuolo  di  Noè,  ed  a  tutta  la  sua  progenie,  quando  da  questa 
razza  dovea  sorgere  un  popolo  a  Dio  cotanto  caro  e  diletto  quanto 
fu  l'ebreo  da  lui  trascelto,  e  di  cui  dichiarossi  doversi  essere  pro- 
prio e  particolar  Dio,  siccome  colui  era  proprio  suo  popolo  ?  Alla 
costui  posterità  furono  pure  destinate  in  Asia  ampie  regioni  da 
dominare,  ch'era  la  marca  più  distinta  della  divina  affezione  e  be- 
neficenza verso  coloro  ch'eran  a  Dio  più  cari;  onde  della  medesima 
pur  leggiamo,  Gen.y  10,31  :  u  Isti  sunt  filii  Sem  secundum  cognatio- 
nes  et  linguas  et  regiones  in  gentibus  suis».  Riputino  ora  questi 
infelici  ed  infausti  indovini  tutta  la  posterità  di  Iafet  e  di  Sem 
massa  perduta  e  dannata? 

Ma  che  diremo  di  quella  di  Camo,  minor  figliuolo  di  Noè? 
almanco  questa  sarà  perduta?  Questa  certamente  che  fu  da  Noè 
maledetta  per  l'obbrobrio  che  Camo  gli  fece  di  non  coprire  le  ver- 
gognose sue  membra.  Così  è:  Noè  la  maledisse  dicendo:  "Male- 
dictus  Canaam».  Ma  che  cosa  importavano  gli  efletti  di  questa 
maledizione?  non  altro  che  vii  servigio  e  perdita  di  signoria;  dover 
esser  scacciati  dalla  dominazione  delle  terre  dove  avean  posto  piede 
e  servire  alle  due  altre  famiglie  dei  suoi  fratelli:  'cMaledictus  Ca- 
naam: servus  servorum  erit  fratribus  suis,  Benedictus  dominus 
Deus  Sem.  Sit  Canaam  servus  eius.  Dilatet  Deus  Iaphet,  et  ha- 
bitet  in  tabernaculis  Sem;  sitque  Canaam  servus  eius»,  Gen.,  9,27. x 
Ecco  fin  dove  s'estendevano  le  imprecazioni  ed  i  flagelli  minacciati 
nella  maledizione  di  Canaam. 

Ma  perché  riputare  tutta  la  posterità  di  Noè  per  massa  perduta 
e  dannata?  Forse,  serbando  quella  religione  che  appresero  da  Noè, 
tutta  facile  e  semplice,  quella  morale  e  quelle  leggi  di  natura  ch'a- 
vevano scritte  ne'  loro  cuori,  non  potevano  piacere  a  Dio  e  dive- 
nire a  lui  cari  ed  amici  ?  Tutta  la  sacra  istoria  è  piena  di  documenti 
i  quali  convincono  che  tutte  le  nazioni,  contenendosi  nel  vero  culto 
di  Dio  pratticato  da  Noè,  non  abbandonandosi  nell'idolatria  e  ser- 
bando solo  le  leggi  di  natura,  che  dettavano  di  fare  o  non  fare  ad 
altri  ciò  che  per  te  vuoi  o  non  vuoi,  questo  solo  bastava  per  piacere 
a  Dio  ed  esser  suo  amico.  E  gli  effetti  che  a  riguardo  dell'uomo 
provenivano  dalla  sua  amicizia  o  inimicizia,  non  eran  nei  buoni 
che  prosperità  mondane,  imperi,  fecondità,  ricchezze,  abbondanza, 

1.  Gen.,  9,  27:  rectius  9,  25-7- 


598  IL   TRIREGNO 

sapienza  ed  altre  terrene  felicità;  nei  cattivi,  non  altro  che  desola- 
zione, servitù,  miserie  e  stoltizia,  calamità  e  morte;  siccom'è  chiaro 
da  quest'istessi  sacri  libri  e  si  dimostrerà  più  innanzi  fino  all'ultima 
evidenza.  Essendo  questo  il  concetto  che  s'avea  dell'uomo  e  della 
sua  felicità  o  miseria,  quindi  per  conseguir  l'una  e  sfuggir  l'altra 
tutta  la  posterità  di  Noè,  serbando  quella  pura  e  semplice  religione 
che  gli  tramandò  e  quelle  leggi  di  natura  che  avevano  scritte  nei 
loro  cuori,  potevano  piacere  a  Dio  ed  essere  suoi  amici;  siccome 
moltissime  nazioni  del  mondo,  che  non  furono  né  della  razza  di 
Semo,  né  della  stirpe  d' Abramo  o  d'Isaac,  lo  furono  con  effetto; 
e  ristoria  sacra  istessa  ce  ne  soministra  infiniti  esempi. 

1 

DELLA  RELIGIONE  NOETICA 

La  religione  che  tramandò  Noè  a'  suoi  posteri1  non  fu  certa- 
mente molto  operosa,  sottile  e  difficile,  sicché  tutti  non  potessero 
capirla  e  praticarla.  Ella  era  tutta  pura,  semplice,  senza  riti,  senza 
cerimonie,  senza  sacerdoti,  senza  tempii  e  senza  altari;  ella  non 
ricercava  altro,  che  si  riconoscesse  in  tutto  l'ampio  universo  un 
solo  unico  ed  onnipotente  Iddio,  il  quale  avesse  creato  e  cielo  e 
terra  e  sole  e  luna,  uomini  ed  animali,  e  quanto  si  vede,  nutre  e 
cresce  in  tutto  il  mondo  aspettabile.  Questo  Dio  non  esser  circo- 
scritto da  alcun  termine  0  confine,  non  aver  alcun  proprio  nome, 
non  forma  umana,  e  molto  meno  d'animale  o  d'altra  cosa  creata. 
Essere  invisibile  ed  eterno,  e  colla  sua  presenza  tutto  empie  e 
regge.  Perciò  non  aver  bisogno  di  tempii,  né  di  altari  dove  rinchiu- 
derlo o  collocarlo.  Tutto  il  cielo,  tutta  la  terra,  tutto  infine  l'ampio 
universo  esser  suo  tempio,  essere  suoi  altari.  Gli  uomini,  per  gra- 
titudine d'avergli  creati  e  data  la  dominazione  della  terra  e  di  tutti 
gli  animali  e  di  quanto  sopra  e  dentro  di  quella  si  nutre  e  cresce; 
per  espiazione  de'  loro  falli  e  per  placare  il  suo  sdegno  perché  non 
gli  avvenga  male,  e  per  pregarlo  che  gli  siegua  il  bene,  devono  pre- 
stargli sacrifici  ed  immolargli  vittime,  ma  schietti,  puri  e  semplici, 
senza  molti  apparecchi  e  pompa.  Immolar  le  vittime  a  ciel  scoverto, 

1.  La  religione  . . .  posteri:  sul  problema  della  religione  noetica  cfr.  G.  Ri- 
cuperati, Alle  origini  del  Triregno:  la  Philosophia  adamito-noetica  di  An- 
tonio Costantino^  in  «Rivista  storica  italiana»,  anno  lxxvii  (1965),  fase.  3, 
pp.  602-38,  passim. 


DEL   REGNO   TERRENO   •  PARTE    I   •  CAP.   IV  599 

in  campagna,  senza  celebrità  e  cerimonie,  seguendo  l'esempio  di 
Noè  stesso,  il  quale,  uscito  dall'arca,  in  rendimento  di  grazie  al 
Signore  per  averlo  colla  sua  famiglia  scampato  dalla  commune 
sciagura,  prese  degli  animali  mondi  e  ne  fece  a  Dio  olocausto.  Sol 
avvertì,  che  fu  il  suo  primo  divin  commando  intorno  a  prestargli 
culto,  che  si  guardasse  mangiar  colla  carne  insieme  il  sangue  degli 
animali.  E  Mosè,  rinnovando  quest'istesso  commando  agli  Ebrei, 
ce  ne  spiegò  la  cagione,  dicendo  che  il  sangue  di  quelli  dovea  ser- 
barsi per  offerirlo  ne'  sagrifici  e  per  espiazione  e  mondezza  delle 
loro  anime;  poiché  riputandosi  l'anima  de'  bruti  essere  nel  sangue, 
giusto  era  offerire  a  Dio  il  sangue  di  quelli  per  espiazione  delle  loro 
anime.  Non  più  di  questo  ricercava  dagl'uomini  la  religione  di 
Noè;  e  coloro  che  l'osservavano  erano  a  Dio  cari  e  meritevoli  della 
sua  benedizione.  Donde  ne  seguiva  che  coloro  che,  ciò  tralascian- 
do, si  davano  all'idolatria  e  ad  altri  culti  moltiplicando  numi,  riti 
e  superstizioni,  erano  detestabili  e  per  conseguenza  degni  di  male- 
dizioni, flagelli,  calamità  e  morti. 

Se  i  nostri  scrittori,1  i  quali  hanno  posto  tanto  studio  e  cura  di 
andar  notando  ne'  gentili  i  loro  riti,  leggi  e  costumi,  anzi  le  scienze 
ed  arti  tutte  per  derivarle  dai  nostri  libri  sacri,  se  da'  posteri  di 
Noè  fanno  popolar  tutta  la  terra,  e  di  più  sono  andati  investigando 
i  cammini  che  tennero,  i  viaggi  che  intrapresero,2  e  qual  razza  avesse 
popolato  l'Asia,  quale  l'Europa,  e  quale  l'Affrica;  perché  non  s'han- 
no  voluto  poi  prendere  la  pena  e  metter  attenzione  che  in  molti 
antichi  popoli  e  nazioni  si  ravvisava  anche  quell'istessa  religione  che 
Noè  tramandò  a'  suoi  posteri  ?  perché  non  far  avvertiti  gli  uomini 
con  aditarle  i  fonti  onde  quelle  attinsero  la  loro  religione  e  culto  ? 
E  che  quanto  più  si  va  indietro  all'antichità,  tanto  più  chiari  vestigi 


1.  i  nostri  scrittori:  si  riferisce  a  Samuel  Bochart  (Opera  omnia,  hoc  est, 
Phaleg  et  Chanaan,  seu  Geograpkia  sacra  et  Hierozoicon,  Lugduni  B.  1676, 
in  due  volumi,  oltre  all'edizione  già  citata  di  Francoforte  del  1674:  cfr.  la 
nota  5  a  p.  568),  a  Pierre-Daniel  Huet  (Demonstratio  evangelica,  1,  Parisiis 
1679;  11,  Amstelodami  1680),  allo  Spencer,  op.  cit.,  e  a  John  Marsham 
(Chronicus  canon  aegyptiacus,  hebraìcus,  graecus,  et  disquisitiones,  Londini 
1672).  Sul  rapporto  fra  il  Giannone  e  questi  autori  cfr.  il  mio  saggio  Alle 
origini  del  Triregno  ecc.,  cit.  2.  se  da'  posteri . . .  intrapresero  :  si  riferisce  a 
W.  Lazius,  De  aliquot  gentium  migratiombus,  sedibus  fixis,  reliquiis  lingua- 
rumque  initiis  et  immutationibus  oc  dialectis>  Basileae  1572;  H.  Grotius, 
De  origine  gentium  americanarum  dissertatio,  3.1.  1642,  e  Dissertano  altera, 
Parisiis  1643  ;  G.  Horn,  De  origimbus  americanis  libri  quattuor,  Hagae  1652. 
Cfr.  infatti  Triregno,  1,  pp.  88-91. 


ÓOO  IL    TRIREGNO 

s'incontrono,  ne'  più  vetusti  popoli  de*  quali  è  rimasa  a  noi  me- 
moria, della  religione  istessa  che  fu  professata  da  Noè  e  suoi  di- 
scendenti ? 

Certamente  che  la  più  rimota  antichità  non  conobbe  nome  al- 
cuno proprio  di  Dio.  Narra  Erodoto,  lib.  2,  e.  4,  ch'essendo  egli 
nella  città  di  Dadone,1  gli  fu  riferito  da  que'  savi  che  anticamente 
si  facevano  le  immolazioni  ed  i  sagrifici  degli  dei  senza  nome  pro- 
prio, come  quelli  che  alcuno  non  ne  conoscevano,  e  che  molto 
tempo  dapoi  d'Egitto  furono  portati  i  nomi  divini;  da  chi  gli  pre- 
sero i  Pelasgi,  e  da  questi  i  Greci.  Ed  altrove,  lib.  2,  e.  i,2  ci  rende 
pur  testimonianza  che  i  nomi  dei  dodeci  dii  furono  primieramente 
dagli  Egizi  trovati,  e  che  i  Greci  da  essi  gli  aveano  presi;  siccome 
gli  Egizi  essere  stati  i  primi  inventori  de'  simulacri,  degli  altari, 
e  di  tutti  gli  altri  divini  onori.  Ma  gli  Etiopi  contrastavano  que- 
sta prerogativa,  i  quali  si  davano  il  vanto  esser  stati  essi  gli  primi 
a  venerar  con  simulacri  e  pompe  esterne  i  dii  e  con  magnifiche  e 
splendide  celebrità;  sicché  a  ragione  Omero  gli  preferì  in  ciò  a 
tutte  l'altre  nazioni.  Anzi  Erodoto  fu  di  sentimento  che  quasi  fino 
ai  suoi  tempi,  che  furon  quelli  di  Xerse,  non  si  erano  saputi  tanti 
nomi  di  dii  e  tante  loro  genealogie,  imperoché,  ei  dice  al  lib.  2, 
e.  4,3  Esiodo  ed  Omero,  i  quali  da  400  anni  e  non  più  furono  avanti 
a  questo  tempo,  sono  coloro  che  hanno  introdotto  la  progenie  de' 
dii  in  Grecia,  ed  a  lor  modo  gli  hanno  dato  figure,  onori  e  diverse 
possanze.  Dall'essere  l'introduzione  di  dar  nomi  a'  dii  nova  e  re- 
cente, a  riguardo  della  più  rimota  antichità,  quindi  derivò  la  tanta 
varietà  de'  loro  nomi  presso  tante  e  sì  diverse  nazioni.  Gli  Egizi  gli 
chiamavano  d'una  maniera  ed  i  Caldei  d'un' altra.  Quest'istessa 
varietà  osservaremo  negli  Sciti,  ne'  Fenici  ed  in  tanti  altri  popoli  e 
regioni;  e  presso  gl'Ebrei  stessi  non  se  non  a'  tempi  di  Mosè  acqui- 
stò proprio  nome  di  Ieova  il  Dio  d' Abramo,  che  i  Greci  chiama- 
vano Iao.4 

1.  Dadone:  si  tratta  di  Dodona.  Il  Giannone  cita  Erodoto  dalla  traduzione 
del  Boiardo,  edizione  veneziana  del  1539.  L'edizione  da  me  utilizzata  è  la 
ristampa  del  1565,  libro  11,  capitolo  iv,  f.  49:  «Et  ho  inteso  a  Dodona,  che 
anticamente  si  facevano  le  immolati  oni  e  sacrifici  degli  dei,  senza  nome 
proprio  .  .  .».  2.  lib.  a,  ex:  cfr.  ed.  cit.,  f.  39:  «I  nomi  de*  dodici  dei 
fumo  primieramente  dagli  Egitti  ritrovati. .  .».  3.0/  lib.  2,  e.  4:  cfr. 
ed.  cit.,  f.  49.  Sul  problema  cfr.  F.  E.  Manuel,  The  Eighteenth  Century  Con- 
fronto the  Gods,  Cambridge  1959-  4-  Quest'istessa  .  . .  Iao:  il  Giannone  si 
riferisce  a  quanto  afferma  soprattutto  THuet  nella  citata  Demonstratio 
evangelica. 


Per  questa  caggione  leggiamo  essersi  da'  più  vetusti  popoli  sa- 
crificato vittime  a  Dio  in  campagna  ed  a  cielo  scoperto,  e  che  molti 
non  intendessero  per  Dio  che  il  cielo,  il  sole,  la  terra  e  tutto  l'ampio 
universo  ;  onde  sopra  gl'altissimi  monti  sagrificavano,  non  avendo 
né  tempii  né  altari  e  molto  meno  simulacri  o  statue,  riputando  mal 
convenirsi  di  restringere  in  sì  brevi  chiostri  e  dar  forma  e  figura 
a  chi  non  può  essere  circonscritto  da  alcun  termine,  né  è  capace 
d'esser  effigiato  o  dipinto.  Quindi  narra  Erodoto  istesso,  lib.  i, 
cap.  9,1  che  i  Persiani  anticamente  non  edificavano  né  tempii  né 
altari,  né  avevano  statue,  anzi  si  beffavano  di  coloro  che  simili  cose 
facevano.  Che  perciò  immolavano  le  loro  ostie  nelle  cime  de5  monti 
altissimi  a  Giove,  il  quale  però  non  intendevano  che  fosse  altro 
se  non  che  tutto  il  giro  del  cielo,  e  secondo  quest'istesso  concetto 
sacrificavano  ancora  al  sole,  alla  luna,  alla  terra,  al  fuoco,  alli  venti 
ed  alle  acque:  ciò  che  fu  anche  avvertito  da  Strabone,  Kb.  15  Geogr.2 
dicendo:  ftPersae  nec  statuas  nec  aras  erigunt;  sacrificant  in  loco 
excelso.  Coelum  Iovem  putant;  colunt  Solem,  quem  Mithram  vo- 
cant,  item  lunam  et  Yenerem  et  ignem  et  tellurem,  et  ventos,  et 
aquam».  E  ciò  ch'è  notabile,  rapporta  che  ne'  loro  sacrifici,  della 
vittima  che  imolavano  non  lasciavano  a'  dii  porzione  alcuna:  '  Nulla 
parte  diis  relieta;  dicunt  enim»  soggiunge  Strabone  :Deum  nihil 
velie  praeter  hostiae  animam».3  Ch'era  appunto  quello  che  Noè 
impose  alla  sua  famiglia,  e  Mosè  agli  Ebrei,  di  lasciare  a  Dio  l'ani- 
ma degli  animali,  cioè  il  loro  sangue  ne'  loro  sagrifici,  e  perciò  che 
si  astenessero  dal  sangue  de'  medesimi.  Gli  Sciti,  secondo  il  loro 
credere  primi  uomini  che  abitarono  le  parti  settentrionali  dell'Asia 
e  dell'Europa,  non  d'altra  maniera  rendevano4  a'  loro  dii  sagrifici: 
Strabone  stesso  narra  de'  settentrionali  Celtiberi,  lib.  7:*  idnnomi- 
natum  quemdam  Deum  noctu  in  plenilunio  ante  portas  cum  totis 


1.  Hb.  I,  cap.  9:  cfr.  ed.  cit.,  f.  29:  «Templi  non  edificano,  né  statue  — v. 

2.  Strabone,  Mb.  15  Geogr.  :  il  Giannone  si  servi  dell'edizione  parigina  del 
1620  con  commento  del  Casaubon:  cfr.  la  nota  3  a  p.  204.  La  citazione  che 
segue  è  a  p.  732  («  I  Persiani  non  innalzano  né  statue  né  altari;  fanno  i  loro 
sacrifici  su  un  luogo  elevato;  Giove  lo  credono  il  cielo;  venerano  il  sole,  che 
chiamano  Mitra,  e  parimenti  la  luna  e  Venere,  e  il  fuoco  e  la  terra  e  i  venti 
e  l'acqua»).  3.  &  Nulla  parte  . . .  anvmam»'.  ed.  cit.,  ibid,  («. . .  dicono  in- 
fatti che  Dio  non  desidera  altro  che  l'anima  della  vittima»).  4.  rendevano 
Parente  (p.  1 14)  ;  prendevano  ven.  5.  lib.  7  :  si  tratta  in  realtà  del  libro  in  : 
cfr.  ed.  cit.,  p.  164  («venerano  nottetempo,  col  plenilunio,  un  dio  senza 
nome  davanti  alle  porte  con  tutta  la  gente  di  casa  danzando  e  cantando  e 
facendo  festa  tutta  la  notte»). 


Ó02  IL    TRIREGNO 

familiis  choreas  ducendo  totamque  noctem  festam  agendo  vene- 
rari».  E  Diodoro  Siciliano1  rapporta  nel  lib.  2  della  sua  Biblioteca 
Istorica  che  i  Trabolani,  popoli  insolani  dell'Oceano  Indico  orien- 
tale, la  stessa  religione  avevano  e  gli  stessi  sagrifici  e  culto  pratica- 
vano co'  loro  dii,  dicendo:  e. Pro  diis  colunt  primo  coelum,  quod 
omnia  continet;  deinde  solem  et  cuncta  denique  coelestia». 

Da  ciò  nacque  che  Strabone,  Diodoro  e  gli  altri  scrittori  exotici, 
i  quali,  osservando  in  molti  antichi  popoli  questa  religione  e  culto 
verso  i  loro  dii,  e  scorgendo  che  Mosè  al  suo  popolo  ebreo  aveva 
severamente  proibito  simulacri  e  statue,  e  ch'egli  non  fabricò  tem- 
pio alcuno  al  dio  Ieoin,  ma  i  sagrifìzi  si  facevano  in  campagna,  od 
al  più  sotto  lor  tende  e  tabernacoli,  scrissero  che  Mosè  e  gli  Ebrei 
per  questo  loro  Dio  non  intendessero  altro  che  l'ampio  cielo,  e  che 
non  lo  distinguessero  dall'universo,  facendolo  una  medesima  cosa; 
onde  alcuni  moderni  scrittori2  vogliono  perciò  far  passare  Mosè 
per  panteista,  ed  alcuni  non  si  sono  ritenuti  chiamarlo  anche  spi- 
noststa,  perché  così  lo  riputarono  Strabone  e  Diodoro.  E  non  vi  è 
dubbio  che  costoro  questo  concetto  ebbero  della  dottrina  di  Mosè, 

1.  Diodoro  Siciliano:  della  Bibliotheca  historica  di  Diodoro  Siculo  il  Gian- 
none  utilizza  nel  Triregno  due  diverse  edizioni  e  traduzioni:  una  a  cura 
di  Sébastien  Chateillon,  Basileae  1578,  l'altra  a  cura  di  Lorenz  Rhodo- 
mann,  Hanoviae  1604.  Il  brano  che  segue  non  corrisponde  all'edizione 
Chateillon  (lib.  11,  cap.  xm,  p.  69),  ma  a  Rhodomann,  p.  141,  che  non  ha 
indicazione  di  capitolo  e  paragrafo.  (Nelle  edizioni  moderne  11,  59,  2: 
«  Venerano  come  divinità  prima  il  cielo,  che  tutto  contiene,  poi  il  sole  e  in- 
fine tutti  i  corpi  celesti»).  2.  alcuni  moderni  scrittori:  si  tratta  del  Toland, 
che  afferma  ciò  nelle  citate  Origines  iudaicae,  p.  117:  «Mosem  enimvero 
fuisse  pantheistam  sive,  ut  cum  recentioribus  loquar,  spinosistam  in- 
cunctanter  affirmat  in  isto  loco  Strabo  ...  ».  In  realtà  il  Toland  aveva  già 
usato  il  termine  panteista,  di  cui  è  l'inventore,  in  un  pamphlet  del  1705, 
Socinianism  Truly  Stated . . .  Recommended  by  a  Pantheist  to  an  Orthodox 
Friend.  Ma  il  legame  fra  il  termine  panteista  e  spinozista  c'è  solo  nel  passo 
citato  delle  Origines.  Polemizzando  contro  quest'opera  il  pastore  di  Utrecht 
Jacques  de  la  Faye  creò  a  sua  volta  il  termine  panteismo,  in  Defensio  reti- 
gionis,  necnon  Mosis  et  gentis  iudaicae,  cantra  duas  Dissertationes  Ioh.  To~ 
laudi .  .  .,  Ultraiecti  1709,  p.  195,  opera  recensita  nello  stesso  anno  dagli 
«Acta  Eruditorum  Lipsiensium  ».  Oltre  al  de  la  Faye,  polemizzò  contro  il 
Toland  anche  Salomon  Deyling  con  le  Observationes  sacrae,  la  cui  prima 
edizione,  in  due  tomi,  fu  pubblicata  a  Lipsia  dal  1708  al  1715.  L'edizio- 
ne di  cui  ci  siamo  serviti  è  quella  di  Lipsia,  1735-1748®,  in  cinque  tomi: 
nella  Pars  11,  Observ.  i,  An  auctor  Pentateuchi  Moses  fuerit  pantheista?  con- 
futa le  Origines  del  Toland  collegandole  a  Spinoza.  Il  Toland  doveva  con- 
cludere la  sua  vita  intellettuale  pubblicando  il  Pantheisticon,  Cosmopoli  (ma 
Londra)  1720,  in  cui  si  teorizza  l'esistenza  della  setta  dei  panteisti.  Sul  pro- 
blema cfr.  P.  Vernière,  Spinoza  et  la  pensée  francaùe  avant  la  Revolution, 
Paris  1954,  11,  pp.  357  sgg. 


DEL  REGNO  TERRENO  •  PARTE  I  •  CAP.  IV       603 

scrivendo  di  lui  Strabone  al  cap.  16  Geogr.1  che  credesse:  «Id 
soliim  esse  Deum,  quod  nos  omnes  continet  et  terram  et  mare, 
quod  coelum  et  mundum  et  rerum  omnium  naturam  appellamus, 
cuius  profecto  imaginem  nemo  sanae  mentis  alicuius  earum  rerum 
quae  penes  nos  sunt  similem  audeat  effingere.  Proinde  omni  simu- 
lacrorum  effictione  repudiata,  dignum  ei  templum  ac  delubrum 
constituendum,  ac  sine  aliqua  figura  colendum».  E  Diodoro,  in 
quel  frammento  del  lib.  40  che  ci  conservò  Fozio,  chiaramente  pur 
di  Mosè  scrisse:  «  At  nullam  omnino  deorum  imaginem  statuamve 
fabricavit:  quod  in  Deum  minime  cadere  formam  humanam;  sed 
coelum  hoc  quod  terram  circumquaque  ambit,  solum  Deum  esse, 
cum  cunctaque  in  potestate  habere  iudicaret  ».2  Ma  non  è  maravi- 
glia che  tali  scrittori  avessero  attribuito  a  Mosè  ed  agrEbrei  cioc- 
ché in  altri  popoli  osservarono,  poiché  costoro  delle  cose  dei  Giudei 
non  ne  furon  molto  curiosi,  né  se  ne  prendevano  cura,  deridendole 
come  fanatiche  e  pazze,  e  sovente  si  fermavano  a'  rapporti  volgari 
che  da  incerta  fama  pervenivano  a  loro  notizia;  siccome  si  vede 
in  Diodoro  istesso,  il  quale  in  questo  libro  scrisse  Mosè  avere  sta- 
bilito il  regno  degl'Ebrei,  fondato  Gerusalemme  e  costrutto  quivi 
il  tempio,  attribuendo  a  lui  ciocché  a'  tempi  posteriori  dovea  attri- 
buirsi a  Davide  ed  a  Salomone.  E  la  dottrina  di  Mosè  fu  tutt'altra 
che  di  confondere  Iehova  coll'ampio  universo  e  farlo  una  cosa 
istessa,  anzi  di  separare  il  creatore  dall'universo,  sua  fattura,  seb- 
bene si  voleva  ch'egli  empisse  e  regesse  il  tutto,  siccome  fu  ezian- 
dio il  sentimento  degli  altri  profeti,  e  specialmente  d'Isaia,  il  quale 
nel  cap.  40,18  a  ragione  disse:  «Cui  ergo  similem  fecistis  Deum? 
aut  quam  imaginem  ponetis  ei?»,  ed  al  num.  22:  «Qui  sedet  super 
gyrum  terrae»,  ed  al  cap.  66, i:  «Haec  dicit  Dominus:  "Coelum 
sedes  mea,  terra  autem  scabellum  pedum  meorum.  Quae  est  ista 


i.  al  cap.  16  Geogr.  :  non  capitolo,  ma  libro  xvi:  cfr.  ed.  cit.,  p.  761  (*  che  Dio 
sia  soltanto  ciò  che  contiene  noi  tutti  e  la  terra  e  il  mare,  ciò  che  chiamiamo 
cielo  e  mondo  e  natura  di  tutte  le  cose,  la  cui  immagine  nessuno  invero 
sano  di  mente  oserebbe  rappresentare  come  simile  ad  alcuna  delle  cose  che 
ci  stanno  intorno.  Per  cui,  rifiutando  ogni  ritratto  o  immagine,  ritengono 
che  gli  si  debba  innalzare  un  degno  tempio  e  santuario,  e  lo  si  debba  ve- 
nerare senza  alcuna  immagine»).  2.  E  Diodoro  . . .  iudicaret:  cfr.  Fozio, 
Bibliotheca,  ccxliv  (in  Migne,  P.  G.,  cui,  col.  1391,  dove  però  la  traduzione 
non  corrisponde  a  quella  usata  qui  dal  Giannone.  «Ma  non  foggiò,  degli 
dei,  ritratto  o  immagine  di  sorta,  poiché  riteneva  che  non  ci  fosse  figura 
umana  atta  a  rappresentare  Dio,  ma  che  questo  cielo  che  circonda  da  ogni 
parte  la  terra  fosse  il  solo  Dio  e  avesse  ogni  cosa  in  sua  potestà  »). 


604  IL    TRIREGNO 

domus,  quam  aedificabitis  mihi?"»;  e  di  Geremia,  il  qual  pur 
disse,  cap.  23,24:  «"Numquid  non  coelum  et  terram  ego  impleo?" 
dicit  Dominus  ».  Sicome  ad  altro  proposito  sarà  da  noi  più  ampia- 
mente dimostrato. 

Intanto,  se  la  posterità  di  Noè  che  popolò  la  terra  avesse  voluto 
serbar  quella  religione  che  gli  fu  tramandata  da  Sem,  Cam  ed 
Iafet  suoi  figliuoli,  non  era  altra  che  questa  tutta  schietta,  tutta 
pura  e  tutta  semplice,  niente  operosa  e  che  non  avea  bisogno  né 
di  tempii,  né  di  sacerdoti,  né  di  altari.  Ma  in  discorso  di  tempo, 
essendo  gli  uomini  per  proprio  istinto  inclinati  al  male  e  portati 
naturalmente  alla  superstizione  ed  a  dar  facile  credenza  a'  sorpren- 
denti e  favolosi  rapporti  degl'indovini  ed  impostori,  siccome  con 
verità  disse  Lucrezio,  lib.  4,  v.  598 r1  «Ut  omne  humanum  genus 
est  avidum  nimis  auricularum»;  quindi  fu  facile  da  questa  schietta 
e  semplice  religione  passare  all'idolatria  ed  a  fingersi  tanti  dii  e 
semi  dii.  E  cominciata  la  faccenda  in  Egitto,  trapassata  poi  dagli 
Egizi  a*  favolosi  Greci,  quindi  si  viddero  nel  mondo  propagati  tanti 
dii,  fingersene  progenie  e  genealogie,  e  tanti  altri  portenti  e  chime- 
re: gli  Egizi  in  quali  frenesie  non  diedero?  sino  a  formar  simulacri 
di  bestie  ed  attribuirle  a  Dio;  talché  Strabone,  il  quale  credette 
Mosè  esser  uno  de*  sacerdoti  di  Egitto,  scrisse,  lib.  16,  che  Mosè, 
non  potendo  soffrire  tanta  sciempiaggine,  facendosi  capo  d'un  nu- 
meroso popolo  uscì  fuor  d'Egitto,  cercando  altra  regione.  «AfEr- 
mabat  enim»  disse  Strabone  di  Mosè  «docebatque  Aegyptios  non 
recte  sentire,  qui  bestiarum  ac  pecorum  imagines  Deo  tribuerent, 
itemque  Afros,  et  Graecos,  qui  diis  hominum  figuram  afEngerent».3 
Si  vidde  perciò  i  sagrifici,  che  prima  erano  tutti  puri  e  semplici, 
contaminati  per  tanti  riti  e  superstizioni,  ed  infine  profanarsi  a 
segno,  che  si  arrivò  sino  a  render  olocausti  ed  ostie  di  vittime  umane. 
Sacrificarsi  le  mogli  sopra  i  roghi  de*  loro  mariti;  i  figli  da'  padri 
ed  i  sudditi  ne'  funerali  de'  loro  re,  e  tanti  altri  mali  ed  abomina- 
zioni che  la  corrotta  religione  introdusse  negli  animi  umani. 


1.  lib.  4,  v.  59s-  in  edizioni  moderne  w.  593-4  («a  tal  punto  l'intero  genere 
umano  è  avido  di  frottole»).  2.  lAffirmabat  enim .  .  .  affingerent*'.  è  la 
parte  precedente  il  brano  cui  fa  riferimento  la  nota  1  a  p.  603.  Cfr.  ed.  cit., 
p.  760  («Asseriva  infatti  ed  insegnava  che  gli  Egizi  erravano  nell'attribuire  a 
Dio  figure  di  bruti  e  di  animali,  e  parimenti  gli  Africani  e  i  Greci  nell*ap- 
plicargli  sembianze  umane»). 


DEL   REGNO   TERRENO   •  PARTE   I   •  CAP.  IV  605 


II 

Non  si  annoverava  certamente  fra  i  pochi  articoli  della  religione 
noetica  quello  dell'immortalità  dell'anime  umane;1  anzi  i  dettami 
di  Dio  sopra  la  caducità  dell'uomo,  il  quale,  siccome  di  terra  era 
fatto,  così  dovea  risolversi  in  polvere,  e  l'esperienza  che  ne  avea 
dato  il  diluvio,2  che  uguagliò  la  morte  degl'uomini  con  quella  de' 
bruti,  «  universi  homines  et  cuncta  in  quibus  spiraculum  vitae  est 
in  terra,  mortua  sunt»,3  dimostrò  a  tutti  il  contrario,  sicché  la 
credenza  d'essere  mortali  fu  comune  presso  tutta  la  posterità  di 
Noè,  e  quanto  più  vassi  indietro  nelle  età  più  vetuste,  tanto  maggio- 
re troveremo  in  ciò  conforme  il  sentimento  di  tutte  le  più  antiche 
nazioni,  le  quali  sopra  ciò  non  vi  ebbero  dubbio  alcuno  ;  e  non  fu 
che  nei  secoli  posteriori  che  dalla  celebrità  delle  pompe  funebri 
e  dagli  onori  che  rendevano  gli  Egizi  a'  defonti  sorse  l'opinione 
di  finger  altra  vita  negl'uomini  dopo  morte,  come  si  vedrà4  chiara- 
mente più  innanzi.  La  credenza  antica  delle  più  vetuste  nazioni, 
delle  quali  è  a  noi  rimasa  memoria  tramandatagli  da'  posteri  di 
Noè,  fu  che  colla  morte  tutto  si  finiva,  mortale  fosse  la  condizione 
dell'uomo,  siccome  di  tutti  gl'altri  animali  ne'  quali  era  lo  spirito 
delle  vite. 

Il  regno  d'Egitto  per  antichità  e  durata  non  vi  è  dubbio  che 
fosse  il  primo  stabilito  sopra  la  terra,  e  che  avesse  più  ampi  e 
dilatati  confini,  più  colto  degli  altri,  e  dove  la  mondana  sapienza 
ebbe  suoi  princìpi  e  natali  donde  l'altre  nazioni  la  derivarono.5  Si 
è  veduto  che  l'imperio  degl'Assiri  fu  posteriore,  poiché  a'  tempi 
che  l'Egitto  era  già  stabilito  in  ampio  regno  diviso  in  quattro  dina- 
stie, l'Assiria  era  divisa  in  piccioli  e  minuti  regni,  e  non  se  a'  tempi 
di  Nino  e  di  Semiramide  cominciò  ad  acquistare  nome  d'imperio. 
Quindi  a  ragione  gl'Egizi  vantano  maggior  antichità,  culto,  civiltà, 

i.  Non  si  annoverava . .  .  umane:  cfr.  le  opere  già  citate  di  Spencer  e  di 
Toland.  2.  Sul  diluvio  cfr.  Dictionarium  historicum,  criticum,  chronologi- 
cum,  geographicum  et  litterale  Sacrae  Scripturae . . .  authore  R.  P.  D.  A. 
Calmet ...  e  gallico  in  latinum  translatum  a  J,  D.  Mansi,  Venetiis  1734,  1, 
p.  39.  3.  ^universi .  . .  sunt»:  Gen.,  7, 21-2.  4.  si  vedrà  Parente  (p.  1 17); 
succederà  ven.  5.  Il  regno  d'Egitto  . . .  derivarono:  cfr.  L.  Ellies  Du  Pin, 
Bibliothèque  universelle  des  historiens  ecc.,  Amsterdam  1708,  pp.  13-8  e 
246-56,  riguardanti  rispettivamente  gli  storici  e  la  cronologia  egizia. 
Quest'opera,  come  il  Giannone  confesserà  nell'autobiografìa  (vedi  qui 
p.  204  e  la  nota  5  ivi),  gli  era  stata  molto  utile  per  il  Triregno. 


6o6  IL   TRIREGNO 

e  più  sapienza  nelle  discipline  e  nelle  arti;  ed  i  Caldei  forse  potran- 
no pregiarsi  della  sola  astronomia,  nella  quale  furono  i  primi  ed  i 
più  eccellenti.  Or  presso  gl'antichi  Egizi  la  credenza  che  si  teneva 
dell'anime  umane  fu  che  fossero  mortali,  e  che  ugual  fosse  in  ciò 
la  condizione  degl'uomini  e  degli  animali,  non  altrimenti  che  ci 
vien  manifestata  da  questi  primi  capitoli  del  Genesi,  e  per  ciò  chia- 
mavano alla  rinfusa  uomini  e  bruti  «mortale  genus».  Quindi  Ero- 
doto, lib.  2,  cap.  6,1  ci  rapporta  un  antico  costume  de'  più  colti  e 
doviziosi  Egizi,  che  usavano  ne'  loro  conviti,  i  quali  nel  fine  della 
cena  facevan  portare  intorno  a'  convitati  un  morto  fatto  di  legno, 
ma  dipinto  e  lavorato  in  maniera  che  somigliasse  ad  un  morto 
dadovero;  e  colui  che  lo  portava  diceva  cantando:  «Bevete,  ralle- 
gratevi e  datevi  diletto,  dopo  la  morte  questo  somigliarete  ». 

La  dottrina  che  dapoi  cominciò  fra  essi  ad  allignare  per  le 
pompe  de'  funerali  ed  onori  che  rendevano  a'  loro  defonti,  venne 
molto  tardi,  quando  i  loro  sacerdoti,  sopra  il  trasporto  che  si  fa- 
ceva con  gran  pompa  e  celebrità  de'  cadaveri  all'altra  sponda  del 
fiume,  cominciarono  a  finger  inferno  ed  a  favoleggiare  sopra  Cerere 
e  Bacco,  a  cui  diedero  il  principato  di  questo  regno  infernale;  ma 
secondo  ch'Erodoto  istesso  ci  rende  testimonianza  nel  lib.  2,  e.  9,* 
in  questi  princìpi  i  sacerdoti  istessi  non  credevano  che  in  quest'in- 
ferno andasse  anima  alcuna  umana,  siccome  nemeno  in  cielo  ;  ma 
furono  i  primi  a  fantasticare  che  l'anime  fossero  immortali,  sulla 
vana  e  pazza  credenza  che  passassero  da  uno  in  l'altro  corpo  dopo 
la  morte  del  primo,  aggiungendo  altre  pazzie,  cioè  che  dovevano 
trapassare  per  tutte  tre  le  sorti  corporee,  terrestri,  acquatili  e  vo- 
latili; e  dopo  aver  compito  questo  giro  entravano  di  nuovo  ne' 
corpi  degl'uomini  nuovamente  formati,  e  questa  circuizione  dice- 
vano farsi  in  termine  di  3000  anni. 

Questa  fu  la  prima  e  nuova  dottrina  degl'Egizi  intorno  all'immor- 
talità dell'anime  umane,  la  quale,  per  la  naturai  inclinazione  degli 
uomini  alla  novità  ed  al  portentoso,  fu  da  alcuni  avidamente  ab- 
bracciata e  trasportata  ad  altre  più  rozze  ed  incolte  nazioni;  e  si 
sa  che  Pitagora  questa  dottrina  l'avesse  appresa  dagl'Egizi  e  tra- 

1.  lib.  2,  cap.  61  cfr.  ed.  cit.,  f.  54:  oc  quando  si  fa  convito  a  casa  d'huomini 
potenti,  nella  fine  della  cena  portano  intorno  a*  convitati  un  morto  di  legno 
fatto,  ma  dipinto  e  lavorato  in  maniera  che  assomigli  a  un  morto  da  dovero: 
e  colui  che  lo  porta  va  cantando,  e  dice:  Beveti,  allegrativi  e  dativi  diletto, 
dopo  la  morte  questo  somigliarete».  2.  nel  lib.  2,  e.  9:  cfr.  ed.  cit.,  f.  65. 
Tutto  il  brano  giannoniano  è  ricalcato  su  quello  di  Erodoto. 


DEL   REGNO   TERRENO    •  PARTE    I   •  CAP.   IV  607 

sportata  a'  Greci  siccome  scrisse  Diodoro,  lib.  i,  pag.  88 :x  «Et 
quod  Pythagoras  .  .  .  animarum  in  quodvis  animai  transmigra- 
tionem  ab  Aegyptiis  acceperit».  Ed  Erodoto,  loc.  cit.,3  non  niega 
che  alcuni  de'  Greci  l'usurparono  come  da  sé  questa  invenzio- 
ne che  fu  degli  Egizi,  i  nomi  de'  quali  ei  soggiunge  non  voler 
palesare;  ma  ben  si  comprende  che  voglia  intendere  di  Pitago- 
ra, celebre  non  meno  sofista  tra'  filosofi  che  famoso  impostore. 
Costui  eziandio  narrasi  che  avesse  portata  questa  nuova  dottrina 
ai  Geti,  fra  tutti  i  Traciani  valentissimi,  i  quali  perciò  si  stimavano 
immortali,  perché  credevano  che  le  loro  anime  uscite  dai  corpi 
andassero  a  Salmosin,  ch'era  un  loro  dio,  chiamato  d'alcuni  di 
loro  anche  con  altro  nome  di  Beleizim,  al  quale,  siccome  rapporta 
Erodoto,  lib.  4,  cap.  6,3  brutalmente  sacrificavano  uomini  vivi,  e  lo 
collocavano  sotto  terra.  Ed  Erodoto  stesso4  dice  aver  egli  inteso 
da*  Greci  in  Ponto  che  questo  Salmosin  fu  un  vilissimo  uomo  e 
grand'impostore,  il  quale  visse  servo  di  Pitagora  nell'isola  ài  Samo, 
e  fatto  poi  franco  e  ad  un  tratto  divenuto  ricchissimo,  ritornò  in 
Tracia  sua  patria,  dove  tra  quelle  rozze  genti  e  bestiali  prese  in 
breve  grandissimo  credito,  come  colui  che  lungamente  tra'  Greci 
era  conversato,  e  con  Pitagora.  Questi  imposturava  così  quella  rozza 
gente,  affermando  che  né  esso,  né  alcuni  di  loro  ch'erano  con  lui 
morirebbero  mai,  ma  che  con  seco,  dopo  la  presente  vita,  godereb- 
bero eterni  beni;  e  facendosi  sotterra  un'abitazione  vi  stette  tre 
anni,  credendolo  i  Traciani  morto  ed  amaramente  piangendolo.  Al 
quarto  anno  ritornò  nel  cospetto  degl'uomini,  e  con  questo  fece 
credibili  quelle  cose  che  detto  avea.  Soggiunge  Erodoto  che  sebbene 
i  Greci  così  dicessero,  egli  però  credea  che  molti  anni  avanti  a  Pi- 
tagora fosse  costui  ed  in  tal  guisa  imposturasse  i  Traciani.  Che  che 
ne  sia,  certamente  che  al  mondo  non  mancarono  mai  impostori; 
e  da  Pitagora  ne  uscirono  valentissimi,  poiché  da  costoro  e  dalla 
di  lui  falsa  dottrina  fu  corrotta  la  pura  e  semplice  credenza  di  al- 
cune antiche  nazioni,  e  peggior  male  nelle  seguenti  età  portarono 

1.  lib.  i,  pag.  88:  della  citata  edizione  Rhodomann.  (1,  98, 2:  a  Pitagora  ap- 
prese dagli  Egizi  la  trasmigrazione  dell'anima  in  un  quale  che  sia  animale  »). 

2.  loc.  cit.:  cfr.  ed.  cit.,  f.  65:  «Alcuni  de*  Greci  si  hanno  usurpata  questa 
inventione  ...  ».  Si  riferisce  ^immortalità  dell'anima.  Il  Giannone  uti- 
lizza Erodoto  e  Strabone  come  aveva  già  fatto  il  Toland  nelle  Letters  to 
Serena  e  nelle  Ongines  iudaicae.  3.  lib.  4,  cap.  6:  cfr.  ed.  cit.,  f.  140.  Il 
Giannone  dice  Beleizim  invece  di  Gebeleizim,  ricavandolo  dalla  traduzione 
del  Boiardo.     4.  Ed  Erodoto  stesso:  ibid. 


608  IL   TRIREGNO 

al  mondo  i  suoi  settari  pittagorici,  non  inferiori  a  quei  che  poi  si 
portarono  i  platonici.  Degl'Indi  brachfmjani1  e  di  altri  popoli  rozzi 
pur  si  narra  che  fossero  stati  contaminati  di  questa  fantastica  dot- 
trina. Strabone,  parlando  nel  lib.  152  di  questi  bracamani  filosofi, 
non  potè  negare  che  i  medesimi,  siccome  in  molte  cose  convenivano 
co*  Greci,  così  pure  essi  tessevano  delle  favole,  come  Platone,  in- 
torno aU'immortalità  dell'anima,  all'inferno  e  cose  simili,  dicendo: 
«Texere  etiam  fabulas  quasdam,  quemadmodum  Plato,  de  im- 
mortalitate  animae  et  de  iudiciis  quae  apud  inferos  fiunt,  et  alia 
huiusmodi  non  pauca».  E  Diodoro  ci  rende  testimonianza  al  lib.  5, 
pag.  306,3  che  insino  alcuni  popoli  della  Gallia  ne  fossero  stati 
corrotti,  dicendo:  «Pythagorae  enim  apud  illos  opinio  invaluit, 
quod  animae  hominum  immortales,  in  aliud  ingressae  corpus,  de- 
finito tempore  denuo  vitam  capessant».  E  Strabone,  lib.  4  Geogr.* 
pur  rapporta  che  nella  Gallia  i  Druidi  pur  ebbero  tal  credenza,  di- 
cendo :  «  Cum  hi,  tum  alii  (intendendo  de'  bardi  e  de'  vati)  animam 
interitus  expertem  statuunt  et  mundum;  tamen  aliquando  ignem 
et  aquam  superatura». 

Ma  tutte  l'altre  nazioni  più  vetuste,  nelle  quali  non  penetrò 
questa  contagione,  mantennero  l'antica  e  pura  credenza  de'  loro 
maggiori,  e  quindi  in  alcune  leggiamo  essersi  introdotto  costume 
di  piangere  quando  nasceva  loro  un  fanciullo  e  far  festa  quando  si 
moriva,  riputando  la  morte  per  ultimo  porto  e  placido  sonno  e 
quiete,  che  liberava  l'uomo  da  tutti  i  mah  e  disaventure  di  questa 
misera  vita.  Narra  Erodoto,  lib.  5,  cap.  i,s  che  i  Trausi,  popoli  an- 
cor essi  della  Traccia,  aveano  questo  costume  differente  dagli  altri 
Tracciarli,  che  quando  nasceva  un  fanciullo  i  parenti  standogli  at- 
torno lo  piangevano  tutti  quanti,  e  lamentandosi  raccontavano  tutte 
le  miserie  che  sarà  necessario  patire,  essendo  entrato  nella  sorte 
dolente  della  vita  umana.  Ma  qualunque  di  loro  moriva,  con  suoni 
e  canti  l'accompagnavano  alla  sepoltura,  e  con  gran  feste  raccon- 

1.  brach[m]ani:  qui  ves  ha  «brachani»;  due  linee  sotto  ha  a  bracamani». 

2.  nel  lib.  15:  ed.  cit.,  p.  713  («  Inventarono  anche  delle  favole,  come  Pla- 
tone, suu'irnmortalità  dell'anima  e  sul  giudizio  che  avviene  negli  Inferi,  e 
parecchie  altre  cose  del  genere  i>).  3-  al  lib.  5,  pag.  306  :  della  citata  edizione 
Rhodomann.  (v,  28, 6  :  «  Invalse  infatti  presso  di  loro  la  credenza  di  Pitagora, 
che  l'anima  immortale  degli  uomini,  entrata  in  un  altro  corpo,  prenda  di 
bel  nuovo  vita  per  un  certo  tempo  »).  4.  lib.  4  Geogr.  :  ed.  cit.,  p.  197  («  Sia 
questi,  sia  altri,  si  figurano  immortali  l'anima  e  il  mondo  ;  tuttavia  hanno 
talvolta  il  sopravvento  il  fuoco  e  l'acqua»).  5.  lib.  5,  cap.  1:  cfr.  ed.  cit., 
fi  163-4. 


DEL    REGNO    TERRENO    •  PARTE    II    •  CAP.    II  609 

lavano  di  quanti  mali  e  disavventure  fosse  per  la  morte  liberato. 
Quest'istesso  costume  narra  Filostrato,  rapportato  da  Boccarto  in 
Canaam,  lib.  i,  cap.  34, z  avere  avuto  i  Gaditani,  popoli  antichis- 
simi di  Spagna,  li  quali  <  festis  cantibus  (ei  dice)  hominum  mortem 
celebranti).  Ed  Eliano,3  presso  Eustazio,  de'  medesimi  pur  disse 
che  riputavano  la  morte  <•  communis  quies  et  ultimus  portus  ». 


PARTE  11 

DELL'ORIGINE  DEL  MONDO  E  FORMAZIONE  DELL'UOMO: 

SUA  NATURA  E  FINE,   SECONDO  IL  SENTIMENTO 

DE»   PIÙ   GRAVI  E  SERI   FILOSOFI 

CAP.   II 

In  che  gl'Egizi,  i  Fenici,  i  Greci  ed  altri  filosofi  facessero  consiste- 

re  la  natura  dell'uomo,  e  come  fossero  di  conforme  sentimento  con 

Mosè  che  uno  spirito  animava  l'universa  carne  sì  degVuomini 

come  degli  animali. 

Diodoro  Siciliano,  nel  primo  libro  della  sua  Biblioteca  isterica,3 
sebbene,  come  s'è  veduto,  in  sentenza  degl'Egizi  e  de'  Greci  istessi, 
come  d'Anassagora  e  d'Euripide,  ci  rappresenti  una  nova  dottrina 
intorno  alla  formazione  del  mondo  e  dell'uomo  e  delTorigini  delle 
cose  diversa  da  quella  che  Mosè  insegnò  ai  suoi  Ebrei,  specialmente 
in  ciò  che  riguarda  il  facitore  dell'universo  ;  con  tutto  ciò,  per  quel 
che  s'appartiene  alla  natura  di  questo  spirito  vivificante,  par  che4 
que'  filosofi  fossero  stati  conformi  a'  sentimenti  di  Mosè  palesatici 
nel  lib.  del  Genesi.5  Mosè  fece  Iddio  creatore  del  tutto.  Gli  Egizi 
davano  alla  natura  Tistesso  potere  ed  efficacia  che  Mosè  attribuisce 
ad  Iddio,  facendo  Iddio  e  la  natura  una  cosa  stessa,  riputandola 
perciò  insieme  coll'universo  eterna  e  non  creata.  Ma  rapporta  che 
questi  istessi  filosofi  ammettevano  anche  essi  nell'universo  uno 


1.  in  Canaam,  lib.  r,  cap.  34:  della  Geograpkia  sacra  del  Bochart  è  citata  la 
già  menzionata  edizione  di  Francoforte  del  1674,  Chanaan,  De  coloniis  et 
sermone  Phoenicum,  p.  675  («celebrano  la  morte  degli  uomini  con  canti  di 
festa  »).  2.  Claudio  Eliano  (170-235  d.  C),  sofista  di  Preneste.  Il  Giannone 
cita  traendo  dal  Bochart,  loc.  cit.  :  «  Sic  Aeliano  teste  apud  Eustathium  . . .  ». 
3.  Bibliotheca  historica,  1, 11,  12.  4.  par  che  Parente  (p.  271)  ;  perche  ven. 
5.  palesatici  .  .  .  Genesi',  cfr.  Gerì.,  1,  24:  «Producat  terra  animare  viventem 
in  genere  suo  ...  ». 


6lO  IL    TRIREGNO 

spirito  vivificante,  il  quale,  secondo  la  qualità  e  la  disposizione  della 
materia  alla  quale  s'unisce,  ha  tanta  forza  e  vigore  di  dargli  vita, 
moto  e  senso,  sicché  possa  produrre  e  piante  ed  animali  e  uomini 
istessi:  in  brieve  che  l'universa  carne  possa  sorgere  «in  animam 
viventem».  Disse  perciò  al  cap.  2  del  primo  libro1  che  gl'Egizi  la 
generazione  di  tutto  ciò  che  si  vede  nell'universa  natura  principal- 
mente l'attribuivano  al  sole  ed  alla  luna,  da'  quali  sublimissimi 
corpi,  ch'essi  aveano  per  dii,  ne  derivava  tutto  ciò  ch'essi  ripu- 
tavano essere  principalmente  necessario  alla  generazione,  siccome 
all'altre  parti  onde  si  compone  il  mondo,  le  quali  somministravano 
la  materia,  l'umido  ed  il  gravoso;  onde  dai  primi  ne  derivavano 
questo  spirito  ch'essi  chiamavano  Giove  ed  il  fuoco  che  dissero 
Vulcano,  poiché  il  caldo  molto  conferisce  alla  perfezione  della  ge- 
nerazione; e  dai  secondi  il  secco,  intendendo  della  terra,  che,  come 
vaso  ove  tutto  si  fa  e  si  riceve,  prese  il  nome  di  madre,  detta  ancora 
la  dea  Cibelle;  l'umido,  intendendo  dell'acqua,  onde  l'Oceano  lo 
riputavano  anche  padre  delle  cose  e  perciò  anche  dio,  e  l'aria  chia- 
mata anche  la  dea  Pallade  e  figlia  di  Giove.  Chiamavano  questo 
spirito  Giove,  ch'era  Dio  maggiore  ed  il  primo  fra  tutti  i  dei, 
poiché  questo  è  il  principio  e  la  cagione  onde  tutte  le  cose  animate 
ricevono  moto,  vita  e  senso:  «  Sicut  spiritus  Iuppiter »  dice  Diodoro 
«si  interpreteris,  nominetur;  quod  vis  animalis  in  viventibus  ab  eo 
tanquam  auctore  proficiscatur;  ideoque  omnium  quasi  parens  exi- 
stimetur;  clarissimo  quoque  inter  Graecos  poetarum  suffragante 
ubi  de  hoc  deo  loquitur:  Parens  hominumque  deumque».2 

Sanconiatone  di  Berito,  di  cui  fa  memoria  Filone  Biblio  allegato 
da  Eusebio,  lib.  1  Praepar.  evangeli  cap.  io,3  rapportando  la  teo- 
logia dei  Fenici,  della  quale  ne  fa  maestro  ed  autore  Taauto,  che 
eziandio  da  alcuni  si  vuole  che  fosse  lo  stesso  che  Mosè,  siccome  i 
Greci  lo  dicono  Mercurio,  dice  che  costui  fece  pure  la  medesima 
ipotesi  della  formazione  del  mondo,  cioè  che  nel  caos  vagava  questo 
spirito  che  fecondò  l'universo:  «Principium  huius  universitatis  po- 


1.  Disse  perciò  . .  .  libro:  Diodoro,  op.  cit.,  1, 11, 4  sgg.  Ed.  Rhodomaim  cit., 
p.  11.  2.  «  Sicut  spiritus  —  deumque»:  op.  cit.,  1,  12,  2.  Ed.  Rhodomann 
cit.,  p.  11  («Giove,  se  si  interpreta,  è  denominato  spirito,  in  quanto  la  forza 
animante  nei  viventi  procede  da  lui  quale  autore,  e  perciò  è  considerato 
come  il  padre  di  tutti,  del  che  dà  conferma  anche  il  più  grande  poeta  greco 
quando  parla  di  questo  dio:  "Padre  degli  uomini  e  degli  dei"  »).  3.  Prae- 
parationis  evangelicae  libri  quindectm,  in  Migne,  P.  G.,  xxi,  col.  87. 


DEL   REGNO   TERRENO   •  PARTE    II   •  CAP.  II  6ll 

nit  aérem  tenebrosum  ac  spiritu  fetum,  seu  mavis  tenebrosi  aéris 
flatum  ac  spiritum,  caosque  turbidum  altaque  caligine  circumfusum 
etc.  Is  quidem  rerum  omnium  procreatdonis  principium  fuit».1 

I  Fenici  non  può  dubitarsi  che  portarono  ai  Greci,  non  meno  che 
gl'Egizi,  le  prime  nozioni  di  filosofia  e  delle  lettere;  e  Boccardo2 
fa  vedere  che  Omero  molte  cose  dai  Fenici  apprese  e  trasportò  ne' 
suoi  poemi,  dai  quali  Virgilio  fu  mosso  nell'Eneide  di  valersi  di 
questa  istessa  dottrina,  e  per  farla  apparire  antichissima,  qual'era 
in  verità,  fa  che  il  padre  Anchise  l'esponga  ad  Enea  suo  figliuolo, 
dicendogli  al  lib.  6:3 

Principio  coelum  ac  terras  camposque  liquentes 
lucentemgue  globum  lunae  titaniaque  astra 
spiritus  intus  alit,  totamque  infusa  per  artus 
mens  agitai  molem  et  magno  se  corpore  miscet. 
Inde  hominum  pecudumque  genus  vitaeque  volantum 
et  quae  marmoreo  feri  monstra  sub  aequore  pontus. 

I  Greci  che,  come  si  è  detto,  dagli  Egizi  e  dai  Fenici  presero  i 
semi  della  filosofia,  ammisero  ancora  essi  questo  spirito  per  prin- 
cipio, onde  tutte  le  cose  animate  ricevono  senso  e  vita;  ed  Anassa- 
gora, che  sopra  Talete,  Anassimandro,  Anassimene4  e  tutti  gli  altri 
suoi  predecessori  spinse  le  ricerche  e  le  conoscenze:  e  Pericle, 
Archelao5  ed  Euripide  suoi  discepoli,  che  empirono  la  Grecia  di 
filosofi,  non  ne  dubitarono  punto. 

Eusebio  istesso,  lib.  io  Praeparat  Evangéli  cap.  14,  rapportan- 
doci la  successione  dei  filosofi  greci,  dice  che  Anassagora,  maestro 
di  Euripide,  ade  principiis  distincte  primus  et  enucleate  disputa- 


1.  e  Principium  kuins  . .  .futi»',  questo  brano  manca  nel  manoscritto  napo- 
letano utilizzato  dal  Parente  (p.  272).  Si  tratta  di  Eusebio  di  Cesarea, 
op.  cit.,  1,  x,  col.  75  («  Come  principio  di  questo  universo  pone  un  aere  tene- 
broso e  pieno  di  spirito,  o  meglio  un  soffio  e  uno  spirito  di  aria  tenebrosa, 
e  un  caos  torbido  e  circondato  da  profonda  caligine.  Questo  invero  fu  il 
principio  della  creazione  di  tutte  le  cose  »).  2.  Boccardo  :  S.  Bochart, 
Geographia  sacra,  ed.  cit.  di  Francoforte  1674,  Chanaan,  lib.  i,  cap.  xxxiii, 
p.  642.  3.  al  lib.  6:  w.  724-9  («Al  principio  un  alito  vitale  nutre  dal  di 
dentro  il  cielo  e  la  terra  e  le  distese  marine  e  il  risplendente  globo  della 
luna  e  il  sole,  e  un'anima  diffusa  nelle  giunture  muove  il  tutto  e  si  mischia 
alla  gran  massa.  Di  qui  la  stirpe  degli  uomini  e  quella  degli  animali  e  la  vita 
degli  uccelli,  e  i  mostri  che  il  mare  porta  sotto  lo  specchio  dell'acqua»). 
4. 1  nomi  sono  stati  copiati  male  dal  copista  di  yen:  Orassimandro,  scritto 
più  sotto  Orissamandro  e  Orassimene,  più  sotto  Orissamene.  5.  Pericle, 
Archelao  :  in  ven  scritti  erroneamente  «Peride»  e  «  Archealo». 


6lS  IL   TRIREGNO 

vit;  neque  enim  de  universi  tantum  natura  uri  priores  illi  (cioè 
Talete  Milesio,  il  quale  «princeps  inter  Graecos  de  rebus  naturali- 
bus  philosophari  coepit  »,  Anassimandro  suo  discepolo,  ed  Anassi- 
mene  maestro,  ed  Anassagora),  sed  etiam  de  ipso  motus  eius  auc- 
tore  philosophatus  est.  "Cum  enim  res  omnes,  inquit,  confusae 
simul  permixtaeque  ab  initio  forent,  mens  penitus  eas  permeans, 
ab  illa  perturbatione  in  ordinem  elegantiamque  \óndicavit"  w.1  E 
così  appunto  Giuseppe  Ebreo,  lib.  i,  cap.  i  Antiq.  iud.,  in  sen- 
tenza di  Mosè,  aveva  pur  detto  di  questo  spirito,  che3  la  vulgata 
Scrittura,  che  «  ferebatur  super  aquas  »,3  e  spiritu  superne  permean- 
te ».4  Ma  nello  spiegare  la  natura  di  questo  spirito  che  negli  uomini 
potè  produrre  tanto  discorso  ed  accorgimento,  così  i  riferiti  filosofi 
come  i  di  loro  successori  Pitagora,  Democrito,  Platone,  Aristotile, 
Epicuro5  e  tanti  altri,  furono  fra  di  loro  molto  vari  e  discordi. 
Né  minore  fu  la  discrepanza  tra  i  nostri  più  moderni  filosofi,  come 
vedremo  più  innanzi,  dopo  aver  riferito  le  opinioni  degli  antichi. 
Aristotile  nel  lib.  2  De  generai,  anìm.,  cap.  3,  attribuisce  a  questo 
spirito  diffuso  ne'  semi  di  tutte  le  cose  natura  celeste,  simile  alla 
natura  delle  stelle.  «Inest  in  semine  omnium»  ei  dice  «quod  facit 
ut  foecunda  sint  semina,  videlicet  quod  calor  vocatur,  idque  non 
ignis,  non  talis  facultas  aliqua  est,  sed  spiritus  qui  in  semine  spu- 
mosoque  corpore  continetur,  et  natura  (idest  anima)  quae  in  eo 
spiritu  est,  proportione  respondens  elemento  stellarum».6  Aristo- 
tile adunque  non  si  contenta  solo  di  questo  spirito,  ma  vuole  che 
in  esso  vi  sia  qualche  altra  cosa  di  più  che  chiama  natura,  cioè  ani- 
ma, perché  qualunque  spirito  per  se  stesso,  per  proprio  vigore  ed 
efficacia,  non  potrebbe  ordinare  e  disporre  le  figure,  i  numeri,  il 
sito,  la  grandezza  e  picciolezza  e  quanto  bisogna  per  fare  sorgere 

1. 1  Greci  . . .  vindicavit:  in  Migne,  cit.,  col.  839  («per  primo  esaminò  con 
chiarezza  e  precisione  l'origine  delle  cose;  infatti  non  filosofò  soltanto  sulla 
natura  dell'universo,  come  quei  primi,  ma  anche  sullo  stesso  autore  di  quel 
moto.  "Essendo  infatti,  egli  dice,  tutte  le  cose  all'inizio  frammischiate  e 
confuse  assieme,  una  mente,  penetrandole  profondamente,  le  trasse  da 
quella  confusione  disponendole  in  un  ordine  preciso"  »).  2.  che:  sarà  forse 
stato  «  l'istesso  che  ».  Parente  (p.  273)  «  come  ».  3 .  *  ferebatur  super  aquas  »  : 
Gen.y  1,  2.  4.  «spiritu  superne  permeante»:  Flavio  Giuseppe,  loc.  cit. 
(«pervadendole  un  soffio  dall'alto»).  5.  Epicuro:  letto  da  ven  «Epiccero». 
6.  «  Inest .  . .  stellarum  »:  «È  diffuso  nel  seme  di  tutte  le  cose,  il  che  rende  i 
semi  fecondi,  ed  ovviamente  è  chiamato  calore.  E  questo  non  è  il  fuoco, 
non  una  tal  quale  facoltà,  ma  uno  spirito  racchiuso  nel  seme  e  nella  massa 
spumosa,  e  la  natura  (cioè  l'anima)  che  c'è  in  questo  spirito  è  paragonabile 
all'elemento  delle  stelle». 


DEL   REGNO    TERRENO    •  PARTE   II    •  CAP.   II  613 

un  corpo  «in  animam  viventem»,  se  non  abbia  un  altro  principio 
attivo  per  cui  si  produchino  tutti  questi  effetti,  e  che  gli  sommini- 
stri tutta  questa  "virtù  ed  efficacia:  quindi  egli  nell'addotto  luogo 
distingue  questo  spirito  o  sia  calore  del  seme  dalla  natura  nella  quale 
dice  essere  questa  virtù  architettonica,  in  guisa  che  la  natura  ch'è 
in  questo  spirito  somministra  al  medesimo  tutta  quella  virtù  ed 
efficacia,  dicendo:  «Virtutem  architectonicam  esse  naturam  quae 
in  spiritu  seminis  est».1 

Ippocrate  nel  lib.  De  aliment?  riconosce  ancora  nello  spirito  del 
seme  questa  natura,  la  quale  perciò  disse  aillam  eruditam  esse», 
perché  somministra  a  questa  spiritosa  parte  del  seme  la  virtù  ed 
efficacia  di  disporre  e  formare  il  corpo  organico,  sicché  possa  sor- 
gere «in  animam  viventem»:  con  tutto  ciò  Galeno  questa  virtù  o 
forza  architetonica  la  chiama  ora  «nativum  calorem»,  ora  «insitum 
temperamentum»,  sovente  «spiritum»,  che,  nel  lib.  De  trem.  et 
rigore,  dice  essere  «substantiam  per  se  et  mobilem».3 

Quindi  fu  data  occasione  ai  successori  filosofi  e  medici,  non  al- 
trimenti che  fecero  i  loro  maestri,  di  darci  nuove  spiegazioni  sopra 
ciò.  Le  quali  finalmente  non  si  riducano  che  a  vane  parole  e  nuovi 
vocaboli  che  niente  significano,  tanto  è  lontano  che  spiegano  la 
natura  di  questo  spirito.  Deisingio,4  lib.  z  Degener.foet.,  definisce 
questo  spirito  non  essere  altro  che  «  substantia  quaedam  immate- 
rialis  e  materia  emergens  de  summo  Deo,  sic  ad  materiam  deter- 
minata ut  sine  ea  nec  esse,  nec  subsistere,  nec  operari  queat». 

Altri  con  Avicenna  chiamarono  la  virtù  architetonica  racchiusa 
in  questo  spirito  «intelligentiam».  Alcuni  altri  con  Averroe  e  Scoto 
«vini  coelestem»  ovvero  «divinam  virtutem».  Giacomo  Schegkio,5 

1.  «  Virtutem  . . .  est »:  «La  natura  infusa  nello  spirito  del  seme  è  una  virtù 
architettonica  ».  2.  Ippocrate  . . .  alimenta  :  cfr.  Opera  quae  extant,  Ve- 
netiis  1588,  I,  De  alimento,  pp.  353-7.  3.  Galeno . . .  mobilem:  cfr.  De 
tremore,  palpitatione,  convulsione  et  rigore,  cap.  v.  4.  Deisingio:  Anton 
Deusing  (1612-1666),  medico  tedesco,  studiò  a  Leida  ed  ebbe  la  cattedra 
a  Groninga.  Su  di  lui  cfr.  J.  Roger,  Les  sciences  de  la  vie  dans  la  pensée 
franpaise  du  XVIII  siècle,  Paris  1963,  passim,  ma  soprattutto  pp.  71-2.  Di 
lui  Giannone  cita  qui  la  Genesis  microcosmi,  seu  De  generatione  foetus  in 
utero  dissertatio  . . .,  Amstelodami  1665,  pars  li,  sectio  1,  De  efficiente  causa 
conformationis,  p.  71  (a  una  sostanza  immateriale  che  emerge  dalla  ma- 
teria provenendo  dal  sommo  Dio,  così  determinata  dalla  materia  che 
senza  di  questa  non  può  né  esistere,  né  sussistere, né  operare»).  5.  Già- 
corno  Schegkio:  Jacob  Degen  (Schegk),  filosofo  e  medico  tedesco  (15 11- 
*587),  professore  a  Tubinga  e  commentatore  di  Aristotele.  L/opera  qui 
ricordata  è  il  De  plastica  seminis  facultate  libri  tres,  Argentorati  1580, 


614  IL   TRIREGNO 

lib.  i  De  plast  sem.  fac,  mostra  di  dirci  qualche  cosa  di  più,  ma 
in  realtà  niente  c'insegna  di  nuovo,  dicendo  che  per  questo  spirito, 
o  forza  «plastica»,  non  deve  intendersi  altro  che  fcformam  substan- 
tialem,  quae  nullo  sensu,  sed  dumtaxat  mente  et  ratione  percipi- 
rur».1 

Li  platonici  dissero  essere  «  animam  generalem  per  totum  mun- 
dum  diffusam»,  la  quale,  per  la  diversità  delle  materie  e  dei  semi, 
produce  diverse  generazioni;  nulla  di  meno  il  gran  platonico  Plo- 
tino, lib.  Ennead.  3,2  questa  virtù  architettonica  la  distingue  dalla 
platonica  «  anima  del  mondo  »,  siccome  il  prodotto  dal  producente, 
chiamando  quella  virtù  «natura  che  dall'anima  del  mondo»  deriva 
ad  essere  atto  essenziale  di  quella  e  vita  da  lei  dipendente.  Temistio, 
Cotn.  De  anima  et  12  metaphisic?  dice  questa  virtù  architettonica 
essere  formatrice,  essere  «  animam  in  semine  potentia  animato  in- 
clusam».  E  Deusingio,  lib.  De  ortu  animae,4'  chiama  quella  ch'è 
nel  seme  «naturam»,  cioè,  com'egli  stesso  insegna  e  spiega:  «ani- 
ma la  citazione  che  segue  deriva  dall'opera  di  Daniel  Sennert  Institu- 
tionum  medicmae  libri  V,  Parisiis  1631,  lib.  I,  De  nutritùme,  p.  76,  ed  è  un 
giudizio  riassuntivo  dello  stesso  Sennert,  dal  quale  il  Giannone  trae  il  ma- 
teriale per  questo  capitolo.  Daniel  Sennert  (1572-1637),  medico  tedesco, 
studiò  medicina  a  Wittemberg  e  a  Lipsia.  Nel  1601  ebbe  la  prima  cattedra 
di  chimica  a  Wittemberg.  Sostenne  la  tesi  dell'immortalità  dell'anima  delle 
bestie  e  fu  accusato  di  empietà.  Cfr.  P.  Bayle,  Dtctionnaire  historique  et 
critique,  Rotterdam  1720,  ni,  pp.  2567-71,  dove  si  afferma  che  il  Sennert 
credeva  che  il  seme  degli  esseri  viventi  fosse  dotato  di  anima.  Cfr.  ancora 
F.  A.  Lange,  Storia  del  materialismo >  Milano  1932, 1,  p.  324,  che  considera 
il  Sennert  un  timido  esponente  del  pensiero  materialistico  tedesco  del 
XVII  secolo.  Sul  Sennert  cfr.  ancora  J.  Roger,  Les  sciences  de  la  vie  ecc., 
cit.,  pp.  106-11,  che  dà  un'interpretazione  «spiritualista»  del  suo  pensiero, 
e  T.  Gregory,  Studi  sulV atomismo  del  Seicento'.  11,  Daniel  van  Goorle  e 
Daniel  Sennert^  in  a  Giornale  critico  della  filosofia  italiana»,  anno  xlv 
(1966),  fase.  1,  pp.  44-63.  1.  sformavi .  . .  percipitur*'.  «una  forma  sostan- 
ziale che  non  viene  percepita  da  alcun  senso,  ma  al  più  dalla  mente  e  dalla 
ragione  ».  2.  Enneadis  tertiae  liber  IV,  De  proprio  cuiusgue  daemone.  Cfr. 
soprattutto  il  paragrafo  IV,  Natura  vegetalis  sempiterna  est.  Anima  mundi 
sine  attentione  regit  corpus  et  sentii.  3.  Temistio  .  .  .  metaphisic:  Temistio 
(317  circa  d.  C.  -  388  circa)  conquistò  un  posto  tra  gli  esegeti  di  Aristotele 
con  le  sue  a  parafrasi»,  tra  l'altro  al  De  anima  e  alla  Metaphysica  qui  men- 
zionate. Come  afferma  il  Roger,  op.  cit.,  p.  97,  era  stato  Giulio  Cesare 
Scaligero  a  risuscitare  nel  1557  la  tesi  di  Temistio  sull'anima  per  evitare  il 
materialismo  vitalista  implicito  nei  trattati  biologici  aristotelici.  («  Un'anima 
racchiusa  nel  seme  animato  in  potenza  »).  4.  Deusingio  . . .  animae  :  A.  Deu- 
singii  Oeconomus  corporis  animalis:  oc  speciatim  De  ortu  animae  humanae 
dissertatio  . . .,  Groningae  1661,  p.  64:  la  citazione  che  segue  sembra  a  me- 
moria e  composita  («  un'anima  sussistente  in  potenza  nel  seme,  e  principio 
e  causa  per  sé  esistente  del  moto»;  «anima  esistente  in  atto»). 


DEL   REGNO   TERRENO   •  PARTE   II  •  CAP.  II  615 

mam  potentia  in  semine  subsistentem,  ac  prindpium  et  causam 
motus  per  se  existentem»;  ma  nel  corpo  già  formato  la  chiama 
'  animam  actu  existentem»:  e  così  senza  necessità  alcuna  una  cosa 
istessa  la  distingue  in  due,  ponendogli  due  nomi  distinti  secondo 
ch'è  o  in  quiete  o  in  moto,  o  secondo  la  diversità  del  soggetto,  o  da 
formarsi  ovvero  già  formato.  Quando  una  sol  cosa  è  che  nel  seme 
sin  da  principio  può  formare  il  corpo  organico  e  che  in  atto  lo 
forma  e  così  da  poi  continuando  rimane  forma  e  vita.  Mostra  Deu- 
singio  aver  tirata  questa  sua  sentenza  dagli  istituti1  dei  platonici, 
i  quali  distinguono  tra  «animam»  ed  «esse  animam»,  cioè  «inter 
animae  substantiam»,  la  quale  sotto  il  nome  di  natura  è  nascosta 
nel  seme,  «  et  animam  quae  iam  actu  agit  »3  e  che  rimane  poi  ferma 
dal  corpo  organico  a  cui  dà  moto,  senso  e  vita.  Fernelio,3  lib.  4  Phi- 
siol.,  cap.  2,  chiama  questo  «spirito»  forza  «plastica»,  non  inten- 
dendo per  ciò  di  quel  commune  spirito  che  i  medici  fanno  sorgere 
dagl'umori  e  dalle  viscere  per  la  concozione  e  preparazione,  ma 
d'un  altro  assai  più  nobile  e  di  maggior  vigore:  «Est  igitur  spiritus 
corpus»  e'  dice  «aethereum,  caloris  facultatumque  sedes  et  vin- 
culum  primumque  obeundae  functionis  instrumentum»:4  e  nel  lib. 

I  De  abdit.,  cap.  io,5  crede  essere  una  virtù  che  dal  cielo  s'influisce, 
poiché  ei  dice:  «  Coelum  nullo  semine  multos  profert  tum  animan- 
tes  tum  stirpes,  at  semen  nihil  quidpiam  sine  coelo  generat.  Se- 

1.  istituti  Parente  (p.  276);  istuti  ven.  2.  Mostra  Deusingio  . . .  agit:  cfr. 
Oeconomus  ecc.,  cìt.,  pp.  80-1.  3.  Fernelio:  Parente  (p.  276)  ha  «Temi- 
stio  »,  che  è  errore  di  M.  C.  de  Samnitìbus,  il  copista  napoletano.  Si  tratta 
di  Jean  Fernel  (1497-1558),  medico  francese,  seguace  di  Ippocrate  e  cele- 
bre avversario  della  scolastica.  Cfr.  J.  Roger,  Les  sciences  de  la  vie  ecc.,  cit., 
passim,  ma  soprattutto  pp.  326-8.  L'opera  qui  citata  è  la  Universa  medici- 
na... Pars  prima  continens  Physiologiae  libros  VII,  Francofuxti  1 574,  lib.  rv,  De 
spiritibus  et  innato  calido,  cap.  11,  Spiritum  quendam  cunctis  datum  viventùrus, 
qui  vitae  color em  continet,  p.  1 3 1 .  4.  «  Est  igitur  spiritus  .  . .  instrumentum  »  : 
op.  cit.,  p.  135  («Lo  spirito  è  dunque  un  corpo  etereo,  sede  e  carcere  del 
calore  e  delle  sostanze,  e  strumento  primo  per  compiere  la  funzione»). 
5.  lib.  1  De  abdit.y  cap.  io:  op.  cit.,  De  abditis  rerum  causis  Ubri  duoy  lib.  1, 
cap.  x,  Re  ornnes  caducas  et  mortales  divinitus  olim  conditas  fuisse;  eas  mine 
codesti  virtute  et  gìgni  et  gubernari,  quae  eadem  piane  est  divina,  pp.  95  sgg. 
La  frase  citata  è  a  p.  97  :  «  Quocirca  coelum  nullo  semine  multa  profert ...  ». 

II  resto  coincide.  La  differenza  si  spiega  perché  il  Giannone  cita  indiretta- 
mente dal  Sennert,  Institutionum  medicinae  ecc.,  cit.,  hb.  1,  cap.  x,  p.  76  («Il 
cielo  crea  senza  alcun  seme  in  gran  numero  sia  viventi  sia  stirpi;  il  seme  al 
contrario  non  genera  alcunché  senza  il  cielo,  limitandosi  a  preparare  e  a 
disporre  acconciamente  e  convenientemente  la  materia  alle  cose  per  gene- 
rare. Il  cielo  infonde  la  somma  perfezione  nella  forma  preparata  e  suscita 
la  vita  in  ogni  cosa»). 


6l6  IL   TRIREGNO 

men  gignendi  rebus  materiam  concinne  duntaxat  et  convenienter 
apparat  et  instruit.  Coelum  in  apparatam  illam  speciem  surnrnam- 
que  perfectionem  immittit  vitamque  suscitat  in  omnibus».  Sog- 
giungendo poco  da  poi:  «Animantium,  stirpium,  lapidum  et  me- 
tallorum  omnium  quaecunque  et  fuerunt  et  esse  possunt  formas, 
una  coeli  forma  potestate  comprehendit,  et  innumerabilibus  illa 
quasi  gravida  formis,  omnia  gignit  et  fundit  ex  sese».1  In  brieve 
tutti  concordano  ne*  semi  essere  questo  spirito  in  cui  è  quella  effi- 
cacia chiamata  da  alcuni  anima,  da  altri  natura  e  da  alcuni  intelli- 
genza o  virtù  divina  o  celeste  o  architettonica,  ovvero  formatrice  o 
plastica;  e  Virgilio,  lib.  6  Eneid.?  non  ne  dubitò  punto  dicendo: 

Igneus  est  ollis  vigor  et  coelestis  origo 
seminibus .  .  . 

Ma  non  sono  concordi  in  spiegare  la  natura  e  l'essenza  i  più  mo- 
derni, come  Giuseppe  Scaligero,3  Subiti,  exercii.,  cap.  5  usque  ad 
11,  Ludovico  Mercati,4  tom.  1,  lib.  1,  qu.  9,  8,  ed  altri  tutti  difen- 
dono acremente  ne'  semi  essere  quest'anima,  le  di  loro  orme  cal- 
cando il  Gassendo,  tom.  2,  Phis.  Sect.  3,  membr.post.,  lib.  3,  cap.  3,s 
e  Daniele  Sennerto:  ebbe  costui  molta  ragione  di  dire,  Insiti.  med., 
lib.  1,  cap.  io,6  che  andavano  di  gran  lunga  errati  coloro  i  quali 

1.  a  Animantium  . . .  se$e*i  J.  Feknel,  op.  cit.,  p.  98  («Da  sola  la  forma  del 
cielo,  quasi  gravida  di  innumerevoli  forme,  comprende  nel  suo  potere  le 
forme  degli  esseri  animati,  delle  stirpi,  delle  pietre,  dei  metalli,  quante 
furono  e  possono  esserci,  ogni  cosa  da  sé  generando  e  sprigionando»). 

2.  lib.  6  Eneid.  :  w.  730-1  («Vi  è  in  quei  semi  un  ardente  vigore  e  un'origine 
celeste»).  3.  Giuseppe  Scaligero:  naturalmente  si  tratta  di  Giulio  Cesare 
Scaligero  (1484-1558),  il  celebre  medico  e  umanista,  di  cui  son  citati  gli 
Exotericarum  exercitationum  libri  XV.  De  subiditate  ad  Hieronymum  Carda- 
num9  Francofurti  1592,  lib.  vi,  capp.  v-xi.  Il  Parente  (p.  277)  corregge 
senza  avvertire.  4.  Ludovico  Mercati:  Luis  Mercado  (1520- 1606),  celebre 
medico  spagnolo,  autore  di  numerose  opere  più  volte  riunite  in  edizioni 
complete.  Cfr.  gli  Opera  omnia,  Venetiis  1609,  tomo  1,  lib.  1,  pars.  rv. 
5.  Gassendo  .  . .  cap.  3:  Pierre  Gassendi  (cfr.  la  nota  2  a  p.  33),  Opera  omnia 
in  sex  tomos  divisa,  curante  Nicolao  Averanio,  Florentiae  1727,  tom.  n, 
quo  continentur  Syntagmatis  Philosophici  partis  secundae,  seu  Physicae  sectio- 
nis  tertiae  membra  duo,  Sectio  III,  Membrum  posterius,  lib.  in,  De  anima, 
cap.  ni,  pp.  217-21.  Il  Gassendi  in  questo  terzo  libro  affronta  il  problema 
di  che  cosa  sia  l'anima,  esaminando  la  tesi  di  quelli  che  la  credettero  incor- 
porea (pp.  206-12),  di  coloro  che  la  considerarono  corporea  (pp.  212-6),  che 
cosa  sia  l'anima  dei  bruti  e  quella  umana  (pp.  216-25).  6.  Institutionum 
medicinae  ecc.,  cit.,  lib.  I,  De  nutritione,  cap.  x,  De  generatione,  pp.  71  sgg. 
La  citazione  è  a  p.  77  («  Giacché,  essendo  da  tutti  ammesso  che  nel  seme  vi  è 
una  potenza  atta  a  dar  forma,  va  anche  ammesso  che  in  quello  vi  è  un'anima. 
Non  essendo  infatti  le  facoltà  separabili  dall'anima,  di  cui  appunto  sono  fa- 


DEL   REGNO   TERRENO   •  PARTE    II   •  CAP.  II  617 

credevano  nel  seme  non  essere  anima,  poiché  non  si  può  negare 
l'anima  essere  la  causa  della  formazione  del  feto  e  della  sua  vivi- 
ficazione. «  Etenim  »  e*  dice  «  cum  vim  formatricem  in  semine  esse 
ab  omnibus  concedatur,  animam  etiam  in  eo  esse  concedendum 
est.  Nam  cum  potentiae  non  sint  separabiles  ab  anima,  cuius  sunt 
potentiae,  impossibile  est  potentiam  aliquam  alicui  propriam  esse 
in  subiecto,  in  quo  non  est  forma  a  qua  fluit  potentda.  Et  cum  ex 
operationibus  ad  latentis  essentiae  notitiam  perveniamus,  quid  cau- 
sae  est  cur  semini  animam  non  tribuamus  quae  suis  in  eo  operatio- 
nibus satis  se  prodit?  Sunt  autem  illae  duae:  seminis  et  conceptus 
vivifìcatio  et  partium  omnium,  quae  ad  vitae  actiones  edendas  ne- 
cessariae  sunt,  efformatio.  Quodvis  enim  semen,  ut  in  plantis  mani- 
festum  est,  vegetante  anima  conservatur  et  aliquandiu  prolificum 
permanet,  et  quandiu  integrum  et  incorruptum  est  in  loco  idoneo, 
et  praesente  alimento,  ut  vivens  operatur  et  exercet  suas  actiones 
in  eam,  quae  praesto  est,  materiam,  non  secus  ut  ipsum  vivens 
integrum  omnibus  partibus;  quod  non  solum  in  animalibus  in 
actione  et  partium  nonnullarum  regeneratione,  sed  praecipue  in 
plantis  videre  est.  Nam  eaedem  operatdones  in  semine  et  in  pianta 
omnibus  numeris  integra  conspiciuntur:  quae  propterea  idem  in 


colta,  è  impossibile  che  in  un  soggetto,  in  cui  non  vi  è  la  forma  da  cui  fluisce 
la  facoltà,  vi  sia  una  facoltà  propria  ad  alcunché.  E  se  dalle  operazioni  rice- 
viamo la  nozione  di  una  essenza  nascosta,  che  motivo  c'è  per  non  attribuire 
al  seme  un'anima  che  con  le  proprie  operazioni  si  palesa  in  quello  a  suf- 
ficienza? E  queste  sono  due:  la  vivificazione  del  seme  e  del  feto  e  la  for- 
mazione di  tutte  le  parti  necessarie  a  produrre  le  azioni  della  vita.  Infatti 
qualsivoglia  seme,  come  è  manifesto  nelle  piante,  si  conserva  in  vita  e  si 
mantiene  prolifico  per  un  lungo  periodo  a  motivo  di  un'anima  vivificante, 
e  finché  è  integro  e  incorrotto  in  luogo  idoneo  ed  ha  pronto  l'alimento,  opera 
come  un  essere  vivente  ed  esercita  la  sua  attività  sulla  materia  che  ha  a 
propria  disposizione,  non  altrimenti  che  lo  stesso  vivente  integro  in  tutte  le 
sue  parti.  Il  che  è  possibile  vedere  non  solo  negli  esseri  animati,  nel  loro 
dar  moto  a  diverse  parti  e  nel  rigenerarle,  ma  particolarmente  nelle  piante. 
Nel  seme  infatti  e  nella  pianta  integra  in  tutte  le  sue  funzioni  si  riscontrano 
le  stesse  operazioni;  che  perciò  rivelano  nell'uno  e  nell'altra  lo  stesso  prin- 
cipio e  movente.  Poiché  si  tratta  assolutamente  della  stessa  operazione  quan- 
do l'anima  nascosta  nel  seme  forma,  dalla  materia  a  sé  tratta,  l'insieme  della 
pianta,  e  quando  poi  rinnovella  di  anno  in  anno  le  foglie  cadute  e  i  fiori, 
mette  nuovi  germogli,  rami  e  radici;  ed  è  perciò,  questa  operazione,  indizio 
di  una  affatto  stessa  facoltà  e  di  una  stessa  anima.  E  si  deve  ammettere  che 
lo  stesso  avviene,  non  solo  nelle  piante,  ma  anche  nei  semi  degli  esseri  ani- 
mati perfetti.  Poiché,  se  è  vero  che  dal  sangue  non  si  fa  la  carne  se  la  carne 
stessa  animata  non  muta  il  sangue  in  carne,  ancor  meno  potrà  dal  sangue 
farsi  un  essere  animato  qualora  il  seme  sia  privo  di  anima  »). 


6l8  IL   TRIREGNO 

utroque  principium  et  movens  indicant.  Eadem  enim  est  omnino 
operatio,  quum  anima  in  semine  latens  ex  attracta  materia  corpus 
plantae  fabricat,  et  cum  eadem  postea  singulis  annis  amissa  folia 
et  flores  instaurat,  novos  surculos,  ramos,  radices  protrudit;  et 
propterea  eiusdem  omrino  facuìtatis  eiusdemque  animae  indicium 
est.  Neque  hoc  solum  in  plantis,  sed  in  animantium  perfectorum 
seminibus  idem  fieri  concedendum  est.  Xam,  si  non  fit  ex  sanguine 
caro,  nisi  caro  ipsa  animata  sanguinem  in  carnem  mutet,  multo 
minus  fiet  ex  sanguine  animai,  si  semen  anima  careat».  Soggiun- 
gendo poco  da  poi:  r  Xam  animatum  corpus  cum  sit  praestantius 
et  perfectius,  sequitur  non  animatum  non  esse  principalem  animati 
corporis  causam,  sed  animatum  ab  animato,  ut  principali  causa, 
produci  .*  E  non  vi  è  dubbio  gli  argomenti  di  Sennerto  essere 
vigorosi  e  convincenti  per  prova  evidente  ne*  semi  essere  questo 
spirito  vivificante,  o  sia  anima. 

Siccome  bisogna  eziandio  confessare  che  i  medici  più  moderni, 
avendo  in  questi  ultimi  tempi  ad  una  soda  filosofia  accoppiata  una 
esatta  notomia,  ridotta  da  essi  quasi  nell'ultimo  punto  di  perfe- 
zione, hanno  sopra  di  ciò  non  pur  stese  le  investigazioni  e  le  ri- 
cerche, ma  con  buon  successo  è  sovente  lor  riuscito  stendere  anche 
le  cognizioni;  ed  alcuni  si  sono  ingegnati  spiegare  fino  le  maniere 
come  dal  solo  vigore  ed  efficacia  di  questo  spirito  vivificante,  unito 
a*  corpi  organici,  possano  sorgere3  non  pur  gli  animali  e  le  piante, 
ma  gli  uomini  istessi,  senza  esserci  bisogno  di  ricorrere  ad  altre  so- 
gnate idee  di  sostanze  cogitanti,  immateriali  ed  incorporee,  che  le 
riputano  non  senza  ragione  vere  imposture  di  infelici  ed  astratti  fi- 
losofi. I  medici  inglesi  negli  ultimi  nostri  tempi  vi  si  applicarono  con 
fervore  e  non  senza  successo:  in  fra  gli  altri  Covardo,3  medico  di  Lon- 

i.  zXam  .  .  .  produci  r:  op.  cit.,  p.  78  («Infatti,  poiché  il  corpo  animato  è 
più  eccellente  e  più  perfetto,  ne  consegue  che  il  non  animato  non  può 
essere  la  causa  primaria  del  corpo  animato,  ma  che  è  animato  dall'animato 
come  da  causa  primaria  *>).  2.  possano  sorgere  Parente  (p.  278);  posso 
scorgere  ven.  3.  Covardo:  il  Parente  (p.  278),  seguendo  il  codice  napo- 
letano, scrive  «  Cudworth  ^.  Ma  Ralph  Cudworth  (16 17- 1688),  autore  di 
The  Trite  Intellectual  System  ofike  TJnivers,  London  1678,  non  era  un  me- 
dico, ma  professore  di  lingua  ebraica  a  Cambridge.  Inoltre  il  codice  na- 
poletano e  quello  veneziano  recano  la  data  del  «  1704  »  come  anno  di  queste 
polemiche.  La  data  e  1674*  di  Parente  (ivi)  appare  quindi  come  una  sua 
arbitraria  correzione,  nel  tentativo  di  mettere  in  relazione  queste  polemiche 
con  la  vita  del  Cudworth.  ven  reca  Covardo,  che  il  copista  napoletano, 
dotato  di  una  certa  cultura,  ha  corretto  in  «  Cudworth  ».  In  realtà  il  brano 
del  Giannone  ricalca,  come  una  traduzione  fedele,  Salomon  Deyling, 


DEL   REGNO   TERRENO    •  PARTE    II    •  CAP.   II  619 

dra,  fu  sì  ardito  che,  nel  1704,  essendosi  esposto  a  pubblico  cimento 
sostenne1  uno  essere  il  principio  naturale  e  fisico  nell'uomo  che 
lo  fa  muovere,  vivere,  sentire  e  ragionare,  e  che  fu  una  solenne 
impostura  filosofica  la  giunta  di  una  nuova  sostanza  che  ci  venga 
di  fuori  come  raggio  di  sole,  che  non  può  affatto  concepirsi;  ed 
oltrecciò,  ne  diede  fuori  alle  stampe  una  difesa  col  titolo  Vindica- 
tiones  rationis  et  religionis  cantra  imposturas  philosophiae.2  Giovanni 
Tolando  pur  lo  stesso  sostenne  nella  seconda  epistola  ad  Severum3 
onde  in  Inghilterra  venne  questa  materia  a  disputarsi  acremente 

Observationum  sacrarum  pars  secunda,  Lipsiae  1737,  terza  edizione,  observ. 
11,  p.  31,  dove  si  analizza  il  passo  della  Genesi,  2,  7,  sullo  spirito  delle  vite, 
e  si  parla  del  Coward.  William  Coward  (1657-1725),  medico  e  fisico  inglese, 
aveva  studiato  a  Oxford.  Nel  1702  aveva  pubblicato,  con  lo  pseudonimo 
di  Estibius  Psychai^thes,  Second  Thoughts  Concerning  Human  Soul, 
London,  in  cui  si  afferma  che  la  tesi  dell'immortalità  dell'anima  è  contraria 
al  cristianesimo.  Gli  scrisse  contro  John  Turner,  autore  di  A  Brief  Vindica- 
tion of  the  Separate  Existence  and  Immortality  of  the  Soul . . .,  London  1702, 
e  di  A  Farther  Vindication  . . .,  London  1703.  Il  Coward  rispose  con  un 
altro  lavoro:  The  Grand  Essay:  or  a  Vindication  of  Reason  and  Religion, 
Against  Impostures  ofPhilosophy,  [London]  1704,  che  polemizza  anche  con- 
tro John  Broughton,  autore  di  un'opera  intitolata  Psychologia  . .  .,  London 
1703.  Il  Coward  scrisse  successivamente  The  Just  Scrutiny:  or  a  Serious 
Enquiry  Into  the  Modem  Notions  of  the  Soul  (1705  ?),  attaccando  Cartesio  e 
la  tesi  che  l'anima  sia  nella  ghiandola  pineale  e  riallacciandosi  alle  obiezioni 
già  mosse  da  Spinoza  a  questa  tesi  neWEthica.  Cfr.  R.  L-  Colie,  Spinoza 
and  the  Early  English  Deisis,  in  «Journal  of  the  History  of  Ideas  >\  January, 
1959,  voi.  xx,  n.  1,  pp.  23-46.  Cfr.  J.  S.  Spink,  French  Free-Thought  from 
Gassendi  to  Voltaire,  London  i960,  pp.  219-22,  che  colloca  fra  l'altro  le 
opinioni  del  Coward  nel  loro  contesto  europeo,  segnalando  inoltre  le  recen- 
sioni che  queste  opere  ebbero  sul  a  Journal  des  Savants»  e  sulle  «Nouvelles 
de  la  république  des  lettres  ».  Cfr.  inoltre  la  recente  riedizione  del  classico 
lavoro  di  L.  Stephen,  History  of  English  Thought  in  the  Eighteenth  Century, 
London  1962,  1,  p.  177.  1.  esposto  a  pubblico  cimento  sostenne  Parente 
(p.  278)  ;  ven  essendosi  a  pubblico  cimento  sostenuto.  2.  Vindicationes  .  .  . 
philosophiae'.  è  la  traduzione  latina  del  titolo  dell'opera  del  Coward  che 
abbiamo  poco  sopra  citato,  opera  peraltro  mai  tradotta  in  latino  ;  Giannone 
la  trae  da  S.  Deyung,  op.  e  loc.  cit.,  p.  34.  3.  seconda  epistola  ad  Severum  : 
corruzione  del  copista  veneziano;  anche  nel  codice  napoletano.  Si  tratta  na- 
turalmente della  celebre  opera  del  Toland  Letters  to  Serena,  London  1704, 
che  il  Giannone  non  poteva  però  conoscere  in  questa  edizione  inglese.» 
Furono  tradotte  in  francese  solo  nel  1768  dal  barone  d'Holbach,  con  il  titolo 
di  Lettres  philosophiques*  Cfr.  V.  W.  Topazio,  D'Holbach's  Moral  PhUo- 
sopky,  its  Background  and  Development,  Genève  1956,  pp,  39-41.  La  cita- 
zione deriva  dal  Deyling,  op.  e  loc.  cit.,  p.  34.  In  realtà  a  Vienna,  per  me- 
rito del  principe  Eugenio  e  del  barone  di  Hohendorf,  vi  era  una  nutrita 
collezione  di  opere  deistiche  e  soprattutto  del  Toland,  fra  cui  una  tradu- 
zione manoscritta  francese,  in  due  copie,  delle  prime  due  lettere  fatta  dallo 
stesso  Toland  per  il  principe  Eugenio  e  il  barone  di  Hohendorf.  Su  tutto 
ciò  cfr.  il  mio  V esperienza  civile  e  religiosa  ecc.,  cit.,  capitolo  vi,  pp.  395-423. 


Ó20  IL   TRIREGNO 

fra'  diversi  e  contrari  partiti.  Fu  primieramente  sopra  di  ciò  com- 
battuto tra  Giovanni  Lockio  e  Stillingfleto;1  indi  fu  rinovata  la 
disputa  da  Dodivelo,z  il  quale  puie  acremente  sostenne  l'anima 
negli  uomini  essere  un  principio  naturale,  fisico  e  corporeo,  contro 
il  quale  sorsero,  impugnandolo,  Samuele  Clarchio,3  Tomaso  fil- 
lio,4 Giovanni  Turpero5  ed  Emondo  Chishullo;6  passarono  da  poi 
le  dispute  da  Londra  in  Amsterdam,  dove  dallo  Hoschio,7  discepolo 

i.  Fu  primieramente  .  .  .  StìlUnjfleto:  cfr.  S.  Deyling,  op.  e  loc.  cit.,  p.  34. 
Edward  Stillingfleet  (1635-1699),  vescovo  anglicano  di  Worcester,  scrisse 
contro  il  Saggio  sull'intelletto  umano  di  Locke.  La  polemica  tra  i  due  si  svolse 
con  le  seguenti  opere  :  The  Bishop  of  Worcester's  Anszcer  to  Mr.  Locke  Letter, 
London  1697;  Anszier  to  Mr.  Locke  Second  Letter,  London  1698,  e  Mr. 

Locke' s  Reply  to the  Bishop  of  Worcester3 s  Anszcer,  London    1699. 

2.  Dodhelo  :  ven  ha  Rodivelo  >.  Si  tratta  evidentemente  di  Dodwell  :  Henry 
Dodwell  (1 641 -17 11),  professore  di  storia  ad  Oxford,  autore  delle  Disser- 
taliones  cypnamcae,  Oxoniae  1684.  L'opera  che  riguarda  questa  polemica 
è  An  Epistolary  Discourse  Frorcing  from  the  Scriptures  and  the  First  Fathers 
that  tìie  Soul  is  a  Frinciple  Xaturally  Mortai;  but  Immortalized  Actually 
by  the  Fleasure  of  God,  London  1706,  opera  che  sosteneva  una  tesi  così  estre- 
mistica, da  provocare  contro  il  Dodwell  anche  la  polemica  dei  deisti  modera- 
ti. 3.  Clarchio:  Samuel  Clarke  (1675-1729),  teologo  e  discepolo  di  Newton, 
partecipò  alla  polemica  contro  il  Dodwell  scrivendo  una  Letter  to  Mr.  Dod- 
zcelly  London  1706.  Cfr.  L.  Stephen,  History  ofEnglisk  Thought  ecc.,  cit.,  pp. 
100  sgg.  4.  Tomaso  Millio:  il  Parente  (p.  279)  corregge  scrivendo  «Tom- 
maso Willio  \  Invece  va  conservata  la  lezione  adottata  qui,  che  è  anche  del 
codice  utilizzato  dal  Parente:  si  tratta  di  Thomas  Milles.  L'errore  si  spiega 
perché  il  Parente,  cercando  di  coordinare  tutto  il  brano  sull'età  del  pre- 
sunto Cudworth,  ha  modificato  la  data  iniziale  di  questo  dibattito  portan- 
dola indietro,  nel  1674,  anno  in  cui  Thomas  Willis,  il  celebre  autore  del  De 
anima  brutorum,  era  ancora  vivo.  Ma  il  Giannone,  che  si  informa  sul  Dey- 
ling,  si  riferisce  a  una  polemica  avvenuta  tra  la  fine  del  XVII  secolo  e  gli 
inizi  del  XVIII  e  che  si  condensa  nella  data  del  1704.  Mentre  la  data  pro- 
posta dal  Parente  collocava  questa  polemica  fuori  dal  dibattito  spinoziano 
in  Inghilterra,  in  quanto  YÈthica  è  del  1677,  essa  deve  essere  riportata 
al  clima  creato  dall'opera  dell'olandese,  come  d'altra  parte  afferma  esplici- 
tamente il  Giannone.  Thomas  Milles  (1 671 -1740),  vescovo  anglicano  di 
Waterford,  scrisse  The  Naturai  Immortality  of  the  Soul  Asserted  and  Proved 
from  the  Scriptures  and  First  Fathers:  in  Answer  to  Mr.  DodwelVs  Epistolary 
Discourse  .  . .,  Oxford  1707.  5.  Turpero:  evidentemente  John  Turner  che 
partecipò,  come  si  è  detto,  alla  polemica  contro  il  Coward.  6.  Emondo 
Chishullo:  Edmund  Chishull  (1671-1733),  teologo  ed  antiquario  inglese, 
scrisse  A  Charge  ofHeresy,  Maintained  Against  Mr.  Dodwell' s  Late  Epistolary 
Discourse,  Concerning  the  Mortality  of  the  Soul,  London  1706.  7.  Hoschio  : 
si  tratta  del  medico  tedesco  Friedrich  Wilhelm  Stosch,  autore  di  una 
Concordia  rationis  et  fidei  sive  harmoma  philosophiae  moralis  et  religionis 
christianae,  Amstelodam  [Berlin]  1692.  Su  di  lui  cfr.  L.  Back,  Spinosas 
erste  Einivirkungen  auf  Deutschland,  Berlin  1895,  pp.  41-50,  in  cui  prova  la 
derivazione  óaàl'Ethica  delle  tesi  materialistiche  dello  Stosch.  F.  A.  Lange, 
Storia  del  materialismo  cit.,  1,  pp.  325-6,  considera  lo  Stosch  come  il  mag- 
gior esponente  del  materialismo  tedesco  spinozista. 


DEL   REGNO   TERRENO   •  PARTE   II   •  CAP.   II  Ó2I 

di  Spinosa,  fu  difesa1  la  stessa  dottrina,  la  quale  negli  ultimi  tempi 
passò  ne'  medici  di  Germania,  per  lo  più  evangelici,  fra'  quali  si 
distinse  Petermano.z  Gio.  Adamo  Hoffstettero3  medico  d'Aaìa,  al- 
quanti anni  prima  insegnò  pure  il  medemo,  e  lo  stesso  ultima- 
mente fece  Israele  Conrado4  medico  gedanense,  siccome  può  ve- 
dersi presso  Deilingio,5  part.  2,  p.  32-33. 

Ala  con  tutto  che  le  speculazioni  di  tanti  preclari  ingegni  fos- 
sero assai  penetranti  e  sottili  in  ispiegare  la  natura  ed  efficacia  di 
questo  spirito,  o  sia  principio  delle  vite,  commune  non  meno 
agl'animali  che  agli  uomini;  pure,  chi  attentamente  considera  i 
loro  argomenti,  non  può  non  ricadere  nelle  medesime  difficoltà, 
anzi,  per  meglio  dire,  sempre  torniamo  nella  istessa  oscurità:  come 
e  da  chi  questo  spìrito  riceve  tanta  virtù  ed  efficacia,  sicché  possa 
disporre  con  tanto  magistero  ed  arte  le  parti  del  seme,  onde  si  for- 
mi un  corpo  sì  maravigliosamente  organizzato,  sicché  lo  faccia  sor- 
gere «in  animam  viventem»,  che  vuol  dire  lo  faccia  capace  di  senso 
e  d'imaginazione,  e  negli  uomini  anche  di  discorso?  Tutti  fin  qui 
non  ci  danno  se  non  che  parole  ed  idee  vaghe  e  confuse,  e,  come 
si  vedrà  più  innanzi  nel  cap.  40,6  Cartesio  fu  il  primo  che  ce  ne 
additò  la  più  verisimile  e  probabile  maniera. 

S.  Agostino,7  ed  assai  meglio  il  P.  Malebranche,8  ruppero,  non 
già  disciolsero  il  nodo,  dicendo  il  primo  che  questo  spirito  tutta  la 
sua  efficacia  l'ebbe  da  Dio,  dal  giorno  che  lo  creò,  e  per  questa 

1.  difesa  Parente  (p.  279);  deistesa  ven.  2.  Petermano:  cfr.  S.  Deylixg, 
op.  e  loc.  cit.,  p.  34.  Si  riferisce  a  D.  A.  Petermanns,  medico  di  Lipsia,  au- 
tore di  Casuum  medico-legalium  decas  prima  .  . .,  Leipzig  1708.  3.  Gio. 
Adamo  Hoffstettero:  cfr.  S.  Deyling,  op.  e  loc.  cit.,  p.  35.  Johann  Adam 
Hofsteter  era  un  medico  di  Halle.  Il  Deyling  si  riferisce  probabilmente  alla 
sua  Epistola  gratulatoria,  in  qua  integrum  generationis  humanae  negotium 
exMbetur.. .,  [Halle  1704].  Cfr.  anche,  dello  stesso,  Epistola  gratulatoria,  in 
qua  occasione  dubitationis  cartesianae  de  coniecturis  medicorum  agitur  , , .  ad 
J.  G.  Petermarm,  [Halle  1704].  4.  Israele  Comodo'.  Israel  Conradt,  di 
Danzica,  autore  di  una  Disputatio  medica  inauguralis  de  sanguine .  .  ., 
Lugduni  Batavorum  1659,  e  di  una  Dissertatio  medico-physica  de  frigoris 
natura  et  effectibus,  [Danzig]  1677.  5.  siccome .  .  .  Deilingio:  come  si  è 
detto  tutto  il  brano  è  ricalcato  sul  lavoro  del  Deyling,  ma  la  prospettiva  è 
esattamente  l*opposta:  mentre  il  Deyling  combatte  e  denuncia  l'influenza 
di  Spinoza,  il  Giannone  utilizza  quest'opera  del  professore  luterano  per 
informazione,  traendone  notizie  sulla  diffusione  europea  delle  dottrine 
materialistiche  a  cui  aderisce.  6.  come  .  . .  nel  cap.  40:  cfr.  Parente,  pp. 
304 sgg.  e,  inoltre,  il  cap.  ni,  qui  a  pp.  624  sgg.  7.  S.  Agostino:  nel  De 
Genesi  ad  litteram  imperfectus  liber,  in  JMigne,  P.  JL.,  xxxiv,  coli.  219  sgg. 
8.  Malebranche:  sul  rapporto  fra  il  De  inquirenda  ventate  e  il  Giannone 
cfr.  Vita,  qui  a  p.  50. 


622  IL    TRIREGNO 

sua  infallibile  virtù  fu  chiamato  specialmente  -  spirito  di  Dio  >>. 
Così  egli  lo  differii  nel  lib.  De  Gen.  ad  Ut.,  cap.  4,  essere  avitalem 
creaturam,  qua  universus  iste  visibilis  mundus  et  omnia  corporea 
continentur  et  moventur;  cui  Deus  omnipotens  tribuit  vim  quan- 
dam  sibi  serviendi  ad  operandum  in  iis  quae  gignuntur».1 

Il  P.  Malebranche,  neile  Illustrazioni  ai  lib.  6  De  inquir.  verit., 
argum.  7,2  dice  di  più,  che  tutta  l'efficacia  che  volgarmente  si  crede 
essere  nelle  cause  seconde,  debba  attribuirsi  a  Iddio  solo  che  gliela 
diede  nel  principio  e  di  continuo  gliela  dà  e  conserva,  non  essendo 
per  lui  altro  la  conservazione  che  una  perenne  e  continua  creazione. 
Così  quando  leggiamo  nel  Genesi,  cap.  i,3  -Germinet  terra  her- 
bam  virentem;  producant  aquae  reptile  animae  viventis  et  volatile; 
producat  terra  animam  viventemv),  e  quando  nei  Vangelo  di  S. 
Marco  Cristo  S.  N.,  favellando  della  semenza  che  cade  in  terreno 
buono,  disse:  Et  terram  ultro  producere  primo  herbam  deinde 
spicam  deinde  plenum  frumentum  in  spica»,4  non  deve  sentirsi 
che  per  se  stessa  la  terra,  l'acqua  e  la  semenza  avessero  tale  virtù 
ed  efficacia,  o  ch'Iddio  Favesse  loro  data  nel  principio,  e  che  per 
anco  in  quella  ora  la  suscita,  ma  che  Iddio  sempre  operando  gliela 
conservi,  sicché  a  lui  come  sola  cagione  debbano  attribuirsi  tutti 
gli  effetti  delle  cose  create;  esse  non  somministrano,  siccome  non 
somministrarono,  che  la  sola  materia,  ma  la  virtù  ed  efficacia  è 
tutta  di  Dio,  ei  dice.  La  divina  Scrittura  istessa,  anzi  Dio  medesimo 
ci  rende  testimonianza  che  egli  fa  tutto:  «Ego  sum  Dominus»  ei 
dice  (  faciens  omnia,  extendens  coelos  solus,  stabiliens  terram,  et 
nullus  mecum»,  Isaia,  cap.  44,  v.  24.  Giobbe  pur  disse,  io,  16  :s 
Manus  tuae  fecerunt  me,  et  plasmaverunt  me  totum  in  circuitu»; 
e  la  savia  e  coraggiosa  madre  dei  Maccabei,  ispirata  dal  Signore, 
così  parlò  ai  cari  suoi  figliuoli:  «Nescio  qualiter  in  utero  meo  ap- 
paruistis,  età;  singulorum  membra  non  ego  ipsa  compegi;  sed 
enim  mundi  creator,  qui  hominis  formavit  nativitatem»,  Macab.  2, 
cap.  7,  v.  22  et  23.  E  S.  Luca,  Ad.  Apost.y  i7,28,6  pur  disse:  «  Cum 

1.  tvitalem . . .  gignuntur»:  De  Genesi,  cap.  rv,  17,  in  Migne  cit.,  col.  226 
(«una  creatura  "vitale  nella  quale  sono  contenuti  e  si  muovono  l'universo 
mondo  visibile  e  tutte  le  cose  corporee;  alla  quale  Dio  onnipotente  ha  con- 
ferito una  tal  quale  efficacia  di  servirlo  per  operare  nelle  cose  che  vengon 
generate»).  2.  De  inqmrenda  ventate  lari  sex,  Coloniae  1691,  IUustratio- 
nes . ,  . .  ad  lib.  VI,  arg.  7,  pp.  126  sgg.  3.  cap.  1:  rispettivamente  ai  ver- 
setti ii,  20  e  24.  4.  «2?f  terram  . .  .  spica»:  cfr.  Marc,  4,  28,  5. 10,16: 
rectùis  io,  8.     6. 17,28:  rectius  17,  25. 


DEL  REGNO  TERRENO  ■  PARTE  II  •  CAP.  II      623 

ipse  Deus  det  omnibus  vitam,  inspirationem  et  omnia».  Ne'  Salmi, 
103,148/  pur  si  legge:  «Producens  foenum iumentis  et  herbam ser- 
vitoti hominum  »  ;  ed  infiniti  altri  luoghi,  non  meno  del  Vecchio  che 
del  Nuovo  Testamento,  convincono  Tistesso. 

Dalla  terra  e  dall'acqua  Iddio  formò  gli  animali  e  le  piante, 
non  perché  la  terra  e  l'acque  da  se  stesse  potessero  generare  cosa 
alcuna,  ma  perché  dalla  terra  e  dall'acqua  furono  da  Dio  formati 
i  loro  corpi,  siccome  dal  cap.  2  seguente  del  Genesi2,  è  manifesto: 
u  Formatis  igitur  dominus  Deus  de  humo  cunctis  animantibus  ter- 
rae  et  universis  volatilibus  coeli  ».  Furono  adunque  gli  animali  ter- 
restri, i  volatili  ed  i  pesci  formati  di  terra  e  d'acqua,  non  già  pro- 
dotti dalla  terra  e  dall'acqua.  E  Mosè,  narrando  come  gli  animali 
ed  i  pesci  per  commando  di  Dio  fossero  prodotti,  aggiunge  <  Deum 
ipsum  illa  fecisse»,  affinché  la  loro  produzione  non  s'attribuisse 
unicamente  alla  terra  ed  all'acqua.  «  Creavitque  Deus»  e'  dice  «cete 
grandia  et  omnem  animam  viventem  atque  motabilem,  quam  pro- 
duxerant  aquae  in  species  suas,  et  omne  volatile  secundum  genus 
suum».3  E  più  innanzi,  doppo  aver  parlato  della  formazione  degli 
animali,  soggiunge:  «Et  fecit  Deus  bestias  terrae  iuxta  species  suas 
et  iumenta  et  omne  reptile  terrae  in  genere  suo  ».4 

Non  v'è  dubbio  alcuno  che  questa  maniera  di  spiegare  l'efficacia 
e  la  virtù  di  questo  spirito  sia  la  più  facile  e  spedita,  poiché,  rifon- 
dendosi ogni  cosa  ad  Iddio,  si  arriva  a  concepire  benissimo  la  sua 
efficacia,  e  che  possa  essere  principio  di  vita  e  moto  e  senso  agli 
animali  e  di  cognizione  agli  uomini,  essendo  nelle  sue  mani  riposto 
di  dare  quel  potere  ed  efficacia  che  vuole  alle  cose  da  lui  create.  Ed 
in  ciò  non  avvertì  Malebranche  che,  riponendosi  tutto  sopra  la  virtù 
ed  efficacia  ch'Iddio  sempre  somministra  a  questo  spirito,  che  ne- 
cessità v'era  dunque  d'imaginare  nell'uomo  un'altra  sostanza  cogi- 
tante e  farla  venire  da  fuori  ad  informar  il  suo  corpo  per  renderlo 
discorsivo,  quando  siccome  a  quello  de'  bruti  dà  tanta  virtù  ed 
efficacia  di  fargli  crescere  e  sentire,  così  bastava  che  nell'uomo  si 
stendesse  un  poco  più  questa  efficacia  per  farlo  discorsivo,  essendo 
nelle  mani  di  Dio  il  potere  di  far  ciò  che  vuole,  e  rendere  le  cose, 
siccome  da  insensibili  farle  sensibili,  così  queste  passarle  e  spin- 
gerle a  fargli  discorsive.  Ma  questo  è  l'istesso  che  sfuggire  il  tra- 


1. 103,  148-  rectius  103,  14.     2.  Gen.,  2,  19.     3.  *Creavitque  . . .  suum»: 
Gen.9  1,  21.     4.  *Et  fecit . .  .  tt/o»:  Gen.,  1,  25. 


Ó24  IL    TRIREGNO 

vaglio  nelle  investigazioni  delle  cose  naturali.  Xé  giovano  i  passi  di 
Mosè  di  sopra  allegati,  primieramente  perché,  secondo  l'osserva- 
zione de5  dotti»  è  solita  frase  della  Scrittura  ed  antico  costume 
degl'Ebrei  di  riferire  ogni  cosa  a  Dio,  ancorché  per  vie  communi 
e  naturali  avvenissero;  e  per  secondo,  presso  i  filosofi  gentili  e 
coloro  che,  non  attribuendo  a'  nostri  libri  sacri  divina  autorità, 
vogliono  il  tutto  sottoporre  ad  esame  ed  alla  umana  ragione  e 
discorso,  tutto  ciò  ad  essi  non  fa  forza  alcuna,  e  niente  più  viene 
spiegato  che  quello  stesso  che  i  rapportati  filosofi  dissero:  che  la 
natura  ch'è  in  questo  spirito  dà  al  medesimo  la  virtù  ed  efficacia 
di  operare.  Ciò  che  Mosè,  S.  Agostino  e  Malebranche  dicono  di  Dio, 
que'  dicevano  della  natura,  che  la  facevano  una  stessa  cosa  con  Dio. 
Così,  quando  S.  Agostino  dice  che  Iddio  onnipotente  ha  data  que- 
sta forza  a  questo  spirito  <  ad  operandum  in  iis  quae  gignuntur», 
e  quando  Malebranche,  spingendo  più  innanzi  questa  dottrina,  non 
si  contenta  che  Iddio  avesse  data  tal  forza  alle  creature,  ma  che 
Iddio  stesso,  sempre  in  quelle  operando,  è  cagione  di  tutte  le  ge- 
nerazioni e  degli  altri  effetti  che  si  veggono  nell'universalità  della 
natura,  i  filosofi  gentili  all'incontro  attribuivano  tutto  alla  natura, 
che  non  la  distinguevano  da  Dio,  anzi  chiamavano  questo  istesso 
spirito  Dio  Giove,  siccome  era  l'opinione  degl'antichi  Egizi  se- 
condo il  rapporto  di  Diodoro  Siciliano  e  degli  altri  filosofi,  siccome 
si  è  veduto  nel  capitolo  precedente,  onde  si  conosce  che  di  nulla 
forza  è  la  soluzione  di  S.  Agostino,  e  molto  meno  quella  di  Male- 
branche, a  riguardo  di  coloro  che  non  hanno  per  divini  i  libri  di 
Mosè,  ma  gli  riputavano,  come  tutti  gli  altri,  umani  e  terreni.  Bi- 
sogna adunque  altronde  investigarne  la  cagione  ed  indagare  le  for- 
ze, e  se  forse  Cartesio  si  fosse  in  ciò  apposto  al  vero  ;  ciò  che  esa- 
minaremo  nel  cap.  seguente. 

CAP.    Ili 

Del  nuovo  sistema  dì  Cartesio  intorno  alla  creazione  del  mondo, 
formazione  delVuomo  e  natura  di  questo  spirito. 

Forse  all'uman  genere  sarebbe  stato  più  utile  e  profittevole,  se, 
siccome  questo  insigne  ed  incomparabile  filosofo  venne  a  noi  così 
tardi,  fosse  sorto  ne'  secoli  a  noi  più  rimoti,  quando  ai  filosofi  era 
data  licenza  di  liberamente  dire  ciò  che  sentivano  intorno  alle  cose 
naturali  e  di  esporre  in  liberi  sensi  le  verità  che  dopo  lunghe  e 


DEL    REGNO    TERRENO    •  PARTE   II    •  CAP.   Ili  625 

travagliose  ricerche  avevano  rintracciate.  Venne  a  noi  Cartesio1 
quando  il  mondo  cristiano  era  tutto  persuaso  che  Ì  nostri  sacri  libri 
doveano  essere  a  noi  di  norma  e  di  scorta  non  pure  nelle  cose  di 
religione,  ma  anche  nelle  fisiche  e  naturali,  e  quando  si  credeva 
per  costante  che  que'  libri  c'insegnassero  che  fosse  un  punto  di 
religione  già  stabilito  che  le  nostre  anime  fossero  immortali  ed 
affatto  indipendenti  da'  nostri  corpi  e  di  sostanza  diversa,  sicché 
fuori  del  corpo  avessero  proprio  stato  e  propria  sussistenza.2  E  con 
tutto  che  questo  gran  filosofo  fosse  tutto  inteso  a  togliere  dalle  men- 
ti umane  i  molti  pregiudizi  onde  s'erano  somministrati  i  tanti  osta- 
coli per  la  ricerca  della  verità,  nientedimeno  non  potè  non  soccom- 
bere, né  resistere  al  impetuoso  fiume  onde  tutto  il  mondo  era  as- 
sorto, e  che  assordava  tutti  co'  suoi  alti  e  strepitosi  romori,  per 
divina  rivelazione  essere  certo  l'anime  umane  esser  immortali  ed 
avere  propria  sussistenza  indipendente  affatto  dal  corpo  e  per  con- 
seguenza proprio  stato,  ancorché  da  quello  fossero  separate.  E  cer- 
tamente che  la  buona  filosofia  istessa  insegnava  che  alle  divine 
rivelazioni  dovea  cedere  ogni  umano  discorso,  poiché,  non  essendo 
stato  l'uomo  formato  per  dovere  sapere  e  comprendere  tutto  l'am- 
pio universo  e  le  vie  tutte  per  le  quali  opera  la  natura,  né  essere 
fatto  per  avere  ed  intendere  tutte  le  idee  delle  cose  che  nell'universo 
sono,  non  essendo  egli  per  altro  che  una  picciolissima  e  minuta 
parte  onde  tutto  l'universo  si  compone,  a  ragione,  se  mai  l'uomo 
avesse  avuta  questa  grazia,  ch'Iddio,  autore  e  fabro  della  natura, 
avesseli  rivelati  gli  arcani  di  quella,  ancorché  dal  corto  suo  inten- 
dere impercettibile,  dovea,  per  l'autorità  di  chi  gliela  insegnava, 
come3  onnipotente,  sapiente,  infinitamente  buono  e  giusto,  e  dal 
quale  dovea  esser  lontano  ogni  inganno  e  bugia,  prestargli  intera 


1.  Cartesio',  sul  rapporto  fra  il  Giannone  e  Cartesio  cfr.  la  Vita,  qui  a  p.  49, 
dove  parla  del  superamento  del  primitivo  gassendismo  alla  luce  del  carte- 
sianesimo,  sotto  lo  stimolo  di  amici  come  Nicolò  Capasso  e  Nicolò  Cirillo; 
e  a  p.  120,  dove  racconta  di  aver  riletto  Cartesio  a  Vienna  con  la  guida  di 
Alessandro  Riccardi.   Sulla  diffusione   del  cartesianesimo  in   Italia  cfr. 

F.  Bouillier,   Histoire  de  la  philosopkie  cartésierme,  Paris-Lyon   1854; 

G.  Maugain,  Étude  sur  revolution  intellectuelle  de  ritolte  de  1637  à  1750 
environ,  Paris  1909,  pp.  179-81,  dove  fra  l'altro  si  cita  questo  brano  del 
Triregno;  L.  Berthé  de  Besaucèle,  Les  cartésiens  d'Italie . .  .,  Paris  1920. 
Per  quanto  riguarda  i  rapporti  fra  il  cartesianesimo  e  la  cultura  meridionale 
cfr.  l'ottimo  lavoro  di  N.  Badaloni,  Introduzione  a  G.B.  Vico,  Milano  i960. 

2.  sussistenza  Parente  (p.  283);  sustinza  ven  (ma  si  veda,  qualche  riga  più 
sotto,  sussistenza).     3.  come:  «  che  come  *  in  ven  ;  abbiamo  espunto  il  *  che  ». 


626  IL   TRIREGNO 

fede  e  credenza  e  render  servo  il  suo  ingegno  ed  esser  lontano  dalle 
ricerche  del  come.  Se  a  me  fosse  certo  che  quel  che  scrive  S.  Paolo 
nelle  sue  epistole  di  corpo  spiritale1  fosse  stato  da  Dio  rivelato 
nettamente  e  non  per  mistero,  certamente  ch'io  dovrei  tener  per 
indubbitato  che  si  dasse  un  corpo  spirituale  del  quale  io  non  posso 
in  fisica  aver  idea  alcuna.  Se  io  son  certo  che  G.  Cristo  non  pur 
fosse  stato  un  profeta  mandato  da  Dio,  ma  Dio  stesso,2  non  ho 
più  da  dubitare  ch'egli  avesse  potuto  risorgere,  penetrar  i  corpi 
solidi  ed  entrar  nel  cenacolo  ancorché  le  porte  fossero  chiuse,  darci 
a  mangiare  della  sua  carne  e  bere  del  suo  sangue,  e  moltiplicarsi 
in  tanti  luoghi  non  in  apparenza  ma  in  realtà,  risuscitare  morti  e 
fare  tutte  opere  prodigiose  quante  i  vangelisti  ne  raccontano.  Sa- 
rebbe stato  ben  in  sua  mano  mutare  ed  in  altra  guisa  disporre  l'or- 
dine della  natura;  né  io  fui  fatto  per  sapere  ed  intendere  tutte 
l'opere  della  sua  infinita  onnipotenza. 


Ora  l'incomparabile  Cartesio,  perché  le  sue  ricerche  non  sem- 
brassero contrarie  alle  credute  divine  rivelazioni  intorno  a  ciò  che 
riguarda  la  fabrica  di  questo  mondo  aspettabile,  alla  maniera  ed  ai 
princìpi  onde  formossi,  affin  di  non  offendere  il  commune  concetto 
degli  uomini,  si  pose  con  molti  pretesti  e  con  gran  cautela  a  filo- 
sofarne. Per  non  urtare  ne'  libri  di  Mosè,  egli  dichiarossi  che,  cre- 
dendo l'universo  essere  stato  creato  da  un  Dio  onnipotente,  sa- 
piente e  buono,  era  certo  che  dal  principio  fosse  stato  creato 
con  tutta  la  sua  perfezione,  in  guisa  che  fossero  in  lui  e  sole  e  stelle, 
cielo,  terra,  luna  e  tutti  gli  altri  pianeti:  che  nella  terra  non  sola- 
mente fossero  i  semi  delle  piante,  anzi  le  piante  istesse:  non  pur 
i  semi  degl'animali,  ma  gli  animali  stessi:  né  che  Adamo  ed  Eva 
fossero  stati  fatti  dalla  terra  infanti,  ma  formati  uomini  grandi  ed 
adulti.  Nulladimeno,  siccome  per  bene  intendere  la  natura  delle 
piante,  degli  animali  e  degli  uomini  è  riputata  più  esatta  e  sicura 
via  d'esaminar  la  maniera  come  dai  semi  a  poco  a  poco  sorgono, 
che  considerarli  come  da  Dio  nell'origine  del  mondo  fossero  stati 
creati,  se3  mai  si  potessero  trovare  princìpi  non  meno  facili  e  sem- 

u  S.  Paolo  . . .  spiritale:  cfr.  I  Cor.,  15,  44.  2.  non  pur .  . ,  stesso:  la  frase 
è  incompleta  in  Parente  (p.  284)  :  «fu  un  profeta  mandato  da  Dio  stesso  ». 
3.  se  Parente  (p.  285);  sia  ven. 


DEL    REGNO    TERRENO    •  PARTE   II   •  CAP.   Ili  627 

plici  che  fecondi  da'  quali,  come  semi,  avessero  potuto  prodursi  e 
sole  e  stelle  e  terra  e  luna  e  mare  e  tutto  ciò  che  s'arnmira  in  questo 
ampio  mondo  aspettabile,  ancorché  forse  non  fossero  stati  i  mede- 
simi e  così  disposti  ;  gioverà  però  mostrandoci  sufficienti  a  spiegare 
quanto  si  fa  nell'universo  e  meglio  conoscere  la  loro  natura,  ed  a 
poter  bene  intendere  e  adattare  gli  effetti  alle  loro  cagioni.  Ecco 
come  saviamente  ne  discorre  questo  insigne  filosofo  nella  3*  parte 
dei  suoi  Prìncipi:1  «Non  enim  dubium  est  quin  mundus  ab  initio 
fuerit  creatus  cum  ornili  sua  perfectione  ita  ut  in  eo  et  sol  et  terra 
et  luna  et  stellae  extiterint;  ac  etiam  in  terra  non  tantum  fuerint 
semina  plantarum,  sed  ipsae  plantae;  nec  Adam  et  Eva  nati  sint 
infantes,  sed  facti  sint  homines  adulti.  Hoc  fides  Christiana  nos 
docet,  hocque  etiam  ratio  naturalis  piane  persuadet.  Attendendo 
enim  ad  immensam  Dei  potentiam,  non  possumus  existimare  illum 
unquam  quidquam  fecisse,  quod  non  omnibus  suis  numeris  fuerit 
absolutum.  Sed  nihilominus,  ut  ad  plantarum  vel  hominum  na- 
turas  intelligendas,  longe  melius  est  considerare  quo  pacto  paula- 
tim  ex  seminibus  nasci  possint,  quam  quo  pacto  a  Deo  in  prima 
mundi  origine  creati  sint;  ita,  si  quae  principia  possimus  excogi- 
tare,  valde  simplicia  et  cognitu  facilia,  ex  quibus  tanquam  ex  se- 
minibus  quibusdam  et  sidera  et  terram  et  denique  omnia  quae  in 
hoc  mundo  adspectabili  deprehendimus  oriri  potuisse  demonstre- 
mus,  quamvis  ipsa  nunquam  sic  orta  esse  probe  sciamus;  hoc  pacto 


1.  nella  .  .  .  Princìpi:  R.  Des  Cartes  Principia  philosophiae,  editio  quarta, 
Amstelodami  1664,  pars  tertia,  De  mundo  adspectabili,  §  xlv,  p.  57  («Non 
vi  è  infatti  dubbio  che  il  mondo  sia  stato  creato  al  principio  con  tutte  le 
perfezioni  che  ha,  tanto  che  esistevano  in  esso  il  sole,  la  terra,  la  luna  e  le 
stelle;  e  inoltre  nella  terra  non  c'erano  solo  i  semi  delle  piante,  ma  anche  già 
le  piante;  e  Adamo  ed  Eva  non  nacquero  bambini,  ma  furono  creati  uomini 
adulti.  Questo  ci  insegna  la  fede  cristiana,  ed  anche  la  ragione  naturale 
ce  ne  persuade  assolutamente,  poiché  considerando  Fimmensa  potenza  di 
Dio,  non  possiamo  credere  che  egli  abbia  mai  fatto  alcunché  senza  tutta  la 
perfezione  che  doveva  avere.  Cionondimeno,  come  per  capire  la  natura 
delle  piante  e  degli  uomini  è  assai  meglio  considerare  come  si  siano  svilup- 
pati a  poco  a  poco  da  semi,  che  come  sono  stati  creati  da  Dio  all'inizio 
del  mondo  ;  così  se  riusciremo  a  escogitare  alcuni  princìpi,  assai  semplici  e 
facili  a  conoscersi,  mostrando  che  da  essi,  come  da  semi,  sian  potuti  nascere 
gli  astri,  la  terra  e  infine  tutto  ciò  che  osserviamo  in  questo  mondo  visibile 
—  benché  sappiamo  bene  che  non  è  stato  affatto  prodotto  così  -,  in  questa 
maniera  pure  faremo  intendere  la  loro  natura  assai  meglio  che  se  li  descri- 
vessimo come  sono  ora  ».  Per  questa  e  per  le  citazioni  seguenti  dei  Principia^ 
abbiamo  tenuto  presente  la  traduzione  di  Paolo  Cristofolini,  Torino  1967, 
quando  non  l'abbiamo  riprodotta  fedelmente). 


628  IL    TRIREGNO 

tamen  eomm  naturam  longe  melius  exponemus,  quam  si  tantum 
qualia  iam  sint  describeremus  ». 

Credette  questo  filosofo  aver  trovati  princìpi  non  pur  fecondi, 
ma  anche  facili  e  semplici;  ed  il  caos,  che  gli  altri  filosofi  lo  descris- 
sero tutto  confuso  e  torbido,  dal  quale  secondo  le  leggi  della  natura 
fecero  nascere  e  sole  e  luna  e  terra  e  quanto  venne  poi  disposto  ed 
ordinato  nel  mondo,  egli  ce  lo  rappressenta  niente  confuso,  ma  tutto 
uguale,  schietto  e  semplice,  dicendo  che  la  confusione  non  può 
convenire  colla  somma  perfezione  di  Dio  creator  dell'universo. 
Oltra  di  che  con  maggior  facilità  possono  da  noi  comprendersi  le 
cose  ordinate  e  semplici,  che  le  ineguali  e  confuse.  «Etsi  enim»  e' 
dice  forte  etiam  ex  chao  per  leges  naturae  idem  ille  ordo  qui 
iam  est  in  rebus  deduci  posset,  idque  olim  susceperim  explican- 
dum;  quia  tamen  confusio  minus  videtur  convenire  cum  summa 
Dei  rerum  creatoris  perfectione,  quam  proportio  vel  ordo,  et  mi- 
nus distincte  etiam  a  nobis  percipi  potest;  nullaque  proportio,  nul- 
lusve  ordo  simplicior  est  et  cognitu  facilior,  quam  ille  qui  constat 
omnimoda  aequalitate:  idcirco  hic  suppono  omnes  materiae  parti- 
culas  initio  fuisse  tam  in  magnitudine  quam  in  motu  inter  se  ae- 
quales  »*  Egli  adunque  dalla  materia,  che  è  una  e  la  stessa  in  tutti  i 
corpi,  divisibile  in  qualsivoglia  parte  e  già  per  se  stessa  in  molte  di- 
visa, la  quale  diversamente  si  muove  e  che  conserva  nell'universo  la 
stessa  quantità  del  moto  che  sino  dal  principio  della  sua  creazione 
gli  fu  impresso,  fa  nascere  tutto  ciò  che  si  ammira  in  questo  mondo 
aspettabile.  Suppone  tutte  le  parti  e  particelle  della  materia  sin 
dal  principio,  così  nella  grandezza  come  nel  moto,  essere  state  fra 
di  loro  eguali.  Considera  non  aver  potuto  essere  in  questo  prin- 
cipio di  figure  sferiche,  poiché  più  globi  insieme  giunti  non  riem- 
piano come  spazio  continuo  ;  ma  che,  di  qualunque  figura  si  fossero 
allora  quelle,  non  poterono  poi  in  progresso  di  tempo  non  farsi  se 

1.  *Etsienim* . .  aequales*:  ibid.,  §  xlvii,  p.  58.  Abbiamo  restaurato  il  brano 
vel  ordo  . , .  proportio  caduto  in  ven  per  omoteleutia  (<*  Benché  infatti  anche 
dal  caos,  secondo  le  leggi  della  natura,  si  potesse  per  avventura  dedurre 
quell'ordine  che  ora  è  nelle  cose  -  il  che  altra  volta  ho  intrapreso  a  spie- 
gare -,  tuttavia,  poiché  la  confusione  sembra  convenire  meno  alla  somma 
perfezione  di  Dio  creatore  delle  cose  che  non  l'ordine  e  la  proporzione  - 
e  anche  da  noi  può  essere  meno  distintamente  compresa  -;  e  poiché  non 
c'è  alcuna  proporzione,  né  alcun  ordine,  che  sia  più  semplice  e  più  facile  a 
comprendersi  di  quello  che  consiste  in  una  perfetta  uguaglianza,  ha  suppo- 
sto allora  qui  che  tutte  le  particelle  della  materia  siano  state  al  principio 
uguali  fra  loro,  tanto  in  grandezza  quanto  in  movimento  »). 


DEL    REGNO    TERRENO    •  PARTE   II   •  CAP.  Ili  629 

non  rotonde,  per  i  vari  moti  circolari  ch'ebbero.  Da  questo  muo- 
versi, urtarsi  e  raggirarsi  insieme  la  materia  degl'angoli  percossi  e 
striturati,  venne  ad  occupare  que'  minuti  intervalli  che  fra  le  parti 
rotonde  rimasero;  sicché  formaronsi  due  generi  di  materia  per 
figura  molto  diversi:  quelle  parti  più  minute  e  più  agili  e  preste, 
e  che  scorrendo  impetuosamente  aggitate  per  tutti  quei  angustis- 
simi intervalli,  ed  adattandosi  le  lor  figure  ad  empire  tutti  quei 
stretti  spazi  che  sono  fra  le  parti  rotonde,  egli  chiamò  «  primo  ele- 
mento ».  L'altre  divise  in  particelle  sferiche  di  certa  e  determinata 
quantità,  e  divisibili  in  altre  particelle  molto  minori,  le  disse  ';  se- 
condo elemento»;  a*  quali  due  elementi  successe  il  terzo  elemento 
di  parti  più  grossolane  e  ramose,  aventi  figure  meno  atte  al  moto. 
Questi  egli  chiama  &  elementi  a  di  questo  mondo  aspettabile.  E  se- 
condo le  leggi  che1  del  moto  prescrisse  con  tanta  accuratezza  nella 
seconda  parte  dei  suoi  Princìpi,  con  minuta  ed  esatta  operazione3 
meccanicamente  da'  tre  princìpi  suddetti  fa  sorgere  tutto  ciò  che 
s'osserva  in  questo  mondo  aspettabile.  '.  Ex  his  tribus  »  ei  dice  "  om- 
nia huius  mundi  adspectabilis  corpora  componi  ostendemus  :  nem- 
pe  solem  et  stellas  fixas  ex  primo,  coelos  ex  secundo  et  terram  cum 
planetis  et  cometis  ex  tertio.  Cum  enim  sol  et  fixae  lumen  ex  se 
emittant:  coeli  illud  transmittant  ;  terra,  planetae  ac  cometae  re- 
mittant:  triplicem  hanc  differentiam  in  adspectum  incurrentem, 
non  male  ad  tria  dementa  referemus  ».3 

Sarebbe  dilungarsi  troppo  dal  nostro  istituto  e  divertire  sover- 
chio l'altrui  applicazione  in  cose  cotanto  minute  e  sottili  e  che 
richiedono  tutta  la  penetrazione  del  nostro  spirito,  se  volessi  rap- 
portare qui  la  maniera  colla  quale  questo  miracoloso  ingegno  va 
secondo  le  leggi  del  moto,  per  vie  cotanto  piane  e  semplici,  tirando 
innanzi  il  suo  assunto.  Ciascuno  o  il  sa  o  potrà  attentamente  os- 
servarlo ne'  suoi  Princìpi,  sopra  i  quali  tanto  si  è  dibattuto  e  scritto. 
Certamente  che  l'ipotesi  è  così  bella  ed  ingegnosa  che  si  adattano 
molto  a  proposito  quei  versi  del  nostro  Torquato  Tasso  : 

1.  che  Parente  (p.  287);  manca  in  ven.  2.  operazione  Parente  (p.  287); 
osservazione  ven.  3.  *Èx  his  tribus  . . .  referemus*:  ibid.,  §  lii,  p.  59  (a Mo- 
streremo che  tutti  i  corpi  di  questo  mondo  visibile  si  compongono  di  questi 
tre  elementi:  cioè  il  sole  e  le  stelle  fisse  del  primo,  i  cieli  del  secondo,  e  la 
terra,  i  pianeti  e  le  comete  del  terzo.  Infatti,  poiché  il  sole  e  le  stelle  fisse 
sprigionano  la  luce  da  sé,  i  cieli  la  fanno  passare,  e  la  terra,  i  pianeti  e  le  co- 
mete la  riflettono:  non  a  torto  riferiremo  ai  tre  elementi  questa  triplice 
differenza  che  ha  luogo  nel  mondo  visibile»). 


63O  IL    TRIREGNO 

Magnanima  menzogna,  or  quando  è  il  vero 
sì  bello  che  si  possa  a  te  preporre?1 

Or,  quantunque  questo  gran  filosofo,  volendo  fra  i  cristiani  in- 
segnare una  nuova  filosofia,  come  la  quale,2  fra  quante  al  mondo 
ne  furono  e  fiorirono,  niuna  è  sì  acconcia  a  spiegare  i  fenomeni  della 
natura,  avesse  usate  tante  riserve  e  protesti,  non  potè  sfuggire  però 
l'abbuso  d'alcuni  che  vollero  tirarla  dove  meno  si  dovea.  Da  questa 
ipotesi  certamente  niente  potea  dedursi  che  si  opponesse  ai  libri 
di  Mosè,  anzi,  supponendosi  la  materia  creata  e  che,  secondo  le 
leggi  del  moto  che  Iddio  gli  diede  a  misura  e  proporzione  della 
materia  creata,  conservi  sempre  nel  mondo  quella  istessa  quantità 
del  moto  dal  quale  e  dalla  materia  suddetta,  anche  divisibile  in 
mille  e  mille  parti,  tutta  si  possa  produrre,  maggiormente  s'ammira 
che  la  divina  onnipotenza  e  sapienza,  che  per  vie  così  piane  e 
semplici  ordinò  e  dispose  l'universo,  dasse3  princìpi  sì  fecondi, 
onde  quanto  in  quello  s'ammira,  si  produca.4 

Quello  però  che  nella  2d.a  parte  dei  suoi  Princìpi  credette  in- 
torno alla  natura  ed  essenza  di  questa  materia  corporea  ed  estensa 
onde  il  tutto  si  compone,  non  fu  ben  ricevuto  da'  più  savi,  per 
le  conseguenze  pur  troppo  perniciose  che  ne  potrebbero  derivare; 
poiché,  credendo  che  non  consistesse  in  altro  l'essenza  del  corpo 
che  nell'essere  estenso  in  lungo,  lato  e  profondo,  poiché  tutte  le 
altre  modificazioni  che  può  ricevere  il  corpo,  o  sia  di  gravità,  o  di 
leggierezza,  o  fluidità,  ovvero  durezza,  o  di  rotondità,  o  di  altre 
qualsivogliono  figure,  possono  cancellarsi  o  variarsi,  ma  non  giam- 
mai potrà  perdere  l'estensione  in  lungo,  lato  e  profondo,  ne  venne 
in  conseguenza  che  dovesse  ammettere  per  corpo  anche  lo  spazio, 
che  pure  ritiene  le  proprietà  istesse;  e  così  non  meno  il  luogo,5 
ovvero  spazio  interno  sarà  corpo,  che  lo  spazio  esterno  :  quindi  era 
duopo  dire  che  non  si  dasse  in  natura  vacuo  alcuno,  ma  che  tutto 
fosse  pieno,  e  per  conseguenza  la  materia  non  essere  altro  che  uno 
spazio  continuato,  non  potendosi  concepire  spazio  senza  che  nel- 
l'istesso  tempo  non  concepiamo  estensione,  cioè  corpo.  Ecco  come 
questo  filosofo  ne  ragiona  nella  2d.a  parte  de'  suoi  Princìpio  «  Vacuum 

1.  Ger.  lib.t  11,  22.  2.  come  la  quale  Parente  (p.  288);  la  quale  ven. 
3.  dasse  Parente  (p.  288);  e  dasse  ven.  4.  si  produca  Parente  (p.  288);  e 
si  produca  ven.  5.  il  luogo  Parente  (p.  289)  ;  il  luogo  che  ven.  6.  Prin- 
cipia cit.,  pars  secunda,  De  principiis  rerum  materialium,  §  xvi,  p.  26 
(<  Che  poi  non  si  possa  dare  il  vuoto  secondo  il  modo  di  parlare  dei  filosofi, 


DEL   REGNO    TERRENO    •  PARTE   II   •  CAP.  Ili  631 

autem,  philosophico  more  sumptum,  hoc  est  in  quo  nulla  piane 
sit  substantia,  dari  non  posse  manifestum  est,  ex  eo  quod  extensio 
spati,  vel  loci  interni,  non  differat  ab  extensione  corporis.  Nam 
cum  ex  hoc  solo,  quod  corpus  sit  extensum  in  longum,  latum  et 
profundum,  recte  concludamus  illud  esse  substantiam:  quia  om- 
nino  repugnat  ut  nihili  sit  aliqua  extensio,  idem  etiam  de  spatio 
quod  vacuum  supponitur  est  concludendum:  quod  nempe  cum  in 
eo  sit  extensio,  necessario  etiam  in  ipso  sit  substantia».  Così,  facendo 
egli  consistere  la  natura  della  sostanza  corporea  nella  sola  estensio- 
ne, e  non  distinguendola  dall'estensione  che  si  attribuisce  a  qualun- 
que spazio  esterno,  inane  o  imaginario  che  fosse1  ripetendo  poco 
da  poi:  «Postquam  sic  advertimus  substantiae  corporeae  naturam 
in  eo  tantum  consistere,  quod  sit  res  extensa;  eiusque  extensionem 
non  esse  diversam  ab  ea  quae  spatio  quantumvis  inani  tribui  solet»3 
etc,  quindi  alcuni  hanno  ragionevolmente  presa  occassione  di  dire 
che  in  sostanza,  di  sentenza  ài  Cartesio,  l'ampio  universo  sia  infi- 
nito, poiché  qualunque  spazio  noi  possiamo  immaginarsi  più  in  là 
oltre  i  suoi  confini,  sempre  trovaremo3  estensione,  che  per  lui  sarà 
lo  stesso  che  sostanza  corporea,  e  si  caderà  nella  sentenza  di  Lu- 
crezio, Kb.  1,  che  vuole  la  materia  infinita.4  Né  si  appagarono  del- 
l'equivocazione dell'indefinito,  quasi  che  l'universo  non  già  fosse 
infinito  ma  indefinito,  non  potendoli  noi  assegnare  fine  alcuno,  poi- 
ché questo  non  è  che  un  gioco  di  parole;  anzi  perché  noi  non  pos- 
siamo al  mondo  assegnare  fine,  non  potendo  concepire  più  in  là 
spazio  senza  estensione,  senza  corpo,  questo  istesso  sarà  farlo  infi- 
nito, siccome  apertamente  di  ciò  vien  convinto  Cartesio  nell'istesso 
luogo  dicendo  :  «  Cognoscimus  praeterea  hunc  mundum,  sive  sub- 
come ciò  in  cui  non  vi  sia  nessuna  sostanza,  è  manifesto  dacché  l'estensione 
dello  spazio,  o  luogo  interno,  non  differisce  dall'estensione  del  corpo.  In- 
fatti, mentre  dal  fatto  solo  che  un  corpo  è  esteso  in  lunghezza,  larghezza  e 
profondità,  concludiamo  giustamente  che  esso  è  una  sostanza,  poiché  ri- 
pugna del  tutto  che  il  nulla  abbia  qualche  estensione,  si  deve  concludere 
lo  stesso  anche  per  lo  spazio  che  è  supposto  vuoto;  infatti  poiché  in  esso 
vi  è  estensione,  necessariamente  vi  è  anche  sostanza»).     1.  spasto . .  .fosse: 
nostra  congettura  (cfr.  p.  638)  ;  ven  e  Parente  (p.  289)  hanno  «  passo  esterno 
innanti,  o  imagina  ciò  che  fosse  j,  senza  senso.     2.  «  Postquam . . .  solet  a  :  ibid., 
§  xrx,  p.  27  («  Dopo  che  abbiamo  così  avvertito  che  la  natura  della  sostanza 
corporea  consiste  soltanto  nel  fatto  che  è  cosa  estesa,  e  che  la  sua  estensione 
non  è  diversa  da  quella  che  si  suole  attribuire  allo  spazio  vuoto  a  piacere. . .  »). 
3.  trovaremo  Parente  (p.  289);  trovarono  ven.    4.  Lucrezio  . . .  infittita: 
cfr.  J.  S.  Spine,  French  Free-Thought  ecc.,  cit.,  cap.  vii,  Lucretius  and  Na- 
turai Pkilosophers,  pp.  103  sgg.  Cfr.  De  rer.  nat.,  1,  146-264. 


632  IL   TRIREGNO 

stantiae  corporeae  universitatem,  nullos  extensionis  suae  fines  ha- 
bere.  Ubicumque  enim  fines  illos  esse  fingamus,  semper  ultra  ipsos 
aliqua  spatia  indefinite  extensa  non  modo  imaginamur,  sed  etiam 
vere  imaginabilia,  hoc  est  realia  esse  percipimus  ;  ac  proinde  etiam 
substantiam  corpoream  indefinite  extensam  in  iis  contineri  :  quia, 
ut  iam  fuse  ostensum  est,  idea  eius  extensionis  quam  in  spatio 
qualicumque  concipimus,  eadem  piane  est  cum  idea  substantiae 
corporeae».1  Quest'istesso  adunque  sarà  riputar  la  materia  infinita, 
giacché  non  possiamo  prefiggerli  fine  alcuno,  poiché  nelTistesso 
tempo  che  ci  forzaremo  imaginarselo,  subito  occorre  che  più  in  là 
vi  sia  molto  spazio,  e  questo  sarà  pure  materia,  e  per  conseguenza 
anderemo  neirinfinito.  Questo  fece  che  non  tutti  rimasero  persuasi 
della  sua  sentenza,  non  già  che  quella  si  opponesse  ad  Esaia  nel 
cap.  40,v.i8,2  dove  dice  Iddio  aver  posti  i  termini  alla  terra:  «Deus 
sempiternus  Dominus,  qui  creavit  terminos  terrae  »,  poiché  è  chiaro 
che  qui  il  profeta  parla  de'  termini  della  terra,  non  già  di  tutto 
l'ampio  universo.  Oltre  che  s'è  abbastanza  da'  più  savi  dimostrato 
che  il  favellar  della  Scrittura  di  queste  cose  fisiche  e  naturali  dovea 
essere  quello  che  si  adatta  al  commune  uso  degli  uomini;  e  non  fu 
che  popolare,  non  filosofico,  poiché  altrimenti  Giosuè  sarebbe  stato 
riputato  pazzo  dall'esercito  ebreo,  se,  invece  di  commandare  al 
sole  che  si  restasse,  avesse  detto  alla  terra  che  non  si  movesse.  Pa- 
rimenti Elieu  Buzite,  amico  di  Giob,  parlò  secondo  la  sua  e  la 
volgare  credenza  quando  disse,  cap.  37,v.i8:  «Tu  forsan  cum  eo 
fabricatus  es  coelos,  qui  solidissimi  quasi  aere  fusi  sunt?»:  sarebbe 
ora  certamente  beffato  e  deriso  chi,  parlando  filosoficamente,  di- 
cesse i  cieli  essere  solidissimi  e  come  rame  o  bronzo  fusi. 

Inoltre  Cartesio  tirò  più  innanzi  questa  sua  dottrina,  dicendo 
che  noi  possiamo  più  facilmente  avere  idea  deU'iiifinito  che  del 
finito,  poiché  in  natura  non  possiam  considerare  termine  tale,  che 
oltre  di  quello  non  concepiamo  altri  spazi,  almeno  immaginari;  se 


1.  "  Cognoscimus .  . .  corporeae  ->:  Principia  cit.,  pars  secunda,  §  xxi,  p.  27 
(n  Conosciamo  inoltre  che  questo  mondo,  ossia  la  totalità  della  sostanza  cor- 
porea, non  ha  alcun  limite  alla  sua  estensione.  Infatti,  dovunque  ci  figuria- 
mo che  quei  limiti  siano,  sempre  non  solo  immaginiamo,  ma  percepiamo 
che  sono  anche  veramente  immaginabili,  cioè  reali,  spazi  infinitamente  estesi 
al  di  là  da  essi;  e  quindi  che  anche  una  sostanza  corporea  indefinitamente 
estesa  è  contenuta  in  essi.  Poiché,  come  s'è  già  diffusamente  mostrato,  l'idea 
di  quell'estensione,  che  concepiamo  in  qualunque  spazio,  s'identifica 
senz'altro  con  l'idea  di  sostanza  corporea»).     2.  v.  18:  rectius  28. 


DEL   REGNO   TERRENO   •  PARTE   II   •  CAP.   Ili  633 

questi  certamente  hanno  Fistessa  proprietà  di  largo,  lato  e  profon- 
do, non  possiamo  non  concepirli  che  estensi  e  per  conseguenza  per 
corpi  infiniti,  perché  non  possono  avere  mai  fine.1 

A  rutto  ciò  s'aggiunga  che,  secondo  questa  ipotesi,  Iddio  pri- 
ma della  creazione  dell'universo  non  avrebbe  potuto  creare  due 
soli  corpi  sferici,  poiché  questi  due  corpi  per  essere  sferici  non 
s'avrebbero  potuto  toccare  insieme  secondo  tutti  i  lati,  ma  solamen- 
te in  un  punto  ;  dunque  fra  le  altre  parti  della  loro  circonferenza 
avrebbe  dovuto  frapporsi  qualche  spazio  perché  non  si  toccassero: 
se  questo  spazio  mi  si  dirà  anche  corpo,  perché  sarà  sibbene  estenso 
siccome  i  due  corpi  sferici  creati,  non  avrà  più  creato  Iddio  due 
corpi  sferici,  ma  un  sol  corpo  uguale,  indivisibile  ed  infinitamente 
estenso. 

Dacciò  ancora  ne  deriva  che,  non  facendosi  consistere  in  altro 
la  materia  che  nello  spazio  ch'è  sempre  stato  e  sarà  sempre,  per 
conseguenza  si  cade  nell'opinione  de5  Caldei,  i  quali,  secondo  che 
scrive  Diodoro,  lib.  2,  cap.  8:  ■  Mundum  sempiternum  esse  aiunt, 
neque  principium  habuisse,  neque  sortiturum  esse  finem».3  Cer- 
tamente che,  siccome  dal  niente  lo  creò,  puoi  Iddio  a  niente  ridur- 
re tutto  l'universo,  e  non  possiamo  questo  niente  non  imaginarselo 
che  un  ampio  ed  immenso  vuoto,  dove  niuna  sostanza  sia,  ma  non 
cessaremo  d'immaginarselo  infinitamente  lungo,  lato  e  profondo, 
che,  in  sentenza  di  Cartesio,  questo  sarebbe  farlo  reale,  poiché  ei 
dice:  «Ac  proinde  etiam  substantiam  corpoream  indefinite  exten- 
sam  in  iis  contineri».3  Se  dunque  dell'universo,  così  imaginando, 
non  possiamo  concepir  fine,  per  la  ragione  istessa  non  potremo  assi- 
gnarli  principio  alcuno,  poiché  questo  spazio  siccome  sarà  sempre, 
così  bisogna  dire  che  sempre  sia  stato.  Quindi  con  molta  ragione 
questa  dottrina  dello  spazio  di  Cartesio  alcuni  non  ebbero  ritegno4 
di  riputarla  un  delirio,  siccome  la  riputò  M.r  Nicole,5  il  quale,  tom. 

1.  estensi .  .  .fine:  sugli  sviluppi  materialistici  della  fisica  cartesiana  cfr. 
A.  Vartanian,  Diderot  e  Descartes,  Milano  1956,  soprattutto  i  capitoli  11 
e  rv.  Sul  concetto  di  spazio  in  Cartesio,  Gassendi  e  Newton  cfr.  M.  Jam- 
mer,  Storia  del  concetto  di  spazio,  Milano  1963,  pp.  46  sgg.  2.  Diodoro  . . . 
finem:  il  manoscritto  questa  volta  rinvia  all'edizione  Chateillon  cit.,  p.  57 
(nelle  edizioni  moderne  11,  30,  1  :  *  Sostengono  che  il  mondo  è  eterno,  che 
non  ha  avuto  un  principio  né  raggiungerà  una  fine »).  3.  «Ac  proinde  — 
contineri*:  cfr.  la  nota  1  a  p.  632.  4.  ritegno:  per  errore  di  trascrizione  ven 
ha  «ritengo».  5.  Pierre  Nicole  (1625-1695),  teologo  francese  filogianse- 
nista, autore  degli  Essais  de  morale.  Su  di  lui  cfr.  H.  Busson,  La  religùm  des 
classiques,  1660-168 5,  Paris  1948. 


634  IL   TRIREGNO 

2,  epist.  83  in  fine  ci  rende  ancor  testimonianza  che  M.r  Pascale1  fu 
del  medesimo  sentimento.  Ma  non  perché  in  ciò  avesse  preso  abba- 
glio quest'incomparabile  filosofo,  dovrà  dirsi  che  per  questo  rovi- 
nerà o  sarà  gittato  a  terra  queU'ammirando  ed  ingegnoso  suo  siste- 
ma. Sussiste  ben  egli,  né  puole  da  questo  urto  ricevere  nel  rimanente 
crollo  alcuno  :  siccome  non  si  rovinò  il  sistema  di  lui  formato  intorno 
alla  fabrica  dell'uomo  e  sue  operazioni  ed  effetti,  perché  dapoi  da' 
più  periti  ed  esperti  notomici  fu  osservato  che  la  glandola  pineale, 
per  essere  sovente  ricettacolo  di  mucchi3  ed  impurità,  non  poteva 
essere  adattata  ed  acconcia  ad  essere  stabilita  centro  ove  derivas- 
sero ed  andassero  a  terminare  tutti  i  nervi  e  filamenti3  ond'è  sparso 
il  nostro  corpo,  sicché  avesse  ivi  potuto  collocarsi  la  principale  sede 
della  nostra  anima,  per  ivi  dare  e  ricevere  insieme  le  impressioni 
dei  corpi  che  ci  circondano,  poiché  basterà  che  nel  nostro  cerebro, 
o  nelle  sue  cavità  0  membrane,  si  trovi  questo  punto  ove  vadino 
a  terminare  tutte  le  linee  della  circonferenza  del  nostro  microcosmo, 
poco  importando  che  si  stabilisca  questo  luogo  o  in  quella  glandola 
o  in  altra  più  intima  e  riposta  parte:  non  si  rovinerà  perciò  la  sua 
ingegnosa  ipotesi  dell'uomo:4  cosi  non  si  rovescierà  il  sistema  con- 
cepito intorno  alla  fabrica  del  mondo,  se  a  questa  estensione  si  darà 
un  soggetto  per  sé  essistente,  sicché  l'essere  lato,  lungo  e  profondo 
sia  sua  modificazione  e  proprietà  intrinseca  che  lo  faccia  distin- 
guere dalle  altre  cose  che  Iddio  ha  potuto  creare  nell'universalità 
della  natura,  che  non  siano  estense,  delle  quali  noi,  come  si  dirà 
più  innanzi,  infinora  non  abbiamo  idea  alcuna,  perché  l'uomo  non 
è  stato  formato  per  aver  idea  di  tutte  le  cose  che  possono  essere 
nell'universo  e  che  l'onnipotenza  divina  ha  potuto  creare.5 

Questo  soggetto  sarà  la  sostanza,  cioè  cosa  che  per  sé  esista,  nel 
che  possono  convenire  tutte  le  altre  cose  che  Iddio  ha  creato  o  può 
creare,  e  che  per  sé  sussistono.  La  sostanza  è  un  genere  nel  quale 
tutte  le  cose  convengono  al  moto  esterno,  inane  ed  imaginario  che 


1.  Pascale-,  è  Biagio  Pascal.  2.  macchi',  per  t  muchi».  2.  filamenti  Pa- 
rente (p.  292);  finalmente  ven.  4.  Sussiste  ben  egli . .  .  uomo:  cfr.  UHom- 
me  de  René  Descartes  et  la  formation  du  fcetus  avec  les  remar ques  de  'Louis 
de  La  Forge.  A  quoy  Von  a  ajouté  le  Monde,  ou  tratte  de  la  lumière  du  mesme 
auteur,  Paris  1677.  La  prima  edizione  è  del  1664.  Sulla  polemica  a  propo- 
sito della  ghiandola  pineale,  cfr.  B.  Spinoza,  Etnica,  pars  v,  Praef.  5.  cosi 
non  si  rovescierà . . .  creare:  è  evidente  l'interpretazione  materialistica  che  il 
Giannone  dà  del  cartesianesimo,  che  si  concreterà  più  avanti,  quando 
affermerà  che  Festensione  è  Tunica  sostanza. 


DEL    REGNO   TERRENO   •  PARTE   II   -  CAP.  Ili  635 

niente  ha  di  reale,  e  per  conseguenza  in  cotal  guisa  potremo  trovare 
e  concepire  i  confini  dell'universo,  e  non  farlo  esterno  ed  infinito; 
e  l'istesso  Cartesio  nella  sostanza  fa  convenire  Iddio  stesso  colle 
sue  creature. 

Ma  v'intende  una  grandissima  differenza  tra  l'un  essere  e  l'al- 
tro. Iddio  è  per  se  stesso,  e  le  sue  creature  sono  per  lui;  onde  Mosè 
bene  ne  concepì  l'idea  quando  scrisse  Iddio  avergli  rivelato  il  suo 
proprio  nome  essere  il  Dio  <?  sono  »,  ovvero  t  quel  che  fu,  e  quel  che 
sempre  sarà»,  dagli  Ebrei  perciò  chiamato  Iaheuh,  ovvero  il  Iao, 
come  anche  legge  Boccardo,1  oltre  Diodoro  Siciliano.  È  nota  l'isto- 
ria che  pascendo  Mosè  (ne'  sacri  libri)  la  greggia  nell'Arabia  sul- 
l'Oreb,  Dio  gli  commandò  che,  calato  in  Egitto,  dicesse  al  popolo 
d'Israele  che  il  Dio  de'  loro  padri  lo  inviava  ad  essi:  Esod„  3,  v.  io. 
Dubitò  tantosto  Mosè  che  questo  popolo  rozzo,  come  uso  a  sen- 
tirsi continuo  risuonar  nell'orecchio  dio  Chamo,  dio  Giano,  dio  Diri, 
e  sifartì  nomi  di  deità,  ove  la  prima  voce  è  il  nome  appellativo  e  la  2a 
è  il  proprio,  gl'avrebbe  chiesto  qual  era  il  nome  proprio  di  questo 
Dio  de*  padri  loro.  Pertanto  interrogò  a  Dio,  se  veniale  fatta  tale 
richiesta,  che  dovea  rispondere  ?  Allora  Dio  per  rendergli  noto  che 
gl'altri  erano  dei  vani  e  di  sol  titolo,  ed  esso  solo  il  vero,  si  pose 
due  nomi  propri,  un  «sarò»,  l'altro  «fu»,  che  la  vulgata  versione 
legge  così,  Esod.,  3,  v.  14:  uDixit  Deus  ad  Mosen:  "Ego  sum  qui 
sum:  sic  dices  filiis  Israel:  Qui  est  misit  me  ad  vos"  »,  poiché  quel 
che  sempre  fu  e  sarà,  sempre  è.  Ma  questo  ultimo  nome  di  ».  fu  » 
ormai  più  gli  piacque  e  il  si  ritenne.  Simile  istoria  venne  da  Dio 
stesso  spiegata  allor  che  altra  volta  in  Egitto  disse  a  Mosè:  rio 
sono  laheuch,  ovvero  Iao  {Esod.,  6,  v.  2-3),  e  comparvi  ad  Abramo, 
ad  Isaacco  ed  a  Giacobbe,  come  Dio  Saddai,  cioè  onnipotente,  e 
nel  nome  mio  laheuch  (Iao)  non  fui  conosciuto  da  essi  loro  ». 

Ed  in  vero  di  Dio  solo  può  dirsi  che  sia,  e  questo  nome  spiega 
acconciamente  la  sua  divina  essenza,  poiché  tutte  le  altre  cose  che 
nascono  e  muoiono  non  posson  propriamente  dirsi  che  siano.  Verità 
conosciuta  eziandio  dagli  antichi  filosofi,  e  sopra  ogni  altro  da  Pla- 
tone in  Timeo,  il  quale  perciò  i  nostri  teologi,  seguendo  il  lor  costu- 
me, voglion  che  tal  dottrina  l'avesse  appresa  dai  libri  di  Mosè. 
Platone,  di  questo  essere  parlando,  disse:3  «Quid  illud  est  quod 

1.  come ...  Boccardo:  S.  Bochart,  Geographia  sacra,  ed.  cit.  del  1674, 
Chanaan,  lib.  11,  cap.  xvn,  p.  859.  2.  Platone . .  .  disse:  in  Parente  (p.  294) 
c'è  solo  l'inizio  (Quid  illud uttum  habet)  della  citazione  dal  Timeo 


636  IL   TRIREGNO 

semper  est,  nec  tamen  ortum  ullum  habet;  quid  illud  contra,  quod 
semper  nascitur  et  nunquam  est?  Prius  illud  quidem,  quod  sem- 
per atque  eodem  modo  est,  ab  sola  intelligentia  cum  ratione  perci- 
pitur.  Altemm  hoc,  quod  oritur  simul  et  occidit,  neque  unquam 
vere  est,  in  ea  dumtaxat,  quam  sensus  ab  omni  ratione  vacuus 
efficit,  opinione  versatur;,.  Ciocché  Numenio  Pitagorico1  spiegò 
assai  dottamente  dicendo  al  lib.  2°  de  bono:  <  "Quod  enim  est,  id 
sempiternum  est,  atque  eodem  sese  modo  constanter  habet  etc. 
Maneat  igitur  et  tanquam  verum  sumatur  incorporeum  esse,  id 
quod  est.  Quaerit  Plato,  quid  illud  sit,  quod  est;  id  sine  dubio 
carere  ortu  statuens;  mutaretur  enim  alioqui:  si  autem  mutaretur, 
sempiternum  id  non  esset".  Inde  aliquantum  progressus  haec  ad- 
dit:  "Si  quod  est,  id  omnino  sempiternum  et  immutabile  est,  nec 
ab  sese  ulla  unquam  varietate  discedit,  sed  in  una  semper  eadem- 
que  ratione  permanet,  illud  unum  profecto  sit  oportet,  quod  in- 
telligentia cum  ratione  capiatur"  ».  Leggasi  quel  savissimo  discorso 
di  Plutarco  nel  lib.  De  syllaba  zi  (es)  delphico  tempio  inscripta^  dove 
fra  le  altre  cose  dice:  'fNos  enim  nullo  modo  sumus,  sed  omnis 
omnino  natura  mortalis,  in  quodam  interitus  ortusque  medio  con- 
stituta,  umbram  sui  dumtaxat  aliquam  exilemque,  ac  lubricam 
opinionem  ostendit».2  E  poco  dapoi:  «Ecquid  igitur  illud  est  quod 

(27<i-28a)  di  Platone,  che  il  Giannone  trae  da  Eusebio  di  Cesarea,  Praepa- 
rationis  evangelicae  cit.,  hb.  xi,  cap.  rx,  De  ente»  ex  Mosis  Platonisque  doctrina, 
in  Migne,  P.  G.y  xxi,  col.  870  («Cos'è  quell'essere  che  sempre  è  e  che  non 
ha  origine  ?  e  cos'è  quello  che  al  contrario  nasce  sempre  e  non  esiste  mai  ? 
Il  primo  invero,  poiché  esiste  sempre  e  allo  stesso  modo,  viene  appreso 
solamente  dall'intelligenza  con  la  ragione.  Quanto  all'altro,  poiché  ad  un 
tempo  nasce  e  muore  e  non  esiste  mai  realmente,  è  oggetto  dell'opinione, 
quell'opinione  che  la  sensazione,  priva  di  ogni  ragione,  fa  nascere»). 
1 .  NuTnenic  d'Apamea,  filosofo  neo-pitagorico,  vissuto  nella  seconda  metà 
del  II  secolo  d.  C.  Considera  Pitagora  maestro  di  Platone;  sotto  l'influsso 
di  Filone  Ebreo,  vede  in  Platone  un  erede  della  sapienza  orientale,  dandogli 
il  nome  di  «  Mosè  atticizzante  -.  La  citazione  che  segue  manca  in  Parente 
(p.  294)  e  deriva  da  Eusebio,  op.  cit.,  lib.  xi,  cap.  x,  Ex  libro  secando  Numerai 
Pythagorici,  De  bono,  coli.  871-4  («  "L'essere  è  eterno  e  si  conserva  allo  stes- 
so modo  costantemente  ecc.  Resti  dunque  per  dimostrato  e  si  ammetta  per 
vero  che  l'essere  è  incorporeo.  Platone  si  chiede  che  cosa  è  l'essere,  stabi- 
lendo che  deve  senz'altro  esser  privo  di  origine  [poiché  nega  che  nell'essere 
possa  esservi  origine],  se  no  si  muterebbe,  e  se  mutasse  non  sarebbe  più  eter- 
no". Poi  procedendo  alquanto  aggiunge:  "Se  l'essere  è  affatto  etemo  e 
immutabile,  e  non  si  diparte  mai  da  se  stesso  per  varietà  alcuna,  ma  perdura 
sempre  in  un  unico  identico  stato,  bisogna  che  esso  sia  solo  ciò  che  può 
essere  compreso  dall'intelligenza  con  la  ragione"  »).  2.  Leggasi . . .  osten- 
dit: anche  questa  citazione  manca  in  Parente  (p.  294)  e  deriva  da  Eusebio» 


DEL    REGNO    TERRENO    •  PARTE   II    •  CAP.   Ili  637 

vere  est  ?  Id  unum  utique  quod  sempiternum  est,  quod  ortu  simul 
interituque  caret,  cui  nullum  tempus  mutatfonem  afTert».1  Leggasi 
ancora  quanto  Eusebio,  Kb.  11  Praeparat.  evang.f  cap.  11,  da  cui 
fu  questo  luogo  trascritto.  Prenderò  ancora  su  i  riferiti  passi  di 
Platone  e  di  Numenio  nel  lib.  n  Praeparat  evangelica,  cap.  9  e 
io.2  Dee  recar  maraviglia  come  non  sia  caduto  in  mente  a'  no- 
stri scrittori,  sentendo  Omero  mettere  per  proprio3  aggiunto  de- 
gli dii  essere  «sempre  esistenti d,  non  abbiano  detto  che  lo  prese 
da  Mosè. 

Ma  non  si  sono  accorti  i  nostri  semplici  ed  innocenti  teologi 
che  di  questo  modo  di  parlare  i  filosofi  gentili  se  ne  valevano  per 
ispiegare  la  differenza  che  intercede  tra  le  cose  composte  ed  i  loro 
primi  princìpi  semplicissimi  ed  incorruttibili.  Questi  l'avean  per 
eterni,  ed  a'  quali  attribuivano  un  vero  essere;  a  tutte  le  altre  di 
natura  mortale,  che,  scomponendosi,  passano  ora  in  una  forma 
ora  in  altra,  che  ora  nascono  ora  muoiono  e  spariscono,  non  gli 
davan  per  questa  loro  volubilità  e  spesso  cangiamento  quel  essere 
che  sempre  fu  e  sarà  sempre  eterno  ed  immutabile.  A*  primi  semi 
delle  cose  attribuisce  quest'essere  Lucrezio  in  tutti  i  suoi  libri  della 
Natura  delle  cose,  che  perciò  gli  fa  eterni  ed  immutabili.  Altri 
filosofi  a  tutta  la  natura,  che  perciò  la  fanno  eterna  ed  infinita.4  E 
poiché  questi  non  ebbero  idea  di  creature  e  creatore,  supponendo 
che  dal  niente  non  si  possa  crear  altro  che  un  nulla,  ma  che  da 
cosa  si  faccia  cosa,  quindi  male  vengono  adattate  queste  loro  frasi 
alla  dottrina  che  Mosè  ci  lasciò  nei  suoi  libri  intorno  al  vero  essere, 
da  lui  non  attribuito  che  al  solo  Iddìo  d*  Abramo. 

Quando  concepiamo  un  Dio  creatore,  certamente  che  a  questo 
Dio  conviene  più  che  alle  sue  creature  il  nome  di  Essere,  poiché 
l'essere  da  lui  ricevono,  e  perciò  quelle  impropriamente  si  dicono 

op.  crt.,  lib.  xi,  cap.  xi,  Ex  Plutarchi  opuscolo,  de  syUaba  si  Delphico  tem- 
pio inscripta,  col.  875  («  In  realtà  noi  non  esistiamo  affatto,  ma  tutta  quanta 
la  natura  mortale,  disposta  come  al  mezzo  tra  morte  e  nascita,  mostra  di  sé 
al  più  una  qualche  esile  ombra  e  un  ingannevole  nome  ».  Es  è  la  traduzione 
latina  di  si).  1.  E  poco  dctpoi  . . .  offerti  manca  in  Parente  (p.  294).  Eu- 
sebio, op.  e  loc.  cit.,  col.  878  («  Che  cosa  dunque  è  quello  che  veramente 
è  ?  Assolutamente  solo  ciò  che  è  etemo,  che  è  insieme  privo  di  nascita  e  di 
morte,  al  quale  nessun  scorrer  di  tempo  reca  mutamento  *>).  2.  Leggasi  an- 
cora . . .  cap.  9  e  io:  manca  in  Parente  (p.  294).  3.  per  proprio:  così  in- 
terpretiamo la  confusa  lezione  di  ven;  in  Parente  (p.  294)  perpetuo. 
4.  Lucrezio  . . .  infinita:  cfr.  la  nota  4  a  p.  631.  In  Parente  (p.  296),  per 
un  fenomeno  di  omoteleutia,  manca  la  frase  gli  fa  eterni  . .  .  perciò. 


638  IL   TRIREGNO 

sustanze.  E  perciò  Cartesio  disse  che  Iddio  e  le  creature  conven- 
gono neU' esser  sostanze,  ma  non  già  univoce,1  come  si  parla  nelle 
scuole.  Ma  non  potrebbero  dirsi  sue  creature  se  non  fossero  state 
dal  niente  ridotte  in  qualche  essere,  ancor  che  flussile,  variabile  e 
sempre  mobile  ed  inconstante,  le  quali  a  riguardo  del  primo  essere 
possono  ben  dirsi  che  non  siano,  ma  non  perciò  saranno  uno  spazio 
vano;  sono  cose,  ma  che  tutto  il  loro  essere  lo  derivono  da  Dio  che 
gli  puoi  fare  meritare  il  nome  di  sostanza,  alla  quale  aggiunto  l'attri- 
buto di  longo,  lato  e  profondo,  fassi  che  possa  denominarsi  su- 
stanza  esterna,  che  la  distingue  dalla  sustanza  divina,  ch'è  incor- 
porea ed  infinita,  e  della  quale  per  la  sola  nostra  cogitazione,  non 
già  per  li  sensi  e  per  l'imaginazione,  possiamo  averne  idea.  Così 
non  errerà  chi  dice  che  l'estensione  sia  una  modificazione  della 
sostanza,  e  per  conseguenza  lo  spazio  inane  ed  immaginario  non  sarà 
corpo,  né  sostanza  estensa,  né  creatura,  ma  un  puro  niente.  Egl'è 
vero  che  alcuni  questa  sostanza  che  riconoscono  nelle  creature  non 
han  potuto  separarla  dalla  sustanza  divina,  e  che  Iddio  stesso 
fosse  la  sustanza,  la  natura  e  Y  essere  di  tutte  le  cose  ;  nel  che,  oltre 
Benedetto  Spinosa,  ch'ha  questa  dottrina  per  fondamento  del  suo 
sistema,  par  che  inclini  eziandio  Malebranche,2  poiché  a  Dio  tutto 
rifonde.  Ed  in  vero,  siccome  si  è  veduto  nella  prima  parte,  così 
interpretavano  il  Dio  di  Mosè  i  gentili,  che  fosse  nel  tutto,  e  che 
ogni  cosa  in  lui  fosse:  sicché  quest'avere  che  alle  cose  si  dà  non  lo 
credevano  dipendere  da  Dio,  come  egli  dal  niente  l'avesse  create, 
non  potendo  ciò  capire,  sul  pregiudizio  che  da  niente  si  fa  niente, 
ma  che  fosse  Iddio  stesso;  e  Malebranche  dice  di  più,  che  tutte  le 
operazioni  che  s'attribuiscono  alle  cause  2e  devono  attribuirsi  ad 
Iddio  e  non  alla  virtù  ed  efficacia  forse  dateli  nel  principio  della 
creazione,  dicendo  che  Dio  tutto  fa,  perché  egli  è  il  tutto.  Fozio 
nella  sua  Biblioteca^  cod.  244,  pag.  1151,  ci  conservò,  come  si  è 
detto,  quel  lungo  passo  tratto  dal  quarantesimo  libro  di  Diodoro 
Siciliano,  ora  perduto.3  Dove  questo  insigne  storico,  rapportando 

x.  unwoce:  in  Parente  (p.  295)  «  unione  ».  2.  Spinosa . . .  Malebranche:  sul 
rapporto  fra  Spinoza  e  Malebranche  cfr.  P.  VerniÈre,  Spinoza  et  la  pensée 
francióse  ecc.,  càt.,  1,  pp.  167-71.  Il  Giannone  conosce  perfettamente 
tatta  l'opera  dì  Spinoza,  come  mostrano  i  suoi  appunti  in  Archivio  di  Stato 
li  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  1,  ins.  16.  Cfr.  G.  Ricuperati, 
Istoria  civile  e  storia  ecclesiastica  in  P.  Giannone,  in  «Bollettino  di  studi 
Ji  storia  valdese»*  dicembre  1963,  n.°  n,  pp.  30-1.  3.  Fozio  . „ .  perduto: 
fc  Fozio,  BiUiatheca,  in  Migne,  P.  G.,  cui,  coli.  1391  sgg. 


DEL    REGNO    TERRENO    •  PARTE   II   •  CAP.   III  639 

la  religione  e  le  savie  leggi  stabilite  da  Alosè  al  popolo  ebreo,  narra 
che  degnamente  costui  concepì  l'idea  di  Dio,  facendolo  non  di 
forma  umana  o  di  animale,  come  l'altre  nazioni  se  '1  finsero,  ma 
ch'egli  solo  contenesse  in  sé  e  cielo  e  terra  e  mare  e  tutto  :  ^  Imagines 
deorum  »  e'  dice  '  omnino  non  sculpsit,  quod  putavit  humana  Deum 
non  videri  forma,  sed  coelum  terram  ambiens  esse  Deum,  et  om- 
nia suo  imperio  gubernare  d.1  Erodoto  questa  istessa  opinione,  co- 
me pure  fu  avvertito  nella  parte  prima,  rapporta  de'  Persiani.2 
Gli  stoici  confusero  eziandio  le  creature  col  creatore,  e  Seneca,  lib. 
6  De  beneficiti,  cap.  7,  scrisse  pure:  'Deum  non  esse  sine  natura».3 
Cicerone  ci  ha  conservato  pure  un  frammento  di  Pacuvio4  poeta, 
il  quale  di  Dio  pur  tenne  lo  stesso  concetto,  dicendo:  "Quidquid 
est  hoc,  omnia  animat,  format,  alit,  auget,  creat,  /  sepelit,  recipitque 
in  sese  omnia  omniumque  idem  est  pater,  ,  indidemque  eademque 
oriuntur  de  integro  atque  eodem  occidunt».5 

Quindi  Manilio,  in  quel  suo  elegantissimo  carme  consegrato  ad 
Augusto,  cantò  pure: 

Omnia  mortali  mutantur  lege  creata^ 

nec  se  cognoscunt  terrae  vertenttbus  annis. 

Exutae  varìant  faciem  per  saecida  gentes, 

at  manet  incolumis  mundus,  suaque  omnia  servai; 

quae  nec  longa  dies  auget  mimritque  senectus; 

nec  motits  puncto  currit  cursusque  fatigat. 

1.  «  Imagines . .  .gubernare»:  prosegue  la  citazione  di  Diodoro  da  Fozio, 
op.  cit.,  col.  1391.  (Qui  il  testo  del  Migne  corrisponde  esattamente  a  quello 
citato  dal  Giannone.  «Non  modellò  affatto  effigie  alcuna  di  divinità,  poi- 
ché riteneva  che  Dio  non  potesse  esser  visto  con  sembianze  umane,  ma  che 
Dio  fosse  il  cielo  che  gira  intorno  alla  terra  e  che  egli  reggesse  col  suo  co- 
mando ogni  cosa»).     2.  Erodoto ...  Persiani:  vedi  la  nota  1  a  p.  601. 

3.  Seneca naturai  cfr.  De  ben.y  rv,  vili  :  «  quia  nec  natura  sine  deo  est  nec 

deus  sine  natura,  sed  idem  est  utrumque,  distat  officio  ».  Questa  citazione  il 
Giannone  la  trae  da  S«  Deyijng,  Observationum  ecc.,  cit.,  pars  11,  obser.  1, 
An  auctor  Pentateuchi  Moses  fuerit  pantheista?,  p.  3.  Tutto  il  brano  se- 
guente del  Giannone  è  tratto  dal  Deyling,  ma  non  si  tratta  di  un  semplice 
plagio.  Il  Giannone,  come  si  è  già  detto,  inquadra  nel  suo  discorso  il  mate- 
riale che  gli  offre  il  Deyling,  ma  non  ne  condivide  affatto  lo  spirito  che  è 
di  polemica  contro  Spinoza  e  Toland.  4.  Pacuvio:  in  ven  il  nome  è  stor- 
piato in  maniera  illeggibile.  5.  Cicerone  . . .  occidunt:  cfr.  De  divinatione, 
1,  lvti,  131.  Si  tratta  di  un  frammento  della  tragedia  Cryses  di  Pacuvio.  Il 
Giannone  non  cita  però  direttamente,  ma  di  seconda  mano  dal  Deyling, 
op.  e  loc.  cit.,  p.  3  («Qualunque  cosa  ciò  sia,  tutto  anima,  forma,  nutre, 
accresce,  crea,  tutto  annienta  e  richiama  a  sé,  e  di  tutte  le  cose  è  il  medesimo 
padre,  e  tutte  ugualmente  e  sempre  le  stesse  nascono  di  nuovo  e  allo  stesso 
modo  finiscono»). 


640  IL    TRIREGNO 

Idem  semper  erit,  quoniam  semper  fuit  idem. 
Xon  alium  ridere  patres*  ahumve  nepotes 
adspicient:  Deus  est  qui  non  mutatur  in  aevo.1 

Strabone,  reputando  che  Mosè  fosse  di  quest'istessa  credenza, 
parlando  di  lui  nel  lib.  16  disse:  -  Afìirmabat  enim  docebatque 
Aegyptios  non  recte  sentire,  qui  bestiarum  ac  pecorum  imagines 
Deo  tribuerent;  itemque  Afros  et  Graecos,  qui  diis  hominum  fìgu- 
ram  efnngerent.  Id  vero  solum  esse  Deum  quod  nos  et  terram 
ac  mare  continet,  quod  coelum  et  mundum  et  rerum  omnium 
naturam  appellamus,  cuius  profecto  imaginem  nemo  sanae  mentis 
alicuius  earum  rerum  quae  penes  nos  sunt  similem  audeat  effin- 
gere.  Proinde  omni  simulacrorum  effictione  repudiata,  dignum  ei 
templum  ac  delubrum  constituendum  ac  sine  aliqua  figura  colen- 
dum;>.a 

Donde  avvenne  che  alcuni,  per  rendere  il  contro  cambio  ai  nostri 
teologi,  han  detto  che  Mosè  fosse  panteista,  ovvero  spinosista  ;3  che 
con  Dio  confondesse  pure  tutte  le  cose  e  credesse  ch'Iddio  fosse 
lo  stesso  che  la  natura  e  tutto  l'ampio  universo.4 

Ma,  in  verità,  la  dottrina  di  questi  gentili  filosofi  non  è  in  tutto 


1.  Quindi  Manilio  . . .  aevo:  la  citazione  di  Manilio,  Astronomica^  1,  515- 
23,  deriva  dal  Deyling,  op.  e  loc.  cit.,  p.  3.  A  sua  volta  il  Deyling,  inconfes- 
satamente,  trae  tutte  le  citazioni,  di  Seneca,  Pacuvio  e  Manilio,  dal  de  la 
Fave,  Defensio  ecc.,  cit.,  p.  248,  che  le  traeva  dal  Toland,  Origines  iudaicae 
cit.,  pp.  106-8  e  1 18-9.  Il  Toland  le  riprendeva  nel  Pantheisticon,  Cosmopoli 
(ma  London)  1720,  p.  55,  che  anche  il  Giannone  poteva  conoscere,  essendo- 
vene  copia  a  Vienna  presso  il  principe  Eugenio.  («  Tutte  le  cose  create  si  mu- 
tano secondo  una  legge  mortale,  e  più  non  si  conosce  la  terra  col  volger  degli 
anni.  Spogliate,  cambiano  aspetto  le  stirpi  nei  secoli;  ma  l'universo  rimane 
intatto  e  conserva  ogni  sua  cosa,  che  né  la  durata  dei  giorni  accresce,  né 
scema  la  vecchiaia,  né  il  moto  affretta  di  un  istante,  né  la  corsa  affatica. 
Sempre  sarà  il  medesimo,  perché  il  medesimo  sempre  fu.  Non  ne  videro  i 
padri  uno  diverso  da  quello  che  vedranno  i  nipoti.  È  Dio  che  non  si  muta 
per  l'eternità  <*).  2.  Strabone  . . .  colendum:  vedi  la  nota  1  a  p.  603  (a  Infatti 
sosteneva  e  insegnava  che  gli  Egizi  non  l'intendevano  bene,  poiché  attri- 
buivano a  Dio  figura  d'ammali  e  di  bestie;  e  ugualmente  gli  Africani  e  i 
Greci  poiché  ritraevano  gli  dei  con  aspetto  umano»  ecc.).  3.  Donde  . . . 
spinosista:  cfr.  S.  Deyling,  op.  e  loc.  cit.,  dove  si  rimanda  polemicamente, 
oltre  che  allo  Spinoza,  al  Toland  del  Pantheisticon  e  al  deista  inglese  An- 
thony Collins.  Cfr.  p.  7:  «Tolandus  pantheìsmi  auctoritatem  conciliaturus 
ipsum  Mosem  in  pantheistarum  sive  spinosistarum  numerum  referre  non 
dubitavit  —  ».  4.  che  con  Dio  —  universo:  cfr.  S.  Deyling,  op.  e  loc. 
cit.,  p.  8:  «Nam  secundum  theologiam  Spinozae  et  Tolandi,  machina 
mundi,  sive  natura  metaphysica  universalis  est  deus,  et  vicissim  deus  est 
mundus  in  metaphysica  abstractione  sumptus  ...  ». 


DEL    REGNO    TERRENO    -  PARTE   II    •  CAP.   Ili  64I 

conforme  ai  sentimenti  di  Mosè,  che  ci  espresse  ne'  suoi  libri, 
come  è  per  se  stesso  manifesto  a  chi  attentamente  ne'  medesimi 
riguarderà  la  destinzione  che  fa  tra  creatore  e  creatura;  o  almeno 
de  che  in  quelli  al  uomo  s'attribuisce  propria  e  naturai  malizia,  e 
che  sia  una  creatura  di  sua  natura  inclinata  al  male,  cosa  dall'idea 
di  Dio,  secondo  Mosè  istesso,  affatto  lontana  ed  impropria;  sep- 
pure non  voglia  dirsi  che  la  bontà  e  la  malizia  siano  modificazioni  ed 
attributi  della  sostanza,  la  quale  per  la  stessa  considerata,  trascende1 
da  ogni  vizio  o  virtù  ;  ed  Iddio,  secondo  la  sustanza,  è  tutto  l'uni- 
verso, non  già  a  riguardo  delle  modificazioni,  che  nulla  sono  né 
hanno  proprio  e  vero  essere.  Meglio  questa  dottrina  si  adatta  al- 
l'opinione di  quei  filosofi  (alla  quale  finalmente,  tolta  ogni  equi- 
vocazione, par  che  si  riduchi  il  sistema  di  Spinosa),  li  quali,  sic- 
come s'è  detto,  confusero  Iddio  colla  natura,  e  ciò  che  Mosè  disse 
di  Dio  attribuiscono  alla  natura,  includendo  nella  medesima  tutto 
l'ampio  universo,  che  perciò  lo  finsero  eterno,  infinito  e  che  non 
ebbe  principio  alcuno  siccome  non  avrà  mai  fine,  siccome  Lucre- 
zio ci  descrisse  i  primi  semi  e  princìpi  delle  cose,  e  che  sono, 
furono  e  saranno  in  eterno.2 


11 

Siccome  non  possiam  sostenere  l'ipotesi  di  Cartesio,  se  alla 
estensione  non  sia  dato  per  appoggio  cosa  creata  che  per  sé  sussista, 
così  a  torto  fugli  imputato  che,  secondo  il  suo  sistema,  l'universo 
senz'architetto  fosse  surto,  e  che,  secondo  le  leggi  del  moto,  il  tutto 
meccanicamente  siasi  fatto,  poiché  egli  non  men  quelle  leggi  l'ha 
come  da  Dio  dettate,3  ma  il  moto  istesso  lo  fa  prodotto,  non  eterno 
ed  increato,  dicendo  che  Iddio  non  men  creò  nel  principio  la  ma- 
teria che  il  moto  istesso,  ed  egli  prescrisse  quelle  leggi  che  ne*  corpi 
che  si  movano  osserviamo.  Nell'idea  che  abbiamo  del  corpo,  e' 
dice,  non  c'includiamo  certamente  moto  alcuno,  e  molto  meno 

x.  o  almeno  de  . . .  trascende',  il  testo  è  probabilmente  corrotto.  In  Parente 
(p.  297)  è  mutilo:  «o  almeno  è  strano  ed  improprio  e  non  combinabile  col- 
Tidea  di  Mosè  tutto  ciò  che  da  costoro  si  è  stranamente  attribuito  al  creatore 
di  malizia  e  d'inclinazione  al  male.  Né  perché  la  malizia  e  la  bontà  sieno 
modificazioni  ed  attributi  della  sostanza,  la  stessa  però,  considerata  da  sé, 
trascende  »  ecc.  Evidentemente  il  copista  napoletano  è  intervenuto  per  dare 
un  senso  alla  frase.  2.  siccome  Lucrezio  . .  .  eterno:  cfr.  De  rer.  nat.9  1,  54- 
264;  483-550.    3.  dettate  Parente  (p.  298);  dottate  ven. 


642  IL  TRIREGNO 

quiete.  Sicché  l'estensione  non  ha  niente  di  commune  col  moto  e 
colla  quiete,  o  che  fossero  sue  apparenze.  Iddio  nella  creazione  della 
materia  lo  diede  e  communicò  a'  corpi,  ed  Iddio  ce  lo  conserva  nel- 
la quantità  istessa  che  sin  dal  principio  gli  diede  con  quelle  leggi. 
Né  perché  da  poi  in  seguela  dalle  medesime,  serbando  un  tenor 
costante,  ne  sia  surto  meccanicamente  tutto  ciò  che  s'ammira  in 
questo  mondo  aspettabile,  possiamo  dire  che  sia  prodotto  senza 
architetto.  Anzi  ammiriamo  piuttosto  la  sapienza  ed  onnipotenza 
del  fabro,  che  per  vie  cosi  semplici  e  piane,  secondo  quelle  schiette 
e  facili  leggi  di  moto  impresso  alla  materia,  ne  abbia  potuto  fare 
sorgere  una  macchina  sì  varia  ed  ammirabile,  e  sì  portentosa  e  stu- 
penda. Ma  è  altresì  vero  che  si  attendano  le  acute  riflessioni  di 
Newtone  e  di .  .  .,*  i  quali  han  dimostrato  che  l'ipotesi  di  Car- 
tesio e  la  sua  meccanica  non  basta  a  far  che  i  corpi  celesti  abbiano 
quel  moto  circolare  e  periodico  e  che  dovrebbero,  assai  confuso 
e  disordinato,  non  così  metodico  come  l'osserviamo.  Certamente 
che  a  Dio  che  lo  regola,  a  libro,  dovrem  ricorrere.2  Secondo  questo 
filosofo  adunque,  questa  gran  macchina  del  mondo  surse  da  que- 
gl'elementi  e  secondo  le  leggi  del  moto  che  Iddio  impresse  alla 
materia;  tutto  fu  prodotto  e  s'ebbe  quel  ordine  che  nell'universo 
si  vede,  poiché,  poste  tali  leggi,  questa  disposizione  e  non  altra 
doveane  seguire,  e  tutto  quello  che  in  natura  accade  secondo  queste 
immutabili  leggi,  spontaneamente  non  meno  che  di  necessità  suc- 
cede. Egli  ancora,  secondo  questi  suoi  princìpi,  spiega  tutti  i  feno- 
meni che  osserviamo  in  natura:  quanto  nel  cielo,  nel  sole,  nelle 
stelle  e  nelle  comete  si  vede;  quanto  nella  terra  e  negli  altri  pianeti. 
Ciò  che  nel  mare  e  suo  flusso  e  riflusso,  e  quante  meteore  nell'aria 
si  formino  ;  ciò  che  nella  terra  si  produce,  nelle  mine  de5  metalli  e 
dentro  le  sue  viscere  de'  tremuoti  e  de'  fuochi  sotterranei.  Il  prodi- 
gioso fenomeno  della  magnette,  la  produzione  del  fuoco,  del  lume, 

1.  di  Newtone  e  di  . .  .:  il  copista  del  codice  veneziano  ha  storpiato  in  «Me- 
celtone  a  il  nome  di  Newton.  Il  Giannone,  come  conferma  questo  brano, 
conobbe,  a  Vienna,  almeno  indirettamente,  l'opera  del  Newton;  infatti 
fra  le  sue  carte  si  trova  un  fascicolo  autografo,  Agger  obiectus  cartesùmorum 
vorticum  ehmionibus,  che  è  del  suo  amico  e  concittadino  Bernardo  Andrea 
Lama  (Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  I,  ins.  19) 
e  che  è  la  traduzione  latina  di  un  articolo  comparso  sulla  «  Bibliothèque 
italique  »  a  favore  di  Newton.  L'altro  nome,  che  il  copista  ha  omesso,  è 
probabilmente  quello  di  Christian  Huygens  (1629-1695),  fisico-matematico 
e  astronomo  olandese.  3.  Ma  è  altresì  .  . .  ricorrere:  questo  brano  manca 
in  Parente  (p.  298). 


DEL   REGNO    TERRENO   •  PARTE   II   •  CAP.   Ili  643 

de'  colori,  del  suono,  e  mille  e  mille  altre  ricerche  che  ciascuno  non 
senza  maraviglia  e  piacere  può  vedere  nella  4**  parte  de'  suoi  Prin- 
cìpi: ed  in  ciò  certamente  tolse  il  preggio  a  Lucrezio,  dandoci  una 
più  verisimile  e  più  solida  filosofia.  Ne  diede  anche  altri  chiari  e 
manifesti  saggi  negF ammirabili  suoi  trattati  della  Diottrica  e  delle 
Meteore*  ch'egli  perciò  chiama  Specimina,  per  confermare  mag- 
giormente l'ipotesi  da  lui  formata  ad  essere  sufficiente  a  spiegare 
tutti  gl'effetti  ed  ammirabili  fenomeni  della  natura  e  rinvenire  le 
cagioni  ;  e  con  questi  soli  suoi  princìpi  e  leggi  del  moto  senza  ricor- 
rere a  qualità,  a  cagioni  finali  o  virtù  occulte,  come  si  facea:  già 
ch'era  lo  stesso  che  ignorarle  e  pascere  di  vento  gl'intelletti  umani 
con  vane  ed  inutili  parole. 

Non  in  tutto  piacque  agl'ultimi  filosofi  de'  nostri  tempi  il  sistema 
del  mondo  di  Cartesio,  e  ne  foggiarono  de'  nuovi.  Tra  gl'inglesi 
Tomaso  Burnet2  ne  immaginò  un  altro,  e  di  poi  M.r  Wlston3  ne 
concepì  altro  più  ingegnoso,  i  quali  posero  ogni  loro  studio  per 
adattare  le  loro  immaginazioni  ed  ipotesi  alla  creazione  del  mondo 
secondo  che  ce  la  descrisse  Mosè.  Ma,  se  bene  intorno  a  quel  che 
s'è  detto  dello  spazio  ed  in  alcune  poche  cose  di  sopra  notate  pos- 
sono riprendere  d'errore  il  Cartesio,  incomparabilmente  riesce  più 
verisimile  quello  ideato  da  questo  gran  filosofo,  che  i  di  loro  sistemi 
bizzarri,  vani  e  fantastici. 

Ciò  che  Cartesio  avea  perfezionato  intorno  il  sistema  del  mon- 
do, avea  egli  in  animo  di  proseguire  intorno  all'uomo,  e  perciò 
avea  destinato  alle  quattro  parti  de'  suoi  Princìpi  aggiungerne  due 
altre:  nella  quinta  trattar  delle  piante  ed  animali,  e  nella  sesta 
àtWnomo.  Ma  per  molti  esperimenti  che  li  mancavano,  e  perché 
senza  una  esatta  perizia  di  notomia  non  se  ne  potea  con  fondamento 
filosofare  e  venirne  a  capo,  differì  l'impresa,  essendosi  perciò  dato 
allo  studio  di  notomia,  a  questo  fine  dandone  intanto  nella  quarta 
parte  un  breve  saggio.  Egli,  se  morte  pur  troppa  acerba  ed  im- 

1.  Diottrica  . . .  Meteore:  R.  Des  Cartes  Specimina  philosophiae,  seu  dis- 
sertatio  de  methodo  recte  regendae  rationis  et  verìtatts  in  scientiis  investigandae; 
Dioptrice  et  Meteora.  Ex  gallico  translata  [a  S.  de  Courcelles]  et  ab  auctore 
perlecta  variisque  in  locis  emendata,  Amstelodami  1644.  2.  Thomas  Burnet 
(1635  ?-i7i5),  teologo  inglese.  Scrisse  Telhtris  theoria  sacra  (Amstelodami 
1694)  e  il  De  statu  mortwrum  et  resurgentium  Uber  (Londini  1720).  Il  Gian- 
none  possedeva  una  copia  di  quest'ultima  opera.  Cfr.  L.  Stephen,  History 
of  English  Thought  ecc.,  cit.,  1,  pp.  68  sgg.  3.  Wlston:  Thomas  "Woolston 
(1669-173 1),  uno  dei  più  radicali  fra  i  deisti  inglesi.  Cfr.  L.  Stephen,  op. 
cit.,  pp.  100-13. 


644  IL   TRIREGNO 

matura  non  avesse  resi  vani  i  suoi  disegni,  avea  deliberato,  dopo 
avere  trattato  delle  piante,  degl'animali  e  dell'uomo,  per  raccorre 
qualche  frutto  di  tante  sue  gloriose  fatiche,  di  procurare,  se  mai 
fosse  possibile,  di  spingere  più  innanzi  le  conoscenze  intorno  alla 
medicina,  prefiggendosi  per  ultima  mèta  lo  studio  della  morale, 
fine  dell'uomo,  ed  alla  quale  dee  egli  dirizzare  tutti  i  suoi  precedenti 
studi,  che  sempre  riusciranno  vani  ed  inutili  se  non  saranno  driz- 
zati a  questo  fine. 

La  morale  è  quella  che  ci  fa  riflettere  a  dovere  di  tante  ammira- 
bili opere  della  natura  renderne  grazie  al  creatore  ed  infiammarci 
del  di  lui  amore,  e  prendere  di  esse  quel  buon  uso  che  si  conforma 
alla  giustizia  ed  all'onestà,  e  di  non  far  ad  altri  ciò  che  a  noi  non  si 
vorrebbe  essere  fatto.  E  siccome  della  medicina  non  se  ne  pretende 
altro  uso,  se  non  sani  i  nostri  corpi,  così  della  morale  per  le  nostre 
menti,  aftinché  in  noi  «  sit  mens  sana  in  corpore  sano  ».  La  morale 
è  quella  che  alle  cose  ci  fa  aggiungere  i  fini  ed  i  rispetti,  poiché,  se 
quelle  si  considerano  fisicamente,  non  ci  trovaremo  fine  alcuno. 
La  natura  fisicamente  considerata  è  cieca  ed  opera  secondo  il  co- 
stante tenore  delle  sue  eterne  ed  invariabili  leggi,  e  solo  Iddio  che 
la  creò  può  mutarla  e  darle  altro  corso.1  L'uomo,  dottato  di  miglior 
accorgimento  che  non  è  ne'  bruti,  hawi  nelle  cose  trovato  il  fine 
e  ridottele  ad  uso.  Né  bisogna  credere  che  quanto  è  nell'ampio 
universo  tutto  siasi  prodotto  unicamente  per  l'uomo,  e  che  di  tutto 
ciò  che  contiene  non  vi  possa  essere  altro  uso.  L'uomo  non  è  che 
una  minima  parte  dell'universo,  né  fu  da  Dio  creato  per  avere  tutte 
l'idee  delle  cose  che  racchiude,  ed  aver  uso  del  tutto,  ma,  avendolo 
Iddio  dottato  di  miglior  discorso,  al  quale  i  bruti  non  possono  ar- 
rivare, questo  ha  fatto  che  delle  cose  arnmirabili  della  natura  abbia 
saputo  trovarne  uso  ed  adattarle  a'  suoi  fini.  Perciò  si  dice  avergli 
Iddio  sottoposta  la  terra  e  tutto  ciò  che  in  essa  vive  e  cresce,  cioè 
piante  ed  animali,  e  perciò  d'averlo  creato  a  sua  imagine  e  simili- 
tudine, per  l'intelletto  del  quale  lo  fornì  più  sublime,  affinché  avesse 
potuto  dominare  la  terra  e  tutto  ciò  che  in  essa  vive  e  cresce.  Ma 
questo  non  fa  che  quanto  si  produce  in  natura  tutto  si  faccia  per 
l'uomo,  e  che  Iddio  per  l'uomo  avesse  creato  ogni  cosa:  «Quamvis 
enim  (dice  saviamente  Cartesio  nel  principio  della  terza  parte  de' 


i.  Sul  rapporto  morale-natura  cfr.  J.  Ehrakd,  Vìdee  de  nature  en  France 
dans  la  première  moitiè  du  XVIIIe  siècie,  Paris  1965, 1,  cap.  vii,  pp.  331  sgg. 


DEL   REGNO   TERRENO  •  PARTE   II  •  CAP.  Ili  645 

suoi  Principi)1  in  ethicis  sit  pium  dicere  omnia  a  Deo  propter  nos 
facta  esse,  ut  nempe  tanto  magis  ad  agendas  ei  gratias  impellamur 
eiusque  amore  incendamur;  ac  quamvis  etiam  suo  sensu  sit  verum, 
quatenus  scilicet  rebus  omnibus  uti  possumus  aliquo  modo;  saltem 
ad  ingenium  nostrum  in  iis  considerandis  exercendum,  Deumque 
ob  admiranda  eius  opera  suspiciendum  :  nequaquam  tamen  est 
verisimile  sic  omnia  propter  nos  facta  esse,  ut  nulius  alius  sit  eo- 
rum  usus  ;  essetque  piane  ridiculum  et  ineptum  id  in  physica  con- 
sideratione  supponere,  quia  non  dubitamus  quin  multa  existant 
vel  olim  extiterint,  iamque  esse  desierint,  quae  nunquam  ab  ullo 
nomine  visa  sunt  aut  intellecta,  nunquamque  ullum  usum  ulli 
praebuerunt ».  E  nella  terza  Meditazione2,  così  ragiona:  '  Cum  enim 
sciam  naturam  meam  esse  valde  infìrmam  et  limitataci,  Dei  autem 
naturam  esse  immensam,  incomprehensibilem,  infìnitam,  ex  hoc 
satis  etiam  scio  innumerabilia  illum  posse  quorum  causas  ignorem; 
atque  ob  hanc  unicam  rationem  totum  illud  causarum  genus  quod 
a  fine  peti  solet,  in  rebus  physicis  nullum  usum  habere  existimo. 
Non  enim  absque  temeritate  me  puto  posse  investigare  fines  Dei». 
Per  la  qual  cosa  saviamente  ponderò  Bacon  di  Verulamio,  Kb.  3 
De  augm.  sciente,  cap.  4,3  che  fu  maniera  indegna  d'un  filosofo 
quella  che  sovente  tennero  Aristotile  e  Platone  di  indagare  nella 

1.  Principia  philosophiae  cit.,  pars  tertia,  De  mundo  adspectabili,  §  ni,  p.  44 
(t  Per  quanto  infatti  nell'etica  sìa  pio  dire  che  tutte  le  cose  sono  state  fatte 
da  Dio  per  noi,  in  modo  da  essere  spinti  a  rendergli  tanto  maggiori  grazie, 
ed  essere  esaltati  dal  suo  amore;  e  per  quanto  sia  anche  vero,  in  un  certo 
senso,  dato  che  di  tutte  le  cose  possiamo  fare  uso  in  qualche  modo,  almeno 
per  esercitare  il  nostro  ingegno  nel  considerarle,  e  per  scorgere  Dio  attra- 
verso le  sue  opere  mirabili:  non  è  tuttavia  assolutamente  verosimile  che 
tutte  le  cose  siano  state  fatte  per  noi  in  tal  modo,  che  non  vi  sia  nessun  altro 
uso  di  esse;  e  sarebbe  senz'altro  ridicola  e  poco  acconcia  questa  supposizione 
in  una  considerazione  di  fìsica,  poiché  non  dubitiamo  che  esistano  molte 
cose,  o  che  siano  un  tempo  esistite,  e  che  già  abbiano  cessato  di  essere,  le 
quali  non  furono  mai  viste  o  intese  da  alcun  uomo,  e  che  non  offrirono  mai 
alcun  uso  ad  alcuno»).  2.  nella  terza  Meditazione:  non  ni,  ma  rv,  De  vero 
et  falso.  Cfr.  R.  Des-Cartes  Meditationes  de  prima  phUosophia,  in  quibiis  Dei 
existentìa  et  animae  humanae  a  corpore  distincto  demonstrantur  .  .  .,  Amstelo- 
dami  1678,  p.  26  («Sapendo  infatti  che  la  mia  natura  è  assai  debole  e  limi- 
tata, e  quella  di  Dio  invece  è  immensa,  incomprensibile  e  infinita,  da  ciò  so 
anche  a  sufficienza  che  egli  ha  potere  di  fare  un'infinità  di  cose,  di  cui  ignoro 
il  motivo  ;  e  per  questa  unica  ragione  ritengo  che  tutto  quel  genere  di  cause 
che  soglion  trarsi  dal  fine,  nella  fisica  non  è  di  nessun  uso.  Poiché  credo  che 
non  mi  sia  possibile  investigare  i  fini  di  Dio  senza  temerità-)).  3.  De  digni- 
tate  et  augmentis  scientiarum  libri  IX,  Londini  1623,  lib.  ni,  cap.  ni  (e 
non  rv). 


646  IL   TRIREGNO 

natura  fisicamente  riguardata  questi  fini,  quasi  che  da  lei  fossero 
intesi,  e  che  perciò  forni  gli  occhi  di  palpebre  per  diffenderli  dalla 
polvere  e  dai  raggi  solari,  e  che  avesse  proveduta  alla  faccia  d'una 
cute  delicata  insieme  e  forte,  affinché,  dovendo  essere  sempre  espo- 
sta all'aria,  non  ricevesse  oltraggi  da'  corpi  che  la  circondano;  e 
mille  altre  puerilità  e  cagioni  finali  inventate  a  capriccio,  fingendo 
in  ciascheduna  opera  di  natura  particolare  intelligenza  che  Pin- 
drizzi  e  guidi.  La  natura  è  per  se  stessa  cieca,  e  niente  opera  a 
determinato  fine  che  ella  s'abbia;  e  perciò  non  devono  riputarsi 
cotanto  empi  i  libri  di  Lucrezio  che  pur  ciò  insegnano,  e  que'  suoi 
versi  quando,  fisicamente  parlando,  disse,  lib.  4,  ver.  832: 

Nil  ideo  quomam  natum  est  in  corpore  ut  uti 
possemus,  sed  quod  natum  est  id  procreai  usum. 
Nec  fuit  ante  ridere  oculorum  lumina  nata, 
nec  dictis  orare  prius  quam  lingua  creata  est; 
sed  potius  longe  linguae  praecessit  origo 
sermonemt  multoque  creatae  sunt  prius  aures 
quam  sonus  est  auditus,  et  omnia  denique  membra 
antefuere  (ut  opinor)  eorum  quam  f or  et  usus.1 

Intorno  a  che  è  da  vedersi  Gassendo,  tom.  2  Phisicae  Sect.  3, 
memi,  post.,  lib.  2,  cap.  3,2  ove  rapporta  altri  filosofi  che  furono  dello 
istesso  sentimento.  Quantunque  l'incomparabile  Cartesio,  per  l'a- 
cerba ed  al  genere  umano  purtroppa  dolorosa  e  dannosissima  morte, 
non  avesse  potuto  condur  a  fine  la  meditata  sua  impresa,  e  per  ciò 
che  riguarda  la  filosofia  delle  piante  e  degl'animali  niente  avesse  a 
noi  lasciato,  con  tutto  ciò,  per  quel  che  riguarda  alla  natura  e  prin- 
cìpi dell'uomo,  oltre  dell'ammirabile  suo  trattato  Delle  passioni3  che 
diede  in  luce  vivendo,  dopo  sua  morte  si  trovorono  pregiatissimi 
manuscritti,  ne'  quali  è  manifesto  ch'egli  avea  posto  mano  alla  fa- 
brica  dell'uomo,  ed  a  spiegarcene  i  suoi  princìpi  e  fattezze;  e  quan- 
tunque l'opera  non  si  fosse  ridotta  al  suo  compiuto  fine,  come  si 


1,  De  rer.  nat.,  rv,  834-41  («Poiché  nessun  organo  del  nostro  corpo  è  stato 
creato  per  nostro  uso;  ma  è  Porgano  che  crea  Puso.  Né  fu  possibile  vedere 
prima  che  fossero  nati  gli  occhi,  né  parlare  prima  che  fosse  creata  la  lingua; 
ma  piuttosto  l'origine  della  lingua  precedette  di  molto  il  parlare,  e  le  orec- 
chie sono  state  create  assai  prima  che  il  suono  fosse  percepito,  e  infine, 
così  credo,  vi  furono  tutte  le  membra  prima  che  ce  ne  fosse  Puso»). 

2.  Cfr.  ed.  cit.,  tom.  il,  Physicae  sectio  IH,  Membrum  posterius,  lib.  il,  De 
usu  partium  in  animaUbus,  cap.  ih,  pp.  197  sgg.  3.  trattato  Delle  passioni: 
R.  Des-Cabtes,  Les  passions  de  Vàme,  Paris  1649. 


DEL   REGNO   TERRENO  •  PARTE   II  •  GAP.   Ili  647 

vede  da'  suoi  principiati1  e  non  compiti  trattati  De  homine  et  de 
f or  mattone  foet  us,2  dove  egli  avea  proposto  prima  trattare  del  corpo, 
da  poi  separatamente  anche  dell'anima,  e  finalmente  dimostrare 
t  quo  pacto  hae  duae  naturae  iunctae  et  unitae  esse  debeant  ad 
componendos  homines,  qui  nobis  similes  sint->;  e  non  ci  avesse 
lasciato  che  la  descrizione  del  corpo  e  la  maniera  colla  quale  e'  cre- 
dette dal  seme  formarsi  nell'utero  delle  nostre  madri  il  feto,  nul- 
ladimanco  tanto  bastò  che  si  dasse  stimolo  agli  altri  ài  proseguire 
l'impresa,  e  seguendo  la  sua  traccia,3  adempire  come  si  potè  meglio 
le  sue  promesse;  nel  che  non  possiamo  defraudare  della  meritata 
lode  Ludovico  de  la  Forge,4  il  quale,  oltre  averci  date  savie  note 
sopra  quel  trattato  De  homine,  procurò  eziandio  supplire  la  seconda 
parte  col  suo  trattato  De  mente  fiumana;  e  Malebranche  nel  suo 
dotto  e  savio  libro  De  inquirenda  meritate  procurò  in  qualche  modo 
supplire  anche  alla  terza.  Gioverà  pertanto  al  nostro  istituto  che 
qui  si  rapporti  ciò  che  questo  filosofo  credette  intorno  alla  produ- 
zione e  natura  dell'uomo,  e  di  quali  sostanze  lo  facesse  composto. 


1.  principiati  Parente  (p.  302)  ;  principi  ven.  2.  R.  Des-Cartes  Tractatus 
de  homine  et  deformationefoetus,  quorum  prior  notis  perpetua  L.  de  La  Forge 
Ulustratus,  Amstelodami  1677.  La  prima  edizione  in  francese,  sempre  a  cu- 
ra del  de  La  Forge,  Paris  1664  («in  che  maniera  queste  due  nature  debbano 
essere  congiunte  e  unite  per  produrre  uomini  che  siano  simili  a  noi»). 
3.  traccia  Parente  (p.  303);  travia  ven.  4.  Louis  de  La  Forge,  medico 
francese  che  esercitava  a  Saumur  intorno  al  1660.  Il  Giannone  si  riferisce  al 
Tractatus  de  mente  kumana,  eiusfacultatibus  etfunctionibus,  necnon  de  eiusdem 
unione  cum  corpore  secundum  Principia  R.  Descartes,  Amstelodami  1669, 
la  cui  edizione  in  francese  era  uscita  a  Parigi  nel  1661.  Sul  de  La  Forge 
cfr.  J.  S.  SprNK,  French  Free-Thought  ecc.,  cit.,  pp.  207,  209,  227,  243. 


LIBRO   SECONDO 
DEL  REGNO  CELESTE 

INTRODUZIONE 

A'  tempi  di  Tiberio  Augusto,  essendo  tetrarca  della  Gallilea  Erode 
Antipa  e  proconsule  della  Giudea  Ponzio  Pilato,  da'  deserti  vicini 
al  Giordano  si  vidde  uscire  un  uomo  selvaggio,  che  non  si  cibò  che 
di  miele  silvestre1  e  di  locuste,  e  non  cinse  le  sue  reni  che  di  cuoio, 
né  vesti  le  sue  membra  che  di  peli  di  camelo,  il  quale  andava  gri- 
dando per  le  contrade:  r  Poenitentiam  agite;  appropinquavit  enim 
regnum  coelorum  :>.3  Era  costui  Giovanni  figliuolo  di  Zaccaria,  sa- 
cerdote della  stirpe  di  Abia,  nato  prodigiosamente  da  Elisabetta, 
vecchia  e  sterile,  in  un  luogo  posto  fra  le  montagne  della  Giudea, 
il  quale,  fin  dalla  sua  giovinezza  vivendo  nelle  solitudini  di  quei 
deserti,  non  ne  uscì3  se  non  dopo  che  pervenne  all'età  di  trent'anni, 
annunziando  questo  nuovo  regno  celeste  ed  un  nuovo  messia,  di 
cui  egli  era  solo  precursore  ed  indegno  nemmeno  di  potergli  scal- 
zare le  scarpe  da'  piedi,  al  quale  dovessero  credere;  e  che  siccome 
egli  battezzava  nell'acqua,  così  costui  avrebbe  battezzato  nel  fuoco 
e  nello  spirito. 

Per  questo  nuovo  messia  intendeva  Giovanni  Gesù  di  Nazaret, 
città  della  Gallilea,  nato  in  Betelem  di  Giudea,  mentre  i  suoi  pa- 
renti Giuseppe  e  Maria,  della  famiglia  di  David,  da  Nazaret  si 
portavano  nella  Giudea  per  ubbidire  all'editto  della  numerazione 
di  Cesare  Augusto  in  far  descrivere4  i  loro  nomi  in  Betlemme, 
città  della  stirpe  di  Davide,  poiché  ciascheduno  dovea  professare 
nella  città  della  propria  casa  e  famiglia  d'onde  traeva  l'origine. 

Questo  fu  quell'aspettato  messia  che  dovea  Iddio  mandare  in 
terra  per  ridimere  l'uman  genere  e  purgare  l'umanità  di  que'  vizi 
contratti  per  la  caduta  del  primo  uomo  Adamo.  Questi  come  figliuol 
di  Dio  dovea  incarnarsi,  accoppiando  alla  divina  l'umana  natura, 
per  la  quale  unione  venne  l'intiera  umanità  a  nobilitarsi;  e,  dive- 


i.  miele  silvestre:  lezione  del  codice  viennese  (o.n.b.);  cfr.  Matth.,  3,  4: 
«esca  autem  eìus  erat  locustae  et  mei  silvestre»,  ven  ha  «erbe  silvestri». 
z.  iMatlh,  e.  3.  v.  2  »  (Ò.N.B.).  3.  non  ne  usci  ò.n.b.  ;  non  uscì  ven.  4.  de- 
scrivere ven  e  Ò.N.B.;  Parente  (p.  3)  corregge  in  «iscrivere»,  ma  cfr.  Lue, 
2,  1  :  «Factum  est  autem,  in  diebus  illis  exiit  edictum  a  Caesare  Augusto, 
ut  describcretur  universus  orbis  ». 


DEL    REGNO    CELESTE   *  INTRODUZIONE  649 

nendo  egli  fratello  di  tutti  gli  uomini,  fece  sì  che  fossero  i  medesimi 
degni  di  essere  ammessi  come  suoi  coeredi  al  regno  di  suo  padre, 
non  essendo  stato  altro  lo  scopo  principale  di  questa  incarnazione 
che  ogni  cosa  ristabilire  e  salvare  tutti  gli  uomini,  li  quali,  siccome 
in  Adamo  tutti  muoiono,  così  in  Cristo  son  vivificati,  secondo  che 
ce  ne  assicura  san  Paolo.1  Egli  dovea  abbattere  totalmente  la  spi- 
ritual morte  degli  uomini,  ch'era  il  peccato,  e  vincere  l'inferno; 
poiché,  distrutto  il  peccato  in  tutti  gli  uomini,  non  vi  è  più  morte 
eternale  né  inferno. 

San  Paolo  stesso  ci  dichiara  il  piacere2  di  Dio  nell'avere  man- 
dato in  questo  mondo  il  suo  figliuolo,  che  era  ^che  tutta  la  sua 
plenipotenza  abitasse  in  lui  affine  di  riconciliar  seco  per  mezzo  suo 
tutte  le  cose,  tanto  quelle  che  sono  ne'  cieli,  quanto  quelle  che  sono 
nella  terra».3  Chiama  perciò  questo  suo  figliuolo  incarnato  primo 
nato  di  tutte  le  creature,  ed  a  riguardo  degli  uomini  fratello  primo- 
genito;4 e  siccome  egli,  essendo  figliuolo,  è  d'ogni  cosa  erede  del 
Padre,  così  ora  gli  uomini  come  fratelli  di  Gesù  Cristo  divengono 
coeredi,  e  per  conseguenza  ammessi  alla  parte  dell'eredità  di  questo 
regno  celeste.5  Spesse  volte  san  Paolo  nelle  sue  epistole  fa  questo 
confronto  di  Adamo  e  di  Gesù  Cristo  e  degli  effetti  che  dall'uno  e 
dall'altro  ne  ha  ricavato  Puman  genere.  Come,  egli  dice,  per  un 
sol  uomo  è  entrato  nel  mondo  il  peccato,  e  per  lo  peccato  la  morte, 
così  per  una  sola  giustizia  giustificante  è  venuto  il  dono  della  giu- 
stificazione della  vita  sopra  tutti  gli  uomini,  aggiungendo  egli  che, 
siccome  gli  uomini  sono  stati  resi  peccatori  per  la  disubbidienza  di 


1.  «"Christus  Iesus  venit  in  hunc  mundum  peccatores  salvos  facere" 
Ad  Tim.  ep.  1.  e.  1.  v.  15.  "Qui  omnes  homines  vult  salvos  fieri",  e.  2.  v.  4. 
"Et  sicut  in  Adam  omnes  moriuntur,  ita  et  in  Christo  omnes  vivifica- 
buntur"  I  ad  Cor.  e.  15.  v.  22.  "Qui  destruxit  quidem  mortem"  II  ad  Tim. 
e.  1.  v.  io  »  (la  nota  è  in  tutti  i  codici,  meno  in  quello  napoletano  su  cui 
Parente  ha  condotto  la  sua  edizione.  La  riportiamo,  come  pure  le  altre  che 
seguono,  secondo  la  lezione  di  ò.n.b.,  che  è  la  più  corretta,  anche  se  è  do- 
vuta a  una  mano  che  in  un  secondo  tempo  intervenne  appunto  nelle  note 
rifacendole  e  correggendole).  2. piacere'.  Parente  (p.  4)  scrive  «parere-) 
seguendo  il  codice  napoletano,  ma  il  codice  veneziano,  anteriore,  ha  piacere. 
La  correzione  risale  al  codice  viennese.  3.  e  A1  Colossensi  e.  1.  v.  19  et  20: 
"Quia  in  ipso  complacuit  omnem  plenitudinem  inhabitare.  Et  per  eum 
conciliare  omnia  in  ipsum  pacificans  per  sanguinem  crucis  eius  sive  quae 
in  terris,  sive  quae  in  coelis  sunt"  »  (nota  presente  in  tutti  i  codici,  meno 
quello  napoletano).  4.  Chiama . . .  primogenito',  cfr.  rispettivamente  Col., 
1,  15  e  Rom.,  8,  29.  5.  e  siccome . . .  celeste:  cfr.  Rom.f  8»  15-7  e  Gal., 
4,  5-7- 


650  IL    TRIREGNO 

un  solo,  così  per  l'ubbidienza  di  un  solo  saranno  resi  giusti;  e 
siccome  un  tempo  abbondò  il  peccato,  così  ora  soprabbonderà  la 
grazia,1  la  quale  farà  che  gli  uomini  che  prima  nati  di  terra  erano 
destinati  per  un  regno  terreno,  saranno  ora  innalzati  ad  un  su- 
premo regno  celeste. 

Gesù  Nazareno,  adunque,  dopo  aver  nel  Giordano  ricevuto  da 
Giovanni  il  battesimo  dell'acqua,  essendo  arrivato  all'età  di  circa 
trentanni,  cominciò  ne'  luoghi  vicini,  e  dappoi  nelle  sinagoghe 
stesse,  a  predicare  e  discovrire  questo  nuovo  regno  celeste  fino  a 
questo  tempo  a  tutti  ignoto  e  che  era  già  prossimo  ad  arrivare, 
dicendo  pure:  Poenitentiam  agite,  appropinquavit  enim  regnum 
coelorunr).3  E  non  pure,  scorrendo  nelle  città  e  castelli  della  Galli- 
lea  e  della  Giudea,  alle  turbe,  ma  dentro  le  sinagoghe  stesse  inse- 
gnava e  predicava  questo  nuovo  regno,  come  ce  ne  rende  testimo- 
nianza l'evangelista  Matteo,  testimonio  di  veduta,  dicendo  :  «  Do- 
cens  in  synagogis  eorum  et  praedicans  Evangelium  regni»;3  ed 
altrove:4  «Circuibat  Iesus  omnes  civitates  et  castella,  docens  in 
synagogis  eorum  et  praedicans  Evangelium  regni».  Co'  suoi  disce- 
poli e  colle  turbe  il  soggetto  più  frequente  de'  suoi  discorsi  non 
era  che  di  favellare  di  questo  regno,  valendosi  per  ispiegarlo  e 
adattarlo  alla  loro  intelligenza  di  parabole  e  similitudini,  ora  prese 
dal5  granello  della  senape,  ora  dalla  zizania  cresciuta  ne'  campi, 
ora  dalla  buona  semenza,  ora  dal  fermento  ascoso  nella  farina, 
ora  dal  tesoro  nascosto,  ed  ora  da  altre  somiglianze  delle  quali  san 
Matteo  fa  lunghe  e  spesse  ricordanze.6  Ma  le  turbe  con  tutto  ciò 
non  arrivavano  a  capirlo,  e  maravigliando  fra  sé  dicevano  :  «  Quid- 
nam  est  hoc  ?  Quaenam  doctrina  haec  nova  ?  ».7  E  molto  più  se  ne 
stupivano  in  Gallilea  i  suoi  compatrioti  quando  nelle  sinagoghe  di 
Nazaret  cominciò  ad  insegnare  questa  nuova  dottrina  dicendo: 
«"Unde  huic  haec  omnia?  Et  quae  sapientia  est  quae  data  est  illi 
et  virtutes  tales  quae  per  manus  eius  efficiuntur?  Nonne  hic  est 
faber,  filius  Mariae,  frater  Iacobi  et  Ioseph  et  Iudae  et  Simonis? 


1.  Come  .  .  .  grazia:  cfr.  Rom.,  5,  12;  5,  18-20.  -giustificazione  della  vita  è 
lezione  di  ò.n.b.  :  cfr.  Rom.,  5, 18:  «in  iustifìcationem  vitae».  ven  e  Parente 
(p.  5)  hanno  «  giustificazione  a.  2.  «Mattk.  4.  e.  17»  (5.N.B.).  3.  «Cap.  4. 
v.  233  (ò.n.b.).  4.  «Cap.  9.  v.  353  (ò.n.b.).  5.  dal:  lezione  di  ò.n.b.  Il 
codice  yen  ha  «  il  a.  Anche  i  dalla  e  i  dal  che  seguono  sono  lezione  di  5.N.B., 
mentre  ven  ha  rispettivamente  «della»  e  «del».  6.  «Cap.  13.  e  cap.  25» 
(ò.n.b.).     7.  *Marc.  1,  27»  (ò.n.b.). 


DEL   REGNO    CELESTE   •  INTRODUZIONE  651 

Nonne  et  sorores  eius  hic  nobiscum  sunt?".  Et  scandalizabantur  in 
ilio  j».1  Ma  i  suoi  discepoli  non  se  ne  scandalizavano,  poiché  ad  essi 
era  stato  dato  di  conoscere  questi  misteri,  e  agli  altri  no  ;  epperciò, 
quando  gli  domandavano  perché  parlava  alle  turbe  in  parabole, 
loro  rispose  :  '<  Quia  vobis  datum  est  nosse  mysteria  regni  coelorum, 
illis  autem  non  est  datum  j>.s 

Questa  dottrina  di  regno  celeste  sembrò  nuova  agli  Ebrei,  per- 
ché non  aveano  altro  concetto  di  regno  che  di  terreno.  Molto  più 
strana  e  nuova  sembrò  a'  gentili;  ed  in  Atene,  quando  que'  filosofi 
epicurei  e  stoici  udirono  san  Paolo  che  parlava  di  questo  nuovo  re- 
gno e  della  resurrezione  de'  morti,  tutti  sorpresi  dalla  novità  di- 
cevano: «Quid  vult  seminiverbius  hic  dicere?»;  e  portatolo  avanti 
l'areopago  gli  domandavano  :  «  Possumus  scire  quae  est  haec  nova, 
quae  a  te  dicitur,  doctrina  ?  >).3 

Perciò  da'  Padri  antichi  della  Chiesa  fu  detto  che  Gesù,  nuovo 
messia,  fu  il  primo  a  rivelarlo  ed  a  prometterlo4  agli  uomini,  onde 
Tertulliano5  la  chiamò  a  ragione  <-  novam  promissionem  regni  coe- 
lorum ».  E  Crisostomo,6  nell'omelia  recitata  nel  di  festivo  dell'ascen- 
sione del  Signore,  quando  si  venne  a  consumare  interamente  il  di- 
segno della  venuta  del  messia  in  terra,  che  non  era  altro  che  rive- 
lare agli  uomini  questo  nuovo  regno,  e,  precedendo  egli  come  capo 
e  primogenito  de'  risuscitati,  far  degni  anche  gli  uomini  come  sue 
membra  della  possessione  del  medesimo,  dice:  «Nos  qui  terra 
videbamur  indigni,  hodie  in  coelum  sublati  sumus.  Qui  ne  terreno 
quidem  principatu  eramus  digni,  ad  supremum  cadeste  regnum 
ascendimus.7  Coelos  pervasimus,  thronum  regalem,  atque  do- 
minium  apprehendimus,  et  natura,  propter  quam  paradisum  ser- 

I.  a  Marc.  6.  v.  2  et  3»  (ò.n.b.).  2.  cMatth.  13.  11»  (ò.n.b.).  3.  a  Ada 
apostol.  cap.  17.  v.  18  et  19^  (ò.n.b.).  4.  rivelarlo  .  .  .prometterlo  Ò.N.B.; 
rivelarla  .  .  .  prometterla  ven.  5.  «De  praescrzpt.  adv.  haeret.  czp.  13  > 
(ò.n.b.  -  È  il  Liber  de  praescriptionibus  adversus  haereticos,  in  Migne,  P.  L., 

II,  coli.  26-7.  Cfr.  Vita,  qui  a  p.  224).  6.  «Homil.  45.  de  ascerà.  Dom. 
Tom.  11.  edit.  parisien.  Baron  de  Montfaucon  pag.  449  d  *j  (ò.n.b.  -  In 
ascensionem  Burnirà  nostri  Iesu  Ckristi  sermo,  in  Migne,  P.  G.,  l,  col.  445. 
Cfr.  Vita,  qui  a  pp.  224-5).  7.  ad  supremum  .  .  .  ascendimus  è  lezione  di 
Ò.N.B.  mancante  in  ven  e  in  Parente  (p.  6),  come  pure  il  brano  che  segue: 
thronum  . .  .  apprehendimus.  («  Noi  che  sembravamo  indegni  della  terra,  oggi 
siamo  stati  innalzati  al  cielo  ;  che  non  eravamo  neppure  degni  del  principato 
terreno,  siamo  ascesi  al  supremo  regno  celeste.  Abbiamo  conquistato  i  cieli, 
ci  siamo  impadroniti  del  trono  regale  e  del  dominio;  e  quella  natura  a  mo- 
tivo della  quale  i  Cherubini  custodivano  il  paradiso,  siede  oggi  al  di  sopra 
dei  Cherubini»). 


652  IL    TRIREGNO 

vabant  Cherubini,  ipsa  supra  Cherubini  sedet  hodie».  Il  nostro 
non  men  poeta  che  teologo  Torquato  Tasso  ben  mostrò  intenderne 
la  novità  quando  nella  sua  Gerusalemme  introduce  Plutone  a  ri- 
membrar le  onte  e  gli  oltraggi  che  il  suo  tartareo  trono  soffriva  per 
avere  il  Padre  eterno  a  suo  danno  mandato  il  figliuolo  in  terra  a 
romper  le  tartaree  porte  e  por  piede  ne'  suoi  regni.  La  più  dura 
ed  amara  rimembranza  fu  quella  che,  avendolo  scacciato  dal  cele- 
ste regno  con  gli  angioli  rubelli  che  lo  seguirono,  in  lor  vece  vi 
avea  invitato  gli  uomini  vili  e  di  vii  fango  nati  : 

ne*  bei  seggi  celesti  ha  Vuom  chiamato 
Vuom  "Cile  e  di  vii  fango  in  terra  nato.1 

Oltraciò,  disceso  nell'inferno,  quelle  anime  de'  padri  antichi  che, 
in  tenebroso  luogo  essendo,  erano  a  lui  dovute,  gliele  tolse,  e  resti- 
tuitele a'  loro  corpi,  seco  in  cielo  portone: 

Ei  venne  e  ruppe  le  tartaree  porte, 
e  porre  osò  ne'  regni  nostri  il  piede, 
e  trarne  Valme  a  noi  dovute  in  sorte, 
e  riportarne  al  del  sì  ricche  prede, 
vincitor  trionfando,  e  in  nostro  scherno 
V insegne  ivi  spiegar  del  vinto  Inferno.2, 

Sarà  dunque  del  nostro  istituto  il  vedere  che  cosa  si  fosse  questo 
nuovo  regno  celeste,  dove  sia  posto,  a  chi  promesso  e  che  debba 
farsi  per  poterlo  conseguire  quando  arriverà,  e  se  «in  die  novissi- 
mo»,3 «in  consummatione  saeculi»;4  che  sarà  frattanto  delle  nostre 
anime  prima  della  resurrezione  de'  loro  corpi,  dove  saranno,5  e 
perciò  si  farà  memoria  de'  loro  alberghi  favolosamente  immaginati 
in  cui  fossero  intanto  trattenute  ad  aspettarvi;  né  infine  ci  dimenti- 
caremo  di  favellare  di  questo  vinto  inferno  apparecchiato  pure 
agli  uomini  malvagi  e  rei. 

Divideremo  perciò  questo  libro  in  quattro  parti  :  nella  prima  trat- 
teremo della  natura  di  questo  regno,  del  tempo  quando  avverrà, 
del  luogo  ove  sia  e  che  debba  farsi  per  possederlo. 

Nella  seconda  tratteremo  della  general  resurrezione  de'  morti, 

i.  Ger.  Mb.,  iv,  io.  II  codice  veneziano  ha  «regni»  invece  di  seggi,  ma  5.N.B., 
correttamente,  seggi.  2.  Ger.  lib.,  rv,  11.  3.  *in  die  novissimo»:  cfr.  Ioan.t 
6»  39»  4*>>  44»  55;  7»  37;  11»  24;  12»  48  (sempre  «in  novissimo  die»).  4.  «in 
consummatione  saectdi  »  :  Matth.,  1 3 ,  49.  5 .  dove  saranno  :  lezione  di  Ò.N.B. , 
mancante  in  ven. 


DEL   REGNO    CELESTE   -  INTRODUZIONE  653 

come  punto  più  assai  importante  di  quello  che  communemente  si 
crede. 

Nella  terza  de'  vari  alberghi  intanto  inventati  per  le  anime  in 
fino  alla  resurrezione  de*  loro  corpi  e  delle  nuove  dottrine  sopra 
di  ciò  surte  ne'  secoli  inculti  e  barbari. 

Nella  quarta  finalmente  trattaremo  del  regno  infernale  come  al 
celeste  opposto,  e  quanto  si  fosse  da'  nostri  teologi  sopra  il  mede- 
simo favoleggiato,  sicché  ne  tolsero  il  pregio  a*  poeti  stessi  gentili, 
onde  la  religion  cristiana  si  vidde  poi  intieramente  trasformata  in 
pagana. 


LIBRO  TERZO 
DEL  REGNO  PAPALE 

PERIODO  SECONDO 

DALLA   CONVERSIONE   DI    COSTANTINO   M.   INFINO   ALLA 

MORTE   DELL'IMPERATOR  GIUSTINIANO   IL   GRANDE 

E  PONTIFICATO   DI    GREGORIO  MAGNO 

Questo  periodo,  ancorché  non  oltrepassi  il  corso  di  tre  secoli  quan- 
to fu  il  precedente,  con  tutto  ciò  contiene  cagioni  più  grandi,  in 
maggior  numero,  e  più  vigorose  di  sorprendenti  mutazioni  e  can- 
giamenti che  non  avvennero  ne'  passati  secoli,  mentre  l'Imperio 
era  gentile,1  e  gentili  tuttavia  erano  gl'imperatori,  il  senato,  il  po- 
polo, i  magistrati;  in  fine  i  rettori  e  magistrati  di  tutte  le  città  e 
Provincie  che  lo  componevano.  E  poiché  niun  è  che  dubiti  che  la 
cagion  potissima  di  tanta  variazione  fosse  stata  la  conversione  di 
Costantino  Magno  al  cristianesimo,  è  d'uopo  che,  prima  di  passar 
avanti,  qui  brevemente  se  n'espongano  i  motivi  e  le  cagioni,  le 
quali  invano  si  cercheranno  in  Eusebio  Cesariense,  il  quale,  avendo 
potuto,  come  contemporaneo,  darcene  certe  e  sincere  relazioni, 
gli  è  piaciuto  invilupparle  di  tante  visioni,  favole  e  menzogne, 
quante  gli  avveduti  e  diligenti  scrittori  hanno  scoverte  non  meno 
nella  sua  Istoria  che  nella  Vita  di  Costantino,2,  e,  manifestatele  nelle 
di  loro  opere,  ne  han  fatti  accorti  i  leggitori.  Prima  d'Eusebio, 
Egisippo  e  Giulio  Africano  ne  avean  tessuta  qualche  istoria;  ma 
le  memorie  si  son  perdute,  e  bisogna  ora  starne  alla  fede  di  Euse- 
bio, che  ne  rapporta  qualche  frammento. 

Si  sono  ancor  perdute,  sia  per  frode  o  per  ingiuria  del  tempo 
o  negligenza  degli  uomini,  le  opere  di  tanti  scrittori  de'  tre  prece- 
denti secoli,  le  quali  averebbero  potuto  somministrarci  più  accu- 
rate e  copiose  memorie  per  tessere  una  esatta  istoria  ecclesiastica 
de'  tempi  più  prossimi  alla  conversione  di  Costantino  per  concepire 
un'idea  più  chiara  e  distinta  delle  cagioni  e  fini.  Si  sono  perduti  i 
cinque  libri  di  Papia,  vescovo  di  Ieropoli,  le  Apologie  di  Quadrato 
Ateniese  e  di  Aristide,  i  ventiquattro  libri  di  Agrippa  compilati 
contro  l'eretico  Basilide,  i  cinque  libri  di  Egisippo,  le  opere  di 
Melitone,  vescovo  sardicense,  di  Dionisio  Corintio  e  di  Apollinare 

i.  gentile:  pagano.  2.  De  vita  imperatoris  Constantim  libri  quatuor,  in 
Migne,  P.  G.,  xx,  coli.  910  sgg. 


DEL    REGNO    PAPALE    •  PERIODO    II 


J:o 


Ieropolitano,  e  l'epistola  di  Pinito  Cretense.  Ove  sono  le  opere  di 
Filippo,  di  Musano,  di  Modesto  e  di  Bardasene?  Ove  quelle  di 
Panteno,  di  Rodano,  Milziade,  Apollonio,  Serapione,  Bacchilo  e 
di  Policrate  vescovo  di  Efeso  ?  Ove  l'altre  d'Eraclio,  di  Massimo, 
Ammonio,  Trifone,  Ippolito  Africano,  Dionisio  Alessandrino  e  di 
tanti  altri?  Di  questi  non  abbiamo  che  i  nudi  nomi  e  soli  titoli 
presso  Eusebio,  S.  Girolamo1  ed  alcuni  altri  che  ce  ne  conservaro- 
no i  soli  nomi.  I  libri  che,  sottratti  all'ingiuria  del  tempo  e  degli 
uomini,  sono  a  noi  rimasi,  oltre  esser  pochi,  non  interi,  ma  laceri, 
trasformati  e  sol  rimastici  per  misero  avanzo,  non  appartengono 
dirittamente  all'istoria  ecclesiastica,  essendo  autori  ad  altro  intesi. 
I  trattati  di  Giustino,  di  Tertulliano,  di  Arnobio,  di  Teofilo,  di 
Clemente,  prete  alessandrino,  e  di  Lattanzio,  per  lo  più  si  raggi- 
rano o  a  difendersi  dalle  calunnie  e  criminazioni  delle  quali  erano 
da'  gentili  imputati  i  cristiani,  o  a  declamare  contro  l'empie  supersti- 
zioni e  riti  de'  gentili,  contro  le  vane  loro  deità  e  tanti  sognati  numi, 
ovvero  a  combattere  l'ostinazione  e  protema  de'  Giudei.  Altri, 
come  Atenagora,  Ireneo,  Cipriano,  Origene,  Tertulliano  istesso  ed 
altri,  furon  rivolti  a  confutare  gli  errori  e  le  sconce  opinioni  sorte 
a'  loro  tempi,  feraci  di  tanti  fantastici  e  deliranti  eretici;  ond'è  che 
dalle  loro  opere  sparsamente  di  qua  e  di  là  si  posson  raccòrre  alcuni 
lumi  per  aver  qualche  idea  della  storia  della  Chiesa,  non  essendo 
a  noi  rimasto  scrittore  alcuno  che  di  proposito  avesse  preso  a  scri- 
verla. Eusebio  Cesariense,  adunque,  ci  rimane  ora  il  primo  che 
cominciò  a  compilarne  un  giusto  corpo  d'istoria,  ond'è  che  si  vanti 
«se  primum  aggressum  esse  hoc  argumentum»,  e  nel  lib.  i,  e.  i, 
Hist.  EccUs.  ci  dica:  «Nullis  superiorum  trita  esset  via  quam  ca- 
pessebat».2  E,  deducendola  da'  princìpi  del  cristianesimo,  la  pro- 
segui fino  che  da  Costantino  Magno  fu  Licinio  superato  ed  estinto, 
e  data  intieramente  pace  alla  Chiesa;  ciocché  avvenne  nell'anno  ài 
Cristo  324.  Rufino,  dopo  averla  tradotta  in  latino,  vi  aggiunse  del 
suo  due  altri  libri  e  la  prolungò  sino  alla  morte  di  Teodosio  Magno; 
ma  siccome  non  fu  molto  fedel  traduttore,  così  fu  pessimo  istorico; 


1.  presso  Eusebio,  S.  Girolamo:  Eusebio,  Historia  ecclesiastica,  in  Migne, 
P.  G.,  xx,  coli.  48  sgg.,  passim;  Gerolamo,  Epistola  lxx,  in  Migne,  P.  L.t 
xxii,  col.  667.  2.  «  se  primum  . . .  capessebat*:  Historia  ecclesiastica,  1,  1,  in 
P.  G.  cit.,  col.  50,  ma  il  testo  del  Giannone  non  è  quello  riprodotto  dal 
Migne  («  di  aver  per  primo  affrontato  questo  argomento  »  ;  «  aveva  preso  una 
strada  da  nessuno  percorsa  in  precedenza»). 


656  IL   TRIREGNO 

poiché  di  più  favolosi  ed  incredibili  racconti  empì  i  suoi  libri. 
Seguiron  da  poi  altri  istorici  e  collettori,  siccome  l'autore  dell'Isto- 
ria miscelici,  Socrate,  Aurelio  Vittore,  Sulpizio  Severo,  Filostorgio, 
il  favoloso  Teodorico  Engelhusio,1  Xiceforo,  Cedreno,  Zonara  e 
tanti  altri. 

CAP.   11 

Come,  dopo  la  conversione  di  Costantino,  la  sopraintendenza  de' 
vescovi  molto  più  veloce  che  prima  corresse  verso  la  dominazione, 
per  V autorità,  lustro  e  splendor  che  gli  diede,  e  fosse  quindi  sorta 
fra'  minisiri  della  Chiesa  una  più  ampia  e  maestosa  gerarchia  di 
metropoliti,2,  primati  ed  esarchi,  ovvero  patriarchi,  corrispondenti 
a'  magistrati  dell'Imperio. 

Dopo  avere  nella  maniera  già  detta  Costantino  abbracciata  la 
religione  cristiana,  posto  in  riposo  e  tranquillità  le  chiese,  arric- 
chitele di  suppellettili  e  di  poderi,  e  resele  capaci  di  acquistar  legati 
ed  eredità,  i  vescovi  che  vi  presedevano  si  videro  in  un  maggior 
splendore  ed  in  una  più  ampia  e  nobile  gerarchia;  poiché,  oltre  di 
render  le  loro  chiese  capaci  di  acquistar  beni  temporali,  Costantino 
gli  onorò  ed  ebbegli  in  molta  stima  e  rispetto;  e  non  pur  resegli 
venerandi,  ma  gli  ornò  pure  anche  nell'esterno  d'abiti  maestosi  e 
di  reali  insigne,  perché  al  popolo  si  rendessero  più  augusti  e  rispet- 
tosi. Di  molti  ornamenti  adornò  i  vescovi  delle  sedi  maggiori,  spe- 
cialmente quello  di  Roma,  che  non  concedevansi  prima  se  non  a' 
patrizi  ed  a'  primi  personaggi  dell'Imperio.  Se  si  dovesse  prestar 
fede  a  quel  fìnto  decreto  della  favolosa  donazione  di  Costantino, 
che  inserì  Graziano3  nel  suo  Decreto,  Dist.  96,  con*  14,  dovremmo 
ancor  dire  che  fra  le  decorose  insegne  fosse  stato  anche  il  pallio, 
fulgentissimo  e  pomposo  manto  imperiale;  poiché  fra'  molti  vari  e 
discordanti  istromenti  di  questa  donazione  che  si  leggono  presso 


1.  Teodorico  Engelhusio:  non  «Teodorico,  Angelnusio»  come  in  Parente 
(p.  103),  quasi  fossero  due  autori.  Cfr.  Chromcon  M.  Theodorici  Engelhusii, 
continens  res  Ecclesiae  et  Reipublicae,  ab  orbe  condito  ad  annum  Christi  circi- 
ter  1420  .  *  .  edidit  Ioachimus  Iohan.  Maderus,  Helmstadii  1671.  Per  alcuni 
degli  storici  qui  nominati  cfr.  J.  A.  Fabricii  BtbUothecae  graecae  libri  V, 
pars  altera,  sive  volumen  vi,  Hamburgi  1714,  lib.  v,  cap.  rv,  pp.  112  sgg., 
Scriptores  graeci  hùtoriae  ecclesiasticae  deperditi.  2.  metropoliti  Parente 
(p.  122);  metropoli  ven.     3.  Graziano:  vedi  la  nota  2  a  p.  27. 


DAL   REGNO    PAPALE   •  PERIODO   II    •  CAP.   II  657 

più  scrittori,  in  uno  di  essi,  rapportato  da  Balsamone,1  si  legge  che 
Costantino  concedè  a  Silvestro  papa  il  pallio.3  Di  che  anche  ce  ne 
renderebbe  testimonianza  il  Libro  pontificale,  che  va  attorno  sotto 
il  nome  di  Damaso,3  nel  quale  si  parla  dell'uso  del  pallio  ch'ebbe 
il  vescovo  d'Ostia,  vivente  ancor  l'imperator  Costantino  Magno. 
Ma  come  che  oggi  abbastanza  si  è  dimostrato  che  quel  finto  istro- 
mento  di  donazione  fu  fabbricato  molti  secoli  dopo  Constantino, 
e  quel  Libro  pontificale,  secondo  che  i  dotti  han  pur  fatto  conoscere, 
non  merita  alcuna  fede,  sopra  fondamenti  sì  deboli  e  ruinosi  non 
è  da  por  molta  fidanza.4  Ma  ciò  che  dee  da  ciò  dedursi  è  che  da 
otto  secoli,  finché  non  si  fosse  scoperta  la  falsità  di  questo  istro- 
mento,  degli  atti  di  Silvestro  papa,  e  del  Libro  pontificale  attribuito 
a  Damaso,  la  Chiesa  romana  ebbe  questa  credenza,  che  il  pallio 
fosse  vestimento  imperiale  concesso  a'  pontefici  romani  per  dono 
degli  imperatori,  della  quale  fu  cotanto  persuasa  che  fece  inserire 
fino  nel  Decreto  di  Graziano  quest'apocrifo  istromento.  Quel  che 
è  certo  si  è  che,  avendo  Costantino  presa  cura  e  governo  della  Chiesa 
per  ciò  che  riguarda  Festerior  sua  polizia,  e  dichiaratosi  perciò 
capo  di  tutti  i  vescovi,  o  egli  o  pure  i  di  lui  successori  cristiani 
imperatori  ornarono  i  vescovi  delle  sedi  maggiori  di  questo  pallio, 
come  insegna  della  vicaria  lor  potestà  che  gli  concedevano  in  am- 
ministrare l'esterior  governo  delle  loro  chiese,  secondo  quell'esten- 
sione delle  diocesi  o  delle  provincie  che  ad  essi  sottoponevano, 
ora  allargandone,  ora  restringendone  i  confini.  Solevano  gl'impe- 
ratori d'Oriente,  a'  vescovi  delle  sedi  maggiori,  i  quali  presedevano 
alle  chiese  delle  città  metropoli  dell'Imperio,  concedere  per  questi 
ornamenti  ed  insegne  che  gli  mandavano  molta  autorità,  costituen- 
dogli come  loro  vicari;  ed  il  pallio  era  l'insegna  per  la  quale  si 
dimostrava  aver  innalzati  i  vescovi  in  metropolitani  con  distendere 
la  lor  giurisdizione  oltre  i  confini  della  propria  parecchia,  che  ora 
chiamiamo  diocesi. 


1.  Teodoro  Balsamone  (1140  circa  -  1199),  patriarca  di  Antiochia.  Le  sue 
opere  in  Migne,  P.  G.,  cxxxvn  e  cxxxviii.  2.  il  pallio  Parente  (p.  122)  ; 
in  ven  cinque  punti.  3.  il  Libro  . .  .  Damaso:  Catalogus  romanorum  ponti- 
ficum  sub  Liberio  descrìptus  (vedilo  in  Migne,  P.  L.,  xni,  coli.  441  sgg.). 
4.  Ma  come  che  .  .  .fidanzai  cfr.  E.  Schelstrate,  Antiquitas  Ecclesiae  dis- 
sertationibus,  monimentis  oc  notis  illustrata,  1,  Romae  1692,  dissert.  ni, 
cap.  ni  :  An  antiquior  Catalogus  a  Damaso  papa  conscriptus  sit.  Et  an  dime 
Epistolae  Damasi  et  Hieronymi  ea  de  re  editae  supposititiae  censendae  shtt?9 
PP-  346  sgg. 


658  IL   TRIREGNO 

Solevano  perciò  a  questi  mandare  il  pallio,  che  era,  non  già 
come  ora  chiamiamo,  quella  breve  e  corta  stola  incrocicchiata  che 
Roma  manda  a'  metropolitani,  di  moderna  invenzione,  ma  un 
manto  ben  ampio  e  talare,  a  guisa  di  clamide,  che  avea  molto  rap- 
porto al  piviale  d'oggi  giorno,  detto  perciò  da'  Latini  pallium  e  da' 
Greci  superhumerale,  costituendogli  per  queste  insegne  come  loro 
vicari  per  ciò  che  riguarda  l'esterior  governo  e  polizia  ecclesiastica 
delle  lor  provincie,  e  dipendendo1  la  lor  giurisdizione  oltre  la  pro- 
pria parrocchia. 

Non  vi  è  dubbio  che  Costantino  volle  in  ciò  troppo  intrigarsi, 
con  farsi  capo  de'  vescovi  ed  attendere  con  sollecitudine  all'esterior 
polizia  della  Chiesa.  Convocava  egli  per  ciò  i  concili,  vi  presedeva 
e  voleva  sentire  le  contese  insorte  fra'  vescovi.  E  se  la  faccenda  si 
fosse  ristretta  alla  sola  disciplina  esteriore,  che  era  sua  propria  in- 
combenza, sarebbe  stata  comportabile;  ma  ciò  che  in  decorso  di 
tempo  portò  danni  gravissimi  fu  che  anche  volle  di  soverchio  in- 
trigarsi nelle  loro  vane  ed  inutili  questioni  insorte  sopra  la  natura 
di  Dio,  sua  sussistenza  ed  unità,  ed  altre  conoscenze  ed  intrigate 
altercazioni  di  oziosa  sottilità  delle  divine  persone,  che  non  si  ap- 
partenevano punto  alla  semplicità  di  quella  credenza  che  Cristo 
ci  lasciò,  né  conducevano  alla  morale  e  molto  meno  alla  salute  delle 
nostre  anime.  Egli  fu  il  primo  che  stabili  nella  Chiesa  quella  sepa- 
razione d'interno  ed  esterno.  Quindi  presso  Eusebio  leggiamo  ch'e- 
gli a'  vescovi  solea  dire:  «Vos  quidem  in  iis  quae  intra  Ecclesiam 
sunt  episcopi  estis.  Ego  vero  in  iis  quae  extra  geruntur  episcopus  a 
Deo  sum  constitutus  ».2  Ed  Eusebio  istesso,  lib.  1  De  vita  Const., 
e.  37,  lo  chiama  perciò  «communem  episcopum».3  Questa  distin- 
zione e  separazione,  che,  sebbene  adombrata  ne*  due  precedenti 
secoli,  volle  ora  Costantino  maggiormente  manifestare  e  stabilire 
tra  Chiesa  interiore  ed  esteriore,  tra  disciplina  interna  e  polizia 
esterna,4  tra  cura  interna  spirituale  ed  esterna  ecclesiastica;  questa 
separazione,  dico,  a  lungo  andare  portò  all'imperio  delle  somme 

x.  dipendendo  ven  e  Parente  (p.  124).  Forse  è  da  intendersi  «distendendo». 
2.  *Vos  quidem . . .  constitutus*:  cfr.  De  vita  imperatore  Consumimi  cit., 
lib.  rv,  cap.  xxiv,  in  Migne,  P.  G.,  xx,  col.  1171  («Voi  invero  siete  gli  ispet- 
tori di  ciò  che  è  dentro  la  Chiesa;  ed  io  sono  stato  costituito  da  Dio  ispet- 
tore di  ciò  che  si  compie  fuori  »).  3.  Ed  Eusebio  . . .  episcopum:  il  rinvio  è 
sbagliato,  e  non  siamo  riusciti  a  correggerlo.  4.  Questa  distinzione . .  . 
esterna:  in  Parente  (p.  124)  distinzione  è  invece  «destinazione»;  tra  disci- 
plina interna  e  polizia  esterna  è  «tra  disciplina  interna  ed  esterna». 


DEL    REGNO    PAPALE   •  PERIODO    II    •  GAP.   II  659 

potestà  conseguenze  assai  perniciose  e  deplorabili.  Costantino,  am- 
messa ch'ebbe  nell'Imperio  questa  nuova  religione,  ebbe  credenza 
che  dovesse  trattarsi  come  la  gentile  o  almanco  come  l'ebrea;  e 
siccome  gl'imperatori  gentili  preser  cura  non  men  dell'una  che 
dell'altra,  poiché,  nell'istesso  tempo  che  permettevano  la  giudaica 
agli  Ebrei,  vollero  anche  averne  ispezione  e  soprintendenza,  così 
potesse  anche  farsi  della  cristiana.  Nel  qual  inganno  agevolmente 
vi  entrò,  poiché  a'  suoi  tempi  vedeva  i  vescovi,  specialmente  que5 
d'Oriente,  posti  in  qualche  eminenza,  e  la  Chiesa  cominciava  a 
prendere  altra  forma  di  quella  nella  quale  Cristo  ed  i  suoi  apostoli 
la  lasciarono.  Né  mancarono  a'  suoi  dì  Padri1  che  in  ciò  la  confor- 
tavano e  maggiormente  ce  l'invogliavano,  non  potendosi  veramente 
a  questi  tempi  sospettare  che  questo  principio  doveva  recare  in 
progresso  di  tempo  un  notabilissimo  danno  nell'Imperio.  L'ingan- 
no e  l'errore  fa  veramente  non  men  pernicioso  che  grande,  poiché 
la  nuova  religione  che  Cristo  lasciò  in  terra,  e  la  sua  Chiesa  che 
fondò,  della  quale  egli  se  ne  dichiarò  capo  e  maestro,  non  era  capa- 
ce, come  la  gentile  o  l'ebrea,  di  esterno.  Ella  tutta  era  interna,  e 
perciò  l'intento  del  fondatore  fu  che  si  abolissero  tutti  i  riti  e  ceri- 
monie esterne  delli  Ebrei.  Non  voleva  tempii,  né  altari,  né  maggio- 
ranza fra'  suoi  ministri.  Tutta  era  gregge,  ed  egli  solo  dovea  es- 
serne il  guardiano  ed  il  supremo  pastore.  Voleva  che  si  prendesse 
cura  non  de*  nostri  corpi,  ma  delle  sole  anime,  ed  esser  guidate  e 
rette  a  guisa  di  mandre  di  pecore,  delle  quali  i  ministri  fossero  i 
suoi  pastori,  perché  l'ovile  era  suo,  e  non  ch'essi  ne  fossero  i  pa- 
droni. Egli  solo  essendo  il  signore  delle  nostre  anime,  il  governo 
adunque  dovea  esser  tutto  spirituale,  come  riguardante  la  mondezza 
ed  illibatezza  de'  costumi,  perché  si  arrivasse  a  quella  perfezione 
necessaria  per  esser  introdotti  nel  celeste  regno,  del  quale  ci  fece 
eredi;  i  riti  pochi,2  semplici  e  schietti,  né  ricercati  assolutamente 
per  necessari,  potendo  per  i  medesimi  supplire  la  fede,  la  carità  e 
la  speranza,  siccome  si  è  dimostrato  nel  precedente  libro,  nella 
prima  parte  al  capitolo  primo.3  Non  vi  era  bisogno  di  ricca  sup- 
pellettile, non  di  superbi  ornamenti  e  pomposi  ammanti,  non  di 
molti  ministri,  non  di  tempii,  non  d'altari,  non  di  liturgie;  bastava 

1.  d  svuoi  di  Padri;  in  Parente  (p.  125)  «a'  suoi  padri».  La  supposizione 
dell'Omodeo,  nella  citata  recensione  al  Triregno,  era  esatta.  2.  eredi;  i  riti 
pochi  Parente  (p.  125);  coeredi.  I  riti  poiché  ven.  3.  primo  Parente 
(p.  125);  ven  ha  cinque  punti. 


6Ó0  IL   TRIREGNO 

una  casa  dove  convenire,  un  cenacolo,  una  mensa  per  celebrare  in 
commemorazione  della  sua  passione  e  morte  la  cena:  in  breve,  un 
poco  di  pane  e  di  vino  per  la  cena,  ed  un  poco  di  acqua  per  lo 
battesimo.  Non  richiedevasi  distinzione  d'abiti  fra'  ministri  e  plebe. 
Ciascuno  vestiva  come  tutti  gli  altri,  fossero  stati  vescovi,  preti, 
diaconi  o  laici.  Ciocché  durò  per  tutto  il  4.0  secolo,  siccome  ha  ben 
dimostrato  in  fra  gli  altri  ultimamente  Bingamo,1  Orig.  eccles.,  lib. 
6,  cap.  4,  §  18,  19  et  20.  Nelle  obblazioni  e  distribuzioni  dell'ele- 
mosine tutto  regolava  la  carità,  siccome  la  mansuetudine  nelle  cen- 
sure e  correzioni.  Tutto  in  breve  consisteva  nell'interno,  in  esorta- 
zioni, consigli,  preghiere,  sermoni,  niente  la  Chiesa  avendo  d'im- 
perio, sicché  gli  fosse  bisogno  di  forma  estrinseca  di  gerarchia,  di 
tribunali,  di  magistrati  e  di  littori.  Non  avendo  riti  operosi  e  molto 
meno  multiplici  e  pomposi,  bastavano  pochi  ministri,  perché  tutte 
le  cose  di  Chiesa  potessero  perfettamente  adempirsi.  «  Presbyteris  » 
solea  dire  S.  Epifanio  «opus  erat  et  diaconis;  per  hos  enim  duos 
ecclesiastica  compleri  possunt»;2  onde  non  era3  da  pensar  molto 
all'esterno  di  questa  nuova  Chiesa  e  religione. 

Ma  Costantino,  che  non  la  ritrovò  così,  cioè  come  Cristo  e  gli 
apostoli  la  lasciarono,  si  credette,  e  ne  fu  facilmente  persuaso,  che 
ammettendola  nell'Imperio  e  permettendo  che  pubblicamente  po- 
tessero tutti  professarla,  che  se  gli  dovesse  dare  una  speciosa  e 
magnifica  apparenza.  Quindi  avvenne  che  il  nome  di  patriarca, 
che  davasi  a'  sommi  sacerdoti  degli  Ebrei,  si  fosse  trasportato  nel 
4.0  e  5.0  secolo  a'  primati  ed  arcivescovi  de'  cristiani,  siccome  appo- 
nendosi al  vero  fu  avvertito  da  Bingamo,  Orig.  eccL,  lib.  2,  cap.  17, 
§  4,4  e  che  i  sacerdoti  de'  cristiani  non  dovessero  esser  riputati  infe- 
riori di  quelli  degli  Ebrei  o  de'  gentili,  siccome  i  loro  tempii  ed 
altari,  ed  i  ministri  che  vi  doveano  soprintendere,  fossero  non  men 
numerosi  che  autorevoli  e  maestosi.  Sopra  i  quali,  dandosi  ora  alla 
Chiesa  questa  nobile  e  magnifica  apparenza,  dovesser  gl'imperatori 


1.  Bingamo ■:  Joseph  Bingham  (1 668-1723),  storico  della  Chiesa  e  archeolo- 
go, curato  anglicano.  L'opera  sua  maggiore,  che  è  qui  citata  nella  versione 
latina  di  J.  H.  Grischovius,  Origines  sive  antiquitates  ecclesiasticae,  Halae 
1 724-1729,  in  dieci  volumi,  è  una  delle  maggiori  fonti  del  Triregno  e  del- 
V Apologia  de9  teologi  scolastici.  I  passi  cui  si  rinvia  nel  volume  11,  pp.  417 
sgg.  2.  «  Presbyteris ..  .possimi»:  «erano  necessari  presbiteri  e  diaconi; 
da  questi  due  infatti  possono  essere  assolti  gli  uffici  ecclesiastici  ».  3.  onde 
non  era:  in  Parente  (p.  126)  «onde  era  ».  4.  Orig.  eccL,  lib.  2,  cap.  17 y  §  4: 
ed.  cit.,  voi,  1,  p.  236. 


DEL   REGNO    PAPALE  *  PERIODO   II   •  CAP.  II  66l 

presedere  ed  invigilare,  siccome  i  vescovi  nell'interno  della  mede- 
sima, così  essi  nell'esterno.  Quindi,  a  somiglianza  degl'imperatori 
gentili  a  riguardo  della  pagana,  volle  esser  riputato  Costantino  verso 
la  cristiana;  onde  avvenne  che  presso  gli  istessi  imperatori  cristiani, 
suoi  successori,  per  lungo  tempo,  inflno  a  Graziano,  si  fosse  rite- 
nuto il  titolo  di  pontefice  massimo,  dichiarandosi  essi  capi  e  mo- 
deratori degli  affari  ecclesiastici,  siccome  ce  ne  rende  eziandio  certi 
Socrate,  il  quale  nel  proemio  del  lib.  5  della  sua  Istoria  eccles. 
scrisse:  '(Ex  ilio  tempore  quo  imperatores  christiani  esse  coeperunt, 
Ecclesiae  negotia  ex  illorum  nuru  pendere  visa  sunt;  atque  adeo 
maxima  concilia  de  eorum  scientia  et  convocata  fuere  et  adhuc 
convocantur».1  Quindi  anticamente  facevasi  paragone  tutto  opposto 
di  ciò  che  poi  Innocenzo  III2  ne  fece  di  due  luminari.  L'Imperio 
si  paragonava  al  sole  ed  il  sacerdozio  alla  luna,  poiché  intorno  al- 
Testerior  polizia  ecclesiastica  tutto  il  lume  e  la  possanza  gli  veniva 
somministrata  dall'Imperio  che  gli  dava  potere  e  giurisdizione. 
E  Giustiniano  imperatore,  calcando  le  orme  istesse,  presedé  alle 
cose  esterne  della  Chiesa,  non  meno  che  all'Imperio;  ed  a'  suoi 
di,  più  che  in  altri  tempi,  si  vide  aver  egli  congiunto  e  restituito 
all'Imperio  il  pontificato,  prendendo  cura  del  governo  della  Chiesa 
e  sopratutto  attendendo  che  fossero  osservati  li  sacri  ed  antichi 
canoni  de'  Padri,  stabiliti  ne'  concili  ed  avvalorati  dalle  leggi  de- 
gli imperatori,  perché  da'  popoli  fossero  esattamente  ubbiditi,  non 
avendo  la  Chiesa  altre  armi  che  la  persuasione  per  fargli  osservare, 
non  già  con  stringimento  ed  impero  alcuno,  che  era  tutto  degl'im- 
peratori e  suoi  magistrati.  Quindi,  costituiti  i  vescovi  come  loro 
vicari,  mandavano  a'  medesimi  il  pallio,  ch'era  l'insegna  dell'au- 
torità che  gli  conferivano3  sopra  le  loro  provincie  quando  gl'innal- 
zavano4  a  primati  e  metropolitani.  Non  altrimenti  di  ciò  che  pratd- 
cavasi  co'  sommi  sacerdoti  degli  Ebrei,  quando,  avendo  i  Romani 
soggiogata  la  Palestina,  Pompeo  Magno  eleggeva  i  sommi  sacerdoti. 
Ridotta  la  Giudea  in  provincia,   ancorché  l'imperator  Claudio 

1.  e  Ex  ilio  .  . .  convocantur  »:  in  Migne,  P.  G.t  Lxvn,  col.  566,  ma  con  tra- 
duzione non  corrispondente  a  quella  che  Giannone  cita.  («Dal  tempo  in 
cui  gli  imperatori  cominciarono  a  essere  cristiani,  gli  affari  della  Chiesa 
parvero  dipendere  da  un  loro  cenno,  e  perfino  i  massimi  concili  furono 
convocati,  e  tuttora  son  convocati,  dopo  che  ne  son  portati  a  conoscenza  a). 

2.  Innocenzo  III  (11 98-1 21 6)  rappresentò  la  maggior  offensiva  teocratica 
contro  il  potere  imperiale.  3.  conferivano  Parente  (p.  127)  ;  conferiva  ven. 
4.  innalzavano',  nostra  congettura;  ven  e  Parente  (ivi)  hanno  «  innalzava  s. 


6Ó2  IL  TRIREGNO 

avesse  permesso  che  i  Giudei  vivessero  colle  stesse  lor  leggi  ed 
usi  patrii,  con  tutto  ciò  serbaronsi  gl'imperatori  romani  la  somma 
potestà  sopra  la  polizia  delle  loro  sinagoghe,  prescrivendo  agli  ar- 
chisinagoghi  leggi,  com'è  chiaro  dal  Codice  teodosiano  1. ...  ;x  ed 
Erode  da  Claudio  impetrò  questa  facoltà:  di  potergli  creare,  ma  per 
sua  concessione,  siccome  narra  Giuseppe,2  Kb.  2,  e.  i,  il  quale  al 
libro  15,  e.  ult.  et  20,  ci,  ci  rende  ancor  testimonianza  che  rinve- 
stitura, la  stola  e  gli  altri  ornamenti  del  sommo  sacerdote  davansi 
al  medesimo  da'  Romani;  le  quali  insegne  si  custodivano  per  ciò 
nella  Torre  Antonina.  E  deiTimperator  Giustiniano  èwene  mira- 
colosamente rimaso  vestigio  della  concessione  del  pallio  del  ve- 
scovo arelatense,  del  quale  favellaremo  a  più  opportuno  luogo. 
Pietro  di  Marca,  De  concord. . . .  et  Imp.>  lib.  6,  cap.  6,  n.°  2,  non 
può  negare  che  questa  potestà  vicaria  si  concedeva  quando  si  dava 
il  pallio  col  consenso  dell'imperatore,  poiché  (e*  dice)  il  pallio, 
essendo  «genus  imperialis  indumenti,  concedi  non  poterat  absque 
consensu  imperatoriss,  l'uso  del  quale  dagli  imperatori  essere  stato 
concesso  a'  patriarchi,  da'  quali  fu  comunicato  a'  metropolitani.3 
Cristiano  Lupo,4  De  appellationibus  ad  Cathedram  S.  Petri,  dis- 
sert.  2,  cap.  8,  proponendo  il  problema:  aNum  pallium  metropo- 
litae  aut  primatis  sit  imperiale  donum?»,  ci  dà  presta  risoluzione, 
e  vuol  che  no;  ma  dovendo  rispondere  agl'invincibili  argomenti 
del  Marca,  se  stesso  intriga  ed  infelicemente  ci  riesce;  anzi,  trat- 
tando quell'arcivescovo  con  molta  acerbità,  secondo  il  solito  stile 
de'  romani  scrittori,  fondasi  più  nell'invettive  ed  inutili  declama- 
zioni e  vane  ciarle,  che  in  argomenti  solidi  e  vigorosi.  Ma  di  ciò 


1.  Codice  teodosiano /....:  manca  il  riferimento.  2.  siccome  narra  Giusep- 
pe: i  riferimenti  che  seguono  sono  ovviamente  alle  Antiquitates  iudaicae. 

3.  Pietro  di  Marca  . . .  metropolitani:  il  Giannone  cita  qui  a  memoria,  ri- 
componendo due  passi  diversi.  Cfr.  De  concordia  Sacerdotiì  et  Imperiif  seu 
de  libertattbus  Ecclesiae  gaUicanae  libri  odo,  Parisiis  1669,  loc.  cit.,  p.  192. 
Pierre  de  Marca  (15  94- 1662),  vescovo  di  Couserans  in  Catalogna,  è  uno 
degli  autori  gallicani  più  utilizzati  dal  Giannone.  La  prima  edizione  del  De 
concordia  è  del  1641  ;  fu  posto  all'Indice  nel  1642  (e.  . .  un  genere  di  abi- 
to imperiale,  non  poteva  concedersi  senza  il  consenso  dell'imperatore  »). 

4.  Cristiano  Lupo:  Christianus  Lupus  (Christian  Wolf,  1612-1681),  agosti- 
niano belga,  difensore  della  Santa  Sede.  È  qui  citato  il  Divinum  oc  immo- 
bile S.  Petri  —  circa  . .  .ad  romanam  eìus  cathedram  .  . .  appellationes,  ad- 
ver sum  prof anas  hodievocum  novitates  assertum  privilegium,  Moguntiae  1681, 
pp.  466  sgg.  L'edizione  completa  delle  sue  opere  apparve  a  Venezia  fra 
il  1724  e  il  1729  m  dodici  volumi  («  Se  il  pallio  del  metropolita  o  primate 
sia  un  dono  imperiale  0- 


DEL   REGNO   PAPALE   •  PERIODO   II    •  CAP.  Ili  663 

altrove  più  distesamente  si  terrà  conto  quando  ci  toccherà  favellare 
del  pallio  mandato  al  vescovo  d'Arelate  a'  tempi  di  Giustiniano 
Magno. 

[cap.  in] 

[Come  questa  nuova  polizia  della  Chiesa  si  adattasse  a  quella  del- 
l'Imperio, secondo  le  diocesi  e  province  del  medesimo,  alle  quali 
furono  preposti  per  lo  governo  ecclesiastico 
gli  esarchi  e  i  metropolitani.]1 

Intanto  non  è  da  dubitare  che,  data  che  fu  da  Costantino  pace 
alla  Chiesa,  ammessa  questa  distinzion  di  Chiesa  esterna  ed  in- 
terna, i  vescovi,  che  in  que'  tre  primi  secoli,  in  mezzo  alle  perse- 
cuzioni, nelle  città  dell'Imperio  aveano  la  soprintendenza  delle  lor 
chiese,  ora  che  pubblicamente  poteva  da  tutti  professarsi  la  reli- 
gion  cristiana,  e  che  cominciavano  ad  ergersi  tempii  ed  altari,  e  gli 
antichi  tempii  gentili  a  trasformarsi  in  chiese,  e  i  riti  e  cerimonie 
divenir  più  operose,  splendide  ed  in  maggior  numero,  per  man- 
tenere il  culto  della  medesima  in  maggior  splendore  e  lustro,  ed 
accrescendosi  sempre  più  quasi  in  infinito  il  numero  de*  cristiani, 
si  videro  per  conseguenza,  secondo  la  maggioranza  delle  città  nelle 
quali  reggevano  le  chiese,  in  vari,  diversi  ed  in  più  alti  gradi  di- 
sposti, ed  in  maggior  eminenza  costituiti. 

Ed  essendo  dapoi  a  Costantin  piaciuto,  sedate  le  cose  di  Roma 
e  d'Italia,  passare  in  Oriente,  vinto  nell'anno  325  e  spento  Licinio, 
fattosi  già  monarca  di  tutto  l'Imperio,  cominciò  a  tentar  nuove  e 
grandi  mutazioni  nell'Imperio,  poiché,  vòlto  in  Oriente,  volle  nella 
Tracia  innalzar  Bisanzio,  piccola  città  allora  di  quella  provincia, 
ed  ingrandirla,  anzi  gettarvi  più  magnifici  fondamenti  con  intento 
di  ridurla  alla  magnificenza  di  Roma,  sicché  potesse  ragionevol- 
mente poi  chiamarsi  nuova  Roma,  siccome  da  lui,  cancellato  il 
nome  di  Bisanzio,  si  disse  Costantinopoli.  Egli  fu  anche  spinto 
ad  innalzarla  cotanto  per  l'amenità  e  piacevolezza  del  suo  sito. 
Ci  rimane  ancora  delle  deliziose  sue  maniere2  un'antica  testimo- 

1.  Nel  codice  ven  questo  capitolo  è  invece  un  paragrafo  del  capìtolo  pre- 
cedente ed  è  privo  del  titolo.  M.  C.  de  Samnitibus,  copiando,  ha  corretto, 
tenendo  conto  dell'indice  pubblicato  da  L.  Panzini  in  Opere  postume,  11, 
p.  in.  Anche  per  i  capitoli  successivi  conserviamo  la  numerazione  del  co- 
dice napoletano.  2.mamere:  forse  errore  di  trascrizione,  in  luogo  di 
«marine». 


664  IL   TRIREGNO 

nianza  di  Erodoto  Alicarnasseo,  il  quale  nel  lib.  4  della  sua  Istoria,1 
narrando  la  spedizione  di  Dario  contro  gli  Sciti,  scrive  che,  giunto 
che  fu  Dario  a  Calcedonia  sopra  Bisanzio,  e*  vide  i  tre  mari,  cosa 
degna  da  riguardare,  perché  tra  tutte  le  marine  questa  è  la  più 
strana  di  sito,  di  spettacolo  ben  degno  e  di  maravigliosa  lunghezza. 
Or,  gettati  che  ebbe  quivi  Costantino  i  fondamenti  della  nuova 
Roma,  e  posto  tutta  la  sua  cura  e  studio  di  renderla  nella  magnifi- 
cenza e  splendore  uguale  all'antica,  trasferì  alla  perfine  in  Oriente 
l'imperiai  sua  sede,  consumandovi  il  resto  di  sua  vita,  contento  di 
mirar  da  lontano  le  cose  d'Occidente;  onde  nacque  il  principio 
della  declinazione  di  Roma  e  d'Italia  e  di  tutte  le  altre  occidentali 
Provincie. 

Stabilita  adunque  la  sede  dell'Imperio  in  Oriente,  trovando  quivi 
le  città  e  le  provincie  più  numerose  di  cristiani  e  non  tanto  attac- 
cate all'antica  religione  de'  gentili,  com'era  Roma,  conobbe  esser 
l'Oriente  più  disposto  a  farci  la  cristiana  maggiori  progressi;  onde 
si  videro  notabili  cangiamenti  nella  polizia  esterna  delle  lor  chiese 
e  particolarmente  nelle  persone  de'  suoi  vescovi,  poiché  que'  d'An- 
tiochia, di  Alessandria  e  di  tutte  le  altre  città  d'Oriente,  d'Asia, 
d'Egitto,  di  Ponto  e  di  Tracia,  secondo  la  maggioranza  delle  città 
nelle  quali  reggevan  le  loro  chiese,  si  videro  in  un  tratto  costituiti 
in  maggior  eminenza,  e  cominciaron  quindi  a  sentirsi  i  nomi  di 
metropolitani,  di  primati,  d'esarchi,  ovvero  patriarchi,  corrispon- 
denti a  quelli  de'  magistrati  secolari,  secondo  la  maggiore  o  minore 
estensione  delle  provincie  che  essi  governavano.2 

Non  vi  è  dubbio  che  prima  della  conversione  di  Costantino  in 
Oriente  si  osservava  ne'  vescovi  delle  città  maggiori,  più  numerose 
ed  ampie,  qualche  differenza  nella  stima  e  nell'onore,  che  non  eran 
gli  altri  delle  città  minori  ;  poiché,  oltre  i  vescovi  d'Antiochia  e  d'A- 
lessandria, Tito,  vescovo  di  Creta,  secondo  la  testimonianza  d'Eu- 
sebio, Histor.  eccles.,  lib.  3,  e.  4,3  avea  l'ispezione  di  tutta  quell'iso- 


1.  Erodoto.  .  .  Istoria:  cfr.  la  nota  1  a  p.  600;  lib.  IV,  cap.  vili,  f.  149. 

2.  Stabilita .  . .  governavano:  da  qui  innanzi  il  discorso  dipende  da  L.  E. 
Du  Pin,  De  antiqua  Ecclesiae  disciplina  dissertationes  historicae,  Parisiis  1686, 
diss.  1,  De  forma  et  distribuitone  Ecclesiarum,  praesertim  attorto  Ecclesiae 
saeculo,  ubi  de  patriarckìs  et  metropolitis,  illorumque  iure  oc  praerogativis  agi- 
tur,  pp.  1-92.  Ma  cfr.  anche  Istoria  civile,  tomo  I,  lib.  11,  cap.  ult.,  DelTeste- 
rior  politia  ecclesiastica,  da'  tempi  delTimperador  Costantino  M.  infino  a 
Valentiniano  III,  pp.  118  sgg.  3.  Eusebio  . . .  lib.  3,  e.  4:  cfr.  in  Migne, 
P.  G.,  xx,  col.  219. 


DEL   REGNO   PAPALE   •  PERIODO    II    •  CAP.   Ili  665 

la;  a  Timoteo,  vescovo  d'Efeso,  dice  Crisostomo,  HomiL  xv  in  /  7Y- 
moth.*  «  eredita  fuit  Ecclesia,  immo  gens  fere  tota  asiatica»;  siccome 
del  vescovo  di  Cipro  era  la  soprintendenza  di  tutta  quell'isola,  senza 
subordinazione  alcuna  al  vescovo  d'Antiochia.  E  parimente,  nel- 
l'Africa, sopra  gli  altri  vescovi  africani  era  manifesta  Feminenza 
del  vescovo  di  Cartagine  fino  a'  tempi  di  S.  Cipriano,2  siccome 
nella  Gallia  del  vescovo  di  Lione.  Ma,  sebbene  a  questi  tempi  nelle 
sedi  delle  città  maggiori  era  notabile  la  maggioranza  de'  vescovi  a 
riguardo  di  quelli  costituiti3  nelle  città  minori,  con  tutto  ciò,  es- 
sendo stata  ancor  ammessa  nell'Imperio  questa  nuova  religione  e 
nelle  parti  orientali,  come  a  Roma  lontane,  più  per  convenienza4 
era  tollerata  che  permessa,  nelle  occidentali  perseguitata  e  riputata 
superstizione;  quindi  eran  tali  semi  occulti  e  nascosti,  e  come  scin- 
tille di  fuoco  sotto  le  ceneri  coperte.  Ma,  dichiarata  poi  da  Costan- 
tino questa  religione  non  pur  lecita  e  permessa  per  tutto  l'Imperio, 
ma  vera,  legittima  e  veneranda,  e  le  chiese  non  più  già  collegi 
illeciti,  ma  commendabili  e  santi,  quindi  ciò  che  era  nascosto  fu 
palesato,  e  quelle  faville  che  come  ceneri  erano  seppellite,  scoppia- 
rono in  luminose  e  risplendenti  fiamme.  Allora  vennero  a  dichia- 
rarsi ed  a  stabilirsi  questi  gradi  di  metropolitani,  primati,  esarchi, 
ovvero  patriarchi,  ed  a  sorgere  questa  nuova  più  alta  gerarchia;  e 
che  non  pur  le  leggi  degl'imperatori,  ma  i  canoni  istessi,  comin- 
ciandosi da  quelli  del  concilio  niceno,  maggiormente  la  stabilis- 
sero5 e  confermassero.  Talché  si  appone  più  al  vero  la  sentenza  di 
Lodovico  Elia  Dupin,  De  antiq.  Eccles.  discìp.,  diss.  1,  §  6,6  seguitata 
poi  da'  più  accurati  scrittori,  e  fra  gli  altri  ultimamente  da  Binga- 
mo,  Orig.  eccles.,  lib.  2,  e.  9/  che  l'opinione  di  Pietro  di  Marca, 
di  Cristiano  Lupo,  di  Usserio,  Bevereggio,  Schelstrate  ed  altri,  li 
quali  immaginarono  che  da  Cristo,  ovvero  dagli  apostoli,  fossero 
stati  nella  Chiesa  tali  gradi  istituiti.  Con  molta  evidenza  ed  esat- 
tezza Dupino,  confutando  gli  argomenti  recati  dall'arcivescovo  di 
Parigi,  siccome  Bingamo  quelli  di  Schelstrate,  fanno  conoscere 

1.  In  Epistolam  primam  ad  Timotheum  howiUae,  xv,  2,  in  Migne,  P.  <?., 
lxii,  col.  582  («ni  affidata  la  Chiesa,  anzi  quasi  tutto  il  popolo  dell'Asia»). 

2.  S.  Cipriano:  il  Giannone  utilizza  il  Du  Pin,  op.  cit.,  diss.  I,  §  vili, 
pp.  21  sgg.  3.  costituiti  Parente  (p.  131);  sostituiti  VEN.  4.  convenienza 
Parente  (p.  131);  connivenza  ven.  5.  stabilissero  Parente  (p.  131);  rista- 
bilissero VEN.  6.  diss.  i,§6:  ibid.,  paragrafi  vi-vni,  pp.  15-23.  In  ven  Elia 
corregge  un  primitivo  «Ellies».  7.  Orig.  eccles. ,  lib.  2,  e.  9  :  ed.  cit.,  voi.  i, 
lib.  il,  cap.  xvi  (e  non  rx),  De  primatìbus  seti  metropolitanis,  pp.  203-5. 


666  IL   TRIREGNO 

che  né  da  Cristo,  né  dagli  apostoli  fossero  state  tali  dignità  istituite, 
ma  che  dopo  la  conversione  di  Costantino,  data  che  fu  pace  alla 
Chiesa,  cominciarono  a  stabilirsi,  e  che  la  Chiesa  allora  infante,  la 
quale  non  più  nascosta  ma  libera  compariva  al  mondo,  adattò  le 
sue  membra  a  quelle  dell'Imperio  già  adulto  e  grande,  secondando 
la  disposizione  delle  provincie  dell'Imperio  e  le  condizioni  delle 
città  metropoli  di  ciascheduna  di  quelle;  onde  sorse  nella  Chiesa 
questa  nuova  polizia,  e  sì  pomposa  ed  alta  gerarchia.1 

E  la  maniera  colla  quale  ciò  si  facesse  fu  cotanto  naturale  e  pro- 
pria, che  sarebbe  stata  maraviglia  se  altrimenti  fosse  avvenuto. 
Poiché,  chiunque  si  porrà  innanzi  gli  occhi  la  disposizione  delle 
Provincie  dell'Imperio,  nella  quale  erano  sotto  Costantino,  e  la  di- 
visione delle  quattro  prefetture,  composta  ciascuna  di  più  diocesi 
e  queste  di  più  provincie,  facendone  poi  confronto  con  quel  che 
avvenne  nella  esterna  polizia  ecclesiastica,  vedrà  chiaro  che,  la 
Chiesa  essendo  stata  introdotta  nell'Imperio,  non  già  l'Imperio 
nella  Chiesa,  come  dice  saviamente  Ottato  Melevitano,3  non  poteva 
prender  altra  forma  che  questa.3 

i.  Talché gerarchia:  cfr.  Istoria  civile,  loc.  cit.,  pp.  118-9.  Ma  di  fronte 

al  problema  dell'origine  delle  istituzioni  della  Chiesa,  il  Giannone  ha 
molto  allargato  la  sua  visuale.  Si  tratta  infatti  di  un  problema  che  vede 
schierati  da  una  parte  Du  Pin  e  Bingham,  dall'altra  un  cattolico  come 
Christian  Wolf  e  anglicani  come  Usher  e  Beveridge.  James  Usher  (1581- 
1656),  irlandese,  arcivescovo  di  Armagh,  episcopalista,  sostenne  la  tesi  che  i 
metropoliti  fossero  stati  creati  dagli  apostoli.  Cfr.  J.  Rainolds,  The 
Judgement  qf  Doctor  Reignolds  Concerning  Episcopacyy  tohether  it  be  Gods 
Ordinance,  London  1641  ;  e  soprattutto  J.Usserii  Opuscula  duo,  mine  primum 
latine  edita:  quorum  alterum  est  de  episcoporum  et  metropolitanorum  origine; 
alterum  de  Asia  proconsulari . .  .,  Londini  1687.  Bevereggio:  William  Be- 
veridge (1 638-1708),  teologo  e  orientalista  protestante  inglese,  editore  del 
Euvo&xòv,  sive  pandectae  canonum  SS.  apostolorum*  et  concilìorum  ab  Eccle- 
sia graeca  receptorum . . .,  Oxonii  1672,  in  due  tomi,  e  autore  del  Codex 
canonum  Ecclesiae  prìmitvcae  vindicatus  oc  iUustratiis,  Londini  1678,  in  cui 
riprende  le  idee  dell'Usher.  Emmanuel  de  Sckelstrate  (1649-1692),  teo- 
logo belga,  difensore  della  Santa  Sede,  conservatore  della  Biblioteca  vati- 
cana. Il  Giannone  fa  riferimento  alla  Dissertano  de  auctoritate  patriarchali 
et  metropolitica  adversus  ea  quae  scripsit  E.  Stillingfleet  in  libro  de  origini- 
bus  britannicis,  Romae  1687,  tradotto  in  inglese  Tanno  dopo.  Cfr.  ancora, 
oltre  l'opera  citata  alla  nota  4  di  p.  657,  Ecclesia  africana  sub  primate  cartha- 
giniensiy  Parisiis  1679.  Il  Giannone  naturalmente  vede  confermato  quanto 
aveva  sostenuto  nélTIstoria,  e  appreso  dal  Du  Pin,  op.  cit.,  diss.  1,  dal 
Bingham,  che  dedica  alla  questione  delle  origini  della  gerarchia  il  capitolo  I 
del  libro  rx.  2.  Melevitano:  meglio  «Milevitano  »  (Parente,  p.  132).  Otta- 
to, vescovo  di  Milevi  in  Numidia  (seconda  metà  del  IV  secolo),  antidona- 
tista. 3.  E  la  maniera  . . .  questa:  il  passo  è  tratto  dati.' Istoria  civile,  loc. 
cit.,  p.  119. 


DEL   REGNO   PAPALE   •  PERIODO   II   ■  CAP.  Ili  667 

In  quattro  prefetture  si  vide  diviso  tutto  Torbe  romano  sotto 
Costantino  Magno,  alle  quali  fùr  dati  quattro  prefetti  pretorii  per 
governarle.  Queste  furono  l'Oriente,  l'Illirico,  le  Gallie  e  l'Italia. 
Ciascuna  componevasi  di  più  diocesi,  siccome  queste  di  più  Pro- 
vincie. 

ORIENTE1 

Questa  prefettura  era  divisa  in  cinque  diocesi:  Oriente,  Egitto », 
Asiana,  Pontica  e  Tracia,  ciascuna  delle  quali  poi  si  componeva 
di  più  provincie. 


La  prima  diocesi  era  chiamata  d'Oriente  strettamente  preso, 
la  quale  ebbe  per  sua  città  primaria,  capo  di  tutte  le  altre,  Antiochia 
nella  Siria,  ond'era  ben  proprio  che  questa  città  anche  nella  polizia 
ecclesiastica  innalzasse  il  capo  sopra  tutte  l'altre,  e  che  il  vescovo 
che  reggeva  quella  cattedra  s'innalzasse  parimenti  sopra  tutti  gl'al- 
tri vescovi  delle  chiese  di  tutte  quelle  provincie,  delle  quali  questa 
diocesi  si  componeva;  poiché,  siccome  nelle  cose  civili  tutto  si 
riportava  al  magistrato  supremo  di  quella  città,  così  nelle  cose  ec- 
clesiastiche tutto  a  quel  vescovo.  Si  aggiungeva  ancora  l'altra  pre- 
rogativa d'avere  in  Antiochia  il  capo  degli  apostoli  S.  Pietro  pre- 
dicatovi l'Evangelio,  e  dalla  chiesa  antiochena  essersi  posto  più  in 
uso  il  nome  di  cristiani,  quando  prima  eran  chiamati  nazareni. 

Le  provincie  che  componevano  le  diocesi  d'Oriente  prima  non 
eran  più  che  dieci:  la  Palestina,  la  Siria,  la  Fenicia,  l'Arabia,  la 
Cilicia,  l'Isauria,  la  Mesopotamia,  Osdrocena,  Eufrate  e  Cipro. 
Ma  da  poi  crebbe  il  lor  numero  infino  a  quindeci,  imperciocché 
la  Palestina  fu  partita  in  tre  provincie,  la  Siria  in  due,  la  Cilicia  in 
due  e  la  Fenicia  parimenti  in  due.  Ecco  come  ora  rawisaremo  in 
ciascheduna  di  queste  provincie  i  loro  metropolitani  secondo  la 
polizia  dell'Imperio. 

La  Palestina,  prima  che  fosse  divisa,  non  riconosceva  altra  città 
sua  metropoli  che  Cesarea,  onde  il  suo  vescovo  acquistò  le  ragioni 
di  metropolitano  sopra  i  vescovi  dell'altre  città  minori  della  pro- 

1.  Oriente:  per  tutto  il  brano  cfr.  L.  E.  Du  PrN,  op.  eh.,  diss.  I,  pp.  21  sgg., 
spesso  qui  seguito  alla  lettera.  Da  questo  punto  alla  fine  il  testo  è  stato 
collazionato  anche  sulla  copia  Corsini  1577  (sulla  quale  cfr.  Giamumiana, 
p.  178). 


668  IL   TRIREGNO 

vincia  istessa;  ed  essendo  stata  poi  divisa  in  altre  due,  nella  seconda 
ebbe  per  metropoli  la  città  di  Scitopoli  e  nella  terza  quella  di  Geru- 
salemme. Ma,  non  perché  d'una  provincia  ne  fossero  fatte  tre, 
vennero  per  questa  nuova  divisione  ed  accrescimento  di  due  altre 
metropoli  a  derogarsi  le  ragioni  di  metropolitano  del  vescovo  di 
Cesarea,  ma  rimasero  com'erano  i  vescovi  di  Scitopoli  e  di  Geru- 
salemme suflraganei  al  metropolitano  di  Cesarea  :  non  bastava  che 
gl'imperatori,  partendo  in  due  o  tre  una  provincia,  s'intendesse 
con  ciò,  in  quanto  alla  polizia  ecclesiastica,  pregiudicare  le  ragioni 
dell'antico  vescovo  metropolitano,  ma  bisognava  che  gl'imperatori 
espressamente  lo  comandassero  ;  che  siccome  moltiplicavano  le  me- 
tropoli intorno  al  governo  ernie,  così  fosse  ancora  per  ciò  che 
riguardava  l'ecclesiastico;  anzi  sovente  spiegavano  la  lor  mente 
ch'era  di  non  doversi  con  ciò1  recar  mutazione  alcuna  intorno  al- 
Testerior  polizia  ecclesiastica,  siccome  soleva  fare  l'imperatore  Giu- 
stiniano, ed  è  manifesto  dalle  sue  Novelle  28  e  31,  ca.  20.2  Ed  al 
contrario,  sowente,  in  partir  le  provincie  solevano  pur  ordinare 
che  l'ecclesiastica  seguitasse  anche  la  nuova  forma  e  disposizione 
civile,  dipendendo  ciò  dal  loro  volere  ed  arbitrio,  essendo  presso 
degl'imperatori,  come  capi  di  tutti  i  vescovi  metropolitani  ed  esar- 
chi, il  regolare  la  polizia  esterna  delle  chiese,  siccome  fin  all'ultima 
evidenza  si  dimostrerà  più  innanzi.  Per  questa  ragione,  presedendo3 
Costantino  M.  al  gran  concilio  di  Nicea,  ancorché  a  Gerusalemme, 
città  santa,  molti  onori  e  prerogative  fossero  state  concedute,  in 
niente  però  vollero  Costantino  e  quei  Padri  che  si  recasse  pregiu- 
dizio al  metropolitano  di  Cesarea,  «metropoli  propria  dignitate 
servata»  da  il  settimo  canone  di  quel  concilio;4  e  non  per  altra 
ragione,  se  non  perché,  essendo  allora  una  la  provincia  della  Pale- 
stina, e  Cesarea  sua  antica  metropoli,  trovandosi  acquistate  già 
tutte  le  ragioni  di  metropolitano  da  quel  vescovo,  non  era  di  do- 
vere che  per  quella  nuova  divisione  venisse  a  perderle  o  a  scemarle. 
Né  se  non  molto  tempo  da  poi  la  Chiesa  di  Gerusalemme  fu  deco- 
rata della  dignità  patriarcale,  come  più  innanzi  diremo. 

L'altra  provincia  di  questa  diocesi  d'Oriente  fu  la  Siria,  ch'ebbe 
per  metropoli  Antiochia,  capo  ancora  di  tutta  la  diocesi;  ma  poi, 

1 .  doversi  con  ciò  cors  (ma  il  con  è  aggiunto  posteriormente)  ;  doversi  ciò 
ven.  2.  Noveìlae  Constìtutionesy  xxm,  xxxi.  3 .  presedendo  cors  e  Parente 
(P*  134);  precindendo  vent.  4.  Del  concilio  di  Nicea  (325).  Cfr.  L.  E.  Du 
PlN,  op.  cit.,  p.  19  («salvaguardata  la  dignità  propria  della  metropoli»). 


DEL    REGNO   PAPALE    •  PERIODO    II   •  CAP.  Ili  669 

divisa  in  due,  oltre  ad  Antiochia,  riconobbene  un'altra,  che  fu 
Apamea.  E  qui  bisogna  avvertire  per  quel  che  poi  diremo  del  ve- 
scovo di  Roma,  che  sowente  in  una  persona  solevansi  unire  più 
poteri  e  prerogative,  secondo  i  vari  rispetti  e  diversi  oggetti  ove 
la  lor  potestà  veniva  ad  esercitarsi.  Nella  persona  del  vescovo 
d'Antiochia  si  considerava  la  potestà  di  metropolitano  a  rispetto 
della  propria  sua  provincia  qual'era  la  Siria,  e  la  potestà  di  esarca 
per  ciò  che  riguardava  gl'altri  metropolitani  a  sé  soggetti,  siccome 
era  quella  d' Apamea  nella  Siria  istessa  e  gli  altri  metropolitani 
dell'altre  provincie  onde  si  componeva  la  sua  diocesi,  della  quale 
egli  era  capo  ed  esarca. 

La  Cilicia,  che  parimenti  fu  in  due  provincie  divisa,  riconobbe 
ancora  due  metropoli:  Tarso  ed  Anazarbo.  La  Fenicia,  divisa  che 
fu  in  due  provincie,  riconobbe  anche  due  metropoli:  Tiro  e  Da- 
masco. Eravi  ancora  nella  Fenicia  la  città  di  Berito,  celebre  al 
mondo  per  la  famosa  Accademia  delle  leggi  ivi  eretta,  onde  ne 
uscirono  tanti  valenti  professori.  Ne'  tempi  di  Teodosio  il  Giovine, 
Eustazio,  vescovo  di  questa  città,  ottenne  da  quel  principe  rescritto 
col  quale  Berito  fu  innalzata  a  metropoli;  per  la  qual  cosa  Eustazio, 
in  un  concilio  che  di  que'  tempi  si  tenne  in  Costantinopoli,1  diman- 
dò, ch'essendo  la  sua  città  stata  fatta  metropoli,  si  dovesse  in  con- 
seguenza far  nuova  divisione  delle  chiese  di  quella  provincia,  ed 
alcune  di  esse,  che  prima  s'appartenevano  al  metropolitano  di  Tiro, 
dovessero  alla  sua  nuova  metropoli  sottoporsi.  Fozio,  che  si  trovava 
allora  vescovo  di  Tiro,  scorgendo  l'inclinazione  di  Teodosio,  bi- 
sognò per  dura  necessità  che  approvasse  la  divisione.  Ma,  morto 
l'imperator  Teodosio,  e  succeduto  nell'Imperio  d'Oriente  Mar- 
ciano, portò  il  vescovo  Fozio  le  sue  doglianze  al  nuovo  imperatore 
del  torto  fattogli,  chiedendo  che  alla  sua  città,  antica  metropoli,  si 
restituissero  quelle  chiese  che  l'erano  state  tolte.  L'imperatore 
Marciano  delegò  la  causa  a'  Padri  che  s'erano  uniti  in  concilio  a 
Calcedonia,*  perché  l'essaininassero  nuovamente,  i  quali  decreto- 
rono  a  favor  di  Fozio,  dirimendo  che  tal  affare,  non  secondo  la  nuo- 
va disposizione  di  Teodosio  e  le  novelle  divisioni  d'altri  impera- 


i.in  un  concilio .  - .  Costantinopoli:  non  già  un  concilio,  ma  piuttosto  un 
sinodo  del  clero  costantinopolitano.  Per  tutto  questo  racconto  cfr.  L.  E. 
Du  Ptn,  loc.  cit.  ;  ma  anche  C.  Fleury,  Histoire  ecclésiastique,  lib.  xxviii, 
cap.  xrx.  2.  II  rv  concilio  generale  di  Calcedonia,  del  451  ;  la  controversia 
tra  Fozio  ed  Eustazio  fu  giudicata  nella  quarta  sessione  (17  ottobre). 


670  IL   TRIREGNO 

tori  dovesse  regolarsi,  ma  a  tenor  de*  canoni  antichi,  confermati 
dalle  leggi  imperiali;  e  lettosi  nell'assemblea  il  canone  del  concilio 
niceno,  col  quale  si  stabiliva  che  in  ciascheduna  provincia  un  solo 
fosse  il  metropolitano,  fu  determinato  a  favor  del  vescovo  di  Tiro 
e  restituite  alla  sua  cattedra  tutte  le  chiese  che  n'erano  state  divolte, 
poiché,  secondo  l'antica  disposizione  delle  provincie  della  diocesi 
d'Oriente,  la  Fenicia  era  una  provincia,  e  riconobbe  un  solo  me- 
tropolitano. 

Presidendo  gl'imperatori  a  tutti  questi  affari  esterni  ecclesiastici, 
come  capi  e  direttori  dell'esterior  polizia  della  Chiesa,  quindi  fu 
introdotto  stile  che  quando  i  vescovi,  non  contenti  della  lor  pa- 
rocchia,  volevano  intraprendere  sopra  le  ragioni  del  loro  metropo- 
litano, solevano  ricorrere  dagl'imperatori  ed  ottener  divisione  della 
provincia,  e  che  la  lor  città  s'innalzasse  a  metropoli,  affinché  po- 
tessero appropriarsi  le  ragioni  di  metropolitano  sopra  quelle  chiese 
che  nella  divisione  si  toglievano  al  più  antico.  Gl'imperatori  alcune 
volte  ributtavano  le  loro  ambiziose  domande;  altre  volte,1  in  odio 
de'  metropolitani  antichi,  lo  facevano.  Infatti  l'imperator  Valente, 
in  odio  di  Basilio,  divise  la  Cappadocia  in  due  parti;  e,  così  facen- 
dosi nell'altre  provincie,  vennero  a  moltiplicarsi  anche  i  metropo- 
litani, seguendo  la  polizia  della  Chiesa  quella  dell'Imperio,  siccome 
ce  ne  rende  testimonianza  Nazario,  peroché,  ne'  tempi  che  segui- 
rono, non  fu  sempre  ritenuto  il  rigore  del  concilio  niceno,3  ma 
secondo  il  voler  degl'imperatori,  che,  dividendo  le  provincie,  in- 
nalzavano alcune  città  in  metropoli,  si  mutava  per  ordinario  anche 
la  polizia  delle  chiese;  anzi,  lo  stesso  concilio  calcedonense,  sem- 
pre che  gl'imperatori  non  avessero  altramente  disposto  in  queste 
divisioni,  con  suo  canone  xvii  dichiarò  che  la  Chiesa  dovesse 
seguitare  la  polizia  dell'Imperio,  dicendo:  «  Sin  autem  etiam  aliqua 
civitas  ab  imperatoria  auctoritate  innovata  fuerit,  civiles  et  publi- 
cas  formas  ecclesiasticarum  quoque  parochiarum  ordo  consequa- 
tur».3  Quindi  poi  nacque  che,  mutandosi  la  disposizione  e  polizia 
dell'Imperio,  ed  innalzandosi  alcune  città  in  istato  più  alto  ed  emi- 


i.  ributtavano  . . .  volte:  ven  e  coes  (manca  in  Parente,  p.  136).  z.  niceno 
Pabente  (p.  136);  di  niceno  VEN  e  cors.  3.  *Sin  autem .  .  .  consequatur*; 
il  canone  xvn  è  riportato  dal  Do  Pin,  op.  cit.,  p.  20  («  Se  poi  una  città  sia 
stata  mutata  dall'autorità  imperatoria,  anche  l'ordinamento  delle  parroc- 
chie ecclesiastiche  assuma  le  forme  civili  e  pubbliche  »). 


DEL    REGNO   PAPALE   •  PERIODO    II    •  CAP.  Ili  671 

nente,  siccome  fra  le  altre  fu  veduto  in  Costantinopoli,  si  vide- 
ro anche  tante  mutazioni  nell'esterior  polizia  ecclesiastica,  seb- 
bene Timperator  Giustiniano,  per  toglier  le  contese,  saviamente 
fosse  solito,  nelle  divisioni  o  unioni  di  provincie  che  faceva,  di  di- 
chiarare espressamente,  nelle  sue  Novelle,  quando  voleva  divisio- 
ne o  no  intorno  a'  sacerdozi  ed  alle  ragioni  degl'antichi  metro- 
politani. 

In  cotal  guisa  l'altre  provincie  di  questa  diocesi  d'Oriente,  come 
l'Arabia,  l'Isauria,  la  Mesopotamia,  Ostrocena,  Eufrate  e  Cipro, 
secondo  la  disposizione  e  polizia  dell'Imperio,  riconobbero  i  loro 
metropolitani,  i  quali  furono  così  chiamati  [perché]  presidevano 
nelle  chiese  delle  città  principali  delle  provincie,  e  per  conseguenza, 
siccome  da  queste  dipendevano  l'altre  città  minori  delle  medesime, 
a  queste  si  riportavano1  tutti  i  giudizi  de'  loro  tribunali,  a  queste 
per  li  negozi  civili  e  per  altri  affari,  come  suole  avvenire,  tutti  i 
provinciali  ricorrevano;  così  questi  metropolitani  godevano  d'al- 
cune ragioni  e  prerogative  che  non  avevano  gl'altri  vescovi  pre- 
posti alle  chiese  delle  città  minori  dell'istessa  provincia.  Così  essi 
ordinavano  i  vescovi  eletti  dalle  chiese  della  provincia,  convocavano 
i  concili  provinciali  ed  avevano  la  soprintendenza  e  la  cura  perché 
nella  provincia  la  fede  e  la  disciplina  si  serbasse  incontaminata  e 
pura:  ch'erano  le  ragioni  e  privilegi  de'  metropolitani  per  i  quali 
si  distinguevano  sopra  i  vescovi;  ed  in  tal  maniera,  dopo  il  concilio 
niceno,  intesero  il  nome  di  metropolitano  tutti  gli  altri  concili, 
che  da  poi  seguirono,  e  gl'altri  scrittori  ecclesiastici  del  quarto  e 
quinto  secolo. 

Ecco  come  nelle  provincie  della  diocesi  d'Oriente  ravisiamo  i 
metropolitani  secondo  la  disposizione  delle  città  metropoli  del- 
l'Imperio. Ecco,  ancora,  come  in  questa  diocesi  ravisaremo  il  suo 
esarca,  ovvero  patriarca,  che  fu  il  vescovo  d'Antiochia,  come  quegli 
che,  presidendo  in  questa  città,  capo  dell'intera  diocesi,  presedeva 
ancora  sopra  tutti  i  metropolitani  di  quelle  provincie  delle  quali 
questa  diocesi  era  composta,  ed  anche  di  cui  erano  le  ragioni  e 
privilegi  patriarcali,  cioè  d'ordinare  i  metropolitani,  convocare  i 
sinodi  diocesani  ed  aver  la  sopraintendenza  e  la  cura  che  la  fede 
e  la  disciplina  si  serbasse  incontaminata  nell'intera  diocesi.  Prima 
questi  erano  propriamente  detti  esarchi,  perché  alle  principali  città 

1.  si  riportavano  cobs;  si  riputavano  ven. 


672  IL    TRIREGNO 

delle  diocesi  erano  preposti;  e  in  più1  provincie  di  Calcedonia  in 
cotal  guisa  e  per  questa  divisione  di  provincie  e  di  diocesi  si  di- 
stinguevano gresarchi  da'  metropolitani.  Così,  Filallete,  vescovo  di 
Cesarea,  e  Teodoro,  vescovo  di  Efeso,  furono  chiamati  esarchi, 
perché  il  primo  aveva  sotto  di  sé  la  diocesi  di  Ponto,  ed  il  secondo 
quella  d'Asia.  Egli  è  vero  però  che  alcune  volte  questo  nome  fu 
dato  anche  a'  semplici  metropolitani  ed  i  Greci,  negl'ultimi  tempi 
lo  diedero  profusamente  a  più  metropolitani,2  come  a  quel  d' An- 
dra, di  Sardica,  di  Nicomedia,  di  Nicea,  di  Calcedonia,  di  Larisso, 
ed  altri.  Nulladimeno  la  propria  significazione  di  questa  voce  esarca 
non  denotava  altro  che  un  vescovo  il  quale  a  tutta  la  diocesi  prese- 
deva, siccome  il  metropolitano  alla  provincia.  Alcuni  di  questi 
esarchi  furon  detti  anche  patriarchi;  il  qual  nome  in  Oriente, 
in  decorso  di  tempo,  a  soli  cinque  si  restrinse,  fra  i  quali  fu  l'an- 
tiocheno. 

I  confini  dell'esarcato  d'Antiochia  non  s'estesero  oltre  a'  confini 
della  diocesi  d'Oriente,  poiché  l'altre  provincie  convicine,  essendo 
dentro  i  confini  dell'altre  diocesi,  appartenevano  a'  loro  esarchi. 
Così  la  diocesi  d'Egitto,  come  quindi  a  poco  vedrassi,  era  all'esarca 
d'Alessandria  sottoposta,  e  l'altre  tre  diocesi  d'Oriente,  come  l'asia- 
na, la  pontica  e  la  tracia,  erano  fuori  del  suo  esarcato;  anzi  nel 
concilio  costantinopolitano  espressamente  la  cura  di  queste  tre  dio- 
cesi a'  propri  vescovi  si  commette.  Né,  quando  il  vescovo  di  Co- 
stantinopoli invase  queste  tre  diocesi  ed  al  suo  patriarcato  le  sotto- 
pose, come  diremo  più  innanzi,  si  legge  che  il  vescovo  di  Antiochia 
gliele  avesse  contrastate  come  a  lui  appartenenti. 

113 

La  seconda  diocesi  ch'era  sotto  la  disposizione  del  prefetto  pre- 
torio d'Oriente,  fu  l'Egitto.  La  città  principale  di  questa  diocesi  fu 
la  cotanto  famosa  e  rinomata  Alessandria.  Quindi  il  suo  vescovo 
sopra  gl'altri  tutti  alzò  il  capo,  e  la  sua  chiesa,  dopo  quella  di  Ro- 
ma, tenne  il  primo  luogo.  S'aggiungeva  ancora  un'altra  preroga- 
tiva, che  in  questa  cattedra  vi  sedè  S.  Marco  evangelista,  primo 
suo  vescovo,  e  che  fin  da'  primi  tempi  fu  de'  cristiani  numerosissima 

1.  e  in  più  Parente  (p.  137);  e  più  yen  e  cors.  2.  ed  i  Greci .  .  .  metro- 
politami  ven  e  cors  (manca  in  Parente,  p.  137).  3.  ili  la  fonte  è  ancora 
Du  Pin,  op.  cit.,  pp.  21  sgg. 


DEL    REGNO    PAPALE    •  PERIODO    II    •  CAP.   Ili  673 

non  meno  che  di  Ebrei,  e  di  avere  il  vanto,  innanzi  tutte  l'altre 
chiese,  avere  introdotti  i  dottori  ecclesiastici:  in  Alessandria  ebbe 
la  teologia  la  sua  prima  origine. 

Fu  prima  questa  diocesi  divisa  in  sole  tre  provincie  :  l'Egitto  stret- 
tamente preso,  la  Libia  e  Pentapoli  ;  e  quindi  è,  che  nel  sesto  ca- 
none del  concilio  niceno  si  legga:  u  Antiqua  consuetudo  servetur 
per  Aegyptum,  Libyam  et  Pentapolim,  ita  ut  alexandrinus  epi- 
scopus  horum  omnium  habeat  potestatem».1  La  Libia  fu  poi  di- 
visa in  due  provincie,  la  superiore  e  l'inferiore.  Si  aggiunge  l'Arca- 
dia, la  Tebaida  e  l'Augustanica,  e  finalmente  si  vidde  questa  dio- 
cesi divisa  in  dieci  provincie,  sorgendo  altrettante  città  metropoli; 
onde  dieci  metropolitani  furono  a  proporzione  del  numero  delle 
provincie  indi  accresciuti.  Questi  al  vescovo  d'Alessandria,  come 
loro  esarca  e  capo  della  diocesi,  erano  sottoposti,  sopra  i  quali 
esercitò  tutte  le  ragioni  e  preminenze  esarcali.  I  confini  del  suo 
esarcato  non  si  distendevano  oltre  alla  diocesi  d'Egitto,  che  ab- 
bracciava queste  provincie.  Né  s'impacciò  mai  dell'Africa  occiden- 
tale, siccome  dimostrò  l'accuratissimo  Dupino,2  De  antìq.  Eccl. 
disc,  diss.  1.  Onde  furono  in  grandissimo  errore  coloro  che  sti- 
marono tutta  l'Affrica,  come  terza  parte  del  mondo,  al  patriarcato 
d'Alessandria  essere  stata  sottoposta.  Anche  questo  esarca,  come 
quello  d'Antiochia,  acquistò  da  poi  il  nome  di  patriarca,  e  fu  uno 
de'  cinque  più  rinomati  nel  quinto  e  sesto  secolo. 

ni 

La  terza  diocesi  disposta  sotto  il  prefetto  pretorio  d'Oriente  fu 
l'asiana,  nella  quale  una  provincia,  detta  ristrettamente  Asia,  fu 
proconsolare;  e  metropoli  di  questa  provincia,  ed  insieme  capo 
dell'intiera  diocesi,  fu  la  città  d'Efeso.  Le  altre  provincie,  come 
Panfilia,  Ellesponto,  Lidia,  Pisidia,  Licaonia,  Licia,  Caria,  e  la  Fri- 
gia, che  in  due  fu  divisa,  Pascaziata  e  Salutare,  erano  al  vicario 
dell'Asia  sottoposte,  e  ciascuna  ebbe  il  suo  metropolitano.  Oltre 
ciò  era  un  metropolitano3  nell'isola  di  Rodi,  ed  un  altro  in  quella 
di  Lesbo. 


1.  «  Antiqua  .  .  .  potestatem  »:  «  Si  conservi  l'antica  consuetudine  per  l'Egit- 
to, la  Libia  e  la  Pentapoli,  cosicché  il  vescovo  di  Alessandria  abbia  potestà  su 
queste  tutte».  2.  Dupino:  in  ven  e  cors  scritto  per  errore  «Eupino». 
3.  Oltre  ciò  . . .  metropolitano  cors;  caduto,  per  omoteleutia,  in  yen. 


674  IL   TRIREGNO 

Questa  diocesi  asiana  divenne  una  delle  autocefale1  come  quella 
che  né  al  patriarca  d'Alessandria,  né  a  quello  d'Antiochia  fu  giam- 
mai sottoposta.  Riconosceva  solamente  il  vescovo  d'Efeso  per  suo 
primate,  come  colui  che  nella  città  principale  di  tutta  la  diocesi  era 
preposto.  Per  questa  ragione  Teodoro,  vescovo  d'Efeso,  fu  chia- 
mato esarca,  siccome  furono  appellati  tutti  gl'altri  che  ressero2 
quella  chiesa;  poiché  la  loro  potestà  si  distendeva  non  pure  in  una 
sola  provincia,3  ma  in  tutta  la  diocesi  asiana.  Ma  non  poterono 
questi  esarchi  conseguire  il  nome  di  patriarca,  poiché  tratto  tratto4 
quello  di  Costantinopoli  non  pur  ristrinse  la  loro  potestà,  ma  da 
poi  sottopose  al  suo  patriarcato  tutta  intiera  questa  diocesi. 

IV 

La  quarta  fu  la  diocesi  pontica,5  la  cui  città  principale  era  Cesarea 
in  Cappadocia.  Prima  questa  diocesi  si  componeva  di  sei  sole  Pro- 
vincie, le  quali  furono  Cappadocia,  Galazia,  Armenia,  Ponto,  Pa- 
flagonia  e  Bitinia.  Tutte  queste  da  poi,  toltone  Bitinia,  furono  di- 
vise in  due,  onde,  di  sei  che  prima  erano,  si  vidde  il  lor  numero 
multiplicato  in  undeci,  che  altretanti  metropolitani  conobbero.  In 
questa  diocesi  era  la  città  di  Nicea,  la  quale  nel  civile  e  nell'eccle- 
siastico ebbe  la  prerogativa  d'essere  dagl'imperatori  Valentiniano 
e  Valente  innalzata  a  metropoli.  Si  oppose  a  tal  innalzamento  il 
vescovo  di  Nicomedia,  ch'era  la  città  metropoli  di  quelle  provincie, 
pretendendo  che  ciò  non  dovesse  cagionar  detrimento  alcuno  alle 
ragioni  e  preminenze  della  sua  chiesa  metropolitana.  Ma  perché 
Valentiniano  e  Valente  avevano  sì  bene  conceduta  a  Nicea  quella 
prerogativa,  ma  non  già  che  per  ciò  intendessero  togliere  i  dritti 
altrui,6  perciò  furono  al  metropolitano  di  Nicomedia  conservati  i 
privilegi  della  sua  chiesa,  e  che  quella  di  Nicea  potesse  ritener  sola- 
mente l'onore  ed  il  nome  ma  non  già  le  ragioni  e  privilegi  di  metro- 

1.  autocefale  Parente  (p.  139),  che  corregge  «antecesali»  del  copista  napo- 
letano; «antacesalia  ven;  «  austrasali  »  cors,  tutti  derivanti  da  una  lezione 
difficile,  che  i  copisti  evidentemente  non  han  compreso.  2..  ressero  cors; 
resero  ven.  3.  provincia  ven  e  cors;  parrocchia  Parente,  p.  139.  4.  trat- 
to tratto  cors;  tratto  ven.  5.  La  quarta . .  .pontica:  il  Giannone  ha  qui 
invertito  l'ordine  del  Du  Pin,  op.  cit.,  p.  32,  che  pone  come  terza  la  dio- 
cesi del  Ponto  con  capitale  Cesarea,  e  come  quarta  l'Asia,  con  capitale 
Efeso.  6.  che  per  ciò . . .  altrui  cors.  Tutto  il  brano  in  Parente  (p.  140) 
è  corrotto  perché  il  codice  napoletano  corregge  arbitrariamente  un  salto 
per  omoteleutia  di  yen  che  ha:  «che  perciò  furono  al  metropolitano»  ecc. 


DEL    REGNO   PAPALE   •  PERIODO   II   •  CAP.   Ili  675 

politane  Sopra  tutti  questi  metropolitani  presedeva  il  vescovo  di 
Cesarea,  ch'era  la  città  principale  di  questa  diocesi.  Per  questa 
ragione  fu  anch'egli  appellato  esarca,  come  quelli  di  Antiochia, 
d'Alessandria  e  d'Efeso;  ma  non  già  come  que'  due  primi  potè 
acquistar  l'onore  di  patriarca,  poiché  la  sua  diocesi  fu  da  poi,  non 
altrimenti  che  l'asiana,  sottoposta  al  patriarcato  di  Costantinopoli. 


La  quinta  ed  ultima  diocesi  della  prefettura  d'Oriente  fu  la  Tra- 
cia, capo  della  quale  era  la  città  d'Eraclea.  Si  componeva  di  sei 
Provincie:  Europa,  Tracia,  Rodope,  Emimonto,  Mesia1  e  Scizia,  e 
ciascuna  riconobbe  il  suo  metropolitano  ;  ma  da  poi  in  questa  dio- 
cesi si  videro  delle  molte  e  strane  mutazioni,  così  nello  stato  civile 
ch'ecclesiastico.  Prima  per  suo  esarca  riconosceva  il  vescovo  d'Era- 
clea, come  capo  della  diocesi,  il  quale  avea  per  suffragane©  il  vescovo 
di  Bisanzio;  ma,  essendo  piacciuto  a  Costantino  Magno  ingrandir 
cotanto  questa  città,  che,  fattala  capo  d'un  altro  Imperio,  volle2 
anche  dal  suo  nome  chiamarla  Costantinopoli,  il  suo  vescovo,  se- 
condando la  Chiesa  la  polizia  dell'Imperio,  innalzossi  sopra  tutti 
gl'altri;  e  non  solamente  non  fu  contento  delle  ragioni  di  metropo- 
litano, ovvero  d'esarca,  con  sopprimere  quello  d'Eraclea,  ma,  deco- 
rato anche  del  titolo  di  patriarca,  pretese  poscia  stendere  la  sua  auto- 
rità oltre  a'  confini  del  suo  patriarcato  ed  invadere  ancora  le  Pro- 
vincie del  patriarcato  di  Roma,  siccome  più  innanzi  diremo.  Ecco 
in  breve  come,  dopo  avere  Costantino  abbracciata  la  religion  cri- 
stiana e  resala  libera  per  tutto  l'Imperio,  ed  aver  innalzati  i  suoi 
vescovi,  sorse  questa  nuova  polizia  nella  Chiesa  corrispondente  a 
quella  dell'Imperio,  e  crebbe  l'ordine  ecclesiastico,  e  resesi  più 
augusto  per  quest'alta  ed  illustre  gerarchia. 

ILLIRICO 

Non  disuguale  potrà  ravvisarsi  l'ecclesiastica  polizia  in  quelle 
diocesi  che  al  prefetto  pretorio  dell'Illirico  ubbidivano,  cioè  nella 
Macedonia  e  nella  Dacia.  La  diocesi  di  Macedonia,  che  abbracciava 

1.  La  sola  Mesia  inferiore.  Ma  la  distinzione  manca  anche  in  Du  Pin,  op. 
cit.,  p.  22,  di  cui  sono  ripetute  alla  lettera  le  parole.  2.  volle  cors  e 
Parente  (p.  141);  che  volle  yen. 


676  IL    TRIREGNO 

sei  provincie,  cioè  Acaia,1  Macedonia,  Creta,  Tessaglia,  Epiro  Vec- 
chio ed  Epiro  Nuovo,  ebbe  ancora  la  città  sua  principale  che  fu 
Tessaglia,  dalla  quale  il  suo  vescovo,  come  capo  della  diocesi,  reg- 
geva l'altre  provincie,  e  sopra  i  metropolitani  di  quella  esercitava 
le  sue  ragioni  esarcali.  La  diocesi  della  Dacia  di  cinque  provincie 
era  composta:  della  Dacia  mediterranea  e  Ripense,  Mesia  Prima, 
Dardania  e  parte  della  Macedonia  Salutare.  La  varia  fortuna  di 
queste  diocesi,  e  come  per  la  maggior  parte  passassero  sotto  il  ve- 
scovo romano,  si  racconterà  quando  del  patriarcato  di  Roma  tratta- 
remo.  E,  potendo  fin  qui  bastare  ciò  che  brevemente  della  polizia 
dello  stato  ecclesiastico  d'Oriente  fin  ora  s'è  detto,  per  la  confor- 
mità ch'ebbe  con  quella  dell'Imperio,  passaremo  in  Occidente  per 
poter  fermarsi  in  Italia,  per  iscorgere  più  da  presso  gl'ingrandimen- 
ti del  vescovo  di  Roma,  che  finalmente  sottopose  tutto  l'Occidente 
al  suo  patriarcato. 

GALLIE 

Non  è  dubbio,  secondo  che  notarono  i  più  diligenti  investiga- 
tori dell'antichità  ecclesiastiche,  in  fra  gl'altri  Dupino  ed  ultima- 
mente Bingamo,  che  più  esattamente  corrispose  la  polizia  della 
Chiesa  e  quella  dell'Imperio  in  Oriente  che  in  Occidente.  Nell'O- 
riente appena  potrà  notarsi  qualche  diversità  di  picciol  momento. 
Ma  nell'Occidente  se  ne  osservano  molte.  Nelle  Gallie  se  ne  veg- 
gono delle  considerabili,  ma  molto  più  nell'Affrica  occidentale,  ove 
le  metropoli  ecclesiastiche  non  corrispondono  alle  civili,  siccome 
accuratamente  osservò  Bingamo,  tom.  ni  Orig.  eccl.,  lib.  ix,  cap. 
H,  §  v.2 

Le  Gallie,  secondo  la  disposizione  dell'Imperio  sotto  Costan- 
tino, le  quali  ubbidivano  al  suo  prefetto  pretorio,  erano  divise  in 
tre  diocesi  :  la  Gallia  strettamente  presa,  che  abbracciava  diecisette 
provincie,  la  Spagna,  che  si  componeva  di  sette,  e  la  Brettagna  di 
cinque.3 

La  Gallia  non  v'è  alcun  dubbio  che  prima  tenesse  disposte  le 


1.  Acaia:  nostra  congettura  sulla  base  di  J.  Bingham,  Origines  sive  anti- 
qwtates  ecclesiasticae,  ed.  <nt.,  voi.  in,  1727,  p.  496.  ven  e  cors  hanno 
«Acadia  >;  Parente  (p.  141)  «Arabia».  2.  J.  Bingham,  Origines  ecc.,  ed. 
cit.,  loc.  cit.,  pp.  415-21.  3.  Le  Gallie  .  . .  cinque-,  la  fonte  è  ancora  il 
Du  Pin,  op.  e  loc.  cit,  §  x,  pp.  27  sgg. 


DEL    REGNO   PAPALE    •  PERIODO    II    •  CAP.  Ili  677 

sue  chiese  secondo  la  disposizione  delle  provincie  che  compone- 
vano la  sua  diocesi,  in  maniera  che  ciascuna  metropoli  ecclesiastica 
aveva  corrispondenza  colla  ernie,  ed  in  questi  primi  tempi  non 
riconobbe  la  Gallia  niun  primate,  ovvero  esarca,  siccome  ebbero 
le  diocesi  d'Oriente,  ma  i  vescovi  co5  loro  metropolitani  reggevano 
in  commune  la  Chiesa  gallicana.  E  la  cagione  era  perché  nella  Gal- 
lia non  vi  fu  una  città  cotanto  principale  ed  eminente  sopra  tutte 
l'altre,  sicché  da  quella  dovessero  tutte  dipendere,  siccome  fu  nel- 
l'Asia la  città  d'Antiochia,  in  Egitto  quella  d'Alessandria,  in  Italia 
Roma  e  Milano;  siccome  in  queste  parti  istesse  del  mondo  si  vide 
nell'Africa  occidentale  ergersi  cotanto  Cartagine,  in  Asia  Efeso, 
Cesarea  ed  Eraclea,  e  tante  altre.  Ala  nella  Gallia  per  quest'istesso 
si  viddero  da  poi  delle  notabili  variazioni;  poiché  alcune  delle  città 
delle  sue  provincie,  nel  medesimo  tempo  awanzandosi  e  crescendo 
sopra  l'altre,  quindi  sorsero  fra'  loro  metropolitani  varie  contese, 
ciascuno  per  sé  pretendendo  le  ragioni  di  primate.  Nella  provincia 
di  Narbona  fuvi  gran  contrasto  fra  i  vescovi  di  Vienna  e  l'arela- 
tense,  di  cui  ben  a  lungo  trattò  Dupino,  De  antiq,  eccl.  disc,  diss.  i.1 
Nell'Aquitania,  ne'  tempi  posteriori,  altra  contesa  si  accese  fra  il 
vescovo  di  Bourges  e  quello  di  Bordeaux,  della  quale  tratta  Aite- 
serra,2  Rer.  aquiL,  lib.  rv,  cap.  rv.  Talché  negl'ultimi  tempi,  caduto 
l'Imperio  d'Occidente  e  partito  fra  straniere  nazioni,  secondo  ch'e- 
rano innalzate  le  città  principali,  i  vescovi,  i  quali  n'erano  metro- 
politani, si  arrogarono  molte  prerogative  sopra  gl'altri  metropoli- 
tani, e  vollero  esser  soli  chiamati  primati,  ancorché  prima  questo 
titolo  si  attribuiva  indifferentemente  a  tutti  i  metropolitani.  Cosi 
nella  Francia  il  metropolitano  di  Lione  appellasi  primate,  ritenen- 
do assai  più  prerogative  che  non  gl'altri  metropolitani.3 

La  Spagna  riconobbe  in  questi  primi  tempi  qualche  polizia  ec- 
clesiastica, conforme  a  quella  dell'Imperio,  ma  da  poi  nella  deca- 
denza4 dell'Imperio  d'Occidente,  mutandosi  il  suo  governo  poli- 
tico, fu  tutta  mutata,  e,  secondo  che  una  città,  o  per  la  residenza 
di  nuovi  principi,  o  per  altra  cagione,  s'innalzava  sopra  l'altre  di 
altre  provincie,  così  il  vescovo  di  quella  chiesa,  non  contento  delle 


1.  Dupino  .  .  .  diss.  I:  ed.  cit.,  p.  31.  2.  Alteserra  ecc.:  vedi  la  nota  3  a 
P-  37°*  3-  £0  Gallia  non  v'è  . .  .  metropolitani:  l'intero  passo  è  riportato 
dall'  Istoria  civile,  tomo  1,  lib.  11,  cap.  ult.,  p.  126.  In  yen  e  cors  «appellos- 
si  »,  ma  appellasi  nel  luogo  cit.  dèi* Istoria  e  in  Parente  (p.  143).  4.  ma 
da  poi  nella  decadenza-,  manca  in  yen  ed  è  lezione  di  CORS. 


678  IL    TRIREGNO 

ragioni  di  metropolitano,  s'arrogava  molte  prerogative  sopra  gl'al- 
tri, e  primate  dicevasi.  Così  oggi  la  Spagna  ha  per  suo  primate  l'ar- 
civescovo di  Toledo,  come  la  Francia  quello  di  Lione. 

La  Brettagna,  ancorché  prima  riconoscesse  qualche  polizia  ec- 
clesiastica, conforme  alla  civile  dell'Imperio,  nulladimeno,  occu- 
pata che  fu  poi  da'  Sassoni,  perde  affatto  ogni  antica  disposizione, 
né  si  ritenne  alcun  vestigio  della  vecchia  polizia  così  nello  stato 
civile,  come  nell'ecclesiastico.1  Tutte  queste  tre  diocesi  non  si  ap- 
parteneva punto  a  questi  primi  tempi  al  vescovo  di  Roma,  e  si 
governavano  in  commune  da'  loro  vescovi  metropolitani  e  primati, 
siccome  han  ben  provato  gli  scrittori  francesi,  spagnuoli  ed  inglesi, 
ed  intorno  alla  Brettagna  ultimamente  fin  all'ultima  evidenza  ha 
dimostrato  Bingamo,  lib.  ix,  cap.  1,  §  x,  confutando  nel  §  xi  le 
opposizioni  di  Schelstrato,  il  quale  infelicemente  s'era  sforzato  di 
sostenere  il  contrario.3 

ITALIA 

Eccoci  in  Italia,  riserbata  nell'ultimo  luogo,  poiché  in  essa  do- 
vremo fermarci  per  iscorgere  più  d'appresso  l'antico  stato  del  ve- 
scovo di  Roma,  i  suoi  voli  ed  ingrandimenti,  per  i  quali  sorse  que- 
sto regno  papale  di  cui  saremo  a  ragionare. 

Il  vescovo  di  Roma  non  v'è  dubbio  che,  prima  che  Costan- 
tino Magno  abbracciasse  la  religion  cristiana,  era  molto  distinto 
sopra  gl'altri,  e  per  la  credenza  ch'alcuni  Padri  del  terzo  secolo 
ebbero,  siccome  S.  Ireneo,  Cipriano  e  Tertulliano,  che  S.  Pietro, 
capo  degl'appostoli,  fosse  stato  in  Roma,  e  che  quivi  non  meno  che 
in  Antiochia  vi  avesse  fondata  chiesa  e  presedutovi  in  quella  come 
vescovo;  ma  molto  più  per  riguardo  della  città,  la  più  cospicua  ed 
eminente  ch'era  allora  nel  mondo,  nella  quale  questa  cattedra  ve- 
niva ad  essere  collocata,3  Ed  i  vescovi  di  Roma,  sin  dal  terzo  secolo, 
erano  entrati  in  questa  presunzione  d'essere  più  degl'altri,  siccome 
si  vidde  dal  fatto  di  S.  Stefano,  vescovo  di  Roma,  il  quale  non  si 
sgomentò,  nella  controversia  se  dovevasi  o  no  reiterare  il  battesimo 
dato  dagl'eretici  o  scismatici,  di  privare  dalla  communione  i  ve- 


1.  La  Spagna  . . .  ecclesiastico  ;  anche  questi  due  periodi  sono  riportati  dal- 
V Istoria  ovile,  loc.  cit  2.  Bingamo  . . .  contrario:  cfr.  Origmes,  ed.  cit., 
voi.  in,  §§  citt,  pp.  391  sgg.  e  §  xii,  pp.  401-8.  3.  Eccoci . . .  collocata:  cfr. 
Istoria  civile,  loc.  cit.,  p.  127. 


DEL    REGNO    PAPALE   •  PERIODO    II   •  CAP.  Ili  679 

scovi  d'Affrica,  che  contro  il  suo  parere  stavano  per  la  reiterazione. 
Ma  que'  vescovi,  tra'  quali  Cipriano  e  Fimiliano,  seppero  ben  repri- 
mere l'arroganza,  scrivendogli  una  grave  lettera,  nella  quale  fra 
l'altre  cose  gli  dissero  :  a  Xeque  enim  quisquam  nostrum  episcopum 
se  esse  episcoporum  constituit  aut  tyrannico  terrore  ad  obsequendi 
necessitatem  collegas  suos  adegit;;,  Cypr.,  Ep.  lxxiv.1  Ora,  data  che 
fu  poi  da  Costantino  pace  alla  Chiesa,  ed  avendo  egli  in  Roma 
trionfato,  innalberando  il  primo  quivi  la  croce  di  Cristo,  e  careg- 
giando2 Silvestro  che  si  trovava  allora  vescovo  di  quella  chiesa,  ed 
arrichendola  di  preziose  suppellettili  e  di  beni  mondani;  era  ben 
ài  dovere  che,  siccome  i  vescovi  di  Antiochia  e  di  Alessandria  estol- 
sero il  lor  capo  in  Oriente,  dovesse  eziandio  innalzarlo  in  Occi- 
dente quello  di  Roma,  prima  città  allora  del  mondo,  la  quale  non 
era  anche3  a  questi  tempi  Costantinopoli  che  potesse  uguagliarla 
e  molto  meno  con  lei  contender  di  maggioranza,  siccome  ambizio- 
samente fu  da  poi  preteso. 

Ma  con  tutto  che  fosse  Roma  riputata  a  questi  tempi  capo  del 
mondo,  nulladimeno  la  nuova  disposizione  nella  quale  erano  allora 
le  diocesi  e  le  provincie  dell'Imperio  d'Occidente  non  potè  portare 
alla  sua  chiesa  ed  al  suo  vescovo  quell'estensione,  eminenza  e  su- 
periorità che  recò  al  vescovo  d'Antiochia  e  d'Alessandria  in  Oriente, 
poiché  in  questa  prefettura  d'Italia  fu  fatta  altra  disposizione  che 
non  fu  in  quella  d'Oriente.  In  questa,  che  pur  fu  divisa  in  tre  dio- 
cesi, Illirico,  Affrica  ed  Italia,  le  diocesi  furono  altramente  disposte. 
Delle  due  prime,  Illirico  ed  Affrica,  non  accade  qui  favellare,  poi- 
ché ne  ragionaremo  appresso,  quando  il  vescovo  di  Roma,  non 
contento  delle  provincie  suburbicarie,  si  sottopose  anche  l'Illirico, 
dove  mandava  suoi  vicari  e  lo  stesso  pretese  far  nell'Affrica;  onde 
della  terza,  strettamente  detta  Italia,  nella  quale  veggiamo  fondato 
il  regno  papale,  è  di  mestieri  che  qui  più  diffusamente  si  ragioni. 

Questa  diocesi,  a  differenza  dell'altre  di  Oriente,  fu  partita  in 
due  vicariati,  i  quali,  pure  colle  due  diocesi  d'Illirico  e  d'Affrica, 
erano  sottoposti  al  prefetto  pretorio  d'Italia.  Il  primo  fu  detto  il 
vicariato  di  Roma,  capo  del  quale  era  la  città  di  Roma,  il  secondo 


1.  Negue  enim  .  .  .  Ep.  LXXIV:  in  Migne,  P.  L.,  in,  col.  1092,  la  frase  ap- 
partiene al  Carthaginense  conctlium  di  Cipriano  («  Poiché  nessuno  di  noi  si 
è  costituito  vescovo  dei  vescovi  o  ha  costretto  i  suoi  colleghi  all'ossequio 
col  terrore  dispotico»),  a.  careggiando:  rendendosi  amico.  3.  non  era  an- 
che cors;  non  anche  ven. 


68o  IL    TRIREGNO 

chiamavasi  il  vicariato  d'Italia,  capo  del  quale  era  la  città  di  Mi- 
lano. 

Il  vicariato  di  Roma  si  componeva  di  dieci  provincie,  le  quali 
erano:  i.  Campagna,  2.  Puglia  e  Calabria,  3.  Lucania  e  Bruzi, 
4.  Sannio,  5.  Etruria,  6.  Umbria,  7.  Piceno  Suburbicario,  8.  Si- 
cilia, 9.  Sardegna,  io.  Corsica  e  Valeria. 

Del  vicariato  d'Italia  erano  sette1  provincie:  1.  Liguria,  2.  Emi- 
lia, 3.  Flarninia,  4.  Piceno  Annonario,  5.  Venezia,  a  cui  fu  da 
poi  aggiunta  l'Istria,  6.  Alpi  Cozzie,  7.  e  l'una  e  l'altra  Rezia. 

Questa  divisione  d'Italia  in  due  vicariati  portò  in  conseguenza 
che  la  polizia  ecclesiastica  d'Italia  non  corrispondesse  a  quella  d'O- 
riente, poiché  non  ogni  provincia  d'Italia,  siccome  aveva  la  città 
metropoli  (come  la  Campagna  Capua,  l'Etruria  Fiorenza,  e  così 
l'altre),  ebbe  il  suo  metropolitano,  come  in  Oriente;  ma  le  città 
come  prima  ritennero  semplici  vescovi,  e  questi  non  ad  alcuno 
metropolitano,  ma  o  al  vescovo  di  Roma,  o  a  quello  di  Milano 
erano  sottoposti:  quegli  del  vicariato  di  Roma  al  vescovo  di  quella 
città,  e  gli  altri  del  vicariato  d'Italia  al  vescovo  di  Milano,  siccome 
ha  ben  provato  Pietro  di  Marca,  De  concor^  lib.  1,  cap.  in,  n.°  12, 
e  si  vedrà  chiaro  più  innanzi. 

Or,  chi  averà  innanzi  gl'occhi  questa  disposizione  delle  diocesi 
d'Italia  ed  il  canone  sesto2  del  concilio  niceno,  facilmente  comporrà3 
la  disputa  insorta  fra'  vari  scrittori  intorno  a'  confini  dell'esarcato, 
o  sia  patriarcato  di  Roma,  mettendo  attenzione  a  ciò  che  s'appar- 
teneva al  vescovo  di  Roma  come  metropolitano  nella  propria  pro- 
vincia, o  quello  che  se  l'apparteneva  sopra  l'altre  provincie  delle 
quali  si  componeva  il  vicariato  di  Roma,  e  delle  quali  egli  veniva 
ad  essere  come  esarca.  Non  altrimenti  di  ciò  che  s'è  veduto  del 
vescovo  d'Alessandria  e  di  Antiochia.  Quello  d'Alessandria,  come 
preposto  ad  una  città  capo  dell'intiera  diocesi  d'Egitto,  esercitava 
le  sue  ragioni  metropolitiche  nella  propria  provincia,  qual'era  l'E- 
gitto strettamente  preso,  e  le  esarcali  nell'altre  provincie  onde  si 
componeva  l'intiera  diocesi,  come  la  Libia,  divisa  poi  in  due  prò- 

1.  sette  cors;  tutte  ven;  M.  C.  de  Samnitibus  correggendo  in  sette  aveva 
intuito  giusto.  2.  camme  sesto  :  lezione  esatta  di  ven  e  coes,  ripetuta  anche 
più  sotto.  Parente  (p.  146)  ha  «  canone  istesso  ».  Si  tratta  del  canone  vi  del 
concilio  generale  niceno  (335),  da  cui  è  riportato  più  oltre  il  brano.  Cfr. 
Ph.  Labbé-G.  Cossart,  Sacrosancta  concilia,  Lutetiae  Parisiorum  1671,  n, 
col.  31.  La  fonte  del  Giannone  è  ancora  una  volta  il  Du  Ptn,  op.  cit.,  §  ul- 
timo, p.  81.     3.  comporrà  ven  e  cors;  comprenderà  Parente  (p.  146). 


DEL    REGNO   PAPALE    -  PERIODO   II   •  CAP.   Ili  68l 

vincie,  e  Pentapoli,  alle  quali  s'aggiunsero  da  poi  l'Arcadia,  la 
Tebaide,  e  l'Augustanica.  L'altro  d'Antiochia,  città  capo  dell'in- 
tiera diocesi  d'Oriente,  esercitava  le  sue  ragioni  di  metropolitano 
nella  propria  provincia  della  Siria,  e  l'esarcali  nelle  altre  provincie 
onde  si  componeva  quella  diocesi,  le  quali  erano  la  Palestina,  la 
Fenicia,  l'Arabia,  la  Cilicia,  l'Isauria,  la  Mesopotamia.  E  così  ap- 
punto il  concilio  niceno  ci  addita  che  dovesse  riputarsi  il  vescovo 
di  Roma  a  riguardo  delle  provincie  dei  vicariato  di  Roma.  Ecco  le 
parole  del  suo  can.  6:  «Antiqui  mores  serventur,  qui  sunt  in  Ae- 
gypto,  Lybia  et  Pentapoli,  ut  alexandrinus  episcopus  horum  om- 
nium habeat  potestatem,  quandoquidemque  episcopo  romano  hoc 
est  consuetum.  Similiter,  et  in  Antiochia  et  in  aliis  provinciis  sua 
privilegia  ac  suae  dignitates  et  auctoritates  ecclesiis  serventur».1  E, 
secondo  la  versione  di  Dionigi  il  Piccolo:  «Antiqua  consuetudo 
servetur  per  Aegyptum,  Lybiam  et  Pentapolim  ita  ut  alexandrinus 
episcopus  horum  omnium  habeat  potestatem;  quia  et  urbis  Ro- 
mae  episcopo  parilis  mos  est.  Similiter  autem  et  apud  Antiochiam 
ceterasque  provincias  suis  privilegia  serventur  ecclesiis». 

Chi  dasse  occasione  alla  disputa  fu  Ruffino,  il  quale,  traducendo 
dal  greco  in  latino  questo  canone,  l'espresse  così  nella  sua  versio- 
ne ed  epitome:  «Et  apud  Alexandriam  et  in  urbe  Roma  vetusta 
consuetudo  servetur,  ut  vel  ille  Aegypti,  vel  hic  suburbicariarum 
ecclesiarum  sollicitudinem  gerat  ».2  Or,  quali  fossero  queste  chiese 
suburbicarie  da  Ruffino  intese,  Sirmondo,3  De  suburbio .  region., 
lib.  i,  cap.  vii,  si  appose4  al  vero  dicendo  che  queste  erano  le  chiese 
delle  città,  le  quali  s'appartenevano  ed  erano  comprese  nel  vicariato 
di  Roma,  onde  per  quest'istesso  furono  appellate  suburbicarie.  Gia- 
como Gotofredo  in  Cod.  Theod.,  lib.  xi,  De  annona,  leg.  tit.  1.  rx,5 

i.  «Antiqui  mores .  .  .  serventur  iti  «Si  conservino  le  antiche  usanze  che  ci 
sono  in  Egitto,  Libia  e  Pentapoli,  cosicché  il  vescovo  di  Alessandria  abbia 
potestà  su  queste  tutte,  dal  momento  che  ciò  è  consueto  anche  per  il  ve- 
scovo di  Roma.  Parimenti  anche  in  Antiochia  e  nelle  altre  province  si  con- 
servino alle  chiese  i  propri  privilegi  e  le  proprie  dignità  e  autorità  j>.  2.  Buf- 
fino .  .  .  gerat  :  da  L.  E.  Du  PlN,  op.  cit,  p.  86  («come  ad  Alessandria,  così 
in  Roma  si  conservi  l'antica  consuetudine:  sicché  il  vescovo  d'Alessandria 
abbia  cura  dell'Egitto  e  quello  di  Roma  delle  chiese  suburbicarie  »). 
3.  Sirmondo:  Jacques  Sirmond  (1 559-1651),  patrologo  cattolico,  ebbe  una 
fiera  polemica  contro  il  Godefroy  e  il  Saumaise.  Contro  quest'ultimo  scrisse 
il  Propempticum  CI.  Salmasio  adversus  eius  Eucharìsticon  de  suburbicartis 
regionibus  et  ecclesiis,  Parisiis  1622.  La  fonte  giannoniana  è  però  sempre  la  I 
dissertazione  del  Du  Pin,  op.  cit.,  p.  87.  4.  appose:  nostra  congettura 
(yen,  cors  e  Parente,  p.  147,  hanno  «si  oppose»).    5.  Giacomo  Gotofredo 


682  IL    TRIREGNO 

Cave,1  Giovanni  Launeio,2  in  Dìssert.  De  recta  Niceni  Canonis  VI 
intelligentia,  e  Claudio  Salmasio3  queste  chiese  le  restrinsero  in 
troppo  brevi  confini,  poiché  pretesero  che  fossero  state  quelle  che 
per  cento  miglia  intorno  a  Roma,  e  non  oltre,  si  estendevano,  e  che 
al  prefetto  della  città  di  Roma,  non  al  vicario  ubbidivano.  Altri 
diedero  in  un'altra  estremità,  e  sotto  il  nome  di  province  suburbi- 
carie  intesero  chi  l'universo  orbe  romano,  e  chi  almeno  tutto  l'Oc- 
cidente, siccome  con  grandi  apparati  studiaronsi  provare  Emanuel- 
Io  Schelstrate,  Antiq.  illustr.,  part.  i,  diss.  il,  cap.  in,4  e  Lione  Al- 
iaci, De  occid.  et  orìent.  cons.,  lib.  i,  cap.  ix.s  E  Natal  d'Alessandro, 
tom.  rv  saec,  dissert.  xx,  prop.  il,6  inclina  pure  ad  ampliar  l'esar- 
cato romano  in  tutte  le  chiese  d'Occidente.  Ma  il  sudetto  canone  vi 
niceno  fa  chiaramente  conoscere  la  vanità  ed  insussistenza  non  men 
dell'una  che  dell'altra  di  queste  due  opposte  sentenze.  Non  pos- 
sono quelle  chiese  restringersi  alle  sole  città,  al  solo  prefetto  di 
Roma  supposte  per  cento  miglia  intorno,  poiché  il  paragone  fatto 
dal  concilio,  del  vescovo  di  Roma  con  quello  d'Alessandria  e  di  An- 
tiochia, sarebbe  inetto  ed  improprio;  molto  meno  diffondersi  per 
tutte  l'ampie  regioni  d'Occidente,  poiché,  siccome  il  vescovo  d'An- 
tiochia non  aveva  niente  che  impacciarsi  colle  altre  diocesi  e  Pro- 
vincie d'Oriente,  né  quello  d'Alessandria  coll'altre  provincie  d'Af- 
frica, così  nemeno  il  romano  aveva  di  che  impacciarsi  non  pur  colla 
Gallia,  Spagna,  Brettagna  e  l'altre  provincie  d'Occidente,  ma  nem- 
meno in  quelle  d'Italia  istessa  ch'erano  sottoposte  al  vicariato  d'Ita- 

ecc.  :  vedi  la  nota  2  a  p.  24.  Dal  Bingham,  op.  cit.,  voi.  ni,  p.  388,  è  qui  citato, 
oltre  al  Codex,  «lib.  xi.  tit.  1.  de  annona,  leg.  rx »,  anche  il  Cave.  1.  William 
Cave  (1637-1713),  teologo  e  storico  anglicano,  autore  di  A  Dissertation 
Conceming  the  Government  of  the  Ancient  Church  by  Bishops,  Metropolitans 
and  Patriarchs.  More  Particularly,  Conceming  the  Ancient  Power  andjuris- 
dictionof the  Bishops  of Rome  ecc.,  London  1683.  2.  Giovanni  Launeio:  Jean 
de  Launoy  (1602  circa  -  1678),  teologo  e  storico  francese,  di  cui  si  cita  qui 
la  De  recta  nicaeni  canonis  VI  et  prout  a  Rufino  explicatur  inteUigentia  dis- 
sertano y  Lutetiae  Parisiorum  1662.  3.  Claudio  Salmasio:  nome  umanistico 
dell'erudito  francese  Claude  de  Saumaise  (1588-1653).  L'opera  cui  si  al- 
lude è  VEucharistìcon  Iacopo  Sirmondio  prò  adventoria,  de  regionibus  et  ec- 

clesiis  suburbicariis,  Lutetiae  Parisiorum  1621.     4.  Antiquitas  Ecclesiae 

illustrata  cit.,  tomo  il,  Romae  1697,  diss-  Vi.  5.  Lione  Aliaci:  Leone  Al- 
lacci (1586- 1669),  teologo  e  storico  della  letteratura,  di  cui  qui  si  cita  De 
Ecclesiae  ocddentalis  atque  orientaUs  perpetua  consensione  libri  tres,  Coloniae 
Agrippinae  1648,  loc.  cit.,  coli.  170-1.  6.  Natal  d'Alessandro  . .  .prop.  II: 
il  rinvio  è  alla  Historia  ecclesiastica  Veteris  Novique  Testamenti  ecc.,  tomo  rv, 
Parisiis  1714,  secolo  IV,  diss.  xx,  De  sensu  sexti  canonis  nicaeni,  prop.  n, 
pp.  281  sgg.,  di  Noè!  Alexandre  (vedi  la  nota  1  a  p.  104). 


DEL    REGNO    PAPALE   •  PERIODO    II   •  CAP.  Ili  683 

lia,  delle  quali  appartenevano  le  ragioni  esarcali  al  vescovo  di  Mi- 
lano. 

Quindi  la  sentenza  di  Sirmondo,  come  più  vera  e  conforme 
allo  stato  delle  provincie  d'Italia  di  questi  tempi,  fu  abbracciata  e 
vigorosamente  sostenuta  da  Dupino,  De  antiq.  EccL  disc,  diss.  i,1 
ed  ultimamente  da  Bingamo,  Orig.  eccL,  lib.  rx,  cap.  i,3  il  quale, 
facendo  pur  paragone  fra'  vescovi  di  Roma,  Alessandria  ed  Antio- 
chia, viene  a  riconoscere  quello  di  Roma  come  metropolitano  a 
riguardo  della  sua  propria  provincia,  ristretta  forse  in  quel  circuito 
che  al  prefetto  della  città  ubbidiva,  e  come  esarca  a  riguardo  delle 
provincie  suburbicarie  sottoposte  al  vicario  di  Roma,  che  abbraccia- 
vano non  pur  molte  regioni  mediterranee  d'Italia,  ma  fino  l'isole 
di  Sicilia,  Sardegna  e  Corsica. 

E  ben  l'istoria  e  gl'antichi  monumenti  rimastici3  di  quest'età 
confermano  che  tal  fosse  l'autorità  del  vescovo  di  Roma  sopra  que- 
ste provincie,  non  già  ristretta  solamente  alla  propria  provincia, 
perché  l'esercitava  sopra  le  medesime  con  potere  assai  maggiore 
che  non  facevano  gl'esarchi  d'Oriente  nelle  provincie  delle  loro 
diocesi,  poiché,  sebbene  il  vescovo  di  Roma  non  potesse  propria- 
mente dirsi  esarca,  perché  non  l'intiera  diocesi  d'Italia  fu  a  lui 
commessa,  siccome  erano  gl'esarchi  d'Oriente,  i  quali  dell'intiere 
diocesi  avevano  cura,  per  essersi  partita  la  diocesi  d'Italia  in  due 
vicariati,  con  tutto  ciò,  come  che  in  queste  provincie  suburbicarie 
non  vi  era  a  questi  tempi  alcun  vescovo  che  vi  si  fosse  innalzato 
ad  esser  metropolitano,  quindi  il  vescovo  di  Roma,  come  esarca 
insieme  e  metropolitano,  esercitava  in  quelle  non  pur  le  ragioni 
esarcali,  ma  eziandio  le  metropolitiche,  imperciocché  a  lui  s'ap- 
partenevano non  pur  le  ordinazioni  de'  vescovi  delle  città  metropoli, 
come  di  Capua  in  Campagna,  di  Benevento  nel  Sannio,  di  Regio 
e  di  Salerno  nella  Lucania,  e  ne'  Bruzi,  di  Taranto  e  Bari  in  Puglia 
e  Calabria,4  di  Fiorenza  nelTEtruria,  di  Siracusa  in  Sicilia,  e  così 
nell'altre  provincie,  ma  anche  l'ordinazioni  di  tutti  gl'altri  vescovi 
minori  delle  medesime,  quando,  in  Oriente,  gl'esarcati  l'ordinazio- 
ne di  questi  vescovi  la  lasciavano  a'  loro  metropolitani.  Così  le 
chiese  di  tutte  queste  provincie  suburbicarie  ebbero  il  solo  ponte- 

1.  dìss.  I,  §  ultimo  cit.,  pp.  87  sgg.  2.  Orig.  eccl.,  Hb.  IX,  cap.  I,  §  rx, 
ed.  cit.,  voi.  in,  pp.  387-91.  3.  monumenti  rimastici  cors  e  Pare>tte  (p. 
148);  momenti  rimassici  ven.  4.  e  Calabria  ven  e  cors.  L'errore  è  quin- 
di dell'apografo  copiato  da  entrambi. 


684  IL   TRIREGNO 

fice  romano  e  per  esarca  e  per  metropolitano,  perché  a  lui  s'appar- 
teneva l'ordinazione  de'  vescovi,  siccome  dimostra  accuratamente 
l'avvedutissimo  Dupino,  loc.  cit.  Onde,  quando  mancava  ad  una 
città  il  vescovo,  il  clero  ed  il  popolo  eleggevano  il  successore,  poi  si 
mandava  al  vescovo1  di  Roma  perché  l'ordinasse;  il  quale  sowente, 
o  faceva  venire  l'eletto  in  Roma,  ovvero  delegava  ad  altri  la  sua 
ordinazione.  Del  qual  costume  il  registro  dell'Epistole  di  Celestino 
I,  di  S.  Leone  Alagno,  e  più  quello  di  S.  Gregorio  Magno,  serba 
moltissimi  esempi,  come  si  scorge  nell'elezioni  de'  vescovi  di  Ca- 
pua,  epis.  xiii  lib.  rv  et  epis.  xxviii  lib.  vili,2  de'  vescovi  di  Na- 
poli, ep.  4  lib.  83  et  epis.  xv  lib.  11,  de'  vescovi  di  Cuma,  epist. 
rx  lib.  ir4  e  di  Miseno,  epist.  xxv  lib.  vii5  nella  provincia  di  Campa- 
gna ed  in  quella  del  Sannio,  de'  vescovi  di  Teramo,  epist.  xiii  lib.  x6 
e  nell'epis.  in  di  Celestino  I,7  dell'elezione  de'  vescovi  di  Calabria  e 
di  Sicilia:  poiché  in  Sicilia,  come  provincia  suburbicaria,  pur  os- 
serviamo la  medesima  autorità  esercitata  da'  romani  pontefici  in- 
torno all'elezione  de'  suoi  vescovi,  come  è  manifesto  dalla  suddetta 
epistola  di  Celestino  e  dall'epist.  xvi  di  S.  Leone  dirizzata  ad 
Episcopos  Siciliae*  e  da  quella  di  S.  Gregorio  stesso,  epist.  xin 
lib.  v.9 

Ma  siccome  l'istoria  ci  fa  manifesto  di  non  dover  restringere  la 
potestà  del  vescovo  di  Roma  al  solo  territorio,  che  cento  miglia 
intorno  lo  circondava,  così  si  manifesta  ancora  che  fuori  di  queste 
Provincie  suburbicarie  non  aveva  egli  niente  che  impacciarsi  non 
solo  nella  Gallia,  nella  Spagna  ed  in  Brettagna,  nell'Affrica  e  nel- 


1.  al  vescovo  cors  e  Parente  (p.  149),  correttamente:  cfr.  Istoria  civile,  to- 
mo 1,  lib.  11,  cap.  ult.,  pp.  129-30.  ven  ha  «  il  vescovo  ».  2.  Gregorio  Magno, 
Epistolae,  lib.  v  (e  non  iv),  ep.  xiii,  in  Migne,  P.  L.,  lxxvii,  col.  734,  ma 
questo  riferimento  non  appare  del  tutto  pertinente,  mentre  l'altro  che  segue 
(epist.  xxviii  lib.  vili)  è  erroneo.  3.  de*  vescovi  di  Napoli,  ep.  4  lib.  8  è 
lezione  di  cors  mancante  in  ven.  Deve  trattarsi  di  rinvio  erroneo.  Cfr.  in 
Migne  cit.,  lib.  n,  ep.  vi,  col.  542;  ep.  ix,  col.  545;  ep.  xv,  col.  550;  lib.  ni, 
ep.  xxxv,  col.  631.  4.  epist.  IX  lib.  Ili  in  Migne  cit.,  lib.  11,  ep.  xxv,  col. 
561.  5.  epist.  XXV  lib.  VII:  in  Migne  cit.,  lib.  rx,  ep.  lxxv,  col.  1009. 
6.  epist.  XIII  lib.  X:  in  Migne  cit.,  lib.  X,  ep.  lxviii,  col.  11 18.  7.  epis.  Ili 
di  Celestino  I:  cfr.  in  Migne,  P.  L.,  L,  Epistolae,  v,  Aduniversos  episcopos  per 
Apuliam  et  Calabriam  constitutos,  coli.  436-7.  8.  epist.  XVI .  .  .  Siciliaei 
in  Migne,  P.  L.,  liv,  coli.  695  sgg.  9.  epist.  XIII  lib.  V:  cfr.  in  Migne, 
P.  L.,  lxxvii,  lib.  I,  epp.  1  e  lxx;  lib.  vi,  ep.  xiii;  lib.  xi,  ep.  li,  rispettiva- 
mente coli.  441,  525,  805,  1169.  Ma  cfr.  per  l'intero  passo  Istoria  civile, 
tomo  1,  lib.  11,  cap.  ult.,  p.  130. 


DEL   REGNO    PAPALE   •  PERIODO   II    •  CAP.  Ili  685 

P Illirico  e  tutte  l'altre  provincie  d'Occidente,  ma  nemmeno  in  quel- 
le provincie  d'Italia  ch'erano  comprese  nel  vicariato  d'Italia,  le 
quali  al  vescovo  di  Milano  si  appartenevano. 

Intorno  alla  Gallia,  sotto  il  cui  nome  erano  comprese  la  Germania 
ed  il  Belgio,  se  ne  leggono  le  prove  in  Pietro  Piteo,1  Della  libertà 
della  Chiesa  gallicana;  e  Dupino,  Antiq.  EccL  disc,  diss.  1,  n.°xrv~  lo 
dimostrò  abbastanza,  ed  a  riguardo  della  Germania  lo  stesso  fece 
Giovanni  Schiltero3  nel  suo  trattato  De  liberiate  ecclesiastica  Ger- 
maniae,  Ienae  1683,  e  Baluzio,  nella  prefazione  del  libro  d'Antonio 
Augustino  De  emendai.  Gratiani*  dimostrò  chiaramente  che  a  que- 
sti tempi,  e  per  sino  al  secolo  IX,  cioè  800  anni  avanti  ch'egli  scri- 
veva, che  fu  nel  secolo  XVII,  i  sinodi  della  Gallia  non  mai  permi- 
sero che  de'  loro  decreti  si  portasse  appellazione  al  romano  ponte- 
fice. E  che  i  vescovi  della  Gallia  fossero  stati  tutti  ordinati  da'  loro 
metropolitani,  in  niente  impacciandosene  il  vescovo  di  Roma,  è 
pur  manifesto  dal  can.  vii  del  concilio  II5  d'Orleans  celebrato 
nell'anno  533  e  dal  can.  in  del  concilio  III  celebrato  pur  quivi  nel 
53 8.6  Ed  oltre  ciò  che  si  legge  presso  Ainemaro  in  veteribus  formulis 
e7  presso  Ivone  Carnutense  ep.  lx,8  sono  pur  noti  i  molti  esempi 


1.  Pietro  Piteo:  vedi  la  nota  1  a  p.  392.  Il  Traitez  des  droits  et  libertes  de 
V Église  gallicane  (1594),  qui  citato,  fu  la  sua  opera  più  famosa  e  servì  di  base 
alle  Dichiarazioni  del  1682.  2.  n°.  XIV:  è  il  §  ultimo  cit.  3.  Giovanni 
Schiltero:  Johann  Schilter  (vedi  la  nota  3  a  pp.  491-2),  la  cui  opera  qui  ci- 
tata, De  liberiate  Ecclesiarum  Germaniae  libri  VII,  Ienae  1683,  apriva  la 
polemica  per  una  Chiesa  nazionale  germanica,  sulla  falsariga  degli  argomen- 
ti addotti  dal  movimento  gallicano,  e  fu  per  questo  bene  accolta  anche  in 
Francia,  dove  teologi  e  canonisti  vedevano  dilatarsi  oltre  i  confini  nazionali 
le  loro  idee  di  indipendenza  da  Roma.  4.  Baluzio  .  .  .  Gratiani:  Etienne 
Baluze  (1 630-171 8),  storico  ed  erudito  francese.  Il  riferimento  è  ad  Anto- 
nii  Augustini  archiepiscopi  terraconensis  Dialogorum  libri  duo  de  emendatio- 
ne  Gratiani.  Stephanus  Balutius  .  .  .  emendava,  notis  illustravit  et  novas  emen- 
dationes  adiecit,  Parisiis  1672;  si  veda  in  particolare  il  paragrafo  vili  della 
prefazione.  Il  Giannone  ha  però  tratto  l'indicazione  da  J.  Bingham,  Origines 
ecc.,  cit.,  voi.  in,  p.  397.  5.  concilio  11  cors;  ven,  erroneamente,  *  conci- 
lio III».  6.  è  pur  manifesto  .  . .  nel  538:  cfr.  Ph.  Labbé  -  G.  Cossart,  Sa- 
crosanta conalia  cit.,  tomo  rv,  coli.  1779  sgg.,  e  v,  coli.  294  sgg.  7.  Aine- 
maro in  veteribus  formulis  e:  è  lezione  di  cors  mancante  in  ven.  Si  tratta 
probabilmente  di  Hincmar  vescovo  di  Reims  (806-882),  le  cui  opere  in 
Migne,  P.  L.,  cxxv  e  cxxvi,  o  del  nipote,  Hincmar  di  Laon,  vescovo  dal- 
1*858  alP87i,  le  cui  opere  in  Migne,  cxjov,  coli.  979-1072.  8.  Ivone  Car- 
nutense: Ivo  vescovo  di  Chartres  (1040-1116).  Le  sue  Epistolae  in  Opera 
omnia,  Parisiis  1647;  ma  vedi  anche  la  moderna  edizione  della  Correspon- 
dence,  tradotta  e  a  cura  di  J.  Leclercq,  Paris  1949- 


686  IL   TRIREGNO 

che  rapportano  Cave1  e  Baluzio  istesso  delle  vigorose  e  forti  resi- 
stenze che  fecero  i  vescovi  gallicani  alle  usurpazioni  che  tentavano 
di  volta  in  volta  far  i  pontefici  romani  sopra  le  loro  chiese:  ed 
infino  al  decimo  secolo  durarono  le  proteste  e  le  querele  de'  loro 
attentati,  fra*  quali  assai  memorando  è  l'esempio  che  Glabro  Ro- 
dolfo,2 lib.  il  Hist.  Frane,  cap.  iv,  rapporta  accaduto  a'  suoi  dì, 
dell'attentato  che  fece  il  pontefice  Giovanni  XVIII,  il  quale,  cor- 
rotto da  doni  e  da  molta  moneta  che  gli  diede  Folco  conte  d'Angiò, 
ardì  di  far  consacrare  la  chiesa  di  Belluge  bello  loco  della  diocesi 
del  metropolitano  di  Tournon;3  quando  questo  arcivescovo  non 
avea  voluta  consacrarla,  per  essere  stata  fabbricata  da  Folco  di  ra- 
pine e  de'  danari  che  aveva  rubati  a'  suoi  sudditi.  Infino  a  questi 
tempi  di  Glabro  i  vescovi  di  Francia  confessavano  sì  bene  che  il 
pontefice  romano  per  la  dignità  della  sua  apostolica  sede  era  sopra 
tutti  gl'altri  vescovi  del  mondo  venerando,  ed  a  cui  doveva  portarsi 
tutta  riverenza  e  rispetto  per  essere  il  primo  tra'  vescovi;  ma  non 
perciò  che  potesse  nelle  loro  diocesi  esercitare  potestà  alcuna  esar- 
cale, la  quale  era  solo  ristretta  dentro  i  confini  delle  sue  chiese 
suburbicarie,  e  non  già  doveva  trascorrere  nell'altre  provincie  d'Oc- 
cidente, i  di  cui  vescovi  in  quelle  avevano  la  potestà  istessa  che  il 
romano  aveva  nelle  sue.  «Licet  namque»  sono  le  parole  di  Glabro 
«pontifex  romanae  Ecclesiae,  ob  dignitatem  apostolicae  sedis,  cae- 
teris  in  orbe  constitutis  reverentior  habeatur;  non  tamen  ei  licet 
transgredi  in  aliquo  canonici  moderammis  tenorem.  Sicut  enim 
unusquisque,  orthodoxae  Ecclesiae  pontifex  ac  sponsus  propriae 
sedis,  uniformiter  speciem  gerit  Salvatoris;  ita  generaliter  nulli 
convenit  quidpiam  in  alterius  procaciter  patrare  episcopi  dioecesi  ».4 

i.  Di  William  Cerne  cfr.  A  Dissertation  Concerning  the  Government  of  the 
Ancient  Ckurch  ecc.,  cit.  La  citazione  è  di  seconda  mano  e  deriva  dal 
Bingham,  op.  e  loc.  cit.  2.  Rodolfo  il  Glabro  (985  circa  -  1050),  monaco 
francese,  cronista,  di  cui  è  citata  qui  l'opera  principale:  Historiarum  sui 
temporis  libri  quinque,  lib.  11,  cap.  v  (e  non  iv),  in  F.  Duchesne,  Historiae 
Francorum  scriptores,  Lutetiae  Parisiorum  1 636-1 649,  tomo  rv,  p.  15. 
3.  Tournon  cors;  Tumon  ven;  Parente  (p.  151)  Eumon.  4.  «  Licet 
namque . . .  dioecesi»:  in  F.  Duchesne,  op.  cit.,  pp.  15-6  («Va  bene  che 
il  vescovo  della  Chiesa  romana,  per  la  dignità  della  sede  apostolica,  sia  con- 
siderato più  venerabile  di  tutti  gli  altri  costituiti  nel  mondo  ;  non  gli  è  tut- 
tavia lecito  oltrepassare  in  alcunché  il  tenore  della  regola  canonica.  Come 
infatti  ciascuno,  in  quanto  vescovo  della  ortodossa  Chiesa  e  sposo  della 
propria  sede,  rappresenta  uniformemente  il  Salvatore,  cosi  generalmente 
non  s'addice  ad  alcuno  di  intraprendere  protervamente  alcunché  nella  dio- 
cesi di  un  altro  vescovo»). 


DEL   REGNO   PAPALE   •  PERIODO   II    ■  CAP.   Ili  687 

Per  ciò  che  riguarda  la  Spagna,  chiunque  avrà  innanzi  gli  occhi 
i  tanti  concili  nazionali  tenuti  in  questa  diocesi  e  quelli  convocati 
in  Toleto,  specialmente  il  can.  xix  del  concilio  Toletano  IV1  cele- 
brato nell'anno  633,  scorgerà  pure  che  i  vescovi  della  Spagna  erano 
tutti  ordinati  da'  loro  metropolitani,  e  questi  da'  vescovi  compro- 
vinciali ragunati  nella  città  metropoli.  Ed  i  vescovi  spagnuoli,  seb- 
ben  fossero  riverentissimi  al  pontefice  romano  e  lo  avessero  in 
somma  stima  e  venerazione,  con  tutto  ciò  non  permettevano  che 
s'intrigasse  ne'  loro  ecclesiastici  affari,  regolandogli  essi  assoluta- 
mente ed  i  loro  re,  i  quali  spesso  solevano  anche  presedere  ne'  loro 
concili  e  davano  vigor  di  legge  a'  canoni  che  in  essi  stabilivano, 
perché  fossero  da  tutti  inviolabilmente  osservati. 

Nella  Brettagna  più  scrittori  inglesi  hanno  dimostrato  che  in 
questi  primi  tempi,  ed  insino  che  il  monaco  Agostino  fu  colà  man- 
dato missionario  di  Roma,  quei  vescovi  non  riconoscevano  il  ro- 
mano, ma  sibbene  il  vescovo  <i Caèrlegionis  super  Osca»  per  loro 
primate,  che  aveva  la  cura  di  governargli;  ed  avendo  voluto  Ago- 
stino persuadergli  che  si  sottoponessero  a  quello  di  Roma,  essi, 
secondo  che  rapporta  Spelman,  Condì.  Britan.,  A.  DCI,  tom.  1, 
p.  108,2  gli  risposero:  «Nescire  se  obedientiam  papae  romano  debi- 
tam,  sed  esse  se  sub  gubernatione  episcopi  Caèrlegionis  super  Osca, 
qui  sit  sub  Deo  supremus  ipsorum  antistes  ».  Ed  il  venerabile  Beda 
in  più  luoghi  della  sua  Histor.  geni.  Anglor.,  lib.  11,  cap.  xxrx,  lib. 
in,  cap.  xxv,  lib.  v,  cap.  xvi  et  xxii,3  dimostra  che  fino  a'  suoi  tempi 
la  Brettagna  non  riconosceva  sopra  sé  potestà  alcuna  patriarcale  del 
pontefice  romano.  Ciocché  negl'ultimi  nostri  tempi  fu  ben  provato 
da'  più  accurati  investigatori  dell'antichità  brittaniche,  siccome  in- 
fra gl'altri  da  Brerewood,4  da  Watsanio,5  De  EccL  Brìi,  antiq.  liber- 

1 .  il  con.  XIX  del  concilio  Toletano  IV:  lezione  di  ven  e  cors  mancante  in  Pa- 
rente (p.  151),  che  ha  «  quello  ».  2.  Henry  Spelman  (1564-1641),  antiquario 
inglese,  Concilia,  decreta,  leges,  constitutiones  in  re  Ecclesiarum  orbis  britannici, 
Londini  1 639-1664,  in  due  volumi;  ma  la  citazione  è  tratta  dal  Bingham, 
op.  cit.,  voi.  in,  lib.  rx,  cap.  1,  p.  398,  che  in  nota  cita  lo  Spelman  («che 
ignoravano  di  dover  ubbidienza  al  papa  romano,  ma  che  erano  sotto  il  go- 
verno del  vescovo  di  Caerleon  sulTUsk  che  è,  sotto  Dio,  il  loro  supremo 
presule  »).  3.  Beda,  Historia  ecclesiastica  gentis  Anglorum,  in  Migne,  P.  L., 
xcv,  lib.  11,  cap.  xix,  col.  113;  lib.  ni,  cap.  xxvi,  col.  163;  lib.  v,  cap. 
xv,  col.  255;  cap.  xxin,  col.  282.  4.  Edward  Breretcood  (1565  circa  - 
161 3),  antiquario  e  matematico  inglese.  Cfr.  la  sua  opera  Patriarchal 
Government  qf  the  Ancient  Church,  London  1687,  testo  che  naturalmente  il 
Giannone  conosce  indirettamente,  attraverso  il  Bingham.  5.  Watsanio : 
Richard  Watson  (1612-1658),  teologo  anglicano,  polemizzò  contro  puritani 


688  IL   TRIREGNO 

tate,  thes.  n,  dal  Cave,1  Stillingfleet,  Orig,  Brittan.,  cap.  v,  p.  356,* 
ed  ultimamente  dal  Bingam,  il  quale  nel  lib.  ix,  cap.  1,  §  xn  Orig. 
eccl.3  confuta  gl'argomenti  di  Schelfrate,4  che  infelicemente  tentò 
opporsi  alla  sentenza  degl'inglesi  scrittori. 

Nelle  provincie  dell'Illirico  occidentale,  siccome  nella  Pannonia 
I  e  II  le  cui  metropoli  erano  Laureaco  e  Sirmio,  nella  Savia,  di  cui 
pure  la  metropoli  era  Sirmio,  sebbene  altri  voglino  che  fosse  stata 
Vindomana,5  nella  Dalmazia,  la  di  cui  metropoli  era  Salona,  e  nel 
Norico,  di  cui  alcuni  pretendono  che  fosse  stata  la  metropoli  Sa- 
lisburgo, a  questi  tempi,  prima  che  il  pontefice  romano  non  comin- 
ciasse a  mandarvi  suoi  vicari,  non  era  riconosciuto  come  loro  pa- 
triarca, ma  si  governavano  in  commune  da'  propri  vescovi  e  metro- 
politani. E  non  se  non  molto  tempo  da  poi  passarono  sotto  il  di  lui 
patriarcato,  come  diremo  a  suo  luogo. 

Per  ciò  che  s'appartiene  alle  provincie  dell'Affrica  occiden- 
tale, le  quali  pure  s'è  preteso  attribuirle  all'esarcato,  ovvero  pa- 
triarcato romano,  è  pur  manifesto  che  queste  ebbero  proprio  esarca, 
qual  fu  il  primate  di  Cartagine  il  quale  con  assoluta  e  libera  potestà6 
senza  altrui  dipendenza  governava  tutte  quelle  chiese,  secondo  la 
facoltà  concedutagli  dagl'imperatori,  nella  quale  sino  a'  tempi  di 
Giustiniano  la  ritennero;  anzi  dal  medesimo,  per  aver  Cartagine 
anche  decorata  del  suo  nome,  volendo  che  si  chiamasse  Giusti- 
niano II,  fu  maggiormente  stabilita  e  confermata  per  la  sua  no- 
vella 131,  e.  iv,7  comandando:  «Simili  quoque  modo  ius  pontificis, 
quod  episcopo  iustinianae  Carthaginis  africanae  civitatis  dedimus, 
ex  quo  Deus  hanc  nobis  restituit,  servari  iubemus  »  ;  e  dalla  novella 
xxxvii,8  secondo  che  distesamente  si  legge  fra  le  Novelle  di  Giusti- 

e  presbiteriani.  È  qui  citato  il  De  antiqua  libertate  Ecclesiae  brittannicae, 
Londini  1687.  1.  Del  Cave,  oltre  all'opera  citata  alla  nota  1  di  p.  682,  cfr. 
anche  Primitive  Christianity  :  or  the  Religton  qf  the  Ancient  Christians  in  the 
First  Ages  qf  the  Gospel,  London  1673.  2.  Edward  Stillingfleet,  Origines 
brittannicae,  or  the  Antiquities  qf  the  British  Churches,  London  1685.  Cfr. 
ancora,  precedente,  Irenicum,  a  W eapon- Salve  f or  the  Churches  Wounds; 
or,  the  Divine  Rìght  qf  Particidar  Forms  qf  Church  Government,  Discusseci  and 
Examined,  London  1 661.  Tutti  e  due  questi  testi  come  i  precedenti  sono  più 
volte  citati  dal  Bingham.  3.  Orig.  eccl.  cit.,  voi.  m,pp.  401-8.  4.  Schelfrate: 
naturalmente  Schelstrate.  5.  Vindomana  ven  e  cors;  Vindobona  Parente 
(p.  152).  6.  con  assoluta  e  libera  potestà  ven  e  cors  (manca  in  Parente,  p. 
153).  j.Novellae,  cxxxi,  De  eccles.  tiu,  cap.  rv:  «In  simil  modo  coman- 
diamo pure  che  sia  conservato  il  diritto  di  pontefice  che  abbiamo  conferito 
al  vescovo  di  Cartagine  giustinianea,  città  africana,  da  quando  Dio  ce  la 
restituì».     8.  novella  XXXVII,  De  africana  Eccl.,  §§  n-iv. 


DEL   REGNO    PAPALE    •  PERIODO    II    •  CAP.   Ili  689 

niano,  è  manifesto  che  il  vescovo  di  Cartagine  era  il  papa  dell'A- 
frica. La  qual  costituzione  rende  vani  ed  insussistenti  gli  sforzi  del 
Baronio,  di  Schelstrate  e  di  Cristiano  Lupo,  i  quali  a  tutto  potere 
s'ingegnano  di  far  credere  che,  sebben  fosse  stata  grande  la  potestà 
del  vescovo  di  Cartagine  in  Affrica,  era  però  dipendente  dal  vescovo 
di  Roma,  poiché  fu  quella  novella  diretta  a  Salomone,  prefetto 
pretorio  dell'Affrica;  e  siccome  Giustiniano  aveva  dato  a  questa 
provincia  un  prefetto  pretorio  il  quale  avesse  la  suprema  potestà 
sopra  la  medesima,  e  così  vi  volle1  pure  in  Cartagine  costituire  un 
patriarca,  ovvero  primate,  che  nelle  cose  ecclesiastiche  avesse  pari 
autorità;  e  siccome  il  prefetto  pretorio  dell'Affrica  non  era  dipen- 
dente da  quello  d'Italia,  così  sopra  questo  patriarca  di  Cartagine 
non  avea  niente  da  impacciarsi  quello  di  Roma:  <  Ut  civitas»  come 
sono  le  parole  di  Giustiniano  <,quam  nostri  nominis  cognomine 
decorandam  esse  perspeximus,  imperialibus  privilegiis  exornata 
florescat».2  Le  quali  ultime  parole  smentiscono3  pure  il  Baronio 
che  sognò4  che  gl'imperatori  in  elevar  i  vescovi  a  primati  abbian 
bisogno  dell'autorità  del  romano  pontefice,  anzi,  come  si  vedrà  al 
suo  luogo,  era  tutto  contrario:  che  i  papi  avevano  bisogno  della 
licenza  degl'imperatori  quando  volevano  mandare  il  pallio  a  qual- 
che vescovo  per  innalzarlo  ad  essere  metropolitano.  Della  quale 
indipendenza  del  vescovo  di  Roma  e  di  Cartagine  furono  in  pos- 
sesso molto  tempo  innanzi  di  Giustiniano,  e  nel  IV  e  V  secolo, 
sedendo  S.  Agostino  nella  cattedra  d'Ippona,  il  quale  intervenne 
ne'  concili  d'Affrica,  si  oppose  sempre  cogP altri  vescovi  nazionali 
agl'attentati  e  sorprese  de'  pontefici  romani.  È  manifesto  che  non 
si  lasciarono  conculcare  i  loro  diritti,  impedendo  le  appellazioni  in 
Roma  il  lor  mare,  e  tutti  gl'affari  ecclesiastici  e  le  controversie  che 
sorgevano  nelle  loro  provincie  quivi  erano  terminate.  È  pur  troppo 
noto  il  can.  xxn  del  concilio  milevitano  II  celebrato  nell'anno  416, 
col  quale  si  stabilì:  «Placuit  ut  presbyteri,  diaconi  vel  ceteri  infe- 
riores  clerici,  in  causis  quas  habuerint,  si  de  iudiciis  episcoporum 
suorum  questi  fuerint,  vicini  episcopi  eos  audiant;  et  inter  eos, 
quicquid  est,  finiant,  adhibiti  ab  eis  ex  consensu  episcoporum  suo- 


1.  vi  volle  cors  ;  si  vuol  ven.  2.  «  Ut  civitas . . .  florescat  »  :  «  Affinché  la  città 
che  abbiamo  riconosciuto  doversi  adornare  del  nostro  nome,  fiorisca  abbel- 
lita dai  privilegi  imperiali  ».  3.  smentiscono  Parente  (p.  1 54)  ;  ammentisco- 
no  ven  e  cors.  4.  pure  il  Baronio  che  sognò  CORS.  Mancano  in  ven  e  in  Pa- 
rente (p.  154). 


690  IL   TRIREGNO 

rum.  Quod  si  ab  eis  provocandum  putaverint,  non  provocent  nisi 
ad  africana  concilia,  vel  ad  primates  provinciarum  suarum.  Ad 
transmarina  autem  (Roma  scilicet)  qui  putaverit  appellandum,  a 
nullo  inter  Africam  in  communionem  suscipiatur  «-1  Questo  de- 
creto fu  più  volte  confermato  dagl'altri  loro  nazionali  concili  per 
l'occasione  che  spesso  gli  davano  i  romani  pontefici  d'usurparsi  il 
dritto  dell'appellazioni;  ed  è  celebre  la  controversia  insorta  per 
l'appellazione  interposta  in  Roma  da  Apiario,  prete  affricano,  il 
quale  da  un  sinodo  essendo  stato  scommunicato,  avendone  portato 
i  ricorsi  a  Roma,  il  pontefice  Zosimo  pretendeva  assumerne  la  co- 
gnizione, sforzandosi  che  fosse  Apiario  restituito  nella  loro  com- 
munione;  ma  si  opposero  vigorosamente  que'  Padri,  e  rompendo 
tutte  l'imposture  e  cavillazioni  che  si  tentarono  sopra  i  canoni  del 
concilio  niceno,  facendogli  conferire  cogl'originali  che  si  conserva- 
vano in  Antiochia,  Alessandria  e  Constantinopoli,  per  convincere 
la  frode  di  questa  impostura  e  della  maniera  di  confondere  i  canoni 
del  concilio  niceno  con  quelli  di  Sardica.  Savissimamente  scrisse 
Daleo,  De  usu  Patrum,  Kb.  1,  cap.  ni3  sebbene  par  che  ammetta  per 
vere  le  apocrife  epistole  di  Lione  M.  e  di  Teodosio  e  Valentiniano 
imperatori  che  si  leggono  nel  tomo  11  ConciL,  p.  xxv  (xxxi,  A  xxxii, 
A)  soggiungendo:  «Neque  rum  accepta  ab  africanis  Patribus  re- 

1.  «Placuit  ut .  . .  suscipiatur»:  è  il  canone  xxii  del  concilio  provinciale  di 
Nurnidia,  cui  partecipò  sant'Agostino,  di  condanna  dell'eresia  pelagiana. 
La  citazione  è  ripresa  da  J.  Bingham,  op.  cit.,  voi.  ni,  lib.  ix,  cap.  1,  p.  395 
(e  voi.  vili,  p.  73).  Cfr.  inoltre  Ph.  Labbé  -  G.  Cossart,  Sacrosancta  conci- 
lia cit.,  tomo  11,  col.  1542,  can.  xxii  («  Si  è  stabilito  che  presbiteri,  diaconi 
o  altri  chierici  inferiori,  se  nelle  cause  che  hanno  avuto  han  da  lamentarsi 
per  i  giudizi  dei  loro  vescovi,  vengano  ascoltati  dai  vescovi  vicini;  e  defi- 
niscano tra  loro,  col  consenso  dei  loro  vescovi,  qualunque  cosa  presa  in  esa- 
me. E  se  han  deciso  di  appellarsi,  non  si  appellino  se  non  a  concili  africani 
o  ai  primati  delle  loro  province.  Ma  se  qualcuno  ha  deciso  di  appellarsi  al  di 
là  dal  mare  —  cioè  a  Roma  —,  non  sia  ricevuto  da  nessuno  nella  comunione 
dell'Africa»).  2.  Daleo:  Jean  Daillé  (1 594-1670),  uno  dei  maggiori  teologi 
ugonotti.  Cfr.  De  usu  Patrum,  Genevae  1656,  loc.  cit.,  pp.  11  sgg.  e  18-21. 
La  cit.  a  p.  21,  compreso  il  riferimento  ai  Concilia,  tomo  rv  (e  non  11)  epistole 
(e  non  pp.)  xxv-xxxn,  coli.  51-62  («  Né  il  rifiuto  allora  opposto  dai  padri  afri- 
cani impedì  che  diversi  anni  dopo  papa  Leone,  scrivendo  all'imperatore 
Teodosio,  lo  investisse  con  lo  stesso  artificio  e  sostituisse  all'autentico  canone 
niceno  quello  di  Sardica.  Onde  Valentiniano  e  Galla  Placidia,  scrivendo  allo 
stesso  Teodosio,  non  dubitarono  che  i  canoni  vecchi  e  i  niceni  avessero  con- 
cesso al  pontefice  romano  il  diritto  di  giudicare  della  fede  e  dei  presuli  della 
Chiesa.  Evidentemente  sull'autorità  di  Leone,  da  cui  avevano  ricevuto  il 
decreto  di  Sardica  come  canone  niceno.  E  così  tanto  avanti  si  è  andati  con 
questa  pia  frode  che  la  massima  parte  dei  cristiani  è  convinta  che  il  primato 
romano  sia  stato  stabilito  per  decreto  del  concilio  di  Nicea,  cosicché  in 


DEL    REGNO    PAPALE    •  PERIODO    II    •  CAP.    Ili  69I 

pulsa  obstitit  quominus  aliquot  post  annis  Leo  papa,  ad  Theodo- 
sium  imperatorem  scribens,  eadem  arte  ipsum  adoriretur  et  sardi- 
censem  prò  vero  canone  nicaeno  supponeret.  Unde  fit  ut  Valenti- 
nianus  et  Galla  Placidia,  ad  eumdem  Theodosium  scribentes,  extra 
dubitare  veteres  et  nicaenos  canones  de  fide  et  praesulibus  Ecclesiae 
iudicandi  ius  pontifici  romano  concessisse.  Authore  scilicet  Leone, 
a  quo  sardicense  decretum  prò  canone  nicaeno  acceperant.  Atque 
ita  porro  porrectum  est  in  fraude  ista  pia,  ut  maximae  christiano- 
rum  parti  persuasum  sit  nicaeni  concilii  decreto  romanum  prima- 
tum  fuisse  constitutum,  ita  ut  in  hac  controversia  maxima  illius  sy- 
nodi  auctoritas  prò  hac  sententia  passim  obstrudatur». 

Scoperta  la  frode,  i  vescovi  d'Affrica  scrissero  finalmente  quella 
terribile  lettera  sinodica  al  pontefice  Celestino,  il  quale  dopo  Boni- 
facio era  succeduto  a  Zosimo,  che  si  legge  nel  Codice  de'  Canoni 
affricani,  tom.  il  Concila  cap.  135.  36.  37.  38,  dove,  fra  l'altre  cose, 
acremente  rimproverandolo1  che  non  s'intricasse  in  quello  che  non 
se  le  apparteneva,  gli  dicono  :  «  Presbyterorum  quoque  et  sequen- 
tium  clericorum  improba  refugia,  sicuri  te  dignum  est,  repellat  sanc- 
titas  tua;  quia  et  nulla  Patrum  definitione  hoc  Ecclesiae  derogatum 
est  africanae,  et  decreta  nicaena,  sive  inferiores  clericos,  sive  ipsos 
episcopos,  suis  metropolitanis  apertissime  commiserunt.  Pruden- 
tissime  enim,  iustissimeque  providerunt,  quaecumque  negotia  in  suis 
locis,  ubi  orta  sint,  finienda.  Nec  unicuique  providentiae  gratiam 
sancti  Spiritus  defuturam».2  Ed  avendo  il  pontefice  con  sottil  ri- 
questa controversia  la  grandissima  autorità  di  quel  sinodo  incontra  ovunque 
degli  ostacoli  a  motivo  di  questa  opinione»).  1.  rimproverandolo  ven; 
riprendendolo  cors.  2.  Scoperta  la  frode . . .  defuturam:  nel  concilio  d'Afri- 
ca del  426,  tenuto  contro  Apiario.  Questi,  condannato  come  eretico  dai  ve- 
scovi africani,  si  era  appellato  direttamente  al  pontefice  Zosimo,  provo- 
cando una  prima  protesta  nel  concilio  d'Africa  del  419,  dove  si  affermò  che 
i  chierici  non  potevano  appellarsi,  contro  il  giudìzio  del  loro  vescovo,  a 
vescovi  d'altre  province,  ma  solo  al  primate  e  al  concilio  provinciale.  Ri- 
fugiatosi Apiano  a  Roma,  intervenne  nella  controversia  Celestino  papa  as- 
solvendo Apiario  e  indirizzando  in  suo  favore  una  lettera  ai  vescovi  afri- 
cani. Il  rinvio  del  Giannone  è  a  Ph.  Labbé  -  G.  Cossart,  Sacrosancta  con- 
cilia cit.,  tomo  11,  coli.  1144  sgg.  (la  citazione  a  col.  1148),  ma  cfr.  anche 
L.  E.  Du  Pin,  op.  cit.,  diss.  il,  pp.  174  sgg.  (la  citazione  a  p.  180)  e  J.  Bin- 
gham,  op.  cit.,  voi.  ni,  lib.  rx,  p.  396  («La  tua  santità,  come  è  degno  di  te, 
impedisca  l'iniquo  scampo  dei  presbiteri  e  dei  chierici  che  li  seguono,  poi- 
ché senza  alcuna  definizione  dei  Padri  si  è  derogato  al  diritto  della  Chiesa 
africana  e  poiché  i  decreti  niceni  hanno  chiarissimamente  affidato  ai  propri 
metropolitani  sia  i  chierici  inferiori,  sia  gli  stessi  vescovi.  Provvidero  infatti, 
assai  giustamente  e  saggiamente,  a  che  ogni  lite  dovesse  definirsi  nel  luogo 


692  IL   TRIREGNO 

trovato  proposto  che  in  caso  di  gravame,  per  non  far  trasportar  le 
cause  oltra  mare,  voleva  egli  mandar  in  Affrica  suoi  delegati,  gli 
fa  risposto  che  in  niun  concilio  de'  Padri  avevano  trovata  questa 
nuova  prattica  ch'egli  voleva  introdurre,  e  perciò  che  se  n'aste- 
nesse, dicendogli  :  «  Executores  clericos  vestros  quibuscumque  pe- 
tentibus  nolite  mittere,  nolite  concedere,  ne  fumosum  typhum 
saeculi  in  Ecclesiam  Christi,  qui  lucem  simplicitatis  et  humilitatis 
diem  Deum  videre  cupientibus  praefert,  videamur  inducere  w.1  Non 
è  dunque  da  dubitare  che  a  questi  tempi  del  IV  e  V  secolo,  ed  infino 
a  Giustiniano  imperatore,  il  pontefice  romano  non  aveva  dritto 
alcuno  patriarcale  sopra  le  chiese  affricane,  le  quali  da'  loro  metro- 
politani o  dal  primate  di  Cartagine  erano  rette  e  governate,  siccome 
eziandio  ben  dimostrano  Salmasio,  De  prL  papae,  cap.  xv,  p.  23 62 
ed  ultimamente  Melchiorre  Leyderchero,3  De  ecclesia  affricana,  vin- 
dicandolo  di  tutte  le  cavillazoni  ed  ingiurie  degli  scrittori  romani.4 
Ma  se  quest'istesso  ravvisiamo  nelle  sette  provincie  d'Italia 
istessa  ch'erano  del  vicariato  d'Italia,  alle  quali  presideva  il  vescovo 
di  Milano,  qual  motivo  di  dubitare  vi  rimarrà  per  l'altre  provincie 
d'Occidente,  fuori  d'Italia? 

Milano  a  questi  tempi  era  riputata  la  città  metropoli  d'Italia,  cioè 
d'Italia5  strettamente  presa,  ch'era  tutta  quella  regione  che  al  vi- 
cario d'Italia  ubbidiva,  compresa  da  queste  sette  provincie,  cioè: 
Liguria,  Emilia,  Flaminia,  Piceno,  Annonario,  Venezia  ed  Istria, 
Alpi  Cozzie  e  l'una  e  l'altra  Rezia,  non  altrimenti  che  Roma  era 
capo  dell'altre  provincie  suburbicarie  sottoposte  al  vicario  di  Ro- 
ma. Quindi  dagli  scrittori  del  IV  e  V  secolo  Milano  era  chiamata 
«metropoli  d'Italia»,  infra  gl'altri  da  Attanasio  nzVUEpist.  adsolitar., 

stesso  in  cui  ha  avuto  inizio  ;  né  mancherà  a  ciascuno,  per  provvedere,  la 
grazia,  dello  Spirito  Santo»).  1.  «Executores  .  . .  inducere»:  la  supplica  è 
sempre  nella  lettera  a  Celestino,  che  il  Du  Pin  riporta  integralmente  nella 
diss.  11,  pp.  179-80,  e  il  Bingham  a  p.  397  del  in  voi.  cit.  (a  Non  mandate 
vostri  chierici  esecutori,  chiunque  li  richieda,  non  lo  permettete,  perché 
non  sembri  che  si  voglia  introdurre  il  fumoso  tifone  del  secolo  nella  Chiesa 
di  Cristo,  il  quale  offre  la  luce  della  semplicità  e  il  chiarore  del  giorno  a  chi 
desidera  vedere  Dio  »).  2.  Claude  Saumaise  (cfr.  la  nota  3  a  p.  682),  Li- 
brorum  de  primatu  papae  pars  prima  cum  apparata,  Lugduni  Batavorum 
1645,  cap.  xv,  pp.  236  sgg.  ^.Melchiorre  Leyderchero:  Melchior  Ley- 
dekker  (1642-1721),  teologo  calvinista  olandese,  avversario  delFarrniniane- 
simo  e  fautore  di  un  riavvicinamento  fra  calvinisti  e  luterani  ortodossi.  Di 
lui  è  citata  qui  la  Historia  Ecclesiae  africanae,  Ultraiecti  1690.  4.  scrittori 
romani  cors:  scrittori  r.  ven.  5.  cioè  d'Italia:  lezione  di  cors  mancante 
in  ven. 


DEL   REGNO    PAPALE   -  PERIODO   II   •  CAP.   Ili  693 

tom.  i1  dove,  parlando  de'  vescovi  delle  città  metropoli  della  Gallia 
e  di  Sardegna,  di  Dionisio,  ch'era  allora  vescovo  di  Milano,  dice: 
t'Dionysius  Mediolani  est  autem  et  ipsa  metropolis  Italiaea.  Pa- 
rimenti Teodoreto,  lib.  11,  cap.  xv,3  parlando  di  Liberio  vescovo 
di  Roma,  e  di  Paolino  della  Gallia  e  di  Dionisio  dell'Italia,  disse 
pure  :  '  Liberius  episcopus  urbis  Romae,  Paulinus  metropolis  Gal- 
liarum,  Dionysius  metropolis  Italiae  ->,  cioè  di  Milano.  E  questa  fu 
la  cagione  perché,  quando  nella  convocazione  de'  concili  s'univano 
i  vescovi  di  tutte  le  xvii  provincie  d'Italia,  perché  si  distinguessero 
quali  fossero  quelli  delle  provincie  suburbicarie  e  quali  d'Italia 
strettamente  presa,  nelle  soscrizioni  solevano  i  primi  particolar- 
mente denominarsi  dalle  provincie  e  città  ove  presiedevano,  ed  i 
secondi  denominavansi  generalmente  col  solo  nome  d'Italia  e  della 
città.  Così  osserviamo  nelle  soscrizioni  de'  vescovi  rapportate  a 
questa  occasione3  da  Camillo  Pellegrino,4  Definib.  Ducat.  benez:, 
diss.  11,  dagl'atti  del  Concilio  di  Sardica,  celebrato  nell'anno  347, 
che  alcuni  si  sottoscrissero  così:  0  Ianuarius  a  Campania  de  Bene- 
vento; Maximus  a  Tuscia  de  Luca;  Lucius  ab  Italia  de  Verona; 
Fortunatus  ab  Italia  de  Aquileia;  Stercorius  ab  Apulia  de  Canusio; 
Severus  ab  Italia  de  Ravenna;  Ursacius  ab  Italia  de  Brixia;  Pro- 
tasius  ab  Italia  de  Mediolano»  etc.  E  questo  era  perché  Verona, 
Aquileia,  Ravenna,  Brescia  e  Milano  erano  nelle  provincie  le  quali 
al  vicario  d'Italia  ubbidivano.  Ciocché  non  poteva  dirsi  di  Beneven- 
to, di  Lucca  e  di  Canosa,  le  quali  città  erano  nelle  provincie  di 
Toscana,  di  Campagna  e  di  Puglia,  le  quali  erano  del  vicariato  di 
Roma,  non  già  d'Italia. 

Or,  siccome  il  vescovo  di  Milano  non  avea  di  che  impacciarsi 


1.  Si  tratta  dell'Epistola  ad  solitari  che  il  Bingham,  op.  cit,  voi.  ni,  p.  393, 
in  nota,  cita  indicando  due  edizioni:  &  tom.  I  p.  831  edit.  Par.  1627  (p.  363  d. 
edit.  Par.  1697)».  («Dionisio  [vescovo]  di  Milano,  che  è  poi  la  metropoli 
d'Italia»).  2.  Teodoreto,  lib.  II,  cap.  XV:  della  Ecclesiastica  historia  di 
Teodoreto  è  qui  citato  il  lib.  11,  cap.  xn  (e  non  xv),  in  Migne,  P.  G., 
Lxxxn,  col.  1030.  La  citazione  -  che  è  presa  dal  Bingham,  op.  cit.,  voi.  ili, 
p.  394,  in  nota  -  è  mozza  in  ven  (manca  Gallìarum,  Dionysius  metropolis) 
e  completa  in  cors  («  Liberio  vescovo  di  Roma,  Paolino  della  metropoli 
delle  Gallie,  Dionisio  della  metropoli  d'Italia  *).  3.  occasione  Parente  ;  yen 
e  cors  non  hanno  letto  la  parola  e  recano  dei  punti.  4.  Di  Camillo  Pelle- 
grino (1 598-1 663),  storico  napoletano,  è  qui  citata  la  Libri  secundi  Historiae 
principimi  Langobardorum  pars  prima,  quae  continet  dissertationes  de  institu- 
tione,  finibus  et  descriptione  antiqui  ducatus  beneventani,  Neapoli  1644,  diss. 
li,  Ducatus  beneventani^  air  institutus,  p.  15. 


694  IL   TRIREGNO 

delle  chiese  al  vicariato  di  Roma  appartenenti,  così  il  vescovo  di 
Roma  non  s'intricava  in  quelle  che  s'appartenevano  al  vicariato 
d'Italia;  onde  nelle  loro  ordinazioni,  siccome  il  romano  non  era 
consecrato  dal  vescovo  di  Milano,  ma  da  quello  d'Ostia,  così  il 
milanese  non  già  dal  vescovo  di  Roma,  ma  da  quello  d'Aquileia,  e 
questi  dal  milanese  erano  vicendevolmente  ordinati,  siccome  è  ma- 
nifesto dall'epist.  xvn  dell'istesso  Pelagio  I,1  che  sedè  in  Roma 
nell'anno  555,  che  si  legge  nel  tomo  v  Concila  e  da  ciò  che  rapporta 
Teodoreto,2  lib.  iv  hist,  e.  vii,  dell'ordinazione  di  S.  Ambrogio. 
E  Pietro  di  Marca,  De  concord.,  lib.  vi,  e.  iv,  n.°  vii,3  non  potè  ne- 
gare che  insino  a'  tempi  di  S.  Gregorio  M.  il  vescovo  di  Roma 
s'astenne  sempre  nell'ordinazione  di  quello  di  Milano,  di  Aquileia, 
di  Ravenna  e  dagl'altri  vescovi  d'Italia,  i  quali  al  vicariato  d'Italia 
s'appartenevano.  Ne'  princìpi  del  VII  secolo,  nel  pontificato  di  S. 
Gregorio  Magno,  lvtii  anni  appresso  quello  di  Pelagio,  si  comin- 
ciarono le  sorprese  per  un'occasione  opportuna,  che,  secondo  credè 
l'arcivescovo  istesso  di  Parigi,  gli  somministrò  lo  scisma  che  insorse 
a  que'  tempi  tra  la  Chiesa  di  Milano  e  quella  d'Aquileia:  Gregorio, 
col  pretesto  di  occorrere  a  sedizioni,  tumulti4  ed  alle  ambizioni, 
e  datigli  a  credere  che  ciò  si  fosse  anche  per  consuetudine  altre 
volte  pratticato,  cominciò  a  mandare  in  Milano  un  suo  messo,  il 
quale  dovesse  assistere  all'elezione,  la  quale  si  lasciava  come  prima, 
secondo  il  prescritto  de'  sacri  canoni,  al  clero  ed  al  popolo,  l'uni- 
versal  consenso5  de'  quali  dovesse  ricercarsi,  e  che  l'eletto  si  con- 
sacrasse pure  come  prima  da'  vescovi  comprovinciali;  aggiunse  che 
vi  dovesse  ancora  concorrere  la  sua  autorità  ed  assenso.  Così  si 
legge  in  una  sua  epistola  drizzata  al  romano  patrizio  ed  esarca 
d'Italia,  epist.  xxxi:  «Necesse  fuit  prò  servanda  consuetudine  (la 
quale  non  mai  era  stata,  anzi  tutto  il  contrario  dimostrano  l'elezioni 

1.  epist.  XVII  dell'istesso  Pelagio  I:  Epistola  XV  ad  Narsen  patricium,  in 
Migne,  P.  L.,  lxix,  col.  397.  La  fonte  è  qui  il  Bingham,  op.  cit.,  voi.  in, 
pp.  393  sgg.  Il  Parente,  pp.  157-8,  attribuisce  ad  Ambrogio,  nella  nota  suc- 
cessiva, quanto  invece  si  riferisce  a  Pelagio.  2.  Teodoreto  :  così  correggiamo 
«Teodorico  »  di  ven  e  cors  in  base  al  rinvio  che  segue:  cfr.  in  Migne,  P.  G-, 
t.xxxti,  Ecclesiastica  historia,  lib.  rv,  cap.  vi,  De  ordinazione  Ambrosii  epi- 
scopi mediolanensis.  (Parente,  p.  157,  ha  «Teodosio»  senza  il  rinvio). 
3.  P.  de  Marca,  De  concordia  Sacerdotii  et  Imperii  ecc.,  cit.,  lib.  1,  cap.  vii, 
par.  in,  p.  23;  lib.  vi,  cap.  rv,  par.  vii,  p.  187.  Il  de  Marca,  soprattutto 
nel  primo  caso,  si  rifa  al  Sirmond.  4.  sedizioni,  tumulti  ven;  sediziosi  tu- 
multi cors.  5.  consenso:  così  correggiamo  «conteso»  di  ven  e  cors  («con- 
tesa» in  Parente,  p.  158). 


DEL    REGNO   PAPALE   •  PERIODO   II   •  CAP.  Ili  695 

de'  precedenti  tempi)  militem  Ecclesiae  nostrae  dirigere,  qui  eum 
in  quo  omnium  voluntates  atque  consensum  concorditer  convenire 
cognoverit,  a  suis  episcopis,  sicuti  vetus  mos  exigit,  cum  nostro 
tamen  assensu  faciat  consecrari  \l  E  lo  stesso  pontefice,  scrivendo 
a  Giovanni  sottodiacono,  al  quale  avea  data  commissione  d'eseguire 
i  suoi  ordini,  si  vale  d'altra  frase  più  acconcia  per  istabilire  questo 
nuovo  dritto,  dicendogli:  Tunc  eum  a  propriis  episcopis,  sicuti 
antiquitatis  mos  obtinet  cum  nostrae  auctoritatis  assensu,  facias 
consecrari,  quatenus  huiusmodi  servata  consuetudine,  et  apostolica 
sedes  proprium  vigorem  retineat,  et  a  se  concessa  aliis  sua  iura 
non  minuat  ».2  Quest'epistola  in  altri  darebbe  sospetto  non  di  sim- 
plicità,  come  in  Gregorio,  ma  di  furberia,3  perché  sarebbe  una  inge- 
gnosa invenzione  per  stabilir  un  nuovo  dritto  di  concedere  facoltà 
a'  vescovi  comprovinciali  della  quale  non  avevano  bisogno,  som- 
ministrandogli la  propria  autorità  il  poter  da  se  stessi  ciò  fare; 
e  nelTistesso  tempo  gliela  concede,  vuol  che  non  restino  pregiudi- 
cati né  minuiti  i  loro  dritti  e  ragioni,  ricercando  anche  in  ciò  il  suo 
assenso.  Di  queste  sottili  ed  accorte  maniere4  se  ne  additeranno  ben 
mille  e  mille  ne'  princìpi  dell'usurpazioni,  e  non  d'altra  guisa  fu- 
rono tutte  l'altre  intraprese,  sicché  ciascuno  potrà  per  se  stesso 
chiaramente  comprendere  su  quali  fondamenti  si  fosse  appoggiato 
questo  sì  maestoso  e  splendido  regno  papale. 

Ma  nel  periodo  nel  quale  ora  siamo,  prima  di  Gregorio  M., 
tal'era  la  potestà  del  vescovo  di  Roma  in  Italia  istessa,  la  quale  non 
si  estendeva  sopra  le  chiese  di  quelle  provincie  che  nel  vicariato 
d'Italia  eran  comprese.  Aveva  questo  vicariato  il  suo  esarca,  ch'era 
il  vescovo  di  Milano,  il  quale,  oltre  i  vescovi  minori,  aveva  sotto 
di  sé  grandi  ed  illustri  metropolitani,  siccome  erano  il  vescovo 
d'Aquileia  e  quello  di  Ravenna,  li  quali  (siccome  quello  di  Milano) 

1.  «.Necesse  fuit . .  .  consecrari»;  Gregorio  Magno,  Epistolae,  lib.  ni,  ep. 
xxxi,  in  Migne,  P.  L.,  uocvii,  col.  628.  La  citazione  viene  dal  Bingham, 
op.  cit.,  voi.  in,  p.  395,  nota.  («Si  rese  necessario,  per  rispetto  alla  con- 
suetudine, inviare  un  funzionario  della  nostra  Chiesa  per  far  consacrare 
dai  propri  vescovi,  come  vuole  Fantico  uso,  e  tuttavia  con  la  nostra  appro- 
vazione, colui  che  vedesse  ricevere  concordemente  il  voto  e  il  consenso  di 
tutti»).  2.  «  Tunc  eum  . . .  minuat*:  lib.  ni,  ep.  xxx,  ibid.,  col.  628.  Sempre 
dal  Bingham,  loc.  cit.  (ff  Fallo  consacrare  dai  propri  vescovi,  come  vuole  il 
costume  dell'antichità,  con  l'assenso  della  nostra  autorità,  affinché,  rispet- 
tata tale  consuetudine,  e  la  sede  apostolica  conservi  il  proprio  potere  e  non 
veda  diminuiti  i  propri  diritti  che  ha  accordato  ad  altri/»).  3.  di  furberia 
cors;  in  furberia  ven.  4.  maniere:  lezione  di  Parente  (p.  159)  mancante 
in  ven  e  cors. 


696  IL    TRIREGNO 

non  riconoscevano  sopra  di  loro  giurisdizione  o  superiorità  alcuna 
nel  vescovo  di  Roma;  anzi  quello  di  Ravenna  «de  pari  cum  papa 
certabat»,1  e  più  contese  di  giurisdizione  ebbero  insieme,  delle 
quali  lunga  istoria  continuata  per  più  secoli  tessè  l'accuratissimo 
Guglielmo  Cave2  per  tutto  il  cap.  v,  alla  quale  bisogna  rimettere  i 
lettori  come  degna  d'esser  veduta  e  letta. 

Il  vescovo  di  Roma  era  riputato  fra  tutti  gl'altri  dell'ordine  cri- 
stiano il  più  venerabile  e  reverendo,  per  ragione  che  la  sua  catte- 
dra era  fondata  nella  prima  città  del  mondo,  siccome  i  Padri  del 
concilio  di  Calcedonia  non  ad  altra  ragione  attribuiscono  questa 
sua  preminenza  sopra  tutti  gl'altri,  dicendo  nel  can.  xxvni:3  «Ete- 
nim  antiquae  Romae  throno,  quod  urbs  illa  imperaret,  iure  Patres 
privilegia  tribuerunt».  E  gl'altri  imperatori  per  ciò  gli  concedettero 
i  primi  onori  e  le  preminenze  nella  convocazione  de'  concili  o 
nell'altre  occorrenze  di  funzioni  ecclesiastiche,  come  per  ciò  ben 
dovute  ;  siccome  dopo  che4  innalzarono  Constantinopoli  sopra  An- 
tiochia ed  Alessandria,  facendola  città  capo  dell'Imperio  d'Orien- 
te e  chiamandola  nuova  Roma,  per  quest'istesso  il  suo  vescovo 
venne  ad  innalzarsi  cotanto,  sicché  gli  rimasero  indietro  i  vescovi 
d'Alessandria  e  d'Antiochia,  ed  occupò  fra  i  patriarchi  il  secondo 
luogo  dopo  il  romano,  sicché  più  innanzi  potrà  vedersi.  Intanto, 
quella  maggior  riverenza  e  venerabilità  non  gli  recava  maggior 
dritto  sopra  l'altrui  diocesi,  né  importava  che  potesse  comandar 
gl'altri.  Egli  è  però  vero  che  questo  rispetto  fu  cagione,  per  l'igno- 
ranza e  decadenza  dell'Imperio  d'Occidente,  e  molto  più  di  quello 
d'Oriente,  che  la  riverenza  si  cangiasse  in  superiorità,  e  che  innal- 
zasse poi  il  suo  triregno,  non  più  tiara  sacerdotale,  la  quale  fu 
trasformata  in  imperiai  diadema  sopra  tutte  l'altre  mitre,  anzi  so- 
pra gli  scetri  istessi  e  corone  de'  più  potenti  re  della  terra.  Ecco 
una  mostruosa  metamorfosi:  da  primo  qual  era  de'  vescovi,  si  vid- 
de  da'  medemi  fatto  principe  e  signore.  Ma,  fino  che  durò  nel  suo 
vigore  l'Imperio,  non  s'estendevano  più  oltre  di  ciò  che  s'è  detto  i 
suoi  dritti  e  ragioni  esarcali.  Anzi  a  questi  tempi  ne'  quali  siamo 

1.  «  de  pari  .  . .  certabat*:  «contendeva  da  pari  a  pari  col  papa».  2.  lunga 
istoria .  .  .  Cave:  W.  Cave,  Scriptorum  ecclesiasticorum  historia  literaria,  a 
Christo  nato  usque  ad  saeculum  XIV \  Londini  1688-1689.  3.  can.  XXVIII: 
cfr.  Ph»  Labbé  -  G.  Cossart,  Sacrosancta  concilia  cit.,  tomo  iv,  col.  769 
(«  Giustamente  infatti,  poiché  quella  città  signoreggiava,  i  Padri  conferirono 
privilegi  al  trono  dell'antica  Roma»).  4.  ben  dovute  . . .  che  cors;  manca 
in  ven  e  in  Parente  (p.  160). 


DEL    REGNO    PAPALE    •  PERIODO    II    •  CAP.   Ili  697 

non  l'era  dato  nemmeno  nome  di  patriarca,  il  qual  nome  fu  più 
antico  agPesarchi  d'Oriente  che  questo  di  Roma,  se  voglia  riguar- 
darsi l'antichità  della  Chiesa:  fu  prima  questo  nome  dato  in  Oriente1 
per  encomio  anche  a'  semplici  vescovi,  siccome  ha  ben  provato 
l'accuratissimo  Dupino,  De  antiq.  Eccl.  disc,  diss.  i.a  Poi  si  restrinse 
agli  esarchi,  che  avevano  cura  dell'intiere  diocesi,  per  la  qual  cosa 
presso  a'  Greci  tutti  gl'esarchi  con  questo  nome  di  patriarca  eran 
chiamati.  Ma,  fra'  Latini  in  Occidente,  il  primo  che  si  fosse  così 
chiamato  fu  il  pontefice  romano,  ed  i  Greci  istessi  furono  i  primi  a 
dargli  quest'encomio,  ma  non  prima  de'  tempi  dell'imperator  Va- 
lentiniano  III  e  di  papa  Leone  Magno.  Questo  pontefice  da'  Greci 
e  da  Marciano  istesso,  imperatore  d'Oriente,  fu  chiamato  patriarca. 
Né  prima,  come  notò  l'accuratissimo  Dupino,  da'  Latini  medesimi 
e  da'  Greci  se  gli  diede  tal  nome.  Anzi  il  Sirmondo,  De  eccl. 
suburbi  lib.  11,  cap.  vii,3  scrivendo  contro  Claudio  Salmasio,  non 
potè  allegar  sopra  ciò  esempi  più  antichi  che  degl'imperatori  Ana- 
stasio e  Giustino,  i  quali  chiamarono  patriarca  Ormisda,  vescovo 
ài  Roma. 

Ecco  dunque  qual  fosse  l'esterior  polizia  della  Chiesa  del  IV 
secolo.  A  questi  tempi  si  noverano  più  esarchi,  ovvero  patriarchi, 
i  quali  avevano  a  riguardo  delle  proprie  diocesi  egual  potestà,  né 
l'uno  era  soggetto  o  dipendente  dall'altro.  Brerewood4  novera  sino 
a  xiii  o  xrv  esarchi  nelle  diocesi  dell'Imperio  romano,  l'uno  indi- 
pendente dall'altro:  i.  il  patriarca  alessandrino  soprala  diocesi  d'E- 
gitto; 11.  il  patriarca  antiocheno  sopra  la  diocesi  d'Oriente;  in.  il 
patriarca  efesino  sopra  la  diocesi  asiana;  rv.  il  patriarca  di  Cesarea 
di  Cappadocia  sopra  la  diocesi  pontica;  v.  l'altro  di  Eraclea  sopra 
la  Tracia;  vi.  quello  di  Tessalonica  sopra  la  Macedonia  ovvero  Illi- 
rico orientale;  vii.  l'altro  di  Sirmio,  sopra  l'Illirico  occidentale; 
vili,  il  romano  sopra  il  vicariato  di  Roma;  rx.  l'altro  di  Milano  so- 
pra il  vicariato  d'Italia;  x.  il  cartaginese  sopra  l'Affrica;  xi.  quello 
di  Lione  sopra  la  Gallia;  xii.  l'altro  di  Toleto  sopra  la  Spagna; 
xiii.  Peboracense  sopra  la  Brettagna. 

Oltre  ciò  vi  erano  alcuni  metropolitani,  li  quali  parimenti  erano 

1.  che  questo  di  Roma  .  . .  Oriente  ven  e  cors  (manca  in  Parente,  p.  160). 

2.  siccome . . .  diss.  I:  L.  E.  Du  Pin,  op.  cit.,  diss.  1,  §  v,  De  nomine  patriarchae, 
pp.  9-14.  Ma  cfr.  anche  la  diss.  rv,  De  primatu  romani  pontifica,  cap.  il, 
§§  i-ii,  pp.  333  sgg.  3.  Sirmondo . .  .  cap.  VII:  vedi  la  nota  3  a  p.  681. 
4.  Brerewood:  cfr.  la  nota  4  a  p.  687.  Trae  dal  Du  Pin,  op.  cit.,  diss.  1, 
§  XI,  De  institutione  et  limitibus  patnarchatuum,  pp.  35  sgg. 


698  IL   TRIREGNO 

indipendenti,  né  sottoposti  ad  alcun  esarca,  siccome  furono  i  me- 
tropolitani di  Cipro,  di  Bulgaria,  d'Iberia,  ch'ora  communemente 
chiamano  la  Giorgia  dell'Armenia,  ed  alcune  chiese  della  Bretta- 
gna, che  riconoscevano  solo  l'arcivescovo  «  Caérlegionis  »  per  loro 
primate  indipendente  da  qualunque  altro  patriarca.  Parimenti,  se 
fra  nazioni  barbare  convertite  alla  fede  di  Cristo  sorgeva  alcun  ve- 
scovo, governava  questi  indipendentemente  dagl'altri  la  sua  na- 
zione. Così  il  vescovo  di  Tomidi  nella  Scizia,  narra  Sozomeno, 
lib.  vi,  cap.  xxi,1  che  come  metropolitano  governava  tutta  quella 
provincia;  siccome  le  chiese  d'Etiopia,  della  Persia  e  dell'Indie,  e 
di  tutte  quelle  regioni  ch'erano  fuori  dell'Imperio  romano,  da'  loro 
propri  sacerdoti  erano  governate. 

CAP. IV 

I  capi  e  moderatori  di  quesf  esterior  ecclesiastica  polizia  erano 

gl'imperatori  cristiani,  come  supremi  ispettori  da  Dio  costituiti 

per  averne  cura  e  protezione. 

Essendo  chiara  cosa  e  manifesta  che  quest'esterna  polizia  della 
Chiesa  s'adattò  a  quella  dell'Imperio,  onde  sorsero  gl'esarchi  pri- 
mati ed  i  metropolitani  corrispondenti  a'  magistrati  dell'Imperio, 
secondo  la  maggiore  o  minor  estensione  delle  diocesi  e  delle  Pro- 
vincie ch'essi  governavano,  in  conseguenza  di  ciò  ne  doveva  seguire 
che,  siccome  nell'Imperio  v'era  un  capo  che  lo  reggeva,  qual  era 
l'imperatore,  così  nella  Chiesa  dovesse  parimenti  sorgere  uno  che 
tutta  la  reggesse  e  fosse  il  supremo  commandante  ed  ispettore  so- 
pra tutti  i  patriarchi,  esarchi  e  metropolitani,  siccome  era  l'impe- 
ratore sopra  tutti  i  magistrati  dell'Imperio.  Coloro  che  negano  que- 
sta prerogativa  al  pontefice  romano,  pareggiandolo  agl'altri  esar- 
chi, né  dandogli  maggior  potestà  nella  propria  diocesi  di  quella  che 
avevano  tutti  gl'altri  nelle  loro,  nelle  quali  egli  non  poteva  por  mano, 
per  isfuggir  questa  difficoltà  si  riducono  a  dire  che  non  in  tutto 
l'esterior  polizia  della  Chiesa  si  conformò  a  quella  dell'Imperio,  e 
che  perciò  non  ebbe  alcuno  che  fosse  vescovo  universale  ad  imi- 
tazione dell'imperatore,  che  siccome  questi  governava  tutto  l'Im- 
perio, così  quegli  dovesse  governar  tutta  la  Chiesa.  Infra  gl'altri 

1.  narra  Sozomeno  .  . .  cap.  XXI:  nella  Historia  ecclesiastica,  loc.  cit.,  in 
Migne,  P.  G.,  lxvii,  col.  1343. 


DEL   REGNO    PAPALE   •  PERIODO   II   •  CAP.  IV  699 

Bingamo,  Orig.  eccl.,  lib.  ix,  cap.  i,  §  vili,1  così  si  sbriga  dicendo: 
"Exemplum  reipublicae  non  in  omnibus  est  imitata.  Non  habuit 
umquam  universalem  aliquem  episcopum  in  universalis  imperatoris 
imitationem;  neque  orientalem  et  occidentalem  pontificatum  in 
imitationem  orientalis  et  occidentalis  Imperii;  nec  quatuor  magnos 
administratores  spirituales,  convenientes  quatuor  magnis  status  mi- 
nistris,  praefectis  videlicet  praetorio  in  civili  Imperio  ;>. 

Ma  costoro  sono  caduti  in  quest'errore  perché,  confondendo 
Y  interno  coli5 esterno  della  Chiesa,  non  hanno  saputo  ben  distin- 
guere queste  due  appartenenze.  La  Chiesa  interna  e  spirituale  da 
Cristo  fondata  non  aveva  mestieri  di  conformarsi  coli' Imperio,  né 
prender  da  quello  forma  e  disposizione.  In  questa  uno  è  il  vescovo, 
come  s'è  detto,  uno  è  il  capo  ed  il  maestro,  Cristo;  né  ha  niente 
d'esterno,  di  appariscente  ed  operoso.  Può  sussistere  senza  tempii, 
senza  altari  e  senza  tanti  fastosi  ministri.  Di  pochi  e  semplici  riti 
ha  bisogno,  e,  siccome  diceva  S.  Epifanio,  da'  soli  preti  e  diaconi 
tutte  le  funzioni  di  questa  Chiesa  possono  adempirsi.2  Tutto  quello 
che  ha  ora  &  esterno  fu  aggiunto  da  che  Costantino  Magno  la  fece 
ricevere  nell'Imperio,  e  per  conseguenza,  come  quivi  stabilita,  do- 
vevano gl'imperatori  prenderne  cura  e  pensiero,  come  supremi  di- 
rettori di  tutto  ciò  che  dentro  l'Imperio  è  racchiuso;  e  perciò  a 
ragione  soleva  dire  Costantino  a'  vescovi:  ce  Vos  quidem  in  iis  quae 
intra  Ecclesiam  sunt  episcopi  estis.  Ego  vero  in  iis  quae  extra  gerun- 
tur  episcopus  a  Deo  sum  constitutus  ».3  Or,  questa  Chiesa  esterna 
anche  in  aver  un  capo  visibile  e  supremo  direttore  si  conformò 
all'Imperio,  e  siccome  ebbe  gl'esarchi  ed  i  metropolitani  corrispon- 
denti agl'uffiziali  dell'Imperio,  così  ebbe  un  supremo  direttore,  e 
questi  era  l'imperatore;  e  diviso  l'Imperio,  gl'imperatori  d'Occi- 
dente avevano  cura  della  Chiesa  occidentale,  e  quelli  d'Oriente 
dell'orientale.  Certamente  che,  divisa  questa  Chiesa  in  tanti  esarchi, 
l'uno  indipendente  dall'altro,  ed  avendo  pure  metropolitani  non 
sottoposti  ad  alcun  esarca,  ma  anche  per  se  stessi  con  indipendenza 

1.  J.  Bingham,  Origines  sive  antiquitates  ecclesiasticae,  ed.  cit.,  voi.  in, 
p.  386  («Non  in  tutto  la  Chiesa  seguì  il  modello  dell'Impero.  Non  ebbe 
mai  un  vescovo  universale  ad  imitazione  dell'imperatore  universale,  né  un 
pontificato  orientale  e  uno  occidentale  ad  imitazione  dell'Impero  d'Oriente 
e  di  quello  d'Occidente,  né  quattro  grandi  amministratori  spirituali  corri- 
spondenti ai  quattro  grandi  ministri  di  stato,  cioè  ai  prefetti  pretorii  del- 
l'Impero civile»).  2.  siccome  .  .  .  adempirsi:  cfr.  sopra,  p.  660.  3.  *Vo$ 
quidem  . . .  constitutus*:  cfr.  sopra,  p.  658  e  la  nota  2  ivi. 


700  IL   TRIREGNO 

dagl'altri  governavano  le  loro  chiese,  se  non  vi  fosse  stato  un  capo 
e  supremo  direttore  che  v'avesse  la  cura  e  Fispezzione,  si  sarebbe 
veduta  in  molte  confusioni  e  disordini.  Quindi,  quando  infra  di 
loro  accadevano  discordie  o  intorno  alla  dottrina  o  disciplina,  per- 
ché non  mettessero  sotto  sopra  l'Imperio,  convocavano  gl'impera- 
tori i  concili,  ed  in  quelli  presidendo,  facevano  esaminare  da'  ve- 
scovi i  punti  controvertiti  di  religione,  lasciando  ad  essi,  come  più 
periti,  la  conoscenza  del  dritto,  perché  risolvessero  le  controversie, 
e  quelle,  secondo  la  pluralità  de'  voti,  decidessero,1  affinché  i  sud- 
diti avessero  certi  dogmi  da  dover  seguitare,  e  dichiarare  le  con- 
trarie opinioni  per  false  ed  ereticali;  sapessero  il  doverle  schivare, 
e  con  ciò  le  risse  e  discordie  si  spegnessero  affatto,  doppo  che  i  con- 
cili avevano  per  mezzo  de'  loro  canoni  deciso  ciò  che  parevagli  più 
conforme  alla  dottrina  che  Cristo  ed  i  suoi  apostoli  insegnarono; 
che  nell'Imperio  tal  credenza  dovesse  tenersi  e  non  altra,  minac- 
ciando esìli,  proscrizioni,  infamia,  molti  ed  altri  castighi  contro 
coloro  che  non  l'eseguissero.  In  cotal  guisa  erano  ben  distinte  le 
appartenenze:  a'  vescovi  ne'  punti  di  dottrina  e  di  religione  si  la- 
sciava la  cognizione  del  dritto,  perché  ciò  apparteneva  alla  Chiesa 
interna.  Ma,  perché  esterna,  il  costringimento  ed  il  commando  in 
far  eseguire  da'  popoli,  poiché  la  Chiesa  non  aveva  imperio  e  giuri- 
sdizione alcuna,  s'apparteneva  agl'imperatori,  li  quali,  come  capi 
delTesterior  polizia  della  Chiesa,  per  mezzo  delle  loro  costituzioni 
che  promulgavano  per  tutto  l'Imperio,  affinché  quello  si  mante- 
nesse in  tranquillità  e  riposo  e  non  si  vedesse  ardere  tra  sedizioni  e 
tumulti,  che  soglion  esser  più  perniciosi  allo  Stato  quando  siano 
cagionati  per  causa  di  religione,  commandavano2  che  si  detestassero 
le  opinioni  qualificate  da'  concili  per  eretiche,  si  confessasse  da 
tutti  la  tal  credenza  da  essi  prescritta  e  non  si  disputasse  d'avvan- 
taggio sopra  tali  articoli.  Per  questa  ragione  leggiamo  nel  lib.  xvi 
del  Codice  teodosiano  tante  costituzioni  sopra  ciò  stabilite,  e  nel 
Codice  di  Giustiniano  que'  titoli:  «De  summa  trinitate»,  «de  ss. 
Ecclesiis»,  «De  clericis  et  haereticis»,  e  non  ad  altro  fine  Giusti- 
niano diede  fuori  quella  sua  prof essione  difedey  della  quale  si  par- 
lerà a  suo  luogo,  se  non  che  tutti  i  sudditi  dell'Imperio  sapessero 
qual  credenza  dovevano  tenere  su  que'  articoli.  Molti  che  non  san- 
no, né  distinguono  ciò  che  s'appartiene  all'esterna  o  interna  poli- 

i.  decidessero  Parente  (p.  164);  decise  ven.     2.  commandavano:  correggia- 
mo così  (come  anche  in  Parente,  p.  164)  il  a  commandava»  di  ven  e  cors. 


DEL   REGNO    PAPALE   •  PERIODO   II   •  CAP.  IV  701 

zia  ecclesiastica,  si  maravigliono,  anzi  riprendono  Teodosio  e  Giu- 
stiniano, perché  ponessero  a  ciò  mano;  ma  non  se  ne  maraviglia- 
vano gl'istessi  vescovi  e  Padri  antichi  che  sapevano  questo  essere 
propria  incombenza  degl'imperatori  ;  le  quali  cose,  trascurandole, 
dovevano  renderne  conto  a  Iddio,  il  quale  gFavea  costituiti  ispet- 
tori e  diffensori  della  sua  Chiesa,  perché  nell'Imperio  fosse  conser- 
vata pura  e  monda. 

Ne'  punti  di  disciplina  ecclesiastica  era  maggiore  la  potestà  e  la 
cura  degl'imperatori.  Essi,  come  capi  di  tutti  i  vescovi,  dovevano 
prenderne1  cura  e  pensiero.  Ergevano  perciò  le  metropoli  ;  dichia- 
ravano gl'esarchi  ed  i  metropolitani;  mandavano  2!  medesimi  il 
pallio  in  segno  della  giurisdizione  che  sopra  le  provincie  e  diocesi 
a  loro  sottoposte  amministravano,  siccome  si  vedrà  chiaro  ne'  se- 
guenti capitoli.  Disponevano  non  meno  delle  persone  che  delle 
robbe  ecclesiastiche,  dando  a'  vescovi  norma  intorno  all'elezioni, 
età,  requisiti,  ed  intorno  all'amministrazione  de'  beni,  siccome  è 
manifesto  dal  Codice  teodosiano  e  di  Giustiniano,  e  molto  più  dalle 
sue  Novelle.  Sicché  intorno  a  questa  esterna  disciplina  non  deve 
ricercarsi  altro  centro  per  mantener  l'unità,  né  l'altro  capo  visibile 
che  gl'imperatori  istessi  che  n'erano  i  direttori,  dopo  che  nell'Im- 
perio fu  ammessa  la  religion  cristiana;  poiché,  siccome  ad  essi  s'ap- 
parteneva d'invigilare  a  tutto  ciò  ch'era  dentro  l'Imperio,  così  do- 
veva appartenere  l'ispezione  sopra  l'esterior  polizia  della  Chiesa: 
giacché,  come  diceva  Otato  Melivitano,  «la  Chiesa  è  dentro  l'Im- 
perio, non  già  l'Imperio  dentro  la  Chiesa».3 

E  poiché  una  delle  maggiori  preeminenze  era  quella  d'innalzare 
ed  abbassare  le  sedi  de'  vescovi,  quindi  nacque  il  cangiamento 
dell'esterior  polizia  fin  qui  rapportata  nel  V  e  "VI  secolo,  poiché, 
avendo  gl'imperatori  d'Oriente  innalzato  cotanto  il  vescovo  di  Co- 
stantinopoli, pareggiandolo  a  quello  di  Roma,  ne  venne  quel  can- 
giamento che  saremo  per  rapportare  ne'  capitoli  seguenti. 


1.  prenderne  Parente  (p.  165);  renderne  ven  e  cors.     2.  giacché . . .  Chie- 
sa: cfr.  Istoria  civile,  tomo  1,  lib.  li,  cap.  ult.,  p.  119. 


702  IL   TRIREGNO 

CAP.   V 

Come  nel  V  e  VI  secolo,  sotto  gV altri  imperatori  cristiani  succes- 
sori di  Costantino  Magno,  si  fosse  variata  quesf  esterior  polizia 
per  i  favori  e  prerogative  che  i  medesimi  concedettero  a  Costanti- 
nopoli dichiarandola  a  nuova  Roma»,  sede  e  capo  dell'Imperio 
d'Oriente,  pareggiando  per  conseguenza  il  suo  vescovo  a  quello 
dell' &  antica  Roma  >,  sede  dell1  Imperio  d'Occidente. 

Essendo  piacciuto  a  Costantino  Magno,  dopo  ch'ebbe  abbrac- 
ciata la  religione  cristiana,  d'introdurre  nella  Chiesa  questa  distin- 
zione di  polizia  spirituale  ed  interna,  e  di  polizia  temporale  ed 
esterna,  volendone  egli  dell3 'esterna  prenderne  cura  e  pensiere  con 
dichiararsene  capo  e  moderatore,  conformandola  alla  polizia  del- 
l'Imperio, doveva  per  conseguenza  esser  sottoposta  a  cangiamenti  e 
variazione,  siccome  era  soggetta  quella  dell'Imperio.  All'incontro, 
la  Chiesa  spirituale  ed  interna  che  Cristo  fondò  non  è  sottoposta 
a  variazione  alcuna,  sempre  fu  e  sarà  la  stessa,  immutabile  e  ferma; 
anzi  i  cieli  e  la  terra  non  pur  s'immuteranno,  ma  passeranno,  ma 
la  sua  divina  parola  perdurerà  in  eterno.  Uno  è  il  vescovado  di 
questa  Chiesa  in  tutto  il  mondo,  non  diviso  in  provincie  e  nazioni, 
ed  ogni  vescovo  o  prete  possono  reggerla  e  governarla  da  per  tutto 
e  scorrerla  in  ogni  clima,  siccome  fecero  gl'appostoli  ed  i  loro  di- 
scepoli, senza  che  vi  sia  chi  possa  porgli  argine  o  confine.  Ella,  di 
pochi  e  semplici  riti  è  contenuta1  ed  i  suoi  precetti  sono  pur  piani, 
schietti  e  facili,  che  da  ogni  rustico  e  uom  di  villa,  e  da  ogni  vile  e 
semplice  feminetta  possono  apprendersi.  Quanto  appare  di  fuori 
di  pomposo,  operoso,  maestoso  ed  esterno  non  s'appartiene  punto 
a  lei,  ma  tutto  il  resto  che  dipende  da  forme  estrinseche  ed  umane 
vicende  e  provvedimenti,  sta  per  conseguenza  sottoposto  a  varia- 
zioni e  cangiamenti. 

Ben  i  successi  de'  secoli  seguenti  hanno  questa  verità2  mani- 
festata, e  specialmente  da  ciò  ch'ora  rawisaremo  ne'  due  vescovi 
di  Roma  e  di  Costantinopoli  si  farà  maggiormente  chiaro  e  palese. 
Questi  due  vescovi  in  discorso  di  tempo  innalzarono  le  loro  sedi 
sopra  tutti  gl'altri;  il  romano  ed  il  constantinopolitano;  ma  con 
questa  differenza,  che  il  romano  con  sottili  ingegni  e  finissime  arti 

i.  contenuta  yen  e  cors  (manca  in  Parente,  p.  166):  forse  «contenta*. 
2.  questa  verità  Parente  (p.  167);  quest'unità  ven  e  cors. 


DEL   REGNO    PAPALE   •  PERIODO   II    •  CAP.  V  703 

distese  i  suoi  confini  e  si  sottopose  l'altrui  diocesi,  non  potendo 
allegar  per  sé  altri  titoli  che  Y usurpazione;  all'incontro  il  constanti- 
nopolitano  allega  per  sé  le  leggi  ed  il  favore  degl'imperatori  d'O- 
riente che  lo  stabilirono,  ed  i  concili  che  glielo  confermarono.  I 
pontefici  romani  non  devono  ad  altro  questo  loro  ingrandimento 
che  alla  propria  industria,  ingegno  ed  accortezza,  colla  quale  sep- 
pero poi  tirar  anche  a  sé  i  favori  de'  creduli  principi  ed  imperatori, 
siccome  si  vedrà  chiaro  più  innanzi.  È  ancor  da  notare  un'altra 
differenza  fra  l'uno  e  l'altro.  I  patriarchi  d'Oriente,  come  l'ales- 
sandrino, l'antiocheno  e  l'efesino,  quel  di  Cesarea  ed  il  costantino- 
politano, sebbene  non  fossero  sottoposti  al  romano,  ma  si  manten- 
nero nella  loro  antica  libertà,  nella  quale  i  canoni  e  le  leggi  degl'im- 
peratori l'avevano  posto;  da  poi  il  cesariense,  quel  d'Eraclea  e 
l'efesino  passarono  sotto  quello  di  Costantinopoli,  e  questi  final- 
mente, negl'ultimi  tempi,  fu  pure  manomesso.  Ma  gl'esarchi  d'Oc- 
cidente, come  quel  di  Milano,  di  Sirmio  e  tutti  gl'altri  primati  e 
metropolitani  delle  Gallie,  Spagna  e  Brettagna,  furono  tutti  dal 
romano  soggiogati  e  manomessi,  e  questi  da  niuno  giammai.  I 
princìpi  di  tali  ingrandimenti,  non  meno  di  quello  di  Roma  che  di 
Costantinopoli,  sebbene  cominciarono  nel  finir  del  IV  secolo,  nel 
V  però  e  nel  VI  si  videro  maggiormente  stabiliti,  e  specialmente 
sotto  Giustiniano  Magno,  il  quale  per  sue  Costituzioni  e  Novelle 
regolò  poi  questa  nuova  ecclesiastica  lor  polizia. 

Il  vescovo  di  Bisanzio  prima  non  era  che  un  semplice  suffragane© 
del  vescovo  d'Eraclea,  il  quale  anche  come  esarca  presedeva  in 
tutta  la  Traccia,  secondo  ch'è  manifesto  dall' epist.  I  di  Gelasio.1 
Si  è  veduto  che  in  Oriente  i  più  celebri  ed  eminenti  patriarchi  fu- 
rono due:  l'alessandrino  e  l'antiocheno.  Quello  d'Alessandria  te- 
neva il  secondo  luogo  dopo  il  patriarca  di  Roma,  forse  perché 
Alessandria  dopo  Roma  era  riputata  la  seconda  città  del  mondo. 
L'altro  d'Antiochia  teneva  il  terzo  luogo,  riguardevole  ancora  per 
la  memoria  che  serbava  d'avervi  S.  Pietro,  capo  degl'appostoli,  te- 
nuta la  sua  prima  cattedra.  Così  le  tre  parti  del  mondo  tre  Chiese 
parimente  riconobbero  sopra  tutte  l'altre  celebri  ed  eminenti:  l'Oc- 
cidente quella  di  Roma,  l'Oriente  quella  d'Antiochia  ed  il  Mezzo- 
giorno quella  d'Alessandria.  Non  è  però,  come  s'è  veduto,  che 

1.  secondo .  .  .  Gelasio:  epistola  xili,  Ad  episcopo*  Dardaniae,  in  Migne, 
P.  £.,  lix,  col.  65.  Cfr.,  per  quel  che  segue,  L.  E.  Du  Pin,  De  antiqua  Ec- 
clesiae  disciplina  ecc.,  cit.,  diss.  i,  §  v,  pp.  9  sgg. 


704  IL   TRIREGNO 

sopra  tutta  Europa  esercitasse  la  sua  potestà  esarcale  quello  di 
Roma,  ovvero  quello  d'Antiochia  per  tutta  l'Asia  e  l'altro  d'Ales- 
sandria in  tutta  l'Affrica.  La  potestà  di  ciascuno  non  oltrepassava 
i  confini  della  diocesi  a  sé  sottoposta.  Le  altre  diocesi  ubbidivano 
agl'esarchi  propri,  e  molti  altri  luoghi  ebbero  ancora  i  loro  vescovi 
autocefali*  cioè  a  niuno  sottoposti.  Tali  furono,  siccome  s'è  detto, 
i  vescovi  di  Cartagine  e  Cipro  ;  tali  furono  un  tempo  nell'Occidente 
i  vescovi  della  Gallia,  della  Spagna,  della  Germania,  Brettagna  e 
delle  più  rimote  regioni.3  Le  chiese  de'  barbari  certamente  non 
furono  soggette  ad  alcun  patriarca,  ma  si  governavano  da'  loro 
propri  vescovi.  Così  le  chiese  d'Etiopia,  della  Persia,  dell'Indie  e 
dell'altre  regioni,  ch'erano  fuori  del  romano  Imperio,  da'  loro  pro- 
pri sacerdoti  venivano  governate  e  rette. 

Ma  ecco  ora  come,  verso  la  fine  del  IV  secolo,  cominciasse  il 
vescovo  di  Constantinopoli  a  sottrarsi  non  pure  dal  vescovo  di 
Eraclea,  ma  ad  appropriare  a  sé  tutta  la  Tracia  ch'era  a  quello 
sottoposta.  Renduta  Costantinopoli  sede  degl'imperatori  e  capo 
dell'Imperio  d'Oriente,  fu  riputata  la  seconda  Roma  e  la  seconda 
città  del  mondo  ;  onde  il  suo  vescovo  cominciò  anch'egli  ad  estol- 
lere il  capo  ed  a  scuotere  il  giogo  del  proprio  metropolitano.  In- 
nalzata adunque  questa  città  dagl'imperatori,  e  secondando  la  po- 
lizia della  Chiesa  quella  dell'Imperio,  ecco  che  nel  concilio  primo 
costantinopolitano,  convocato  nell'anno  381  per  commandamento 
di  Teodosio  Magno,  furono  conceduti  al  suo  vescovo  i  primi  onori 
dopo  quello  di  Roma;  e  non  per  altra  ragione,  siccome  s'esprime 
nel  canone  ni  :  &  Constantinopolitanus  episcopus  habeat  priores  ho- 
noris partes  post  romanum  episcopum.  Eo  quod  sit  ipsa  nova  Ro- 
ma»? Còsrj  quando  prima,  dopo  il  romano  i  primi  onori  erano  del 
patriarca  d'Alessandria,  sottentra  ora  quello  di  Costantinopoli  ad 
occupare  il  suo  luogo.  Egli  è  vero,  come  ben  prova  Dupino,  loc. 
cit.,  che  i  soli  onori  furono  a  lui  dal  concilio  conceduti,  non  già 
veruna  patriarcale  giurisdizione  sopra  le  tre  diocesi  autocefali,4  le 

1.  autocefali:  non  «acefali»  come  in  Parente  (p.  168).  In  cors  «autore- 
fali».  3.  regioni  cors;  legioni  ven;  in  Parente  (p.  168)  «parti».  3.  a  Con- 
stantinopolitanus .  .  .  Roma*:  cfr.  J.  Bingham,  Origines  sive  antiquitates  ec- 
clesiasticae,  ed.  cit.,  voi.  ni,  lib.  rx,  p.  383.  Cfr.  ancora  Ph.  Labbé  -  G.  Cos- 
sart,  Sacrosancta  concilia  cit.,  tomo  n,  col.  948.  Ma  anche  L.  E.  Du  Pin, 
op.  cit.,  diss.  1,  §  xi,  pp.  35  sgg.  («Il  vescovo  di  Costantinopoli  abbia  la 
precedenza  negli  onori  dopo  il  vescovo  di  Roma,  per  il  fatto  che  Costanti- 
nopoli è  una  nuova  Roma»).  4.  autocefali:  non  «acefale»  di  Parente  (p. 
169);  cors  «autorefali». 


DEL    REGNO    PAPALE    •  PERIODO    II    •  CAP.  V  705 

quali  erano  la  Tracia,  l'Asia  e  Ponto;  ma  tanto  bastò  che  col  spe- 
zioso  pretesto  di  quest'onori  cominciasse  egli  le  sue  intraprese, 
non  altrimenti  che  il  romano,  il  qual,  per  esser  il  primo  fra'  vescovi 
d'Europa,  fece  sopra  l'altre  diocesi  d'Occidente  maravigliosi  acqui- 
sti. Non  passò  adunque  gran  tempo  che  invase  la  Tracia,  ed  eser- 
citando ivi  le  ragioni  esarcali,  si  rendè  esarca  di  quella  diocesi,  ed 
oscurò  le  ragioni  del  vescovo  d'Eraclea.  Dopo  essersi  stabilito  nella 
Tracia,  invade  le  vicine  diocesi,  cioè  l'asiana  e  pontica,  ed  infine  al 
suo  patriarcato  le  sottopone.  Non  in  un  tratto  le  sorprende,  ma  di 
tempo  in  tempo  col  favor  degl'imperatori  e  de'  concili,  che,  fatti 
convocare  da'  Cesari,  maggiormente  stabilirono  a'  vescovi  costan- 
tinopolitani tanta  autorità.  Infra  gl'altri  S.  Giov.  Grisostomo  non  si 
quietò  se  non  intieramente  le  occupasse.  Onde  infine  venne  ad 
appropriarsi  non  solo  la  potestà  d'ordinar  egli  i  metropolitani  del- 
l'Asia e  di  Ponto,  ma  ottenne  legge  dall'imperatore  che  niuno  senza 
autorità  del  patriarca  di  Costantinopoli  potesse  ordinarsi  vescovo; 
sicché,  coll'appoggio  di  questa  legge,  si  fece  lecito  poi  ordinare  an- 
che i  semplici  vescovi  di  tutte  tre  queste  diocesi.  Narra  Sozomeno, 
Hist.  eccL,  lib.  vili,  cap.  vi,1  che  Crisostomo,  portatosi  in  Efeso, 
convocò  ivi  nel  401  un  sinodo  di  settanta  vescovi  e  depose  tredeci 
vescovi  simoniaci,  parte  della  Licia  e  Frigia,  e  parte  dell'Asia  istes- 
sa,  e  sostituì  in  lor  luogo  altri.  Valesio,3  in  Noi.  ad  Sozom^  e  Du- 
pino,  Bibliotk.,2  voi.  in,  in  Vita  Chrisost.,  emendano  il  numero  de' 
vescovi  deposti  rapportato  da  Sozomeno,  ed  invece  di  tredici  narrano 
che  non  fossero  più  dì  sei.  E  perché  il  trono  costantinopolitano  fosse 
in  ciò  maggiormente  stabilito,  ed  i  suoi  vescovi  fossero  più  sicuri  e 
rendessero  più  ferme  le  loro  conquiste,  sì  fecero  confermare  questa 
prattica  da  più  editti  degl'imperatori,  rapportati  da  Liberato,  in 
Breviar.,  e.  xiii,4  e,  quel  che  è  più,  dal  concilio  di  Calcedonia,  con- 
vocato in  Bitinia  per  comando  dell'imperatore  nell'anno  451,  dove, 
addattando  quelle  medesime  ragioni  dell'antica  Roma  alla  nuova 
nel  canone  xxvin  fu  stabilito  :  «  Sanctorum  Patrum  decreta  ubique 

1.  Historia  ecclesiastica,  loc.  cit.,  in  Migne,  P.  (?.,  lxvii,  col.  1530.  3.  Va- 
lesio: Henri  Valois  (1603 -1676),  erudito  francese,  fratello  di  Adrien,  edi- 
tore e  curatore,  oltre  che  di  classici  greci  e  latini,  di  una  collezione  di  storici 
ecclesiastici  (fra  cui  appunto  Sozomeno)  che  ebbe  molta  fortuna,  Parigi 
1 659-1 673,  in  tre  volumi.  Cfr.  in  Migne,  P.  G.y  lxvii,  col.  1533.  3.  L.  E. 
Du  Pin,  Nouvelle  bibliothèque  des  auteurs  ecclésiastiques,  ni,  Paris  1693,  p.  9. 
4.  Liberato,  arcidiacono  di  Cartagine,  nel  Breviarium  causae  nestorianorum 
et  eutychianorum,  cap.  xili,  in  Migne,  P.  Z,.,  lxviii,  coli.  969  sgg. 


706  IL   TRIREGNO 

sequentes,  et  canonem,  qui  nuper  lectus  est,  centum  et  quinqua- 
ginta  Dei  amantissimonim  episcoporum  agnoscentes,  eadem  quo- 
que et  nos  decernimus  et  statuimus  de  pri\"ilegiis  sanctissimae  Ec- 
clesiae  Constantinopolis  novae  Romae.  Etenim  antiquae  Romae 
throno,  quod  urbs  Ma  imperare^  iure  patres  privilegia  tribuerunt. 
Et  eadem  consideratione  moti  centum  quinquaginta  Dei  amantis- 
simi episcopi  sanctissimo  novae  Romae  throno  aequalia  privilegia 
tribuerunt,  recte  iudicantes  urbem,  quae  et  imperio  et  senatu  ho- 
norata  sit,  et  aequalibus  cum  antiquissima  regina  Roma  privilegiis 
fruatur,  etiam  in  rebus  ecclesiasticis,  non  secus  ac  illam  extolli  ac 
magnifieri,  secundam  post  illam  existentem:  ut  et  ponticae  et 
asianae  et  thraciae  dioecesis  metropolitani  soli,  praeterea  episcopi 
praedictarum  dioecesium  quae  sunt  inter  barbaros  a  praedicto  thro- 
no sanctissimae  constantinopolitanae  Ecclesiae  ordinentur;  uno- 
quoque  scilicet  praedictarum  dioecesium  metropolitano,  cum  pro- 
vinciae  episcopis,  provinciae  episcopos  ordinante,  quemadmodum 
divinis  canonibus  est  traditum.  Ordinari  autem,  sicut  dictum  est, 
praedictarum  dioecesium  a  constantinopolitano  archiepiscopo,  con- 
venientibus  de  more  electionibus  et  ad  ipsum  relatis».1 

I  pontefici  romani,  non  potendo  soffrire  un  tanto  ingrandimento 
ci  si  opposero  con  molto  vigore;  infra  gl'altri  Leone  il  Santo,  che 
si  acquistò  il  sopranome  di  Magno,  gliele  contrastò  audacemente. 


i.  cSanctotum  Patrum  . . .  relatis*:  cfr.  Ph.  Labbé  -  G.  Cossart,  Sacro- 
sancta  concilia,  tomo  rv,  col.  769,  can.  xxvm;  vedi  J.  Bingham,  op.  cit., 
voi.  in,  lib.  rx,  par.  vii,  pp.  382-3,  da  cui  deriva  la  citazione  («Seguendo 
in  tutto  i  decreti  dei  Santi  Padri  e  confermando  il  canone,  testé  letto,  dei 
centocinquanta  vescovi  amantissimi  di  Dio,  abbiamo  decretato  e  stabilito 
le  stesse  cose  circa  i  privilegi  della  santissima  Chiesa  di  Costantinopoli, 
nuova  Roma.  Giustamente  infatti  i  Padri  hanno  attribuito  privilegi  al 
trono  dell'antica  Roma,  poiché  quella  città  signoreggiava-  Mossi  dalla  stessa 
considerazione  i  centocinquanta  vescovi  amantissimi  di  Dio  hanno  confe- 
rito al  santissimo  trono  della  nuova  Roma  uguali  privilegi,  ritenendo  giu- 
stamente che  la  città  che  è  adorna  del  governo  e  del  senato  e  gode  di  privi- 
legi uguali  a  quelli  di  Roma  antichissima  regina,  non  diversamente  da  quel- 
la sia  innalzata  e  magnificata  anche  nelle  cose  ecclesiastiche,  venendo  se- 
conda dopo  quella:  cosicché  i  soli  metropolitani  delle  diocesi  del  Ponto, 
delTAsia  e  della  Tracia,  e  inoltre  i  vescovi  delle  predette  diocesi  che  sono 
tra  i  barbari  siano  ordinati  dal  predetto  trono  della  santissima  Chiesa  di 
Costantinopoli;  vale  a  dire  che  ciascun  metropolita  delle  predette  diocesi, 
assieme  ai  vescovi  della  provincia,  ordini  i  vescovi  della  provincia,  come 
è  stato  tramandato  dai  canoni  divini.  I  vescovi  delle  predette  diocesi  siano 
poi  ordinati,  come  s'è  detto,  dall'arcivescovo  di  Costantinopoli,  fatte,  se- 
condo l'uso,  proprie  elezioni  e  a  lui  riferite»). 


DEL   REGNO    PAPALE   ■  PERIODO    II   •  CAP.  V  707 

Il  consimile  fecero  i  suoi  successori,  e  sopra  tutti  papa  Gelasio,  che 
tenne  la  cattedra  di  Roma  dall'anno  492  insino  all'anno1  496,  scri- 
vendone e  portandone  aspre  doglianze  dapertutto,  siccome  è  ma- 
nifesto dalle  sue  epistole  rv  e  xiii  ad  episcopos.2  Ma  tutti  i  loro 
sforzi  riuscirono  vani,  poiché,  tenendo  i  patriarchi  di  Costantino- 
poli tutto  il  favor  degl'imperatori,  fu  loro  sempre  non  meno  con- 
fermato il  secondo  grado  d'onore  dopo  il  patriarca  di  Roma  che  la 
giurisdizione  in  Ponto,  nell'Asia  e  nella  Tracia.  L'imperator  Ba- 
silisco,3 in  un  suo  editto  rapportato  da  Evagrio,  lib.  in,  cap.  ni, 
gliele  ratificò.  L'imperator  Zenone  fece  lo  stesso  per  una  sua  costi- 
tuzione che  si  legge  nel  nostro  Codice4  sotto  il  tit.  De  sacris  Ecclesiis, 
1.  decernimus,  xvi.  E  finalmente  Giustiniano  Magno,  con  la  sua  No- 
vella 131,  e.  i,s  secondando  quel  che  da'  canoni  del  concilio  di  Cal- 
cedonia  era  stato  statuito,  comandò  il  medesimo.  Ciocché  poi  fu  ab- 
bracciato dal  consenso  della  Chiesa  universale,  poiché,  essendo  stati 
inseriti  i  canoni  de'  concili  costantinopolitano  e  calcedonense  ne' 
codici  de'  canoni  delle  chiese,  fu  ne'  seguenti  secoli  tenuto  per 
costante  il  patriarca  di  Costantinopoli  tener  dopo  il  romano  il  se- 
condo grado  di  onore. 

L'ingrandimento  di  questo  patriarca  giunse  a  tanto  che  gli  fu 
dato  il  titolo  d'ecumenico  ed  universale,  e  fu  chiamata  la  sua  chiesa 
capo  delle  chiese.  Giustiniano  Magno  nella  Nov.  vii  e  xxxxn6  chia- 
mò Mena,  Epifanio  ed  Antemio  ecumenici  ed  universali  patriarchi. 
L'imperator  Lione  nella  Novella  il  e  in  e  xn  chiamò  Stefano7  uni- 
versa! patriarca.  Talché  le  querimonie  che  per  questo  titolo  ne 


1.  492  insino  all'anno  ven  e  cors  (manca  in  Parente,  p.  171).  2.  TV  e  XIII 
ad  episcopos:  in  Migne,  P.  L.,  lix:  epistola  rv,  Seu  commonitorium,  ad 
Faustum  magistrum  fungentem  legationis  officio  Constantinopoli,  coli.  26 
sgg.;  epistola  xin  cit.,  coli.  61  sgg.,  in  cui  afferma  che  Acacio  fu  giusta- 
mente condannato  a  solo  giudizio  della  Santa  Sede.  3.  Basilisco  ven  e 
cors,  non  «Basilio»,  come  il  Parente  (p.  171).  Si  tratta  di  Basilisco  (morto 
nel  484),  ammiraglio  dell'Impero  d'Oriente,  che  fu  sconfitto  dai  Vandali 
di  Genserico,  probabilmente  perché  corrotto,  nel  468.  Combatté  contro 
l'imperatore  Zenone  e  nel  476  rivesti  la  porpora  imperiale,  appoggiando  i 
monofisiti.  Sconfitto  da  Zenone  nel  477,  fu  ucciso  in  carcere.  Giannone 
rinvia  a  Evagrio  Scolastico  (nato  nel  536  circa),  scrittore  ecclesiastico  di 
origine  siriana,  di  cui  cita  la  Historia  ecclesiastica  a  temporibus  in  qutbus 
Socrates  et  Sozomenus  desierant . .  .,  lib.  ni,  capp.  ni  sgg.,  in  Migne,  P.  G., 
Lxxxvi  bis,  coli.  2598  sgg.  4.  nel  nostro  Codice:  Novellae  constitutiones,  in, 
v,  xvi,  xliii  e  lxxx.  5.  Ibid.,  cxxxi,  1 .  cors  ha  nov.  13.  6.  Ibid.,  vii  e  xlii. 
7.  L'imperator  Lione ...  Stefano:  Leone  VI  (866-911),  imperatore  d'O- 
riente, detto  il  Sapiente,  depose  Fozio,  patriarca,  nell'886.  Stefano,  fratello 


708  IL   TRIREGNO 

fece  papa  Gregorio  Magno  contro  il  patriarca  Giovanni,  che  si 
faceva  chiamar  vescovo  universale,  non  erano  per  usurpazione  nuova, 
ma  antica.  E  s'ingannano  coloro  che  riputarono  che  i  patriarchi  di 
Costantinopoli  si  appropriarono  questo  titolo  non  prima  de'  tempi 
di  Gregorio  Magno,  poiché  è  manifesto  che  fino  da'  tempi  di  Giu- 
stiniano M.  era  lor  dato.  Anzi,  quest'imperatore,  in  una  costitu- 
zione che  ancor  leggiamo  nel  suo  Codice,  lib.  i,  tit.  n,  e.  xxrv,1 
s'avanzò  sino  a  chiamare  la  Chiesa  costantinopolitana  capo  di  tutte 
V altre  chiese;  e  non  per  altra  ragione,  che,  siccome  Costantinopoli 
era  pareggiata  a  Roma  e,  per  essere  sede  dell'imperatore,  chiama- 
vasi  nuova  Roma,  doveva  godere  degl'istessi  privilegi  d'onore  e  di 
potestà,  e  delle  medesime  prerogative  che  la  vecchia  Roma.  Onde, 
siccome  che  la  romana  era  riputata  capo  di  tutte  l'altre  chiese  d'Oc- 
cidente, così  quella  di  Costantinopoli  dovesse  riputarsi  per  capo 
delle  chiese  d'Oriente.  In  cotal  guisa  questo  patriarca  si  lasciò  in- 
dietro non  pur  tutti  gl'altri  esarchi  d'Oriente,  ma  l'alessandrino 
istesso  e  l'antiocheno.  Non  fu  gran  fatto  che  si  lasciasse  pure  in- 
dietro quello  di  Gerusalemme,  poiché  questo,  se  si  riguarda  la  di- 
sposizione dell'Imperio,  non  meritava  la  prerogativa  non  che  di 
patriarca,  ma  nemmeno  di  esarca,  essendo  un  semplice  vescovo 
sufTraganeo  a  quello  di  Cesarea,  metropoli  della  Palestina;  ma  se 
gli  diedero  gl'onori  di  patriarca,  poiché  fin  da'  tempi  degl'appostoli 
fu  riputato  un  gran  preggio  il  sedere  in  questa  cattedra  posta  in 
Gerusalemme,  città  santa,  dove  Cristo  istituì  la  sua  Chiesa,  e  dalla 
quale  il  Vangelo  per  tutte  l'altre  parti  del  mondo  fu  disseminato. 
Le  altre  sedi  maggiori  d'Oriente  per  altre  calamità  sofferte,  non 
minori  di  quelle  di  Gerusalemme,  andarono  sempre  più  in  deca- 
denza, poiché  non  solo  per3  le  frequenti  scorrerie  de'  barbari  che 
invasero  le  loro  diocesi,  ma  assai  più  per  le  sedizioni  e  contrasti 
che  sovente  insorsero  fra  i  vescovi  maggiori  intorno  all'elezioni  ed 
intorno  alla  dottrina  ed  alla  disciplina,  perderono  il  loro  antico 
lustro  e  splendore,  sicché  da  poi  si  cominciarono  a  numerare  le 
sedi  patriarcali  con  quest'ordine:  la  romana,  la  costantinopolitana, 
l'alessandrina,  l'antiochena  e  la  gerosolimitana.  Quest'ordine  tenne 


di  Leone,  era  stato  da  questi  nominato  patriarca  appena  sedicenne.  Cfr. 
Leone  VI,  NoveUae  constitutiones  aut  correctoriae  legum  repurgatùmes,  il,  in 
e  xn.  i.  Codex  iustiniamts,  lib.  i,  tit.  il  :  De  sacrosanctis  Ecclesiis  et  de  rèbus 
et  privUegUs  earum,  paragrafi  vi  e  xxrv.  2.  per:  lezione  di  Parente  (p.  172) 
mancante  in  ven  e  cors  (in  quest'ultimo  manca  anche  il  per  che  segue). 


DEL   REGNO    PAPALE   •  PERIODO    II    •  CAP.   V  709 

il  concilio  di  Costantinopoli  celebrato  nell'anno  536:  questo  me- 
desimo tenne  Giustiniano  Magno  nel  Codice  e  nelle  sue  Novelle, 
e  tennero  da  poi  tutti  gì' altri  scrittori  non  meno  greci  che  latini. 
Non  era  però  ristretto  a  questi  tempi  il  nome  di  patriarca  a  soli 
questi  cinque.  Alcune  volte  solea  darsi  per  encomio  anche  ad  in- 
signi metropolitani,  siccome  nel  mentovato  concilio  di  Costantino- 
poli si  diede  anche  ad  Epifanio  vescovo  di  Tiro;  e  Giustiniano, 
così  nel  Codice  come  nelle  Novelle,  dà  generalmente  questo  nome 
agl'esarchi  che  avevano  il  governo  di  qualche  diocesi.  Ma  non 
tardò  guari  che  in  Oriente  si  restrinse  pur1  questo  nome  a  que'  soli 
cinque.  Non  così  in  Occidente,  poiché,  fino  al  IX  e  X  secolo,  si 
diede  in  Italia  ed  in  Francia  anche  a*  più  insigni  e  celebri  metropo- 
litani ovvero  primati. 

A  ragione  i  pontefici  romani  erano  gelosi  e  tanto  solleciti  per 
impedire  l'ingrandimento  de'  vescovi  costantinopolitani,  non  pur 
perché  non  fossero  interrotti  i  propri  ingrandimenti  sopra  le  Pro- 
vincie d'Occidente,  ch'essi,  non  meno  che  que'  facevano  in  Oriente, 
procurando  distendere  ed  ampliare  i  loro  confini;  ma  anche  perché, 
ingrandito2  soverchio  il  patriarcato  di  Costantinopoli,  non  questi 
attendesse  sopra  le  sue  provincie,  siccome  l'evento  dimostrò  non 
esser  stati  vani  ed  intempestivi  i  loro  sospetti  e  timori,  poiché, 
come  vedremo,  invasero  infino  la  Sicilia  e  la  Calabria,  provincie  al 
vicariato  di  Roma  attribuite. 

Il  vescovo  di  Roma  aveva  forse  più  speziosi  pretesti  e  colori 
che  non  quello  di  Costantinopoli;  ma  non  ebbe  gl'imperatori  così 
favorevoli  come  l'ebbe  quello  di  Costantinopoli.  Non  se  gli  con- 
trastava il  primo  onore  per  ragion  della  sua  cattedra  stabilita  in 
Roma,  città  un  tempo  capo  del  mondo,  sicché  per  le  ragioni  stesse, 
confondendosi  a  bello  studio  questa  prerogativa  d'esser  il  primo 
fra'  vescovi  colla  potestà  esarcale,  ch'esercitava  nelle  chiese  subur- 
bicarie  comprese  nel  vicariato  di  Roma,  cominciò  pure  ad  invadere 
le  altrui  provincie,  non  pur  quelle  sottoposte  al  vescovo  di  Milano, 
come  esarca  del  vicariato  d'Italia,  ma  sopra  tutte  l'altre  provin- 
cie3 d'Occidente;  ma  i  fondamenti  del  suo  ingrandimento  non  si 
appoggiavano  alle  leggi  degl'imperatori,  ma  ad  altre  argutezze  e 
sottili  invenzioni,  quali  i  pontefici  romani,  nella  decadenza  dell'Im- 

x.pur  cors;  per  ven.  2.  ingrandito  Parente  (p.  173);  ingrandirono  ven 
e  cors.  3.  non  pur  quelle  .  .  .  Provincie  ven  e  cors  (manca  in  Parente, 
P.  174)- 


710  IL  TRIREGNO 

peno  d'Occidente,  e  più  per  l'ignoranza  e  superstizione  de'  popoli, 
sopragiunta  ne'  seguenti  secoli  in  queste  provincie  per  l'irruzione 
di  straniere  nazioni  incolte  e  barbare,  se  le  fecero  in  discorso  di 
tempo  ben  valere,  siccome  si  vedrà  chiaro  nel  capitolo  seguente  e 
nel  progresso  di  questo  libro. 


cap.  vi 

Delle  cagioni  delV ingrandimento  del  vescovo  di  Roma,  onde 

distese  V  autorità  sua  esarcale  sopra  altre  diocesi  e  Provincie 

d'Occidente  non  comprese  nel  vicariato  di  Roma. 

Nel  soggetto,  che  abbiamo  ora  per  le  mani,  perché  non  ci  la- 
sciamo1 abbagliare  d'alcune  vane  apparenze  e  sorprendenti*  splen- 
dori, bisogna  attentamente  distinguere  i  veri  dai  falsi  ed  immaginati 
fondamenti  d'un  tanto  ingrandimento,  e  separare  le  cagioni  antiche 
dalle  nuove,  inventate  da  poi  per  darle  maggior  stabilimento  e 
fermezza.  I  veri  fonti  donde  derivarono  le  tante  prerogative  ed 
onori  al  vescovo  di  Roma  furono  primieramente  per  esser  fondata 
la  sua  sede  nella  prima  città  del  mondo;  e  quest'era  riputata  la 
vera,  principale  e  potissima  ragione  onde  il  romano  negl'onori  do- 
vesse anteporsi  a  tutti  gl'altri  vescovi,  siccome  quest'era  dagl'im- 
peratori, anzi  da'  Padri  istessi  della  Chiesa  riconosciuta  per  la  più 
legitima,  fondamentale  e  stabile  di  tutte  l'altre;  ed  i  Padri  del  con- 
cilio di  Calcedonia  non  altra  più  propria  e  vera  seppero  esprimer- 
ne nel  canone  xxviii  se  non  questa,  dicendo:  «Etenim  antiquae 
Romae  throno,  quo d  urbs  illa  imperare^  iure  Patres  privilegia  tri- 
buerunt».3 E  da  quest'istesso  principio  vollero  derivare  le  prero- 
gative del  vescovo  di  Costantinopoli,  una  nuova  Roma,  riputando 
essersi  rettamente  costituito  d'innalzarlo  pure  ad  uguali  onori,  con- 
correndo in  lui  i  motivi  e  la  considerazione  istessa  che  nel  vescovo 
dell'antica  Roma;  onde  soggiunsero:4  «Et  eadem  consideratione 
moti  centum  quinquaginta  Dei  amantissimi  episcopi  sanctissimo 
novae  Romae  throno  aequalia  privilegia  tribuerunt,  recte  iudicantes 
urbem,  quae  et  imperio  et  senatu  honorata  sii,  et  aequalibus  cum 


i.  lasciamo  cors  e  Parente  (p.  175)  ;  lasciarono  ven.  2.  sorprendenti  cors  e 
Parente  (p.  175);  sopraintendenti  ven.  M.  C.  de  Samnitibus  aveva  intuito 
giusto.  3.  ed  i  Padri . .  .  tribuerunt  1  vedi,  per  questa  e  la  citazione  che  se- 
gue, la  nota  a  p.  706.    4.  soggiunsero  Parente  (p.  175)  ;  soggiunse  ven  e  cors. 


DEL   REGNO   PAPALE   •  PERIODO   II   ■  CAP.  VI  yil 

antiquissima  regina  Roma  privilegio  fruatur,  etiam  in  rebus  eccle- 
siasticis,  non  secus  ac  illam,  extolli  ac  magnifieri,  secundam  post 
illam  existentem  ».  Quindi  Sozomeno,  parlando  nel  lib.  vii,  cap.  del 
can.  in,1  del  concilio  costantinopolitano,  che  uguagliò  in  ciò  Co- 
stantinopoli a  Roma,  disse:  Ut,  post  episcopum  urbis  Romae, 
constantinopolitanus  habeat  honoris  praerogativam  utpote  qui  iu- 
nioris  Romae  episcopatum  administret.  lana  tum  enim  urbs  illa,  non 
solum  hanc  appellationem  meruerat  et  senatum  et  ordines  po- 
puli,  ac  magistratus  similiter  habebat,  verum  etiam  contractus  ci- 
vium  huius  urbis,  iuxta  leges  Romanorum,  qui  in  Italia  sunt,  iudi- 
cabantur;  iuraque  omnia  et  privilegia  aequalia  seniori  Romae  possi- 
debati).  Nel  che  sono  d'accordo  tutti  gl'altri  istorici  ecclesiastici, 
quali  contemporanei,  nelle  loro  memorie  che  ci  lasciarono:  sic- 
come Socrate,  lib.  v  Hist.  eccL,  cap.  vili,3  Niceforo,  lib.  xii  Hist. 
eccl.y  cap.  xiii,3  ed  altri  scrittori. 

Secondariamente  non  può  dubitarsi,  ch'essendo  stabilita  questa 
cattedra  in  Roma,  città  ove  le  lettere  e  le  discipline  fiorivano  e 
dove  concorrevano  i  più  insigni  domini  del  mondo,  la  Chiesa  ro- 
mana era  riputata  la  più  dotta  e  saggia.  S.  Paolo,  il  più  forte  cam- 
pione della  fede  di  Cristo,  trascielto  per  la  conversione  de'  gentili, 
era  ivi  lungamente  dimorato,  predicandola  ed  istruendo4  i  novelli 
convertiti  ;  sicché  Roma  in  ciò  non  ebbe  che  invidiare  all'altre  città 
dell'Oriente,  scorse  e  ricorse  da  lui  e  dagl'altri  appostoli. 

Ebbe  vescovi  molto  saggi,  come  S.  Clemente,  Cornelio  ed  altri, 
onde  avvenne  che  gl'altri  vescovi  anche  delle  sedi  maggiori  non 
facevano  difficoltà  di  riccorrere  a  questa  sede  di  Roma  per  consul- 
tare de'  loro  affari,  così  appartenenti  alla  dottrina  che  alla  disciplina, 
onde  ebbero  origine  le  loro  lettere  decretali.  E  si  vede  che  sino  a' 
tempi  di  Tertulliano  aveasi  acquistata  gran  fama  di  dottrina  e  di 

1.  nel  lib.  VII,  cap.  del  can.  Ili:  Ermia  Sozomeno,  Historia  ecclesiastica, 
lib.  vii,  cap.  rx,  in  Migne,  P.  G.,  lxvii,  col.  1435.  Il  Giannone,  o  il  copista, 
sbaglia  la  citazione  («  Affinché,  dopo  il  vescovo  di  Roma,  quello  di  Costanti- 
nopoli abbia  il  privilegio  dell'onore  come  colui  che  amministra  l'episco- 
pato della  più  giovane  Roma.  Già  allora  infatti  quella  città  non  solo  aveva 
meritato  questo  nome  ed  aveva  parimenti  il  senato  e  gli  ordini  del  popolo  e 
le  magistrature,  ma  anche  gli  affari  dei  cittadini  di  questa  città  erano  giudi- 
cati secondo  le  leggi  dei  Romani  che  vivono  in  Italia  ;  e  aveva  tutte  le  leggi 
e  i  privilegi  uguali  a  quelli  della  più  antica  Roma  a).  2.  lib.  V  Hist.  eccl.t 
cap.  Vili:  in  Migne,  P.  G.t  usvii,  coli.  575  sgg.  3.  Niceforo  Callisto, 
Ecclesiastica  historia,  loc.  cit.,  in  Migne,  P.  G.t  cxlvt,  col.  782.  Cfr.  anche 
lib.  vili,  cap.  xxvi,  col.  102.  4.  istruendo  Parente  (p.  176);  istruendola 
ven  e  CORS. 


712  IL   TRIREGNO 

santità,  talché  questo  dottore  ne  faceva  somma  stima,  avendola 
in  grandissima  venerazione;  e  molto  più  fecero  i  Padri  del  IV  se- 
colo e  specialmente  S.  Agostino. 

Per  terzo  non  è  da  controvertirsi  che  il  primo  degl'imperatori 
cristiani,  qual  fu  Costantino  Magno,  dalla  Chiesa  di  Roma  comin- 
ciasse ad  esercitare  la  sua  munificenza  e  magnanimità  in  favorirla 
cotanto,  arrichirla  di  beni  mondani,  di  preziose  suppellettili,  ed 
innalzare  il  suo  vescovo  a  sommi  onori,  adornandolo  del  pallio,  o 
sia  manto  imperiale,  e  di  regali  insegne,  ed  avendone  quella  rive- 
renza e  rispetto,  quanto  l'istoria  di  que'  tempi  racconta  e  da  noi 
s'è  detto  ne'  precedenti  capitoli:1  le  cui  orme  furono  da  poi  calcate 
da  Costante  e  Costanzo  suoi  figliuoli,  da  Gioviniano,2  Valentiniano 
I  e  II,  da  Onorio  e  Valentiniano  III  imperatori  d'Occidente,  suoi 
successori,  siccome  è  manifesto  dalle  leggi  loro,  che  sono  inserite 
nel  Codice  teodosiano.  Di  cui  poi  ebbero  eguale  stima  e  rispetto 
Teodorico  ed  Atalarico  re  d'Italia,  e  tutti  gl'altri  re  ostrogoti,  an- 
corché3 fossero  arriani,  siccome  è  noto  dall'opere  di  Cassiodoro,  di 
Giornandes,  Ennodio,  Procopio,  Agatia,  e  di  chi  no?  Ed  essendo 
stati  scacciati  d'Italia  i  Goti  sotto  l'imperio  dell'imperator  Giusti- 
niano, questi,  siccome  fecero  gl'altri  imperatori  d'Oriente  suoi  più 
vicini  successori,  ebbe  il  vescovo  di  Roma  come  suo  vicario  in 
Occidente,  il  quale  non  poteva  eleggersi,  né  intronarsi,  senza  loro 
consenso  degli  imperatori,  e  fu  commesso4  per  adempire  in  loro 
vece  quelle  parti  in  Occidente  ch'essi  in  Oriente  adempivano,  in- 
torno ad  aver  cura  e  pensiero  delle  cose  ecclesiastiche  e  dell' este- 
rior  polizia  della  Chiesa,  siccome  si  vedrà  nel  seguente  capitolo. 

Queste  sono  le  vere  e  potissime  cagioni  della  sua  preminenza 
sopra  gl'altri  vescovi  dell'orbe  cristiano.  Ma  da  poi  i  pontefici  ro- 
mani non  vollero  attenersi  a  queste,  ma  per  rendere  la  loro  auto- 

i.  ne*  precedenti  capitoli:  soprattutto  nel  il,  qui  a  pp.  656  sgg.  2.  Giovinia- 
no*. in  cobs  e  Parente  (p.  177)  «  Giustiniano  »,  evidentemente  errato  perché 
il  Giannone  parla  di  imperatore  d'Occidente.  Sicuramente  Flavio  Gioviano 
Augusto,  imperatore  dal  363  al  364,  successore  di  Giuliano  l'Apostata, 
cristiano  convinto,  che  abolì  la  magia  e  l'arte  divinatoria,  ven:  «  Gioviniano 
e  Valentiniano  III»  (salta  un  brano  per  omoteleutia) ;  cors:  «Giustiniano, 
Valentiniano  I  e  II,  da  Onorio  e  Valentiniano  III  »  (dà  il  testo  più  completo, 
ma  correggendolo  male,  come  farà  M.  C.  de  Samnitibus).  3.  ancorché  Pa- 
rente (P-  *77)  ;  li  quali  ancorché  ven  e  CORS-  4.  ebbe  il  vescovo . . .  commesso  : 
adottiamo  qui  per  intero  il  testo  Parente  (p.  177),  senz'altro  più  leggibile 
di  ven  e  cors  che  hanno:  «ebbero  il  vescovo  di  Roma  come  lor  vicario  in 
Occidente,  il  quale  perciò  non  poteva  eleggersi,  né  intronarsi  senza  loro 
commesso  e  consenso». 


DEL   REGNO    PAPALE    -  PERIODO    II    •  CAP.  VI  713 

rità  assoluta  ed  indipendente  da'  concili  e  dagl'imperatori  istessi 
e  dall'Imperio,  ne  inventarono  altre,  sopra  le  quali  s'ingegnarono 
stabilire  e  fondar  meglio  la  loro  potenza,  per  poterla  poi  stendere 
per  tutto  il  mondo,  senza  che  vi  fosse  argine  alcuno  che  potesse 
raffrenarla,  siccome  per  l'ignoranza  e  superstizione  de'  secoli  se- 
guenti fortunatamente  avvenne. 


Ne'  princìpi  del  V  secolo  cominciarono  a  rifletter  meglio  sopra 
quell'umana  tradizione,  radicata  già  nell'opinione  di  tutti,  che  S. 
Pietro,  lasciata  la  cattedra  d'Antiochia,  fosse  gitto  in  Roma  a  sta- 
bilir quivi  la  sua  sede,  e  ch'egli  ne  fosse  stato  il  primo  vescovo. 
E  poiché  ciò  nemeno  bastava  al  lor  intento,  bisognò  trasformar  S. 
Pietro  da  capo  qua!  era  degl'appostoli,  e  farlo  principe  e  monarca 
della  Chiesa,  dicendo  che  a  colui  furono  consignate  da  Cristo  le 
chiavi,  e  detto  che  pascesse  le  sue  peccorelle,  e  che  sopra  le  sue 
spalle  fu  unicamente  appoggiata  ed  edificata  la  Chiesa,  la  quale, 
perché  non  rovinasse,  era  mestieri  che  non  potesse  errare,  e  fosse- 
gli  per  conseguenza  dato  tutto  il  potere  sufficiente  per  poterla  so- 
stenere e  conservare.  Che  dovendo  questa  Chiesa  durar  perpetua- 
mente, tale  prerogativa  e  maggioranze  non  dovevano  essere  per- 
sonali, sicché  si  estinguessero  nella  di  lui  persona,  ma  attaccate 
alla  sua  cattedra,  che  non  doveva  mai  morire,  ed  a  tutti  i  suoi  suc- 
cessori che  dovevano  in  quella  sedere.  Ed  ancorché  qui  pure  in- 
contrassero delle  gravi  difficultà  da  superare,  poiché  forse  con 
maggior  ragione  poteva  ciò  pretendere  la  cattedra  d'Antiochia,  che 
fu  la  prima  sede  di  S.  Pietro,  essi  perciò  non  si  sgomentarono, 
dicendo  che  S.  Pietro  abbandonò  quella  cattedra  e  la  trasferì  in 
Roma,  e  che  dovevasi  attendere  questo  fine,  non  già  quel  principio; 
ed  oltre  aver  finte  molte  favole  su  di  questa  traslazione  di  sede  da 
Antiochia  in  Roma,  perché  non  rovinasse  così  presto  sì  arenoso1 
fondamento,  si  finse  una  rivelazione  su  questo  trasferimento  di 
sede,  che  si  legge  nel  Decreto  di  Graziano  11,  q.  1,  Rogemus,2  la  qual 
cosa,  presso  i  dotti,  dall'istesso  Natal  d'Alessandro  è  presa  a  beffe 
e  riputato  un  favoloso  sogno.  Ma  a  questo  si  provide  da  poi  con 
più  efficace  mezzo,  poiché  si  procurò  che  si  stabilisse  nella  Chiesa 

1.  arenoso  ven  e  cors;  oneroso  Parente  (p.  178).     2.Decretum  Grattarti, 
causa  xxrv,  quaestio  I,  15. 


714  JL   TRIREGNO 

romana  una  particolar  festa  di  questa  traslazione,  affinché  più  in- 
contestabilmente1 passasse  alla  memoria  dei  posteri  come  cosa  certa 
e  da  non  potersene  più  dubitare. 

Certamente  che  recarà  stupore,  non  che  maraviglia,  come  in 
mezzo  a  tante  ed  inestricabili  difficoltà,  fra  scogli  sì  duri  e  perigliosi, 
fra  cammini  sì  stretti,  alpestri  e  disaggevoli,  siasi  potuto  avanzar 
tanto,  e,  superati  tanti  fossi  e  ripari,  scorrer  poi  da  per  tutto,  e 
sopra  i  dubi  e  rovinosi  fondamenti  estoller  edifizi  sì  portentosi  e 
magnifici;  poiché  doveva  in  prima  saltarsi  quel  fosso  ed  appurar 
bene  quel  fatto,  se  mai  S.  Pietro  fosse  stato  in  Roma,  quando  non 
si  puoi  provare  dalla  Scrittura  santa:  anzi  gl'Atti  degV Appostoli  di 
S.  Luca,  e  ristesse  Epistole  di  S.  Paolo  pare  che2  convincono  il 
contrario.  E  questa  credenza  non  si  appoggia  che  ad  una  tradizione 
umana:  Ireneo,  Cipriano  e  Tertulliano,  scrittori  non  contempo- 
ranei ma  del  III  secolo,  che  vissero  intorno  a  due  cento  anni  dopo 
S.  Pietro,  e  da  Roma  stranieri,  due  affricani  e  l'altro  vescovo  della 
Gallia,  da'  quali  fu  poi  tramandata  a'  scrittori  del  IV  secolo.3  Don- 
de i  romani  pontefici  seppero  bene  approfittarsi  e  studiarci  poi 
tanto  con  sì  fortunato  successo.  Per  2.0,  fattosi  pure  passar  S.  Pietro 
in  Roma,  avendo  lasciato  in  Antiochia  il  suo  successore,  perché  a 
questa  cattedra  non  dovevano  rimanere  quelPistesse  prerogative 
delle  quali  una  volta  ne  avea  già  fatto  acquisto  ?  E  perché  Antio- 
chia non  dovrà  essere  la  prima  e  Roma  la  seconda?  Giacché  sono 
attaccate  alla  cattedra  e  non  alla  persona?  Tanto  maggiormente 
che,  d'aver  in  Antiochia  avuta  la  sua  sede  S.  Pietro  v'è  un  appoggio 
stabile  e  fermo,  qual  è  quello  della  divina  Scrittura;  all'incontro, 
d'essere  stato  S.  Pietro  in  Roma  non  si  fonda  che  in  una  tradizione 
umana.  Oltracché,  le  prime  spose  essendo  le  più  legitime  e  da 
preferirsi  alle  seconde,  perché  doveva  farsi  questo  torto  ad  Antio- 
chia, città  pure  raguardevole  dell'Imperio  e  la  capitale  di  tutta 
l'Asia,  donde  la  prima  volta  uscì  il  nome  di  cristiano,  siccome 
d'Alessandria  quello  di  teologo?  E  che  si  risponderà  a  S.  Gregorio 
Magno  istesso,  il  quale  in  Reg.  Ep.  991,  ad  Eulogium  Alexan.,4 


1.  incontestabilmente:  nostra  congettura;  indetestabilmente  ven,  cors  e  Pa- 
rente (p.  179).  2. pare  che  cors;  che  ven.  3.  Certamente  . .  .  secolo:  cfr. 
L.  E.  Du  Pin,  op.  cit.,  diss.  iv,  cap.  1,  §  n,  Petti  primatus  ex  veterum  testi- 
monUs  asseritur,  p.  313.  4.  Gregorio  Magno,  Epistularum  lib.  v,  ep.  xliii, 
Ad  Eulogium  et  Anastasium  episcopos,  in  Migne,  P.  L.,  Lxsvii,  col.  770. 
Eulogio  era  patriarca  di  Alessandria  e  Anastasio  di  Antiochia.  Si  riferisce 


DEL    REGNO    PAPALE    •  PERIODO    II   •  CAP-   VI  715 

scrisse  che  li  vescovi  d'Antiochia  e  d'Alessandria  sono  successori 
di  S.  Pietro,  non  meno  che  il  vescovo  di  Roma,  perché  sedono 
nella  medesima  cattedra  di  Pietro?  Per  3.0  dovevasi  ancor  superare 
un'altra  invincibile  difficoltà:  che  S.  Pietro,  capo  degl'appostoli, 
ebbe  quelle  prerogative  come  appostolo,  non  come  vescovo,  poiché 
la  sua  vocazione  e  missione  principale  non  fu  di  vescovo,  il  qual 
dovesse  fermarsi  in  una  città,  ma  di  appostolo,  cioè  di  dover  scor- 
rere da  per  tutto  e  piantar  la  novella  religione  per  quelle  provincie 
dove  non  era  nota,  non  già  fermarsi  in  una  città  già  convertita; 
e  quantunque  non  fosse  cosa  impropria  agl'appostoli  di  fermarsi  in 
qualche  luogo  ove  scorgevano  che  la  loro  più  lunga  dimora  potes- 
se essere  di  maggior  profitto  e  quivi  adempire  le  parti  di  vescovo, 
presidendo  il  presbiterio,  con  tutto  ciò  non  era  questa  la  lor  pro- 
pria e  principal  incombenza,  ma,  ridotti  gl'Ebrei  e  gentili  alla 
fede  di  Cristo,  istituire  ne'  luoghi  convertiti  vescovi  per  istruttori 
della  plebe  ed  ispettori  al  presbiterio,  e  scorrer  altrove.  E  per  ultimo 
rimaneva  di  francar  quell'altro  più  duro  passo,  che  sebbene  S. 
Pietro  fosse  riputato  il  primo  fra  gl'appostoli,  nulladimeno  la  po- 
testà che  Cristo  lasciò  a'  medesimi  fu  in  tutti  eguale,1  dichiarandosi 
egli  stesso  il  capo  e  lo  sposo  della  sua  Chiesa,  reiterando  loro  bene 
spesso  quella  sentenza  massima:  che  chiunque  fra  di  loro  vorrà 
presumere  d'esser  maggiore  e  più  grande  dell'altro,  egli  sarà  il 
servo  di  tutti.  Né  Cristo  intorno  alla  predicazione  ed  amministra- 
zione della  sua  Chiesa  diede  più  potere  a  S.  Pietro  che  agl'altri. 
Sono  mandati  a  due  a  due  a  predicare  come  compagni,  perché 
s'escludesse  fra  loro  ogni  superiorità.  Cristo  promette  a  tutti  che 
giudicheranno  le  dodeci  tribù  d'Israele,  sedendo  sopra  le  dodici 
sedi,  e  non  dà  a  S.  Pietro  un  luogo  più  alto  ed  eminente  degl'altri. 
Quando  ci  vien  descritta  da  S.  Giovanni,  ApocaL,  xxi,2  la  Chiesa 
trionfante  come  una  città  che  avea  dodici  fondamenti,  e  che  in 
quelli  era  scritti  i  nomi  delli  dodici  appostoli  dell'agnello,  non  si 
legge  che  S.  Pietro  fossevi  posto  per  pietra  angolare*  Quando  gl'ap- 
postoli ricevettero  lo  Spirito  Santo  e  la  potestà  di  legare  e  sciogliere 


allo  scontro  con  Giovanni  patriarca  di  Costantinopoli  per  il  titolo  di  ecume- 
nico. Sarà  un  tema  ben  più  sviluppato  nell'opera  riguardante  il  pontificato 
di  Gregorio  Magno.  1.  nulladimeno  . . .  eguale:  cfr.  L.  E.  Du  Pin,  op.  e 
loc.  cit.,  §  ni,  In  quo  ostenditur  nihil  obstare  Petri  prìmatui  Apostolorum 
inter  se  aequalitatem,  et  recentioris  de  Petri  et  PauU  individuo  primatu  sen- 
tentìa  examinalur,  pp.  317  sgg.     2.  Apoc,  21,  14. 


716  IL   TRIREGNO 

ed  il  commando  di  predicare  per  tutto  il  mondo,  e  quando  Tistesso 
Spirito  Santo  discese  sopra  di  loro,  si  trovarono  tutti  insieme, 
né  alcuno  di  essi  in  tutto  questo  è  preferito  agl'altri.  E  salito  Gesù 
in  cielo,  dagl'Atti1  di  S.  Luca  è  manifesto  che  S.  Pietro  non  poteva 
o  faceva3  più  degl'altri  :  dagl'appostoli  fa  mandato  con  Giovanni  in 
Samaria.  E  dal  concilio  gerosolimitano  istesso,  riferito  pure  in 
quest'irte",3  convocato  dagli  appostoli,  S.  Pietro  fu  il  primo  a  pro- 
porre, ma  il  primo  a  dar  suo  giudicio  fu  S.  Giacopo,  vescovo  di 
Gerusalemme,4  ed  ebbe  sovente  egli  a  dar  conto  a*  suoi  compagni 
delle  sue  missioni  ed  a  giustificare  a  que'  la  sua  condotta,  spezial- 
mente quando  gli  fu  imputato  a  delitto  d'essere  entrato  nella  casa 
di  Cornelio  centurione  ed  aver  ivi5  battezati  que*  gentili  i  quali 
non  s'erano  prima  circoncisi.6  E  S.  Paolo  più  volte  gli  resistè  in 
faccia  e  lo  rimproverò  di  cose  delle  quali  era  da  doverne  esser 
ripreso.  Né  a'  primi  secoli  della  Chiesa  si  pensò  a  questi  sofismi, 
anzi  nemeno  si  sognò  di  ricorrere  a  que'  arzigogoli  e  cavilli  su  '1 
«Tibi  dabo  claves»,  e  sopra  il  «Tu  es  Petrus,  et  super  hanc  petram 
aedificabo  Ecclesiam  meam»,  e  sopra  il  «pasce  oves  meas»;  poiché 
i  Padri  antichi,  anche  nel  IV  secolo,  ben  ne  conobbero  la  vera  e 
genuina7  intelligenza  e  che  le  «  chiavi  »  ed  il  «  pascere  »  furono8  egual- 
mente a  tutti  concedute,  e  che  la  «pietra»  era  Cristo,  confessò  a  S. 
Pietro,9  e  non  l'istesso  Pietro  :  onde,  data  la  potestà  a  lui,  non  di- 
struggeva quella  egualmente  a  tutti  conceduta,  siccome  que'  passi 

i.  Act.,  8, 14.  2.  ofacevavENe  cors  (manca  in  Parente,  p.  181).  3.  Act.t 
15,  7-1 1  e  13-21.  4.  Gerusalemme:  Giacomo  non  era  vescovo  di  «Galizia» 
(come  in  Parente,  p.  181),  ma  di  Gerusalemme,  ven  e  cors  recano  «V.  di 
G.  »  che  abbrevia  appunto  vescovo  di  Gerusalemme.  Si  riferisce  al  concilio 
ivi  tenuto  nel  51,  in  cui  ci  fu  il  conflitto  con  i  giudaizzanti.  5.  ivi  cors; 
avuto  ven;  né  Tuna  né  l'altra  lezione  in  Parente  (p.  181),  che  manca  pure 
del  circoncisi  che  segue.     6.  spezialmente  .  .  .  circoncisi:  cfr.  Act.,  11,  1  sgg. 

7.  genuina  cors  (come  aveva  corretto  M.  C.  de  Samnitibus)  ;  germana  ven. 

8.  furono  Parente  (p.  1 8 1)  ;  fu  ven  e  cors.  9.  confessò  a  S.  Pietro  ven  e  cors 
(manca  in  Parente,  p.  181)  e  si  tratta  probabilmente  di  lezione  lacunosa,  il 
cui  significato  può  tuttavia  essere  inteso  alla  luce  del  passo  delle  Retracta- 
tiones  di  Agostino  poc'oltre  menzionate:  «Sed  scio  me  postea  saepissime 
sic  exposuisse  quod  a  Domino  dictum  est  "Tu  es  Petrus,  et  super  hanc 
petram  aedificabo  Ecclesiam  meam",  ut  super  hunc  intelligeretur  quem 
confessus  est  Petrus  dicens:  "Tu  es  Christus  filius  Dei  vivi"  (Matth.  xvi, 
18,  16):  ac  sic  Petrus  ab  hac  petra  appellatus  personam  Ecclesiae  figuraret, 
quae  super  hanc  petram  aedificatur,  et  accepit  claves  regni  coelorum.  Non 
enim  dictum  est  illi  "Tu  es  petra",  sed:  "Tu  es  Petrus".  Petra  autem  erat 
Christus;  quem  confessus  Simon,  sicut  eum  tota  Ecclesia  confitetur,  dictus 
est  Petrus.  Harum  autem  duarum  sententiarum  quae  sit  probabilior,  eligat 
lector  ». 


DEL   REGNO    PAPALE   •  PERIODO    II    •  CAP.  VI  717 

spiegarono  Cipriano,  De  sin,  pret,,1  Gio.  Crisostomo,  HomiL  LV 
in  Matth.  et  in  Psalm,  XXXII,3  S.  Ambrogio  in  Epistola  ad  Ephes,, 
cap.  11,  x,3  S.  Agostino  in  più  e  diversi  luoghi  delle  sue  opere. 
Circa  Iudaeos,  pagan,  et  arian.  et  trac,  X  et  xxiv  in  Iohan.  et  de 
verbis  Domini  Serm.  xx,  e  più  chiaramente  11  RetracLf  S.  Girolamo, 
in  Matth,  et  ad  Gaiat,  cap.  il,5  S.  Bernardo  e  tanti  altri  gravi  e  seri 
dottori  della  Chiesa.  Ciò  è  stato  agli  ultimi  nostri  tempi  da  valenti 
scrittori  posto  in  tanta  chiara  luce,  che  non  accade  più  ora  dispu- 
tarne o  por  dubbio. 

Ma  se  questi  sforzi  per  superar  tante  difficoltà  si  fossero  fatti 
tutti  ad  un  tempo,  non  v'è  dubbio  che  audace,  temeraria,  difficile, 
anzi  impossibile  dovea  riputarsi  l'impresa,  e  molto  più  strano  e 
sorprendente  sembrarebbe  il  fortunato  successo.  Ma  non  si  tenne 
questa  maniera,  né  gl'assalti  furono  tutti  in  un  tempo  e  repentini  ; 
pian  piano  s'andava  avanti.  Si  cominciò  prima,  con  speciose  appa- 
renze e  ben  acconcie  esaggerazioni  ed  accorte  insinuazioni,  a  far 
credere  per  cosa  certa  che  S.  Pietro  in  Roma  avesse  trasferita  la 
sua  sede,  e  sopra  questo  fondamento  cominciarono  le  riflessioni  ed 
esagerazioni  ed  encomi  di  quella  cattedra.  Que'  Padri  che  credet- 
tero S.  Pietro  avere  in  Roma  sofferto  martirio,  in  fra  gY altri  S. 
Agostino,  da  ciò  ne  derivano  nella  sede  di  Roma  stima  sì  e  preggio, 
ma  non  maggior  potere  con  autorità  sopra  le  altre  sedi  maggiori  o 
minori  fuori  del  vicariato  di  Roma.  S.  Agostino,  scrivendo  contro 
Giuliano,  che  poco  conto  faceva  dell'autorità  de'  vescovi  d'Occi- 
dente che  contro  di  lui  si  allegavano,  così  lo  ripiglia  e  riprende  nel 


1.  Cipriano,  De  sin.  pret.  :  il  testo  è  forse  qui  corrotto.  Cipriano  Cartaginese 
tratta  l'argomento  nel  Liber  de  imitate  Ecclesiae,  cap.  iv,  in  àligne,  P.  L.t 
iv,  coli.  512-6.  2.  Homiliae  in  Matthaeum,  lv,  111  Migne,  P.  G.,  lviii,  coli. 
531  sgg.  Quanto  alla  citazione  che  segue,  dev'esserci  un  errore,  poiché 
nelle  «  esposizioni  »  di  Crisostomo  ai  Salmi  non  esiste  quella  al  salmo  xxxn. 
3.  Commentarium  in  Epistolam  ad  Ephesios,  il,  20  (e  non  io),  in  Migne, 
P,  L.,  xvii,  col.  380.  4.  Cantra  Iudaeos,  paganos  et  arianos  sermo  de  sym- 
bolo,  in  Migne,  P.  L.,  xui,  lib.  vili,  coli.  1 1 17  sgg.,  forse  cap.  xxi,  col.  1 129  ; 
In  Ioanms  Evangelium  tractatus  CXXIV,  non  già  tract.  x  e  xxiv,  ma  più 
verisimilmente  tract.  cxxin  e  cxxiv,  in  Migne,  P.  L.,  xxxv,  coli.  1965  sgg.  ; 
Sermones,  lxxvi,  cap.  1  ;  ccxcv,  capp.  1  e  11  ;  ccxcvi,  cap.  iv,  in  Migne,  P.  L,, 
xxxviii,  rispettivamente  coli.  479,  1348-9  e  1354;  Retractationes,  lib.  1  (non 
il),  cap.  xxi,  in  Migne,  P.L.,  xxxn,  col.  618.  Cfr.  inoltre  De  agone  christiano, 
cap.  xx,  in  Migne,  P.  £.,  xl,  col.  308.  (In  Parente,  p.  181,  manca  la  cita- 
zione delle  Retractationes).  5.  S.  Girolamo,  in  Matth.  et  ad  Galat.  cap.  II: 
cfr.  in  Migne,  P.  L.,  xxvr,  rispettivamente  coli.  120  sgg.  e  357  sgg.  In 
Parente  (p.  181)  la  citazione,  presente  in  ven  e  cors,  manca. 


718  IL    TRIREGNO 

lib.  I,  cap.  iv :  «An  ideo  contennendos  putas  quia  occidentalis  Ec- 
clesiae  sunt  omnes,  nec  ullus  est  in  eis  commemoratus  a  nobis 
Orientis  episcopus  ?  Quid  ergo  faciemus,  cum  illi  graeci  sint,  nos 
latini  ?  Puto  tibi  eam  partem  orbis  sufficere  debere,  in  qua  primum 
apostolorum  suorum  voluit  Dominus  gloriosissimo  martyrio  coro- 
nare. Cui  Ecclesiae  praesidentem  B.  Innocentium  si  audire  voluis- 
ses,  iam  rune  periculosam  iuventutem  tuam  pelagianis  laqueis 
exuisses  d.1  Parimenti  nel  VI  secolo,  essendosi  vie  più  radicata  que- 
sta credenza,  non  ebbe  difficoltà  l'istesso  imperator  Giustiniano 
nella  Novella  ix  di  chiamar  Roma  «veneranda  sedes  summi  apo- 
stoli Petri»;  ma  ciò  dinotava  maggior  dignità  e  riverenza,  non  già 
maggior  potere  ed  autorità  sopra  l'altre  sedi  maggiori,  specialmente 
sopra  Costantinopoli,  chiamata  pure  dall'istesso  Giustiniano  capo 
delle  chiese,  ed  il  suo  vescovo  patriarca  ecumenico.  Or  questo, 
ch'era  maggior  stima,  riverenza  e  rispetto,  in  tempi  posteriori  si 
trasmutò  in  primato  e  superiorità,  sicché  pian  piano,  così  disposte  le 
cose,  si  venne  alle  prese  più  strette,  cioè  questo  primato  farlo  pas- 
sare per  principato  o  monarchia,  ed  a  dar  assai  più  ingegnose  inter- 
pretazioni a'  riferiti  passi  del  «tibi  dabo  claves»,  del  «pasce  oves» 
e  dell'edificarlo;2  le  quali  furono  l'ultime  armi  che  s'impugnarono 
ne'  tempi  più  bassi,  superstiziosi  ed  incolti. 

Ne'  princìpi  del  V  secolo  ecco  come  i  pontefici  romani  comin- 
ciarono a  parlare  di  quest'eminenza  del  vescovo  di  Roma  sopra 
gl'altri  vescovi,  niente  piacendogli  che  se  ne  attribuisse  la  cagione 
alla  città  dì  Roma,  capo  del  mondo,  ma  per  aver  in  quella  cattedra 
seduto  S.  Pietro,  capo  degl' appostoli.  Anzi  Innocenzio  I,  scrivendo 
ad  Alessandro,  vescovo  d'Antiochia,  la  maggioranza  della  di  lui 
sede  pur  a  questo  principio  la  riporta,  non  tanto  alla  magnificenza 
della  città  d'Antiochia  e  d'esser  riputata  capo  e  metropoli  dell'Asia, 
e  che  perciò  a  lei  sarebbe  dovuto  il  primo  onore;  senonché  dopo 

i.  *An  ideo  .  .  .  exuisses»:  Agostino,  Contro.  Iidicmum  haeresìs  pelagianae 
defensorem,  lib.  i,  cap.  iv,  13,  in  Migne,  P.  L.,  xliv,  col.  648  («Forse  per 
questo  pensi  di  poterli  disprezzare,  perché  appartengono  tutti  alla  Chiesa 
d'Occidente  e  non  ne  abbiamo  menzionato  alcuno  di  quella  d'Oriente? 
Che  faremo  dunque,  dacché  quelli  sono  greci  e  noi  latini?  Penso  debba 
bastarti  quella  parte  del  mondo  nella  quale  il  Signore  volle  cingere  con  la 
gloriosissima  corona  del  martirio  il  primo  dei  suoi  apostoli.  E  se  tu  avessi 
voluto  ascoltare  il  beato  Innocenzo  che  governa  questa  Chiesa,  fin  d'allora 
avresti  liberato  dai  lacci  pelagiani  la  tua  gioventù  in  pericolo  »).  2.  edifi- 
carlo veh;  edificarla  cors;  edificarle  Parente  (p.  183):  è  probabile  errore 
di  trascrizione  per  «aedificabo». 


DEL    REGNO    PAPALE   •  PERIODO   II    •  CAP.  VI  719 

bisognò  trasportarlo  in  Roma,  perché  quivi  poi  S.  Pietro  trasferì 
la  sua  cattedra.  Ecco  come,  parlando  della  Chiesa  d'Antiochia,  e' 
dice  nell'epist.  xviii:1  ^Unde  advertimus,  non  tamaro  civitatis 
magnificentia  hoc  eidem  attributum,  quam  quod  prima  primi  apostoli 
sedes  esse  monstretur,  ubi  et  nomen  accepit  religio  Christiana,  et 
quae  conventum  apostolorum  apud  se  fieri  ceieberrimum  meruit, 
quaeque  urbis  Romae  sedi  non  cederet,  nisi  quod  illa  in  transitu 
meruit,  ist a  susceptum  apud  se  consummatumque  gauderet  ->.  Chi  se- 
riamente attenderà  a  quest'espressioni  non  potrà  ravvisarvi  che 
manifesti  paralogismi,  esser  tutte  vane  e  sforzate  ragioni,  poiché 
non  s'arriva  a  comprendere,  anche  dato  per  vero  questo  passaggio 
di  sede  in  Roma,  perché  Antiochia  avea  da  perdere  la  maggioranza, 
quando  quella  fu  la  prima  sposa  di  S.  Pietro,  e  doversi  spogliare 
la  prima  per  amarne  la  seconda?  Innoltre,  che  il  vescovo  d'Antio- 
chia fosse  successor  di  S.  Pietro  era  certo,  avendo  la  sua  ragion 
provata  e  fondata  nella  santa  Scrittura:  all'incontro,  quella  del 
vescovo  di  Roma  non  era  appoggiata,  siccome  s'è  detto,  che  alla 
tradizione  umana;  anzi  negl'ultimi  secoli,  essendosi  più  accurata- 
mente esaminato  questo  punto  d'istoria,  vi  è  chi  almeno  ha  forte 
ragione  di  dubitare  se  mai  S.  Pietro  fosse  stato  in  Roma;  di  più, 
se  la  ragione  espressa  da  Innocenzo  I  valesse,  ne  avrebbe  da  se- 
guire che  almeno  il  vescovo  d'Antiochia  avesse  avuto  da  occupare 
il  secondo  luogo,  dopo  quello  di  Roma;  eppure  è  chiaro  che  il  se- 
condo l'occupò  sempre  il  vescovo  d'Alessandria,  ed  il  terzo  quello 
d'Antiochia.  Prova  evidentissima  che  la  maggioranza  di  queste 
Chiese  non  si  misurava  da  S.  Pietro,  né  da  S.  Marco,  né  dagl'altri 
appostoli  o  evangelisti  che  ne  presiderono,  essendo  quelli  in  po- 
testà tutti  eguali,  ma  dall'eminenza  delle  città,  secondo  la  polizia 
e  disposizione  dell'Imperio;  onde  avvenne  ch'Alessandria,  ch'era 
riputata  la  seconda  città  del  mondo  dopo  Roma,  ottennesse  nella 
polizia  ecclesiastica  il  secondo  luogo.  Bonifacio  I,  Celestino,  Sisto 
III,  S.  Lione  Magno  e  tutti  gl'altri  loro  successori  non  con  altro 

1.  epist.  XVIII,  altri  xxrv,  Ad  Alexandrum  episcopum  antiochenum,  cap.  I, 
in  Migne,  P.  L.t  xx,  col.  548  («  Onde  notiamo  che  le  è  stato  conferito  questo 
onore,  non  tanto  per  la  magnificenza  della  città,  quanto  perché  è  additata 
come  prima  sede  del  primo  apostolo,  dove  anche  la  religione  cristiana  rice- 
vette il  suo  nome;  e  perché  meritò  di  accogliere  la  celeberrima  adunanza 
degli  apostoli  e  non  fu  inferiore  alla  sede  di  Roma  se  non  perché  fu  degna 
del  passaggio  di  Pietro,  mentre  questa  si  compiacque  di  accoglierlo  e  che 
vi  ricevesse  il  martirio»). 


720  IL   TRIREGNO 

linguaggio  di  poi  parlarono,  siccome  vedrassi  più  innanzi,  e  si  ar- 
rivò a  tanto  che  Gelasio  I  voleva  farsi  valere  questa  ragione  anche 
co'  vescovi  d'Oriente,  scrivendogli:  e  Qua  enim  ratione,  vel  con- 
sequentia,  aliis  sedibus  deferendum  est,  si  primae  beati  Petri  sedi 
antiqua  et  vetusta  reverentia  non  deferatur,  per  quam  omnium 
sacerdotum  dignitas  semper  est  roborata  atque  firmata?  jk1  E  quan- 
to più  si  andava  avanti,  tanto  più  s'esaggerava  questa  ragione  ne' 
secoli  seguenti,  dove  la  superstizione  e  l'ignoranza  avevano  poste 
più  profonde  radici,  sicché  non  s'astennero  di  farsela  valere  e  ado- 
perarla2 contro  gl'istessi  imperatori  d'Oriente.  Così,  nel  IX  secolo, 
Nicolao  I,  scrivendo  alTimperator  Michele,  non  ebbe  difficultà 
alcuna  di  dirgli  che  i  privilegi  e  preminenze  della  sua  Chiesa  gli 
venivano  dalla  propria  bocca  di  Cristo,  che  gli  diede  a  S.  Pietro, 
da  che  i  pontefici  romani  la  derivavano,  e  non  altronde.3 


li 

Si  valsero  anche  i  romani  pontefici  per  le  loro  sorprese  d'un'al- 
tra  opportunità  che  loro  somministrava4  un  apparente  dritto  di 
poter  stendere  sopra  altra  diocesi  la  potestà  loro  esarcale,  poiché 
ciò  ch'era  maggioranza  d'onore,  di  rispetto  e  di  riverenza  sopra 
gl'altri  vescovi,  lo  tramutarono  in  potestà;  e  siccome  non  se  gli 
poteva  negare  ch'essi  fossero  i  primi  nell'amore,  così  pretendevano 
anche  essere  i  primi  nel  potere.  Sicché  tutti  gl'altri  vescovi  doves- 
sero essere  a  loro  sottoposti,  attribuendo  a  propria  e  singoiar  loro 
autorità  e  prerogativa,  come  successori  di  S.  Pietro,  quel  ch'era 
commune  a  tutti  i  vescovi.  Questa  maniera  tennero  per  invadere 
l'Illirico  non  men  occidentale  che  orientale,  e  sottoporsi  la  Mace- 
donia, Tessaglia,  Acaia,  Epiro,  Sirmio,  la  Pannonia,  la  Bulgaria  e 
l'altre  provincie  d'Occidente,  nelle  quali  cominciava  a  sorgere  la 
religion  cristiana;  poiché,  per  la  sollecita  cura  che  tenevano,  tosto 


i.  «Qua  enim .  .  .firmata? »:  non  nella  lettera  Ad  episcopos  orìentales,  in 
Migne,  P.  L.y  Lix,  coli.  90-9,  ma  nella  precedente:  Epistola  XIV,  sìve 
Tractatus  Gelasti papae  ecc.,  ibid.t  col.  89  («Per  qual  ragione  o  convenienza 
si  deve  usar  deferenza  alle  altre  sedi,  se  non  la  si  usa,  secondo  la  passata  an- 
tica riverenza,  alla  prima  sede  del  beato  Pietro,  da  cui  la  dignità  di  tutti  i 
sacerdoti  è  sempre  stata  rafforzata  e  confermata  ?  »).  2.  e  adoperarla  cors 
e  Parente  (p.  184);  e  doperarla  ven.  3.  Nicolao  I . . .  altronde:  cfr.  Epi- 
stolae,  xlvi,  Ad  Michaelem  imperatorem,  in  Migne,  P.  L.,  exix,  col.  854. 
4.  loro  somministrava  ven  e  cors  (manca  in  Parente,  p.  185). 


DEL    REGNO    PAPALE   -  PERIODO    II    •  CAP.   VI  72I 

che  vedevano  ridotta  qualche  provincia  alla  fede  di  Cristo,  di  man- 
darci istruttori  ovvero  istituir  que'  vescovi,  siccome  narrasi  che  a 
questo  secolo  V  facesse  Celestino  I  nella  Scozia  ridotta  alla  fede 
di  Cristo,  istituendo1  ivi  per  vescovo  Palladio,  dichiarandogli  so- 
vente loro  vicari;  si  credette  che  ciò  fosse  per  l'ispecial  potestà 
che  n'avevano  come  successori  di  S.  Pietro;  e  pure  questo  era  un 
dritto  di  tutti  gl'altri  vescovi,  i  quali,  tutti  essendo  successori  de- 
gl'appostoli,  siccome  quelli  aveano  la  cura  di  propagar  la  novella 
religione  e  stabilirla  in  tutte  le  provincie  ove  scorrevano,  con  isti- 
tuire i  vescovi  per  istruzione  de'  novelli  convertiti,  così  tutti  i 
vescovi,  se  mai  scorgevano  qualche  nazione  a  sé  vicina  esser  dispo- 
sta a  ricever  la  fede  di  Cristo,  era  della  loro  incombenza  d'occorrere, 
istruire  i  novelli  convertiti,  ordinare  quivi  preti,  diaconi  ed  anche 
vescovi,  bisognando. 

Il  vescovo  di  Roma  per  l'eminenza  del  suo  grado  ebbe  molte 
opportunità  di  essere  il  primo  a  far  ciò  in  molte  nazioni  ;  ma  l'equi- 
voco che  si  dava  ad  intendere  era  che  il  vescovo  di  Roma  lo  fa- 
cesse per  sua  propria  particolar  podestà  che  ne  avesse,  confondendo 
il  primato  d'onore,  del  quale  lo  forniva  l'esser  vescovo  di  una  città 
capo  del  mondo,  colla  potestà  esarcale,  perché  potesse  difenderla 
a  man  salva  sopra  tutte  l'altre  provincie  e  sottoporsi  gl'altri  ve- 
scovi. Non  per  altro  specioso  pretesto  Damaso,  Silicio  ed  Anasta- 
sio cominciarono  le  loro  intraprese  sopra  l'Illirico,  le  quali  poi 
furono  con  maggior  vigore  proseguite  da  Innocenzio  I,  Zosimo, 
Bonifacio,  Celestino,  Sisto  e  sopra  tutti  da  Leone  I  detto  il  Magno. 
Ecco  le  belle  e  speciose  ragioni  d'Innocenzio  I,  colle  quali  si  stu- 
diava persuadere  a  Rufo,  vescovo  di  Tessalonica,  perché  ricono- 
scesse per  sovrana  la  sua  sede,  creandolo  a  questo  fine  suo  vicario, 
valendosi  dell'esempio  degl' appostoli,  il  quale  niente  conchiude  al 
suo  proposito:  «Nec  aliter»  e*  dice  «apostolorum  forma  promul- 
gata est,  quam  ut  ipsi  principes  Evangelii  constituti  ceterarum  re- 
rum causas  necessitudinesque  suis  discipulis  curandas  obeundas- 
que  mandarint.  Ita  denique  tota  miseratione  mirabilis  Paulus  Tito 
quae  curet  apud  Cretam,  Thimotheo  quae  per  Asiam  disponat, 
commisit . .  .  Divinitus  ergo  haec  procurrens  gratia  ita  longis  in- 
tervallis  a  me  disterminatis  ecclesiis  discat  consulendum,  ut  pru- 
dentiae  gravitatique  tuae  committendam  curam,  causasque,  si  quae 

1.  istituendo  Parente  (p.  185);  instruendo  ven  e  cors. 
46 


722  IL  TRIREGNO 

exoriantur  per  Achaiae,  Thessaliae,  Epiri  Veteris,  Epiri  Xovae  et 
Cretae,  Daciae  Mediterraneae,  Daciae  Ripensis,  Moesiae,  Darda- 
niae  et  Praevali  ecclesias,  Christo  domino  annuente,  censeant.  Ar- 
ripe  itaque,  dilectissime  frater,  nostra  vice  per  suprascriptas  eccle- 
sias, salvo  earum  primatu,  curam;  et  inter  ipsos  primates  primus, 
quicquid  eos  ad  nos  necesse  fuerit  mittere,  non  sine  tuo  postulent 
arbitratu.  Ita  enim  aut  per  tuam  experientiam  quicquid  illud  est 
finietur,  aut  tuo  Consilio  ad  nos  usque  perveniendum  esse  man- 
damus  a.1 

Or  quanto  Innocenzio  esagerava  di  S.  Paolo  e  degl'altri  appostoli 
che  commettevano  a'  loro  discepoli  la  cura  delle  chiese  che  s'an- 
davano ergendo,  a  Tito  in  Creta,  a  Timoteo  in  Asia,  chi  non  vede 
che  lo  stesso  poteva  dire  a  Rufo  il  vescovo  d'Antiochia,  quel  d'A- 
lessandria, di  Gerusalemme,  quello  d'Eraclea  ed  ogn' altro  a  cui 
fosse  stata  data  occasione  di  accorrere  a  dar  aiuto  e  sollievo  a  quelle 
chiese?  Ciascun  vescovo  aveva  perciò  sufficiente  potere,  poiché, 
siccome  S.  Agostino,  scrivendo  a  Bonifacio  vescovo  di  Roma,  savia- 
mente disse,  Contr.  epist.  Pelag.  in  praefat.  ad  Bonifac:2  «commu- 
nis  est  nobis  omnibus,  qui  fungimur  episcopatus  officio  (quamvis 
ipse  in  eo  celsiore  fastigio  praemineas)  specula  pastoralis».  Onde 
a  ragione  diceva  S.  Cipriano  che  uno  era  l'episcopato,  tenendosi  da 
ciascun  vescovo  in  sollidum  la  sua  parte;  e  quindi  nell'Epistola 

i.  *Nec  àliter .  .  .  mandamus*:  Innocenzo  I,  Epistolae,  xni,  1-3,  in  Migne, 
P.  £.,  xx,  coli.  515-6  ("Né  per  altro  motivo  è  stata  promulgata  la  figura 
degli  apostoli,  se  non  perché  questi,  costituiti  principi  del  Vangelo,  affidas- 
sero ai  loro  discepoli  il  carico  di  tutte  le  altre  cose  e  necessità  perché  se  ne 
curassero  e  vi  attendessero.  Così  per  l'appunto  Paolo,  straordinario  per 
l'intera  sua  pietà,  affidò  a  Tito  le  cose  di  cui  doveva  occuparsi  in  Creta, 
e  a  Timoteo  quelle  che  doveva  disporre  per  l'Asia .  .  .  Adunque  questa 
grazia  abbondante  per  divina  ispirazione  si  studi  di  provvedere  alle  chiese 
separate  da  me  per  così  grandi  lontananze,  così  che  esse,  con  l'assenso  di 
Cristo  signore,  affidino  alla  tua  saggezza  e  gravità  la  cura  delle  questioni 
che  possono  sorgere  nelle  chiese  dell' Acaia,  Tessaglia,  Antico  Epiro, 
Nuovo  Epiro  e  Creta,  della  Dacia  mediterranea,  di  quella  danubiana,  della 
Mesia,  Dardania  e  Prevale.  Pertanto,  dilettissimo  fratello,  prendi  cura  delle 
dette  chiese,  in  nostra  vece  e  salvo  il  loro  primato  ;  e,  primo  tra  gli  stessi 
primati,  fa'  che,  di  qualunque  cosa  abbian  essi  bisogno  presso  di  me, 
la  richiedano  non  senza  il  tuo  giudizio.  Così  infatti  stabiliamo,  che  qualsiasi 
cosa  o  sia  definita  secondo  la  tua  esperienza,  o  che  si  debba  ricorrere  fino 
a  noi  secondo  il  tuo  parere  »)*  2.  Cantra  duas  epistolas  pétagianorum  ad 
Bonifacium  rormanae  Ecclesiae  episcopum  libri  quatuorf  lib.  I,  cap.  I,  in  Migne, 
P.  L.,  XLiv,  col.  551  («noi  tutti  che  esercitiamo  l'ufficio  episcopale  godiamo 
di  una  comune  specola  pastorale,  sebbene  in  quello  tu  sia  superiore  a 
motivo  di  un  posto  più  elevato»). 


DEL   REGNO    PAPALE   •  PERIODO   II    •  GAP.  VI  723 

LXVIII  ad  Stephan.1  scrisse:  «Nani,  et  si  pastores  multi  sumus, 
unum  tamen  gregem  pascimus,  et  oves  universas,  quas  Christus 
sanguine  suo  et  passione  quaesivit,  colligere  et  fovere  debemus». 
Per  la  quale  ragione  S.  Gregorio  Nazianzeno,  Orai.  XVIII,  in  land. 
Cypr.?  soleva  chiamare  S.  Cipriano  vescovo  universale,  dicendo: 
'  Quod  Episcopus  universalis  fuerit;  neque  enim  carthaginiensi  tan- 
tum Ecclesiae,  nec  Africae,  sed  Occidentis  omnibus  regionibus,  ac 
prope  etiam  orientali  omni  atque  australi  et  septentrionali  orae 
praefectus  fuerit».  E  lo  stesso  dice  di  Atanasio,  Orai,  xxi:  <,quod 
cum  alexandrino  populo  praefectus  fuerit,  idem  sit  ac  si  universo 
terrarum  orbi  praefectus  fuerit».3  E  S.  Basilio,  ad  Atanasio  scriven- 
do, disse  egli  pure,  Epist.  lii:4  «Tantam  geris  omnium  ecclesiarum 
curam,  quantam  eius  quae  tibi  peculiariter  a  Domino  nostro  eredita 
est».  E  per  la  medesima  cagione  Crisostomo,  Omil.  VI  adz\  Iud.,5 
chiamò  Timoteo  vescovo  dell'universo  orbe,  siccome  l'autore  che 
volle  nascondersi  sotto  il  nome  di  Clemente  Romano  chiamò  Gia- 
como, vescovo  di  Gerusalemme,  rettore  di  tutte  le  Chiese.  Onde 
S.  Girolamo,  Epist.  lxxxv  ad  Evagr.,6  con  verità  scrissegli  che  in 
ciò  eguale  era  la  potestà  del  vescovo  di  Eugubio  con  quello  di 
Roma,  eguale  quella  del  vescovo  di  Reggio  che  del  costantinopoli- 
tano, ed  eguale  quella  del  vescovo  di  Tanide  coli' alessandrino.  E 
quindi  fu  introdotta  prattica  nella  Chiesa  che,  ricercandolo  il  biso- 
gno e  la  necessità,  i  vescovi  senza  chieder  licenza  alcuna  potevano 


1.  Epistola  LXVIII  ad  Stephanum  papam,  in  Migne,  P.  L.t  m,  col.  103 1 
(«  Sebbene  infatti  come  pastori  siamo  in  molti,  pascoliamo  tuttavia  un  solo 
gregge,  e  dobbiamo  perciò  raccogliere  e  curare  tutte  quante  le  pecore  delle 
quali  Cristo,  con  il  suo  sangue  e  con  la  sua  passione,  è  andato  in  cerca»). 

2.  OrationeSy  xxiv  (e  non  xviii),  In  laudem  S.  martyris  Cypriani,  xii,  in 
Migne,  P.  G.,  xxxv,  col.  n  83:  Giannone  però  cita  un'altra  traduzione 
(«  che  era  vescovo  universale,  poiché  presiedeva  non  solo  alla  Chiesa  carta- 
ginese e  all'Africa,  ma  anche  a  tutte  le  regioni  d'Occidente,  e  inoltre  a  tutta 
la  zona  orientale,  meridionale  e  settentrionale  »).  3.0  quod  cum  .  .  .  fuerit  a  : 
così  ven  e  cors,  con  probabili  errori  e  secondo  una  traduzione  che  non 
abbiamo  identificato.  Chiara  è  quella  in  Migne  cit.,  Orationest  xxi,  In  lau- 
dem Magni  Athanasii  episcopi,  vii,  col.  1087:  «Alexandrino  populo,  quod 
idem  est  ac  si  dixissem  universo  terrarum  orbi,  praeficitur  »  («  è  a  capo  del 
popolo  di  Alessandria,  che  è  come  dire  di  tutto  il  mondo  *).  4.  Epist.  LII: 
altri  lxix,  in  Migne,  P.  G.,  xxxii,  ep.  lxix,  col.  430  («Hai  il  governo 
tanto  di  tutte  le  chiese,  quanto  di  quella  che  in  modo  peculiare  ti  è  stata 
affidata  da  nostro  Signore  »)•  5-  Adversus  Iudaeos  orationes,  vili,  in  Migne, 
P.  G.,  xlviii,  col.  939.  6.  Epist.  LXXXV  ad  Evagr.:  in  Migne,  P.  L., 
xxii,  ep.  cxlvt  (altri  lxxxv),  Ad  Evangelwn,  col.  1194. 


724  IL   TRIREGNO 

esercitar  fuori  della  loro  diocesi  in  tutto  Torbe  l'autorità  vescovile 
in  ordinare,  siccome,  per  la  testimonianza  che  ce  ne  lasciò  Socrate 
istesso,  lib.  11,  e.  xxiv,1  fece  S.  Atanasio  istesso  in  molte  città  che 
non  erano  della  sua  diocesi,  fece  Eusebio  Samosatense  in  tempo 
della  persecuzione  ariana  sotto  Valente,  il  quale  siccome  narra  Teo- 
doretto,  lib.  rv,  cap.  xii,3  scorrendo  con  abito  militare  tutta  la  Siria, 
la  Fenicia  e  la  Palestina,  ordinava  que'  preti  diaconi  e  provvedeva 
a  tutto  ciò  che  bisognava  a  quelle  chiese,  quando  lo  stesso,  siccome 
soggiunse  il  medesimo  scrittore  al  lib.  v,  e.  rv,3  fece  nella  Cilicia, 
in  Beroe,  Seropoli,4  Calcide,  Edessa  ed  in  altre  città;  siccome  Epi- 
fanio ordinò  Paulino,5  fratello  di  S.  Girolamo,  in  un  monisterio 
posto  nella  Palestina  fuori  della  sua  diocesi,  di  che  egli  ad  Io. 
HyerosoL  se  ne  purga,  assegnando  aggiunta6  questa  istessa  ragione 
d'averlo  fatto  perché  lo  poteva  fare.  Ma  i  vescovi  di  Roma  non 
l'intendevano  così,  e  davano  a  credere  che  questo  fosse  lor  affare 
come  successori  di  S.  Pietro,  e  niun  altro  dovesse  impacciarsene. 
E  pure  si  valevano  di  armi  che  facilmente  potevano  rivoltarsi  con- 
tro essi  medesimi,  poiché,  se  confessavano  che  ciò  facendo  irnmita- 
vano7  gl'appostoli,  dunque  tutti  i  vescovi  che  sono  nella  Chiesa 
in  luogo  di  quelli  potranno  fare  lo  stesso?  E  se  riportano  questa 
potestà  a  Dio,  dicendo  che  le  veniva  a  divinitus  »,  non  minor  sarà 
quella  degl'altri  vescovi,  che  pur  da  Dio  la  riconoscono.  Meglio 
forse  altri  avrebbero  riputato  che  i  pontefici  romani  riportassero8 
tutto  alla  preminenza  di  Roma  capo  del  mondo,  pel  che  sarebbero 
stati  certamente  gl'unici;  ma  essi  più  accortamente  fecero  di  ripor- 
tarla a  S.  Pietro,  così  perché,  come  venutagli  «  divinitus  »  non  stava 
sottoposta  a  cangiamento  né  variazione  alcuna,  come  ancora  per- 
ché per9  questa  via  si  poteva  giungere  a  spogliare  gl'imperatori  de* 
loro  supremi  dritti  e  della  sopraintendenza  della  Chiesa  e  dell'este- 

1.  lib.  II,  e.  XXIV  della  Ristoria  ecclesiastica,  in  Migne,  P.  G.,  Lxvii, 
col.  263.  2.  lib.  TV,  cap.  XII  della  Ecclesiastica  kistoria,  in  Migne,  P.  G., 
t.xxxti,  col.  1147.     3.  al  lib.  V,  e.  IV  delTop.  cit.,  in  Migne  cit.,  col.  1203. 

4.  Beroe,  Seropoli:  Parente  (p.  188)  legge  «Berea»  e  non  ha  Seropoli. 

5.  Paulino  ven;  Pauliano  CORS.  Si  tratta  di  Pauliniano,  fratello  di  Gerolamo. 
Per  la  comprensione  del  brano  cfr.  Gerolamo,  Epistolae,  Li,  S.  Epipkanii 
ad  Ioannem  episcopum  Ierosolymorum  a  Hieronymo  latine  reddito,  in  Migne, 
P.  L.,  xxn,  coli.  517-27.  Per  Pauliniano  cfr.  col.  517,  nota.  6.  ad  Io.  Hye- 
rosoL se .  .  .  aggiunta:  lezione  di  cors  e  ven  (ma  quest'ultimo  «che»  in 
luogo  di  se),  mancante  in  Parente  (p.  188).  7.  immitavano  cors;  imitando 
ven.  8.  riportassero  Parente  (p.  188);  riputassero  ven  e  cors.  9.  per: 
lezione  del  solo  cors. 


DEL   REGNO    PAPALE   •  PERIODO    II   •  CAP.  VI  725 

rior  ecclesiastica  polizia,  e  dispogliar  anche  gl'altri  vescovi  delle 
loro  facoltà  e  prerogative,  siccome  fortunatamente  in  discorso  di 
tempo  gli  successe;  poiché,  come  s'è  avverato1  nel  IX  secolo,  Nic- 
colò I  non  ebbe  difficoltà  alla  svelata,  scrivendo  a  Michele  impe- 
rator  d'Oriente,  di  dirgli  che  per  questa  ragione  li  privilegi  e  pre- 
minenze della  sua  chiesa  niuna  umana  potenza  avea  autorità  di 
diminuire  o  infringere,  avendo  per  fondamento  Cristo  stesso,  che 
gli  concedette  a  S.  Pietro,  e  sopra  di  cui  la  Chiesa  romana  fu  stabili- 
ta e  fondata.  Ecco  le  sue  parole:  <  Ecclesiae  romanae  privilegia, 
Christi  ore  in  beato  Petro  firmata,  in  Ecclesia  ipsa  dispositi,  anti- 
quitus  observata  et  a  sanctis  universalibus  synodis  celebrata  atque 
a  cuncta  Ecclesia  iugiter  venerata,  nullatenus  possint  minui,  nulla- 
tenus  infringi,  nullatenus  commutari;  quoniam  fundamentum  quod 
Deus  posuit,  humanus  non  valet  amovere  conatus .  .  .  Ista  igitur 
privilegia  huic  sanctae  Ecclesiae  a  Christo  donata,  a  synodis  non 
donata,  sed  iam  solummodo  celebrata  et  venerationi  habitat."  E 
papa  Adriano,  scrivendo  all'imperator  Costantino  ed  Ireneo,  dice 
che  l'autorità  della  sede  romana  dalTappostolo  Pietro  fu  distinta- 
mente concessa.  N.  Ales.  tom.  vi,  p.  667,  lit.  A.  13.3 


Zosimo,  successor  d'Innocenzio  I,  Bonifacio  I,  Celestino  I  e 
Sisto  III,  calcando  le  stesse  pedate,  vie  più  esageravano  questa 
prerogativa  di  successori  di  san  Pietro,  ponendola  per  fondamento 
e  base  di  quella  potestà  che  s'arrogavano  sopra  l'Illirico.  Ecco  come 
Bonifacio  I,  scrivendo  a'  vescovi  di  Tessaglia,  gli  dice  :  «  Institutio 
universalis  nascentis  Ecclesiae  de  beati  Petri  honore  sumpsit  prin- 

1.  avverato  Parente  (p.  1S9);  avvenuto  ven;  accennato  cors.  2.  «Ec- 
clesiae .  .  .  habita  »  :  Nicola  I,  Epistolae,  lxxxvi,  Ad  Mìchaelem  impera* 
torem,  in  Migne,  P.  L.,  cxix,  col.  948  («  I  privilegi  della  Chiesa  di  Roma, 
assicurati  a  san  Pietro  dalla  parola  di  Cristo,  disposti  nella  stessa  Chiesa, 
osservati  fin  dall'antichità,  celebrati  dai  sacrosanti  sinodi  universali  e  con- 
tinuamente venerati  da  tutta  quanta  la  Chiesa,  non  possono  in  alcun  modo 
essere  sminuiti,  in  nessun  modo  infranti,  in  nessun  modo  mutati,  poiché 
il  fondamento  posto  da  Dio  non  può  essere  rimosso  da  umano  disegno 
.  .  .  Adunque  questi  privilegi  furono  donati  alla  santa  Chiesa  da  Cristo,  non 
da  sinodi,  dai  quali  furono  solo  celebrati  e  tenuti  in  venerazione^).  3.  N. 
Ales.  tom.  VI  ecc.:  cfr.  N.  Alexandre,  Historia  ecclesiastica  Veteris  No- 
vique  Testamenti  ecc.,  Parisiis  1714,  tomo  v  (e  non  vi;  in  cors  recte),  saec. 
VIII,  cap.  11,  art.  1,  par.  rv,  Historia  singularum  actionum  synodi  septimae, 
p.  667.  Il  Giannone,  che  in  quest'ultima  parte  utilizza  l'Alexandre,  abban- 
donando il  Du  Pin  e  il  Bingham,  si  è  servito  di  quest'edizione. 


726  IL  TRIREGNO 

cipium  in  quo  regimen  eius  et  summa  consistit.  Ex  eius  enim 
ecclesiastica  disciplina  per  omnes  ecclesias,  religionis  iam  crescente 
cultura,  fonte  manavit».1  Quindi,  non  tralasciando  di  qualificare  i 
vescovi  dell'  Illirico  per  loro  vicari,  finalmente  ottennero  in  questa 
diocesi  ciò  che,  come  s'è  veduto,  non  poterono  ottenere  da'  vescovi 
d'Affrica,  e  fecero  sì  che  dovessero  riportar  ad  essi  le  cause  mag- 
giori delle  loro  provincie,  e  che  niuno  potesse  in  quelle  adornarsi 
vescovo  senza  il  loro  permesso,  le  quali  dovessero  pure  informar 
la  sede  apostolica  romana  di  quanto  nelle  loro  provincie  occorreva 
per  riceverne  istruzione  e  norma  come  dovevano  governarle,  sic- 
come è  noto  dalle  lor  epistole  drizzate  a'  vescovi  dell'Illirico. 

Ma  niuno  con  maggior  fermezza  stabilì  questo  dritto  della  sede 
romana  nell'Illirico,  che  il  pontefice  Leone  I,  successor  di  Sisto, 
il  quale,  scrivendo  nelTepist.  44*  ad  Anastasio,  vescovo  di  Tessa- 
lonica  e  primate  dell'Illirico,  dopo  d'avere  annoverato  i  tanti  privi- 
legi e  prerogative  che  come  vicari  [o]  della  sede  apostolica  erano  stati 
a  lui  conceduti,  dandogli  ancora  istruzioni  come  doveva  regolarsi 
nell'elezione  ed  ordinazione  de'  vescovi  di  quelle  provincie,  volle 
espressamente  riservare  a  sé  le  appellazioni  e  le  cause  maggiori,  per 
maggiormente  stabilire  alla  sua  sede  questi  sovrani  dritti,  dicen- 
dogli: «Si  qua  vero  causa  maior  evenerit,  quae  a  tua  fraternitate 
illic  praesidente  non  potuerit  definiri,  relatio  tua  missa  nos  consu- 
lat,  ut  revelante  Domino,  cuius  misericordiae  profitemur  esse  quod 
possumus,  quod  ipse  nobis  aspiraverit  rescribamus;  ut  cognitioni 
nostrae  prò  traditone  veteris  instituti  et  debita  apostolicae  sedis 
reverentia,  nostro  examine  vindicemus.  Ut  enim  auctoritatem  tuam 
vice  nostra  te  exercere  volumus,  ita  nobis  quae  illic  componi  non 

1.  *Institutio  . .  .  manavit  »:  Bonifazio  I,  Epistolae,  xrv,  in  Migne,  P.  L.t  XX, 
col.  777  («L'istituzione  della  Chiesa  universale  nascente  prese  principio 
dall'onore  conferito  a  san  Pietro,  donde  ha  fondamento  il  suo  governo 
e  la  sua  perfezione.  Da  quel  fonte  sgorgò  infatti  la  disciplina  ecclesiastica 
per  tutte  le  chiese,  man  mano  che  la  crescita  della  religione  si  sviluppava  »). 
z.  nelTepist.  44:  Leone  Magno,  Epistola*,  vi  (altri  rv:  quindi  il  copista  può 
essere  passato  da  4  a  44),  cap.  v,  in  Migne,  P.  L.,  ltv,  col.  619  («Ma  se 
capiterà  una  causa  più  grave  che  non  potrà  definirsi  dalla  tua  fraternità  colà 
presidente,  manda  una  tua  relazione  per  consultarci  affinché,  rivelandolo 
il  Signore  -  dalla  cui  misericordia  riconosciamo  ogni  nostro  potere  —,  scri- 
viamo in  risposta  ciò  che  egli  ci  avrà  rivelato;  per  rivendicarla  alla  nostra 
cognizione  per  nostro  esame,  secondo  la  tradizione  di  un  antico  istituto  e 
la  riverenza  dovuta  alla  sede  apostolica.  Come  infatti  vogliamo  che  tu  eser- 
citi in  nostra  vece  la  tua  autorità,  così  riserviamo  a  noi  quanto  non  potrà 
essere  risolto  costà,  ovvero  i  casi  di  appellazione»). 


DEL   REGNO   PAPALE    ■  PERIODO    II    •  CAP.  VI  727 

potuerint,  vel  qui  vocem  appellationis  emiserit,  reser\"amus  ».  Infine 
si  arrivò  a  tanto  che  Gregorio  Magno  sospese  il  vescovo  di  Salona 
in  Dalmazia,  perché,  senza  sua  permissione  e  scienza  del  suo  re- 
sponsale,  s'era  fatto  ordinar  vescovo,  come  è  manifesto  dalla  sua 
ep.  xxxix  lib.  rv.1  Questi  vicariati  che  cominciarono  i  pontefici  ro- 
mani ad  instituire,  conferendoli  con  sottile  ritrovato  a*  medesimi 
metropolitani  delle  provincie,  furono  la  potissima  cagione  ed  il  più 
efficace  mezzo  perché  potessero  stendere  la  loro  potestà  esarcale 
nelle  altre  provincie.  Questa  medesima  via  tenne  Zosimo  nella 
Gallia  col  vescovo  arelatense,  ciocché  fu  poi  meglio  stabilito  da 
Leone  I  e  da  Illario  suo  successore,  e  così  pian  piano  si  fece  in 
Spagna,  nel  resto  d'Italia  ed  in  tutte  l'altre  provincie  d'Occidente. 
Non  senza  ragione  fu  al  pontefice  Leone  dato  il  sopranome  di 
Magno,  poich'egli  sopra  tutti  i  suoi  predecessori  fu  il  primo  che 
stendesse  più  lunghi  passi  e  facesse  molto  più  valere  in  profitto 
della  sua  sede  quella  nuova  riflessione  di  successore  di  S.  Pietro, 
sicché  più  dell'altre  sedi  meritasse  il  titolo  d'appostolica,  il  qual 
sopranome,  che  era  a  tutte  l'altre  chiese  commune,  a  lungo  andare 
si  rendesse  speciale  della  romana.  Egli  fu  il  primo  che  del  pontifi- 
cato romano  sì  altamente  sentisse,  e  che  s'ingegnò  far  riputar  il  papa 
per  unico  e  supremo  moderatore  e  principe  di  tutte  le  chiese  del 
mondo  cristiano,  facendo  quel  paragone  con  dar  tanti  encomi  a 
Roma,  la  quale  meritamente  potea  dirsi  eterna,  poiché,  essendo 
gentile,  fu  capo  e  signora  del  mondo  secolare  e  profano;  così  a' 
suoi  dì  erasi  trasformata  in  capo  e  maestra  nelle  cose  spirituali  e 
sagre  di  tutto  il  mondo  cattolico,  in  guisa  che2  gli  uomini  allora, 
nella  potestà  spirituale,  non  dovevano  riconoscere  altro  che  il  solo 
pontefice  romano,  che  sopra  tutti  presidesse.  Paragone  e  lezione 
che,  per  esser  molto  acconcia  all'intento3  degl'altri  suoi  successori, 
si  fece  passare  ne'  breviari  romani,  perché,  tra'  divini  uffizi  con- 
culcato e  rammentato,  niuno  se  ne  scordasse.4 


1.  Gregorio  . .  .  ep.  XXXIX  lib.  IV:  cfr.  in  3\ligne,  P.  L.,  lxxvii,  Epistolae, 
lib.  rv,  ep.  x,  coli.  677-8,  ep.  xx,  coli.  689-90;  lib.  vi,  ep.  xxv,  coli.  815-7  e 
ep.  xxvi,  coli.  817-8.  2.  che  Parente  (p.  191);  che  siccome  ven  e  cors. 
3.  intento  Parente  (p.  191);  interno  ven  e  cors.  4.  lezione  . . .  scordasse: 
cfr.  a  questo  proposito  l'episodio  dell'  Uffizio  di  Gregorio  VII,  segnalato 
dal  Giannone  (cfr.  Vita,  qui  a  p.  172  e  Giarmoniana,  pp.  67-9). 


DISCORSI 
SOPRA  GLI  ANNALI  DI  TITO  LIVIO 

SCRÌTTI  DA  PIETRO  GIANNOLE  GIURECONSULTO 

ET  AVVOCATO  NAPOLITANO  NEL  CASTELLO  DI  CEVA 

L'ANNO  1739 


NOTA  INTRODUTTIVA 


La  tentazione  di  una  disperazione  assoluta  è  stata  certo  un  momento 
fondamentale  nella  storia  psicologica  del  prigioniero,  ma  a  noi  inte- 
ressa solo  perché  possiamo  misurarne  il  rifluire  nella  prima  opera  or- 
ganica dopo  la  Vita,  i  Discorsi  sopra  gli  Annali  di  Tito  Livio,  scritti 
fra  il  1736  e  il  1739.  È  un* opera  in  qualche  modo  occasionale,  che 
riflette,  nella  complessa  redazione,  lo  stratificarsi  delle  successive 
intenzioni  del  Giannone.  Questi,  nei  primi  tempi  della  prigionia, 
per  completare  l'educazione  del  figlio  naturale  Giovanni,  che  lo  ave- 
va seguito  nelle  ultime  vicende,  cominciò  a  leggergli  e  a  commentar- 
gli, fra  altri  testi,  anche  Livio.  Probabilmente  questo  incontro  con  lo 
scrittore  latino  molto  presto  gli  suggerì  Pidea  di  non  limitarsi  ad 
una  azione  didattica.  In  realtà  il  progetto  dovette  prendere  forma 
fin  dal  tempo  del  soggiorno  a  Miolans,  se  il  figlio  potè  in  qualche 
modo  vantarsi  di  aver  scritto  lui  stesso  quest'opera.  Afferma  infatti 
Giovanni  Giannone:  «La  dimora  in  questo  castello  fu  di  un  anno 
e  mezzo,  e  l'occupazione  si  era  ne'  libri,  che  ad  uom  racchiuso  in 
gabbia  più  di  questo  non  li  vieti  permesso.  Ed  io  avendo  per  le 
mani  Tito  Livio  notai  molte  cose,  e  ne  composi  due  discorsi  diviso 
in  due  parti,  la  prima  concerneva  La  religione  de'  Romani  e  suoi  riti, 
la  seconda  parte  II  dilatamento  de*  Romani  sulle  Provincie  e  regni 
di  tutto  il  mondo  allor  conosciuto:  e  la  sapienza  e  politica  ch'ebbero 
a  saperli  governare.  E  per  fare  un'opera  da  potersi  leggere,  se  mai 
veniva  alla  luce,  ci  diede  una  limata  mio  padre  . .  .  ».J  Inoltre  ricor- 
dava altri  lavori  di  traduzione  dal  francese  compiuti  a  Miolans,  con- 
cludendo: «Tutti  questi  manoscritti  sono  rimasti  in  detto  castello, 
assieme  colla  vita  di  mio  padre,  che  il  medesimo  quivi  compose  ».2  La 
prima  tentazione  sarebbe  quella  di  liquidare  come  un'ingenua  van- 
teria questa  attribuzione  di  paternità:  in  realtà  il  discorso  è  più  com- 
plesso. Fra  le  carte  del  Giannone  manca  questa  ipotetica  stesura  pri- 
mitiva dei  Discorsi  ad  opera  di  Giovanni.  Dobbiamo  però  rilevare 
il  fatto  che  questi,  separato  definitivamente  dal  padre  il  7  settembre 
1737,  prima  di  questa  data  conoscesse  (e  potesse  attribuirsi)  un'o- 
pera che  nelle  linee  generali  rispecchia  precisamente  lo  schema  dei 
Discorsi.  Ma  c'è  di  più.  Esiste  una  minuta  della  prefazione,  di  pugno 
di  Pietro  Giannone  (scritta  fra  l'altro  sul  verso  di  un  appunto  pre- 


1.  Cfr.  Memorie  de*  successi  accaduti  a  d.  Giovanni  Giannone  nel  corso  di 
sua  vita,  in  Giannonìana,  p.  193.  Ma  cfr.  Panzini,  p.  97.    2.  Ibid. 


732  DISCORSI    SOPRA    GLI   ANNALI    DI    TITO    LIVIO 

sumibilmente  del  figlio),1  in  cui  l'autore  dell'  Istoria  civile  fìnge  (scri- 
vendo in  prima  persona  come  se  fosse  Giovanni)  che  l'opera  sia  il 
frutto  di  un  amore  adolescenziale  verso  Tito  Livio,  che  sia  legata  ad 
un  progetto  di  traduzione  italiana  iniziato  a  Napoli  e  proseguito  nel 
carcere  di  Miolans,  che  il  padre  vi  abbia  avuto  ben  poca  parte,  di- 
stratto com'era  dai  propri  problemi.2  La  minuta  dei  Discorsi,  tor- 

i .  Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  datinone,  mazzo  iv,  ins.  i ,  C  i 
L'appunto,  di  mano  estranea  (Giovanni  ?),  è  intitolato  La  vita  di  Esopo  di 
Frigia  di  Mr.  della  Fontana,  tradotta  dal  francese  in  lingua  italiana.  La 
minuta  di  Pietro  Giannone  è  tutta  autografa,  ma  vi  è  la  presenza  di  in- 
chiostri diversi.  Dopo  «Prefazione»,  in  un  tempo  successivo  è  stato  intro- 
dotto «Al  Serenissimo  Real  Principe  Vittorio  Amedeo  di  Savoia».  Segue: 
«Avendo  fin  dalla  mia  infanzia  nelle  scuole  inteso  celebrar  cotanto  l'istoria 
di  Tito  Livio  Padoano,  la  quale  non  pur  ne'  secoli  meno  a  noi  lontani, 
ma  presso  gli  stessi  antichi  scrittori  romani  fu  riputata  sempre  incompara- 
bile e  stupenda,  fui  acceso  di  tanto  ardore  verso  questo  insigne  istonco,  che 
sicome  fu  uno  de'  primi  libri  da  me  letto,  così  lo  proponeva  a  qualunque 
altro  ...  ».  La  parte  seguente  corrisponde  alla  Prefazione  premessa  all'ul- 
tima redazione  dei  Discorsi.  Cfr.  P.  Giannone,  Opere  inedite,  i,  Discorsi  sto- 
rici e  politici  sopra  gli  Annali  di  TitoLwio,  Torino  1852  (ma  1859),  pp.  12-4. 
Dopo  le  parole  «una  preziosa  reliquia»  le  due  redazioni  sono  completa- 
mente diverse  e  in  questa  minuta  di  prefazione  segue  quanto  sarà  citato 
nella  nota  successiva.  2.  Ibid.:  «...  Da  tanti  e  tali  stimoli,  e  più  per  l'i- 
nesplicabile piacere  che  in  leggendo  sperimentava,  fui  mosso  ad  aver 
quest'autore  per  mio  indivisibil  compagno  :  e  per  meglio  esercitarmi  nella 
mia  giovanezza  e  per  meglio  apprender  la  proprietà,  e  candore  delle  vo- 
ci, e  frasi  latine,  cominciai  a  tradurre  i  libri  che  ci  rimangono  dal  latino 
in  idioma  italiano,  e  tanto  maggiormente  quanto  che  la  traduzione  del 
Nardi  sembravami  molto  difettosa  ed  in  molti  luoghi  non  aver  compreso 
il  sentimento  dell'autore.  Mentre  io  ero  occupato  in  Napoli  in  questi 
studi  ebbi  la  sorte  nell'anno  1735  d'esser  chiamato  in  Venezia  dal  ce- 
lebre avvocato  Pietro  Giannone  mio  zio,  che  io  stimava  più  che  padre,  il 
quale  da  Vienna,  per  li  cangiamenti  che  recò  la  guerra  accesa  in  Italia, 
fu  obbligato  ivi  condursi:  dove  io  gli  fui  compagno  non  men  negli  stu- 
di che  nelle  sue  persecuzioni,  poiché  gl'implacabili  suoi  nemici  non  con- 
tenti d'impedirgli  il  ritorno  a  Napoli  sua  patria,  l'obbligarono  a  partir  da 
Venezia,  ed  andare  a  Milano,  ma  di  ciò  nemmeno  soddisfatti,  non  rima- 
nendoli in  Italia  alcun  luogo  sicuro,  la  dura  necessità  finalmente  lo  costrin- 
sero a  ritirarsi  in  Ginevra,  non  già  per  cambiar  religione,  ma  per  sot- 
trarsi dalle  loro  insidie,  ed  attendere  alla  edizione  di  altre  sue  opere,  che 
pensava  di  dar  alla  luce  a  richiesta  e  preghiera  di  que'  stampatori,  che  si 
offrirono  sornministrargh  le  spese.  E  seguitandolo  io  in  tutti  questi  viaggi, 
appena  fermati  in  Ginevra  per  tre  mesi,  ed  alquanti  giorni,  che  fummo  per 
comando  del  re  di  Sardegna  Carlo  Emanuele  duca  di  Savoia  nel  mese  di 
marzo  del  nuovo  anno  1736  trasportati  in  Chambery  e  di  là  nel  castello 
di  Miolans  lontano  da  questa  città  non  più  che  dodici  miglia.  In  questa 
solitudine,  fuori  d'ogni  umano  commercio,  tra  li  alpestri  e  rigidi  monti 
della  Savoia  ci  convenne  passar  miseramente  più  mesi,  ne'  quali,  per  non 
marcir  nell'ozio,  avendo  presso  di  me  le  deche  di  Livio,  queste  ci  servirono 
di  compagnia  e  per  unico  conforto  e  ristoro,  sicché  le  ore  del  giorno  ci  riu- 
scissero meno  noiose;  e  se  bene  senz'altro  libro  fuor  che  dell'istoria  naturale 


NOTA   INTRODUTTIVA  733 

meritata  come  ogni  prima  stesura,  è  però  inequivocabilmente  di  Pie- 
tro Giannone.1 

A  questo  punto  sono  possibili  due  ipotesi:  i.  Che  esistesse  effetti- 
vamente una  stesura  primitiva  di  entrambi  o  del  solo  Giovanni  e  che 
si  sia  perduta  (o  che  il  Giannone  stesso  l'abbia  distrutta  dopo  la 
propria  rielaborazione).  Se,  come  si  è  detto,  la  minuta  è  tutta  di 
pugno  del  Giannone  padre,  nelle  prime  carte  c'è  però  la  traccia  di 
una  mano  estranea  (che  potrebbe  essere  di  Giovanni):  il  Catalogo 
delle  città  memorate  ne'  quattro  Evangeli?  seguito  dal  Catalogo  delle 
città  memorate  da  T.  Livio  nelle  XIV  Deche?  sembra  di  mano  diversa 
e  corretto  in  un  tempo  successivo  dal  Giannone.  Questa  parte  del 
lavoro,  che  non  compare  nella  redazione  finale  consegnata  al  sovrano,4 
era  un  tentativo  di  confronto  della  geografia  sacra  (secondo  le  indi- 
cazioni che  venivano  offerte  dai  Vangeli)  con  quella  profana  (tratta 
dal  testo  di  Livio)  per  studiare  anche  nella  dimensione  spaziale  i 
rapporti  fra  religione  ed  Impero  e  le  radiali  della  diffusione  del  cri- 
stianesimo primitivo.5  2.  Che  il  Giannone  (avendo  utilizzato  più 
o  meno  la  collaborazione  del  figlio)  avesse  però  progettato,  fin  dal 
tempo  del  soggiorno  a  Miolans,  di  pubblicare  sotto  il  nome  di  questi 


di  Plinio,  di  Cornelio  Tacito  e  l'epistole  di  Plinio  il  Giovane  e  senz'altri  aiuti 
di  dizionari  o  di  altre  istorie,  con  tutto  ciò  continuai  ivi  l'intrapresa  tradu- 
zione di  queste  deche;  e  secondo  che  m'inoltrava  in  alcuni  passi  più  illustri 
e  degni  di  particolar  attenzione,  io  ne  feci  separata  materia  per  tessere  a 
parte  alquanti  discorsi;  che  ora  son  quelli  che  vi  presento,  cortesissimi 
lettori.  Agevolmente  da  ciò  conoscerete  di  quanta  scusa  e  compatimento 
sia  io  meritevole,  se  non  so  darveli  adorni  di  peregrine  erudizioni  e  di  altri 
freggi,  onde  potessero  meritare  la  vostra  commendazione.  Dovete  riguar- 
dargli come  parto  di  un  giovane,  che  non  eccede  l'età  di  ventidue  anni; 
come  concepito  e  nato  tra  le  angustie  e  tenebre  d'una  prigione,  fra  tante 
sollicitudini,  timori  e  sospensione  d'animo,  senza  libri,  senza  soccorsi,  e 
senza  potersi  consultare  con  chi  più  che  me  era  oppresso  da  gravi  angoscie 
e  da  pensieri  tetri  e  funesti,  il  quale  a  tutt' altro  che  a  queste  mie  giovanili 
fatiche  poteva  por  mente  e  riguardare,  ed  corrigerle  ed  emendarle,  sicché 
fossero  degne  di  comparire  al  vostro  cospetto.  Comunque  elle  siano,  pren- 
detele con  grato  e  piacevol  animo  come  primizie  del  mio  corto  e  debil  in- 
gegno, il  quale  avrebbe  forse  meritato  più  propizia  arte  e  non  così  tetra  e 
mesta  occasione  di  potervene  presentare  di  più  purgate,  amene  ed  aggra- 
devole, i.  Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  IV, 
ins.  i,  A.  z.  Ivi,  Catalogo  delle  città  memorate  né*  quattro  Evangeli,  negli 
Atti  degli  Apostoli,  nelle  Epistole  di  S.  Paolo,  e  negli  altri  libri  del  Nuovo 
Testamento,  ci.  3.  Ivi,  Catalogo  delle  città  memorate  da  T.  Livio  nelle 
XIV  Deche,  supplite  da  L.  Floro  nelle  sue  Epitome  rapportate  e  ragguagliate 
dalV antica  alla  presente  geografia.  Europa,  ce.  2-14.  4.  È  la  bella  copia 
autografa  della  Biblioteca  Reale  di  Torino,  Var.  305.  5.  Archivio  di  Stato 
di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  rv,  ms.  1,  B,  Indice  geografico  delle 
città  memorate  in  quest  opera  e  da  Livio  nelle  XIV  Deche .  .  . 


734  DISCORSI    SOPRA   GLI   ANNALI    DI    TITO   LIVIO 

i  Discorsi  per  facilitarne  in  qualche  modo  l'uscita.  Ciò  spiegherebbe 
la  concordanza  fra  l'ingenua  vanteria  di  Giovanni  e  la  minuta  della 
prefazione,  che  dovrebbe  quindi  risalire  alla  prima  stesura  dell'o- 
pera. In  questo  caso  è  interessante  notare  che  la  stessa  prefazione 
ha  subito  un  processo  :  in  una  prima  «  stratificazione  »  il  Giannone  la 
rivolgeva,  come  captatio  benevolentiae,  ai  lettori;  poi  la  corresse,  di- 
rigendola al  principe  Vittorio  Amedeo  sempre  a  nome  e  sotto  le 
spoglie  del  figlio;  infine  la  utilizzò  come  calco  per  la  prefazione 
(scritta  a  nome  proprio)  che  compare  nella  redazione  definitiva, 
tendente  a  presentare  i  Discorsi  come  esempio  di  letteratura  ad  usum 
Delphini.1 

È  certo  che  il  Giannone  tra  la  fine  del  1738  e  il  1739  riprese  e 
completò  questo  lavoro3  con  l'intenzione  ormai  di  offrirlo  alla  Corte 
sabauda  come  un  vero  e  proprio  trattato  per  l'educazione  del  prin- 
cipe e  insieme  a  saggio  della  propria  ortodossia  dopo  l'abiura.  Non 
è  troppo  diffìcile  indovinare  come  abbia  avuto  quest'idea.  Carlo 
Emanuele  III  in  quegli  anni  aveva  dovuto  affrontare  il  problema 
dell'educazione  del  primogenito.  Fra  l'altro  era  stato  nominato  go- 
vernatore del  principe  Vittorio  Amedeo  (fin  dal  1733)  Roberto  So- 
laro  di  Breglio,3  ex  ambasciatore  sabaudo  a  Vienna  ed  antico  amico 
del  Giannone,  che  gli  rivolgerà  dal  carcere  alcune  suppliche.4  Inoltre 
i  Savoia  da  tempo  avevano  mostrato  interesse  per  un  trattato  sul- 
l'educazione del  principe.  Già  Vittorio  Amedeo  II  aveva  sollecitato 
l'abate  Jean-Joseph  Duguet,  che  nel  17 15  si  era  rifugiato  in  Piemonte 
per  la  sua  inflessibile  opposizione  alla  Unigenitus,5  perché  lo  scri- 
vesse. Il  Duguet  iniziò  il  suo  trattato  in  Savoia  e  lo  proseguì  do- 
po il  suo  ritorno  a  Parigi.  Una  parte  di  questo  fu  inviata  a  Torino 
dall'abate  giansenista  tramite  il  segretario  di  Charles  Rollin.6  Il  so- 
vrano piemontese  sollecitò  il  resto,  ma  il  Duguet  preferì  non  pub- 
blicarlo. Anzi  si  era  opposto  a  un  tentativo  di  far  uscire  l'opera  in 


1.  Cfr.  P.  Giannone,  Discorsi  ecc.,  ed.  cit.,  pp.  11-8.  2.  La  minuta  auto- 
grafa dei  Discorsi  già  citata,  a  e.  24  nell'angolo  superiore  destro  reca  la  data: 
«a  4  marzo  1739»;  a  e.  256:  «27  febbraio  1739».  La  bella  copia  (Var.  305) 
a  e.  3  è  datata  «Dal  castello  di  Ceva  15  maggio  1739».  Tale  data  è  apposta 
alla  dedica  a  Carlo  Emanuele  che  nella  minuta  appare  invece  non  datata  e 
con  dei  puntini  sospensivi.  3.  M.  Zucchi,  I  governatori  dei  principi  reali 
di  Savoia,  Torino  1925,  p.  61.  4.  Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscrit- 
ti Giannone^  mazzo  in,  ins.  4.  5.  Cfr.  P.  Stella,  La  bolla  Umgenitus  e  i 
nuovi  orientamenti  religiosi  e  politici  in  Piemonte  sotto  Vittorio  Amedeo  II 
dal  17 13  al  17 30 ,  in  «Rivista  di  storia  della  Chiesa  in  Italia»,  a.  xv,  n.°  2 
(1961),  pp.  216-76;  sul  Duguet,  pp.  248-9.  6.  J.-J.  Duguet,  Institution 
d'un  prince  ou  Traiti  des  qualitéz,  des  vertus  et  des  devoirs  d'un  souverain, 
Londres  1750,  in  quattro  tomi,  r,  Vie  de  Vauteur,  p.  liv. 


NOTA   INTRODUTTIVA  735 

Savoia  nel  1733,  lui  vivo.1  Fu  quindi  stampata  nel  1739  postuma  ed 
ebbe  una  notevole  fortuna,  come  testimoniano  le  numerose  edizioni 
in  pochi  anni.2  Divenne  il  testo  fondamentale  per  l'educazione  non 
solo  di  Vittorio  Amedeo,  ma  di  tutti  i  principi  successivi.3  Il  Gian- 
none  stesso  potè  leggerla,  ne  ricopiò  e  tradusse  una  parte  in  italiano 
e  soprattutto  la  lodò  molto  nelle  lettere  al  fratello  Carlo.4  Ma  proprio 
un  confronto  con  V Institution  d'un  prince  (che  egli  conobbe  quando 
ormai  aveva  consegnato  alla  corte  i  propri  Discorsi)5  mostra  come 
l'opera  del  napoletano  non  possa  esser  vista  solo  in  questa  dimensio- 
ne didattica  e  come  quindi  la  scelta  di  fare  un  manuale  per  l'educa- 
zione del  principe  fosse  rimasta  un  fatto  puramente  esteriore,  appic- 
cicato in  qualche  modo  alla  stesura  finale.  L'opera  del  Duguet  è  uno 
dei  tanti  esempi  di  letteratura  ad  usum  Delphini  che  si  sarebbe  esau- 
rita proprio  in  questo  secolo,  dopo  il  Cours  d'études  del  Condillac.6 
È  semmai  caratteristica  per  lo  spirito  giansenistico  e  gallicano  che  la 
nutre;  riflette  la  crisi  dell'assolutismo  di  Luigi  XIV,  in  un'oscilla- 
zione irrisolta  fra  la  concezione  del  potere  sovrano  come  di  origine 
divina  (e  quindi  parallelo  e  in  qualche  modo  contrapposto  al  sacer- 
dozio) e  una  sua  giustificazione  per  la  felicità  pubblica.7  L'opera  del 
Giannone  muove  invece  ancora  una  volta  in  direzione  di  quella  cul- 
tura deistica  che  egli  aveva  potuto  conoscere  ed  utilizzare  a  Vienna. 
Anche  in  questo  caso  il  commento  iniziale  a  Tito  Livio  si  anima  e 


1.  Ibìd.t  Préface  de  la  première  édition,  p.  lxxxii.  2.  Dopo  quella  con  il 
luogo  di  Leida  del  1739  (e  non  1729  come  affermano  lo  Zucchi  e  lo  Stella), 
quella  del  1740,  del  1743,  e  questa  del  1750.  3.  Cfr.  M.  Zucchi,  1  governa- 
tori ecc.,  cit.,  p.  64.  4.  Cfr.  G.  Ricuperati,  L'esperienza  civile  e  religiosa 
di  Pietro  Giannone,  Milano-Napoli,  pp.  603-4.  5-  H  Giannone  lesse  que- 
st'opera fra  il  1  luglio  1745  e  il  18  febbraio  1746.  6.  Cfr.  L.  Guerci,  La 
composizione  e  le  vicende  editoriali  del  Cours  d'études  di  Condillac,  in  Mi- 
scellanea Maturi,  Torino  1966,  pp.  187-220.  7.  La  prima  parte  è  dedicata 
alle  qualità  del  principe  rispetto  al  potere  temporale.  La  sua  autorità  è 
sempre  legittima,  sia  che  la  utilizzi  bene,  sia  che  ne  abusi  (p.  7),  ma  «l'un 
est  la  felicité  publique  et  l'autre  un  malheur  public  ...  ».  La  seconda  parte 
(tomo  li)  indica  cosa  deve  fare.  Fra  l'altro,  nonostante  le  riserve  sul  piano 
religioso,  si  vede  chiaramente  che  il  modello  del  Duguet  è  ancora  Luigi  XIV, 
da  cui  l'abate  giansenista  trae  l'esempio  di  politica  economica  da  seguirsi, 
anche  se  successivamente  criticherà  il  lusso  eccessivo  e  le  guerre  di  aggres- 
sione. In  questa  parte  fra  l'altro  è  esaltata,  come  esempio,  la  civiltà  politica  ro- 
mana (pp.  252  sgg).  Anche  la  politica  culturale  di  Luigi  XIV  è  indicata  come 
linea  d'azione  (pp.  313  sgg.).  Nella  terza  (tomo  ni)  si  insiste  sul  legame  fra 
politica  e  religione,  delineando  quali  vantaggi  porta  questa  al  principe 
cristiano;  nella  quarta  (tomo  iv)  si  affronta  il  tema  dei  doveri  del  principe 
verso  il  popolo.  È  naturalmente  la  parte  più  influenzata  dal  gallicanesimo. 
Il  Duguet,  riaffermando  la  responsabilità  sacerdotale  del  sovrano,  sosteneva 
la  necessità  della  piena  indipendenza  dal  potere  ecclesiastico. 


736  DISCORSI    SOPRA   GLI   ANNALI    DI    TITO    LIVIO 

prende  senso  nella  misura  in  cui  ripropone  -  per  la  storia  romana  - 
temi  e  metodi  utilizzati  già  nel  Triregno.  Come  per  una  forza  invin- 
cibile, anche  in  quest'opera,  che  avrebbe  dovuto  convincere  la  Corte 
piemontese  della  sua  ortodossia,  il  Giannone  affronta  il  discorso  uti- 
lizzando non  solo  i  pochi  libri  a  disposizione  (Livio,  Tacito,  Plinio, 
i  Vangeli  e  sant'Agostino),  ma  soprattutto  la  cultura  della  crisi  della 
coscienza  religiosa  europea  -  fra  erudizione  e  deismo  -  ben  presente 
nella  sua  memoria. 

Tutta  la  prima  parte  non  è  altro  che  lo  sviluppo  dell' Adeisidaemon 
di  John  Toland,  che  il  Giannone  certamente  aveva  letto,  essendo 
stato  pubblicato  insieme  con  le  Origines  iudaicae.1  Il  sottotitolo  di 
quest'operetta  riprendeva  quello  del  Tractatus  theologico-politicus  di 
Spinoza  estremizzandolo;3  ormai  non  è  solo  nociva  la  mancanza  di 
libertà  religiosa,  ma  la  superstizione  viene  considerata  più  pericolosa 
dell'ateismo.  Nell'epistola  introduttiva  rivolta  ad  Anthony  Collins  il 
Toland  polemizzava  contro  gli  avversari  di  Livio,  soprattutto  Gre- 
gorio Magno,  che  ne  aveva  fatto  bruciare  il  testo,  perché  pieno  di  riti 
pagani.3  Per  il  Toland  invece  era  possibile  dimostrare  che  Livio  ave- 
va polemizzato  sempre  contro  ogni  superstizione  e  culto  pagano. 
Il  deista  confrontava  la  posizione  dello  storico  romano  con  quella  di 
Plinio,  che  nel  libro  secondo  della  Naturalis  historia  aveva  visto 
l'universo  come  increato  ed  eterno  e  nel  libro  settimo  aveva  negato 
rimmortalità  dell'anima.4  Anche  Livio,  secondo  l'inglese,  aveva  così 
poca  fede  nei  prodigi,  da  poter  essere  considerato  meno  supersti- 
zioso di  molti  cristiani,  consapevole  com'era  che  la  religio  è  utile  ai 
politici,  ai  magistrati  e  ai  sacerdoti.  Sui  falsi  miracoli  come  strumenti 
di  potere,  sul  carattere  puramente  politico  delle  istituzioni  religiose, 
su  Romolo  (fatto  scomparire  dai  senatori  e  deificato)  o  su  Numa 
Pompilio,  il  deista  inglese  ofrriva  una  traccia  concreta  a  questo  lavoro 
del  Giannone.  Le  fonti  del  Toland  sono  d'altronde  Pierre  Bayle  e 
Anton  van  Dale,  entrambi  noti  al  napoletano.  Dopo  aver  rilevato 
la  presenza  nel  mondo  romano,  in  uomini  come  Livio  e  Plinio,  di 


i.  J.  Toland,  Adeisidaemon,  sive  Titus  Livius  a  superstitione  vìndicatus.  In 
qua  dissertatione  próbatur  Livium  kistoricum  in  sacris,  prodigiis  et  ostentis 
Romanorum  enarrandis,  haudquaquam  fuisse  credulum  aut  super stitiosum; 
ipsamque  superstitionem  non  minus  reipublicae  (si  non  magis)  exitiosam  esse 
quam  purum  putum  atheismum  .  .  .  Annexae  sunt  eiusdem  Origines  iudai- 
cae .  .  .,  Hagae-Comitis  1709.  z.  Il  titolo  dell'opera  di  Spinoza  era  Tracta- 
tus theologico-politicus  continens  dissertationes  aliquota  quibus  ostendìtur  li- 
bertatem  philosophandì  non  tantum  salva  pietate,  et  reipublicae  pace  posse 
concedi,  sed  eandem  nisi  cum  pace  reipublicae  ipsaque  pietate  tolli  non  posse. 
3.  J.  Toland,  Adeisidaemony  Epistola  . .  .  ad  Do.  Antonium  Colhnum  . . ., 
pp.  n.  n.    4.  Ibid.,  pp.  2-3. 


NOTA   INTRODUTTIVA  737 

una  dottrina  materialistica,  che  negava  l'immortalità  dell'anima,  il 
Toland  difendeva  tale  scelta,  condivisa  nell'antichità  da  quanti  non 
erano  superstiziosi.  Inserendosi  sul  tema  bayliano  dell'ateo  virtuoso, 
il  deista  sosteneva  che  fra  ateismo  e  superstizione  era  preferibile  in 
fondo  il  primo,  che  è  un  atteggiamento  tipico  della  morale  aristocra- 
tica e  quindi  di  pochi,  alla  seconda,  che  raggiunge  le  masse  e  si  pro- 
paga rapidamente  :  entrambi  gli  apparivano  come  esasperazioni  legate 
fra  di  loro,  vere  Scilla  e  Cariddi  di  una  stessa  dimensione  di  paura  e 
di  mancanza  di  libertà.  L'operetta  si  concludeva  esaminando  un  altro 
tema  che  sarà  ripreso  dal  Giannone,  le  Epistole  di  Gregorio  Magno. 
L'azione  di  questo  papa  contro  Livio  veniva  spiegata  come  una  rea- 
zione del  cristianesimo,  alla  sua  prima  istituzionalizzazione,  contro 
il  paganesimo  che  aveva  ancora  un  suo  fascino,  soprattutto  sugli  in- 
tellettuali. Ma  mentre  il  Toland  limita  il  tema  e  il  motivo  tutto  in 
relazione  a  Livio,  per  il  Giannone  questo  sarà  il  punto  di  partenza 
per  un  altro  e  più  complesso  lavoro. 

Inoltre,  nella  stesura  dei  Discorsi,  più  che  in  ogni  altra  opera,  an- 
che a  causa  della  propria  drammatica  esperienza  di  prigioniero  del 
potere  sovrano  ottuso  e  arbitrario,  il  Giannone  si  avvicina  alla  com- 
ponente «antitirannica»  del  Toland.  Naturalmente,  nel  valutare  que- 
sta componente,  bisogna  tener  conto  che  scriveva  da  una  prigione 
e  rivolto  ad  una  corte,  per  cui  il  discorso  vien  fatto  in  termini  mode- 
rati e  coperti.  Il  Giannone  non  nomina  i  Discorsi  sulla  prima  Deca  di 
Machiavelli,  ma  naturalmente  è  solo  una  questione  di  prudenza; 
che  li  conoscesse  benissimo  è  indubbio,  anche  se  la  relazione  con 
Machiavelli,  come  del  resto  aveva  còlto  acutamente  Cesare  Cantù, 
passa  ancora  per  il  Toland.1  Anzi  in  realtà  l'opera  del  Giannone  e  quel- 
la del  Toland  si  collocano  entrambe  in  quella  riscoperta  del  Machia- 
velli «repubblicano  »  (e  quindi  dei  Discorsi)  tipica  del  mondo  inglese, 
olandese  e  tedesco  tra  la  fine  del  Seicento  e  gli  inizi  del  Settecento.2 
Nel  mondo  inglese  si  riallacciava,  oltre  che  al  radicalismo  deista  dei 
true  WkigSy  alla  tradizione  rivoluzionaria  e  repubblicana;  da  questo 
ambiente  anche  un  altro  italiano,  fra  l'altro  amico  del  Giannone, 
Antonio  Conti,  aveva  tratto  il  repubblicanesimo  machiavelliano  delle 
sue  tragedie.3 


i.  Cfr.  C.  Cantù,  Gli  eretici  d'Italia,  Torino  1865-1866,  in  tre  volumi,  ni, 
p.  431  :  «Per  incoraggiar  la  casa  Savoia  nella  lotta  contro  il  papa,  scrisse  i 
Discorsi  sulle  Deche  di  Tito  Livio  imitando  non  tanto  il  Machiavello,  quanto 
il  Toland  ...  ».  2.  Cfr.  G.  Procacci,  Studi  sulla  fortuna  di  Machiavelli, 
Roma  1965  ;  cfr.  anche  M.  Rosa,  Dispotismo  e  libertànel  Settecento.  Interpre- 
tazioni «repubblicane»  di  Machiavelli,  Bari  1964.  3.  Cfr.  N.  Badaloni, 
Antonio  Conti.  Un  abate  libero  pensatore  fra  Newton  e  Voltaire,  Milano 
1968. 


738  DISCORSI    SOPRA   GLI   ANNALI    DI    TITO    LIVIO 

Il  Giannone,  paragonando  Tacito  e  Livio,  e  scegliendo  risoluta- 
mente il  secondo,  non  ha  solo  presente  Machiavelli  e  gli  anti-machia- 
vellici,  ma  coglie  altresì  il  superamento  del  «tacitismo»1  e  il  ritorno 
alla  grande  storiografia  liviana  tipico  ormai  del  suo  tempo,  come  mo- 
strava l'interesse  nuovo  verso  lo  storico  romano  della  cultura  erudita 
europea.  Nella  seconda  metà  del  Seicento,  mentre  significativamente 
si  andava  esaurendo  l'interesse  dei  politici  verso  Tacito,  non  solo 
Johann  Freinsheim  scriveva  i  Supplemento,  di  Livio  che  avrebbero 
goduto  una  fortuna  grandissima,  ma  Johann  Friedrich  Gronov  pre- 
parava la  sua  edizione,  che  sarebbe  stata  una  delle  principali.2  Pochi 
anni  dopo  il  celebre  canonista  francese  Jean  Doujat,  preparando  la 
sua  edizione  ad  usum  Delphini,  in  cui  fra  l'altro  accoglieva  i  Supple- 
mento- del  Freinsheim,  mostrava  come  ormai  il  problema  della  «stru- 
mentalizzazione »  del  testo  liviano  per  uno  scopo  prevalentemente 
pedagogico-politico,  almeno  nei  terrnini  cinquecenteschi,  era  lon- 
tano dai  suoi  interessi.3  Infatti  la  filologia  e  la  critica  tendevano  ad 
utilizzare  il  ritorno  a  Livio  per  la  lotta  contro  il  pirronismo  storico, 
come  nel  caso  celebre  di  Iacopo  Perizonio.4  Il  discorso,  almeno  negli 
ultimi  anni'1  del  secolo  XVII,  sembrava  ritornare  quindi  nei  termini 
eruditi  e  storiografici,  in  cui  per  esempio  era  posto  dal  padre  René 
Rapin,  che  nel  1681  aveva  confrontato  Tito  Livio  e  Tucidide.5  Que- 
sto fra  l'altro  potrebbe  perfino  spiegare  il  disinteresse  verso  Livio  di 
Pierre  Bayle,  che  non  gli  dedicò  una  voce  nel  Dictionnaire,  conten- 


1.  Cfr.  A.  Stegmann,  Le  Tacitìsme:  programme  pour  un  nouvel  essai  de  dé- 
finition,  in  Machiavellismo  e  antimachiavellici  nel  Cinquecento,  Firenze  1969, 
numero  speciale  de  «Il  pensiero  politico»,  pp.  117-30,  che  fra  l'altro  ana- 
lizza la  bibliografia  più  recente.  2.  Johann  Freinsheim  (1608-1660)  pub- 
blicò i  Supplementa  a  Livio  fra  il  1649  e  il  1654;  Johann  Friedrich  Gronov 
(1611-1671):  la  sua  prima  edizione,  Lugduni  Batavorum  1644- 1645,  e  i*1 
quattro  volumi.  Anche  il  figlio,  Jakob  Gronov  (1645-1716),  si  occupò 
di  Livio.  3.  L'edizione  del  Doujat  usci  a  Parigi  in  sei  volumi  fra  il 
1679  e  il  1680.  Cfr.  la  riedizione  di  Venezia,  1714-1715,  J.  Doujatii 
Appendix  ad  ea  quae  supra  collecta  .  . .  De  Livio,  eius  monumenta,  stylo  ali- 
isque  adiunctis;  tum  de  editionibus  et  interpretibus  recentioribus:  «...  Poli- 
ticis  observationibus,  quae  nos  longis  abripere  potuissent,  ex  praescripto 
abstinui».  4.  Jacob  Voorbroek  (Perizonius,  1651-1715),  celebre  filolo- 
go olandese.  Qui  ci  si  riferisce  soprattutto  al  De  fide  historiarum  contra 
pyrrkonismum  historicum,  Lugduni  Batavorum  1702.  Si  era  però  occupato 
di  Livio  in  Animadversiones  historicae . .  .,  Amstelaedami  1685,  cap.  vii. 
Il  Giannone  ignorava  l'opera  dello  storico  calvinista  Louis  de  Beaufort 
(morto  nel  1795),  Dissertation  sur  Vincertitude  des  cinq  premiers  siècles  de 
Vhistoire  romaine,  Utrecht  1738,  in  polemica  col  Perizonio,  e  che  apriva 
un  discorso  nuovo  sulla  critica  delle  fonti.  5.  René  Rapin  (1621-1687), 
gesuita.  Ci  si  riferisce  a  La  comparaison  de  Thucydide  et  de  T.  Live,  Paris 
1 681,  in  cui  sostenne  che  il  primo  era  più  esatto,  ma  il  secondo  più  ornato 
stilisticamente. 


NOTA   INTRODUTTIVA  739 

tandosi  forse  di  quanto  era  stato  scritto  da  Louis  Moreri,1  mentre 
invece  parlò  ampiamente  di  Tacito. 

Nel  primo  decennio  del  Settecento  altre  due  edizioni  critiche  fon- 
damentali venivano  pubblicate:  quella  oxoniense  di  Thomas  Hear- 
nez  e  quella  col  luogo  di  Amsterdam  di  Jean  Ledere.3  Anche  in  Italia 
si  lavorò  in  questa  direzione:  a  Venezia,  dopo  un'edizione  del  1706, 
fra  il  17 14  e  il  171 5  fu  pubblicata  una  riedizione  del  Doujat,  con  i 
Supplemento,  del  Freinsheim  e  le  note  di  Jean  Ledere.4  Non  solo: 
nel  1734  sempre  a  Venezia  era  stata  ristampata  la  traduzione  di  Livio 
di  Iacopo  Nardi  con  ampie  aggiunte.3  Negli  stessi  anni  a  Lipsia  si 
preparava  un'edizione  a  cura  di  Johann  Mathias  Gesner  che  com- 
prendeva le  note  del  Gronov  e  quelle  di  Jean  Ledere,  mentre  a  Parigi 
Jean-Baptiste-Louis  Crevier  riproponeva  il  lavoro  critico  del  Doujat  e 
ad  Amsterdam,  qualche  tempo  dopo,  si  affrontava  l'impegno  di  una 
nuova  edizione  che  comprendesse  tutto  l'apparato  critico  precedente. 
Fra  l'altro  il  Crevier  era  allievo  di  Charles  Rollin,  e  ne  avrebbe  prose- 
guito alla  morte  VHistoire  romaineP  Ora,  proprio  Charles  Rollin, 
di  cui  il  Giannone  avrebbe  letto  successivamente  l'opera,  confron- 
tandola con  i  propri  Discorsi*  non  solo  nel  suo  Traiti  des  études9 
per  quanto  riguarda  la  storia  profana  mostrava  il  suo  continuo  inte- 
resse e  riferimento  a  Livio,  ma  nel  trattare  il  tema  delle  origini  di 
Roma  sceglieva  consapevolmente  il  modello  liviano.10  Ma  proprio 

1.  Nel  Grand  dictiormaìre  il  Moreri  afferma  che  l'edizione  del  Doujat  è  una 
delle  migliori.  2.  Oxford  1708,  in  sei  volumi.  Thomas  Hearne  (1678- 
1735),  antiquario  inglese.  3.  Amsterdam  1710,  in  dieci  volumi.  4.  Que- 
st'edizione fu  pubblicata  a  Venezia  fra  il  1714  e  il  171 5,  a  cura  di  Carlo 
Buonarrighi,  che  dedicò  i  primi  cinque  tomi  ad  aristocratici  veneziani.  Il 
sesto  contiene  l'epitome  di  L.  Floro.  Vale  la  pena  di  ricordare  ancora  le  edi- 
zioni patavine  del  1692  e  del  1707.  5.  Le  deche  di  Tito  Livio  padovano 
delle  Historìe  romane  tradotte  in  lingua  toscana  da  m.  Iacopo  Nardi  cittadino 
fiorentino  .  .  .,  a  cura  di  Francesco  Turchi,  Venezia  1734.  Il  carmelitano 
Francesco  Turchi,  di  Treviso,  aggiunse  la  traduzione  della  seconda  deca 
(pp.  200  sgg.).  6.  Johann  Mathias  Gesner  (1691-1761)  ristampò  a  Lipsia 
con  una  propria  prefazione  Livio  con  le  note  del  Gronov  e  del  Ledere  nel 
1735  ;  nello  stesso  anno  Jean-B.-Louis  Crevier  (1693-1765)  cominciò  la  sua 
edizione  di  Livio  che  riprendeva  quella  del  Doujat  (Parigi  173 5-1742);  nel 
1738  si  cominciò  a  pubblicare  un'edizione  di  Livio  ad  Amsterdam,  che  sa- 
rà conclusa  nel  1746,  che  raccoglieva  tutti  i  più  importanti  commenti,  la  vita 
di  Livio  del  Tomasini  e  le  prindpali  discussioni  su  problemi  liviani, 

7.  C.  Rollin,  Histoire  romaìne  depuis  lafondation  de  Romejusqu'à  la  bataille 
d'Actium,  e7 est  à  dire  jusqu'à  la  fin  de  la  république,  Paris  1741-1744,  in 
cinque  volumi.  Il  v  fu  concluso  dal  Crevier.  Charles  Rollin  (1661-1741). 

8.  Cfr.  G.  Ricuperati,  L'esperienza  civile  e  religiosa  ecc.,  cit.,  p.  605. 

9.  C.  Rollin,  Tratte  des  études.  De  la  manière  d'enseigner  et  dètudier  les 
belles-lettres  par  rapport  à  V esprit  et  au  cceur,  Paris  1740,  in  due  volumi,  il, 
De  V histoire.  io.  C.  Rollin,  Histoire  r ornarne  ecc.,  cit.,  1,  livre  1,  Avant- 
propos,  p.  il. 


74°  DISCORSI    SOPRA    GLI   ANNALI   DI    TITO    LIVIO 

quest'opera,  che  nella  sua  neutralità  accademica  era  abbastanza  lon- 
tana dall'interesse  «  politico  »,  mostrava  però  che  la  «  riscoperta  »  di  Li- 
vio non  sarebbe  rimasta  nell'ambito  della  filologia  e  dell'erudizione. 
Nella  prefazione  infatti  era  citata  come  particolarmente  significativa 
e  robusta  l'operetta  di  Montesquieu  sulle  cause  della  grandezza  e 
decadenza  dei  Romani,1  in  cui  veniva  riproposta,  ma  in  modo  nuovo, 
ormai  proteso  verso  l'Illuminismo,  l'utilizzazione  politica  della  storia 
romana  e  di  Livio. 

L'opera  del  Giannone  è  quindi  a  mezza  strada  fra  la  riscoperta 
erudita  di  Livio,  l'utilizzazione  che  ne  aveva  fatto  il  Toland,  la  quale 
si  inseriva  nella  riscoperta  del  Machiavelli  «repubblicano»,  e  una 
nuova  utilizzazione  «politica»  di  Livio  (e  di  Machiavelli)  di  cui  l'o- 
peretta di  Montesquieu  (quasi  certamente  sconosciuta  al  Giannone) 
diventava  in  un  certo  qual  modo  il  documento  esemplare. 

Mentre  il  I  discorso  della  prima  parte  riguarda  le  fonti  e  il  metodo  di 
Livio,  il  li  affronta  le  favolose  origini  che  città  e  nazioni  sono  solite  dar- 
si.3 Rientriamo  nella  cultura  che  è  alla  base  del  Triregno,  come  nel  caso 
della  dissertazione  su  Enea  di  Samuel  Bochart.3  Secondo  il  Giannone, 
Livio  era  perfettamente  consapevole  della  falsità  delle  leggende,  ma 
non  le  toccò  per  prudenza  e  perché  doveva  riconoscenza  ad  Augusto. 
Ma  non  si  fece  dominare  del  tutto  da  questi  sentimenti  e  non  mancò 
di  smontare  e  smitizzare  l'origine  divina  di  Romolo.4  Il  in  discorso, 
qui  riprodotto,  è  la  ripresa  precisa  del  tema  del  Toland  sulla  fran- 
chezza e  la  mancanza  di  superstizione  in  Livio.5  Ma  in  Giannone  vi  è 
qualcosa  di  più,  in  quanto  ciò  che  per  l'inglese  è  pura  polemica  anti- 
religiosa, in  Giannone  diventa  volontà  di  capire  l'atteggiamento  dei 
Romani  nei  confronti  della  religione.  Anzi  mostra  di  avere  un'intui- 
zione esteriormente  piuttosto  simile  a  quella  del  Vico.  Infatti  parla 
di  tre  generi  di  teologia:  poetico,  tutto  favoloso  e  fantastico;  filoso- 
fico o  naturale  (che  coincide  con  l'idea  di  un  solo  Dio  animatore  della 
natura)  ;  e  un  ultimo  genere,  politico  o  civile,  cioè  la  teologia  che  serve 
al  principe  per  governare  i  popoli,  non  svelando  loro  la  falsità  dei 
miti,  ma  utilizzandoli  per  mantenere  il  potere.  La  fonte  è  sant'Ago- 
stino.6 A  differenza  del  Vico,  però,  al  Giannone  non  interessa  la  teo- 


i.  Ibid.,  p.  xxxn  ;  dove  il  libro  del  Montesquieu  è  definito  «...  très  court, 
mais  très  solide  et  très  capable  de  donner  une  juste  idée  du  caractère  de  ce 
peuple».  2.  P.  Giannone,  Discorsi  ecc.,  ed.  cit.,  pp.  30-48.  3.  Ibid., 
p.  33.  La  citazione  del  Bochart  è  probabilmente  sulla  base  dei  ricordi.  L'o- 
pera dell'erudito  tedesco  figura  tra  quelle  possedute  dal  Giannone,  ma,  co- 
me egli  stesso  afferma  e  si  può  controllare  dalle  citazioni,  in  questo  periodo 
della  prigionia  egli  ebbe  a  disposizione  pochissimi  libri  e  tutti  classici  o  di 
apologetica  cristiana.  4.  Ibid.,  pp.  44-8.  5.  Ibid.t  pp.  49-62.  6.  De  ci- 
miate Dei,  rv,  xxii. 


NOTA   INTRODUTTIVA  74I 

logia  favolosa.  È  invece  attento  a  quella  naturale,  che  ritrova  in  Lu- 
crezio, Orazio,  Livio  e  Plinio  (e  che  nel  Triregno  aveva  osservato  nella 
vigorosa  terrenità  del  mondo  ebraico);  e  a  quella  civile,  che  spiega 
come  Roma  si  sia  dilatata  politicamente.  L'atteggiamento  di  Livio 
verso  la  teologia  è  quindi  di  pura  adesione  a  quella  naturale  (con- 
cordando con  quanti  non  credono  ad  altra  evidenza  che  a  quella  ter- 
rena) e  di  franchezza  demistificatrice  verso  la  teologia  favolosa.1  È 
la  stessa  sincerità  che  lo  portava  a  difendere  Pompeo,  pur  essendo 
egli  un  favorito  di  Augusto,  per  cui  l'imperatore  scherzosamente  lo 
chiamava  «pompeiano».  Viene  espressa  chiaramente  a  questo  punto 
l'idea  del  principe  magnanimo  che  il  Giannone  sognava:  un  sovrano 
il  quale  sappia  accettare  che  lo  storico  sia  coerente  ai  suoi  princìpi 
fino  in  fondo.  Per  la  stessa  ragione  Tiberio  è  da  condannare  per  aver 
punito  Cremuzio  Cordo.2  E  non  affiora  solo  l'ideale  di  un  sovrano 
«  antitirannico  »,  ma  soprattutto  quella  di  uno  storico  capace  di  com- 
piere il  dovere  verso  la  verità,  il  cui  modello  più  concreto  era  ancora 
Jacques-Auguste  De  Thou.  Il  principe  ideale  è  tollerante  e  lascia 
che  gli  intellettuali  parlino  di  politica  e  di  religione  liberamente, 
come  Augusto  permise  a  Livio,  ma  soprattutto  come  Tito  accettò 
da  Plinio,  il  quale  fece  franca  e  piena  afTermazione  di  materialismo 
e  di  «panteismo».3 

Tutta  questa  prima  parte  richiama  direttamente  o  indirettamente 
il  Toland  e  riconferma,  ampliandole,  le  tesi  del  Triregno.  Il  vi  discor- 
so riguarda,  sempre  secondo  lo  schema  suggerito  dall'inglese,  i  por- 
tenti e  i  prodigi,  mentre  il  vii  gli  oracoli  che  i  Romani  trassero  dagli 
Etruschi.4  Il  Giannone,  dopo  aver  mostrato,  con  Toland,  che  Livio 
non  credeva  né  alle  profezie,  né  ai  maghi,  afferma  che  i  veri  profeti 
sono  solo  presso  gli  Ebrei.  È  un  tentativo  di  ripiegare  nell'ortodossia 
e  di  negare  l'influenza  di  Spinoza;  l'analisi  del  fenomeno  religioso 
che  il  deismo  gli  ha  suggerito  quanto  più  si  acuisce  nei  confronti  della 
religione  gentile,  tanto  più  si  appiattisce  per  tutto  ciò  che  riguarda 
il  mondo  ebraico-cristiano.  Anzi  in  questo  arretramento  il  Giannone 
giunge  a  negare  (ma  più  che  una  contraddizione  intellettuale,  è  un 
dramma  che  impietosisce)  uno  dei  presupposti  fondamentali  del 
Triregno,  l'inscindibilità  fra  anima  e  corpo.  Con  un  atteggiamento 


1.  P.  Giannone,  Discorsi  ecc.,  ed.  cit.,  p.  51.  2.  Nell'edizione  veneziana 
1714-1715  già  citata  è  riportato  un  elenco  di  giudizi  su  Livio:  fra  gli  altri 
anche  questo  da  Tacito,  Ann.,  iv,  34-5.  Dato  che  il  Giannone  anche  nella 
prefazione  utilizza  uno  di  questi  frammenti  (da  Plinio  il  Giovane,  lib.  li, 
ep.  3),  questa  potrebbe  essere  l'edizione  consultata,  anche  se  egli  conosceva 
quella  di  Amsterdam  1710  a  cura  del  Ledere,  come  mostra  a  p.  214  dei 
Discorsi  cit.  3.  P.  Giannone,  Discorsi  ecc.,  ed.  cit.,  p.  61.  4.  Ibid., 
pp.  100  sgg. 


742  DISCORSI   SOPRA   GLI   ANNALI   DI   TITO    LIVIO 

più  di  rassegnazione  che  di  convinzione  ritorna  al  dualismo  cartesia- 
no, anche  se  lo  circonda  di  tutto  lo  scetticismo  implicito  già  nella 
posizione  del  suo  maestro  Aulisio:  come  questi  arriva  a  negare  che 
di  fronte  a  certi  problemi  l'uomo  possa  conoscere  il  qua  re  e  il  quo 
modo.1  Ma  dopo  questa  pausa  di  stanchezza,  il  Giannone  nel  discorso 
successivo  analizza  l'astrologia  giudiziaria,  che  ha  origine  in  Persia, 
riprendendo  pagine  del  Triregno,  per  esempio  quelle  riguardanti 
Samuele  e  la  sua  anima,  che  derivano  dalla  lettura  di  Salomon  Dey- 
ling.  La  fonte  diretta  e  maggiore  è  però  il  libro  xxx  della  storia  pli- 
niana,  sulla  cui  scorta  mostra  come  la  magia,  sorta  in  Oriente,  abbia 
contaminato  e  corrotto  la  religione  gentile.  Questo  è  un  altro  tema 
tipicamente  tolandiano  e  infatti  il  Giannone  utilizza  gli  stessi  passi 
di  Plinio  citati  anche  dall'inglese,  in  cui  si  afferma,  contro  il  cieco 
volere  degli  astri,  la  forza  liberatrice  dell'educazione.  Vero  filosofo 
è  per  entrambi  colui  che  sa  reagire  razionalmente  anche  di  fronte  a 
un  presagio  avveratosi.2 

Il  discorso  ix  riguarda  il  significato  che  i  Romani  attribuivano  alla 
loro  religione  e  quindi  il  carattere  di  tripudio  delle  cerimonie,  fatte 
per  piacere,  oltre  alle  divinità,  anche  agli  uomini,  colpendone  la 
fantasia.  Esamina  in  seguito  come  a  Roma,  nonostante  la  decisione 
di  non  ricevere  culti  esterni,  per  necessità  si  accolsero  religioni  stra- 
niere, quanto  più  lo  Stato  acquistava  nuove  regioni.  Fra  l'altro  mo- 
stra di  aver  conservato  alcune  caratteristiche  tipiche  del  libertinismo 
erudito,  per  esempio  quando  contrappone  alla  moltitudine  supersti- 
ziosa il  piccolo  gruppo  di  intellettuali,  che,  come  Livio,  non  credeva, 
ma  non  ardiva  affrontare  la  polemica  contro  i  miti  popolari. 

È  soprattutto  con  il  diffondersi  della  potenza  romana  nel  mondo 
orientale  che  Roma  venne  a  contatto  con  i  culti  egizi:  si  corruppe  così 
la  concezione  primitiva  molto  vicina  alla  religione  naturale,  semplice, 
legata  a  poche  divinità  e  a  pochissimi  precetti.  Anche  un  altro  ele- 
mento cambia:  con  il  diffondersi  dei  culti  orientali  si  accettano  il 
lusso  e  la  corruzione  dei  costumi,  fino  alla  follia  dei  baccanali.3 

Il  discorso  xn  riguarda  il  concetto  che  ebbero  i  Romani  della  morte. 
Riafferma  con  vigore  che  tutte  le  religioni  dell'antichità  riguardavano 
soltanto  la  vita  terrena,  senza  alcuna  idea  dell'immortalità.  E  la  stessa 
grandezza  dei  Romani  era  legata  alla  loro  visione  della  morte  come 
fine  di  tutto,  per  cui  non  la  temevano  affatto.  Questa  consapevolezza, 
accettata  nel  mondo  greco  da  Democrito,  Leucippo,  Epicuro,  fu 
ripresa  e  sviluppata  a  Roma  soprattutto  da  Lucrezio. 
•  Un'altra  occasione  per  fare  un'analisi  demistificatrice  di  una  su- 
perstizione riguarda  la  sepoltura:  Numa  Pompilio  ne  stabilì  le  re- 

i.  Ibid.y  pp.  152-4.     2.  Ibid.,  p.  188.     3.  Ibid.}  pp.  207  sgg. 


NOTA   INTRODUTTIVA  743 

gole  e  perché  fossero  eseguite  diffuse  la  voce  che  le  ombre  degli  in- 
sepolti avrebbero  continuato  a  vagare  ai  margini  degli  Elisi.  Ancora 
una  volta  il  Giannone  mostra  come  nasce  una  superstizione  e  con- 
trappone la  morale  dell'elite  consapevole  e  incredula  a  quella  del 
popolo.  Come  si  è  visto,  partendo  dall'operetta  del  Toland,  ha  dato 
ben  altro  sviluppo  ai  temi  ivi  appena  accennati  ;  ancora  una  volta  ha 
utilizzato,  con  maggior  senso  storico,  la  cultura  deistica  per  ricostrui- 
re la  religione  gentile,  parallela  a  quella  ebraica,  essendo  come  questa 
destinata  alla  felicità  terrena. 

La  seconda  parte  ricerca  le  ragioni  del  successo  politico  :  i  Romani 
furono  il  primo  esempio  di  un  «impero»  nell'Occidente,  che  fino  ad 
allora,  a  differenza  dell'Oriente,  era  stato  sempre  diviso  in  piccoli 
Stati  e  repubbliche.  Dopo  aver  analizzato  l'incapacità  degli  Etruschi 
a  creare  le  condizioni  per  un  grande  Stato  a  causa  delle  divisioni 
interne  e  delle  guerre  esterne  contro  nemici  fortissimi,  il  Giannone 
afferma  che  la  forza  dei  Romani  fu  l'abilità  con  cui  seppero  imporre 
una  politica  di  alleanze,  facendo  più  guerre  per  difendere  i  «socii» 
che  per  i  propri  interessi.  Questa  è  la  parte  più  legata  al  Machiavelli  : 
per  esempio  quando  si  sofferma  a  paragonare  lo  stato  presente  del 
regno  pontificio  con  l'antico  e  ne  misura  tutta  la  differenza,  natural- 
mente a  favore  del  passato.1  Secondo  il  Giannone,  i  Romani  antichi 
avevano  due  sole  attività:  l'agricoltura  e  la  milizia.  Per  questo  la 
storia  sociale  ruotava  tutta  intorno  alle  leggi  agrarie  e  «la  plebe  che 
viveva  sui  campi  non  voleva  soffrire  i  torti  che  i  nobili  tentavano  di 
arrecarle  per  la  divisione  de'  medesimi  ».a  Vi  è  una  forte  idealizzazione 
del  romano  antico:  ogni  cittadino,  desideroso  del  bene  pubblico, 
era  guerriero.  In  evidente  rapporto  con  il  Machiavelli  dei  Discorsi, 
il  Giannone  idealizza  la  repubblica,  dove  si  allevavano  i  figli  a  due 
ideali  :  milizia  e  agricoltura.  Fra  il  presente  e  il  passato  non  sono  mu- 
tati clima  e  natura,  ma  solo  il  tipo  di  educazione. 

Un  segreto  dei  Romani  era  di  combattere  sempre  guerre  di  con- 
quista con  l'intima  persuasione  che  fossero  giuste:  questo  ripropone 
il  tema  più  generale  della  sapienza  giuridica  di  Roma.  La  positività 
delle  leggi  romane  sta  nel  fatto  che  tutto  il  popolo  le  accettò,  avendole 
potute  esaminare  e  modificare.  La  repubblica  è  la  sintesi  felice  di 
buone  leggi,  di  una  sana  economia  agricola  e  di  una  buona  morale. 
Anzi  si  riuscì  ad  evitare  che  il  diritto  diventasse  monopolio  dei  sacer- 
doti, come  si  stava  verificando  con  lo  ius  pontifidum>  e  soprattutto 
che  ciò  si  rivolgesse  a  danno  della  plebe  e  a  favore  degli  aristocratici. 
Un  plebeo  rubò  il  testo  dello  ius  civile  e  lo  divulgò,  favorendo  nella 


1.  Ibid.y  pp.  286  sgg.     2.  Ibid.,  p.  303. 


744  DISCORSI    SOPRA    GLI   ANNALI    DI    TITO   LIVIO 

collettività  la  conoscenza  e  lo  studio  del  diritto.1  Qui  appare  scoperta 
la  fede  politica  del  Giannone,  il  quale  non  è  affatto  un  teorico  del- 
l'accentramento, ma  crede  nella  funzione  dello  Stato,  nella  felicità 
pubblica  di  cui  le  buone  leggi  sono  gli  strumenti  essenziali  e  il  so- 
vrano, se  mai,  il  semplice  custode.  Questa  è  la  ragione  per  cui  i 
Romani,  anche  quando  persero  il  potere,  rimasero  maestri  al  mon- 
do. La  conquista  si  spiega  cioè  come  una  capacità  di  amministrare  e 
soprattutto  di  offrire  un  governo  ragionevole,  di  fronte  alla  debolezza 
di  altri  regimi,  che  vivevano  in  forme  di  ingiustizia  collettiva  e  di 
dispotismo  tirannico. 

Il  discorso  xiii  riguarda  l'origine  del  censo,  che  risale  a  Servio 
Tullio  ed  è  paragonabile  per  importanza  civile  all'introduzione  del- 
la religione:  significa  non  solo  la  numerazione,  ma  anche  la  di- 
stribuzione dei  carichi  fiscali.2  Si  crearono  i  censori  per  disciplinare 
questa  materia  e  i  patrizi  seppero  avocare  a  sé  questa  responsabilità, 
senza  l'opposizione  dei  tribuni  della  plebe,  i  quali  non  colsero  l'im- 
portanza che  la  carica  avrebbe  assunto  soprattutto  col  censimento 
delle  colonie. 

Con  Augusto  tutte  le  province  furono  censite:  anche  Gerusalem- 
me dopo  la  morte  di  Erode.  Ritorna  il  tema  di  Gesù  e  degli  inizi  del 
cristianesimo  nel  mondo  ebraico,  che  i  Romani  avevano  trasformato 
in  provincia.  Il  Giannone  conferma  in  queste  pagine  la  sua  visione 
del  cristianesimo  primitivo  di  origine  deistica:  era  un'eresia  ebraica, 
contro  cui  i  Farisei  stavano  per  scatenarsi,  se  non  fossero  stati  fer- 
mati da  Gamaliele.  Ma  proprio  l'atteggiamento  dei  Romani  nei  con- 
fronti degli  Ebrei  mostra  la  loro  moderazione  in  campo  religioso: 
lasciarono  infatti  a  tutti  i  popoli  i  loro  riti,  anche  se  contrari  ai  propri. 
Lo  testimonia  il  fatto  che  gli  Ebrei  poterono  costruire  sinagoghe  in 
tutto  il  mondo,  e  anche  in  Italia,  come  aveva  insegnato  PAulisio 
nelle  Scuole  sacre?  Per  quale  ragione  perseguitarono  allora  il  cristia- 
nesimo, cosa  che  sembra  contraddire  quanto  afferma  sant'Agostino 
sull'Impero  di  Roma  come  sede  naturale  ed  opportuna  per  la  diffu- 
sione della  religione  di  Cristo  ?  Secondo  il  Giannone  gli  imperatori 
da  principio  non  la  bandirono  dall'Impero,  ma  la  confusero  con  l'e- 
braismo, prendendo  il  cristianesimo  per  una  nuova  setta.  Fin  dalle 
origini  Pilato  aveva  fatto  di  tutto  per  non  condannare  Gesù,  ma  fu- 
rono gli  Ebrei  a  volerlo  a  tutti  i  costi,  considerando  i  cristiani  come 
settari  dissidenti,  Nazareni.  Infatti  l'apostolo  Pietro  rimase  un  con- 
vinto sostenitore  dell' ebraismo,  mentre  Paolo  e  Barnaba  si  volsero 


i.  Ibid.,  p.  309.     2.  Ibid,  pp.  375  sgg.     3.  D.  Auusio,  Delle  scuole  sacre 
libri  due  postumit  Napoli  1723,  due  tomi  in  un  volume. 


NOTA   INTRODUTTIVA  745 

a  convertire  i  gentili.  Come  aveva  sostenuto  il  Toland  nel  Nazarenus,1 
anche  il  Giannone  afferma  che  fu  Paolo  a  rompere  decisamente  con 
le  leggi  mosaiche,  mentre  Pietro,  pur  avendo  sostenuto  che  bastava 
la  sola  fede  per  salvarsi,  non  aveva  rotto  del  tutto  con  la  tradizione. 
Sono  veramente  molto  belle  e  moderne  queste  pagine  in  cui  il 
Giannone  ha  chiara  la  percezione  dell'importanza  di  Paolo  nella  tra- 
sformazione del  cristianesimo  da  eresia  ebraica  in  religione  univer- 
sale. Le  prime  persecuzioni  nella  Giudea  e  nelle  altre  province  sono 
opera  non  dei  Romani,  ma  degli  Ebrei;  e  furono  queste  tensioni 
una  delle  cause  del  diffondersi  del  cristianesimo  in  tutte  le  province 
dell'Impero.  I  Romani  non  perseguitarono  la  religione  cristiana  fino 
a  che  questa,  che  si  separava  sempre  più  da  quella  ebraica,  non  urtò 
contro  le  leggi  dello  Stato  e  i  costumi  romani.  Le  cause  di  ciò  van 
trovate  nel  gran  numero  di  eresie  che  sorsero  immediatamente  divi- 
dendo la  Chiesa  e  divenendo  causa  di  torbidi.  Fra  le  eresie  fiorirono 
culti  sanguinosi,  che  favorivano  nei  gentili  l'idea  che  i  cristiani  pra- 
ticassero riti  abominevoli.  Inoltre  se  i  cristiani  denunciavano  con 
violenza  la  religione  pagana,  i  gentili  attribuivano  superstiziosamente 
a  loro  la  responsabilità  di  tutte  le  disgrazie.  Nonostante  ciò  gli  im- 
peratori furono  piuttosto  clementi  e  gran  parte  delle  persecuzioni 
sono  state  esagerate  dall'apologetica  cristiana. 

Costantino  lasciò  ai  pagani  la  possibilità  di  mantenere  i  loro  riti, 
ma  protesse  il  cristianesimo,  per  cui  convissero  tre  religioni:  l'ebraica, 
la  gentile  e  la  cristiana.  Quando  scelse  Bisanzio,  lasciò  Roma  al  suo 
nuovo  destino:  sarebbe  stata  la  sede  dell'impero  spirituale  (e  mon- 
dano) dei  papi.  Ancora  una  volta  il  Giannone  riprende  il  celebre 
passo  di  Ottato  Milevitano  :  il  cristianesimo,  superata  la  matrice 
ebraica,  si  colloca  ora  nelle  strutture  dell'Impero  e  le  assorbe:  sono 
le  tesi  sfiorate  nell'Istoria  civile  e  sviluppate  nel  Triregno,  che  aveva 
tratto  da  Louis  Ellies  Du  Pin  e  successivamente  confermato  attra- 
verso la  lettura  di  Joseph  Bingham.  Da  questo  punto  iniziava  il  di- 
scorso abbozzato  nel  Regno  papale. 

Giuseppe  Ricuperati 


i.  J.  Toland,  Nazarenus  .  . .,  London  171 8. 


DISCORSI 
SOPRA  GLI  ANNALI  DI  TITO  LIVIO 

SCRITTI  DA  PIETRO  GIANNONE  GIURECONSULTO 

ET  AVVOCATO  NAPOLITANO  NEL  CASTELLO  DI  CEVA 

L'ANNO  1739 

PARTE  I 

DISCORSO  III 

Della  franchezza  colla  quale  Livio  scrisse  delle  cose  appartenen- 
ti alla  religione  romana;  e  come  non  solo  intorno  al  culto  de* 
dii,  e  lor  vantati  miracoli,  ma  in  tutti  i  suoi  rapporti  serbasse 
uri  incorrotta  sincerità  di  fedele  istorico  e  di  profondo 
e  grave  filosofo. 


Quest'opera,  edita  con  il  titolo  Discorsi  storici  e  politici  sopra  gli  Annali  di 
Tito  Livio,  in  Opere  inedite  cit.,  1,  a  cura  di  P.  S.  Mancini,  attende  ancora 
chi  la  rioffra  in  un'edizione  corretta.  In  realtà  il  testo  del  Mancini  appartie- 
ne solo  parzialmente  al  Giannone,  tanto  pesante  è  l'intervento  del  curatore, 
sulla  forma,  ma  anche  sul  contenuto.  In  attesa  che  qualcuno  dia  un'edi- 
zione critica,  mi  sono  servito  esclusivamente  del  manoscritto  che  il  Gian- 
none  aveva  inviato  al  sovrano  piemontese  per  l'approvazione.  Questo  ma- 
noscritto è  alla  Biblioteca  Reale  di  Torino,  Var.  305,  con  il  titolo  qui  ripro- 
dotto. L'8  giugno  dello  stesso  anno  fu  presentata  al  ministro  Ormea;  que- 
sti la  fece  leggere  all'abate  Palazzi  di  Selve  che  vi  scrisse  sopra  le  Osserva- 
zioni che  sono  in  appendice  al  manoscritto  della  Reale  e  che  furono  pub- 
blicate dal  Mancini  (pp.  471-9).  Eccone  le  conclusioni:  «Da  queste  poche 
osservazioni  sembra  che  possa  congetturarsi  che  l'autore  ritenga  peranco 
le  idee  che  aveva  espresso  ne'  suoi  manoscritti  del  Regno  terreno  e  celeste. 
E  certamente  questa  sola  opera  rappresentando  il  genere  umano  stato  sem- 
pre affascinato  con  varie  illusioni  ed  imposture  non  meno  per  fini  politici  di 
principi,  che  per  artificio  e  frode  de'  sacerdoti,  e  dall'altro  canto  non  rap- 
presentando che  leggermente,  e  con  motivi  che  facilmente  può  chi  legge 
immaginar  sospetti  od  insufficienti,  lo  stabilimento  della  vera  religione; 
questa  opera  sola,  dissi,  potrebbe  preparare  l'animo  degl'imbecilli,  e  mas- 
simamente de'  giovani,  a'  quali  è  indirizzata,  a  spogliarsi  di  quella  credu- 
lità e  fede,  che  si  dee  a'  divini  oracoli  ed  alla  Chiesa  ».  -  Oltre  all'autografo 
della  Reale,  vi  è  la  minuta  autografa,  di  cui  mi  son  valso  per  correggere 
qualche  errore  di  trascrizione  (Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti 
Giannone,  mazzo  iv,  inserto  1  :  ha  in  più,  rispetto  alla  bella  copia,  un  in- 
dice geografico)  e  una  terza  copia  (mazzo  iv,  ins.  2),  solo  parzialmente  au- 
tografa e  con  molte  varianti.  Cfr.  Nicolini,  Scritti,  pp.  41-5;  G.  Ricupe- 
rati, Le  corte  torinesi  di  Pietro  Giannone,  Torino  1963,  pp.  65-6  e  90; 
Giannoniana,  pp.  453-6  e  492.  Cfr.  inoltre  G.  Ricuperati,  L'esperienza 
civile  e  religiosa  ecc.,  cit.,  pp.  352-64. 


748  DISCORSI    SOPRA   GLI    ANNALI   DI    TITO    LIVIO 

Forse  ad  alcuni  sembrerà  Livio  poco  religioso1  se  scrivendo  le  cose 
di  Roma,  città  religiosissima  e  ch'era  la  più  attaccata  al  culto  ed  a' 
riti  de'  suoi  numi,  alla  cura  e  provvidenza  de'  quali  riportava  l'in- 
grandimento della  repubblica:  Livio  all'incontro  adempendo  le 
parti  d'un  sincero  e  verace  istorico,  tutto  riporti  alla  disposizione 
ed  ordine  naturale  delle  cose,  alla  serie  e  concatenazione  degli  ef- 
fetti colle  loro  cause,  ed  agli  potenti  ed  insuperabili  fati,  al  potere 
de'  quali  sottopone  gli  stessi  creduti  lor  numi.  I  tanti  prodigi  ch'e' 
rapporta  non  l'imputa  a'  miracoli,  né  a  cose  di  religione,  ma  acca- 
duti secondo  il  corso  di  natura,  ancorché  alle  volte,  perché  non  ne 

i .  Livio  poco  religioso  :  il  tema  è  quello  dell'  Adeisidaemon  del  Toland,  co- 
me si  è  detto  nella  Nota  introduttiva,  p.  736.  Cfr.  infatti  l'ed.  cit.,  so- 
prattutto l'epistola  del  maggio  1708  al  Collins,  che  vi  è  premessa,  e  in  par- 
ticolare i  paragrafi  ivev  (pp.  3-5)  e  vii  (pp.  9-13).  Contro  l'opera  del  To- 
land cfr.  J.  Fayus,  Defensio  religionis,  necnon  Mosis  et  gentis  tudaicae,  con- 
tra  duas  Dissertationes  Ioh.  Tolandi  quorum  una  inscnbitur  Adeisidaemon, 
Ultraiecti  1709.  Jacques  de  la  Faye  coglie  acutamente  (p.  1)  l'unità  del  di- 
segno del  Toland  nel* Adeisidaemon  e  nelle  Origines:  il  deista  inglese  vuol 
distruggere  la  religione  naturale  e  quella  rivelata.  Il  de  la  Faye,  che  cono- 
sceva le  Letters  to  Serena,  dopo  una  breve  analisi  della  filosofia  tolandiana, 
sintetizzabile  in  spinozismo,  materialismo  e  vitalismo,  cogliendone  le  fonti, 
oltre  che  in  Spinoza,  in  Bayle,  soprattutto  delle  Pensées  sur  la  comète,  af- 
ferma che  purgare  Livio  dall'accusa  di  superstizione  per  il  Toland  signi- 
fica farne  un  ateo.  Polemizzando  con  l'atteggiamento  eversore  dell'inglese, 
il  pastore  olandese  difende  tutte  le  tradizioni  religiose,  nega  che  l'ateismo 
sia  migliore  della  superstizione  e  ne  vede  l'implicita  carica  rivoluzio- 
naria verso  il  potere  dello  Stato  (cfr.  pp.  1-168).  L'opera  fu  recensita 
sugli  «Aera  Eruditorum  Lipsiensium»  dello  stesso  anno.  La  polemi- 
ca fu  ripresa  qualche  anno  dopo,  con  maggiore  precisione,  da  un  altro 
pastore,  Elie  Benoist,  della  Chiesa  vallona  di  Delft,  che  scrisse  un  Mélange 
de  remarques  critiques,  historiques,  philosophiques,  théologiques  sur  les  deux 
dissertations  de  M.  Toland  intitulées  Vune  Uhomme  s.ans  superstition,  et  Vautre 
les  Origines  judaiques,  Delfi:  1712.  Significativamente  il  Benoist  in  un'ampia 
introduzione  polemizza  con  il  pirronismo,  difendendo  i  valori  della  tradi- 
zione ebreo-cristiana.  La  sua  critica  investe  la  prima  opera  di  metodo 
comparatistico  scritta  da  un  cattolico  dopo  la  pubblicazione  del  Tractatus 
di  Spinoza,  la  Demonstratio  evangelica  dell'Huet.  Entrando  più  diretta- 
mente in  argomento,  il  Benoist  confuta  la  presenza  di  una  moralità  atea  nel 
mondo  greco-romano,  che  fosse  consapevole.  In  realtà  gli  atei  erano  di- 
sprezzati come  il  Mezenzio  di  Virgilio.  Questa  moralità,  attribuita  a  Livio, 
contro  il  Possevin  e  il  Voss,  che  ne  avevano  lamentato  piuttosto  lo  spirito 
superstizioso,  ha  un  grave  limite  dal  punto  di  vista  politico  :  gli  atei  sono 
incapaci  di  rispettare  le  leggi.  Per  questo  il  paese  sognato  dal  Toland  do- 
vrebbe avere  un  sovrano  ateo  il  quale  lasci  al  popolo  la  religione  come  «  su- 
prema salus  regni»  (pp.  1-154).  Il  Benoist,  come  si  può  notare,  coglie  nel 
discorso  tolandiano,  più  che  la  carica  antitirannica  vista  dal  de  la  Faye,  il 
tradizionale  libertinismo  aristocratico  della  morale  consapevole  di  pochi 
intellettuali,  contrapposta  alla  ignoranza  e  alla  schiavitù  del  popolo. 


PARTE   I   •  DISCORSO   III  749 

sappiamo  le  cagioni  più  immediate,  sembrino  a  noi  strani  e  porten- 
tosi ;  e  deride  la  credulità  del  volgo,  che  le  illusioni,  spettri,  insogni,1 
ed  altre  vane  immagini  ed  ombre  riputa  cose  reali  e  salde,  dando 
sovente  alle  cose  ideali  corpo  e  vera  sussistenza.  Della  religione 
romana  parla  come  ad  un  leale  istorico  e  ad  un  saggio  filosofo  si 
conviene,  la  quale  i  Romani  indrizzavano  alla  sola  conservazione 
ed  ingrandimento  della  repubblica,  e  per  le  felicità  mondane,  e  non 
vi  è  dubbio  che  sovente  potè  più  ad  incoraggir  i  loro  animi  ad  im- 
prese veramente  ardue  e  magnanime  la  forza  della  religione  che  il 
proprio  lor  valore,  le  concioni  de'  loro  capitani  e  l'arte  militare  de' 
loro  eserciti. 

I  Romani  riguardavano  la  religione  come  efficace  mezzo  per 
mantenere  a  dovere  i  cittadini,  sicché  fra  di  loro  fosse  giustizia  e 
concordia;  e  stretti  da  questo  vincolo  potessero  attendere  non  pur 
alla  conservazione  del  pubblico  bene,  ma  al  maggior  suo  accresci- 
mento; e  non  già  se  n'abusassero,  come  alle  volte  alcuni  cattivi 
facevano,  per  proprio  commodo  e  privato  interesse.  Essi  non  l'in- 
drizzavano  ad  un  fine  più  alto  e  sublime,  come  facciamo  noi,  i  quali 
istrutti  in  migliore  scuola,  e  professando  una  religion  pura  e  vera, 
come  quella  che  fu  da  Iddio  stesso  a  noi  rivelata,  posponiamo  il 
riposo  di  questo  mondo  e  le  felicità  terrene  alle  celesti;  ed  aspettia- 
mo doppo  questa  mortale  un'altra  vita  tutta  immortale  ed  eterna, 
la  quale,  secondo  che  ci  avremo  meritato,  ci  sarà  data  o  gioconda  e 
gloriosa,  ovvero  infelice  ed  angosciosa.  I  Romani  in  troppo  brevi 
chiostri  restrinsero  il  preggio  e  la  condizione  dell'uman  genere, 
non  riguardando  che  il  riposo  e  felicità  di  questa  breve  e  mortai 
vita;  e  per  ciò,  sicome  tutte  l'altre  cose  terrene,  così  la  religione 
eziandio  l'indrizzavano  per  la  sola  conservazione  ed  ingrandimento 
dello  stato  mondano  e  terreno.  Quindi  da'  loro  dii  non  si  promet- 
tevano che  felicità  mondane;  e  gli  rendevano  sacrifici  e  voti  perché 
gli  scampassero  da  miserie  e  calamità  parimente  mondane.  Ragiona- 
vano della  loro  religione  e  de'  loro  numi  diversamente  che  noi,  ed 
i  loro  teologi  aveano  altre  massime  e  sistemi  opposti  a  que'  de' 
nostri. 

A'  tempi  ne'  quali  scrisse  Livio  i  suoi  Annali,  la  loro  teologia 
avea  fatti  gran  progressi  che  non  furono  a'  primi  tempi  rozzi  ed 
incolti  di  Roma;  onde  se  bene  presso  il  volgo  si  procurasse  tener 

i.  insogni:  sogni  (è  un  latinismo,  da  insomnià). 


750  DISCORSI    SOPRA   GLI    ANNALI   DI    TITO    LIVIO 

occulti  i  veri  sentimenti,  non  era  però  che  non  pur  da'  filosofi  e 
da'  giurisconsulti,  ma  eziandio  da'  sacerdoti  e  pontefici  stessi  non 
fosse  diversamente  trattata  ed  esposta  da  ciò  che  il  volgo  credea. 
I  libri  di  Varrone,  i  quali  se  ben  ora  perduti,  in  gran  parte  gli  do- 
vemo  a  S.  Agostino,  il  quale,  come  si  è  detto,  ce  ne  conservò  molti 
pezzi  nell'opera  della  Città  di  Dio,  ci  fanno  accorti  che  i  sapienti 
della  sua  età  ben  conobbero  le  tante  vane  superstizioni  e  l'infinito 
e  favoloso  numero  di  tante  deità.  Le  opere  di  Cicerone  che  ci 
rimangono  dimostrano  lo  stesso;  e  questo  insigne  non  meno  ora- 
tore che  filosofo,  secondo  che  S.  Agostino  istesso  nel  cap.  27  del 
libro  iv  della  Città  di  Dio1  ce  ne  rende  testimonianza,  commendava 
la  sentenza  di  Q.  Muzio  Scevola  pontefice  massimo  e  celebre  giu- 
risconsulto  suo  coetaneo,  il  quale  solea  far  tre  classi  ovvero  generi 
de'  dii  romani.  Il  1  essere  il  poetico,  e  questo  tutto  favoloso  e  fan- 
tastico. Il  11  il  filosofico,  che  non  ammette  che  pochi  dii,  anzi  se- 
condo i  più  saggi  e  seri  filosofi  che  un  solo  ;  ed  i  politici  reputavano 
non  fosse  espediente  divolgarsi  alle  città,  anzi  doversi  nascondere 
ed  occultare  al  volgo,  il  quale  sicome  per  istinto  naturale  è  portato 
più  al  sorprendente,  straordinario  e  maraviglioso,  che  al  fisico  e 
reale;  così  abbraccia  più  volontieri  e  l'è  più  gradito  i\ poetico  che  il 
filosofico  ;  e  molte  volte  è  espediente  che  le  città  siano  conservate  e 
mantenute  nelle  volgari  superstizioni  ed  antiche  credenze.  Il  in 
essere  il  politico,  cioè  quello  de'  principi,  i  quali  ne'  loro  domìni 
dovran  conservare  quella  religione  e  que'  numi  a'  quali  i  popoli 
avranno  prestato  culto  e  credenza  da  tempi  antichissimi  e  che  fu 
ad  essi  tramandata  da'  loro  maggiori  ;  la  quale  senza  gravi  disordini 
e  confusioni,  e  sovente  senza  tumulti  e  sedizioni  non  si  potrà  svel- 
lere da'  loro  animi  ;  e  la  lunga  esperienza  l'avrà  fatti  accorti  che  le 
gare  e  contenzioni  surte  per  cagion  di  religione  sono  più  feroci 
ed  arrabbiate  che  quelle  nate  per  la  conservazion  della  patria  e 
della  libertà  istessa.  Quindi  presso  gli  antichi  pagani  sursero  tre 
generi  di  teologia:  la  favolosa,  la  naturale  e  la  civile,  secondo  che 
da'  libri  di  Varrone  raccolse  S.  Agostino  nel  cap.  5  del  libro  vi 
della  Città  di  Dio.2 
Or  Livio  nel  tempo  istesso  che  da  serio  filosofo  e  grave  istorico 

1.  secondo  .  .  .  Dio:  in  Migne,  P.  L.t  xli,  col.  133,  De  tribus generibus  deorum, 
de  quibus  Scaevola  pontifex  disputat.  2.  nel  cap,  5  . .  .  Dio:  cfr.  ibid.t  col. 
180,  De  tribus  generibus  theologiae  secundum  Varronem  scilicet  uno  fabuloso, 
altero  naturali,  tertioque  civili. 


PARTE   I   *  DISCORSO   III  751 

fa  conoscere  la  superstizione  e  le  tante  vane  credenze  del  volgo 
credulo  ed  ignaro,  dimostra  che  per  ciò  che  riguarda  la  civile  teolo- 
gia non  devono  i  principi  trascurare  di  mantenere  ne'  loro  domìni 
quella  religione  che  i  popoli  han  ricevuta  col  latte  delle  loro  madri, 
non  solo  per  contenergli  in  una  tranquilla  società  civile,  ma  ezian- 
dio perché  la  forza  dell'avita  religione  conduce  molto  nelle  spedi- 
zioni militari  stesse  per  incoraggir  i  soldati  ad  azioni  difficili  e 
malagevoli.  Queste  parti  sono  accuratamente  distinte  ed  adempite 
da  Livio  ;  onde  si  mostra  non  men  grave  e  serio  filosofo  che  avve- 
duto ed  accorto  politico. 

1.  Per  ciò  che  riguarda  la  teologia  naturale. 

In  quanto  alla  prima  parte,  finiranno  di  maravigliarsi  se  Livio 
scrivendo  di  Roma  città  religiosa  parli  con  franchezza  da  filosofo 
delle  favolose  origini,  de'  vaticini,  de'  immaginari  miracoli  ed  altri 
portenti  e  creduti  prodigi.  Egli  scrisse  la  sua  istoria  non  già  ne' 
tempi  incolti  e  superstiziosi  di  Roma,  ma  nel  più  culto  ed  illumi- 
nato secolo  qual  fu  quello  di  Augusto  :  quando  fioriva  in  Roma  colle 
altre  discipline  la  vera  e  solida  filosofia.  Non  vi  è  dubbio  che  i 
Romani  si  applicarono  molto  tardi  a  questa  scienza,  quando  ap- 
presso i  Greci  era  per  più  secoli  innanzi  la  più  essercitata,  avendoci 
la  Grecia  dati  i  migliori  filosofi;  ma  questa  tardanza  la  compensa- 
rono colT accuratezza  di  sapere  eleggere  fra  tante  sette  di  filosofi, 
onde  la  Grecia  era  piena,  la  filosofia  più  seria  e  verisimile,  che  l'al- 
lontanava dalle  favole  de5  poeti  e  da  altri  più  splendidi  sì,  ma  vani 
ed  ideali  sistemi.  Rifiutarono  per  ciò  i  più  seri  la  splendida  ed 
astratta  filosofia  di  Platone  e  quella  inviluppata  ed  oscura  di  Ari- 
stotele, e  si  appigliarono  alla  filosofìa  solida  di  Democrito  e  di  Epi- 
curo; ed  a  riguardo  della  morale  alcuni  seguitarono  la  dottrina 
degli  stoici.  Tito  Lucrezio  Caro  vi  fece  maravigliosi  progressi,  e  la 
divolgò  a*  Romani  in  versi  latini,  con  tanta  eleganza  e  proprietà 
scritti,  che  ancorché  la  novità  del  soggetto  e  la  povertà  della  lingua 
dovessero  sgomentarlo  dalla  dura  impresa  e  fosse  stato  il  primo  a 
tentarla,1  nulladimanco  gli  riuscì  così  prospera  e  felice,  che  sicome 
fu  il  primo,  così  rimase  il  solo,  che  oscurò  la  fama  di  tutti.  Né  vi  è 

1.  ancorché .  . .  tentarla:  cfr.  Lucrezio,  De  ter.  nat.t  1,  136-9:  «Nec  me  ani- 
mi fallit  Graiorum  obscura  reperta/  difficile  inlustrare  latinis  versibus  esse,  / 
multa  novis  verbis  praesertim  cum  sit  agendum  /  propter  egestatem  linguae 
et  rerum  novitatem»,  e  ibid.,  926  sgg. 


752  DISCORSI   SOPRA   GLI    ANNALI   DI   TITO    LIVIO 

dubbio  che  gl'ingegni  più  preclari  ed  insigni,  li  quali  contempo- 
ranei di  Lucrezio  e  doppo  di  lui  fiorirono  in  Roma,  avessero  ab- 
bracciata questa  dottrina,  sicome  ne  dieder  saggio  nelle  loro  opere 
che  lasciarono;  dalle  quali  è  facile  raccorre  che  fosser  convinti  di 
quanto  Lucrezio  avea  scritto  ne'  suoi  libri  della  Natura  delle  cose, 
e  spezialmente  che  i  loro  dii  non  avesser  cura  delle  umane  cose  ;  e 
che  quanto  accadeva  di  portentoso  era  secondo  Timmutabil  corso 
di  natura.  E  poiché  questo  rinomato  non  men  poeta  che  filosofo, 
per  la  sua  acerba  ed  immatura  morte  non  ebbe  tempo  di  ridurre  i 
suoi  libri  all'ultimo  punto  di  perfezione,  credesi  che  Cicerone  e 
Virgilio  l'avesser  poi  ripuliti  e  ridotti  in  quella  forma  che  ora  leg- 
giamo. Né  è  da  dubbitare  che  questi  due  scrittori  non  avessero 
avuti  i  medesimi  sentimenti,  i  quali  mal  poterono  nascondere  nelle 
di  loro  opere,  Cicerone  in  più  luoghi,  e  Virgilio  in  que'  versi  : 

Felix  qui  potuti  rerum  cognoscere  causas: 

ille  metus  omnes,  et  mexor abile  fatum 

subiecit  pedibus,  strepitumque  Acherontis  avari.1 

Di  Orazio,  che  fosse  epicureo  non  se  ne  dubbita,  e  lo  stesso  dee 
dirsi  di  Catullo  e  di  altri  latini  poeti  che  fiorirono  a'  tempi  di  Au- 
gusto. La  qual  dottrina  si  diffuse  in  questa  età  eziandio  presso  i 
romani  giurisconsulti,  sicome  ce  ne  rende  testimonianza  Alfeno 
Varo3  contemporaneo  di  Augusto  nella  1.  proponebatur  D.  de  iudi- 
ciìs,  li  quali  sicome  in  quanto  alla  dottrina  de'  costumi  seguitarono 
gli  stoici,  così  in  quanto  alla  fisica  quella  di  Democrito  e  di  Epicuro. 

Livio  in  questi  suoi  Annali  in  più  luoghi,  che  saranno  notati  ne' 
seguenti  discorsi,  mostra  aver  tenuta  l'istessa  dottrina;  onde  non 
dee  sembrar  cosa  strana  se  de*  prodigi,  miracoli,  augùri  e  di  altre 
cose  appartenenti  all'antica  religione  romana  abbia  sentimenti  poco 
religiosi:  sovente  deridendo  la  sciocca  credulità  del  volgo,  ed  altre 
volte  scovrendo  l'accortezza  e  furberia  de'  sacerdoti  e  degli  àuguri, 
e  tante  altre  vane  e  puerili  superstizioni.  Livio  stesso  sovente  ci 
dice  che  a'  suoi  tempi,  per  esser  negletti  i  loro  dii,  non  fu  presso  i 
Romani  tanta  la  forza  della  religione  ne'  giuramenti,  ne'  voti,  ne' 

i.  Georg.,  li,  490-2  («Fortunato  colui  cui  è  riuscito  di  conoscere  l'origine 
delle  cose;  costui  s'è  messo  sotto  i  piedi  ogni  timore  e  l'inesorabile  fato, 
e  il  rimbombo  dell'insaziabile  Acheronte  »).  2.  Alfeno  Varo  :  giureconsulto 
romano  del  I  secolo  a.  C,  di  Cremona,  allievo  di  Servio  Sulpicio  Rufo.  I 
suoi  Digesta  sono  stati  ampiamente  utilizzati  dai  compilatori  del  Digesto 
di  Giustiniano. 


PARTE   I   •  DISCORSO    III  753 

patti  e  convenzioni  e  nelle  altre  umane  facende,  quanta  fu  ne*  tem- 
pi antichi;  né  teneva  cotanto  ingombrati  gli  animi  de'  Romani  la 
religione,  di  riportare  ogni  cosa  a*  dii,  che  prendessero  cura  delle 
cose  degli  uomini,  quanto  fu  già  ne*  secoli  vetusti.  Così  egli  nel 
terzo  libro  della  i  deca,  rapportando  quanto  nel  terzo  secolo  di 
Roma  fossero  i  Romani  religiosi,  spezialmente  ne'  giuramenti, 
ciocché  non  era  a'  suoi  tempi,  dice:  «sed  nondum  haec,  quae  nunc 
tenet  seculum,  negligentia  deum  venerat:  nec  interpretando  sibi 
quisque  iusiurandum  et  leges  aptas  faciebat,  sed  suos  potius  mores 
ad  ea  accommodabat».1  Onde  avvenne  che  seguendo  egli  con  tenor 
costante  l'istituto  prescrittosi  di  rapportare  in  ciaschedun  anno  i 
prodigi  ed  i  portenti  ch'erano  annunziati,  i  quali  gli  antichi  Ro- 
mani riportavano  non  già  a  cagioni  naturali,  ma  a  minacce  de'  loro 
dii  ed  a  cose  di  religione,  ne  fu  ripreso  da'  suoi  coetanei,  come  quelli 
che  a'  loro  tempi  riuscivano  ristucchevoli,  sciapiti  e  ridicoli,  poi- 
ch'eran  persuasi  che  i  lor  dii  non  prendevan  cura  delle  cose  umane, 
e  che  per  ciò  que'  portenti,  come  seguiti  secondo  il  corso  di  natura, 
non  più  si  annunziavano  in  pubblico,  né,  come  prima,  si  riferivano 
negli  annali  o  pubblici  commentari.  Quindi  è  che  negli  Annali  ed 
Istorie  di  Tacito  ben  di  rado  si  leggono  consimili  portenti  e  prodi- 
gi; i  quali  a'  suoi  tempi  né  si  denunciavano,  né  si  notavano  ne' 
commentari:  Livio  con  tutto  ciò  nel  terzo  libro  della  v  deca  si 
scusa,  se  scrivendo  delle  vetuste  cose  de'  Romani,  gli  riferisca  ne' 
suoi  Annali,  dicendo:  «Non  sum  nescius,  ab  eadem  negligentia, 
qua  nihil  deos  portendere  vulgo  nunc  credunt,  neque  nunciari 
admodum  nulla  prodigia  in  publicum,  neque  in  annales  referri. 
Caeterum  et  mihi  vetustas  res  scribenti,  nescio  quo  pacto  antiquus 
fit  animus,  et  quaedam  religio  tenet,  quae  illi  prudentissimi  viri 
publice  suscipienda  censuerint,  ea  prò  dignis  habere,  quae  in  meos 
annales  referam».2  Ma  nel  tempo  istesso  che  gli  rapporta,  non  tra- 
lascia di  notare  la  credulità  ed  ignoranza  di  que'  primi  incolti  e 

i .  a  sed  nondum . . .  accommodabat  »  :  in,  20, 5  («  ma  non  era  ancor  sopraggiun- 
ta quella  dimenticanza  degli  dei  che  ha  ora  invaso  questa  età,  né  ciascuno 
adattava  a  se  stesso  giuramenti  e  leggi  interpretandoli,  ma  al  contrario 
accordava  sé  e  i  propri  costumi  a  quelli  »).  2.  «  Non  sum  nescius . . .  referam  »  : 
xliii,  13,  1-2  (a  So  bene  che  per  la  stessa  indifferenza  per  cui  generalmente 
si  crede  che  gli  dei  non  predicono  nulla,  non  si  annuncia  più  in  pubblico 
alcun  presagio,  né  lo  si  riferisce  negli  annali.  Tuttavia,  se  scrivo  cose  ve- 
tuste, e  Panimo  mi  si  fa,  non  so  in  che  modo,  antico,  e  mi  prende  un  certo 
scrupolo  di  considerare  degno  di  esser  riportato  nei  miei  annali  quanto 
quegli  awedutissimi  uomini  stimarono  di  dover  pubblicamente  accogliere»). 

48 


754  DISCORSI   SOPRA   GLI   ANNALI   DI   TITO    LIVIO 

rozzi  secoli.  A'  suoi  tempi  il  prodigioso  numero  di  tanti  dii  maschi 
e  femmine  si  lasciava  al  volgo  semplice  ed  ignaro,  il  qual  credea  che 
sopra  ciascuna  azione  umana  o  avvenimento  sia  d'infermità,  di 
naufragio,  viaggi  o  altro,  fosse  una  deità  che  vi  presedesse  alla 
quale  potessero  ricorrere  con  voti  e  supplicazioni  perché  o  gli  scam- 
passe da'  mali  ond'eran  premuti,  ovvero  gli  concedesse  prosperità 
e  contentezze.  Quindi  crebbe  la  turba  di  tanti  dii  dell'uno  e  l'al- 
tro sesso  quanti  ne  annoverò  Varrone;1  e  l'immenso  lor  numero 
sempre  più  cresceva  quanto  più  la  superstizione  gravava  i  di  loro 
animi.  In  una  sola  umana  azione  qual' era  quella  delle  nozze,  cre- 
deano  che  concorresse  tanto  numero  di  dii  e  di  dee,  che  se  non  si 
fossero  immaginati  celesti,  ma  di  corpo  terreno,  certamente  che 
non  solo  non  avrebbero  potuto  capire  nella  camera  nuziale,  dove 
invocati  venivano  ad  assistere,  ma  in  qualunque  più  ampio  e  spa- 
zioso edificio.  Nel  parto  e  prima  e  doppo  concorreva  non  inferior 
numero  di  dii  e  di  dee.  Nell'infanzia  prendevan  cura  del  nato  altri 
numi;  sicome  altri  nella  puerizia,  nell'adolescenza  e  nella  gioventù 
la  dea  Iuventa:  finché  condotto  al  sepolcro  non  lo  lasciassero  alla 
discrezione  e  giudicio  de'  mani  e  degli  dii  infernali.  Per  una  sola 
voce  udita  o  immaginata,  «  Gallos  adventare  »,  narra  Livio  nel  quin- 
to libro  della  I  deca  che  Camillo  in  quel  luogo  dove  fu  intesa  co- 
strusse  un  tempio  alla  dea  Locutio.2  I  nomi  di  Giove  Statore,  di 
Marte  Gradivo  vennero  dallo  stare  e  dall'andare  degli  esserciti, 
sicome  di  Giove  Elido  dagli  augùri  che  s'impetravan  felici,  e  tanti 
altri.  Anche  da'  vizi  o  virtù  degli  uomini  ne  facevan  nascere  altri- 
tanti  dii  e  dee;  quindi  la  dea  Pudicizia,  Clemenza,  Concordia,  Fe- 
de, Speranza;  la  dea  Mente,  il  dio  Onore,  Pavore,  Pallore  e  tanti 
altri.  Da'  morbi  ancora,  dalla  peste,  ed  altri  mali,  che  pavidi  cer- 
chiamo che  sian  da  noi  lontani,  sursero  nuovi  dii  e  nuovi  tempii 
ed  altari.  Fino  alla  dea  Febre  fu,  nel  Palazzo,  eretto  in  Roma  un 
tempio;  ed  un'ara  alla  Mala  Fortuna;  anche  a'  dii  infernali,  a'  dii 
mani  per  avergli  pacati  e  benigni,  affinché  non  gli  nocessero. 

Or  presso  i  sapienti  romani  non  si  avean  questi  certamente  per 
veri  numi;  ma  considerando  la  fragile  umanità,  la  quale,  memore 
della  sua  debolezza,  per  riceverne  sollievo  gli  divide  in  tante  por- 
zioni e  ne  forma  tante  deità  perché  sian  preste  a  soccorrergli,  com- 
patiscono la  miseria  dell'umana  natura;  ma  il  volgo  gli  crede  non 

i.  quanti  —  Varrone:  nel  De  lingua  latina,  v,  57  sgg.     z.  Per  una  sola 

Locutio:  cfr.  v,  32,  6  («che  i  Galli  si  avvicinavano»)  e  v,  50,  5. 


PARTE   I    •  DISCORSO    III  755 

illusioni,  ma  gli  reputa  cose  salde,  dando  corpo  e  propria  sussisten- 
za a  chi  mai  non  l'ebbe,  la  quale  non  è  che  nella  nostra  fantasia 
ed  immaginazione.  Quindi  i  savi  scrittori  si  studiano  nelle  loro 
opere  far  sì  che  ciascuno  possa  ben  comprendere  ciò  che  sia  il 
favoloso,  o  il  civile  genere  de'  dii,  e  distinguerlo  dal  naturale  e 
filosofico,  secondo  il  concetto  che  ne  aveano  i  più  saggi  e  dotti; 
sicome  ottimamente  adempì  Livio  in  questi  suoi  Annali;  e  questa 
fu  la  cagione  perché  non  ostante  che  scrivesse  delle  cose  di  Roma 
cotanto  pia  e  religiosa,  favellasse  con  tanta  franchezza  e  con  sì 
liberi  sensi  della  religione  romana;  poiché  a'  suoi  tempi  moltissimi 
avean  liberati  i  loro  animi  da  tante  vane  credenze  e  dall'infinito 
numero  di  tanti  dii  e  di  tanti  operosi  riti  e  vane  superstizioni;  né 
fu  per  ciò  imputato  miscredente,  se  con  troppa  libertà  ne  scrivesse. 
A  ciò  si  aggiunga,  che  scrivendo  egli  nell'aureo  e  felice  secolo  di 
Augusto,  «ubi  sentire  quae  velis  et  quae  sentias  dicere  licebat»,1  non 
pure  in  cose  di  religione,  ma  in  ogni  altra  azione  politica  e  di  stato 
potè  mostrare  la  stessa  franchezza  e  libertà,  sicome  sarà  più  innanzi 
avvertito. 

il.  Per  ciò  che  riguarda  la  teologia  civile. 

Ma  sicome  quest'ammirabile  scrittore  non  mancò  a  questa  par- 
te, così  esattamente  adempì  l'altra  di  accurato  e  savio  politico,  adat- 
tandosi alla  civile  religione  de'  Romani  sicome  dovea  ogni  onesto 
e  buon  cittadino  ;  poiché  non  tralascia  di  rapportare  molti  successi 
per  li  quali  si  dimostra  che  la  civile  religione  a'  principi  sia  assolu- 
tamente necessaria,  non  solo  per  contenere  i  popoli  in  una  tran- 
quilla società  civile,  ma  eziandio  nelle  spedizioni  stesse  militari, 
e  che  sovente  abbia  più  incoraggito  gli  animi  de'  soldati  ad  im- 
prese difficili  ed  ardue  la  forza  della  religione  che  l'essempio,  ov^ 
vero  l'esortazioni  o  rimproveri  de*  più  eloquenti  e  valorosi  capitani. 

Egli  incominciando  da  Romolo,  che  fu  il  primo  re  e  fondator  di 
Roma,  rapporta  che  per  contenere  gli  animi  selvaggi  e  feroci  della 
promiscua  moltitudine,  con  saggio  tratto  di  fina  politica  si  rivolse 
in  prima  ad  istillar  loro  il  timore  e  la  riverenza  de'  dii;  e  nel  monte 
Palatino,  dov'egli  era  stato  allevato,  celebrò  sacrifici  a'  dii  Albani 
ch'eran  propri  della  regione,  con  rito  albano;  solamente  sacrifi- 
cando ad  Ercole  si  valse  di  peregrino  rito,  ch'era  greco;  poiché 

i.  «ubi  sentire  . .  .  licebat*:  cfr.  Tacito,  Hist.>  i,  i  («quando  era  lecito  pen- 
sare come  si  voleva  e  dire  ciò  che  si  pensava»). 


756  DISCORSI    SOPRA   GLI   ANNALI   DI   TITO    LIVIO 

Evandro,  il  quale  profugo  dal  Peloponneso,  reggendo  in  que'  se- 
coli vetusti  quelle  contrade,  avea  con  rito  greco  istituiti  sacrifici  in 
quel  monte  ad  Ercole,  figliuolo  di  Giove,  il  quale  ivi  avea  nella 
spelonca  ucciso  Caco.1  Ne'  più  vetusti  tempi  i  rettori  de'  popoli 
erano  principi  insieme  e  sommi  sacerdoti,  ed  aveano  cura  non 
meno  delle  umane  che  delle  divine  cose;  poiché,  sicome  si  è  avver- 
tito, la  loro  religione  non  era  indrizzata  se  non  per  la  conservazione 
dello  stato  terreno  e  mondano.  Istituto  praticato  da'  Greci  e  da 
altre  più  vetuste  nazioni:  ond'è  che  presso  Omero  leggiamo  che 
Priamo,  Agamennone,  Ulisse,  ed  altri  eroi  de'  loro  tempi  sacrifi- 
cavano, essendo  i  medesimi  e  principi  e  sacerdoti.  E  di  altri  popoli 
più  antichi  leggiamo  pure  presso  Erodoto,  Strabone,  Diodoro,  Plu- 
tarco ed  altri,  che  facevano  lo  stesso  ;  e  Virgilio  cantò  pure  che  Anio 
era  insieme  re  e  sacerdote  di  Apollo.3  Romolo,  calcando  le  pedate 
stesse,  si  rese  per  ciò  a'  suoi  popoli  venerabile,  acquistandosi,  per 
l'onore  che  rendeva  a'  dii  immortali,  fama  d'immortalità  alla  quale 
i  suoi  Fati  lo  portavano.  Quindi  riportando  al  voler  di  Giove  i 
fortunati  successi  delle  sconfitte  che  diede  a'  popoli  vicini  da  lui 
vinti,  deponeva  le  spoglie  de'  nemici  nel  Campidoglio,  dove  desi- 
gnò a  Giove  un  tempio,  perché  fosse  nell'avvenire  fedel  deposita- 
rio di  opime  spoglie,  che  i  suoi  posteri,  debellati  i  nemici,  vi  avreb- 
bero dedicate.3  E  fu  tanta  la  sua  cura  d'istillare  negli  animi  de' 
suoi  soldati  questi  concetti,  che  sovente  nell'imprese  pericolose, 
dove  mostravan  di  cedere,  invocava  Giove  Statore  che  levasse  la 
paura  a'  Romani  e  fermasse  la  lor  fuga;  onde  guerreggiando  contro 
i  Sabini,  i  quali  avean  posti  in  fuga  i  Romani,  doppo  aver  fatta  a 
Giove  una  tal  preghiera,  finse  di  averla  quel  sommo  dio  intesa  e  die- 
de a  sentire  a'  soldati  che  Giove  l'avesse  risposto  e  commandato  di 
reiterare  la  pugna;  sicché  i  Romani  riputando  la  voce  di  Romolo 
comando  celeste,  ripigliarono  con  tanto  ardore  la  pugna  che  final- 
mente sconfissero  rinimico  ed  uscirono  dalla  battaglia  vincitori.4 
Né  presso  i  più  saggi  e  gran  capitani  fu  cosa  con  tanta  maggior  cura 
e  studio  procurata,  che  questa  d'incoraggire  i  soldati,  con  fargli 
credere  presente  l'aiuto  de'  dii,  i  quali  con  essi  militavano  e  gli 
promettevano  certa  vittoria;  di  che  non  men  nell'antiche  che  mo- 
derne istorie  occorrono  moltissimi  esempi. 

i.  celebrò  . .  .  Caco:  cfr.  i,  7,  3-15.  2.  e  Virgilio  . .  .  Apollo:  cfr.  Aen.t  ni, 
80.  3.  Quindi . . .  dedicate:  cfr.  Livio,  1,  io,  5-6.  4.  invocava . . .  vincitori: 
cfr.  i,  12,  4-9. 


PARTE   I   -  DISCORSO   III  757 

Queste  cose,  sicome  l'estremo  suo  valor  militare,  non  altamente 
che  si  credette  di  Ercole,  fecero  riputare  che  veramente  Romolo 
fosse  di  origine  divina  e  che  doppo  la  sua  morte  fosse  molto  più 
creduta  la  sua  divinità.  Quindi  fu  data  facile  credenza  a*  padri  che 
l'uccisero  i  quali,  presa  l'opportunità  del  fragore  ed  oscurità  di 
quella  impetuosa  procella,  occultando  gli  stracci  del  lacerato  suo 
corpo,  divolgarono  alla  plebe  che  Romolo  fosse  stato  rapito  in  cielo 
e  tolto  al  cospetto  de'  mortali  ;  onde  avvenne  che,  da  pochi  prima 
dato  principio,  cominciaron  poi  tutti  ad  invocarlo  «dio  nato  da 
dio,  re  e  padre  della  città  di  Roma»,1  e  ad  implorare  con  calde  pre- 
ghiere il  suo  aiuto  e  patrocinio  e  che  fosse  sempre  propizio  alla  sua 
progenie.  E  Livio  come  cosa  stupenda  narra  ch'erano  cotanto  gli 
animi  oppressi  di  questa  vana  religione,  che  fu  data  facile  credenza 
al  detto  di  un  solo  uomo,  il  quale  fintasi  un'apparizione  gli  animò 
a  sustituire  in  luogo  di  Romolo  un  altro  re,  e  non  lasciar  cadere  la 
potestà  regia  in  mano  de'  padri,  i  quali  per  ciò  abbonivano  che  se 
gli  fosse  dato  successore.  Questi  fu  Proculo  Giulio,  il  quale  ve- 
dendo la  moltitudine  presa  di  desiderio  e  sollecita  di  avere  un  re, 
ed  avversa  a'  padri  che  non  lo  volevano,  mentr'era  il  popolo  ragù- 
nato,  si  fece  in  mezzo  e  con  alta  voce  gli  disse:  «Quiriti,  Romolo 
padre  di  questa  città  nell'apparir  dell'alba  di  repente  calato  dal 
cielo  mi  si  fece  incontro.  Io  sorpreso  di  orrore,  essendomi  con  ogni 
riverenza  a  lui  avvicinato,  con  umili  preghiere  gli  cercai  che,  se  era 
lecito,  a  me  si  manifestasse.  Allora  egli  mi  disse:  "Va,  annunzia  a* 
Romani  esser  volere  de*  celesti  dii  che  la  mia  Roma  sia  capo  del- 
l'universo orbe.  Per  ciò  che  abbiano  cura  delle  cose  militari,  e  le 
sappiano,  e  così  le  tramandino  a'  posteri;  poiché  niuna  forza  umana 
potrà  resistere  alle  armi  romane":  e  dette  queste  parole  se  ne  volò 
in  alto  e  mi  sparve».2  Dice  Livio  che  fu  cosa  maravigliosa  quanta 
fede  a  quest'uomo  fosse  data  e  quanto  desiderio  di  Romolo  si  fosse 
svegliato  nella  plebe,  la  quale,  credendolo,  sicome  mitigò  il  dolore 
della  perdita,  così  si  rese  più  certa  della  di  lui  immortalità;3  ed  al 
numero  de'  dii  Albani  si  accrebbe  quest'altro  nuovo  dio,  che  chia- 
marono «  Quirino  »  per  meglio  conciliarsi  gli  animi  de'  Sabini,  pren- 
dendo da  essi  il  nome,  non  già  dagli  Albani  o  da'  Latini,  e  poiché 
lo  credevano  nato  da  una  vergine  Vestale  per  opra  d'un  dio  che 

i.  *dh  nato  . . .  Roma»:  Livio,  I,  16,  3:  «deum  deo  natum,  regem  paren- 
temque  urbis  romanae  salvere  universi  Romulum  iubent  ».  2.  Queste  co- 
se .  . .  sparve:  cfr.  i,  16,  1-7.     3.  Dice  Livio  . .  .  immortalità:  cfr.  1,  16,  8. 


758  DISCORSI    SOPRA  GLI   ANNALI    DI    TITO   LIVIO 

la  compresse,  perciò  l'invocavano  «  deum  deo  natum  »  ;  e  credutolo 
rapito  ed  asceso  in  cielo,  riposto  fra  gli  altri  dii  immortali,  quindi 
eran  persuasi  che  prendesse  speziai  cura  delle  cose  romane  e  del- 
l'ingrandimento della  loro  repubblica  da'  celesti  dii  presaggito. 
Da  questo  principio  di  religione  erano  i  Romani  incoraggiti  ad 
imprese  difficili  ed  ardue,  che  gli  diede  tanto  vigore  sicché  pote- 
rono abbattere  le  forze  de'  loro  vicini  popoli,  e  stender  poi  le  adulte 
e  vigorose  braccia  ad  altre  più  lontane  e  remote  regioni.  Questo 
impulso  di  religione,  questi  divini  presaggi  e  questi  creduti  augùri 
gli  resero  animosi,  forti  e  costanti  non  meno  nelle  prospere  che 
nell'avverse  fortune.  Ma  Romolo,  come  più  guerriero  che  intento 
alle  cose  civili,  si  valse  solo  della  religione  per  animare  i  suoi  soldati 
nelle  militari  spedizioni.  Egli  è  però  vero  che  non  trascurò  il  de- 
coro e  dignità  dell'imperio.  Egli  doppo  aver  resa  venerabile  la  sua 
persona  con  regali  insegne  ed  abiti  distinti  e  con  comitiva  di  dodici 
littori,  per  farla  apparire  più  augusta  elesse  trecento  armati  per  la 
custodia  del  suo  corpo  non  meno  nella  guerra  che  nella  pace.  Insti- 
tuì  per  le  cose  civili  il  Senato  composto  di  cento  padri  :  diede  quelle 
leggi  alla  moltitudine  che  fossero  più  acconcie  all'agreste  lor  vita 
ed  a'  guerrieri  lor  costumi:  aprì  l'asilo  per  accrescerla:  procurò 
connubi  co'  popoli  vicini  per  renderla  perpetua:  divise  il  popolo 
in  trenta  curie,  ed  istituì  tre  centurie  di  cavalieri;1  nulla  di  manco 
lo  scuopo  principale  era  per  la  milizia;  e  per  ciò  Proculo  Giulio 
nella  di  lui  apparizione  finse  che  non  raccomandasse  altro  a'  Ro- 
mani che  la  cura  delle  cose  militari  e  lor  perizia.  Questa  parte  del 
governo  civile,  e  di  far  entrare  la  religione  non  solo  nella  guerra, 
ma  eziandio  nella  pace  ed  in  tutti  gli  affari  civili,  e  di  mescolare  i 
dii  in  tutte  le  pubbliche  o  private  umane  facende  fu  riserbata  al  suo 
successore  Numa  Pompilio*  il  quale  l'adempì  così  esattamente, 
quanto  sarà  esposto  nel  seguente  discorso. 


in 

Intanto  è  da  riguardare  che  Livio  la  stessa  franchezza  mostrò 
in  tutto  il  corso  della  sua  istoria,  eziandio  nelle  azioni  politiche  e 
militari;  e  quel  che  merita  maggior  commendazione  si  è  che  scri- 

i.  Egli  doppo  aver  . . .  cavalieri:  per  tutte  queste  istituzioni  cfr.  rispettiva- 
mente, sempre  del  i  libro  di  Livio,  i  capitoli  8,  3;  15,  8;  8,  7;  8,  6;  9,  1-2 
e  13,  6  e  8.     2.  Questa  parte .  .  .  Pompilio:  cfr.  1,  19-21. 


PARTE  I   •  DISCORSO   III  759 

vendo  a*  tempi  di  Augusto,  da  cui  era  cotanto  favorito,  con  tutto  ciò 
trattando  delle  guerre  civili  fra  Cesare  e  Pompeio,  né  il  favor  di 
Augusto,  né  vinto  da  timore  lo  fece  traviar  dal  vero;  e  con  som- 
ma sincerità  non  meno  che  franchezza  prendendo  le  parti  di  Pom- 
peo, niente  occultò  delle  sue  lodi  e  virtù,  e  della  giustizia  delle  sue 
armi,  ch'erano  drizzate  per  la  libertà  della  repubblica:  talché  Au- 
gusto, senza  per  ciò  alienarlo  dalla  sua  amicizia  e  familiarità,  solea 
chiamarlo  «pompeiano»:  onde  sicome  da  ciò  rilusse  non  meno  la 
sincerità  di  Livio,  che  la  magnanimità  di  Augusto,  così  rimane  in- 
fame la  memoria  di  Tiberio,  il  quale  essendo  sol  per  adozione 
congiunto  nella  famiglia  di  Giulio  Cesare,  quando  Ottavio  vi  era 
per  sangue,  volle  prender  severa  e  grave  ammenda  di  Cremuzio 
Cordo,  sol  perché  questi  ne'  suoi  Annali  avea  lodato  M.  Bruto  e 
C.  Cassio.  Narra  C.  Tacito  nel  libro  quarto  de'  suoi  Annali,  ftz  le 
altre  crudeltà  di  Tiberio,  di  aver  fatto  accusare  Cremuzio  d'un 
nuovo  e  la  prima  volta  inteso  delitto,  cioè  di  aver  lodato  Bruto  e 
Cassio;  il  qual  successo  meglio  sarà  rapportarlo  colle  sue  parole: 
«  Cornelio  Cosso,  Asinio  Agrippa  Coss.,  »  e'  dice  «  Cremutius  Cor- 
dus  postulatur,  novo  ac  tum  primum  audito  crimine,  quod  editis 
annalibus,  laudatoque  M.  Bruto,  C.  Cassium  Romanorum  ulti- 
mum  dixisset».1  Fu  obbligato  per  ciò  il  misero  Cremuzio,  per 
isfuggire  le  crudeltà  di  Tiberio,  dar  a  se  stesso  volontaria  morte; 
ma  prima  volle  difendersi  nel  Senato,  e  recitò  quella  elegante  ora- 
zione da  Tacito  rapportata,  nella  quale  fra  gli  altri  essempi  recati 
in  sua  difesa  rammenta  la  franchezza  di  Livio,  dicendo:  «Verba 
mea,  P.  C,  arguuntur:  adeo  factorum  innocens  sum  . . .  Titus  Li- 
vius  eloquentiae  ac  fìdei  praeclarus  in  primis  Cn.  Pompeium  tantis 
laudibus  tulit,  ut  pompeianum  eum  Augusrus  appellaret;  nequeid 
amicitiae  eorum  offecit  ».2  E  finita  l'orazione,  «  egressus  dein  Senatu, 
vitam  abstinentia  finivit.  Libros  per  aediles  cremandos  censuere 
patres,  sed  manserunt  occultati  et  editi  ».3  Non  tralascia  C.  Tacito 

i.  Narra  . .  .  dixisset:  cfr.  Ann.,  iv,  xxxiv,  i  («Sotto  il  consolato  di  Cornelio 
Cosso  e  di  Asinio  Agrippa,  Cremuzio  Cordo  venne  processato  per  un  crimi- 
ne nuovo  e  fino  allora  sconosciuto  :  aveva  pubblicato  degli  annali,  dove  lo- 
dava M.  Bruto  e  chiamava  C.  Cassio  l'ultimo  dei  Romani»),  2.  «Verba 
mea . . .  offeriti*'.  Tacito,  Ann.,  iv,  xxxiv,  4  e  6  («Sono  delle  mie  parole 
che  vengon  poste  sotto  accusa:  tanto  sono  innocente  per  le  mie  azioni! .  .  . 
Tito  Livio,  tra  i  primi  per  eloquenza  e  sincerità,  ha  esaltato  Gneo  Pompeo 
con  tanti  elogi  che  Augusto  lo  chiamava  pompeiano,  senza  che  ciò  pregiu- 
dicasse alla  loro  amicizia»).  3.  «  egressus  . . .  editi»:  ivi,  iv,  xxxv,  5  («Poi 
uscì  dal  Senato  e  mise  fine  alla  sua  vita  astenendosi  dal  nutrirsi.  I  senatori 


760  DISCORSI    SOPRA   GLI   ANNALI   DI   TITO    LIVIO 

vituperare  maniere  sì  barbare  ed  inumane,  le  quali  sovente  hanno 
contrario  effetto  di  quel  che  si  propongono  simili  tiranni,  soggiun- 
gendo queste  non  men  savie  che  vere  riflessioni  :  «  Quo  magis  se- 
cordiam  eorum  inridere  libet,  qui  praesenti  potentia  credunt  extin- 
gui  posse  etiam  sequentis  aevi  memoriam.  Nam  contra,  punitis 
ingeniis  gliscit  autoritas  ;  neque  aliud  externi  reges,  aut  qui  eadem 
sevitia  usi  sunt,  nisi  dedecus  sibi,  atque  illis  gloriam  peperere».1 

Ne'  felici  tempi  di  Augusto,  né  perché  Livio  della  religione  ro- 
mana scrivesse  con  tanta  licenza,  né  perché  pigliasse  le  parti  di 
Pompeo  contro  Cesare,  fu  imputato  0  di  miscredente  ovvero  d'in- 
giurioso alla  maestà  di  Ottavio  ;  anzi  questi  come  principe  giusto  e 
magnanimo  l'ebbe  in  somma  stima  e  conservò  nell'antica  sua  gra- 
zia. Il  carattere  ch'egli  avea  assunto  d'istorico  lo  rendeva  rispette- 
vole  a  tutti  gli  uomini  dotti  e  probi,  i  quali  ben  sanno  che  l'istorico 
dee  seguitare  unicamente  la  traccia  del  vero,  senza  pendere  a  de- 
stra o  a  sinistra,  senza  moversi  da  odio  o  da  amore  o  da  qualunque 
altra  umana  passione:  le  cose  dee  narrarle  nel  loro  puro,  sincero  e 
naturai  essere;  né  altro  dover  esser  il  principal  suo  scuopo  se  non 
la  ricerca  della  verità,  e  così  nuda  esporla  a'  lettori,  sicome  doppo 
lunghe  vigilie,  sudori  e  fatiche,  si  era  tratta  fuori  da  monumenti 
antichi  e  da  sinceri  ed  incorrotti  e  fedeli  autori.  Questa  fu  la  cura 
ed  il  sommo  studio  che  in  tutto  il  corso  di  sua  vita  pose  Livio  in 
questa  immortale  sua  opera;  non  isgomentandosi  di  dover  navi- 
gare per  un  mare  sì  ampio  e  procelloso.  Gli  riuscì  avventurosa- 
mente di  vedersi  in  porto,  e  terminare  con  immortai  sua  gloria 
un'istoria  del  maggior  imperio  che  siasi  veduto  sopra  la  terra,  e 
quando  si  vide  il  genere  umano  innalzato  cotanto  che  né  prima  fu, 
né  doppo  sarà  veduto  in  maggior  altezza  ed  in  uno  stato  sì  florido 
ed  eminente  ;  e  tanto  fu  lontano  da  sì  maligne  imputazioni  che  al 
contrario  fin  dall'ultime  e  remote  parti  del  mondo  venivano  i  dotti 
in  Roma  a  vederlo;  tanto  che  a  lui  avvenne  ciò  che  di  pochi  è 
scritto,  che  sopravivesse  alla  gloria  dell'immortal  suo  nome. 

Fu  cosa  avvertita  da  molti  savi  e  dotti  scrittori,  sicome  l'espe- 

ordinarono  agli  edili  di  bruciare  i  suoi  libri,  che  però  si  salvarono,  prima 

nascosti  e  poi  pubblicati  »).     1.  a  Quo  magis peperere  »  :  ivi,  iv,  xxxv,  6-7 

(«  Onde  si  può  maggiormente  deridere  la  stupidità  di  coloro  che  credono, 
con  la  loro  forza  attuale,  di  poter  spegnere  il  ricordo  anche  nella  generazio- 
ne che  segue.  Al  contrario  à  genio,  se  lo  si  punisce,  cresce  d'autorità,  e  né 
i  re  stranieri  né  coloro  che  hanno  usato  della  loro  stessa  sevizia,  hanno 
ottenuto  altro  che  disonore  per  sé  e  gloria  per  quello»). 


PARTE   I   •  DISCORSO   III  761 

rienza  negli  rese  accorti,  che  sicome  sotto  principi  giusti,  magna- 
nimi e  clementi,  gli  scrittori  furon  sempre  sicuri  da  livida  maledi- 
cenza  ed  invidioso  dente,  così  sotto  i  crudeli  e  tiranni  si  videro 
sempre  esposti  alle  altrui  false  accuse  e  maligne  detrazioni.  Sotto 
Augusto  furon  così  sicuri  che  per  ciò  il  suo  secolo  fu  detto  aureo 
e  felice,  che  produsse  tanti  grandi  e  maravigliosi  ingegni.  Giravano 
a'  suoi  tempi  per  le  mani  degli  uomini  le  epistole  di  Antonio,  le 
concioni  di  Bruto,  i  carmi  di  Bibaculo  e  di  Catullo  ne'  quali  non 
erano  risparmiati  gli  stessi  Cesari  ;  e  pure  soggiunge  Tacito  in  per- 
sona di  Cremuzio  :  «  Ipse  divus  Iulius,  ipse  divus  Augustus  et  tulit 
ista,  et  reliquere  :  haut  facile  dixerim,  moderatione  magis,  an  sapien- 
tia;  namque  spreta  exolescunt:  si  irascare  adgnita  videntur».1  Sotto 
grimperatori  Vespasiano  e  Tito  suo  figliuolo,  principi  cotanto  be- 
nigni ed  amabili  che  di  Tito  fu  detto  che  fosse  la  delizia  dell'uman 
genere,  cessate  le  crudeltà  e  simulazioni  di  Tiberio,  ed  i  disordini 
sotto  Caligola  e  Claudio,  cessate  le  tirannidi  e  crudeltà  di  Nerone, 
e  le  confusioni  sotto  Galba,  Ottone  e  Vitellio,  sotto  questi  due  Ve- 
spasiani cominciarono  a  rifiorire  gl'ingegni  e  si  tornò  quasi  all'aureo 
secolo  di  Augusto.  Gli  scrittori  non  erano  oppressi  e  gravati  da 
dura  servitù.  Ciascuno  potea  con  franchezza  seguire  la  traccia  del 
vero  ;  e  pur  che  da'  loro  scritti  fosse  lontana  la  falsità  e  la  calunnia, 
potevan  francamente  esporre  i  loro  liberi  sensi.  Plinio  il  Vecchio 
sotto  questi  Vespasiani,  de'  quali  fu  in  tanta  stima,  compose  i 
trentasette  libri  della  sua  Istoria  di  natura  e  gli  dedicò  a  Tito,  pre- 
sentandogli un'opera  cotanto  diffusa,  laboriosa,  erudita  e  varia 
quanto  è  la  natura  stessa.  E  pure,  ancorché  dedicata  e  presentata  a 
Cesare  e  data  fuori  alla  luce  ed  al  cospetto  di  tutto  il  mondo  gi- 
rasse per  le  mani  di  ogn'uno,  non  si  ritenne  Plinio2  nella  medesima 
ài  esporre  francamente  ciocch'egli  sentiva  della  divina  natura,  che 
non  fosse  altra  che  tutto  l'ampio  universo;  che  non  vi  fosse  altro 
Dio,  ma  che  l'unico  e  solo  nume  non  fosse  altro  che  la  natura 
istessa;  deridendo  non  pure  il  prodigioso  numero  di  tanti  dii  così 

1.  Giravano videntur:  cfr.  ibid.,  rv,  xxxiv,  io  («Lo  stesso  divo  Giulio, 

lo  stesso  divo  Augusto  sopportarono  ciò  e  lo  lasciaron  correre,  se  per  mo- 
derazione o  piuttosto  per  saggezza,  non  saprei  dire.  Non  tenendone  conto, 
infatti,  son  cose  che  passano  dimenticate;  irritarsene  invece,  significa  che 
sono  rimproveri  meritati  »).  2.  non  si  ritenne  Plinio  ecc.  :  tutto  il  brano  che 
segue  riecheggia  V  Adeisidaemon  del  Toland  e  fa  riferimento  agli  stessi 
brani  di  Plinio  citati  dall'inglese.  Cfr.  infatti  Adeisidaemon,  cit.,  paragrafo 
li,  p.  2.  Sull'ateismo  di  Plinio,  cfr.  J.  Fayus,  Defensio  ecc.,  cit.,  p.  102  e 
ancora  p.  130. 


762  DISCORSI   SOPRA   GLI   ANNALI    DI    TITO    LIVIO 

celesti  come  infernali  e  la  credulità  del  volgo  semplice  ed  ignaro; 
ma  apertamente  negando  nelle  cose  umane  ogni  divina  provvi- 
denza, scrivendo  nel  cap.  7  del  11  libro  e  ripetendolo  sovente  in 
tutto  il  corso  dell'Istoria:  «irridendum  vero  agere  curam  rerum 
humanarum  illud  quidquid  est  summum».1  Inoltre  al  cap.  55  del 
vii  libro  chiama  puerili  deliri,  dementia  e  sciocchezza  promettersi 
doppo  la  presente  altra  vita,  e  che  la  morte  ci  riduca  in  quello  stato 
nel  quale  eravamo  prima  di  nascere,  tuffandoci  in  un  tenebroso  e 
perpetuo  sonno.2  Ma  questi  arditi  e  temerari  trasporti  non  oscu- 
rarono la  sua  fama,  né  contaminarono  la  sua  Istoria,  la  quale  per 
l'immensa  erudizione  e  dottrina  non  solo  fu  gradita  da  Tito,  ma 
corse  luminosa  per  tutti  i  secoli  e  nazioni,  e  pervenne  a  noi  tutta 
intera,  sottratta  dall'ingiurie  degli  uomini  e  del  tempo;  ed  il  suo 
autore  meritò  da  S.  Agostino  nel  cap.  9  del  xv  libro  della  Città  di 
Dio3  esser  nominato  coll'elogio  d'ccuomo  dottissimo».  Quindi  l'ac- 
curatissimo C.  Tacito  avvertì  la  sicura  marca  che  qualifica  i  prin- 
cipi per  saggi  e  magnanimi  esser  la  moderazione  e  sapienza  di  tole- 
rare  ne*  scrittori  qualche  trasporto  d'ingegno,  ed  esser  lontani  di 
porgli  freno  con  premergli  d'una  misera  servitù:  questo  rendere  i 
loro  domini  felici  e  fertili  di  uomini  dotti  ed  insigni:  e  per  ciò  egli 
aveasi  nella  sua  vecchiaia  riserbato  di  scrivere  del  principato  di  due 
sapientissimi  imperatori,  di  Nerva  e  di  Traiano  :  «  rara  temporum 
felicitate,»  e'  soggiunge  «ubi  sentire  quae  velis,  et  quae  sentias 
dicere  licet».4 

discorso  xiii  ed  ultimo 
De*  mani  e  sepolture  de'  Romani. 

Il  savio  re  Numa  Pompilio,  re  insieme  e  sommo  sacerdote  de' 
Romani,  avendo  da'  padri  eletto  un  pontefice  al  quale  commise  la 
cura  delle  cose  sacre,  dandogli  minute  istruzioni  come  dovesse 
regolarle  affinché  ne  potesse  istruire  il  popolo,  fra  gli  altri  culti 
religiosi  e  sacre  cerimonie  gli  prescrisse  ancora  quali  dovessero 

1.  «irridendum .  . .  summum»-.  cfr.,  dell'edizione  a  cura  di  Jean  Hardouin, 
Parisiis  1723,  in  tre  tomi,  I,  pp.  71  sgg.  («va  certo  irrisa  l'opinione  che 
quel  sommo,   qualunque  sia,  si  prenda  pensiero   delle  cose  umane»). 

2.  Inoltre  . . .  sonno:  cfr.  ed.  cit.,  tomo  1,  pp.  4x0-11.  3.  nel  cap.  9  . . . 
Dio  :  in  Migne,  P.  L.,  xli,  col.  448  :  «Plinius  Secundus,  doctissimus  homo  ». 
4.  e  per  ciò  egli  .  .  .  licet  :  cfr.  la  nota  a  p.  755. 


PARTE   I    •  DISCORSO   XIII  763 

essere  i  legittimi  riti  da  adoperarsi  nel  seppelire  i  morti  e  nelle  fu- 
nebri e  luttuose  pompe,  e  ciò  per  placare  i  dii  mani;1  poiché  avea 
dato  lor  a  credere  che  fin  a  tanto  che  i  cadaveri  de'  morti  non  fos- 
sero ritamente  seppeliti,  o  pure  le  ossa  rimanessero  esposte  sopra 
la  nuda  terra  ad  esser  mosse  dal  vento  e  bagnate  dalla  pioggia, 
le  ombre  de'  morti  non  aveano  mai  pace  e  riposo  e  che  vagassero 
di  qua  e  di  là  querule  e  dolenti.  A  questa  vana  credenza  si  aggiun- 
sero delle  altre,  come  suole  avvenire  una  volta  che  gli  animi  sono 
presi  da  superstizione  :  che  non  pure,  insepolti  i  loro  corpi,  andas- 
ser  vagabonde,  ma  se  morti  invendicati  de'  torti  fattigli  in  vita  non 
si  espiasse  per  loro,  o  prendesse  vendetta,  non  avrebbero  mai  posa  e 
quiete,  che  perciò  solevano  apparire  a'  congionti  ed  amici  la  notte 
mentr'erano  in  quiete,  0  pure  anche  di  giorno,  vigilando.  Ed  em- 
pite le  fantasie  del  volgo  di  queste  immaginazioni,  resi  da  ciò  pavidi 
e  timorosi,  il  timore  stesso  sovente  facevagli  vedere  cose  invisibili, 
e  sentir  gemiti,  lamenti  o  romori,  che  non  aveano  altro  sostegno 
che  la  depravata  e  corrotta  lor  fantasia.  E  poiché  gli  uomini  sono 
pur  troppo  avidi  di  narrare,  ovvero  di  udire  cose  portentose  e 
strane,  con  piacere  si  raccontano  e  si  sentono,  e  con  pari  credulità 
se  gli  presta  intera  fede,  dandosi  sovente  alle  ombre  ed  alle  nostre 
vane  immaginazioni  corpo  fisico  e  reale  che  giammai  non  ebbero. 
Gli  uomini  seri  e  sgombri  da  tali  pregiudici  ed  i  profondi  filosofi 
se  ne  burlaron  sempre,  e  lasciavano  queste  larve  al  volgo  ed  a' 
fecondi  poeti,  affinché  a  lor  posta  più  splendidamente  e  con  maggior 
maraviglia  e  stupore  potesser  tessere  lor  favole. 

Nel  secolo  di  Augusto,  quando  i  libri  della  Natura  delle  cose  di 
Tito  Lucrezio  Caro  avean  fatto  in  Roma  meravigliosi  progressi, 
eran  tutti  i  savi  e  dotti  ricreduti  esser  queste  fole  e  ciancie;  e  Li- 
vio, che  scrisse  l'incomparabile  sua  istoria  in  questo  secolo  già  reso 
più  illuminato  e  culto,  se  bene  non  manca  di  rapportare  ciò  che  ne* 
tempi  incolti  e  ruvidi  scrissero  gli  antichi  Romani  de'  mani,  non 
tralascia  però  con  somma  accortezza  e  grazia  palesar  il  concetto 
che  ne  avea,  sicome  fecero  gli  altri  scrittori  de*  suoi  tempi.  E  rap- 
portando nel  libro  terzo  della  1  deca2  il  tragico  successo  di  Virginia, 
la  quale  fu  uccisa  dal  dolente  padre  che  non  ebbe  altra  maniera 
per  iscamparla  dalla  servitù  e  dall'imminente  infame  stupro  di 
Appio  Claudio  decemviro,  narra  che  discacciati  per  ciò  da  Roma 

1.  Il  savio  re  .  .  .  mani:  cfr.  Livio,  I,  20,  5-7.  2.  nel  libro  .  .  .  deca:  in, 
44  sgg. 


764  DISCORSI   SOPRA   GLI   ANNALI   DI    TITO    LIVIO 

i  decemviri  fu  presa  dell'indegno  attentato  di  Appio,  de'  ministri 
che  avea  disposti  per  conseguirlo  e  de*  suoi  colleghi,  intera  ven- 
detta e  meritato  castigo.  Appio  per  sottrarsi  dall'imminente  sup- 
plicio  diede  a  se  medesimo  morte.  Sp.  Oppio  suo  collega  avanti  il 
giorno  destinato  al  giudicio  parimente  nelle  carceri  finì  sua  vita, 
e  così  i  beni  di  Claudio  come  quelli  di  Oppio  furono  pubblicati; 
gli  altri  colleghi  furon  mandati  in  perpetuo  esilio  ed  i  loro  beni 
parimente  pubblicati,  e  M.  Claudio,  colui  che  per  compiacere  ad 
Appio  chiamò  in  servitù  Virginia  per  sacrificarla  alla  di  lui  libidine, 
essendo  stato  condennato,  avendogli  Virginio  padre  della  vergine 
rimessa  l'ultima  pena,  partì  da  Roma  e  gissene  altrove  in  esilio. 
Livio,  doppo  avere  tutto  ciò  narrato,  termina  graziosamente  il  suo 
racconto,  e  come  per  ischerzo  imitando  i  poeti,  dice  che  i  mani  di 
Virginia,  più  felici  doppo  morta  che  viva,  essendo  vagati  per  tante 
case  e  non  avendo  lasciato  alcuno  impunito,  finalmente  si  quieta- 
rono, così  accortamente  deridendo  la  volgare  credenza  della  molti- 
tudine sciocca  ed  imperita:  «Manesque  Virginiae,  mortuae  quam 
vivae  feliciores,  per  tot  domos  ad  petendas  poenas  vagati,  nullo 
relieto  sonte,  tandem  quieverunt».1 

Questo  medesimo  scrittore  nel  libro  ottavo  della  1  deca,2  raccon- 
tando le  fiere  contese  di  Lucio  Annio  pretore  de'  Latini  e  di  T. 
Manlio  console  de'  Romani,  le  quali  furon  cagione  della  guerra 
che  si  accese  fra  questi  due  popoli,  fra  le  molte  illusioni  de'  Ro- 
mani d'immaginarsi  più  cose  atte  a  far  credere  che  i  dii  fossero 
dalla  lor  parte  contro  a'  Latini,  rapporta  che  i  consoli  romani,  in- 
vasi da  vane  religioni  raccontavano  che  una  notte,  mentr' erano  in 
quiete,  gli  fosse  comparsa  un'ombra  0  fantasima  che  rappresentava 
la  figura  d'un  uomo  più  augusta  e  grande  dell'altre  umane  forme, 
dalla  quale  fossero  uscite  queste  voci:  «Ex  una  acie  imperatorem, 
ex  altera  exercitum  diis  manibus  Matrique  Terrae  deberi;  utrius 
exercitus  imperator  legiones  hostium  superque  eas  se  devovisset, 
eius  populi  partisque  victoriam  fore».3  Queste  notturne  visioni 
bastarono,  che,  fatti  chiamare  l'aruspici,  questi  secondando,  co- 
m'era la  lor  furberia,  al  genio  de'  consoli,  dissero  che  avendo  fatti  lor 

1.  ((Manesque  .  . .  qtdeverunU:  in,  58,  11.  2.  nel  libro  .  .  .  deca:  vili,  4-6. 
3.  «Ex  una  acie . .  .fore*:  vili,  6,  io  («che  una  schiera  era  debitrice  agli 
dei  mani  e  alla  Madre  Terra  del  suo  comandante,  l'altra  dell'intero  eser- 
cito; che  la  vittoria  sarebbe  stata  di  quel  popolo  e  di  quella  parte,  il  cui 
comandante  supremo  avesse  offerto  in  olocausto  le  truppe  nemiche  e  inol- 
tre se  stesso»). 


PARTE   I    •  DISCORSO   XIII  765 

vaticini,  concordavano  colle  visioni  avute,  sicché:  «ubi  responsa 
aruspicum»  dice  Livio  «insidenti  iam  animo  tacitae  religioni  con- 
gruebant»,1  date  fra  lor  le  sorti,  uno  de'  consoli  per  salvar  Tesser- 
ato romano  se  stesso  immolò,  ed  entrato  in  mezzo  alTessercito 
nemico  si  fece  trucidare,  perché  i  dii  mani  e  la  Madre  Terra,  sod- 
disfatti dalla  parte  de'  Romani  colla  perdita  del  capitano,  dovesser 
poi  soddisfarsi  dalla  parte  de*  Latini  colla  perdita  e  total  destru- 
zione  del  loro  essercito.  Queste  che  non  erano  se  non  illusioni,  so- 
gni, ombre  e  cose  vane,  ebbero  un  tempo  presso  i  Romani  gravati 
di  religione  tanto  vigore  e  forza  che,  sprezzando  ogni  pericolo,  gli 
facevan  correre  fino  a  ricever  con  piacere  certa  ed  indubbitata 
morte. 

E  se  bene,  come  si  è  detto,  nel  secolo  di  Augusto,  doppo  che  in 
Roma  fu  introdotta  una  più  solida  e  seria  filosofia,  si  fosser  gli 
animi  liberati  da  tante  superstizioni  e  da  sì  vani  pronostici  ed  illu- 
sioni, nulladimanco  per  gli  antichi  pregiudici  pur  rimase  presso 
alcuni  in  dubbio,  se  tali  ombre  o  fantasime  avessero  propria  figura 
e  sussistenza  sicché  fosse  in  loro  qualche  nume,  ovvero  fossero 
idoli  vani  senza  soggetto,  e  cose  all'intutto  vote  ed  inani  e  che  tutta 
la  loro  apparenza  dipendesse  dal  timore  e  dalla  nostra  viziata  fan- 
tasia. I  profondi  e  seri  filosofi  tosto  decidevan  il  dubbio,  che  fosser 
nostre  illusioni  e  panici  timori,  e  Plinio  il  Vecchio  n'era  abbastanza 
persuaso.  Ma  Plinio  il  Giovane,  che  non  era,  sicome  il  zio,  a  fondo 
instrutto  di  solida  filosofia,  non  solo  ne  dubbitava,  ma  nella  sua  ep. 
27  del  vii  libro  mostra  inclinare  nell'opinione  del  volgo  che  le 
crede  essere  qualche  cosa;  ne  scrive  per  ciò  a  Sura  suo  amico,  il  qua- 
le come  filosofo  lo  risolvesse  di  questo  dubbio,  ed  affinché  volendo 
convincerlo  del  contrario  lo  facesse  con  forti  argomenti,  sicché  non 
avesse  più  luogo  da  dubitare,  gli  scrive  le  ragioni  per  le  quali  egli 
era  indotto  ad  una  tal  credenza,  pronto  ad  abbandonarla  se  fossero 
risolute  con  chiare  ed  efficaci  risposte.  Non  sappiamo  ciò  che  Sura 
l'avesse  risposto;  ma  le  ragioni  che  adduce  non  sono  da  filosofo, 
ma  tratte  da  favolosi  racconti  e  vane  dicerie  del  volgo,  alle  quali 
egli,  come  pur  troppo  credulo,  dava  intera  fede.  Narra  essergli 
state  riferite  due  visioni  ch'ebbe  Curzio  Rufo  in  Affrica,  d'una 
donna  che  gli  comparve  più  grande  e  bella  delle  comunali,  la  quale 


1.  tubi  responsa . .  .  congruebant»:  vili,  6,  12  («poiché  il  responso  degli 
aruspici  s'accordò  con  il  tacito  timore  già  padrone  dell'animo  ...»). 


766  DISCORSI   SOPRA   GLI   ANNALI    DI    TITO    LIVIO 

profetò  di  lui  più  cose  che  tutte  poi  si  avverarono,  sicome  anche 
Tacito  l'accenna  nel  libro  XI  de'  suoi  Annali.1  Ma  ciò  che  a  Plinio 
faceva  più  forza  era  di  aver  data  facile  credenza  ad  un'istorietta 
che  gli  fu  raccontata  d'un  fatto  accaduto  in  Atene,  nella  quale  vi 
mescolavano  un  filosofo  perché  maggiormente  la  favola  si  ren- 
desse credibile.  Narra  che  in  Atene  un'ampia  e  spaziosa  casa  era 
rimasta  disabitata  e  vota  a  cagion  che  nel  silenzio  della  notte  si 
sentivano  imprima  suoni  di  ferri,  poi  strepiti  di  catene,  ed  in  fine 
appariva  una  fantasima  rappresentante  un  vecchio  tutto  emaciato  e 
squallido  con  barba  lunga  ed  orridi  capelli,  il  quale  avea  ceppi  nelle 
gambe  e  nelle  mani  catene,  le  quali  scosse  davan  quel  suono.  Ab- 
bandonata adunque  la  casa  di  abitatori,  il  padrone  come  meglio 
poteva  cercava  di  venderla  o  affittarla,  e  perché  più  aggevolmente 
trovasse  oblatori,  pose  in  quella  cartelloni  ne'  quali  eran  invitati 
alla  compra  o  all'affitto  per  un  prezzo  assai  tenue  e  basso.  Per  sorte 
capitò  in  Atene  un  filosofo  chiamato  Artemidoro,  il  quale  ignaro 
del  vizio,  leggendogli,  si  pose  in  sospetto  per  la  viltà  del  prezzo, 
e  dimandò  che  ciò  si  fosse;  ed  informato  del  tutto,  tanto  maggior- 
mente s'indusse  ad  affittarla  per  andarvi  ad  abitare,  deridendo  la 
simplicità  del  volgo  timido  ed  ignaro.  Andò  dunque  con  franchezza 
ad  abitarvi  e  perché  non  si  distraesse  col  pensiero  alle  cose  narra- 
tegli, la  sera  fecesi  portare  il  lume  e  gli  altri  stromenti  per  comporre 
e  con  tutta  attenzione  si  pose  a  scrivere,  tenendo  la  mente,  gli 
occhi,  le  mani  e  tutti  i  sensi  fissi  ed  intenti  alla  scrittura;  ma  ecco, 
che  nel  silenzio  della  notte  cominciò  a  sentire  i  suoni  de'  ferri  e 
poi  il  rumore  delle  catene,  ed  egli  fisso  nel  lavoro  prosiegue  senz'al- 
zar occhi  né  mover  capo;  ma  sempre  più  il  rumore  crescendo  ed 
avvicinandosi  la  larva,  vide  nel  hmitare  della  stanza  il  vecchio, 
secondo  ch'eragli  stato  descritto,  il  quale  stando  in  piedi  gli  faceva 
col  dito  segno  come  d'uom  che  chiama;  il  filosofo  intrepido  fecegli 
ancor  egli  colla  mano  segno  che  aspettasse,  e  prosiegue  a  scrivere, 
né  si  mosse;  ma  il  vecchio  avvicinatosi  più  cominciò  a  scuotergli 
le  catene  sopra  il  capo  con  fargli  segno  che  con  lui  venisse;  allora 
Artemidoro  si  alzò,  prese  il  lume  ed  accennò  di  volerlo  seguitare. 
Andava  il  vecchio  innanzi  gravato  di  catene  a  lenti  passi,  ed  uscito 
dalla  stanza  nell'area  della  casa  di  repente  profondò  sotto  terra, 
né  più  si  vide,  lasciando  il  segno  del  fosso  ov'era  caduto.  Il  filosofo 

i.  sicome  . . .  Annali:  cfr.  xi,  xxi,  2. 


PARTE    I   •  DISCORSO    XIII  767 

il  giorno  seguente,  avendo  riferito  al  magistrato  il  successo,  do- 
mandò che  avessero  fatto  scavare  nel  luogo  ov'era  profondato,  si- 
come  fu  fatto  ;  e  nello  scavare  si  trovarono  alcune  ossa  avviluppate 
con  catene,  onde  fu  dato  indizio  che  il  corpo  di  colui  dal  tempo  e 
dalla  terra  putrefatto  avea  sol  lasciato  Tossa  colle  catene  delle  quali 
forse  era  stato  avvinto.  Furono  per  ciò  in  presenza  del  magistrato 
con  diligenza  raccolte  le  ossa  e  ritamente  fatte  sepelire;  e  d'allora 
in  poi,  dice  Plinio  «  domus  postea,  rite  conditis  manibus  caruit.  Et 
haec  quidem  affirmantibus  credo  ».z  Chi  non  conosce  che  la  favola 
si  fosse  tessuta  per  maggiormente  confermare  la  vana  credenza 
che  si  avea  allora  de'  morti  insepolti,  le  ombre  de'  quali  andasser 
vagando  e  disperse  fin  che  non  fossero  ritamente  sepelliti  ed  aves- 
sero quindi  riposo  e  quiete  ?  Stando  gli  uomini  preoccupati  da  que- 
sti pregiudizi,  sicome  mostra  esservi  stato  Plinio,  era  cosa  molto 
facile  che  avesser  data  credenza  a  questa  e  simili  altre  ciance  e 
fole.  Quel  che  poi  soggiunge  nella  medesima  lettera  come  testimo- 
nio di  veduta,  di  essersi  trovati  recisi  i  capelli  a  Marco  suo  liberto 
e  ad  un  altro  fanciullo,  i  quali  affermavano  che  dormendo  l'erano 
apparse  fantasime,  le  quali  sedute  alla  sponda  del  letto  colle  forbici 
alle  mani  gliele  avesser  recisi,  la  sua  testimonianza  sarà  vera  d'aver 
veduto  i  capegli  recisi,  ma  chi  gliele  tagliò  non  fu  certamente  om- 
bra vana  o  fantasima,  ma  mano  fisica  e  reale  d'un  qualche  tristo 
che  volle  o  per  gioco  o  per  obbrobrio  prendersene  sollazzo  o  ven- 
detta. Meglio  adunque  avrebbe  fatto  se  in  ciò  avesse  seguitato  la 
dottrina  del  zio,  il  quale  non  ebbe  dubbio  alcuno  che  fossero  vane 
nostre  illusioni  e  che  non  avessero  altro  sostegno  che  la  vana  no- 
stra immaginazione  e  sciocca  credenza,  sicome  in  più  luoghi  del- 
la sua  Istoria  naturale  manifesta  e  spezialmente  nel  cap.  55  del 
vii  libro.3 

Innumerabili  sono  i  racconti  del  volgo  semplice  di  aver  veduto 
spettri,  fantasime  ed  ombre,  ed  udito  strepiti,  suoni  e  lamenti,  i 
quali  non  sono,  come  saviamente  dice  Livio,  che  «ludibria  oculo- 
rum  auriumque  eredita  prò  veris  ».3  Alessandro  di  Alessandro  nostro 
napolitano,  infra  gli  altri,  ne  rapporta  moltissimi  ne'  suoi  Giorni 

1.  a  domus  .  . .  credo»:  Epist.,  vii,  xxvn,  11  -z  («la  casa  in  seguito  non  fu  più 
visitata  dai  mani,  finalmente  seppelliti  secondo  il  rito.  E  ciò  invero  credo 
sull'affermazione  altrui  »).  Ma  nella  minuta,  come  anche  nel  testo  di  Plinio, 
il  filosofo  è  Atenodoro  di  Tarso,  stoico.  2.  e  spezialmente  .  .  .  libro  :  cfr. 
Nat.  hist.,  ed.  cit.,  tomo  I,  pp.  410- 1.  3.  «ludibria  .  . .  verismi  xxiv,  44,  8 
(«abbagli  della  vista  e  dell'udito  presi  per  veri»). 


768  DISCORSI    SOPRA   GLI   ANNALI    DI    TITO   LIVIO 

geniali?  e  se  bene  ne'  seguenti  secoli  più  culti  ed  illuminati  si 
fosser  molti  ricreduti  essere  tutte  fole  e  ciance,  con  tutto  ciò,  poiché 
nel  mondo  il  numero  degli  sciocchi  è  infinito,  non  si  è  potuto  da 
pochi  far  argine  ad  un  sì  ampio  ed  impetuoso  fiume.  Gli  antichi 
Romani  ne  furon  presi  ed  illusi,  poiché  Numa  Pompilio  loro  pro- 
pose questa  credenza  come  un  punto  di  religione,  e  fra  gli  altri 
religiosi  riti  volle  che  per  placare  i  dii  mani  bisognava  nel  seppelire 
i  loro  morti  e  nelle  pompe  funebri  si  adoperassero  solenni  riti  e 
cerimonie,  non  altrimenti  che  si  faceva  nel  culto  de'  dii  per  placare 
la  celeste  lor  ira  ed  avergli  propizi;  ed  a'  sacerdoti,  che  da  Numa 
furon  instituiti  per  amministrare,  ed  istruire  il  popolo,  le  cose  sa- 
cre, furon  date  anche  istruzioni  per  i  funebri  riti.  Quindi  i  sepolcri, 
anzi  il  suolo  istesso  ov'eran  fabricati  erano  riputati  luoghi  religiosi, 
ed  il  violargli  era  sacrilegio,  e  sacrilegi  eran  riputati  coloro  i  quali 
rubassero  o  i  marmi  ond'eran  costrutti  0  le  statue  e  gli  altri  orna- 
menti, e  molto  più  se  ardissero  estrarne  i  corpi  0  involarne  le  ossa 
e  le  ceneri;  contro  i  quali  severissime  pene  furono  stabilite,  delle 
quali  l'imperador  Giustiniano  ce  ne  lasciò  nelle  sue  Pandette  sotto 
il  titolo  de  sepulcro  violato  più  vestigi.  Anzi  i  padroni  stessi  nem- 
meno ardivano  senza  permesso  del  Senato  o  del  collegio  de'  ponte- 
fici trasportarle  da  un  luogo  ad  un  altro;  ed  a'  tempi  di  Plinio  si 
ricorreva  a  gPimperadori  come  pontefici  massimi,  per  impetrarne 
licenza,  sicom'egli  amministrando  con  potestà  proconsulare  Bitinia 
e  Ponto,  richiesto  da  alcuni  provinciali,  li  quali  per  giuste  cause 
desideravano  trasportare  le  ossa  de'  loro  defonti  in  altro  luogo,  ne 
scrisse  all'imperadore  Traiano  per  ottenerne  permissione:  «quia 
sciebam  (sicome  leggesi  nelTep.  73  del  x  libro)  in  urbe  nostra  ex 
eiusmodi  causis  collegium  pontificum  adiri  solere,  te,  domine,  ma- 
ximum pontifìcem  consulendum  putavi,  quid  observare  me  velis  ».2 
Al  che  Traiano  rispose,  esser  cosa  molto  dura  obbligare  i  provin- 
ciali di  ricorrere  infino  a  Roma  al  collegio  de*  pontefici  per  impe- 
trarne licenza,  ma  ch'egli  concorrendovi  giuste  cause  potesse  per- 
metterlo. «Durum  est»  sono  le  savie  parole  di  Traiano  «iniungere 
necessitatem  provincialibus  pontificum  adeundorum,  si  reliquias 

1.  Alessandro  .  . .  geniali:  cfr.  Genialium  dierum  libri  sex  .  . .,  Parisiis  1532. 
Alessandro  d'Alessandro  (1461-1523),  giurista  napoletano,  fu  uno  degli 
esponenti  della  giurisprudenza  «eulta».  2.  «  quia  .  .  .  velis»:  cfr.  Epist.,  x, 
lxxiii  (altri  Lxvin  ;  «poiché  so  che  nella  nostra  città  per  motivi  consimili  si 
suole  ricorrere  al  collegio  dei  pontefici,  ho  ritenuto,  o  signore,  di  dover 
consultare  te  pontefice  massimo,  su  ciò  cui  devo  attenermi»). 


PARTE   I    •  DISCORSO   XIII  769 

suorum  propter  aliquas  iustas  causas  transferre  ex  loco  in  alium 
locum  velint.  Sequenda  ergo  potius  tibi  exempla  sunt  eorum  qui 
isti  provinciae  praefuerunt,  et  ex  causa  cuique  ita  aut  permitten- 
dum  aut  negandum».1  Tanta  scrupolosità  non  dipendeva  da  altro, 
se  non  da  quella  vana  credenza  che  le  ombre  de'  morti  con  trasfe- 
rire o  in  altra  maniera  smovere  o  violare  le  loro  ossa  o  i  loro  sepol- 
cri, venissero  a  perdere  la  lor  quiete,  e  non  lasciandole  in  riposo 
fosser  obbligate  di  vagare  di  qua  e  di  là  raminghe  e  dolenti.  Questa 
credenza  o  Numa  per  proprio  instinto  l'introdusse,  ovvero  da  pere- 
grina religione  i  Romani  l'appresero.  Certamente  che  presso  i  Gre- 
ci era  ancor  tenuta  e  da  tutti  abbracciata,  ed  i  Greci  dagli  Egizi 
l'appresero,  i  quali,  secondo  che  ce  ne  rende  testimonianza  Diodoro 
Siciliano,2  per  la  gran  cura  e  superstizione  che  aveano  in  seppelire 
i  loro  morti,  diedero  occasione  a'  Greci  favolosi,  se  non  d'imitargli 
nel  condire  i  cadaveri,  di  vaneggiar  cotanto  sopra  i  dii  infernali, 
sopra  gli  spettri,  fantasime  ed  ombre  de'  defonti.  Livio  stesso  nel 
libro  primo  della  rv  deca,3  doppo  aver  narrato  le  crudeltà,  gl'incendi 
e  le  mine  che  Filippo  re  di  Macedonia  fece  ne'  contorni  di  Atene, 
abbattendo  i  tempii  e  le  statue  de'  dii  e  minando  i  sepolcri  de' 
morti,  non  lasciandovi  pietra  sopra  pietra,  dice  che  nel  concilio 
degli  Etoli  i  legati  ateniesi  non  tralasciarono  rinfacciare  a'  Macedoni 
questa  empietà  ed  inudita  barbarie  di  Filippo,  il  quale  prima  avea 
mossa  guerra  a'  dii  infernali,  minando  tutti  i  sepolcri  e  monumenti, 
lasciando  denudati  i  mani  e  le  ossa  scoverte  sopra  la  nuda  terra,  e 
poi  imperversato  anche  contro  i  dii  celesti,  rovesciando  tutti  i  loro 
tempii,  spezzando  i  loro  simulacri  e  mettendo  a  ferro  ed  a  fuoco 
tutto  il  rimanente:  «adeo  omnia»  essi  dicevano  «simul  divina  hu- 
manaque  iura  polluerit,  ut  priore  populatione  cum  infernis  diis, 
secunda  cum  superis  bellum  nefarium  gesserit:  omnia  sepulchra 
monumentaque  diruta  esse  in  finibus  suis,  omniumque  nudatos 
manes,  nullius  ossa  terra  tegi».  Riputavano  i  Greci  ancora,  che 
lasciandosi  le  ossa  de'  morti  insepolte,  si  movesse  empia  guerra  a' 
mani,  che  denudati  avesser  perduto  il  lor  riposo  e  vagassero  que- 

1.  fnDurum  est .  . .  negandum»;  cfr.  ibid.,  x,  lxxiv  (altri  lxix;  «È  cosa  pe- 
nosa imporre  ai  provinciali  l'obbligo  di  ricorrere  ai  pontefici  se  per  qualche 
giusto  motivo  vogliono  trasferire  da  un  luogo  in  un  altro  i  resti  dei  loro 
congiunti.  Segui  dunque  piuttosto  l'esempio  di  coloro  che  governarono 
questa  provincia  e,  secondo  i  motivi,  nega  o  concedi  a  chiunque  il  per- 
messo »).  2.  secondo  che . . .  Siciliano:  cfr.  Diodoro  Siculo,  Bibl.  kist.,  1,  96. 
3.  nel  libro  .  .  .  deca:  xxxi,  30. 


77°  DISCORSI   SOPRA   GLI    ANNALI   DI    TITO    LIVIO 

ruli  e  dolenti.  I  Romani  adunque,  che  non  può  negarsi  da'  Greci 
e  dagli  Etruschi  aver  appreso  in  gran  parte  i  loro  riti  e  superstizioni, 
essendo  nella  medesima  credenza,  non  è  meraviglia  se  de'  loro 
morti  avessero  lo  stesso  concetto,  e  con  somma  cura  per  ciò  atten- 
dessero non  meno  alla  costruzione  che  alla  custodia  de'  loro  mo- 
numenti e  sepulture. 

Il  costume  di  deificare  doppo  lor  morte  gli  imperadori,  pur  rap- 
presero da'  Greci  e  da'  popoli  vicini.  Collocarono  Romolo  fra'  dii 
celesti  e  dapoi  grimperadori;  ma  le  cagioni  furon  diverse.  Ne*  primi 
rozzi  ed  incolti  tempi  furon  mossi  da  vana  religione;  ne'  secoli 
culti  ed  illuminati  da  ambizione  per  chi  gli  ambiva  e  da  adulazione 
e  vii  servaggio  per  chi  gliele  offeriva;  sicome  fecero  di  Augusto, 
di  Tiberio  e  di  Nerone  stesso  deificato  anche  in  sua  vita.  Ciocché 
maggiormente  manifestò  la  menzogna  e  l'adulazione,  derisa  me- 
ritamente da  Tacito  molto  più  di  quel  che  non  fece  Livio  della 
deificazione  di  Romolo. 

i 
Conchiusione  di  questa  i  parte. 

Tale  era  la  religione  antica  de'  Romani,  ristretta  ed  indrizzata  al 
riposo  di  questa  presente  vita  ed  alle  felicità  terrene  e  mondane, 
per  la  conservazione  ed  ingrandimento  della  loro  repubblica,  per 
la  prolazione  dell'imperio  e  suoi  trionfi.  Quindi  a'  loro  dii  non  si 
rendean  sacrifici,  adorazioni  e  preghiere,  se  non  perché  gli  scam- 
passe dalle  avversità  de'  mali  e  concedesse  prosperità  de'  beni, 
così  gli  uni  come  gli  altri  tutti  mondani  e  terreni.  Doppo  la  lor 
morte  non  riputavano  rimanergli  altra  vita  che  la  gloriosa  nel  con- 
cetto e  nelle  bocche  degli  uomini,  adoperando  cose  grandi  ed  illu- 
stri; ovvero  ignominiosa  se  si  fosser  contaminati  di  azioni  infami 
e  vituperose.  E  pure  questo  solo  vincolo  fu  riputato  bastante  per 
contenergli  in  una  perfetta  società  civile;  perché  fossero  fedeli  ne' 
patti  e  nelle  promesse,  osservantissimi  ne'  voti,  religiosissimi  ne' 
giuramenti,  e  adoperassero  infine  tante  magnanime,  illustri  ed  one- 
ste azioni,  e  fosser  adorni  di  tante  belle  virtù  morali  di  giustizia,  di 
temperanza,  di  castità,  di  tolleranza,  di  fortezza,  di  magnanimità, 
di  prudenza,  di  clemenza,  di  benignità  e  benificenza  e  di  tante  altre 
insigne  virtù,  per  le  quali  a  ragione  S.  Agostino  credette  che  per 
divina  provvidenza  fosse  stato  dal  sommo  Iddio  lor  conceduto  l'im- 
perio del  mondo. 


PARTE   I    •  DISCORSO   XIII  77 1 

Or  si  facci  confronto  degli  antichi  Romani  co'  nostri  cristiani,  a' 
quali  si  è  aggiunto  per  fargli  essere  maggiormente  perfetti  un  vin- 
colo assai  più  tenace  e  forte,  qual'è  una  religione  quanto  vera  e 
certa,  come  da  Dio  revelata,  altrettanto  semplice  e  schietta,  e  che 
c'insegna  una  morale  assai  più  perfetta  e  pura  di  quella  de'  più 
elevati  filosofi  gentili,  la  quale  cotanto  c'inculca  la  dilezione  del 
prossimo  e  di  fare  o  non  fare  agli  altri  ciò  che  per  te  stesso  vuoi 
o  non  vuoi  :  una  religione,  la  quale  non  è  solo  ristretta  ed  indrizzata 
al  riposo  di  questo  mondo,  ma  s'inalza  ad  un  più  sublime  fine; 
che  c'insegna  doppo  questa  mortai  vita  essercene  apparecchiata 
un'altra  infinita  ed  eterna,  alla  quale  paragonata  la  presente  tutta 
sparisce  ed  è  un  punto  indivisibile,  e  che  qui  noi  ci  siamo  peregrini, 
e  peregrini  momentanei;  una  religione  la  quale  ci  rende  certi  che 
secondo  che  ci  saremo  portati  in  questo  pellegrinaggio,  trovaremo 
colà  permanente  abitazione,  dove  per  sempre  ci  converrà  menare 
una  vita  o  tutta  beata  e  gioconda,  ovvero  infelice,  tormentosa  e 
misera  che  non  avrà  fine  né  sarà  prescritta  da  tempo  alcuno. 

Non  dovranno  adunque,  attente  queste  verità,  i  cristiani,  che 
traviano  dal  giusto  sentiero,  riputarsi  per  gli  uomini  i  più  malvaggi 
e  perversi  che  siansi  mai  veduti  sopra  la  superficie  della  terra? 
Non  dovranno  riputarsi  i  più  empi  e  protervi  di  quante  nazioni 
furon  giammai  nel  mondo?  poiché  tutte  non  indrizzando  la  loro 
religione  che  alle  felicità  mondane,  le  quali  finalmente  presto  volano 
e  spariscono,  non  aveano  un  vincolo  così  tenace  e  forte  che  potesse 
trattenerle  da'  vizi  e  malvagità,  alle  quali  par  che  la  nostra  depra- 
vata natura  ci  spinga  e  ci  conduca,  come  abbiam  noi,  i  quali  siamo 
certi  che  ci  soprasta  un'altra  vita  immortale  ed  eterna.  Né  è  vero 
che  tanta  rilassatezza  e  pravità  de'  costumi  nasca  per  difetto  di 
fede,  quasi  che  tanti  perversi  sian  caduti  e  continuano  nelle  loro 
malvagità  per  non  aver  più  credenza  dell'altra  vita  che  non  l'aspet- 
tano; poiché  l'esperienza  tutto  giorno  ne  convince  del  contrario, 
che  i  maggiori  scellerati  sono  quelli,  che  pur  troppo  ci  credono, 
lusingandosi  chi  per  un  verso,  chi  per  un  altro,  e  tutti  abbandonan- 
dosi alla  divina  misericordia;  anzi  questi  sono  i  più  facili  di  passare 
dalla  religione  alla  superstizione,  e  covrire  i  loro  falli  sotto  speziosi 
pretesti,  e  nascondere  l'ambizione,  l'avarizia  e  gli  altri  loro  vizi 
col  manto  dell'ipocrisia  e  d'una  affettata  umiliazione  e  pietà. 

Queste  riflessioni  ci  dovrebbero  far  arrossire  ed  aver  vergogna 
di  noi  stessi,  i  quali  non  ostante  un  legame  sì  forte,  dal  quale  non 


772  DISCORSI    SOPRA    GLI   ANNALI   DI    TITO    LIVIO 

erano  avvinti  gli  antichi  Romani,  non  possiamo  arrivare  a  quella 
morale  ed  a  quelle  insigni  e  sublimi  virtù  da  loro  essercitate  ;  ed  a 
pochi  è  ciò  concesso,  «quos  aequus  amavit  Iuppiter»,1  quando  a 
questa  mèta  dovrebbero  tutti  aspirare,  usare  ogni  sforzo  e  porvi 
ogni  cura  e  studio  per  arrivarci.  Se  da  dovero  e  seriamente  gli  uo- 
mini a  ciò  riguardassero,  forse  il  clero  amerebbe  di  tornare  all'an- 
tica ecclesiastica  disciplina,  i  monaci  a'  primi  loro  austeri  instituti  ; 
anzi  i  secolari  stessi  dovrebber  popolare  i  boschi  e  le  solitudini  di 
romiti  e  di  anacoreti. 


PARTE  li 
DISCORSO  XVII 

Per  quali  cagioni  in  discorso  di  tempo  fossero  state  dcù  Romani 

proibite  d  cristiani  le  loro  chiese  o  siano  unioni,  riputandogli 

collegi  illeciti,  e  procurato  di  abolirli,  e  come  dapoiper  Costantino 

Jkf.  la  religione  cristiana  fosse  stata  ricevuta  nell'Imperio. 

I  Romani  non  furon  dapoi  mossi  ad  abolire  il  cristianesimo  nel- 
l'Imperio per  cagion  d'una  nuova  religione  che  i  cristiani  profes- 
sassero, ovvero  che  adorassero  come  un  nuovo  dio  Giesù  Nazareno. 
Se  le  cose  si  fossero  solo  in  ciò  ristrette,  non  l'avrebbero  certamente 
inquietati,  sicome  praticavano  nelle  altre  religioni  di  più  nazioni, 
alle  quali  lasciavano  libero  il  religioso  culto  de'  loro  patri  dii,  né 
niente  mutavano  de'  loro  riti  e  sacrifici:  e  se,  come  narra  Livio,2 
Paolo  Emilio,  giunto  ad  Oropo  dell'Attica,  trovò  che  quivi  adora- 
vasi  per  dio  Amfiloco  loro  indovino,  a  cui  avean  eretto  un  ameno 
tempio,  e  gli  lasciò  in  pace;  qual  difficoltà  poteano  avere  di  lasciare 
a'  cristiani  adorar  Cristo  per  loro  dio  ?  Tanto  maggiormente  che  a' 
questi  primi  tempi  non  l' avean  eretto  né  tempio,  né  altare  alcuno. 
Le  loro  chiese  non  altro  erano  che  assemblee  di  fedeli,  i  quali  si 
univano  insieme  nelle  private  case  ad  orare  e  cantar  divoti  inni  a 
Cristo,  e  frangere  il  pane  nelle  loro  cene,  secondo  che  in  sua  me- 
moria aveagli  Cristo  imposto  che  facessero.  E  da  ciò  che  narra  Elio 
Lampridio  dell'imperatore  Alessandro  Severo,3  si  conosce  che  que- 

i.  «quos .  . .  Iuppiter»:  Virgilio,  Aen.,  vi,  129-30  (a che  il  giusto  Giove 
amò»).  2.  come  narra  Livio:  cfr.  xlv,  27,  io.  3.  E  da  ad  . .  .  Severo: 
cfr.  in  Alexander  Severus,  xliii,  6,  in  cui  si  afferma  che  volle  Cristo  fra  gli 
dei,  e  lxix,  6,  in  cui  vi  è  il  passo  al  quale  si  fa  qui  riferimento. 


PARTE  II   •  DISCORSO   XVII  773 

sto  concetto  n'ebbero  i  savi  e  prudenti  romani  imperadori,  poiché 
contrastando  alcuni  osti  certa  parte  di  ospizio  a*  cristiani,  i  quali 
solevano  ivi  ragunarsi  a  lodare  Iddio  e  frangere  il  pane,  preten- 
dendo appropriarsela  e  mutarla  in  uso  di  cucina;  l'imperadore  ri- 
presse la  loro  ingordigia,  e  comandò  che  il  luogo  rimanesse  a*  cri- 
stiani, dicendo  che  qualunque  dio  o  in  qualunque  maniera  ivi  i 
cristiani  l'adorassero,  il  luogo  rimarrebbe  più  casto  e  puro,  che  se 
si  fosse  mutato  a  sozzo  e  vile  uso  di  cucina.  Non  furon  dunque  i 
Romani  mossi  a  proibire  a*  cristiani  le  loro  unioni  per  cagion  di 
religione,  ma  per  cause  riguardanti  la  pubblica  tranquillità  dello 
Stato,  e  perché  non  fossero  offese  le  pubbliche  leggi  e  cambiati  i 
loro  riti  e  gli  antichi  romani  costumi. 

Si  conobbe  in  discorso  di  tempo  che  questa  religione  si  andava 
allontanando  dalla  giudaica,  sicché  apparisse  nuova  e  tutt'altra.  E 
S.  Paolo  predicando  in  tutte  le  città  che  la  sola  fede  bastava  per 
giustificare  gli  uomini,  non  essendovi  bisogno  delle  opere  della 
legge,1  con  impegno  di  disobligare  gli  Ebrei  stessi  convertiti  dal- 
l'osservanza della  legge  mosaica,  si  venne  chiaramente  a  conoscere 
che  queste  fossero  due  religioni  varie  e  diverse  e  che  la  nuova  sor- 
gesse per  abbattere  l'antica  e  fosse  tutt'altra;  sicome  in  effetto  fu- 
ron dapoi  totalmente  divise  e  separate  le  chiese  dalle  sinagoghe 
degli  Ebrei.  Questa  adunque  riputandosi  tutta  nuova,  si  cominciò 
a  temere  non  la  sua  novità  potesse  cagionare  effetti  pregiudiziali 
al  pubblico  Stato,  i  quali  per  sì  lungo  tempo  non  avea  portato  alla 
loro  repubblica  la  religione  giudaica,  né  vi  era  timore  di  potergli 
recare  nell'avvenire;  poiché  questa  religione  si  mantenne  sempre 
ristretta  fra'  soli  Ebrei,  né  vi  era  pericolo  che  fosse  da  altri  abbrac- 
ciata, riputandosi  da  tutti  per  fanatica  e  stolta;  ed  erano  molto  lon- 
tani, per  professarla,  di  farsi  circoncidere  ed  astringersi  a  tante  ope- 
rose cerimonie,  e  spezialmente  di  rimanere  immobili  i  giorni  del 
sabato  senza  poter  operare  cos'alcuna.  All'incontro,  doppo  che  dal 
concilio  gerosolimitano2  fu  determinato  che  non  si  dovessero  ob- 
bligare i  gentili  a  giudaizare,  allora  la  cristiana  si  andava  sempre 
più  diffondendo;  poiché  non  dovendo  i  gentili  passare  sotto  il 

i.  E  S.  Paolo  .  . .  legge:  cfr.  Rom.,  3,  27-8.  2.  concilio  gerosolimitano:  verso 
il  49-50  d.  C.  gli  Apostoli  e  i  presbiteri  si  riunirono  a  Gerusalemme  per 
una  controversia  sollecitata  dai  giudaizzanti,  che  esigevano  la  circoncisione 
dei  pagani  convertiti  e  l'obbligo  alla  legge  mosaica  (vedi  Gal.,  2,  1-10  e 
Act.,  15,  1-35).  Cfr.  D.  Aulisio,  Delle  scuole  sacre  ecc.,  cit.,  n,  cap.  xxxm, 
P-  137. 


774  DISCORSI    SOPRA   GLI   ANNALI   DI   TITO    LIVIO 

giogo  giudaico,  ma  di  doversi  solamente  astenere  di  poche  cose, 
volontieri  era  da  tutti  abbracciata.  A  ciò  si  aggiunse,  come  fu  detto, 
la  credenza  che  da'  cristiani  si  avea  allora,  che  il  giorno  estremo 
dovesse  presto  arrivare;  onde  tutti  procuravano  affrettarsi,  e  di 
buon  animo  abbandonavano  e  padre  e  madre  e  fratelli,  e  quanto 
poteva  dargli  il  mondo  di  ricchezze,  di  piaceri  e  di  onori,  e  cerca- 
vano tesaurizare  in  cielo,  dove  aspiravano  di  dover  presto  godere 
una  vita  eterna  e  beata,  la  quale  era  certamente  da  preporsi  a  qua- 
lunque altra  vita  mondana,  la  quale  presto  finiva  ed  era  involta  di 
mille  calamità  e  miserie.  E  pure  nemmeno  il  prodigioso  numero, 
che  tuttavia  andava  per  ciò  crescendo  de'  credenti,  avrebbe  mosso 
i  Romani  a  vietarla. 

Le  potissime  cagioni  furono:  l.  perché  sicome  cresceva  il  nu- 
mero, così  crebbero  fra  que'  che  l'insegnavano  strane  e  portentose 
dottrine:  e  ciascuno  avendo  suoi  seguaci  fecesi  che  il  numero  de' 
falsi  e  depravati  cristiani  oscurasse  la  vera  e  semplice  dottrina  de* 
puri  cristiani.  Quante  sette  di  eretici  sursero  nello  stesso  I  secolo 
della  Chiesa  ?  a'  tempi  stessi  di  S.  Paolo  e  di  S.  Giovanni  ?  E  sempre 
maggiormente  si  vide  crescere  il  lor  numero  ne'  due  seguenti  secoli. 
Niuno  senza  stupore  non  potrà  leggere  i  cataloghi  che  ne  formarono 
gli  scrittori  ecclesiastici  non  meno  moderni  che  antichi.  I  nicolaiti, 
gli  ebioniti,  i  seguaci  di  Cerinto,  i  catafrigi,  i  pepuziani,  gli  euchiti, 
gli  gnostici  e  tanti  altri.1  Né  può  dubbitarsi  che  tanto  male  non 
derivasse  dalla  scuola  di  Alessandria.2  Sicome  Antiochia  ci  diede 
il  nome  di  cristiani,  così  la  Chiesa  di  Alessandria  diede  a  noi  i  primi 
teologi.  I  gentili,  sicome  fu  detto  nella  I  parte,  aveano  altra  sorte 
di  teologia,  ed  in  altra  guisa  l'adoperavano  ;  ma  i  nostri  primi  teo- 
logi, non  contenti  della  semplice  e  piana  via  delle  Sacre  Scritture, 
poiché  in  Alessandria  fioriva  il  celebre  Museo  ove  s'insegnava  la 
filosofia  di  Platone  e  poi  vi  fu  anche  introdotta  quella  di  Aristotele, 
cominciarono  a  mescolare  la  sacra  dottrina  colla  profana  filosofia, 
sicché  da  Alessandria  ne  uscirono,  come  dal  cavallo  troiano,  tanti 
strani  e  fantastici  teologi,  i  quali  con  opinioni  nuove  e  stravolte 


1. 1  nicolaiti . . .  altri:  il  Giannone  trae  informazione  da  sant'Agostino,  De 
kaeresibus  ad  Quodvultdeum  liber  unus  (in  Mxgne,  P.  L.f  xlii,  coli.  21-51). 
Cfr.  più  oltre  le  pagine  dell'Apologia  de1  teologi  scolastici.  2.  scuola  di  Ales- 
sandria: il  Giannone  riassume  un  tema  dell'Aulisio,  che  dedica  alla  scuola 
alessandrina  di  teologia  una  gran  parte  delle  sue  Scuole  sacre  (cfr.  n,  cap. 
n,  p.  io,  Che  'n  Alessandria  ebbe  la  teologia  la  sua  prima  origine). 


PARTE   II   •  DISCORSO   XVII  775 

turbarono  le  chiare  e  limpide  acque  del  Nuovo  Testamento,  e  die- 
dero in  eresie  pur  troppo  mostruose  e  fantastiche.  Ed  essendosi 
dapoi  sparso  il  nuovo  metodo  presso  i  fervidi  cervelli  africani, 
questi  finirono  di  render  tutto  guasto  e  corrotto.  Quindi  tante  fre- 
netiche opinioni,  tante  inutili  questioni,  infinibili  ed  interminate 
genealogie,  e  tante  dispute  vane,  onde  S.  Paolo  cotanto  inculcava 
ed  ammoniva  i  suoi  che  le  sfuggissero.1  Quindi  tanti  sconci  errori, 
ed  opinioni  le  quali  erano  sostenute  da'  loro  dottori  con  non  minor 
pertinacia  che  strepito,  furore  e  contrasto.  Vi  furono  di  quelli,  i 
quali  non  contenti  di  commendare  il  celibato,  come  uno  stato  più 
puro  e  mondo  del  coniugale,  insegnavano  a*  novelli  cristiani  che 
affatto  dovessero  astenersi  dalle  nozze,  e  che  il  matrimonio  fosse 
un  ritrovato  del  diavolo.  Altri  che  dovessero  almanco  astenersi 
dalle  seconde  nozze,  e  proibivano  affatto  le  terze,  e  molto  più  le 
quarte:  e  vi  furon  anche  di  quelli  che  volevano  che  ogni  cosa  fra' 
cristiani  fosse  comune,  eziandio  le  mogli.  Gli  appostoli  ed  i  seniori 
di  Gerusalemme  furono  contenti  che  i  gentili  convertiti  si  astenes- 
sero solamente  d'immolare  agli  idoli,  di  cibarsi  del  sangue  e  delle 
carni  delle  ostie  immolate;  ma  questi  novelli  dottori,  tirando  più 
innanzi  il  rigore,  insegnavano  che  gli  artefici,  i  quali  vivevano  del 
guadagno  della  scultura  e  de'  loro  lavori  in  formar  statue  o  di- 
pinture de'  dii  o  altre  opere  appartenenti  alla  religione  pagana,  si 
astenessero  affatto  di  più  essercitare  il  lor  mestiere;  anzi  si  proibiva 
a'  mercanti  di  vender  incenso  a'  gentili,  i  quali  non  l'impiegassero 
ad  altro  uso  se  non  per  brugiarlo  avanti  gli  altari  de'  loro  dii. 
Leggasi  Tertulliano,  il  quale  s'infervora  ed  imperversa  cotanto  con- 
tro gli  scultori  degl'idoli,  che  vorrebbe  che  gli  fossero  troncate  le 
mani.*  I  consigli  di  S.  Paolo,  di  astenersi  i  fedeli  dalle  liti,3  si  da- 
vano per  precetti;  e  s'inculcava  a'  convertiti  che  non  piatissero  più 
avanti  giudici  e  magistrati  gentili,  ma  per  via  di  amicabile  composi- 
zione terminassero  le  loro  liti.  In  fine  si  pose  in  dubbio  se  i  cristiani 
potessero  ascriversi  nella  milizia  romana  e  militare  sotto  gl'impe- 
radori  gentili;  e  Tertulliano  riputava  idolatri  que'  soldati  cristiani 
i  quali,  sicome  era  il  militar  costume,  si  ornavano  della  corona  di 
alloro,  come  ad  Apollo,  falso  nume,  consecrata.4 

i.  dispute  .  .  .  sfuggissero  :  cfr.  ad  esempio  II  Tim.,  2, 14  e  23.  2.  Leggasi .  .  . 
mani  :  nel  De  idololatriat  cap.  vii  (in  Migne,  P.  L.,  1,  col.  745).  3.  dalle 
Itti:  cioè  dal  ricorrere  in  giudizio;  cfr.  I  Cor.,  6,  1  sgg.  4.  e  Tertulliano  .  .  . 
consecrata:  cfr.  De  idololatrta,  cap.  xv  (in  Migne  cit.,  coli.  759  sgg.). 


776  DISCORSI    SOPRA    GLI   ANNALI    DI    TITO    LIVIO 

I  Romani,  se  bene  nella  loro  repubblica  ammettessero  più  collegi, 
e  davan  loro  facoltà  di  statuire  quelle  convenzioni  e  regole  che 
fossero  alla  società  più  utili  e  salutari;  nulladimanco  queste  si  per- 
mettevano, purché  per  esse  non  si  offendessero  le  pubbliche  leggi 
e  gli  antichi  romani  costumi.  Si  proibivano  perciò  e  dannavano 
tutti  que'  collegi,  ed  erano  riputati  illeciti  e  meritevoli  di  castigo 
le  persone  che  gli  componevano,  quando  si  scrovrisse  che  ivi  si 
trattasse  di  cosa  che  fosse  contro  gl'instituti  romani  e  le  pubbliche 
leggi.  E  poiché  le  nuove  ed  erronee  dottrine  sparse  posero  in  so- 
spetto che  tali  fossero  le  assemblee  de'  cristiani,  furono  per  ciò 
proibite  e  riputate  collegi  illeciti,  ed  imposta  pena  a  chi  li  convo- 
casse, e  spezialmente  in  Oriente,  ov'erano  più  frequenti;  e  Plinio 
il  Giovane  narra  di  sé,  mentre  amministrava  le  provincie  di  Bitinia 
e  di  Ponto,  averle  ivi  proibite  per  suo  editto,  eseguendo  gli  ordini 
avutine  dall'imperadore  Traiano.1 

11.  Si  aggiunse,  per  accrescere  il  rigor  delle  pene,  che  fra'  cri- 
stiani stessi,  anche  intorno  a'  costumi,  sursero  de*  cattivi  e  perversi 
i  quali  contaminarono  la  fama  de'  buoni:  ed  i  Romani  che  non 
sapevano  discernere  gli  uni  dagli  altri,  ne  fecero  un  sol  fascio,  e 
per  le  sceleratezze  di  pochi  si  credette  che  tutti,  come  di  una  setta 
prava  e  pertinace,  fossero  da  abominarsi,  e  che  il  solo  nome  di 
cristiano  fosse  bastante  delitto  per  punirgli.  Surse  fama,  forse  per 
dissolutezza  di  alcuni,  ch'essendo  soliti  convenire  i  cristiani  in- 
sieme di  notte  tempo  avanti  che  spuntasse  l'aurora  nelle  private 
lor  case  in  certi  statuiti  giorni,  e  quivi  uomini  e  donne  ponendosi 
a  cantar  inni  a  Cristo,  apparecchiavan  le  cene  e  mangiavano  e 
beveano  :  che  nel  silenzio  della  notte  tra  le  vivande  ed  il  vino,  me- 
scolati insieme  maschi  e  femmine  si  contaminassero  di  varie  e  sozze 
libidini;  e  che  nelle  lor  cene  si  cibassero  di  carne  e  del  sangue 
de'  loro  fanciulli  immolati:  confondendo  ciò  che  Cristo  in  sua 
commemorazione  aveagli  prescritto,  di  cibarsi  del  pane  come  sua 
carne,  e  bere  del  vino  come  suo  sangue.  Ed  in  effetto  de'  falsi 
cristiani,  spezialmente  de'  catafrigi  e  pepuziani,  si  raccontavano 
molti  infanticidi,  de'  quali  non  si  dimenticò  S.  Agostino  nel  cap. 
58  del  xviii  libro  della  sua  Città  di  Dio,2  li  quali  solevano  pungere 

1.  e  Plinio  . .  .  Traiano:  cfr.  Epist.,  x,  xcvn  (xcvi)>  7.  2.  nel  cap.  58  . .  . 
Dio:  ma  non  corrisponde,  perché  il  libro  xvm  ha  solo  cinquantaquattro  ca- 
pitoli. Inoltre  non  vi  è  traccia  in  quest'opera  di  tali  temi.  Cfr.  piuttosto 
De  haeresibus  cit.  (in  Migne,  P.  L.t  xlii,  col.  30,  riferito  ai  catafrigi). 


PARTE   II   •  DISCORSO   XVII  777 

con  spilletti  le  tenere  carni  de'  bambini,  e  del  sangue  spremuto 
mischiato  con  farina  farne  il  pane,  del  quale  si  servivano  nell'Eu- 
caristia; e  lo  stesso  facevano  gli  euchiti  ed  i  gnostici,  secondo  che  S. 
Agostino  stesso  scrive  a  Quodvuldeo.1  Si  credette  per  ciò  che  i 
cristiani  in  queste  cene  avesser  per  pasto  la  carne  de'  loro  bambini 
e  per  bevanda  il  di  lor  sangue.  Quindi  dagli  scrittori  romani,  che 
fiorirono  ne'  secoli  di  Nerone,  de'  Vespasiani,  di  Nerva,  di  Traiano 
e  de'  seguenti  imperadori  fino  a  Costantino  M.,  furono  i  cristia- 
ni nelle  loro  opere  aspramente  trattati,  spezialmente  da  Tacito, 
da  Svetonio,  Plinio  il  Giovane,  Ulpiano  ed  altri:  credendo  che  i 
cristiani,  per  la  dissolutezza  di  pochi,  fossero  tutti  perniciosi  e  di- 
struttori de'  buoni  costumi  e  delle  pubbliche  leggi,  e  doversi  avere 
come  nemici  del  genere  umano.  Cominciarono  per  ciò  tali  unioni 
a  riputarsi  per  esecrande,  non  altrimente  che  le  assemblee,  che  pur 
di  notte  si  tenevano  da  uomini  e  donne  baccanti  ne'  sacrifici  di 
Bacco,  ove  non  vi  era  scelleragine  della  quale  non  si  contaminas- 
sero, come  si  è  rapportato  nella  I  parte  parlando  de'  baccanali, 
che  fu  duopo  da  Roma  e  da  tutta  Italia  abbolirgli  ed  affatto  ster- 
minargli. 

ni.  In  fine  furono  i  Romani  spinti  a  vietare  a'  cristiani  le  loro 
chiese,  poiché  sempre  più  crescendo  il  di  lor  numero  nelle  Pro- 
vincie dell'Imperio  spezialmente  nell'Asia  e  nella  Grecia,  veniva 
visibilmente  a  scemarsi  il  culto  a'  loro  dii.  Ed  era  impresa  molto 
facile  a'  Padri  della  Chiesa  di  manifestare  la  vanità  di  tanti  numi 
e  la  superstizione  colla  quale  erano  adorati,  ed  i  più  savi  ed  accorti 
Romani  stessi  si  erano  internamente  già  persuasi  e  convinti  ;  sicome 
fu  dimostrato  nella  i  parte  e  sicom'è  manifesto  da'  libri  di  Varrone, 
de'  quali  S.  Agostino  ci  conservò  buona  parte,  da'  libri  di  Lucrezio, 
dall'opere  di  Cicerone,  dagli  Annali  di  Livio,  dall'  Istoria  naturale 
di  Plinio  e  di  tanti  altri.  Per  questa  nuova  religione  adunque,  che 
ruinava  l'antica  pagana,  vedeansi  i  loro  tempii  non  esser  più  fre- 
quentati come  prima;  e  le  vittime  che  s'immolavano  non  trovavano 
compratori,  ed  i  macellari  non  più  le  volevano,  poich' essendo  proi- 
bito a'  cristiani  di  mangiar  carne  di  vittime  immolate,  niuno  andava 
da  loro  a  comprarla;  e  per  ciò  i  sacrifici  erano,  spezialmente  in 
Oriente,  quasi  che  all'intutto  intermessi.  Per  ciò  da'  zelanti  e  te- 
naci dell'antica  romana  religione  erano  i  cristiani  chiamati  atei, 

i.  secondo  . . .  Quodvuldeo:  cfr.  De  haeresibus,  loc.  cit. 


77$  DISCORSI    SOPRA    GLI   ANNALI    DI    TITO    LIVIO 

sacrilegi  ed  empi,  i  quali  niente  curassero  de'  loro  dii  né  de'  loro 
sacrifici,  e  che  gli  beffassero  e  deridessero  come  vani  e  superstiziosi  ; 
onde  ogni  sinistro  successo  che  avveniva  alla  loro  repubblica,  per 
render  più  odiosi  i  cristiani,  imputavan  che  ne  fosser  essi  la  cagio- 
ne, e  che  per  ciò  i  dii  sdegnati  l'affliggessero,  vedendo  che  si  tolle- 
ravano tanti  uomini  sacrileghi  e  contumeliosi  a7  numi.  Quindi  fu 
data  occasione  a  S.  Agostino,  per  convincergli  dell'errore,  di  scri- 
vere i  libri  della  Città  di  Dio,  e  ad  Orosio  la  sua  Orchestra,1  per  la 
quale  acquistossi  l'encomio  di  «avvocato  de'  cristiani»  e  che  me- 
ritasse da  Dante  esser  per  ciò  posto  in  paradiso  fra  gli  altri  grandi 
dottori  della  Chiesa.2 

Per  queste  cagioni  furon  mossi  i  Romani  a  proibire  le  chiese  a' 
cristiani  e  prendere  di  lor  castigo.  Ma  questo  castigo,  secondo  che 
diversa  era  l'indole  degl'imperadori  così  fu  vario,  non  mai  unifor- 
me. Sotto  gl'imperatori  universalmente  riputati  crudeli  e  barbari, 
sicome  furono  Nerone  e  Domiziano,  le  persecuzioni  furono  fiere 
ed  inumane,  sempre  però  cercandosi  pretesto  per  punirgli  con  pe- 
na di  morte  o  imputandogli  gravi  delitti,  sicome  fece  Nerone,  il 
quale  gli  calunniò  avere  i  cristiani  attaccato  il  fuoco  in  più  parti 
della  città  di  Roma,  per  rimover  da  sé  la  colpa:  ovvero  di  aver  mosse 
sedizioni  e  tumulti  o  violate  le  statue  de'  dii  o  degl'imperadori  o 
altri  consimili  eccessi;  e  Tacito  istesso,  ancorché  avverso  a'  cristia- 
ni, non  potè  tacere  che  la  strage,  che  ne  fece  far  Nerone  nel  x°  anno 
del  suo  imperio,  fu  sotto  il  pretesto  di  avere  incendiata  Roma:  il 
che  fu  dato  facilmente  a  credere  al  volgo,  per  essere  i  cristiani,  per 
le  cagioni  già  dette,  a  tutti  odiosi;  ma  con  tutto  ciò  Tacito  non  potè 
non  condannare  l'azione  per  barbara,  crudele  ed  inumana.3  E  se 
questo  tiranno  non  la  perdonò  alla  propria  madre,  al  fratello  ed 
al  suo  maestro  Seneca,  qual  maraviglia  se  quattro  anni  dapoi  fa- 
cesse morire  in  Roma  le  due  principali  basi  della  Chiesa,  gli  appo- 
stoli Pietro  e  Paolo  ?  Ma  sotto  gl'imperadori  savi,  prudenti  e  pii, 


i.  Orchestra:  è  il  titolo  che  alcuni  codici  danno  ai  sette  libri  delle  Histo- 
riae  di  Paolo  Orosio:  cfr.  in  Migne,  P.  L.,  xxxi,  col.  642,  le  osservazioni 
in  proposito  dell'Havercamp.  Vedi  anche  in  Triregno,  ni,  p.  117.  2.  ac- 
quistossi .  .  .  Chiesa-,  cfr.  Par.,  x,  119:  «quello  avvocato  de'  tempi  cri- 
stiani ...  ».  NelTidentificare  questo  personaggio  i  commentatori  antichi 
sono  divisi  fra  sant'Ambrogio  e  Paolo  Orosio.  Sostenitore  di  quest'ultima 
tesi  il  Buti:  «e  però  dice  [Agostino]  che  Orosio  fu  "avvocato  dei  tempi 
cristiani",  cioè  difenditore ».  3.  e  Tacito  .  .  .  inumana:  cfr.  Ann.,  XV, 
XLIV,  3-9. 


PARTE   II   •  DISCORSO   XVII  779 

non  erano  inquietati,  sicome  furono  sotto  Vespasiano,  Tito,  Nerva, 
Adriano,  Alessandro  Severo  ed  altri  di  consimil  tempra.  E  che 
maraviglia  è,  se  Domiziano  avesse  relegato  nell'isola  di  Patmos 
l'appostolo  Giovanni,  quando  questi  per  giudicio  universale  era 
riputato  il  più  sozzo  mostro  che  avesse  prodotto  la  natura,  crudele, 
ladrone,  empio  e  malvaggio,  sicché  debitamente  fu  ucciso  per  li- 
berar l'Imperio  di  un  sì  barbaro  tiranno  ? 

E  se  bene  a'  tempi  di  Traiano,  sotto  cui  accadde  il  martirio  di 
Simeone  II  vescovo  di  Gerusalemme,  fossero  minacciati  a'  cri- 
stiani gli  ultimi  supplici,  non  se  non  rade  volte  si  veniva  a  pena 
capitale,  dandosi  luogo  al  pentimento;  e  bastava  per  sottrargli  da 
ogni  pena,  ed  esserne  mandati  liberi  nelle  lor  case,  se  promettes- 
sero di  non  volerci  più  essere.1  Non  si  ricevevano  accuse,  senza  che 
i  libelli  non  fossero  sottoscritti  dagli  accusatori,  i  quali  doveano 
provare  i  delitti;  e  non  provati  erano  come  calunniatori  puniti. 
Non  si  faceva  contro  di  loro  inquisizione  alcuna.  E  si  ricercava  per 
punirgli  con  pena  di  morte  più  il  delitto  che  la  meritasse,  che  la 
credenza  o  il  solo  nome  di  esser  cristiano.  Di  questa  pratica  giudi- 
ciaria  tenuta  da'  magistrati  romani  in  punirgli,  n'è  a  noi  rimaso 
vestigio  in  una  epistola  di  Plinio  il  Giovane,  ed  in  un  rescritto 
dello  stesso  imperadore  Traiano.2  L'ordine  giudiciario  era  questo. 
Se  nelle  provincie  erano  accusati  avanti  i  presidi  o  proconsoli,  e 
convinti  o  confessi  non  ostinandosi  nella  loro  credenza  volevan 
abiurarla,  tanto  bastava  per  esser  liberati.  Se  si  trovavano  godere 
della  cittadinanza  romana,  i  presidi  non  p  rende van  della  causa 
conoscenza,  ma  gli  mandavano  in  Roma,  dove  da  que'  magistrati 
eran  puniti  con  quelle  pene  solite  praticarsi  co'  cittadini  romani. 
Se  i  rei  erano  provinciali,  i  supplici  erano  secondo  il  costume  pra- 
ticato in  ciascuna  provincia.  E  secondo  il  maggiore  o  minor  nume- 
ro che  se  ne  scovrivano,  il  rigore  si  accresceva,  o  rallentava.  Nelle 
Provincie  di  Oriente  come  in  quelle,  ch'essendo  state  le  prime,  il 
numero  de'  cristiani  era  prodigiosamente  cresciuto,  onde  i  tempii 
eran  quasi  che  desolati,  i  sacrifici  intermessi,  né  per  le  vittime  tro- 
vavasi  compratore,  si  pensò  di  proposito  a  darci  riparo,  affinché  la 
superstiziosa  contagione,  come  i  Romani  la  credevano,  più  non 
s'inoltrasse.  E  pure,  ancorché  il  numero  fosse  cotanto  cresciuto, 


i.  di  non  volerci  più  essere:  cioè,  di  non  voler  più  essere  cristiani.     2.  Di 
questa . .  .  Traiano:  cfr.  Epist.,  x,  xcvn  (xcvi)  cit.,  e  xcvm  (xcvn). 


780  DISCORSI    SOPRA    GLI   ANNALI   DI    TITO    LIVIO 

non  si  praticava  altro  rigore  che  il  già  detto.  Trovandosi  Plinio  il 
Giovane  a  governare  con  potestà  consolare  le  provincie  di  Bitinia 
e  di  Ponto,  atterrito  dal  gran  numero  e  perch'egli  non  era  giamai 
intervenuto  a  tali  questioni  contro  i  cristiani,  né  sapeva  ciò  che 
ne'  medesimi  dovesse  punire,  se  i  delitti  che  se  l'imputavano  nelle 
loro  notturne  assemblee  commettere,  ovvero  la  loro  superstiziosa 
credenza,  ancorché  non  fosse  contaminata  di  alcun  misfatto,  stimò 
di  ricorrere  alTimperadore  Traiano  affinché  gli  dasse  istruzioni  co- 
me dovesse  regolarsi  nella  conoscenza  di  tali  cause.  Il  numero 
de'  cristiani  in  queste  due  provincie  era  sì  grande,  che  n'eran  pieni, 
non  pur  le  città,  ma  eziandio  i  vichi  e  le  ville  stesse,  che  sono  le  più 
tarde  a  deporre  e  cambiare  i  loro  antichi  costumi  ed  instituti:  «Ne- 
que  enim  (scrive  a  Traiano  lib.  io,  ep.  97)  civitates  tantum,  sed 
vicos  etiam  atque  agros  superstitionis  istius  contagio  pervagata 
est;  quae  videtur  sisti  et  corrigi  posse».1 

Più  cose  dimandava  Plinio  a  Traiano  per  sua  norma  e  direzione. 
Primieramente  non  sapendo  la  maniera,  e  che  cosa  dovesse  ne' 
cristiani  punirsi  o  ricercarsi,  chiedevagli  se  dovesse  farsi  distin- 
zione di  sesso,  di  età,  di  ordine,  e  separare  i  forti  ed  i  robusti  da' 
deboli  ed  invalidi;  poich'erano  deferiti  ed  accusati  e  maschi  e 
femmine,  e  giovani  e  vecchi,  e  nobili  ed  ignobili,  e  validi  ed  imbe- 
cilli: «Multi  enim,  »  e'  dice  «omnis  aetatis,  omnis  ordinis,  utriusque 
sexus  etiam  vocantur  in  periculum,  et  vocabuntur».2  E  pria  aveagli 
ricercato:  «sitne  aliquod  discrimen  aetatum,  an  quamlibet  teneri 
nihil  a  robustioribus  differant».3  Per  il  dimandava  se  si  dasse  luogo 
alla  penitenza,  ovvero  bastasse  per  punirgli  di  essere  stati  cristiani, 
ancorché  poi  non  lo  fossero:  «Detur  ne  paenitentiae  venia,  an  ei 
qui  omnino  christianus  fuit,  desiisse  non  prosit  ».  Per  in  se  debba 
punirsi  il  cristiano  per  lo  sol  nome,  ancorché  non  si  trovasse  aver 
commesso  alcun  delitto,  0  pure  i  delitti  al  nome  coerenti:  «Nomen 
ipsum,  etiam  si  flagitiis  careat;  an  flagitia  coherentia  nomini  pu- 
niuntur».4  Per  rv  se  dovea  prenderne  conoscenza  per  via  d'cùnqui- 
sitione»,  ovvero  de'  solo  deferiti  ed  accusati.  Per  v  se  dovea  rice- 


1.  «-Neque  enim  — posse»:  Epist.,  x,  xcvn  (xcvi),  9  («. . .  che  sembra  pos- 
sibile arrestare  e  correggere»).  2.  a  Multi  enim  .  .  .  vocabuntur»:  cfr.  ibid. 
(è  la  frase  immediatamente  prima  di  quella  sopra  citata).  3.  a  sitne  aliquod 
. .  .  differant»:  cfr.  ibid.,  2  («se  si  debba  tener  conto  dell'età,  o  se,  per 
quanto  tali,  i  giovinetti  in  nulla  debbano  differire  dagli  adulti»),  4.  «De- 
tur ne  paenitentiae  .  .  .puniuntur»:  cfr.  ibid.  (si  legga  «puniantur»). 


PARTE    II   •  DISCORSO   XVII  781 

vere  libelli  di  accuse  senza  soscrizione  degli  accusatori,  e  conoscere 
per  punirgli  sopra  i  nomi  solamente  di  quelli  che  si  erano  deferiti. 

Espone  Plinio  a  Traiano  la  maniera  ch'egli  intanto  praticava 
nella  conoscenza  delle  cause  de'  cristiani,  i  quali  erano  a  lui  defe- 
riti. Inprima  gli  domandava  se  erano  cristiani.  Se  confessavano 
di  esserci,  gli  minacciava  il  supplicio  se  non  abiurassero.  Chia- 
mavagli  poi  la  seconda  volta  e  gPinterrogava  lo  stesso  :  se  persiste- 
vano nella  prima  confessione,  tornava  a  minacciargli  il  supplicio 
se  in  ciò  si  ostinassero.  Dapoi  la  terza  volta  richiamati,  se  si  mo- 
stravano duri  ed  ostinati,  comandava  che  vi  fossero  menati.  Non 
può  negarsi  che  Plinio  in  ciò  usavagli  sommo  rigore,  e  si  portasse 
con  molta  inclemenza  per  quello  stesso,  ch'egli  soggiunge,  per  sua 
discolpa  all'imperatore;  poiché  confessa  che  se  bene  in  molti  non 
vi  conoscesse  delitto,  il  qual  meritasse  la  morte,  pure  gli  conden- 
nava  per  la  sola  pervicacia  ed  ostinazione  che  mostravano,  dicendo  : 
«  Neque  enim  dubitabam,  qualecumque  esset  quod  faterentur,  per- 
vicaciam  certe  et  inflexibilem  ostinationem  debere  puniri».1  Se 
Plinio  stimava  doversi  punire  la  loro  costanza,  ch'egli  chiama  osti- 
nazione e  pervicacia,  si  potrebbe  condonare  alla  diversità  delle  reli- 
gioni e  di  essere  i  Romani  allora  troppo  lontani  di  credere  al  Van- 
gelo; ma  la  punizione  non  dovea  estenderla  cotanto  fino  a  pena 
capitale.  Se  egli  riputava  i  cristiani  pazzi  ed  illusi,  bastavano  rele- 
gazioni, esìli,  carceri  e  consimili  pene  estraordinarie,  giacché  non 
trovava  in  essi  delitti  capitali  che  meritassero  morte. 

Prosiegue  a  dire  che  di  questi  ostinati,  avendone  trovati  alcuni, 
i  quali  erano  cittadini  romani,  egli  aveagli  separati  dagli  altri  per 
mandargli  in  Roma:  «Fuerunt  alii  similis  amentiae,  quos,  quia 
cives  romani  erant,  annotavi  in  urbem  remittendos».3  Riferisce 
dapoi  i  vari  casi  occorsigli  nel  tratto  del  tempo,  diffondendosi  sem- 
pre più,  com'è'  dice,  la  contagione.  Gli  fu  presentato  un  libello 
senza  soscrizione  dell'autore,  il  quale  conteneva  più  nomi  di  coloro 
ch'erano  imputati  di  essere  cristiani:  e  fattigli  venire  avanti  di 
lui,  alcuni  negavano  di  essere  cristiani,  o  di  esservi  mai  stati; 
ond'egli,  secondo  che  praticavasi  da'  magistrati  romani,  per  mag- 
giormente assicurarsi  del  vero,  facendo  portare  avanti  di  lui  le 
statue  de'  dii  e  l'immagine  dell'imperadore,  l'obbligava  ad  invo- 
cargli e  render  loro  supplicazioni  con  vino  ed  incenso;  e  di  van- 

1.  Espone  Plinio  . .  .  puniri:  cfr.  ibid.>  3.  2.  «  Fuerunt .  .  .  remittendos »:  cfr. 
ibid.,  4. 


782  DISCORSI    SOPRA   GLI   ANNALI   DI    TITO    LIVIO 

taggio,  maledire  a  Cristo  ;  e  ciò  fatto  gli  mandava  liberi.  Questo  era 
un  segno  indubbitato  che  veramente  non  fossero  cristiani  ;  poiché 
i  veri  cristiani  soffrivano  più  tosto  mille  tormenti  e  morti  che  male- 
dir Cristo  ;  anzi  volontieri  incontravano  la  morte,  che  per  essi  era 
un  sicuro  pegno  di  futura  vita  beata  ed  eterna.  Ecco  le  parole  di 
Plinio:  «Propositus  est  libellus  sine  auctore,  multorum  nomina 
continens  qui  negarent  se  esse  christianos,  aut  fuisse  ;  quum  prae- 
sente  me,  deos  appellarent,  et  imagini  tuae,  quam  propter  hoc 
iusseram  cum  simulacris  numinum  afferre,  thure  ac  vino  suppli- 
carent;  praeterea  maledicerent  Christo;  quorum  nihil  cogi  posse 
dicuntur,  qui  sunt  re  vera  christiani,  dimittendos  putavi».1  Trovò 
degli  altri  dall'indice  nominati,  i  quali  prima  dissero  essere  cri- 
stiani, dapoi  subito  negarono.  Altri,  che  furono,  ma  che  dapoi 
lasciarono  di  esserci,  chi  tre  anni  avanti,  chi  più  anni  ed  alcuni 
eziandio  venti  anni.  Tutti  questi,  doppo  avere  adorati  i  simulacri 
de*  dii  e  l'immagine  di  Cesare  e  maledetto  Cristo,  furon  rilasciati: 
«  omnes  et  imaginem  tuam,  deorumque  simulacra  venerati  sunt,  ii 
et  Christo  maledixerunt  ».2  Plinio,  secondo  che  sentiva  variamente 
parlare  di  queste  unioni  de'  cristiani,  dubbitando  non  sotto  il  manto 
di  religione  si  covrissero  in  quelle  notturne  assemblee  sozze  libi- 
dini, infanticidi  ed  altre  sceleratezze,  sicome  accadde  in  Roma,  che 
sotto  pretesto  di  render  sacrifici  a  Bacco,  si  commettevano  ne* 
Baccanali  esecrande  enormità;  volle  far  perquisizione  ed  indagine 
di  ciò  che  i  cristiani  facevano  in  quelle  antelucane  radunanze;  ed 
avendo  esaminati  que'  cristiani,  che  prima  furon  tali  e  poi  lascia- 
rono di  esserci;  sicome  avendo  posto  ne'  tormenti  due  femmine, 
delle  quali  i  cristiani  si  valevano  per  lor  ministre:  non  ricavò  altro 
che  in  certi  statuiti  giorni  avanti  l'aurora  s'univano  insieme,  e  fra 
di  loro  a  vicenda  cantavano  inni  a  Cristo  come  a  lor  dio  :  che  s'era- 
no con  giuramento  astretti  a  quella  società,  non  per  commettervi 
qualche  delitto  o  scelleragine,  sicom'erano  astretti  coloro  che  vole- 
vano iniziarsi  a  Bacco,  anzi  che  si  obbligavano  di  astenersi  da'  furti, 
ladrocini,  adultèri,  non  ingannar  alcuno:  esser  fedeli  ne'  depositi 
e  serbar  fede  a  tutti  (ch'erano  que'  precetti  a'  quali  obbligava  loro 
il  decalogo).  Che  si  tornavan  poi  ad  unire  a  cibarsi,  ma  di  cibo 
promiscuo  ed  innocuo,  non  già  come  l'avea  divolgati  la  fama,  che  si 
cibassero  della  carne  de'  loro  fanciulli  e  beessero  del  lor  sangue. 

1.  «Propositus  est . .  .putavi»:  cfr.  ibid.,  5.     z.  Trovò  degli  altri .  . .  male- 
dixerunt:  cfr.  ibid.,  6. 


PARTE   II    •  DISCORSO   XVII  783 

In  breve,  Plinio  stesso  non  potè  imputargli  di  altro  se  non  d'una 
prava  e  soverchia  superstizione.  Ecco  ciò  ch'egli  riferì  a  Traiano  di 
questa  perquisizione  fatta,  ed  esame  preso  da'  rinegati  stessi  cri- 
stiani: «AfErmabant  autem  hanc  fuisse  summam  vel  culpae  suae, 
vel  erroris;  quod  essent  soliti  stato  die  ante  lucem  convenire:  car- 
menque  Christo,  quasi  deo,  dicere  secum  invicem:  seque  sacra- 
mento non  in  scelus  aliquod  obstringere,  sed  ne  furta,  ne  latrocinia, 
ne  adulteria  committerent,  ne  fidem  fallerent,  ne  depositum  appel- 
lati abnegarent:  quibus  peractis  morem  sibi  discedendi  fuisse:  rur- 
susque  coeundi  ad  capiendum  cibum,  promiscuum  tamen  et  inno- 
xium:  quod  ipsum  facere  desiisse  post  edictum  meum,  quo  se- 
cundum  mandata  hetaerias  esse  vetueram.  Quo  magis  necessarium 
credidi  ex  duabus  ancillis,  quae  ministrae  dicebantur,  quid  esset 
veri,  et  per  tormenta  quaerere.  Sed  nihil  aliud  inveni,  quam  su- 
perstitionem  pravam  et  immodicam».1 

Credea  Plinio,  e  così  scrisse  all'imperadore  Traiano,  che  se  bene 
il  numero  de'  cristiani  in  quelle  provincie  fosse  cotanto  cresciuto, 
nulladimanco  che  potesse  reprimersi  ed  emendarsi,  massimamente 
se  si  dasse  luogo  al  pentimento.  Ch'egli  avendo  per  suo  ordine 
promulgato  editto,  col  quale  proibì  a'  cristiani  le  loro  ragunanze, 
aveale  fatte  cessare;  e  ch'era  manifesto  che  quando  prima  i  tempii 
erano  quasi  che  desolati,  cominciavasi  in  quelli  a  celebrare,  ed  a 
ripigliarsi  i  solenni  sacrifici  da  gran  tempo  intermessi;  e  che  le  vit- 
time le  quali  prima  non  trovavano  compratori,  cominciavano  a 
vendersi  ;  onde  dava  speranza  a  Traiano  che  concedendosi  perdono 
a  coloro,  che  se  ben  cristiani,  non  volessero  più  esserci,  il  numero 
di  tanti  si  potrebbe  emendare.  «  Certe  satis  constat»  gli  scrive  «pro- 
pe  iam  desolata  tempia  coepisse  celebrari  et  sacra  solemnia  diu 
intermissa  repeti:  passimque  venire  victimas,  quarum  adhuc  raris- 
simus  emptor  inveniebatur.  Ex  quo  facile  est  opinari,  quae  turba 
hominum  emendali  possit,  si  sit  poenitentiae  locus».2  Nel  che 
molto  s'ingannava;  poiché  se  la  conversione  di  tanti  fosse  derivata 
da  opera  ed  industria  umana,  avrebbe  egli  potuto  sperarne  emenda; 
ma  venendo  da  Dio,  mostrossi  assai  più  savio  Gamaliele,  il  quale 
persuase  a'  seniori  ed  al  concilio  degli  Ebrei  di  non  inquietare  gli 
appostoli,  ma  lasciargli  nella  loro  libertà;  poiché  se  il  lor  potere 
veniva  da  Dio,  non  l'avrebber  con  tutti  i  loro  sforzi  potuto  abbat- 

1.  «Affirmabant  autem  . .  .  immodicam»:  cfr.  ibid.,  7-8.     2.  «Certe  satis  .  .  . 
locus»:  cfr.  ibid.,  io. 


784  DISCORSI    SOPRA    GLI   ANNALI    DI    TITO   LIVIO 

tere  e  vincere  :  «  si  vero  ex  Deo  est,  »  gli  dicea  «  non  poteritis  dissol- 
vere illud».1 

L'imperadore  Traiano  lodando  la  condotta  di  Plinio,  se  bene 
come  a  savio  principe  gli  rispondesse  che  in  tanta  diversità  di  casi 
non  si  poteva  universalmente  costituire  una  certa  forma  per  tutti, 
ma  secondo  le  circostanze  dovesse  regolarsi;  nulladimanco  stabilì 
che  l'esser  cristiano  non  importando  grave  misfatto,  sicché  dovesse 
procedersi  contro  i  sospetti  per  via  d'«  inquisizione»,  sicome  prati- 
cavasi  ne'  delitti  di  Stato,  di  maestà  lesa,  o  di  altri  enormi  eccessi: 
non  si  dovesse  contro  i  medesimi  «inquirere»,  ma  accusati  e  con- 
vinti, dovessero  punirsi.  Rescrisse  eziandio,  che  se  bene  per  lo 
passato  fossero  stati  cristiani  e  ne  avesser  dato  sospetto  :  se  nell'av- 
venire non  volevano  esserci,  e  col  fatto  ciò  manifestassero  adorando 
i  dii  romani,  che  impetrassero  perdono  e  si  lasciassero  liberi,  ba- 
stando il  pentimento  che  ne  mostrassero;  ed  infine  che  contro  i 
medesimi  non  si  ricevessero  libelli  di  accuse  senza  il  nome  dell'au- 
tore. Ecco  il  savio  rescritto  dell'imperatore  Traiano,  del  quale,  si- 
come  dell'epistola  di  Plinio,  non  si  dimenticarono  Tertulliano,  Eu- 
sebio di  Cesarea,  ed  Orosio:2  «Tr.  Plinio  S.  Actum  quem  debuisti, 
mi  Secunde,  in  excutiendis  causis  eorum,  qui  christiani  ad  te  de- 
lati fuerant,  secutus  es.  Neque  enim  in  universum  aliquid,  quod 
quasi  certam  formam  habeat,  constitui  potest.  Conquirendi  non 
sunt:  si  deferantur,  et  arguantur,  puniendi  sunt:  ita  tamen  qui 
negaverit  se  christianum  esse,  idque  re  ipsa  manifestum  fecerit, 
supplicando  diis  nostris,  quamvis  suspectus  in  praeteritum  fuerit, 
veniam  ex  poenitentia  impetret.  Sine  auctore  vero  propositi  li- 
belli nullo  crimine  locum  habere  debent.  Nam  et  pessimi  exempli, 
nec  nostri  saeculi  est».3 

Questo  prudente  rescritto  di  Traiano  coli' accurata  lettera  di  Pli- 
nio, meritarono  che  fossero  con  dotti  commentari  illustrati  dal 
celebre  giurisconsulto  Francesco  Balduino;4  e  dapoi  Girardo  Vos- 


1.  «si  vero  .  . .  illud*:  cfr.  Act.,  5,  34-9.  Gamaliele:  patriarca  negli  anni  25- 
50  d.  C,  maestro  di  Paolo.  2.  del  quale  .  . .  Orosio:  cfr.  Tertulliano,  Apo- 
logeticus,  11  (in  Migne,  P.  L.,  I,  col.  321);  Eusebio  di  Cesarea,  Hist.  eccl., 
in,  xxxiii  (in  Migne,  P.  G.,  xx,  col.  286),  e  Paolo  Orosio,  Hist.,  vii,  xn 
(in  Migne,  P.  L.t  xxxi,  coli.  1090-1).  3.  «TV.  Plinio  . . .  saeculi  est»:  nel- 
l'epistolario di  Plinio  U  Giovane,  x,  xcvin  (xcvii)  cit.  4.  Francesco  Bal- 
duino: Francois  Bauduin  (1520-1573),  giurista,  teologo,  storico  francese 
allievo  del  Dumoulin  e  amico  deU'Hotman.  Il  Giannone  si  riferisce  al 
Commentarius  in  relationem  seni  consultationem  Plinii  et  ad  hanc  rescriptum 


PARTE   II   •  DISCORSO   XVII  785 

sio1  volle  pure,  come  se  lavorasse  nel  proprio  fondo,  non  già  prima 
da  altri  occupato,  impiegarvi  i  suoi  talenti,  senza  far  motto  di  Bai- 
duino;  e  volendolo  scusare  del  plagio  commesso,  bisognerà  dire 
che  non  avesse  avuta  notizia  del  commento  di  Balduino,  e  si  fos- 
sero per  caso  incontrati  a  trattar  d'un  medesimo  soggetto. 

Or  chi  crederia  che  contro  un  rescritto  cotanto  savio  e  prudente 
e  degno  della  romana  moderazione  e  sapienza,  Tertulliano  avesse 
potuto  declamar  tanto,  deridendo  e  riputandolo  per  contradittorio, 
e  secondo  il  costume  de'  fervidi  cervelli  africani,  con  isciapiti  con- 
traposti ed  antitesi  malmenarlo  e  schernirlo  ?  Leggasi  il  suo  Apolo- 
getico, ed  ogni  uno  stupirà  come  possa  nel  tempo  istesso  che  mo- 
stra ignorare  la  giurisprudenza  romana  e  l'ordine  giudiciario  tenuto 
da  que'  sapientissimi  uomini,  insultar  cotanto,  deridere  e  riputar 
Traiano  per  uno  scimunito,  che  se  stesso  intricasse  ed  ordinasse 
cose  opposte  e  fra  di  loro  repugnanti?  Se  non  vuole,  e'  dice,  che 
sopra  i  cristiani  si  facesse  inquisizione,  perché  dunque  punirgli? 
Se  l'assolve,  perché  poi  gli  condanna?  O  sentenza  inviluppata  ed 
a  se  stessa  ripugnante  e  contraria!  Era  adunque  ignoto  a  Tertul- 
liano il  prudente  modo  di  procedere  de'  Romani  nella  conoscenza 
delle  cause  criminali,  ed  erano  a  lui  ignote  le  varie  maniere  delle 
accuse,  e  quali  delitti  meritassero  «inquisizione»  e  quali  non  l'am- 
mettessero. Se  ciò  avesse  saputo,  avrebbe  compreso  non  pure  non 
esservi  nel  rescritto  contradizione  alcuna,  ma  da  quello  conoscersi 
la  somma  clemenza  di  Traiano  verso  i  cristiani;  poiché  comman- 
dando che  non  si  fosse  usata  contro  i  medesimi  inquisizione,  riputò 
i  cristiani  rei  di  delitti  sì,  ma  non  gravi,  enormi  e  detestabili,  per 
i  quali  soli  poteva  procedersi  per  inquisizione;  ed  ammettendogli 
col  pentirsi  al  perdono,  ben  si  conosce  che  non  riputava  delitto 
l'esser  cristiano,  ma  più  tosto  superstizione  e  stoltizia.  La  puni- 
zione cadeva  unicamente  contro  gli  ostinati  ed  induriti,  credendo 
che  per  punirgli  bastasse  la  loro  pervicacia  di  mostrarsi  cotanto 
pertinaci  ed  inflessibili,  di  non  volersi  piegare  al  comando  de'  pre- 
sidi o  proconsoli  che  l'imponevano  di  dover  sacrificare  a'  loro  dii. 

Troiani  imperatori*  de  ckristianìs,  compreso  in  C.  Rittershusii  Liber  com- 
mentariiis  in  Epistolas  Plinii  et  Troiani,  cui  accessit  commentarius  F.  Balduini 
in  Plinii  consultationem  et  Troiani  rescriptum  de  christianis .  . .,  Ambergae 
1609.  1.  Girardo  Vossioi  Gerhard  Johannes  Voss  (1577-1649),  teologo  e 
filologo  calvinista.  Il  Giannone  si  riferisce  a  G.  J.  Vossn  In  epistolam 
Plinii  de  christianis  et  edicta  Caesarum  Romanorum  adversus  christianos  com- 
mentarius, in  Opera,  iv,  Amstelodami  1699. 


786  DISCORSI    SOPRA    GLI   ANNALI    DI    TITO    LIVIO 

Se  vi  fu  eccesso,  come  si  è  avvertito,  fu  perché  potendo  esser  con- 
tenti d'una  estraordinaria  pena,  l'estendevano  fino  all'ultimo  sup- 
plicio.  Ma  ciò  non  era  tanto  per  la  loro  pertinacia,  o  per  impedirgli 
di  credere  ciò  che  volessero,  ma  per  dar  essempio  agli  altri  di  aste- 
nersene, vedendo  che  il  numero  de'  cristiani,  spezialmente  nelle 
Provincie  dell'Asia,  cresceva  in  immenso,  e  che  l'antica  romana 
religione  tuttavia  minava,  i  tempii  quasi  desolati,  i  sacrifici  pre- 
termessi, e  le  sollennità  sacre  quasi  in  tutto  abolite  o  sprezzate. 
Era  massima  antica  de'  Romani,  che  sovente  bisognava  punire  i 
rei  con  supplici  gravi  e  severi,  ancorché  i  delitti  per  se  stessi  noi 
meritassero,  quando  facevasi  per  essempio  a  terrore  degli  altri,  ed 
il  male  pe'l  gran  numero  de'  periclitanti  era  per  più  diffondersi  e 
corromper  tutta  la  moltitudine;  riputando  che  l'atrocità  dell'es- 
sempio  venisse  compensata  colla  pubblica  utilità  che  da  ciò  deri- 
vava. 

Questa  fu  la  maniera  della  quale  i  magistrati  romani  valevansi 
nella  conoscenza  delle  cause  de'  cristiani  accusati,  quando  dura- 
vano le  loro  persecuzioni  sotto  que'  imperadori  i  quali  non  vole- 
vano soffrirgli,  la  quale  secondo  l'indole  de*  medesimi  fu  sempre 
varia:  ora  sotto  i  pii  e  clementi  rilasciandosi  il  rigore,  ora  sotto  i 
crudeli  ripigliandosi;  anzi  doppo  Traiano  ve  ne  furono  de'  pietosi, 
i  quali  affatto  non  l'inquietavano,  ma  gli  lasciavano  in  pace.  Donde 
si  convince  esservi  bisogno  di  molta  critica  e  d'un  esatto  scrutinio 
per  discernere  i  veri  da'  tanti  favolosi  strazi,  e  da'  tanti  spietati  ed 
inumani  supplici  che  si  contano  in  più  Leggende  ed  in  alcuni  autori 
greci,  posteriori  di  grande  intervallo  alle  cose  che  narrano,  che  aves- 
sero i  magistrati  romani  praticato  contro  i  cristiani,  come  se  a 
questi  fosse  stato  lecito  di  incrudelire  a  lor  talento,  contro  le  leggi 
romane,  e  contro  gli  stili  ed  ordine  giudiciario  praticato  ne'  loro 
tribunali  ;  e  come  se  a  tutti  fosse  stato  lecito  di  farne  quella  orribile 
e  spietata  carnificina,  che  ne  fece  Tempio  e  barbaro  Nerone.  Quindi 
la  provida  e  saggia  nostra  madre  Chiesa  per  suoi  canoni  impose  a' 
vescovi  che  fossero  attenti  ad  esaminare  gli  Atti  de'  martiri,  e  senza 
loro  precedente  scrutinio  non  permettessero  di  fargli  leggere,  co- 
me costumavasi,  fra'  divini  uffici,  onde  preser  il  nome  di  Leggende; 
affinché  non  si  facesse  de'  veri  e  favolosi  un  sol  fascio,  ed  i  popoli 
creduli  e  semplici  non  rimanessero  dalle  altrui  fantastiche  relazioni 
sorpresi  ed  ingannati. 

Più  persecuzioni  date  a'  cristiani  da'  tempi  di  Nerone  fino  a 


PARTE   II    •  DISCORSO   XVII  787 

Costantino  M.  si  narrano;  e  S.  Agostino  nel  cap.  52  del  xviii  libro 
della  Città  di  Dio1  ne  annovera  diece.  Tre  sotto  grimperadori  Ne- 
rone, Diocleziano  e  Traiano  :  la  rv  sotto  Antonino  Vero  cognominato 
il  Filosofo:  la  v  sotto  Settimio  Severo:  la  vi  sotto  Massirnino:  la 
vii  sotto  Decio,  a'  di  cui  tempi  accadde  il  martirio  di  Lorenzo: 
l'vin  sotto  Valeriano,  nella  quale  ricevè  il  martirio  Cipriano  ve- 
scovo di  Cartagine  :  la  ix  sotto  Aureliano,  e  la  x  sotto  Diocleziano  e 
Massimiano,  la  quale  fu  delle  altre  più  crudele  a  cagion  de'  ma- 
nichei e  degli  altri  settari  eretici,  i  quali  con  false  e  perniciose  dot- 
trine aveano  diffamato  il  nome  cristiano  e  resolo  a  tutti  odioso. 

Ma  innalzato  al  trono  imperiale  Costantino  il  Grande,  questi 
non  pur  imitando  l'esempio  de'  pietosi  suoi  predecessori,  i  quali 
gli  lasciarono  in  pace,  non  l'inquietò,  ma  con  non  minor  pietà  che 
grandezza  di  animo  diede  a  tutta  la  Chiesa  riposo  e  tranquillità. 
Egli  fu  il  primo,  che  in  Roma  inalberò  il  vessillo  della  croce,  e  da 
vile  ed  obbrobriosa  la  rese  trionfale  e  gloriosa.  Egli  ricevendo  nel- 
l'Imperio la  religione  cristiana,  fece  che  le  sue  chiese  non  fosser 
più  riputate  collegi  illeciti,  ma  permessi,  anzi  venerandi.  Egli  fa- 
vori i  vescovi,  e  sopra  tutti  quello  di  Roma,  come  colui  il  quale 
occupava  la  prima  cattedra,  dove  avea  seduto  il  principe  degli  ap- 
postoli S.  Pietro,  sopra  le  cui  spalle  Cristo  avea  edificato  la  sua 
Chiesa,*  e  come  quello  che  teneva  collocata  la  sua  sede  in  Roma 
capo  del  mondo.  Egli  col  consiglio  e  sapienza  de'  non  men  pii 
che  dotti  vescovi  potè  discernere  i  veri  da'  falsi  cristiani,  con  pren^ 
der  de'  primi  cura  e  protezione,  e  de'  secondi  castigo  ;  ed  in  fine 
egli  stesso,  per  dar  essempio  della  sua  pietà  a'  suoi  figliuoli  che  gli 
successero  nell'imperio,  essendo  in  punto  di  morte,  volle  dalle 
mani  di  Eusebio  vescovo  di  Nicomedia  ricever  battesimo  e  morir 
cristiano. 

Così  tratto  tratto  conformandosi  l'Imperio  all'essempio  de'  suc- 
cessivi imperadori  cristiani,  se  bene  si  lasciasse  in  libertà  de'  gentili 
di  professar  l'antica  religione  pagana,  non  altrimenti  che  a'  fedeli 
la  cristiana,  sicché  tre  religioni  erano  nell'Imperio  ricevute,  la  gen- 
tile, la  cristiana  e  l'ebrea,  nulladimanco  favorendo  gl'imperadori  la 


1.  nel  cap.  52  . . .  Dio:  cfr.  in  Migne,  P.  L.,  xli,  coli.  614-6.  Tutto  questo 
brano  riprende  e  sviluppa  la  prima  parte  del  Regno  terreno,  a.  sopra  le 
cui  spalle . .  .  Chiesa:  rispetto  alla  tesi  del  Triregno  (cfr.  qui,  p.  716),  il 
Giannone  sembra  qui  capovolgere  il  suo  pensiero  sulla  carica  affidata  da 
Cristo  a  Pietro. 


788  DISCORSI    SOPRA   GLI   ANNALI   DI   TITO   LIVIO 

cristiana,  in  discorso  di  tempo,  sicome  questa  venne  a  diffondersi 
per  tutte  le  provincie  dell'Imperio,  cosi  l'antica  romana  a  decadere 
e  porsi  in  dimenticanza.  E  ne*  seguenti  secoli  la  cristiana  penetrò 
nelle  parti  settentrionali  di  Europa,  nella  Gallia,  nella  Germania, 
nella  Brettagna  e  nelle  più  remote  provincie  del  Nord,  dove  prima 
non  avea  potuto  por  piede,  così  perché  i  primi  cristiani  non  ci 
trovavano  sinagoghe  dove  potessero  predicarla,  sicome  fecero  nel- 
l'Asia, neir Affrica,  nella  Grecia,  Macedonia,  Illirico,  in  Italia  e 
fino  nella  Spagna;  come  anche  perché  i  viaggi  erano  non  tanto 
lunghi,  quanto  pericolosi,  alpestri  e  disagiosi,  dovendo  traversare 
fra  gente  inospita  e  selvaggia,  ed  allora  fuori  del  commercio  degli 
uomini  e  de'  confini  dell'orbe  romano.  E  sicome  sempre  più  si 
andava  avanzando  la  religione  cristiana,  così  la  pagana  andava  nelle 
città  rovinando:  sicché  questa  fu  poi  veduta  ristretta  ne'  paghi, 
vichi  e  villaggi,  i  quali  sono  gli  ultimi  a  deporre  le  loro  antiche 
usanze:  onde  avvenne  che  la  religione  gentile  fossesi  poi  detta 
pagana,  poich'era  solamente  ritenuta  ne'  paghi  presso  i  rustici  ed 
uomini  di  campagna  i  quali  furon  gli  ultimi  a  deporla. 

Non  è  dubbio  che  Costantino  volgendo  poi  l'aquila  romana  da 
Occidente  in  Oriente  contro  il  corso  del  cielo,1  recasse  a  Roma  ed 
in  Italia  non  pur  cangiamento,  ma  fosse  cagione  della  mina  dell'Im- 
perio di  Occidente  invaso  da  più  straniere  ed  inculte  nazioni  ;  nul- 
ladimanco  se  Italia  e  Roma  per  questo  passaggio  perde  il  preggio 
di  esser  capo  dell'orbe  romano,  per  Costantino  ne  acquistò  un 
maggiore.  Ciò  che  sarà  il  soggetto  di  questo  ultimo  discorso. 


i.  volgendo  . . .  cielo:  cfr.  Dante,  Par.»  vi,  1-2. 


APOLOGIA  DE'  TEOLOGI  SCOLASTICI 


NOTA  INTRODUTTIVA 

L  Apologia  de9  teologi  scolastici  è  probabilmente  l'opera  a  cui  il 
Giannone  ha  dato  maggior  importanza  fra  quelle  scritte  in  carcere. 
Più  che  non  i  Discorsi  sopra  gli  Annali  di  Tito  Livio,  frutto  di  un  lavoro 
intenso,  ma  occasionale,  si  riallaccia  per  tanti  versi  al  Triregno,  ri- 
prendendone ed  ampliandone  i  temi.  La  prima  idea  può  risalire  al 
periodo  trascorso  a  Torino,  quando  il  padre  Giovan  Battista  Prever, 
che  aveva  avuto  dal  marchese  d'Ormea  l'ordine  di  portarlo  all'abiura 
in  sei  mesi,  trovandolo  singolarmente  docile,  gli  offrì  in  lettura  al- 
cuni libri,  fra  cui  il  De  civitate  Dei  di  sant'Agostino:  «come  parato  a 
me  il  più  adattato  a  maggiormente  istruirlo,  e  confermarlo  nel  suo  rav- 
vedimento». Lo  stesso  padre  Prever,  a  cui  fu  dedicata  l'opera  (un 
buon  oratoriano  che  non  brillava  certo  per  intelligenza,  ma  se  mai  per 
un'umanità  pietosa  e  caritatevole),  scrisse  ancora  nella  Relazione  sin- 
cera: «Voleva  per  fine  dare  di  mano  ad  un'opera,  ed  era  anche  se- 
condo il  mio  desiderio,  per  trattare  delle  massime  del  Vangelo  e 
di  quelle  del  mondo,  e  già  ne  avea  in  mente  l'idea  e  l'ossatura,  e  me 
ne  fece  una  distinta  narrazione,  di  cui  ero  contento,  ma  Iddio  di- 
spose altamente,  perché  caduto  infermo  fu  troncato  il  filo  dell'o- 
pera e  della  vita . .  .  ».x  II  Prever  parla  quindi  dell'Apologia  come 
di  un'opera  scritta  verso  la  fine  della  vita  del  Giannone,  ma  que- 
sto non  è  in  contraddizione  con  quanto  si  affermava  precedente- 
mente, che  almeno  l'idea  risalga  al  primo  soggiorno  torinese  e  sia 
stata  elaborata  in  una  prima  stesura  fra  il  1739  e  il  1740.  Anzi  sotto 
questo  aspetto  le  osservazioni  di  Maria  Begey2  che  la  considera 
precedente  V Istoria  del  pontificato  di  Gregorio  Magno  (e  quindi  da 
collocarsi  appunto  fra  il  1739  e  il  1740)  sono  solo  parzialmente  esat- 
te. Infatti  il  Giannone  la  scrisse  subito  dopo  i  Discorsi.  Ma  appar- 
tengono al  periodo  1739-1740  i  capitoli  i-m  del  libro  I,3  mentre 
i  capitoli  iv-X*  sono  stati  evidentemente  scritti  dopo  il  1745,  quan- 
do, trasferito  nuovamente  a  Torino,  potè  utilizzare  i  libri  forniti 
dal  residente  inglese  Arthur  de  Villettes.5  Infatti  sono  costruiti  col 

1.  Relazione  sincera  di  quello  che  ho  osservato  e  conosciuto  ne*  sentimenti  del 
fu  avvocato  P.  Giannone  napolitano,  sì  per  il  tempo  che  visse,  e  n'ebbi  la  dire- 
zione, che  in  occasione  della  di  lui  morte,  datata  Torino,  io  febbraio  1749. 
Vedila  in  Osservazioni  critiche  di  G.  A.  Tria  . . .  intorno  alla  polizia  della 
Chiesa  che  si  legge . . .  ne'  quattro  tomi  della  Storta  civile  del  regno  di  Napoli 
scritta  da  P.  Giannone,  Roma  1752,  pp.  xii-xrv.  2.  M.  Begey,  Per  un'ope- 
ra inedita  di  P.  Giannone,  in  «Memorie  dell'Accademia  delle  scienze  di 
Torino»,  serie  11,  tomo  lui  (1903),  pp.  181-220.  3.  Apologia,  in  Archivio 
di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mozzo  v,  ins.  2,  ce.  5-25-  4-  Ibid., 
ce.  26-60.  5.  Cfr.  Giannoniana,  p.  490;  cfr.  ancora  G.  Ricuperati,  L'espe- 
rienza civile  e  religiosa  di  Pietro  Giannone,  Milano-Napoli  1970,  pp.  564-81. 


792  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI   SCOLASTICI 

materiale  di  cui  rimangono  gli  appunti  datati  dopo  il  1745  e  riguar- 
danti la  lettura  di  Thomas  Hobbes,  Richard  Cumberland,  Jean  Bar- 
beyrac.1  Il  capitolo  XI  e  la  restante  parte  dell'opera  appartengono  in- 
vece agli  anni  precedenti:  infatti  il  capitolo  xi  era  un  vili  cancellato 
e  corretto,  e  così  via.  Alcune  date  ne  possono  precisare  meglio  lo 
sviluppo  :  tornato  da  Torino  con  l'idea  di  utilizzare  le  proprie  letture 
dei  Padri,  il  Giannone,  ancora  impegnato  con  i  Discorsi,  scrive  al 
Prever  da  Ceva  il  23  febbraio  1739  raccomandandoglieli.3  Esatta- 
mente un  anno  dopo,  l'8  aprile  1740,  stende  sotto  forma  di  lettera 
allo  stesso  Prever  la  minuta  della  prefazione  della  nuova  opera,  che 
probabilmente,  almeno  in  una  prima  stesura,  era  finita.3  Un'altra 
cosa  da  osservare:  l'ultima  parte  riguardante  Gregorio  Magno  non 
è  altro  che  la  traccia  per  V Istoria  del  pontificato*  Nel  manoscritto 
dell'afona  del  pontificato  di  Gregorio  Magno  c'è,  cancellato,  libro 
11.  Il  Giannone  aveva  pensato  quindi  questa  seconda  opera,  termi- 
nata nel  1742,  come  uno  sviluppo  da  un  progetto  unitario  ;  successi- 
vamente l'analisi  della  figura  del  pontefice  e  delle  sue  epistole  ha 
ottenuto  una  totale  autonomia.  Quindi  la  parte  centrale  deW.3  Apologia, 
aggiunta  fra  il  1746  e  il  1747,  è  stata  l'ultima  fatica  del  Giannone. 
La  cronologia  viene  ad  assumere  un'importanza  notevole  nell'ana- 
lisi di  quest'opera,  in  quanto  esprime  due  situazioni  psicologiche  ed 
umane  molto  diverse:  la  prima  stesura,  nata  per  fine  apologetico  e 
per  convincere  della  serietà  della  propria  conversione,  è  più  prudente 
e  priva,  almeno  in  apparenza,  di  esplicite  affermazioni  poco  ortodos- 
se. Anzi,  vi  è  un'esaltazione,  contenuta  ma  più  volte  richiamata, 
dell'arte  della  perfezion  cristiana  del  cardinal  Sforza  Pallavicino,5  che 
sembrerebbe  far  pensare  ad  un  certo  adeguamento  del  Giannone,  a 
un  suo  conformismo  poco  coraggioso,  anche  se  comprensibile.  In 
realtà  non  è  così:  il  paradosso  di  definirla  Apologia  nasce  dal  fatto 
che  è  una  difesa  degli  scolastici  solo  in  quanto  tutti  i  loro  errori 
vengono  fatti  risalire  ai  Padri.  Tale  difesa  paradossale,  che  sposta 
le  défaillance^  del  cristianesimo  agli  stessi  Padri,  utilizza  la  polemica 
libertina,  protestante,  deistica  e  giusnaturalistica.6  In  quest'opera 

1.  Ibid.,  pp.  601-15.  2.  Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone, 
mazzo  v,  ins.  4,  B,  2.  3.  Ibid.,  mazzo  1,  ins.  15,  A.  4.  Ibid.,  mazzo  v, 
ins.  1,  e.  5.  5.  Arte  della  perfezion  cristiana  del  card.  Sforza  Pallavicino 
divisa  in  tre  libri,  Venezia  1666  e  Milano  1666.  La  prima  edizione,  Roma 
1665,  era  anonima.  6.  Per  quanto  riguarda  i  precedenti  che  il  Giannone 
poteva  trovare  nella  cultura  napoletana  cfr.  quanto  afferma  V.  I.  Compa- 
rato, Giuseppe  Valletta.  Un  intellettuale  napoletano  della  fine  del  Seicento, 
Napoli  1970,  nel  capitolo  v,  sulla  libertà  filosofica,  in  particolare  p.  212. 
Per  i  rapporti  fra  il  Giannone  e  il  Valletta  cfr.  quanto  dice  L.  Marini,  Il 
Mezzogiorno  d'Italia  di  fronte  a  Vienna  e  a  Roma  e  altri  studi  di  storia  meri- 
dionale, Bologna  1970,  su  un  tentativo  di  edizione  di  un'opera  del  Val- 


NOTA   INTRODUTTIVA  793 

(nella  prima  stesura)  l'elemento  più  rilevante  era  la  critica  severis- 
sima contro  il  rigorismo  e  il  quietismo.  Il  primo  è  visto  sia  nel  mondo 
cattolico,  come  giansenismo,  sia  nel  mondo  protestante,  come  calvi- 
nismo. Manca  invece  ogni  accenno  al  pietismo.  Tutti  e  due  gli  er- 
rori risalgono  a  sant'Agostino,  verso  cui  il  Giannone  ha  un  senti- 
mento contraddittorio,  di  ammirazione,  ma  anche  di  irritazione  per 
gli  aspetti  irrazionalistici,  che  hanno  appunto  favorito  il  quietismo. 
Per  questa  demolizione  della  tradizione  religiosa,  scientifica  e  mo- 
rale dei  Padri,  che  mostra  la  loro  inadeguatezza  come  modelli  assoluti 
e  la  loro  responsabilità  nei  successivi  errori  della  Scolastica,  il 
Giannone  si  serve,  con  spirito  veramente  illuministico,  dell'opera  di 
un  erudito  gesuita  del  Seicento,  le  Stnore,  di  Giovanni  Stefano  Me- 
nochio,1  una  specie  di  curiosissima  enciclopedia  delle  opinioni  favo- 
lose, assurde,  degli  aneddoti  più  strani  riguardanti  soprattutto  la 
storia  ecclesiastica.  Tale  utilizzazione  è  veramente  l'operazione  più 
illuministica  compiuta  dal  Giannone,  che  con  intelligente  ferocia  si 
fa  consegnare  gli  aneddoti  più  paradossali  per  screditare  i  Padri 
creduli,  spesso  creatori  di  tali  leggende.  Forse  il  Menochio  gli  era 
capitato  per  caso  fra  le  mani  in  carcere,  ma  nessuna  scelta  poteva 
essere  più  felice  di  questa  in  quanto  le  Stuore,  che  precedono  di 
qualche  decennio  il  Tractatus  theologico-politìcus  di  Spinoza,  sono 
il  tipico  prodotto  di  quella  cultura  che  la  crisi  della  coscienza  eu- 
ropea avrebbe  cancellato:  un  coacervo  disordinato  ed  acritico  di 
leggende,  di  erudizione  e  di  problemi  filologici,  in  cui  il  Giannone 
affonda  il  rasoio  della  sua  consapevolezza  ormai  illuministica.  Si 
ripeteva  (fatte  le  debite  distanze)  quanto  era  capitato  al  Moreri 
con  il  Bayle.2  Il  risultato  (in  questa  prima  stesura)  era  che  dopo  la 
distruzione  dei  Padri,  fra  rigorismo  e  quietismo,  il  Giannone  sce- 
glieva un  cristianesimo  «ragionevole»;  e  non  importa  che  per  deli- 
nearlo si  servisse  di  un  testo  gesuitico  come  VArte  della  perfezion 
cristiana.  Essere  cristiani  gli  appariva  un'arte  che  non  imponeva  al- 
cuna deformazione  del  senso  della  vita:  e  da  essa  apparivano  lontani 
tanto  coloro  che  credono  a  un  Dio  di  pura  e  rigorosa  giustizia,  senza 
amore,  quanto  coloro  che  si  sentono  giustificati  irrazionalmente  e 
misticamente  dalla  divinità.  Il  richiamo  al  Pallavicino  è  natural- 
mente un  pretesto.  Nella  morale  del  gesuita,  piena  di  tollerante  las- 

letta  da  parte  del  Giannone,  a  Vienna,  p.  203.  Temi  analoghi  sono  presenti 
in  Costantino  Grimaldi:  cfr.  V.  I.  Comparato,  Ragione  e  fede  nelle  Discus- 
sioni istoriche,  teologiche  e  filosofiche  di  Costantino  Grimaldi,  in  autori  vari, 
Saggi  e  ricerche  sul  Settecento,  Napoli  1968,  pp.  49-93.  1*  Su  Giovanni 
Stefano  Menochio  cfr.  G.  Ricuperati,  L'esperienza  civile  ecc.,  cit.,  p.  567. 
2.  Louis  Moreri  (1643-1680),  erudito  francese,  autore  di  un  Grand  diction- 
naire  historique . . .,  Lyon  1674,  dal  quale  criticamente  prese  le  mosse  il  Bayle. 


794  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI   SCOLASTICI 

sismo,  il  Giannone  insegue  il  suo  cristianesimo  «ragionevole»,  in 
una  dimensione  in  cui  non  e* era  più  posto  per  il  rigorismo  giansenista. 
La  polemica,  ancora  una  volta,  colpiva  a  tempo  giusto  :  l'alleanza  fra 
spirito  riformatore  e  giansenismo  si  stava  ormai  spezzando  comple- 
tamente. Lontano  dai  clamori  delle  polemiche  giurisdizionalistiche 
in  cui  il  giansenismo  era  stato  per  lungo  tempo  un  alleato,  non  esita 
a  scoprirne  il  volto  reazionano  o  per  lo  meno  anacronistico.  Questo  è 
il  senso  di  un'opera  singolarmente  vicina  all'eudemonismo  illumi- 
nistico:1 i  capitoli  aggiunti,  più  che  modificarne  la  direzione,  ren- 
dono esplicito  il  discorso,  lo  confortano  con  una  documentazione  che, 
probabilmente  non  sconosciuta,  ma  ricordata  a  memoria  dagli  anni 
precedenti,  viene  ricostruita  più  direttamente  sui  testi  fra  cui  si  inseri- 
sce. E  ancora  una  volta  ~  quando  ormai  il  Giannone  ha  la  consapevo- 
lezza che  non  uscirà  vivo  dal  carcere  e  quindi  è  meno  condizionato 
dalla  prudenza  -  conferma  quel  cattolicesimo  ragionevole  e  deistico, 
che  ha  profondamente  radicato  il  senso  del  dialogo.  Fin  dalla  pre- 
messa afferma  che  il  padre  Prever,  a  cui  è  dedicata  l'opera,  non  do- 
vrà scandalizzarsi  se  troverà  citati  con  onore  autori  protestanti.  Solo 
in  tempi  più  recenti  si  è  presa  l'abitudine  superstiziosa  da  parte  di 
qualche  fanatico  di  rifiutare  in  blocco  il  pensiero  di  chi  è  fuori  dal 
mondo  cattolico.  Egli  pensa  che  non  sia  affatto  il  caso  di  temere  di 
servirsi  di  autori  protestanti.  In  quest'opera,  oltre  alla  riconferma  di 
alcuni  motivi  del  Triregno,  agisce  una  componente  che  deriva  so- 
prattutto dalla  cultura  protestante.  Prima  di  tutto  c'è  una  notevole 
somiglianza  anche  strutturale  fra  V Apologia  e  il  Traile  de  la  morale 
des  Pères  di  Jean  Barbeyrac.2  Anzi  l'unico  modo  di  comprenderla  è 
di  inserire  l'opera  del  Giannone  in  un  dibattito  a  cui  non  è  rimasta 
estranea  qualche  frangia  del  mondo  intellettuale  cattolico,  come  il 
gruppo  mainino,  o  Louis  Ellies  Du  Pin.  Già  nel  Triregno  il  Gian- 
none  aveva  utilizzato  il  De  usu  Patrum  di  Jean  Daillé3  che  iniziava 
da  parte  ugonotta  la  critica  ai  Padri  come  interpreti  della  Sacra 
Scrittura  e  depositari  della  tradizione.  Un'altra  opera  conosciuta  dal 
Giannone  è  quella  di  Daniel  Whitby,  Dissertatio  de  Scripturarum 
interpretatione  secundum  Patrum  commentariosf  in  cui  si  completava 
la  demolizione  della  loro  autorità,  come  interpreti  della  Bibbia,  iniziata 

i.  R.  Mauzi,  L'idée  du  bonheur  au  XVIII  siede,  Paris  i960;  cfr.  anche 
C.  Rosso,  Illuminismo  Felicità  Dolore.  Miti  e  ideologie  francesi,  Napoli  1969. 
2.  Amsterdam  1728.  3.  J.  Daillé,  De  usu  Patrum  ad  ea  defimenda  reti- 
gionis  capita,  quae  sunt  hodie  controversa,  libri  duo  latine  e  gallico  nunc  pri- 
mum  a  I.  Mettayero  redditi,  ab  auctore  recogniti,  aneti  et  emendati,  Gene- 
vae  1656.  La  prima  edizione,  in  francese,  era  stata  edita  nel  1632.  4.  Lon- 
dini  1714-  Daniel  Whitby  (1638-1726),  teologo  anglicano,  si  era  reso  fa- 
moso per  le  polemiche  anticattoliche. 


NOTA   INTRODUTTIVA  795 

dal  Daillé.  Ma  il  merito  di  proporre  la  discussione  sulla  morale  dei 
Padri  era  toccato  nel  17 12  al  Barbeyrac.  Nella  prefazione  alla  tradu- 
zione francese  dell'opera  di  Samuel  Pufendorf  Le  droit  de  la  nature 
et  des  gens,  aveva  sostenuto,  fondandosi  sul  Locke,  una  visione  pura- 
mente razionale  del  cristianesimo  in  cui  tutti  i  Padri,  da  Tertulliano 
ad  Agostino  a  Gregorio,  venivano  rifiutati  dal  punto  di  vista  di 
un'etica  moderna.  In  conclusione,  per  il  Barbeyrac,  quanti  -  fra 
cattolici  e  protestanti  -  si  facevano  idolatri  delle  antichità  cristiane 
erano  costretti  ad  accettare  una  morale  contraria  alla  civiltà.  La  pre- 
fazione fece  scandalo,  soprattutto  nel  mondo  cattolico.  I  «  Mémoires 
de  Trévoux»  consigliarono  ai  lettori  di  Pufendorf  di  saltare  la  pre- 
fazione, mentre  il  benedettino  Remy  Ceillier  scrisse  un' Apologie  de 
la  morale  des  Pères  de  VÉglise  contre  les  injustes  accusations  du  sieur 
Barbeyrac.1  Il  bollente  benedettino  ebbe  una  prima  risposta  da  Jo- 
hann Franz  Buddeus  nella  Isagoge  historico-theologica7,  e  nel  1728 
dallo  stesso  Barbeyrac,  che  scrisse  il  Traiti  de  la  morale  des  Pères, 
in  cui  allargava  le  tesi  già  espresse  nella  prefazione  al  Pufendorf, 
documentando  la  sostanziale  negazione  di  civiltà  implicita  nella  mo- 
rale dei  Padri.  L'opera  recensita  e  riassunta  lo  stesso  anno  dalla 
«  Bibliothèque  raisonnée»,  forse  dallo  stesso  Barbeyrac,  ebbe  molta 
diffusione.  Servendosene,  il  Giannone  la  collega  ad  un'esperienza 
più  vasta,  alla  polemica  deistica  contro  la  tradizione  cristiana,  intesa 
come  istituzionalizzazione  del  sentimento  religioso.  Fin  dalle  pagine 
iniziali  vi  è  una  conferma  di  tutte  le  tesi  più  importanti  del  Triregno  : 
gli  Ebrei  non  concepivano  che  un  regno  terreno;  mancava  loro  ogni 
idea  di  quello  celeste.  Il  pensiero  di  un  inferno  era  nato  presso  i 
farisei,  per  cui  il  cristianesimo  primitivo  è  una  mescolanza  di  tesi 
farisee  e  sadducee.  Anche  se  sul  purgatorio  e  sul  limbo  attenua  le 
posizioni  più  radicali,  sostanzialmente  li  ammette  più  per  un  atto 
di  fede  che  per  un'intima  convinzione.  In  realtà,  fedele  ad  alcuni 
atteggiamenti  costanti  della  propria  esperienza  culturale  e  religiosa, 
il  Giannone  accoglie  anche  questa  volta  certe  esigenze  radicali  di  fare 
i  conti  con  la  tradizione  tipiche  del  mondo  deistico  e  le  misura  con 
un  discorso  scientificamente  più  corretto.  Ma  in  fondo,  fra  la  irri- 
dente e  negatrice  polemica  di  John  Toland  (che  confuta  il  discorso 
dei  Padri  per  liberare  dal  mistero  e  quindi  rendere  «ragionevole» 
quel  cristianesimo  che  proprio  i  Padri  con  il  loro  gusto  per  le  alle- 


1.  Paris  1718.  Remy  Ceillier  (1688-1761),  celebre  erudito  benedettino  fran- 
cese. L'opera  contro  il  Barbeyrac  fu  il  suo  primo  lavoro  importante. 

2.  J.  F.  Buddei  Isagoge  historico-theologica  ad  theologìam  universam  singu- 
lasque  eius  partes,  Lipsiae  1727.  Johann  Franz  Budde  (Buddeus,  1667- 
1729),  teologo  e  filosofo  tedesco  fra  pietismo  e  ortodossia  luterana. 


796  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

gorie  avevano  reso  esoterico),1  e  la  volontà  del  Barbeyrac  di  spezzare 
il  nesso  fra  morale  e  tradizione  religiosa,  portando  la  propria  sensi- 
bilità di  giurista  contro  l'etica  e  il  diritto  ricavati  dal  discorso  patri- 
stico, non  c'è  una  distanza  così  profonda  come  a  prima  vista  si  po- 
trebbe pensare  :  entrambi  muovono  consapevolmente  non  solo  dalla 
dicotomia  spinoziana  fra  teologia  e  filosofia,  ma  soprattutto  dal  di- 
scorso di  Locke  e  dal  suo  cristianesimo  «ragionevole».2  E  ad  esso  si 
richiama  anche  il  Giannone,  dopo  aver  offerto  anche  il  suo  contri- 
buto a  un'analisi  demistificatrice  della  morale  patristica.  Infatti  que- 
st'opera, pur  scritta  in  carcere  e  dedicata  al  suo  confessore  (quindi 
con  parecchie  rinunce  o  per  lo  meno  attenuazioni),  non  occulta  una 
delle  caratteristiche  principali  della  sua  esperienza  intellettuale:  il 
superamento  delle  differenze  religiose,  la  radicale  conclusione  che  la 
cultura  è  un  valore  a  cui  partecipano  tutti,  senza  distinzione.  Ma 
soprattutto  chiarisce,  attraverso  la  demolizione  della  Patristica,  quan- 
to già  nel  Triregno  muoveva  implicitamente  verso  l'eudemonismo 
settecentesco  e  illuministico  :  la  civiltà  umana  ha  bisogno  di  una  mo- 
rale «ragionevole»  non  fondata  sulla  repressione  e  sul  terrore. 

Giuseppe  Ricuperati 


1.  Cfr.  P".  Toland],  Christianity  not  Mysterious  . .  .,  London  1696.  2.  Sui 
precedenti  cfr.  J.  Lecler,  Histoire  de  la  tolérance  au  siede  de  la  Réforme, 
Paris  1955,  in  due  volumi.  Su  Locke  cfr.  C.  A.  Viano,  John  Locke.  Dal 
razionalismo  alV  Illuminismo^  Torino  i960. 


DALLA  «APOLOGIA  DE'  TEOLOGI  SCOLASTICI» 

LIBRO  I 

Al  molto  Rev.  P.  Gio.  Battista  Prever1 

sacerdote  della  Congregazione  dell'Oratorio  di 

S.  Filippo  Neri  di  Torino. 

In  questa  mia  solitudine  fra'  deserti  monti  delle  Langhe,2  per  alle- 
viare in  parte  la  noia  ed  il  tedio,  e  perché  vie  più  s'avanzasse  il  mio 
cammino  per  quella  strada  nella  quale  mi  pose  dello  studio  delle 
cose  sacre  e  religiose,  ben  proprio  e  conveniente  alla  mia  vecchiaia, 
richiesi  V.  R.  di  alquanti  libri  ne'  quali  per  le  precedenti  cognizioni 
credeva  poter  soddisfare  il  mio  desiderio  e  metter  in  maggior  quiete 
l'animo  mio  e  disporlo  con  più  tranquillità  all'ultima  partita,  richie- 
dendogli alcuni  autori  non  men  dotti,  che  pii  e  prudenti,  i  quali,  nel 
dechinar  dello  scorso  secolo  e  ne'  princìpi  del  corrente  diedero  alla 
luce  opere  veramente  insigni,  e  degne  de'  loro  alti  e  sublimi  ta- 
lenti.3 Ma  fuor  di  ogni  mia  aspettazione,  o  perché  V.  R.  non  ebbe 


Quest'opera  è  completamente  inedita  :  il  manoscritto  autografo  in  Archivio 
di  Stato  di  Torino,  manoscritti  datinone,  mazzo  v,  ins.  a.  Cfr.  M.  Begey, 
Per  un'opera  inedita  di  P.  Giannone  cit.  L'elenco  dei  sette  libri  in  cui  è 
divisa,  dei  capitoli  e  paragrafi,  con  il  riassunto  di  alcuni  passi,  in  Nicolini, 
Scritti,  pp.  57  sgg.  (ma  sbaglia  ncll'afTermare,  a  p.  58,  che  la  numerazione 
dei  capitoli  del  1  libro  è  errata:  gli  è  sfuggito  il  cap.  11,  Dispute  intorno  alla 
creazione  del  mondo,  a  e.  6v).  Cfr.  G.  Ricuperati,  Le  carte  torinesi  di  P. 
Giannone,  in  «Atti  e  Memorie  dell'Accademia  delle  scienze»,  Torino  1963, 
p.  67;  Giannoniana,  pp.  456-7,  e  ancora  G.  Ricuperati,  V esperienza  civile  e 
religiosa  ecc.,  cit.,  pp.  564-81.  Il  titolo  primitivo  era:  Dell'uso  ed  autorità 
degli  antichi  Padri,  spezialmente  di  Lattanzio  Firmiano,  de'  libri  di  S.  Agosti- 
no  e  delle  opere  di  S.  Gregorio  Magno.  Quello  definitivo,  per  esteso,  è: 
Apologia  de'  teologi  scolastici,  overo  dell'avvertenza  e  somma  cautela  che  dee 
aversi  in  leggendo  gli  antichi  Padri,  e  spezialmente  Lattanzio  Firmiano,  i  libri 
di  S.  Agostino  e  di  S.  Gregorio  M>;  e  che  a'  nostri  tempi  questi  studi  saranno 
meglio  e  con  maggior  profitto  impiegati  sopra  l'opere  de'  nuovi  saggi  ed  accurati 
scrittori,  come  più  esatti,  più  utili  e  più  sicuri  (a  e.  5). 

i.  Gio.  Battista  Prever  (1 684-1 751),  oratoriano,  canonico  di  Giaveno,  con- 
fessore del  Giannone  su  designazione  dell' Ormea.  La  minuta  di  questa 
dedica,  colla  data  dell' 8  aprile  1740,  in  Archivio  di  Stato  di  Torino,  mano- 
scritti Giannone,  mazzo  1,  ins.  15,  A.  2.  Langhe:  regione  del  Piemonte  me- 
ridionale in  cui  sorgeva  il  castello  di  Ceva  dove  il  Giannone  fu  prigioniero 
dal  1738  al  1745.  3.  autori . .  .  talenti:  il  Giannone  chiarirà  soprattutto 
nell'ultimo  libro  dell'Istoria  del  pontificato  di  Gregorio  Magno  il  suo  interes- 
se verso  gli  autori  «moderni».  Ma  tutta  l'Apologia  è  legata  a  questo  tema. 


798  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

agio  di  potermeli  procurare  0  per  qual  che  si  fosse  altra  cagione,  mi 
furori  resi  da  questo  signor  comandante  del  castello  di  Ceva  sola- 
mente i  libri  di  Lattanzio  Firmiano  i1  cinque  tomi  nemmeno  con- 
tinuati dell'opere  di  S.  Agostino,  malamente  stampati  in  Venezia 
in  40  nel  1570*  e  le  opere  di  S.  Gregorio  Magno.3  Ma  non  per  ciò 
tralasciai  di  rendernele  debite  grazie;  poiché  in  tanta  penuria  fra' 
luoghi  miseri,  inospiti  e  selvaggi,  pure  mi  furono  di  sollievo,  facen- 
domi la  loro  lezione  passar  con  minor  tedio  e  rincrescimento  le 
ore  penose  di  questa  mia  infelice  prigionia;  ed  affinché  l'afflitto 
mio  cuore,  e  da  continuo  merore  cruciato,4  si  confortasse  alquanto, 
e  la  mia  mente  si  sviluppasse  nel  miglior  modo  che  si  potesse  da 
tetri  e  malinconici  pensieri,  volli  più  intensamente  occuparla  in 
profonde  speculazioni  ed  in  più  alte  ricerche,  alle  quali  fui  spinto 
dalla  lezione  de*  libri  sudetti;  e  doppo  varie  riflessioni  ed  accorgi- 
menti, maggiormente  mi  confermai  nel  concetto  che  io  teneva  de* 
Padri  antichi,  e  conobbi  che  a*  nostri  felicissimi  tempi  ne*  quali 
questi  sacri  studi  si  sono  cotanto  avanzati,  e  quasi  che  posti  nel- 
l'ultimo punto  di  perfezione  da'  nostri  ultimi  scrittori  ecclesiastici, 
i  vecchi  Padri  devono  sì  bene  venerarsi,  ed  avergli  in  somma  stima, 
e  valersene  per  ciò  che  riguarda  l'istoria  e  la  disciplina  ecclesiastica 
de'  loro  tempi,  ma  non  già  proporsi  oggi  a*  studiosi  per  principal 
materia,  e  sola  occupazione  de'  loro  ingegni,  intorno  alla  quale 
dovessero  unicamente  raggirarsi  ed  impiegare  i  lor  talenti:  sicché 
non  curando  i  nuovi  scrittori  e  forse  disprezzandogli,  dovessero 
abbandonarsi  ne*  sentimenti  de'  vecchi,  adottando  la  lor  dottrina 
e  valersene  così  per  ciò  che  riguarda  il  dogma,  come  la  morale  e  la 
disciplina,  facendone  rapporto  a  ciò  che  presentemente  tiene  ed 
insegna  la  nostra  comune  madre  e  cattolica  Chiesa  romana.  S'in- 
ciamparebbe,  ciò  facendo,  in  molti  e  gravissimi  errori,  in  manifeste 
eresie,  in  portentosi  e  strani  deliri  ed  in  isconci  paralogismi.  Si 
darebbe  di  petto  a  tante  contradizioni,  confusioni  e  scompigli,  da 
metter  sossopra  ed  in  un  caos  tutta  la  morale,  la  dottrina  e  la 
presente  disciplina  della  Chiesa.  A  questo  fine  io  riputai  sempre 
esser  più  utile  e  sicuro  rivolgere,  ed  aver  nelle  mani,  non  già  i 


1.  i  libri . .  .  Firmiano:  L.  Coelii  Lactantii  Firmiani  Opera  quae  extant, 
Oxonii  1684.  2.  cinque  tomi  . . .  15701  Augustini  Opera,  Venetiis  1570, 
in  sei  volumi.  3.  le  opere  . . .  Magno:  Gregorii  Magni  Opera  omnia  quae 
reperiri  potuerunt,  Parisiis  1615,  in  due  volumi.  4.  da  continuo  merore 
cruciato:  tormentato  da  continuo  affanno  (latinismo). 


libro  i  799 

vecchi,  ma  i  nuovi  ed  accurati  scrittori,  i  quali  con  sommo  studio 
ed  accurata  critica,  non  discompagnata  da  profonda  dottrina  ed 
erudizione,  non  solamente  han  saputo  meglio  illustrar  i  nostri  li- 
bri sacri,  esporgli  più  nettamente  senz'enigmi,  inviluppi  e  mistiche 
intelligenze,  ma  eziandio  accommodargli  al  sistema  presente  se- 
condo i  nuovi  lumi  e  le  nuove  determinazioni  della  Chiesa,  e  nel 
tempo  istesso  avvertir  anche  i  lettori  de'  tanti  errori  ed  abbagli  de' 
Padri  antichi,  de'  quali  dovessero  farne  buon  uso,  ed  accortamente 
e  con  molta  cautela  leggergli,  e  non  già  ciecamente  abbandonarsi 
alla  loro  autorità,  senza  prima  farne  esatto  scrutinio  e  diligente 
esame. 

Conoscerà  V.  R.  da  quest'opera  che  attorto  sono  incolpati  i  teolo- 
gi scolastici  de*  secoli  a  noi  più  prossimi  di  aver  conturbata  la  di- 
vina parola,  trattandola  come  una  scienza  moderna,  e  com'essi 
fossero  stati  i  primi,  aprendosi  un  più  largo  campo,  di  aggiungere 
alla  teologia  umana  ragioni  tratte  dalla  filosofìa  e  dall'altre  scienze 
terrene,  di  aver  corrotta  la  morale  e  con  ciò  posto  il  tutto  in  disor- 
dine e  confusione.  Al  paragone  di  quel  che  i  primi  teologi,  fin  dal 
I  secolo  della  nascente  Chiesa,  e  de'  seguenti,  fecero  mescolando 
le  cose  divine  colle  umane,  spariscono  gli  errori  ed  i  vaniloqui  di 
questi  secondi,  e  sono  tanto  più  questi  scusabili,  in  quanto  che  da' 
primi  Padri  ne  furon  date  le  mosse,  ed  essi  furono  le  prime  origini 
e  le  prime  cagioni  di  tanto  male  e  di  tante  confusioni  e  disordini. 
Conoscerà  V.  R.  che  con  tutto  che  si  fosse  studiato  di  mandarmi 
le  opere  di  S.  Agostino,  le  quali  in  ciaschedun  tomo  portano  in 
fronte  questa  sicurtà,  o  mallevadoria:  «curavimus  removeri  ea 
omnia,  quae  fidelium  mentes  haeretica  pravitate  possent  inficere, 
aut  a  catholica  et  orthodoxa  fide  deviare»,1  nulladimanco  troppo 
neghittosi  e  melensi  furono  questi  espurgatori,  i  quali  in  vece  di 
darci  un  S.  Agostino  al  lor  credere  purgato  e  limpido,  l'han  mag- 
giormente cospurgato  e  reso  inutile.  Non  è  questa  la  via  di  darci 
purgati  con  nuove  ristampe  i  Padri  antichi,  ma  quella  che  a'  nostri 
tempi  han  tenuta  i  più  dotti  e  prudenti  editori,  spezialmente  i 
Benedettini  della  Congregazione  di  S.  Mauro,2  i  quali  tutte  intere, 
non  tronche,  non  mutilate,  ci  han  date  le  loro  opere  così  come  le 

i.  «  curavimus  .  . .  deviare»:  «abbiamo  procurato  di  rimuovere  tutto  ciò 
che  per  pravità  eretica  potesse  guastare  la  mente  dei  fedeli  e  deviarla  dalla 
fede  cattolica  ortodossa».  2.  spezialmente  .  . .  Mauro:  cfr.  l'edizione  mau- 
rina  degli  Opera  di  Agostino,  Parisiis  1679- 1700,  undici  tomi  in  quindici 
volumi. 


800  APOLOGIA   DE5    TEOLOGI    SCOLASTICI 

scrissero  ;  e  con  dotti  e  savi  avvisi  han  avvertito  i  lettori  della  pre- 
sente disciplina  e  delle  nuove  determinazioni  della  Chiesa,  affin- 
ché non  s'inciampasse  negli  antichi  errori,  e  sapessero  che  quel  che 
prima  era  variamente  tra'  Padri  antichi  disputato,  oggi  da'  concili 
e  dalla  Sede  appostolica  era  stato  deciso,  né  accadeva  più  porlo 
in  disputa:  sicché  quella  credenza  dovessero  tenere,  ch'era  dalla 
Chiesa  ora  insegnata  e  professata,  senza  invilupparsi  fra  le  antiche 
dispute  e  discordanti  pareri.  Male  de  me  actum  foret1  se  dovessi 
oggi  conformarmi  all'antica  lor  credenza;  ed  in  vano  mi  sarebber 
riuscite  le  affettuose  sue  esortazioni  da  Dio  ispirategli,  per  le  quali 
fui  indotto  a  cercar  perdono  delle  mie  follie,  ed  a  ritrattarmi  de* 
miei  passati  errori,  sicome  conoscerà  chiaramente  da  quest'opera, 
la  quale  ho  voluto  indrizzare  alla  vostra  carità  e  piacevolezza  in 
dimostrazione  delle  tante  obbligazioni  che  le  professo,  e  porla 
unicamente  sotto  i  purgatissimi  suoi  occhi  e  ne'  secreti  recessi  del 
suo  cuore,  pregandola  a  non  confidarla  ad  alcuno,  affinché  non 
potendo  per  le  sue  pietose  occupazioni  aver  questo  tempo  di  leggere 
tanti  lor  volumi,  abbia  un  saggio  della  lor  dottrina,  ed  avvertire  i 
vostri  allievi  nello  spirito  di  esser  cauti  ed  attenti  nella  loro  le- 
zione. 

Di  due  cose  prima  di  cominciare  devo  avvertirla:  i.  Di  non 
riputar  mal  fatto  se  tra'  teologi  de*  tre  primi  secoli,  i  quali  diedero 
in  isconci  errori  e  perniciose  eresie,  mescoli  i  Padri  antichi;  poiché 
questi  se  ben  none  adottassero  le  strane  loro  opinioni  ed  i  lor  por- 
tentosi deliri,  nulladimanco  diedero  pure  di  petto  ad  altri  errori, 
anzi  alcuni  seguitarono  le  loro  tracce  abbracciando  alcune  loro 
fantastiche  idee;  ed  altri,  se  bene  sopra  punti  non  ancor  dalla  Chiesa 
decisi,  sostennero  dottrine  false,  e  volerle  al  presente  tenere  s'in- 
ciamparebbe  a  manifeste  eresie;  tal  che  se  que'  Padri  dalle  lor 
tombe  sorgessero,  e  volesser  fra  noi  ritenerle,  e  non  ritrattarle,  non 
sarebbero  esenti  oggi  dalle  pene  che  infligge  a'  miscredenti  il  tri- 
bunal dell'Inquisizione.  Sicché  la  differenza  fra  di  loro  è  fra  il  poco 
e  il  molto,  ma  tutti  furon  tinti  d'una  medesima  pece,  chi  per  un 
verso  e  chi  per  un  altro;  onde  non  deve  maravigliarsi  se  le  vedrà 
mescolati  insieme.  L'altra  avvertenza  che  dovrà  avere,  è  di  non 
parerle  strano  se  tra'  scrittori  e  teologi  moderni  si  commendino 
anche  que'  che  non  sono  della  communione  della  Chiesa  romana, 

x.  Mede  de  me  actum  foret:  «sarebbe  malamente  finita  per  me». 


LIBRO    I  801 

ma  addetti  o  alla  Chiesa  anglicana,  o  ad  altra  Chiesa,  che  professi 
la  religion  reformata,  concessi  la  pretendono.  Di  questo  scrupolo 
nato  dalla  ignoranza  d'alcuni  spigolistri  de*  nostri  tempi,  non  ne 
furono  certamente  assaliti  i  Padri  antichi  della  Chiesa,  né  gli  scrit- 
tori savi  e  dotti  de'  nostri  tempi,  i  quali  ancorché  fossero  cattolici 
romani  non  hanno  alcuna  ripugnanza  di  allegare,  e  valersi  quando 
bisogna  di  autori  protestanti;  seguendo  in  ciò  Fessempio  de'  Padri 
antichi,  i  quali  non  perché  si  opponessero  alle  eresie  ed  opinioni  de' 
loro  antigonisti,  lasciavano1  sovente  di  valersi,  ed  allegare  i  loro 
libri,  quando  in  essi  vi  leggevano  dottrine  buone  e  sane,  ancorché 
riprovassero  le  false;  secondo  che  n'erano  ammaestrati  da  S.  Paolo, 
il  quale  inculcava  a'  suoi,  che  di  tutto  facesser  pruova,  e  rifiutato  il 
pravo,  ritenessero  il  buono:  «Omnia  probate,  quod  bonum  est, 
tenete».2  Per  tralasciar  moltissimi  essempi  degli  antichi,  S.  Ago- 
stino ancorché  avesse  per  eretico  Ticone,3  come  donatista,  con 
tutto  ciò  in  alcune  cose  lo  loda  e  si  vale  di  lui,  sicome  fa  di  Tertul- 
liano e  d'altri  autori  contaminati  d'eresia.  De'  moderni  i  più  saggi 
e  dotti  non  hanno  avuto  difficultà  alcuna  d'imitargli,  sicome  per 
tralasciar  altri  fecero  il  P.  Petavio4  gesuita  ed  altri  moltissimi;  ed  il 
P.  Mabillon  dotto  benedittino  non  solo  l'allega,  ma  nel  suo  trat- 
tato De'  studi  monastici5  fino  a'  suoi  monaci  permette  che  nelle  loro 
biblioteche  possano  aver  di  simili  autori  per  profittare  delle  loro 
ingegnose  speculazioni  indifferenti  e  che  non  contrastino  alla  dot- 
trina della  Chiesa  romana.  Sicché  se  fra'  nostri  scrittori  cattolici 
che  si  commendano  leggerà  anche  autori  riformati,  come  un  Gro- 
zio,  un  Relando,  un  Bocarto,  un  Usserio,  un  Marsham,  un  Prideux,6 


i.  lasciavano:  correggiamo  il  «lascivano»  del  manoscritto.     2.  «  Omnia 

tenete»:  I  Thess.,  5,  ai.  3.  Ticone:  Ticonio,  donatista  morto  dopo  il  400 
d.  C.  Ebbe  grande  influenza  su  Agostino.  Cfr.,  di  quest'ultimo,  Contra 
epistolas  Parmeniani  libri  tres,  1,  1,  in  Migne,  P.  L.,  xliii,  col.  34:  «Thico- 
nium,  hominem  quidem  et  acri  ingenio  praeditum  et  uberi  eloquio,  sed 
tamen  donatistam».  4.  Petavio:  Denys  Petau  (1583-1652),  gesuita  fran- 
cese autore  dell'  Opus  de  doctrina  temporum,  Lutetiae  Parisiorum  1627,  in 
due  volumi.  5.  Jean  Mabillon  (1 632-1707),  monaco  benedettino  francese, 
De  studìis  monasticiSf  Venetiis  1729,  in  due  volumi.  Cfr.  in  Archivio  di 
Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannonet  mazzo  1,  ins.  15,  N,  gli  appunti  del 
Giannone  tratti  da  quest'opera  del  Mabillon.  Su  di  lui  cfr.  H.  Leclercq, 
Dom  Mabillon,  Paris,  1,  1956,  n,  1957-  Cfr.  soprattutto,  del  tomo  11,  il 
capitolo  XXII,  Mabillon  et  Vabbé  de  Pance.  Le  traiti  des  études  monastiques, 
pp.  503  sgg.  6.  Grozio  (cfr.  la  nota  2  a  p.  55)  è  certamente  uno  degli 
autori  più  cari  al  Giannone.  Cfr.  in  Archivio  cit.,  manoscritti  Giannone, 
mazzo  I,  ins.  15,  O,  gli  appunti  del  Giannone  tratti  dal  De  veritate  religionis 


802  APOLOGIA  DE»   TEOLOGI   SCOLASTICI 

ed  altri,  non  deve  offendersene,  per  aver  questi,  precisa  la  lor  cre- 
denza, date  alla  luce  del  mondo  opere  veramente  dignissime  di 
lode. 

CAP.    Ili 

Delle  ricerche  fatte  sopra  l'uomo,  sopra  la  natura  delle  anime 

umane,  loro  immortalità,  stato  doppo  la  morte  de'  corpi, 

e  resurezione  de'  medesimi.1 

Per  ciò  che  riguarda  la  nostra  religione  e  la  salute  delle  nostre 
anime,  bastava  che  fossimo  assicurati  dalla  divina  revelazione  dalla 
propria  bocca  di  N.  S.  della  loro  immortalità,  e  che  non  dovessimo 
temere  di  quelli  che  uccidono  il  corpo,  poiché  «animam»  e'  disse 
«occidere  non  possunt»;a  con  tutto  ciò  i  nostri  primi  teologi,  as- 
sumendo la  persona  ed  ufficio  di  filosofi,  come  se  tali  ricerche  si 
appartenesser  alla  nostra  religione  vollero  fisicamente  esaminare  la 
natura  delle  medesime,  di  qual  genere  di  sostanza  fossero,  come  se 
create  dal  niente  ovvero  per  propagine  negli  uomini  derivassero,3 
e  per  quali  fisiche  e  morali  ragioni  si  dimostrassero  immortali; 
nelle  quali  dispute  molti  caddero  in  gravissimi  e  perniciosi  errori. 


christianae,  Hagae  Comitis  1718,  a  cura  di  J.  Le  Clerc.  Gli  appunti  sono 
datati  «maggio  1747».  Relando  è  Adriaan  Reeland  (1676-1718),  orientalista 
olandese,  allievo  del  Graevius.  Il  Giannone  si  riferisce  soprattutto  a  Pa- 
lestina ex  monumentis  veteribus  illustrata,  Traiecti  B.  1714,  in  due  volumi. 
Bocarto:  Samuel  Bochart:  vedi  la  nota  s  a  p.  568.  Usserio:  James  Usher: 
vedi  la  nota  1  a  p.  666.  John  Marsham  (1602-1685),  scrittore  inglese,  autore 
del  Chronicus  canon  aegyptiacus,  hebraicus,  graecus,  et  disquisitiones,  Londi- 
ni  1672,  in  cui  è  rifusa  la  maggior  parte  della  precedente  Diatriba  chronolo- 
gica  (1649).  PnVfciiac :  Humphrey  Prideaux  (1648-1724),  orientalista  inglese: 
cfr.  la  sua  Histoire  des  Juifs  et  des  peuples  voisins  depuis  la  décadence  des 
royaumes  d*  Israel  et  de  Judas  jusqu'à  la  mort  de  Jesus  Christ,  Paris  1742, 
in  sei  volumi.  Cfr.,  alla  Biblioteca  Reale  di  Torino,  Var.  303,  ce.  1-62,  le 
osservazioni  inedite  del  Giannone  su  quest'opera  del  Prideaux,  letta  fra  il 
1  gennaio  1747  e  il  28  settembre  dello  stesso  anno.  1.  In  questo  capitolo 
il  Giannone  riprende  e  sviluppa  uno  dei  temi  fondamentali  del  Triregno. 
2.  «animam  . .  .  possunt»:  Matth.,  io,  28.  3.  per  propagine  .  . .  derivassero: 
si  tratta  del  traducianesimo,  di  cui  i  principali  sostenitori  furono  Tertul- 
liano in  senso  materialistico  (l'anima  deriva  dai  genitori  attraverso  il  seme) 
e  Agostino.  Sull'importanza  delle  tesi  di  quest'ultimo  nella  cultura  europea 
cfr.  J.  Roger,  Les  sciences  de  la  vie  dans  la  pensée  franpaise  du  XVIII  siede, 
Paris  1963,  passim,  ma  soprattutto  p.  329,  dove  si  analizzano  le  tesi  del 
libro  X  del  De  Genesi  ad  litteram,  dedicato  al  problema  dell'anima. 


LIBRO    I    •  CAP.  Ili  803 


Coloro  che  vollero  esaminarne  la  natura  e  la  sostanza  diedero  in 
opposte  e  contrarie  opinioni  secondo  la  varietà  delle  sette  de'  filosofi 
che  seguitavano.  I  priscillianisti,1  de'  quali  fu  capo  in  Ispagna  Pri- 
scilliano,  vescovo  di  Merida,  fra  gli  altri  errori  insegnavano  che 
l'anime  umane  fossero  della  stessa  natura  e  sostanza  della  quale 
era  Dio.  I  luciferiani2  surti  in  Sardegna  da  Lucifero  vescovo  di 
Cagliari,  insegnavano  il  contrario,  ed  esser  tanto  lontano  che  le 
anime  fossero  della  stessa  natura  di  Dio,  che  anzi  le  facevano  cor- 
poree, e  trasfondersi  e  generarsi  con  i  corpi,  ed  essere  di  sostanza 
di  carne,  e  dalla  carne  derivare;  e  poiché  questa  dottrina  esser 
l'anime  corporee  non  era  stata  ne*  primi  secoli  dalla  Chiesa  né 
rifiutata,  né  affermata,  lasciandosi  in  libertà  de*  vecchi  Padri  di 
disputarla  a  lor  arbitrio,  quindi  alcuni  costantemente  le  asserivano 
corporee,  infra  gli  altri  Tertulliano,3  il  quale  se  bene  affermasse 
l'anime  umane  esser  immortali,  le  credeva  però  corporee,  anzi  che 
lo  stesso  pensare  fosse  atto  di  corpo,  dicendo:  «ipse  cogitatus  actus 
corporis  est»;  e  Lattanzio  Firmiano,  il  qual  pure  le  fa  immortali, 
nel  libro  De  opificio  Dei*  non  riputò  falsa  l'opinione  d'alcuni  filoso- 
fi, che  le  facevano  eteree,  o  di  fuoco,  0  di  esile  e  tentassimo  vento, 
o  spirito;  sicome  diremo  trattando  de'  suoi  libri.  Quindi  S.  Ago- 
stino, se  bene  fosse  di  contrario  sentimento,  facendole  spiritali  e 
incorporee,  con  tutto  ciò  non  per  questo  riputò  Tertulliano  eretico, 
ma  sì  bene  per  esser  passato  nella  credenza  de'  catafrigi,5  i  quali 
dannavano  come  stupri  le  seconde  nozze,  contro  ciò  che  dall'appo- 


1.  priscillianisti:  seguaci  di  Priscilliano  (345-385),  vescovo  eretico  di  Avila. 
Negano  la  trinità  e  separano  l'anima  dal  corpo,  che  è  frutto  del  male,  men- 
tre per  Panima  seguono  la  teoria  emanatista  di  origine  gnostica.  2.  luci- 
feriani: seguaci  di  Lucifero  da  Cagliari,  vescovo  di  questa  città  dal  370: 
sono  rigoristi.  L'interesse  del  Giannone  per  questa  setta  nasce  dalle  parole 
di  Agostino  (cfr.  De  haeresibus  ad  Quodvultdeum  liber  unus,  lxxxi,  in  Migne, 
P.  L.,  xlii,  col.  45)  che  riferisce  che  i  luciferiani  credevano  anche  l'anima 
generata  col  corpo  dai  genitori.  3.  infra  gli  altri  Tertulliano:  nel  Liber  de 
anima,  v-vili,  in  Migne,  P.  L.,  li,  coli.  652  sgg.  Per  la  citazione  che  segue 
cfr.  il  Liber  de  resurrectione  carnis,  XV,  ibtd.,  col.  814:  «cogitatus  carnis  est 
actus».  Il  Giannone  aveva  già  utilizzato  il  pensiero  di  Tertulliano  sulla 
corporeità  dell'anima  nel  Triregno.  4.  De  opificio  Dei,  cap.  xvn,  De 
anima  deque  ea  sententìa  philosophorum,  in  Migne,  P.  L.,  vii,  coli.  68  sgg. 
5.  catafrigi:  è  uno  dei  tanti  appellativi  dei  montanisti.  Praticavano  un  ri- 
goroso ascetismo  in  attesa  della  parousia. 


804  APOLOGIA  DE'    TEOLOGI   SCOLASTICI 

stolica  dottrina  era  tenuto,  onde  nel  libro  De  haeresibus1  indrizzato 
a  Quodvuldeo  scrisse:  «Non  ergo  ideo  est  Tertullianus  factus 
haereticus,  sed  quia  transiens  ad  Cataphryges,  quos  ante  destru- 
xerat,  coepit  etiam  secundas  nuptias  contra  apostolicam  doctrinam 
tanquam  stupra  damnare».  Ma  Tertulliano  passò  più  innanzi,  af- 
fermando non  pur  gli  angeli,  ma  lo  stesso  Dio  esser  corporeo  f 
ciò  che  diede  la  spinta  a  Tomaso  Hobbes  nel  suo  Leviathan3  di 
francamente  dire  Dio  esser  corpo,  sul  supposto  che  chi  dice  «so- 
stanza immateriale  ed  incorporea»  dice  nulla,  non  potendosi  con- 
cepir sostanza  senza  corpo.  La  disavventura  di  Hobbes  fu  che  la 
Chiesa  anglicana  si  trovava  già  sin  dall'anno  1562  nel  trentesimo 
nono  articolo  aver  espressamente  deciso:  «Deum  esse  sine  cor- 
porea e  se  bene  Hobbes  dicesse  che  nella  S.  Scrittura  non  era  ciò 
dichiarato,  e  ch'essendo  questa  una  questione  di  filosofìa,  non  ap- 
parteneva alla  Chiesa  deciderla,  con  tutto  ciò  fu  obbligato  a  ritrat- 
tarsene, sicome  fece  nel  libro  De  cive,  cap.  15,  n.  14.4  Parimente 
S.  Agostino  non  riputò  eretico  Tertulliano  perché  teneva  l'anime 
umane  «per  traducem  propagari»,  e  secondo  dicevano  i  luciferiani, 
«ex  transfusione  generari»;  poiché  S.  Agostino  istesso  fu  sempre 
dubbio  e  vacillante,  se  l'anime  umane  si  propagassero  ex  traduce, 
ovvero  fossero  nella  concezione  de*  feti  da  Dio  dal  niente  create; 
e  per  questa  ragione  disputando  egli  intorno  alla  natura  dell'anima 
e  sua  origine  con  Vincenzo  Vittore,5  per  altri  suoi  errori,  non  già 
perché  riputasse  l'anime  corporee,  lo  qualificò  per  eretico,  ancor- 
ch'egli  sostenesse  che  fossero  spiritali  ed  incorporee,  sicome  più 
ampiamente  diremo,  quando  tratteremo  dell'uso  ed  autorità  che 
dovrà  tenersi  de'  suoi  libri.  Quindi  degli  stessi  luciferiani  scrivendo 
a  Quodvuldeo,  sospese  il  suo  giudizio  se  doveano  per  ciò  riporsi 

1.  De  haeresibus  cit.,  lxxxvi,  col.  47.  2.  Ma  Tertulliano  ,  .  .  corporeo:  cfr. 
Liber  adversus  Praxeam,  vii,  in  Migne,  P.  L.,  11,  col.  162:  «Quis  enim  ne- 
gabit  Deum  corpus  esse,  etsi  Deus  spiritus  est?».  3.  Leviathan,  London 
1651.  4.  De  rive,  Amsterodami  1647.  Questo  testo  era  a  disposizione  del 
Giannone  e  fu  letto  nel  maggio  1747.  Cfr.  infatti  Archivio  di  Stato  di  To- 
rino, manoscritti  Giannone,  mazzo  1,  ins.  15,  O,  ce.  5-8,  gli  appunti  del  Gian- 
none  tratti  da  questa  edizione;  ce.  8-9,  gli  appunti  tratti  da  Le  corps  poli- 
tique  (traduzione  di  S.  Sorbière),  s.  1.,  1652.  Tutto  il  brano  è  però  ripreso 
da  R.  Cumberland,  Traiti  philosophigue  des  loix  naturelles,  Amsterdam 
1744,  p.  53,  che  il  Giannone  lesse  nello  stesso  maggio  1747  (Archivio  cit., 
mazzo  1,  ins.  15,  O,  6).  Sul  problema  cfr.  S.  I.  Mnsrrz,  The  Hunting  of 
Leviathan,  Cambridge  1962,  soprattutto  pp.  145-6.  5.  disputando  . .  .Vit- 
tore: cfr.  De  anima  et  eius  origine  libri  quatuor,  in  Migne,  P.  L.t  xliv,  coli. 
475  sgg. 


LIBRO    I    •  CAP.  Ili  805 

fra  il  numero  degli  eretici.1  Vi  furono  però  degli  altri,  i  quali  die- 
dero in  aperte  bestemmie,  sicome  furono  gli  ermiani,2  i  quali  fa- 
cevano autori  delle  anime  umane  gli  angeli,  non  già  Iddio,  i  quali 
le  infondessero  ne'  corpi,  non  già  dal  niente,  ma  le  formassero 
dallo  spirito  e  dal  fuoco.  Altri  insegnavano,  fra'  quali  fu  Vincenzo 
Vittore,3  che  Iddio  infondesse  l'anime  ne'  corpi  umani,  non  già 
creandole  dal  niente,  ma  derivandole  dal  suo  spirito.  Del  qual 
sentimento  sembra  che  fosse  stato  Teodoreto,4  il  qual  anche  cre- 
dette avere  Iddio  insufflata  l'anima  ad  Adamo  «  utique  ex  suis  ipse 
visceribus»;  e  S.  Girolamo  ad  Eliod.  scrisse  pure:  «Deus  suis  e 
visceribus  expromptam  tibi  in  faciem  et  in  pectus  vitam  indidit  ».s 
Ma  i  manichei  diedero  in  più  portentose  e  stravaganti  frenesie. 
Essi,  ammettendo  due  opposti  princìpi,  sognarono  in  conseguenza 
che  s'infondessero  ne'  corpi  umani  due  sorti  di  anima,  l'una  di 
natura  buona,  l'altra  di  natura  perversa  e  cattiva,  e  quindi  nascesse 
nell'uomo  quel  conflitto  del  quale  parla  S.  Paolo;  e  S.  Agostino 
ragguagliando  a  Quodvuldeo  degli  errori  de'  manichei,  fra  gli  al- 
tri gli  dice:  «Easque  duas  animas,  vel  duas  mentes,  unam  bonam, 
alteram  malam  in  uno  homine  inter  se  habere  conflictum,  quando 
caro  concupiscit  adversus  spiritum  et  spiritus  adversus  carnem  »,6 
ond'è  che  in  confutazione  di  questa  falsa  dottrina  scrivesse  contro 
i  medesimi  il  libro  De  duàbus  animàbus?  E  chi  potrebbe  annoverare 
di  questi  e  di  altri  fanatici  quanto  di  strano  fantasticarono  sopra  la 
natura  delle  nostre  anime:  ciocché  non  si  apparteneva  punto  alla 
cristiana  religione? 

11 

Ve  ne  furono  ancora  de'  più  arditi  e  temerari,  i  quali  non  ac- 
quetandosi alla  divina  revelazione,  vollero  mettere  anche  in  disputa 
la  loro  immortalità,  ed  alcuni  farle  anche  co'  corpi  morire:  ripu- 

1.  Quindi .  .  .  eretici',  cfr.  De  haeresibus  cit.,  lxxxi,  col.  45.  2.  sicome .  .  . 
ermiani:  cfr.  ibid.,  Lix,  col.  41.  3. fra7  quali.  .  .  Vittore:  c£r.  De  anima 
ecc.,  loc.  cit.  4.  Teodoreto:  vedi  la  nota  a  a  p.  31.  Le  sue  opere  in  Migne, 
P.  <?.,  lxxx-lxxxiv,  ma  non  ci  è  riuscito  di  rintracciare  il  passo  citato. 
5.  eS.  Girolamo  . . .  indidit:  due  le  lettere  di  Gerolamo  a  Eliodoro  in  Migne, 
P.  L.,  xxn  :  la  xrv,  coli.  347  sgg.  e  la  lx,  coli.  590  sgg.  ;  ma  in  nessuna  di  esse 
c'è  il  passo  qui  citato  («  Dio  ti  ha  infuso  nel  volto  e  nel  petto  la  vita  traendola 
fuori  dalle  proprie  viscere»).  6.  e  S.  Agostino  .  .  .  carnem:  cfr.  De  haeresi- 
bus cit.,  xlvi,  coli.  34  sgg.  La  citazione  a  col.  38;  il  passo  di  san  Paolo  in 
Gal.,  5,17.  7.  De  duabus  animabus  contra  manichaeos  liber  unust  in  Migne, 
P.  L.9  xlii,  coli.  93  sgg. 


806  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

tando  non  per  ciò  distruggersi  la  religione  cristiana,  né  togliersi 
doppo  morte  l'altra  vita  immortale  ed  eterna  e  la  retribuzione  se- 
condo i  meriti,  poiché  la  generale  resurezione  ch'essi  la  credevano 
non  meno  de*  corpi  che  delle  anime,  riponeva  tutto  l'uomo  nel  suo 
pristino  stato:  sicché  ciascuno  riceveva  la  pena,  o  il  premio,  secondo 
che  nel  corpo  si  avea  meritato.  Si  abusavano  di  quanto  S.  Paolo 
inculcava  a*  Corinti,  ep.  i,  e.  15,  i  quali  dubbitavano  della  risul- 
zione de'  morti,  dicendogli  che  se  i  morti  non  dovessero  risuscitare, 
sarebbe  perduta  tutta  la  loro  speranza,  e  tutte  le  loro  angoscie  e 
patimenti  sarebbero  riusciti  vani,  e  sofferti  senza  speranza  di  pre- 
mio alcuno,  se  l'uomo  non  fosse  restituito  per  la  resurezione  nel 
primiero  suo  stato.  Si  abusavano  eziandio  delle  declamazioni  di 
Tertulliano  contro  coloro  i  quali  negavano  la  resurezione  della 
carne,  dicendogli  che  se  toglievano  la  resurezione,  toglievano  e 
buttavano  a  terra  tutta  la  religione  cristiana,  il  cui  principal  fon- 
damento ed  unica  base  era  la  resurezione,  la  quale  era  necessaria 
poiché  sicome  tutto  l'uomo,  che  non  può  concepirsi  se  non  d'ani- 
ma e  di  corpo,  in  sua  mortai  vita  meritossi  premio  per  le  buone 
opere,  o  castigo  per  le  prave,  così  tutto  l'uomo  dovea  essere  resti- 
tuito per  godere  0  della  vita  beata,  ovvero  soffrir  tormenti  nel[l'in- 
ferno].1 

S.  Agostino  dal  libro  sesto  dell'Istoria  di  Eusebio  scrisse  a  Quod- 
vuldeo  che  nell'Arabia  erano  alcuni  eretici  cristiani,  ch'egli  chiama 
Arabici,  «  qui  dixerunt  »  e'  dice  «  animas  cum  corporibus  mori,  at- 
que  dissolvi,  et  in  fine  seculi  utrunque  resurgere  ».2  In  breve,  sico- 
me presso  gli  Ebrei  vi  fu  gran  contrasto  sopra  l'immortalità  del- 
l'anima tra  farisei  e  sadducei,  così  pure  tra'  cristiani  fra  gli  Arabici 
ed  altri  cattolici  delle  altre  nazioni;  e  sicome  la  sentenza  de'  farisei, 
i  quali  erano  per  l'immortalità,  era  la  più  ricevuta,  e  comunemente 
abbracciata,  ed  all'incontro  la  contraria  de'  sadducei,  i  quali  giu- 
dicavano le  anime  esser  mortali  insieme  co'  corpi,  da  pochi  era  ac- 
cettata, così  la  dottrina  degli  Arabici  era  da  pochi  ricevuta,  e  la 
contraria  universalmente  era  abbracciata  e  sostenuta,  secondo  che 
per  gli  Ebrei  ce  ne  rende  testimonianza  Flavio  Giuseppe  nel  lib. 


1.  \Vinferno\i  il  manoscritto  è  qui  guasto,  e  integriamo  cosi  il  testo.  2.  S. 
Agostino  . . .  resurgere:  cfr.  De  haeresibus  cit.,  lxxxiii,  col  46.  La  citazione 
di  Agostino  è  tratta  da  Eusebio  di  Cesarea,  Historia  ecclesiastica,  vi,  xxxvn 
(«i  quali  dissero  che  l'anima  muore  e  si  dissolve  con  il  corpo  e  che  ambedue 
risorgono  alla  fine  dei  tempi»). 


LIBRO    I   •  CAP.  Ili  807 

18  delle  sue  Antichità  giudaiche.1  Quindi  leggiamo  presso  Tacito, 
lib.  5  Hist.y  fra  le  comuni  credenze  de*  Giudei  rapportare  anche 
questa,  dicendo:  «animasque  proelio  aut  suppliciis  peremtorum 
aeternas  putant  »  f  poiché  sebene  i  sadducei  tenessero  contraria  dot- 
trina, eran  sì  pochi  i  lor  seguaci,  che  non  poterono  far  argine  ad 
una  moltitudine  ampia  e  sì  diffusa.  S.  Luca  negli  Atti,  cap.  23,  8, 
pur  rapporta  che  i  sadducei  contro  ciò  che  tenevano  i  farisei  nega- 
vano le  tradizioni,  negavano  esservi  spirito  o  angelo  alcuno,  nega- 
vano ogni  resurezione,  e  che  Panime  insieme  co'  corpi  perivano 
senza  speranza  di  più  risorgere.  Ma  non  per  questo  erano  esclusi 
dalla  comunione  della  chiesa  giudaica;  la  Sinagoga  Magna  ch'era 
in  Gerusalemme,  sicome  tutte  Paltre  innumerabili  sinagoghe  ch'e- 
rano sparse  nella  Palestina  non  meno  che  in  tutte  le  provincie  della 
Grecia,  dell'Asia,  dell'Affrica  e  dell'Europa,  erano  composte  ugual- 
mente de'  farisei  e  de'  sadducei,  ed  a  vicenda  ora  un  partito,  ora 
l'altro  si  rendeva  più  forte,  e  l'autorità  degli  uni  ora  vedeasi  sce- 
mata, ora  ingrandita  sopra  gli  altri,  perché  nell'antica  Legge  tutto 
si  aggirava  nel  regno  terreno,  ed  anche  coloro  che  ammettevano  la 
resurezione,  resuscitati  che  fossero,  non  se  l'assegnava  altro  regno 
che  pur  terreno,  non  avendo  alcun  concetto  di  regno  celeste,  onde 
non  era  un  articolo  fondamentale  della  loro  religione,  e  poteva  di- 
sputarsi del  prò  e  del  contro.,  sicome  altrove  sarà  ampiamente  esa- 
minato.3 Lo  stesso  concetto  ebbero  gli  eretici  Arabici,  che  non 
perch'essi  avessero  dell'anime  umane  quella  credenza,  doveano 
riputarsi  fuori  della  Chiesa  cristiana,  e  non  della  stessa  comunione; 
poich'essi  erano  veri  cristiani,  e  credevano  gli  altri  articoli  e  spe- 
zialmente i  fondamentali  e  più  importanti  della  consumazione  del 
mondo,  della  generale  resurezione,  del  giudicio,  della  vita  eterna, 
del  paradiso  e  dell'inferno;  e  che  dovendo  tutti  risorgere,  questa 
resurezione  dovea  essere  non  meno  del  corpo  che  dell'anima  ambo 
già  risoluti  per  morte,  perché  tutto  l'uomo  fosse  restituito  nel  suo 
primiero  stato.  Né  riputavano  per  questa  lor  dottrina  offendersi 
punto  la  buona  morale,  quasi  che  rendesse  gli  uomini  più  dissoluti, 
sicome  quelli  che  doppo  la  lor  morte  non  temevano  alcuna  pena 


1.  secondo  che  .  .  .giudaiche:  cfr.  Antiq.  iud.,  xvin,  1,  3-4.  a.  «animasque 
. .  .putant»:  Hist.t  v,  5  («ritengono  eterne  le  anime  di  coloro  che  son 
morti  in  battaglia  o  nei  tormenti»).  3.  Ma  non  per  questo  .  . .  esaminato: 
ritoma,  senza  attenuazioni,  una  delle  tesi  del  Triregno,  che  la  resurrezione 
e  anche  l'immortalità  dell'anima  non  fossero  un  dogma  dell'antica  legge. 


808  APOLOGIA  DE'    TEOLOGI   SCOLASTICI 

per  le  loro  anime,  la  quale  era  differita  doppo  la  resinazione  e  giu- 
dicio  universale;  poiché  ciò  non  dovea  essergli  di  lusinga  per  non 
menare  una  vita  pura  ed  incontaminata,  niente  importando  essersi 
differita  la  pena  o  il  premio  doppo  la  fine  del  mondo.  Per  ciò  che 
riguarda  a  gli  uomini  è  tutt'uno,  poiché  all'anima  separata  dal 
corpo,  tuffandosi  in  un  profondo  sonno,  qualunque  lunghezza  di 
tempo,  che  framezzi  tra  il  nostro  morire  ed  il  giorno  estremo,  sem- 
brerà un  sol  momento,  e  gli  parrà  come  se  allora  fosse  uscita  dal 
corpo,  sicome  l'esperienza  tutto  giorno  ci  manifesta  ne*  dormienti, 
e  molto  più  in  coloro  a*  quali,  oppressi  da  grave  e  lungo  letargo, 
svegliati  che  sono,  sembra  un  momento  tutti  i  giorni  scorsi  del  lor 
letargo.  Ed  è  famosa  l'istoria  presso  Plinio,  Plutarco  ed  altri  an- 
tichi scrittori,  di  quel  giovane,  il  quale  stanco  dal  cammino  e  dal 
caldo,  postosi  in  una  spelonca  a  dormire,  non  si  svegliò  se  non 
dopo  cinquanta,  anzi  come  scrive  Plinio,  lib.  7,  cap.  52,  doppo 
cinquantasette  anni,  maravigliandosi  di  trovar  mutata  la  faccia  del- 
le cose,  poiché  credea  «velut  postero  experrectum  die».1  In  queste 
follie  ed  in  tali  estremità  non  sapendo  tener  la  via  di  mezzo,  diedero 
gli  Arabici,  i  quali  furon  cagione  che  altri,  calcando  contrari  sen- 
tieri, dassero  in  un'altra  estremità  non  meno  perniciosa  e  folle  che 
la  già  detta. 

in 

Vi  furono  di  quelli,  i  quali  niente  curando  de'  corpi,  ed  ascri- 
vendo alle  sole  anime  l'altra  vita  eterna  che  succederà  doppo  questa 
caduca  e  mortale,  negarono  assolutamente  la  resurezione  de'  corpi, 
e  che  le  sole  anime,  secondo  i  lor  meriti,  fosser  destinate  al  godi- 
mento d'una  vita  beata  e  gioconda,  ovvero  al  patimento  d'un'op- 
posta,  rea  e  tormentosa.  L'anima  sola  peccare,  non  il  corpo  ;  l'ani- 
ma meritare,  all'anima  attribuirsi  le  virtù  ed  i  vizi,  e  per  conseguen- 
za la  pena  ed  il  premio.  Valentino,2  della  scuola  di  Alessandria, 
fu  colui  che  negando  la  resurezione  della  carne,  insegnò,  come 
scrisse  S.  Agostino  a  Quodvuldeo:  «Animarti  tantum  et  spiritum 
affirmat  per  Christum  salvari»;3  della  qual  eresia  ne  furono  conta- 


1.  «  velut .  . .  die»:  cfr.  Naturalis  historia,  Parisiis  1723,  in  tre  tomi,  a  cura  di 
J.  Hardouin,  I,  p.  408  («come  se  si  fosse  destato  il  giorno  dopo»).  2.  Va- 
lentino: eretico  gnostico  del  II  secolo.  3.  «Animam  . . .  salvati»:  cfr.  De 
haeresibus  cit.,  xi,  col.  28  (citazione  non  testuale:  «afferma  che  soltanto 


LIBRO    I    •  CAP.  Ili  809 

minati,  non  solo  i  valentiniani  della  sua  setta,  ma  trasse  ancora 
gran  numero  di  credenti,  come  i  marcioniti,  i  basilidiani,  ed  altri. 
Si  abusavano  di  quelle  parole  di  S.  Paolo  :  che  la  carne  ed  il  sangue 
non  possono  godere  del  regno  de*  cieli;1  ed  oltre  ciò  riputavano 
la  generale  resurezione  di  tutti  i  corpi,  con  restituirsi  a  ciascuno  il 
suo  proprio,  essere  impossibile  e  ripugnare  in  fisica,  e  con  ragioni 
naturali  e  filosofiche  abbattere  la  divina  revelazione.  E  poiché  da' 
quattro  Evangeli,  dagli  Atti  di  S.  Luca,  dall'epistole  di  S.  Paolo  e 
dagli  altri  appostoli  erano  manifestamente  convinti  del  contra- 
rio, poiché  Cristo  veramente  risuscitò  riprendendo  la  propria  sua 
carne  ed  ossa,  manifestandosi  e  facendo  palpare  il  suo  corpo  a  gli 
appostoli,  i  quali  lo  vider  poi  co*  propri  occhi  ascendere  in  cielo, 
veduto  anche  da  più  di  cinquecento  altri  secondo  la  testimonianza 
che  ce  ne  rende  S.  Paolo,  /  ad  Corint,  15,  6,  che  furono  risuscitati 
più  corpi  de'  santi,  che  condusse  seco  in  paradiso  ;  ed  altre  mani- 
feste ed  indubbitabili  pruove  d'una  vera,  reale  e  fisica  resurezione, 
essi  per  non  sapersi  sviluppare  da  tali  indissolubili  nodi,  diedero 
in  più  stravaganti  vaniloqui  e  fanatismi:  alcuni  sognarono  che 
Cristo  non  realmente  sofferse  passione  e  morte,  ma  fu  tutta  visione 
ed  apparenza,  sicome  insegnavano  i  merintiani,  ed  i  cerdoniani 
diceano,  sicome  rapporta  S.  Agostino  a  Quodvuldeo  :  «  Christum- 
que  ipsum  neque  natum  ex  foemina,  neque  habuisse  carnem,  nec 
vere  mortum,  vel  quicquam  passum,  sed  simulasse  passionem»,* 
nel  qual  errore  narra  S.  Agostino  nelle  sue  Confessioni  che  cadde 
Nebridio,3  suo  caro  amico,  ancorché  poi  si  ritrattò  e  morì  cattolico, 
il  qual  pur  credea  che  la  carne  di  Cristo  non  fosse  reale,  ma  fanta- 
stica. Ed  Apelle,  da  cui  sursero  gli  apelliti,  dice  S.  Agostino  che 
insegnava  che  Cristo  cesine  carne  resurgens,  in  coelum  ascendit»,4 
e  da  poi  lo  stesso  sostennero  anche  i  manichei  ed  un  tal  Marco,  il 


l'anima  e  lo  spirito  si  salvano  per  mezzo  di  Cristo  »).  Cfr.  D.  Aulisio,  Delle 
scuole  sacre  libri  due  postumi,  Napoli  1723,  tomo  11,  cap.  xix,  Che  dal  ruo- 
lo de*  teologi  alessandrini  Filippo  Sidete  cassò  Valentino  e  Ario,  pp.  86  sgg. 
1.  quelle  parole  .  .  .  cieli:  I  Cor.,  15,  50.  2.  sicome  .  .  .passionem:  cfr.  De 
haeresibus  cit.,  vili,  col.  27:  «Cermthiani  a  Cerintho,  udemque  merinthiani 
a  Merintho,  mundum  ab  angelis  factum  esse  docentes  . . .»;  cfr.  ancora 
ibid.t  xxi,  col.  29:  «Cerdoniani  a  Cerdone  nominati . . .».  Questi  ultimi 
sostenevano  la  sola  natura  spirituale  di  Cristo.  La  citazione  nel  testo  a 
col.  29.  3.  narra  . . .  Nebridio:  Conf.,  ix,  ni,  in  Migne,  P.  L.t  xxxn,  col. 
765.  4.  Ed  Apelle  .  . .  ascendit:  cfr.  De  haeresibus  cit.,  xxin,  col.  29  («risor- 
gendo senza  carne  sali  al  cielo  »). 


8lO  APOLOGIA  DE»    TEOLOGI   SCOLASTICI 

quale,  secondo  che  scrisse  S.  Agostino  a  Quodvuldeo,  negava  la 
resurezione  della  carne  «et  Christum  non  vere,  sed  putative  pas- 
sum  asseverans  »,*  onde  dicevano  che  Cristo  così  pure  in  apparenza 
risuscitò  e  fosse  veduto  dagli  appostoli,  e  non  già  fisicamente  e 
realmente. 

Ma  ciò  che  diede  loro  la  spinta  maggiore  di  negare  la  resurezione 
de'  morti,  spezialmente  a  Valentino  ed  agli  altri  professori  del 
Museo  di  Alessandria  i  quali  dal  gentilesimo  passarono  al  cristia- 
nesimo,3 fu  perché  la  riputarono  impossibile,  e  ripugnare  in  fisica 
che  ciascuno  potesse  ripigliare  lo  stesso  suo  corpo  che  lasciò  mo- 
rendo ;  poiché  le  parti  minime  che  lo  compongono,  secondo  il  co- 
stante tenore  e  perpetuo  trasmutamento  che  s'esperimenta  in  na- 
tura, passano  in  altre  varie  ed  infinite  forme,  faccendosene  e  terra  e 
piante  e  frutti  ed  erbe,  le  quali  mangiate  dagli  uomini  e  dagli  ani- 
mali, e  questi  pure  servendo  per  cibo  all'uomo,  fassi  che  di  nuovo 
si  convertano  in  carne  umana  e  formino  un  altro  uomo,  il  qual  poi 
morto,  del  suo  corpo  fassi  lo  stesso  trasmutamento,  e  così  in  infini- 
to ;  sicché  in  discorso  di  tempo,  di  quelle  stesse  minute  parti  che 
componevano  un  uomo  successivamente  se  ne  formano  innume- 
rabili altri,  e  fino  alla  resoluzione  del  mondo,  doppo  il  corso  di 
tanti  secoli,  certamente  che  nel  dì  della  universale  resurezione  se 
ne  troveranno  moltissimi  i  quali  saranno  stati  formati  delle  stesse 
parti;  dovendosi  adunque  restituire  a  ciascuno  il  suo  corpo,  a  chi 
dovranno  restituirsi,  a*  primi  o  a  gli  ultimi  ?  E  se  a  tutti,  certamente 
che  mancherà  la  materia  per  formargli.  Di  un  simil  argomento  si 
valsero  i  sadducei,  i  quali  negavano  la  resurezione,  quando,  ten- 
tando il  nostro  Redentore,  che  cotanto  inculcava  la  resurezione, 
gli  dimandarono:  «Magister,  Moyses  dixit:  Si  quis  mortuus  fuerit 
non  habens  filium,  ut  ducat  frater  eius  uxorem  illius  et  suscitet 
semen  fratri  suo.  Erant  autem  apud  nos  septem  fratres  :  et  primus 
uxore  ducta,  defunctus  est  :  et  non  habens  semen,  reliquit  uxorem 
suam  fratri  suo;  similiter  secundus,  et  tertius,  usque  ad  septi- 
mum.  Novissime  autem  omnium  et  mulier  defuncta  est.  In  resur- 
rectione  ergo  cuius  erit  de  septem  uxor?  Omnes  enim  habuerunt 
eam»,  Matth.,  22, 24,  Marc,  12, 19,  Lue,  20, 28.3  Ma  Giesù  Cristo 

1.  secondo  . .  .  asseverans:  cfr.  ibid.t  xiv,  col.  28  («sostenendo  che  la  passione 
di  Cristo  non  fosse  reale,  ma  immaginaria  »).  2.  cristianesimo  :  correggiamo 
il  «cristianissimo»  del  manoscritto.  3.  Magister  . .  .  Luc.y  20 ,  28:  la  cita- 
zione è  tratta  da  Matth.t  22,  24-8- 


LIBRO    I   •  CAP.  Ili  8ll 

prontamente  rispose  alla  loro  dimanda  dicendogli  che  gli  uomini 
di  questo  secolo  si  maritano  poich' essendo  soggetti  a  morte  vi  è 
d'uopo  che  in  lor  vece  per  le  nozze  si  sorroghino  altri  ;  ma  coloro 
che  doppo  la  resurezione  saranno  degni  dell'altro  secolo  immortale 
ed  eterno,  non  avran  questo  bisogno  di  maritarsi,  poiché,  come 
soggiunge  S.  Luca,  20,  28  :z  «neque  ultra  mori  poterunt:  aequales 
enim  angelis  sunt  et  filii  sunt  Dei,  cum  sint  fìlii  resurrectionis  ». 
Questa  risposta  se  bene  chiuse  la  bocca  a'  sadducei  a  riguardo  della 
lor  dimanda  di  chi  di  que'  sette  dovea  esser  moglie,  giacché  nella 
prima  vita  l'avea  avuti  tutti  per  mariti,  non  potea  però  niente 
giovare  per  risolvere  il  proposto  argomento,  onde  i  nostri  Padri 
antichi  si  affaticarono  di  cercar  altronde  altro  scioglimento.  Tra' 
primi  fu  Atenagora,3  non  men  famoso  teologo  che  celebre  filosofo 
della  scuola  di  Alessandria,  il  quale  per  abbatterlo  compose  di 
proposito  sopra  ciò  un  particolar  libro  trattando  fisicamente  della 
proposta  materia,  esaminando  come  si  facea  la  digestione  de'  cibi 
nel  nostro  stomaco,  e  facendo  altre  simili  fisiche  osservazioni;  ma 
a  giudicio  delli  stessi  Padri  riuscì  così  debole  ed  insufficiente  che 
più  tosto  rese  i  contrari  maggiormente  più  arditi  e  di  se  stessi 
più  altieri,  vedendo  che  non  si  trovava  risposta  al  loro  insolubile, 
come  lo  credevano,  ed  invincibile  argomento.  Si  accinsero  per 
ciò  molti,  fra'  quali  Tertulliano,  Lattanzio  Firmiano,  Cirillo  Gero- 
solimitano ed  altri  per  abbatterlo  con  maggior  nerbo  e  forza,  ma 
pure  la  loro  impresa  riuscì  infelice  e  senz'alcun  frutto.  Finalmente 
S.  Agostino  ne'  libri  della  Città  di  Dio  tentò  pure  far  lo  stesso, 
ma  sfuggì,  sicome  sarà  manifesto  a  chi  attentamente  li  leggerà,  la 
principal  difficoltà  già  detta,  cioè  come  desistesse  particelle,  es- 
sendosene in  discorso  di  tanti  secoli  formati  successivamente  più 
corpi  umani,  possa  a  ciascuno  delle  medesime  rifarsi  il  proprio, 
giacché  ciò  seguendo,  a  gli  altri  certamente  mancherà  la  materia, 
e  prendendosene  altra,  non  sarà  lo  stesso  corpo,  ma  tutt'altro  e 
diverso.  Egli  così  nel  primo  libro  della  Città  di  Dio  come  negli 
ultimi,  e  nell'altre  sue  opere,  se  ne  disbriga  dicendo:  «quanto  mi- 
nus  debent  de  corporibus  insepultis  insultare  christianis,  quibus 
et  ipsius  carnis  membrorumque  omnium  reformatio,  non  solum 

1.  S.  Luca,  20 ,  28:  rectius  20,  36.  2.  Atenagora:  cfr.  quanto  dice  D.  Auli- 
sio,  Delle  scuole  sacre  cit.,  tomo  n,  cap.  xxi,  Atenagora,  1  professore  nella 
sacra  scuola  d'Alessandria,  innestò  la  ragione  umana  nella  teologia,  pp.  93  sgg. 
Cfr.  soprattutto  p.  97. 


8l2  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

ex  terra,  veruni  etiam  ex  aliorum  elementorum  secretissimo  sinu, 
quo  dilapsa  cadavera  recesserunt,  in  temporis  puncto  reddenda, 
et  redintegranda  promittitur».1  Ciocché  ripete  nel  libro  De  cura 
prò  mortuis1  scritto  a  S.  Paolino  vescovo  di  Nola,  ed  altrove,  ma 
non  discioglie  la  difficoltà  proposta.  E  forse  meglio  il  P.  Francesco 
Suarez  gesuita,  3.  p.,  q.  53,  a.  i,3  e  con  più  accuratezza  di  tutti 
gli  antichi  Padri  esaminò  questo  punto;  ed  è  anche  da  vedersi 
Nathanaélem  Carpentario,  che  trattò  pure  della  resurezione  de' 
corpi  nelYExercit.  16  Liberae  philosophiae* 

Lo  scioglimento  vero  d'un  tal  nodo  dipende  dai  ponderare  in 
natura  chi  faccia  che  una  cosa  si  dica  la  stessa,  o  simile  ovvero  di- 
versa; e  si  troverà  che  non  siano  le  minime  particelle  che  compon- 
gono i  corpi,  ma  sì  bene  la  positura,  l'ordine,  il  sito,  la  relazione, 
la  collocazione,  infine  la  disposizione  ed  armonia  del  tutto,  che 
facci  riputar  lo  stesso  corpo,  e  non  già  le  minime  particelle  che  lo 
compongono.  Ciò,  oltre  awerlo  avvertito  Aristotele,  ed  i  più  gravi 
e  seri  filosofi,  si  rende  manifesto  dall' istessa  esperienza.  I  fiumi 
sono  riputati  sempre  gli  stessi,  ancorché  le  stille  di  acque  che  li 
formano  non  siano  certamente  le  medesime,  rapidamente  fuggen- 
do, e  sempre  nuove  surrogandosi  in  luogo  delle  scorse.  I  nostri 
corpi  stessi,  sicome  acutamente  fu  avvertito  da  Alfeno  Varo,  non 
men  profondo  filosofo  che  sapientissimo  giurisconsulto,  nella  1.  Pro- 
ponébatur  D.  de  iudiciis,5  se  dovessero  attendersi  le  minime  particel- 
le delle  quali  constano  non  sarebbero  gli  stessi  di  quelli  che  furono 
venti  anni  a  dietro,  poiché  di  continuo  svaporando,  ed  in  lor  vece 
sorrogandosene  altre,  sono  altri  e  diversi;  ma  la  stessa  collocazione, 
ordine,  relazione  e  sito  fa  che  siano  i  medesimi,  sicome  accade  in 

1.  «  guanto  mìnus . .  .promittitur»:  De  evo.  Dei,  1,  xn,  2,  in  Migne,  P.  L., 
xli,  col.  27  («  quanto  meno  debbono  oltraggiare  i  cristiani  per  il  fatto  che  i 
loro  corpi  sono  rimasti  senza  sepoltura,  poiché  è  stato  promesso  ai  cristiani 
che  la  loro  carne,  che  tutte  le  loro  membra,  rifatte  non  solo  dalla  terra,  ma 
anche  dal  più  recondito  seno  degli  altri  elementi,  in  cui  sono  spariti  dis- 
solvendosi i  cadaveri,  verranno  loro  d'un  tratto  restituite  e  rinnovate»). 

2.  De  cura  prò  mortuis  gerenda  ad  Paulinum  hber  unus,  in  Migne,  P.  L.,  XL, 
coli.  591  sgg.  3.  Del  famoso  teologo  e  gesuita  spagnolo  Francisco  Suarez 
(1548- 16 17)  si  cita  qui  il  commento  a  san  Tommaso:  Commentariorum  ac 
disputationum  in  tertiam  partem  divi  Thomae,  s.  1.  16 17,  in  cinque  tomi. 
4.  Nathanaélem  . .  .  philosophiae:  di  Nathanael  Carpenter  (1585-1628),  fi- 
losofo inglese  antiaristotelico,  vien  qui  citata  la  Philosophia  libera  duplici 
exercitationum  decade  proposita  . . .,  Francofurti  1621.  5.  Su  Alfeno  Varo 
vedi  la  nota  2  a  p.  752.  Cfr.  Digesto,  v,  1,  De  iudiciis,  par.  lxxvi,  dove  si 
cita  il  libro  vi  dei  Digesta  di  Alfeno. 


LIBRO   I   •  CAP.  Ili  813 

tutti  gli  altri  animali  ed  in  tutte  le  cose  che  nel  cielo,  nell'acqua  e 
sopra  la  terra  si  muovano  e  crescono.  Lo  stesso  osserviamo  ne' 
corpi  civili;  sarà  lo  stesso  popolo,  ancorché  gli  uomini  che  prima  lo 
componevano  non  siano  gli  stessi;  lo  stesso  senato,  ancorché  altri 
fossero  i  senatori  presenti  che  i  passati  ;  la  stessa  centuria,  la  stessa 
legione,  lo  stesso  essercito,  ancorché  non  i  medesimi  capitani,  non 
gli  stessi  duci,  non  gli  stessi  soldati.  Anche  nelle  cose  manufatte 
si  osserva  il  medesimo  ;  saranno  gli  stessi  edifici,  ancorché  di  tempo 
in  tempo  rifatti  non  siano  le  stesse  prime  pietre;  la  stessa  nave, 
ancorché  spesso  rifatta  a  lungo  andare  non  serbi  tavola  alcuna  di 
quelle  onde  la  prima  volta  fu  costrutta,  come  lo  fu  la  nave  di  Teseo 
lungo  tempo  conservata  in  Atene  per  pruova  della  vittoria  riportata 
sopra  Minotauro  re  di  Creta.  E  chi  potrebbe  annoverare  tanti  altri 
infiniti  essempli,  per  li  quali  è  manifesto  che  le  cose  siano  le  stesse 
non  già  per  le  minime  particelle  che  le  compongono,  ma  per  la 
relazione,  positura  ed  ordine  ?  Or  riducendo  questa  verità  al  sog- 
getto che  abbiam  per  le  mani  deve  in  prima  riflettersi  Dio  esser 
Punico  fabro  della  natura  e  di  quanto  di  visibile  ed  invisibile  con- 
tiene l'ampio  universo,  al  quale  è  pronta  ed  apparecchiata  ogni 
materia,  dalla  quale  possa  rifare  a  ciascuno  il  proprio  corpo  se- 
condo quella  stessa  forma  che  lo  lasciò  morendo  ;  e  sarà  il  medesimo, 
poiché  avrà  la  stessa  figura,  disposizione  e  relazione;  la  stessa  col- 
locazione, grandezza,  sito  e  qualità  delle  membra  che  prima  lo 
componevano.  Quanti  corpi  umani  sono  dalle  fiere  divorati  ?  Quanti 
bruggiati  ed  arsi,  e  sovente  le  loro  ceneri  sparse  al  vento  o  gettate 
nel  mare?  Quanti  naufragati  sono  ingoiati  da'  pesci  e  resi  fiero 
pasto  de*  mostri  marini?  Narra  Eusebio  nella  sua  Istoria  ecclesia- 
stica tradotta  dai  greco  in  latino  da  Rufino,  nella  Gallia  più  corpi 
di  martiri  brugiati  e  le  ceneri  sparse  nel  Rodano;1  ciocché  S.  Ago- 
stino rammenta  nel  libro  De  cura  prò  mortuis,  dicendo  :  «  Legimus 
in  Ecclesiastica  historia,  quam  graece  scripsit  Eusebius  et  in  latinam 
linguam  vertit  Rufinus,  martyrum  corpora  in  Gallia  canibus  expo- 
sita,  canumque  reliquias  atque  ossa  mortuorum  usque  ad  extre- 
mam  consumationem  ignibus  concremata:  eosdemque  cineres  flu- 
vio  Rhodano  ne  quid  ad  memoriam  qualemcumque  relinqueretur, 
inspersos».2  Non  avrà  dunque  Iddio  modo  di  rifargli  tutti  nel 

1.  Narra  Eusebio  .  .  .  Rodano:  Hist.  eccl,  v,  1,  in  Migne,  P.  G.,  xx,  coli. 
407  sgg.  z.  «Legimus  .  .  .  inspersos»:  De  cura  prò  mortuis  gerenda  cit.,  vi, 
col.  597  («Nella  Storia  ecclesiastica,  che  Eusebio  scrisse  in  greco  e  Ru- 


814  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI   SCOLASTICI 

giorno  dell'universal  resurezione  ?  In  troppo  brevi  confini  ristrin- 
gono costoro  la  divina  onnipotenza;  ed  intorno  alla  formazione 
degli  uomini,  dicono  il  profeta  Esaia  e  S.  Paolo  che  sono  in  mano  di 
Dio  sicome  la  creta  in  mano  del  vasaio,1  con  questa  differenza  che 
a  costui  potrà  mancar  la  creta  per  formar  suoi  vasi,  ma  a  Iddio, 
unico  fabro  di  tutte  le  cose,  la  materia  è  sempre  pronta  ed  inesau- 
sta. Or  aggiungendo  al  corpo  rifatto  la  stessa  anima  che  prima  l'in- 
formava,  chi  potrà  dubbitare  che  non  sia  lo  stesso  individuo,  lo 
stesso  Pietro,  Paolo  o  Giovanni?  Queste  sono  le  solide  e  vere  ra- 
gioni onde  si  pruova  appresso  Iddio  la  resurezione  generale  degli 
uomini  non  essere  impossibile;  né  vi  era  bisogno  di  ricorrere  per 
provarla  a  quel  vano  rifuggio,  onde  Tertulliano,  S.  Cirillo,  S.  Am- 
brogio ed  altri  antichi  Padri  ebber  ricorso,  ciò  è  alla  favola  della 
Fenice,  la  quale  credeasi  che  nelle  ceneri  sue  muore  e  rinasce. 
Favola  oggi  ben  conosciuta,  essendo  certissimo  che  questo  uccello 
non  sia  unico  e  raro,  ma  nella  Persia  se  ne  veggono  molti,  i  quali 
nascano  per  generazione  naturale,  per  l'accoppiamento  di  maschio 
con  femmina,  come  tutti  gli  altri  uccelli. 

Con  tutto  ciò  fu  cotanto  sparso  e  difuso  questo  errore  di  riputar 
impossibile  la  resurezione  ne'  primi  teologi,  i  quali  in  ciò  mostra- 
rono esser  non  meno  protervi,  resistendo  alla  manifesta  divina 
revelazione,  quanto  malfilosofì,  che  per  i  tre  primi  secoli  della 
Chiesa  ne  fu  pieno  l'Oriente  ed  il  Mezzogiorno;  e  la  contagione  si 
diffuse  in  molti  anche  ne*  posteriori  tempi.  Ne  furon  contaminati 
oltre  i  simoniani,  che  l'appresero  da  Simon  Mago  lor  duce,  il  qual 
fu  il  primo  a  negare  la  resurezione  della  carne,  i  valentiniani,  i 
marcioniti,  i  basilidiani,  anche  i  merintiniani,  gli  arconti,  i  cerdonia- 
ni,  gli  apelliti,  i  severiani,  gli  origeniani,  gli  ierachiti,  i  seleuciani, 
i  proclianiti,  e  tanti  altri,2  onde  le  prime  sedi,  e  le  più  cospicue 
Chiese  cattoliche,  scorgendo  un  tanto  numero  di  traviati,  perché 
l'errore  non  si  diffondesse  ne'  veri  cristiani  usarono  ogni  sforzo 
per  fargli  argine,  stabilendo  ne'  loro  simboli  per  articoli  fondamen- 
tali non  pur  la  general  resurezione,  il  2°  advento  del  Signore  in 

fino  tradusse  in  latino,  leggiamo  che  in  Gallia  furono  gettati  ai  cani  dei 
corpi  di  martiri,  e  che  gli  avanzi  e  le  ossa  furono  bruciati  fino  alla  completa 
distruzione,  e  che  anche  le  ceneri  furon  disperse  nel  Rodano  perché  non 
ne  restasse  in  alcun  modo  memoria»),  i.  dicono  . .  .  vasaio:  cfr.  Isai.,  29, 
*6j  45»  9  e  Rom.,  9,  20-1.  2.  Ne  furon  contaminati . . .  altri:  questo  elenco 
di  eretici  è  ripreso  dal  De  haeresibus,  l'opera  di  Agostino  più  volte  citata, 
mentre  lo  spirito  del  discorso  deriva  dall' Aulisio. 


LIBRO    I   •  CAP.  IX  8lS 

maiestate  per  giudicare  i  vivi  ed  i  morti,  ma  espressamente  «la 
resurezione  della  carne»  e  «la  vita  eterna»,  sicome  si  legge  in  tutti 
i  simboli  delle  Chiese  di  Oriente  e  di  Occidente:  «Carnis  resur- 
rectionem,  vitam  aeternam.  Amen». 


CAP.  IX 

Dell'austera  morale  de'  Padri  antichi. 

Gli  ammiratori  della  rigida  e  severa  morale  degli  antichi  Padri 
biasimano  e  declamano  contro  i  casuisti  e  teologi  scolastici  per  la 
rilasciata  lor  morale,  qualificandola  per  dissoluta  e  corrotta,  fino  a 
porgli  in  ridicolo  e  farne  brutti  e  miseri  scherni.  Ingegnose  ed  ap- 
plaudite furon  per  ciò  le  Lettere  provinciali  di  M.r  Nicole  pubbli- 
cate sotto  il  nome  di  Lodovico  Montalto.1  Il  P.  Diana,2  riputato 
troppo  largo  ed  indulgente,  per  derisione  fu  chiamato  l'Agnello  di 
Dio,  che  toglieva  i  peccati  del  mondo:  «ecce  qui  tollit  peccata 
mundi  »  ;  ed  i  Gesuiti  spezialmente  furon  per  ciò  aspramente  mal- 
menati, che  da'  loro  confessionari  ne  uscivan  assoluzioni  a  buon 
mercato,  e  che  smaltivan  merci  per  ogni  sorte  di  persone,  regolan- 
dosi secondo  il  gusto  ed  inclinazioni  e  sentimenti  de*  loro  penitenti. 
E  pure  tutti  i  lenitivi  e  raddolcimenti  di  questi  non  bastano  per 


1 .  Lettere  .  . .  Montalto  :  il  Giannone  naturalmente  si  sbaglia  attribuendo 
al  Nicole  l'opera  di  Pascal,  che  si  celava  sotto  lo  pseudonimo  di  Louis  de 
Montalte.  Il  Nicole  era  stato  il  traduttore  in  latino  e  il  commentatore,  oltre 
che  il  primo  a  fornire  precise  notizie  sulla  genesi  dell'opera,  e  si  celava  sotto 
lo  pseudonimo  di  Guillaume  Wendrock.  Cfr.  Les  provinciales  ou  lettres 
écrites  par  Louis  de  Montalte  à  un  provincial  de  ses  amis,  avec  des  notes  de 
Guillaume  Wendrock,  Amsterdam  1735.  Cfr.  gli  appunti  del  Giannone  su 
questa  edizione  delle  Provinciales  in  Biblioteca  Reale  di  Torino,  Var.  303, 
ce.  67-9,  databili  intorno  al  1747,  qualche  mese  prima  della  morte.  L'opera 
del  Pascal  fu  inviata  al  Giannone  da  Arthur  de  Villettes,  residente  inglese  a 
Torino,  che  aveva  messo  la  propria  biblioteca  a  disposizione  del  prigioniero 
(cfr.  ibid.,  ce.  55-6,  un  appunto  autografo  intitolato:  Libri  notati  nel  catalogo 
del  XJ42  di  Mr.  Arthur  de  Villettes  residente  di  S.  M.  Brittannica  alla  corte 
di  Torino  presso  il  Re  di  Sardegna).  Sul  giansenismo  delle  Provinciales  cfr. 
A.  Gazier,  Histoire  generale  du  mouvement  janséniste .  .  .,  1,  Paris  1924, 
cap.  vi,  pp.  93  sgg.  Sul  significato  teologico  e  religioso  cfr.  P.  Serini,  Pa- 
scal, Torino  1942,  soprattutto  il  cap.  vi,  Le  «Provinciales»,  pp.  149  sgg. 
Cfr.  inoltre  la  traduzione  italiana:  B.  Pascal,  Le  Provinciali,  Bari  1963,  a 
cura  di  P.  Serini,  soprattutto  la  Nota  storica,  pp.  ix-xl.  2.  Si  tratta  del 
teatmo  Antonio  Diana  (1595-1663),  palermitano,  autore  delle  Resolutiones 
morales  . .  An  quibus  selectiores  casus  conscientiae  explicantur  (1646).  Nella 
quinta  delle  Provinciales  viene  preso  in  giro  per  il  suo  lassismo. 


8l6  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI   SCOLASTICI 

mitigare  1' amarezza  delle  aspre  antiche  massime,  né  arrivare  a 
compensare  se  non  in  parte  la  loro  severità  e  rigore.  Tutto  ciò  è 
avvenuto  perché  non  ben  indagarono  i  veri  princìpi  donde  deriva  la 
buona  morale,  onde  né  gli  uni,  né  gli  altri  seppero  tenere  la  via  di 
mezzo,  ma  traviando  diedero  in  opposti  sentieri.  I  primi,  non  sa- 
pendo distinguere  nella  morale  del  Vangelo  ciocché  si  inculcava 
per  arrivare  ad  una  somma  perfezione,  alla  quale  pochi  vi  giungono, 
anzi  niuno  senza  una  speziai  grazia  divina  che  gli  venghi  da  fuori, 
dall'ordinario  corso  della  vita  umana,  vorrebbero  per  ragioni  astrat- 
te e  metafisiche  disumanar  gli  uomini  e  rendergli  insensati  sassi 
e  duri  tronchi,  senz'affetti,  senza  cupidità,  senza  passioni  e  senza 
commozione,  seguendo  in  ciò  la  dottrina  degli  stoici.  I  secondi  si 
appigliarono  a  quella  de'  peripatetici,  li  quali  lasciano  all'uomo 
tutte  le  passioni,  sovente  utili,  ma  che  la  vera  virtù  morale  consi- 
sta in  saperle  ben  dirigere  e  moderare.  Della  morale  d'Epicuro, 
forse  la  migliore  di  quella  de'  stoici  e  de'  peripatetici,  non  si  fa 
motto,  poiché  questo  filosofo  non  potè  mai  por  piede,  come  si  è 
detto,  nella  scuola  d'Alessandria  donde  uscirono  i  primi  teologi,1 
e  molto  meno,  per  lo  discredito  nel  quale  fu  posto  per  le  invet- 
tive de'  Padri,  potè  porlo  nelle  nuove  Accademie  in  Europa  insti- 
tuite,  nelle  quali  la  dottrina  d'Aristotele  teneva  il  campo. 

Ma  fra  quanti  filosofi  che  vanta  la  Grecia,  Socrate  fu  il  primo, 
come  ce  ne  rende  testimonianza  Cicerone,3  il  quale  lasciate  le  in- 
vestigazioni delle  cose  fisiche,  come  incerte,  si  diede  alle  morali, 
come  quelle  che  conducono  e  ci  aprono  la  strada  di  poter  menare 
con  saviezza  e  probità  la  nostra  vita,  ch'è  quello  che  deve  sopra 
tutte  le  cose  Puom  curare.  Variamente  non  men  dagli  antichi  che 
da'  moderni  filosofi  e  teologi  fu  disputato  intorno  a'  veri  princìpi, 
donde  deriva  la  buona  morale,  ma  l'opinion  più  comune  e  forse 
la  più  vera  fu  che  le  regole  di  una  saggia  morale  devono  appren- 
dersi dal  buon  uso  che  ciascuno  deve  far  della  ragione,  non  essen- 


i.  teologi:  cosi  par  corretto,  ma  confusamente,  un  precedente  «filosofi». 
Il  Giannone  segue  qui  il  suo  maestro  Domenico  Aulisio,  Delle  scuole  sacre 
cit.,  tomo  il,  cap.  u,  Che  *n  Alessandria  ebbe  la  teologia  la  sua  prima  origine, 
pp.  io  sgg.  L* Aulisio  riprendeva  un'intuizione  del  Tractatus  theologico- 
politicus  di  Spinoza,  a  cui  fra  l'altro  si  rifaceva  anche  il  Toland.  2.  Cicero- 
ne: cfr.  gli  appunti  del  Giannone  in  Biblioteca  Reale  di  Torino,  Var.  303, 
ce.  69-79:  Excerpta  ex  libris  phìlosophìcis  M.  Tullii  Ciceronis,  datati  «die 
prima  martii  1747».  Per  il  passo  di  Cicerone  cui  allude  qui  il  Giannone, 
cfr.  Tusc.  disp.,  v,  iv,  io. 


LIBRO    I    •  CAP.   IX  817 

do  la  buona  morale  che  un  dittarne  della  divina  Ragione  circa  quelle 
cose  che  dobbiamo  fare  o  non  fare  per  condurre  la  nostra  vita 
quanto  più  saggiamente  si  possa;  poiché  l'uomo  che  nasce  in 
questo  mondo  viene  a  porsi  fra  il  bene  ed  il  male,  anzi  il  male  su- 
pera il  bene  e  per  conseguenza  per  suo  raziocinio  e  retto  discorso 
deve  sempre  colla  bilancia  alla  mano  pesare  in  ciascheduna  azione 
se  contenga  più  del  buono  o  del  cattivo.  In  oltre  quando  se  l'offe- 
riscono cose  che  racchiudono  o  minacciano  più  male  o  presente  o 
futuro  che  bene,  dovemo  tralasciarle,  ancorché  ci  allettino  sotto 
l'apparenza  del  bene,  ed  all'incontro,  quando  rincommodo,  la  noia 
e  la  molestia  sia  minore  di  ciò  che  promettono  di  bene  futuro, 
dobbiamo  abbraciarla  e  soffrirla.  E  questo  è  far  buon  uso  della 
ragione,  che  è  quella  legge  che  S.  Paolo  dice  essere  scritta  nel 
cuore  degli  uomini.1 

In  far  ciò  niente  conducono  le  sottili  speculazioni  e  gli  astratti 
raziocini  e  ragioni  metafisiche,  ma  sì  bene  l'uso,  la  pratica,  l'espe- 
rienza ed  i  fatti,  onde  suol  dirsi  che  vale  più  un'oncia  di  fatto  che 
mille  libre  di  speculazioni  astratte.  Chiarissimo  documento  lascia- 
rono a  noi  due  rinomati  filosofi  inglesi,  Tomaso  Hobbes  nel  suo 
Leviatan,  e  nel  libro  De  rive,  ed  il  vescovo  Cumberland  nel  suo 
Trattato  filosofico  delle  leggi  naturali?  il  qual  pretese  confutare  gli 
Elementi  della  morale  di  Hobbes.  Hobbes  con  ragioni  pur  troppo 
sottili  ed  astratte  e  sovente  fantastiche  ci  rappresenta  l'uomo  come 
dovrebbe  essere,  non  già  come  in  realtà  ed  in  pratica  sia.  Cumber- 
land, ancorché  nel  minare  il  sistema  di  Hobbes  e  di  far  conoscere 
le  sue  contradizioni  siavi  riuscito,  nulladimanco  avendo  egli  vo- 
luto edificarne  un  altro,  ha  dato  in  maggiori  stravaganze  e  sofistiche 
speculazioni.  Forse  si  appose  più  al  vero  M.r  Pope  pur  inglese  ne' 
suoi  Princìpi  della  morale,  ovvero  Saggio  sopra  l'uomo,3  dove  lon- 
tano da  metafisiche  astrazioni  si  attiene  seriamente  alle  cose  reali 
e  solide. 

La  principal  regola  che  da  questi  naturali  Princìpi  deriva  è  che 
ciascuno  debbia  amar  se  stesso  e  debba  aver  cura  della  vita  propria 


1.  quella  legge  . .  .  uomini:  cfr.  Rom.,  2, 15.  z.  De  rive  .  . .  naturali:  cfr.  la 
nota  4  a  p.  804.  Richard  Cumberland  (1631-1718),  filosofo  inglese,  vescovo 
di  Peterborough.  Nell'opera  citata  polemizzò  contro  Hobbes.  3.  Saggio 
sopra  l'uomo  :  Essai  sur  Vhomme,  par  M.  Pope.  Traduit  de  Vanglais  enfrangais 
par  M.  D.  S.  (de  Silhouette),  s.  1.  1736.  Cfr.  A.  Prospero,  Il  poeta  del  ra- 
zionalismo settecentesco,  A.  Pope,  Bari  1943»  PP-  I2^  sgg. 


8l8  APOLOGIA  DE'   TEOLOGI   SCOLASTICI 

e  difenderla  da  qualunque  aggressore,  e  poiché  da  questo  amor 
proprio,  depravata  che  fu  la  natura  umana  doppo  la  caduta  d'Ada- 
mo, deriva  che  gli  uomini  siano  inclinati  più  al  male  che  al  bene, 
e  che  sovente  per  propria  malvagità  sian  divenuti  a  riguardo  degli 
altri  tanti  lupi,  quindi  fa  duopo  per  ben  regolarlo  di  tutta  la  forza 
di  un'invitta  ragione  per  contenerlo  ne*  giusti  limiti;  e  da  ciò  av- 
viene che,  emendando  colla  ragione  la  prava  propensione  che  si  ha 
al  male,  siamo  disposti  questo  amore  a  diffonderlo  ad  altri  e  di- 
stinguerci dagli  animali  bruti,  i  quali  mancando  d'intelletto  e  di  di- 
scorso rimangono  per  sempre  nella  vita  ferale  e  selvaggia,  ma  del- 
l'uomo non  è  accaduto  lo  stesso  poiché  stendendo  quell'amore  a  gli 
altri  ha  saputo  dalla  vita  ferale  passar  alla  vita  civile,  più  utile 
e  commoda.  Ma  in  ciò  dee  usarsi  pure  discrezione  e  prudenza,  non 
alla  cieca,  ma  a  gradi  e  con  ordine  ripartirlo.  Primo,  alla  patria,  a' 
parenti,  a5  congiunti,  a'  cittadini  e  finalmente  a  tutti,  procurandogli 
ciò  che  per  sé  vorrebbe  ed  astenendosi  di  farli  ciò  che  altri  non 
vorrebbe  che  facessero  a  lui.  In  breve  per  quanto  può  dal  suo 
canto  giovarli,  poiché  da  ciò  deriva  non  solo  l'esercizio  di  tutte  le 
virtù,  ma  anche  la  vera  gloria,  e  di  rendersi  per  sua  beneficenza 
a  tutti  caro  e  commendabile.  Così  considerando  l'uomo  nel  suo 
stato  di  natura  nella  primiera  sua  vita  ferale  e  selvaggia,  dirà  vero  : 
«Homo  homini  lupus».1  Considerandolo  nella  vita  eulta  e  civile, 
quando  voglia  far  buon  uso  della  ragione,  beneficando  gli  altri, 
dirà  anche  vero:  «Homo  homini  deus». 

Or  i  nostri  antichi  Padri  lontani  da  questi  schietti,  piani  e  sem- 
plici princìpi,  per  difetto  d'una  solida  filosofia,  ancorché  molti 
usciti  dalla  scuola  d'Alessandria,  e  per  essersi  abusati  della  morale 
del  Vangelo,  o  non  intesa,  o  mal  interpretata,  affettando  austerità 
e  rigidezza  diedero  in  opinioni  stravaganti  e  mostruose.  Ma  non 
dee  ciò  ad  alcun  recar  meraviglia  considerando  la  lor  condizione. 
Per  la  maggior  parte  i  Greci,  ancorché  affettassero  d'esser  filosofi, 
non  erano  che  sofisti  e  declamatori,  e  de'  Latini,  parte  affricani  e 
parte  retori,  ma  tutti  declamatori.  Chi  non  sa  che  per  la  ricerca 
del  vero  non  bisognava  per  trovarlo  se  non  i  veri  e  sodi  filosofi, 
non  declamatori,  i  quali  sanno  innalzare  o  deprimere  secondo  lor 
riesce  in  acconcio  le  cose,  e  arringar  ora  a  prò,  ora  in  contrario 
di  una  cosa  stessa,  sicome  di  sé  davasi  vanto  Cameade,  che  ugual 

i.  *Homo  homini  lupus));  cfr.  Vita,  qui  a  p.  217  e  la  nota  2  ivi. 


LIBRO   I   •  GAP.  IX  819 

travaglio  e  fastidio  a  lui  costava  di  lodar  l'ingiustizia  che  la  giu- 
stizia. Da  ciò  che  si  è  detto  e  da  quel  che  si  dirà  vedrassi  quanto 
sforzate  ed  iperboliche  fussero  le  loro  espressioni  ;  e  quanto  vales- 
sero nell'interpretazione  delle  Divine  Scritture  si  è  pur  veduto,  e 
molto  più  si  porrà  in  chiara  luce  nel  seguente  capitolo.  Di  vera  e 
solida  filosofia,  spezialmente  di  morale,  toltone  S.  Agostino  nella 
logica  e  fisica,  gli  altri  ne  furon  poverissimi,  ma  nel  tempo  stesso 
molto  di  sé  presumevano.  Lattanzio  Firmiano  non  ebbe  difficoltà 
ingaggiar  liti  con  Cicerone  stesso  di  cui  si  ingegnava  imitar  lo 
stile,  ed  a  disputar  con  lui  sopra  le  virtù  morali.  Si  mette  sovente 
a  disputar  contro  Epicuro  m  fisica  ed  in  morale,  quando  non  capì 
mai  il  sistema  di  questo  filosofo,  né  seppe  la  di  lui  fisica  e  molto 
meno  la  di  lui  morale,  non  essendo  che  un  retore  d'eloquenza  latina 
ed  instrutto  d'erudizion  greca.  S.  Ambrogio  volle  far  la  scimia  a 
Cicerone,  in  comporre  pur  egli  un  trattato  De  officiis?  e  quel  ch'è 
più  contrastar  con  Cicerone  su  le  virtù  morali;  in  che  mostrò  non 
solo  la  sua  semplicità,  ma  la  presunzione  di  attaccar  un'opera  la 
più  insigne  che  sia  uscita  dalla  penna  di  Cicerone,  nella  quale  si 
ammira  la  più  saggia  morale,  come  quella  che  raccoglie  il  fiore  di 
quanto  i  più  antichi  filosofi  hanno  scritto.  Veggasi  Pufendorf,3  lib. 
II,  cap.  5,  §  14,  e  Barbeyrac,3  che  difendon  Cicerone  da  quanto  a 
torto  li  vien  imputato  da  S.  Ambrogio.  S.  Agostino  anche  sovente, 
spezialmente  ne'  libri  della  Città  di  Dio,  disputa  contro  gli  antichi 
filosofi  sopra  la  difinizione  delle  virtù  morali;  giudica  sopra  la  morte 
di  Lucrezia  romana,  ed  a  suo  modo  co'  soliti  suoi  contraposti  e 
rime  ne  favella;4  ma  quanto  sciapitamente  ben  sarà  dimostrato 
quando  trattaremo  spezialmente  de'  suoi  libri.  Altri  Padri  fecer 
lo  stesso,  de'  quali  sarà  dato  occasione  di  favellare  altrove.  Fortu- 
nati però,  li  quali  scrissero  quando  niun  ardiva  di  confutar  le  loro 

1.  De  officiis  ministrorum  libri  tres,  in  Migne,  P.  L.,  xvi,  coli.  23-184.  2.  Di 
Samuel  Pufendorf  (1637- 1694),  giurista  e  storico  sassone,  è  citata  qui  l'ope- 
ra più  famosa,  nella  traduzione  del  Barbeyrac:  Le  droit  de  la  nature  et  des 
gens  ou  système  general  des  prtncipes  les  plus  importans  de  la  morale,  de  la 
jurisprudence  et  de  lapolitique,  traduit  du  latin  defeu  mr.  le  Baron  de  Pufen- 
dorf par  Jean  Barbeyrac ,  Amsterdam  17 12,  in  due  tomi.  3.  e  Barbeyrac: 
si  riferisce  alla  Préface  du  traducteur  (p.  xlix,  ed.  173 1)  alTop.  cit.  del  Pu- 
fendorf. Jean  de  Barbeyrac  (1674- 1744),  giurista  ed  erudito  francese, 
criticò  l'autorità  dei  Padri  della  Chiesa  con  il  Tratte  de  la  morale  des  Pères 
cit.  Su  di  lui  cfr.  Ph.  Meylan,  Jean  Barbeyrac,  Lausanne  1937.  4.  S.  Ago- 
stino  .  .  .favella:  cfr.  De  civ.  Dei,  I,  xix,  De  Lucretia,  quae  se  ob  iìlatum  sibi 
stuprum  peremit,  in  Migne,  P.  L.,  xli,  coli.  32-4. 


820  APOLOGIA  DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

opere,  e  quando  essi  solo  erano  riputati  i  savi  e*  dotti  ;  e  se  pur  girava 
qualche  risposta,  i  monaci,  supprimendola,  non  lasciaron  che  fosse 
tramandata  a*  posteri.  Più  fortunati,  quando  sempre  più  crescendo 
l'ignoranza  ne'  secoli  barbari  che  seguirono,  le  loro  opere  crebbero 
assai  più  di  riputazione  e  di  stima.  Fortunatissimi,  ch'ebbero  tanti 
monaci,  che  poco  curando  di  altri  libri,  massimamente  de'  gen- 
tili, non  attesero  che  a  moltiplicarne  le  copie,  essendo  uso  de' 
principali  studi  monastici  il  trascriverne  più  essemplari  onde  si 
empirono  le  biblioteche. 

i.  Intorno  al  disprezzo  della  propria  vita  ed  annientazione 
di  se  stesso. 

Molti  degli  antichi  Padri  non  contenti  di  por  argine  all'amor 
proprio  regolandolo  con  moderazione  e  saviezza,  preteser  d'estin- 
guerlo affatto,  anzi  con  uno  zelo  indiscreto  e  furioso  inculcavano 
a'  cristiani  di  doversi  volontariamente  esporre  a  certe  e  non  dubbie 
morti,  a  pericoli  evidenti  d'esserne  di  lor  fatta  strage  crudele,  ed 
esporsi  volontariamente  a  duri  tormenti  e  spietati  martìri,  senza 
che  la  necessità  gli  costringesse  di  farlo,  per  la  costanza  che  doveano 
avere  in  confortare  la  lor  fede  e  d'esser  cristiani.  Gli  proibivano 
ogni  fuga  o  scampo,  ma  che  dovessero  andar  essi  ad  offrirsi  a' 
supplici  e  ricever  con  intrepidezza  la  morte.  E  ciò  per  un  principio 
falso,  cioè  di  dover  imitare  G.  Cristo  nostro  capo,  il  quale  volon- 
tariamente si  offerì  al  Padre  per  vittima  per  ridimere  col  suo  sangue 
il  genere  umano.  Puossi  immaginare  paragone  sì  indegno,  sì  dif- 
forme e  sì  improprio  che  questo  ?  Metter  al  confronto  ciò  che  per 
altissimi  misteri  Dio  volle,  e  ch'ebbe  in  ciò  uniforme  la  divinità 
di  Cristo,  con  quel  che  l'uomo  per  naturai  instinto  e  per  legge  di 
natura  è  tenuto  per  la  conservazione  di  se  stesso,  che  l'obbliga 
non  pur  ad  evitar  la  morte,  ma  difender  la  sua  vita  contro  qualun- 
que aggressore?  Se  voglia  considerarsi  la  stessa  umanità  di  Cristo 
unita  colla  sua  divinità,  pure  rawisaremo  qualche  rincrescimento 
e  ripugnanza  ch'ebbe  di  bere  quel  amaro  calice,  uniformandosi 
però  nel  tempo  stesso  al  volere  del  Padre.  Quando  intese  che  S. 
Giovan  Battista  era  stato  tradito  e  preso,  si  ritirò  in  Galilea  (Matth., 
e.  4,  12).  Perché  l'ora  fatale  di  sua  morte  non  era  ancor  giunta 
fuggì  la  rabbia  de'  Giudei,  e  si  nascose  nel  Tempio.  Ma  lezione 
assai  più  chiara  lasciò  a'  suoi  appostoli  e  discepoli  destinati  alla  pre- 


LIBRO    I   •  CAP.  IX  821 

dicazione  del  suo  Vangelo  per  tutte  le  parti  del  mondo,  a'  quali 
prescrisse  (Matih^  x,  23)  che  se  in  una  città  fossero  perseguitati, 
fuggissero  ed  andassero  in  un'altra,  dove  sarebbero  sicuri  dalle 
persecuzioni  :  «  Cum  autem  persequentur  vos  in  civitate  ista,  fugite 
in  aliam».  Tertulliano  a*  riferiti  suoi  rigori  aggiunse  quest'altro 
nel  libro  De  fuga  persecut.,1  di  non  dover  fuggire.  S.  Cipriano  come 
ammiratore  delle  opere  di  Tertulliano  tirò  la  cosa  più  innanzi,  ed 
inculca  nella  prefat.  del  suo  libro  De  exhortat.  martyrii,  indrizzato 
a  Fortunato,  di  doversi  il  martirio  desiderare,  andargl'incontro  ed 
abbracciarlo:  «Amplectenda  res  est»  e*  dice  «et  optanda  et  omni- 
bus postulationum  nostrarum  precibus  expetenda,  ut  qui  servi  Dei 
sumus,  simus  et  amici».3  Confusero  due  cose  fra  di  lor  differenti. 
Altro  è  l'aver  l'animo  disposto  a  soffrire  il  martirio,  quando  ci  ar- 
riva; ed  altro  è  il  desiderarlo2  e  cercarlo.  Nel  I  si  mostra  una  perfetta 
rassignazione  alla  volontà  di  Dio,  nel  caso  ch'egli  giudichi  a  pro- 
posito di  chiamare  un  cristiano  a  soffrire  la  morte  per  causa  del 
Vangelo.  Ma  nel  11  del  diritto  desiderio  del  martirio,  e  procurarcelo 
puramente  e  semplicemente  come  tale,  questo  è  un  desiderio  con- 
trario ugualmente  alla  natura  che  al  Vangelo  stesso,  il  qual  non 
distrugge  la  natura.  G.  Cristo  non  ha  giammai  derogato  ad  una 
legge  sì  naturale,  ed  una  delle  più  evidenti  ed  indispensabili,  la 
qual  vuole  che  ciascun  travagli,  per  quanto  può,  alla  propria  con- 
servazione. Il  vantaggio  della  società  umana,  e  quello  della  società 
cristiana,  ricercano  ugualmente  che  le  genti  da  bene  e  li  veri  cri- 
stiani non  sian  tolti  dal  mondo,  se  non  quanto  più  tardi  si  possa,  e 
per  conseguenza  di  non  esporsi  essi  medesimi  senza  necessità  a 
certe  e  non  dubbie  morti.  Queste  fervide  esortazioni  de'  Padri  non 
poteron  riuscire  se  non  calamitose  per  molti  infelici,  i  quali  per- 
suasi che  così  si  toglievano  dalle  miserie  di  questa  vita,  e  nel  tempo 
istesso  volare  in  cielo,  essi  medesimi  andavano  a  denunciarsi  a' 
magistrati  romani  preposti  al  governo  delle  provincie  ed  a  rivelarli 
esser  cristiani.  Ma  che  non  puote  negli  animi  umani  una  depravata 
religione,  quando  un  umor  malinconico  che  l'assale,  un  tedio  di 
vivere,  la  noia  delle  presenti  angustie  d'una  misera  vita,  sovente  si 

1.  Liber  de  fuga  in  persecutione,  in  Migne,  P.  L.f  11,  coli.  103-20.  2.  «Am- 
plectenda .  .  .  amici)) :  cfr.  Epistola  ad  Fortunatum  de  exhortatione  martyrii , 
praef.,  IV,  in  Migne,  P.  L.,  iv,  col.  680  («Lo  si  deve  abbracciare  e  deside- 
rare, e  domandare  con  tutte  le  preghiere  delle  nostre  richieste,  affinché  noi, 
i  servi  di  Dio,  siamo  anche  i  suoi  amici»).  3.  desiderarlo:  correggiamo  il 
«  desiderio  »  del  manoscritto. 


822  APOLOGIA  DE»    TEOLOGI   SCOLASTICI 

affrettano  la  morte  per  togliersi  da  ogni  impaccio  ?  Notabile  Pisto- 
ria  rapportata  da  Cicerone  nel  libro  i  Tuscul.  qq.1  di  Hegesia  Cire- 
naico, il  quale  compose  un  libro,  dove  non  fu  sol  contento  di  mo- 
strare doversi  disprezzar  la  morte,  ma  di  doversi  desiderare,  e  gli 
effetti  che  ne  seguirono  furono  che  molti  di  ciò  persuasi  davano  a 
se  medesimi  morte;  talché  fu  costretto  il  re  Ptolomeo  per  liberar 
gli  animi  da  una  tal  pazzia  di  proscrivere  il  libro  e  di  proibire  a 
Hegesia  che  nelle  scuole  non  insegnasse  dottrina  sì  prava:  «Hege- 
sias  Cyrenaicus  »  narra  Cicerone  «  librum  composuit  non  solum  de 
contemnenda  morte,  sed  desideranda:  liber  a  rege  Ptolomeo  pro- 
scriptus,  et  prohibitus  Hegesias  illa  in  scholis  dicere,  quod  multi, 
his  auditis,  mortem  sibi  ipsi  consciscerent  ».2 

Simil  successo  ebbero  le  declamazioni  de'  Padri  per  que'  mise- 
rabili che  volontariamente  si  offerivano  a'  magistrati  romani  per- 
ché fossero,  scoprendosi  cristiani,  menati  a*  supplici.  Agevolò  molto 
il  fascino  la  vana  credenza,  secondo  che  i  Padri  stessi  affermavano, 
che  prossimo  era  il  fine  del  mondo,  che  per  ciò  si  affrettassero  a 
morire  con  morte  sì  preziosa  del  martirio,  essendo  sicuri  che  tosto 
sarebbero  fatti  partefici3  del  regno  celeste.  Il  costume  e  la  pratica 
giudiciaria  tenuta  da'  magistrati  romani  nelle  cause  contro  i  cri- 
stiani nel  II  secolo,  secondo  che  ce  la  descrive  Plinio  il  Giovane 
nel  libro  x,  ep.  98*  e  si  comprende  dal  rescritto  dell' imperador 
Traiano  dato  in  risposta  della  consultazione  di  Plinio,  il  quale 
trovandosi  allora  preside  della  Bitinia,  dove  il  numero  de*  cristiani 
era  molto  cresciuto,  lo  richiedeva  come  dovesse  regolarsi,  fu  tale: 
quel  savio  imperatore  mitigando  il  rigore  usato,  commandò  che  i 
cristiani  non  dovessero  esser  inquietati  per  inquisizione  :  «  conqui- 
rendi  non  sunt»,  ma  che  dovesse  procedersi  contro  di  loro  per 
accusaztone  e  gli  accusatori  dovessero  firmare  col  proprio  lor  nome 
il  libello,  senza  riceversi  libelli  ciechi,  ed  esporsi  alle  pruove,  e 

i.  Tusculanarum  disp.,  I,  xxxrv,  83.  Egesia,  filosofo  greco  di  scuola  cirenaica 
(III  secolo  a.  C),  aveva  portato  alle  estreme  conseguenze  la  teoria  dell'in- 
differenza,  per  cui  teorizzava  la  rinuncia  alla  vita  ed  era  chiamato  «persua- 
sore di  morte».  2.  a  Hegesias . . .  consciscerent)):  loc.  cit.,  ma  il  testo  ci- 
ceroniano è  alquanto  diverso,  e  si  tratta  probabilmente  di  citazione  di 
seconda  mano  («  Egesia  Cirenaico  scrisse  un  libro  sulla  morte,  non  solo  da 
disprezzarsi,  ma  anche  da  desiderarsi:  il  libro  fu  bandito  dal  re  Tolomeo  e 
ad  Egesia  fu  vietato  di  esporre  nelle  scuole  quelle  dottrine,  poiché  molti, 
ascoltatele,  si  davano  la  morte»).  3.  partefici:  così  nel  manoscritto. 
4.  nel  libro  X,  ep.  g8  :  cfr.  i  Discorsi  sopra  gli  Annali  di  Tito  Livio,  qui  a 
pp.  779  sgg. 


LIBRO    I   •  CAP.   IX  823 

sicome  nell'altre  cause  criminali  d'esser  puniti,  se  si  fossero  sco- 
verte le  accuse  calunniose.  Che  convinti  o  confessi  i  rei  dovessero 
punirsi;  ma  che  si  dasse  luogo  alla  penitenza,  cioè  se  volesser  ritrat- 
tarsi e,  renunciata  la  religion  cristiana,  tornare  alla  pagana,  con 
adorare  loro  dii  e  rendergli  sacrifici,  gli  lasciassero  andar  liberi  nelle 
loro  case  ;  se  si  ostinassero,  ammoniti  tre  volte,  e  persistessero  nella 
lor  credenza,  allora  dovessero  menarsi  al  supplicio;  e  la  premura 
de'  magistrati  era  non  già  di  farli  morire,  ma  di  salvargli  ritrattan- 
dosi; ed  i  tormenti  l'usarono  a  questo  fine  perché  tornassero  all'an- 
tica lor  religione;  e  secondo  che  vedremo  trattando  de'  libri  di 
Lattanzio  Firmiano,  l'impegno  de'  giudici  era  questo,  e  quando  li 
trovavano  duri  ed  ostinati  di  mala  voglia  eran  fatti  morire.  Così 
credevano  scemarne  il  numero,  usando  verso  di  loro  modi  placidi 
e  quanto  men  rigorosi  potessero.  Ma  tutto  questo  non  bastò,  per- 
ché per  l'esortazioni  inculcate  da'  Padri  di  doversi  desiderare  il 
martirio,  ed  andargli  incontro,  molti,  non  ricercati,  né  accusati,  vo- 
lontariamente andavano  avanti  i  magistrati  a  scoprirsi  e  confessare 
d'essere  cristiani,  e  persistendo  nel  proposito  obbligavano  i  giudici 
a  condannargli  per  esecuzione  delle  leggi,  dalle  quali  venivan  co- 
stretti. S.  Giustino  in  due  luoghi  (Apohg.  il,  vulgo  1,  cap.  xn,  pag. 
31  ed.  Oxon.  cap.  iv  e  v,  pag.  9  e  io)1  rapporta  il  costume  de'  suoi 
tempi  d'andar  molti  cristiani  ad  offerirsi  per  se  stessi  al  martirio,  né 
disapprova  un  sì  imprudente  zelo,  anzi  mostra  di  commendarlo; 
e  che  sovente  eran  da'  magistrati  ripresi,  dicendogli:  «Giacché  voi 
avete  tanta  brama  di  morire,  per  andare  a  Dio,  uccidetevi  voi  stessi, 
e  non  date  a'  tribunali  sì  funesta  occupazione».  Tertulliano  (Ad 
Scapulam,  cap.  ult.)  rapporta  d'un  proconsole  d'Asia  il  qual  stanco 
di  condannare  a  morte  li  cristiani  d'una  città  della  sua  provincia, 
i  quali  venivano  a  folla  a  presentarsi  a  lui,  ed  a  palesarsi  esser  cri- 
stiani, doppo  averne  mandato  qualch'uno  al  supplicio,  voltandosi 
a  gli  altri  disse  loro  :  «  Miseri  ed  infelici  a  che  venite  da  me,  se  voi 
volete  morire:  vi  mancano  forse  precipizi,  vi  mancan  corde,  ferri  e 
veleni,  perché  per  voi  stessi  adempiate  il  vostro  desiderio  ?  ».z  Giu- 
stino a  tali  dimande  freddamente  risponde  che  a'  cristiani  Iddio  ha 
proibito  di  ciò  fare,  perché  altrimenti  se  tutti  per  se  medesimi 
s'uccidessero  finirebbe  il  mondo.  Povera  ragione! 

1.  S.  Giustino  . .  -  pag.  9  e  io:  cfr.  in  Migne,  P.  G.,  vi,  coli.  450-4  e  463. 

2.  Tertulliano  .  .  .  desiderio:  cfr.  Ad  libros  apologeticos  appendix.  Lìber  ad 
Scapulam,  v,  in  Migne,  P.  L.,  1,  coli.  782-3. 


824  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

Sovente  Iddio  ha  confuso  temerità  sì  folle  di  fidarsi  delle  proprie 
forze,  senza  uno  special  suo  soccorso,  del  quale  siamo  incerti  se 
voglia  o  non  voglia  somministrarlo.  Più  antichi  essempi  ce  ne  som- 
ministra l'istoria  ecclesiastica.  Un  cristiano  della  Frigia  nominato 
Quinto,  il  quale  volontariamente  per  se  stesso  presentossi  al  mar- 
tirio, ed  avea  animato  altre  persone  ad  imitarlo,  venuto  al  cospetto 
delle  bestie  feroci,  che  doveano  divorarlo,  concepì  tant'orrore,  che 
avendogli  il  proconsole  offerto  la  vita,  se  voleva  ritrattarsi  e  sacri- 
ficare a'  dii,  volontieri  abbracciò  l'offerta,  giurò  per  lo  Genio  del- 
l'imperatore e  sacrificò  agl'idoli.  La  Chiesa  di  Smirne,  che  rap- 
porta il  fatto  in  una  sua  lettera  circolare  per  occasione  del  martire 
Policarpo,  aggiunge:  «Per  ciò,  miei  fratelli,  noi  non  approviamo 
punto  coloro,  i  quali  si  presentano  per  se  medesimi,  perché  l'Evan- 
gelio non  ha  giammai  insegnato  tal  cosa  ».  Questa  lettera  del  mar- 
tirio di  Policarpo  si  legge  al  tom.  11  part.  1  Patrum  apostolica  §  4, 
pag.  196  ed.  Amst.  1724,1  dalla  quale  si  comprende  che,  Policarpo 
lodandosi,  ed  all'incontro  riprendendosi  coloro  che  volontariamen- 
te si  presentavano,  non  andò  egli  spontaneamente  incontro  al  mar- 
tirio, ma  lo  soffrì  con  intrepidezza;  e  potendo  nascondersi  non  lo 
fece,  perché  lo  credette  inutile  e  vano  per  poter  scappare  dalle 
mani  degli  arcieri,  che  circondarono  la  casa  dov'egli  dimorava. 
Veggasi  Eusebio,  Hist.  Eccles.,  lib.  iv,  cap.  15,2  ed  una  lettera  d'Isac 
Vossio,3  che  si  trova  nella  11  parte  del  voi.  Patrum  apost.,  p.  448. 


11.  Si  commendano  le  femmine  e  spezialmente  le  vergini,  le 

quali,  per  evitare  d'essere  per  forza  violate,  prevengono  la 

violenza  con  darsi  per  se  medesime  morte. 

Sono  anche  da  alcuni  Padri  commendate  le  femmine  che  per  non 
soffrire  violenti  stupri  si  danno  morte;  e  che  se  bene  la  regola  gene- 
rale sia  di  non  essere  in  nostro  arbitrio  darcela,  anche  in  tempo  di 
persecuzioni,  nulladimanco  da  ciò  vengono  eccettuate  le  femmine 
quando  la  loro  castità  fosse  in  pericolo.  Le  vergini  tanto  maggior- 
mente lodate,  che  per  questo  mezzo  sfuggirono  le  violenze,  perché 

1.  tom.  II .  .  .  Amst.  1724:  si  tratta  di  I.  B.  Cotelerius,  SS.  Patrum  qui 
temporibus  apostolicis  floruerunt . .  .,  recensuit .  .  .  /.  Clericus,  Amstelaedami 
1724,  in  due  tomi.  2.  Veggasi . . .  cap.  15:  cfr.  in  Migne,  P.  G.,  xx,  coli. 
339-64.  3.  Isac  Vossio:  Isaac  Voss  (16 18-1689),  filologo,  figlio  di  Gerhard 
Johannes. 


LIBRO    I   •  CAP.   IX  825 

conservarono  il  tesoro  inestimabile  della  loro  verginità,  e  vengono 
annoverate  fra'  martiri.  S.  Girolamo,  il  qual,  come  si  è  già  detto, 
fu  il  più  fervente  panegirista  della  verginità  e  della  castità,  l'eccettua 
dalla  regola,  scrivendo  nel  Comment.  in  Ionam,  tom.  vi,  p.  150  d: 
«Non  est  nostrum  mortem  adripere,  sed  illatam  ab  aliis  libenter 
accipere.  Unde  et  in  persecutionibus  non  licet  propria  perire  manu, 
absque  eo  ubi  castitas  periclitatur;  sed  percutienti  colla  submittere».1 
S.  Ambrogio,  se  bene  ciò  non  permetta  a'  perseguitati  di  potersi 
uccidere  per  non  cadere  in  mano  de'  persecutori,  non  ha  difficoltà 
di  permetterlo  alle  vergini  per  serbarsi  inviolate,  ed  averle  per 
martiri;  e  che  quelle  che  si  precipitarono  per  ciò  ne*  fiumi,  ed  an- 
negarono, riputa  quelle  acque  si  per  esse  salutifere  come  è  l'acqua 
del  battesimo  a'  rigenerati;  e  fa  dire  a  S.  Pelagia,  che  per  questo 
mezzo  salvò  sua  virginità,  ch'ella  non  offese  punto  Dio  avendo 
avuto  ricorso  ad  un  tal  rimedio,  e  la  fede  toglie  il  delitto:  «Quid 
super  eorum  meritis  existimandum  sit  (e'  scrisse  nel  lib.  in  De 
virginibus)2  qui  se  praecipitavere  ex  alto,  vel  in  fluvium  demerse- 
runt,  ne  persecutorum  inciderent  manus  ?  Quum  Scriptura  divina 
vim  sibi  christianum  prohibeat  inferre.  Et  quidem  de  virginibus  in 
necessitate  custodiae  constitutis  enodem  habemus  assertionem, 
quum  martyris  extet  exemplum.  Sancta  Pelagia  apud  Antiochiam 
quondam  fuit  etc . .  .  Deus  remedio  non  offenditur,  et  facinus 
fides  elevat».  E  delle  vergini  annegate  nell'acque  soggiunge  questi 
giochetti  di  parole:  «Et  hoc  baptisma  est,  quo  peccata  donantur, 
regna  quaeruntur.  Et  hoc  baptisma  est,  post  quod  nemo  delinquit. 
Excipiat  nos  aqua,  quae  regenerare  consuevit.  Excipiat  nos  aqua, 
quae  virgines  facit»3  etc. 


1.  «Non  est  nostrum  . . .  submittere»:  cfr.  Commentartorum  in  Ionam  prò- 
phetam  liber  unus,  vers.  12,  in  Migne,  P.  L.,  xxv,  col.  1129  («Non  è  in 
nostro  potere  darci  la  morte,  ma  data  da  altri  accettarla  volentieri.  Onde 
non  è  lecito  morire  di  propria  mano  nemmeno  nelle  persecuzioni,  tranne 
quando  è  in  gioco  la  castità,  ma  offrire  il  collo  all'uccisore  »).  2.  De  virgini- 
bus, ni,  vii,  in  Migne,  P.  L.t  xvi,  coli.  229-30  («Come  dev'essere  giudicato 
il  mento  di  coloro  che  si  sono  buttati  da  un  precipizio,  o  si  sono  annegati 
in  un  fiume,  per  non  cadere  nelle  mani  dei  persecutori,  dato  che  la  Scrit- 
tura divina  proibisce  ai  cristiani  di  togliersi  la  vita  ?  Eppure  per  le  vergini 
poste  nella  costrizione  della  prigionia  abbiamo  una  chiara  affermazione  in 
favore  di  ciò,  poiché  vi  è  l'esempio  di  una  martire.  Vi  fu  un  tempo  presso 
Antiochia  santa  Pelagia  ecc.  ...  Il  rimedio  non  offende  Dio,  e  la  fede 
mitiga  il  misfatto»).  3.  «Et  hoc  baptisma.  .  .facit»:  ibid.t  col.  230  («E 
questo  è  un  battesimo  in  cui  i  peccati  sono  rimessi,  e  procacciato  il  regno. 


8a6  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

S.  Gio.  Crisostomo  estolle  S.  Pelagia  e  l'altre  vergini  che  l'imi- 
tarono, Berenice,  Prosdoce  e  Domnina.  Egli  ne  tessè  lunghi  panegi- 
rici ne'  giorni  delle  loro  feste;  e  riguarda  come  S.  Ambrogio  questo 
genere  di  morte  sufTogate  nell'acque  come  un  battesimo  straordi- 
nario. Veggasi  YOratio  panegirica  in  S.  S.  Ber  mie.  Prosdoc.  et  Dom- 
nino tom.  v  e  VOmilia  77  in  Ioan.,  tom.  n.1  Ma  ciò  che  merita 
d'esser  avvertito  è  che  S.  Agostino,  il  quale  della  virginità  ebbe  lo 
stesso  concetto,  non  ebbe  però  ardimento  di  approvare  il  fatto,  e 
dubbita  della  loro  salute,  e  nel  libro  1,  cap.  26,  della  Città  di  Dio2, 
parlando  delle  vergini,  le  quali  si  precipitarono  nel  Tevere,  quando 
nell'incursione  e  sacco  di  Roma  de'  Goti  sotto  Alarico  furono  in 
pericolo  d'esser  violate,  non  le  loda,  ma  ne  dubbita;  ed  in  un  sol 
caso,  dice,  possono  lodarsi,  se  per  ispirazion  particolare  di  Dio  fos- 
sero state  spinte  a  darsi  morte,  ma  soggiunge,  chi  ci  assicura  che 
avessero  avuta  tal  inspirazione  e  non  si  fosser  mosse  da  illusioni 
fantastiche  ed  immaginarie,  alle  quali  le  femmine  sono  pur  troppo 
soggette?  E  per  ciò  non  si  determina  assolutamente  di  biasimarle; 
e  quel  che  reca  maggior  maraviglia  è  che  ne'  libri  stessi  concede 
che  possa  ritenersi  la  virginità,  ancorché  fisicamente  fossero  state 
violate  le  parti  genitali  delle  femmine  per  forza  estrinseca,  ciò  che 
può  accadere  in  mille  guise,  o  per  una  caduta  sopra  punte  di  scogli, 
o  di  palo,  o  di  altra  cosa  aguzza,  ovvero  per  morbo  di  ulcere  o  di 
postemi  e  simili  cagioni.  Ed  in  fatti  chi  potrà  negare  che,  sforzate 
le  vergini,  né  potendo  resistere  ad  una  forza  esteriore,  essendo  l'a- 
nimo non  pur  innocente,  ma  avverso  all'aborrito  attentato  che  s'usa 
al  corpo,  non  abbiano  a  riputarsi  ugualmente  vergini  che  prima  ? 
S.  Agostino,  che  sì  sottilmente  volle  esaminar  lo  stupro  che  patì 
Lucrezia,3  non  avvertì  che  non  solo  il  padre  Lucrezio,  ma  lo  stesso 
marito  Collatino,  per  confortarla  e  consolar  l'egro  suo  animo,  le 
rammentarono  ch'essendo  stata  forzata  dovea  riputarsi  immaco- 
lata come  prima:  «mentem  peccare  (le  diceano)  non  corpus:  et 
unde  consilium  abfuerit,  culpam  abesse»,  come  leggesi  appresso 


E  questo  è  un  battesimo  dopo  il  quale  più  nessuno  pecca.  Ci  accolga  l'acqua 
che  ha  il  potere  di  rigenerare,  ci  accolga  l'acqua  che  rende  vergini»). 
1'.  Veggasi .  .  .  tom.  II:  cfr.  rispettivamente  De  sanctis  martyribus  Bernice 
et  Prosdoce  virginibus  et  Domnina  matte  earum  homilia  panegyrica,  in  Migne, 
P.  G.,  L,  coli.  629  sgg.,  e  In  Ioannem  homilia  LXXVII,  in  Migne,  P.  G., 
Lix,  coli.  413  sgg.  2.  nel  libro  ...  Dio:  in  Migne,  P.  L.t  xu,  col.  39. 
3.  S.  Agostino  . .  .  Lucrezia:  cfr.  la  nota  4  a  p.  819. 


LIBRO    I   •  CAP.   IX  827 

Livio,  dee.  1,  lib.  1  in  fine.1  A  che  dunque  queste  infelici  precipi- 
taci ne'  fiumi  o  nel  vorace  mare,  a  soffrire  la  più  disgraziata  ed 
infausta  morte  che  possa  alFuom  arrivare?  Se  non  acconsentendo 
al  violento  stupro,  né  potendo  resistere  alla  maggior  forza  eran 
vinte,  non  potendosi  ad  esse  imputar  colpa  veruna,  a  che  farsi  ree 
d'omicidio  e  d'un  delitto  sì  enorme  quanto  è  darsi  a  se  medesime 
morte  ?  E  pure  si  sono  trovati  panegiristi  che  ciò  commendarono 
come  un'eroica  virtù,  e  le  qualificarono  per  magnanime,  corag- 
giose e  martiri. 

in.  Si  condanna  la  giusta  difesa  di  se  medesimo  e  de*  propri 
suoi  beni. 

Fa  veramente  maraviglia  come  i  Padri  antichi,  cotanto  propensi 
alle  interpretazioni  allegoriche,  profetiche  e  mistiche  della  S.  Scrit- 
tura, sovente  nel  tempo  istesso  si  siano  attenuti  in  alcuni  passi  al 
senso  litterale  ed  alla  sola  corteccia  delle  parole;  ed  è  da  stupire 
come  Origene  istesso,  il  più  fecondo  di  mistiche  interpretazioni, 
non  pur  intendesse  alla  lettera  ciò  che  Cristo  S.  N.  disse  di  coloro 
che  si  castrano  per  lo  regno  de'  cieli,2  ma  volle  in  effetto  castrarsi, 
e  nella  propria  sua  persona  eseguire  il  preteso  comando.  Così  pure 
vediamo  essere  avvenuto  per  ciò  che  riguarda  la  giusta  difesa  di 
se  medesimo  e  de'  propri  beni.  Perché  Cristo  per  esortar  i  fedeli 
a  disprezzar  le  ingiurie  e  soffrire  pazientemente  ciò  che  ci  vien  di 
fuori  di  danno,  0  di  contumelia,  e  ricever  l'offese  senza  ira  e  senz'a- 
nimo di  vendicarsene,  si  vale  d'una  sentenza  proverbiale,  che 
«  chiunque  percoterà  la  tua  guancia,  offerisci  l'altra  perché  la  per- 
cota  anche».3  Ecco  che  da  ciò  ricavano  la  regola,  che  a'  cristiani 
fosse  proibito  di  far  qualunque  difesa  anche  contro  l'ingiusto  agres- 
sore,  che  intenda  non  sol  mutilare  qualche  nostro  membro,  ma 
togliere  la  vita  istessa.  Perché  N.  S.  per  inculcare  il  disprezzo  delle 
ricchezze  e  de'  beni  di  questo  mondo  per  tesaurizare  in  cielo,  e  non 
esser  cotanto  attaccati  alle  cose  terrene,  si  vale  di  quest'altra  pro- 
verbiai sentenza,  che  «se  uno  ti  vuol  toglier  la  tunica,  e  tu  dalli  an- 
che il  mantello»,4  eccone  surta  un'altra  regola,  che  a'  cristiani  fosse 


1.  mentem  .  .  .fine:  I,  58,  9  («la  mente  pecca,  non  il  corpo,  e  dove  non 
c'è  deliberazione  non  c'è  colpa»).  2.  ciò  che  Cristo  .  .  .  cieli:  cfr.  Matth., 
19,  12.  3.  «chiunque . .  .  anche»:  cfr.  Matth.,  5,  39.  4.  «  se  uno  .  .  .  man- 
tello»: cfr.  Matth.,  5,  40. 


828  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

proibito  di  difendersi  contro  gli  usurpatori  de'  nostri  beni,  contro 
coloro  che  intendono  involarli,  ma  lasciarceli  togliere,  né  per  ciò 
istituirne  giudicio  o  formar  processo  o  muover  lite  per  la  restitu- 
zione ed  aver  ricorso  a*  magistrati;  ma  unicamente  ricorrere  alla 
pazienza  cristiana,  che  tutto  dee  tolerare.  Atenagora  apertamente 
insegnò  l'una  e  l'altra  regola  nella  Legata1  cap.  i,  pag.  20,  ed.  Oxon., 
e  con  maggior  fervore  Tertulliano,  il  quale  innanzi  il  passaggio  al 
montanismo  compilò  un  intero  libro  De  patientia  Christiana?  dove 
non  inculca  altro  di  dover  soffrire  ogni  insulto  che  si  faccia  dal- 
l' agressore  sopra  la  nostra  persona,  ed  ogni  perdita  che  i  ladri  e  gli 
usurpatori  tentino  sopra  la  nostra  roba.  Ma  se  si  dimanda  a  Ter- 
tulliano, perché  tanto  rigore?  Eccone  la  graziosa  risposta,  che  si 
legge  nel  cap.  vii,3  pag.  144:  perché  i  cristiani  sono  obbligati, 
secondo  i  precetti  della  S.  Scrittura,  di  disprezzare  i  beni  di  questo 
mondo,  ad  essempio  di  G.  Cristo  N.  S.  il  quale  non  avea  niente. 
Se  noi  non  dobbiamo  cercar  i  beni  di  questo  mondo  perché  N.  S. 
non  l'ha  mai  cercati,  non  dovemo  attristarci  in  perdere  o  in  parte 
0  in  tutto  i  nostri  beni,  quando  ci  siano  tolti.  Aggiunge  un'altra 
ragione  non  meno  ingegnosa  che  la  già  detta.  Tutto  ciò,  e'  dice, 
che  sembra  esser  nostro,  non  è  proprio  nostro  bene,  ma  s'appar- 
tiene ad  Iddio,  sicome  tutte  le  altre  cose  e  noi  medesimi.  Se  dun- 
que noi  saremo  sensibili  alla  perdita  di  ciò  che  ci  vien  tolto,  questa 
sensibilità  della  perdita  d'un  bene  che  non  è  nostro  è  una  specie 
di  cupidità.  Conchiude  in  fine  :  «  Qui  damni  impatientia  concitatur, 
terrena  coelestibus  anteponendo,  de  proximo  in  Deum  peccat .  .  . 
Alioquin  quomodo  duas  habens  tunicas,  alteram  earum  nudo  dabit, 
nisi  idem  sit,  qui  auferenti  tunicam  etiam  pallium  offerre  possit  ?  »4 
Non  meno  per  la  perdita  de'  beni,  che  per  l'insulti  della  persona, 
vuol  che  si  usi  la  stessa  pazienza,  né  resistere  all'agressore,  ancor- 
ché insidiasse  la  nostra  vita,  valendosi  delle  già  dette  parole  pro- 
verbiali di  N.  S.  di  «offerir  l'altra  guancia  al  percussore».  Né  men 
ingegnosa  è  la  ragione  che  ne  adduce  al  cap.  x,s  pag.  145,  dicendo 

1.  Legatio  prò  christianis,  1,  in  Migne,  P.  G.t  vi,  coli.  889  sgg.  2.  De 
patientia  liber,  in  Migne,  P.  L.t  I,  coli.  1359  sgg.  3.  nel  cap.  VII:  cfr. 
ibid.y  coli.  1371-3.  4.  *Qui  damni .  .  .possiti»:  cfr.  Und.9  col.  1372  («Chi 
si  irrita  per  l'incapacità  di  sopportare  il  danno,  anteponendo  le  cose  terrene 
alle  celesti,  pecca  contro  Dio  a  riguardo  del  prossimo  . .  .  D'altronde, 
come  potrà,  avendo  due  tuniche,  darne  una  a  chi  ne  è  privo,  se  non  sarà 
capace  di  dare  anche  il  mantello  a  chi  gli  toglie  la  tunica?»).  Cfr.  Matth., 
5,  40.     5.  al  cap.  X:  cfr.  ibid.t  coli.  1375-7. 


LIBRO    I   •  CAP.  IX  829 

che  dobbiamo  astenersi  da  ogni  difesa  e  resistenza  e  lasciar  ad 
Iddio  di  prenderne  castigo  e  vendetta,  non  potendo  noi  rendere 
il  male  per  lo  male  ;  e  saremo  d'ugual  condizione  colTagressore,  ed 
entrambi  diverremo  colpevoli,  onde  dovremo  tutto  soffrire  senza 
difendersi  puramente  per  essercitare  la  nostra  cristiana  pazienza. 
S.  Cipriano,  ammiratore  de'  libri  di  Tertulliano,  proibisce  assoluta- 
mente ogni  difesa,  e  di  poter  prevenire  l'ingiusto  agressore  ucci- 
dendolo, e  per  ciò  i  cristiani  essere  invincibili,  perché  non  temono 
punto  la  morte;  né  si  difendono  contro  gli  agressori,  perché,  in- 
nocenti che  siano,  non  è  lor  permesso  uccidere  il  nocente:  «et 
hoc  ipso  invictos  esse  (christianos)  quia  mori  non  timent;  nec  re- 
pugnare contra  repugnantes,  quum  occidere  innocentibus  nec  no- 
centem  liceat;  sed  prompte  et  animas  et  sanguinem  tradere»,  come 
leggesi  néiVEpist.  lx,1  pag,  142.  Ma  curioso  è  l'essempio  che  adduce 
di  Abele,2  lodandolo  di  non  essersi  difeso  contro  suo  fratello,  e 
che  si  lasciò  uccidere,  come  per  dare  un  preludio  della  costanza  de' 
martiri  e  delle  obbligazioni  della  pazienza  cristiana,  poiché  questi 
grandi  elogi  che  gli  dà  di  una  non  resistenza  che  è  tutta  chimerica, 
non  han  qui  luogo,  poiché  dalla  maniera  colla  quale  l'istoria  sacra 
si  esprime  narrandoci  la  morte  di  Abele,  si  conosce  che  fu  ucciso 
più  tosto  per  tradimento,  o  almeno  senza  che  avesse  avuto  tempo 
o  modo  di  difendersi. 

Lattanzio  Firmiano  con  maggior  rigore  proibisce  ogni  difesa 
contro  l'ingiusto  agressore  e  che  non  possiamo  senza  enorme  delitto 
toglierli  la  vita  per  salvar  la  propria,  ma  astenersi  di  combattarlo, 
e  per  ciò  assolutamente  proibisce  a'  cristiani  di  portare  qualunque 
sorte  di  armi,  sicome  da  noi  sarà  detto  esaminando  il  vi  libro 
delle  Divine  sue  instituzioni?  S.  Basilio  proibisce  anche  qualunque 
sorte  di  difesa  ed  ha  per  omicida  volontario  chi  uccide  l' agressore. 

S.  Agostino  nel  libro  I  De  libero  arbitrio,4  num.  11-12  col.  224- 
225,  ed.  Bened.  Antverp.,  tom.  1,  mostra  essere  stato  dello  stesso 
sentimento,  poiché  facendo  paragone  fra  un  soldato,  ch'eseguendo 
i  comandi  del  suo  principe  nella  guerra  uccide  rinimico,  ed  un 
privato,  il  qual  uccide  un  ladrone  o  l'agressore  ingiusto,  dice  che 


1.  Epist.  LX:  in  Migne,  P.  Z,.,  ni,  è  l'epistola  xni  Ad  S.  Cornelium  papam; 
la  citazione  a  col.  858.  2.  Ma  curioso  . .  .  Abele:  nel  De  bono  patientiae 
liber,  x,  in  Migne,  P.  L.f  IV,  col.  652.  3.  Divine  sue  instituzioni:  cfr.  Div. 
inst.,  vi,  De  vero  cultuy  in  Migne,  P.  L.t  vi,  coli.  633  sgg.  4.  De  libero  ar- 
bitrio libri  tres,  1,  v,  11-2,  in  Migne,  P.  L.,  xxxn,  coli.  1227-8. 


830  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

il  soldato  «  in  hoste  interficiendo  minister  est  legis  »,  ma  come  possan 
difendersi  i  privati  che  uccidon  altri,  ancorché  la  legge  glielo  per- 
metta, io  non  ne  trovo  la  maniera:  «Quapropter  legem  quidem 
non  reprehendo,  quae  tales  permittit  interrici,  sed  quo  pacto  istos 
defendam,  qui  interficiunt,  non  inverno».  Veggasi  Ugon  Grozio, 
De  tur.  beli  etpac^  lib.  I,  cap.  ni,  §  3,  n.  3.1  Non  vi  è  però  dubbio 
che  S.  Ambrogio  nettamente  proibisca  ogni  difesa  nel  lib.  ni,  cap.  4, 
De  offic.2, 

iv.  Si  condannano  nell'umana  società  tutte  sorti  di  giochi  e  di 
onesti  diporti:  tutto  ciò  che  a*  nostri  sensi  esterni  può  recare 
innocente  piacere:  tutte  sorti  di  abbigliamenti,  anche  nelle  fem- 
mine, e  s'impongono  a*  cristiani  altre  catene  e  rigori,  onde  per 
ammenda  eran  condennati  a  dure  e  pubbliche  penitenze. 

Non  senza  ragione  rimarrà  ciascun  sorpreso  come  gli  antichi 
Padri  trattando  dell'uomo  non  già  posto  nello  stato  di  sua  prima 
vita  incolta  e  selvaggia,  ma  doppo  d'esser  passato  alla  vita  eulta  e 
civile,  sembrano  di  volerlo  ridurre  di  nuovo  alle  ghiande,  e  di  pri- 
varlo di  tutto  ciò  che  la  stessa  prodiga  e  benigna  natura  gli  dispensa  ; 
la  quale  in  più  occasioni  ha  mostrato  all'uomo  che  quantunque 
non  voglia  esser  corrotta  e  vinta  dalle  nuove  arti  e  magisteri,  ami 
con  tutto  ciò  e  richieda  dall'uomo  d'esser  aiutata  e  soccorsa,  affin- 
ché la  di  lei  asprezza  fosse  raddolcita  e  la  sua  selvatichezza  fosse 
resa  monda  e  eulta.  Rimarrà  assai  più  sorpreso  riflettendo  che  se  i 
cristiani  avessero  sortito  per  lor  capo  e  conduttiere  un  uom  rigido 
e  severo,  come  fu  S.  Gio.  Battista,  il  qual  menò  sua  vita  nelle  selve, 
né  si  cibò  se  non  di  locuste  e  di  miele  silvestre,  né  vestì  altri  abiti 
che  di  peli  di  camelo,3  sarebbero  scusabili;  ma  essendo  instrutti 
da'  quattro  Evangeli  che  G.  Cristo  al  contrario  secondo  i  suoi  an- 
damenti fu  tutto  gentile  e  cortese,  indulgente  e  conversabile,  non 
spigolistro,  né  ippocrito  o  picchiapetto;  che  non  ricusava  gl'inviti 
e  che  volontieri  andava  a  pransi,  anche  convitato  da'  pubblicani  e 
pubblici  peccatori;  che  onorò  colla  sua  presenza  le  nozze  celebrate 


1.  De  iure  belli  ac  pacis  libri  tres,  curavit  I.  F.  Gronovins,  Hagae  Comitis 
1680,  passo  cit.,  pp.  52-3.  Vi  sono  le  citazioni  di  Agostino  e  Ambrogio 
che  il  Giannone  riferisce.  2,  lib.  Ili,  cap.  4,  De  offic:  in  Migne,  P.  L.t 
xvi,  col.  152.  3.  S.  Gto.  Battista  .  . .  camelo:  cfr.  l'Introduzione  al  Regno 
celeste^  qui  a  p.  648,  e  la  nota  1  ivi. 


LIBRO    I    •  CAP.   IX  831 

in  Cana,  vi  cenò  e  provide  di  buon  vino  i  convitati;  che  non  ricusò 
di  farsi  ungere  dalla  Maddalena  di  prezioso  ed  odorifero  unguento  ; 
che  riceveva  le  care  rimostranze  della  operosa  e  sollecita  Marta,  e 
che  potevan  avvertire  altri  simili  suoi  liberi  e  gai  portamenti.  Né 
vita  meno  allegra  menarono  i  suoi  appostoli  e  discepoli,  onde  i 
discepoli  di  S.  Giovanni  gli  dimandarono:  «Quare  nos  et  pharisaei 
ieiunamus  frequenter;  discipuli  autem  tui  non  ieiunant?»,  Matth.y 
9,  14,  e  presso  S.  Lue,  5,  33:  «tui  autem  edunt  et  bibunt?».  Ma 
ciò  che  gli  toglie  affatto  ogni  scusa,  è  che  lo  stesso  nostro  buon 
Redentore  apertamente  si  dichiara  ch'egli  volle  usare  diversa  ma- 
niera di  quella  del  suo  precursore  per  ridurre  a  buon  cammino  i 
traviati  giudei,  e  scorgendo  non  aver  in  niente  giovato  la  via  cal- 
cata dal  Battista,  volle  tentarne  un'altra  da  quella  differente;  ma 
che  con  tutto  ciò  la  lor  protervia  fu  tale,  e  tanta,  che  nemmeno 
seppero  profittarsene,  onde  dolendosene  gli  dice  :  Venne  Giovanni 
co'  suoi  rigori  e  penitenze,  e  non  fu  inteso  ;  vengo  io  usando  modi 
diversi,  mostrandomi  indulgente,  dolce  e  conversabile,  e  mi  bia- 
simano, dicendo  che  io  mangio  e  bevo  e  mi  do  bel  tempo  ne*  pransi 
e  conviti,  anche  nelle  case  de'  publici  peccatori.  Che  dunque  si  ha 
da  fare  per  ridurgli  in  via  ?  «  Venit  enim  Ioannes  neque  manducans 
neque  bibens  et  dicunt:  demonium  habet.  Venit  filius  hominis 
manducans  et  bibens  et  dicunt:  Ecce  homo  vorax  et  potator  vini, 
publicanorum  et  peccatorum  amicus»,  Matth.,  xi,  18-19.  Donde 
dunque  appresero  tanta  austerità  ed  asprezza,  superando  in  ciò 
gli  stessi  stupidi  ed  insensati  stoici?  Non  da  altro,  se  non  perché 
N.  S.  spinto  dal  S.  Spirito,  per  fini  a  noi  imperscrutabili,  una  sol 
volta  andò  nel  diserto  per  esser  tentato  dal  demonio,  e  quivi  di- 
giunò per  40  giorni  e  notti,  Mattiti  iv,  2,  e  perché  ne'  suoi  sermoni 
loda  sovente  la  sobrietà  e  temperanza,  sicome  conveniva  ad  uno 
che  insegnava  una  più  alta  e  sublime  morale  per  render  gli  uomini 
perfettissimi.  Non  per  altro  perché,  non  penetrando  il  vero  senti- 
mento di  alcune  parole  di  S.  Paolo,  che  si  leggono  nelle  sue  epi- 
stole, e  spezialmente  in  quella  scritta  a'  Romani,  l'interpretarono 
a  lor  talento,  sforzandole  con  argomenti  puerili  e  vani,  per  renderle 
conformi  alle  strane  loro  immaginazioni,  sicome  si  vedrà  chiaro 
più  innanzi.1 

1.  Non  per  altro  . .  .  innanzi:  ritorna  un  tema  del  Triregno,  la  polemica  con- 
tro un  eccessivo  rigorismo,  che  in  questa  Apologia  però  avrà  uno  spazio 
ben  più  grande. 


832  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

I.  S.  Clemente  Alessandrino  uscito  dalla  scuola  d'Alessandria 
adottò  nel  suo  Pedagogo1  la  dottrina  de*  stoici,  e  non  si  contenne  a 
ciò  che  di  vero  e  di  sodo  insegnarono  nella  loro  morale,  ma  trascorse 
fino  ad  abbracciare  le  strane  e  fantastiche  massime  contenute  ne' 
loro  Paradossi:  sicom'essi  aveano  per  massima  che  il  solo  sapiente 
è  ricco,  così  egli  dice  che  il  solo  cristiano  è  ricco,  che  le  ricchezze 
siano  incompatibili  colla  virtù  e  colla  pietà,  ed  altre  simili  confor- 
mità che  si  leggono  ne'  suoi  libri.  Non  avvertendo  che  gli  stoici 
ci  diedero  una  idea  del  sapiente  pur  troppo  orgogliosa  e  superba, 
tutta  opposta  2$ umiltà  cotanto  dal  Vangelo  inculcata;  e  che  voler 
ridurre  il  cristianesimo  allo  stoicismo,  sarebbe  lo  stesso  che  porlo  in 
ridicolo,  sicome  da'  pagani  stessi  furon  posti  in  ridicolo  li  Paradossi 
della  filosofia  stoica,  e  fatti  di  essi  brutti  e  miseri  scherni.  Cicerone 
stimò  non  contener  quelli  cos'alcuna  di  vero  o  di  ragionevole. 
In  tutte  le  cose  vi  entra  il  modo  e  la  discretezza;  ma  confondere 
l'uso  legittimo  delle  cose  per  se  medesime  indifferenti,  e  li  piaceri 
innocenti,  colla  scostumatezza,  colla  crapula,  col  lusso  e  colla 
ubriachezza,  è  pur  troppa  cecità  e  sciempiezza.  Ecco  Clemente  nel 
libro  11  del  suo  Pedagogo,  cap.  i,2  prescrivendo  la  quantità  e  qualità 
de'  nostri  alimenti,  gli  restringe  per  la  sola  conservazione  di  nostra 
vita,  ed  esclude  tutti  i  piaceri  innocenti,  che  soglion  accompagnare 
un  moderato  mangiare  e  bere,  come  se  tali  piaceri  fosser  incompa- 
tibili coll'utilità,  e  come  non  giovassero  a  render  i  cibi  più  atti  alla 
digestione  ed  al  nutrimento,  di  che  ci  tornerà  occasione  di  trattarne 
quando  esaminaremo  i  libri  di  S.  Agostino.  Egli  condanna  com'un 
eccesso  di  bocca  l'uso  del  pan  bianco,  perché  effemina,  e  riduce  un 
alimento  sì  necessario  alla  voluttà,3  p.  164-165.  Nel  cap.  il4  prescri- 
ve doversi  bere  acqua  come  naturai  bevanda,  nel  che  non  s'ingan- 
na; ma  la  ragione  che  n'apporta  è  ben  graziosa,  dicendo  che  Iddio 
al  percuoter  di  Mosè  colla  verga  la  rocca  fece  uscir  acqua  e  non 
vino,  perché  gl'Israeliti  doveano  nel  deserto  esser  sobri;  ma  che 
dapoi  essendo  in  riposo,  la  Santa  vigna  produsse  il  grappolo  pro- 
fetico, cioè  il  grappolo  che  gli  esploratori  portarono,  il  qual  figu- 


1.  nel  suo  Pedagogo:  cfr.  in  Migne,  P.  G.,  vili,  coli.  247  sgg.  Su  Clemente 
cfr.  le  osservazioni  di  Domenico  Aulisio  in  Delle  scuole  sacre  cit.,  tomo  11, 
cap.  xxiii,  pp.  99-100.  2.  Clemente ...  cap.  i:  Paedagogus  cit.,  n,  1, 
Quomodo  circa  alimenta  versori  oporteat,  coli.  378  sgg.  3.  Egli  condanna 
.  . .  voluttà:  cfr.  ibid.,  col.  383.  4.  Nel  cap.  Il:  intitolato  Quomodo  inpotu 
se  gerere  oporteat;  cfr.  ibid.,  col.  410. 


LIBRO    I    •  CAP.    IX  833 

rava  G.  Cristo  spremuto  per  Noè,  ed  il  suo  sangue,  o  sia  il  vino 
dell'eucaristia,  mescolandovi  altre  mistiche  idee  e  fantastiche  in- 
terpretazioni. 

Ma  S.  Girolamo  in  questo  lo  supera  nel  rigore,  poiché  niega 
a*  cristiani  non  solo  il  vino,  ma  di  mangiar  carne,  come  quella  che 
fu  proibita  da  N.  S.  il  quale,  sicome  proibì  il  divorzio  e  la  circonci- 
sione, così  anche  di  mangiar  carne.  E  se  si  dimanda  dond'egli  ciò 
ricava,  quando  dall'Evangelio  siamo  instrutti  del  contrario  ?  Ecco 
l'ingegnoso  argomento.  G.  Cristo  essendo  venuto  nella  fine  del 
mondo,  ha  voluto  ridurlo  a'  suoi  princìpi;  nel  principio  del  mondo 
non  si  conobbe  divorzio,  ma  dapoi  Mosè  lo  permise  per  la  durezza 
del  suo  popolo  ebreo  ;  e  Cristo  dapoi  lo  tolse.  Nel  principio  non  vi 
fu  circoncisione,  fu  dapoi  introdotta  da  Abraamo,  ma  Cristo  colla 
nuova  legge  la  tolse.  Nel  principio  per  tutta  la  prima  età  del  mondo 
fra'  cibi  dell'uomo  non  vi  fu  l'uso  di  carne  d'animali,  né  si  legge  che 
Iddio  l'avesse  permesso.  Doppo  il  diluvio  lo  permise  a  Noè  ed  alla 
sua  posterità,  purché  si  astenesser  dal  loro  sangue.  Così  G.  Cristo 
(e'  dice  nel  lib.  I  dell'Invettiva  contro  Giovinianó),1  «essendo  venuto 
nella  fine  de'  giorni,  ha  rimenato  la  fine  al  suo  cominciamento,  in 
guisa  che  sicome  ora  non  è  a  noi  permesso  né  di  repudiar  la  moglie, 
né  farsi  circoncidere,  così  né  di  bere  vino,  né  di  mangiar  carne, 
sicome  dice  l'appostolo  (Rom.,  xiv,  21)  "bonum  est  non  manducare 
carnem,  et  non  bibere  vinum",  poiché  l'uso  del  vino  ha  cominciato 
con  quello  della  carne  doppo  il  diluvio».  Da  questo  discorso  che 
copiò  da  Tertulliano  già  montanista,  poiché  lo  trasse  dal  lib.  De 
monogamia,  cap.  5,z  si  rende  manifesto  che  S.  Girolamo  vuol  che  i 
cristiani  si  astengano  dal  vino  e  dalla  carne  sicome  dal  divorzio  e 
dalla  circoncisione,  e  che  uguale  sia  la  reità  del  fallo.  Puossi  pen- 
sare raziocinio  più  falso  e  torto  di  questo  ?  Primieramente  se  bene 
non  si  leggesse  avere  Iddio  nel  principio  espressamente  concesso 
all'uomo  di  mangiar  carne  d'animali,  nemmeno  si  legge  avercela 
proibita.  Mosè,  «eruditus  omni  sapientia  Aegyptiorum  »,  sicome 
ce  ne  rende  testimonianza  S.  Stefano,  Actor.,  vii,  22,  era  ben 
istrutto  che  quando  il  mondo  era  infante  l'ordinario  cibo  degli 
uomini  era  de'  frutti  degli  alberi  e  dell'erbe  della  terra;  e  che  da 
poi  cominciossi  a  por  in  uso  anche  la  carne  degli  animali;  e  per 

1.  Invettiva  contro  Giovinianó-.  cfr.  Adversus  Iovinianum,  I,  18,  in  Migne, 
P.  L.,  xxiii,  col.  248.  2.  De  monogamia,  cap.  5:  cfr.  in  Migne,  P.  L.,  II,, 
coli.  935-7- 

53 


834  APOLOGIA  DE'   TEOLOGI    SCOLASTICI 

ciò  saviamente  nella  i  età  del  mondo  non  fé  motto  di  carne,  ma  sì 
bene  nella  n,  quando  l'uso  l'introdusse.  Per  2°  il  divorzio  non  fu, 
come  si  è  detto  e  si  dirà  più  ampiamente  quando  trattaremo  de' 
libri  di  S.  Agostino,  vietato  da  N.  S.  generalmente  ed  assoluta- 
mente in  tutte  le  provincie  dell'orbe  romano,1  poiché  si  ritenne 
anche  doppo  che  fu  reso  cristiano  da'  cattolici  imperadori,  ma  sola- 
mente volle  restringere  la  soverchia  licenza  degli  Ebrei  di  mandar 
i  libelli  del  repudio  per  qualunque  minima  e  leggier  causa.  Per  30 
il  passo  allegato  di  S.  Paolo  niente  pruova  ed  è  sforzato,  impro- 
prio ed  estraneo  per  quel  che  si  allega,  anzi  niun  appostolo  o  evan- 
gelista fu  in  ciò  tanto  indulgente  che  S.  Paolo,  il  quale  soleva  dire 
ch'egli  sapeva  abbondare  e  necessità  soffrire?  e  quando  non  vi  era 
occasione  di  dar  scandolo,  non  avea  difficoltà  di  mangiare  la  carne 
degl'istessi  animali  immolati  a  Dio.  Niente  è  più  comune  tra'  sacri 
scrittori  che  il  dire  bonum  est  sia  lo  stesso  che  melius  est;  sicom'è 
manifesto  in  S.  Matteo,  xvin,  8,  9,  ed  ha  avvertito  in  altri  passi  della 
S.  Scrittura  Salomon  Glassio,  Gramm.  Sacr.,  lib.  in,  tract.  1,  can. 
18.3  Sarebbe  certamente  migliore  se  si  potesse  astenersi  dalla  carne 
e  dal  vino,  li  quali  sovente  producono  ne'  corpi  umani  penose  in- 
fermità, ubriachezze  e  libidinose  voglie;  ma  S.  Paolo  stesso,  il  qual 
conosceva  il  temperamento  di  Timoteo,4  debole  di  stomaco  ed  in- 
fermiccio, e  che  con  tutto  ciò  seguitava  a  bere  acqua,  lo  ammonisce 
a  non  più  ber  acqua,  ma  valersi  d'un  poco  di  vino  :  «  Noli  adhuc 
aquam  bibere,  sed  modico  vino  utere  propter  stomachum  tuum 
et  frequentes  tuas  infirmitates  »,  2"  Tintoti  cap.  v,  23.  Nella  stessa 
Ep.  ad  Rom.,  xiv,  2,  3,  20  et  seg.,  chiaramente  si  vede  che  S.  Paolo 
riguarda  l'uso  del  vino  e  della  carne  come  una  cosa  lecita  e  sol  per 
qualche  circostanza  deve  l'uomo  astenersene,  quando  la  carità  cri- 
stiana il  richiegga  per  non  iscandalizare  gli  animi  deboli. 


1.  Per  2°  il  divorzio  . . .  romano',  ritornano,  confermali,  i  temi  dell'Istoria 
sul  concubinato  dei  Romani.  Poiché  questo  era  stato  uno  dei  punti  discussi 
e  condannati,  il  Giannone  aveva  composto  ima  dissertazione:  Dell'antico 
concubinato  de'  Romani  ritenuto  nell'Imperio,  cominciata  a  Napoli  nell'aprile 
del  1723  e  rifusa  nei  capitoli  vi-xrv  della  parte  11  dell'Apologia  dell'Istoria 
civile  di  Napoli.  In  Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone, 
mozzo  v,  ins.  18,  una  copia  autografa  della  dissertazione.  Cfr.  NlCOLiNi, 
Scritti,  p.  29.  2.  sapeva  . . .  soffrire:  cfr.  Philip.,  4,  12.  3.  Salomon  .  . . 
can.  18:  Salomon  Glass  (lat.  Salomo  Glassius,  1593-1656),  teologo  lutera- 
no tedesco,  Philologìae  sacrae .  .  .  libri  quinque, .  .  .  ui-iv,  Grammatica  sa- 
cra, Francofurti  1653.    4.  Timoteo:  discepolo  di  Paolo  e  vescovo  di  Efeso. 


LIBRO   I   •  CAP.  IX  835 

11.  Ma  facciam  ritorno  a*  rigori  di  Clemente  in  altro  genere  di 
cose.  Egli  nel  suo  Pedagogo,  lib.  11,  e.  3,1  bandisce  senza  guardar 
condizione  di  persona,  alta  0  bassa  che  sia,  tutta  sorte  di  mobili 
preziosi,  tutti  i  vasi  d'oro  e  d'argento.  Nel  cap.  4  bandisce  ne'  fe- 
stini tutta  sorte  d'istrumenti  di  musica.  Nel  cap.  5  e  ne'  seguenti 
prescrive  la  maniera  come  nella  conversazione  e  festini  debba  ri- 
dersi e  comporre  il  suo  viso;  ed  in  ciò  trovò  chi  superasse  il  suo 
rigore,  perché  Clemente  fu  contento  di  moderare  il  ridere,  non  di 
toglierlo  affatto,  ma  S.  Basilio  assolutamente  proibisce  il  riso  a 
tutti  li  cristiani,  senz'eccezione,  come  si  legge  Regni,  brev.,  inter- 
rogai. 3i,a  tom.  n,  p.  635,  e  non  per  altra  ragione  perché  Cristo 
istesso  presso  Luca,  vi,  25  disse:  «  Vae  vobis  qui  ridetis  nunc  :  quia 
lugebitis  et  flebitis».  E  nota  in  tanto  l'ordinario  costume  de'  Padri 
antichi  d'interpretare  le  Divine  Scritture.  S.  Clemente  in  questo 
suo  Pedagogo*  si  mette  ad  instruire  ed  a  dar  regole  intorno  a  l'of- 
ficiosità e  civiltà  nel  trattare;  e  prescrive  molte  regole  di  buona 
creanza,  ma  così  debolmente  e  confusamente  che  comparato  que- 
sto suo  Galateo  a  quello  del  nostro  M.r  Della  Casa4  arcivescovo  di 
Benevento,  gli  rimane  di  gran  lunga  in  dietro.  Proibisce,  come  si 
è  detto,  le  corone  de'  fiori  e  gli  odorosi  unguenti,  de'  quali  gli 
antichi,  spezialmente  le  femmine,  valevansi  nel  lavarsi  e  nel  pet- 
tinarsi i  capelli.  E  se  gli  si  opponeva,  ma  come?  il  nostro  buon 
Redentore  non  si  fece  egli  ungere  dalla  Maddalena,  ancorché  pec- 
catrice? Ecco  come  se  ne  sviluppa:  non  bisogna  attender  la  lettera 
di  quella  istoria,  ma  l'allegoria  che  in  sé  racchiude.  Proibisce  i 
bagni  caldi,  e  sol  permette  li  tepidi,  ma  alli  giovani  tutti  affatto. 

Intorno  a  gli  abiti,  a'  colori,  abbigliamenti  ed  ornamenti  non 
pur  degli  uomini,  ma  delle  stesse  femmine,  le  quali  non  hanno 
altro  sollievo  e  compiacimento  che  aiutando  0  supplendo  la  natura 
di  vedersi  ben  ornate,  non  è  men  rigido  che  stravagante.  Condanna 
assolutamente  tutte  sorti  di  tinture  ne'  panni  di  lana  o  di  seta,  poi- 
ché, secondo  lui,  sono  cose  inutili  e  che  fanno  oltraggio  alla  verità  : 
solo  il  color  bianco  conviene  al  candore  d'un  cristiano  ;  e  di  questo 


1.  Paedagogus,  11,  ni,  Quod  in  sumptuosam  vasorum  suppellectilem  non  sii 
studium  conferendum,  in  Migne,  P.  G.,  vili,  col.  431.  2.  Regulae  brevius 
tractatae,  interrogatio  xxxi,  An  omnino  ridere  non  liceat,  in  Migne,  P.  G., 
xxxi,  col.  1103.  3.  in  questo  suo  Pedagogo:  nel  libro  11,  passim,  in  Migne, 
P.  G.,  vili  cit.  4.  Giovanni  Della  Casa  (1503  -15  56),  segretario  di  Stato  di 
Paolo  IV.  Il  Galateo,  scritto  fra  il  1551  e  il  1554,  ni  pubblicato  nel  1559. 


836  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI   SCOLASTICI 

colore  furori  le  vesti  di  Dio  quando  comparve  nelle  visioni  profe- 
tiche, e  per  ciò  non  altro  conviene  a*  nostri  abiti,  e  nel  cap.  xi1  di 
questo  11  libro  passa  Clemente  alla  maniera  come  dobbiamo  cal- 
zar i  nostri  piedi  e  le  nostre  gambe,  e  nel  cap.  xn,2  eh* è  l'ultimo 
di  questo  libro,  proibisce  di  portar  oro,  perla  alcuna  0  altre  gemme. 
Nel  libro  in,  cap.  i,3  si  diffonde  alla  sua  maniera  stoica  in  mostrare 
che  la  vera  beltà  consiste  solo  nella  virtù  e  non  nell'apparenza,  e 
nel  cap.  24  si  infervora  contro  le  femmine,  le  quali  vi  sono  pur  trop- 
po inclinate:  declama,  fra  le  altre  cose,  contro  Puso  degli  specchi, 
che  riguarda  come  una  specie  d'idolatria,  ed  eccone  la  ragione: 
«  Se  Mosè  (egli  dice,  pag.  258)  ha  proibito  di  rappresentar  Iddio  per 
alcuna  immagine,  le  femmine  potranno  mai  elle  ragionevolmente 
dipingersi  dentro  uno  specchio,  che  rappresenti  la  loro  falsa  inda- 
gine ?  ».  Della  qual  ragione  si  valse  pure  Tertulliano,  De  spectaculis, 
cap.  13,5  per  condennar  le  finte  rappresentazioni  nelle  comedie, 
e  nel  cap.  iv6  biasima  quelle  che  nutriscono  i  cagnolini,  li  pappagalli 
e  simili  sorte  d'animali. 

Ma  dalla  austera  scutica  di  questo  Pedagogo  non  ne  sono  esenti 
nemmeno  gli  uomini.  Egli,  non  contento  di  biasimar  in  loro  tutto 
ciò  che  sia  effeminatezza,  nel  cap.  37  trascorre  oltre  e  riputa  gran 
delitto  di  farsi  radere  la  barba,  perché  la  barba,  e'  dice,  distingue 
il  maschio  dalla  femmina,  «oltreché,»  prosiegue  «li  capelli  di  no- 
stra testa  son  tutti  numerati»  (MattL,  io,  30)  e  per  conseguenza 
tutti  i  nostri  peli  della  barba  e  del  nostro  corpo,  onde  non  possono 
esser  rasi.  Sol  permette  nel  cap.  xi,8  pag.  291,  di  tosarli  un  poco 
aggiungendo  che  una  barba  interamente  rasa  rende  l'uomo  d'aspet- 
to villano.  In  questo  stesso  cap.  parla  Clemente  degli  anelli  e  per- 
mette agli  uomini  di  portarli  solo  al  piccolo  dito,  ma  poiché  gli  an- 
tichi se  ne  servivano  anche  per  suggello,  proibisce  di  portar  quelli 
ne'  quali  sia  scolpita  qualche  figura  ignuda  o  qualche  falsa  divinità, 


1.  nel  cap.  XI:  intitolato  De  calceamentis,  in  Migne  cit.,  col.  535.  2.  nel 
cap.  XII:  intitolato  Quod  non  oporteat  gemmas  et  aureum  ornatum  stupere 
et  admirari,  col.  539.  3.  cap.  1:  intitolato  De  vera  pulchritudine,  coli. 
555  s£g-  4-  riél  cap.  2  :  intitolato  Quod  non  sit  cultu  utendum,  coli.  559  sgg. 
La  citazione  che  segue  a  col.  571.  5.  De  spectaculis  liber,  cap.  xxm  (e  non 
13),  in  Migne,  P.  L.,  1,  col.  730.  6.  e  nel  cap.  IV:  ritorna  al  Paedagogus 
di  Clemente,  cap.  iv,  Cum  quibusnam  habenda  sit  consuetudo,  in  P.  G.  cit,, 
col.  598.  7.  nel  cap.  3:  intitolato  Adversus  viros  qui  formam  colunt,  coli. 
578  sgg.  8.  nel  cap.  XI:  intitolato  Compendiosa  optimae  vitae  pertractatio, 
coli.  626  sgg.;  sulla  barba,  col.  635. 


LIBRO   I   •  CAP.  IX  837 

e  di  più  anche  se  portassero  impressa  una  spada  o  un  arco,  perché 
questi  sono  istromenti  che  non  convengon  punto  alla  pace,  o  pure 
un  bicchiere,  perché  dà  indizio  d'intemperanza.  Proibisce,  infine, 
tutti  i  giochi  di  fortuna,  come  malvaggi  di  lor  natura;  e  nel  cap.  xn1 
proibisce  a*  mariti  di  far  carezze  e  baciare  le  loro  mogli  in  presenza 
de*  domestici.  Se  alcuno  avesse  voluto  opporgli  l'esempio  in  con- 
trario di  tutto  un  patriarca  qual  fu  Isaac,  il  quale  ciò  faceva  con 
tanta  pubblicità  con  Rebecca,  che  fino  Abimelech  re  di  Gerara 
dalla  finestra  vide  che  si  trastullavano  insieme,  onde  comprese  che 
Rebecca  le  fosse  moglie,  e  non  sorella,  come  Isaac  ne  avea  fatto 
sparger  voce,  Genesi,  xxvi,  7,  8,  Clemente  tosto  l'avrebbe  risposto 
colle  solite  sue  allegorie  e  sensi  mistici.  Bisogna  in  quel  fatto  ri- 
guardar i  misteri  che  comprende,  non  la  corteccia  e  l'apparenza. 
Isaac,  dice  nel  cap.  va  del  lib.  1  del  Pedagogo,  dinota  il  riso;  Abi- 
melech, la  sapienza,  che  d'alto  mira  il  mondo;  Rebecca  impazienza. 
«O  saggio  gioco,»  esclama  «o  divin  gioco!  Questo  è  il  medesimo 
gioco,  ch'Eraclito  dice,  col  quale  il  suo  Giove  soleva  giocare». 
Aggiunge  un'altra  allegoria,  e  dice  che  «Abimelech,  riguardante 
per  la  finestra,  è  G.  Cristo  nostro  re,  che  riguarda  dal  cielo  il  no- 
stro riso»,  ed  altre  simili  puerilità  ed  inezie. 

Ma  sopra  tutto  declama  Clemente  e  tratta  di  grande  impietà  l'uso 
de'  falsi  capelli,  sicome  fecero  gli  altri  Padri  che  lo  seguirono,  li 
quali,  se  l'uso  delle  parrucche  fosse  stato  comune  a'  loro  tempi, 
sicome  è  ne'  nostri,  certamente  che  l'avrebbero  affatto  proibite  non 
solo  a  gli  ecclesiastici,  ma  a'  cristiani  tutti.  Essi  declamarono  contro 
ifalsi  capelli,  perché  credevano  di  farsi  ad  Iddio  una  grave  ingiuria, 
accusandolo  di  non  averci  data  una  bella  capillatura.  La  testa,  dice 
Clemente,  che  porta  falsi  capelli,  non  è  la  stessa  dataci  da  Dio,  e 
così  quando  il  prete  in  qualche  funzione  del  suo  ministero  impone 
le  mani  ad  una  tal  femmina,  non  è  la  stessa  persona  che  benedice, 
ma  un'altra. 

Tertulliano  (De  cultu  f eminar.,  cap.  vi-vii,3  p.  156-157)  per  la 
cagione  stessa  declama  contro  ifalsi  capelli,  dicendo  che  coloro  che 
se  ne  vagliono  rendono  Iddio  mendace  e  buggiardo,  il  qual  presso 
S.  Matteo,  V,  36,  disse:  «non  potes  unum  capillum  album  facere 

1.  nel  cap.  XII'.  intitolato  Brevis  optimae  vitae  simihter  pertractatio,  coli. 
663  sgg.  2.  nel  cap.  Vi  intitolato  Quod  omnes  qui  circa  ventatevi  versantur 
sint  apud  Deum  pueri,  coli.  262  sgg.  La  citazione  che  segue  a  col.  275. 
3.  De  cultu  feminarum  libri  duo,  n,  vi-vn,  in  Migne,  P.  L.,  1,  coli.  1436-9. 


838  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

aut  nigrum».  Tertulliano  aggiunge,  inveendo  contro  le  femmine; 
«Adfigitis  praeterea  nescio  quas  enormitates  capillorum,  nunc  in 
galeri  modum,  quasi  vaginam  capitis  et  operculum  verticis,  nunc 
in  cervicem  retro  suggestum.  Mirum  quod  non  contra  dominica 
praecepta  contenditur.  Ad  mensuram  neminem  sìbi  adiicere  posse, 
pronunciatum  est.  Vos  vero  adiicitis  ad  pondus  ;  colluras  quasdam, 
vel  scutorum  umbilicos,  cervicibus  adstruendo»1  etc. 

S.  Cipriano  ammiratore  de*  libri  di  Tertulliano,  che  avea  stan- 
chi, declamando  pure  contro  i  falsi  capelli,  si  vale  del  passo  stesso 
di  S.  Matteo,  De  habitu  virgìnum?  pag.  99,  e  così  si  scaglia  contro 
le  femmine:  «Manus  Deo  inferunt  quando  id  quod  ille  formavit, 
reformare  et  transfigurare  contendunt,  nescientes  quia  opus  Dei 
est  omne  quod  nascitur,  diaboli  quodcumque  mutatur  ...  Ut  enim 
impudica  circa  homines  et  incesta  fucis  lenocinantibus  non  sis, 
corruptis  violatisque  quae  Dei  sunt,  peior  adultera  detineris».  Pro- 
siegue  minacciandole  che  nel  giorno  della  resurezione  il  supremo 
Giudice  le  dirà  di  non  conoscerle,  che  la  vostra  figura  sia  guasta  e 
corrotta,  non  già  la  mia  opera  e  la  mia  immagine,  e  le  vostre  teste 
sono  piene  di  vanità  e  di  menzogna;  e  nel  libro  De  lapsis?  p.  123, 
chiama  i  capelli  tinti:  «Capilli  mendacio  colorati».  Chi  può  negare 
che  sovente  le  femmine  danno  in  ciò  in  qualche  eccesso,  e  non  sian 
da  riprendere  per  l'affettazione  e  soverchia  sollecitudine  che  por- 
gono in  ornarsi?  Ma  sovente  accade  anche  ch'esse  medesime  n'e- 
sperimentano  il  castigo,  e  tanta  industria  produce  effetti  contrari 
alla  loro  ambizione,  ed  in  vece  di  essere  commendate  e  tenute 
care  sono  biasimate  ed  abborrite.  Sovente  in  alcune  le  loro  negli- 
genze vagliono  più  che  tutti  gli  artifici  delle  più  scaltre.  In  tutte  le 
cose  v'entra  il  ne  quid  nimis.  Cicerone  loda  ne'  suoi  libri  De  officiù 

1.  «Adjzgitis . .  .  adstruendo  y>:  De  cultu  feminarum  cit.,  11,  vii,  col.  1438 
(a  Vi  mettete  su  non  so  quali  enormi  parrucche  ora  a  mo'  di  galero,  co- 
me un  involucro  e  un  coperchio  del  capo,  ora  a  mo'  di  palco  sulla  nuca. 
Strano  che  non  ci  si  scagli  contro  i  precetti  del  Signore.  È  stato  proclamato 
che  nessuno  può  aggiungere  alcunché  alla  propria  statura  [cfr.  Matth.,  6, 
27],  ma  voi  aggiungete  al  peso,  applicandovi  in  testa  come  delle  focacce  o 
centri  di  scudo  »).  2.  Liber  de  habitu  virginum,  xv,  in  Migne,  P.  L.,  iv,  coli. 
467-8  («Levano  le  mani  contro  Dio  quando  si  adoperano  per  cambiare  e 
trasformare  quel  che  Dio  ha  formato,  ignorando  che  ogni  cosa  che  nasce 
è  opera  di  Dio,  del  diavolo  tutto  ciò  che  si  cambia . .  .  Ancorché  infatti 
con  l'attrattiva  dei  belletti  tu  non  sia  impudica  e  invereconda  a  riguardo 
degli  uomini,  tuttavia,  poiché  hai  corrotto  e  contaminato  quel  che  è  di 
Dio,  sei  considerata  peggio  d'una  adultera»).  3.  Liber  de  lapsis,  vi,  in 
Migne,  P.  L.}  iv,  col.  483. 


LIBRO    I    •  GAP.   IX  839 

la  munditia,1  la  quale  e  per  la  vita  civile,  e  per  la  propria  nettezza  e 
salubrità  è  necessaria,  ma  si  biasima  l'affettazione  e  la  troppa  cura. 
Livio  rapporta  d'una  vergine  Vestale,  la  quale  perché  nel  culto  di 
sua  persona  era  soverchia,  diede  di  sé  qualche  sospetto  d'impudici- 
zia, onde  ne  fu  accusata  innanzi  al  sacerdote  a  cui  s'apparteneva 
di  punire  i  lor  difetti  ;  ma  esaminata  la  causa,  si  trovò  innocente  : 
fu  ben  sì  ripresa  che  per  l'avvenire  si  astenesse  di  abbigliarsi  con 
tanta  cura,  per  non  dare  di  sé  sospetto  alcuno.2 

Di  questi  e  simili  rigori  ci  sarà  data  altra  occasione  di  trattarne 
quando  esaminaremo  spezialmente  i  libri  di  S.  Agostino,  da  cui 
derivarono  i  rigoristi  de'  passati  e  de'  nostri  tempi;  dove  in  più 
chiara  luce  vedrassi  quanto  opportunamente  fossero  surti  i  nostri 
più  clementi  e  benigni  teologi  scolastici  per  toglier  all'uman  genere 
tanti  lacci  e  catene;  e  si  conoscerà  maggiormente  quanto  provida 
e  saggiamente  avesse  poi  la  Chiesa  tolto  l'abuso  delle  penitenze 
pubbliche  usate  dagli  antichi  Padri  con  tant' asprezza  e  rigore,  che 
furono  cagione  di  tanti  disordini,  infamie  e  pubblici  affronti  ;  aven- 
do l'esperienza  fatto  conoscere  che  per  l'emendazione  di  nostra 
vita  Iddio  ricerca  il  cuore,  lo  spirito,  la  verità  (come  dice  S.  Gio., 
iv,  24),  non  assolutamente  V  esterne  pubbliche  penitenze;  la  mutazione 
in  fatti  della  vita  rea  alla  buona  è  la  vera  penitenza,  ed  è  la  neces- 
saria, poiché  l'esperienza  ci  ha  dimostrato  che  i  più  grandi  ipocriti, 
i  più  ottenebrati  delle  più  grosse  illusioni,  e  che  non  hanno  alcun 
serio  desìo  di  convertirsi,  sono  ordinariamente  quelli  che  volontieri 
abbracciano  l'austerità  e  le  mortificazioni  esteriori,  avendo  ridotta 
la  facenda  ad  una  pura  meccanica,  e  sono  più  facili  a  sofferirle  che  a 
rinunciare  le  loro  favorite  passioni;  e  quel  ch'è  peggio  e  deplorabile 
in  quelle  maggiormente  si  confermano,  su  il  falso  pregiudizio  di 
ottenere  la  remission  de'  loro  peccati  per  queste  estrinseche  morti- 
ficazioni, menando  intanto  la  lor  vita  come  prima  tra  vizzi  e  disso- 
lutezze. Di  quanti  scandali  e  disordini  fossero  stati  cagione  i  rigori 
usati  nelle  pubbliche  penitenze,  a'  nostri  tempi  e  de'  nostri  maggiori, 
da'  moderni  scrittori  si  son  date  alla  luce  più  dotti  trattati  non  men 
da'  cattolici  romani,  come  da  Morino,3  Tommasino4  ed  altri,  che 

1.  Cicerone  .  . .  munditia:  cfr.  De  officiis,  1,  xxxvi,  130.  2.  Livio  rapporta 
.  .  .  alcuno:  cfr.  IV,  44,  11-2.  3.  Morino:  Jean  Morin  (1591-1659),  teolo- 
go francese,  studioso  di  problemi  biblici.  Cfr.  il  suo  Commentarius  histori- 
cus  de  disciplina  in  administratione  sacramenti  poenitentiae,  Parisiis  1651. 
4.  Tommasino:  Louis  Thomassin:  cfr.  la  nota  2  a  p.  460.  Oltre  all'opera  ivi 
citata,  edita  la  prima  volta  a  Parigi  nel  1688,  cfr.  i  Traitez  historiques  et 


840  APOLOGIA  DE>   TEOLOGI  SCOLASTICI 

da'  pretesi  riformati,  come  da  Giovanni  Dalleo,1  De  poenis  et  sati- 
sfactionibus,  da  Giuseppe  Bingam,3  Orig.  eccles.,  e  da  M.r  Le  Clerc 
nella  Vita  di  S.  Cipriano,  nella  «  Bibliot.  univers.  »,  tom.  xn,  pag. 
294  et  seg.3  E  per  ciò  che  riguarda  la  morale  degli  antichi  Padri 
possono  vedersi  gli  ultimi  scrittori,  che  han  esaminato  con  accu- 
ratezza e  somma  critica  questa  materia,  fra  gli  altri  Puffendorf, 
De  iur.  notar,  et  genti.,  e  Giovanni  Barbeyrac  nella  sua  Prefazione 
e  note  sopra  l'opera  suddetta  di  Puffendorf.4  Ultimamente  venne 
voglia  al  P.  D.  Remigio  Ceillier5  religioso  benedittino  della  con- 
gregazione di  S.  Vanne  e  di  S.  Idolfo  di  confutare  ciò  che  Barbeyrac 
aveva  scritto  nella  Prefazione  suddetta  intorno  alla  morale  de'  Padri 
antichi,  e  nel  171 8  stampò  in  Parigi  un  volume  in  40  sotto  questo 
titolo  :  Apologie  de  la  morale  des  Pères  de  VÉglise,  contre  les  injustes 
accusations  du  seur  Jean  Barbeyrac,  professeur  en  droit  à  Groningue 
etc.  Meglio  sarebbe  stato  per  lui  di  astenersi  di  dar  fuori  una  Apolo- 
gia nella  quale  dovea  porsi  in  necessità  di  difendere  il  falso,  sicome 
il  successo  lo  dimostrò,  poiché  il  Barbeyrac  gli  rispose  con  tanto 
vigore  e  forza  nel  suo  trattato  De  la  morale  des  Pères  de  VÉglise 
stampato  in  Amsterdam  nel  1728  che  non  gli  lasciò  scampo,  sicché 
finora,  per  quel  ch'io  sappia,  non  se  n'è  veduta  replica  alcuna. 

CAP.  XI 

Delle  questioni  vane,  ridicole  e  curiose,  onde  gli  scrittori  de'  secoli 

rozzi  ed  incolti  han  riempito  i  lor  volumi,  seguendo 

la  traccia  de*  Padri  antichi. 

Molti  oggi  disprezzano  e  deridono  i  tanti  volumi  de*  nostri  teologi 
scolastici  ripieni  d'infinite  questioni  non  pur  vane,  inutili  e  curiose, 

dogmatiques  de  VÉglise  et  de  la  morale  chrétienne,  Parisiis  1683,  in  due  vo- 
lumi, i.  Giovanni  Dalleo:  cfr.  la  nota  z  a  p.  690.  Il  Giannone  si  riferisce 
qui  al  De  poenis  et  satisfactionibus  htanams  libri  septem,  Amstelodami  1649. 
Vedi  anche  la  nota  3  a  p.  794.  2.  Giuseppe  Bingam  ecc.  :  vedi  la  nota  1  a 
p.  660.  3.  Di  Jean  Le  Clerc  (cfr.  la  nota  5  a  p.  315)  è  qui  citata  la  re- 
censione, apparsa  sulla  «Bibliothèque  universelle»  del  1727,  tomo  e  loc. 
citt,  agli  Òpera  S.  Cypriani,  Parisiis  1726,  a  cura  di  Prudent  Maran,  il 
quale  premise  alla  sua  edizione  una  Vita  S.  Cypriani.  4.  fra  gli  altri .  .  . 
Puffendorf:  cfr.  le  note  2  e  3  a  p.  819.  5.  Remy  Ceillier:  cfr.  la  nota  1  a 
p.  795-  Contro  la  sua  opera  polemizzarono  Johann  Franz  Budde  e  lo  stesso 
Barbeyrac  (cfr.  p.  795  e  la  nota  2  ivi),  che  rispose  con  il  Traité  da  cui  il 
Giannone  trasse  gli  appunti  conservati  ali* Archivio  di  Stato  di  Torino, 
manoscritti  Giannone,  mozzo  1,  ins.  15,  O,  1. 


LIBRO    I    •  CAP.  XI  84I 

ma  eziandio  fantastiche  e  ridicole,  come  se  essi  fossero  stati  i  primi 
ad  infrascarle  nell'interpretazione  della  Divina  Scrittura.  Stupi- 
scono del  lor  numero  e  della  vasta  mole,  per  cui  non  bastano  ampie 
sale  e  camere  per  potergli  capire.  Alfonso  Tostato,1  detto  l'Abu- 
lense  perché  fu  vescovo  di  Avila  in  Ispagna,  sopra  l'Evangelio  solo 
di  S.  Matteo  scrisse  sette  tomi  in  foglio,  e  non  finì  di  spiegarlo 
tutto;  e  sicome  notò  Sisto  Senense  nel  lib.  4  della  sua  Biblioteca? 
sopra  un  solo  capitolo  mosse  cento  settanta  questioni.  Così  pure  si 
mostrò  fecondo  ed  ubertoso  negli  altri  tomi  che  lasciò  sopra  la 
Scrittura  Santa,  tal  che  in  Ispagna  nacque  il  proverbio  per  ischer- 
nire  qualche  prolisso  autore  di  più  libri,  che  avea  scritto  più  che  il 
Tostato.  Lo  stesso  Sisto  fa  menzione  nel  lib.  3  della  sua  Biblioteca 
di  Enrico  Langestenio,3  il  quale  avendo  consumati  molti  anni  nella 
sposizione  della  Genesi,  appena  in  quattro  anni  arrivò  al  quarto  ca- 
pitolo di  quel  libro.  Aggiunge  il  P.  Menochio  nelle  sue  Stuore,  tom. 
1,  cent.  11,  cap.  44,4  che  molto  più  diffuso  fu  Tommaso  Asserbachio,5 


1.  Alfonso  Tostato:  Alonso  Tostado  Ribera  (1400-1455),  teologo  ed  esegeta 
spagnolo.  Per  la  sua  prolissità  divenne  proverbiale  in  Spagna:  «Escribe  mas 
que  el  Tostado  ».  Per  il  commento  a  Matteo  cfr.  Opera  omnia,  Venetiis 
1596,  ventisei  tomi  in  dodici  volumi  in  folio.  2.  Sisto  . . .  Biblioteca-.  Sisto 
da  Siena  (1 520-1 569).  Di  origine  ebrea,  si  convertì  al  cattolicesimo  fa- 
cendosi francescano  e  successivamente  domenicano.  Biblista,  scrisse  una 
Bibliotheca  sancta  ex  praecipuis  Catholicae  Ecclesiae  autoribus  collecta,  Ve- 
netiis 1566.  Il  libro  iv  è  dedicato  all'esame  degli  esegeti  cattolici  (cfr. 
p.  311  :  Alphonsus  Tostatus).  3.  Lo  stesso  .  .  .  Langestenio:  Heinrich  Hein- 
buche  von  Langestein  (morto  nel  1397),  erudito  e  teologo  tedesco.  Profes- 
sore a  Parigi,  poi,  nel  1387,  all'Università  di  Vienna,  di  cui  divenne  rettore 
nel  1393.  Cfr.  Bibliotheca  cit.,  hb.  in,  p.  284,  De  coacervatione.  4.  Ag- 
giunge ...  cap.  44:  Giovanni  Stefano  Menochio  (1575-1655),  gesuita, 
teologo  ed  esegeta,  autore  di  opere  famose  come  i  Commentarii  al  Vecchio 
Testamento  e  il  De  republica  Hebraeorum,  ricordato  come  opera  di  parti- 
colar  pregio  dal  maestro  del  Giannone,  rÀulisio,  in  Delle  scuole  sacre  cit., 
tomo  I,  p.  5.  Qui  sono  citate  Le  Stuore,  ovvero  trattenimenti  eruditi  del  pa- 
dre G.  S.  Menochio,  la  cui  più  antica  edizione,  con  lo  pseudonimo  di  Gio- 
vanni Corona,  è  quella  di  Roma  del  1646- 1648,  in  due  volumi.  Altra  edi- 
zione, Roma  1648- 1652,  in  cinque  volumi.  Il  Giannone  utilizza  l'edizione  'w. 
tre  tomi:  Stuore,  Roma  1689,  ordinata  in  maniera  diversa  dalle  precedenti: 
cfr.  infatti  tomo  I,  centuria  li,  cap.  xliv,  Se  siano  più  degni  di  lode  quegli 
spositori  che  scrivono  diffusamente  sopra  la  Scrittura,  0  quelli  che  brevemente 
la  dichiarano,  pp.  242  sgg.  Di  qui  derivano  le  citazioni  del  Tostado,  di 
Sisto  e  di  Langestenio.  A  sua  volta  il  Menochio  si  ispira  alla  Bibliotheca 
di  Sisto,  lib.  in,  p.  284:  «Hunc  longe  prolixiore  opere  superavit  Thomas 
Hasselbachius .  .  .».  5.  Tommaso  Asserbachio:  Thomas  Hasselbach.  Non 
ho  trovato  altre  notizie,  oltre  quella  tratta  da  Sisto,  pervenuta  al  Giannone 
attraverso  il  Menochio. 


842  APOLOGIA  DE»    TEOLOGI   SCOLASTICI 

il  quale  spiegando  il  primo  capitolo  d'Isaia  vi  consumò  anni  ven- 
tuno, e  con  tutto  che  sopra  quel  profeta  scrivesse  ventiquattro  libri, 
non  potè  con  tutto  questo  vedere  il  fine  di  dichiararlo  tutto.  Ascanio 
Martinengo,  commentando  la  Genesi,1  compose  due  gran  volumi  in 
foglio  e  non  passò  il  secondo  o  terzo  capitolo  di  quel  libro.  Il  P. 
Francesco  Mendozza  portoghese  sopra  li  due  primi  capi  del  I  Libro 
de'  Re2  ha  dato  alle  stampe  un  volume  in  foglio  di  giusta  grandezza,  e 
dapoi  due  altri  simili,  ma  in  tutti  questi  tre  gran  tomi  non  si  spiegano 
più  che  quindici  capi  di  quel  libro  istorico.  Il  P.  Giovanni  Filippo3 
compose  un  molto  grosso  volume  sopra  Osea,  nella  dichiarazione 
del  quale  non  fece  altro  progresso  che  di  spiegare  i  primi  soli 
quattro  capitoli.  Termina  in  fine  il  P.  Menochio  con  dire  che  non 
gli  riuscirebbe  cosa  molto  difficile  di  tessere  un  lungo  catalogo  di 
sì  fatti  scrittori  non  meno  moderni  che  antichi;4  e  disse  vero,  poiché 
i  moderni  dagli  antichi  l'appresero,  i  quali  ne  dieder  l'esempio  e  le 
prime  mosse. 

La  natura  con  tenor  costante  ha  sempre  prodotto  e  produrrà 
sempre  ingegni  chiari  e  sublimi,  ed  in  ciaschedun  secolo  non  ne 
sono  mancati  giammai.  Que'  ch'ebbero  la  sventura  di  nascere  ne' 
secoli  rozzi  ed  incolti,  e  che  s'impiegarono  a  questi  studi  teologici 
sopra  la  S.  Scrittura,  non  trovando  altra  guida  che  l'istradasse  che 
i  libri  de'  Padri  antichi,  de'  quali  tutta  Pobbligazion  si  dee  a' 
monaci  che  non  pur  gli  conservarono,  ma  nelle  lor  solitudini  gli 
moltiplicarono  lasciandone  più  copie,  avidamente  presero  a  stu- 
diargli. E  sicome  altrove  si  è  avvertito,  una  volta  che  gli  umani  in- 
gegni, guidati  per  sentieri  obliqui  e  confusi,  s'inoltrano  nella  con- 
templazione di  que'  oggetti  che  si  mettono  ad  essaminare,  non  ne 
sanno  poi  trovar  né  modo  né  misura.  A  ciò  si  aggiunga  l'insito  no- 
stro desiderio  della  gloria,  e  di  non  volere  essere  a'  primi  inferiori, 
anzi  di  vincergli  e  superargli.  Tante  innumerabili  e  la  maggior 


1.  Di  Ascanio  Martinengo  (1 541- 1600),  erudito  e  religioso  di  origine  bre- 
sciana, cfr.  Glossae  magnae  in  sacram  Genesim . . .,  Patavii  1597,  in  due 
volumi.  Da  G.  S.  Menochio,  op.  e  loc.  cit.,  p.  242.  2.  Francesco  . .  .  de' 
Re:  Francisco  de  Mendoca  (1 573-1626),  gesuita  portoghese,  Commentarii 
in  quattuor  libros  Regum,  Conimbricae  1621.  Da  G.  S.  Menochio,  op.  e 
loc.  cit.,  p.  242.  3.  Giovanni  Filippo:  non  sappiamo  di  chi  con  precisione 
si  tratti.  Da  G.  S.  Menochio,  op.  e  loc.  cit.,  p.  242.  4.  Termina  .  . .  anti- 
chi: cfr.  ibid.:  «Questo  medesimo  modo  di  scrivere  trattati  è  piacciuto  ad 
altri,  e  moderni  e  antichi,  de'  quali  non  sarebbe  cosa  difficile  tessere  un 
lungo  catalogo  ». 


LIBRO     I    •  CAP.  XI  843 

parte  vane  questioni  onde  han  caricato  i  loro  volumi,  non  furono 
essi  i  primi  ad  infrascarle  ne*  sacri  libri,  ma  calcando  le  stesse 
pedate  degli  antichi  Padri,  vollero  non  pur  in  ciò  imitargli,  ma 
superargli  ancora.  Gli  antichi  ne  diedero  essempio  :  essi  comincia- 
rono a  fantasticare  ed  a  muover  più  questioni  sopra  il  paradiso 
terrestre,  sopra  le  fattezze  e  statura  gigantesca  di  Adamo,  sopra 
l'arca  di  Noè,  sopra  la  salute  di  Esaù,  di  Sansone,  di  Salomone  e 
sopra  tante  altre  inutili  questioni  intorno  al  Testamento  Vecchio  e 
lo  stesso  fecero  sopra  il  Nuovo.  Sicché  non  dee  recar  meraviglia 
se  que'  che  gli  successero,  spezialmente  ne*  secoli  incolti,  tirando 
innanzi  il  cammino  ne  suscitassero  altre  molto  più  vane  e  curiose, 
anzi  ridicole,  sicome  vedrassi  qui  e  nel  progresso  di  quest'opera. 
Né  devono  sorprendersi  d'un  così  prodigioso  numero,  poiché  se 
si  tireranno  giusti  i  conti,  si  troverà  che  non  fu  inferiore  quello 
degli  antichi.  I  Greci  furono  i  primi  e  spezialmente  quelli  che  usci- 
rono dalla  scuola  di  Alessandria.1  Si  è  veduto  di  quante  questioni 
filosofiche  invilupparono  la  divina  dottrina.  Origene  capo  di  quella 
scuola  per  tante  sue  sposizioni  allegoriche  e  misteriose  ne  accrebbe 
il  numero,  e  via  più  crescendo  tra  le  mani  degli  altri  Padri  greci 
che  seguirono,  si  venne  ad  un  gran  cumulo.  Fra*  Padri  latini  S. 
Agostino  superò  S.  Ambrogio  e  tutti  gli  altri  suoi  coetanei.  Egli, 
che  di  ogni  cosa  volle  sapere  il  quare  ed  il  quomodo,  inondò  la 
Scrittura  non  men  dell'Antico  che  del  Nuovo  Testamento  d'innu- 
merabili  questioni.  Intorno  al  Pentateuco  di  Mosè  ne  mosse  infì- 
nite.a  Sopra  la  Genesi  cento  settanta  tre,3  ed  altre  tante  sopra 
V Esodo.  Novantaquattro  sopra  il  Levitico,  e  sopra  i  Numeri  sessan- 
tacinque; e  nel  Deuteronomio  cinquantasette.  Sopra  il  libro  di 
Iosue  trenta,  e  sopra  i  Giudici  cinquantasei.4  Delle  questioni  sopra 
il  Nuovo  Testamento  compilò  più  libri.  Nel  1  e  11  sopra  gli  Evan- 
geli se  ne  contano  novantotto,  e  sopra  l'Evangelio  di  S.  Matteo 


1.  scuola  di  Alessandria',  il  Giannone,  ancora  una  volta,  riassume  un  tema 
che  ha  un  particolare  sviluppo  nell'opera  del  maestro  Aulisio:  cfr.  Delle 
scuole  sacre  cit.,  tomo  11,  soprattutto  i  capitoli  xxi-xxiv.  2.  Intorno  .  . . 
infinite:  cfr.  Quaestionum  in  Heptateuchum  libri  septem,  in  Migne,  P.  L., 
xxxiv,  coli.  547-824.  3.  cento  settanta  tre:  cfr.  De  Genesi  contra  mani- 
chaeos  libri  duo  ;  De  Genesi  ad  litteram  imperfectus  liber,  e  De  Genesi  ad  litte- 
ram  libri  duodecim,  in  Migne,  P.  L.t  xxxiv,  rispettivamente  coli.  173-220; 
219-46  e  245-486.  Cfr.  inoltre  In  Heptateuchum  locutionum  libri  septem, 
lib.  I,  Locutiones  de  Genesit  ivi  coli.  485  sgg.  4.  sopra  l'Esodo  . .  .  Giudici 
cinquantasei:  cfr.  In  Heptateuchum  locutionum  libri  septem  cit.,  coli.  501-46. 


844  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

dicisette.1  Tutti  i  quattro  libri  che  scrisse  De  consensu  Evangelista- 
rum2  sono  ripieni  di  infinite  altre.  A  questi  aggiunge  un  altro  libro 
che  ne  contiene  ottantatré;3  dapoi  un  altro  di  ventuno.4  A  Simpli- 
ciano, vescovo  di  Milano,  successore  di  S.  Ambrogio,  mandò  due 
libri  colla  resoluzione  di  più  questioni  ed  un  altro  a  Dulcito.5  Un 
altro  libro  in  forma  di  dialogo,  i  di  cui  interlocutori  sono  Orosio 
che  dimanda  ed  Agostino  che  risponde,  si  propongono  sessanta- 
cinque questioni.6  In  un  altro  voluminoso  libro  in  più  parti  diviso 
se  ne  esaminano  altre;  alcune  separatamente  sopra  il  Vecchio,  altre 
sopra  il  Nuovo  Testamento;  ed  in  ultimo  luogo  promiscuamente 
sopra  l'uno  e  l'altro.7  E  chi  potrebbe  annoverarle  tutte,  quante  se 
ne  leggono  in  tanti  suoi  volumi  ? 

Chi  niega  che  molte  non  fossero  degne  da  proporsi,  e  doppo 
diligente  e  maturo  esame  esser  risolute  ?  Ma  fra  le  utili  e  necessarie 
moltissime  se  ne  affastellarono  sopra  ricerche  di  cose  oscure,  diffi- 
cili ed  impercettibili,  non  solo  per  se  stesse  inutili,  ma  per  l'essem- 
pio  dannose,  poiché  altri  tirando  le  cose  più  innanzi  empirono  dopo 
i  loro  volumi  di  mille  altre  tutte  puerili,  vane,  anzi  ridicole,  mal 
profittando  di  quel  savio  ammonimento  di  Cicerone  il  quale  nel 
libro  1  De  officiis*  nella  ricerca  del  vero,  sicome  condanna  la  preci- 
pitarla di  tosto  decidere,  senza  che  preceda  un  maturo  e  lungo 
esame,  così  biasma  il  vizio  di  metter  sommo  studio  nelle  cose 
oscure  e  difficili  e  non  necessarie:  «Alterum  est  vitium»  e'  dice 
«  quod  quidam  nimis  magnum  studium  multamque  operam  in  res 
obscuras,  atque  difficiles  conferunt,  easdemque  non  necessarias  ». 
Noi  qui  ne  accennaremo  alcune,  le  quali  dagli  antichi  Padri  ebber 
origine,  sicché  possiamo  dire  ch'essi  partorirono  l'uova  e  gli  altri 
poi  covandole  ne  schiusero  i  polli;  e  per  non  recar  confusione 


1.  Nel  leu...  dicisette:  cfr.  Quaestionum  Evangeliorum  libri  duo  e  Quae- 
stionum  septemdecim  in  Evangelium  secundum  Matthaeum  liber  unus,  in  Mi- 
gne, P.  L.,  xxxv,  rispettivamente  coli.  1323-64  e  1365-76.  2.  De  consensu 
Evangelistarum  libri  quatuor,  in  Migne,  P.  L.t  xxxiv,  coli.  1041-230.  3.  A 
questi .  .  .  ottantatré:  cfr.  De  diversis  quaestiontbus  LXXXIU  liber  unus,  in 
Migne,  P.  L.,  xl,  coli.  1 1-100.  4.  un  altro  di  ventuno:  cfr.  ibid.,  coli.  725- 
32,  Viginti  unius  sententiarum  sive  quaestionum  liber  unus.  5.  A  Simplicia- 
no . .  .  Dulcito:  cfr.  De  diversis  quaestionibus  ad  Simplicianum  libri  duo,  ivi, 
coli.  101-48,  e  De  odo  Dulcitii  quaestionibus  liber  unus,  ivi,  coli.  147-70. 
6.  Un  altro  libro  . .  .  questioni:  cfr.  Dialogus  quaestionum  LXV,  ivi,  coli. 
733-5^*  7-  In  un  altro  . . .  V altro:  cfr.  De  mìrabilibus  Sacrae  Scripturae 
libri  tresy  e  Quaestiones  Veteris  et  Novi  Testamenti,  in  Migne,  P.  L.,  xxxv, 
rispettivamente  coli.  2149-200  e  2213-416.     8.  De  officiis,  I,  vi,  19. 


LIBRO   I   •  CAP.  XI  845 

separaremo  quelle  fantasticate  sopra  il  Vecchio,  dall'altre  mosse 
sopra  il  Nuovo  Testamento. 


1.  Questioni  sopra  il  Vecchio  Testamento. 

Si  cominciò  da'  Padri  antichi  ad  investigare  dove  mai,  ed  in 
qual  parte  della  terra  awesse  Dio  piantato  il  paradiso  terrestre. 
Origene  non  potendone  sopra  la  superficie  della  terra  trovar  il  sito, 
per  uscir  d'impaccio  lo  pose  fuori  del  terraqueo  globo,  e  lo  collocò 
in  alto  al  terzo  cielo,  e  così  salva  Enoc  dall' innondazione  del  dilu- 
vio; e  se  bene  S.  Girolamo  sopra  il  cap.  io  di  Daniele1  riprovi  opi- 
nione sì  fantastica,  con  tutto  ciò  fra'  moderni  Francesco  Giordano2 
nel  tom.  1  de'  suoi  Problemi  non  si  rimosse  di  seguire  l'opinione  di 
Origene,  poiché  finalmente  quando  si  tratta  di  fantasticare  a  ca- 
priccio ogni  uno  pretende  per  fantasia  non  ceder  all'altro.3  Altri 
Padri,  come  Basilio,  Damasceno,  Ruperto  Abate,  ed  altri,  lo  po- 
sero sì  bene  in  terra  ferma,  ma  tanto  sollevato  in  alto  sicché  toccasse 
il  cielo  della  luna;  ad  altri  più  moderati  gli  bastò  che  fosse  alto 
tanto  sicché  nella  di  lui  sommità  non  vi  arrivassero  venti  o  piogge; 
e  questo  lo  fecero  per  compassione  di  Enoc,  per  salvarlo  pure  dal- 
l'acque del  diluvio.  Da  ciò  ne  venne  che  poi  di  tempo  in  tempo 
altri  si  lambiccassero4  il  cervello,  chi  cercandolo  nell'Armenia,  chi 
nell'Etiopia,  chi  nella  Mesopotamia  e  finalmente,  come  si  è  detto, 
venne  il  P.  Arduino5  a  fissarlo  nella  Palestina.  Né  di  ciò  contenti, 
si  venne  di  voler  precisamente  sapere  la  sua  lunghezza  e  larghezza, 


1.  *S.  Girolamo  .  .  .  Damele:  si  tratta  del  Commentariorum  in  Danielem  pro- 
phetam  liber  unus,  x,  vers.  4.  (In  Migne,  P.  L.f  xxv,  col.  554,  il  passo  contro 
Origene,  di  cui  non  sapremmo  indicare  la  fonte  precisa,  non  si  trova, 
poiché,  come  dice  la  nota  ivi,  «in  nostns  manuscnptis  non  habetur»). 

2.  Francesco  Giordano  :  forse  è  un  lapsus  giannoniano,  e  si  tratta  del  minori- 
tà veneziano  Francesco  Giorgio,  autore  di  In  Scripturam  Sacram  proble- 
mata,  Venetiis  1536,  menzionato  dal  Menochio  nel  luogo  citato  alla  nota 
seguente.  3.  Si  cominciò  . . .  altro:  deriva  da  G.  S.  Menochio,  Stuore 
cit.,  tomo  1,  cent.  1,  cap.  xxin,  In  qual  parte  del  mondo  fosse  il  para- 
diso terrestre  .  .  .,  p.  38.  4.  lampiccassero:  così  nel  manoscritto.  5.  il  P. 
Arduino:  Jean  Hardouìn:  vedi  la  nota  1  a  p.  187.  Il  brano  del  Giannone 
deriva  dal  Menochio,  op.  e  loc.  cit.,  p.  39,  ma  il  Giannone  si  riferisce  al 
lavoro  dell'Hardouin,  Nouveau  tratte  sur  la  situation  du  paradis  terrestre^ 
La  Haye  1730,  conosciuto  nella  traduzione  latina,  De  situ  paradisi  terr estris 
disguisitio,  che  lo  stesso  Hardouin  pubblica  nella  sua  edizione  della  Natu- 
rate historia  di  Plinio,  cit.,  tomo  1,  pp.  359-68,  dove  segue  le  emendationes 
al  libro  vi. 


846  APOLOGIA    DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

ed  alcuni  lo  vollero  sì  largo  ed  ampio,  nel  quale  potesse  capire 
tutto  il  genere  umano,  poiché  se  Adamo  non  peccava,  per  esso  non 
vi  era  altro  luogo  che  il  paradiso  terrestre.  Di  più  alcuni  Padri  vol- 
lero che  tutto  intiero  ancor  durasse,  e  che  durerà  sopra  la  superficie 
della  terra,  sino  al  fine  del  mondo,  dove  albergono  ancora  Enoc  ed 
Elia;  se  bene  gli  ultimi  viaggianti,  i  quali  hanno  scorso  tutte  le 
parti  e  contrade  del  mondo,  non  han  avuto  la  fortuna  di  trovarlo 
giammai  ed  anzi  questa  consolazione  di  vedere  e  parlare  con  que* 
due  vecchioni,  sicome  a*  tempi  di  Carlo  M.  Pebbe  Astolfo  il  quale 
nell'orbe  della  luna  trovò  S.  Giovanni  evangelista  col  quale  ebbe 
lunghi  e  piacevoli  colloqui.1 

Si  entrò  anche  in  un  mare  che  non  ha  né  fondo,  né  riva,  cioè  a 
proporre  questioni  sopra  il  se  Adamo  non  peccava,  che  sarebbe  stato 
di  noi  e  del  mondo.  Or  qui  sì  ch'entrossi  in  un  pelago  infinito: 
«  nec  ipsum  arbitror  mundum  capere  posse  eos,  qui  scribendi  sunt, 
libros»,2  come  de*  fatti  di  N.  S.  scrisse  S.  Giovanni.  S.  Agostino 
fu  in  ciò  fecondissimo,  e  sicome  vedremo  trattando  de*  suoi  libri 
della  Città  di  Dioy  tra  l'altre  questioni  gli  venne  fantasia  di  cercare, 
se  Adamo  non  peccava,  in  quale  maniera  si  sarebbe  giaciuto  colla 
sua  moglie  Eva;3  e  risolse  la  questione  con  dire  che  que'  congiun- 
gimenti non  sarebbero  stati  come  s'usano  oggi,  ma  senza  carnale 
concupiscenza,  e  senz'alcuna  commozione  avrebbe  egli  posto  il 
vomere  nel  solco  di  Eva,  e  così  piantati  gli  uomini.  Nel  cap.  13 
del  1  libro  sopra  la  Genesi4  che  scrisse  contr'a'  manichei  propone 
il  dubio,  se  Adamo  non  peccava,  la  terra  non  avrebbe  prodotto 
spine  e  triboli  e  piante  velenose,  come  fa  ora;  e  lo  risolve  che  non 
ci  sarebbero  state,  poiché  queste  furono  da  Dio  prodotte  in  castigo 
del  suo  peccato.  E  trovò  chi  lo  credesse,  sicome  furono  Beda,  Ru- 
perto  Abate,  Rabano  ed  Alcuino,5  scrivendo  questi  che  le  spine 

1.  sicome  cC  tempi .  .  .  colloqui:  cfr.  Ariosto,  Orl.fur.,  xxxiv,  54-68.  2.  «nec 
ipsum  . . .  libros»:  Ioan.t  21,  25.  3.  S.  Agostino  .  . .  Eva:  cfr.  De  evo.  Dei, 
xrv,  xxn-xxni,  in  Migne,  P.  L.,  xli,  coli.  429-32.  4.  De  Genesi  contro, 
manichaeos  cit,  in  Migne,  P.  L.,  xxxiv,  col.  182.  Da  G.  S.  Menochio,  op. 
cit.,  tomo  1,  cent.  11,  cap.  xci,  Se  avanti  il  peccato  d'Adamo  hahbia  Dio 
creato  le  herbe  velenose  . . .,  p.  327.  5.  JS"  trovò  .  .  .  Alcuino:  da  G.  S.  Me- 
nochio, op.  e  loc.  cit.,  p.  328.  Beda  (672-735),  benedettino  inglese,  dottore 
della  Chiesa,  scrisse  commenti  al  Vecchio  e  al  Nuovo  Testamento.  Ru- 
perto  Abate  (1075-1130),  benedettino  belga,  anch'egli  autore  di  commenti. 
Rabano  Mauro  (780-856),  benedettino  tedesco,  autore  di  commenti  alla 
Bibbia.  Alcuino  (735-804),  consigliere  di  Carlo  Magno,  scrisse  le  Interpre- 
tationes  et  responsa  in  Genesim. 


LIBRO    I   •  CAP.  XI  847 

ed  i  pungenti  triboli  sono  nati  per  la  maledizione  di  Dio  che  si 
legge  nella  Genesi,  3,  17.  E  se  bene  S.  Agostino  si  ritrattasse  poi 
nella  sposizione  della  Genesi  ad  literam,  cap.  3,1  di  quel  che  avea 
scritto  in  quel  libro  contro  a*  manichei,  Beda  però  e  gli  altri  non  si 
legge  che  facessero  lo  stesso.  S.  Basilio  nélOmìlia  5  sopra  VEsa- 
merone  volle  esaminar  il  dubbio  spezialmente  sopra  le  rose,  e  dice 
che  avanti  il  peccato  di  Adamo  erano  senza  spine,  ma  doppo  di 
quella  disubidienza  Dio  vi  aggiunge  le  spine  ;  e  lo  stesso  insegnò  il 
suo  pedissequo  S.  Ambrogio  nel  lib.  3  àtVd  Esamerone,7,  li  quali 
furon  poi  seguitati  dal  Damasceno,  Procopio  ed  altri.  Si  cercò 
anche  di  sapere  se  li  serpenti  nel  principio  fossero  stati  da  Dio 
formati  con  umana  favella,  poiché  quello  che  ingannò  Eva  gli  parlò 
e  vi  tenne  colloquio,  e  se  caminassero  dritti;  e  sembrò  ad  alcuni 
che  così  uscissero  dalle  mani  d'Iddio,  e  così  sarebbero  rimasi,  se 
uno  di  essi  non  avesse  indotto  Eva  a  trasgredire  il  divino  comando  ; 
ma  che  dapoi  in  pena  del  fallo  avessero  perduta  la  parola,  e  con- 
dennati  a  caminar  bocconi  strascinando  per  terra  i  loro  corpi.3 

Si  volle  anche  sapere  qual  preciso  frutto  fosse  stato  da  Dio 
vietato  a'  nostri  primi  parenti,  se  fu  una  mela,  o  altro  pomo,  ovvero 
un  fico.  Teodoreto  nella  qu.  28  sopra  la  Genesi4  francamente  de- 
cide il  dubbio  dicendo  che  fu  fico  :  «  Certe  sine  controversia  arbor 
illa  erat  ficus»;  e  trasse  molti  altri  scrittori  nel  suo  sentimento, 
riflettendo  che,  accorgendosi  doppo  averlo  mangiato  essere  nudi, 
diedero  di  piglio  alle  sue  frondi  per  coprire  le  parti  vergognose. 
Ciò  non  ostante,  altri,  a'  quali  forse  i  fichi  non  riuscivano  molto 
gustosi  a  lor  palato,  frutti  senza  odore  e  di  non  molto  grata  vista, 
si  appigliarono  ad  un  grappolo  di  uva,  e  dissero  che  quel  albero 
fu  una  vite.  Altri  stimarono  che  fosse  un  albero  di  pero  o  melo, 
poiché  i  pomi  che  producono  sono  veramente  belli  a  vedere,  odo- 
rosi, e  soavi  a  mangiare,  sicome  giudicò  Eva  quel  pomo  «bonum 

1.  De  Genesi  ad  litteram  libri  duodecim  cit.,  non  cap.,  ma  lib.  ni,  cap.  xviii, 
coli.  290-1.  2.  S.  Basilio  . . .  Esamerone:  cfr.  Basilio,  HomUia  V  in  Hexae- 
meron,  De  germinatione  terrae,  in  Migne,  P.  G.,  xxix,  col.  106,  e  Ambrogio, 
Hexaemeron  libri  sex,  lib.  in,  De  opere  tertii  àtei,  cap.  xi,  in  Migne,  P.  L.,  xiv, 
col.  188.  Entrambi  da  G.  S.  Menochio,  op.  e  loc.  cit.,  p.  328.  3.  Si  cercò 
anche .  .  .  corpi:  cfr.  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent.  11,  cap.  vi, 
Del  serpente  che  parlò  ad  Eva  nel  paradiso  terrestre . . .,  p.  171.  4.  Teodo- 
reto .  .  .  Genesi:  cfr.  Quaestiones  in  Genesim,  interrogatio  xxviii,  in  Migne, 
P.  G.,  ixxx.,  col.  126.  Da  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent.  11,  cap.  n, 
Se  il  frutto  vietato  da  Dio  ad  Adamo  fu  pomo,  ofico,  0  altro  ...,  pp.  165-6, 
dove  è  riportata  la  citazione  di  Teodoreto. 


848  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI   SCOLASTICI 

ad  vescendum,  et  pulchrum  oculis,  aspectuque  delectabile  ».z  Tra- 
lascio le  dispute,  e  le  sottili  indagini,  qual  fosse  stata  reità  maggiore, 
quella  di  Eva,  ovvero  di  Adamo  in  questa  trasgressione,  e  simili 
altre  curiose  ricerche,  le  quali  possono  leggersi  nelle  Stuore  del 
Menochio.  Donde  si  convince  che  delle  opere  di  Dio  noi  abbiam 
voluto,  non  già  credere,  ma  sapere,  quando  i  gentili  stessi  de'  loro 
dii  insegnavano:  «sanctius  et  reverentius  visum  de  actis  deorum 
credere  quam  scire^? 

Si  venne  anche  a  disputare  sopra  le  fattezze  di  Adamo  ;  se  fu  di 
statura  gigantesca;3  e  Gilberto  Genebrardo  nella  sua  Cronografia 
e  Giovanni  Lucido  nel  lib.  1  De  emendatione  temporum*  seguendo 
le  conietture  di  S.  Girolamo,  in  tutte  le  maniere  vogliono  che  fosse 
stato  un  gigante,  di  una  prodigiosa  grandezza  di  corpo,  ben  fatto, 
e  chi  lo  vuole,  quando  Iddio  lo  formò,  che  mostrasse  Perà  di  30, 
chi  di  40,  altri  di  50  anni,  e  per  ciò  computandosi  questi  anni  al- 
cuni lo  fanno  morto  più  vecchio  di  Metusalem;  e  certamente  sa- 
rebbe così  se  se  gli  dovessero  imputare  quegli  anni  che  non  visse 
e  tutto  quel  tempo  che  prima  d'essersi  formato  dimorava  nel  paese 
del  nulla.  Si  disputò  anche  intorno  alla  sua  sepoltura  :  chi  lo  vuole 
sepolto  in  Hebron  nella  città  di  Arbe,  secondo  che  sembra  aver 
creduto  S.  Girolamo  nel  libro  De  locis  hebraicis.5  Molti,  sicome  S. 
Atanasio,  De  passione  Salvatomi  S.  Cipriano,  Serm.  de  resur. 

1.  «bonum  .  . .  delectabile»:  cfr.  Gen.,  3,  6.  a.  «sanctius  . . .  scire»:  Tacito, 
Germ.,  xxxiv  («riguardo  alle  azioni  degli  dei  si  giudicò  più  santo  e  più 
rispettoso  credere  che  sapere»).  3.  Si  venne  anche ...  gigantesca;  cfr. 
G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent.  1,  cap.  xvm,  Se  Adamo  fosse  di 
statura  gigantesca;  e  se  sia  vero  che  fosse  sepolto  nel  monte  Calvario,  pp. 
28  sgg.  Da  questo  brano  derivano  le  citazioni  successive.  4.  Gilberto  .  .  . 
temporum:  cfr.  ibid.t  p.  28:  «Gilberto  Genebrardo  nella  sua  Cronografia 
e  Gio.  Lucido,  lib.  1  De  emendatione  temporum,  cap.  4,  stimano  che  Adamo 
fosse  di  statura  gigantesca».  Gilbert  Génébrard  (1537-1597),  erudito  e 
religioso  francese,  autore  di  Chronographiae  libri  quatuor  .  . .,  Parisiis  1580. 
L'opera  di  Giovanni  Lucido  (Iohannes  Lucidus)  è  Emendationes  temporum 
in  duas  partes  dwisae . . .,  Venetiis  1537  (poi,  ivi  1545  e  1575  con  titoli 
diversi).     5.  De  locis  hebraicis:  cfr.  Liber  de  situ  et  nominìbus  locorum  he- 

t  braicorum,  in  Migne,  P.  L.f  xxin,  col.  906.  Per  ciò  che  segue  cfr.  G.  S. 

'  Menochio,  op.  e  loc.  cit.,  p.  30:  «Altri  però  vogliono  che  Adamo  sia 
sepelito  nel  monte  Calvario,  e  non  in  Hebron,  il  che  se  fosse  vero,  l'argo- 
mento pigliato  da  quel  testo  restarebbe  del  tutto  inefficace,  così  tiene  S. 
Agostino,  serm.  72  De  tempore,  san  Cipriano,  Ser.  de  resurrect.  Christi, 
sant'Anastasio,  De  passione  Salvatoris,  S.  Ambrosio,  lib.  5,  ep.  19,  Origene, 
Tract.  5  in  Matth.,  S.  Gio.  Chrisostomo,  HomiL  84  in  Ioannem,  S.  Epi- 
fanio, Haeresi  46,  S.  Basilio,  sopra  il  cap.  5  d'Isaia  ed  altri  »,  6.  De  pas- 
sione et  cruce  Domini,  12,  in  Migne,  P.  G.,  xxvm,  col.  207. 


LIBRO    I    •  CAP.  XI  849 

Christi*  Origene,  Tract.  5  in  Matth.,2  S.  Gio.  Crisostomo,  OtniL 
84  in  Ioannem?  S.  Epifanio,  Haer.  4Ó,4  S.  Basilio,  sopra  il  cap.  15 
d'Isaia,5  S.  Ambrogio,  lib.  5,  ep.  19,6  S.  Agostino,  Serm.  72  De 
tempore7  ed  altri,  vogliono  che  fosse  sepellito  nel  monte  Calvario. 
Seguì  dapoi  una  terza  opinione  per  conciliare  sì  discordanti  pareri, 
della  quale,  sicome  avverte  il  P.  Menochio  nella  cent.  1,  cap.  18,8 
non  ne  fu  il  primo  autore  Onorio  Augusto dunense,9  ma  ha  più 
antica  origine,  come  quella  che  fu  tratta  da  Giacomo  Orrohaita 
Edesseno,10  maestro  di  S.  Efrem  siro,  il  qual  visse  a*  tempi  di  S. 
Basilio,  seguitata  dapoi  da  moltissimi,  i  quali  fantasticarono  che 
Noè  portò  seco  nell'arca  il  corpo  di  Adamo,  e  che  cessato  il  diluvio 
divise  l'ossa  a'  suoi  figliuoli  ;  ed  a  Sem  sopra  gli  altri  da  lui  amato 
diede  il  capo,  assignandogli  quella  parte  del  paese  che  poi  nomossi 
Iudea;  e  che  per  ciò  nel  monte  Calvario  fu  sepolto  il  solo  capo, 
non  già  tutto  il  corpo.  Da  ciò  poi  avvenne  che  i  dipintori  e  gli  scul- 
tori, i  quali  godono  l'istesso  privilegio  de'  poeti,  nel  pingere  o 
scolpire  l'imagine  di  Cristo  crocifisso  pongono  una  testa  di  morto 
a'  piedi  della  croce,  che  il  volgo  crede  che  rappresenti  quella  di 
Adamo." 

Intorno  a'  figliuoli  che  generò,  Mosè  scrisse  che  oltre  Caino, 
Abele  e  Seth  ebbe  altri  figli  e  figlie:  «genuit  filios  et  filias»,IZ 
non  dichiarando  quanti  fossero,  e  come  se  oltre  il  Pentateuco  di  Mo- 
sè fossero  a  noi  rimasi  altri  scrittori  o  più  antichi  o  suoi  contempo- 
ranei, i  quali  avessero  a  noi  tramandate  memorie  più  esatte  di 
questa  sua  prole,  si  volle  ricercare  il  preciso  numero,  il  sesso  e 
fino  i  nomi.  S.  Epifanio,  trattando  dell'eresia  de'  sethiani,  i  quali, 


1.  Serm.  de  resur.  Christi:  in  Migne,  P.  L.,  in  e  iv,  non  vi  è  traccia  di  un'o- 
pera del  genere,  per  cui  Terrore  -  se  d'errore  .si  tratta  -  risale  al  Menochio 
sopra  cit.  z.  Origene  . .  .  Matth.  :  cfr.  Commentarla  in  Evangelium  secun- 
dum  Matthaeumf  in  Migne,  P.  G.,  xm,  col.  1777.  3.  In  Ioannem  homilia 
LXXXV  (lxxxiv),  in  Migne,  P.  G.,  tix,  col.  459.  4.  S.  Epifanio,  Haer.t 
46  :  cfr.  Adversus  octoginta  haereses,  lib.  I,  tom.  ni,  Haeresis  xlvi,  Contra 
Tatianos,  in  Migne,  P.  G.,  xli,  col.  843.  5.  S.  Basilio  .  . .  Isaia:  cfr.  Com- 
mentarla in  Isaiam  prophetam,  cap.  v  (e  non  15),  in  Migne,  P.  G.,  xxx,  col. 
347.  6.  lib.  5,  ep.  XQ  :  cfr.  in  Migne,  P.  L.,  xvi,  Epistolarum  classis  II,  ep.  lxxi, 
io,  col.  1243.  7-  Serm.  *jz  De  tempore:  in  Migne,  P.  L.t  xxxrx,  Sermo  VI,  De 
immolatione  Isaac,  5,  Adam  sepultus  in  CaVoariae  loco,  coli.  1750-1.  8.  Me- 
nochio .  .  .  cap.  18:  cfr.  op.  e  loc.  cit-,  p.  30.  Tutto  il  brano  deriva  da  que- 
sto già  citato  capitolo  del  Menochio.  9.  Onorio  Augustodunense:  Onorio 
di  Autun,  teologo  del  XII  secolo,  io.  Giacomo  Orrohaita  Edesseno:  Gia- 
como di  Edessa,  teologo  del  IV  secolo.  1 1 .  Seguì  dapoi  .  .  .  Adamo  :  quasi 
alla  lettera  dal  Menochio,  ibid.     12.  «  genuit .  .  .filias»:  Gen.,  5,  4. 


850  APOLOGIA  DE»    TEOLOGI   SCOLASTICI 

secondo  scrisse  S.  Agostino  a  Quodvuldeo,  da  Seth  presero  il  nome,1 
scrisse  che  Adamo  doppo  di  Seth  generò  nove  altri  figli  maschi, 
compiendo  il  numero  di  dodici,  e  due  sole  figlie  femmine,  una  delle 
quali  si  chiamò  Save  e  l'altra  Azura:  la  prima  fu  moglie  di  Caino  e 
la  seconda  di  Seth.*  Altri  accrebbero  il  numero  delle  femmine  sino 
a  quello  de'  maschi,  poiché  altrimenti  diece  sarebbero  rimasi  senza 
donne  e  costretti  a  viver  celibi,  ciocché  ripugnava  alla  propaga- 
zione del  genere  umano  principalmente  pretesa  da  Dio  nel  principio 
del  mondo,  onde  sembra  più  probabile  che  Eva  ogni  anno  in  un 
parto  dasse  alla  luce  un  maschio  ed  una  femmina,  e  Saliano3  nel  3 
anno  del  mondo  tom.  1,  aggiunge  che  li  parti  di  Eva  furono  sempre 
di  due  o  di  tre  per  volta,  se  bene  nelPan.  930  n.  2  se  ne  mette  in 
dubbio  considerando  che  le  tante  afflizioni  che  soffrì  Adamo  dop- 
po che  fu  scacciato  dal  paradiso  poterono  distoglierlo  dall'opere 
voluttuose  e  renderlo  raffreddato  e  pigro  nelle  cose  veneree. 

Si  volle  ancora  sapere  il  preciso  segno  che  pose  Iddio  a  Caino 
perché  non  fosse  ucciso  :  chi  vuole  che  fosse  un  tremore  per  tutto 
il  corpo  ed  una  faccia  controfatta  come  d'uomo  spaventato  ed 
atterrito;  sicome  immaginò  S.  Girolamo  nell'epistola  135  scritta 
a  Damaso.4  I  fantastici  rabini  ebrei  dicono  che  il  segno  fu  un 
cane  il  qual  sempre  andava  avanti  Caino.  Altri  che  fu  un  corno  che 
gli  nacque  nella  fronte,  ed  altri  che  fosse  una  marca  impressagli 
nella  faccia,  nella  qual  opinione  inclina  anche  il  Lirano.5  E  non 
facendo  la  S.  Scrittura  in  luogo  alcuno  menzione  della  morte  di 
Caino,  si  volle  pure  investigare  del  modo,  da  chi  e  del  quando. 

E  chi  mai  potrebbe  annoverare  tutte  le  questioni  mosse  ed  ag- 


1.  secondo  . . .  nome:  cfr.  De  haeresibus  cit.,  xix,  in  Migne,  P.  £.,  xlii,  col. 
29.  2.  S.  Epifanio  . .  .  Seth:  cfr.  Adversus  octoginta  haereses,  hb.  1,  tom. 
ni,  Haeresis  xxxix,  Contra  sethianos,  in  Migne,  P.  G.,  xli,  col.  671.  Cfr. 
G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent.  1,  cap.  xxvn,  Del  numero  grande  de* 
figliuoli  che,  come  vogliono  alcuni,  Eva  partorì  ad  Adamo  suo  marito,  pp. 
45  sg.  3.  Saliano:  Jacques  Sahan  (1558-1640),  gesuita  francese  studioso 
di  problemi  biblici.  Cfr.  i  suoi  Annales  ecclesiastici  Veteris  Testamenti, 
Lutetiae  Pansiorum,  1620- 1624.  Tutto  il  brano,  compresa  la  citazione, 
deriva  dal  Menochio,  ibid.,  p.  46.  4.  sicome  ...  Damaso  :  cfr.  Epistola 
XXXVI ,  Ad  Damasum  papam,  in  Migne,  P.  L.t  xxn,  coli.  453-4.  Questa 
epistola  era  la  cxxv  (ma  il  nostro  manoscritto  ha  JJ5)  nelle  edizioni  prece- 
denti la  benedettina.  Da  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent,  in,  cap. 
xli,  Qual  segno  fosse  quello  che  pose  Dio  in  Caino  accioché  non  fosse  ucciso, 
e  della  sua  morte,  p.  412.  5.  Lirano:  Nicolò  da  Lira  (Lyranus,  1 270-1 349), 
francescano  francese,  esegeta  biblico,  autore  di  una  Postilla  litteralis  che 
ebbe  una  grande  diffusione. 


LIBRO    I    ■  CAP.  XI  851 

gitate  non  già  unicamente  da'  moderni,  ma  fin  da'  Padri  antichi 
sovra  l'arca  di  Noè  e  le  sottili  dimenzioni  e  providenze?  distri- 
buendo le  mangiatoie  per  gli  animali,  provedendoli  del  fieno  e  della 
paglia,  allocandogli  commodamente  in  più  appartamenti,  descri- 
vendogli con  tanta  acuratezza  e  diligenza  come  se  essi  ne  fossero 
stati  i  proveditori  e  gli  architetti.  Si  venne  anche  ad  esaminare  più 
sottilmente  di  quel  che  fece  Mosè  le  specie  degli  animali  che  vi 
furono  introdotti.  Si  dubbitò  se  vi  fossero  gli  animali  anfibi,  cioè 
quelli  che  vivono  parte  in  acqua  e  parte  in  terra  e  per  conseguenza 
se  le  sirene  vi  ebber  luogo  :  ma  poiché  queste,  ancorché  si  pingano 
con  sembianza  umana,  ad  ogni  modo  sono  veramente  pesci,  ne 
furono  escluse  perché  potevano  vivere  nell'acqua,  proporzionato 
loro  elemento.  Più  spinoso  e  difficile  a  risolversi  fu  il  dubbio  se 
nell'arca  di  Noè  vi  fu  l'uccello  chiamato,  per  la  bellezza  delle 
penne,  del  paradiso,1  che  si  trova  nell'Isole  Molucche;  e  con  ciò 
venne  ad  aprirsi  un  largo  campo  a'  più  oziosi  ingegni  di  cercar  lo 
stesso  di  quanti  uccelli  mai  e  di  tanti  nuovi  animali  terrestri  che 
l'Indie  Orientali  ed  Occidentali  ci  han  al  presente  manifestato. 
Veggansi  Giovanni  Buteone2  ed  Arias  Montano3  ne'  libri  de  Arca; 
il  Saliano  negli  anni  del  T.  V.,  tom.  I,  A.  M.  1557,4  il  Pereiro,5 
Bonfrerio6  ed  altri  sopra  il  cap.  6  della  Genesi,  E  se  fu  deriso  Ti- 
berio che  sovente,  come  scrive  Svetonio  nella  di  lui  Vita,  cap.  70, 
disputava  coi  grammatici,  ricercando  quali  carmi  cantassero  le 
Sirene  per  addormentare  Ulisse  ed  i  marinari;  che  nome  prese 


i.  Più  spinoso  .  .  .  paradiso:  cfr.  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent,  ni, 
cap.  xx,  Se  sull'arca  di  Noè  ci  fu  l'uccello  che  si  chiama  del  paradiso,  se  due 
avoltoi,  o  uno  solo,  e  le  sirene,  pp.  375  sgg.  2.  Giovanni  Buteone:  nome 
umanistico  di  Jean  Bollirei  (1492-1572),  matematico  francese,  monaco, 
autore  del  De  arca  Noe  libellus,  in  Critici  sacri,  sive  annotata  doctissimorum 
virorum  in  Vetus  et  Novum  Testamentum,  Amstelodami  1698,  tom.  1,  pars  11, 
coli.  29  sgg.  Da  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent.  1,  cap.  xcvni,  Delle 
misure,  capacità  e  dispositìone  interiore  dell'arca  di  Noè,  pp.  158  sg.  La  ci- 
tazione a  p.  159.  3.  Benito  Arias  Montano  (1527-1598),  esegeta  spagnolo. 
Cfr.  Bibita  sacra,  Antverpiae  1 569-1 572,  in  otto  volumi.  Da  G.  S.  Me- 
nochio, op.  e  loc.  cit.,  p.  159.  4.  il  Saliano  . .  .  I5S7-  cfr.  ibid.,  p.  159: 
«Saliano  ne  gl'annali  del  Testamento  Vecchio,  tomo  primo,  anno  mundi 
1557»-  5«  Pereiro:  Benito  Pereyra  (1537-1610),  gesuita  spagnolo,  esegeta. 
Cfr.  Commentariorum  et  disputationum  in  Genesim  tomi  guatuor,  Coloniae 
Agrippinae  1601  (edizione  più  completa.  La  prima,  Roma  1591-1598)- 
Da  G.  S.  Menochio,  ibid.  6.  Bonfrerio:  Jacques  Bonfrère  (1573-1643), 
esegeta  belga.  Cfr.  Pentateuchus  Moysis  commentario  illustratus,  Antverpiae 
1625.  Sempre  dal  Menochio,  ibid. 


853  APOLOGIA  DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

Achille  quando  dalla  madre  Teti  fu  in  abito  di  donna  mandato 
nella  corte  del  re  Licomede  e  posto  fra  le  altre  donzelle;  che 
nome  avesse  avuto  la  madre  di  Ecuba  e  simili  altre  fanciulla- 
gini,  quanto  più  degni  di  derisione  dovranno  riputarsi  que'  i  quali 
sopra  libri  cotanto  venerandi  van  con  tanta  pena  ricercando  cose 
vane  e  puerili,  le  quali  ancorché  verificate  e  sapute  non  vagliono 
un  fico  né  migliorano  il  nostro  intendimento,  né  molto  meno  ren- 
don  pregiabile  la  nostra  memoria  caricandola  di  tante  cose  inutili 
e  vane. 

11.  Sopra  il  libro  di  Giob. 

Molti  stupiscono,  fra'  quali  un  tempo  fui  anch'io,  come  sia  pos- 
sibile che  sopra  quattro  fogli  di  carta  onde  si  compone  quel  picciol 
libro  di  Giob,  abbia  potuto  il  P.  Pineda1  in  commentandolo  dar 
fuori  due  sì  grossi  volumi  in  foglio,  ripieni  di  tante  questioni  in 
gran  parte  vane  e  curiose  ?  Ed  un  ingegno  cotanto  sublime,  adorno 
d'una  stupenda  erudizione,  di  una  perizia  sì  grande  di  lingue, 
"d'una  profonda  dottrina  fossesi  inviluppato  fra  tante  inutili  ricer- 
che delle  quali  se  ne  sa  meno  doppo  che  prima?  Ma  io  che  in 
questa  mia  solitudine  ho  avuto  agio  di  rivoltargli  da  capo  a  piedi 
mi  avvidi  tosto  della  cagione,  onde  cessò  in  me  la  maraviglia. 
Egli  non  ebbe  solo  ad  interpretarlo  ed  esporre,  sicome  ottimamente 
ha  fatto,  il  vero  senso  literale  di  quel  libro  ma,  doppo  la  turba  di 
tanti  scrittori  così  antichi  come  moderni,  i  quali  l'aveano  già  riem- 
pito di  tante  false  intelligenze,  di  questioni  o  inutili  o  mal  risolute 
e  di  tanti  misteri  e  sensi  allegorici  tirati  a  capriccio,  ha  dovuto  di 
nuovo  esaminarle  e  moltissime  dimostrarle  erronee,  ed  i  lor  sensi 
mistici  sovente  qualificargli  per  illusioni  e  che  non  aveano  altro 
appoggio  che  la  loro  fantasia.  Si  volle  in  questo  libro  sapere  la  vera 
patria  e  la  stirpe  di  Giob  e  se  non  fu  uomo  finto,  ma  vero  ;  in  qual 
parte  dell' Idumea  fosse  nato;  se  fu  re  o  uomo  privato  e  tante  altre 
indagini  non  affatto  inutili,  nelle  quali  se  si  fosse  tenuto  modo  sa- 
rebbero comportabili,  ma  dapoi,  sicome  suole  avvenire,  quanto  più 
vi  si  lavorava  intorno,  tanto  più  crebbero  le  ricerche  vane,  delle 
quali  non  fu  certamente  il  primo  ad  investigarle  il  P.  Pineda.  Le 
dispute  se  ogni  dì  i  figliuoli  di  Giob  aveano  pranzi  e  simbosii  e 

1.  Juan  de  Pineda  (1558-1637),  gesuita  spagnolo,  autore  di  Commentario- 
rum  in  Iob  libri  tredecim}  Coloniae  Agrippinae  1 604-1605,  in  due  volumi. 


LIBRO    I    •  CAP.  XI  853 

facevan  a  vicenda  gozzoviglia  sicché,  finito  il  torno,  si  ricominciasse 
di  bel  nuovo  ;  se  le  tre  sue  figlie  ebber  marito  o  furon  sempre  ver- 
gini; chi  fosse  sua  moglie  e  di  qual  razza;  chi  gli  amici  che  vennero 
a  visitarlo  e  se  Giob  era  più  vecchio  di  loro  ;  se  tutti  i  figli  furono 
oppressi  dalla  ruina,  ovvero  alcuni  si  salvassero;  se  realmente 
Giob  ricevesse  sputi  da'  suoi  irrisori,  quali  fossero  i  veri  e  propri 
nomi  delle  sue  tre  figlie  e  simili  ricerche  si  leggono  anche  ne' 
Padri  antichi,  de'  quali  Origene  fu  il  confaloniere.  Le  tante  belle 
speculazioni  sopra  l'infermità  di  Giob,  che  si  vuole  che  quanto  la 
natura  ne  produce  tutte  fossero  nella  sua  persona,  non  certamente 
dal  Pineda  furono  di  pianta  inventate.  Perché  si  grattasse  la  scabie 
leprosa  colla  testa1  e  non  con  l'unghie?  Questa  fu  una  disputa  che 
tenne  pure  essercitati  i  Padri  antichi  :  Crisostomo  e  Policronio  la 
discorrono  d'una  maniera;  Origene  e  S.  Gregorio  M.  d'un' altra, 
e  così  pure  fra'  suddetti  fu  gran  contrasto  intorno  al  letamaio,  e 
se  nudo  si  giacque  e  senza  letticiuolo  nella  dura  terra  e  se  nell'aria 
aperta.  E  chi  potrebbe  annoverarle  tutte?  Né  alcun  creda  che  il 
Pineda  fosse  stato  il  primo  ad  esaminare  se  fra  tanti  mali  Giobbe 
avesse  patito  anche  di  morbo  gallico:  punto  d'istoria  veramente 
molto  importante  a  sapersi;  molto  prima  il  Vetablo*  seguito  da 
Cipriano  Cisterciense3  scrissero  che  veramente  Giobbe  avesse  il 
mal  francese,  non  giacché  li  venisse  dal  nuovo  mondo  allora  inco- 
gnito, ma  che  Satana,  al  quale  era  stata  data  da  Dio  potestà  di  afflig- 
gerlo d'ogni  male,  poteva  ben  saperlo  ed  adoperarlo  per  maggior- 
mente tormentarlo;  oltre  che,  se  il  Vetablo,  come  si  è  veduto, 
portò  le  navi  di  Salomone  sino  al  Perù,  ch'egli  crede  fosse  lo 
stesso  che  l'Ophir,4  non  dovrà  riputarsi  incredibile  che  nelFIdu- 
mea  fosse  penetrato  prima  che  negli  ultimi  secoli  dall'America  si 
trasportasse  in  Europa.  A  me  stesso  incresce  andarmi  tra  tante 

1.  colla  testa:  con  il  coccio  (latinismo).  Cfr.  Iobf  2,  8.  2.  Vetablo:  Francois 
Vatable  o  Watebled  (lat.  Vatablus,  morto  nel  1547),  biblista  francese.  Il 
Giannone  cita  da  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent.  11,  cap.  lxxii, 
Quali  fossero  le  infermità  che  per  la  persecutione  del  demonio  patì  il  santo  Iob, 
pp.  295  sg.  3.  Cipriano  Cisterciense:  Cypriano  de  la  Huerga,  monaco 
cistercense,  autore  dei  Commentarla  in  librum  beati  lab  editi  nel  1582. 
4.  Le  dispute  se  ogni  dì .  . .  Ophir:  il  Giannone  fa  riferimento  a  due  brani 
del  Menochio:  op.  cit.,  tomo  1,  cent,  in,  cap.  xvi,  Se  sia  probabile  che 
li  figliuoli  di  Iob  facessero  fra  di  sé  conviti  ogni  dì  tutto  Vanno,  p.  370,  e  cent. 
1,  cap.  lii,  Che  paese  fosse  quello  di  Ofir,  dove  andavano  le  annate  del  re  Sa- 
lomone, pp.  84  sg.  Tutto  il  discorso  sul  libro  di  Giobbe  tiene  inoltre  conto 
del  commento  del  padre  Pineda. 


854  APOLOGIA  DE'    TEOLOGI   SCOLASTICI 

inezie  ravvolgendo,  onde  farem  passaggio  a  gli  altri  libri  del  Vec- 
chio Testamento. 


in 

Si  disputò  acremente  sopra  la  zazzera  di  Absalone,  intorno  al 
peso,  colore  ed  il  tempo  dell'incisione.  Arias  Montano,  Pagnino,1 
Vetablo  ed  altri  vogliono  che  Absalone  se  la  tosava  una  volta  l'anno. 
S.  Girolamo  rapporta  che  i  rabbini  insegnavano  che  si  tosasse 
una  volta  il  mese  e  FI.  Giuseppe,  lib.  7  Antiq.,  cap.  8,  scrisse  che 
gli  crescesse  tanto  che  ogni  otto  giorni  bisognava  tosarsi,  perché 
altrimenti  non  avrebbe  potuto  sopportare  il  peso.  S.  Ambrogio, 
lib.  6  Examer.,  cap.  9,  la  vuole  di  colore  biondo.2  Altri  non  sanno 
determinarsi  ad  un  certo  colore,  poiché  la  Scrittura  non  lo  dichiara. 
Intorno  al  peso  il  Tostato  ed  il  Lirano  non  convengono  con  Sa- 
liano3 e  Sanchez4  e  variamente  interpretano  nel  cap.  14,  26,  del  11 
libro  de'  Re  quelle  parole:  «ponderabat  capillos  capitis  sui  ducentis 
siclis  pondere  publico  »,  sicome  potrà  vedersi  nella  centuria  ili  del 
P.  Menochio  al  cap.  17  e  nella  Mescolanza  d'istoria  e  letteratura 
di  M.  de  Vigneul  Mandile,5  tom.  I. 

Da'  Padri  antichi,  non  già  da'  moderni  teologi,  si  aprì  quel  vasto 
campo  di  disputare  sopra  la  salute  o  dannazione  di  più  persone 
non  men  del  Nuovo  che  del  Vecchio  Testamento,  e  di  rendere  con 
ciò  infinibili  le  questioni  assumendo  le  parti  di  giudice  ed  essami- 
nando  la  vita  e  le  operazioni  di  ciascuna,  assolvendo  una  e  conden- 
nando  l'altra.  Si  cominciò  dalla  persona  di  Salomone.6  Teodoreto, 

i.Pagnino:  Sante  Pagnini  (1470-1541),  domenicano  italiano,  ebraista, 
tradusse  in  latino  tutta  la  Bibbia  dai  testi  originali  (Lione  1527).  2.  Si 
disputò  .  . .  biondo:  da  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent,  ni,  cap.  xvn, 
Della  zazzera  di  Absalone  figlio  del  re  David,  pp.  371  sg.  3.  Intorno  .  .  . 
Saliano:  cfr.  ibid.,  p.  372.  4.  Gaspar  Sanchez  (1554-1628),  gesuita  spa- 
gnolo, esegeta  biblico.  Cfr.  In  quatuor  libros  Regum  et  duos  Paralipomenon 
commentarti,  Lugduni  1623;  e  ancora  i  Commentarii  in  librum  lob,  Antver- 
piae  1712.  Le  sue  opere  in  J.-P.  Migne,  Scripturae  sacrae  cursus  compie- 
tus  . . .,  Pansiis  1837-1845,  in  ventotto  volumi,  ix-x.  La  citazione  del  Gian- 
none  sempre  dal  Menochio,  tbid.  5.  de  Vigneul  Marville:  Noel  Argonne, 
detto  Bonaventure  (1634-1704),  letterato  francese,  che  scrisse  con  lo 
pseudonimo  Vigneul-Marville  i  Mèlanges  dyhistoire  et  de  littérature,  Paris 
1699,  in  tre  volumi.  Il  Giannone  lesse  quest'opera  nella  ristampa,  Paris 
1725,  in  tre  volumi.  Cfr.  gli  appunti  presi  fra  il  2  settembre  e  il  1  ottobre 
1746,  in  Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Gian?ione>  mazzo  1,  ins. 
15,  B.  6.  Si  cominciò  . . .  Salomone:  cfr.  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  to- 
mo 1,  cent.  1,  cap.  vili,  Se  Salomone  si  sia  dannato  0  sia  salvato,  pp.  12  sgg., 
da  cui  derivano  le  citazioni  che  seguono. 


LIBRO   I   •  CAP.  XI  855 

S.  Gregorio  M.,  Prospero  Aquitanico,  Eucherio,  Beda,  Rabano  ed 
altri  molti  lo  vogliano  dannato  e  perduto.  I  più  misericordiosi, 
sicome  S.  Ambrogio,  S.  Girolamo,  S.  Epifanio,  S.  Isodoro,  S. 
Cirillo  Ierosolimitano,  S.  Ireneo  ed  altri  lo  voglion  salvo,  e  gli 
autori  spagnoli,  fra  gli  altri  il  Pineda  nel  7  libro  de  reb.  Salomonis 
e  nel  lib.  8,  cap.  1,  n.  44,  *  come  se  fosse  stato  di  lor  nazione,  in 
tutte  le  maniere  lo  vogliono  salvo  e  che  nel  fine  di  sua  vita  si  pen- 
tisse de*  trascorsi  errori  onde  conseguisse  l'eterna  salute;  ed  il  P. 
Natal  di  Alessandro*  nella  sua  Istoria  ecclesiastica  rapporta  che  in 
Ispagna  mostravasi  una  antica  lamina  di  piombo  dove  in  vetuste 
lettere  era  scolpita  la  sua  penitenza,  se  ben  egli  come  francese  la 
riputa  recente  e  finta.  Da  Salomone  si  passò  a  far  esame  della  vita 
e  gesta  di  Esaù,  e  se  bene  alcuni  interpretando  a  suo  danno  quelle 
parole  di  S.  Paolo:  «ne  quis  fornicator  aut  profanus  ut  Esaù,  qui 
propter  unam  escam  vendidit  primitiva  sua»,  che  si  leggono  nel- 
l'ep.  ad  Hebr.,  e.  12,3  lo  vogliono  dannato;  nulladimeno  altri,  fra 
quali  il  P.  Cornelio  a  Lapide4  sopra  il  cap.  9  dell' ep.  ad  Roman., 
ed  il  P.  Bonfrerio,  sopra  il  cap.  36  della  Genesi,  sostengono  che  sia 
salvo.  Si  chiamò  ancor  Sansone  in  giudicio  e  si  volle  esaminar  la 
sua  causa,  la  cui  cognizione  diede  molto  che  fare  a'  sindicanti; 
poiché  da  una  parte  gli  moveva  ad  assolverlo  d'essere  stato  uno 
de*  giudici  cotanto  da  Dio  favorito,  per  le  cui  mani  si  era  compia- 
ciuto ad  operar  tanti  miracoli  contro  i  Filistei;  dall'altra  parte  si 
ponderavano  le  sue  lascivie  e  prostituzioni  con  Dalida  e  con  altre 
meretrici;  ma  sopra  tutto  se  gli  apponeva  che  fosse  morto  da  di- 
sperato poiché  se  stesso  uccise  andando  incontro  ad  una  certa  mor- 
te purché  restassero  uccisi  i  suoi  nemici.  Alcuni  adunque  l'assol- 
vono ed  altri  lo  condannano  e  doppo  tanto  esame  resta  ancora 
dubbia  la  sua  salute  o  perdizione.  Se  ne  chiamarono  altri  in  giu- 
dizio del  Vecchio  Testamento,  sicome  anche  del  Nuovo,  come  ve- 
drassi  nel  cap.  seguente.  E  come  se  avesser  finito  le  cause  di  tutti 


1 .  Pineda  .  .  .n.  44:  cfr.  Ad  suos  in  Salomonem  commentarios  Salomon  prae- 
vius,  sive  de  rèbus  Salomonis  regis  libri  orto,  Lugduni  1609.  Dal  Menochio, 
ibid.,  p.  13.  2.  Natal  di  Alessandro:  vedi  la  nota  1  a  p.  104.  Cfr.  Histona 
ecclesiastica,  ed.  cit.,  tomo  11,  diss.  in,  De  aeterna  sorte  Salomonis,  pp.  162-7. 
3.  Hebr.,  12,  16.  Cfr.  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent.  11,  cap.  in, 
Se  Esaù  fratello  maggiore  di  Giacob  sia  dannato,  pp.  166  sg.  4.  Cornelio  a 
Lapide:  Comelis  Cornelissen  van  den  Staen  (1 567-1 637),  gesuita  ed  ese- 
geta belga.  Dal  Menochio,  ibid.,  p.  167,  come  pure  la  citazione  del  Bonfrère 
che  segue. 


856  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

gli  Ebrei  e  non  gli  restasse  altro  che  fare,  per  non  rimaner  oziosi 
si  diede  di  piglio  ad  esaminar  quelle  de*  gentili.  Si  volle  prima  di 
ogni  altro  esaminar  la  causa  di  Socrate  e  disputare  anche  della  sua 
dannazione  o  salute.  S.  Giustino  nella  1  Apologia  che  distese  a 
favore  de*  cristiani  indrizzata  alTimperadore  Antonino  Pio,  e  nella 
il  Apologia  presentata  a  M.  Aurelio  Antonino  ed  a  Lucio  Vero 
figliuoli  di  Antonino  Pio,  inclinò  a  credere  che  avendo  egli  sofferto 
intrepidamente  la  prigionia  e  la  morte  per  rimovere  gli  uomini 
dall'idolatria  che  si  fosse  salvato.1  Altri  aggiunsero  che  quel  Genio 
dal  quale^era  assistito  fosse  non  già  un  demonio,  ma  un  angelo 
buono  che  Dio  gli  assignò  per  suo  custode,  e  che  non  dee  riputarsi 
cosa  strana  se  anche  a*  gentili  si  assignassero  angeli  custodi.  In 
breve  il  P.  Pietro  Halliox2  gesuita  neir Annotazioni  sopra  la  vita  di 
S.  Giustino,  cap.  28,  in  tutti  i  modi  lo  vuol  salvo.  Veggasi  il  P. 
Menochio  nelle  sue  Stuore,  cent,  iv,  cap.  31.  Che  cosa  adunque 
impedisce  se  per  queste  considerazioni,  e  pel  finto  commercio  di 
lettere  ch'ebbe  con  S.  Paolo,  lo  stesso  non  possa  dirsi  di  Seneca 
morale  ?3 

IV 

I  Padri  antichi  mostrarono  la  strada  a'  nuovi  scrittori  di  tirar 
innanzi  le  loro  perquisizioni.  Essi  cominciarono  ad  investigare  se 
nel  giardino  piantato  da  Dio  ad  Adamo  le  rose  fossero  senza  spine, 
come  si  è  detto  ;  qual  maraviglia  fia  dunque  se  i  moderni  avessero 
voluto  far  simili  ricerche  nei  giardini  di  Salomone?  Il  P.  Alcasar 
nel  suo  trat.  De  malis  medicis  aggiunto  al  suo  commentario  sopra 
la  Cantica  nella  sess.  2  et  3,4  mosse  la  questione  se  ne'  deliziosi 

1.  S.  Giustino  . . .  salvato:  da  G.  S.  Menochio,  op.  cit,  tomo  1,  cent,  iv, 
cap.  xxxi,  Se  sia  probabile  che  Socrate  filosofo  habbia  havuto  la  fede  di  Dìo  e 
di  Christo  che  è  necessaria  per  conseguire  V eterna  salute,  pp.  561  sgg.  La 
citazione  di  Giustino  è  tratta  da  questo  luogo  del  Menochio  (p.  561):  cfr. 
Apologia  I  e  Apologia  Zi  in  Migne,  P.  G.,  vi,  rispettivamente  coli.  327  sgg. 
e  441  sgg.  2.  Pietro  Halliox:  Pierre  Halloix  (1571-1656),  gesuita  belga. 
Cfr.  Vita  et  documenta  S.  Iustvni  philosophi  et  martyris  .  . .,  Duaci  1622. 
Dal  Menochio,  ibid.,  p.  564,  donde  deriva  l'erroneo  Halliox.  3.  Che  cosa 
adunque  . . .  morale?:  cfr.  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent.  1,  cap.  iv, 
Se  le  Epistole  che  vanno  a  torno  come  scritte  da  san  Paolo  a  Seneca  e  da  Seneca 
a  san  Paolo  siano  vere  0  finte,  pp.  7  sgg.,  e  tomo  11,  cent,  vii,  cap.  xlvi,  Se  sia 
stato  Seneca  ne*  costumi  tale,  quale  appare  da*  libri  che  ha  lasciato  scritti, 
PP-  413  sgg.  4-  Alcasar . . .  sess.  2  et  3:  da  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  to- 
mo 1,  cent,  ni,  cap.  xi,  Se  al  tempo  del  re  Salomone  fosse  nella  Palestina  la 
pianta  de  gli  aranci,  cedri  e  limoni,  p.  362. 


LIBRO    I   •  CAP.  XI  857 

orti  di  questo  re  fossero  alberi  di  aranci,  di  limoni  e  de'  nostri 
cedri;  poiché  quelli  del  Libano  sono  tutt'altro  che  i  nostri;  e  la 
risolve  con  dire  che  non  vi  fossero  poiché  l'autore  del  libro  del- 
V Ecclesiastico,  che  fu  posteriore  a  Salomone,  nell' enumerazione 
degli  alberi  più  scelti  e  nobili  fa  sì  bene  memoria  del  cedro  del  Li- 
bano, del  cipresso  del  monte  Sion,  della  rosa  di  Gierico  e  di  tanti 
altri,  ma  non  già  dell'arancio  e  del  limone.  Altri  al  contrario  in 
tutte  le  maniere  vogliono  che  vi  fossero  gli  aranci,  i  cedri  ed  i  limo- 
ni, ingegnandosi  di  provarlo  da  alcuni  passi  della  Scrittura  rappor- 
tati dal  P.  Menochio,  cent,  in,  cap.  n,1  e  da  FI.  Giuseppe  nel  lib. 
13,  cap.  ai,  delle  sue  Antichità  giudaiche  f  ed  il  P.  Menochio  ag- 
giunge che  quando  il  terreno  della  Giudea  non  li  producesse,  si 
puoi  credere  che  quel  re,  che  fu  dottissimo  nella  cognizione  di 
piante,  e  che  disputò  dal  cedro  del  Libano  sino  alFisopo,  erba  che 
nasce  ne*  muri,  dato  alle  delizie  e  che  particolarmente  si  dilettò 
dell'amenità  de'  giardini,  l'avrebbe  fatto  venire  dal  vicino  paese 
dell'Affrica,  che  n'abbonda. 

Si  cercò  anche  se  Salomone,  essendo  istruttissimo  di  cose  natu- 
rali, avesse  la  pietra  beazar,  che  si  genera  nel  gozzo  di  certe  capre 
indiane  e  si  crede  aver  particolar  virtù  contro  i  veleni.  Il  P.  Pao- 
lo Sherlongo3  nell'investigazione  xxi  sopra  la  Cantica,  conside- 
rando che  le  classi  di  Salomone  scorrevano  fino  all'India,  ha  per 
probabile  che  fra  le  altre  preziose  mercanzie  fussevi  anche  questa 
pietra.  Di  più  s'inoltrò  più  inanzi  e  disse  che  Salomone  avesse 
non  pur  la  pietra,  ma  le  stesse  capre  indiane  che  la  producono,  poi- 
ché di  là  poteva  farle  venire  e  farle  pascere  nel  monte  Libano,  parte 
la  più  fresca  del  suo  regno.  Se  bene  qui  il  P.  Menochio,  nella 
cent,  n,  cap.  80,  ha  le  sue  difficoltà  poiché,  se  bene  quelle  capre 
nell'Indie  amano  i  luoghi  freddi,  non  si  assicura  di  affermare  se 
trovassero  nel  Libano  pascolo  proporzionato  alla  loro  natura,  sicché 
ritiene  la  pietra,  ma  non  ci  vuole  le  capre.  Non  la  finirei  mai  più 
se  volessi  qui  annoverare  tutte  le  altre  ridicole  investigazioni  che 
si  fanno  sopra  i  libri  del  Vecchio  Testamento,  le  quali  mi  han 

1.  cent.  Ili,  cap.  11  :  cfr.  loc.  cit.,  pp.  362-3.  2.  nel  lib.  13  .  . .  giudaiche: 
dal  Menochio,  ibid.t  p.  363.  3.  Paolo  Sherlongo  (o  Sherlogo,  come  nel 
Menochio):  Paul  Sherlock  (1595-1646),  erudito  ed  esegeta  biblico  inglese, 
la  cui  opera  qui  menzionata  è  probabilmente  Anteloquia  cogitationum  in 
Salomonis  Canticorum  Canticum . . .,  Lugduni  1 640-1646.  Il  Giannone 
cita  da  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent.  11,  cap.  lxxx,  Se  Salomone 
havesse  la  pietra  beazar  0  le  capre  dalle  quali  si  cava,  pp.  308  sg. 


858  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI   SCOLASTICI 

fatto  ricordare  delle  consimili  che  si  leggono  presso  Michel  di 
Cervantes  nel  suo  D.  Chisciotte,1  libro  il  più  giocondo  ed  inge- 
gnoso che  fosse  uscito  dalla  Spagna.  Scrive  questo  graziosissimo 
autore  che  mentre  D.  Chisciotte  viaggiava  per  la  Mancia  per  ve- 
dere le  maraviglie  che  in  sé  racchiude  la  grotta  di  Montesino,  gli 
tenne  compagnia  un  umanista  di  quel  contorno,  al  quale  avendo 
l'errante  cavaliere  domandato  in  qual  sorte  di  studi  si  esercitasse, 
gli  rispose  che  i  suoi  studi  ed  essercizi  erano  di  comporre  libri  per 
dargli  alla  stampa,  tutti  di  gran  profitto  per  la  republica;  e  dopo 
averlo  ragguagliato  di  due  che  aveva  già  composti,  gli  soggiunse 
che  avea  allora  per  le  mani  un  altro  al  quale  egli  aveva  dato  titolo 
Supplemento  di  Polidoro  Virgilio2,  nel  quale  trattava  dell'origine  e 
princìpi  di  più  cose  uscite  di  mente  a  Polidoro  e  ch'egli  verificava 
e  con  galante  stilo  dichiarava;  fra  l'altre  gli  disse  che  Virgilio  si 
scordò  di  dichiararci  chi  fosse  stato  il  primo  ch'ebbe  catarro  al 
mondo  ;  ed  il  primo  che  pigliò  unzioni  per  medicarsi  del  mal  fran- 
cese. Sancio  Panza,  ch'era  presente  quando  intese  le  perquisizioni 
eh' e'  faceva,  gli  venne  voglia  di  far  anch'esso  simili  ricerche  e  gli 
dimandò  chi  fosse  stato  il  primo  che  si  grattò  il  capo,  soggiungen- 
dogli ch'egli  credeva  che  fosse  il  nostro  primo  padre  Adamo.  Al 
che  l'umanista  rispose  che  senza  dubbio  fu  Adamo,  poiché  avendo 
capo  e  capelli  ed  essendo  il  primo  uomo  del  mondo  potè  avvenire 
che  qualche  volta  si  grattasse.  Torna  Sancio  a  dimandare  chi  fosse 
stato  il  primo  saltatore  del  mondo.  A  questo  secondo  quesito  colui 
s'imbrogliò,  né  sapendo  darci  pronta  risposta,  chiese  tempo  per 
risolverlo,  e  che  tornato  a  casa  ove  avea  suoi  libri  l'avrebbe  studiato 
e  datagli  soddisfazione.  Non  occorre,  replicò  Sancio,  che  si  pigli 
per  questo  briga,  poich' eragli  in  quel  punto  sovvenuta  la  risposta, 
ed  era  che  il  primo  saltatore  del  mondo  bisognava  che  fosse  Luci- 
fero quando  lo  cacciarono  dal  cielo,  che  rotolando  venne  sino  a  gli 
abissi.  D.  Chisciotte,  udendo  la  pronta  risposta  di  Sancio,  gli  disse 
che  non  era  sua,  ma  che  l'avea  intesa  da  altri;  al  che  rispose  Sancio 
che  per  dimandare  scioccherie  e  rispondere  spropositi  non  avea 
bisogno  di  aiuto  di  compagno  alcuno;  e  D.  Chisciotte  gli  soggiunse 

1.  Il  Giannone  aveva,  fra  i  libri  acquistati  a  Vienna,  un'edizione  spagnola 
del  Don  Chisciotte:  cfr.  Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone, 
mazzo  v,  ins.  13.  Ma  si  veda  più  oltre,  p.  869  e  la  nota  1  ivi.  2.  Polidoro 
Virgilio:  Polidoro  Vergilio  (i47°-i555),  storico-umamsta  urbinate,  stabili- 
tosi in  Inghilterra  scrisse  per  incarico  di  Enrico  VII  V Anglica  historia  m 
ventisette  libri,  fino  al  1538  (Basileae  1555). 


LIBRO    I    •  CAP.  XII  859 

che  avea  ragione,  perché  si  ritrovano  alcuni  che  si  straccano  in 
sapere  e  verificar  cose  che  poi  sapute  e  verificate  non  vagliono  un 
quattrino.  Ma  è  ormai  tempo  di  ridurci  in  via  e  far  passaggio  alle 
questioni  non  meno  vane  e  ridicole  che  si  sono  mosse  sopra  il 
Nuovo  Testamento. 


CAP.   XII 

Delle  questioni  curiose  e  ridicole  sopra  il  Testamento  Nuovo. 

Nel  mover  inutili  e  ridicole  questioni  sopra  il  Testamento  Nuovo 
i  Padri  antichi  non  risparmiarono  nemmeno  il  nostro  Redentore, 
che  pur  vollero  sottoporlo  alle  loro  perquisizioni,  così  intorno  alle 
fattezze  del  suo  corpo  come  intorno  a*  suoi  andamenti.  Vollero 
in  prima  sapere  se  fosse  bello  0  brutto.1  È  veramente  da  stupire 
come  francamente  alcuni  dissero  esser  stato  bello,  altri  brutto, 
quando  essi  non  l'aveano  giammai  veduto  né  dagli  evangelisti  o 
da  qualunque  altro  scrittore  coetaneo  o  a  lui  prossimo  fu  scritta 
cos' alcuna  della  sua  forma  e  figura.  Essi  scrissero,  chi  doppo  du- 
cente, chi  doppo  trecento,  chi  doppo  quattro  o  cinquecento  anni 
della  sua  ascensione  ed  in  paesi  dalla  Giudea  lontani  ;  donde  dun- 
que gli  venne  questa  voglia  di  sapere  e  di  determinare  la  sua  brut- 
tezza o  bellezza?  Questo  non  fu  altro  che  un  effetto  dell'abuso 
che  erasi  introdotto  nell'interpretazione  della  Divina  Scrittura  ti- 
randola coi  loro  sensi  mistici,  profetici  ed  allegorici  di  qua  e  di  là, 
secondo  che  veniva  a  lor  fantasia.  Quelli  i  quali  ciò  che  leggevano 
ne'  salmi  di  Davide  riportavano  a  Cristo,  leggendo  nel  salmo  44: 
«speciosus  forma  prae  filiis  hominum»z  etc.  lo  vogliono  bellissimo 
e  graziosissimo,  fra'  quali  fu  S.  Grisostomo  il  quale  nelPomilia  28 
sopra  S.  Matt.3  ciò  che  si  dice  di  Cristo  che  le  turbe  lo  cercavano 
e  detenevano,  interpreta  che  lo  facessero  non  solo  per  li  miracoli 
che  operava,  ma  perché  «visu  gratiosissimus  traditur  fuisse;  idque 
Profeta  multo  ante  clamaverat:  "speciosus  pulchritudine"  »  etc,  e 
S.  Anselmo,  lib.  1,  era  in  collera  con  quei  pittori  che  altramente  lo 


1.  Vollero  .  .  ,  brutto:  cfr.  G.  S.  Menochio,  Stuore  cit.,  tomo  1,  cent. 
IV,   cap.  xx,  Se  Christo  Signor  Nostro  fu  bello  di  corpo,  pp.  543  sgg. 

2.  «speciosus  . .  .  hominum»:  Psalm.,  44,  3.  Da  G.  S.  Menochio,  ibid.,  p. 
543.  3.  S.  Grisostomo  .  . .  Matt.:  da  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  p.  544. 
Quanto  all'omelia  xxvm  su  Matteo  cfr.  Migne,  P.  G.t  lvi,  coli.  775  sgg.,  e 
lvii,  coli.  343  sgg.,  ma  non  vi  abbiamo  rintracciato  la  citazione  che  segue. 


8ÓO  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

pingevano  :  «  cura  speciosam  formarci  prae  filiis  hominum  informi 
figura  pingi  videret».1  Niceforo  nel  lib.  I  della  sua  Istoria,  cap.  40? 
come  se  co'  propri  occhi  l'avesse  veduto,  afferma  che  avea  una 
faccia  vivida  e  gli  occhi  pieni  di  grazia,  e  più  minutamente  ce  la 
descrive  S.  Bernardo  nel  sermone  De  omnibus  Sanctis? 

Ma  altri  furono  di  contrario  sentimento  e  ce  lo  rappresentarono 
brutto  e  deforme;  e  se  si  domanda,  onde  ebbero  sì  rare  notizie? 
pervenne  forse  ad  essi  qualche  suo  antico  e  vero  ritratto  ?  Questa 
imagine  la  presero  anch'essi  dal  magazzino  delle  figure,  de'  sensi 
mistici  e  profetici.  Tertulliano  nel  cap.  14  adv.  ludaeos*  pretese 
che  quel  «Iesus»  del  quale  parla  Zaccaria  nel  cap.  3  si  debba  in- 
tendere di  Giesù  Cristo  (ancorché  secondo  il  senso  literale  mani- 
festamente Zaccaria  parli  d'un  altro  Giesù),  e  poiché  ivi  si  legge 
che  colui  «erat  indutus  vestibus  sordidis»,5  ciò  s'interpreta  della 
bruttezza  del  corpo  del  Redentore,  e  nel  trattato  De  idolatria? 
cap.  xviii,  pag.  96,  lo  fa  sparuto  di  faccia  e  d'aspetto  misero  e 
tapino,  sicome  l'aveva  predetto  Isaia.7  Ma  Lattanzio  Firmiano  nel 
lib.  iv  delle  sue  Div.  inst.,  cap.  14,8  come  cosa  indubbitata  afferma 
che  Zaccaria  parlasse  precisamente  di  Giesù  Cristo  leggendosi  ivi: 
«Audi  itaque,  Iesu,  sacerdos  magne»,  e  gli  sembra  così  chiara  ed 
invitta  questa  profezia  che  rivolto  contro  gli  Ebrei  gli  chiama  stolti 
e  privi  di  mente  «  qui  cum  haec  legerent  et  audirent,  nefandas  ma- 
nus  suas  deo  suo  intulerunt».  Per  ciò  egli  proseguendo  nel  cap.  169 


1.  e  S.  Anselmo  . .  .  videret:  cfr.  Cut  Deus  homo,  i,  li,  citato  a  senso,  in  Mi- 
gne,  P.  L.t  CLvni,  col.  363  («vedendo  deformemente  dipinta  la  bellezza 
superiore  a  quella  dei  figli  degli  uomini  ») .  Da  G.  S.  Menociiio,  ibid.  2.  Ni- 
ceforo . .  .  cap.  40  :  cfr.  Ecclesiastica  historia,  1,  xl,  De  divina  humanaque  oris 
corporisque  figura  et  forma  Servatoris  nostri  Iesu  Christi,  in  Migne,  P.  G., 
cxlv,  col.  747.  Da  G.  S.  Menochio,  ibid.  3.  £.  Bernardo  .  .  .  Sanctis: 
cfr.  Sermones  de  Sanctis,  In  festo  omnium  sanctonm,  sermo  1,  in  Migne, 
P.  L.,  clxxxiii,  coli.  454-5.  Da  G.  S.  Menochio,  ibid.  4.  Tertulliano  . . . 
Iudaeos:  cfr.  in  Migne,  P.  L.,  n,  col.  640.  Da  G.  S.  Menochio,  ibid. 
Scerai ..  .sordidis)):  Zach.,  3,  3.  (Abbiamo  corretto  il  «sordibus»  del 
manoscritto).  6.  De  idolatria:  cfr.  De  idololatria  liber,  in  Migne,  P.  L.,  I, 
col.  766.  Questa  citazione  manca  nel  Menochio.  7.  sicome  .  .  .  Isaia:  cfr. 
Isai.,  53,  2.  8.  cap.  14:  intitolato  De  Iesu  sacerdotio  aprophetis  praedicto, 
in  Migne,  P.  L.t  vi,  coli.  487-90;  la  citazione  a  col.  489  («sebbene  legges- 
sero e  ascoltassero  ciò,  misero  addosso  al  loro  Dio  le  lor  empie  mani  »).  An- 
che questa  citazione  manca  nel  Menochio.  Perii  passo  di  Zaccaria  cfr.  Zach., 
3,  8.  9.  nel  cap.  16:  intitolato  De  Iesu  Christì  passione,  quod  fuerit  prae- 
dieta,  ivi,  col.  498  («Leggendo  infatti  con  quanto  valore  e  splendore  il  fi- 
glio di  Dio  sarebbe  dovuto  venire  dal  cielo,  e  vedendo  poi  Gesù  umile, 
modesto,  meschino  e  brutto,  non  credevano  che  fosse  il  figlio  di  Dio  »). 


LIBRO    I    •  CAP.   XII  86l 

dello  stesso  libro  a  declamare  contro  la  cecità  dei  medesimi,  dice 
che  non  sapendo  i  due  adventi  del  Signore,  uno  in  forma  di  servo, 
l'altro  in  maiestate,  vedendo  Gesù  «sordido,  deforme  ed  umile»  non 
lo  credettero  figlio  di  Dio  :  «  Nam  quum  legerent  cum  quanta  vir- 
tute  et  claritate  filius  Dei  venturus  esset  e  coelo:  Iesum  autem 
cernerent  humilem,  quietum,  sordidum  et  informem,  non  crede- 
bant  fìlium  Dei  esse».  S.  Atanasio  nell'orazione  De  humana  natura 
suscepta,  esaggerando  la  sua  umiliazione  pur  disse  che  fosse  «  specie 
contemptibilis  ».z  E  S.  Cirillo  sopra  il  cap.  3  d'Isaia  dice  pure  es- 
sere stato  «facie  inhonorata».*  E  gli  altri  Padri,  come  S.  Basilio, 
Teodoreto,  S.  Agostino  e  lo  stesso  S.  Cirillo  sponendo  quel  luogo 
del  salmo  44  di  Davide  dicono  che  non  debba  intendersi  della 
bellezza  del  corpo,  ma  della  bellezza  dello  spirito,3  della  sua  virtù 
e  del  candore  del  suo  animo,  onde  S.  Cirillo  conchiude:  «totum 
enim  mysterium  incarnationis  est  exinanitio  sicut  scriptum  est  ab 
Isaia:  vidimus  eum  et  non  habebat  speciem  atque  pulchritudi- 
nem».4  Lo  stesso  insegnarono  Clemente  Alessandrino,  lib.  3  Pe- 
dagoga cap.  i,5  Cassiodoro  ed  altri.  Ecco  sopra  quali  fondamenti 
si  appoggia  disputa  sì  vana  e  fantastica.  Questa  era  una  questione 
di  puro  fatto  e  niuno  potrà  deciderla  se  non  chi  in  re  presenti  avesse 
trattato  e  conosciuto  Cristo  e  si  fosse  dapoi  presa  la  cura  di  descri- 
vere le  corporali  sue  fattezze  e  tramandarle  alla  posterità;  ma  niuno 
attese  a  sì  fatte  puerilità  ed  inezie,  avendo  di  lui  tante  altre  cose 
grandi  e  stupende  da  scrivere  che,  secondo  scrisse  S.  Giovanni: 
«nec  ipsum  arbitror  mundum  capere  posse».6 

Vollero  anche  sapere  che  cosa  scrivesse  col  dito  in  terra,  quando 
due  volte  avendogli  i  farisei  e  gli  scribi  presentata  la  donna  adul- 
tera s'inchinò,  e  sicome  narra  S.  Giovanni:  «scribebat  in  terra»,7 


1.  S.  Atanasio  .  .  .  contemptibilis:  cfr.  Oratio  de  incarnatione  Verbi,  in  Mi- 
gne, P.  G.,  xxv,  coli.  95  sgg.  Da  G.  S,  Menochio,  op.  cit.,  p.  544.  2.  E 
S.  Cirillo  .  .  .  inhonorata:  non  di  hai.,  3,  ma  di  IsaL,  53,  z  deve  trattarsi: 
cfr.  infatti  Commentarius  in  Isaiam  prophetam,  in  Migne,  P.  G.,  lxx,  lib.  v, 
tomo  1,  col.  1171  :  «sed  species  eius  inhonorata».  Da  G.  S.  Menochio,  ibid. 
3.  sponendo  .  .  .  spirito:  cfr.  in  Migne,  P.  G.,  lxix,  col  1031.  4.  E  gli  altri 
Padri . ,  .  pulchritudinem:  da  G.  S.  Menochio,  ibid.  Il  passo  di  Cirillo,  ci- 
tato a  senso,  sempre  nel  Commentarius  in  Isaiam,  P.  G.}  lxx,  col.  1171 
(a  tutto  infatti  al  mistero  dell'incarnazione  consiste  nella  spoliazione,  come 
ha  scritto  Isaia:  lo  guardammo  e  non  aveva  decoro  e  bellezza»).  5.  cap.  1: 
intitolato  De  vera  pulchritudine,  in  Migne,  P.  G.,  vili,  coli.  555-9-  Da 
G.  S.  Menochio,  ibid.  6.  *nec  ipsum  . .  .posse»:  Ioan.,  ai,  25.  7.  «scri- 
bebat in  terrai:  Ioan.,  8,  6  e  8.  Da  G.  S.  Menochio,  op.  cit,  tomo  1,  cent. 


8Ó2  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI   SCOLASTICI 

né  dice  altro.  S.  Ambrogio  in  due  sue  epistole  scritte  ad  Studium1 
vuole  che  la  prima  volta  quando  si  abbassò  scrivesse  queste  parole 
di  Geremia:  «in  terra  scribebat  viros  abdicatos»,  e  la  seconda  volta 
quell'altre:  «festucam  quae  in  oculo  est  fratris  tui  vides,  trabem 
autem  quae  in  oculo  tuo  est,  non  vides».  Ma  poiché  quando  si 
apre  questa  strada  d'andar  fantasticando  a  suo  modo,  niuno  in  far 
l'indovino  vuol  cedere  all'altro,  al  venerabile  Beda  ciò  non  piace  e 
dice  che  scrivesse  in  terra  quello  stesso  che  poi  disse  a'  scribi,  cioè  : 
«  qui  vestrum  sine  peccato  est,  primus  in  illam  lapidem  mittat  ».2 
Aimone  fu  di  altro  sentimento  ed  è  di  parere  che  Cristo  non  fa- 
cesse altro  in  terra  che  certe  figure;  li  sovvenne  forse  la  positura 
di  Archimede  quando  nella  presa  di  Siracusa  fu  trovato  che  stava 
delineando  in  terra  figure  matematiche;3  meglio  di  tutti  tra'  Padri 
greci  fece  Eutimio,  il  quale  disse  che  non  scrivesse  cos' alcuna, 
ma  che  solamente  si  abbassasse  come  per  scrivere  per  levarsi  d'at- 
torno que'  importuni  che  lo  molestavano.4  Che  maraviglia  è  dun- 
que se  dapoi  il  P.  Tirino5  ed  altri  scrittori  moderni,  seguendo  la 
traccia  degli  antichi,  si  poser  pure  a  far  gl'indovinelli  ?  Si  volle 
anche  sapere  se  Cristo  occorrendogli  parlar  co'  Romani  che  si 
trovavano  nella  Giudea  gli  parlasse  in  lingua  latina.  Vedi  il  P. 
Menochio,  cent,  iv,  cap.  28.6 

Si  chiamò  anche  Cristo  a  render  conto  perché  avesse  eletto 
Giuda  all'apostolato,  sapendo  che  dovea  riuscirgli  cattivo  e  tradi- 
tore? Or  qui  per  iscusarlo  si  mettono  in  opra  tante  belle  specula- 
zioni di  S.  Ambrogio,  di  S.  Agostino  e  di  tanti  altri  così  antichi 
che  moderni,  quali  potranno  leggersi  presso  il  P.  Menochio  nella 
cent,  iv,  cap.  16.7 

Si  volle  anche  esaminare  che  si  facesse  del  suo  prepuzio  doppo 

IV,  cap.  xv,  Dello  scrìvere  in  terra  che  fece  Christo  quando  gli  fu  presentata 

V adultera  .  . .,  pp.  536  sg.     1.  *S.  Ambrogio Studium:  cfr.  ep.  xxv,  4,  in 

Migne,  P.  L.,  xvi,  col.  1041,  e  ep.  xxvi,  13,  ivi,  col.  1045,  dove  sono  rispet- 
tivamente citati  i  passi  di  Geremia,  22,  29  (secondo  una  versione  diversa  dal- 
Vulgata)  e  Matteo,  7,  3  ;  da  G.  S.  Menochio,  ibid.  2.  «  qui  vestrum . . .  mit- 
tat»: cfr.  Ioan.,  8,  7.  3.  Aimone  . . .  matematiche:  cfr.  G.  S.  Menochio, 
ivi,  p.  537.  4.  Eutimio  . . .  molestavano:  cfr.  ibid.,  p.  536.  5.  Tirino:  Jac- 
ques LeThiry  (Iacobus  Tirinus,  1 580-1636),  gesuita  e  teologo  belga.  Scrisse 
un  Commentarius  in  Vetus  et  Novum  Testamentum,  Antverpiae  1632.  Da  G. 
S.  Menochio,  ibid.,  p.  537.  6.  cap.  28:  intitolato  Che  lingua  parleranno  il 
beati  in  cielo;  e  che  lingua  parlò  Christo  in  terra,  e  particolarmente  se  in 
qualche  occasione  parlò  in  lingua  latina,  tomo  1,  pp.  556  sgg.  7.  cap.  161 
intitolato  Se  Giuda  fu  in  qualche  tempo  buono;  e  perché  Christo  lo  elegesseper 
apostolo,  sapendo  che  doveva  essere  traditore,  tomo  1,  pp.  537  sgg. 


LIBRO    I    •  CAP.  XII  863 

la  circoncisione;1  e  vi  è  chi  lo  vuole  ancor  oggi  esistente  in  una 
terra  lontana  da  Roma  non  più  che  venti  miglia  chiamata  Calcata 
della  famiglia  Anguillara,  sicome  il  card.  Francesco  Toledo2  sopra 
il  cap.  2  di  S.  Luca  ne  fa  minuta  relazione  trascritta  dal  P.  Meno- 
chio  nella  cent,  iv,  e.  2.  In  fine  si  fecero  esatte  ricerche  intorno  al 
suo  sudore3  e  fino  a  gli  escrementi. 

Ma  il  più  curioso  è  che,  di  ciò  non  contenti,  vollero  anche  sa- 
pere, doppo  esser  risorto  e  salito  in  cielo,  come  colà  si  stasse,  se 
all'in  piedi  o  pur  seduto,  se  nudo  o  vestito.4  Chi  lo  vuole  seduto 
per  quelle  parole:  «sedet  ad  dexteram  patris»;5  altri  lo  vogliono  in 
piedi,  e  perché  così  lo  vide  S.  Stefano:  «vidit  Iesum  stantem»,6  e 
perché  il  sito  naturale  dell'uomo  è  di  stare  in  piedi,  ed  il  sedere  è 
venuto  per  la  stanchezza  che  cerca  riposo,  la  quale  non  può  con- 
siderarsi in  Cristo.  Intorno  se  stia  nudo  o  vestito,  S.  Agostino  nel- 
l'ep.  1467  non  ardisce  diffinire  questa  importantissima  questione; 
inclina  però  a  credere  che  portasse  veste,  che  però  non  mai  si  lo- 
gorasse o  si  consumasse  sicome  le  vesti  degl'Isdraeliti  ne'  qua- 
ranta anni  che  furono  nel  deserto.  Altri  stimano  superflue  queste 
vesti  in  cielo  e  specialmente  a  Cristo:  a  che  possono  mai  servire? 
Non  per  coprire  qualche  suo  difetto,  non  per  suo  ornamento  e 
molto  meno  per  difenderlo  dal  freddo  0  dall'umido.  E  TAbulense 
portò  la  cosa  più  innanzi  e  disse  che  Cristo  nemmeno  in  que*  qua- 
ranta giorni  che  doppo  la  resurezione  conversò  con  la  madre,  col- 
P  altre  donne  e  co*  suoi  discepoli,  portò  vestimento  alcuno,  ma  che 
girava  attorno  essendo  immortale  nudo  tra*  mortali  vestiti.  Cosa 
che  nemmeno  il  P.  Menochio,  cent,  iv,  cap.  33,  potè  inghiottirsela.8 

Si  fecero  in  oltre  esquisite  e  diligenti  ricerche  per  iscoprire  chi 
fosse  quel  soldato  che  colla  lancia  aprì  il  costato  a  Cristo,  e  non 
altrimenti  che  presso  gli  oziosi  grammatici  greci  si  disputava,  come 

1.  Si  volle  .  .  .  circoncisione',  cfr.  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent,  iv, 
cap.  ir,  Narratione  curiosa  e  maravìgliosa  delVinventione  del  preputio  di 
Christo  Nostro  Signore,  pp.  516  sgg.  2.  Francisco  de  Toledo  (1533-1596). 
gesuita  spagnolo.  Scrisse  In  prima  duodecim  capita  Evangelii  secundum 
Lucam,  Romae  1600,  a  cura  di  M.  Vasquez.  La  citazione  da  G.  S.  Me- 
nochio, ibid.y  p.  516.  3.  Infine  . . .  sudore:  cfr.  G.  S.  Menochio,  op.  cit., 
tomo  I,  cent,  iv,  cap.  xxn,  Del  sudor  di  sangue  di  Christo  .  . .,  pp.  546  sg. 
4.  Ma  il  più  curioso  .  .  .  vestito:  cfr.  ivi,  cap.  xxxni,  In  qual  parte  del  cielo  sia 
Christo  Signor  Nostrot  e  se  stia  sedendo  0  in  piedi;  e  se  vestito  0  senza  vesti, 
PP-  567  sgg.  5 .  «  sedet . . .  patris  »  :  nel  Credo,  o  simbolo  apostolico.  6.  «  vi- 
dit Iesum  stantem»:  AcL,  7,  55.  7.  nelVep.  146:  cfr.  Epistolarum  classis  III, 
ep.  cev  (cxlvi),  Augustinus  Consertilo,  in  Migne,  P.  L.t  xxxm,  col.  942.  Da 
G.  S.  Menochio,  ivi,  p.  569.    8.  E  VAbulense  . . .  inghiottirsela:  cfr.  ibid. 


864  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

leggesi  in  Plutarco,  in  qual  mano  Diomede  ferì  Venere,  se  nella 
destra  o  nella  sinistra,  e  di  qual  piede  zoppicasse  il  re  Filippo  di 
Macedonia,  se  nel  manco  o  nel  destro,  così  pure  si  volle  sapere  se 
quel  soldato  lo  ferì  nel  lato  destro  o  sinistro,  e  se  fu  cieco  e  rima- 
nesse dapoi  illuminato.  Veggasi  il  cit.  P.  Menochio  nella  cent,  in, 
e.  98.1  Si  volle  ancor  sapere  di  qual  materia  fosse  il  calice  adope- 
rato nell'ultima  cena,2  e  se  bene  niuno  de'  Padri  antichi  si  arri- 
schiasse di  affermarlo  di  oro  o  di  argento,  nulladimanco  il  Venera- 
bile Beda  nel  lib.  De  locis  sanctis,  cap.  2,3  lo  vuole  di  argento  e 
che  avea  due  manichi  ;  e  vi  furono  di  più  moderni,  sicome  il  Vitto- 
relli,4  che  scrisse  essere  stato  di  pietra  agata.  Intorno  al  pane,  S. 
Epifanio  in  Ancorato  lo  vuole  che  fosse  di  figura  rotonda,  e  circa 
al  vino  alcuni  vogliono  che  fosse  stato  di  color  rosso.5  Leggasi  il  P. 
Giovanni  Valterio  nel  suo  libro  De  triplici  coena  Christi,  coena  in, 
e  38.6 

Ma  più  curiose  e  ridicole  furono  le  ricerche  fatte  sopra  le  nozze 
di  Cana  di  Galilea  e  di  quel  convito.7  Si  volle  sapere  chi  fossero 
que'  sposi;  e  poiché  degli  evangelisti  solo  S.  Giovanni  racconta 
Tistoria,  fu  creduto  ch'egli  fusse  lo  sposo  e  per  ciò  in  quelle  nozze 
fossero  stati  invitati  Cristo  e  la  sua  madre  Maria  con  gli  altri  di- 
scepoli. Così  francamente  affermarono  il  Venerabile  Beda,  Ru- 
perto  Abate,  Dionisio  Cartusiano,  S.  Bonaventura,  S.  Antonino  ed 
il  Lirano,  li  quali  in  compruova  della  loro  asserzione  allegano  i  due 
prologhi  antichi  sopra  l'Evangelio,  uno  creduto  di  S.  Girolamo  e 
l'altro  di  S.  Agostino.  Ma  il  più  curioso  è  che,  di  ciò  non  contenti, 
si  avanzano  in  dire  che  Giesù  Cristo  in  vece  di  rallegrar  quelle 


1 .  e.  98  :  intitolato  Chi  fosse  quel  soldato  che  con  la  lancia  aprì  il  costato  di 
Ckristo  . . .,  tomo  1,  pp.  508  sgg.  Cfr.  anche,  ivi,  cent,  iv,  cap.  xv,  Del  san- 
gue che  uscì  dal  costato  delVimagine  di  Gesù  Christo  signor  nostro  crocifisso 
ferito  da  un  hebreo  di  B erito  . .  .,  pp.  521  sg.  z.  Si  volle  .  . .  cena:  cfr.  G.  S. 
Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent,  iv,  cap.  xvn,  Della  materia  e  forma  del 
calice  del  quale  si  servì  Christo  nelVultima  cena  .  .  .,  pp.  539  sg.  3.  De  locis 
sanctis  libellus,  n,  in  Migne,  P.  L.,  xciv,  col.  1181.  Da  G.  S.  Menochio, 
ivi,  p.  540.  4.  Andrea  Vittorelli  (morto  nel  1653),  erudito  e  teologo: 
da  G.  S.  Menochio,  ibid.  Cfr.  E.  SA,  Aphorismi  Confessariorum  ex  Dodo- 
rum  sententiis  collecti .  . .  editio  postrema  .  .  .  Indicatis  DD.  locis  annotatio- 
nibusque  per  Andream  Victorellum .  .  .  illustrati  et  aneti,  Duaci  1623. 
5.  £.  Epifanio  .  . .  rosso:  cfr.  G.  S.  Menochio,  ibid.  6.  Leggasi  ...c.38: 
da  G.  S.  Menochio,  ibid.  7.  Ma  più  curiose . . .  convito:  cfr.  G.  S.  Me- 
nochio, op.  cit.,  tomo  1,  cent.  11,  cap.  lvii,  Chi  fosse  lo  sposo  nelle  nozze  di 
Cana  di  Galilea,  dove  Christo  mutò  V acqua  in  vino,  e  chi  fosse  la  sposa, 
pp.  268  sg. 


LIBRO    I    •  CAP.  XII  865 

nozze,  sicome  fece  tramutando  l'acqua  in  vino,  le  disturbasse,  poi- 
ché tolse  lo  sposo  Giovanni  alla  sposa,  il  quale  abbandonandola 
seguì  Cristo  che  lo  chiamò  all'apostolato.1  Altri  rigettano  questi 
racconti  come  fantastici  e  favolosi,  e  vogliono  che  lo  sposo  fosse 
Simone  cananeo  apostolo,3  sicome  fra  gli  altri  scrisse  Niceforo 
Callisto  nella  sua  Istoria  eccL,  lib.  8,  e.  30.3  Ma  chi  diremo  che 
fosse  stata  la  sposa  ?  Ella  fu  Maria  Maddalena  secondo  che  scrisse 

5.  Antonino4  nella  in  parte  della  Somma,  tit.  21,  §  3.  E  che  si  fece 
di  lei  vedendosi  abbandonata  dallo  sposo  ?  Si  diede  alla  vita  licen- 
ziosa e  d'allora  cominciò  il  suo  meretricio.  Heu  prodigia  stultìtìae! 
Veggasi  il  P.  Menochio  nella  cent,  n,  cap.  57,  il  quale  non  potè 
negare  esser  tutto  ciò  finto  e  favoloso.  Si  volle  ancor  sapere  il 
preciso  numero  di  que'  demòni  che  Cristo  cacciò  da'  corpi  di 
que'  indemoniati  e  gli  permise  entrar  ne'  corpi  de'  porci.5  Come 
che  domandato  il  demonio  qual  nome  avesse,  rispose:  «Legio  mihi 
nomen  est,  quia  multi  sumus  »,6  si  venne  a  cercare  quanti  diavoli 
componessero  questa  legione;  e  qui  sono  incredibili  le  contese 
insorte  per  difEnire  un  certo  numero,  poiché  presso  i  Romani  il 
numero  de'  soldati  che  componevano  una  legione  fu  secondo  i 
tempi  e  le  circostanze  sempre  vario  ed  incostante.  Altri  si  atten- 
nero al  più  sicuro,  e  secondo  il  numero  de'  porci  ne'  quali  entrarono 
lo  determinarono.  S.  Marco  al  cap.  5  dice  che  fossero  duemila,7 
onde  assignando  un  demonio  per  porco  il  lor  numero  non  potè 
essere  più  di  duemila,  e  chi  ce  ne  vuole  più,  più  ne  metta.  Da  que- 
sto successo  nacquero  infinite  altre  dispute;  poiché  se  questo  de- 
monio avea  nome,  si  cercò  se  gli  angeli  e  li  beati  in  cielo  e  se  gli 
altri  demòni  nell'inferno  avessero  propri  nomi.  Chi  fossero  i  pa- 
droni di  que'  porci,  se  giudei  o  gentili,  e  sembrò  ad  alcuni  che  fos- 
sero gentili  poiché  gli  Ebrei  che  abboriscono  quella  carne  non 
potevano  aver  greggi  porcini;  altri  che  potevan  avergli  per  farne 
mercanzia  e  pascergli  per  i  gentili.  Chi  pagò  il  danno  a'  padroni, 
poiché  quel  gregge  «  praecipitatus  est  in  mare  ad  duo  millia  et 

1,  Ma  il  pia  curioso  .  .  .  apostolato",  cfr.  ibid.,  p.  269.  z.  Altri  .  .  .  apostolo: 
cfr.  ibid.  3.  Niceforo  .  .  .  e.  30:  cfr.  in  Migne,  P.  (?.,  CXLVI,  col.  114.  Da 
G.  S.  Menochio,  ibid.  4.  S.  Antonino  (1389-1459),  arcivescovo  di  Fi- 
renze, autore  della  Summa  moralis,  a  cui  fa  riferimento  il  Menochio, 
loc.  cit.  5.  Si  volle  . . .  porci:  cfr.  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent. 
IV,  cap.  xii,  Alcune  osservationi  circa  Vhistoria  di  due  spiritati  liberati  da 
Christo,  pp.  531-3,  con  le  citazioni  che  seguono  dei  passi  di  san  Marco. 

6.  «  Legio  mihi  .  .  .  sumus*:  Marc,  5,  9.  7.  S.  Marco  . . .  duemila:  cfr. 
Marc,  5,  13. 


866  APOLOGIA  DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

suffocati  sunt  in  mare»?1  Niuno:  poiché  Cristo  non  solo  era  Si- 
gnore del  mondo,  ma  avea  anche  il  dominio  particolare  delle  robbe 
di  ciascheduno.  Veggasi  il  P.  Menochio,  cent.  IV,  cap.  12  et  14.* 

1.  Sopra  i  Magi. 

S.  Matteo,  il  solo  evangelista  che  fa  di  questi  Magi  memoria, 
non  dice  più  nel  cap.  2  che:  «Magi  ab  Oriente  venerunt  Ierosoly- 
mam».3  Quanti  fossero  e  di  qual  precisa  parte  dell' Oriente  venis- 
sero non  fa  motto  alcuno;  ed  intorno  alla  loro  condizione  gli  bastò 
di  dire  che  fossero  Magi;  poiché  a*  suoi  tempi  era  notissimo  che 
i  popoli  di  Oriente,  spezialmente  nell'Assiria  e  nella  Persia,  abbon- 
davan  di  questi  Magi,  ch'erano  i  loro  sapienti,  i  quali  se  ben  non 
fossero  re,  erano  però  potentissimi  nelle  corti  de'  re,  spezialmente 
nella  Persia,  sicome  a  ciascuno  può  esser  noto  leggendo  V Istoria 
naturale  di  Plinio,  Diodoro  Siciliano,  Strabone  e  gli  altri  antichi 
istorici  che  trattano  di  quelle  nazioni.  Or  venne  curiosità  ai  nostri 
antichi  Padri  di  sapere  il  preciso  numero,  e  per  determinarlo  non 
essendovi  alcun  altro  scrittore  contemporaneo  o  prossimo  a  que' 
tempi,  da'  quali  potessero  ricever  lume,  si  voltarono  al  consueto 
rifuggio  de'  sensi  mistici,  misteriosi  e  profetici.  S.  Agostino  il  quale, 
sicome  altre  volte  si  è  detto,  in  ciò  era  fecondissimo,  nel  primo 
sermone  dell'Epifania4  vuole  che  non  fossero  stati  più  che  tre. 
E  se  si  dimanda  dond'egli  fu  mosso  per  determinarsi  a  questo 
numero  ?  La  risposta  è  pronta,  poiché  in  essi  era  figurato  il  misterio 
della  Trinità,  sicome  nelle  tre  cose  donate,  oro,  incenso  e  mirra, 
questo  misterio  era  significato.  Né  si  maravigli  alcuno  della  stra- 
nezza dell'applicazione,  poiché  egli  fu  sempre  inclinato  in  tutti  i 
terni  trovarci  questo  misterio.  Leggendo  ne'  princìpi  di  quasi  tutte 
l'epistole  di  S.  Paolo  e  degli  altri  appostoli  che  si  esprimono  i  soli 
nomi  del  padre  e  del  figlio,  né  dello  Spirito  Santo  si  fa  motto  al- 
cuno, egli  vuole  che  stia  nascosto  sotto  le  parole  di  pax  et  gratta, 
e  così  in  tutte  quelle  salutazioni  vi  ravvisa  la  Trinità;  ma  accorgen- 

1.  «.praecipitatus  .  .  .  mare*:  ibid.  2. 14:  cfr.  G.  S.  Menochio,  ivi,  cap. 
xiv,  Se  Christo  signor  nostro  in  quanto  huomo  fu  re  temporale  e  padrone  di 
tutto  'l  mondo,  pp.  534  sgg.  3.  «Magi  . .  .  Ierosolymam»;  Matth.,  2,  i. 
Cfr.  G.  S.  Menochio,  op.  cit,  tomo  1,  cent,  ni,  cap.  lxxix,  Chi  fossero  lì 
Magi  che  vennero  ad  adorare  Christo  .  .  .,  pp.  475  sgg.  4.  S.  Agostino  .  .  . 
Epifania:  cfr.  Sermo  CUI,  In  Epiphania  Domini  V,  in  Migne,  P.  L.t 
xxxviii,  col.  1036.  Da  G.  S.  Menochio,  ivi,  pp.  476. 


LIBRO    I    •  CAP.  XII  867 

dosi  che  nel  principio  dell'epistola  di  S.  Giacomo  mancano  quelle 
parole,  e  solo  il  padre  ed  il  figlio  si  mentovano,  poiché  si  legge  la 
parola  salutem  in  questa  egli  trova  pure  la  Trinità.  E  se  si  domanda 
dond'egli  lo  ricava?  Eccola,  perché  nella  lingua  punica  salus  è  lo 
stesso  che  dire  tria,  ed  acciocché  non  si  creda  esser  ciò  incredibile 
di  S.  Agostino,  rapportarono  la  favoletta  colle  stesse  sue  parole 
che  si  leggono  nell'Esposizione  dell' epist.  di  S.  Paolo  ad  Romanos, 
dove  doppo  aver  detto  che  S.  Giacomo  «  salutem  prò  ipsa  Trinitate 
posuisse  mihi  videtur»,  soggiunge:  «Quo  loco  prorsus  non  arbi- 
tror  praetereundum,  quod  pater  Valerius  animadvertit  admirans. 
In  quorundam  rusticanorum  collocutione,  cum  alter  alteri  dixisset 
salus,  quaesivit  ab  eo  qui  et  latine  nosset  et  punice  quid  esset  salmi 
Responsum  est  tria.  Tum  ille  agnoscens  cum  gaudio  salutem  no- 
strani esse  Trinitatem,  convenientiam  linguarum  non  fortuitu  sic 
sonuisse  arbitratus  est,  sed  occultissima  dispensatione  divinae  pro- 
videntiae,  ut  cum  latine  nominatur  salus,  a  Punicis  intelligantur 
tria,  et  cum  Punici  lingua  sua  tria  nominant,  latine  intelligatur 
salus».1  Ciocché  da  noi  si  rapporta  per  consolazione  de'  nostri  giu- 
risconsulti,  i  quali  con  questo  essempio  possono  difendere  il  no- 
stro Accursio2  e  far  tacere  i  di  lui  derisori,  i  quali  tanto  si  burlano 
della  sua  glosa  se  per  mezzo  di  tre  dita  insidiatori  degli  occhi  de' 
contendenti  fece  capire  il  mistero  della  Trinità.  Ma  altri  non  fu- 
rono persuasi  di  questa  ragione,  e  per  altri  riguardi  vogliono  che 
non  fossero  stati  più  che  tre,  ciò  è  per  dinotarsi  le  tre  parti  del  mon- 
do: Asia,  Africa  ed  Europa,  nelle  quali  dovea  la  fede  propagarsi: 
«tres  hommes»  dice  Ruperto  Abate  parlando  de'  Magi  nel  20  libro 
sopra  S.  Matteo  «tribus  partibus  orbis  Africae  et  Europae  fidei 
confessionis  et  adorationis  exempla  existere  meruerunt».3  S.  An- 


1.  Esposizione  .  .  .  salus:  cfr.  Epìstolae  ad  Romanos  inchoata  expositio,  12-3, 
in  Migne,  P.  L.,  xxxv,  col.  2096  («mi  sembra  abbia  messo  salus  in  luogo 
della  stessa  Trinità  . .  .  Per  questo  passo  ritengo  non  doversi  affatto  di- 
menticare ciò  che  il  padre  Valerio  notò  con  meraviglia.  Nella  conversazione 
di  taluni  rustici,  avendo  uno  detto  all'altro  salus,  chiese  a  quello  che  cono- 
sceva sia  il  latino  sia  il  punico  che  cosa  salus  significasse.  Gb"  fu  risposto: 
Tria.  Allora  egli,  comprendendo  con  gioia  che  la  nostra  salute  è  la  Trinità, 
giudicò  che  il  rapporto  di  significato  tra  le  lingue  non  fosse  casuale,  ma 
derivasse  dalla  misteriosa  economia  della  divina  provvidenza,  sicché  quan- 
do m  latino  si  dice  salus,  in  punico  si  intende  tria,  e  quando  i  Punici  dicono 
tria  nella  loro  lingua,  i  Latini  intendono  salus »).  2.  Accursio:  giurista  della 
scuola  bolognese  morto  a  Firenze  nel  1263,  il  cui  nome  è  legato  alla  Glossa. 
3.  «  tres  homines  . .  .  meruerunt*:  cfr.  De  gloria  et  honore  filii  hominis  super 


868  APOLOGIA  DE»    TEOLOGI   SCOLASTICI 

selmo  ed  altri  sopra  quel  capitolo  di  S.  Matteo  stimano  che  cia- 
scuno desse  oro,  incenso  e  mirra  per  denotare  che  a  Cristo  come  Dio 
se  gli  offeriva  incenso,  come  re  oro,  e  come  mortale  mirra.  Or 
questi  ancorché  vari  nei  misteri,  tutti  convengono  nel  numero  che 
non  eccedesse  il  trino;  se  bene  la  glosa  sopra  quel  capitolo  tiene 
che  fossero  molti.  Stabilito  il  numero  di  tre  ed  approvato  dal  co- 
mun  consenso,  a'  dipintori  riusciva  meglio  dipingergli  da  re, 
adorni  di  abiti  regali,  per  far  pompa  della  lor  arte  e  render  più 
vistose  le  loro  dipinture;  tanto  più  che  non  mancarono  de*  scrittori 
che  tali  li  facevano,  ancorché  S.  Agostino  nel  sermone  2  delPEpi- 
fania,1  Origene,  S.  Basilio  ed  altri  non  si  contentarono  di  quali- 
ficargli per  puri  Magi,  cioè  sapienti,  ma  l'ebbero  per  incantatori, 
sacrilegi  e  malefici.  Prevalse  però  l'opinione  di  essere  re;  anzi  il 
Venerabile  Beda  in  collectaneis?  come  se  gli  avesse  co'  propri  occhi 
veduti  ne  descrive  a  minuto  le  fattezze;  gli  dà  propri  nomi,  di  che 
età  fossero,  di  qual  colore  fossero  i  loro  volti,  capelli  e  barbe  e  quale 
dono  ciascuno  portasse.  Il  primo,  che  si  chiamava  Melchiorre,  era 
vecchio:  avea  i  capelli  bianchi  ed  una  gran  barba,  e  che  lui  fu  che 
offerì  a  Cristo  l'oro  in  riconoscenza  della  sua  sovranità.  Il  secondo, 
chiamato  Gaspare,  era  giovane,  senza  barba  e  rubicondo,  il  quale 
gli  offerì  l'incenso  per  marca  della  divinità,  ed  il  terzo,  nominato 
Baldassare,  era  bruno  e  barbuto,  che  l'offerì  la  mirra,  dinotando 
la  sua  umanità.  Di  più  descrive  i  colori  e  la  qualità  de'  loro  abiti 
e  come  fossero  fatti.  Non  si  sa  se  i  dipintori  di  questa  descrizione 
avessero  presa  l'idea  di  pingergli  nella  forma  che  vediamo  ne'  loro 
ritratti,  o  pure  se  qualche  fantastico  pittore  a'  tempi  di  Beda  non 
se  l'avesse  così  finti,  donde  Beda  l'apprendesse.  Ecco  le  sue  parole  : 
«Primus  dicitur  fuisse  Melchior  senex  et  canus,  barba  prolixa  et 
capillis,  aurum  obtulit  regi  domino.  Secundus,  nomine  Gaspar, 
iuvenis  imberbis,  rubicundus,  thure,  quasi  Deo  oblatione  digna 
Deum  honorabat.  Tertius  fuscus,  integre  barbatus,  Baltassar  no- 
mine, per  myrram  filium  hominis  moriturum  professus  est».3  D. 

Matthaeum,  11,  in  Migne,  P.  L.,  clxvtii,  col.  1338.  Giannone  omette  «  Asiae  » 
dopo  orbis  («tre  uomini  meritarono  di  essere  modello  della  confessione  di 
fede  e  dell'adorazione  per  le  tre  parti  del  mondo,  Asia,  Africa  ed  Europa  »). 

1.  S.  Agostino  .  . .  Epifania:  cfr.  Senno  CC,  In  Epiphania  Domini  II,  in 
Migne,  P.  L.t  xxxvni,  col.  1030.   Da  G.  S.  Menochio,  ivi,  pp.  475-6. 

2.  Collectanea,  in  Migne,  P.  L.,  xciv,  coli.  539  sgg.  Da  G.  S.  Menochio, 
ibid.,  p.  476.  z.*Primus  dicitur ...  prof  essus  est»:  cfr.  Collectanea  cit., 
col.  541.  Il  Giannone  riporta  la  citazione  dal  Menochio  (loc.  cit.). 


LIBRO   I   •  CAP.  XII  869 

Chisciotte,  dimandato  dal  Piovano  che  opinione  egli  avea  intorno 
a'  visi  di  Rinaldo  di  Montalbano,  di  Orlando  e  degli  altri  dodici 
paladini  di  Francia,  poiché  tutti  erano  stati  cavalieri  erranti,  gli 
rispose  che  Rinaldo  fu  largo  di  viso,  di  color  rosso,  gli  occhi  balle- 
rini ed  un  poco  sporti  in  fuori,  puntuale,  collerico  sopra  modo, 
amico  di  ladri  e  di  gente  minata.  Intorno  ad  Orlando  egli  assicu- 
rava che  fosse  di  mezzana  statura,  largo  di  spalle,  con  le  gambe  un 
poco  torte,  brunetto  di  viso,  di  barba  castagniccia,  di  poche  parole, 
ma  molto  cortese  e  ben  creato.1  Ad  illusioni  maggiori  può  giungere 
la  forza  d'una  fervida  e  depravata  fantasia.  Ma  ritornando  in  via, 
si  disputò  acremente  da  qual  precisa  parte  di  Oriente  vennero. 
Chi  gli  fa  venire  dalla  Persia,  chi  dalla  Caldea,  ovvero  Mesopota- 
mia;  ed  altri  dall'Arabia,  alla  qual  opinione  sembra  inclinare  il  P. 
Menochio,  cent,  ni,  cap.  79. 

n .  Sopra  la  Vergine  Maria  e  S.  Giuseppe. 

Chi  potrà  mai  noverare  le  tante  ricerche  fatte  sopra  la  V.  Ma- 
ria ?  Imprima  si  volle  sapere  se  essendo  ancora  nell'utero  di  sua 
madre  avesse  l'uso  della  ragione;2  e  que'  che  l'ammettono  in  S. 
Gio.  Battista  essendo  rinchiuso  nel  ventre  di  sua  madre,  vogliono 
che  il  medesimo  privilegio  abbia  avuto  anche  la  Vergine.  Se  uscita 
alla  luce  del  mondo  gli  fosse  stato  assignato  angelo  custode;  e  se  più 
d'uno;3  uno  nell'infanzia,  un  altro  nell'adolescenza,  ed  altri  nel 
rimanente  di  sua  vita;  e  di  qual  ordine  gerarchico  si  pigliassero. 
Alcuni  riputarono  non  averne  avuto  alcuno,  perché  non  avea  bi- 
sogno di  aio  o  direttore.  Altri  glielo  danno,  ma  lo  vogliono  preso 
dall'ordine  de'  Serafini;  altri  non  vogliono  far  questo  torto  all'an- 
gelo Gabriele,  ed  intorno  al  numero  l'Abulense4  è  di  opinione  che 
in  diversi  tempi  fosse  governata  da  diversi  angeli  custodi;  uno  dalla 
sua  nascita  infino  all'incarnazione  nel  suo  utero  del  figliuol  di  Dio  ; 

1.  D.  Chisciotte  .  . .  creato:  cfr.  M.  Cervantes,  L'ingegnoso  cittadino  Don 
Chisciotte  della  Mancia,  Roma  1677,  in  due  tomi,  traduzione  di  L.  Fran- 
ciosini,  parte  seconda,  cap.  primo,  p.  14.  È  l'edizione  da  cui  più  oltre  il 
Giannone  cita  alla  lettera,  z.  Imprima  . .  .  ragione  cfr.  G.  S.  Menochio, 
op.  cit.,  tomo  I,  cent.  IV,  cap.  xlviii,  Se  la  B.  Vergine  hebbe  l'uso  di  ragione 
nel  ventre  della  madre,  pp.  590  sgg.  3.  Se  uscita  . . .  uno:  cfr.  ibid.,  cap. 
xlvii,  Se  la  Beata  Vergine  habbta  havuto  angelo  custode;  e  se  più  d'uno, 
cioè  uno  in  un  tempo  e  un  altro  in  altro  tempo;  e  di  guai  ordine  fosse  detto 
angiolo,  pp.  589  sg.  Tutto  il  brano  giannoniano  è  ricavato  da  qui.  4.  l'A- 
bulense: Alfonso  Tostado:  cfr.  la  nota  1  a  p.  841. 


87O  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI   SCOLASTICI 

e  questo  fosse  preso  dall'infimo  coro  degli  angeli,  poiché  allora 
non  era  più  che  persona  privata  alla  quale  non  si  doveva  custodia 
d'angelo  più  sublime.  Dopo  l'incarnazione  la  guardia  fu  mutata  e 
se  gli  diede  un  serafino  come  quella  che  già  sosteneva  carico  di 
persona  publica,  il  quale  n'ebbe  cura  fino  alla  morte  di  Cristo. 
Doppo  la  passione  e  morte,  quando  era  già  compita  l'opera  della 
redenzione,  tornò  di  nuovo  l'angelo  dell'ultimo  coro  alla  di  lei 
custodia.  Altri,  sicome  il  P.  Menochio,  non  si  sentono  di  così  largo 
gozzo  a  poter  inghiottire  sì  grossi  bocconi  ed  argomentano  in  con- 
trario. Veggasi  la  di  lui  cent,  iv,  cap.  47  ed  il  P.  Mendozza1  pur 
gesuita  nel  suo  Viridario  al  lib.  2,  probi.  8. 

Si  fecero  ancora  diligenti  inquisizioni  per  sapere  di  che  età 
maritossi  con  S.  Giuseppe;2  chi  non  gli  fa  passare  quattordici  o 
quindici  anni;  altri  la  vogliono  di  più  matura  virginità,  e  prolun- 
gano lo  sponsalizio  sino  all'età  di  venticinque  anni.  Veggasi  il  P. 
Menochio,  cent,  iv,  cap.  59.  Ma  il  punto  più  importante  fu  di 
esaminare  se  fosse  stata  bella  di  corpo;3  e  tutti  convengono,  an- 
corché niuno  l'avesse  veduta,  che  fu  bellissima,  anzi  ce  ne  descri- 
vono minutamente  la  statura,  il  colore,  la  lunghezza  del  naso,  la 
floridezza  delle  labra,  la  figura  della  faccia,  la  lunghezza  delle  mani 
e  delle  dita  e  fino  il  colore  de'  suoi  abiti.  Ecco  come  Niceforo  Cal- 
listo ce  la  dipinge  nella  sua  Istoria,  lib.  2,  cap.  23 ,4  con  queste 
parole,  il  qual  dice  averle  prese  da  S.  Epifanio:  «mores  formaque 
et  staturae  eius  modus  talis  ut  inquit  Epiphanius.  Erat  in  rebus 
omnibus  honesta  et  gravis:  pauca  admodum,  eaque  necessaria  lo- 


1.  Mendozza:  cfr.  la  nota  2  a  p.  842.  Qui  è  citato  il  Vvrìdarium  sacrae  et 
prophanae  eruditionis,  Lugduni  B.  163 1.  Cfr.  G.  S.  Menochio,  loc.  cit., 
p.  590.  2.  Si  fecero  . .  .  Giuseppe:  cfr.  ibid.t  cap.  ux,  Di  che  età  fosse  la 
Beata  Vergine  e  S.  Gioseppe  quando  si  maritarono  insieme,  pp.  606  sg. 
3.  Ma  il  punto  . . .  corpo:  cfr.  ibid.,  cap.  xlix,  Se  la  Beata  Vergine  fosse  bella 
di  corpo,  pp.  592  sgg.  4.  Ecco  come  .  .  .  cap.  23:  cfr.  in  Migne,  P.  G., 
cxlv,  col.  815.  Da  G.  S.  Menochio,  loc.  cit.,  p.  593.  («I  suoi  costumi,  la 
sua  bellezza  e  statura  furono  quali  li  disse  Epifanio.  Onesta  e  seria  in  ogni 
cosa:  parlava  pochissimo  e  solo  il  necessario;  pronta  all'ascolto  e  straordi- 
nariamente affabile,  a  tutti  dimostrava  rispetto  e  devozione.  Fu  di  statura 
media,  benché  vi  sia  chi  dice  che  la  superasse  alquanto.  Usò  con  tutti  di  una 
convenevole  libertà  nel  parlare,  senza  risa,  senza  turbamento  e  soprattutto 
senza  collera.  Il  colore  era  simile  a  quello  del  frumento,  i  capelli  biondi, 
gli  occhi  vivi,  con  le  pupille  giallicce  e  come  di  color  d'uliva.  Le  soprac- 
ciglia incurvate  e  convenientemente  nere;  il  naso  un  po'  lungo,  le  labbra 
floride,  piene  di  soavità  nel  dire;  il  volto  non  tondo  né  affilato,  ma  alquanto 
lungo,  e  così  le  mani  e  le  dita  »). 


LIBRO    I   •  CAP.  XII  871 

quens  ;  ad  audiendum  facilis  et  perquam  affabilis  et  honorem  suum 
et  venerationem  omnibus  exhibens.  Statura  fuit  mediocri,  quamvis 
sint  qui  eam  aliquantulum  mediocrem  longitudinem  excessisse 
dicant.  Decenti  dicendi  libertate  adversus  omnes  homines  usa  est, 
sine  risu,  sine  perturbatione  ac  praesertim  sine  iracundia.  Colore 
fuit  triticum  referente,  capillo  flavo,  oculis  acribus,  subflavas  et 
tamquam  oleae  colore  pupillas  in  eis  habens.  Supercilia  ei  erant 
inflexa  et  decenter  nigra;  nasus  longior,  labia  florida,  verborum 
suavitate  piena;  facies  non  rotunda  et  acuta,  sed  aliquanto  longior, 
manus  simul  et  digiti  longiores».  Il  P.  Menochio,  il  quale  nella 
cent,  iv,  cap.  49,  trascrisse  queste  parole,  non  potè  contenersi  di 
soggiungere:  «se  questa  descrizione  della  bellezza  della  Vergine  è 
vera,  pare  che  più  tosto  consistesse  nella  proporzione  delle  mem- 
bra, nella  modestia  e  grazia  che  nella  soavità  del  colore,  perché 
l'essere  bruna  e  non  avere  gli  occhi  neri,  ma  di  colore  di  olivo, 
pare  che  pregiudichi  senza  dubbio  alla  bellezza  feminile».  Così 
appunto  giudicò  il  Piovano  Manceco1  nella  descrizione  fatta  da 
D.  Chisciotte  delle  fattezze  di  Orlando,  il  quale  doppo  aver  inteso 
che  fosse  stato  di  mezzana  statura,  largo  di  spalle,  colle  gambe  un 
poco  torte,  brunetto  di  viso  e  di  barba  castagniccia,  gli  disse: 
«  Se  Rolando  non  è  stato  più  bello  di  quello  che  V.  S.  ha  detto, 
non  fu  maraviglia  se  la  signora  Angelica  la  bella  lo  sdegnasse  e 
lasciasse  per  la  gentilezza,  garbo  e  grazia  che  dovea  avere  il  Mo- 
retto barbiponente  in  cui  potere  ella  si  diede,  e  fece  prudentemente 
di  amar  più  tosto  la  piacevolezza  di  Medoro  che  l'asprezza  di  Ro- 
lando ».2  Una  figura  assai  più  piacevole  e  risplendente  ce  ne  diede 
Dionisio  Cartesiano3  nel  lib.  1  De  laudib.  Virg.,  cap.  36,  il  quale 
attribuisce  alla  Vergine  un  certo  splendore  sopranaturale  nella  sua 
faccia,  che  la  rendeva  ragguardevole;  aggiungendo  che  il  suo  corpo 
era  tutto  odorifero  e  che  fosse  un  giglio  fuori  d'ogni  spina  perché, 
ancorché  bellissima,  non  pungeva  né  stimulava  ad  impurità  quelli 
che  la  miravano.  Con  tutto  che  questi  scrittori  si  fosser  ingegnati 


1.  il  Piovano  Manceco:  prosegue  la  demitizzazione  delle  leggende  dei  Padri 
confrontandole  con  quella  del  romanzo  di  Cervantes.  2.  «  Se  Rolando  . .  . 
Rolando)):  cfr.  M.  Cervantes,  L 'ingegnoso  cittadino  Don  Chisciotte  della 
Mancia,  ed.  e  loc.  cit.,  pp.  14-5.  -  il  Moretto  barbiponente  è  trasposizione 
letterale  dell'originale  spagnolo:  «el  morillo  barbiponiente »  (cioè  «di  primo 
pelo»,  «principiante»),  3.  Dionisio  Cartesiano:  Dionigi  Certosino  (1402- 
147 1),  teologo  belga.  La  citazione  dal  Menochio,  ibid. 


872  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI   SCOLASTICI 

per  descriverla  di  cumulare  in  lei  tutte  le  grazie  e  bellezze  che  si 
trovarono  sparse  nelle  più  belle  donne  del  mondo,  nulladimanco  i 
dipintori  ciascuno  ha  seguito  il  genio  della  propria  nazione  e  la 
dipingono  con  quelle  fattezze  colle  quali  nascono  le  donne  ne*  loro 
paesi.  Così  gli  orientali,  che  sono  brunetti  ed  amano  gli  occhi 
grandi,  la  dipinsero  bruna  e  con  occhi  bovini  simili  a  quelli  che 
secondo  Omero  avea  la  dea  Giunone.1  I  Germani  e  gli  abitanti  del 
Settentrione,  che  produce  la  gente  bionda,  candida  e  vermiglia 
con  occhi  cerulei,  la  dipingono  bianchissima,  vermiglia,  con  gli 
occhi  della  dea  Minerva  e  con  biondi  capelli.  In  Italia,  ciascuna 
provincia  imita  le  fattezze  delle  donne  proprie  ed  a  Milano  mi  ac- 
corsi in  più  imagini  che  la  pingevano  d'una  corporatura  grande 
come  un'amazone,  poiché  le  donne  milanesi  sono  di  statura  gigan- 
tesca; e  così  in  Francia,  Spagna  ed  altrove,  ciascuno  secondo  che 
il  lor  terreno  le  produce.  Ed  io  reputo  che  fanno  meglio  questi 
dipintori  che  non  fecero  i  riferiti  scrittori,  i  quali  senz'averla  ve- 
duta han  preteso  di  darcene  determinata,  certa  e  precisa  forma. 
Tralascio  in  fine  le  tante  altre  curiose  domande  :  se  patisse  deliquio 
quando  il  nostro  Redentore  fu  deposto  dalla  croce;  se  fosse  stata 
battezzata,  quando  e  da  chi?  Le  finte  lettere  che  a  lei  si  attribui- 
scono e  tante  altre  inutili  ricerche  le  quali  possono  leggersi  nella 
centuria  iv  del  P.  Menochio  ne'  cap.  50,  51,  53  e  54.* 

S.  Giuseppe  si  fa  sempre  vecchio  anche  quando  sposò  nostra 
Signora.3  Si  volle  far  ricerca  se  prima  avesse  avuta  altra  moglie,  e 
non  mancò  tra*  Padri  greci  scrittore  il  quale  ci  diede  notizia,  né  si 
sa  donde  l'avesse  appresa,  che  l'ebbe,  e  di  più  che  si  chiamava 
Salomè,  colla  quale  ebbe  4  figli  maschi  e  due  o  tre  femmine.  Nella 
Biblioteca  Imperiale  di  Vienna  si  conserva  un  ms.  greco  dove  si 
trova  un  frammento  di  Sofronio  patriarca  di  Costantinopoli  che 
ciò  scrisse,  ma  secondo  il  costume  de'  Greci  senza  portarne  pruova 
alcuna.  Intorno  al  suo  mestiere,  poiché  la  Scrittura  non  ci  dice 
altro  che  fu  fabro,  si  volle  sapere  qual  arte  essercitasse,  e  comu- 

1.  simili .  .  .  Giunone:  cfr.  //.,  1,  551  ecc.  2.  cap.  50,  51,  53  e  $4:  cap.  L, 
Se  la  B.  Vergine  patisse  deliquio,  quando  Christo  N.  S.  fu  deposto  di  croce, 
VP'  594  SS-  ;  cap.  li,  Del  maraviglioso  accrescimento  e  moltiplicatione  di  grafia 
della  Beata  Vergine,  pp.  595  sg.  ;  cap.  lui,  Se  la  Beata  Vergine  fu  battezzata, 
dove,  quando  e  da  chi,  pp.  597  sgg.;  cap.  liv,  Se  la  Beata  Vergine  habbia 
scritto  qualche  cosa,  pp.  599  sg.  3.  S.  Giuseppe  .  . .  Signora:  cfr.,  sempre 
del  Menochio,  il  citato  cap.  lix,  Di  che  età  fosse  la  Beata  Vergine  ecc.,  pp. 
606  sg. 


LIBRO   I    ■  CAP.  XII  873 

nemente  si  vuole  che  fosse  carpentiere,  ma  il  Ven.  Beda  lo  vuole 
marescalco. 

III.  Ricerche  sopra  Pilato,  Giuda,  sopra  i  24  vecchioni 

dell'Apocalisse,  Anticristo,  resurezione, 

paradiso  ed  inferno. 

Si  venne  pure  a  disputare  sopra  la  salute  di  Pilato  e  di  Giuda 
non  altrimenti  che  si  fece  sopra  il  Testamento  Vecchio  di  Salomone, 
di  Esaù  e  di  Sansone.  Della  moglie  di  Pilato,  che  gli  danno  non  pur 
il  nome  di  Claudia  Procula,  ma  che  fosse  la  stessa  Claudia  memo- 
rata da  S.  Paolo  nella  2a  ep.  ad  Tintoti  cap.  5,1  non  han  dubbio  che 
fosse  salva;  ma  del  marito  èwi  gran  contesa  fra  scrittori  non  men 
antichi  che  moderni.  Tertulliano  nell'Apologetico,  cap.  21,2  lo  vuol 
salvo  perché  ve  lo  finse  internamente  cristiano:  «et  ipse  iam»  e* 
dice  «prò  sua  conscientia  christianus  »  ;  e  S.  Agostino  nel  sermone 
33  de  Epifania2  perché  procurò  di  liberar  Cristo  dalla  morte  lo 
vuole  anche  salvo;  ma  Paolo  Orosio,  lib.  7,  cap.  5,  Eusebio  e  Cas- 
siodoro  nelle  loro  cronache  lo  voglion  dannato  seguendo  l'istoria 
di  FI.  Giuseppe,  il  quale  nel  lib.  18,  cap.  5,  delle  Antich.  giud.  narra 
di  Pilato  che  fu  in  pena  de'  gravi  suoi  delitti  relegato  in  Vienna 
della  Gallia  Narbonense,  ed  essi  aggiungono  che  s'uccidesse  per  se 
stesso.  Veggasi  il  P.  Menochio,  cent,  iv,  cap.  44. 

Ma  chi  crederebbe  che  sopra  la  stessa  persona  di  Giuda  non 
fosser  tutti  concordi  di  precipitarlo  nel  Tartaro?  Comunemente 
così  si  crede;  le  maledizioni  e  terribili  imprecazioni  che  si  danno 
a'  scommunicati,  di  essere  le  loro  anime  insieme  con  quella  di 
Giuda  traditore  tormentate  nell'inferno,  ce  lo  fan  credere;  ed  il  no- 
stro Dante  lo  rinserra  nella  Caina  al  fondo  presso  Satanasso.4  E 
pure  da  qualche  autore  spagnolo,  sicome  altri  di  quella  nazione 


i.  cap.  5:  il  rinvio  esatto  è  4,  ai.  Cfr.  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1, 
cent.  IV,  cap.  xliv,  Della  moglie  di  Pilato  e  della  visione  eh* ella  hebbe  al  tempo 
della  passione  di  Christo,  pp.  585  sg.  2.  Apologetica ,  xxi,  in  Migne,  P.  L., 
1,  col.  461.  Da  G.  S.  Menochio,  loc.  cit,  p.  585.  3.  S.  Agostino  . .  .  Epi- 
fania: cfr.  Sermo  CCX,  In  Epiphania  Domini  III,  cap.  li,  In  Pilato  et  Magis 
significatele  gentes  ab  Oriente  et  Occidente  congregandae,  in  Migne,  P.  L., 
xxxviii,  coli.  103 1-2:  se  questo  è  il  passo  cui  fa  riferimento  il  Giannone 
(traendolo  dal  Menochio,  ibid.),  si  tratta  però  di  una  forzatura  di  quanto 
scrive  Agostino.  Anche  le  citazioni  che  seguono  di  Paolo  Orosio,  Eusebio, 
Cassiodoro  e  Flavio  Giuseppe  nel  Menochio,  ibid.,  p.  586.  4.  Dante . .  . 
Satanasso:  cfr.  Inf.,  xxxi,  142-3  e  xxxiv,  61-3. 


874  APOLOGIA   DEJ    TEOLOGI   SCOLASTICI 

fanno  ogni  sforzo  di  salvar  Salomone1  penitente,  si  vuole  che  Giuda, 
pentitosi,  anche  si  salvasse  ;  tanto  maggiormente  che  della  penitenza 
di  Giuda  abbiamo  nella  Scrittura  qualche  riscontro,  che  non  si 
ha  di  quella  di  Salomone,  leggendosi  in  S.  Matteo,  cap.  27,  3, 4  che: 
«poenitentia  ductus  retuht  triginta  argenteos  principibus  sacerdo- 
tum  et  senioribus  dicens  :  peccavi  tradens  sanguinem  iustum  »  ;  e  se 
bene  dapoi  se  stesso  uccise,  ciò  non  fu  per  disperazione,  ma  per  im- 
peto del  gran  dolore  che  lo  trasportò  a  darsi  morte.  Io  non  ho  lette 
l'opere  di  S.  Vincenzo  Ferrerò3  catalano,  sicché  potessi  rendere  di 
ciò  testimonianza,  ma  mi  ricordo  aver  letto  nel  catalogo  degli  ere- 
tici antichi  e  moderni  che  il  Bingarn,  rinomato  scrittore  inglese,  ag- 
giunse alla  sua  opera  Origines  eccles.,3  fra  gli  altri  moderni  averci 
affastellato  anche  il  Ferrerò  perché  sosteneva  Giuda  essersi  salvato. 
Si  narra  anche  che  Pimperador  Michele  Balbo  fra  gli  altri  suoi 
errori  credesse  anche  salvo  Giuda,  annoverandolo  fra*  beati,  sicome 
scrisse  il  P.  Menochio,  cent,  vili,  cap.  83 .4 

E  chi  mai  potrebbe  annoverare  le  tante  vane  e  curiose  ricerche 
fatte  sopra  V  Apocalisse  ?  Libro  il  più  difficile  del  Testamento  Nuo- 
vo ;  e  pure  come  se  l'avessero  bastantemente  esposto  e  dichiarato, 
gli  portò  la  curiosità  a  far  perquisioni5  sopra  cose  inarrivabili, 
sicome  di  voler  sapere  precisamente  chi  fossero  que'  ventiquattro 
vecchi  ivi  memorati  e  cose  simili,  intorno  a  che  quante  fantastiche 
interpretazioni  si  ponessero  in  campo  ciascuno  non  senza  maravi- 
glia potrà  leggergli  presso  il  P.  Menochio,  cent.  11,  e.  8z.6  Si  volle 
anche  sapere  la  patria  dell'Anticristo,  il  nome,  la  nazione,  la  durata 
e  fino  i  suoi  più  minuti  andamenti,  e  qual  genere  di  morte  gli  sarà 
data.  Chi  lo  vuole  non  uomo,  ma  un  demonio  incarnato;  altri, 
ancorché  convengono  che  sarà  uomo,  discordano  circa  la  patria  e 
la  nazione;  chi  lo  fa  giudeo,  poiché  vuol  esser  creduto  per  il  Messia 
promesso  da'  profeti;  ed  intorno  alla  patria,  chi  l'assegna  Cafarnao, 

1.  sicome  .  .  .  Salomone:  cfr.  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent.  1,  cap. 
vili,  Se  Salomone  si  sia  dannato  0  sta  salvato,  pp.  12  sgg.  2.  *S.  Vincenzo 
Ferrerò:  vedi  la  nota  4  a  p.  117.  L'edizione  più  recente  delle  sue  opere  è 
quella  curata  da  H.  D.  Fages,  CEuvres  de  S.  V.  Ferretti  Paris  1909,  in  due 
volumi.  3.  nel  catalogo  . .  .  eccles.:  ma  il  Giannone  confonde,  perché  nel- 
l'opera del  Bingham  (vedi  la  nota  1  a  p.  660)  tale  catalogo  non  c'è.  4.  cap, 
83:  intitolato  Notabile  historia  della  morte  di  Leone  Armeno  imperatore  di 
Costantinopoli,  e  dell'assunzione  al  medesimo  Impero  di  Michele  Balbo,  to- 
mo 11,  pp.  653  sg.  5.  perquisioni:  cosi  nel  manoscritto.  6.  e.  82  :  intitolato 
Detti  ventiquattro  vecchi  che  si  dice  nell'Apocalisse  di  S.  Giovanni  che  stanno 
sedendo  intorno  al  trono  di  Dio,  tomo  1,  pp.  311  sg. 


LIBRO    I    •  CAP.  XII  875 

chi  Betsaida  e  chi  Corozaim,  e  non  sono  mancati  alcuni  che  lo 
vogliono  babilonese,  nato  in  Babilonia.  Intorno  alla  durata,  chi 
l'abbrevia  e  chi  la  prolunga;  alcuni  la  determinano  ad  un  solo  anno, 
altri  due  ed  altri  tre  anni  e  mezzo.  Veggasi  il  Vega1  nell'Apocalisse, 
cap.  13,  ed  il  P.  Menochio,  cent,  iv,  cap.  98.* 

Sopra  il  paradiso,  quante  inutili  e  curiose  ricerche  si  fanno? 
In  qual  precisa  parte  de'  cieli  sia  collocato  ;  e  que'  che  s'immaginano 
i  cieli  concentrici,  e  che  Puno  inchiuda  l'altro,  lo  ripongono  nel- 
l'Empireo il  più  alto  e  da  noi  lontano.  Già  ne  han  ripartito  gli 
alloggiamenti,  le  classi  e  la  gerarchia.  Ne  han  numerati  i  più  illu- 
stri abitatori  ed  acremente  si  disputa  sopra  le  persone  che  si  appar- 
tengono al  Testamento  Vecchio,  quali  di  queste  v'entrassero  con 
Cristo  dopo  esser  risorto.  S.  Matteo  nel  cap.  zy3  non  ne  dice  più 
di  questo  :  «  multa  corpora  sanctorum  qui  dormierant  surrexerunt 
et  exeuntes  de  monumentis  post  resurrectionem  eius  venerunt  in 
sanctam  civitatem  et  apparuerunt  multis».  Or  qui  si  vuol  sapere 
chi  questi  si  fossero,  ancorché  S.  Matteo  non  l'avesse  nominati. 
Né  si  creda  che  la  curiosità  venne  tardi  a'  soli  nostri  teologi  scola- 
stici ;  fu  più  vecchia  e  cominciò  fin  dagli  antichi  Padri,  li  quali  non 
già  perché  avessero  scrittori  contemporanei  a  S.  Matteo  da'  quali 
forse  ne  ricevesser  lume,  ma  fondati  a  semplici  loro  conietture  ed 
immaginazioni.  Né  il  P.  Pineda  fu  il  primo  ad  introdurci  Giob;4 
ma  altri  vi  aveano  già  introdotto  Adamo,  Abramo,  Melchisadech, 
Davide  e  Giona.  Altri  vi  aggiunsero  Mosè,  Giosuè,  Samuele,  Isaia, 
Geremia,  Ezechiele  e  gli  altri  profeti.  S.  Epifanio  in  Ancorato5 
dice  che  fra  que'  risuscitati  è  molto  probabile  che  vi  fossero  anche 
Zacaria  padre  di  S.  Gio.  Battista,  Simeone,  S.  Gioachino,  S. 
Giuseppe  e  gli  altri  suoi  parenti  morti  poco  prima  ed  altri  molti, 
perché  conveniva  che  Cristo  ascendente  in  cielo  avesse  una  comi- 
tiva non  tanto  scarsa,  ma  che  fosse  numerosa  e  per  la  moltitudine 
dell'accompagnamento  pomposa  e  maiestosa.  Ma  di  questi  catalo- 


1.  Vega:  probabilmente  Andrés  Vega  (1498-1560  circa),  teologo  francesca- 
no spagnolo,  le  cui  opere  principali  sono  YOpusculum  de  iustificatione, 
gratta  et  mentis  (Venezia  1546)  e  la  Tridentini  decreti  de  iustificatione  expo- 
sitio  et  defensio  (ivi  1548).  z.  cap.  98:  intitolato  Del  nome  ed  origine  del- 
l'Antichristo,  costumi  ed  atti  suoi,  tomo  1,  pp.  670  sg.  Cfr.  anche,  nello  stesso 
tomo,  cent,  ni,  cap.  lxxxvii,  Di  guai  sorte  di  morte  dica  la  Scrittura  Sacra 
dover  morire  VAntìchristo,  pp.  489  sgg.  3.  nel  cap.  27,  52-3.  4.  il  P.  Pi- 
neda .  .  .  Giob:  cfr.  la  nota  a  p.  852.  5.  in  Ancorato:  cfr.  Ancoratus,  in 
Migne,  P.  G.,  xliii,  col.  198,  dove  si  limita  a  citare  Matth.,  27,  53. 


876  APOLOGIA  DE'    TEOLOGI   SCOLASTICI 

ghi,  ne'  quali  le  donne  si  videro  escluse,  se  ne  richiamarono,  sem- 
brandogli esserseli  fatto  torto  non  far  anche  quest'onore  ad  Eva, 
Sara,  Anna  e  tante  altre  illustri  femmine  del  Vecchio  Testamento. 
Il  P.  Lorino1  però  nel  cap.  2  degli  Atti  di  S.  Luca  sta  fermo  in 
escluderle  tutte,  perché  non  conveniva  che  prima  della  Vergine 
Maria  entrasse  alcuna  donna  in  cielo;  ma  Francesco  di  Luca,2 
al  quale  par  che  inclini  il  P.  Cornelio  a  Lapide,3  più  indulgente, 
vuole  che  con  Adamo  risuscitasse  anco  Eva,  come  madre  del  ge- 
nere umano.  Veggasi  il  P.  Menochio,  cent,  v,  cap.  80. 

Altre  dispute,  altre  ricerche  si  fecero  sopra  l'universal  resure- 
zione  de'  morti  che  precederà  l'estremo  giudicio,  cominciate  pure 
da'  Padri  antichi.  Se  questa  resurezione  sarà  di  giorno  o  di  notte;4 
e  chi  la  vuol  di  mezza  notte  e  chi  di  mattina.  Se  risusciteranno  tutti 
d'un  colore,  0  pure  alcuni  bianchi,  altri  negri  secondo  furono  in 
vita.5  Se  della  stessa  età  e  statura  ch'ebbero  morendo  ;  e  se  bam- 
bini avran  in  cielo  bisogno  di  nutrici.  In  fine  si  pose  in  disputa 
di  qual  lingua  i  beati  parleranno  in  paradiso,  ed  alcuni  in  tutte  le 
maniere  vogliono  che  si  parlerà  in  lingua  greca,  non  altrimenti  di 
ciò  che  si  disse  di  quella  sopramodo  elegante  di  Platone,  ch'era 
degna  che  colla  medesima  parlassero  i  dei.  Altri  fan  quest'onore 
alla  lingua  latina;  e  finalmente  altri  all'ebrea.  Veggansi  il  P.  Suarez,6 
tom.  2,  in  3  par.,  disp.  50,  sect.  io,  ed  il  P.  Menochio,  cent,  vii, 
cap.  5,  6  e  jP 

Dell'inferno  si  è  già  delineata  una  esatta  e  minuta  topografia 
della  sua  larghezza,  profondità  e  sua  capacità;  quante  porte  avesse 


1.  Lorino:  Jean  de  Lorini  (1559-1634),  gesuita  francese,  esegeta.  Scrisse 
In  Ada  Apostolorum  commentaria,  Lugduni  1605.  Cfr.  G.  S.  Menochio, 
op.  cit.,  tomo  I,  cent,  rv,  cap.  lxxxix,  Se  in  Paradiso  saranno  pia  huomini  0 
piti  donne,  pp.  655  sg.,  e  tomo  il,  cent,  v,  cap.  lxxx,  Chi  furono  quei  santi 
che  risuscitarono  con  Christo;  e  se  in  questa  occasione  risuscitarono  ancora 
alcune  sante  donne,  pp.  136  sgg.  Di  qui  la  citazione  del  Lorino  (p.  137). 

2.  Francesco  di  Luca:  Francesco  Maria  De  Luca  (1610-1685),  gesuita 
italiano,  autore  di  un  Elogium  de  Immaculatae  Virginis  Immaculata  concep- 
Uone,  Viennae  1648.  Da  G.  S.  Menochio,  loc.  cit ,  p.  138.  3.  Cornelio  a 
Lapide:  cfr.  la  nota  4  a  p.  855.  4.  Se  questa  .  . .  notte:  cfr.  G.  S.  Me- 
nochio, op.  cit.,  tomo  11,  cent,  vii,  cap.  v,  Se  la  risurrettione  universale 
sarà  di  giorno  0  di  notte,  pp.  344  sg.  5.  Se  risusciteranno  .  .  .  vita:  cfr. 
ibid.,  cap.  vi,  Se  nella  risurrettione  universale  gli  huomini  risusciteranno  d'un 
colore,  0  pure  alcuni  bianchi,  come  sono  hoggi  gli  Europei,  ed  altri  neri,  come 
quelli  d*Ètiopia . . .,  pp.  345  sgg.  6.  Francisco  Suarez:  cfr.  la  nota  3  a 
p.  812.  7.  Il  cap.  vii  è  intitolato  Che  lingua  parleranno  li  beati  in  paradiso, 
tomo  11,  pp.  347  sg. 


LIBRO    I   ■  CAP.  XII  877 

e  quante  bolge,  ove  i  dannati,  secondo  la  qualità  de*  loro  falli, 
saranno  puniti.  Considerando  che  saranno  più  i  reprobi  che  gli 
eletti,  si  è  pensato  di  farlo  quanto  più  grande  si  possa  perché  basti 
a  capire  rinnumerabii  moltitudine  de'  dannati.  Si  è  fatto  già  il 
conto  che  se  il  mondo  non  durerà  più  che  sei  mila  anni,  il  numero 
de*  dannati  possa  arrivare  a  venti  o  trenta  mila  milioni  d'uomini, 
sicché  potrebbero  capire  nello  spazio  di  mille  e  seicento  stadi,  che 
fanno  ducento  miglia  italiane.  Al  P.  Lessio,1  lib.  13  De  perfectionib. 
divinis,  cap,  24,  sembra  questo  spazio  troppo  grande,  ed  il  P. 
Menochio,  cent,  iv,  cap.  76,  riflette  che  i  dannati  saranno  disposti 
non  già  di  restar  ritti  all'in  piedi,  ma  più  tosto  accumulati  l'uno 
addosso  all'altro,  onde  tanto  spazio  par  superfluo  e  s'uniforma  al 
parere  del  Lessio  che  basti  lo  spazio  di  quattro  miglia  di  diametro 
per  capire  tutto  il  suddetto  numero  de'  dannati.  All'incontro  il  P. 
Cornelio  a  Lapide  rifiuta  l'opinione  del  Lessio  parendogli  il  luogo 
da  lui  assignato  troppo  angusto.2  Non  si  crederebbero,  se  co'  pro- 
pri occhi  non  si  leggessero,  tante  sciocchezze  e  vaniloqui.  Veggasi 
il  P.  Cornelio  a  Lapide  ed  il  P.  Menochio,  cent,  iv,  cap.  76. 

Misurata  l'ampiezza  del  luogo,  si  venne,  non  altrimenti  che  si 
fece  nell'arca  di  Noè  delle  mangiatoie  ed  appartamenti  per  gli 
animali,  ad  assignare  a'  dannati,  secondo  la  gravità  dei  peccati 
commessi,  vari  e  distinti  luoghi  e  bolgie,  sicome  con  varie  e  diverse 
pene  affliggere  i  lussuriosi,  i  sodomiti,  gli  avari,  i  simoniaci,  i 
vendicativi,  gli  omicidi,  i  ladri,  gli  spergiuri,  i  fraudolenti,  i  be- 
stemmiatori, gli  adulteri,  i  superbi,  i  traditori  e  tanti  altri,  ed  a 
descrivere  a  ciascuno  la  maniera  e  qualità  de'  tormenti  secondo  i 
loro  meriti.  Leggansi  i  quattro  libri  de'  Dialogi  di  S.  Gregorio  M., 
la  Cronaca  di  Lione  Ostiense,  Pietro  Damiano,  Dionisio  Carte- 
siano, il  Passavanti  e  le  tante  antiche  cronache  scritte  da'  monaci, 
fecondissimi  ed  ingegnosi  ad  immaginare  tante  varie  e  strane  for- 
me di  tormenti  e  di  tormentati.  E  donde  il  nostro  Dante  prese  nel 
suo  Inferno  si  vive  fantasie  se  non  da'  loro  scritti?  Se  bene  rese  da 
lui  più  vivaci,  più  minute  ed  evidenti,  rendendole  col  suo  alto  stile 
e  sublime  ingegno  più  maravigliose  e  sorprendenti. 


1.  Lessio:  Léonard  Leys  (1554-1623),  gesuita  e  teologo  belga,  di  cui  si  cita 
qui  De  perfectionibus  moribusque  divinis  libri  XIV,  Antverpiae  1620.  Da 
G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent,  iv,  cap.  lxxvi,  Quanto  sia  grande 
V inferno  de'  dannati,  pp.  632  sg.  2.  All'incontro  . . .  angusto:  cfr.  ibid., 
p.  633. 


878  APOLOGIA  DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

Veramente  i  nostri  poeti  italiani  deono  molto  a  questi  scrittori 
ecclesiastici,  i  quali  resero  più  feconde  le  loro  fantasie.  L'Ariosto 
alla  sua  Isabella  appropriò  ciò  che  Niceforo  Callisto  nel  lib.  7  della 
sua  Istoria,  al  cap.  13,1  scrisse  di  Eufrasia  vergine  e  martire  di 
Nicomedia,  la  quale  perché  non  fosse  oltraggiata  da  quel  giovane 
insidiatore  della  sua  virginità,  l'ingannò  e  fece  recidersi  in  un  colpo 
il  capo,  lasciandolo  deluso.  Ciò  che  mosse  la  collera  del  card. 
Baronio,2  il  quale  nelTa.  30  nel  fine  acremente  lo  strapazza  per 
aver  un'istoria  sacra  convertita  in  favola.  Lo  stesso  credo  avrebbe 
fatto  del  nostro  Torquato,  il  quale  nel  suo  Goffredo2  ci  dipinge 
Sofronia  ed  Olindo  con  gli  stessi  colori  che  S.  Ambrogio,  lib.  3 
De  virginìbus?  ci  descrive  una  vergine  di  Antiochia  ed  un  soldato 
cristiano  e  la  magnanima  lor  contesa,  se  non  l'avesse  trattenuto 
che  questo  poeta  la  favola  l'indrizzò  ad  un  pietoso  fine. 

Si  assignarono  anche  per  porte  dell'inferno  tutti  que'  monti 
ch'eruttano  fuoco  e  fiamme,  per  dove  i  demòni  conducono  le 
anime  di  quelli  che  muoiono  impenitenti  con  peccato  mortale.  In 
Sicilia  il  monte  Etna,  ora  chiamato  Mongibello,  Ulcano  e  Stron- 
goli  a  Lipari,  in  Napoli  il  Vesuvio,  dove  non  mancarono  testimoni 
di  veduta,  i  quali  videro  per  colà  discendere  l'anima  di  Guaimaro 
principe  di  Salerno,  di  Pandolfo  principe  di  Capua  e  di  tanti  altri 
ricchi  e  potenti,  sicome  ce  ne  rendono  testimonianza  Pier  Damiano 
e  le  antiche  lor  cronache.5  In  Irlanda  il  monte  Ecla  erasi  un'altra 
porta;  e  se  avessero  avuta  notizia  di  altri  monti  consimili,  che  nella 
Licia,  in  Farsalide  ed  altrove  eruttan  pure  fuoco  e  fiamme,  l'avreb- 
bero riputate  altre  tante  bocche  dell'inferno. 

Da  ciò  avvenne  che  i  nostri  poeti  italiani  nel  descriverci  l'in- 

1 .  al  cap.  13  :  intitolato  De  aliis  virginibus  et  monachis,  pudicitia  simul  et 
martyno  claris,  in  Migne,  P.  G.,  cxlv,  coli.  1230  sgg.  Da  G.  S.  Menochio, 
op.  cit.,  tomo  11,  cent,  v,  cap.  xil,  Dell 'artificio  e  per  così  dire  stratagema, 
con  il  quale  due  sante  vergini  furono  liberate  dal  pericolo  di  perdere  la  loro 
pudicitia,  pp.  20  sg.,  dove  il  Menochio  aggiunge:  «Questa  historia  fu  dal- 
l'Ariosto con  troppo  gran  licenza,  anzi  con  molta  temerità  convertita  in 
favola  .  .  .».  Cfr.  Orlando  furioso,  xxix,  1-31.  2.  Ciò  che  mosse  .  .  .  Baro- 
nio:  negli  Annales  ecclesiastici,  Parisiis  1622,  tomo  1,  anno  309  (non  30), 
p.  322.  La  frase  del  Baronio  è  riportata  per  intero  dal  Menochio,  loc.  cit., 
p.  21.  3.  nel  suo  Goffredo:  cfr.  Ger.  lib.,  11,  14-53.  4- De  virgìnibus  ad 
Marcellam  sororem  suam  libri  tres,  lib.  11  (e  non  in),  cap.  iv,  in  Migne,  P.  L.t 
xvi,  coli.  212-6.  Da  G.  S.  Menochio,  ibid.,  p.  20.  5.  Si  assignarono  .  . . 
cronache:  cfr.  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  1,  cent,  iv,  cap.  lxxxii,  Che  è 
stato  opinione  d'alcuni  gravi  autori,  che  ne1  monti  che  gettano  fiamme  siano 
le  porte  dell' 'inferno,  pp.  641  sgg. 


LIBRO   I    -  CAP.  XII  879 

ferno,  i  tormenti  ed  i  tormentati  che  racchiude,  fossero  riusciti 
più  fecondi,  ubertosi  e  redundanti  che  i  Padri  greci  e  latini  nelle 
descrizioni  dell'Orco,  di  Oocito,  di  Acheronte,  di  Averno,  di  Cer- 
bero, di  Tizio,  Sisifo,  di  Tantalo  e  di  tanti  altri  lor  sogni. 

E  poiché  non  si  verrebbe  mai  a  capo  se  si  volesser  annoverare 
tutte  le  ricerche  e  questioni  vane  ed  inutili  sopra  il  Vecchio  e 
Nuovo  Testamento,  possono  bastare  quelle  fin  qui  rapportate  per- 
ché comprenda  ogn'uno  che  non  furono  i  nostri  teologi  scolastici 
i  primi  che  le  mossero,  ma  i  Padri  antichi  cominciarono  ;  e  sicome 
in  tutte  le  discipline  suole  avvenire,  che  una  volta  che  a  gli  umani 
ingegni  si  apre  una  strada,  tirando  le  cose  più  innanzi  non  sanno 
poi  trovar  né  modo  né  misura;  così  appunto  è  avvenuto  nella  teo- 
logia giunta  in  tanta  mole  ed  a  tal  estremità  che  par  incredibile 
come  i  di  lei  professori  abbiano  potuto  empire  le  biblioteche  di 
tanti  ed  innumerevoli  volumi  al  cui  numero  non  giunge  la  stessa 
giurisprudenza  ancorché  abbia  campi  assai  più  vasti  ed  ampi.  La 
giurisprudenza,  se  si  riguardano  i  volumi  de'  consigli,  responsi, 
allegazioni,  decisioni  e  simili,  non  è  maraviglia  che  ne  abbia  pro- 
dotti tanti,  poiché  i  casi  particolari,  onde  son  compilati,  essendo 
quasi  che  infiniti,  doveano  per  conseguenza  accrescerne  il  numero. 
Ma  se  si  farà  paragone  delle  sposizioni  e  commenti  sopra  i  Digesti, 
Codici,  Novelle,  libri  de*  feudi,  ed  io  vi  aggiungo  anche  gli  statuti 
particolari,  le  leggi  proprie  e  municipali  di  ciascun  regno  e  pro- 
vincia, i  loro  Riti  e  Consuetudini,  si  conoscerà  che  i  volumi  sopra 
ciò  compilati  non  arrivano  a  quel  numero  ed  a  quella  mole  di  tanti 
libri  teologici;  e  pure  i  teologi  non  han  per  le  mani  altro  testo 
che  sporre  e  commentare  se  non  il  solo  volume  del  Testamento 
Vecchio  e  Nuovo, 

Si  aggiunga  per  accrescerne  la  maraviglia  che  la  religione  gen- 
tile, con  tutto  che  un  tempo  si  vide  occupare  tutta  la  superficie 
della  terra,  ch'ebbe  tante  numerose  turbe  di  dii  e  dee,  quante  S. 
Agostino  nel  lib.  4  Civ.  Dei,  cap.  8,1  potè  raccorre  da'  libri  di  Var- 
rone  a'  suoi  tempi  non  perduti  e  che  secondo  altri,  che  se  ne  prese 
la  cura  di  annoverargli,  arrivavano  sino  al  numero  di  trentamila, 
e  che  la  lor  teologia  fosse  stata  maneggiata  da  tanti  fantastici  e 
favolosi  greci  ch'empirono  il  mondo  di  tante  loro  mitologie,  con 
tutto  ciò  questa  religione  non  produsse  che  pochi  libri.  Se  si  ri- 

1.  S.  Agostino  . .  .  cap.  8:  in  Migne,  P.  L.,  xli,  coli.  11 8-9. 


880  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

guarda  la  religione  giudaica,  ancor  che  avesse  tanti  fantastici  e 
visionari  rabini,  con  tutto  ciò  i  loro  libri  non  arrivano  a  tanto  nu- 
mero né  a  tanta  mole,  sicome  può  vedersi  nella  Biblioteca  rabinica 
del  Bartolocci.1  Niente  dico  della  maomettana,  la  quale  ancorché 
diffusa  in  gran  parte  d'Europa,  nell'Africa,  nell'Egitto,  nella  Per- 
sia, nell'India  ed  in  altre  regioni  dell'Asia,  ha  pochi  libri,  con- 
tenta del  solo  Alcorano;  né  gli  spositori  si  piglian  molta  pena  di 
farci  glose  e  commenti.  Come  dunque  la  sola  religione  cristiana, 
fondata  sopra  pochi  semplici  e  schietti  princìpi,  sopra  pochi  libri 
dalla  Chiesa  ritenuti  e  qualificati  per  canonici,  abbia  in  decorso  di 
tempo  potuto  produrne  tanti,  ed  in  mole  ed  in  numero,  quasi 
ch'infiniti?  Ma  a  chi  considerarà  quanto  fin  qui  si  è  detto  e  ne' 
precedenti  capitoli,  che  il  lavoro  cominciossi  fin  dal  principio  della 
nascente  Chiesa  da'  primi  teologi  che  uscirono  dalla  scuola  di 
Alessandria,  continuato  dapoi  nei  seguenti  secoli  dai  Padri  greci  e 
latini  e  ripigliato  ne'  secoli  incolti  e  rozzi  da'  monaci  oziosi  e 
sfacendati,  i  quali  nelle  loro  solitudini  non  aveano  altra  maggior 
occupazione  che  questa,  non  dovrà  sembrar  cosa  strana  e  porten- 
tosa se  nel  corso  ormai  di  xvili  secoli  la  mole  ed  il  numero  sia 
giunto  a  tanto. 

A  ciò  si  aggiungano  le  ricche  badie,  i  numerosi  monasteri 
dov'erano  ben  pasciuti  tanti  monaci,  i  nuovi  conventi  di  frati  di 
tanti  e  sì  diversi  ordini  istituiti,  i  ricchi  collegi  e  tante  altre  co- 
munità di  religiosi  i  quali  non  attesero  ad  altro  essendogli  stati 
proibiti  gli  altri  studi  come  profani,  e  che  non  dovevano  col  sudore 
delle  loro  fronti  guadagnarsi  il  pane,  trovando  ciò  che  gli  era  di 
bisogno  e  la  mensa  sempre  apparecchiata  e  pronta;  che  maraviglia 
è  dunque  se  milioni  d'ingegni,  pel  corso  di  tanti  secoli,  abbian  em- 
pito le  biblioteche  di  tanti  volumi  ?  Aggiungo  in  fine  che  fra  si  di- 
versi ordini  religiosi,  essendo  fra  di  lor  entrata  competenza  ed  emu- 
lazione, ne  venne  che  fossero  divisi  in  fazioni;  e  poiché  per  naturai 
istinto  gli  uomini  sono  inchinati  a  dissentire,  quindi  sursero  varie 
e  discordi  dottrine,  e  ciascuno  volendo  sostener  la  sua,  multipli- 
carono  le  contese  e  per  conseguenza  i  libri  e  le  questioni.  Nel  che 


i.  Giulio  Bartolocci  (1613-1687),  da  Celleno,  orientalista  cistercense.  La 
sua  opera  più  importante  è  la  Bibliotheca  magna  rabbinica  de  scriptoribus  et 
scriptis  hebraicis  ordine  alphabetìco  hebraice  et  latine  digestis,  Romae  1675- 
1683,  in  quattro  volumi.  Un  quinto  volume,  postumo,  nel  1693. 


LIBRO   I   ■  CAP.  XIII   ED    ULTIMO  88l 

contribuì  molto  la  nuova  arte  tipografica  che  facilitò  le  edizioni  e 
la  moltitudine  delli  esemplari. 

E  tanto  sopra  ciò  basti,  terminando  questo  libro  col  capitolo 
seguente  che  sarà  l'ultimo  dove  lo  stesso  rawisaremo  ne'  Padri 
antichi  per  ciò  che  riguarda  l'istoria  e  la  cronologia. 


CAP.   XIII   ED   ULTIMO 

Imperizia  ne'  Padri  antichi  d'istoria  e  di  cronologia 
emendata  da'  nuovi  scrittori. 

Non  è  dubio  che  la  cognizione  d'una  esatta  cronologia  e  del- 
l'istoria profana,  particolarmente  della  greca  e  della  latina,  sia 
necessaria  non  meno  che  la  perizia  delle  lingue,  specialmente  per 
miglior  intelligenza  del  Testamento  Nuovo  e  sopra  tutto  degli  Atti 
degl'appostoli,  ove  si  contiene  l'istoria  della  nascente  Chiesa,  del- 
le epistole  di  S.  Paolo  e  degli  altri  appostoli.  Ed  in  ciò  sono  stati 
senza  dubbio  recati  maggiori  lumi  da'  nuovi  scrittori  che  dagli 
antichi  Padri  li  quali  non  ne  furono  abbastanza1  intesi.  Quanti 
errori  d'istoria  e  di  cronologia  si  leggono  negli  antichi  Padri  av- 
vertiti ed  emendati  da'  nuovi  scrittori  ?  Eusebio  vescovo  di  Cesarea 
nel  suo.  Cronologico2,  fu  cagione  che  i  posteriori  Padri  ed  infra 
gli  altri  S.  Agostino  ne'  libri  della  Città  di  Dio  seguendolo  inciam- 
passero negli  stessi  anacronismi.  Quanti  errori  di  Eusebio  nel 
fissare  i  tempi  furono  scoverti  ed  emendati  dal  P.  Petavio,  nel 
lib.  io,  cap.  i,  Della  dottrina  de'  tempii3  Non  fu  Eusebio  che  in 
questa  sua  opera,  credendo  che  i  due  Plinii  il  Vecchio  ed  il  Gio- 
vane fossero  una  stessa  persona,  diede  a  S.  Girolomo  occasione, 
in  Isaia  ed  Ezechiele*  di  credere  lo  stesso?  Dello  stesso  Eusebio 
sopra  V  Antichità  giudaiche  di  FI.  Giuseppe  furono  avvertite  molte 
alterazioni  e  cangiamenti  da'  moderni  autori.  E  V Istoria  di  Costan- 
tino M.  del  P.  Varenness  religioso  teatino  ha  scoverti  nella  Vita  di 


i.  abbastanza:  correggiamo  l'«abbasta»  del  manoscritto,  2.  nel  suo  Crono- 
logico: cfr.  Chronicorum  libri  duo,  in  Migne,  P.  G.,  xix,  coli.  101-598. 
3.  Petavio  .  .  .  tempi:  cfr.  la  nota  4  a  p.  801.  4.  in  Isaia  ed  Ezechiele:  cfr. 
Commentariorum  in  Isaiam  prophetam  libri  duodeviginti,  in  Migne,  P.  L., 
xxiv,  col.  523,  e  Commentariorum  in  Ezechielem  prophetam  libri  quatuordeam, 
ivi,  xxv,  col.  271.  5.  Varennes:  Bernard  de  Varenne,  teatino  francese,  au- 
tore di  una  Histoire  de  Constantin  le  Grand,  premier  empereur  chrétien,  Pa- 
ris 1728. 

sa 


882  APOLOGIA  DE»    TEOLOGI   SCOLASTICI 

Costantino  scritta  da  Eusebio  molti  abbagli  e  fattala  conoscere  più 
tosto  un  romanzo  che  una  grave  e  seria  istoria. 

Nelle  opere  di  S.  Giustino  Martire  quanti  abbagli  d'istoria  greca 
e  romana  si  sono  da'  moderni  avvertiti  ?  Egli  allega,  per  cagion  di 
esempio,  la  Biblioteca  {storica  di  Diodoro  Siciliano  per  pruovare 
che  Mosè  fosse  stato  il  primo  legislatore  ch'ebbe  l'Egitto,  e  lo 
confonde  con  Mneve  il  qual,  secondo  Diodoro,  diede  le  prime 
leggi  a  quel  regno,  e  pure  da  quello  scrittore  chiaramente  sono  di- 
stinti, facendo  Mneve  primo  legislatore  degl'Egizzi  e  Mosè  primo 
legislatore  degli  Ebrei.1  Egli  pure  ignorando  che  Semone  Sango 
fosse  stato  un  dio  de'  Sabini,  il  qual  poi  da'  Romani  fu  adottato 
anche  per  lor  dio  al  quale,  secondo  la  testimonianza  di  Livio2  e 
d'altri  antichi  romani  scrittori,  eressero  in  Roma  nell'isola  del  Te- 
vere un  tempio  ed  altari  con  iscrizione:  «Semoni  Deo  Sango», 
egli  credette  che  fosse  questo  Semone  Simone  Mago  samaritano, 
sicome  si  legge  nella  sua  Apologia  de9  cristiani  indrizzata  ad  Anto- 
nino Pio  con  queste  parole:  «in  amne  Tiberi  inter  duos  pontes, 
est  erecta  statua,  latinam  hanc  habens  inscriptionem  :  Simoni  deo 
sancto  »,3  e  fu  cagione  che  Tertulliano,  S.  Ireneo  ed  Eusebio  ca- 
dessero nel  medesimo  errore,  il  qual  manifestamente  apparve 
quando  a'  tempi  di  Gregorio  XIII,  secondo  che  rapporta  il  P. 
Menochio  nelle  sue  Stuore,  cent.  8,  cap.  17,4  nelPistessa  isola  Ti- 
berina fra*  ruderi  dell'antichità  fu  scavata  la  lapida  coli' iscrizione: 
«  Semoni  Sango  deo  Fidio  sacrum»  età,  la  quale  ci  rende  testimo- 
nianza il  medesimo  che  a'  suoi  tempi  era  conservata  nell'orto  de' 
Religiosi  mendicanti  situato  nella  stessa  isola.  Se  pure  fu  di  S. 
Giustino  quell'Apologia,  poiché  Lattanzio  Firmiano  fra  gli  apolo- 
gisti di  Cristo  non  fa  motto  alcuno  di  Giustino,  che  dovea  esser  il 
primo  a  memorarsi. 

Da  ciò  anche  avvenne  che  a  gli  altri  Padri  ed  a  S.  Agostino 
istesso  nel  libro  scritto  a  Quodvuldeos  fu  data  occasione  di  scrivere 

1.  Nelle  opere  . . .  Ebrei:  il  Giannone  ripete  osservazioni  già  fatte  nel  Regno 
terreno:  cfr.  Triregno,  p.  io.  Cfr.  Diodoro,  Bibl.  hist.,  1,  xciv,  1  (per  Mneve), 
e  xl,  in,  3-8  (per  Mosè).  2.  secondo  . .  .  Livio:  cfr.  Livio,  vili,  20,  8. 
3.  sicome  si  legge  . . .  sancto:  cfr.  Apologia  prima  prò  chrtstianis,  ad  Antoni- 
num  Pium,  in  Migne,  P.  (?.,  vi,  col.  367.  4.  G.  S.  Menochio,  Stuore 
cit.,  tomo  11,  cent,  vili,  cap.  xvn,  Di  Simone  Mago  e  della  sua  caduta 
quando  promise  a  Nerone  di  volare  e  della  sua  morte,  pp.  538  sgg.  Da  questo 
brano  del  Menochio  derivano  gli  accenni  a  Tertulliano,  Ireneo,  Eusebio  e 
Giustino.  5.  nel  libro  . .  .  Quodvuldeo:  cfr.  De  haeresibus  ad  Quodvultdeum 
liber  unus,  I,  in  Migne,  P.  L.,  xlii,  col.  25. 


LIBRO    I   •  CAP.  XIII   ED    ULTIMO  883 

che  in  Roma  erano  adorate  Pimmagini  di  Simon  Mago  e  di  Silene 
sua  meretrice.  Origene  nella  2a  omilia  sopra  la  Cantica  tradotta  in 
latino  da  S.  Girolamo,  sopra  quelle  parole:  «unguentum  efrusum 
nomen  tuum»,  volendo  pure  darci  un'interpretazione  profetica, 
immaginò  che  per  l'unguento  effuso  designavasi  Cristo,  poiché 
sicome  quello  effuso  sparge  l'odore  da  per  tutto,  così  doppo  la 
predicazione  del  Vangelo  il  nome  di  Mosè  e  de'  profeti,  ignoto  a* 
gentili,  fu  divolgato,  che  prima  era  stato  ristretto  fra  gli  angusti 
confini  della  Giudea:  «Nunc  Mosis  nomen»  e'  dice  «auditur  quod 
prius  Iudaeae  tantum  claudebatur  angustiis.  Neque  enim  Graeco- 
rum  quispiam  meminit  eius,  neque  in  ulla  gentilium  literarum 
historia  de  ilio  scriptum  aliquid  invenimus.  Statim  autem  ut  Iesus 
radiavit  in  mundo,  eduxit  secum  leges  et  prophetas,  et  vere  com- 
pletimi est:  "unguentum  effusum  nomen  tuum"».1  Mostra  qui 
Origene  non  esser  ben  istrutto  dell'istorie  de'  gentili,  presso  i  quali 
molto  tempo  prima  della  predicazione  del  Vangelo  avrebbe  tro- 
vato fatta  menzione  di  Mosè  come  d'un  uomo  assai  celebre  ed 
illustre,  fondatore  della  republica  degli  Ebrei,  a'  quali  diede  le  pri- 
me leggi,  e  rinomatissimo  per  le  opere  sue  grandi  e  maravigliose. 
Avrebbe  letto  il  suo  nome  ne'  frammenti  di  Sanconiatone,  di  Be- 
roso,  di  Manetone  e  di  altri  antichissimi  scrittori  conservatici  da 
più  autori.  Avrebbe  trovato  fatta  di  Mosè  onorifica  menzione  da 
Trogo  presso  Giustino,  lib.  36,*  da  Diodoro  Siciliano,  da  Numenio 
Pitagorico,3  da  Longino  e  da  Strabone,  nel  libro  16  della  sua 
Geografia*  Meritamente  dal  P.  Pererio  nelle  questioni  selette  sopra 
il  cap.  1  dell'Esodo,  disp.  4,s  fu  riputata  falsa  questa  credenza  di 
Origene.  E  notisi  intanto  quanto  fosser  proclivi  gli  antichi  Padri 
di  esporre  i  sacri  libri  con  interpretazioni  profetiche  sovente  ap- 
poggiate su  falsi  ed  immaginari  fondamenti.  Lattanzio  Firmiano 

1.  Origene  .  .  .  tuum:  in  Migne,  P.  G.t  xni,  col.  42,  la  citazione  appartiene 
all'homilia  I.  Cfr.  Cant.,  1,  2  («Il  nome  di  Mosè,  prima  racchiuso  soltanto 
nei  brevi  confini  della  Giudea,  è  ora  famoso.  Nessuno  infatti  tra  i  Greci  lo 
ricorda,  né  di  lui  troviamo  scritto  alcunché  nelle  storie  dei  gentili.  Ma  non 
appena  Gesù  sfolgorò  nel  mondo,  trasse  seco  le  leggi  e  i  profeti,  e  veramen- 
te si  compi  quel  detto  :  "sparso  unguento  è  il  tuo  nome"  »).  2.  lib.  36",  11, 
11  sgg.  3.  Per  Diodoro  Siculo,  cfr.  loc.  cit.  sopra.  Degli  scritti  di  Nu- 
menio di  Apamea  (cfr.  la  nota  1  a  p.  636)  ci  rimangono  solo  frammenti. 
4.  Longino  .  .  .  Geografia:  cfr.  rispettivamente  De  sublimitatet  ix,  9  (dove 
si  cita  non  espressamente  Mosè,  ma  Genesi,  1,  3  e  9),  e  Geogr.,  xvi,  35-6 
e  39-  5-  Pererio  .  .  .  disp.  4:  cfr.  la  nota  5  a  p.  851.  Qui  si  cita  Selectarum 
disputationum  in  S.  Scripturam,  I,  Super  libro  Exodi,  Ingolstadii  1591. 


884  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI   SCOLASTICI 

nelle  sue  Divine  istituzioni  commise  tanti  errori  di  cronologia  e 
d'istoria  quanti  se  ne  vedranno  notati  quando  trattaremo  di  que' 
suoi  libri.  Ne'  libri  della  Città  di  Dio  di  S.  Agostino  furono  molti 
errori  d'istoria  e  di  cronologia  avvertiti  da  Lodovico  Vives,1  ne' 
quali  inciampò  per  aver  seguito  il  Cronologico  di  Eusebio. 

Tertulliano,  sicome  fu  avvertito  da  M.r  Dupin  in  Dissert.  pre- 
limin.  sopra  la  Bilia,  lib.  li,2  diede  false  notizie  sopra  Tiberio 
e  Pilato,  che  questi  avesse  fatta  relazione  a  Tiberio  de'  miracoli  di 
Cristo  e  che  perciò  questo  imperadore  voleva  arrollarlo  fra  '1  nu- 
mero degli  altri  dii  se  non  fosse  stato  impedito  dal  Senato. 

Leggansi  le  ragioni  solide  rapportate  in  una  latina  lettera  (lib. 
il,  epist.  12)  dal  dotto  Tanneguy  Le  Fevre,3  che  dimostrano  esser 
tutto  ciò  favoloso,  le  quali  rimangono  nel  lor  vigore  ancorché  Gio. 
Pearson,4  Oper.  posthum.,  lect.  18  [.  .  .]s  ed  altri  abbian  preteso 
confutarle.  E  chi  potrebbe  annoverare  tutti  gli  abbagli  d'istoria  e 
di  cronologia  che  si  leggono  sparsi  nelle  opere  degli  altri  Padri? 
Basti  per  darne  un  saggio  che  S.  Girolamo  istesso,  con  tutto  che 
fosse  dimorato  lungo  tempo  nella  Palestina  e  che  dell'istoria  ebraica 
e  romana  fosse  istrutto  abbastanza,  pure  non  ne  fu  esente.  In  fra 
gli  altri,  non  determinando  S.  Luca  negli  Atti  degli  appostoli  il 
preciso  tempo  nel  quale  S.  Paolo  da  Cesarea  fu  condotto  prigione 
in  Roma,  egli  lo  fissa  nel  z°  anno  dell'imperio  di  Nerone  ;  quando 
da'  medesimi  Atti  e  dal  lib.  20  dell'Antichità  giudaiche  di  FI. 
Giuseppe  si  convince  che  ciò  avvenne  nel  quarto  o  quinto  anno 
di  Nerone;  poiché  S.  Luca  istesso  scrive  che,  essendo  preside 
della  Cilicia  Felice,  S.  Paolo  dal  tribuno  Lisia,  che  lo  sottrasse 
dalla  rabia  furiosa  del  popolo  gerosolimitano,  fu  richiesto  se  egli 
era  quell'egizio  il  quale  aveva  poc'anzi  concitato  in  Gerusalemme 
un  tumulto  e  tratti  seco  nel  deserto  quattromila  sicari:  «Nonne 
tu  es  aegyptius  qui  ante  hos  dies  tumultum  concitasti  et  eduxisti 
in  desertum  quatuor  milia  virorum  sicariorum  ?  »,  21,  38.  Or  que- 

1.  Ioannes  Ludovicus  Vives  (1492- 1540),  celebre  umanista  spagnolo,  amico 
e  seguace  di  Erasmo,  autore  di  un  commento  al  De  civitate  Dei  di  Agostino, 
Basileae  1522.  2.  Dupin  .  .  .  lib.  Ili  cfr.  la  nota  5  a  p.  204.  Qui  è  citata  la 
Dissertation  préliminaire  ou  prolégomènes  sur  la  Bible,  Paris  1699,  in  due  vo- 
lumi. 3.  Tanneguy  Le  Fèvre  (lat.  Tanaquillus  Faber,  16 15-1672),  filologo 
umanista  francese,  di  cui  si  citano  le  Epistolae,  quorum  pleraeque  ad  emenda- 
tionem  scriptorum  veterum  pertinente  Salmuni  1659-1665,  in  due  volumi. 
4.  John  Pearson  (16 13- 1686),  vescovo  anglicano  di  Chester,  uno  dei  mag- 
giori eruditi  dell'anglicanesimo.  Si  riferisce  ad  Opera  posthuma,  chronolo- 
gica  .  . .,  Londini  1688.     5.  [. . .]:  il  manoscritto  è  qui  guasto. 


LIBRO    I   •  CAP.  XIII   ED    ULTIMO  885 

sto  successo  rapporta  FI.  Giuseppe  che  avvenne  nei  primi  anni 
dell' imperio  di  Nerone,  sotto  il  preside  Felice  che  fugò  l'egizio  falso 
profeta  e  sterminò  i  suoi  seguaci.1  Felice  tenne  prigione  S.  Paolo  in 
Cesarea,  come  scrive  S.  Luca,  due  anni  interi,  e  così  lasciollo  al 
suo  successore  Festo,  il  quale  poi  fece  trattar  della  causa;  ed  avendo 
S.  Paolo  appellato  a  Cesare,  lo  fece  trasportar  in  Roma,  e  per  più 
mesi  la  nave,  ove  fu  con  gli  altri  prigionieri  posto,  fu  sbattuta 
da  fiere  tempeste,  convenendogli,  scampato  il  naufragio  della  gen- 
te sì,  ma  non  della  nave,  dimorare  in  Malta  tutto  quell'inverno,  ed 
indi  con  prospera  navigazione  fu  condotto  in  Roma  dove  è  forza 
dire  che  giungesse  al  più  presto  nel  quarto  o  quinto  anno  di  Ne- 
rone. 

Infiniti  altri  consimili  abbagli  d'istoria  e  di  cronologia  si  veg- 
gono oggi  emendati  dagli  ultimi  accurati  scrittori,  i  quali  con 
maggior  diligenza  ed  esattezza  han  fissati  i  tempi  più  certi,  sicome 
è  manifesto  dalle  opere  di  Petavio  gesuita,  delPUsserio,2  di  Mar- 
sham,3  del  cardinal  Noris,4  del  Pagi,5  del  Silvestri6  nella  sua  Cro- 
nologia ultimamente  data  alle  stampe,  e  altri  insigni  e  rinomati 
autori. 

li? 

Questi  istudi,  sicome  il  rivolgere  i  libri  degli  antichi  Padri  già 
posti  in  dimenticanza,  si  cominciarono  nel  XVI  secolo  ad  intra- 
prendere con  fervore  per  occasione  dell'eresia  di  Lutero,  e  si 
avanzarono  molto  più  nel  secolo  seguente  e  furon  poi  ridotti  quasi 
nell'ultimo  punto  di  perfezione  nel  dechinar  del  passato  e  ne* 
princìpi  del  presente  secolo,  poiché  si  conobbe  che  de'  novatori 
le  loro  opinioni  traevan  origine  dagli  antichi  errori  più  tosto  rino- 
vati  che  di  nuovo  prodotti;  onde  si  cominciò  a  studiare  sopra  i 
vecchi  scrittori  e  si  avvertì  che  veramente  in  quelli  fosse  varietà 
di  opinioni  e  discordanza  intorno  ad  alcuni  punti  di  nostra  reli- 
gione già  poi  decisi  da'  seguenti  concili,  i  quali  per  più  canoni 

1.  Or  questo  .  . .  seguaci:  cfr.  Ant.  iud.,  xx,  vili,  6.  2.  Usserio:  lames  Usher  : 
vedi  la  nota  1  a  p.  666.  3.  John  Marsham:  cfr.  la  nota  6  a  pp.  801-2.  4.  En- 
rico de  Noris  (1631-1704),  teologo  e  cardinale  agostiniano,  uno  dei  mag- 
giori eruditi  italiani  del  XVII  secolo.  Cfr.  Opera  omnia.  Verona  1729-1732, 
in  quattro  volumi;  un  quinto,  Mantova  1741.  5.  Antoine  Pagi:  cfr.  la 
nota  2  a  p.  399.  6.  Camillo  Silvestri:  vedi  le  note  3  e  6  a  p.  271.  7.  II: 
così  nel  manoscritto,  dove  però  manca,  in  precedenza,  l'indicazione  del 
1  paragrafo. 


886  APOLOGIA    DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

stabilirono  regole  certe  e  fisse  non  men  sopra  i  dogmi  che  per  la 
disciplina  della  Chiesa,  affinché  s'uscisse  da  tante  brighe  e  dispute 
che  i  novatori  pretendevan  rinovare,  e  ciascun  sapesse  qual  fosse 
la  vera  credenza  da  doversi  tenere,  non  essendovi  altro  modo  più 
leggitimo  e  sicuro  per  porre  nella  Chiesa  una  stabile  tranquillità  e 
quiete;  altrimente  si  verrebbe  ad  un  caos  di  confusione  ed  incer- 
tezza, ed  in  perpetue  risse,  sedizioni  e  contrasti.  Scorgendosi  adun- 
que che  la  lettura  delle  opere  degli  antichi  Padri  non  era  molto 
sicura  per  tanta  varietà  di  pareri,  e  trovandosi  già  introdotta  la 
nuova  arte  tipografica,  le  prime  stampe  facendosi  sopra  gli  origi- 
nali ms.  riuscirono  a  questi  conformi  e  per  conseguenza  venivan 
pure  ad  essere  de'  medesimi  errori  contaminate.  Si  credette  nello 
stesso  XVI  secolo,  per  toglier  l'occasione  ad  altri  di  errare,  che 
nelle  nuove  ristampe  si  dovesse  togliere  da'  loro  libri  tutto  ciò 
che  potesse  imbrattare  le  menti  de*  fedeli  di  eretica  pravità,  ov- 
vero fargli  deviare  dalla  fede  cattolica  romana,  onde  le  nuove  im- 
pressioni e  ristampe  si  videro  tutte  mutilate  e  tronche,  ed  infra 
l'altre  in  Venezia  nell'anno  1570  dalla  stamperia  di  Giovanni  Va- 
risco  e  compagni  uscirono  alla  luce  le  opere  di  S.  Agostino  divise 
in  più  tomi  in  40,  dove  gli  stampatori  non  fecero  difficoltà  nel 
frontispizio  di  ciaschedun  tomo  d'avvertirne  i  lettori  dicendogli: 
«curavimus  removeri  ea  omnia,  quae  fidelium  mentes  haeretica 
pravitate  possent  inficere,  aut  a  catholica  et  ortodoxa  fide  de- 
viare».1 Maniera  tutta  opposta  al  fine  che  si  voleva,  ed  il  peg- 
gior  partito  che  poteva  pigliarsi,  poiché  da  quest'istesso  i  nova- 
tori cominciarono  a  rendersi  più  arditi  ed  insolenti  ed  a  declamare 
contro  i  cattolici  trattandogli  per  falsari  ed  impostori.  Ma  i  nuovi 
scrittori  e  gli  ultimi  editori  per  riprimer  la  calunnia  ci  diedero  le 
loro  ristampe  tutte  intere  e  fedeli  secondo  i  veri  originali,  senza 
ricorrere  ad  un  asilo  sì  povero  e  vergognoso.  A  questi  ultimi  dob- 
biamo, e  spezialmente  a'  Padri  della  Congregazione  Benedittina 
di  S.  Mauro,  di  aver  oggi  le  di  loro  opere  non  pur  intere,  ma 
accresciute  da  nuovi  ms.  A  questi  ultimi  autori  dobbiamo  di  averle 
con  note  e  dotte  osservazioni  adornate,  ed  avvertito  ne*  propri 
luoghi  i  lettori  degli  abbagli  ed  errori  presi  e  delle  opinioni  e  loro 
varietà,  le  quali  se  a'  loro  tempi  eran  disputate  e  poste  in  contro- 
versia, oggi  per  le  nuove  determinazioni  della  Sede  appostolica  e 

1.  in  Venezia  . .  .  deviare:  cfr.  sopra  p.  798  e  la  nota  1  a  p.  799. 


LIBRO    I   •  CAP.  XIII   ED    ULTIMO  887 

di  più  concili  non  esser  più  lecito  porle  in  dispute  ed  in  contese. 
Per  ogni  verso  adunque  da'  nuovi  ed  ultimi  scrittori,  coloro 
che  vorranno  applicarsi  a  questi  studi  trarranno  maggior  utilità; 
essi  riusciranno  più  profittevoli,  sicuri  e  lontani  da  ogni  dubbio 
ed  esitazione  che  facendogli  sopra  i  nudi  antichi  Padri,  dove  tro- 
veranno confuse  brighe  e  contrasti;  e  quel  eh' è  peggio  perniciosi 
errori  e  dottrine  niente  conformi  a  quel  che  presentemente  tiene 
la  Sede  appostolica  e  la  cattolica  Chiesa  romana  nostra  commune 
madre  e  direttrice.  De*  Padri  antichi  dee  sì  bene  farsi  stima  ed 
avergli  pronti  in  occasione  di  qualche  disputa  per  riscontrargli 
quando  vengono  allegati;  ed  il  principal  loro  uso  sarà  di  appren- 
dere in  essi  la  disciplina  della  Chiesa  de'  loro  tempi,  la  quale  non 
fu  sempre  la  stessa,  e  gli  ultimi  scrittori  dell'istoria  ecclesiastica  i 
più  accurati  e  dotti  non  han  tralasciato  di  notarla  sopra  i  di  loro 
libri  per  meglio  manifestarla  nel  decorso  di  ciaschedun  secolo. 
Fin  qui  sia  detto  abbastanza  generalmente  parlando  de*  Padri 
antichi,  ma  per  darne  spezialmente  un  saggio  di  alcuni  particolari, 
che  mandatimi  in  questa  solitudine  sono  presso  di  me,  cioè  de' 
libri  di  Lattanzio  Firmiano,  delle  opere  di  S.  Agostino  e  quelle  di 
S.  Gregorio  M.,  faremo  de'  medesimi  particolar  esame  ed  un  più 
minuto  ed  esatto  scrutinio. 


LIBRO  III 

DE»   LIBRI  DI  S.  AGOSTINO 

CAP.   Ili 
De9  rigoristi. 

Pure  da  questi  libri  delle  Confessioni  di  S.  Agostino  e  da  alquante 
rigide  espressioni  che  si  leggon  nell'altre  sue  opere  ne  vennero  i 
rigoristi,  i  quali  a*  rigori  di  Agostino  vollero  aggiunger  de*  nuovi 
e  così  disumanare  gli  uomini  e  rendergli  tronchi  stupidi  ed  insen- 
sati.1 Non  vi  è  dubbio  che  in  queste  sue  Confessioni  sovente  dipinga 
per  scelleratezze  ciò  che  saranno  o  puerili  trascorsi  ovvero  impeti 
inevitabili  di  natura.  Quel  picciol  fatto  di  alquante  pere,  ch'essendo 
fanciullo  insieme  cogli  altri  giovanetti  suoi  compagni  commise,3 
spogliando  l'albore  di  que'  pomi  più  per  giovanile  leggerezza  che 
per  gola  o  avarizia,  lo  descrive  dandogli  aspetto  così  deforme  ed 
orribile  come  se  avessero  dato  il  sacco  a  qualche  città  e  postola 
a  sangue  ed  a  fuoco.  Egli  negl'ultimi  libri,  scorrendo  per  tutti  i 
nostri  sensi  così  interiori  come  esteriori,  sicome  mostra  una  pro- 
fonda filosofia  nello  spiegargli,  così  nel  porre  in  essi  i  confini  tra  il 
lecito  e  l'illecito  è  sì  rigido  che  sembrangli  peccaminosi  anche  gl'i- 
nevitabili moti  di  natura,  e  vorrebbe  togliere  affatto  il  piacere  che 
la  natura  ha  posto  a  tutti  i  nostri  sensi.  S.  Paolo  pregava  Iddio  che 
gli  volesse  levare  gli  stimoli  della  carne  che  desto  lo  tormentavano  ;3 


i.  Pure  da  questi . . .  insensati:  il  Giannone  aveva  già  iniziato  questa  polemi- 
ca contro  il  rigorismo  in  alcune  pagine  del  Triregno  qui  riportate  (cfr.  pp. 
593-8).  Per  rigoristi  intende  tutti  coloro  che  con  le  loro  dottrine  sulla  giu- 
stizia originale,  sul  peccato  d'Adamo,  sulla  grazia  efficace,  sulla  libera  pre- 
destinazione, sull'idea  stessa  di  Dio,  han  gettato  un  velo  di  pessimismo  tale 
sul  cristianesimo  da  renderlo  inconciliabile  con  il  mondo  moderno.  Per  il 
Giannone  il  rigorismo  è  assurdo  come  il  quietismo.  Superando  e  insieme 
riproponendosi  le  esperienze  religiose  attraversate,  e  approfondendo  il 
discorso  del  Triregno,  spezza  risolutamente  in  queste  pagine  l'alleanza  che 
si  era  realizzata  nel  primo  decennio  del  secolo  fra  giansenismo  e  spirito 
riformatore  e  giurisdizionalistico,  alleanza  resa  possibile  da  un  comune 
fronte  contro  la  Chiesa  di  Roma  e  la  Costituzione  Unigenitus.  Quanto  più  il 
Giannone  si  avvicina  a  una  concezione  religiosa  di  cristianesimo  ragione- 
vole, di  origine  deistica,  accentuata,  non  negata,  in  carcere,  tanto  più  si 
sente  lontano  dal  rigorismo  conservatore  dei  giansenisti.  2.  Quel  pic- 
ciol . . .  commise:  cfr.  Con}.,  11,  iv,  Furtum  cum  sodalibus  perpetratum,  in 
Migne,  P.L.,  xxxn,  coli.  678-9.  3.  S.  Paolo  ..  .tormentavano:  cfr.  il 
Cor.,  12,  7-8. 


LIBRO    III    •  CAP.   Ili  889 

ma  S.  Agostino  fervorosamente  lo  pregava  che  gli  levasse  anche 
gl'insogni  che  contro  sua  voglia  quando  dormiva  gli  rappresenta- 
vano sì  vivamente  le  immagini  delle  cose  veneree,  che  gli  pareva 
star  su  '1  fatto  ;  ovvero  che  dasse  quella  stessa  forza  alla  sua  anima 
addormentata,  che  quando  era  desta,  per  potergli  discacciare;1  e 
pure  in  ciò  niente  vi  era  di  peccaminoso  poiché,  secondo  in  sen- 
tenza di  tutti  i  filosofi  saviamente  scrisse  Plinio  il  Vecchio  nel  lib. 
35  Nat.  hist.,  cap.  18:  «Visa  in  quiete  venerea  sponte  naturae 
erumpunt»,2  non  avendovi  parte  alcuna  la  mente,  la  quale  sopita 
non  comanda  al  corpo,  ma  tutto  dipender  dallo  involontario  e 
sregolato  corso  degli  spiriti,  i  quali  scorrendo  per  le  tracce  im- 
presse nel  nostro  cerebro,  risveglian  quelle  immagini  nella  nostra 
fantasia,  onde  procedono  le  involontarie  polluzioni  delle  quali  non 
ne  sono  esenti  nemmeno  i  più  rigidi  ed  austeri  romiti.  Tanto  vero 
che  Parte  medica  stende  anche  sopra  di  essi  sua  giurisdizione  pre- 
scrivendo rimedi  per  scacciargli.  Così  Plinio  stesso  scrisse  nel  lib. 
20,  cap.  7,3  che  il  seme  trito  della  sativa  lattuca  bevuto  col  vino 
«libidinum  imaginationes  in  somno  compescit»;  sicome  la  ruta 
reprime  «Venerem  crebro  per  somnia  imaginantibus  »,  lib.  eod., 
cap.  13,4  e  lo  stesso  effetto  prodursi  dalla  portulaca  la  quale  «Vene- 
rem  inhibet  Venerisque  somnia»,  cap.  20  eod.  lib.5  E  S.  Agostino 
il  qual  avea  letto  Plinio,  sicome  dimostra  nei  libri  della  Città  di 
Dio  qualificandolo  per  uomo  dottissimo,6  potea  ben  ricordarsi  che 
questo  scrittore  nel  lib.  35,  cap.  18,7  rapporta  che  Calvo,  famoso 
oratore  romano  della  famiglia  Licinia,  solea  cingersi  i  lombi  di 
lamine  di  piombo  per  reprimere  le  notturne  polluzioni  le  quali 
l'infievolivano  in  guisa  che  non  potea  con  vigore  attendere  a*  suoi 
studi.  E  se  la  Chiesa  oggi  ne'  suoi  inni  priega  ancora:  «procul  re- 
cedant  somnia  et  noctium  phantasmata»,8  ciò  fassi  per  evitar  il 
pericolo  nel  qual  Tuom  potrebbe  esporsi,  poiché  sovente  accade  a* 
deboli  che  que*  fantasmi  cominciano  di  notte  ad  assalirgli  mentre 

1.  ma  S.  Agostino  . . .  discacciare:  cfr.  Conf.t  x,  xxx,  Confitetur  ut  se  habet 
ad  tentationes  carnalis  libidinis,  in  Migne,  P.  L.,  xxxn,  coli.  796-7*  2.  Pli- 
nio .  .  .  erumpunt:  cfr.  Nat.  hist.t  ed.  cit.,  tomo  li,  lib.  xxxiv  (non  xxxv), 
cap.  xvili,  p.  670  («le  immagini  veneree  irrompono  nel  sonno  per  sponta- 
neo impeto  di  natura»).  3.  nel  lib.  20i  cap.  7:  cfr.  ibid.,  p.  198.  4.  lib. 
eod.,  cap.  13:  cfr.  ibid.}  p.  209,  5.  cap.  20  eod.  hb.:  cfr.  ibid.t  p.  220. 
6.  sicome  dimostra  . .  .  dottissimo:  cfr.  la  nota  3  a  p.  762.  7.  nel  Hb-  35, 
cap,  18:  anche  qui,  come  sopra,  il  libro  è  il  xxxiv,  ed.  cit.,  p.  670.  8.  «-pro- 
cul..  .  phantasmata  »  :  nell'inno  Te  lucis  ante  terminum  attribuito  a  sant'Am- 
brogio («lungi  svaniscano  i  sogni  e  i  fantasmi  della  notte»). 


890  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI   SCOLASTICI 

dormono  e  riportili  poi  la  vittoria  a  viso  aperto,  essendo  già  vigi- 
lanti e  desti;  ma  di  ciò  tornerà  a  noi  l'occasione  di  trattarne  quando 
favellaremo  dell'epistole  di  Gregorio  M. 

Scorre  dapoi  per  tutti  i  sensi  esterni,  ed  intorno  al  gusto  della 
nostra  lingua  e  palato  nel  cibarsi  e  nel  bere  vorrebbe  che  nella 
stessa  guisa  che  prendiamo  i  medicamenti  così  ci  disponessimo  a 
prender  i  cibi;  sicome  non  prendiamo  le  medicine  di  qualunque 
sorte  elle  siano  se  non  per  fugar  le  malatie,  i  dolori  e  le  febri  ;  così 
i  cibi  e  le  bevande  se  non  per  discacciar  la  fame  e  la  sete,  le  quali 
non  sono  che  una  sorte  di  dolori  che  consumano  ed  a  guisa  di 
febre  uccidono  quando  per  mezzo  della  medicina  del  cibo  non 
soccorriamo.  Ma  gli  dispiace  che  in  far  questo  passaggio  dalla 
fame  alla  sazietà,  dalla  sete  al  rinfrescarsi,  si  pruovi  piacere  e  di- 
letto. Qui,  qui,  egli  dice,  si  trova  il  laccio  della  concupiscenza 
per  prendermi;  poiché  il  principal  fine  del  mangiare  e  del  bere 
dee  unicamente  essere  il  nostro  sustentamento  e  la  nostra  sanità; 
ma  nondimeno  si  accompagna  dietro  ad  essa  a  guisa  di  serva  non 
so  qual  pericolosa  giocondità,  la  quale  per  lo  più  procura  porre 
il  passo  avanti  alla  sua  padrona,  accioché  si  faccia  per  causa  di  lei 
ciocché  dee  farsi  per  rispetto  della  sanità.  Or  qui  vuole  che  chi 
mangia  e  chi  beve  stia  attento,  si  guardi,  cibandosi  quanto  basta 
per  suo  sostentamento,  di  trascorrere  nel  piacere,  mostrandone 
cupidigia  e  di  compiacersi  molto  della  giocondità  che  seco  portano 
i  cibi  e  le  bevande.1  In  breve  bisogna  star  sempre  con  la  bilancia 
in  mano  e  sottilmente  pesare  Puno  e  l'altro.  Or  vedete  in  quali  an- 
gustie, in  quali  ceppi  e  catene  si  ligano  i  miseri  mortali,  a'  quali 
sono  pur  troppo  soverchie  le  tante  calamità  e  miserie  che  si  speri- 
mentano in  questa  valle  di  lagrime.  Iddio  autor  della  natura  ha 
posto  a'  cibi  ed  alle  bevande  quella  giocondità  perché  l'uomo  con 
moderazione  se  ne  valga  e  per  suo  uso  l'ha  creati  affinché  gustan- 
done il  piacere  benedichi  l'alta  sua  provvidenza  e  gli  renda  grazie 
di  tanta  sua  benignità  e  munificenza.  Anche  nello  stato  dell'inno- 
cenza Iddio  avea  posto  alle  cose  aspettabili  bellezza  perché  a  gli 
occhi  degli  uomini  fossero  gioconde  e  delettabili,  sicome  alle  cose 
comestibili  pose  soavità  perché  al  gusto  de'  medesimi  riuscissero 
piacevoli,  dolci  e  soavi,  avendo  dalla  terra  prodotto  «omne  lignum», 
come  si  legge  nel  2  cap.  del  Genesi,  «  pulchrum  visu  et  ad  vescen- 

1.  Scorre  dapoi . .  .  bevande:  cfr.  Conf.,  x,  xxxi,  Ut  se  gerit  ad  tentatìones 
gulae,  in  Migne,  P.  L.,  xxxii,  coli.  797-9. 


LIBRO    III   •  CAP.  Ili  891 

dum  suave  a.1  E  doppo  che  l'uomo  prevaricò,  per  sua  bontà  lasciolle 
nel  loro  stato  aggravandolo  solo  di  procacciarsele  con  istenti  e 
sudori.  Or  se  l'uomo  con  sudori,  travagli  ed  angoscie  ha  da  procac- 
ciarsi il  vitto,  mal  volentieri  soffrirebbe  tante  fatiche  se  oltre  il 
suo  sostentamento  non  ci  trovasse  per  suo  ristoro  quel  piacere  e 
giocondità  che  Iddio  ci  ha  posto;  ma  se  al  rovescio  dovessero  i 
cibi  riuscirgli  ristucchevoli,  noiosi  ed  insipidi,  sicome  le  medicine 
agl'infermi,  troppo  misera  ed  infelice  sarebbe  la  sua  condizione, 
peggiore  di  quella  de'  bruti.  La  giusta  misura  in  valendosene  è 
quella  che  gli  detta  la  ragione,  cioè  di  bilanciare  se  il  piacere,  vo- 
lendosi spingere  oltre  il  dovere  e  l'indigenza,  non  cagioni  appresso 
maggiore  molestia;  non  sconcerti  e  guasti  l'armonia  e  buona  di- 
sposizione d'un  corpo  sano,  e  lo  renda  morboso,  grave  a  se  stesso 
ed  inetto  ad  operare.  Se  non  contenti  di  quanto  la  natura  gli  som- 
ministra di  cibi  semplici  che  in  sé  racchiudono  un  sapor  solido  e 
salubre,  consumano  i  loro  patrimoni  in  ricercar  i  più  rari  da  lontani 
mari  e  remote  terre,  non  contentandosi  di  ciò  che  la  natura  pro- 
duce ne'  loro  terreni  e  con  operosi  magisteri  ed  opificio  di  eccellenti 
cuochi,  che  ricercano  da'  più  remoti  paesi,  con  vari  mescolamenti 
alterando  e  corrompendo  la  natura,  cagionano  per  conseguenza  ne' 
loro  corpi  chiragre,  podagre  ed  altre  pertinaci  e  lunghe  malatie;  ed 
in  vece  di  valersi  de'  cibi  per  rispetto  della  sanità  si  rivolgono  al 
contrario  per  la  destruzione  della  medesima,  questa  si  chiama 
scostumatezza,  intemperanza  e  vera  gola.  Ma  chi  con  moderazione 
e  prudenza  si  vale  di  que'  piaceri  innocenti  che  trova  ne'  cibi 
semplici  e  nelle  schiette  bevande,  questi  è  colui  del  quale  può 
dirsi:  «omne  tulit  punctum  qui  miscuit  utile  dulci».*  Saviamente 
Cicerone  nel  lib.  1  De  officiis  in  poche  parole  pose  i  giusti  confini 
tra'  voluttuosi  ed  i  sobri:  «sin  sit  quispiam»  e'  dice  «qui  aliquid 
tribuat  voluptati,  diligenter  ei  tenendum  esse  eius  fruendae  mo- 
dum.  Itaque  victus  cultusque  corporis  ad  valetudinem  referantur 
et  ad  vires,  non  ad  voluptatem.  Atque  etiam,  si  considerare  volu- 
mus  quae  sit  in  natura  excellentia  et  dignitas,  intelligemus  quam 
sit  turpe  difHuere  luxuria  et  delicate  ac  molliter  vivere;  quamque 
honestum  parce,  continenter,  severe,  sobrieque».3  Il  cardinal  Pal- 

1.  11  omne  lignum  .  .  .  suave*:  Gen.,  z,  9.  z.  «orane  tulit .  . .  dulciti  Orazio, 
Ars  poet.y  343  («riscuote  l'approvazione  di  tutti  colui  che  ha  unito  l'utile 
al  piacevole»).  3.  a  sin  sit  quispiam  .  .  .  sobrieque»:  De  off.,  I,  xxx,  106  («ma 
se  taluno  vuol  concedere  qualcosa  al  piacere,  deve  accuratamente  moderar- 


892  APOLOGIA  DE'    TEOLOGI   SCOLASTICI 

lavicino,  il  quale  in  quell'aureo  suo  libretto  dell9 Arte  della  perfe- 
zione cristiana  esaminò  quest'istesso  con  non  minor  filosofia  di  ciò 
che  in  questi  libri  delle  Confessioni  fece  S.  Agostino,  e  forse  con 
maggior  giudicio  e  discretezza,  fa  vedere  che  uomini  da  bene  e 
solidamente  religiosi  e  pii  possono  ben  accoppiare,  nella  giocondità 
e  piacere  che  si  trova  ne'  cibi  e  nelle  bevande,  una  perfetta  mode- 
razione e  continenza,  anzi  che  dalla  soavità  che  si  gusta  ne'  mede- 
simi trarre  riflessioni  assai  alte  e  sublimi.  E'  narra  che  stando  se- 
dere a  tavola  col  padre  . .  .  gesuita  spagnolo  non  men  dotto  che 
di  gran  probità  di  costumi,  fra  le  prime  vivande  si  presentarono 
delle  fragole  inzuccherate  e  ben  rinfrescate  ;  la  stagione  era  fervente 
ed  il  gesuita  spagnolo,  che  vuol  dire  di  temperamento  caldo  e 
adusto  ;  sicché  gustandole  ne  trasse  tanto  piacere  e  diletto  che  non 
potè  contenersi  d'esclamare  e  dire:  «or  se  qui  l'uomo  trova  tanta 
giocondità  e  dolcezza,  or  che  sarà  nella  gloria  del  paradiso?».1 
Questo  fra  gl'altri  di  lodare  e  benedire  il  sommo  fabro  della  natura 
è  il  buon  uso  che  ciascun  può  fare  della  soavità  de'  cibi  e  delle 
bevande,  e  farà  forse  meglio  di  ciò  che  gli  schizzinosi  fanno  di 
privarsene  con  dire  sciapitamente  che  astenendosene  offeriscano  a 
Dio  tanti  fioretti. 

Io  non  parlo  de'  religiosi,  i  quali  astretti  alle  regole  de'  loro  isti- 
tuti si  privano  di  molte  cose.  Essi  così  facendo  adempiscono  il  lor 
dovere  e  facendo  altrimenti  sarebbero  ingiusti  e  trasgressori  delle 
loro  regole:  «haec  lege  contraxi»;2  sicome  coloro  i  quali  non  vo- 
gliono sottoporsi  a'  digiuni,  alle  astinenze  ed  altri  divieti  sopra 

si  nel  goderne.  Pertanto  il  nutrimento  e  la  cura  del  corpo  devono  essere 
vòlti  alla  salute  e  al  vigore,  non  al  piacere.  E  inoltre,  se  considereremo  Pcc- 
cellenza  e  la  dignità  della  natura  umana,  comprenderemo  quanto  sia  ver- 
gognoso poltrire  nella  lussuria  e  vivere  voluttuosamente  e  mollemente,  e 
quanto  sia  dignitoso  vivere  parcamente,  temperatamente,  austeramente  e 
sobriamente»).  1.  Il  cardinal  Pallavicino  .  .  .  paradiso:  dell'opera  del  Pal- 
lavicino qui  citata  (cfr.  le  note  4  a  p.  36  e  5  a  p.  792)  il  Giannonc,  nella 
polemica  contro  il  rigorismo,  utilizza  soprattutto  il  libro  11,  Non  doversi 
infievolir  ne7  cristiani  la  speranza  de1  beni  eterni  come  poco  verisimìli  d* acqui- 
starsi, posta  la  debolezza  umana  in  rispetto  alla  difficultà  della  legge  divina  ecc. 
Il  Giannone  si  riferisce  particolarmente  ai  capitoli  iv-vn  di  questo  libro, 
che  riguardano  il  vizio  della  gola.  La  posizione  del  Pallavicino  e  molto  mo- 
derata e  tollerante.  Cfr.  soprattutto  il  capitolo  vi,  Quanto  la  golosità  sia 
contraria  al  prò  mondano  delVhuomo  generalmente  e  allo  stesso  piacer  della 
bocca.  L'episodio  qui  riferito,  nel  libro  in,  capitolo  11  (p.  293  dell'edizione 
di  Milano  1666. 1  punti  di  sospensione  sono  del  Giannone,  che  cita  a  senso, 
e  il  nome  del  personaggio  è  Antonio  Perez).  2.  *haec  lege  contraxi»:  «mi 
sono  obbligato  a  ciò  con  una  legge  ». 


LIBRO    III    •  CAP.   Ili  893 

ciò  dalla  Chiesa  prescritti,  a  ragione  sono  riputati  riottosi,  disubi- 
dienti e  contumaci,  poiché  non  adempiono  il  lor  dovere  ripugnando 
alla  nostra  pietosa  e  commune  madre  e  non  prestandole  quella  do- 
vuta ubbidienza  che  se  gli  dee;  ma  parlo  di  que'  i  quali,  sciolti  da 
ogni  ligame,  affettano  una  rigorosa  astinenza.  Essi  rifiutano  ogn'in- 
vito  che  se  gli  facci;  e  pure  dovrebbero  ricordarsi  che  N.  S.  non 
rifiutò  essere  tra  il  numero  dei  convitati  nelle  nozze  di  Cana  Ga- 
lilea; né  sfuggì  gl'inviti  fattigli  dagl'istessi  peccatori  e  pubblicani. 
Alcuni  non  vogliono  cibarsi  se  non  di  legumi,  e  quanto  più  le  vi- 
vande riescano  sciapite  ed  insipide  a*  loro  palati,  tanto  maggior- 
mente se  ne  compiacciono  ;  e  pure  dovrebber  riflettere  che,  austera 
che  fosse  la  vita  del  profeta  Elia,  con  tutto  ciò  Iddio  per  suo  so- 
stentamento lo  provvedeva  per  ministerio  de'  corvi  non  pur  di 
pane,  ma  anche  di  carne.1  S.  Paolo  non  rifiutava  ciò  che  se  gli 
metteva  innanzi,  anzi  che  quando  potesse  farlo  senza  darne  scan- 
dolo  non  avrebbe  avuto  scrupolo  di  mangiare  ristessa  carne  delle 
vittime  immolate  da'  gentili  ai  loro  falsi  dei;  e  ch'egli  secondo  le 
circostanze  de'  luoghi  e  de'  tempi  sapeva  abbondare  e  necessità 
soffrire.2  In  fine  dovrebber  avvertire  che  Cristo  S.  N.  ci  diede  am- 
maestramento che  non  ciò  che  si  mette  dentro  la  nostra  bocca  con- 
tamina l'anima,  ma  ciò  che  n'esce  di  fuori,  di  maldicenze,  mormo- 
razioni, calunnie,  spergiuri,  menzogne,  bestemmie,  ed  altre  ini- 
quità.3 

Proseguendo  S.  Agostino  ad  esaminare  i  piaceri  degli  altri  sensi 
esterni,  in  quel  dell'odorato  non  molto  si  dilunga  poiché  egli  dice 
che  gli  odori  non  eran  da  lui  né  ricercati,  né  rifiutati,  ed  era  appa- 
recchiato a  starne  di  senza  continuamente;  ma  i  piaceri  delle 
orecchie  sì  che  lo  tenevano  ben  intricato  e  dubbioso.4  Anche  in 
udire  con  soave  artificio  cantati  i  Salmi  di  Davide  avea  dubbio  se 
quel  canto,  recandogli  diletto,  non  venisse  la  sua  carne  a  conta- 
minare la  sua  mente,  con  distorla  dal  senso  delle  parole.  Sicché 
era  in  continua  esitazione  se  dalla  Chiesa  dovesse  togliersi  ogni 
sorte  di  melodia,  colla  quale  suol  cantarsi  soavemente  il  Salterio 
di  Davide,  ovvero  permettersi.  Gli  parea  più  sicuro  ciò  che  l'era 


1.  lo  provvedeva  .  .  .  carne:  cfr.  Ili  Reg.,  17,  6.  a.  S.  Paolo  .  .  .  soffrire: 
cfr.  rispettivamente  I  Cor.f  8, 1  sgg.,  e  Philip.,  4, 12.  3.  In  fine  . .  .  iniquità  : 
cfr.  Matth.,  15,  11.  4.  Proseguendo ...  dubbioso:  cfr.  rispettivamente 
Conf.,  x,  xxxii,  Ut  se  geni  ad  odorum  ìllecebras,  in  Migne,  P.  L.,  xxxn, 
col.  799,  e  x,  xxxiii,  Ut  se  gerit  ad  voluptates  aurìum,  ivi,  coli.  799-800. 


894  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

stato  riferito  di  Atanasio  vescovo  di  Alessandria,  il  quale  con  po- 
chissima inflessione  di  voce  faceva  risonare  i  salmi  dal  lettore,  in 
modo  che  pareva  più  tosto  che  schiettamente  gli  pronunciasse  che 
gli  cantasse.  Dall'altro  canto,  quando  si  ricordava  che  in  Milano 
S.  Ambrogio  permetteva  il  canto  nella  sua  Chiesa  e  Futilità  che 
da  quello  ne  trasse  ne*  princìpi  della  sua  conversione,  non  poteva 
non  commendare  l'instituto.  Così  ondeggiando,  e'  dice,  fra  '1  pe- 
ricolo del  piacere  e  l'esperienza  del  giovamento,  ancorché  non 
intendesse  in  ciò  proferire  sentenza  irrefragabile,  pure  inchinava 
ad  approvare  la  consuetudine  del  cantare  in  chiesa,  acciocché  per 
lo  diletto  delle  orecchie  si  sollevi  l'anima  nell'affetto  di  pietà.  Ma 
quando  più  gli  movea  il  canto  di  quello  che  dovea  moverlo  la  cosa 
che  si  cantava,  confessa  di  peccare  e  di  esser  degno  di  pena,  ed  al- 
lora avrebbe  voluto  che  non  mai  avesse  udito  cantare.  Di  qui  i 
rigoristi  han  preso  le  armi  e  l'ardire  di  altamente  biasimare  la 
presente  pratica  di  permettere  nelle  chiese  sinfonie  non  men  d'istro- 
menti  che  di  voci,  declamando  che  si  fossero  i  tempii  trasmutati 
in  teatri;  tanto  gli  strepitosi  e  multiplici  suoni  e  le  modulazioni  di 
tante  voci  affatto  estinguono,  cassano  e  cancellono  le  parole  e  le 
cose  che  si  cantano,  e  la  moltitudine  vi  corre  unicamente  per  udir 
la  melodia,  il  canto  e  '1  suono,  niente  curando  di  ciò  che  si  canta, 
che  vien  assorbito  dallo  strepito  e  romore  degli  istromenti  e  dalle 
modulazioni  de'  cantori. 

Intorno  al  piacere  degli  occhi1  si  duole  e  piange  Agostino  di 
essere  pericoloso,  pien  di  lacci  ed  insidie.  Gli  occhi,  e'  dice,  amano 
delle  figure  varie  e  de'  vaghi  ed  ameni  colori;  queste  cose,  si  lagna 
che  tutto  giorno  l'infestavano,  né  gli  davan  riposo;  ch'erano  troppo 
lusinghiere  e  con  pericolose  maniere  condivano  la  vita  del  presente 
secolo  a'  suoi  ciechi  amatori.  Ch'egli  procurava  far  resistenza  a 
gl'inganni  degli  occhi  e  sollevare  la  sua  vista  a  più  alti  oggetti  non 
terreni  e  corporei,  ma  non  sempre  gli  riusciva  di  mantenersi  ne* 
voli  sì  alti  e  sublimi.  Spesso  lo  facevan  discendere  in  giù  le  varietà 
di  innumerabili  lavori  ed  artifici  intorno  alle  vesti,  scarpe,  vasi  ed 
altre  opere  manuali;  anche  intorno  alle  dipinture,  alle  varie  figure, 
immagini  e  statue,  tanto  di  quelle  che  servano  a'  necessari  e  mo- 
derati usi  umani,  quanto  di  quelle  che  sono  indrizzate  alla  pietà. 
Gli  uomini,  e'  dice,  han  procurato  in  ciò  di  servire  al  piacere  degli 

1.  Intorno  . .  .  occhi:  cfr.  Conf.,  x,  xxxiv,  Ut  se  gerit  ad  oculorum  illecebras, 
ivi,  coli.  800-1. 


LIBRO    III    •  CAP.   Ili  895 

occhi  seguendo  nel  di  fuori  ciò  che  ricerca  l'artificio,  ed  abbando- 
nano quel  che  ivi  dovrebbero  ricercar  di  dentro,  cioè  di  riconoscer 
in  quelle  più  tosto  il  magisterio  del  Creatore  che  il  lavoro  degli 
artefici. 

I  rigoristi,  non  sapendo  tener  né  modo  né  misura,  da  tutto  ciò 
conchiudono  che  deonsi  assolutamente  fuggire  i  teatri,  i  pubblici 
spettacoli  e  le  amene  vedute;1  condannano  i  lavori  ed  il  sommo 
artificio  che  si  pone  negli  abiti,  ne*  vasi,  negli  apparati;  né  vogliono 
suppellettile  molto  preziosa,  ma  semplice  e  schietta.  In  brieve  per 
l'umana  vita  concedono  il  solo  e  puro  necessario,  togliendo  l'utile 
ed  il  dilettevole,  ancorché  ristretto  tra*  confini  del  lecito  e  dell'one- 
sto. Biasimano  ed  altamente  declamano  contro  i  magnifici  edifici 
delle  chiese,  dannano  le  incrostature  de'  marmi  ne'  loro  muri,  le 
dipinture,  le  sculture,  le  indorature,  i  preziosi  arredi  degli  altari, 
le  illuminazioni  e  le  ricche  statue,  che  vorrebbero  che  fosser  di 
legno  e  di  creta,  non  già  di  eletti  marmi,  molto  meno  d'avorio, 
d'oro  o  d'argento  o  d'altro  metallo.  Mostrano  con  ciò  non  ben  in- 
tendere la  condizione  umana,  e  quanto  la  natura  abbia  resi  gli 
uomini  proclivi  al  magnifico  e  sorprendente;  né  esservi  cosa  che 
più  gli  tragga  alla  divozione  e  pietà  che  queste  splendide  apparenze, 
allettando  i  più  schivi  e  spingendo  i  più  tardi  e  morosi.  Quanti 
sfacendati  ed  oziosi,  i  quali  marcendo  nell'ozio  padre  de'  viziy 
non  trovarebbero  la  via  per  risorgere  e  torsi  dal  fango,  se  non  fos- 
sero allettati  e  finalmente  spinti  da  illuminazioni,  suoni,  canti  ed 
altre  magnifiche  apparenze  ad  entrar  nelle  chiese,  dove  per  questi 
mezzi  rientrando  in  se  stessi  cominciano  poco  a  poco  a  risolversi 
di  mutar  vita  ed  a  piacergli  i  sermoni  ed  i  divini  uffici  per  li  quali 
apprendono  una  pietà  vera  e  solida?  Tutte  queste  cose  possono 
ben  accoppiarsi  colla  morale  cristiana  quando  l'uomo  non  voglia 
abusarsene,  e  volendole,  ora  che  tutto  il  mondo  è  cristiano,  e  cri- 
stiano vecchio,  biasimare  ed  affatto  astenersene  bisognerebbe,  co- 
me ad  altro  proposito  disse  S.  Paolo,  «e  mundo  exire».2 

1. 1  rigoristi .  .  .  vedute:  la  polemica  sul  teatro,  che  non  è  solo  tipica  del 
mondo  cattolico  (basti  pensare  allo  scontro  fra  Voltaire  e  l'antico  amico  del 
Giannone,  il  pastore  ginevrino  Jacob  Vernet),  avrà  il  suo  campione  nel 
giansenista  Daniele  Concina,  che  scriverà  contro  il  teatro  il  De  spectaculis 
theatralibus  .  .  .,  Romae  1752.  2.  Tutte  queste  cose .  . .  exire:  il  Giannone 
sintetizza  efficacemente  i  motivi  per  cui  una  morale  rigorista,  che  si  fondi 
sulla  lettera  del  discorso  patristico  e  non  tenga  conto  della  storia,  sia  profon- 
damente incivile  e  irrazionale.  Per  la  citazione  di  Paolo  cfr.  I  Cor.,  5,  io. 


896  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

S.  Agostino  in  questi  libri  delle  sue  Confessioni  non  prosiegue  il 
suo  esame,  sicome  ha  fatto  degli  altri,  nel  senso  del  tatto;  l'abuso 
del  quale  non  può  oggi  ravvisarsi  se  non  fra'  coniugati  usando  del 
lor  matrimonio;  poiché,  fuor  di  essi,  ogni  lascivo  tatto  di  baci  ed 
altri  toccamenti  disonesti  in  tutto  il  resto  è  assolutamente  vietato, 
onde  non  ne  bisogna  esame  per  fissarne  i  giusti  limiti.  Agostino 
che  sopra  se  stesso  faceva  scrutinio  de'  suoi  peccati  per  confessar- 
gli, non  avea  allora  né  sposa,  né  moglie;  ruppe  gli  sponsali  contrat- 
ti con  quella  di  Milano  per  viver  celibe,1  e  ritornato  in  Affrica 
quando  scrisse  quelle  Confessioni  era  nel  sacerdozio  ed  ammini- 
stratore, come  e*  dice,  de*  santi  sacramenti;  e  visse  dapoi  sempre 
casto  ed  in  celibato  puro  e  perfetto;  onde  non  ebbe  occasione  di  qui 
parlarne.  Ma  negli  altri  suoi  libri,  spezialmente  in  quello  De  sancta 
virginitate  e  negl'altri  De  bono  viduitatis  ad  Iulianam,  De  continenza, 
De  bono  coniugali,  De  adulterinis  coniugiis,  De  nuptiis  et  concupi- 
scentia?  ne  tratta  con  tanta  austerità  e  rigore  fra'  coniugati  che  se 
S.  Paolo  non  l'avesse  trattenuto,  volontieri  avrebbe  condannate  le 
nozze,  poco  importandogli  che  il  mondo  verrebbe  a  finire,  poiché, 
e*  dice,  se  ne  cominciarebbe  un  altro  per  gli  eletti  tutto  beato  e 
felice:  «Novi  quosdam»  e*  scrive  nel  libro  De  bono  coniugali,  cap. 
io  «  qui  murmurant  quid  si  omnes  velint  ab  omni  concubitu  absti- 
nere,  unde  subsistet  genus  humanum  ?  ».  E  risponde  :  «  utinam  hoc 
omnes  vellent,  multo  citius  Dei  civitas  compleretur  et  acceleraretur 
terminus  saeculi».3  Ma  scorgendo  esser  questo  un  caso  metafisico 
e  per  dura  necessità  essendo  costretto  ad  ammettere  i  matrimoni, 
vorrebbe  che  i  coniugati,  se  fosse  possibile,  si  astenessero  da  que' 
piaceri  che  seco  portano  i  maritali  congiungimenti,  che  gli  reputa 
duetti  del  peccato  originale,  il  qual  per  essi  si  propaghi  nei  posteri, 
e  che  Punico  scuopo  ed  assoluto  fine  del  matrimonio  debbia  essere 

1.  Agostino  .  .  .  celibe:  cfr.  Conf.,  vi,  xm,  Uxor  quaeritur  Angustino,  e  vi, 
xv,  In  locum  discedentis  concubinae  alia  succedit,  in  Migne,  P.  L.,  xxxii, 
rispettivamente  coli.  730-1  e  731 -a.  a.  Cfr.  De  sancta  virgìnitate  lìber 
unus,  in  Migne,  P,  L.,  xl,  coli.  395-427;  De  bono  viduitatis  lìber  seu  epistola 
ad  Iulianam  viduam,  ivi,  coli.  431-50;  De  continentia  lìber  unus,  ivi,  coli. 
349-72;  De  bono  coniugali  lìber  unus,  ivi,  coli.  373-96;  De  coniugiis  adulteri- 
nis ad  Pollentium  libri  duo,  ivi,  coli.  451-486,  e  De  nuptiis  et  concupiscentia 
ad  Valerium  comitem  libri  duo,  ivi,  xliv,  coli.  413-74.  3.  zNovi  quosdam  . . . 
saeculi»:  loc.  cit.,  col.  381  («So  di  alcuni  che  borbottano:  "Se  tutti  si  aste- 
nessero da  ogni  accoppiamento,  come  potrebbe  continuare  a  esistere  il 
genere  umano?".  Magari  lo  facessero  tutti,  il  regno  di  Dio  si  attuerebbe 
molto  più  in  fretta  e  sarebbe  accelerata  la  fine  del  mondo  »). 


LIBRO    III    -  CAP.   Ili  897 

la  sola  propagazione  della  prole.  Vorrebbe  che  gli  uomini  si  pian- 
tassero non  altrimenti  che  si  fa  de'  semi  colla  zappa  e  col  vomere 
ne*  solchi  della  terra,  senza  commozione,  senza  affetto,  senza  di- 
letazione  e  senza  compiacenza;  e  ben  istrutto  non  men  dalla  filo- 
sofia che  dal  proprio  [esperimento]1  che  ciò  sarebbe  andar  contro 
la  natura  ed  esser  impossibile  [vivere]  ;  almanco  egli  esorta  che  si 
usi  ogni  sforzo  di  reprimergli  e  rendergli  quanto  [meno]  sensibili 
si  possa,  e  con  tutto  che  conosca  ciò  non  esser  in  nostro  arbitrio, 
pure  que'  diletti  fra*  coniugi,  quando  accoppiandosi  insieme  non 
pensino  unicamente  alla  propagazione  della  prole,  l'ha  per  peccati 
se  non  mortali  ad  minimum  veniali,  li  quali  però  se  saranno  molti  e 
continuati  pure  sommergono  l'anima:  «sed  etiam  minuta,  si  ni- 
mium  plura  sint,  mergunt  ».a  Se  sono  suoi  que'  sermoni  De  Sanctis, 
i  quali  comunemente  a  lui  si  attribuiscono,  nel  iv  egli  fra'  peccati 
veniali  annovera  questi,  ne'  quali  il  marito  inciampa  tante  volte 
quante  conosce  la  moglie:  «quoties,»  e*  dice  «excepto  desiderio 
filiorum,  uxorem  suam  cognoscit».3  E  nel  lib.  Quaest.  Evang. 
secundum  Mat.,  in  fine,  uguaglia  agl'eccessi  che  si  commettono  nel 
mangiare  e  nel  bere  quando  il  marito  «  cum  ipsa  coniuge  concubere 
amplius  quam  oportet».4  Trascriver  qui  tutti  i  passi  che  si  leggono 
ne'  rammentati  suoi  libri,  per  i  quali  tutto  ciò  apertamente  si  rav- 
visa, non  è  questo  il  proprio  luogo.  Ben  saranno  manifestati  quando 
altrove  ci  sarà  data  occasione  di  rammentargli. 

Or  chi  mai  avrebbe  creduto  in  uno  perduto  tra  piaceri  di  Ve- 
nere tanta  mutazione,  tanta  nausea  ed  abbonimento  che  vorrebbe 
che  fino  i  mariti  e  le  mogli  se  ne  privassero?  E  pure  quanto  e' 
sopra  ciò  esaggera  [e  insegna  è]  contrario  non  meno  alTinstituto 
del  Sommo  Creatore  che  alla  discip[lina  e]  inveterata  pratica  della 
Chiesa.  Iddio  unico  fabro  della  natura  pose  in  quei  congiungimenti 
intense  voluttà  e  piaceri,  poiché  altrimenti  non  si  sarebbe  conse- 

1.  Qui,  e  più  oltre,  tre  grosse  macchie  rendono  alquanto  ardua  la  lettura 
del  manoscritto.  Abbiamo  perciò  messo  tra  parentesi  quadre  quanto  ci  è 
sembrato  di  poter  decifrare.  2.  «  sed  etiam  minuta  .  .  .  mergunt»:  non  ab- 
biamo rintracciato  il  luogo  esatto.  Un  pensiero  analogo  nei  Sermones  de 
diversis,  sermo  ccxcu,  De  castitate  coniugali,  6,  in  Migne,  P.  L.t  xxxrx, 
col.  2299  («ma  anche  i  più  piccoli,  quando  siano  numerosi,  sommergo- 
no»). 3.  «  quoties  .  .  .  cognoscit»:  anche  qui,  come  sopra:  cfr.  loc.  cit.,  3, 
col.  2298  («ogniqualvolta,  senza  desiderio  di  prole,  conosce  la  propria 
moglie»).  4.  «cum  ipsa ...  oportet»:  cfr.  Quaestionum  septendecim  in 
Evangelium  secundum  Matth.  hber  unus,  xvn,  2,  in  Migne,  P.  L.t  xxxv,  col. 
I37S  («giace  con  la  moglie  più  di  quanto  è  necessario»). 

57 


898  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI   SCOLASTICI 

guito  il  fine  della  propagazione.  Saviamente,  e  forse  con  miglior 
filosofia  di  quella  che  usò  qui  S.  Agostino,  il  cardin.  Pallavicino 
in  quel  accurato  suo  libro  dell'Arte  della  perfezione  cristiana,  av- 
vertì che  Iddio  avea  posto  maggior  diletazione  in  questo  senso  che 
in  quello  del  gusto,  poiché  altrimenti  gli  uomini  non  si  sarebbero 
indotti  a  copularsi  insieme,  considerando  le  gravi  molestie,  le  sol- 
lecitudini, i  dolori,  i  travagli  e  le  angoscie  che  seco  portano  i  parti 
nelle  donne,  mentre  gli  dan  fuori  alla  luce  e  quando  rallevano; 
e  ne*  mariti,  adulti  che  siano,  quante  moleste  cure  nel  sostentargli, 
nel  reggergli  ed  indrizzargli  ne*  dritti  cammini  perché  non  traviano 
dal  giusto  e  dall'onesto.1  Chi  vorrebbe  porsi  fra  tanti  malanni  se 
non  fossero  spinti  da  quel  forte  pungolo  che  gli  stimola  e  preme  ? 
Nel  mangiare  e  nel  bere  per  invogliargli  non  si  bisognavano  sì  acuti 
stimoli,  poiché  naturalmente  ciascun  è  spinto  a  conservar  sua  vita 
propria,  la  qual  certamente  è  più  cara  e  desiderata  che  la  futura 
vita  della  sua  posterità.  Alla  mancanza  del  cibo  e  del  poto  siegue 
di  necessità  la  morte,  che  ciascuno  a  tutto  potere  cerca  tenerla 
da  sé  lontana  quanto  più  si  possa.  Fu  adunque  somma  provvidenza 
ed  infinita  sapienza  dell'alto  e  sovrano  fabro  della  natura  di  con- 
dire que'  congiungimenti,  i  quali  per  se  stessi  sarebbero  schifosi, 
con  liguori  sì  soavi  e  piacevoli,  e  rendergli  desiderabili  e  focosa- 
mente voluti  e  ricercati. 

Non  sono  già  questi  piaceri  effetti  del  peccato  originale,  sicome 
l'istesso  S.  Agostino  non  potè  avanzarsi  in  dire  che  fossero  gli 
altri  che  sperimentiamo  nel  senso  del  gusto  e  negli  altri  sensi 
esterni;  e  nello  stato  dell'innocenza  ad  Adamo,  congiungendolo 
con  Eva,  Iddio  disse  che  crescessero  e  multiplicassero  ;  ciocché  non 
poteva  conseguirsi  se  non  per  queste  vie,  seguendo  la  traccia  di 
natura  e  di  quell'istinto  che  Iddio  aveva  posto  nella  fabbrica  de' 
loro  corpi;  sicome  sarà  più  ampiamente  dimostrato  quando  trat- 
tando dei  libri  della  Città  di  Dio  vedremo  quanto  paradossa  e  strana 
fosse  la  sua  opinione  in  volere  che  se  Adamo  non  prevaricava  con 
Eva  di  altra  guisa  si  sarebbero  piantati  gli  uomini.2  Gli  effetti  del 
peccato  originale  si  ravvisano  in  noi  per  la  propensione  che  ab- 

1.  Saviamente .  . .  onesto:  cfr.  op.  cit.,  libro  ir,  capitoli  vm-x  (pp.  168  sgg. 
dell'edizione  di  Milano  1666).  2.  sicome  .  . .  uomini:  cfr.  De  evo.  Dei,  xiv, 
xxiv,  Quod  insontes  homines  et  merito  obedientiae  in  paradiso  permanente*, 
ita  genitalibus  membris  fuissent  usuri  ad  generationem  prolis,  sicut  caeteris  ad 
arbitHum  voluntatis,  in  Migne,  P.  L.t  xli,  coli.  432-3. 


LIBRO    III    •  CAP.   Ili  899 

biamo  più  al  male  che  al  bene  e  per  quell'insita  inclinazione  che 
abbiamo  di  abusarci  delle  nostre  passioni,  le  quali  contenute  nei 
giusti  termini  e  confini  sono  commendabili,  tanto  è  lontano  che 
dovessimo  affatto  spogliarcene  per  renderci  stupidi  ed  insensati  e 
peggiori  degli  animali  bruti. 

Ripugna  eziandio  il  rigore  di  questa  dottrina  alla  disciplina  ed 
alla  pratica  della  Chiesa  la  quale,  se  ben  richieda  ne'  matrimoni 
per  principal  fine  la  procreazione  de*  figliuoli,  non  esclude  però 
l'altro  di  soccorrere  alla  nostra  debolezza  ed  umana  fragilità;  e 
per  ciò  permette  che  non  pure  con  le  quinquagenarie  possano 
contraersi,  ma  tra  vecchi  della  più  decrepita  età,  da'  quali  non  vi 
può  esser  speranza  o  lusinga  di  prole  alcuna.  S.  Agostino  in  tutti 
que'  libri  cotanto  inculca  e  ripete  quel  liberorum  procreandorum 
causa,  formola  che  i  gentili  Romani  soleano  apporre  ne'  loro  con- 
tratti matrimoniali;  ma  noi  siamo  in  differenti  casi.  Presso  i  Roma- 
ni questo  era  il  principal  intento  de'  matrimoni,  la  procreazione  che 
da  quelli  derivava,  affinché  la  repubblica  fosse  piena  d'uomini  li- 
beri e  legittimi,  e  per  ciò  favorirono  di  tanti  privilegi  le  doti  ed  i 
matrimoni  ;  per  ciò  gli  proibirono  colle  quinquagenarie  ed  imposer 
pena  a'  celibi  ;  ma  essi  aveano  un  altro  ricorso  per  soccorrere  l'u- 
mana fragilità  e  debolezza;  oltre  di  permettere  impunemente  la 
semplice  fornicazione,  aveano  un  altro  accoppiamento  lecito  e  per- 
messo qual  era  il  concubinato1  da  essi  chiamato  semìmatrimonio, 
dove  non  ricercavasi  quel  proposito  di  congiungersi  liberorum  pro- 
creandorum causa,  ma  si  prendeva  la  concubina  per  soccorrere  alla 
fragilità  e  perché  vi  fosse  in  casa  chi  avesse  cura  de'  loro  corpi  e 
delle  cose  domestiche.  Ma  fra'  cristiani  oggi  non  si  riconosce  altro 
accoppiamento  lecito  che  il  solo  matrimonio,  il  quale  dee  soccorrere 
ed  all'uno  ed  all'altro;  ond'è  che  S.  Paolo  ammoniva  quelli  che 
non  potevano  contenersi,  che  si  maritassero.3  Per  questa  ragione 
providamente  dalla  Chiesa  non  fur  proibite  le  nozze  colle  quinqua- 
genarie, anzi  permesse  tra'  vecchissimi  ancorché  da  quelli  non  si 
possa  aver  prole.  Tutti  questi  adunque,  a'  quali  possiamo  aggiun- 
gere anche  gli  sterili,  secondo  l'autore  di  quel  sermone  che  si  attri- 
buisce a  S.  Agostino,  saranno  in  continuo  peccato,  ed  ancorché 
veniale  come  che  abituale  e  permanente  gli  porrebbe  in  un  evi- 


1.  aveano  .  . .  concubinato:  ancora  una  riconferma  delle  sue  tesi  sul  concu- 
binato.    2.  S.  Paolo .  . .  maritassero:  cfr.  I  Cor.,  7,  9. 


900  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

dente  e  certo  pericolo  di  sommergere  le  loro  anime,  e  se  così  fosse 
non  dovrebbero  maritarsi  in  eterno. 

Or  i  nostri  rigoristi  non  ben  prima  esaminando  le  cose,  seguono 
alla  cieca  ciò  che  S.  Agostino  i[n]  que'  libri  scrisse;  anzi,  non  ben 
soddisfatti  di  quelle  restrizioni  e  rigori,  aggiungono  altri  ceppi  e 
catene.  Consigliano  alle  mogli,  dove  trovano  terren  più  molle,  che 
si  astenghino  di  far  vezzi  a*  mariti,  che,  se  non  ricercate  per  adem- 
pire al  precetto  di  S.  Paolo,  non  facciano  a'  medesimi  copia  de*  loro 
corpi;  sfugghino  al  possibile  ogni  tatto  che  potesse  recargli  diletta- 
zione e  si  congiunghino  unicamente  col  sol  proposito  e  fine  della 
prole.  Sono  arrivati  sino  a  proibirgli  il  tatto  delle  carni  delle  altre 
membra  del  lor  corpo  e  che  per  ciò  le  lor  camicie  da  per  tutto  fosser 
cucite  e  ben  serrate,  lasciando  solamente  un  forame  per  dove  il 
vomere  possa  entrar  nel  solco  per  piantar  l'uomo:1  risum  teneatis 
amici?'  Più  volte  si  sono  intese  da  queste  schizzinose  alte  querele 
e  rimproveri  contro  Dio  istesso,  il  quale  dovea  in  altra  maniera  di- 
sporre la  generazione,  e  non  in  questa  così  schifosa,  sozza  e  vergo- 
gnosa. Non  fu  dunque  a  proposito  che  venisse  il  P.  Sanchez3  ge- 
suita col  suo  trattato  De  matrimonio  per  confondergli  e  liberare 
i  tapini  mariti  e  le  spigolistre  mogli  da  tanti  lacci  e  catene,  sic- 
ché con  maggior  libertà  potessero  valersi  de'  loro  matrimoni  ? 

cap.  mi 
De9  gomoristi,  arminiani*  e  giansenisti. 

Da  questi  libri  delle  Confessioni,  e  dalle  dispute  che  S.  Ago- 
stino ebbe  co*  pelagiani  e  semipelagiani,  vennero  le  tante  brighe 

i.per  dove  . .  .  Vuomo:  tipico  riecheggiamento  boccacciano.  z.  risum  te- 
neatis amici:  cfr.  Orazio,  Ars  poet.,  5.  3.  Del  teologo  e  gesuita  spagnolo 
Tomàs  Sanchex  (1550  circa  -  16 io)  il  Giannone  cita  qui  i  De  sondo  matri- 
monii  sacramento  disputationum  libri,  Genuae  (Madrid)  1602-1605,  in  tre 
volumi.  4.  gomoristi,  o  meglio  gomaristi,  come  anche  lo  stesso  Gianno- 
ne scrive  più  oltre,  sono  i  seguaci  di  Francois  Gomar  (1563-1641),  teo- 
logo protestante  belga.  Cfr.  i  suoi  Opera  theologica  omnia,  Amstelodami 
1644,  in  tre  volumi.  Il  Gomar  ebbe  come  collega  a  Leida  Arminio, 
contro  cui  condusse  una  lotta  senza  quartiere  che  divise  la  Chiesa  olan- 
dese. Causa  di  questa  lotta  le  teorie  più  mitigate  di  Arminio  sulla  pre- 
destinazione, che  il  Gomar,  seguace  ortodosso  del  calvinismo,  accusava 
di  semipelagianesimo.  -  arminiani:  seguaci  di  Jacob  Harmensz  (Armi- 
nio, 1560-1609),  discepolo  di  Théodore  de  Bèze  a  Ginevra;  nel  1603 
ebbe  la  cattedra  di  teologia  a  Leida.  Inseritosi  nella  polemica  fra  supra- 
lapsarì  e  infra-lapsari  a  difesa  dei  primi  e  del  Beza,  sostenne,  in  nome  del 


LIBRO    III   •  CAP.  IV  901 

ed  inestricabili  contese  intorno  alla  dottrina  della  grazia  e  del 
libero  arbitrio.  Gli  uomini  curiosi,  non  contenti  di  quanto  per  la 
Scrittura  Santa  fu  a  noi  rivelato  dalla  divina  grazia,  ciocché  avreb- 
ber  dovuto  bastare  per  la  nostra  salute,  vollero  più  in  dentro  spiare 
come  ed  in  qual  maniera  operi  interiormente  nelle  nostre  anime 
la  grazia.  Vollero  saperne  i  minuti  progressi:  la  divisero  in  tanti 
gradi;  se  ne  formò  una  nuova  scienza  ed  una  nuova  nomenclatura; 
in  breve  sopra  quattro  parole  di  S.  Paolo  in  discorso  di  tempo 
vennero  a  comporsi  tanti  libri  ch'empiano  oggi  una  ben  ampia 
biblioteca.  Gli  antichi  Padri  prima  di  S.  Agostino  non  ebbero  tanta 
curiosità  di  indagare  sì  sottilmente  il  quomodo  e  furon  contenti  di 
quanto  da'  sacri  libri  era  stato  rivelato:  avanzarsi  più  oltre  ri- 
putavano temerità  e  vana  ed  inutile  curiosità.1  Pure  presso  i 
gentili,  come  si  legge  in  Omero,2  entrò  il  dubbio  se  i  dii  ispiras- 
sero nelle  menti  umane  le  azioni  grandi  ed  audaci,  ovvero  l'uomo 
facesse  dio  il  suo  proprio  volere  ?  «  Dii  ne  »,  disse  Niso  ad  Eurialo 
presso  Virgilio,  o  pure  noi  stessi  facciamo  dii  le  nostre  cupidità?3 
Ciocché  il  nostro  Torquato  imitandolo  espresse  nella  persona  di 
Clorinda  pagana,  quando  dimandò  ad  Argante  se  quel  pensiero 
che  gli  venne  di  andar  a  brugiar  la  torre  in  mezzo  a*  nemici  gliele 
avesse  Dio  ispirato: 

O  Vuom  del  suo  voler  suo  Dio  si  face?4. 

Ma  non  si  legge  tra'  loro  teologi  0  filosofi  sopra  ciò  nata  briga  o 
contrasto  alcuno,  né  fattosene  tanto  strepito  e  fragasso,  quanto  poi 
da'  nostri  fu  fatto.  S.  Agostino,  disputando  col  solito  suo  fervore  ed 
ardenza  contro  i  pelagiani,  mancò  poco  che  riportando  tutto  a 
Dio  non  togliesse  affatto  negli  uomini  il  libero  arbitrio,  almeno 
per  ciò  che  riguarda  nelFoperare  il  bene.  In  questi  libri  delle 

libero  esame,  che  la  dottrina  del  decreto  assoluto  di  Dio  faceva  Dio  stesso 
autore  del  peccato  e  ne  restringeva  la  grazia,  dannando  senza  speranza  la 
gran  massa  degli  uomini.  Fu  per  la  tolleranza  di  dottrine  diverse  in  seno 
al  protestantesimo.  Gli  si  scatenò  contro  il  Gomar,  che  provocò  una  vera 
e  propria  persecuzione  degli  arminiani.  Fra  i  seguaci  più  illustri  di  Arminio 
vi  fu  il  Grozio,  che  si  ispirò  alParminianesimo  nell'opera  De  ventate  reli- 
gione christianae,  profondamente  conosciuta  e  amata  dal  Giannone.  1.  Gli 
antichi ...  curiosità:  cfr.  D.  Aulisio,  Delle  scuole  sacre  cit.,  tomo  11, 
cap.  xiv,  Che  la  teologia  non  cerca  ti  come,  pp.  63  sgg.  2.  come  si  legge  in 
Omero:  cfr.  Od.,  iv,  712-3.  3.  Dii  ne  . .  .  cupidità:  cfr.  Aeri.,  IX,  184-5: 
«Nisus  ait:  diine  hunc  ardorem  mentibus  addunt,  /  Euryale,  an  sua  cuique 
deus  fit  dira  cupido?».    4-  Oer.  Uh.,  xil,  5. 


902  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

Confessioni,  poich'egli  avea  sempre  in  mano  le  epistole  di  S.  Paolo, 
e  la  sua  conversione  la  riputò  simile  a  quella  che  a  questo  ap- 
postolo accadde,  a  ciò  che  S.  Paolo  scrisse  di  sé  accrebbe  S. 
Agostino  maggiori  e  più  forti  espressioni  in  narrando  il  suo 
cangiamento.  S.  Paolo  nell'atto  istesso  che  stava  perseguitando  i 
novelli  cristiani  fu  in  un  tratto  da  impensato  e  straordinario  colpo 
di  vigorosa  e  potente  mano  sottratto  dal  perverso  stato  nel  qual 
era,  e  non  pur  tutto  mutato,  ma  reso  vaso  d'elezione  ed  eletto 
appostolo  delle  genti;  a  ragione  adunque  cotanto  lodava  e  ma- 
gnificava la  grazia  del  Signore  e  che  gli  uomini  senza  di  quella 
niente  possono  e  niente  vagliono,  e  che  tutto  il  nostro  bene  dob- 
biamo riconoscerlo  da  Dio,  né  aver  presunzione  d'esserne  noi  la 
cagione,  ovvero  per  nostri  meriti  Iddio  usar  con  noi  tanta  benifi- 
cenza,  ma  esser  un  suo  puro  e  gratuito  dono.  S.  Agostino,  an- 
corché posto  in  altre  circostanze,  non  persecutore,  ma  sol  dubbioso 
ed  esitante,  intesa  ch'ebbe  quella  voce  «tolle,  lege»,1  che  credutala 
procedente  da  Dio  immantinente  mutò  vita,  credenza  e  costumi.  In 
queste  Confessioni  ne  le  rende  per  ciò  tante  lodi  e  grazie,  e  confessa 
essere  stato  il  suo  cangiamento  tutto  lavoro  della  sua  alta  e  pietosa 
mano.  In  far  questo,  troppo  a  minuto  e  sottilmente  va  indagando 
le  tracce  che  Dio  tenne;  e  vuole  che  in  questo  suo  cangiamento 
egli  niente  vi  avesse  cooperato,  ma  tutto  fosse  stato  effetto  della 
sua  grazia  ;  trascorre  dapoi  a  generalmente  diffinire  che  gli  uomini 
niente  contribuiscono  nel  bene,  ma  tutto  sia  opra  di  Dio  ;  sicome 
al  contrario  nel  male  niente  Iddio  c'influisca,  ma  tutto  sia  dell'uo- 
mo. In  breve  il  volere  ed  operare  il  bene  vien  unicamente  da 
Dio  e  l'uomo  non  vi  ha  parte  alcuna;  né  meno  dee  vantarsi  di 
avere  alcun  merito  per  cui  forse  Iddio  si  movesse  a  concedergli  la 
sua  grazia;  ella  è  tutta  gratuita  e  data  senz'alcun  nostro  precedente 
merito.  In  oltre  vuole  che  le  orazioni,  le  preghiere  istesse  che  fac- 
ciamo a  Iddio  di  concedersi  la  sua  grazia,  quest' istesso  sia  pur  effet- 
to della  medesima  senza  la  quale  noi  per  noi  soli  non  potremmo 
disporci  a  farle.  In  fine  arriva  tanto  in  punta  e  nell'ultime  estre- 
mità che  non  si  sgomenta  di  dire  che  questo  istesso  conoscere  di 
non  poter  pregarlo,  senza  che  prima  non  ce  l'abbia  egli  concesso, 
sia  pure  effetto  di  sua  grazia;  e  così  più  oltre  spingendoci  arriva- 
remo  certamente  all'infinito. 

i.  a  tolle,  lege»:  cfr.  Conf.,  vili,  xn,  Vocis  admonitu  quomodo  totus  conversiti, 
in  Migne,  P.  L.,  xxxn,  col.  762  («prendi,  leggi»). 


LIBRO    III   •  CAP.  IV  903 

Ne*  libri  De  natura  et  gratta  cantra  pelagianos,  De  grafia  Christi 
contra  Pelagìum  et  Celestinum,  e  negli  altri  De  praedestinatione  et 
gratta,  De  praedestinatione  Dei  et  sanctorum,  De  grafia  et  libero 
arbitrio,1  assai  più  a  minuto  e  sottilmente  e  con  una  inarrivabile 
metafìsica  tratta  di  questa  materia;  ed  i  suoi  trasporti  e  forti  espres- 
sioni saranno  notati  quando  spezialmente  di  questi  libri  tratteremo. 
Il  monaco  Pelagio2  e  Celestino3  suo  discepolo,  che  fiorirono  nel 
V  secolo  a'  suoi  tempi,  calcando  opposte  vie  diedero  in  un'altra 
estremità.  Pelagio,  filosofando  sopra  la  grazia  non  co'  principi  di 
S.  Paolo,  ma  più  tosto  di  natura,  pose  Puomo  per  ciò  che  riguarda 
il  suo  operare  in  una  tal  indipendenza  dalla  divinità  che  tutto 
riportava  al  suo  libero  arbitrio  e  niente  dava  al  Creatore.  Vennero 
poi  i  semipelagiani,4  i  quali  postosi  in  mezzo  pretesero  com- 
porre i  discordanti  pareri,  concedendo  qualche  cosa  a  Iddio,  ma 
molto  più  all'uomo.  Furiosamente  furono  attaccati  da  S.  Agostino, 
il  quale  co*  suoi  libri  dimostrò  i  loro  errori  con  tanto  vigore  ed  ap- 
plauso che  gli  uni  e  gli  altri  furono  per  differenti  concili  condan- 
nati. Le  dispute  si  calmarono  e  pareva  che  tutto  fosse  in  riposo  e 
tranquillità,  sicome  insino  al  IX  secolo  non  se  ne  fece  alcun  motto 
ed  i  monaci  attendevano  ad  altro.  Ma  in  questo  IX  secolo  surse 

I.  Cfr.  De  natura  et  grafia  ad  Timasium  et  Iacóbum  contra  Pélagium  liber 
unus,  in  Migne,  P.  L.,  XLIV,  coli.  247-90;  De  gratta  Christi  et  de  peccato 
originali  contra  Pélagium  et  Coelestium  libri  duo,  ivi,  coli.  359-410;  De 
praedestinatione  Sanctorum  liber,  ivi,  coli.  959-92;  De  gratta  et  libero  arbitrio 
ad  Valentinum  et  cum  ilio  monachos  liber  unus,  ivi,  coli.  881-912;  Liber  de 
praedestinatione  et  gratia,  in  P.  L.,  xlv,  coli.  1665-78;  De  praedestinatione 
Dei,  ivi,  coli.  1677-80;  Epistola  de  gratia  et  de  libero  arbitrio,  ivi,  coli.  1793- 
802.  2.  Pelagio  (354-427),  di  origine  inglese,  vissuto  a  Roma  e  morto 
nella  regione  di  Alessandria,  sviluppò  in  morale  una  dottrina  di  rigorismo 
ascetico,  in  opposizione  ad  ogni  teoria  della  fede  senza  le  opere.  Teologica- 
mente fu  sostenitore  déiVimpeccantia,  adempimento  integrale  della  legge 
divina.  Accentuò  la  responsabilità  dell'uomo  e  combatté  la  dottrina  del 
peccato  originale,  affermando  la  totale  libertà  dell'uomo,  non  contamina- 
ta all'origine.  3.  Celestino:  Celestio  (morto  circa  nel  431),  probabilmente 
italico.  Si  incontrò  a  Roma  con  Pelagio  nel  405  e  ne  accettò  la  dottrina,  ma 
rifiutandone  il  rigorismo  e  sviluppando  il  pelagianesimo  in  senso  raziona- 
listico e  naturalistico.  Combatté  la  pratica  del  battesimo  dei  bambini  e  negò 
l'esistenza  del  peccato  originale.  Il  pelagianesimo  si  estinse  nel  V  secolo. 
4.  semipelagiani:  semipelagianesimo  è  il  nome  dato  nel  XVII  secolo  al  mo- 
vimento teologico  del  V  secolo  sorto  m  reazione  alla  teoria  della  grazia  di 
sant'Agostino.  Gli  iniziatori  furono  Cassiano,  Vincenzo  da  Lérins  e  Fausto 
di  Riez.  Il  semipelagianesimo  rifiuta  il  pelagianesimo  di  Celestio,  ma  vuole 
salvaguardare  il  Ubero  arbitrio.  Contro  l'idea  agostiniana  della  «massa 
dannata»,  sostiene  l'universalità  dell'appello  divino.  Il  semipelagianesimo 
fu  condannato  nel  529  al  concilio  di  Orange. 


904  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

Gottescalke1  monaco  benedittino,  il  quale  rivoltando  i  libri  di 
S.  Agostino  spinse  più  oltre  la  sua  dottrina  e  cominciò  assai  più 
duramente  a  dogmatizare  sopra  questa  materia  privando  assolu- 
tamente l'uomo  di  sua  libertà.  Sicché  per  occorrere  all'errore  e 
fargli  argine  fu  la  sua  dottrina  condennata  ed  egli  posto  in  arresto. 
Si  ripresse  con  ciò  il  suo  corso;  né  fino  al  secolo  XIV  più  parlos- 
senc.  Tornò  in  questo  secolo  a  ripullulare  in  Inghilterra  per  To- 
maso Bradwardin,2  il  quale  prese  a  difendere  la  dottrina  di  Got- 
tescalke, e  non  pur  con  prediche  e  sermoni,  ma  con  un  libro  che 
compose,  ma  non  fece  gran  progressi,  né  il  suo  libro  fu  dato 
alle  stampe  se  non  molto  tempo  dapoi,  nel  XVII  secolo.  L'eresie 
poi  di  Lutero  e  di  Calvino  rinovellarono  queste  dispute;  poiché 
questi,  non  altrimente  che  Gottescalke,  tirando  troppo  in  punta  la 
dottrina  di  S.  Agostino,  venivano  in  fine  a  togliere  all'uomo  la 
libertà  ed  arbitrio  nelPoperare;  sì  che  fu  mosso  il  concilio  di  Trento 
fra  gli  altri  loro  errori  a  condannarne  la  dottrina. 

Non  si  quietarono  con  tutto  ciò  gl'ingegni  umani,  ed  impre- 
sero a  filosofar  sopra  questa  materia  in  altra  guisa  per  non  dare 
nell'una  o  nell'altra  estremità.  Sursero  i  gomaristi,  i  quali  mo- 
stravano d'allontanarsi  sì  bene  dalla  durezza  della  dottrina  del 
monaco  Gottescalke,  ma  s'appigliarono  a  quella  di  Lutero  e  di 
Calvino  credendola  più  discreta.  Sursero  nel  tempo  istesso  gli 
arminiani  nomati  anche  remostranti,  i  quali  temperavano  assai  più 
la  dottrina  di  Calvino,  e  la  loro  procuravano  di  accordarla  ed  avvi- 
cinarla a'  sentimenti  della  Chiesa. 

Si  attaccarono  dapoi  nello  stesso  secolo  XVI  sopra  il  medesimo 
soggetto  altre  dispute  fra'  cattolici  stessi.  Il  famoso  Bayus3  ne' 
suoi  libri  sparse  più  proposizioni  troppo  dure  ed  avanzate  sopra 


1.  Gottescalkei  Gottschalk  von  Orbais  (801-870  circa),  monaco  sassone,  stu- 
diò a  Fulda  con  Rabano  Mauro.  Fu  il  protagonista  della  polemica  predesti- 
naziana  nel  IX  secolo.  Sostenne  infatti  la  doppia  predestinazione  :  alla  gra- 
zia e  alla  dannazione,  ma  fu  contrario  alla  predestinazione  al  peccato. 
Studioso  di  sant'Agostino,  si  rifece  al  suo  pensiero.  Cfr.  CEuvres  théologi- 
ques  et  grammaticales  de  Godescalc  d' Orbais,  Louvain  1945.  2.  Tomaso 
Bradwardin:  Thomas  Bradwardine  (1290-1349),  teologo,  filosofo  e  scien- 
ziato inglese.  La  sua  opera  in  questione  è  la  Stimma  de  causa  Dei  contra 
Pelagium,  Londini  16 18.  Professò  un  determinismo  che  lascia  alla  libertà 
individuale  ben  poco  margine,  traendo  le  conseguenze  da  sant'Agostino, 
di  cui  fu  grande  studioso.  3.  Bayus:  Michel  de  Bay  (15 13-1589),  teologo 
belga.  Studiò  sant'Agostino  con  Jan  Hessels.  Per  lui  l'uomo  ha  perso  con  il 
peccato  originale  l'integrità.  Distingue  però  libertà  da  necessità,  e  libertà 


LIBRO   III   •  CAP.  IV  905 

la  materia  della  grazia  in  pregiudicio  della  libertà  dell'uomo,  che 
bisognò  condannarle  come  eretiche  e  troppo  dure.  Ma  in  Fian- 
dra per  quest'istesso  le  contese  divennero  più  strepitose  ed  ar- 
denti. In  Lovanio  nel  1586  Lessio,  celebre  teologo  gesuita,  in- 
segnava proposizioni  contrarie  a  quelle  di  Bayus  sopra  la  pre- 
destinazione e  sopra  la  grazia;  ma  i  Domenicani  portarono  i  suoi 
scritti  alle  facoltà  di  Lovanio  e  di  Doiiay,  e  tanto  fecero  sicché 
ottennero  che  fossero  le  proposizioni  di  Lessio  condannate.1  Ecco 
accesa  tra  questi  ed  i  Gesuiti  fiera  ed  ostinata  contesa.  Il  pontefice 
Sisto  V,2  avvocando  a  sé  la  conoscenza  di  quest'affare,  impose 
silenzio  agli  uni  e  agli  <  altri  >,3  comandandogli  che  non  più  fra 
loro  sopra  ciò  disputassero.  Ma  che  prò?  Vie  più  feroci  si  ri- 
presero le  contese.  Papa  Gregorio  XIV4  rinova  le  medesime  proi- 
bizioni, ma  tutto  fu  inutile  e  vano.  Dall'altra  parte  in  Ispagna 
s'inasprirono  le  discordie  per  Lodovico  Molina5  gesuita.  Questi 
in  Lisbona  nell'anno  1588  pubblicò  un  libro  dove  credea  aver  tro- 
vata la  maniera  per  accordare  insieme  la  grazia  col  libero  arbi- 

da  servitù.  L'uomo  ha  ancora  la  libertà  da  necessità,  mentre  è  servo  e  schia- 
vo del  peccato.  Il  sacrificio  di  Cristo  ristabilisce  la  possibilità  di  una  nuova 
giustificazione  e  quindi  integrità.  1.  In  Lovanio  . .  .  condannate:  per  im- 
porre le  loro  tesi,  nel  1587,  de  Bay  ed  Hendrik  van  Kuyck  attaccarono  il 
Lessio  (cfr.  la  nota  1  a  p.  877)  e  i  Gesuiti  di  Lovanio  sulla  dottrina  della 
grazia,  censurando  trentaquattro  proposizioni  del  Lessio;  una  risposta 
questa  alla  condanna  che  le  proposizioni  baiane  avevano  riportato  con  Pio  V 
nel  1567  con  la  bollai?*;  omnibus  affectionibus.  -  Doiiay:  Douai,  nella  Francia 
settentrionale,  sede  di  una  famosa  Università.  2.  Sisto  V:  Felice  Peretti 
(1520-1590),  di  origine  marchigiana.  Impose  al  de  Bay  e  al  Lessio  silenzio 
mediante  il  proprio  nunzio  Frangipani  (1588).  3.  altri:  restauriamo  la 
parola,  caduta  per  errore  nel  manoscritto  in  seguito  a  correzione.  4.  Gre- 
gorio XIV:  Nicolò  Sfondrato  da  Siena  (15  35-1591),  successore  di  Sisto  V, 
morì  dopo  dieci  mesi  di  papato,  senza  poter  far  altro  che  rinnovare  il  si- 
lenzio imposto  da  Sisto  V,  pur  essendo  favorevole  alle  tesi  dei  Gesuiti. 
5.  Luis  de  Molina  (1536-1600),  gesuita  spagnolo.  Essendo  passata  in 
Spagna  la  polemica  sorta  fra  de  Bay  e  Lessio  a  Lovanio,  ed  essendo  di- 
ventata di  fatto  polemica  fra  Domenicani  e  Gesuiti,  il  Molina  cercò  di  dare 
una  sistemazione  alla  teoria  gesuitica  sulla  grazia.  Il  Lessio,  per  tutelare  il 
libero  arbitrio,  negava  l'efficacia  intrinseca  della  grazia.  Il  Molina  cercò  di 
conciliare  le  tesi  gesuitiche  con  quelle  domenicane  applicando  alla  grazia 
il  concetto  di  prescienza  divina  dei  futuribili.  Cfr.  infatti  Concordia  liberi 
arbitrii  cum  gratiae  donis,  divina  praescientia,  providentia}  praedestinatione 
et  reprobatione .  . .,  Ohssopone  1588.  Vi  si  sostiene  che  Dio  conosce  la 
realtà  in  quanto  possibile,  in  quanto  futura,  in  quanto  potrebbe  esistere 
dipendentemente  dalla  libera  scelta  di  una  volontà  creata.  Tale  libera 
determinazione  è  un  futuribile,  che  Dio  conosce,  ma  non  predetermina. 
Dal  Molina  nacque  il  molinismo,  che  è  anche  una  reazione  di  parte  cattolica 
al  De  servo  arbitrio  di  Lutero. 


906  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

trio.  Egli  rifiuta  i  decreti  assoluti  di  Dio  a  riguardo  delle  azioni 
libere  e  la  premozion  fisica,  ma  sostiene  la  predestinazione  gra- 
tuita come  procedente  da  Dio  solo.  Molina  credette  aver  trovato 
un  temperamento  per  conciliare  il  libero  arbitrio  colla  prescienza 
di  Dio,  la  providenza  e  la  predestinazione.  E*  dice  che  il  libero 
arbitrio  consiste  nella  facoltà  di  fare  o  di  non  fare;  di  fare  una 
cosa,  di  sorte  che  Puom  possa  fare  il  contrario.  Egli  concede  che 
l'uomo  per  le  sole  forze  della  natura  non  può  niente  fare  fuor 
dell'ordine  della  grazia,  ma  aggiunge  che  se  bene  Iddio  distri- 
buisce come  vuole  le  grazie  che  G.  Cristo  ha  noi  meritate,  nulla- 
dimanco  accommoda  le  leggi  di  questa  distribuzione  all'uso  del 
libero  arbitrio,  alla  condotta  degli  uomini  ed  a*  loro  sforzi.  Così 
l'uomo  per  operare  nell'ordine  della  vita  eterna  non  ha  bisogno 
che  d'una  grazia  preventiva  per  eccitare  il  suo  libero  arbitrio,  e 
che  Iddio  non  ricusa  di  darla,  sopra  tutto  a  que'  che  la  domandano 
con  ardore;  ma  dipende  dalla  loro  volontà  di  corrispondere  o  non 
corrispondere  a  questa  grazia.  Altre  sottili  speculazioni  diede  fuori 
il  P.  Molina  intorno  alla  predestinazione  ingegnandosi  di  confor- 
marle a  quelle  di  S.  Tommaso,  ma  i  Dominicani  della  sua  dottrina 
non  ne  furon  punto  soddisfatti.  Uscito  che  fu  il  suo  libro,  i  teologi 
dell'ordine  di  S.  Domenico,  spezialmente  quelli  di  Salamanca,  fu- 
riosamente si  opposero.  Domenico  Beanez1  sottilmente  l'esamina 
e  crede  averci  trovate  più  proposizioni  erronee,  le  quali  furono 
denunciate  all'Inquisizione  di  Portogallo.  I  Gesuiti  vogliono  di- 
fenderle e  qui  s'accendono  fieri  contrasti,  talché  papa  Clemente 
Vili,  avocando  alla  S.  Sede  la  conoscenza,  ordinò  che  fossero  in 
Roma  esaminate  per  diffinirle.  A  questo  effetto  istituisce  nel  1597 
una  Congregazione  di  più  cardinali  per  esaminarle  chiamata  De 
auodliis.2.  Il  peggior  partito  che  potesse  prendere;  poiché  vie  più 

1.  Domenico  Beanez:  Domingo  Banez  (1528-1604),  teologo  domenicano, 
interprete  di  san  Tommaso.  Interrogato  sul  citato  libro  del  Molina,  vi 
trovò  proposizioni  condannate  dalla  Chiesa  e  pubblicò  con  altri  Domeni- 
cani l'Apologia  fratrum  praedicatorum  .  .  .  adversus  quasdam  assertiones 
cuiusdam  doctoris  L.  Molinae,  Madridi  1595,  dove  si  accentua  la  sovranità 
e  il  dominio  di  Dio  sulla  creatura.  Il  Banez  diede  origine  al  bannesianesimo, 
caratterizzato  da  una  rigorosa  aderenza  al  tomismo.  L'azione  di  Dio  non  è 
solo  necessaria,  ma  è  ontologicamente  anteriore  ad  ogni  attività  della 
creatura.  z.I  Gesuiti.  .  .  auodliis \  la  Congregazione  De  auxiliis  divinae 
gratiae  fu  istituita  da  Clemente  Vili,  Ippolito  Aldobrandino  (1536-1605), 
per  dirimere  le  controversie  fra  Gesuiti  e  Domenicani.  Nel  1597  una  com- 
missione di  cardinali  esaminò  le  opere  del  Molina,  di  cui  censurò  sessan- 


LIBRO    III   •  CAP.  IV  907 

le  parti  contendenti  furon  posti  in  moto.  I  consultori  tratti  da' 
Dominicani  dimandavano  al  papa  la  condennazione  di  Molina; 
ma  il  papa  per  non  precipitar  la  decisione  nomina  nuovi  con- 
sultori i  quali  ridussero  tutta  la  disputa  a  sapere  se  refficacità 
della  grazia  dipende  da  una  premozion  fisica  che  determina  la 
volontà,  come  volevano  i  Domenicani,  ovvero  se  PefEcacità  della 
grazia  dipende  dalle  circostanze  per  le  quali  Iddio  accorda  la 
grazia  e  le  quali  fanno  che  la  volontà  per  il  buon  uso  ch'ella  ne 
farà  la  rende  efficace,  come  pretendevano  i  Gesuiti.  Sopra  queste 
astratte  e  metafisiche  sottigliezze  si  tennero  trentasette  assem- 
blee nelle  quali  non  si  potè  niente  conchiudere,  ed  il  papa  Cle- 
mente Vili,  sopragionto  dalla  morte  nel  1605,  non  potè  aver 
questa  consolazione  di  poterle  decidere.  Leone  XI1  che  gli  succes- 
se per  la  brevità  del  suo  pontificato  né  pure  potè  terminarle.  Venne 
Paolo  V2  il  quale  fece  replicar  altre  ed  altre  congregazioni,  le  quali 
tutte  riuscirono  infruttuose,  sicché  pensò  imitando  Sisto  V  d'im- 
poner  perpetuo  silenzio  alle  due  parti  contendenti,  commandandole 
che  più  non  ne  parlassero,  riputando  saviamente  tali  questioni 
vane  ed  inutili,  le  quali  non  meritavano  né  esser  decise  né  riprese. 
Questo  divieto  però  non  impedì  che  i  loro  chiostri  non  risuonas- 
sero di  altercazioni  e  di  tumulti  e  le  loro  penne  non  fornissero  le 
biblioteche  di  nuovi  libri.  Si  compilarono  dall'una  e  l'altra  parte 
più  volumi.  In  fine  un  frate  dominicano  a*  nostri  tempi  si  applicò 
a  racorre  memorie  sì  care  e  preziose  di  fatti  sì  illustri  e  memorandi 
per  conservarli  alla  posterità;  ne  compilò  una  ben  ampia  istoria 
che  in  un  grosso  volume  in  foglio  diede  alle  stampe  sotto  questo 
titolo:  Historia  congregationum  de  auxiliis?  Gran  pruova  della  fe- 
condità dell'ingegno  umano,  il  quale  non  pur  dallo  scibile,  ma  dal- 
V inscibile  stesso  sa  cavarne  tante  sottili  questioni  e  dettare  sì  ampi 

tuno  proposizioni.  Nel  1600  la  condanna  si  limitò  a  ventuno  proposizioni. 
Con  Paolo  V  la  polemica  riprese  e  nel  1606  furono  condannate  quaranta- 
due proposizioni  molimstiche.  Nel  1607  la  Congregazione  fu  sciolta  da 
Paolo  V.  1.  Leone  XI:  Alessandro  de'  Medici  (1535-1605),  eletto  nel  1605, 
fu  papa  per  pochi  giorni,  z.  Paolo  V:  Camillo  Borghese  (1552-1627), 
sotto  il  cui  pontificato  si  verificò  il  conflitto  con  Venezia.  3.  In  fine  .  . . 
auxiliis:  si  tratta  di  Jacques-Hyacinthe  Serry  (1658-1738),  teologo  dome- 
nicano nato  a  Tolone  e  morto  a  Padova.  Gallicano,  fu  allievo  di  Noèl  Ale- 
xandre, e  perseguitato  perché  accusato  di  cripto-calvinismo.  La  sua  opera, 
conosciuta  dal  Giannone,  che  la  possedeva  e  che  gli  ha  ispirato  queste  pa- 
gine, è  la  Historia  congregationum  de  auxiliis  divinae  gratìae,  pubblicata 
a  Lovanio  nel  1700  e  ripubblicata  ad  Anversa  nel  1709. 


908  APOLOGIA   DE'    TEOLOGI    SCOLASTICI 

e  numerosi  volumi.  Da  ciò  avvenne  che  ad  alcuni  faceti  ingegni 
proclivi  a*  scherni  ed  alle  derisioni  si  fosse  data  occasione  di  dire 
dalle  loro  sottili,  astratte  e  metafisiche  opinioni  non  potersi  ricavar 
altro  se  non  d'esser  la  grazia  un  nescio  quid,  e  que'  che  si  son  serviti 
della  parola  grazia  doppo  S.  Agostino  sino  al  presente  non  sap- 
pian  essi  medesimi  ciò  che  si  vogliano  dire. 

Ora  di  nuove  brighe  mi  conviene  far  parole,1  non  meno  strepi- 
tose che  le  già  dette,  spezialmente  in  Francia  e  nelle  Fiandre,  nate 
pure  per  la  stessa  cagione.  Giansenio,*  vescovo  d'Ipri  nella  Fian- 
dra spagnola,  avendo  fatti  profondi  studi  sopra  Popere  di  S.  Ago- 
stino, credette  di  avere  sviluppati  gl'intricati  sentimenti  di  questo 
dottore  sopra  la  predestinazione  e  sopra  la  grazia  e  darne  un'idea 
più  chiara  e  distinta,  onde  compose  un  libro  intitolato  Augustinus 
Jansenii\  ma  nel  1638  dalla  morte  prevenuto,  non  potè  darlo  alle 
stampe  lasciandolo  ms.  e  dichiarando  ch'egli  lo  sottometteva  al 
giudicio  della  Santa  Sede.  Questo  libro  doppo  due  anni  della  sua 
morte  nel  1640  comparve  impresso  in  Lovanio,  e  Framondo,3  il 
quale  ne  fu  l'editore,  vi  aggiunse  del  suo  un  parallelo  della  dottrina 
de'  Gesuiti  con  gli  errori  de'  semi-pelagiani.  Ciocché  fu  muovere 
il  vespaio  ed  irritare  i  Gesuiti  a  vendicarsi  dell'ingiuria  d'essere 
paragonati  a'  semi-pelagiani.  L'opera  di  Giansenio  era  divisa  in 
tre  tomi.  Nel  primo,  ch'è  più  istorico  che  dogmatico,  continente 
otto  libri,  si  espongono  gli  errori  de'  pelagiani  e  de'  semi-pelagiani. 
Il  secondo  riguarda  lo  stato  dell'innocenza,  cioè  avanti  il  peccato 
d'Adamo,  nel  quale  l'uomo  interamente  libero  godeva  d'una  grazia 
sottomessa  alla  sua  libertà.  Nel  terzo  trattasi  ampiamente  in  diece 
libri  della  grazia  del  nostro  Redentore  nello  stato  della  coruzione, 
nel  quale  noi  siamo,  e  dove  la  grazia  opera  d'altra  maniera;  poiché 
in  questo  stato,  e'  dice,  l'uomo  ha  bisogno  d'una  grazia  invincibile 
che  lo  facci  necessariamente  operare.  In  fine  Giansenio  insegna  che 
G.  Cristo  per  sua  morte  e  suo  merito  non  ha  resi  tutti  gli  uomini 
meritevoli  che  delle  sue  grazie  generali,  ma  non  già  dell'invinci- 
bile,4 la  quale  dipende  unicamente  dal  suo  volere  ed  arbitrio  senza 


1.  di  nuove  .  .  .  parole:  cfr.  Dante,  Inf.y  XX,  1  :  «Di  nova  pena  mi  conven  far 
versi».  2.  Giansenio;  Comelis  Jansen  (1 585-1 638),  vescovo  di  Ypres  dal 
1635.  Cfr.  A.  Gazier,  Històire  generale  du  mouvement  janséniste  depuis  $e$ 
origines  jusqu'à  nosjours,  Paris  IQ345,  in  due  volumi,  1,  pp.  3  sgg.  3.  Fra- 
mondo:  su  Libert  Froidmund  (Fromundus)  cfr.  A.  Gazier,  op.  cit.,  1,  pp. 
45-7.     4.  invincibile:  correggiamo  F« invincile»  del  manoscritto. 


LIBRO    III    •  CAP.   IV  909 

che  l'uomo  vi  abbia  parte  alcuna.  Questa  dottrina,  tratta  da'  libri 
di  S.  Agostino,  rinovò  le  precedenti  dispute  e  credutasi  contraria 
alle  proibizioni  già  emanate  dalla  S.  Sede,  papa  Urbano  Vili1 
ad  istigazione  de'  Gesuiti  nel  1644  condennò  il  libro  di  Giansenio 
e  la  sua  bolla  fu  ricevuta  ne'  Paesi  Bassi.  Ma  in  Francia,  ove 
Giansenio  avea  teologi  dal  suo  canto  non  men  forti  che  numerosi, 
non  ebbe  il  medesimo  successo.  Antonio  Arnaldo,2  dottor  della 
Sorbona,  prese  la  difesa  del  libro  e  de'  sentimenti  del  vescovo  d'Ipri 
con  tanta  forza  e  vigore  che  diede  molto  che  fare  a*  teologi  del 
contrario  partito.  Si  videro  nel  1644  e  I^45  più  Apologie3  in  difesa 
di  Giansenio  e  dall'altra  parte  altre  tante  risposte.  Tutta  la  Fran- 
cia era  in  moto  ed  i  vescovi  ed  i  religiosi  non  men  dell'uno  che 
dell'altro  sesso,  tra  lor  divisi,  chi  aderiva  ad  un  partito,  chi  ad  un 
altro;  infoio  che  nel  mese  di  luglio  dell'anno  1649,  estratte  dal 
libro  di  Giansenio  cinque  proposizioni,  non  fossero  presentate  alla 
facoltà  de'  teologi  di  Parigi  per  esser  esaminate  e  censurate.4  Roma 
in  questo  stato  di  cose  avvocò  a  sé  l'affare  nell'anno  1650  e  nel 
seguente  1 651  fu  posto  ad  esame.  I  discepoli  di  Arnaldo  e  gli  altri 
parteggiani  di  Giansenio  inviarono  a  Roma  loro  deputati  per  impe- 
dire la  condanna  delle  cinque  proposizioni,  credendole  cattoliche; 
dall'altra  parte  que'  vescovi  ch'erano  del  partito  contrario  man- 
darono i  loro  per  sollecitare  la  condanna.  Fu  formata  una  congrega- 
zione de'  cardinali  e  data  facoltà  alle  parti  contendenti  di  allegare 
lor  ragioni:  ciocché  fecero  non  meno  in  voce  che  in  iscritto  com- 
pilando più  allegazioni,  le  quali  furon  ricevute  da'  consultori  per 
esaminarle.  I  Gesuiti  furon  in  rivolta  e  si  dieder  con  molto  vi- 
gore e  diligenza  a  procurarne  la  condanna.  I  defensori  di  Giansenio 
procuravano  tirare  dal  lor  canto  i  Domenicani,  dandogli  a  sentire 
che  la  dottrina  contenuta  in  quelle  cinque  proposizioni  fosse  la 
stessa  di  S.  Tomaso.  In  oltre  trassero,  per  rendergli  il  contro- 
cambio, da'  libri  de'  Gesuiti  cento  proposizioni  e  le  presenta- 
rono a'  consultori  perché  fosser  condennate.  Ma  in  fine  la  vinsero 
i  Gesuiti.  I  consultori  stimarono  che  le  cento  proposizioni  non 
s'appartenessero  alla  loro  conoscenza  e  fossero  estranee  di  quello 
che  si  trattava.  In  breve  le  cinque  proposizioni  furono  condannate 

1.  Urbano  Villi  vedi  la  nota  5  a  p.  149.  2.  Antonio  Arnaldo:  Antenne 
Arnauld  (1612-1694),  il  maggior  rappresentante  del  giansenismo  francese. 
Cfr.  A.  Gazier,  op.  cit.,  I,  cap.  I,  pp.  1-18.  3.  Si  videro .  .  .  Apologie: 
cfr.  ibid.y  I,  pp.  80-5.    4.  infino  che  .  .  ,  censurate:  cfr.  ibid.,  I,  p.  85. 


910  APOLOGIA   DE»    TEOLOGI    SCOLASTICI 

ed  il  papa  Innocenzio  X  neir ultimo  di  maggio  del  1653  ne  promulgò 
bolla,  la  quale  fu  mandata  in  Francia  e  nell'altre  Chiese.1  In  luogo 
di  estinguer  Pincendio,  maggiormente  in  Francia  si  vide  acceso; 
poiché  i  difensori  di  Giansenio,  entrati  in  collera  di  vederle  conden- 
nate  e  riputando  essersegli  reso  manifesto  torto,  non  si  ritennero 
di  declamare  contro  una  sì  manifesta  ingiustizia,  concessi  la  cre- 
devano, ed  oltre  ciò  diedero  alle  stampe  una  Relazione  satirica  con- 
tro i  consultori  e'  giudici  trattandogli  da  ignoranti  e  sordidi  e  che 
fosser  stati  da'  Gesuiti  corrotti,  sotto  il  titolo  Journal  du  Sieur  de 
Saint  Amour*  scrittura  cotanto  maledica  e  rabbiosa  che  l'istesso 
Giacomo  Basnage,3  ministro  de'  riformati  a  Rotterdam  e  poi  a 
L'Aja,  solea  dire  che  se  si  avesse  a  pubblicare  una  satira  contro  la 
Chiesa  e  corte  di  Roma  non  dovrebbe  farsi  altro  che  di  ristampare 
questo  Giornale. 

I  giansenisti,  vedendo  che  la  bolla  del  papa  era  stata  ricevuta 
dal  clero  di  Francia  e  che  il  re  aveala  fatta  registrare  in  diversi 
parlamenti,  ricorsero  ad  un  altro  scampo  dicendo  ch'essi  accorda- 
vano le  cinque  proposizioni  essere  state  giustamente  condannate, 
ma  che  quelle  così  ed  in  quel  senso  ch'erano  state  condennate, 
non  si  trovavano  nel  libro  di  Giansenio  ;  almanco  le  quattro  ultime  ; 
e  la  prima  in  Giansenio  non  si  leggeva  in  quel  senso  ch'era  stata 
condennata.  Che  questo  era  un  error  di  fatto  del  quale  niuno  era 
esente,  onde  la  bolla  non  impediva  che  ciascuno  non  potesse  avere 
il  libro  di  Giansenio  per  cattolico  come  prima.  Questo  sutterfugio 
fu  tale  che  pose  l'affare  a  nuovo  esame  e  diede  luogo  ad  un  nuovo 
processo.  Papa  Alessandro  VII4  successore  di  Innocenzio  X  fu  ob- 
bligato a  far  di  nuovo  esaminare  il  libro  di  Giansenio.  Non  poteasi 
però  sperare  decision  contraria,  la  quale  avrebbe  qualificati  i  primi 
consultori  per  ignoranti  o  corrotti;  onde  nel  mese  di  ottobre  del 
1656  fu  deciso  che  le  proposizioni  erano  state  condannate  come 
estratte  dal  libro  di  Giansenio,  e  che  devono  esser  proscritte  nel 
senso  medesimo  che  Giansenio  l'avea  sostenute.  Questa  nuova  bol- 


1.  In  breve  .  . .  Chiese:  cfr.  tbid.t  1,  p.  86.  Innocenzo  X:  Giambattista  Pam- 
phili  (1574-1655),  papa  dal  1644.  2.  Journal . . .  Amour:  Louis  Gorin  de 
Saint- Amour  (1619-1687)  giansenista,  rettore  della  Sorbona,  famoso  per 
il  Journal  de  Mr.  Saint-Amour  .  . .  de  ce  qui  s'estfait  à  Rome  dans  V affaire 
des  cinq  propositions  .  . .,  s.  1.  1663,  messo  all'Indice  nel  1664.  3.  Jacques 
Basnage  (1653-1723),  pastore  protestante,  storico  e  politico  di  origine  fran- 
cese. 4.  Alessandro  VII:  Fabio  Chigi  (1599-1667),  avversario  dei  gian- 
senisti. 


LIBRO    III    •  CAP.  IV  911 

la  del  papa1  fu  pure  ricevuta  dal  clero  di  Francia  ed  i  Gesuiti,  di  ciò 
non  contenti,  spinsero  le  cose  più  innanzi  e  fecer  sì  che  il  clero 
ed  i  vescovi  formassero  un  nuovo  formolario  dov'erano  inserite  le 
cinque  proposizioni  e  che  niuno  potesse  aspirare  a'  gradi  e  dignità 
ecclesiastiche  se  prima  non  giurasse  d'averle  per  erronee  e  conte- 
nute nel  libro  di  Giansenio.  Così  tante  dispute  sopra  cose  astratte 
e  metafisiche  si  videro  produrre  effetti  reali  e  fisici.  La  Chiesa  di 
Francia  si  vide  in  maggiori  turbolenze,  poiché  non  per  ciò  i  capi  del 
contrario  partito  cessarono  di  declamare  che  si  volevano  a'  fedeli 
imporre  nuovi  lacci  e  catene  ed  obbligargli  a  professare  quel  for- 
molario non  altrimenti  che  il  simbolo  della  Fede.  Non  potevano 
darsi  pace  come  l'infallibilità  della  Chiesa  sopra  la  decisione  de' 
dogmi  e  condanna  delle  proposizioni  erronee  si  volesse  anche  sten- 
dere sopra  i  fatti;  quando  dagli  errori  di  fatto  non  ne  sono  esenti 
nemmeno  gli  stessi  concili  generali.  Bisognò  in  fine  cedere  ed  il 
nome  di  giansenista  fu  reso  così  odioso  e  vitando  non  altrimenti 
che  quello  di  luterano  e  di  calvinista.  Ecco  il  frutto  che  trasse 
Giansenio  dal  suo  Augustinus. 


1.  Questa . .  .papa:  cfr.  A.  Gazier,  op.  cit.,  1,  p.  116.  Il  16  ottobre  1656 
la  condanna  di  Alessandro  VII. 


ISTORIA  DEL  PONTIFICATO 
DI   GREGORIO   MAGNO 


NOTA  INTRODUTTIVA 

"L'Apologia  de'  teologi  scolastici,  nella  sua  prima  stesura,  come  si 
è  detto,  si  concludeva  con  un  libro  vii  intitolato  Delle  opere  di  S. 
Gregorio  Magno.1  Il  Giannone  vi  continuava  e  ultimava  la  sua  anali- 
si dei  Padri  della  Chiesa,  in  cui  gli  aspetti  critici  e  demistificatori 
tendevano  a  prevalere:  «Le  opere  di  questo  dotto  e  religioso  ponte- 
fice possono  leggersi  senza  timore  d'inciampare  in  qualch'eresia  o 
pernicioso  errore,  riguardando  la  presente  dottrina.  Fa  d'uopo  con 
tutto  ciò  esser  attento  a  non  lasciarsi  trarre  dietro  la  sua  gran  sem- 
plicità e  somma  credulità,  onde  rese  i  suoi  libri  specialmente  que 
de*  Dialoghi  pieni  di  visioni  e  sogni,  secondo  portava  il  costume  de' 
suoi  tempi  e  l'applicazione  ordinaria  d'allora  de'  studi  monastici ...  ». 
Dopo  un  breve  profilo  biografico,  il  Giannone  cominciava  ad 
esaminare  le  opere,  per  prime  quelle  sul  Vecchio  e  Nuovo  Testa- 
mento. Notava  quindi  gli  errori  di  Gregorio:  «ignaro  delle  lingue 
orientali,  della  storia  di  quegli  antichissimi  tempi,  delle  monarchie 
e  regni  che  fiorivano  allora,  delle  città  e  de'  popoli  da'  quali  erano 
abitati,  per  ciò  egli  di  tutto  altro  parlando,  fuor  di  quel  che  si  con- 
tiene nel  testo,  si  divaga  in  questioni  morali,  in  dar  a  quel  libro  nuovi 
sensi  allegorici,  profetici  mistici  e  tropologici,  li  quali  non  hanno  al- 
tro appoggio  che  la  propria  immaginazione,  secondo  era  il  costume 
di  allora  de'  monaci . . .  ».3  Queste  osservazioni  riguardano  il  com- 
mento al  libro  di  Giob,4  argomento  su  cui  il  Giannone  conosceva, 
sulle  tracce  del  proprio  maestro,5  la  bibliografia  e  le  interpretazioni 
più  moderne,  ma  offrono  un  preciso  esempio  del  tipo  di  analisi  a 
cui  i  testi  di  esegesi  erano  sottoposti.  Anche  i  libri  dei  Dialoghi  erano 
così  pieni  di  puerilità  e  di  visioni  miracolose  che  critici  zelanti  del- 
l'onore di  questo  pontefice  tentarono  di  negarne  l'appartenenza  a 
Gregorio.  In  realtà  soprattutto  nel  mondo  protestante,  con  Andre 
Rivet,  si  era  dubitato  di  questa  appartenenza,  che  era  stata  difesa 
da  Mabillon  e  da  tutti  gli  editori  parigini  delle  opere  di  Gregorio 
Magno.6  Il  Giannone  però  faceva  un'ipotesi:  molti  sogni,  miracoli 
e  visioni  potevano  essere  stati  aggiunti  dai  monaci.  Il  problema  della 

x.  Apologia  de'  teologi  scolastici,  in  Archivio  di  Stato  &J0™\™no*"^ 
Giannone,  mazzo  v,  ins.  2,  ce.  196-202.  2.  Ibid  e.  196,  3.  JWL,  * -W 
4.GREGORH  Magni  Morahum  libri,  svoe  expositio  tn  hhm™*-*™>  ™ 
Mignc,  P.L.,  lxxv,  coli.  509-1162;  lxxvi,  coli.  9-782.  *D.  Atobw, 
Delle  scuole  sacre  libri  due  postumi,  Napoli  1723, 1,  PP-  x«-9;  6- Gre 00 Rii 
Papae  Dialogorum  libri  IV,  de  vita  et  miraculis  ^  *f^*  J 
aeternitate  anhnarum,  in  Migne,  P.L  lxxvii,  <^Wa-  ™  col  i£ 
a  col.  146  il  Migne  riporta  le  precedenti  prefazioni  (1675  e  1705;-  ^ 
Rivet  cfr.  coli.  137-8. 


916        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO    MAGNO 

corruzione  del  testo  e  dell'intervento  dei  copisti  riguardava  del  resto 
anche  sant'Agostino.1  Nel  complesso,  accanto  a  questi  elementi  che 
proseguivano  e  concludevano  il  discorso  di  tutta  l'Apologia,  emerge- 
va un  certo  interesse  per  la  funzione  di  Gregorio  come  organizzatore 
della  Chiesa.  Questo  tema  raggiunse  successivamente  una  tale  auto- 
nomia da  trasformarsi  a  sua  volta  in  uno  studio  a  sé  stante  :  Y  Istoria 
del  pontificato  di  Gregorio  Magno.  Nell'introduzione  all'Apologia 
si  sono  analizzati  i  motivi  che  fanno  pensare  a  una  dipendenza  fra 
le  due  opere  e  a  una  loro  continuità.  Vediamo  ora  come  sia  stato 
possibile  al  Giannone  fermare  cosi  a  lungo  la  sua  attenzione  sulla 
figura  del  grande  pontefice,  fino  a  farne  scaturire  un  libro.  Vale  la 
pena  di  accennare  alla  discussione  storiografica  (naturalmente  legata 
a  complesse  scelte  politico-religiose)  che  precede  l'opera  del  Gian- 
none  sulla  figura  di  Gregorio  Magno,  discussione  che  egli  almeno 
parzialmente  conosceva  e  alla  quale  talvolta  fa  riferimento.  Solo 
in  questo  modo  sarà  possibile  cogliere  il  valore  della  proposta  gian- 
noniana.  Come  si  è  detto,  André  Rivet  aveva  dubitato  dell'appar- 
tenenza dei  Dialoghi  a  Gregorio.  Un  suo  compagno  ugonotto,  il 
celebre  professore  di  Sedan  Pierre  Du  Moulin,  pur  cercando  di 
contrapporre  la  Chiesa  di  Leone  e  di  Gregorio  a  quella  dei  propri 
tempi,  nel  1650  aveva  iniziato  il  processo  alla  «cultura»  del  pon- 
tefice, accusandolo  di  essere  ignorante  e  fantasioso  esegeta  del  Vec- 
chio e  del  Nuovo  Testamento.2  Quest'opera  era  chiaramente  l'ultima 
propaggine  di  un  clima  di  urto  frontale  legato  alle  guerre  di  religione 
in  Francia.  Nel  1675  Pierre  de  Gussainville  pubblicava  a  Parigi 
un'importante  edizione  che  correggeva  le  precedenti.3  Nel  1686  ve- 
niva pubblicata  a  Parigi  una  monografia  su  questo  pontefice,  che  ri- 
vela chiaramente  la  propria  appartenenza  a  un  nuovo  clima  politico- 
religioso,  VHistoire  du  pontificai  de  S.  Grégoire  le  Grand,  di  Louis 
Maimbourg.  Era  infatti  scritta  da  un  ex-gesuita,  celebre  per  le  po- 
lemiche contro  i  giansenisti  e  i  protestanti,  che  avevano  sollecitato 
la  risposta  polemica  di  Pierre  Bayle.  Acceso  gallicano  e  cacciato  dal- 
l'ordine per  questo,  stipendiato  da  Luigi  XIV,  egli  era  diventato 
in  qualche  modo  l'interprete  ufficiale,  lo  storico  e  l'apologeta  della 
politica  religiosa  del  re  Sole.  Estremamente  indicativo   in  questa 


1.  Apologia  de7  teologi  scolastici,  cit.,  e.  201.  2.  P.  Du  Moulin,  La  vie  et 
religion  de  deux  bons  papes,  Leon  premier  et  Grégoire  premier >  où  est  monstre 
que  la  doctrìne  et  religion  de  ces  pontifes  tant  célèbres  est  contraire  à  la  religion 
romaine  de  ce  temps,  Sedan  1650.  3.  S.  Gregorii  Papae  Primi  .  .  .  Opera 
in  tres  tomos  distributa  . . .  Additae  sunt  quaedam  notae  in  dialogos  et  episto- 
las  eiusdem  S.  Gregorii,  cura  et  studio  Petri  Gussanvillaei,  Lutetiae  Parisio- 
rum  1675,  in  tre  volumi. 


NOTA   INTRODUTTIVA  917 

direzione  il  Traité  historique  de  Vétablissement  et  des  prérogatives  de 
VÉglise  de  Rome  et  de  ses  evesques.1  In  quest'opera  riaffermava  la  piena 
ortodossia  del  gallicanesimo.  Non  negava  affatto  il  primato  di  Roma 
come  sede  scelta  da  san  Pietro,  ma  riduceva  drasticamente  i  poteri 
papali,  rifiutando  ogni  infallibilità  ed  affermando  che  quando  i 
pontefici  decidono  fuori  dei  concili  possono  sbagliare,  I  Padri  della 
Chiesa  erano  quindi  piegati  a  dimostrare  questa  tesi.  UHistoire  du 
pontificai  de  S.  Grégoire  le  Grand  si  collocava  in  qualche  modo  dopo 
quelle  che  aveva  dedicato  agli  iconoclasti  e  allo  scisma  greco.  Tutti 
i  motivi  a  cui  si  è  accennato  acquistano  un  preciso  rilievo:  nella 
dedica  al  sovrano  egli  afferma  che  il  maggior  merito  ài  Gregorio 
è  di  «avoir  trouvé  l'art  de  contraindre  sans  violence,  selon  l'esprit 
de  l'Evangile,  de  rentrer  dans  PÉglise  catholique  ceux  qui  en  estoient 
sortis  par  le  schisine,  ou  par  l'hérésie  .  .  .  ».a  Luigi  XIV  viene  quindi 
esaltato  a  confronto  di  questo  modello  come  il  sovrano  che  aveva 
realizzato  l'unificazione  francese  sotto  il  cattolicesimo.  UAvertis- 
sement  conferma  le  scelte  del  Maimbourg:  la  polemica  contro  i  pro- 
testanti (è  confutata  l'opera  del  Du  Moulin)  e  contro  la  tradizione 
romana  (Baronio),  l'impostazione  nettamente  gallicana  e  regalista. 
Inoltre  egli  non  intendeva  scrivere  una  biografia,  ma  una  storia  del 
pontificato.  Non  manca  di  dare  un  certo  spazio  all'elemento  mira- 
coloso, riportando  la  leggenda  (che  gli  sarà  rimproverata  sprezzante- 
mente da  Bayle)  di  una  colonna  di  luce  apparsa  a  segnalare  il  luogo 
in  cui  si  era  rifugiato  Gregorio  per  sottrarsi  all'elezione.3  Gli  altri 
elementi  sottolineati  sono:  la  sottomissione  del  pontefice  ai  concili, 
il  potere  dell'imperatore  Maurizio,  il  confronto  fra  Gregorio  e 
Luigi  XIV  nell'azione  verso  gli  eretici.  Molto  indicative  sono  le  pa- 
gine sullo  scontro  con  i  patriarchi  d'Oriente  per  il  titolo  di  ecume- 
nico. Il  Maimbourg  tende  a  ridurre  tutto  il  conflitto  a  un  fatto  ver- 
bale, a  una  cattiva  interpretazione  del  termine.  Secondo  lui  esiste- 
vano tre  interpretazioni  della  parola:  quella  del  concilio  di  Calcedonia 
(il  pontefice  vescovo  della  Chiesa  universale);  quella  usata  dai  pa- 
triarchi d'Oriente  (che  si  consideravano  vescovi  di  una  gran  parte 
del  mondo);  quella  che  Gregorio  intese -e  secondo  Maimbourg 
fraintese  -  nei  patriarchi  d'Oriente,  secondo  cui  questo  titolo  esclu- 
deva il  potere  degli  altri  vescovi.  Il  Maimbourg  da  una  parte  riduce 
il  conflitto  a  una  pura  incomprensione  verbale,  tendendo  quindi  a 
minimizzarlo,  dall'altra  polemizza  con  coloro  (protestanti)  che  han 
visto  in  questa  polemica  contro  l'ecumenicato  come  un  rifiuto  da 
parte  di  Gregorio  del  proprio  stesso  primato.  Ricostruisce  succes- 

1.  Paris  1686.     2.  Histoire  du  pontificai  de  S.  Grégoire  le  Grand,  cit.,  pp. 
n.n.     3.  Ibid.t  p.  9. 


918        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO    DI    GREGORIO   MAGNO 

sivamente  il  rapporto  di  Gregorio  con  l'Inghilterra  e  la  Francia, 
sempre  dallo  stesso  punto  di  vista,  di  esaltare  la  politica  religiosa  di 
Luigi  XIV  e  di  trovare  le  radici  prime  del  gallicanesimo.  Nell'ultima 
parte  infatti,  trattando  dell'opera  di  organizzazione  della  società 
ecclesiastica,  contrappone  Gregorio  Magno  a  Gregorio  VII,  rifiu- 
tando e  mostrando  falsi  tutti  i  tentativi  di  far  risalire  al  primo  le 
teorie  teocratiche.  Così  ne  emerge  l'immagine  di  una  Chiesa  che  non 
pretende  nessuna  superiorità  sul  potere  civile,  che  lascia  ampie 
autonomie  alle  realtà  locali,  alle  tradizioni  «nazionali»,  che  utilizza 
il  patrimonio  di  S.  Pietro  per  i  poveri,  che  cerca  di  tener  lontani  gli 
ecclesiastici  e  soprattutto  i  monaci  dagli  affari. 

Pierre  Bayle,  che  era  intervenuto  contro  il  Maimbourg  precedente- 
mente, a  proposito  della  sua  storia  del  calvinismo,  recensì  abbastan- 
za criticamente  quest'opera  nelle  «Nouvelles  de  la  républiquc  des 
lettres  »  del  febbraio  1686.1  Fa  notare  come  il  Maimbourg  abbia  ac- 
cettato acriticamente  il  miracolo  della  colonna  di  luce  che  fece  sco- 
prire Gregorio  dopo  la  sua  fuga.  In  realtà,  secondo  il  Bayle,  si  tratta 
di  qualcosa  che  ricorda  troppo  la  leggenda  dei  Re  Magi  guidati  da 
una  luce  a  Gesù  bambino.  Ma  il  Maimbourg,  che  egli  precedente- 
mente aveva  descritto  come  un  autore  di  romanzi  storici  a  tesi,  senza 
alcun  problema  di  certezza  e  di  verità,  «rapporte  plusieurs  autres 
prodiges  de  ce  temps-là  (car  la  saison  en  étoit  ancore  bonne)  et  n'en 
rejette  que  fort  peu».2  Inoltre  non  dubita  dell'appartenenza  a  Gre- 
gorio dei  Dialoghi,  e  non  ne  coglie  criticamente  il  tono  troppo  sco- 
pertamente credulo.  Al  Bayle  non  sfugge  il  tentativo  di  ridurre  tutta 
la  polemica  sull'ecumenismo  a  un  fatto  puramente  verbale.  È  però 
soprattutto  sottolineato  polemicamente  ed  ironicamente  il  continuo 
raffronto  fra  Luigi  XIV  e  Gregorio  I  come  pacificatori  religiosi. 
Riflettendo  sulle  vicende  contemporanee,  trova  assolutamente  impro- 
prio un  paragone  di  questo  genere,  che  avrebbe  permesso  al  sovrano 
(il  quale  stava  costringendo  i  protestanti  all'esilio)  di  passare  per  un 
pacificatore  e  un  organizzatore  della  unità  religiosa  nel  proprio 
paese  senza  violenza.  Soprattutto  egli  polemizza  con  la  distinzione 
tra  infedeli  (come  erano  gli  Ebrei  al  tempo  di  Gregorio,  che  questi 
comandava  ai  vescovi  di  non  perseguitare  e  di  non  convertire  con  la 
violenza)  e  ribelli,  cioè  quelli  che  abbandonavano  la  fede  per  ab- 
bracciare una  nuova  opinione.  Ancora  una  volta  questa  recensione 
oscillava  dal  passato  al  presente  e  metteva  in  luce  quelli  che  erano 

1.  Cfr.  P.  Bayle,  CEuvres  diverses,  La  Haye  1737,  11,  Critique  generale  de 
Vhistoire  du  calmnisme  de  Mr.  Maimbourg,  pp.  1-160;  Nouvelles  lettres 
de  Vauteur  de  la  Critique  generale  de  Vhistoire  du  calvinisme,  pp.  161-335. 
La  recensione  citata  è  riportata  nel  tomo  1  di  questa  edizione,  pp.  493-8. 

2.  Ibid.,  p.  493. 


NOTA   INTRODUTTIVA  919 

gli  elementi  essenziali  della  storiografia  di  Maimbourg,  la  mancanza 
di  scrupoli  e  la  perfetta  adesione  agli  aspetti  più  discutibili  della 
politica  di  Luigi  XIV.  Il  Bayle  proseguiva  il  processo  di  riduzione 
della  figura  di  Gregorio  che  era  presente  in  Du  Moulin,  ricordando 
l'appoggio  indiscriminato  di  questo  pontefice  a  un  tiranno  come 
Focas  e  alla  crudelissima  regina  di  Francia  Brunehauld. 

Negli  anni  successivi  il  discorso  tornava  in  mano  agli  eruditi, 
anche  se  non  perdeva  una  sua  carica  politico-religiosa.  È  il  caso 
dell'ampia  monografia  dedicata  a  Gregorio  I  da  Louis  Ellies  Du  Pin 
nella  Nouvelle  bibliothèque  des  auteurs  ecclésiastiques,1  che  non  per- 
deva occasione,  sia  pur  con  maggiore  correttezza  del  Maimbourg,  di 
confermare  il  proprio  gallicanesimo.  L'atteggiamento  di  Gregorio  è 
caratterizzato  secondo  il  Du  Pin  da  due  elementi  essenziali:  la 
volontà  di  far  osservare  i  Canoni  (e  in  ciò  consisteva  l'autorità  della 
sede  romana);  la  piena  accettazione  delle  deliberazioni  dei  concili. 
Secondo  il  Du  Pin  per  Gregorio  Magno  il  primato  di  Roma  rispetto 
alle  altre  sedi  vescovili  era  effettivo  solo  quando  c'era  stata  da  parte 
della  diocesi  una  colpa  qualsiasi.  A  parte  questo  compito  in  qualche 
modo  giurisdizionale,  Gregorio  teorizzava  la  parità  assoluta  ed  era 
contro  il  titolo  di  ecumenico  non  solo  per  il  patriarca  di  Costantino- 
poli, ma  anche  per  il  vescovo  di  Roma.  Confermando  quanto  aveva 
già  detto  nella  sua  opera  sulla  antica  «disciplina»  della  Chiesa,  il 
Du  Pin  afferma  che  le  rendite  del  patrimonio  di  S.  Pietro  e  di  tutti 
i  lasciti  ecclesiastici  dovevano  essere  divise  in  quattro  parti  :  ai  preti, 
ai  poveri,  alle  chiese  e  ai  vescovi.  Inoltre  Gregorio,  che  per  ragioni 
puramente  religiose  intervenne  spesso  e  anche  caldamente  presso  i 
sovrani,  aveva  ben  chiare  le  diverse  sfere  di  influenza  e  sapeva  di- 
stinguere il  piano  religioso  da  quello  politico.  Questo  spiega  perché 
si  sia  più  volte  subordinato  a  Maurizio,  allo  stesso  Focas  e  abbia  ac- 
cettato senza  critiche  la  regina  Brunehauld.  Così  per  quanto  riguar- 
da la  disciplina  interna  della  Chiesa,  egli,  pur  favorendo  gli  ordini 
religiosi  regolari,  non  li  sottrasse  affatto  alla  giurisdizione  dei  vescovi. 
Monaci  e  preti  avevano  compiti  distinti;  perciò  i  primi  erano  tenuti 
lontani  dalle  pratiche  fondamentali,  come  la  possibilità  di  dir  messa 
e  di  distribuire  i  sacramenti.  Fra  le  opere,  il  Du  Pin  accenna  ai 
Dialoghi;  non  dubita  che  siano  di  Gregorio  Magno,  ma  li  trova  ri- 
dicoli e  indegni  di  un  così  grande  pontefice:  «On  y  fait  les  miracles 
si  frequens,  si  extraordinnaires,  et  souvent  pour  des  choses  de  si 
peu  de  conséquence,  qu'il  est  bien  difficile  de  les  croire  tous  ».a 

Mentre  l'opera  e  la  figura  di  Gregorio  Magno  erano  l'oggetto  di 
studio  e  di  interesse  per  le  grandi  storie  ecclesiastiche  di  ispirazione 

1.  Paris  1690,  IV,  pp.  239-344.     2.  Op.  cit,  iv,  p.  325. 


920        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI   GREGORIO    MAGNO 

gallicana,  come  quella  di  Noel  d'Alexandre1  e  di  Claude  Fleury,2  un 
benedettino  della  scuola  di  Saint-Maur  sentiva  il  bisogno  di  misu- 
rarsi con  questo  soggetto,  dedicandogli  una  monografia  che  prece- 
deva di  qualche  anno  l'edizione  critica  delle  opere,  a  cui  egli  avrebbe 
partecipato  con  altri.3  Si  tratta  di  Denis  de  Sainte-Marthe,  Hìstoire 
de  S.  Grégoire-le-Gr and  pape  et  docteur  de  VÉglise  tirée  principalement 
de ses ouvrages* L'opera  del  Sainte-Marthe  intendeva  essere  la  prima 
monografia  obiettiva  sul  grande  pontefice.  NélVAvertissement  infatti 
affermava  che  in  quegli  anni  erano  state  scritte  le  vite  di  tutti  i  Padri 
della  Chiesa,  meno  quella  di  Gregorio.  C'era  stata  l'opera  del  Maim- 
bourg  «mais  outre  que  cette  histoire  ne  comprend  pas  toute  la  vie 
du  saint,  M.  Maimbourg  ne  s'est  attaché  qu'à  certains  faits  de  son 
pontificat  qui  entroient  dans  ses  desseins  et  dans  ses  vùcs,  négli- 
geant  tous  les  autres  qui  toutefois  méritent  d'ètrc  connus  .  .  .  ».s 
Per  sottolineare  i  punti  di  vista  diversi,  il  Sainte-Marthe  afferma 
ancora  in  implicita  polemica:  «l'unique  but  que  je  me  suis  propose, 
a  été  d'éclaircir  la  vérité  et  en  m'instruisant  moi-mème,  de  travailler 
à  l'instruction  et  a  l'édification  d'un  grand  nombre  de  personnes . . .  ».6 
La  prima  preoccupazione  è  filologica:  afferma  di  essersi  servito 
dell'edizione  parigina  del  1675  come  la  più  corretta,  utilizzando 
altresì  le  note  di  Thomas  James,7  che  aveva  accusato  le  edizioni  ro- 
mane di  essere  poco  scrupolose  nel  forzare  a  favore  di  Roma  gli 
scritti  di  Gregorio.  Inoltre  analizza  le  altre  fonti  di  cui  si  è  servito, 
da  Gregorio  di  Tours,  a  Beda,  a  Paolo  Diacono,  collocandole  storica- 
mente. Naturalmente  polemizza  con  le  interpretazioni  protestanti, 
soprattutto  con  quella  di  Pierre  Du  Moulin,  ma  discute  anche  le  tesi 
del  Du  Pin.8  L'opera  è  divisa  in  quattro  libri  ed  è  di  taglio  nettamente 

1.  Historìa  ecclesiastica  Veteris  et  Novi  Testamenti  ab  orbe  condito  ad  annum 
post  Christum  natum  millesimum  sexcentesimum,  Parisiis  17 14,  in  otto  tomi, 
v,  pp.  380-91.  La  prima  edizione,  Parisiis  1699,  in  otto  tomi.  2,  Histoire 
ecclésiastique,  vili,  Paris  1727,  pp.  1-238.  La  prima  edizione,  Paris  1691- 
1738,  in  trentasei  volumi.  3.  Sancti  Gregorii  Papae  I .  . ,  Opera  omnia 
. .  .  studio  et  labore  monachorum  ordinis  S.  Benedicti  e  congregatone  S. 
Mauri  (D.  de  Sainte-Marthe,  B.  Pétis  de  La  Croix  et  G.  Bessin)s  Parisiis 
1705,  in  quattro  volumi.  4.  Rouen  1697.  5.  Ibid.,  p.  n.n.  6.  Ibid.,  p. 
n.n.  7.  Ibid.,  p.  n.n.  Si  riferisce  a  Thomas  James  (1573  P-IÓ29),  erudito 
inglese  autore  di  un  Bellum  gregorianum,  sive  corruptionis  romanae  in  operi- 
bus  D.  Gregorii  M.  iussu  pontificum  rom.  recognitis  atque  edìtis  ex  typographia 
vaticana  loca  insigniora,  observata  a  theologis  ad  hoc  officium  deputatis,  Oxo- 
niae  1610.  Si  tratta  di  una  polemica  contro  l'edizione  voluta  da  Sisto  V, 
curata  dal  vescovo  di  Venosa  P.  Ridolfi,  Romae  1588-1593,  in  sei  volumi. 
Sulle  edizioni  di  Gregorio,  precedenti  quella  benedettina,  cfr.  la  prefazione 
dell'edizione  1705  riportata  dal  Migne,  P.L.,  lxxv,  coli.  15-36.  8.  Ibid., 
p.  n.n.  Si  tratta  naturalmente  della  monografia  compresa  nella  Nouvelle 
biblioihèque  des  auteurs  ecclésiastìques,  cit. 


NOTA   INTRODUTTIVA  921 

biografico.  Il  primo  riguarda  la  vita  di  Gregorio  dalla  nascita  al 
pontificato.  Sono  ricostruiti  con  accuratezza  l'ambiente  familiare, 
gli  studi,  la  carriera  politica,  la  vocazione  e  le  scelte  religiose.  La 
storia  della  sua  fuga  dopo  la  nomina  e  il  suo  ritrovamento  è  accet- 
tata, secondo  la  tradizione  leggendaria,  ma  senza  troppa  insistenza: 
«  Une  colomne  de  lumière  parut  sur  le  lieu  de  sa  retraite  ».J  II  secondo 
è  dedicato  ai  primi  quattro  anni  di  pontificato.  Il  Sainte-Marthe 
conferma  la  piena  sottomissione  di  questo  pontefice  ai  concili  e  ne 
descrive  l'opera  di  riorganizzazione  della  Chiesa,  sottolineando  l'eli- 
minazione dei  laici  dall'amministrazione  dei  beni  ecclesiastici.  Un 
certo  spazio  è  dedicato  al  problema  dei  Dialoghi.  Il  Sainte-Marthe 
ha  un  atteggiamento  pienamente  apologetico  e  devoto,  che  gli  sarà 
rimproverato  dal  Bayle.  Egli  infatti  afferma  che  ad  alcuni  studiosi 
non  sono  piaciuti  tutti  i  miracoli  di  cui  questi  Dialoghi  sono  pieni. 
Ma  non  è  una  critica  valida.  Se  si  applicasse  un  criterio  del  genere 
bisognerebbe  estenderlo  a  sant'Agostino.  In  effetti  secondo  il  Sainte- 
Marthe  c'erano  più  fatti  miracolosi  alle  origini  e  quindi  le  scritture 
dei  Padri  registrerebbero  una  realtà.  Solo  sull'episodio  (riportato 
da  Giovanni  Diacono)  del  battesimo  dell'anima  di  Traiano  per  in- 
tercessione di  una  povera  donna,  il  Sainte-Marthe  condivide  le 
precedenti  confutazioni  (dal  Baronio  e  Bellarmino  ai  più  recenti 
autori)  e  utilizza  gli  stessi  Dialoghi  per  smontare  questa  storia, 
mostrandone  la  falsità  e  la  pericolosità. 

È  invece  decisamente  polemico  con  il  Maimbourg  che  aveva  ri- 
dotto a  nulla  il  significato  e  il  valore  della  polemica  sull'ecumeni- 
smo. Gli  ultimi  due  libri,  che  raccontano  gli  anni  successivi  del 
pontificato,  proseguono  su  questo  tono  fortemente  apologetico. 
Per  esempio  difende  Gregorio  dall'accusa  di  aver  lodato  e  appog- 
giato Brunehauld,  affermando  che  i  suoi  crimini  furono  scoperti 
dopo  la  morte  del  pontefice.  Lo  stesso  afferma  per  il  rapporto  con 
Focas. 

Quando  Pierre  Bayle  scrisse  la  voce  Gregoire  I  sul  Dictionnaire2 
aveva  quindi  a  disposizione  un  materiale  notevole  :  egli  infatti  fondò 
la  sua  voce  sul  Maimbourg,  sul  Sainte-Marthe  e  in  misura  minore 
sul  Du  Pin,  a  cui  rimandava  per  un'analisi  dettagliata  delle  opere. 
Per  quanto  riguarda  il  Maimbourg,  si  rifa  alla  propria  recensione 
del  1686,  ripetendo  le  osservazioni  sulla  colonna  di  luce  che  ricorda 
la  leggenda  dei  Re  Magi  e  polemizzando  soprattutto  con  il  paragone 
fra  Gregorio  e  Luigi  XIV.  Ma  in  questa  voce,  ben  più  che  nella  re- 
censione, il  Bayle  chiariva  e  approfondiva,  alla  luce  dei  propri  lavori 

i.Ibid.,  p.  130.     2.  P.  Bayle,  Dictionnaire  historique  et  critique,  Amster- 
dam 1734,  in,  pp.  103-13. 


922        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO    MAGNO 

e  delle  proprie  scelte,  il  problema  della  libertà  di  coscienza,  mostran- 
do i  limiti  non  solo  del  sovrano  francese,  ma  anche  del  pontefice: 
«  Ses  maximes  touchant  la  contrainte  de  la  conscience  n'ont  pas  étés 
uniformes  et  il  donnoit  quelquefois  dans  un  grand  relàchement. 
Aussi  est-il  bien  difficile  d'avoir  des  règles  pour  une  chose  si  con- 
traire à  la  raison  ».*  Le  osservazioni  nascono  da  quanto  riportava  lo 
stesso  Maimbourg,  che  Gregorio  rifiutasse  le  conversioni  violente 
degli  Ebrei  e  invece  sollecitasse  la  persecuzione  degli  eretici.  Bayle, 
teorizzando  la  libertà  di  coscienza,  afferma  che  la  Chiesa  non  ha  il 
diritto  di  trattare  come  ribelli  quelli  che  la  lasciano  :  «  C'est  attribuer 
à  PÉglise  un  pouvoir  qu'elle  n'a  pas,  que  de  prétendre  qu'elle  peut 
traiter  tous  ceux  qui  la  quittent,  comme  les  états  humains  traitent 
les  rebelles  .  .  .  ».z  Per  lo  sviluppo  di  questi  temi  rinvia  al  proprio 
Commentaire  philosophique.  Inoltre  Gregorio  propugnava  una  morale 
troppo  rigida;  i  preti  dovevano  essere  vergini,  fatta  eccezione  per  i 
vedovi.  Nel  complesso  «merita  le  surnom  de  Grand,  mais  on  ne 
saroit  excuser  la  prostitution  de  louanges  avec  la  quelle  il  s'insinua 
dans  Pamitié  d'un  usurpateur .  .  .  ».3  Oltre  che  con  Focas,  ebbe 
compiacenza  eccessiva  verso  la  regina  Brunehauld.  Il  Bayle  inoltre 
sfiorava  un  problema  interessante  e  destinato  ad  aver  sviluppo  in 
Toland.  Secondo  una  tradizione,  Gregorio  sarebbe  stato  un  distrut- 
tore delle  reliquie  più  belle  della  civiltà  pagana,  per  il  timore  che  chi 
veniva  a  Roma  avesse  più  interesse  per  i  templi  gentili  e  gli  archi  di 
trionfo  che  per  le  chiese.  Questa  azione  del  pontefice  non  è  docu- 
mentabile, come  non  è  certa  l'altra,  che  egli  abbia  fatto  distruggere 
un'infinità  di  libri  pagani  e  fra  l'altro  Tito  Livio  (era  una  voce  ri- 
portata dal  Voss).  Nello  stesso  Dictionnaire  il  Bayle  tornava  ancora 
una  volta  su  Gregorio  a  proposito  della  voce  Trojan  tutta  dedicata 
alla  leggenda  di  cui  si  è  già  detto.4 

Nel  1705  veniva  pubblicata  l'edizione  delle  opere  di  Gregorio,  a 
cui  aveva  collaborato  il  Sainte-Marthe.  Quest'edizione  fu  recensita 
ampiamente  e  favorevolmente  dagli  «Acta  Eruditorum»5  di  Lipsia 
che  evitavano  ogni  rilievo  polemico  di  carattere  religioso  e  che,  dopo 
averne  dato  un'ampia  descrizione,  sottolineavano  soprattutto  due 
punti  :  i  benedettini  sostenevano  l'appartenenza  dei  Dialoghi  a  Gre- 
gorio ;  negavano  la  favola  della  liberazione  dell'anima  di  Traiano  da 
parte  del  pontefice.  Vale  forse  ancora  la  pena  di  ricordare  che  pochi 
anni  dopo  nella  stessa  città,  da  parte  di  un  teologo  luterano  evidente- 
mente abbastanza  lontano  dallo  spirito  di  dialogo  e  dal  cristianesimo 


1.  Ibid.t  p.  104.     2.  Ibid.,  p.  105.     3.  Ibid.,  p.  107.    4.  Ibid.,  v,  pp.  395-6. 
5.  «Acta  Eruditorum  Lipsiensium »,  settembre  1706,  pp.  385-95. 


NOTA   INTRODUTTIVA  923 

universalistico  di  ispirazione  leibniziana  degli  «Acta»,  venne  pub- 
blicata un'opera  che  riporta  bruscamente  a  un  clima  di  controversie. 
Si  tratta  di  Gregorius  Magnus  papa  lutheranus  sive  der  lutherische 
Pabst  contra  papistas,  imprimis  monachos  parisienses,  ordinis  S.  Bene- 
dirti, S.  Marthe,  Bellarmìnum,  Baronium,  Schelstratium  aliosque,  ex 

5.  Gregorii  libris  et  epistolis  vindicatus  ...  di  Johann  Peter  Stute.1 
Come  si  è  già  accennato  nell'introduzione  ai  Discorsi  sopra  gli  An- 
nali di  Tito  Livio,  la  figura  di  Gregorio  Magno  aveva  colpito  il  Toland 
nel  suo  Adeisidaemon.2  Questi  aveva  infatti  accettato  e  sviluppato 
quanto  il  Bayle  riportava  sia  pur  dubitativamente  nella  sua  voce: 
neìV  Adeisidaemon  infatti  Gregorio  era  visto  come  il  distruttore  delle 
storie  di  Livio.  Lo  aveva  quindi  posto  al  centro  di  un  processo  di 
irrigidimento  e  di  istituzionalizzazione  del  cristianesimo,  di  una 
reazione,  in  fondo  cieca  ed  ottusa,  al  fascino  ancor  vivo  della  cultura 
pagana. 

Come  si  colloca  l'opera  del  Giannone  in  questa  discussione  mi- 
suratasi nell'arco  di  un  secolo  su  un  nodo  essenziale  della  storia 
ecclesiastica  e  civile?  Bisogna  prima  di  tutto  osservare  che  il  pro- 
blema non  si  poneva  per  la  prima  volta  al  Giannone  del  carcere.  A 
Gregorio  Magno  sarebbe  stato  dedicato  ampio  spazio  nel  periodo 
terzo  del  Regno  papale,  la  parte  non  compiuta  del  Triregno,  di  cui 
però  egli  aveva  già  indicato  la  traccia.3  In  questo  senso  diversi  e 
complessi  sono  gli  impulsi  che  hanno  spinto  il  Giannone  ad  ammon- 
tare il  tema:  proseguire  V Apologia,  riprendere  quanto  nel  Triregno 
era  stato  solo  previsto  ed  abbozzato,  misurarsi  ancora  una  volta  con 
un'intuizione  del  Toland.  Se  V Apologia  prendeva  a  modelli  la 
seconda  parte  delle  Scuole  sacre  di  Domenico  Aulisio4  e  soprattutto 

i.  L'opera  fu  pubblicata  a  Lipsia  nel  171 5.  2.  Adeisidaemon,  sive  Titus 
Livius  a  superstitione  vindicatus . . .,  Hagae  Comitis  1709,  pp.  79~97« 
3,  Cfr.  Il  Triregno,  ed.  Parente,  ni,  p.  216.  I  primi  due  capitoli  sarebbero 
stati  dedicati  a  Gregorio  Magno.  Il  capo  1,  Del  ponteficato  di  Gregorio  Ma- 
gno nel  quale  il  nuovo  regno  papale  fece  notabili  progressi,  non  meno  in  Occi- 
dente che  in  Oriente,  prevedeva  nove  paragrafi:  1.  Nelle  province  suburbicarie 
del  vicariato  di  Roma;  2.  Nelle  province  sottoposte  al  prefetto  d'Italia,  e  spe- 
zialmente: 3.  Nella  Liguria,  Venezia,  Istria,  Norico  e  nella  Rezia;  4.  Nella 
Pannonia,  nella  Dalmazia,  Macedonia  e  Bulgaria;  5.  Nell'Illirico  occidentale; 

6.  Nella  Francia;  7.  Nella  Spagna;  8.  Nell'isole  britanniche,  Anglia,  Scozia 
ed  Ibernia;  9.  Nella  Germania.  Il  capo  11,  Papa  Gregorio  Magno  si  mantenne 
nella  grazia  delVimperator  Maurizio,  finché  questi  visse.  S'intrigò  nelle  guerre 
co'  Longobardi,  nelle  paci  ed  in  altri  affari  politici.  Ubbidiva  alle  leggi  de- 
gl'imperatori d'Oriente;  e  la  stessa  venerazione,  fede  ed  ubbidienza  continuò 
coll'imperador  Foca,  successor  di  Maurizio.  Come  si  vede,  la  struttura  geo- 
grafico-storica  era  già  stata  prevista  per  il  Triregno,  ma  in  questa  successiva 
opera  appare  ben  più  complessa.  4.  Delle  scuole  sacre  ecc.,  cit.,  n,  Delle 
scuole  sacre  d'Alessandria. 


924        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO    MAGNO 

il  Traiti  de  la  morale  des  Pères  di  Jean  Barbeyrac,1  questa  Istoria  è, 
almeno  in  parte,  un  proseguimento  del  Triregno.  Nell'Apologia  aveva 
discusso  le  fonti  della  morale  cristiana,  negando,  con  la  stessa  forza 
dei  deisti,  ma  con  un  acume  storico  più  preciso,  la  tradizione,  por- 
tando la  polemica  fino  alle  origini  del  pensiero  cristiano.  Ora,  con 
gli  strumenti  di  un'erudizione  eterogenea  e  complessa,  si  propone 
di  affrontare  le  Epistole  di  Gregorio  per  ricostruire  l'organizzazione 
e  la  disciplina  della  Chiesa  medievale.  In  questo  senso  l'opera  del 
Giannone  non  si  presta  ad  essere  riportata  soltanto  nell'ambito 
delle  monografie  sul  pontefice  che  sono  state  indicate  precedente- 
mente. Accanto  a  queste  dovremmo  ricordare  non  solo  tutte  le 
grandi  storie  ecclesiastiche,  che  egli  conosceva,  ma  anche  le  opere 
di  diritto  canonico  e  di  erudizione  sacra,  dal  Du  Pin,  al  van  Espen, 
al  Bingham.2  Questa  cultura  era  particolarmente  familiare  al  Gian- 
none,  che  aveva  utilizzato  gli  autori  citati  soprattutto  nel  Triregno. 
È  difficile  dire  con  esattezza  che  cosa  avesse  realmente  a  disposizione 
mentre  componeva  quest'opera  ;  oltre  agli  Opera  di  Gregorio  Magno 
(non  si  sa  in  quale  edizione,  ma  la  numerazione  delle  Epistole  fa 
escludere  quella  benedettina  del  1705),3  Plinio,  nell'edizione  com- 
mentata da  Jean  Hardouin,4  e  Livio,  che  egli  cita  abbondantemente, 
gli  altri  riferimenti  potrebbero  essere  o  indiretti  (tratti  cioè  dalle  note 
dell'Hardouin,  per  esempio)  o,  come  in  altri  casi,  fatti  a  memoria. 

1.  Cfr.  quia p.  794.  2.  Cfr.  le  note 3  app.  41-2  e  1  ap.  660.  3.  Da  quanto 
il  Giannone  afferma  ne  La  Chiesa  sotto  il  pontificato  di  Gregorio  il  Grande, 
in  Opere  inedite,  a  cura  di  P.  S.  Mancini,  Tonno  1852  (ma  1859),  ir,  p.  210: 
«Se  i  collettori  de*  dodici  libri  di  queste  Epistole,  siccome  han  fatto  qui, 
aggiunto  avessero  le  risposte  alle  lettere  del  pontefice  (che  non  dubito  in 
que'  tempi  dovessero  negli  archivi  di  Roma  esisterne  gli  originali),  certa- 
mente di  più  chiari  lumi  e  di  più  riposte  notizie  attinenti  anche  all'istoria 
di  que'  secoli  ci  avrebbero  arricchiti ...  »,  parrebbe  che  il  Giannone  avesse 
a  disposizione  l'edizione  romana  (1588-1593,  in  sei  volumi)  o  qualche  ri- 
stampa di  questa.  Fra  l'altro  parìa  di  dodici  libri  delle  Epistole,  mentre 
nell'edizione  benedettina  del  1705  diventarono  quattordici,  con  un  ordine 
mutato,  rispetto  alle  precedenti  edizioni,  compresa  quella  del  1675,  che 
aveva  conservato  l'antico.  A  quest'ultimo  corrispondono  le  citazioni  del 
Giannone.  Cfr.  anche  quanto  afferma  nel  titolo  originario  intero  e  nella 
prefazione  A'  lettori,  p.  2,  in  cui,  propugnando  una  nuova  disposizione  di 
questo  materiale,  più  storica,  sembra  ignorare  i  criteri  (in  realtà  simili  ai 
propri)  seguiti  dai  benedettini  nel  1705.  Questa  prefazione  è  importante 
perché  egli  applica  alla  geografia  gli  stessi  criteri  che  nella  Vita  aveva 
utilizzato  per  la  giurisprudenza,  distinguendo  una  «antica  geografìa  de' 
Romani»,  la  geografia  media  «del  periodo  barbarico»,  «la  bassa  e  infima 
geografia  delle  epoche  moderne  ».  4.  C.  Punii  Sectjndi  Naturalis  historiae 
libri  XXXVII,  Interpretatione  et  notis  illustravit  Ioannes  Harduìnus .  .  ., 
Parisiis  1685,  in  cinque  volumi.  Fu  ristampata  a  Parigi  nel  1723,  in  tre 
tomi.  Quest'opera  (e  le  note  dell'Hardouin)  sono  una  fonte  costante  per  il 
Giannone  del  carcere. 


NOTA   INTRODUTTIVA  925 

Solo  un'edizione  critica  potrebbe  rispondere  in  maniera  soddisfacen- 
te a  questo  problema.  Certo  egli  ebbe  a  disposizione  anche  altri  libri, 
parte  propri,  parte  avuti  in  prestito,  come  per  esempio  l'opera  di 
Francesco  Agostino  della  Chiesa,  che  è  citato  come  il  «vescovo  di 
Saluzzo  »,  uno  dei  maggiori  storici  piemontesi.1 

Comunque  c'è  uno  sviluppo  e  una  continuità  in  tutta  la  produ- 
zione del  carcere.  Non  solo  più  volte  nell'Istoria  del  pontificato  egli 
fa  riferimento  a  quanto  aveva  scritto  nei  Discorsi  e  nell'Apologia, 
ma  utilizza  ancora  ampiamente  la  ricerca  che  aveva  fatto  sul  testo  di 
Livio  e  sui  Vangeli  per  ricostruire  la  geografia  dell'Impero.2  In 
questo  nuovo  lavoro  Plinio  e  soprattutto  Livio  gli  offrono  il  materiale 
per  confrontare  la  struttura  geografica  romana  con  quella  che  emerge 
dal  testo  delle  Epistole  per  cogliere  variazioni  e  persistenze.  Quindi 
ritorna  alla  storia  civile,  come  l'aveva  concepita  precedentemente, 
per  studiare  la  genesi  di  un  processo  in  cui  la  Chiesa  stava  sostituen- 
do l'Impero,  ma  alla  dimensione  diacronica  (lo  studio  di  tutte  le 
modificazioni  avvenute  dalle  origini  ai  suoi  giorni  in  una  regione 
limitata,  il  regno  di  Napoli,  come  nella  Istoria  civile,  o  per  tutto  l'Oc- 
cidente, come  nel  Triregno)  si  sostituisce  la  scelta  sincronica,  la 
volontà  di  ricostruire  un  momento  fondamentale  per  tutta  l'area 
occidentale,  cogliendo  nella  dimensione  geografica  più  vasta  la  di- 
versa e  complessa  reazione  a  due  fenomeni  contemporanei:  la  crisi 
della  società  civile  e  la  volontà  di  affermazione  del  papato.  Le  Episto- 
le, rivolte  da  Gregorio  a  tutti  i  vescovi  del  mondo  occidentale,  per- 
mettono al  Giannone  una  ricostruzione  analitica  e  piena  di  spessore 
(con  i  continui  riferimenti  al  prima,  la  geografia  dell'Impero,  tratta 
da  Livio,  e  al  poi,  la  realtà  che  il  Giannone  ben  conosceva  come  sto- 
rico e  politico  militante).  In  questo  senso  l'opera  del  Giannone  non 
solo  non  può  essere  riportata  facilmente  ai  modelli  di  monografie 
su  Gregorio  che  abbiamo  citato  precedentemente,  ma  neppure  a 
uno  dei  tanti  esempi  di  «geografia  sacra»  a  cui  certamente  si  ispirava: 
pur  essendo  a  tratti  classificatoria  e  inevitabilmente  descrittiva, 
nel  complesso  è  un'opera  di  storia,  o  meglio  un  tentativo  piuttosto 
originale  di  geografia  storica,  con  un  forte  interesse  «politico»  e  una 
profonda  passionalità  alle  spalle,  come  mostrano  non  solo  i  ricordi 
personali  che  affiorano  ogni  tanto,  ma  soprattutto  le  precise  riprese 
del  proprio  discorso,  le  dure  polemiche  contro  i  tentativi  di  com- 
promesso, come  nel  caso  del  de  Marca,  gallicano  moderato,3  o  le 

1.  Cfr.  La  Chiesa  sotto  il  pontificato  di  Gregorio  il  Grande,  cit.,  p.  138;  pp. 
224-37.  Si  riferisce  a  F.  A.  Della  Chiesa,  S.R.E.  cardinalium,  archiepisco- 
porum,  episcoporum  et  abbatum  pedemontanae  regionis  cronologica  historia, 
Torino  1645.  2.  Cfr,  qui,  p.  733  e  le  note  ivi.  3.  La  Chiesa  sotto  il  pon- 
tificato di  Gregorio  il  Grande,  cit.,  p.  235. 


926        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO    MAGNO 

critiche  al  Du  Pin,  che  nel  complesso  egli  ammirava  e  seguiva.1  Inol- 
tre, se  è  vero  che  il  Giannone,  dopo  aver  abbozzato  il  proprio  di- 
scorso su  Gregorio  Magno  nell'Apologia,  decise  di  riprenderlo  ed 
ampliarlo,  è  altresì  vero  che  il  taglio  scelto  è  molto  diverso.  NélTApo- 
logia  il  centro  di  interesse  era  l'opera  intellettuale  di  Gregorio  Ma- 
gno, con  i  suoi  limiti  teorici  (dovuti  al  tempo),  ma  anche  con  i  suoi 
pregi,  ora  invece  è  la  società  europea  che  viene  minuziosamente 
ricostruita  nell'impegno  organizzativo  del  grande  pontefice.  È  la 
società  in  cui  nacque,  come  una  realtà  nuova  e  gravida  di  conse- 
guenze, il  primato  della  sede  romana,  favorito  dalla  profonda  crisi 
della  società  civile. 

Tale  primato  si  stabilì  non  solo  per  il  trasferimento  di  Pietro  da 
Antiochia  a  Roma,  ma  soprattutto  per  il  fatto  che  quando  Costantino 
creò  Costantinopoli,  denominandola  la  seconda  Roma  aveva  ri- 
conosciuto implicitamente  il  fascino  e  la  grandezza  della  prima. 
Comunque  fino  al  V  secolo  si  trattava  solo  di  un  fatto  di  onore  e  il 
vescovo  di  Roma  non  poteva  ingerirsi  negli  affari  delle  altre  Chiese. 
Nel  V  secolo  si  cominciarono  a  far  valere  le  prime  pretese  e  con 
Leone  Magno  la  Chiesa  di  Roma  aspirò  ad  essere  la  più  importante. 
Con  la  crisi  dell'Impero  d'Oriente,  con  la  perdita  di  prestigio  delle 
Chiese  orientali,  nel  VI  secolo  Gregorio  riuscì  a  stabilire  la  propria 
autorità  non  solo  sulle  Chiese  d'Africa,  ma  anche  sui  patriarcati  di 
Gerusalemme  e  di  Costantinopoli.  Il  regno  papale  si  formò  quindi 
in  un  vuoto  di  potere  imperiale;  a  Gregorio  fu  facile  respingere  le 
pretese  dei  patriarchi  orientali  di  essere  ecumenici  nella  misura  in 
cui  le  loro  fortune  erano  legate  all'Impero  e  quindi  ne  subivano 
tutte  le  perdite,  mentre  la  Chiesa  di  Roma  contrapponeva  la  propria 
autonomia  e  il  proprio  prestigio  sull'Occidente.  Il  Giannone  studia 
il  lento,  ma  inarrestabile  processo  che  porta  al  papato  come  realtà 
ecumenica  proprio  nei  termini  che  la  polemica  di  Gregorio  contro  i 
patriarchi  orientali  sembrava  voler  negare.  Ricostruisce  tale  vicenda 
per  tutta  l'area  occidentale,  servendosi,  oltre  che  delle  Epistole,  di 
Pierre  de  Marca  e  di  Louis  Ellies  Du  Pin  per  la  Francia  e  di  Joseph 
Bingham  per  gli  altri  paesi.  Fra  le  altre  cose  riprende  il  tema  della 
lotta  contro  le  immagini.  Il  suo  atteggiamento  è  molto  meno  rigida- 
mente moralistico  che  nel  Triregno,  dove  la  diffusione  delle  immagini 
era  riportata  -  secondo  un  radicalismo  di  origine  protestante  -  a  un 
ritorno  neo-pagano  della  Chiesa  di  Roma,  che  non  aveva  avuto  il 
coraggio  di  affrontare  un'esistenza  puramente  spirituale  e  si  era 
istituzionalizzata,  assorbendo  (come  al  suo  tempo  i  Gesuiti  in  Cina) 
i  riti  gentili,  per  rendersi  più  accettabile  agli  occhi  di  un  mondo  solo 

1.  Ibid.,  p.  392. 


NOTA   INTRODUTTIVA  927 

esteriormente  convertito  e  ancora  legato  alle  forme  cultuali  pagane. 
Osserva  ora  le  stesse  cose  con  un  occhio  più  aperto  e  distaccato; 
dairalto  del  suo  cristianesimo  tollerante  e  ragionevole  afferma  che 
è  stata  assurda  una  polemica1  su  cose  così  poco  importanti.  Ma  se 
ciò  potrebbe  far  pensare  a  una  tipica  incomprensione  ormai  illumi- 
nistica verso  le  lotte  di  religione,  il  Giannone  si  abbandona  assai 
poco  alla  tentazione  di  liquidare  il  passato  senza  capirlo  sia  pure  in 
nome  di  una  razionalità  tollerante.  Infatti  inserisce  la  polemica  sul 
culto  delle  immagini  nel  clima  in  cui  sorse  il  maomettanesimo  ; 
qui  probabilmente  raccoglie  gli  echi  di  un'opera  inseribile  nella 
tradizione  post-spinoziana  e  deistica,  le  Lettres  juives  del  marchese 
d'Argens.2  Le  aveva  lette  a  Ginevra  poco  prima  dell'arresto,  in  un 
ambiente  in  cui  circolavano  fra  i  suoi  amici  e  in  cui  il  tipografo 
Marc-Michel  Bousquet  (che  avrebbe  dovuto  stampare  la  traduzione 
francese  dell5 'Istoria)  si  preparava  a  farne  una  riedizione.3  Secondo 
il  Giannone  il  maomettanesimo  si  inserì  nelle  accuse  di  paganiz- 
zazione  rivolte  ai  cristiani,  portando  la  lotta  in  nome  del  nuovo  pro- 
feta e  del  nuovo  culto.  Come  avevano  affermato  il  Toland  nel  Na- 
zarenus*  e,  meno  radicalmente,  il  d'Argens  nelle  Lettres  juives,  il 
maomettanesimo  si  presentava  come  un  ritorno  alla  tradizione  mo- 
saica,  contro  il  gentilesimo  cristiano,  pur  essendo  in  realtà  un  mi- 
scuglio di  elementi  ebraici  e  cristiani.  Il  culto  delle  immagini  viene 
quindi  compreso  come  il  frutto  di  tempi  rozzi  e  primitivi,  che  portò 
a  vari  eccessi,  di  cui  vi  è  una  divertente  descrizione.  Rivive  anche 
a  questo  proposito  una  parentesi  autobiografica,  un  accenno  al 
proprio  soggiorno  ginevrino  e  al  suo  incontro  con  uomini  come 
Jean-Alphonse  Turrettini  e  Jacob  Vernet,  che  è  un  bellissimo  omag- 
gio al  loro  tollerante  cristianesimo,5  Tornando  al  tema  principale,  il 
Giannone  cerca  di  studiare  le  conseguenze  del  programma  di  Gre- 
gorio in  quanto  la  penetrazione  del  cristianesimo  nella  restante  Eu- 
ropa investe  i  secoli  successivi,  ma  si  modella  ancora  sui  suoi  im- 

1.  Cfr.  Il  Triregno,  ed.  Parente,  il,  pp.  341-5;  per  un  confronto  La  Chiesa 
sotto  il  pontificato  di  Gregorio  il  Grande,  cit.,  pp.  1 1 1-7.  2.  J.-B.  d'Argens, 
Lettres  juives,  ou  correspondance  philosophique,  historique  et  critique  entre 
un  juif  voyageur  à  Paris  et  ses  correspondans  en  divers  endroits,  La  Haye 
1736.  Sulla  lettura  di  quest'opera  cfr.  Giannonìana,  pp.  529-30;  G.  Ricu- 
perati, L'esperienza  civile  e  religiosa  di  Pietro  Giannone,  Milano-Napoli 
1970,  pp.  512-3.  3.  L'edizione  di  Losanna  del  1738  ebbe  come  editore 
il  Bousquet.  Altra  edizione  La  Haye  1738.  4.  London  1718.  5.  La  Chiesa 
sotto  il  pontificato  di  Gregorio  il  Grande,  cit.,  pp.  116-7.  Su  J.-A.  Turret- 
tini cfr.  E.  De  Bude,  Vie  deJ.-A.  Turrettini,  théologien  genevois.  1671-1737, 
Lausanne  1880;  su  J.  Vernet,  Idem,  Vie  de  Jacob  Vernet  théologien  genevois. 
1698-1789,  Lausanne  1893.  Cfr.  inoltre  G.  Ricuperati,  L'esperienza  civile 
e  religiosa  ecc.,  cit,  pp,  518-41. 


928        ISTORIA  DEL   PONTIFICATO    DI    GREGORIO    MAGNO 

pulsi.  Accanto  agli  autori  già  citati,  per  la  Germania  e  i  paesi  pro- 
testanti riprende  P immagine  dell'Europa  di  Pufendorf x  che  gli  per- 
mette di  allargare  i  confini  della  res  publica  cristiana  anche  alla  Sve- 
zia, alla  Norvegia,  alla  Finlandia,  alla  Polonia  e  alla  Russia. 

La  terza  parte  delP opera  riguarda  il  papato  di  Gregorio  in  funzio- 
ne dell'Italia.  Dopo  la  crisi  dell'Impero  d'Occidente  e  le  invasioni 
barbariche,  anche  il  potere  espresso  dagli  imperatori  d'Oriente  at- 
traverso l'esarca  di  Ravenna  era  diventato  nominale.  In  realtà  i  ter- 
ritori interni  erano  dei  Longobardi,  mentre  le  isole  e  le  fasce  costiere 
dei  Bizantini.  Gregorio,  accortamente,  fece  in  modo  che  queste  due 
forze  non  solo  non  lo  danneggiassero,  ma  che,  contrapponendosi, 
gli  garantissero  maggiore  autorità  assicurando  la  preminenza  anche 
politica  di  Roma.  Le  pagine  riguardanti  l'Italia  Meridionale  ri- 
tornano ai  temi  dell'/storta  civile.  La  presenza  di  un  numero  notevole 
di  vescovati  nel  Mezzogiorno  è  ricondotta  -  secondo  la  lezione  del- 
PAulisio  -  alla  presenza  di  altrettante  sinagoghe  primitive.  Con- 
trappone i  costumi  dei  vescovi  di  allora,  che  giudica  semplici  come 
quelli  dei  greci  ed  armeni  dei  suoi  tempi,  al  fasto  e  alle  ricchezze 
che  si  imposero  successivamente.  Anche  qui  vi  è  un  ricordo  di  quella 
simpatia  verso  la  Chiesa  d'Oriente,  creduta  più  pura  nei  costumi,  o 
perché  sotto  il  controllo  dell'imperatore,  o  perché  povera  e  costretta 
a  sopravvivere  in  paesi  ostili,  che  deriva  dalla  lettura  di  Marc' Anto- 
nio De  Dominis,2  oltre  che  dalla  tradizione  gallicana.  La  corruzione 
dei  vescovi  occidentali  fu  proprio  dovuta  alle  ricchezze,  che  li  spin- 
sero sempre  più  sulle  vie  del  mondo.  Per  questa  ragione  arrivarono 
all'immoralità  pubblica  e  all'utilizzazione  personale  delle  rendite,  di 
cui  erano  solo  amministratori  in  nome  dei  poveri  secondo  l'antica 
disciplina.  La  polemica  si  rinsalda  con  quanto  aveva  affermato  nel-* 
l'Istoria  civile  e  con  le  sue  letture,  dal  Du  Pin  a  Zeger  Bernard  van 
Espen.  Infatti  il  capitolo  xvm,  sul  tribunale  della  monarchia  di  Si- 
cilia, è  una  piena  riconferma  delle  tesi  giurisdizionalistiche. 

L'opera  si  conclude  su  due  temi  in  cui  i  richiami  al  Du  Pin  sono 
inevitabili:  la  disciplina  della  Chiesa  d'Occidente  e  la  carenza  di 
una  vera  storia  ecclesiastica.  Il  Giannone  vuol  mostrare  come  la 
disciplina  ecclesiastica  appartenga  al  costume,  cioè  sia  una  realtà 
storica  che  si  modifica  nel  tempo.  Con  Gregorio  Magno  si  era  rag- 
giunta la  superiorità  e  la  piena  affermazione  del  soglio  romano  sugli 


1.  S.  Pufendobf,  Introducilo  ad  historiam  europaeam  latine  reddita  a  I.  F. 
Cramero,  Ultraiecti  1693.  a.  M.  A.  De  Dominis,  De  republica  ecclesiastica 
libri  X,  Londini-Francofurti  1 617-1658,  in  tre  volumi.  Sul  rapporto  Gian- 
none-De  Dominis  cfr.  G.  Ricuperati,  L'esperienza  civile  e  religiosa  ecc., 
cit.,  soprattutto  pp.  491-2. 


NOTA   INTRODUTTIVA  929 

altri  vescovi  ;  era  significativo  di  ciò  il  nuovo  titolo  di  cardinale,  dato 
ai  legati  e  ai  nunzi  di  Roma.  Si  impediva  però  che  i  monaci  prendes- 
sero tutti  gli  ordini,  lasciandoli  alla  preghiera,  allo  studio  e  al  lavoro. 
La  Chiesa  di  Roma,  pur  non  avendo  un  suo  territorio,  era  già  in 
possesso  di  un  cospicuo  numero  di  beni,  che  servivano  per  le  spese, 
assai  più  modeste  di  quelle  che  si  fecero  in  seguito,  quando  il  papato 
cominciò  a  gareggiare  con  le  corti  mondane.  Era  il  patrimonio  di 
S.  Pietro,  amministrato  con  molta  oculatezza  da  Gregorio.  Ma  pro- 
prio allora  si  cominciarono  a  raccogliere  (soprattutto  dalla  pietà  dei 
principi)  donazioni  per  Roma. 

Il  Giannone  conclude  affermando  che  per  quanto  riguarda  la 
disciplina  ecclesiastica  non  ci  si  può  basare  né  sui  Padri,  né  sugli 
autori  della  scolastica,  ma  sui  documenti,  che  devono  essere  analiz- 
zati con  senso  storico  e  collocati  nel  loro  tempo  criticamente  :  di  qui 
l'esigenza  di  una  nuova  storia  ecclesiastica.  In  realtà  il  discorso  tende 
a  porre  in  crisi  il  significato  stesso  di  storia  ecclesiastica  nel  senso 
che  riafferma  l'esigenza  baconiana  di  una  storia  delle  religioni,1  pur 
usando  ancora  il  termine  tradizionale.  E  qui  naturalmente  si  deve 
tener  conto  di  tutta  l'esperienza  giannoniana  se  non  si  vuol  correre 
il  rischio  di  trovare  addirittura  sproporzionata  quest'appendice, 
giustificata  solo  esteriormente  rispetto  al  tema  di  Gregorio  Magno. 
In  quest'ultima  parte  confluiscono  le  vicende  intellettuali  di  tutta 
una  vita:  diventa  incomprensibile  se  appunto  non  si  tien  conto 
che  chi  l'ha  scritta,  dopo  V Istoria  civile  aveva  affrontato  un  grandioso 
tentativo  di  storia  dell'umanità,  dal  mondo  ebraico-gentile  a  quello 
cristiano,  assorbendo,  come  si  è  detto,  non  solo  la  cultura  della  crisi 
della  coscienza  europea,  ma  alcune  radicali  intuizioni  del  deismo.  Il 
Triregno  sarebbe  in  un  certo  senso  impensabile  senza  il  rapporto 
con  Spinoza  e  Toland,  perché  mancherebbero  due  punti  di  riferi- 
mento costanti,  ma  sarebbe  anche  impensabile  senza  la  conoscenza 
di  tutta  la  cultura  erudita  cattolica  e  soprattutto  protestante  che, 
nella  crisi,  rinnova  la  storiografia  religiosa.  E  inoltre,  dietro  il 
Triregno,  c'era  un  mondo  inespresso  di  cui  queste  pagine  sono  una 
prova  sottile  :  il  mondo  delle  curiosità  orientali,  del  libertinismo  che 
si  incuriosisce  per  i  costumi  degli  altri  paesi,  soprattutto  quelli 
fuori  della  tradizione  cristiana,  e  ne  spia  avidamente  analogie  e  di- 
versità, nelle  relazioni  dei  missionari,  nelle  cronache  dei  viaggiatori, 
nelle  collezioni  di  splendidi  disegni  che  tanto  il  principe  Eugenio 
che  il  barone  di  Hohendorf  amavano  raccogliere  per  le  loro  biblio- 
teche. Questo  mondo  che  ci  parla  di  una  Vienna  protesa  verso  l'O- 

1.  Cfr.  F.  Bacon,  De  dignitate  et  augmentis  scientiarum  libri  IX,  in  Opera, 
1,  Londini  1623.  La  prima  edizione,  in  inglese,  usci  a  Londra  nel  1605. 

50 


930        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO    MAGNO 

riente,  legittimamente  curiosa  della  civiltà  turca,  e,  oltre  questa,  di 
tutte  le  civiltà  orientali,  in  cui  le  intuizioni  del  deismo  si  inserivano 
con  un'evidenza  ancor  più  profonda  (erano  gli  stessi  uomini  che 
avevano  viaggiato  per  l'Oriente,  che  avevano  combattuto  i  Turchi, 
che  come  Alexander  Bonneval1  o  l'Hohendorf 2  ne  avevano  assimila- 
to anche  i  costumi,  ad  aver  rapporto  con  la  letteratura  deistica,  ma- 
gari con  una  coloritura  conservatrice  e  con  la  saggezza  aristocratica 
dei  vecchi  libertini),  era  stato  evidentemente  respirato  dal  Gian- 
none.  Se  ne  trova  un'eco  in  queste  pagine  che  non  solo  confermano 
il  Triregno,  ma  pongono,  almeno  sul  piano  dell'esigenza,  un  di- 
scorso ben  più  avanzato.  La  storia  ecclesiastica  viene  ormai  concepita 
come  una  storia  che  abbracci -per  le  intime  e  profonde  correla- 
zioni -  tutte  le  religioni  :  gentile,  giudaica,  cristiana  e  maomettana. 
Con  forza  il  Giannone  riafferma  il  legame  fra  la  religione  gentile  e 
quella  cristiana  secondo  il  comparatismo  deistico.  Le  eresie  stesse 
sono  il  frutto  del  drammatico  sopravvivere  nel  cristianesimo  del 
paganesimo:  anche  questo  lo  aveva  detto  per  primo  Spinoza  e  lo 
aveva  confermato  il  Toland.  Inoltre  il  mondo  non  finisce  con  l'Euro- 
pa: gran  parte  dell'Asia  è  ancora  gentile,  come  testimonia  tutta  la 
letteratura  sui  riti  cinesi.3  La  religione  naturale  (in  cui  Dio  coincide 
con  la  natura)  è  ancora  la  più  diffusa  in  Cina,  India  e  Giappone. 
Dato  che  l'Africa  è  più  gentile  che  maomettana  o  cristiana,  la  reli- 
gione pagana  è  in  realtà  la  più  grande  delle  religioni.  Partendo  da 
quella  cultura  che  si  era  nutrita  di  motivi  assai  diversi  -  risalenti 
tutti  però  al  cambiamento  delle  dimensioni  del  mondo  e  all'interesse 
per  i  confronti-,  il  Giannone  mostra  di  aver  ereditato,  come  si  è 
già  detto,  l'esotismo  presente  negli  ambienti  libertini  della  corte 
di  Vienna.  La  scoperta  di  una  religiosità  diversa  dalla  propria  non 
nutre  solo  il  relativismo  scettico,  che  pure  contribuì  potentemente 
al  superamento  degli  atteggiamenti  tradizionali;  in  una  fase  più 
avanzata  ha  determinato  il  passaggio  ad  una  consapevolezza  storio- 
grafica del  fenomeno:  dalla  storia  ecclesiastica  a  quella  delle  reli- 
gioni. 

Venendo  a  trattare  della  religione  giudaica,  il  Giannone  ritorna 
ai  temi  del  Triregno,  riassumendoli,  confermando  il  carattere  pura- 
mente terreno  e  mondano  dell'ebraismo  del  primo  Tempio  e  sot- 
tolineando con  più  forza  il  legame  tra  l'idea  dell'immortalità  raccolta 


i.  Sul  Bonneval  cfr.  H.  Benedikt,  Der  Pascha-Graf  Alexander  von  Bon- 
neval 1675-1747,  Graz-Koln  1959.  2.  Sull'Hohendorf  cfr.  G.  Ricupe- 
rati, L'esperienza  civile  e  religiosa  ecc.,  cit.,  pp.  394-431.  3.  Sui  riti  cinesi 
cfr.  F.  Bontinck,  La  lutte  autour  de  la  liturgie  chinoise  aux  XVII  et  XVIII* 
siècles,  Louvain-Paris  1962. 


NOTA   INTRODUTTIVA  93I 

fra  gli  Egizi  (come  aveva  sostenuto  il  Toland)  e  la  corruzione  del- 
l'ebraismo. Inoltre  coglie  in  esso  (anche  se  corrotto  dalla  gentili- 
tà) una  tolleranza  delle  opinioni  diverse  che  venne  a  mancare  nel 
cristianesimo  a  causa  della  rigida  istituzionalizzazione.  Ponendo  le 
origini  della  storiografìa  moderna  nel  metodo  umanistico  e  critico 
erasmiano,  coglie  altresì  il  valore  della  rottura  protestante.  All'inter- 
no del  mondo  cattolico  la  sua  simpatia  va  ai  gallicani,  da  Claude 
Fleury,  a  Sébastien  Le  Nain  de  Tillemont,  a  Noèl  Alexandre.  Ma 
rileva  acutamente  i  difetti  di  questa  scuola:  la  sopravvalutazione 
della  tradizione  gallicana,  il  disinteresse  verso  le  altre  religioni, 
verso  la  Chiesa  orientale  soprattutto,  la  volontà  di  isolare  la  religione 
come  momento  fondamentale,  senza  saperla  porre  in  relazione  con 
le  dimensioni  storiche  e  politiche  dell'ambiente.  Lo  stesso  limite  è 
colto  nella  storiografia  anglicana,  mentre  la  Germania  protestante 
ha  almeno  il  merito  di  aver  preparato  il  sottofondo  erudito  per  una 
storia  ecclesiastica  e  civile.  Nei  motivi  conclusivi  di  questo  ultimo 
capitolo,  qui  riprodotto,  vi  è  un  appassionato  invito  a  studiare  la  sto- 
ria del  cristianesimo  non  solo  in  una  dimensione  erudita  e  documen- 
taria, come  aveva  fatto  la  scuola  maurina,  ma  soprattutto  compa- 
ratistica. 

Sulla  religione  maomettana  possono  valere  le  osservazioni  fatte 
precedentemente:  il  collegamento  stabilito  con  il  mondo  libertino 
di  Vienna  e  il  discorso  del  Toland  sul  vangelo  di  Barnaba  (Nazare- 
nus),  legame  fra  mondo  ebraico  e  mondo  maomettano.  Il  Giannone 
è  certo  molto  più  cauto  del  Toland  e  senza  dubbio  più  teso  a  non 
cadere  nel  puro  paradosso.  Ma  tolandiano  mi  pare  soprattutto  il 
modo  di  sottolineare  fortemente  il  motivo  ebraico  nel  maomettane- 
simo  ;  per  esempio  il  Giannone  afferma,  con  Toland,  che  i  maomet- 
tani, spinti  dal  monaco  Sergio,  mentre  non  perseguitavano  gli  Ebrei, 
accusavano  i  cristiani  di  aver  corrotto  con  il  culto  delle  immagini  e 
un  nuovo  gentilesimo  la  morale  mosaica.  Naturalmente  le  fonti  del 
Giannone  non  sono  solo  il  Toland  o  i  missionari,  ma  anche  le  grandi 
opere  della  cultura  seicentesca  sul  mondo  mussulmano,  dal  Rycaut 
al  Reeland,1 

Le  conclusioni  riguardano  la  propria  esperienza  intellettuale  ed 
esaltano  lo  storico  che  compie  il  dovere  di  raccontare  la  verità:  i 
modelli  sono  ancora  una  volta  Livio,  Plinio  e  Jacques-Auguste  de 
Thou.2  Sono  significativi  perché  dietro  due  di   essi  ritroviamo  il 

1.  P.  Rycaut,  The  Present  State  of  the  Ottoman  Empire,  London  1668. 
Ma  il  Giannone  lesse  certamente  la  traduzione  francese  a  cura  di  M.  Briot 
pubblicata  a  Parigi  nel  1670;  A.  Relandi,  De  religione  mohammedica  libri 
duo,  Ultraiecti  1705.  2.  Cfr.  G.  Ricuperati,  op.  cit.,  pp.  154-5;  162-3 
e  passim. 


93^       ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO    MAGNO 

Toland:  il  riferimento  a  Livio  significa  infatti  un  atteggiamento 
intellettuale  e  politico  nei  confronti  del  sovrano  ben  diverso  da  quello 
che  si  è  soliti  attribuire  al  Giannone.  Dietro  Plinio  -  come  già  in 
Toland  -  c'è  il  fascino  di  una  visione  terrena  e  concreta  dell'esisten- 
za, una  morale  naturalistica  che  si  richiama  allo  stoicismo.  Le  Histo- 
riae  sui  temporis  del  de  Thou  sono  lo  strumento  che  ha  accompagna- 
to il  Giannone  in  tutte  le  esperienze.  Modello  nell'Istoria  civile,  come 
opera  di  uno  storico  giurista  della  nobiltà  di  toga  francese,  acquistano 
soprattutto  ora  un  significato  pregnante:  è  un'opera  che  ha  avuto  il 
coraggio  di  denunciare  le  crudeltà  commesse  in  nome  della  religione 
e  di  battersi  per  la  pace,  per  il  superamento  dei  conflitti,  resi  inutili 
dalla  cultura  e  da  una  prospettiva  più  aperta.  C'è  un  quarto  modello  : 
il  Giannone  stesso,  confermato  con  ostinazione,  esaltato  nonostante 
la  contingente  prigionia,  offerto  al  futuro  per  un  giudizio.1  La  co- 
scienza di  aver  contribuito  a  questo  discorso  storiografico  e  non  solo 
con  l'Istoria,  ma  soprattutto  con  il  Triregno,  è  chiarissima  e  anzi 
drammaticamente  delineata  dalla  stanchezza  presente,  dalla  coscien- 
za offesa,  dal  senso  della  morte  che  la  vecchiaia  e  la  prigionia  gli 
ispirano. 

Giuseppe  Ricuperati 


i.  Cfr.  La  Chiesa  sotto  il  pontificato  di  Gregorio  il  Grande,  cit.,  pp.  470-1 
(qui,  pp.  985-6). 


ISTORIA  DEL  PONTIFICATO 
DI  GREGORIO  MAGNO 

LIBRO  IV 
CAP.   ULTIMO 

Che  ancor  oggi  fra  le  cose  desiderate  debba  riporsi  un'esatta, 
generale  e  compita  istoria  ecclesiastica. 

Parrà  senza  dubbio  cosa  strana,  doppo  essersi  travagliato  cotanto 
da  più  scrittori  moderni,  spezialmente  da'  Francesi,  sopra  l'istoria 
ecclesiastica,  che  io  osi  di  dire  che  ce  ne  manchi  ancora  un'esatta, 
generale  e  compita;  ma  chiunque  vorrà  prendersi  la  pena  di  at- 
tentamente riguardare  le  più  alte  ed  intime  ragioni,  cesserà  di 
maravigliarsi,  e  confesserà  di  essermi  apposto  al  vero. 

L'istoria  ecclesiastica  non  ha  si  brevi  confini,  dentro  i  quali 
questi  scrittori  han  voluto  ristringerla.  Ella  ne  ha  più  ampi  e  distesi 
e  se  in  tesserla  non  si  terrà  conto  di  tutte  le  quattro  principali  re- 
ligioni onde  il  mondo  è  ricoperto,  cioè  della  gentile,  giudaica, 
cristiana  e  maomettana,  non  potrà  certamente  aversene  una  compi- 
ta e  perfetta;  poiché  l'una  ha  avuto  ed  ha  molta  correlazione  e  rap- 
porto coll'altre;  né  si  possono  ben  conoscere  i  vari  stati  e  le  varie 
vicende,  che  sopra  la  superficie  della  terra  han  sortite,  se  di  tutte 
non  si  tenga  ragione.  Alcuni  han  conosciuto  in  parte  questa  verità, 
onde  han  dato  principio  alle  loro  istorie  cominciando  dalla  religio- 
ne giudaica,  riputata  madre  della  cristiana*,  ed  il  P.  Natal  d'Alessan- 
dro,1 prima  di  trattar  di  questa,  premette  ben  due  grossi  volumi 

Quest'opera  fu  pubblicata  nelle  Opere  inedite  di  P.  Giannone,  a  cura  di 
P.  S.  Mancini,  Torino  1852  (ma  1859),  11,  con  il  titolo  arbitrario  La  Chiesa 
sotto  il  pontificato  di  Gregorio  il  Grande,  Sui  criteri  editoriali  del  Mancini 
cfr.  Nicolini,  Scritti,  pp.  45  sgg.  Per  le  pagine  offerte  in  questa  raccolta, 
data  l'impossibilità  di  utilizzare  l'edizione  citata,  per  i  continui  e  pesanti 
interventi  del  Mancini,  ci  siamo  serviti  esclusivamente  dell'autografo  con- 
servato nell'Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  v, 
ins.  1,  con  il  titolo  (e,  5)  Istoria  del  pontificato  di  Gregorio  Magno  disteso 
sopra  le  tre  parti  del  mondo  allora  conosciuto  :  tratta  delle  sue  epistole  esposte 
secondo  il  lor  ver  senso  e  ridotte  in  miglior  ordine  e  disposizione.  A  e.  165  la 
data  finale:  «12  settembre  1742».  Cfr.,  oltre  al  Nicolini,  cit.,  G.  Ricupe- 
rati, Le  carte  torinesi  di  Pietro  Giannone,  Torino  1963,  p.  66;  Giannoniana, 
p.  456.  Per  un'analisi  di  quest'opera,  nel  contesto  dell'intero  discorso  gian- 
noniano,  cfr.  G.  Ricuperati,  L'esperienza  civile  e  religiosa  ecc.,  cit.,  so- 
prattutto le  pp.  581-91. 

1.  Natal  d'Alessandro-,  vedi  la  nota  1  a  p.  104. 


934        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO    DI    GREGORIO    MAGNO 

per  darci  contezza  dell'istoria  della  chiesa  giudaica,  ben  compren- 
dendo che  runa  avendo  molto  rapporto  colFaltra,  non  possono 
andar  disgiunte  e  separate.  Conobbe  pure  che  lo  stesso  avrebbe 
dovuto  farsi  della  maomettana  ;  ma  egli  nel  VII  secolo  se  ne  disbriga 
in  poche  pagine,  come  se  fosse  fuori  del  suo  istituto,  vedendo  che 
gli  altri  scrittori  o  non  ne  parlano,  ovvero  appena  l'accennano  nelle 
loro  istorie,  quando  non  avrebbe  dovuto  essere  trascurata.  Ma  della 
gentile  non  si  fa  da  tutti  motto  alcuno,  come  se  non  si  appartenesse 
affatto  ad  una  compita  istoria  ecclesiastica,  nel  che  sono  andati  di 
gran  lungo  errati.1 

Un'intera,  perfetta  e  compita  istoria  ecclesiastica  dee  abbrac- 
ciare tutte  quattro,  poiché  chi  dice  istoria  ecclesiastica^  dice  istoria 
di  tutti  i  collegi  ed  assemblee  di  uomini  insieme  uniti  per  causa  di 
religione.  E  se  bene  presso  i  Greci  e'  Romani  la  voce  ecclesia  avesse 
un  più  ampio  significato,  e  comprendesse  anche  tutte  le  altre  as- 

i.  Parrà  senza  dubbio  . . .  errati-,  questa  premessa  è  particolarmente  signi- 
ficativa in  quanto  mostra  la  profonda  insoddisfazione  del  Giannone  per  la 
storiografia  ecclesiastica  come  era  stata  realizzata  soprattutto  in  Francia, 
da  parte  degli  storici  gallicani,  come  Fleury,  Tillemont  e  Alexandre;  una 
insoddisfazione  che  naturalmente,  più  che  un  significato  di  critica  verso 
un'esperienza  a  cui  pur  il  Giannone  aveva  fatto  riferimento,  vuole  avere  un 
significato  positivo,  indicando  cioè  nuove  prospettive.  Dietro  queste  pa- 
gine c'è,  ancor  viva,  l'eco  di  una  spinta  ricevuta  fin  dalla  giovinezza,  dal 
De  augmentìs  scientiarum  di  Bacone,  in  cui  si  esprime  per  la  prima  volta 
l'esigenza  del  superamento  della  storia  ecclesiastica  per  giungere  alla  storia 
delle  religioni.  Ma  questa  eco  era  passata  attraverso  V Istoria  civile  (in  cui 
Vistoria  ecclesiastica  era  stata  utilizzata  per  capire  la  storia  in  senso  lato, 
e  la  Chiesa  vista  come  una  istituzione  storica,  spogliata  di  ogni  diritto  di- 
vino), attraverso  il  Triregno,  in  cui,  nonostante  il  permanere  di  uno  sche- 
ma teologico,  la  storia  sacra  aveva  fatto  sempre  i  conti  con  la  storia  pro- 
fana, diventata  strumento  di  demitizzazione  e  di  dissacrazione;  attraverso 
l'incontro  con  il  deismo  e  le  sue  esigenze  non  solo  demistificatrici,  ma  so- 
prattutto comparatistiche.  È  quanto  il  Giannone  conserva  del  proprio  pas- 
sato: la  volontà  di  analizzare  il  fenomeno  religioso  senza  isolarlo  né  dal 
contesto  di  civiltà  che  in  un  certo  senso  lo  giustifica,  né  dalle  altre  espe- 
rienze religiose.  Ma  se,  forzatamente,  egli  tende  a  far  passare  questo  suo 
interesse  come  una  migliore  chiarificazione  per  il  cristianesimo  stesso,  in 
realtà  la  religione  gentile,  quella  ebrea,  quella  maomettana,  lo  interessano 
per  se  stesse,  come  è  possibile  notare  anche  nell'economia  delle  pagine  che 
seguiranno.  Per  intendere  questa  discussione  storiografica,  è  necessario 
quindi  tener  presente  che  il  Giannone  è  passato  attraverso  tutte  quelle  espe- 
rienze, dal  libertinismo  pirronista  allo  spinozismo,  al  deismo,  che,  fatico- 
samente, han  permesso  il  superamento  di  una  concezione  della  storiogra- 
fia ecclesiastica  per  giungere  allo  studio  delle  religioni  e  al  metodo  compa- 
ratistico.  Su  questi  problemi  cfr.  K.  VÒlker,  Die  Kirchengeschichtsschrei- 
bung  der  Aufklàrung,  Tubingen  1921,  e  W.  NiGG,  Die  Kirchengeschichts- 
schreibung.  Grundsnìge  ihrer  historischen  Entwicklung,  Mtinchen  1934. 


LIBRO    IV   •  CAP.    ULTIMO  935 

semblee  d'uomini  legitimamente  ragunati  per  causa  di  politia  civile 
pel  pubblico  bene  delle  città,  sicome  S.  Luca  negli  Atti,  cap.  19,  v. 
39,  chiamò  ecclesia  la  legittima  e  pubblica  radunanza  di  Efeso: 
«in  legitima  ecclesia  poterit  absolvi»,  e  nel  v.  40:  «dimisit  eccle- 
siam»;  e  Plinio  il  Giovane  nelPep.  11 1  del  libro  x  indrizzata  al- 
Pimperator  Traiano  chiamò  pure  ecclesia  il  pubblico  consiglio  degli 
Amiseni  in  Bitinia:  «et  ecclesia  consentente»,  nulladimanco  dal 
comun  uso  questa  voce  fu  poi  ristretta  alle  sole  radunanze  per  causa 
di  religione.  Sicché  propriamente  conviene  non  meno  all'una  che 
all'altra  di  queste  quattro.  E  più  cagioni  e  forse  più  potenti  dovean 
movergli,  sicome  non  han  omessa  la  giudaica,  di  non  trascurare  la 
gentile.1 

1.  Gentile. 

Primieramente  dovea  di  qui  darsi  principio  per  far  comprendere 
quanto  la  religione  possa  sopra  gli  animi  umani,  e  che  questa  fosse 
propria  degli  uomini,  non  già  comune  a  gli  animali  bruti;  e  che 
quella  religione,  che  proviene  dal  solo  istinto  e  propensione  degli 
uomini,  per  necessità  dovea  esser  soggetta  a  mille  errori  ed  inganni, 
poiché  la  vera  religione  non  dee  riconoscer  altro  principio  che  la 
divina  rivelazione.  Questa  fu  chiamata  gentile,  poiché  al  solo  genere 
umano  appartenevasi,  ed  era  presso  tutte  le  genti  comune;  ond'è 
che  i  savi  romani  giurisconsulti  la  religione  erga  deos  la  riposero 
fra'  diritti  del  ius  gentium,  sicom' erano  i  contratti,  le  permutazioni 
e  cose  simili,  non  già  tra  il  ius  naturae?  sicome  l'accoppiamento  de* 


1.  E  pia  cagioni ,  .  .gentile:  il  Giannone,  nel  complesso  dell'esperienza  fi- 
nora maturata,  dall'/stona  civile  al  Triregno,  alle  opere  del  carcere,  ha 
cercato  di  valutare  nella  storia  del  cristianesimo  due  componenti,  che  la 
storiografia  precedente  aveva  visto  in  contrapposizione:  la  componente  ro- 
mana e  gentile  (ma  rovesciando  il  discorso  del  Baronio),  per  affermare  che 
il  cristianesimo  ha  subito  una  progressiva  istituzionalizzazione  sulle  tracce 
dell'Impero,  e  quindi  ne  ha  fatalmente  assorbito  anche  certe  cerimonie; 
la  componente  ebraica  (che  gli  derivava  dal  maestro  Aulisio),  per  cui  il 
cristianesimo  agì  sulle  linee  di  movimento  dell'ebraismo  e  si  confuse  per 
un  certo  tempo  come  una  setta  ebraica.  Il  Giannone  coglie  la  possibilità  di 
far  convivere  queste  due  componenti,  che  si  inseriscono  perfettamente 
nella  sua  volontà  di  analizzare  la  storia  delle  religioni  come  storia  dell'at- 
teggiamento umano  di  fronte  al  fenomeno  religioso.  2.  Questa  . . .  nata- 
rae:  ripete  un  motivo  già  sostenuto  altrove,  cioè  che  la  religione  non  sia 
nella  sfera  del  diritto  naturale,  ma  nella  sfera  del  diritto  delle  genti;  stabi- 
lisce cioè  implicitamente  un  rapporto  più  profondo  fra  religione  e  civiltà. 


936        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO    DI    GREGORIO    MAGNO 

maschi  colle  femmine,  la  procreazione  de'  figliuoli,  e  simili  ;  e  non 
la  compresero  in  questo  dritto  di  natura  poiché  sarebbe  stato  lo 
stesso  che  farla  comune  co'  bruti  ;  onde  Giustiniano  M.  come  impe- 
radore  cristiano  ascrivendola  pure  al  ius  delle  genti,  saviamente  nelle 
sue  Pandette,  ciò  che  gli  antichi  giurisconsulti  gentili  ne*  loro  libri 
scrissero  erga  deos  religio,  egli  tramutò  in  erga  Deum  religio  ;  sicome 
fece  S.  Luca  ne*  suoi  Atti,  il  quale  rapportando  l'iscrizione  di  quel 
tempio  in  Atene  che  secondo  gli  antichi  Padri  e  scrittori  gentili  di- 
ceva così:  «  Ignotis  diis »,  scrisse  «Ignoto  Deo»,  poiché  oltre  d'esser 
più  acconcia  al  tema  di  S.  Paolo,  così  conveniva  ad  uno  scrittore 
cristiano.1  Adunque  que'  scrittori  moderni  i  quali  cotanto  parlano 
ed  han  sempre  in  bocca  e  nella  penna  «religione  naturale»,  non 
sanno  essi  medesimi  che  si  voglion  dire,  poiché  niuno  disse  che  la 
religione  fosse  iurìs  naturae,  ma  sì  bene  iuris  gentium,  per  escluder- 
ne da  quella  gli  animali  bruti,  i  quali  non  sono  capaci  di  religione 
alcuna,  essendo  sola  degli  uomini;  se  non  forse  per  ius  naturale 
intendano  lo  stesso  negli  uomini  che  ius  gentium,  sicome  fa  sovente 
Cicerone  nel  Kb.  3  De  officiis,  il  quale  però  per  non  confondere  l'uno 
coli' altro,  si  spiega  dicendo:  «hoc  solum  natura,  id  est  iure  gen- 
tium)),2, chiamando  il  ius  delle  genti  naturale,  come  quello  che  deriva 
dalla  umana  natura,  non  già  assolutamente  dalla  natura.  E  se  bene 
Plinio  il  Vecchio  ne'  suoi  libri  dell'Istoria  di  natura  dia  agli  elefanti 
anche  religione,  ed  altrove  nel  lib.  7,  in  proem.,  par  che  agli  uomini 
solo  attribuisca  la  superstizione,  sicome  l'ambizione  e  l'avarizia,3 
non  già  la  religione-,  nulla  di  manco  ciò  in  lui  derivò  dal  concetto 
che  avea  la  natura  essere  eterna,  non  creata  ed  il  solo  nume,  e  che 
non  fosse  già  sorda,  muta  e  cieca,  ma  intelligente,  savia  e  provida, 
e  l'attribuì  fino  il  profetare,  dimenticandosi  affatto  del  suo  creatore; 
che  maraviglia  fu  dunque  che  facesse  anche  gli  animali  bruti  parte- 
cipi di  religione?  Ma  questo  medesimo  scrittore  nel  cap.  7  del 

1.  onde  Giustiniano  .  .  .cristiano:  veramente  curioso  e  rivelatore  il  para- 
gone stabilito  fra  Giustiniano,  che  trasforma  Verga  deos  religio  dei  giuri- 
sti gentili  in  erga  Deum  religio,  per  inserire  il  cristianesimo  nel  diritto  delle 
genti  e  nelle  Pandette,  e  quanto  fa  Luca  (Act.,  17,  23),  che  trasforma  l'iscri- 
zione del  tempio  di  Atene  «  Ignotis  diis  »  in  «  Ignoto  Deo  »,  per  accomo- 
darla al  discorso  di  Paolo  e  perché  «così  conveniva  ad  uno  scrittore  cri- 
stiano». -  scrittori  gentili:  così  ci  sembra  di  poter  interpretare  una  confusa 
abbreviazione.  2.  Cicerone . . .  gentium  :  De  off.,  ili,  v,  23 .  3 .  E  se  bene  Pli- 
nio . . .  avarizia:  cfr.  Naturalis  historia,  a  cura  di  Jean  Hardouin,  Parisiis 
1723,  in  tre  tomi,  rispettivamente  lib.  vili,  cap.  1,  sect.  1,  tomo  I,  p.  435, 
•e  lib.  vii,  sect.  1,  proemio,  ivi,  pp.  369-70. 


LIBRO    IV   •  CAP.    ULTIMO  937 

lib.  2°  ben  fa  concepire  che  l'innumerabil  turba  di  tanti  dei  o  dee 
non  se  non  dagli  umani  affetti  e  dal  timore  ed  infermità  degli  uomini 
ebbe  origine:  «ut  portionibus  coleret  quisque,  quo  maxime  in- 
digeret  a.1 

Da  questo  principio  deriva  che  quella  religione  che  proviene 
dal  solo  istinto  e  propensione  degli  uomini,  come  che  vani  nel 
pensare  e  ne'  concetti,  per  necessità  dovea  esser  soggetta  a  mille 
illusioni,  errori  ed  inganni;  e  quindi  nella  gentile  derivarono  il  pro- 
digioso numero  di  tanti  dii  e  dee  e  le  tante  loro  vane  e  fantastiche 
idee.  I  loro  dii  per  la  maggior  parte  erano  immaginari  e  finti;  e 
molti  prodotti  dal  timore  ne'  mali  imminenti,  o  dalla  speranza  di 
futuri  beni;  onde  non  aveano  altra  sussistenza  che  nella  loro 
fantasia  ed  immaginazione.  Erodoto,  lib.  8,  cap.  ni,  112,  e  Plu- 
tarco in  Themìst.2  narrano  che  Temistocle  doppo  la  battaglia  di 
Salamina  fu  vòlto  a  porre  in  contribuzione  l'isole  del  Mar  Egeo,  e 
giunto  a  quella  d'Andros  fece  sentire  agl'abitanti  che  «veniva  ad 
essi  accompagnato  da  due  potenti  divinità»:  dalla  dea  Persuasione 
e  dalla  dea  Forza;  ma  que'  gli  risposero  ch'essi  dal  lor  canto  aveano 
pure  due  divinità  che  gli  difendevano  non  meno  potenti  che  le  sue, 
le  quali  non  gli  permettevano  somministrargli  il  denaro  richiesto, 
ch'erano  la  Povertà  e  ^Impotenza.  Altri  ne'  luminosi  corpi  celesti, 
come  a  noi  superiori  e  cotanto  sublimi,  immaginarono  divinità;  e 
come  tanti  numi  gli  prestavan  religioso  culto.  L'immaginarono 
eziandio  nelle  pioggie,  onde  il  dio  Pluvio^  ed  in  tutti  gli  altri  strani 
avvenimenti  che  nell'aria  appariscono,  de'  quali  ignorandone  le 
cagioni,  erano  attribuiti  a'  numi  celesti.  Nella  superficie  della 
terra  stessa  che  calcavano  co'  piedi  seppero  trovar  deità,  ne'  fonti, 
ne'  fiumi,  ne*  laghi,  ne'  monti,  nelle  selve,  nelle  valli,  nelle  spe- 
longhe  Fauni,  i  Sileni,  Pan  ed  in  fino  ne'  sordi  tronchi  degli  alberi 
le  ravvisavano.  E  non  riguardando  la  loro  religione  se  non  il  riposo 
di  questo  mondo,  felicità  o  miserie  tutte  terrene,  quindi  i  loro  voti 
e  preghiere  non  si  raggiravano  che  intorno  a  suppliche  di  scam- 
pargli da'  mali  e  di  prosperargli  di  felicità  e  mondane  contentezze. 
Da  ciascuna  umana  passione,  da  ciascuna  virtù,  anzi  da'  vizi  stessi, 


1.  Ma  questo  medesimo  . .  .  indigeret:  Plinio,  come  il  Toland  nel  più  volte 
citato  Adeisidaemon  (cfr.  la  nota  1  a  p.  736),  viene  utilizzato  in  senso  anti- 
superstizioso. Il  passo  citato  in  Nat.  hist.,  ed.  cit.,  tomo  1,  p.  72  («cosi  che 
ciascuno  venerava  settorialmente  quelle  divinità  di  cui  soprattutto  aveva 
bisogno»).     2.  Themìst,  21,  2. 


930         ISTORIA    DHL    FUJN  1 1*  JLCA1  U    DI    UKJb.(iOKlU    MAGNO 

dalle  nostre  infermità  o  difetti  facevan  nascere  anche  dii  e  dee. 
Quindi  sursero  le  dee  Pudicizia,  Concordia,  Clemenza,  Fede,  Spe- 
ranza, e  la  dea  Mente.  Quindi  il  dio  Onore,  Favore,  Pallore  e  tanti 
altri.  Fino  i  ladroni  ebbero  Mercurio  e  la  dea  Laverna,  perché 
prendessero  di  lor  protezione  e  favorisse  i  loro  furti  e  rapine.  A 
questa  dea  aveano  consecrato  un  bosco  vicino  a  Roma,  dove  s'uni- 
vano a  dividersi  le  loro  prede,  alla  quale  rendevan  voti  e  suppliche 
affinché  li  procurasse  di  buone  prede.  Nel  medesimo  bosco  aveano 
eretto  un  altare  alla  dea  Fraude,  pregandola  di  soccorso.  Anche 
da'  morbi,  dalle  pesti,  dalla  scabie  ed  altri  mali  che  pavidi  e  timorosi 
cerchiamo  fosser  da  noi  lontani,  sursero  nuovi  dii  e  nuovi  tempii 
ed  altari.  Infino  alla  dea  Febre  fu  eretto  in  Roma  nel  Palazzo  un 
tempio,  ed  un'ara  alla  Mala  Fortuna.  Al  silenzio  assegnarono 
Harpocrate  per  dio  a  gli  uomini,  e  per  le  femmine  la  dea  Tacita. 
Per  una  sola  voce  udita  o  immaginata,  «  Gallos  adventare  »,  narra 
Livio  nel  lib.  5  della  I  deca  che  Camillo  in  quei  luogo  costrusse 
un  tempio  alla  dea  Locutione.1  Ma  alla  dea  Fortuna  quante  pre- 
ghiere, e  sovente  anche  accuse  ed  imprecazioni  si  fanno  da'  miseri 
mortali?  Ella  sola  s'invoca  in  ogni  luogo  ed  in  ogni  ora:  si  loda, 
si  biasima  e  maledice  come  incerta,  vaga  ed  incostante,  fautrice 
degl'indegni  ed  avversa  a*  buoni.  E  pure  noi  ce  l'abbiamo  finta  e 
collocata  in  cielo.  Niente  è  in  natura  fornito,  e  sempre  con  perpetua 
serie  cosa  nasce  da  cosa;  noi  che  non  sappiamo  l'immediate  cagioni 
onde  con  tal  effetto  si  produce,  immaginiamo  che  sia  fortuito,  e 
pure  di  necessità  così  dovea  accadere,  e  maraviglia  sarebbe  se  fosse 
accaduto  il  contrario,  quindi  saviamente  disse  Giovenale  : 

Te  deam,  Fortuna,  facimus,  coeloque  locamus.3. 

Ne'  sponsali  e  ne'  parti  delle  donne  e  prima  e  doppo,  quanta 
turba  di  dii  e  dee  concorrevano?  Nell'infanzia  prendevan  cura 
del  nato  speciali  numi;  altri  nella  puerizia;  altri  nell'adolescenza; 
altri  nella  gioventù,  raccomandandogli  alla  dea  Iuventa;  finché 
condotto  al  sepolcro  non  lo  lasciassero  alla  discrezione  e  giudizio 
degli  dii  infernali,  a'  quali  pure  rendevan  adorazioni  e  religioso 


1.  Da  ciascuna  umana  . .  .  Locutione:  ripete  un  brano  dei  Discorsi:  cfr.  qui 
p.  754  e  la  nota  2  ivi.  2.  Sat.t  x,  365-6:  «nos  te/nos  facimus,  Fortuna, 
deam,  caeloque  locamus»  («noi,  noi  facciamo  di  te  una  dea,  o  Fortuna,  e 
ti  collochiamo  in  cielo»). 


LIBRO   IV   •  CAP.   ULTIMO  939 

culto,  per  avergli  placati  ed  affinché  non  gli  nocessero.  Tanti  numi 
non  furon  prodotti  se  non  per  proprio  istinto  e  dalla  debolezza  e 
fragilità  dell'umana  condizione,  la  quale  sperimentando  nel  corso 
di  questa  vita  tante  sciagure,  le  divide  in  tante  porzioni,  e  ne  forma 
tante  deità  perché  sian  preste  a  soccorrergli. 

Un  altro  non  men  redundante  ed  ubertoso  fonte  gli  produsse, 
poiché  gli  trasse  da  gli  uomini  stessi.  Nell'antichissimo  regno 
d'Egitto,  il  costume  di  condire1  e  conservare  i  cadaveri  de*  loro 
morti,  esporgli  al  cospetto  delle  famiglie  nelle  proprie  case,  e  imo 
di  mettergli  a  tavola  ne'  loro  conviti,  fece  che  a  lungo  andare  il 
vedersi  avanti  gli  occhi  i  corpi  imbalsamati  de'  loro  defonti  che 
aveano  amati  ed  onorati  in  vita,  e  conservandone  la  memoria  anche 
con  statue  e  dipinture  rappresentandogli  come  se  fossero  vivi,  si 
eccitò  a  far  verso  di  essi  atti  di  venerazione,  la  qual  pian  piano 
crescendo,  sicome  suole  avvenire  in  tutte  le  cose,  la  venerazione 
si  tramutò  in  adorazione,  onde  sursero  altri  dii  e  dee.  In  cotal  guisa 
ciò  che  i  figliuoli  fecero  a'  loro  padri,  ricevettero  essi  da'  figliuoli, 
e  se  ne  multiplicò  il  numero  ;  sicome  saggiamente  fu  espresso  nel 
libro  della  Sapienza,  cap.  14,  15,  ove  leggiamo  queste  parole: 
«Acerbo  enim  luctu  dolens  pater,  cito  rapti  filii  fecit  imaginem, 
et  illum  qui  tunc  quasi  homo  mortuus  fuerat,  nunc  tanquam 
deum  colere  coepit,  et  constituit  inter  servos  suos  sacra  et  sacri- 
ficia». 

Derivarono  anche  da  gli  uomini  per  un  altro  verso.  I  primi 
conquistatori,  i  primi  inventori  delle  arti  e  delle  scienze  si  merita- 
rono doppo  la  lor  morte  onori  divini,  e  di  esser  numerati  fra*  dii 
celesti.  Chiunque  porrà  mente  alla  primiera  vita  degli  uomini  tutta 
selvaggia  ed  incolta,  troverà  che  viveano  sparsi  sopra  la  superficie 
della  terra  in  separate  famiglie;  non  ridotti  in  una  società  civile,  ma 
ciascun  padre  di  famiglia  era  il  re  e  signore  della  sua  casa,  secondo 
che  apprendiamo  dalle  antichissime  memorie  che  ancor  ci  restano, 
a  noi  tramandate  da'  vetusti  scrittori,  da  Omero,  da  Erodoto,  da 
Diodoro  Siciliano  che  le  raccolse  ne*  suoi  primi  cinque  libri  della 
Biblioteca  istorica,  e  sopra  tutti  dal  libro  di  Gioì  e  dalla  Genesi  di 
Mosè:a  libri  i  più  vetusti  di  quanti  la  più  remota  antichità  ha 

1.  condire:  seppellire,  imbalsamare  (latinismo).  2.  Chiunque  —  Mose',  cfr. 
D.  Aulisio,  Delle  scuole  sacre  libri  due  postumi,  Napoli  1723,  due  tomi  in 
un  volume,  1,  cap.  xxvi,  De*  poeti  idumei,  pp.  143  sgg->  soprattutto  p.  148, 
in  cui  si  afferma  che  il  libro  di  Giobbe  è,  almeno  per  una  parte,  il  più 


940        ISTORIA  DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO   MAGNO 

potuto  somministrarci.  Ma  quando  dapoi,  surti  uomini  di  valore, 
di  estraordinaria  forza  e  coraggio,  cominciarono  a  farsi  capi  di 
numerose  truppe  e  scorrer  la  terra,  di  predare  e  fare  conquiste  di 
ampi  paesi,  allora  si  vide  il  mondo  prender  altra  faccia.  Quindi 
sursero  i  regni  e  le  grandi  monarchie,  quindi  l'antichissimo  regno 
di  Egitto,  i  regni  di  Argo  e  di  Sidone;  quindi  il  vasto  imperio  degli 
Assiri,  a'  quali  succedetter  poi  i  Medi,  i  Persi,  i  Greci  sotto  Ales- 
sandro M.,  e  finalmente  i  Romani.  Tutti  questi  primi  insigni 
conquistatori  presso  più  nazioni  furono  ascritti  nel  numero  de'  dii 
celesti,  ergendogli  tempii  ed  altari  e  prestandogli  religioso  culto. 
Quindi  nella  Grecia  si  vide  sorgere  queir  innumerabile  schiera  di 
dii  e  di  dee  maggiori  e  minori,  che  non  furono  se  non  dal  fango 
e  dalla  vii  terra  nati.  Così  nella  Grecia,  la  quale  empì  il  mondo 
di  tante  deità,  doppo  le  conquiste  di  Acmone,  Uranio  suo  figliuolo 
che  gli  successe,  per  render  più  rispettabile  la  memoria  di  suo  pa- 
dre, gli  fece  prestar  da'  popoli  onori  divini,  onorandolo  con  sacrifici 
ed  ascrivendolo  tra  il  numero  de'  dii.  Lo  stesso  fu  dapoi  a  lui  ren- 
duto  dal  suo  figliuolo  Saturno.  E,  sicome  suole  avvenire,  sempre 
più  il  fascino  e  l'adulazione  avanzandosi,  si  vide  multiplicare  il  di 
lor  numero  ;  poiché  Uranio  e  Saturno  avendo  per  mogli,  sicom'era 
il  costume  di  que'  primi  tempi,  le  proprie  sorelle,  ambi  chiamate 
Vesta,  i  figliuoli  che  ne  nacquero,  da  ambo  i  lati  procedendo  da 
stirpe  divina,  furon  ancor  essi  riposti  fra  il  numero  de*  dii.  Quindi 
sursero  i  dii  maggiori  e  più  potenti,  Giove,  Plutone,  Nettuno, 
Giunone,  figli  di  Saturno  :  ma  niuno  ne  fu  più  fecondo  quanto  che 
Giove,  il  quale  non  pur  da  Giunone,  sua  moglie  insieme  e  sorella, 
ma  da  tante  altre  sue  concubine  o  amorose  ne  accrebbe  il  numero. 
Di  Giunone  trasse  Marte  ed  Ulcano:  di  Latona,  Apollo  e  Diana: 
poiché  Minerva,  essendo  di  madre  incerta,  la  favola  finse  esser 
surta  dal  capo  di  Giove.  Di  Maia  Mercurio,  e  di  Diana  trasse 
Venere;  e  questa  ch'ebbe  più  mariti  ed  amanti  multiplicò  il  nu- 
mero e  ci  diede  altri  dii,  Imeneo,  Priapo,  Cupido,  che  procreò  da 
Mercurio,  ed  un  altro  Cupido  natogli  da  Marte;  e  la  favola  vi  ag- 
giunge anch'Enea,  procreato  da  Anchise.  Di  Apollo  venne  Escu- 
lapio,  e  così  di  tanti  altri  dii  e  dee.  Né  meno  numerosa  fu  la  pro- 
genie degl'eroi  o  semidei,  che  non  furono  che  uomini:  Ercole,  Te- 
antico  documento  storico,  basando  tutta  la  dimostrazione  (che  il  Giannone 
riprenderà  nell'io  ingegnosa)  sulla  presenza  del  più  antico  nome  di  Saddai 
invece  del  più  recente  Jahvè. 


LIBRO    IV   -  GAP.    ULTIMO  941 

seo,  Castore  e  Polluce,  Giasone,  Orfeo,  Cadmo  e  tanti  altri,  a'  quali 
prestaron  pure  divini  onori. 

A'  primi  inventori  delle  cose,  delle  arti  e  delle  scienze  attri- 
buirono gli  stessi  onori.  A  Bacco  non  pur  come  figlio  di  Giove  e 
gran  conquistatore,  ma  eziandio  perché  a  lui  s'ascrisse  l'invenzione 
del  vino;  sicome  a  Cerere  la  cultura  del  frumento  e  delle  biade  ed 
a  Mercurio  le  lettere.  Così  pure  a  Titone  ed  a  Belo  per  l'astrono- 
mia. Ad  Enetone  figlio  di  Ulcano  per  l'invenzione  de'  carri.  A 
Prometeo  delle  statue.  A  Pane  inventor  del  flauto.  Ad  Aristeo 
dell'oglio  e  del  coagulo.  A  Triptolemo  del  aratro.  Ad  Atlante  per 
l'astrologia.  A  Danao  inventor  delle  navi.  A'  Cureti  per  le  danze; 
e  chi  potrebbe  annoverargli  tutti?  A  tutti  questi,  come  quelli  che 
aveano  sollevato  il  genere  umano  da  una  vita  ferale  e  selvaggia  ad 
un'altra  più  civile  e  eulta;  dalle  ghiande  e  dall'acqua  al  pane  ed  al 
vino  ed  a  più  saporose  vivande,  dalle  spelonche  ad  abitazioni  ma- 
nufatte e  ad  altri  agi  e  commodi,  prestaron  pure  religioso  culto, 
ergendogli  tempii  ed  altari,  istituendogli  propri  sacrifici,  giochi  e 
feste  proprie,  vittime,  sacerdoti  e  sacerdotesse,  poiché  ve  n'erano 
dell'uno  e  l'altro  sesso,  e  tanti  altri  riti  e  varie  religiose  cerimonie. 
E  poiché  una  tal  religione  non  era  guidata  se  non  dal  proprio  umano 
istinto,  dalle  nostre  passioni  ed  affezioni,  dalle  nostre  illusioni, 
timori  e  speranze  e  vane  fantasie,  quindi  ne  vennero  i  tanti  vari, 
ridicoli  e  sconci  riti  e  sacrifici:  ed  avesse  piaciuto  al  cielo  che  le  cose 
si  fosser  fermate  qui  ;  ma  poiché  non  vi  è  chi  possa  maggiormente 
spingere  gli  animi  umani  alle  maggiori  crudeltà  e  scelleraggini, 
quanto  una  prava  religione,  quindi  si  videro  in  alcune  nazioni  ef- 
ferate e  barbare  riti  a  sé  conformi;  obbligare  i  sacerdoti  di  Cibele  a 
castrarsi  ;  ad  esser  seppellite  vive  le  vergini  della  dea  Vesta  perché  o 
non  serbarono  castità,  ovvero  per  lor  negligenza  essersi  estinto  il 
foco  alla  lor  custodia  raccommandato  per  uso  de'  sacrifici:  ed  in 
fine  a  render  vittime  infelici  gli  uomini  stessi,  ed  i  padri  incrudelire 
contro  i  propri  figliuoli,  scannandogli  avanti  i  loro  altari. 

Ora  come  chi  tesse  una  general  istoria  ecclesiastica  potrà  omet- 
tere tutte  queste  cose,  se  al  confronto  della  religione  giudaica  e 
cristiana  riescono  di  pruove  evidenti  ed  irrefragabili  della  loro 
verità,  ed  all'incontro  mettono  in  più  chiara  luce  la  falsità  della 
gentile?  La  religione  giudaica  e  cristiana  rimove  tutti  questi  falsi 
princìpi  e  c'insegna  che  la  vera  religione  non  dee  aver  altro  princi- 
pio e  fondamento  che  la  divina  rivelazione.  E  la  ragione  apparirà 


942        ISTORIA   DEL  PONTIFICATO   DI    GREGORIO    MAGNO 

manifestissima  a  chi  vorrà  riguardare  la  miseria  e  debolezza  della 
umana  condizione;  poiché  se  a  noi  sono  ignote  fino  le  cose  più 
vicine,  che  ci  circondano,  delle  quali  dovremmo  saperne  la  sustan- 
za,  e  non  arriviamo  a  concepirne  se  non  i  modi,  l'apparenze  e  sol 
quanto  a'  nostri  sensi  esterni  si  offerisce,  come  possiamo  penetrare 
nella  sommità  de*  cieli,  e  sapere  la  natura  divina,  e  come  gli  piaccia 
esser  adorata,  ed  in  qual  maniera  prestategli  religioso  culto,  se 
non  per  alta  e  divina  sua  revelazione  ?  Per  questa  ragione  la  nazione 
ebrea,  ancorché  ristretta  in  un  picciol  angolo  del  mondo,  ebbe  sopra 
tutte  le  altre  genti  quella  giusta,  savia  e  vera  idea  della  divinità, 
perché  revelata.  Essere  un  solo  l'eterno  nume,  infinito,  onnipotente, 
sapiente;  tutta  mente,  tutto  spirito,  tutto  senso.  Creatore  e  mode- 
ratore di  quanto  di  visibile  ed  invisibile  è  nell'ampio  universo. 
Fabro  della  natura,  alla  quale  diede  legge,  moto  e  figura;  e  che 
sicome  la  formò,  così  possa  a  sua  voglia  cangiarla,  mutarla,  e  dargli 
altro  corso  e  disposizione.  Al  cui  volere  ubbidiscono  i  venti,  il  mare, 
il  cielo  e  la  terra;  si  restano  dal  lor  corso  i  pianeti  ed  i  fiumi.  Vanno 
i  monti  e  si  appianono,  e  s'innalzano  le  valli.  Non  confusero  gli 
Ebrei  Dio  colla  natura;  né  Mosè  fu  panteista,1  sicome  attorto 
interpretarono  la  sua  dottrina  Diodoro  Siciliano  e  Strabonc,  i  quali 
non  ebber  notizia  de'  suoi  libri,  dove  avrebber  letto  por  egli 
tanta  differenza  tra  Dio  e  la  natura,  quanta  è  fra  creatore  e  creatu- 
ra, fra  li  quali  non  può  immaginarsi  maggiore  e  più  infinita  di- 
stanza. 

Per  divina  revelazione  gli  Ebrei  appresero  la  maniera  come  deb- 
bia esser  adorato,  e  come  rendersegli  i  sacrifici,  le  vittime  e  gli  olo- 
causti: non  già  inventati  di  lor  capriccio,  secondando  gli  umani 
istinti,  le  nostre  passioni  ed  affetti,  e  le  nostre  illusioni  e  fantasie  ; 
e  quindi  i  loro  riti  e  religiose  cerimonie  erano  pure,  semplici  ed 

i.  né  Mosè  fu  panteista',  ritorna  ancora  una  volta,  in  un  tentativo  estremo, 
la  volontà  di  polemizzare  contro  l'espressione  usata  dal  Toland  nelle 
Origines  iudaicae  a  proposito  di  Mosè  panteista:  il  Giannone  si  affianca  in 
questo  alla  polemica  del  Deyling  (cfr.  la  nota  2  a  p.  602).  Ma  il  significato 
di  questa  polemica  forzatamente  limitativa  si  attenua  pensando  che  molte 
delle  osservazioni  precedenti  sulle  origini  dei  culti  e  soprattutto  sulle  su- 
perstizioni in  generale  valevano  anche  per  l'ebraismo.  L'espressione  più 
sopra  «i  padri  incrudelire  contro  i  propri  figliuoli,  scannandogli  avanti  i 
loro  altari  »  può  riferirsi  ugualmente  all'episodio  di  Ifigenia  o  di  Mcropc, 
come  a  Isacco  o  alla  figlia  di  Iefte.  In  realtà,  come,  nonostante  tutto,  il 
Giannone  conferma  anche  nelle  opere  del  carcere,  l'ebraismo  è  una  reli- 
gione naturale  e  terrena. 


LIBRO    IV   •  GAP.    ULTIMO  943 

innocenti,  ed  i  loro  sacrifici  non  contaminati  di  uman  sangue. 
E  discendendo  alla  religion  cristiana,  far  comprendere  che  in 
essa  non  pur  lo  stesso  avenne,  ma  ad  una  revelazione  assai  più 
sicura  e  manifesta  esser  appoggiata;  poiché  nel  Vecchio  Testamento 
Iddio  parlò  a  gli  Ebrei  per  mezzo  de*  profeti,  ma  nel  Nuovo  per 
se  stesso,  mandando  in  terra  Punico  suo  figliuolo,  vero  Dio,  ad 
assumer  carne  umana  per  rivelarla  a  gli  uomini  e  di  esser  mediato- 
re fra  il  cielo  e  la  terra.  Conobbero  anche  i  più  saggi  gentili  que- 
sta verità,  che  la  religion  pura  dee  dipender  da  divina  revelazio- 
ne; e  perciò  i  più  grandi  e  sapienti  fondatori  di  repubbliche  e  di 
regni  si  studiarono  far  credere  a'  popoli  che  quelle  leggi  che  sta- 
bilivano intorno  alla  lor  religione  erano  state  ad  essi  revelate 
da*  sommi  dii.  Così  secondo  rapportan  Diodoro  Siciliano  e  Stra- 
bone,  feccr  Mneve  presso  gli  Egizi  e  Licurgo  presso  i  Lacede- 
moni,1 il  quale,  sicomc  rapporta  Giustino  nel  3.  lib.,  finse  che 
l'avesse  apprese  da  Apollo.*  Parimente  Minos  ogni  nove  anni  una 
volta  si  ritirava  in  certa  spelonca;  ed  ivi  fermandosi  qualche  tem- 
po, ne  usciva  poi,  e  faceva  credere  al  popolo  di  Creta  che  avea 
trattato  con  Giove,  dal  quale  avea  ricevuto  le  leggi  da  doversi  osser- 
vare in  quel  regno.  «Minos  Cretensium  rex»  scrive  Valerio  Mas- 
simo, lib.  1,  cap.  3  «nono  quoque  anno  in  quod[d]am  praealtum, 
et  vetusta  religione  consecratum  specus  secedere  solebat,  et  in  eo 
commoratus,  tanquam  a  love,  quo  se  ortum  ferebat,  traditas  sibi 
leges  praerogabat».3  Solone  presso  gli  Ateniesi,  Zaleuco,  Zamolci 
ed  altri  capi  e  direttori  di  popoli  incolti  e  rozzi  lo  stesso  fecero: 
e  Livio  rapporta  che  il  medesimo  facesse  Numa  Pompilio  co* 
Romani,  dando  a  sentire  alla  credula  multitudine  eh* egli  avea  not- 
turni colloqui  colla  dea  Egeria,  dalla  quale  apprendeva  gl'instituti, 
i  riti  e  le  leggi,  le  quali  a*  dii  piacessero,  e  fosser  loro  grate  ed  ac- 
cette.4 Ma  questi  medesimi  scrittori,  e  spezialmente  Livio,  ci 
rendono  testimonianza  che  dalla  gente  savia  ed  accorta  fu  ben  com- 
preso che  ciò  fosse  un  tratto  di  lor  fina  politica,  non  essendo  cosa 
più  efficace  di  contenere  in  disciplina  la  multitudine  imperita  che 
la  forza  della  religione;  ed  affinché  le  loro  leggi  avute  per  divine 


1.  Così  secondo  . . .  Lacedemoni:  ritornano  i  temi  del  Triregno  (cfr.  la  nota  1 
a  p.  883),  ma  questi  si  completano  significativamente  con  i  temi  dei  Discorsi 
scritti  in  carcere,  z.  il  quale . . .  Apollo:  Giustino,  Epit.,  m,  ni,  io. 
3.  «  Minos  Cretensium. .  .praerogabat»:  Fact.  et  dicU  mem>,  i,  il  (e  non 
in),  ext.  1.    4.  e  Livio  . , .  accette:  cfr.  i,  19,  5- 


944        ISTORIA  DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO   MAGNO 

fossero  da'  popoli  con  riverenza  ricevute  e  con  prontezza  ubbi- 
dite. Ciocché  non  poteva  dirsi  dell'  ebraica,  e  molto  meno  della 
cristiana,  la  quale  non  riguarda  la  felicità  ed  il  riposo  di  questo 
mondo,  ma  un  fine  assai  più  alto  e  più  sublime. 

A  tutto  ciò  si  aggiunga  che  la  mitiologia  gentile  è  necessaria  per 
ben  capire  i  libri  dell'Antico  Testamento,  poiché'  essendo  gli 
Ebrei  circondati  da  nazioni  idolatre  colle  quali  ebber  sempre  con- 
tese ed  aspre  guerre,  ed  o  vincenti,  o  perdenti,  furon  pure  conta- 
minati di  gentilesimo,  adorando  i  lor  numi.  Or  se  è  così,  come 
senz'averne  cognizione  potranno  intendersi  i  dii  nominati  in 
que'  libri,  cioè  il  dio  Apis  degli  Egizi,  rappresentato  in  un  vitello 
d'oro  ;  gli  altri  dii  degli  Assiri  e  de'  Babilonesi,  di  cui  il  maggiore 
fu  reputato  Belo  che  credesi  esser  lo  stesso  che  Nembrot,  al  quale 
eressero  in  Babilonia  quel  magnifico  tempio,  i  cui  vestigi  ancor 
oggi  si  mostrano  a'  viandanti  per  cosa  maravigliosa  e  stupenda? 
Terafi  ed  Astarte  dea  de'  Sidoni,  Remnon  dio  de'  Damasceni,  il 
dio  Moloch,  adorato  dagli  Accaroniti,  al  quale  sacrificavano  i  loro 
propri  infanti;  ed  alla  quale  inumanità  furono  anche  spinti  gli 
Israeliti?  Belphegor  dio  de'  Moabiti.  Astaroth  e  Dagon  dii  de' 
Filistini.  Chamo  dio  degli  Amorceni.  Melchon  dio  degli  Ammoni- 
ti. Adone  che  il  P.  Arduino  vuole  che  fosse  la  dea  Diana.1  Il  dio 
Priapo  figlio  di  Venere  e  guardiano  degli  orti,  memorato  pure  in 
questi  libri?  sicome  qualche  volta  nominati  dalla  Scrittura  la  mi- 
lizia del  Cielo,  e  di  tanti  altri  ?  E  nel  Testamento  Nuovo  negli  Atti 
di  S.  Luca  il  famoso  tempio  in  Efeso2  della  dea  Diana,  dell'altro 
in  Atene  dedicato  «Ignoto  deo»,  di  Castore  e  Polluce  e  di  altri 
nominati  da  S.  Luca  e  da  S.  Paolo  nelle  sue  epistole?  Di  tutti  que- 
sti non  se  non  trattando  della  religione  gentile  potea  aversene 
notizia.3 


i.  Adone.  . .  Diana:  cfr.  Plinio,  Nat.  hist.,  lib.  xrx,  cap.  iv,  sect.  xix,  la 
nota  i  a  pp.  161-2  del  tomo  11  della  citata  edizione  del  1723.  2.  il  famoso 
tempio  in  Efeso  :  cfr.  Act.  ,19, 24-3  5 .  3 .  Non  si  deve  dimenticare  che  il  Gian- 
none  ha  una  profonda  conoscenza  non  solo  del  Bochart  e  dell'Huet  (cfr. 
la  nota  iap,  599),  come  dimostrava  a  suo  tempo  la  recensione  all'inedita 
Philosophia  adamito-noetica  di  Antonio  Costantino,  ma  che  ormai  aveva 
preso  le  distanze  da  questo  tipo  di  letteratura,  che,  nata  in  una  dimensione 
puramente  erudita,  come  nel  caso  del  Bochart,  o  addirittura  a  scopo  apolo- 
getico, in  Huet,  aveva  contribuito  a  porre  in  discussione  quella  tradizione 
contro  cui  la  punta  più  estrema  era  stata  l'opera  di  Spinoza.  Di  tutto  quel- 
l'avventuroso deduttivismo,  il  Giannone  vuole  salvare  l'elemento  storica- 
mente valido:  l'utilizzazione  della  conoscenza  dei  culti,  che  si  intersecano 


LIBRO    IV   •  CAP.    ULTIMO  945 

il.  In  secondo  luogo  per  un'altra  ragion  potissima  non  dovea 
omettersi  nell'istoria  ecclesiastica  la  religione  gentile,  poiché  que- 
sta ebbe  pure  miracoli  e  profezie.  Vantava  miracoli  stupendi  de* 
quali  sono  piene  le  loro  istorie,  spezialmente  quelle  di  Livio,  e 
presso  i  Greci  si  arrivò  fino  a  far  risuscitare  i  morti,  de'  quali  fu 
da  noi  lungamente  trattato  nella  1  parte  de'  Discorsi  sopra  Livio, 
disc.  5.1  Vantava  profezie,  oracoli,  Pizie,  indovini,  de'  quali  ampia- 
mente fu  da  noi  ragionato  nel  discorso  3.*  Tutti  questi  miracoli  e 
profezie  bisogna  mettergli  al  confronto  di  que'  che  debitamente 
vantano  la  religione  giudaica  e  cristiana,  per  maggiormente  convin- 
cergli per  favolosi,  per  fantastici  ed  illusioni,  e  le  profezie  per  arti- 
fizi, inganni  e  furbarie  de*  loro  indovini;  e  per  dimostrargli  tali  non 
contentarsi  di  quanto  i  Padri  antichi  ne  han  scritto  per  confutargli, 
fra  gli  altri  Lattanzio  Firmiano  nelle  sue  Istituzioni  divine,  e  S. 
Agostino  ne'  libri  della  Città  di  Dio  ;  poiché  questi  troppo  potere 
danno  a'  demòni,  e  quasi  tutti  gli  rapportano  a  virtù  diabolica,  a' 
prestigi  e  magiche  operazioni  le  quali  per  se  stesse  niente  hanno 
di  efficacia  e  sono  tutte  vane  illusioni  e  visioni  fantastiche,  né  i 
demòni  per  se  stessi,  come  cose  create  e  poi  ridotte  nella  più  vile 
ed  infima  condizione,  possono  cos' alcuna  e  molto  meno  presag- 
girc  il  futuro.  Le  armi  più  forti  le  somministrano  gli  stessi  savi 
scrittori  gentili,  i  quali  o  assolutamente  negano  i  fatti,  ovvero  gli 
qualificano  per  illusioni  ed  inganni  dell'imperita  e  credula  mul- 
titudine,  sicome  Livio  in  fra  gli  altri;  e  fa  maraviglia  come  Lat- 
tanzio e  S.  Agostino  in  molti  non  negano,  anzi  consentano  ne'  fatti, 
quando  questo  savio  ed  accurato  scrittore  gli  niega,  o  gli  deride, 
nò  in  altra  guisa  tratta  i  loro  oracoli  ed  indovini,  sicome  da  noi  fu 
avvertito  nell'Apologia  de'  teologi  scolastici  trattando  de'  libri  di 
Lattanzio,3  ed  ampiamente  dimostrato  ne'  cit.  Discorsi  sopra  gli 
Annali  di  Livio*  I  savi,  profondi  ed  accurati  istorici  e  filosofi  greci, 

profondamente  nell'ebraismo  e  perfino  nel  cristianesimo,  per  conoscere 
meglio  la  storia  delle  religioni.  1*  de1  quali  .  . .  disc.  5:  cfr.  P.  Giannone, 
Opere  inedite,  a  cura  di  P.  S.  Mancini,  Torino  1852  (ma  1859),  h  Discorsi 
storici  e  politici  sopra  gli  Annali  di  Tito  Livio,  discorso  v,  De'  finti  miracoli 
accaduti  presso  a?  Romani,  a1  quali  prestavasi  intiera  fede,  pp.  77  sgg. 
2.  nel  discorso  3  :  cfr.  qui,  pp.  747  sgg.  3.  sicome  . .  .  Lattanzio  :  cfr.  Apolo- 
gia de*  teologi  scolastici,  libro  n,  De*  libri  di  Lattanzio  Firmiano,  in  Archivio 
di  Stato  di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  v,  ins.  2.  4.  Il  Giannone 
contrappone,  come  aveva  già  fatto  il  Toland,  la  capacità  demistificatrice  di 
Livio  e  di  Plinio,  nei  confronti  dei  falsi  miracoli,  alla  credulità  dei  Padri, 
Questa  e  la  pagina  seguente  sono  una  riconferma  dei  Discorsi  e  dell' Apolo- 
go 


946        ISTORIA  DEL   PONTIFICATO    DI    GREGORIO   MAGNO 

i  prudenti,  avveduti  e  seri  romani  scrittori,  fra  gli  altri  Varrone, 
•Lucrezio,  Cicerone,  Livio,  Orazio,  Plinio  il  Vecchio  e  tanti  altri, 
sicome  si  burlavano  del  prodigioso  numero  de'  loro  dii,  così  ripu- 
tarono illusioni,  inganni  e  furbarie  i  loro  miracoli  e  profezie;  ed 
Erodoto,  ancorché  s'ingegnasse  di  accommodarsi  al  genio  de' 
superstiziosi  e  creduli  Greci,  con  tutto  ciò  non  potè  dissimulare 
nella  sua  istoria  le  furbarie  delle  Pizie,  le  quali  sovente  per  danaio 
vendevano  le  profezie  secondo  che  i  compratori  volevano  che  l'ora- 
colo rispondesse.1  E  sopra  questo  principale  ed  importantissimo 
punto  devono  gli  scrittori  delPistoria  ecclesiastica  insistere  e  fer- 
mar il  piede;  poiché  la  divinità  de'  nostri  sacri  libri  sopra  queste 
due  basi  si  appoggia:  sopra  i  miracoli  e  sopra  le  profezie,  facendo 
conoscere  che  le  sole  religioni  giudaica  e  cristiana  ebbero  veri 
miracoli  e  profezie;  poiché  il  cangiar  corso  alla  natura,  variarla  e 
produr  effetti  fuori  dell'ordinario  suo  corso,  dove  consiste  il  mira- 
bolo,  è  di  Dio  solo,  e  per  ciò  i  profeti  e  i  santi  del  Nuovo  Testamento 
niente  a  sé  attribuivano,  ma  tutto  riportavano  all'onnipotente  Id- 
dio, di  cui  non  erano  che  semplici  istromenti;  e  non  era  altro  il 
lor  pregio  se  non  di  aver  la  sua  grazia  di  essersi  ad  essi  manife- 
stato e  per  lor  mezzo  adoperargli.  Parimente  nelle  profezie,  poiché 
di  Dio  è  solo  d'aver  presente  anche  il  futuro,  né  di  ciò  possono  van- 
tarsi i  demòni,  né  gli  angeli  stessi,  tutto  si  ascriveva  a  divina  revela- 
zione;  né  per  propria  virtù  altamente  dichiaravasi  che  profetassero, 
ma  le  loro  consuete  formole  erano  :  «  Haec  dicit  Dominus  »,  «  Ver- 
bum  Domini»,  e  simili.  Queste  due  sono  le  più  chiare  e  rilevanti 
marche  che  distinguono  la  verità  di  queste  religioni  dalla  falsità 
delle  altre,  e  che  ci  somministrano  le  pruove  più  evidenti  della 
divinità  de'  nostri  sacri  libri.  La  profezia,  la  quale  ci  narra  le  cose 
future,  come  l'istoria  le  passate:  ciocché  non  puoi  ottenersi  se  non 
unicamente  dalla  divina  prescienza,  essendo  a  Dio  solo  palese  il 
futuro.  I  miracoli,  i  quali  sono  un'evidente  pruova  della  divina 
onnipotenza,  la  quale  sola  può  immutare  il  corso  della  natura  e 
variarla  a  sua  posta,  essendone  egli  l'unico  autore  e  maestro.  Quin- 
di saviamente  scrisse  S.  Agostino  nel  lib.  io,  cap.  7  e  8,  della  Città 
di  Dio:  «Divinam  Scripturam  e  coelo  descendisse;  nam  huic 
Scripturae,  huic  legi,  talibus  praeceptis  tanta  sunt  attestata  mira- 


gia  e  di  quanto  del  discorso  tolandiano  vi  permaneva.  Cfr.  i  Discorsi,  qui 
a  PP-  753  sgg.     i,  ed  Erodoto  . .  *  rispondesse:  cfr.  vi,  66. 


LIBRO   IV  •  CAP.   ULTIMO  947 

cula,  ut  de  eius  divinitate  satis  constet».1  I  nuovi  nostri  istorici 
ecclesiastici  han  fatti  maravigliosi  progressi,  ed  han  dimostrato 
insino  all'ultima  evidenza  V antichità  ed  autenticità  de'  nostri  sacri 
libri;  ma  intorno  a  pruovare  la  loro  divinità  non  si  è  travagliato 
quanto  meritava  un  punto  sì  importante.  Ciocché  senza  metter 
a  confronto  i  miracoli  e  profezie  che  vanta  la  gentile  con  quelli 
delle  religioni  giudaica  e  cristiana,  non  potrà  ottenersi  giammai. 

in.  In  terzo  luogo,  per  ciò  che  riguarda  ristoria  della  Chiesa 
cristiana  si  è  fin  qui  trascurato  un  altro  punto  non  meno  impor- 
tante, cioè  di  non  farsi  alcun  motto  come  da'  gentili  teologi  fosse 
stata  maneggiata  la  loro  religione:  quando  senza  una  tale  notizia 
non  potranno  intendersi  giammai  le  cagioni  e  scovrirsi  i  fonti 
onde  ne*  tre  primi  secoli  della  Chiesa  scaturissero  tante  sì  strane 
e  fantastiche  eresie,  che  corruppero  la  pura,  semplice  e  limpida 
dottrina  cristiana.  Ebbero  i  gentili  pur  i  loro  teologi,  i  quali  se  bene 
sotto  il  nome  di  filosofi  ed  in  altra  guisa  trattassero  la  loro  religione, 
furono  cagione  che,  resi  dapoi  cristiani,  voller  anche  la  semplice 
dottrina,  che  ci  lasciò  il  nostro  buon  Redentore,  trattarla  come 
mondana,  ed  adattarla  alla  loro  filosofia  platonica  o  aristotelica  da 
essi  professata.  Dal  primo  libro  dell'  Apologia  de'  teologi  scolastici 
si  è  abbastanza  conosciuto  che  da'  primi  nostri  teologi,  i  quali 
uscirono  dalla  scuola  di  Alessandria,  ove  prima  professavasi  la  fi- 
losofia di  Platone,  e  dapoi  vi  fu  introdotta  anche  quella  di  Aristo- 
tele, vennero  tante  opinioni  e  sì  varie  e  fantastiche  dottrine.*  Que- 
sti dal  gentilesimo  passando  al  cristianesimo  vollero  adattare  alla 
nuova  religione  che  abbracciarono  le  stesse  forme,  metodi  e  ma- 
niere trattandola  come  se  fosse  una  scienza  mondana;  e  sicome 
trattando  della  gentile  cercarono  ne'  loro  dii  mitologie  con  divider- 
la in  poetica,  filosofica  e  civile,  di  investigare  ne'  libri  di  Omero 
e  negli  altri  poeti  sensi  allegorici,  mistici  e  morali;  così  pure  intra- 
presero di  maneggiar  la  cristiana.  Quindi  le  tante  dispute  sopra  i 
libri  di  Mosè  intorno  alla  creazione  del  mondo  e  sopra  l'epistole 
di  S.  Paolo  e  di  S.  Pietro,  del  suo  fine  e  rinovellamento  ;  della 


I.  «Divinam  . . .  constei»:  De  cìv.  Dei,  x,  vii,  in  Migne,  P.L„  xli,  col.  285, 
citazione  ad  sensum  («che  la  Divina  Scrittura  fosse  discesa  dal  cielo:  infatti 
questa  Scrittura,  questa  legge  e  questi  precetti  son  comprovati  da  così  tanti 
miracoli,  da  essere  a  sufficienza  evidente  la  loro  divinità»).  2.  Dal  pri- 
mo .. .  dottrine:  ancora  una  volta  il  Giannone  si  rifa  al  suo  maestro  Auli- 
sio,  oltre  che  allo  Spinoza  e  al  Toland. 


948        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO   MAGNO 

resurezione  de'  morti,  della  natura  delle  anime  umane,  dello  stato 
delle  medesime  fuori  de'  loro  corpi,  e  tante  altre  metafisiche,  vane 
ed  astratte  dispute  da  noi  rapportate  in  quel  libro;  ed  ancorché 
S.  Paolo  gridasse  a'  suoi  che  si  astenessero  di  queste  inutili  brighe,1 
non  fu  però  possibile  che  non  ne  fusse  pieno  l'Oriente,  dove  il 
cristianesimo,  sicome  fece  i  primi  ed  i  maggiori  progressi,  così  si 
vide  inviluppato  tra*  cristiani  stessi  fra  tante  alterazioni,  dispute 
e  contenzioni  ;  ciocché  presso  i  Romani,  i  quali  non  sapevano  ben 
discernere  i  veri  e  puri  da  quelli  fanatici  ed  impuri,  facendone  un 
sol  fascio,  furono  i  cristiani  riputati  atei,  sacrilegi,  pazzi,  frenetici 
e  peste  del  genere  umano.  Le  nostre  istorie  ecclesiastiche  rap- 
portano sì  bene  l'eresie  surte  in  que'  tempi,  e  narrano  le  mostruose 
e  strane  opinioni;  ma  lasciano  i  lettori  dubbiosi  per  credere  che  le 
menti  umane  avesser  potuto  dare  in  tanti  deliri,  poiché  non  ad- 
ditano le  vere  cagioni  onde  ciò  avvenisse  per  toglierne  la  maraviglia 
e  l'esitazione. 

iv.a  Come  potranno  ben  capirsi  i  progressi  fatti  in  Oriente  ed 
Occidente  dalla  religione  cristiana  sopra  la  gentile,  l'epistole  di 
S.  Paolo,  gli  Atti  di  S.  Luca,  e  l'istoria  di  questa  nascente  Chiesa, 
se  non  precederà  la  notizia  della  gentile  che  avea  occupato  tutto 
il  mondo,  e  che  le  più  grandi  conquiste  furono  sopra  questa,  non 
sopra  gli  Ebrei,  ristretti  in  un  angolo  del  mondo  e  sparpagliati  di 
qua  e  di  là  sopra  la  terra?  Come  potran  conoscere  la  sapienza  di 
que'  primi  seniori  della  Chiesa  di  Gerusalemme,  i  quali  ragunati 
in  concilio  stabilirono  le  regole  per  la  conversione  de'  gentili,  non 
obbligandogli  ad  altro  che  di  astenersi  dagl'immolati,  dal  sangue 
e  dalla  pagana  fornicazione,  ciocché  produsse  quel  maraviglioso 
cangiamento,  che  si  vide  in  Oriente,  e  spezialmente  nella  Bitinia 
e  Ponto,  come  ce  ne  rende  testimonianza  Plinio  il  Giovane  nel- 
l'ep.  scritta  all'imperadore  Traiano,  dove  rari  eransi  resi  i  sacrifici 
ed  i  tempii  quasi  tutti  chiusi,  poiché  non  s'immolavano  più  ostie, 
né  maggiori  né  minori,  onde  i  macellari  non  trovavano  più  com- 
pratori di  carni  di  vittime  scannate  innanzi  gli  altari,  poiché  a* 
gentili  convertiti  ciò  era  proibito  di  mangiarne  ?3  Come  in  fine  in- 

i.  S.  Paolo  . . .  brighe:  allude  forse  a  Rom.,  12,  3:  «non  plus  sapere  quam 
oportet  sapere»,  z.  JV\  in  margine  alla  carta  precedente,  1511?,  ma  senza 
segno  di  richiamo,  il  Giannone  ha  scritto  :  «  iv.  La  miglior  intelligenza  de* 
progressi  della  cristiana  sopra  la  gentile,  e  degli  Atti  di  B.  Luca  ed  cp.  di 
S.  Paolo».  3.  Plinio  il  Giovane .  . .  mangiarne?',  cfr.  qui  p.  783  e  la  nota 
2  ivi. 


LIBRO    IV   ■  CAP.    ULTIMO  949 

tendere,  per  tralasciar  altri  esempi,  la  costanza  de'  nostri  martiri  e 
confessori,  se  non  si  premetterà  la  notizia  della  maniera  che  ten- 
nero i  gentili  magistrati  in  punire  i  cristiani,  contro  i  quali  ado- 
peravano cruci  ed  i  più  esquisiti  tormenti,  non  già.  per  fargli  mo- 
rire, ma  per  fargli  abiurare  la  cristiana,  ed  adorare  i  loro  dii  falsi  e 
bugiardi,  ed  aver  la  gloria  di  aver  vinto  la  loro  costanza,  sicome 
narra  Lattanzio,1  il  qual  ne  fu  spettatore,  che  praticavano  in  Bi- 
tinia  que*  proconsuli  e  facevan  gli  altri  neir altre  provincie  ro- 
mane? 

v.2  Ma  se  mai  l'istoria  della  religione  gentile  in  altri  tempi  fu 
creduta  non  cotanto  necessaria,  al  presente,  che  la  Chiesa  ha  preso 
altro  aspetto,  e  nella  quale  vedesi  introdotta  ed  esser  per  più  secoli 
stabilita  altra  disciplina,  nuovi  riti  e  nuove  religiose  cerimonie, 
certamente  che  dee  reputarsi  molto  più  necessaria  che  mai,  non 
già  per  vana  curiosità,  ma  per  cagioni  solide  e  di  molta  importanza. 
I  detrattori  della  presente  disciplina  e  di  tanti  nuovi  riti  e  cerimonie 
non  altro  hanno  in  bocca  e  nelle  loro  penne,  se  non  di  declamare 
che  finalmente  la  religione  cristiana  siasi  cangiata  in  pagana  e  che 
abbiamo  fatto  ritorno  al  gentilesimo;  e  ciò  perché  in  molte  cose 
lor  sembra  imitare  i  riti,  i  costumi  e  gl'instituti  de'  gentili.  Il 
cardinal  Baronio3  non  è  dubbio  che  ne*  suoi  Annali  è  più  pro- 
penso a  derivarne  l'origine  da'  gentili,  che  da'  Giudei.  E  se  l'istoria 
della  chiesa  giudaica  è  riputata  necessaria  anche  per  questo,  per- 
ché nella  cristiana  molti  riti  e  cerimonie  derivano  dall'ebraica, 
quanto  maggiormente  sarà  della  gentile,  dalla  quale  in  maggior 


i .  sicome  narra  Lattanzio  :  cfr.  Divin.  institi  v,  xi,  De  crudelitate  gentilium 
in  christianos,  in  Migne,  P.L.,  vi,  col.  586.  2.  V:  anche  qui,  come  sopra, 
marginalmente,  in  calce  alla  e.  152  recto:  «v.  Il  culto  de'  nostri  Santi», 
titolo  che  conviene  meglio  al  capoverso  seguente,  mentre  a  questo  si  ad- 
dice l'annotazione,  sempre  marginale  e  senza  segno  di  richiamo,  in  calce 
al  verso,  e  cioè:  «vi.  Più  conformità  oggi  ne*  riti  e  feste  colla  gentile  che  colla 
giudaica,  secondo  il  Baronio  ».  Il  Giannone  riprende  una  tesi  del  Baronio, 
quella  della  dipendenza  dei  riti  e  delle  feste  e  cerimonie  cristiane  più  dal 
paganesimo  romano  che  dall'ebraismo,  per  ritornare  a  uno  dei  temi  fon- 
damentali del  Triregno  e  tipici  di  una  radicale  polemica  protestante,  della 
paganizzazione  della  Roma  cristiana.  È  significativo  che  in  carcere  il  Gian- 
none,  fra  gli  altri  libri  chiesti  ad  Arthur  De  Villettes,  avesse  annotato  un'o- 
pera di  Conyers  Middleton,  Conformité  des  cérémonies  modernes  avec  les 
anciennes,  avec  une  lettre  écrite  de  Rome  par  Mr.  Middleton,  Amsterdam 
1744,  che  svolgeva  appunto  il  tema  della  progressiva  paganizzazione  del 
cristianesimo  (cfr.  Giannoniana,  p.  490).  3.  Baronio:  cfr.  la  nota  2  a 
p.  965. 


950        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO    DI    GREGORIO   MAGNO 

numero  a  lei  pervennero  ?  Di  molti  riti  affatto  indifferenti,  i  quali 
per  se  stessi  non  contengono  pravità  alcuna,  non  dee  chi  che  sia 
maravigliarsi,  poiché  finalmente  essendo  la  religione  cristiana  sot- 
tentrata nell'Imperio  in  luogo  della  gentile,  e  professata  da  quelli 
stessi  popoli  che  prima  furon  gentili,  qual  maraviglia  se  ne  abbia 
adottati  alcuni  e  resi  propri?  E  se  a  Mosè  fu  lecito  dagli  Egizi  pren- 
der alcuni  riti  ed  istituti,  sicome  fu  avvertito  da'  dotti  e  gravi 
espositori  de*  suoi  libri,  non  dee  sembrar  cosa  mostruosa  di  essersi 
lo  stesso  fatto  da'  cristiani  d'averne  alcuni  presi  da'  gentili. 

Il  rapporto,  ed  assai  più  il  confronto  è  necessario  per  conoscere 
la  gran  differenza  che  intermezza  tra  gli  uni  e  gli  altri,  ancorché 
nell'apparenza  paiano  simili.  Noi  nelle  nostre  Apoteosi  non  inten- 
diamo ciò  che  i  gentili  credevano  di  render  gli  uomini  dii,  e  perciò 
adorargli,  costruirgli  tempii  ed  altari  e  prestargli  religioso  culto.  Noi 
i  nostri  martiri  e  santi,  da  uomini  che  furono  non  gli  facciamo  dopo 
lor  morte  dii  o  dee;  ma  crediamo  le  loro  anime  volare  protinus  in 
cielo,  sicome  determinò  il  concilio  fiorentino,1  e  quivi  averli  per 
nostri  intercessori  appresso  Iddio,  e  ricorrer  al  loro  patrocinio,  non 
già  perché  essi  ci  liberino  da'  mali  presenti  e  scampino  da'  futuri, 
ovvero  ci  concedano  que'  beni  che  desideriamo,  ma  che  colle  loro 
preghiere  l'impetrino  da  Dio,  il  qual  solo  può  sottrarcene  ed  il 
quale  è  l'unico  dispensiere  di  grazie  e  benedizioni.  Abbiamo  eretti 
loro  tempii,  perché  il  popolo,  non  nelle  piazze  ed  a  ciel  aperto, 
ma  abbia  luogo  acconcio  da  poter  ivi  convenire  e  pregargli  della 
loro  intercessione.  L'abbiamo  eretti  altari,  statue  ed  immagini  non 
perché  in  esse  fossero  numi  e  le  venerassimo  come  tante  divinità, 
ma  perché  fossero  a  noi  di  memoria,  rappresentandosi  le  eroiche 
loro  gesta  mentre  furon  tra*  mortali  per  imitarle;  e  si  è  già  altrove 
avvertito  che  le  dipinture  nelle  chiese  non  s'introdussero  se  non 
per  istruire  il  popolo  senza  lettere,  affinché  da'  muri  apprendes- 
sero ciò  che  i  letterati  apprendevano  da'  libri.  I  gentili,  che  prima 
non  l'aveano,  doppo  che  le  arti  meccaniche  introdusser  le  statue 
e  le  dipinture,  se  ne  valsero  pure  per  un  fine  innocente,  cioè  che 
solamente  servissero  per  simbolo  in  rappresentando  la  divinità  che 
adoravano;  ma  dapoi,  sicome  suole  accadere  tra  la  multitudine 
imperita,  pur  troppo  inclinata  dalla  religione  far  passaggio  alla 

i.il  concilio  fiorentino:  aperto  a  Ferrara  nel  1438,  Tanno  seguente  fu  tra- 
sferito a  Firenze,  dove  si  protrasse  fino  al  1442,  e  continuò  con  lo  sessioni 
di  Roma  del  1443-1445. 


LIBRO   IV   •  CAP.    ULTIMO  951 

superstizione,  trascorsero  a  prender  il  simbolo  per  la  cosa  rappresen- 
tata, e  riguardavano  le  statue  come  la  divinità  stessa.  Preghiamo 
avanti  le  statue  o  immagini  di  S.  Rocco  e  di  S.  Sebastiano  perché 
c'impetrino  dal  sommo  Iddio  liberarci  dalla  peste  che  ci  flaggella, 
ma  non  già  come  facevano  i  gentili  ad  Apollo  e  ad  Esculapio,  i  quali 
a  questi  dii  attribuivano  il  mandarla  o  toglierla  dalla  terra.  In- 
vochiamo nelle  tempeste  e  navigazioni  la  Vergine  Maria,  chiaman- 
dola Maris  Stella,  e  S.  Antonio  di  Padoa,  perché  impetrino  da  Dio 
la  nostra  salvazione  ed  il  condurci  a  porto,  ma  non  già  commessi 
facevano  a  Nettuno,  ad  Eolo  ed  a  Castore  e  Polluce  avuti  per  numi 
da'  naviganti.  Imploriamo  l'intercessione  di  S.  Antonio  abate  negli 
incendi  e  nel  morbo  del  sacro  fuoco,  perché  preghi  Iddio  a  libe- 
rarcene, non  già  concessi  facevano  ad  Ulcano  ed  alla  dea  Vesta; 
e  così  in  tanti  altri  simili  ricorsi.  Noi  non  abbiamo  fatto  nascere 
da  ogni  morbo  un  dio  od  una  dea,  ma  invochiamo  que'  santi  per 
mezzo  de*  quali  il  sommo  Creatore  si  è  compiaciuto  sovente  libera- 
re i  miseri  languenti.  Di  altra  maniera  trattiamo  noi  il  lor  patroci- 
nio e  la  tutela  delli  particol[ar]i  regni,  provincie,  città  o  famiglie 
di  ciò  che  facevan  essi  de*  dii  Penati.  Parimente  se  essi  a  ciascu- 
na persona  assignavano  due  geni,  un  buono  e  l'altro  cattivo,  noi 
che  pure  a  ciascuno  diamo  l'angelo  buono,  che  ne  sia  il  custode, 
ed  il  demonio  tentatore,  perché  la  virtù  combattuta  maggiormente 
si  affini  e  riluca,  abbiamo  altro  fine  ed  assai  più  alto  ch'essi  non 
aveano. 

I  nostri  sacrifici  sono  tutti  puri  ed  incruenti,  non  vittime  scan- 
nate, non  sacrifici  di  vacche,  tori,  cavalli,  pecore,  capre  ed  il  sangue 
di  altri  animali,  sicché  siamo  molto  lontani  ed  avversi  da  quelle 
crudeltà  d'immolare  uomini  stessi,  né,  come  si  è  detto,  perdonare 
a'  propri  infanti.  Se  essi  per  la  purificazione  delle  vittime  che 
doveano  esser  immolate  si  valsero  dell'  acqua  lustrale,  noi  dell'acqua 
benedetta  facciamo  altro  uso  puro  ed  innocente.  In  breve  le  nostre 
feste,  i  nostri  sacerdoti,  le  nostre  vestali,  e  molti  altri  riti  e  cerimo- 
nie che  sembrano  alle  pagane  conformi,  donde  si  presero,  hanno 
altro  intendimento,  rachiudono  altri  misteri,  e  tutto  altro  dinotano 
di  quel  che  i  gentili  intesero.  La  qual  differenza  non  potrà  mettersi 
in  più  chiara  luce,  se  non  da  chi  tratta  dell'istoria  ecclesiastica  non 
si  terrà  cura  di  metter  in  confronto  i  sacrifici,  i  riti  e  le  cerimonie 
dell'una  e  l'altra  religione,  ciocché  non  potrà  ottenersi  se  non, 
sicome  si  è  fatto  della  giudaica,  non  si  facci  anche  della  gentile. 


952        ISTORIA   DEL  PONTIFICATO   DI    GREGORIO   MAGNO 

VI.1  Per  ultimo  bisogna  toglier  dalle  menti  umane  Terrore  di 
riputar  inutile  la  conoscenza  di  questa  religione  come  quella  che 
già  dileguata  ed  estinta  non  può  esser  di  nissun  uso  e  per  ciò  non 
poter  entrare  in  una  general  istoria  ecclesiastica.  Vanno  costoro 
di  gran  lunga  errati.  Né  si  lascino  abbagliare  dalle  splendide  iperboli 
di  S.  Agostino,  per  quel  suo  cotanto  ripetito  Toto  mundo  credente,2. 
Sopra  la  superficie  della  terra,  dove  si  trovano  uomini  i  quali  non 
siano  istrutti  di  altra  ed  i  quali  se  ne  siano  stati  «sine  predicante»,3 
come  diceva  S.  Paolo,  si  troverà  la  gentile,  essendo  per  ciò  riputata 
iuris  gentium,  e  per  conseguenza  dove  saranno  genti,  si  troverà  che 
ivi  sia.  S.  Agostino  intese  dell'orbe  romano,  poiché  a'  suoi  tempi  la 
religione  cristiana  avea  nell'Impero  romano  fatti  gran  progressi;  ed 
a  lui,  che  negava  gli  antipodi,  sembrava  il  mondo  ristretto  in  troppo 
brevi  ed  angusti  confini.  E  pure  a*  suoi  tempi,  dell'Imperio  romano 
istesso  non  occupò  se  non  parte,  e  tutto  il  resto  si  rimase  nella 
antica  sua  gentile;  poiché,  se  bene  Costantino  M.  l'avesse  am- 
messa nell'Imperio,  e  di  proscritta  non  pur  la  raccolse,  ma  i  suoi 
collegi  riputò  non  pur  legittimi,  ma  venerandi;  con  tutto  ciò  non 
proibì  la  gentile  e  lasciò  in  libertà  di  ciascuno  di  ritenerla:  sicché 
nell'Imperio  si  videro  pubblicamente  esser  professate  tre  religioni, 
l'antica  gentile,  la  nuova  cristiana  e  presso  gli  Ebrei  la  giudaica. 
Ma  il  favore  degl'imperadori  cristiani  successori  di  Costantino 
verso  la  cristiana  e  l'avversione  alla  gentile  fecer  sì  che  a  lungo 
andare  nelle  città  e  nelle  persone  nobili  e  cospicue,  regis  ad  exem- 
plum,  tutte  si  conformassero  alla  religione  professata  nella  loro 
corte,  ma  negli  uomini  di  campagna,  ne*  vichi  e  nelle  ville,  le  quali 
sono  l'ultime  a  deporre  le  antiche  usanze  e  costumi,  si  ritenne.  E 
da  queste  epistole  di  S.  Gregorio  si  è  veduto  che  in  Italia  istessa, 
e  nelle  isole,  a'  suoi  tempi  in  taluni  luoghi  era  ancor  da'  rustici 
ritenuta.  E  S.  Benedetto  nel  Monte  di  Casino,  ove  ritirossi  a  me- 
nar vita  monastica,  trovò  un  tempio  dove  que'  rustici  adoravano  i 
loro  idoli,  quali  abbattuti  lo  tramutò  in  una  chiesa.  Si  è  veduto 
ancora  che  nelle  parti  settentrionali  di  Europa,  nclPAlcmagna, 


i.  VI:  ancora  una  volta,  in  margine  alla  e.  i$zr,  senza  segno  di  richiamo, 
abbiamo  nel  manoscritto  un  titolo,  con  correzione,  conseguente  alle  pro- 
cedenti annotazioni  marginali,  del  numero  romano:  «vii.  Non  esser  vero 
la  gentile  essersi  estinta».  2.  S.  Agostino  .  . .  credente:  cfr.  De  civ.  Dei, 
XXII,  v,  De  resurrectione  carnis,  quam  quidam  mundo  credente  non  credunt, 
in  Migne,  P.L.,  XLI,  coli.  755-7-     3-  «sine  predicante»:  Ront.,  io,  14. 


LIBRO    IV   •  CAP.    ULTIMO  953 

nella  Sassonia,  nella  Polonia,  nella  Boemia,  Ungheria  e  molto  più 
nella  Svezia,  Danimarca  ed  in  tutte  risole  del  mar  Oceano,  nella 
Brettagna,  Ibernia,  Islanda,  Grotlandia  ed  altre,  molto  tardi  vi  fu 
introdotta  la  religione  cristiana,  e  forse  anche  ora  in  quelle  più 
rivolte  al  nort  non  è  penetrata:  né  osarei  di  dire  che  nell'Europa 
tutta,  spezialmente  ne'  Tartari  ed  in  tutte  le  sue  isole  del  setten- 
trionale Oceano,  la  gentile  fosse  affatto  estinta. 

Ma  che  diremo  dell'Asia,  la  più  gran  parte  del  mondo  ?  Questa, 
ancorché  assorbita  dalla  religione  maomettana,  se  si  faranno  giusti 
i  conti,  si  troverà  che  la  gentile  occupa  più  regioni,  isole,  imperi, 
Provincie  e  regni  che  la  maomettana  stessa.  Chiunque  porrà  at- 
tenzione alle  relazioni  che  abbiamo  de'  più  savi  ed  accurati  viag- 
giatori, in  fra  gli  altri  del  cav.  Chardin  nel  Giornale1  de'  suoi  viaggi 
nella  Persia  e  nell'Indie  orientali,  del  Sanson,3  missionario  ap- 
postolico,  nello  Stato  presente  del  reame  di  Persia,  ed  i  viaggi  del 
Brun  riguardanti  l'Asia,3  e  le  relazioni  del  Bernier,4  e  del  P.  Ca- 
trou5  gesuita,  troverà  che  nella  Persia  istessa,  ancorché  la  religion 
dominante  fosse  la  maomettana,  poiché  i  re  persiani  vantano  esser 
i  legittimi  successori  di  Maomet  per  Ali,  che  lo  credono  il  vero 


1.  Jean  Chardin  (1643-1713),  celebre  viaggiatore  francese  protestante,  am- 
mirato da  Montesquieu,  Rousseau  e  Gibbon.  L'opera  qui  citata  è  il  Journal 
du  voyage  du  chevalier  Chardin  en  Perse  et  aux  Indes  Orientales,  par  la  Mer 
Novre  et  la  Colchide,  Londres  1686.  2.  Sansoni  null'altro  conosciamo  di 
lui,  oltre  l'opera  qui  menzionata  dal  Giannone,  Estat  présent  du  Royaume 
de  Perse,  Paris  1694  (nel  frontespizio  è  chiamato  «Sanson,  missionaire 
apostolique  »).  3 .  i  maggi . . .  Asia  :  cfr.  Voyages  de  Corneille  Le  Brun  par  la 
Moscovie,  en  Perse  et  aux  Indes  Onentales.. .,  Amsterdam  1718,  in  due  vo- 
lumi. In  realtà  si  tratta  di  Cornelis  de  Bruyn  (165 2- 1726),  pittore  e  viaggia- 
tore olandese,  autore  di  un  Voyage  au  Levante  (prima  edizione  olandese, 
Delft  1698;  in  francese,  Delft  1700;  Paris  17 14)  e  dei  Voyages  citati  (prima 
edizione  olandese,  Delft  1711-1714).  4.  Francois  Bernier  (1620-1688), 
filosofo,  viaggiatore  e  medico:  cfr.,  di  lui,  VHistoire  de  la  dentière  revolu- 
tion des  états  du  Grand  Mogol .  .  .,  Paris  1670,  e  Suite  des  Mémoires  du  Sr. 
Bernier  sur  l'Empire  du  Grand  Mogol . .  .,  Paris  167 1.  Il  Bernier  è  l'autore 
dell'Abrégé  de  la  philosophie  de  M.  Gassendi,  Lyon  1684*,  conosciuto  dal 
Giannone  (cfr.  G.  Ricuperati,  V esperienza  civile  e  religiosa  di  Pietro  Gian- 
none,  Milano-Napoli  1970,  p.  42).  5.  Francois  Catrou  (165  9- 1737),  pre- 
dicatore e  letterato,  uno  dei  fondatori  dei  «Mémoires  de  Trévoux»  (1701), 
che  diresse  per  dodici  anni.  Cfr.  Histoire  generale  de  l'empire  du  Mogol . . . 
sur  les  mémoires  portugais  de  M.  Manouchi  —  par  le  P.  F.  Catrou .  . ., 
Paris  1705-17 15,  due  tomi  in  un  volume,  e  Histoire  de  la  vie  et  du  règne 
d'Orangzéb,  dernier  empereur  mogol,  ou  Suite  de  VHistoire  generale  de  l'em- 
pire du  Mogol . . .,  Paris  s.  d.  Entrambe  sono  fondate  su  Nicolò  Manucci 
(163 9- 1708),  viaggiatore  veneto,  che  lasciò  delle  memorie  in  portoghese. 


954        ISTORIA  DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO   MAGNO 

erede  di  quell'impostore,  nulladimanco  il  numero  de'  gentili  è 
quasi  che  infinito,  dividendosi  fra  loro  in  due  sette  riputate  eretiche 
da'  maomettani.  Narra  Pietro  della  Valle1  ne'  suoi  Viaggi  della 
Persia,  par.  n,  cap.  16,  che  nella  provincia  di  Lar  ed  in  altri  paesi 
dell'Imperio  persiano  la  più  numerosa  di  queste  due  era  quella 
chiamata  della  Gente  di  verità,  ovvero  di  certezza  ;  li  quali  credono 
che  non  vi  sia  altro  Dio  che  la  Natura,  formata  di  quattro  elementi, 
da'  quali  si  compongono  tutte  le  cose,  e  che  l'uomo  istcsso  non  sia 
altro  che  un  composto  de'  medesimi,  il  quale  doppo  sua  morte  si 
risolve  in  quelli,  con  che  ritorna  a  Dio  donde  fu  tratto.  Che  il 
paradiso  ed  inferno  siano  in  questo  mondo,  secondo  le  prosperità 
o  miserie  nelle  quali  l'uomo  cade  o  s'innalza,  e  che  questa  sia  la 
rimunerazione  della  buona  o  mala  vita  menata.  L'altra  setta,  non 
cotanto  diffusa  e  numerosa,  la  chiamano  Via  degli  avari',  e  si  crede 
che  Manete  persiano  l'avesse  diffusa  nella  Persia;  e  che  fosse  una 
propagine  de'  sadducei,  poiché  negano  la  resurczione,  gli  angeli, 
gli  spiriti,  e  credono  che  Dio  sia  da  per  tutto  ed  in  tutte  le  cose,  e 
che  quanto  è  e  si  vede  nel  mondo  sia  Iddio.  Ma  chi  puoi  negare 
che  nell'India,  ancorché  in  gran  parte  dominata  dal  G.  Magol,  la 
religione  gentile  sia  la  più  diffusa?  Narra  lo  stesso  accuratissimo 
viaggiante  nella  par.  IH,  cap.  i,2  che  due  religioni  sono  professate 
nell'India,  la  gentile  e  la  maomettana;  e  se  bene  questa  fosse  la 
religion  dominante,  poiché  il  Mogol  e  la  sua  corte  sono  maomettani, 
nulladimanco  che  in  Sural  istessa  il  numero  maggiore  era  de*  gen- 
tili. E  da  una  disputa  sorta  a'  suoi  tempi  tra'  Gesuiti  di  Goa  e  gli 
altri  religiosi  che  sono  nell'India,  rapportata  minutamente  da 
quest'istesso  scrittore,  si  convince  che  ancor  oggi  la  notizia  della 
religion  gentile  può  esser  posta  in  uso,  né  doversi  riputare  inutile 
e  sol  per  pascere  la  curiosità  degli  uomini.  E'  narra  che  nell'India 
i  Brahmani  ritengono  ancora  i  medesimi  antichi  loro  istituti  e 
l'antica  fama  d'essere  riputati  i  soli  sapienti,  dedicati  solo  alle  let- 
tere ed  al  culto  de'  tempii  e  per  ciò  riputati  i  più  nobili,  e  sopra  gli 
altri  distinti;  ed  in  testimonio  di  questa  lor  preminenza  essi  soli 


i.  Pietro  della  Valle  (1586-1653),  viaggiatore  italiano,  del  quale  si  citano 
qui  i  Viaggi  , .  .  descrìtti  . .  .in  cinquantaguattro  lettere  familiari . .  v  Ro- 
ma 1650-1658,  in  quattro  tomi,  tomo  n,  parte  li,  Persia,  lettera  xvi, 
Dai  giardini  di  Sciraz,  27  luglio  1622,  par.  xiu,  p.  370.  2.  Narra  .  .  . 
cap.  X:  cfr.  ìbid.,  tomo  iv,  parte  ni,  India,  Sural,  22  marzo  1623,  par.  vi, 
p.24. 


LIBRO   IV  •  CAP.    ULTIMO  955 

han  privilegio  di  portare  una  certa  insegna  di  nobiltà  colla  quale  si 
distinguono  da  gli  altri,  eh' è  un  laccio  composto  di  tre  fili  ;  che  se 
lo  mettono  addosso  come  una  collana;  e  poiché  questo  laccio  non 
si  dà  se  non  a  persone  cospicue  con  molte  superstiziose  cerimonie, 
quindi  nacque  la  disputa  fra'  Gesuiti  e  gli  altri  religiosi,  se  il  laccio 
fosse  protestativo  di  religione,  ovvero  semplice  insegna  di  nobiltà, 
e  se  si  avea  da  permettere  o  no  l'uso  di  esso  agl'Indiani  che  si 
convertivano  e  si  rendevano  cristiani,  i  quali  mal  volontieri  s'in- 
ducevano  a  deporlo.  I  Gesuiti,  non  altrimenti  di  ciò  che  accadde 
nella  Cina  per  quel  famoso  contrasto  intorno  a  gli  onori  che  si 
rendevano  a  Confucio,  se  doveano  riputarsi  puri  civili,  ovvero 
culto  religioso,  sostenevano  che  si  dovesse  lor  permettere,  come 
cosa  non  appartenente  a  religione,  ma  semplice  insegna  di  nobiltà. 
All'incontro  gli  altri  religiosi  con  gran  ardore  e  contenzione  si 
opponevano,  fermi  in  pruovare  che  il  permetterlo  fosse  di  sua 
natura  totalmente  illecito  a'  cristiani,  come  superstizione  affatto 
gentile;  dall'una  e  l'altra  parte  furon  compilate  dotte  scritture  di 
cui  il  Valle  rapporta  in  breve  i  motivi  e  le  ragioni,  soggiungendo 
che  la  lite  fu  portata  in  Roma  ove  furon  trasmesse  le  allegazioni  ; 
ma  non  ci  istruisce  della  determinazione  indi  seguita,  né  portatosi 
a  Goa,  dove  credeva  poterla  sapere,  ne  fa  più  motto.  Nella  stessa 
epistola  però  ci  dà  notizia  che  della  religione  gentile  ritenuta  nel- 
l'India, della  geneologia  di  Brahmà  principale  lor  dio  e  degli  altri 
favolosi  dii  indiani  e  di  quanto  si  appartiene  alla  loro  teologia 
ampiamente  ne  avea  scritto  il  P.  Francesco  Negrone  portoghese, 
il  quale  lungamente  trattenuto  nel  regno  di  Bisnaga,  ove  la  reli- 
gione e  le  scienze  degl'Indiani  hanno  la  principal  sede,  nell'isola  di 
Zelan  che  credesi  essere  l'antica  Taprobana*  ed  in  altri  paesi,  era 
istruitissimo  e  che  forse  de'  moderni  sarà  l'unico  che  di  questa 
materia  ne  abbia  dato  conto  in  Europa.  Leggansi  le  Memorie  ed  i 
viaggi  al  Mogol  del  Bernier,  e  le  Memorie  del  Mogol  del  Manou- 
chi,2  le  quali  ci  somministrano  anche  molte  notizie  appartenenti 
alla  lor  religione,  sicome  anche  l'Istoria  del  Mogol  del  P.  Catrou 
gesuita. 


i.  Su  Francesco  Negrone  non  mi  è  riuscito  di  trovar  notizia.  -  Bisnaga: 
dall'indiano  Vijainagara,  città  capitale  del  regno  di  Canarà,  che  i  Porto- 
ghesi chiamavano  Bisnaga.  Su  Taprobana  (Ceylon)  cfr.  Plinio,  Nat.  kist, 
ed.  cit.,  tomo  i,  lib.  vi,  cap.  xxn,  sect.  xxiv,  p.  322,  nota  io.  2.  Manouchi: 
Nicolò  Manucci:  cfr.  la  nota  5  a  p.  953. 


956        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO    MAGNO 

Nel  vastissimo  Imperio  della  Cina  qual'altra  religione  è  profes- 
sata se  non  la  gentile?  E  quanto  abbia  giovato  il  saperne  la  parti- 
colar  sua  istoria  de'  riti,  cerimonie,  credenza  intorno  alle  anime 
umane,  lor  morale  e  filosofia,  ben  dagli  ultimi  scritti  dati  alla  luce 
per  contese  insorte  in  materia  di  religione  ciascuno  può  com- 
prenderne l'utilità  ed  il  buon  uso  che  può  farsene.  Chiare  pruove 
ne  danno  i  libri  di  due  giesuiti  fra  di  lor  discordi,  del  P.  Ricci,1 
il  qual  commenda  la  morale  e  la  filosofìa  de'  Cinesi,  e  che  debita- 
mente prestino  al  lor  Confucio  quo'  onori  ch'egli  riputa  puramente 
civili,  e  del  P.  Longobardi,2  il  qual  pretese  di  provare  che  li  Cinesi 
non  han  giammai  riconosciuta  sustanza  incorporea  e  spirituale 
distinta  dalla  materia,  e  che  per  ciò  non  hanno  una  giusta  idea  di 
Dio,  né  degli  angeli,  né  dell' anime  umane,  e  che  quelle  cerimonie 
colle  quali  onorano  Confucio  ed  i  loro  morii  siano  dannabili  e 
superstiziose.  Leggansi  in  oltre  le  Memorie  della  Cina  del  P. 
Comte,3  la  descrizione  di  quest'Imperio  del  P.  du  I laide,4  e  l'istoria 
del  P.  Dorléans,5  tutti  tre  gesuiti,  ed  i  tanti  scritti  dati  fuori  fin  a* 
nostri  tempi  da'  religiosi  domenicani  e  da  altri  del  contrario  parti- 
to, che  confermano  l'uso  che  può  aversi  ancor  oggi  della  cono- 
scenza di  questa  religione.  E  nell'ampio  vicino  Imperio  del  Giap- 
pone, di  cui  fin  ora  verso  l'Oriente  non  si  sono  potuti  scorgere  gli 
ultimi  confini,  qual  altra  religione  i  Giapponesi  professano  se  non 
la  gentile  ?  Leggasi  V Istoria  naturale,  civile  ed  ecclesiastica  dell'Im- 
perio del  Giappone  scritta  per  Kempfer,6  per  esserne  maggiormente 
persuaso.  Ed  in  tante  altre  isole  di  quel  vasto  Oceano  non  abbastan- 


i.  Matteo  Ricci  (1552-1610),  gesuita  e  celebre  viaggiatore  italiano.  Cfr. 
De  Christiana  expeditione  apud  Sitias  suscepta  alt  Socictatc  tt*8U>  ex  /*.  itte- 
thaei  Riccii . . .  Commentariis  libri  V . . .  auctore  P,  Nicolao  Trtgautio  . . ,, 
Augustae  Vindelicorum  1615.  2.  Nicolò  Longobardi  (X566-1654),  gesuita 
e  missionario  siciliano,  di  cui  cfr.  VExemplum  epistola?. . ,  .  anno  i$yìi  ex 
China  conscriptae,  Moguntiae  1601,  e  il  Tratte  sur  qutlquvs  points  de  la 
réligion  des  Chìnois,  Paris  1701.  3.  Louis-Daniel  Le  (Umtte  (1655-1728), 
gesuita  francese,  era  stato  missionario  in  Cina.  Cfr.  Nouvvaux  mt'moires 
sur  Vétat  présent  de  la  Chine,  par  le  P.  Louis  Le  (lamte  .  .  .,  Pari»  i6<)6, 
4.  Jean-Baptiste  DxxHalde  (1674-1743),  gesuita  francese,  era  stato  missio- 
nario in  Cina.  Di  lui  si  cita  qui  la  Descriptton  géoftraphique,  historique, 
chronologigue,  pohtique  et  physique  de  V Empire  de  la  <  lime  et  de  la  Tartarie 
chinoise  . .  .,  Paris  1735.  5 *#  Pierre- Joseph  D'Orléans  (1644-16^8),  gessuita 
e  storico  francese,  autore  di  una  Histoire  des  deux  conquérans  tartares  qui 
ont  subjuguéla  Chine,  Paris  1688.  6.  Istoria . . ,  Kempjvr:  Kntfelbert  Kiimp- 
fer  (1651-1716),  viaggiatore  tedesco,  Histoire  naturette,  civile  et  ecclésiastique 
de  VEmpìre  du  Jfapon  . . .,  La  Haye  1729,  in  due  volumi. 


LIBRO   IV  •  CAP.    ULTIMO  957 

za  da  noi  esplorate,  e  che  alla  giornata  dagl'industriosi  naviganti  se 
ne  vanno  scoprendo  delle  nuove,  qual'altra  religione  è  ritenuta 
se  non  l'antica  di  tutte  le  genti}  E  chi  può  darsi  il  vanto  di  avere 
scorti  appieno  tutti  i  vasti  paesi  della  G.  Tartaria,  e  l'innumerabili 
popoli  che  ancor  la  ritengono  ?  Onde  chiunque  vorrà  prendersi  la 
cura  di  farne  esatto  computo,  troverà  che  nell'Asia  la  più  gran 
parte  è  occupata  da  questa,  e  la  minore  dalla  maomettana  e  dalla 
cristiana. 

Forse  alcuni  crederanno  che  almeno  nell'Affrica  la  maomettana 
debba  superarla,  e  pure  in  ciò  vivon  in  errore;  poiché  se  bene  ne' 
regni  dell'Affrica  rivolti  all'uno  ed  all'altro  mare,  al  Mediterraneo 
ed  al  vasto  Oceano  meridionale,  sia  comunemente  professata  la 
maomettana,  e  nell'Etiopia  la  cristiana,  ancorché  guasta,  mista  e 
corrotta  dalla  giudaica,  per  esser  più  frequentati  dal  commercio  di 
più  nazioni;  nulladimanco  nell'interior  sua  parte  che  resta  ancora 
sconosciuta,  negl'immensi  spazi  mediterranei  lontani  dal  mare, 
dove  i  commerci  riescono  non  meno  inutili  ed  infruttosi  che  peri- 
colosi ed  impraticabili,  tutto  l'uman  genere  che  qui  vi  dimora  e  che 
ancor  ritiene  la  natia  sua  vita  ferale  e  selvaggia,  ritiene  eziandio  la 
religione  delle  genti,  alla  quale  per  umano  istinto  sono  inclinati  e 
propensi.  Leggansi  V Affrica  di  Luigi  Marmol  tradotta  dallo  spa- 
gnolo in  francese  per  Nicolò  Perrot  d'Ablancourt,1  la  novella 
istoria  dell' Abissinia  ovvero  d'Etiopia  tratta  dall'istoria  latina  di 
M.  Ludolfe,2  e  Y Introduzione  all'Istoria  dell1  Asia,  dell Affrica  ed 
America  di  M.  Bruzen  de  la  Martinière.3 

Per  la  ragione  istessa  nel  nuovo  mondo  discoperto,  che  chiamiamo 


1.  V Affrica . . .  Ablancourt:  il  Giannone  si  riferisce  a  LAfrique  de  Marmol, 
de  la  traduction  de  Nicolas  Perrot,  sieur  dAblancourt .  .  .  avec  VHistoire  des 
Ckénfs .  .  .,  Paris  1667,  in  tre  volumi,  di  Luis  del  Màrmol  y  Carvajal, 
storico  spagnolo  del  XVI  secolo,  autore  della  Descripción  general  de  Affrica, 
Granada  1573,  tradotta  appunto  da  Nicolas  Perrot  d'Ablancourt  (1606- 
1664),  scrittore  e  traduttore  francese  protestante.  2.  Ludolfe'.  Hiob  Lu- 
doif  o  Leutholf  (1624-1704),  orientalista  tedesco,  di  cui  si  cita  VHistoria 
aethiopica,  sive  brevis  et  succincta  descriptio  regni  Habessinorum,  quod  vulgo 
male  Presbyteri  Iohannis  vocatur  . . .,  Francofurti  ad  Moenum  1681-  Scrisse 
successivamente  un  Ad  suam  Historiam  aethiopicam  .  .  .  Commentanti?,  ivi 
1691  ;  Relatio  de  hodierno  Habessinìae  statu,  ivi  1693,  e  Appendix  secunda 
ad  Historiam  aethiopicam,  ivi  1694,  oltre  a  una  serie  di  grammatiche  orien- 
tali. 3.  Antoine-Augustin  Bruzen  de  la  Martinière  (1662- 1746),  letterato 
francese,  segretario  del  duca  di  Meclemburgo,  amico  del  Desmaizeaux  e 
di  Voltaire,  del  quale  è  qui  citata  VIntroduction  à  Vhistoire  de  VAsie,  de 
VAfrique  et  de  VAmérique,  Amsterdam  1735,  in  due  volumi. 


958        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI   GREGORIO    MAGNO 

America,  il  qual  forma  quasi  la  metta  del  terraqueo  globo  ;  se  ben 
gli  Spagnuoli,  i  Portoghesi,  i  Francesi,  gl'Inglesi,  gli  Ollandesi,  i 
Svedesi  ed  i  Danesi,  popoli  di  Europa  tutti  istrutti  nella  religione 
cristiana,  vi  avessero  fatte  più  conquiste;  gli  Spagnoli  nel  Messico, 
nel  Perù  e  di  altre  isole  e  provincie  dell'America  meridionale, 
i  Portuesi  nel  Brasile  ed  altri  porti  ed  isole,  i  Francesi  nell'America 
Settentrionale,  e  così  pure  gl'Inglesi  e  TOllandesi,  e  fino  gli  Svedesi 
e'  Danesi,  ancorché  gli  acquisti  di  questi  ultimi  non  fossero  molto 
considerabili:  nulladimanco  i  missionari  che  vi  mandarono  gli 
Spagnoli  ed  i  Portuesi  ridussero  sì  bene  gl'insulani  alla  religion 
cristiana,  e  que*  regni  del  continente  prossimi  al  mare;  ma  gli 
abitatori  di  que'  immensi  e  vasti  paesi  mediterranei,  dove  come 
inutili  al  commercio  niuno  degli  Europei  è  penetrato,  rimangono 
ancora  nella  antica  lor  religione  e  nella  stessa  vita  incolta  e  selvag- 
gia; e  le  relazioni  de'  viaggianti  ci  rendono  testimonianza  che  na- 
zioni intere  vivono  ancor  nudi,  ed  i  lor  abiti  altro  non  sono  che  le 
dipinture  che  a  vicenda  fanno  le  mogli  ed  i  mariti  a'  loro  corpi  e  de' 
figliuoli  di  colori  spremuti  dall'erbe  ed  altre  piante.  Intorno  alla 
qual  parte  più  scrittori  spagnoli  ce  ne  han  date  istorie:  ma  oggi 
riescono  più  accurate  le  relazioni  degli  ultimi  viaggianti,  e  deono 
anche  leggersi  i  due  volumi  di  M.  de  la  Mattinière  e  l'vm  e  ix  vo- 
lume che  servono  di  continuazione  all' Introduzione  di  Puffendorf.1 
E  quante  altre  isole  di  quel  vasto  Oceano  rimangono  ancora  ignote 
e  sconosciute,  dove  è  da  credere  che  la  stessa  religione  si  professi 
che  quella  che  si  trovò  nell'altre  scoverte  e  conquistate.  Non  è 
dunque  da  dubitare  che  ancor  oggi  sopra  la  superficie  della  terra 
occupi  più  spazio  la  gentile  che  la  cristiana  e  maomettana.  Tra- 
lascio altre  ragioni  che  convincono  la  necessità  di  far  entrare  l'istoria 
della  religione  gentile  in  una  generale  e  compita  istoria  ecclesiastica, 
le  quali  caderanno  facilmente  nella  penna  di  chi  vorrà  prendersi  la 
cura  di  scriverla.  Ha  questa  religione  oggi  più  scrittori  moderni,  i 
quali  risparmiano  la  fatica  d'andarla  ricercando  fra  gli  antichi 
autori  greci  e  latini:  Girardo  Vossio,2  De  idololatria;  il  Seldeno,3 


i.  e  VVXU .  .  .  Puffendorf'.  cfr.  S.  Pufendorf,  Introduction  à  VHistoire  ge- 
nerale etpolitique  de  l'univers . . .  complétée  et  continuéejusqu'à  X743  {"45)  par 
Mr.  Bruzen  de  la  Martinière,  Amsterdam  1743-17453,  in  otto  volumi* 
2.  Girardo  Vossio:  cfr.  la  nota  np.  785.  L'opera  qui  citata  è  il  De  theolo~ 
già  gentili  etphysiologia  Christiana,  sive  de  origine  acprogressu  idololatriae  . . ., 
Amsterdam!  1 641 .  Cfr.  in  Opera,  v,  Amstelodami  x  700.     3 .  il  Seldeno  :  John 


LIBRO   IV   •  CAP.    ULTIMO  959 

De  diis  syriis  ;  Natale  Comite1  italiano  che  scrisse  la  sua  Mithologia 
nel  XVI  secolo;  il  P.  Jouvenci2  gesuita  nell'Appendice  De  diis  et 
heroibus;  l'abate  Banier3  nelle  sue  sposizioni  istoriche  sopra  le 
Metamorfosi  di  Ovidio  e  le  Favole;  il  P.  Gautruche4  gesuita  nella 
sua  Istoria  poetica;  il  professore  Rollin  nella  sua  istoria  antica 
greca  e  romana;5  ed  altri  i  quali  han  dichiarata  l'antica  gentile,  si- 
come  le  relazioni  de'  viaggianti  dichiarano  la  presente  professata 
nell'Asia  e  nell'America;  a'  quali  possono  aggiungersi  le  Ricerche 
curiose  sopra  la  varietà  delle  religioni  in  tutte  le  principali  parti  del 
mondo  di  Brerewood,6  professore  di  umanità  a  Londra;  ed  il  libro 
di  M.  Simon  sotto  il  titolo  Religioni  d'Oriente  par  le  Sieur  Mony? 
A  questi  si  aggiunga  Tommaso  Hide8  inglese,  che  ha  composto  un 
trattato  della  religione  degli  antichi  Persiani  sotto  questo  titolo: 
Historia  reltgionis  veterum  Persarum,  eorumque  Magorum,  Oxonii 
1700,  dove  fa  vedere  che  i  Persi  non  adoravano  il  fuoco  come  nume 
con  culto  di  latria,  ma  come  simbolo  della  divinità:  e  fino  la  Ger- 


Selden  (1584- 1654),  erudito,  giurista  e  uomo  politico  inglese,  la  cui  opera 
qui  citata  è  De  diis  syriis  syntagmata  II .  .  .,  Londiru  161 7,  ristampata  negli 
Opera  omnia,  Londini  1736,  an  tre  volumi,  voi.  11.  1.  Natale  Comite:  Na- 
tale Conti  (1 520-1582),  umanista  e  storico  milanese,  di  cui  si  cita  Mytho- 
logiae,  sive  explicatìonum  jabularum  libri  decem  . .  .,  Venetiis  1568.  2.  il  P. 
Jouvenci:  Joseph  de  Jouvancy  (1643-17 19),  gesuita  e  umanista  francese,  la 
cui  Appendix  de  diis  et  heroibus  poeticis  adpoetarum  vntelligentiam  necessaria 
è  in  Q.  Horatius  Flaccus,  Carmina  expurgata,  Rotomagi  1709.  3.  An- 
toine  Banier  (1 673-1 741),  erudito  francese,  autore  fra  l'altro  di  un  com- 
mento a  Ovidio,  Les  métamorphoses,  Amsterdam  1732,  due  tomi  in  un 
volume,  e  dell3 Explication  historique  des  fables  . . .,  Paris  171 1,  in  due  vo- 
lumi. 4.  Pierre  Gautruche  (1602-1681),  gesuita  francese,  la  cui  opera  qui 
citata,  L'histoirepoétiquepour  l'intelligence  despoètes  et  des  auteurs  anciens ...» 
Caen  1671,  godette  grandissima  fortuna.  U Appendix  citata  dello  Jouvancy  è 
la  traduzione  pressoché  letterale  dell'opera  del  Gautruche.  5.  Rollin  . . . 
romana:  vedi  la  nota  7  a  p.  739.  Altra  edizione  della  Histoire,  Paris  1738- 
1748,  in  otto  volumi.  Lo  scrittore  e  storico  francese  era  conosciuto  dal 
Giannone:  cfr.  gli  appunti  in  Archivio  di  Stato  di  Torino,  manoscritti 
Giannonet  mazzo  I,  ins.  15,  l.  6.  Brerewood:  vedi  la  nota  4  a  p.  687.  Cfr. 
Recherches  curieuses  sur  la  diversité  des  langues  et  religions  par  toutes  les 
principales  parties  du  monde,  par  Ed.  Brerewood  . .  .  et  mises  en  franpais  par 
I.  de  La  Montagne,  Paris  1640.  7.  Simon  . . .  Mony:  in  realtà  dietro  lo 
pseudonimo  Le  Sieur  si  celava  Richard  Simon  (1638-1712),  il  celebre 
oratoriano  francese  ben  conosciuto  dal  Giannone  per  la  sua  opera  di  stu- 
dioso della  storia  ecclesiastica  e  di  esegeta  biblico.  Cfr.  Histoire  critique  de 
la  créance  et  des  coutumes  des  nations  du  Levant,  publiée  par  le  Sr.  de  Moni, 
Francfort  [Olanda]  1684.  8.  Tommaso  Hide:  Thomas  Hyde  (1 636-1 703), 
orientalista  inglese. 


960        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO   MAGNO 

mania  ha  il  suo  particolar  autore  Scendio,1  il  quale  scrisse  delle 
Divinità  germaniche. 


lì.  Intorno  alla  religione  giudaica. 

Si  è  ben  da'  nostri  scrittori  conosciuto  esser  questa  necessaria 
per  lo  rapporto  che  ha  colla  cristiana,  ed  oggi  non  può  negarsi  da 
molti  dotti  ed  accurati  autori  essersi  delle  cose  giudaiche  trattato 
con  diligenza,  ed  illustrate  le  più  oscure,  e  poste  in  aperto  le  più 
nascoste,  e  certamente  che  i  nuovi  scrittori  han  superati  gli  antichi, 
non  eccettuandone  S.  Girolamo  istesso,  ancorché  dimorato  più 
anni  nella  Palestina,  sicome  da  noi  fu  dimostrato  nell'Apologia  de' 
teologi  scolastici.  Con  tutto  ciò  mancano  in  due  importantissimi 
punti.  Il  primo  di  non  aver  ben  distinto  lo  stato  di  quella  chiesa 
sotto  il  I  Tempio  dall'altro  che  prese  sotto  il  II,  quando  rifatto  si 
videro  sorgere  nuove  dottrine  e  nuovi  costumi;  ed  il  secondo  di 
non  essersi  tenuto  conto  delle  tante  sinagoghe  degli  Ebrei  sparse 
in  tutto  T Imperio  romano:  ciocché  conduce  molto  per  ben  capire 
le  vere  cagioni  della  prodigiosa  propagazione  della  cristiana  in 
quasi  tutte  le  provincie  dell'Imperio  romano.  La  chiesa  giudaica 
sotto  il  I  Tempio  non  riguardava  che  il  riposo  di  questo  mondo: 
tutte  le  benedizioni  o  maledizioni,  tutte  le  preghiere,  i  sacrifici  e  gli 
olocausti  non  riguardavano  che  felicità  o  miserie  tutte  mondane, 
né  s'indrizzavano  se  non  per  la  prosperità  terrena,  ovvero  per 
sottrar  gli  Ebrei  da'  mali,  calamità  e  sciagure  mondane,  sicom'è 
manifesto  da'  libri  di  Mosè,  e  da  noi  fu  avvertito  nel  primo  libro 
dell'Apologia  de'  teologi  scolastici?  Non  aveano  gli  Ebrei  concetto 
di  regno  celeste^  nel  che  tutti  i  Padri  e  S.  Agostino  istesso  consento- 
no, e  l'uomo  era  considerato  nel  solo  stato  di  natura.  Nel  II  Tempio 
cominciarono  le  nuove  opinioni;  e  la  cagion  fu,  che  doppo  la  cat- 
tività babilonica,  sparpagliati  che  furono  in  più  città  dell'Assiria, 
de*  Medi  e  in  altre  provincie  di  Oriente,  dimorando  fra'  gentili 
appresero  le  loro  dottrine;  onde  restituiti  poi  in  Gerusalemme  e 
nell'altre  città  della  Giudea,  risorto  il  nuovo  Tempio,  i  sacerdoti, 


i.  Scandio:  si  tratta  di  Elias  Schedius  (1615-1641),  erudito  e  scrittore  tede- 
sco. L'opera  è  De  diis  germanis,  sive  veteri  Germanorum,  Gallorum,  Bri" 
tannorum,  Vandalorum  religione,  syngrammata  quatuory  Amsterodami  1648 
(riedita  a  cura  di  Johann  Jarke  e  Johann  A.  Fabricius,  Halae  1728).  2.  e 
da  noi .  .  .  scolastici:  cfr.  ad  esempio  qui,  p.  807. 


LIBRO    IV   •  CAP.    ULTIMO  961 

scribi,  e  sopra  tutto  i  farisei  introdussero  nella  nazione  nuovi  dogmi, 
nuova  morale  e  nel  concetto  degli  uomini  nuove  opinioni.  Quindi, 
secondo  che  ci  rende  testimonianza  FI.  Giuseppe  nelle  sue  Anti- 
chità giudaiche,  molti  eran  persuasi  ed  abbraciarono  la  dottrina 
del  Fato;  altri  che  le  anime  de'  forti  e  coraggiosi,  i  quali  militando 
per  la  patria  eran  uccisi,  rendevansi  immortali  e  gloriose:  quindi 
assignare  alle  altre  ne'  luoghi  infernali  varie  abitazioni,  aggiate, 
pien  di  solazzo,  o  pure  triste  e  disaggiate,  secondo  il  concetto  de* 
gentili.  Quindi  il  dover  gli  Ebrei  tutti  risorgere  ed  occupare  un 
nuovo  regno  tutto  giocondo,  ripieno  di  delizie,  di  felicità  e  contenti, 
ma  regno  pur  terreno  e  mondano,  e  tante  altre  superstizioni  e  vane 
osservanze  che  Cristo  S.  N.,  rimproverandole  a'  farisei,  le  chiamò 
«traditiones  hominum)).1  All'incontro  i  sadducei,  tenaci  della  pri- 
ma dottrina  e  rigidi  osservatori  dell'antica  disciplina,  negavano 
tutte  le  tradizioni  e  si  attenevano  a'  soli  libri  di  Mosè;  negavano  la 
resurezione;  negavano  i  tanti  ricettacoli  e  luoghi  infernali  per  l'ani- 
me, le  quali  facevano  morire  insieme  col  corpo;  negavan  gli  spiriti, 
gli  angeli,  e  tutte  riputavan  cose  fantastiche  ed  illusioni.  Tutto 
ciò  era  nel  II  Tempio  disputato  fra  gli  Ebrei;  e  se  bene  la  setta  de' 
farisei  fosse  la  più  numerosa,  nulla  di  manco  per  dottrina  e  saviezza 
non  era  riputata  inferiore  quella  de'  sadducei',  ed  il  loro  Sinedrio 
ovvero  Sinagoga  Magna,  che  formava  la  lor  chiesa,  era  composto 
non  men  degli  uni  che  degli  altri;  e  secondo  le  vicende  delle 
mondane  cose  in  alcuni  tempi  il  partito  de'  sadducei  prevalse,  e 
in  altri  si  rese  più  potente  quello  dei  farisei?'  Molti  stupiscono  e  non 
posson  rendersi  capaci  come  due  sette,  le  quali  disconvenivano  in 
punti  cotanto  importanti,  potessero  formare  una  sola  chiesa  ed 
aver  insieme  comunione  l'una  coll'altra  e  non  fra  lor  dividersi  con 
formarne  due.  Bisogna  adunque  manifestare  le  vere  cagioni  per 
toglierne  la  maraviglia,  ciocché  fin  ora  non  si  è  fatto.  Le  cagioni 
furono,  perché  questi  punti  non  erano  stati  allora  dichiarati  per 
articoli  fondamentali  della  loro  fede;  solamente  riputavano  i  prin- 

1.  fa  traditiones  hominum  »:  cfr.  Marc,  7,  8.  2.  Tutto  ciò  era  . . .  farisei:  il 
Giannone,  ancora  una  volta  nella  scia  dell' Aulisio,  riafferma  la  presenza  nel 
mondo  ebreo  dì  una  tradizione  sadducea,  che,  fedele  alla  dottrina  mosaica, 
aveva  una  concezione  tutta  terrena  della  vita  e  non  credeva  nell'immorta- 
lità  dell'anima.  Ispirandosi  inoltre  allo  Spencer  e  al  Toland,  ribadisce  che 
fino  al  primo  Tempio  gli  Ebrei  erano  tutti  convinti  della  pura  terrenità 
dell'esistenza  e  che  col  secondo  Tempio,  a  contatto  con  le  religioni  gentili, 
accettarono  l'idea  della  resurrezione. 

61 


962        ISTORIA  DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO   MAGNO 

cipali  esser  quelli  che  si  contenevano  ne'  libri  di  Mosè,  sopra  i 
quali  era  appoggiata:  tutto  il  resto  lo  lasciavano  alla  disputa  de* 
dottori  della  legge,  ed  a  ciascuno  era  lecito  di  seguitar  l'uno  o 
Paltro  partito;  né  perché  fosser  vari  nelle  opinioni,  si  rompeva  la 
lor  comunione;  poiché  la  religione  ebraica  non  riguardava,  come 
si  è  detto,  che  un  regno  terreno,  né  avea  alcun  concetto  di  regno 
celeste,  e  per  ciò  importava  poco  Pignorare  che  si  facesse  delle 
anime  doppo  la  lor  morte,  se  si  estinguessero  insieme  co'  corpi  e 
dapoi  co*  corpi  risuscitassero,  o  pure  avesser  altrove  ricetto  ne'  luo- 
ghi infernali  o  pure  in  più  alti  ricettacoli  ;  non  altrimenti  che  nella 
religione  gentile,  la  quale  non  riguardava  l'uomo  se  non  secondo  il 
suo  stato  terreno  e  mondano,  il  disputarsi  fra  gli  Egizi,  Greci  o 
Romani  o  altre  nazioni  sopra  Pimmortalità  o  mortalità  delle  anime 
umane,  0  dello  stato  nel  quale  passavano  doppo  essersi  separate 
da'  corpi,  era  riputata  una  contesa  la  quale  non  si  apparteneva 
punto  alla  loro  religione  e  per  ciò  variamente  e  francamente  da 
tutti  disputata,  non  già  da'  soli  filosofi.  Disputavano  gli  Ebrei  sopra 
la  resurezione  de*  morti,  e  dell'esistenza  degli  spiriti,  come  punti 
indifferenti,  i  quali  non  si  appartenevano  a'  fondamentali  articoli 
della  loro  religione,  e  cosi  degli  altri,  poiché  se  risorgessero  i  morti, 
pure  non  altro  regno  era  da  essi  aspettato  che  terreno  e  mondano  ; 
e  per  la  cagione  istessa  importava  poco  ad  essi  che  vi  fossero  0  no 
spiriti  ed  angeli.  Non  altrimenti  che  nella  Chiesa  cristiana  istessa 
si  è  veduto  nel  libro  1  dell'Apologia  de*  teologi  scolastici1  che  fu  tra' 
Padri  antichi  lungamente  disputato  sopra  lo  stato  dell'anime  uma- 
ne separate  da'  corpi,  se  avessero  di  noi  più  cura  0  notizia,  se  si 
rimanessero  intanto  fino  alla  general  resurezione  de*  morti  in  un 
profondo  obblìo  e  tenebroso  sonno,  o  sentissero  le  nostre  preghiere 
ed  i  nostri  affanni;  si  disputò  pure  sopra  l'eternità  de'  supplici 
infernali,  sopra  il  fuoco2  Purgatorio,  e  tanti  altri  punti  con  varietà 
di  pareri;  né  perciò  si  ruppe  fra  essi  la  comunione,  ma  eran  riputati 
d'una  medesima  Chiesa.  Dapoi  che  da'  concili  furon  per  loro  de- 
terminazioni le  dispute  decise,  allora  i  canoni  sopra  ciò  stabiliti 
passarono  per  articoli  dì  religione,  e  chiunque  non  vi  prestasse 
intera  fede  e  credenza  è  meritamente  riputato  ora  o  scismatico  o 
eretico  o  miscredente,  rotta  l'unione  e  separata  la  comunione. 
Così  pure  dapoi  avvenne  alla  chiesa  ebraica;  poiché  agli  ultimi 

1.  si  è  veduto  . . .  scolastici:  il  Giannone  riconferma  qui  una  delle  tesi  fon- 
damentali del  Triregno,    2.  fuoco  :  aggiunto  posteriormente. 


LIBRO    IV  •  CAP.    ULTIMO  963 

rabini  piacque  determinar  con  loro  decisioni  quelle  dispute,  e 
formaron  anch'essi  nuovi  articoli,  e  nelle  loro  sinagoghe  sono  anche 
riputati  eretici  que'  che  sentano  altrimenti. 

Non  si  sono  ancora  dichiarate  abbastanza  doppo  la  cattività 
babilonica  le  tante  loro  trasmigrazioni  seguite  in  vari  tempi  in  più 
occasioni  in  molte  provincie  dell'Oriente,  nell' Affrica  ed  in  Euro- 
pa, e  le  tante  sinagoghe  da  per  tutto  quivi  instituite;  e  pure  si  è 
veduto  da'  precedenti  libri  che  la  propagazione  del  Vangelo  a 
queste  si  dee,  dove  prima  fu  predicato  :  e  che  scorgendosi  il  poco 
profitto  presso  gli  ostinati  Ebrei  furono  rivolti  gli  operai  della 
vigna  del  Signore  alle  genti,  riuscendo  presso  questi  i  loro  travagli 
assai  fruttiferi,  doviziosi  ed  abbondanti.  Ciocch'è  necessario  espor- 
re per  lo  gran  rapporto  che  ha  coll'istoria  della  nascente  Chiesa 
cristiana,  per  i  lumi  co'  quali  s'illustrano  l'epistole  di  S.  Paolo,  gli 
Atti  di  S.  Luca  e  gli  altri  monumenti  che  ci  restano  di  que*  tempi, 
e  per  maggior  chiarezza  de*  tre  primi  secoli  della  Chiesa. 

In  fine  non  bisogna  fermarsi  néH  antica  e  media  chiesa  giudaica, 
ma  avanzar  il  camino  e  scorrer  V ultima  e  la  presente  :  poiché  se  bene 
ora  non  avendo  più  Tempio  né  Sinagoga  Magna  non  gli  possa  pro- 
priamente convenire  il  nome  di  chiesa,  nulladimanco  nelle  tante 
ed  innumerabili  sinagoghe,  che  ritengono  ancora  nell'Asia,  Affrica 
ed  Europa,  è  quella  rappresentata  e  vi  è  molto  da  notare  ancor 
in  essa  intorno  alla  varia  e  nuova  disciplina  che  ha  preso,  differente 
dall'antica,  non  meno  che  la  nostra.  Nuovi  riti  e  nuove  cerimonie 
negli  sponsali,  nelle  nozze,  ne'  sacrifici,  nelle  sepulture;  abolita  fra 
di  loro  la  poligamia,  essendo  contenti  d'una  sola  moglie;  ritenuto 
però  il  libello  del  ripudio,  ma  prescritte  le  leggitime  cause;  mutate 
le  antiche  lor  feste,  ed  introdotti  tanti  altri  nuovi  costumi  ed  usanze. 
Sono  per  ciò  da  leggersi  Seldeno  nella  sua  Uxor  hebraica1  e  V Istoria 
de*  Giudei  di  M.  Prideaux.*  Né  si  creda  che  questo  studio  fosse  di 
sola  curiosità  e  del  quale  non  si  potesse  avere  giammai  alcun  uso. 
Come  che  sono  essi  sparsi  oltre  l'Asia,  l'Affrica,  in  Europa,  toltone 
la  Spagna,  in  quasi  tutte  le  sue  città  occorre  sovente,  molti  ab- 
bracciando la  religione  cristiana,  disputare  de'  loro  matrimoni,  già 
contratti,  se  possano  ritenere  le  mogli  ebree,  se  possano,  essendo 
cattolici  fra'  quali  i  divorzi  sono  proibiti,  mandar  loro  i  libelli  del 

i.  Del  già  menzionato  John  Selden  è  qui  citata  VUxor  ebraica,  seti  de  nuptiis 
et  divortiis  ex  iure  civili,  id  est  divino  et  talmudico,  veterum  Ebraeorum,  libri 
tres,  Londini  1646.     2.  V Istoria  . . .  Prideaux:  vedi  la  nota  6  a  pp.  801-2. 


964        ISTORIA  DEL   PONTIFICATO   DI   GREGORIO   MAGNO 

ripudio  affinché  possino  rimaritarsi  con  altri  Ebrei,  e  tante  altre  di- 
spute. Anzi  in  Italia  a*  nostri  teologi  e  spezialmente  agl'inquisitori 
ed  altri  ministri  di  quel  Tribunale  la  cognizione  della  loro  religione 
è  assolutamente  necessaria,  poiché  questo  Tribunale  ha  attribuito 
a  sé  la  conoscenza  delle  cause  appartenenti  alla  medesima,  to- 
gliendone il  giudizio  e  il  castigo  a*  loro  rabbini  e  sinagoghe,  in 
guisa  che  contro  i  talmuldisti,  o  contro  que'  che  ritengono  i  loro 
libri,  o  pure  altri  indiziati  di  loro  eresie,  procede  il  S.  Ufficio;  e  gli 
punisce  con  ammende  ed  altre  pene  pecuniarie;  onde  se  non  saran- 
no istrutti  degli  articoli  di  questa  religione,  per  conoscere  quali 
gli  facci  eretici  e  quali  innocenti,  non  potranno  certamente  darne 
un  giudicio  esatto  ed  ingiungergli  una  pena  corrispondente  alle 
loro  colpe. 

ni.  Istoria  della  Chiesa  cristiana. 

Sono  ormai  due  secoli  da  che  si  è  cominciato  a  travagliar  di 
proposito  intorno  a  quest'istoria;  e  non  vi  è  dubbio  essersi  da 
preclari  ingegni  fatti  maravigliosi  progressi  e  che  abbiano  di  lunga 
mano  per  esattezza,  serietà  e  disposizione  superati  i  primieri  greci 
scrittori,  i  quali  la  cominciarono  fin  dal  IV  secolo,  ma  secondo  il 
greco  costume  la  riempirono  di  molte  menzogne,  come  fece  Euse- 
bio di  Cesarea,  e  gli  altri  greci  che  lo  seguirono  :  Socrate,  Sozomeno 
(la  di  cui  Istoria,  secondo  la  testimonianza  che  ce  ne  rende  S.  Gre- 
gorio nell'ep.  31  del  lib.  vi,  come  mendace  non  fu  ricevuta  dalla 
Chiesa  di  Roma),  Teodoreto,  Evagrio,  Filostorgio  e  Teodoro  Let- 
tore.1 Questi  istorici  han  potuto  e  possono  servire  a*  nuovi  scrittori 
per  rischiaramento  de'  tempi  ne'  quali  scrissero:  ma  non  già  ab- 
bandonarsi nella  lor  fede  in  cose  da  loro  lontane,  i  di  cui  racconti 
sovente  riescono  0  favolosi  ovvero  alterati-  Presso  i  Latini  (toltone 
Sulpizio  Severo,2  che  ce  ne  diede  una  elegante,  ma  breve  e  ristretta 


1.  Eusebio  . .  .  Lettore:  per  Eusebio  di  Cesarea,  Socrate,  Sozomeno  e  Teo- 
doreto vedi  la  nota  2  a  p.  31.  Per  il  passo  di  Gregorio  Magno  cfr.  Epistolae, 
lib.  vii  (non  vi),  ep.  xxxiv  (altri  xxxi)  Ad  Eulogium  episcopum>  in  Migne, 
PX.,  lxxvii,  col.  893.  Di  Evagrio  (circa  536-600),  detto  lo  Scolastico,  ci 
resta  una  Storia  ecclesiastica  in  sei  libri,  che  è  una  continuazione  di  quelle 
degli  altri  storici  sopra  menzionati.  Per  Filostorgio  vedi  la  nota  1  a  p.  24. 
Teodoro  il  Lettore  (secolo  VI),  storico  bizantino,  scrisse  una  Storia  eccle- 
siastica, da  Costantino  il  Grande  al  518,  di  cui  si  conservano  solo  estratti. 

2.  Sulpizio  Severo  :  vedi  la  nota  2  a  p.  3 1 . 


LIBRO   IV   •  CAP.    ULTIMO  965 

ne'  primi  secoli),  sempre  più  l'ignoranza  e  la  non  curanza  delle 
buone  lettere  avanzandosi  nell'Occidente,  non  si  videro  ne*  secoli 
incolti  che  particolari  cronache  di  monaci  de'  loro  monasteri,  ed 
altri  insipidi  e  goffi  volumi,  finché  il  venerabile  Beda1  non  la  rial- 
zasse alquanto  ;  ma  colpa  sua  non  già,  ma  de*  tempi  ne'  quali  scrisse, 
non  potè  darcene  una  generale,  bene  scritta  ed  accurata.  Tacquero 
poi  gli  altri  scrittori  ecclesiastici  ad  altro  intesi,  a  dispute  metafisi- 
che, scolastiche  ed  inutili,  ed  intrigati  in  una  spinosa  e  nuova  lor 
teologia.  Le  novità  dapoi  surte  in  Germania  ne*  princìpi  del  se- 
colo XVI  per  le  prediche  di  Lutero,  e  le  alterazioni  indi  seguite 
sopra  più  punti  non  pur  di  disciplina,  ma  di  dottrina,  dieder  oc- 
casione di  essaminarli  più  a  fondo  per  iscoprirne  le  cause  e  le 
origini,  ciocché  prima  non  erasi  fatto,  ciascuno  appoggiandosi  su 
l'altrui  fede  e  credenza,  acquetandosi  all'uso  ed  al  costume  ed  a 
que'  istituti  che  da  lungo  tempo  vedeva  essersi  stabiliti.  Quindi 
alcuni  accorgendosi  che  non  altronde  potevan  tante  dispute  riceve- 
re rischiaramento,  se  non  dal  lume  d'una  sincera  istoria  ecclesiasti- 
ca tratta  da'  princìpi  della  nascente  Chiesa,  cominciarono  ad  in- 
traprenderne lo  studio.  I  primi  furono  i  Centuriatori  di  Magde- 
bourg,  i  quali  con  indefessa  fatica  e  sommo  travaglio  facendo  ac- 
curate ricerche  fra'  monumenti  rimastici  de'  tre  primi  secoli,  la 
tirarono  innanzi  fino  al  quarto.  Ma  poiché  il  lor  travaglio  fu  intra- 
preso non  già  per  darci  una  schietta,  fedele  ed  imparzial  istoria, 
ma  per  convincere  i  loro  avversari,  sicome  essi  credevano,  de'  loro 
errori  ed  inganni,  quindi  l'empirono  di  dissertazioni  teologiche, 
d'interpretazioni  di  concili  e  de'  Padri  per  trarre  dal  lor  canto  l'au- 
torità e  le  testimonianze  de'  medesimi.  Per  occorrere  e  toglier  la 
forza  ad  una  machina  non  men  insidiosa  che  dannosa  alla  Chiesa 
dì  Roma,  surse  il  card.  Baronio,  e  cominciò  a  dar  fuori  i  suoi 
Annali  ecclesiastici,7,  ne'  quali  non  dissimulando  le  difficultà,  pro- 

1.  Beda:  vedi  la  nota  5  a  p.  846.  2. 1  primi  furono  .  . .  ecclesiastici:  il  Gian- 
none  aveva  avvertito  con  molta  sensibilità  lo  iato  esistente  tra  la  prima 
storiografia  ecclesiastica,  legata  alla  cultura  greca,  e  la  ripresa  degli  studi 
di  storia  religiosa  nel  XVI  secolo:  la  frattura  tra  cattolici  e  protestanti  im- 
pedì o  almeno  limitò  fortemente  quel  rapporto  tra  la  filologia  umanistica 
e  la  storia  ecclesiastica  che  per  esempio  Erasmo  aveva  cercato  di  stabilire. 
Rifiorisce  sì  la  storia  ecclesiastica,  ma  rifiorisce  sul  terreno  della  polemica, 
senza  alcuna  capacità  di  essere  imparziale  e  obiettiva.  Di  questo  tipo  di 
storiografia  i  due  monumenti  principali  sono  appunto  l'opera  dei  Centu- 
riatori di  Magdeburgo  e  gli  Annali  del  Baronio.  Cfr.  Ecclesiastica  historia 
integram  Ecclesiae  Christi  idearti . . .  secundum  singulas  centurtas  perspicuo 


966        ISTORIA  DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO   MAGNO 

cura  sviluppare  e  scìorre  tutti  i  nodi,  e  rischiarare  con  altre  in- 
terpretazioni i  sensi  e  le  parole  de*  concili  e  de'  Padri  ;  e  non  vi  è 
dubbio  che  il  suo  travaglio  non  fu  inferiore  a  quello  de'  Centuria- 
tori,  ammirato  dagli  stessi  suoi  avversari;  e  quindi  bisognò  pure 
che  gli  ricolmasse  di  dissertazioni  non  meno  istoriche  che  teologi- 
che. Ciascuno  da  ciò  comprende  che  ricominciossi  lo  studio  dell'i- 
storia ecclesiastica  non  già  perché  gli  scrittori  assumessero  il  carat- 
tare  d'istorici,  ma  più  tosto  di  oratori  o  declamatori,  prendendo 
la  difesa  della  sua  causa  con  intento  di  vincer  l'avversario,  poco 
curando  la  verità  delle  cose,  ma  ciascuno  a  dritto  o  a  traverso  ti- 
rarla dal  suo  canto;  onde  diedero  in  estremità  opposte,  e  lo  studio, 
l'affetto  e  la  passione  delle  parti  contendenti  di  leggieri  gli  fece  tra- 
scorrere, oltre  essere  i  primi,  in  molti  errori,  sicché  dapoi  le  loro 
opere  ebber  bisogno  di  più  critiche  per  renderle  pure  e  metterle 
nel  diritto  cammino  della  verità,  affinché  la  posterità,  alla  quale 
unicamente  devono  gl'istorici  badare,  non  inciampasse  ne*  medesi- 
mi errori.  Chi  in  scrivendo  assume  il  carattere  d'istorico  non  dee 
esser  tocco  di  amore  0  di  odio,  ma  le  sue  narrazioni  disporle  se- 
condo la  naturale  e  semplice  positura  delle  cose,  chiamar  fico  il 
fico,  e  vomere  il  vomere,  senza  raddolcire  o  inamarire  i  fatti  o  i 
vocaboli  fuori  della  lor  natura  e  proprietà,  e  molto  meno  farsi  ac- 
cecare dagli  umani  affetti,  e  mettersi  in  croce  per  compiacere  ad 
una  delle  parti  quando  incontra  de'  duri  passi,  ma  francamente 
oltrapassarli,  calcando  il  sentiero  della  verità.  Il  card.  Baronio 
sovente  si  è  veduto  per  ciò  in  molte  angustie,  nelle  quali  tutto  si  ag- 
gita  e  si  contorce;  senza  riflettere  ch'egli  si  era  posto  a  scrivere 
l'istoria  d'una  religione  amministrata  fra  gli  uomini,  non  dagli 
angeli,  ma  da  uomini  stessi,  i  quali  sottoposti  a  mille  debolezze  e 
passioni,  è  facile  trascorrere  nell'ambizione,  avarizia,  dissolutezza, 

ordine  complectens  . . .  per  aliqiiot  studiosos  etpios  viros  in  urbe  Magdeburgica, 
Basileae  1559-1574,  in  sette  volumi  divisi  in  tredici  (non  tre)  centurie  (=•  se- 
coli). È  la  prima  storia  generale  della  Chiesa  di  parte  protestante.  Ne  fu  diret- 
tore e  animatore  Flacio  Illirico  (Matthias  Vlacich),  istriano  (1530- 1575).  Sul 
significato  e  il  valore  dell'opera  dei  Centuriatori  cfr.  E.  Fuister,  Storia  della 
storiografia  moderna^  traduzione  di  A.  Spinelli,  Milano-Napoli  1970®,  pp. 
330-5.  La  risposta  da  parte  cattolica  ai  Centuriatori  doveva  venire  da  un 
rappresentante  della  storiografìa  erudita  italiana:  Annales  ecclesiastici  auc- 
tore  C.  Baronio ,  Romae  1588-1607,  in  dodici  volumi.  Su  Cesare  Baronio 
(1538-1607),  oratoriano  e  cardinale,  cfr.  le  pagine  del  Fueter,  op.  cit.,  pp. 
338-41,  in  cui  si  mostrano  i  limiti  e  le  deficienze  di  questa  esperienza  sto- 
riografica rispetto  alla  tradizione  umanistica. 


LIBRO   IV   •  CAP.    ULTIMO  967 

anzi  a  maggiori  vizi  e  sceleratezze.  Questo  cardinale,  mentre  stava 
tessendo  la  lunga  tela  de'  suoi  Annali,  quando  pervenne  al  tempo 
del  famoso  scisma  tra*  papi  di  Roma  e  quelli  di  Avignone,  e  che  la 
Francia,  la  Spagna  e  la  Savoia  prestava  ubbidienza  a  que'  di 
Avignone;  e  l'Imperio,  l'Ungheria  e  l'Italia  a  que'  di  Roma,  in 
tanta  turbazione  e  sconvolgimento  di  cose,  poich'egli  avea  preso 
la  parte  de'  Romani,  scrisse  una  lettera  a  Giacomo  Sirmondo,1  dove 
fra  le  altre  cose  gli  dice:  «Mi  trema  in  petto  il  cuore  e  nella  mano 
la  penna,  qualora  ripenso  di  dover  pervenire  a  sviluppare  le  ma- 
terie di  questi  tempi,  di  cui  giammai  non  saprei  come  farmi  arbitro 
a  darne  definitiva  sentenza».  In  questi  casi  chi  prende  il  carattere 
d'istorico  non  dee  angustiarsi,  ma  schiettamente,  non  inclinando 
a  destra  o  a  sinistra,  proseguire  la  narrazione  de'  fatti  secondo  la  lor 
giacitura  e  propie  circostanze,  senza  assumer  la  persona  di  giudice 
e  dar  sentenza,  ma  lasciare  al  giudicio  de*  lettori  di  proferirla.  Né 
sgomentarsi  se  occorrerà  nel  filo  dell'istoria  rammentare  fatti  i  più 
empi  e  scellerati  che  fosser  mai  accaduti  di  persone  ancor  che 
illustri  ed  in  somma  dignità  costituite;  e  molto  meno  chi  tesse 
l'istoria  della  Chiesa  cristiana,  doppo  aver  narrata  la  giudaica-, 
poiché  in  quella,  spezialmente  del  II  Tempio,  avrà  scorti  maggiori 
scelleraggini  de'  sommi  sacerdoti,  e  più  esecrande  empietà  ne'  loro 
preti  e  leviti,  ed  essersi  giunto  fino  a  vendersi  pubblicamente  il 
pontificato  per  denaio,  ed  esserne  investito  colui  che  offeriva  mag- 
gior prezzo,  sicome  avvenne  a'  tempi  del  G.  Pompeio,  il  quale  ebbe 
il  piacere  di  esporlo  venale,  e  trovar  più  compratori  che  a  gara  se  '1 
contrastavano.  Se  i  ministri  della  religione,  poiché  sono  uomini 
anch'essi,  nell'una  e  nell'altra  chiesa  furon  contaminati  di  abo- 
minevoli vizi,  che  fa  questo  alla  religione?  Niente  gli  tocca,  né  per 
ciò  ella  rimane  contaminata  e  guasta. 

Questo  non  men  laborioso  che  dotto  scrittore  proseguì  i  suoi 
Annali  fino  e  per  tutto  il  XII  secolo:  e  trovò  doppo  sua  morte 
continuatori,  ma  di  gran  lunga  a  lui  inferiori.  Poca  lode  si  meritò 
Bzovio,2  un  polacco  domenicano;  ma  il  P.  Odorico  Raynaldi3  prete 

1.  Giacomo  Sirmondo  \  cfr.  la  nota  3  a  p.  681.  Non  mi  è  riuscito  di  sapere  da 
dove  il  Giannone  ha  tratto  questa  notizia.  Nessun  accenno  nella  Vita  del 
Baronio  premessa  all'edizione  parigina  degli  Annales  del  1622.  2.  Bzovio: 
Abraham  Bzowski  (1 567-1 637)  continuò  gli  Annales  dal  11 98  al  1572  (Ro- 
mae  161 6-1 672,  in  nove  volumi).  Il  giudizio  del  Giannone,  molto  severo, 
concorda  con  il  nostro,  perché  il  Bzowski  mancava  di  ogni  senso  critico. 
3.  Odorico  Rinaldi  (Raynaldus,  1 594-1671),  oratoriano,  è  il  più  importante 


968        ISTORIA  DEL   PONTIFICATO    DI    GREGORIO   MAGNO 

dell'Oratorio  di  Roma  impiegò  molto  travaglio  nel  rischiaramento 
de'  secoli  seguenti,  dandone  fuori  ben  diece  volumi,  i  quali  però 
non  meritano  nome  né  d'istoria  né  di  annali,  ma  riusciranno  utili 
a  chi  vorrà  comporgli;  essi  deono  aversi  come  tante  selve  o  ma- 
gazzini, onde  trarne  la  rude  materia,  poiché  sono  ripieni  di  molti 
pezzi,  scritture  e  documenti  di  que'  tempi,  da'  quali  potrebbe 
tessersene  una  ben  fondata  istoria.  Ancor  oggi,  per  istituto  di  quel 
Oratorio,  da  un  altro  lor  prete  sono  continuati;  e  se  non  per  altro, 
riusciranno  almeno  profittevoli  per  le  varie  carte  e  scritture  originali 
che  rinserrano  come  preparate  raccolte.  Nel  XVII  secolo  e  più  nel 
suo  fine,  in  tempi  meno  turbati,  questo  studio  cominciò  a  fiorire 
nella  Francia,  e  molti  preclari  ingegni  di  questa  nazione  sull'istoria 
ecclesiastica  si  videro  applicare  i  loro  talenti.  Oltre  lo  Spondano1 
vescovo  di  Pamiers  ed  il  P.  Antonio  Pagi,2  che  travagliarono  ad 
emendare  e  corriggere  gli  errori  occorsi  negli  Annali  del  Baronio 
ed  a  continuargli,  sursero  altri  a  dar  fuori  l'istoria  ecclesiastica 
nella  loro  propria  lingua  ;  ed  il  primo  fu  Antonio  Godeau3  vescovo 
di  Vence,  il  quale  in  Parigi  nel  1663  e  I^78  diede  alla  luce  cinque 
volumi  proseguendola  fino  alla  fine  del  IX  secolo  ;  ma  non  si  trovò 
poi  chi  la  continuasse,  poiché  l'abate  Fleyri4  oscurò  la  costui  fama. 
Questi  con  istile  semplice  e  modesto,  ancorché  non  s'innalzasse 
quanto  Godeau,  riuscì  per  la  critica  più  al  gusto  de'  Francesi,  e 
spezialmente  per  i  suoi  discorsi  che  vi  framezzò,  ma  non  avendo 
potuto  continuarla  fino  a'  suoi  tempi,  si  rimase  al  cominciamento 
del  XV  secolo.  Trovò  il  suo  continuatore  che  la  proseguì  fino  al 


continuatore  degli  Annales  ecclesiastici,  riprendendoli  e  conducendoli  fino 
al  1567  (Romae  1646-1662,  in  otto  volumi).  È  anche  l'autore  di  un  com- 
pendio del  Baronio  in  tre  volumi  (Romac  1 64 1  - 1 643 ) .  1 .  Spondano  :  Henri 
de  Sponde  (1568-1643),  proseguì  gli  Annales  fino  al  1641.  2.  Antoine 
Pagi  (1624-1699),  frate  minore  francese.  L'opera  cui  il  Gìannone  allude  è  la 
Critica  historico-chronologica  in  Annales  ecclesiastìcos  cardinalis  Baronii> 
Pansiis  1689;  gli  altri  tre  tomi  furono  pubblicati  dal  nipote  Francois 
Pagi  (Antverpiae  1705),  a  sua  volta  autore  di  un  Breviarium  historico- 
chronologico-cnticum  . . .,  Antverpiae  17 17,  in  quattro  volumi.  3.  Antoine 
Godeau  (1605-1672),  letterato  e  prelato  francese  membro  dell'Accademia, 
autore  di  una  Histoìre  de  VÉglìse  .  . .,  nouvelle  édition  augmentée,  Paris 
1663-1678,  in  cinque  volumi.  4.  Si  tratta  naturalmente  di  Claude  Fleury, 
per  il  quale  si  veda  la  nota  3  a  p.  31.  Il  Giannone  si  riferisce  alla  Histoire 
ecclésiastique .  . .,  Paris  1 691 -1720,  in  venti  volumi,  che  giunge  fino  al 
1414.  Cfr.  F.  Gaquère,  La  vie  et  les  oeuvres  de  Claude  Fleury >  1640-1723, 
Paris  1925.  Cfr.  le  critiche,  piuttosto  severe,  che  gli  muove  il  Fueter,  op. 
cit.,  pp.  404-5. 


LIBRO    IV   •  CAP.    ULTIMO  969 

secolo  presente  e  questi  fu  il  P.  Favre,1  prete  dell'Oratorio  di 
Parigi,  il  quale  non  si  acquistò  quella  fama  e  riputazione  dell'abate 
Fleyri  per  esser  troppo  diffuso,  facile  ed  ardito,  e  la  troppa  copia 
e  sua  facilità  fa  che  s'incontri  nell'opera  di  questo  n  Raynaldi  quella 
nausea  che  si  sperimenta  nel  1.  Ma  sopra  questi  s'innalzò  il  cotanto 
celebrato  Tillemont,3  il  quale  prese  altro  stile,  e  diede  nuova  forma 
trattando  dì  questa  materia:  egli  s'interna  ne'  sensi  e  nelle  parole 
degli  autori  originali,  abbonda  di  riflessioni  savie,  di  esatta  critica, 
di  ben  ragionati  discorsi:  accurato  e  prudente  nella  discussione 
de'  dubbi,  e  sopra  tutto  modestissimo  in  lasciar  sovente  la  decisione 
a'  lettori,  de'  quali  fa  somma  stima;  per  ciò  egli  non  ardì  a'  suoi 
volumi  dar  titolo  d'istoria,  ma  sol  di  Memorie  per  servire  all'istoria 
della  Chiesa.  Ma  con  tutto  che  vi  avesse  travagliato  per  lo  corso 
di  quaranta  anni,  per  la  sua  perplessità,  e  pur  troppo  ricercata  esat- 
tezza e  somma  scrupolosità,  non  ci  diede  se  non  i  primi  cinque  se- 
coli, né  potè  darci  il  compimento  del  sesto:  sicché  l'opera  rimane 
mancante  de'  seguenti,  né  si  è  trovato  scrittore  che  la  continuasse. 
Il  P.  Natal  d'Alessandro3  domenicano,  nella  sua  latina  Istoria 
ecclesiastica  data  fuori  ne'  medesimi  tempi,  prese  nuovo  metodo  e 
diede  alla  materia  nuova  forma  e  nuova  disposizione.  Egli  s'inge- 
gnò di  adattarla  al  gusto  de'  frati  e  de'  monaci,  perché  s'invoglias- 
sero a  saperla,  e  risolvere  le  loro  quistioni  scolastiche  con  l'autorità 
de'  Padri  e  con  princìpi  più  alti  e  solidi;  in  breve  trasformare  la  lor 
teologia  da  scolastica  in  dogmatica.  L'empie  per  ciò  di  più  dis- 
sertazioni non  meno  istoriche  che  teologiche  per  convincere  i  no- 
vatori de'  loro  errori;  nel  che  mostra  di  aver  fatto  sommo  studio 
sopra  i  libri  de'  Padri  antichi,  trascrivendone  lunghi  passi  e  non 
dissimulandone  alcuno,  ancorché  apertamente  si  opponesse  al  suo 
intento  ;  mostra  in  ciò  una  gran  lealtà  e  schiettezza  d'animo,  ancor- 
ché nel  tempo  stesso  una  gran  simplicità  e  debolezza  nello  sciogli- 
mento delle  difficultà,  acquetandosi  ad  ogni  leggiera  e  futile  rispo- 


1.  il  P.  Favre:  Jean-Claude  Fabre  (1668-1753),  oratoriano  francese.  Cfr. 
la  sua  continuazione  alla  Histoire  ecclésiastique,  Paris  1734,  in  sedici  vo- 
lumi. 2.  Tillemont:  vedi  la  nota  3  a  p.  31.  Il  Giannone  gli  accorda  la 
sua  simpatia  per  due  ragioni:  perché,  sia  pure  in  due  opere  distinte,  aveva 
tentato  di  narrare  insieme  la  storia  civile  e  la  storia  ecclesiastica,  conside- 
randole completantesi  a  vicenda,  ma  soprattutto  perché,  pur  avendo  una 
solida  passione  politico-religiosa,  da  buon  gallicano-giansenista,  non  forza 
mai  le  fonti,  ma  tende  a  lasciare  al  lettore  il  giudizio.  Cfr.  E.  Fueter,  op. 
cit.,  pp.  402-4.     3.  Natal  d'Alessandro:  vedi  la  nota  1  a  p.  104. 


970        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO   MAGNO 

sta.  L'opera  non  può  negarsi  esser  laboriosa  e  d'una  immensa  fatica, 
e  merita  commendazione  per  avere  diffusamente  trattato  della 
chiesa  giudaica,  e  dato  minuti  ragguagli  de'  libri  del  Vecchio  Testa- 
mento, e  di  aver  conosciuto  che  se  questa  non  preceda,  non  potrà 
ben  capirsi  quella  della  cristiana  e  molto  meno  i  libri  del  Nuovo 
Testamento.  Egli  fu  il  primo  che  pensò  d'inserirci  anche  l'istoria 
della  maomettana,  ma,  come  fu  detto,  credendola  non  cotanto 
necessaria,  se  ne  sbrigò  in  poche  pagine.  Della  medesima,  la  quale 
fu  tirata  fino  al  XVI  secolo,  per  esser  un  gran  magazzino  dove  si 
racchiudono  infinite  cose  notabili,  può  farsene  buon  uso  ;  e  poiché 
il  continuarla  sino  al  presente  costerebbe  immenso  travaglio,  do- 
vendosi varcare  due  spinosi  secoli,  niuno  fin  qui  ha  avuto  il  co- 
raggio di  accingersi  a  sì  dura  e  malagevole  impresa.  La  Francia  ha 
date  altre  istorie,  che  si  raggirono  intorno  allo  stesso  oggetto,  sico- 
me  V Istoria  della  Chiesa  e  dell'Imperio  del  Sueur;1  l'altra  di  Giaco- 
mo Basnage,2  Istoria  della  Chiesa,  ovvero  della  dottrina  e  de'  dogmi; 
e  l'altro  Basnage3  di  Flottemanville  suo  cugino  diede  anche  fuori 
un'altra  istoria  ecclesiastica  in  lingua  latina. 

Tutti  questi  scrittori  francesi,  ancorché  promettessero  di  scrivere 
una  generale  istoria  ecclesiastica,  e  non  trascurassero  le  altre  Chiese 
di  Europa,  nulladimanco  sembra  che  il  lor  principal  intento  non 
fosse  altro  che  d'illustrar  e  metter  in  prospetto  la  loro  Chiesa 
gallicana;  e  quivi  impiegano  i  loro  studi  con  sottili  ricerche,  ed 
adoprano  i  più  vivi  colori  per  adornarla  e  renderla  più  vistosa  o, 
com'essi  dicono,  più  brillante  al  mondo.  Delle  altre  Chiese  non  si 
han  preso  molta  cura,  né  fatte  quelle  ricerche  che  bisognavano. 
Della  Chiesa  greca,  che  un  tempo  ingombrava  quasi  tutto  l'Oriente, 

i.  Istoria  . . .  Sueur:  Jean  Lesueur  (1602  circa- 1 681),  pastore  protestante 
e  storico  ecclesiastico  francese,  Histoire  de  VÉglise  et  de  VEmpire  . . .  depuìs 
la  naissance  de  Jesus  Christ  jusques  à  Vati  $26  .  . .,  Genève  1674- 1687,  in 
otto  tomi  ;  proseguita  da  B.  Pictet,  Histoire  . .  .  pour  servir  de  continuation 
à  V Histoire  de  VÉglise  et  de  VEmpire  de  Mons.r  Le  Sueur,  Genève  171 3,  in 
due  tomi.  2.  Jacques  Basnage:  cfr.  la  nota  3  a  p.  910.  Polemizzò  con 
l'opera  del  Bossuet  scrivendo  V Histoire  de  la  religion  des  Églises  réformées . . . 
pour  servir  de  réponse  à  VHistoire  des  variations  des  Églises  protestantes  par 
Mr*  Bossuet,  Rotterdam  1690,  a  cui  il  Bossuet  rispose  con  la  Défense  de 
Vhistoire  del  1691.  Il  Basnage  replicò  con  VHistoire  de  VÉglise ...»  Rotter- 
dam 1699,  in  due  volumi,  cui  fa  riferimento  il  Giannone.  3.  Samuel 
Basnage  (1638-1721),  cugino  del  precedente,  pastore  a  Vaucelles,  morto  in 
Olanda.  Scrisse:  De  rebus  sacris  et  ecclesiasticis  exercitationes  historico- 
criticae,  in  quibus  cardinalis  Baroniì  Annales,  ab  anno  Christì  XXXV,  in 
quo  Casaubonus  desiit,  expenduntur . .  .,  Ultraiecti  1692. 


LIBRO    IV   •  CAP.    ULTIMO  971 

e  che  ancor  oggi  nella  Russia  ed  in  più  paesi  dell'Imperio  ottomano, 
dell'Europa  e  dell'Asia  sussiste,  appena  si  fa  motto,  come  se 
questa  non  fosse  una  gran  parte,  la  qual  dee  per  necessità  entrare 
in  un  corpo  d'istoria  generale,  com'essi  promettono.  Nelle  ricerche 
delle  particolari  e  minute  istorie  a  quella  appartenenti  non  può 
negarsi  che  furono  esatti,  sicome  fu  Goffredo  Hermant1  nell'istoria 
delle  vite  di  S.  Attanasio,  di  S.  Basilio  e  di  S.  Gregorio  Nazianze- 
no;  di  S.  Gio.  Grisostomo  e  di  S.  Ambrogio;  e  fu  Antonio  Godeau 
in  quella  della  vita  di  S.  Agostino.3  Parimente  non  mancarono  nel- 
l'esattezza e  diligenza  in  tesser  particolari  istorie  dell'eresie  e  degli 
eretici,  come  fu  quella  che  ci  diede  il  Beausobre3  del  manicheismo  ; 
l'altra  degli  Albigesi  e  Valdesi  del  P.  Benoist;4  quella  di  Giacomo 
Benigno  Bossuet  delle  Variazioni  delle  Chiese  protestanti-*  l'altra 
del  calvinismo  di  Pietro  Soulier;6  degli  iconoclasti  del  P.  Maibourg7 
e  di  tanti  altri  sopra  altre  eresie.  Né  mancarono  di  accuratezza  nel- 
l'istoria di  particolari  concili,  sicome  nelle  istorie  monastiche  di 
Oriente  e  di  Occidente.  Ma  tutte  queste,  staccate  e  separate  da  una 


1.  Godefroy  Hermant  (1 617- 1690),  canonico  francese,  rettore  della  Sor- 
bona, giansenista,  autore  di  una  Apologie  pour  M.  Arnauld,  Paris  1644. 
Le  opere  qui  citate  sono:  La  vie  de  S.  Athanase,  patriarche  d'Alexandrie, 
Paris  1671,  in  due  volumi;  La  vie  de  S.  Basile  le  Grand .  . .,  celle  de  S. 
Grégoire  de  Nazanse  . . .,  Paris  1674,  in  due  volumi;  La  vie  de  saint  Jean 
Chrysostome,  patriarche  de  Constantinople  et  docteur  de  VÉglise,  Paris  1664, 
e  La  vie  de  S.  Ambroise,  archevèque  de  Milan,  Paris  1678.  2.  Antonio 
Godeau  . . .  Agostino  :  il  Giannone  si  riferisce  a  La  vie  de  saint  Augustin  .  . ., 
Paris  1652,  del  già  menzionato  Antoine  Godeau.  3.  Isaac  Beausobre  (1659- 
1738),  teologo  protestante.  Cfr.  la  sua  Histoire  critique  de  Manichèe  et  du 
manichéisme,  Amsterdam  1734- 173 9,  in  due  volumi.  4.  Benoist:  Jean  Be- 
noit  (1632-1705),  storico  domenicano  francese,  di  cui  il  Giannone  cita 
l' Histoire  des  Albigeois  et  des  Vaudois  ou  Barbets . . .,  Paris  1691,  in  due 
volumi;  dello  stesso  la  Suite  de  V Histoire  des  Albigeois  contenant  la  vie  de 
saint  Dominique  . .  .,  Toulouse  1693.  5.  Jacques-Benigne  Bossuet  (1627- 
1704),  vescovo  di  Meaux,  Histoire  des  variations  des  Églises  protestantes, 
Paris  1688,  in  due  volumi.  Il  Bossuet,  come  si  è  detto,  dovette  difendere 
la  sua  opera  dal  Basnage:  Défense  de  VHistoire  des  variations  contre  la  réponse 
de  M.  Basnage,  Paris  1691.  Si  scontrò  inoltre  con  il  Jurieu,  contro  il  quale 
scrisse  Premier  avertissement  aux  protestane  sur  les  lettres  du  ministre 
Jurieu  contre  VHistoire  des  variations  . . .,  Paris  1 689-1 691.  Cfr.  l'ampio 
lavoro  di  A.-G.  Martimort,  Le  gallicanisme  de  Bossuet,  Paris  1953. 
6.  Pierre  Soulier  (nato  nel  1640  circa),  sacerdote,  controversista,  autore 
di  una  Histoire  du  calvinisme  contenant  sa  naissance,  son  progrès,  sa  déca- 
dence  et  sa  fin  en  France,  Paris  1686.  7.  Maibourg:  Louis  Maimbourg 
(1610-1686),  gesuita,  storiografo  di  simpatie  gallicane.  Il  Giannone  si  rife- 
risce &\V Histoire  de  Vhérésie  des  iconoclastes,  Paris  1674. 


972        ISTORIA  DEL   PONTIFICATO   DI   GREGORIO   MAGNO 

general  istoria,  non  fan  quel  risalto  che  acquistarebbero  se  fosser 
unite  e  congiunte,  ed  oggi  chiunque  vorrà  tesserne  una  generale 
potrebbe  farne  un  miglior  uso,  collocandole  a*  loro  propri  luoghi 
e  dovuti  tempi. 

L'Inghilterra,  per  accuratezza,  se  non  per  numero,  non  ha  che 
cedere  in  ciò  alla  Francia,  essendo  uscite  da'  loro  scrittori  istorie 
esattissime  e  d'una  esquisita  critica;  e  quantunque  il  principal  loro 
intento  fosse  stato  d'illustrare  la  loro  Chiesa  anglicana,  nulla  di 
manco  somministrano  preziose  gemme  per  adornarne  una  genera- 
le, in  fra  gli  altri  gli  Annali  dell'Antico  e  Nuovo  Testamento  del 
vescovo  Usserio;1  le  accurate  opere  del  Marsham,2  del  Cave,3  del 
Relando,  e  di  molti  altri.4 

Finalmente  la  Germania  ha  in  questi  ultimi  tempi  ripigliato 
questo  studio,  e  dato  fuori  raccolte  insigni  e  più  laboriosi  volumi 
d'istoria  compilati  intorno  alla  Germania  sacra,5  li  quali  sono  d'ine- 
stimabile valore  per  i  molti  diplomi  ed  originali  scritture  che  rac- 
chiudono, donde  possono  trarsi  le  basi  sicure  per  tesserne  una  ge- 
nerale. E  non  vi  è  dubbio  che  in  ciò  a'  Germani  molto  si  dee,  per 
esser  instancabili  a  raccorre  da'  loro  archivi  le  più  belle  memorie, 
onde  sono  rischiarati  i  tempi  più  oscuri  di  secoli  incolti,  che  sono 
i  documenti  più  stabili  sopra  i  quali  con  sicurezza  può  ciascuno 
appoggiare  il  suo  lavoro.  E  più  volte  si  è  da  noi  avvertito  che  per 
trarre  una  istoria  sincera  da  que'  tenebrosi  tempi  non  vi  è  altro 
soccorso  che  ricorrere  alle  cronache  ed  a'  scritti  degli  autori  con- 
temporanei ancor  che  rozzi  e  sciapiti,  ed  alle  carte,  bolle  e  diplomi, 
de'  quali  oggi  si  sono  fatte  più  raccolte,  spezialmente  di  quelle  tratte 


i.  Usserio:  vedi  la  nota  i  a  p.  666.  Qui  sono  citati  gli  Annales  Veteris  et 
Novi  Testamenti,  a  prima  mundi  origine  deducti  usque  ad  extremum  Templi 
et  Reipublicae  iudaicae  excidium .  .  .,  Lutetiae  Parisiorum  1673.  2.  Mar- 
sham:  vedi  la  nota  6  a  pp.  801 -a.  3.  William  Cave:  vedi  la  nota  1  a  p.  682. 
L'opera  cui  si  allude  qui  possono  essere  le  Antiquitates  apostolicae  or  the 
Lives,  Acts  and  Martyrdoms  of  the  Holy  Apostles  .  .  .,  London  16778,  come 
la  Scriptorum  ecclesiasticorum  historia  litteraria  a  Christo  nato  usque  ad 
saeculum  XIV . . .,  Londini  1688- 1698,  in  due  volumi.  4.  V Inghilterra  . . . 
altri:  il  Giannone  coglie  precisamente  l'importanza  della  storiografia  an- 
glicana nel  settore  degli  studi  ecclesiastici.  Stranamente  dimentica  però 
il  Bingham,  che  pure  era  stato  uno  dei  suoi  strumenti  più  preziosi  (cfr.  la 
nota  1  a  p.  660).  È  invece  un  errore  materiale  l'inserimento  del  Reeland 
fra  gli  storici  inglesi,  dato  che  questi  era  un  olandese  (cfr.  la  noia  6  a  pp. 
801-2),  insegnante  a  Utrecht  e  a  Lipsia.  5.  Germania  sacra,  Augustae 
Vindelicorum  1727- 1729,  in  due  tomi,  del  gesuita  austriaco  Marcus  Hansiz 
(1683-1766). 


LIBRO   IV   •  CAP.    ULTIMO  973 

dagli  archivi  di  più  antichi  monasteri.  Per  questa  ragione  condu- 
cono molto,  come  altrove  si  è  detto,  Yltalia  sacra  dell'Ughello,1 
la  Sicilia  sacra  del  Pirro,2  l'istoria  cronologica  ecclesiastica  del 
vescovo  di  Saluzzo,3  la  Gallia,  V Anglica  e  la  Germania  sacra,  e  le 
consimili  altre  fatiche  impiegate  da  scrittori  di  più  nazioni,  cia- 
scuno nella  sua  propria,  perché  contengono  pezzi  inestimabili  per 
metter  in  chiaro  molti  punti  d'istoria  fin  ora  riputati  oscuri  ed 
inestricabili.  E  dobbiamo  oggi  alla  diligenza  e  travaglio  di  più  col- 
lettori, spezialmente  a'  Germani,  1  quali  ci  han  in  gran  parte  liberati 
dalla  pena  e  dalla  polvere  di  riccorrere  a  lontani,  poco  noti  e  sovente 
inacessibili  archivi,  sicché  possiamo  dire  esser  a  noi  pronta  ed  ap- 
parecchiata la  materia. 

Egli  è  vero  che  ci  rimane  maggior  fatica  per  conferirle  insieme, 
e  con  esatto  e  maturo  giudicio  valersene;  dove  consiste  il  preggio 
dell'opera.  Plinio  il  Giovane  rispondendo  a  Capitone,  o  pur  a 
C.  Tacito,  che  lo  consigliava  a  scrivere  istoria,  dice  nell'ep.  8  del 
v  lib.:  «Vetera  et  scripta  aliis,  parata  inquisitio,  sed  onerosa  col- 
latio  ».s  A  noi,  oltre  esser  l'inquisizione  non  cotanto  apparecchiata, 
poiché  si  hanno  a  ricercare,  doppo  l'uso  della  stampa,  tanti  e  sì  vari 
volumi,  rimane  maggior  travaglio  intorno  al  conferirgli  insieme,  e 
sopra  tutto  a  trattar  delle  cose  con  maturità  e  prudenza,  e  dar 
miglior  disposizione  ed  ordine  alle  narrazioni,  e  di  dover  navigare, 
spezialmente  trattando  dell'istoria  della  Chiesa  cristiana,  in  un  pe- 
lago profondo  e  spazioso,  con  leggiera  speranza  di  venire  a  porto  ; 
nulla  di  manco  non  per  ciò  gl'ingegni  animosi  e  grandi  dovran 
disperare,  né  sgomentarsi  per  la  lunghezza  e  malaggevolezza  del 
cammino  ;  poiché  che  non  puote  il  tempo,  la  toleranza  e  sopra  tutto 
il  piacere  di  consignare  alla  posterità  un'opera  veramente  magnani- 
ma ed  immortale  ?  Compenseranno  la  noia  ed  il  travaglio  col  riflet- 


1.  Ughello:  vedi  la  nota  2  a  p.  574.  2.  Pirro:  vedi  la  nota  2  a  p.  159. 
3.  vescovo  di  Saluzzo:  Francesco  Agostino  della  Chiesa  (15 93- 1662):  cfr. 
la  nota  1  a  p.  925.  4.  Cfr.  rispettivamente  Sammarthani  Scaevolae  et 
Ludovici  Gallia  Christiana,  qua  series  omnium  archiepiscoporum,  episcoporum 
et  abbatum  Franciae . .  .  per  quatuor  tomos  deducitur,  Lutetiae  Parisionim 
1656  (gli  autori,  Scaevola  e  Louis  de  Sainte-Marthe,  sono  due  eruditi  fran- 
cesi fratelli)  ;  e  H.  Wharton,  Anglia  sacra,  sive  collectio  historiarum  partim 
antiqui tus,  partim  recenter  scriptarum  de  archiepiscopis  et  episcopis  Angliae, 
Londini  1691.  Henry  Wharton  (1664-1695),  erudito  inglese,  fu  editore  di 
Usher  e  collaboratore  del  Cave.  5.  «  Vetera  . . .  collatio»:  Ep.,  v,  vili,  12. 
Le  edizioni  moderne  hanno  punto  interrogativo  dopo  aliis. 


974        ISTORIA  DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO   MAGNO 

tere  che  avranno  per  le  mani  una  materia  che  nel  preggio  e  nobiltà 
di  gran  lunga  supera  quella  di  qualunque  altra  istoria  civile,  mili- 
tar o  naturale  che  altri  intraprenderanno;  poiché  riguardando  le 
origini,  i  progressi,  l'ingrandimento  e  declinazione  di  questa  sola 
religione  in  Europa,  comparandola  con  l'altre  religioni  che  occu- 
pano la  maggior  parte  del  mondo,  avranno  colla  maraviglia  insieme 
il  piacere  e  il  diletto  di  conoscere  le  vere  cagioni,  come  avesse 
potuto  far  cangiare  i  suoi  popoli  di  costumi  e  di  pensieri,  ed  intro- 
durre nelle  loro  menti  nuove  idee,  nuove  massime  e  nuovi  istituti. 
E  riflettere  che  gran  parte  di  questo  cangiamento,  e  d'essersi  intro- 
dotte nelle  menti  umane  nuove  massime  ed  idee  e  per  consequenza 
nuovi  costumi,  sì  deve  alle  esaggerazioni,  omelie  e  declamazioni  de* 
Padri  antichi.  Avranno  ancora  occasione  di  riflettere,  come  ma- 
neggiata ne*  primi  tre  secoli  da  que'  filosofi,  che  dal  gentilesimo 
passarono  al  cristianesimo,  avesse  potuto  negl'intelletti  umani  pro- 
durre tante  portentose  e  varie  idee  e  tante  strane  e  fantastiche  opi- 
nioni? Come  dapoi  ne'  secoli  incolti,  senza  lettere  e  discipline, 
avesse  potuto  intrigare  tanti  elevati  ingegni  tra  quistioni  quanto 
sottili  e  metafisiche,  altretanto  vane  e  inutili,  e  che  niente  a  lei  si 
appartengono?  Si  è  intesa  mai  religione  al  mondo  ferace  di  tanti 
dottori  della  sua  legge,  di  tanti  teologi,  di  tanti  spositori  ed  inter- 
preti? Comparandola  colle  altre,  ammireranno  come  da  pochi  e 
semplici  riti  abbia  avanzate  tutte  le  altre,  anche  la  gentile,  nel 
culto  e  nelle  religiose  cerimonie  e  nella  ricchezza  della  suppellet- 
tile sacra:  come  da  pochi  e  poveri  ministri  abbia  superate  tutte 
l'altre  sia  nel  numero,  sia  nello  splendore,  sia  nel  fasto  e  nella 
pompa.  Ne'  tempii  e  negli  altari  aver  superato  nei  numero,  nella 
magnificenza  e  ricchezza  quelli  de'  gentili.  Ma  sopra  tutto  stupi- 
ranno come  da  princìpi,  da'  quali  ciascuno  avrebbe  dovuto  pro- 
mettersi altri  effetti,  se  ne  sien  veduti  altri  tutti  contrari  ed  opposti. 
Puossi  immaginar  religione  che  tutta  si  appoggiasse  sopra  l'umil- 
tà, disprezzo  delle  ricchezze,  onori,  aggi  ed  altri  beni  di  questo 
mondo  terreno,  aspirando  solo  ad  un  regno  celeste?  E  pure  per 
lei  si  è  veduto  sorgere  in  Europa  un  nuovo  ed  a  tutta  l'antichità 
sconosciuto  Regno  papale,1  il  quale  sopra  e  dentro  V  Imperio  stesso 
ha  stabilito  un  altro  imperio,  emulando  l'antico  con  nuovi  corpi 

i.  E  riflettere  che  gran  parte  .  .  .papale:  nelle  conclusioni  si  armonizzano 
e  si  ripropongono  i  temi  del* Istoria  civile  e  del  Triregno  con  quanto  è  sta- 
to pensato  in  carcere. 


LIBRO   IV   •  CAP.    ULTIMO  975 

di  leggi,  alle  Pandette  opponendo  il  Decreto,  a'  Codici  le  Decretali, 
alle  Novelle  i  Bullari,  alle  Istituzioni  altre  canoniche  diverse  dalle 
civili,  ed  in  sino  a*  libri  feudali  opporre  una  nuova  giurisprudenza 
detta  beneficiaria-,  affinché  sicome  nelle  sue  provincie,  nelle  sue 
università  de'  studi  e  ne*  suoi  tribunali  si  videro  due  corpi  di  leggi, 
così  si  riconoscesser  due  somme  potestà  e  due  sovrani  principi. 
Né  fermarsi  solo  neirammirazione  di  effetti  sì  portentosi  ;  ma  inol- 
trarsi ad  indagarne  le  vere  cagioni,  le  quali  non  troveranno  nel- 
l'altre religioni;  cioè  d'essersi  per  lei  confuse  queste  due  potestà, 
Imperio  e  Sacerdozio,  le  quali  prima  eran  separate,  ed  essersi  esclusi 
i  principi  cristiani  dall'ispezione  dell'esterna  politia  ecclesiastica. 
I  Romani  altamente  gridavano  presso  Livio,  dee.  I,  lib.  5  :  «  Salii, 
Flaminesque  nusquam  alio,  quam  ad  sacrificandum  prò  populo, 
sine  imperiis  ac  potestatibus  relinquantur  »  ;z  ma  dapoi  videsi  il 
tutto  cangiato,  e  prender  le  cose  altro  aspetto  e  nuove  forme. 
Dalla  esterior  politia  ecclesiastica,  della  quale  erano  prima  custodi 
e  vindici  gl'imperadori  cristiani,  sicome  è  manifesto  da'  due  Codici 
teodosiano  e  giustinianeo,  e  dalle  Novelle  non  men  sue  che  di  più 
imperadori  suoi  successori,  essendone  poi  isclusi  gli  altri  principi 
ne'  nuovi  domìni  in  Europa  stabiliti,  non  poteva  presaggirsene  se 
non  grandi  mutazioni  e  cangiamenti.  Considereranno  in  oltre  di 
aver  questa  religione  recato  a'  romani  pontefici  il  dominio  di  più 
vaste  provincie  d'Italia  e  di  avergli  resi  signori  di  Roma  istessa,  e 
fargli  anche  por  piede  nel  potentissimo  regno  di  Francia.  Chi  non 
stupirà  nella  narrazione  di  quel  fascino  delle  cruciate  che  tenne 
occupata  l'Europa  per  più  secoli  con  tante  stragi  de'  suoi  popoli? 
Conosceranno  al  paragone  se  vi  sia  stata  mai  religione  al  mondo 
che  l'abbia  riempito  di  avvenimenti  cotanto  strani  e  portentosi  e 
che  abbia  sopra  la  superficie  della  terra  senza  esserciti  e  senza 
armate  distese  cotanto  le  sue  conquiste,  e  prodotti  effetti  sì  stu- 
pendi, ammirandi  e  prodigiosi,  contro  l'aspettazione  degli  uomini, 
e  contro  ciò  che  promettevano  i  suoi  princìpi  ed  i  suoi  primi  insti- 
tuti.  Cose  tutte  ad  invogliare  i  più  restii,  e  di  essergli  di  acuti  stimoli 
per  intraprenderne  con  alacrità  il  travaglio,  ancor  che  lungo,  dif- 
ficile ed  operoso.  E  ammireranno  nello  stesso  tempo  quanto  fos- 
sero intricate  e  difficili  le  vie  del  Signore,  e  quanto  inarrivabili  gli 
alti  e  profondi  divini  giudici  di  condurre  la  sua  Chiesa,  militante 

1 .  «  Salii  . .  .  relinquantur  »  :  iv,  54,  7  («  Salii  e  Flàmini  siano  lasciati  solo 
alle  funzioni  dei  pubblici  sacrifici,  senz'alcun  comando  o  autorità»). 


976        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO   MAGNO 

per  queste  strade,  ad  uno  stato  sì  alto  e  sublime  nella  stessa  terra 
dove  alberghiamo  come  semplici  ospiti  e  pellegrini. 

Ma  sopra  tutto  scopriranno  una  verità,  la  quale  maggiormente 
gli  confermerà  nel  concetto  di  esser  ella  divina,  e  che  da  mano 
alta,  potente  ed  invisibile  fosse  sostenuta;  poiché  (oltre  i  tanti 
effetti  prodigiosi  e  stupendi  fuor  del  corso  de*  mondani  avveni- 
menti, i  quali  non  possono  certamente  attribuirsi  alla  sola  indu- 
stria umana)  ravviseranno  che  per  abbatterla  sovente  s'unirono 
insieme  due  potenti  nemici,  e  pur  non  gli  fecero  dar  crollo.  Nemici 
di  fuori,  i  quali  furono  i  perfidi  maomettani  e  le  tante  sette  di  ere- 
tici; e  nemici  di  dentro,  che  furono  i  più  insidiosi  e  valevoli  per 
atterarla  affatto,  cioè  i  suoi  più  stretti  ed  intimi  ministri,  poiché 
si  accorgeranno  che  questi,  siano  alti  o  bassi,  par  che  avesser  posto 
ogni  lor  studio  e  opra  per  la  loro  incredulità,  frodi,  ambizione, 
avarizia,  lussuria  e  rilasciatezza  di  costumi,  d'interamente  estin- 
guerla, e  pure  sempre  salda  e  forte  ha  vinto  le  loro  empietà  e  scel- 
leragini,  e  trionfato  non  men  dell'inferno  che  degli  stessi  perfidi, 
insidiosi  e  malvaggi  suoi  interni  ed  occulti  nemici;  onde  a  ragione 
potranno  esclamare  e  dire:  «Vere  digitus  Dei  est  hic».1 

iv.  Intorno  alla  religione  maomettana.2 

Fa  veramente  maraviglia  come  i  nostri  scrittori,  in  tessendo  una 
general  istoria  della  Chiesa,  abbiano  fatto  si  poco  conto  della 
religione  maomettana,  appena  facendone  motto;  quando  ella  non 
pur  colla  giudaica,  ma  colla  cristiana  istessa  ha  molto  rapporto,  né 
potranno  ben  intendersi  le  vicende  dell'una  senza  sapersi  i  prin- 
cìpi e  i  progressi  dell'altra;  e  più  ragioni  convincono  che  debba 
di  necessità  entrare  in  una  general  istoria  ecclesiastica. 

Primieramente  perché  vantano  i  maomettani  esser  la  loro  fi- 
gliuola della  giudaica  non  meno  che  la  cristiana,  e  che  fra  di  loro 
sia  tanta  amistà  e  strettezza  quanta  è  fra  due  sorelle.  Di  vantaggio 


i.  «  Vere  . . .  hio)i  cfr.  Exod.,  8,  19.  2.  Intorno  alla  religione  maomettana: 
il  Giannone  riflette  un  interesse  per  il  maomettancsimo  e  per  il  mondo 
arabo  che  ha  due  componenti:  una  libertino-deistica:  e  basterebbe  citare 
i  nomi  del  Toland,  del  Boulainvilliers,  del  Radicati,  del  d'Argcns  ;  l'altra 
derivantegli  dall'ambiente  viennese,  che  aveva  frequenti  contatti  con  il 
mondo  orientale  e  nel  quale  certe  conoscenze  erano  quasi  ovvie,  data  la 
politica  non  solo  di  contenimento  ma  anche  di  espansione  verso  Oriente 
esercitata  da  Vienna. 


LIBRO   IV   •  CAP.    ULTIMO  977 

il  lor  profeta  nel  dettar  il  suo  Alcorano  essersi  valso  non  meno 
della  dottrina  del  Vecchio  che  della  morale  del  Nuovo  Testamento. 
Questo  libro  non  esser  altro  che  un  mescolamento  dell'una  e  del- 
l'altra legge,  ma  che  debba  preporsi  a*  quattro  Evangeli,  perché 
in  esso  fu  consumata  l'opera;  e  ciocché  il  profeta  Giesù,  ch'essi 
confessano  essere  stato  il  messia  degli  Ebrei,  avea  cominciato,  il 
profeta  Maometto  avea  ridotto  a  perfezione  e  compimento.  Si  è 
veduto  nel  primo  libro  dell'Apologia  dey  teologi  scolastici  che  di- 
sputando il  Valle1  co'  maomettani  della  Persia,  questi  stupivano 
come  i  cristiani  rifiutassero  il  lor  Alcorano,  quando  doveano  pre- 
stargli quella  stessa  credenza  che  hanno  nel  Vangelo,  giacché  da 
quello  di  S.  Giovanni  l'era  indicato  che  dovea  venire  un  altro  pro- 
feta, il  quale  l'avrebbe  istruito  di  altre  cose  le  quali  non  potevano 
allora  sopportare;  che  il  Paracleto  l'avrebbe  dapoi  insegnato  il 
rimanente:  e  questi  esser  disceso  nel  nuovo  profeta  Maometto,  il 
quale  per  mezzo  dell'angelo  Gabriele  riceveva  i  divini  avvisi  ed 
istruzioni.  Questo  famoso  impostore2  nato  nella  Mecca,  città  dell'A- 
rabia Felice,  l'anno  568,  vantava  esser  della  stirpe  d'Ismaele,  e  per 
conseguenza  della  posterità  di  Abraamo.  Dotato  dalla  natura  d'uno 
spirito  pronto  ed  ardito,  e  d'una  eloquenza  superiore  a  quella  della 
sua  nazione,  seppe  farsela  valere  in  guisa  che,  ancorché  grossolana- 
mente istrutto  della  religione  giudaica  e  della  cristiana,  aiutato  dal 
monaco  Sergio,  ebbe  l'ardire  e  il  coraggio  di  formare  e  predicar  loro 
un  nuovo  sistema  di  morale  e  di  dottrina;  ed  ebbe  anche  l'industria 
che  usaron  gli  altri  formatori  di  nuove  religioni,  di  far  credere  a 
quella  semplice  e  cieca  multitudine,  non  ad  altro  intesa  che  alle 
armi  ed  agli  affari  de'  commerci  mercantili,  ch'egli  per  mezzo 
dell'angelo  Gabriele  avea  comunione  con  Dio,  dal  quale  appren- 
deva gl'insegnamenti,  valendosi  opportunamente  d'un' epilessia  alla 
quale  era  soggetto,  dando  a  intendere  che  quella  non  fosse  che 
un'estasi,  durante  la  quale  era  trattenuto  con  l'angelo  Gabriele 
suo  istruttore.  Egli  adunque  per  compiacere  a'  Giudei  ritenne  la 
circoncisione,  l'abominazione  alle  statue  ed  immagini,  il  rispetto 
alla  legge  di  Mosè,  i  precetti  del  decalogo,  che  fanno  la  più  sana 
parte  del  suo  Alcorano;  l'idea  d'un  solo  Dio  creatore;  i  digiuni 

1.  il  Valle:  cfr.  la  nota  iap.  954.  2.  Questo  famoso  impostore  ecc.  :  il  ritrat- 
to di  Maometto  rientra  perfettamente  nei  termini  di  quella  letteratura 
libertino-deistica,  in  cui  alla  figura  dell'impostore  si  aggiunge  quella  del 
capo  politico  accorto  e  capace  di  dare  una  legislazione  adeguata  alle  esi- 
genze del  suo  popolo. 


978        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI   GREGORIO   MAGNO 

e  l'astinenza  dalla  carne  porcina,  ancorché  vi  aggiungesse  anche 
quella  del  vino  ;  permise  la  poligamia,  secondo  il  vecchio  costume 
de'  tempi  di  Abramo  e  degli  altri  antichi  Ebrei;  le  frequenti  la- 
vande del  corpo,  che  gli  Ebrei  chiamavano  battesimi,  e  simili  altri 
riti.  Per  compiacere  a'  cristiani  egli  parla  con  sommo  rispetto  e 
venerazione  di  Giesù  Cristo  ;  abbraccia  la  sua  morale  insegnata  nel 
Vangelo,  e  sopra  tutto  inculca  la  carità  col  prossimo  e  di  soccorrere 
i  bisognosi.  Ancorché  riputasse  Mosè  per  un  gran  profeta,  lo  fa 
però  inferiore  a  Giesù  Cristo,  riguardandolo  come  il  vero  messia 
ispirato  da  Dio  e  sua  parola.  Ha  della  venerazione  per  S.  Giovan 
Battista,  per  gli  appostoli  e  per  li  martiri.  Ammette  la  punizione 
de'  vizi  e  la  ricompensa  delle  virtù,  la  resurezione  de'  corpi  e  le 
pene  dell'inferno,  ancorché  non  le  faccia  eterne,  perché  forse  il 
suo  istruttore  Sergio  fu  dell'opinione  di  Origene.  Nel  dar  idea  al 
suo  popolo  del  paradiso,  glielo  rappresentò  conforme  alla  lor  vita 
voluttuosa,  che  colà  meneranno  per  sempre  una  vita  tutta  gioconda 
e  festante,  tra  fiori,  piante  odorifere  e  deliziosi  giardini,  in  compa- 
gnia di  vaghe  donzelle  sempre  giovani,  sempre  belle  e  vezzose,  che 
avran  occhi  bovini  somiglianti  a  quelli  della  dea  Giunone,*  e  che 
non  invecchieranno  giammai. 

Ma  tanta  industria  ed  allettamenti  non  gli  giovarono  co'  suoi 
compatriotti,  i  quali  confermando  co'  fatti  ciò  che  per  antiche 
pruove,  e  per  quel  che  il  nostro  buon  Redentore,  a  cui  lo  stesso 
intervenne,  disse,  che  niun  profeta  sarà  accetto  alla  sua  patria,  lo 
scacciarono  dalla  propria  sua  tribù,  e  l'obbligarono  fuggire  dalla 
Mecca  li  16  di  luglio  dell'anno  622  e  ricovrarsi  nella  città  di  Medi- 
na. Ma  questa  sua  fuga  presso  ì  maomettani  riuscì  un  avvenimento 
cosi  glorioso  e  rimarcabile  che  servì  loro  d'epoca  cronologica,  da 
questa  numerando  i  loro  anni,  che  non  si  compongono  che  di 
dodici  lune,  e  ch'essi  chiamano  VEgira.  Riuscì  eziandio  per  lui 
avventurosa,  poiché  in  Medina  crebbe  prodigiosamente  il  numero 
de'  suoi  seguaci,  sicché  potè  formarne  un'armata,  e  postosi  alla 
testa  di  quella  comparve  al  suo  popolo  guerriero  con  carattere  non 
solo  di  profeta,  ma  anche  di  sovrano,  emulando  i  fatti  di  Mosè, 
il  qual  dal  popolo  ebreo  fu  riconosciuto  e  per  profeta  e  per  principe. 
Così  a  guisa  d'un  gran  fiume,  che  quanto  più  avanza  di  cammino 
accresce  le  sue  acque,  egli  crebbe  di  forze  maggiori  e  si  vide  in 

1.  occhi  bovini  . . .  Giunone:  cfr.  la  nota  1  a  p.  872. 


LIBRO    IV   •  CAP.    ULTIMO  979 

istato,  come  sovrano,  di  eleggere  quattro  valorosi  generali,  Abu- 
becker,  Omar,  Oshman,  e  Ali,  a'  quali  dà  animo  e  coraggio  di 
stender  le  conquiste  sopra  il  mondo,  trarlo  dalla  idolatria  nella 
quale  era  caduto,  e  sottometterlo  alla  sua  dottrina  e  religione.  Ed 
in  qualità  di  profeta  sovente  fece  loro  ed  a*  soldati  più  discorsi  o 
concioni,  ne'  quali  con  queir  eloquenza  ch'era  a  lui  connaturale 
non  inculcava  altro  che  precetti  di  morale,  accompagnandoli  anche 
di  storie,  vere  o  false  che  fossero,  di  portenti  e  di  prodigi  per  tirar 
un  popolo  poco  istrutto  per  l'orecchie  e  sowente  con  illusioni 
per  gli  occhi  a  prestargli  fede  ed  ubbidienza.  Egli  ebbe  il  piacere  di 
conquistar  parte  dell'Arabia,  e  rendersi  signore  della  città  stessa 
della  Mecca,  dove  fece  morire  tutti  i  suoi  nemici,  e  dove  finalmente 
nel  632  se  ne  morì;  e  dove  rimane  ancor  sepolto  in  una  tomba  di 
ferro  sostenuta  sopra  quattro  colonne  di  marmo  negro,  intorno  alla 
quale  si  veggono  pendenti  più  lampadi  accese  per  accrescer  mag- 
gior venerazione  e  riverenza  al  suo  tumulo.  Tutto  ciò  è  d'uopo  ma- 
nifestare per  togliere  i  nostri  Europei  da  tanti  errori  ed  inganni  e 
rimovergli  da  quelle  fole  che  sia  quella  tomba  di  ferro  sospesa  in 
aria,  non  già  per  miracolo,  ma  tratta  dalla  volta  che  la  cuopre,  fab- 
bricata con  pietre  di  calamita.  Ella  è  appoggiata  sopra  quattro  ben 
salde  marmoree  colonne;  né  i  maomettani  stessi  savi  e  sinceri, 
toltone  alcuni  del  volgo  sciocco  ed  ignorante,  narrano  altrimenti. 
Ma  un'altra  non  men  forte  che  necessaria  ragione  convince  di 
doversene  far  rapporto  in  una  general  istoria  ecclesiastica:  poiché 
si  rende  vie  più  chiara  e  manifesta  la  gran  differenza  che  intercede 
tra  la  propagazione  del  Vangelo  sopra  la  terra  e  quella  dell'Alcorano. 
La  religione  cristiana  fu  sparsa  per  lo  mondo  senz'esserciti  e  sen- 
z'armate, colla  sola  predicazione,  colla  costanza  e  sangue  de'  mar- 
tiri, e  per  mezzo  di  altre  virtù  sublimi  e  veramente  eroiche.  Quando 
nella  maomettana,  sicome  si  è  accennato,  e  si  dirà  più  innanzi,  alle 
predicazioni  precedevano  gli  esserciti,  onde  non  dee  recar  maravi- 
glia se  ne'  primi  lor  secoli  la  maomettana  facesse  maggiori  progressi 
che  la  cristiana.  Non  già  che  que'  generali  li  quali,  morto  Maometto, 
succedettero  in  suo  luogo,  e  poi  gli  altri  Califi  usassero  violenza  a 
gli  Ebrei  o  cristiani,  e  gli  facesser  forza  di  rendersi  maomettani; 
poiché  il  loro  Alcorano  non  era  che  una  mescolanza  di  quelle  due 
leggi  mal  note  a  quell'impostore,  onde  lasciavansi  gli  Ebrei  nella 
lor  credenza  sicome  i  cristiani:  ma  contro  questi  imperversarono 
per  cagion  di  quel  falso  pregiudicio  nel  quale  aveagli  posto  il  mo- 


980        ISTORIA  DEL   PONTIFICATO   DI   GREGORIO   MAGNO 

naco  Sergio,  fomentato  ed  avvalorato  sempre  da'  Giudei,  che  i 
cristiani  dovessero  riputarsi  idolatri,  e  trattarsi  come  gentili  per 
l'uso  e  l'adorazione  che  prestavano  alle  statue  ed  immagini,  vietata 
non  pur  dalla  legge  di  Mosè,  ma  ch'era  contraria  alla  pratica  della 
primitiva  Chiesa  cristiana,  e  che  per  ciò  bisognava  purgar  i  cri- 
stiani dal  gentilesimo  nel  quale  erano  caduti.  E  ciò  bisogna  far 
capire,  e  non  confonder  le  cose,  sicome  sinora  si  è  fatto. 

Per  ultimo,  come  potran  intendersi  gli  guasti,  le  mine  e  gl'ir- 
reparabili e  gravissimi  danni  che  questa  nuova  religione  recò  alla 
cristiana,  maggiori  di  quelli  ch'ella  rese  alla  gentile,  se  non  saran 
esposti  i  suoi  progressi  fatti  sopra  più  ampie  e  vaste  provincie 
d'Europa,  d'Asia  e  di  Affrica,  le  quali  avean  già  abbracciata  la 
cristiana,  e  dove  era  da  tutti  venerata,  non  che  professata  ?  Ben  da 
questi  soli  libri  dell'epistole  di  S.  Gregorio  si  è  conosciuto  ab- 
bastanza che  questo  gran  pontefice  stese  la  sua  autorità  non  meno 
in  Europa  che  nell'Asia  e  nell'Affrica;  ma  opportuna  morte  lo  sot- 
trasse da'  dolori  e  da'  cordogli  ch'erano  serbati  a'  suoi  successori. 
Questi  videro  l'imperio  di  Maometto,  doppo  aversi  sottoposta 
l'Arabia,  inoltrarsi  nella  Persia,  ed  i  di  lui  successori  Califl  tutta 
sconvolgerla  e  manumetterla.  Stendere  le  loro  conquiste  nella  Pa- 
lestina, e  sottoporsi  la  città  santa  di  Gerusalemme.  Ma  de'  Califi 
di  Egitto  quali  portentosi  progressi  non  si  videro  ?  Non  pur  l'Egit- 
to, ma  gran  parte  dell'Asia  e  dell'Affrica  loro  ubbidiva;  e  si  è  veduto 
già  come  i  Saracini  innoltrassero  le  loro  conquiste  non  pur  nell'isole 
del  mar  Mediterraneo  appartenenti  all'Italia  ed  alla  Spagna,  ma  nel 
continente  de'  regni  stessi  di  Spagna,  e  poser  terrore  all'Italia  stes- 
sa. A'  Califi  di  Egitto  succeduti  i  Saladini,  questi  più  oltre  distesero 
l'impero,  poiché  si  valsero  de'  Circassi,  popoli  forti  e  guerrieri  che 
abitarono  intorno  ai  Mar  Negro  ed  alla  palude  Meotide:  colPaiuto 
di  questi  conquistarono  il  regno  di  Damasco,  tutta  la  Soria  e  ritol- 
sero nel  1189  a'  cristiani  la  Giudea  con  Gerusalemme,  doppo  che 
per  89  [anni]  l' avean  tenuta,  e  s'impadronirono  di  gran  parte  del- 
l'Asia; onde  si  videro  nel  tempo  istesso  tre  potentissimi  monarchi 
dominare  l'Oriente  ed  il  Mezzogiorno:  i  re  di  Persia,  i  Saladini 
di  Egitto,  e  gl'imperatori  de'  Turchi,  tutti  tre  professando  la  re- 
ligione maomettana;  ancorché,  come  fu  detto,  con  qualche  com- 
petenza fra  di  loro  intorno  al  primato. 

E  sicome  in  Occidente  la  religione  cristiana,  per  averla  abbrac- 
ciata i  nuovi  conquistatori:  i  Westrogoti,  gli  Ostrogoti,  i  Franchi, 


LIBRO    IV   •  CAP.    ULTIMO  981 

i  Burgundi,  i  Longobardi  ed  altre  straniere  nazioni  che  l'occupa- 
rono, si  distese  e  si  mantenne;  così  in  Oriente  e  nel  Mezzogiorno 
per  questi  nuovi  conquistatori  la  maomettana  fu  diffusa  da  per 
tutto,  abbracciandola  le  nazioni  non  men  vicine  che  lontane:  i 
Circassi,  gli  Tartari,  i  Turchi  e  chi  no?  Infino  nell'India  per  i  G. 
Mogoli,  i  quali  han  origine  da  una  razza  de*  Tartari,  chiamati 
Magholi,  fece,  come  si  è  detto,  meravigliosi  progressi.  A'  Saladini 
successero  i  Circassi,  i  quali  elessero  per  lor  capo  un  valoroso 
capitan  generale  da  essi  chiamato  Soldano.  I  Soldani  costituirono 
un  formidabilissimo  regno  nell'Egitto  e  nella  Soria;  ma  durò  il 
loro  impero  poco  più  che  quello  de'  Saladini,  poiché  ad  essi  fu 
renduto  da'  Turchi  ciò  ch'essi  resero  a'  Saladini.  Fin  qui  vi  era 
speranza  che  contendendo  fra  di  loro  sì  barbare  e  feroci  nazioni, 
finalmente  struggendo  Puna  l'altra,  avesse  da  risorgere  l'Impero 
d'Oriente  nella  persona  de'  cristiani  imperadori  di  Costantinopoli, 
e  ritogliere  a  tanti  usurpatori  le  grandi  ed  ingiuste  lor  prede.  Ma 
vedi  quanto  sieno  imperscrutabili  gli  alti  giudici  di  Dio.  Avvenne 
il  contrario,  poiché  la  nazione  turca,  ch'erasi  stabilita  nell'Asia 
minore,  oggi  detta  Natòlia,  nella  Panfilia,  nella  Lidia,  nella  Frigia, 
nella  Paflagonia  e  nell'altre  provincie  dell'Asia,  resa  formidabile  e 
potente  sotto  Amurat1  dilatò  le  conquiste;  e  questi  collocando  la 
sede  dell'Imperio  in  Adrianopoli,  minacciava  l'ultime  mine  al 
cadente  Imperio  de'  Greci.  In  fine  Selim  II2  ebbe  la  gloria  nel  1516 
di  debellare  i  Soldani,  e  rendersi  signore  di  Damasco,  di  tutta  la 
Siria,  la  Palestina  e  l'Egitto,  sicome  Maometto  II3  nel  1453  di 
Costantinopoli  e  dell'Imperio  greco.  E  sempre  più  prosperando 
l'Impero  ottomano,  e  distendendo  più  oltre  i  vasti  suoi  confini, 
videsi  la  religion  maomettana  diffusa  e  maggiormente  stabilita  in 
tutto  il  vastissimo  suo  Imperio,  che  abbraccia  non  pur  un  tempo 
le  più  floride  e  eulte  provincie  della  Grecia:  PAcaia,  Elide,  Laco- 
nia,  Argo,  Arcadia,  Corinto  e  tutto  il  Peleponneso  e  l'isole  tutte 
dell'Arcipelago,  e  tante  altre  provincie  d'Europa:  la  Tracia,  la 
Macedonia,  Epiro,  l'Illirico,  gran  parte  della  Pannonia  e  tanti 
altri  vasti  e  sterminati  paesi,  ma  si  stende  oltre  nell'Asia,  in  Egitto 
e  nell'Affrica  stessa,  dove  la  religion  dominante  è  la  maomettana. 

i.  Amurat:  Muràd  I  (morto  nel  1389):  sotto  di  lui  i  Turchi  conquistarono 
Adrianopoli  (1361).  2.  Selim  II:  forse  confonde  con  SelPm  I  (1467-1520), 
che  conquistò  la  Siria  e  PEgitto  nel  1516-1517.  Seli'm  II  vivrà  dal  1524 
al  1574-     3-  Maometto  II  (1430-1481). 


982        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO   MAGNO 

E  la  buona  sorte  portò  che  le  loro  armate  non  oltrepassarono  le 
colonne  di  Ercole,  poiché  nel  nuovo  mondo  discoperto  ve  l'avreb- 
bero anche  introdotta,  sicome  han  fatto  nell' America  della  cristiana 
i  nostri  principi  di  Europa.  Quindi  nasce  la  boria  e  l'orgoglio 
degPimperadori  ottomani,  i  quali  come  succeduti  in  luogo  degli 
antichi  Caliti  di  Egitto,  contendono  co'  re  di  Persia  del  primato  di 
lor  religione;  sicome  vinti  e  debellati  gFimperadori  greci,  vantano 
rappresentare  le  ragioni  dell'Imperio  di  Oriente,  riputandosi  suc- 
cessori di  Costantino  Magno. 

Come  adunque  avvenimenti  sì  grandi  e  dolenti  per  la  nostra 
religione  possono  omettersi,  trattando  d'una  general  istoria  ec- 
clesiastica, quando  fanno  una  gran  parte  della  medesima  ?  Nò  oggi 
che  siamo  in  un  secolo  cotanto  culto,  e  che  a  noi  precedono  più 
autori  che  hanno  scritto  di  queste  nazioni,  dobbiamo  riputar  grave 
ed  onerosa  l'inquisizione,  ed  andarla  ricercando  tra  gli  archivi  del- 
la Mecca  o  di  Costantinopoli.  Abbiamo  più  accurate  istorie,  e  se 
ci  manca  una  compita  ed  esatta  istoria  de'  Saraceni,  non  ci  manca 
quella  de'  Turchi,  e  fra'  nostri  stessi  italiani  abbiamo  più  scrittori 
che  vi  han  travagliato,  sicome  il  P.  Fiorelli  veneto  frate  agostinia- 
no, Giovanni  Sagredo,  il  Sansovino,  il  Giovio1  e  tanti  altri;  e  se  si 
potesse  avere  l'istoria  manuscritta  della  repubblica  di  Venezia  del 
doge  Contarmi,3  si  avrebbe  gran  lume,  poiché  questo  savio  scrittore 
della  religione  de'  Turchi  ragiona  con  molto  giudicio  ed  esattezza. 
Il  Giovio  nel  lib.  13  della  sua  Istoria2  ci  somministra  anche  la  me- 

1.  Giacomo  Fiorelli  (XVII  secolo)  scrisse  La  monarchia  d'Oriente  . . .  comin- 
cia da  Costantino  7  Grande  nelVanno  330  e  termina  in  Constantino  Paleologo 
nelVanno  *453>  Venetia  1679;  Giovanni  Sagredo  (1617-1682),  veneziano, 
autore  di  Memorie  istoriche  de'  monarchi  ottomana  Venetia  1673  ;  Francesco 
Sansovino  (1 521-1586),  poligrafo  italiano.  Scrisse:  GV annali  turcheschi,  ove- 
ro  Vite  de*  principi  della  casa  othomana,  Venetia  1573;  Paolo  Giovio  (1483- 
1552),  storico  e  umanista.  Il  Giannone  si  riferisce  al  Commentario  delle 
cose  de*    Turchi ...  a  Carlo  Quinto  imperadore  Augusto,  Romae   1532. 

2.  Nicolò  Contarmi,  doge  dal  gennaio  1630  all'aprile  1631.  Il  manoscritto 
qui  menzionato,  Delle  historie  venetiane,  et  altre  a  loro  annesse  cominciando 
dàlVanno  1597  et  successivamente,  è  conservato  in  Archivio  di  Stato  di 
Venezia,  Fondo  Codici  ex  Vienna,  dodici  libri  in  due  tomi.  Sul  Contarini 
cfr.  G.  Cozzi,  Il  doge  Nicolò  Contarini.  Ricerche  sul  patriziato  veneziano 
agli  inizi  del  Seicento,  Venezia-Roma  1958,  soprattutto  il  capitolo  v  dedi- 
cato all'analisi  delle  Historie  venetiane.  Il  Giannone  deve  aver  conosciuto 
quest'opera,  inedita,  a  Vienna  o  a  Venezia.  Il  giudizio  del  Giannone  sull'in- 
teresse di  quelle  pagine  è  confermato  dall'analisi  del  Cozzi.  3.  lib.  13  .  .  . 
Istoria  :  cfr,  P.  Iovn  Historiarum  sui  temporis  tomus  primus,  XXIIU  libros 
complectens,  Lutetiae  Parisiorum  1553,  ff.  133  sgg. 


LIBRO    IV   •  CAP.    ULTIMO  983 

moria  d'un  nuovo  profeta  Ismaele,  il  qual  pure  fingendo  aver  com- 
mercio con  gli  angeli,  si  separò  dalla  conversatione  degli  uomini, 
ed  andò  ad  abitare  nel  monte  Antitauro,  e  facendo  quivi  asprissima 
penitenza  procurava  accreditarsi  presso  quella  gente  semplice  e 
credula,  sicché  con  questa  simulazione  di  santità  si  acquistò  il 
titolo  di  savio,  ed  introdusse  ne'  Persiani  certa  sua  riforma  del- 
V Alcorano  e  del  maomettismo.  Non  mancano  eziandio  diligenti 
scrittori  francesi,  fra  gli  altri  De  la  Croix  nelle  sue  Memorie  e  nello 
Stato  generale  dell'Imperio  ottomano.1  Ma  sopra  questi  s'innalzaro- 
no due  accuratissimi  scrittori  inglesi  :  Paolo  Ricaut,2  il  quale  essen- 
do dimorato  più  anni  in  Costantinopoli  secretano  d'ambasciada 
della  Corona  d'Inghilterra,  e  idiede  accurate  notizie  di  quel  Impero 
in  due  sue  opere,  tradotte  dall'inglese  nell'idioma  francese  per 
M.  Briot;  ed  il  celebre  Adriano  Relando,3  il  quale  specialmente 
trattò  della  religione  de'  Turchi  poco  prima  conosciuta,  ma  da 
questo  savio  scrittore  ben  illustrata  in  quel  suo  dotto  libro  scritto 
in  idioma  latino. 


Io  ben  veggo  che  molti  si  sgomenteranno  di  accingersi  ad  un'im- 
presa sì  ardua  e  difficile,  e  durar  sì  lunghe  ed  ostinate  fatiche  per 
venirne  a  capo,  e  se  ben  avran  occhi  da  vedere  la  sommità  di  monti 


1.  Non  mancano  . . .  ottomano:  all'analisi  di  tipo  libertino-deistico  si  ag- 
giunge, come  si  è  detto,  quella  più  specificamente  politico-diplomatica, 
per  cui  nel  discorso  giannoniano  riecheggiano  non  solo  gli  interessi  del- 
l'erudizione, dal  Reeland  all'Hyde,  al  Prideaux,  che  sono  le  fonti  di  Toland, 
Boulainvilliers  e  Radicati  di  Passerano,  ma  anche  quelle  dei  viaggiatori  e 
dei  politici.  Il  de  La  Croix  (morto  nel  1704  circa)  era  stato  infatti  segre- 
tario d'ambasciata  a  Costantinopoli  per  la  Francia.  Scrisse:  Mémoires  du 
sieur  de  La  Croix  .  .  .  contenans  diverses  rélations  très-curieuses  de  l'Empire 
othoman,  Paris  1684,  in  due  volumi;  Guerres  des  Turcs  avec  la  Pologne,  la 
Moscovie  et  la  Hongrie}  Paris  1689,  e  La  Turarne  chrétienne  .  .  .  som  lapuis- 
sante  protection  de  Louis  le  Grand  .  .  .  contenant  Vétat  présent  des  Nations  et 
des  Églises  grecque,  arménienne  et  maronite  dans  V  Empir  e  otoman,  Paris  1695. 

2.  Ricaut:  Paul  Rycaut  (morto  nel  1700),  diplomatico  inglese,  viaggiatore, 
si  soffermò  per  diversi  anni  in  Turchia  :  cfr.  Histoire  de  Vétat  présent  de 
l'Empire  ottoman  . . .  traduite  de  Vanglois  de  M.  Ricaut .  .  .  par  M.  Briott 
Paris  1670,  e  Histoire  de  V Empire  ottoman  .  . .  traduite  par  M,  Briot,  La 
Haye  1709,  sei  tomi  in  tre  volumi.  3.  Adriano  Relando:  vedi  la  nota  4  a 
p,  973.  L'opera  qui  menzionata  dal  Giannone  è:  De  religione  mohamme- 
dica  libri  duo,  quorum  prior  exhibet  compendium  theologiae  mohammedi- 
cae  .  .  .  posterior  examinat  nonnulla  quae  falso  mahommedanis  tribuuntur, 
Ultraiecti  1705. 


984        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO    DI   GREGORIO   MAGNO 

sì  alti,  non  tutti  avran  gambe  sì  forti  da  potervi  salire;  ma  oltre 
di  dovergli  essere  di  acuti  stimoli  il  trattar  d'un  soggetto  sì  nobile 
e  pieno  di  sì  grandi  avvenimenti,  molto  superiore  a  qualunque  altra 
istoria  mondana,  che  potesser  intraprendere,  dovranno  aver  innan- 
zi i  loro  occhi  Pessempio  di  due  grandissimi  uomini,  i  quali  punto 
non  si  sgomentarono  d'intraprendere  opere  veramente  vaste  ed 
immense,  e  pure  ebbero  il  piacere  di  condurle  a  fine.  Questi  furono 
il  non  mai  abbastanza  celebrato  Tito  Livio,  ed  il  non  men  dotto 
che  accuratissimo  Plinio  il  Vecchio.  Livio  non  si  sgomentò,  come 
Cicerone,  che  a'  conforti  ed  inviti  de'  suoi  amici  se  ne  scusò, 
d'intraprendere  l'incomparabile  sua  istoria  da'  fondamenti  di  Ro- 
ma, e  tirarla  fino  a'  suoi  tempi  sotto  il  grande  Augusto,  quando 
l'Imperio  romano  si  vide  nella  maggior  sua  estenzione  e  floridezza, 
cioè  a  dire  di  abbracciare  quasi  tutto  il  mondo  allor  conosciuto. 
Più  volte,  navigando  in  un  pelago  sì  vasto  e  profondo  si  vide  quasi 
absorto  e  fuor  di  speranza  di  condursi  in  porto,  parendogli  che 
quanto  più  avanzava  di  cammino,  in  vece  di  scemarsi  tanto  più 
cresceva  il  travaglio  e  la  fatica:  «Iam  provideo  animo,»  scrisse  nel 
principio  della  iv  deca  «  velut  qui  proximi  littori  vadis  inducti  mare 
pedibus  ingrediuntur  :  quicquid  progredior,  in  vastiorem  me  alti- 
tudinem,  ac  velut  profundum  invehi  et  crescere  pene  opus,  quod 
prima  quaeque  perficiendo  minui  videbatur».1  Ma  che  non  puotc 
in  lui  la  fortezza  di  animo,  la  tolleranza  e  lo  stimolo  di  consignare 
alla  posterità  un'opera  veramente  grande  ed  immortale?  Egli 
giunse  in  fine  al  desiato  porto,  lasciandoci  cento  quaranta  libri  di 
quest'insigne  sua  opera,  che  se  non  tutti  per  l'ingiuria  de'  tempi 
e  degli  uomini  a  noi  pervenuti,  que'  soli  che  ci  rimangono  bastano 
a  lui  di  eterna  gloria  ed  a  noi  d'averne  sempre  cara  e  veneranda 
memoria.  L'altro  fu  Plinio  il  Vecchio,  il  quale  non  si  atterrì  in- 
traprendere una  sì  ampia,  vasta,  multiplicc  e  varia  istoria  quanto 
è  la  natura  istessa,  non  tentata  innanzi  da  scrittore  alcuno,  sia 
greco  sia  latino;  abbracciando  tutto  il  mondo  e  le  più  minute  e 
quasi  che  infinite  sue  parti,  descrivendole  con  tanta  accuratezza, 
con  tanta  erudizione  e  dottrina,  che  sembra  quasi  impossibile 


1.  *Iam  provideo  . ,  .videbatur»:  Livio,  xxxi,  1,  5  («Già  prevedo,  come 
quelli  che  prossimi  al  litorale  entrano  in  mare  attratti  dal  fondo  basso,  che 
di  mano  in  mano  m'inoltro,  son  trascinato  in  una  più  vasta  profondità  e 
come  in  un  abisso,  e  che  la  fatica,  che  prima  nel  corso  del  lavoro  sembrava 
diminiiìre,  quasi  si  accresce»). 


LIBRO    IV   •  CAP.    ULTIMO  985 

come  un  uomo  solo  abbia  potuto  arrivare  a  tanto.  E  pure  vi  giunse, 
lasciandoci  un'opera  di  trentasette  libri,  che  intera  correrà  sempre 
chiara  e  luminosa  per  tutti  i  secoli  del  mondo. 

Conosco  ben  io,  e  lo  so  per  proprio  esperimento,  che  pervenendo 
a  trattar  delle  presenti  cose  che  saranno  sottoposte  a'  loro  occhi, 
incontreranno  pure  «graves  offensae,  levis  gratia».1  Ma  abbino 
altamente  riposto  nelle  lor  menti  quel  savio  ammonimento  del 
celebre  presidente  Tuano,3  il  quale  scrivendo  a'  suoi  amici,  che 
lo  confortavano  a  soffrire  con  pazienza  le  persecuzioni  che  per 
cagion  della  sua  istoria  pativa,  rispose  loro  ch'egli  ben  le  previde, 
ma  che  assumendo  egli  il  carattere  d'istorico,  non  dovea  riguardare 
il  secolo  presente,  ma  sicome  deono  far  tutt'i  leali  e  fedeli  istorici 
principalmente  intesi  alla  ricerca  della  verità,  riguardare  i  secoli 
futuri  e  consignar  la  sua  alla  posterità,  presso  la  quale  non  vi  sa- 
rebbe stato  livido  occhio  che  la  riguardasse,  né  maligno  dente  che 
la  mordesse;  poiché  essendo  il  tempo  padre  della  verità,  sicome 
la  discuopre  e  manifesta,  così  la  difende  contro  gli  sforzi  di  qua- 
lunque invida  e  velenosa  maladicenza;  sicome  il  successo  lo  con- 
fermò correndo  oggi  in  magnifiche  stampe,  sempre  più  chiara  e  glo- 
riosa, da  tutti  riverita  e  commendata.  Per  ciò  non  era  mancato  in 
me  l'animo  e  l'ardire  d'intraprenderla  e  d'averne  anche  delineati 
alcuni  membri  per  adattargli  insieme  e  comporne  un  proporzionato 
corpo;  ma  le  incessanti  mie  persecuzioni  e  le  tante  e  sì  varie  mie 
sventure  han  interrotto  ogni  bel  disegno  e  prolungato  cotanto  que- 
sto mio  infelice  e  misero  stato,  sicché  oppresso  dagli  anni  e  giunto 
ad  una  estrema  vecchiaia,  «vires  corporis  affectae,  sensus  oculorum 
atque  aurium  hebetes,  memoria  labat,  vigor  animi  obtusus  »,3  sento 
scemarmi  le  forze,  la  memoria  svanire,  affievolirsi  la  vista,  e  tutti 
i  sensi  indebolirsi,  in  guisa  che  posso  dire  con  S.  Paolo:  «ego  iam 
delibor,  et  tempus  resolutionis  meae  instata;4  onde  se  la  real  be- 
nignità e  clemenza  non  si  compiacerà  di  me  altrimenti  disporre, 
forte  temendo  che  non  abbia  a  lasciar  qui  questa  misera  vita,  ho 
voluto  di  quel  che  io  non  ho  potuto  eseguire  incoraggir  altri,  i  qua- 
li forse  con  miglior  lena  e  con  maggior  elevatezza  d'ingegno  potran- 
no adempirlo  e  lasciare  al  mondo  un'istoria  quanto  per  la  potesterità5 

1.  «  graves .  .  .gratta*:  cfr.  la  nota  1  a  p.  82.  2.  Tuano:  vedi  la  nota  2  a 
p.  186.  Anche  il  Giannone  aveva  collaborato  all'opera  del  de  Thou:  cfr. 
qui,  pp.  186-8  e  la  nota  1  a  p.  188.  3.  «.vires  . . .  obtusus»:  Livio,  v,  18,  4. 
4.  «ego  iam  .  .  .  instai»:  II  Tim.,  4,  6.     5. potesterità:  così  nel  manoscritto. 


986        ISTORIA   DEL   PONTIFICATO   DI    GREGORIO   MAGNO 

utile,  altretanto  per  essi  gloriosa  ed  immortale;  mentre  io  stanco 
da  gli  anni,  logorato  per  lunghe  fatiche  e  da  tanti  angosciosi  travagli 
oppresso,  forza  è  che  soccomba  e  che  la  mia  Clio  qui  si  taccia  e  qui 
deponga  la  mia  stanca  e  mal  temperata  penna. 

12  settembre  1743. 


L'APE  INGEGNOSA 

OVERO 

RACCOLTA  DI  VARIE  OSSERVAZIONI 

SOPRA  LE  OPERE  DI  NATURA  E  DELL'ARTE 


NOTA  INTRODUTTIVA 

Dopo  il  12  settembre  1742,  giorno  in  cui  concluse  V Istoria  del  ponti- 
ficato di  Gregorio  Magno,  il  prigioniero  non  si  dedicò  più  ad  alcun 
lavoro  di  respiro  unitario  :  la  stanchezza  e  l'angoscia  delle  ultime  pa- 
gine di  quest'opera  non  sono  un'artificio  retorico,  ma  il  segno  di  una 
condizione  umana  che  si  rifletteva  naturalmente  sul  lavoro.  Ma  il 
Giannone  continuava  a  provare  l'intenso  piacere  della  lettura  im- 
pegnativa, il  bisogno  di  una  verifica  e  di  una  conferma  del  proprio 
pensiero.  Da  questo  stato  d'animo  nasceranno  le  osservazioni  che 
compongono  VApe  ingegnosa  e  la  nuova  redazione  dell'Apologia,  qua- 
si a  testimonianza  di  un'attività  ripiegata  di  tono,  ormai  priva  della 
forza  di  affrontare  grandi  problemi  o  di  organizzare  lavori  a  struttura 
unitaria,  in  un  certo  senso  marginale  rispetto  all'impegno  precedente. 
Ma  non  mancava  l'ambizione  di  confrontarsi  con  i  grandi  moralisti, 
di  offrirsi  ad  un  genere  letterario  di  cui  era  ricca  la  cultura  europea. 
UApe  ingegnosa  fu  cominciata  a  Ceva  nell'agosto  1743.1  Con  la 
solita  diligente  consapevolezza  il  Giannone,  oltre  la  data,  ci  comunica 
anche  la  ragione  :  «  L'animo  stanco  e  le  scemate  forze  »  non  gli  con- 
sentono più  «lunghi  travagli  di  opere  grandi  e  laboriose».  Un  mec- 
canismo intellettuale  ostinato,  la  volontà  di  non  stare  in  ozio,  il  bi- 
sogno di  capire  fino  a  che  punto  la  propria  esperienza  era  ancora 
in  relazione  con  la  cultura  europea,  i  cui  echi  attenuati  in  qualche 
modo  gli  arrivavano  in  carcere,  lo  spinsero  a  quest'opera  che  ha 
carattere  minore,  rapsodico,  dove,  oltre  a  tutti  i  temi  della  vita, 
confluivano  anche  le  inevitabili  carenze  e  vischiosità  di  una  cultura 
che  non  sempre  era  riuscita  a  rinnovarsi  e  rischiava  quindi  di  appa- 
rire anacronistica.  Le  fonti  principali  sono  la  Naturalis  historia  di 
Plinio,  nell'edizione  curata  e  commentata  da  Jean  Hardouin2  e  le 
Stuore  del  Menochio,3  di  cui  si  è  già  parlato  a  proposito  dell' Apolo- 
gia. Se  quindi  spesso  in  quest'opera  la  cultura  del  Giannone  appare 
invecchiata,  non  bisogna  dimenticare  che  egli,  non  essendo  uno 
scienziato,  fa  uno  sforzo  di  sistemazione  sul  materiale  che  Plinio  e 


1.  Cfr.  il  manoscritto  autografo  in  Biblioteca  Reale  di  Torino,  Varia  304, 
e.  5.  Alla  e.  194  la  data  conclusiva:  «26  agosto  1744».  2.  Parisiis  1723,  in 
tre  tomi.  La  richiesta  di  quest'edizione  da  parte  del  Giannone  al  marchese 
d'Ormea  è  in  una  lettera  del  12  luglio  1739.  Vedila  in  Archivio  di  Stato 
di  Torino,  manoscritti  Giannone,  mazzo  v,  ins.  6,  B,  1.  3.  Cfr.  la  nota  4 
a  p.  841.  Nel  manoscritto  della  Biblioteca  Reale  di  Torino,  Varia  303, 
da  e.  80  a  e.  90  ci  sono  gli  appunti  per  varie  osservazioni  ed  il  materiale  è 
quasi  tutto  tratto  dal  Menochio. 


990  L'APE    INGEGNOSA 

l'Hardouin  gli  offrono:  il  suo  interesse,  in  questa  operazione,  e  ri- 
volto soprattutto  a  confermare,  reinserendole  nella  nuova  e  comples- 
sa condizione  di  convertito,  le  esperienze  precedenti.  In  questo  senso 
VApe  ingegnosa,  proprio  per  il  suo  carattere  in  qualche  modo  più 
«letterario»,  meno  militante,  è  particolarmente  utile  a  consegnarci 
un'immagine  reale  dell'esperienza  intellettuale  e  religiosa  del  Gian- 
none,  una  specie  di  bilancio  in  cui  sono  particolarmente  notevoli 
le  conferme  e  le  attenuazioni  del  proprio  precedente  discorso.  Diventa 
quindi  essenziale  chiarire  il  rapporto  del  Giannonc  con  un'altra  ope- 
ra fondamentale  nell'età  della  crisi  della  coscienza  europea,  i  Principia 
mathematica  naturalù  pkilosophiae  di  Newton.1  Mentre  scriveva  VApe 
ingegnosa  egli  doveva  averne  a  disposizione  una  copia,  come  testimo- 
niano alcune  citazioni  dirette.  In  realtà  il  discorso  e  più  complesso 
ed  investe  il  rapporto  non  tanto  con  il  pensiero  scientifico  e  fisico 
(che  il  Giannone  era  solo  relativamente  in  grado  di  capire)  quanto 
piuttosto  con  quella  che  è  stata  recentemente  chiamata  «l'ideologia 
newtoniana  »,a  l'utilizzazione  teologica  e  filosofica  dell'immagine  del- 
l'universo-macchina.  In  questo  senso  vale  forse  la  pena  di  tracciare 
le  linee  essenziali,  o  meglio  i  precedenti  di  questo  incontro  ormai  di- 
retto e  senza  mediazioni  del  Giannone  con  il  testo  fondamentale  di 
Newton,  che  si  può  collocare  dopo  il  1742,  quando  cominciò  VApe 
ingegnosa.  Fin  dai  tempi  della  sua  partecipazione  all'Accademia  Me- 
dina-Coeli  egli  poteva  aver  sentito  parlare  di  Newton,  ma  certamente 
il  contesto  in  cui  Agostino  Ariani  aveva  utilizzato  il  filosofo  inglese 
per  far  le  lodi  della  geometria  era  ancora  totalmente  e  sostanzial- 
mente cartesiano.3  Gli  anni  viennesi  offrono  una  traccia  più  consi- 
stente. Fra  il  1730  e  il  1734  egli  fu  amico  e  compagno  di  esperienze 
di  Bernardo  Andrea  Lama,  un  napoletano,  ex  professore  dell'Uni- 
versità di  Torino  ed  allievo  di  Celestino  Galiani,  che  era  in  grado  di 
spiegargli  gli  elementi  essenziali  della  filosofia  newtoniana.4  Una 
prova  diretta  di  questo  è  il  manoscritto  Agger  obiectus  cartesianorum 
vorticum  eluvionibuss  che  il  Giannone  si  copiò  e  che  era  apparso  in 


1.  La  prima  edizione  fu  pubblicala  come  è  noto  nel  1687.  Ma  il  Giannone 
dovette  avere  a  disposizione  una  delle  tante  ristampe  della  terza.  Su  Newton 
cfr.  ora  A.  Pala,  Isaac  Newton,  Scienza  e  filosofia,  Torino  1969.  Il  Pala 
è  anche  autore  di  una  buona  traduzione  dei  Principia;  Principi  matematici 
della  filosofia  naturale,  Torino  1965*  2.  Cfr.  M.  Candee  Jacob,  John  To- 
land  and  the  Newtonian  Ideology,  in  «Journal  of  Warburg  and  Courtauld 
Institutes  »,  Volume  Thirty-two  (1969),  pp.  307-31.  3.  Cfr.  G.  Ricupera- 
ti, L'esperienza  civile  e  religiosa  di  Pietro  Giannone,  Milano-Napoli  1970, 
pp.  22-3.  4.  Cfr.  il  mio  Bernardo  Andrea  Lama  professore  e  storiografo  nel 
Piemonte  dì  Vittorio  Amedeo  II,  in  «Bollettino  storico  bibliografico  subal- 
pino», i-ii  (1968),  pp.  ii-iox.     $.Ibid.,  pp.  74-9. 


NOTA   INTRODUTTIVA  991 

francese  sulla  «  Bibliothèque  italique  ».  Nel  Triregno  questo  approccio 
a  Newton  si  condensava  in  un  riferimento  airimmagine  dell'uni- 
verso-macchina  e  alla  funzione  di  Dio  verso  il  moto,  che  era  cosi 
poco  chiara  che  il  copista  M.  C.  de  Samnitibus  la  espunse.1  A  Vene- 
zia il  Giannone  ebbe  rapporti  intensi  e  significativi  con  Antonio 
Conti,2  che  in  quegli  anni  non  solo  faceva  il  propagandista  della  filo- 
sofia newtoniana,  ma  cercava  altresì  di  offrirne  un'immagine  diversa 
da  quella  teologica  e  spiritualistica  dei  discepoli  ufficiali  di  Newton 
(da  Richard  Bentley  a  Samuel  Clarke)3  e  sostanzialmente  materia- 
listica e  despiritualizzata.  Anzi,  come  ho  avuto  occasione  di  mostrare 
altrove,  vi  fu  certamente  una  relazione  precisa  fra  l'arresto  e  l'allon- 
tanamento da  Venezia  del  Giannone  (che  avvenne  drammaticamente 
al  ritorno  da  una  passeggiata  col  Conti)4  e  il  processo,  finito  in  nulla, 
contro  il  patrizio  padovano,  accusato  di  aver  sostenuto  la  mortalità 
dell'anima  e  altre  proposizioni  tipicamente  deistiche.5  Inoltre  gli  an- 
ni che  precedono  e  seguono  immediatamente  l'arresto  del  Giannone 
sono  per  la  cultura  europea  e  quindi  anche  per  quella  italiana  anni 
in  cui  il  discorso  newtoniano  comincia  a  diventare  familiare.  Nel 
1733  a  Venezia  era  stato  tradotto  il  saggio  di  Henry  Pemberton  del 
1728,  che  era  effettivamente  alla  portata  di  un  lettore  di  modesta 
preparazione  scientifica,  come  poteva  essere  il  Giannone.6  Inoltre 
anche  a  Ginevra,  dove  il  Giannone  si  era  rifugiato,  stava  sempre  più 
maturando  l'interesse  verso  la  filosofia  di  Newton,  come  mostrano 
per  esempio  gli  articoli  e  le  segnalazioni  della  «Bibliothèque  itali- 
que».7 Gli  editori  ginevrini,  dietro  i  quali  c'era  l'esperienza  di  uo- 
mini come  Jean-Alphonse  Turrettini  e  soprattutto  Jacob  Vernet,  si 
preparavano  negli  anni  successivi  a  offrire  al  loro  pubblico,  che  era 
sostanzialmente  non  solo  quello  protestante  della  Svizzera,  ma  anche 
quello  italiano  e  francese,  una  delle  più  belle  e  importanti  edizioni 
dei  Principia  (Barillot),8  ma  soprattutto  la  raccolta  di  opuscoli  mate- 
matici, filosofici  e  filologici  (Bousquet),9  la  cui  traduzione  in  latino 


i.  Cfr.  qui,  p.  642,  e  L'esperienza  civile  ecc.,  cit,  p.  476.  2.  N.  Badaloni, 
Antonio  Conti.  Un  abate  libero  pensatore  fra  Newton  e  Voltaire,  Milano 
1968.  Per  i  rapporti  fra  il  Giannone  e  il  Conti  cfr.  la  mia  rassegna  Studi 
recenti  sul  primo  '700  italiano.  Gian  Vincenzo  Gravina  e  Antonio  Conti,  in 
«Rivista  storica  italiana»,  ili  (1970),  pp.  611-44.  3-  Cfr.  P.  Casini,  L'uni- 
verso-macchina,  Bari  1969,  soprattutto  i  capitoli  11-rv.  4.  Cfr.  Vita,  qui  a 
p.  295.  5.  Cfr.  N.  Badaloni,  Antonio  Conti  ecc.,  cit.,  pp.  190-3.  6.  Sag- 
gio della  filosofia  del  signor  Cav.  Isacco  Newton  dato  in  luce  dal  signor  Enrico 
Pemberton  .  . .,  Venezia  1733.  7.  Cfr.  alle  pagine  citate  il  mio  saggio  sul 
Lama.  8. 1.  Newton,  Philosophiae  naturalis  principia  mathematica . . ., 
Genevae,  Barillot,  173 9- 1742,  in  quattro  volumi.  9.  Opuscula  mathema- 
tica, philosophica  et  philologica,  Lausannae,  Bousquet,  1744,  in  tre  vo- 
lumi. 


99^  L'APE    INGEGNOSA 

era  stata  affidata  a  un  giovane  italiano,  Giovanni  Salvemini  Casti- 
glione1 che  a  sua  volta  sarebbe  stato  traduttore  dell' Bssay  on  Man  di 
Alexander  Pope,2  in  qualche  modo  un  testo  fondamentale  nella  storia 
del  deismo  moderato,  dove  l'immagine  di  un  dio-architetto  dell'uni- 
verso-macchina  si  sposa  perfettamente  con  l'ottimismo  leibniziano. 
E  non  a  caso  era  ancora  l'editore  Bousquet  a  stampare  una  traduzio- 
ne francese  di  quest'opera,  che  il  Giannone  potè  leggere  in  carcere.3 
A  Ginevra  il  Giannone  aveva  avuto  intensi  rapporti  con  il  Vemet 
proprio  mentre  questi  stava  in  qualche  modo  organizzando  il  suo 
singolare  tentativo  di  incanalare  gli  impulsi  del  nascente  Illumini- 
smo in  una  dimensione  di  religiosità  razionale  ed  universalistica. 
Questo  spiega  non  soltanto  la  protezione  offerta  al  Giannone,  ma  il 
suo  incontro  con  Montesquieu  e  i  rapporti,  complessi  e  drammatici, 
con  Voltaire.4  L'interpretazione  teologica  dell'universo-macchina  si 
inseriva  perfettamente  in  questo  discorso  e  spiega  quindi,  oltre  le 
ragioni  puramente  commerciali,  come  mai  gli  editori  che  erano  in 
qualche  modo  guidati  dal  Vernet,  pubblicassero  Newton  e  Pope.  In 
realtà  negli  anni  successivi  all'arresto  del  Giannone  la  teoria  di  New- 
ton era  ormai  uscita  dall'ambito  degli  specialisti  attraverso  alcune 
fondamentali  divulgazioni:  oltre  al  Pemberton,  basti  ricordare  quelle 
dell' Algarotti  del  I7375  e  quella  di  Voltaire,  che  non  riguardava  solo 
l'ottica,  ma  tutta  la  fìsica.6 

Gli  studi  più  recenti  su  Newton,  sulle  interpretazioni  della  sua 
filosofìa,  sulle  utilizzazioni  da  parte  dei  teologi  anglicani  dell'uni- 
verso-macchina ci  pongono  il  problema:  quale  tipo  di  lettura  il  Gian- 
none  può  aver  fatto  dei  Principiai  Ricerche  come  quella  di  Paolo 
Casini  o  quella  della  Candcc  hanno  affrontato  molto  precisamente 
l'analisi  della  ideologia  newtoniana,  sottolineando  come  sia  stata 
contrapposta  al  deismo  radicale  di  Toland.  Appare  chiaro  come 
Newton,  ormai  collegato  con  un  establishment  moderato,  abbia  ac- 
cettato e  sviluppato  l'interpretazione  teologica  della  propria  opera 
che  era  stata  elaborata  da  uomini  come  Richard  Bentley,  Samuel 
Clarke,  Roger  Cotes,  William  Derham.  Il  Casini  soprattutto  tende 

i.  Giovanni  Francesco  Salvemini  Castiglioni  (1708-1791),  di  origine  to- 
scana. 2.  A.  Pope,  Saggio  sull'uomo  tradotto  dal  sig.  G.  Castiglione  Berna 
1760.  3.  Essai  sur  Vhomme  par  Monsieur  Alexandre  Pope.  Traductionfran- 
foise  par  Mr,  £.***,  Lausanne  et  Genève,  chez  Marc-Michel  Bousquet, 
1745.  4.  Cfr.  G.  Ricuperati,  L'esperienza  civile  ecc.,  cit.,  pp.  518-41. 
5.  F.  Algarotti,  Ilnewtonianesimoper  le  dame,  ovvero  dialoghi  sopra  la  luce 
e  i  colori,  Napoli  1737.  6.  Elémens  de  la  philosophie  de  Neuton  mis  à  la 
portée  de  tout  le  monde,  par  Mr.  De  Voltaire,  Amsterdam  1738.  Sulla  diffu- 
sione in  Francia  delle  teorie  newtoniane  cfr.  P.  Brunet,  Vintroductìon  des 
théories  de  Newton  en  France  au  XVIIIe  siede,  Paris  1931.  Significativa- 
mente il  1738  è  considerato  una  svolta. 


NOTA   INTRODUTTIVA  993 

a  vedere  nelle  Letters  to  Serena  di  John  Toland  la  prima  opposizione 
a  Newton  o  meglio  alla  precoce  teologizzazione  dell'universo-mac- 
china.1  Su  questo  punto  l'ottima  ricerca  del  Casini  è  forse  un  po' 
forzata,  quando  legge  la  iv  e  la  v  lettera  a  Serena  solo  come  in  pole- 
mica contro  Newton.2  In  realtà  il  Toland,  mentre  attacca  da  sinistra 
Spinoza,  tende  a  utilizzare  Newton  per  giustificare  il  proprio  mate- 
rialismo. Gli  fa  un  unico  appunto,  la  teoria  del  vuoto.3  Ma  spiega 
chiaramente  che  se  si  considera  la  forza  di  gravità  come  inerente  alla 
materia,  la  teoria  newtoniana  concorda  con  il  proprio  materialismo.4 
Non  si  deve  dimenticare  che  il  Toland,  come  ha  mostrato  la  Candee, 
era  stato  allievo  di  David  Gregory,5  uno  dei  primi  seguaci  di  New- 
ton. A  questo  punto,  colpito  dalle  accuse  di  Leibniz  e  temendo  que- 
sta «  lettura»  materialistica  della  propria  opera,  Newton  nella  se- 
conda edizione  aderì  alla  lettura  dei  teologi  e  rispose  in  senso  spiri- 
tualistico.6 Neirultirna  edizione  preparata  lui  vivente,7  consumata 
ormai  l'operazione  «teologica»,  erano  diventati  un  ricordo  abbastanza 
pallido  e  scolorito  sia  i  tentativi  di  cattura  del  Toland,  sia  le  accuse 
di  aver  reintrodotto  le  qualità  occulte.8  Erano  gli  anni  che  vedevano 
in  Inghilterra  il  trionfo  di  un  nuovo  equilibrio,  moderato  e  conser- 
vatore, in  cui  l'ideologia  newtoniana,  come  ha  mostrato  la  Candee,9 
con  il  suo  modello  di  universo-macchina  mosso  da  Dio  rassicurava 
perfettamente  le  nuove  classi  dirigenti.  Di  questa  ideologia,  ottimi- 
stica e  «deista»,  era  appunto  esponente  perfetto  il  poeta  Alexander 
Pope  con  il  suo  Saggio  sull'uomo.10  Ma  il  limite  degli  studi  citati 
(Casini  e  Candee)  è  di  vedere  solo  l'utilizzazione  «teologica»  e  spi- 
ritualistica  di  Newton,  sottolineando  in  Toland  (non  scienziato  e 


i.  P.  Casini,  L'universo-macchina,  cit.,  pp.  205-39.     2.  Ibid.f  pp.  223-36. 

3.  Cfr.  J.  Toland,  Letters  to  Serena,  Faksimile-Neudruck  der  Ausgabe 
London    1704,   Stuttgart-Bad  Cannstatt   1964,   Letter  v,   pp.    163   sgg. 

4.  Ibid.,  soprattutto  pp.  183-4.  5.  M.  Candee  Jacob,  John  Toland  and 
the  Newtonian  Ideology,  cit.,  p.  310.  6.  Cfr.  Ted.  17 13.  Sul  Cotes,  colla- 
boratore di  Newton  in  questa  seconda  edizione,  cfr.  A.  Pala,  Isaac  Newton 
ecc.,  cit.,  cap.  vi,  La  prefazione  di  Cotes,  pp.  109-29.  Ma  cfr.  anche  nell'e- 
dizione dei  Principi  matematici  della  filosofia  naturale,  cit.,  la  prefazione 
del  Cotes,  soprattutto  a  p.  62,  in  polemica  con  l'autocinesi  e  la  teoria 
dell'etere.  Su  Newton  e  l'etere  cfr.  N.  Badaloni,  Antonio  Conti  ecc.,  cit., 
p.  60.  7.  Su  quest'edizione,  Londra  1726,  cfr.  A.  Pala,  Isaac  Newton 
ecc.,  cit.,  p.  108.  8.  Non  si  deve  dimenticare  che  se  nel  1706  Newton 
aveva  criticato  la  nozione  di  etere,  nel  1717,  ripubblicando  VOpticks,  al- 
l'interno delle  otto  nuove  questioni  vi  si  era  riconvertito.  Cfr.  Principi 
matematici  della  filosofia  naturale,  cit.,  Introduzione  di  A.  Pala,  p.  39. 
9.  M.  Candee  Jacob,  John  Toland  and  the  Newtonian  Ideology,  cit.,  p.  331. 
io.  Cfr.  I.  Kramnick,  Bolingbroke  and  his  Cit  eie.  The  Politics  of  Nostalgia 
in  the  Age  of  Walpole,  Cambridge  1968.  Su  Pope,  pp.  217-23. 

63 


994  L'APE    INGEGNOSA 

quindi  ideologo)  il  ruolo  dell'oppositore.  Il  Casini1  afferma  che 
saranno  i  philosophes  a  despiritualizzare  Newton  e  a  restituire  una 
funzione  più  politica  all'immagine  dell 'universo-macchina.  In  realtà 
il  bel  libro  di  Nicola  Badaloni3  su  Antonio  Conti  integra  e  modifica 
questa  immagine.  Il  Conti  è  proprio  uno  che  tenta  di  sviluppare  con 
competenza  matematica  e  scientifica  ben  superiore  al  Toland  la  pos- 
sibilità materialistica  del  newtonianesimo.  È  il  segno  che  il  tentativo 
presente  nelle  Letters  to  Serena  non  è  un  mero  espediente,  ma  una 
«lettura»  di  Newton  (sia  pure  critica  sul  problema  del  vuoto,  a  cui 
il  Toland  contrapponeva  la  tradizione  del  pieno),  soprattutto  pole- 
mica verso  l'immagine  teologica,  che  apparteneva  più  agli  inter- 
preti che  a  Newton. 

A  questo  discorso  il  Giannonc  non  è  affatto  estraneo.  Anche  se 
non  conosceva  l'inglese  e  quindi  non  poteva  aver  letto  la  iv  e  la  v 
lettera  a  Serena,3  egli  era  stato,  come  si  è  detto  prima,  intimo  del 
Conti,  che  propagandava  in  quegli  anni  l'interpretazione  materiali- 
stica del  newtonianesimo.  Inoltre  egli  stesso  aveva  aderito  in  senso 
più  generale  al  materialismo  del  Toland,4  accettando  l'idea  della 
mortalità  dell'anima.  Qual'ò  stata  quindi  la  lettura  giannoniana  dei 
Principia  ?  Porsi  questo  problema  significa  non  solo  offrire  una  chiave 
interpretativa  per  YApe  ingegnosa,  ma  anche  tentare  di  valutare  il 
punto  di  arrivo  della  sua  esperienza,  per  esempio  il  significato  della 
sua  entusiastica  lettura  del  Saggio  sull'uomo  del  Popc,s  l'adesione  a 
questo  documento  fondamentale  del  deismo  moderato  e  dell'eude- 
monismo settecentesco,  che  è  in  fondo  una  spia  del  suo  rapporto 
con  la  cultura  del  proprio  tempo.  Non  si  tratta  di  una  ricerca  psico- 
logica o  di  un'indagine  puramente  ipotetica  su  quanto  può  essere 
avvenuto  nella  coscienza  del  Giannone.  Si  tratta  di  cogliere,  nella 
lettura  e  utilizzazione  di  Newton,  come  in  quella  successiva  di  Pope, 
il  rapporto  fra  queste  tre  componenti:  i.  la  volontà  di  un  uomo  vec- 
chio, in  prigione  (con  un  numero  di  libri  non  solo  limitato,  ma  sele- 
zionato), che  cerca  di  confermarsi,  pur  avendo  accettato  di  rientrare 
nella  religione  ufficiale  (è  disposto  ad  attenuare,  ma  non  a  rifiutare 
il  proprio  discorso  precedente)  ;  2.  la  cultura  del  mondo  esterno, 
vista  anche  come  ideologia,  che  ha  un  suo  processo,  per  cui  dietro 
gli  stessi  segni  si  incontrano  negli  anni  successivi  valori  modificati 
e  molto  diversi;   3.  la  volontà  di  aggiornamento  e  nello  stesso  tempo 

1.  P.  Casini,  Vuniverso-macchina,  cit.,  p.  277.  2.  N.  Badaloni,  Antonio 
Conti  ecc.,  cit.,  soprattutto  pp.  59  sgg.  3.  Cfr.  G.  Ricuperati,  Uespe- 
rienza  civile  ecc.,  cit.,  soprattutto  il  capitolo  vi,  per  quanto  riguarda  la 
conoscenza  da  parte  del  Giannone  delle  opere  del  Toland.  4.  Cfr.  Ibid. 
L'opera  fondamentale  in  questo  senso  è  il  Triregno.  5.  Cfr.  Vesperienza 
civile  ecc.,  cit.,  pp.  618-9. 


NOTA   INTRODUTTIVA  995 

la  vischiosità  della  propria  esperienza  precedente,  che  condiziona 
irrimediabilmente  anche  le  letture  nuove.  A  questo  punto  si  può 
ricapitolare.  Fino  al  settembre  1742  il  Giannone  fu  impegnato  a 
confermare  o  a  sviluppare  opere  e  discorsi  precedenti.  Dal  1743  si 
dedica  olì' Ape  ingegnosa.  Per  scrivere  questa  utilizza  i  Principia, 
quando  ormai  quest'opera  comincia  ad  essere  in  qualche  modo  dige- 
rita dalla  cultura  europea.  Quale  lettura  ne  fa?  Il  suo  precedente 
materialismo  semi-vitalistico,  la  sua  adesione  (sia  pure  non  totale) 
alle  teorie  del  Toland,  il  rapporto  col  Conti,  potrebbero  suggerire 
una  lettura  materialistica  di  Newton.  La  sua  condizione  umana,  l'in- 
contro con  i  Principia  ormai  filtrati  da  una  tradizione  teologica  razio- 
nalistica, ma  moderata,  che  pone  Dio  come  responsabile  ed  equili- 
bratore dei  moti  dei  pianeti,  indicherebbero  la  possibilità  di  quest'al- 
tra lettura.  In  realtà  nell'Ape  ingegnosa  il  Giannone  non  sceglie  ;  in 
qualche  modo  presenta  razionalizzandole  nella  propria  esperienza 
intellettuale  entrambe  le  interpretazioni.  Le  prime  osservazioni  in- 
fatti si  ispirano  ai  Principia  in  questo  secondo  senso  teologico  ra- 
zionalista del  deismo  moderato.  La  perfezione  dell'universo  ha  bi- 
sogno di  un  architetto.  Ma  nelle  osservazioni  successive  egli  legge  il 
libro  terzo  dei  Principia  prendendo  la  ripristinata  ipotesi  dell'etere 
come  una  concordanza  di  Newton  con  il  proprio  materialismo  semi- 
vitalistico.  L'ipotesi  dell'etere  diventa  lo  spirito  delle  vite  che  anima 
tutte  le  cose  e  dopo  la  morte  si  restituisce  alla  materia.  In  sostanza 
la  lettura  di  Newton  da  parte  del  Giannone  comporta  i  seguenti 
risultati:  1.  l'esistenza  di  un  creatore,  il  Dio  architetto  (ma  la  ten- 
tazione panteistica  in  Giannone  è  molto  forte,  come  vedremo  in 
seguito)  ;  2.  l'accordo  fra  morale  naturale,  contenuta  nella  rivela- 
zione mosaica,  e  scienza,  contro  la  corruzione  presente  nel  cristia- 
nesimo, anche  primitivo  (come  ha  mostrato  il  suo  duro  attacco  alla 
patristica,  contraria  alla  società  civile);  3.  una  filosofìa  empiristica 
anticartesiana  (e  antiplatonica,  identificando  in  quest'ultima  il  ten- 
tativo più  organico  di  teorizzare  una  forma  di  immortalità  per  le 
anime,  facendole  di  origine  divina)  ;  4.  la  possibilità  di  conciliare 
l'esistenza  di  un  Dio-architetto  (a  cui  non  si  devono  culti  che  inte- 
riori) con  il  rifiuto  della  religione  istituzionale;  5.  la  possibilità  di 
conciliare  quest'immagine  di  un  Dio-architetto  con  il  persistente 
materialismo,  o  comunque  negazione  (abbastanza  contraddittoria, 
ma  ripetuta)  di  un'anima  immateriale;  6.  il  rifiuto  del  miracolo: 
non  c'è  posto  per  esso  nell'uni  verso-macchina;  7.  il  rifiuto  del  pes- 
simismo teologico  e  la  ricerca  della  felicità  come  adeguamento  del- 
l'uomo alla  natura.  Stabilite  queste  linee  di  lettura  si  può  capire  non 
solo  l'apparente  contraddittorietà  dell'Ape  ingegnosa,  ma  anche  l'en- 
tusiasmo che  egli  avrà  successivamente,  dopo  il  1745,  a  leggere  il 


996  L'APE    INGEGNOSA 

Pope  nella  traduzione  francese  del  Silhouette  e  nell'edizione  Bou- 
squet.1  In  questa  opera  degli  anni  trenta  si  presentava,  stilizzata  in  un 
classicismo  elegante  e  razionalistico,  la  morale  di  un  nuovo  està* 
blishment  in  cui  il  deismo  moderato  conciliava  l'universo-macchina 
di  Newton  con  l'armonia  prestabilita  di  Leibniz.  Non  un'ideologia 
rassicurante  per  1  nuovi  equilibri  politici  della  borghesia  inglese  vi 
leggeva  il  Giannone,  ma  una  conferma  della  propria  esperienza:  in 
uno  sforzo  di  cui  bisogna  cogliere  la  complessità  oltre  le  contraddi- 
zioni e  i  ritardi,  anche  il  Giannone  muoveva  nella  direzione  indicata 
nella  Préface  du  traducteur:  «Est-ce  détruire  l'empire  de  la  religion 
que  d'établir  celui  de  la  raison  ?  Le  Dieu  de  la  nature  seroit-il  rivai 
de  celui  des  chrétiens  et  la  loy  naturelle  exclueroit-clle  la  loy  chré- 
tienne  ?  Pourquoi  donc  prcndre  l'allarme  et  la  donner  ?  ».2  Anch'egh, 
superando  il  proprio  pessimismo  individuale,  che  era  un  consapevole 
riflesso  della  condizione  di  prigioniero,  identificava  nella  ricerca  della 
felicità  e  nell'eudemonismo  sociale  lo  scopo  dell'uomo.  Il  suo  entu- 
siasmo per  il  Pope  nasceva  quindi  dal  fatto  che  egli  credeva  di  aver 
identificato  gli  stessi  temi  in  questa  sua  ultima  opera,  di  aver  in 
qualche  modo  non  perduto  il  rapporto  con  quella  cultura  europea 
che  dal  tempo  di  Vienna  si  era  abituato  a  considerare  affine  alla 
propria  esperienza.  Ma  solo  da  una  «lettura»  sia  pur  rapida  dei  moti- 
vi principali  dell'Ape  ingegnosa  può  essere  veramente  confermato  il 
quadro  interpretativo  che  ho  indicato.  Fra  l'altro  da  questa  analisi 
emerge  anche  un'altra  caratteristica,  un  certo  sviluppo  organico  de- 
gli argomenti,  che  va  oltre  l'apparente  casualità.  Le  prime  cinque 
osservazioni  sono  dedicate  al  rapporto  fra  natura  e  creatore;  le 
cinque  successive  all'uomo  nello  stato  di  natura  e  in  quello  di  grazia. 
Poi  si  analizzano  sentimenti,  atteggiamenti,  errori,  superstizioni.  Il 
discorso  si  sposta  dall'osservazione  xx  in  poi,  dopo  una  premessa 
che  esalta  la  filosofia  sperimentale,  verso  le  tecniche,  le  invenzioni  e 
le  innovazioni  dei  moderni  rispetto  agli  antichi.  Le  osservazioni  fi- 
nali, dalla  xxxiii  in  poi,  passano  dal  tema  dei  tempo  e  delle  varie 
misure  di  questo,  a  quello  della  vita  umana,  alla  morte. 

La  prima  osservazione  è  dedicata  al  problema  del  rapporto  fra  Dio 
e  il  mondo:  Sopra  il  gran  magistero  di  questo  mondo  aspettabile:  suo 
costante  ordine,  disposizione  ed  armonia;  onde  si  convince  esservi  una 
Mente  infinita,  sapiente  ed  onnipotente,  la  quale  non  informa  il  mondo 
sicome  la  nostra  anima  il  nostro  corpo,  ma  sicome  lo  creò,  così  lo  regga  e 


1.  Essai  sur  Vhommepar  Monsieur  Alexandre  Pope.  Traduction  franpoise  par 
Mr.  £.***  cit.  Su  Etienne  de  Silhouette  (1709-1767)  cfr.  D.  H.  Pageaux, 
Images  du  Portugal  dans  les  lettres  francaises  (ly  00-1755),  Paris  1971,  pp. 
73-94.    2.  Ibid.,  p.  xvil. 


NOTA   INTRODUTTIVA  997 

governi.1  Il  tema  era  già  presente  nel  Triregno,  ma  qui  viene  sviluppato 
secondo  Pimmagine  delPuniverso-macchina  che  con  la  sua  perfezione 
prova  resistenza  divina:  «Chiunque  attentamente  riguarderà  questa 
gran  fabrica  dell'universo,  ed  il  costante  suo  tenore  ed  armonia,  preci- 
sa ogni  divina  revelasione,  è  costretto  ad  affermare  esservi  un  ente  infi- 
nito, eterno,  sapiente  ed  onnipotente,  il  qual  sicome  ne  fu  il  fabro, 
ne  sia  il  sovrano  ed  universal  signore.  Né  dall'umana  sapienza  può 
trarsi  una  più  vigorosa  ed  invitta  dimostrazione  che  da  un  sì  stu- 
pendo e  mirabil  lavoro;  e  quanti  filosofi  giammai  così  antichi  come 
moderni  si  sono  affaticati  per  dimostrarcene  l'esistenza,  non  certa- 
mente potranno  proporne  una  più  certa  ed  irrefrangabile  che  questa 
la  quale  sempre  più  acquista  maggior  forza  e  vigore,  quanto  più  si 
sono  oggi  distese  le  conoscenze  sopra  il  corso,  distanza,  regolar 
moto  e  compagine  del  sole,  delli  pianeti,  delle  comete  e  degli  altri 
astri,  che  formano  il  nostro  mondo  aspettabile.  E  se  le  stelle  fisse 
dovranno  riputarsi  altri  tanti  soli,  centri  pur  esse  di  loro  vortici, 
poiché  la  loro  luce  è  della  stessa  natura  del  sole,  ed  a  vicenda  l'un 
sistema  all'altro  influisce,  e  corrisponde,  tanto  maggiormente  si  rende 
stupendo  ed  ammirabile  il  gran  magistero,  ed  esigge  da  noi  un  più 
pronto,  anzi  inevitabile  assenso,  al  quale  quasi  di  necessità  siam  por- 
tati più  che  ad  ogni  altra  manifesta  e  matematica  dimostrazione .  .  .  ».3 
Il  richiamo  a  Newton  è  diretto.  Il  Giannone  si  riferisce  alle  nuove 
investigazioni  sulle  comete  e  al  flusso  e  riflusso  del  mare  :  gli  antichi 
conoscevano  che  il  moto  della  luna  vi  aveva  parte,  ma  «non  seppero 
spiegarne  la  maniera  della  pressione,  ed  il  come,  come  si  è  fatto  da' 
moderni  filosofi  e  ultimamente  da  Isaac  Newton  ».3  Il  tema  centrale 
di  questa  osservazione  è  che  la  relazione  fra  Dio  e  il  mondo  non  è 
la  stessa  che  esiste  fra  anima  e  corpo:  «L'anima,  ancorché  informi 
il  nostro  corpo  e  sia  presente  in  tutte  le  nostre  viscere,  con  tutto  ciò 
non  le  sa,  se  non  quando  tratte  di  fuori  non  le  mira  con  gli  occhi  e 
tocchi  con  le  mani,  valendo  più  facilmente  ad  animarle  che  a  cono- 
scerle. Ella  stessa  non  sa  come  muova  le  membra  del  suo  corpo  e 
per  qual  cagione  alcune  ubbidiscano  al  suo  comando,  altre  contu- 
maci resistano,  ed  all'incontro  non  sa  com'ella  sia  mossa  dagli  og- 
getti che  di  fuori  circondano  il  suo  corpo,  o  dagli  sensi  non  meno 
interni  che  esterni.  Non  sa  ove  sia  collocata  la  principal  sua  sede,  se 
nel  cerebro,  nel  cuore,  o  nel  sangue,  dalla  quale  imperi  le  altre  mem- 
bra. Non  sa  donde  proceda,  e  come,  e  da  chi  siasi  formata,  poiché  certa- 
mente ella  non  fece  se  stessa.  Non  sa  il  corso  de'  fluidi  del  suo  corpo, 
del  sangue,  degli  spiriti  ;  in  fine  nemmeno  come  si  compagino  le  ossa, 


i.  VApe  ingegnosa,  manoscritto  cit.,  ce.  6  sgg.     2.  Ibid.,  e.  6.     3.  Loc.  cit. 


998  L'APE   INGEGNOSA 

si  e  spandine)  e  tessino  i  suoi  nervi,  arterie,  vene  e  membrane  ;  il  loro 
uso,  le  tracce,  gli  anfratti,  e  tutte  le  intricate  lor  vie.  Ma  questa  in- 
finita, immensa,  sapiente  e  provvida  Mente,  che  chiamiamo  Dio, 
per  la  quale  si  regge  l'ampio  universo,  tutt'altra  è  la  natura  e  l'intel- 
ligenza, onde  non  gli  conviene  e  mal  se  gli  adatta  il  nome  di  Anima 
mundi.  Ella  tutto  sa,  e  tutto  conosce,  non  pur  le  presenti,  ma  le  fu- 
ture cose,  e  quanto  mai  saper  si  possa;  alla  quale  sono  piane  e  mani- 
feste tutte  Pintricate  vie  della  natura,  di  cui  ella  è  l'artefice,  ed  il 
moderatore.  È  presente  in  tutte  le  cose,  ed  in  ogni  luogo,  né  è  cir- 
coscritta da  spazio  alcuno,  ovvero  dal  tempo  ;  sempre  dura  e  sempre 
opera;  ed  è  presente  in  tutte  le  cose  non  per  la  sola  sua  virtù,  ma 
eziandio  per  la  sua  sustanza,  poiché  la  virtù  senza  sustanza  non  può 
sussistere.  In  lei  si  contengono  e  si  muovono  tutte  le  cose  dell'ampio 
universo,  ma  senza  mutua  e  vicendevole  passione.  Ella  niente  patisce 
per  i  moti  de'  corpi,  sicome  la  nostra  anima  patisce  per  i  moti  del 
nostro  corpo  ;  né  i  corpi  sentono  alcuna  resistenza  per  la  sua  presen- 
za, sicome  i  nostri  corpi  per  la  presenza  della  nostra  anima  .  .  .  ».x 
Il  Giannone  accentua,  per  contrasto,  l'incorporeità  di  Dio  e  la  cor- 
poreità dell'anima,  ma  non  riesce  a  sfuggire  al  linguaggio  spinoziano 
considerando  Dio  sostanza  infinita.  Non  avendo  superato  convin- 
centemente l'ostacolo  del  panteismo,  ripiega  sull'affermazione  che 
compito  del  filosofo  è  di  investigare  la  natura  delle  cose  e  non  quella 
di  Dio;  per  questo  Lucrezio  intitolò  De  rerum  natura  il  suo  poema. 
Una  fede  senza  troppe  speculazioni  metafisiche,  un  orientamento  de- 
cisamente sperimentale  si  collegano  come  si  è  detto  al  superamento 
del  cartesianesimo  :  «  Per  ciò  io  reputo  più  sicura  e  solida  la  maniera 
di  filosofare  praticata  in  ciò  da  Isaac  Newton  nei  suoi  Principi  della 
filosofia  naturale  che  quella  tutta  astratta  e  metafisica  di  Cartesio  nel- 
le sue  Meditazioni  .  .  .  ».3 

Ritornando  al  mondo  ebraico,  si  riconferma  allievo  dclPAulisio, 
riprendendone  il  tema  dell'antichità  del  libro  di  Giob  e  riscrive  le 
proprie  obiezioni  al  Mosè  panteista  di  Toland:  «da  ciò  gli  scrittori 
profani,  fra'  quali  Diodoro  Siciliano  nella,,  sua  Biblioteca,  e  Strabone, 
non  avendo  letto  i  libri  di  Mosè,  né  degli  altri  profeti,  per  fama  ed 
altrui  rapporti  credettero  che  il  Dio  di  Mosè  non  fosse  altro  che  tutto 
l'ampio  universo,  e  che  lo  confondesse  colla  natura  istessa,  nel  qual  er- 
rore caddero  molti  che  credettero  essere  stato  Mosè  panteista,  quan- 
do da'  loro  libri  è  manifesto,  e  più  chiaro  della  luce  del  sole,  che  non 


i.  VApe  ingegnosa,  manoscritto  cit.,  e.  7.  Tutto  questo  brano  non  è  altro 
che  una  parafrasi  e  una  traduzione  talvolta  letterale  dello  Scolium  generale 
dei  Principia.  Il  Giannone  vi  interpola  unicamente  il  confronto  fra  Dio 
e  l'anima.    2.  Ibid.,  e.  8. 


NOTA   INTRODUTTIVA  999 

lo  descrissero  solamente  come  anima  del  mondo,  ma  come  facitore, 
signore  e  moderatore  dell'universo  .  .  .w.1  Naturalmente  è  in  pole- 
mica con  tutte  le  interpretazioni  «catastrofiche»  o  che  comunque 
spiegano  l'origine  della  vita  dalla  corruzione  e  dal  caos,  contrarie  non 
solo  ai  libri  sacri,  ma  anche  alla  filosofia  più  moderna:  «La  vera  filo- 
sofia ha  dimostrato  oggi,  mercé  la  cura  e  diligenza  di  valenti  ed  accu- 
rati investigatori  delle  cose,  che  niente  in  natura  si  produce  dalla 
corruzione  o  putredine,  ma  tutto  nasca  da  semi  che  sparsi  per  tutta 
la  superficie  della  terra  e  per  gli  ampi  spazi  dell'aria,  producono  gli  in- 
setti simili  ciascuno  alla  specie  donde  derivarono,  ne'  quali  sono  deli- 
neati minutamente  le  parti  organiche,  e  che  l'umido  e  temperato  calor 
della  putredine  non  facci  altro  che  schiudergli  e  dargli  a  poco  a  poco 
incremento,  sicché  da  poi  resi  fermi  dal  sole,  volino,  saltino  e  faccino 
quelle  operazioni,  alle  quali  sono  portati  dal  naturale  istinto  di  lor  na- 
tura . . .  ».3  Rispetto  al  Triregno  vi  è  l'utilizzazione  diretta  di  Newton  e 
un  riferimento  più  preciso  alla  biologia  moderna.  Il  motivo  dell'armo- 
nia della  natura,  prova  della  presenza  divina,  è  sviluppato  anche  nella 
seconda  osservazione.  In  realtà  più  che  l'aspetto  apologetico  -  anche 
qui  legato  a  una  lettura  del  newtonianesimo  -  o  la  volontà  di  confer- 
mare l'accordo  esistente  fra  il  Vecchio  Testamento  e  le  scoperte 
scientifiche,  al  Giannone  interessa  sottolineare  il  rapporto  fra  natura 
e  morale,  nel  senso  che  fa  parte  della  natura  anche  l'esigenza  di  un'e- 
tica che  nasca  come  regolamentazione  quasi  spontanea.  L'uomo  è 
passato  dallo  stato  naturale  a  quello  civile  con  la  creazione  degli  stru- 
menti che  rendono  comoda  la  vita;  fra  questi  le  forme  di  convivenza. 
La  prima  specie  di  vita  politica  è  la  tribù,  legata  alla  pastorizia  e  quin- 
di con  un  notevole  grado  di  vicinanza  alla  natura,  che  appare  in 
grado,  prima  che  l'uomo  inventi  nuovi  mezzi  di  sopravvivenza,  come 
la  caccia  e  la  pesca,  di  provvedere  con  i  frutti  non  coltivati  alla  vita 
umana.  Quando  nascono  forme  più  complesse,  si  amplia  il  desiderio 
di  ricchezza  e  sorgono  come  impulsi  dominanti  l'avarizia  e  l'ambizio- 
ne. Con  quest'ultima  nasce  la  guerra,  da  cui  deriva  l'istituto  della 
servitù.  Ma  il  Giannone  si  sottrae  presto  a  questa  problematica  hob- 
besiana,  pur  così  suggestiva  e  vicina  a  certe  intuizioni  del  Vico.  Ri- 
mangono perciò  impliciti  alcuni  motivi  di  superamento  del  giusna- 
turalismo mutuati  da  Hobbes,  soprattutto  nella  contrapposizione  fra 
una  natura  immutabile  (ma  il  cui  momento  di  ferinità  lo  interessa 
assai  poco)  e  la  civiltà  che  è  modificazione,  dominio  del  costume 
transeunte.  Infatti  il  Giannone  oscilla  fra  questo  tipo  di  analisi  e 

i.  VApe  ingegnosa,  manoscritto  cit.,  e.  9.  2.  Ibid.,  e.  io.  Cfr.  per  analogia 
J.  Roger,  Les  sciences  de  la  vie  dans  la  pensée  frangaise  da  XVIIIe  siede, 
Paris  1963. 


IOOO  L>APE   INGEGNOSA 

un'altra  in  cui  la  contrapposizione  fra  natura  e  civiltà  si  tinge  di 
moralismo  e  diventa  il  tema  della  degenerazione  dalla  semplicità 
naturale.  L'osservazione  v,  Sopra  la  minuta  gradazione  che  si  scorge 
in  natura  tra'  viventi;  sicché  sovente  riesca  assai  difficile  di  porre  giusti 
confini  fra  Vuno  e  V  altro  genere,1  è  un  interessante  esempio  della  teoria 
della  grande  catena  degli  esseri,2  contiene  molte  bizzarrie  tratte  da 
Plinio,  ma  vi  è  precisato  il  superamento  del  cartesianesimo,  in  quanto 
mostra  che  la  vita  non  può  nascere  solo  dalla  disposizione  ordinata 
delle  parti:  «è  duopo  che  siano  invase,  e  per  esse  scorra  uno  spirito 
sottilissimo,  attuosissimo  e  velocissimo,  dal  quale  si  ecciti  la  sensazio- 
ne ..  .  ».3  Questo  superamento  è  interessante  non  solo  in  quanto  ri- 
propone la  teoria  dello  spirito  vitale  (a  cui  rimane  fedele),  ma  soprat- 
tutto perché,  analogamente  al  Toland  e  all'interpretazione  «materia- 
listica» del  Conti,  fa  riferimento  per  giustificarla  alla  filosofia  di 
Newton4  e  all'ipotesi  dell'etere.  Il  Giannone  polemizza  contro  la 
concezione  degli  automi  cartesiani,  allineandosi  con  un'interpre- 
tazione vitalistica,  o  semi-vitalistica  della  natura  che  risale  al  natura- 
lismo rinascimentale,  ma  che  ora  vien  provata,  contro  il  meccanici- 
smo cartesiano,  anche  attraverso  l'ipotesi  di  Newton. 

Le  osservazioni  successive  sono  una  riconferma  di  quanto  aveva 
sostenuto  nel  Triregno  sull'anima,  contro  qualche  accenno  forzata- 
mente ortodosso  (o  meglio  cartesiano)  dei  Discorsi.  Infatti  attribuisce 
a  sant'Agostino  la  propria  concezione  materialistica  dell'anima  come 
spirito  vitale  tratto  dalle  aure  genitali  di  cui  si  parla  nella  Genesi, 
Non  solo  sostiene  che  sant'Agostino  aveva  oscillato  fra  le  due  teorie 
(dell'anima  come  intelligenza  e  dell'anima  corporea)  :  ritornando  an- 
cora una  volta  a  temi  tipicamente  tolandiani  (storia  dell'immortalità 
dell'anima  nella  seconda  lettera  a  Serena),  attribuisce  alla  scuola 
d'Alessandria  e  ai  suoi  teologi  di  aver  parlato  dell'anima  razionale 
distinta  da  quella  corporea,  quando  invece  per  i  primi  Padri  (come 
a  Roma  era  stato  per  Lucrezio)  l'anima  era  solo  corporea.  Ciò  che 
interessa  al  Giannone  è  combattere  l'opinione  platonica  dell'anima 
divina;  affermare  che  nel  cristianesimo  primitivo  la  mortalità  dell'a- 
nima non  era  un'eresia;  mostrare  come  il  problema  sia  stato  risolto 
a  favore  dell'immortalità  solo  dal  concilio  laterano  V,  contro  il  Pom- 
ponazzi:  «Così  si  tolsero  tutte  le  dispute,  e  l'antica  opinione  d'alcuni 
Padri  della  Chiesa,  che  le  facevano  corporee,  e  derivare  da'  genitori, 


i.  Qui  a  pp.  1014  sgg.  2.  Cfr.  A.  O.  Lovejoy,  La  grande  catena  dell'essere, 
Milano  1966.  Cfr.  soprattutto  a  pp.  197  sgg.  esempi  da  Locke  ed  altri  che 
ricordano  questa  osservazione  del  Giannone.  Per  questo  tema  in  Conti  cfr. 
N.  Badaloni,  Antonio  Conti  ecc.,  cit.,  cap.  1.  3.  Cfr.  qui,  p.  io  16.  4.  N. 
Badaloni,  Antonio  Conti  ecc.,  cit.,  pp.  59-77. 


NOTA  INTRODUTTIVA  IOOI 

onde  fra*  teologi  non  venne  ciò  più  in  disputa  ...  e  nelle  cose  di  reli- 
gione fu  riputato  consiglio  il  credere  e  non  il  sapere  .  .  .  n.1  Anche 
T osservazione  seguente2  può  essere  ricondotta  a  temi  tolandiani,  per 
esempio  nella  preferenza  data  alla  morale  stoica  e  nella  tesi  che  la 
differenza  fra  gli  uomini  consista  nel  corpo  -  che  condiziona  intelli- 
genza ed  atti  -  e  nell'educazione.  Il  Giannone  oscilla  cosi  fra  una 
ripresa  dei  temi  deistici  (anche  se  storicizza  più  nettamente  il  feno- 
meno religioso,  collegandolo  non  con  lo  ius  naturae,  ma  con  lo  ius 
gentium,  all'esigenza  di  vita  civile)  e  una  componente  di  tipo  fidei- 
stico, relativistico,  non  del  tutto  assente  nel  Triregno  e  che  gli  deri- 
vava dal  maestro  Domenico  Aulisio. 

Le  osservazioni  vili  e  ix  sono  un  importante  tentativo  di  rilettura 
del  Triregno  in  chiave  ortodossa:  l'vin3  infatti  riassume  e  conferma 
tutti  gli  elementi  essenziali  del  regno  terreno  (la  mancanza  di  un'idea 
dell'immortalità  nelle  civiltà  antiche,  la  mortalità  dell'anima,  ecc.), 
ma  la  ix  pone  il  regno  celeste  come  uno  stato  di  grazia  di  cui  non  vi 
era  traccia  precedentemente  e  che  rappresenta  una  radicale  rottura» 
Lo  stato  di  natura  durò  fino  alla  venuta  di  Cristo.  Questi  «Negò  co' 
sadducei  tutte  le  tradizioni  de'  farisei  come  tradizioni  umane,  non  di 
Dio  ;  ed  al  contrario,  approvò  la  dottrina  de'  farisei  degli  angeli,  degli 
spiriti,  delle  anime  e  de'  ricettacoli  loro  ne'  luoghi  infernali  negati 
da'  sadducei;  approvò  la  credenza  della  resurrezione  de  morti  ne- 
gata pure  da'  sadducei,  ma  in  ciò  discordò  da'  farisei,  ch'essi  vole- 
vano che  risorti  sarebbe  stato  loro  riserbato  un  altro  regno,  ma  pur 
terreno;  ed  egli  annunciò  e  promise,  risorti  che  fossero,  a  que'  che 
in  lui  credessero,  e  fossero  umili  e  caritatevoli  e  perfetti  "sicut  pater 
meus  coelestis  est",  un  nuovo  regno  tutto  giocondo  e  celeste;  a 
reprobi  e  miscredenti,  che  gli  stassero  apparecchiati  nella  profondità 
della  terra  luoghi  infernali  e  colmi  d'ogni  infelicità  e  miseria,  dove 
con  gli  demòni  dal  cielo  scacciati  saranno  tormentati  in  eterno  .  .  .  ».4 
A  questa  forzata  ortodossia,  che  non  riesce  a  prescindere  dalla  «sto- 
ricizzazione  »,  si  collega  anche  l'osservazione  x5  in  cui  si  distruggono 
i  miracoli  dei  pagani,  che  sono  alla  base  della  affermazione  di  ogni 
religione,  cercando  di  salvare  quelli  cristiani.  Come  la  religione  è 
essenzialmente  un'esigenza  caratteristica  dell'uomo,  così  altri  senti- 
menti, come  l'ambizione,  l'avarizia  e  la  cura  del  futuro  «anche 
doppo  morte  »  sono  tipici  dell'uomo.  Ma  sempre,  per  la  sua  fiducia 


i.  L'Ape  ingegnosa,  manoscritto  cit.,  Oss.  vi,  Dell'uomo,  sua  origine,  con- 
cezione, natività  e  fine,  e.  29.  2.  Ihid,,  Oss.  vii,  Sopra  la  natività  dell'uomo, 
ce.  38  sgg.  3.  Ibìd.,  Oss.  vili,  Sopra  tifine  dell'uomo  secondo  il  suo  stato  di 
natura,  e.  40.  4.  Ibid.,  Oss.  ix,  Delfine  dell'uomo  secondo  il  suo  stato  di  gra- 
zia, e.  44.     5.  Vedila  qui  a  pp.  1027  sgg. 


1002  L'APE    INGEGNOSA 

nella  grande  catena  degli  esseri,  il  Giannone  dimostra  che  alcuni 
atteggiamenti  umani  (il  rìso,  il  pianto,  la  sagacità)1  non  sono  ti- 
pici soltanto  deiruomo  e  li  possiedono  anche  i  bruti,  seppure  in 
misura  minore.  Questo  discorso  ne  apre  un  altro  sulla  memoria  e 
l'immaginazione.2  Presenti  anche  nei  bruti,  tali  facoltà  hanno  una 
natura  puramente  biologica  e  materiale,  come  aveva  già  cercato  di 
spiegare  Cartesio.  Proseguendo  in  una  rigorosa  despiritualizza- 
zione delle  facoltà  umane,  egli  afferma  che  ambiente  e  struttu- 
re corporee  intervengono  sull'immaginazione.  Così  anche  le  visio- 
ni notturne  e  i  sogni  dipendono  dai  meccanismi  del  nostro  corpo. 
Accanto  alla  preoccupazione  di  trovare  una  spiegazione  materiali- 
stica e  puramente  biologica  a  questi  aspetti  della  nostra  vita,  c'è  an- 
che la  volontà  antisuperstiziosa,  la  tensione  a  sottolineare  come  la 
scienza  (in  accordo  con  la  stessa  rivelazione  mosaica)  possa  spiegare 
fatti  a  cui  una  immaginazione  primitiva  attribuiva  significato  mira- 
coloso e  magico.  Mentre  affiora  un  elemento  che  è  del  resto  tipico 
dell'eudemonismo  settecentesco,  la  centralità  dell'uomo  nell'ordine 
universale,3  all'ottimismo  del  Giannone,  che  pur  combatte  in  queste 
pagine  una  sua  rigorosa  campagna  contro  la  superstizione  e  contro 
ogni  forma  di  irrazionalismo  magico,  anche  Terrore  appare  giusti- 
ficato, in  quanto  non  solo  è  un  modo  (sia  pur  inadeguato)  di  avvi- 
cinarsi alla  realtà  e  conoscerla,  ma  è  un  mezzo  stesso  di  sopravviven- 
za, a  volte  un  necessario  instrumentum  regni.  Ne  emerge  una  tipica 
preoccupazione  che  sarà  presente  anche  fra  i  philosophes:  «chi  filo- 
sofo vorrebbe  fare  il  muratore,  lo  spazzacamino,  il  calzolaio,  il  sar- 
tore ed  esercitarsi  nelle  altre  arti  meccaniche,  cotanto  necessarie 
alla  vita  civile  ...  ?  ».4 

L'osservazione  xix  è  datata  io  marzo  1744:  Le  comete  niente  por- 
tendono  overo  presaggiscono  0  di  bene  0  di  male,  quando  si  rendono  a  noi 


1.  VApe  ingegnosa,  manoscritto  cit.,  Oss.  xi,  V ambizione,  V avarizia,  e  la 
cura  del  juturo  anche  doppo  morte  esser  propri  umani  affetti,  e.  55;  Oss.  xn, 
Il  riso,  il  pianto,  il  sermone,  la  sagacità,  industria  e  l 'accorgimento  non  es- 
sere così  propri  dell'uomo,  sicché  i  bruti  non  ne  abbiano  qualche  immagine, 
ancorché  languida,  debole  ed  imperfetta,  e.  62,  qui  a  pp.  1042  sgg.  2.  Ibid., 
Oss.  xiii,  La  memoria,  V  immaginazione,  e  gVinsogni,  ancorché  fossero  comuni 
anche  a*  bruti,  nulla  di  manco  agli  uomini  sono  in  grado  eminente  e  producono 
in  essi  effetti  molto  strani  e  maraviglisi,  e.  69  ;  Oss.  xiv,  Dell'imaginazione 
dell'uomo  e  suoi  stupendi  e  portentosi  effetti,  e.  72;  Oss.  xv,  DegVinsogni,  e.  86. 

3.  Ibid.,  Oss.  xvi,  Che  nell'universalità  della  natura  non  vi  sia  cosa  migliore, 
né  peggiore  dell'uomo,  e.  96;  Oss.  xvii,  Che  nel  mondo  abbia  sempre  prevaluto 
l'errore  alla  verità  e  che  se  fosse  altrimenti  accaduto  ogni  società  civile  si  sa- 
rebbe disciolta  e  fatto  ritorno  all'antica  vita  pastorale  ed  agreste,  e.  99.  Sulla 
felicità  cfr.  R.  Mauzi,  L'idée  du  bonheur  au  XVIII6  siede,  Paris  i960. 

4.  Oss.  xvii  cit.,  e.  102. 


NOTA  INTROt>UTTIvA  1003 

aspettabili.1  È  interessante  notare  come  si  tratti  di  un'operazione 
culturale  abbastanza  complessa;  il  tema  richiama  senza  alcun  dub- 
bio la  celebre  opera  di  Pierre  Bayle.  \\  senso  stesso  del  discorso  non 
è  che  l'ultimo  sviluppo  della  problematica  bayliana,  ma  questi,  che 
non  era  certamente  ignoto  al  Giannole,  non  viene  neppure  nominato. 
In  realtà  il  Giannone  utilizza  piuttosto,  per  questa  ripresa  della  te- 
matica antisuperstiziosa,  il  libro  terzo  dei  Principia  di  Newton,  De 
mundi  systemate,  attraverso  il  quale  viene  provato  che  le  comete  non 
sono  vapori  (come  le  avevano  credute  gli  antichi),  ma  corpi  solidi, 
che  girano  con  leggi  costanti  intorno  ai  pianeti.  La  filosofìa  newto- 
niana è  anche  la  protagonista  dell'osservazione  successiva,  la  xx,  Che 
la  sperienza  dee  precedere  sempre  al  filosofare;  ed  indarno  si  specula, 
se  non  prima  siano  accuratamente  esaminate  le  circostanze  del  fatto, 
dove  viene  consumata  completamente  ogni  tentazione  di  conoscenza 
astrattamente  razionale,  esaltando  la  sperimentazione:  «Per  ciò  la  ma- 
niera di  filosofare  di  Isaac  Newton  ha  visto  a'  nostri  tempi  quell'ap- 
plauso, che  meritatamente  se  gli  dee,  perché  senza  finger  ipotesi, 
insistendo  unicamente  nella  filosofia  sperimentale,  nella  meccanica  e 
nell'osservazione  di  vari  sperimenti  da  lui  accuratamente  fatti,  ha 
saputo  trarre  certe  induzioni  e  dare  que'  sì  ben  ordinati  e  stabili 
principi  matematici  della  sua  naturai  filosofia . .  .  ».2  Per  contrasto 
narra  invece  un'infelice  deduzione  «astratta»  del  MafTei3  che  aveva 
cercato  di  spiegare  l'improvviso  bruciamento  di  una  donna  con  la 
formazione  di  un  fenomeno  simile  al  fulmine  all'interno  del  corpo, 
quando  poi  si  era  scoperto  che  questa  si  era  cosparsa  di  acquavite  e 
inavvertitamente  avvicinata  a  una  lampada.  Le  osservazioni  succes- 
sive riguardano  le  invenzioni  umane,  l'intervento  del  caso,  la  possi- 
bilità di  scoprire  in  futuro  cose  che  ora  appaiono  impossibili.  Siamo 
in  pieno  ottimismo  settecentesco,  con  la  continua  contrapposizione 
dei  moderni  agli  antichi.  Non  mancano  i  temi  autobiografici;  alcuni 
fra  l'altro  sono  molto  importanti  perché  ci  danno  la  misura  del  suo 
giudizio  negativo  sul  viceregno  austriaco.4  Denunciano  acutamente 
l'impossibilità  di  una  politica  di  riforme  nello  Stato  meridionale  da 
parte  di  una  Corte  lontana  e  rapace,  i  difetti  di  una  politica  fiscale 
spesso  troppo  subordinata  agli  interessi  di  Vienna.  Molto  interessanti 
sono  le  pagine  dedicate  alle  biblioteche,5  sia  a  quelle  napoletane,  sia 
a  quelle  viennesi,  fra  l'altro  preziose  per  ricostruire  i  suoi  ambienti 
di  lettura  nella  capitale  asburgica.  Le  biblioteche  sono  viste  come  uno 

1.  Vedila  qui  a  pp.  1061  sgg.  2.  L'Ape  ingegnosa,  manoscritto  cit.,  e.  106. 
3.  Su  questo  episodio  e  sulle  lettere  sui  fulmini  del  MafTei  cfr.  N.  Bada- 
loni, Antonio  Conti  ecc.,  cit.,  pp.  186-7.  4-  Cfr.  G.  Ricuperati,  U espe- 
rienza civile  ecc.,  cit.,  p.  596.    5.  Cfr.  qui  a  pp.  1071  sgg. 


1004  L'APE    INGEGNOSA 

degli  strumenti  più  importanti  nello  sviluppo  della  civiltà,  anche  se 
in  questo  caso  il  motivo  autobiografico  sopraffa  ben  presto  ogni  altro 
interesse.  Ma  è  comunque  notevole  l'articolazione  di  tutto  il  discor- 
so, che  è  in  sostanza  un'interpretazione  dello  sviluppo  della  cultura 
occidentale,  dalla  funzione  dei  monaci  copisti,  al  ruolo  del  Petrarca 
come  scopritore  di  codici  e  sollecitatore  del  mecenatismo  dei  princi- 
pi, al  legame  fra  riscoperta  della  civiltà  classica  e  rinnovamento  del- 
l'università. Il  Giannone  estende  il  suo  discorso  ad  altri  strumenti 
della  civiltà  umana,  come  le  monete,  la  carta,  i  sistemi  di  misurazione 
del  tempo.  Sono  interessi  verso  le  tecniche,  gli  oggetti  dell'uomo  che 
-  presenti  nell'erudizione  di  gusto  libertino  dell'Accademia  Mcdina- 
Coeli  -  avevano  avuto  un  fascino  notevole  anche  su  Domenico  Au- 
lisio.  Ma  il  Giannone  inserisce  questa  curiosità  in  un  interesse  più 
ampio,  volto  alle  istituzioni  politiche,  geografiche,  di  costume:  le 
città,  i  regni,  le  repubbliche,  le  divisioni  in  province,  le  leggi,  il  lin- 
guaggio. L'erudizione  si  trasforma  in  impegno  storico.  Sono  realtà 
immobili  per  il  profano,  ma  che  vivono  una  loro  vita,  sempre  sotto* 
poste  a  variazioni,  cangiamenti,  decadenze.  Come  si  e  detto,  il  Gian- 
none  corrode  il  giusnaturalismo  attraverso  una  analisi  di  tipo  relati- 
vistico, le  cui  origini  andrebbero  cercate  nella  formazione  scotista, 
nel  rinnovamento  gassendiano,  nella  assidua  lettura  di  Hobbcs  e  di 
Bayle. 

La  cronologia  è  uno  dei  problemi  di  queste  ultime  osservazioni: 
Sopra  la  divisione  del  tempo  dall'uomo  fatta  ed  ordinata  e  sopra  le  varie 
epoche  fissate  per  ordinare  i  fatti  istorici  e  che  la  piti  sicura  misura  sia 
quella  che  si  trae  dall'osservazioni  astronomiche  e  delle  ecclissL1  Basta  l'i- 
nizio di  questa  osservazione  per  richiamarci  i  Principia  di  Newton: 
«  Il  tempo  non  è  altro  in  natura  che  la  durazione  delle  cose  ;  né  per 
se  stesso  pone  qualche  cosa  di  più  nell'universo  ;  e  questo  ò  il  tempo 
vero,  proprio  ed  assoluto,  che  sempre  uguale  scorre.  Noi  per  ordinar 
meglio  le  nostre  azioni  abbiam  ritrovato  il  tempo  relativo,  dividendolo 
in  più  porzioni,  in  anni,  mesi,  giorni  ed  ore,  ed  adattandolo  alle  cose 
sensibili  ed  esterne  e  lo  facciamo  ora  corto,  or  lungo  .  .  .  ».*  Dopo 
questo  inizio  il  Giannone  affronta  il  problema  della  cronologia  della 
storia  profana  e  di  quella  sacra.  La  prima  gli  appare  più  fantasiosa 
perché  proietta  in  un  passato  vertiginoso  l'apparizione  dell'uomo.  Il 
guaio  sta  però  nel  fatto  che  nella  storia  sacra  non  c'ò  concordanza 
esatta  fra  la  Bibbia  ebraica  e  la  versione  greca.  Di  fronte  a  queste  in- 
certezze non  c'è  che  il  metodo  scientifico  :  «  La  natura  è  quella  che  con 
tenor  costante  serba  sempre  l'ordine  stesso  e  negli  astri  lo  stesso  corso 
e  giro.  Questa  traccia  seguitò  il  celebre  Newton  il  quale  ci  mostrò  una 

i.  VApe  ingegnosa,  manoscritto  cit.,  Oss.  xxxm,  e.  163.     2.  Ibid.,  loc.  cit. 


NOTA   INTRODUTTIVA  lOOJ 

nuova  e  più  sicura  maniera  di  noverare  gli  anni  per  via  di  osserva- 
zioni astronomiche  ;  ed  ancorché  il  padre  Souciet  gesuita  si  sforzasse 
con  le  sue  dissertazioni  sconvolgere  la  di  lui  cronologia,  nulladiman- 
co  i  dotti  non  lasciano  di  commendar  il  nuovo  calcolo,  come  il  più 
accurato  ed  esatto.  Quindi  l'epoche  più  certe  e  sicure  non  possono 
a  noi  derivare  se  non  dalle  osservazioni  astronomiche,  spezialmente 
dagli  eclissi  ;  e  per  ciò,  sempre  che  un  gran  fatto  istorico  è  accompa- 
gnato da  un'eclisse  che  per  poco  o  lo  precedette,  ovvero  per  poco  lo 
seguì,  possiamo  con  certezza  riportarlo  a  suoi  giusti  tempi;  e  sicome 
gli  astronomi  facendo  esatte  efemeridi,  non  errano  in  presaggire  le 
future  eclissi,  molto  meno  possono  errare  in  additarci  le  passate  .  .  .  ».x 
Ma  il  problema  del  tempo  lo  riporta  a  quello  della  duraia  della  vita 
umana  e  dei  viventi,  che  sono  tutti  mortali.  Con  una  progressione 
tipica,  viene  a  riflettere  sulla  vecchiaia,  sull'imminenza  della  morte, 
sul  timore  verso  di  essa.  E  in  queste  pagine  ritorna  alla  solita  sim- 
patia per  la  morale  stoica,  che  permette  di  non  temere  la  morte. 
L'osservazione  XLa  riporta  questo  tema  al  suo  significato  più  gene- 
rale e  riprende  argomenti  della  letteratura  libertino -deistica:  il  con- 
cetto di  essa  presso  gli  antichi  e  l'affiorare  dell'idea  di  una  seconda 
vita  nella  religione  naturale  fra  gli  Egizi  e  poi  fra  i  Greci  attraverso 
i  costumi  funerari  e  il  culto  degli  illustri  defunti.  Contro  tale  idea 
si  ergono  Democrito  in  Grecia  e  Lucrezio  in  Roma.  È  ancora  una 
volta  lo  schema  della  seconda  lettera  a  Serena  del  Toland.  L'ultima 
osservazione3  conferma  ed  attenua  le  tesi  del  Triregno  inserendole 
nello  schema  dualistico  dello  stato  di  natura  a  cui  è  contrapposto 
quello  di  grazia.  Si  nota  nelle  ultime  pagine  dell'Ape  ingegnosa,  ma 
del  resto  in  tutte  le  opere  del  carcere,  un'ostinata  volontà  di  ritornare 
sui  propri  temi  e  di  giustificarli,  reinserendoli  nella  propria  nuova 
condizione  di  convertito.  La  conversione  non  era  stata  né  un  radi- 
cale cambiamento,  né  un'adesione  strumentale  alla  volontà  del  mar- 
chese d'Ormea;  era  stata  piuttosto,  sotto  la  spinta  della  necessità 
da  una  parte,  di  una  crisi  spirituale  di  stanchezza  e  di  vuoto  dall'al- 
tra, un  nuovo  incontro  con  gli  elementi  più  accettabili  della  tradizione 
cattolica.  L'intellettuale  era  cambiato  minimamente;  l'uomo  almeno 
un  poco.  E  VApe  ingegnosa  è  l'esperienza  umana  e  intellettuale  di  un 
vecchio  deluso,  che  disperatamente  difende,  nelle  condizioni  nuove 
in  cui  si  è  trovato  con  la  prigionia,  il  senso  di  ciò  che  ha  vissuto  ed 
organizzato  nelle  proprie  opere.  Fedeltà  ai  temi  del  Triregno,  impo- 
verimenti ed  attenuazioni  dei  medesimi,  convivono  in  un'attività  di 

1.  Ibid.,  e.  164.  Sul  Newton  cronologo  e  sulle  polemiche  con  il  gesuita 
Souciet  cfr.  F.  E.  Manuel,  Newton  Hìstorian,  Cambridge  1963.  2.  Ve- 
dila qui  a  pp.  1079  sgg.    3.  Qui  a  pp.  1094  sgg. 


IOOÓ  L'APE    INGEGNOSA 

cui  bisogna  cogliere  soprattutto  il  significato  di  riconferma  della  so- 
stanza delle  proprie  tesi.  Solo  le  frange  vengono  più  o  meno  abil- 
mente abbandonate  al  compromesso,  che  ormai,  più  che  un  atto  ri- 
volto al  mondo  esterno,  nella  speranza  di  essere  liberato,  e  un  riflesso 
condizionato  —  drammatico  e  pur  esso  significativo  —  di  una  stan- 
chezza angosciosa,  di  un  senso  della  morte  che  forse  né  la  morale 
stoica,  né  l'eudemonismo  di  fondo  delle  ultime  letture,  riuscivano  a 
consolare  completamente,  ma  che  non  modifica  la  sostanziale  coe- 
renza, 

Giuseppe  Ricuperati 


DA  «L'APE  INGEGNOSA 
OVERO  RACCOLTA  DI  VARIE  OSSERVAZIONI 
SOPRA  LE  OPERE  DI  NATURA  E  DELL'ARTE» 

PROEMIO 

L/  animo  stanco1  e  le  scemate  forze  non  potendo  più  sostenere  in 
questa  mia  estrema  vecchiezza  lunghi  travagli  di  opere  grandi  e 
laboriose,  per  non  marcire  nell'ozio  e  nella  desidia,2  la  quale  anche 
ne'  vecchi  è  biasimata  da  Cicerone,3  ho  riputato  ne'  pochi  anni  di 
vita  che  mi  restano  rivolgermi  a  studi  meno  severi,  e  per  la  va- 
ghezza giocondi  e  per  la  varietà  meno  noiosi;  imitando  le  ingegnose 
api,  le  quali  ne'  fioriti  campi  di  qua  e  di  là  succhiando  da'  fiori 
soavi  liquori,  ne  formano  i  dolci  favi.  Né  poteva  io  in  questa  età  e 
solitudine,  privo  d'uman  commercio  e  senza  libri,  procacciarmi 
miglior  occupazione  se  non  rivolgendo  il  gran  libro  del  mondo, 
che  mi  è  sempre  innanzi  e  che  di  breve  avrò  da  lasciare. 

Non  certamente  poteva  altrove  trovare  un  più  spazioso  campo, 
se  non  contemplando  l'opere  di  natura,  multiplici,  varie  e  ciascuna 
per  se  stessa  mirabile  e  stupenda;  nell'interpretazione  della  quale 
pochi  libri  bastano  per  soccorso  d'una  ben  disposta  e  giusta  mente, 
a'  quali  per  buona  sorte  non  fu  impedito  di  tenermi  compagnia. 
Ed  alli  vecchi  questo  solo  rimane  di  consolazione  e  di  conforto, 
cioè  rivolgere  colla  mente  gli  studi  passati,  e  col  riflettere  e  colla 
lezione  profittevole  e  gioconda  d'ingegnosi  autori  far  nuovi  acqui- 
sti e  stendere  maggiormente  le  cognizioni.  Saviamente  per  ciò 

Quest'opera  è  inedita,  salvo  qualche  brano  pubblicato  da  V.  Cian,  V agonìa 
di  un  grande  italiano  sepolto  vivo,  in  «Nuova  Antologia»,  clxxxvii  (1903), 
pp.  698-721.  Il  manoscritto  autografo,  da  cui  sono  tratti  i  brani  riprodotti, 
è  in  Biblioteca  Reale  di  Torino,  Varia  304.  Appunti  e  abbozzi  di  queste 
osservazioni  in  Varia  303,  ce.  80-90.  Nicolini,  Scritti,  pp.  65-71,  elenca 
i  titoli  delle  osservazioni.  Cfr.  G.  Ricuperati,  Le  carte  torinesi  di  P.  Gian- 
none,  Torino  1962,  p.  90;  Giannoniana,  pp.  491-2.  Per  un'analisi  di  que- 
st'opera nel  contesto  dell'attività  del  Giannone  in  carcere  cfr.  G.  Ricupe- 
rati, L'esperienza  civile  e  religiosa  di  P.  Giannone,  cit.,  soprattutto  le 
PP-  591-9. 

1.  L'animo  stanco:  questo  motivo  della  stanchezza  è  già  sviluppato  nel 
capitolo  conclusivo  dell'Istoria  del  pontificato  di  Gregorio  Magno,  qui  a  pp. 
985-6.  A  e.  5  dell'autografo,  in  alto  a  sinistra,  la  data  d'inizio:  «Li  12 
agosto  1743».  2.  desidia:  pigrizia,  inazione  (latinismo).  3.  la  quale.,. 
Cicerone:  cfr.  De  off.,  1,  xxxiv,  123:  «Nihil  autem  magis  cavendum  est 
senectuti  quam  ne  languori  se  desidiaeque  dedat». 


IO08  L'APE   INGEGNOSA 

S.  Girolamo  scrivendo  a  Nepoziano,  ep.  2,1  gli  diceva  che  non  es- 
sendo più  i  vecchi  capaci  di  que'  gusti  e  piacevoli  trattenimenti 
che  godono  quelli  che  sono  giovani  e  vigorosi  di  forze,  altro  non 
gli  resta  che  lo  studio  col  quale  consolano  e  dilettano  la  loro 
cadente  età;  ed  a  me  precisamente,  che  ho  maggior  bisogno  di  que- 
sti conforti,  prolungandosi  fuor  di  ogni  aspettazione  l'incoiato3 
in  questa  misera  ed  infelice  mia  prigionia,  profittando  dell'esserne 
pio  di  Demetrio  Falereo,  il  quale  scacciato  dalla  patria  «multa 
praeclara  in  ilio  calamitoso  otio  scripsit  »,  come  ce  ne  rende  testi- 
monianza Cicerone  nel  lib.  v  De  finib.  bonor.  et  malora  soggiun- 
gendo4 che  «multi  cum  in  potestate  hostium  essent,  aut  tyran- 
norum,  multi  cum  in  custodia,  multi  cum  in  exilio,  dolorem  suum 
doctrinae  studiis  levaverunt».5  Né  agli  antichi  mancano  essempi 
moderni.  Tralasciando  d'aver  Boezio  nella  prigione  composto 
l'eccellente  libro  De  consolatione  philosophiae,6  Grozio  nella  prigio- 
ne compilò  quel  dotto  Commentario  sopra  S.  Matteo  ed  il  libro 
De  ventate  religionis  christianae.1  Bucanano  nell'angustie  d'un  mo- 
nastero di  Portogallo  compose  la  bella  parafrasi  de'  Salmi  di  Da- 
vide.8 M.  Pellisson  dell' Academia  francese,  durante  i  cinque  anni 
di  sua  prigionia,  riprese  gli  studi  della  lingua  greca,  della  filosofia 
e  della  teologia.9  Girolamo  Maggio  tra'  ferri  presso  i  Turchi  scnz'al- 

1.  ep.  2:  ep.  m  (alias  2),  Ad  Nepotìanum,  de  vita  clericorum  et  monachorum, 
in  Migne,  P.  L.,  xxn,  col.  527.  2.  Vincolato:  la  dimora  (latinismo).  3.  De 
fin.,  v,  xix,  54.  4.  soggiungendo:  correggiamo  «soggiundo»  dell'autografo, 
evidente  lapsus.  5.  «multi . .  .  levaverunt)):  loc.  cit.,  ma  nel  paragrafo  pre- 
cedente, il  53  («molti,  trovandosi  in  potere  di  nemici  0  di  tiranni,  in  pri- 
gione o  in  esilio,  alleviarono  il  proprio  dolore  con  lo  studio  della  scienza»). 
6.  Severino  Boezio  (480-524),  senatore  romano,  filosofo  e  consigliere  di 
Teodorico,  da  cui  fu  fatto  imprigionare  e  uccidere.  Scrisse  in  carcere  il 
De  consolatione  philosophiae.  7.  Del  Grozio  (cfr.  la  nota  a  a  p.  55)  sono 
citati  qui  le  Annotationes  in  libros  Evangeliorum,  Amsterdam!  1641,  e  il 
De  ventate  religionis  christianae,  Lugduni  Batavorum  X629,  composto  dopo 
il  161 9,  anno  in  cui  era  stato  incarcerato  a  vita,  essendo  stato  travolto  dalla 
disgrazia  del  Barneveldt,  accusato  di  eresia  e  di  intelligenza  con  gli  Spa- 
gnoli. Il  Giannone  conosceva  molto  bene  l'opera  del  Grozio.  In  carcere 
rilesse  il  De  ventate  religionis  christianae  nell'edizione  del  Ledere  (Aia  x  7  x  8). 
Il  primo  titolo  dell'opera  era:  Sensus  librorum  sex,  quospro  ventate  religionis 
christianae  batavice  scripsit  H.  Grotius,  Lugduni  Batavorum  1627.  Cfr.  G. 
Ricuperati,  V esperienza  civile  ecc.,  cit.,  pp.  608-9.  8.  Bucanano  . . .  Da- 
vide: George  Buchanan  (1506-1582),  umanista  scozzese,  insegnò  a  Bor- 
deaux, dove  fu  maestro  di  Montaigne.  Passò  a  Coimbra,  dove  fu  colpito 
dall'accusa  di  eresia  e  recluso  in  un  monastero,  in  cui  iniziò  la  parafrasi 
dei  Salmi  (1548)  :  Davidis  Psalmi  aliquot,  latino  Carmine  expressi . , .,  s.l. 
1556.     9.  Pellisson  . .  .  teologia:  Paul  Pellisson-Fontanicr  (1624-1693),  let- 


PROEMIO  IOO9 

tro  soccorso  che  della  memoria,  compose  i  suoi  Trattati*  Stefano 
Zagedin  durante  la  sua  captività  in  Costantinopoli  scrisse  i  libri 
della  teologia.2  E  narrasi  che  Michel  Cervantes  sopra  le  galee  di 
Barbaria  avesse  composto  il  famoso  Don  Chisciotte^  libro  il  più 
ingegnoso  che  fosse  mai  uscito  dalla  Spagna.3 

Niun  è  che  possa  vantarsi,  vecchissimo  che  sia,  di  sapere  ab- 
bastanza, poiché  molto  più  gli  resta  da  imparare  di  quello  che  cre- 
de di  sapere;  onde  il  piacere  che  si  sperimenta  nell'acquisto  di 
nuove  cognizioni  non  si  estingue  se  non  colla  morte.  A  ciò  si  ag- 
giunge che  a'  vecchi  da  Tullio  nella  persona  di  Catone  non  meno  è 
commendato  l'essercizio  del  corpo  che  quello  dell'animo,4  per  con- 
servarsi in  una  vecchiaia  salubre,  meno  fastidiosa  e  molesta. 

Per  queste  ragioni  uomini  saggi,  consumati  ne'  studi  e  resi 
celebri  per  tutto  l'universo,  sicché  niente  alla  loro  fama  rimaneva 
da  aggiungere  nell'ultima  loro  vecchiezza,  non  per  ciò  tralasciaro- 
no lo  studio  delle  lettere,  ed  in  questa  stessa  età  diedero  al  mondo 
opere  insigni  non  meno  di  ciò  che  avean  fatto  ne'  loro  floridi  e 
vigorosi  anni.  Platone  con  tutto  che  le  lunghe  e  disagiose  peregri- 
nazioni sofferte  l'infievolissero,  non  tralasciò  di  studiare  e  di  scri- 
vere fino  alF8i.  anno,  che  fu  quello  di  sua  morte.5  Isocrate,  essendo 
in  età  di  novantaquattro  anni,  compose  quella  tanto  lodata  orazio- 
ne intitolata  Panatenaicus.6  Gorgia  Leontino7  assai  più  vecchio  non 
cessò  fino  all'età  di  centosette  anni  che  visse  di  scrivere,  sicome 
rapporta  Cicerone  nei  libro  De  senectute:  «Est   enim»  e'   dice 

terato  francese  di  famiglia  protestante.  Nel  1653  scrisse  VHistoire  de  VAca- 
démie  francaise.  Nel  1661,  per  difendere  Fouquet,  fu  imprigionato  e  re- 
stò cinque  anni  alla  Bastiglia  dove  lesse  intensamente  1  Padri.  1.  Girolamo 
.  .  .  Trattati:  Girolamo  Magi  o  Maggi  (1523-1572),  ingegnere  di  Anghiari, 
nel  1572  prigioniero  a  Famagosta  e  trucidato.  La  sua  opera  principale, 
Delle  fortificazioni  delle  città,  è  del  1564,  quando  non  era  prigioniero  dei 
Turchi.  2.  Stefano  Zagedin  . . .  teologia  :  non  mi  è  riuscito  di  identificare 
questo  personaggio.  3.  E  narrasi  .  .  .  Spagna:  il  Giannone  confonde.  Il 
Cervantes,  mentre  stava  tornando  in  Spagna  nel  1575,  fu  preso  da  un 
corsaro  algerino  e  venduto  ad  Algeri  come  schiavo,  per  cui  fu  riscattato 
solo  nel  1580  da  un  amico.  Ma  il  Don  Qwjote  fu  immaginato  e  iniziato  solo 
dopo  il  1599,  quando  il  Cervantes,  passato  da  Siviglia  a  Valladolid,  era 
stato  arrestato  per  una  rissa.  La  prima  parte  dell'opera  uscì  nel  1604. 

4.  da  Tullio  .  .  .  animo:  Cicerone,  Calo  maior  de  senectute,  xi,  36:  «Nec 
vero  corpori  soli  subveniendum  est,  sed  menti  atque  animo  multo  magis  ». 

5.  Platone  .  .  .  morte:  il  grande  filosofo  ateniese  visse  ottantanni  (427-347 
a.  C).  6.  Isocrate .  .  .  'Panatenaicus:  il  famoso  oratore  ateniese  (436-338 
a.  C.)  scrisse  il  Panathenaicon  fra  il  342  e  il  338.  7.  Gorgia  Leontino  (483 
circa-375  a.  C),  sofista  greco. 

6+ 


IOIO  L'APE   INGEGNOSA 

«  lenis  senectus,  qualem  accepimus  Platonis,  qui  uno  et  octogesimo 
anno  scribens  mortuus  est;  qualem  Isocratis,  qui  cum  librum, 
qui  Panatenaicus  inscribitur,  quarto  et  nonagesimo  anno  scripsisse 
dicitur,  vixitque  quinquennium  postea;  cuius  magister  Lcontinus 
Gorgia  centum  et  septem  complevit  annos,  neque  unquam  in  suo 
studio  atque  opere  cessavit».1  Valerio  Massimo  nel  lib.  8,  cap.  7, 
all'esempio  d'Isocrate  aggiunge  il  vecchio  Catone2  il  quale  presso 
Cicerone  nel  cit.  libro,  ancor  che  vecchissimo,  cosi  di  se  stesso 
favella:  «Septimus  mihi  Originum  libcr  est  in  manibus:  omnia 
antiquitatis  monumenta  colligo  ;  causarum  illustrium  quascumque 
defendi,  nunc  quam  maxime  confìcio  orationes;  ius  augurum, 
pontificum,  civile  tracto,  multum  etiam  graecis  litcris  ».3  Aggiunge 
Valerio  l'essempio  di  Terenzio  Varrone,  il  quale  infino  all'ultima 
vecchiaia,  quando  anco  giaceva  nel  letto  per  l'età  decrepita  di 
cent'anni,  ad  ogni  modo  desideroso  d'imparare  non  tralasciò  mai 
lo  studio  :  «  Terentius  autem  Varrò  »  dice  Valerio  «  humanae  vitae 
exempla,  et  spatio  nominandus,  non  annis,  quibus  sacculi  tempus 
aequavit,  quam  stylo  vivacior  fuit,  in  codem  enim  lectulo  et  spi- 
ritus  eius,  egregiorum  operum  cursus  extinctus  est».4 

Or  se  è  lecito  parva  componere  magnisi  le  costoro  vestigia  io 
calcando,  gli  anderò,  se  ben  di  lungi,  seguendo;  e  non  potendo 
con  pari  opere  gravi  e  serie  imitargli,  mi  studierò  di  farlo  con 
questa  raccolta,  ch'io  chiamo  YApe  ingegnosa]  poiché  «floriferis 
ut  apes  in  saltibus  omnia  libant»,6  così  dalle  varie  osservazioni 
fatte  sopra  l'opere  di  natura  e  dell'arte  l'ho  compilata. 

Nelle  iscrizioni  di  simili  libri,  scrive  Plinio  nella  dedica  della 
sua  Istoria  di  natura7  a  Tito  Vespasiano  che  i  Greci  furono  assai 


1.  «Est  enim  . . .  cessavit »:  Caio  maìor  de  senectute,  v,  13.  2.  Valerio  , , . 
Catone:  cfr.  Fact.  et  dicU  mem.t  vili,  vn,  1.  3.  «Septimus  . .  *  literis»:  Cato 
maior  de  senectute,  xi,  38  («Sto  scrivendo  il  settimo  libro  delle  Orìgini: 
raccolgo  tutti  i  monumenti  dell'antichità;  ordino  ora  più  che  mai  le  ora- 
zioni di  tutte  le  cause  illustri  che  ho  difeso  ;  tratto  il  diritto  augurale,  ponti- 
ficio e  civile,  [mi  servo]  anche  molto  della  produzione  letteraria  greca»). 
4.  «Terentius  autem . .  .  extinctus  est»:  cfr,  Fact,  et  dict.  mem,f  vili,  vii,  3 
(«Terenzio  Varrone,  da  celebrare  per  affabilità  e  longevità,  non  fu  meno 
vivace  di  penna  che  di  anni,  coi  quali  compì  un  secolo:  sul  medesimo  letto 
si  estinse  infatti  il  suo  spirito  e  insieme  il  corso  di  opere  egregie  »).  Si  legga 
«esemplo».  5. parva  componere  magnisi  da  Virgilio,  Georg.,  iv,  176:  «si 
parva  licet  componere  magnis  »,  divenuto  proverbiale,  è.  «floriferis  . . . 
libant)):  Lucrezio,  in,  11  («come  le  api  per  le  balze  fiorite  van  gustando 
ogni  cosa  »).     7.  Cfr.  Historiae  naturalis  libri  XXXV1J,  quos  interpretatione 


PROEMIO  IOII 

festivi  ed  ingegnosi.  Chi  gli  attitolò  Favos  poiché  come  i  favi  del 
miele  contenevano  raccolti  insieme  più  soavi  liquori.  Altri  Cotnu- 
copiae,  dov'eran  trattate  le  scienze  ed  arti  promiscuamente  di  ogni 
genere;  e  Gellio  nel  lib.  primo,  cap.  8,  rapporta  Sozione  filosofo 
peripatetico  aver  composto  un  libro  sotto  questo  nome.1  Altri  l'in- 
titolarono le  Muse,  sicome  fra'  Greci  fece  Erodoto,  alle  nove  Muse 
ascrivendo  i  suoi  nove  libri  d'istoria;  e  lo  stesso  fece  Bione  retore, 
secondo  scrive  Laerzio  in  Bione  ;  e  fra'  Latini  P.  Aurelio  Opilio 
alle  Muse  attitolò  i  suoi,  secondo  che  rapportano  Svetonio,  lib. 
De  illusi,  gramm.,  cap.  6,a  e  Gellio,  lib.  i,  cap.  25-3  Chiamarono 
altri  simili  raccolte  di  più  cose  Pandectae,  come  chiamò  i  suoi  libri 
di  varie  questioni  Tullio  Tiro  liberto  di  Cicerone,  sicome  rapporta 
lo  stesso  Gellio,  lib.  31,  cap.  o,;4  e  Doroteo  compose  anche  le  sue 
Pandette  che  sono  citate  da  Clem.  Alessandrino,  lib.  1  Strom.5 
Al  di  cui  esempio  Triboniano  e  gli  altri  compilatori,  a'  quali  l'imp. 
Giustiniano  diede  la  cura  di  raccorre  ed  unire  insieme  le  sentenze 
degli  antichi  giurisconsulti,  chiamarono  quella  raccolta  Pandectae. 
Vi  furono  anche  autori  i  quali  a'  loro  libri  manuali,  ove  in  breve 
erano  più  cose  raccolte,  diedero  il  nome  di  Enchiridion^  sicome  fu 
detto  Y Enchiridion  di  Epiteto,6  al  cui  essempio  i  giurisconsulti 
greci  diedero  fuori  i  loro  manuali  collo  stesso  titolo. 

I  più  festivi  e  d'ingegno  ameni  si  compiacquero  dare  alle  loro 
raccolte  chi  il  titolo  di  Prati,  sicome  fece  Pamfilo  Alessandrino 
grammatico,  il  quale,  secondo  Suida,  tom.  2,  così  attitolò  la  varia 
sua  raccolta,  quasi  che  rappresentasse  i  vari  fiori  d'un  prato.7  Chi 


et  notis  illustravit  Ioannes  Harduinus  . . .  editto  altera  emendatior  et  auctior, 
Parisiis  1733,  in  tre  tomi,  tomo  1,  p.  4.  La  prima  edizione  a  cura  dell'Har- 
douin  è  del  1685,  in  cinque  tomi,  ma  non  può  essere  quella  utilizzata  in 
carcere  dal  Giannone  perché,  come  si  vedrà  in  seguito,  egli  trae  dall'Har- 
douin  molte  informazioni,  anche  bibliografiche,  aggiornate  fino  al  171 1, 
per  cui  l'edizione  utilizzata  può  essere  o  quella  del  1723  con  note  più 
ampie  (è  quella  di  cui  ci  siam  serviti  anche  noi)  0  la  ristampa  del  1741» 
1.  Gellio  . . .  nome:  cfr.  Noct.  attt)  1,  vili,  1.  2.  Altri . . .  cap.  6:  cfr.  Plinio, 
Nat.  kist.f  ed.  cit.,  tomo  1,  lib.  1,  p.  4,  nota  21.  3.  Gellio  —  cap.  25:  cfr. 
Noct.  att.,  1,  xxv,  17.  Da  Plinio,  loc.  cit.  4.  sicome  . . .  cap.  9:  cfr.  Noct. 
att.t  xiii  (e  non  31),  ix,  3.  Da  Plinio,  loc.  cit.,  p.  4,  nota  22.  5.  Doroteo  . . . 
Strom.  :  cfr.  Clemente  Alessandrino,  Stromatum,  1,  in  Migne,  i\  G.,  vili, 
col.  867.  Da  Plinio,  loc.  cit.  Doroteo  era  un  giurista  bizantino  del  VI 
secolo.  6.  Vi  furono  .  .  .  Epiteto:  naturalmente  si  tratta  dello  stoico  Epit- 
teto.  Da  Plinio,  loc.  cit.,  p.  4,  nota  23.  7. 1  pia  festivi  . . .  prato:  si  riferisce 
a  Panfilo  Alessandrino,  lessicografo  del  I  secolo  a.  C,  autore  di  un'opera 
intitolata  Prata.  -  Suida  è  un'enciclopedia  bizantina  del  X  secolo.  Le  cita- 


1012  L'APE    INGEGNOSA 

vi  pose  il  titolo  di  Viole,  chi  di  Fiori,  onde  i  nuovi  scrittori  preser 
l'essempio  d'inscrivere  le  loro  opere  con  titoli  conformi,  sicome 
fece  Grozio  in  quel  libricciuolo  Florum  sparsio  \l  e  quindi  i  Prati 
fioriti,  i  Viridarii,  i  Frati  spirituali,  e  simili  titoli  nelle  opere  de* 
moderni. 

Altri  si  compiacquero  di  titoli  simbolici,  come  di  llasta,  ovvero 
Telum,  sicome  presso  Fozio,  in  Bibliot.,  cod.  165,  leggiamo  che 
Himerio  sofista  intitolò  un  suo  libretto;3  onde  presso  i  moderni 
venne  l'idea  d'intitolar  i  loro  Peplum,  e  cose  simili.  In  fine  tra' 
Greci  Diodoro  Siciliano  fu  il  primo  che  «desiit  nugari»,3  come 
dice  Plinio,  contentandosi  di  non  dar  altro  titolo  alla  sua  varia 
istoria  che  di  Biblioteca. 

Gli  antichi  scrittori  romani  furono  in  ciò  più  seri  e  semplici,  con- 
tentandosi di  modesti  titoli,  come  di  Antiquitatmn,  sicome  Varro- 
ne, Exemplorum,  come  Valerio  Massimo,  Artium,  come  altri;  ed 
i  più  faceti  non  oltrepassarono  il  titolo  di  Lucubrationes.  Ma  dapoi 
Varrone  stesso  si  prese  licenza  nelle  sue  Satire  di  cianciare  alquan- 
to: una  attitolandola  Sesqui-Ulysis,  cioè  Ulisse  e  mezzo,  che  vuol 
dire  un  vafro  ed  astuto  più  che  Ulisse,  citata  spesse  volte  da  Nonio, 
cap.  2,  n.  481  ed  altrove,  e  l'altra  Flextabula,  citata  pure  da  No- 
nio, cap.  1,  n.  109  et  113,  et  cap.  3,  n.  171.4  M.  Furio,  cognominato 
Bibaculo,  poeta  facetissimo,  si  prese  dapoi  maggior  licenza,  Fiori 
costui  nel  mezzo  dell'età  di  Catullo  e  di  Orazio,  nel  qual  tempo 
lo  ripone  Quintiliano,  lib.  io  Instit,  cap.  1;  e  S.  Girolamo,  in 
Chronic,  ad  Olymp*  169  ari,  3,  lo  fa  di  patria  cremonese:  «M.  Fu- 
rius  poeta»  e'  dice  «cognomento  Bibaculus  Crcmon[a]e  nascitur».5 
Questi  raccolse  tutti  i  giocosi  fatti  e  detti  di  Cicerone  ed  altri 
antichi  in  un  volume,  sicome  ce  ne  rende  testimonianza  Macrobio, 


zioni  nelle  note  delTHardouin  si  riferiscono  all'edizione  di  Colonia  del 
1619,  in  due  volumi.  Cfr.  Plinio,  loc.  cit.,  p.  5,  nota  1:  «Apud  Suidam, 
tom.  2,  p.  415».     1.  Florum  sparsio  ad  ius  iustinianeu?nr  Parisiis   1642. 

2.  Fozio  . . .  libretto  :  cfr.  Bibliotheca,  cod.  clxv,  Himerii  sophistae  declama- 
tiones,  in  Mignc,  P.  G.,  cui,  col.  463.  Da  Plinio,  loc.  cit.,  p.  5,  nota  3. 

3.  «desiit  nugari»;  Plinio,  nel  proemio  del  libro  I,  ed.  cit.,  p.  5  («fini  di 
celiare  »).  4.  Ma  dapoi  Varrone  . .  .  n.  ijx :  Marco  Terenzio  Varrone  (x  16- 
27  a.  C),  autore  delle  Satire  menippee  e  fecondissimo  scrittore;  Nonio 
Marcello  (IV  secolo  d.  C),  lessicografo  e  grammatico,  di  cui  ai  veda  il 
De  compendiosa  doctrina,  lib.  r,  De  proprietate  sermonum,  e  lib.  Vi,  De  im- 
propria. Tutte  queste  citazioni  da  Plinio,  loc.  cit.,  p,  5,  nota  8.  5.  M, 
Furio  . . .  nascituri  Marco  Furio  Bibaculo,  poeta  cremonese  nato  nel  103 
a.  C,  scrisse  giambi  contro  Cesare.  La  citazione  di  Quintiliano  (Inst.  or., 


PROEMIO  IOI3 

lib.  2  Satur.,  cap.  i.1  Di  lui  fanno  anche  memoria  Tacito  ne'  suoi 
Annali?  Svetonio,  De  illustr.  gram.,  cap.  4,  e  Carisio,  cap.  i.3  Ci 
rimangono  alcuni  suoi  carmi,  raccolti  da  Pietro  Piteo,  e  posti  nella 
sua  raccolta  di  vari  poemi  ed  epigrammi,  pag.  3Ó.4 

Seguirono  dapoi  altri  scrittori,  i  quali  chi  dal  luogo,  0  dal  tempo, 
e  chi  per  altro  riguardo,  alle  loro  raccolte  diedero  vari  titoli.  Ad 
Aulo  Gellio  piacque  chiamar  la  sua  Noctes  Atticae,  poiché  l'avea 
composta  presso  Atene  neir Attica  terra.  Macrobio,  il  qual  molto 
profittò  da  Gellio  senza  però  nominarlo,  chiamò  la  sua  Saturnalii,5 
e  così  Lipsio  ed  altri  a  sua  imitazione.6  Ad  alcuni,  lasciate  le  Notti, 
piacquero  più  i  Giorni;  onde  il  nostro  Alessandro  ab  Alexandro 
attitolò  la  sua  Giorni  geniali,1  ed  altri  Giorni  caniculari.  Fuvi  chi, 
lasciati  i  Giorni  e  le  Notti,  si  appigliò  all'Ore,  onde  Horae  subeisivae 
e  simili. 

Ad  altri  piacquero  i  titoli  metaforici  ed  enigmatici.  Tertulliano, 
avendo  composta  un'operetta  contra  li  gnostici,  eretici,  i  quali 
come  tanti  scorpioni  avvelenavano  e  diffondevano  il  veleno  delle 
loro  false  dottrine  da  per  tutto,  l'intitolò  perciò  Scorpiaco}  A  sua 
imitazione  S.  Epifanio,  il  libro  che  compose  Adversus  haereses  lo 
chiamò  Panarium,  cioè  arculam  medicami  poiché,  secondo  egli 
scrive  ad  Acacio  e  Paolo,  i  quali  Phaveano  spinto  a  scriverlo,  ed 
a'  qua'  l'indrizzò,  avea  composti  tanti  antidoti  contro  i  morsi 

x,  1,  96)  e  quella  che  segue  di  Gerolamo  (Interpretatio  Chronicae  Eusebii 
Pamphili,  loc.  cit.,  in  Migne,  P.  L.,  xxvn,  col.  521)  son  tratte  da  Plinio, 
loc.  cit.,  p.  5,  nota  7.  1.  Macrobio  . . .  cap.  1:  sempre  da  Plinio,  ibid. 
2.  Ann.,  iv,  34.  3.  Svetonio  .  . .  Carisio,  cap.  1:  ancora  da  Plinio,  ibid. 
Flavio  Sosipatro  Carisio,  grammatico  latino  della  metà  del  IV  secolo  d.  C, 
autore  di  un* Ars  grammatica  in  cinque  libri.  4.  Ci  rimangono  .  . .  pag.  36: 
su  Pierre  Pithou  cfr.  le  note  i  a  p.  392  e  1  a  p.  685.  Qui  sono  citati,  sempre 
dalla  nota  7,  p.  5,  della  citata  edizione  di  Plinio,  gli  Epigrammata  etpoematia 
vetera  . . .,  Parisiis  1589.  5.  Macrobio  . .  .  Saturnalii:  il  nome  di  Satur- 
nalia  deriva  dal  fatto  che  i  colloqui,  che  sono  di  imitazione  gelliana,  si 
fingono  svolti  durante  le  feste  di  Saturno.  6.  Lipsio  .  .  .  imitazione-,  Joost 
Lips  (1547- 1606),  umanista  fiammingo;  di  famiglia  cattolica,  aderì  al  pro- 
testantesimo, riconvertendosi  successivamente  al  cattolicesimo.  Cfr.  I. 
Lipsii  Saturnalium  sermonum  libri  duo,  qui  de  gladiatoribus  .  . .,  Antverpiae 
1585.  7.  Alessandro  .  .  .geniali:  si  tratta  del  grande  giurista  napoletano 
Alessandro  d'Alessandro  (1461-1523),  la  cui  opera,  fortunatissima,  s'in- 
titola Genialium  dierum  libri  sex  . . .,  Lugduni  Batavorum  i673a  (prima 
edizione,  Romae  1522).  Cfr.  D.  Maffei,  Alessandro  d'Alessandro,  giurecon- 
sulto umanista,  x 461-1 {$23,  Milano  1956.  8.  Tertulliano  . . .  Scorpiaco:  cfr. 
Adversus  gnosticos  Scorpiace,  in  Migne,  P.  L.,  Il,  coli.  121-54.  9.  S.  Epi- 
fanio . . .  medicami  cfr.  Panarium,  sive  arcula  adversus  octoginta  haereses, 
in  Migne,  P.  G.,  xli,  coli.  173  sgg.;  xui,  coli.  9  sgg. 


IOI4  L'APE   INGEGNOSA 

velenosi  di  que'  eretici,  perché  servissero  di  rimedio  «  iis  qui  morsu 
petiti  sunt,  vel  eos  quibus  ne  incidant  periculum  est  praemuniant 
ac  conservent .  . .  Panarium,  sive  arculam  medicam,  ad  eorum,  qui 
a  serpentibus  icti  sunt  remedium,  iure  opus  illud,  ac  opus  inter- 
pretabimur».1  Lo  stesso  Epifanio,  richiesto  da'  fedeli  che  fosse 
contento  di  ammaestrargli  più  ampiamente  negli  articoli  della  fede, 
gli  sodisfece  con  un  altro  libro,  che  intitolò  Ancorato?  perché 
poteva  servire  al  cristiano  a  guisa  d'ancora  per  mantenerlo  fermo  e 
stabile  nella  fede  cattolica.  Ma  sopra  tutti  niuno  mostrò  in  ciò 
più  giudicio  e  sagacità  che  il  P.  Menochio  gesuita,  il  quale  come 
religioso  adattò  alle  sue  Centurie  il  titolo  di  Stuore,3  ad  imitazione 
degli  antichi  anacoreti,  i  quali  nelle  loro  solitudini  dopo  le  orazioni 
non  se  ne  stavano  oziosi  ed  infingardi,  ma  chi  lavorando  stuorc, 
chi  panieri,  altri  fiscelli  o  cucchiari  a  capo  dell'anno  vendendoli  si 
procacciavano  onestamente  il  vitto  senz'andarlo  pitoccando.  A 
questo  modo  forse  io  avrei  dato  titolo  più  proprio  ed  acconcio  a 
quest'opera,  chiamandola  Calze,  overo  col  nome  di  altro  simil 
lavoro  di  dita,  nel  quale  in  carcere,  per  isfuggir  la  noia  ed  il  tedio, 
sono  occupati  i  meschini  prigionieri;  ma  per  la  cagione  già  detta 
ho  lasciato  correr  quello  che  state  ora  leggendo. 


OSSERVAZIONE  V 

Sopra  la  minuta  gradazione  che  si  scorge  in  natura  tra7  viventi; 

sicché  sovente  riesca  assai  difficile  di  porre  giusti  confini  fra 

Vuno  e  V altro  genere, 

Niun  dubbita  lo  spirito  delle  vite  esser  da  per  tutto  diffuso,  per 
cui  si  vivificano  le  piante,  gli  animali  e  gli  uomini;  e  che  breve  e 
quasi  insensibile  sia  il  passaggio  dalle  cose  inanimate  all'animate, 

i.  secondo  egli  scrive  , . .  interpretabimur:  cfr.  in  Migne,  P.  C,  xu,  Acacil 
et  Fatili  presbyterorum  epistola  ad  Epiphanium,  coli.  155  8gg.;  Rescriptum 
Epiphanii,  coli.  157  sgg.  La  citazione  a  coli.  158-9  (si  legga  però:  «opus 
illud,  ac  librum*:  «. .  «  a  coloro  che  sono  stati  feriti  da  morsi,  0  per  difen- 
dere e  preservare  quelli  che  corron  pericolo  di  cascarci,  a  buon  diritto 
chiameremo  Panaria,  cioè  cassetta  medica  questa  impresa  e  questo  libro,  a 
rimedio  di  coloro  che  son  stati  colpiti  dai  serpenti»),  2.  Lo  stesso  . . .  An- 
corato: cfr.  Ancoratus,  in  Mignc,  P.  G.,  xml,  coli.  1 1-236.  3.  Sul  padre 
Menochio  e  sul  rapporto  stabilito  dal  Giannone  con  le  Stuore,  cfr.  la  Nota 
introduttiva  all'Apologia  de'  teologi  scolastici,  qui  a  p.  793  e  la  nota  4  a 
p.841. 


OSSERVAZIONE  V  IOI5 

e  poi  da  queste  alle  sensitive,  ed  in  fine  alle  razionali;  nel  che  in 
natura  si  osserva  una  mirabile  gradazione.1 

E  cominciando  dalla  morta  terra:  si  vede  che  da  lei  si  passa  a  for- 
mar i  tartufi)  i  quali  non  si  sa  se  debbano  riputarsi  più  tosto  un  callo 
della  terra  ovvero  riporsi  fra'  viventi;  poiché  non  han  radici,  non 
fibre,  non  capillamenti  colla  terra  complicati,  donde  possan  da  lei 
trarre  alimento;  non  producon  seme  per  propagarne  la  specie,  né 
seminati  germogliano.  Si  osserva  non  esser  altro  che  la  terra  stessa 
turbinata,  e  crescono  secondo  che  tra  essa  si  raggirano.  Pruova 
evidente  di  ciò  è  quel  che  narra  Plinio,  lib.  19,  cap.  2,2  essere  a*  suoi 
tempi  accaduto  in  Ispagna  a  Larzio  Lacinio,  il  quale  mentre  mor- 
deva un  tartufo  senti  i  denti  smoversi  a  cagion  che  in  quello  un 
picciol  denaro  era  inviluppato:  «quo  manifestum  erit»  dice  Plinio 
«terrae  naturam  in  se  globari»;  onde  a  ragione  reputò  che  non 
possiamo  propriamente  dirlo  terra,  ma  non  esser  altro  «  quam  ter- 
rae callum»,  I  Latini  li  chiamarono  tuberà,  ma  i  nostri  italiani,  for- 
se meglio  ne  spiegarono  la  proprietà  con  chiamargli  tartufi,  cioè 
tufo  di  terrai  terrae  tofus.3  Veggasi  la  dissertazione  di  Gioffredo 
il  giovane,  che  si  legge  nell'Istoria  dell' Academia  regia  delle  Scienze 
di  Parigi  all'anno  171 1,  pag.  23,  il  quale  esamina  la  maniera,  come 
dalla  terra  si  formino.4 

Da'  tartufi  si  passa  alla  gramigna,  ed  all'altre  erbe  che  per  se 
stesse  germinano:  indi  all'altre  piante  più  pompose  e  varie:  indi 
a'  frutici,  indi  a'  corbezzoli  ed  agli  altri  arboscelli  ed  alle  viti; 
poi  a  gli  alberi  grandi;  a'  pini,  cipressi,  a'  platani,  olmi,  palme, 
roveri,  e  finalmente  alle  annose  quercie. 

Passi  poi  passaggio  a'  sensitivi.  E  qui  s'incontra  un  altro  passo 

1.  Niun  dubbita  .  . .  gradazione:  viene  riconfermata  la  teoria  materialistica, 
già  espressa  nel  Triregno,  della  presenza  di  un  unico  spirito  vitale  animatore 
della  natura  e  degli  uomini.  L'espressione  spirito  delle  vite  deriva  dalla 
Genesi  (2,  7),  2.  Plinio,  lib.  io,  cap.  2:  cfr.  Nat.  hist.,  ed.  cit.,  tomo  11, 
lib.  xix,  cap.  11,  sect.  xi,  p.  159.  Su  Larzio  Lacinio,  o  meglio  Licinio,  cfr. 
la  nota  2  della  stessa  pagina.  3.  tartufo  viene  dal  latino  tardo  terri-<tu>be- 
rum,  con  tuber  sostituito  dalla  forma  dialettale  (osca)  tufer  (Battisti-Alessio). 
4.  Veggasi .  .  .formino:  cfr.  Plinio,  loc.  cit.,  p.  159,  nota  3:  «De  hoc  argo- 
mento vide  dissertationcm  D  Geoffroy  iunioris,  m  Historia  Academiae 
Rogiac  Scientiarum,  anni  171 1,  pag.  23  ».  Questa  nota  è  interessante  perché 
permette  di  stabilire  che  il  Giannone  in  carcere  non  ebbe  l'edizione  ad 
usum  Delphini  del  1685,  ma  quella  ampliata  del  1723  (o  la  ristampa  del 
1741).  Cfr.  Histoire  de  VAcadémie  royale  des  sciences,  Paris  1714,  pp.  23-35. 
Claude-Joseph  Geoffroy  (1685-1752),  naturalista  parigino,  detto  iunior  per 
distinguerlo  dal  fratello  Etienne-Francois  (1672-173 1),  celebre  medico. 


I0l6  L'APE    INGEGNOSA 

stretto;  poiché  in  questo  confine  si  fanno  innanzi  cose  che  non  si 
sa  se  debbiano  porsi  nella  classe  de'  vegetabili,  overo  de'  sensitivi. 
Questo  è  uno  dei  punti  più  difficili  che  occorrono  nell'esame  della 
natura  delle  cose,  e  che  ha  tenuto  esercitati  gli  ingegni  non  men 
degli  antichi  che  de'  moderni  filosofi,  come  dalle  cose  che  non  han 
senso  possano  prodursi  i  sensitivi  ;  poiché  non  e  dubbio  che  questi 
non  si  compongono  che  di  parti  insensibili,  e  dalla  predisposizione 
ed  organizatione  ne  sorge  il  senso,  non  altrimenti  che  dalla  varietà 
delle  corde  o  canne  degl'istromenti  nasce  l'armonia,  ancorché 
ciascuna  di  esse  per  sé  sole  non  siano  armoniche.  Ma  la  sola 
organizazione  delle  parti  non  basta,  ò  duopo  che  siano  invase,  e 
per  esse  scorra  uno  spirito  sottilissimo,  attuosissimo  e  velocissimo, 
dal  quale  si  ecciti  la  sensazione,  e  fa  che  le  membra  degli  animali 
secondo  la  lor  volontà  si  muovano,  ciò  è  per  le  vibrazioni  di  questo 
spirito  propagate  per  li  solidi  capillamcnti  de'  nervi  dall'esterni 
organi  de'  sensi  al  cerebro,  e  dal  cerebro  ne'  muscoli.  Come  ciò  si 
facci  è  difficile  comprenderlo;  e  l'istcsso  Newton,  accuratissimo 
filosofo,  nel  fine  de'  suoi  Princìpi  matematici  della  naturai  filosofia 
confessa  non  esservi  copia  sufficiente  d'esperimenti  per  li  quali  si 
possano  determinare  e  dimostrare  accuratamente  le  leggi  delle 
azioni  di  questo  spirito:  «ncque  adest»  e'  dice  «sufficiens  copia 
experimentorum,  quibus  leges  actionum  huius  spiritus  accurate 
determinari  et  monstrari  debent».1  In  noi  non  è  tanta  la  difficoltà  di 
comprenderlo,  poiché  per  propria  coscienza  conscii  a  noi  stessi  at- 
tribuiamo il  dolore  ed  il  senso  de'  nostri  esterni  organi  più  tosto 
all'anima  che  al  corpo;  e  S.  Agostino  nel  lib.  21,  cap.  3,  De  civ. 
Dei,  acutamente  osservò  che  il  dolore  si  appartenga  alla  nostra  ani- 
ma, non  al  corpo  :  «animae  cnim  est  »  e'  dice  «  dolere,  non  corporis  »,* 
poiché  quella  che  sia  in  noi  percezione  del  dolore,  0  di  qualunque 
altro  senso  così  intcriore  come  esteriore,  è  della  sola  anima,  non 
del  corpo.  Non  già  che  S.  Agostino  negasse  a'  bruti  senso,  poiché 
nel  lib.  5,  cap.  11,  gli  dà  non  pur  senso  ed  appetito,  ma  eziandio 
memoria;3  anzi  nel  lib.  11,  e.  27,  gli  concede  pure  «quaedam  scien- 


1 .  Vislesso  Newton  . . ,  debent  :  cfr.  Phìlosophiae  naturalis  principia  mathe- 
matica . .  .,  Amstaelodami  1733,  p.  484.  2.  S.  Agostino  . . .  corporis:  cfr. 
De  civ.  Dei,  xxi,  ili,  An  consequens  sit  ut  corporeum  dolorem  sequatur  carnis 
interitus,  2,  in  Migne,  P.  L.,  xli,  col.  711.  3. poiché ..  .memoria:  cfr. 
ibid.,  v,  xi,  De  universali  providentia  Dei,  cuius  legibus  omnia  continentur, 
col.  154. 


OSSERVAZIONE   V  IOI7 

tiae  similitudo».1  Cartesio  si  contenne  pure  in  questi  limiti,  ed  in 
una  sua  epistola  manifesta  di  non  negare  a'  bruti  senso,  la  perce- 
zione del  quale  egli  in  se  stesso  dice  esser  conscio  che  si  apparte- 
neva alla  sua  anima,  non  al  corpo  ;  ma  non  sapeva  ciò  che  fosse  ne' 
bruti,  non  valendo  penetrare  nelle  loro  viscere.2  I  cartesiani,  come 
suole  avvenire  quando  le  inquisioni3  si  vogliono  spingere  fuor  il 
dovere,  si  avanzarono  più  oltre,  e  negarono  a'  bruti  ogni  senso, 
facendogli  automati:  paradosso  che  il  mondo  non  ha  potuto  in- 
ghiottirselo.4 

Or  in  far  questo  passaggio  da'  vegetabili  a'  sensitivi  s'incontrono 
più  difficultà,  spezialmente  ne'  purgamenti  del  mare  che  getta  al 
lido,  e  nelle  ortiche  e  spogne  marine.  Osservò  Aristotele,  lib.  5 
Hist.  anim.y  cap.  15,5  ciò  che  Plinio  conferma,  lib.  9,  cap.  45,  le 
spogne  di  mare  alcune  essere  spesse  e  molli,  altre  rare,  altre  tenui 
e  dense,  delle  quali  si  formano  i  pennelli  che  noi  chiamiamo 
ce  spogne  fine».  Queste  tutte  nascono  ne'  scogli  e  nelle  pietre,  dove 
sono  attaccate  ed  affìsse  ;  si  nutriscono  di  limo  0  alga,  ed  anche  di 
pescicoli  e  di  minute  conchiglie,  poiché  aperte  vi  si  sono  trovate; 
staccate  dalle  pietre,  se  vi  rimangono  le  radici,  tornano  a  pullulare. 
Fin  qui  le  credereste  a'  vegetabili  indifferenti,  ma  la  loro  natura  si 
stende  oltre,  poiché  sentono  la  mano  di  chi  le  svelle  e  si  ristringono  ; 
strettamente  a'  sassi  attaccate  rendono  difficile  l'estrazione  ;  e  così 
parimente  si  rannicchiano  quando  da'  flutti  marini  sono  impetuo- 
samente percosse.  Aristotele  e  Plinio  affermano  che  svelte  anche  si 
nudriscono  e  che  dalle  loro  spesse  vote  fistole  come  tante  bocche 
traggono  il  pasto,  e  che  tratte  lasciano  nelle  pietre  il  cruore,6 
spezialmente  nelle  Sirti  di  Affrica. 

1.  anzi  . .  .  similitudo:  cfr.  ibìd.,  xi,  xxvn,  De  essentia  et  scientia,  et  utnusgue 
amore,  2,  col.  341.  2.  Cartesio  . . .  viscere:  cfr.  R.  Des  Cartes  Episto- 
lae  .  . .,  pars  li,  Francofurti  ad  Moenum  1692,  Epist.  XL  ad  Mersennum  .  . . 
de  operatìone  brutorum,  p.  138.  3.  inquisioni:  così  nell'autografo.  4. 1  car- 
tesiani .  .  .  inghiottirselo  :  riprende  un  motivo  del  Triregno  :  la  polemica  con- 
tro una  fìsica  cartesiana  ridotta  al  puro  meccanicismo.  Cfr.  A.  Vartanian, 
Diderot  e  Descartes,  Milano  1956,  soprattutto  i  capitoli  i,  L'eredità  carte- 
siana, e  IV,  Dalla  biologia  meccanicistica  all'uomo  macchina  e  al  materialismo 
evoluzionistico.  Ma  l'autore  ha  il  torto  di  sopravvalutare  il  significato  del- 
l'eredità cartesiana.  Cfr.  ancora  a  questo  proposito  le  osservazioni  di  J. 
Erhard,  L'idée  de  nature  en  France  dans  la  première  moitiédu  XVllIe  siede, 
Paris  1963,  tomo  1,  soprattutto  i  capitoli  1  e  n.  5.  Aristotele  . . .  cap,  15 "• 
la  citazione  proviene  da  Plinio,  subito  dopo  citato,  Nat.  hist.,  ed.  cit, 
tomo  1,  lib.  ix,  cap.  xlv,  sect.  lxix,  p.  529,  nota  1.  6.  cruore:  sangue 
(latinismo). 


IOl8  L'APE   INGEGNOSA 

Più  strana  è  la  natura  doll'ordiche  marine,  secondo  gli  allegati 
autori.  Sono  anch'esse  di  doppio  genere;  alcune  si  stanno  affisse 
alle  pietre,  né  mai  da  quelle  si  staccano  ;  altre  amano  i  luoghi  piani 
ed  i  lidi,  e  mutano  la  notte  sede.  Di  queste  vaghe  Guglielmo 
Rondelezio,  Depiscibus,  lib.  17,  cap.  19  et  20,  ne  dipinge  l'effigie;1 
e  tutte  hanno  le  foglie  o  siano  branche  carnose;  e  si  nutriscono, 
secondo  Aristotele,  lib.  8,  cap.  3  e  lib.  4,  cap.  46 i,a  e  Plinio,  loc. 
cit.,3  di  carne  de'  piccioli  pescicoli  che  ad  esse  si  abbattono.  Si 
rannicchiano  in  sé  ed  in  passando  i  pesciulli  spargono  le  branche, 
li  prendono  e  li  devorano.  Toccate  lasciano  un  mordace  prurito, 
non  altrimenti  che  l'ortiche  terrestri,  donde  presero  il  nome;  e  so- 
vente di  notte  fanno  anche  preda  di  pettini  e  di  echini,4  da  noi  detti 
amini.  Plinio,  in  contemplando  la  natura  dell'ortiche  e  delle  spo- 
gne  di  mare,  confuso  a  qual  classe  debba  ascriverle,  dice  non  poter 
negare  essere  in  esse  senso;  ma  che  non  per  ciò  ardisce  di  anno- 
verarle5 tra  gli  animali,  e  molto  meno  fra'  vegetabili;  ma  che 
formino  una  terza  natura,  media  fra  gli  uni  e  gli  altri:  «Equidem» 
e*  dice  «  et  his  inesse  sensum  arbitror,  quae  ncque  animalium,  ncque 
fruticum;  sed  tertiam  quandam  ex  utroque  naturam  habent:  urticis 
dico  et  spongiis».6 

Il  mare  e  feracissimo  di  questi  aborti,  gettando  al  lido  spurga- 
menti che  non  si  sa  se  debbiano  aversi  per  sue  alghe,  ovvero  per 
pesci.  Narra  Pietro  della  Valle  ne'  suoi  Viaggi,  part.  n,  cap.  17,7 
che  nel  lido  del  mar  Persico  vide  gettati  da  flutti  marini  in  su  l'are- 
ne alcuni  pescetti  rotondi  e  bianchi,  ch'egli  assomiglia  a  quelle 
monete  di  argento  che  chiamiamo  patacche,  li  quali  attacati  ai 
suolo  non  giammai  si  muoveano;  ed  infiniti  altri  fra  le  arene  se 
n'osservano  di  simili  in  altra  figura,  e  d'insensibile  movimento; 


1.  Di  queste  vaghe  ,  . .  effigie:  Guillaume  Rondelet  (1506-1557),  naturalista 
e  medico  francese,  dx  cui  vengono  qui  citati  i  Libri  de  piscibus  marinis, 
Lugduni  Batavorum  1554-1555,  in  due  volumi.  Da  Plinio,  loc.  cit.,  scct. 
Lvni,  p.  529,  nota  3.  2.  Aristotele .  . .  cap.  46X:  da  Plinio,  subito  dopo 
citato,  loc.  cit.,  p.  529,  note  364.  (Alla  nota  3:  «Arist.  lib.  4  hist,  anim* 
cap.  461  »,  dove  cap.  461  sembra  refuso,  riprodotto  nel  testo  del  Giannonc, 
per  «pag.  461  »).  3,  Plinio,  loc.  cit.  :  a  p.  529.  4.  pettini:  specie  di  mollu- 
schi conchiliferi;  echini-,  ricci  di  mare.  5.  annoverarle:  correggiamo  «an- 
noverle»  dell'autografo,  evidente  lapsus*  6.  «  Equidem  ..  .spongiis»:  Pli- 
nio, loc.  cit.,  p.  529.  7.  Pietro  della  Valle  . . .  cap.  17:  vedi  la  nota  up. 
954.  Cfr.  Viaggi,  ed.  cit,,  tomo  n-in,  parte  11,  lettera  xvn,  29  novembre 
1622,  par.  xvin,  p.  513. 


OSSERVAZIONE   V  IOI9 

né  minor  è  il  numero  ne'  scogli,  dove  sovente  si  veggono  pic- 
ciole  conchiglie  a'  passi  indifferenti.  Tutti  questi  Plinio  alla  fine  del 
libro  32  chiama  «purgamenta  maris»,  e  più  tosto  crede  doversi  ri- 
putare alghe  marine,  che  ascrivergli  fra  gli  animali:  «Exeunt»  e* 
dice  parlando  degli  animali  del  mare  «praeter  haec  purgamenta 
aliqua  relatu  indigna,  et  algis  potius  annumeranda,  quam  anima- 
libus».1  I  Greci  chiamavano  questa  sorte  di  viventi  zoofiti,  ripu- 
tandogli parte  animali,  e  parte  piante,  partecipando  dell'una  e 
dell'altra  natura.  Ecco  quanto  sia  difficile  porre  i  giusti  confini 
ne'  viventi  tra  vegetabili  e  sensitivi. 

Procede  in  oltre  la  natura  insensibilmente  alla  produzione  di 
mille  foggie  d'insetti:  alle  minutissime  zanzare,  a  vermiccioli  qua- 
s'invisibili,  ed  a  tanti  altri  minutissimi  animaletti  :  ne'  quali,  come 
si  è  detto,  maggiormente  si  ammira  l'incomprensibile  suo  lavoro  e 
magistero.  Indi  a  poco  a  poco  si  arriva  a  gli  animali  più  visibili  e 
perfetti;  e  fra  questi  s'entra  in  un  mare  che  non  ha  né  fondo  né 
riva;  poiché  si  scorgono  innumerabili  generi  diversi  dotati  chi  di 
più,  e  chi  di  meno  accorgimento.  Ne'  pesci  niuna  voce,  ma  tutti 
muti.  Negli  animali  terrestri  e  negli  uccelli  voce,  ed  in  alcuni  anche 
loquela;  e  ne'  corvi  e  pappagalli  capacità  d'essere  istruiti  ad  arti- 
colar anche  voci  umane.  Altri  torpidi,  inerti,  stupidi  e  sonnacchiosi. 
Altri  s'elevano  a  più  sublimi  operazioni  e  sottili  artifici.  I  ragni  a 
tesser  minutissime  tele.  Gli  uccelli  a  fabricarsi  industriosi  nidi.  Le 
api  ingegnose  a  formarsi  ben  composti  favi.  Le  provide  formiche  a 
costruirsi  i  granai  e  provvedergli  di  formento.  Le  astute  volpi  ed 
altri  animali  le  tane  industriosamente  disposte  di  più  uscite;  e  chi 
potrebbe  annoverar  tutti  i  loro  sottili  accorgimenti  ?  de'  quali  sarà 
altrove  data  occasione  di  più  ampiamente  ragionarne,  non  ricono- 
scendo altra  maestra  che  la  natura  ed  i  propri  loro  naturali  istinti. 
Ammiriamo  anche  in  alcuni  imagini  d'umane  virtù;  ne'  cani  la 
fedeltà  verso  i  loro  padroni,  ne'  cavalli  di  secondare  il  genio  guer- 
riero de'  cavalieri  ;  le  scimie  imitare  non  pur  la  figura,  ma  gli  atti 
e  le  gesta  umane  e  verso  i  loro  parti  affettuose  ;  la  generosità  ne' 
leoni;  ne'  gelosi  tori  la  gloria  di  vincere  Temolo,  a'  quali  Tacito 
debitamente  ascrive  «  gloria  frontis  »  ?  la  docilità  e  società  de'  delfi- 
ni coll'uomo  :  in  breve  ammiriamo  in  essi  memoria,  amore,  odio, 


x.  «Exeunt .  .  .  ani?nalibusv:  Plinio,  Nat.  hi$t.,  ed.  cit.,  tomo  n,  lib.  xxxn, 
cap.  xi,  sect.  nv,  p.  596.     2.  «  gloria  frontis»:  Tacilo,  Germ.,  5. 


1020  L'APE   INGEGNOSA 

pianto,  riso,  mestizia,  ilarità,  e  che  no?  Ma  sopra  tutti  s'innalza 
l'elefante,  di  cui  gli  scrittori  non  meno  antichi  che  moderni  narrono 
cose  veramente  stupende  :  che  intendono  il  patrio  sermone  di  que' 
che  li  reggono  ed  ubbidiscono  a'  loro  comandi,  sicome  scrissero 
Plinio,  lib.  8,  cap.  i,1  ed  Eliano,  De  indicis  elephantis,  lib.  xi  Hist 
anim.,  cap.  14 ;2  della  loro  docilità  in  rendersi  rispettosi  e  prestare 
a'  re  adorazione,  fino  ad  inginocchiarsi  e  presentargli  corone,  ce 
ne  rendono  testimonianza  Aristotele,  lib.  9  Hist.  anim.,  cap.  72, 
Dione,  lib.  48,3  lo  stesso  Plinio,  e  Marziale,  Epigr.  17  De  supplice 
elephante;*  della  solerzia  ne'  giochi  di  arme,  della  palla,  nelle  salta- 
zioni  e  simili,  oltre  che  Seneca  e  Plinio  ce  n'assicurano  anche  Svc- 
tonio  in  Galba,  Vopisco  nella  Vita  di  Carino,  Dione  nella  Vita  di 
Nerone,5  e  fra  moderni  Busbequio,6  ep.  1,  ed  il  P.  Arduino7  gesuita, 
il  quale  nelle  note  sopra  il  cit.  luogo  di  Plinio  aggiunge:  «similes 
quoque  ludos  edi  nostra  vidit  aetas  non  sine  ingenti  voluptate  in 
regio  nemorc  Versaliis,  ab  elephante  eximiae  magnitudinis  ».  Leg- 
gasi anche  il  Carme  composto  nell'anno  1584  da  Giovanni  Passc- 
razio  sopra  l'elefante,  trascritto  dallo  stesso  Arduino  nell'emenda- 
zioni a  Plinio,  lib.  8.8  Ma  ciò  che  supera  ogni  maraviglia  è  che 
Plinio  dà  all'elefante  anche  religione,  ciocch'ò  propria  dell'uomo. 
Egli  afferma  (ed  in  ciò  trova  chi  '1  consente:  Plutarco,  lib.  De  so- 


1 .  Plinio,  lib.  8,  cap.  X  :  ed.  cit.,  tomo  1,  scct.  1,  p.  435.  2.  Eliano  .  .  .  cap,  14 : 
Claudio  Eliano,  De  animalium  natura  libri  XVII,  lib.  xi,  cap.  xiv,  Uìs Loria 
de  elephanto,  diligenti  infantis  ipsi  traditi  curatore,  anche  il  cap.  xv,  1  Ustoria 
de  elephantìs  duobus,  adulterii  ultoribus.  Da  Plinio,  loc.  cit.,  p.  435,  nota  1  : 
«Refert  hoc  Aclianus,  De  indicis  elephantìs,  1.  xi  Hist.  anim,,  cap.  14». 
3.  Aristotele . .  .  lib.  48:  da  Plinio,  loc.  cit.,  p.  435,  nota  io:  «Id  quoque 
Arist.  lib.  9  hist.  anim.  e.  72.  Et  Dio  lib.  48».  4.  Marziale  .  .  .  depilante: 
cfr.  Epigr.,  xvii,  1  sgg.:  «Quod  pius  et  supplex  elcphas  te,  Caesar,  adorat» 
ecc.  Da  Plinio,  loc,  cit,  p.  435,  nota  io.  5.  Svetotiio  . . .  Nerone:  tutte  e 
tre  le  citazioni  da  Plinio,  loc.  cit.,  sect.  11,  p.  435,  nota  7.  6,  Busbequio:  da 
Plinio,  loc.  cit,  nota  7:  «Busbcquius,  epist.  1,  fol.  27».  Si  tratta  di  (ìhislain 
Ogiar  de  Busbecq  (1522-1592),  olandese,  ambasciatore  in  Turchia  per  due 
volte.  Lasciò  quattro  lettere  clic  contengono  le  relazioni  delle  sue  ambascia- 
te e  Epistolae  ad  Rudolphum  II  imperatorem  e  Gallia  scriptae  (1630).  Cfr. 
gli  Opera  omnia,  Lugduni  Batavorum  1633.  7.  Arduino:  Jean  Ilurdouin, 
l'editore  e  commentatore  della  edizione  di  Plinio  che  andiamo  citando: 
su  di  lui  si  veda  la  nota  1  a  p.  187.  La  citazione  che  segue  da  Plinio,  loc. 
cit.,  p.  435,  nota  5  («giochi  simili  a  questi  si  videro  non  senza  gran  diletto 
ai  nostri  giorni  nella  reggia  di  Versailles,  fatti  da  un  elefante  di  notevole 
grandezza»).  8.  Leggasi . .  .lib.  8:  cfr.  Plinio,  ed.  cit,  tomo  I,  lib.  vili, 
Notae  et  emendationes  ad  librum  Vili,  p.  486,  scct.  l.  Jean  Passerat  (1534- 
1602),  umanista  e  poeta  francese. 


OSSERVAZIONE  V  1021 

lertia  animai.,  Eliano,  lib.  7  Hist.  anim.,  cap.  44  e  lib.  4,  cap.  io,1 
e  Solino,  cap.  2$)z  che  gli  elefanti  adorino  per  suoi  numi  il  sole  e 
la  luna.  Aggiunge  anche  aver  autori  i  quali  scrissero  che  nelle  selve 
della  Mauritania  ad  un  certo  fiume  chiamato  Amilo,  solennemente 
ivi  si  purifichino  nell'acqua  di  quel  fiume  spargendosela  intorno,  e 
dapoi  avendo  salutato  il  nume  «salutato  sidere  (e*  dice,  che  altri 
interpretano  della  luna,  ma  Solino  del  sole)  in  silvas  reverti,  vitu- 
lorum  fatigatos  prae  se  ferentes».3  Di  più  che  intendono  l'altrui 
religione,  poiché  invitati  non  entrano  nelle  navi,  se  non  il  rettore  si 
obblighi  con  giuramento  di  ritornargli  nel  luogo  stesso  donde  l'han 
presi  :  «  Alienae  quoque  religionis  intellectu,  creduntur  maria  tran- 
situri  non  ante  naves  conscendere,  quam  invitati  rectoris  iureiu- 
rando  de  reditu».4 

Ecco  fin  dove  si  fa  giungere  la  condizione  degli  animali.  Potremo 
adunque  da  questi  far  ora  passaggio  a  gli  uomini  ?  Non  già,  poiché 
s'incontrano  altri  viventi,  de'  quali  è  gran  dubbio  se  debbiano  ri- 
porsi nell'una  o  nell'altra  classe,  ovvero  essere  d'una  terza  natura, 
sicome  si  è  detto  delle  spogne  ed  ortiche  marine  fra'  vegetabili  e 
sensitivi.  S'incontrano  inprima  i  satiri,  che  si  dipingono  di  san- 
guigna faccia,  petto  e  braccia  umane,  ma  con  velate  coscie  e  piedi 
simili  alle  capre.  Se  vorremo  dar  credenza  a  scrittori  non  meno  an- 
tichi che  moderni,  e  spezialmente  a  S.  Girolamo  ed  agli  altri 
nostri  Padri,  ed  a  più  istoriette  che  se  ne  contano,  certamente  che 
saranno  d'una  natura  media  fra  noi  e  gli  animali,  mezz'uomini  e 
mezzo  capre;  poiché  gli  danno  discorso,  raziocinio,  loquela  ed 
incesso  umano:  arte  nel  sonar  le  tibie  ed  altri  accorgimenti.  Altri 
gli  negano  affatto  e  gli  lasciano  co'  Blemi  ed  Egipani5  a'  favolosi 
poeti.  Plinio  gli  concede,  ma  vuole  che  solamente  abbiano  umana 
effigie  e  sembianza,  e  siano  di  natura  degli  altri  quatrupedi:  «Sa- 
tyris»  e'  dice  nel  lib.  5,  cap.  86  «praeter  figuram  nihil  moris  Imma- 
ni», e  nel  lib.  7,  e.  3,7  gli  fa  di  corso  velocissimi  sopra  gli  altri 
animali  :  «  sunt  et  satyri  subsolanis  Indorum  montibus  .  . .  perni- 

1.  Plutarco  . .  .  cap.  io:  ambedue  le  citazioni  da  Plinio,  ed.  cit.,  tomo  I,  lib. 
vili,  cup.  i,  sect,  1,  p.  435,  nota  3.  a.  Solino,  cap.  251  cfr.  ibid.,  note  4  e  6. 
3.  «salutato  sidere  . . .  ferentes »:  loc,  cit.,  sect.  1,  p.  435  («salutato  l'astro 
ritornano  nella  foresta,  spingendo  innanzi  a  sé  i  piccoli  stanchi  ») ,  4.  «  Alie- 
nae .  . .  reditu»:  ibid.  5.  Blemi,  o  meglio  Blemni:  popolazione  dell'Etiopia 
su  cui  circolarono  molte  leggende;  Egipani:  seguaci  o  figli  del  dio  Pan,  dal 
piede  caprino.  Cfr.  Plinio,  luogo  citato  alla  nota  seguente.  6.  lib.  $,  cap.  8: 
sect.  vili,  p.  253  deired.  cit.    7,  lib.  7,  e.  3:  sect.  11,  p.  373  dell'ed.  cit. 


1022  L'APE   INGEGNOSA 

cissimum  animai ...  humana  effigie»;  ed  altrove,  lib.  8,  e.  54, 
lib.  11,  44,1  gli  ripone  nel  genere  delle  scimie  0  scimioni,  poiché, 
se  ben  quatrupedi,  sovente  corrono  dritti  valendosi  de'  piedi  poste- 
riori, e  degli  anteriori  si  servono,  a  guisa  d'uomo,  come  tante  brac- 
cia e  mani;  e  sovente  caminano  anche  proni  come  tutti  gli  altri 
quatrupedi.  Più  accortamente  Pomponio  Mela,  lib,  1,  cap.  8,3  ce 
gli  descrisse  per  semiferi,  mettendo  però  in  dubbio  se  vi  fossero, 
dicendo,  parlando  dell'Affrica  ferace  de*  mostri:  «Intra,  si  credere 
libet,  vix  iam  homines,  magisque  semiferi:  Acgipanes  et  Blemmyes 
et  Satyri,  etc».  Saviamente  «si  credere  libet»,  poiché  secondo  il 
giudicio  de'  più  dotti  e  seri  devono  riputarsi  favolosi  ;  onde  i  satiri 
non  devono  porci  in  angustie,  poiché  0  non  ci  sono,  né  furono  giam- 
mai, ovvero  alla  classe  degli  altri  animali  dovranno  riporsi.  Sicome 
i  Pigmei  al  presente  non  ci  fanno  difficoltà;  poiché  i  più  esperti  ed 
eruditi  han  finalmente  fatto  conoscere  che  sopra  la  superficie  della 
terra  non  vi  siano  intere  populazioni  tali  quali  gli  antichi  ce  le 
descrissero,  nella  Scizia,  nell'India,  nell'Etiopia,  nell'Egitto  ed 
altrove,  poiché  questa  favola  si  è  resa  da  per  tutto  vagante  e  diffu- 
sa. Omero  fu  il  primo  che  l'inventò  nell'Iliade,  lib.  3,  v.  6,3  e  finse 
la  guerra  che  hanno  colle  gru.  Si  descrivano  non  più  alti  chi  d'un 
cubito,  ed  i  più  lunghi  non  eccedere  la  misura  di  due  piedi,  o  poco 
più,  come  scrissero  Plinio  e  Gellio.  Nudi  abitare  nelle  case  che  si 
fabbricano  di  loto,  di  penne  e  di  scorze  d'ova  delle  gru.  Aristotele 
nel  lib.  8  Hist  anim.,  cap.  15,4  dice  che  abitano  anche  nelle  caverne 
e  la  fama  aggiunse  che  infestati  dalle  gru  nella  primavera  discen- 
dono al  mare  e  cavalcando  sopra  i  dorsi  degli  arieti  e  delle  capre 
corrono  armati  a  truppe,  e  muovono  alle  gru  aspra  guerra,  con- 
sumano le  ova  ed  i  lor  pulii  perché  nell'avvenire  non  siano  infe- 
stati. Pomponio  Mela,  seguendo  l'autorità  di  Aristotele,  rapporta 
nel  lib.  3,  cap,  8,  che  nell'interiore  Egitto,  tra  le  paludi  dalle  quali 


1.  lib.  5,  e.  54,  Uh.  Jjr,  44:  rispettivamente  sect.  lxxx,  p.  482,  e  sect.  e,  p.  638. 

2.  lib.  J,  cap.  8:  del  De  situ  orbìs,  cum  observationibus  I.  Vossii,  llagae  1658, 
pp.  10-1  :  cfr.  Plinio,  ed.  cit.,  tomo  1,  lib.  v,  cap.  vnr,  sect.  vizi,  p.  252, 
nota  15.  Ma  la  citazione  che  segue  è  nel  lib.  I,  cap.  iv,  del  De  situ  orbìs. 

3.  Iliade,  lib.  3tv.6:  cfr.  G.  S.  Menochio,  Stuore,  Roma  1689,  in  tre  tomi, 
tomo  1,  cent.  1,  cap.  ix,  Chi  siano  quelli  Pigmei  de*  quali  si  fa  menzione  nel 
cap.  2j  di  Esiechiello,  pp.  15-6,  Il  Menochio  cita  //.,  ni,  1-9.  4.  Aristote- 
le. . .  cap.  J5:  la  citazione  è  tratta  da  Plinio,  ed.  cit.,  tomo  1,  lib.  vii,  cap. 
il,  sect.  n,  p.  373  e  nota  19  ivi.  Ma  cfr.  anche  il  Menochio,  loc,  cit.,  p.  15, 
che  ha,  rectius,  lib.  8,  cap.  13. 


OSSERVAZIONE   V  1023 

credeasi  il  Nilo  aver  origine,  vi  erano  de'  Pigmei,  li  quali  combat- 
tendo sempre  colle  gru  per  le  biade  furono  finalmente  da  queste 
sterminati  :  «  Fuere  »  e'  dice  «  interius  Pigmaei,  minutum  genus  et 
quod  prò  satis  frugibus  contra  grues  dimicando  defecit».  Nel- 
l'India anche  li  trovò  Plinio,  nel  lib.  6,  cap.  19,1  a  cui  consentano 
Solino,  cap.  52,  e  Marziano,  lib.  6,  cap.  de  India?  onde  saviamente 
avvertì  Arduino  nel  luogo  cit.  di  Plinio:  «in  multas  orbis  regiones, 
ut  solent  vagari  fabulae,  minutum  hoc  genus  hominum  dissemina- 
tum  est».3  Il  vero  è,  secondo  che  al  presente  da  più  accorti  viag- 
gianti che  hanno  scorse  tutte  le  parti  del  mondo  siamo  assicurati, 
che  non  vi  siano  intere  populazioni  pigmee,  e  che  né  alla  Scizia  né 
all'Etiopia,  India,  Egitto  o  altrove,  ma  che  ne'  paesi  0  soverchia- 
mente freddi  ovvero  caldi  per  opposte  e  diverse  cagioni,  sogliono 
alle  volte  nascere  uomini  piccioli,  non  già  sì  brevi  d'un  cubito, 
ma  di  due  0  tre;  e  sicome  in  natura  in  diverse  regioni  si  veggono 
altri  nascere  e  crescere  in  una  prodigiosa  grandezza,  che  chiamia- 
mo giganti,  non  già  che  vi  siano  popolazioni  intere  gigantesche, 
cosi  accade  ne'  Pigmei,  i  quali  non  è  dubbio  che  debbiano  riporsi 
nella  classe  degl'uomini,  non  già  de'  bruti;  aggiunge  per  ciò  nel  cit. 
loc.  Arduino  :  «  Dari  tamen  integras  pumilionum  gentes  tam  falsum 
est,  quam  quod  falsissimum.  Brevis  staturae  causa  aestus  est  et 
frigus  intensum;  quamvis  diversa  ratione.  Nec  tamen  hoc  in 
omni  fetu  evenit.  Plurimi  Aethiopes  proceri  sunt.  Qui  pusilli  ex 
iis  non  Pygmaei  tamen,  sive  cubitales  sunt;  ad  ternos  ut  minimum 
cubitos  exerescunt».4 

La  difficoltà  maggiore  nasce  negl'uomini  selvaggi,  de'  quali  se- 
condo le  relazioni  degli  antichi  e  de'  moderni  scrittori  non  pos- 
siamo dubbitare  che  vi  siano,  e  le  scoverte  fatte  nell'America  inco- 
gnita a  gli  antichi  maggiormente  ce  ne  rendono  certi.  Gli  antichi 


1.  lib.  6,  cap.  19  :  sect.  xxn,  p.  319  dell'ed.  cit.,  tomo  I.  2.  Solino  .  • .  India  : 
ambedue  le  citazioni  da  Plinio,  loc.  cit.,  p.  319,  nota  25.  3.  onde  savia- 
mente .  .  .  disseminatimi  est  :  ibi d.  («  questa  piccolissima  stirpe  umana,  sic- 
come soglion  diffondersi  le  favole,  è  sparsa  su  tutta  la  terra»).  4.  «.Dari 
tamen  .  . .  exerescunt »:  ibid.;  è  il  seguito  della  citazione  che  precede  («Ma 
che  ci  siano  interi  popoli  di  nani  è  tanto  falso  quanto  ogn*  altra  cosa  più 
falsa.  Causa  della  corta  statura  sono  il  caldo  e  il  freddo  intenso,  sebbene 
in  modo  diverso.  Né  tuttavia  ciò  accade  per  ogni  prole.  Gli  Etiopi  in  maggior 
parte  son  di  alta  statura,  ma  quelli  di  essi  che  son  piccoli  non  sono  però 
Pigmei,  cioè  dell'altezza  di  un  cubito,  ma  crescono  almeno  fino  a  tre 
cubiti»). 


1024  L'APE   INGEGNOSA 

non  dubbitarono  nelle  parti  settentrionali  abitare  nelle  spclonghe 
gli  Arìmaspi,  «uno  oculo  in  fronte  media  insignes»,  come  dice 
Plinio,  lib,  7,  e.  2,1  li  quali  combattono  co*  grifi  per  avidità  di  torgli 
Toro,  che  questi  raccolgono  dalle  miniere,  È  vero  che  se  bene  Ero- 
doto nel  lib.  3  e  42  allegando  Aristea  Proconnesio  ciò  rapporti,  egli 
però  non  ci  presta  credenza;  sicome  altri  avvertirono  che  si  disse 
avere  un  occhio  per  essere  valenti  saggittari,  i  quali  per  colpire  al 
segno  chiudevano  l'altro,  e  per  ciò  creduti  d'averne  un  solo.  Lo 
stesso  potrebbe  dirsi  di  que'  che  si  narra  esser  senza  capo  ed  avere 
gli  occhi  nel  petto,  sicome  nell'Etiopia  e  nella  Scizia  alcuni  scrit- 
tori rapportano:  poiché  questi  non  è  che  veramente  non  avesser 
capo  ed  avesser  gli  occhi  nel  petto  ;  ma  sembra  cosi  per  la  brevità 
del  collo  e  per  l'elevatezza  degli  omeri,  sicome  saviamente  avvertì 
Ugon  Grozio  nel  lib.  IV  Hìst.  de  reb.  beìg^  pag.  230,3  dicendo: 
«Quod  certiore  testimonio  firmatur,  capite  truncos  homines,  qui 
vultus  in  pectore  gerant,  esse,  aut  colli  brevitate  erectisque  humc- 
ris  tales  videri,  haud  pertinaciter  refellam:  satis  gnarus,  ut  alibi 
ignium  intemperie,  ita  vi  frigoris  nimia  peccare  naturam».  Ch'è 
la  ragion  fisica  e  naturale  e  la  più  vera  di  quella  metafisica  che  im- 
maginò S.  Agostino,  dicendo  che  sicome  in  ciascheduna  società 
d'uomini  s'osservano  alcuni  mostruosi,  così  nell'universo  genere 
umano  vi  siano  «quaedam  monstra  gentium».4  Plinio  gli  reputa 
scherzi  e  giochi  dell'ingegnosa  natura,  dicendo  nel  lib.  7,  e.  2: 
«  Haec  atque  talia  ex  hominum  genere  ludibria  «ibi,  nobis  miracula, 
ingeniosa  fecit  natura».5 

Ma  che  diremo  di  quella  razza  d'uomini  che  han  testa  di  cane, 
vestono  di  pelli  ferine,  non  hanno  umana  voce,  ma  sol  latrano  come 
cani,  ed  armati  d'ugne  come  bestie  rapaci  si  procaceiono  il  vitto 
delle  carni  degli  uccelli  e  delle  fiere?  Di  questi,  oltre  Plinio,  loc. 

1.  Plinio,  Uh.  7y  e.  2:  sect.  n,  p.  370  dcll'ed.  oit.,  tomo  1  («famosi  per  un 
solo  occhio  in  mezzo  alla  fronte»),  a.  Erodoto,  ni,  116  e  iv,  13:  In  cita- 
zione dal  luogo  cit.  di  Plinio,  p.  370,  nota  14.  3.  Ilistoriae  de  rebus  bet- 
gicis,  in  H.  Grotti  Annales  et  Historiae  de  rebus  belgicìs,  Amstolaedami 
1658,  p.  338;  si  legga  aut  esse  («Ciò  che  viene  affermato  con  pìix  sicura 
testimonianza,  di  uomini  mutili  del  capo  che  hanno  gli  occhi  nel  petto, 
che  vi  siano  realmente,  o  che  sembrino  tali  perché  hanno  il  collo  corto  e 
le  spalle  elevate,  non  lo  rifiuterei  ostinatamente,  ben  sapendo  che,  come 
altrove  per  eccesso  di  calori,  cosi  la  natura  pecca  per  straordinaria  forza 
del  freddo»).  4-  «  quaedam  monstra  gentium»:  nel  De  civ.  Dei,  xvi,  vili, 
citato  in  Plinio,  ed.  cit,  tomo  1,  lib.  vw,  cap.  ir,  sect.  ir,  p,  374,  nota  19. 
5.  Plinio  .  .  .  natura:  ibid.,  p.  374. 


OSSERVAZIONE  V  IO25 

cit.,  Gellio,  lib.  9,  cap.  4,1  e  Solino,  cap.  52,  ci  rende  anche  testi- 
monianza S.  Agostino,  lib.  16  De  civ.  Dei,  cap.  8,  ciò  che  Lo- 
dovico Vives2  in  questo  luogo  conferma  con  altri  autori  ;  ed  i  mo- 
derni seri  e  gravi  scrittori  affermano  presso  i  Tartari  essere  alla 
faccia  ed  a*  costumi  simile  gente,  sicome  rapportano  il  Maiolo, 
Colloq.  2,  e  Nierembergio,3  lib.  8  Hist.  nat.,  cap.  1.  Che  diremo 
de'  simili  veduti  nell'Etiopia,  i  quali,  secondo  Plinio,  lib.  6,  e.  30,4 
e  Solino  non  hanno  uso  di  sermone,  ma  co'  cenni  e  moti  de'  mem- 
bri s'intendono  fra  loro  ?  Pietro  Martire5  narra  di  consimili  uomini 
i  quali  non  han  sermone,  ma  s'intendono  a'  gesti,  essersene  trovati 
molti  nell'interiori  parti  dell'Indie  Occidentali,  e  spezialmente 
nell'isola  chiamata  Ispaniola.  Ciocché  diede  molto  che  fare  a'  teo- 
logi spagnoli,  se  se  gli  dovesse  dar  battesimo,  alcuni  riputandogli 
idonei,  stimandogli  uomini,  altri  incapaci,  non  distinguendogli  da' 
bruti.  E  certamente  se  si  farà  paragone  tra  questi  colle  volpi,  cani, 
scimie  ed  elefanti,  si  troverà  maggior  convenienza  fra  di  loro,  che 
con  gli  uomini  stessi.  Tralascio  gli  uomini  e  le  donne  marine,  le 
quali  rese  familiari  avendo  appreso  l'arte  del  filare,  han  posto  in 
dubbio  a  qual  classe  dovessero  riporsi,  di  che  l'istorie  d'OUanda 
ci  somministrano  molti  essempi. 

Accrescono  la  difficoltà  i  parti  semiferi,  nati  dall'accoppiamento 
dell'uomo  colle  bestie.  Le  antiche  e  moderne  relazioni  in  ciò  con- 
cordano. Plinio  per  autorità  d'Artemidoro  afferma  che  alcuni  po- 
poli dell'India  si  mescolano  colle  femmine  d'altro  genere,  e  ne 
nascano  parti  semiferi:  «Duris»  e'  dice  nel  lib.  7,  e.  2  «Indorum 
quosdam  cum  feris  coire,  mixtosque  et  semiferos  esse  partus  ».6  E 

1.  Gellio,  lib.  9,  cap.  4:  citato  in  Plinio,  loc.  cit.,  p.  370,  nota  17,  come  pure 
Solino,  p.  371,  nota  2  (ma  capitolo  15,  e  non  52),  e  Agostino,  p.  370,  nota  17. 

2.  Lodovico  Vives:  si  riferisce  al  già  citato  commento  al  De  civitate  Dei 
edito  e  curato  dal  Vives  nel  1522:  cfr.  la  nota  1  a  p.  884.  La  citazione  da 
Plinio,  ed.  cit.,  tomo  1,  lib.  vi,  cap.  xxx,  sect.  xxxv,  p.  345,  nota  20.  3.  Ma- 
iolo  .  .  .  Nierembergio  :  si  tratta  rispettivamente  del  fisico  astigiano  Simone 
Maiolo  (nato  nel  1520  circa),  autore  dei  Dies  caniculares,  hoc  est  colloquia 
tria  et  viginti  physica  nova  et  penitus  admiranda  .  .  .,  Muguntiae  1607  (Co- 
loniae  1608),  e  di  Juan  Eusebio  Nieremberg  (1590-1658),  gesuita  e  teologo 
spagnolo,  autore  di  Historia  naturae,  maxime  peregrinae,  hbris  XVI  di- 
stincta  .  .  .,  Antverpiae  1635;  ambedue  citati  in  Plinio,  ed.  cit.,  tomo  1, 
lib.  vii,  cap.  il,  sect.  il,  p.  372,  nota  20.  4.  Plinio,  lib.  6,  e.  30  :  sect.  xxxv, 
ed.  cit.,  tomo  1,  p.  345  e  nota  20.  5.  Pietro  Martire  d'Anghiera  (1449- 
1526),  storico  e  geografo,  autore  della  Decades  de  orbe  novo  fra  il  1511  e  il 
1530.  Da  Plinio,  loc.  cit.,  p.  345,  nota  20.  6.  «Duris  .  .  .partus»:  loc.  cit., 
sect.  il,  ed.  cit.,  tomo  1,  p.  374. 

65 


I02Ó  L'APE    INGEGNOSA 

che  lo  stesso  accada,  in  questi  congiungimenti  umani  colle  bestie, 
che  tra  le  fiere  stesse,  ancorché  di  diverso  genere,  pur  che  fra  esse 
vi  sia  qualche  somiglianza  ed  analogia.  Non  è  dubbio  che  l'Affrica 
sia  ferace  di  tali  parti  anfibi  ;  poiché,  sicome  altrove  saviamente  os- 
servò lo  stesso  Plinio,1  in  que'  paesi  ove  le  pioggie  sono  rare, 
unendosi  insieme  ne*  fiumi,  ove  tutti  accorrono  per  estinguere  la 
lor  sete,  si  mescolano  insieme  il  liopardo  colla  lionessa,  e  così  gli 
altri  animali  terrestri,  fra*  quali  sia  analogia,  e  fecondono.  Lo  stesso 
si  osserva  ne'  volatili,  che  fra  loro  han  qualche  somiglianza,  sicome 
a  punto  arriva  fra'  cani  e  lupi,  asini  con  giumente,  cavalli  con  asine, 
e  da'  promiscui  congiungimenti  di  tori  con  giumente,  e  di  cavalli 
con  vacche  lo  stesso  accadere.  Sono  più  autori,  anche  de5  moderni, 
i  quali  rendono  testimonianza  che  sovente  gli  scimioni  mescolati 
colle  nostre  donne  l'han  lasciate  gravide  e  nati  parti  vitali;  anche 
de*  rustici  e  pastori  di  greggi  con  capre  e  pecore  dalle  quali  sono 
nati  parti  semiferi.  Il  nostro  Gio.  Battista  della  Porta-4  rapporta 
molti  casi  seguiti  di  simili  parli;  nel  che  veramente  come  d'un 
punto  molto  importante  dovrebbero  le  di  loro  relazioni  commet- 
tersi ad  un  più  esatto  e  rigoroso  esame,  e  per  mezzo  di  più  ed 
accurate  esperienze  assicurarsi  del  vero.  Che  diremo  di  tutti 
questi  con  que'  selvaggi  di  sopra  rammentati,  dove  gli  riporremo: 
nella  classe  degli  uomini,  ovvero  de'  bruti?  Certamente  che  se  si 
farà  paragone  tra  questi  e  que'  nobili  spiriti  i  quali  colle  invenzioni 
di  tante  utili  arti  han  sollevato  l'uman  genere  e  trattolo  dalla  vita 
ferale  e  selvaggia,  o  pure  con  quo*  sublimi  ingegni  di  tanti  egregi 
e  rinomati  filosofi,  si  troverà  essere  maggior  distanza  fra  loro,  che 
non  è  fra'  medesimi  colle  volpi,  cani,  elefanti,  ed  altri  industriosi 
animali.  Sicome  intercede  minor  distanza  tra  questi  con  quo' 
uomini  selvaggi,  che  non  è  colle  conche  marine  affisse  a'  scogli,  a' 
sassi  indifferenti,  o  pure  alle  spogne  ed  ortiche  marine,  ed  altri 
viventi  che  gitta  il  mare  a'  lidi,  de'  quali,  come  s'è  detto,  ancor  si 
dubbita  se  debbano  ascriversi  a'  sensitivi  ovvero  a*  vegetabili. 

Cotanto  è  difficile  porre  giusti  confini  fra  tanti  generi  de'  viven- 
ti; e  non  minor  difficoltà  s'incontra  di  porgli  fra  questi  più  tosto 
mostri  d'uomini,  con  i  perfetti,  puri  ed  ingenui.  Molta  riflessione, 

i.  sicome . . .  Plinio:  ed.  cit.,  tomo  i,  lib.  viti,  cap.  xvi,  scct  xvit,  p.  443. 
2.  Gio.  Battista  della  Porta  (1535-1615),  scienziato  e  drammaturgo  napo- 
letano :  cfr.  Dei  miracoli  et  maraviglisi  effetti  dalla  natura  prodotti  libri 
IV . . .,  Torino  1582,  lib.  11,  cap.  xxxin,  pp.  85  sgg. 


OSSERVAZIONE  X  1027 

molto  accorgimento  e  laborioso  ed  esatto  scrutinio  ricerca  que- 
st'indagine, e  sopra  tutto  lunga  e  reiterata  esperienza,  operose 
pruove  ed  infiniti  esperimenti,  per  venirne  a  capo.  A  ragione  adun- 
que e  con  molta  sapienza  S.  Agostino  nel  cit.  cap.  8  del  libro  16 
De  civ.  Dei1  scrisse  esser  cosa  molto  difficile  e  doversi  in  ciò  cauta- 
mente procedere,  conchiudendo:  «Quapropter  ut  istam  quaestio- 
nem  pedetentim,  cauteque  concludam  :  aut  illa  quae  talia  de  quibus- 
dam  gentibus  scripta  sunt,  omnino  nulla  sunt;  aut  si  sunt,  homines 
non  sunt;  aut  ex  Adam  sunt,  si  homines  sunt». 


OSSERVAZIONE  X 

Che  la  religione  sia  propria  e  sola  dell'uomo,  la  quale,  quando 

non  sia  da  Dio  rivelata,  è  sempre  sottoposta  a  vari  errori 

ed  inganni. 

1.  La  vera  religione  non  essere  che  la  rivelata  da  Dio. 

Chiunque  fisamente  riguarderà  il  proprio  stato  dell'uomo,  la 
sua  fragilità  e  debolezza  e  che  non  sia  che  una  miserabilissima  parte 
dell'ampio  universo,  formato  non  già  per  aver  cognizione  di  tutte 
le  cose  che  in  lui  si  contengono,  ma  proveduto  d'intelletto  sol 
perché  potesse  soggettarsi  la  terra  e  quanto  in  lei  si  move,  nutre  e 
cresce,  facilmente  comprenderà  che  l'uomo  non  può  aver  vera 
religione,  se  non  sia  da  Dio  revelata;  poiché  se  a  noi  sono  ignote 
fino  le  cose  più  vicine  che  ci  circondano,  delle  quali  dovremmo  sa- 
perne la  sustanza,  e  non  arriviamo  a  concepirne  se  non  i  modi, 
l'apparenze  e  sol  quanto  a'  nostri  sensi  esterni  si  offerisce:  come 
possiamo  penetrare  nella  sommità  de'  cieli  e  sapere  la  divina  natura 
e  come  gli  piaccia  esser  dagli  uomini  adorato  ed  in  qual  maniera 
prestarsegli  religioso  culto,  se  non  per  alta  e  divina  sua  rivelazio- 
ne ?  Tutti  i  savi  ed  i  più  insigni  filosofi  della  gentilità  istessa  in  ciò 
convennero,  che  la  vera  religione  dee  unicamente  derivare  da  rive- 
lazione divina  e  per  ciò  i  più  grandi  e  sapienti  fondatori  di  regni  e 


1.  De  civ.  Dei:  da  Plinio,  ed.  cit.,  p.  374,  nota  19,  donde  è  tratta  la  citazione 
che  segue  («Laonde,  per  concludere  la  questione  con  precauzione  e  cau- 
tela, dirò  che  tali  cose,  che  sono  state  scritte  di  certe  genti,  non  esistono 
affatto,  o,  se  esistono,  non  si  tratta  di  uomini,  e,  se  si  tratta  di  uomini, 
provengono  da  Adamo  »)• 


1028  L'APE   INGEGNOSA 

di  republiche  si  studiarono  far  credere  a*  popoli  clic  quelle  leggi 
che  stabilivano  intorno  alla  religione  erano  state  ad  essi  rivelate  da' 
sommi  dii.  Cosi,  secondo  rapportano  Diodoro  Siciliano  e  Strabone, 
fecero  Mneve  presso  gli  Egizi  e  Licurgo  presso  i  Lacedemoni,  il 
quale,  sicome  scrisse  Giustino  nel  3.  libro,  fìnse  che  l'avesse  ap- 
prese da  Apolline;  parimente  Minos  ogni  nove  anni  una  volta  si 
ritirava  in  certa  spelonca,  ed  ivi  fermandosi  qualche  tempo  ne 
usciva  poi,  e  faceva  credere  al  popolo  di  Creta  che  avea  trattato 
con  Giove,  dal  quale  avea  ricevute  le  leggi  da  dover  osservare  in 
quel  regno,  sicome  rapporta  Valerio  Massimo,  lib.  1,  cap.  3:  «Mi- 
nos, »  e*  dice  «  Cretensium  rex,  nono  quoque  anno  in  quod[d]am 
praealtum  et  vetusta  religione  consecratum  specus  secedere  solebat 
et  in  eo  commoratus,  tanquam  a  love,  quo  se  ortum  ferebat,  tra- 
ditas  sibi  leges  praerogabat».  Lo  stesso  fecero  Solone  presso  gli 
Ateniesi  ;  Zeleuco,  Zamolci  ed  altri  capi  e  direttori  di  popoli  rozzi 
ed  incolti.  Livio  anche  rapporta  che  Numa  Pompilio  usò  co'  Roma- 
ni la  stessa  industria,  dando  a  sentire  alla  credula  multitudine 
ch'egli  avea  notturni  colloqui  colla  dea  Egeria  dalla  quale  appren- 
deva le  leggi,  i  riti  e  le  religiose  cerimonie,  le  quali  a'  dii  piacessero 
e  fossero  lor  grate  ed  accette.1  Tanto  era  presso  i  savi  dell'antichità 
certo  e  costante  che  la  religione  dee  da  revelazione  divina,  non  già 
per  naturai  umano  istinto,  procedere  e  derivare. 

Rimaneva  solo  all'uomo  saggio  ed  accorto  di  esaminare  e  far 
esatto  scrutinio  per  conoscere  e  separare  il  vero  dall'impostura: 
quali  uomini  avessero  veramente  avuto  commercio  e  conversazio- 
ne co*  dii,  e  quali  se  l'avesser  finta  per  accorta  politica,  scorgendo 
non  esservi  cosa  più  efficace  di  contenere  la  multitudine  in  discipli- 
na che  la  forza  della  religione,  affinché  le  loro  leggi,  avute  per  divi- 
ne, fossero  da'  popoli  con  riverenza  ricevute  e  con  prontezza  ubi- 
dite. Gli  antichi  savi  e  que'  medesimi  scrittori  che  rapportano  le 
già  riferite  vantate  rcvelazioni,  conobbero  che  ciò  fosse  un  sottile 
artificio;  e  Livio  apertamente  scrisse  che  Numa  ciò  facesse  per 

1 .  Tutti  i  savi . .  .  accette  :  l'intero  brano  è  riportato  quasi  alla  lettera 
dall'Istoria  del  pontificato  di  Gregorio  Magno,  libro  iv,  cap,  ultimo:  cfr.  qui, 
p.  943  e  le  note  ivi.  Cfr.  inoltre,  per  il  riferimento  a  Diodoro  su  Licurgo, 
Bibl.  hist.y  vii,  xiv.  Il  tema  dei  legislatori  è  tipico  nella  cultura  della  «crisi 
della  coscienza  europea».  Zeleuco:  Zaleuco,  antichissimo  legislatore  greco 
di  Locri  Epizefìri,  autore  della  più  antica  legislazione  scritta  in  greco, 
risalente  al  VII  secolo  a.  C.  Zamolci'.  Zamolxi,  divinità  0  eroe  degli  antichi 
Geti.  La  leggenda  vuole  che  sia  stato  schiavo  di  Pitagora. 


OSSERVAZIONE   X  1020, 

ingannare  la  credula  multitudine,  essendosi  dalla  gente  savia  ed 
accorta  ben  compresa  l'industriosa  impostura.  Erano  gli  antichi 
savi  persuasi  che  gli  uomini  non  potevano  avere  alcun  commercio 
co*  dii,  la  cui  abitazione  era  ne'  cieli,  e  quella  degli  uomini  nella 
terra,  e  che  intercedevan  fra  di  loro  ampi  spazi  ed  un'immensa 
distanza.  Ed  è  notabile  ciò  che  si  legge  presso  Daniele,  e.  2,  dove 
que'  savi  0  sian  maghi  della  corte  di  Nabucodònosor  re  di  Babilo- 
nia, rispondendo  tutto  tremanti  a  quel  pazzo  re,  che  pretendeva 
sapere  da'  medesimi  non  pur  l'interpretazione,  ma  il  sonno  stesso 
del  quale  s'era  dimenticato,  gli  dissero  che  solo  i  dii  potevano 
saperlo,  co'  quali  essi  come  uomini  non  ci  aveano  conversatione 
alcuna:  «  Non  est  homo»  dicevano  «super  terram,  qui  sermonem 
tuum,  rex,  possit  implere:  sed  neque  regum  quisquam  magnus  et 
potens  verbum  huiusmodi  sciscitatur  ab  omni  ariolo  et  mago  et 
chaldeo.  Sermo  enim  quem  quaeris,  rex,  gravis  est:  nec  reperietur 
quisquam,  qui  indicet  illum  in  conspectu  regis  :  exceptis  diis,  quorum 
non  est  cum  hominibus  conversatio  ».*  L'uomo  per  sé  non  puoi  avere 
commercio  alcuno  con  Dio;  ma  dipende  dalla  sola  divina  bontà 
se  gli  piaccia  communicar  egli  coll'uomo,  o  per  se  stesso  o  per 
mezzo  delle  altre  sue  creature.  E  la  pruova  più  certa  ed  evidente 
quando  ciò  siegua,  non  può  l'uomo  dedurla  se  non  da  questi  due 
principali  fonti:  da'  miracoli  evidenti,  che  superano  e  mutano  il 
naturai  corso  delle  cose,  ciò  che  da  Dio  solo  può  farsi,  come  l'unico 
fabro  della  natura;  e  dalle  profezie,  che  sono  narrazioni  di  avveni- 
menti futuri,  sicome  l'istoria  è  de'  passati:  cioché  pure  da  Dio  solo 
può  sperarsi,  a  cui  è  presente  non  meno  il  passato  che  il  futuro. 
Queste  due  marche  qualificarono  prima  per  vera  la  religione  giu- 
daica, e  qualificano  oggi  per  certa  la  cristiana-,  poiché  il  commercio 
ch'ebbe  Iddio  con  gli  antichi  patriarchi,  con  Abramo,  Isac,  Gia- 
cobbe, Mosè  e  con  gli  altri  profeti  fu  autenticato  e  reso  certo  da 
patenti  e  stupendi  miracoli  e  da  manifeste  profezie  avverate  tutte 
dagli  avvenimenti  seguiti  doppo  il  corso  di  molti  e  molti  anni.  E 
queste  due  marche  maggiormente  rilussero  nella  religione  cristiana  ; 
poiché  nel  Vecchio  Testamento  Iddio  communicò  con  gli  Ebrei 
per  mezzo  de'  profeti;  ma  nel  Nuovo  per  se  stesso,  mandando  in 
terra  l'unico  suo  figliuolo,  vero  Dio,  ad  assumer  carne  umana,  con 
farlo  mediatore  tra  il  cielo  e  la  terra,  e  rivelare  a  gli  uomini  quella 

1.  Ed  è  notabile  . .  .  conversatio  \  cfr.  Dan.,  2,  i-n. 


IO30  L'APE    INGEGNOSA 

religione  che  doveano  tenere  per  far  acquisto  del  regno  celeste.  La 
qual  missione  fu  resa  manifesta  e  confermata  da  maggiori  e  più 
stupendi  miracoli,  che  non  si  leggono  nella  religione  ebraica,  la 
quale  poche  resurezioni  di  morti  può  vantare;  ma  la  cristiana  ne 
conta  moltissime;  sicome  le  profezie  avverate  che  si  leggono  nel 
Nuovo  Testamento  sono  più  chiare  e  manifeste  di  quelle  degli 
Ebrei.  E  da  queste  due  note  che  sono  le  più  efficaci  e  distinte  si 
traggono  le  pruove  più  forti  ed  evidenti  della  divinità  de'  libri 
non  meno  del  Nuovo  che  dell'Antico  Testamento,  le  quali  al  con- 
fronto della  gentile  la  dimostrano  vana,  falsa  e  buggiarda. 

La  gentile  vantava  pure  miracoli  e  profezie.  Vantava  molti 
miracoli,  de'  quali  sono  piene  le  istorie  profane,  spezialmente  le 
greche,  e  le  latine  ancora,  come  è  manifesto  presso  Cicerone,  Livio, 
Valerio  Massimo,  Tacito,  e  di  chi  no?  Anzi  i  Greci  si  avanzarono 
fino  di  far  risuscitare  i  morti  a*  loro  dii.  Vantava  anche  profezie, 
oracoli,  Pizie  ed  indovini;  ma  al  confronto  colla  giudaica  e  cristiana 
svaniscono  e  sono  i  miracoli  convinti  per  favolosi,  fantastichi,  ed 
illusioni;  e  le  profezie  per  sottili  artifici,  inganni  e  furberie  de'  loro 
indovini.  Egli  è  vero  che  la  strada  che  presero  gli  antichi  Padri  e 
la  maniera  che  tennero  in  confutar  i  miracoli  e  le  profezie  de* 
gentili  non  è  molto  sicura  e  propria;  poich'essi  per  uscir  d'impaccio 
ricorsero  all'unica  àncora  de'  prestigi  di  demòni,  a'  quali  diedero 
quel  potere  che  non  hanno,  cioè  d'immutar  il  corso  della  natura, 
dove  consiste  il  vero  miracolo  ch'è  solo  di  Dio  che  ne  fu  il  fabro, 
non  già  de'  demòni  e  degli  angeli  stessi  ;  e  di  sapere  gli  avvenimenti 
futuri,  ciocché  è  pure  al  solo  Dio  riserbato.  A  ciò  si  aggiunga  che  i 
savi  gentili  filosofi  in  tutto  l'ampio  universo  non  ci  ravvisavano  de- 
mòni, e  si  burlavano  de'  geni,  spettri,  spiriti  ed  ombre,  che  le 
lasciavano  alla  credulità  del  volgo  semplice  ed  ignorante  e  a  gli 
ardiù  e  favolosi  poeti;  ed  in  ciò  erano  di  conforme  sentimento  co' 
sadducei,  i  quali,  come  si  è  detto,  negavano  i  demòni,  gli  angeli 
e  qualunque  spirito.  Altri,  fra  quali  Plinio  il  Vecchio,  immaginan- 
dosi la  natura  essere  il  solo  nume,  e  facendola  provida,  sapiente 
ed  onnipotente  nelle  sue  sorprendenti  e  maravigliose  opere,  non  ci 
fa  avere  parte  alcuna  a'  demòni,  che  non  li  riconosce  affatto  nel- 
l'universalità del  mondo:  ascrivendo  fino  il  profetare  alla  natura, 
e  che  intanto  le  Pizie  e  gli  altri  indovini  davano  i  loro  oracoli  e 
risposte  nelle  spelonghc,  grotte  ed  altri  certi  luoghi  sotterranei, 
perché  da  quelli  uscivano  esalazioni  tali  che  gli  rendevan  abili  a 


OSSERVAZIONE   X  103  I 

vaticinare,  né  ci  chiamavano  i  demòni  o  loro  dii;  e  Plinio  n'era 
così  persuaso  che  non  ebbe  difficoltà  di  dire  nel  lib.  2,  cap.  93: 
«  Alibi  fatidici  specus,  quorum  exalatione  temulenti  futura  praeci- 
nunt,  ut  Delphis,  nobilissimo  oraculo.  Quibus  in  rebus  quid  possit 
aliud  causae  afferre  mortalium  quispiam,  quam  diffusae  per  omne 
naturae  subinde  aliter  atque  aliter  numen  erumpens?».1  Donde 
nacque  la  vana  credenza  di  molti,  in  tempi  più  culti  e  dotti  della 
romana  republica,  quando  la  filosofìa  gli  fece  aprir  gli  occhi  in  mol- 
te cose,  che  vedendo  cessare  in  Delfo  ed  altrove  gli  oracoli,  ed 
ammutire  le  Pizie,  credettero  che  ciò  fosse  avvenuto  perché,  sicome 
vediamo  che  colla  lunghezza  del  tempo  si  fanno  gran  mutazioni 
nelle  cose  naturali,  alcune  terre  non  essendo  così  feconde  come 
prima,  seccarsi  i  fonti  che  prima  erano  abbondanti  e  cose  simili: 
così  esser  avvenuto  in  quelli  spechi  e  grotte,  dove  mancando  per 
la  lunghezza  del  tempo  quelle  esalazioni,  non  potevano  le  Pizie  e 
gl'indovini  render  più  oracoli  e  risposte.  Cicerone  nel  lib.  1  De 
divinatione,  introducendo  Quinto  suo  fratello  a  parlare  del  ces- 
samento  dell'oracolo  di  Delfo,  fa  che  apporti  questa  cagione,  di- 
cendo :  «  Potest  autem  vis  Illa  terrae,  quae  mentem  Pythiae  divino 
afflatu  concitabat,  evanuisse  vetustate,  ut  quosdam  exaruisse 
amnes,  aut  in  alium  cursum  contortos  et  deflexos  videmus».*  La 
medesima  cagione  fa  Plutarco  nel  dialogo  De  defectu  oraculorum 
rapportare  a  Lampridio,  uno  degl'interlocutori  di  quel  dialogo.3 
Ma  i  gravi  e  seri  filosofi,  fra'  quali  certamente  fu  Cicerone,  deri- 
devano cagione  sì  puerile  ed  inetta,  della  quale  si  burla  lo  stesso 
Cicerone  nel  lib.  2  De  diviniti  come  se  gli  oracoli  avessero  la  stessa 
proprietà  del  vino,  de'  salsamenti  o  di  altra  simil  cosa  che  col  tempo 
svanisce  e  perde  il  suo  vigore:  «Evanuisse  aiunt»  e'  dice  «vetustate 
vim  loci  eius,  unde  anhelitus  ille  terrae  ficret,  quo  Pythia  mente 
incitata  oracula  ederet.  De  vino,  aut  salsamento  putes  loqui,  quae 


1.  e  Plinio  .  . .  erumpens?:  cfr.  Nat.  hist.,  ed.  cit.,  tomo  1,  loc.  cit.,  sect. 
xcv,  p.  116.  2.  Cicerone  .  .  .  videmus:  De  dw.,  1,  xrx,  38  («Quella  forza 
della  terra,  che  con  alito  divino  eccitava  la  mente  della  Pizia,  può  d'altron- 
de essere  svanita  per  invecchiamento,  allo  stesso  modo  che  vediamo  pro- 
sciugarsi certi  fiumi  o  piegare  e  volgere  in  altro  corso»).  La  citazione  di 
Cicerone  è  tratta  da  Plinio,  loc.  cit.,  p.  116,  nota  2,  e  da  G.  S.  Menochio, 
Stuore,  ed.  cit.,  tomo  ili,  cent,  x,  cap.  xc,  Della  causa  del  cessare  gli  oracoli 
de  gli  antichi,  p.  322.  3.  La  medesima  .  . .  dialogo:  uno  dei  personaggi  del 
dialogo  di  Plutarco  è  Lampna.  La  citazione  è  tratta  dal  Menochio,  loc.  cit., 
come  ancora  la  seguente  di  Cicerone,  De  div.,  11,  lvii,  117. 


lO^Z  L'APE    INGEGNOSA 

evancscunt  vetustate».  Oltre  le  fonti,  se  mancano  in  un  luogo, 
sorgono  in  un  altro,  ma  per  più  secoli  si  e  veduto  che  in  tutta  la 
superficie  della  terra  non  si  sono  scoverte  più  simili  antri  e  spelon- 
che. In  verità  gli  oracoli  non  è  che  cessarono,  perche  mai  vi  furo- 
no; e  non  erano  se  non  «  opinionum  commenta  quae  dies  delet».1 
Donde  si  convince  che  fin'a'  tempi  di  Cicerone,  anzi  molto  prima, 
cominciando  a  cessare  gli  oracoli,  fu,  se  ben  pia,  vana  quella  ca- 
gione che  i  Padri  antichi  assignarono,  essere  cessati  per  l'advento 
del  nostro  Redentore:  pie  magis,  quam  vere.  Non  cessarono  tutti 
in  un  colpo,  ma  in  vari  tempi  ed  in  vari  luoghi,  secondo  più  tosto 
o  più  tardi  gli  uomini  si  resero  meno  creduli. 

Que'  filosofi  fantastici  e  visionari,  i  quali  per  lo  più  erano  i 
platonici,  che  nell'universalità  della  natura  ammettevano  i  demòni 
ed  i  geni,  ne  assignavano  un'altra  graziosa  cagione,  dicendo  che  i 
geni,  o  siano  demòni,  ancorché  di  vita  lunghissima,  che  se  la  fin- 
gevano durare  fino  a  novemila  settecento  e  venti  anni,  con  tutto 
ciò  erano  pur  mortali;  del  quai  sentimento  fu  Cleombroto,  uno 
degli  interlocutori  di  quel  dialogo  di  Plutarco,  il  quale  narra  una 
fola  della  morte  di  Pan  accaduta  a'  tempi  deirimp.  Tiberio,3  con 
tante  altre  scipitezze,  che  presso  Plutarco  si  leggono.  Ma  i  seri  e 
profondi  filosofi  ed  i  più  gravi  scrittori,  ancorché  gentili,  tutte 
queste  fole  le  lasciavano  al  volgo,  da  raccontarsi 

stando  al  foco  a  filar  le  vecchiarelle^ 

Questi  non  si  andavano  lambiccando  il  cervello  in  andar  cercan- 
do cagioni  del  ecssamento  degli  oracoli,  perché  tennero  per  fermo 
che  nel  mondo  non  mai  vi  fossero  stati  oracoli,  e  che  mimo  potesse 
giammai  vantarsi  di  scuoprirc  il  futuro;  che  le  Pitie  e  gl'indovini 
furono  tanti  impostori,  i  quali  con  lunghi  giri  di  parole  tutte  invi- 
luppate ed  oscure  ingannavano  la  credula  moltitudine  cotanto 
curiosa  del  futuro  e  davano  le  risposte  in  maniera  intricata  affinché 


i.  «.opinionum . . .  delet»:  delet  e  nostra  congettura.  Nell'autografo  la  pa- 
rola si  legge  solo  parzialmente  («invenzioni  di  pregiudizi  che  il  tempo 
cancella»).  La  frase  e  comunque  di  Cicerone:  cfr.  De  fiat,  dcor.,  n,  n,  5: 
«  Opinionum  enim  commenta  delet  dies,  naturac  iudicia  conia rmat  ».  2.  del 
guai  sentimento  .  .  .  Tiberio:  Plutarco,  De  defectu  oraculorum,  17.  Cleom- 
broto è  con  Lampria  un  altro  personaggio  del  dialogo.  La  citazione  è  tratta 
dal  Menochio,  loc.  cit,  p.  322.  3.  È  probabile  si  tratti  del  verso  di  un 
petrarchista,  se  non  di  un  rimaneggiamento  giannoniano,  Cfr,  Petrarca, 
Mime,  xxxni,  5:  «levata  era  a  filar  la  vecchiarella ». 


OSSERVAZIONE   X  IO33 

seguito  l'evento  potessero  secondo  le  loro  interpretazioni  adattarlo 
all'oracolo,  poiché  prima  era  impossibile  intenderne  ciò  che  si 
volesse  dire.  Lo  stesso  Erodoto,  di  greca  istoria  padre,  ancorché 
s'ingegnasse  di  tesserla  secondo  il  genio  de'  fantastici  Greci,  con 
tutto  ciò  non  si  potè  contenere  di  scoprire  la  furberia  delle  Pitie, 
le  quali  sovente  prezzolate  vendevano  le  risposte  secondo  che  si 
accorgevano  dover  essere  più  grate  a'  compratori;1  e  Cicerone  nel 
lib.  2  De  divinai,  pur  le  deride;  e  Livio  gravissimo  scrittore,  nel- 
l'incomparabile sua  istoria  scuopre  sovente  l'imposture  e  gli  ac- 
corti modi  degl'indovini,  che  tenevano  per  ingannar  que'  sciocchi 
e  creduli  che  ricercavano  le  lor  risposte,  ed  il  fine  principale  di  tutti 
gli  oracoli  era  di  doversi  mandare  al  tempio  un  ricco  dono,  onde 
que'  santuari  si  resero  cotanto  ricchi  e  doviziosi.  Noi  nella  prima 
parte  de'  Discorsi  sopra  gli  Annali  di  Livio  abbiam  lungamente 
ragionato  della  lor  vanità  e  furberia,  a'  quali  rimettiamo  il  lettore, 
onde  la  più  sicura  maniera  di  convincer  la  vanità  degli  oracoli  è 
questa,  di  prender  le  arme  che  riescono  più  vigorose  e  forti  dagli 
stessi  autori  gentili  che  furon  riputati  i  più  seri  e  dotti,  i  quali 
l'ebbero  per  vani  e  fantastici  senza  ricorrere  a'  demòni,  che  non 
hanno  questa  virtù  di  predire  il  futuro  e  da'  filosofi  seri  e  profondi 
erano  negati  che  fossero  nell'ampio  universo.  Alcuni  de'  nostri 
Padri  antichi,  spezialmente  Lattanzio  Firmiano  nelle  sue  Divine 
inst.2,  e  S.  Agostino  anche  ne'  suoi  libri  della  Città  di  Dio,3  se 
bene  questi  con  più  moderazione,  si  valsero  delle  Pizie  ed  oracoli, 
credendo  per  li  medesimi  convincere  i  gentili,  deducendone  pro- 
fezie che  adattavano  al  Verbo  come  il  vero  messia,  il  quale  fin 
dalle  Sibille  fosse  stato  vaticinato;  ma  altri  Padri  più  gravi  e  seri 
rifiutarono  pruove  si  deboli  ed  indegne  d'un  sincero  e  dotto  cristia- 
no, che  non  ha  bisogno  di  appigliarsi  a  queste  tele  di  ragni.  Del  ri- 
manente la  vera  cagione  perché  in  que'  secoli  più  culti  ed  illumi- 
nati cessassero  gli  oracoli  fu  che,  presso  i  Romani,  ancorché  tardi, 
penetrò  in  fine  una  solida  filosofia,  la  quale  gli  fece  ravveduti  e  più 
accorti  ed  idonei  a  capirne  gl'inganni  e  le  frodi.  Quanto  più  s'inol- 


1.  Lo  stesso  . . .  compratori:  cfr.  Erodoto,  v,  63  e  90;  vi,  66  e  75.  2.  Divi- 
narum  institutionum,  lib.  1,  De  falsa  religione  deorum,  cap.  vi,  De  divinis 
testimonio  et  de  Sìbyllis  et  earum  carminibus,  in  Mignc,  P.  L.,  vi,  colL  138 
sgg-  3-  De  civ.  Dei,  lib.  xviu,  cap.  xxm,  De  Sibylla  Èrythraea,  quae  inter 
alias  Sibyllas  cognoscitur  de  Chnsto  evidentia  multa  cecinìsse7  in  Migne, 
P.  L.,  xli,  coli.  379-81. 


1034  L'APE    INGEGNOSA 

travano  nella  conoscenza  d'una  solida  filosofia,  tanto  meno  oracoli 
si  ascoltavano;  onde  i  scrittori  del  secolo  di  Augusto,  di  Tiberio, 
di  Traiano  e  degli  altri  seguenti  imperadori  fino  a  Costantino  M., 
sempre  più  ne  ammiravano  il  cessamento  e  n'andavano  fantasti- 
cando la  cagione.  Strabone  nel  hb.  9  della  sua  Geografia  dice: 
«Hodie  profecto  in  summa  mendicitate  delphicum  oraculum  est»;1 
e  Giovenale  nella  satira  6  afferma  a'  suoi  tempi  esser  cessata  affat- 
to :  «...  Cessant  oracula  Delphis  ».2  E  Porfirio  in  tutti  i  luoghi,  non 
pur  in  Delfo,  le  Pizie  ed  Apollo  essere  spante,  come  dice  nel  libro 
De  responsis: 

Ablata  est  Pythìi  vox  hand  revocabilìs  itili 
temporibus  longìs;  etenim  iam  cessit  Apollo: 
clavibus  occlusus  silet.3 

Ed  è  da  notare  che  tutti  que'  luoghi  della  Grecia  e  dell'Asia, 
ove  furono  i  più  famosi  tempii  o  spelonghe,  dove  credeasi  Apollo 
dar  gli  oracoli  a'  creduli  suoi  devoti,  sono  da  lungo  tempo  passati 
sotto  gl'imperadori  ottomani,  nel  cui  imperio  dominando  la  reli- 
gione maomettana,  aversa  e  nimica  della  gentile,  non  vi  e  rimaso 
alcun  vestigio  di  que'  si  venerati  e  celebri  santuari  e  si  ò  affatto 
perduta  e  cancellata  ogni  lor  memoria.  Tanto  è  vero  quel  savio 
detto  di  Cicerone,  che  tutto  ciò  che  deriva  dalle  opinioni  degli 
uomini,  il  tempo  finalmente  lo  abbolisce  e  cancella;  ma  i  giudici 
della  natura  ed  il  suo  fermo  e  costante  tenore  ò  sempre  lo  stesso 
e  dal  tempo  maggiormente  sono  confermati.4  Una  solida  e  vera 
filosofia  fa  sparire  tutte  queste  larve.  Chiarissimo  documento  è 
quello  che  l'istoria  romana,  spezialmente  quella  di  Livio,  ci  som- 
ministra del  costume  che  gli  antichi  Romani  aveano  di  denunciare 
ogni  anno  i  prodigi  ed  i  portenti  e  riferirgli  ne'  loro  annali,  creden- 
dogli segni  d'ira  de'  loro  dii,  e  per  ciò  erano  tutti  solleciti  di  pro- 
curarne l'espiazione  con  sacrifici,  supplicazioni  ed  altri  loro  religio- 


i.  Strabone  .  . .  est:  cfr.  Geogr.,  ix,  in,  8  («Senza  dubbio  l'oracolo  di  Delfi 
è  oggi  nella  più  grande  miseria»).  Ancora  dal  Menochio,  loc.  cìt,  p.  321, 
come  anche  le  citazioni  che  seguono  di  Giovenale  e  Porfirio.  2.  Giovena- 
le .. .  Delphis:  cfr.  Sat.,  vi,  555:  «...  Delphis  oracula  cessant».  3.  Que- 
sti versi  di  Porfirio  di  Tiro  (vedi  la  nota  1  a  p.  453),  citati,  come  s'è  detto, 
dal  Menochio,  appartengono  a  un  frammento,  conservato  da  Eusebio  di 
Cesarea  nella  Praeparatio  evangelica,  v,  16,  1,  dell'opera  intitolata  De  philo- 
sophia  ex  oraculis  haurienda  (lib.  n,  vv.  296-9  del  testo  greco,  ed.  WoMI 
1856).    4.  Tanto  è  vero  . . .  confermati:  cfr.  la  nota  1  a  p,  1032. 


OSSERVAZIONE   X  IO35 

si  riti,  affinché  placati  gli  scampassero  da'  mali  che  l'erano  per  que' 
portenti,  secondo  il  lor  credere,  minacciati.  Ma  dapoi  nel  dotto 
secolo  di  Augusto,  resi  accorti  che  que'  portenti  non  erano  ch'ef- 
fetti naturali  e  che  la  fisica  ed  una  esatta  conoscenza  delle  meteore  e 
delle  cose  naturali  poteva  ben  assignarne  le  cagioni,  non  le  ripu- 
tarono più  segni  d'ira  celeste,  onde  si  tolse  il  costume  di  denun- 
ciargli e  di  notargli  ne'  loro  annali  e  procurarne  più  espiazione  con 
sacrifici  e  supplicazioni.  Tanto  vero  che  Livio,  ne'  suoi  primi  libri, 
seguendo  gli  antichi  annali  che  li  riportavano,  non  tralascia  di  ri- 
ferirgli anche  ne'  suoi,  di  che  ne  fu  ripreso  da'  suoi  amici,  dicendo- 
gli che  scrivendo  egli  la  sua  istoria  negli  illuminati  tempi  di  Au- 
gusto, ne'  quali  i  prodigi  non  si  imputavano  più  a  cose  di  religione, 
ma  a  cagioni  naturali,  non  dovea  inserirgli  ne'  suoi.  Egli  se  ne  scusa 
dicendo  al  lib.  3  della  v  deca  che  se  gli  antichi  annali  gli  rapporta- 
vano, non  avea  riputato  improprio  che  se  que'  «  prudentissimi  viri 
publice  suscipienda  censuerint,  ea  prò  dignis  habere,  quae  in  meos 
annales  referam».1  Ed  in  effetto  negli  Annali  di  Tacito,  che  pos- 
siamo avergli  come  una  continuazione  di  quelli  di  Livio,  non  si 
rapportano  prodigi  e  portenti  se  non  rarissime  volte,  e  questo 
savio  scrittore  que'  pochi  non  l'ascrive  ad  ira  de'  dii,  ma  a  cagioni 
fisiche  e  naturali,  sicome  prima  di  lui  fecero  Seneca,  Plinio  il 
Vecchio  e  tutti  gli  altri  seri  e  gravi  romani  scrittori.  Così  pure  av- 
venne del  cessamento  degli  oracoli,  non  già  perché  nelle  spelonghe 
mancarono  le  profetiche  esalazioni,  né  perché  l'oracoli  fossero 
mortali,  ma  perché  una  solida  filosofia  tolse  le  tenebre  ed  il  fascino 
dalle  menti  umane  e  scoprì  gl'inganni  e  le  frodi  al  volgo  credulo 
ed  ignaro;  donde  si  convince  che  la  religione  gentile,  per  confes- 
sione degli  stessi  profani  scrittori,  i  più  dotti  e  sublimi,  non  ebbe 
vera  profezia. 

Lo  stesso  da'  medesimi  scrittori  si  convince  per  ciò  che  riguarda 
i  loro  vantati  miracoli,  senza  ricorrere  a'  demòni:  essi  deridono  la 
semplicità  e  credulità  della  moltitudine,  e  Livio  sovente  li  qualifica 
e  gli  chiama  «aurium  et  oculorum  ludibria»,2  sicome  fa  narrando 
il  miracolo  di  quella  statua  di  Giunone,  che  si  credette  avere 
parlato  a  coloro  i  quali  «  iuvenili  ioco  »  l'avean  dimandato  :  «  Visne 
Romam  ire,  Iuno?»  e  l'avesse  risposto  «velie»;3  deridendo  anche 

x.  Egli  se  ne  scusa  .  .  .  referam:  vedi  qui,  p.  753  e  la  nota  2  ivi.  2.  «  au- 
rium .  .  .  ludibria»:  cfr.  la  nota  3  a  p.  767.  3.  sicome  fa.  .  .  velie:  Livio, 
V,  22,  5-6. 


IO36  L'APE   INGEGNOSA 

il  miracolo  dell'attratto  Attimo,  che  se  ne  tornò  a  casa  co'  suoi 
piedi,1  e  simili  altri,  a'  quali  non  dà  credenza  alcuna,  e  sempre  gli 
riferisce  con  le  consuete  sue  formule:  aiunt,  ferunt,  traditum  me- 
moriae,  fama  est  e  simili,  che  dinotano  i  fatti  non  essere  appoggiati 
che  ad  una  incerta  e  vana  tradizione.  E  quanti  se  ne  contano  nelle 
altre  istorie  ed  autori,  come  Valerio  Massimo  ed  altri  e  quelli  di 
Vespasiano  presso  Tacito2  e  tanti  altri:  tutti  per  confessione  de* 
scrittori  stessi  profani,  e  per  quanto  lo  stesso  Cicerone  ne  scrisse, 
possono  convincersi  per  illusioni,  imposture  e  soverchia  credulità 
degli  uomini,  li  quali  naturalmente  sono  portati  al  portentoso  e  sor- 
prendente. Di  che  anche  nella  suddetta  1  parte  de'  Discorsi  sopragli 
Annali  di  Livio  fu  da  noi  ampiamente  trattato,  convincendoli  per 
vani,  favolosi  e  fantastici  senza  ricorrere  a'  demòni. 

Ma  l'istoria  greca  maggiormente  convince  quanto  vano  ed  in- 
sufficiente sia  un  tal  ricorso,  poiché  i  greci  scrittori  s'avanzarono 
fino  a  credere  che  i  loro  dii  in  più  occasioni  aveano  resuscitati 
morti.  Che  i  miracoli  del  loro  dio  Esculapio  non  si  restavano  solo 
a  guarir  gl'infermi;  ma,  morti,  anche  di  resuscitargli.  L'allegorico 
parlare  di  Platone  nel  libro  x  della  sua  Repubblica^  l'interpretavano 
secondo  il  senso  vero  e  literale  e  credevano  che  veramente  Platone 
avesse  risuscitato  Hicronc  Pamfilo,  di  cui  tratta  Macrobio  nel  1 
libro  ;4  ma  non  gik  lo  credette  Cicerone.5 1  libri  de'  Greci  sono  pieni 
di  queste  favole.  Plutarco  nel  lib.  2  De  anima  riferisce  che  un  tal 
Enario,  ancorché  morto,  fu  da  Dite,  o  sia  Plutone,  risuscitato,  il 
quale  tornato  in  vita  raccontava  che  giunta  la  sua  anima  ne'  luoghi 
infernali,  riconosciuta  da  Plutone,  fu  tosto  rimandata  ad  informar 
di  nuovo  il  suo  corpo.  Altri  simili  risorgimenti  de*  favolosi  Greci 
sono  rapportati  da  Plinio,  lib.  7,  cap.  52,*  sicome  di  Ermotino 
Clazomenio,  di  Gnosio  e  di  Aristeo,  della  cui  anima  si  narrava  che, 
in  figura  d'un  corvo,  usciva  di  sua  bocca  e  vi  faceva  dapoi  ritomo. 
Or  qui  che  vagliono  i  demòni  ?  A  Lattanzio  istesso  ed  a  niuno  de' 
Padri  antichi  passò  per  pensiero  che  i  demòni  potessero  risuscitare 
i  morti;  ed  i  Romani  questo  potere  lo  negarono  anche  a'  loro  dii: 


1.  il  miracolo  .  .  .piedi;  Livio,  n,  36,  6-8.  z.  quelli  di  Vespasiano  presso 
Tacito:  eh.  Hist.t  rv,  81.  3.  Platone,  De  rep.}  x,  x,  614 b.  4.  di  cui  trat- 
ta. .  .libro:  Macrobio,  Comm.  in  somnium  Scipionist  r,  r,  0.  5.  ma  non 
già  .  .  .  Cicerone:  cfr.  De  re  pubi.,  vi,  in,  4  (da  Agostino,  De  civ.  Dei,  xxn, 
xxvin).  6.  lib.  7,  cap.  321  sect.  lui,  ed.  cit.,  tomo  1,  p.  407,  da  cui  sono 
tratti  gli  esempi  citati  di  Ermotino,  Gnosio  e  Aristeo. 


OSSERVAZIONE  X  IO37 

«nec  mortuos,  »  dice  Plinio,  lib.  2,  cap.  7  «aeternitate  donare,  aut 
revocare  defunctos  w.1  S.  Agostino  nel  lib.  22,  cap.  18,  della  Città 
di  Dio  non  trova  altro  scampo  che  di  negare  i  fatti  e  riputargli  per 
favolosi.2  E  cosi  pure  si  troverà  de'  vantati  miracoli  de'  Romani,  li 
quali  sono  derisi  dagli  stessi  savi  ed  accorti  romani  scrittori,  qua- 
lificandogli per  illusioni  e  fole. 

I  nostri  teologi  han  fatto  meravigliosi  progressi  ed  han  dimostra- 
to fino  all'ultima  evidenza  V antichità  ed  autenticità  de'  nostri  libri 
sacri,  ma  intorno  a  provare  la  loro  divinità  non  si  è  travagliato  abba- 
stanza e  quanto  meritava  un  punto  sì  principale  ed  importante.  La 
loro  divinità  non  se  non  da  queste  due  marche  può  dimostrarsi: 
miracoli  e  profezie:  facendo  confronto  con  quelli  della  religione 
gentile  e  manifestando  la  gran  differenza  tra  gli  uni  e  gl'altri.  Pri- 
mieramente i  profeti  dell'antica  legge  e  gli  appostoli  nella  nuova, 
niente  così  ne'  miracoli  come  nelle  profezie  a  se  stessi  attribuivano, 
alla  loro  arte,  forze  o  prodigi,  ma  tutto  riportavano  a  divino  potere, 
altamente  dichiarandosi  che  non  erano  se  non  meri  esecutori  ed 
istrumenti  :  le  consuete  lor  forinole,  spezialmente  di  Mosè,  in  ado- 
perar miracoli  ed  in  profetare  queste  erano:  Haec  dicit  Dominus, 
Vcrbum  Domini  e  simili;  e  Daniele,  il  quale  non  pur  interpretò, 
ma  ridusse  in  memoria  il  sogno  del  quale  erasi  dimenticato  quel 
re,  ammirando  questi  il  portento,  gli  disse  che  non  egli,  ma  Iddio 
gliel'avea  rivelato,  e  cessasse  per  ciò  di  maravigliarsene.3  Per  11 
le  profezie  non  erano  inviluppate,  ambigue  ed  oscure,  ma  alcune 
così  chiare  e  distinte  che  veramente  sembravano  istorie  delle  cose 
future;  così  furono  quelle  di  Balaam  intorno  al  vaticinio  sopra 
Saul  ed  il  re  Agag,  verificato  doppo  400  anni,  Numer.,  cap.  24. 
Mirabili  ancora  sono  quelle  profezie,  che  si  raccontan  nel  cap.  13 
del  lib.  3  de'  Re,  verificate  puntualmente  doppo  361  anni,  sicome 
si  ha  nel  lib.  4  de'  Re,  cap.  23,4  e  àzìY  Antichità  giudaiche  di  FI. 
Giuseppe,  lib.  io,  cap.  5.  Quelle  del  profeta  Isaia  sono  chiaris- 
sime, ond'è  che  S.  Girolamo  lo  chiama  istorico  delle  cose  future, 


x.  <nntìc  fnortuos  .  . .  defunctos»:  Plinio,  ed.  cit.,  tomo  1,  lib.  11,  cap.  vii,  sect. 
v,  pp.  73-4-  Ma  si  legga  «mortales»  in  luogo  di  mortuos  («non  donano 
l'immortalità  ai  mortali,  né  resuscitano  i  defunti  »).  2.  S.  Agostino .  . . 
favolosi:  cfr.  De  civ.  Dei,  hb.  xxn,  cap.  xxvin  (e  non  18),  Quid  ad  veram 
resurreetwnis  fidem  vel  Plato,  vel  Labeo,  vel  etiam  Varrò  con/erre  sibi  pò- 
tuerint,  si  opiniones  eorum  in  unam  sententiam  convenissent,  in  Migne,  P.  L., 
xu,  coli.  795-6.  3.  Daniele . .  .  maravigliarsene:  cfr.  Dan.,  2,  14  sgg. 
4.  sicome  . . .  cap.  23:  IV  Reg.,  23,  4  sgg. 


IO38  L'APE    INGEGNOSA 

spezialmente  quando  nel  cap,  45  predisse  il  regno  di  Ciro  re  di 
Persia,1  il  qual  doppo  200  anni  era  per  nascere,  esprimendosi  il  suo 
nome,  la  sua  potenza,  guerre,  vittorie,  spoglie,  ricchezze  e  bene- 
ficenza verso  la  nazione  ebrea;  di  che  lo  stesso  FI.  Giuseppe  ne 
racconta  gli  avvenimenti  secondo  che  furono  predetti  nel  cap.  1  del 
lib.  xi  delle  sue  Antichità,  e  di  tante  altre  simili  delle  quali  po- 
trebbe tessersi  un  lungo  catalogo.  Ma  per  pruova  della  divinità 
di  questi  libri,  bastano  una  o  due;  né  vi  era  bisogno  di  affastel- 
larne tante  con  ricorrere  anche  all'oscure  ed  inviluppate.  Uno  o  due 
di  questi  saggi  soverchiano  per  dimostrare  il  vero  e  reale  commer- 
cio che  Iddio  ebbe  con  que'  profeti.  Parimente  in  dimostrazione 
dell'altra  marca,  onde  si  pruovano  per  divini,  bastano  que*  por- 
tentosi, ammirandi  e  stupendi  miracoli  adoperati  da  Mosè  e  dagli 
altri  insigni  profeti,  i  quali  niente  a  sé  ascrivendo,  tutto  riporta- 
vano alla  divina  onnipotenza,  dalla  quale  sola  potevano  adoperarsi. 
Intorno  alla  pruova  della  divinità  de'  libri  del  Nuovo  Testa- 
mento, bastano  que'  chiari,  potenti  ed  incontrovertibili  che  si  leg- 
gono ne'  quattro  Evangeli  e  negli  Atti  apostolici,  e  spezialmente 
le  molte  resurezioni  de'  morti  e  quella  stupenda  d'un  quatridua- 
no;* e  ciò  che  riguarda  la  profezia:  quali  più  chiare  e  manifeste 
potranno  mostrarsi  se  non  quelle  del  Redentore,  il  qual  predisse 
la  sua  morte,  e  morte  di  croce,  che  dovea  tosto  soffrire,  che  dovea 
esser  tradito  da  Giuda;  predisse  dopo  tre  giorni  il  suo  risorgimen- 
to; predisse  le  persecuzioni  che  doveano  soffrire  i  suoi  appostoli  e 
discepoli;  l'eccidio  di  Gerusalemme  e  del  tempio;  e  sopra  tutto 
mirabile  è  quella  profezia  che  il  suo  Evangelio  dovea  predicarsi 
per  l'universo  mondo  ;  e  che  per  ciò  quel  fatto  della  Madalena,  la 
quale  rotto  il  vaso  di  alabastro  effuse  l'unguento  sopra  il  di  lui  capo, 
accaduto  in  Betania,  picciolo  castello  della  Giudea,  tra  l'anguste 
pareti  della  casa  d'un  leproso,  dovea  rendersi  noto  a  tutto  il  mon- 
do e  raccontarsi  in  sua  memoria  :  «  ubicumque  praedicatum  fuerit 
Evangelium  istud  in  universo  mundo,  et  quod  fecit  hacc  narra- 
bitur  in  memoriam  eius»,  Marc,  14,  19.3  Vaticinio  ed  impresa 
che  a  que'  tempi  secondo  le  circostanze  e  situazione  delle  cose, 
quando  il  mondo  era  tutto  invaso  di  gentilità,  dovea  sembrare  non 
che  dura  e  difficile,  ma  anche  impossibile  ;  e  pure  tutto  abbiam  ve- 
duto avverato. 

1.  spezialmente  .  . .  Persia:  cfr.  Isai.,  45,  1-4.     2.  quatriduano:  di  quattro 
giorni.     3.  Marc,  14,  Jp:  rectius,  14,  9. 


OSSERVAZIONE    X  IO39 

E  qual  altra  più  chiara  e  patente  possiam  noi  desiderare,  se  non 
quella  proferita  dalla  sua  santissima  madre  Maria?  registrata  da 
S.  Luca  nel  suo  Evangelio,  1,  48,  la  quale  se  ben  si  considera  dovrà 
sembrarci  pur  alta  e  sorprendente,  poiché  in  quello  stato  di  cose 
nel  quale  era,  umile  e  basso,  una  povera  donna  vaticinò  di  se  stessa 
che  il  Signore,  avendo  riguardato  la  sua  umiltà,  da  ciò  tutte  le 
nazioni  del  mondo  l'avrebbero  celebrata  per  beata:  «ecce  enim 
ex  hoc  beatam  me  dicent  omnes  generationes  ».  Si  riduchi  ciascuno 
a  memoria  lo  stato  nel  quale  era  allora  questa  povera  donzella  sposa 
d'un  fabro,  e  quello  nel  quale  ora  veggiamo  di  essersegli  per  tutto 
il  mondo  eretti  tempii  ed  altari  e  venerarsi  come  regina  del  cielo 
e  della  terra:  e  conoscerà  se  una  tal  predizione  poteva  derivare  se 
non  da  spirito  divino  e  celeste,  a  cui  le  cose  future  non  meno  che  le 
passate  sono  vicine  e  presenti. 

Queste  sono  le  marche  che  provano  la  divinità  de'  nostri  sacri 
libri  e  che  ci  assicurono  veramente  Dio  avere  communicato  con 
gli  uomini  per  se  stesso  per  mezzo  del  suo  figliuolo,  vero  Dio  e  suo 
mediatore;  onde  la  religione  venne  a  noi  rivelata  per  un  canale  il 
più  limpido  e  puro  che  possa  mai  desiderarsi.  Quindi  a  ragione 
S.  Agostino  nel  libro  io,  cap.  7  et  8,  della  Città  di  Dio,  potè  dire: 
«divinam  scripturam  e  caelo  descendisse;  nam  huic  scripturae, 
huic  legi,  talibus  praeceptis  tanta  sunt  attestata  miracula,  ut  de 
eius  divinitate  satis  constet».1  Provati  adunque  per  ta'  mezzi  esser 
divini,  assicurati  per  ciò  della  divina  revelazione,  importerà  poco 
che  non  arriviamo  a  comprendere  gli  alti  ed  imperscrutabili  misteri 
che  racchiudono.  Né  l'uomo  dee  avere  questa  presunzione  di  sa- 
perne il  guare  ed  il  quomodo.  Chi  è  l'uomo  se  non  una  miserabile 
parte  della  terra,  il  quale,  come  si  è  detto,  non  è  stato  da  Dio 
formato  per  comprendere  quanto  egli  possa,  quanto  in  sé  rac- 
chiuda l'ampio  universo  e  le  nature  delle  cose  da  lui  create.  Ap- 
pena con  tanti  sforzi  abbiamo  potuto  elevare  la  nostra  mente  a 
concepire  due  sole  idee,  cioè  dell'estensione  e  della  cogitazione;2  del 

1.  S.  Agostino  .  .  .  constet:  la  citazione,  ad  sensum,  nel  cap.  vn,  m  Migne, 
P.  L.,  xli,  col.  285  («La  Divina  Scrittura  è  scesa  dal  cielo;  infatti  mira- 
coli così  grandi  comprovano  questa  scrittura,  questa  legge  e  questi  precetti 
da  render  sufficientemente  certi  della  sua  divinità  »)•  2.  estensione  . .  .  co- 
gitazione*, il  Giannone  nel  Triregno  aveva  polemizzato  con  il  dualismo  car- 
tesiano. In  carcere,  dopo  l'abiura,  accetta  i  termini  di  questo  discorso  per 
giustificare  la  separazione  dell'anima  dal  corpo,  ma  lo  circonda  di  un  note- 
vole scetticismo,  per  cui  resta  sostanzialmente  fedele  alla  sua  concezione 
monistica. 


IO40  L'APE   INGEGNOSA 

corpo  e  della  mente  ì  e  di  questa  ancor  si  va  a  tentoni  ed  al  buio. 
Se  ignoriamo  noi  stessi  le  nature  degli  ogetti  che  ci  sono  alla  mano 
e  le  cose  più  basse  che  ci  circondono,  stentiamo  ad  intendere  la 
gravità  ne'  corpi,  i  colori  nelle  cose,  il  senso  negli  animali,  il  lume, 
il  tempo,  il  moto  istesso  e  tanti  altri  effetti  che  come  familiari  do- 
vrebbero essere  a  noi  notissimi,  qual  presunzione  sarà  d'indagare 
le  intricate  vie  del  Signore,  sormontare  neir altezze  de'  cieli  e  pe- 
netrare negli  abissi  de'  divini  voleri?  Dee  in  ciò  a  noi  bastare  la 
divina  revelazione  perché  con  ragione  sottoponiamo  il  nostro  in- 
telletto in  ossequio  della  fede  alla  quale  siamo  costretti  renderci 
per  impulso  della  ragione  stessa,  ed  averla  assai  più  certa  che  qua- 
lunque altra  matematica  dimostrazione,  poiché  in  queste  ci  pos- 
siamo ingannare,  ma  Iddio  ne  può  egli  ingannarsi,  né  per  la  sua 
infinita  bontà  può  ingannare  a  gli  altri.  Quindi  mal  argomentava 
Celso1  contro  i  cristiani,  imputandogli  di  troppa  credulità,  sup- 
ponendo che  senza  ragione  credessero,  e  che  bastava  loro  il  cre- 
dere, perché  la  sola  fede  gli  rendeva  salvi.  Quindi  Galeno  fu  in 
gravissimo  errore,  quando  nel  libro  suddetto  delle  differenze  de* 
polsi,  scrisse  ch'egli  rifiutava  la  scuola  di  Mosè  e  di  Cristo,  per- 
ché né  l'una  né  l'altra  era  roborata  da  alcuna  dimostrazione.2  Quan- 
do ì  fedeli  erano  assicurati  per  tanti  miracoli  ed  avverate  profe- 
zie della  divina  revelazione,  quando  per  ciò  eransi  resi  certi  della 
divinità  de*  nostri  sacri  libri,  non  imprudentemente  credevano,  né 
per  leggerezza  o  fanatismo,  né  senza  fondamento  e  chiare  dimo- 
strazioni, ma  avean  fortissime  ragioni  di  credere;  anzi  il  non  cre- 
dere sarebbe  stata  lor  demenzia  e  rendergli  privi  di  ogni  umano 
discorso,  giacché  ogni  buon  senso  ed  ogni  diritto  raziocinio  ci 
obbliga  e  costringe  a  credere  più  ad  un  Dio  verace,  onnipotente  e 
sapiente,  che  agli  uomini  sottoposti  a  mille  errori  ed  inganni. 

Da  quanto  fin  ora  si  è  detto  ben  si  comprende  quanto  gravoso 
sia  il  peso  de'  nostri  teologi  e  quanto  spinosa,  difficile  e  travagliosa 
sia  la  cura  de'  medesimi  di  separare  le  vere  revclazioni  dalle  false  e 
fantastiche;  spezialmente  quando  si  riferiscono  dalle  donne,  na- 
turalmente credule  e  più  soggette  ad  esser  illuse.  Il  P.  Mcnochio 


1.  Celso:  filosofo  platonico  del  II  secolo  d.  C.  Scrisse  contro  i  cristiani  ed 
è  soprattutto  noto  per  il  libro  polemico  di  Origene,  Centra  Celsum.  Per 
ciò  che  segue  cfr.  appunto  quest'opera,  1,  9,  in  Migne,  P.  G.,  xi,  col.  671. 

2.  Quindi  Galeno  . . .  dimostrazione:  cfr.  Corpus  medicorum  graecorum,  Lip- 
siae  1821-1833,  Vili,  De  pulsuj  pp.  579  sgg.  -roborata:  corroborata. 


OSSERVAZIONE    X  1041 

gesuita  saggiamente  avverte  nella  centuria  x,  cap.  87  ed  88,1  quanto 
sia  difficilissimo  discerner  le  vere  dalle  false  revelazioni,  e  che  con- 
venga a'  teologi  con  gran  prudenza,  esattezza  e  riserba  esaminarle  ; 
adduccndo  per  pruova  di  ciò  quel  che  accadde  in  Francia  per  la 
famosa  Nicola  di  Rems,*  la  quale  per  le  sue  illusioni  avea  tratta 
quasi  tutta  la  Francia  a  dargli  fede;  e  nel  cap.  1003  della  stessa 
centuria  narra  un  simil  caso  di  Marta  Brosseria,  pur  francese,  e 
l'industria  che  il  P.  Luigi  de  Guzman  della  sua  Compagnia  usò 
con  un'altra  illusa,  alla  quale  dimandò  se  in  quelle  sue  visioni  gli 
era  mai  apparso  lo  spirito  tropologico,  ed  avendogli  risposto  di  no, 
aggiunse  il  P.  che  infìno  che  non  vedeva  questo  spirito  era  in  grado 
molto  basso  di  santità.  Tornò  la  donna  il  giorno  seguente  dal  padre 
e  disse  che  l'avea  veduto;  ed  interrogata  di  che  figura  fosse,  gli 
rispose  l'illusa  e  dissegli  infiniti  spropositi  e  sciocchezze.  Mille  di 
consimili  essempi  potrebbero  addursi;  ma  ciò  basti  per  quanto 
appartiene  al  nostro  assunto  che  l'aver  l'uomo  con  Dio  commercio 
è  cosa  pur  troppo  rara  e  difficile,  poiché  dal  solo  suo  divin  volere 
ciò  dipende,  non  da  alcun  nostro  merito  o  industria;  e  per  assicu- 
rarcene vi  bisognano  pruove  ed  esperienze  molto  chiare  ed  evi- 
denti, oltre  d'un  finissimo  accorgimento  e  consumata  prudenza. 
A  ciò  si  aggiunga  la  fecondità  della  nostra  immaginazione  e  quanto 
strani  e  portentosi  siano  gli  effetti  d'un'alterata  fantasia.  Nella  mia 
lunga  dimora  nell'imperial  corte  di  Vienna  fui  condotto  da  alcuni 
amici  a  vedere  il  sacro  tesoro  dell'imperiai  palazzo,  dove  si  conser- 
vano molte  reliquie  e  preziose  memorie  appartenenti  a  cose  sacre  e 
religiose  :  fra  le  altre  il  custode  mi  mostrò  un  crocifisso,  dicendomi 
che  col  medesimo  sovente  l'imp.  Ferdinando  II  avea  parlato.  Non 
potei  contenermi  di  rispondergli  che  io  non  avea  alcuna  ripugnan- 
za di  credere  che  Ferdinando  gli  parlasse:  la  mia  difficoltà  era  se 
quel  crocifisso  gli  avesse  risposto.  Pure  que'  giovani  che  da  Vei 
portavano  in  Roma  la  statua  di  Giunone  gli  domandarono,  alcuni 
gravati  da  religione,  altri,  come  dice  Livio,  «iuvenili  ioco»,  se 

1.  Il  P.  Menochio  .  .  .  8?  ed  88:  cfr.  Stuore  cit.,  tomo  ni,  cent,  x,  cap. 
LXXXVir,  Che  non  si  deve  facilmente  dar  fede  a  visioni  e  rivelationi,  massime 
di  donne;  con  un  notabile  esempio  a  questo  proposito ,  pp.  316  sgg.,  e  cap. 
LXXXVin,  Che  non  si  deve  facilmente  dar  fede  a  rivelationi  e  visioni  partico- 
larmente di  donne;  e  vi  si  riferisce  urChistoria  molto  notabile  a  questo  proposito, 
pp.  317  sgg.  %.  adducendo  .  . .  Rems:  cfr.  ibid.t  pp.  318-9,  la  storia  di  Ni- 
cola di  Rcmis  (o  Rcms).  3.  nel  cap.  zoo:  intitolato  Historia  notabile  d'una 
spiritata  finta,  pp.  337  sgg. 

66 


IO42  L'APE  INGEGNOSA 

volontieri  andava  a  Roma,  e  secondo  l'alterata  lor  fantasia,  chi  disse 
che  la  dea  avea  mosso  il  capo  accennando  di  sì;  altri,  tirando  la 
cosa  più  innanzi,  affermarono  che  aveano  inteso  anche  la  sua  voce: 
«volo»;  e  pure,  secondo  lo  stesso  Livio,  non  erano  che  «ludibria 
aurium  et  oculorum».  Altrove  della  fantasia  ci  sarà  data  occasione 
di  trattare  in  un'osservazione  a  parte,  quando  esami naremo  la 
forza  dell'umana  imaginazione.1  Noi  intanto  proseguendo  il  nostro 
istituto  passaremo  ad  esaminare  le  altre  propensioni  ed  affetti 
umani,  che  si  appartengono  unicamente  all'uomo,  de'  quali  i  bruti 
sono  affatto  privi. 

OSSERVAZIONE  XII2 

II  riso,  il  pianto,  il  sermone,  la  sagacità,  industria  e  l'accorgimen- 
to non  essere  così  propri  dell'uomo,  sicché  i  bruti  non  ne  abbiano 
qualche  immagine,  ancorché  languida,  debole  ed  imperfetta. 

Il  P.  Menochio,  nelle  sue  Stuore,  alla  cent,  vii,  cap.  39,3  si  stu- 
dia come  scolastico  gesuita  di  difendere  al  meglio  che  può  la  de- 
finizione4 delle  scuole  dell'uomo,  le  quali  per  separarlo  da'  bruti, 
oltre  il  definirlo  essere  un  animale  superiore,  vi  aggiungono  per 
nota  distintiva  anche  la  risibilità,  dicendo  «  homo  animai  risibile  ». 
Ma  forse  gli  starebbe  più  acconcia  la  definizione  di  essere  «  animai 
flebile  »,s  secondo  il  sentimento  di  Plinio  nel  principio  del  vìi  libro,6 
il  quale  al  solo  uomo  dà  il  lutto,  e  che  di  sua  natura  non  habbia 
«aliud  naturac  sponte,  quam  Aere»;  nulla  di  manco  le  scuole  han 
riputato  meglio  diffmirlo  per  la  risibilità,  poiché  il  pianto  non  è  così 
proprio  dell'uomo  sicché  non  convenga  a*  bruti,  alcuni  de'  quali 


i.  Altrove  .  . .  imaginazione:  nell'osservazione  xiv,  qui  non  riprodotta,  in- 
titolata Dell  'imaginazione  delVuomo  e  suoi  stupendi  e  portentosi  effetti. 
2.  La  minuta  di  questa  osservazione,  incompleta,  in  Biblioteca  Reale  di 
Torino,  Varia  303,  ce.  84-5.  Era  l'osservazione  vm.  3.  Sluore  cit.,  tomo 
11,  cent,  vii,  cap.  xxrx  (e  non  39),  Per  qual  causa  li  filosoft  definiscano  o 
descrivano  Vhuomopiu  tosto  dall'essere  risibile  che  dall'essere  flebile,  pp.  384  sg. 
.4,  definizione:   correggiamo   «definionc»,   evidente  lapsus  dell'autografo. 

5.  «homo  . .  .flebile»;  ambedue  le  citazioni  dal  Menochio,  loc.  cit.,  p.  384. 

6.  nel  principio  del  VII  libro:  cfr.  Nat  hist,  ed.  cit.,  tomo  1,  lib.  vn,  sect.  i, 
p,  369.  Cfr.  G.  S.  Menochio,  op.  cit.,  tomo  n,  cent,  vii,  cap.  xxxix,  Se 
siano  ragionevoli  le  querele  di  quelli  autori  che  deplorano  la  miseria  deWhuomo 
che  non  nasce  provisto  d'armi  come  la  gran  parte  de  gli  animali,  pp.  401  sg. 
La  citazione  a  p.  401. 


OSSERVAZIONE   XII  IO43 

anche  piangono,  e  mostrano  '1  lor  lutto  e  mestizia,  sicome  si  rav- 
visa ne'  cani,  ne'  cavalli,  ne'  tori,  lioni,  ed  anche  negli  asini  di  Mauri- 
tania s'è  osservato  il  pianto,  secondo  che  scrissero  lo  stesso  Plinio, 
Svetonio,  Claudiano,  Eliano  ed  Isidoro;1  tralascio  i  poeti  come 
Omero,  il  quale  fa  piangere  i  cavalli  di  Achille,  sicome  fa  anche 
Virgilio,  i  quali  si  rappresentano  tutti  dolenti  e  lagrimosi  per  la 
perdita  o  sciagura  de'  loro  padroni.  Ciocché  che  non  si  legge  ne* 
medesimi  essersi  osservato  riso  alcuno.  Ma  sicome  alcuni  segni 
che  ravvisiamo  in  essi  ci  fanno  credere  che  indicano  negli  animali 
afflizione  e  pianto,  cosi  ne'  medesimi  pur  ne  ravvisiamo  altri  opposti, 
che  dinotano  riso  ed  allegrezza:  sicché  non  meno  del  pianto  che  del 
riso  sono  essi  partecipi,  ancor  che  languido  ed  imperfetto.  Certa- 
mente che  non  mancano  autori  i  quali  han  ravvisato  in  essi  anche 
segni  di  riso,  sicome  del  pianto  ;  in  fra  gli  altri  Lattanzio  Firmiano 
nel  libro  ili  delle  sue  Divine  instituzioui^  nel  cap.  io,  apertamente 
gli  dà  il  riso,  dicendo  «  ridendi  quoque  ratio  apparet  in  his  aliqua, 
cum  demulsis  auribus,  contractoque  rictu,  et  oculis  in  lasciviam  re- 
solutis,  aut  homini  alludunt,  aut  suis  quisque  coniugibus  ac  foetibus 
propriis  ».*  E  sicome  per  difetto  di  naturali  istromenti  che  han  gli 
uomini  meglio  organizati  e  non  i  bruti,  il  pianto  loro  non  è  simile 
al  nostro,  cosi  parimente  il  lor  riso  non  può  uguagliare  al  nostro  ; 
onde  la  definizione  delle  scuole  cade  e  va  a  terra  e  forse  meglio 
Tavrebber  descritto  per  lo  pianto  che  pe  '1  riso,  0  pure  né  per  l'uno 
né  per  l'altro. 

1.  Intorno  al  sermone. 

Qui  per  sermone,  o  favella,  non  s'intende  di  quelle  voci  articola- 
te, le  quali  per  lungo  studio  ed  arte  de'  maestri  e  replicati  atti  si 
avezzano  gli  uccelli  a  proferire,  sicome  narra  Plinio,  lib.  io,  cap. 
42  e  43, 3  de  cardellini,  del  dordo  di  Agrippina,  moglie  di  Claudio, 
il  quale  imitava  le  voci  umane;  di  quel  famoso  corvo,  il  quale  ogni 


1.  asini  dì  Mauritania. .  .Isidoro:  cfr.  Plinio,  ed.  cit.,  tomo  1,  lib.  vili, 
cap.  xvi,  sect.  xrx,  p.  445,  nota  16,  dove  THardouin  menziona  Claudiano, 
Ehano  e  Isidoro.  2.  Lattanzio  .  . .  propriis:  cfr.  Div.  inst.t  in,  X,  Proprium 
hominis  est  Deum  cognoscere  et  colere,  in  Migne,  P.  L.,  vi,  col.  374  («  in  loro 
si  manifesta  anche  una  maniera  di  ridere,  quando,  lisciate  le  orecchie, 
contratta  la  bocca  e  illanguiditi  lascivamente  gli  occhi,  celiano  con  l'uomo 
o  con  le  loro  compagne  e  i  propri  figli»)-  3«  Plinio,  lib.  io,  cap.  42  e  43: 
ed.  cit,  tomo  1,  sect.  ux  e  lx,  pp.  567-8. 


1044  L'APE    INGEGNOSA 

mattina  volando  ne'  rostri  nominatamente  prima  salutava  Tiberio, 
doppo  Germanico,  poi  Druso  ed  ultimamente  il  popolo  romano; 
dell'altro  assai  rinomato  per  quel  detto  ben  opportuno  ed  acconcio 
per  sollievo  del  suo  padrone:  oleum  et  operarti  perdldì;  e  di  molti 
rosighiuoli  e  stornelli  presso  gli  antichi,  i  quali  cosi  bene  parlavano 
latino  e  greco,  sicomc  oggi  veggiamo  che  parlano  in  italiano  le  gaze 
ed  i  papagalli.  Né  si  parla  de*  favolosi  sermoni  che  Omero  finge  del 
cavallo  d'Achille  ed  altri  arditi  poeti  fingono  per  prosopopeia  in 
più  animali,  e  molto  meno  delle  voci  articolate,  che  gli  antichi  an- 
nali de'  Romani  rapportano  proferite  da'  buoi  o  vacche,  le  quali 
Livio  stesso  riputò  «aurium  ludibria».1  Qui  si  parla  del  sermone 
naturale  degli  animali  per  esprimere  l'affetto  de*  loro  cuori,  che  lo 
producono;  poiché  quelle  voci,  ancorché  articolate,  pronunciate 
con  tanto  magistero3  ed  arte  ed  a  forza  di  replicati  atti,  non  è 
proprio  lor  sermone,  né  prodotte  per  esprimere  i  loro  affetti,  e 
per  ciò  non  intendono  quello  ch'essi  medesimi  proferiscono,  non 
altrimenti  che  gl'istromenti  di  musica  quando  se  gii  dà  fiato.  Negli 
animali  e  spezialmente  negli  uccelli  si  ravvisano  voci,  se  bene  non 
ben  articolate,  per  difetto  di  naturali  istromenti,  varie  però  e 
diverse,  per  le  quali  dinotano  i  loro  affetti,  e  per  le  quali  o  cercano 
aiuto,  o  avvertono  dell'imminente  pericolo,  o  invitano  altri  al 
pasto;  in  breve  fan  sì  che  gli  altri  della  loro  specie  intendono  e  con- 
cepiscono ciò  ch'essi  vogliono:  ciocché  è  fra  di  loro  una  specie  di 
colloquio;  sicome  Lattanzio  non  ebbe  difficoltà  di  ammetterlo, 
fra  essi,  nel  lib.  3,  cap.  io,  dicendo:  «Quum  enim  sua»  voces  prò- 
priis  inter  se  notis  discernunt  atque  dignoscunt  colloqui  videntur».3 
Omero,  che  fu  maraviglioso  in  dar  propri  aggiunti  alle  cose  per 
ispiegar  la  lor  natura  e  qualità,  sovente  a  gli  uomini  dà  questo  ag- 
giunto: «articulate  loquentcs  mortalcs»,  tliad.,  lib.  2,4  e  nel  lib.  9, 
v,  340:  «articulata  voce  loquentcs  hominos»,  e  nel  lib.  ir:  «arti- 
culate  loquentibus  hominibus»,  ed  altrove,  per  dinotare  la  diffe- 
renza del  sermone  ch'è  tra  gli  uomini  e  gli  animali  bruti,  che  questi 

i.  «  aurium  ludibria)):  cfr.  la  nota  3  a  p.  767.  2.  magistero:  maestria. 
3.  sicome  Lattanzio  . . .  videntur:  loc.  cit,  col.  374  («Poiché  sembra  che  si 
parlino  quando  tra  loro  con  segni  distinguono  e  riconoscono  le  proprie 
voci»).  4<  ffi&d*,  lib.  2:  il  riferimento  e  al  verso  285.  11  Giannono  aveva 
letto  V Ilìade  nella  traduzione  latina,  in  prosa,  di  Lorenzo  Valla  (cfr.  Vita, 
qui  a  pp.  35-6  e  la  nota  1  a  p.  36).  Qui  però  cita  secondo  un'altra  versione, 
differente  e  probabilmente  in  versi.  La  citazione  del  libro  xi  si  riferisce 
al  verso  28,  mentre  l'altra  ancora  va  rettificata:  XI.  y  xix,  407. 


OSSERVAZIONE   XII  IO45 

per  difetto  d'istromenti  non  hanno  articolato  sermone,  come  gli 
uomini,  ma  un  sermone  inarticolato,  e  quindi  nel  lib.  19,  v.  410, 
disse  che  la  dea  Giunone  avea  dato  a  Xanto  cavallo  d'Achille  arti- 
colato sermone  :  «  Xantho  Achillis  equo  articulatum  sermonem  red- 
didit  ».  In  effetto  l'esperienza  e  le  reiterate  osservazioni  fatte  intorno 
a*  loro  istinti  ed  andamenti  ci  han  fatto  accorgere  che  han  un  pro- 
prio e  naturai  sermone,  per  cui  l'uno  intende  l'altro.  Nelle  vacche 
si  osserva  altro  suono  di  voce  quando  chiamano  i  loro  vitelli  sper- 
duti, altro  quando  si  sente  muggire  l'armento  nel  pascolo  e  nelle 
mandre.  L'abbaiare  de'  cani  è  diverso  quello  che  adoperano  nelle 
cacce  quando  abbiano  scoverta  la  fiera,  di  quello  quando  si  pros- 
sima per  avventarsi,  altro  quando  abbaiano  a'  lupi  ed  a'  ladri; 
altre  voci  adoprano  quando  fanno  carezze  a'  loro  padroni,  altre 
quando  gli  veggono  sdegnati  e  quando  temono  d'essere  battuti.  I 
lupi  diversamente  mandan  fuori  le  lor  voci  quando  siano  per 
chiamar  altri  ed  unirsi  a  truppe,  altre  quando  percossi  o  feriti 
chiamano  soccorso,  altre  scherzando  co'  loro  lupicini,  altre  colle 
loro  coniugi;  e  chi  avrà  attentamente  osservati  gli  andamenti  degli 
altri  animali,  troverà  la  stessa  varietà  di  sermone.  Ma  sopra  tutto 
negli  uccelli,  come  a  noi  più  familiari  che  non  sono  le  fiere  selvag- 
ge, si  è  maggiormente  manifestata  questa  verità;  poiché  la  gallina 
dà  una  voce  quando  chiama  i  suoi  pulcini  per  dargli  da  mangiare; 
ma  altra  tutta  diversa  quando,  vedendo  il  nibbio  che  sia  vicino  per 
involargli,  gli  sgrida  ed  avverte  che  scampino  dell'imminente 
sciagura  con  appiattarsi  e  nascondersi.  I  passeri  invitano  gli  altri 
al  pascolo  con  altra  voce  di  quella  lor  ordinaria.  Cosi  pure  i  corvi 
quando  invitano  altri  al  pasto  di  qualche  cadavere,  o  pure  a'  luoghi 
ove  sia  seguita  battaglia.  L'usighiolo  di  una  voce  canta  per  diporto, 
di  altra  tutta  dolente,  diversa  e  lamentevole,  quando  si  accorge 
dal  duro  villano  essere  stati  involati 

dal  nido  i  figli  non  pennuti  ancora.1 

I  rustici,  0  pastori  di  greggi  o  di  armenti,  poiché  menano  la  lor 
vita  in  campagna,  fra  boschi,  valli  e  monti,  avvertano  il  vario  lor 
sermone,  e  da  ciò  derivò  la  favola  che  Mopso2  intendesse  il  parlar 

1.  Vusighiolo  ,  .  .  ancora:  cfr.  Virgilio,  Georg.  >  iv,  511-5.  a.  Mopso:  figlio 
di  Ampico  e  della  ninfa  Clori,  originario  della  Tessaglia,  cacciatore  cali- 
donico,  indovino  degli  Argonauti.  Per  la  favola  cfr.  Ovidio,  Metam.,  xii, 
5*4  sgg. 


IO46  L'APE   INGEGNOSA 

degli  uccelli,  poiché  avendo  posta  cura  di  notare  le  varie  lor  voci, 
per  lunga  pratica  intendeva  ciò  che  volessero  dinotare.  A  chi  ri- 
guarda i  presenti  nostri  umani  sermoni,  cotanto  ubertosi  di  parole, 
così  ben  disposti,  lunghi  e  concatenati,  parrà  certamente  un  para- 
dosso raffermare  ne'  bruti  esservi  sermone;  ma  chi  volgendo  gli 
occhi  della  mente  in  dietro  ne*  antichissimi  tempi  del  mondo  sem- 
plice ed  infante,  troverà  che  se  l'uomo  non  fosse  uscito  dalla  prima 
sua  vita  ferale  e  selvaggia,  i  suoi  sermoni  sarebbero  ancora  ben 
corti  e  di  poche  parole  avrebbe  avuto  bisogno  per  esprimere  i  suoi 
affetti  e  desideri.  Chi  ha  prolungati  i  nostri  discorsi,  resigli  si  re- 
dundanti  di  parole,  di  tropi  e  di  figure,  se  non  la  vita  civile  in  cui, 
lasciata  la  selvaggia,  fece  passaggio?  Le  nuove  invenzioni  delle 
arti  e  delle  scienze,  le  nuove  cose  trovate  accrebbero  di  nuovi  vo- 
caboli il  nostro  sermone,  sicome  saviamente  fu  avvertito  da  Ci- 
cerone nel  lib.  3  De  finib.  bonor.  et  malor.i  «In  omni  arte»  e' 
dice  «  cuius  usus  vulgaris  communisque  non  sit,  multam  novitatem 
nominum  esse,  cum  constituantur  earum  rerum  vocabula,  quae  in 
quaque  arte  versentur.  Itaque  et  dialectici  et  physici  verbis  utuntur 
iis,  quae  ipsi  Graeciae  nota  non  sint.  Geomctrae  vero,  musici, 
grammatici  etiam,  more  quodam  loquuntur  suo,  Item  ipsae  retho- 
rum  artes,  quae  sunt  totae  forenses  atque  popularcs,  verbis  tamen 
in  dicendo  quasi  privatis  utuntur  ac  suis.  Atque,  ut  omittam  has 
artes  elcgantes  et  ingenuas,  ne  opifìces  quidem  tucri  sua  artifìcia 
possunt,  nisi  vocabulis  utercntur  nobis  incognitis,  usitatis  sibi. 
Quin  etiam  agricultura,  quae  abhorret  ab  omni  politiore  elegantia, 
tamen  eas  res,  in  quibus  versatur,  nominibus  notavit  novis.  Quo 
magis  hoc  philosopho  faciendum  est».1  Donde  ricavasi  una  valida 
difesa  per  i  filosofi  e  teologi  scolastici,  i  quali  di  nuovi  vocaboli  han 


x.  «In  omni  arte  . .  .faciendum  est»:  De  fin.,  ni,  i-n,  3-4;  si  legga  «docen- 
do  »  in  luogo  di  dicendo  («  In  ogni  professione,  il  cui  esercizio  non  sia  a  tutti 
comunemente  noto,  c'è  molta  novità  di  nomi,  poiché  per  le  cose  che  sono 
oggetto  di  ciascuna  arte  sono  prescritti  dei  particolari  termini.  Pertanto  sia 
i  dialettici  sia  i  fisici  usano  parole  ignote  alla  Grecia  stessa.  I  geometri  al- 
tresì, i  musici,  i  grammatici  pure,  parlano  secondo  un  certo  lor  uso.  Pari- 
menti anche  l'arte  oratoria,  benché  tutta  forense  e  popolare,  si  serve  tut- 
tavia per  l'insegnamento  di  parole  particolarmente  proprie.  E,  per  non 
parlare  di  simili  arti  eleganti  e  nobili,  neppure  gli  artigiani  potrebbero 
proteggere  i  loro  artifici  se  non  si  valessero  di  parole  a  noi  sconosciute, 
usuali  per  loro.  E  perfino  l'agricoltura,  aliena  da  ogni  raffinata  eleganza, 
ha  impiegato  parole  nuove  per  quelle  cose  che  rientrano  nel  suo  ambito. 
Tanto  più  lo  stesso  deve  fare  il  filosofo  »). 


OSSERVAZIONE   XII  IO47 

arricchita  la  loro  filosofia  e  teologia,  della  quale  non  si  dimenticò 
per  difendergli  il  Pallavicino  in  quel  suo  dotto  libro  dell'Arte  dello 
stile.1  Ma  ritornando  in  via,  tante  arti  e  discipline  resero  il  nostro 
sermone  più  redundante,  artificioso,  elegante  e  nobile;  e  poiché 
all'uomo,  oltre  l'intelletto,  non  mancavano  que'  naturali  istro- 
menti,  de'  quali  i  bruti  sono  privi,  per  formar  chiare,  distinte  e  ben 
articolate  voci,  quindi  il  suo  parlare  divenne  sì  facondo  e  copioso. 
Se  l'uomo  si  fosse  rimaso  nella  prima  sua  vita,  di  poche  parole 
sarebbe  stato  il  suo  linguaggio,  poiché  poch'erano  le  cose  a  lui 
note,  delle  quali  avea  bisogno:  bastavano  per  esprimere  il  suo 
desiderio  venti  o  trenta  vocaboli  perché  avesse  potuto  conservare 
la  sua  vita  e  quella  de'  suoi.  Quindi  non  dee  parer  strano  ciò  che 
Plinio  rapporta  di  que5  uomini  selvaggi,  de'  quali  il  lor  sermone 
non  era  altro  che  stridole  voci,  cenni,  moti  di  braccia  o  di  altra 
parte  de'  loro  corpi.2  Tanto  bastava  perché  fossero  da'  loro  simili 
intesi  e  per  conservar  la  lor  vita  e  supplire  a'  bisogni  della  natura. 
Più  accurati  viaggianti  e  scrittori  rapportano  che  nell'interior  Mo- 
scovia  anticamente  (non  ora  che  si  è  resa  cotanto  eulta  e  civile) 
a'  mercanti  europei,  i  quali  si  conduceano  colà  per  far  compra  di 
pelli  d'armellini  e  di  altre  morbide  e  delicate  di  que'  animali  che 
produce  quel  clima  e  quel  terreno,  bastava  che  s'istruissero  non 
più  di  venti  parole  moscovite  per  trattare  i  loro  negozi,  poiché  il 
linguaggio  loro  era  si  corto  e  breve  che  pochi  vocaboli  eran  suf- 
ficienti a  comporlo. 

il.  Sagacità,  industria  ed  accorgimento. 

La  natura  in  tante  guise  ha  manifestato  negli  animali  bruti  es- 
sere sagacità,  industria  ed  accorgimento,  che  più  antichi  autori 
ne  han  compilati  speziali  trattati  ;  e  la  materia  riuscì  loro  sì  ampia 
ed  ubertosa  che  molte  altre  cose  da  avvertire  scapparono  dalla  pre- 
sa delle  lor  mani:  sicché  diedero  occasione  a'  scrittori  moderni  di 
comporne  altri  libri.  Sono  a  tutti  note  le  opere  di  Aristotele,  di 
Plinio  il  Vecchio,  di  Eliano  nella  sua  Varia  istoria,  di  Plutarco, 


1.  Pallavicino  . .  .  stile:  vedi  la  nota  4  a  p.  36.  2.  ciò  che  Plinio  . . .  corpi: 
cfr.  Nat.  hisU,  ed.  cit.,  tomo  1,  lib.  v,  cap.  vn,  sect.  vni,  p.  252:  «illis 
[Troglodytis] . . .  stridorque,  non  vox:  adeo  sermonis  commercio  carent»; 
e  lib.  vi,  cap.  xxx,  sect.  xxxv,  p.  345:  «Quibusdam  prò  sermone  nutus 
motusque  membrorum  est». 


IO48  L'APE    INGEGNOSA 

Luciano  e  di  tanti  altri,  che  tutte  si  raggirono  in  raccorrò  li  tanti  e 
vari  loro  accorgimenti,  gl'industriosi  artifici,  la  sagacità  e  l'ingegno. 
Da  ciò  avvenne  che  altri  scrittori,  persuasi  dell'opinione  di  Pita- 
gora, di  Diogene,  di  Empedocle  e  di  altri  antichi  filosofi,  i  quali 
sostennero  negli  animali  bruti  esservi  anima  razionale,  non  meno 
che  negli  uomini,  non  sapendo  tener  la  via  di  mezzo  diedero  in 
quella  estremità  di  concedere  a'  bruti  anche  intelletto,  raziocinio  e 
cogitazione.1  Sesto  Empirico  non  ebbe  difficolta  di  dare  a'  cani 
raziocinio,  perché  il  cane,  seguendo  la  fuggitiva  fiera,  se  s'incontra 
in  un  trivio  fiuta  una  via  e,  non  trovandone  indizio,  fiuta  l'altra,  e 
se  in  questa  né  pur  lo  trova,  senza  fiutar  la  terza,  corre  di  filo  per 
questa  per  arrivarla,  quasi  che  seco  argomentasse  che  se  per  la  pri- 
ma e  seconda  non  era  passata,  certamente  era  per  la  terza,  onde 
non  bisognava  cercar  altro  indizio.2  Lattanzio  Firmiano  nel  lib.  3 
delle  sue  Div.  instit.,  cap.  io  e  nel  lib.  De  ira  Dei,  cap.  7,  seguendo 
le  tracce  del  suo  autore,  dico  di  Cicerone,  il  quale  nel  lib.  2  De 
finib.  bonor,  et  malor.  disse  :  «  videmus  in  quodam  volucrum  genere 
nonnulla  indicia  pietatis,  cognitionem,  memoriam,  in  multis  eliam 
disciplinam  »,3  spinge  tanto  innanzi  la  condizione  de'  bruti  che, 
tolta  la  religione,  gli  fa  uguali  all'uomo:  gli  concede  providenza 
del  futuro,  cogitazione,  raziocinio  e  discorso:  «Potcst  aliquis  negare 
(e'  dice  nel  cit.  lib.  3)  illis  inesse  rationem,  cum  hominem  ipsum 
saepe  deludant  ?  ».  E  poco  dapoi  :  «  Inccrtum  est  igitur,  utrum  ne 
illa,  quae  homini  tribuuntur,  communia  sint  cum  aliis  viventibus  : 
religionis  certe  sunt  expertia.  Equidem  sic  arbitror  universis  ani- 


1.  Sono  a  tutti  note . . .  cogitazione:  sono  gli  autori  citati  in  precedenza. 
Ma  il  Giannone  si  riferisce,  copertamente,  a  una  polemica  ben  più  attuale, 
riguardante  l'anima  dei  bruti.  I  termini  del  problema  erano  stati  posti 
chiaramente  dall'articolo  Rorarius  del  Dictionnaìrc  di  Pierre  Bayle:  o  si 
accettava  pienamente  l'ipotesi  cartesiana  della  bète  machine,  o  fra  bruto  e 
uomo,  ammessa  dagli  scolastici  nel  primo  l'anima  sensibile,  ci  sarebbe 
stata  solo  differenza  di  grado  e  non  di  qualità.  2.  Sesto  Empirico  .  .  .  in- 
dizio :  del  pensatore  e  medico  greco  di  origine  africana,  vissuto  fra  il  1 1  e  il 
III  secolo  d.  C,  cfr.  i  Lineamenti  del  pirronismo,  1,  xiv,  69.  3.  seguendo  le 
tracce  .  .  .  disciplinam:  questo  brano  è  stato  aggiunto  dal  Giannone  in  mar- 
gine all'autografo  (e.  64  r).  Si  noti  che  Lattanzio,  nei  passi  che  seguono 
delle  Divinae  institutiones  e  del  De  ira  Dei,  cita  si  Cicerone,  ma  non  questo 
passo  del  De  fimbus,  n,  xxxui,  no,  che  sembra  in  parte  contraddire  il 
pensiero  di  Lattanzio  («  osserviamo  in  certi  uccelli  diversi  indizi  di  pietà, 
osserviamo  conoscenza,  memoria,  in  molti  anche  istruzione»),  sibbene  il 
De  legibus,  1,  vm,  24:  «nuUum  est  animai  practer  hominem  quod  habeat 
notitiam  aliquam  Dei». 


OSSERVAZIONE   XII  IO49 

malibus  esse  datam  rationem».1  E  nel  cap.  7  De  ira  Dei  non  pur 
ripete  lo  stesso,  ma  chiaramente  gli  attribuisce  cogitazione,  creduta 
propria  dell'uomo:  «Quid  tam  proprium  nomini»  e*  dice  «quam 
ratio  et  providentia  futuri  ?  Atqui  sunt  animalia  quae  latibulis  suis 
diversos  et  plures  exitus  pandant,  uti  si  quod  periculum  inciderit 
fuga  pateat  obsessis:  quod  non  facerent,  nisi  inesset  illis  intel- 
ligentia  et  cogitatio  ».2  Da  ciò  anche  avvenne  che  alcuni  de'  nostri 
Padri  antichi,  infra  gli  altri  S.  Basilio  e  Salviano,  leggendo  pure 
ne'  sacri  libri  darsi  conoscenza  al  bue,  iiitelligenza  al  gallo  e  sapien- 
za alle  formiche,  portassero  tanto  in  punta  la  condizione  delle 
anime  de'  bruti  che  picciola  differenza  ponessero  fra  esse  e  l'ani- 
me umane. 

Ma  i  più  maturi  e  prudenti  filosofi  sicome  i  Padri  più  sobri  e 
moderati  sfuggirono  d'urtare  in  questo  scoglio  e  tennero  la  via  di 
mezzo,  affermando  essere  sì  bene  ne'  bruti  accortezza,  sagacità 
ed  industria,  e  S,  Agostino  nel  cap.  12  del  lib.  v  della  Città  di  Dio 
vi  aggiunge  anche  «  quaedam  scientiae  similitudo  »,3  ma  comparate 
cogli  umani  accorgimenti,  induzioni  e  discorsi  riescono  languide, 
deboli  ed  imperfette,  non  avendo  che  un'immagine  ed  una  sola 
apparenza  e  somiglianza  coll'umane;  e  la  differenza  nasce  da  due 
potissime  cagioni  :  primieramente  perché  nelle  viscere  umane  scor- 
re uno  spirito  tutto  depurato,  sublime,  attivo  e  più  che  fiamma 
agile  e  presto,  ed  all'incontro  ne*  bruti  gravoso,  ottuso  e  crasso, 
onde  non  possono  elevarsi  a  tanta  sublimità  di  pensieri  e  di  di- 
scorso; e  per  20  gli  organi  de'  corpi  sono  pur  troppo  fra  lor  diversi, 
e  spezialmente  del  capo,  donde  derivano  le  riflessioni,  gli  accorgi- 
menti, l'industria  e  la  sagacità,  dove  si  conservano  le  imagini  delle 
cose  ed  è  il  magazzino  della  nostra  memoria,  dove  siede  la  mente 

1.  «Potest  aliquis  .  .  .  rationem»:  Lattanzio,  Div.  inst.,  in,  x  cit.,  in  Migne, 
P.  L.y  vi,  col.  374.  La  citazione  del  De  leg.  a  col.  375  («  Si  potrebbe  negar 
loro  raziocinio,  dal  momento  che  sovente  ingannano  l'uomo  ?  ...  È  dun- 
que incerto  se  le  facoltà  attribuite  all'uomo  siano  o  no  comuni  ad  altri 
viventi:  certo  è  che  non  hanno  la  religione.  In  effetti  ritengo  che  a  tutti 
quanti  gli  animali  sia  stato  dato  raziocinio  »).  2.  «  Quid  tam  proprium  .  .  . 
cogitatio»:  Lattanzio,  De  ira  Dei,  cap.  vii,  De  homine  et  brutis,  ac  religione, 
in  Migne,  P.  L.,  vii,  col.  94.  La  citazione  del  De  leg.  a  col.  93  («  Che  cosa 
è  tanto  proprio  all'uomo  quanto  il  raziocinio  e  la  previsione  del  futuro? 
Eppure  vi  sono  degli  animali  che  nelle  loro  tane  aprono  più  sbocchi  e  in 
diversa  direzione,  affinché  in  caso  di  pericolo  sia  possibile  agli  assediati  la 
fuga:  il  che  non  farebbero  se  in  essi  non  ci  fosse  intelligenza  e  riflessione  »). 
3.  S,  Agostino  .  .  .  similitudo:  il  Giannone  sbaglia  qui  libro  e  capitolo  del 
De  civ.  Dei:  li  aveva  citati  giusti  nell'osservazione  v:  cfr.  la  nota  1  a  p.  1017, 


IO50  L'APE   INGEGNOSA 

al  suo  governo,  non  altrimenti  che  il  nocchiero  al  timone  della 
nave:  «hic  culmen  altissimum,  hic  mentis  est  regimcn»,  come 
saggiamente  scrisse  Plinio,  lib.  11,  cap.  37,  e  dove  è  collocata  l'arce 
di  tutti  i  nostri  sensi:  «Hanc  habent  sensus  arcem»,1  dice  il  mede- 
simo autore.  Or  nel  capo  si  ravvisa  una  gran  differenza  tra  gli  uni 
e  gli  altri;  quello  de'  bruti,  ancorché  in  molti  animali  sia  il  capo  di 
più  vasta  mole,  nulla  di  manco  il  cerebro  colle  sue  pliche2  e  con- 
cavità non  giunge  in  quanto  al  numero  di  queste  ed  alla  grandezza 
a  quello  dell'uomo,  il  quale  si  osserva  eccedere  nel  duplo  e  sovente 
anche  nel  triplo  a  quello  de'  bruti.  Rufo  Efesio3  affermava  il  cere- 
bro dell'uomo  esser  più  grande  di  due  cerebri  di  bovi  ;  anzi  Riolano4 
nel  lib.  1  Anihropographiae  scrisse  esser  quattro  volte  più  grande. 
Per  ciò  avverti  Aristotele  nel  lib.  2  Degenerata  anim.5  che  i  fanciul- 
li non  possono  tener  il  capo  ritto  per  la  mole  e  gravezza  del  loro 
cerebro,  che  in  quell'età  non  ha  proporzione  con  gli  altri  suoi  mem- 
bri. Aggiungi  a  questo  il  copioso  sermone  onde  comunicano  insie- 
me i  loro  concetti,  le  mani  industriose  ed  adiutrici,  delle  quali 
l'uomo  è  fornito  ed  i  bruti  son  privi,  onde  il  paragone  è  indegno  e 
pur  troppo  disuguale.  Ciocché  gli  animali  fanno  è  per  istinto  pro- 
prio, di  cui  la  natura  in  ciò  fu  ad  essi  più  larga  e  profusa  che  non 
fu  all'uomo.  L'uomo,  sicome  si  è  detto,  e  saviamente  fu  avvertito 
da  Plinio,6  senza  dottore  che  l'ammaestri,  lo  guidi  ed  insegni,  per 
se  stesso  niente  sa;  ma  essendo  stato  dotato  d'intelletto,  questo 
compensa  e  supera  quanto  a'  bruti  la  natura  ha  conceduto  di  na- 
turali istinti  e  proprietà;  poiché  co'  suoi  accorgimenti,  seguendo  le 
lor  traccie  ha  saputo  coll'invenzioni  delle  arti  superargli  in  guisa 
ch'essi  sono  rimasi  e  vi  dureran  per  sempre  nella  vita  ferale  e  sel- 
vaggia; all'incontro  l'uomo  innalzato  ad  una  vita  cotanto  com- 
moda, eulta  e  civile,  ha  saputo  domare  e  vincere  la  lor  ferocia,  e 
con  le  poche  e  deboli  sue  forze  abbattere  le  più  forti  e  terribili. 
Noi  annoveraremo  qui  gli  accorgimenti,  l'industria  e  la  sagacità 


1.  uhic  culmen  . . .  arcem»:  Plinio,  Nat.  hìs£.}  ed.  cit.,  tomo  1,  lib.  xi,  cap. 
xxxvn,  sect.  xlix,  p.  616  («qui  la  vetta  più  alta,  qui  c'è  il  governo  della 
mente,  qui  hanno  i  sensi  la  loro  sede»),  2.  plicJie:  pieghe.  3.  Rufo  Efe- 
sio: medico  greco  del  I  secolo  d.  C,  studioso  di  anatomia.  È  citato  in  Pli- 
nio, loc.  cit.,  p.  615,  nota  3.  4.  Riolano:  Jean  Riolan  (1580  circa-1657), 
medico  francese.  Il  Giannone  si  riferisce  alla  Anthropographìa  ex  propriis 
et  novis  observationibus  collecta,  Parisiis  16 18.  Da  Plinio,  tbid.  5.  De  gen. 
an.t  11,  vi,  citato  in  Plinio,  ibid.  6.  e  saviamente . . .  Plinio  :  cfr.  Nat.  hist., 
ed.  cit.,  tomo  i,  lib.  vii,  sect.  1,  p.  s6q:  «hominem  scire  nihil  sine  doctrina». 


OSSERVAZIONE   XII  IO51 

degli  animali  non  solo  per  manifestare  la  loro  natura,  ma  quindi 
avvertire  che  da'  loro  naturali  istinti  per  la  maggior  parte  ebbero 
origine  le  arti  e  le  tante  altre  conoscenze  che  l'uomo  ha  più  oltre 
distese,  per  le  quali  s'innalzò  a  quello  stato  culto  e  civile  nel  quale 
oggi  ritrovasi. 

Ne'  primi  tempi  del  mondo  infante,  quando  gli  uomini  venivano 
fra  di  loro  in  risse  e  in  guerra,  non  si  valevano  di  altre  arme  se  non 
di  pugni,  calci,  di  sassi,  e  di  rami  di  alberi  scossi  e  gettati  dal 
vento  nella  nuda  terra;  ma  avendo  scorto  che  i  tori,  e  gli  altri 
armati  dalla  natura  di  corna,  artigli  e  pungenti  aculei,  aguzzavano 
prima  di  venir  alla  pugna  le  naturali  loro  armi  alle  pietre,  a' 
tronchi,  e  que'  ch'eran  armati  di  spine  lanciarle  a  gl'insidiatori  di 
lor  vita:  trovato  il  fuoco,  e  scoverto  l'uso  del  ferro,  aguzzarono 
ancor  essi  i  rami  e  gli  providero  di  punte  :  si  valsero  di  mazze  fer- 
rate e  di  spiedi  ;  e  sicome  il  riccio  avventava  le  sue  spine,  cosi  essi 
impararono  a  lanciare  le  freccie  ed  i  loro  dardi  ed  aste.  Avendo 
avvertito  che  gl'ichneumoni,1  animaletti  simili  a'  ghiri,  prima  di 
venire  a  battaglia  coll'aspide  suo  nimico  si  ravvolgono  nel  loto  e 
doppo  essersi  in  quello  ben  inviluppati  si  giacciono  a'  raggi  del 
sole  per  farlo  indurire,  sicché  gli  servisse  di  scudo  e  di  celata,  così 
l'uomo  attese  anche  a  provvedersi  di  lorica,  di  scudo,  celata,  torace 
ed  altre  armi  difensive. 

Chi  ha  insegnato  all'uomo  le  difese,  gli  aguati,  gli  stratagemmi  e 
gl'inganni  da  por  in  uso  contro  l'oste  nemica,  se  non  gl'instinti 
degli  animali  ?  Il  gatto  con  quanta  pazienza  e  silenzio  sta  in  aguato 
per  sorprender  l'uccello  o  '1  topolino!  Con  quanta  prestezza  si 
scaglia  loro  adosso!  Quanta  cura  pongono  gli  animali  nella  difesa 
de'  loro  parti  essendo  di  età  novella?  Per  difesa  de'  medesimi,  se 
veggono  avvicinarsi  forza  nemica  arruffano  il  pelo  o  la  piuma  e  ad 
un  certo  modo  si  gonfiano  per  zelo  della  salvezza  della  prole;  met- 
tono fuora  le  loro  arme,  adoprano  il  becco,  le  unghie,  li  denti,  li 
calci,  le  corna,  secondo  che  sono  stati  dalla  natura  provveduti 
d'istromenti  offensivi  ovvero  difensivi;  e  dove  non  arriva  la  forza 
suppliscono  coll'industria,  sicome  fa  la  pernice,  la  quale  per  al- 
lontanare l'uccellatore  dal  suo  nido  vola  poco  lontano,  si  finge 
storpiata,  e  dà  speranza  di  lasciarsi  pigliare;  e  quando  stima  che 
non  vi  sia  più  pericolo  per  i  pulcini,  spedita  e  leggiera  vola  lontano, 

i.  ichneumoni:  cfr.  Plinio,  ed.  cit.,  tomo  i,  lib.  vili,  cap.  xxiv,  sect.  xxxvi, 
P.  452. 


IO52  L'APE   INGEGNOSA 

e  lascia  delusa  1' avidità  di  chi  la  perseguitava.  Molti  animali,  che 
non  hanno  forza  di  resistere  all'avversario,  trovano  rimedio  nella 
fuga  o  nell'inganno.  La  volpe  volendo  appiattarsi  in  qualche  luogo 
e  quivi  nascondersi  per  non  esser  ritrovata  dal  cane,  fa  quanto 
più  può  lunghi  gli  ultimi  salti,  acciocché  non  ne  senta  l'odore  e 
talvolta  si  mette  a  nuoto  nell'acqua  che  scorre  onde  il  bracco  ed  il 
levriero  ne  perde  la  traccia.  Da  tutto  ciò  si  convince  che  non  deb- 
biano riputarsi  incredibili  o  favolose  le  relazioni  che  Plinio  rap- 
porta nel  lib.  8,  cap.  38/  del  lcontofono,  il  quale  istrutto  dalla 
natura  la  sua  urina  esser  al  lione  mortifera,  nella  pugna  gliela 
sparge  adosso  e  così  l'uccide;  e  della  lince,  la  quale  copre  la  sua 
urina,  dalla  quale  gelata  credeasi  formarsi  la  gemma  lingurio*  e  cosi 
delude  le  insidie  de*  cacciatori,  e  gli  toglie  la  traccia  d'inseguirla; 
non  altrimenti  che  il  gatto  domestico  copre  lo  sterco  di  polvere  per 
evitar  le  bastonate  del  padrone.  Parimente  il  tasso  cosi  chiamato 
oggi  in  Italia,  dagli  antichi  detto  meles,3  animai  sonnacchioso  di 
orrido  pelo  ed  invitto  alle  pioggie,  il  qual  non  altrimenti  che  la 
volpe  fassi  la  sua  tana  dentro  terra,  se  trovato  da'  cacciatori,  o  da' 
cani  è  assalito,  distende  la  sua  pelle  a  guisa  di  tamburro  che  resiste 
a'  colpi  dell'uomo  ed  a'  morsi  de'  cani.  E  chi  potrebbe  annoverar 
la  solerzia  e  sagacità  di  tanti  altri  animali  li  quali  non  han  altro  che 
l'insegni  se  non  la  maestra  e  provida  natura? 

La  sagacità  e  l'apparecchio  che  le  pernici  e  le  coturnici  (dagl'Ita- 
liani chiamate  ora  quaglie)  usano  ne'  combattimenti  fra  di  loro, 
o  co'  galli  ed  anche  co'  gatti,  aprì  all'uomo  una  grande  scuola  per 
apprendere  la  maniera  di  guerreggiare,  sicché  dapoi  potò  stendere  le 
cognizioni  e  ridurre  l'arte  della  guerra  in  quello  stato  che  oggi  veg- 
giamo.  Narra  Luciano  delle  coturnici,  che  in  Atene  con  tanta 
curiosità  occorreva  il  popolo  a  vedere  i  loro  combattimenti  l'une 
contro  le  altre,  come  se  fossero  gladiatori,  che  mosse  a  Solone  di 
far  una  legge,  colla  quale  si  commandava  che  li  giovani  dovessero 
trovarsi  presenti  alle  pugne,  che  facevano  tra  sé  li  galli  o  le  co- 
turnici, affinché  vedendo  la  fortezza  colla  quale  questi  uccelli 
combattevano  fino  all'estremo  spirito,  pigliassero  animo  di  fare 
essi  ancora  lo  stesso  nelle  battaglie  per  la  patria.4  Il  P.  Menochio 

1.  lib.  8t  cap,  38:  ed.  cit,  sect.  lvii,  p.  462.  2.  lingurìo:  «lyncurium»  nel 
luogo  citato  di  Plinio  (con  evidente  etimologia  da  lynx).  3.  melesi  cfr. 
ibid.,  sect.  Lvm,  p.  462.  4,  Narra  Luciano  . . .  patria:  Luciano,  Anacharsis 
rive  De  exercitationibus,  37. 


OSSERVAZIONE   XII  IO53 

nelle  sue  Stuore,  alla  centur.  xn,  cap.  44,  rapporta  che  l'Aldrovan- 
do  nel  tom.  il  della  sua  Ornithologia,  al  cap,  15,  pag.  161,1  parlando 
delle  coturnici  afferma  che  in  alcuni  luoghi  d'Italia,  e  particolar- 
mente a  Napoli,  sogliono  alcuni  allevare  di  questi  uccelli  assuefatti 
a  questi  combattimenti,  e  se  ne  pigliano  gran  piacere.  A  questo 
effetto,  prosiegue  il  Menochio  trascrivendo  Aldrovando,  preparono 
una  tavola  lunga,  e  doppo  di  averle  ben  pasciute  di  miglio  pongono 
le  due  coturnici  che  devono  combattere  l'una  da  un  capo  e  l'altra 
dall'altro,  le  quali  al  principio  fermano  il  passo  e  si  guardano 
scambievolmente  come  sogliono  fare  ancora  li  galli  prima  di  az- 
zuffarsi ;  poi  con  gran  velocità  vanno  ad  incontrarsi  ed  assaltarsi  e 
combattono  con  tanta  ostinazione  e  fierezza  che  non  si  ritirono 
dal  combattimento  se  non  soprafatte  dalla  violenza  dell'avversario 
e  doppo  di  averci  lasciato  delle  penne  e  del  sangue.  Aggiunge  che 
due  sogliono  essere  li  padroni  delle  due  combattenti,  li  quali  gio- 
cano danaro  o  altra  cosa,  che  debba  essere  di  quello  la  cui  quaglia 
resterà  vincitrice,  e  che  alcune  valenti  in  queste  zuffe  ed  abbatti- 
menti sono  preziose  e  si  vendono  tal  volta  dieci  0  dodici  scudi. 
Mi  vaglio  del  P.  Menochio,  non  potendo  io  esserne  testimonio  di 
veduta,  poiché  a'  miei  tempi  questi  giochi  in  Napoli  si  erano  trala- 
sciati ed  i  Napolitani  attendevano  ad  altri  diporti.  Le  pernici  ne' 
combattimenti  fra  di  loro  0  co'  galli  ed  anche  co'  gatti  usano  gli 
stessi  apparecchi  e  fierezza;  e  gli  antichi  molto  godevano  di  queste 
pugne,  rapportando  Elio  Lampridio  nella  Vita  di  Alessandro  Se- 
vero,2  che  questo  imperatore  ne'  giorni  festivi  si  pigliava  piacere 
di  vedere  combattere  le  pernici  con  li  cagnolini;  ed  Ateneo,  nel 
lib.  9  Deipnosopk.y  cap.  13,  vi  aggiunge  una  favola,  che  li  Pigmei, 
li  quali  hanno  continua  guerra  colle  grue,  procurono  d'avere  in 
aiuto  loro  le  pernici,  come  animale  atto  ed  inclinato  a  combattere. 
Della  sagacità  delle  lionesse  e  delle  cicogne  in  celare  i  loro  adul- 
tèri a'  mariti,  si  narrano  cose  mirabili.  Rapporta  Plinio  . . .  che 
neir Affrica,  per  penuria  di  acque  e  di  fonti,  gli  animali  di  ogni 

i.HP.  Menochio  .  .  .  pag.  161  :  cfr.  Stuore,  ed.  cit.,  tomo  in,  cent,  xn,  cap. 
xliv,  Si  dichiara  un  detto  di  S.  Giovanni  Climaco  circa  la  pugnacità  delle 
pernici)  pp.  586  sg.  -  Aldrovando:  Ulisse  Aldrovandi  (15212-1605),  scien- 
ziato bolognese,  rappresentante  del  naturalismo  enciclopedico  rinasci- 
mentale. Il  riferimento  è  a  Ornithologiae,  hoc  est  de  avibus  historiae,  libri 
XII  (XX)  . .  .,  Bononiae  1 599-1 603,  in  tre  volumi.  2.  Alex.  Sev.}  41,  5. 
Citazione  tratta  dal  Menochio,  loc.  cit.,  p.  586,  al  pari  di  quella  che  segue, 
di  Ateneo. 


1054  L'APE   INGEGNOSA 

specie  corrono  a'  fiumi  per  estinguere  la  lor  sete  ed  ivi  si  mescolano 
insieme,  onde  l'Affrica  è  sì  ferace  di  mostri  e  di  animali  amfibi. 
Quivi  la  lionessa  sovente  si  mescola  col  liopardo,  la  quale  perché 
il  marito  all'odore  non  si  accorgesse  del  fallo,  prima  di  avvicinar- 
segli  s'immerge  nel  fiume  e  si  lava  tutta.1  Cosi  pure,  secondo  che 
narra  il  P.  Menochio  nella  cent,  xn,  cap.  6o,a  fanno  le  cicogne 
adultere,  le  quali  ancorché  siano  osservanti  della  fedeltà  verso  i 
loro  mariti,  nulla  di  manco  se  per  sorte  vengono  a  mescolarsi  col- 
l'adultero,  perché  il  geloso  marito  non  se  ne  avveda,  calano  a'  fonti 
e  si  lavano.  Rapporta  questo  autore  che  fu  osservato  che,  volando 
il  maschio  a  cercarsi  pastura,  la  femmina  rimasa  in  casa  sovente 
con  un  altro  maschio  che  colà  volava  si  giaceva;  dapoi,  calatasi 
al  fonte,  si  lavava.  Il  padrone  di  quella  casa  notò  il  fatto  e  sospettò 
quel  ch'era,  onde  impedì  che  la  cicogna  si  lavasse;  ritornò  il  marito 
ed  all'odore  conobbe  il  fallo  e  dissimulò  per  allora;  ma  il  giorno 
seguente  accompagnato  da  altri  presene  vendetta  e  percotcndola 
col  becco  suo  e  degli  altri  la  fece  morire. 

Sono  ancor  mirabili  gl'instinti  di  alcuni  uccelli  di  conoscere  i 
tempi,  da'  quali  l'uomo  molto  apprese  per  l'arte  àc\V  agricoltura, 
e  la  di  loro  industria  in  costruirsi  i  loro  nidi,  onde  l'uomo  imparò 
la  maniera  di  costruire  le  case  e  dapoi  estendere  le  cognizioni  per 
V architettura  delle  fabbriche  eccelse  e  magnifiche.  Alcune  sorti  di 
uccelli,  sicomc  il  milvo,  la  gru,  la  tortore,  la  cicogna,  la  coturnice, 
la  rondine  ed  altri,  per  proprio  naturai  istinto  conoscono  gl'im- 
minenti tempi,  onde,  secondo  le  stagioni,  mutano  paesi,  e  quando 
l'inverno  si  avvicina  si  sanno  trasferire  a  clima  più  temperato  ;  ma 
l'ordine,  la  diligenza  e  disposizione  delle  torme  nella  loro  marcia 
è  non  meno  maravigliosa  e  sorprendente.  Hanno  capi  per  guida  e 
non  meno  provedono  la  loro  vanguardia  che  la  retroguardia.  Le 
grue  fanno  le  loro  sentinelle  quando  si  posono,  e  volano  alto  per 
guardar  da  lungi  i  luoghi  per  dove  passare.  Delle  cicogne,  oltre 
l'esperienza,  ne  abbiamo  la  testimonianza  di  Virgilio  nel  lib.  3 
delle  Georg.?  e  d'Isidoro  nel  lib.  12,  cap.  7,  dove  per  ciò  le  chia- 

1.  Rapporta  Plinio  . . .  tutta:  cfr.  Nat.  hist.t  ed.  cit,  tomo  1,  lib.  vili,  cap. 
xvi,  sect.  xvii,  p.  443.  2.  cap.  60:  intitolato  Della  pietà  delle  cicogne  verso 
de*  veccfii  loro  genitori,  e  della  castità  e  gratitudine  delle  medesime^  ed.  cit., 
tomo  m,  pp,  612  sgg.  3.  Virgilio,  George  11,  319-20:  «Optima  vinetis 
satio  cum  vere  rubente  /  candida  venit  avis  longis  invisa  colubris  »,  versi 
citati  dal  Menochio,  op.  cit.,  tomo  in,  cent,  xn,  cap.  xlviii,  De  gli  uccelli 
che  secondo  le  stagioni  dell1  anno  mutano  paese,  pp.  592  sgg. 


OSSERVAZIONE   XII  IO55 

ma  «hae  veris  nuntiae,  societatis  comites».  Le  tortore  parimente 
mutano  paese  nel  tempo  d'inverno,  sicome  l'attestano  Aristotele, 
De  animalib.,  lib.  8,  cap.  16,  e  Varrone,  lib.  3,  cap.  5.1  Delle  rondini 
è  a  tutti  notissimo  che  d'inverno  mutano  clima  trasferendosi  a  luo- 
ghi dove  l'aria  sia  più  dolce  e  poi  vi  ritornano  nella  primavera. 
Il  P.  Menochio  nella  xn  centur.,  cap.  48,  rapporta  aver  letto  ne* 
libri  di  Olao  Magno3  che  le  rondini  ne'  paesi  settentrionali,  sicom'è 
la  Polonia  ed  altri  vicini,  non  cercano  altro  paese  distante  dove  go- 
dono l'aria  più  tepida,  ma  molte  insieme  unite  s'immergono  ne* 
stagni  e  nelle  paludi,  le  quali  si  aggiacciono,  e  dentro  di  quel  giac- 
cio stanno  racchiuse  tutto  l'inverno,  e  n'escono  quando  dal  caldo 
della  primavera  il  giaccio  si  risolve  in  acqua,  vivendo  frattanto, 
come  le  lumache,  del  proprio  sugo.  Il  P.  Menochio  non  ardisce 
di  averla  per  favola,  come  credo  che  sia,  ma  si  maraviglia  ch'es- 
sendo la  rondine  tanto  amica  della  libertà,  che  se  per  un  sol  giorno 
è  tenuta  chiusa  in  gabbia  si  muore,  possa  stare,  mentre  fugge  l'aria 
fredda,  in  prigione  strettissima  di  giaccio,  e  quivi  vivere  per  molti 
mesi  senza  cibo.  Le  coturnici,  o  siano  quaglie,  mutano  ancor  esse 
paese  e  passano  il  mare,  riposandosi  nell'isole  o  scogli,  ed  alcuni 
affermano  che  si  posano  anche  sopra  lo  stesso  mare  andando  a  galla 
con  un'ala  alzata,  che  hanno  per  vela.  Plinio  nel  lib.  io,  cap.  23/* 
scrive  che  vengono  alquanto  prima  delle  grue  ed  in  tanta  quantità 
e  con  tal  impeto  che  pongono  tal  ora  a  pericolo  li  vascelli  ed  i  navi- 
ganti, urtando  nelle  vele  que'  copiosissimi  stormi,  o  sopra  esse 
riposandosi;  aggiungendo  esser  gravi  di  corpo  e  di  poche  forze,  e 
che  aspettano  la  commodità  del  vento  fresco,  che  aiuti  il  lor  volare, 
e  che  hanno  certi  luoghi  o  posti  determinati,  dove  fanno  le  loro 
posate. 

Ma  chi  abbastanza  ha  scorta  la  loro  industria  e  solerzia  in  co- 
struirsi i  nidi  e  le  tane?  Mirabile  è  la  costruzione  de'  lor  nidi  in 
Egitto  presso  le  rive  del  Nilo  per  conservar  l'uova  dall'innondazio- 
ne  di  quel  fiume;  costruendogli,  secondo  che  maggiore  o  minore 
deve  essere  l'innondazione,  o  più  vicino  o  più  discosto  alla  riva. 
Delle  tane  delle  testudini  e  de'  cocodrili  ed  altri  animali  di  quel 
paese  pur  si  narra  lo  stesso,  onde  dalla  maggiore  o  minor  lonta- 

1.  Isidoro  . .  .  cap.  5:  tutte  e  tre  le  citazioni  tratte  dal  Menochio,  loc,  cit., 
p.  593.  2.  Olao  Magno:  Olof  Mànson  (Olaus  Magnus,  1490-1557),  sto- 
rico, cartografo,  umanista  svedese,  vescovo  di  Upsala,  citato  dal  Menochio, 
tbid.     3.  Plinio  .  .  .  cap.  23:  ed.  cit„  tomo  1,  sect.  xxxiii,  p.  557. 


IO56  L'APE    INGEGNOSA 

nanza  di  tali  nidi  e  tane  gli  Egizi  prendono  argomento  quanto  deb- 
ba crescere  il  fiume  al  solito  tempo  deirinnondazione  di  ogni  anno, 
sicome  rapportano  Eliano  nel  lib.  5  De  ammaliò.,  cap.  52,1  e 
Plutarco  nel  fine  del  libro  De  anìmalìum  terrestrhun  et  aquatilium 
comparatione.2.  Il  medesimo  dice  Plinio  nel  lib.  xo,  cap.  33,1  delle 
rondini,  le  quali  nel  tufo  delle  rive  del  Nilo  si  cavano  il  nido,  e  che 
alquanti  giorni  prima  che  la  crescente  arrivi  a  quel  luogo  l'ab- 
bandonano. Aggiunge  il  P.  Menochio  nella  cent,  xrr,  cap.  49,*  es- 
sere stato  osservato  che  taluni  uccelli  facevano  i  loro  nidi  negli  al- 
beri ne'  rami  più  alti,  se  dovea  essere  il  tempo  quieto  e  senza  venti  ; 
e  ne'  più  bassi,  se  era  per  esser  l'aria  quell'anno  borascosa  ed  aggi- 
tata  da'  venti.  Ed  è  veramente  ammirabile  con  quanta  diligenza, 
industria  ed  arte  l'uccelli  formano  i  loro  nidi,  aspri  nel  di  fuori, 
intrecciati  di  stecchi  e  fortificati  con  varie  legature  o  con  fango,  ma 
di  dentro  molli  ed  aggiati,  pieni  di  piume  e  di  lanugine  acciocché 
i  tenui  pulcini  non  siano  offesi  dall'asprezza  della  materia,  e  siano 
fomentati  e  difesi  dal  freddo;  onde  a  ragione  Arnobio,  Adv.  gente*  ,5 
cotanto  ammira  il  di  lor  artificio  e  sottile  ingegno.  Ho  veduto  io 
mentre  dimorava  in  Vienna  alcuni  nidi  d'uccelli  trasportati  per 
maraviglia  da'  boschi  d'Ungheria  in  quella  città,  tessuti  a  guisa  di 
borze  con  tant'arte  che  sembravano  fatti  da  mano  umana,  le  quali 
si  trovavano  appiccate  nell'estremità  ed  ultima  parte  de*  piccioli 
rami;  e  secondo  l'osservazione  de'  rustici  abitatori  di  quelle  selve, 
ciò  non  per  altro  se  non  perché,  abbondando  que'  boschi  di 
serpenti,  i  quali  ascesi  ne'  rami  divoravano  l'ova  ed  i  polli  che  vi 
trovavano,  gli  accorti  padri  e  madri  tessevano  i  loro  nidi  nelle 
estreme  punte  di  que'  ramoscelli  dove  le  serpi  non  potevano  giun- 
gere a  cagion  che  il  lor  peso,  non  potendo  esser  sostenuto  da  que' 
piccioli  rami,  precipitavano  giù  a  terra.  Nel  covare  gli  ovi  quanta 
diligenza  pongono  perché  il  calore  sia  diffuso  egualmente  in  tutti, 
onde  i  pulcini  schiudano  vitali  ?  La  gallina  covandone  molti  ed  ac- 
corgendosi che  sotto  di  lei  non  tutti  sono  ben  coperti,  col  suo  becco 
muta  i  lor  siti,  affinché  tutti  ugualmente  partecipino  del  calore. 
Chi  in  fine  non  ammirerà  la  solerzia  delle  bestie  terrestri  in  costrui- 

1 .  cap.  $2  ;  intitolato  De  aspìdibus  aliisque  ferìs  ad  Nìlum  degmtibus*  z.  Plu- 
tarco .  .  .  comparatione:  cfr.  Scripta  moralia,  11,  Terrestriane  an  aquatilia 
ammalia  sint  callidiora.  3.  Plinto  . . .  cap,  33:  ed.  cit.,  tomo  1,  scct.  XUX, 
p.  562.  4.  cap.  40:  intitolato  Che  nelle  bestie  si  scorge  una  certa  apparenza 
d'uso  di  ragione  e  di  discorso,  ed.  cit.,  tomo  in,  pp.  595  sgg.  5.  Arnobio, 
Adv.  gentes,  vi,  xvx,  in  Mignc,  P.  L.t  v,  col.  1199. 


OSSERVAZIONE   XII  IO57 

re  le  loro  tane  con  varie  uscite  «ut  si  quod  periculum  inciderit, 
fuga  pateat  obsessis»,  come  disse  Lattanzio,  il  quale  per  ciò  non 
ebbe  difficoltà  di  affermare  che  noi  farebbero  «  nisi  inesset  illis  intel- 
ligentia  et  cogitatio».1 

Molti  animali,  ancorché  privi  d'intelletto,  seguendo  solo  quel 
instinto  ch'è  stato  lor  dato  dalla  natura,  ad  ogni  modo  operano 
con  tant'ordine  e  con  tanta  industria,  come  se  perfettamente  ap- 
prendessero ed  intendessero  quello  che  fanno  ;  onde  avvenne,  come 
si  è  detto,  che  alcuni  antichi  scrittori  si  persuasero  che  avessero 
qualche  uso  di  ragione,  se  bene  imperfetto,  del  qual  argomento 
scrisse  Plutarco  un  opuscolo,  e  S.  Agostino  ne*  libri  della  Città 
diedegli  per  ciò  «quaedam  scientiae  similitudo  »,2  poiché  chi  non 
ammirerà  l'arte  del  ragno,  da  cui  l'uomo  l'apprese,  in  tessere  la 
sua  tela  con  fili  sottilissimi  ugualmente  tirati,  tanto  che  una  maglia 
non  sia  maggiore  dell'altra,  e  tutta  la  rete  tanto  forte  e  tenace  che 
possa  fermare  la  mosca  volante,  alla  quale  si  scaglia  adosso  il  ra- 
gno, la  lega,  l'uccide  e  la  porta  al  suo  covile,  correndo  sopra  le  fila 
della  rete  con  maravigliosa  leggerezza? 

Le  api  formano  i  favi  loro  di  cera  distinti  in  varie  celle,  che  tutte 
hanno  sei  angoli.  Volano  per  l'aria  e  si  fermano  sopra  de'  fiori,  da' 
quali  raccolgono  la  ruggiada  dolce  caduta  dal  cielo  e  la  ripongono 
acciocché  serva  di  pascolo  nel  tempo  dell'inverno.  Portano  l'acqua 
necessaria  al  loro  lavoro  o  con  la  bocca  o  attaccata  a  quella  lanugine 
della  quale  sono  vestite;  e  l'une  l'altre  si  aiutano;  alcune  fabbricano 
il  favo  o  lo  puliscono,  altre  scaricano  quelle  che  venendo  di  fuori 
portano  la  materia;  e  quando  hanno  di  quel  loro  nettare  empite  le 
celle,  con  una  sottilissima  membrana  le  ricuoprono,  accioché  non 
si  sparga.  Si  governano  in  forma  di  repubblica,  soggette  ad  un  su- 
premo capo  ch'è  il  re  loro,  maggiore  di  corpo  e  più  bello  di  fat- 
tezze. Insieme  lavorano,  insieme  riposono  e  tutte  scambievolmente 
si  aiutano  in  quello  che  fa  di  mestieri.  Il  verme  filatore  della  seta 
cava  dalle  sue  viscere  quelle  sottilissime  fila  di  seta  colla  quale 
formano  il  boccio,  nel  quale  si  racchiudono,  e  poi,  mutata  forma, 
n'escono  alati.  Lo  spino  sale  sopra  la  vite  e  ne  scuote  molti  acini 
maturi,  poi  calando  a  basso  tra  quelli  si  rivolge  e  con  le  punte 
delle  sue  native  spine  li  raccoglie  e  li  porta  a'  suoi  figli;  ed  il  me- 
desimo fa  degli  altri  frutti. 

1.  «  ut  si  quod .  . .  cogitatio  ni  cfr.  la  nota  2  a  p.  1049.     a.  S.  Agostino  . . . 
similitudo:  cfr.  la  nota  1  a  p.  1017. 

67 


IO58  L'APE    INGEGNOSA 

Altri  animali  mostrano  nelle  loro  operazioni  tanta  sapienza  che 
diedero  a  S.  Basilio  nell' Esamerone1  ed  a  S.  Ambrogio  nel  suo*  la 
spinta  di  avanzar  troppo  la  loro  condizione  e  quasi  che,  toltane  la 
religione,  di  fargli  uguali  all'uomo,  del  cui  argomento  trattò  anche 
fra'  moderni  con  molta  eloquenza  il  Granata  nel  suo  Simbolo  della 
fede.3  La  formica  Salomone  la  prepone  per  essempio  al  pigro  ed 
infingardo  e  vuol  che  da  quella  impari  la  sapienza,  poiché  in 
questo  picciolo  animaletto  si  osserva  ed  ammira  la  provvidenza  e 
la  sollecitudine  di  provedersi  di  vettovaglia  nell'està,  per  avere  di 
che  sostentarsi  nell'inverno  ;4  ciocché  fa  in  modo  che  pare  abbia 
discorso  ed  elegga  il  meglio,  lasciando  quello  che  non  è  tanto  buo- 
no, sprezzando  l'orzo,  per  portare  il  grano  nelle  sue  buche  e  ca- 
verne sotterranee.  E  perché  non  basta  riempire  le  celle  e  le  dispense 
di  grano  se  non  si  provede  che  non  si  guasti  e  che  col  umido  del 
terreno  rammorbidito  non  germogli,  le  formiche  lo  cavano  e  l'e- 
spongono al  sole  ne'  giorni  sereni,  cioch'è  segno  certo  che  non  deb- 
ba piovere  quando  espongono  fuori  la  loro  provvisione.  Di  più  con 
maravigliosa  diligenza  rodono  in  ciaschedun  grano  quella  parte 
nella  quale  risiede  la  virtù  di  germogliare;  ed  in  questa  maniera 
si  assicurano  che  la  provvisione  debba  essere  di  durata  e  preservata 
dal  pericolo  di  corrompersi.  Si  fanno  caverne  sotterranee  ove 
covano  l'ova  con  vari  ravvolgimenti  perché  non  vi  entrin  Tacque 
delle  piogge.  Plinio  nel  cap.  30  dcll'xi  libro  ammira  ancora  la  loro 
sagacità,  dicendo:  «Et  quoniam  ex  diverso  convehunt,  altera 
altcrius  ignara,  certi  dies  ad  recognitionem  mutuam  nundinis 
dantur.  Quac  tunc  carum  concursatio  ?  Quam  diligens  cum  obviis 
quaedam  collocutio  atque  percontatio?».5  Altre  accortezze  dì  que- 
sto animaletto  raccolse  Aldrovando  nel  lib.  5  De  insectis,  dove 


1.  S.  Basilio  neìVBsamerone:  cfr.  Homiliae  in  Jrlescaemeron,  soprattutto  le 
JSTora.  vii,  De  rcptilibus;  vili,  De  volatihbus  et  aquaticis,  e  IX,  De  tcrrestribus, 
in  Miglio,  P.  G*,  xxix,  coli.  147  sgg.  Dal  Mcnochio,  loc.  cit.,  p.  595. 

2.  S.  Ambrogio  nel  suo  :  cfr.  Hexaemeron  libri  sex,  lib.  V,  De  opere  quinti 
dieiy  in  Migne,  P.  L.,  xiv,  coli.  219  sgg.  Sempre  dal  Mcnochio,  ibid. 

3.  il  Granata  , .  .fede:  non  sono  riuscito  a  sapere  niente  di  più  intorno  al- 
l'autore e  all'opera;  ma  la  citazione  deriva  dal  Mcnochio,  ibid*  4.  La 
formica  . . .  inverno:  ancora  dal  Mcnochio,  ibid.  Cfr.  Prov.,  6,  6-7.  5.  Pli- 
nio . .  .percontatio:  ed.  cit.,  tomo  1,  ttb.  xi,  cap.  xxx,  scct.  xxxvi,  p.  610 
(«E  poiché  trasportano  il  loro  carico  da  direzioni  opposte,  ignare  Turni 
dell'altra,  vengono  stabiliti  dei  giorni  determinati  di  mercato  per  una 
mutua  ricognizione.  Quale  via  vai,  allora,  che  attento  conversare  e  inter- 
rogarsi quando  s'incontrano!»)- 


OSSERVAZIONE  XII  IO59 

coirautorità  di  Alberto  M.  riprova  Popinione  di  Girolamo  Carda- 
no,1  che  immaginò  le  formiche  non  aver  occhi,  affermando  avergli 
come  gli  altri,  e  per  ciò  vedersi  far  tanti  viaggi  su  ed  in  giù,  di  qua 
e  di  là,  che  senza  il  lume  della  vista  certamente  non  potrebber  ese- 
guire. Plinio,  nel  cit.  luogo,  di  questo  solo  insetto  dice  osservarsi 
che  abbia  cura  di  seppelire  i  suoi  morti  come  l'uomo;  ma  Eliano, 
lib.  1  Hist.  an.,  cap.  22,2  e  Tzetzes3  attribuiscon  il  medesimo  al- 
l'elefante, al  delfino,  alla  rondine,  all'orso  ed  all'ape. 

Ma  che  diremo  degli  animali  più  grandi  e  perfetti,  come  degli 
elefanti,  de'  lioni,  de'  cavalli,  cani  ed  altri:  da'  quali  gli  uomini 
stessi  han  appreso  d'esser  generosi,  clementi,  fedeli,  docili  ed  altre 
virtù  ?  Agli  elefanti,  Plinio,  come  si  è  detto,  diede  anche  religione. 
Da'  generosi  lioni  si  è  appreso  la  generosità  e  la  clemenza;  da'  cani 
la  fedeltà;  e  ne'  cavalli,  che  non  si  ammira  di  animo  guerriero  e 
generoso  ?  Giob  nel  cap.  39  ce  ne  dipinse  un'elegante  e  molto  viva 
immagine:  «gloria narium  eius  terror.  Terram ungula  fodit,  exultat 
audacter  in  occursum,  pergit  armatus»4  etc.  Intorno  alla  loro  do- 
cilità, ingegno  e  memoria  da  vari  autori  si  riferiscono  cose  mirabili; 
onde  a  ragione  Plinio  nel  lib.  8,  cap.  42,*  ebbe  a  dire:  «ingenia  eo- 
rum  inenarrabilia».  È  nota  l'istoria  de'  cavalli  de'  Sabariti  e  l'indu- 
stria de'  Crotoniati  rapportata  da  Aristotele  nella  sua  Politica  dove 
parla  della  repubblica  de'  Saberiti,  e  riferita  anche  da  Ateneo  nel 
lib.  12,  cap.  6,  del  Convito  de1  savi.6  Tra'  moderni  veggansi  Giulio 


1.  Altre  accortezze.  . .  Cardano*,  la  citazione  delTAldrovandi  dal  Meno- 
chio,  loc.  cit.,  p.  595.  Cfr.  U.  Aldrovandi  De  animalibus  insectis  libri  sep- 
tem  .  .  .,  Bononiae  1602,  liber  v,  qui  est  de  insectis  apteris  pedatis,  primum 
de  formica,  p.  517,  dove  cita  il  De  Subtilitate,  lib.  9,  del  Cardano,  e  Alberto 
Magno,  Tract.,  4,  lib.  6,  cap.  1.  2.  Eliano,  lib.  1  Hist.  an.,  cap.  22:  la 
fonte  è  ancora  Plinio  cit.,  p.  610,  nota  n  alla  sect.  xxxvi.  Il  Giannone  ha 
però  frainteso  il  rinvio  di  questa  nota  a  Eliano,  e  la  citazione  giusta  di 
Eliano  è:  «lib.  5  Hist.  anim.,  cap.  49».  3,  Giovanni  Tzetzes,  grammatico 
bizantino  del  XII  secolo,  autore  di  uno  zibaldone  in  versi  intitolato  Libro 
delle  storie,  più  noto  come  Chiliadi  per  essere  i  tredici  libri  che  lo  compon- 
gono di  mille  versi  ciascuno.  La  fonte  in  Plinio,  ibid.:  «Tzetzes  chiliad.  4 
Hist.  127,  vers.  153».  Nell'Index  auctorum  praecipuorum,  in  ed.  cit.,  tomo 
1,  p.  n.n.,  THardouin  cita  l'edizione  di  cui  si  è  servito:  «Ioan.  Tzetzes 
Variarum  historiarum  versus  politici.  Inter  Poetas  graecos,  Genevae  1614, 
folio1».  4.  Giob . .  .armatus:  da  G.  S.  Menochio,  Stuore  cit.,  tomo  in, 
cent,  xn,  cap.  xlvii,  Della  docilità  et  altre  buone  qualità  de  i  cavalli,  pp.  591 
sg.  La  citazione  a  p.  591.  Cfr.  Iob,  39,  20-1  (ma  si  legga  «armatis»  anziché 
armatus).  5.  Plinio  nel  lib.  8,  cap.  42:  ed.  cit.,  tomo  1,  sect.  lxv,  p.  466. 
Cfr.  anche  in  Menochio,  loc.  cit,  p.  591.  6.  È  nota  V istoria  ...  savi: 
la  notizia  in  Plinio,  loc.  cit.,  sect.  lxiv,  p.  466,  nota  16.  Aristotele  è  men- 


IOÓO  L'APE   INGEGNOSA 

Cesare  Scaligero1  nell'essercitazione  269,  Lipsio2  in  una  sua  let- 
tera scritta  sopra  questa  materia  e  Gregorio  Tolosano,  De  repub., 
lib.  13,  cap.  13.3  Ed  intorno  all'amore  e  fedeltà  de'  cavalli  verso  i 
loro  padroni  celebre  è  l'istoria  della  pietà  del  cavallo  di  Clclio  cava- 
lier  romano  stato  ucciso  nella  famosa  battaglia  di  Canne,  elegante- 
mente descritta  dal  nostro  Silio  Italico.4 

In  fine  donde  se  non  da'  loro  naturali  instinti  apprese  l'uomo  in 
gran  parte  l'arte  medica?  Poich'essi  per  proprio  instinto  sanno 
distinguere  i  pascoli  e  l'erbe  nocive  e  salutevoli,  ed  il  modo  di  cu- 
rarsi nelle  loro  infermità  e  ferite.  Il  cane  scarica  lo  stomaco  con 
masticare  la  gramigna  e  provocarsi  al  vomito  e  purgarsi  dall'umo- 
re bilioso.  Il . .  .5  quando  si  sente  che  nel  suo  corpo  il  sangue  ab- 
bonda, si  getta  tra  pungenti  cannucce  di  laghi  0  stagni  e  così  dalle 
vene  lo  tragge  fuori  e  se  ne  sgrava.  Il  cervo  ferito  ricorre  al  dit- 
tamo. La  ibi  per  iscaricare  il  ventre  del  suo  becco  si  vale  per 
argomento  affin  di  sgravarsene.  Il  colombo  salvatico,  il  merlo  e  la 
pernice  si  purgano  con  le  foglie  del  lauro.  La  rondine  si  medica  gli 
occhi  con  la  celidonia.  La  donnola  con  la  ruta  si  preserva  de'  veleni, 
ed  altri  animali  in  diverse  maniere  occorrono  a'  loro  mali.  Di  che 

zionato  da  Ateneo,  che  però  non  rinvia  alla  Politicai  ma  genericamente  a 
un  passo  in  cui  lo  Stagirita  parla  della  politela  dei  Sibariti.  1.  Giulio  Cesare 
Scaligero:  il  riferimento  è  tratto  dal  Menochio,  loc.  cit.,  p.  591.  Sullo 
Scaligero  vedi  la  nota  3  a  p.  616:  cfr.  Exotericarum  exercitatìonum  libri 
XV .  .  .,  Francofurti  1582,  non  esercitazione  269,  Quae  de  coitu.  Passer 
(pp.  815-6),  che  non  c'entra,  ma  209,  Equi  docilitas,  p.  669.  2.  Lipsio: 
cfr.  la  nota  6  a  p.  1013.  Ancora  dal  Menochio,  loc.  cit.,  p.  592:  «da  una 
epistola  di  Lipsio  che  è  tutta  di  questa  materia».  3.  Gregorio  Tolosano  . . . 
cap.  13  :  anche  questa  citazione  è  tratta  dal  Menochio,  ibid.  :  «  Pietro  Gre- 
gorio Tolosano  racconta  nel  libro  13  cap.  13  della  sua  repubblica».  Si 
tratta  del  canonista  Pierre  Grégoke  (1540- 1597),  nativo  di  Tolosa,  autore 
di  De  republica  libri  sex  et  vigìnti . . .  emendati  et  additionibus  aneti,  Lug- 
duni  1609,  due  tomi  in  un  volume.  4.  Ed  intorno  . . .  Italico:  sempre 
dal  Menochio,  ibid.:  «Udiamo  come  questo  fatto  sia  descritto  da  Silio 
Italico  ...  ».  Seguono  i  versi  di  Silio  Italico,  Punica^  x,  458-66,  cui  il 
Giannonc  allude.  Il  brano  che  segue,  sugli  accorgimenti  dogli  animali  per 
curarsi  delle  loro  malattie,  eccezion  fatta  per  l'ippopotamo  e  per  l'ibi, 
è  tratto  quasi  alla  lettera  dal  Menochio,  op.  cit.,  tomo  ni,  cent,  xn,  cap. 
un,  Delle  notabili  industrie  d1  alcuni  animali^  p.  602.  5.  Cosi  nell'autogra- 
fo. Si  tratta  dell'ippopotamo:  cfr.  infatti  Plinio,  Nat.  hist,  ed.  cit.,  tomo  1, 
lib.  vili,  cap.  xxvi,  sect.  xl,  p.  453:  «Hippopotamus  in  quadam  medendi 
parte  etiam  magister  extitit.  Assidua  namque  satietate  obesus  exit  in  litus, 
recentes  arundmum  caesuras  speculatum:  atque  ubi  acutissimum  videt 
stirpem,  imprimens  corpus,  venam  quamdam  in  crure  vulnerat,  atque  ita 
profluvio  sanguinis  morbidum  alias  corpus  exonerat,  et  plagam  limo  rursus 
obducit». 


OSSERVAZIONE   XIX  IOÓI 

in  una  osservazione  a  parte  ampiamente  si  dirà,  quando  manifesta- 
remo  che  il  caso  ovvero  i  naturali  istinti  degli  animali  hanno 
istruito  l'uomo  e  spinto  all'invenzione  delle  arti  e  delle  scienze. 


OSSERVAZIONE  XIX1 

Le  comete  niente  portendono  overo  presaggiscono  0  di  bene  0  di 
male,  quando  si  rendono  a  noi  aspettabili? 

Convengono3  oggi  tutti  i  migliori  e  peritissimi  astronomi  che  le 
comete  non  siano  fenomeni  che  si  producono  da  vapori  o  esalazioni 
ignee,  sulfuree  o  bituminose  della  terra,  accese  nella  suprema 
regione  dell'aria,  ove  si  generano  tutte  le  altre  meteore.  Elle  sono 
corpi  solidi,  durabili  ed  erranti,  le  quali  hanno  la  lor  sede  comu- 
ne colle  altre  stelle  erranti  nella  sommità  del  cielo,  sopra  ogni 
altro  pianeta,  non  pur  della  Luna,  ma  di  Saturno  istesso,  donde 
discendono  e  si  raggirono  poi  vagando  nelle  regioni  de'  piane- 
ti; onde  avviene  che  vagando  in  sì  sublimi  regioni  sian  vedute 
da  nazioni  fra  di  lor  lontanissime  e  quasi  per  infinito  spazio  di- 
stanti. 

Sicome  nella  produzione  delle  medesime  niente  la  terra  vi  confe- 
risce di  sue  esalazioni  o  vapori,  cosi  parimente  è  falso  che  sijfor- 

1.  Nel  margine  dell'autografo,  in  alto  a  sinistra,  la  data  «io  marzo  1744». 
2. portendono:  annunziano,  presagiscono;  aspettabili',  visibili  (latinismi). 
3.  Convengono  ecc.:  senza  citare  Bayle,  il  Giannone  ne  riprende  il  grande 
tema,  utilizzando  i  Principia  del  Newton.  Cfr.  le  seguenti  opere  del  Bayle  : 
Lettre  à  M.L.A.D.C,  docteur  de  Sorbonne,  où  il  est  prouvé  par  plusieurs 
raisons  tirées  de  la  phìlosophie  et  de  la  théologie,  que  les  comètes  ne  sont  point 
le  présage  d'aucun  malheur  .  .  .,  Cologne  1682;  Pensées  diverses  écrites  à  un 
docteur  de  Sorbonne  à  Voccasion  de  la  comète  qui  parut  au  mois  de  dicembre 
x68o,  Rotterdam  1683,  e  Continuation  des  Pensées  diverses  . .  .,  Rotterdam 
1705.  Sul  Bayle  cfr.  P.  Bayle,  Pensieri  sulla  cometa  e  Dizionario  storico  e 
critico,  a  cura  di  G.  B.  Brega,  Milano  1957,  che  è  una  discreta  antologia;  É. 
Labrousse,  Pierre  Bayle,  La  Haye  1963,  in  due  volumi,  che  è  certamente 
l'opera  più  aggiornata  sui  Bayle,  ma  tende  ad  assorbirlo  nella  dimensione 
del  teologo  protestante;  B.  Talluri,  Pierre  Bayle,  Milano  1963,  soprattut- 
to le  pp.  37-46,  riguardanti  le  comete;  W.  Rex,  Essays  on  Pierre  Bayle  and 
Relìgious  Controversy,  La  Haye  1965,  pp.  30-74,  che  si  muove  nella  stessa 
direzione  della  Labrousse.  Ma  cfr.  G.  Cantelli,  Teologia  e  ateismo.  Saggio 
sul  pensiero  filosofico  e  religioso  di  Pierre  Bayle,  Firenze  1969.  Vedi,  per  un 
interessante  confronto,  la  voce  Comète  dell' Bncyclopédie,  ni,  1753,  pp. 
672  sgg.,  fondata  su  Newton  e  sull'opera  del  fratello  di  Johann  Bernouilli, 
Jacob,  Conamen  novi  systematis  cometarum . . .,  Amstelacdami  1682.  Al 
Bayle  si  ispirano  le  pagine  del  Toland  nell5 Adeisidaemon  . . .,  Hagae  Comi- 
tis  1709,  par.  xxi,  pp.  37-41* 


I0Ó2  L'APE   INGEGNOSA 

mino  dalle  esalazioni  del  sole  e  de'  pianeti,  intorno  alle  quali  esse 
si  aggirono,  e  che  sicome  di  repente  nascono,  così  di  repente  si 
estinguano.  Questa  fu  un'opinione  antica  de'  peripatetici,  riferita 
da  Seneca,  lib.  7  Natur.  qu.,  cap.  19,  da  Plinio,  lib.  2,  cap.  25,  e 
da  Galeno  o  chi  altro  si  fosse  l'autore  del  libro  De  hìst.  philos.,  cap. 
18,  che  va  inserito  nel  tom.  2  dell'opere  di  Galeno,1  rifiutata  da' 
più  insigni  astronomi  non  meno  moderni  che  antichi.  Fra  gli  antichi 
la  rifiutarono  i  pitagorici,  i  quali  costantemente  sostennero  che  le 
comete  fossero  corpi  stabili  e  perpetui  ;  e  se  bene  il  lor  corso  fosse 
vario  ed  irregolare,  non  ordinato  e  costante  come  quello  de'  piane- 
ti: nulla  di  manco  non  mai  s'estinguono,  ma  ritornano  anch'esse 
doppo  il  lor  giro  ed  àmbito  ad  apparir  di  nuovo;  quantunque  si 
renda  assai  difficile  di  ravvisare  ed  avertire  essere  le  stesse,  poiché 
spesso  cangiono  forma  ed  aspetto.  De'  pitagorici  intese  Plinio 
(sicome  saggiamente  avverti  il  P.  Arduino)  nel  lib.  2,  cap.  25  in  fi- 
ne, quando  scrisse:  «Sunt  qui  et  haec  sidera  perpetua  esse  cre- 
dant,  suoque  ambitu  ire,  sed  non  nisi  relieta  a  sole  cerni»;2  e  del 
medesimo  sentimento  fra  gli  antichi  fu  Galeno  nel  cit.  lib.,  capp. 
22  et  23. 3  Tra  moderni  i  più  sublimi  ed  accurati  astronomi  tennero 
ciò  per  indubbitato  e  costante,  e  per  tacer  di  altri  dovran  certa- 
mente prevalere  le  diligenti  osservazioni  fattane  dal  cclebratissimo 
Isaac  Newton,  il  quale  nel  lib.  ili  de'  suoi  Princìpi  matematici  della 
naturai  philosophia,  De  mundi  systemate,4  non  ebbe  difficoltà  di 
affermare:  «quod  corpora  cometarum  sunt  solida,  compacta,  fixa 
ac  durabilia  ad  instar  corporum  planetarum.  Nam  si  nihil  aliud 
essent  quam  vapores  vel  exhalationes  terrae,  solis  et  planetarum, 
cometa  hicce  in  transita  suo  per  viciniam  solis  statim  dissipari 
debuisset».  E  quest'insigne  autore  è  inchinato  a  credere  che  le 

1.  Questa  fu  . . ,  Galeno:  cfr.  Plinio,  Nat.  hist.,  ed.  cit.,  tomo  1,  lib.  n, 
cap.  xxv,  sect.  xxni,  p.  89;  qui,  alla  nota  15,  le  citazioni  di  Seneca,  di  Ga- 
leno e  deWHistoria  philosophica.  2.  De7  pitagorici ...  cernì:  Plinio,  loc. 
cit.,  pp.  89-90,  e  ancora  nota  15  a  p.  89  («  V'è  chi  ritiene  che  anche  questi 
astri  siano  perpetui  e  che  si  muovano  secondo  una  propria  orbita,  ma  che 
non  si  distinguono  se  non  quando  sono  abbandonati  dal  sole»).  3.  e  del 
medesimo . . .  22  et  23:  da  Plinio,  loc.  cit.,  p.  89,  nota  15  cit.  4.  Philoso~ 
phìae  naturali*  principia  mathematica  cit.,  lib.  in,  lemma  IV,  Cometas  esse 
luna  superiores  et  in  regiones  planetarum  versari,  pp.  439  sgg.  La  citazione 
che  segue  a  lemma  xi,  p.  466  («i  corpi  delle  comete  sono  solidi,  compatti, 
fissi  e  durevoli  come  quelli  dei  pianeti.  Poiché,  se  non  fossero  altro  che 
vapori  ed  esalazioni  della  terra,  del  sole  e  dei  pianeti,  questa  cometa  qui 
avrebbe  dovuto  all'istante  dissolversi  al  suo  passaggio  per  la  vicinanza  del 
sole  »). 


OSSERVAZIONE  XIX  I063 

comete  siano  della  stessa  natura  e  genere  de'  pianeti  e  che  ricevan 
anche  dal  sole  la  luce,  ancorché  abbiano  vie  torte  ed  oblique  e 
sovente  contrarie  al  corso  de*  pianeti  :  «  Nam  cometae  (e*  dice  nel 
cit.  lib.)  vias  obliquas  nonnumquam  cursui  planetarum  contrarias 
secuti,  moventur  omnifariam  liberrime  et  motus  suos  etiam  contra 
cursum  planetarum  diutissime  conservant.  Fallor  ni  genus  plane- 
tarum sint,  et  motu  perpetuo  in  orbem  redeant  ».*  Con  tanta  riserba 
e  cautela  scrisse  quest'illustre  autore,  sicome  ogni  savio  scrittore 
dee  usare  nella  contemplazione  di  cose  a  noi  si  remote  e  sublimi; 
ma  vi  furono  altri  moderni  astronomi,  sì  arditi  ed  audaci,  i  quali 
non  si  ritennero  solo  di  affermare  che  con  moto  perpetuo  girano  e 
faccino  a  noi  ritorno,  ma  si  sono  avanzati  sino  a  predire  il  lor 
ricorso  ed  a  rissarne  certo  e  determinato  tempo,  non  altrimente  che 
fassi  nel  presaggire  gli  ecclissi.  Bernoul,  astronomo  di  Basilea, 
costantemente  asseverò  che  la  cometa  apparsa  nell'anno  1680  dovea 
la  stessa  tornare  nel  1719,  nel  primo  grado  12  d'Ariete,  sicome  si 
riferisce  nell'Istoria  dell'Accademia  Regia  delle  Scienze  di  Parigi 
nell'ann.  1705,  pag.  140.  Ed  in  effetto  rapporta  il  P.  Arduino 
gesuita  nella  not.  15  al  lib.  2,  cap.  25  di  Plinio,2  che  a'  suoi  tempi 
a  Berlino  nel  predetto  a.  1719  fu  osservata  una  cometa,  ancorché 
picciola  ed  alla  terra  vicina.  Ma  che  fosse  la  stessa  apparsa  nel 
1680  è  difficile  il  diffinirlo,  perché  sovente  le  stesse  comete  cangiano 
aspetto,  e  quella  che  prima  mostrossi  caudata  0  crinita,  destituta 
da'  raggi  solari  gli  perde  sicome  dall'istoria  delle  comete  è  mani- 
festo, che  sovente  doppo  un  secolo  siano  di  nuovo  apparse  nel  se- 
guente anno  secolare,  come  avvenne  nell'a.  1477,  1577,  1677,  ma, 
come  si  è  detto,  è  impresa  molto  ardua  l'affermare  sicuramente  che 
sempre  siano  le  stesse. 
Parimente  è  cosa  molto  incerta,  anzi  vana  il  voler  diffinire  il 


1.  aNarn  cometae . .  .redeant*:  loc.  cit.,  lemma  iv,  corollario  3,  p.  444 
(«Le  comete  infatti  seguendo  spesso  vie  oblique  contrarie  al  corso  dei 
pianeti,  si  muovono  in  tutte  le  direzioni  nel  modo  più  libero  e  conservano 
per  lunghissimo  tempo  il  proprio  moto  contro  il  corso  dei  pianeti.  Se  non 
sbaglio  sono  del  genere  dei  pianeti  e  tornano  nell'orbita  terrestre  con  un 
movimento  perpetuo»).  2.  Bernoul ..  .Plinio:  cfr.  Nat.  kist.,  loc.  cit., 
pp.  89-90,  nota  15  alla  sect.  xxm,  dove  si  parla  del  Bernouilli  e  si  cita 
V«Historia  Academiae  regìae  scientiarum,  anni  1705,  pag.  140».  Cfr.  Histoire 
de  VAcadémie  royale  1705  cit.,  Paris  1730,  pp.  176  sgg.  -  Johann  Bernouilli 
(1667- 1748),  dal  1705  professore  di  matematica  a  Basilea  e  dal  1699  mem- 
bro dell' Accademia  delle  Scienze  di  Parigi. 


I064  L'APE   INGEGNOSA 

preciso  tempo  della  lor  durata,  e  quanto  siano  a  noi  aspettabili.  Gli 
antichi,  sicome  rapporta  Plinio,  lib.  2,  cap.  25, *  lo  diffinirono  non 
esser  meno  di  sette  giorni,  né  più  lungo  di  ottanta.  Ma  l'esperienza 
per  varie  osservazioni  fatte  ci  ha  dimostrato  che  il  tempo  che  si 
rendono  a  noi  aspettabili  sia  incetto.  I  Conimbricensi,  tract.  3 
Meteor.y  cap.  3,*  narrano  aver  veduta  una  cometa  la  quale  appena  si 
sollevò  sopra  l'orizonte,  che  subbito  da'  loro  occhi  sparve.  Kccher- 
mano,  lib.  6  System,  physici,3  rapporta  d'un'altra  la  quale  doppo 
cinque  quadranti  d'ora  cessò  di  farsi  vedere.  Sicome  al  contrario 
si  è  sovente  osservato  durare  più  degli  ottanta  giorni,  spessissime 
volte  tre  mesi,  altre  volte  sei  mesi,  sicome  si  narra  della  come- 
ta apparsa  nell'imperio  di  Nerone,  presso  Seneca,  lib.  7  Natur. 
qu.,  cap.  21. 4  Così  pure  la  cometa  che  apparve  ncll'a.  603  doppo 
nato  Maometto;  l'altra  apparsa  nel  1240  quando  il  G.  Tamber- 
lano  innondò  quasi  tutta  l'Asia;  ed  altre  riferite  dal  P.  Ricciolo 
gesuita  nel  suo  Almagesto,  tom.  2,  lib.  8,s  e  se  dee  prestarsi  fede  a 
FI.  Giuseppe  nel  lib.  7  Belli  iudaici,6  quella  che  apparve  sopra  Ge- 
rusalemme prima  del  suo  eccidio  durò  sempre  fulgida  un  anno 
intero. 

Le  varie  lor  figure  sono  quasi  che  infinite,  sicome  sono  varie  ed 
infinite  le  opere  di  natura:  ora  appaiono  caudate,  ora  crinite,  ora 
barbate,  ora  a  guisa  d'un'asta  da  lanciare;  altre  in  figura  di  spada, 
altre  di  botte  concava,  altre  di  disco,  altre  cornute,  altre  di  lampadi 
ardenti  ed  altre  di  diverse  forme  le  di  cui  immagini  possono  ve- 
dersi presso  Cornelio  Gemma,7  De  Naturae  divinis  characterismis, 


1.  Plinio,  lib.  2,  cap.  25:  cit.,  scct.  xxn,  p.  88.  2. 1  Conimbricensi . .  .  cap.  31 
da  Plinio,  loc.  cit.,  sect.  xxn,  p.  88,  nota  14:  «Narrant  Conimbriccnscs, 
traci.  3  Meteor.t  cap.  3  ».  Si  tratta  dell'opera  di  commento  ad  Aristotele 
del  Collegium  Conimbriccnsc  Societatis  Iesu  :  Commentarii  Coltegli  Conim- 
bricensis  . .  .in  quatuor  libros  De  coelo,  Metcorologicos  et  Parva  naturalia 
Aristotelis  . .  .,  pubblicati  a  Coimbra  nel  1603.  3.  Kechermano  .  .  .  physici: 
cfr.  Systema  physicum  septem  libris  adornatum  et  anno  Chnsti  ìùoy  publice 
propositum  . . .  a  B.  Keckermanno,  Dantisci  161  o.  Da  Plinio,  nota  14  cit. 
Bartholomaus    Keckcrmann    (1571-1608),    filosofo    riformato    tedesco. 

4.  presso  Seneca  . .  .  cap.  21:  da  Plinio,  loc.  cit.,  sect.  xxn,  p.  88,  nota  15. 

5.  P.  Ricciolo . . .  lib.  8:  ancora  dalla  stessa  nota  15  di  Plinio.  L'opera  del 
gesuita  ferrarese  Giovanni  Battista  Riccioli  (1 598-1 671)  s'intitola  Alma- 
gestmn  astronomiam  veterem  novamque  complectens  observationibus  alio- 
rum  .  .  .,  Bononiae  1651.  b.lib.J  Belli  iudaici:  la  citazione  viene  da  Plinio, 
loc.  cit.,  p.  88,  nota  1,  ma  va  rettificata:  Bell.  iud.t  vi,  v,  3.  7.  Cornelio 
Gemma  (i535-i579)>  astronomo  di  Lovanio,  è  un  autore  utilizzato  dal- 


OSSERVAZIONE   XIX  I065 

overo  Cosmocriticoni  lib.  i,  cap.  8,  il  quale  accuratamente  le  de- 
scrisse. 


Conosciuta  la  propria  natura  delle  comete,  o  si  vogliano  ascrivere 
nella  classe  delle  stelle  erranti,  o  pure  nel  genere  de'  pianeti:  è  ma- 
nifesto che  niente  portendono  o  presaggiscono  sia  di  bene  o  di 
male,  quando  si  rendono  a  noi  aspettabili;  non  altrimenti  che  le 
stelle  erranti,  o  pure,  come  se  rimmaginò  Newton,  gl'altri  pianeti. 
Dall'antichità  fu  riputata  la  cometa  stella  infelice  e  terrifica,  che 
annunziasse  rivoluzioni,  cangiamenti  di  domìni  ed  altri  funesti 
avvenimenti;  ma  i  savi  e  profondi  filosofi  questi  sciagurati  prono- 
stici gli  lasciavano  alla  credulità  del  volgo  semplice  ed  ignaro  ;  ed  i 
prencipi  ed  i  politici  gl'interpretavano  secondo  veniva  più  in  ac- 
concio a*  loro  fini  e  disegni,  per  tener  i  popoli  illusi,  coprendo  so- 
vente sotto  tal  manto  le  loro  malvagità  e  scelleratezze;  sicome  narra 
Tacito  del  crudele  Nerone,  il  quale  non  vi  era  cometa  che  a'  suoi 
dì  apparisse,  che  non  fosse  espiata  coll'illustre  sangue  di  tanti 
preclari  e  nobili  spiriti,  condotti  per  tal  occasione  a  dure  e  spietate 
morti:  «sidus  cometes»  e'  dice  nel  lib.  xv  de'  suoi  Annali  «sanguine 
illustri  semper  Neroni  expiatum».1 

Questo  fascino  ottenebrò  un  tempo  le  menti  umane  in  guisa  che 
non  vi  era  cosa  funesta  che  accadesse  sopra  la  superficie  della  terra, 
che  non  si  attribuisse  agl'influssi  di  una  tale  stella,  che  la  credevano 
terrifica  e  spaventosa.  Il  genere  umano  è  pur  troppo  inchinato  al 
sorprendente  e  portentoso,  e  come  saviamente  disse  Lucrezio 
«est  nimis  avidum  auricularum»,*  e  per  ciò  davasi  facile  credenza 
a  tali  prcsaggi,  che  da'  gl'imperiti  ed  impostori  astronomi  si  ven- 
devano al  volgo  credulo  ed  incauto.  E  presso  i  Romani  fin  che 
durò  l'ignoranza  d'una  vera  e  solida  filosofia,  le  comete  si  aveano 
per  portenti,  e  per  ciò  si  denunciavano  e  si  notavano  ne'  publici 
annali,  affinché  se  ne  procurasse  l'espiazione.  Ma  nel  felice  secolo 
di  Augusto  nel  quale  la  vera  filosofia  rischiarò  le  loro  menti  e  tolse 
il  vano  lor  timore,  non  si  denunciavano  più,  né  le  loro  apparenze 


l'Hardouin  per  le  note  a  Plinio.  Cfr.  ed.  cit.,  Index  autorum  praecipuorwn, 
p.  n.n.:  «De  naturae  divinis  characterismis,  sive  Cosmocriticon  libri  II, 
Antverpiae  1575,  8°».  1.  «sidus  cometes  .  .  .  expiatum»;  Ann,,  xv,  xlvii,  1. 
2.  ««i  nimis  avidum  auricularum»:  cfr.  De  rer.  nat.t  iv,  594. 


I0Ó6  L'APE   INGEGNOSA 

si  notavano  negli  annali,  sicome  non  si  notavano  le  ecclissi,  dopo 
avere  scoperte  le  loro  fisiche  e  naturali  cause;  con  tutto  ciò  il  fa- 
scino durò  per  più  tempo  presso  il  volgo  poiché  avea  per  sostenitori 
tre  forti  campioni.  Il  popolo  incapace  e  rude  di  filosofia.  Gl'imperiti 
ed  impostori  astronomi,  ed  i  politici. 

Il  popolo,  come  che  il  caso  fortuito  è  sparso  da  per  tutto  e  le  co- 
mete vagando  per  regioni  sublimi  si  scuoprano  per  lunghi  spazi 
sopra  la  superficie  della  terra,  sicché  abbracciano  immensi  paesi, 
dove  sovente  accadono  e  prosperità  e  sciagure,  obliando  le  pro- 
sperità d'un  regno  o  d'una  provincia,  contempla  solo  le  avversità 
accadute  ad  un'altra,  seguendo  i  pregiudici  che  tiene  dell'apparsa 
cometa,  che  la  crede  funesta  e  terrifica.  Cosi  quando  cominciò 
nell'anno  di  Roma  678  la  guerra  civile  con  Sertorio,  si  credette 
che  fosse  stata  presaggita  dalla  cometa  poco  prima  apparsa.  Pari- 
mente la  guerra  civile  di  Cesare  con  Pompeio,  poiché  più  comete 
apparsero  doppo  che  Cesare  trapassò  il  Rubicone,  s'imputò  pure 
a'  maligni  loro  influssi.  Essendo  per  l'infame  Agrippina  tolto  dal 
mondo  per  veleno  Claudio,  e  l'imperio  trasferito  nella  persona  di 
Nerone,  questo  funesto  passaggio  fu  interpretato  anche  ed  ascritto 
alla  cometa  che  precedette,  riputata  venefica  ed  infausta.  Ma  i  pre- 
saggi  che  si  fecero  dal  volgo  nell'undecimo  anno  dell'imperio  di 
Nerone,  quando  una  cometa  per  sei  mesi  si  rese  aspettabile,  non 
ebber  altra  caggione  se  non  che  attediati  i  popoli  d'un  imperio  co- 
tanto empio  e  crudele,  si  lusingarono  che  tosto  dovesse  finire  e  che 
quella  cometa  presaggiva  mutazione  di  principe;  onde,  come  se 
Nerone  fosse  stato  già  scacciato,  cominciarono  a  fantasticare  sopra 
il  nuovo  successore.  Tacito  apertamente  nel  libro  xiv  de'  suoi 
Annali  questa  opinione  l'ascrive  al  volgo,  non  che  i  savi  credessero 
il  portento,  dicendo  :  «Et  sidus  cometes  eflulsit,  de  quo  vulgi  opinio 
est,  tanquam  mutationem  regis  portendat  Igitur  quasi  iam  depulso 
Nerone»1  etc.  Cosi  pure  avanti  l'eccidio  di  Gerusalemme  essendo 
comparsa  una  cometa  in  forma  d'una  spada  che  secondo  FI.  Giu- 
seppe durò  un  anno,  si  disse,  doppo  il  successo,  che  fu  presaga  del- 
la mina  di  quella  città.  E  lo  stesso  si  fantasticò  della  cometa  apparsa 
dopo  nato  Maometto,  nel  603,  che  presaggiva  i  danni  che  quest'im- 


1.  *Et  sidus  . . .  Nerone)):  Ann.,  xiv,  xxn,  1.  Da  Plinto,  loc.  cit.,  p.  89,  sect. 
xxiii,  nota  16.  Anche  il  brano  successivo  riguardante  il  Tamerlano  è  co- 
struito sulle  note  di  Plinio,  p.  88,  sect.  xxn,  nota  15. 


OSSERVAZIONE  XIX  I067 

postore  dovea  recare  al  cristianesimo;  e  nell'anno  1240  de*  danni  e 
desolazioni  che  dovea  apportare  il  G.  Tamerlano  nell'Asia.  Ma 
è  da  avvertire  che  tutti  questi  presaggi  si  facevano  doppo  seguito 
qualche  funesto  evento  ed  allora  tutto  si  riportava  alla  malefica 
stella.  E  tante  volte  che  nulla  seguiva,  anzi  il  contrario,  non  se  ne 
facea  alcun  motto,  a  guisa  degl'indovini,  i  quali  se  per  caso  si  av- 
vera qualche  loro  predizione,  si  suona  la  tromba,  ma  se  succede  il 
contrario,  o  non  si  avvera,  tutto  si  mette  in  un  profondo  silenzio. 
Pruova  evidente  della  fallacia  e  vanità  di  tali  sgraziati  ed  infausti 
presaggi. 

Gl'imperiti  astronomi,  fra'  quali  ve  ne  furon  eziandio  degli 
impostori,  anche  dalla  lor  parte  vi  han  molto  contribuito  per  man- 
tener l'errore  e  gl'inganni.  Essi,  credendo  che  le  comete  si  produ- 
cessero dall'esalazioni  de'  pianeti  intorno  a'  quali  si  raggirono, 
insegnavano  che  prendessero  la  loro  virtù  d'influire  in  que'  segni 
del  Zodiaco  dove  si  saranno  avvicinati,  e  dalle  lor  figure  e  somi- 
glianze predivan  i  presaggi;  quindi  diedero  al  volgo  semplice  a 
credere  tante  ciancie  e  fole,  rapportate  in  gran  parte  da  Plinio,  lib. 
2,  e.  25,  che  quando  prendevano  figura  di  tibie  minacciavano  a' 
musici  sciagure  ed  infelicità;  se  ingombrasser  le  parti  verende  de' 
segni  celesti  presaggivano  sozzi  ed  osceni  essempi  di  libidine  ;x  se 
prendevan  figura  triangolare  0  quadrata  minacciavano  a  gl'ingegni 
ed  eruditi  danni  e  ruine;  se  apparivano  nella  testa  del  serpente 
settentrionale  influivano  velenosi  effetti;  e  tante  altre  fole  le  quali 
da  Ptolomeo  ed  altri  raccolse  il  P.  Ricciolo  nel  suo  Almagesto, 
tom.  2,  dove  si  rapportano  tutti  i  presaggi  di  quest'infelici  astrono- 
mi. Sovente  il  caso  verificava  il  presaggio,  poiché  sull'estensione 
si  immensa  de'  paesi  dove  le  comete  si  rendono  aspettabili  poteva 
benissimo  in  tanti  milioni  di  persone  accadere  in  uno  o  più  indivi- 
dui un  successo  conforme  al  presaggio.  Altri  più  sobri  e  moderati, 
contenti  d'indagare  solo  gli  effetti  per  ciò  che  riguarda  il  loro 
influsso  sopra  le  cose  vegetabili  della  terra,  su  '1  falso  supposto  che 
le  comete  fosser  generate  da'  vapori  ed  esalazioni  de*  pianeti,  im- 


1.  quindi  diedero  . . ,  libidine:  Plinio,  loc.  cit.,  sect.  xxni,  p.  88:  «Tibiarum 
specie  musicae  arti  portendere:  obscenis  autem  moribus,  in  verendis  par- 
tibus  signorum».  E  nella  nota  9  THardouin  commenta:  «Si  tibiarum  spe- 
ciem  sic  positi  [situs  ac  loci  cometarum]  referrent,  credebantur  musicis 
aliquid  significare:  si  partes  signorum  imaginumque  caelestium  verendas 
occuparent,  fore  ut  libidinis  exempla  ederentur  obscena». 


I0Ó8  L'APE   INGEGNOSA 

maginarono  che  attraendo  anche  a  sé  dalla  terra  que'  vapori  ed 
esalazioni,  ad  essa  necessarie,  cagioneranno  una  siccità  permanente 
anche  de'  fiumi  e  de'  fonti,  onde  ne  seguirà  una  dannosa  e  misera 
sterilità.  Ma  questi  vanno  di  gran  lunga  errati  ;  poiché  tanto  è  lon- 
tano che  possano  indicare  sterilità,  che  i  più  dotti  ed  accurati  astro- 
nomi, i  quali  hanno  le  comete  per  corpi  stabili  e  perpetui,  non  già 
prodotti  dall'esalazioni  de'  pianeti,  affermano  il  contrario,  che 
l'esalazioni  e  vapori  ch'escono  dalle  stesse  comete  giovano  mirabil- 
mente alla  fecondità  della  terra;  e  sicome  l'esalazioni  del  mare, 
dalle  quali  converse  in  nubi  in  gran  parte  si  producono  le  piogge, 
«sic  ad  conservationem  marium  et  humorum»  scrisse  Newton  nel 
terzo  libro  de'  suoi  Princìpi,  in  fine  «in  planctis  requiri  videntur 
cometac,  ex  quorum  cxalationibus  et  vaporibus  condensatis, 
quicquid  liquoris  per  vegetationem  et  putrefactionem  consumitur 
et  in  terram  aridam  convcrtito,  continuo  suppleri  et  refici  pos- 
siti1 I  politici  in  fine  han  maggiormente  reso  evidente  che  sono 
tutte  fole  e  ciance  i  presaggi  infelici  che  si  voglion  trarre  dalle  co- 
mete; poich'essi  sovente  han  raggirato  il  volgo  semplice  in  fargli 
credere,  secondo  veniva  più  acconcio  a'  loro  disegni,  che  più  tosto 
presaggivano  prosperità,  felicità  e  contenti,  che  avvenimenti  fu- 
nesti ed  infelici.  Chiarissimo  ed  illustre  cssempio  è  quello  che  ci 
somministra  l'istoria  romana.  Poco  doppo  la  morte  di  Giulio  Ce- 
sare apparve  in  Roma  una  fulgida  cometa:  Augusto,  erede  e  suo 
figliuol  adottivo,  interpretò  per  quel  segno  felicità  e  diede  a  credere 
al  volgo  ch'era  apparsa  quella  nuova  stella,  dov'era  stata  ricevuta 
l'anima  di  Cesare  fra  gl'immortali  numi  de'  dii;  e  per  ciò  esser 
fausta  e  felice;  e  cosi  fu  creduto:  «creditumque  est»  dice  Svetonio 
in  Iulìo,  cap.  883  «animam  esse  Caesaris  in  caelum  recepti  :  et  hac  de 
causa  simulacro  eius  in  vertice  additur  stella»;  e  Plinio  nel  luogo  cit. 
notò  pure  lo  stesso,  dicendo  :  «  Eo  sidere  signiflcari  vulgus  credidit 
Caesaris  animam  inter  deorum  immortalium  mimiiia  receptam: 


i .  «  sic  ad  conservationem  .  .  .  possìt  »  :  cfr.  Philosophiae  naturalis  principia 
mathematica  cit.,  in,  p.  473  («così  le  comete  paion  necessarie  per  la  conser- 
vazione dei  mari  e  dell'umidità  sui  pianeti,  poiché  dalla  condensazione  delle 
loro  esalazioni  e  dei  loro  vapori  può  venir  subito  ricostituito  e  rifatto 
quanto  di  liquido  si  perde  attraverso  la  vegetazione  e  la  putrefazione,  0  si 
converte  in  arida  terra»),  a.  Svetonio  in  lulio,  cap,  88:  cfr.  Plinio,  loc. 
cit.,  sect.  xxiii,  p.  89,  nota  io:  «Svetonio,  in  Iiàìo>  cap.  88»:  segue  la 
frase  citata  dal  Giannone.  Anche  tutti  i  brani  di  Plinio  sono  a  p.  89. 


osservazione  xix  ioóg 

quo  nomine  id  insigne  simulacro  capitis  eius,  quod  mox  in  foro 
consecravimus,  adiectum  est  w.1  Augusto,  per  mantenere  ne'  popoli 
tal  credenza,  volle  che  l'immagine  di  quella  cometa  fosse  collocata 
in  Roma  nel  tempio,  alla  quale  dovesse  rendersi  religioso  culto 
per  la  felicità  dell'imperio,  che  in  lui  avea  presaggita:  «cometes» 
dice  Plinio  «in  uno  totius  orbis  loco  colitur  in  tempio  Romae, 
admodum  faustus  divo  Augusto  iudicatus  ab  ipso  »  ;  soggiungendo  : 
«Haec  ille  in  publicum,  interiore  gaudio  sibi  illum  natum,  seque 
in  eo  nasci  interpretatus  est».2  Ecco  come  sovente  le  comete  han 
ricevuta  varia  interpretazione,  secondo  che  veniva  più  a'  principi 
in  acconcio,  non  già  ch'esse  per  [se]  stesse  portentassero  cos'alcuna, 
sia  di  bene  o  di  male.  Gli  uomini  saggi  e  prudenti  furon  sempre 
lontani  di  credere  a  sì  vani  presaggi;  e  tutto  il  loro  studio  dee 
essere,  calcando  il  sentiero  della  virtù,  di  adempire,  ciascuno  se- 
condo il  suo  stato,  al  suo  dovere  e  confidare  nella  infinita  bontà  di 
Dio,  di  cui  solo  è  sapere  il  futuro;  e  sicome  sono  a  lui  presenti 
tutte  le  cose,  non  meno  le  passate  che  le  future,  così  è  nostra  vana 
presunzione  d'indagare  gli  alti  ed  imperscrutabili  suoi  giudici;  ed 
il  nostro  Torquato,  fino  dal  suo  mago  Ismeno  fa  dire  a  Solimano  : 

Ciascun  qua  giù  le  forze  e  *l  senno  impieghi 
per  avanzar  fra  le  sciagure  e  i  mali: 
che  sovente  adìvien  ch'il  saggio  e  yl  forte 
fabro  a  se  stesso  è  di  beata  sorte.3 

A  questo  proposito  non  voglio  tralasciare  di  aggiunger  a  questa 
la  seguente  osservazione,  da  me  dettata  per  toglier  li  vani  pronostici 
e  presaggi  che  si  eran  formati  da'  volgari  astronomi  d'Italia  per 
la  cometa  apparsa  ne'  princìpi  di  questo  anno  1744,  la  quale,  doppo 
essersi  resa  a  noi  aspettabile  per  lo  spazio  poco  men  di  tre  mesi, 
sparì:  osservata  anche  in  remotissime  regioni,  sicome  nella  Svezia 


x.  *Eo  sidere  .  . .  adiectum  est»:  «Il  volgo  credette  che  quella  stella  signifi- 
casse l'anima  di  Cesare  accolta  tra  gli  spiriti  degli  dei  immortali;  e  per 
questo  motivo  l'emblema  di  una  stella  è  stato  collocato  sul  busto  di  Cesare 
che  poco  fa  gli  abbiamo  consacrato  nel  Foro».  2.  «cometes . . .  est»:  «il 
solo  posto  al  mondo  in  cui  una  cometa,  che  il  divo  Augusto  ritenne  del 
tutto  propizia,  è  oggetto  di  venerazione,  è  un  tempio  a  Roma».  «Questo 
[cioè  le  parole  riguardanti  Cesare  sopra  citate]  egli  disse  in  pubblico;  ma 
in  segreto  egli  interpretò  la  cometa  come  nata  a  suo  proprio  vantaggio  e 
come  se  in  quella  fosse  contenuta  la  sua  propria  nascita».  3.  Tasso,  Ger. 
lib.t  x,  zo.  -  Nella  parte  superiore  della  e.  106  r  vi  è  un  frammento  evi- 
dentemente non  di  questa  osservazione. 


IO70  L'APE   INGEGNOSA 

e  nella  corte  del  re  di  Prussia,  negli  osservatorii  di  Upsala  e  di 
Berlino.1  Li  vani  presaggi  tanto  più  si  multiplicarono,  quanto  che 
apparsa  in  tempo  che  ardca  la  guerra  in  Italia  e  nella  Germania: 
tempo  feracissimo  di  simili  portenti  e  vaticini.  Così  pure  mentre 
ardeva  la  11  guerra  punica  in  Italia,  Spagna  ed  Affrica,  dice  Livio 
che  crebbe  in  immenso  il  numero  de'  denuncianti  di  prodigi  e 
portenti,  tanto  che  aveano  stancati  i  sacerdoti  per  tanti  sacrifici, 
per  espiarli  e  placare  l'ira  celeste.2  Cominciarono  in  questa  presente 
guerra,  mentre  ardea  in  Boemia,  a  sentirsi  tanti  prodigi  di  acque 
ed  alberi  tinti  di  sangue  ;  di  figure  miracolose  scoverte  ne'  tronchi 
degli  alberi  nell'esser  recisi,  e  tante  altre  illusioni,  alle  quali  sono 
sottoposti  i  Boemi,  gente  grossa  e  credula.  Apparsa  dapoi  questa 
cometa  furono  innumerabili  gl'infausti  pronostici:  chi,  secondo  lo 
studio3  delle  parti,  presaggiva  desolazioni  ed  estermìni  di  repub- 
bliche, regni  e  domìni,  0  di  questo  0  di  quello  de'  principi  conten- 
denti ;  chi  fame,  penuria  e  sterilità  nelle  campagne  ;  ed  un  astrologo 
di  Milano  vaticinava  siccità  nella  terra,  ne'  fonti  e  fiumi,  tremuoti 
ed  infecondità  ne'  campi;  e  pure  allo  sparir  della  cometa  succede 
una  primavera  piovosa,  umida  e  straordinariamente  nevosa.  Questi 
vani  presaggi  diedero  occasione  al  seguente  discorso  che  io  ho 
voluto  qui  inserire  come  un'osservazione  alla  precedente  connessa 
ed  appartenente. 


1.  A  questo  proposito  ,  . .  Berlino:  il  Giannonc  seguiva  le  cronache  politiche 
e  scientifiche  attraverso  le  gazzette,  ma  non  vi  è  alcuna  traccia  di  ciò  nelle 
cronache  del  «Mercure  historique  et  politiquc»  che  egli  aveva  a  disposizio- 
ne in  carcere.  Il  discorso  sulle  comete,  in  questa  osservazione,  che,  come 
si  è  detto,  riprende,  senza  alcun  accenno,  il  tema  di  Bayle,  si  colloca  nella 
stessa  dimensione  di  reazione  a  un  clima  superstizioso  creato  dalla  presenza 
di  una  cometa  durante  la  guerra  di  successione  austriaca.  Come  liayle, 
anche  il  Giannonc,  sia  pure  in  tono  minore,  vuole  liberare,  riportando  il 
discorso  in  termini  scientifici,  P  umanità  dalla  paura.  Questo  è  in  perfetta 
coerenza  con  i  Discorsi  sopra  gli  Annali  di  Tito  Livio  in  cui  il  Giannonc 
sviluppava  un'intuizione  di  Toland  (senza  peraltro  nominarlo)  sulla  non 
superstizione  di  Livio.  2.  dice  Livio . . .  celeste  :  il  riferimento  è  forse  a  xxin, 
36,  io:  aNcc  alter  consul  Fabius,  qui  ad  Calcs  castra  habobat,  Volturnum 
flumen  traduccre  audebat  exercitum,  occupatus  primo  auspiciis  repetendis, 
dein  prodigiis  quae  alia  super  alia  nuntiabantur;  expiantique  ea  haud  facile 
litari  haruspices  respondebant  ».    3,  lo  studio:  la  passione  (latinismo). 


OSSERVAZIONE   XXVIII  I07I 

OSSERVAZIONE  XXVIII 

Delle  biblioteche.1 
ni 

La  Germania  (chi  '1  crederia)  quella  che  fin  a'  tempi  di  C.  Tacito 
visse  nelle  caliginose  tenebre  d'ignoranza,  senza  lettere,  non  pur 
senza  libri,  avesse  dovuto  poi  fiorir  cotanto  per  numerose  biblio- 
teche non  men  pubbliche  che  private  ?  E  che  per  varie  e  laboriose 
Raccolte  di  recondite  memorie  sottratte  dalle  tignole  e  polvere  de' 
loro  archivi  avesse  in  ciò  superato  ogni  altra  nazione  ?  Certamente 
che  coloro  i  quali  vorranno  applicarsi  a  scriver  glorie  di  secoli  più 
oscuri  e  tenebrosi  doppo  la  decadenza  dell'Impero,  e  quando  estin- 
ta la  virile  stirpe  di  Carlo  M.  l'Imperio  passò  a'  Germani,  dovran- 
no a  queste  Raccolte  con  tanta  fatica,  industria  e  diligenza  fatte  in 
Germania  infinita  obbligazione,  poiché  su  fondamenti  stabili,  non 
fìnti  0  favolosi  come  per  lo  passato,  protranno  sicuramente  ap- 
poggiare le  loro  narrazioni,  e  togliere  nel  concetto  degli  uomini  tan- 
ti errori,  fole  e  menzogne,  ond'erano  contaminati»  Si  sono  oggi  in 
Germania  fatte  esquisitissime  ricerche  per  iscovrire  la  verità  de' 
successi  ;  e  da'  pubblici  archivi  delle  più  principali  lor  città,  e  da  que' 
delle  più  antiche  loro  chiese,  badie  e  monasteri  si  sono  estratti 
monumenti  sinceri  ed  autentici  della  cui  fede  non  è  da  dubbitare,  e 
molto  meno  della  conosciuta  probità  de'  germani  collettori.3 

1.  Il  Giannone  affronta  in  questa  osservazione  il  tema  delle  biblioteche: 
dopo  aver  parlato  di  quelle  antiche,  si  sofferma  su  quelle  napoletane,  so- 
prattutto del  cardinal  Seripanclo,  di  San  Giovanni  in  Carbonara,  e  della 
famiglia  Brancaccio,  di  Sant'Angelo  al  Nido.  Il  Giannone  riflette  esperien- 
ze dirette,  in  quanto  erano  state,  soprattutto  l'ultima,  gli  strumenti  del  suo 
lavoro  per  V Istoria  civile.  Amplia  quanto  aveva  già  affermato  nell'autobio- 
grafia (cfr.  qui,  p.  32),  di  cui  fra  l'altro  ripete  alcuni  motivi.  Per  questo  mi 
è  sembrato  più  interessante  offrire  la  sola  parte  riguardante  le  biblioteche 
di  Vienna.  2.  Si  sono  .  . .  collettori:  il  Giannone  si  riferisce  alla  cultura 
erudita  tedesca  che  ha  in  Leibniz  il  suo  affascinante  protagonista.  Non  si 
devono  dimenticare  i  rapporti  del  Giannone  con  i  Mencke  e  con  la  rivista 
«  Acta  Eruditorum  Lipsiensium»  (cfr.  la  nota  2  a  p.  165),  che  riflettevano 
l'eredità  leibniziana  e  il  rinnovamento  culturale  tedesco  legato  soprattutto 
all'Università  di  Lipsia  della  cui  cultura  gli  «Acta»  erano  strumento  di 
diffusione.  Questa  cultura,  che  nella  dimensione  erudita  aveva  superato  il 
pirronismo,  aveva  prodotto  le  grandi  raccolte  del  Leibniz  sugli  scrittori 
brunsvicensi  e  di  Johann  Burckard  Mencke  sugli  scrittori  sassoni,  che  era- 
no state  di  modello  e  di  stimolo  al  Muratori. 


IO72  L'APE   INGEGNOSA 

Non  minore  e  slata  la  cura  e  diligenza  in  raccorre  insieme  vari 
libri  e  mamiscritti,  e  formarne  ampie  e  doviziose  biblioteche;  e 
se  bene  tardi  fosse  entrato  in  loro  questo  studio,  nulladimanco 
han  compensata  questa  tardità  colla  multiplicilà  e  splendidezza 
delle  suppellettili,  ed  ampie  sale  de'  loro  palaggi,  destinate  per 
uso  delle  medesime;  ed  a  miei  dì  non  pur  in  tutte  le  corti  di  tanti 
principi  e  sovrani  e  città  libere  imperiali,  onde  si  compone  l'Im- 
perio germanico,  ma  quasi  tutti  i  particolari  conti  e  baroni  e  nobili 
hanno  nelle  case  instruttc  speciose  biblioteche;  e  sicome  un  tempo 
prevalse  il  costume  di  render  premiabili  le  loro  gallerie  con  far  ri- 
cerche di  statue  e  di  pitture  eccellenti  di  scultori  e  dipintori  illu- 
stri, così  tutti  secondo  il  lor  potere  s'ingegnavano  di  fornire  le  loro 
abitazioni  di  biblioteche  adorne  delle  migliori  e  più  magnifiche 
edizioni  e  di  libri  rari  e  non  a  tutti  comuni;  ed  ultimamente  molti 
si  eran  applicati  di  far  ricerche  delle  prime  e  più  antiche  edizioni, 
ad  ogni  prezzo  comprandole  da'  vecchi  conventi  de'  frati,  che  non 
le  stimavano  e  stupivano  come  profondessero  tanto  denaro  in  libri 
così  vecchi,  coverti  per  lo  più  di  rozze  tavolette  ed  alcuni  di  carat- 
tere gotico  o  longobardo  appena  intelliggibile;  non  comprendendo 
che  questa  era  la  sicura  via  e  maniera  per  iscovrire  le  alterazioni, 
cangiamenti,  mutilazioni  e  nuove  giunte  false,  che  si  leggevano 
nelle  seconde  o  terze  ristampe,  per  le  quali  quasi  tutti  i  libri  si 
eran  conturbati  e  guasti.  Ma  quel  ch'era  più  da  recar  maraviglia, 
che  non  solo  que'  destinati  ed  occupati  a  ministeri  politici  di  consi- 
gli o  dicasteri,  ma  i  militari  istessi,  i  generali  e  capi  d'esserciti  e  di 
armate  se  n'invogliarono  in  maniera  che  vollero  pure  nelle  loro  case 
avere  biblioteche  ;  e  la  Biblioteca  Imperiale  il  maggior  splendore  ed 
accrescimento  l'ebbe  da  una  che,  come  si  dirà,  fu  comprata  in 
Fiandra,  che  l'avea  raccolta  un  general  di  armata, 

La  Biblioteca  Cesarea  degli  Augusti  imperadori  austriaci,  doppo 
che  restituirono  da  Praga  la  lor  sede  in  Vienna,  fu  sotto  l'imp. 
Leopoldo  accresciuta  di  rari  manuscritti  e  di  pregiatissimi  libri; 
ed  avendo  avuto  la  sorte  di  avere  per  bibliotecario  Pietro  Lambe- 
cio,  questi  fu  che  la  riordinò  ed  arrichì  di  preziose  memorie,  e 
sopra  tutto  l'illustrò  per  que'  suoi  dotti  ed  eruditissimi  Commentarvi, 
stampati  in  Vienna  nell'anno  1677,  in  foglio  in  otto  volumi.1 


i.  Pietro  Lambeao  . . .  volumi:  cfr.  P.  Lambecii  Commentariorum  de  au- 
gustissima Bibliotheca  Caesarea  vindobonensi . . .  editto  altera  opera  et  studio 


OSSERVAZIONE   XXVIII  IO73 

Quando  io  nel  1723  giunsi  a  Vienna  per  presentar  alla  Maestà  del- 
l' imp.  Carlo  VI  la  mia  Istoria  civile  del  regno  di  Napoli,  a  lui  de- 
dicata,1 la  trovai  riposta  in  alcune  stanze  d'una  casa  prossima  al- 
l'imperiai palazzo;  di  cui  erane  bibliotecario  il  Gentilotti,2  il  qual 
nominato  dall'imperadorc  auditor  di  Rota  per  la  Germania,  tosto 
passò  in  Roma,  lasciando  per  suo  successore  il  Garelli,3  primo 
medico  della  persona  di  Cesare,  che  lo  sostituì  al  Gentilotti  insie- 
me col  Riccardi,4  nostro  napolitano;  ma  questi  non  volle  impac- 
ciarsene, sicché  rimase  la  cura  al  solo  Garelli  ed  a  due  custodi5 
che  la  reggevano.  Intanto  preparavasi  un  superbo  edificio6  eretto  a 
questo  fine,  a  canto  dell'imperiai  palazzo,  nel  quale  dovea  traspor- 
tarsi la  biblioteca,  poiché  essendo  al  doppio  accresciuta  per  la  nuova 
compra  della  biblioteca  fatta  in  Fiandra,  che  costò  all'imperadore 
centomila  fiorini,  era  bisogno  d'un  più  magnifico  ed  ampio  edificio; 
sicome  a'  miei  tempi  si  perfezionò,7  riuscendo  il  più  superbo,  e  di 
suppellettili  e  di  pinture  ed  indorature  e  di  statue  di  marmo  ricco 
e  risplendente;  sicché  io  ebbi  il  piacere  di  vedere  in  esso  collocata 
l'antica  biblioteca  e  la  nuova  di  Fiandra,  ed  essendosene  non  guari 
doppo  morto  l'arcivescovo  di  Valenza8  presidente  del  Consiglio  di 
Spagna,  lasciando  una  magnifica  biblioteca,  numerosa  se  non  di 
codici  manuscritti,  di  libri  rari  di  ogni  sorte,  poiché  non  risparmia- 
va denaro  per  avergli,  sia  da  Ollanda,  Inghilterra,  Francia  e  da 
altri  più  lontani  e  remoti  paesi,  l'imperadore  la  comprò  pure  per 


A.  F.  Kollarii .  ,  .,  Vindobonac  1766.  Nel  tomo  1,  coli.  433  sgg.,  il  Kollar 
offro  un  esauriente  profilo  del  Lambcck  (1628-1680),  ex  protestante  am- 
burghese convertitosi  al  cattolicesimo.  La  prima  edizione  dei  Commentarii 
fu  stampata  a  Vienna  dal  1663  al  1673.  Il  Giannone  cita  evidentemente  a 
memoria.  1.  Cfr.  Istoria  civile,  tomo  x,  pp.  n.n.,  la  lettera  dedicatoria  a 
Carlo  VI  del  xz  febbraio  1723.  2.  Gentilotti:  cfr.  Vita,  qui  a  p.  100  e  la 
nota  2  ivi.  Vedi  anche  il  profilo  che  di  lui  traccia  il  Kollar  nella  citata  rie- 
dizione dei  Commentarii  lambeciani,  tomo  1,  coli.  728  sgg.  3,  Garelli: 
cfr.  Vita,  qui  a  p.  96  e  la  nota  ivi.  4.  Riccardi:  vedi  la  nota  3  a  p.  64.  Per 
il  Garelli  e  il  Riccardi  cfr.  quanto  scrive  il  Kollar  nei  citati  Commentari^ 
tomo  X,  coli.  753  sgg.  Cfr.  anche  il  mio  lavoro,  La  difesa  dei  «Rerum  itali- 
carum  scrìptores  »  di  L.  A.  Muratori  in  un  inedito  giannoniano,  in  «  Giorn. 
stor.  d.  lctt.  it.  »,  voi.  cxlii  (1965),  fase.  439,  passim.  5.  due  custodi:  si 
tratta  di  Nicola  Forlosia  (vedi  la  nota  2  a  p.  205)  e  di  Gottfried  Spannagel. 
Su  entrambi  cfr.  il  mio  La  difesa  ecc.,  cit.,  pp.  407  sgg.  6.  un  superbo 
edificio:  si  tratta  dell'attuale  sede  della  Nationalbibliothck  di  Vienna  in 
Josephplatz.  La  nuova  biblioteca  acquistata  in  Fiandra  era  quella  del  baro- 
ne di  1  lohendorf.  7.  perfezionò  :  l'autografo  ha  «  perfeziò  »,  evidente  lapsus. 
8.  Varcivescovo  di  Valenza:  vedi  la  nota  1  a  p.  88.  La  sua  biblioteca,  rior- 
dinata dal  Forlosia,  era  di  circa  quattromila  volumi. 

68 


1074  L'APE    INGEGNOSA 

unirla  alle  altre  due,  sicché  si  accrebbe  l'imperiale  maravigliosa- 
mente, non  men  per  numero  che  per  qualità  e  richezza  di  libri,  e 
potè  garreggiare  con  quella  regale  di  Pariggi,  e  di  qualunque  altra 
in  Europa  più  rinomata  e  celebre. 

La  magnificenza  dell'edificio,  il  numero,  il  preggio  de'  libri  e 
sopra  tutto  i  preziosi  e  rari  manuscritti  che  conserva,  avrebbe  me- 
ritato per  bibliotecario  un  altro  Lambccio,  per  farla  maggiormente 
risplendere,  o  almeno  seguendo  l'esempio  dell'abate  Bignon1  far  si 
che  di  essa  se  ne  fosse  letto  un  catalogo  ben  ordinato  de'  manu- 
scritti e  libri  che  racchiude.  Fin  da  che  arrivai  a  Vienna  trovai  nella 
vecchia  biblioteca  quel  custode  co'  suoi  scrivani  che  attendeva  a 
questo,  dicendomi  che  si  travagliava  per  dar  fuori  alla  luce  un  ca- 
talogo ben  ordinato  ed  esatto,  di  cui  il  bisogno  era  maggiore  per  li 
nuovi  acquisti  ed  augumenti  di  due  altre  numerose  biblioteche.2 
Il  Gentilotti  in  tutto  il  tempo  che  vi  fu  bibliotecario  non  avea  at- 
teso ad  altro,  che  da  que'  antichi  manuscritti  trarre  vecchi  Anti- 
fonari, e  ne  avea  compilati  più  volumi,  con  intenzione  di  dargli 
alle  stampe;3  e  partendo  per  Roma  caldamente  raccomandò  al  suo 
successore  Garelli  che  non  facesse  perdere  quelle  sue  fatiche,  e 
non  defraudasse  la  Repubblica  Letteraria  d'un'opera  cotanto  utile 
e  profittevole;  ma  debitamente  si  curarono  poco  i  suoi  ricordi,  e 
nulla  se  ne  fece,  non  essendovi  bisogno  di  gravare  i  lettori  e  fargli 
perdere  il  tempo  in  leggendo  inutili  e  sciapiti  Antifonari,  compi- 
lati in  tempo  d'ignoranza  e  di  barbarie. 

Questo  sospirato  e  promesso  catalogo  in  tutti  gli  anni  che  io  di- 
morai a  Vienna,  che  furono  poco  meno  di  dodici,  non  si  vide  mai 
che  venisse  ad  effetto  ;  né  di  là  partito  seppi  che  si  fosse  poi  compito 
e  dato  alla  luce;  e  molto  più  ne  perdei  la  speranza  quando  in  questo 
castello  intesi  l'infelice  novella  della  morte  dcll'imperadore,4  se- 
guita a'  20  di  ottobre  dell'anno  1740,  e  che  l'anno  seguente  minac- 
ciata Vienna  di  assedio  si  fosscr  frettolosamente  trasportati  i  ma- 
nuscritti ed  i  libri  in  Ungheria.  Ho  cagion  presentemente  di  sperare 
che  calmate  le  cose  si  fosscr  restituiti  al  pristino  luogo,  e  che  si 


x.Jean-Paul  Bignon  (1662-1743),  oratoriano  francese,  bibliotecario  del  re 
di  Francia  Luigi  XV.  2.  quel  custode  —  biblioteche:  si  tratta  probabil- 
mente del  Forlosia.  Cfr.  infatti  Nationalbibliothek  di  Vienna,  cod.  11924, 
N.  Forlosiae  Catalogus  manuscriptorum.  3.  Il  Gentilotti .  .  .  stampe:  il  ca- 
talogo del  Gentilotti  in  Nationalbibliothek  di  Vienna,  Codd.  scr.  n.,  2207- 
2221.     4.  imperadore:  si  tratta  di  Carlo  VI. 


OSSERVAZIONE   XXVIII  IO75 

prosiegua  il  cominciato  lavoro,  affinché  sicome  ora  gli  amanti  delle 
lettere  per  cura  dell'abate  Bignon  hanno  il  piacere  di  leggere  il  ca- 
talogo della  Biblioteca  Regia  di  Parigi,1  così  l'abbiano  di  quella  di 
Vienna,  la  quale  e  per  la  multiplicità  e  preggio  de'  libri,  e  per  la 
rarità  di  preziosi  manuscritti,  non  avea  niente  che  cedere  alla  Re- 
gale di  Pariggi. 

Lasciai  a  Vienna,  doppo  questa,  un'altra  magnifica  biblioteca 
instrutta  nel  suo  palazzo  dal  Marte  del  nostro  secolo,  voglio  dire  dal 
principe  Eugenio  di  Savoia,2  non  men  commendabile  per  ciò  di 
quello  che  fu  il  ligure  Alcide  Colombo.  Raccolse  da  tutte  le  parti 
pregiatissimi  libri,  li  più  rari  e  delle  migliori  edizioni,  non  rispar- 
miando a  spesa  veruna,  e  facendo  venire  da  Levante  pelli  finissime 
di  vari  colori,  avea  il  piacere  di  fargli  legare  a  suo  modo  e  di  covrirgli 
tutti  di  quelle  pelli  ed  indorare  in  guisa  ch'entrando  nella  sua  bi- 
blioteca vi  sembrava  d'entrare  in  varie  stanze  guarnite  di  tapezzarie 
d'oro  di  più  colori,  cosi  erano  ben  disposti  ed  ordinati;  ed  essendo 
io,  giunto  che  fui  a  Vienna,  a  rendergli  i  miei  rispetti,  accolto 
benignissimamente,  ed  esponendogli  la  cagion  del  mio  venire  e  che 
i  quattro  volumi  della  mia  Istoria  destinati  per  S.  A.  S.  l'avrei  dati 
al  miglior  ligatore  per  presentargli  nella  forma  dovuta  ad  un  tanto 
principe,  mi  fece  intendere  dal  suo  bibliotecario  che  S.  A.  amarebbe 
meglio  che  se  gli  fossero  presentati  sciolti,  perch'egli  l'avrebbe  fatto 
ligarc  a  suo  modo  alla  conformità  degli  altri,  sicome  da  me  fu 
eseguito;  e  poi  ebbi  il  piacere  di  vedergli  vestiti  d'un  color  confor- 
me e  riposti  fra'  più  eletti  e  pregiati  autori.3  Avea  questa  biblioteca 
un  preggio  che  non  potè  averlo  quella  di  Cesare  ;  poiché  conservava 
una  delle  due  machine  (poiché  non  più  di  due  se  ne  formarono  in 
Londra  da  peritissimi  astronomi)  della  fabrica  del  mondo,4  secondo 
il  sistema  di  Copernico,  e  di  Cartesio;  nel  centro  della  quale  ac- 
cendendosi una  face  dentro  un  globo  di  vetro  rappresentando  il 
sole,  con  mirabile  magistero  rivolgendosi  intorno,  mostrava  il  corso 


i.  sicome  ora  .  ♦ ,  Parigi:  la  notizia  del  Giannone  sembra  imprecisa.  Il  Bi- 
gnon riordinò  dal  1723  al  1735  i  manoscritti  della  Biblioteca  Reale  di  Parigi, 
ma  un  catalogo  vero  e  proprio  era  stato  pubblicato  da  Nicolas  Clémcnt  dal 
1688  al  1714  in  trentacinque  volumi,  rifuso  dal  1743  al  1753  in  sei  volumi. 
2.  Lasciai .  . .  Savoia  :  la  biblioteca  del  principe  Eugenio  (vedi  su  di  lui 
la  nota  5  a  p.  111)  fu  riordinata  alla  sua  morte  dal  Forlosia.  Cfr.  il  mio  La 
difesa  ecc.,  cit,  p.  406.  3.  i  quattro  volumi .  . ,  autori:  cfr.  Vita,  qui  a  p. 
ni.  4.  Avea  . . .  mondo  :  cfr.  la  lettera  al  fratello  Carlo  del  24  giugno 
1724,  qui  a  p.  1136. 


IO76  L>APE   INGEGNOSA 

de*  pianeti  e  come  venivano  illuminati  ;  mostrava  le  stagioni,  i  mesi, 
Tanno,  li  giorni  e  le  notti  :  gli  ecclissi  del  sole  e  della  luna,  ed  altre 
astronomiche  osservazioni.  Doppo  la  morte  di  questo  eroe,  non 
so  di  questa  biblioteca  che  ne  sia  seguito,  e  se  dalla  principessa 
di  Savoia  sua  nipote  ed  crede  si  conservi  nella  stato  in  cui  trovolla. 
Ben  io,  essendo  in  Torino,  avvertii  che  il  re  di  Sardegna  non  dovea 
curare  spesa  per  averla,  e  porre  ogni  studio  per  farla  trasportare 
nel  suo  palazzo  regio  a  Torino,  tanto  più  che  non  v'era  biblioteca 
regia,  ma  quella  pubblica  si  apparteneva  al  Comune  ed  Universi- 
tà de*  studi  di  Torino,  né  era  abbastanza  fornita  di  pregiati  libri, 
spezialmente  di  que'  dati  ultimamente  alla  luce  da  celebratissimi 
autori.  Ed  essendo  poi  stato  condotto  in  questo  castello,  e  per  la 
morte  deirimperadorc  accadute  tante  rivoluzioni  di  cose,  e  surte 
tante  fiere  ed  ostinate  guerre,  nelle  quali  ardono  ancora  la  Germa- 
nia, la  Fiandra,  la  Francia  e  l'Italia,  in  questa  solitudine  non  so 
quel  che  ne  sia  seguito. 

Lasciai  parimente  a  Vienna  una  pubblica  biblioteca  instrutta  in 
alcune  stanze  attaccate  ai  convento  de'  PP.  Domenicani1  prossimo 
alla  porta  d'Ungheria,  composta  di  due  lasciate  dalia  benificenza 
di  due  testatori,  i  quali  a  pubblico  uso  la  destinarono  per  tutti,  e 
stabilirono  fondi  per  sostentamento  de7  custodi  che  la  reggono. 
Sono  prescritte  Tore  della  mattina  e  del  doppo  pranzo,  nelle  qua- 
li a'  studiosi  è  permesso  di  andarvi  a  studiare,  non  alt  rimonte 
di  ciò  che  si  pratica  in  Napoli  in  quella  di  S.  Angelo  a  Nido.  ìi 
copiosa  di  libri,  massimamente  legali;  né  ò  precluso  l'adito  anche 
in  que'  rigidi  inverni,  poiché  le  stanze  sono  riscaldate  dalie  loro 
stufe. 

Non  mancano  ancora  di  molte  private,  poiché  sicome  si  è  detto 
le  biblioteche  sono  ora  l'ornamento  delle  case.  Ma  fra  queste 
private  supera  di  lunga  mano  tutte  le  altre  quella  raccolta  dal 
protomedico  e  bibliotecario  Garelli,3  per  l'opportunità  ch'ebbe 
d'ingrandirla  senza  molta  sua  spesa;  poiché  godendo  del  favore  di 
Cesare,  colle  compre  di  nuove  biblioteche  per  ingrandire  la  Ce- 
sarea, di  tutti  que'  libri  duplicati  l'imperadore  solca  a  lui  far- 
ne dono.  Il  nostro  Riccardi  fiscale  del  Consiglio  di  Spagna  ne 

1.  Lasciai . .  .Domenicani:  questa  biblioteca  è  stata  dispersa  dopo  la  de- 
molizione del  convento  dei  Domenicani.  2.  quella  . . .  Garelli:  cfr.  M. 
Denis,  Die  Merkwitrdigkeiten  der  k.k.  garetlischen  ò'ffentlichc  IHblìothek  arri 
Ther esiano ,  Wicn  1780,  in  due  volumi. 


istruì  anche  una  in  Vienna  pregiatissima,  di  libri  elettissimi  e 
de*  più  insigni  autori  ;  ma  repentinamente  morto  in  Verona  l'anno 
1726,  fu  tutta  sparpagliata  di  qua  e  di  là,  ed  il  misero  avanzo 
fu  dapoi  esposto  venale  per  auctione1  nel  1734,  e  così  affatto  dile- 
guossi.3 

Meritano  i  Germani  somma  lode,  oltre  per  le  laboriose  Raccolte 
già  dette,  per  aver  dato  fuori  alle  stampe  un  catalogo  di  libri  ap- 
partenenti a  ciascheduna  professione,  perché  i  professori  sappiano 
di  quali  debbiano  valersi,  ed  il  celebre  Struvio  ne  compilò  uno 
accuratissimo  per  la  giurisprudenza.3  Altri  si  preser  la  pena  di 
comporre  una  biblioteca  di  tutti  gli  autori  anonimi,  ovvero  falsiano- 
nimi,  manifestando  i  veri  autori  ed  i  veri  lor  nomi,  nel  che  stupenda 
ed  immensa  fatica  fu  quella  del . .  .4  Altri  di  cataloghi  di  libri  dati 
alla  luce  da  autori  di  particolari  provincie,  regni  e  stati.  Sicome  in 
Italia  non  mancarono  alcuni  di  far  lo  stesso,  ed  i  Napolitani  devono 
molto  obbligo  a  Niccolò  Toppi,5  ed  al  suo  addizionatore  Nicode- 
mo,6  per  la  cura  presasi  di  dar  fuori  la  Biblioteca  napolitana,  dove 
si  manifestano  i  tanti  preclari  ingegni  de*  quali  il  Regno  in  ogni  età 
ha  sempre  fiorito,  sicome  fece  mons.  della  Chiesa7  vescovo  di  Sa- 
luzzo  de*  scrittori  piemontesi  e  savoiardi,  ed  altri  delle  loro  proprie 
regioni. 

Ma  sopra  tutti  reputo  commendabile  il  travaglio  presosi  da  Fi- 


1.  auctione:  è  un  latinismo,  e  significa  «vendita  all'incanto».  2.  Il  nostro 
Riccardi . .  .  dileguossi:  ì\  Giannone  dà  una  notizia  sbagliata.  La  biblioteca 
del  Riccardi,  acquistata  dal  sovrano  austriaco  e  ordinata  dal  Forlosia,  fu 
inserita  nell'attuale  Nationalbibliothek  di  Vienna.  Cfr.  il  mio  La  difesa 
ecc.,  cit,  pp.  408  sgg.  3.  ed  il  celebre .  .  .  giurisprudenza',  si  tratta  della 
Biblìotheca  turis  selecta  secundum  ordinem  liner arum  disposìta,  lenae  17052, 
dello  Struve  :  cfr.  la  nota  5  a  p.  371.  4.  fu  quella  del . . .  :  il  Giannone  lascia 
in  sospeso  nome  e  titolo.  Si  tratta  probabilmente  di  Johann  Vogt  (1695* 
1765),  erudito  tedesco,  pastore  protestante  a  Brema,  autore  di  un  Catalogus 
historico-criticus  librorum  rariorum .  .  .,  Hamburgi  1732,  più  volte  in  se- 
guito riedito.  5.  Niccolò  Toppi  (1607-1681),  erudito  napoletano.  L'opera 
cui  il  Giannone  allude  è  la  Biblioteca  napoletana  et  apparato  a  gli  huomini 
illustri  in  lettere  di  Napoli  e  del  Regno  . . .,  Napoli  1678.  6.  ed  al  suo  .  * . 
Nicodemo:  cfr.  le  Addizioni  copiose  alla  Biblioteca  napoletana  del  dottor 
Niccolò  Toppi,  Napoli  1683,  di  Leonardo  Nicodemo,  erudito  napoletano  del 
XVII  secolo.  7.  Francesco  Agostino  della  Chiesa  (1 593-1662),  vescovo  di 
Sahxzzo,  autore  di  un  Catalogo  di  tutti  li  scrittori  piemontesi,  et  altri  de  i 
altri  stati  dell'Altezza  Serenissima  di  Savoia  . . .,  Torino  16 14.  L'autore  ne 
curò  una  seconda  edizione  più  ampia:  Catalogo  de  scrittori  piemontesi, 
savoiardi  e  nizzardi . . .  con  V aggiunta  d'altri  tanti  autori  e  libri,  Carmagnola 
1660.  A  quest'ultima  deve  riferirsi  il  Giannonc. 


IO78  L'APE   INGEGNOSA 

lippo  Labeo1  gesuita,  di  averci  data  una  Biblioteca  di  codici  manu- 
scritti,  impressa  a  Pariggi  in  quarto  nell'anno  1635,  sotto  il  titolo 
Nova  bibliotheca  mss.  librorum;  ed  io  rimasi  sorpreso  in  leggendo 
nel  P.  Arduino,  alle  note  dcll'cp.  5  del  Kb.  3  di  Plinio  il  Giovane, 
che  un  nostro  napolitano  chiamato  Scipione  Tcttio2  aveva  compo- 
sto un  Indice  di  libri  non  ancor  impressi,  stampato  dal  Labco  in 
questa  sua  nuova  Bibliotheca  alla  pag.  167,  Indice ',  ancorché  napo- 
litano, a  me  affatto  ignoto  ;  e  bisogna  che  fosse  accurato,  poiché  fra* 
libri  non  ancor  impressi  faceva  memoria  de'  xx  libri  Bellorum 
Germaniae  che  scrisse  Plinio  il  Vecchio,  memorati  anche  da  Tacito, 
lib.  1  Armai,  da  Simmaco,  lib.  4,  cp.  18,  e  da  Svetonio  Tranquillo 
in  Caio  Caligula,  cap.  8,  e  ne  parla  come  se  a'  suoi  tempi  fossero 
ancor  esistenti,  quando  che  oggi  si  credono  perduti.  Ecco  le  parole 
di  Arduino  sopra  quelle  parole  di  Plinio  il  Giovane  :  «  Bellorum  Ger- 
maniae vigniti»:  «Illud  esse  suspicor,  cuius  mentio  in  indice  li- 
brorum  nondum  editorum,  confecto  a  Scipione  Tcttio  neapolitano, 
quem  Labbeus  nostcr  edidit  in  Nova  Bibliotheca  librorum  mss. 
pag.  167  hoc  lcmmatc:  "Plinii  senioris  historiarum  libri  xx"». 

Più  gloriosa  ed  immortale,  ma  di  molta  pena  e  travaglio,  sarebbe 
se  alcuno,  o  più  insieme,  consumati  nello  studio  dell'antichità, 
volessero  prendersi  la  cura  di  darci  una  Nuova  biblioteca  de'  libri 
di  quelli  [che],  se  ben  ora  perduti,  in  più  scrittori  antichi  che  ci  re- 
stano se  ne  conservano  le  memorie,  i  nomi  de'  loro  autori,  e  di 
ciò  che  trattarono  ;  e  verrebbe  loro  somministrata  abbondante  ma- 
teria dalle  opere  filosofiche  di  Cicerone,  dalla  Biblioteca  istorica  di 
Diodoro  Siciliano,  dal  primo  libro  dell'Istoria  naturale  di  Plinio,  da 
Strabone,  dallo  Pandette  di  Giustiniano  per  ciò  che  riguarda  la 
giurisprudenza,  e  da  altri  non  men  greci  che  antichi  scrittori  latini, 
e  sopra  tutti  dalla  Biblioteca  di  Fozio,  opera  che  possiam  ancor 
dirla  tesoro  d'antichità;  ed  il  P.  Arduino  gliene  somministrarebbe 

1.  Filippo  Labeo  :  si  tratta  di  Philippe  Labbé  (1607- 1667),  gesuita  francese. 
Il  Giannone  si  riferisce  a  Nova  bibliotheca  mss.  librorum,  sivc  specimen 
antiquarum  lectionum  latinarum  et  graecarum  .  . .,  Parisiis  1653  («cambio  di 
cifre  nel  Giannone).  2.  Scipione  Tettio:  Scipione  Teti,  erudito  napoletano 
del  XVI  secolo  su  cui  cfr.  L,  Nicodkmo,  Addizioni  ecc.,  cit.,  pp.  227-8. 
Il  catalogo  del  Teti  si  trova  alle  pp.  166-74  dell'opera  citata  del  Labbc. 
Il  rinvio  alPHardouin  è  nell'edizione  citata  della  Naturatis  historia  di  Pli- 
nio il  Vecchio,  tomo  1,  pp.  n.n.,  Testimonia  selecta  veterum  de  (\  Plinio 
Secundo.  C.  Plinii  Caecihi  epistolae  duae.  In  quibiis  de  vita  Plinii  axmnculi 
sui  disserit .  .  .,  epìstola  v  del  libro  in,  nota  4.  Da  questa  stessa  nota  le 
citazioni  di  Tacito  (Ann.,  1,  lxxx,  3),  Simmaco  e  Svetonio. 


OSSERVAZIONE   XL  IO79 

un  saggio  per  quel  maraviglioso  indice,  che  prepose  al  suo  Plinio, 
degli  autori  de*  quali  il  medesimo  si  valse  nella  sua  Istoria  naturale,1 
la  maggior  parte  ora  perduti.  Questa  nuova  biblioteca  è  da  riporsi 
nella  classe  delle  cose  desiderate]  e  per  ciò  a'  nobili  spiriti  dovrebbe 
esser  di  acuto  stimolo  di  porvi  ogni  studio  per  ridurla  ad  effetto  ; 
e  se  qualche  autore  scapperà  la  presa  delle  lor  mani,  importerà 
poco,  poiché  altri  che  verranno  dopo  con  facilità  potranno  supplire 
il  difetto  con  nuovo  spicilegio,  e  la  gloria  sarà  tutta  loro,  che  furono 
i  primi. 

OSSERVAZIONE  XL 

Del  concetto  ch'ebbero  del  nostro  morire  gli  antichi  nell'età  più 
vetuste  delle  quali  è  a  noi  rimasa  memoria;  e  come  dal  costume 
degl'Egizi,  di  condire2  e  con  molta  celebrità  seppellire  i  loro 
morti,  e  da'  fatti  magnanimi  di  uomini  grandi  e  generosi  si  fosse 
data  occasione  di  pensare  ad  un'altra  seconda  vita,  che 
a  questa  prima  succede. 

Qui  si  ragiona  del  concetto  ch'ebbero  gli  uomini  del  morire  gui- 
dati dal  naturai  loro  discorso,  accorgimento  e  riflessione,  non  già 
da  divina  religione  che  fosse  stata  ad  essi  revelata;  di  che  ragio- 
naremo  nell'osservazione  seguente;  e  non  vi  è  dubbio  che,  consi- 
derandosi mortali  come  gli  altri  animali,  tutti  credettero  che  la 
morte  recasse  loro  un  perpetuo  e  tenebroso  sonno  :  gli  tuffasse  in 
un  profondo  oblio  e  gli  riducesse  in  quello  stato  nel  quale  erano 
prima  di  nascere.  Né  dee  ciò  recar  maraviglia,  poiché  presso  tutte 
le  più  vetuste  nazioni  del  mondo,  delle  quali  assi  notizia,  la  reli- 
gione di  tutte  le  genti  non  riguardava  altro  che  la  felicità  della  pre- 
sente vita  e  lo  stato  temporale  e  mondano  ;  e  per  ciò  non  Tindriz- 
zavano  se  non  di  pregare  i  loro  dii  che  gli  scampassero  da'  mali 
presenti  o  futuri,  ne'  quali  fossero  o  temevan  di  cadere  nella  lor 
vita  mortale;  o  pure  pregargli  a  conceder  loro  prosperità,  abbon- 
danza, sanità,  ricchezza,  onori  e  tutto  ciò  che  riguarda  la  felicità 
dello  stato  mondano.  Né  dee  recar  maraviglia  se  lo  stesso  concetto 
del  morire  troviamo  ne*  più  vetusti  libri  che  ci  rimangono,  cioè  in 

1.  quel  maraviglioso  . .  .  naturale:  ed.  cit.,  tomo  1,  pp.  n.n.,  Index  auctorum 
praecipuorum  qui  inplinianis  notis  citantur,  illustrantur,  emendantur.  2.  con- 
dire-, imbalsamare  (latinismo). 


I08o  L'APE    INGEGNOSA 

quelli  di  Giob,  di  Mosè,  di  Davide,  di  Salomone  e  degli  antichi 
profeti  del  I  Tempio]  poiché  Giob,  Mosè  e  gli  altri  rammentati 
trattarono  dell'uomo  secondo  il  suo  stato  di  natura,  non  già  del 
2°  suo  stato  di  grazia  \  sicomc  fu  avvertito  ncll'osserv.1  Si  e  veduto 
qual  concetto  Giob  avesse  del  morire,  e  non  dissimile  fu  quello 
che  n'ebbe  Mosc  il  quale,  narrando  nel  cap.  3  della  Genesi  i 
rimproveri  da  Dio  fatti  ad  Adamo  per  la  trasgressione  del  suo 
comando,  gli  rinfaccia  doversi  rammentar  di  averlo  formato  eh 
terra  e  dover  pensare  che  sicome  non  altro  era  che  terra,  così 
nella  terra  dovea  far  ritorno:  «quia  pulvis  es  et  in  pulverem  rc- 
vcrteris».2  E  nel  cap.  7  rapportando  per  l'inondazione  dell'acque 
del  diluvio  esser  periti  tutti  gli  uccelli,  gli  uomini  e  le  bestie  della 
terra,  ugualmente  ci  descrive  la  morte  degli  animali  che  degli 
uomini,  e  lo  stesso  intento3  esser  accaduto  cosi  a  gli  uni  come  a  gli 
altri:  «universi  homincs  et  cuncta,  in  quibus  spiraculum  vitae  est 
in  terra,  mortua  sunt.  Et  dclevit  Deus  omnem  substantiam  quae 
erat  super  tcrram,  ab  homine  usque  ad  pecus,  tam  reptile,  quam 
volucres  caeli;  et  deleta  sunt  de  terra».4  Si  e  neli'osser. .  .  .s  ve- 
duto che  nel  Deuteronomio  ed  altrove  questo  gran  profeta  insieme 
e  filosofo,  trattando  dell'uomo  terreno  secondo  il  suo  stato  di  na- 
tura, non  gli  propone  altra  felicità  0  miseria  che  terrena  e  mondana.6 
Le  sue  benedizioni,  0  maledizioni,  non  oltrepassano  questo  stato. 
Il  S.  re  Davide7  ne'  suoi  Salmi  altamente  cantava  che  sicome  il 
cielo  era  l'abitazione  di  Dio,  cosi  la  terra  quella  degli  uomini; 
e  che  la  morte  recasse  a'  medesimi  un  perpetuo  sonno  ed  eterno 
oblio  e  dimenticanza,  ponendogli  in  uno  stato  d'inazione,  in  cui 
non  potevano  lodarlo  né  esser  più  di  lui  ricordevoli;  onde  lo  pre- 
gava di  conservarlo  in  vita  per  poter  commendare  le  sue  misericor- 
die e  celebrare  le  alte  sue  virtù  divine  :  «  quoniam  »  e'  dice  nel  salmo 

i.neWosscrv.:  il  Giannonc  ha  omesso  il  numero  dell'osservazione.  Cfr. 
Oss.  1,  Sopra  il  gran  magistero  di  questo  mondo  aspettabile,  suo  costante  or- 
dine, disposizione,  armonia  . . .,  ce.  8  sgg.;  Oss,  vni,  Sopra  il  fine  delVrumio 
secondo  il  suo  stato  di  natura,  co.  41-4;  Oss.  ix,  Il  fine  delVuomo  secondo  il 
suo  stato  di  grama,  ce.  44-6  ;  Oss.  x,  Che  la  religione  sia  propria  e  sola  del" 
Vuomo,  la  quale,  quando  non  sia  da  Dio  rivelata,  è  sempre  sottoposta  a  vari 
errori  ed  inganni,  ce.  46-55.  2.  a  quia  pulvis  . .  .  revcrteris»:  Gerì.,  3,  19. 
2.ìnterito:    morte    (latinismo).    4.  «universi ..  .terra»:    Oen.,    7,    21-3. 

5.  neli'osser ...  :  anche  qui  il  numero  è  omesso.  Si  tratta  della  vili  cit. 

6.  trattando  . . .  mondana:  è  la  piena  riatfermazione  delle  tesi  del  Triregno, 
che  gli  Ebrei  non  conoscessero  altra  felicità  che  quella  terrena.  7.  Il  S. 
re  Davide  ecc.:  riprende  e  riassume  un  potente  passo  del  'Triregno,  x, 
pp.  204-5. 


OSSERVAZIONE   XL  Io8l 

6,6  «non  est  in  morte  qui  memor  sit  tui:  in  inferno  autem  quis 
confitebitur  tibi  ?  ».  Di  Salomone  è  a  tutti  noto  qual  fosse  il  suo 
sentimento,  avendolo  manifestato  ne'  suoi  libri  che  ci  rimangono  e 
spezialmente  in  quello  intitolato  l'Ecclesiaste.  Il  pio  re  Ezechia, 
minacciato  d'imminente  morte,  e  dipoi  per  ispezial  grazia  di  Dio 
prolungatagli  la  vita  per  altri  quindici  anni,  rende  le  debite  grazie 
al  Signore,  perché  Pavea  dato  maggior  tempo  di  lodarlo  con  salmi 
ed  inni  nel  tempio  ch'è  di  lui  casa;  ciocché  non  potea  farlo  doppo  la 
morte,  la  quale  l'avrebbe  posto  in  una  perpetua  inazione  e  dimenti- 
canza, tuffato  in  un  profondo  oblio  e  ridottolo  in  quello  stato  nel 
qual  fu  prima  di  nascere  :  «  Tu  autem  (sicome  leggesi  presso  Isaia, 
cap.  38,  17)  eruisti  animam  meam,  ut  non  periret,  proiecisti  post 
tergum  tuum  omnia  peccata  mea.  Quia  non  infernus  confitebitur 
tibi,  neque  mors  laudabit  te;  non  expectabunt,  qui  descendunt  in 
lacum,  veritatem  tuam.  Vivens  vivens  ipse  confitebitur  tibi,  sicut 
et  ego  hodic:  pater  filiis  notam  faciet  veritatem  tuam.  Domine, 
salvum  me  fac,  et  psalmos  nostros  cantabimus  cunctis  diebus  vitae 
nostrae  in  domo  Domini».1  E  chi  attentamente  rivolgerà  questi 
antichi  libri  non  troverà,  mentre  durò  il  1  Tempio,  altro  concetto 
di  questo  presso  gli  antichi  Ebrei  del  lor  morire.  Nel  11  Tempio, 
doppo  la  cattività  babilonica  e  spargimento  degli  Ebrei  di  qua  e 
di  là  in  più  provincie  dell' Oriente,  mescolati  con  straniere  nazioni, 
tra  Assiri,  Medi  e  Persi,  ritornati  per  munificenza  di  Dario  e  di  altri 
suoi  successori  in  Gerusalemme,  e  concessogli  di  ristabilire  il 
tempio,  in  questo  risorgimento  nacquero  fra  gli  Ebrei  nuove  dot- 
trine ed  opinioni  intorno  allo  stato  delle  loro  anime  doppo  morte: 
assignandogli  nella  profondità  della  terra  vari  ricettacoli:  surse  in 
alcuni  la  credenza  della  resurezione,  e  risorti  dover  abitare  in  un 
altro  regno,  pure  con  tutto  ciò  terreno  e  mondano,  ed  altre  vane 
credenze;  le  quali  però  non  si  appartenevano  a  gli  articoli  fonda- 
mentali dell'antica  loro  religione,  ma  erano  disputate  variamente 
fra'  loro  dottori,  non  per  ciò  disciogliendosi  l'unità  della  loro 
chiesa;  ed  il  G.  Sinedrio,  sicome  tutte  l'altre  minori  sinagoghe,  si 
componevano  non  meno  de'  farisei  sostenitori  delle  nuove  dottrine, 
che  de'  sadducei  rigidi  osservatori  dell'antica  credenza,  che  le  ri- 
fiutavano.* 

1.  a  Tu  autem Dovimi  »:  IsaL,  38,  17-20.  2.  Nel  II  Tempio  . . .  rifiuta- 
vano: è,  ancora  una  volta,  la  conferma  delle  tesi  che  il  Giannone  aveva 
trovato  nel  Tractatus  theologico-politicus  di  Spinoza,  in  Spencer,  De  legibus 


Io8z  L'APE    INGEGNOSA 

L'origine  d'andar  investigando  altra  vita  ed  altro  stato  delle  no- 
stre anime  doppo  morte  uscite  da'  corpi,  tutti  si  accordano  che 
provenisse  dall'Egitto;  e  dapoi,  sicome  accade  in  tutte  le  cose,  si 
andasse  spandendo  la  nuova  dottrina  da  per  tutto,  aiutata  anche  da' 
filosofi,  spezialmente  da'  pitagorici  e  platonici  e  molto  più  dagli 
arditi  ed  audaci  poeti.  Diodoro  Siciliano  ne'  primi  cinque  libri 
della  sua  Biblioteca  isterica,  che  doppo  quelli  di  Mosò  possiamo 
avergli  per  un  tesoro  dell'antichità,  ne'  quali  son  riposte  le  prime 
origini  de'  costumi  ed  umani  instituti  e  riti,  rapporta  il  costume 
antichissimo  degli  Egizi,  i  quali  morto  l'uomo  o  la  donna  si  espone- 
va il  cadavero  al  publico  e  si  dava  a  tutti  licenza  o  di  commendare 
le  loro  virtù,  tessendo  elogi  e  panegirici  delle  preclare  loro  gesta, 
ovvero  di  biasimare  e  con  pubbliche  invettive  detestare  i  loro  vizi 
colle  forme  più  opprobriosc  ed  inclementi  che  si  potesse.  Costume 
che  riusciva  loro  molto  utile  ed  assai  profittevole;  poiché,  ancorché 
nulla  o  di  conforto  o  di  doglia  ne  sentissero  i  morti,  nulladimanco  a' 
vivi  che  presenti  l'ascoltavano  instillava  tanto  amore  per  le  virtù 
ed  odio  ed  aborrimenti  a'  vizi,  per  le  lodi  o  infamia  che  doppo  lor 
morte  dovean  sperare  o  temere,  che  tutti  s'ingegnavano  di  vivere 
virtuosamente  e  secondo  il  prescritto  dalle  loro  leggi.  Per  questo 
istcsso  fine  introdussero  di  onorare  i  defonti  con  pompose  esequie, 
condire  i  loro  corpi  con  imbalsamargli  con  molta  spesa  ed  arte, 
perché  ridotti  in  mumie  lungamente  si  conservassero,  ed  ergere  per 
loro  sepolcri  superbi  mausolei  e  piramidi;  e  per  coloro  che  non 
potevano  soffrire  tanta  spesa,  costruire  in  una  gran  pianura  coverta 
di  arena  molti  pozzi,  dentro  i  quali  riponevano  gl'imbalsamati  ca- 
daveri, coprendogli  sovente  di  quella  arena,  e  perché  fosser  distinti 
e  non  si  confondessero  vi  attaccavano  lamine  nelle  quali  erano  scol- 
piti i  loro  nomi.  Per  giungere  a  questa  vasta  pianura  bisognava 
traggittar  i  morti  per  un  lago  spazioso  che  forma  il  Nilo  ;  ed  in  pic- 
ciolo barche  tratte  a  remi,  e  guidate  da'  barcaroli  riporgli  ivi;  e 
poiché  presso  gli  Egizi  il  barcaiolo  era  chiamato  Caronte,  quindi, 
come  suole  avvenire,  essendo  tutti  gli  uomini  portati  al  portentoso, 
cominciossi  a  dire  che  per  colà  erano  trasportate  le  anime  alle 


Hebraeorum  ritualibus,  nel  Tolatid,  e  che,  già  espresse  nel  Triregno,  sono 
qui  riconfermate.  Dal  Toland  trac  per  esempio  la  tesi  dell'origine  egizia 
dell'immortalità  dell'anima  (Letters  to  Serena,  ix).  Dalla  cultura  della  «  cri- 
si della  coscienza  europea»  trae  anche  il  motivo  della  polemica  contro  la 
poesia  creatrice  di  miti  come  questo  dell'immortalità  dell'anima. 


OSSERVAZIONE   XL  I083 

destinate  loro  sedi  infernali  per  Caronte,  ed  il  lago  prender  nome 
di  palude  Stige,  di  Oocito,  Averno,  di  Acheronte  e  di  tanti  altri 
terribili  e  spaventosi  nomi.  I  favolosi  Greci  con  avidità  appresero 
da  Orfeo,  doppo  che  questi  da  Egitto  fece  ritorno  nella  Tracia  e 
nella  Grecia,  queste  favole,  accresciute  poi  da  essi  a  maraviglia; 
ed  i  loro  poeti,  se  ben  prima  con  moderazione,  come  fece  Omero, 
dapoi  non  seppero  tener  né  modo  né  misura,  fingendo  sette  princi- 
pali porte  per  le  quali  s'entra  nella  città  dolente,1  e  sopra  la  super- 
ficie della  terra  in  vari  luoghi  scoprendo  nuove  bocche  d'inferno, 
nuovi  cerberi  custodi,  giudici  istituiti  per  esaminar  le  colpe,  e 
tante  altre  orrende  pene  di  nuovi  tormenti  e  nuovi  tormentati, 
quante  Dante  ne  finse  nella  sua  Comedia.  Il  virtuosissimo  ed  accu- 
rato viaggiante  Pietro  della  Valle  nella  1  parte  de'  suoi  Viaggi 
all'ep.  n  scritta  dal  Cairo,2  rapporta  ch'egli  osservò  questa  città 
non  esser  molto  lontana  dal  luogo  dov'era  Babilonia  egiziaca,  fon- 
data da'  Caldei,  che  rifuggiti  in  Egitto,  accolti  dal  re,  gli  diede  li- 
cenza di  costruire  la  nuova  Babilonia;  soggiungendo  aver  quivi 
vedute  molte  piramidi  dal  tempo  non  affatto  consumate,  le  quali 
non  furono  che  sepulture  magnifiche  de'  re  di  Egitto;  ed  avere 
osservato  in  quella  gran  pianura  coverta  di  arena  molti  di  que'  pozzi 
e  trovati  i  cadaveri  ridotti  in  mummie  nella  maniera  appunto  che 
gli  descrive  Diodoro  Siciliano,  le  quali  erano  cercate  da  persone 
pratiche,  che  sapevano  in  quella  vasta  pianura  trovar  le  bocche 
de'  pozzi  e  scavarle  per  venderle,  poiché  la  medicina  l'ha  adottate 
e  riposte  tra  gli  altri  suoi  rimedi  ;  e  che  per  giungere  a  questa  pia- 
nura bisognava  traggittar  un  lago  formato  dal  Nilo. 

Da  questi  princìpi  si  cominciò  a  filosofare  sopra  lo  stato  delle 
anime  umane  separate  da'  corpi,  e  se  non  affatto  estinte  fosser 
destinate  ad  una  seconda  vita,  o  penosa  ovvero  gioconda,  secondo 
i  meriti  o  demeriti  della  passata.  Cicerone  credette  che  il  primo 
filosofo  che  avesse  cominciato  ad  esaminar  questo  punto  e  di  affer- 
marle immortali  fosse  stato  Ferecide  Siro  maestro  di  Pitagora.3  A 
tutti  è  noto  che  Pitagora  suo  discepolo  stese  oltre  le  sue  conoscenze 
e  diede  in  tanti  paradossi  quanti  ciascun  sa  :  che  non  giammai  mo- 


1.  nella  città  dolente:  cfr.  Dante,  Inf.,  in,  i,  2.  Pietro  della  Valle  . .  .  Cairo: 
vedi  la  nota  up.  954.  Cfr.  Viaggi,  ed.  cit.,  tomo  1,  parte  1,  lettera  xi, 
Cairo,  25  gennaio  i6i6>  p.  344.  3.  Cicerone  . . .  Pitagora:  cfr.  Tusc.  disp., 
1,  xvi,  38.  Ferecide  di  Siro,  scrittore  greco  del  VI  secolo  a.  C,  autore  di 
una  specie  di  teogonia,  Heptàmuchos,  che  ebbe  influenza  su  Pitagora. 


1084  L'AIMi    INGEGNOSA 

risserò,  ma  trasmigrassero  da  un  corpo  ad  un  altro,  e  sovente,  se- 
condo i  demeriti  della  precedente  vita  informassero  anche  corpi 
di  animali  bruti  ;  e  dapoi  faecsser  ritorno  a  gli  umani  e  così  vagas- 
sero in  perpetuo  giro.  Ed  i  moderni  viaggianti  ci  assicurono  che 
anche  oggi  questa  folle  credenza  la  ritengono  molti  indiani,  giap- 
ponesi ed  alcune  nazioni  orientali.  Platone  colle  suo  splendide 
idee  l'elevò  in  un  più  alto  stato;  e  sicome  in  assignar  loro  l'origine 
cadde  in  isconci  errori,  così  uscite  da'  loro  corpi  diede  in  istravagan- 
ze  maggiori,  facendole  o  tornare  alle  loro  stelle,  donde  derivarono, 
ovvero  ad  alcune  prescrivendo  certi  luoghi  da  purgarsi;  ad  altre 
con  farle  trasmigrare  da  uno  in  altro  albergo;  altre  trasfigurarsi, 
considerando  in  esse  vari  stati,  i  quali  non  hanno  altro  appoggio 
che  la  sua  asserzione  e  la  propria  fantasia  ed  immaginazione  ;  ciò 
che  diede  a7  fecondi  poeti  ampia  materia  di  lavorarci  intorno  e  di 
rendere  più  minute  le  descrizioni  de*  Campi  Elùsi,  delle  paludi 
Stiggie,  Orco,  Cocito,  Acheronte  e  tante  altre  lor  fole  e  ciance, 
Aristotele  suo  discepolo  non  si  appagò  punto  delle  splendide  idee 
del  suo  maestro,  ma  intorno  alla  natura  delle  anime  umane  fu 
sempre  vario  ed  incostante;  o  perché  non  seppe  investigarla,  o 
pure,  secondo  il  suo  costume,  volle  invilupparla,  perché  niuno 
potesse  sapere  qual  fosse  in  ciò  il  suo  sentimento.  In  efletto  sino 
ad  ora  disputano  gli  aristotelici,  ed  è  fra  di  loro  una  delle  grandi  e 
difficili  questioni  a  risolvere,  se  Aristotele  ponesse  l'anime  umane 
mortali  o  pure  immortali.  Gli  stoici  fra  di  loro  non  ben  si  accorda- 
vano su  questo  punto,  non  essendo  tutti  concordi  in  farle  immor- 
tali; e  sicome  si  e  veduto  Seneca  inclinava  all'opinion  contraria. 
Altri  filosofi  in  fine,  scorgendo  tante  dissensioni  e  contrasti  non 
vollero  prendersi  briga  alcuna,  e  reputarono  esser  l'esame  di  ciò,  e 
molto  più  la  decisione,  fuori  dell'umano  intendimento,  conforman- 
dosi a  quel  che  solea  dire  Eraclito:  «tcrminos  animae  ncquaquam 
invenisse».1 

I  rigidi  veneratori  dell'antichità  non  si  lasciarono  smovere  da 
sì  vari,  nuovi  e  discordanti  pareri.  Stettero  fermi  nel  concetto  che 
si  ebbe  sempre  del  nostro  morire  e  che  per  ciò  gli  uomini  fosser 
detti  mortale  genus,  perché  commune  aveano  con  gli  altri  animali 
il  morire.  Leucippo,  Democrito,  Epicuro  e  tutti  i  filosofi  della  lor 

1.  «terminos  . . .  invenisse»:  «che  non  aveva  in  nessun  modo  trovato  i  ter- 
mini dell'anima»  (cfr.  Fragmente  der  Vorsokratiker,  ed.  Diels-Kranz,  Ber- 
lin 19547,  fr.  45). 


OSSERVAZIONE   XL  1085 

setta  costantemente  sostennero  questa  dottrina,  la  quale  T.  Lu- 
crezio Caro  la  distese  cotanto  presso  i  Romani  che  nell'aureo  se- 
colo di  Augusto  i  più  seri,  niente  abbagliati  dalle  splendide  idee 
di  Platone,  e  molto  meno  sorpresi  dalle  favole  de*  poeti,  tal  con- 
cetto ebbero  del  nostro  morire,  che  ci  recasse  un  perpetuo  e  tene- 
broso sonno.  Dall'opere  stesse  di  Varrone  e  di  Cicerone  che  ci 
rimangono,  se  ben  si  riguardano,  si  conosce  che  l'innumerabile 
turba  di  tanti  numi,  l'Orco,  Acheronte,  Cocito  e  gl'infernali  dii 
si  lasciavano  alla  credulità  del  volgo  ed  all'arditezza  de'  poeti;  e 
Livio  in  tutto  il  corso  della  sua  incomparabile  istoria  fu  del  me- 
desimo sentimento,  sicome  chiaramente  lo  palesò,  quando  nel 
libro  primo  della  v  deca,  narrando  la  strage  che  i  Romani  fecero 
degli  Istri,  i  quali  oppressi  dal  vino  e  dal  sonno  furono  improv- 
visamente assaliti  e  molti  nel  sonno  estinti,  dice  che  gli  uccisori 
non  fecero  altro  che  continuargli  la  morte  :  «  aliis  somno  mors  con- 
tinuata est».1  Ed  i  loro  stessi  poeti,  quando  non  intendevano  tes- 
ser favole,  ma  attenersi  al  reale  e  serio,  trattando  da  filosofi  le  cose 
vere,  non  l'ombre  come  cose  salde,  pure  ne'  loro  carmi  manifesta- 
rono lo  stesso,  sicome  apertamente  cantò  Virgilio  in  que'  versi: 

Felix  qui  potuti  rerum  cognoscere  causas, 

tlle  metus  omnes  et  inexor  abile  fatum 

subiecit  pedibtis,  strepitumque  Acherontis  avari.2 

Da'  carmi  di  Orazio  è  manifesto  che  pur  fosse  del  sentimento 
medesimo,  sicome  Catullo  quando  del  nostro  morire  cantò: 

Nobis  cum  semel  occidit  brevis  lux, 
nox  est  perpetua  una  dormienda,* 

imitando  la  frase  di  Teocrito,  il  quale  cantò  pure: 

Ut  semel  occidimus  sub  terra  lumine  cassi 
dormimus  longum,  immensum,  aeternumque  soporem* 

Da  questo  principio  derivò  il  costume,  anche  ne'  più  sapienti  e 
forti,  negli  ultimi  ed  estremi  casi,  o  per  isfuggire  ignominia,  o  mag- 

1.  «aliis  . .  .  est»'.  Livio,  xu,  4.  Cfr.  Discorsi  storici  e  politici  sopra  gli  Annali 
di  Tito  Livio  in  P.  Giannone,  Opere  inedite,  i,  Torino  1852  (ma  1859), 
p.  228.  2.  Cfr.  la  nota  1  a  p.  752.  3.  Catullo,  Carni.,  v,  5-6  («Dobbiamo, 
allorché  la  breve  luce  della  vita  è  cessata  una  volta  per  tutte,  dormire  un 
sonno  ininterrotto»).  4.  Non  Teocrito,  ma  Mosco,  IdylL,  in,  103-4 
(«Quando  per  sempre  terminiamo  sotto  terra  privi  di  luce,  dormiamo  un 
sonno  lungo,  smisurato,  eterno  »). 


I086  L'APE   INGEGNOSA 

giore  miseria,  ovvero  nelle  insanabili  e  dolorose  malattie,  e  sovente 
per  non  essere  spettatori  della  servitù  propria  o  de*  suoi,  ovvero 
della  patria,  di  affrettarsi  volontariamente  la  morte:  di  ehe  in- 
numerabili  sono  gli  essempi  di  uomini  riputati  savi,  gravi  e  d'in- 
corrotti costumi,  rinomati  ed  illustri;  anzi  raffrettarsi  in  questi 
casi  il  morire  deliberatamente,  non  per  ìmpeto  o  furore,  ma  con 
bilanciar  prima  le  ragioni  per  la  vita  e  quelle  per  la  morte,  riputava- 
si  somma  sapienza  non  meno  che  costanza  d'un  animo  forte  e  gran- 
de. Così,  per  tralasciar  altri,  riputò  Plinio  il  Giovane  la  volonta- 
ria morte  di  Tito  Aristene,  scrivendo  nell'ep.  22  del  primo  libro: 
«Id  ego  arduum  in  primis  et  praecipua  laude  dignum  puto:  non 
impetu  quodam  et  instinctu  procurrere  ad  mortem,  commune 
cum  multis:  deliberare  vero  et  causas  eius  expendere,  utque  suase- 
rit  ratio  vitaeque  mortisque  consilium  suscipere,  vel  ponere,  in- 
gentis  animi  est».1  Ed  è  notabile  ciò  che  Valerio  Massimo  nel  cap. 
185  scrisse  de'  Marsiliesi,  i  quali  nella  loro  città  in  luogo  pub- 
blico tenevano  riposta  la  cicuta  perché  fosse  pronta  a  chi,  bilan- 
ciate le  ragioni  della  vita  e  della  morte,  deliberasse  meglio  esser  il 
morire:  «Venenum»  e'  dice  «cicuta  temperatimi  in  Massiliensi  ci- 
vitate  publice  custoditur;  quod  sapienter  excedere  cupienti  ce- 
lerem  fati  viam  praebet:  ut  vel  adversa  vel  prospera  nimis  usi 
fortuna,  comprobato  exitu  vita  terminetur»?  E  da  questo  principio 
ne  dedussero  quel  precetto  morale,  che  l'ebbero  per  uno  de'  più 
salutari  rimedi  non  meno  ne'  morbi  dell'animo  che  del  corpo,  qual 
era  di  dover  riflettere  che  la  natura,  fra  tutti  i  beni  che  avea  dato 
all'uomo,  il  xnaggiore  era  quello  d'un'opportuna  morte,  ed  in  ciò 
l'ottimo  di  potersela  ciascuno  dare  a  se  stesso.  Ciocché  Plinio  il 
Vecchio  cotanto  in  più  luoghi  della  sua  Istoria  ripete  ed  inculca; 
e  nel  lib.  28,  cap.  1,  ecco  come  ne  parla:  «Hoc  primum  quisque 
in  remediis  animi  sui  habeat:  ex  omnibus  bonis,  quae  nomini  tri- 
buit  natura,  nullum  melius  esse  tempestiva  morte:  in  eaque  id 
optimum,  quod  illam  sibi  quisque  praestarc  poterit».3  Né  questa 
morale  offendeva  punto  la  loro  religione,  la  quale,  come  si  è  più 

i.tld  ego  arduum  . . .  cst*\  Plinio  il  Giovane,  Ep.t  1,  xxn,  C.  Plinius  Catilio 
Severo  suo,  9-10.  2.  «Venenum .  . .  terminctumi  Valerio  Masaimo,  Faci, 
et  dict.  mem.t  11,  vi,  7.  3.  «Hoc  primum  .  * .  poterit »:  Plinio,  Nat.  hi$L, 
ed.  cit.,  tomo  11,  lib.  xxvni,  cap.  1,  scct.  11,  p.  444  («  Questo  sia  per  ognuno 
la  principale  risorsa  dell'animo:  che  di  tutti  i  beni  che  la  natura  ha  dato 
all'uomo,  nessuno  è  preferibile  a  una  morte  che  venga  al  momento  oppor- 
tuno, soprattutto  se  potrà  procurarsela  da  sé»). 


OSSERVAZIONE   XL  I087 

volte  detto,  non  riguardava  se  non  il  presente  stato  di  questo  mon- 
do; né  prometteva  altra  futura  vita  dopo  morte. 

Non  riconoscevasi  altra  vita  doppo  la  presente  che  la  gloriosa  per 
que'  che  in  vita  si  erano  segnalati  con  fatti  eroici  e  magnanimi,  o 
pure  ignominiosa  ed  infame  per  que'  che  vituperosamente  avean 
menata  la  precedente.  Ciò  ch'era  un  acuto  stimolo  per  animargli 
ad  imprese  dure  e  difficili  ed  esercitare  le  più  alte  ed  eroiche  virtù, 
esponendosi  sovente  a  certe  e  non  dubbie  morti,  non  curando  né 
pericoli  né  strazi  o  tormenti,  né  in  fine  le  più  crudeli  ed  acerbe  mor- 
ti, sostenendole  con  somma  intrepidezza  e  maravigliosa  costanza. 
Quindi  derivò  il  coraggio  ad  Orazio  Coclide,  a  Muzio  Scevola,  a 
M.  Curzio,  a'  Dccii  padre  e  figlio  ed  a  tanti  altri  valorosi  capitani,  i 
quali  volontieri  per  la  salute  degli  esserciti  e  della  patria  se  stessi 
immolavano  e  coraggiosi  andavan  incontro  alla  morte.  Quindi  la 
costanza  di  Lucrezia  e  di  tante  altre  madrone  romane,  che  di- 
sprezzaron  la  morte,  purché  si  rendessero  a'  posteri  gloriose  ed 
immortali.  E  pure  questa  seconda  lor  vita  riguardava  ed  avea  sol 
relazione  al  vivere  nel  concetto  dei  presenti  e  futuri,  non  già 
perch'essi  doppo  morte,  come  tuffati  in  un  tenebroso  oblio,  ne 
scntisscr  cos' alcuna,  ma  vivendo  la  credevano  non  men  vera  e 
reale  che  la  vita  presente;  sicché  riputavano  non  morire,  anzi 
sopravivere  in  un'altra  più  illustre,  e  che  la  lor  morte  non  dovesse 
esser  pianta,  né  accompagnata  da  funeste  e  lugubri  pompe,  ma 
più  tosto  di  allegre  e  giolive,  come  principio  d'un'altra  vita  im- 
mortale e  luminosa.  Così  di  Ennio  fu  detto  che  non  si  dovesser  per 
lui  sparger  lagrime,  né  usar  funebri  apparati,  poiché  viveva  più 
glorioso  nelle  bocche  degli  uomini;1  e  coloro  i  quali  morivano  in 
guerra  sul  campo  di  battaglia,  si  riputavano  sempre  vivere,  sicché 
a'  padri  di  famiglia  non  si  scemava  per  ciò  il  numero  de*  figlioli, 
e  godevano  degli  stessi  privilegi  dei  padri  onusti,  sicome  prima, 
poiché  non  si  riputavan  morti. 

Sicome  la  vita  gloriosa  che  speravan  doppo  morte  gli  faceva 
disprezzar  strazi,  tormenti,  pericoli  e  non  dubbie  morti,  così  l'or- 
rore che  si  avea  dell'infamia,  che  temevano  non  succedesse  alla  lor 
morte,  gli  faceva  curar  poco  la  vita;  e  sovente  si  astenevano  affret- 
tarsi il  morire,  che  l'avrebbe  sottratti  da  mille  strazi  ed  angoscie, 

t.  Così  di  Ennio  . . .  uomini:  cfr.  il  frammento  dello  stesso  Ennio  conservato 
da  Cicerone,  Tusc.  di$p.}  i,  xv,  34:  «Nemo  me  lacrumis  decoret  nec  funcra 
fietu  /  faxit.  Cur?  volito  vivus  per  ora  virum». 


I088  L'APE    INGEGNOSA 

se  fosser  certi  che  uccidendosi  sarebbero  per  ricevere  doppo  morte 
infamia  e  vituperio;  ed  e  notabile  che  questo  concetto  si  ebbe  ezian- 
dio dalla  moltitudine  e  dalla  più  bassa  ed  infima  plebe.  Narra 
Livio  nel  primo  libro  della  i  deca1  le  opere  magnifiche  che  Tar- 
quinio  Prisco  in  tempo  di  pace,  per  tener  occupata  la  plebe,  intra- 
prese in  Roma  di  farla  cincere  di  muri,  di  appianar  i  colli  ed  empir 
le  valli  per  render  i  luoghi  piani  e  di  costruire  nella  profondità  della 
terra  ampie  cloache  ed  altre  sotterranee  cave  ed  aquidotti,  sì  ampi 
e  spessi  che  sembrava  per  i  tanti  sotterranei  lavori  la  città  fosse  quasi 
che  pensile.  Aggiunge  Plinio  nel  libro  36,  cap.  15/*  che  della  plebe, 
per  isfuggire  i  pericoli  ed  insoffribili  travagli  ne'  lavori  sotter- 
ranei, moltissimi  davano  a  se  stessi  morte,  chi  gettandosi  nel 
Tevere  e  chi  procurandosela  in  altre  guise:  allora  Tarquinio  per 
darci  riparo,  «novum»  dice  Plinio  «et  inexeogitatum  sui  tea  postea- 
que  remedium  invenit  ille  rex»;  ed  il  rimedio  fu  di  far  affiggere  i 
corpi  trovati  morti  nel  Tevere  o  altrove,  in  tante  croci,  che  fos- 
sero di  spettacolo  a  gli  altri  cittadini,  ed  capoti  ad  esser  lacerati 
dalle  fiere  e  per  pasto  degli  avvoltoi  o  corvi  e  degli  altri  carnivori 
uccelli.  Or  il  pudore  e  l'ignominia  di  veder  pendenti  i  cadaveri  dalle 
croci,  supplicio  a  que'  tempi  il  più  infame  e  vituperoso,  trattenne 
gli  altri  a  non  far  lo  stesso,  riputando  non  l'uccidersi,  ma  l'infamia 
e  l'opprobio  che  ne  sarebbe  seguito,  più  orribile  e  spaventoso.  Così 
la  plebe  istessa  curava  poco  il  morire,  ma  sì  bene  guardavasi  del- 
l'infamia che  doppo  morte  gli  soprastava.  Né  in  discorso  di  tempo 
gl'impcradori  romani  poterono  usare  rimedio  più  efficace  per  por 
argine  alle  tante  volontarie  morti,  se  non  per  loro  costituzioni  im- 
por  pena  d'ignominia  ed  infamia  alla  lor  memoria,  rendergli  inte- 
stabili, ed  altre  che  si  leggono  nelle  Pandette  e  nel  Codice  dell'i  m- 
pcradorc  Giustiniano. 


Questo  era  il  concetto  che  si  avea  della  seconda  vita,  che  alla 
mortale  succedeva;  ma  i  favolosi  Greci  e  que'  che  furono  abbagliati 
dalle  splendide  idee  di  Platone  e  dalle  ingegnose  favole  de'  fecondi 
poeti,  diedero  corpo  a  chi  non  l'ebbe,  trattando  l'ombre  come  cose 
salde.  Finsero  che  separata  l'anima  umana  dal  corpo  si  fendesse  in 

1.  Narra  Livio  . . .  deca:  cfr.  Livio,  i,  38,  6-7.    3,  nel  libro  36 ,  cap.  r$: 
ed.  cit.,  scct  xxiv,  p.  743. 


OSSERVAZIONE    XL  I089 

due  parti  :  la  sublime,  spezialmente  quella  degli  eroi  e  de*  grand'uo- 
mini,  volasse  in  cielo;  la  più  grossolana  calasse  giù  ne'  luoghi  in- 
fernali, come  ombra,  onde  gli  spettri,  le  fantasime,  i  mani  ovvero 
i  dii  infernali.  Così  Omero  fìnse  nel  libro  xi  al  fine  v.  601  che  l'om- 
bra o  sia  fantasima  di  Ercole  era  nell'inferno,  ma  che  egli  fosse 
collocato  in  cielo  fra'  dii  celesti.1  Quindi  ebbe  origine  fra'  Greci 
V apoteosi,  cioè  di  deificare  doppo  la  lor  morte  i  gran  monarchi,  o 
eroi,  e  collocargli  fra'  numi;  onde  i  Romani  l'appresero,  facendo 
anch'essi  lo  stesso  de'  loro  re  ed  imperadori,  ma  le  cagioni  furon 
diverse.  Ne'  primi  tempi  rozzi  ed  incolti  furon  mossi  da  vana  re- 
ligione, sicomc  fecero  di  Romolo,  riponendolo  fra'  dii  celesti;  ne' 
secoli  culti  ed  illuminati  si  mantenne  il  costume  per  l'adulazione 
e  vile  servaggio,  sicomc  si  diede  a  credere  di  Giulio  Cesare  ;  e  l'adu- 
lazione arrivò  sino  a  far  credere  che  in  quella  nuova  stella  cometa 
apparsa  doppo  la  sua  morte  era  volata  e  riposta  la  sua  anima. 
Niente  dico  di  Augusto,  di  Tiberio  e  di  Nerone  istesso  deificato 
anche  in  sua  vita.  Ciocché  maggiormente  manifestò  la  menzogna 
e  l'adulazione  derisa  meritamente  da  Tacito  con  molta  maggior 
ragione  di  ciò  che  fece  Livio  della  deificazione  di  Romolo.  Quindi 
l'opinione  di  alcuni  di  riputar  l'anime  de'  grandi,  che  si  erano  se- 
gnalate al  mondo  per  eroici  fatti,  non  estinguersi  col  corpo,  ma 
esser  riposte  fra'  celesti  ed  i  loro  mani  o  sian  ombre  degne  di  pietà 
e  di  rispetto,  onde  i  panegiristi  empirono  di  tali  concetti  le  loro 
orazioni  funebri,  recitate  in  lor  morte;  e  Cicerone,  sicome  altrove 
fu  detto,  assumendo  una  tal  persona  lo  stesso  fece  in  commenda- 
zione della  sua  figliuola  Tullia  nel  lib.  De  consolatìone,2,  e  C.  Tacito 
in  grazia  del  suo  socero  Agricola,  in  finir  la  di  lui  vita,  a  lui  rivolto 
gli  disse:  «Si  quis  piorum  manibus  locus,  si,  ut  sapientibus  placet, 
non  cum  corpore  extinguuntur  magnae  animae  :  placide  quiescas  »3 
etc.  E  gli  Ebrei  stessi  doppo  la  lor  dispersione  in  più  provincie 
dell' Oriente,  contaminati  da  stranieri  costumi  ed  opinioni,  nel  u 
Tempio  adottarono  li  medesimi  sentimenti,  onde  leggiamo  presso 
Tacito  nel  lib.  v  delle  sue  Istorie  che  disprczzavano  la  morte  e  per 


1.  Così  Omero  . . .  edesti:  il  riferimento  è  all'Odissea,  xi,  601-3.  *•  e  Ci- 
cerone . .  .  consolatìone:  cfr.  Consola  xv,  53  sgg.  La  Consolatio  è  però  con- 
siderata opera  «incerti  auctoris  ».  3.  *Si  quis  .  .  .  quiescas»:  Tacito,  Agric, 
46  («  Se  davvero  esiste  un  luogo  per  i  mani  dei  pii,  se,  come  i  saggi  riten- 
gono, l'anima  dei  grandi  non  s'estingue  col  corpo,  tranquillamente  ripo- 
sa .  ,  .  »). 


IO90  L'APE    INGEGNOSA 

dar  coraggio  a'  combattenti  davansi  a  credere  che  l'anime  di  coloro 
che  morivano  sul  campo  di  battaglia  fossero  eterne.1  Sicomc  pro- 
curarsi volontaria  morte  per  sottrarsi  da  ignominia,  servitù  e 
opprobrio.  Quindi  leggiamo  nel  lib.  2  de1  Maccabei,  cap.  14,  42, 
che  Razia*  per  sottrarsi  dalle  violenze  che  Nicànore,  ministro  di 
Antioco,  usava  con  gli  Ebrei  per  fargli  idolatrare,  diede  a  se  mede- 
simo morte:  «Eligens»  come  ivi  si  legge  «nobilitcr  mori  potius, 
quam  subditus  fieri  pcccatoribus  et  contra  natales  suos  indignis 
iniuriis  agi». 

Ma  circa  queste  ombre,  o  siano  spettri  o  mani,  quante  Jole  e 
ciance  inventarono  i  Greci,  che  contaminarono  in  ciò  anche  i  Ro- 
mani. Che  se  i  loro  cadaveri  non  fossero  stati  ritamente  sepolti, 
ovvero  che  Tossa  rimanessero  esposte  sopra  la  nuda  terra  ad  esser 
mosse  dal  vento  e  bagnate  dalla  pioggia,  non  avesser  le  loro  ombre 
mai  pace  e  riposo,  ma  che  vagassero  di  qua  e  di  là  misere  e  dolenti; 
e  molto  più  quando,  violati  i  loro  sepolcri  ove  furon  riposti,  si  fosser 
Tossa  sparse  per  terra.  Quindi  Livio  nel  lib.  primo  della  v  deca,3 
doppo  aver  narrato  le  crudeltà,  gTincendi  e  le  mine  che  Filippo 
re  di  Macedonia  fece  ne*  contorni  di  Atene,  abbattendo  i  tempii 
e  le  statue  de*  dii,  e  minando  i  sepolcri  de'  morti,  non  lasciandovi 
pietra  sopra  pietra,  dice  che  nel  concilio  degli  Ktoli  i  legati  ateniesi 
non  tralasciarono  rinfacciare  a'  Macedoni  questa  crudeltà  ed  inu- 
dita barbarie  di  Filippo,  il  quale  avea  mossa  guerra  a'  dii  infernali 
minando  tutti  i  sepolcri  e'  monumenti,  lasciando  denudati  i  numi  e 
le  ossa  scovcrte  sopra  la  nuda  terra,  e  poi  imperversato  anche 
contra  i  dii  celesti,  rovesciando  tutti  i  loro  tempii,  spezzando  i  loro 
simulacri  e  mettendo  il  tutto  a  ferro  e  fuoco:  «adeo  omnia»  essi 
dicevano  «simul  divina  umanaque  iura  polluerit,  ut  priore  popula- 
tionc  cum  inferis  diis,  secunda  cum  superis  bellum  nefarium  ges- 
scrit:  omnia  sepulcra  monumcntaque  diruta  esse  in  finibus  suis 
omniumque  nudatos  mancs,  nullius  ossa  terra  tegi  ».  I  Romani  da' 
Greci  appresero  queste  vane  religioni  e  Numa  Pompilio  le  ac- 
crebbe e  confermò;  e  sicome  suole  avvenire  a  gli  animi  gravati 
di  superstizione,  si  aggiunse  un'altra  vana  credenza,  che  non  pur 
quest'ombre,  insepolti  i  loro  corpi,  andassero  vagando  misere  e 

1.  onde  leggiamo  . . ,  eterne:  Tacito,  Ilist.,  v,  5.  2.  Manda  era  uno  detfli 
Anziani  di  Gerusalemme,  che,  quando  il  ministro  di  Antioco  V,  Nicànore, 
tentò  di  paganizzare  gli  Kbrei,  si  oppose.  Minacciato  di  cattura,  hi  uccise. 
3.  nel  lib.  primo  della  V  deca:  Livio,  xxxi,  30  (quindi  nella  xv  deca). 


OSSERVAZIONE   XL  IO9I 

dolenti;  ma  se  morti  invendicati  de*  torti  fattigli  in  vita,  non  si 
espiasse  per  loro  e  prendesse  vendetta,  non  avrebber  mai  posa  né 
quiete,  e  che  per  ciò  soleano  apparire  a'  congionti  0  amici  perché 
vendicasscr  le  loro  onte.  Lo  stesso  Livio  nel  lib.  3  della  1  deca,1 
rapportando  il  tragico  successo  di  Virginia,  la  quale  fu  uccisa  dal 
dolente  padre  che  non  ebbe  altro  modo  per  iscamparla  dalla  ser- 
vitù e  dall'imminente  infame  stupro  di  Appio  Claudio  decemviro, 
narra  che  discacciati  per  ciò  da  Roma  i  decemviri,  fu  preso  del- 
l'indegno attentato  di  Appio,  de'  suoi  ministri  e  colleghi,  degno 
castigo,  e  così  fur  vindicati  i  mani  di  Virginia,  soggiungendo  gra- 
ziosamente che  i  mani  di  Virginia  furono  più  felici  doppo  morte 
ch'essendo  viva,  li  quali  vagando  di  qua  e  di  là  cercando  vendetta, 
ottenutala,  finalmente  si  quietarono:  «manesque  Virginiae,  mor- 
tuae  quam  vivae  feliciorcs,  per  tot  domos  ad  petendas  poenas 
vagati,  nullo  relieto  sonte,  tandem  quieverunt». 

Di  qui  nacque,  ch'empite  le  fantasie  del  volgo  di  sì  vane  cre- 
denze, resi  per  ciò  pavidi  e  timorosi,  la  paura  istessa  sovente  fa- 
cevagli  vedere  cose  invisibili  ed  udire  gemiti  o  rumori  che  non 
aveano  altro  sostegno  che  la  depravata  e  corrotta  lor  fantasia;  e 
poiché,  come  altrove  si  è  avvertito,  gli  uomini  sono  pur  troppo 
avidi  di  narrare,  ovvero  di  udire  cose  portentose  e  strane,  con  pia- 
cere si  raccontavano  e  si  sentivano,  e  con  pari  credulità  se  gli 
prestava  intera  fede.  Quindi  le  tante  favolette,  che  anche  oggi  si 
raccontano 

Stando  al  foco  a  filar  le  vecchiarelle.2, 

E  quel  che  fa  maraviglia,  anche  scrittori  gravi,  non  meno  antichi 
che  moderni,  han  piene  le  carte  di  questi  sogni;  e  Plinio  il  Gio- 
vane, il  quale  non  era  sì  a  fondo  istrutto  d'una  solida  filosofia  come 
suo  zio,  non  solo  ne  dubbitava,  ma  mostrava  inclinare  all'opinione 
del  volgo  che  le  crede  essere  qualche  cosa,  non  pure  illusioni.  Leg- 
gasi la  sua  ep.  27  del  vii  libro,  indrizzata  a  Sura,  e  stupirà  di  tanta 
sua  simplicità  in  dar  orecchio  a  simili  ciance.  Ed  è  da  avvertire  che 
simili  favolette,  una  volta  che  si  sono  immaginate,  si  replicano  e  si 
fanno  vagare  in  più  luoghi  ed  in  diversi  tempi,  e  ciascuno  le  narra 
come  testimonio  di  veduta  o  d'udito,  quando  non  è  che  una  ri- 
petizione di  favola  antica.  Veggasi  il  P.  Menochio  nella  cent,  v, 

1.  nel  lib.  3  della  I  deca:  Livio,  in,  58,  11.    2.  Cfr.  la  nota  3  a  p.  1032. 


IO92  L'APE   INGKGNOSA 

cap.  34,  dove  ne  rapporta  più  essempi.1  La  Tavoletta  clic  si  narrava 
d'una  donna  di  istraordinaria  grandezza  apparsa  a  Dione  Siracu- 
sano, che  si  legge  presso  Plutarco  nella  vita  di  Dione/  è  la  stessa 
di  quella  che  Plinio  il  Giovane  narra  qua  in  persona  di  Curzio 
Rufo,  al  quale  in  Affrica  diceasi  apparso  simile  spettro.3  Ne  S.  Ago- 
stino fu  in  tutto  libero  di  sì  fatte  credulità,  riferendo  nel  lih.  22 
De  civ.  Dei,  cap.  8,4  che  a'  suoi  dì  simili  spettri,  o  siano  spiriti  fol- 
letti, davano  molestia  a  gli  animali  ed  a  gli  uomini  che  abitavano 
nella  casa  d'un  tal  Hesperio;  se  bene  questi  libri  della  Città  di  Dio, 
essendo  stati  ne'  secoli  incolti  depravati  di  molte  giunte,  che  puzza- 
no della  semplicità  di  que'  rozzi  tempi,  ninno  può  assicurarsi  in  ciò 
del  vero  sentimento  di  questo  gran  filosofo.  Niente  dico  de*  Dia- 
loghi di  S.  Gregorio  M.5  e  di  quante  simili  fole  affastellò  Giovanni 
Diacono  nel  lib.  4,  cap.  89,  della  di  lui  vita.6  Molto  meno  degli 
altri  più  moderni  scrittori,  fra'  quali  il  nostro  Ales.  ab  Alex  andrò 
ne'  suoi  Giorni  gemali,7  lib.  2,  e.  9,  di  Gio.  Tritemio  ndìYJstoria 
del  Monastero  Hirsaugicnse*  del  P.  Pietro  Possino  gesuita  nella 
Vita  di  Antonio  Boretto  senatore  del  Parlamento  di  Tolosa?  e  di 
altri  rapportati  dal  P.  Menochio  nella  cent,  x,  cap.  97,  i  quali  di 
questi  sogni  han  empiti  i  loro  libri  ;  ed  il  P.  Menochio  credette  che 
queste  apparizioni  non  fossero  di  ombre  di  morti  o  di  anime 
purganti,  ma  più  tosto  demòni.  Nò  alcuni  pochi  savi  poterono  far 
argine  ad  un  sì  redundante  fiume  di  tante  fole,  sicché  il  volgo  non 
ne  fosse  innondato  e  non  vi  sia  anche  al  presente.  Mentre  io  era 
in  Vienna  di  Austria,  mi  raccontavano  che  tutto  quel  vasto  regno 


1.  Veggasi . . .  essempi:  G.  8.  MENOcrno,  Stuore,  ed.  cit.,  ionio  ir,  cent,  v, 
cap.  xxxiv,  Alarne  osservationi  sopra  un  fatto  di  san  Germano  vescovo  Anti- 
sìodorense,  pp.  58  sg.  3.  che  sì  legge , . .  Dione:  cfr.  Dio,  $$.  3.  è  la  stes- 
sa . .  .  spettro:  nell'epistola  xxvh  del  vii  libro,  poco  sopra  citata  dal  Gian- 
none.  4,  De  civ.  Dei,  xxii,  via,  6,  in  Mignc,  P.  L.,  xu,  eoli.  764-5.  La 
storia  di  Hesperio  a  col.  764.  5.  Gregorio  Magno,  Dialogorum  libri  IV, 
in  Mignc,  P.  L.,  Lxxvn,  coli.  149-430.  Questa  citazione,  come  anche  tutte 
le  altre  che  seguono,  e  tratta  dal  Menochio,  op.  cit.,  tomo  in,  cent,  x, 
cap.  xcvn,  De'  spiriti  che  inquietali  le  case  con  strepiti,  apparitioni  et  i?t  altre 
maniere,  pp.  333  sg.  6.  Giovanni  Diacono  . ,  .  vita:  cfr*  *ST,  ( fregar ii  Ma- 
gni vita,  loc.  cit,,  in  Mtgne,  P.  L.,  lxxv,  col.  234.  7.  Ales.  ab  Alexandro  . . . 
geniali:  cfr.  la  nota  7  a  p.  1013.  8.  Gio.  Tritemio  .  . ,  Mirsaugiensc:  lohun* 
nes  Heidelberg  detto  Tritheim  (1462-1516),  storico  benedettino  tedesco. 
L'opera  citata  fu  pubblicata  la  prima  volta  a  Basilea  nel  1550  e  poi,  più  inte- 
gralmente, nel  1 690  a  San  Gallo.  9,  Pietro  Possino . . .  Tolosa  :  Pierre  Pous- 
sìnes  (Pussinus,  1609-1686),  gesuita  francese,  storico,  di  cui  il  Giannone 
cita  De  vita  Arnaldi  Boreti  senatoris  tolosani  libri  quattuor,  Parisiìs  1639. 


OSSERVAZIONE   XL  IO93 

d'Ungheria  era  invaso  di  questo  fascino,  e  che  sovente  intorno  a' 
cimiteri  si  udivano  gemiti  e  si  vedevano  strane  forme  di  ombre  di 
morti  querule  e  dolenti  ed  in  questa  credulità  era  non  pur  il  volgo 
rozzo  e  semplice,  ma  eziandio  la  gente  più  eulta  e  civile. 

Né  si  fermò  qui  l'illusione,  ma  si  raddoppiò  in  andar  cercando 
rimedi  perché  queste  fantasime  non  inquietassero  le  case  ;  e  sicome 
per  liberarsi  da'  maghi  e  loro  magie  s'inventarono  antimagici  se- 
creti, non  meno  vani  e  ridicoli  che  le  magie;  così  per  liberarsi  di 
tali  spettri  si  fantasticarono  non  meno  dagli  antichi  che  da'  mo- 
derni varie  ed  inutili  superstizioni.  Apollonio  Tianeo,1  quel  famoso 
impostore,  insegnava  che  per  scacciargli  o  perché  si  quietassero, 
era  efficace  rimedio  di  caricargli  di  contumelie  e  dirli  le  più  atroci 
ingiurie,  sicome  rapporta  Filostrato2  nella  di  lui  Vita,  lib.  2,  cap.  2. 
Altri  più  ridicoli  rimedi,  sicome  notò  il  Menochio  nella  cit.  cent., 
cap.  C;8,3  finsero  i  poeti  seguendo  le  favole  di  Omero  e  di  Virgilio. 
Omero  nel  lib.  xi  della  sua  Odissea,  ripiena  di  spettri  e  di  magie,  al 
contrario  dell9 Iliade,  fa  che  Ulisse  con  la  spada  alla  mano  tenesse 
da  so  lontane  quell'ombre,  o  sian  anime  de'  defonti.4  Virgilio  fa 
dire  dalla  Sibilla  ad  Enea,  che  calava  nell'inferno,  che  sguainasse 
la  sua  spada  per  abbattere  quelle  ombre  se  venissero  ad  infestarlo  ;5 
ed  altre  vane  superstizioni  adoprarono  i  gentili  contro  questi  spiriti, 
ch'essi  chiamavano  Lemures  e  Lemuria,  delle  quali  trattarono  Ales. 
ab  Alexandro,  lib.  3,  cap.  12,  e  Pietro  Tireo,  De  locis  inferis,  part.  3, 
a  cap.  54  ad  cap.  64.  Alcune  sono  rapportate  anche  da  Ovidio 
nel  lib.  5  de'  Fasti  e  da  Plinio,  lib.  18,  cap.  12.  Il  P.  Menochio 
aggiunge  de'  più  moderni  altre  fole  per  discacciargli;  infra  l'altre 
quella  che  insegna  Paolino,  che  scrisse  la  Vita  di  S.  Ambrogio,6 
cioè  esser  efficace  rimedio  per  fugarli  il  lume  ovvero  il  fuoco: 
Apage  tot  nugas? 

Tante  strane  e  sì  varie  opinioni  si  andaron  fantasticando  intorno 
allo  stato  delle  anime  umane  separate  da'  loro  corpi,  considerando 


1.  Apollonio  Tianeo:  Apollonio  di  Tiana  in  Cappadocia  (I  secolo  d.  C), 
neopitagorico,  maestro  itinerante  e  asceta  dai  poteri  miracolosi.  2.  Flavio 
Filostrato  (170-244  circa  d.  C),  ateniese,  autore,  tra  l'altro,  di  una  Vita 
di  Apollonio  di  Tiana.  3.  cap.  q8:  intitolato  De*  rimedi  contro  V infestazione 
de*  spiriti,  tomo  ni,  pp.  335  sg.,  donde  derivano  anche  la  citazione  di  Filo- 
strato e  gli  esempi  di  Omero  e  di  Virgilio.  4.  Omero  . . .  defonti:  Od.,  xi, 
48-50.  5.  Virgilio  . . .  infestarlo:  cfr.  Aen.,  vi,  258-60.  6.  Ales.  ab  Ale- 
xandre . . .  Ambrogio:  citati  tutti  dal  Menochio,  loc.  cit.,  p.  336,  7.  Apage 
tot  nugas:  «Via  tutte  queste  frottole I». 


1094  L'APE    INGEGNOSA 

l'uomo  secondo  il  suo  stato  di  natura,  non  avendo  altra  guida  ne' 
seri  che  una  soda  e  semplice  filosofia,  e  ne'  fantastici  ed  illusi  che 
vane  immaginazioni  e  splendide  idee,  che  non  han  altro  sostegno 
che  la  propria  fantasia.  Ma  innalzato  l'uomo  allo  stato  di  grazia, 
sgombro  da  tanti  errori  ed  inganni,  riflettendo  che  ad  un  altro  più 
sublime  fine,  non  al  terreno  e  mondano,  era  stato  elevato,  ha  po- 
tuto istruirsi  meglio  di  quella  seconda  vita,  che  alla  presente  mor- 
tale gli  sovrasta.  Ciocché  sarà  il  soggetto  della  seguente  ed  ultima 
nostra  osservazione,  ed  insieme  ultimo  nostro  fine  ed  intento. 


OSSERVAZIONE   ULTIMA 

Che  innalzato  Vuomo  ad  un  più  sublime  fine  nel  suo  stato  di  gra- 
zia, non  dee  riputarsi  sol  terreno  e  mondano,  ma  aspirare  doppo 
la  presente  ad  uri  altra  vita,  in  un  regno  non  giù  terreno 
e  mortale,  ma  celeste  ed  eterno. 

Fu  savia  riflessione  di  S.  Agostino  che  la  divina  previdenza, 
dopo  essersi  sotto  Cesare  Augusto  l'Imperio  romano  disteso  co- 
tanto e  reso  l'uman  genere  più  docile  e  culto,  e  molte  barbare 
nazioni  dirozzate  dall'antica  loro  barbarie  e  salvatichczza,  riputasse 
il  tempo  più  proprio  ed  acconcio  di  mandare  in  terra  il  suo  Verbo 
ad  assumere  carne  umana,1  allora  quando  Roma  «sparsa  congrega- 
re imperia»  come  scrisse  Plinio,  lib.  3,  e.  5,  «rituaque  molli ret, 
et  tot  populorum  discordes  ferasque  linguas  sermonis  commercio 
contraheret  ad  colloquia  et  humanitatem  nomini  daret;  breviter- 
que  una  cunctarum  gentium  in  toto  orbe  patria  fìoret»/  Allo- 
ra piacqueli  di  mandare  in  terra  il  figliuolo  ad  innalzar  l'uomo 
ad  un  più  sublime  stato  e  di  terreno  e  mortalo  renderlo  celeste  ed 
immortale,  il  quale  presa  umana  carne  come  mediatore  fra  Dio  e 
gli  uomini  potesse  torgli  da  tanti  errori  ed  inganni,  rischiarargli 
ed  additargli  una  nuova  e  più  sicura  strada  di  lor  salute;  e  divol- 
gare nel  mondo  una  nuova  religione,  che  fosse  la  più  salubre,  alla 


1 .  Fu  savia  riflessione  . . .  umana  :  è  una  dello  tosi  di  fondo  del  De  cimiate 
Dei.  2.  «  sparsa  congregaret  *  .  .fieret»:  Plinio,  Nat.  hist.,  ed,  cit.,  tomo  1, 
lib.  ni,  cap.  v,  sect.  vi,  p.  148  («riunì  domini  smembrati  e  raddolcì  i  riti, 
e  con  la  diffusione  della  lingua  radunò  insieme  i  linguali  discordanti  e 
selvaggi  di  tanti  popoli  dando  all'uomo  conversazione  e  umanità,  e  in 
poche  parole  divenne  Tunica  patria  in  tutto  il  mondo  di  tutte  le  genti»). 


OSSERVAZIONE   ULTIMA  IO95 

quale  dovcsser  tutte  le  nazioni,  non  sol  l'ebrea,  appigliarsi  per  es- 
ser salvi,  additando  loro  la  via  sicura  per  la  quale  potesser  giungere 
a  quello  stato  nel  quale  aveagli  innalzati.  Fu  questo  l'annunzio  e 
la  promessa  d'un  nuovo  regno  celeste,  prima  a  tutti  incognito  ed  a 
gli  Ebrei  stessi,  e  per  ciò  da'  nostri  Padri  antichi  fu  chiamato  «No- 
vara regni  coelestis  promissionem  ».  S.  Paolo  per  ciò  scrisse  ad  . .  ,x 
che  sicomc  per  un  solo  uomo  terreno,  Adamo,  era  entrata  nel  mon- 
do la  morte;  così  per  un  solo  uomo  divino  vi  era  entrata  la  vita, 
poiché  l'uomo  terreno  erasi  tramutato  in  celeste,  e  per  ciò  dobbia- 
mo deporre  le  spoglie  del  vecchio  Adamo  e  vestirne  altre  d'un 
nuovo  uomo  spiritale  ed  incorruttibile.  Non  già  le  sole  anime  de' 
grandi  e  degli  eroi,  come  immaginarono  alcuni  saggi  antichi,  esser 
destinate  alle  celesti  sedi,  ma  a  tutto  l'uman  genere,  credendo  in 
lui,  e  serbando  i  suoi  precetti,  fu  promesso  questo  regno  celeste. 
Tutti  furono  innalzati  da  terreni  e  mortali  ad  uno  stato  celeste  ed 
immortale,  poiché  il  sommo  Dio,  sicome  duolsi  Plutone  presso  il 
nostro  Torquato,  non  men  teologo  che  poeta, 

Ne*  bei  seggi  celesti  ha  Vuom  chiamato: 
Vuotn  vile  e  di  vii  fango  in  terra  nato.'2. 

Non  a'  soli  Sisifo,  Tantalo,  Encelado,  Anassarete  ...  ed  altri  rei  e 
perversi  furon  destinate  le  pene,  secondo  le  favole  de'  loro  poeti, 
ma  per  tutti  coloro  i  quali,  contaminati  di  gravi  colpe,  se  ne  rcndon 
meritevoli,  fu  preparato  un  fuoco  inestinguibile  da  ardergli  senza 
consumargli  giammai,  in  eterno.  Per  ciò  non  debbiamo  temere 
della  morte  e  di  coloro  che  possono  uccidere  il  corpo,  non  già  l'ani- 
ma, ma  si  bene  di  colui  che  può  perdere  insieme  l'anima  ed  il  corpo; 
sicome  di  propria  bocca  del  nostro  Redentore  siamo  assicurati 
dal  Vangelo  di  S.  Matteo,  io,  28.  Non  dobbiamo  piangere  la  morte 
de'  nostri  amici  e  parenti,  non  già  come  si  disse  di  Ennio,3  perché 
forse  per  i  loro  fatti  egreggi  si  resero  memorandi  per  correr  vivi  e 
luminosi  nel  concetto  e  nelle  bocche  degli  uomini,  ma  per  altra 
cagione  da  S.  Paolo  additataci,  il  quale  scrivendo  a'  Tessalonicensi, 
h  4>  *3>  gli  ammoniva  di  non  dover  piangere  né  contristarsi  per  li 
morti,  sicome  gli  altri  facevan,  intendendo  de'  gentili,  i  quali  non 

1.  S.  Paolo  ecc.:  cfr.  Rom.,  5,  12  sgg.  (l'omissione  della  citazione  è  del- 
l'autografo). 2.  Ger.  lib.,  iv,  io.  Questi  versi  sono  citati  anche  nell'In- 
troduzione del  Regno  celeste.  3.  come  si  disse  di  Ennio:  cfr.  la  nota  a  p* 
1087. 


IO96  L'APE   INGEGNOSA 

aveano  speranza  alcuna  di  risorgere;  ma  che  i  fedeli  di  Cristo, 
credendolo  morto  e  resuscitato,  doveano  sperare  che  così  essi  an- 
cora risusciteranno  e  saran  fatti  partecipi  del  regno  celeste. 

Molto  meno  di  doverci  affrettar  la  morte  e  volontariamente  pro- 
curarcela per  uscir  presto  dalle  presenti  mondane  afflizioni  e 
miserie,  poiché  ciò  sarebbe  lo  stesso  che  renderci  rei  d'un  grave 
misfatto,  il  quale  ci  portarebbe  ad  una  certa  e  non  dubbia  dan- 
nazione, e  questo  2°  morire  sarebbe  incomparabilmente  peggiore 
del  primo.  E  S.  Agostino  ne'  libri  della  Città  di  Dio  fu  in  ciò  sì 
rigoroso,  che  dubitava  della  salute  di  quelle  vergini  le  quali  sotto 
Alarico,  depredando  i  Goti  Roma,  e  mettendola  a  saccomanno, 
per  non  esporsi  a  violenti  stupri  si  gettarono  nel  Tevere,  affret- 
tandosi la  morte  per  salvar  la  loro  virginità.1 

Altro  adunque  dee  essere  il  nostro  concetto  del  morire,  opposto 
a  quello  che  ne  aveano  gli  antichi  Greci  e  Romani  ;  poiché*  elevati 
ad  un  più  sublime  stato,  non  dobbiamo  più  reputarci  sol  mondani 
e  terreni,  ma  aspirare  ad  un  più  alto  fine,  che  ci  rende  celesti  ed 
immortali;  e  che  la  seconda  vita,  gioconda  0  penosa  che  ci  soprasta, 
dovrebbe  renderci  più  solleciti  di  por  tutto  il  nostro  studio  in  meri- 
tarci quella  perenne  e  beata  vita,  sicome  usar  ogni  sforzo  per  non 
urtare  ne'  pericoli  i  quali  potrebbero  farci  piombare  nel  Tartaro, 
e  trar  ivi  una  perpetua  e  tormentosa  vita  tra  fiamme  inestinguibili 
ed  eterne.  Nella  considerazione  delle  quali  cose,  se  oggi  seriamente 
gli  uomini  si  profondassero,  forse  terrebbero  miglior  condotta  in 
reggere  la  presente  vita.  Dovrebbero  seriamente  riflettere  che  tutte 
le  antiche  nazioni  del  mondo,  Greci,  Romani,  e  chi  no?  non  indriz- 
zavano la  loro  religione  se  non  al  riposo  di  questo  mondo,  e  runico 
loro  scuopo  non  era  altro  che  di  felicità  tutte  terrene  e  mondane. 
Quindi  non  rendevano  a'  loro  dii  sacrifici,  vitime,  adorazioni  e 
preghiere,  se  non  perché  gli  scampasse  da'  mali  presenti  o  futuri, 
e  concedesse  loro  prosperità  de'  beni,  tutti  cosi  gli  uni  come  gli 
altri  mondani  e  terreni.  Doppo  la  lor  morte  non  riputavano  rima- 
nergli altra  vita  che  la  gloriosa  nel  concetto  e  nelle  bocche  degli 
uomini  adoperando  cose  grandi,  virtuose  ed  illustri,  ovvero  igno- 
miniosa, se  si  fosser  contaminati  in  vita  di  azioni  infami  e  vitu- 
perose.3 E  pure  questo  sol  vincolo  fu  riputato  bastante  per  con- 

1.  E  S.  Agostino  . . .  virginità:  cfr.  la  nota  a  a  p.  826.  a.  Dovrebbero  stria* 
mente  .  , .  vituperose:  sono  rtconf ormate,  in  conclusione,  le  tesi  del  Tri" 
regno. 


OSSERVAZIONE   ULTIMA  IO97 

tenergli  in  una  perfetta  società  civile  perché  fossero  fedeli  ne'  patti 
e  nelle  promesse,  osservantissimi  de'  voti,  religiosissimi  ne'  giura- 
menti; ed  in  fine,  spezialmente  gli  antichi  Romani,  adoperassero 
tante  illustri,  magnanime  ed  oneste  azioni  e  fosser  adorni  di  tante 
belle  virtù  morali,  di  giustizia,  di  temperanza,  di  castità,  di  fortezza, 
di  toleranza,  di  magnanimità  e  di  tante  altre  virtù,  per  le  quali  a 
ragione  S.  Agostino  credette  che  per  divina  provvidenza  fosse  stato 
dal  sommo  Dio  ad  essi  conceduto  l'imperio  del  mondo. 

Or  si  facci  confronto  degli  antichi  Romani  co'  nostri  cristiani,  a' 
quali  si  è  aggiunto,  per  fargli  maggiormente  perfetti,  un  vincolo 
assai  più  tenace  e  forte,  qual'è  una  religione,  che  non  riguarda  il 
riposo  di  questo  mondo,  nel  quale  abitiamo  come  momentanei 
peregrini  e  passaggieri,  ma  un'altra  vita  permanente  ed  eterna: 
una  religione  che  c'istruisce  d'una  morale  assai  più  perfetta  e  pura 
di  quella  de'  più  elevati  filosofi  gentili;  la  quale  cotanto  c'inculca  la 
dilezione  del  prossimo  e  di  fare  o  non  fare  a  gli  altri  ciò  che  per  te 
stesso  vuoi  o  non  vuoi;  la  quale  c'insegna  doppo  questa  mortai 
vita  essercene  apparecchiata  un'altra  infinita,  alia  quale  parago- 
nata la  presente  tutta  sparisce,  ed  è  un  punto  indivisibile,  onde  il 
S.  re  Davide  solca  dire  che  presso  Dio  «  mille  anni  tanquam  dies  ex- 
terna  quae  practeriit»:1  una  religione  la  quale  ci  rende  certi  che, 
secondo  ci  saremo  portati  in  questo  pellegrinaggio,  trovaremo 
colà  permanente  abitazione,  dove  per  sempre  ci  converrà  menare 
una  vita  o  tutta  beata  e  gioconda,  ovvero  infelice,  tormentosa  e 
misera,  che  non  avrà  mai  fine  né  sarà  circoscritta  da  tempo  alcuno. 
Queste  circostanze  rendono  oggi  assai  più  rei  e  colpevoli  coloro  che 
traviano  dal  giusto  sentiero;  sicché  meritamente  dovremo  riputare 
i  mali  cristiani  per  gli  uomini  i  più  malvaggi  e  perversi  che  siansi 
veduti  giammai  sopra  la  superficie  della  terra,  e  riputargli  i  più 
empi  e  scellerati  di  quante  nazioni  furono  al  mondo  giammai; 
poiché  tutte  non  indrizzando  la  loro  religione  che  alle  felicità 
mondane,  non  aveano  un  vincolo  sì  tenace  e  forte  che  potesse 
trattenerle  e  por  freno  a'  vizi,  a'  quali  la  nostra  depravata  natura 
ci  spinge  e  ci  conduce,  come  abbiamo  noi,  i  quali  procuriamo  di 
covrire,  ciocché  è  il  peggio,  le  nostre  malvaggità  sotto  colorati  manti 
di  affettata  pietà  e  d'ipocrisia,  e  dentro  coviamo  le  fraudi,  gl'in- 
ganni ed  una  prodigiosa  ambizione,  una  sordida  avarizia  e  mille 

1.  umilio  anni.  .  .praeterìit»:  cfr.  Psalm.,  89,  4. 


IO98  L'APE    INGEGNOSA 

enormi  vizi  e  scclcraggini.  Non  dovrebbe  essere  a  noi  di  sommo 
scorno  e  rossore,  che  non  ostante  tanti  nuovi  vincoli  e  saggi  avvisi 
d'una  religione  sì  pura  e  santa,  non  possiamo  arrivare  a  quella  mo- 
rale ed  a  quelle  insigni  e  sublimi  virtù  esercitate  da  tanti  che  vissero 
nella  caligine  d'una  religione  falsa,  adorando  dii  fantastici,  vani 
e  buggiardi  ?  E  pure  pochi  sono  oggi  che  a  ciò  riguardano,  quando 
tutti  dovremmo  proporci  avanti  gli  occhi  della  mente  una  sì  alta 
ed  illustre  mèta,  e  tutte  le  nostre  cure,  i  nostri  pensieri  ed  i  nostri 
studi  dovremmo  indrizzargli  ad  un  fine  sì  alto  al  quale  per  divina 
bontà  e  munificenza  fummo  dalla  benefica  mano  del  Signore  in- 
nalzati. 

26  agosto  1744  C.  [astello]  di  Ceva. 


LETTERE 


NOTA  INTRODUTTIVA 

Alcuni  epistolari  settecenteschi  (ma  anche  di  età  precedenti,  del- 
l'Umanesimo, del  Rinascimento  o  del  Seicento)  sembrano  formati  in 
vista  di  una  loro  pubblicazione,  post  mortem  auctons.  Vi  sono  colle- 
zioni celebri  di  lettere,  proposte  all'attenzione  dei  lettori  dall'editore 
più  per  il  loro  valore  retorico  (sull'esempio  ciceroniano  delle  epi- 
stole Ad  Atticum,  Ad  Quintum  fratrem,  Ad  Brutum  ecc.)  che  per  il 
loro  contenuto.  Altre,  invece,  omogenee  per  contenuto,  quasi  un 
unico  discorso  ribadito  e  a  lungo  continuato  dall'autore  coi  suoi  cor- 
rispondenti su  temi  religiosi  (ad  esempio,  l'epistolario  camaldolese 
edito  da  Giovanni  Benedetto  Mittarclli  e  da  Anselmo  Costadoni  nel 
Ì773*  °  le  lettere  del  Dolfìn  edite  in  parte  sin  dal  1523),  0  su  temi 
eruditi,  com'è  per  lo  più  il  caso  per  gli  epistolari  sci-settecenteschi 
(del  Magliabechi  e  al  Magliabechi,  di  Apostolo  Zeno  ecc.).  Persino 
epistolari  quali  quelli  del  Muratori  o  del  MafTci,  editi  solo  ai  nostri 
giorni,  come  l'altro,  ancora  in  corso  di  pubblicazione,  del  Leibniz, 
conservano  un  loro  essenziale  carattere  erudito  ;  molto  spesso  in  essi 
la  lettera  assume  la  forma  di  una  vera  e  propria  dissertazione,  di  un 
saggio,  d'un  articolo.  L'epistolario,  in  questi  casi,  svolge  una  fun- 
zione analoga  a  quella  del  giornalismo  letterario  sci-setteccntcsco,  né 
ò  infrequente  il  caso  d'una  lettera  divulgata  in  numerose  copie  mano- 
scritte, ad  iniziativa  del  corrispondente  o  dello  stesso  scrivente.  Si 
direbbe  che  proprio  in  questo  scambio  continuo  di  notizie  librarie, 
di  recensioni,  di  informazioni  erudite,  stia  il  motivo  più  profondo 
delia  formazione  dell'epistolario  stesso  ;  il  quale,  come  si  comprende, 
e  solo  fino  ad  un  certo  punto  un  epistolario  «privato)»,  nel  senso, 
almeno,  che  certi  giudizi  negativi  su  di  un  libro,  richiedevano,  per 
essere  divulgati,  un  certo  riserbo,  il  consenso  preventivo  dello  scri- 
vente, ma  nulla  più.  Sono  lettere,  come  dicevamo,  scritte  già  con 
l'impegno  d'una  loro  eventuale  futura  divulgazione,  in  cerchie  e 
ambienti  più  o  meno  ristretti,  o  addirittura  a  mezzo  delle  stampe. 
Anche  Pietro  Giannone  ebbe,  naturalmente,  un  epistolario  simile, 
seppure  di  non  ampia  mole.  Ne  restano  labili  tracce  in  alcune  sue 
lettere  ai  due  Menckc,  padre  e  figlio,  in  una  lettera  di  Sicgmund  Lie- 
be  a  lui  ;  ma  sappiamo  che  la  corrispondenza  con  Johann  Burckard 
e  con  Friedrich  Otto  Menckc  fu  molto  più  nutrita  (il  Panzini,  che  la 
conobbe,  cita  dieci  lettere  di  Friedrich  Otto  e  altrettante  di  Gian- 
none  a  lui,  nonché  due  di  Johann  Burckard  e  tre  di  Giannone),1 
e  dalla  sua  autobiografia  risulta  che  egli  ebbe  rapporti  epistolari  an- 

1.  Cfr.  Panzini,  pp.  52-3,  60,  64,  67  e  69-71. 


1102  LETTERE 

che  con  Zegcr  Bernard  van  Espen.  Disperso  e  anche  il  gruppo  di 
lettere  scamhiate  con  il  medico  napoletano  Nicola  Cirillo,  professore 
nell'Università  di  Napoli  (il  Panzini  ricorda  trentuno  lettere  gian- 
noniane  a  lui,  e  sci  del  Cirillo  a  Pietro),1  e  questa  ò  forse  la  perdita 
più  grave,  la  lacuna  più  grossa  della  corrispondenza  giannoniana, 
perche  il  Cirillo  «profondo  filosofo,  gran  botanico  e  peritissimo  me- 
dico e  notomico»  (cfr.  Vita,  qui  a  p.  49)  era  stato  allievo  di  Nicola 
Partenio  Giannettasio,  membro  dell'Accademia  Palatina  del  Medi- 
nacoeli,  corrispondente  di  Antonio  Valhsnieri  e  di  Isaac  Newton,  ed 
a  lui  s'era  sempre  rivolto  per  consiglio  e  aiuto  il  Giannone.  Ritrovare 
questo  nutrito  gruppo  di  lettere  sarebbe  una  delle  più  importanti 
scoperte  per  gli  studi  giannoniani,  e  forse  anche  per  la  ricostruzione 
di  quell'ambiente  filosofico  naturalista,  oscillante  tra  Cartesio  e  Gas- 
sendi,  che  vanta  accanto  al  Cirillo  nomi  quali  quello  dell'Aulisio, 
autore  di  quello  studio  Delle  scuole  sacre  fra  gli  Ebrei  che  ne  fu  forse 
la  migliore  espressione.  Speranza  non  del  tutto  infondata,  che  basta 
scorrere  il  nostro  censimento  dei  manoscritti  giannoniani,2  per  os- 
servare quante  lettere  del  Giannone  fossero  rimaste  sino  ad  oggi 
sepolte  in  biblioteche  e  archivi,  sconosciute  agli  studiosi;  sicché 
sembra  lecito  presumere  che  più  larghe  e  minuziose  ricerche,  so- 
prattutto tra  carte  non  ancora  inventariate  in  biblioteche  e  archivi 
pubblici  e  privati,  possano  un  domani  portare  a  nuovi  e  più  ampi 
ritrovamenti. 

L'epistolario  giannoniano  ebbe  infatti  una  sorte  diversa  da  quella 
di  tutte  le  sue  carte.  Non  cadde  nelle  mani  dei  Savoia,  ma  rimase  a 
lungo  nascosto  in  Svizzera,  a  Saconncx,  almeno  sino  al  1760.  Dopo 
questa  data  fu  restituito  a  Giovanni  Giannone,  che  lo  richiese  per 
l'abate  Leonardo  Panzini,  il  quale  si  accingeva  a  scrivere  la  biogra- 
fia di  suo  padre.  È  ben  vero  che,  a  quella  data,  doveva  aver  già 
subito  alcune  perdite,  perché,  come  riferì  Jacob  Vernct  al  Pruno 
Sindaco  di  Ginevra,  al  momento  dell'arresto  di  Giannone  a  Vezenaz 
egli  e  il  Turrcttini  compirono  una  cernita  delle  sue  carte  («nous  en 
fimes  un  triagc»),  «brulant  quelques  lettres  et  mettant  à  part  tout 
ce  qui  auroit  pu  commettre  diverses  personnes  du  dehors».3  Però, 
a  giudicare  dalla  mole  delle  lettere  utilizzate,  citate  o  solo  ricordate 
dal  Panzini,  l'epistolario  doveva  essere  ancora  abbastanza  volumi- 
noso, se  non  più  intatto.  La  scelta  che  ne  fece  il  figlio,  e  che  e  giunta 
sino  a  noi,  ò  invece  molto  più  lacunosa,  nò  ò  facile  spiegarcene  il 
motivo.  Alcune  lettere,  a  quel  che  sembra,  non  furono  restituite  dal 
Panzini  a  Giovanni:  un  confronto  tra  le  lettere  ricordate  nella  bio- 

1.  Cfr.  Panzini,  p.  59  &  passim,  2.  Cfr.  Giannoniana.  3.  Cfr.  ibid.,  pp. 
577-8. 


NOTA   INTRODUTTIVA  II03 

grafia,  e  quelle  ricopiate  dal  figlio  di  Pietro  Giannone,  dimostra 
come  dal  carteggio  manchino  nove  lettere  a  Carlo  Giannone  per 
Tanno  1723,  altre  cinque  allo  stesso  per  l'anno  1724,  due  per  il  1735, 
tre  per  il  1734;  tutte  lettere  sino  ad  ora  non  reperite.  Anche  l'altro 
cospicuo  numero  di  lettere  oggi  depositate  presso  la  Biblioteca  Na- 
zionale di  Firenze1  deve  ritenersi  tra  quelle  non  restituite  dal  Pan- 
zini.  Ma  Giovanni,  a  sua  volta,  fece  di  più:  occultò  tutte  le  lettere  a 
lui  indirizzate  dal  padre,  e  delle  quali  ci  sono  pur  tuttavia  pervenute 
le  minute,  la  maggior  parte  ancor  oggi  tra  le  carte  dell'Archivio  di 
Stato  di  Tonno,  una  nel  fondo  Gamba  della  Biblioteca  Civica  di 
Bassano  del  Grappa.3  Il  che  si  può  anche  spiegare,  perché,  a  quanto 
appare  dalla  loro  lettura,  i  rapporti  con  questo  figlio  sradicato  non 
erano  certo  molto  facili.  Ciò  che  è  più  difficile  comprendere,  a  prima 
vista,  è  il  criterio  in  base  al  quale  Giovanni  raccolse  le  restanti  lettere 
paterne,  conservandoci  solo  quelle  inviate  allo  zio  Carlo,  e  non  anche 
le  tante  altre  indirizzate  agli  altri  corrispondenti  (il  Cirillo,  appunto, 
il  Capasso,  il  Grimaldi,  l'Ippolito  e  gli  altri  corrispondenti  napole- 
tani). Né  è  da  dire  che  abbia  voluto  scegliere  solo  lettere  familiari, 
perché  da  esse  ha  espunto  proprio  tutte  quelle  parti  che  più  diretta- 
mente riguardavano  i  rapporti  del  padre  con  la  madre  e  la  sorella, 
rinchiuse  a  Napoli  in  convento;  mentre,  d'altra  parte,  ha  aggiunto 
alla  corrispondenza  alcune  lettere  indirizzate  al  Giannone  da  Co- 
stantino Grimaldi,  da  Pietro  Contegna,  da  Biagio  Garofalo  e  da 
Angelo  Pisani,  lettere,  tutte,  a  quanto  pare,  ignorate  dal  Panzini, 
perché  in  quella  sua  biografia  non  appaiono  utilizzate,  pur  rivestendo 
una  qualche  importanza. 

È  lecito  dunque  supporre  che  l'epistolario  sia  stato  formato  da 
Giovanni  in  due  momenti  diversi;  sempre,  comunque,  dopo  la  fa- 
tica del  Panzini.  In  un  primo  tempo,  venuto  in  possesso  della  corri- 
spondenza paterna,  Giovanni  ne  fece  partecipe  l'abate  Leonardo 
Panzini,  inviandogli  di  volta  in  volta  gruppi  di  lettere  che  questi  gli 
avrebbe  dovuto  restituire,  dopo  averle  utilizzate:  «Ecco  rimetto  a 
V.  S,  ventiotto  lettere,  ed  altre  cinque  prima,  sono  numero  33  -  che 
farà  dapoi  il  favore  restituire  :  nelle  medesime  vi  è  tutto  ciò  disidera, 
e  potrà  più  lungamente  servirsene  circa  a'  fatti  che  in  quelle  si  de- 
scrivono»; «Rimetto  a  V.  S.  quattro  lettere  del  fu  mio  padre  ed 
un'altra  già  rimisi  giorni  passati,  sono  in  tutto  lettere  cinque,  che 
avrà  la  bontà  unirle  coll'altre  scritture,  che  poi  terminata  la  vostra 
incombenza  mi  restituirà».3  Successivamente,  diciamo  attorno  al 
1765,  procedette  ad  una  raccolta  e  trascrizione  di  quelle  indirizzate 

1.  Cfr.  Gìannonìana.)  pp.  516  sgg.     2.  Cfr.  ibid.,  pp.  366-7.     3.  Cfr.  ibtd,, 
PP-  533-4. 


1104  LETTERE 

allo  zio  Carlo,  in  maniera  abbastanza  scrupolosa  e  rispettando  gli 
originali.  Formò,  così,  quello  che  è  oggi  il  volume  della  Biblioteca 
Nazionale  di  Roma  segnato  Fondo  Vittorio  Emanuele  358.  Ma  ritor- 
nato sui  criteri  di  scelta  e  copiatura,  tagliò  e  rabberciò  i  dispacci  del 
padre,  dandoci  i  due  volumi  oggi  segnati  Fondo  Vittorio  Emanuele 
359  e  360.  Quali  motivi  lo  spinsero  a  questa  decisione? 

Pietro  Giannone  era  solito  inviare,  da  Vienna,  al  fratello,  due  di- 
stinte lettere  nel  medesimo  involto,  con  lo  stesso  procaccia.  Una 
trattava  questioni  familiari,  l'altra  riguardava  invece  1  suoi  rapporti 
col  mondo  esterno,  con  gli  amici  lasciati  a  Napoli.  E  qui  entriamo 
nel  vivo  del  carteggio. 

Come  si  diceva  più  sopra,  benché  il  Giannone  avesse  avuto  an- 
ch'egli  un  epistolario  erudito,  quasi  interamente  oggi  smarrito,  que- 
sto non  doveva  essere  di  grosse  proporzioni.  Intanto,  perché  a  Na- 
poli, avanti  la  pubblicazione  da\V  Istoria  civile,  egli  non  era  conosciuto 
come  studioso  che  in  una  ristrettissima  cerchia;  né  la  stampa  della 
sua  dissertazione  sul  persistere  della  neve  sulle  due  cimo  del  Vesu- 
vio e  del  monte  Somma,  apparsa  nel  17 18  sotto  l'anagramma  di 
Giano  Perentino,  era  uno  di  quei  contributi  che  potessero  segnalare 
il  suo  nome  nella  respublica  litteraria.  La  fama  lo  raggiunse  solo  a 
quarantasettc  anni,  nel  1723,  accompagnata  però  dalla  persecuzione, 
dalla  scomunica  ecclesiastica,  dalla  conscguente  fuga  ed  esilio  vien- 
nese. Insomma,  nessun  erudito  italiano  fu  invogliato  ad  indirizzarsi 
a  lui,  dopo  l'uscita  della  sua  opera,  per  aver  l'onore  di  carteggiare 
col  nuovo  storico  del  Regno.  Ma  nemmeno  a  Vienna,  dove  le  possi- 
bilità di  rapporti  epistolari,  almeno  con  eruditi  protostanti,  potevano 
essere  maggiori,  nemmeno  a  Vienna  egli  fu  ricercato  e  richiesto  di 
scambi  cpistolain.  Ostava,  questa  volta,  la  difficoltà  della  lingua. 
Giannone  non  solo  non  conosceva  il  tedesco  (cfr.  Vita,  qui  a  pp. 
147-8),  ma  ò  lecito  dubitare  che  fosse  in  grado  di  scrivere  corretta- 
mente in  latino/  sicché  la  via  ad  un  carteggio  con  eruditi  di  lingua 
germanica  o  fiamminga  gli  era  preclusa. 


1.  L'impressione  ch'egli  non  fosse  in  grado  di  scrivere  in  un  corretto  latino 
la  si  ricava  da  diversi  elementi.  Prima  di  tutto  dalla  richiesta  fatta  all'amico 
Nicola  Capasse,  professore  di  diritto  canonico  all'Università  di  Napoli,  di 
stendere  per  lui  una  notizia  libraria  per  gli  «  Acta  Kruditorum  Lìpsicnsium  », 
in  merito  alla  polemica  del  Sanfclicc;  ancora,  dalla  constatazione  che  quel 
brano  latino  oggi  conservato  nel  fondo  San  Martino  della  Ittblioteea  Na- 
zionale di  Napoli,  e  che  il  Minicri-Riccio  (cfr.  Giannoniana,  p.  63)  cre- 
dette una  «prima  idea»  del  Triregno,  non  sia  altro  che  una  traduzione 
latina  del  primo  paragrafo  dell'ultimo  capitolo  del  Repio  terreno,  messa  in 
bella  dal  Giannone,  verisimilmente  dopo  essersi  fatto  correggere  la  propria 
traduzione,  se  non  addirittura  dopo  averne  dato  incarico  ad  altri;  ma  so- 


NOTA    INTRODUTTIVA  II05 

Occorre  aggiungere  che  Giannone,  nonostante  ogni  apparenza, 
non  ebbe  mai  la  stoffa  dell'erudito;  almeno  nel  senso  che  non  ebbe 
mai  la  pazienza  di  compiere  ricerche  di  prima  mano,  di  passare  gior- 
nate intere  nella  lettura  e  decifrazione  di  testi  antichi.  La  sua  fu 
sempre  un'erudizione  di  seconda  mano  ;  tant'è  vero  che,  quando  il 
Muratori  lo  invitò  a  collaborare  ai  suoi  Rerum  Italicarum  Scriptores, 
si  guardò  bene  dall'accettare  un'offerta  che  per  altri  sarebbe  stata 
enormemente  lusinghiera.  Va  anche  osservato  che  i  suoi  interessi 
erano  più  politici  che  storici,  al  tempo  dell'Istoria  civile,  più  filosofici 
che  eruditi,  al  tempo  delle  ricerche  sulle  religioni  ebraica  e  cristiana. 
La  gran  parte  del  suo  carteggio,  dunque,  risale  agli  anni  viennesi, 
ed  è  diretta  agli  amici  rimasti  a  Napoli  :  il  Cirillo,  il  Capasso,  il  Mela, 
il  Grimaldi,  il  Garofalo,  l'Ippolito.  Che  vi  fossero  scambi  epistolari 
con  tutti  costoro  è  indubbio,  perché  o  ci  sono  rimaste  loro  lettere 
indirizzate  al  Giannone,  o  ne  abbiamo  notizia  da  altre  fonti.  Per- 
ché, allora,  Giovanni  non  ha  provveduto  alla  trascrizione  anche  di 
queste  risposte  paterne  alle  missive  dei  corrispondenti  napoletani? 
Perché  si  è  limitato  alla  raccolta  del  solo  carteggio  del  padre  con  lo 
zio  Carlo?  Per  due  ragioni,  crediamo.  La  prima,  l'impossibilità  di 
rintracciare  presso  gli  eredi  la  corrispondenza  paterna;  mentre  quella 
dello  zio  era  pervenuta  nelle  sue  mani  alla  morte  di  Carlo  Giannone, 
dopo  cioè  il  14  febbraio  1755.1  Ma  anche  (e  questa  seconda  ragione 
ci  sembra  la  più  importante)  perché  in  realtà  il  carteggio  cogli  amici 
napoletani  si  svolgeva  essenzialmente  proprio  attraverso  il  carteggio 
con  Carlo.  Salvo  casi  sporadici,  non  era  infatti  prudente  che  da 
Vienna  il  Giannone  scrivesse  direttamente  agli  amici  rimasti  in  pa- 
tria. Anzi  non  era  prudente  nemmeno  indirizzare  la  posta  al  fratello, 
tant'è  vero  che  questa  veniva  tutta  indirizzata  al  Micaglia  o  a  Fran- 
cesco Mela,  un  intimo  del  Giannone,  forse  figlio  di  quell'Antonio 
ch'era  stato  padrino  0  compare  di  battesimo  alla  nascita  di  Pietro. 
Sicché,  concludendo,  quando  Giovanni  trascriveva  le  lettere  pa- 
terne allo  zio,  egli  trascriveva  l'intero  suo  epistolario,  salvo  casi 
sporadici  impossibili  per  lui  di  ricostruire. 

prattutto  dall' aver  affidato  ad  altri  la  traduzione  della  sua  dissertazione 
sulla  moneta  di  Luigi  XII  col  motto  «Perdam  Babillonis  nomen»  (cfr. 
Vita,  qui  a  pp.  186-7)  e  dell'altra  dissertazione  sui  dicasteri  di  Vienna  (cfr. 
sempre  Vita,  qui  a  pp.  183-4).  Infine  potrà  osservarsi  che  nessuno  di  quei 
pochi  scritti  in  lingua  latina,  autografi,  conservatici  tra  le  carte  giannoniane, 
è  frutto  della  sua  penna:  sono  tutti  scritti  d'amici,  ch'egli  ricopiò  per  sé. 
E  cfr.  Panzini,  p.  53,  il  quale  a  proposito  delle  lettere  scritte  dal  Giannone 
ai  Mcnckc  scrive  che  sono  «  assai  male  scritte  in  latino,  dacché  il  Giannone 
occupato  sempre  in  istudi  più  seri  e  rilevanti  non  si  era  giammai  esercitato 
a  scrivere  in  cotesto  linguaggio  ».  1.  La  data  di  morte  di  Carlo  è  ricordata 
da  Giovanni  nella  sua  autobiografia:  cfr.  Giannoniana,  p.  210. 


IIOÓ  LETTERE 

Carteggio  dunque  privato,  questo  del  Giurinone.  Fausto  Nicolini, 
parlandone  nel  suo  saggio  Gli  scritti  e  la  fortuna  di  Pietro  Giannone* 
lo  definì  «  impubblicabilc  per  la  sua  lunghezza,  per  la  sua  aridità  e 
monotonia,  e  anche  per  la  guerra  spietata  che  vi  si  fa  alla  grammati- 
ca», aggiungendo  che  «occorre  buona  dose  di  pazienza,  per  leggerlo 
fino  in  fondo;  e  conviene,  per  esempio,  rassegnarsi  a  sentire  ripetere, 
chi  sa  per  quante  lettere,  in  cui  il  "lei"  e  il  "voi"  vivono  in  paci- 
fica concordia,  non  solamente  nello  stesso  periodo,  ma  anche  nella 
medesima  proposizione,  le  lamentele  del  Giannone  perché  non  gli 
s'inviava  in  contrabbando,  da  Napoli,  in  una  cassa  di  libri,  una  sca- 
tola di  tabacco  o  una  dozzina  di  fazzoletti,  o  perché  all'amante  di  lui, 
rinchiusa  in  un  monastero,  non  venisse  corrisposto  il  tenue  assegno 
mensile  da  lui  fissato».  Un  carteggio,  dunque,  cosi  «familiare»,  così 
«privato»?  Per  qual  motivo,  allora,  Giovanni  sarebbe  stato  spinto  a 
quell'immane  fatica  di  amanuense,  trascrivendo  tante  lettere  paterne, 
sì  da  darcene  due  grandi  volumi  in  quarto?  Soprattutto,  come  avreb- 
be potuto  credere  che  un  simile  carteggio  fosse  degno  di  pubblica- 
zione (perché  certamente  la  sua  fatica  di  trascrittore  mirava  proprio 
a  questo)? 

Chi  legga  i  pochi  exempla  che  di  questo  carteggio  pubblichiamo 
qui  di  seguito,  ma  soprattutto  chi  abbia  la  buona  volontà  di  scorrere, 
nella  sua  progressione  cronologica,  il  regesto  che  dell'intero  carteg- 
gio noi  abbiamo  dato  nel  nostro  censimento,2  potrà  agevolmente  ac- 
corgersi come,  in  realtà,  il  copialettere  di  Giovanni  non  contenga 
affatto,  come  affermava  il  Nicolini,  «una  folla  di  aneddoti  d'ogni 
genere:  dal  pettegolezzo  di  corte,  di  salotto  o  di  gabinetto,  all'im- 
pressione suscitata  da  un  nuovo  libro;  dalle  gesta  gloriose  di  qualche 
frate  truffatore,  alle  discettazioni  di  politica  estera,  che  si  facevano 
nei  più  alti  circoli  dell'impero».3  Altro  che  pettegolezzi,  altro  che 
cicalate  politiche!  Questi  dispacci,  che  settimanalmente  il  Giannone 
inviava  al  fratello  a  Napoli,  in  due  lettere  distinte,  sono  ben  altro 
che  una  corrispondenza  familiare!  Naturalmente,  non  mancano  no- 
tizie private:  il  problema  del  mantenimento  della  moglie  e  della  fi- 
glia in  convento  e  costante;  spesso  si  accenna  alla  sorte  di  Giovanni, 
che  lo  zio  Carlo  non  intendeva  mantenere  a  Napoli,  e  che  nemmeno 
la  zia  Fortunata  voleva  allevare  a  Vieste.  È  anche  vero  che,  qualche 
rara  volta,  si  trova  in  fine  d'una  lettera  la  richiesta  d'invio  d'un 
poco  di  tabacco,  d'una  stoffa  per  una  dama  viennese,  di  sementi  per 
il  giardino  d'un  amico.  Ma  possiamo  far  rientrare  tra  i  discorsi  fami- 
liari anche  le  lettere  con  cui  si  davano  disposizioni  per  la  divulgazione 

i.  Nicolini,  Scritti,  p.  80.    2.  Cfr.  Giannoniana,  pp.  3x3  sgg,    3.  Nico- 
lini, Scritti,  p.  80. 


NOTA   INTRODUTTIVA  II07 

della  Professione  di  fede,  o  per  il  sequestro  del  Breviario  di  Gregorio 
Vili  o  gli  inviti  perché  gli  amici  napoletani  intervenissero  in  difesa 
del  van  Espen  ?  Possiamo  far  rientrare  nella  sfera  privata  del  carteg- 
gio tutte  le  notizie,  disposizioni,  critiche  a  processi  e  sentenze,  le 
prese  di  posizione  nei  confronti  di  giuristi  e  personalità  politiche  e 
diplomatiche  (il  Ventura,  il  Vitagliano,  l'Egizio,  il  duca  Perrelli  .  .  .), 
quella,  cioè,  che  è  la  parte  sostanziale  del  carteggio  ?  È  mai  possibile 
che  sino  ad  oggi  nessuno  si  sia  reso  conto  che,  anziché  una  corrispon- 
denza privata,  ci  è  pervenuta  attraverso  questo  copialettere  la  preci- 
sa documentazione  dell'attività  politica  del  Giannone  e  del  suo 
gruppo  ? 

Delle  due  lettere  settimanalmente  inviate  da  Vienna,  una  conte- 
neva affari  privati  e  riservati,  era  realmente  destinata  al  fratello  o  alla 
conoscenza  di  pochissimi  intimi;  ma  l'altra  era  scritta  a  parte,  pro- 
prio perché  fosse  fatta  leggere  all'esterno  dell'ambiente  familiare. 
Lo  sbaglio  del  Nicolini  è  stato  quello  di  non  accorgersi  della  diver- 
sità delle  due  lettere,  di  aver  creduto  che  il  volume  oggi  segnato  358 
fosse  una  copia  dei  volumi  359  e  360,  e  non  gik  il  primo  copialettere 
approntato  da  Giovanni,  come  in  efletti  è.  Perché  inizialmente  Gio- 
vanni fu  un  fedele  trascrittore  dei  dispacci  paterni,  dandocene  la 
versione  integra.  Senonché,  forse  spaventato  dalla  mole  che  in  tal 
modo  veniva  assumendo  il  suo  lavoro,  decise  in  un  secondo  momento 
di  unificare  in  una  le  due  distinte  lettere  d'ogni  spaccio,  operando 
arbitrari  tagli,  occultando,  soprattutto,  le  vicende  della  madre  e  della 
sorella  rinchiuse  in  convento:  come  può  riscontrarsi  collazionando 
la  copia  358  con  quella  segnata  359.  E  fosse  stato  almeno  intelligente! 
ci  avrebbe  dato  una  raccolta  guidato  da  precisi,  seppur  arbitrari 
criteri,  che  avrebbe  conservato  una  qualche  fisionomia.  Ma  Giovanni, 
dopo  un'infanzia  infelice  e  priva  d'alcuna  istruzione,  aveva  appena 
imparato  a  leggere  e  a  scrivere,  destinato  a  far  da  segretario  e  da 
amanuense  del  padre.  Vicino  a  lui,  avrebbe  potuto  forse  dirozzarsi; 
ma  padre  e  figlio  si  riabbracciarono,  dopo  dodici  anni  di  separazione, 
nel  pieno  della  tempesta:  da  Venezia  a  Ginevra  alla  prigione  di 
Miolans.  Di  nuovo  brutalmente  separato  dal  padre,  era  finito  sol- 
dato in  un  reggimento  posto  alla  difesa  di  Belgrado,  e  soldato  rimase 
anche  una  volta  rientrato  in  Napoli,  col  grado  di  tenente.  La  sua 
sconfinata  venerazione  per  il  padre,  mista  d'affetto  e  di  orgoglio,  lo 
spinse  a  rendersi  divulgatore  della  sua  opera,  impiantando  a  Napoli 
un  vero  e  proprio  scrittorio  per  la  diffusione  latomica  delle  sue  opere, 
in  innumeri  copie  manoscritte.  Con  questi  stessi  intenti  si  cimentò 
nell'impresa  dell'epistolario.  Ma  un  conto  era  far  opera  di  amanuen- 
se, un  altro  cercare  di  trasformarsi  in  editore  e  curatore  delle  lettere 
paterne!  Dopo  il  suo  intervento  di  forbici,  riesce  impossibile  rico- 


H08  LETTERE 

struirc  i  dispacci  originali,  e  non  resta  che  accontentarci  di  quanto, 
fortunosamente,  è  giunto  smo  a  noi,  relitto  di  un  ben  più  ampio 
carteggio. 

Sergio  Bertelli 


LETTERE 
I 

A  CARLO   GIANNONE1   •  NAPOLI 

Lubiana  28  maggio  1723. 

In  Manfredonia,  dove,  come  avvisai,2  giunsi  a  27  del  passato  mese, 
nel  giungere  nell'osteria  fui  non  so  da  chi  conosciuto,  il  quale  nell'i- 
stesso  tempo  che  io  del  mio  arrivo  ne  diedi  parte  alli  signori  Cessa 
e  Fiore,3  ne  avvisò  il  canonico  Perucci  che,  per  l'assenza  di  mon- 
signor arcivescovo4  e  del  vicario  generale,  che  si  trovava  allora 
coirarcivescovo  in  S.  Giovanni,5  aveva  la  sopraintendenza  dello 
spirituale.  Questo  signor  canonico,  appena  ebbe  l'avviso  del  mio 
arrivo,  si  pose  in  agitazione  che  dovesse  fare,  stante  i  rumori  che 
correvano  e  le  rappresentazioni  fatteli  dal  principe  N.  N.,  concesso 
diceva,  ma  io  supposi  che  fossero  stati  del  cardinal  Zapatta;6  e 

Nella  trascrizione  del  carteggio  giannoniano  ci  siamo  attenuti  il  più  fedel- 
mente possibile  alla  stesura  delle  copie  delle  lettere  esistenti  nella  Biblio- 
teca Nazionale  Centrale  di  Roma  (B.N.R.,  Fondo  Vittorio  Emanuele  358 
e  35 0-3 60)  e  nelP Archivio  di  Stato  di  Tonno.  Abbiamo  ridotto  le  maiu- 
scole, sovrabbondanti,  semplificato  la  punteggiatura  e  sciolto  le  abbrevia- 
zioni (ad  esempio,  «S.r»  e  «Sig.  r»  in  signor,  «111.  mo»  in  illustrissimo,  «s.e» 
in  sempre,  «  med.mo  »  in  medesimo,  «  20  »  in  secondo,  e  così  via). 

I.  B.N.R.,  F.V.E.  358,  ce.  27-29.  La  lettera  è  indirizzata  ad  Antonio  Mela, 
«Venezia  per  Napoli»,  cui  viene  inviato  il  bigliettino  qui  riprodotto  in 
calce  alla  medesima.  -  1.  Carlo  Giannone,  nato  ad  Ischitella  de'  Dauni  nel 
1688,  andò  a  Napoli  su  invito  del  fratello  Pietro,  che  lo  istradò  «pria  ne* 
studi  di  filosofìa,  poi  in  quelli  di  legge  e,  finalmente, . . .  nella  strada  de* 
tribunali  »  (cfr.  Vita,  qui  a  p.  47).  Divenuto  procuratore  di  Pietro  durante  il 
forzato  esilio  di  questi,  Carlo  tradì  la  fiducia  del  fratello,  abusando  dei 
propri  poteri  e  provocando  l'indignata  reazione  del  fratello  (cfr.  Vita,  a 
pp«  227-8,  e  la  lettera  xxiv,  qui  a  p.  1191).  Il  disaccordo  tra  i  due  sfociò, 
alla  morte  di  Pietro,  nella  lite  per  l'eredita  fra  Carlo  e  il  nipote  Giovanni, 
lite  che  trovò  una  conclusione  definitiva  solo  con  la  morte  di  Carlo  avve- 
nuta il  14  febbraio  1755  (cfr.  il  racconto  di  Giovanni,  in  Giannoniana, 
pp.  209-10).  2.  come  avvisar,  cfr.  la  lettera  del  30  aprile,  in  Giannoniana, 
n.°  I,  ce.  26-261?.  Il  Giannone  era  fuggito  da  Napoli  il  22  aprile.  3.  Tom- 
maso Cessa,  amico  del  Giannone,  che  lo  aveva  conosciuto  a  Napoli,  come 
è  ricordato  nella  Vita,  qui  a  p.  91  ;  Niccolò  Fiore  era  il  console  imperiale 
di  Manfredonia:  cfr.  Vita,  qui  a  p.  91  e  la  nota  3  ivi.  4.  monsignor  arcive- 
scovo: Giovanni  de  Lerma  (morto  nel  1735)  era  a  Manfredonia  (Siponto) 
dal  1708  j  traslato  a  Tiro  nel  1725.  5.  in  S.  Giovanni:  a  San  Giovanni 
Rotondo,  a  una  ventina  di  chilometri  da  Manfredonia.  6.  cardinal  Zapat- 
ta; Joseph  Gabriel  Zapata  (1676?- 1727),  dal  1720  vescovo  di  Zamora  in 
Spagna  (e  non  cardinale). 


IIIO  LETTERE 

credendomi  fuggitivo,  pensava  arrestarmi,  tanto  più  ch'egli  di- 
ceva esser  ministro  del  S.  Uffizio,  e  non  so  che  altre  prerogative 
tenesse,  in  vigor  delle  quali  poteva  esercitar  il  suo  mero  e  misto 
imperio  contra  quoscunque.  Alcuni  preti,  non  cotanto  scimuniti, 
s'opposero,  dicendo  che  bisognava  prima  avvisarne  monsignor  ar- 
civescovo, onde  il  Perucci  risolvè  spedir  tosto  un  corriere  al  mede- 
simo, come  fece,  aspettando  con  impazienza  risposta  di  quel  che 
dovea  fare.  Intanto  i  signori  Cessa  ed  il  signor  Fiore  mi  ricolma- 
rono di  favori,  ed  il  Perucci,  biasimando  le  accoglienze,  minacciava 
gran  cose.  Ricevè  monsignor  arcivescovo  il  corriere  quando  già 
l'era  capitata  una  mia  lettera,  che  l'avea  scritto  da  Napoli,  dando- 
gli parte  della  mia  partenza  per  Manfredonia  e  della  cagione  di 
quella,  onde  può  ciascun  comprendere  di  quanto  riso  gli  fosse 
stato  cagione  il  corriero  spedito,  e  trovandosi  con  lui  il  vicario  lo 
rimandò  in  Manfredonia  ad  offerirmi  l'abitazione  nel  suo  palazzo; 
ma  perché  già  s'era  ricevuto  riscontro  da  Barletta  che  dovessi  por- 
tarmi colà  per  l'imbarco,  gli  resi  le  grazie,  e  quella  giornata  che  mi 
ebbi  poi  a  trattener  in  Manfredonia  ebbi  l'onore  da  molti  che 
furono  a  vedermi,  ma  il  Perucci  si  rese  invisibile,  né  mancarono  de' 
suoi  compatrioti  che  pubblicamente  deridessero  la  sua  mellonag- 
gine. Questi  favori  ebbi  dal  canonico  Perucci,  non  so  se  più  pa- 
rente che  debitore  del  nostro  signor  don  Nicolò  Pepe,  in  grazia 
del  quale  s'intenda  fatta  questa  digressione. 

Giunto  che  fui  in  Barletta,  trovai  che  il  padrone  della  nave  non 
era  ancora  disbrigato  de'  suoi  negozi,  onde  mi  convenne  aspettarlo, 
e  intanto  avendo  presentito  che  pure  in  questa  città  si  parlava  de' 
mici  libri,  tenni  celato  il  mio  nome;  ma  dapoi  essendosi  saputo 
per  la  fede  di  sanità1  che  bisognai  prendere,  cominciò  la  curiosità 
in  alcuni  di  volermi  vedere,  ed  il  primo  fu  il  giudice  di  quella  città, 
che  nell'osteria  venne  a  visitarmi:  intesi  dapoi  che  il  nipote  del 
signor  giudice  Ruggiero  voleva  far  lo  stesso,  e  cosi  il  signor  Por- 
tolano, ed  altri:  non  mancando  nell'istesso  tempo  alcuni  preti  met- 
tersi in  aguato  per  vedermi  e  mostrarmi  nelle  strade  ;  onde  presi 
la  rcsoluzionc  d'andarmene  nelle  Saline  doppo  otto  giorni,  che 
stiedi  in  Barletta,  ed  alli  sette  del  corrente  mese  andai  nel  bordo 
della  nave,  donde  calai  in  terra  accolto  con  gratissime  dimostrazioni 
dal  signor  F  raggiarmi*  nel  suo  casino  che  tiene  colà.  Ebbi  in  Bar- 

x.  la  fede  di  sanità:  il  certificato  di  buona  salute.  2.  Saverio  Fraggianni, 
fratello  di  Niccolò  (per  cui  cfr.  la  nota  x  a  p.  93),  ricordato  da  Giovanni 


LETTERE  II II 

letta  la  consolazione  di  sentire  che  il  primo  del  mese,  sabbato,  era 
seguito  con  prestezza  il  miracoloso  scioglimento  del  sangue  di  san 
Gennaro  :  talché  i  frati,  che  fomentavano  la  plebe  perciò,  restaron 
delusi  ;  ed  è  bene  che  sappino  che  per  istrada  due  frati  de*  zoccoli1 
in  passando  dimandarono  prima  se  il  Santo  avea  fatto  il  miracolo, 
ed  essendoli  risposto  di  no,  perché  non  era  giunto  ancora  il  tempo, 
replicarono  immantencnte  con  grand'ansia,  che  s'era  di  me  fatto, 
li  fu  risposto:  niente;  di  che  essi  molto  si  crucciarono,  perché 
aspettavano  sentire  stragi,  incendi  ed  altre  revoluzioni;  ed  erano 
di  tal  farina,  che  non  sapevano  né  meno  il  giorno  della  festa,  do- 
mandando, prima  che  fosse,  se  era  seguito  il  miracolo.  Non  man- 
carono pure  alcuni  preti  in  Barletta  far  insinuare  al  padron  della 
nave  che  guardasse  bene  chi  conducesse  seco,  perché  il  suo  viag- 
gio avrebbe  avuto  infelicissimo  fine. 

Si  partì  non  ostante  quest'infausti  pronostici  il  martedì  n  del 
corrente  dalle  Saline,  con  prospero  vento,  ed  il  mercordì  fummo 
alla  punta  di  Vesti,3  dove  ci  colse  una  calma  così  quieta  che  ci 
convenne  trattenere  un  giorno  a  vista  di  quella  città,  non  essendo 
più  lontani  da  quella  che  sei  miglia  in  mare.  La  notte  spirando  vento 
favorevole,  si  proseguì  il  viaggio,  tal3  il  giovedì  13  giunsimo  a  Lissa, 
isola  de'  Veneziani  ;  e  dapoi  per  nuova  calma  il  venerdì  ci  fermam- 
mo ne'  lidi  di  Scibinico4  a  vista  di  quella  città  e  sue  fortezze.  Il 
sabbato  non  si  fé  cammino,  durando  ancor  la  calma;  ma  la  dome- 
nica si  partì  facendo  poco  viaggio  per  la  nuova  calma  che  sopra- 
giunsc,  la  quale  ci  obbligò  fermarci  in  mare  per  tutto  il  lunedì. 
Martedì  poi  giunsimo  ad  alcune  isolette  vicine  a  Zara,  dove,  es- 
sendo calato  in  terra  sopra  una  di  quelle,  vidi  la  città  di  Zara, 
perché  la  nuova  calma  ci  diede  questo  tempo;  e  ne*  due  giorni 
seguenti  per  ristessa  cagione  si  fece  poco  cammino,  talché  venerdì 
31  giunsimo  a*  lidi  di  Rovigno,  ed  il  sabbato  a  Parenzo,  a  Città 
nuova  ed  al  Capo  d'Istria.  Tutti  prendemmo  speranza  che  la  do- 
menica mattina  dovessimo  giungere  a  Trieste;  ma  non  essendo 
da  questa  città  lontani  che  sei  miglia,  ci  sopragiunse  all'improviso 
una  fiera  borrasca  di  mare,  talché  obbligò  il  padrone  a  dar  fondo 


Giannonc  nelle  sue  Memorie  come  «luogotenente  delle  Saline  di  Barletta» 
(cfr.  Giannoniana,  p.  197).  1.  de'  zoccoli:  o  zoccolanti,  denominazione 
popolare  dei  frati  minori  osservanti.  2.  Vesti:  Vieste.  3.  tal:  talché. 
4.  Scibinico:  la  città  di  Sebenico  era  famosa  per  i  forti  veneziani  di  San 
Nicolò,  Sant'Anna,  San  Giovanni  e  «Il  Barone». 


II 12  LETTERE 

in  quella  spiaggia,  dove  per  due  giorni  continui  fummo  combattuti 
dall'onde,  che  aggitavano  in  guisa  la  nave,  che  ci  cagionò  vomiti 
e  fastidi  insoffribili.  Il  martedì  poi  25  si  calmò,  ed  a  18  ore  posimo 
piede  in  Trieste. 

Questi  due  ultimi  giorni  inamarirono  tutte  le  passate  tranquillità, 
poiché,  se  bene  il  viaggio  ci  era  riuscito  noioso  per  le  continue  cal- 
me, nulladimanco  il  mare  non  ci  diede  fastidio,  le  proviste,  sino 
alla  neve,  ci  eran  durate,  e  passava  il  tempo  col  mio  lido  compagno 
don  Chisciotte;1  ma  còlti  quasi  in  porto,  e  cosi  sproveduti  in  tempo 
che  mcn  si  pensava,  coll'agitazione  del  mare,  che  non  permetteva 
il  cibarsi,  perché  subito  si  restituiva,  ci  pose  in  una  grandissima 
costernazione,  la  qual  poi  col  favor  divino  cessò  il  martedì  per 
nuova  calma. 

In  Trieste,  portando  io  lettere  del  signor  Fiore  dirette  a  quelli  si- 
gnori giudici  che  governavano  la  città,  fui  ricevuto  da'  medesimi 
con  cortesia  e  gentilezza,  e  con  mia  meraviglia  intesi  ch'essi  ancora 
aveano  notizia  de'  miei  libri  e  del  rumore  cagionato  tra'  frati.  Un 
sol  giorno  ci  trattenimmo  quivi;  e  provveduti  da'  medesimi  di 
buoni  cavalli,  anche  per  le  robe,  senz'aver  bisogno  di  carro,  c'in- 
caminammo  per  Lubiana,  dove  giunsimo  domenica  la  notte  27  del 
corrente. 

In  Lubiana  da  dove  scrivo  ho  trovato  in  quest'osteria  un  genti- 
luomo di  Fiume,2  persona  assai  di  garbo,  il  quale  pure  va  in  Vienna, 
e  stav'anch'egli  inteso  della  mia  opera,  e  con  molto  suo  desiderio 
mi  dice  attenderla  da  Napoli,  dove  avea  data  incombenza  per  aver- 
la, ed  ha  avuto  incrcdibil  contento  di  conoscermi.  Questo  galan- 
tuomo m'ha  data  notizia  che  già  da  Roma  era  uscita  la  proibizione 
e  che  n'avea  avuto  certi  riscontri  da  più  luoghi,  lo  se  non  sarò  a 
Vienna  non  potrò  saper  niente  di  certo,  e  perciò  non  si  risparmiano 
ad  avvisarmi  ogni  cosa  per  mia  norma.  Qui  ho  saputo  ancora  che 
il  signor  impcradorc3  non  partirà  per  Praga,  se  non  nel  mese  d'a- 
gosto, onde  spero  che  giungerò  a  tempo  di  presentargli  i  miei 
libri. 

1 .  col  mio  . .  .  don  Chisciotte  :  probabilmente  non  si  tratta  di  un  riferimento 
al  romanzo  di  Cervantes,  che  il  Giannone  conosceva,  ma  di  un'ullunione 
scherzosa  al  fratello  di  Angela  Elisabetta  Castelli,  dal  quale  il  Ciiannone 
si  fece  accompagnare  nel  suo  viaggio  per  Vienna  (efr.  Vita,  qui  a  p.  00). 
a.  un  gentiluomo  di  Fiume:  si  chiamava  Stefano  Ronzoni  (cfr.  Vita,  qui  a 
p,  94):  con  lui  il  Giannone  intrattenne  cordiali  rapporti  anche  più,  tardi. 
3.  tmperadore:  Carlo  VI  (cfr.  la  nota  1  a  p.6o). 


LETTERE  III3 

Ora  che  sto  scrivendo  si  prepara  il  calesse  per  proseguire  il 
viaggio  per  Gratz,  accompagnandosi  con  noi  anche  questo  genti- 
luomo, il  quale  per  essere  prattico  assai  m'ha  sommamente  giovata 
la  sua  compagnia;  partiremo  oggi  sabbato  a  mezzo  giorno,  che 
sono  li  29  del  corrente  mese,  e  colPaiuto  del  Signore,  arrivando  in 
Vienna,  spero  trovar  lettere,  almeno  dentro  il  piego  del  signor 
Mastcllone,1  da  dove  parimente  le  scriverò.  Saluto  caramente  tutti 
gli  amici.  Al  signor  presidente2  ed  alli  signori  consiglieri  Ventura 
e  Maggi oco3  portate  i  miei  rispetti,  siccome  al  signor  auditore  ge- 
nerale deiresscrcito4  ed  al  signor  Cirillo,5  i  quali  son  sicuro  che 
non  si  saranno  dimenticati  di  scrivere  in  Vienna  a'  loro  amici  in 
mia  raccomandazione.  Questa  lettera  l'acchiudo  dentro  quella  del 
signor  don  Antonio  Mela,6  affinché  vi  capiti  presto,  e  raddrizzo 
per  Venezia.  Priego  il  Signore  che  non  si  smarrisca,  affinché  ab- 
biate di  me  riscontri  per  vostra  quiete,  e  caramente  l'abbraccio. 


Illustrissimo  signor  mio  e  padrone  sempre  osservandissimo, 

La  sua  cordialità  m'assicura  d'inviarle  il  qui  acchiuso  foglio, 
affinché  mi  faccia  il  piacere  di  mandarlo  subito  a  mio  fratello, 
perché  riceva  da  me  con  tutti  gli  amici  riscontro  del  mio  arrivo 
in  Lubiana  con  buona  salute.  Scuserà  l'incommodo  che  le  porto. 
E  la  priego  salutarmi  caramente  il  signor  don  Francesco  suo  fra- 
tello e  mio  stimatissimo  signore.  Per  quanto  vaglio  l'offerisco  la  mia 
servitù  e  divotamente  le  resto,  b.  le  m.  -  Lubiana  29  maggio  1723.  - 

Di  V.  S.  illustrissima  devotissimo  ed  obbligatissimo  servidor 
vero  Pietro  Giannone. 


1»  Francesco  Mastcllone  era  giudice  della  Gran  Corte  della  Vicaria.  2.  si- 
gnor presidente  :  Gaetano  Argento  (cfr.  la  nota  4  a  p.  40).  3 .  Per  Francesco 
Ventura  vedi  la  nota  2  a  p.  172;  il  Maggioco  era  anch'egli  consigliere  del 
Sacro  Real  Consiglio.  4.  auditore  generale  delV essercito  :  Muzio  di  Maio 
(cfr.  la  nota  np.  90).  5.  Per  Nicola  Cirillo  vedi  la  nota  2  a  p.  49.  6.  An- 
tonio Mela  era  fratello  di  Francesco  (per  cui  si  veda  la  Nota  introduttiva, 
a  p,  1x05,  e  Vita,  qui  a  p.  78,  nota  1). 


IU4  LETTERE 


II 
A   CARLO   GIANNONIì   •   NAPOLI 

Vienna  u  giugno  17J3. 

Questo  foglio  lo  scrivo  a  parte,  perché  non  lo  communiehiate  se  non 
al  signor  consigliero  Ventura  e  signor  auditor  generale,  li  quali  di 
quanto  occorre  ne  potranno  anche  informare  il  signor  presidente, 
per  sua  regola  in  potermi  con  più  franchezza  favorire,  lo  devo 
confessare  molta  obbligazione  al  signor  Cirillo  ed  al  signor  audi- 
tore generale  per  li  favori  continui  che  ricevo  dal  signor  cavalier 
Garelli1  e  signor  Riccardo/  La  prima  visita  che  feci  fu  quella  del 
signor  Garelli,  al  quale  portai  i  libri,  e  non  posso  esprimergli  con 
quanta  cordialità  m'accolse.  Volle  essere  informato  di  tutto,  e  gli 
appurai  per  imposture  le  dicerie  scritte  da  costà,  del  che  ne  gode 
molto.  Mi  sollecitò  che  presto  finissi  di  far  V Apologia?  e  che  ce 
l'avessi  subito  portata,  perché  l'avrebbe  letta  col  signor  Riccardo 
e  Contegna,4  tanto  che  mi  obbligò  in  una  notte  ed  un  giorno,  che 
mi  chiusi  a  finirla,  e  portarcela,  che  la  ricevè  con  gusto. 

Io  il  giorno  dopo  pranzo  li  portai  i  libri,5  la  mattina  immediata- 
mente seguente  venne  egli  di  persona  a  favorirmi  in  casa,  ed  in- 
nammorato  forse  della  lettera  dedicatoria,6  e  di  quel  poco  che  avea 
potuto  leggere,  m'abbracciò  e  mi  disse  ch'egli  il  giorno  dovea  por- 
tarsi a  Laxemburg7  al  signor  imperadore,  e  perciò  voleva  egli  por- 
tare i  libri  a  presentarceli,  e  pregarlo  che  prima  di  partire  per  Praga 
m'ammettesse  al  bacio  della  mano.  Perciò  presi  la  cassetta  dov'e- 
rano riposti,  ed  egli  gli  sciolse  e  dissaprovò  la  legatura  in  velluto 
ed  il  bordo  d'oro,  dicendomi  che  l'imperadore  gradiva  più  di  pelle 
rossa.  Si  prese  i  libri,  coir  appuntamento8  che  il  giorno  seguente 
mi  fossi  fatto  trovare  in  casa  del  signor  Riccardo  per  portarmi  la 


II.  B.N.R.,  F.V.E.  358,  ce.  29^-31.  -  i.  Su  Pio  Niccolò  Garelli  vedi  Iti  nota 
a  p.  96.  2.  Riccardo  :  su  Francesco  Alessandro  Riccardi  vedi  la  nota  3  a  p. 
64.  3.  Apologia  ddV Istoria  civile  dì  Napoli,  in  Opere  postume,  1,  pp,  x-233. 
4,  L'abate  Pietro  Contegna  (1670  circa-  1736  circa)  ora  agente  fiscale  del 
Consiglio  d'Italia  a  Vienna;  dal  1725  circa  fiscale  a  Napoli,  nel  1733  verrà 
eletto  presidente  della  Regia  Camera  della  Sommaria.  5.  i  libri:  i  quattro 
tomi  dell'intona  civile  del  regno  di  Napoli  (e  cfr.  Vita,  qui  a  p.  96).  6.  let- 
tera dedicatoria:  del  12  febbraio  1723  a  Carlo  VI,  in  Istoria  civile,  tomo  1, 
pp.  n.  n.  7.  Laxemburg:  Laxcnburg  (cfr.  Vita,  qui  a  p.  95).  8.  appunta* 
mento:  accordo,  intesa  (francesismo). 


LETTERE  III5 

risposta.  Con  somma  puntualità  l'ora  stabilita  si  portò  dal  Riccardi, 
e  quel  che  ci  narrò  che  l'accadde  col  signor  imperadore  fu  questo. 
L'imperadore  avendo  veduto  quattro  volumi  cosi  vistosi  si  pose  in 
curiosità  dimandargli  che  cos'erano,  allora  li  disse  la  mia  venuta  a 
suoi  piedi,  e  ch'era  venuto  a  posta,  essendo  que'  libri  dedicati  a  S. 
M.,  per  presentarceli,  e  che  desiderava  quest'onore  di  pormi  a  suoi 
piedi.  Mostrò,  come  mi  disse  il  signor  Garelli,  che  l'imperadore 
non  era  stato  niente  informato  di  questi  libri,  né  in  bene,  né  in 
male,  ciò  che  molto  gli  piacque,  onde  cominciò  con  maggior  spi- 
rito a  lodargli  l'opera;  onde  l'imperadore  li  disse  che  avesse  fatto 
levare  quel  bordo  e  quel  velluto,  e  fattici  mettere  altra  coverta, 
perché  voleva  leggerli;  il  signor  Garelli  rispose  di  farlo  presto,  e  che 
un  giorno  m'avrebbe  condotto  a'  suoi  piedi.  Del  che  l'imperadore 
mostrò  compiacersi. 

Ora  il  signor  Garelli,  come  prefetto  della  Biblioteca  Imperiale, 
insieme  col  signor  Riccardi,  attende  a  farli  accommodare  ed,  es- 
sendo d'umore  assai  allegro,  mi  disse  che  con  ciò  egli  ci  guadagnava 
il  velluto  ed  il  bordo,  e  metteva  a  suo  conto  quel  che  si  sarebbe 
speso  per  la  nuova  coverta.  Di  vantaggio  con  molto  affetto  s'ha 
preso  la  cura  di  parlarne  al  principe  Eugenio,  e  di  portarlo  uno 
sciolto,  perché  così  lo  desidera,1  e  mi  diede  l'indirizzo,  ripartendo 
gli  altri  che  avea  portato  meco  a  chi  dovessi  darli.  Il  corpo3  per 
l'arcivescovo  di  Valenza3  mi  disse  che  ce  l'avessi  portato  subito, 
dicendomi  che  se  bene  era  difficile  aver  tosto  udienza,  tanto  che 
mi  disse  che  si  fidava  più  presto  introdurmi  dal  signor  imperadore, 
che  da  lui,  con  tutto  ciò  era  bene  almeno  per  mostrar  quest'atten- 
zione di  portarcelo.  In  fatti  questa  mattina,  ancorché  giornata  di 
lettere,  avendomi  il  signor  Riccardi  favorito  della  sua  carozza, 
stando  l'arcivescovo  nel  suo  giardino  fuori  della  città,  sono  stato 
da  lui,  e  certamente  se  non  era  giornata  di  posta,  io  v'avrei  parlato; 
ma  il  paggio,  che  prese  l'ambasciata,  entrato  dentro  co'  miei  libri, 
mi  riporto  questa  risposta:  che  S.  E.  con  grandissimo  desiderio 
stava  attendendo  questi  libri  e  che  mi  ringraziava  molto,  dispia- 
cendogli, per  esser  giornata  di  posta,  di  non  potermi  parlare,  ma 
che  m'aspettava  un  altro  giorno,  avendo  gran  desiderio  di  cono- 
scermi. Le  risposi  che  sarei  venuto  mille  volte  a  riverirla,  e  che 

x. principe  Eugenio .  .  .  desiderai  cfr.  Vita,  qui  a  p.  11 1  (e  la  nota  5  ivi). 
a.  corpo:  esemplare  (detto  di  un'opera  in  più  volumi).  3.  arcivescovo  di 
Valenza:  Antonio  Folch  de  Cardona  (cfr.  la  nota  1  a  p.  88). 


Xll6  LETTURE 

godeva  molto  del  gradimento  mostrato,  e  gli  promisi  la  settimana 
seguente  tornarci.  11  signor  Garelli  stima  anche  necessario  che  si 
porti  un  corpo  a  Zizendorf,1  siccome  già  l'ho  serbato;  e  mi  dispiace 
che  mi  mancano  per  compire  con  gli  altri. 

Io  non  posso  esprimergli  l'ardenza  e  l'impegno  che  ha  preso 
il  signor  Garelli  di  favorirmi,  e  tutto  si  cruccia  della  congiuntura 
presente,  clic  il  signor  impcradore  abbia  da  partir  per  li  19  per 
Praga,  con  tutto  ciò  egli  m'assicura  che  ciò  non  importerà  se  non 
qualche  picciola  dilazione,  e  che  lasci  fare  a  lui.  Perciò  vadi  dal 
signor  Cirillo  e  gli  faccia  inteso  di  tutto  ciò,  con  riverirlo  da  mia 
parte,  e  pregarlo  che  scriva  al  signor  Garelli,  ringraziandolo  delli 
tanti  favori  che  mi  fa. 

Per  potermi  il  medesimo  maggiormente  favorire,  m'ha  insinuato 
che  non  palesi  a  niuno  questi  suoi  uffici,  ma  che  diehi  che  ho 
cominciato  da  lui  perché,  avendo  inteso  ch'egli  era  prefetto  del- 
l'Imperiai Biblioteca,  era  dovere  che  i  libri,  che  si  dedicano  al- 
rimperadore,  si  portassero  a  lui;  e  perciò  priegherà  questi  signori 
che  tenghino  celate  queste  prattiche,  come  fo  io  qui,  perché  non 
si  scrivano  da  qui  ;  perché  devono  sapere  che  vi  è  una  gelosia  gran- 
dissima tra  la  fazione  del  Garelli  e  quella  del  signor  Positano.- 
Onde  io  essendo  stato  dal  medesimo  mi  son  portato  con  molta 
disinvoltura  sopra  ciò,  mostrandomi  di  voler  dipendere  totalmente 
da  lui. 

Quel  che  presentemente  si  fa  è  di  sincerare  la  gente,  che  stava 
gravida  dell'imposture  scritte  da  costà,  per  poter  procedere  con 
più  spirito  e  libertà  nel  rimanente;  e  per  quanto  sin'ora  si  è  potuto 
penetrare,  dalla  corte  di  Roma  qui  non  si  è  praticato  niuno  ufficio,3 
tal  che  siamo  giunti  a  tempo  per  prevenire  ogni  sinistro  informo. 

S'accudirà  dunque  pubblicamente  dal  signor  presidente  arci- 
vescovo e  signor  Positano,  e  con  più  riserba  dal  signor  Garelli,  e 
con  molta  maggiore  dal  signor  Riccardi  per  sfuggir  le  gelosie.  Non 
ho  ancora  veduto  il  signor  abbate  Tosquez,4  essendo  fuori  ne'  bor- 
ghi, il  quale  so  che  m'abbia  favorito  coll'arcivcscovo  ;  con  che  sti- 
mo ora  a  proposito,  che  col  medesimo  si  passi  dal  signor  presidente 

1.  Zìzendor}\  Philipp  Ludwig  von  SinzcndorrT  (cfr.  la  nota  z  a  p.  116), 
da  non  confondersi  con  il  figlio,  Philipp  Joseph  Ludwig,  cardinale.  2.  Giu- 
seppe Positano  :  vedi  la  nota  1  a  p.  98.  3.  dalla  corte  di  Roma  . .  .  ufficio: 
in  ciò  il  Giannone  s'ingannava.  Cfr.  Bertelli,  p.  185.  4.  Tosquez  :  l'abate 
Francesco  Tosques  era  agente  di  commercio  a  Vienna  del  viceré  di  Napoli 
Friedrich  Michael  Althann. 


LETTERE  III7 

qualche  ufficio  premoroso,  sicome  dal  signor  reggente  Mauelone1 
con  Perlas,2  il  quale  sta  aspettando  i  miei  libri,  ed  io  nell'entrante, 
prima  che  parte  per  Praga,  anderò  a  riverirlo. 

Il  signor  Perlongo  ed  il  signor  Almarz3  non  sono  ancora  giunti, 
e  subito  sarò  a  riverirgli.  Col  signor  Riccardi  e  Contegna  avemo 
qui  delle  contese  tutte  diverse,  perch'essi  credono  che  io  abbia 
scritto  molto  poco,  anzi  con  molta  adulazione  della  corte  di  Roma, 
avendogli  dato  assai  più  che  si  conviene.  Io  non  ho  più  tempo  di 
scriverle  minutamente  altre  circostanze,  perché  questa  settimana 
sono  stato  occupatissimo  per  finire  Y Apologia,  che  il  Garelli  tanto 
desiderava,  per  potermi  difendere  con  più  vigore  in  caso  occor- 
resse. Quello  che  si  è  stimato  da  lui  e  da  altri,  che  per  ora  non  si 
pubblicasse,  ma  che  si  stasse  su  l'osservazione;  se  bene  il  Garelli 
era  d'opinione  che  per  quel  che  riguarda  la  scommunica  si  dovesse 
cacciare  qualche  scrittura,  per  non  pregiudicare  la  giurisdizione 
regale,  ma  si  è  sospeso  di  farlo,  attendendo  da  Napoli  la  resoluzio- 
ne del  Collaterale  di  quel  che  farà,4  onde  con  anzietà  stiamo  atten- 
dendo i  riscontri,  ch'è  quanto  per  ora  devo  dirle,  riserbandomi  il 
resto  nell'entrante  e  caramente  l'abbraccio. 


in 

A  CARLO  GIANNONE  •  NAPOLI 

Vienna  3  luglio  1723. 

Colla  solita  legge  del  segreto  potrà  confidare  a  chi  sa  come  lunedì 
passato  fui  ricevuto  dall'arcivescovo  di  Valenza  con  molta  genti- 
lezza, encomiando  la  mia  opera  e  dicendomi  che,  se  bene  non  abbia 
avuto  tempo  di  leggerla,  per  quel  poco  che  ne  avea  veduto  e  per 
le  relazioni  fatteli  dagli  uomini  letterati  di  qui,  la  fatica  era  gloriosa: 
io  le  resi  molte  grazie,  e  lo  pregai  che,  essendo  voluminosa,  con  suo 

r.  Mauelone:  il  reggente  conte  Lupcrcio  Maulcon,  che  firmò  il  permesso 
di  stampa  dall'Istoria  civile.  2.  Perlas  vedi  la  nota  4  a  p.  98.  3.  Gaetano 
Perlongo  era  reggente  per  la  Sicilia  nel  Consiglio  di  Spagna;  sul  conte 
Domingo  de  Almarx  vedi  la  nota  1  a  p.  98.  4.  la  resoluzione  . .  .farà:  il 
Consiglio  del  Collaterale,  convocato  come  Giunta  di  Giurisdizione,  con 
all'ordine  del  giorno  la  scomunica  lanciata  contro  il  Giannone,  si  riunì 
il  26  ottobre  1723  ;  ma  a  quella  data  era  già  intervenuta  l'assoluzione  vesco- 
vile, che  rese  superflua  ogni  procedura  del  potere  civile.  Cfr.  Vita,  qui  a 
pp.  *o6  sgg.;  Bkhtelu,  pp.  189-90  e  Giannoniana,  pp.  43-8. 

III.  B.N.R.,  F.V.E.  358,  ce.  43W-44Z;. 


Hl8  LETTURE 

agio  c  commodo  potrà  leggerne  qualche  libro,  chi  dove  poteva  co- 
noscere l'idea  dell'opera,  e  se  per  quella  si  rechi  utile  alle  premi- 
nenze del  nostro  padrone:1  mi  promise  di  farlo,  e  con  somma  cor- 
tesia m'impose  che  spesso  mi  flussi  fatto  a  vedere,  tanto  che  sta 
appuntata  la  giornata  di  lunedi  prossimo  d'andarlo  a  riverire  di 
nuovo,  e  così  continuare  nella  sua  buona  corrispondenza.  Il  giorno 
poi  seguente,  martedì,  furono  a  riverirlo  il  signor  Riccardi  ed  il 
signor  Condegna,  colli  quali  parlò  de'  miei  libri  con  aria  niente 
pregiudicata;  anzi,  li  disse  che  Timperadore  prima  di  partire  per 
Praga  li  dimandò  se  aveva  ricevuti  da  (Jiannone  i  libri,  e  che  egli 
i  suoi  se  li  portava  in  Praga  per  leggerli:  l'arcivescovo  li  rispose 
avergli  ricevuti,  ma  non  avea  avuto  tempo  di  leggergli,  come  farà, 
ma  per  quello  che  sentiva  dagli  uomini  dotti,  la  riputava  una 
grand'opera.  L'imperadore,  come  e  il  suo  genio  allegro,  scherzando 
li  rispose  che  ben  comprendeva  ch'egli  sarebbe  deiristessi  senti- 
menti del  suo  amico,  intendendo  del  signor  Riccardi  :  al  che  rispose 
ch'egli  era  de'  sentimenti  dell'autore,  e  non  del  signor  Riccardi, 
perché  questi  controvertiva  molte  cose,  che  l'autore  abbonava  al 
pontefice  romano,  pigliandosi  la  cosa  in  burla.  lui  infatti  il  signor 
Riccardi  contrastò  coli 'arcivescovo  quel  giorno,  perché  diceva  che 
io  passava  per  certo  che  san  Gregorio  Magno  avesse  deposto  al- 
cuni vescovi,"  quando  era  dubbio,  perché  non  avea  questa  facoltà. 
Di  più  ponendo  io  sant'Ermenegildo  per  santo,  il  Riccardi  s'op- 
pone, dicendo  che  questa  è  una  favola  per  l'autorità  che  allega 
d'Isidoro.3  L'arcivescovo  difendeva  la  mia  opinione,  tanto  che  ri- 
ducendosi pure  la  cosa  in  ischerzo  li  disse  che  bisognava  sopra 
questi  punti  farci  delle  osservazioni,  e  pensare  ad  una  giunta  ed 
ad  una  nuova  edizione.  L'arcivescovo  non  è  niente  spigolistro,4  ed 
ancorché  spagnuolo  non  gli  fece  alcuno  sentimento  la  disputa  so- 

i.  utile  .  .  .padrone:  utile  alla  giurisdizione  civile  dell'imperatore.  %*  san 
Gregorio  , .  .  vescovi:  cfr.  Istoria  civile^  tomo  i»  lib.  iv,  cup.  uh.,  par.  1,  pp. 
«94-5 •  3«  sant*  Ermenegildo  . . .  Isidoro:  il  nome  di  sant'Kxmenegildo  (com- 
memorato il  13  aprile)  e  infatti  espunto  dagli  sì  età  Sanctorum  dei  padri 
bollandisti.  Per  il  riferimento  a  Isidoro  di  Siviglia  (5O0  circa-636),  cfr. 
Gothorum,  Vandalorum  et  Svevorum  in  Hispania  (ìhromcon,  in  IL  Grossi  o, 
Historia  Gotthorum,  Vandalorum  et  Langóbar  dorimi . , .,  Amstelodomi  1655, 
pp.  735  e  740.  A  diflcrenaa  di  Isidoro,  sulla  vita  e  sulla  morte  di  san- 
t'Ermenegildo si  dilunga  Gregorio  di  Tours:  si  vedano  i  suoi  Ilistoriae 
Francorum  libri  decem,  in  Maxima  bibliotheca  vetcrum  Patrttm . . .  primo 
quidem  a  Margarino  de  la  Bignè  . .  .in  lucerti  edita,  xr,  Lugdum  1677,  pp. 
753-4»  762-3»  767-8*  784*    4-  spigolistro:  bigotto,  bacchettone. 


LETTERE  III9 

pra  quel  santo.  Sicché  siamo  ora  assicurati  che  i  miei  libri  cotanto 
costà  appresi  per  ereticali,  qui  sono  riputati  moderati  e  sobri.  Que- 
sto è  quel  che  m'importava  che  s'apprendesse.  Del  rimanente  fac- 
cia ora  il  Cielo,  perché  non  avrò  ora  niun  rimorso  di  non  aver  qui 
usate  tutte  le  diligenze  per  la  mia  difesa. 

Qui  tuttavia  si  sta  travagliando  su  la  scrittura  che  vi  scrissi,  e 
può  essere  che  riesca,  tenendo  il  signor  Riccardi  una  famosa  li- 
braria. Ci  mancano  gli  esempi  domestici,1  e  per  ciò  il  signor  pre- 
sidente potrebbe  darcene  lume,  sicome  veda  informarsi  dal  si- 
gnor Grimaldi3  di  quel  fatto,  che  mi  scriveste,  che  accadde  per 
l'occasione  del  sinodo  di  Cantelmo,3  con  mandarmene  nota  di- 
stinta. 

Si  è  stimato  che  ora,  assicurato  di  questi  buoni  riscontri,  scri- 
vessi io  un'ossequiosa  lettera  al  signor  viceré,4  come  ho  fatto  que- 
sta sera,  pregandola  della  sua  protezzione  ancora  costà,  e  con  tal 
occasione  spingerlo  a  prender  espediente  sopra  la  censuia  e  sopra 
lo  stampatore.5  Lo  stesso  si  farà  nell'entrante  a  qualche  reggente, 
e  sopra  ogni  altro  al  nostro  signor  presidente  ed  al  signor  reggente 
Maulionc.  Vi  ricordo  la  missione  de'  libri  per  Fiume,  essendo 
da  qui  partito  il  fratello  del  signor  Benzoni  con  particolar  incom- 
benza di  mandarli  subito  se  li  troverà  già  arrivati  in  Fiume,  con 
esserseli  avvertito  che  l'indrizzi  al  signor  Garelli  per  la  Biblioteca 
Imperiale. 

IV 
A  CARLO   GIANNONE  •  NAPOLI 

Vienna  28  agosto  1723. 

Sento  dalla  vostra  ricevuta  in  questa  settimana  l'assoluzione  dello 
stampator  Naso,6  e  le  buone  disposizioni  che  vi  sono,  mediante  la 
protezzione  ed  efficacia  del  signor  presidente,  così  presso  il  cardì- 


1.  domestici:  cioè,  napoletani.  2.  Per  Costantino  Grimaldi  vedi  la  nota  2 
a  p.  64.  3.  per  l'occasione  .  .  .  Cantelmo:  cfr.  Apologia  dell1  Istoria  civile  di 
Napoli,  in  Opere  postume,  1,  pp.  49-50.  4.  viceré:  Friedrich  Michael  von 
Althann  (cfr.  la  nota  2  a  p.  78).  5.  lo  stampatore:  dell' 'Istoria  civile,  Nic- 
colò Naso;  anch'cgli,  come  il  Giannone,  era  stato  scomunicato. 

IV.  B.N.R.,  F.V.E.  358,  ce.  53-55^.  -  6.  Vassóluzione  . . .  Naso:  cfr.  la  nota 
5  qui  sopra. 


II 20  LETTERE 

nal  arcivescovo,1  come  in  cotesto  Collatcral  Consiglio  intorno  ad 
abolire  la  mia  invalida  censura.  Non  si  dubbila  qui,  tanto  maggior- 
mente che  il  signor  presidente  regola  quest'affare,  che  abbia  da 
sortire  felice  evento;  e  mi  dice  il  signor  Riccardi  che  il  signor 
reggente  Mazzaccara2  non  solo  non  farà  ostacolo,  ma  faciliterà  e 
seconderà  il  signor  presidente,  perché  presentemente  lo  tien  sotto 
ed  ha  bisogno  di  lui,  onde  m'avviserà  come  si  porla  per  sua  istru- 
zione, non  potendo  credere  che  in  questo  mio  affare,  nel  quale 
ha  bastantemente  palesato  a  tutti  il  suo  impegno,  voglia  il  signor 
Mazzaccara  opporsìci,  sicché  gli  dia  occasione  di  disgustarselo. 
Stante  queste  buone  disposizioni  qui  si  è  dibattuto  intorno  al  modo 
da  tenersi,  perché  bisogna  usar  ogni  industria  por  non  venire  al 
pregiudicio  dell'assoluzione,  la  qual  veramente  non  potrebbe  aver 
luogo  in  una  censura  nulla;  se  non  prò  hono  [>acist  riceverla  in 
segreto  da  qualunque  confessore.  Se  veramente  il  signor  cardinal 
arcivescovo  ha  sentimenti  pacifichi,  vi  sarebbero  due  strade  di 
composizione,  la  prima  dalla  sua  Curia  far  ricevere  le  nullità,  e 
provedere  sopra  quelle  col  ohstare\  l'altra,  essendosi  ora  resa  la  mia 
assenza,  far  ricevere  nuova  istanza  dal  mio  escusatorty*  allegan- 
dola, e  conceder  termine  ad  denunciami um,  ed  intanto  sospendere 
la  censura,  col  concerto  poi  di  non  parlarsene  di  vantaggio.  Tutti 
però  han  conchiuso  di  rimettere  questa  prattica  e  qual  altro  espe- 
diente che  mai  potesse  prendersi  al  signor  presidente,  onde  al 
medesimo  potrà  communicare  questi  sentimenti  e  dipender  dalla 
sua  prudenza.  Intanto  qui  s'attende  resito  di  ciò  che  il  signor 
presidente  ed  il  Collaterale  otterranno  dall'arcivescovo,  ed  ad  al- 
cuni reggenti  di  questo  Consiglio  l'ho  assicurati  che  stante  l'inter- 
posizione ed  autorità  del  signor  presidente  non  devono  dubbitare 
che  il  tutto  riuscirà  con  facilità,  per  togliere  ad  essi  ogni  briga  in 
caso  di  contumacia;  sicché  può  pensare  con  quanto  desiderio  s'at- 
tende l'esito  di  questo  affare.  Frattanto  qui  non  si  perde  tempo 
per  prevenire  ad  ogni  caso  ;  ed  è  ben  che  sappiate  che  qui4  non  si 
manderanno  nullità,  che  cercate,  ma  libri  donde,  bisognando,  con 
facilità  potrete  costà  comporlc.  Il  lavoro  ò  cresciuto  ad  un  giusto 


x.  il  cardinal  arcivescovo:  Fruncesco  Pianateli» :  vedi  la  nota  3  a  p.  85. 
2.  Il  reggente  Tommaso  Mazzacara  (morto  nel  1733)  nella  seduta  del 
Collaterale  del  12  aprile  1723  sul  caso  Giannone  aveva  in«istito  soprattutto 
per  la  carceratone  del  Naso.  3.  escusatore:  cioè  il  fratello  Carlo.  Cfr,, 
per  tutta  la  vicenda,  Fanzini,  pp.  19-20  e  22  «##,    4.  qui:  da  qui. 


LETTERE  II2I 

volume;1  e  se  veramente  la  cosa  non  prenderà  quel  buon  esito  che 
si  spera,  non  dovranno  lagnarsi  se  per  tutta  Europa  vedranno  cor- 
rere quest'altra  nuova  fatiga,  dove  togliesi  ogni  velo  alle  scommu- 
niche  de'  tempi  correnti;  sicché  nissuno  da  dowero  abbia  a  te- 
merle: dove  si  dimostra  che  sopra  l'impressione  de*  libri  essi  non 
v'hanno  parte  alcuna,  e  che  tutta  è  de'  principi:  dove  si  fa  vedere 
se  il  vescovo  di  Castellaneta,  avendo  abbandonata  la  sua  chiesa, 
possa  presiedere  alla  fabbrica  de'  processi  in  cotesta  Curia:  sicché 
come  pubblico  e  notorio  trasgressore  de'  canoni,  tutti  gli  atti  fatti 
e  che  farà  soggiacciono  ad  evidenti  nullità;3  e  mille  altre  verità  con 
quest'occasione  scoverte,  che  per  essi  meglio  sarebbe  che  giaces- 
sero in  un  profondo  silenzio  sepolte.  L'edizione  di  questa  scrittura, 
per  non  esporla  qui  al  rischio  che  si  corre  per  li  Gesuiti,  che  pre- 
siedono in  Vienna  alle  stamperie,  si  è  preparato  già  di  farla  in 
Tirnavia,3  città  dell'Ungheria,  e  già  si  è  trovata  ivi  persona  che 
se  ne  prenderà  la  cura.  Si  aspetterà  solo  la  risposta  di  questa  mia 
lettera,  perché  si  crede  che  fra  un  mese  si  saprà  l'esito  che  pren- 
deranno costà  le  cose,  e  nell'istesso  tempo  si  ripulirà  frattanto  e 
passerà  sotto  gl'occhi  degl'intendenti  prima  di  darsi  alle  stampe. 
Mi  dispiace  molto  che  prima  di  darsi  questo  passo  non  posso  man- 
darle costà  manuscritta,  perché  sarei  sicuro,  che  passata  prima  sot- 
to gli  occhi  del  signor  presidente  e  degli  altri  letterati  amici  di 
costà,  l'opera  potrebbe  sicuramente  uscir  fuori,  ben  ripulita  e  per- 
fetta. Ma  due  cose  m'impediscono  a  ciò  fare:  la  prima,  che  qui 
non  vi  sono  buoni  copisti,  e  que'  che  vi  sono  hanno  dell'eternità: 
la  seconda,  perché  io  per  tutto  il  mese  di  settembre  voglio  vedermi 
sbrigato  da  queste  cure,  perché,  ritornando  qui  Cesare  in  ottobre,  , 
dovranno  i  miei  pensieri  essere  impiegati  in  altro.  Confido  però 
nella  bontà  divina,  che  senza  venire  a  tanto,  m'abbiate  fra  questo 
mese  dar  la  consolazione  d'essersi  costà,  per  la  valevole  protezzione 
del  signor  presidente,  supito4  il  tutto,  sicché  di  questa  censura  non 
se  n'abbia  più  a  parlare,  non  che  imprimere. 

Questo  foglio  non  lo  communicarete  che  al  signor  presidente  ed 


i.  //  lavoro  .  .  .  volume*,  si  tratta,  dì  una  parte  del  materiale  confluito  nel- 
V Apologia  dell'Istoria  civile  di  Napoli:  cfr.  Vita,  qui  a  p.  106  e  la  nota  i  ivi. 
a.  il  vescovo  di  Castellaneta  . . .  nullità:  cfr.  Vita,  qui  a  p.  85  e  nota  3  ivi, 
e  Apologia  dell'Istoria  civile  di  Napoli,  in  Opere  postume,  1,  p.  3.  3.  Tir- 
navia: probabilmente  l'odierna  Tamow,  in  Galizia  (e  cfr.  Panzini,  p.  29). 
4.  supito  :  sopito. 

71 


1122  LETTERE 

a'  miei  signori  consigliere  Ventura  e  signor  don  Muzio,1  a'  quali 
devotamente  riverisco.  E  state  ben  avvertito,  perché  da  Napoli 
vengono  a  vari  amici  di  qui  richieste,  che  cosa  io  scrivo,  sopra  che 
travaglio,  se  sarò  provisto,  e  mille  altre  vane  curiosità.  Io  a  tutti 
rispondo  che  mi  dò  bel  tempo:  vado  spesso  in  casa  del  signor 
consigliere  Pleittner,2  dove  in  mezzo  a  sue  cinque  nipoti  bellissime 
passo  il  tempo  allegro;  e  cosi  gli  deludo  e  soddisfo  la  loro  cu- 
riosità. 

Sento  ancora  per  la  sua  il  desiderio  del  mio  compar  Naso,  che 
vorrebbe  seguitarmi  sino  alle  ceneri:  io  sicomc  lo  ringrazio  di  tanta 
cordialità:  così  non  tralascio  di  dirgli  che  qui  non  e  stanza  per  lui, 
perché  la  sua  arte  ò  misera,  e  poco  si  stampa:  volermi  favorire  per 
cameriere,  oltre  di  non  comportarlo  le  mie  forze,  i  camerieri  che 
qui  non  sanno  la  lingua  tedesca  sono  inutili,  anzi  essi  avrebbero 
bisogno  di  guida:  sicché  non  occorre  che  ci  pensi,  ma  meglio  sarà 
di  procurare  costà  rimettersi  nel  suo  impiego,  che  non  potranno 
mancare  occasioni.3 

Con  dispiacere  ho  intesa  la  morte  del  nostro  signor  Cutini,  e 
tanto  più  che  la  suppongo  molto  travagliosa  e  piena  d'angoscia. 
Iddio  per  salvazione  della  sua  anima  l'ammetta  per  buone  quelle 
orazioni  che  Tanno  passato  per  lui  si  porsero  a  Due  Porte,4  presi- 
dente il  padre  Guevara.  E  della  morte  dell'altro  che  m'avvisa,  non 
dubbito  che  i  suffragi  di  tanti  frati,  de  quali  egli  era  gonfaloniere, 
l'avranno  di  lancio  portato  al  godimento  d'una  vita  eterna. 

Sto  attendendo  riscontri  del  signor  baron  Ormond  a  questa 
baronessa,5  e  godo  sentire  che  la  madre  di  questi  figliuoli  fu  cotanto 
amica  di  nostra  sorella:  se  ha  occasione  di  vederlo  dimandategli  se 
ha  ricevuta  una  lettera  latina  scrittagli  da  don  Liopoldino  suo  in 
occasione  di  complimenti,  molto  ben  fatta;  ed  e  meraviglia  come 
questo  figliuolo  parli  così  speditamente  latino,  ed  all'incontro  del- 
l'italiano non  ne  sappia  parola,  nel  che  è  vinto  da  sua  sorella,  la 
quale  intende  non  men  l'italiano  che  il  francese. 

i.  Per  don  Munto  di  Maio  si  veda  la  nota  i  a  p.  90.  2.  Pleittner:  Ploikner: 
vedi  la  nota  6ap,  109.  3,  Sento . . .  occasioni:  il  Naso  non  ascoltò  gli 
avvertimenti  del  Giannone,  e  raggiunse  Vienna  nel  giugno  1725,  creando 
non  pochi  imbarazzi  all'esule.  Cfr.  in  Gìannoniana%  nn.i  xoo,  101,  104,  106, 
le  lettere  a  Carlo  del  29  giugno,  7  luglio,  28  luglio,  1 1  agosto  1725,  4.  Due 
Porte:  cfr.  Vita,  qui  a  p,  72  e  la  nota  3  ivi.  5.  Per  il  baron  Ormoni  (o 
d'Orman),  si  veda  la  nota  5  a  p.  109;  questa  baronessa:  si  tratta  di  Thercsc 
LcichsenhofTcn  (cfr.  la  nota  3  a  p.  109). 


LETTERE  1123 

Ho  ricevuto  la  lettera  di  cambio  rimessami  delli  fiorini  duecento, 
che  è  stata  da  me  consignata  al  mio  tesoriero  signor  Mastellone 
perché  dal  mercante  gli  riscuota.  Avemo  fatta  osservazione  che 
con  tutto  il  mezzo  del  nostro  signor  don  Francesco  Mela,  pure  con 
questo  cambio  si  vengono  a  perdere  dodeci  ducati;  onde  non  si 
farebbe  male  se  veramente  ci  potesse  riuscire  altra  strada;  ma 
quando  altro  non  si  possa,  meglio  sarà  continuare  la  via  presa. 

Con  mia  consolazione  ho  inteso  l'arrivo  del  signor  don  Silvestro 
Tosques,1  che  partì  da  qui  veramente  minato  di  salute:  spero  che 
l'abbia  costà  da  ricuperar  affatto,  di  che  n'attendo  riscontri  per 
consolazione  del  signor  abate  suo  fratello,  il  quale  l'altro  dì  fu  a 
favorirmi  in  casa,  dove  per  due  ore  continue  non  si  fece  altro  che 
discorrere  sopra  i  miei  libri,  che  han  trovata  tanta  fortuna  col  me- 
desimo, che,  come  mi  disse,  ha  stabilito  tre  ore  il  giorno  per  loro 
ordinaria  lezione,  sicché  già  stava  in  fine  del  terzo  tomo.  Col  signor 
marchese  Dattilo2  anche  ci  vediamo  spesso,  e  se  io  vi  volessi  far 
motto  d'ogni  cosa,  non  ci  basterebbero  due  giornate  la  settimana 
per  scrivere,  ed  io  non  ho  molto  tempo,  né  l'avrò  se  non  si  finisce 
questa  scrittura,  che  mi  costa  un  travaglio  grandissimo  per  non 
aver  la  commodità  di  libri  in  casa,  né  chi  m'aiuti  a  scrivere  ed  a  ri- 
scontrar gli  autori.  Il  mio  Dattilo  di  qui  sta  molto  mortificato  del 
nostro  Dattilo  di  costà  per  l'abilità  che  se  l'è  scoverta  di  tratteg- 
giare sì  soavemente,  che  avanzava  il  Rota  ed  il  Carignani.  Questo 
ch'ò  qui  sia  tutto  mio:  l'altro  che  io  rimasi  costà  sia  tutto  dello 
Scassa3  e  del  Pepe:  col  primo  almeno  gli  gioveranno  le  magie,  ma 
col  secondo  son  sicuro  che  né  incantesimi,  né  sorprese  faranno 
frutto. 

Le  casse  de'  libri,  ancorché  siavi  riscontro  d'essersi  incamminate 
già  da  Fiume,  non  sono  ancora  qui  giunte,  ma  s'attendono  a  mo- 
menti. Se  questa  mia  lettera  sarà  a  tempo,  alle  quattro  altre  casse, 
che  avete  disposto  mandare,  vedete  se  oltre  Etmullero4  potè  inzep- 

I.  Silvestro  Tosques  era  il  fratello  di  Francesco  (per  cui  vedi  la  nota  4  a  p. 
1 1 1 6).  2.  Il  marchese  Saverio  Dattilo  (morto  nel  1732).  3 ,  Onofrio  Scas- 
sa, consigliere  del  Sacro  Rcal  Consiglio,  secondo  quanto  narra  il  Panzini, 
p.  5,  aiutò  ramico  Pietro,  mentre  questi  veniva  stendendo  V Istoria  civile, 
«per  rilevarlo  d'alcuna  picciola  parte  della  sua  fatica,  quanto  si  era  quella 
dello  scrivere  e  del  riscontrare  i  luoghi  degli  autori,  che  faceangli  bisogno  ». 
4.  Etmullero:  il  Giannone  probabilmente  allude  ai  due  tomi  degli  Opera 
medica  theoretico  practica.  M.  E.  Etmullerus  filius  .  . .  mendas  susttdit . . ., 
Francofurti  ad  Moenum  1708,  del  celebre  medico  tedesco  Michael  Et- 
mullcr  (1644-1683),  professore  a  Lipsia,  sua  città  natale  (nel  1701,  a  Lon- 


1124  LETTERE 

parvi  un  poco  di  cioccolata,  quattro  faccioletti  di  scia  ;  e  quando  li 
libri  di  carta  realclla  si  riduchino  a  trenta  corpi,  tanto  potranno 
mandare;  se  più  fossero  di  carta  reale,  e  meno  di  carta  realclla,1 
sarebbe  ottimo. 

Mi  rincora  non  poco  il  nostro  spirito  intorno  alla  mia  dimora 
qui;  e  se  non  fosse  la  considerazione  delia  strettezza  di  nostra  casa, 
certamente  che  io  non  penserei  affatto  a  ritornarmene:  contuttociò 
di  quel  che  m'avverrà  non  possiamo  ora  far  presaggi;  e  ben  so 
che  il  tempo  maturerà  più  d'una  cosa:  rimettiamoci  adunque  a 
colui  nelle  di  cui  mani  sono  le  fortune  degli  uomini,  e  seguane  ciò 
ch'egli  disponerà  di  noi. 

Sento  con  incredibil  piacere  che  il  nostro  Capasso*  non  m'abbia 
giammai  negato3  per  i  miei  libri,  ch'ò  quello  che  molto  mi  impor- 
tava: né  deve  dolersi  di  non  avergli  attesa  la  promessa:  già  finita 
l'opera  mi  son  dato  qui  alla  birba;  e  molto  più  strepitosa  la  farei 
riuscire,  se  avessi  non  più  che  un  terzo  della  sua  cattedra.  Che  birba 
voleva  che  io  facessi  costà,  ove  sono  tante  catene  e  tanti  riguardi  ? 
Qui  bisognarebbe  ch'egli  s'affacciasse  un  poco,  e  poi  far  paragone 
tra  la  vita  austera  da  me  menata,  ch'e'  la  riputa  birba,  e  quella  che 
fino  i  vescovi  qui  menano,  e  gli  uomini  riputati  i  più  gravi  e  seri. 

Mi  meraviglio  che  volete  saper  notizie  da  me,  che  nulla  mi  de- 
vono importare.  Ve  ne  darò  pur  una,  che  vai  per  mille,  che  l'ho 
differita  sin  ora,  perché  prima  non  era  appurata.  Da  Praga  s'ha 
che  oggi  appunto  si  sarebbe  pubblicata  la  gravidanza  della  nostra 
imperadrice,  giorno  del  suo  compieanos*  Vi  son  preceduti  più  col- 
legi di  medici  e  d'ostetrici  per  venire  a  questa  pubblicazione,  onde 
si  tiene  per  cosa  sicura.  Salutatemi  il  vecchio  padre5  con  tutti  gli 
amici,  e  caramente  l'abbraccio. 

dra,  erano  usciti  gli  Opera  omnia  in  compendium  redacta).  Un'edizione  degli 
ctmUUoriani  Opera  omnia  in  quinque  tomos  distributa  . .  .  Accesserunt  notae, 
consitia,  dissertationcs  Nicolai  Cyrilli . .  .,  Neapoli  1728,  provocherà  una  re- 
censione piuttosto  polemica  negli  «Acta  Kruditorum  Lipsiensium  »,  mag- 
gio 173 x,  pp.  229  sgg,  1.  reale . . .  realclla:  sui  due  tipi  di  carta  tornerà 
nella  lettera  del  24  giugno  1724:  cfr.  qui  a  p.  1x37,  2.  Per  Nicola  ("apasso 
si  veda  la  nota  1  a  p,  49.  3.  negato:  rinnegato.  4.  Da  Praga  . . .  complea- 
Hos:  cfr.  Vita,  qui  a  p.  109  (V imperatrice  Elisabetta  era  nata  il  28  agosto 
1691).  5.  il  vecchio  padre:  Scipione  Giannonc  (1646-1725),  tiglio  di  Pie- 
tro da  Capuano  e  di  Francesca  Donatello  d'Ischitella,  in  gioventù  aveva 
indossato  Pabito  talare,  ma,  lasciati  gli  ordini  minori,  nel  1677  aveva  sposato 
ad  Ischitella  Lucrezia  Micaglia,  llglia  di  Matteo  da  Peschici  e  di  Isabella 
Sabatello.  Di  professione  farmacista,  nell'estate  del  17x5  aveva  raggiunto  il 
figlio  Pietro  a  Napoli. 


LETTERE  1125 

V 
A  CARLO   GIANNONE  ■  NAPOLI 

Vienna  22  gennaro  1724. 

Questo  foglio  non  passerà  se  non  sotto  gli  occhi  del  signor  presi- 
dente, de'  signori  consiglieri  Ventura  e  Magioco,  perché  so  che 
di  quanto  vi  scrivo  ne  faranno  buon  uso.  Io  tanto  è  lontano  che 
vada  stuzzicando  il  vespaio  intorno  all'affare  giurisdizionale,  che 
se  non  fosse  stato  per  me  si  sarebbe  acceso  un  gran  fuoco  tra  due 
principali  ministri,  che  stanno  quasi  sempre  alle  orecchie  di  Cesare, 
uno  spagnuolo  e  l'altro  tedesco,1  che  non  poteva  soffrire  Tinorpel- 
lamento  che  si  dava  alla  mia  assoluzione;  ma  essendo  stato  io  chia- 
mato, e  riferito  che  lo  spagnuolo  non  era  stato  informato  del  modo 
tenuto  in  darla,  e  che  perciò  non  avea  potuto  riferire  con  distin- 
zione il  tutto  a  S.  M.,  se  non  in  brievc,  quanto  forse  l'era  stato 
scritto  dal  signor  cardinal  Althan  viceré,  non  poteva  incolparsi 
d'avergli  celato  il  vero  :  sicché  non  se  ne  fece  poi  più  motto,  né  a 
me  altro  premeva,  se  non  che  S.  M.  stasse  ben  informata  che  non 
io,  conoscendo  forse  il  mio  errore,  fossi  con  suppliche  ricorso  a 
dimandarne  assoluzione.2  Il  signor  arcivescovo  di  Valenza,  per  le 
notizie  distinte  che  ne  avea  avute  dal  signor  presidente,  poteva 
anche  assicuramela,  ma  perché  per  due  mesi  rare  volte  è  andato 
in  Corte  e  pensava  ad  altro,  si  stimò  a  proposito  che  il  gran  can- 
celliere di  Corte  Zinzendorf  avesse  per  me  la  bontà  distintamente 
informarne  S.  M.,  la  quale  si  vide  poi  con  effetto  che  non  prese  a 
male  i  passi  dati,  ne'  quali  io  non  ci  avea  avuta  parte  alcuna,  con 
chiamarmi  subito  alla  prima  udienza  ed  ascoltarmi  con  benignità 
e  somma  clemenza.  Sicché  ora  sopra  ciò,  per  chiarire  i  più  zelanti, 
almeno  per  quello  che  mostrano,  di  questo  Consiglio  di  Spagna,3 
m'uniformo  a  quel  che  saviamente  dice  il  signor  presidente,  di 
tenersi  la  Giunta,  pigliare  forti  espedienti,  e  di  tutto  farne  qui  rela- 
zione, perché  in  questo  modo  si  rifonderà  poi  ad  essi  quella  debo- 


V.  B.N.R.,  F.V.E.  358,  ce.  70-72.  -  i.  due  principali . . .  tedesco:  probabil- 
mente il  Rialp  e  il  Sinzcndorff:  cfr.  rispettivamente  la  nota  4  a  p.  98  e  la 
nota  2  a  p.  116.  z.néame...  assoluzione:  sui  termini  in  cui  venne  ri- 
chiesta e  concessa  l'assoluzione  cfr.  Bertelli,  pp.  187-8.  3.  Consiglio  dì 
Spagna  :  cfr,  la  nota  2  a  p.  80. 


II2Ó  LETTERE 

lezza,  che  imputano  ad  altri,  se  non  vorranno  venir  poi  alla  ese- 
cuzione. Del  rimanente  io  qui  né  a'  ministri  di  più  alta  gerarchia, 
né  a  quo'  del  Consiglio  parlo  più  di  questa  materia,  ed  attendo 
unicamente  a  sgombrare  tutte  quelle  nebbie  che  i  maligni  aveano 
sparse  contro  i  miei  libri,  e  per  grazia  del  Signore  ho  ridotto  Taf- 
fare  in  tale  stato,  che,  per  notizie  certe  avute,  gli  stessi  aderenti 
della  corte  di  Roma  ora  si  sono  ridotti  a  lodare  i  libri,  e  non  altro 
m'imputano  che  io  con  parole  troppo  mordaci  e  piene  d'astio  e 
livorose  trattassi  quella  Corte,  ancorché  nell'istesso  tempo  non  pos- 
sono negare  avere  io  scritto  la  verità.  Mi  sono  assicurato  ancora, 
per  vie  quanto  recondite,  altrettanto  certe,  che  l'animo  di  Cesare 
è  inclinato  per  me,  e  ne'  privati  discorsi  tra'  suoi  più  confidenti 
mostra  sentimenti  conformi  a  quelli  che  tengono  i  savi  e  spregiu- 
dicati, e  non  men  di  costoro  si  ride,  ed  internamente  si  burla  del- 
l'affettate ipocrisie  e  superstizioni,  che  ad  arte  nudrisce  quella  Cor- 
te ;  ma  nello  istesso  tempo  non  vuol  nella  politica  esser  da  lei  avan- 
zato, simulando  ancoragli  rispetto  e  riverenza,  onde  perciò  in  que- 
sto mio  fatto  si  procederà  con  molto  riflesso:  sicché  non  deve  pa- 
rervi strano  che,  sentendo  tante  cose  per  me  adoperate  per  sì  effi- 
caci mezzi,  non  mi  vedete  di  repente  ministro.  Io  alle  tante  infami 
relazioni,  che  da  costà  vennero,  trovai  compassione  in  alcuni,  che 
dubitavano  non  esserci  capitato  male;  anzi  sino  al  presente  vi  vo' 
a  dire  che  alcuni  nostri  Napoletani,  sapendo  che  io  non  avea  cer- 
cata udienza,  andavan  già  dicendo  che  l'imperadore  non  voleva 
ammettermi,  né  ascoltarmi;  né  mancano  di  questi  ancora  che  im- 
pallidiscono, quando  qualche  mio  buono  amico  gli  narra  di  me 
qualche  buon  successo,  né  possono  assignarne  altra  cagione,  se  non 
perché  sono  impastati,  secondo  la  nazione,  di  malignità  ed  in- 
vidia. 

Non  vi  e  altro  rimedio,  per  vincergli,  che  la  simulazione  e  soffe- 
renza, e  nascondersi  dagli  occhi  loro  in  tutto  quel  che  s'opera  per 
noi,  e  col  tempo  vincere  la  loro  malvagità. 

Sento  per  la  sua  ricevuta  in  questa  settimana  l'incombenza  che 
l'arcivescovo  ha  data  al  signor  presidente  de'  libri  del  padre  fra 
Francesco  della  Croce,1  di  che  anche  l'abate  Acampora2  ne  dà  ra- 

i.  Sento  .  . ,  Croce;  è  diflìcile  stabilire  a  chi  alluda  qui  il  Oiannone.  Forse 
a  quel  Francisco  de  la  Cruz  che  stampò  a  Barcellona,  nel  1643,  ho  admìrabìt 
intent  de  un  religios  carmelita  . . .  que  . . .  porto  . . .  una  gran  Creu  al  coli, 
pera  impetrar  de  Deu  la  pan  universal  de  la  Chrìstiandat.    2*  U  abate  Ciò- 


LETTERE  1127 

guaglio:  mal  collocate  diligenze  per  libri  sì  ridicoli:  comunque  sia 
bisogna  secondare  il  genio  di  chi  s'impone  ;  ed  ha  fatto  bene  d'of- 
ferire quelli  che  sono  nella  nostra  libraria,  però  saranno  più  grati 
gli  Spagnoli.  E  credo  che  saprete  che  li  tradotti  in  italiana  vanno 
pure  in  un  tomo  in  foglio  di  migliore  edizione,  che  io  lo  vidi  in 
casa  del  signor  Giovan  Battista  Ronzo;  onde  dovendosi  mandare 
gl'italiani,  meglio  sarà  mandargl'  in  foglio. 

Sento  ancora  con  molto  contento  che  tuttavia  si  continui  spessa 
corrispondenza  di  lettere  tra  l'arcivescovo  ed  il  signor  presidente, 
ed  io  non  dubbito  dalla  cordialità  del  signor  presidente,  che  non 
tralascierà  raccomandargli  la  mia  persona;  li  quali  uffici  tanto  più 
ora  saranno  profittevoli,  perché  già  s'ha  tolto  di  testa  quella  malin- 
conia di  ritirarsi,  avendogli  Cesare  preventivamente  di  sua  pro- 
pria bocca  nelle  passate  udienze  comandato  che  non  pensasse  più 
a  tali  risoluzioni,  perch'egli  non  avrebbe  mai  permesso  di  privarsi 
d'un  si  gran  ministro;  onde  egli,  vedendosi  cosi  soprafatto,  e  con 
tanta  benignità  e  finezza,  si  è  finalmente  reso,  e  mostrandosi  più 
ilare  del  solito,  si  vede  ora  intraprendere  con  maggior  vigore  gli 
affari  del  suo  Consiglio,  ed  a  pensare  di  rimediare  a'  disordini  del 
nostro  Regno.  Si  tenne  perciò  giovedì  scorso  una  conferenza  in 
sua  casa,  nella  quale  intervennero  i  soli  reggenti  Positano,  Almarz 
e  Perlongo,  che  durò  sette  ore.  Il  segreto  fu  premorosamente  im- 
posto, talché  un  reggente  disse  che  né  meno  all'imperadore  po- 
tevano palesare  ciò  che  ivi  erasi  trattato.  Ha  dato  ciò  materia  di 
vari  discorsi,  e  quelli  che  più  s'appongono  al  vero,  dicono  che  si 
consultasse  su  la  lettera  della  Città,1  che  cerca  licenza  d'inviar  am- 
basciatore, e  sopra  i  disordini  che  tuttavia  si  sentono  in  Napoli: 
altri,  che  si  consultasse  ancora  sopra  gli  affari  de'  benefìci  non 
meno  di  Napoli  che  di  Sicilia;  e  diede  maggior  fondamento  alle 
loro  conietture  l'essersi  veduto  il  venerdì  mattina  il  nunzio  ponti- 
ficio2 in  casa  del  marchese  Perlas.  Forse  il  signor  presidente  ne 

vanni  Lorenzo  Acampora  (nato  nella  seconda  metà  del  secolo  XVII),  anti- 
curialista,  prese  le  parti  del  Giannone  contro  l'arcivescovo  di  Sorrento 
Filippo  Anastasio  (cfr.  Vita,  qui  a  pp.  125  sgg.).  Editore,  tra  l'altro,  della 
Raccolta  di  rime  di  poeti  napoletani . . .,  Napoli  1701,  e  revisore  delle 
Ragioni  a  prò  della  fedelissima  città  e  regno  di  Napoli  contr'al  procedimento 
straordinario  nelle  cause  del  Sant'Officio  (Napoli  1709)  di  Niccolò  Caravita, 
mvierà  al  Giannone  notizie  sul  Poliziano  da  comunicare  a  Friedrich  Otto 
Mencke  (cfr.  Vita,  qui  a  p.  165  e  la  nota  3  ivi).  1.  della  Città:  di  Napoli, 
ossia  dell'amministrazione  cittadina.  2.  nunzio  pontificio  :  Girolamo  Gri- 
maldi (si  veda  la  nota  2  a  p.  117). 


1128  LETTERE 

potrà  esser  informato  da  più  alti  e  sicuri  canali.  Il  certo  e  che  per 
l'avvenire  il  Consiglio  di  Spagna  non  starà  così  sonnacchioso  e 
lento  in  riparare  i  disordini  di  Napoli,  e  perciò  godo  assai  che  il 
nostro  signor  presidente  viva  lontano  dalle  confusioni  di  palazzo. 
Il  signor  cavalier  Garelli  ha  molto  goduto  della  seconda  nota  de' 
libri  mandatami  per  quelli  trovati  di  nuovo,  e  se  mai  avrà  congiun- 
tura di  mandar  per  via  di  terra  qualche  libro,  procuri  mandare  il 
Buonmattei*  ed  altri  libri  di  vaglia  ed  i  migliori,  lasciando  gli  altri 
per  l'altra  missione  per  mare,  avendo  intanto  tempo  di  far  ricerca 
per  quel  che  manca  alla  nota  mandatele.  Il  signor  abate  Acampora 
scrive  che  si  siano  cominciate  già  a  stampare  le  Scuole  mediche  del 
celebre  Aulisio,2  avvisatemi  se  ciò  sia  vero,  e  chi  ne  abbia  preso 
la  cura. 


vi 

A  CARLO   GIANNONE  ■  NAPOLI 

Vienna  29  pennato  7727. 

Per  la  sua  ricevuta  in  questa  settimana  sento  in  prima  la  voglia 
che  ora  sia  costà  venuta  a  molti  per  l'impressione  delle  opere  ma- 
noscritte d'Aulisio,3  e  la  premura  che  vi  vien  data  per  l'esibizione 
degli  esemplari,  e  che  il  Ferrara,4  con  una  mia  ricevuta  che  mostra, 


1.  Buonmattei:  molto  probabilmente  l'edizione  napoletana,  presso  Fran- 
cesco Ricciardo,  1723,  di  Benedetto  Buommatei  (1581-1647),  Della  lingua 
toscana  libri  due,  che  fu  la  prima  grammatica  logica  italiana.  2.  tv  Scuo- 
le..  .  Aulisio:  cioè  le  Historiae  de  or  tu  et  progressu  medicinac.  Libri  Vili 
di  Domenico  Aulisio  (per  cui  cfr.  la  nota  2  a  p.  19).  Su  quest'opera,  che 
non  fu  mai  edita  (lo  stesso  Aulisio  ne  aveva  sospeso  la  stampa  per  l'uscita 
dell'opera,  analoga,  di  Daniel  Le  Ocre:  cfr.  la  nota  4  a  p.  3x5),  cfr.  Istoria 
civile,  tomo  iv,  lib.  xl,  cap.  v,  pp.  491-2;  G.  M.  Ckkscimbmni,  Notìzie 
{storiche  degli  Arcadi  morti,  m,  Roma  1721,  pp.  65-9;  G.  M.  Mazzucciikl- 
li,  Gli  scrittori  d'Italia,  Broscia  1753,  voi.  1,  parte  11,  p.  1263.  Kra,  invece, 
uscita  r edizione  Delle  scuole  sacre.  Libri  due  postumi  del  conte  palatino 
Domenico  Aulisio  . .  .  Pubblicati  dal  suo  erede  e  nipote  Nicolò  Ferrara-Auli~ 
sto,  Napoli  1723,  a  cui  l'allievo  Biagio  Troisio  aveva  premesso  una  nota 
biografica  e  un  catalogo  delle  opere  stampate  (ma  non  tutte  pervenuteci) 
del  maestro, 

VI.  B.N.R.,  F.V.E.  358,  ce.  73-75^.  -  3.  l'impressione  * .  .Aulisio:  cfr.  la 
nota  2  qui  sopra.  4.  Nicolò  Ferrara  Aulisio,  nipote  del  magistrato,  era 
stato  incolpato  della  morte  dello  zio,  incarcerato  e  sottoposto  a  giudizio  da 
parte  del  Tribunale  0  Giunta  dei  Venefici.  La  sua  difesa  fu  assunta  dal 


LETTERE  1120, 

ve  gli  richicgga  ;  ed  oltre  a  ciò,  che  il  signor  Cacace1  abbia  restituito 
il  Timeo,7,  non  a  voi,  ma  al  signor  Orsi,  che  tanto  in  ciò  s'affanna  e 
si  travaglia.  Io  veramente  stupisco  della  soverchia  licenza  che  co- 
storo si  prendono,  quasi  che  que'  m.  s.  non  fossero  miei,  reputan- 
domi forse  come  un  semplice  depositario.  Bisogna  pertanto  disin- 
gannargli, e  credo  che  saprete  che  io  in  soddisfazione  delli  docati 
trecento,  che  mi  furono  dal  S.  C.  tassati  per  mie  fatiche  e  palmario3 
nelle  cause,  che  patrocinai  del  Ferrara,  ricevei  così  i  libri  stampati, 
come  tutti  i  sudetti  m.  s.,  e  nella  quietanza  che  feci  al  Ferrara 
espressamente  si  dichiarò  che  io  a  riguardo  del  zio  gli  faceva 
questa  agevolezza  di  contentarmi  de'  sudetti  libri  e  m.  s.,  e  rila- 
sciargli il  di  più  che  avanzava  sino  alla  sudetta  somma  di  docati 
300.  Sicché  non  vorrei  tanta  libertà  sopra  la  mia  roba;  e  se  io  fui 
così  indulgente  col  signor  Vitagliano,  che  seppe  così  bene  contro- 
cambiar il  beneficio  con  somma  ingratitudine  sicché  né  meno  potei 
conseguire  una  decina  d'esemplari,  fu  per  non  disgustarmelo  per 
l'impressione  allora  pendente  de*  miei  libri.  Onde  potrà  palesare 
tutto  ciò  al  signor  presidente,  e  dirgli  che  niuno  ch'egli  potrà  co- 
mandarlo, e  che  sempre  che  sia  di  sua  volontà  e  piacere  gli  origi- 
nali si  daranno  come  dono  che  a  lui  si  fa,  eh' è  ben  poco  alle  obbli- 
gazioni che  le  professo,  ma  che  io  non  posso  soffrire  questa  bal- 
danza di  voler  l'originali  così,  senza  che  niuno  me  n'abbia  grazia, 
onde  non  avrà  espresso  comando  del  signor  presidente  non  gli  dia 
a  niuno,  e  quando  pure  il  signor  presidente  lo  comanderà,  permet- 
terà ancora  che  s'usi  con  me  quella  regola,  che  s'usa  con  tutti 
coloro  che  somministrano  gli  originali  :  cioè  di  pattuirsi  con  essi  di 
dovermene  dare  almeno  cinquanta  esemplari  impressi. 


Giannone,  il  quale  riuscì  a  farlo  assolvere,  sul  finire  del  171 9.  Per  sdebi- 
tarsi, come  è  spiegato  in  questa  lettera,  il  Ferrara  consegnò  la  biblioteca  e  i 
manoscritti  dello  zio  al  Giannone,  il  quale  curò  l'edizione  de  In  IV  Insti- 
tutionum  canonicarum  libros  commentarla,  Neapoli  1721,  lezioni  universi- 
tarie di  Domenico  Aulisio,  rimaste  sino  ad  allora  manoscritte,  forse  le  stesse 
che  Giannone  aveva  ascoltato  in  gioventù  (cfr.  Vita,  qui  a  pp.  19  sgg.). 
Per  la  stampa  il  Giannone  si  avvalse  dell'aiuto  di  Gaetano  Argento  e  di 
Ottavio  Ignazio  Vitagliano  (cfr.  le  note  5  a  p.  76  e  2  a  p.  74),  servendosi  inoltre 
dello  stesso  stampatore  cui  ricorse  per  l'edizione  della  propria  Istoria  civile, 
Niccolò  Naso.  1.  Leonardo  Cacace  (morto  nel  173 1),  professore  di  medi- 
cina all'ateneo  napoletano.  2.  il  Timeo:  cioè  un'edizione  del  celebre  dia- 
logo platonico,  ^.palmario:  compenso  promesso  dal  cliente  al  difensore 
in  sostituzione  degli  onorari  legali,  o  in  aggiunta  ad  essi,  alla  conclusione 
favorevole  di  una  lite  o  di  una  questione  stragiudiziale. 


II30  LETTERE 

Intorno  all'impressione  che  si  medita  A&W  Istoria  della  medicina, 
io  gli  scrissi  quello  che  s'era  qui  pensato,  ma  già  che  si  vuole  stam- 
pare costà,  per  cortesia  e  per  non  far  più  oltraggio  di  quello  che 
si  è  fatto  all'autore  nell'edizione  delle  Scuole  sacre,1  avverta  e  priega 
incessantemente  al  signor  presidente  che  non  commetta  la  cura 
di  ciò  ad  altri  che  al  signor  Cirillo/  perché  in  altro  caso  l'opera 
verrà  assassinata  non  meno  di  quella  delle  Scuole  sacre,  dove  alla 
giornata  si  scuoprono  errori  intollerabili  nell'ebreo,  nel  greco,  ed 
infino  all'italiano.  Se  il  signor  Cirillo  vorrà  prendersi  questa  cura 
la  cosa  anderà  a  seconda  del  genio  di  molti,  che  qui  la  desiderano, 
e  ne  procurarebbero  lo  smaltimento  con  gran  utile  dell'impressore, 
altrimente  non  se  ne  terrà  conto  per  l'esempio  preceduto  dell'edi- 
zione delle  Scuole  sacre. 

Io  per  quanto  posso  e  vaglio  ne  priego  ancora  il  signor  Cirillo, 
sicome  fa  il  signor  Garelli,  che  non  vorrebbe  vedere  quest'altro 
strapazzo  d'un'opera,  ch'egli  stima  che  potrebbe  avere  maggior 
fama  di  quella  del  Clerico.  Porterà  al  medesimo  mille  saluti  in 
nome  mio  e  del  signor  cavaliere,  il  quale  tiene  già  pronto  il  pa- 
glietto3 de'  «Giornali  di  Lipsia»,4  che  arrivano  per  tutto  dicembre 


1.  Intorno  .  .  .  Scuole  sacre:  cfr,  la  nota  2  a  p.  1128.  2.  non  commetta  .  .  . 
Cirillo:  il  Cirillo  accettò  la  proposta  del  Giannone  per  l'«  emendazione 
dell'opera»  dell'Aulisio  (cfr.  la  lettera  a  Carlo  del  4  marzo  1724,  in  B.N.R., 
F.V.E.  358,  e.  84);  né  sembra  riuscisse  destacelo  al  progetto  l'uscita  in 
quei  tempi  di  un'opera  consimile:  le  De  mediarne  origine  et  progrmu  dis- 
sertatìones . . .,  Traiccti  ad  Rhcnum  X723,  del  medico  e  chimico  Johann 
Conrad  Barchusen  o  Barckhausen  (x  666- $723).  11  x8  marzo  1724,  infatti, 
il  Giannonc  scriveva  al  fratello  che  quelle  dissertazioni  «si  vede  essere  inet- 
tissime, tanto  che  ciò  non  solo  [non]  deve  impedire  Tediatone  che  il  signor 
Cirillo  ha  per  le  inani,  ma  maggiormente  animarlo  a  proseguire  l'impresa  » 
(B.N.R.,  F.V.E.  358,  e.  88).  Altre  difHcolta  dovettero  però  sopraggiun- 
gere in  seguito,  perché  il  13  novembre  1728  il  Giannone  scriveva  al  fra- 
tello (in  B.N.R.,  F.V.K.  358,  ce.  435-435^):  «Ho  parlato  al  signor  cavaliere 
intorno  air  edizione  dell' istoria  della  medicina,  e  mostra  non  avervi  inclina- 
zione alcuna  di  prendersi  questo  pensiero,  perché  vi  bisognarebbe  una 
indefessa  fatica  di  metter  in  netto  l'originale;  e  poi  dovendosi  mandare  in 
Lipsia,  s'avrebbe  da  stare  alla  discrezione  di  quo'  compositori,  li  quali 
potrebbero  stroppiarla,  tanto  maggiormente  perché  l'autore  ha  mostrato  in 
tutte  le  sue  opere  una  somma  accuratezza  nelle  lingue  ed  in  altre  minuzie, 
che  richiedono  grandissima  vigilanza  ed  attcnsione;  e  quando  i  fogli  non 
possono  passare  sotto  un  diligente  e  prattico  correttore,  sexnpre  s'incorrerà 
negli  errori.  Mi  rimane  tentare  solamente  se  il  signor  Menckenio  volesse 
prendersi  questa  briga,  ed  in  questo  caso  stimerei  la  cosa  più  riuseibilc». 
3 .  paglietto  :  pacchetto.  4.  «  Giornali  di  Lipsia  »  ;  gli  «  Acta  Kruditorum,  Lip- 
siensium»  (cfr.  la  nota  2  a  p.  165). 


LETTERE  II3I 

del  passato  anno  1723,  né  io  tralascierò  per  la  prima  congiuntura 
di  mandarcelo,  tenendone  dal  medesimo  gran  premura,  che  gli  ca- 
piti presto. 

Il  prete,  che  mi  avvisa  dover  essere  qui  col  fardello  de*  consaputi 
libri,  non  è  ancor  giunto,  ed  intanto  ho  consignata  la  nota  acclu- 
sami al  signor  cavaliere  de'  libri  che  ora  si  mandano,  di  che  n'è 
sommamente  restato  soddisfatto,  così  del  prezzo  come  della  scelta 
fattane,  onde  con  anzietà  lo  stiamo  attendendo.  Frattanto  facci  rac- 
colta degli  altri  per  trasmetterli  secondo  l'avviso  che  ne  avrete; 
né  tralascierò  di  far  accudire  al  prete  raccommandatomi  in  tutto 
quello  che  gli  potrà  occorrere. 

Ho  tolta  qui  la  curiosità  d'alcuni,  che  aveano  per  quella  Storia 
del  Gimma,1  ora  che  m'avete  avvisato  l'autore,  ed  ora  se  ne  fa 
quel  conto  che  ne  fate  costà.  La  sciocchissima  scrittura  d'Egizio, 
che  il  marchese  Sanfclice  ha  fatta  qui  imprimere,2  ora  va  per  le 
mani  de'  ministri  di  questo  Consiglio  di  Spagna;  io  n'ebbi  pure 
un  esemplare  dal  medesimo,  ed  a  prima  conobbi  avere  stroppiato 
quel  che  ha  appreso  da'  miei  libri,  perché  ne'  primi  versi  allega 
Varrone  in  quel  luogo  appunto  da  me  citato,  il  quale  non  dice 
verbo  delle  File,  ma  solamente  delle  Fratrie  ch'erano  in  Napoli, 
sicomc  io  ne  porto  le  parole  e  la  nota  fattavi  da  Scaligero.3  È  ripiena 
dì  consimili  errori,  di  perpetue  confusioni,  e  ben  si  conosce  che 
ancorché  avesse  lavorato  sopra  l'altrui  fatiche,  non  essendo  ciò  del 
suo  mestiere,  fu  troppa  sua  temerità  «nostra  temerare  claustra»,4 
come  di  Erasmo  disse  Cujacio.  Io  mi  maraviglio,  come  il  nostro 
signor  Vincenzo  d'Ippolido,5  che  avrebbe  potuto  far  sopra  tal  sog- 
getto una  buona  scrittura,  se  ne  stia  colle  mani  in  cintola:  forse 
altri  rispetti  gli  avranno  ritenuto:  riveritelo  da  mia  parte,  e  non  si 
dimentichi  di  quanto  gli  scrissi  nelle  passate  settimane,  di  far  nota 
di  ciò  che  forse  avrà  notato  d'errori  ne'  miei  libri. 

1.  Giacinto  Gimma  (1668-1735),  erudito  e  poligrafo  barese,  fondatore  della 
Società  scientifica  degli  Incuriosi  di  Rossano  (1696),  arcade  dal  1702,  è 
l'autore  di  una  Idea  della  storia  dell 'Italia  letterata,  esposta  colVordine  cro- 
nologico dal  suo  principio  fino  all'ultimo  secolo  . . .,  Napoli  1723.  2.  La 
sciocchissima  . ,  .  imprimere:  cfr.  Giannoniana>  pp.  125-6.  Per  Matteo  Egi- 
zio si  veda  la  nota  1  a  p.  21 1»  3.  Varrone  .  .  .  Scaligero:  cfr.  Istoria  civilet 
tomo  1,  lib.  1,  cap.  iv,  par.  1,  p.  16,  nota  3.  4.  «nostra  temerare  claustrali 
«violare  ì  luoghi  a  noi  riservati  ».  5.  Vincenzo  d'Ippolito  (morto  nel  1748), 
consigliere  di  Santa  Chiara,  poi  presidente  del  Sacro  Real  Consiglio, 
fu  uno  dei  più  strenui  difensori  del  Giannone,  anche  dopo  l'avvento  di 
Carlo  III  di  Borbone. 


1132  LETTERE 

Salutatemi  ancora  il  signor  don  Franco,  con  assicurarlo  che  io 
qui  son  difensore  delle  sue  Rime'.1  ed  intorno  a  ciò  clic  mi  scrive 
del  signor  conte  della  Corra,2  se  ne  avrò  qui  richiesta,  saprò  rego- 
larmi nella  risposta,  ed  intanto  se  sarete  costà  di  nuovo  assalito, 
rifondete  a  me  il  rimanente,  senza  impacciarvi  d'altro.  Non  mi 
scrivete  niente  del  signor  Pepe,  di  cui  sovente  col  signor  marchese 
Stella3  facciamo  lunghi  discorsi:  salutatelo  da  mia  parte,  sicome 
allo  Scassa,  che  io  venero  ora  come  Mercurio  fautor  de*  ladri.4 

Sento  il  corso  che  s'è  dato  alia  causa  di  Cesa,5  per  cui  questa 
settimana  il  signor  don  Antonio  Coppola  nipote  dei  signor  reg- 
gente Almarz  m'ha  parlato  in  raccomandazione  del  signor  don 
Agnello  Longobardi,  che  ne  l'ha  scritto.  Vedete  di  far  quel  che  si 
potrà  per  donna  Felice  sua  sposa,  e  ditele  avermene  già  il  signor 
Coppola  parlato,  e  che  io  n'abbia  scritto.  Mi  preme  assai  più  il 
disbrigo  della  causa  del  Vinchiaturo,6  per  la  quale  non  lasciarete 
pregarne  di  continuo  al  signor  presidente,  perché  da  ciò  dipende 
la  riscossione  integrale  del  palmario.  Sicome  non  lasci  di  veduta 
gli  interessi  di  Camera  da'  quali  dipende  ancora  il  nostro  sosten- 
tamento. 

x,  don  Franco  .  .  .  Rime:  forse  il  Giurinone  confonde  e  si  tratta  del  Filippo 
de  Angehs  menzionato  nulla  Vita-,  cfr.  la  nota  1  a  p.  33.  2.  della  Cerreti 
il  conte  di  Accrra,  sul  quale  cfr.  II.  Bknkdikt,  Dos  Ktìnigreich  Neapel 
unter  Kaiser  Karl  VI,  Wien- Leipzig  1927,  pp.  48  t  sgg.,  502  sgg.,  5*8  »gg- 
3.  Del  marchese  Pietro  Stella  (morto  noi  1730),  nipote  del  eonte  Hocco, 
si  parla  anche  in  Vita,  qui  alle  pp,  163-4.  Wu  di  lui  cfr.  inoltre  IL  Hknk- 
djckt,  op.  cit.,  pp.  235  0  237.  4.  Scassa  . .  .  ladri:  1,'8  gennaio  1724  il 
Giannonc  aveva  scritto  al  fratello  (IÌ.N.U,,  F.V.K.  358,  co.  670-68):  «Sto 
molto  goduto  . . .  che  siasi  chiarita  l'impostura  che  il  ladro,  per  aver  com- 
pagni, avea  addossata  a  quelle  puntuali  persone;  e  tanto  più  ora  mi  mara- 
viglio che  il  padrone  lo  protegga».  In  margine  una  postilla  (probabilmente 
di  Giovanni  Giannonc):  «  Il  servitore  di  don  Onofrio  Scassa  avea  involato 
alcuni  corpi  dall'Istoria  civile,  ed  altri  eran  incolpati  di  simil  furto  ...  e  il 
detto  proteggeva  il  ladro».  5.  causa  di  (lesa:  questa  causa  in  cui  si  con- 
testava un'eredità,  facendo  pressioni  perché  le  beneficiate  si  ritirassero  in 
convento,  era  una  di  quelle  lasciate  improvvisamente  dal  Giannonc,  al 
momento  della  sua  fuga  da  Napoli.  La  causa  fu  discussa,  con  qualche  suc- 
cesso, nell'estate  del  1725.  Cfr.,  in  B.N.R.,  F.V.K.  358,  ce.  195-959,  la 
lettera  a  Carlo  del  4  agosto.  6,  causa  del  Vinchiaturo  :  altra  causa  lasciata 
insoluta  dal  Giannonc  al  momento  della  partenza  da  Napoli,  e  di  cui  parla 
diffusamente  nell'epistolario.  L'università  (ossia  municipalità)  di  Vinchia- 
turo, un  paese  del  Sannio,  contrastava  in  una  questione  di  conimi  con  la 
comunità  di  Campochiaro.  Il  ( Cannone  dovette  occuparsi  anche  di  altri 
interessi  del  comune  di  Vinchiaturo,  come  risulta  da  più  cenni  nelle  let- 
tere al  fratello,  e  da  una  controversia  insorta  nel  1726,  per  il  pagamento 
dei  palmari  dovutigli. 


LETTERE  II33 

Ho  inteso  i  sentimenti  del  signor  presidente  intorno  all'affare 
della  Giunta1  e  delle  buone  ammonizioni  degli  amici,  quali  io  già 
eseguo.  Il  signor  marchese  Cavaniglia2  m'ha  detto  che  il  signor 
consigliere  Ventura  l'avea  scritto  per  li  consaputi  libri  destinati 
per  S.  E.  Scrottembac,3  che  gliele  avrebbe  già  trasmessi,  e  ch'egli 
ne  avea  dato  già  avviso  al  signor  cardinale,  ch'erano  in  suo  potere. 

Avrete  saputo  i  titoli  di  conte,  de'  quali  S.  M.  ha  fatta  mercede 
a'  signori  reggenti  Almarz  e  Perlongo.  Il  nostro  signor  reggente 
Almarz  è  in  somma  grazia  di  S.  M.  e  spesso  l'ammette  alla  sua 
udienza:  gli  parla  con  spirito  e  con  molto  zelo  del  suo  regal  ser- 
vigio, talché  si  spera  che  per  l'avvenire  le  cose  anderanno  con  mi- 
glior ordine. 

Il  nostro  signor  duca  di  Laurino,4  di  cui  alla  giornata  ne  speri- 
mento continue  cortesie,  si  è  segnalato  nel  fatto  occorso  lunedì 
passato  al  signor  marchese  Perlas,  a  cui  un  cavalier  catalano  teme- 
rariamente, dopo  vicendevoli  contumelie,  ardì  corrergli  addosso 
per  malmenarlo.  Vi  occorse  opportunamente  il  duca,  che  si  tro- 
vava nell'anticamera,  e  furiosamente  rispinse  il  catalano,  sicché 
occorsevi  l'altre  persone  ch'erano  ivi,  scappò  via.  L'essere  spa- 
gnolo lo  salverà  dal  giusto  castigo,  che  sarà  perniciosissimo  esem- 
pio per  gli  altri  ministri. 

Ho  in  questa  settimana  dai  signor  don  Gabriele  Longobardi5 

x .  La  Giunta  di  giurisdizione.  Nella  lettera  seguente,  del  5  febbraio  (B.N.R., 
F.V.E.  358,  ce.  76-76*;),  scriveva:  «stento  ancor  io  a  credere  la  forte  ri- 
prensione che  si  dice  avuta  per  la  mia  assoluzione,  se  non  si  voglia  ad  arte 
far  apparire  che,  sicome  qui  da  alcuni  di  questo  Consiglio  di  Spagna  non 
fu  approvato  il  modo  tenuto  in  darla,  così  all'incontro  vogliano  dar  ad 
intendere  che  da  Roma  si  pretendesse  cosa  maggiore.  Comunque  sia  in 
questa  settimana,  essendo  stato  di  nuovo  dal  signor  marchese  Perlas  che 
mi  communicò  haver  S.  M.  dato  a  lui  il  memoriale,  che  gli  presentai,  e  che 
mi  parlò  con  molta  umanità  e  gentilezza,  dicendomi  che  S.  M.  l'avea  di 
me  parlato,  e  dettoli  che  io  era  stato  alla  sua  udienza,  fra  l'altre  cose  mi 
disse  che  questi  modi  s'erano  usati  per  far  restare  negli  atti  di  quella  Curia 
quest'esempio,  per  potersene  servire  con  pregiudizio  della  regal  giurisdi- 
zione in  casi  simiglianti;  e  che  perciò  era  bene  che  anche  presso  di  noi 
rimanessero  vestigi  contrari,  almeno  per  futura  cautela:  10  gli  risposi, 
che  per  questo  appunto  si  sarebbe  tenuta  un'altra  Giunta  di  giurisdizione, 
affinché  s'emendassero  li  pregiudici  e  nulla  giovasser  loro  quegli  atti». 

2.  marchese  Cavaniglia;  il  marchese  Agostino  Colome,  marchese  di  Cava- 
nillas,  segretario  di  guerra  a  Napoli  con  i  viceré  Schrattenbach  e  Althann. 

3,  S.  E.  Scrottembac:  il  conte  Karl  Wolfgang  Hannibal  Schrattenbach 
(1 670-1738),  creato  cardinale  nel  17 12,  viceré  di  Napoli,  sul  quale  cfr. 
H.  Benedikt,  op.  cit.,  pp.  208-14.  4.  duca  di  Laurino:  Giuseppe  Spinelli. 
5.  Gabriele  Longobardi:  cfr.  Vita,  qui  a  pp.  120  e  259. 


1X34  LETTERE 

ricevuti  molti  saluti  per  parte  del  nostro  signor  abate  Belvedere,1 
risalutatelo  caramente  da  mia  parte.  Bene  sta  l'occorso  de'  libri, 
che  poi  ha  saputo  essersi  commessi  per  parte  del  figliuolo  di  Per- 
las:  venghino  spesso  simili  ignoranze.  Del  signor  consigliere  Ma- 
gioco  ho  ricevuto  in  questa  settimana  la  lettera  che  dovea  ricevere 
la  passata,  a  cui  rispondo.  Ieri  vidi  il  Castelli/  clic  si  va  riavendo: 
mi  dice  che  partirà  fra  quindici  giorni:  così  sia:  nò  mi  curo  di 
quel  ch'egli  si  faccia:  se  ne  curi  il  signor  Antinori.3  Mille  saluti 
al  nostro  signor  don  Francesco  Mela,  signor  Onofrio,  signor  Cailò, 
ed  a'  tutti  i  buoni  amici,  e  godo  sentire  che  il  vecchio  padre  stia 
bene,  sicomc  di  que'  di  Vesti,4  de'  quali  non  mancate  darmene  no- 
tizia, e  caramente  l'abbraccio. 

L'acchiuso  foglio  lo  consignerete  al  signor  consigliere  Ventura, 
ch'è  in  risposta  del  suo  favoritomi. 

vii 

A  CARLO   GIANNONK  •  NAPOLI 

Vienna  ì)*j  giugno  lya^f. 

Sento  per  la  sua  ricevuta  in  questa  settimana  la  propensione  colla 
quale  mostra  il  signor  presidente  di  favorire  i  miei  interessi,  della 
quale  io  non  ho  avuto  mai  motivo  di  dubbitarne  ;  né  io  ho  fondato  le 
mie  speranze  costà,  se  non  per  impulsi  che  doveano  venire  da  qui 
nel  caso  che  fossimo  nel  sistema  di  nomina.5  Mi  dispiace  che  gli 
urlici  che  il  nostro  signor  presidente  ha  consumati  coU'arcivescovo 
di  Valenza  siano  per  riuscir  vani,  disperandosi  affatto  di  sua  salute, 
e  che  possa  più  salire  in  questo  Consiglio/'  tanto  che  si  pensa  del 

x.  L'abate  napoletano  Andrea  Belvedere  (i652?-i732),  pittore,  letterato  e 
filodrammatico,  dal  1604  al  1700  era  stato  alla  corte  madritena  di  Carlo  II, 
poi  di  nuovo  a  Napoli,  dove  era  amico,  tra  gli  altri,  del  Capasso.  2.  il 
Castelli;  si  tratta  del  fratello  di  Angela  Elisabetta.  Nella  lettera  del  13 
maggio  1724  (B.N.R.,  F.V.K.  358,  e.  100)  il  Oiannone  comunica  di  aver 
ricevuto  notizia  dell'arrivo  del  Castelli  in  Napoli.  3,  Antinori:  forse  quel- 
l'abate Antinori,  zio  delle  figlie  del  duca  dì  Brindisi,  che  avrebbero  ♦spo- 
sato due  fratelli  di  Angela  Elisabetta  Castelli  (efr,  quanto  scrive  Giovanni 
Giannone  nelle  sue  Memorie,  in  Giannonìana,  p.  187),  4.  quo  di  Vestii  la 
sorella  Vittoria  (nata  nel  1685),  sposata  a  Domenico  Tura,  e  il  figlio  Gio- 
vanni che  allora  abitava  con  lei. 

VII.  B.N.R.,  F.V.E.  358,  ce.  109V-112.  -  5.*  miei  interessi ...  nomina; 
cfr.,  a  pp.  1 144-S»  quanto  scrive  nella  lettera  dell*!  1  novembre  1724.  6.  di- 
sperandosi.  . .  Consiglio:  l'arcivescovo  di  Valenza  si  spense  il  21  luglio,  e 


LETTERE  II35 

successore:  comunque  sia  il  favore  e  la  cordialità  del  medesimo 
può  giovarci  in  cento  occasioni,  e  perciò  non  tralasci  portargli  an- 
che in  mio  nome  quegli  ossequi  che  li  sono  dovuti.  Il  Santoro1  col- 
la protezione  del  signor  viceré  ha  promossa  qui  una  pretenzione  di 
futura,  in  caso  di  passaggio  in  Collaterale  del  signor  regente  Ven- 
tura, però  se  la  cosa  passerà  per  questo  Consiglio,  anderanno  vóti 
i  disegni  che  si  fanno.  Qui  si  dice  che  siano  già  firmati  i  capitoli 
matrimoniali  tra  il  nostro  signor  Porcinari2  con  questa  figliuola  del 
regente  Aguirre:3  avvisatemi  se  sia  vero  e  se  le  cose  siano  già  alle 
strette,  come  qui  si  parla.  Tutta  la  Corte  è  tornata  in  città,  ed  i 
regnanti  sono  alla  Favorita.4  Ciò  che  aggevola  i  mici  negozi,  ancor- 
ché li  caldi,  che  qui  si  sentono  in  quest'anno,  non  siano  inferiori  a* 
vostri,  e  perciò  riescano  gli  affari  alquanto  noiosi. 

Dalle  mie  passate  lettere  avrà  scorto  il  concetto  che  si  è  formato 
qui  della  promozione  in  papa  del  cardinal  Orsini,5  e  molto  più  del 
ministero  fatto.6  Godo  che  de*  miei  libri  abbia  quel  sentimento  che 
mi  scrive  e  spero  che  per  me  abbia  secondo  tutti  i  versi  a  riuscir 
la  cosa  in  bene,  tanto  che  ora  si  vanno  toccando  Tacque  più  da 
presso.  Non  mancate  intanto  avvisarmi  le  novità  che  si  prevedono, 
perché  saranno  stravagantissime. 


cosi  ne  diede  notizia  il  Giannone  il  giorno  seguente:  «L'arcivescovo  di 
Valenza  alle  dieci  della  passata  notte  trapassò,  e  per  le  tante  cose  scelle- 
rate, che  ora  di  lui  dicono,  lascia  nome  tale,  che  sarà  d'orrore  per  tutt'i 
secoli»  (lettera  a  Carlo  del  zz  luglio  1724,  in  B.N.R.,  F.V.E.  358,  e.  n6u). 
1.  Francesco  Santoro,  fiscale  di  Camera,  uno  dei  favoriti  del  cardinale 
d'Althann:  segretario  del  regno,  fu  poi  reggente  del  Consiglio  Collaterale 
(cfr.  Panzini,  p.  24).  Si  veda  H.  Benkdikt,  Das  Konìgreich  Neapel  ecc., 
cit.,  p.  363.  2.  Ferdinando  Porcinari  (1689-1743),  allievo  di  Domenico 
Aulisio,  con  Carlo  VI  consigliere  di  Santa  Chiara,  diverrà  caporuota  dello 
stesso  tribunale  con  Carlo  III  di  Borbone.  3.  d' Aguirre:  cfr.  la  nota  1  a 
p.  198.  4.  La  Favorita  era  uno  dei  palazzi  imperiali  nei  dintorni  di  Vienna. 
5.  Dalle  mie . .  .  Orsini:  appena  giunta  «la  stravagante  notizia  dell'elezione» 
alla  tiara  del  cardinale  Pierfrancesco  Orsini  (Benedetto  XIII:  cfr.  la  nota 

I  a  p.  117),  il  Giannone  aveva  scritto  al  fratello,  il  io  giugno  1734  (B.N.R., 
F.V.E.  358,  ce.  1070-108):  «Si  penò  molto  a  crederlo,  e  qui  si  sta  in  gran- 
dissima espettazione  di  sapere  più  individuali  notizie,  essendo  cosa  che 
ha  storditi  tutti,  e  l'istesso  Cesare  rimase  sorpreso  della  stravaganza .  .  . 

II  signor  dottor  Giuseppe  di  Capua  con  asseveranza  mi  dice  aver  egli  ietti 
i  miei  libri,  ma  non  sa  che  concetto  ne  fece  ;  ma  l'essere  frate  domenicano 
mi  fa  temere.  Io  per  me  vorrei  che  facesse  la  riuscita  di  Gregorio  VII, 
come  si  spera,  che  così  le  cose  andarebbero  meglio,  e  forse  altri  che  ora 
dorme  si  desterà  dal  lungo  letargo  ».  6.  ministero  fatto  :  si  riferisce  alla 
nomina  a  segretario  di  Stato  del  cardinale  Niccolò  Coscia  (cfr.  la  nota  4 
a  p.  151). 


II36  LETTERE 

Al  caro  signor  Cirillo  mille  saluti,  come  fa  il  cavalier  Garelli,  il 
quale  vive  sicuro  che  dalle  sue  mani  l'opera1  riuscirà  emendatissima. 
Li  giorni  passati  in  casa  del  signor  principe  Eugenio  io  desiderava 
anche  l'intervento  della  sua  persona  nell'osservazione  che  si  fece 
della  maravigliosa  macchina,  portata  da  un  inglese  al  signor  prin- 
cipe, del  sistema  di  Copernico.  Si  osservano  minutamente  i  movi- 
menti de'  pianeti  e  della  nostra  Terra.  Il  eentro  è  il  sole  fatto  in 
maniera  che  nel  seno  riceve  una  fiamma,  che  illumina  l'orbe.  Si 
notano  l'ecclissi,  le  stagioni,  e  tutto;  talché  non  più  per  forza  della 
ragione  e  dell'immaginazione,  ma  della  veduta  de'  nostri  occhi 
siamo  accertati  che  quel  sistema  è  sufficiente  a  spiegare  tutti  i  fe- 
nomeni, e,  sin  a  tanto  che  non  si  porterà  cosa  più  convincente, 
dobbiamo  stare  a  questo.  Si  conosce  anche  da  ciò  quanto  sia  gran- 
de la  nostra  miseria  a  riguardo  di  tanti  altri  ed  infiniti  soli,  che 
sono  centri  di  innumerabili  altri  vortici,  onde  si  compone  l'uni- 
verso. Il  signor  principe  Eugenio  non  se  non  a  persone  di  riguardo 
fa  questo  favore,  conservando  questa  macchina  nella  sua  famosa 
biblioteca  con  molta  diligenza  ed  attenzione,  la  quai'è  necessaria 
avere  per  essere  il  lavoro  finissimo  ed  intricato  di  varie  ruote,  molle 
e  penduli,  per  far  tanti  e  si  diversi  movimenti.  Tiene  un  perfetto 
matematico  stipendiato  per  questo,  il  quale  con  molta  esattezza 
spiega  il  sistema  e'  movimenti,  e  ne  sa  render  ragione,  essendo  an- 
che cartesiano.  Ci  fu  il  signor  regente  Riccardi,  il  signor  abate  Ugo 
franzese,  inviato  di  Condé,2  ed  altri  personaggi,  e  ne  feci  avvisare 
il  nostro  signor  regente  Almarz  con  don  Pietro  suo  fratello  gran 
cartesiano,  don  Antonio  Coppola  e  suo  figliuolo,  li  quali  n'ebbero, 
particolarmente  don  Pietro,  sommo  diletto.  Videro  anche  costoro 
questa  famosa  biblioteca,  ed  io  ebbi  il  piacere  vedere  ivi  collocati 
i  miei  libri  con  ligatura  tutta  indorata  in  pelle  rossa,  sicome  sono 
ivi  tutt'i  libri,  che  danno  ammirazione  a  chi  riguarda  tanta  ricchez- 
za e  polizia  e  la  rarità  e  bellezza  delle  edizioni. 

Alla  notizia,  che  mi  dà  in  questa  settimana,  che  la  carretta  può 
portare  centoventi  corpi  di  libri,  ed  il  dubbio  che  ho,  che  in  ricever 
questa  forse  si  troveranno  già  spediti  per  Barletta,  sono  alquanto 
turbato,  non  supponendo  che  potesse  portarne  tanti,  li  quali  per 

x.  V  opere  la  progettata  edizione  a  cura  del  Cirillo  delle  Uìstoriae  de  or  tu 
et  progressi*  medìcinae  di  Domenico  Auliaio  (cfr.  la  nota  2  a  p.  11 28). 
».  Louis-Henri  de  Bourbon,  principe  di  Condé  (1692-1740),  conosciuto 
come  Monsieur  le  Due,  primo  ministro  di  Luigi  XV  dal  1733  al  ijzò. 


LETTERE  1137 

essere  di  carta  realella  vi  vorrà  molto  tempo  per  ismaltirgli  qui, 
dove  si  vorrebbero  di  carta  regale.  Credeva  che  non  ne  fosse  più 
capace  che  di  cinquanta,  o  al  più  di  sessanta  corpi,  secondo  le  altre 
due  precedenti  missioni.  Con  tutto  ciò,  se  la  cosa  non  è  più  intera, 
si  lasci  pure  correre,  perché  se  ne  manderanno  in  Olanda  un  paio 
di  balle,  ancorché  poi  s'abbia  da  aspettar  molto  tempo  per  la  ri- 
scossione del  prezzo,  e  que'  mercanti  desiderarebbero  più  tosto 
far  cambio  d'altri  libri,  che  sborzar  denaro,  o  pure  aspettarne  lo 
smaltimento.  Oltreché  io  non  vorrei  che  in  Italia  ne  rimanessero 
pochi  esemplari,  da  dove  se  ne  spera  più  presto  smaltimento;  e 
per  dirla,  se  ne  può  sperare  miglior  uso  in  Italia  che  in  queste  parti, 
e  spezialmente  nel  Settentrione.  Che  m'importa  che  in  Danimarca, 
Svezia  e  Prussia  si  diffondi  quest'opera?  Il  general  Marnili1  ne 
vorrebbe  empir  l'Ungheria,  dove  molti  pochi  s'intendono  di  let- 
tere. Ed  in  Germania  questi  mercanti  di  Lipsia  e  Nurimberg2  li 
vorrebbero  di  carta  regale.  In  questa  fiera  de'  rimasi  alcuni  si  sono 
venduti,  altri  l'ho  cambiati  colle  opere  di  Goldasto.3  Sicché  se  la 
missione  è  fatta,  non  vi  è  rimedio  ;  nel  caso  non  sia  seguita,  si  re- 
goli secondo  ciò  che  li  scrivo.  E  potrà  avvisare  al  signor  Fraggianni 
che  si  è  levata  ogni  contumacia  co'  Veneziani  ;  affinché  non  si  facci 
angariare  da'  padroni  di  barche  col  pretesto  di  quarantana,  essen- 
dosi come  prima  reso  libero  il  commercio.  Il  signor  baron  Darmon 
non  è  ancor  qui  giunto,  ed  attendo  dal  medesimo  il  consaputo 
foglio  col  libro  che  si  manda  al  signor  Garelli,  se  bene  avrei  meglio 
ricevuto  il  Crescenzio,4  se  costà  è  finita  la  ristampa. 


1.  Francesco  Saverio  Marnili  (1675-1751),  già  al  servizio  della  Spagna, 
passò  nell'esercito  imperiale,  partecipando,  e  distinguendosi,  alle  battaglie 
di  Petervaradino  e  Belgrado  (1 716- 171 7).  Dopo  la  pace  con  i  Turchi  fu 
nominato  da  Eugenio  di  Savoia  governatore  delia  Serbia.  2.  Nurimberg: 
Norimberga.  3.  opere  di  Goldasto:  forse  i  volumi  della  Collectio  constitu- 
tìonum  imperialium . . .,  Francofordiae  ad  Moenum  1 613,  e  dei  Commentarli 
de  regni  Bohemìae  .  . .  iuribus  ac  privilegiis}  Francofurti  ad  Moenum  1719, 
del  celebre  giurista  e  storico  tedesco  Melchior  Goldast  von  Heiminsfeld 
(1578- 1635).  Cfr.  l'elenco  dei  libri  della  biblioteca  viennese  del  Giannone 
(fra  cui,  appunto,  le  opere  del  Goldast)  in  Giannoniana,  pp.  474-5-  4-  # 
Crescenzio  :  si  tratta  di  una  traduzione  del  celebre  Liber  ruralium  commodo- 
rum  del  giudico  bolognese  Pietro  de*  Crescenzi  (1230-1321):  Del  trattato 
dell* agricoltura  . .  .  già  traslatato  nella  favella  fiorentina  . .  .  dallo  'Nferigno 
accademico  della  Crusca  [i.c.  Bastiano  de'  Rossi],  ed  in  questa  nuova  impres- 
sione ripurgato  da  innumerabili  errori .  . .,  Napoli  1724»  in  due  volumi. 
L'opera  sarà  stata  richiesta  dal  Garelli,  nella  cui  biblioteca  infatti  figu- 
ra (cfr.  M.  Denis,  Die  Merkwilrdigkeiten  der  kaiserliches  und  kdnigliches 


II38  LETTERE 

Sta  bene  che  abbia  rigalato  al  signor  regente  Solane»  *  il  corpo 
de*  libri,  dal  quale  ricevei  risposta  ;  e  molto  più  godo  in  sentire  che 
abbia  riscossi  li  docati  cento  da  Civitclla  :  ciò  che  vi  dovrà  spingere 
ad  invigilare  a  gli  altri  nostri  interessi. 

In  questa  settimana  ricevo  una  lettera  dal  signor  Giovanni  di 
Napoli,  al  quale  non  rispondo,  perche  con  molto  appretto*  richiede 
la  soddisfazione  della  consaputa  somma.  In  questo  affare  deve  uni- 
camente attendere  se  con  questa  dilazione  si  porta  travaglio  ed  an- 
gustia alla  nostra  Isabella,3  perche  se  costei  non  ò  molestata,  potrà 
ben  il  signor  Giovanni  aspettare  a  tempo  più  proporzionato,  non 
essendo  ora  in  istato  di  levarsi  denaro,  ma  più  tosto  ad  accumularlo 
per  qualunque  caso  che  avvenisse.  Forse  non  s'avrà  da  tardar  molto 
per  poterci  far  migliori  conti,  e  per  ciò  per  ora  bisogna  aver  soffe- 
renza. 

Mi  riverisca  il  signor  abate  Belvedere,  il  quale  a  quest'ora 
avendo  ricevuto  il  privilegio  del  consaputo  ufficio,  s'avrà  levato 
tutt'i  vani  sospetti  che  l'ingombravano  la  mente.  Il  signor  Longo- 
bardo e  buono  amico,  e  per  l'abate  non  pur  vorrebbe,  ma  molto 
più  potrebbe  spendere  somme  maggiori.  Vadi  pure  a  sollazzarsi  in 
Chiaia,  e  lo  pregherà  da  mia  parte  che  mi  saluti  spesso  il  cotanto 
da  me  amato  Posilipo. 

Sento  con  piacere  che  al  signor  Romolo  siasi  data  l'incombenza 
per  ricuperare  la  risposta  dal  signor  marchese  di  Misurata,  sapendo 
la  sua  attività,  onde  potrà  includerla  nella  mia  quando  l'avrà. 

Non  ho  potuto  contener  le  risa  in  leggendo  il  nuovo  matrimonio 


gardllschcn  ojjentliche  Bibliothek  avi  Thcrv$ianot  Wicn  1780,  p,  458). 
1.  Francisco  Solmies:  vedi  la  nota  %  a  p.  102.  Cfr.  anche  quanto  il  Giannotto 
scriverà  al  fratello  il  5  agosto  1730  (B.N.R.,  F.V.F.  358,  ce.  41^-43):  «11 
nuovo  presidente,  siccome  mi  disse,  partirà  verso  hi  line  di  settembre,  o 
metà  di  ottobre;  gli  raccomandai  caldamente  la  sua  persona,  dicendomi 
conoscervi  molto  bene,  e  che  io  stassi  pur  sicuro  che  vi  distinguerà  sopra 
gli  altri  e  ne  avrà  particolar  protezione.  Sappiatevene  dunque  profittare, 
perché  gli  Spagnoli  non  sogliono  riuscire  cotanto  infruttuosi  come  i  nostri 
nazionali.  Mi  regalò  il  suo  libro,  ed  io  non  mostrandomi  inteso  d'averlo 
letto,  gli  resi  le  grazie,  e  me  ne  sbrigai  con  parole  ceremoniali,  fra  me  stesso 
dicendo  che  quel  libro  dovea  porlo  in  rischio  di  farli  perdere  tutto  il  fatto  ; 
ma  come  che  di  queste  cose  non  si  tien  conto,  egli  poteva  scriver  peggio, 
che  pur  sarebbe  stato  lo  stesso».  A  proposito  di  questo  libro  del  Selline», 
De  iure  et  edicto  praetoris>  Vindobonae  1730,  cfr.  Vita,  qui  a  p.  xy8. 
a.  appretto  :  affettazione  (francesismo).  3.  Isabella  Spinelli,  contessa  di  Bo- 
valino  e  benefattrice  del  Giannone,  di  cui  questi  difese  numeroso  cause 
(cfr.  Vita,  qui  a  p.  58). 


LETTERE  II39 

del  settemplario.1  Povero  cavaliere;  e  gran  torto  veramente  si  è 
fatto  ad  un  nipote  del  duca  di  Brindisi.  Credo  che  sua  sorella  avrà 
molta  prudenza  e  conoscerà  il  suo  stato,  e  perciò  l'obbligazione  che 
deve  professarmi;  e  se  vorrà  prender  partito  di  maritarsi  tanto  li 
farò  conoscere  che  non  sono  stati  mal  impiegati  i  suoi  travagli; 
ed  io  anche  da  qui  potrei  procurarle  sposo  d'onorata  condizione 
che  pensa  passare  in  Napoli.  Fatene  passar  parola  dal  signor  Ono- 
frio,2 ma  con  riserba,  che  ciò  non  provenisse  da  me,  per  iscorgere 
il  suo  animo  ;  ed  intanto  procurerà  tenerla  soddisfatta  e  non  darle 
occasione  di  disgusti. 

Al  caro  signor  don  Francesco  Mela  mille  saluti,  come  alli  signori 
Onofrio,  Cailò,  e  tutti  i  buoni  amici  ;  e  non  si  dimentichi  con  ispe- 
zialità  risalutare  il  signor  giudice  Cirillo;  e  godendo  che  il  vecchio 
padre  passi  bene,  sicome  gli  altri  di  Vesti,  resto  infine  caramente 
abbracciandolo. 

Appunto  parte  il  signor  Gemelli,  al  quale  ho  pregato  che  procu- 
rasse di  non  incontrarsi  col  baron  Darmon,  affinché  non  lo  facesse 
qui  venire  con  sé  funesto  augurio.  Parte  ostinato  più  che  mai  a  non 
volersi  prendere  i  dispacci,  e  riuscirà  gustoso  in  sentirlo  parlare 
del  misero  avanzo  della  nazione. 


vili 

A  CARLO  VI  •  VIENNA 

[fiovembre  1724.] 

Pietro  Giannone  avvocato  napolitano  posto  a  piedi  di  V. M.C.C, 
umilmente  l'espone  com'è  già  un  anno  e  mezzo  che  si  truova  in 
questa  città  di  Vienna,3  dove  fu  costretto  portarsi  per  isfuggire  le 


x.  settemplario:  dovrebbe  trattarsi  del  fratello  di  Angela  Elisabetta  Castelli, 
nominata  infatti  più  sotto  come  «sua  sorella».  2.  Onofrio:  probabilmente 
Onofrio  Palumho  (morto  nel  173 1),  che  assolveva  alle  funzioni  di  inter- 
mediario tra  il  Giannone  e  la  sua  amante  rinchiusa  m  monastero  (cfr.,  a 
p.  xx 47,  la  lettera  dcll*xx  novembre  1724). 

VIII.  À.S.T.,  manoscritti  Giannone>  mazzo  11,  ins.  15,  A,  3.  Autografo; 
bella  copia  di  supplica  a  Carlo  VI  (e  cfr.  Giannoniana,  pp.  431-3)-  - 
3.  com'h  #iVì . . .  Vienna:  il  Giannone  giunse  a  Vienna  ai  primi  di  giugno  del 
17*3;  la  supplica  dovrebbe  dunque  cadere  sul  finire  del  1724.  Poiché  in 
csna  si  accenna  chiaramente  a  difficoltà  nella  riscossione  del  sussidio  (con- 


II40  LETTERE 

persecuzioni  d'alcuni  ecclesiastici,  e  spezialmente  de'  frati,  li  quali 
mal  soffercndo  che  nella  sua  Istoria  civile  del  regno  di  Napoli  avesse 
posto  in  chiaro  le  supreme  regalie1  che  V.  M.  tiene  in  quel  Regno, 
e  difesa  la  vostra  regal  giurisdizione  con  iscovrirc  i  loro  attentati 
sopra  di  quella,  ed  i  loro  immensi  acquisti  de*  beni  temporali  in 
pregiudizio  gravissimo  dell'erario  regale  e  de'  patrimoni  de'  sud- 
diti di  M.  :  l'addossarono  mille  imposture,  e  sopra  tutto  che  i  suoi 
libri  contenessero  molte  eresie.  Ma  dapoi  la  proibizione  distesa  de' 
medesimi  fatta  in  Roma  gli  smonti  ;  poiché  quantunque  la  corte  di 
Roma  abbia  in  orrore  simili  opere,  che  difendono  li  regali  diritti,  e 
manifestano  le  sorprese  della  giurisdizione  ecclesiastica,  riputando- 
le tutte  per  temerarie,  scandalose,  scismatiche,  erronee,  e  che  sen- 
tano d'eresie;3  nulladimanco  avendoli  rigorosamente  fatteli  esa- 
minare da'  suoi  qualificatori,3  non  han  potuto  in  quelli  qualificare 
proposizione  alcuna  per  eretica:  ciocché  sicuramente  avrebber  fatto 
per  la  prontezza,  che  ne  tengono  nelle  proibizioni  di  consimili  libri; 
sicome  si  vide  gli  anni  a  dietro  nelle  proibizioni  de'  libri,  che  si 
diedero  alla  luce  per  difesa  de'  diritti  di  V.  M.  sopra  i  benefìci 
del  Regno  da  doversi  conferire  a  nazionali.4  lui  avendo  il  suppli- 
cante, per  maggiormente  chiarire  la  sua  innocenza,  presentati  a 
V.  M,  i  libri  suddetti  a  cui  erano  dedicati  e  consegniti,5  l'espose  an- 


cessogli  nell'ottobre  di  quell'anno:  cfr.  Vita,  qui  a  p.  120)  e  si  torna  ad 
insistei  e  per  il  conferimento  di  una  carica,  si  può  ritenere  che  in  essa  siano 
ripetute  le  richieste  avanzate  a  voce  dal  Giannone  nel  corso  della  seconda 
udienza  che  egli  ottenne  da  Carlo  VI,  negli  ultimi  giorni  del  novembre  del 
1724  (cfr.  Vita,  qui  a  p.  121).  1.  le  supreme  regalie:  1  diritti  della  giuri- 
sdizione reale.  2.  temerarie .  . .  eresie:  Giannone  parafrasa  qui  il  decreto 
di  condanna  del  Sant'Uffìzio  (1  luglio  1723):  «  temerarias,  scandalosa*}, 
seditiosas  . . .  erroncas,  schismaticas  atquc  impias  et  haereses  ut  minimum 
sapientcs».  Cfr.  Panzini,  p.  28,  nota.  3.  qualificatori:  quei  teologi,  cioè, 
incaricati  di  quali lìcarc  la  natura  di  proposizioni  deferite  ad  un  tribunale 
ecclesiastico.  4.  sicome  . .  .  nazionali:  subito  dopo  l'occupazione  austriaca 
del  regno  di  Napoli  (7  luglio  1707),  tra  le  grazie  che  vennero  chieste  al 
nuovo  viceré,  Georg  Adam  von  Martinitz,  vi  fu  quella  che  tutti  i  benefìci 
ecclesiastici  dovessero  essere  conferiti  «a  regnicoli,  escludendo  li  franatesi 
e  di  qualsivoglia  natione»  (cfr.  Diario  napoletano  dal  J700  al  xjoi),  in 
«Archivio  storico  per  le  Provincie  napoletane»,  X885,  p.  406).  In  appoggio 
a  questa  richiesta  videro  la  luce  tre  importanti  scritture  che  furono  con- 
dannate da  Clemente  XI:  vedi  la  Vita,  qui  a  p,  64,  e  le  note  1,203,1" 
p.  65  e  nota  x.  Cfr.,  inoltre,  L.  Marini,  Pietro  Giannone  e  il  giannonismo 
a  Napoli  nel  Settecento,  Bari  1950,  pp.  61  sgg.  5.  *  libri. .  »  cowegratii 
i  quaranta  libri  dell'Istoria  cknle  erano  infatti  dedicati  all'imperatore.  Por 
la  storia  della  loro  presentazione  cfr.  Vita,  qui  alle  pp.  96  sgg. 


LETTERE  II4I 

cora  alla  censura  non  meno  de'  reggenti  che  M.  V.  tiene  nel  Consi- 
glio Collaterale  di  Napoli,  che  de'  reggenti  che  qui  compongono 
il  supremo  Consiglio  di  Spagna,1  e  di  tutti  gli  uomini  dotti  e  disap- 
passionati, affinché  o  gli  scovrissero  gli  errori,  accioché  se  ne  po- 
tesse emendare;  ovvero  notassero  i  luoghi  ove  credono  avere  il 
supplicante  trascorso,  perché  l'avrebbe  fatto  chiaramente  vedere 
che  tanto  ò  lontano  che  la  sua  opera  dovesse  riputarsi  licenziosa, 
che  più  tosto  moderata  e  sobria  debba  stimarsi  per  rinfinite  cose 
che  si  sono  risparmiate  all'ordine  ecclesiastico.  Ma  sono  scorsi  or- 
mai due  anni,  che  si  è  quella  data  alla  luce,3  e  non  solo  non  si  è 
veduto  persona  che  avesse  potuto  mostrare  i  falli  de'  quali  era 
imputata,  ma  tuttavia  seguitamente  leggendosi,3  quasi  tutti  si  sono 
ricreduti,  essere  state  solenni  imposture  d'alcuni  frati,  li  quali  per 
loro  particolar  interesse  cercavano  discreditarla. 

Ma  non  perciò,  S.  M.,  si  è  potuto  riparare  al  danno  gravissimo, 
che  per  queste  false  accuse  ha  il  supplicante  patito,  avendo  dovuto 
abbandonare  la  sua  professione  d'avvocato  ch'esercitava  in  Napoli, 
e  vivere  lontano  dalla  sua  patria  in  estraneo  paese,  dove  li  è  con- 
venuto per  suo  sostentamento  consumare  le  proprie  sostanze,  le 
quali  essendo  molto  tenui  non  poteano  lungamente  durare,  sicché 
non  si  veda  ora  ridotto  in  un  estremo  bisogno,  senza  i  mezzi  neces- 
sari di  potere  sostentare  la  sua  vita  secondo  la  sua  condizione; 
né  altra  fiducia  l'è  rimasa,  se  non  nella  benificenza  e  magnanimità 
di  V.  C.  e  C.  M.,  la  quale  compassionando  questo  lagrimevole 
ed  infelice  suo  stato,  voglia  sollevarlo  da  tante  angustie  nelle  quali 
si  ritrova.  E  non  avendo  havuta  la  sorte  nella  prossima  provista  di 
tre  piasse  sopranumcrarie,  una  di  presidente  della  Regia  Camera 
di  Napoli,  e  due  di  consigliere  di  S.  Chiara,  d'essere  consolato, 
sicome  ne  portò  riverenti  suppliche  alla  M.  V.,  ma  essendosi  com- 


x.  r espose ...  Spagna:  su  questa  iniziativa  del  Giannonc  cfr.  Bertelli, 
pp,  187  sgg.  2.  Ma  sono  . .  .  luce:  si  è  già  detto  come  questa  supplica 
debba  datursi  sul  finire  del  novembre  1724:  poiché  l'Istoria  civile  vide  la 
luce  nel  marzo  1723  (cfr.  Vita,  qui  a  p.  79)  è  evidente  che  questa  dichiara- 
zione del  Giannonc  è  imprecisa.  D'altra  parte  si  tenga  presente  che  la 
richiesta  per  il  permesso  di  stampa  fu  avanzata  «verso  la  fine  dell'anno 
1722»  {Vita,  qui  a  p.  78).  3.  seguitamente  leggendosi:  cfr.  quanto  scriverà 
nell'autobiografia  {Vita,  qui  a  p.  81):  «leggendosi  questa  mia  opera  a 
pezzi,  quasi  tutti  sì  arrestavano  a  gli  ultimi  capitoli  de'  libri  ove  trattasi 
della  politia  ecclesiastica».  Da  qui  questa  precisazione  del  leggersi  la 
«uà  opera  «  seguitamente  »,  e  non  già  a  brani  staccati. 


II4-2  LETTERE 

piaciuta  conferirle  ad  altri  soggetti,1  è  venuto  il  supplicante  a  ri- 
maner deluso  delle  sue  speranze,  e  di  poter  essere  di  presente  im- 
piegato a  qualche  altro  diverso  impiego  di  suo  regal  serviggio,  ed 
intanto  privo  del  suo  necessario  sostentamento. 

Ricorre  per  ciò  alla  somma  clemenza  della  M.  V.  e  devotamente 
la  priega  che,  insin  che  piacerà  alla  M.  V.  consolarlo,*  voglia  intan- 
to stabilirli  qui  un  decoroso  sostentamento,  e  condegno,  non  già  a' 
suoi  meriti,  ma  alla  celebrata  magnanimità  della  M.  V.,  affinché 
possa  sostentar  la  sua  povera  persona;  e  per  tal  cileno  dar  gli  or- 
dini opportuni,  che  se  li  somministri  per  sicure  vie,  o  con  dar  pre- 
cisi ordini  in  Napoli,  perché  la  somma  che  la  M.  V,  si  degnerà 
assignare  al  supplicante  gli  sia  qui  in  Vienna  rimessa  dal  delegato 
del  Consiglio  di  Spagna  nel  medesimo  tempo  che  per  quartali 
rimette  il  soldo  destinato  per  sostentamento  del  sudetto  Consiglio 
di  Spagna:3  ovvero  per  altra  maggior  pronta  esecuzione  che  la 
M.  V.  stimerà  più  opportuna  al  caso  che  lo  richiede;  pregandola 
a  riguardare  che,  trattandosi  d'alimenti,  non  permetterà  la  M,  V. 
che  abbia  il  supplicante  a  sofferire  maggior  disagio,  e  che  altri 
possano  con  i  soliti  sutterfugi  rendere  elusone  le  henignissime 
grazie  della  M.  V.  trattandosi  di  proprio  sostentamento  che  non 
puoi  patire  dilazione  alcuna.  Cosi  s'affida  nella  clemenza  della  M. 
V.  dalla  quale  lo  riceverà  a  grazia  singolarissima.  Ut  deus. 

IX 
A  CARLO   GIANNONE  •  NAPOLI 

Vienna  1 1  novembre  i  JJ.}. 

In  risposta  della  sua  ricevuta  in  questa  settimana  sono  a  dirli  che 
le  consapute  quattro  halle  non  solo  sono  felicemente  giunte  a  Fiu- 
me, ma  il  signor  Benzoni  sin  dalla  settimana  passata  avvisò  averle 

i.  E  non  avendo  .  . .  soggetti:  su  tutto  questo  cfr.  la  lettera  n  Carlo  in  data 
il  novembre,  edita  qui  di  seguito.  2.  consolarlo:  assegnandoli,  cioè,  una 
carica  in  un  tribunale,  come  il  Giannonc  chiedeva  e  continuerà  in  seguito 
a  postulare.  3.  con  dar  precisi . , .  Consiglio  di  Spagna:  correzione  latta  a 
margine  (con  segno  di  richiamo  posto  dopo  «predai  ordini»).  Nella  prima 
stesura  (ma  le  parole  non  sono  poi  state  cassate)  aveva  scritto:  «o  con  dar 
precisi  ordini  al  delegato  del  Consiglio  di  Spagna,  che  tiene  in  Napoli,  inca- 
ricandogli di  rimettere  il  denaro  insieme  con  quello  deputato  a*  ministri,  che 
compongono  questo  supremo  Consiglio»;  quartali:  parti  di  uno  stipendio. 

IX.  B.N.R,,  F.V.K.  358,  ce.  I33-X35*. 


LETTERE  II43 

già  incaminate  per  Vienna,  e  le  sto  aspettando  di  momento  in  mo- 
mento. V'avvisai  la  settimana  scorsa  aver  ricevuta  la  lettera  di 
cambio  delli  fiorini  trecento;  ora  soggiungo  di  dover  di  nuovo 
ringraziare  il  signor  Torre,1  perché  questi  signori  Palm2  a  chi  egli 
la  indirizzò,  avendogli  egli  con  lettera  a  parte  scritto  che,  non 
ostante  essere  a  giorni  otto,  la  pagassero  subbito,  non  solo  non 
hanno  avuta  difficoltà  di  farlo,  ma  si  sono  offerti  con  molta  genti- 
lezza di  quanto  potea  occorrermi  per  l'affettuosa  lettera  scritta 
dal  medesimo,  il  quale  da  questi  mercanti  è  stimato  il  più  puntuale 
e  da  bene;  di  che  io  molto  mi  sono  rallegrato,  vedendo  che  lo  ten- 
gono in  assai  miglior  stima  che  tutti  gli  altri  mercanti  napoletani. 
In  gran  parte  la  mia  scrittali  la  passata  settimana  l'avrà  tolta  la 
costernazione  nella  quale  si  vedea  posto,  perché  nelle  passate  pro- 
viste non  si  sia  fatta  di  me  menzione  alcuna.  Potrà  ora  in  mio  nome 
dire  ai  curo  signor  Cirillo  che  continui  a  salutarmi;  ed  io  non  li 
scrivo  a  parte  perché  so  la  sua  cordialità,  che  non  va  cercando  tali 
cose,  e  per  ciò  questa  mia  intendo  che  sia  comune,  ed  anderà  a 
riverirlo  in  mio  nome  e  dirli  che  io  non  so,  né  voglio  passar  colla 
sua  amabilissima  persona  li  soliti  uffici  di  ringraziamenti  e  le  solite 
forinole  d'eterne  obbligazioni,  sparger  il  sangue,  e  cose  simili. 
Siano  lontane  da  noi  simili  affettazioni;  il  cuore  e  l'opera  parlerà 
per  noi.  Oli  dica  che  fra  gli  altri  devo  veramente  eterna  obbliga- 
zione al  signor  Garelli,  che  da  dovvero  pose  colle  spalle  al  muro 
il  marchese  Perlas,  il  quale  di  lui  ha  tutto  il  riguardo,  sapendo  che 
continuamente  sta  alle  orecchie  di  Cesare.  L'istoria  sarebbe  lunga 
a  raccontarsi.  Io  ho  avuta  in  questa  occasione  le  più  pessime  avver- 
sità, che  si  potevano  immaginare.  Un  impegno  positivo  del  papa 
istesso  per  Ram.3  Il  cardinal  viceré,4  che  dava  alle  smanie  per  San- 


1.  Torre  1  forno  l'autore  dell'operetta  De  cambiìs,  compresa  tra  i  volumi  della 
biblioteca  del  (Jiunnone  (cfr.  Giannoniana,  p.  475),  e  da  questi  citato  come 
fonte  autorevole  in  materia  cambiaria  nella  lettera  a  Carlo  del  16  novembre 
1726  (si  veda  il  brano  riprodotto  alla  nota  di  p.  1158).  Da  altre  lettere  del 
(  Jiunnone  risulta  comunque  che  il  nome  di  questo  signor  Torre  è  Francesco. 
2. 1  Palm  erano  mercanti  viennesi  presso  i  quali  il  Giannone  effettuava  le 
rimesse  in  denaro.  Un  Johann  David  Palm  figurava  tra  i  segretari  della  Ca- 
mera delle  finanze  di  Corte:  cfr.  M.  BRAtTBACii,  Geschichte  und  Abenteuer. 
Gestalten  um  den  Prinxen  Eugen,  Munchen  1950,  pp.  198  sgg.  3.  Ram: 
forse  quel  Ramone,  amico  del  cardinal  Coscia,  imprigionato  alla  morte  di 
papa  Benedetto  XIII.  Cfr.  L.  v.  Pastor,  Storia  dei  papi,  xv,  Roma  1933, 
p.  642.  4.  Il  cardinal  viceré:  Friedrich  Michael  von  Althann  (cfr.  la  nota 
2  a  p.  78). 


1144  LETTERE 

toro,  dichiarandosi  che  avrebbe  lasciato  il  governo,  se  soffre  que- 
sto affronto,  tanto  più  che  ha  veduto  la  ripugnanza  di  questo 
Consiglio  col  qual  ha  ragione  di  cozzare  alla  svelata,  perché  ha 
chi  sopra  sostiene  le  sue  parti.  Il  reggente  Aguirre,1  che  andava 
esclamando  e  movendo  compassione  ch'essendo  vecchio  e  cadente 
bisognava  rimaner  collocate  le  sue  povere  figlie.  Tutto  il  Consiglio 
impegnato  per  Cammerota3  tante  volte  escluso  con  tutto  che  fosse 
stato  sempre  nominato  in  primo  luogo.  Dall'altra  parte  per  me 
v'erano  impegni  forti  d'un  personaggio  d'altissima  gerarchia,  ed 
il  signor  Garelli  non  stava  colle  mani  alla  cintola,  sempre  premendo 
il  marchese  Pcrlas  parlandole  con  efficacia  e  nerbo.  Il  marchese 
Doria  inviato  di  Genova,  che  me  l'obbligai  per  un'allegazione  che 
da  me  volle  in  una  causa  àijìdei  commisso  per  la  duchessa  di  Nivers, 
che  dovea  mandarsi  in  Francia,  come  si  mandò,  stretto  amico  di 
Pcrlas,  anche  mi  favoriva.3 

Conosca  ora  il  caro  signor  Cirillo  i  fieri  contrasti  e  compren- 
derà, che  se  il  signor  Garelli  non  fosse  stato  di  ciucila  cordialità 
ed  efficacia,  ch'è  sua  propria,  noi  sariamo  stati  interamente  assor- 
biti in  questa  sinistra  occasione,  ove  s'erano  scatenati  tanti,  Non 
si  crede  da  chi  e  fuori  di  questa  Corte  quanto  nel  mondo  oggi  regna 
l'ambizione:  tutti,  chi  per  un  verso,  chi  per  un  altro,  vogliono  ma- 
gistrati, ed  il  meno  che  si  bada  è  l'abilità  del  pretensore.4  Final- 
mente il  marchese  Pcrlas  vedendosi  cosi  stretto,  né  potendo  sfug- 
gire l'impegni  altrui,  perché  forse  erano  quelli  che  maggiormente 
ridondavano  in  suo  profitto,  cercò  di  soddisfar  tutti,  e  pensò  cosi 
quietare  coloro  che  per  me  l'assistevano,  che  non  potendo  in 
quest'occasione  esser  io  promosso  per  la  mala  situazione  delle  cose, 
m'avrebbe  fatto  assicurare  da  S.  M.  che  per  la  prima  vacanza  io 
sarei  stato  provisto  d'un  posto  riguardevole,  ed  intanto  m'avrebbe 


i.  Il  reggente  Aguirre:  molto  probabilmente  si  tratta  di  Joseph,  e  non  del 
fratello  Domingo  (per  cui  si  veda  la  nota  *  a  p.  198).  2,  L'avvocato  napo- 
letano Ferdinando  Cammerota  tenne  un  posto  nel  tribunale  di  Santa  Chiara 
fino  al  1725,  in  qualità  di  consigliere  soprannumerario  insieme  a  Ferdinan- 
do Porcinari  (cfr.  in  Giannaniana,  pp.  436-8,  la  supplica  dei  Giannone,  in 
data  14  dicembre  1725,  al  marchese  di  Rinlp).  3.  Jl  marchese  .  *  .favoriva: 
cfr,  quanto  lo  stesso  Giannone  scrive  nella  sua  Vitay  qui  ap.  115  e  la  nota 
ivi.  4.  Conosca  . .  ,pretemorc:  il  x6  marzo  1726  il  Giannone  avrebbe  con- 
fessato al  fratello:  «contro  il  mio  naturale  mi  sono  avevate  a  far  tanto  del 
corteggiano,  che  non  me  l'avrei  mai  creduto,  o  che  da  me  «tesso  avessi 
potuto  promettermelo»  (in  JJ.N.R.,  F.V.K.  358,  e,  247), 


LETTERE  II45 

fatta  mercede  di  fiorini  mille  l'anno  da  pagarmeseli  qui  puntual- 
mente mese  per  mese,1  In  conformità  di  ciò,  vedendo  che  non  si 
potea  far  altro,  calò  la  settimana  passata  il  decreto  di  S.  M.  come 
vi  scrissi,  il  quale  si  è  già  ora  qui  pubblicato,  onde  non  occorre  ser- 
bar più  segreto.  Il  decreto  non  può  esser  concepito  con  formole 
più  decorose  e  per  me  onorevoli,  oltre  la  promessa  geminata  di 
S.  M.  di  provedermi  di  posto  nella  prima  occasione.  I  miei  amici 
che  m'han  favorito  avrebbero  voluto  che  in  vece  di  mille  fiorini, 
si  fosse  S.  M.  steso  a  mille  talleri,  supponendo  che,  dovendomi 
ora  mantener  con  carozza,  questi  non  bastano.  Ma  io  l'ho  risposto 
che  non  bisogna  consumar  altri  impegni  per  Taugumento,  perché 
a  me  bastano,  ma  aspettar  la  congiuntura  della  provista  promessa 
da  S.  M.  ed  ivi  serbargli,  che  sarà  migliore,  e  così  si  farà,  perché  si 
è  fatto  il  conto  che  trenta  fiorini  il  mese  qui  bastano  per  mantener 
una  carozza.  Io  di  tutto  ciò  ne  ho  reso  le  debite  grazie  al  signor 
Garelli,  il  quale  ne  ha  goduto  tanto,  come  se  io  fossi  stato  suo  fi- 

1.  Finalmente  . . .  mese:  cfr.  in  L.  Marini,  //  Mezzogiorno  d'Italia  di  fron- 
te a  Vienna  e  a  Roma  e  altri  studi  dì  storia  meridionale,  Bologna  1970, 
pp.  270-1,  la  lettera  del  25  novembre  1724  del  nunzio  Girolamo  Grimaldi 
a  Fabrizio  Paulucci  di  Calboli:  «Fu  detto  ne*  giorni  passati  che  l'impera- 
tore avesse  assegnato  con  suo  diploma  una  pensione  a  Pietro  Giannone  .  .  . 
Io  ne  ho  parlato  seriamente  con  il  signor  marchese  di  Rialp  ...  ed  egli  mi 
ha  risposto  che  . . .  Sua  Maestà  ha  ordinato  che  gli  si  paghino  ottanta 
fiorini  il  mese».  Ma  secondo  il  Grimaldi  per  il  Giannone  il  «posto  riguar- 
devole» non  sarebbe  mai  stato  trovato  (il  che,  puntualmente,  si  verificò).  - 
In  margine  la  seguente  nota  di  Giovanni  Giannone  (ce.  134-134^):  «Ri- 
flessione come  sicgue.  Ecco  quanto  si  vede  nel  mondo  un'opera  che  con- 
tiene la  parte  più  delicata  qual'è  la  giurisdizione  del  principe,  ed  in  premio 
di  ciò  so  li  concede  fiorini  mille I  O  memorando  esempio!  Voglio  portare 
questo  esempio  in  confronto  di  quello  accadde  all'abate  Galliano,  nipote 
di  quel  dotto  Galliano  capellan  maggiore  [Ferdinando  Galiani,  1728- 1787, 
l'autore  del  trattato  Della  moneta  e  dei  Dialogues  sur  le  commerce  des  bleds, 
era  nipote  di  Celestino  Galiani,  1 681 -1735,  nel  173 1  arcivescovo  di  Ta- 
ranto, nel  1732  cappellano  maggiore  del  Regno,  poi  arcivescovo  di  Tcssa- 
lonica].  Questi  essendosi  portato  ad  osservare  il  nostro  Vesuvio  lungi  dalla 
città  di  Napoli  pochi  miglia,  in  questa  voragine  fatta  dalla  Terra  si  vede 
continuamente  eruttar  roba  bituminosa,  che  poi  indurita  rassembra  una 
pietra  durissima  dalla  quale  ne  viene  lastricata  la  città  intiera  di  Napoli  ; 
qui  s'osserva  ancora,  e  proprio  intorno  alla  bocca  di  detto  Vesuvio  una 
varietà  di  pietre  di  vari  colori  che,  poste  in  bello,  rappresentano  tante  pietre 
orientali.  Di  queste  ebbe  il  pensiero  detto  abate  di  farne  una  raccolta  e 
fattoci  sopra  delle  medesime  una  erudita  scrittura  ne  fece  un  dono  al 
sommo  pontefice  Lambcrtino,  Benedetto  XIV.  Questo  santissimo  papa  che 
fece  per  gratificare  il  predetto  abate  ?  gli  concedo  un  beneficio  annuale  di 
scudi  sei  cento  l'anno.  Dunque  meritamente  S.  S.  trova  chi  per  lui  difenda 
i  suoi  dritti»* 


U46  LETTKKE 

gliuolo;  c  perciò  priego  il  caro  signor  Cirillo  di  scrivere  al  medesimo 
una  lettera  affettuosa  di  ringraziamenti,  e  nell'istesso  tempo  signi- 
ficarli che  io  unicamente  da  lui  riconosco  questa  grazia  concedu- 
tami da  S.  M.  Li  scriva  per  tanto  di  buon  inchiostro,  e  fatevi  dar 
la  lettera  con  acchiuderla  dentro  la  mia,  affinché  possa  io  consi- 
gliarla nelle  sue  proprie  mani. 

Il  signor  Riccardi  appunto  hier  sera  fu  introdotto  dal  signor 
Garelli  a  baciar  la  mano  a  S.  M.  ed  a  licenziarsi,  e  mi  raccontò 
quel  che  li  disse  S.  M.,  spezialmente  se  in  Napoli  v'erano  altri 
ni.  s.,  al  quale  rispose  che  bisognava  avere  un  ni.  s.  raro,  che  io 
citava  nella  mia  Istoria,  ed  era  il  codice  delle  leggi  longobarde, 
che  si  conserva  nel  monastero  della  Trinità  della  Cava,1  e  con  taroc- 
casene si  parlò  di  me,  e  S.  M.  applaudiva  quanto  il  signor  Ric- 
cardi di  me  e  della  mia  opera  li  raccontava  in  mio  onore,  raeeom- 
mandandogli  che  giunto  in  Napoli  proceurassc  averlo,  sicome  che 
dicesse  al  cardinal  viceré  che  sollecitasse  li  denari  destinati  per 
questa  Imperiai  Biblioteca.  Io  l'entrante  settimana,  ovvero  la  se- 
guente, sarò  introdotto  pure  a  baciarli  la  mano  ed  a  ringraziarlo,2 
sicome  espressamente  me  l'incaricò  il  marchese  Perlas;  e  dimani 
mattina  devo  passare  gli  stessi  uffici  col  signor  principe  Kugenio.3 
Salutatemi  caramente  i  nostri  signori  Capasso  ed  Ippolido,  con 
dirli  che  qui  si  suda  freddo  ed  il  meno  che  s'attende  è  la  perizia 
delle  scienze.  E  Dio  sa  quanto  si  è  stentato  di  ridurre  lo  stato  delle 
mie  cose  a  quello  che  vi  ho  scritto.  Bisogna  però  durare,  che  final- 
mente s'arriva. 

Al  caro  signor  Onofrio  Palumbo  mille  grazie  delli  tanti  ineom- 
modi,  che  per  me  s'ha  presi,  ed  altre  tante  al  signor  don  Francesco 
Mela,  per  quelli  che  per  sua  gentilezza  si  prenderà  in  ridurre  a 
miglior  consiglio  l'ostinazione  che  s'ha  d'andare  in  casa  de'  fra- 
telli. Io  dall'acchiusa  risposta  che  le  fo  non  posso  approvarlo,  per- 
ché sarebbe  lo  stesso  che  minarsi,  e  non  trovar  più  stato,  che  sa- 
rebbe facile  trovarlo  stando  in  monastero.  Spero  che  ora  che  sente 
che  S.  IVI.  m'ha  impiegato  in  Vienna  al  suo  servizio  0  che  il  mio  ri- 


x.  il  codice  . . .  Cava:  vedi  la  nota  3  a  p.  429.  z.  Io  V mitrante . . .  rht#ra<« 
zìarlo  ;  il  Giannone  fu  ricevuto  dall'imperatore  alla  fine  di  novembre.  Cfr. 
la  lettera  a  Carlo  del  2  dicembre,  in  B.N.R.,  RV.K,  358,  ce.  t38t;-*4ot>, 
e  Vita,  qui  a  p.  izi.  3,  devo  . . .  Eugenio  :  la  visita  al  prìncipe  Kugenio  e 
descritta  in  una  lettera  a  Cario  del  18  novembre,  in  IJ.N.R*,  F.V.K.  358, 
ce.  1350-138U. 


LETTERE  II47 

torno  Dio  sa  quando  sarà,  voglia  mutar  parere,  onde  bisogna  batte- 
re su  questo,  e  stimo  facile  che  possa  il  signor  Onofrio  persuaderne 
suo  fratello,  che  con  un  bicchiere  di  buon  vino  si  riduce  a  ciò  che 
si  vuole.  Perciò  bisogna  guardarsi  di  non  farla  uscir  dal  monastero, 
perché  sarebbe  la  sua  mina.  Attendo  ch'effetto  farà  l'acchiusa,  la 
quale  priego  il  signor  Onofrio  voglia  consignarle  nelle  sue  proprie 
mani,  e  far  egli  poi  il  resto  a  viva  voce;1  di  che  anche  vivamente  ne 
priego  il  signor  Mela,  che  caramente  riverisco. 

L'allegazione  che  ho  fatta  per  li  creditori  di  Dubii  e  Regazzi 
contro  li  Bolza,  non  creda  che  sin'ora  m'abbia  fruttato  cos'alcuna: 
lo  feci  ad  istanza  del  signor  don  Luzio  di  Sangro  e  del  signor  Dat- 
toli,^  che  me  ne  diedero  incombenza,  e  mi  son  rimesso  alla  loro 
cortesia;  perché  qui  è  mestieri  non  molto  conosciuto  e  molto  meno 
pagato.  L'altra  che  feci  per  Doria  fu  ben  impiegata,  perché  m'ha 
molto  giovata  l'amicizia  di  costui  col  marchese  Rialp  ;  e  spero  che 
molto  più  mi  gioverà  in  appresso.  Ne  feci  un'altra  per  il  marchese 
Spinola,  ma  essendo  un  genovese  che  in  avarizia  si  è  reso  assai 
celebre  :  questi  poi  partì  per  Genova,  con  lasciarmi  carico  di  lodi 
e  di  promesse,  che  tosto  sparirono,  né  a  me  conveniva  farne  ro- 
more. 

Salutatemi  il  signor  marchese  di  Longano,  con  dirli  che  non  mi 
dimenticherò  di  servirlo;  sicome  ora  che  ha  tanta  agitazione  potrà 
pensare  più  seriamente  a  quanto  mi  scrisse  del  nostro  Tura,3  che 
potrà  «alutarlo,  e  darli  parte  della  risoluzione  di  S.  M.  presa  per 
me,  con  salutare  la  nostra  Vittoria  con  tutti  di  casa,  di  cui  goderò 


x.  ridurre  .  .  .  voce:  come  si  ricorderà,  l'amante  del  Giannone,  Angela  Eli- 
sabetta Castelli,  era  stata  rinchiusa  nel  monastero  di  Sant'Antoniello  alla 
Vicaria,  insieme  alla  figlia  Carmina  Fortunata,  mentre  il  figlio  Giovanni 
era  stato  affidato  allo  zio  Carlo,  il  quale,  a  sua  volta,  se  ne  era  sbarazzato, 
spedendolo  a  Vieste,  in  casa  di  Domenico  Tura,  marito  della  sorella  Vit- 
toria. In  una  lettera  del  Giannone  del  3  luglio  1723  (in  B.N.R.,  F.V.E.  358, 
e.  43^)  si  legge:  «  lo  non  so  se  si  faccia  bene  o  male  di  mandar  il  figliuolo 
in  Vesti,  dipendendo  ciò  dalla  particolar  notizia  delle  circostanze  che  vi 
possano  colà  occorrere.  Alla  madre  non  bisogna  dare  il  minimo  disgusto, 
meritando  ogni  riguardo  per  la  sua  onestà  ed  ottimi  costumi,  sicché  io 
anche  per  debito  di  coscienza  molto  li  debbo.  So  che  si  facci  cosa  di  suo 
genio  lo  mantenerla  in  monastero,  né  ora  è  tempo  di  pensar  a  dote  per  ma- 
ritarla, ma  bisogna  aspettare  tempo  migliore  sicché  questo  disborso  non  mi 
riesca  grave  ».  In  corrispondenza  dell'ultimo  periodo,  in  margine  (ed  è  certo 
postilla  di  Giovanni)  :  «e  con  ragione,  poiché  non  si  deve  dire  qui  maritarla, 
ma  rimaritarla,  cui  voleva  la  dispensa  dei  sommo  pontefice».  2.  Franco 
Dattolù    3.  Tura:  cfr.  la  nota  1  qui  sopra. 


U4B  LETTERE 

sentire  che  si  passino  bene.  Al  nostro  vecchio  padre  potrà  anche 
tenerlo  in  lusinga  che  il  mio  ritorno  sarà  breve  e  per  la  prima  con- 
giuntura eli  posto  vacante  per  Napoli.  E  non  si  prenda  niun  pen- 
siero di  Giannone  Alitto,1  sicome  facciamo  qui  io  ed  il  signor 
Ilderis,  sapendo  i  suoi  fastidiosi  ed  importuni  fiotti. 

Salutatemi  tutt'i  buoni  amici,  e  datemi  avviso  del  baron  Dar- 
mon,  e  come  stia  disposto  a  pagare,  se  fra  breve,  o  dovrà  aspettarsi 
lungo  tempo,  sicome  di  ciò  che  avrà  fatto  il  signor  Pecci,  e  cara- 
mente l'abbraccio.  L'acchiusa  lettera  prima  di  darla  suggellatela. 


x 

A   CARLO   (UANNONK   •  NAPOLI 

Vienna  ììj  giugno  i?~\5. 

Già  si  sono  dati  gli  avvisi  in  Fiume  al  signor  tenzoni,  ed  attendo, 
come  mi  scrive  nella  sua,  che  ricevo  in  questa  settimana,  la  polisa 
di  carico  per  prevenire  qui  in  donna.  Leggo  la  resinazione  di 
monsignor  arcivescovo  di  Manfredonia,4  e  per  questo  nelle  gaz- 
zette io  avea  letto  la  preconizazione  del  vescovo  nuovo  di  Vesti.3 
Mi  dispiace  sentire  che  non  vi  sia  più  capitata  la  lettera  dispersa;4 
e  dubbito  che  non  sia  qxiella  nella  quale  vi  era  per  il  signor  ('apasso 
un  biglietto,  che  mi  dispiacerebbe  assai.  Ne  attendo  con  ansietà 
riscontri,  ed  intanto  lo  saluterà  da  mia  parte,  con  dirli  che,  se  ciò 
sia  avvenuto,  bisogna  rifarne  un  altro  perché  abbia  informazione 
di  quant'occorre  circa  il  consaputo  suo  affare.  Attendo  pure  con 
disiderio  l'arrivo  del  signor  marchese  ttanfeliee,  e  che  rabbia  eon- 
signato  il  libro5  che  li  mandai,  intorno  a  che  li  ricordo  non  per- 
der punto  di  tempo  di  far  cominciare  dal  signor  Mela  e  signor  Ca- 


x.  I  Giannonv-Alitto  erano  una  nobile  famigliti  di  Hitonto,  inHtgnita  del 
titolo  baronale,  o  con  la  quale  il  Giaunone  era  legato  da  una  lontana  paren- 
tela. Ver  questo  accenno  cfr.  la  lettera  di  Antonio  (jitumonc-Alitto  pub- 
blicata in  Vita,  ed.  Nicolini,  p.  453, 

X.  B.N.R.,  F.V.K.  358,  ce,  x8at>-x84*>.  La  lettoni  è  indirizzata  all'abate 
Antonio  Mela.  -  z.  la  resignastione . . .  Manfredonia:  Giovanni  de  Lerma 
(cfr.  la  nota  4  a  p.  1x09)  resignò  il  14  marzo  17*5,  3.  wwww  nuovo  di 
Vestii  alla  sede  di  Vieste  fu  chiamato  Niccolò  Pietro  Caatriotu  (X676-X750). 
4.  la  lettera  dispersa:  forse  è  quella  datata  0,  giugno  1725  ((Jùmnomana,  n." 
97).  5.  il  libro:  il  manoscritto  del1  Apologia  dell* Istoria  civile  di  Napoli, 
Cfr,  la  nota  3  a  p,  1x53. 


LETTERE  II49 

passo  quanto  li  scrissi  per  soggiungerli  poi  il  di  più  che  dovrà 
farsi. 

Io  sono  del  parere  del  signor  abate  Garofali1  per  quello  che  mi 
scrive  di  quanto  quel  vescovo  disse  al  signor  presidente,  il  qual  è 
così  buono  che  lo  credette.  Mi  dispiace  sentire  che  pensi  tornar 
di  nuovo  in  Roma,  perché  niun  meglio  di  lui  avrebbe  potuto  pet- 
tinar bene  l'Anastasio.  Mi  son  sempre  riso  dell'impresa  del  Vita- 
gliano,2 non  essendo  de*  suoi  omeri  questo  peso,  e  priego  Iddio 
che  la  cosa  non  riesca  per  non  vedere  tante  seccaggini  ed  inezie. 
Il  signor  abate  Acampora  dice  assai  vero,  che  i  cancellieri  di  Fran- 
cia non  eran  sempre  ecclesiastici;  ma  quello  che  convince  il  Vita- 
gliano  non  aver  inteso  il  mio  passo,  è  che  io  impugno  Freccia, 
che  si  maravigliava  come  tal  giurisdizione  sopra  gli  ecclesiastici 
potesse  esercitarsi  senza  autorità  della  Sede  Apostolica,  e  pure  in 
Francia  Tarcicappellani  l'esercitavano,  perché  veniva  loro  conce- 
duta dal  re,  e  non  dal  papa.  Era  da  compatire  Marino  Freccia,  per- 
ché credette,  come  volgarmente  si  crede,  che  gli  ecclesiastici  de 
iure  divino  siano  esenti  dalla  giurisdizione  del  re;  ma  chi  tiene  che 
tutto  procedette  per  concessione  de'  principi,  non  li  sembrerà  stra- 
no se  i  principi  se  la  ritennero  negli  ecclesiastici  del  proprio  palaz- 
zo, e  sopra  tutti  i  preti  palatini.3  Ma  che  si  vuol  fare  con  questa 
razza  d'asini  presuntuosi? 

Mi  facci  il  piacere  riverire  il  signor  abate  Acampora  e  dirli  da 
mia  parte  che  con  tal  occasione,  avendo  discorso  col  signor  cavalier 
Garelli  della  sua  persona  e  del  pensiero  che  una  volta  li  venne  di  far 


1.  abate  Garofali:  cfr.  la  nota  a  a  p.  174.  2.  niun — Vitagliano:  cfr. 
quanto  il  Giannone  aveva  scritto  al  fratello  in  data  16  giugno  (B.N.R., 
F.V.E.  358,  ce.  180^-181)  :  «Mi  sembra  stranissimo  che  il  signor  presidente 
abbia  permesso  che  il  signor  Vitagliano  si  metta  a  rispondere  ali3 'Apologia 
d'Anastasio  ...  Io  son  certo  che,  se  mai  uscirà  alla  luce  questa  risposta, 
saremo  fatti  ludibrio  a'  dotti,  perché  ben  prevedo  dove  abbia  a  finire  questa 
faconda,  cioè  ad  un  affastellamento  di  materia  cruda  ed  indigesta,  senza  si- 
stema e  con  una  verbosità  stomachevole  ».  Il  Giannone  si  riferisce  all'at- 
tacco mosso  contro  la  sua  Istoria  civile,  e  più  in  generale  a  tutto  il  movi- 
mento giurisdizionalista,  da  monsignor  Filippo  Anastasio:  vedi,  oltre  la 
nota  4  a  p.  125,  le  note  3  e  4  a  p.  126.  È  da  segnalare  che  Ottavio  Ignazio 
Vitagliano  (per  il  quale  cfr.  la  nota  5  a  p.  76),  anziché  difendere  il  Gian- 
none,  fini  per  criticarlo  :  si  veda  la  nota  1  a  p.  129.  3.  Il  signor  .  .  .  palatini: 
cfr.  Istoria  civile,  tomo  11,  lib.  XI,  cap.  vi,  par.  in,  p.  306.  Il  giurista  Marino 
Freccia  (1503-1566),  regio  consigliere  a  Napoli  dal  1539  al  1560,  è  noto 
soprattutto  come  autore  dell'opera  De  subfeudis  baronum  et  investitura  feu- 
dorum  (i554). 


USO  LETTERE 

ristampare  l'epistole  di  Pietro  delle  Vigne,  libro  reso  oggi  eosì  raro, 
non  può  credere  quanto  gli  piacque,  e  sopra  tutto  m'inculcò  che 
non  si  dovesse  ciò  trascurare,  perché  poteva  riuscire  un'edizione 
assai  migliore  di  quante  ve  ne  sono,  perché  nella  Biblioteca  Impe- 
riale vi  sono  due  antichi  manoscritti  di  queste  epistole;  e  di  più 
il  signor  principe  Eugenio  ne  tiene  un  altro  codice  assai  più  antico, 
dove  vi  sono  da  20  epistole  non  mai  impresse,  che  con  tal  occasione 
si  potrebbero  dare  alla  luce;  ed  egli  mi  darebbe  tutto  l'aggio  di 
confrontarli  con  l'impresse  per  osservare  le  varie  lezioni,  e  di  van- 
taggio mi  procurarebbe  l'altro  del  signor  principe  Eugenio,  e  mi 
darebbe  due  0  tre  giovani  per  poterle  collazionare  e  mandarvi 
costà  le  variazioni  e  l'aggiunte  per  poterle  imprimere.  Se  dunque 
il  signor  abate  vorrà  pigliarsi  questa  cura,  io  espressamente  ne  lo 
priego,  perché,  sapendo  la  sua  esattezza,  potrei  assicurare  il  signor 
cavaliere,  che  mostra  averci  tutto  l'impegno,  che  la  cosa  verrebbe 
esattissima.1  La  spesa  non  sarebbe  molta,  e  l'utile  grandissimo;  e 
se  vi  fosse  bisogno  di  trovar  persona  che  dovesse  somministrar  la 
spesa,  tanto  per  questo  non  mancherà.  Sicché  mi  sappia  a  dire 
l'intenzion  del  signor  abate;  ma  sopra  tutto  li  raceommando  la 
secretezza,  affinché  non  se  ne  penetri  cos'alcuna  costà,  e  precisa- 
mente che  non  arrivi  alle  orecchie  del  signor  Riccardi  ;  ed  il  signor 
abate  nemmeno  lo  confidi  a  qualche  suo  amico  di  qui,  perché  pò» 
trebbesi  facilmente  divulgare,  che  sarebbe  lo  stesso  che  guastare 
ogni  cosa. 
Mi  riverisca  divotamente  lo  stimassimo  signor  consigliere  don 


1.  Mi  facci ,  .  .  esattissima:  l'edizione  critica  degli  KpìsUììarum  libri  Vi  di 
Pier  delle  Vigne,  progettata  dal  Garelli  e  dal  (ìiannone  e  che  avrebbe 
dovuto  avere  l'aiuto  dell'erudito  abate  Acampora,  non  vide  mai  la  luce: 
e  per  la  morte  dell'abate  e,  forse,  perché,  nell'estate  del  1731,  erano  so- 
pravvenuti gli  studi  preparatori  per  il  Triregno.  Il  progetto  fu  ripreao  tra 
il  1733  e  il  1734;  dal  Forlosia  che  intendeva  dedicare  il  frutto  d<À  proprio 
lavoro  al  Garelli  (e  si  veda,  in  Osterreichiache  Nationalbibliothek  di  Vien- 
na, cod.  14014,  N.  Koklosiak,  . . .  Adversaria  prò  parando  vditione  epi$tu~ 
lanini  Pctrì  de  Vineis),  ma  che  non  riuscì  a  condurre  a  termine  la  propria 
fatica.  Usciranno  invece  più  tardi  gli  Epistolarum  libri  VI . . .  Novara  hanc 
editionem  adiectis  variis  lectionibus  curavit  I.  R.  hclius  .  . .,  Batuleac  1740, 
in  due  volumi.  I  manoscritti  delle  lettere  di  l*ier  delle  Vigne,  comunque, 
sono  ancor  oggi  conservati  a  Vienna:  cfr.  Tabulae  codìcum  manti  scrìptorum 
praeter  Graecos  et  orientalcs  in  Bibliotheca  Palatina  Vindoboncnsi  asserva- 
tortini,  odidit  Acadcmia  Caesarea  Vindobonensia,  1,  Vindobonae  3(864,  nn. 
40X,  1;  464»  3;  47o;  605,  2;  1064,  14,  rispettivamente  alle  pp.  63,  76»  73, 
105,  188. 


LETTERE  1151 

Matteo  di  Ferrante,  con  dirli  che  resta  assodato  nel  concetto  di 
tutti  questi  signori  del  Consiglio,  fra  tutti  coloro  che  sedono  nel 
Consiglio  di  S.  Chiara,  i  duo  fulmina  belli  essere  il  Maggioco  ed  il 
Ferrante.  Io  non  ho  avuta  molta  pena  di  confermarli  in  questa 
verità,  perché  le  cose  erano  pur  troppo  chiare  e  manifeste;  ed  ho 
avuto  un  gusto  indicibile  quando  coll'esperienza  han  veduto  per 
quella  dottissima  fatica  che  io  diceva  il  vero,  e  che  le  mie  parole 
non  erano  enfatiche  e  procedenti  forse  da  passion  di  amicizia,  ma 
da  proprio  e  sincero  sentimento  e  dalla  forza  della  verità.  Può  per 
tanto  star  sicuro  ch'egli  [è]  intricato  ne'  più  gravi  affari  che  occor- 
reranno, e  trascelto  sopra  gli  altri  con  consolazione  de'  suoi  buoni 
amici. 

Mi  riverisca  ancora  divotamente  il  signor  abate  Garofalo,  ed  ho 
speziai  commissione  dal  signor  Garelli  di  salutarlo  in  suo  nome, 
avendo  ricevuto  avviso  dal  signor  Riccardi  averli  consegnata  la  sua 
lettera,  e  conosce  ora  che  la  risposta  non  poteva  averla  la  passata 
settimana;  nò  si  maraviglia  non  averla  nemmeno  ricevuta  in  que- 
sta, perché  forse  per  darvela  più  adequata  avrà  avuto  bisogno  di 
qualche  settimana  ;  l'attende  per  tanto  con  ansietà  nell'entrante  per 
saper  novella  delli  due  consaputi  libri  commessili,  ed  intorno  al- 
l'opere del  Tasso1  mi  dice  che  bene  sta,  che  li  manda,  perch'egli, 
ancorché  ne  aspetti  un  altro  corpo  da  Firenza,  come  li  scrissi  la 
passata,  questo  lo  prenderà  per  la  Biblioteca  Imperiale,  e  l'altro 
per  sé. 

Credo  che  a  quest'ora  i  caldi  costà  saranno  eccessivi,  giacché  tali 
resperimentiamo  anche  qui,  e  che  visitarete  spesso  Dueporte,  sic- 
come ho  cominciato  in  questa  settimana  a  far  io  a  Petterdorf.2  Mi 
piace  sentire  che  al  signor  di  Cesare  piaccia  il  nostro  casino,  e  ben 
io  ho  pensato  di  fornirlo  di  parati,  che  qui  si  fanno;  ma  la  difficoltà 
non  è  per  la  spesa,  che  non  sormontarebbe  gran  cosa,  ma  per  la 
congiuntura  di  mandarli;  e  pagar  il  porto  per  cosa  che  non  vai 


1,  intorno  aW opere  del  Tasso:  cfr.  la  lettera  a  Carlo  in  data  16  giugno  1725 
(K.N.R.,  F.V.K.  358,  ce.  x8i-x8is>):  «passerà  in  mio  nome  col  signor 
abate  Garofalo  quest'ufficio,  che  l'altro  giorno  il  signor  cavalier  Garelli 
ai  dolse  della  risposta  fatta  al  signor  reggente  Riccardi , . .,  che  se  non  vo- 
leva l'Opere  ultimamente  ristampate  del  Tasso  in  Fircnaa,  che  il  signor 
abate  li  mandava . .  „,  ce  l'avesse  rimandato  in  dietro  ».  Si  tratta  dell'edi- 
zione curata  dal  Bottari  delle  Opere  di  Torquato  Tasso  colle  controversie 
sopra  la  Gerusalemme  liberata,  divise  in  sei  tomit  Firenze  1724-  2.  Petter- 
dorf: cfr.  la  nota  1  a  p.  97. 


1X52  LETTERE 

tanto  e  pazzia.  Bisogna  aspettar  congiuntura  tale  che  io  potesse  far 
rinfrancar  il  porto,  e  questa  sarà  molto  difficile,  perché  so  ch'c 
impertinenza  fastidir  l'amici  per  cosa  tale.  Forse  il  tempo  ce  ne 
darà  occasione,  nò  io  me  ne  dimenticherò. 

Il  nostro  signor  regente  Almarz  sta  bene,  siccome  quel  disgra- 
ziato, avendolo  a  mie  spese  fatto  condurre  dallo  spedale  di  S. 
Marco  a  quello  degli  Spagnoli,  e  migliorato  assai,  essendo  ben 
trattato,  e  mi  dicono  che  fra  otto  o  dieci  giorni  sarà  libero  affatto, 
ed  io  penso  farnelo  tornar  subbito.1  Se  capiterà  qui  Naso,-*  io  pro- 
curerò farli  assaggiare  le  stesse  carezze. 

Salutatemi  caramente  il  nostro  signor  don  Francesco  Mela,  ed 
attendo  riscontri  di  quanto  m'accenna  in  questa  settimana,  rimet- 
tendomi alle  passate.  Salutatemi  il  vecchio  padre  con  li  Vestani, 
siccome  al  signor  Onofrio,  signor  Cailò,  e  tutti  i  buoni  amici,  e 
caramente  l'abbraccio. 

XI 

A  CARLO   GIANNONK  •  NAPOLI 

Vienna  x$  agosto  lya^. 

Alla  sua,  che  ricevo  in  questa  settimana,  rispondo  che  sempre  sarà 
bene  procurar  prima  nomina  da  cotesto  signor  viceré,  siccome  col 
signor  abate  Tosques  si  vanno  facendo  le  disposizioni,  e  poi  operar 
con  maggior  fervore  qui,  perche  il  signor  Pandolfelli  resti  servito,3 

i.  quel  disgraziato  .  ,  .  subbilo:  il  Naso  aveva  indirizzato  a  Vienna,  racco- 
mandandolo al  Gìannone,  un  suo  conoscente  di  Oria  Casale  d*  A  versa,  il 
quale  pretendeva  una  nomina  a  caporale  nell'esercito  imperiale.  Clr.  le 
lettere  a  Carlo  del  19  maggio  1725  (B.N.K.,  F.V.K.  358,  ce.  17^-177)^  del 
a  giugno  (e.  %7():  «Non  si  «cordi  pure  di  salutarmi  il  mio  signor  compare 
Naso,  e  dirli  che  il  suo  raccoxnmandato  già  sta  traendo  l'anima  nello  spe- 
dale»), del  20.  giugno  (e.  185:  «Per  grazia  d'Iddio  si  guarì  nello  spedale 
degli  Spagnoli . . .  Partirà  dimani»)*  3*  He  .  .  «  Naso:  cfr,  la  lettera  del  20 
giugno  (ce.  184*;- 185):  «uvea  preveduta  la  disgrazia  che  dovea  vedermi 
sopra  Nicolò  Naso  ...  il  quale  è  venuto  qui  a  piedi  senza  un  quatrino, 
senza  scarpe  e  senza  vestiti . .  .  col  suo  arrivo  si  è  scoverta  un'altra  impo- 
stura . . ,  che  la  lettera,  che  mi  portò  queir  uomo  da  lui  raceommandato,  era 
falsa,  ed  avendoli  fatti  affrontare  l'uno  non  conosceva  l'altro  », 

XI.  B.N.R.,  F.V.K.  358,  ce.  200-202.  La  lettera  è  indirizzata  all'abate  An- 
tonio Mela.  -  3.  sempre  sarà.  ♦  .  servito:  monsignor  Nicolò  Paolo  Pan- 
dolfelli (X689-1766)  postulava  una  nomina  a  vescovo,  grazie  anche  alle 
insistenti  raccomandazioni  del  Giannone  presso  i  suoi  potenti  protet- 


LETTERE  II53 

potendolo  riverire  da  mia  parte;  siccome  farà  col  signor  abate 
Garofalo,  avendo  assicurato  il  signor  Garelli  (che  ritornò  qui  sin 
da  martedì  sera)  che  il  Bollano1  è  già  in  suo  potere.  Il  medesimo 
ha  già  risposto  alla  sua  lettera  attenente  a*  consaputi  libri,  e  lo  sa- 
luta caramente,  come  fa  al  signor  Cirillo,  colli  quali  saluti  potrà  ac- 
compagnare anche  i  miei. 

Non  bisognano  più  prediche  per  ciò  che  s'attiene  a  dar  fuori  il 
consaputo  ms.,2  perché  io  non  lo  mandai  costà  a  questo  fine,  sa- 
pendo benissimo  che  ora  non  è  tempo  di  queste  cose,  e  mi  maravi- 
glio come  abbiano  potuto  dubitare  di  ciò.  Affrettava  l'emendazione 
cosi  del  signor  Mela,  come  del  signor  Capasso,  affinché  si  fosse  in 
tempo  di  rimandarlo  colla  congiuntura  del  signor  regente  Riccardi, 
e  credo  che  questo  tempo  avrebbe  potuto  bastare,  perché  il  mede- 
simo partirà  per  li  principi  dell'entrante  mese.  Io  mal  volentieri 
incontrarci  altra  congiuntura  di  ritorno,  così  perché  sarà  difficile, 
come  anche  perché  non  è  da  fidarsi  se  non  a  persone  di  cui  s'ha 
esperienza.  Se  partisse  Muscettola,  come  si  crede,  potrebbe  dal 
signor  duca  di  Spezzano  suo  fratello,  e  mio  amico,  farcelo  racconci- 
mandare,  con  dire  ch'è  un  libro,  come  feci  io  qui  col  signor  mar- 
chese Sanfclice;3  ma  se  il  ritorno  del  signor  Riccardi  si  prolon- 
gasse,4  non  vi  sarebbe  migliore  congiuntura,  anche  se  non  vi  fosse 


tori,  nel  1733,  al  vescovado  di  Mottola.  Cfr.  la  lettera  a  Carlo  del  14 
luglio  1725  (B.N.R.,  F.V.E.  358,  e.  x88a):  «abbiamo  avuti  lunghi  di- 
scorsi col  signor  abate  Tosquez  per  la  persona  del  signor  Pandolfel- 
lo  .  .  .  Si  pensa  per  ora  farlo  raccommandare  al  signor  viceré  .  . .  affin- 
ché nella  prima  occasione  lo  metta  in  nomina».  1.  il  Bollano:  cfr.  la 
lettera  a  Carlo  del  2  giugno  1725  (B.N.R.,  F.V.E.  358,  ce.  176-176*;):  «Ga- 
relli .  . .  s'era  dimenticato  di  pregarli  [l'abate  Garofalo]  di  trovar  modo 
come  si  potesse  avere  il  nuovo  Buttano  ài  Clemente  XI  »  ;  e  si  veda  Vita, 
qui  a  p.  144  e  la  nota  4  ivi.  2.  il  consaputo  ms.  :  intendi  L3  Apologia  del- 
l'Istoria civile  di  Napoli.  3.  come  feci .  .  .  San/elice:  cfr.  la  lettera  del  16 
giugno  (B.N.R.,  F.V.E.  358,  ce.  iSov-i&zv),  dove  il  Giannone  avvisa  il 
fratello  di  aver  consegnato  al  marchese  Sanfelice  «un  involto  con  tela 
incerata  e  suggellato  con  soprascritta  a  voi  diretta.  L'ho  detto  ch'era  un 
libro  sciolto  e  che  mi  facesse  il  piacere  di  portarlo  a  voi.  Ma  sappia  che  ivi 
è  una  copia  della  mia  Apologia,  la  quale  bisogna  che  serbiate  con  tutto  il 
segreto  .  . .  Non  la  mostrate  per  óra  a  niuno,  ma  prima  fatela  leggere  al 
signor  don  Francesco  Mela,  il  quale  mi  farà  il  piacere  di  corriggere  Terrori 
occorsi  nella  lingua . .  .  Secondo  saranno  sbrigati  i  quinterni  dal  signor 
Mela,  con  tutta  la  secretezza  li  farete  osservare  al  signor  don  Nicolò  Ca- 
passo, co*  pregarlo  che  cassi,  muti,  aggiunga  con  tutta  libertà  quel  che 
li  pare  nella  margine,  ma  con  tutta  segretezza».  4.  ma  se  .  . .  prolongasse: 
Alessandro  Riccardi  si  mosse  da  Napoli  per  rientrare  in  Vienna  solo  sul  fi- 

73 


1 154  LETTURE 

tempo  mandarne  copia,  perché  basterebbe  che  si  rimandasse  l'o- 
riginale così  come  que'  signori  avran  stimato  d'emendare.  Mi  dia 
riscontri  di  ciò  che  si  farà,  per  mia  regola. 

Al  carissimo  signor  don  Francesco  Mela  mille  saluti;  ed  ho 
letto  con  piacere  il  suo  viglietto  acchiusomi,  scorgendo  la  sua  cor- 
dialità ed  avvedutezza.  Bisognava  parlare  di  quelle  imputazioni 
puerili  e  sciocche  per  maggiormente  discreditare  gl'impostori  ed 
i  maligni;  tanto  maggiormente  che  il  maggior  romore  della  plc- 
baccia  fu  sopra  queste  accuse:  gli  uomini  intesi  conosceranno  a 
qual  disgrazia  sono  sottoposti  coloro  che  non  possono  secondare 
le  vulgari  dicerie.  Il  parlar  della  scomm unica  è  a  sol  (ine  di  mo- 
strare come,  dopo  provata  l'invalidità,  si  possano  prendere  i  remedi 
per  non  temerla.  Si  propone  la  mia  scomunica,  come  per  un  esem- 
pio; ed  intorno  al  punto  della  latitatone  non  possono  sfuggire  la 
nullità,  perché  anche  legitimamente  provata  non  è  lo  stile  di  spedirsi 
citazione  alcuna  danti,  ma  vi  si  richiede  per  vdictuvi.  Ma  nel  caso, 
non  si  potrà  dire  essersi  legitimamente  provata,  perché  dovea  sen- 
tirsi il  mio  escusatore,  ch'era  comparso  già  ed  avea  allegata  l'as- 
sensa.  Intorno  all'assoluzione  mandata,  io  nella  fine  esporrò  il  fatto 
con  tutta  verità,  né  si  niegherà  esserne  stato  inteso  mio  fratello; 
ma  brevemente  soggiungerò  che  queste  assoluzioni  non  fanno  pre- 
sumere la  validità  delle  censure,  e  porterò  molti  esempi  che  tali 
assoluzioni  si  sono  ricevute,  senza  pregiudicarsi  punto  alle  ragioni 
o  pubbliche  del  principe  o  private.  Se  questo  trattato  si  cacciasse 
fuori  per  difesa  contro  la  censura,  certamente  che  si  dovrebbe 
stimar  superfluo,  e  cosa  molto  affettata;  ma  non  dovendo  uscir 
ora  alla  luce,  ma  dovendo  servire  per  una  istoria  delle  cose  acca- 
dute dopo  la  pubblicazione  della  mia  opera,  era  a  proposito  tener 
questo  metodo  per  esaminare  ancora  di  proposito  l'autorità  degli 
ecclesiastici  intorno  alle  licenze,  che  presumono  dare  giudicial- 
mcntc  a'  libri  che  si  stampano.  Forse  il  tempo  porterà  che  la  scrit- 
tura, siccome  ora  parla  in  mia  persona,  cosi  si  potrebbe  cambiare 
stile  ed  introdurre  una  altra  persona;  e  ciò  dipenderà  dalle  circo- 
stanze che  accompagneranno  la  pubblicazione  se  mai  dovrà  farsi. 
Intanto  priego  il  carissimo  signor  don  Francesco  per  minor  suo 
incommodo  cominciare  l'emendazione  secondo  la  tessitura  pre- 
sente, perché  quando  sarà  ciò  fatto  con  esattezza,  ci  vorrà  poco 

iure  dell'anno;  ma  non  giunse  mai  a  destinazione;  mori  a  Verona,  dove  era 
ospite  del  Matìfci,  il  39  marzo  1727  (cfr.  Vita,  qui  a  pp.  138-9). 


LETTERE  1155 

cambiar  le  persone,  e  siccome  ora  si  ragiona  in  prima  persona,  farla 
parlare  in  terza.  Mi  maraviglio  ancora  che  il  signor  Mela  abbia 
dubbitato  che  dovesse  ora  darsi  alla  luce,  sapendo  che  non  sono 
questi  tempi  accettabili.  Si  farà  quando  verranno  le  occasioni; 
anzi,  io  penso,  per  non  doverci  pensare  più,  d'aggiungervi  a  que- 
sto trattato  un  catalogo  di  tutti  gli  errori  occorsi  ed  emendarli, 
overo  meglio  spiegarli,  e  di  farvi  ne*  loro  luoghi  qualche  giunta; 
affinché,  se  mai  l'opera  dovesse  ristamparsi,  si  sappia  ciò  che  do- 
vrebbe mutarsi,  ovvero  emendarsi.  Questo  richiede  tempo,  e  per- 
ciò io  priego  vari  amici  a  favorirmi  delle  loro  osservazioni;  affinché 
in  questa  Giunta  si  possa  una  volta  pensare  a  tutto. 

Priego  per  tanto  il  signor  don  Francesco  a  favorirmi  con  cor- 
dialità, come  me  lo  prometto  ;  e  molto  più  lo  priego  non  dimenti- 
carsi di  quanto  li  scrissi  la  passata  settimana  delle  novità  del  mo- 
nastero,1 per  evitar  le  quali  bisogna  ora  veramente  badare,  perché 
importano  più;  ed  io  sempre  tremo  per  la  facilità,  che  veggo  ora 
intraprendere  di  questi  viaggi. 

Sono  qui  giunti  li  signori  Perrelli3  da  Roma  col  padre  Pauli;3 
ho  lungamente  discorso  co1'  primi,  che  mostrano  avere  grande  ami- 
cizia col  cardinal  Coscia,4  da'  quali  sono  stato  informato  che  il 
medesimo  non  e  così  fiero  contro  i  miei  libri,  come  alcuni  Napoli- 
tani che  sono  ivi;  da  dove  credo  che  dipenda  tutto  il  male  e  le 
sinistre,  anzi  sciocche  accuse,  che  tuttavia  ancor  durano.  Ho  caro 
sentire  ciò  che  si  farà  del  signor  don  Saverio  Dattilo,  e  de'  medesi- 
mi ho  saputo  anche  qualche  cosa,  siccome  degli  andamenti  pre- 


1.  lo  priego:  .  . .  monastero',  cfr.  la  lettera  a  Carlo  del  x8  agosto  (B.N.R., 
F.V.E.  358,  e.  i99z>):  «Ho  ...  in  questa  settimana  un'altra  più  curiosa 
lettera  dal  monastero  . . .  [che]  conchiudevasi . . .  con  una  preghiera,  ch'io 
volessi  permettere  che  potesse  uscire  dal  monastero  per  due  giorni,  affin 
di  ristorarsi  in  casa  di  suo  fratello.  Io  concepisco  . . .  che  vi  si  cavi  qualche 
risoluzione  d'intraprender  qualche  viaggio . . .  Perciò  io  priego  il  signor 
don  Francesco  Mela  . . .  di . . .  dirgli  apertamente  che  se  per  un  momento 
stasse  fuori  del  monastero,  io  non  sarei  per  sentirne  più  parola  e  che  an- 
dasse a  fare  i  fatti  suoi».  2.  li  signori  Perrelli:  i  monsignori  Filippo  e 
Pietro  Paolo,  di  cui  parla  B.  Croce,  Monsignor  Perrelli  nella  storia,  in  «Na- 
poli nobilissima»,  xiv  (1905),  fase.  ni.  Ricordiamo  che  ad  un  altro  mem- 
bro della  famiglia,  Pietro,  fu  affidato  l'incarico  delle  trattative  con  Roma 
per  la  controversia  sul  Tribunale  della  Monarchia  di  Sicilia,  nel  1727.  Cfr., 
per  questo,  Vita,  qui  alle  pp.  151  sgg.;  L.  v.  Pastor,  Storia  dei  papi,  xv, 
Roma  1933,  pp.  516-21  ;  H.  Benedikt,  Das  Kónigreich  Neapel  ecc.,  cit,  p. 
375  e  passim,  3.  Per  il  padre  Sebastiano  Pauli  si  veda  la  nota  3  a  p.  210. 
4.  Per  il  cardinal  Coscia  cfr.  la  nota  4  a  p.  151. 


II 56  LKTTIÌRK 

senti  di  quella  Corte,  la  quale  per  maggior  nostro  disprezzo  non 
solo,  dopo  averci  lungamente  tenuto  a  bada,  e'ha  burlato  per  la 
cruciata,  ma  ora  ha  spediti  brevi  terribili  per  abbattere  affatto  la 
Monarchia  di  Sicilia.1 

Mi  saluti  caramente  il  nostro  carissimo  Capasso,  e  che  io  voglio 
da  luì  consiglio:  che  devo  fare  con  questo  raggiratore  di  Mastello- 
ne,  che  da  settimana  in  settimana  mi  va  burlando  per  lo  consaputo 
dispaccio?  Mi  rincresce  per  non  offenderlo,  di  farlo  spedire  da  al- 
tri, perché  poi  ci  dovrei  venire  ad  atti  irretratt abili;  però  aspetterò 
questa  sua  risposta,  ed  intanto  lo  tenero  sollecitato  continuamente, 
affinché  poi  abbia  ragione  di  fare  qualche  strana  resoluzione. 

Non  si  dimentichi  riverirmi  il  signor  abate  Aeampora  ed  il  si- 
gnor de  Aste;a  siccome  al  vecchio  padre,  Vestani,  ed  al  caro  signor 
Onofrio  e  signor  Cailò  con  tutti  i  buoni  amici,  e  caramente  l'ab- 
braccio. 


XII 
A  CARLO   QIANNONJB   •  NAPOLI 

Vienna  -'./  agosto  tyjfì. 

Sento  con  molto  piacere  per  la  sua  ricevuta  in  questa  settimana 
che  siano  riusciti  secondo  aspettatone  li  funerali  del  signor  Ric- 
cardi, e  secondo  il  disegno  della  machina  ed  iscrizioni  venute  qui, 
veramente  fumo  magnifici,  ed  il  signor  cavaliere  ne  ha  parimente 
ricevuto  sommo  contento,3  e  si  ride  del  biglietto  spedito  per  lo 


i.fta  spediti*  , .  Sicilia:  lo  ntenao  Giannone  intervenne  nella  polemica  che 
«i  accese  per  il  tentativo  eli  Benedetto  XIII  di  abolire  il  Tribunale  della 
Monarchia  di  Sicilia,  atendendo  nel  1727  un  Trat tato  de*  veri  e  legittimi 
titoli  delia  regali  preminenze,  che  i  re  di  Sicilia  hanno  sempre  consertata  in 
quel  Regno  ed  esercitato  per  mesata  del  Tribunale  della  Monarchia,  edito  a 
cura  di  A.  Picruntoni  nel  ttyz.  Su  quest'opera  tfiannoniumi  cfr.  L.  Mauiki, 
Per  il  testo  critico  degli  scritti  politici  minori  di  Pietro  (Marmane,  in  «  Annali 
della  Scuola  Normale  Superiore  di  Pisa»,  xix  (1050),  p,  22.  Vedi  inoltre 
la  nota  1  a  p.  561,  2.  r7  signor  de.  Aste.:  si  tratta  fonie  di  quel  Donato  An- 
tonio d'Asti  autore  dell'opera  Dell'uso  e  dell'autorità  della  ragion  civile  nelle 
province  delVimpero  occidentale,  edito  a  Napoli  da  felice  Monca  nel  1720 
con  parere  favorevole  del  Giannone.  Nei  1722  use!  il  neeondo  volume. 

XH.  B.N.R.,  F.V\K.  358,  ce.  283*1-285.  La  lettera  e  indirizzata  a  Matteo 
Micaglia,  -  3.  il  signor  cavaliere  .  „  .  contento:  il  Garelli,  in  memoria  dell'a- 
mico scomparso,  fece  murare  una  lapide  nella  Biblioteca  Palatina,  il  cui 


LETTERE  II57 

canale  di  cotesto  regente  di  Vicaria,  perché  anche  a  questo  si  ri- 
medierà,  siccome  più  a  lungo  ne  scrivo  al  signor  regente  Ventura. 

Ho  ricevuta  in  questa  settimana  lettera  del  signor  Francesco 
Torre  per  mano  del  signor  don  Michele  Sardano,  e  vi  acchiudo 
la  risposta  aperta,  affinché,  chiusa  che  l'avrete,  ce  la  mandiate,  con 
assicurarlo  che  io  non  tralascierò  di  servirlo,  ma  se  non  vedrò  le 
scritture  prima,  io  non  so  che  farci.  Mi  sono  esibito  anche  col  si- 
gnor Sardano  di  scrivere  al  signor  conte,  sempre  che  stima  ne- 
cessaria la  mia  opera,  e  mi  sono  dichiarato  che  non  sono  avvezzo 
di  dar  parere  così  in  aria,  senza  osservar  minutamente  le  scritture 
e  tutto  ciò  che  si  riduce  a  parole,  io  non  stimo  nulla  a  proposito, 
e  così  anche  potrà  dichiararsi  col  signor  Torre.1 

Sono  sicuro  che  a  quest'ora  sarà  ritirato  in  Napoli  il  nostro  si- 
gnor Contegna,  al  quale  potrà  mandar  subbito,  ovvero  consignare 
l'acchiusa,  che  li  rimetto,  consignatami  dal  signor  Garelli  per  sicu- 
ro ricapito.  Salutatelo  da  mia  parte,  siccome  non  mancherà  di 
passare  li  medesimi  uffici  col  signor  Perlongo,  ed  avvisatemi  come 
si  porti,  e  li  piaccia  il  paese  e  gli  abitanti. 

Al  carissimo  signor  Cirillo  mille  saluti,  come  fa  il  signor  cava- 
liere, il  quale  prima  di  partire  ieri  per  la  Favorita,  essendo  la 
corrente  settimana  di  suo  servizio,  m'impose  espressamente  che  in 
suo  nome  lo  salutassi,  e  lo  ringrazia  ancora  d'aver  anche  egli  con- 
tribuito a'  funerali.  Stiamo  attendendo  la  consaputa  missione,2  e 
di  quanto  manderete  me  n'acchiuderà  nota,  avvisandomi  ancora 
il  signor  abate  Garofalo  d'averli  mandate  le  Novelle  del  Sacchetti3 


testo,  ricopiato  dal  Giannone  nella  lettera  dell*  11  maggio  1726  (B.N.R., 
F.V.E.  358,  e.  259*0  e  riportato  anche  nelle  Memorie  isteriche  degli  scrit- 
tori legali  del  regno  di  Napoli  raccolte  da  Lorenzo  Giustiniani,  in,  Napoli 
1788,  p.  103.  Gli  amici  napoletani  del  Riccardi  diedero  alle  stampe,  da 
parte  loro,  una  raccolta  di  componimenti  per  la  cui  uscita  il  Giannone  si 
era  raccomandato  non  si  ricercasse  licenza  dall'Inquisizione:  «non  s'ar- 
rischino di  cercarne  licenza  per  la  stampa,  ma  la  faccino  apparire  essersi 
impressa  altrove»  (cfr.  la  lettera  a  Carlo  del  3  agosto  1726,  in  B.N.R., 
F.V.K.  358,  e.  279^).  1.  Ho  ricevuta  .  .  .  Torre:  né  del  parere  richiesto, 
nò  della  causa  vi  sono  ulteriori  tracce  nell'epistolario.  La  risposta  del  Gian- 
none  dovette  evidentemente  far  cadere  ogni  ulteriore  richiesta.  2.  la  con- 
saputa missione:  nella  lettera  precedente,  del  16  agosto  (cfr.  Giannoniana, 
n.°  160)  il  Giannone  aveva  scritto  a  Carlo:  «coll'ultimi  fogli  di  Cujacio  ed 
Ktmullero  .  . .  veda  anche  d'unirvi  V Addizioni  di  Nicodemo  alla  Biblioteca 
di  Toppi,  che  mancano  al  signor  Garelli,  e  senza  queste  niente  vale  questo 
libro  ».  3.  Forse  l'edizione  in  due  volumi  Delle  novelle  di  Franco  Sacchetti 
cittadino  fiorentino,  Firenze  1724. 


1158  LKTTKRE 

per  rimetterle  qui  al  signor  Garelli.  Attendo  anche  l'avviso  d'es- 
sersi partito  il  procaccio  colla  consaputa  scatola,  con  avvisarmi  il 
numero. 

Quanto  soggiungo  ò  dirizzato  al  carissimo  signor  Mela,  il  di 
cui  foglio,  che  mi  acchiude,  e  stato  da  me  sommamente  gradito, 
tanto  più  che  ci  siamo  incontrati  ne*  raziocini,  e  solo  confesso  es- 
sermi molto  piaciuto  la  riflessione  fatta  intorno  alla  differenza  delle 
lettere  e  delle  girate,  e  molto  più  la  ragione  da  me  non  avvertita.1 
Deve  ora  sapere  che  sopra  questo  punto  mi  ò  convenuto  farci  una 
ben  lunga  nota,  che  qui  è  stata  molto  commendata,  ed  un'esemplare 
è  stata  già  mandata  al  signor  Mariconi  in  Genova,  che  credo  per- 
verrà anche  nelle  mani  del  signor  Puisserver.  Per  esser  volumi- 


x.  Quanto  .  .  .  avvertita:  il  (visitinone  si  riferisco  qui,  come  spicca  anche 
più  sotto,  ad  una  causa  in  favore  di  un  certo  Maricom,  e  di  cui  restano 
abbondanti  tracce  nell'epistolario.  Sull'argomento  ritornò  ampiamente  nel- 
la lettera  del  x6  novembre  xyzù  (in  B.N.R.,  F.V.K.  358»  ce.  304-305):  «Al 
carissimo  nostro  signor  Mela  mille  abbracci,  e  ben  egli  può.  comprendere 
quanto  mi  siano  di  piacere  i  carissimi  suoi  righi.  I  Io  molto  goduto  che  il 
Torre  ed  il  Peri  [nell'elenco  dei  libri  del  Giaunone,  in  (hatwtmiana^  p.  475, 
è  compreso  un  «Torre  De  Cambiis»,  dì  cui  non  si  hanno  ulteriori  indica- 
zioni; per  il  Pvricir.  la  nota  seguente,]  la  valuta  contici  Tanno  per  cambiati, 
perché  la  Ruota  romana  nella  decis.  20  appresso  il  cardinal  de  Luca,  de. 
Usur.  et  Camh.  ed  Ansaldo  de  Commercio  nel  disc.  2,  n,  32,  l'interpretano 
di  valuta  ricevuta  in  contanti.  Lo  priego  però  notarmi  i  luoghi  cosi  di 
Torre,  come  di  Peri,  perché  io  sin'ora  non  ho  avuto  tempo  d'osservarli. 
Ho  ben  sì  letto  ad  un  autore  tedesco  moderno,  che  nel  1721  stampò  un 
dotto  libro  intitolato  Institutiones  iuris  cambialis,  chiamato  Giovanni  Cristo- 
foro Francie,  le  varie  forinole  delle  lettere  di  cambio,  che  s'usano  e  sono 
regolari  oggi  fra*  negozianti,  infra  le  quali  ci  trovo  anche  quella  dettata  per 
valuta  in  conti]  ed  ho  goduto  che  le  dia  quella  stCH.sa  forza,  che  io  le  diedi 
nella  nota  fatta.  Non  si  meravigli,  perché  io  reputo  Mariconi  per  mandata- 
rio ad  esiggere,  perché  deve  sapere  che  non  si  verificò  mai  il  caso  che  al 
signor  Mariconi  pervenissero  effetti  di  Corte,  sicché  potesse  estinguere  le 
cambiali,  ma  insorto  un  nuovo  debbito  del  signor  Puisserver  col  signor 
Mariconi,  questi  non  vedendo  altra  via  di  potersi  soddisfare,  per  dura 
necessità  si  fece  girare  dal  Puisserver  quelle  medesime  lettere,  e  nella  gi- 
rata ai  disse:  "e  per  me  li  pagate  al  «ignor  Maricono  valuta  avuta  in  bi- 
glietti di  cartulario".  Or  il  signor  Mariconi  venne  qui,  e  tanto  fece,  e  tanto 
si  adoperò  finché  dopo  tre  anni  a  vari  stenti  ottenne  dalla  Corte  alcuni 
assegnamenti  in  soddisfazione  della  somma  contenuta  in  dette  lettere.  I 
signori  Dalmasas  e  compagni  pretendono  che  quelle  lettere  essendo  lor 
proprie  non  si  potevano  cedere  al  signor  Mariconi,  Farò  tutti  gli  sfor- 
zi, non  potendo  per  lettera  scrivergli  tutti  i  motivi,  ohe  pervenghino  in 
suo  mani  così  la  prima  nota,  come  Palmi  ohe  ultimamente  feci  in  ri- 
sposta delPallegasrionc  contraria,  dove  troverà  bastante  materia  di  sod- 
disfarsi ». 


LETTERE  II59 

nosa,  perché  ho  dovuto  spiegar  la  materia  da'  suoi  princìpi,  non 
essendo  qui  ben  capita,  non  posso  trasmetterla,  ma  tanto  se  avrà 
opportunità  di  scrivere  in  Genova,  tanto  credo  che  Puisserver  tro- 
verà modo  di  mandarvela.  Intorno  alle  frasi  varie  delle  valute  mi 
sono  servito  del  Negoziante  del  Peri,1  libro  molto  sopra  ciò  com- 
mendato dal  cardinal  de  Luca,*  e  da  Ansaldo  de  Ansaldis.3  Avrei 
voluto  che  lo  stesso  fosse  valuta  in  conti  che  valuta  contici,  ma  da  più 
decisioni  della  Ruota  romana  si  vede  che  sono  diverse,  perché  il 
contici  si  dice  per  sincope,  che  vai  lo  stesso  che  contatici,  e  corri- 
sponde alla  valuta  in  contanti-,  ma  comunque  si  fosse  non  distrugge 
la  nostra  ragione,  che  in  qualunque  maniera  fosse  la  valuta,  sem- 
pre fa  la  girata  irrevocabile.  Il  nostro  Cafaro4  nelle  sue  Pellegrine 
questioni  vuole  che  la  girata  sia  come  una  nuova  lettera  di  cambio, 
impugnando  il  consiglier  Rocco;5  ma  io  dimostro  che  ancor  ciò 
supposto  non  sminuisce  la  ragion  di  Mariconi,  il  quale  deve  con- 
siderarsi, per  la  girata  fatta  a  lui  dal  Puisserver  per  causa  onerosa, 
come  mandatario  per  esiggere,  non  già  per  pagare.  Avrei  caro  se 
il  signor  don  Francesco  potesse  avere  quella  mia  nota,  perché  son 
sicuro  che  non  li  dispiacerebbe,  siccome  a  me  non  dispiace  il  suo 
parere,  che  ho  grandissima  probabilità  che  sarà  qui  seguito. 

Vi  acchiudo  la  risposta  alla  lettera  della  signora  principessa  di 
Tarsia,6  che  potete  consignarcela,  ed  insieme  portarli  i  miei  rispetti 


1.  Cfr.  //  negotiante  di  Gio.  Domenico  Peri  genovese  [secolo  XVII]  diviso 
in  quattro  parti,  Venetia  1 672- 1 673 ,  in  quattro  volumi,  2.  Il  giurista  Giam- 
battista De  Luca  (16 14- 1683),  specializzato  in  questioni  economiche  e  fi- 
nanziarie, fu  uditore  di  Innocenzo  XI,  segretario  dei  memoriali  e,  dal  168 1, 
cardinale*  Cfr.  il  suo  Theatrum  veritatis  et  iustitiae . . .  Liber  quintus  de 
usuris  et  interesse;  par.  IX  de  cambiìs  .  . .,  Romae  1669,  e  di  questo  la  ridu- 
zione in  lingua  italiana,  Il  dottor  volgare:  se  ne  veda  il  Libro  quinto.  Il 
quale  contiene . . .  Parte  prima  delVusure  e  degl'interessi.  Parte  seconda  de* 
cambi.  . .,  Roma  1673.  3,  Ansaldo  de  Ansaldis  (1651-1719),  poeta  e  av- 
vocato, allievo  di  Ferrante  Capponi  e  del  De  Luca,  ricoprì  varie  cariche 
in  Curia:  fu  anche  uditore  della  Sacra  Rota  (1696).  Cfr.  la  sua  opera,  di 
carattere  eminentemente  pratico,  De  commercio  et  mercatura  discursus  lega- 
les,  plerumque  ad  veritatem  editi . .  .,  Romae  1689.  4.  Costantino  Cafaro 
(1600  circa-  1663),  architetto  (tino  al  1653  circa  fu  regio  ingegnere)  e  av- 
vocato, è  l'autore  dello  Speculum  peregrinarum  quaestionum  forensium  decì- 
sarum . .  .,  uscito  postumo,  a  Napoli,  nel  1665  a  cura  dei  figli  Niccolò  e 
Francescantomo.  5.  Dell'avvocato  Francesco  Rocco  (1605-1676),  giudice 
di  Vicaria,  consigliere  dal  1657  del  Sacro  Real  Consiglio,  si  vedano  soprat- 
tutto i  due  tomi  dei  Responsorum  legalium  cum  decisionibus  . .  .,  Neapoli 
1655*    6. principessa  dì  Tarsia:  cfr.  la  nota  3  a  p.  150. 


IXÓO  LETTERE 

ed  assicurarle  che  qxii  è  servita  con  ardenza,  e  che  bisogna  soffrire 
la  tardanza  connaturale  in  questo  clima. 

Saiutatemi  il  signor  Onofrio,  signor  Cailò,  e  non  vi  scordate  de' 
Vestani,  ed  avendo  tenuta  oggi  una  posta  molto  lunga,  non  mi 
fido  scrivere  di  vantaggio,  e  caramente  l'abbraccio. 


XIII 
A   CARLO   (MANNONK  ■  NAPOLI 

Vienna  \ma  Perchtoldsdorj  \  lì  /o  giugno  17. iti. 

Questa  sarà  l'ultima  lettera  che  vi  rispondo  da  Pettcrsdorf,  poiché 
il  giovedì  la  sera,  essendo  da  Laxcmburg  partita  la  Corte  per  Nai- 
stat,1  dove  si  fermerà  due  giorni,  per  proseguire  il  viaggio  di  (  il  rat/,, 
cominciano  gli  altri  a  seguitarla,  ed  i  nostri  regenti  questa  sera  si 
restituiranno  tutti  a  Vienna,  lo  penso  seguitarli  l'entrante  setti- 
mana, bisognando  trattenermi  qui  per  tutto  giovedì,  Ilo  ricevuta 
lettera  in  questa  settimana  dal  signor  Moscati,  al  quale  potrà  rive- 
rire da  mia  parte,  con  dirli  che  restituito  a  Vienna  m'abboccherò 
coi  signor  Mastellone  per  istradare  i  *suoi  affari,  allineilo  ne  solle- 
citi la  spedi/ione  di  quo*  dispacci,  che  per  ora  potranno  spedirsi, 
e  non  mancherò  darli  riscontro  di  ciò  che  si  sarà  fatto.  Al  carissimo 
signor  Ippolito  mille  saluti,  dicendoli  che  ho  ricevuta  in  questa 
settimana  una  gentilissima  risposta  dal  signor  regente  Castelli/  che 
mi  obbliga  a  replicargli,  come  fo,  per  essere  riconoscente  di  tanta 
cordialità  che  mostra  aver  meco;  non  tralasciando  ancora  di  scri- 
vermi le  finezze  che  vi  ha  fatto  sempre  che  ha  avuta  opportunità  di 
vedervi,  onde  non  tralasciaste  di  coltivare  la  sua  amicizia,  la 
quale  forse  potrà  giovarvi  più  di  qualunque  altra  affettata  e  con- 
templativa. 

Al  nostro  signor  Cirillo  altri  tanti  saluti,  ed  il  signor  cavaliere 
prima  di  partire  m'impose  che,  nel  caso  il  procaccio  giungesse  qui 
prima  ch'egli  sia  di  ritorno,  la  lettera  co'  frontispiar'  gliele  man- 

XIII.  B.N.R.,  F.V.IC.  358,  ce.  416H-4X8.  Ln  lettera  è  intHri'/fcata  a  Matteo 
MicatfHii.  -  i.Naistat:  Neuwtadt.  2.  Domenico  Castelli:  efr.  lu  nota  1  a 
p,  183.  Nella  seduta  di  Collaterale  del  4  aprile  1730  converrà  «nella  pro- 
scrimone  del  libro  [del  Sanfelice*),  come  cantra  botws  nmres  et  cantra  rega- 
lia! come  un  perpetuo  libello  famoso  da  princìpio  «ino  all'ultimo  contro 
Giannotto  e  suoi  fautori»  (cfr.  in  Ciannoniana,  p*  $2).  3,  signor  (  Hrilto  ♦ .  . 
frontispimi  il  Cirillo  aveva  annunciato  rinvio  di  alcune  «uc  note  erudite 


LETTERE  Il6l 

dassi  a  Gratz;  cotanto  vive  desideroso  di  vedere  il  fine  di  questa 
grande  opera  co'  suoi  propri  occhi.  Si  fa  il  conto  che  possa  resti- 
tuirsi qui  con  S.  M.  verso  li  princìpi  di  ottobre,  e  caramente  lo 
riverisce. 

Il  signor  abate  Acampora  con  ragione  si  stomaca  in  vedere  che  i 
compilatori  degli  «Atti  di  Lipsia»  tanto  si  travagliano  per  inten- 
dere le  fantastiche  ed  impercettibili  idee  del  Vico;1  quando  per  non 
torcersi  il  cervello  non  dovrebbero  nemmeno  fiutare  i  suoi  libret- 
tini ;  ma  bisogna  compatirli,  perché  alle  volte  manca  la  materia  per 
far  un  giusto  volume  di  quell'anno,  e  vi  affastellono  quanto  li  viene 
alla  mano.  Intorno  all'edizione  delle  Vigne  si  farà  la  diligenza  ap- 
presso i  padri  di  S.  Mauro,3  ma  io  stimo  vana  la  voce.  Quello  che 
di  reale  si  è  che  in  Germania  si  vanno  riscontranno  più  ms.  di 
quelle  epistole,  in  varie  biblioteche;  siccome  si  è  fatto  in  tre  esem- 
plari che  si  trovano  qui,  ed  io  fui  parlato  per  lo  riscontro  con  quello 
che  tiene  il  signor  principe  Eugenio  ;3  e  questi  signori  letterati  del- 
l'Imperio (perché  nell'Austria  se  n'è  perduta  la  semenza)  hanno 
la  bontà  di  scrivermi  spesso  di  qualche  raccolta  che  pensano  fare 
delle  cose  nostre,  atterriti  dalle  forte  reprensioni,  che  dicono  che 
io  fo  degli  scrittori  forastieri,  quando  vogliono  mettersi  a  scrivere 
delle  cose  altrui,  siccome  gli  anni  passati  accadde  a  Carlo  Stefano 
Giordano,  il  quale  stampò  in  Prislavia  una  dissertazione  de  lordano 
Bruno  Nolano*  ed  io  li  feci  sentire  che  non  avea  detto  la  metà  di 


(corto  quelle  premesse  alla  sua  edizione  dell'Etmuller:  cfr.  la  nota  4  a  p. 
1123).  Si  veda  la  lettera  del  29  maggio  1728  (B.N.R.,  F.V.E.  358,  e.  413), 
in  cui  il  Giannone  scrive  di  attendere  «con  desiderio»  l'esemplare  dell'o- 
pera destinatogli,  «per  aver  occasione  di  leggere  con  piacere  quelle  sue 
dotte  ed  erudite  note  ».  1 .  i  compilatori .  . .  Vico  :  nella  noterella,  comparsa 
nella  rubrica  Nova  liner  aria  degli  «Acta  Eruditorum  Lipsiensium  »,  ago- 
sto 1727,  p.  383,  contro  i  vichiani  Princìpi  di  una  scienza  nuova  (Napoli 
1725)  si  leggeva  tra  l'altro:  «Multo  labore  contra  Grotu  . . .  doctrinas  et 
principia  disputat,  ingenio  tamen  hic  magis  indulget  quam  ventati,  lon- 
gaque  coniecturarurn  mole  tandem  sibi  ipsi  deficiens  ab  ipsis  Italis  taedio 
magis  quam  applausu  excipitur  ».  Il  Vico  replicò  con  le  proprie  Vindiciae 
(Napoli  1729).  Per  più  ampie  notizie  cfr.  B.  Croce,  Bibliografia  vichiana 
accresciuta  e  rielaborata  da  F.  Nicoliniy  1,  Napoli  1947,  pp.  41-4»  194-5» 
199-201.  2.1  padri  di  S.  Mauro:  i  famosi  benedettini  del  convento  di 
Saint- Maur-des  Fossés,  che  diedero  vita  ad  una  delle  più  importanti  scuole 
d'erudizione  del  secolo  XVII-XVIII.  3.  siccome  . . .  Eugenio:  cfr.  la  let- 
tera del  23  giugno  1725,  qui  a  p.  n 50  e  la  nota  ivi.  4.  Carlo  .  . .  Nolano: 
il  letterato  Charles-Etienne  Jordan  (1700-1745)  di  origine  francese,  già  pa- 
store evangelista,  fu  segretario  dcll'allora  principe  ereditario  Federico  di 


Il  62  LETTERE 

quello  che  Nieodemo  uvea  raccolto  nelle  Addizioni  alla  Biblioteca 
di  Toppi:1  opera  da  lui  ignorata. 

Talché  in  questa  settimana  ini  scrive  da  Lipsia  il  celebre  Men- 
kenio  regolatore  di  questi  «Atti»,  ch'egli  voleva  far  una  raccolta 
delle  opere  di  Angelo  Poliziano  e  scriverne  la  vita,  ma,  se  io  non 
le  suggeriva  altre  notizie,  non  ardiva  darla  alla  luce.4  Li  risposi  che 
questo  non  toccava  a  me,  ma  a'  Fiorentini,  con  tutto  ciò  non  avrei 
mancato  scriverne  a'  letterati  napoletani,  che  se  mai  serbassero 
qualche  notizia  rara  ine  la  somministrassero.  Per  ciò  priego  il  si- 
gnor abate  che  se  avesse  da  avvertir  qualche  cosa  o  pure  qualche 
suo  amico,  me  l'avvisi,  affinchè  non  riesca  a  colui  il  ricorso  total- 
mente infruttuoso.3  Se  avrò  tempo,  forse  l'entrante  li  manderò4 
copia  della  lettera  scrittami;  ed  intanto  lo  priego  di  far  qualche 
diligenza.  Tornando  ora  all'edizione  delle  Vigne,  se  il  signor  abate 
non  vi  ha  impegno,  io  stimarci  che  si  dovesse  far  correre  questa 
che  si  sta  preparando  in  Germania,  perché  dagli  apparecchi  ed 
esatte  diligenze  che  si  fanno,  l'edizione  verrà  esattissima  ed  accre- 
sciuta, oltre  le  varie  lezioni  notate  in  più  esemplari;  e  si  aggiunge- 
ranno forse  con  tal'occasione  alcune  lettere  dell'arcivescovo  di 
Capita5  contemporaneo,  scritte  intorno  a  medesimi  successi,  che 
manoscritte  si  conservano  nella  Biblioteca  ("esarca,  e  non  sono 
uscite  ancora  alla  luce.  Tenga  il  signor  abate  tutto  coti  so,  e  me  ne 
dia  il  suo  sentimento  con  tutta  libertà,  e  veda  cptel  che  io  debba 
fare  per  servirlo. 

La  logge  che  mi  scrive  ora  promulgata  io  la  lessi  molto  tempo 
prima,  e  mi  ricordo  che  ebbi  con  tal  occasione  a  ricordarli  la  gaza 


Prussia  (il  C  «nitide).  11  Giannonc  alludo  qui  alla  Disquisitilo  historico-lìtcraria 
de  lordano  Urtino  f  Nolano  r  Primittlaviue  [i72Ó|.  x.  Nicodvmo  .  ,  .  Toppi: 
vedi  la  notti  3  a  p.  51:.  2.  Talché . .  .  luce:  oÌV.  Vita,  qui  u  p.  165  <;  lo  note 
a  e  3  ivi.  La  lettera  di  Friedrich  Otto  Meueke,  secondo  il  Pankinx,  p.  52, 
era  datata  21  aprile  1728.  3.  Li  risposi . .  .  infruttuoso:  il  Giannonc  inter- 
pellò il  CapiuMo,  l'abate  Acampora  e  il  fiorentino  Bartolomeo  Intieri,  che 
fungeva  da  tramite  con  il  dottissimo  bibliotecario  di  Firenze  Giovanni 
Bottari.  Ricordiamo  che  il  Meneke,  nella  prefazione  alla  mia  1  Ustoria  vitae 
et  in  lìteras  meritorum  Angeli  Politlani  « ,  .,  Lipsia**  *73°»  ringraziò  pub*, 
biicamente  il  Giurinone  e  gli  altri  studiosi  italiani  che  lo  avevano  aiutato» 
Cfr.,  infine,  in  A.H.T.,  manoscritti  (fiatinone,  mastsso  1,  inn.  q,  le  Notizie 
intorno  ad  Angelo  Poliziano  e  sue  opere  (Giannoniana,  p.  409).  4.  li  man- 
derò: con  la  lettera  a  Curio  in  data  26  giugno  1728  (efr.  Giannoniana,  n.° 
*57)'  5*  arcivescovo  di  Capita:  Iacopo  (morto  nel  1247),  giù  vescovo  di 
Patti  q  traslato  all'arcivescovado  di  Capua  da  Onorio  IH  nel  1225.  Fu 
•vicino  a  Federico  II  di  liohenataufen,  che  segui  in  Palestina  (1227). 


LETTERE  I163 

dell' Ariosto.1  Se  l'inviati2  straordinario  ed  ordinario,  che  mi  ac- 
cenna, sono  que'  che  m'immagino,  saranno  molto  inutili  ed  in- 
fruttuose le  loro  missioni,  poiché  delle  cose  di  questa  Corte  non  ne 
sanno  la  corteccia.  Comunque  sia,  attenda  a  regolarsi  con  prudenza 
e  tirare  innanzi  fintanto  che  Dio  vorrà;  e  sono  ottimi  i  desideri  di 
far  passare  alcuno  qui  per  rinforzare  il  commando,  ma  non  so  se  si 
possono  prometter  tanto,  che  a'  desideri  possa  corrispondere  l'ef- 
fetto. 

Il  signor  Dattilo  credo  che  intenderà  delle  Fraile  nipoti  del 
consigliere  Plekner,  colle  quali  l'anno  passato  mi  vide  a  Petters- 
dorf,3  e  sono  ora;  e  poiché  egli  non  ha  veduto  che  la  corteccia  del 
paese,  non  vi  avrà  potuto  dir  niente  delle  rare  virtù  che  l'accom- 
pagnano. Il  signor  regente  Ventura  pure  mi  scrisse  la  passata  setti- 
mana che  il  medesimo  l'avea  date  «distinte»  relazioni  di  tutti  noi 
che  siamo  qui,  ma  mi  fece  ridere  quella  parola  «distinte»,  poiché 
ciò  non  era  da  pretendersi  o  sperarsi  dal  medesimo,  e  per  ciò  ho 
riputato  con  verità  li  suoi  rapporti  pieni  di  esaggerazioni. 

Salutatemi  il  carissimo  signor  Mela,  signor  Capasso,  signor  Ono- 
frio, e  tutti  gli  amici,  ed  il  simile  facendo  a'  nostri  Vestani,  resto 
caramente  abbracciandolo. 


XIV 
A  CARLO   GIANNONE  •  NAPOLI 

Vienna  li  7  maggio  1729. 

Sento  per  la  sua  ricevuta  in  questa  settimana  che  i  tempi  piovosi 
avranno  impedito  al  signor  consigliere  Grimali4  e  signor  abate 
Garofalo  il  rispondermi,  onde  attenderò  nell'entrante  le  loro  let- 
tere, potendo  intanto  salutarli  in  mio  nome  carissimamente.  In 
quanto  mi  soggiunge,  poiché  questa  lettera  non  dovrà  mostrarla  a 
niuno,  e  sottrarvi  dall'impertinenze,  con  rispondere  non  averne  ri- 
cevuto, dico  che  fa  bene  dissimular  costà  il  tutto,  siccome  fo  io 

1.  la  gasa  dell'Ariosto:  cfr.  Sat,  ni,  109-50.  2.  Gli  inviati  della  città  di 
Napoli  a  Vienna.  3.  .Frate.  . .  Pettersdorf:  cfr.  Vita*  qui  a  pp.  150-1; 
Fraile  sta  per  Fràulein. 

XIV.  B.N.R.,  F.V.E.  358,  ce.  475-477^-  La  lettera  è  indirizzata  a  Mat- 
teo Micaglia.  -  4.  Grimali:  Grimaldi  (deve  trattarsi  di  un  errore  del  co- 
pista). 


1164  LETTERE 

qui;  ma  questo  non  deve  impedire  che  ciascuno  veda  aggiustar  i 
fatti  propri.  Sicché,  tirando  avanti  il  successo  in  cotesto  ("oliatemi 
Consiglio,  affinché  possiamo  valersene  ed  usarlo  con  profitto»  potrà 
essere  dal  nostro  signor  Capasse)  e  coinmuuiearli  che  avendomi 
mandato  il  signor  secretarlo  Fraggianni  in  questa  settimana  copia 
sì  del  decreto  come  del  bando,'  e  latta  conferenza  col  signor  cava- 
liere, abbiamo  risoluto  ora,  senza  aspettare  il  libro,  perché  il  pro- 
caccio non  e  ancor  giunto,  di  non  doversi  far  altro  che  questo: 
mandare  in  Lipsia  la  copia  de'  medesimi  e  della  Prammatica  che 
si  rinoverà,  e  negli  «Atti»,  sotto  la  rubrica  delle  Novelle  letterarie, 
farveli  stampare  sotto  il  mese  d'aprile  di  quest'anno.  Crede  il  si- 
gnor cavaliere,  che  in  ciò  vuol  anche  seguitare  il  parere  del  signor 
Capasso,  che  il  medesimo  non  ripugnerà,  onde  quel  che  lo  pre- 
ghiamo si  è  per  non  esporsi  a'  traduttori  di  Lipsia,  che  non  inten- 
dendo bene  l'italiano  sovente  stroppiano  i  sensi,  che  faccia  il  favore 
di  stendere  in  latino  questa  novella,'*  ragguagliando  ehi  fosse  l'au- 
tore nascosto  sotto  il  nome  di  Muschio  Filopatro:  essere  il  padre 
Sanfelicc  non  già  della  famiglia  legittima  di  questo  casato,  ma  ba- 
stardo; averlo  fatto  stampare  in  Roma,  ancorché  portasse  la  data 
di  Colonia;  e  che,  mandato  in  Napoli,  cominciò  prima  a  vendersi 
nella  porteria  del  Collegio  de'  Gesuiti;  poi  si  ebbe  l'ardimento  di 
farlo  esporre  venale  in  una  bottega  d'un  lor  librare;  di  che  aceor- 


i.  avendomi .  .  .  bando:  alludo  al  rinnovo  della  prammatica  contro  l'intro- 
duzione nel  remilo  eli  Napoli  di  libri  stampati  all'estero  e  privi  della  pre- 
scritta licenza  e  al  bando  comminato  per  la  trasgressione  delle  disposizioni 
previste  dalla  prammatica  «tessa  contro  l'opera  e  l'autore  delle  Riflessioni 
morali  e  teologiche  sopra  V  Istoria  civile  del  refino  di  Napoli,  esposte  al  pub- 
blico in  più  lettere  familiari  di  due  amici  da  Eusebio  Filopatro  leìofc  du  Giu- 
seppe Sanfelicc:  efr.  la  nota  3  a  p.  167],  Colonia  (ma  Roma)  1728.  La 
prammatica  e  il  bando  furono  pubblicati  il  tu  aprile  1720;  si  vedano,  in 
(jiannoniana,  pp.  48-55,  gli  «tralci  delle  sedute  del  Collaterale  per  opera 
del  segretario  del  Restio  Nicola  Fraggianni  (per  cui  efr,  la  nota  1  a  p.  03), 
e,  alle  pp.  434*61  la  Memoria  sullo  stesso  argomento  destinata  ad  Kugeuio 
di  Savoia.  2.  mandare. . .  novella:  in  realtà  la  nota  (rimaneggiata,  però, 
da  Friedrich  Otto  Menckc)  sull'opera  del  Sanfelicc  e  le  notizie  concer- 
nenti il  bando  e  la  prammatica  apparvero  nella  rubrica  Nova  titteraria 
degli  «Actu  Eruditorum  Lipsicnsium»  del  settembre  (e  non  aprile)  1729, 
pp.  423-4.  Sui  motivi  delle  modifiche  apportato  al  testo  del  Capasso  (non 
pervenutoci,  ma  di  cui  abbiamo  la  traccia  stilata  dal  Giurinone)  si  veda  la 
lettera  a  Carlo  del  30  luglio  1729,  in  D.N.R.,  F.V.K.  358,  e.  4W.  Ricor- 
diamo, infine,  che  in  questa  nota  si  rinvia  alla  recensione  dell'Atomi  civile 
(Napoli  1723,  tomo  1)  pubblicata  nel  supplemento  degli  «Àeta»  del  «729 
(tomus  ix,  scotio  v,  pp.  194-200). 


LETTERE  I165 

tosi  il  signor  viceré  conte  d'Harac,1  fece  esaminar  il  libro  e  proporlo 
in  Collaterale,  e  trovatosi  ingiurioso  alla  potestà  de'  principi,  pieno 
di  contumelie  e  calunnie,  dannò  il  libro,  lo  proscrisse  età,  com- 
mandò rinovarsi  la  Prammatica  etc,  e  diede  bando  al  medesimo 
che  non  accostasse  più  nel  Regno,  né  negli  altri  Stati  di  S.  M.; 
e  perché  si  trova  in  Roma,  furono  mandate  insinuazioni  al  cardinal 
Cinfuegos,2  che  non  gli  spedisse  passaporti  e  facesse  intendere  a' 
superiori  Gesuiti  la  deliberazione  del  signor  viceré  e  del  Collateral 
Consiglio,  siccome  fu  fatto  sentire  a'  superiori  di  Napoli.  Ed  in 
esecuzione  del  quale  fu  spedito  il  seguente  bando,  che  bisognerà 
tradurlo  in  latino.  Poi  inserirvi  anche  la  nuova  Prammatica  pure 
tradotta  in  latino.  Aggiungervi  qualche  cosa  della  soddisfazione 
ricevuta  dal  pubblico  e  della  commendazione  universalmente  data 
al  signor  viceré  e  Collaterale,  con  tutto  ciò  che  stimerà  più  proprio 
in  lodando  il  suo  governo  e  zelo  verso  il  servizio  di  S.  M.  e  riposo 
de'  suoi  sudditi,  in  così  castigando  i  calunniosi  e  maligni,  etc. 
Dettata  che  il  signor  Capasso  l'avrà  con  suo  aggio  e  commodità, 
potrà  mandarmela,  affinché  veduta  dal  signor  cavaliere  possa  man- 
darla in  Lipsia  al  signor  Menckenio.  Siccome  non  si  dimentichi, 
stampato  che  si  sarà  il  bando  e  la  Prammatica,  mandarmene  per  la 
posta  più  esemplari,  uno  de'  quali  bisogna  pure  mandarlo  in  Lip- 
sia, affinché  se  vorranno  ristamparlo  in  italiano,  faccino  come  vo- 
gliono. 

Il  signor  viceré  ha  mandato  a  S.  M.  un  esemplare  del  libello 
famoso3  che  si  è  rimesso  in  questo  Consiglio,  ed  ora  si  trova  in 
mano  del  secretano  Bermuda,4  dal  quale  io  avrei  potuto  averlo, 
ma  non  ho  voluto  perché  il  procaccio  si  aspetta  a  momenti,  onde 
potrò  aspettare  altri  pochi  giorni.  Penso  far  un  catalogo  solo  delle 
calunnie,  e  manoscritto  portarlo  attorno  a  questi  signori  regenti, 
perché  non  voglio  perder  tempo  di  notar  gli  errori,  che  suppongo 
che  siano  così  prodigiosi  e  grossi,  che  non  avran  bisogno  di  chi 
gli  scopra  a'  lettori. 

Il  signor  principe  Eugenio  ebbe  sommo  piacere  in  aver  le  copie 
del  decreto  e  bando,  e  mi  disse  volerne  scrivere  al  signor  viceré, 
lodandolo.  Altre  se  ne  son  fatte  per  S.  M.,  e  tutti  i  buoni  amici 


x.  conte  d'Harac:  cfr.  la  nota  4  a  p.  136.  a.  cardinal  Cinfuegos:  cfr.  la  nota 
2  a  p.  130.  3.  libello  famoso:  cfr.  la  nota  a  a  p.  171.  4.  Bermuda:  Ber- 
mudez. 


IIÒ6  LETTERE 

han  lodata  la  composizione  e  goduto  del  buon  successo,  toltone, 
come  vi  scrissi,  i  nostri  idioti  mastri  Francischi.1 

Salutatemi  caramente  il  nostro  signor  Contorna,  con  dirli  che  il 
signor  duca*  ò  passato  alla  casa  del  baron  Pi  lati,  ed  io  sarò  nell'en- 
trante a  riverirlo.  Salutatemi  il  signor  Ippolito,  signor  Cirillo, 
signor  Mela,  di  cui  non  se  ne  ha  più  novella,  signor  Onofrio,  e 
tutt'i  buoni  amici,  e  lo  stesso  facendo  a'  nostri  Veslani,  resto  cani- 
mente  abbracciandolo.  Al  signor  Fraggianni  li  dica  che  io  gli  ri- 
spondo a  direttura. 


xv 

A   CARLO   OIANNONR  •  NAPOLI 

Vienna  li  <V  ottobre  /?jq. 

Mi  porta  assai  più  disturbo  la  vostra  lettera  ricevuta  in  questa  set- 
timana in  sentire  che  né  peranche  avete  ricevuto  il  mio  secondo  pie- 
go, che  v'indrizssai  doppo  il  primo,3  che  non  mi  dà  noia  la  vostra 
lunga  predica.  Sono  per  ciò  con  impazienza  aspettando  l'entrante 
settimana,  che  devo  avere  riscontro  del  terzo  e  se  l'avrà  ricevuto 
potrò  lusingarmi  e  sperare  che  se  quello  si  trova  smarrito,  non  sarà 
per  altro,  che  per  trascuraggine  di  questi  ufficiali,  e  che  lo  riceverà 
quando  meno  se  l'aspetta. 

Intorno  poi  a  quanto  declamate  secondo  anche  i  sentimenti  del 
signor  Capasse),  certamente  che  ci  fa  meraviglia,  se  non  che  il  me- 
desimo, essendo  uscito  di  fresco  da'  Criminali,  li  parrà  ogni  cosa 
criminale.  Credevamo  col  signor  cavaliere  sentire;  una  censura 
molto  severa  e  rigida,  ma  così  acerba  e  crudele  non  potevamo 


x.  *  nostri . . .  Francischi:  alludo  txLV  entourage  della  Nunziatura  di  Vienna. 
2.  Il  duca  Carafa  di  Maddaloni  era  «tato  chiamato  a  Vittima  dall'impera- 
tore, per  discolparsi  dall'aecuna  di  essere  «tato  il  mandante.  dell'assassinio 
di  un  notaio  napoletano.  Fu  difeso  dal  Giurinone:  si  veda  in  Vita,  qui  a 
p.  X50. 

XV.  B.N.R.,  F.V.1C.  358,  ce.  505-50ÓV.  La  lettera  b  indirtata  a  Matteo 
MicagUu.  -  3.  in  sentire . . .  t7  primo  :  il  CJiannonc»  aveva  spedito  a  Napoli 
la  copia  della  risposta  al  Sanfelice  (cioè  la  Professione  di  fede:  si  veda  qui 
allo  pp.  475  sgK.)>  predando  il  Capaaao  e  gli  altri  amici  napoletani  di  voler 
dare  il  loro  parere  sul  lavoro,  così  come  già  in  precedenza  aveva  sottoposto 
al  loro  giudizio  il  testo  &e\V  Apologia  dell'Istoria  civile,  Cfr,  per  questo  la 
lettera  a  Carlo  del  6  agosto  X729  (H.N.R.,  F.V.K.  358»  e.  494»), 


LETTERE  I167 

aspettarcela,  né  credercela,  doppo  aver  letto  il  suo  Omero.1  Si  sarà 
il  medesimo  dimenticato  del  nuovo  Evangelio  stampato  in  mezzo 
Pariggi,  tratto  dall'Istoria  del  Concilio  del  Pallavicino,2  che  contiene 
articoli  di  dottrina  assai  più  scandalosa  e  ridicola  che  non  è  quella 
contenuta  in  quella  Professione.  E  gli  articoli  secondari  sono  per 
lo  più  presi  dalle  Conformità  Franciscane2  e  dall' 'Istoriale  di  san- 
t'Antonino,4 scrittore  da  Melchior  Cano5  istesso  domenicano  di- 
chiarato per  visionano  e  leggiero,  non  men  che  furono  e  sono 
riputati  da  tutti  quelle  scurrilità  franciscane. 

Io  poi  non  stampo,  né  ne  fo  schiamazzi;  mando  quella  mia  Pro- 
fessione al  mio  padre  spirituale,  e  se  vorrà  egli  pubblicarla,  io  l'ac- 
cuserò al  S.  Ufficio,  che  ha  rivelata  la  mia  confessione,  e  posso  ad 
altri  ben  negare  i  miei  peccati.  È  troppo  dura  questa  legge,  che  com- 
manda di  non  potersi  rispondere  a  lettere  pubbliche  e  stampate, 
nemmeno  con  una  manuscritta  ed  in  confessione.  La  maraviglia 
non  dovrà  averla  il  signor  Capasso  solamente  dal  signor  cavaliere, 
ma  da  quanti  amici  fedeli  e  leali,  che  qui  l'hanno  letta,  e  che  sanno 
tener  il  secreto  sin  tanto  che  bisognerà.  Ed  ora  si  procura  che  colla 
stessa  diligenza  serve  di  divertimento  a'  ministri  supremi,  e  forse 
avrà  la  fortuna  di  passare  sotto  occhi  assai  più  alti  e  sublimi.  Sic- 
ché non  credete  che  se  mai  si  verrà  a  qualche  passo,  non  siegua 
doppo  matura  riflessione  e  doppo  che  ci  saremo  accertati  che,  se 
mai  venissero  ricorsi  e  riclamori,  non  fosse  tutto  già  prevenuto,  e 
stiano  appieno  intesi  quelli  a'  quali  è  lor  consueto  di  ricorrere  e 
far  querele.  Oltre  che  Roma  presentemente  sta  nella  maggior  abiez- 
ione e  pessimo  concetto  che  mai,  per  le  tante  mostruosità  che  si 

i.  Usuo  Omero:  cioè  la  traduzione  in  dialetto  napoletano  dell'Iliade,  giunta 
fino  al  III  canto,  fatta  dal  Capasso,  di  cui  si  parla  frequentemente  nell'epi- 
stolario giannoniano.  2.  nuovo  . .  .  Pallavicino:  vedi  la  nota  2  a  p,  179. 
3.  Conformità  Franciscane:  si  tratta  della  celebre  opera  agiografica  fran- 
cescana De  conformìtate  vitae  beati  Francisci  ad  vitam  Domini  lem  che  il 
pisano  Bartolomeo  da  Rinonico  scrisse  tra  il  1385  e  il  1390  (una  recente 
edizione  critica  in  due  volumi  è  pubblicata  negli  Analecta  Francescana, 
iv-v,  Ad  Claras  Aquas  [Quaracchi],  1906-1912).  Un'edizione  del  De  con- 
formiate figura  nella  biblioteca  garelliana:  cfr.  M.  Denis,  Die  Merkwurdig- 
keitcn  ecc.,  cit.,  pp.  448-9.  4.  Istoriale  di  sant'Antonino:  vedi  la  nota  3  a 
p.  180.  L'opera  di  sant'Antonino  è  il  corrispettivo,  per  l'agiografia  domeni- 
cana, dell'opera  di  Bartolomeo  da  Rinonico.  5.  Melchior  Cano  (1509- 
1560),  oratore  e  teologo  domenicano  spagnolo,  professore  ad  Alcalà  e 
a  Salamanca,  teologo  imperiale  (155 1)  al  Concilio  di  Trento,  vescovo 
nel  1552  (ma  rinunciò  all'incarico),  fu  noto  soprattutto  per  il  De  locis 
theologicis:  cfr.  gli  Opera  . .  .,  edidit  R.  Vadilaus,  Coloniae  Agrippi- 
ne 1605. 


II 08  IATTURE 

sentono  sotto  questo  pontificato.  Ed  airinconlro  non  si  minacciali 
clic  nuovi  insulti,  ed  alla  giornata  si  sentono  millanterie,  che  ora 
stia  scrivendo  un  francescano,  ora  un  altro.  Tutti  della  feccia  degli 
uomini,  come  sono  per  lo  più  oggi  que'  che  contano  in  Roma. 

Qualche  nostro  gesuita,  ch'è  qui  co'  suoi  idioti  paesani,  non 
cessa  nelle  occasioni  stimolar  la  pazienza  mia  infinita,  ed  in  questa 
settimana  ho  saputo  che  in  sua  stanza  si  facea  galloria,1  perché  un 
sciocchissimo  autore  avea  stampato  in  Venezia  un  indice,  nel  quale 
arroilava  tutti  gli  scrittori  italiani,  fra'  quali  poneva  me,  dando 
giudicio  della  mia  opera  e  dicendo  ch'era  venuta  molto  rara,  per- 
ché ne  furono  bruggiati  più  essemplari.  Si  segnava  il  foglio  di 
quest'indice,  per  mostrarlo  a  chi  vi  capitava.  Tal  che  si  è  scritto  a 
Venezia  a  persone  di  conto  per  obbligare  quel  impostore,  o  impo- 
sturato, a  ritrattarsi.*  Sicché  non  si  finirà  mai  questa  baia,  se  non 
ne  resterà  uno  ben  concio,  e  pelato  per  essempio  degli  altri.  Per 
finirla,  non  occorrano  tante  prediche.  Non  si  darà  alcun  passo,  se 
non  doppo  che  il  tutto  sarà  ben  preveduto,  e  colla  maggior  cautela 
immaginabile.  Intanto  starà  bene  che  i  fogli  mandati,  quali  prego 
Iddio  che  vi  capitino  tutti,  in  forma  di  libro,  li  conservi  il  signor 
abate  Garofalo,  al  quale  più  diffusamente  scrivo  sopra  questa  ma- 
teria; e  so  bisognerà  al  medesimo  qualche  denaro  per  farne  fare 
una  copia  ben  pulita  e  corretta,  e  poi  si  stimasse  farne  qui  perve- 
nire una  per  la  posta  drizzata  a  quel  gesuita,  potrà  somministrarli 
anche  la  spesa  dell'affrancatura  del  piego.  So  che  la  maggior  diffi- 
coltà vostra  sarà  di  non  aver  denari  per  far  queste  spese.  Ma  in 
questo,  almeno,  il  nostro  signor  Mela  in  conto  potrebbe  sommi- 
nistrarli questi  pochi  carlini  o  ducati  che  possano  arrivare,  perché 

x.  galloria*,  manifestazione  rumorosa  in  segno  di  compiacimento  e  soddi- 
sfuxionc.  2.  un  sciocchissimo  ...  ritrattarsi:  efr.  N.  b\  Haym,  lìiblioteca 
italiana,  0  sia  notizia  de1  filtri  rari  nella  lingua  italiana  . . ,  Annessovi  tutto  il 
libro  dcW 'Eloquenza  italiana  di  monsig.  (iìusto  Fontamm  . .  .,  Venezia  1728. 
La  correzione  protetta  dal  Giannono  non  fu  mai  accolta!  efr*  nel  tomo  1 
dell'edizione  di  Milano,  1771,  p.  90:  «Opera  «orina  con  molto  fuoco,  e 
troppa  libertà.  Uopo  la  Storia  del  presidente  Tuuno  si  vuole  non  sia  sortita 
la  migliore  di  questa.  Fu  condannata  dalla  Chiotta,  e  lu  maggior  parte  delle 
copio  delia  prima  edus.  furono  abbruciate  per  ordine  superiore,  perciò  è 
assai  rara»).  Si  noti,  del  resto,  che  lo  Haym  non  diceva  espressamente  che 
l'Istoria  civile,  fosse  stata  bruciata  per  mano  del  carnefice,  ed  era  d'altra 
parte  nel  vero  quando  asseriva  che  il  clero  ai  preoccupò  di  venire  in  pos- 
sesso della  maggior  parte  possibile  delle  copie  per  distruggerle:  cfr.  a 
questo  proposito  la  lettera  dell'arcivescovo  di  Atene,  vicario  torinese,  pub- 
blicata in  MfiRTKi-u,  pp,  332-5. 


LETTERE  1169 

ben  conosco  che  non  bisogna  pretender  complimento,  perché  du- 
rerà ancora  la  penuria.  Salutatemi  il  signor  Ippolito,  signor  Cirillo, 
signor  Onofrio,  e  tutti  gli  altri  amici;  ed  il  simile  facendo  a'  nostri 
Vestani,  resto  caramente  abbracciandolo. 


XVI 
A   RAMON   DE   VILHENA,  MARCHESE   DI   PERLAS   RIALP1 

VIENNA 

[febbraio-marzo  1730."] 

il  signor  conte  Ferdinando  d'Harrac  figliuolo  del  signor  viceré 
trasmetterà  nell'entrante  settimana  da  Napoli  un  piego  diretto  al- 
l'ecc.mo  signor  marchese  di  Rialp,  dentro  il  quale  a  forma  di  libret- 
to vi  è  una  distinta  relazione  manuscritta  diretta  al  signor  cavaliere 
Garelli,  nella  quale  da  persona  molto  savia  e  che  ha  soggiornato 
in  Roma  24  anni,  ed  ha  osservato  i  più  reconditi  arcani  di  quella 
Corte,  ed  ha  conosciuto  i  caratteri  delle  persone,  che  oggi  com- 
pongono il  collegio  de'  cardinali,  si  dà  distinta  relazione  delle  in- 
clinazioni ed  umori  de*  medesimi,  per  regolare  con  prudenza 
l'importantissimo  affare  del  futuro  conclave  ;a  affinché  avendo  l'o- 
nore d'esser  letta  da  S.  M.  possa  col  suo  alto  sapere  prevenire  le 
gabale  e  gl'intrichi  a'  quali  si  veggono  preparati  gl'invidiosi  della 
gloria  di  S.  M. 

Dee  ancora  portarsi  alla  notizia  del  signor  marchese  come  si  è 
scoverto  che  in  Napoli  un  altro  gesuita  chiamato  il  padre  Auria3 

XVI.  A.S.T.,  manoscritti  Giannone,  mazzo  11,  ins.  15,  C,  4.  Autografo. 
Memoria  per  V eccellentissimo  signor  marchese  di  Rialp:  cfr.  Giannoniana, 
pp,  439-40.  -  1.  Rialp:  cfr.  la  nota  4  a  p.  98.  2.  del  futuro  conclave:  que- 
sta memoria  è  priva  di  datazione,  ma  essa  può  ricavarsi  proprio  da  questo 
passo,  da  unirsi  all'accenno  che  più  sotto  è  fatto  all'opera  del  padre  Sanfe- 
Hce.  Poiché  infatti  le  Riflessioni  morali  apparvero  a  Roma  nel  1728,  non 
può  che  trattarsi  del  conclave  che  seguì  la  morte  di  Benedetto  XIII  (21 
febbraio  1730).  È  ben  vero  che  il  conclave,  dal  quale  doveva  uscire  eletto 
Lorenzo  Corsini,  durò  quattro  mesi,  essendosi  concluso  soltanto  il  12  lu- 
glio, ma  si  noti  che  qui  si  parla  del  «futuro  »  conclave.  Siamo  cioè  nei  giorni 
immediatamente  seguenti  la  morte  del  papa,  comunque  avanti  il  5  marzo, 
giorno  in  cui  i  cardinali  si  chiusero  in  conclave.  Anche  tenendo  conto  del 
ritardo  con  cui  la  notizia  pervenne  a  Vienna,  non  dobbiamo  allontanarci 
da  questa  data  per  fissare  la  cronologia  di  questa  memoria.  3.  il  padre 
Auria:  su  questo  personaggio  si  vedano  in  Giannoniana^  pp.  34-Sj  le  ipo- 
tesi avanzate  per  individuarne  l'identità;  ma  il  problema  è  rimasto  irri- 
solto. 


1170  LKTTRRK 

stava  stampando  un'opera  voluminosa  in  4  tomi  in  foglio,  della 
quale  essendosene  tirati  i  fogli  del  primo  tomo  si  è  seoverto  che 
l'opera  non  era  meno  satirica  e  contumeliosa  di  quella  del  padre 
Sanfelicc,  e  nella  quale  si  malmenavano  i  punti  più  importanti 
della  giurisdizione  e  regalie  di  S.  M.  a  tal  segno  che  i  (Jesuiti 
stessi  di  Napoli,  scorgendo  tanta  impudenza,  sono  ricorsi  al  signor 
presidente  Argento  delegato  della  Rogai  Giurisdizione  e  fattali 
istanza  di  ordinare  la  soppressione  ed  il  ritiramento  de*  libri  del 
suddetto  padre  Auria,  compromettendosi  di  pagare  la  spesa  allo 
stampatore  Felice  Mosca  acciò  non  proseguisse  la  stampa  e  con- 
sonassi i  fogli  tirati.1  K  come  che  si  teme  che  questi  ricorsi  de' 
Gesuiti  non  siano  apparenti  per  deludere  il  delegato,  ed  intanto  di 
soppiatto  far  proseguire  la  stampa,  si  priega  scrivere  al  signor 
viceré  0  all'istesso  signor  presidente  Argento  che  avverta  coti  som- 
ma vigilanza  in  questo  aliare  con  farne  relazione  a  S.  M.  della 
verità  dell'occorso. 

In  ultimo  si  priega  il  signor  marchese  di  Rialp,  con  darli  notizia 
come  il  povero  Giannone  non  solo  vien  bersagliato  da  tante  parti, 
ma  quel  che  più  li  preme  è  che  il  suo  assegnamento  fattoli  delli 
fiorini  80  il  mese  sopra  i  reali  diritti  della  spedizione  di  Sicilia, 
li  vien  mancando  ed  il  signor  don  Giovanni  Llacuna  officiai  mag- 
giore della  Secretoria  del  Suggello,  sono  passati  già  tre  mesi  che 
non  lo  paga,  mandandoli  sempre  a  dire  non  esservi  denaro,"  per 
essere  mancata  in  gran  parte  la  spedizione  di  quel  Regno,  e  che 
non  corre  ora  come  prima.  Sicché  vedendosi  in  così  mal  partito, 
rinova  le  suo  suppliche  al  signor  marchese  con  pregarlo  vivamente 
a  non  trascurarlo  nella  provista  che  fra  breve  occorrerà  da  farsi  nel 
Consiglio  di  S.  Chiara  di  Napoli:  dove  oltre  la  piazza  ordinaria 
che  vaca  per  la  morte  del  consigliere)  ibrasticro  e  per  ciucila  che  si 
teme  fra  breve  di  dover  vacare,  stante  la  gravissima  infermità  del 
consigliere)  Pania  itti,  che  vien  disperato  da'  medici  di  poter  più 
lungamente  vivere,  sono  ancora  da  provvedersi  le  due  piazze  so- 
pranumerane, che  ancor  vacano:  ed  oltre  ciò  facendosi  passare 
all'essercizio  di  reggente  in  Collaterale,  il  reggente  Paterno,3  questi 

x.s  Gesuiti  stessi . . .  tirati:  malgrado  ogni  ricerca  non  è  stato  possibile 
rintracciare  nò  il  ricorao,  né  gli  atti  del  «equestre»  presso  il  tipografo  tra 
ic  carte  della  Giunta  di  GiuriHdhaone  delPArchivio  di  Stato  di  Napoli. 
2,  il  suo  assegnamento  , . .  denaro:  efr.  in  Vita,  qui  alle  pp.  189-90.  3»  ihx 
Ludovico  Paterno  era  stato  avvocato  lineale  del  Real  patrimonio  (efr.  PAN- 
ZINI,  p.  33). 


LETTERE  II71 

lasciarebbe  un'altra  piazza  vacante  nel  Consiglio  di  S.  Chiara.  Vi 
sarebbero  adunque  più  occasioni  di  poter  godere  della  beneficenza 
di  S.  M.  e  nell'istesso  tempo  levarlo  da  tali  angustie.  Ch'è  quanto 
umilmente,  con  tutto  lo  spirito  deve  supplicarla. 


XVII 
AI)  ALOIS  THOMAS   RAIMUND   D'HARRACH  •  NAPOLI 

Illustrissimo  ed  eccellentissimo  signore,  signore  e  padrone  mio 
sempre  colendissimo. 

Non  mcn  li  passati,  che  li  presenti  favori,  che  ricevo  dalla  somma 
benificenza  e  magnanimità  di  V.  E.,  mi  obbligano  per  mezzo  di 
questo  mio  riverente  foglio  e  per  l'interposizione  del  degnissimo 
signor  conte  suo  figlio,  degnissimo  auditor  di  Ruota,1  di  rendere 
a  V.  E.  vivissime  grazie  di  quella  benignità  e  protezione  che  si 
degnò  V.  E.  mostrare  al  signor  abbate  don  Biagio  Garofalo,  che 
non  si  sarebbe  dimenticata  di  me  suo  umilissimo  servidore  nel- 
l'occasione della  terna  dell'avvocazia  fiscale  di  questo  Consiglio  di 
Spagna.2  Di  tanta  benignità  e  cortesia  ne  rimanessi  sorpreso  e  con- 


XVII.  B.N.R.,  K.V.E.  359-360,  ce.  63-63?;.  -  1.  signor  conte .  .  .  Ruota:  il 
conte  Johann  Ernst  von  Harrach  (1705-1739),  auditore  di  Rota  a  Roma 
nel  1732,  croato  vescovo  di  Neutra  (Ungheria)  nel  novembre  1737.  2.  che 
si  degna  .  .  .  Spagna:  nel  manoscritto  segue,  a  questa  lettera,  copia  della 
missiva  del  Garofalo,  priva  di  data,  e  che  dice:  «essendo  l'altro  giorno  an- 
dato a  visitare  il  signor  viceré*  alla  Barra,  procurai  di  far  entrare  nel  di- 
scorso la  sua  degnissima  persona  con  insinuare  al  suddetto  signore  che 
olla  dovea  ossero  impiegata  in  ministerio  di  sommo  grado,  per  le  prerogati- 
ve 0  rari  preggi  delle  cognizioni  che  l'adornano,  e  ch'ella  m'avea  sempre 
scritto  delle  somme  lodi  di  monsignor  uditore  suo  degnissimo  figlio;  con 
tale  occasione  egli  uscì  nel  discorso  meco  di  avere  avuto  insinuazione  da 
un  suo  amico  di  cotcsta  Corte  di  nominare  V.  S.  illustrissima  in  una  terna 
di  eonsigliero  di  S.  Chiara,  ma  che  temeva  di  qualche  rumore  del  popolo. 
À  questo  io  risposi  esser  detti  e  parole  de'  vostri  malevoli  e  di  coloro  che 
temono  del  vostro  grande  ingegno  e  del  sommo  zelo  che  avete  per  le  rega- 
lie cesaree,  e  che  tal  richiesta  forse  non  era  per  venir  qui  per  consigliero, 
ma  solo  per  una  certa  qualificazione  e  graduazione,  che  vai  molto  appresso 
li  Spagnoli  che  regolano  cotesta  Corte,  benché  per  altro  ella  avesse  in  as- 
segnamento i  mille  fiorini  per  paga,  e  mercede  datagli  secondo  la  forma 
elio  alcuni  anni  addietro  avevano  i  consiglieri,  ricordando  anche  a  S.  E. 
i  titoli  e  l'espressioni  onorifiche  che  sono  nel  diploma  datogli  da  S.  M. 
Soggiunsi  di  poi  che  il  rumor  passato  era  un  rumor  panico  mosso  di  alcuni 
li  quali  non  avendo  letto  i  vostri  libri  reputavano  dapprima  esservi  cosa 
progiudiziale  alla  religione;  onde  poscia  han  veduto  e  confessato,  siccome 


U72  LKTTKRIS 

fuso,  non  e  da  dimandare,  considerando  il  poco  mio  merito,  e 
molto  più  di  non  avere  avuta  la  fortuna  con  alcun  mio  basso  ed 
nmil  ossequio  di  poter  meritare  da  V.  E.  un  favore  sì  scgnalatissi- 
mo;  onde  per  la  speziai  servitù  che  professo  col  suddetto  signor 
conte,  di  cui  ho  spesso  l'onore  d'ammirarne  la  somma  probità, 
dottrina  e  saviezza,  corsi  immantinente  dal  medesimo  a  darli  con- 
tezza di  un  sì  straordinario  eccesso  di  bontà  e  nell'istesso  tempo  a 
pregarlo  che,  non  credendo  bastare  questo  mio  umile  e  riverente 
ufficio,  supplisse  anch'egli  per  me  a  renderne  a  V.  K.  i  dovuti  rin- 
graziamenti in  mio  nome;  ragguagliandolo  ancora  distintamente 
della  cagione  per  la  quale  fìn'ora  non  avea  V.  li.  avuta  incombenza 
di  mandar  la  terna  di  questa  carica  vacante,  siccom'ò  l'ordinario 
stile,  poiché  tal  provista  sicura  per  ora  tener  lontana  per  quei  mo- 


lo fanno  presentemente  tutti  che  non  vi  e  altra  eresia  e  scisma,  se  non 
quella  di  difendere  anche  con  moderazione  i  regali  dritti  e  prerogative  del 
principato  avvilito  ed  abbassato  dalle  pretensioni  di  Roma;  assegno  ohe  i 
medesimi  preti  e  menici  non  solo  di  Napoli,  ma  di  Roma  leggono  i  vostri 
libri  con  ammirazione,  ed  in  quella  città  solamente  ne  sono  state  rimesse 
pili  della  metà  delle  opere  stampate:  alla  line  concimisi  che  aironi  il  diletto, 
il  timore  e  la  viltà  fu  del  Collaterale,  che  non  mostrò  coraggio,  e  fu  man- 
canza positiva  del  cardinal  Althan.  Onde  i  preti  presoro  ardire  di  far  no- 
vità, nò  tralasciai  di  rappresentargli  come  S.  E.  avea  qualificali  i  vostri 
libri  nella  Prammatica  fatta  contro  il  padre  Sanfeliee,  per  la  quale  tutti  gli 
uomini  e  tutt'i  ceti  di  questa  citta  sono  rimasti  persuasi  non  esservi  in 
loro  cosa  pregiudiziale  a'  doveri  della  religione,  e  della  buona  morale,  e 
che  dopo  d'essa  dovea  S.  K.  aver  la  gloria  di  promoverla;  e  che  la  vostra 
persona  per  lo  sapere  e  prudenza  civile  era  formata  a  proposito  di  sedere 
nel  Consiglio  di  Spagna:  allora  egli  mi  soggiunse  che  non  avrebbe  mancato 
di  porlo  nella  tema  dell 'avvocala  llsoale  d'esso;  del  che  n'avea  già  fatto 
richiesta  d*aver  la  permissione  di  farla  in  eotcsta  Corte;  anssi  si  era  lamen- 
tato di  non  averne  avuto  il  carico*  Lo  ringraziai  colle  maggiori  espressioni 
possibili,  e  nel  medesimo  tempo  mi  commise  dì  avvisarglielo,  perciò  sti- 
marci a  proposito  che  V.  S.  illustrissima  le  desse  le  dovute  grafie,  per 
assicurarsi  nella  risposta,  che  farà,  pubblicarlo  maggiormente,  e  quando 
non  avesse  altro  canale  sicuro  e  secreto  potrà  inviarmi  la  lettera,  acciò  abbi 
l'onore  di  servirla  come  devo»  (B.N.R.,  F.V.M  359-360,  ce,  64-647').  A 
quali  risultati  approdassero  questi  buoni  propositi  può  riscontrarsi  nella 
lettera  del  Giannone  al  fratello,  in  data  zo  ottobre  173*,  in  B,N,R.,  l«\V.K. 
359-360,  ce.  I24?>-J25:  «Sento  per  la  sua  ricevuta  hi  questa  settimana  .  -  » 
gli  uffici  per  me  passati  col  signor  abate  Garofalo,  il  quale,  «e  bene  l'a- 
vesse freddamente  risposto,  con  tutto  ciò  mi  scrive  che  parlò  con  efficacia 
a  monsignor  d'IIarraeh,  e  che  questi  con  fervore  l'avesse  promesso  di  par- 
lare al  signor  viceré  suo  padre.  Che  ne  sia  seguito,  lo  saprò  forse  Pentrante 
settimana.  Del  rimanente  in  occasioni  simili  per  lunga  esperienza  ho  cono- 
sciuto che  non  bisogna  molto  affannarsene,  poiché  il  meno  ohe  ci  ha  parte 
è  l'industria  e  diligenza  umana  ».  La  nomina,  infatti,  non  giunse  mai. 


LETTERE  II73 

tivi  che  communicai  al  signor  conte,  de*  quali  lo  pregai  anche  che 
ne  avesse  informata  V.  E.,  e  che  scrivo  ancora  al  suddetto  signor 
abbate  Garofalo,  dal  quale  potrà  anche  V.  E.  restarne  a  pieno 
intesa.  A  questo  fine  fu  pregata  V.  E.  di  onorarmi  intanto  nelle 
occasioni  delle  terne  di  cotesto  Consiglio  di  S.  Chiara  di  pormi  in 
nomina;  poiché,  avendo  oggi  questi  nostri  Spagnoli  posto  in  altro 
sistema  questa  carica  di  fiscale,  e  quando  prima  e  qui  ed  in  Ma- 
drid i  fiscali  si  solevano  ordinariamente  prendere  dagli  ordini  degli 
avvocati  o  de'  cattedratici,  ora  richiedono  anche  graduazione  di 
ministero.  Cosa  inventata  per  non  far  uscire  la  carica  da  mano 
della  nazione  ed  escludere  con  questo  pretesto  coloro  che  secondo 
il  giudizio  universale  sarebbero  assai  più  meritevoli,  che  non  sono 
i  loro  graduati.  Il  signor  marchese  di  Rialp,  e  per  propria  sua  bontà 
verso  di  me,  e  per  l'interposizioni  de*  mici  grandi  protettori  e 
suoi  buoni  amici,  ha  tutta  la  propenzione  di  vedermi  graduato  in 
una  di  coteste  cariche  del  Consiglio  di  S.  Chiara,  e  so  che  insieme 
co*  medesimi  ne  ha  passati  efficaci  uffici  con  S.  M.,  la  quale  con 
tutto  ciò,  con  mia  infinita  confusione,  mostra  di  non  volermi  al- 
lontanare da  questa  Corte,  e  S.  A.  Serenissima  il  signor  principe 
Eugenio  di  Savoia,  di  cui  ho  il  preggio  d'essere  annoverato  tra' 
suoi  più  divoti  servidori,  so  che  abbia  i  medesimi  sentimenti  ;  sic- 
come più  volte  mi  ha  dato  a  conoscere,  e  per  se  stesso,  e  più  chia- 
ramente per  mezzo  del  signor  consigliere  Coti,  suo  secretano.  A 
V.  lì.,  per  tanta  benignità  che  ha  per  me,  son  tenuto  riverentemente 
esporre  tutto  ciò  con  quella  sincerità  e  lealtà  che  si  conviene  ad 
un  personaggio  della  sua  gran  qualità,  affinché,  ponendomi  io  to- 
talmente nelle  benignissime  mani,  se  mai  reputasse  che  non  fossi 
cotanto  inutile  ad  essere  impiegato  nel  servizio  di  S.  M.,  disponga 
V.  lì,  di  me  in  quella  maniera,  che  la  sua  gran  prudenza  stimerà 
più  propria,  poiché,  essendo  a  tutti  noto  a  bastanza  quanto  sia 
fervoroso  il  zelo  che  tiene  del  maggior  servizio  del  nostro  padrone, 
tutt'i  mezzi  che  saranno  indrizzati  ad  un  si  laudevol  fine,  non  po- 
tranno non  essere  se  non  sommamente  applauditi  e  commendati; 
li  quali  non  discordano  dalle  altre  gloriose  sue  imprese,  non  po- 
tranno non  accrescere  a  V.  E.  maggiormente  la  sua  fama  e  Tim- 
mortal  suo  nome.  Intanto  non  rimanendo  d'incessantemente  pre- 
gare Dio  gli  conceda  a  V.  E.  lunghi  e  felici  anni  di  vita  per  total 
ristabilimento  di  cotesto  Regno  e  per  maggior  gloria  di  S.  M.,  resto 
facendoli  profondissima  riverenza.  -  Vienna  18  novembre  1730.  - 


1174  LKTTKRK 

Devotissimo  obbligatissimo  servidor  vero  Pietro  Giannone.  A  S.  K 
il  signor  conte  d'Harach,  viceré  nel  regno  di  Napoli. 


XVIII 
A  CAULO   <;iANNONK   •  NAPOLI 

Vienna  [ma  Modling]  li  <)  agosto  tyjj. 

Rispondo  alla  sua  ricevuta  in  questa  settimana  da  Medelin,'  dove 
ieri  sera  tornai  dopo  avere  servito  in  città  il  signor  principe  di  Tar- 
sia, per  quello  m'impose  per  sua  lettera;*1  ed  intanto  io  ora  questi 
passaggi,  perché  som  libero  dall'assistenza  del  signor  Garelli  vec- 
chio,3 il  quale  per  grazia  di  Dio  sta  migliore  ed  ha  tutti  burlato; 
sicché  avrò  questa  consolazione  che  il  figlio  tornando  qui  lo  troverà 
meglio  di  quel  che  lo  lasciò,4  Ilo  lettera  del  signor  Contegna  in 
questa  settimana,  nella  quale  mi  scrive  della  finezza  fattali  dal 
signor  viceré,  e  ch'egli,  finito  che  avrà  di  prender  i  bagni,  piglierà 
possesso  della  carica  conferitale  da  S,  M.5  Godo  sommamente  del- 
la sua  contentezza,  ed  ha  ben  ragiono  di  rallegrarsene,  sapendo 
ora  l'ostacoli  che  s'han  dovuto  superare,  fraposti  da'  suoi  antichi 
malevoli.  Resta  ora  che  si  conservi  in  salute,  per  poterla  esercitare, 
e  che  non  si  scordi  degli  amici,  che  in  quest'occasione  han  saputo 
ben  servirlo. 
Intorno  alla  consaputa  ristampa6  vi  scrissi  la  maniera  che  io  peu- 


XVIII.  B.N.R.,  F.V.tt.  359-360,  oc*  173^-175*7.  Noi  manoscritto  la  let- 
tera era  numerata  come  cccuxxxiv.  In  questa,  come  in  tutte  le  altre,  di 
questo  gruppo,  scritto,  al  fratello,  vi  ora  l'intestazione,  poi  cancellata,  di: 
a  Carissimo  fratello)»;  manca  invece  l'indicazione  del  destinatario,  che,  nel 
K.V.R.  358,  ora  spesso  un  prestanome  di  comodo.  »  1.  Medelin:  Modling 
(efr.  in  \/ita%  qui  a  p*  163).  2.  il  signor  .  .  *  lettemi  si  tratta  del  nipote  del- 
la principessa  di  Tarsiu;  il  Giannone  no  patrocinò  una  causa,  di  cui  rosta 
memoria  nella  Vita,  qui  a  p.  X50.  3.  signor  (Jaretti  vecchio:  Giovan  Bat- 
tista Garelli,  medico  di  Leopoldo  l  ;  si  veda  la  nota  a  p.  q(>.  4,  il  figlio  .  ,  » 
lasciò:  Pio  Niccolò  Garelli  si  era  allontanato  da  Vienna  al  seguito  dell'im- 
peratore, in  un  viaggio  a  Karlsbad  e  u  Linz.  Cfr.  in  Vita}  qui  a  p.  256. 
5.  Ilo  lettera  . .  .  da  *S\  Mr.  si  tratta,  forse,  della  nomina  di  Pietro  ('onte- 
gnu  a  presidente  della  Regia  Camera,  In  suo  favore  si  ora  mosso  Joseph 
Montesunto,  marchese  di  Villasor,  presidente  del  Consiglio  di  Spagna:  vedi 
la  lettera  del  Giannotto  al  fratello  in  data  28  giugno  1732  (B.N.K.,  l\V\K. 
359-360,  e.  165??),  6.  consaputa  ristampa:  il  Giannono  intendeva  ristam- 
pare la  sua  Risposta  alte  Annotazioni  critiche*  sopra  il  nono  libro  delV Istoria 
civile  .  . .,  s.  1.  173»  (e  si  veda  in  Opere  post  urne  >  if  pp.  355  sgg.  della  seconda 


LETTERE  II75 

sava,  cioè  di  mandargli  da  qui  la  correzione  ad  uno  degli  essem- 
plari  mandatimi,  non  vedendo  altra  miglior  via,  perché  lo  stampa- 
tore sopra  la  medesima  possa  corrigere  gl'innumerabili  errori  oc- 
corsivi. Ne  attendo  riscontro,  giacché  vi  sarà  questo  tempo  in- 
sino  che  finiranno  di  smaltirsi  gli  essemplari  che  vi  restano.  Al 
carissimo  signor  Capasso  mille  e  mille  saluti,  sicome  fo  al  signor 
Cirillo,  di  cui  forse  nell'entrante  avrò  risposta;  e  potrà  informare 
a*  medesimi  d'un  fatto  curiosissimo  accaduto  in  Modena  al  signor 
Bousquct1  col  signor  Muratori;  il  quale  maggiormente  conferma 
d'essere  stata  ben  opportuna  la  Risposta  consaputa  per  reprimere 
la  millanteria  di  quel  Trasone,  il  quale  per  tutta  Italia  avea  ma- 
gnificate quelle  sue  inettissime  Critiche,2,  e  ci  avea  già  incappato  il 
signor  Muratori  con  quella  affettata  lode  che  li  dava.  Mi  scrive 
in  questa  settimana  il  signor  Bousquet  ritirato  già  in  Ginevra, 
sollecitandomi  la  trasmissione  del  rame,3  essendosi  già  posto  mano 
alla  stampa  del  primo  tomo  e  trovandosi  la  carta  stagionata,  m'as- 
sicura che  in  fine  di  quest'anno  si  darà  alla  luce  il  primo  e  secondo 
tomo,  che  passando  per  Modena  fu  a  visitare  il  signor  Muratori, 
suo  antico  corrispondente  ed  amico,4  e  discorrendogli  di  questa 
nuova  edizione  in  francese,  ch'egli  procurava  che  venisse  la  più 
esatta  e  magnifica  che  si  potesse,  quegli  li  rispose  che  bisognava 
emendarla  di  molti  errori  di  cronologia,  che  v'avea  scoverti  il  pa- 
dre Sebastiano  Paoli  della  Congregazione  de'  Cherici  Regolari  di 
Lucca,  il  quale  avea  stampato  un  libretto,  che  girava  attorno.  Mi 
scrive  per  ciò  il  signor  Bousquet  tanto  pregandomi  che  li  mandassi 


numerazione),  che  il  fratello  aveva  incautamente  affidato  al  tipografo  Naso  : 
ne  erti  uscita  un'edizione  piena  di  errori  tipografici  e,  per  di  più,  in  carta 
di  cattiva  qualità.  1.  Per  Marc-Michel  Bousquet  cfr.  la  nota  4  a  p.  212. 
2.  la  millanteria  . . .  Critiche:  intendi  le  Annotazioni  critiche  del  padre  Se- 
lciano Paoli  (cfr.  la  nota  3  a  p.  210  e  la  nota  2  a  p.  211);  Trasone  è  il 
nome  del  soldato  fanfarone  e  smargiasso  dell' 'Eunuco  di  Terenzio.  3.  sol- 
lecitandomi .  . .  rame:  il  Bousquet  aveva  chiesto  al  Giannone  di  fornirgli  un 
ritratto  da  poter  stampare  nel  frontespizio  dell'edizione  in  francese  del- 
Vlstoria  civile  che  il  ginevrino  stava  approntando.  Lo  storico  si  affidò  al- 
lora al  noto  miniaturista  e  incisore  Jeremias  Jakob  Scdelmayer  (cfr.  la  nota 
4  a  p.  83)  che  richiese  in  pagamento  duecento  fiorini:  si  veda  H.  Bene- 
dikt,  Das  Konigreich  Neapel  ecc.,  cit.,  p.  534.  4. passando  . . .  amico:  il 
lìousquet  si  era  recato  a  Modena,  raccomandato  da  Scipione  Maffei,  so- 
prattutto per  tentare  di  ottenere  la  commissione  della  stampa  delle  Anti- 
quitates  Italicae  Medii  Aevi  (cfr.  la  lettera  a  Lodovico  Antonio  Muratori, 
in  data  25  maggio  1732,  in  S.  Mawei,  Epistolario,  a  cura  di  C.  Ganbotto, 
Milano  1955,  pp.  620-1). 


llj()  LETTERE 

nota  di  questi  orrori,  perche  se  io  gli  stimava  tali  che  meritassero 
esser  corretti,  tanto  era  a  tempo  di  farlo.  Li  rispondo  come  si 
conviene,  e  coll'occasionc  del  rame  gli  mando  un  essemplare  di 
questa  Risposta,  affinché  si  rida  di  queste  ciarle  e  tira  avanti  a  far 
il  fatto  suo  e  non  si  mova  da  queste  frasche;  e  eredo  che  il  tradutto- 
re1 nella  Prefazione  non  tralascici^  di  far  al  Paoli  qualche  carezza, 
sicome  sento  che  abbiano  fatto  i  compilatori  dogli  «Atti  di  Lipsia» 
nel  mese  di  giugno  di  quest'anno/  che  non  l'ho  avuto  ancora  m 
mano,  ma  si  manderanno  al  signor  Cirillo  insieme  con  gli  «  Alti  » 
de*  precedenti  mesi.  Dica  ora  il  nostro  signor  Ippolito  che  poteva 
farsi  di  manco  rispondere  a  quelle  inezie,  non  sapendo  gli  anda- 
menti di  quel  Trasone?  Se  stimeranno  cosi  il  signor  Capasso  e 
signor  Cirillo,  crederei  che  con  semplice  sopracarta  si  potrebbe  driz- 
zar a  Modena  al  signor  Muratori  un  piego  ben  battuto  e  rifilato  di 
qxiesla  Risposta,  sicome  si  fece  al  signor  Manfredo*  in  Bologna. 
Dico  questo,  perché  il  signor  cavaliere  mi  scrive  in  questa  setti- 
mana da  Praga,  aver  ricevuto  riscontro  dal  signor  Manfredi  della 
Risposta  avuta,  e  che  colà  si  era  letta  con  indicibil  soddisfazione, 
e  se  n'erano  in  tutte  le  conversazioni  fatto  solennissimo  risate, 
perché  il  buon  padre  Pauli  procurava  tenerla  occulta,  né  faceva 
motto  alcuno  d'averla  ricevuta,  forse  mandatale  dal  suo  caro  ICgi- 
35ÌO,4  sicome  scopriron  poi  ch'egli  sapeva  il  tutto,  e  taceva.  Sicché 
sicom'cgli  procura  nascondersi,  giusto  sarà  che  si  sveli,  e  molto 
più  col  signor  Muratori,  col  quale  scorgo  che  abbian  fatta  impres- 
sione le  sue  rodomontate.  Di  ciò  ohe  mi  scrive  della  risposta  data 
dal  medico  Buonoeorc5  all'agente  di  Parma  potrà  informarne  il  si- 


i.  il  traduttore:  Isaac  Loys  de  Itochat  (cfr,  la  nota  i  si  p.  2x3).  3.  sicome 
sento  . .  *  annoi  cfr.  «Acuì  Kruditorum  Liptiicnaium  »,  giugno  17^2,  Nova 
tttterarm,  pp.  202-3.  3.  Molto  probabilmente  si  trutta  di  lùtntaehio  Man* 
fredi  (1674-1739),  celebre  «cioncato  e  letterato  bolognese,  i  ondai  ore  del- 
l'Accademia degli  Inquieti  (fusaai  poi  con  l'Iatiruto  delle  «densa»  di  Luigi 
Ferdinando  Marnili)  e  corrispondente  del  Muratori.  4.  suo  caro  ttyjzìo: 
cfr.  Memorie  storico-critiche  degli  storici  napoletani  di  b'ranceacanUmh  Sona, 
1,  Napoli  17BX,  p.  220:  «Stava  [cioè  Matteo  Kgizio)  per  entrare  in  forte 
briga  col  Giannonc,  il  quale  suppose  ch'egli  avesse  avuta  ninno  nellVl/N 
notazioni  critiche  acrittc  contro  alla  tuia  Storia  dal  padre  Paoli»  ma  poi  la 
cosa  andò  buonamente  a  sopirai  ».  Ma  cfr.  anche  Panjsiw,  p.  67,  e  (Hanno» 
niana,  p.  126,  5.  L'iachitano  Francesco  lìuonocore,  allievo  del  Cirillo, 
soggiornò  per  parecchio  tempo  in  Spagna  alla  Corte,  per  poi  ritornare  in 
Italia  al  seguito  di  Carlo  III  di  Borbone,  quale  suo  medico  pernottale.  Nel 
1734  diverrà  protomedico  del  regno  di  Napoli. 


LETTERE  II77 

gnor  Cirillo,  il  quale  saprà  farlo  arrossire  di  queste  vane  e  ridicole 
politiche  spagnole;  quando  io  so  che  molti  essemplari  della  mia 
opera  sono  stati  ricercati  qui  a'  ministri  spagnoli,  li  quali  l'han 
mandato  a'  loro  amici,  e  n'hanno  ricevuti  eccessivi  ringraziamenti. 
Ma  che  bisogno  vi  era  di  Buonocore,  quando  mi  scriveste  che  il 
signor  abate  Garofalo  ve  ne  avea  fatto  mandar  quattro  essemplari 
in  Fiorenza  al  signor  abate  Bottari,1  il  quale  in  ciò  ha  più  credito 
e  perizia  di  Buonocore,  e  questo  dovea  bastargli,  e  non  andar  cer- 
cando altro. 

Stupisco  come  il  signor  Leognani  tardi  cotanto  di  mandar  la 
consaputa  rimessa,2  ed  intanto  io  son  tormentato  dagli  ufficiali 
della  Secretaria  del  Suggello,  che  avendo  finito  il  lor  travaglio, 
ora  si  veggono  differita  la  soddisfazione.  Ciò  servirà  per  l'avvenire 
per  mio  ammaestramento  di  non  intricarmi  con  simili  persone. 
Ne  occorre  rinovar  nella  mia  memoria  la  spedizione  del  dispaccio 
per  Puisserver,3  e  che  si  fosse  scritto  a  Milano  al  signor  Alario, 
perché  son  cose  da  far  stomaco  a  chi  che  sia,  che  quando  altri 
pagarebbero  a  peso  d'oro  simili  dispacci  per  ottenerli,  sicome  ora 
nel  caso  che,  ottenuto,  non  ci  sono  nemmen  denari  per  pagar  i 
diritti  soli  della  spedizione.  Non  bisogna  intricarsi  in  queste  brighe 
quando  o  non  si  voglia,  o  non  si  possa  complire  a  quel  che  si 
deve. 

Rispondo  in  questa  settimana  al  signor  principe  di  Tarsia,  che 
m'ha  favorito  d'un  grosso  piego,  e  rispondo  secondo  il  disiderio 
del  signor  avvocato  Capozzuti  espresso  nel  suo  viglietto  trasmesso- 
mi, e  credo  che  il  signor  principe  rimarrà  soddisfatto  della  mia 
attenzione  ed  opera,  che  fin  ora  ho  impiegato  per  servirlo.  Non  pos- 
so dissimulare  che  son  rimasto  sorpreso  che  il  signor  principe  vuol 


x*  Forse  il  fiorentino  Giovanni  Gaetano  Bottari  (1680-1775),  il  principale 
compilatore  della  quarta  edizione  del  Vocabolario  della  Crusca  (1729-1738). 
Professore  di  storia  ecclesiastica  a  Roma  dal  173 1  e  custode  della  Biblio- 
teca Vaticana  dal  1768,  appartenne  al  circolo  rigorista  del  cardinale  Pas- 
sione! e  fu  in  relazione  con  gli  ambienti  giansenisti  olandesi.  2,  Stupisco  . . . 
rimessa:  il  cavaliere  gerosolimitano  Antonio  Leognani  si  era  rivolto  al  Gian- 
none  perché  questi  patrocinasse  una  sua  causa  in  Vienna.  Ottenuto  il  de- 
creto desiderato,  lasciò  tuttavia  passare  lungo  tempo  prima  di  versare  i 
diritti  di  segreteria  richiesti  per  la  spedizione.  Di  ciò  si  parla  a  lungo  nel- 
l'epistolario giannoniano.  3.  la  spedizione  . . .  Puisserver:  altra  causa  a  lun- 
go dibattuta,  e  terminata  -  come  scrive  il  Giannonc  nella  lettera  del  5  gen- 
naio 1732  (Gìannoniana,  n,°  444)  -  «in  grado  di  nullità».  Su  di  essa  cfr.,  a 
pp.  1158-9,  la  lettera  del  24  agosto  1726. 


117**  LI2TTKRE 

esser  servito  in  due  gravissimi  alluri,  ed  in  uno  che  deve  impren- 
dersi contro  tutto  un  reggente  di  Collaterale  quaVè  il  signor  reg- 
gente Paterno,  ed  in  vece  di  mandar  rimesse  manda  pieghi,  perché 
gli  avvocati  cominciano  essi  a  spendere  del  proprio,  oltre  a  metterci 
la  fatica.  Il  signor  Capozzuti,  che  così  bene  lo  consiglia  ne'  suoi 
interessi,  come  poi  si  dimentica  in  quel  che  più  importa,  senza 
aver  almanco  riguardo  alla  sua  professione  istessa.  Il  nostro  signor 
Contegna  non  faceva  così  quando  si  trattava  di  servire  al  signor 
duca  di  Maddaloni;  e  poi  si  lagnano  di  passarsi  uflici  tardi  e  lenti, 
ed  intanto  costà  non  ci  vorrebbero  metter  altro  che  un  par  di  let- 
tere, cominciare  e  finire  in  raccommandazioni,  ringraziamenti,  ed 
altre  vane  ed  inutili  parole.  To  vedrò  doppo  questa  mia  risposta, 
e  d'averlo  servito  in  cosa  che  non  pativa  dilazione,  che  si  farà, 
per  potermi  regolare  nel  rimanente,  per  non  esser  destinato  sem- 
pre doppo  il  fatto  a  cercar  mercede  e  pagamento. 

Pure  in  questa  istessa  settimana  il  signor  consigliere  Grimaldi 
mi  favorisce  d'un  altro  piego;'  gli  rispondo  con  questa  letterina 
che  racchiudo,  giacché  i  miei  peccati  vogliono  cosi.  Mi  saluti  cara- 
mente il  signor  conte  Perlongo,*5  sicome  fo  a  tutti  gli  altri  buoni 
amici,  e  lo  stesso  facendo  a'  nostri  Vestani,  resto  caramente  ab- 
bracciandolo. 

XIX 
A  OAKLO   (ÌIANNONK   ■  NAPOLI 

\yhmnti\  A'  ~*J  mttfffiio  tyj'h 

Non  so  come  in  questa  settimana  non  mi  siano  giunte  vostre  let- 
tere, quando  ad  altri  sono  capitate  colla  data  de*  4  del  corrente 
mese,  nelle  quali  si  ragguagliava  l'ultimo  stato  delle  cose  dì  costà, 
d'essersi  anche  reso  il  Castello  dell'Uovo,  e  che  fra  giorni  si  atten- 

t.  Pure .  *  .pitgo:  Gregorio  Grimaldi  aveva  chiesto  raccomandazioni  a 
Vienna;  efr.  la  lettera  del  %%  marzo  (H.N.R.,  F.V.K.  359-360,  e,  156): 
«Ricevo  con  infinita  pazienza  la  lettera  del  aignor  Grimaldi,  inclusa  alla 
quale  trovo  un'ultra  diretta  al  signor  Garelli,  per  un'altra  nuova  preten- 
sione venutagli  in  testa  ».  K  vedi  anche  la  lettera  del  io  maggio,  in  <ììan~ 
noniana,  n."  454.  a.  Gaetano  Perhn^o  era  reggente  per  la  Sicilia  nel  Con- 
siglio di  Spagna. 

XIX.  A.S.T.,  manoscritti  dannane,  mazzo  u,  in».  16,  A.  Lettera  autografa 
indirizzata  a  Matteo  Micaglia»  il  solito  prestanome  di  comodo. 


LETTERE  II79 

deva  la  resa  del  Castelnuovo,  preparandosi  intanto  l'entrata  del 
principe  don  Carlo  in  Napoli  con  quella  magnificenza  conveniente 
ad  un  tanto  personaggio.1  Alcune  lettere,  spezialmente  di  Roma, 
avvisano  un  fatto  d'arme  accaduto  tra  Monte  Milone  e  Spinazzola 
non  lontano  da  Gravina;  ma  se  n'attende  la  conferma  per  non  es- 
sere i  canali  molto  legittimi,  e  di  non  essersi  qui  fin  ora  veduto 
corricro  alcuno;  e  l'arrivo  fatto  ieri  qui  del  signor  conte  di  Figue- 
roa  nemmeno  ha  giovato,  o  perché  partì  dopo  il  fatto,  o  pure 
sapendolo,  non  ha  stimato  palesar  il  vero,  per  non  far  arrossire  i 
Catalani  che  cotanto  in  questa  occasione  esaggeravano  le  prodezze 
del  loro  famoso  Caraschetto. 

Intorno  al  politico,  chi  scrive  che  si  fa  scrutinio  sopra  i  ministri,2 
per  lasciar  quelli  riputati  i  più  meritevoli,  e  cassare  gl'immerite- 
voli, e  sopranumerari;  altri,  che  si  fosse  per  ora  permesso  a  tutti 
ritornare  a'  tribunali  ad  essercitar  le  loro  cariche  inflno  ad  altro 
nuovo  regolamento.  A  me  premono  più  queste  notizie  politiche 
che  le  militari,  e  sopra  tutto  di  sapere  i  ministri  che  prevagliano 
in  cotesta  nuova  Corte.  Da  Sicilia  si  ha  avviso  che  quel  viceré3  da 
Palermo  siasi  ritirato  in  Messina,  per  rinserrarsi  nella  Cittadella 
in  caso  di  bisogno  ;  e  corre  voce  che  siansi  da  qui  spediti  gli  dispac- 
ci ai  signor  conte  de  Cerbellon  per  passare  colà  viceré  in  luogo  di 
Sàstago,  che  si  richiama.4  Veramente  è  compassionevole  lo  stato 
di  quel  buon  signore  che,  appena  veduti  i  regni  destinati  al  suo 


i.  si  ragguagliava  .  .  .personaggio:  su  questi  avvenimenti  cfr.  P.  Colletta, 
Storia  del  reame  di  Napoli,  a  cura  di  N.  Cortese,  1,  Napoli  1957,  pp.  96  sgg.; 
II.  Benewkt,  Das  Kò'nigreich  Neapel  ecc.,  cit,  pp.  457  sgg.;  M.  Schipa, 
//  regno  di  Napoli  al  tempo  di  Carlo  di  Borbone,  Napoli  1904,  pp.  124  sgg. 
(seconda  edizione,  Milano  1923,  1,  pp.  no  sgg.);  F.  Nicolini,  Sulla  ri- 
conquista sabaudo-borbonica  del  regno  di  Napoli,  appunti  e  documenti  inediti, 
in  La  spedizione  punitiva  del  Latouche-Tréville,  Firenze  1939,  pp.  163  sgg. 
Il  Castello  dell'Uovo  si  arrese  il  4  maggio  ;  Castelnuovo  due  giorni  dopo, 
il  6.  Il  principe  don  Carlo  fece  il  suo  ingresso  trionfale  in  Napoli  il  io 
maggio,  z.  scrutinio  sopra  i  ministri',  Carlo  di  Borbone  ordinò  un'inchie- 
sta segreta  su  tutti  i  magistrati  del  Regno  e,  in  base  ai  rapporti  pervenutigli, 
procede  ad  una  profonda  epurazione.  Gli  atti  di  questa  inchiesta,  assai 
preziosi,  sono  tuttora  conservati  presso  l'Archivio  di  Stato  di  Napoli. 
3.  quel  viceré:  il  conte  di  Sàstago  (cfr.  la  nota  2  a  p.  136).  4.  corre .  . . 
richiama  :  il  conte  Sàstago  venne  sostituito  non  dal  Cerbellon  (per  cui  cfr. 
la  nota  1  a  p.  135),  ma  dal  marchese  José  Antonio  Rubi  y  De  Boxadors 
(si  veda  la  nota  3  a  p.  136).  Il  conte  Cerbellon,  che  era  stato  spedito  a  Na- 
poli per  occuparsi  degli  affari  critici  del  Regno,  era  per  il  Giannone  «spe- 
cialissimo padrone,  con  cui  per  molti  anni  ho  passata  somma  confidenza  » 
(cfr.  la  lettera  a  Carlo  del  13  marzo  1734,  in  Giannoniana,  n.°  548). 


Il8o  LBTTERE 

governo,  è  obbligato  di  scappar  via;  sicché  meglio  sarebbe  stato 
per  lui  di  non  partir  da  qui:  come  ragionevolmente  se  ne  querela 
la  signora  contessa  sua  moglie  assai  savia  e  molto  letterata,  spe- 
zialmente intesissima  d'istoria,  colla  quale  facciamo  spesso  do- 
glianze intorno  all'infelice  situazione  delle  cose  presenti.  Iddio  ne 
cavi  il  meglio.  Intanto  salutatemi  gli  amici,  spezialmente  il  nostro 
don  Cirillo»  signor  I polito,  ed  il  gentilissimo  nostro  signor  Ca- 
passe. E  resto  ansioso  di  sapere  se  il  signor  Mela  abbia  ricevuta 
mia  lettera,  con  salutarlo  anche  da  mia  parte  e  dirgli  che  fra  breve 
si  vedrà  sopra  il  Curtis,1  che  si  accinge  tuttavia  con  molti  altri  alla 
partenza  per  costà.  Perciò  devo  incaricarlo  che  usiate  ogni  dili- 
genza perché  le  vostre  lettere  mi  sian  spedite  per  sicuri  canali, 
perché  le  desidero  non  tanto  per  soddisfare  la  curiosità  per  le  co- 
se correnti,  quanto  per  mia  istruzione  e  norma  per  istradare  le 
mie  cose  con  qualche  prudenza,  che  un  caso  cotanto  inopinato  e 
strano  ricerca,  la  quale  bisogna  che  sia  grande,  perché,  alla  ma- 
niera che  qui  corrono  le  cose,  cominciamo  anche  a  tremare  dei 
proprio  terreno  che  calchiamo,  li  resto  caramente  abbracciandolo. 


xx 

AD  ADRIANO  LANZINA    V   UM,OA,   DUCA   DI   LAURIA*  ♦   NAPOM 

Illustrissimo  ed  eccellentissimo  signore  e  padrone  sempre  colen- 
dìssimo. 

La  singolare  affezione,  che  per  effetto  di  sua  magnanimità  e 
cortesia  si  e  V.  K  compiaciuta  praticar  verso  di  mo  suo  divotissimo 

i.  il  ("urtisi  dall'epistolario  giunnoniano  risulta  che  contro  questi  «tu  in- 
tentata una  causa  che  nascondeva  «la  più  sottile  metafìsica  legale»  per 
«la  materia  intricatissima  citi*  cambi»  (cfr.  la  lettera  del  z$  giugno  *73r, 
in  OiannonianUj  n.°  a8a)*  Nel  maggio  del  $73 1  il  CurtÌH  e  a  Vienna,  forse 
a  caccia  di  raccomandazioni;  nell'estate  del  1732  è  a  Praga  dove  si  mantiene 
vendendo  sete  e  drapperie, 

XX.  M.N.U.,  KV.K.  359-360,  ce.  aoS-aoo.  Nel  manoscritto  la  lettera  e 
numerata  come  pxxvxi;  viene  premessa  ravvertenssa:  «Quelita  lettera  fu 
scritta  al  signor  duca  di  Lauria  UUoa,  consigliere  di  Staio'».  A  «signor» 
seguivano  originariamente,  poi  cassate,  le  parole:  «conte  di  Sunto  Stefano 
in  Napoli  -  Marchese  Tunucei».  -■  2.  duca  di  Lauria:  reggente  del  Collate- 
rale sotto  Carlo  VI,  ministro  del  Consiglio  di  Stato  sotto  Carlo  III»  presi- 
dente del  Sacro  Real  Consiglio  e  delegato  della  Regia  Giurisdizione,  quin- 
di presidente  della  Camera  di  Santa  Chiara  dopo  il  1735.  Morì  nel  X740. 


LETTERE  Il8l 

servidore,  e  quando  molti  anni  già  sono  mi  fece  l'onore  di  aver 
costà  per  quanto  comportavano  le  mie  deboli  forze  adoperato  in 
cosa  di  suo  serviggio,  ed  ultimamente  nel  tempo  della  mia  dimora 
in  Vienna,  quando  con  gentilissima  sua  m'onorò  de'  stimatissimi 
suoi  commandi,  mi  spinge  ora  con  fiducia  d'indrizzarle  questa 
mia  divota  lettera.  Ora  prendo  l'ardire  di  ragguagliarla  della  mia 
necessaria  partenza  dalla  corte  di  Vienna,1  da  dove,  correndo  la 
comune  fortuna  di  tutti  gli  altri  a'  quali  sopra  i  tenimenti  d'Italia 
eran  stabiliti,2  e  vedendomi  mancare  il  proprio  sustentamento  for- 
z'era  che  dovessi  allontanarmi.  La  dura  necessità  mi  costringe  di 
cercare  essendo  ormai  vecchio  in  proprio  suolo  l'ultimo  porto  de* 
miei  travagliosi  errori,  e  ripatriando  cercare  un  sicuro  ricovero  per 
passare  que'  pochi  anni  di  vita  che  la  bontà  divina  mi  concederà 
in  riposo  e  quiete,  vivendo  a  me  stesso. 

Fra'  miei  grandi  protettori  non  ho  potuto  pensare  un  più  efficace 
ed  affettuoso  quanto  la  degnissima  persona  di  V.  E.,  la  quale  ben 
informata  di  tutti  i  precedenti  successi,  non  permetterà  che  da' 
miei  malevoli  mi  sia  interrotta,  anzi  che  l'autorità  sua  agevolerà 
che  quella  quiete  che  io  vado  cercando  la  possi  costà  trovare  ben 
sicura  e  stabile.  Io  nel  prendere  concedo  dalla  Maestà  dell'impe- 
radore  trovai  nella  medesima  tutto  il  compatimento,  e  la  di  lei 
clemenza  ammise  le  mie  potenti  ragioni  per  irrefragabili,  come 
quelle  alle  quali  non  vi  era  altra  risposta  per  risolverle,  se  non  di 
pensare  per  me  nuovo  assignamento  sopra  gli  Stati  ereditari  au- 
striaci :  ciocché  secondo  lo  stato  presente  delle  cose,  così  per  la  di- 
spendiosa guerra  che  preme,  come  per  sovvenire  l'innumerabile, 
anzi,  infinita  turba  de'  Catalani  che  tiene  sopra  le  spalle,  che  prima 
vivean  sopra  la  corrosa  Italia,  era  impresa  impossibile,  non  che 
dura  e  disperata.  Ne'  primi  ministri  della  Corte  trovai  altresì 
compatimento,  ma  non  già  aiuto  o  speranza  alcuna,  anzi,  in  alcuni 
approvazione  della  risoluzione  presa  e  consiglio  a  mandarla  presto 
in  effetto  per  tema  di  maggiori  strettezze  ed  angustie,  che  sì  pre- 
veggono; e  lo  stesso  trovai  ne'  miei  buoni  ed  affezionati  amici,  i 
quali  conoscendo  meglio  che  io  i  secreti  e  gli  arcani  della  Corte, 

1.  partenza . . .  Vienna-,  il  Giannone  aveva  lasciato  Vienna  il  29  agosto  1734- 
Cfr.  Vita,  qui  a  p.  261.  2.  stabiliti:  sottintendi,  gli  emolumenti.  Nel  caso 
del  Giannone  la  pensione  era  stabilita  sopra  i  diritti  di  spedizione  della  se- 
greteria di  Sicilia,  ed  era  quindi  venuta  a  mancare  dopo  che  il  regno  delle 
Due  Sicilie  era  passato  sotto  i  Borbone  di  Spagna. 


II 82  LKTTKRK 

come  più  intrinseci,  mi  confortarono  a  partire,  per  noti  espormi  a 
vedere  colà  la  terribile  faccia  delia  miseria,  inverso  la  quale  par 
che  tutte  le  cose  sarebbero  andate  a  terminare.1  Sicché  con  permis- 
sione di  Cesare,  e  de7  suoi  ministri  ottenni  permesso  di  ripatriarmi 
e  d'ubbidire  a  (pici  principe  che  Iddio  per  ignote  vie  della  sua 
impenetrabile  provvidenza  avea  fortunatamente  dato  a'  Napoli- 
tani.3 

Giunto  a  Venezia,  fuor  d'ogni  mia  credenza,  trovai  il  mio  nome 
in  molta  stima  e  riputazione  presso  il  signor  ambaseiador  di  Spagna, 
signor  conte  di  Fuenclara,J  che  mi  accolse  con  somma  gentilezza  e 
cortesia,  come  persona  a  lui  nota  e  della  (piale,  come  mi  disse, 
aveanc  qui  da  molti  avute  ben  distinte  e  vantaggiose  relazioni:  lo- 
dando altresì  la  mia  risoluzione  di  Spatriare  ed  offerendomi  tutto 
il  suo  favore  e  protezione.  Gentilmente  degnossi  ordinar  la  spedi- 
zione de'  passaporti  per  Napoli;  anzi,  correndo  giovedì  scorso  il 
giorno  del  compleanno*  del  signor  principe  d'Asturias,'1  celebrato 
da  lui  con  molta  pompa  e  celebrità,  m'invitò  che  la  sera  io  fossi 
venuto  in  sua  casa  ad  intervenire  ad  una  gran  serenata  ch'egli 
avea  apparecchiata,  sicome  vi  fui  da  S.  li.  accolto  con  distinzione 
con  gli  altri  soggetti  di  riguardo,  ch'egli  avea  invitati.  li  sparsasi 
per  Venezia  la  notizia  del  mio  arrivo,  ebbi  l'onore  con  mio  sommo 
rossore,  essendomi  io  portato  nelle  Procuratorie  di  S.  Marco,5  che 
molti  signori  nobili  e  senatori,  e  spezialmente  i  signori  Pasqualigo/' 
Leonardo  Diedo,  Francesco  Bettoni,7ed  i  senatori  Canale  e  Riva, 
e  moltissimi  altri  vollero  conoscermi  e  a  lungo  ragionar  meco, 
invitandomi  con  molta  gentilezza  nello  loro  case,  dove  fui  accolto 
con  incredibile  cortesia  e  trattato  assai  onorevolmente  più  di  quel 
che  la  mia  graduazione  e  merito  richiedeva,  offerendomi  anche 
impieghi,  e  rimanere  in  serviggio  della  Repubblica,8  ma  risposto- 
gli che  non  poteva  accettar  altro  servizio  se  non  quello  del  mio 
principe,  e  che  il  mio  ardente  disiderio  era  di  morir  dove  nacqui, 


i.  Io  nel  prendere  . .  .  terminare:  cfr.  Vìtaì  qui  allo  pp.  254  «gg.  2.  quel 
principe . . .  Napolitani:  l'infante  don Carloa,  divenuto  Curio  III  re  di  Na- 
poli. 3.  Per  il  conte  di  Fuenclara,  ambasciatore  di  Spagna  a  Venezia,  cfr. 
la  nota  2  a  p.  262.  4.  prìncipe  d'Asturias  :  il  principe  ereditario  Ferdinando 
(1713-1759),  VI  come  re  di  Spagna  (6  luglio  1746).  5,  Procuratorie  di  #. 
Marco:  cfr.  la  nota  %  a  p.  «87.  6.  Per  i  Pasqualino  cfr.  le  note  r  a  p.  264 
e  2  a  p.  517.  7,  Francesco  limoni  h  menzionato  anche  nella  Vitat  qui  a 
p.  267  e  nel  Ragguaglio,  qui  a  p,  520.  8,  invitandomi . » .  Repubblica:  cfr. 
VitC)  qui  alle  pp,  263-4. 


LETTERE  1183 

me  ne  scusai,  rendendo  loro  molte  grazie  dell'onore  offertomi.  Ri- 
fiutati dunque  i  loro  cortesi  inviti  per  non  mettermi  a  navigar 
l'Adriatico  nella  rottura  de'  tempi,  affrettai  il  proseguimento  del 
mio  viaggio,  che  resta  appuntato  per  l'entrante  settimana,  purché 
i  tempi  lo  permettono. 

Porto  tutto  ciò  alla  notizia  di  V.  E.,  pregandola  nel  mio  arrivo 
costà  prender  con  vigore  la  mia  protezzione,  ed  intanto  prevenire 
a  quanto  da'  miei  invidi  potessero  tentare  per  inquietarmi  il  mio 
ritiro;  e  trovandosi  V.  E.  degnamente  collocata  in  cotesta  real 
Corte  in  quel  sommo  grado  che  meritano  gli  non  meno  antichi 
che  nuovi  servigi,  la  prego  far  noti  alla  medesima  questi  miei  umili 
sensi  di  quella  divozione  che  deve  professare  qualunque  umilissimo 
suddito  ai  suo  naturai  signore.  Sicché  possa  esser  riputato  non 
immeritevole  di  quella  alta  e  potente  protezzione  che  i  principi 
sommi  e  sovrani  per  atto  di  loro  clemenza  e  benignità  dispensano 
a'  loro  più  bassi  ed  umili  servidori  e  vassalli.  La  lunga  esperienza 
che  ho  della  cortesia  e  cordialità  di  V.  E.  verso  di  me  mi  fa  sperare 
che  sia  per  esaudire  queste  mie  divote  suppliche  che  li  porgo; 
e  pregandola  mantenermi  nella  pregiatissima  sua  grazia,  nella  quale 
ora  più  che  mai  mi  raccomando,  resto  facendole  profondissima 
riverenza.  -  Di  V.  E.,  Venezia  li  25  settembre  1734.  -  Divotissimo 
ed  obbligassimo  servidor  vero  Pietro  Giannonc. 


XXI 
AI)   ADRIANO   MANZINA  Y  ULLOA,  DUCA  DI  LAURIA  •  NAPOLI 

Illustrissimo  ed  eccellentissimo  signore,  signor  mio  sempre  osser- 
vandissimo. 

Dalla  mia  precedente  lettera,1  che  le  scorse  settimane  ebbi  l'ar- 
dire indrizzare  a  V.  E.,  avrà  conosciuto  quanto  mi  è  occorso  nel- 
l'arrivo che  feci  in  questa  città  e  la  somma  cortesia  e  gentilezza  colla 
quale  io  fui  accolto  dal  signor  ambasciadore  di  Spagna,  signor 
conte  di  Euenelara,  ed  avendomi  continuato  i  suoi  favori  ed  assi- 
curato dagli  amici  che  lo  trattono  che  di  me,  occorrendo  l'occasio- 

XXI,  B.N.R.,  P.V.K.  359-360,  ce,  299-3000.  Nel  manoscritto  la  lettera  è 
numerata  come  pxxvm;  alla  dicitura:  «Altra  lettera  scritta  al  signor  duca 
di  Lauda  Ulloa  consigliere»  seguivano,  poi  cassate,  le  parole:  «al  signor 
conte  di  Sunto  Stefano».  -  %*  mia  precedente  lettera:  in  data  25  settembre 
1734,  qui  alle  pp.  u8os#g. 


II84  LETTURE 

ne,  ne  parlava  con  distinzione,  avendo  da  altri  inteso  che  io  m'ac- 
cingeva alla  partenza  per  costà:  ini  fece  sentire  per  mezzo  del  signor 
marchese  Valignani1  che  per  mio  maggior  servizio  avessi  avuta  la 
pazienza  di  trattenermi  qui  qualche  altra  settimana:  al  che  io  pron- 
tamente ubidii,  così  perché  la  dimora  qui  non  mi  riesce  noiosa  per 
l'affezione  e  cordialità  che  m'usano  questi  signori  nobili,  e  per 
essermi  ristabilito  in  perfetta  salute,  come  anche  per  aspettare  ri- 
scontri delle  grazie  che  costà  m'avrà  V.  H.  compartite,  ed  attendere 
da  qui  migliori  notizie,  che  serviranno  per  mia  scorta  e  guida.  Kd 
avendo  il  signor  marchese  Valignani  discorso  col  signor  secretano 
d'ambaseiada  lungamente  sopra  questo  dìsiderio  del  signor  amba- 
sciadore,  per  iseorgerne  i  motivi  e  le  cagioni  per  mia  regola,  non 
potò  ricavarne  altro  che  io  stassi  pur  sicuro  che  S.  K.  avea  tutta 
la  propenzione  di  favorirmi,  e  che  questo  trattenimento  non  era 
per  imbarazzarne.  Da  ciò  non  potei  ricavarne  altro  che  forse  il 
signor  ambasciadore,  avendo  dato  avviso  a  cotesta  Corte  del  mio 
arrivo  fatto  in  Venezia,  non  volesse  aspettarne  da  costà  riscontro 
per  sua  regola;  ma  questo  non  esclude  il  dubbio  che  non  possa 
essere  per  altra  cagione,  se  mai  da  costà  o  dal  secretano  di  Stato  o 
da  altra  persona  còlta  all'improviso,  per  qualche  sinistra  informa- 
zione fattale  da'  miei  malevoli/'  non  si  fosse  scritto  al  medesimo 
d'andar  sopra  ciò  con  cautela  finché  ne  avesse  da  cotesta  Corte 
nuovi  riscontri.  Io  fin  ora  non  ho  avuto  tempo  per  altri  mezzi  più 
propri  ed  efficaci  cavarne  il  netto,  come  spero  ricavarlo  nell'en- 
trante settimana;  perché  nel  primo  caso  non  me  ne  prenderei  molta 
pena,  lusingandomi  di  potersi  prestamente  rimediare;  ma  se  mai 
fosse  per  insinuazione  suggerita  da  costà  per  istigazione  ile*  miei 
malevoli  sarebbe  molto  sensibile,  giacché  mi  vederci  esposto  alle 
loro  calunnie  senza  che  precedentemente  si  fosse  fatto  maturo  esa- 
me delle  circostanze  che  concorrono  di  un  suddito  di  potersi  riti- 
rare nella  propria  patria,  quando  all'incontro  sono  preceduti  in- 
dulti sì  ampi  ed  universali,  che  non  ne  sono  esclusi  i  delitti  più 

x,  fcSi  tratta  dì  quel  Federico  VaUfinmti%  marchette  dì  Ccpugatti,  autore  di 
Chieti,  Centuria  di  sonetti  istorici,  Napoli  1739,  opera  dedicata  n  Ciarlo  VI 
e  recensita  negli  «Aeta  Krudìtorum  LipmenHium  »,  novembre  1730,  nup- 
plemento,  pp,  530- jc,  su  «egnuluzione  del  Giannone.  a.  ma  questo . . .  ww- 
levoli:  sui  retroneena  che  vietarono  il  ritorno  a  Napoli  del  Giannone  vedi 
le  note  in  Vita,  ed.  Nicolini,  \iy*  308-9.  Nella  ste»8a  edizione  dell'auto- 
biografìa, alle  pp.  441-6,  e  pubblicato  il  memoriale  inviato  dui  G tannano 
a  Carlo  III  di  Borbone  (e  efr»  (Hanttoniana,  pp.  41 -a)» 


LETTERE  ll8$ 

enormi  di  qualunque  criminoso,  ed  io  in  me  non  posso  ravvisare 
delitto  alcuno  per  i  miei  libri  dati  alle  stampe,  anche  attenta  la 
condanna  istessa  di  Roma,  la  quale  non  ci  ha  potuto  trovare  pro- 
posizione eretica,  sicome  li  brevi  di  Clemente  XI  qualificarono  i 
libri  del  reggente  Argento,  del  consigliere  Grimaldi  e  del  signor 
Riccardi,  scritti  nella  controversia  nota  de'  benifici,1  proscrivendoli 
con  clausole  più  terribili  che  non  s'usarono  nella  mia  opera,  la 
quale  non  soggiacque  se  non  ad  uno  degli  ordinari  decreti  di  sem- 
plice proibizione  resa  oggi  familiare  alle  Congregazioni  di  Roma 
sopra  qualunque  libro,  che  non  vada  a  seconda  delle  sue  massime 
intorno  all'immunità  e  lor  pretesa  giurisdizione  ecclesiastica;  ed 
altro  delitto  non  si  potrà  imputare  alla  medesima,  se  non  d'aver 
difeso  con  vigore  e  franchezza  cristiana  le  supreme  regalie  ed  alta 
giurisdizione  reale  de'  predecessori  re  di  Napoli  come  veri  monarchi 
del  Regno;  anzi  mi  lusingo  che,  avendo  la  somma  divina  provvi- 
denza a'  nostri  tempi  fattoci  vedere  ciò  che  i  nostri  maggiori  in- 
vano sospiravano,  e  di  sortire  fortunatamente  un  proprio  re,s  non 
possa  ella  aver  uso  più  proprio  ed  adattato  che  in  questi  felicissimi 
tempi,  e  nel  nuovo  sistema  che  il  Regno  va  avventurosamente  ad 
incontrare.  V.  E.,  che  per  lunga  esperienza  e  per  propria  penetra- 
zione sa  la  costituzione  del  medesimo,  ben  comprende  che  io  l'e- 
spongo il  vero  e  che  scrivo  con  sensi  di  veracità,  onde  tanto  più 
mi  comprometto,  che  con  vigore  sarà  per  intraprendere  la  difesa 
della  verità  e  per  l'efficacia  della  valevole  sua  protezione  sarà  per 
dileguare  tutte  quelle  nebbie  che  forse  gl'invidi  avran  potuto  spar- 
gere per  malignarmi  presso  coloro  che,  come  nuovi  nel  governo, 
stanno  esposti  alle  loro  sorprese.  La  prego,  per  quanto  possa  in  ciò, 
della  sua  protezione,  affinché,  se  mai  per  sinistre  informazioni  siasi 
dato  qualche  ordine  a  questo  signor  ambasciadore  di  sincerarlo  e 
metter  in  chiaro  la  verità,  affinché  tolto  ogni  ostacolo  possa  ricevere 
dal  medesimo  quelle  grazie  alle  quali  mostra  esser  disposto  di 
compatirmi.  Sarà  persona  ben  veduta  da  V.  E.,  che  in  mio  nome 
porterà  queste  mie  suppliche,  sperando  che  siano  esaudite,  affin- 
ché ritrovandomi  qui,  senz'espormi  inconsideratamente  a  qualche 
inquietitudine,  possa  ottenere  quel  onesto  ritiro  che  unicamente 
disidero  per  mia  quiete,  e  regolarmi  nell'avvenire  ne'  ulteriori  pas- 
si, sicché  non  lasci  quelle  opportunità  che  per  amor  della  patria  e 

I*  sicome  li  brevi  .  .  .  benifici*,  vedi  la  nota  4  a  p.  1140.  2.  un  proprio  rei 
nella  persona  dell'infante  don  Carlos* 

75 


II 86  LKTTBRK 

della  mia  quiete  mi  trovo  aver  posposte.  Tutto  mi  promette  la 
gran  generosità  ed  affeziono  che  ha  mostrato  sempre  per  somma 
sua  gentilezza  verso  la  mia  persona,  la  (piale  può  ben  compren- 
dere in  che  grado  d'obbligazione  si  vegga  posta,  e  se  quella  sarà 
sempre  eterna,  e  da  non  cancellarsi  in  tutto  il  tempo  di  mia  vita. 
Iddio  per  consolazione  di  cotesto  Regno  conservi  la  distintissima 
persona  di  V.  K.  per  lunghi  e  felici  anni  ;  e  sempre  più  pregandola 
d'esercitare  in  questa  premurosa  occasione  gli  effetti  delle  beni- 
gnissime  grazie,  resto  a  V.  K.  facendo  profondissima  riverenza. 
Di  V.  K.,  Venezia  li  9  ottobre  1734.  Divenissimo  ed  obbligatis- 
simo  servidor  vero  Pietro  Gian  none. 


XXII 

A  CARLO  VINCENZO   KKRUURO   DI   ROASIO  D'OUMKA1 

TORINO 

Eccellentissimo  Signore 

Nell'istesso  tempo  che  adempio  al  mio  dovere  di  dar  notizia  a 
V.  E.  del  mio  arrivo  in  questa  città  di  Milano,  e  di  vivamente  pre- 
garla che  si  degni  questo  mio  divoto  e.  riverente  uiHcio  spingerlo 
in  più  alta  e  sovrana  parte  presso  la  Maestà  d'un  re"  cotanto  sag- 
gio e  glorioso:  mi  si  olire  la  fortunata  occasione  di  poter  mostrare 
a  V.  E.  con  segni  manifesti  e  palesi  quella  divozione  ed  ossequio, 
che  ho  tenuto  nascosto  nell'animo  per  lungo  tempo,  da  che  la 
fama  della  stia  gran  prudenza,  dottrina  e  savia  condotta  negli  af- 
fari civili  del  Regno  ed  ampi  Stati  di  S,  M.  pervenne  nelle  mie 
orecchie.  Io  per  ciò  ho  sempre  ammirato  il  distinto  favore  e  speziai 
benificenza  di  Sua  Divina  Maestà  di  avere  ad  un  si  grande  e  valo- 
roso principe  accoppiato  un  ministro  cotanto  savio  e  prudente, 
ondo  di  necessità  ne  sia  derivata  quella  felicità  che  sperimentono 
i  popoli  che  hanno  la  fortuna  di  essere  soggetti  al  di  lui  equabile 
e  giusto  impero;  sicché  riputava  ancor  mia  felicità  se  mai  un  tempo 
avessi  potuto  avere  questo  onore,  servendolo,  meritare  le  benignis- 
sime  sue  grazie.  Forse  sarà  nota  a  V.  K.  la  mia  lunga  dimora  nel- 
l'imperiale corte  dì  Vienna  di  undici  e  più  anni:  dove  la  Maestà 

XXII.  A.S.T.,  manoscritti  Ch'annone,  mazzo  in,  ina.  3,  ft,  t.  Autografo.  - 
x.  Per  il  marchese  d'Ormea  cir.  Vìta>  qui  a  p.  309  e  la  nota  1  ivi.  a,  un 
re:  Carlo  Emanuele  III:  efr,  la  noti*  3  a  p.  338. 


LETTERE  II87 

delP  imperatore,  alla  quale  io  dedicai  la  mia  Istoria  civile  del  regno 
di  Napoli,  volle  che  io  mi  trattenessi  suo  pensionano;  ma  i  miei 
stipendi  situati  sopra  i  regni  di  Napoli  e  di  Sicilia,  questi  perduti, 
fui  costretto  da  dura  necessità  abbandonarla,  mancandomi  il  ne- 
cessario sustcntamento,  doppo  aver  tentato  ogni  mezzo  perché 
altrove  mi  si  assignasse  l'equivalente  ;  ma  riuscì  vano  ogni  sforzo, 
poiché  la  turba  immensa  de'  Spagnoli  che  colà  dimorano  esclude- 
vano i  poveri  Italiani,  perché  ad  essi  non  fosser  mancate  le  sov- 
venzioni, poco  curando  che  altri  avessero  da  perir  di  fame;  sicché 
preso  concedo  da  S.  M.  C.  e  da'  supremi  suoi  ministri,  i  quali 
nell'istcsso  tempo  che  compassionavano  l'infelice  mio  stato,  si  di- 
chiaravano che  non  potevano  darci  rimedio,  mi  portai  a  Venezia, 
dove  da  quella  nobiltà  fui  caramente  accolto,1  offerendomi  la  cat- 
tedra primaria  del  ius  civile  dello  Studio  di  Padoa,  che  si  trovava 
allor  vacante;2  ma  la  mia  professione  di  avvocato  ed  istorico  es- 
sendo tutta  altra  che  di  cattedratico,  mi  scusò  di  non  poter  ricevere 
un  tanto  onore  ;  e  mentre  si  pensava  di  provvedermi  di  altra  carica, 
avendomi  intanto  il  senator  Pisani  di  S.  Angelo3  trattenuto  in  sua 
casa  onorevolmente,  i  Gesuiti  instancabili  miei  persecutori,  i  quali 
si  trovavano  avere  gran  potere  sopra  i  tre  Inquisitori  di  Stato  di 
Venezia  per  essere  lor  confessori,  mi  calunniarono  presso  i  mede- 
simi, che  stando  io  in  casa  d'un  patrizio  veneto  praticava  di  conti- 
nuo con  i  signori  ambasciadori  di  Francia  e  di  Spagna;  onde  sotto 
questo  pretesto  d'inconfidente  mi  ordinarono  improvisamente  e 
senza  darmi  tempo  di  poter  chiarire  l'impostura  che  io  dovessi 
subito  uscir  da  Venezia  e  dagli  Stati  della  Repubblica,  sicome  per 
dura  forza  mi  convenne  d'uscirne.4  Prego  V.  E.  a  compatirmi  se 
forse  nel  racconto  d'un  successo  cosi  strano  le  abbia  recata  noia 
ed  impedita  per  pochi  momenti  dalle  gravissime  ed  importanti  sue 
occupazioni,  poiché  la  benignità  di  V.  E.  ben  comprende  la  pre- 
mura che  dovea  avere  d'informarne  sinceramente  a  V.  E.;  e  se 
volesse  degnarsi  di  averne  più  minuto  riscontro  da'  suddetti  si- 

1. i  miei  stipendi . , .  accolto;  cfr.  Vita,  qui  a  pp.  251  sgg.  2.  offerendo- 
mi „  . .  vacante  il  veneziano  Domenico  Pasqualigo  offri,  infatti,  al  Gian- 
none,  su  incarico  del  fratello  Giovanni,  riformatore  dello  Studio  di  Padova, 
la  cattedra  di  lettere  umanistiche  di  quella  Università,  resasi  vacante  per 
la  morte  dell'abate  Lazzaroni  (cfr.  Vita,  qui  a  pp,  263-4).  Su  questa  trat- 
tativa e  l'opposizione  giunta  da  Roma  cfr.  Bertelli,  pp.  213-4.  3.  il  se- 
nator Pisani  di  *S\  Angelo  :  cfr.  la  nota  3  a  p.  519,  4. i  Gesuiti . . .  d'uscirne: 
cfr.  Ragguaglio,  qui  a  pp.  530  sgg. 


I  l88  LKTTKRK 

gnori  ambasci  adori,  maggiormente  si  accerterà  di  quanto  con  in- 
genuità le  scrivo,  essere  stata  gabala  de'  Gesuiti,  e  che  questo  fu 
un  allettato  pretesto:  potendole  que'  signori  render  testimonianza 
che  se  bene  io  avessi  tutta  ciucila  stima  e  rispetto  che  dovea  con 
personaggi  di  sì  alta  categoria  per  li  tanti  onori  che  fuor  di  ogni 
mio  merito  mi  compartivano:  non  era  niente  vero  che  io  frequen- 
tassi le  loro  case  e  che  vi  avessi  ciucila  stretta  confidenza,  che  i 
Gesuiti  diedero  a  sentire  a'  signori  Inquisitovi  di  Stato. 

Giunto  qui  a  Milano,  avendomi  fatto  insinuare  per  mezzo  della 
signora  principessa  Triulzi,1  mia  singoiar  padrona,  al  signor  mar- 
chese Olivazzi2  gran  cancelliere,  fui  a  presentarmi  al  medesimo, 
che  mi  riceve  con  somma  cortesia  e  gentilezza,  al  quale  più  di- 
stintamente raccontai  i  miei  successi  e  palesai  il  mio  ardente  desi- 
derio, se  mai  potessi  ottener  questa  grazia,  che  per  ine  sarebbe 
segnalatissima,  di  militare  sotto  le  gloriose  insegne  d'un  re  cotanto 
saggio  e  valoroso.  Ed  ancorché  fosse  troppa  mia  presunzione,  pure 
osarci  dire  che  ad  un  eroe  cosi  magnanimo  e  grande  forse  non  man- 
carebbe  il  suo  l'rocopio-1  per  poter  eonsecrare  all'eternità  le  alte  e 
maravigliose  sue  gesta''  fin  qui  adoperate,  e  le  maggiori,  che  dal 
suo  valore  e  coraggio  si  presaggiseono  nell'avvenire,  degne  ili  chia- 
ra gloria  e  d'immortal  rimembranza,  non  meno  di  quelle  ch'ebbe 
a  tessere  colui  del  gran  Giustiniano  e  del  famoso  Belisario.  Mi  lu- 
singo che  se  mai  V,  E.  sarà  per  interporre  presso  S.  M,  gli  ettieaei 
e  vigorosi  suoi  uffici,  de'  quali  cotanto  supplico  V.  E.,  potrei  otte- 
nere un  tanto  e  si  inestimabil  onore,  onde  le  mie  obbligazioni  che 
dovrò  professarle  non  si  estingueranno  che  eolla  mia  vita:  pregan- 
dola in  ciò  per  quanto  io  possa  della  protezione  di  V.  E,  e  di  anno- 
verarmi tra*  suoi  più  fedeli  ed  umili  servidori.  E  sempre  più  rac- 
commandandomi  nella  pregiatissima  grazia  dì  V.  E.  le  resto  fa- 
cendo profondissima  riverenza. 

Di  V.  E.  Milano  li  18  novembre  1735.  -  Divotissimo  ed  obbli- 
gatissimo5 . . .  Metro  Giannone. 

t.  principessa  Trinimi:  cfr.  hi  nota  1  u  p.  305,  2.  Il  marchetu'  (ìtorgio 
Olivastri  (cù\  la  nota  u  p.  307)  aveva  proponto  al  Cullinone,  durante  la 
brevissima  permanenza  di  queatt  a  Milano,  il  posto  di  .storico  eli  eana  Sa- 
voia, che  ora  stato  di  Demanio  Andrea  Lama.  3,  Prosapia  di  Cenami: 
cfr.  la  nota  i  a  p.  34.  4.  maravtglhm*  sue  gettai  Carlo  Kmamiele  III, 
impegnato  nella  guerra  di  aueeenaione  polacca,  a  capo  deliVuereito  franeo- 
piemontosc  aveva  ottenuto  sugli  Auntriaei  una  vittoria  memorabile  a  Cua* 
stalla  il  19  settembre  1734.  $,  abbi  iratissimo:  nel  mammeritto  negiumo 
segni  difficilmente  decifrabili;  con  tutta  probabilità:  «aervidor  vero». 


LETTERE  1189 


XXIII 
AD  ALESSANDRO   TEODORO   TRIVULZIO1    •  VENEZIA 

Caro  signor  principe  Trivulzio 

Le  dotte  vostre  lettere  e  gli  ammaestramenti  che  in  quelle  espri- 
me non  vi  è  dubbio  che  dovrebbero  a  me  essere  leggi  espresse  ;  ma 
come  facciamo  che  i  tanti  miei  persecutori  non  lasciano  d'inquie- 
tarmi e  tentar  la  mia  somma  sofferenza  e  pazienza,  e  debba  a  lor 
dare  la  causa  vinta,  quando  per  me  «male  appellatum»,  e  per  loro 
«bene  iudicatum»?  e  debbia  andare  la  faccenda  sempre  al  rove- 
scio ?  Fra  tanti  miei  guai  e  disgrazie  e  mentre  trattenevami  in  Mo- 
dena con  lusinga  tener  celato  il  mio  nome;2  mi  vidi  un  giorno  di 
repente  il  Muratori  a  farmi  una  visita,  che  non  potei  sfuggire 
avendomi  còlto  all'improviso,  e  dopo  vari  discorsi  che  vi  corsero 
ben  due  ore,  mi  diede  distinto  ragguaglio  del  padre  Bianchi  San- 
ciscano, che  io  anni  a  dietro,  mentre  dimoravo  in  Vienna,  intesi 
che  travagliava  sopra  V Istoria  civile  per  confutarla;  e  che  a  spese 
del  cardinal  Albani  ne  avea  già  in  Urbino  dato  alle  stampe  il  pri- 
mo tomo,  ma  lo  teneva  suppresso  aspettando  forse  tempo  migliore 
per  farlo  apparire  alla  luce  del  mondo.3  Ma  avendomi  il  Muratori 
palesato  la  tessitura  e  la  forza  della  confuta,  mi  ave  con  ciò  detto 
che  non  potea  per  ora  si  tosto  uscir  alla  luce,  essendo  la  fatiga  labo- 
riosa di  più  volumi,  copiando  quasi  intiera  V Istoria  ecclesiastica*  e  la 
mia,  dove  fa  vedere  la  sua  erudizione  dando  per  assunto  del  libro 
che  li  papi  sono  stati  quelli  che  han  dato  la  giurisdizione  a'  prin- 
cipi, ed  i  principi  l'han  ricevuta  da'  papi,  essendo  la  giurisdizione 
de  iure  divino  ;  e  non  di  ragion  positiva,  che  perciò  fu  lodevolmente 
variato,  e  che  la  Chiesa  variamente  praticò  quest'elezioni.  Il  mio 
dolore  si  ò  che  non  sarà  a  miei  tempi;  e  non  avrò  la  congiuntura 
fargli  gustare  una  minestra  simile  a  quelle  feci  gustare  tanto  a 

XXIII.  B.N.R.,  F.V.E.  359-360,  ce.  35CW-352.  Nel  manoscritto  la  lettera 
e  numerata  come  DLXV.  -  1.  Per  Alessandro  Teodoro  Trivulzio  si  veda  la 
nota  4  a  p.  262.  Questa  lettera  è  in  risposta  a  quelle  del  Trivulzio,  in  data 
5  gennaio,  9  e  22  febbraio,  pubblicate  in  Giannonianat  pp.  527-30.  2.  con 
lusinga  .  . .  nome:  l'affermazione  suona  strana,  perché  l'ospite  modenese 
del  Giannonc,  Antonio  Guidetti,  era  un  conoscente  del  Muratori.  3.  pa- 
dre Bianchi . . .  mondo:  vedi  la  nota  1  a  p.  127.  4.  V Istoria  ecclesiastica: 
cioè  VUistoire  ecclésiastique  di  Claude  Fleury  (cfr.  la  nota  3  a  p.  31),  alla 
quale  il  Oiannonc  fu  molto  vicino  per  ispirazione. 


II 90  LETTKRK 

padre  Sanfclicc  come  al  padre  Pauli;1  sicché  poi  noti  dovrà  lagnarsi 
che  una  berlina  sosterrà  tutti  tre  insieme,  e  finire  non  solo  a  livi- 
dure, ma  a  sangue,  come  andaron  pelati  quei  due  teste  d'asini 
presuntuosi. 

Come  dunque  la  penna  deve  star  quieta,"  e  non  e  tempo  di  ten- 
tare i  cani  che  dormano?  quando  questi  stan  desti  più  che  cani 
levrieri  e  vogliono  approfittarsi  dei  tempo?  Con  all'occasione  devo 
dirli  per  ultimo  scopo  del  mio  sentimento  fermo  e  eostante  di 
quanto  ho  scritto,  stampato  e  quello  ancora  dovrò  stampare,  ac- 
ciocché i  principi  dovessero  aprir  gli  occhi  e  scorgere  le  tante  usur- 
pazioni fattale  ne'  loro  Stati  dagli  ecclesiastici:  poiché  forse  un 
giorno  per  divina  provvidenza  sarà  disposto  clic  quei  miei  scritti 
sopra  i  quali  ho  travagliato  in  comporrli  per  lo  spazio  di  dodici 
anni  che  sono  dimorato  ozioso  in  Vienna  (poiché  Roma  non  po- 
tendo ottener  altro,  impedì  sempre  che  io  fossi  impiegato  nelle 
pubbliche  cariche  de'  magistrati),  ne*  quali  sono  dimostrate  verità 
di  gran  momento  ed  importanti,  nommeno  a1  princìpi  cattolici, 
perché  si  accorgano  delle  tante  usurpazioni  e  sorprese  fattale  so- 
pra i  loro  principati  togliendoli  più  della  metà  dell'imperio,  che 
Iddio  sopra  i  medesimi  l'ha  conceduto:  che  a*  loro  sudditi,  pro- 
sciogliendoli da  tante  e  sì  dure  catene,  nelle  emuli  la  vana  supersti- 
zione, l'altrui  ambizione,  avarizia  e  fasto  gli  tiene  miseramente  av- 
vinti e  ligati.  Le  quali  mie  fatighe  avea  io  già  destinate  a'  tarli  ed 
alle  tignuole,  poiché  sotto  cielo  ed  in  italico  terreno  nou  avrei»- 
ber  potuto  certamente  allignare.  Forse,  dico,  avverrà  che  in  altro 
clima  potranno  vedere  la  chiara  luce  del  sole,  nascere,  farsi  grande 
e  volare  da  per  tutto/1  Iddio  difende  a  me  e  questi  miei  travagli 
che  non  furono  impiegati  che  per  la  ricerca  del  vero,  cioè  la  eono- 

1.  una  minestra . . .  Punti:  cioè,  analoga  alla  Professione  dì  fede  (ni  veda  alle 
pp.  475  s#g.)  e  alla  Risposta  atte  Annotazioni  critiche  (cù\  Vitat  qui  a  pp. 
3  10-3  e  le  note  ivi)*  2.  Come . .  .quietai  il  Trivubdo  aveva  soonjiitflinto 
il  Giannonc  dal  rendere  pubblico  il  suo  Ragguaglio:  «Toccante  quella 
scrittura,  che  mi  confidaste,  vi  dico  che  sarebbe  un  sproposito  il  pubbli- 
carla, è  fatta  in  tempo  che  lu  colera  vi  ha  oiTuscato  l'intendimento  .  ,  . 
scordatevi  di  questo  ciclo  e  di  questo  clima,  e  late  capire  che  «prezzate  le 
piccole  cose  e  che  vi  siete  superiore»  (lettera  del  5  gennaio  1736,  in  (*ian* 
noniana>  p.  527),  3,  quei  miei  scritti . .  »  tutto:  il  Giannonc  allude  qui  al 
Triregno  e  alla  possibilità  di  una  Hua  stampa  in  Ginevra,  potabilità  che 
era  balenata  dopo  che  Jacques  Barillot  si  era  impegnato»  alla  ime  di  feb- 
braio del  1736,  a  subentrare  a  Marc- Michel  Bousquet  nell'edizione  fran- 
cese dell  'Istoria  civile:  cfr.  Vita,  qui  alle  pp,  3x0^4.  Per  riutero  brano  cl'r. 
il  Ragguaglio,  qui  a  p.  554. 


LETTERE  II9I 

scenza  di  lui  stesso.  Curerò  poco  le  altrui  insidie,  proscrizioni  e 
maledizioni,  purché  egli  gli  protegga  e  benedichi  :  sicché  possa  con 
verità  e  sicurezza  repplicare  ciocché  il  santo  re  Davidde  solea  dire, 
PsaL  108:  «maledicent  illi,  et  tu  benedices».1 

In  quanto  alle  lettere  che  mi  scrivete2  ho  dato  Tincombensa  al 
signor  Bousquet,  il  quale  scriverà  al  suo  corrispondente  che  faccia 
ricerca  delle  medesime,  e  secondo  quello  gli  avviserà  farò  in  ma- 
niera che  pervenghino  in  potere  del  Canari3  sotto  vostra  direzione. 
Spero  presto  vedere  i  lampi  di  Marte  in  riposo,4  e  me  levato  da 
paesi  sospetti  e  riposto  nel  cattolico  grembo  di  Santa  Chiesa,  ove 
nacqui,  e  colà  morire.  Amatemi  e  difendetemi  da  tanti  miei  rumici, 
e  di  vero  cuore  l'abbraccio.  Ginevra  19  marzo  1736.  Devotissimo 
ed  obbligatissimo  servitor  vero  Pietro  Giannone. 


XXIV 
A  CARLO   GIANNONE  •  NAPOLI 

Dal  castello  di  Ceva,  li  13  novembre  I741* 

La  diffusa  sua  lettera  de'  24  dello  scorso  mese,  resami  la  passata 
settimana,  non  creda  che  mi  recasse  noia  o  disgusto  per  le  tante 
stravaganze  che  avete  ivi  affastellate.  Né  io  pretendo  che  si  rimova 
da  quelle,  perché  servono  almanco  per  pascer  l'animo  di  sì  belle 
idee.  Non  avrei  però  voluto  che  si  ponesse  a  narrarmi  fatti  antichi, 
che  non  sapete,  de'  quali  io  sono  meglio  informato,  «et  quorum 


x.  «maledicent .  . .  benedicessi  Psalm.,  108,  29:  «maledicano  quelli,  ma  tu 
benedici».  2.  In  quanto  . .  .  scrivete:  nella  lettera  del  22  febbraio  1736 
(Giannoniana,  pp.  529-30)  il  Trivulzio  aveva  chiesto  al  Giannone  di  cer- 
cargli le  Lettresjuives,  ou  correspondance  philosophique,  histonque  et  critique 
entre  un  juif  voyageur  à  Paris  et  ses  correspondans  en  divers  endroits  . .  .,  La 
llaye  1736- 1737,  in  sei  volumi.  Si  tratta  dell'opera,  tipicamente  deistica, 
del  letterato  francese  Jean-Baptiste  de  Boyer,  marchese  d'Argens  (1704- 
1771).  3.  Francesco  Canari  era  il  segretario  del  Trivulzio  (cfr.  Vita,  qui  a 
p.  306).  4.  Spero  .  .  .  riposo-,  la  guerra  di  successione  polacca,  che  durava 
dall'ottobre  del  1733,  aveva  subito  una  battuta  d'arresto  con  i  preliminari 
di  pace  di  Vienna  (3  ottobre  1735)  e  con  l'armistizio  di  Mantova  (1  dicem- 
bre) firmati  da  Austria  e  Francia.  Nel  febbraio  1736  aveva  aderito  alla  tre- 
gua anche  la  Spagna.  Passeranno,  tuttavia,  altri  due  anni  prima  che  la  pace 
definitiva  sia  conclusa. 

XXIV.  B.N.R.,  F.V.E.  359-360,  ce.  349-3500.  Nel  manoscritto  la  lettera  è 
numerata  come  dlxiv. 


lìi)2  LKTTKUK 

pars  maxima  fui  », f  e  voi  oravate  allora  fanciullo,  né"  di  riputarsi  a 
quei  tempi  pupillo  ed  orfano,  avendo  padre  e  madre,  ed  io  senza 
alcun  obbligo  che  mi  stringesse  vi  chiamai  in  mia  casa  in  Napoli, 
dove  ignudo  veniste/  e  stupisco  in  leggere  in  questa  sua  che  tra- 
sportò seco  quel  poco  di  residuo  di  roba,  quando  tutta  rimase  in 
potere  de'  nostri  genitori,  della  quale  fu  poscia  dotata  la  nostra 
sorella/  Non  vorrei  amareggiarvi  gettando  a  terra  il  fondamento 
d'una  chimerica  società  che  vi  fìngete,  pretendendo  che  dal  niente 
possa  nascere  alcuna  cosa:  «ex  nihilo  nihil  fit  ».  Per  la  società  si 
richiede  collazione  dì  roba  ed  industria  personale,  proposito  e  vo- 
lontà di  contrarla,  ciocché  tutto  manca  nel  caso  nostro.  Che  serve 
adunque  andarsi  infrascando  la  mente  di  vaghe  e  generali  dottrine, 
tratte  da  Mtcaiorio4  ed  altri  autori  di  simil  farina,  le  quali  niente 
han  che  fare  col  caso  presente?  Molto  men  noiosa  dovea  riuscirmi 
l'estensione  che  avete  data  a  questa  immaginaria  società  facendola 
volare  sino  a  Vienna,  dandogli  ali  sì  spaziose  ed  ampie»  che  abbrac- 
ciasse anche  i  guadagni  da  me  ivi  fatti,  anzi  la  mercede  stessa  con- 
feritami dalla  Maestà  deirimperadore.  Gran  virtù  veramente  han- 
no tali  società,  poiché  come  ideali  possono  portarsi  fin  dove  si  vuo- 
le. Quello  che  poi  mi  ha  dato  sommo  piacere  è  stato  di  leggere  quel- 
la graziosa  distinzione  di  spese  fatte  per  cause  illecite  e  men  oneste, 
le  quali  non  entrano  in  commtmione  e  devono  imputarsi  solo  a 
colui  che  l'ha  fatte.  11  grazioso  consiste  che  voi  applicate  un  testo 
di  Papiniano5  alle  spese  che  per  umana  fragilità  spesso  occorrono, 
e  Papiniano  parla  di  quelle  fatte  «oh  maleficium ».  Non  credo 
certamente  che  Papiniano  riputasse  maleficio  le  semplici  forni- 
cazioni. Se  mi  aveste  allegato  un  testo  di  san  Paolo,  il  quale  nelle 
sue  epistole  le  condanna,6  siccome  fa  delle  eommessazioni,  ubria- 

x*  «H  quorum. .  ./;//»:  efr.  Virgilio,  Aenn  n,  6:  «et  quorum  pars  ma^na 
fui»).  2.  ed  io  senza . .  .  venisti*:  efr,  Vitat  qui  u  p.  47,  dove  aggiungo  che 
fu  lui  a  istradare  il  fratello  «pria  ne*  studi  di  filosofia,  poi  in  quelli  di  k*g«e 
t\  finalmente,  metterlo  nella  strada  de*  tribunali».  3,  la  nostra  sorella; 
Vittoria,  andata  «posa  al  medico  Domenico  Tura,  di  Vieste.  4.  Mirato* 
rio;  si  tratta  di  Hiatfio  Micalori»  giurista  urbinate  vissuto  nel  XVII  secolo, 
di  cui  cfr.  Tractatus  de  fmtribu$%  in  tres  parte*  divisus  « . .  Additis  in  firn; 
in  hac  nova  impressione^  sexagìnta  saerae  romana**  Motae  deeiswnibus>  (ìcne- 
vae  1665.  «5.  Secondo  la  cosiddetta  logge  dello  citazioni  di  Teodosio  II 
e  Valentininno  ili  (426),  Papiniano  (morto  nel  zio)  era  uno  dei  cinque 
sommi  giureconsulti  dei  quali  soli  si  poteva  allegare  nei  tribunali  le  opi* 
nioni,  e,  in  caso  di  pariti,  la  sua  opinione  prevaleva  su  tutte  le  altre,  L'au- 
tonta  papinianeu  perduro  fino  a  tutto  il  Settecento.  6,  san  Paolo  . . ,  am~ 
danna;  cfr.  Vita,  qui  a  p.  84  e  la  nota  a  ivi. 


LETTERE  II93 

chczzc,  mormorazioni  e  colpe  simili,  sarebbe  stato  comportabile; 
poiché  presso  Iddio  sono  vietate  e  peccaminose;  ma  per  le  leggi 
civili,  che  le  permettono,  né  v'impongon  pena,  come  volete  che 
siano  comprese  sotto  la  parola  «  maleficium  »  ?  Con  tal'occasione 
mi  avete  fatto  ricordare  di  quella  piacevole  novella  del  Boccaccio, 
dove  avreste  potuto  anche  apprendere  che  tali  spese  ne*  libri  de' 
conti  s'ammettano  ed  hanno  una  speziai  rubrica  e  son  collocate 
sotto  questa:  «Spese  in  dulcitudine».1  Veda  adunque  se  questa 
vostra  lettera  potea  essermi  di  disgusto,  quando  mi  è  stata  cagione 
di  molto  riso. 

Il  decreto  del  re  Davide  anticamente  praticato  da'  principi  e 
generali  d'armate,  i  quali  dividevano  la  preda  fra*  soldati  che  si 
trovavano  nella  battaglia,  e  quelli  che,  pronti  ancor  essi  per  com- 
battere, furono  commandati  alla  custodia  del  bagaglio,  sebbene 
ora  secondo  la  presente  disciplina  militare  i  bottini  non  si  mettono 
più  «in  communi»,  ma  chi  piglia  piglia:  come  si  adatti  al  caso 
nostro,  io  noi  comprendo.  E  non  già  che  se  n'abbia  da  attristare, 
ma  unicamente  per  sua  istruzione,  permettemi  che  io  sol  v'accenni 
un  altro  decreto  d'un  gran  senato  proferito  non  già  fra'  soldati,  ma 
tra  due  fratelli,  il  minore  de'  quali  pure  senz'averci  niente  posto, 
anzi  alimentato  dal  maggiore,  fantasticava  ideale  società  e  preten- 
deva divisione,  e  separarsi.  Il  decreto  che  uscì  sopra  la  sua  doman- 
da fu  questo:  «Esci  di  casa,  e  la  divisione  è  fatta».  E  facendo  fine, 
resto  caramente  abbracciandolo. 


x.  «Spese  in  dulcitudine»:  cfr.  Decam.,  vili,  io. 


INDICE  DEI  NOMI 


INDICE  DEI  NOMI 


Abate,  vedi  Bernardo  di  Montmirat 

Abele,  829,  849 

Abia,  648 

Abimclcc,  837 

Abramo,  594,  598,  600,  635,  637, 

«33»  «75,  977,  978,  1029 
Absirto  (Claudio  Hermcrote),  452, 

453 
Ab  fi  Hckr  (Abubccker),  979 
Abulcnsc,  vedi  Tostado  Ribera  A. 
Acacìo,  presbitero,  corrispondente 

di  sant'Epifanio,  1013,  1014 
Acacio  di  Costantinopoli,  707 
Acanipora  G.  L.,  xxxr,   126,   166, 

326,  362,  1126,  1127,  1128,  1149, 

1150,  1156,  u6r,  1162 
Accio  1/.,  452 
Accursio,  867 
Acerra,  conte  di,  11 32 
Achille,  852,  1043,  1044,  1045 
Acmone,  940 
Acton  J.  F.  K.,  513 
Adalulfo,  447 
Adamo,  xxu,  224,  228,  229,  594, 

595,  596,  626,  627,  648,  649,  805, 

8x8,  843,  846,  847,  848,  849,  850, 

«56,  858»  «75,  876,  888,  898,  908, 

1027,  1080,  1095 
Adone,  944 
Adorno  O.  A.,  42 
Adriano,  imperatore,  377,  779 
Adriano  I,  papa,  459,  464,  725 
Adriano  IV,  papa,  j8o,  573,  577 
Adriano  VI,  papa,  496 
A  fan  de  Rivera  i\,  duca  di  Alcald, 

335 

aitò  l,  36 

Agag,  rti  degli  Amalcciti,  1037 

Agamennone,  756 

Agapcto,   vescovo   di   Cesarea   in 

Cappadocia,  465 
Agapito,  duca  di  Sant',  150 
Agamia  Scolastico,  398,  7x2 
Aghir,  vedi  Aguirre  J. 
Agilulfo,  re  dei  Longobardi,  567 
Agnello  L.,  1:25 
Agnello  di  Napoli,  34,  35,  37 
Agnesa,  484 


Agostino  A.,  santo,  43,  211,  224, 
225,  229,  231,  429,  621,  624,  689, 
690,  712,  716,  717,  718,  722,  736, 
740,  744,  750,  762,  770,  774,  776, 
777,  778,  787,  79i,  793,  795,  798, 
799,  801,  802,  803,  804,  805,  806, 
808,  809,  810,  811,  813,  819,  826, 
829,  830,  832,  834,  839,  843,  844, 
846,  847,  848,  849,  850,  861,  862, 
863,  864,  866,  867,  868,  873,  879, 
881,  882,  884,  886,  887,  888,  889, 
892,  893,  894,  896,  898,  899,  900, 
901,  902,  903,  904,  908,  909,  915, 
921,  945,  946,  947,  952,  96o, 
1000,  1016,  1024,  1025,  1027, 
1033,  1036,  1037,  1039,  1049, 
1057,  1092,  1094,  1096,  1097 

Agostino  di  Canterbury,  santo,  687 

Agricola  Gn.  G.,  1089 

Agrippa  A.,  console,  759 

Agnppa  Castore,  654 

Agrippina  minore,  1043,  1066 

Aguirre  D.,  198,  11 44 

Aguirre  J.,  198,  1135,  1144 

Agustin  y  Agustin  A.,  22,  23,  41, 
685 

Aiace  Tclamonio,  483 

Ajello  R,  xxxvii,  93,  352 

Almerico,  figlio  del  re  dei  Visigoti 
Teodorico  I,  380 

Aimoin,  monaco  di  Fleury,  422 

Aimone,  862 

Aincmaro,  vedi  Hincmar 

Ajone,  567 

Alarico  I,  condottiero  dei  Visigoti, 
381,  826,  noi 

Alarico  II,  re  dei  Visigoti,  385,  386, 

387 
Alario,  1177 
Albani  Alessandro,  cardinale,  xix, 

346 
Albani   Annibale,    cardinale,    127, 

130,  144,  497,  5",  548,  "89 
Albani  G.  F.,  vedi  Clemente  XI 
Alberico  delle  Tre  Fontane,  491 
Alberto  Magno,  1059 
Alberto  di  Santa  Maria  di  Stade, 

491 


II 98 


INPICK    DKI    NOMI 


Alboino,  te  dei  Longobardi,  421, 
-423,  424,  506 

Alboino  presbitero,  491 

Aibornoz  J.  C  ,  conte  di  Monte- 
mar,  242,  244,  247,  24<) 

Aleasar,  850 

Aleiato  A.,  41 

Alcuni»  di  Yoik,  846 

Aldobrandini  I.,  vedi  Clemente 
Vili 

Aldobrandino  I*.,  440, 

Aldrovandi  U.,  1053,  1058,  1059 

Alessandro,  vescovo  d'Antiochia, 
718 

Alessandro  II,  papa,  449 

Alessandro  111,  papa,  270,  471, 
522 

Alessandro  VI,  papa,  487 

Alessandro  VII,  papa,  291,  910,  911 

Alessandro  Magno,  205,  940 

Alessandro  Severo,  inipeiatore,  772, 

77" 

Alessio  G.,  1015 

Alessio  I  Comneno,  imperatore 
d'Oriente,  31 

Aldino  B.,  581,  582 

Alexandre  N.,  104,  125,  437,  488, 
548,  682,  713,  725,  855,  907, 
920,  931,  933,  934»  «fa; 

Alieno  Varo,  752,  8ia 

Alleno,  vedi  Alfieri  da  Mugliano 
G.  A. 

Alfieri  da  Mariano  Ci.  A.,  345 

Alfonso  I  il  Cattolico»  re  delle  Astu- 
rie, 389,  391,  393 

Alfonso  V  il  Magnanimo,  re  di  Ara- 
gona, IV  di  Catalogna,  I  di  Na- 
poli, 275»  4<>7 

Alfonso  X,  il  SiiftKio  o  il  Dotto,  re 
di  Castella  e  di  Leon,  391 

Amaretti  I«\,  992 

'Ali  ibn  Ahi  Tfdib,  953»  079 

AliRhiori  I).,  35,  T20,  344,  552,  778, 
788,  873,  877,  908,  1083 

Alitto,  famiglia,  (5 

Allacci  L.,  682 

AlmarsB  I\,  1136 

Àlmur/a  D.  de,  9B,  iox,  102,  115, 
120,  132»  154,  155,  157,  i<>4>  i«A 
197,  198,  202,  203,  1117,  1127, 
1x32,  1x33,  u 36,  X152 

Almcnura,  marchese  di,  vedi  Por- 
tocarrero  J,  F. 


Alt  esena,  vedi  O.uhn  ile  Haute- 
sene  A 

Althann  K  INI.  von,  cardinale,  vi- 
ceié  di  Napoli,  XIV,  \v,  9,  78,  79, 
80,  88,  90,  104,  1 13,  130,  i()(), 
557»  5^5.  nid,  un;,  1125,  1133, 
i*35»    iH.l.    »*7~ 

Althann  \'    von,  78 

Althann  I'ijmatclh  M.,  contessa  di, 
7o\  249 

AHimari  B.,  458 

Alvaica  K.  M.,  92,  140,  141,  192, 
x«)3,  i<)7 

Amabile  L  ,  xxxvi,  176 

Amalanco,  re  dei  Visigoti,  401 

Anuilusunta,  regina  degli  Ostrogoti, 
.J17,  566 

AmbiOKÌo,  santo,  094,  717,  778, 
814,  819,  825,  826,  830,  843,  844, 
847,  8.|8,  849,  854,  855,  862,  878» 
889,  894.  97 1>  1058 

Ammaino  Marcellino,  24,  399 

Ammirato  S.,  420,  421 

Ammonio,  655 

Ampioo,  1045 

Amurut,  vedi  Muràd  I 

Anassagora,  609,  011,  612 

Anassarete,    1095 

Anassimandro,  611,  61*1 

Anassimene  di  Mileto,  (in,  tnz 

Anastutftfi,  vedi  Anastasio  K, 

Anastasio,  santo,  466,  848 

Anastasio,  patriarca  di  Antiochia, 
7M,  7-51 

Anastasio,  patriarca  dì  Costantino- 
poli, 438 

Anastasio,  vescovo  di  Tehsalouiea» 
720 

Anastasio  I,  imperatore  d'Oriente, 
3«S»  3<>7>  3<W.  402,  (>97 

AnaMasio  Bibliotecario,  435,  4^7, 

Anastasio  K.,  125,  126,  127,  128, 
X29»47^»   1137»   1149 

Anatolio,  patriarca  di  Costantino- 
poli, 401 

Anchine,  (hi,  940 

Andrea  d'Iscmia,  372,  456 

Andreas  de  Bando,  vedi  Monello  A, 

Andreys  F.  de,  vedi  D'Andrea  K. 

Andriulli  A.,  xxxi,  xxxn 

Anlìloeo,  772 

Angelica,  871 


INDICE   DEI   NOMI 


"99 


Angclis  F.  de,  33,  35,  36,  1132 
Angiò  Filippo  d',  vedi  Filippo  V  re 

dì  Spagna 
Anguillara,  famiglia,  863 
Aniano,   cancelliere  di  Alarico  II, 

387,  388 
Amo,  sacerdote  di  Apollo,  756 
Anna,  santa,  876 
Anna  Joannovna,  zanna  di  Russia, 

226 
Annibale  Barca,  312 
Annio  L.,  764 

Anonimo  Cassinense,  358,  420 
Anonimo  Salernitano,  421 
Anonimo  Val  esiano,  399 
Ansaldis  A.  de,  1159 
Ansegiso,  abate  di  Fontanelle,  57 
Anselmo  d'Aosta,  santo,  859 
Ansoaldo,  447 

Antctnio,  patriarca  di  Costantino- 
poli, 707 
Antctnio  Procopio,  imperatore,  409 
Antimio,  duca  di  Benevento,  467 
Antinori,  abate,  1134 
Antioco  V  Eupatore  di  Siria,  1090 
Antonino,  arcivescovo  di  Firenze, 

santo,    180,  478,  480,  488,  864, 

865,  1167 
Antonino  da  Piacenza,  santo,  426 
Antonino    Pio,    imperatore,    487, 

856,  882 
Antonio  M.,  il  triumviro,  761 
Antonio  da  Padova,  santo,  7,  293, 

507»  53**,  538,  54o,  95i 
Apollo,  eretico,  809 
Apiario,  prete  africano,  690,  691 
Apis,944 

Apollinare  Ioropolitano,  654 
Apollo,  1Ó9,  22  x,  756,775»  94o,  943» 

951,  1028,  1034 
Apollonio,  655 
Apollonio  di  Tiana,  1093 
Arbib  L.,  496 

Arcadio,  imperatore  d'Oriente,  23 
Arcaroli  D.,  349 
Archelao,  611 
Archimede,  862 
Arduino,  vedi  Hardouin  J, 
Arezzo  F.  M.  d',  vedi  Casini  F.  M. 
Arcante,  901 
Argens  J.-B*  d',  927,  97&" 
Argento  C,  197 
Argento   G.,  xm,   xiv,  xv,  xvn, 


xxxvxi,  40,  41,  43,  44,  45,  47,  52, 
59,  60,  61,  62,  63,  64,  65,  66, 
67,  7o,  74,  81,  88,  89,  92,  95,  98, 
101,  102,  106,  107,  108,  116,  171, 
172,  173,  174,  175,  192,  196,  197» 
349»  350,  351,  353,  354,  360,  362, 
375»  476,  558,  1113»  1129,  1170, 
1185 

Argonne  N.,  854 

Ariani  A.,  990 

Arias  Montano  B.,  851,  854 

Arichi  II,  duca  di  Benevento,  214, 
423,  454,  467,  &$,  567 

Ario,  31,  411 

Anoaldo,  re  dei  Longobardi,  447, 
566 

Ariosto  L.,  132,  244,  419,  846,  878, 
1163 

Ariperto  II,  re  dei  Longobardi,  432 

Aristea   Proconnesio,    1024 

Ansteo,  1036 

Aristeo,  figlio  di  Apollo,  941 

Aristide,  654 

Aristone  T.,  vedi  Tizio  Aristone 

Aristotele,  16,  51,  612,  613,  614, 
645,  751,  774,  812,  816,  947, 
1017,  1018,  1020,  1022,  1047, 
1050,  1055,  1059,  1060,  1064; 
1084 

Armellini  A.,  267 

Arminio,  vedi  Harmensz  J. 

Arnauld  A.,  909 

Arnisaeus  H.,  444 

Arnobio,  655,  1056 

Arrigo,  arcivescovo  di  Sens,  470 

Artemidoro,  766 

Artemidoro  di  Efeso,  1025 

Asburgo,  principi,  3 

Assalonne,  854 

Asserbachio  T.,  vedi  Hasselbach 
Th. 

Astaroth,  944 

Astarte,  944 

Asti  D.  A.  d',  571,  1156 

Astolfo,  846 

Astolfo,  re  dei  Longobardi,  429, 
430,  432 

Asturie,  principe  delle,  vedi  Ferdi- 
nando VI,  re  di  Spagna 

Atalarico,  re  degli  Ostrogoti,  394, 
400,  409,  412,  413,  417,  566,  712 

Atanasio  di  Alessandria,  santo,  692, 
723,  724,  848,  86i>  894,  971 


1200 


INDICI':    DISI    NOMI 


Ataulfo,  re  ch'i  Visigoti,  380,  381 

Atenngora,  22«),  655,  811,  838 

Ateneo,    1053,   10^9,   tono 

Atenodoro  di  Tarso,  767 

Atlante,  941 

Attila,  ic  demi i  Unni,  380 

Attlnio,  1030 

Aubignc  T.-A.  d\  170 

Augusto,  (>.  <iiulio  Cesai  e  Otta- 
viano, imperatore,  22,  222,  225, 
425,  639,  648,  740»  74 1>  744. 
75i»  75-s.  755»  759,  760,  761,  763, 
765,  770,  084,  103.1,  1035»  io»5, 
1068,    1069,  1085,   1089,   1094 

Augusto  II  il  Forte,  re  di  Polonia, 
144,  226,  238 

Augusto  IH,  re  di  Polonia,  210, 
226 

Aulisio  I).,  XVI,  XXI,  XXV,  XXXI»  IO, 
20,  24,  26,  27,  32,  40,  5N»  73.  74. 
7**»  H*>  34<),  350,  355»  362,  375. 
5***.  $$*,  S«4i  742»  744»  773.  774, 
809,811,8x4,816,832,841,843, 
QOi,  915,  023,  028,  035,  030,  047, 
961,  998,  tooi,  1004,  1102,  1128, 
X120,  1130,  1135,  *U» 

Aureliano,  impeiatore,  787 

Auria,  gesuita,  1169,  1170 

Ausonio  I).  M.,  24,  426 

Àuturi,  re  dei  Longobardi,  4 18, 4i<>> 
420,  421,  424.  435 

Autperto  A.,  467 

Avalos  A.  d\  marchese  di  Pescara  e 
del    Vasto,    86 

A  venni  i  N.,  fu  6 

Averroè,  613 

Avertiti  C.  d\  1152 

Avicenna,  613 

Avito,  imperatore,  382 

Azuni,  figlia  di  Adamo,  850 

Bacchilo,  655 

Macchini  B,,  xxtv 

Bacco,  606,  777,  782,  941 

BUck  L.,  620 

Bacone  R,  54,  582,  645,  929,  934 

Badaloni  N.,  xxxvn,  581,  625,  737, 

99*>  993>  994.  1000,  rooj 
Baditela,  vedi  'Potila 
Buglioni  C,  435 
Balaam,  indovino,  1037 
Balbani  N.,  3x6 
Baldassarre,  uno  dei  re  magi»  868 


Baldo  degli  Ubaldi,  372,  457,  494, 

495 
Balduino  K.,  vedi  Bauduin  Ki. 
Balestrino,  marchesa  di,  225,  238 
Balsamone  T.,  657 
Baiti,  principi,  370,  380 
Baluze  fi.,  411,  685,  686 
Banduri  A  ,  2$,  400,  422 
Baiìcz   I).,  906 
Banier  A.,  950 
Baranello,  nuuchese  di,  2i(> 
Barberini  ('.,  149 
Barberini  K.,  cardinale,   149 
Barberini  M.,  marchese  eli  Coi  esc, 

149 
Barberini  M.,  vedi  Urbano  Vili 
Bai berini  II.,  149 
Barbeyrae  J.,  xix,  XX,  792,  794.  795» 

796,  810,  840,  9-4-1 
Barellaseli  J.  C.,  1130 
Barekhuusen,  vedi  Barehuscn  J.C. 
Bardasane,  655 
Barillot  J.,  xvu,  322,  323,  ^z$,  338, 

991,  ti 90 
Barnaba,  santo,  744 
Barnaba  (vangelo  di),  «31 
Barncveldt  J,  van,   1008 
Barone  C,  99 
Baroni»  C,  22,  384,  399,  436,  437, 

449.  561,  689»  878,  917»  W>  Wt 

935.  949,  965,  966,  967,  968 
Barth  K.,  595 
Bartoletti  I.  o  (».,  297 
Bartolo  di  Sassoicrrato,  372 
Bartolocci  GM  880 
Bartolomeo  d'Arieiwa,  301 
.Bartolomeo  da  Rinonieo,  180,  478, 

1167 
Basii ide,  eretico,  654 
Basilio  I  il  Macedone»  imperatore 

d'Oriente,  445 
Basilio  di  Cesarea,  «unto,  467,  670» 

H29,   XS$>   «45»   «47»   M>    «49» 

861,  868,  97 1,  1049»  1058 
Basilisco,     imperatore     d'Oriente» 

707 
Basnage  J.,  910,  970 
Basnago  S.,  970 
Battisti  C,  1015 
Bauduin  (Balduino)  Fr,,  41,  784» 

7«5 
Bay  M.  de,  904,  905 
Bayle  P,,  xvi,  xxiv,  3,  583»  588»  614» 


INDICE   DEI   NOMI 


1201 


736,  738,  748,  793,  9i6,  917,  918, 

OT9,  921,  922,  923,   1003,   1004, 

1048,    1061,    1070 
Buy us,  vedi  Bay  M    de 
Bcaufort  L.  de,  738 
Bcaurcgurd   l.,  xxvn 
Beausobre  I.,  971 
Beccaria  C,  xvnt 
Bcda,  il  Venerabile,  687,  846,  847, 

855,  862,  86^,  868,  873,  920,  965 
Beddevole  J.,  vedi  Bcntivogho  J. 
Bedell  W.,  542,  543 
Begey  M  ,  791,  797 
Beke  N.  van  der,  407 
Bekker  B  ,  xxiv 
Belcredi  G.  B.,  139 
Beici ztm,  vedi  Gebeleizim 
Belfagor,  944 
Belisario,  399,  414,  1188 
Bellarmino  R.,  436,  497,  498,  921, 

<)23 

Bellini  B,,  37 

Belloveso,  312 

Bellucci  A.,  55 

Belmonte,  principe  di,  vedi  Pigna- 
tolli  F.  di  Belmonte 

Belo,  941,  944 

Belvedere  A.,  1134,  1x38 

Bembo  1\,  35,  36 

Bemporad,  editore,  xxx 

Benavidea,  famiglia,  288 

Benavides  y  Aragón  F.  de,  conte  di 
Santisteban  del  Puerto,  18,  265 

Benavides  y  Aragón  M.  de,  conte 
di  Santisteban  del  Puerto,  264, 
7.65,  266,  277,  278,  283,  284,  288, 
5«8,  551,  552,  1180,  X183 

Benedetto  da  Norcia,  santo,  467, 

Benedetto  XIII,  papa,  114,  117, 
123,  125,  126,  141,  143»  151» 
i$6t  161,  X65,  172,  200,  205,  206, 
265,  476,  477,  548,  549,  i*35> 
1143,  1156,  1169 

Benedetto   XIV,   papa,    152,    346, 

1*45 

Benedetto  Levita,  390 

Benedikt  li.,  xxxvi,  78,  90,  91,  92, 
97,  99,  X09,  *H>  «6,  135,  139, 
170,  171,  175,  192,  930,  **32> 
3CI33,  M35»  1*55,  1X75,  1179 

Beno  (Benno),  cardinale,  491 

Benoist  fi.,  586,  748 


Benoit  J.,  971 

Bensoni,  vedi  Benzoni  S. 

Bentivoglio  J.,  xxvn,  591 

Bentley  R.,  991,  992 

Benzoni  S.,  94,  11 12,  1119,  1142, 
1148 

Berardi,  stampatore,  281,  283 

Berardi  M.,  334,  335 

Berengario  I,  re  d'Italia  e  impera- 
tore, 454 

Berenice,  santa,  826 

Bermudez,  1165 

Bernardo  di  Chiaravalle,  santo,  470, 
717,  860 

Bernardo  di  Montmirat,  detto  Ab- 
bas  Antiquus,  494 

Bcrnicr  F.,  581,  953,  955 

Bernouilli  Jacob,  1061 

Bernouilli  Johann,  1061,  1063 

Beroso,  883 

Bertelli  S.,  xxvin,  xxxv,  xxxvi, 
xxxix,  9,  78,  80,  107,  108,  113, 
143,  186,  265,  279,  302,  304,  319, 
322,  338,  345,  346,  349,  476,  509, 
511,  517,  534,  1116,  1117,  1125, 
1141,  1168,  1187 

Berthé  de  Besaucèle  L.7  625 

Berti  A  P.,  55 

Bertoldo  Costanziense,  vedi  Ber- 
toldo di  Reichcnau 

Bertoldo  di  Rcìchenau,  491 

Bettoni  F.,  267,  280,  295,  520,  521, 
527,  529,  530,  1182 

Beveridge   W.,  665,  666 

Bèze  Th.  de,  900 

Biagio  da  Morcone,  457 

Biamonte  R.,  xxix 

Bianchi  G.  A.,  127,  128,  168,  511, 
535,  548,  1189 

Bibaculo  M.  Furio,  761,  io  12 

Bigatti,  306,  308 

Bignè  M.  de  la,  380,  11 18 

Bignon  J.,  43^ 

Bignon  J.-P.,  1074,  1075 

Bill  J.,  541 

Bingham  J.,  xvn,  xx,  xxi,  587,  660, 
665,  666,  676,  678,  682,  683,  685, 
686,  687,  688,  690,  691,  692,  693, 
694,  695,  699,  704,  7o6,  7^5,  745, 
840,  874,  924,  926,  972 

Bione,  retore,  io  11 

Biscardi  S.,  41,  44,  35° 

Boccaccio  G.,  36,  484,  572,  11 93 


76 


1202 


INDICK    OKI    NOMI 


Boc.eardo  (Boecarto),  vedi  Bocharl 

S. 
liochart  S.,  568,  509,  600,  611,  635, 

740,  801,  802,  944 
Bochat,  vedi  Loys  de  Bochat 
Boetius  N.,  vedi  Bohier  N. 
Boerio  (Bocrius)    N.,  vedi   Bohier 

N. 
Boezio  S.,  416,  417,  100S 
Bohier  N.,  373,  430,  431,  .157 
Boiardo  M.  MM  <>oo,  007 
Bolanos  (Bolagno)  J.,  98,  ioo,  155, 

192 
Bolza,  1147 
Bonacei  G.,  xx,  xxx,  xxxi,  xxxn, 

54,  349,  3<>o,  3<u>3"2,  J64 

Bonapaee  tt.,  »<)(> 

Bonaventura,  santo,  864 

Bonetto  A.,  431,  457 

BoniYùre.  J.,  851,  855 

Bonifacio,  corrispondente  di  Gre- 
gorio III,  438 

Bonifacio  1>  papa,  6gi,  7*9»  72*» 
722,  725,   726 

Bonifacio  VIH,  papa,  487,  493, 
496,  497,  498,  590 

Bonnant  G>,  xxxvi,  188,  272,  $z$ 

Bonnoval  A.,  930 

Bonnevul  CI.  do,  generale,  142,  551 

Bonneval  C.-A.  de,  113 

Bontinok  1«\,  930 

Borbone,  principi,  3,  276,  uSi 

Borghese  C,  vedi  Paolo  V 

Borrelli  M.,  5$ 

Borromeo  C,  «unto,  121 

Borromeo- Arene  CI,,  0.5 

Bortoni  G,,  64,  476 

BosHuet  J.-B,,  205,  9701  97 * 

Botmrì  G.  G.,  1151,  1x62,  1 177 

Bouillier  V.t  in 5 

Boulninvilliers  II.  de,  976,  983 

Bourrel  J.,  851 

Bousquet  M.-M,  xxvm,  6,  188, 
2x2,  213»  281,  304,  306,  307,  311, 
313»  3X4»  3*7,  3^0,  320,  321,  32», 
333»  3*0»  5»3»  9*7,  99*,  902,  99<>, 
1175,  1190,  rx<;t 

Bowcr  A.,  t86,  524 

Boycr  J,~B.  de,  marchese  d'Argens, 
X191 

Bradwardine  Th.,  904 

Braga  G.  B,,  1061 

Brahmà,  955 


Brancaccio,  famiglia,   1071 
Brancaccio  V.  M.,  3^ 
Brancaccio  S.,  32 
Brauhacti  M.,  58.),   1 143 
Broglia,  vedi  Solaio  di  Bicglio  G. 

R. 
Brenkman   II.,  571,   S72 
Bivrewood   E.,  587,  087,  607,  050 
Brigida,  .santa,  4.1.1 
Bnoi  M.,  ou,  083 
Bn.sson  B.,  22,  -jt 
Brosseiia  M.,  1 04 1 
Brnughton  J  ,  oi<> 
Brovvn  II.  K,  280 
Brune!   l\,  992 
Brunilde,  regina  merovingia,  919, 

02it  922 
Bruno  (}.,  583 
Bruno   di    Magdoburg   (Brunone), 

4-9  * 
Brunswick- Luncburg  G.  A.,  09 
Bruto,  IVI.  Giunio,  759,  70» 
Bruyn  ('.  de»  953 
Bruzen  de  la  Martinietv  A. -A.,  957» 

95* 
Buchanan  G.,  1008 
Buekley  S.,  180,  187,  188 
Budde  (Buddeus)  J.  t\,  795,  840 
Biute  <>.,  41 
Buflier  C,  xxxi»  359 
Buonunatei  B„   tizH 
Buonanni  K.,  487 
Buonarrighi  CJ.,  739 
Buonocore  I«\,   1176,   1177 
Burckard  J*,  ttoi 
Burnet  G,,  582 
Burnct  Th.,  643 
Buabceq  G.  (),  de,  1020 
Buxnelli  M.  I)„  542 
BitttHon  II»,  h ,\à 
Buteone,  vedi  Bourrel  J. 
Buti,  Franceneo  dì  Bartolo  da,  778 
Bynkerwhoek  C\  vnn,  559 
B&sowhIo  A.,  967 

Cacaee  I..»  na<) 

Caco,  756 

Cadmo,  94 1 

Cafaro  C,  1159 

Cu  furo  F,,  1159 

Cataro  N.,  11 59 

Cattò,  1 1 34»  j  139,  1 1 52,  x  1 56,  1 160 

Caino,  849,  850 


INDICE    DEI    NOMI 


I203 


Caissotti  C.  L.,  509 

Caligola,  imperatore,  761 

Calltscn  G.,  491 

Calopresc  G.,  51 

Calvino  G.,  131,  904 

Calvo,  G.  Licinio,  889 

Cam,  597,  604 

Camillo,  M.  Furio,  754,  938 

Cammerota  F.,  1144 

Campo  IX,  429 

Campori  M.,  360 

Canaan,  figlio  di  Cam,  597 

Canal  M.  C,  508 

Canale,    senatore  veneziano,   1182 

Canari  (Canary)  F.,  306,  308,  310, 
3".  3*7,  322,  339,  1191 

Canciani  P.,  430 

Candee  Jacob  M.,  990,  992,  993 

Cannarozzi  C,  xxxiv,  15,  78 

Cano  M.,  1167 

Cantelli  G.,  106 1 

Canta  C,  737 

Capasse)  N.,  49,  50,  73,  78,  79,  81, 
173,  177»  *8z,  349,  362,  363,  375, 
478,  625,  1103,  1104,  1105,  1124, 
1134,  1146,  1148,  1149,  1153, 
1156,  1x62,  1163,  1164,  1165, 
1166,  1167,  1175,  1176,  1180 

Capece  G.,  marchese  di  Rofrano, 
70,  149,  164 

Capecelatro  F.,  56,  358 

Capitone  T.,  82,  289,  973 

Capottiti,   avvocato,   1177,   1178 

Cappelli  L.,  xxxi 

Capponi  F.,  1159 

Caputo  G.,  59 

Caracciolo,    principe    di    Marano, 

47 

Caracciolo  A.,  $6,  357,  358,  420 

Caracciolo  F,,  42 

Caracciolo  G.  G.,  marchese  di  Vi- 
co, 316 

Caracciolo  di  Torcila  A.  C,  277, 
a88 

Carafa  C,  42 

Carafa  F\,  duca  di  Frosolone  e  mar- 
chese di  Maranello,  61,  354 

Carafa  G.,  244,  245,  248,  249 

Carafa  M,,  duca  di  Maddaloni,  99, 
150,    n66,   1178 

Carafa-Quìroga,  duchessa  di  Fro- 
solone» madre  di  Francesco  Ca- 
rafa, 61 


Caraglio,  marchese  di,  io 

Caramelli  G.,  io 

Caraschetto,  1179 

Caravita  D.,  382 

Caravita  N.,  18,  1127 

Caravita  P.,  457,  458 

Cardano  G.,  1059 

Cardoino,  famiglia,  316 

Cardoino  A.,  316 

Cardoino  C,  316 

Cardona,  principessa,  118,  119 

Cardona  A.  Folch  de,  arcivescovo 
di  Valenza,  88,  98,  102,  116,  119, 
121,  135,  163,  585,  1073,  1115, 
1125,  1134,  1135 

Cardona  J.  Folch  de,  118,  119,  137 

Canberto,  447 

Cangnam,  1123 

Carisio,  FI.  Sosipatro,  1013 

Canstia  C,  xx,  xxxn,  xxxiv,  76, 
561 

Carlo  I  d'Angiò,  re  di  Sicilia,  276 

Carlo  II,  re  di  Spagna,  18,  58,  62, 
126,  130,  132,  277,  288,  1134 

Carlo  III  di  Borbone,  re  di  Spagna 
(VII  come  re  di  Napoli  e  Sicilia), 
153,  214,  242,  244,  245,  24%  248, 
254»  265,  274,  275,  276,  277,  283, 
284,  511,  543,  55*>  1131,  H35, 
1176,  1179,  li 80,  11 82,  11 84, 
1185 

Carlo  V,  imperatore,  62,  197,  277, 
316 

Carlo  VI,  imperatore  (III  come  re 
di  Spagna,  VI  come  re  di  Napo- 
li), xni,  xiv,  60,  62,  63,  80,  90, 
96,  98,  99,  ioo,  102,  109,  no, 
136, 164,  198,  262,  276,  283,  288, 
302,  353»  475,  5ii,  $15>  5&4, 
1073,  1074,  11 12,  11 14,  1135, 
1139,  1140,  1180,  1184 

Carlo  Vili,  re  di  Francia,  276, 407 

Carlo  Emanuele  III  di  Savoia,  re 
di  Sardegna,  xvm,  xix,  xxin, 
238,  240,  308,  512,  514,  591,  732, 
734,   11 86,   11 88 

Carlo  Magno,  imperatore,  30,  57, 
214,  35i,  390, 400,  401,  430,  437, 
453,  454,  459,  461,  499,  559,  5^5? 
567,  846,   1071 

Carlomanno,  re  d'Austrasia,  459 

Carlomanno,  figlio  di  Cario  Mar- 
tello, 463 


1204 


indici-:  m«:r  nomi 


C'arlo  Martello,  401,  463,  472 

Ciarlo  di  Tomi,  430,  442,  457 

Cameade  eli  Cirene,  818 

('monte,  1082,  1083 

Carpenler  N.,  812 

Cartesio  K.,  vedi  Descartes  R. 

Casanova    <ì.  (».,    3 

Casaubon  I.,  204,  (>oi 

Casini  K.  M.,  113 

Casini  I\,  00 1,  <)<>2,  <)03,  <)<H< 

Classano,  baroni*  di,  70 

C'assumo  C,  <>ojj 

Cassio  Longino,  (».,  7«>o 

Cassiodoro,  24,  $$,  386,  ^)i,t  308, 
3gg,  400,  402,  403,  404,  .105,  400, 
408,  412,  4«3i'M4.  *M5»  7tA  H«i, 
«73 

Castellamontc  A.,  312 

Castellani  C,  xxix 

Castelli,  1134 

Castelli  I).,  173,  183,  ri 60 

Castelli  K.  A.,  5,  75.  7<>>  °o,  11 12, 
ii34»  H3g,  H47 

Castelli  R,  183 

Castore,  041»  <M4i  «)S> 

Castriotu  N.  I».,   1148 

Castro,  padre  olivetano,  $z$ 

Catalano  O.»  143,  152,  15?,  161, 
561 

Catilina,  L.  Sergio,  383 

Catone,  M.  Poreio,  detto  il  Censo- 
re, 236,  528,   iooo,   toio 

Catrou  F.»  053,  055 

Cattaneo  R,  308 

Catini  e  J.»  xxvu 

Catullo,  Ci.  Valerio,  752,  761,  1012, 
1085 

Cavaniglìa,  vedi  Colonie  A.,  mar- 
chese di  Cavanillas 

Cave  W.,  582,  587»  682,  «86,  088, 
606,  072,'  973 

Oeclreno*  vedi  Giorgio  ('edreno 

CeilHer  R.»  705,  8.jo 

Celestino  1,  papa,  684,  6gi,  002, 
7x0,  721,  725 

Celestio,  003 

Celio  Rodigino,  vedi  Rieehieri  L. 

Cclotti  1*.,  267,  2tjo,  537 

Celso,  1040 

Cenci  8.,  210 

Cerbellon  (Serbellon),  Castel  vi  J. 
lì.,  conte  di»  135»  **7<> 

Corda  y  Artigón,  L.  F.  de  la  (duca 


di  Medmaeoeli),    18,  48,  30,  4^ 

52,  58,  125,  58.*.,  1 102 
Centone,  800 
Cerere,  600,  <;.j  1 
Cerinto,  774,  8og 
Cerra,  eonte  della,  1  50 
Ceivantes  M.,  2.15,  858,  8o<>,  871, 

IOO<),    11 12 
Cesa,  1 132 
Cesare,  (J.  Cuilio,  441,  750,  760, 

7<>i,     1012,     ioO<>,     1008,    ioo<), 

io8<) 
Cessa  T.,  <n,  i 100,  uro 
Chamo,  O35,  <M.| 
Chapuis  A.,  xxv u 
Chardin  J.,  053 
Chateillon  S.,  602,  633 
Chénevc  Ch.»  314,  328,  jaì),  330, 

•U>»  .U*.  J.U.  .U4 

Chiesa  F.  A.  della,  925,  973,  1077 

Chigi  I«\,  vedi  Alessandro  VII 

Chinda.svimlo,  re  dei  Visigoti,  380 

Chioecarelli  lì.,  .162,  407 

Chisciotte»  vedi  Don  Chisciotte 

C:hishull  K.»  (uo 

Chiosano  T.»  principe  di,  00 

Chopptn  U.,  408 

Cian  V.»  330,  1007 

Cìbele,  6 io,  o.ji 

Cicerone,  M,  Tullio,  (>ju,  750,  7«,;2t 
777,  816,  810,  822,  832,  838»  8,*}.}, 
801,  036,  046,  08.J,  1007,  1008, 
too<),  roto»  lou,  1012,  1030, 
1031,  1032,  1033,  *034,  1036, 
io.jo,  J04K»  1078,  1083,  1085, 
1087,  1089 

Cicerone,  Q.  Tullio»  1031 

Cienfuegos  A.,  130,  143,  r 5 r ,  152, 

«53»  «54*  *.S5>  !<>"*>  i<»«»  »75>  *7<>> 

30<),  n  65 
CilWntes,  de  Silva  y  Menezea  l\, 

conte  di,  97»  238 
Cillis,  vedi  De  Cillis  R. 
Cintila»  re  dei  Visigoti,  380 
Cipriano,  vescovo  di   Cartagine  e 

padre  della  Chiesa»  «unto,  4<;o» 

<)$$>  665,  M.  <>7<>i  7M»  7^A  722, 

723»  7K7,  «21,  820,  838,  848 

Cipriano  Cistcrciense,  vedi  Cipria- 
no de  la  Iluerga 

Cirillo  di  Gerusalemme,  minto,  8n, 
8«4.  «55»  H6i 

Cirillo  N.»  40,  51,  $Jtt  68»  74»  g6, 


INDICE   DEI    NOMI 


1205 


349,  375,  583,  625,  1102,  1103, 
1105,  1113,  III4,  H16,  1124, 
1130,  1136,  H39,  1143,  1144, 
1146,  1153,  1157,  n6o,  1166, 
1169,  1175,  1176,  H77,  "So 

Ciro,  re  di  Persia,  1038 

Ciron  (Ciromo)  I.,  41,  42,  370,  384, 

385.  387,  389,  39i 
Clarkc  S.,  620,  991,  992 
Claudia,  873 
Claudia  Procula,  873 
Claudiano,  Claudio,  24,  381,  382, 

1043 
Claudio,  imperatore,  661,  662,  761, 

764,   1043,  IO°6 
Claudio  Ap.,  decemviro,  763,  764, 

1001 
Claudio  Hermerote,  vedi  Absirto 
Claudio  Mamertino,  24 
Cleri,  re  dei  Longobardi,  566 
Clelio,   cavaliere  romano,  1060 
Clóment  N.,  1075 
Clemente  IV,  papa,  503 
Clemente  V,  papa,  493 
Clemente  VI,  papa,  488,  489 
Clemente  VII,  papa  di  Avignone, 

1x7 
Clemente  VII,  papa,  496 
Clemente  Vili,  papa,  906,  907 
Clemente  XI,  papa,  63,  64,  65,  88, 

102,  103,  125,  126,  127,  143,  144, 

154»  346,  475,  477,  497,  548,  584, 

1140,  1153,  1x85 
Clemente  XII,  papa,  99,  152,  200, 

205,  254,  346,  59i,  "69 
Clemente  XIV,  papa,  43 
Clemente  Alessandrino,  655,  832, 

«35>  836,  837,  861,  xon 
Clemente  Romano,  723 
Clemente  S.,  711 
Clenardo,    Clenardus,    vedi    Beke 

N.  van  der 
Cleombroto,  1032 
Clio,  986 
Clori,  1045 
Clorinda,  90  x 

Clotario  II,  re  dei  Franchi,  447 
Cluver  Ph.,  426 
Cocito,  220,  222,  879 
Cola  A.,  309,  310 
Colapictra  R.,  xxxvn,  126 
Coleti  N.,  574,  575 
Colati  S.,  355 


Colie  R.  L.,  619 

Collatmo,  L.  Tarquinio,  826 

Colletta  P.,  1179 

Collins  A.,  xvi,  640,  736,  748 

Colombo  A.,  1075 

Colombo  C,  487 

Colome  A.,  marchese  di  Cavanillas, 

«33 

Comba  E.,  316 

Comite  Natale,  vedi  Conti  N. 

Commercio  A.  de,  1158 

Commynes  Ph.  de,  408 

Comparato  V.  I.,  xxxvni,  64,  79, 
557,  582,  583,  792,  793 

Comparelli  G.  B.,  18 

Concina  D.,  895 

Condé,  L.-H.  de  Bourbon,  principe 
di,  1136 

Condillac,  Bonnot  de  É  ,  735 

Confucio,  955,  956 

Coniglio  G.,  xxxvu 

Connan  F.  de,  41,  409,  444 

Conradt  I.,  621 

Conrmg  H.,  370 

Consenzio,  corrispondente  di  san- 
t'Agostino, 863 

Contarmi  G.,  302,  509 

Contarmi  N.,  982 

ContegnaP.,  78,  99,  150,  557,  1103, 
1114,  1117,  1157,  1166,  1174, 
1178 

Conti  A.,  8,  267,  280,  295,  508,  520, 
521,  530,  737,  991,  994,  995,  1000 

Conti  M.,  vedi  Innocenzo  XIII 

Conti  N.,  959 

Conversano,  Acquaviva  d'Aragona 
G.  A.,  conte  di,  92,  93,  257 

Copernico  N.,  1075,  1136 

Coppola  A.,  11 32,  1136 

Cornelio,  centurione  romano,  716 

Cornelio,  papa,  711 

Cornelio  T.,  59 

Cornelio  a  Lapide,  vedi  Cornelis- 
sen  van  den  Staen  C. 

Cornelissen  van  den  Staen  C,  855, 
876,  877 

Corner  (Cornaro)  A.,  267,  295,  302, 
305,  520,  527,  530 

Corona  G.,  vedi  Menochio  G.  S. 

Corrado  II,  imperatore,  detto  il  Sa- 
lico, 454,  559,  567,  568,  569,  570 

Corrado  III,  re  dei  Romani,  450 

Corrado  di  Lichtenau,  491 


izo6 


iNDic.M  ma   NOMI 


Correr  K.  A.,  287,  518 

Corsano    A.,    xxi,    xxxn,    xxxiit, 

XXXIV 

Corsini  B.,  marchese  eli  Casigliano, 

354 
Coisim  LM  vedi  Clemente  XII 
Corsini  N.,  cardinale,  xvin,  xix 
Cortanzc,  marchese  di,  vedi  Roeio 

di  Coitanze  IC  T. 
Cortes  J.  L.,  371 
Cortese  N.,  41,  -j 3 ,  352,   117») 
Croscia  F.,  200,  20t 
Coscia  N„  cardinale,  151,  153,  162, 

173,    2too,    201,    205,   206,    <>,og, 

i«35>  *r43>  1  «55 
Cossart  G.,  680,  68  s,  600,  óoi,  606, 

704,  706 
Cosso  Cornelio,  console,  750 
Costa  G,,  vedi  Lacoste  J. 
Cosi  adoni  A.,  not 
Costante  T,  imperatore,  712 
Costantino,  metropolitano  di  Cipri, 

4<>5 

Costantino  I  il  Grande,  imperatore, 
22,  23,  28,  2%  30,  31,  55,  233, 
377,  444,  457,  4<>3,  4fM>  <>54,  655, 
656,  ^57,  °5^,  659»  060,  66i,  663, 
664,  665,  066,  667,  668,  675,  676, 
678,  670,  600,  702,  7*3,  725»  745, 
773,  777»  7«7»  7HH,  884,  026,  952, 
964,  082,  1034 

Costantino  V  Copronimo,  impera- 
tore d'Oriente,  437,  *|62,  464 

Costantino  VII  Porfirogenito,  422, 
424 

Costantino  II,  antipapa,  458,  450 

Costantino  A.,  xxu,  xxtn,  585, 
586,  044 

Costanza   d'Altavilla,   imperatrice, 

%  30»  575.  57f> 
Costanzo  II,  imperatore,  *y\2 
Cotolier  J.-IJ.,  824 
Cotes  R.,  y<)2,  903 
Coti,  segretario  di  ICugenio  di  Sa- 
voia, 1173 
Cotogno  U.,  52 
Covurrubias  y  Leyvu  I),,  391 
Coward  W„  587,  618,  610,  620 
Cimisi  O.,  <)8a 

Cromaselo  Cordo,  A.,  741»  750»  y(n 
Crescendi  P.  di»',  1137 
Creacimbeni  G,  M.,  55,  1128 
Crevier  J.-tt.-L,,  734) 


Custofano,  46 1 

Cristofolini  I*.,  ()ZJ 

Crivelli  O.,  268,  5-:i 

Cioce   H.,  xxx,  xxxvi,   350,    1155, 

1 161 
Crodegungn,  veseovo  di  Metz,  466 
Cronografo  Sassone,  401 
Cruz  K.  de  la,  ii<;<> 
Cudworth  KM  618,  (>zo 
Cujas  J.,  26,  4».  315,  .\$o%  357,  370, 

3^5»  3^7.  3<>i,3<V<»  444,447»  4-^, 

440,  451,  1131,  11 57 
Cumberland  R.,  70.1,  80.),  S17 
Cupido,  <mo 
Cui  eie»  C.,  x\XV 
dirti  I<\,  457 
Curtis,  ri 80 
Curzio  IVI.,  1087 
Curzio  Rufo,  (J.,  765,  1002 
Cusano  (Cusant)  IVI.  I*.,  .558,  z(>it 

-163,  zMì 
duini,  1122 
Cypriano  de  la  Huergn,  853 

Dadin  de  Mantenerre  A.,  370,  *8o, 
381,38^,383,384,385,^86,387, 
380,  4<u,  4,68,  677 

D'Afflìtto  H.,  u,  *^> 

D'Afflitto  M.»  373,  -108,  458 

D'Afflìtto  N..  68,  60 

Dagon,  044 

Daìlle,  JM  600,  704»  7(>H,  K40 

Date  A.  vim,  736 

IV Alessandro   A.,   457,    767,    768, 

IOI3,    IG02,    I0(>3 

Dalida  (Dalila),  855 
Dahnasas,  1158 

Damasceno,  vedi  Giovanni  Dama- 
sceno 
Damaso  I»  papa,  657,  7^1,  850 
Danno,  <).fi 
D'Andrea  K.,  41»  43,  44,  50»  350, 

35»,  35-i,  354»  373.  5**-* 
IV Andrea  G.,  50,  w,$t  35^ 
Daniele,  profeta,  845,  1020,  1037 
Daniele  da  lsehttelht,  15 
Dario,  re  di  Pernia,  664,  1081 
Darmon  (Orman)  J.  A.»  100,  nu 

U37»  **3v,  H4H 
Durmon  L.,  tua 
Dato,  duca  di  Toscana,  447 
Dattilo  S.,  1*23,  1155,  1163 
Dattoli  1«\»  U47 


INDICE   DEI    NOMI 


1207 


Daun,  Wicrich  Ph.  L.,  von,  xm, 
60,  63,  65,  74,  88,  142,  239,  353 

Davide,  re  d'Israele,  231,  487,  554, 
603,  648,  859,  861,  875,  893, 
1008,  1080,   1097,  noi)  1193 

Daviso  di  Charvensod  M.  C,  408 

De  Benedictis  G.  B.,  64,  79 

De  Bude  E.,  324,  927 

Deciano  T.,  388 

De  Cillis  R.,  89,  95,  107,  108,  173 

Decio,  imperatore,  787 

Decio  F  ,  494 

Decio  Mure,  P.,  1087 

De  Crescenzio  G.,  77 

De  Dominis  M.  A.,  157,  541,  561, 
582,  5«7>  928 

Degen  (Schegk)  J.,  613 

De  Giovanni  B.,  43,  582 

Della  Casa  G.,  835 

Della  Noce  A.,  357,  410,  422,  469 

Della  Porta  G.  B.,  72 

Della  Porta  N>,  72 

Della  Valle  P.,  954,  955,  977,  1018, 
1083 

Delmmio  G.  C,  35,  36 

De  Luca  G.  B  ,  373,  1158,  1159 

De  Luca  F.  M.,  876 

De  Magistris  G.  A.,  346 

Demetrio  di  Faloro,  36,  1008 

Democrito,  6x2,  742,  751,  752, 
1005,  1084 

Denari,  vedi  Odofredo  Denari 

Denis  M.,  96,  1076,  1137,  11 67 

Derham  W.,  992 

De  Rosa  L.,  xxxvm 

De  Rudero  G.,  xxx,  xxxn,  xxxm, 
4»   3f>3»   586 

De  Samnitibus  M.  C,  xvn,  593, 
615,  663,  680,  710,  712,  716,  991 

De  Sanctis  F.,  xxx 

Descartes  R.,  4,  33,  35,  49,  5°>  **°> 
483,  581,  586,  587,  619,  621,  624, 
625,  626,  627,  631,  632,  633»  635, 
638,  64r,  642,  643,  644,  645,  646, 
647,  998,  1002,  1017,  1075,  1103 

Desiderio,  re  dei  Longobardi,  454, 

459»  461 
Desmaiscaux  P.,  957 
Desmonceaux  de  Villeneuve,  xxvn 
De  Tipaldo  K.,  93 
Dousing  A.,  613,  614,  615 
De  Vita  G.,  207 
Dcyling  S.,  586,  587,  588,  602,  618, 


619,  620,  621,  639,  640,  742,  942 

Diana,  940,  944 

Diana  A.,  815 

Di  Capua  G.,  1135 

Di  Cesare,  1151 

Di  Costanzo  A.,  56,  357,  358,  359, 
361 

Didimo,  451 

Diedo  L.,  11 82 

Diels  H.,  1084 

Di  Giovanni  B.,  xxxvn 

Di  Maio  M.,  90,  105,  113,  1122 

Diocleziano,  G.  A.  Valerio,  impera- 
tore, 426,  457,  787 

Diodoro  Siculo,  204,  219,  221,  222, 
223,  601,  603,  607,  608,  609,  610, 
624,  633,  635,  638,  639,  756,  769, 
866,  882,  883,  939,  942,  943,  998, 
1012,  1028,  1078,  1082,  1083 

Diogene  di  Apollonia  (?),  1048 

Diogene  di  Sinope,  160 

Diogene  Laerzio,  34,  1011 

Diomede,  864 

Dione  Cassio  Cocceiano,  22,  1020 

Dione  Siracusano,  1092 

Dionigi  d'Alessandria,  santo,  655 

Dionigi  il  Certosino,  864,  871,  877 

Dionigi  di  Corinto,  santo,  654 

Dionigi  il  Piccolo,  681 

Dionisio,  vescovo  di  Milano,  693 

Dionisio  Cartesiano,  vedi  Dionigi 
il  Certosino 

Dionisotti  C,  308 

D'Ippolito  V.,  81,  349,  362,  375» 
1103,  1105,  1131,  1146,  1160, 
1166,  1169,  1176,  1180 

Diri,  635 

Dite,  1036 

Di  Vittorio  A.,  xxxvin 

Dodwell  H.,  xxi,  4,  587,  620 

Dolce  L.,  437 

Dolfin  P.,  noi 

Domenico  di  Guzmàn,  santo,  480, 
481 

Domiziano,  T.  Flavio,  imperatore, 

778,  779 
Domnina,  826 

Donatello  d'Ischitella  F.,  n  24 
Donato  F.  A.,  16 
Don  Chisciotte,  858,  869,  871,  n  12. 
Doria  A.,  87 
Doria  C,  99,  115,  119»  120,  149, 

183,  1144 


ijìoH 


INDICI']    DM    NOMI 


Doria  I».  IVI.,  44 

Doria  S,,  cntdinale,  205,  206,  210 
D'Orléans  I\-J„  ()s<) 
Doroteo,     giurista     bizantino,     18, 
101  1 

Douaren  K,,  41 

Doujat  J.,  ji,  32,  370,  7JN.  730 

Druso,  1044 

Duini,  1 147 

I)u  C'angc,  Dui  resile  Ch.,  443,  451, 

45-s 
Duebesne  K.,  080 

Duck  A.»  53,  35  r»  JtS-4»  3'» 5»  .*<>*>» 

37o,  3«»i  3*o\  .W,  3<M 
Duguet  J.-J.,  7.14,  7.? 5 
I)u  Cialde  J.-b\  <)s<) 
Duleito,  844 
Ou  Lignon  ».,  iKH 
Dumoulin  Cb.,  125,  372,  573,  784 
Du  Moulin  I*,,  016,  017,  oh),  020 
Duns  Scott»  Ci,,  16,  33,  O13 
Dvi  l'ernm,  J.  Davy,  cardinale,  170 
I)u  Pin  L.  K.,  xvn,  xxxui,  4,  roX, 
204,  355,  437,  541,  561,  582,  587, 
O05,  OO4,  665,  066,  667,  068,  M«), 
670,  672,  673,  674,  O75,  676,  077, 
08o,  68 1,  683,  684,  685,601,602, 

697»  703»  7©4.  705»  714»  7i5.  7^5i 
745,  794,  884,  giy,  020,  021,  024, 
026,  028 

Durante  G.,  405 

I)u  Tillct  J.,  sieur  de  La  Bussiere, 

Jl»7 

Kekbardt  J.  <*.,  400 

Kouba,  852 

Kfrem,  nanto,  84 <) 

Kgeria,  043,  ioa8 

Kgesiu  di  Cirene,  822 

Kgisippo,  654 

Kgiìsio  M.»  80,  211,  276,  359»  557, 
1107,  1131,  1  r70 

Klia,  profeta,  846,  893 

Ubano  CI.,  600,  1020,  1021,  1043, 
1047,   1056,  1050 

Kliodoro,  santo,  805 

KlinabcUa,  santa,  648 

Kliaabetta  di  BrunNwick-Woifen-* 
bOttcl-LUnehurg,  imperatrice,^, 
1*24 

Elisabetta  Farnese,  regina  di  Spu- 
gna, X32,  242,  266,  274 

Kliu  Musate,  632 


Klpidio,  medico  di  Teodorico,  417 

Kniiho  I».,  370,  381 

Ktnma  dei  conti  di   Lecce,  56 

Kmpedocic,  1048 

Knaiio,  103O 

Kneelado,  to^.s 

Knea,  (hi,  740,  040,  to<n 

Knctonc,  04  \ 

Kril*c\\\w>vti  D.,  Osò 

Knnio  Q  ,  1087,  10**5 

Knnndio,  M.  I\,  3<>7,  308,  41 1,415, 

712 
Knoeb,  845,  846 
Knrico  l,  re  di  Germania,  454 
Knrico  II  ti  Santo,  imperatore,  5O0, 

,  570 

Knrico   IV,  itupei suore,  ,\t)0 
Knrico  VI,  imperatore,  30,  £0 
Knrico  IV,  re  di  l'Yaneia,  41,   170 
Knrico  VII,  re  d'Inghilterra,  858 
Molo,   <)$l 
KpicUM»,   34,    !<»<),   483,   0i.ì,   742, 

75L  75-i»  8r0,  Xnu  toH,\ 
Kpiianio,  santo,  OOo,  non,  707,  700, 

848,    840,    H.S5»    «<»4,    «7o»    875, 

1013,    1014 
Kpittcto,  tot  1 
Kruclio,  (>K5 
Kruclito,  837,  1084 
Krawmn  da   Rotterdam,  4^0,   884, 

065,  n3t 
Krcbcmpcrto,  50,  35*8,  420 
Krcole,  755,  750,  757»  1*40,  io8<j 
Krhard  j.,  O44,  1017 
Krmeiu'^iUlo,   sunto,    iu8 
Krmogcufcmo,  giurista  romano,  457 
Krmotino  ('la/.omcnio,  1036 
Krodc  Amìpu»  648,  OO2 
Krodc   il   Grande,    re  dì   Giudea, 

7-14 
Krodoto,  204,  221,  Ooo,  60 1,  0o6, 

607,  O08,  630,  664,  756,  037,  039, 

04O,  tou,  1024,  1033 
Kna  i\  A.,  210 
Khìu\  843,  855,  873 
K«calona,   duca  di,   vedi   Vitbcna, 

J.  M.  F.  Paebeco,  marcbeHC  <li 
Kscidapio,  040»  95 1 ,   1036 
Ktttlru,  224 
KMÌodo,  600 
ICsmandia,  141,  HJ2,  x<;3,  t<t$>  207, 

308 
Knpm  '/,.  U.  van,  4*»  42,  142»  288, 


INDICE   DEI    NOMI 


1209 


541»  587,   924>  928,    1102,  1107 
Esprassia,  462 
Este,  casa  d',  xn,  xiv,  301 
Estibius  Psychalcthes,  vedi  Coward 

W. 
Etmuller  M.,  1123,  i*57>  1161 
Eucheno  di  Lione,  855 
Eufrasia,  santa,  878 
Eugenio  III,  papa,  470 
Eulogio,  patriarca  di  Alessandria, 

7i4 
Eumenio,  retore  romano,  24 
Eunapio,  storico  greco,  24 
Eurialo,  901 
Euripide,  609,  611 
Eusebio,    vescovo    di    Nicomcdia, 

787 
Eusebio  di  Cesarea,  31,  204,  232, 

610,    611,   636,    637,   654,   655, 

658,  664,  784,  806,  813,  824,  873, 

881,  882,  884,  964,  1034 
Eusebio  di  Samosata,  santo,  724 
Eusebio    Filopatro,   vedi    Sanfeli- 

ce  G. 
Eustazio,  vescovo  di  Berito,  669 
Eustassio  di  Tessalonica  (?),  609 
Eutanco,  principe  del  ramo  degli 

Amali  spagnoli,  417,  566 
Eutichio,  esarca  di  Ravenna,  433, 

434,  435 
Eutimio,  862 
Eva,  626,  627,  846,  847,  848,  850, 

876,  898 
Evagrio  Scolastico,  395,  707,  964 
Evandro,  756 
Evurico,  re  dei  Goti,  380,  382,  384, 

385,  388,  389 
Ezechia,  re  di  Giuda,  1081 
Ezechiele,  profeta,  875 

Fabio  d'Anna,  457,  458 

Fabio  Massimo,  Q.,  il  Temporeg- 
giatore, 1070 

Fabio  Massimo  Allobrogico,  Q., 
337,  342 

Fabre  J.-C.,  968 

Fabn  F.,  520 

Fabricius  J,  A.,  656,  960 

Fabroni  A.,  xxvm 

Fabrotus  C.  A.,  26,  437 

Fages  H.  D.,  874 

Falcando  U.,  410 

Falcone  di  Benevento,  358,  420 


Falconila,  488 

Farnese  O.,  duca  di  Parma,  242 

Fasano  T.,  72 

Fatmi  G.,  419 

Favila,  padre  del  re  delle  Asturie 
Pelagio,  393 

Favre  A.,  40 

Favre  J.-C,  vedi  Fabre  J.-C. 

Faye  B.,  409 

Faye  J.  de  la,  586,  602,  640,  748, 
761 

Federico,  figlio  di  Teodorico  I,  re 
dei  Visigoti,  380,  381,  393 

Federico,  langravio  di  Hessen-Kas- 
sei,  318 

Federico,  duca  di  Saxe-Gotha,  318 

Federico  I  d'Aragona,  re  di  Napoli, 
275,  560 

Federico  I  Barbarossa,  imperatore, 
270,  449,  450,  522,  568,  577 

Federico  II,  imperatore,  30,  56, 
325,  326,  448,  456,  457,  559,  576, 
1162 

Federico  II  il  Grande,  re  di  Prussia, 
nói 

Federico  Augusto  di  Sassonia,  vedi 
Augusto  II  il  Forte,  re  di  Po- 
lonia 

Federico  Augusto  II,  elettore  di 
Sassonia,  vedi  Augusto  III,  re  di 
Polonia 

Felice  A.,  procuratore  della  Giudea, 
884,  885 

Felino  Sandeo,  vedi  Sandeo  F. 

Ferdinando  il  Cattolico,  II  (V) 
d'Aragona  (III  di  Napoli,  II  di 
Sicilia),   275,    389 

Ferdinando  I  d'Aragona,  re  di  Na- 
poli, 275 

Ferdinando  I  il  Grande,  re  di  Ca- 
stiglia  e  di  Leon,  391 

Ferdinando  I  d'Asburgo,  impera- 
tore, 205 

Ferdinando  II  d'Asburgo,  impe- 
ratore, 1041 

Ferdinando  VI  il  Saggio,  re  di  Spa- 
gna, 119,  262,  275,  11 82 

Ferecide  di  Siro,  1083 

Fernel  J.,  615,  616 

Ferrante  M.  di,  115  x 

Ferrara  F.,  xxxvn 

Ferrara  N.,  74 

Ferrara  Aulisio  N.,  11 28,  1129 


1210 


indici:  dei  nomi 


terrori  V.,  santo,  117,  n8,  874 

Fesro,  S.  Pompeo,  452 

Festo  Poreio,  vedi  Poreio  Festo 

Feza,  407 

Figueroa,  conte,  ti 79 

Figueroa,  contessa,  figlia  del  mar- 
chese di  Rialp,  114 

Filallete,  vescovo  di  Cesarea,  672 

Fi lesuc  J.,  460 

Filippi,  archivista,  328 

Filippo,  655 

Filippo,  antipapa,  459 

Filippo,  duca  d'Angiò,  vedi  Filip- 
po V,  re  di  Spagna 

Filippo  II,  re  di  Macedonia,  760, 
864,  1090 

Filippo  II,  re  di  Spagna,  143,  162 

Filippo  IV,  re  di  Spugna,  159,  253, 
3x6 

Filippo  V,  re  di  Spagna,  39,  57,  58, 
60,  62,  132,  134,  135,  242,  266, 

5>73>  275»  277,  283,  353 
Filippo  G.,  842 
Filone  di  Alessandria  (Filone   K- 

breo),  636 
Filone  FDrennio  (Filone  ttiblio),  610 
Filostorgio,  24,  656,  964 
Filostrato  FI.,  609,  1093 
Finalino,  310 
Fiorclli  G.,  982 

Fiorentino  (Marco  Kmilio),  437 
Fiorentino  F.,  xxxvi 
Fiori   o   Fiore    N.,   91,   93,    1109, 

aito,  ii  12 
Firmiliano,  vescovo  di  Cesarea,  679 
Fischer  von  Krlach  J.  K.,  205 
Fiaeìo  Illirico  (Matthias  Vlacìch), 

066 
Fieischmann  A.  F.  von,  90 
Ficury  A.-II.,  cardinale,  215,  238 
Flcury  CI.,  xxxm,  31,  464,  466, 

468,  582,  6(>y,  920,  931,  934»  </>8, 

969,  1189 
Fleury  F.,  331 
Floro,  L.  Antico,  739 
F'ocas,  imperatore  d'Oriente,  9K), 

921,  92»,  923 
Fodale  S.,  561 
Folco    IH,    conte   d'Angiò,    detto 

Nerra  (il  Nero),  686 
F'olco  da  Cividale  del  Friuli»  443 
Fontanini  G.,  349,  350,  363,  443, 

475,  476,  5*°,  **68 


Forastico  F.,  170 

Forlosia  N.,  xvn,  205,  217,  259, 

326,  557,  5«4,  1073,  io74,  1075, 
^  1077,  1150 
Fortunato,  destinatario  di  un'opera 

di    Tertulliano,    82 1 
Fortunato,  vescovo  dt  Aquiloia,  61)3 
Fouquet  N.,   1009 
Fozio,  patiiarca  di  C'osi antinopolt, 

603,   638,   639,   660,   707,    1012, 

1078 
Futggtanni  N.,  93,  X75,   195,  524, 

uro,  X164,  xx(>6 
Fraggianni  S.,  uxo 
Framondo,  vedi  FYoidnumd   L. 
Francesca  da  Rimmi,  vedi  Polenta, 

Francesca  da 
Francesco  d'Assisi,  santo,  180,  479, 

480 
Francesco  Borgia,  santo,  131 
Francesco  Caracciolo,  santo,  43 
Francesco  I  di  Valois,  re  di  Fran- 
cia, 41 
Franchis  F.,  82,  484 
Franciosini  L.,  869 
Franck  G.  C,  1x58 
Franekenau  G.  K.  F.  von,  371 
Francois    J.,    267 
Frangipani  O.  M.,  <)o$ 
Frati  C,,  64 
Freccia  M.,  ti 49 
Freher  M.,  4x8 
Freinshcim  J.,  738,  739 
F'roidrmmd  L.,  908 
FVosolone,  duca  di,  vedi  Carafa  F, 
FVosolone,  duchessa  di,  vedi  Cara- 

fa-Quiroga 
Frouliba,  moglie  di  Pelagio  re  delle 

Asturie,  393 
Froullay,  marchese  di  (ambasciato- 
re francese  a  Venezia),  280 
Fu  bini  M.,  xxxv 
Fuenclara,  conte  di  (ambasciatore 

spagnolo  a  Venezia),  262,  5x8, 

551,  1x82,  1x83 
Fue ter  K.,  xxxu,  xxxiv,  966,  968, 

069 
Fuller  N.,  568 

Gabriele,  arcangelo,  869,  977 
Gaio,  giurista,  386,  388 
Galba,  Servio  Hulpicio,  imperatore, 
761 


INDICE    DEI    NOMI 


I2II 


(«aleno  Claudio,  4,  51,  452,  453, 
613,   1040,   1063 

Galeotto,  35 

Galmm  C,  49,  58,  152,  156,  359, 
900,  1145 

Galiani  F.,  xxx,  258,  1145 

(ialiOV  J.-B.-G.,  316 

Galizia  N.,  80 

(  Julia  Placidia,  381,  690,  691 

Gumuliele,  744,  783,  784 

Gamba  B.,  267,   1103 

Gaquere  F.,  968 

Garelli  G.  B.,  96,  256,  1174 

(barelli  F.  N  ,  xvn,  37»  49,  96,  97, 
ioo,  106,  112,  116,  n8, 119,  131, 
142,  182,  186,  196,  203,  205,  255, 
25<>>  325,  326,  3<>3»  363,  47^,  55i, 
584,  1073,  1074,  1076,  11 14, 
u  15»  11 16,  1117,  1119,  1128, 
1130,  1136,  1137,  1143,  1144, 
1145,  114».  **49,  X150,  1151, 
x*53»  **5«,  1157»  1158,  1169, 
1174,  **7** 

Garet  J.,  4x5 

(Janbotto  C,  139,  1175 

Garofalo  B.,  128,  173,  174,  183, 
»<)$,  363.  477,  47**,  500,  517,  52*1» 
558,  584,  1103, iios,  1149,  1151, 
**53,  1157,  1163,  1168,  1171, 
1172,  xi73>  1x77 

(rasch  JM  143 

Gaspare,  uno  dei  re  magi,  868 

Gaaaemli  I\»  4,  33,  34,  35,  4»»  49, 
50,  581,  6x6,  633,  646,  11 02 

Gaudioso,  santo,  467 

Gaulruehe  I',,  959 

(rassicr  A.,  815,  908»  909,  911 

Gebule i/,im  y  607 

Gelasio  I,  papa,  401,  402,  703,  707, 
720 

Gellio  A.»  xon,  1013,  1022,  1025 

Gemelli,  1x39 

Gemma  C,  1064 

Génébrard  G.,  848 

Gennaro,  vescovo  di  Benevento, 
«anto,  82,  86,  89,  90,  91,  92,  95, 
XX2,  426,  479,  5«8,  693».  ixxx 

Gennaro,  preside  del  Sannio,  404 

Genovesi  A.»  xvnx,  258 

Genserico,  re  dei  Vandali  e  degli 
Alani,  3N0»  397,  7°7 

Gentile  G.,  xxx,  xxxi,  xxxn,  xxxm, 
359»  3<>*>  363»  364 


Gentilotti  von  Engelsbrunn  J.  B., 

100,  205,  584,  1073,  1074 
Geoffroy  C.-J.,  1015 
Geoffroy  É.-F.,   1015 
Georg  Callisen,  491 
Georgisch  P.,  430 
Geremia,  profeta,   486,    604,    862, 

875 

Gerhoh  di  Reichersberg,  491 

Gerhnt,  moglie  di  Folco  da  Civi- 
dale,  443 

Germanico,  Giulio  Cesare,  1044 

Germano  I,  patriarca  di  Costanti- 
nopoli, santo,  438 

Germon  B.,  443 

Gerson  J.  de,  471 

Gcsner  J.  M.,  739 

Gesù  Cristo,  xxiv,  228,  229,  230, 
233,  235,  236,  260,  271,  412,  439, 
440,  467,  479,  480,  481,  488,  493, 
494,  497,  500,  501,  502,  588,  589, 
622,  626,  648,  649,  650,  651,  659, 
660,  665,  666,  679,  686,  699,  700, 
702,  708,  711,  713,  715,  7i6,  720, 
721,  722,  723,  725,  744,  772,  776, 
782,  783,  787,  808,  809,  810,  820, 
821,  827,  828,  830,  833,  835,  837, 
849,  859,  860,  861,  862,  863,  864, 
865,  866,  868,  870,  872,  873,  875, 
882,  883,  884,  893,  905,  906,  908, 
918,  947,  961,  977,  978,  1001, 
1038,  1040,  1096 

Gherardcsca  Ugolino  della,  35 

Ghezzi  (Ghezi),  marchese,  267,  520 

Ghilini  G.,  517 

Giacobbe,  594,  635,  1029 

Giacomo,  parente  di  Gesù,  650 

Giacomo  il  Minore,  vescovo  di 
Gerusalemme,  santo,  716,  723, 
867 

Giacomo  di  Edessa,  849 

Gian  Gastone  de'  Medici,  granduca 
di  Toscana,  257 

Giannantonio  P.,  xxxvi 

Giannettasio  N.  P.,  49,  374,  44°, 
1102 

Giannone  C,  15,  38,  47,  7©,  72,  76, 
82,  95,  io7,  138,  166,  173,  180, 
197,  362,  543,  558,  735,  1075, 
1103,  1104,  1105,  1106,  1109, 
1114,  1117,  1120,  1122,  1125, 
1128,  1130,  1132,  1134»  "35, 
1142,    H43,    H4<>,    "47,    1148, 


1212 


INDITI?    OHI    NOMI 


1151,  1152,  1153,  U55,  1156, 
1x57,  uno,  1162,  n(>3,  116,4, 
xi  66,   1 174,   1178,   x 179,  1 191 

Giannonc  Carmina  K.,  76,  1x47 

Giannonc  Fortunata,  1106 

Giannonc  Francesca,   15 

Giannonc  G.,  xxvin,  5,  9,  76,  217, 
^5>  33'»  335.  337»  509,  517»  73 1> 
73-i  733»  734,  no2,  1103,  1x05, 
xxo6,    1107,    1*09,    ino,    1132, 

i*34»  IH5»  1!47>  xi«7 

Giannonc  Pasquale,  45 

C riunitone  Pietro  da  Capuano,  1 124 

Giannotto  S.,  15,  17»  1124 

(riannone  T.,   15 

(ìiannone  V.,  15,  67,  113^,  1147» 
1192 

Giaxmone-AHtto,  famìglia,  15,  1  148 

Giannonc-Alitlo  A.,   1148 

(Siano,  635 

Giunsenio,  vedi  Janson  C. 

Giasone,  941 

Giasone  del  Maino,  495 

Gibbon  K.,  xvni,  053 

Gimma  G.,  35,  581,  1131 

Gioacchino,   santo,   875 

(Giobbe,  219,  235,  622,  632,  85J, 
«53,  875,  9x5,  939,  9<)8,  1059, 
xo8o 

GiolTredo  il  giovane,  vedi  GeoxTroy 
C.-J. 

(Mona,  profeta,  875 

Giordane,  24,  $$,  380,  381,  395, 
397,  401,  4x7,  7*» 

Giordano  F.,  vedi  Giorgio  F. 

Giorgio  F.,  845 

Giorgio  Godrono,  436,  437,  656 

Giosuè,  632,  843,  875 

Giovanna  1  d'Ansio,  regina  di  Na- 
poli, 458 

Giovanna  lì  d'Ansio,  regina  di  Na- 
poli, 275 

Giovanni,  evangelista,  14,  344,  652, 
715,  7i6,  774,  779,  814»  831,  «3<;> 
846,  86 x,  862,  864,  865,  977 

Giovanni,  patriarca  di  Costantino- 
poli, 708,  715 

Giovanni,  ttottodiacono,  corrispon- 
dente di  Gregorio  Magno,  695 

Giovanni,  vescovo  di  KFeso,  465 

Giovanni  II,  re  di  Catalogna- Ara- 
gona, I  dì  Navarra,  275 

Giovanni  HI,  re  di  Portogallo,  407 


Giovanni  XVII 1,  papa,  680 
Giovanni  XXII,  papa,  493 
Giovanni   Battista,   648,   650,   S20, 

830,  831,  869,  875,  078" 
Giovanni   Crisostomo,    santo,    224, 

65  x,  665,  705,  717,  723,  826,  848, 

849,    853,   859,   97' 
Giovanni  Damasceno,  santo,  437, 

«45,  «47  . 
Giovanni  Diacono,  921,  1092 
Giovanni  di  Napoli,  462 
Giovanni  Nepotniceno,  santo,  118 
Giove,  217,  601 ,  610,  624,  754,  756, 

77*>   «37»   <MO,    941  >   043,    1028 
Giovenale,  D.  Giunio,  938,  103-} 
Gioviano,   imperatore,    7t2 
Giovio  I*.,  082 
Girolamo,  santo,  31,  21  x,  344,  655, 

7x7,  723,  724,  805,  825,  833,  845, 

848,  850,  854,  855,  864, 881, 883, 

884,  960,  1008,  XOI2,  IOI3,  X02I, 
IO37 

Giuda  Iscariota,  3 so,  862,  87^  874, 

1038 
(linda  Taddeo,  apostolo,  650 
Giuliano     l'Apostata,     imperatore, 

712,  717 
Giulio  II,  papa,  187,  494,  496 
Giulio  III,  papa,  487 
Giulio  Africano,  654 
Giunone,  872,  940,  978,  1035,  1045 
Giuseppe,  parente  di  Gesù,  650 
Giuseppe,  santo,  6,  648,  869,  870, 

872,  875 
Giuseppe  1,  imperatore,  jciv,  60,  62, 

98,  99»  109,  ito,  226,  356,  353, 

475 

Giuseppe  Flavio,  203,  204,  223, 
6x2,  662,  806,  854,  857,  873,  881, 
884,  885,  961,  1037,  *°3N»  1064, 
to66 

Giustinian  P.,  270 

Giustiniani,  gentiluomo  veneziano, 
268 

Giustiniani  L.,  19,  45,  49,  64,  76, 
<>3>  350»  583 

Giustiniano  I,  imperatore  d'Orien- 
te, x8,  19,  20,  2X,  22,  23,  24,  36, 
»7>  sWi  55»  57»  15H,  I5<>.  *6o,  *««, 
351»  3*6,  390,  39*,  &zt  3<>H»  399* 
400,  410,  441;,  442,  461,  55o,  566» 
572,  654,  66i>  662,  663,  668,  67* , 
688,  689,  692,  700,  701,  703,  707, 


INDICE   DEI    NOMI 


1213 


708,  709,  713,  718,  752,  768,  936, 
1011,  1078,  io88,  1188 

Giustiniano  II  Rinotmeto,  impe- 
ratore d'Oriente,  688 

Giustino,  santo,  655,  823,  856,  882 

Giustino  I,  imperatore  d'Oriente, 
607 

Giustino  II,  imperatore  d'Oriente, 

Giustino   Giuntano  M  ,  883,  943, 

1028 
Glass   S.,   834 
Gnosio,  1030 
Godeau  A.,  968,  971 
Godefroy  D.,  41 
Godefroy  J.,  24,  41,  42,  55,  63,  315, 

386,  387,  388,  389,  390,  402,  410, 

453»  081 
Goffredo  da  Viterbo,  491 
Goiarieo,  386,  387 
Goldast.  von  Ileiminsfeld  M.,  382, 

430,  432,  M37 
Goldoni  C,  280,  508 
Golscherus,  monaco,  491 
Gomur  F.,  900,  901 
Gomes  L.,  495 
Gonzalo/.  G.,  390 
Gonzalo/,  y  Virtus  ft.,  41  ,  42 
Gorgia  Loontino,  1009,  1010 
Gorin  do  Saint -Amour  I,.,  910 
Gosso  II.-A.,  xxv u 
Gos.se  I\,  xxvn 
(Joto frodo,  vedi  Godefroy  J. 
Gottsehalk  von  Orbais,  904 
Gradenigo  M.,  287 
GracviuK  J,  Cì.,  429,  802 
Grandi  G.,  571,  572 
Gran  Mogol,  954 
Grasse  t  V.,  xxvn»  xxvni 
Grasso  F.,  371 

Gravier  G.,  xxvn,  xxvni,  365,  483 
Gravina  G.  V.,  51,  559 
Graziano  da  Chiusi,  27,  30,   125, 

388,  40»,  444,  486,  495,  498»  656, 

657,  661,  713 
Grégoire  I*.,  xoóo 
Gregoriano  0  Gregorio,  386,  408, 

45».  457 
Gregorio  l  Magno,  papa,  450,  488, 

654,  684,  694»  695,  7o**>  7H,  715, 
7*7,  736,  737»  703»  795»  79**»  853, 
*SS>  «77»  ««7»  890,  915,  916,  917, 
9x8,  919,  9*0,  921,  932,  923»  934, 


925,  926,  927,  928,  929,  952,  964, 

980,  1092,  n  18 
Gregorio  II,  papa,  432,  434,  435, 

436,  437,  438,  439,  440 
Gregorio  III,  papa,  437,  438 
Gregorio  VII,  papa,  157,  172,  438, 

487,  490,  491,  492,  496,  727,  9i8, 

ii35 

Gregorio  IX,  papa,  494 

Gregorio  X,  papa,  495 

Gregorio  XIII,  papa,  882 

Gregorio  XIV,  papa,  905 

Gregorio  Nazianzeno,   723,   971 

Gregorio  Tolosano,  vedi  Grégoire 
P. 

Gregorio  di  Tours,  380,  385,  920, 
1118 

Gregory  D.,  993 

Gregory  T.,  614 

Grimaldi  C,  xi,  xm,  xiv,  64,  65,  79, 
102,  106,  174,  195,  353,  354,  360, 
362,  363,  476,  557,  582,  793, 
1103,  1105,  1119 

Grimaldi  Ginesio,  560 

Grimaldi  Girolamo,  100,  117,  124, 
176,  184,  1127,  1145 

Grimaldi  Gregorio,  556,  557,  558, 
559,  560,  561,  563,  1163,  1178, 
1185 

Gnmani  (fratelli),  279 

Grimani  V.,  60,  63,  65 

Gnmoaldo  I,  duca  di  Benevento,  re 
dei  Longobardi,  429,  566 

Grimoaldo  III,  principe  di  Bene- 
vento, 214,  565,  567 

Grischovius  J.  H.,  660 

Gronov  J.,  738 

Gronov  J.  F.,  738,  739,  830 

Groot  (Grozio,  Grotius)  H.  van, 
XIV,  XXXIII,  55,  350,  354,  355,  357, 
379,  380,  381,  382,  385,  386,  389, 
39i,  393,  395,  397,  398,  401,  405, 
406,  408,  410,  411,  412,  413,  4H, 
415,  416,  417,  419,  420,  425,  429, 
432,  441,  442,  443,  445,  446,  447, 
450,  4SI,  453,  456,  466,  582,  599, 
801,  830,  901,  1008,  1012,  1024, 
1118,  nói 

Guadagno  V.,  xxxiv,  58 

Guaimaro,  principe  di  Salerno,  870 

Guarino  Veronese,  204 

Guastaldi  G.,  328,  331,  332,  333, 
334,  335,  336,  337,  339,  34<> 


1214 


INDICE   T>KÌ   NOMI 


Guerci  L.,  735 
G uè vara,  1122 
Guglielmo  I  il  Malo,  re  di  Sicilia, 

573»  57<>.  577 
C  Juglielmo  1 1  il  Huono,  re  di  Sicilia, 

4io,  573 
Guglielmo  III,  re  di  Sicilia,  56,  457, 

C Guicciardini  F.,  37,  582 
Guidetti  A.,  301,  535,  11 89 
Guido,  duca  di  Spoleto,  454 
Guinart  P.  U.,  245,  334 
Guisa,    famiglia,    23 
Gundeberga,    regina    dei    Longo- 
bardi, 447 
Gundcmaro,  te  dei  Visigoti,  389 
Gunther  de   Pairis,  450 
Gussainvillc  P.  de,  916 
Guznian   L.  de,   1041 

Hubert  1.,  468 

Ihitn  L.,  428 

llalloix  1\  856 

Ilìinggi  A.,  104 

1  lans  S,,  492 

I  [ansia   M.,    972 

Hardouin  (Arduino)  J.,  187,  188, 
762,  808,  845,  924,  936,  044.»  080, 
990,  ioir,  io 12,  1020,  1023, 
1043,  1050,  1002,  1063,  1065, 
1067,    1078 

Harmensz  J-,  900,  901 

Ilarrach  A.  Th,  K.  von,  viceré  di 
Napoli,  136,  166,  167,  171,  172» 
175»  «77,  *<->5>  ao8>  209,  248,  557» 
1165,  1 174 

Ilarrach  F.  von,  183,  195,  1x69 

Ilarrach  J.  lì.  von,  167,  1171,  1172 

Ilartcl  C,  398 

Ilasselbach  Th.,  84X 

Haasia-Casfiel,  vedi  Federico  lan- 
gravio di  IIc8Hen«Kii88cl 

Hauteserrc,  vedi  Dadin  de  Ilautc- 
aerre  A, 

Haverkamp   S.,  778 

Ilaym  N.  F.,  1168 

Hcarne  Th.,  739 

Heidenberg  I.,  detto  Tritheim, 
1092 

Hermant  G.,  971 

Herold  lì,  J.,  430 

Hesperio,  1092 

flessela  J.,  904 


Hierone  Pamtìlo,   1036 
Hmcmar,  \ escovo  di  Reinis,  085 
Ilincmar  di  Laon,  685 
Hobbes  Th.,  217,  792,   804,   817, 

999,  1004 
Ilofstetcr  J,  A.,   621 
Ilogarth    \V  ,   3 
Hohendorf  G.  W.,    584,   585,   019, 

92<;,  030,  1073 
Uoltztnann    W.,  204,  4  17 
Ilonlhem  J.  N    von,  XVIH 
Horn  G  ,  500 
Ilolman   F.,  41,  784 
Hudson  J.,   204 
Uuet  P.-I).,   XVU,  XM,   NXIII,   xxv, 

5^3,  5^6,  5W.  »oo,  74X,  944 
lluygens   Ch  ,   642 
Uyde,  Th.,  959,  983 

Iacopo,  arcivescovo  di  Capun,  1 162 

Iafct,  590,  597,  604 

Idazio,  vescovo,  cronista,  380 

lette,  942 

I erode,  453 

Ifigenia,  942 

Ignazio  di  Loyola,  santo,   130 

Ilario,  papa,  727 

Iklaris  C\,  99,  1 148 

I Idcrìa,  (orse  Ildaris  (!.,  vedi 

Imeneo,  940 

Imerio,  .sofista,  1012 

Imperiali  M.,  marchese  d'Oìra,  92 

Imperiali  K.,  349 

Innocenzo  I,  papa,  718,  7*0,  721, 

722,  725 
Innocenzo  U,  papa,  572,  573 
Innocenzo  III,  papa,  30,  590,  66 1 
Innocenzo  IV,  papa»  123 
Innocenzo  Vili,  papa,  486,  499 
Innocenzo  X,  papa,  910 
Innocenzo  XI,  papa,  32,  373,  1159 
Innocenzo  XIII,  papa,   102,   113, 

117,  123,  *35»  126,  142,  205,  475» 

47<>»  477»  54» 
Intieri  B.,  1162 
lordane»,  vedi  Giordane 
Ippocrate,  613 
Ippolito  Africano,  655 
Irene,  imperatrice  d'Oriente,  437, 

464 
Ireneo  di  Lione,  santo,  655,  678, 

7*4»  725,  «SS»  Ma 
Isabella,  878 


INDICE   DEI    NOMI 


1215 


II 


Isacco,  213,  594,  598,  635,  837,  942, 

1029 
Isacco  I  Comncno,  imperatore  d'O- 
riente, 437 
Isaia,  profeta,  187,  603,  622,  632, 

814,  842,  848,  849,  860,  861,  875, 

1037»   1038,  1081 
Ischitella  principe  di,  vedi  Pinto  y 

MondosKt  F.  K. 
Isolili  (Iselms)  J.  R.,  11 50 
Isidoro  di  Siviglia,  santo,  380,  381, 

382,    384,    389,   41X,   452,   855, 

1043,   1054,  11 18 
Ismaele,   977,  983 
Ismeno,    mago,    1069 
I  soci  ut  e,  1009,  1010 
Ivan  V  Aleksecvie,  zar  di  Russia, 

226 
Ivo  di  Chartres,  388,  685 

James  Th.,  920 

Jatnmcr  M.,  633 

Junsen  C,  908,  909,  910,  9 

Jarke  J.,  960 

J emolo  A.  C,  xxxn,  xxxm 

Jordan  Ch.-fà.,  1161 

Jouvancy  J.  de,  959 

J  ti  ri  cu  P,,  971 

Kiimpfer  E.,  956 
Kupp  (Kappio)  J.  E.,  165 
Keckcrmann  H.,  1064 
Kipping  IL,  568 
Rollar  A.  F.,  1073 
Kramnick  I.,  993 
Krunz  W.,  1084 
Kuyck  H.  van,  905 

Labbé  Oh.,  392 

Labbé  Ph.,  680,  685,  690,  691,  696, 

704,  706,  1078 
Labeo  F.,  vedi  Labbé  Ph. 
Labrousse  É.,  1061 
Lacoate  J.,  370 
La  Croix  de,  983 
La  Forge  L.  de,  49,  634,  647 
Lama  B.  A.,  xvn,  259,  5°9>  584, 

642,  990,  991,  ir  88 
Lambeck  I\,  1072,  1073,  *°74 
Lambcrtini  P.,  vedi  Benedetto  XIV 
Lamberto  di  Hersfeld,  491 
I^ampria,  1031,  1032 
Lampridio  E,,  772,  1053 


Lamy  G.,  581 

Lancellotti  G.  P.,  18,  27,  57 

Lancillotti   S.,   3 

Landau  M.,  xxxvi 

Landolfo,  conte  di  Capua,  567 

Lange  F.  A.,  614,  620 

Langestein  H.  H.  von,  841 

Lanzina  y  Ulloa  A.,  duca  di  Launa, 

172,  173,  516,  1180,  1183 
Larzio  Licinio,  1015 
Laterza  G.,  xxxi,  xxxm 
Latona,  940 
Lattanzio  F.,  232,  655,  798,  803, 

811,  819,  823,  829,  860,  882,  883, 

887,  945,  949,  1033,  1036,  1043, 

1044,  1048,  1049,  1057 
Launoy  J.  de,  461,  682 
Lauretus  M.,  421 
Lauria  y   Ulloa,   vedi   Lanzina  y 

Ulloa  A. 
Laurino,    duca    di,    vedi    Spinelli 

Giuseppe 
Laurisio  Tragiense,   vedi   Bianchi 

G.A. 
Lautrec  Odet  de  Foix  visconte  di, 

86,  87 
Lavardin  J.,  410 
Lazius  W.,  420,  599 
Lazzarini  D.,  509,  517,  11 87 
Le  Blanc,  cavaliere  sabaudo,  337, 

339,  34i 
Le  Bouyer  de  Fontcnelle  B.,  xxiv 
Le  Bret  J.  F.,  xxvn,  189 
Le  Brun  C,  vedi  Bruyn  C.  de 
Leder  J.,  796 
Ledere  D.,  315,  1128 
Ledere  J.,  xvii,  xxr,  315,  739,  741, 

802,  840,  1008 
Leclercq  H.,  801 
Leclercq  J.,  685 
Le  Comte  L.-D.,  956 
Leconte  A.,  41 
Le  Fèvre  T.,  884 
Leibniz  W.  G.,  xm,  142,  267,  491, 

585,  993,  996,  1071,  noi 
Leichsenhoffen  E.,  5,  147,  I48,  359, 

260 
Leichsenhoffcn  Th.,  baronessa  di 

Linzwal,  109,  no,  146,  202,  218, 

260,  1122 
Lemnius  L.,   568 
Lenglet  Du  Fresnoy  N.,  355,  560 
Le  Noir  J.,  179,  503 


I2t6 


INDICE   DEI    NOMI 


Leognani  A.,  ti 77 

Leoncourt,  famiglia,  226 

Leone  I,  imperatore  d'Oriento,  382, 

401 
Leone    II,    imperatore    d'Oriente, 

394 
Leone    HI     Isaunco,    imperatore 

d'Oriente,    432,   433,    435,   43<>» 

437»  438,  439»  440,  460 
Leone    IV    il    Cazaro,    imperatore 

d'Oriente,  462 
Leone  VI   il  Sapiente,  imperatore 

d'Oriente,    29,    158,    159,    160, 

445,  707,  708 
Leone  I  Magno,  papa,  684,  690, 

691,  697,  706,  719,  721,  726,  727, 

916,  926 
Leone  III,  papa,  401,  433 
Leone  X,  papa,  86,  406 
Leone  XI,  papa,  907 
Leone  Morsicano  (Leone  Ostiense), 

56,  410,  420,  421.  432,  432»  467. 

469,  877 
Leopoldo   I  d'Asburgo,  imperato- 
re, 62,  96,  109,  no,  xxi,  136, 

256,  1072,  11 74 
Leovigildo,   re    dei    Visigoti,   388, 

389 
Lerma  G.  de,  1 109,  1148 
Le  ttiour,  vedi  Simon  R. 
Lessio,  vedi  Leys  L. 
Lesueur  J.,    970 
Le  Thiry  J.,  862 
Leucippo,  742,  1084 
Leunelavio,  vedi  Lowenklav  J, 
Leydekker   M,,   692 
Leys  L.,  877,  905 
Libanio,  24 
Liberato,  arcidiacono  di  Cartagine, 

705 
Liberio,  papa,  693 
Licinio,  imperatore,  31,  655,  663 
Licinio  Sura,  765,  1091 
Licomede,  852 
Licurgo,  xxiv,  943,  1028 
Liebe  Ch.  S.,  166,  187,  318,  noi 
Lindenbrog  F,,  430 
Linsswal,  baronessa  di,  vedi  Leich- 

«cnhoilen  Th. 
Lionardo  di  Caputi,  581 
Lione,  presidente  di  Camera,  150 
Liparulo  N.,  456 
Lips  (Lipsie)  J.,  1013,  1060 


Lirano  e  Lyranus,  vedi  Nicolò  da 

Lira 
Lina,  vedi  Stuart  J.  F.  F.  J. 
Lista,  ttibuno,  884 
Liutprando,    re    dei     Longobardi, 

429,  430,  43i,  432,  433»  434»  435» 

442,  443,  448,  461,  400 
Liuva  II,  re  dei  Visigoti,  380 
Livio  T.,  xix,  2i,  25,  50,  101,  222, 

231,236,  312,33*)»  559,  73* »  732, 
733»  735,  7.K>»  737»  738,  73<>,  740, 
741,  742,  747,  748,  749,  750,  75 1, 
752,  753»  754,  755»  75<>,  757»  75«» 
759,  7»o,  763,  764,  705,  767,  768, 
770,  772,  777,  827,  839,  882,  022, 
923,  924,  925,  93i»  <>32,  938,  943, 
945,  94<>»  975,  984,  985,  1028, 
1030,  1033,  1034,  1035,  1036, 
1041,  1042,  1044,  1070,  1085, 
ro88,   1089,   1090,   1091 

Llacuna  G.,  189,  191,  241,  251, 
1170 

Lobkovic  1.  I.  K.  /,,  230 

Locke  J.,  xu,  xvi,  xxt,  xxni,  xxiv, 
620,  795»  79»,  *ooo 

Locutio,  754 

Lodoli  C,  267,  520 

Lohenschiold  O.  Ch.  von,  xxvn, 
189 

Longano,  marchese  di,  11 47 

Longino,  prefetto  d'Italia,  418 

Longino  C,  883 

Longobardi  A.,  1132 

Longobardi  F.,  1132 

Longobardi  (».,  <)9,  120,  259,  H33, 
U38 

Longobardi  N.,  956 

Lopez  I\,  391 

Loredan  G.  F.,  508 

Ix>renno,  santo,  787 

Lorint  J.  de,  87O 

Urtano  1,  re  d'Italia  e  imperatore, 

443,  454 

Lotario  li  di  Suplimburgo,  impe- 

peratore,  456,  571,  572 
Lovejoy  A.  ().,  1000 
I^owenklav  J.,  158,  445 
U>ys  de  Hoehat  Ch>-G.,  xxvn,  188, 

2*3,  3««»  3»3,  523»  H7<> 
Loys  de  Hoehat  I.,  523,  526 
Ix>yscau  Ch,,  387,  409,  410 
Luca,  evangelista,  225,  228,  231, 

371,  595»  <>22,  648,  7*4»  7 *<>»  807» 


INDICE   DEI    NOMI 


1217 


809,  810,  811,  831,  83S,  863,  876, 
884,  885,  935,  93<>,  944,  948,  963, 
1039 

Luca  da  Penne,  457 

Luccaberti  li.,  571 

Luciano  di  Samosata,  1048,  1052 

Lucido  G.,  848 

Lucitero  di  Cagliari,  803 

Lucio,  vescovo  di  Verona,  693 

Lucio  di  Sandro,  1147 

Lucio  Vero,  imperatore,  856 

Luckh  J.J.,  188,  487 

Lucrezia,  819,   826,  1087 

Lucrezio  Caro,  T.,  34,  169,  489, 
581,  604,  631,  637,  641,  643,  646, 
741,  742,  751,  752,  763,  777,  946, 
998,  1000, 1005,  1010,  1065,  1084 

Lucrezio  Tricipitino,  Sp  ,  826 

Ludolf  o  Leutholf  II.,  957 

Ludovico  I  il  Pio,  re  dei  Franchi  e 
imperatore,  57,  351,  454,  455 

Luigi  XII,  re  di  Francia,  186,  187, 
1105 

Luigi  XIV,  re  di  Francia,  62,  215, 
439,  735,  9i6,  917,  9i8,  919,  921 

Luigi  XV,  re  di  Francia,  215,  226, 

1074,  113» 
Luigi   III   d'Angiò,  re  titolare  di 

Sicilia,  275 
Lìinig  J.  Ch.,  no,  132,  137 
Lupo  C,  vedi  Wolf  Ch. 
Lupo  Protospata,  358,  420 
Lutero  M.,  131,  904,  905,  965 

Mahillon  J.,  470,  801,  915 
Machiavelli  N.,  xix,  31,  37,  125, 

401,  408,  435,  58a,  583,  737,  738, 

740,  743 
Macrobio,  1012,  1013,  1036 
Maddalena,  831,  835,  865,  1038 
Maddaloni,  conti  (vedi  anche  Ca- 

rafa),  61 
Maderus  I.  I.,  656 
MafFei  D.,  1013 
Maffei  S.,  xi,  xn,  xm,  xxv,  xxvi, 

138»  139,  267,  563,  1003,  noi, 

xi 54,   XX75 
MafTeius  Raphael  Volaterranus,  36 
Maggioco    (Magioco),    consigliere 

del  Sadro  Real  Consiglio,  n  13, 

X125,  ii34,  xxs* 
Maggioriano    (Maioriano),    impe- 
ratore d*Occidente,  402,  409 


Magi  (Maggi)  G.,  1008,  1009 

Magini  G.  A.,  25,  26 

Magliabechi  A.,  noi 

Maia,  940 

Maiello  C,  64 

Maimbourg  L.,  439,  916,  917,  918, 

919,  920,  921,  922,  971 
Maiolo  S.,  1025 
Malato  E.,  xxxv 
Malebranche  N.  de,  50,  587,  621, 

622,  623,  624,  638,  647 
Malvito  o  Malvezzi  T.,  490 
Mancini  P.  S.,  xxvn,  xxix,  6,  324, 

361,  561,  593,  747,  924,  933,  945 
Manete  persiano,  954 
Manetone,  883 
Manfredi,  re  di  Sicilia,  35 
Manfredi  D.  A.,  210 
Manfredi  E.,  1176 
Manicheo,  211 
Manilio  M.,  639,  640 
Manlio   Imperioso  Torquato,   T., 

764 
Manouchi,  vedi  Manucci  N. 
Manson  O.,  1055 
Manucci  N.,  953,  955 
Manuel  F.  E.,  600,  1005 
Manuzio  A.,  204 
Manzoni  A.,  xxx,  359 
Maometto,  169,  391,  953,  977,  979, 

980,  1064,  1066 
Maometto  II,  981 
Maran  P.,  840 
Marano,  principessa  di,  47 
Maranta  R.,  457,  458 
Marca  P.  de,  437,  438,  463,  464, 

468,  470,  662,  665,  680,  694,  925, 

926 
Marcellino,  santo,  467 
Marcello   C,   486 
Marchetti  A.,  489 
Marciano,    imperatore    d'Oriente, 

409,  669,  697 
Marciano  (di  Eraclea?),  1023 
Marco  (eretico),  809 
Marco,  evangelista,  622,  650,  651, 

672,  719,  810,  865,  961,  1038 
Marco,  liberto  di  Plinio  il  Giovane, 

767 
Marco   Aurelio,    imperatore,    787, 

856 
Marco  Emilio,  vedi  Fiorentino 
Marcolfo,  monaco,  432 


77 


I2l8 


INDH'K    DKI    NOMI 


Marconc  re  di  Calabria,  vocìi  He- 

rardi  M. 
Maria,  figlia  di  Stanislao  Leszczyri- 

ski,  226 
Maria,  moglie  di  Ottone  III,  567 
Maria  Amalia  d'Asbuigo,  119 
Maria   Elisabetta  d'Asburgo,   136 
Maria  Giuseppa  d'Asbuigo,  226 
Maria  Vergine,   xu,   6,   480,   648, 

C50,  864,  869,  871,  872,  876,  951, 

1039 
Mariana  J.  de,  393 
Marianna  d'Asburgo,  90 
Maria  Teresa  d'Asburgo,  impera- 
trice, oy,   134 
Mariconi,  monsignore,    148 
Manconi  li.,  148,  150,  1158,  1159 
Marini  L.,  xxxtv,  xxxvn,  44,  04, 

176,  184,  265,  270,  350,  561,  702, 

1x40,  1145,  1 1 56 
Màrmol  y  Carvajal  L.  del,  057 
Marsham  J.,  587,  599,  801,  802, 

885,  973 
Marsia,  160 
Marsdi  L,  F.,  1176 
Marta,  santa,  821 
Marte,  754,  940,  xk>i 
Martimort  A. -Ci.,  971 
Martinengo  A.,  842 
Martini,  546 
Martinio  L.  A.  ss,  60,  62,  63,  353, 

1140 
Martiniòrc  de  lu,  vedi  ttruzen  de  la 

Martinicre  A.-A. 
Martinitz  G.  A.  von,  vedi  Martinir. 

1.  A.  z 
Martuscelli  I).,  51,  93 
Marulli  F.  S.,  in,  1137 
Marvill  A.,  24 

Marciale,  M.  Valerio,  $$(>,  jroao 
Massimiano,  imperatore,  787 
Massimiliano  l  d'Asburgo,  impe- 
ratore, 6a 
Massimàrio,  imperatore,  787 
Massimo,  655 

Massimo,  vescovo  di  Lucca,  693 
Mastcllono  F.,  H13,  1x23,  1*56, 

ixóo 
Mastclione  S,,  xxxvn,  44,  350,  582 
Mastricht  P.  von,  31 
Mattei  tì.,  349 
Matteo,  evangelista,  6,  231,  271, 

538,  594>  Ó4«>  650,  651,  654,  7*6» 


802,  810,  820,  82 1,  827,  828,  8 li, 
834,  «36,837,  838,  841,8.13,859, 
802,  8(>6,  807,  868,  874,  875,  893, 

1095 
Matteo  degli  Alllitti,  vedi  DWlllit- 

lo  M. 
Matusalemme,  848 
Mangani  G  ,  34,  625 
Mauleon  L.,  1 117,  mio 
Maurizio,     impciatore     d'Oiu-nte, 

418,  917,  919,  923 
Mauzi  R.,  794,  1002 
Maxilla  o  Massi  Ha  V.,  -150,  451 
Mazzaeura  Y.,  173,  11 20 
Mazzolem  A.,  267 
Mazzoni  G.,  280 
MazzuchelU  G.M.,  19,  33,  59»  120, 

1128 
Mcclemburgo,  duca  di,  957 
Medici  A.  de',  907 
Medici   (».,  principe  di   Ottaiano, 

257 
Medinacoeli,  duca  di,  vedi  (Vrda  y 

Aragón,  L.  F.  de  la 
Medoro,  871 
Mela  A.,  1105,  11 09,   n  13,   1148, 

1152 
Mela  F.,  xv,  78,  148,  149»  216,  285, 

375,  1105,  in;;,  1123,  1134, 

1139,  114'».  1 S47»  **4«»  1x52, 

1153,  1154»  «155»  H58,  1150, 

xt(>3,  u6(>,  n 68,  u8o 
Mela  Pomponio,  20»   1022 
Melchiorre,  uno  dei  re  magi,  898 
Mclchisedee,  875 
Melchon,  <H4 
Meiitone,  654 
Memmo  A.,  267 
Mena,  patriarca  di  Costantinopoli, 

707 
Mcncke  F.  C).,  165,  x(>6,  X84,  189» 

1071,   noi,    U05»    U27,    1162, 

1164 
Mencke  J.  lì,,  165,  x8a,   X84,  189 

47«»  50H,  509,  1071,  noi,  1105, 

xt3o,  1165 
Mendoeu  F.  de,  842,  870 
Mendovsa  y  Alurcon  F.,  199 
Menochio  G.  S,,  xx,  793,  841,  842, 

845,  846,  «47,  «4»,  «40»  «50,  «Si, 

«53»  «54,  «55,  «56,  «57»  «5v>  «<>o, 

861,  86»,  863,  864,  865,  866,  868, 

869,  870,  «7*>  «73,  «73»  «74>  «75» 


INDICE   DEI    NOMI 


1219 


«76,  877,  878,  882,  989,  1014, 
1022,  IO31,  IO32,  1034,  IO4O, 

1042,  1052,  1053,  1054,  1055, 
1056,  1058,  1059,  1060,  1091, 
1092,  1093 

Morcado  L.,  616 

Mercati  L.,  vedi  Mcrcado  L. 

Mercurio,  6 io,  938,  940,  941,  11 32 

Mercy  F.-C.  de,  242,  254 

Mennto,  eretico,  809 

Meropc,  942 

MetastasioP.,  51,  78,  349,  350,  361, 
363 

Meter  Vitale  G ,  xxxvu 

Mcursius  J.,  422 

Meylan  Ph.,  819 

Mczcnzio,  748 

Micaglia  L.,  15,  1124 

Micaglia  M.,  17,  1105,  1156,  n  60, 
1163,  1166,  1178 

Micalorì  B.,  11 92 

Michele,  arcangelo,  464 

Michele,  arcivescovo  di  Ravenna, 
461 

Michele  II  il  Balbo,  imperatore 
d'Oriente,  874 

Michele  III,  imperatore  d'Oriente, 
720,  725 

Middleton  C,  949 

Miegge  G.,  595 

Miele  A.,  78 

Migne  J.-P.,  229,  232,  344»  362, 
603,  610,  612,  621,  622,  636,  638, 
639,  651,  654,  655,  657,  658,  661, 
664,  665,  679,  684,  685,  687,  693, 
694,  695,  698,  705,  707,  71  x,  714» 
717,  718,  719,  720,  722,  723,  724, 
725,  726,  750,  762,  774,  775,  77<3, 
778,  784,  801,  803,  804,  805,  809, 
8x2,  813,  819,  821,  823,  824,  825, 
826,  828,  829,  830,  832,  833,  835, 
836,  837,  838,  843,  844,  845,  846, 
847,  848,  849,  850,  854,  856,  859, 
860,  861,  862,  863,  864,  865,  866, 
867,  868,  870,  873,  875,  878,  879, 
881,  882,  883,  888,  889,  890,  893, 
896,  897,  898,  902,  903,  915,  920, 
947,  949,  952,  964,  1008,  1011, 
10x2,  1013,  1014,  1016,  1033, 
X037,  1039,  1040,  1043,  1049, 
1056,  1058,  X092 

Milles  Th.,  620 

Milziade,  6$$ 


Minerva  (Pallade),  610,  872,  940 
Minien  Riccio  C,  33,  51,  64,  76, 

1104 
Minosse,  943,  1028 
Minotauro,  813 
Mintz  S.  I.,  804 
Misurata,  marchese  di,  11 38 
Mitra,  601 

Mittarelh  G.  B.,  noi 
Mneve,  882,  943,  1028 
Moazzi,  abate,  267,  280,  520,  521 
Mocenigo  A.,  302,  509 
Modesto,  655 
Mogol,  vedi  Gran  Mogol 
Mole  Ed.,  393 

Molina  L.  de,  905,  906,  907 
Molmeo,  vedi  Dumoulin  Ch. 
Molino  del  Miguel  M.,  371 
Moloch,  944 
Momigliano  A.,  572,  582 
Monaco  N.,  170 
Monbritius  B.,  428 
Moncada  H.  de,  viceré  di  Napoli,  86 
Mondragone,  duca  di,  262 
Mongitore  A.,  25 
Montagne  I.  de  la,  959 
Montaigne  M.  de,  1008 
Montalte  L.  de,  vedi  Pascal  B. 
Montealegre  J.  J.  de,  284,  552 
Montecuccoli,  principessa  di,   146 
Montecuccoli   E.  P.,    principe    di, 

146,  164 
Monteleone,  vedi  Pignatelli  N. 
Montemar,  vedi  Albornoz  J.  C. 
Montemiletto,  Leonardo  di  Tocco, 

principe  di,  150 
Montesanto,  vedi  Villasor  J. 
Montesoro  O.,  vescovo  di  Castella- 

neta  e  di  Pozzuoli,  85 
Montesquieu,  Ch.-L.  de  Secondat 

de,  740,  953,  992 
Montfaucon  B.  de,  651 
Monti  G.,  xxxvn 
Mopso,  1045 
Morandi  C,  xxxvn 
Moreri  L.,  739,  793 
Morin  J.,   839 
Mornac  A.,  41 
Moroni  G.,  99 
Morselli  A.,  xxxiv 
Mosca  F.,  1156,  1170 
Moscati,  xi6o 
Moschini  G.  A.,  280 


1220 


INDICE   DEI    NOMI 


Mosco,  1085 

MOSC,  203,  204,  2l8,  2I<),  220,  221, 
222,  223,  224,  448,  449,  599,  ÓOO, 

601,  602,  003,  604,  609,  6x0,  612, 

623,  624,  ()2(),  630,  635,  636,  637, 

638,  039,  640,  641,  643,  810,  832, 
«33»  836,  «43»  840»  851,  875, 
878,  882,  883,  939,  942,  947»  950» 
960,  961,  962,  977,  978,  980,  998, 
1029,  1037,  1038,  1040,  1080, 
X082 

Mosheim  J.  L.,  586,  588,  589 

Muràd  I,  sultano  ottomano,  98 1 

Muratori  L.  A.,  xi,  xn,  xin,  xiv, 
xv,  xxi,  xxiv,  xxv,  xxxr,  142,  267, 
301,  357,  3<>o,  378,  430,  443,  445, 
449,  462,  469,  5"»  535,  54<>,  548, 
X07X,  xior,  1105,  1175,  X176, 
1x89 

Musano,  655 

Muscettola  G.,  X153 

Musto  G.,  40 

Muzio  G.,  36 

Nabucodònosor,  1029 

Nani  Ci.  I*.,  xxi,  36 x 

Nardi  J.,  739 

Nat-sete,  399,  422,  423,  424 

Naso  N.,  77,  79,  526,  xx  19,  X120, 
1x22,  X129,  1x52,  1175 

Natale  d'Alessandro,  vedi  Alexan- 
dre N. 

Naudé  G.,  3 

Nassurio,  retore  latino,  24,  670 

Nebridio,  amico  di  sant'Agostino, 
809 

Neurone  F.,  955 

Nembrot,  944 

Nepoziano,  «tanto»  corrispondente  di 
san  Girolamo,  xoo8 

Nerone,  imperatore,  434,  761,  770, 
777»  778,  7»&»  787»  884,  885, 
X064,  xo6$,  1066,  X089 

Nerva,  imperatore,  22, 24, 762,  777, 

779 

Nestorio,  teologo,  3* 

Nettuno,  940,  95  x 

Novera,  duchessa  di,  149,  1x44 

Newton  J.,  8, 49,  267,  620, 633, 642, 
990,  991,  99»»  993,  994,  995,  996, 
997,  99&>  999,  *ooo,  XO03,  X004, 
1005,  xoxó,  xo6x,  xoóa,  1065, 
X068,  XX02 


Nicànore,  ministro  di  Antioco  V, 
XO90 

Niccolò  I,  pupa,  720,  725 

Niccolò  III,  papa,  495 

Niceforo  Callisto,  437,  656,  711, 
860,  865,  870,  878 

Nicodemo  L.,  51,  1077,  1078,  1157, 
1 162 

Nicola  di  Reni  ih  (o  Rema),  104X 

Nicole  I\,  033,  815 

Nicolini  K.,  xxx,  xxxi,  xxxn,  xxxin, 
xxxiv,  xxxv,  xxxvi,  xxxix,  18,  19, 
33,  48,  5A  "4,  <>9,  7*.  83,  xi7, 
126,  127,  156,  266,  277,  349,  3  so, 
3<>i>  3<>4.  5«3.  747,  707,  834,  933, 
1007,  ixoo,  1107,  1x48,  xiòx, 
XI79,    1*84 

Nicolò  da  I/ira,  850,  854,  864 

NierembcrK  J.  K.,    1025 

Nigg  W.,  934 

Nino,  leggendario  fondatore  del- 
l'Impero assito,  605 

Niso,  901 

Noè,  XXII,  219,  593,  594,  595,  $<A 
597,  598,  599,  <>00,  <>°i>  <>04,  «05, 
833,  843,  849,  850,  877 

Nonio  Marcello,  452,  toiz 

Noris  K.  de,  885 

Novario  G.  M.,  08 

Ninna  Pompilio,  re  di  Roma,  236, 
736,  742,  758,  7<>*>  7<>8,  943, 
ro28,  1090 

Numenio  d'Apamea  (Pitagorico), 
636.  «37,  883 

Oceella  P.,  XXIX,  293, 309,  3  io,  3  X  x, 

328,  344,  345 
Oddi  l„  29 x,  292 
Odoacre,    re   barbarico,    30,    395, 

39f>,  397»  398,  400,  41 6,  <#5 
OdoiVedo  Denari,  457 
Ogilvie  J.,  xxvn,  184 
Oira,  vedi  Imperiali  M. 
Olao  Magno,  vedi  Mìlnson  O. 
Olindo,  878 
Olivati  G.,  307»   308,  309,   3x0, 

3 xx,  326,  1x88 
Oixiar,  generale  di  Maometto,  979 
Omero,  35,  36,  203,  220,  2ax,  600, 

fox,  637,  756,  872,  901»  939»  947, 

1022,   X043,    X044,    X083,    X089, 

1093»  xxf>7 
Omodeo  A.,  xxxiv,  588,  659 


INDICE   DEI   NOMI 


1221 


Onorio,  imperatore  d'Occidente, 
379,  402,  404,  712 

Onorio  di  Autun,  849 

Onorio  III,  papa,   1x62 

Opilio  Aurelio,  ioti 

Oppio   Sp.,   decemviro,  764 

Orazio  Coclite,  1087 

Orazio  Fiacco,  Q.,  741,  752,  891, 
900,  046,  959,  1012,  1085 

Orfeo,  941,  1083 

Origene,  827,  843,  845,  848,  849, 
853»  W>8,  883,  978,  1040 

Origlia  (J.  G.,  35,  49,  58 

Orlando,  869,  871 

Orléans,  Philippe  II  duca  d',  reg- 
gente, 215 

Orman  e  Ormond,  vedi  Darmon 
J.A, 

Ormoa,  C.  V.  Ferrerò  di  Roasio, 
marchese  di,  293,  309,  310,  336, 
346,  591,  747,  791,  797,  989, 
1005,  1186 

Ormisda,  papa,  697 

Orosio  P.,  24»  381,  382,  384,  778, 
784,   844,    873 

Orsi,  xi  29 

Orsini  1<\,  vedi  Benedetto  XIII 

Orsini-Gravina,  famiglia,  117 

Osea»  profeta,  842 

Oshman,  generale  di  Maometto, 
979 

Osanna,  duca  di,  vedi  Tóllez-Girón 
y  Guzman  I\ 

Ostiense,  il  cardinale,  496 

Ostiense,  vedi  Leone  Marsicano 

Otone,  imperatore,  761 

Ottaiano,  principe  di,  vedi  Medi- 
ci O. 

Ottato,  vescovo  di  Milevi,  xxi,  29, 
666,  701,  745 

Ottone,  figlio  di  Federico  Barba- 
rossa,  270 

Ottone  l  il  Grande,  imperatore  e  re 
di  Germania,  454 

Ottone  III,  imperatore  e  re  di  Ger- 
mania, 449,  567 

Ottone  IV  di  Brunswick,  impera- 
tore, 30 

Ottone  di  Frisinga,  45° 

Ottone  di  Lagery,  vedi  Urbano  II 

Ovidio  Nasone,  ?,,  95  9»  io45» 
1093 

Oyra  G.  B.  B.,  marchese  di,  316 


Pacato  Drepanio,  L.,  24 

Pace   G.,  20 

Pacuvio  M.,  639,  640 

Pageaux  D.  H.,  996 

Pagi  A.,  399,  437,  885,  968 

Pagi  F.,  968 

Pagnim  S.,  854 

Pala  A.,  990,  993 

Palazzi  di  Selve  A.,  346,  747 

Paldo,  nobile  longobardo  beneven- 
tano, 467 

Palladio,  vescovo  di  Scozia,  721 

Pallavicino  S.  P.,  36,  43,  179,  478, 
499,  503,  504,  792,  793,  892,  898, 
1047,  X167 

Palm,  mercanti,  1 143 

Palm  J.  D.,  1143 

Palmieri  M.,  428 

Palumbo  O.,  1134,  1139,  1146, 
1147,  1152,  1x56,  1160,  1163, 
1166,   1169 

Pamphili  G.,  vedi  Innocenzo  X 

Pan,  937,  941,  1021,  1032 

Panagia  G.,  214 

Pandolfelli  N.  P.,  1152,  1153 

Pandolfo,  principe  di  Capua,  878 

Panfilo  Alessandrino,  io  11 

Panigarola  F.,   36 

Pantaleone,  santo,  467 

Panteno,  655 

Pantino  P.,  408 

Panzini  L.,  xvin,  xxvu,  xxvin, 
xxxix,  9, 15, 17, 18, 40, 46, 48,  61, 
68,  69,  70,  72,  74,  81,  83,  89,  90, 
95,  99,  *00»  i°3,  106,  107,  108, 
117,  120,  129,  149,  165,  173,  174, 
179,  184,  188,  189,  191,  195,  208, 
267,  280,  295,  308,  325,  335,  365, 
508,  509,  517,  535,  592,  663,  731, 
noi,  1102,  1103,  1105,  1120, 
1121,  1124,  1135»  1140,  1162, 
1170,  1176 

Panzuti,  1170 

Paoli  S.,  xi,  xxvni,  210,  zìi,  212, 
5«»  548,  557,  558,  1155,  1175, 
1176,  1190 

Paolino,  vescovo  della  Gallia,  693 

Paolino  II,  patriarca  di  Aquileia, 
santo,  464 

Paolino  di  Bordeaux,  vescovo  di 
Nola,  24,  812,  1093 

Paolo,  apostolo,  84,  225,  228,  229, 
231,   235,   276,   465,   484,   497, 


IZZZ 


INDICE   DK1    NOMI 


53*»  553,  588,  594,  595,  6a6,  649, 
651,  71 1,  714»  7*6,  721,  722,  744, 
745,  773,  774,  775,  77**,  784,  801, 
80 s,  806,  809,  814,  817,  831,  834, 
855,  856,  807,  873,  881,  88.1,  885, 
888,  893,  895,  896,  899,  900,  90  r, 
902,  903,  936,  944,  947,  948,  952, 
«/U,  985,    1095,   1192 

Paolo,  presbitero,  corrispondente  di 
sant'Epifanio,  1013,  X014 

Paolo,  vescovo  di  Napoli,  462 

Paolo  I,  papa,  458 

Paolo  IV,  papa,  835 

Paolo  V,  papa,  291,  536,  54 r,  542, 
907 

Paolo  Diacono  (Paolo  Varnofrido), 
55,  56,  413,  4^9,  430,  42t,  423, 
424,  425,  427,  429,  432,  437,  447, 
450,  451,  466,  467,  920 

Paolo  Emilio,  L.,  console,  772 

Paolo  C>.,  386,  388 

Paolucci  R,  151 

Papia  di  Gerapoli,  654 

Papiniuno  Umilio,  11 92 

Parente  A.,  xxxxn,  xxxix,  361,  588, 
590,  593,  601,  605,  609,  6  x  1,  612, 
615,  616,  6x8,  619,  620,  621,  625, 
626,  629,  630,  63 1,  634,  635,  636, 
<>37>  638,  641,  642,  647,  648,  649» 
650,  651,  656,  657,  658,  659,  660, 
66 1,  665,  666,  668,  670,  672,  674, 
675,  676,  677,  680,  68 r,  683,  684, 
686,  687,  688,  689,  693,  694,  695, 
696,  697,  700,  70  x,  702,  704,  707, 
708,  709,  710,  7r  i,  7x2,  7x3,  7x4, 
716,  7x7,  718,  720,  72X,  724,  725, 
727,  9*3»  9=67 

Parisio  P.  1\,  494 

Panino  D.  A.,  583 

Parata  R,  125,  400 

Pascal  1*.,  634,  8x5 

Pascli  G.,  370,  407 

Pasquali  G.,  xvin,  xxvrx,  xxvxii 

Pasqualino  LX,  263,  267,  280»  295, 
5x7,  520,  527,  530,  xx8«,  1x87* 

Pasquio  G.,  vedi  Pascb  G. 

Passavano  L,  877 

Passerat  J.,  1020 

Passionci  IX,  X39,  184,  208,  265, 
*7°,  349»  475»  47*»  $0Q,  S»7.  SSh 
**77 

Pastor  L.  von,  152,  153,  x6x,  1143, 
11$$ 


Paterno  L.,  1170,  11 78 

Patino  J,,  266 

Patrizi  Piecolonimt  A.,  486 

Pauliniano,  fratello  di  san  Gerola- 
mo, 724 

Paninoci  di  C.alboli  E.,   1 1  -|  s 

Peaison  J.,  884 

Pecci,  1148 

Pelala,  santa,  825,  826 

Pelagio,  903 

Pelagio,  re  delle  Asturie,  393 

Pelagio  1,  papa,  694 

Pellegrini,  abate,  189 

Pellegrino  (*..,  357,  358,  \2o,  421, 
422,  4^5,  4~<>,  427.  4<>7»  693 

Pellissari  JT.-A  ,  317,  320,  321,  322, 
323,  338 

Pellisson-Kontanier  I*.,    xooK 

Pemberton  li.,  991,  992 

Pepe  (».,  xxx tv 

Pepe  N.,  i  no,  1 123,  1132 

Peralta  J.  T.  de,  171 

Peregrino  M.  A.,  5x7 

Peretti  K.,  vedi  Sisto  V 

Pe.reyra  B.,  851,  883 

Pòrca  A.,  20,  892 

Peri  G.  I).,   11 58,    U59 

Pericle,  6xt 

Per  ino  E.,  xxtx 

Perigonio  E,  vedi  Voorbroek  J. 

Perla»  de  Vilbena  J.,  1x4,  144,  196, 
209 

Pcrlas  de  Vilbena  1\,  1x4»  144,  19O 

Perlas  de  Vilhena  R.,  marchese  di 
Kiulp,  98,  99,  1*3,  114»  1 15,  1X9, 
X20,  X2X,  127,  X32»  X43,  X44,  xsx, 
*53>  *54»  i$5>  >S^>  '57,  *6x,  166, 
178,  X90,  x<;x,  192,  193,  194»  »95i 
196,  X97,  198,  aoo,  20 x,  206,  207, 
209,  2x4,  «40,  24  *»  34*»  345» 
246,  249,  355,  557,  xx  17,  1125, 
XX27,  «133,  »34i  **43»  *H4, 
XX45,    XX46,    1x47,    XX69,    xt70, 

Perlongo  G,,  98,  xor,  X54,  t$$t  r6o, 
198,  xxx7,  XX27,  1x33,  » Jt 57»  *i78 

Pel-rolli  E.,  1x55 

Perrelli  1\,  X52,  153,  154,  t$$>  i$(>, 
157»  158,  X62,  XX07 

Perniili  P.P.,  1x55 

Perrot  d'Abluncourt  N.,  957 

Persico  T,,  xxxvi 

Persio  Placco,  A.»  271 


INDICE   DEI   NOMI 


1223 


Pert  usati  di  Castelferro  C,  98,  305 

Periteci,  canonico,  91,  li 09,  ino 

Pery,  vedi  Peyri  L. 

Peschici  M.  da,  n  24 

Pesrnes  de  Samt-Saphorin  F.  J.  de, 
324 

Petau  I)„  8or,  88r,  885 

Pctavio,  vedi  Petau  D. 

Petermanns  D.  A.,  621 

Petitti  di  Roreto  A.,  308 

JVtiaroa  F.,  35,  36,  51,  1004,  1032 

IVutmger  K.,  450 

Peyn   I,».,  conte,  153 

Pezzami  N.,  in 

PhihherL  A.,  xxvm 

Philibert  C,  xxvm 

Philippson  J.,  543 

Piazza,  nunzio,  292 

Piecolomini  d'Aragona,  principe  di 
Valle,  177 

Pico  della  Mirandola  L,.,  168,  548 

Pieon,  conte,  governatore  della  Sa- 
voia, 7,  328,  335,  336,  337,  338 

Pietet  H.,  070 

Pienmtoni  A.,  xxjx,  xxxin,  io,  105, 
158,   296,    340,   361,    5*8,   561, 

593.  1*56 

Pier  dello  Vigne,  326,  569,  1150, 
1161,  1x62 

Pierozzi  A.,  vedi  Antonino,  arcive- 
scovo di  Firenze,  santo 

Pierro  U,  xxxi 

Pietro,  apostolo,  276,  344,  494, 496, 
507,  667,  678,  703,  713,  7H»  715, 
716,  717,  7r8,  719»  720»  721,  7*4, 
725,  7»6,  727,  745,  778,  787,  814, 
917,  926,  947 

Pietro  Hlcftcmc  (Peter  of  Blois), 
470 

Pietro  Damiano,  877,  878 

Pietro  Diucono,  573 

Pietro  1  il  Orando,  zar  di  Russia, 
226 

Pietro  Igneo,  vedi  Aldobrandino  P. 

Pietro  Martire  d'Anghiera,  1025 

Pietro  da  Verona  (san  Pietro  Mar- 
tire), X23 

Pignattai  F.,  cardinale,  85,  89,  107, 
108,  X73>  183,  288,  1120 

Pignatelli  F.  di  Bclmonic,  249 

Pignatelti  M.,  78 

Pignatelli  N-,  X36 

Pilati,  barone,  xi66 


Pilato  Ponzio,  648,  744,  873,  884 
Pineda  J.  de,  852,  853,  855,  875 
Pinito  Cretense,  655 
Pinto  y  Mendoza  F.  E.,  principe 

d'Ischitella,  48,  70,  354 
Pio  II,  papa,  117 
Pio  V,  papa,  905 
Piovani  P.,  xxxvn 
Pipino  III  il  Breve,  re  dei  Franchi, 

437,  454,  459,  4^3 

Pirn  R.,  159,  973 

Pirro,  re  dell'Epiro,  502 

Pisani  di  Sant'Angelo  A.,  xvi,  269, 
270,  271,  272,  273,  283,  284,  285, 
286,  287,  289,  291,  292,  293,  294, 
295,  297,  298,  299,  300,  301,  303, 
304,  305,  317,  322,  509,  513,  519, 
520,  525,  526,  528,  S3Q,  531,  532, 
533,  534,  535,  537,  544,  545, 
1103,  1187 

Pisani  di  Sant'Angelo  B.,  286,  298, 
526 

Pisani  di  Santo  Stefano  L.,  273,  518 

Pitagora,  606,  607,  608,  612,  636, 
1028,'  1048,    1083 

Piteo,  Pithoeus,  vedi  Pithou  P. 

Pithou  P.,  384,  390,  392,  393,  403, 
450,  685,  10x3 

Pitten  F.,  184,  280,  281,  283,  290, 
294,  303,  305,  508,  509,  527 

Pittori  M.,  280 

Pizzichi  F.,  280 

Platone,  43,  608,  612,  635,  636,  637, 
645,  75i,  774,  876,  947,  1009, 
1010,  1036,  1084,  1085,  1088 

Plauto,  217,  452 

Plinio  il  Giovane,  22,  59,  82,  289, 
342,  733,  741,  765,  766,  767,  768, 
776,  777,  779,  78o,  781,  782, 783, 
784,  822,  881,  935,  948,  973, 1078 
1086,  1091,  1092 

Plinio  il  Vecchio,  4,  22,  337,  342, 
426,  733,  736,  74i,  742,  761,  762, 
765,  777,  808,  845,  866,  881,  889, 
924,  925,  93i,  932,  936,  937,  944, 
945,  946,  955,  984,  989,  1000, 
1010,  1011,  1012,  1013,  1015, 
1017,  1018,  1019,  1020,  1021, 
1022,  1023,  1024,  1025,  1026, 
1027,  1030,  1031,  1035,  1036, 
1037,  1042,  1043,  1047,  1050, 
1051,  1052,  1053,  1055,  1056, 
1058,  1059,  1060,  1062,  1063, 


1224 


INDICE   DEI   NOMI 


1064,  1065,  1066,  1067,  1068, 

1069,  1078,  1079,  1086,  1088, 

100,3,  1094 
Ploikner  (Plekncr)  J.  K.  E.  von, 

xog,  rio,  120,  145,  146,  147,  260, 

X122,  1163 
Plotino,  453,  614 
Plutarco,  636,  756,  808,  864,  937, 

X020,    1031,    1032,    1036,    1047, 

io5C>,  1057,  1092 
Plutone,  220,  652,  940,  1036,  1095 
Polenta,  Francesca  da,  35 
Policarpo  di  Smirne,  santo,  824 
Policrate,  vescovo  di  Efeso,  655 
Policromo,  853 

Poliziano  A.,  165,  166,  11 27,  11 62 
Polluce,  941,  944,  951 
Pomba,  editore,  xxix 
Pompeo  Magno,  Gn.,  661, 741, 759, 

760,  967,  1066 
Pomponazsci  P.,  1000 
Pomponio  S,,  53 
Pontieri  E.,  xxxvi 
Popajan,  vescovo  di,  viceré  del  Perù, 

130 
Pope  A.,  817,  992,  993>  994»  99» 
Porcinari  I<\,  99,  1x35,  1144 
lercio  Pesto,  procuratore  della  Giu- 
dea, 885 
Porfirio  di  Tiro,  453,  1034 
Porta  G,  U.  della,  1026 
Portocarrero  J.  F.,  marchese  di  AI- 

menarti  y  Palma,  136,  167,  177, 

557 

Portolano,  xxxo 

Porzio  F.,  51,  582 

Pomo  U  A.,  51,  52,  582,  583 

Positano  G,,  98,  155,  in6,  1x27 

lusitano  G.  JML>  vescovo  di  Ace- 
renza,  98,  102,  X97 

Possevino  A.,  748 

Poussines  P.,  xoy2 

Prats  Miquelot  de,  245 

Prcvcr  G.  B.,  xxv,  345?  79*»  792, 
794»  797 

Priamo,  756 

Priapo,  940,  944 

Prideaux  IL,  Box,  802,  963»  983 

Priscilliano,  vescovo  eretico  di  Avi- 
la,  803 

Priuli,  530 

Procacci  G.,  737 

Proccurante  G.,  99 


Procopio  di  Cesarea,  24,  $$>  395, 
398,  400,  4x0,  413,  414,  4x6,  417, 
423,  425,  712,  847,  1188 

Proculo  Giulio,  757,  758 

Prometeo,  941 

Prosdoce,  santa,  826 

Prospero  d'Aquìtania,  santo,  855 

Prospero  A.,  8x7 

Protasio,  vescovo  di  Milano,  693 

Pucci  \j.,  cardinale,  490 

Puiendorf  S.,  350,  795,  8io>  840, 
928,  95^ 

Puisserver,  1158,  1159,  1177 

Quadrato  Ateniese,  654 
Quintiliano,  M.  Fabio,  X012 
Quirino,  757 
Quiroga,  famiglia,  6x 
Quodvultdeo    (Quodvuldeo),    777, 

804,  805,  806,  808,  809,  810,  850, 

882 
Quondam  A.,  582 

Rabano  Mauro,  846,  855,  904 
Hachi,  re  dei  Longobardi,  432 
Radelchi  l,  duca  di  Benevento,  358 
Rade  vico  di  Frisinga,  449 
Radicati  di  Passerano  A.,  xxiv,  3,4, 

976,  983 

Raffaele,  arcangelo,  464 

Rainolds  J.,  666 

Rak  M.,  58 x 

Ramone,  X143 

Rapin  R.,  738 

Rato  y  Ottonelli  T,,  265,  $iHf  55 x 

Ravà  A.,  280 

Ravagnini  Vendramin  F.,  xxvm 

Ravaschiero  G.  lì,,  93,  98 

Rawlinson  R.,  186 

Raynaldi  <).,  vedi  Rinaldi  (). 

Ra/ja,  1090 

Rebecca,  837 

Reccaredo  I,  re  visigoto  di  Spagna, 
3#9,  393»  4*3 

Reccaredo  li,  re  visigoto  di  Spa- 
gna, 389 

Reeesvindo,  re  visigoto  di  Spagna, 
390 

Reeland  A.,  8ox,  802,  93 1,  972,  983 

Regali,  XX47 

Regi»  P.~S„  si 

Reichembergio,  49  x,  492 

Rernnon,  944 


INDICE   DEI   NOMI 


1225 


Renato  I  d'Angiò,  duca  di  Lorena, 
275 

Rcubcr  J.,  450 

Reuss,  archivio,  153 

Rcx  "W.,  106 1 

Rhodomann  L.,  204,  602,  607,  608, 
610 

Rialp,  marchese  di,  vedi  Perlas  de 
Vilhena  R. 

Ribaudengo  D.,  312 

Riccardi  F.  A.,  xn,  xin,  64,  6$,  78, 
97»  99,  100,  101,  102,  105,  106, 
120,  130,  131,  138,  139,  142,  205, 
353,  362,  363,  476,  584,  585,  625, 
1073,  1076,  1077,  11 14,  11 15, 
1116,  1117,  1118,  1119,  1120, 
1136,  1146,  1150,  1151,  1153, 
1156,  1157,  1185 

Riccardo,  arcivescovo  di  Canter- 
bury, 470 

Riccardo  I,  re  d'Inghilterra,  detto 
Cuor  di  Leone,  56 

Ricchieri  L.  (Celio  Rodigino),  271 

Ricci  M.,  956 

Ricciardo  F.,  74,  1128 

Riccioli  G.  B.,  1064,  1067 

Ricuperati  G.,  xxxv,  xxxvi,  41,  554, 
581,583,  584>  585,  586,  587,  588, 
589,  591,  598,  619,  638,  735,  739, 
747,  79i,  793,  797,  9*7,  9*8,  930, 
93*,  933,  953,  99°,  99*,  992,  994, 
1003,   1007,  1008 

Ridolfi  I\,  920 

Ricz  F.  di,  903 

Rigerico,  re  dei  Visigoti,  380 

Rinaldi  O.,  967,  969 

Rinaldo,  irate,  484 

Rinaldo  d'Este,  duca  di  Modena  e 
Reggio,  xv,  142,  511,  SS* 

Rinaldo  di  Montalbano,  869 

Rinierì  L,  53 

Rinucci  G.  B.,  51 

Riolan  J,,  1050 

Ripperda  J,  W.  van,  132 

Rispoli  G.,  xxxvi,  126 

Rittershausen  (Rittcrshusius)  K., 
22,  23,  411,  45o,  785 

Riva,  senatore  veneziano,  11 82 

Riva  3\1,  280,  508,  544 

Rivet  A.»  915»  916 

Roberto  d'Angiò,  re  di  Sicilia,  457 

Roberto  il  Guiscardo,  duca  di  Pu- 
glia, 159 


Rocca  A.,  499 

Rocco,  santo,  951 

Rocco  F.,  1159 

Rodano,  655 

Roderico,  391 

Rodolfo  il  Glabro,  686 

Roero  di  Cortanze  E.  T.,  io 

Rofrano,  marchese  di,  vedi  Capece 

G. 
Rogadeo  G.  D.,  356,  360,  361,  561 
Roger  J  ,  613,  614,  615,  802,  999 
Rolhn  Ch.,  734,  739,  959 
Romano,  esarca  di  Ravenna,  418 
Romeo  R.,  xxxv 
Romolo,  11 38 
Romolo,  fondatore  di  Roma,  736, 

74o,  755,  756,  757,  758,  77o,  1089 
Romolo  Augustolo,  imperatore,  30, 

397 
Rondelet  G.,  1018 
Ronzo  G.  B.,  1127 
Rosa  M.,  737 
Rossi  B.  de',  1137 
Rossini  R.,  xxxiv 
Rosso  C,  794 
Rota,  11 23 

Rota  F.,  267,  520,  527 
Rotari,  re  dei  Longobardi,  429, 430, 

432,  442,  566 
Rotemero,  figlio  di  Tcodorico   I, 

380 
Rousseau  J.-J.,  4,  953 
Rubi  y  De  Boxadors  J.  A.,  136,  250, 

251,  1179 
Ruelin,  abate,  325,  326 
Rufino  di  Aquileia,  655,  681,  813 
Rufo,  vescovo  di  Tessalonica,  721, 

722 
Rufo  di  Efeso,  1050 
Ruggero,  duca  di  Puglia,  159 
Ruggero  I,  conte  di  Sicilia,  56,  159 
Ruggero  II,  re  di  Sicilia,  450,  460, 

560,  570,  572,  573,  576 
Ruperto  Abate,   santo,   845,    846, 

864,  867 
Russo  A.,  49 
Ruzzini  C.  di  M.,  doge  di  Venezia, 

286,  518 
Rycaut  P.,  931,  983 

Sa  E.,  864 
Sabalelli  C,  17 
Sabatelli  I.,  15,  1124 


\z%h 


INDICI!   DUI    NOMI 


KabatelU  L.,  17 

Subatolli  M.,  is 

Sacchetti  V.,  1 157 

Sacco  B.,  429 

Sagredo  (}.,  982 

Sainthe-Marthe   I).   de,  920,  921, 

<)2Z,  923 
Sainte-Marthe  L.  de,  973 
Saintc-Marthe  S.  do,  973 
Salian  J.,  850,  851,  854 
Salmasio  C,  vedi  Saumaise  CI. 
Salomc,  872 
Salomone,  re  d'Israele,  603,  680, 

843,  853,  854,  855,  856,  857,  873, 

874,  1058,  1080,  1081 
Salvatorelli  L.,  xxxn,  xxxnr,  588 
Salvemini  Castiglioni  Ci.  F.,  902 
Satviano   di   Marsiglia,   383,   411, 

4*5,  1049 

Sai  viali  L.,  35,  36 

Samuele,  742,  875 

Sanchoz  G.,  854 

Sanchesc  T.,  900 

Sancio  Panna,  858 

Sancuniatone,  6 io,  883 

Sancy,  sieur  de,  vedi  Aubigné 
T.-A.  d' 

Sandco  F.,  489,  494,  498 

Sanfoliee  A.,  167 

Sanfelice  F.,  167,  477 

Sanfelice  C,  xxi,  130,  167,  168, 
rC)9,  170,  173,  174,  175,  i7">  *77> 
t78,  179,  180,  t8x,  182,  183,  186, 
273)  379»  291,  .W>  350,  3<>*.  3<Kh 
477»  47«»  479,  4^»  4*3»  5«7»  5  «  ». 
524,  525»  5»6»  54^,  549.  550» 
1104,  n6o,  1164,  xi  66,  1169, 
1170,  1172,  1190 

Sanfelicc  M.,  1131,  1148,  1153 

Sanson,  misaionario,  953 

Sansone»  843,  855,  873 

Sansovino  i<\,  982 

Santoro  I<\,  1135 

Santo  Stefano»  conte  di,  vedi  Hona- 
vide»  y  Aragón  3VL  do 

Sapegno  N.„  xxi,  xxxm,  8 

Saponara,  Di  Giovanni  e  lappata 
V.,  duca  della,  149,  150 

Sara,  876 

Sardano  M.,  1157 

SarpiP.,  36,  5x0,  5x1,  5x4»  54»»  54»» 
543»  $8* 

Sdstago  y  Murato,  C,  F.  de  Cor- 


doba, marchese  di  Agii  dar,  conte 

di,   136,  250,   1170 
Saturno,  940*  i°U 
Saul,  re  d'Israele,  1037 
Saumaise  CI.,  523,  68 1,  682,  692, 

697 
Savaron  J  ,  385,  388 
Save,  figlia  di  Adamo,  850 
Savoia,  casa,  puncipi,  3,  127,  737, 

1076,  no2,  il 88 
Savoia-Soissons    Kugcnio    di,    58, 

96,  ni,  U2,  113,  131,  136,  137, 

i.V)»  156,  157»  160,  r(>7,  176,  105, 

255>  326,  584,  =585,  (no,  640,  020, 

1075,    11 15,    1130,    ii37»    1146, 

X150,  1161,  1164,  1165,  1173 
Savonarola  (».,  xxxi 
Sax-Gottha,  vedi  Federico,  duca  di 

Saxe- Gotha 
Scaduto  F.,  xxxvi,  143,  152 
Scafnaburgensc,  vedi  Lamberto  di 

Ilonsield 
Scagliosi  M.,  476,  481 
Scaligero   G.  C.,   614,    616,    1060, 

1131 
Scansa  ().,  1123,  1 132 
Scevola,  G.  Muoio,  1087 
Sccvola,  Q,  Mucìd,  750 
Sehedius  K.,  960 
Schegkio  G.,  vedi  Dcgen  J. 
Scholstrute  li,  657,  665,  666,  678, 

682,  688,  689 
Schiller  J.f  49 x,  492,  685 
Sciupa  M.,  xxxvi,  93,   246,  347, 

248,  249,  afo,  2O5,  274,  1x79 
Schrattcnbach  K.  W.  II.,   1132 
Sebastiano,  santo,  951 
Sodelmuyr  J.J.,  83,  «175 
Selden  J.,  958,  950,  963 
Seli'm  I,  sultano  ottomano,  <>8x 
Selt'm  II,  sultano  ottomano,  <)Ht 
Sem,  596,  597,  598,  603,  849 
Semiramide,  leggendaria  regina  a«- 

Hira,  605 
Scino  Saxicu»  Diu«  Fidiua,  882 
Senatore  G,,  246 
Seneca,  L.  Amico,  4,  639»  640,  778, 

856,    1020,    1035,    1062,    X064, 

1084 
Sennert  I).,  6x4,  6x5,  6x6,  6x8 
Scrao  F.,  49 
Scrapionc,  Bantu,  655 
Serbellon,  vedi  Cerbellon 


INDICE   DEI    NOMI 


1227 


Sergio,  461 

Sergio,  monaco,  931,  977,  978,  980 

Senni  P.,  815 

Senpando  G.,  32,  1071 

Scronato,  prefetto  delle  Gallie,  383, 
384,  385 

Serra  Gaetano,  15 

Serra  Giulia,  15,  17 

Serra  D'Isca  R.,  vedi  Riccardi  F.  A. 

Serry  J.-H.,  907 

Sersc  1,  re  di  Persia,  600 

Sertorio  Q,,  1066 

Servio  Tullio,  re  di  Roma,  744 

Sessa  M.,  430,  431 

Sesto  Empirico,  34,  1048 

Seth,  849,  850 

Settembrini  L.,  40 

Settimio  Severo,  imperatore,  787 

Severino,  santo,  565 

Severo,  vescovo  di  Ravenna,  693 

Severo  L.,  imperatore  d'Occiden- 
te, 409 

Sfrondato  da  Siena  N.,  vedi  Gre- 
gorio XIV 

Shcrlock  P.,  857 

Sicardo,  principe  di  Benevento,  358 

Siccardi  M.,  308 

Sichard  J.,  428 

Sidonio  Apollinare,  santo,  24,  381, 
382,  383,  384,  385,  388 

Sifuentes,  vedi  Cifuentes 

Sigeberto  di  Gembloux,  387,  491 

Sigismondo  da  Venezia,  268 

Sigonio  C,  22,  419,  420,  429,  432, 
433,  434,  435,  43<>,  447,  454, 
458,  461,  567 

Silene,  883 

Silhouette  É.  de,  817,  996 

Silio  Italico,  1060 

Silvcrio,  papa,  413 

Silvestri  C.,  271,  272,  885 

Silvestro  I,  papa,  657,  679 

Simeone,  875 

Simeone,  vescovo  di  Gerusalemme, 

779 
Simmaco,  papa,  402 
Simmaco,  senatore,  416,  417 
Simmaco,  Q.  Aurelius,  1078 
Simon  R.  (Le  Sieur),  xvn,  xxi, 

xxiv,  587,  959 
Simon  Mago,  xxvi,  814,  882,  883 
Simone,  apostolo,  865 
Simone,  parente  di  Gesù,  650 


Simpliciano,  santo,  844 

Sinfuego,  vedi  Cienfuegos  A. 

Sinzendorff  Ph.  J.  L.  von,  cardi- 
nale, 99,  143,  144,  11 16 

Sinzendorff  Ph.  L.  von,  Gran  Can- 
celliere, 99,  116,  132,  143,  151, 
153,  154,  155,  156,  157,  209,  210, 
215,  226,  238,  1116,  1125 

Siricio,  papa,  721 

Sirmond  J.,  385,  681,  683,  694,  697, 
967 

Sisebuto,  re  dei  Visigoti,  389 

Sisenando,  re  dei  Visigoti,  389 

Sisifo,  223,  879,  1095 

Sisto  III,  papa,  719,  721,  725,  726 

Sisto  V,  papa,  209,  591,  905,  907, 
920 

Sisto  da  Siena,  841 

Sleidano,  vedi  Philippson  J. 

Smaragdo,  esarca  di  Ravenna,  418 

Socrate,  816,  856 

Socrate,  storico,  31,  411,  412,  656, 
661,  711,  724,  964 

Soffietti  G.,  271,  528 

Sofia  Carlotta,  regina  di  Prussia,  4 

Sofronia,  878 

Sofronio,  patriarca  di  Costantino- 
poh,  872 

Solanes  F.,  192,  197,  198,  1138 

Solaro  di  Breglio  G.  R.,  99,  308, 

734 
Solimano,  1069 
Solirnena  F.,  276 
Solino,    G.    Giulio,    1021,    1023, 

1025 
Solone,  448,  943,  1028,  1052 
Sorbière  S.,  804 
Soria  F.,  1176 
Souciet  É.,  1005 
Soulier  P.,  971 
Sozionc,  peripatetico,  io  11 
Sozomeno  E.,  31,  412,  698,  705, 

711,  964 
Spada  F.  A.,  584 
Spangenberg  C,  491 
Spanheim  E.,  439 
Spannagel  G.,  1073 
Speculatore,  vedi  Durante  G. 
Spelman  H.,  687 
Spencer  J.,  587,  595,  599,  605,  961, 

1081 
Spezzano,  duca  di,  1153 
Spiegel  J.,  450 


12ZH 


INDICI?   DKI    NOMI 


Spinelli,  famiglia,  70 

Spinelli  A.,  966 

Spinelli  Giovanni,  ig,  34,  40 

Spinelli  Giuseppe,  288,  1133 

Spinelli  l.,  contessa  di  Rovalino, 
47,  5**,  6r,  35-4.  113H 

Spink  J.  S.,   61  <j,  631,  647 

Spinola,  marchese,  1x47 

Spinoza  H.,  xvn,  xx,  xxm,  xxiv,  3, 
4»  5*>  5^i>  5**3.  5**6,  5**7i  602, 
6x9,  621,  634,  638,  639,  040,  64  1, 
736,  741,  748,  703,  816,  020,  030, 
044,  947»   993,   io8x 

Spendano,  vedi  Spondo  II.  do 

Sponde  II.  de,  968 

Stampa  G.  C,  292 

Stanislao  Lcszczynski,  226,  238 

Stefano,  patriarca,  707 

Stefano,  santo,  678,  833,  863 

Stefano  II,  duca  e  vescovo  di  Na- 
poli, 462,  4Ó7 

Stefano  IV,  papa,  450,  461 

Stefano  di  Perche  (Parato),  410 

Stegmann  A.,  738 

Stella  Pietro,  734,  735 

Stella  Pietro,  marchese,  163,  164, 
ri  32 

Stella  R.,  conte  di  Santa  Croce, 
X64,  xi 32 

Stephen  L.,  610,  643 

Stercorio,  vescovo  di  Cimosa,  693 

Sterpo»  I).,  247 

Steuco  A.,  403 

StiUingfleet  K.,  620,  688 

Stosch    l<\  W.,   620 

Straberne,  26,  204,  221,  222,  223, 
6ox,  602,  603,  604,  607,  608,  040, 
756,  866,  883,  042,  943,  998» 
1028,  1034,  1078 

Struvc  il  G,,  371,  446,  448,  449, 
493,  559,  $(&>  1077 

Stuart  J.  K,  K.  J.,  duca  di  Berwick 
e  di  Liria,  242,  244 

Studio,  corrispondente  di  sant'Am- 
brogio» 862 

Sturalo  L.,  xxxtr 

Stute  J.  P.,  923 

Sitarci  F.»  812,  876 

Sueur,  vedi  Lesueur  J. 

Sulpicio  Rufo,  Ser,,  752 

Sulpicio  Severo,  31,  656,  964 

Summonte  Ci.  A.,  358,  375 

Sura  Licinio,  vedi  Licinio  Sura 


Suttner  G.,  g<> 

Svetonio  Tranquillo,  G.,  22,  171, 
777»  851,  1011,  1013,  1020,  1043, 

1068,  1078 

Svilitila,  re  dei  Visigoti,  389 

V  aauto,  610 

Tacito,  P,  Cornelio,  22,  171,  204, 
733,  736,  738,  739,  74»,  753, 755, 
759,  761,  7<>2,  766,  770,  777,  778, 
807,  848,  973,  1013,  io  19,  1030, 
1035,  1036,  to(>5,  1060,  1071, 
1078,  1089,  rogo 

Talete  di  Mileto,  61  r,  6r2 

Talluri  IJ.,  1061 

Tamerlano,  sovrano  turco,  1064, 
1066,  io(>7 

Tancredi,  re  di  Sicilia,  56,  576,  577 

Tantalo,  223,  879,  1095 

Tanucci  R.,  284,  349,  350,  361,  363, 
571,  ti8o 

Tarasio,  patiiarea  di  Costantino- 
poli, 464 

Tarf?a,  vedi  Coscia  b\ 

Tarquinio  Prisco,  re  di  Roma,  xo88 

Tarquinio  il  Superbo,  re  di  Roma, 
161 

Tarsia,  principe  di,  150,  1174,  X177 

Tarsia,  principessa  di,  X50,  1:159, 
X174 

Tartarotti  G.,  xxiv,  54 

Taso,  nobile  longobardo  beneven- 
tano, 467 

Tasso  T.,  73,  629,  652,  878,  90X, 

1069,  1095,    1x51 

Tato,   nobile  longobardo  benven- 

tano,  467 
Teia,  re  degli  Ostrogoti,  398,  400 
Teiless-Girón  y  Guzmun  P.,  duca 

di  Osanna,   542 
Temistio,  614,  615 
Temistocle,  937 
Teocrito»  1085 
Teodato,  re.  degli  Ostrogoti,  400, 

566 
Teodelusa,  386 

Teodemiro,  re  degli  Ostrogoti,  394 
Teodolinda,  regina  dei  Longobardi, 

567 
Teodora,    imperatrice    d'Oriente, 

442 
Teodoreto  di  Ciro,  3*,  693,  694, 

724,  805,  847»  H54»  86 1,  964 


INDICE   DEI   NOMI 


1229 


Teodorico,  re  degli  Ostrogoti,  55, 
379,  384,  385,  386,  393,  394,  396, 
397»  398,  399,  400,  401,  402,  403, 
404,  406,  409,  411,  412,  413,  4H, 
416,  417,  559,  565,  566,  712,  1008 

Tcodonco  I,  re  dei  Visigoti,  380, 
384 

Teodonco  II,  re  dei  Visigoti,  380, 
381,  382,  384 

Teodoro,  vescovo  di  Efeso,  672,  674 

Teodoro  il  Lettore,  964 

Teodosio  I,  il  Grande,  imperatore, 
655,  704 

Teodosio  II,  imperatore  d'Oriente, 
23,  29,  31»  55»  57,  351,  386,  388, 
402,  409,  410,  427,  461,  669,  690, 
691,  701,  1192 

Teofane,  cronografo  bizantino,  436, 

437 

Tcofìlatto,  duca  di  Napoli,  462 

Teofilo,  giurista  bizantino,  18 

Teofilo  (di  Antiochia?),  655 

Terafì,  944 

Terenzio  Afro,  P.,  156,  199,  200, 
548,  1175 

Tertulliano,  Q.  S.  Fiorente,  224, 
229,  231,  651,  655,  678,  711,  714, 
775»  784»  785,  795,  801,  802,  803, 
804,  806,  811,  814,  821,  823,  828, 
829,  833,  836,  837,  838,  860,  873, 
882,  884,  1013 

Terzi  G.,  295,  5°8,  510,  527»  529, 
530 

Teseo,  813,  940 

Teti,  852 

Teti  S.,  1078 

Thomassm  L.,  460,  468,  839 

Thou  J.-A.  de,  186,  188,  582,  586, 
741,  931,  932,  985,  11 68 

Thyracus  I*.,  1093 

Tiberio,  435 

Tiberio  Claudio  Nerone,  impera- 
tore, 648,  74i,  759,  7<>i,  77o, 
851,  884,  1032,  1034,  1044,  1089 

Ticonio,  801 

Ticpolo  F.,  302,  509 

Tillemont  L,-S.  Le  Nain  de,  31, 

931»  934,  969 
Timoteo,  conte  goto,  387 
Timoteo,  vescovo  di  Efeso,  665, 

721,  722,  723»  834 
Tindal  M-,  xvn 
Tirino,  vedi  Le  Thiry  J. 


Tito,  imperatore,  22,  741,  761,  762, 
777,   779,    1010 

Tito,  vescovo  di  Creta,  664,  721, 
722 

Titone,  941 

Titone  V.,  xxxiv 

Tizio,  879 

Tizio  Anstone,  1086 

Tobia,  231 

Tocci  O.  S.,  42 

Tocco  C.  di,  vedi  Carlo  di  Tocco 

Toland  J.,  xvi,  xix,  xx,  xxi,  xxin, 
xxv,  4,  585,  586,  587,  588,  589, 
595,  602,  605,  607,  619,  639,  640, 
736,  737,  740,  74i,  743,  745,  748, 
761,  795,  796,  816,  922,  923,  927, 
929,  930,  93i,  932,  937,  942,  945» 
947»  961,  976,  983,  992,  993,  994, 
995»  998,  1000,  1005,  1061,  1070, 
1082 

Toledo  F.  de,  863 

Toledo  P.  de,  marchese  di  Villa- 
franca,  214 

Tolomeo  I  Sotere,  re  d'Egitto,  822 

Tolomeo  Claudio,  25,  1067 

Tornasóli  G.  F.,  739 

Tommaseo  N.,  37 

Tommasino,  vedi  Thomassin  L. 

Tommaso  d'Aquino,  santo,  812, 
906,  909 

Toppi  N.,  51,  1077,  11 57,  1162 

Torella,  principe  di,  vedi  Carac- 
ciolo di  Torella  A.  C. 

Torelli  F.,  571 

Torre  F.,  1143,  "57,  "S8 

Torres  A.,  xxxm,  42,  43,  89 

Torrismondo,  re  dei  Visigoti,  380, 
382 

Tosques  F.,  99,  11 16,  1123,  1152, 

1153 
Tosques  S.,  5,  6,   1123 
Tostado  Ribera  A.,  841,  854,  863, 

869 
Totila,  re  dei  Goti,  399,  400,  423, 

425 

Totone,  conte  di  Nepi,  458,  459 

Tozzi  L.,  49 

Traiano,  M.  Ulpio,  imperatore,  22, 
488,  762,  768,  776,  777,  779,  780, 
781,  783,  784,  785,  786,  787,  822, 
921,  922,  935,  948,  1034 

Trasmondo  II,  duca  di  Spoleto, 
433,  434 


23° 


INDICI?   DEI    NOMI 


"maone,  156,  213,  1175,  1176 

'muti  C).  F.,  247,  249 

'ria  G.  A.,  791 

^riboniano,  18,  386,  1011 

Vi  fon  e,  655 

>ifono  R.,  xxxvi 

'rissino  G.  G.,  36 

"ritemio  G.,  vedi  lleidenberg  I. 

Yittolemo,  941 

Vivulzio  A.  T.,  principe  di,  5,  8, 
262,  289,  301,  302,  304,  305,  306, 
307,  3**>  317,  322,  507,  508»  509, 
510,  5x1,  513,  514,  535,  554, 
X189,  1190,  1191 

Trivulssio  Pertusati  M.,  principes- 
sa di,  305,  306,  307,  308,  309,  310, 
317,  326,  339,  1188 

Trogo  Pompeo,  883 

Troise  B.,  74,  1128 

Troya  C.,  357,  4^9 

Tuano,  vedi  Thou  J.-A.  de 

L'ucci,  268 

Tucidide,  738 

Tulea,  re  dei  Visigoti,  389 

Tullia,  figlia  di  Cicerone,  1089 

Tullio  Tiro,  liberto  di  Cicerone, 
xoxx 

Tura  D.,  67,  1134,  1147,  11 92 

Turchi  F.,  739 

Turner  J.,  619,  620 

Turrettini  J.-A.,  xxm,  7,  315,  316, 
3x7,  318,  3x9,  323,  3^3»  334,  <)Z7, 
99X,  XX02 

rmxni  e,  560, 574 

Taetecs  G.,  X059 

Jghelli  F.,  X59,  4^7»  4^>  574,  575» 

973 
Jgo,  abate,  1136 
Jgolino,  vedi  Gherardesca  Ugolino 

della 
Jgolino  dei  Presbiteri,  559,  568 

JIÌ88C,  756,   851,   X0I2,    IO93 

Jlpiano,  777 

Jnncrico,  re  dei  Vandali,  380 

Uranio,  940 

Jrbano  lì,  papa,  157,  158,  159, 

x6o,  561 
Jrbano  VI,  papa,  1x7 
Jrbano  Vili,  papa,  X49,  496,  909 
Jrsacio,  vescovo  di  Brescia,  693 
LJsher  J.,  587,  665,  666,  8ox,  802, 

885,   97»,   973 


Vadilaus  K.,   1167 

Valdès  J.  de,  316 

Valente,  imperatore,  2<|,  411,  670, 

674,   724 
Valentimano,  cavaliere,  ri 6 
Valenl  intano    l,    imperai  ore,    674, 

712 
Valentimano   II,   imperatore,   386, 

402,  409,  457,  712 
Valentininno  111,  imperatore  d'Oc- 
cidente,  23,    55,   378,  402,   404, 

4x1,  690,  09 x,  697,  712,   1192 
Valentino,    eretico    gnostico,    808, 

810 
Valemmo,   I\   Licinio,  imperatore, 

787 
Valerio,  867 
Valerio  L.,  170 
Valerio  Massimo,  943,  io  io,  10x2, 

X028,  X030,  103O,  1086 
Valesio,  vedi  Valous  1 1. 
Valier  L,,  X72 
Valignani  F.,  marchese  di  Cepagat- 

li,  262,  264,  ti 84 
Valla  L.,  36,  270,  493,  1044 
Valletta  F.,  54 
Valletta  G.,  54,  55,  125,  356,  3<>*, 

5^2,  5^3»  79» 
Valletta  N.,  54 
Vallia,  re  dei  Visigoti,  380 
Valli«nieri  A.,  49,  X39,  267 
Valois  A.,  705 

Valois  II. ,  399,  4xr,  412,  705 
Valterio  G.,  864 
Vamba,  re  dei  Visigoti,  390 
Varchi  B.,  496 
Varenne  B.  de,  881 
Vario  A.,  63 
Varisco  G.,  886 
Varrone,  M.  'Terenzio,  750,  754, 

777,  H79,  946,  xoxo,  iox2,  X055, 

X085,  X13X 
Vartanian  A.,  633,  10x7 
Vasqueis  M.,  863 
Vatable  F.,  853,  854 
Vecchioni  M.  M.,  xxvnt,  83,  354, 

356 
Vega  A.,  875 
Vegeto,  452 

Venere,  60  x,  864,  889,  897, 940, 944 
Ventura  F.,  172,  1x07,  1x13,  XXX4, 

X122,    XX25,    XX33,   XX34,    KX3S, 

XX57,  XX63 


INDICE    DEI    NOMI 


1231 


Venturi  F.,  xxxv,  185 

Veremundo,  391 

Vctgiiio  1\,  858 

Vernerà,  contessa,  114 

Vcrne t  J.,  xvn,  xxii,  xxin,  xxvn,  7, 
3i4>  318,  319,  321,  322,323,324, 
334»  33<>>  338,  339,  895,  9^7,  99*, 
9<j2,  n  02 

Verniero  P.,  602,  638 

Verri  I\,  592 

Vespasiano,  T.  Flavio,  imperatore, 
22,  204,  761,  777,  779,  1036 

Vesta,  940,  941,  951 

Viano  C.  A.,  796 

Vicentini  G.,  85 

Vico  G.  B.,  18,  33,  34,  48,  220,  557, 
582,  740,  999,  n6x 

Vidanui  D.  V.  de,  288 

Vigezzi  li.,  xxxv,  589,  594,  595 

Vigneul-Marville,  vedi  Àrgonne  N. 

Vilhena,  J.  M.  F.  Pachcco,  mar- 
chese di,  duca  di  Kscalona,  39,  58 

Villani  C,  33,  76 

Villani  G.,  36 

Villani  P.,  xxxvn 

Villari  P.,  xxxi 

Villare  L.-IL,  duca  di,  242 

Villasor  J.,  conte  di  Montcsanto, 
97,  «9»  «55»  i^3,  164,  189,  196, 
238,  241,  250,  255,  1174 

Villettes  A.  de,  io,  791,  815,  949 

Vincenzo  da  Lórins,  903 

Vinnen  A.,  20,  21 

Virgilio  Marone,  P.,  23,  217,  611, 
616,  748,  752,  756,  772,  901, 
ioto,  ro43,  X045,  1054,  1085, 
1093,  1192 

Virginia,  763,  764,    109 1 

Virginio  L.,  764 

Visconti  (>.,  viceré  di  Napoli,  248, 

249,  362 

Vitagliano  LO.,  46, 47, 76,  77, 129, 
XS07,  1x29,  1149 

Vitellio  A.,  imperatore,  761 

Vitige,  re  degli  Ostrogoti,  400 

Vittcrieo,  re  dei  Visigoti,  389 

Vittore,  H.  Aurelio,  656 

Vittore  V.,  804,  805 

Vittorelli  A.,  864 

Vittorio  Amedeo,  principe  di  Sa- 
voia (futuro  Vittorio  Amedeo 
HI),  308,  733)734,735 

Vittorio    Amedeo    II    di    Savoia, 


re  di  Sardegna,    238,    475,    734 
Vives  I.  L.,  884,  1025 
Voet  J  ,  371 
Voct  P  ,  371 
Vogt  J.,  1077 
Volaterrano  Rafaello,  vedi  Maffeius 

Raphael  Volaterranus 
Vòlker  K  ,  934 
Volpicella  S.,  83 
Voltaire  (F.-M.  Arouet),  xxm,  895, 

957,  992 
Voorbroek  J.,   738 
Vopisco  Flavio,   1020 
Voss  G.  J.,  748,  784,  785,  824,  922, 

958 
Voss  I.,  824,  1022 
Vulcano,  610,  940,  941,  951 

Walramus,  492 

Watson  R.,  687 

Wendrock  G.,  vedi  Nicole  P. 

Wharton  H.,  973 

Whttby  D.,  794 

Willis  Th„  620 

Wolf  Ch.,  662,  665,  666,  689 

WolfF  G.,  437,  1034 

Woolston  Th.,  643 

Wurstiscn  C,  491,  492 

Wùrttemberg  E.  L.  von,  111 

Xylander,  vedi  Holtzmann  W. 

Zaccaria,  padre  di  Giovanni  Batti- 
sta, 648,  875 

Zaccaria,  papa,  459,  464,  469 

Zaccaria,  profeta,  860 

Zagedm  S.,  1009 

Zaleuco,  943,  1028 

Zamolxi,  943,  1028 

Zangari  D.,  41 

Zapata  J.  G.,  1109 

Zeno  A.,  99,  m,  189,  267,  326, 
362,  510,  noi 

Zenone,  imperatore  d'Oriente,  394, 

395,  396,  397,  398,  399,  7°7 
Zinzendorf,  vedi  Sinzendorff 
Zonara  G.,  31,  412,  436,  656 
Zor/À  M.,  271 
Zosimo,  papa,  690,  691,  721,  725, 

7*7 
Zotone,  duca  di  Benevento,  418, 

419,  420,  421,  422,  423,  424 
Zucchi  M.,  734,  735 


INDICE 

INTRODUZIONE  di  Sergio  Bertelli  XI 

1UBHOORAFIA  di  Sergio  Bertelli  XXVII 

VITA  DI  PIETRO  Gì  ANNONE 
{a  cura  di  Sergio  Bertelli) 

Nota  introduttiva  3 

VITA   DI   PIETRO   GIANNONK  SCRITTA  <IN  SAVOIA>  NEL  CA- 
STELLO   DI     MIOLANS    <DA    LUI    MEDESIMO    E    CONTINUATA 
NELLA   LIGURIA   NEL   CASTELLO  DI   CEVA> 
[  Proemio  |  13 

('M'itolo  primo.  [Anni  1676-1692]  15 

capitolo  secondo.  Anno  1694,  sotto  il  regno  di  Carlo  II  re  di 
Spagna  e  sotto  il  governo  del  conto  di  S.  Stefano  e  poi  del  duca 
di  Medina  Codi  viceré  18 

capitolo  terzo.  Anno  1701,  sotto  il  regno  di  Filippo  V,  re  di  Spa- 
gna, e  sotto  il  governo  dello  stesso  duca  di  Medina  Coeli  e  poi  del 
duca  d'Kscalona,  marchese  di  Viglicna,  viceré  39 

capitolo  quarto.  Anno  1707,  sotto  il  regno  del  re,  poi  imperadore, 
Carlo  VI,  e  sotto  il  governo  del  conte  Daun  e  cardinal  Gnmani,  e 
poi  di  nuovo  sotto  il  conte  Daun,  viceré  60 

capitolo  quinto.  Anni  1723  e  1724,  sotto  il  regno  dell'imperadore 
Carlo  VI,  e  sotto  il  governo  del  cardinal  Althan,  viceré.  -  Napoli 
e  Vienna  80 

capitolo  sesto.  Anni  1725,  1726  e  1727.  In  Vienna  123 

capitolo  settimo.  Anni  1728,  1729  e  1730.  In  Vienna  163 

capitolo  ottavo.  Anni  1731,  32  e  33,  In  Vienna  202 

capitolo  nono.  Anno  1734.  Vienna  e  Venezia  244 

capitolo  decimo.  Anno  1735.  Venezia,  Modena  e  Milano  279 

capitolo  DECtMOPUtMO.  Anni  1736  e  1737.  Ginevra,  Champéry  e 
castello  di  Miolans  3*8 

ISTORIA  CIVILE  DEL  REGNO  DI  NAPOLI 
(a  cura  di  Sergio  Bertelli) 

Nota  introduttiva  349 

DALLA  «ISTORIA  CIVILE  DEL  REGNO  DI  NAPOLI» 

Introduzione  365 

7« 


1234  INDICE 

Libro  TU  378 

cai*,  t.  De*  (roti  occidentali  e  delle  loro  leggi  380 

I.  Del  codice  d'Alarico  385 

hi.  Del  nuovo  codice  delle  legni  degli  Westrogoti  388 

cai»,  a.  De'  <  foli  orientali,  e  loro  editti 

1.  Di  Teodorico  ostrogoto,  re  d'Italia  394 
ti.  Leggi  romane  ritenute  da  Teodorieo  in  Italia,  e  suoi  editti 

conformi  alle  medesime  401 
ili.  La  medesima  polìtìa  e  magistrati  ritenuti  da  Teodorieo  m 

Italia  404 
v.  I  medesimi  codici  ritenuti  e  le  medesime  condizioni  delle 

persone  e  de*  retaggi  408 

vi.  Insigni  virtù  di  Teodorico  e  sua  morte  411 

Libro  IV 

cai»,  il.  Del  ducato  Beneventano  e  dì  Zotone  suo  primo  duca  418 

Libro  V  42<> 

1.  Leggi  di  Luitprando  430 

iv.  Origine  del  dominio  temporale  de'  romani  pontefici  in  Italia    432 
cai»,  v.  Leggi  de'  Longobardi  ritenute  in  Italia,  ancorché  da  queliti 
ne  fossero  stati  scacciati:  loro  giustizia  e  saviezza  441 

I.  Leggi   longobarde  lungamente   ritenute  nel  ducato   Bene- 
ventano, e  poi  disseminate  in  tutte  le  nostre  Provincie  ond'ora 

si  compone  il  Regno  453 

cai»,  ur/r.  Della  polttia  ecclesiastica  458 

II.  Monaci,  e  beni  temporali  466 

PROFESSIONE  DI  KEDE 
(a  cura  di  Sergio  Bertelli) 

Nota  introduttiva  475 

I)A(-LA  «PROFESSIONE  DI   KUDK»  483 

Articoli  primari  e  fondamentali  485 

RAGGUAGLIO 

DELL'IMPROVISO  K  VIOLENTO  RATTO  PRATICATO 

IN  VENEZIA  AD  ISTIGAZIONE  DB'  OKSUITI  K  DELLA 

CORTE  DI  ROMA  NELLA  PERSONA  DELL'AVVOCATO 

PIETRO  GIANNONE 

(a  atra  di  Sergio  Bertelli) 

Nota  introduttiva  507 

RAGGTJAUO    DKLL'IMPROVISO   K   VIOLENTO  RATTO    PRATI- 
CATO  IN  VKNKZIA  AD    ISTIGAZIONI*   DK>    OKSUITI   E  DKM.A 


INDICE  I235 

CORTE  DI  ROMA  NELLA  PERSONA  DELL'AVVOCATO  P.  G.,  IL 
QUAL  ESPOSTO  ALLA  RIVA  DEL  PO  IN  PAESE  DESERTO  E 
NEMICO,  FU  QUIVI  LASCIATO  SOLO  O  A  PERIR  DI  DISAG- 
GIO, OVVERO  AD  ESSER  PREDA  DE'  SUOI  FIERI  ED  IMPLA- 
CABILI nemici.  Colle  querele  del  medesimo  contro  gl'isti- 
gatori e  coloro  che  '1  commandarono,  ciecamente  eseguendo 
i  lor  perversi  ed  iniqui  consigli.  Helmstat,  A.  MDCCXXXV      513 


OSSERVAZIONI  CRITICHE 

SOPRA  L'HISTORIA  DELLE  LEGGI 

E  DE'  MAGISTRATI  DEL  REGNO  DI  NAPOLI 

COMPOSTA  DAL  SIG.RE  GRIMALDI 

(a  cara  di  Giuseppe  Ricuperati) 

Nota  introduttiva  557 

OSSERVAZIONI  CRITICHE  SOPRA  L'HISTORIA  DELLE  LEGGI 
E  DE*  MAGISTRATI  DEL  REGNO  DI  NAPOLI  COMPOSTA  DAL 
SIG.RE  GRIMALDI 

Dell1  Istoria  delle  leggi  e  de'  magistrati  del  regno  di  Napoli  563 

lib.  1.  Delle  leggi  e  de*  magistrati  romani  dalla  fondazione  di 

Roma  per  insino  alla  decadenza  dell'Imperio  564 
i-m.  11  565 
uh,  in.  Delle  leggi  e  magistrati  del  regno  di  Napoli,  dalla  co- 
ronazione di  Carlo  Magno  imperatore  fino  a  Corrado  il  Salico  567 
li»,  iv  568 
i.m.  v  570 
uh.  vi  576 

IL  TRIREGNO 
(a  cura  di  Giuseppe  Ricuperati) 

Nota  introduttiva  581 

DAL  «TRIREGNO» 

Libro  primo.  Del  regno  terreno 

PARTE  I.  In  cui  si  contiene  la  dottrina  degli  Ebrei,  palesataci  ne1  libri 
del  Vecchio  Testamento 

cai»,  iv.  Come  in  tutta  la  posterità  di  Noè,  donde  si  vuole  empita 
la  terra  di  abitatori,  si  fosse  mantenuta  la  stessa  credenza  e 


I236  INDICE 

concetto  che  si  ebbe  per  l'uomo  di  regno  terreno,  solo  eh  feli- 
citai o  miserie  mondane  e  lo  stesso  concetto  del  suo  essere  e 


503 


PAUTK  IL  DeWon'gmv  del  mondo  e  formazione  dell'uomo  •  sua  natura  e 
fine,  secondo  il  sentimento  de*  piti  gravi  e  seri  filosofi 

CAI»,  n.  In  che  gl'Egizi,  i  Greci  ed  altri  filosofi  facessero  consistei  e 
la  natura  dell'uomo,  e  come  fossero  dì  conforme  sentimento  con 
Mosc  che  uno  spirito  animava  l'universa  carne  sì  degl'uomini 
come  degli  animali  boi) 

cai»,  in.  Del  nuovo  sistema  di  Cartesio  intorno  alla  creazione 
del  mondo,  formazione  dell'uomo  e  natura  di  questo  spirito        (124 

Libro  secondo,  Diu.  rkc.no  cklkktk 
Introduzione  O48 

Libro  terzo.  Dia  rkuno  papali; 

PKRIODO  SECONDO.  Dalla  conversione  di  Costantino  M.  infitto  alla  mor- 
te dell' ìmperator  Giustiniano  il  Grande  e  pontificato  di  Gnyotio  Mastio    654 

cap.  11.  Come,  dopo  la  conversione  di  Costantino,  la  soprainten- 
denza  de*  vescovi  molto  piti  veloce  che  prima  corresse  verso  la 
dominazione,  per  l'autorità,  lustro  e  splendor  che  gli  diede,  e 
fosse  quindi  sorta  fra'  ministri  della  Chiesa  una  più  ampia  e 
maestosa  gerarchia  di  metropoliti,  primati  ed  esarehi,  owero 
patriarchi,  corrispondenti  a'  magistrati  dell'Imperio  656 

[cai»,  ni].  [Come  questa  nuova  polizia  della  Chiesa  si  adattasse  a 
quella  dell'Imperio,  secondo  le  diocesi  e  province  del  medesimo, 
alle  quali  furono  preposti  per  lo  governo  ecclesiastico  gli  esarchi 
e  i  metropolitani]  663 

cai\  iv.  I  capi  e  moderatori  di  quest'csterior  ecclesiastica  polizia 
erano  gl'imperatori  cristiani,  come  supremi  ispettori  da  Dio 
costituiti  per  averne  cura  e  protezione  698 

cai»,  v.  Come  nel  V  e  VI  «ecolo,  sotto  gl'altri  imperatori  cristiani 
successori  di  Costantino  Magno,  si  fosse  variata  quest'est erior 
polizia  per  i  favori  e  prerogative  che  i  medesimi  concedettero 
a  Costantinopoli  dichiarandola  «nuova  Roma»,  sede  e  capo 
dell'Imperio  d'Oriente,  pareggiando  per  conseguenza  il  suo 
vescovo  a  quello  dell'" antica  Roma»,  sede  dell'Imperio  d'Oc- 
cidente 702 

cap.  vi.  Delle  cagioni  dell'ingrandimento  del  vescovo  di  Roma, 
onde  distese  l'autorità  sua  esareale  sopra  altre  diocesi  e  Provin- 
cie d'Occidente  non  comprese  nel  vicariato  di  Roma  710 


INDICE  1237 

DISCORSI 

SOPRA  GLI  ANNALI  DI  TITO  LIVIO 

SCRITTI  DA  PIETRO  GIANNONE  GIURECONSULTO 

ET  AVVOCATO  NAPOLITANO  NEL  CASTELLO  DI  CEVA 

L'ANNO  1739 

(a  cura  di  Giuseppe  Ricuperati) 

Nota  introduttiva  731 

DISCORSI  SOPRA  GLI  ANNALI  DI  TITO  LIVIO  SCRITTI  DA 
PIETRO  GIANNONE  GIURECONSULTO  ET  AVVOCATO  NAPO- 
LITANO  NEL   CASTELLO  DI   CEVA  L'ANNO   1739 

Parte  I 

discorso  ni.  Della  franchezza  colla  quale  Livio  scrisse  delle  cose 
appartenenti  alla  religione  romana;  e  come  non  solo  intorno  al 
culto  de'  dii,  e  lor  vantati  miracoli,  ma  in  tutti  i  suoi  rapporti  ser- 
basse un'incorrotta  sincerità  di  fedele  istorico  e  di  profondo  e 
grave  filosofo  747 

I.  Per  ciò  che  riguarda  la  teologia  naturale  751 

II.  Per  ciò  che  riguarda  la  teologia  civile  755 
ni                                                                                                              758 

discorso  xii  ed  ultimo.  De'  mani  e  sepolture  de'  Romani  762 

I.  Conchiusione  di  questa  1  parte  770 

Parte  II 

discorso  xvn.  Per  quali  cagioni  in  discorso  di  tempo  fossero  state 
da'  Romani  proibite  a*  cristiani  le  loro  chiese  o  siano  unioni,  ri- 
putandogli collegi  illeciti,  e  procurato  di  abolirli,  e  come  dapoi 
per  Costantino  M.  la  religione  cristiana  fosse  stata  ricevuta  nel- 
l'Imperio 772 

APOLOGIA  DE'  TEOLOGI  SCOLASTICI 
(a  cura  dì  Giuseppa  Ricuperati) 

Nota  introduttiva  791 

DALLA  «APOLOGIA  DI?'   TEOLOGI   SCOLASTICI» 

Libro  I 

Al  molto  Rcv*  P,  Gio.  Battista  Prever  sacerdote  della  Congrega- 
zione  deW  Oratorio  di  S.  Filippo  Neri  di  Torino  797 

cai»,  ili.  Delle  ricerche  fatte  sopra  l'uomo,  sopra  la  natura  delle 
anime  umane,  loro  immortalità,  stato  doppo  la  morte  de'  corpi,  e 
resurexione  de*  medesimi  802 


I23<S  UNDICI* 

I  803 

II  S05 

III  808 

cai».  IX.  Dell'austera  morule  de1  Padri  antichi  815 

I.  Intorno  al  disprezzo  della  propria  vita  ed  annienta/ione  di 

se  «tesso  830 

II.  Si  commendano  le  femmine  e  spezialmente  le  verdini,  le  «pia- 
li, per  evitale  d'esseie  per  forza  violate,  prevengono  la  violenza 

con  darsi  per  se  medesime  morte  8.».j 

XII.  Si  condanna  la  tfiushi  chiesa  di  se  medesimo  e  tic'  propti  suoi 
beni  847 

IV.  Si  condannano  nell'umana  società  tutte  sorti  di  fiochi  e  di 
onesti  diporti:  tutto  ciò  che  a*  nosiii  sensi  esterni  può  recare 
innocente  piacere:  tutte  senti  di  abbigliamenti,  anche  nelle  lem- 
mine,  e  s'impongono  a'  ciistiani  altre  catene  e  rigori,  onde  per 
ammenda  eran  condennati  a  dui  e  e  pubbliche  penitente  8^0 

cai».  XI.  Delle  questioni  vane,  ridicole  e  curiose,  onde  «li  scrittoli 
de'  secoli  rozzi  ed  incolti  han  riempito  i  lor  volumi,  seguendo  la 
traccia  de'  Padri  antichi  8,}o 

I.  Questioni  sopra  il  Vecchio  Testamento  845 

li.  Sopra  il  libro  di  Giob  852 

ni  854 

iv  850 

cai»,  xii.  Delle  questioni  curiose  e  ridicole  «opra  il  Testamento 
Nuovo  850 

I.  Sopra  ì  Matfì  8(>6 

II.  Sopra  la  Verdine  Maria  e  S.  Giuseppe  86<> 
in.  Ricerche  sopra  Pilato,  <  Jiuda,  sopra  i  34  vecchioni  dell'Apo- 
calisse, Anticristo,  resurczione,  paradiso  ed  inferno                        873 

cai»,  xin  ki»  ui/rtMo.  Imperizia  ne'  Padri  antichi  d'istoria  e  di  cro- 
nologia emendata  da'  nuovi  scrittori  881 
n  885 

Libro  III.  /V  libri  di  S,  Affasti  no 

CM\  tu.  De*  rigoristi  888 

cai»,  m.  De*  gomoristi,  arnunian:  e  giunttemuti  000 

ISTORIA  DICI.  PONTIFICATO 
DI  GUKGORIO  MAGNO 
(a  cura  dì  Giuseppi1  Ricuperati) 

Nota  introduttiva  gì 5 

ISTORIA  OKI,  PONTIFICATO   M   OKUCKMMO  MAGNO 

Libro  IV 
cai»,  ultimo.  Che  ancor  <>#$  fr»  le  cobi*  desiderate  debba  riporsi 
un'esatta,  generale  e  compita  istoria  eedesiastieu  933 


INDICE  1239 

I.  Gentile  935 

II.  Intorno  alla  religione  giudaica  960 
in.  Istoria  della  Chiesa  cristiana  964 
iv.  Intorno  alla  religione  maomettana  976 
v  983 

L'APE  INGEGNOSA 

OVERO 

RACCOLTA  DI  VARIE  OSSERVAZIONI 

SOPRA  LE  OPERE  DI  NATURA  E  DELL'ARTE 

(a  cura  di  Giuseppe  Ricuperati) 

Nota  introduttiva  989 

DA  «L'APE  INGEGNOSA  OVERO  RACCOLTA  DI  VARIE  OSSER- 
VAZIONI  SOPRA  LE  OPERE  DI   NATURA  E  DELL'ARTE» 

Proemio  1007 

osservazione  v.  Sopra  la  minuta  gradazione  che  si  scorge  in  natu- 
ra tra'  viventi  ;  sicché  sovente  riesca  assai  difficile  di  porre  giusti 
confini  fra  l'uno  e  l'altro  genere  1014 

osservazione  x.  Che  la  religione  sia  propria  e  sola  dell'uomo,  la 
quale,  quando  non  sia  da  Dio  rivelata,  è  sempre  sottoposta  a 
vari  errori  ed  inganni 
1.  La  vera  religione  non  essere  che  la  rivelata  da  Dio  1027 

osservazione  xii.  Il  riso,  il  pianto,  il  sermone,  la  sagacità,  indu- 
stria e  l'accorgimento  non  essere  così  propri  dell'uomo,  sicché 
i  bruti  non  ne  abbiano  qualche  immagine,  ancorché  languida, 
debole  ed  imperfetta  1042 

I.  Intorno  al  sermone  1043 

II.  Sagacità,  industria  ed  accorgimento  1047 
osservazione  XIX.  Le  comete  niente  portendono  overo  presaggi- 
scono  o  di  bene  o  di  male,  quando  si  rendono  a  noi  aspettabili  1061 
I  1065 

osservazione  xxviii.  Delle  biblioteche 

in  1071 

osservazione  xl.  Del  concetto  ch'ebbero  del  nostro  morire  gli 
antichi  nell'età  vetuste  delle  quali  è  a  noi  rìmasa  memoria;  e 
come  dal  costume  degl'Egizi,  di  condire  e  con  molta  celebrità 
seppellire  i  loro  morti,  e  da'  fatti  magnanimi  di  uomini  grandi  e 
generosi  si  fosse  data  occasione  di  pensare  ad  un'altra  seconda 
vita,  che  a  questa  prima  succede  1079 

I  1088 

osservazione  ultima.  Che  innalzato  l'uomo  ad  un  più  sublime 
fine  nel  suo  stato  di  grazia,  non  dee  riputarsi  sol  terreno  e  mon- 
dano, ma  aspirare  doppo  la  presente  ad  un'altra  vita,  in  un  regno 
non  già  terreno  e  mortale,  ma  celeste  ed  eterno  1094 


1240  INDICI* 

LKTTKRK 

(a  cut u  di  Sergio  lìvrtt'IIi) 

Nota  introduttiva  noi 

MHTKRK 

1.        A  (lui lo  (Iiannono  •  Napoli  (Lubiana  28  maj^io  1733)  1100 

li.       A  Ciarlo  Ginnnone  'Napoli  (Vienna  12  tfiufmo  1723)  t  r  14 

ih.      A  Carlo  (iiannono  -Napoli  (Vienna  3  luglio  17-13)  1117 

iv.      A  Carlo  (iiannono  «Napoli  (Vienna  28  agosto  1723)  un) 

v.        A  Carlo  C iiannono  -Napoli  (Vienna  22  Gennaro  1724)  1125 

vi.      A  Carlo  (iiannono  -Napoli  (Vienna  20  Gennaro  1724)  1128 

vn.     A  Carlo  (iiannono  •  Napoli  (Vienna  24  jnuj-mo  1724)  1134 

vui.    A  Carlo  VI  •  Vienna  [novembre  1724I  1130 

IX.       A  Carlo  (iiannono  «Napoli  (Vienna  ir  novembre  1724)  XX42 

x,       A  Carlo  (Jiannono  «Napoli  (Vienna  23  tfiutfno  1725)  H48 

xi.      A  Carlo  (iiannono  ■  Napoli  (Vienna  25  agosto  1725)  n$z 

xii.     A  Carlo  Giannotto  -Napoli  (Vienna  24  agosto  1726)  1156 
XHi.    A  Carlo  Giannono  «Napoli  (Vienna  [ma  IVrebtoldsdorf | 

li  x<>  tfiutfno  1728)  noo 

xiv.    A  Carlo  Giannono  «Napoli  (Vienna  li  7  maj^io  1720)  1163 

XV.      A  Carlo  (iiannono  •  Napoli  (Vienna  li  8  ottobre  1720)  1 1 66 
xvi.    A  Ramon  de  Vilhcna,  murehewe  di  Periati  Uialp  -  Vienna 

[febbraio-marzo  1730"]  1160 
xvn.  Ad  Àlois  Thomas  Raimund  d'Harraeh  *  Napoli  (Vienna 

18  novembre  1730)  1171 
xvin.  A  Carlo  C iiannono  •  Napoli  (Vienna  (ma  Modlin^l  li  9  ago- 
sto 1732)  1174 
xix.    A  Ciarlo  (iiannono  «Napoli  ([Vienna]  A*  22  maggio  1734)  1178 
XX.     Ad  Adriano  Laiv/ina  y  Ulloa,  duea  di  I  nutria  «  Napoli  (Ve- 
nezia li  25  «etiombre  1734)  1180 
xxi.    Ad  Adriano  Lan/.ina  y  Ulloa,  duca  di  I /iurta  •  Napoli  (Ve- 
nezia li  0  ottobre  1734)  1 183 
xxn.  A  Cario  Vincenzo  Ferrerò  di  Roanio  d'Ormoa  *  Torino 

(Milano  li  18  novembre  1735)  n86 
xxm.  Ad  Alessandro  Teodoro  Trivufoiio  •  Venezia  (Ginevra  10 

marzo  1736)  n8o 
xxxv,  A  Carlo  (iiannono  •  Napoli  (Dal  castello  di  Cova,  li  13  no- 
vembre 1741)  xi 01 

INMOK  DKI   NOMI  1 1<)7 


IMPKKSSO   NHL   MKSK   IH   MCKMNRK   MCMLXX1 

DALLA  STAMPERIA   VALDONHGA 

DI   VKKONA