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ILLUMINISTI ITALIANI
Tomo i
OPKUK DI PIETRO GIANNONK
a cura di Sergio Bertelli e Giuseppe Ricuperati
Pietro Ciminone <> una Mìe personalità di maggior rilievo
nella storia politica e cultural/? del primo Settecento, La sua
latortst civile ebbe una fama europea e numerose edizioni
fino alla seconda metà ddV Ottocento. La grande fortuna
di quest* opera rischiava pero di fissare V immagine del Gian-
none alV impegno gìurisdtzionalistico. È quanto gli studi più
recenti hanno cercato di superare, ricostruendo V itinerario
del Napoletano, dal libertinismo erudito all'incontro col
deismo. IH tale esperimma momento fondamentale è il Tri-
regno, Ma sono interessanti altresì le opere del carcere, dove
il discorso viene in qualche tnodo attenuato^ sema però che
ne vadano persi i tratti essenziali. La presente raccolta do-
cumenta organicamente questa vicenda attraverso Sofferta
delle pagine pia significatiti di quasi tutte le opere, Accanto
alla Vita (data par intero e che b un po' la filigrana in cui
acquistano face e rilievo le scelte intellettuali)^ ai bratti del-
/'littoria civile» dd Triregno, dei Discorsi sopra gii Annali
ttì Tito Livio* deWlmirh del pontificato di Gregorio
Maglio, tfV una fotta presenza di inediti, come le pagine
tratte ffe//*Àpoiagia do* teologi scolastici (che è forse V opera
pia importante scritta in carcere), dalVApa ingegnosa (che
è l*ttttimu)% daW aspro $ drammatico epistolario. È così pos-
sibile percorrere V itinerario intellettuale, politico e religioso
in tutu k $U€ articolazioni, i$ma isolare un momento sin»
gala. &$ personalità «te mtrge da questa proposta non è
quindi solo quella del politico e giurisdmonalista^ ma so-
prattutto quella, autentica e tingolaret di un intellettuale
#k+ vim prùfmdùmtHU la crisi della coscienza religiosa
ture/pfo^ misvr andati cm la cultura che va da Spinosa a
Toland.
kansas city
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LA LETTERATURA ITALIANA
STORIA E TESTI
DIRETTORI
RAFFAELI' MATTIOLI • l'IETRO PANCRAZI
ALI-REDO SCIIIAFFINI
Volume 46 • Tomo I
ILLUMINISTI ITALIANI
TOMO I
OPERE DI PIETRO GIANNONE
ILLUMINISTI ITALIANI
TOMO I
OPERE
DI
PIETRO GIANNONE
A CURA DI
SERGIO BERTELLI
E GIUSEPPE RICUPERATI
c,v*^*-^
RICCARDO RICCIARDI EDITORE
MILANO ■ NAPOLI
TUTTI I DIRITTI RISERVATI • M.U RI0UT8 RKKBRVKD
PRINTBI) IN ITALY
ILLUMINISTI ITALIANI
TOMO I
OPERE DI PIETRO GIANNONE
INTRODUZIONE di Sergio Bertelli XI
BIBLIOGRAFIA di Sergio Bertelli XXVII
VITA DI PIETRO GIANNONE (a cura di Sergio Bertelli) 3
ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI (a cura di Sergio
Bertelli) 349
PROFESSIONE DI FEDE (a cura di Sergio Bertelli) 475
RAGGUAGLIO DELL' IMPROVISO E VIOLENTO RATTO PRATI-
CATO IN VENEZIA AD ISTIGAZIONE DE» GESUITI E DEL-
LA CORTE DI ROMA NELLA PERSONA DELL'AVVOCATO
P. GIANNONE (a cura di Sergio Bertelli) 507
OSSERVAZIONI CRITICHE SOPRA L'HISTORIA DELLE LEGGI
E DE» MAGISTRATI DEL REGNO DI NAPOLI COMPOSTA
DAL SIG.RE GRIMALDI (a cura di Giuseppe Ricuperati) 557
IL TRIREGNO (0 cura di Giuseppe Ricuperati) 581
DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO (0 cura di Giu-
seppe Ricuperati) 731
APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI (a cura di Giuseppe Ri-
cuperati) 791
ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO (a cura
di Giuseppe Ricuperati) 915
L'APE INGEGNOSA OVERO RACCOLTA DI VARIE OSSERVA-
ZIONI SOPRA LE OPERE DI NATURA E DELL'ARTE {a cura
di Giuseppe Ricuperati) 989
LETTERE {a cura di Sergio Bettolìi) noi
INDICE DEI NOMI 1197
INDICE 1233
INTRODUZIONE
INTRODUZIONE
Tre figure risaltano in modo particolare nel primo Settecento
italiano. Uomini della stessa generazione, con non pochi punti di
contatto tra loro. Nati negli stessi anni, scomparsi a poca distanza
l'uno dall'altro negli anni Cinquanta: Lodovico Antonio Muratori
(1676-1750), Scipione Maffei (1675-1755), Pietro Giannone (1676-
1748). Essi attinsero, indipendentemente l'uno dall'altro, alle stesse
sorgenti la propria metodologia storica (e Muratori, come Gian-
none, partì da un'esperienza giuridica, prima di approdare alla
ricerca storica). Ciascuno nel proprio ambiente e tutti insieme nel
più ampio teatro italiano, svolsero una decisa opera di sprovincia-
lizzazione della cultura italiana, inserendola nel dialogo europeo.
Ognuno da posizioni proprie e peculiari, ma, in sostanza, con stima
reciproca capace di far superare momentanei dissensi tra loro, con
un impegno riformatore che andò ben oltre le giovanili posizioni
giurisdizionalistiche.
(Come non ricordare, a questo proposito, quella sincera lettera
di Lodovico Antonio Muratori a Maffei, col quale s'era trovato in
disaccordo - un disaccordo motivato da considerazioni d'opportu-
nità politica - sul problema della magia? Maffei non s'era limitato
a negare l'esistenza delle streghe; aveva attaccato ogni forma di
superstizione, senza curarsi se, demolendo il soprannaturale, avreb-
be potuto essere accusato d'eresia, inficiando la battaglia che si
stava conducendo per salvare delle vite umane dal rogo. Muratori
non aveva avuto questo ardire e nell'ultima sua lettera all'amico,
prima della morte, ne aveva riconosciuto il coraggio: «Siete en-
trato ancor voi nell'opinione della non magia. Non vi prendiate
fastidio s'io l'avessi tenuta, è, perché io non sono stato animoso co-
me voi. Le Sacre Scritture mi fanno paura; e giacché nulla è stato
proibito finora del mio, non vorrei, che fosse neppur da qui avanti.
Di miglior guscio siete voi, che io; per me poco importa, che la
finisca in breve ... ». Oppure, come non ricordare il pacato giudizio
sulla vicenda giannoniana, espresso a Costantino Grimaldi nell'apri-
le del '23 ? : « Agl'ingegni focosi e liberi di Partcnope si dee condona-
re qualche verità detta a visiera calata». 0 il commento dopo la let-
tura della risposta giannoniana al padre Sebastiano Paoli: «... quel
benedetto Vesuvio mette un gran fuoco in voi altri signori»?).
Xtt INTRODUZIONE
Tre uomini, in qualche modo legati Timo all'altro in una stessa
battaglia (Muratori accorrerà a salutare Giannone in fuga, non ap-
pena a conoscenza del suo passaggio per Modena, informandolo dei
nuovi attacchi che si tramavano contro Y Istoria civile. Quanto al
Maffei, non fu certo un caso se nel suo palazzo di Verona trovò
ospitalità Alessandro Riccardi, uno dei maggiori esponenti del giu-
risdizionalismo napoletano, nel '27). Una stessa battaglia, che ap-
prodò alla lotta contro la molteplicità delle feste religiose e per una
devozione più «regolata» in Muratori (roso ora anche dal dubbio
di fronte alla filosofia del Locke); per affermare la forza della ra-
gione nella polemica sulle lammie e sulla magia, il Malici; per esal-
tare e proporre una nuova storia della religione, alle soglie del
deismo, il Giannone.
Di estrazioni sociali diverse, approdarono insieme alla stessa cul-
tura, si aprirono airilluminissmo apportandovi il loro non trascu-
rabile contributo, conquistandosi tutti fama europea. Di famiglia
contadina il Muratori; nobile di Terraferma il Mafici; figlio d'un
povero speziale il Giannone. E mentre il MafTei seppe ironizzare
sui costumi della sua classe col Della scienza chiamata cavalleresca,
il figlio di contadini seppe rifiutare il vescovado per mantenere
quella libertà che gli assicuravano i duchi d'Este. Quanto al Gian-
none, il quale aveva conosciuto l'onore della carica di «Avvocato
della città di Napoli», anch'egli seppe mantenere la sua indipen-
denza intellettuale, pur nelle angustie e nei disagi dell'esilio e,
ancora più tardi, nel chiuso del carcere.
In queste tre biografie si rispecchia tutto il primo Settecento
italiano: dalla reazione all'Arcadia sino all'aprirsi del moto rifor-
matore. Vi sono le battaglie per la fondazione di un « buon gusto »
contro l'irrazionale barocco, la fondazione d'una nuova storiogra-
fia «civile» secondo l'indicazione baconiana, la ricerca d'una nuova
metodologia sull'esempio dell'erudizione di Saint-Maur, la riven-
dicazione d'un più libero impiego del danaro senza più remore
religiose, la lotta contro il «voto sanguinario)) dei Gesuiti (cioè
l'offerta di offrire il proprio sangue per sostenere l'immacolata con-
cezione di Maria) e per una più moderna religiosità, la denuncia
del danno che arrecavano all'economia le troppe festività religiose,
la battaglia contro le credenze superstiziose e, soprattutto, contro
i processi per stregoneria, la rivendicazione, infine, d'una religione
più pura e svincolata dalle tante superfetazioni che, nel corso dei
INTRODUZIONE XIII
secoli, si erano sviluppate sul nucleo originario della Parola di-
vina.
In questa continua, caparbia lotta per la diffusione dei lumi
Muratori e Maffei ebbero un enorme vantaggio su Giannone : quel-
lo di poter incidere sulla società e sulla cultura settecentesche lungo
tutto il corso della loro vita. Una possibilità che fu invece negata
a Giannone, che i contemporanei conobbero solo per i suoi scritti
giurisdizionalistici. Nei confronti di Muratori, inoltre, Giannone
ebbe almeno due svantaggi: di giungere con la sua opera troppo
tardi rispetto al momento politico-diplomatico e di non avere alle
spalle un principe protettore interessato alla sua battaglia giurisdi-
zionalistica.
La polemica nei rapporti tra Stato e Chiesa s'era aperta nel pieno
della guerra per la successione al trono di Spagna e aveva conosciu-
to il suo acme con l'occupazione delle valli di Comacchio (passate
sotto sovranità pontificia con la devoluzione del ducato di Ferrara
nel 1598, ma rivendicate come possesso imperiale e quindi distinto
dal ducato ferrarese). Tra il 1708 e il 171 2 Lodovico Antonio Mu-
ratori fu il grande polemista, il difensore dei diritti imperiali ed
estensi contro Roma. Contemporaneamente, un secondo fronte giu-
risdizionalista s'era aperto nel regno di Napoli dove, tra il 1707 e il
1708, era viceré austriaco quello stesso conte Philipp Lorenz Wicrich
von Daun che avrebbe proceduto all'occupazione delle valli comac-
chiesi. Anche a Napoli, dove gli imperiali miravano a strappare a Ro-
ma il riconoscimento di Carlo d'Absburgo quale re di Spagna e la
concessione in feudo del regno di Napoli, si erano trovati motivi
d'attrito con Roma nella collazione dei benefìci ecclesiastici, riven-
dicati ai soli «nazionali». In questa polemica s'erano impegnati i
giuristi della cerchia di Gaetano Argento: Alessandro Riccardi,
Costantino Grimaldi oltre alio stesso Argento, Una cerchia alla
quale appartenne anche Pietro Giannone, il quale parti da quel-
l'esperienza di lotta contro Roma per affrontare un riesame globale
della storia del Regno.
Anche se l'autobiografia non lo ricorda, è impossibile che non
vi fosse, alla base, una conoscenza delle ricerche muratoriane sul
medioevo barbarico. La disputa sulle valli di Comacchio fu, del
resto, cosi celebre (vi intervenne persino il Leibniz a sostegno del
Muratori, assieme a molti altri storici e giuristi germanici) e durò
così a lungo che non potè certo essere ignorata a Napoli da uomini
XIV INTRODUZIONE
che, per giunta, si tro vii vano dalla stessa parte della barricata, erano
in corrispondenza epistolare (come il Grimaldi appunto) col mag-
gior campione di quella disputa storico-politico-diplomatica. La
stessa ricerca, così attenta in Giannone, delle origini longobardo-
beneventane del Regno, ha troppi punti di contatto con l'analisi
del regno longobardo compiuta dal Muratori in relazione alle ori-
gini della casa d'Kste e al titolo dei suoi possessi (il primo volume
delle Antichità estensi apparve nel 1717, ma già nei testi della pole-
mica comacchiesc si possono trovare i primi risultati delle ricerche
muratoriane), perché non sia lecito pensare ad una conoscenza
dell'opera muratoriana da parte del gruppo dell'Argento, Postulare
una discendenza comune da Huig van Groot non è sufliciente.
Tanto più che fu Muratori, nel vivo della polemica, a riaprire il
discorso machiavelliano sulla distorsione provocata nella storia ita-
liana dalla scomparsa del regno longobardo. Un tema al quale non
fu certo insensibile Giannone.
Comacchio, dunque, e la disputa de re beneficiaria furono alla
base dell'impresa giannoniana. Impresa nata da discussioni colletti-
ve e con propositi ben chiari di azione politica, come si dirà nell'in-
troduzione alle pagine dell' istoria civile. Senonché l'arma del giu-
risdizionalismo era stata usata da Vienna per premere su Roma,
al fine di ottenere concessioni ben precise e delimitate. L'impera-
tore Giuseppe I, colui che aveva scatenato la lotta, scese nella
tomba troppo presto, nel 1711, per legare al suo nome quel movi-
mento riformatore che fu detto «giuseppinismo» dal nome non suo,
ma d'un suo discendente. Quanto a Carlo, ora divenuto VI del
titolo imperiale, o egli non fu della tempra del fratello o bisogna
riconoscere che la nuova situazione europea gli impose una diversa
condotta. Non per nulla prolungò l'occupazione di Comacchio sino
a che, di fronte alla necessità d'assicurarsi il riconoscimento della
«Prammatica sanzione», non si vide costretto a liquidare ogni pen-
denza con Roma. Ecco perche, in questo nuovo quadro, sarebbe
stato scelto quale viceré di Napoli, nel 1722, un cardinale; Frie*
drich Michael dei conti di Althannl Un gesto pacificatore che rap-
presentò» anche, la fine della polìtica degli anni precedenti.
AlFarrivo del nuovo viceré V Istoria civile non era stata ancora com-
piuta. Se ne era iniziata la stampa, sul principiare dell'anno avanti,
in modo quasi clandestino, nella casa di campagna dell'autore a Po-
sillipo, quando mancavano ancora cinque libri al suo compimento.
INTRODUZIONE XV
Ancora sulle bozze il testo veniva ripulito e messo in miglior italia-
no da Francesco Mela (cfr. quanto lo stesso Giannone riferisce
neir autobiografia in proposito); sicché può ben comprendersi co-
me, in quelle condizioni, fossero occorsi ben due anni a stampare
i quattro tomi! Quando finalmente Y Istoria civile vide la luce si era
nel marzo del 1723. Il clima era ora ben diverso da quello in cui
l'opera era stata concepita. Erano ormai più di undici anni che Mu-
ratori aveva chiuso per parte sua la polemica giurisdizionalistica,
con la Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi sopra la città dì
Comacchio (Modena 171 2). La protezione del duca Rinaldo lo ave-
va assicurato (lui prete) dalle censure ecclesiastiche e la fama con-
quistata gli permetteva adesso di continuare a scavare in quella
storia medioevale che sarebbe stata, d'ora in poi, il suo gran cimen-
to, portando avanti le intuizioni storiografiche abbozzate nel fuoco
della polemica comacchiese. Ma l'apparizione àéiY Istoria civile, nel
1723, giungeva al contrario quanto mai inopportuna, fuori tempo.
Fosse apparsa nel pieno del contrasto tra Vienna e Roma, 0 almeno
qualche anno prima dell'arrivo del cardinale Althann, ben altra
sorte sarebbe toccata al suo autore. Ora, pur se l'ambiente dei giu-
risti napoletani reagì favorevolmente ad essa e riuscì a far nominare
Giannone «Avvocato della città di Napoli», il gesto non fece che
vieppiù imbarazzare il nuovo viceré, il cui compito era, al contra-
rio, proprio quello di seppellire l'ascia di guerra del giurisdiziona-
lismo e di tentare il riawicinamento con Roma. La gloria raggiunse
così il figlio dello speziale pugliese accompagnata dalla persecu-
zione, dai disagi dell'esilio, anziché dall'agiatezza sino ad allora ap-
pena intravista e subito perduta.
Anche dai suoi amici, dagli uomini della sua cerchia egli sarebbe
stato ben presto abbandonato, quando questi capirono quale fosse
la nuova politica imperiale. I giuristi, i paglietta, il ceto forense
napoletano aveva creduto nel giurisdizionalismo finché aveva in-
travisto, in quella battaglia, la possibilità di rodere il potere del
foro ecclesiastico nel Regno. Ben pochi - Giannone, alcuni suoi più
intimi amici - ne avevano fatto una battaglia ideale, che trascen-
deva la politica contingente dello Stato assoluto. La persecuzione
romana e, nello stesso tempo, lo sfaldamento del vecchio «partito»
di Gaetano Argento costrinsero così Giannone in un'autodifesa e
in una battaglia politica che lo impegnarono a lungo sui temi del
giurisdizionalismo, impedendogli - almeno sino al 1731-1732 - di
affrontare quei problemi di più ampio respiro sulla storia delle
religioni, che nell'Istoria erano appena sfiorati. Problemi sui quali,
invece, egli s'era prestissimo fermato, sin dagli anni giovanili, sotto
l'influsso del suo maestro, Domenico Aulisio.
«Cominciai nella villeggiatura di quest'anno [173 1] ad applicar-
mi a studi, che fosser drizzati unicamente alla cognizione di me
stesso e della condizione umana, della quale io era vestito, e ripi-
gliare i miei tralasciati studi di filosofia, e col soccorso dell'istoria
d'investigare più da presso la fabbrica di questo mondo e degli anti-
chi suoi abitatori ... ». Ma un nuovo impegno politico, la questione
di Benevento, lo staccò ben presto da quelle sue ricerche, ripor-
tandolo ancora una volta alla battaglia giurisdizionalistica. Ritor-
nato a distanza di un anno ai suoi nuovi studi, gli sconvolgimenti
provocati dalla guerra di successione per il trono polacco, nel 1734,
avrebbero ributtato Giannone nel mare di sofferenze e di stenti e
l'approdo sarebbe stato, questa volta, la prigione a vita. Così il
grande impianto d'una storia della religiosità dagli antichi sino alla
Controriforma rimase incompiuto, né il nuovo messaggio gianno-
niano raggiunse mai i suoi contemporanei. Nei due anni di lavoro
nella quiete dei boschi che circondano Vienna e poi grazie all'ospi-
talità veneziana del senatore Angelo Pisani, l'opera era tuttavia
cresciuta sino alla moie di tre grossi volumi in quarto (si veda la
copia oggi alla Biblioteca Marciana di Venezia!) e il discorso storico
condotto sino all'età costantiniana inclusa. In molte parti prolisso,
in tante altre ancora da dirozzare, da limare, troppo spesso compo-
sto alla maniera dell'Istoria - con intere pagine tratte di peso dalla
bibliografia dalla quale dipende -, anche così il Triregno avrebbe
rappresentato una grande tappa nella religiosità settecentesca, se
avesse potuto circolare, anche manoscritto, così come circolarono
manoscritte tante altre opere giannoniane.
Il secolo si era aperto all'insegna dell'incertezza e una grande
crisi della religiosità europea era in atto. Nel 1695 John Locke
aveva pubblicato The Reasonableness of Christianity, l'anno stesso
in cui aveva cominciato ad apparire il Dictionnaire historique et cri-
tigne (1695-1697) di Pierre Bayle, gran miniera del pensiero liber-
tino. Nel 1696 John Toland aveva dato alle stampe il suo Christia-
nity not Misterious aprendo la strada al deismo. Nel 171 3 Anthony-
Collins avrebbe difeso la libertà di pensiero col suo Discourse of
Free Thinking, Occasioned by the Rise and Growth of a Sect Called
INTRODUZIONE XVII
Free-Thinkers; mentre proprio Tanno avanti l'inizio dei nuovi studi
giannoniani, nel 1730, Matthew Tindal dava alle stampe il suo
Christianity as Old as the Creation, or the Gospels, a Republication of
the Religion of Nature, che fu la vera bibbia del deismo. A queste
forme estreme di attacco alla religione cristiana (cattolica o anglica-
na o luterana 0 calvinista che essa fosse) si affiancavano una lunga
serie di studi sui Vangeli e sulla Chiesa primitiva. La strada ad essi
era stata aperta da Spinoza col Tractatus theologico-politicus (1670)
e su di essa si erano posti in tanti, seguaci e avversari, tutti comun-
que costretti a seguire il suo razionalismo storicistico. Da Jean Le-
dere a Richard Simon e Pierre-Daniel Huet, Louis Ellies Du Pin,
Joseph Bingham, per citarne solo alcuni. L'opera giannoniana mi-
rava, nel suo grandioso impianto, a dare un immenso affresco del-
l'evolversi delle credenze religiose, riprendendo tutta la letteratura
contemporanea. Il soggiorno viennese, con il facile accesso alla
Biblioteca Palatina, somministrava a Giannone i testi eterodossi e
non, necessari all'impresa. La vicinanza e l'aiuto di amici quali Pio
Niccolò Garelli, Nicola Forlosia, Bernardo Andrea Lama e la cer-
chia libertina della corte del principe Eugenio avevano assicurato
la maturazione del progetto giannoniano, così come, in un tempo
ormai lontano, l'atmosfera dell'Accademia dei Saggi, riunita a Na-
poli attorno a Gaetano Argento, aveva esercitato l'arte sua maieu-
tica per la nascita dell'Istoria civile.
Quando improvvisamente Giannone venne arrestato da agenti
sabaudi a Vezenaz, un voluminoso manoscritto dell'opera incom-
piuta restò nelle mani del pastore calvinista Jacob Vernet. Questi
ebbe contatti con un libraio-editore per cercare di stamparla, Jac-
ques Barillot di Ginevra; ma giunto in possesso del manoscritto,
il Barillot preferì consegnarlo all'Inquisizione romana, non senza
il consenso delle stesse autorità ginevrine. Ai calvinisti, evidente-
mente, l'opera non doveva piacere per il suo sapore deista, né la
Compagnia dei Pastori amava più urtarsi con Roma. Così, autogra-
fo e apografo del Triregno finirono entrambi sepolti negli archivi
sabaudi e romani. L'autografo del Regno celeste^ per la verità, si
salvò da questo naufragio, e da esso furono tratte alcune copie, due
delle quali giunte sino a noi. Non solo, ma una copia integrale del-
l'opera, per vie sconosciute, capitò nel 1768 in mano all'editore
veneziano delle così dette Opere postume) mentre un certo M. C.
de Samnitibus aveva la possibilità di copiare per suo conto l'intero
testo del Triregno a Napoli, nel 1783. Né questo ò tatto, perche
sappiamo che l'opera era conosciuta nell'ambiente del cardinale
Neri Corsini a Roma, dove si provvide a farla copiare assieme ad
altre opere minori giannonianc. Non può dunque affermarsi che
la caccia data al Triregno da Carlo Emanuele di Savoia e dall'In-
quisizione romana avesse davvero raggiunto lo scopo di impedire
la sua diffusione. Con tutto ciò, l'opera non conobbe ugualmente
quella circolazione, sia pure latomica, che conobbero altre opere
polemiche giannonianc, diffuse in innumerevoli copie manoscritte.
Non che ostasse la sua mole, tale certo da impegnare seriamente la
fatica di qualsiasi amanuense. La sua prolissità ? Può anche darsi.
Ma molto più probabilmente, una volta ancora, le pagine gianno-
nianc giungevano in ritardo. A oltre trent'anni dal suo sequestro,
il Triregno capitò nelle mani del tipografo-editore veneziano Giam-
battista Pasquali, eppure questi non ritenne di pubblicarlo. Molto
probabilmente giudicò la sua tematica sorpassata. L'autografo del
Regno celeste risultava a Napoli quando l'abate Leonardo Fanzini
stese la sua biografia del Giannone (1765 circa). Ebbene, anche da
esso non ne discesero che ben poche copie, come s'ò detto, un
numero davvero irrilevante, se paragonato alla quantità di copie
che figliò un altro testo, certo non meno eterodosso, quale la Pro-
fessione di fede, vivente il suo autore e ancora più tardi.
Bisogna dunque concluderne che il Triregno^ in trent'anni, era
così invecchiato da non invogliare copisti e tipografi. In effetti,
esso avrebbe sicuramente esercitato un'azione dirompente sulla cul-
tura italiana degli anni Trenta; ma tra il 1765-1768 e il 1783 ben
altri erano i problemi che agitavano l'Italia. Nell'inverno del 1754
Antonio Genovesi era salito sulla cattedra di « meccanica ed ele-
menti di commercio». Tra il 1764 e il 1765 erano usciti i numeri
del «Caffè» e nel 1764 Cesare Beccaria aveva pubblicato il suo
Dei delitti e delle pene. Non solo, ma proprio nel 1763 Iustinus
Febronius (Johann Nikolaus von Honthcin) aveva pubblicato il suo
De stata Ecclesiae, riaprendo il dibattito giurisdizionalistico, conte-
stando il primatus potestatis pontificio. Pietro Giannone tornava
attuale per i suoi scritti giurisdizionalistici, non per i suoi studi di
storia religiosa. La sua fama restò così legata ad un momento della
sua vita. Essa si diffuse in tutta Europa (Edward Gibbon fu un
suo entusiasta lettore), ma lo rese anche un autore monocorde,
quale sicuramente non era. Tant'è vero che l'analisi dell'evolversi
INTRODUZIONE XIX
del sentimento religioso nei popoli occidentali fu quella che lo
attrasse maggiormente, anche nella prigionia. Tagliato fuori dal
dialogo coi suoi contemporanei, privato del manoscritto di quella
che avrebbe dovuto divenire l'opera sua maggiore, egli tornò in-
sistentemente su temi di storia delle religioni. Una prima volta, nel
carcere di Miolans, servendosi di Tito Livio. Più volte ancora, in
futuro, approfittando dei testi che gli fu possibile reperire.
È sintomatico che un'opera come i Discorsi sopra gli Annali di
Tito Livio, che così da vicino ricalca nel suo titolo il commento
machiavelliano alle deche, sia al contrario tanto lontana dal pen-
siero del Machiavelli. Per Giannone non v'è un problema di arte
di governo, da comprendere e da sviscerare. I capitoli che lo inte-
ressano sono quelli in cui Livio parla della religione dei Romani.
Non per nulla il modello cui si rifa è V Adeisidaemon, sive Titus
Livius a super stitione vindicatus di John Toland! Siamo ancora nel-
l'ambito della disputa spinoziana, nella sfera del Tractatus theolo-
gico-politicus; stiamo risalendo alle origini della religiosità umana,
sulle orme dei deisti inglesi.
Terminati i Discorsi nel 1739, subito Giannone avrebbe posto
mano ad un'altra opera, questa volta esemplandola sul Traiti de la
morale des Pères (1728) di Jean Barbeyrac: V Apologia de' teologi
scolastici. Apologia degli scolastici, perché non a loro, ma agli stessi
Padri della Chiesa va imputata la corruzione del primitivo cristia-
nesimo! Sono, ancora una volta, i temi del Triregno e non a caso
V Apologia venne interrotta, all'altezza del settimo libro, per ri-
prendere e quasi continuare l'incompiuto Regno papale con l'Isto-
ria del pontificato di Gregorio Magno.
Tutti questi lavori, che ci mostrano un Giannone così diverso
da quello più universalmente noto dell'Istoria civile, rimasero se-
polti negli archivi del suo carceriere, Carlo Emanuele. Essi non
ebbero nemmeno la sorte del Triregno che, ricopiato su ordine del
re e poi inviato al cardinale Alessandro Albani perché a sua volta
lo consegnasse al Sant'Uffizio, ebbe più probabilità di essere letto e
di conoscere una sia pur ristretta diffusione. I Discorsi su Tito
Livio, l'Apologia de' teologi scolastici, il Pontificato di Gregorio Ma-
gno passarono direttamente dal tavolo di lavoro del Giannone agli
archivi sabaudi. Ma, occorre anche dire, non si trattava di lavori
originali. Se il Triregno aveva destato la curiosità del cardinale Al-
bani e, più tardi, quella del cardinale Neri Corsini, gli ultimi lavori
giannoniani sarebbero riusciti interessanti solo per chi avesse vo-
luto conoscere l'evolversi del ragionare del prigioniero, ma non si
sarebbero mai imposti per il loro contenuto. La genialità dell'im-
pianto dell'Istoria civile s'era ormai persa nel tempo. La grandio-
sità dell' affresco tentato col Triregno, la grande trilogia del regno
terreno, celeste e papale s'era spezzata a Vezenaz. La rilettura del
Toland o di Barbeyrac, i saccheggi a man salva dalle Stuore di
Giovanni Stefano Menochio o dalle Origines ecclcsiasticae di Joseph
Bingham, anche se conosciuti, avrebbero sicuramente interessato
ancor meno di quanto non interessò il Triregno a quanti lo ebbero
tra le mani, a distanza di trent'anni dalla sua stesura. Quanto a noi,
non prenderemo certo per elaborazione originale tante pagine gian-
noniane che, molto spesso, giannoniane non sono. Non cadremo,
insomma, nell'errore (come spesso è avvenuto) di attribuire a Gian-
none idee che questi aveva tolto di peso dai testi dai quali dipen-
deva. L'importanza di questo «secondo Giannone», il Giannone
del Triregno e degli altri scritti del carcere, mi sembra risiedere
non tanto in un'elaborazione originale, quanto nell'essere specchio
d'una crisi, quella della religiosità europea dopo l'apparizione di
Spinoza. Seguire Giannone nelle sue letture è seguire, nello stesso
tempo, la crisi dell'uomo di cultura settecentesco, giunto alle so-
glie del deismo. Attraverso le sue pagine è tutto il mondo del
libertìnage erudii che ci si apre dinanzi. Un mondo che, natural-
mente, conosciamo anche senza Giannone; ma attraverso le sue
letture noi abbiamo modo di apprendere le reazioni dell'uomo del
tempo, possiamo evitare quel diaframma che, inevitabilmente, si
pone tra noi carichi d'una diversa cultura e quei testi sei-sette-
centeschi. Giannone, dunque, specchio del tempo, infaticabile let-
tore di testi eterodossi.
A petto degli scritti del carcere, però, il Triregno fu anche qual-
cosa di più. Non v'ò dubbio che anche per quest'opera si pone il
problema della dipendenza dalle fonti (dei plagi), cosi come il pro-
blema esiste per V Istoria civile. Su questo punto va detto, tuttavia,
dopo tante accuse denigratorie (dal Bonacci al più recente Caristia),
che Pietro Giannone menò vanto di aver sempre allegato «gli au-
tori più gravi e' più contemporanei che si fosse potuto » (vedi nel
Ragguaglio), mirò dunque sempre a fornire, con la sua opera, una
narrazione storica aggiornata. Né ritenne colpa il riferire ampia-
mente brani d'autori coi quali al momento concordava (o servirsi
INTRODUZIONE XXI
di essi per descrivere un fatto storico che, pur con altre parole,
sarebbe sempre rimasto lo stesso) senza apporvi le fatidiche vir-
golette. Anzi si prese apertamente beffe del povero padre Sanfelice,
che aveva creduto di criticare Fautore àt\Y Istoria civile, senza sa-
pere di avere a che fare con una pagina della Storia della repubblica
veneta di Giovan Battista Nani! In realtà, non chiediamo a Gian-
none di essere quello che non fu. Non pretendiamo di far di lui
un secondo Muratori, un ricercatore e illustratore di fonti inedite.
Non fu questo il suo impegno. Fu piuttosto quello di fornire, ba-
sandosi sui testi più aggiornati, nuove interpretazioni storiche glo-
bali, secondo un punto di vista che era politico prima che storico.
Con la sua prima opera, in effetti, egli non mirò a scoprire nuove
fonti, nuovi dati, ma a rompere la diade tra storia politica e storia
ecclesiastica. Tentò di unificarle sulla base del giudizio di Ottato
Afro vescovo di Milevi - tante volte da lui ricordato -: che la
Chiesa faceva parte dell'Impero, non già l'Impero della Chiesa
(cfr. De schismate Donatistarum> 3). Così nel tracciare il grande pro-
getto dei tre regni, terreno, celeste e papale, intese servirsi dell'im-
mensa bibliografia uscita negli ultimi decenni, da Henry Dodwell
a Joseph Bingham, da Richard Simon a Pierre-Daniel Huet, da
John Locke a John Toland, dall' Aulisio delle Scuole sacre a Jean
Ledere, non per tornare anch' egli a discutere il Tractatus theologi-
co-politicus, ma per ripercorrere, alla luce di quella bibliografia, in
maggioranza eterodossa quando non addirittura deista, il cammino
della religione umana, fornendo in modo originale un grande affre-
sco della condizione umana, sino ad arrivare al deteriorarsi della
Parola divina, al crescere di istituzioni chiesastiche (tra gli Ebrei
prima, tra i cristiani poi), sino alla distorsione storica del papato,
ai trionfo controriformistico. La sua era dunque una proposta di
ritorno alla Parola, fortemente influenzata non solo dalle nuove
correnti deiste, ma da quel mondo protestante (già eterodosso al-
l'interno dello stesso protestantesimo) che gravitava all'ombra del-
la corte del principe Eugenio. Si trattava di un disegno storico che,
sviluppando e ampliando gli antichi temi giurisdizionalistici, do-
veva dimostrare l'estraneità della Roma triumphans dal ceppo ori-
ginario del messaggio cristiano.
Forse per questo Giannone è stato detto un riformatore religio-
so. Tale, almeno, lo hanno proposto Antonio Corsano e Natalino
Sapegno. Certamente, come s'è visto, all'impegno giurisdizionali-
stico egli venne sempre più sostituendo l'interesse per la sfera reli-
giosa delPuomo. Ma, mentre l'impegno giurisdizionalistico lo portò
ad un'attività esterna, che può ben configurarsi in azione cosciente-
mente politica alla testa del suo gruppo, l'analisi dell'evolversi della
religiosità umana lo portò al dialogo intcriore, agli incontri Intornici
con pochi altri intimi esprit s forts. Anche se (almeno nei giorni
veneziani) egli raggiunse o si avvicinò al deismo, non riversò mai
apertamente le proprie convinzioni religiose nella sua opera. Gli
mancò, pertanto, la caratteristica prima del riformatore religioso :
il proselitismo, ottenuto con la predicazione della propria idea di
riforma. Né questo, del resto, era lo scopo del Triregno, ma, come
s'è detto, quello di condurre per mano il lettore alla scoperta
d'un'evoluzione del credo, del costruirsi sulla religiosità umana
d' un'organizzazione sacerdotale che snaturava, di per se stessa, la
Parola. Un programma dunque riformatore, ma nel senso d'un
illuminismo ch'era, di nuovo, più politico che religioso.
Il che non significa, naturalmente, che Giannone, con quest'o-
pera, non operasse anche una presa di posizione religiosa, che lo
poneva ben più dell'Istoria civile al di fuori di santa romana Chie-
sa. Nell'abiura egli affermò che quelle carte, scompaginate ad arte
dal Vernet prima di consegnare l'autografo del Triregno agli agenti
sabaudi, erano « picciole memorie, che secondo andava leggendo al-
cuni autori io notava, ed ancorché avessero relazione fra di loro, e
portassero seco un gruppo di diversi errori, non furono da me ab-
bracciati, ma unicamente per notare gli altrui sentimenti ». Tentò,
insomma, di rifiutare la paternità d'un'opera quale il Triregno e,
davanti all'inquisitore, lo si comprende bene. Ma molti anni prima,
a Vienna, non si era comportato diversamente. Nel dicembre del
1731, richiesto di un parere sulla Philosophia adamito-noetica divina
mundana del frate calabrese Antonio Costantino (un testo dunque
che collimava in molti punti con i suoi nuovi studi), si era mostrato
scandalizzato per l'eterodossia di cui appariva permeato, «L'in-
tento dell'autore» scriveva «è di dimostrare col soccorso dell'antica
istoria profana, che presso tutte le nazioni del mondo, sicome da
Adamo e da' figliuoli di Noè fu propagato tutto il genere umano
sopra la terra, cosi si fosse diffusa l'istessa religione, e sapienza
divina e mondana . . . L'impegno è molto pericoloso sottoponen-
dosi il tutto a discorsi umani, a raziocinii e deduzioni e conietture
prese dall'istoria profana, dalla quale si vuole illustrare la divina.
INTRODUZIONE XXIII
Se la cosa si vorrà ridurre a quest'esame dubbito forte che gli
scrittori libertini e spezialmente gli inglesi e qualche olandese e
germano, che han sopra questo soggetto vomitate più bestemmie
in alcuni loro libri dati alle stampe, non abbiano vinta la lor
causa ... ». Eppure il sincretismo religioso del Costantino (non
nuovo, che lo aveva già tentato, tra gli altri, Pierre-Daniel Huet
nella sua Demonstratzo evangelica contro Spinoza) era ben poca cosa
di fronte, per esempio, alla negazione dell'immortalità dell'anima
(come la si può ritrovare nel Regno terreno) o alla negazione d'ogni
premio e ricompensa nell'ai di là e ai dubbi espressi sulla resurre-
zione (come accade nel Regno celeste). Quel che è certo è che Gian-
none, nel 1731, non reputava «bestemmie» le argomentazioni sto-
riche d'un Toland, d'un Locke, tant'è vero che le faceva abbondan-
temente sue, riprendendole nelle sue pagine. È dunque evidente
che a Vienna solo pochi intimi dovevano essere al corrente degli
indirizzi che stava prendendo il suo lavoro. Di nuovo una cortina
di protettivo silenzio era stesa attorno alle sue ricerche, così come
era accaduto al tempo della stesura dell'Istoria civile.
Al Triregno Giannone lavorava ancora quando fu arrestato e,
certamente, doveva aver messo al corrente dei suoi studi se noti il
Turrettini, almeno il Vernet. Lo dimostra la preoccupazione di que-
st'ultimo, al momento della consegna d'una parte dell'autografo agli
agenti sabaudi (che affermavano richiederlo in nome dell'autore, si
badi bene!), tanto da scompaginarlo ad arte, per renderlo irricono-
scibile. Ma proprio a Ginevra la prima cura del Giannone fu quella
di dimostrarsi cattolico osservante (e per tanto zelo fini misera-
mente nelle mani dei Savoia!). Certo, così facendo egli salvava
V Istoria civile dall'accusa di essere opera d'un eretico. Ma, sotto-
lineare il proprio cattolicesimo non era anche la via migliore per
mantenere la propria indipendenza di pensiero in un ambiente
calvinista? Non era l'unica sua possibilità di svincolarsi da quella
cappa confessionale contro la quale si sarebbe scagliato, vent'anni
dopo, il Voltaire? La sua professione di ortodossia cattolica non
era dunque che un mezzo per continuare a mantenersi libero. Potè
persino prendersi il vezzo di curiosare, di andare a sentire alcune
prediche calviniste, per poi parlarne coi suoi ospiti, criticandole
in nome della tolleranza! Ma c'è da chiedersi se avrebbe potuto
continuare a vestirsi di quei panni anche dopo la pubblicazione del
Triregno . . .
Come che sia, la biografia sua è esemplare del cammino di tanti
intellettuali del tempo, posti di fronte a Spinoza e a Locke. Gian-
none era partito dall'esperienza dell'Oratorio - cosi come il coe-
taneo Muratori era partito dall'esperienza rigorista del Bacchi ni -
per approdare al deismo. Era il tempo in cui Muratori arretrava
spaventato di fronte alla voragine che si apriva nella sua fede alla
lettura del Essay on Human Learning (« . . . Ma per la Dio grazia,
ricorro sempre al Credo, e qui starò saldo fino alle ceneri»,
scrisse al Tartarotti nel '33). Era il tempo in cui Alberto Radicati
di Passerano pubblicava il suo Nazarenus et Lycurgos mis en paral-
lèle (Rotterdam? 1736), dove Gesù appariva un legislatore sag-
gio che, come appunto Licurgo, mirava a «délivrer Ics hommes de
toute tyrannie».
Spinoza aveva dimostrato come i Testi non fossero discesi sino a
noi incorrotti, come la loro «sacralità» non li avesse affatto preser-
vati dalle ingiurie dei tempo. I Vangeli sinottici di Richard Simon
erano stati uno scavo archeologico nelle coscienze religiose euro-
pee. Bernard Le Bouyer de Fontenellc aveva demistificato oracoli
e miracoli- Balthazar Bckker aveva addirittura voluto disincantare
il mondo: De betooverte Wereld (1691). Pierre Bayle, il patriarca
dei libertini, aveva spiegato, nelle sue Pensées a proposito della
cometa del 1680, che anche l'ateo può essere virtuoso e che la mo-
rale non coincide necessariamente con una religione. Chi era dispo-
sto a continuare in quest'opera di diffusione della ragione ? Ad illu-
minare gli uomini svincolandoli da quel mondo magico che essi
stessi avevano creato, proiettando le loro ansie, le loro paure nel-
l'ai di là? Chi era pronto ad abbattere le superfetazioni che nascon-
devano all'occhio umano il dio copernicano ?
Giannone, imbevuto di cultura eterodossa, vi si cimentò. Il gran-
de affresco stava nascendo. Come la storia ecclesiastica era stata da
lui ricondotta nell'alveo della storia politica, cosi ora la storia re-
ligiosa sarebbe stata ricondotta nell'alveo del cammino umano. Il
cielo sarebbe sceso in terra. Ma Vezenaz segnò la fine di questo
programma illuminista. Rinchiuso nel castello di Miolans, ma non
ancora impedito nella sua libertà intellettuale, Giannone offrì qtie-
sta volta se stesso come modello di vita, interrogandosi e ponendosi
a nudo perché i contemporanei potessero imparare ad essere « probi
ed onesti ed amanti del vero». Ancora un programma illuminista
e ne risultò quello che è senz'altro il suo capolavoro, uno dei libri
INTRODUZIONE XXV
più belli di tutto il Settecento italiano, per forza espressiva, per
lucidezza, drammaticità. Non a caso, nelP autobiografia, egli riserbò
tanta parte alla genesi del Triregno, più di quanta non ne riserbò
alla genesi àéìY Istoria civile. A quell'opera incompiuta egli attri-
buiva un valore liberatorio ben più grande, di quello insito nella
battaglia giurisdizionalistica. Ma anche quest'autobiografia, che
avrebbe forse potuto uscire dal carcere, se fosse stato concesso al
figlio di salutare il padre prima di tornare in libertà, rimase sepolta
negli archivi sabaudi.
Quando per Giannone si aprirono le porte del duro carcere to-
rinese, per costringerlo all'abiura, egli avrebbe trovato al suo fianco,
a rammentargli il giovanile rigorismo, il padre filippino Giambat-
tista Prever. Nell'abiura, a ben guardare, egli non rinnegò un bel
nulla, o assai poco. Tant'è vero che quel testo non piacque affatto
a Roma, lo si considerò una magra vittoria, della quale non si
menò vanto, almeno finché il prigioniero rimase in vita. Ma i col-
loqui col Prever valsero ad allontanare sempre più Giannone dal
precedente deismo, a farlo ripiegare in una introspezione via via
sempre più incoerente. Anche nei momenti di più aperta adesione
al deismo di un Toland, Giannone non era mai riuscito ad aderire
completamente alle tesi più radicali spinoziane. Non per nulla il
punto di partenza erano state le Scuole sacre di Domenico Aulisio
che, come la Demonstratio evangelica di Huet, erano state un ten-
tativo (ugualmente abortito) di replicare al Tractatus theologico-
politicus. Forse proprio per questo Giannone, anche nel Triregno,
non riuscì ad essere chiaro. Troppe volte anche quella che doveva
essere la sua opera maggiore mostra la trama su cui è costruita, in
una acritica o contraddittoria dipendenza dalla bibliografia cui si
rifa. Il passo che avrebbe dovuto portarlo ad un professato deismo,
cosi, non fu mai compiuto. Gli incontri col Prever ve lo ritrassero
completamente e mentre Muratori volle rifugiarsi nella preghiera,
Giannone si inviluppò in una ricerca storica sempre più contorta,
cercando di autoconvincersi di essere ortodosso nell'eterodossia,
osservante della vera Chiesa all'interno di quella attuale, costruita
gerarchicamente e dogmaticamente.
In fin dei conti, il più coraggioso, il più conseguente fu Scipione
Maffei che pure, dei tre, ebbe meno tentennamenti e crisi religiose.
Maffei non retrocesse di fronte alle conseguenze della sua battaglia
per la negazione della stregoneria e della magia: l'abolizione del
soprannaturale in favore della ragione. Non era il diavolo l'angelo
caduto, la divinità stessa con segno negativo? Abolendo l'Inferno
non si sarebbe negato anche il Paradiso? Certamente. Ma alla ra-
gione non poteva che repugnare l'esistenza di diavoli e di sabbah,
di incubi e di succubi, ài streghe e di maghi. SI, anche di quel Si-
mon mago di cui parlano gli Atti degli apostoli o dei Magi del-
l'Epifania. La luce della ragione, per Maffei, non si sarebbe spenta
nemmeno dinanzi a così gravi conseguenze.
Sergio Bertelli
BIBLIOGRAFIA
Una bibliografia critica su Pietro Giannone si forma molto tardi, si può
dire solo alla fine del secolo scorso. D'altronde le opere giannoniane co-
minciarono ad essere conosciute nella loro interezza solo dopo che l'esule
Pasquale Stanislao Mancini (i 817-1888), rifugiatosi da Napoli a Torino
dopo il fallimento dei moti quarantotteschi, ebbe modo di entrare negli ar-
chivi sabaudi e di accedere alle carte giannoniane che vi erano conservate.
Lungo tutto il Settecento furono solo l'Istoria civile e gli scritti apolo-
getici ad essa relativi ad essere conosciuti. La prima edizione dell'Istoria,
Napoli 1723, fu di cento esemplari su carta speciale e di mille su carta
più ordinaria. Ma poiché almeno una parte della tiratura fu sequestrata
presso i librai napoletani, prima che l'autore, avvisato, riuscisse a metterne
in salvo le copie, dobbiamo presumere che la diffusione di questa prima
edizione sia stata abbastanza limitata. Una seconda edizione, « con accresci-
mento di note, riflessioni e moltissime correzzioni date e fatte dall'Autore »,
fu quella con la data fittizia de L'Aia (ma Ginevra) « a spese di Errigo-Alber-
to Gossc e Comp. », nel 1753. Ma già nel 1738, ad Amsterdam, presso Jean
CatufTe, era apparsa la traduzione francese dei capitoli sulla «polìtia eccle-
siastica », forse dovuta a Desmonceaux de Villeneuve, col titolo : Anecdoles
ecclésiastìques contenant la polke et la discipline de VÉglise chrétienne depuis
son établissement jusqu'au XIe siede, les intrigues des évèques de Rome et leurs
usurpations sur le temporel des souverams tirées de VHistoire du royaume de
Naples de Giannone, brùlée à Rome en 1726, Tra il 1729 e il 173 1 era intanto
apparsa la traduzione inglese dell'intera opera : The Cimi History ofthe King-
doni of Naples . . . Translated into English by Captain James Ogilvie, London
1729-1731. La traduzione completa in francese giunse nel 1742, a Ginevra,
a cura dello stesso H.-A. Gosse, benché sul frontespizio vi fosse apposta
la data de L'Aia e l'indicazione «chez Pierre Gosse et Isaac Beauregard».
Traduttori, questa volta, Charles- Guillaume Loys de Bochat e Jean Bed-
devole (cioè quel famigerato Bentivoglio che fu al centro di tutte le mac-
chinazioni per consegnare all'Inquisizione il manoscritto del Triregno ri-
masto in possesso del Vernet, dopo la consegna dell'autografo agli agenti
sabaudi).
Queste traduzioni permisero dunque, abbastanza presto, al Giannone di
raggiungere un pubblico europeo. Ad esse si aggiunse, nel 1758, la tra-
duzione in lingua tedesca: Bùrgerliche Geschichte des Kò'nigreichs Neapel,
pubblicata a Lipsia «Auf Kosten der Gaumschen Handlung» a cura di
Otto Christian von Lohenschiold e di Johann Friedrich Le Bret. Una
nuova edizione italiana, con la data «Palmyra, All'Insegna della Verità,
1762» e 1763, fu compiuta a Losanna dal tipografo Francois Grasset.
Solo nel 1766, a Venezia, per i tipi di Giambattista Pasquali si aveva la
prima ripresa italiana dell'intona civile. A questa edizione segui, nel 1770,
la « Quinta edizione italiana e seconda napoletana » : quella curata dall'abate
Lionardo Panzini per l'editore Giovanni Gravier.
Anche le cosi dette Opere postume (cioè l'insieme di scritti composti in
epoche diverse dal Giurinone come Apologia dell'Istoria civile e destinati
a formarne un quinto tomo, nonché alcuni altri scritti polemici, come le
Ragioni sull'arcivescovado beneventano, la Breve relazione de* Consigli e
Dicasteri della città dì Vienna, la ProJessio?w dijede e pochi altri) conobbero
nel Settecento una discreta diffusione.
Intanto, la Professione di fede conobbe una stampa alla macchia, dopo
il 1734-1735; mentre la Breve relazione, tradotta in latino, fu data alle
stampe con l'indicazione di luogo «Halac Magdeburgicae » (probabilmente
veritiera), nel 1732. Quanto alle Opere postume, esse apparvero per la
prima volta dedicate «a Sua Eccellenza la Nobil Donna Fiorenza Ravagnini
Vendramin» in «Palmyra, All'Insegna della Verità», nel 1755, (ìli edi-
tali erano Claude e Antoinc Phihbcrt, di Ginevra, lina «Nuova edizione
augmentata» (vi sono aggiunte le Annotazioni del padre Sebastiano Paoli
e la replica giannoniana) fu preparata cinque anni dopo, nel 1760, da
Francois Grasset a Losanna. Sempre in quel torno di tempo e sempre a
Losanna fu eseguita una contraffazione di questa edizione, probabilmente
da parte di Antoine Chapuis, per conto di Marc-Michel Bousquet. Una
nuova edizione, molta più ricca delle precedenti, fu miìne ciucila appron-
tata da Lionardo Panzini per il Gravier, e stampata a Napoli con la data
«Londra 1766». Ad essa seguì l'edizione veneziana del Pasquali, nel 1768,
nella quale - per la prima volta - era dato l'intero piano (o Tavola de'
capitoli) del Triregno, una cui copia integra, come s'è detto, era capitata
nelle mani dell'editore. Una ristampa panziniana, sempre per i tipi di
Giovanni Gravier, si ebbe nel 1770- 1777 (in quarto e, contemporaneamen-
te, tra il 1773 e il 1777, in ottavo).
Queste le edizioni settecentesche delle opere giannoniane. Ma non bi-
sogna pensare che gli scritti apologetici del Giannone raggiungessero i
contemporanei solo a partire dal 1755. Il Settecento conobbe - almeno
in Italia - una vastissima diffusione di copie manoscritte di opere gian-
noniane, soprattutto di quei testi che poi confluirono a formare i vo-
lumi delle Opere postume, via via che essi venivano scritti. Una delusione
molto spesso organizzala dallo stesso autore e dalla sua cerchia. Per que-
sta clandestina diffusione si veda S. Bertelli, Giannoniana. Autografi,
manoscritti e documenti della fortuna di Pietro Giannone, Milano-Napoli
1968.
Giannone ebbe inoltre l'onore di tre biografie settecentesche: la prima
fu quella di M. M. Vecchioni, Vita di P. Giannone dottore di leggi e cele*
berrimo ìstorico del regno di Napoli, apparsa anonima con l'indicazione
«Palmyra [ma Lucca], Panno MDCCLXV, All'Insegna della Verità» e ri-
stampata a Venezia nello stesso anno. La seconda» molto più ampia e scrit-
ta servendosi del carteggio giannoniano, nonché dell'aiuto di Giovanni
Giannone e degli amici superstiti, fu quella di L. Panzini, inserita nell'e-
dizione delle Opere postume del 1766. Terza quella di A. Faimoni nel do-
dicesimo volume delle Vitae Italorum doctrina cxcellentium qtd saecutis
XVII et XVIII floruerunt, Pisis X787.
BIBLIOGRAFIA XXIX
II
A metà Ottocento l'interesse per il Giannone fu risuscitato da Pasquale
Stanislao Mancini, il quale, nei primi giorni dell'esilio torinese, studiò le
carte conservate in quell'Archivio reale, impegnandosi coi «Cugini Pom-
ba e C. », nel 1851, a dare alle stampe tre volumi di inediti giannoniani:
r. Discorsi storici e politici sopra gli Annali di Tito Livio ; 11. La Chiesa sotto
il pontificato di Gregorio il Grande; in. Delle dottrine morali, teologiche e
sociali degli antichi Padri della Chiesa (cioè V Apologia deì teologi scolastici).
Vi avrebbe dovuto inoltre aggiungere una biografia dell'autore e arricchire
l'edizione di altri documenti, tratti sempre dall'Archivio reale. I primi due
volumi erano già stampati nel 1852, ma non messi in commercio in attesa
del terzo. Il Mancini, che nel frattempo si era spostato sempre più dagli
studi alla politica militante (nel 1860 sarebbe stato eletto deputato al par-
lamento nazionale per la sinistra democratica), non tenne più fede agli
impegni editoriali, sicché passati i due volumi già stampati all'Unione
Tipografico-Editrice, questa li mise in commercio nel 1859 con un «Ma-
nifesto» nell'ultima pagina di copertina del primo volume, in cui si di-
ceva a chiare lettere che «il cav. Mancini, divenuto uno dei primi avvo-
cati del fòro torinese, trascurò questi suoi lavori, lasciandoli per più anni,
e anzi da quel tempo in poi [cioè dopo la stampa dei primi due volumi]
in una totale dimenticanza; non diede più il manoscritto necessario per
condurre a compimento la terza opera; né fece mai le prefazioni ai tre
volumi, e meno ancora la vita del Giannone ».
Si chiudeva cosi, in modo quasi fallimentare, il primo tentativo di dare
alle stampe gli inediti giannoniani. Tentativo ancor più ambizioso di quan-
to non dicesse il contratto cogli editori Pomba, perché la relazione presen-
tata al Ministero dell'Interno sabaudo nel 185 1 (è stata successivamente edi-
ta dal Pierantoni in appendice alla sua edizione dell'autobiografia) pre-
vedeva la stampa di tutte le opere giannoniane del carcere, compresa VApe
ingegnosa e la Vita.
Il compito di coltivare gli studi giannoniani, in verità, passò al genero
del Mancini, Augusto Pierantoni. Il quale provvide a pubblicare: V Auto-
biografia di P. Giannone. I suoi tempi. La sua prigionia. Appendici, note e
documenti inediti, Roma, Stab. tip. dell'ed. E. Perino, 1890; Lo sfratto di
P. Giannone da Venezia. Auto-narrazione, con prefazione e documenti ine-
diti, Roma, Nuova tipografia di S. Maria degli Angeli, 1892; II Triregno di
P. Giannone, pubblicato con prefazione da A. Pierantoni, professore della
R. Università di Roma, senatore del Regno, Roma, Tip. Elzeviriana, 1895.
Solo ora dunque, a fine secolo Diciannovesimo, si aveva a disposizione
(sia pure in edizioni assai scorrette, talvolta con arbitrari interventi dei
due curatori, che avevano mutilato o modificato passi giannoniani per
fare di lui un precursore dell'Unità!) tutto il corpus degli scritti, salvo po-
che cose: l'Ape ingegnosa e V Apologia de* teologi scolastici. Del Triregno,
però, già anni prima avevano diffusamente trattato C. Castellani, Del
Triregno di P. Giannone, Firenze 1867 e R. Biamonte, La Storia civile e
il Triregno. Esposizione critica, Napoli 1878. Mentre per parte sua P. Oc-
cella, col saggio P. Giannone negli ultimi dodici anni della sua vita (ry^6-
1748), apparso m Curiosità e ricerche di storia subalpina, m, l'orino 1879,
aveva completato le notizie biografiche col racconto degli anni della pri-
gionia, condotto su fonti sino ad allora inedite.
Benedetto Croce, recensendo sull'« Archivio storico per le provinole na-
poletane)) (a. xv, 1890, pp. 681 sgg.) l'edizione pierantoniuna dell'auto-
biografìa, scriveva a proposito di studi giannonianì: «... Le trattazioni
che io conosco sono tutte incidentali. E, tra queste incidentali, la più
giusta ed acuta e, al solito, quella di Francesco De Sanctis ...» Ma an-
che il De Sanctis, nella sua Storia della letteratura italiana (1870-1872),
non conobbe che il Giannone giurisdizionalista, L'Istoria civile era por lui
«una requisitoria», dove «la lotta tra le leggi canoniche e le civili è come il
centro di un vasto ordito, che abbraccia tutta la stona della legislazione,
illuminata dalla storia de' governi e delle mutazioni politiche». Un giu-
dizio che pesò a lungo, anche nella critica posteriore, sino al Gentile e al
De Ruggiero.
Sul finire del secolo il Croce s'era intanto stretto in affettuoso soda-
lizio con Fausto Nicolini, che strappava agli studi musicali per convertirlo
all'erudizione. Lo aveva cercato sapendolo depositario delle carte ( Jaliani,
incitandolo a farsene editore. Un altro suo suggerimento fu ciucilo di ri-
prendere, questa volta con ben altri criteri filologici, l'autobiografia gian-
noniana. Mentre il Nicolini travagliava sull'autografo della Vita, apparve
alle stampe a Firenze, presso l'editore Bemporad, il Maggio sulla Istoria
civile del Giannone (1903) di G. Bonacci. Si trattava di un pesante attacco,
questa volta documentato, all'Istoria. Le accuse mosse dal Manzoni veni-
vano riprese dimostrando l'ampiezza dei plagi, relativamente ai primi
ventitré libri. Per il Bonacci, inoltre, Giannone non era che un servile
difensore dell'assolutismo e anche contraddittorio, non mostrandosi sem-
pre e conseguentemente anticlericale. Il rigido positivismo del Bonacci
portava cosi all'aberrante conclusione che Giunnone divulgasse «il fior
fiore della dottrina clericale» (p. 174). Tuttavia l'opera aveva un suo im-
portante pregio: quello di aver dimostrato l'ampiezza e la gravita dei plagi
giannoniani, ciò che avrebbe dovuto rendere più guardinga e prudente
l'utilizzazione dell'Istoria civile. Essa fu invece vista semplicemente come
un attacco denigratorio, un'offesa alla cultura meridionale. Della difesa
del Giannone si incaricò Giovanni Gentile (era stato di fresco trasferito
a Napoli come professore, nel 1901, e già nel novembre dell'anno seguente
aveva deciso col Croce di dar vita a « La Critica, rivista di storia, letteratura
e filosofia»). Gentile scrisse dunque un saggio per la nuova rivista, che era
tutto una terribile stroncatura del Bonacci: P. Giannone plagiario e gran»
d'uomo per equivoco («La Critica», il, 1904, pp. 216-$%). Vi era ripreso il
giudizio desanctisiano: Giannone «non intendeva fare un'opera letteraria,
ma scrivere una colossale memoria defensionale » (p. 246). Non si aveva dun-
que a che fare con uno storico, ma con un «politico». La difesa d'ufficio,
insomma, era risultata altrettanto denigratoria!
BIBLIOGRAFIA XXXI
Nel 1905, per 1 tipi napoletani di Luigi Pierro, vedeva finalmente la luce
la Vita di P. Giannone scritta da lui medesimo, per la prima volta integral-
mente pubblicata con note, appendice ed un copioso indice, a cura di F.
Nicolini. Il quale volle anch'egli rispondere al Bonacci e lo fece leggendo
una sua memoria nella tornata del 9 dicembre del 1906 dell'Accademia
Pontaniana: L'Istoria di P. Giannone ed i suoi critici recenti (la si veda negli
«Atti» dell'Accademia, Napoli 1907). Era accaduto, infatti, che in soccorso
del Bonacci fosse intervenuto sul fiorentino « Archivio Storico Italiano » G.
A. Andriulli, P. Giannone e V anticlericalismo napoletano sui primi del 'joo
(vedi alle pp. 93-136 dell'annata 1906). Dove era, si chiedeva l'Andriulli,
il grande anticlericale tanto esaltato dagli anticlericali di oggi ? Uno scrit-
tore - come aveva osservato il Bonacci - che per scrivere la storia dei
rapporti tra Stato e Chiesa nel Regno era andato a saccheggiare la storia
napoletana ... di un padre gesuita, Claude Buffier! A Firenze, in quegli
anni, esercitava la sua dittatura intellettuale il neo-guelfo Pasquale Villari,
che sin dal 1859 aveva proposto come eroe positivo Girolamo Savonarola,
ribadendone l'attualità in un discorso pronunciato il io giugno del 1898
(e non 1897 come erroneamente è stampato nell'edizione della Storia del
1930): Girolamo Savonarola e l'ora presente. Ben si comprende, dunque,
come vi fossero tutte le premesse ambientali, nell'Italia d'inizio di secolo,
per uno scontro più politico che critico sulla figura del Giannone. Tant'è
vero che anche il Nicolini, come prima il Gentile, rimase ancorato allo
schema « Giannone grande politico più che storico », né da esso si distaccò
più, anche in tempi recenti.
Al Nicolini, tuttavia, va riconosciuto il merito di aver aperto la strada
ad una diversa era di studi giannoniani. È del 191 3 la pubblicazione presso
l'editore Giuseppe Laterza di Bari del volume Gli scritti e la fortuna di P.
Giannone. Ricerche bibliografiche, che tanta importanza ebbe nel ricostruire
la fortuna delle opere giannoniane, pur con lacune ed errori. Segui il sag-
gio su Le teorie politiche di P. Giannone, Napoli 1915, in cui ribadì le posi-
zioni precedenti. Dopo di allora, il Nicolini non si interessò più espressa-
mente del Giannone, salvo stendere la voce a lui relativa per V Enciclopedia
italiana, nel 1933. Nel 1925, sempre a Napoli, aveva tuttavia pubblicato
il suo studio Sulla vita civile, letteraria, religiosa napoletana alla fine del
Seicento, che, se pur indirettamente, interessò senza dubbio gli studi gian-
noniani. Al Giannone ritornò invece nel 1937, pubblicando presso l'edi-
tore Cappelli di Bologna un'antologia allestita in collaborazione col figlio
Nicola : P. Giannone, Stato e Chiesa. Scelta degli scritti. Alla raccolta fece
precedere un'ampia introduzione che è forse lo scritto più importante suo
sul Giannone. A Milano, nel 1942, appariva un altro utile contributo agli
studi giannoniani: una sorta di dizionario biografico (da Acampora a Au-
lisio)> col titolo Uomini di spada di chiesa di toga di studio ai tempi di Giam-
battista Vico. Un tentativo che riprese vent'anni dopo, col Saggio d'un
repertorio biobibliografico di scrittori nati 0 vissuti nell'antico regno di Na-
poli che venne pubblicando a puntate sul «Bollettino dell'Archivio sto-
rico» del Banco di Napoli tra il 1962 e il 1964 e che rimase incompiuto.
Un ultimo contributo giannoniano, apparso mentre era in bozze il mio
saggio sul Muratori, fu quello che il Nicolini volle pubblicare, ripescando
vecchie schede, sul terzo fascicolo d'una sua rivista ch'ebbe breve vita e
scarsissima diffusione: «Biblion»: Una bugia pietosa di Ludovico Antonio
Muratori, Notizie e documenti (vedi alle pp. 219-2*) del fascicolo cit.,
Napoli 1959).
La bandiera del neo-gucltismo e stata successivamente raccolta da Car-
melo Caristia, amico e compagno di partito di don Sturzo, studioso di
diritto costituzionale. Kgh ha dedicato a Giannonc diversi scritti: P. (kan-
tiane e V Istoria civile, in «Critica fascista», vi, n.° 6 (giugno i03())> PP»
523-41 ; P. Giannone e la Monarchia sicula, in Scritti giuridici in onore di
Santi Romano, IV, Padova 1940, pp. 499-537; P. Giannone «giureconsulto»
e «politico». Contributo alla storia del giurisdizionale mo italiano, Milano
1947; P. Giannone e V Istoria civile, in «Atti dell'Accademia di Scienze Let-
tere Arti di Palermo», s. iv, voi. vai, 1947- 1948; Dall'Istoria civile al
Triregno, in «Atti del Seminano giuridico dell'Università di Catania», n»
1947-1948; Ì\ Giannone e V Istoria civile e altri scritti giannoniani, Milano
1955 (v* sono riuniti saggi già precedentemente pubblicati). Si tratta però,
sempre, di una ripresa delle vecchie tesi del guelfismo ottocentesco, rin-
verdite con una più attenta conoscenza dei testi e tenendo conto delle opere
del Nicolini. Anche se scrive in epoca recente, il Caristia e in realtà un
sorpassato.
Con ben altra lucidezza aveva dedicato alcune pagine al Giannone K,
Ftjeter nella sua Geschichte der neueren Ilistoriographie {uni ; 1936*; tra-
duzione italiana 1943-1944; X97oa). Egli conosceva sia il saggio del Uo-
nacci sia la risposta del Nicolini a questi e ull'Andriulli e anche per lui
V Istoria è « un'infìammata protesta contro le "usurpazioni" politiche del
potere ecclesiastico» (cfr. a p. 356 della traduzione italiana 1970), Ma
Fueter notava anche come il Giannone fosse « fondatore della storia giu-
ridica e costituzionale» (ibUL) e giustamente osservava: «l'importanza del
Giannone non si basa sull'indipendenza delle sue ricerche storiche. Il suo
merito è quello di aver messo a disposizione del pubblico i risultati dei
tecnici, e di aver reso la materia erudita utilizzabile ad un grande fine pra-
tico» (p. 357). Fueter evitava, dunque, l'astratta semplificazione del (Sen-
tile e del NicoUni, d'un Giannone semplicemente «politico» e sottoli-
neava, al contrario, anche se non esplicitamente, il valore suo di illumi-
nista.
Altro contributo, questo di gran lunga più importante di tutti i prece-
denti, era quello fornito da A. C. Jemoi.O col libro Stato e Chiesa negli
scrittori politici italiani del *6oo e del '700, Torino 1:9x4. Giannone appariva
qui in un più ampio contesto, con tutti i suoi legami, debiti e dipendenze
e, per la prima volta, si affacciava Pidca di lui come di un riformatore
religioso.
H suggerimento sarebbe stato ripreso da A, Coivano, Il pensiero religioso
italiano dalV umanesimo al giurisdizionalismo, Bari 1937. Finalmente Gian-
none usciva dal chiuso ambito politico del giurisdizionalismo, nel quale
ancora recentemente il Gentile, il Nicolini, il Do Ruggiero e il Salvatorelli
BIBLIOGRAFIA XXXIII
(come vedremo) lo avevano tenacemente rinchiuso. Il Corsano sottolineava
Tinflusso che l'Oratorio, attraverso il padre Antonio Torres, aveva avuto
col suo rigorismo sul Giannone e accostava all'Istoria civile, quale suo ideale
modello, 1 Discours sur Vhistoire ecclésiastique del gallicano Claude Fleury:
«... la storiografia del gallicanesimo » scriveva « è dominata dalle due fi-
gure del Fleury e del Du Pin, che sono i veri maestri del Giannone » (p.
131). È attraverso i loro scritti, e quelli di Huig van Groot, che Giannone
«scopre il problema del Medio Evo» (p. 133). La polemica giannoniana
contro la Chiesa di Roma diviene, nel saggio del Corsano, la ricerca d'una
nuova religiosità fondata sulla consapevolezza storica della caduta e corru-
zione del primitivo cristianesimo.
Questa nuova tematica negli studi giannoniani troverà concorde Nata-
lino Sapegno, che nel 1951, m un saggio su Giannone e la riforma teli-
giosa, apparso su «Società», a. vii, pp. 35-53, scriverà: «L'importanza sto-
rica del pensiero di Giannone non può essere colta ed intesa in tutta la
sua portata da chi si illude d'averla descritta coll'applicarvi l'etichetta
alquanto generica del regalismo o giurisdizionalismo, e non ne avverte la
specifica funzione nell'ambito di una condizione politica sociale e religiosa
ben detcrminata, qual'era quella dell'Italia meridionale nei primi decenni
del Settecento» (p. 35). La frecciata è evidentemente diretta contro Guido
De Ruggiero e contro Luigi Salvatorelli, i quali si erano limitati a ripren-
dere i giudizi del Gentile e del Nicolini, sia pure sviluppandoli in un più
ampio contesto, ora che lo studio dello Jemolo (tanto per citare un nome)
soccorreva loro allargando l'orizzonte degli studi giannoniani. Il De Rug-
giero, ne II pensiero politico meridionale, Bari 1921 ; il Salvatorelli ne
Il pensiero politico italiano dal ijoo al 1870, Torino 1935. Per il primo
V Istoria si rivelava «opera di un giurista, di un avvocato, vissuto nella
tradizione anticuriale del regno napoletano » (una tradizione che, però, era
ancora tutta da dimostrare!). Anzi il De Ruggiero arrivava ad affermare
che per Giannone l'« aggettivo "civile" posto a specificazione del suo lavoro
storico non aveva altro significato che quello di "giuridico"» (p. 35).
Quanto al Salvatorelli, Giannone, «per i nuovi indirizzi del pensiero poli-
tico settecentesco, era troppo giurista» (p. 25). L'opera di Giannone, con-
cludeva sbrigativamente, «ha un'importanza pratica per le lotte del secolo
XVIII fra Stato e Chiesa, e di conseguenza per la laicizzazione dello Stato
e della società, per l'abbassamento dell'autorità di Roma. Ma a questa lai-
cizzazione della società, a questo abbassamento dell'autorità curiale egli
non ha offerto un'ispirazione nuova di pensiero, un fondamento ed una
nuova tavola di valori» (p. 24).
Drastici giudizi fondati, ancora una volta, sulla sola lettura dell'Istoria
civile, che l'edizione del Triregno tentata dal Pierantoni non aveva convinto
nessuno. Ma nel 1940 appariva, nella collana degli «Scrittori d'Italia»
dell'editore Laterza, una nuova edizione dell'opera giannoniana, allestita
da Alfredo Parente. Purtroppo il Parente si basò, per la sua edizione, solo
su i due codici peggiori di tutto lo stemma dei manoscritti sino a noi per-
venuti, quelli napoletani, senza collazionare le più importanti e fedeli copie
conservate presso la Biblioteca Marciana di Venezia e la Biblioteca Ambro^
siana di Milano (su tutto questo si veda in Giannoniana, cit., pp. 338 sgg.).
Anche così, però, il passo avanti era innegabile. Si poteva cominciare ad
utilizzare questa seconda importante opera giannoniana, a fianco deH7.s7<>-
ria civile. Primo a farlo fu A. Omodko, in quella che fu qualcosa di mollo
più che una recensione alla nuova edizione latcrziana, pubblicata su «La
Critica» del 194 x (pp. 43 sgg. ; e poi in FI senso della storia, Torino 104S).
Il punto di partenza, per l'Omodeo, è giustamente il saggio del Coi sano,
che aveva còlto per il primo certi motivi fondamentali del pensiero ginn-
noniano. Ma nessuno meglio dcll'Omodeo, studioso del cristianesimo pri-
mitivo, poteva ora discutere la trilogia tentata dal Giannone Comincia
cosi ad apparire il «secondo Giannone», la cui cultura, scrive l'Omodeo,
«si trasforma in una missione, che lo trascina fin nella triste prigionia pie-
montese. La liberazione dai terrori è anche liberazione morale, e l'ali er-
mazione sincera del libero pensiero» (FI senso della stona cit., p. 250).
Anche per l'Omodeo, come già per il Fueter, il merito del Giannone è
stato, ancora una volta, quello di «aver raggruppato questi risultati sparsi»
raggiunti dalia cultura europea a cavallo tra Seicento e Settecento, «in
una visione organica dello sviluppo della religione umana» (p. 251).
Gli ultimi ventanni hanno conosciuto una vivace ripresa di studi, non
solo sul Giannone, ma, piti in generale, sull'intero Sei-Settecento napoleta-
no. Per la critica giannoniana ricorderò i numerosi scritti, innanzi tutto,
di L. Marini, il quale per primo riaprì il discorso col suo P. Giannone e il
giannonismo a Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della coscienza politica
del ceto intellettuale del Regno, Bari 1950, ritornando sullo schema proposto
dal Nicolini. Nello stesso anno usciva, sempre dovuto al Marini, un primo
censimento di manoscritti giannoniani : Per il testo critico degli scritti politici
minori di P. Giannone, m «Annali delia Scuola Nonnaie Superiore di
Pisa», xix (1950), s. 11, pp. 35-49; seguito da Altri codici per /' 'edizione
critica delle gì annoniane «Apologia deW Istoria civile» e « Professione di fede »,
ivi, xx (1952), pp. 104-13. Altri suoi saggi e recensioni sono stati da lui
stesso recentemente raccolti nel volume // Mezzogiorno d* Italia di fronte a
Vienna e a Roma e altri studi di storia meridionale, Bologna 1070»
Un originale contributo alla biografia giannoniana usciva nello stesso
1950 che vedeva la pubblicazione dello studio dei Marini: C. Cannakozsh»
P. Giannone nei primi diciotto anni di vita, s.n.t. (ma Firenze 1950), Alla
vita del Giannone si interessava anche A. Morskuli, Per la biografia di P.
Giannone, in «Atti e Memorie dell'Accademia di Sciente Lettere e Arti
di Modena», s. v, xm (19SS), PP- 345-5* ; mentre si occupava degli ultimi
anni R. Rossini, La prigionia e la morte di un grande storico, Torino 1959.
Nel i960, a Milano, usciva infine una nuova edizione dell'autobiografia,
curata da chi scrive.
La denigrazione neo-guelfa, tenuta desta dal Caristia, come s'è detto,
trovava altri corifei in V. Titonb, La storiografia dell'Illuminismo in Italia,
Palermo 1953; e in G. Pepe, II Mezzogiorno d'Italia sotto gli Spagnoli. La
tradizione storiografica, Firenze 1953. Mentre più obicttivo è il diligente
V. Guadagno, Gli studi di P. Giannone, in «Japigia» (1953), pp. 61-B4;
BIBLIOGRAFIA XXXV
Un illustre avvocato riformatore di università. Con il «Parere» inedito di P.
Giannone, Napoli 1956; Il pensiero religioso di P, Giannone, Napoli s. d.
(ma 1958).
Un contributo alla stona della fortuna apportava F. Venturi con una
comunicazione apparsa m «Banco di Napoli. Bollettino dell'Archivio sto-
rico», n.° 8 (1954), pp. 249-54: Giannomana britannica.
Alle tesi del Nicolmi si riallacciava E. Malato, Introduzione a P. Gian-
none nel quadro delU antìcuriahsmo napoletano del Settecento, Pozzuoli 1956;
mentre più eclettico si dimostrava C. Curcio, II Giannone ieri ed oggi, m
«Rivista internazionale di filosofia del diritto» (1956), pp. 779-85. Utile,
pur nella sua essenziale stringatezza di conferenza radiofonica, fu la pre-
sentazione di Giannone fatta da R. Romeo, poi stampata nel volume La
cultura illuministica in Italia, Torino 1957, curato da M. Fubini.
Nel «Giornale storico della letteratura italiana», cxxxvi (1959), pp. 169-
235, usciva il mio saggio Appunti e osservazioni in margine ad una nuova
edizione dell* autobiografia giannomana. Due anni dopo B. Vigezzi dava alle
stampe il suo P. Giannone riformatore e storico, Milano 1961, in cui si
rovesciano le tesi del Nicolini e si sostiene al contrario la grandezza di
Giannone come storico con una troppo visibile forzatura (ma la prima
parte del libro è di grande utilità : vi si ristampa un saggio che con lo stesso
titolo il Vigezzi aveva pubblicato su «Lo Spettatore italiano», ix, 1956, pp.
213-22; 270-82; 352-66, discutendo criticamente i precedenti studi sul
Giannone). Nel 1962, tra le «Memorie dell'Accademia delle Scienze di
Tonno. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche», s. iv, n.° 4, si
ha la pubblicazione de Le carte torinesi di P. Giannone, a cura di G. Ricu-
perati, primo censimento di tutti i materiali giannoniani conservati a To-
rino, sia nell'Archivio di Stato, sia presso la Biblioteca Reale e quella Ci-
vica. Da allora i contributi del Ricuperati si succedono con una progressi-
vità costante : « Istoria civile » e storia ecclesiastica in P. Giannone, relazione
tenuta al V Congresso di studi sulla Riforma ed i movimenti religiosi in
Italia, Torre Pellice, agosto 1962, in «Bollettino della Società di studi val-
desi», dicembre 1963, pp. 25-40; La difesa dei «Rerum Italicarum Scripto-
res* di L. A. Muratori in un inedito giannomano, in «Giorn. stor. d. lett.
ital. », cxlii (1965), pp. 388-418; Alle origini del «Triregno»: la «Philoso-
phia adamito-noetica* di A. Costantino, in «Rivista storica italiana», a.
lxxvxx (1965), fase, ni, pp. 602-38; Giannone e i suoi contemporanei: Len-
glet du Fresnoy, Matteo Egizio e Gregorio Grimaldi, in Miscellanea Maturi,
Torino 1966, pp. 57-87; Libertinismo e deismo a Vienna. Spinoza, Toland
e il «Triregno», m «Rivista storica italiana», a. lxxix (1967), fase, ni, pp.
628-95; Alessandro Riccardi e le richieste del «ceto civile» aW Austria nel
170?, ivi, a. lxxxi (1969), pp. 745-77; La prima formazione diP. Giannone:
V Accademia Medina-Coeli e Domenico Aulisio, in Saggi e ricerche sul Sette-
cento, raccolta di contributi di vari autori edita dall'Istituto Italiano per
gli Studi Storici, Napoli 1968, pp. 94-171; P. Giannone a Torino. Riflusso
del deismo e « cristianesimo ragionevole» nelle opere del carcere, in «Bollet-
tino storico-bibliografico subalpino», lxvii (1969)» fase. 1-2, pp. 69-140.
Questi studi dell'amico Ricuperati sono infine culminati nel volume Vespe-
rienza civile e religiosa dì P. Giannone, Milano-Napoli 1970.
Assai importante per la storia della fortuna e della diffusione delle opere
giannonianc è stato il saggio di G. Bonnant, P. datinone à Genève et la
publicatìon de ses eeuvres en Suisse au XVIIIC et au X1XV sihles, apparso
in «Annali della Scuola Speciale per archivisti e bibliotecari dell'Univer-
sità di Roma», m (1963), pp. 119-39. Oltre a correggere diversi errori del
Nicolini de Gli scrìtti e la fortuna, chiarisce numerosi legami e rapporti
del periodo ginevrino di Giannone. Per la documentazione sui plagi del-
Ylstoria è a sua volta essenziale l'accurata analisi di F. Fiorentino, Le
fonti dell' « Istoria civile» di P. Giannone, in «Belfagor», xix (1064), pp.
i4i-53"> 397-533- l^i b<in scarso valore si presenta, al contrario, I\ Gian-
nantonio, P. Giannone, 1, Tempi, cultura e Istoria civile, Napoli 1964.
Un'analisi degli ultimi contributi agli studi giannoniani è uscita su « Cri-
tica storica », ìv (1965), pp. 342-66 : La figura di P. Giannone in alcune recenti
interpretazioni, a cura di G. Ricuperati.
Nel 1968 usciva, per i tipi Ricciardi, il mio Giannoniana, censimento
degli autografi, dei manoscritti e dei documenti riguardanti Giurinone e la
sua fortuna. A completamento di questo lavoro pubblicavo, sempre in quel-
ranno, l'articolo su V incartamento originale del Sant'Uffizio relativo a P.
Giannone, in «Il Pensiero politico», a. 1, n.° 1 (1968), pp. 16-38.
Sul problema della lingua del Giannone cfr. I\ Giann Antonio, La lin-
gua di P. Giannone, in «Filologia e letteratura)), a. xvi (1970), fase. 1,
n.° 61.
Dicevo più sopra come gli studi sul Sei-Settecento meridionale si siano
intensificati in questi ultimi vent'anni. Non è qui possibile darne una bi-
bliografia completa, anche perché molti di essi si riferiscono ad un periodo
posteriore alla Napoli giannoniana. Si daranno perciò solo ciuci titoli più
direttamente vicini al nostro assunto, assieme a quelle opere, di più vec-
chia data, che serbano però ancora intatta la loro importanza.
Tra le opere di più alta data ricorderò : 3VL Landau, Moni, Wien, Neapel
wahrend des spanischen Erbfolgelmeges, Leipzig 1885; F. Scaduto, Stato e
Chiesa nelle Due Sicilie dai Normanni ai nostri giorni, Palermo 1887 ; L. Ama*
bile, Il Sant'Officio della Inquisizione in Napoli, Citta di Castello 1892; M*
Schipa, Problemi napoletani al principio del secolo XVI li, Napoli 1898;
R. Trifone, La Giunta di Stato a Napoli nel secolo XVIII, Napoli 1909;
R. Trifone, Fetidi e demani, Milano 1909; T. Persico, Gli scrittori politici
napoletani dal 1400 al xjqo, Napoli 19 12; M. Sciupa, // regno di Napoli
al tempo di Carlo di Borbone, Milano 1923*; G» Rispou, L'Accademia pa-
latina del Medina-Coeli: contributo alla storia della cultura napoletana, Na-
poli 1924; B. Croce, Storia del regno di Napoli, Bari X925; Studi di storia
napoletana in onore di Michelangelo Schipa, Napoli 1926; H. Benkdikt,
Das Kònigreich Neapel unter Kaiser Karl VI, Wien-Leipzig 1927; E.
Pontieri, II tramonto del baronaggio siciliano, in «Archivio storico sicilia-
no», 1931-1933 (successivamente raccolto in volume, con lo stesso titolo,
Firenze 1943) ; E. Pontieri, Aspetti e tendenze dell'assolutismo napoletano,
in «Rivista storica italiana», s. v, 1934 (e ristampa in II riformismo borbonico
BIBLIOGRAFIA XXXVII
nella Sicilia del Sette e dell'Ottocento, Napoli 1945); F. Ferrara, Stato e
Chiesa nel regno delle Due Sicilie durante il secolo XVIII, Napoli 1935; C,
Morandi, Partiti politici a Napoli durante la guerra di successione spagnuola,
in «Rivista storica italiana», s. v, 1939; G. Monti, Per la storia dei baroni
di Napoli, Trani 1939.
Un ampio quadro delle ricerche di storia meridionale più recenti può.
trovarsi nella rassegna critica di P. Villani, Economia e classi sociali nel
regno di Napoli (1734-1860) negli studi dell'ultimo decennio, apparsa su
«Società», xi (1955), pp. 665-95 (e ristampa con aggiornamenti in Mezzo-
giorno fra riforme e rivoluzione, Bari 1962). Altro strumento bibliografico
di grande utilità è il Bollettino bibliografico per la storia del Mezzogiorno
d'Italia (ro 57- ig 6ó)1 a cura di G. Meter Vitale, Napoli, Società Napole-
tana di Storia Patria, 1961.
Nel campo della Kulturgeschichte gli studi si aprono, come ho detto, col
saggio del Marini. Ad esso fa seguito la monografia di B. Dì Giovanni,
Filosofia e diritto in F. D'Andrea. Contributo alla storia del previchismo, Mi-
lano 1958. Quindi l'articolo di P. Piovani, Il pensiero filosofico meridionale
tra la «nuova scienza» e la «Scienza nuova)), in «Atti dell'Accademia na-
zionale di Scienze morali e politiche di Napoli», lxx, n.s. (1959), pp. 77-
109. Una grande discussione suscita inoltre (in cui sono maggiori i dis-
sensi dei consensi) il libro di R. Colapietra, Vita pubblica e classi politiche
del Viceregno napoletano (16 56-1 j 34), Roma 1961. Esso ha tuttavia il me-
nto di riprendere la discussione avviata da Lino Marini sul «ceto civile»
e, più in generale, sui caratteri del Viceregno, già affrontati da G. Coniglio,
II viceregno di Napoli nel secolo XVII, Roma 1955. Contemporaneamente
al libro del Colapietra si ha l'importante Introduzione a G. B. Vico di N.
Badaloni, Milano 1961, indispensabile per la comprensione dei precedenti
filosofici anche del Giannone. Sempre il 1961 vede l'apparizione d'un altro
importante contributo, quello di R. Ajello, II problema della riforma giu-
diziaria e legislativa nel regno di Napoli durante la prima metà del secolo
XVIII, 1, La vita giudiziaria, Napoli 1961. Si tratta di un libro originale,
che si è dimostrato fondamentale per la comprensione della stessa battaglia
giurisdizionalistica condotta dal gruppo di giuristi riuniti attorno all'Ar-
gento.
Un'ampia ripresa delle discussioni sollevate dai saggi precedenti, con
apporto nuovo, è stato il saggio Pensiero politico e vita culturale a Napoli
nella seconda metà del Seicento di S. Mastellone, Messina-Firenze 1965.
A sua volta il Coniglio è ritornato sui suoi precedenti studi col libro
I viceré spagnoli di Napoli, Napoli 1967. Nel 1968 si aveva un poderoso
volume di Saggi e ricerche sul Settecento, quasi tutto accentrato su problemi
del Mezzogiorno e composto di contributi di ex-allievi dell'Istituto Ita-
liano per gli Studi Storici. Il volume era il frutto di un seminario tenutosi,
nella sede napoletana dell'Istituto e nella Certosa di Padula, nell'ottobre
del 1964.
Alla precedente tematica è recentemente tornato il Mastellone, con
la monografia: Francesco D9 Andrea politico e giurista (1648-1698). L'ascesa
del ceto civile, Firenze 1969. È infine recentissima l'uscita di un'altra mo-
nografia, ugualmente importante per le ricerche giannoniane: quella di
V. I. Comparato, Giuseppe Valletta, Un intellettuale napoletano della fine
del Seicento, Napoli 1970.
Due direzioni di ricerca infine devono essere ricordate per la loro im-
portanza anche ai fini della comprensione del pensiero giannoniano da
un punto di vista più complesso: le ricerche di stona economica, aperte
da L. De Rosa con Studi sugli arrendamenti del regno di Napoli, Napoli
1958, e sviluppate, per il periodo che ci interessa, da A. Di Vittorio,
Gli Austriaci e il regno di Napoli 1707-1734. Le finanze pubbliche, Napoli
1969. L'altra direzione è l'approfondimento della storia cittadina, come sta
emergendo dalla Stona di Napoli, di cui è stato edito il volume vi, Napoli
s. d. (ma 1971), e stanno per uscire il vii e l'vin, dedicati alla ricostruzione
di tutti gli aspetti della vita e delia società napoletana tra Seicento e Set-
tecento.
Sergio Bertelli
TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI
Bertelli S. Bertelli, Appunti e osservazioni in margine ad una
nuova edizione delV autobiografia giannoniana, in « Giorn.
stor. d. lett. ital. », cxxxvi (1959), PP- 169-235.
Giannoniana S. Bertelli, Giannoniana. Autografi, manoscritti e docu-
menti della fortuna di Pietro Giannone, Milano-Napoli
1968. (Il riferimento al regesto del carteggio, conservato
presso la Biblioteca Nazionale di Roma, è dato con l'in-
dicazione del numero della lettera, anziché della pa-
gina).
Istoria civile P. Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, Napoli
1723, in quattro tomi.
Nicolini, Scritti F. Nicolini, Gli scritti e la fortuna di Pietro Giannone.
Ricerche bibliografiche, Bari 191 3.
Opere postume, l Opere postume di Pietro Giannone in difesa della sua Sto-
ria civile del regno di Napoli. Con la di lui Professione
di fede, Losanna 1760.
Opere postume, n Delle opere postume di Pietro Giannone giureconsulto ed
avvocato napoletano tomo secondo, contenente alcune sue
opere finora inedite precedute dalla vita del medesimo
autore, Venezia 1768.
Panzini [L. Panzini], Vita di Pietro Giannone: premessa a Opere
postume, li, cit.
Triregno P. Giannone, Il Triregno, a. cura di A. Parente, Bari
1940, in tre volumi.
Vita, ed. Nicolini Vita di Pietro Giannone scritta da lui medesimo, per la
prima volta integralmente pubblicata con note, appendice
ed un copioso indice da Fausto Nicolini, Napoli 1905.
VITA DI PIETRO GIANNONE
NOTA INTRODUTTIVA
Questa è la vita d'un libertino secentesco, drammatica, tragica nel
suo finale, e cosi profondamente diversa dalle carriere d'un libertino
del secolo successivo, quale visivamente ce la raffiguriamo con Wil-
liam Hogarth, o letterariamente con Casanova; anche se Giannone è
un coetaneo di Hogarth, maggiore d'una sola generazione del Casa-
nova. Ma il taglio che egli dà a queste sue memorie è quello del
libertinage érudit del tempo di Gabriel Naudé, di Spinoza, al massimo
del tempo di Pierre Bayle. Una vita che, nel racconto delle persecu-
zioni, ha molti punti di contatto con quella, inedita, del perugino
amico del Naudé, Secondo Lancillotti, capace di giocar tristemente
sul suo nome, sì da intitolarla Vita del Lancillotti a ninn fra* suoi
d'avversità Secondo. Così anche questa giannoniana autobiografia,
come ci dice lo stesso autore, non è ripiena di «fatti illustri ed egreg-
gi », ma è piuttosto la descrizione del navigare d'una barca in un mare
« crudele e tempestoso, pieno di sirti e di perigliosi scogli, dove facil-
mente potrebbe urtare e sommergersi ».x Aver saputo mantenere saldo
il timone, cioè diritta la propria coscienza morale, l'aver saputo essere
sempre coerente con se stesso (questa Vita, ricordiamolo, è stesa pri-
ma del duro carcere di Torino, che lo costringerà all'abiura), l'aver
dunque saputo restare fedele al proprio imperativo categorico è l'esem-
pio ch'egli può offrire con orgoglio al lettore della sua autobiografia,
stesa tra il 1736 e il 1737, nel chiuso del castello sabaudo di Miolans.
Una vita tutta spesa in difesa del potere monocratico del principe, a
sostegno del suo assolutismo : «Nella mia Istoria civile e nell'Apologia,
che fui costretto a dar fuori, non ebbi altro scuopo che di manifestare
e porre in più chiara luce i confini che framezzano tra l'imperio e il
sacerdozio ... E pure tutto ciò e l'aver sacrificato la mia vita, i miei
studi e i miei pochi talenti da Dio concessimi, niente giovommi» nei
confronti dei principi «per acquistarne una valida lor protezione;
né pure per potermi sottrarre dalle umane necessità, e vivere sicu-
ro in qualche angolo della terra; anzi il duro mio destino me gli ri-
volse in contrario, e fece che io gli sperimentassi sdegnati ed av-
versi ».2
Come il suo coetaneo, il conte Alberto Radicati di Passerano, anche
il Giannone dovette sperimentare quanto i principi, gli Absburgo co-
me i Borbone come i Savoia, fossero interessati all'indipendenza dal
potere ecclesiastico soltanto in funzione del loro assolutismo, ben
fermi a non scambiare una lotta beneficiaria, una difesa del diritto
1. Cfr. Vita, qui a p. 14- a* Cfr. Vita, qui a pp. 237-8.
di excquatur con una critica delle istituzioni, con progetti di riforma
religiosa. Lo Stato assoluto si reggeva ancora ben saldo sul principio
cuius regio eìus religio, e un Giannone o un Radicati, che volevano
rimettere in discussione modi e forme del credo, travalicando così
i confini della lotta giurisdizionalistica, non potevano trovare a lungo
appoggi.
Sarebbe infatti errato pretendere di ridurre tutta la vita di Pietro
Giannone al solo impegno politico, e non anche religioso, alla sua sola
Istoria civile del regno di Napoli, dimenticandoci dei suoi libri Del re-
gno terreno e celeste . . . Dove ampiamente si ragiona della natura dello
stato delle anime umane separate da' loro corpi e della resurrezione degli
stessi corpi nel fine del mondo, a quali si sono aggiunti diece altri libri,
che contengono altrettanti periodi del nuovo ed agli antichi incognito
regno papale. È vero, a prima lettura questa autobiografìa non è che
una epistola calamitatum (secondo la definizione che ne diede il De
Ruggiero) ; ma intanto, si veda lo spazio in essa riserbato alla genesi
del Triregno) e se si avrà poi la pazienza di ricomporre, accanto ad
essa, frammenti dell'epistolario, pagine dalla sua Apologia e dalla sua
Professione di fede, ricordi autobiografici sparsi nell'opere del carcere,
allora certi passaggi della Vita acquisteranno un diverso valore, ver-
ranno letti in una diversa prospettiva: ci si parerà innanzi, insomma,
il messaggio autobiografico d'un esprit fort, d'un libertino erudito che
a lungo ha meditato sulle opere di Baruch Spinoza, oltre che sugli
scritti di Cartesio e Gassendi, che conosce a fondo il De rerum natura
e Plinio e Seneca e Galeno, che ha letto e apprezzato le lettore di
John Toland alla principessa Sofia Carlotta di Prussia (le Lettcrs to
Serena) e che conosce il suo libro Christianity not Mystvrious, che è
al corrente delle polemiche d'un Dodwe.ll, d'un Louis Kllies I)u Pin;
d'un libertino, insomma, che lungo tutta la sua vita restò coerente
alle proprie convinzioni filosofiche, morali e religiose, almeno fmo al
momento dell'abiura, strappatagli dopo una prova di carcere duro,
ventiquattro mesi dopo aver posto fine alle sue memorie.
Il suo è un appello all'indipendenza, al diritto di pensare, « al mio
esser d'uomo intcriore», sia pure «non tralasciando, per ciò che ri-
guarda all'esteriore, di conformarmi a tutto ciò che la prudenza uma-
na dettavami dover praticare, conversando con gli altri, essendo nella
loro società civile, non dando ad alcuno occasione di scandalo, ov-
vero turbando in minima cosa l'ordine della repubblica ».x Non però
in modo da venire a patti colla propria coscienza. Questo Rousseau
avant la lettre, pur se non abbandonerà i figli al brefotrofio (anche se
i. Cfr. Vita, qui a p. 237.
NOTA INTRODUTTIVA 5
si preoccuperà che Giovanni, una volta fattosi raggiungere da lui a
Venezia, passi per un suo giovane servitore), ugualmente rifiuterà di
inginocchiarsi davanti all'altare per unirsi all'Elisabetta Angela Ca-
stelli, che, ricorderà, « con volere di sua madre vedova, e de* fratelli,
ebbi verginella in mio potere ». « Con lei, che m'amava tanto quanto
era da me riamata, e che io avea posta in città, in sicura custodia di
donne oneste e sovente l'avea per compagna nelle mie solitudini di
Posilipo e "Due Porte", alleggeriva le mie tetre e malinconiche occu-
pazioni ; e poiché teneva somma cura del mio corpo e delle mie cose
domestiche, io riposava in lei, né mi dava altro impaccio che de' miei
studi».1 E quando, uscita alla luce Y Istoria civile, i suoi detrattori
lo accuseranno di concubinato, riempirà pagine e pagine d'una lunga
dissertazione sul Concubinato de' Romani, dimostrandone la legit-
timità ben dopo la predicazione cristiana e rigorosamente distin-
guendolo dalla fornicazione: «Avere nello stesso tempo e moglie e
concubina non era permesso, siccome né tampoco avere assieme due
mogli, o due concubine. Queste concubine erano molto alle mogli
somiglianti, e perciò si chiamavano semimogli, ed il concubinato se-
mimatrimonio ...»;« Era quest'una congiunzione di uomo sciolto con
una donna sciolta, approvata dalle leggi e pattuita; non a fine di
aver prole, ma per soccorrere alla fragilità umana, ed alle cure
domestiche ».2
Questa rigorosa distinzione tra sfera pubblica e sfera privata egli la
manterrà anche durante gli anni dell'esilio viennese. È vero che il
fratello, l'8 novembre del 1735, gli scriveva come don Silvestro To-
sques avesse sparso per Napoli la voce che «in Vienna eravate da
tutti odiato e disprezzato, che miserabilmente vestivate e che sosteni-
vate un pubblico concubinato in mezzo a tante donne che davate a
vivere spendendo tutto il vostro in queste »,3 e il pettegolezzo può
anche avere un fondo di verità, se sono della Ernestine Leichsen-
hoffen quelle prove di scritture tracciate su di un foglietto poi riuti-
lizzato dal Giannone per una minuta di lettera al principe Alessandro
Teodoro Trivulzio :4 ma anche se la diceria fosse vera, non confer-
merebbe che quanto già sapevamo dei suoi principi: libero di for-
marsi un focolare a Napoli, libero di ricostruirselo a Vienna. E gli
accenti di dolore per il distacco dalla famiglia dell'Ernestine, la di-
sperazione per non poter più soccorrere lei e la madre abbandonate
a Vienna sono di una tale umanità, che ci dissuadono dal cercare
di penetrare nel segreto del suo focolare, ci ammoniscono a rispettare
1. Cfr. Vita, qui a pp. 75-6. z. Cfr. in Opere postume, 1, pp. no e 112.
3. Cfr. Giannoniana, p. 441. 4. Cfr. Giannoniana, p. 406.
la sua coraggiosa affermazione d'aver diritto ad una condotta privata
kantianamente intesa, proclamata ben innanzi alla Critica della ra-
gion pratica.
Se dunque non ci interessa la verifica del fatto in se (che scadrem-
mo anche noi, come il Tosqucs, nel più basso pettegolezzo), ce ne
interessa però, eccome!, la sua teorizzazione da parte dello stesso
Giannonc, dal momento che questa norma di vita che egli s'impose,
è tanto strettamente connessa al suo credo filosofico-religioso. A
Ginevra, cioè in un diverso mondo, in un mondo non suo di ribelle
o eretico nel cattolicesimo, egli terrà ben in vista, nella sua camera,
una statuetta di san Giuseppe: «Quegli che mi ospitava vedendo
che spesso venivano a visitarmi pastori e ministri, voleva nasconde-
re una piccola statua di gesso di S. Giuseppe ch'era nella miti stan-
za. Gli dissi che no '1 facesse, poiché quelli erano sì savii e discreti
che se ne sarebbero scandalczzati ove io non l'avessi cola lasciata
stare ; ed in fatti mai di ciò non si curarono. Io poi per celia soleva
lor dire ch'io teneva immagine di un santo, il processo della cui
santificazione non si era fabbricato in Roma, ma dall'evangelista S.
Matteo in Gerusalemme».1 La battuta di spirito mitiga il fatto in sé,
della statuetta nella stanza, fatto che ci lascia stupiti dopo aver letto,
in tutte le precedenti pagine di questa stessa sua opera del carcere,
V Istoria del pontificato di Gregorio Magno , una solenne diatriba con-
tro un uso delle immagini che sa di idolatria. Ma allora? Giannonc
improvvisamente devoto a san Giuseppe? Un san Giuseppe «raffi-
gurato sempre vecchio eziandio quando sposò la Vergine Maria»,
come egli stesso ironizza parlando dell'iconografìa cattolica nella pa-
gina innanzi?
La verità è che, anche a Ginevra, egli si conformava alla società
nella quale viveva. A Ginevra, in terra protestante, vi si conformava
a suo modo, accentuando certi atti esteriori di culto cattolico, proprio
per distanziarsi dai suoi ospiti, per sottolineare anche negli atti este-
riori una propria fede: si veda con quanta cura, non appena ar-
rivato, egli aveva avvertito Marc-Michel Bousquet « che palesasse a*
suoi amici la vera cagione della mia venuta, la qual non era per cam-
biar religione, ma per trovar quivi, giacché non poteva trovarlo in
Italia, un onesto modo di poter vivere colle mie fatiche ».s E al suo
arrivo, non era stato subito a far visita al residente francese, chieden-
dogli il permesso di assistere alla messa nella cappella del suo palaz-
zo ? Tant'oltre si spinse in questo atteggiamento, da voler ricevere il
i. Cfr. P. Giannone, La Chiesa sotto il pontificato di Gregorio il Grande,
in Opere inedite, rivedute ed ordinate dai cav. I\ S. Mancini, Torino 1852
(ma 1859), n, pp. 1x6-7. a- Cfr. Vita, qui a p. 314.
NOTA INTRODUTTIVA 7
precetto pasquale in terra cattolica, a Vezenaz, cadendo nell'agguato
tesogli dal conte Picon!
Per un duplice motivo: innanzi tutto, egli sapeva bene che una
sua conversione avrebbe minacciato l'intero edificio giurisdizionalista
da lui innalzato. Indicando V Istoria civile quale opera di eretico,
la vittoria sarebbe spettata indubbiamente a quelle forze che egli
con tanta tenacia aveva combattuto. Ma, in secondo luogo, questa
sua improvvisa professione d'ortodossia gli permetteva di distan-
ziarsi vieppiù da un altro mondo religioso - e quanto oppressivo -
quale era la calvinista Ginevra. È lui stesso a spiegarcelo, nella stessa
pagina, più sopra e subito dopo il passo che abbiamo riferito: «Nel
tempo delle mie persecuzioni, essendo costretto per dura necessità
a ricoverarmi a Ginevra ... in que' pochi mesi che vi dimorai ebbi
occasione di conversare con que' pastori e ministri delle sue chiese,
fra' quali col dottissimo Alfonso Turrettino professore di teologia e
di storia ecclesiastica in quella Università di studi, col ministro Ver-
net pastore della chiesa di S. Gervasio, e con altri saggi professori
di scienze: ed ebbi la curiosità di entrare ne' loro tempii e di ascol-
tare qualche lor sermone. Li vidi vacui, nudi, che ispiravano malinco-
nia. Le loro prediche per lo più erano invettive contro la Chiesa di
Roma ... Da pochi era inculcata la carità ed amore col prossimo ; l'ab-
bonimento dalle frodi, inganni e dagli altri vizi ... Né potei contener-
mi benanche di manifestar loro il mio desiderio che le loro prediche e
sermoni non si fosser rimaste a sole invettive, ma avessero inculcato
quello di cui il paese avea maggior bisogno, la dilezione del prossi-
mo, la pace fra i cittadini ch'erano allora tutti in rivolta e discordia,
l'abborrimcnto dalle frodi e dagl'inganni».1 Mostrandosi cattolico in
terra protestante, Giannone manteneva dunque la propria libertà di
pensiero, poteva criticare il fanatismo religioso - come già lo aveva
criticato in terra cattolica -, propagandare il suo ideale d'una reli-
gione «tutta pura e tutta semplice, niente operosa e che non avea
bisogno né di tempii, né di sacerdoti, né di altari».2
Perché avrà un bel dire, nel suo manifesto contro l'espulsione
decretata nei suoi confronti dagli inquisitori veneziani, ch'egli nulla
sapeva d'una setta d'ateisti, e di ragionamenti sulla lingua fresca
di sant'Antonio e dell'odore di rose della sua Arca, e in genere
sulle imposture dei frati.3 Intanto, non era lui l'autore di quella ter-
ribile Professione di fede, che esamineremo a suo luogo ? Ma ba-
sterebbe, a denunciarci l'ambiente libertino in cui egli visse a Ve-
x. La Chiesa sotto il pontificato di Gregorio il Grande, loc. cìt. a. Cfr. Del
regno terreno, qui a p. 604. 3. Cfr. Ragguaglio dell'improvviso e violento
ratto, qui a p. 538.
nezia, la presenza al suo fianco, al momento dell'arresto, dell'abate
Antonio Conti, l'amico e corrispondente del Newton, filosofo e mate-
matico egli stesso, tessitor d'intrighi (a lui si deve buona parte di
responsabilità nella polemica sul calcolo infinitesimale), vero avven-
turiero nella respublica litteraria del tempo. Ma, soprattutto, ce lo
svelerà un passo d'una lettera del principe Trivulzio al Giannone
ormai in salvo a Ginevra: «Pensate poi con comodo, e con tempo a
trovarmi qualche libro, che dica male, e non mi basta l'ordinaria sa-
tira, e frizzi, voglio che dica male con tutta la rabbia più mordente,
e che vi sii zolfo del più distillato, acciocché la mia bile possi im-
parare nuovi termini, e nuove foggie di dir male».1
Giannone, dunque, l'ultimo dei nicodemisti nostrani ? O invece il
primo dei nostri illuministi ? Forse né l'uno né l'altro, ma piuttosto,
come dicevamo, l'erudito libertino, il ribelle disposto a transigere
in tutti quegli atti che non violino la propria coscienza, e in questo
nicodemista, ma pronto a pagare di persona, quando il suo gesto può
assurgere a normatività per i suoi contemporanei, con una fede nel-
l'azione educativa («populistica», l'ha definita il Sapegno, ma noi non
intendiamo usare questo termine) che lo fa ritenere senz'altro un illu-
minista. Non a caso, sapendo che cosa rischiava, egli rifiutò di sot-
toporre la sua Istoria civile alla censura ecclesiastica: non per tema
di tagli che lo avrebbero costretto al compromesso (chi gli impe-
diva d'uscire con falso luogo di stampa, alla macchia, e magari sotto
falso nome?), ma per provocare il censore ecclesiastico, per creare
attorno a sé il caso clamoroso, per ribadire la sovranità del censore
laico.
La stesura dell'autobiografia iniziò nell'estate del 1736, quando,
«ritenuto fra le angustie d'un castello, . . , privo di ogni umano com-
mercio», per non morire intellettualmente («per alleggerire in parte
la noia ed il tedio ») si tuffò nella memoria della sua vita passata,
non già indagandosi e scrutandosi, che non aveva nulla da rinnegare,
ma anzi cercando di documentare, per ammonimento ai posteri, la
sua tragedia. La dichiarazione iniziale, di non presumere «di pro-
porla a' lettori per cssempio da imitare »,a ò puramente di circostanza.
Già quel presupporre ch'essa sarà un giorno letta, dice come non
fosse un soliloquio. Ma l'impegno didascalico affiora quasi ad ogni
pagina; né certi silenzi, certe omissioni sarebbero altrimenti conce-
pibili. Come l'attenuazione della sconfìtta personale e del proprio
gruppo al momento dell'uscita dell'istoria civile, quando tace delle
pressioni del viceré perché fosse revocata la sua nomina ad avvocato
1. Cfr. Giannoniana} pp. 528-9. 2. Cfr. Vita% qui a p. 13.
NOTA INTRODUTTIVA 9
della città, non dice della proibizione del libro perché «contra bonos
mores » imposta dall'Althann al Collaterale, pur formato in maggio-
ranza da uomini del suo partito, non dice dell'ordine d'arresto nei
suoi confronti.1 O, ancora, quando sorvola sui retroscena della sua
assoluzione, non ammettendo che quel gesto fu da molti criti-
cato,2 ecc.
Lavorò a queste memorie con grande lena, e nel gennaio del 1737
le aveva già condotte a termine. Vi aggiunse notizia d'una malattia
che lo colpi nel gennaio e di nuovo nel marzo di quell'anno ; infine
due pagine di commiato dal mondo, affidando proprio a questo suo
scritto il ricordo di sé per i posteri («ho voluto, dandomene opportu-
nità quest'ozio e questa solitudine, dar al mondo una verace e fedel
narrazione della mia vita»).3 Il 7 settembre fu separato dal figlio, ri-
messo in libertà d'improvviso e senza permettere ai due prigionieri
un abbraccio di commiato,4 e poco dopo tradotto nel carcere tori-
nese di Porta Po, dove fu costretto ad abiurare. A Miolans, come rife-
risce il Panzini, il governatore del castello gli aveva accordato «la
libertà di passeggiare ne' termini del castello, almeno per un paio
d'ore al giorno in sua compagnia», e dato ordine «che le stanze che
il Giannone colà teneva, potessero restar aperte per tutto il giorno,
e si chiudessero solo di notte » ;5 il prigioniero aveva inoltre a dispo-
sizione libri, carta e inchiostro per scrivere. Strappatagli l'abiura,
fu nuovamente trasferito, questa volta nel forte di Ceva. In esso, se-
condo una descrizione del 13 febbraio 1765, vi erano «tredici camere
per ricovero de* prigionieri, e capaci tutte di due, ed alcuna di tre
letti per ciascuna, cioè : sei di esse sono situate alla sinistra del pian
terreno all'ingresso del forte colle finestre a Mezzogiorno, riparate
dalla Mezzanotte dalla rocca denominata Cavagliè. Tutte le camere
sono sane, e di buon'aria, e di lunghezza ciascuna trabucchi tre circa.
Alla destra di detto ingresso vi sono due camere, ciascuna di esse
ha un'anticamera; queste camere sono di lunghezza di tre trabucchi
circa come le antecedenti, e sono capaci cioè una di quattro letti e
l'altra solamente di due per essere un poco più stretta, ed hanno le
finestre a Levante e Ponente, e sono egualmente sane col suolo di
tavole, essendo pure l'interno delle loro muraglie rivestito di tavole
per l'altezza di un trabucco, ed inservivano altre volte per i prigio-
nieri di stato ».6 In una di queste ultime stanze, dunque, il Giannone
visse, isolato, sino al I settembre del 1744, quando per l'incalzare
1. Cfr. Giannoniana, pp. 9 e 52. 2. Cfr. Vita, qui a p. 108, e Bertelli,
p. 187. 3. Cfr. Vita, qui a p. 343. 4. Si veda nell'autobiografia di Gio-
vanni, in Giannoniana, p. 194. 5. Cfr. Panzini, p. 98. 6. Archivio di
Stato di Torino, Materie economiche, carceri, b. 7, Carceri del Forte di Ceva.
xv VII A DI PIETRO GIANNONE
della guerra, fu giudicato più sicuro il suo trasferimento nella citta-
della di Torino. A Ceva la sua vita non era stata dissimile da quella
di Miolans: vi aveva avuto la possibilità di stendere i Discorsi sopra
gli Annali di Tito Livio (1739) e la Istoria del pontificato di Gre-
gorio Magno (1742), avendo a disposizione libri della stessa biblio-
teca reale.1 Sempre a Ceva, proprio alla vigilia della traduzione a
Torino, il 26 agosto, terminava l'ultima sua opera, VApe ingegnosa.
A Torino, d'improvviso, il rispetto del quale sinora era stato cir-
condato venne improvvisamente a mancare; non già per ordine so-
vrano, ma per lo zelo d'un carceriere, l'ufficiale Caramelli, come c'è
rimasta notizia da un lungo esposto del Giannone al marchese di
Cortanzc, presentato dopo quasi due anni di sofferenze, nel maggio
del '46. L'ordine sovrano, trasmesso il 24 dicembre 1744 al marchese
di Cortanzc, era che si garantisse al prigioniero «di prender l'aria
aperta per la cittadella un'ora 0 due in ogni giorno, con destinargli
però in tal tempo un ufrizialc, od altra persona della di lei confidenza,
su cui si possa contare, che gli tenga compagnia e lo governi a vi-
sta; . . . proibendogli di intrare con lui in discorsi particolari, massi-
mamente di religione . . . Vuole altresì la Maestà Sua che gli si dia
la libertà ed il comodo di leggere e scrivere, ma con avvertenza parti-
colare che nulla de suoi scritti esca dalle sue mani senza passare
immediatamente in quelle di Vostra Eccellenza».2 Senonché l'uffi-
ciale scelto per accompagnarlo fu di nuovo il Caramelli, che già lo
aveva accolto incivilmente al suo arrivo nella cittadella, ora ancor
più invelenito per un ricorso del Giannone al re (donde il ribadire
delle disposizioni in suo favore, nel biglietto sopra citato). L'elenco
dei soprusi e delle privazioni ci mostra un vecchio ormai rassegnato
al suo destino, ma ancora in lotta per la sopravvivenza. Una minuta
d'una sua lettera, del 16 ottobre 1747, ce lo mostra in atto di ringra-
ziare perché finalmente gli si e ricoperto il pavimento della stanza
d'un assito di legno.3 In lotta per la sopravvivenza anche intellettuale,
che se anche non scriverà più (salvo rivedere, correggere e aggiungere
note alle sue precedenti opere del carcere), sarà sempre immerso
nella lettura di libri tratti sia dalla biblioteca reale, sia ora anche da
quella dell'ambasciatore d'Inghilterra a Torino, Arthur de Villettes*4
Egli è insomma, anche nella cittadella di Torino e a malgrado delle
1. Cfr. la lettera al marchese di Caraglio del 25 ottobre 1747, in Giannonia-
na, p. 488. 2. Cfr. Giannoniana, p. 487; la Reiasione . . .a S. E* il sig,
Marchese di Cortanze è stata edita in appendice all'edizione déV Autobio-
grafia, curata da A. Pierantoni (Roma 1890, pp. 514-31). 3. La lettera e
edita in Giannoniana, p. 49 1 . 4. Elenchi di libri chiesti in prestito in Gian-
noniana, pp. 488 e 490.
NOTA INTRODUTTIVA II
angherie d'un suo carceriere, un prigioniero illustre, vera vittima
della ragion di Stato di quell'assolutismo del quale egli s'era fatto
difensore e paladino.
Nella cittadella di Torino, a settantadue anni, si spense, come è
annotato nel libro dei morti della fortezza: « Il sig. avvocato don Pie-
tro Giannonc della città di Napoli, in questa cittadella detenuto,
munito dei SS. Sacramenti è morto il 17 marzo 1748 e li 18 del
medesimo è stato sepolto nella Chiesa Vecchia di questa parrocchia-
le ». Così si chiudeva, tragicamente, la carriera d'un erudito libertino.
Sergio Bertelli
VITA DI PIETRO GIANNONE
SCRITTA <IN SAVOIA > NEL CASTELLO DI MIOLANS < DA LUI
MEDESIMO E CONTINUATA NELLA LIGURIA NEL
CASTELLO DI CEVA>
[PROEMIO]
Prendo a scrivere la mia vita e quanto siami accaduto nel corso
della medesima, non già che io presuma di proporla a' lettori per
essempio da imitare le virtù forse da me essercitate, o da sfuggire i
vizi de* quali fui contaminato ; ovvero perché contenesse fatti egregi
e memorandi e fuor del corso ordinario delle umane cose adoperati -
poiché son persuaso che, sicome in me non furono estreme virtù od
estrema dottrina da imitare, cosi mi lusingo che non vi saran estremi
vizi oppure estrema ignoranza da fuggire. Prendo a scriverla per-
ché, trovandomi ritenuto fra le angustie d'un castello, dove privo
di ogni umano commercio traggo miseramente i miei giorni; e du-
bitando, per la mia età cadente, non dovessi quivi finirla; quindi,
e per alleggerire in parte la noia ed il tedio, e perché, avvicinan-
domi alla fine, rammentando con la mente tutte le mie passate ge-
sta, possa1 ritrarre conforto dalle buone e pentimento delle ree.
Sono ancora a ciò spinto dal riflettere che, avendomi il mio de-
stino condannato ad esser bersaglio delPinvida maladicenza di
molti miei nemici, i quali non meno presero a malmenare i miei
libri che a detrarre e malignare le mie azioni, intendo che gli ama-
tori della verità ne abbiano una sincera e fedele narrazione, e non
si dia occasione a' maligni di oscurarle, o lividamente rapportarle.
E poiché, dopo il mio naufragio, vari miei scritti andarono sparsi
di qua e di là, perché tutti sappiano separare i veri da' falsi, che
La presente è fedele trascrizione dell'autografo giannoniano conservato
all'Archivio di Stato di Torino, manoscritti Giannone, mozzo in, ins. 2. So-
no registrate, senza unificarle, tutte le varianti grafiche e le oscillazioni di
una stessa parola. Cosi pure è rispettata la punteggiatura originaria, salvo
una più accentuata introduzione di capoversi, che è stata giudicata indi-
spensabile per non affaticare la lettura, E stata abolita la profluvie di maiu-
scole presenti nell'originale. Le aggiunte apposte all'autografo dall'autore
in un secondo momento (negli anni attorno al 173 9-1 741) e distinguibili nel
manoscritto per il diverso e più forte inchiostro, sono state poste tra paren-
tesi uncinate. Sono invece tra parentesi quadre gli interventi integrativi
dell'editore.
1. possa: è retto dalla proposizione principale Prendo a scrìverla perché . . .
A+ VITA DI PIKTRO GIANNONK
potrebbero gli invidiosi, forse, a me ascrivere, manifesto qui fe-
delmente, uno per uno, quali fosscr i miei propri e legittimi parti.
Ma sopra tutto prendo a scriverla perché sia a gli altri di docu-
mento, e spezialmente a gli uomini probi ed onesti ed amanti del
vero, quanto sia per essi dura e malagevole la strada che avran da
calcare, per passar la loro1 in questo mondo liberi e sicuri, fra la
turba di gente improba ed infedele e tra l'infinito numero degli
sciocchi e de5 malvaggi, massimamente a chi avrà sortito la disgra-
zia di nascere sotto grave e pesante cielo, ed in terreno servo e
soggetto e ferace di pungenti spine e d'inestricabili pruni e triboli;
e molto più in questi tempi ne' quali, spento ogni raggio di virtù,
sembra che l'invida maldicenza, l'ambizione, l'avidità delle ric-
chezze e degli onori, l'avarizia e tutte le umane scelleratezze abbia-
no date le ultime prove; sicché a ragione, chi attentamente vi ri-
flette, non più dubiti il mondo esser retto e governato da spirito
pravo e maligno, secondo che pure la divina Sapienza ci palesò,
dicendo ch'era posseduto da Satan; che gli uomini per proprio istin-
to, fin dalla loro adolescenza sono portati al male, e che il mondo
fosse positus in maligno.2
Se adunque in essa non vi leggeranno fatti illustri ed egreggi,
avrà almanco questo preggio: che altri, avendola innanzi gli occhi,
prenda da sé guardia ed abbiala per guida e scorta in passando un
mare sì crudele e tempestoso, pieno di sirti e di perigliosi scogli,
dove facilmente potrebbe urtare e sommergersi- Forse potrà anche
riuscire di loro utile, in leggendo nel corso della medesima quanto
gli uomini sovente si affatichino indarno fra studi vani od inutili, e
le preziose ore del tempo inutilmente consumino fra ricerche di
cose vane che niente conducono, né per regger la nostra vita nella
strada della virtù, de' buoni costumi e delie opere oneste e com-
mendabili presso Dio e presso gli uomini probi, né per illuminare
le nostre menti nelle cognizioni delle scienze utili e necessarie;
anai per maggiormente invilupparle tra questioni vane ed astratte,
delle quali, doppo essersi lungamente affaticati, ne sapranno molto
meno che prima, quando cominciarono ad investigarle.
i. la loro: sottinteso «vita», z. positus in maligno: cfr. / loann., 5» 19.
CAPITOLO PRIMO
[Anni I6j6-i6g2\
Io nacqui da onesti parenti1 a' sette di maggio dell'anno 1676,
in una terra del monte Gargano, nella Puglia de' Dauni chiamata
Ischitella, prossima a' lidi del mare Adriatico, dirimpetto all'isole
Diomedee, ora dette di Tremiti. Allevato nell'infanzia dalla non
men pia che savia mia madre, Lucrezia Micaglia,2 ed erudito negli
esercizi di pietà con somma accuratezza e religione, fui mandato a
scuola ad apprender grammatica dall'arciprete di quella chiesa,3
uomo versato nella lingua latina per quanto comportava la condi-
zione del luogo, ma molto più commendabile per la sua probità e
per l'esemplari ed incorrotti suoi costumi.
Nella mia adolescenza mancò poco che non tornassi in quello
stato nel qual fui prima di nascere, poiché, infermato di febre an-
corché non gravemente, il medico, poco riflettendo al mio gracile
temperamento, mi diede una purgazione preparata con antimonio
superiore alle mie forze; sicché, di sopra con vomiti, e di sotto con
profluvi continui, mancò poco che non esalassi l'anima fra le braccia
della mia cara madre. Ma, sicome il pericolo fu grave, così, quel-
li cessati, in breve tempo tornai al pristino stato di perfetta salute.
Adulto che fui, nell'età di quindici anni, da Scipione mio padre
fui mandato a' studi di filosofia sotto la disciplina e direzione d'un
frate franciscano de' zoccoli, valente professore e teologo rinomato
nel suo Ordine, il quale, dopo aver occupato i gradi più cospicui
della sua religione, fu fatto lettore giubilato:4 onore non solito
1. da onesti parenti: latinismo, «da genitori di condizione dignitosa», cioè
non infima. Il Panzini, p. 1, scrive che «Scipione ebbe nome suo padre,
di professione speziale . . . Pretendesi che il padre traesse sua origine dalla
nobile famiglia de* Giannoni-Alitto, oggidì anco risedente nella città di Bi-
tonto. Ma non cercò giammai il nostro autore sì ridicoli vanti . . ., comec-
ché pronti fossero i signori Giannoni-Alitto a dichiararlo per sanguinità
lor congiunto ». È pur vero, infatti, che gli Alitto furono in rapporti col
nostro, quando questi raggiunse una stimata posizione sociale, ma le sue
origini furono poverissime. Il padre, in gioventù chierico, aveva abbando-
nato l'abito talare per sposare Lucrezia Micaglia, dalla quale ebbe cinque
figli: Pietro, Francesca, Vittoria, Carlo e Teresa. Cfr. C. Cannarozzi,
Pietro Giannone nei primi diciotto anni di vita, s.n.t., p. 11. 2. Lucrezia
Micaglia: figlia di Matteo e di Isabella Sabatelli, era nata nel 1653. Morì
il 29 luglio 1709. 3. arciprete di quella chiesa: don Gaetano Serra, for-
se parente della bisnonna materna del Giannone, Giulia Serra. 4. un fra-
te. . .giubilato: forse il padre Daniele da Ischitella, ricordato come «Mi-
nore osservante, dottore giubilato [cioè collocato in riposo con pensione]
conferirsi, se non a coloro i quali, doppo lunghi anni di lettura e di
aver dato pruove ben chiare de' loro talenti, se l'avrai* meritato. E
poiché, fra l'altre prerogative che seco porta la giubilazione, ò di
rimanere ad arbitrio del giubilato d'eleggersi un convento che
fosse di suo piacere, per menar ivi il rimanente di sua vita in quiete
e riposo, questi, ch'era naturale del luogo, s'elesse il convento de'
suoi frati, costrutto da antichissimi tempi in Ischitella sua patria, e
quivi venne a dimorare. Questa occasione fu riputata da' miei pa-
renti opportuna e come venuta dal Cielo, per mandarmi sotto la
disciplina del medesimo ad apprender filosofia, per la gran fatila di
dottrina, che in quella provincia si avea di lui. Egli adunque co-
minciò ad insegnarmela con grande amore e diligenza; e nello spa-
zio di tre anni, applicandovi io con somma attenzione, finito il corso
della logica, fisica e metafisica, divenni filosofo scolastico-scotista,1
e disputava co' miei uguali, con energia e sottigliezza, di quelle
cose che io stesso non intendeva, né distintamente capiva; ma Tem-
pito ed il fervore della disputa somministravami parole ed argo-
menti tali che, a mio e lor credere, sembravano forti ed invincibili.
Queste vaghe e confuse idee, che io avea di quelle cose che m'eran
da quella filosofia state somministrate, se bene l'averla appresa
mi cagionasse la perdita di tanto tempo, che io avrei potuto impie-
gare a studi propri di quella età giovanile, come delle lingue, della
geografia e cosmografia, per sapere dove io, uscito alla luce di que-
sto mondo, era venuto, per non dimorarci da ospite e peregrino, e
non perderlo tra questioni astratte e metafisiche, delle quali non
era io capace, nulladimanco produssero in me questo buon effetto
che, giunto in Napoli, mi disposero a studi più sodi, i quali mi fecer
dimenticare quanto in que* tre anni confusamente avea appreso:
sicché quelle vaghe e confuse immagini, non avendo fatte profonde
impressioni nel mio cerebro, né lungamente dimoratevi, poterono
tosto dileguarsi per le nuove e più solide cognizioni che io andava
acquistando.
Finito adunque il corso della filosofia d'Aristotele, secondo la
mente e sposizione2 di Scoto, perché non vi era altro ivi che fare ed
della scuola di Sorona» in F, A. Donato, Cenno storico intorno V antica
città di Uria Marittima nel Gargano, Napoli 1886, p. 22, e spentosi in
Ischitella nel 1698; de* zoccoli: 0 zoccolante, denominazione popolare da-
ta ai frati minori osservanti. 1. filosofo scolastico-scotista: aveva cioò ter-
minato gli studi sulla filosofia scolastica di Giovanni Duna Scoto (xa66
circa-1308). 2, sposizione: esposizione.
CAPITOLO PRIMO 17
i miei genitori pensavano di applicarmi allo studio delle leggi;
lontani di1 mettermi nello stato ecclesiastico, sicché dovessi intra-
prender gli studi di teologia presso lo stesso padre teologo; si ri-
solvettero di mandarmi a Napoli, col certo soccorso che avrebbe lor
somministrato per mio sostentamento uno zio di mia madre, prete,3
non men agiato di beni di fortuna, che verso di me molto tenero
e benefico e che mi portava grand'amore ed affezione.
1. lontani di: lontani dall'idea di. Questa notizia non è esatta, e nasconde
una ben diversa realtà. Vero è che nello Stato d'Anime del 1692, alla descri-
zione della famiglia di Scipione Giannone, troviamo che Pietro è definito
«l'acolito Pietro, di anni 16 » e l'accolitato è un vero e proprio ordine mino-
re, ed egli fu dunque chierico, probabilmente sino al momento della sua
partenza per Napoli, 2. uno zio . . . prete: non già Matteo Micaglia, come
riferì il Fanzini, p. 1, perché questi era il nonno, e non lo zio di Pietro.
Il sacerdote al quale qui si allude fu invece il prozio del Giannone don
Carlo Sabatclli, figlio di Leonardo Sabatelli e di Giulia Serra, il quale, nel-
lo Stato d'Anime del 1692 figura convivente con la famiglia di Scipione
Giannone.
CAPITOLO SECONDO
Anno 1694, sotto il regno di Carlo II re di Spagna e sotto il governo del
conte di S. Stefano1 e poi del duca di Medina Coelt2 viceré
Giunsi in Napoli ne' princìpi del mese di marzo deiranno 1694,
e que' a* quali io fui raecomandato, non per mancanza di affetto,
ma per poca conoscenza che aveano de' più insigni professori di
legge che erano in quella città, mi mandarono ad apprender legge
civile e canonica in casa d'un lettore, il quale, secondo che col pro-
gresso e più per l'avvertimento di altri più saggi conobbi dapoi,
poco sapeva dell'una e meno dell'altra, del di cui nome io non vo-
glio per ciò ricordarmi;3 poiché, oltre di insegnare sopra alcuni
scritti da altri scipitamente composti, l'avea ripieni d'inutili que-
stioni, le quali non solo niente rischiaravano le Istituzioni* piane e
semplici deirimperadore Giustiniano, per le civili e, per le cano-
niche, quelle di Lancellotto,5 ma tutte le confondevano ed oscu-
ravano; e se io le leggi ed i canoni che si allegavano voleva cercarli
e riscontrargli nel Corpo del ius civile 0 canonica, 0 non le trovava
affatto, 0 pure le ravvisava tutte mal a proposito alligate, guaste e
non intese: ciò che mi dava indizio che il mio maestro orasi pog-
giato su l'altrui fede, non ch'egli l'avesse mai lette ed osservate.
Posto in questa confusione ed intrighi, da' quali, come poteva
il meglio, m'andava distrigando colla lettura de* testi originali e
con communicarc le mie difficoltà ad altri d'età e di dottrina più
1. conte di S. Stefano: Francisco de Benavidcs y Aragón, conte di KantiKte-
ban del Puerto. Fu viceré di Sardegna nel 1676, poi di Sicilia nel 1678-1687,
infine di Napoli, dal 1687 al 1696. A lui, all'atto della partenza per la Spa-
gna, indirizzò un'orazione G. B. Vico, premessa a Vari componimenti in lo-
de dell' eccellentissimo signore don Francesco Beiuwides, ecc., raccolti da Nic-
colò Caravita, Napoli 1696: cfr. G. B. Vico, Scritti vari e pagine sparse, a
cura di F. Nicolini, Bari 1940, pp, 8$ sgg., e la nota del Nicolini, ivi, pp.
272-3. 2. Il conte Luis Francisco de la Cerda y Aragón (1660-17x1),
duca di Medina Coeli, successo al Benavides nel viccregno di Napoli dal
1696 al 1702. 3. un lettore . . . ricordarmi: ne abbiamo il nome in Panzxnx,
p. 1 ; si chiamava Gian Battista ComparelU ed esercitava nel foro napoletano
come procuratore. 4. Le Institutiones, pubblicate il 2t novembre 533,
erano un testo ad uso della scuola, compilato su ordine dell'imperatore
da Triboniano, Teofilo e Doroteo, durante la redazione del Digesto.
5. quelle di Lancellotto: le Institutiones iuris canonici, quibus ius pontiflcium
singulari methodo libris quatuor comprehenditur, Lugduni 1578, di Giovan
Paolo Lancellotti (1522-1590), detto «il Triboniano di Perugia» sua città
natale, nel cui Studio insegnò prima diritto civile, poi diritto canonico.
CAPITOLO SECONDO 19
avanzata, de' quali io cominciava ad acquistar conoscenza ed ami-
cizia; per mia buona sorte ebbi, dopo qualche tempo, opportunità
di conoscere un sacerdote assai dotto e di grande erudizione e
probità, del di cui nome e beneficenza non potrò mai dimenticar-
mene, poiché fu il primo ad illuminarmi e per suo mezzo ad acqui-
star conoscenza de* primi e più rinomati professori e letterati delia
città suoi amici. Questi fu don Giovanni Spinelli, erudito in tutte
le scienze, e che nella sua avanzata età si era anche applicato nello
studio della giurisprudenza romana; al quale avendo io esposte le
mie confusioni nelle quali era sotto il mio istruttore di legge, com-
passionando il mio stato d'ignoranza, mi sollevò dal fango e, po-
stomi nella dritta via, mi additò il segno verso dove dovea incami-
narmi; e che, per poterci arrivare, era mestieri cambiar maestro ed
apprender la giurisprudenza non già dalle pozzanchere,1 sicome fin
ora io aveva fatto, ma da' fonti limpidi e chiari, che me l'avrebbe
additati un altro insigne maestro ; il qual era il celebre Domenico
Aulisio,2 professore del ius civile dell'Università de' regi studi di
Napoli, profondo in tutte le scienze ed ornato non men di latina
che di greca erudizione, e sopra tutto a fondo inteso non pur delle
leggi, ma dell'istoria romana, senza la quale non poteano perfetta-
mente capirsi ed intendersi ; ch'egli3 come suo amico mi averebbe
condotto e raccomandato con fervore ed efficacia, sicché di me
avesse particolar cura e pensiero, sicome fece.
Trovavasi già TAulisio, e molto più dopo avere ottenuta la cat-
tedra primaria vespertina del ius civile,4 aver dismessa affatto la sua
scuola privata, ove, secondo il prescritto delle Istituzioni di Giusti-
niano, insegnava a' giovani la giurisprudenza; ma allora pubblica-
mente ne* regi studi, secondo l'istituto di quella Università, spie-
gava le più difficili materie di testamenti, legati, istituzioni, fide-
1. pozzanchere*. pozzanghere. 2. Domenico Aulisio (1 639-1717) fu uno
dei più celebri giuristi napoletani della generazione precedente quella del
Giannone. Su di lui, oltre quanto è detto in L. Giustiniani, Memorie
isteriche degli scrittori legali del regno di Napoli, Napoli 1787-1788, i, pp.
91 sgg., e in G. M. Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia, 1, Brescia 1753,
ad vocem Aulisio, si veda la voce stesa da F. Nicouni, in Uomini di spada,
di chiesa, di toga, di studio al tempo di Giambattista Vico, Napoli 1941 (e Mi-
lano 1942). 3. egli: cioè lo Spinelli. 4. la cattedra . . . civile: l'Aulisio vi
era stato nominato nel 1695. Professore privato di diritto civile sin dal
1675, era stato lettore straordinario e quindi professore di diritto canonico
all'ateneo napoletano dal 1682 ; vespertina: pomeridiana. I corsi e le catte-
dre erano distinti, anche per importanza, in «mattutini» e in «vespertini».
commisi,1 successioni ab-intestato2 ed altre leggi oscure ed intricate
del Digesto che chiamano inforziate? dividendole in quattro trat-
tati, leggendone in ciaschedun anno uno e, finito il quatriennio,
si replicavano a* nuovi discepoli, che in ogni anno ivi concorrevano
ad apprender le leggi civili.
Io, se bene sotto il primo maestro avea fatti piccioli progressi
nella giurisprudenza, nulladimcno, con attenermi più a' quattro
libri delle Istituzioni di Giustiniano, al Perez, a Giulio Patio4 e ad
alcuni pochi autori che con particolari note e sposizioni le illustra-
vano, che a' scritti del maestro, avea acquistata conoscenza tale,
che PAulisio stesso riputò che fosse bastante per i primi rudimenti
e per esser capace d'intendere i trattati che e5 insegnava nel pub-
blico: sicché mi consigliò, senza altro maestro, di non tralasciare lo
studio sopra le Istituzioni di Giustiniano, colPaiuto di quo' sposi-
tori,5 a* quali volle che io ne aggiungessi un altro, che e' riputava
migliore di tutti, e questi fu Arnoldo Vinnio, celebre professore
ollandese, il quale, oltre le note, avea con dotti, utili ed accurati
Commentari illustrate le Istituzioni di Giustiniano;6 soggiungen-
domi che questi dovessero essere i miei studi della mattina. 11
doppo desinare, avendo egli la lezione vespertina, che andassi da
lui ad apprendere ne* pubblici studi i suoi trattati, con trascrivergli,
sicome è Puso di quella Università, e sentirne la sposizione; e sopra
tutto di venir poi da lui, o in casa sua, ovvero, dopo la lezione, in
quella mezz'ora che sono i lettori obligati trattenersi per risolvere
i. istituzioni: istituzioni d'erede; fideconmtisi: fedecommessi. z. ah-ittte~>
stato: prive di testamento. 3. La seconda parte del Digesto, pervenutaci
nel testo detto Littera Bononiensìs> 0 vulgata, venne rinforzata, cioè aumen-
tata, con la restituzione di un frammento che era prima attaccato al Dìge*
sto nuovo costituendone il principio. Da qui il nome di inforziate . 4, An-
tonio Perez (1583-1672), giurista spagnolo, professore destituzioni all'Uni-
versità di Lovanìo, fu nominato consigliere del re di Spagna. Lasciò nu-
merose opere di commento al codice giustinianeo; Giulio Pace, latino
Pacius (1550-X635), giureconsulto, filologo e filosofo vicentino, si converti
al protestantesimo e insegnò diritto a Heidelberg. Scrisse numerose opere
di diritto civile e curò un'edizione del Corpus iuris civilis* Suo è anche un
trattato filo-veneziano, De dominio Maris Adriatici 5. spettori; esposito-
ri, commentatori. 6. questi. . . Giustiniano: Arnold Vinnen, latino Vin-
nius (1588-1657), fu tra i più famosi giureconsulti del suo tempo, rettore
del Collegio di umanità all'Università dell'Aia dal 1619 al 1633, quindi
professore di Digesto a Leida. Qui il Giannone fa riferimento al 6W-
mentarius in quattuor libros Instituttonum impmalixm, Amstaelodami 1642*
e all'opera Institutiones Imtiniani cum notis, Amstaelodami XÓ46.
CAPITOLO SECONDO 21
a' scolari le difficoltà che l'occorrono, a communicarli i dubbi ed
a ricercarlo di quanto mi bisognava per maggior intelligenza delle
cose lette o scritte, o nella cattedra esposte.
Eseguii con accuratezza quanto m'impose: lasciai con urbane
maniere il primo maestro, mi providi delle Note e Commentari di
Vinnio, ed andai ad apprender da lui i trattati che leggeva nel pub-
blico, non tralasciando, doppo la lezione, in quella mezza ora, di
comunicargli i miei dubbi e dimandargli più cose per maggior
mia istruzione e lume; il che egli faceva con tanta cordialità ed af-
fezione che sovente, finito il tempo ma non già il mio dimandare,
per non lasciarmi in secco1 conducevami seco a sua casa ed io
aveva il vantaggio, seguitandolo nel lungo cammino fino che vi
giungesse, di istruirmi delle più rare e pellegrine erudizioni e, so-
pra tutto, della maniera che dovea io tenere in regolare i miei stu-
di. Egli fu che m'inculcò lo studio dell'istoria romana, dicendomi
che quanto era nelle Pandette di Giustiniano, nel suo Codice e
Novelle? non potea esattamente intendersi, se non si sapeva l'istoria
romana e le varie vicende di quell'Imperio: che i responsi di que'
giurisconsulti, onde Giustiniano avea composte le sue Pandette, e
le costituzioni de' principi, onde s'eran compilati più codici e
fatte più raccolte delle novelle loro costituzioni, non potevan ben
capirsi, se non si sapevano le occasioni perché furon date o stabi-
lite, i costumi di que' tempi e la costituzione d'allora d'Italia e
delle province che componevano l'Imperio romano, molto di-
versa e tutto altra di quella che presentemente abbiamo. Biso-
gnava per ciò allo studio delle leggi accoppiare la cognizione del-
l'istoria romana, fin dal principio che surse quell'Imperio e si
distese nelle tre parti del mondo allor conosciuto ; e per poter con
metodo apprenderla era mestieri cominciare dall'Istoria di Tito
Livio; e per supplire la mancanza de' suoi libri, de' quali, o per
negligenza degli uomini, o per ingiuria del tempo, oggi siamo privi,3
i . per non lasciarmi in secco : per non abbandonarmi. 2. Pandette . . . Novel-
le; la legislazione giustinianea rappresentò l'unificazione legislativa dell'Im-
pero, con la stesura di un nuovo codice (7 aprile 529 dell'Era volgare). Suc-
cessivamente l'imperatore ordinò la raccolta di citazioni dalle opere dei
giuristi, preponendo a quest'opera un'apposita commissione. L'opera, pub-
blicata nel 533, venne detta Digesta o Pandectae. Le Novellae Institutiones,
invece, raccolgono a parte tutte le costituzioni emanate da Giustiniano
dal 535 sino alla morte e sono, naturalmente, opera posteriore al suo regno.
3. la mancanza . . .privi: su centoquarantadue libri, quanti ne compone-
vano l'opera liviana, ne sono giunti soltanto i primi dieci e il gruppo dal
22 VITA DI PIETRO GIANNONE
bisognava ricorrere ad altri antichi scrittori romani o greci, che
trattarono delle cose romane, per avere un'accurata notizia della
costituzione di quell'Imperio fino a' tempi di Ottavio Augusto; ed
in cotal maniera, si avrà una chiara e distinta notizia dell'antica
giurisprudenza romana. Questa poi, sotto Augusto e gli altri impe-
radori suoi successori, fino all'imperadore Costantino Magno, prese
altro aspetto e varie forme; e questo stato dell'Imperio esser quello
che si comprende nelle Pandette e nelle costituzioni di que' principi,
i quali a Costantino precedettero, le quali formano un'altra giu-
risprudenza, che potrà chiamarsi media, come posta nel mezzo tra
l'antica e Vinfima, che comincia da Costantino e finisce colla do-
struzione dell'Imperio romano. E per apprendere questo stato di
mezzo, non mancavano altri scrittori, non meno romani che greci,
anzi che soprabbondavano, sicome sotto gli imperadori Vespasiano,
Tito, Nerva, Traiano ed altri fiorirono i due Plinii, Svetonio Tran-
quillo, Cornelio Tacito, Dione1 e tanti altri scrittori delle cose ro-
mane di que' tempi, de' quali io poteva aver notizia dalle varie Rac-
colte, che si erano a' nostri tempi compilate. A' quali, per ciò che
riguarda la giurisprudenza, poteva io aggiungere i moderni, che
con indefessa ed instancabile applicazione aveano da' volumi de'
scrittori romani compilati particolari trattati dell'origine e cangia-
menti delle loro leggi, plebisciti, e senatusconsulti,* de' magistrati,
forinole e giudici, delle condizioni delle città e province romane, ed
infino a tessere particolari vite di que' giurisconsulti e delle loro
scuole e sette, de' quali Giustiniano, nelle sue Pandette, ci conservò
i nomi ed in gran parte le opere. Fra questi moderni scrittori, per-
ché mi si fosse reso il cammino meno duro ed alpestre, mi additò
Carlo Sigonio, Barnaba Brissonio, spezialmente nelle sue Formale,
Antonio Agostino, Ritersuzio3 ed alquanti altri.
ventunesimo al quarantacìnquesimo, più alcuni frammenti e i sommari
(periochae) dei rimanenti, i. Dione Cassio Cocceiano (prima del 163 K.
v.-dopo il 329), originario della Bitinia, scrisse una Storta romana in ot-
tanta libri, di cui restano soltanto venticinque, z, senatusconsultl: i pareri
espressi dal Senato romano, su problemi sottopostigli dal magistrato che lo
convocava e presiedeva. Avevano carattere consultivo, ma di fatto erano
vincolanti per chi li aveva sollecitati. Nella teoria delle fonti del diritto il
senatusconsultum indica quelle decisioni del Senato che introducevano nuo-
ve norme giuridiche. 3. Carlo Sigonio (1520 circa-i^), storico modenese»
professore a Venezia, a Padova 0 a Bologna, fu autore al quale guardarono i
giurisdizionalisti del Settecento, contrapponendo la sua storia «civile» De
Regno Italìae all'annalistica ecclesiastica di Cesare Baronio ; Barnabé Bris-
son (1531-1501) fu presidente del Parlamento di Parigi durante le guerre
CAPITOLO SECONDO 23
Ma ciocché egli riputava impresa più difficile, piena di travagli
o di fatiche, sicome io in processo di tempo sperimentai, era il di-
strigarmi dagl'inviluppi, ne* quali m'avrebbe condotto il desiderio
di sapere l'infima e bassa giurisprudenza da Costantino Magno,
Teodosio e Giustiniano fino alla decadenza dell'Imperio non meno
di Occidente che di Oriente : « hoc opus, » egli mi diceva, « hic la-
bor ».x I lunghi suoi studi ed ostinate fatiche sofferte nelle cognizio-
ni dell'istorie, scienze ed erudizioni greche e latine, e l'avere stan-
chi2 non men gli uni che gli altri antichi scrittori e quanto i moder-
ni vi aveano sopra qui travagliato intorno, infino a sazietà e noia;
ed all'incontro il vedere che pochi si eran applicati a' studi di que-
st'infima e bassa età, riputandola barbara ed incolta, facea ch'egli
riponesse fra le cose più ardue l'intraprendergli, cosi che di somma
gloria sarebbe riuscito a chi gli tentasse e procurasse di venirne
a capo. Quanti scrittori, e' dicea, noi abbiamo, che han travagliato
sopra la giurisprudenza antica e media romana? e pure quasi tutti
furon contenti di fermarsi a Costantino, sdegnando, secondo che si
avanzavano ne' tempi incolti e barbari, di proseguire più oltre le
loro ricerche, poco curando di questa infima e bassa giurisprudenza I
Non era tanto la barbarie che, più inoltrandosi, incontravano, che
gli sgomentava, quanto l'immensa e noiosa fatica, che dovean so-
stenere fra quei incolti e rozzi scrittori d'andarla rintracciando e
metterla in più chiara luce.
Per isporrc con esattezza le costituzioni non men numerose che
ampie e verbose degli imperadori - le quali, da Costantino Magno
fino a Teodosio il Giovane e Valentiniano III,3 furon racchiuse
nel Codice teodosiano, e le altre proprie che poi vi aggiunse l'impe-
dì religione ; moderato partigiano dei Guisa, venne impiccato per non aver
secondato i voleri della Lega. La sua opera maggiore, qui ricordata, è il De
formulis et sollemnibus populi romani verbis libri Vili, Parisiis 1583; An-
tonio Agustin y Agustin (1517-1586) fu un celebre canonista, antiquario e
numismatico spagnolo, vescovo di Tarragona. Appartenne alla Compagnia
di Gesti, e fu tra i padri del Concilio di Trento; Konrad Rittershausen
(1560-1 6 13), giurista e filologo tedesco, fu professore di Istituzioni ad
Altdorf, Pubblicò numerose opere a commento delle Istituzioni giusti-
nianee. 1. «hoc . . . labore: cfr. Virgilio, Aen.t vi, 129 («questa l'impresa,
questa la fatica»). 2. avere stanchi: aver letti lungamente e più volte, sino
a renderli consunti. 3. Teodosio II, z/ Giovane (401-450 dell'Era volga-
re), figlio di Arcadio, fu imperatore d'Oriente. A lui si deve la prima gran-
de raccolta delle costituzioni imperiali, da Costantino in poi, fatta appron-
tare nel 438 e che da lui prese il nome di Codex Theodosianus; Valenti-
niano III fu imperatore d'Occidente dal 425 al 455.
24 VITA DI PIETRO GIANNONE
radore Giustiniano nel suo Codice: faceva mestieri di rivolgere gli
scrittori di que* tempi bassi, la lezione de' quali, a chi era avvezzo
a gli antichi Romani, certamente che riusciva ristucchevolc e pe-
nosa. Dovcan ricercarsi le opere che ci lasciarono Latino Pacato,
Mamertino, Nazario, Eumenio, Eunapio, Ausonio, Claudiano, Am-
miano Marcellino, Libanio, Sidonio Apollinare, Orosio, Giornan-
des, Procopio, Filostorgio1 e tanti altri, da' quali si apprende la co-
stituzione e forma dell'Imperio di que' secoli, per capire con di-
stinzione e chiarezza le leggi e costituzioni di que' principi. Insigne
documento ne lasciò a noi l'incomparabile Giacopo Gotofrcdo, il
quale può dirsi il primo che s'incaminasse per questo duro e di-
sagevol calle ne* suoi laboriosi e stupendi Commentari sopra il Co-
dice teodosiano. Non ebbe il piacere di sopravivcre a questa im-
mortale sua opera, lasciandola non compita, avendogli la morte im-
pedito di poterci porre l'ultima mano, né si è trovato chi dapoi la
riducesse nell'ultimo punto di sua perfezione.2
L'Aulisio, come peritissimo antiquario, solea perciò farmi un
paragone tra questi giurisconsulti, che sdegnano l'infima e bassa
giurisprudenza, e gli antiquari de' nostri tempi: questi han fatto
ricerche stupende sopra le medaglie e monete antichissime de* Greci
I. Latinio Drepanio Pacato fu un retore nativo delle Gallio, vissuto nel IV
secolo dell'Era volgare; Claudio Mamertino altro retore, questo latino, vis-
suto nello stesso periodo ; lo stesso dicasi per 'Nazario ; Eumenio, di origine
greca, ma romano, visse a cavallo tra il III e il IV secolo; Eunapio fu uno
storico greco, vissuto tra il 345 circa e il 420; Decimo Magno Ausonio fu
un poeta latino del IV secolo, maestro di Paolino da Nola; Claudio Clau-
diano, anch'egli poeta, visse a cavallo tra il IV e il V secolo; Affittuario
Marcellino: storico romano del IV secolo (nato nel 330 circa), autore di una
storia in trentadue libri, che abbraccia il periodo da Ncrva a Valente
(96-378), proseguendo la trattazione tacitiana; Libanio (3x4-393) fu un
retore greco; Sidonio Apollinare (431 circa-487), vescovo di Arverna,
santificato, di origine gallo-romana, ha lasciato carmi e lettere che sono
buona fonte per la storia del suo periodo; Paolo Orosio fu un erudito e
visse tra il IV e il V secolo ; Giordane fu uno storico dei Goti, vissuto nel
VI secolo, autore di una storia De origine actibusque Getarum ricalcata sulla
perduta storia di Cassiodoro; Procopio di Cesarea (morto nel 565 circa),
greco, scrisse tra l'altro una Storia delle guerre in cui trattò le lotte dei
Romani con i Persiani, i Vandali, i Goti, conducendo la narrazione sino
all'età giustinianea (554); Filostorgio (368 circa - morto dopo il 43 3 ) , origi-
nario della Cappadocia, scrisse una Historia ecclesiastica in dodici libri»
proseguendo quella eusebiana, e conduccndola sino al 425. 2. Giacopo . . .
perfezione: Jacques Godefroy (1587-1652) fu professore di diritto a Gi-
nevra; l'opera, citata dal Giannone, fu edita da Antoine Marvill: Code»
theodosianus cum perpetuis commentariis J. Gothofredi. . . opus posthumum . ♦ .
recognitum . . . opera et studio Antonii Marmila, Lugduni 1665, in sei tomi.
CAPITOLO SECONDO 25
e de' Romani ; intendono a maraviglia le monete che si sono trovate,
e tuttavia si scavano, de' popoli antichi dell'Asia e della Grecia e
di altre città greche d'Italia; sanno le romane, quali fossero le con-
sulari e le tribunizie, quali degli imperadori, e tutto ciò che si
appartiene alle più remote e recondite antichità; ma, avvicinandosi
poi a' tempi bassi e meno a noi remoti, sono muti ed affatto ignari;
e se bene negli ultimi tempi alcuni abbiano intrapresa una tal ri-
cerca, sicome il Paruta, il Bandurio1 e pochissimi altri; con tutto
ciò rimane ancora questa parte mancante e difettosa, poiché tutti
si applicano alP antiche greche o romane e lasciano quelle de* bassi
tempi, sicché fin ora non han potuto mostrare niuna delle monete
de' re longobardi, i quali, per lo spazio poco meno di ducento anni,
ressero l'Italia avendo Pavia per loro sede regia. E pure, lo studio
e conoscenza di questi tempi bassi dovrebbe essere a noi la più
utile, anzi necessaria, poiché ha maggiore rapporto a' nostri ultimi
tempi ed alla presente costituzione di Europa ed a' nuovi domìni in
essa stabiliti, doppo la decadenza del romano Imperio.
Questi discorsi, che sovente soleva replicarmi, impressero nel
mio animo idee conformi, sicché di proposito, secondo il metodo
prescrittomi, cominciai a mescolare a' studi legali l'istoria romana,
principiando da quella di Tito Livio e proseguendo di passo in pas-
so, secondo la cronologia de' tempi, la lettura degli altri seguenti
romani scrittori. E su '1 fatto, conoscendo che non ben potea capir
Livio senza il soccorso della geografia, per sapere con distinzione i
paesi ove dimoravano tanti popoli de' quali, a que' tempi, l'Italia
si componeva, ed il sito delle province delle Gallie, della Spagna e
dell'Africa, e molto più della Grecia, Macedonia, Illirico e dell'al-
tre più remote dell'Asia, della Siria e dell'Egitto, sopra le quali
l'Imperio romano distese le vittoriose sue armi: procurai d'aggiun-
gere all'istoria la geografia antica, apprendendola da Tolomeo, se-
condo le tavole ed esposizioni del Magino,2 poiché la notizia della
i, Filippo Paruta (1550 circa- 1629), numismatico siciliano, autore di un'im-
portante raccolta Della Sicilia . . . descritta con medaglie, Palermo 16 12. Su
di lui cfr. A. Mongitore, Bibliotheca Sicula, 11, Panormi 1714, pp. 173-6;
il Bandurio: Anselmo Banduri (1670-1743), ragusano, archeologo benedet-
tino, autore di un'opera dal titolo Numismata imperatorum romanorum a
Traiano Decio ad Palaeologos Augustos, Lutetiae Parisiorum 171 8. 2. To-
lomeo . . . Magino: dell'Introduzione geografica di Claudio Tolomeo (100
circa dell'Era volgare- 178) fu redatta una prima edizione latina (Venetiis
1596; ma cfr. anche la postuma Geografia, cioè descrittone universale della
20 VITA DI PIETRO GIANNONE
geografia di Mela e di Straberne1 e degli altri più esatti geografi
moderni mi giunse molto tardi. Ma tutti questi studi io non l'avca
come fine, ma Pindrizzava come efficaci mezzi per intendere le ori-
gini ed i cangiamenti dell'Imperio romano e come, poi minato, fos-
sero surti tanti nuovi domìni, tante nuove leggi, nuovi costumi e
nuovi regni e repubbliche in Europa.
Per quattro anni continui, dopo avere appreso nel miglior modo
che potei i primi rudimenti della giurisprudenza romana, continuai
queste fatiche sopra tali autori e sopra le Pandette di Giustiniano,
le di cui leggi, secondo che dali'Aulisio ne1 quattro suoi trattati si
allegavano, io diligentemente osservava, onde sovente mi occorreva
volgerle e rivolgerle; e sentendo spesso da lui alligare Giacomo
Cuiacio di cui, sopra tutti gli altri spositori delle Pandette, lacca
molta stima, io che non avea allor modo di comprarmi le sue opere,
che le credea molto rare e di gran valore, ebbi la sorte che un mio
amico, che avea le opere priori? me le prestasse. Sicché posi ogni
mio studio sopra di quelle e per sei mesi continui non feci altro,
secondo che m'incontrava ne' commentari di qualche legge o titolo
specioso, di trascrivergli, e, sopra tutto, mi trascrissi interamente
molte Osservazioni di quell'opera veramente divina, che mi sem-
bravano incomparabili e stupende. Ma quando vidi che, oltre la
giurisprudenza romana, questo maraviglioso ingegno si era invo-
gliato di commentare anche i libri de' feudi, ch'egli, per dargli
miglior disposizione ed ordine, avea divisi in cinque libri,3 e che,
quando gli altri sdegnando questi studi come creduti barbari, egli
vi avea impiegati i suoi alti e sublimi talenti, mi rallegrai tutto e
n'ebbi sommo piacere e compiacimento; così perché conobbi, per
un esempio si illustre, che tali studi non erano da disprezzati,
come anche perché maggiormente mi confermai nel concetto col
terra, Padova 1621) dall'astronomo, geografo e matematico patavino Gio-
vanni Antonio Magini (1555-1617). 1. Pomponio Mela fu un geografo
latino vissuto nel I secolo dell'Era volgare; su Strabene cfr. hi nota 3 a
p> 204. 2. Giacomo . . . priori: Jacques Cujas, latino Cuiacius (1532-1500),
giureconsulto francese, raccolse nel 1577 parie delle sue opere in un'edi-
zione che era divenuta assai rara già al tempo del Giannone, il quale si
riferisce qui agli Opera omnia in decem tomos distributa. Quibus contìnentur
tam priora, sive quae ipse superstes edi curavit; gitani postcriora, sivt yuan
post obitum eius edita sunt, vel nunc primum prodeunt . , , opera et cura Ca-
roli Annibalis Fabroti> Lutetiac Parisiorum 1658. 3. cinque libri: cfr. De
feudis libri quinque, et in eos commentarti. Sono editi negli Opera omnia . . .
quae de iurejecit . . . ab ipso auctore disposita et recognita, IV, Pariaiis 1577.
Fanno parte, perciò, degli opera priora*
CAPITOLO SECONDO 27
quale intrapresi i precedenti, che doveano servirmi come mezzi per
discendere ne' studi de' tempi bassi, i quali riputai sempre i più
utili e necessari, come quelli che aveano maggior rapporto allo stato
presente di Europa ed alla costituzione de' regni e nuovi domìni
in essa stabiliti. Preso adunque da tal amore cominciai attentamente
a leggergli; e credendo che, dovendo restituirgli al padrone che me
l'aveva prestati, io sarei rimaso senza questo per me inestimabile
tesoro, immaginandomi che altronde non avrei potuto avergli,
presi sollecitamente a trascrivere tutti i cinque libri de' feudi, per
avergli sempre meco manuscritti, se non poteva avergli impressi;
sopra i quali, secondo che andava acquistando maggior conoscenza,
andava aggiungendo altre note e nuove riflessioni, accommodate a
gli usi de' feudi del regno di Napoli.
Ma poiché in Napoli chi aspira al dottorato deve insieme pren-
dere il grado di dottore del ius civile e della legge canonica,1 e per
ciò i candidati devono essere istrutti non men dell'una che dell'altra
legge, insegnandosi nell'Università de' studi e nelle case de' lettori
le Istituzioni di Giustiniano per la civile e quelle di Lancellotto
per la canonica, quindi mi convenne applicare anche i miei studi
sopra la medesima. Alla quale incamminandomi per le volgari e trite
vie, m'incontrava in maggiori oscurità e tenebre; e se bene dal pri-
mo mio maestro avessi appreso le Istituzioni di Lancellotto di ius
canonico, ne sapeva molto meno che prima. Sentiva parlare del
Decreto di Graziano e delle Decretali,2, dove questo nuovo diritto
era compreso, ma non sapeva donde e come nel mondo fosse ve-
nuto. La ricerca delle quali cose io con ardore cominciai ad intra-
prendere, perché era uno studio che si apparteneva all'infima e
bassa età, per rischiaramento della quale io avea incaminato tutti i
miei precedenti studi. E poiché, intanto, avea acquistata più stretta
familiarità ed amicizia colPAulisio, nelP accompagnarlo che io fa-
ceva in sua casa dopo terminata la lezione nel pubblico, spesso gli
domandava della maniera e metodo che io dovessi tenere, per bene
1. il grado . . . canonica: cioè la laurea, come allora dicevasi, in utroque.
2. Il Decretum Gratiani, come più comunemente fu detta una raccolta do-
vuta al monaco camaldolese Graziano da Chiusi (morto avanti il 1179), in-
segnante di diritto a Bologna, è una vasta compilazione di canoni, ordinati
per materia e seguiti da spiegazioni (i dieta Gratiani, o glosse), che tendeva
a dare una regolamentazione giuridica a rapporti e negozi in materia di
fede. Le Decretales sono le costituzioni pontificie, redatte in forma di let-
tera (litterae decretales). Assieme al Decretum concorrono a formare il Cor-
pus iuris canonici*
28 VITA DI PIETRO GIANNONE
apprendere il diritto canonico ; ed egli, non mcn di ciò che uvea fat-
to per lo civile, mi diede lumi bastanti per nettamente capirlo e mi
suggerì regole piane e semplici, per isfuggire le tante vane ed inutili
quistioni, onde i moderni scrittori romani canonisti Pavcano guasto
ed inviluppato. Da' savi suoi discorsi compresi più verità a me fin
allora ignote, le quali, poi, col tempo, mi fecero accorto di molte
altre, che successivamente andai scoprendo.
Compresi che, sicome per lo studio della legge civile l'istoria
romana, così per la canonica era necessaria ristoria ecclesiastica.
Da questa avrei io avuta bastante conoscenza donde fusse sorto
questo nuovo diritto, donde venisse la compilazione del Decreto e
delle Decretali, e l'uso che si ebbe di queste nuove altre compila-
zioni in Europa fatte. Da' miei precedenti studi nell'istoria e giu-
risprudenza romana avea già compreso che gli antichi Romani del
loro ius pontificio non ne facevano corpo a parte, ma l'univano in-
sieme col pubblico, del quale era una minima parte, non essendo
cotanto multiplice ed operoso, restringendosi solamente alle loro
cose sacre e religiose, alla norma del legittimo culto de' loro dii,
ed a' loro riti e celesti cerimonie; laonde questo nuovo diritto ca-
nonico dovea riguardarsi come tutto altro e molto diverso e diffe-
rente. Ebbi estremo contento in conoscere che, per saperne i suoi
princìpi ed origini, non dovea ricorrersi a* tempi molto lontani;
anzi che venivano a cadere giustamente ne' tempi dell'impera-
dore Costantino Magno, donde pure cominciava la nuova e bassa
giurisprudenza romana. Il quale, essendo stato il primo impcradore
che, tolto ogni divieto, permise nell'Imperio che la religione cri-
stiana potesse abbracciarsi e pubblicamente da tutti professarsi,
sicome da lui cominciò per le nuove leggi hi nuova giurisprudenza,
così, per ciò che riguarda il ius pontificio, da lui prese nuova forma
ed aspetto, e si diede origine a tanti altri strani e mostruosi can-
giamenti, onde fosse surto questo nuovo diritto canonico; sicché
io nel tempo istcsso poteva, con passo uguale, proseguire i miei
studi per la conoscenza non mcn dell'una che dell'altra; ed avendo
con tal metodo e con tal antivedere proseguito ad apprenderlo, co-
nobbi che ne' princìpi nonché doppo che fu ricevuta nell'Imperio
la religione cristiana, questo dritto non faceva corpo a parte, ma
dagli imperadori cristiani era stato rinchiuso ne' loro Codici e nello
compilazioni delle loro Novelle; e la ragione era, sicome conobbi
dapoi, perché Costantino Magno volle egli prender cura dell'oste-
CAPITOLO SECONDO 2C;
rior politia1 e governo della Chiesa, dichiarandosi che, sicome i
vescovi n'erano ispettori per ciò che riguarda l'interno, la predica-
zione del Vangelo, la correzione de' costumi, l'amministrazione de'
sacramenti e le altre cose sacre e religiosi riti; cosi egli della Chiesa
esterna, che riguardava la nuova esterior sua gerarchia, acquistata
dopo che fu ricevuta nell'Imperio, la nuova forma e disposizione
non men delle cose temporali a lei appartenenti, che delle persone
ascritte al suo ministerio: ne fosse egli capo ed ispettore, e che,
sicom'era capo dell'Imperio, cosi dovea prender cura di tutto ciò
che dentro di quello era. E non si movea allora dubbio che la Chiesa
fosse nell'Imperio e non già questo nella Chiesa, sicome i Padri
antichi, e fra gli altri Ottato Milevitano,3 ingenuamente afferma-
vano; onde avvenne che Costantino e gli altri imperadori suoi
successori, per questo riguardo, ancorché cristiani, ritenessero fra
gli altri titoli tramandatogli da' loro predecessori quello di ponte-
fice massimo, riguardando la religione gentile, la quale, nell'Impe-
rio non mai proibita, era professata pubblicamente non meno che
la cristiana; e prendessero anche il titolo di episcopus ad extra, ri-
guardando la religione cristiana: le quali due religioni erano pro-
fessate nell'Imperio, del quale gl'imperadori erano capi e mode-
ratori. E quindi questo nuovo diritto pontificio non dovea ricer-
carsi fuori del corpo de' loro Codici e delle compilazioni delle loro
Novelle.
Ciocché rendeva evidente il Codice teodosiano, compilato per au-
torità dell'imperadore Teodosio il Giovane, ove sono racchiuse le
costituzioni de' principi cristiani, da Costantino Magno fino a'
suoi tempi, il decimosesto libro del quale racchiude le costituzioni
a questo diritto appartenenti. Molto più ciò poneva in chiara luce
il Codice di Giustiniano e le tante sue Novelle 2, ciò riguardanti,
le altre compilazioni greche seguite appresso sotto gli altri impera-
dori d'Oriente, suoi successori, e spezialmente le tante Novelle di
Lione il Sapiente3 e di tanti altri, per le quali è manifesto che
i Greci, per l'esterna politia delle chiese dell'Imperio d'Oriente,
1. politia: ordinamento politico. 2. Ottato Milevitano: Ottato, vescovo di
Milevi, in Numidia, vissuto nella seconda metà del secolo VI, santificato.
Fu il primo polemista antidonatista, avanti Agostino d'Ippona. Per que-
sta citazione, tratta dal libro iv del De schismata Donatistarum, cfr. anche
P. Giannone, Del concubinato dei Romani, in Opere postume, 1, pp. 122 sgg.
Z.Lione U Sapiente: Leone VI (866-911), detto il Filosofo, imperatore
d'Oriente.
30 VITA DI PIETRO GIANNONH
non riconoscevano altro dritto canonico, che quello che da' regola-
menti de' loro imperadori era stato, per le loro leggi e novelle co-
stituzioni, stabilito.
Da ciò conobbi che in Occidente tutt'altro fosse seguito e che
l'origine più immediata di questo diritto, che ora si ricava dal De-
creto di Graziano e dalle Decretali de' romani pontefici, dovea in
Occidente investigarsi dopo la ruina di questo Imperio, quando si
estinse nella persona di Augustolo.1 I di lui princìpi e progressi e
cangiamenti doveano apprendersi dalle varie secondarie vicende
seguite doppo, e quando risurse nella persona di Carlo Magno, e
quando, estinta la maschile sua prosapia, l'Imperio d'Occidente
passò presso i Germani; e dalle tante rivoluzioni di cose seguite,
spezialmente in Italia, doppo il lungo interregno deirimpentdoro
Federico II,2 e doppo tanti altri avvenimenti e strani e portentosi
cangiamenti seguiti in Europa; onde, sicorne sursero tanti nuovi
domìni e nuovi costumi, non dovea recar maraviglia, se ne scris-
sero altri nuovi regolamenti e nuove compilazioni di diritti, a gli
antichi affatto ignoti e sconosciuti.
Dalla considerazione delle quali cose compresi che molto più
rimaneva di travaglio a chi intendeva applicarsi a' studi de' tempi
bassi ed oscuri, e a' secoli meno a noi remoti, pieni d'ignoranza,
madre di tanti errori e superstizioni, che andar vagando sopra le
vetuste ed antiche romane memorie. Ma nel tempo stesso mi rin-
corava col riflettere che, se bene quelli studi fusser noiosi e pieni
di travaglio, nulladimanco l'applicarvici era più utile e necessario,
non solo per lo rapporto che aveano a' nostri ultimi tempi, per ben
intendere la presente costituzione delle cose, ma perché il corso eli
tanti secoli, quanti sono da Costantino Magno fino a noi, uvea re-
cate mutazioni così stupende, introdotti costumi sì strani ed altre
cose portentose, che pareva che il genere umano istesso si fosse
tutto cambiato e gli uomini, fino nel pensare, ne* loro discorsi, ra-
ziocini e giudici, non pur ne' costumi, fossero tutto altro di quel che
i. quando . . . Augustolo: cioè con la caduta di Roma e hi deposizione del-
l'imperatore Romolo Augusto (detto spregiativamente Augustolo) da parte
di Odoacrc, nel 476. z. Federico II di HohenstautTen (x 194-1250), figlio
dell'imperatore Enrico VI e di Costanza d'Altavilla, rimasto orfano di en-
trambi i genitori a soli quattro anni (1198), fu posto sotto la tutela di papa
Innocenzo III, mentre l'impero restava in balla dei feudatari. Il lun^o
interregno si concluse solo dopo la battaglia di Bouvines (1214) contro
Ottone di Brunswick, e con l'incoronazione a Roma nel xaao.
CAPITOLO SECONDO 31
prima già furono.1 Ciocché io reputava dover tirare la curiosità di
tutti, per conoscere le origini, le occasioni e le maniere di tanti e
si strani cangiamenti. E reputando che senza l'istoria era impossi-
bile venirne a capo, colPoccasione che, per ben capire il diritto
canonico dovea svolgere gl'istorici ecclesiastici: a' medesimi ag-
giunsi i civili, sicché, nel tempo stesso, potessi ricever lume non
meno per le cose canoniche riguardanti la Chiesa, che per le civili
appartenenti all'Imperio, e per conoscere le origini ed occasioni
delle tante altre nuove compilazioni seguite dapoi, delle leggi lon-
gobarde, oltre delle feudali, e delle tante altre raccolte delle nostre
costituzioni ed altre ordinanze, riti ed usi appartenenti alle nostre
patrie leggi ed alla presente costituzione del regno di Napoli.
Per ristoria ecclesiastica mi furono additati Eusebio, Socrate,
Sozomeno, Sulpicio Severo, Teodoreto, Zonara* ed altri antichi;
ma poiché in questa parte si eran fatti in Francia gran progressi,
volli avere per soccorso i moderni e, sopra gli altri, quella di Fleury
e di Tillemont;3 e, per ciò che riguarda la particolar istoria delPori-
gine e progressi del dritto canonico, gran sollievo mi fu quella di
Von Mastrich e di Doujat,4 che furono i primi libri da me letti in-
1. il corso . . .furono: cfr. Machiavelli, Istorie fiorentine, 1, 5: «si potrà . . .
facilmente immaginare quanto in quelli tempi patisse la Italia e l'altre Pro-
vincie romane; le quali non solamente variorono il governo e il principe,
ma le leggi, i costumi, il modo del vivere, la religione, la lingua, l'abito, i
nomi ». 2. Eusebio (265 circa-340 circa), vescovo di Cesarea, scrittore e
polemista ecclesiastico, sostenitore di Ario. Tra i suoi scritti importano,
per la storia della Chiesa, il Chronicon (tradotto in latino e proseguito sino
al 378 da san Girolamo) e la Storia ecclesiastica, che giunge sino alla vit-
toria dell'imperatore Costantino su Licinio (324); Socrate lo Storico,
che prosegui la Storia eusebiana, vissuto a Costantinopoli nel IV secolo;
Ermia Sozomeno, fiorito sotto l'imperatore Teodosio II, autore di una
Storia della Chiesa, in nove libri, comprendente (nel testo pervenutoci) il
periodo dal 324 al 425; Sulpicio Severo (360 circa-413 circa) originario
dell' Aquitania, scrisse un Chronicon e opere agiografiche; Teodoreto (393
circa-458), vescovo di Ciro e sostenitore di Nestorio, scrittore e polemista
ecclesiastico; Giovanni Zonara (morto nel 11 30 circa), vissuto a corte a
Bisanzio, poi ritiratosi in monastero, scrisse un'epitome storica dalla crea-
zione del mondo ai tempi di Alessio I (11 18). 3. Claude Fleury (1640-
1723), giurista e storico francese, fu sostenitore della chiesa gallicana e le
sue ideo furono apertamente espresse nella celebre Histoire ecclésiastique,
uno dei testi più famosi della prima metà del secolo XVIII; Louis-Séba-
stien Le Nain de Tillemont (163 7- 1698), autore di una famosa Histoire des
empereurs et des autres princes qui ont regné durant les six premiers siècles
de VÉglise, e dei Mémoires pour servir à Vhistoire ecclésiastique des sixpremiers
siècles. 4. Mastrich : Peter von Mastricht (1 630- 1706), teologo protestante
di Colonia, insegnò a Francoforte sull'Oder teologia ed ebraico, quindi a
ó* VJLJLA DI PIETRO GIANNONE
torno a questa materia. E così, proseguendo di passo in passo, se-
condo l'ordine e cronologia de' tempi, andava avvicinandomi negli
istorici ed altri scrittori non men civili che ecclesiastici, di secoli
men remoti ed a noi più prossimi e vicini ; e poiché la tenuità del
mio corto patrimonio non mi dava modo di poter comprar libri a
ciò necessari, e per la poca conoscenza che avea allora di altri amici
non avea chi potesse prestarmigli, essendosi in Napoli pochi anni
prima, per munificenza del cardinal Brancaccio,1 aperta nel seggio2
di Nido una magnifica e doviziosa biblioteca alla quale, oltre i libri
di due cardinali di quella non men illustre che antica famiglia,3
l'ultimo cardinale avea lasciati fondi, non solo per sostentamento
del bibliotecario e custodi, ma eziandio per compra di nuovi libri
che, nel processo di tempo, fossero stati impressi ed espostala ad
uso e comodità del pubblico, io non tralasciava spesso andarci e
consumare in quella l'ore de' giorni che stava aperta; e non posso
negare che mi fu di molto aiuto e gran profitto, non solo per la co-
pia de' libri che vi trovava, appartenenti a' miei intrapresi studi,
ma per la conoscenza che ivi presi degli uomini dotti e letterati
della città che la frequentavano, i saggi discorsi de' quali maggior-
mente m'illuminarono; sicché, conferendo io coll'Aulisio le cose ivi
lette ed intese e di aver acquistata notizia di soggetti veramente de-
gni d'essere ascoltati, mi solea dire che nella mia adolescenza era
venuto in Napoli nell'età dell'oro, quando la sua avea dovuto pas-
sarla in quella di ferro, nella quale trovò pochi o rari uomini, né
si pronta commodità di libri e d'ogni genere; e ch'egli, per poter
leggere qualche buon libro, dovea correre fino al convento di San
Giovanni a Carbonara ed impetrar da quo' monaci, per grazia e
favore, che lo facessero entrare nella libraria lor lasciata dal cardi-
nal Seripando,4 sicché, per breve ora potesse profittare della lettura
di alcuni rari e dotti libri.
Duisbourg e a Utrecht; Jean Doujat (1609-1688), giureconaulto e lettera-
to francese, fu professore di diritto canonico al College Uoyal e precettore
del Delfino. 1. Stefano Brancaccio (16x8-1683), creato cardinale da In-
nocenzo XI nel 1681. z. seggio: la sezione urbana nella quale erano riu-
niti i nobili napoletani, in corrispondenza della circoscrizione (o quartiere)
cittadina. Ma cfr. Istoria civile, tomo 1, lib. 1, cap. iv, par. i, pp. 15 agg,;
tomo in, lib. xx, cap. iv, pp. 30 sgg. 3. due . . .famiglia; Stefano era ni-
pote del cardinale Francesco Maria (1592-1675), La biblioteca brancao-
ciana è ora uno dei fondi della Biblioteca Nazionale di Napoli, 4. Giro-
lamo Seripando (1493-1563), vescovo di Balenio nel 1554, cardinale nel
1561. Notizie su questo lascito anche noli' Istoria civile, tomo xv, lib. xxxn,
cap. v, par. 1, p. 81.
CAPITOLO SECONDO 33
II
Intanto, per consimili ed altre opportunità, acquistando io mag-
giore cognizione non men di cose che conoscenza di altri dotti ami-
ci ; fra questi, venni per mia buona sorte ad incontrarmi con uno il
quale, per essere stato il primo ad illuminarmi in cose di solida
filosofia e di altre lettere umane, la gratitudine ricerca che io con
le debite lodi non debbia tralasciarlo. Questi fu Filippo de Angelis,1
onesto cittadino napolitano versatissimo nello studio delle buone
lettere e sopra tutto amante de* poeti toscani ed intendentissimo
non meno dell'arte poetica ed oratoria che dello stile de* più ce-
lebri e famosi oratori e poeti; e sovente solea anch' egli esercitarsi
nel poetare, di cui ne abbiamo anche impresse alcune dotte canzo-
ni e culti sonetti. Era eziandio ornato di filosofia, e di altre scienze;
ma poiché in Napoli la prima filosofia, che di Francia venne ed
atterrò la scolastica professata ne' chiostri, fu quella di Pietro Gas-
sendo,2 i di cui libri, per la molta erudizione e gran eloquenza,
avean tirati gli animi di tutti, e spezialmente della gioventù, ad
apprenderla: quindi egli avea abbracciata questa dottrina, la quale
poi sempre ritenne, non ostante che la filosofia di Renato delle
Carte,3 che vi fu più tardi introdotta, avesse cangiati i sentimenti
di molti, i quali da gassendisti si mutaron poi in cartesiani.
Io, per compensare la grave perdita fatta di que' tre anni inutil-
mente consumati nella scolastica, secondo l'indirizzo del medesimo
volli apprendere quella di Gassendo, alla quale niente mi furono
di ostacolo i precedenti studi sopra la filosofia di Scoto, poiché, non
lasciandomi se non confuse immagini, l'avea già quasi tutte dimen-
ticate; sicché l'eloquenza ed erudizione del nuovo filosofo Gassendo
mi prese tutto, e con indicibil piacere leggeva le di lui opere; e
1. Filippo de Angelis, leccese, fu poeta arcade, e pubblicò un volume di
Rime in Napoli, nel 1698. Su di lui cfr. G. M. Mazzuchelli, Gli scrittori
d'Italia, i, cit., advocem Angelis ; E. D'Afflitto, Memorie degli scrittori del
regno di Napoli, X, Napoli 1782, p. 357; C. Minieri Riccio, Notizie biogra-
fiche e bibliografiche degli scrittori napoletani fioriti nel sec. XVII, 1, Milano-
Napoli-Pisa 1875, p. 35; C. Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi,
moderni e contemporanei, Trani 1904, p. 47. a. la prima . . . Gassendo:
Pierre Gassendi (1592-1655), filosofo e medico francese, rimise in circo-
lazione la filosofia epicurea, con un notevole apporto originale. Queste e le
notizie che seguono sono confermate anche dall' Autobiografia di Giam-
battista Vico (cfr. Opere, a cura di F. Nicolini, Milano-Napoli 1953, p. 19).
3. Renato delle Carte: René Descartes (latino Cartesius).
34 VITA DI PIETRO GIANNONR
poiché mi sgomentavano tanti volumi, ed io non voleva tralasciare
l'intrapresi studi della giurisprudenza ed istoria romana, fui con-
tento delle Epitome, che Gassendo esattamente avea a questo line
compilate,1 le quali lessi tutte con avidità e sommo contento, rav-
visando in quelle una solida e più verisimile filosofia, la quale tolse
tutte quelle tenebre e caligini, nelle quali fino allora era stato io
immerso. Egli è vero che non potei allora comprendere quel savio
ammonimento che ivi s'inculcava, il qual poi, col tempo e colPespe-
rienza conobbi essere verissimo : che tutte le conoscenze non men
metafisiche che fisiche e quanto gli uomini apprendevano, riguar-
dando questa gran fabbrica del mondo, doveano indrizzarle alla
morale, la qual, per ciò, in quella filosofia s'insegnava nell'ultimo
luogo, e servirsene non per altro fine, se non per ben diriggere,
nella lor vita morale, sue opere, suoi andamenti e costumi.
Coll'occasione di questi studi, lessi i sei libri Della natura delle
cose di Tito Lucrezio Caro,2 e quanto Gassendo si adoperasse,
confutando alcuni errori della gentilità, per mostrare che in tutto
il resto la sua dottrina fosse sana e da non rifiutarsi da quo' che
professavano la cristiana religione, come quella che a lei non si
opponeva. Lessi pure, contale occasione, i libri di Sesto Empirico,3
spesso dal Gassendo allegati, i quali allora erano in Napoli raris-
simi, e per buona sorte un mio amico, che l'avea, fecemi il favore
di prestarmigii. Lessi le Vite de' filosofi di Diogene Laerzio4 ed altri
libri a questi studi filosofici appartenenti, sicché divenni, come gli
altri miei coetanei, filosofo gassendista.
A confermarmi in questa dottrina si aggiunse che, avendomi in-
tanto lo Spinelli fatto prendere amicizia con un famoso medico e
filosofo di quo' tempi, chiamato Agnello di Napoli,5 questi, ancor-
i. Epitome . . . compilate': cfr. P, Gasrendi, Syntagma philosophtcum com~
plectens logicatn, physkam et ethicam. Occupa i primi due volumi in folio
degli Opera omnia, Lugduni 1658. 2. lessi . . . ("aro: per hi fortuna del De
rerum natura in questi anni, cfr. G. Maugain, Ètude sur Vévolution intel~
lectuelle de V Italie de xùffl à 1750 cnviron, Paris XO09, pp. 130 sgg. Ma si
veda anche G. B. Vico, Autobiografia, ed. cit., pp. 19-20. 3. Sesto Empi*
rico, filosofo e medico greco - forse africano dì nascita - vissuto nella se-
conda metà del II secolo dell'Era volgare, appartenne alla scuota scettica» e
di quella filosofia stese un sommario giunto sino a noi; Lineamenti dì pirro-
nismo. Altra sua opera pervenutaci sono i dodici libri Adversus mathcmuticos.
4. Diogene Laerzio, scrittore e biografo greco, fiorito intorno alla metà del
III secolo dell'Era volgare, scrisse la vita dei più illustri filosofi, sino a Kpicu-
ro. 5. Agnello di Napoli (1658- ?) fu lettore di medicina, ma insegnò anche
CAPITOLO SECONDO 35
che gli altri medici, e spezialmente i giovani, cominciavano ad al-
lontanarsi da Gassendo ed appigliarsi alla filosofìa di Cartesio, egli
però non si smosse e stette fermo e finché visse tenne la dottrina di
Gassendo, e nella stessa, per suoi discorsi che meco spesso avea,
m'inculcava che io permanessi ; sicché, da una parte il de Angelis,
che me l'avea additata, e dall'altra il di Napoli, che me l'avea con-
fermata, mi tennero fermo in questa filosofia, dalla quale non ne fui
smosso se non nell'ulteriori anni, secondo che sarà esposto nel pro-
gresso di questa mia Vita.
Al de Angelis io pur debbo non pur questi studi, ma di avermi
istradato nella conoscenza de' buoni poeti e de' più culti scrittori
toscani, onde io potessi apprendere non meno l'eloquenza, che un
più culto ed elegante stile e la proprietà e sceltezza delle voci e frasi
toscane. Egli fu il primo che mi scovrì le bellezze del Petrarca1 e
degli altri nostri eminenti e rinomati poeti, dalla dolcezza de' quali
io preso, non mi stancava di spesso leggere e rileggere i loro poemi,
e quanto da altri sopra il maraviglioso loro artificio e sapienza era
stato osservato. È però vero che, quantunque mi piacesser tanto e
gli avessi nelle ore meridiane quasi sempre nelle mani, non mi re-
sero mai abile di poter per me stesso comporre un solo verso.
La Comedia di Dante, in questi princìpi, non in tutto arrivò a
piacermi; ma ammirava solamente alcuni canti, come la dura morte
del conte Ugolino, il racconto degli amori di Francesca per occa-
sione della lettura di Galeotto, l'altro del re Manfredi, la proprietà
ed evidenza de* paragoni, e consimili ed altri pezzi. E gl'intendenti
della lingua e del suo stile mi dicevano che ciò dava indizio che io
non ne avea ancora acquistata piena conoscenza, e giunto all'ultimo
punto di perfezione, al quale ci sarei arrivato quando questo divino
poeta finisse di piacermi in tutte le sue parti, sicome dapoi conobbi
che dicevan vero.
Come vago nelle scienze ed arti liberali di sapere i primi, ebbi
desiderio, per la poesia, legger Omero. Ma letta Ylliade secondo la
filosofia sin da giovanissimo, secondo quanto riferisce G. G. Origlia, Sto-
ria dello Studio H Napoli, il, Napoli 1754, p. 11», che pone l'inizio del suo
insegnamento nel 1683. Su di lui cfr. inoltre G. Gimma, Elogi accademici
della Società degli Spensierati di Rossano, Napoli 1 703 , p. 1 93 . 1 . l'eloquen-
za . . . Petrarca : dunque un insegnamento improntato ai canoni barocchi,
come conferma più sotto l'accenno alla poesia di Dante e i riferimenti al
Bembo, al Delminio e al Salviati.
36 VITA DI PIETRO GIANNONE
traduzione latina di Lorenzo Valla, e l'Odissea* come ignaro allora
della costituzione della Grecia e molto più dell'Asia, e de* popoli
che le componevano a que' antichissimi tempi, e sprovvisto di altre
conoscenze necessarie per intender bene quo' poemi, ne cavai po-
co profitto, ed appena mi restarono in mente i principali fatti ed i
nomi di que' più insigni eroi; sicché, nell'età avanzata, tornando
a leggergli, mi sembraron nuovi e degni veramente di essere riletti
ed ammirati.
Per gli autori toscani che aveano scritto in prosa, il de Angelis
mi additò, fra' primi, i due Giovanni - Boccaccio e Villano - ed
altri scrittori fiorentini; e per apprender l'arte dell'eloquenza ed i
vari generi dello stile, mi propose i Commentari del Panigarola
sopra Demetrio Falereo* che io lessi con somma cura ed attenzione.
A questi aggiunsi le prose del Bembo, i discorsi di Giulio Camillo
Delminio, del Muzio, del Salviati ed altri.3 Ma intorno allo stile di
quanti trattati avea letti, niuno mi parve più savio e dotto che quello
che compose il padre Pallavicino, gesuita poi cardinale, Dell9 arte
dello stile? il quale con acute riflessioni ed accurati accorgimenti
i. V Iliade . . . Odissea: il Giannone si riferisce con molta probabilità
airedizionc Homeri poeiarum principisi cum lliados, tum Odysscac libri
XLVIIX, Laurentio Vallen. et Rapimele Volaterrano interpr., s. L (ma
Antwerpen), 1528. Lorenzo Valla (1407-1457), uno dei più grandi nostri
umanisti, è celebre per la sua negazione, con rigore storico-filologico, del-
l'autenticità del constitutum costantiniano con la De falso eredita et ementita
Constantini donatione declamatio. 2. Demetrio di Palerò, // predicatore,
overo . . . DelVelocutione, con le parafrasi, e commenti, e discorsi ecclesiastici
di Mo?is. Francesco Panicarola, s. 1., 1642. Francesco Panigarola (1548-
1594), vescovo di Chrysopohs, poi di Asti, fu un celebre predicatore e
polemista della Controriforma. Demetrio Falereo, uomo politico e scrittore
ateniese nato intorno al 350 avanti l'Era volgare, scrisse sui poemi omerici,
raccolse massime e si occupò di retorica; ma le sue opere sono andate per-
dute. 3. le prose . . . altri: Pietro Bembo (1470- 1547), cardinale, umanista,
sostenne il volgare fiorentino come lingua letteraria e propose come mo-
delli il Petrarca e il Boccaccio; Giulio Camillo Delminio (1485 circa- 1544)
fu anch' egli letterato petrarchista ; Girolamo Muzio (1496- 1 576) sostenne,
nel dibattito sulla lingua, le posizioni di Gian Giorgio Trissino, in un'ope-
ra uscita postuma {Battaglie in difesa dell'italica lingua, 1582); Leonar-
do Salviati (1540-1589) fu tra i promotori dell'Accademia della Crusca.
4. Ma . . . stile: cfr. Considerazioni sopra Varte dello stile e del dialogo, Ro-
ma 1646, opera del gesuita Pietro Sforza Pallavicino (1607-X667): dal 1639
professore di filosofia, poi di teologia al Collegio Romano, cardinale nel
'57, fu l'avversario di Paolo Sarpi, contro la cui storia del Concilio triden-
tino ne contrappose un'altra scopertamente apologetica. Su di lui cfr. X.
Affò, Memorie della vita e degli studi di Sforza cardinale Pallavicino,
Venezia 1780.
CAPITOLO SECONDO 37
avea superato la diligenza ed osservazioni degli altri; e secondo che
io colPetà m'avanzava a questi studi; e dapoi, per la conoscenza
de' tempi meno a noi lontani, pervenni alla cognizione delle istorie
d'Italia degli ultimi secoli. Da quelle del Guicciardini e del Macchia-
vello appresi lo stile: se bene sembravami più piano, facile e cor-
rente quello del Macchiavello, che quello contorto, avviluppato e
laborioso del Guicciardino ; onde mi attenni più al primo che a
questo secondo.
Fra questi studi occupato, poiché non prendeva né misura, né
modo in trattargli, ma spinto da gio vanii ardore poco curava di
tralasciargli nell'ore dopo pranzo, né di esercitarmi col corpo in
camminare, ma star sempre fisso in casa, col tratto del tempo ne
acquistai una ostruzione sì grande, che arrivò a farmi itterico e sof-
frire per più mesi questo morbo chiamato «regio».1 Sperimentai
inutili tutti i rimedi, che, fino dagl'idioti, per guarire mi erano addi-
tati. Infra gli altri, dicendomi un avvocato mio amico, che nel
monistero delle monache di Regina Coeli v'era una monaca che
guariva gl'itterici, io, coll'occasione che andava spesso a visitare
Agnello di Napoli, che abitava ivi vicino, volli una mattina tentare
anche se per la medesima potessi guarire; e fattala chiamare, sco-
prendogli il mio male, la pregai che avesse pietà di me. Ed ella,
fattomi animo, dimandatomi se io avea moglie e rispostogli di no,
mi fece inginocchiare, e recitatomi sopra il capo certe parole, delle
quali sol me ne ricordo due, che diceano arcum conterei, e prescrit-
tomi alcuni sciroppi ed acque distillate che dovessi prender la
mattina, me ne mandò via, imponendomi che, per otto giorni, ogni
mattina dovessi tornar da lei, poich'ella, nella sua stanza, avrebbe
proseguito ciò che gli rimaneva di fare per la mia guarigione. Rac-
contai al di Napoli di aver trovata per me una medica si pietosa e,
ridendo sopra il mescuglio degli antidoti di sciroppi ed acquette
con le divozioni e detti de' salmi, la lasciai con le sue percantazioni,
né più vi feci ritorno. E proseguendo la strada additatami dal me-
desimo, se ben lunga, dell'esercizio, acciaio2 e di astenermi dalle
1. «regio»: «vogliono, perché da curarsi con morbida vita e quasi da re. Io
piuttosto direi perché le umane felicità generano livore; o accennando al
noto re che convertiva in giallo d'oro ogni cosa» (Tommaseo-Bellini).
z. acciaio: cosi dicevasi una cura di ferro, che consisteva nel bere acqua
in cui erano stati immersi per un dato tempo dei chiodi arrugginiti. A
questa cura il Giannone restò sempre fedele, solo sostituendo all'acqua - su
consiglio di Pio Niccolò Garelli, al tempo del suo soggiorno viennese - il
30 VITA DI PIETRO GIANNONE
paste e di altri cibi grossolani, crudi, salsi ed acetosi, cominciai a
perdere quella stanchezza di membra, che mi sentiva più quando
era in quiete che in moto, e finalmente a liberarmene affatto. Ciocché
servi per mio ammaestramento, come dovessi per l'avvenire rego-
lare le ore de' mici studi, e di non tralasciare i mattutini cammini
ed altri esercizi del corpo.
vino d'assenzio: cfr. la lettera al fratello Carlo del a giugno X731 (danno-
niana, n.°4i2). Ma si veda anche, prima, la lettera del x$ luglio 1730, dove
scrive che il suo rimedio per mantenersi in buona salute ò «gambe e ac-
ciaio» (Giannoniana, n.° 364).
CAPITOLO TERZO
Anno i70I> sotto il regno di Filippo V, re di Spagna, e sotto il governo del-
lo stesso duca di Medina Coeli e poi del duca d'Escalona, marchese di Vi-
gliena,1 viceré.
Intanto, erasene passato il decimosettimo secolo ed eramo en-
trati nel decimottavo. Ed a me, doppo scorsi sei anni da che era
arrivato in Napoli, ne' quali avea atteso a questi studi, faceva me-
stieri che pensassi ad applicarmi nel foro e calcar la polvere de*
tribunali, per poter trovare qualche onesto modo da vivere, senza
aspettar di mia casa altro soccorso. La quale, per la morte accaduta
del zio di mia madre, e perché non si era fatto poco per lo spazio di
sei anni mantenermi in Napoli e somministrarmi anche il denaro
per ascendere al grado di dottore, non era in istato di potermi di
vantaggio sovvenire; e mi credeano di età tale, essendo nel venti-
cinquesimo anno, che io per me stesso, co* primi guadagni del foro,
ancorché piccioli, potessi sostentarmi. Sicché mi risolsi, doppo pre-
so il dottorato, d'incaminarmi per la strada de' tribunali, ed a que-
sto fine cercare un avvocato sotto il quale potessi acquistarne la
pratica, non meno che istradarmi e rendermi abile di trattar qual-
che causa.
Nella città di Napoli i gradi del dottorato non si conferiscono
dall'Università degli studi, sicome è in altre città, ma dal Gran
Cancelliero del Regno e suo Collegio de* dottori, i quali esamina-
no i candidati e, trovatigli idonei, gli crean dottori.2 Fui esaminato
nel diritto civile e canonico ed esposi, secondo è ristituto, in pre-
senza del Collegio, alcune leggi e decretali che mi furon prescritte;
e dal suffragio di tutti approvato che fui, mi vestirono di toga, mi
posero una berretta in capo ed un anello nel dito, ed apertomi in-
nanzi il Corpo delVius civile e canonico, con ampie forinole mi die-
dero facoltà di poter allegare, interpretare, insegnare ed esporre le
leggi ed i canoni, creandomi, usando altri riti e cerimonie, dottore
della legge civile e del diritto canonico; e me ne spediron diploma
in carta pergamena, col suggello pendente, per futura memoria de*
posteri.3
i.duca . . . Vigliena: Juan Manuel Femandez Pacheco, marchese di Vilhena,
duca d'Escalona, viceré dx Napoli dal 1702. 2. Nella . . . dottori; sulla ceri-
monia dell'addottorato dv. Istoria civile, tomo in, lib. xxv, cap.ix, pp. 349-52*
3. apertomi. . .posteri: il giuramento dottorale fu prestato il 4 settembre 1698,
-r- viia jl»i PIETRO GIANNONK
Nel cercare un avvocato, per apprender la pratica de' tribunali,
incontrai sorte uguale di quella ch'ebbi nel cominciar gli studi
delle Istituzioni, poiché mi fu proposto un avvocato1 se bene di
somma probità e riputato fra' primi della città, nulladimanco era
un puro forense, sprovvisto di ogni altra cognizione, illittcratissimo
e che appena sentiva il goffo latino de* volumacci forensi, inetto nel
parlar le cause nelle Ruote2 e molto più nello scrivere e nel com-
porre allegazioni legali, ancorché forensi, del quale non se n'era
veduta alcuna che meritasse esser letta. Aggiungevasi che, seguitan-
dolo io la mattina ne* tribunali, il dopo desinare andando in sua casa
per studiare nella di lui libraria, non ci trovai se non libracci insi-
pidi e sciapiti, tutti forensi; ed io, che non voleva perdere i mici
studi, fatti sopra autori eruditi e classici, soffriva per ciò una gran
pena. Fra tanti volumacci non vi ravvisai che i tomi di Antonio
Fabro, che stavano ivi condennatì per non essere mai aperti, cover-
ti di polvere e di tele di ragni. Così andava frammezzando colla
noiosa lettura de* forensi qualche ora sopra il Codice di Fabro, so-
pra la di lui Giurisprudenza papinianea e sopra i libri dal medesi-
mo compilati Intorno agli errori de' prammatici? Ma a lungo anda-
re, scorgendo il poco profitto che se ne ricavava e che inutilmente
vi consumava il tempo, scovrii al carissimo Spinelli le mie scia-
gure d'aver incontrata, nell'elezione dell'avvocato che dovea esser
mia guida e scorta, si cattiva sorte. Il quale, appena intese il nome,
del quale ora non voglio ricordarmi, acremente mi riprese dell'ele-
zione fatta e mi diede non pur consiglio, ma aiuto di cambiarlo
ed eleggerne un altro, di cui egli era stretto amico: e questi fu
Gaetano Argento4 di cui egli avea conoscenza fin da ch'era disce-
c il testo è stato pubblicato da L. Settembrini, Le carte della scuola di Sa»
terno e gli autografi di illustri napoletani laureati neW Università di Napoli, in
«Nuova Antologia», xxvi (1874), p. 956. 1. un avvocato; anche di questo
procuratore ci resta il nome dal Panzini, p, 3 : Giovanni Musto, a. nelle
Ruote: nei tribunali. 3. i tomi . . .prammatici: si parla di Antoino Favre
(1 5 57- 1 624), giureconsulto sabaudo, le cui opere, nell'ordine in cui sono
ricordate dal Giannone, recano i seguenti titoli: Codex Fabrianus definitìo-
numforensium et rerumin sacro Sabaudiaesenatu tractatarum, Lugduni 1606 ;
Iurisprudentiae papinianeae scìentia ad ordinem Institutionum imperiatimi ef-
f ormata^ Lugduni 1607; De erroribus pragmaticorum et ìnterpretum iuris . . M
Lugduni 159$. 4. Gaetano Argento (1661-X730), nativo di Cosenza, giuri-
sta, salì alle più alte cariche della magistratura napoletana: consigliere del
Sacro Real Consiglio nel 1707, reggente del Collaterale nei 1709, consultore
del Cappellano Maggiore, vice-protonotario e presidente del Sacro Real
Consiglio nel 17x4, delegato della Rea! Giurisdizione, fu creato duca dal-
CAPITOLO TERZO 41
polo del famoso avvocato Serafino Biscardi1 poi reggente, il quale,
avanzatosi per la sua gran dottrina nelPawocazione,2 era a questi
tempi, ne* princìpi del nuovo secolo, giunto ad essere uno de* primi
e più insigni avvocati. Con forti ed efficaci parole, conducendomi
seco, mi raccomandò al medesimo; e non bastandogli di avere
reiterate più volte le raccomandazioni, volle che altri personaggi
di conto passassero per me coir Argento i medesimi uffici.
Il cangiamento fu per me d'inestimabil acquisto: trovai in lui
profonda erudizione e notizia non meno di scrittori latini, che gre-
ci, e profonda conoscenza non solo del dritto feudale e municipale,
ma di giurisprudenza romana, che avea tratta da limpidissimi fonti;
la sua biblioteca ornata de' migliori e de' più scelti giurisconsulti
e canonisti: ivi erano le opere di Andrea Alciato, di Budeo, di Gia-
como Cuiacio, di Duareno, di Connano, di Balduino, di Brissonio,
di Otomano, di Mornacio, di Antonio Augustino, di Contio, di
Dionisio e Giacomo Gotofredo, di Cironio, del Gonzales, del
Van-Espen,3 e di chi no? Niente mancava degli altri scrittori fo-
F imperatore. Restano di lui manoscritte numerose consulte in materia giu-
risdizionale, custodite presso le Biblioteche Nazionali di Roma e di Napoli.
Su di lui si veda D. Zangari, Gaetano Argento, reggente e presidente del Sa-
cro Real Consiglio, Napoli 1922. 1. Serafino Biscardi (1643-1711), concit-
tadino dell'Argento, ebbe onori e cariche di rilievo, divenendo reggente
del Collaterale. Schieratosi in favore della Spagna al tempo della guerra
di successione, con l'occupazione austriaca del Regno fu rimosso da ogni
carica (1707), ma poi reintegrato nell'ufficio. La sua fama fu soprattutto
affidata alla propria eloquenza ed erudizione, che lo fecero paragonare a
Francesco D'Andrea (cfr. Istoria civile, tomo iv, lib. xl, cap. v, p. 490). Su
di lui si veda N. Cortese, Serafino Biscardi, in «Bollettino della Società Ca-
labrese di Storia Patria », 11 (1918), nn. 1-2, e la voce di G. Ricuperati nel Di-
zionario biografico degli Italiani, X, Roma 1 968. 2. avocazione : avvocatura.
3. Andrea Alciato (1492-1550), giureconsulto e professore di diritto civile
ad Avignone, Bourges, Bologna e Ferrara, fu tra i maggiori del suo tempo
e capo del nuovo indirizzo umanistico nel diritto ; Budeo : Guillaume Bude
(1467- 1540), filologo e grecista, bibliotecario del re di Francia. A lui si
deve la fondazione del Collegio di Francia; Duareno; Francois Douaren
(1509-155 9), allievo di Andrea Alciato, insegnò diritto a Bruges ; Connano :
Francois Connan (1 508-1 551), giurista e magistrato francese, signore di
Coulon, fu pubblico ministero sotto Francesco I; Balduino: Francois
Bauduin (1520-1573), teologo e giureconsulto francese, fu mediatore tra
ugonotti e cattolici durante le guerre di religione; Otomano: Francois
Hotman (1 524-1 590), signore di Villers-St.-Paul, giureconsulto francese,
ugonotto, consigliere di Stato sotto Enrico di Navarra, fu uno dei capi-
scuola dei monarcomachi; Mornacio: Antoine Mornac (1554-1619 circa),
avvocato del Parlamento di Parigi; Contio: Antoine Leconte, latino Con-
tius (1526-15 86), professore di diritto a Bourges e Orléans, fu costante
oppositore della Riforma; Dionisio . . . Gotofredo: Denis Godefroy (1549-
rensi; ma erano ben distinti, tra forensi stessi, gli goffi e sciupiti da
quelli che la giurisprudenza romana aveano adattata all'uso del
foro, e che aveano saputo, ne' loro dotti volumi, la dottrina forense
condirla e trattarla da gravi e seri giurisconsulti. Vi erano libri eru-
ditissimi di ogni genere, di poeti, istorici, oratori e fino di filosofi e,
fra gli altri, tutti i volumi di Pietro Gassendo.
Ma sopra tutto, quel che rendevami estremo contento1 fu che
vi trovai giovani della mia età ed alcuni più avanzati, i quali sotto la
disciplina del medesimo si erano avviati nella strada dell'avvoca-
tone, assai dotti, di buon senso, ed amanti non men degli studi
forensi che delle belle lettere e di varia erudizione; i quali, quasi
tutti ho poi veduti ascendere a* primi onori della toga. Con questi
avendo preso amicizia, spesso comunicando insieme i nostri stu-
di avanzava sempre più le mie conoscenze; e, sorta fra di noi qual-
che emulazione, si resero quelli più assidui ed intensi. Intanto, per
questo cangiamento di miglior avvocato, lasciai il primo, il quale,
poco dapoi, se ne morì. E non debbo tralasciare che, se bene presso
di lui poco profittassi nel foro, nulladimanco per la sua divota vita
che menava, diedemi occasione di farmi acquistar conoscenza col
padre Antonio Torres,* non men dotto che savio e discreto prete
dell'Oratorio, istituito in Napoli dal padre Caracciolo,3 il quale di-
1621), francese e ugonotto, riparato a Ginevra dove insegnò diritto in
quella università, detto V Ancien per distinguerlo da Jacques Godefroy,
anch' egli professore di diritto a Ginevra, e che fu tre volte sindaco di
quella città; Cironio: Innocent Ciron (morto nel XÓ50 circa), cancelliere
della Chiesa e dell'Università di Tolosa, professore di diritto; Uanzales:
Emmanuel Gonzalcz y Virtus (morto nel 1713), canonista spagnolo, fu
vescovo di Tucuman (oggi Santiago del Estero); #oger Hcmard van
Espen (1646- 1728), professore di diritto canonico a Lovanio, fu giansenista
e legato all'ambiente di Port-Royal. La sua opera maggiore, il lus ercìe-
siasticum universum, Levami 1700, fu posta all' Indice. Schieratosi in favo-
re della validità dell'elezione del vescovo di Utrecht, contrastata da Roma,
fu processato e condannato (1725), e dovette fuggire da Lovanio. È uno
degli autori più frequentemente citati dai giurisdizionalisti italiani della
prima metà del secolo XVI II; le sue opere erano tra le più frequente-
mente utilizzate dal Giannone. x, contento: gioia. 2, Antonio Torres
(1636-17 13), preposito generale dei l*u Oporari, una congregazione eccle-
siastica fondata in Napoli da Carlo Carafa nel xòoo e destinata all'organiz-
zazione di «missioni». Sul Torres si veda O. 8. Toccr, 21 padre Antonio
Torres e l'accusa di quietismo, Montalto Uffugo (Cosenza) 1958. 3. isti"
tutto , . < Caracciolo: non già dal Caracciolo, ma dal Carafa, come sopta
s'è detto. Forse il Giannone si riferisce qui a Fabrizio (al secolo Agostino)
Caracciolo, abate di Santa Maria Maggiore in Napoli, cofondatore del-
l'Ordine dei Chierici Regolari Minori insieme a Giovanni Adorno, 0 ad-
CAPITOLO TERZO 43
inorando nella casa chiamata di San Niccolò alla Carità, presiedeva
in una particolar congregazione dov'eran frequenti più avvocati,
nella quale, ne' giorni di domenica, la mattina, oltre altri spirituali
esercizi, faceva sermoni sì dotti, fervorosi e seri, che tirava la divo-
zione di molti di andarlo a sentire. Ond'io mi ascrissi in quella
congregazione, e non tralasciando di frequentarla ebbi la sorte di
avere per mio padre spirituale lo stesso Torres, il quale m'instruì
nella vera e solida morale cristiana, e mi fece accorto di non por
fiducia in alcune vane superstizioni ed in altre appariscenti ed
estrinseche dimostranze, le quali erano da riputarsi piuttosto fari-
saiche e pagane, che evangeliche e cristiane.
Leggeva spesso YArte della perfezion cristiana1 del cardinale
Sforza-Pallavicino e, sopra gli altri libri spirituali, niuno lessi con
maggior divozione, che le Confessioni di sant'Agostino, se bene in
quell'età mal comprendessi la mistura che in quelle osservava di
cose puerili e basse colle grandi e sublimi, spezialmente quando
s'innalzava nelle più alte speculazioni teologiche e platoniche. Am-
mirava il suo ingegno nelle cose filosofiche, ma sembravami che
l'esser troppo attaccato alle splendide idee di Platone l'avesse al-
terato l'intelletto e resolo sottil metafisico e la sua prima professione
di retorico l'avesse, purtroppo, reso amante di strane ed ardite
metafore, di contrapposti e di fredde antitesi, solite per altro de'
cervelli africani.
Proseguendo a calcar la via de' tribunali dietro il rinomato
Argento, cominciai ad acquistar miglior conoscenza di altri avvo-
cati, sentendogli parlar nelle Ruote del Consiglio di Santa Chiara;3
e se bene io ci venissi tardi sicché non potei avere il piacere d'am-
mirare l'eloquenza dell'incomparabile Francesco di Andrea3 ed il
dirittura allo stesso san Francesco Caracciolo (1 563-1608), il terzo fonda-
tore dell'Ordine, che venne beatificato da Clemente XIV. 1. Arte . . .
cristiana: Roma 1665. 2. Consiglio di Santa Chiara: così era detto, dal
luogo dove anticamente soleva riunirsi, il Sacro Real Consiglio, magistra-
tura suprema napoletana, corrispondente grosso modo alla nostra Corte di
Cassazione. Però sin dal Cinquecento la sua sede era stata trasferita in
Castelcapuano. 3. Francesco D5 Andrea (1625-1698) fu uno dei maggiori
giuristi del tempo. Le sue consulte sono tuttora conservate, manoscritte,
presso le biblioteche di Napoli e l'arcivescovile di Brindisi. I suoi Avverti-
menti ai nipoti sono stati editi a cura di N. Cortese in «Archivio Storico
per le Provincie Napoletane», N. S., v (1920), e successivamente ristampati
a parte col titolo / ricordi di un avvocato napoletano del Seicento, Fran-
cesco D* Andrea, Napoli 1923. Oltre alla prefazione ivi apposta dal Cortese,
si veda ancora B. De Giovanni, Filosofia e diritto in Francesco Andrea,
46 VITA DI PIETRO GIANNONF,
né cotanto diffuso; nelle ultime sembrava un fiume impetuoso e
grande che, rotto ogni argine, diffondeva ampiamente le sue co-
piose acque da per tutto; ma se ben copiose, tutte però limpide
e chiare, non più mescolate di loto, di arena, sterpi o sassi; sic-
ché io, avendole come tante ampie e dilatate selve, trovava sempre
pronta la materia a' miei piccoli lavori, che cominciava allora a
tessere.
In cotal guisa avanzandomi ne* tribunali, sotto la scorta e gui-
da di un tanto maestro, ed acquistando da ciò conoscenza di al-
tre persone, che per occasioni di liti frequentavano il foro, venni
ad esser noto ad alcuni provinciali; ed i primi furono alcuni della
provincia di Lecce, i quali conoscendo in me qualche abilita, e
che io militava sotto un sì gran capitano, non si diffidarono1 di
commettermi la difesa di qualche lor causa, e procurarmi da' loro
compatriota delle consimili. Le quali, ancorché non di molto va-
lore, servirono e per meglio esercitarmi nel foro, e perché dagli
emolumenti, ancorché piccioli, che ne ritraeva, potessi tirar avanti
e, senz'incomodar di vantaggio la povera mia casa, sostentarmi in
Napoli nel miglior modo che poteva; confortandomi in queste mie
strettezze l'aver in mente quel savio detto, nato dall'esperienza,
che spesso sentiva dire dagli avvocati vecchi: che per coloro che si
avviavano per la strada dell'awocazionc vi erano tre tempi: il pri-
mo, nel quale bisognava travagliare senza 0 con poco guadagno ; il
secondo, nel quale la fatica era compensata con ugual mercede; ed
il terzo, dove poco era il travaglio e molto il guadagno. Qual felice
tempo io non vidi giammai. Così, colie cause di alcuni Leccesi,
che furon le prime ad esser da me trattate, cominciai a farmi no-
to; ed essendo occorso in una di doversi scrivere, ne composi io
l'allegazione, la quale essendo piaciuta al cliente, volle che si im-
primesse, che fu la prima che io dessi fuori alle stampe.3
1. non si diffidarono: non ebbero sfiducia, a. la prima , . . stampe: di que-
sta allegazione non è rimasta traccia, né ve n'e ricordo in Fanzini, do-
ve invece si registra, tra le prime allegazioni giannoniane, una « in favore
del vescovo di Capaccio contro l'Abate della Real Badia e cappella di S.
Egidio » (p. 3). In essa il Giannonc esaminava il diritto dei vescovi sulle
cappelle reali, e l'argomentazione può essere parzialmente ricostruita, se-
condo quanto afferma lo stesso Panzini, ivi, da uno scritto di I. (). Vi-
tagliano, V antico dritto de* regi cappellani a onore della real cappella di
Napoli dimostrato e sostenuto contro le nuove pretensioni de* regi cappellani
stipendiati della medesima, Napoli, a* 25 del mese di marzo dell'anno 1738;
nonché dalle Osservazioni del dottor Pietro datinone sopra la scrittura ititi-
CAPITOLO TERZO 47
Di tempo in tempo, come suole avvenire, mi furon commesse
altre cause da altri provinciali, che io, acquistando maggior pra-
tica e conoscenza de' ministri, maneggiava con più franchezza;
ed avendone guadagnato alcune, e sempre più venendone delle
nuove, mi posi in istato di far venire in Napoli un mio fratello
minore1 presso di me, ed istradarlo pria ne' studi di filosofia, poi
in quelli di legge e, finalmente, metterlo nella strada de' tribunali.
Avvenne dapoi che, per la morte della principessa di Marano,
si ebbe a disputare della di lei successione; ed aspirandovi donna
Isabella Spinelli, contessa di Bovalino, che avea preso per suo av-
vocato l'Argento, questi, impedito da altre gravi sue occupazioni,
mi diede l'incombenza di attendere alle liti della medesima e, so-
pra tutto, a quella che intorno alla successione suddetta teneva col
Caracciolo, principe di Marano. E poiché in questa causa occorreva
disputarsi non già di successioni feudali, ma di tenute, le quali
nel regno di Napoli doveano riputarsi burgensatiche,2 e questa
materia da' forensi non era stata trattata con quella dignità e chia-
rezza che conveniva; quindi, essendomi stato imposto che io vi
dovessi scrivere, mi fu data occasione di esaminare come si fossero
introdotte nel Regno le tenute e dimostrare che potessero costituirsi
sopra i feudi, non pur ne' contratti tra vivi, ma eziandio ne' testa-
menti, nelle ultime volontà: per le quali non s'induceva servitù
alcuna ne' feudi, non importando usufrutto, ma una semplice
commodità di goderne i frutti, la quale era distinta dall'usufrutto:
ciò comprovando non solo per autorità di scrittori forensi, sicome
erasi sin allora fatto, ma con i princìpi della giurisprudenza romana
istessa, additando più leggi delle Pandette, dalle quali dimostrai
con evidenza che i giurisconsulti romani, quando non potevasi ne'
fondi e ne' predii3 e nelle doti costituire usufrutto, consigliavano che
si concedesse facoltà di poterne percepir i frutti, la quale non im-
portava servitù alcuna; onde a ragione da' nostri maggiori si eran
introdotte le tenute sopra i feudi, le quali doveano riporsi nelPere-
tolata «Difesa della Redi Giurisdizione intorno a' regi diritti di S. Maria
della Cattolica della città di Reggio » (uno scritto del Vitagliano nel quale
si erano criticati passi dell'Istoria civile: cfr. infra alla nota i di p. 129).
Queste Osservazioni si trovano ristampate in Opere postume, il, pp. 143-50.
i. un mio fratello minore: Carlo, il quale sarebbe divenuto T amministra-
tore di tutti i suoi beni dopo la fuga a Vienna. Morì il 14 febbraio 1755-
2. burgensatiche: burghensatiche, allodiali, cioè di possessi non vincolati al
feudo, allodio. 3. predii: possessioni terriere (latinismo).
48 VITA DI PIETRO GIANNONE
dita burgensatica, non feudale, lasciata da' defunti, in vigore delle
quali, i tenutari, ancorché non eredi ne* feudali, potevano godere
di tutti i frutti del feudo, anche della giurisdizione, come frutto
del medesimo.
Quest'allegazione, che fu data alle stampe,1 letta con piacere
non men dagli avvocati che da' ministri, mi rese più noto ne* tribu-
nali e cominciai dopo ad acquistar qualche nome : poiché, occorren-
do a gli avvocati di trattar cause consimili di tenute, mi ricercavano
questa scrittura e, secondo i princìpi e dettami della medesima,
regolavano le lor difese e formavano le loro allegazioni.
il
Mentre io proseguiva ed avanzava nella strada dell'avvocazione,
non per ciò furon da me tralasciati gPintrapresi studi della filo-
sofia, dell'istoria, e delle altre lettere umane, conversando co' pri-
mi letterati della città, co' quali, intanto, avea io presa conoscenza.
Ed intesi alcune dotte loro esposizioni, che recitavano avanti il
duca di Medinacoeli viceré, il quale sovente faceva ragunargli nel
regal palazzo, ed in una ben ornata e magnifica sala, alla di lui pre-
senza e consesso della primaria nobiltà e ministero ed intervento
di molti avvocati ed altre persone letterate, si udivano vari compo-
nimenti di sublime e scelta materia, non meno in prosa che in versi
o rime, ed in più lingue : greca, latina, toscana e spagnola.3
Fra gli altri di questi accademici, mi strinsi con nodi di perfetta
i. Quest'allegazione . . . stampe: anche di questo scritto non si hanno ulte-
riori notizie, né lo ricorda il Fanzini, p. 4, il quale, dopo aver segnalato Tal-
legazione in favore del vescovo di Capaccio, registra di seguito l'altra in fa-
vore del principe d'Ischitella, sulla quale cfr. p. 70. 2. il duca . . . spagnola:
nell'Istoria civile, tomo iv, lib. xl, cap. ni, p. 477, aveva scritto che il viceré,
sin dal suo giungere a Napoli « favorì le lettere, e sopra modo i letterati, ragu-
nandogli spesso nel regal palazzo, dove egli con somma attenzione e compia-
cimento ascoltava nell'assemblee i loro vari componimenti. Tal che le buo-
ne lettere, che nel preceduto governo s'erano presso noi stabilite, a' suoi
tempi, per li suoi favori, presero maggior vigore, e più fermamente si
confermarono ». Così a sua volta Giambattista Vico, che di questa acca-
demia fu anch'egli membro, definì il duca «infinitae procerum Regni po-
tentiae pene extinctor, durus vectigalium exactor, acer criminum iudex»,
elogiando gli anni del suo governo (cfr. Scritti storici, a cura di F. Nicolini,
Bari 1939, p. 305). Testimonianze di questa accademia ci sono conservate
nel manoscritto della Biblioteca Nazionale di Napoli segnato xni.B.69-73 :
sono cinque volumi dal titolo Lesioni accademiche de' diversi valentuomini
de' nostri tempi recitate avanti l'eccellentissimo signor duca di Medinacoelù
CAPITOLO TERZO 49
amicizia con due: con don Niccolò Capasso,1 allora cattedratico
deìVtus canonico dell'Università de* studi, e con Niccolò Cirillo,2
professore di medicina in quella Università, profondo filosofo, gran
botanico e peritissimo medico e notomico. Questi, come immerso
nella filosofìa di Cartesio, della quale era a fondo istrutto, cominciò
a farmi allontanare da alcune opinioni del Gassendo, e fece ch'io
leggessi le opere del Cartesio, spezialmente le di lui Meditazioni, i
Princìpi, la Diottrica ed il trattato Delle meteore.2 E non posso ne-
gare che, leggendole, intesi farmi di me stesso maggiore, per le
tante belle scoverte e sode speculazioni degne di quel divino inge-
gno, e sopra tutto, poi, il metodo ch'egli avea tenuto ne' studi, leg-
gendo Pammirabile trattato Delle passioni dell 'animo, e gli altri due,
ancorché lasciati imperfetti, Dell'uomo e Del feto umano.4
Questi studi mi fecero daddovero comprendere il nostro basso
essere umano e quale miserabilissima parte noi siamo, riguardando
i. Nicola Capasso (1671-1745), napoletano, subentrò alPAulisio, alla morte
di questo (17 17), sulla cattedra di diritto civile, dopo aver insegnato, nella
stessa Università di Napoli, diritto canonico «secondo i veri principi tratti
da' concili e da* Padri, col soccorso deiristorìa ecclesiastica, e secondo l'in-
terpretazione de' più culti, ed eruditi canonisti » (Istoria civile, tomo IV, lib.
XL, cap. v, p. 492). Appunti manoscritti di sue dispense universitarie sono
conservati presso la Biblioteca Arcivescovile di Brindisi. La sua biografia è
in L. Giustiniani, Memorie istoriale, cit., 11, 1788, pp. 298 sgg. e in G.
G. Origlia, Storia dello Studio di Napoli, cit., p. 279. 2. Niccolò Cirillo
(1671-1735), nato a Grumo, vicino Aversa, fu allievo di Nicola Partenio
Giannettasio, poi di Luca Tozzi, celebre medico, seguace della filosofia
cartesiana. Membro dell'Accademia palatina del Medinacoeli, professore di
fisica nello Studio napoletano, primario dell'ospedale degli Incurabili, col-
l'aiuto di Pio Niccolò Garelli ottenne nel 1726 la cattedra primaria di me-
dicina. Fu amico di Celestino Galiani, e fu in corrispondenza con Antonio
Vallisnieri e col Newton (due sue dissertazioni vennero pubblicate, tramite
il Newton, sulle « Philosophical Transactions » della Royal Society, della
quale fu anche membro). I suoi Consulti medici furono editi in Napoli, nel
1738. La sua biografia è in testa a questa edizione, a cura di Francesco Serao.
Un maldestro plagio di essa è il saggio di A. Russo, Profilo di Nicolò Cirillo
medico, filosofo, scienziato, in «Atti e Memorie dell'Accademia di Storia del-
l'Arte Sanitaria», appendice alla «Rassegna di Chimica e Terapia e Scienze
affini», S. 11, xxiii, 2 (1957). 3. le opere . . . meteore: R. Descartes, Medi-
tationes de prima philosophia, in qua Dei existentia et animae immortalitas de-
monstratur, Pansiis 1641 ; Principia philosophiae, ivi 1644. Sono invece pre-
cedenti a queste opere i due saggi che il Giannone rammenta qui, apparsi
in un unico volume in Olanda col titolo composito : Discours de la Méthode
pour bien condurre sa raison, et chercher la verità dans les sciences. Plus la
Dioptrique, les Météores et la Geometrie, qui soni des essais de cette Méthode,
Leyde 1637. 4. V ammirabile . . . umano-, nell'ordine: Les passions de Vdme
(1649) e il Tractatus de nomine, et de formatione foetus, quorum prior notis
perpetuìs Ludovici de la Forge M. D. illustratur (1677).
50 VITA DI PIETRO GIANNONE
questo mondo aspettabile1 e tutto l'ampio universo, mi scovrirono
un'altra verità, cotanto da Cartesio istesso inculcata: che in filosofia
niuno dee astringersi a militare sotto un particolar duce,2 ma Tuni-
ca sua scorta e guida, in investigando l'opre stupende di natura,
dover essere la sola ragione e l'esperienza. E d'allora in poi sti-
mai leggerezza o vanità il seguitare il partito o di Gasscndo o
di Cartesio o di qualunque altro filosofo; ma, doppo un maturo
esame ed esatto scrutinio, appigliarsi a quella dottrina, che tro-
verà più conforme alla ragione ed all'esperienza. E la maniera
di indagar nelle cose la verità, rivocandole ad esame, mi fu mo-
strata da quel dotto ed acuto libro di Malebranche, De mquiren-
da 'ventate? che io lessi per consiglio del cattedratico Capasso,
che me ne diede notizia e m'invogliò a studiarlo. Compresi ciò
che importasse quel savio ammonimento di dover drizzare tutte
le conoscenze fisiche e naturali, e spezialmente la cognizione di
noi stessi, non ad altro scuopo, che per acquistare una buona
morale, la quale, peregrinando in questo mondo, ci potesse essere
non sol di guida per ben reggere la nostra vita ed i nostri costumi,
ma per renderci forti, pazienti alle sciagure ed avversità, per mezzo
delle quali deesi camminare, in passando questo mar procelloso,
pieno di sirti, di pirati e di duri scogli.
Ed in vero nelle mie fiere ed incessanti persecuzioni, che ho
sofferte nel corso di mia penosa vita, come si udirà più innanzi,
non ebbi altro conforto, che mi desse coraggio a pazientemente
soffrirle, se non la cognizione delle mondane cose, del nostro basso
essere e della miserabile umana condizione, sottoposta a varie vi-
cende; le quali accadendo, non devon riputarsi strane e portentose,
ma secondo il corso dell'immutabile serie e concatenazione degli
effetti con le loro più immediate cagioni.
Questo frutto ritrassi da' miei studi di filosofia, che per me, in
tante calamità e sciagure, non è da dubbitare che fummi di gran
sollievo e ristoro. Benedico per ciò il tempo che vi consumai, e le
fatiche e gli incommodi che per apprenderla vi soffersi, poiché
i. aspettàbile: visibile (latinismo). 2. sotto un particolar duce: seguendo
una sola scuola filosofica. Le parole che seguono sono tratte dalla de-
dicatoria della Professione di fede (cfr. qui a p. 483)* 3. Cfr. N. db Male-
branche, De la recherche de la vérité, Paris 1674- 1675. Nicolas de Male~
branche (1638-1715), oratoriano francese, riprese la tematica filosofica carte-
siana, in chiave occasionalistica.
CAPITOLO TERZO 51
se bene dovessi ravvolgermi fra l'improba e cavillosa turba forense
e fra i tumulti e romori de' tribunali, non abbandonai giammai,
nell'ore solitarie e di quiete, i di lei studi; anzi un anno, dicendomi
il dotto Cirillo che in quel semestre insegnava nel pubblico a' suoi
discepoli il trattato Delle cause de9 morbi,1 e che, dovendo trattar di
quelli appartenenti al capo, l'era convenuto descrivere la costru-
zione del cerebro, degli spiriti animali, dell'origine de' nervi, della
fabbrica degli occhi, delle orecchie, delle narici, della bocca e di
tutte le parti che compongono il capo, affinché meglio capissero
onde provenisse la memoria e la riminiscenza, e le cagioni onde
sovente venisse a mancare 0 a perdersi, e donde provenissero gli
altri mali che alteravan la nostra fantasia ed immaginazione, sicché
spesso, per lo sregolato corso degli spiriti, ne venivan gl'insogni,2
le illusioni ed altri vani fantasmi e spettri, sicome onde fosser ca-
gionati gli altri morbi de' nostri sensi esterni ; quindi io, tratto da sì
nobil materia, rubava come meglio poteva l'ora di qualche giorno
per andarlo a sentire. Sicome, sempre che al medesimo occorreva
far qualche privata osservazione notomica, o pure mi era riferito
che il celebre filosofo e medico, Lue' Antonio Porzio,3 il quale al-
lora occupava la cattedra di notomia nell'Università degli studi,
dovea far qualche sezione di cadavere umano o di altro animale,
non mancava d'intervenirci. E con tal occasione venni a conoscere
il famoso Gregorio Caloprese,4 profondo filosofo cartesiano, il qua-
1. Delle cause de* morbi: cioè il De caussù morborum liber di Claudio Gale-
no (129-201), celebre medico aristotelico la cui fama, nell'antichità, fu pari,
in medicina, a quella goduta da Aristotele in filosofia, lì De caussù si può ve-
dere nell'edizione Medicorum graecorum opera quae extant, vii, Lipsiae 1 824,
pp. 1-41. 2. gVinsogni: i sogni. 3. Lue* Antonio Porzio (1634-1723), napole-
tano, fu un celebre medico la cui fama varcò l'ambito cittadino. Fu a Roma
nel 1670, dove insegnò alla Sapienza; quindi a Vienna tra il 1684 e il 1687,
per rientrare infine a Napoli, dove rimase sino alla morte. A Vienna pub-
blicò i suoi studi sulle malattie più diffuse tra gli eserciti. Su di lui si veda
in D. Martuscelli, Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, 11, Na-
poli 1809, pp. 125 sgg.; C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori
nati nel regno dì Napoli, Napoli 1844, p. 283; L. Nicodemo, Addizioni co-
piose alla Biblioteca napoletana del dottor Niccolò Toppi, Napoli 1683, p. 157.
La sua opera fu raccolta da Francesco Porzio e edita in due volumi a Napo-
li nel 1736. 4. Gregorio Caloprese (1650-1715), originario delle Calabrie,
maestro del cugino Gian Vincenzo Gravina e di Pietro Metastasio, deve la
sua fama all'opera di divulgazione della filosofia cartesiana da lui fervida-
mente compiuta nella Napoli secentesca. Commentò il Canzoniere del Pe-
trarca, annotò e tradusse la Logica di Pierre-Sylvain Régis (un filosofo di
scuola cartesiana di indubbia originalità), e stese un trattato contro lo Spi-
noza di cui ci ha tramandato notizia G. B. Rinucci nella sua Vita di G.
52 VITA DI PIETRO GIANNONE
le non tralasciava di esser presente nell'osservazioni notomiche che
faceva il Porzio.
Ebbi ancora occasione di continuar questi studi, perché, avendo
mandato mio fratello dal Cirillo ad apprender filosofia, sovente,
per indagare il profitto che vi faceva, gli domandava di più cose
a quella appartenenti e rivedeva i suoi scritti, e se da lui si erano
ben capiti ed intesi. Così, avendogli sempre innanzi a gli occhi,
ne' dì feriati,1 l'avea per mio sollievo e diporto. E mi ricordo che,
alquanti anni appresso, essendosi nelle ferie del Carnevale mossa da
alcuni curiosità di sapere per qual cagione le nevi, che cadono nel
Vesuvio nell'orlo della bocca che butta fiamme e fuoco, durano
più lungamente che quelle che cadono nell'altra cima dell'istes-
so monte, che non butta fiamme ed è alquanto più alta, io dallo
scolo che, cadute in quel sabionc, fassi delle lor acque, sciolsi il
problema; poiché, non mescolandosi colla neve rimasa, fa che più
lungamente la conservi; ciocché non accade nell'altra cima, che
non ha sabia, ma terren duro e forte, sicché l'acque della neve li-
quefatta, non trovando scolo e mescolandosi colla rimasa, fa che
tosto la risolva e converta in piccioli e minuti rivi.4
in
[1702}
Intanto, i progressi che sotto l'Argento io faceva ne' tribunali
eran notabili; e proseguendo gl'intrapresi studi dell'istoria e giu-
risprudenza, si aggiunse un'occasione assai propria e pili acconcia
per avanzargli e stendergli all'ultimo punto di perfezione; poiché
la casa dell'Argento, più di qualunque altra casa d'avvocato essendo
fioritissima di giovani eruditi e dotti, che si erano avviati per l'av-
Caloprese, fra gli Arcadi Alcimedonte Cresio, edita nello Notizie {storiche de-
gli Arcadi morti, Roma 1720, n, pp. 11 1 sgg. Da essa apprendiamo anche
che partecipò all'Accademia del duca di Medinacoeli, svolgendovi una serie
di lezioni antimachiavelliche. Su di lui cfr. R. Cotugno, Gregorio Calopre-
se, Trani 191 1. x. feriati: festivi (latinismo). 2. E , . . rivi*, questa breve
trattazione fu pubblicata dal Giannone, anagrammando il proprio nome,
col titolo : Lettera scritta da Giano Percntino ad un suo amico che lo richie-
deva onde avvenisse che nelle due cime del Vesuvio in quella che butta fiamme
ed è più bassa, la neve lungamente si conservi, e nelV altra ch'è alquanto più
alta ed intera, non vi duri che per pochi giorni, Napoli, 26 febbraio 17x8.
Questo opuscolo, un esemplare del quale è conservato presso la Biblioteca
Nazionale di Napoli, è stato ristampato in appendice alla Vita, ed. Nicolini,
PP. 4*9-3*.
CAPITOLO TERZO 53
vocazione, venne a tutti desiderio destituire fra noi, tra le domesti-
che pareti di quella, un'accademia1 nella quale, in certi stabiliti
giorni, si dovesser recitare lezioni sopra qualche diffidi testo delle
Pandette o del Codice, secondo che ciascuno se l'avesse eletto,2
per mostrare sua dottrina e valore, ovvero disputarsi sopra qualche
causa ed articolo forense, nella guisa che facevasi nelle Ruote del
Consiglio di Santa Chiara. Due giovani assumevan la parte degli
avvocati contendenti, gli altri, più provetti, la parte de' giudici
che dovean, co' loro voti ben ragionati e pubblicamente esposti,
deciderle.
Avvenne, tra questi esercizi, ch'essendosi proposto di doversi in
più lezioni esporre la legge seconda de origine iuris, della quale se
ne fa autore Pomponio3 giurisconsulto, per aver un'esatta notizia
dell'origine e progressi della giurisprudenza romana, io volentieri
cedei ad un mio collega che bramava di sottentrar egli a questo
peso, pur che mi fosse permesso, dov'egli finiva, cominciar le mie
lezioni, intendendo di proseguire l'istoria legale de' tempi bassi,
e continuarla fino a' di nostri. L'impresa, sicome parve dura e
malagevole, così da tutti era commendata e, per conseguenza, era
vie più stimolato ad intraprenderla. Io intanto mi esposi a questo
cimento, perché i precedenti miei studi l'avea sempre indrizzati a
questo fine, riputando che abbastanza si era scritto dell'antica e
media giurisprudenza romana, sua origine e progressi, ma dell'in-
fima non già, e molto meno delle origini delle leggi di altre nazioni
succedute in Italia a' Romani, e spezialmente al nostro regno di
Napoli.
Mi avea a ciò maggiormente spinto l'esempio di Arturo Duck
inglese, il di cui aureo libretto, De u$u et auctoritate iuris Romanorum
etc.,4 in Napoli allor rarissimo ed a pochi noto, mi avea mostrata
la via, ciocch'egli fece esattamente ne' regni della Gran Brettagna,
di poter far io nel regno di Napoli, senza dilungarmi in altri remoti
paesi. Poiché, se bene egli avesse scorso quasi tutti i regni e le
Provincie di Europa, nulladimanco l'opera sua stessa dimostrava
i. un'accademia: l'Accademia dei Saggi. Cfr. I. Rinieri, Rovina d'una mo-
narchia, Torino 1901, p. xxni. 2. eletto: scelto. 3. Sesto Pomponio, giu-
rista romano vissuto nel II secolo dell'Era volgare; ai suoi scritti si riferi-
rono ampiamente i giuristi che compilarono il Digesto giustinianeo. 4. Il
De usu et authontate iuris civilis Romanorum in dominiis principum christia-
norum, Londini 1653 (postumo) del giurista Arthur Duck (15 80- 1648).
54 VITA DI PIETRO GIANNONE
che non era impresa d'un solo ; ma che ciascuno dovea raggirarsi in
quella provincia ov'era nato e, lungamente dimoratovi, avesse po-
tuto minutamente avvertire le vicende ed i vari cangiamenti del
suo stato politico e civile.
E nel progresso1 conobbi che non poteva esattamente capirsi
Tistoria delle leggi, se alla medesima non si accoppiava l'istoria ci-
vile, per sapere gli autori, le occasioni, il fine, l'uso e l'intelligenza
che si era lor data, e per conoscere i vari stati, cangiamenti e co-
stituzione delle cose, che dieder causa a tanti vari e multiplici
regolamenti. In questo concetto maggiormente mi confermò un
altro inglese, e questi fu Bacon di Verulamio, il quale, in quel savio
suo libro De augumentis scientiarum? fra le cose desiderate ripone
un'esatta istoria civile, poiché e' saviamente riflette che nell'altre
istorie, eziandio nella naturale, s'eran fatti gran progressi, ma non
già nella civile.
Cominciai adunque, coll'occasione di queste lezioni, che dovean
recitarsi nella nostra accademia, a volgere e rivolgere i libri, che
a questo fine io reputai necessari, alcuni de' quali, per essere in
Napoli rari e sconosciuti, m'erano con somma cortesia sommini-
strati da' nipoti Valletta, i quali ancor serbavano intatta la famosa
biblioteca lasciatagli dall'avo Giuseppe Valletta.3 E prima d'ogni
I. nel progresso: in seguito. 2. De dìgnitate et augmentis scientiarum li-
bri IX, Londini 1623. Ma si veda, di contro, G. Bonacci, Saggio sul-
la Istoria civile del Giannone, Firenze 1903, p. 42, il quale rileva come
Bacone avesse scritto: «Historiam civilem in tres species recte dividi
putamus. Primo sacram sive ecclesiasticam; deinde eam, quae generis
nomen retinet, civilem; postremo litcrarum et artium . . . Ordiemur autem
ab ea specie, quam postremo posuimus, quia reiiquae duae - sacram
et civilem - habentur; illam autem inter desiderata referre visum est».
3. Giuseppe Valletta (1636-1714), napoletano, fu un grande erudito, seguace
in filosofia del cartesiancsimo, poi del gassendismo, secondo una parabola
che fu comune a molti intellettuali napoletani e che abbiamo già visto qui
descritta dallo stesso Giannone. Assai importanti, per l'influenza che eser-
citarono sul movimento giurisdizionaiista, sono lo scritto Intorno al pro-
cedimento ordinario e canonico nelle cause che si trattano nel tribunale del S.
Ufficio nella città e regno di Napoli, steso tra il 1694 e il 1696, e il Discorso
filosofico in materia di inquisizione et intorno al cor reggimento della filosofia
di Aristotele, nato come appendice al primo lavoro, quindi ampliato col
titolo di Istoria filosofica e parzialmente dato alle stampe nel 1703. L1 Istoria
venne successivamente ristampata - nella primitiva stesura - da Girolamo
Tartarotti nel 1732 con l'indicazione (esatta, anche se da molti posta in
dubbio) di Rovereto come luogo di stampa. La ricchissima biblioteca del
Valletta - qui ricordata dal Giannone ancora in possesso dei nipoti Niccolò
e Francesco - passò ben presto al convento napoletano dei Girolamini,
dove si fuse con quella dell'Oratorio. Una descrizione del fondo vallettiano
CAPITOLO TERZO 55
altro, stancai il Codice teodosiano co* commentari di Giacomo Go-
tofredo, e gli scrittori di sopra accennati, che furon coetanei di
quegli imperadori, dalle costituzioni de' quali fu quel codice compi-
lato: cioè di Costantino Magno fino a Teodosio il Giovane e Valen-
tiniano III. E quantunque ciò mi fosse d'un gran travaglio e di
somma fatica, io la soffriva per le cose nuove che vi scovriva, da
altri non avvertite, spezialmente per aver una chiara e distinta
idea delle provincie, onde allora si componeva il regno di Napoli,
e de' rettori che le governavano. Questi secoli fra noi erano affatto
oscuri ed ignoti. I nostri istorici eran tutti muti, e qualche cosa
accennavano de' seguenti tempi dell'imperadore Giustiniano, se-
condo che Procopio, che nella sua Istoria ne gli avea suggerite le
notizie, della quale nemmeno seppero ben profittarsi.
Lessi indi i libri di Cassiodoro e di Giornandes,1 e più lumi da
quelli ebbi per li tempi seguenti de' Goti, pure fra noi inviluppati
ed oscuri. U Istoria di Procopio, che io lessi seguendo la traduzione
latina di Ugon Grozio,2 ed i suoi dotti Prolegomeni, rendeva più
chiari i tempi di Giustiniano. Dalla compilazione del Codice di
questo imperadore e dalle tante non men sue Novelle, che de' suoi
successori, più cose potevan ricavarsi per rischiarimento delle nostre
province, e spezialmente di quelle città che sotto l'imperio greco
lungamente dimorarono; ma bisognava andarle rintracciando di
qua e di là, con gran pena, fra tante altre compilazioni greche e fra
le innumerevoli Novelle degli altri seguenti imperadori d'Oriente.
Seguivano poi tempi più tenebrosi, quando pervennero sotto i
è stata compiuta dal padre A. Bellucci, Il fondo vallettiano dell'Oratorio
filippino) in «Fuidoro», 1954, nn. 5 e 6. La storia dell'edificio che la ospita
in M. Borrelli, // largo dei Girolamìni, Napoli 1962. Sul Valletta si veda
il necrologio apparso sul «Giornale de' Letterati d'Italia» nel 17 16, t. xxrv,
e la biografia del padre A. P. Berti, per la raccolta di G. M. Crescimbeni,
Le vite degli Arcadi illustri, iv, Roma 1727, pp. 37-76. 1. Flavio Magno
Aurelio Cassiodoro (490 circa-583 deirEra volgare) fu senatore romano,
console e magister officiorum (cioè capo della cancelleria imperiale per la
politica interna) alla morte di Teodorico. Fallito il suo sogno di coesisten-
za tra Romani e Goti, si ritirò in monastero vicino alla sua città natale di
Squillace. Famosi, tra i suoi scritti, il De anima e una Historia ecclesiasti-
ca tripartita; Giornandes: Giordane. 2. L'Istoria . . . Grozio: cfr. l'opera
di Huig van Groot, latino Grotius (1583-1645), Vandalica et Gotthica
Procopii. Excerpta ex arcana Procopii historia ad res vandalicas et gotthicas
pertinentia; sta in Historia Gotthorum, Vandalorum et Langobardorum,
Amstelodami 1655. Fanno parte dell'apparato erudito dell'opera del Gro-
zio anche il De gestis Langobardorum libri VI di Paolo Warnefrido e il De
origine actibusque Getarum di Giordane, ricordati più avanti.
56 VITA DI PIETRO GIANNONE
Longobardi; ed in tanta oscurità, non era da sperar soccorso se
non da Paolo Warnefrido, Eremperto1 e da qualche antica cronaca
de' monaci benedittini, e sopra l'altre da quella di Lione Ostiense.2
Poiché, credendo di potermi giovare delle moderne istorie napoli-
tane - scritte da gravi ed accurati autori, come furono Angelo Co-
stanzo e Francesco Capecelatro - giacché dalla turba degli altri
sciapiti e goffi scrittori non era niente da sperare, - trovai che il
Costanzo, atterrito dalle dense tenebre che incontrava canùnando
verso questi oscuri tempi, com'egli stesso confessò, avea comin-
ciata la sua Istoria dagli Angioini;3 ed il Capecelatro non potè
dar alla sua più alto principio, che cominciandola da Ruggero I,
re di Sicilia, tralasciando i primi Normanni che vennero in Pu-
glia, e gli altri della razza di Tancredi onde uscirono i duchi di
Puglia ed i primi conti di Sicilia.4
Ma l'inviluppo maggiore era che, discendendosi a' tempi ne'
quali Italia ed il regno di Napoli sofferse maggiori alterazioni,
quando i romani pontefici, innalzando sempre più la lor monarchia,
aveano dentro i domini de' principi stabilito un altro imperio,
secondo questo nuovo sistema, per ben tessere un'esatta istoria
civile, non bastava fermarsi nel solo governo de' principi, delie
loro leggi e stato civile de' loro reami; ma bisognava conoscere
quest'altro nuovo imperio ne' medesimi stabilito, e molto più nel
regno di Napoli, il quale aveva quasi assorbito il civile, e resolo,
o si riguardano le persone, ovvero i beni, quasi tutto ccclesiasti-
i. Paolo Warnefrido (720 circa-79a circa), conosciuto anche come Paolo
Diacono, è con la sua cronaca un'importante fonte per la storia elei I longo-
bardi, assieme a quella del cronista Erchempert (seconda meta del secolo
IX), Historia Langobardortmi Beneventanorum ab anno ?J4 usqtte ad annum
889. Il testo di questa cronaca fu pubblicato da Antonio Caracciolo (1562-
1642), in uno con altri tre cronisti, col titolo Antiqui chronologì quatuor,
in Napoli nel 1626. 2. Leone Marsicano (1045 circa-uxs), vescovo di
Ostia, fu cronista del monastero di Montecassino. 3. trovai . . . Angioini:
cfr. Dell'istorie della sua patria^ Napoli 1572, dello storico e poeta napole-
tano Angelo di Costanzo (1507-1591). Questa storia, che e ira quelle più
sfruttate dal Giannone per la sua opera, abbraccia il periodo che va dal
1250 al i486. 4. Capecelatro . . . Sicilia: lo storico Francesco Capecelatro
(1596 circa- x 670) è l'autore di una Historia della città e regno di Napoli,
detto di Cicilia, Napoli 1640, dalle origini a Federico II; per Ruggero X
cfr. la nota 1 a p. 159; Tancredi (morto nel 1194), figlio di Ruggiero, du-
ca di Puglia, e di Emma dei conti di Lecce, conte di Lecce dal 1 149, fu
proclamato re di Sicilia nel 1 189. Sostenne una dura lotta contro i rivali
al trono Enrico VI e Riccardo Cuor di Leone. Mori lasciando erede il
figlio Guglielmo III.
CAPITOLO TERZO 57
co. Il diritto canonico non dovea più riguardarsi come apparte-
nenza del civile e ravvisarlo ne* codici degrimperadori Teodosio e
Giustiniano, e nelle Novelle degli altri imperadori d'Oriente, ed in
Occidente ne' Capitolari1 di Carlo Magno, di Lodovico e degli altri
successori imperadori. Se n'era già fatto corpo a parte, separato ed
independente, che riconosceva altro monarca e legislatore, anzi,
emulo delle leggi e del diritto civile, cercava abbatterlo e sottoporlo
a* suoi piedi. Così, ad emulazione delle Pandette, si era veduto sor-
gere il Decreto, al Codice emulavan le Decretali, alle Novelle le
tante Estravaganti e nuove collezioni di Bolle papali, ed infine
alle Istituzioni di Giustiniano quelle di Paolo Lancellotti; e perché
nulla mancasse, alla materia feudale contrapposero la beneficiaria.7.
Conosciuta da ciò e da altri portentosi cangiamenti la necessità
che a' di nostri non poteva scriversi un'esatta Istoria civile, se non
si teneva conto non men dell'uno che dell'altro stato,3 mi vidi
atterrito dall'ardua impresa, quasi fuor di speranza di poterne ve-
nire a capo. Avea cominciato il lavoro, ed ancorché, crescendo le
occupazioni del foro, finisse presto la nostra accademia, sicché
poche lezioni furon ivi recitate, nulladimanco, sicome suole avve-
nire, invogliato dalla materia e più dal lavoro, che io lo riputava
nuovo e da altri nostri scrittori non ancor tentato, non tralasciai di
proseguirlo. Ma quanto più avanzava di cammino, invece di sce-
marsi la via s'allungava assai più, poiché, inoltrandomi, entrava
in maggior vastità e, come in un vasto e profondo pelago immerso,
non ne vedea più né fondo né riva sicché più volte fui tentato di
abbandonarlo. Potè, infine, più la mia ardente brama ed il con-
forto che me ne davano alcuni amici, che il terrore e spavento,
che mi si offeriva davanti, di tante lunghe ed ostinate fatiche che
dovean soffrirsi per giungere al desiato porto. Non vi aggiungeva
allora le tante persecuzioni, patimenti e sciagure che, ancorché
giunto in porto, mi stavano preparate da' duri ed acerbi miei fati
e dall'inesorabile e crudel mio destino.
Questo mio travaglio si cominciò sotto il regno di Filippo V, re
di Spagna (che io, prima, in quelle settimane che dimorò in Na-
i. Capitolari: le ordinanze emanate dai Carolingi. Delle varie raccolte fat-
te, la prima fu composta sotto Ludovico il Pio dall'abate di Fontanelle,
Ansegiso (827). 2. la beneficiaria: cioè quella parte del diritto che riguarda
i benefìci ecclesiastici, in contrapposizione al possesso feudale. 3. del-
l'uno . . . stato : del potere politico e del potere ecclesiastico.
58 VITA DI PIETRO GIANNONE
poli, donde passò all'esercito di Lombardia,1 ebbi la sorte di veder
più volte mangiare in pubblico, fra la corona di tanti illustri per-
sonaggi non meno italiani che spagnoli e francesi) e sotto il go-
verno del duca di Escalona viceré, intorno Tanno 1702.
Questo viceré, non meno che il duca di Medina Coeli, favoriva
i letterati, ma molto più le buone lettere; ed amante delle scienze
e delle arti liberali, applicò a riformare la Università de* studi di
Napoli di alquanti abusi ne' quali era caduta, e con sua prammati-
ca ne abolì molti.2 Ed il nostro Aulisio l'era entrato in tanta gra-
zia che, se le vicende delle mondane cose non avessero portato in
Napoli quel cangiamento, che poi si vide, l'avrebbe sicuramente
innalzato a* primi onori della toga 0 di consigliere del Consiglio
di Santa Chiara ovvero di presidente della Regia Camera.
Io, ancorché col progresso del tempo le occupazioni del foro
mi crescessero, non tralasciava, ne' dì feriati e nelle ferie estive o
vindemmiali,3 quando i tribunali cessavano, di ripigliarlo.4 Ed aven-
do acquistato qualche merito per le fatiche a prò di lei impiegate,
nella causa della successione di Marano con la contessa di Bovalino,
donna Isabella Spinelli, la quale possedeva nella riviera di Posilipo
un palazzo antico di sua famiglia, chiamato degli Spinelli: io, per
beneficenza della medesima, avea ogni anno permissione, termi-
nati i tribunali, ne' princìpi di luglio, d'andarmene ad abitare in
alcune stanze di quello, per que' studi, proseguiva l'intrapreso la-
voro, conducendo meco que' libri che mi eran necessari; e nel
mese di settembre solea in Napoli far ritorno.
Tali studi, in questi princìpi, poiché non era caricato di molti
negozi, non mi davano alcun impaccio nella strada de' tribunali,
1. Filippo . . . Lombardia'. Filippo d'Angiò (1683- 1746) era salito sui trono
di Spagna con il nome di Filippo V alla morte del predecessore Carlo II
(1 novembre 1700). Nel 1701 il re, recatosi in Italia per visitare i domini
spagnoli di Napoli e Milano, dovette interrompere il suo viaggio per lo
scoppio della guerra di successione spagnola (1701-17x4) e raggiungere
P esercito in Lombardia, dove gli Imperiali, al comando di Eugenio dt
Savoia, erano penetrati, con il pretesto che si trattava di un feudo del-
l'Impero rimasto vacante. 2. applicò . . . molti: ò la riforma del febbraio
1703, sulla quale cfr. G. G. Origlia, Storia dello Studio di Napoli, cit., n,
pp. 232-8. Ad un'altra riforma, quella proposta da monsignor Celestino
Galiani nel 1732, si interessò il Giannone, durante il suo soggiorno vien-
nese, stendendo un Parere intorno alla riforma de* Regi Studi di Napoli,
edito da V. Guadagno, Napoli X958. 3. vindemmiali: del periodo della
vendemmia, in autunno. 4. di ripigliarlo: s'intende, il travaglio, lo stu-
dio a cui prima accennava.
CAPITOLO TERZO 59
ma secondo che io, inoltrandomi, acquistava maggior conoscenza e
numero di clienti, mi si rendevano più gravi e pesanti. Finché
l'Argento esercitò Pawocazione, io dietro di lui, seguendo le sue
orme, acquistai anche la conoscenza de' più dotti ministri e, sopra
gli altri, conducendomi sovente in casa del reggente Gennaro di
Andrea,1 fratello del famoso Francesco, ebbi la sorte di ammirare
quel grave e savio ministro: uomo veramente senatorio e degno
di sedere fra romani senatori, della cui virtù e sapienza era viva
immagine. Questi ed il di lui esempio rese a me quasi perpetua la
lezione delle Deche di Livio, che egli avea sempre nelle mani; e
n'era cotanto preso che, se Plinio il Giovane scrive che un Gadi-
tano dall'estrema Spagna corse fin a Roma, sol per veder Livio,2
egli, se gli fosse stato coetaneo, sarebbe corso fin dall'America, co-
tanto era adoratore de' suoi libri, i quali, se bene avea stanchi, non
era però mai sazio di leggerli e rileggerli. E non posso negare che
io, spinto dall'esempio d'un tant'uomo, avendogli quasi sempre in-
nanzi a gli occhi, ne ritrassi gran profitto riguardando alla maniera
nobile, seria e grande, colla quale egli tessè quella incomparabile e
divina sua istoria.
i. Gennaro di Andrea (i 637-1710) fu allievo di Tommaso Cornelio per la fi-
sica e la matematica. Addottoratosi in diritto a soli diciassette anni, percor-
se trionfalmente il proprio cursus honorum', auditore di Cosenza, fiscale di
Salerno, consigliere di Santa Chiara, presidente della Regia Camera, capo-
ruota nella Gran Corte della Vicaria. Passato in Ispagna nel 1689, fu nomi-
nato presidente del Consiglio d'Italia. Rientrato a Napoli, fu reggente del
Collaterale. Membro di numerose accademie, tra le quali quella napoletana
degli Investiganti, fu arcade col nome di Filermo Driodio. La sua biogra-
fia, compilata da G. Caputo, tra le Notizie istoriche degli Arcadi morti,
cit., I, pp. 218 sgg. e in G. M. Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia, I, cit.,
ad vocem Andrea. 2. Plinio . . . Livio : cfr. Epist., 11, in, 8 ; Gaditano : cit-
tadino di Cadice (latino Gadis).
CAPITOLO QUARTO
Anno 1707, sotto il regno del ref poi imperadore, Carlo VI* e wtto il governo
del conte Daun e cardinal Gr intani t2 e poi dt nuovo wtto il conte Datw, vicoé.
L'anno 1707 portò in Napoli grandi cangiamenti e grandi rav-
volgimenti non pur alle fortune de* privati, ma al pubblico stato,
sicome soglion apportare le mutazioni di nuovo dominio. Kntrale
che furon l'arme alemanne ne' confini del Regno e, ne' sette del
mese di luglio, dentro la città di Napoli, in breve tempo si vide
tutto il Regno passato sotto la dominazione di Carlo d'Austria,
allora re, che teneva in Barcellona sua sede regia, fratello dcll'im-
peradorc Giuseppe e poi, per la costui morte, seguita nel X711,
anche imperadore romano, detto Carlo VI.3
In questa rivoluzione di cose, essendo piaciuto ad alcuni ministri
spagnoli seguitare il partito del re Filippo V, e partir da Napoli,
lasciando quasi vóti i nostri tribunali, fu d'uopo al conte Martiniz,4
ch'era stato mandato dall'imperadore Giuseppe ministro plenipo-
tenziario nel politico (sicome nel militare il supremo comando
l'avea il conte Daun), in luogo de' medesimi rifar altri ministri,
prendendogli per la maggior parte dall'Ordine degli avvocati: fra
quai fu il nostro Argento, promosso a consigliere del Consiglio di
Santa Chiara.
In questo passaggio i giovani avvocati, più avanzati che io, pro-
fittarono di aver molti clienti, da lui e da altri lasciati. A me rimasse,
dopo secata la messe, lo spicilegio,5 sicché pochi furon gli acquisti ;
tanto maggiormente che io non era dotato di quella accortezza,
vigilanza ed audacia, colla quale altri, spingendo ed urtando di
1. Carlo VI d*Absburgo (1685-1740), secondo figlio di Leopoldo I e di
Eleonora del Palatinato, eletto re di Spagna come Carlo III, nel 1704 ave-
va occupato temporaneamente la Catalogna. Dopo la morte del fratello
Giuseppe I (171 1) diventerà imperatore (Carlo III come re d'Ungheria).
2. Philipp Lorenz Wierich von Daun (1669-1741), conte di Teano, marche-
se di Rivoli, fu viceré di Napoli nel 1707-1708, e di nuovo nei 1713-1719,
governatore di Milano dal 1728 (cfr. p. 239) ; il cardinale Vincenzo Grimani
(1655-17x0) fu viceré nel 1708. 3. Entrate . . . VI: per la storia di questo
periodo si vedano le opere citate nella bibliografìa generale; Giuseppe i
d'Absburgo (1678-1711) era salito al trono nel 1705, 4. Martinìst: il boe-
mo lift Adam z Martinic (morto nel 17 14) fu il primo viceré austriaco di
Napoli, dal luglio al settembre 1707. 5. dopo . . . spicilegio: dopo falciata
la messe, la spigolatura.
CAPITOLO QUARTO 6l
qua e di là, si facevan innanzi con supplicazioni e con pregar som-
messo, e sovente con viltà ed altri indegni modi, estorquendo1 ed
a viva forza involandogli.
La mia natura fu sempre in ciò inetta e mal a proposito, anzi
avversa d'usar sottili artifici, e con umili e basse preghiere di an-
dargli cercando. Mi rimasero dell'Argento alcune poche cause,
che io sotto la sua awocazione avea cominciato a trattar da pro-
curatore, e ch'egli stesso ne aveva a me appoggiata la difesa, scri-
vendovi da avvocato;2 onde mi rimasero quelle della contessa di
Bovalino (se bene, doppo essersi maritata, il marito adoperasse poi
piuttosto i suoi avvocati che me) e del duca di Frosolone e marchese
di Baranello, don Francesco Carafa, rampollo degli antichi conti di
Maddaloni, il quale giovanetto era sotto la cura della duchessa di
Frosolone sua madre, dama spagnola dell'illustre famiglia Quiro-
ga, di grande spirito e, se le forze fossero state eguali al magnanimo
suo cuore, grata non meno che liberale e munificentissima, la qua-
le sopra le mie spalle appoggiò la difesa di più cause, così sue
come del duca suo figliuolo, onde mi fu data occasione, spezial-
mente quando questi prematuramente morto senza lasciar di sé
prole, ebbi a contrastar col fisco sopra le tenute delle terre di Ba-
ranello e di Frosolone, di farmi maggiormente noto a' tribunali, e
di acquistar tra gli avvocati qualche stima e nome.
E quantunque del passaggio dell'Argento al ministerio, per que-
sta parte, io poco profittassi a riguardo de' miei compagni che lo
seguivano, nulladimanco per la profonda sua dottrina legale, es-
sendo riuscito fra' consiglieri di Santa Chiara il più eminente, il
più laborioso ed indefesso, e che i suoi dotti voti tiravan a sé le
sentenze degli altri suoi colleghi, quindi per la famigliarità che io
avea con lui, e per mostrar con gli altri di far di me qualche stima,
ne avvenne che io facessi acquisto di altri nuovi clienti, tratti più
da questo che da ogni altro riguardo. E maggiormente si spin-
gevano a ricorrer da me, perché l'Argento, in alcune proprie sue
i. estorquendo: estorcendo. 2. Mi . . . avvocato: cfr. Panzini, p. 3: «pri-
ma che nondimeno egli salisse in estimazione di valente avvocato, lungo
tempo passò ; né per la sua infelice maniera di dire ebbe nel foro per pa-
recchi anni, salvo che piccolo nome e troppo mezzana fortuna. Il mestier,
ch'esercitò da prima, fu quello di proccuratore, ed assidue e penose fati-
che sostenne non già tanto per affari confidati al suo patrocinio, quanto
per altre più rilevanti cause ad alcuno celebre avvocato commesse, a cui
egli forniva le scritture forensi per certo convenuto prezzo ».
02 VITA DI PIETRO GIANNONE
cause, valevasi nello scrivere della mia persona; e, infra l'altre, in
una causa di precedenza ch'ebbe co' suoi colleghi, per un'occasione
che non mi rincrescerò qui di rapportare.
Il conte di Martiniz, se bene in vigor della plenipotenza datale
dairimperadore Giuseppe, avesse creati tanti ministri in Napoli,
nulladimanco dal re Carlo, suo fratello, e dalla corte di Barcellona
si reputavano nullamentc creati, come da chi non avea potestà di
fargli; poiché l'imperadore Giuseppe allora Re de' Romani,1 dopo
la rinuncia fatta nel 1703, coll'imperadore Leopoldo suo padre,
della monarchia di Spagna, in beneficio del re Carlo allora arcidu-
ca di Austria,2 erasi spogliato di ogni diritto sopra tutti i regni
che componevano quella monarchia: sicché il conte Martiniz non
poteva giovarsi di quella plenipotenza; e se bene l'avesse creati
interini,3 finché non fossero confermati dal re Carlo, nulladimanco
diccasi che qui non dovea trattarsi di conferma, come nullamentc
creati, ma di nuova creazione, sicomc dalla corte di Barcellona fu
riputato; poiché avea spediti nuovi privilegi ad altri, ed anche a
que' ch'eran stati fatti dal Martiniz, non già di conferma, ma di
nuova creazione, non facendosi memoria alcuna del fatto di Mar-
tiniz; e quelli a' quali non furon spediti i privilegi rimaser privati,
com'eran prima, non riconoscendogli per ministri.
All'Argento fu pur mandato il privilegio, ma, come a gli altri,
non già di conferma, ma di nuova creazione. Nacque per ciò con-
tesa di precedenza tra quelli che aveano la data de* privilegi ante-
riore, se ben posteriore alla promozione di Martiniz, e quelli i
quali eran stati creati dal Martiniz, se bene la data de' lor privilegi,
mandatigli da Barcellona, fosse posteriore, I primi pretendevano
che, non dovendosi tener conto di quanto era seguito sotto Mar-
tiniz, come nullo, ed invalido, dovea attendersi la data anteriore
de' loro privilegi; i secondi, fra' quali era l'Argento, pretendevan
che per la precedenza bastasse d'aver prima esercitate le medesime
1. Re de' Romani: nel Sacro Romano Impero era questo il titolo che pre-
cedeva l'incoronazione imperiale e che, dopo la rinuncia all'incoronazione
da parte di Massimiliano I, finì per indicare il principe ereditario. 2. do*
pò * . . Austria: spentosi nel 1700 senza eredi il re di Spagna Carlo II, alla
sua successione concorsero Filippo d'Angiò» nipote di Luigi XIV di Fran-
cia, e il secondogenito dell'imperatore, Carlo d'Austria. La rinuncia da
parte di Leopoldo I d'Absburgo (1658-1705) mirava a rassicurare le po-
tenze europee impegnate nella lotta di successione, che non si sarebbe più
verificata una situazione egemonica del tipo di quella dell'impero di Car-
lo V. 3. interini: cioè ad interim, provvisori.
CAPITOLO QUARTO 63
cariche. Ebbi io l'incombenza di scrivere a prò di questi secondi ;
ed esaminando la questione co' princìpi ed essempi tratti dal C0-
dice teodosiano, e secondo le regole prescritte ed avvertite da Gia-
como Gotofredo in quel suo accurato trattato De praecedentia,1
mostrai che, qualunque si fosse stato il titolo, ancorché fosse vizioso,
bastava per la precedenza l'esercizio, nel quale erano prima stati
della medesima carica. La scrittura non dispiacque all'Argento, e
si comunicò a' reggenti del Consiglio Collaterale,2 che dovean deci-
derla; e se bene non si fosse venuto alla decisione, si lasciarono
però come prima nelle stesse sedi, con precedere a gli altri. E
passata quest'allegazione in altre mani, e letta con piacere, comin-
ciai ad essere noto a que' ministri, presso i quali il mio nome era
prima sconosciuto ed ignoto.
Il conte di Martiniz, appena trattenutosi in Napoli tre mesi,
mal gradito dal re Carlo, il quale avea creato per suo viceré il
conte Daun, erasene già tornato a Vienna; onde il Regno rimase
sotto il governo del Daun, e poi passò sotto quello del cardinal
Grimani, viceré, da cui fu data incombenza al consigliere Argento
di scrivere in difesa del regio editto spedito a Barcellona, col quale
si comandava che tutti i vescovadi, badie, prelature, dignità, bene-
fìci così maggiori come minori, anche quelli che non obbligavano
a residenza, anzi fino le pensioni del Regno, non potessero confe-
rirsi da chi si sia, se non a' nazionali di quello, esclusi affatto gli
esteri e peregrini.3
Clemente XI, che occupava allora il pontificato romano,4 forte-
mente contrastava all'editto, qualificandolo come offensivo della
libertà ecclesiastica ed ingiurioso alla Santa Sede. Si ebbe per ciò
a dimostrare che l'editto fosse conforme non pur alle leggi e costi-
tuzioni di altri principi ed all'uso e costume di tutte l'altre nazioni
d'Europa, ma eziandio a' sacri canoni, alle costituzioni istesse de'
romani pontefici, ed all'antica ed inconcussa pratica della Chiesa,
e conforme all'ecclesiastica disciplina.
1. J. Godefroy, Diatriba de iure praecedentiae repetitae praelectiotris . . .,
Genevae 1627 (seconda edizione aumentata, ivi, 1664). 2. Consiglio Colla-
ferale: era la magistratura suprema del Regno, e nella sua storia non sono
infrequenti i casi in cui essa si sostituì allo stesso viceré nel governo dello
Stato. Il suo compito, donde il nome, era quello di assistere a latere il vi-
ceré, sia su questioni politiche, sia giudiziarie e amministrative. 3. re-
gio . . . peregrini', cfr. A. Vario, Collezione delle prammatiche, 1, Napoli 1772,
pp. 361-4. 4. Clemente . . . romano'. Gianfrancesco Albani (1 644-1 721) era
salito al soglio il 23 novembre del 1700.
64 VITA DI PIETRO GIANNONE
Entrò l'Argento in questi studi affatto nuovo e niente versato
nelle cose ecclesiastiche, essendo stati tutto altri i suoi precedenti
studi; ma tanto più rilusse il suo maraviglioso ingegno poiché,
applicatosici con quest'occasione, in breve tempo ne divenne mae-
stro, e diede fuori quelle dotte sue tre dissertazioni sopra la mate-
ria beneficiaria,1 le quali emularono le due altre dotte scritture,
uscite nel tempo istesso, composte dal Grimaldi2 e Riccardi:3 sog-
getti, i quali non erano così nuovi, ma aveano prima sopra studi
ecclesiastici impiegati i lor talenti.
Clemente, con un sol colpo, pensò di atterrarle tutte tre, poiché,
i . Cfr. G. Argento, De re beneficiaria dissertationes tres, ubi Caroli III Au«
stri-Hisp. regis etc, edictum quo fructuum capionem in sacerdotiis externorum
et vagantium clericorum iubet, tum summo tum optimo iure recte atque ordine
factum demonstratur, s. 1. (ma Napoli), 1707. 2. C. Grimaldi, Conside-
razioni teologico~politiche fatte a prò9 degli editti di S. M. Cattolica intorno
alle rendite ecclesiastiche nel regno di Napoli, Napoli 1707- 1708. Costantino
Grimaldi (1667-1750) fu tra i più vivaci esponenti di quel moto rinnovatore
al quale appartenne il Giannonc. Cartesiano, partecipò alla polemica anti-
aristotelica ingaggiata contro Gian Battista De Benedictis, con tre succes-
sive risposte, Colonia (ma Ginevra) 1699; Colonia (?), 1702; Colonia (ma
Napoli), 1703. Si cfr. quanto egli stesso narra nella Istoria dei libri di don
Costantino Grimaldi scritta da lui medesimo (Biblioteca Nazionale, Napoli,
ras. XV. B. 32) ora edita a cura di V. I. Comparato col titolo: Memorie di
un anticurialista del Settecento, Firenze 1964. 3, R. Skura DTsca (alias
F. A. Riccardi), Ragioni del regno di Napoli nella causa de* suoi benefici
ecclesiastici, s. 1. (ma Napoli), 1708. Si veda anche, dello stesso autore — in
risposta all'abate C. Maiello, che lo aveva attaccato col Regni Neapoli-
tani erga Retri cathedram religio adversus calumnias anonymi vindicata, Nca-
polis 1708 -, le Considerazioni sopra al nuovo libro intitolato « Regni Nea po-
litani ... », distinte in cinque parti. Colonia (ma Napoli) 1709. A sua volta
il Maiello replicò con VApologeticus christianm quo anonymi conviciatoris
error ventate, livor charitate dispellitur, Romau 1709. Un altro attacco giunse
al Riccardi da G. Bortone, il quale sulla fine del 1708 pubblicò una Risposta
alla scrittura pubblicata addì 18 giugno 1708 col titolo « Ragioni . . .», s. n. t.
Sull'intera controversia giurisdizionalistica si veda innanzi tutto quanto lo
stesso Giannone riferisce nella sua Apologia deW Istoria civile, in Opere
postume, 1, pp. 169 sgg.; e inoltre L. Giustiniani, Memorie, isteriche, cit.,
in, pp. 99-103; F. Nicolini, Uomini di spada, cit., pp. 270-1 (ad vocem ih
Argento); L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo, Napoli 1950, pp.
60 e passim. Su Francesco Alessandro Riccardi (1660-1726), che fu profi-
scale del Consiglio di Spagna e prefetto della Biblioteca Palatina di Vienna,
numerose notizie si hanno in questa stessa autobiografia giannoniana. Ma
si veda anche L. Giustiniani, Memorie istoriale, loc. cit.; C. Mini eri
Riccio, Memorie storiche, cit., pp. 294 sgg.; C. Frati, Dizionario bio-
bibliografico dei bibliotecari e bibliofili italiani, Firenze 1933, pp» 493 sgg.
Presso la Osterreichische Nationalbibliothek si conserva manoscritta una
sua ultima opera, lo Zibaldone di buone e ree considerazioni, essempU, dot-
trine che difendono ovvero offendono la verità, di impianto eterodosso.
CAPITOLO QUARTO 65
con particolar suo breve,1 qualificò alla rinfusa tutte queste scrit-
ture per empie, scismatiche, temerarie, erronee, distruttive della
libertà ecclesiastica, ed infìno eretiche ; proibì di leggerle o tenerle,
sotto pena di scomunica a lui riserbata, e comandò che fossero
tutte gettate nelle divoratrici fiamme; ma questi fulmini furono
lanciati indarno: niuna delle scritture fu tocca dal fuoco, anzi
furon ricercate e tenute care e lette da tutti, con somma lode e
commendazione degli autori.
Da queste cagioni fu mosso poi l'Argento a studiare di proposito
e più agiatamente le cose ecclesiastiche, ed a conoscere le tante
sorprese che si erano fatte sopra i diritti de5 principi, e per l'avve-
nire a star cauto e vigile, perché almanco sopra i vecchi abusi non
se ne introducesser altri nuovi, dove pareva che papa Clemente
fosse tutto applicato ed intento. Si aggiunse che, conosciuta in
Barcellona l'eminente sua dottrina, in premio di questa sua glo-
riosa fatica fu promosso al grado di reggente del Consiglio Colla-
terale, sicome il Grimaldi a quello di consigliere di Santa Chiara,
e fu a lui appoggiata la Delegazione della real giurisdizione.
Or occupando egli questa carica di delegato nel pontificato di
Clemente,31 fu sempre essercitato, per doversi opporre con vigore
alle tante sorprese che si tentavano dalla corte di Roma, spezial-
mente sotto il conte Daun; il quale, dopo la morte del cardinal
Grimani, seguita in Napoli,3 e dopo l'interino viceregnato del
conte Carlo Borromeo,4 fu nuovamente mandato in Napoli per
viceré. Si ebbero a questi tempi più fiere ed ostinate contese giu-
risdizionali colla corte di Roma, spezialmente intorno alla pretesa
immunità locale delle chiese, presumendo di qualificar essa i de-
litti che dovean godere o non godere dell'asilo; altre intorno al-
l'immunità delle persone ecclesiastiche e de' loro beni; altre in-
1. Clemente . . . breve: il pontefice condannò queste opere con due suc-
cessivi brevi, del 17 febbraio (contro l'Argento, il Riccardi e la prima parte
del lavoro del Grimaldi), e del 24 marzo 17 io (contro la seconda parte
dell'opera del Grimaldi); ambedue questi brevi sono riportati integral-
mente e commentati dal Giannone nella sua Apologia dell'Istoria civile, in
Opere postume, 1, pp. 170-3. 2. nel pontificato di Clemente: cioè tra il 1700
e il 172 1, periodo di regno di papa Gianfrancesco Albani. 3. dopo . . . Na-
poli: il 26 settembre 17 io. Sul suo viceregno e sulla sua morte notizie det-
tagliate nel Racconto di varie notizie accadute nella città di Napoli dalVanno
1700 al 1732, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», xxxii
(1907). 4. Il marchese Carlo Borromeo-Arese (1657-1734), il quale fu vice-
ré di Napoli dall'ottobre 1 710 al maggio 171 3. Il Giannone lo ricorda qui
col titolo di «conte del Sacro Romano Impero».
66 VITA DI PIETRO GIANNONE
torno alla chiamata de* vescovi in Napoli d'ordine de7 viceré, del
regio exequatur, testamenti ad pias causas, patronati regi,1 e consi-
mili. Queste contese somministrarono più occasioni di studiare
sopra tali materie; e per opporsi con maggior vigore, non si rimase,
sicome si era fatto per lo passato sotto gli Spagnoli, a' soli essempi
ed alle loro massime, cavate da un immaginario e non ben sodo
e stabile diritto canonico, ma si passò più avanti, a gli origini, a'
canoni, alla dottrina de* Padri, ed all'antica ed incorrotta disciplina
della Chiesa; sicché si cominciavano a dimostrare con maggior
evidenza le usurpazioni ed attentati e, per conseguenza, a più forte-
mente resistergli. Le investigazioni delle quali cose, poiché l'Ar-
gento per alleviar tanta fatica solca valersi della mia opera e di altri
suoi allievi, fecero che io maggiormente stendessi le mie conoscen-
ze e toccassi più a fondo le origini, onde tante contese giurisdi-
zionali provenissero, ed a che deboli ed arenosi fondamenti si
appoggiassero le macchine che la Corte romana, più per altrui
debolezza o ignoranza, che per propria virtù, avea innalzate, e che
la sola dottrina delle origini e la sola istoria delle occasioni de' loro
progressi bastava a rovesciarle.
Conobbi, applicandomi a questi studi di quanto giovamento
mi fossero stati i precedenti sopra l'istoria ecclesiastica, sopra l'o-
rigine e progressi dclVius canonico, e la cognizione de' bassi ed in-
colti secoli, da' quali tanti cangiamenti eran derivati; poiché, non
ignorando l'antico stato delle cose e le origini di tante mutazioni,
vedeva con chiarezza gli abusi seguiti e le tante corruttele ed at-
tentati fatti sopra la real potestà de' principi. Onde tanto più mi
invogliai a proseguire l'intrapreso mio lavoro dell' Is torta civile, ri-
putando che come propria materia trattando di queste contese, di
poter porre in più chiara luce i confini, che si era procurato con-
fondergli, tra l'imperio ed il sacerdozio.
Compresi eziandio che l'Argento, perché molto tardi erasi dato
a tali studi, i quali aveali presi non già da' suoi princìpi, ma se-
condo le occasioni di esaminare alcuna particolar contesa che oc-
i. exequatur: il controllo esercitato dallo Stato sugli atti della politica e della
legislazione ecclesiastica (in particolare sulle scomuniche e il conferimento
di benefici); testamenti ad pias causas} cioè in favore di enti religiosi;
patronati regi, cioè il diritto del sovrano di proporre, per la nomina a sedi
vescovili o a benefìci ecclesiastici, persone di proprio gradimento e suddite
del regno.
CAPITOLO QUARTO 67
correva, non era sempre uguale ed uniforme, in alcuni punti mo-
strandosi forte, in altri debole, e più che femmina scrupoloso e
vacillante; sicché avea bisogno che altri gli desse coraggio, per
farlo star fermo e costante. E da questo principio immagino che
nella sua canizie, o perché negli ultimi tempi non era cotanto so-
stenuto dalla corte di Vienna, sicome fu ne' princìpi da quella di
Barcellona, divenisse pur troppo contemplativo e lento e sottoposto
alle lusinghe ed allettamenti della corte di Roma.
11
[1715-1720]
Intanto, essendo accaduta la morte di mia madre, per me doloro-
sissima, e lasciando una sola figliuola d'età nubile,1 senz'altra guida
di donne, se non quella di mio padre, già vecchio : bisognò pensare
di collocarla in matrimonio quanto più presto si potesse sicome,
co' beni rimasi in Ischitella, datele congrua dote, fu da mio padre
con mio consenso maritata con un dottor di medicina nella città di
Vesti* dove passò a far domicilio, in casa di suo marito. Sicché,
rimaso solo mio padre, pensai farlo venire in Napoli, perché nel-
la sua vecchiaia avesse la consolazione di vivere e morire fra le
braccia de' suoi figliuoli. Io era già in istato di poter soffrire questa
nuova spesa poiché, avanzando sempre più nella strada dell' awo-
cazione, mi era a bastanza fatto noto ne' tribunali. Tanto maggior-
mente che, promosso dapoi l'Argento alla suprema carica di pre-
sidente del Consiglio di Santa Chiara, non mancavano nuovi clienti
che sopra di me appoggiassero la difesa delle lor cause; fra le
quali pervennemene una che, per le forti e strepitose contenzioni
che si accesero fra me e l'avvocato contrario, fece gran romore in
Napoli, la qual mi rese presso tutti pur troppo noto e distinto.
Litigavano i cittadini di San Pietro in Lama col vescovo di Lecce
intorno alla prestazione delle decime dell'ulive, pretese dal me-
desimo non già come baronali, ma come ecclesiastiche e, per con-
seguenza, che da tutti gli alberi degli ulivi dovessero prestarle e
condurle a loro spese fino a' trappeti3 del vescovo. Que' cittadini, de*
quali io presi la difesa, pretendevano al contrario, che al vescovo si
appartenessero come barone di quel feudo, e non sopra tutti gli
1. una sola . . . nubile: Vittoria. 2. un dottor . . . Vesti: Domenico Tura.
3. trappeti: frantoi.
68 VITA DI PIETRO GIANNONE
alberi, spezialmente non sopra gli alberi antichi d'ulivi già in più
inventari numerati, i quali ancor duravano ; ed essendo queste de-
cime baronali, dovesse il vescovo esiggerle sotto gli alberi stessi,
ed a sue spese far condurre l'olive a' suoi trappeti.
L'avvocato del vescovo volle, in una scrittura data alle stampe,1
far pompa di sua erudizione ed entrare a disputar lungamente
sopra la prestazione delle decime, che le voleva ecclesiastiche e
dovute al vescovo per dritto divino, non già come barone, e sopra
tutti gli alberi. E riputando che l'esigesse da tutti come nuovi,
supponendo che i vecchi numerati negli antichi inventari fossero
tutti periti, volle entrar anche a disputar sopra la durata della vita
degli alberi degli ulivi, che voleva che non fosse più lunga di due-
cento anni. Mi fu data con ciò occasione d'esaminar a fondo que-
sta materia e fargli conoscere i tanti abbagli presi, confondendo
le decime ecclesiastiche colle baronali e con autorità di antichi
scrittori, non men latini che greci, confonderlo intorno alla durata
degli ulivi, da' quali eragli data vita, sicome alle annose quercic, di
più e più centinaia di anni.
Questa mia scrittura, che pur si diede alle stampe,2 sicome fece
arrossire all'avversario, così lo stimolò, vedendo che da tutti era
applaudita e commendata, a volerci, colPaiuto di molti, rispondere.
Ma l'avvenne, sicome per difendere un errore suol darsi di piglio
ad altri errori, che questa sua risposta3 riuscisse assai più sciapita,
i. V avvocato . . . stampe: cfr. N. D'Afflitto, Ragioni della Mensa Vesco-
vile di Lecce, intorno all'esazione della decima co' posseditori di uliveti nel
feudo di S. Pietro in Lama, Napoli 171 5. Nicola D'Attlitlo sarebbe entrato
l'anno seguente nella magistratura, divenendo auditore generale dell'eser-
cito. 2. Questa . . . stampe: P. Giannonk, Per li possessori degli oliveti net
feudo di S. Pietro in Lama, contro Monsignor Vescovo di Lecce, barone di
quel feudo, intorno all'esazione della decima dell'ulive. Commissario il Reg.
Consigliero Sig. /), Costantino Grimaldi, Napoli 1715. Ne esiste una ri-
stampa in G. M. Novauio, De vassallorum gravaminibus tractatus, in, Nea-
polis 1777, pp. 278-320. Cfr. anche Panzini, p. 4: «poiché gli fu d'uopo
d'entrar in esame d'alcuni articoli di storia naturale intorno alla vita, ed
al frutto degli ulivi, si il fece egli con somma perizia ed erudizione, giovan-
dosi in qualche parte de' lumi, che somministrati gli furono dal Signor
Niccolò Cirillo, insigne medico di que' tempi e suo intimo amico ». Ma si
veda inoltre la nota, a piò della stessa pagina, dove si rinvia ai consulti
medici dello stesso Cirillo, editi a Napoli nel 1738, tra i quali appaiono
due memorie che riguardano da vicino questa causa, una sull'età dell'olivo,
l'altra in risposta all'interrogativo se debba considerarsi per . . . frutto del-
l'olivo l'oliva, oppure l'olio che se ne ricava. 3. questa sua risposta: N.
D'Afflitto, Confutazione della nuova scrittura composta a prò de1 posses-
sori di S. Pietro in Lama contra il Vescovo di Lecce. Cfr. Pancini, p, 4, nota.
CAPITOLO QUARTO 69
verbosa ed in gran parte anche contumeliosa. Sicché, in brevi gior-
ni, io potei confutarla con pochi fogli1 e metter Fautore in mag-
gior confusione, scovrendogli nuovi errori, ed assai palmari, e farlo
cadere nella derisione di molti.
Parve a' vecchi ministri ed avvocati de* nostri tribunali questa
contenzione un nuovo modo di scrivere nelle cause; ed i rigidi
non l'approvavano. Ma altri più saviamente riflettendo che tali
litterarie contese invogliavano assai più i giovani a' studi legali e
che, con tali brighe e coir occasione di leggere queste scritture, si
erano veduti molti applicare più del solito alle buone lettere, si
lasciaron correre; ond'eran ricercate con avidità; ed i Leccesi n'em-
pirono la lor provincia: sicché ed in Napoli ed in Lecce, non si
parlava di altro che di questa causa, onde gli avvocati, che, o per
Funa o per l'altra parte, la difesero, si resero assai rinomati e
celebri.
Altra non meno strepitosa, che grave, mi accadde di trattare ne'
seguenti anni, quando io era già di molto avanzato; e questa fu
l'intricata e diffidi causa de' confini, che verteva tra il comune di
Campochiaro e del Vinchiaturo - terre poste nel contado di Molise.
Campochiaro fondava sue ragioni a' termini manufatti,2 che li pre-
tendeva divisori di ambedue le giurisdizioni. Io che difendeva que'
del Vinchiaturo, mi appoggiava a' termini naturali di un rio di
acque e d'un fiume che le dividea, e feci conoscere che que' termi-
ni manufatti non eran divisori di giurisdizione, ma di territori par-
ticolari. Essendosi, col ministro ed avvocati d'ambe le parti, andato
su la faccia del luogo, in re presenti maggiormente si conobbe que-
sta verità; date alle stampe più allegazioni, poiché in una dell'av-
versario si cercava con cavilli confonderla ed oscurarla: bisognò che
scoverti i sofismi e le fallacie, si ponesse in più chiara luce, con
poco gusto dell'oppositore, il quale di ciò crucciato, volle con nuo-
va scrittura difendersi ; ma fece peggio, poiché mi diede occasione,
confutandola, di maggiormente mostrare i suoi errori e di con-
fonderlo. Resesi per ciò questa causa strepitosa e, trattasi nel
Il Nicolini, Scrittiy p. 26, confonde questa scrittura con la prima allega-
zione del D'Afflitto. 1. con pochi fogli: P. Giannone, Ristretto delle ra-
gioni de* possessori degli olvoeti nel feudo di S. Pietro in Lama, contro Mon-
sig. Vescovo di Lecce, barone di quel feudo. Dove brevemente si risponde
alla lunga confutazione della nuova scrittura composta a prò de* possessori
suddetti. Cfr. Panzini, p. 4. 2. termini manufatti: confini segnati da opere
murarie o simili.
70 VITA DI PIETRO GIANNONE
Consiglio di Santa Chiara con ministri aggiunti di altre Ruote
e coir intervento del presidente Argento, ebbi la sorte di riportarne
intera vittoria, dichiarandosi i confini che dividevano le giurisdi-
zioni essere i naturali da me dimostrati, non già i manufatti, che
non erano se non divisori di particolari territori.
Queste cause, sicomc mi portarono notabili guadagni, cosi mi
accrebbero il numero de7 clienti, facendo sempre più acquisto de'
nuovi, e fra gli altri del barone di Cassano, del principe d'Ischitel-
la,1 e di altri signori.2 Ed avrei potuto accrescere più il numero, se
avessi voluto imitare gli esempi degli altri d'andargli cercando e
pregando; ma il mio temperamento, niente disposto a far tali ri-
cerche, fece che io fossi di pochi contento.
A questo mio naturale si aggiunse, che oltre l'occupazione de*
tribunali, tenendo sopra le spalle il grave peso ond'io volli cari-
carmi, di proseguire l'intrapresa Istoria civile del Regno, temeva
non mi fosse d'impedimento, accrescendo maggiori occupazioni
forensi. A questo fine, per non mancare ad ambidue, avea distri-
buito così i mesi ed i giorni dell'anno. I quindici giorni delle
ferie pasquali e gli altri tanti delle feste natalizie, sicomc quelle del
Carnevale e tutti gli altri giorni festivi che occorrono nel corso
dell'anno, quando non fossi stato impedito da qualche scrittura
forense che non pativa dilazione, io l'impiegava al lavoro <Xu\V Isto-
ria civile. Ma, sopra tutto, mi giovava delle ferie estive e vinde-
miali, come più lunghe, le quali io, lontano dagli strepiti del foro,
solca passarle nella solitudine di Posilipo, nella casa Spinelli; ma,
dapoi, per un'occasione per me propizia, che sarò a narrare, mutai
luogo, trasferendo a «Due Porte» le mie villeggiature.
i.fra. . .Ischitella: della causa col barone di Cassano non ai hanno al-
tre notizie; sui rapporti del Giannone con il principe d' Ischitella France-
sco Emanuele Pinto y Mendoza (morto noi 1767), e il cattivo trattamen-
to ricevuto per le sue prestazioni d'avvocato, si veda la lettera al fra-
tello Carlo, in data 30 dicembre 1724 (Giannoniana, n.° 76). Per una causa
di questo principe il Giannone diede alle stampe un'allegazione col titolo
Ragioni per V illustre Principe d* Ischitella contro Ciro Gioserani, nel 1717:
cfr. Panzini, p. 4. Si tenga presente che i Giannone erano feudatari del
principe. a. e di altri signori: tra questi, in Panzini, p. 5, e rammentato
il marchese di Rofrano e la scrittura giannoniana stesa iti forma di supplica
nell'aprile del 1720, con titolo: Ragioni per le quali si dimostra V uffizio del
Corner Maggiore del regno di Napoli non dover essere compreso nella reci-
proca restituzione de* beni da stabilirsi negli articoli della futura pace (di
Vienna, del 30 aprile 1725). Questa allegazione è stata ristampata in Opere
postume, il, pp. 127 sgg.
CAPITOLO QUARTO 71
Erasene in Napoli morta una vedova, senza lasciar di sé e di
suo marito figliuoli, i quali erano a lei premorti; e di tutti i beni
stabili lasciati dal marito, ne' quali ella era succeduta doppo la
morte de' figli, ne fece erede una chiesa amministrata da preti, in
Napoli, chiamata di Santa Maria delle Grazie fuori porta Medina.
I preti tosto si poser in possesso de' beni, credendo che non vi
fusser altri congionti del marito, che potessero aspirare alla suc-
cessione de' medesimi; ma scovertosi che nella città di Vesti e
nella terra di Peschici del monte Gargano, il marito, dond'egli era
oriundo avea lasciati molti parenti poveri, a' quali, secondo la con-
suetudine della città di Napoli, non poteva negarsegli la succes-
sione nella metà de' beni antichi lasciati dalla vedova, presi io la
difesa di questi miserabili, i quali, non potendo soffrir le spese del-
la lite, fu d'uopo che io somministrassi il denaro e tutto ciò che
bisognava. E poiché mio fratello erasi alquanto istrutto della pra-
tica de* tribunali, feci trattar dal medesimo questa causa da pro-
curatore, così per non dispendiarmi di vantaggio, valendomi di
altro estraneo, come perché gli servisse di essercizio per meglio
istruirsi nella pratica del foro. Si opposero i preti, pretendendo di
escludergli, su '1 supposto, che nella persona della defonta,1 tutti i
beni rimasi dovessero riputarsi nuovi, non già antichi ; e dovendosi
trattar la causa nel tribunale della Gran Corte della Vicaria,2 ov'e-
rasi introdotta da' preti per ottener da quel tribunale il preambolo
per l'immissione di tutti i beni, io per più mattine, nella Ruota del
medesimo trattandosi dell'articolo con molta contenzione fra me
e gli avvocati contrari, dimostrai che que' beni doveano riputarsi
tutti antichi nella persona della testatrice, come da lei non acqui-
stati, ma pervenutigli per successione de' suoi figliuoli premorti, e
per conseguenza la chiesa, in vigor del testamento, non potea pre-
tender immissione se non per la metà, e l'altra metà, in vigor della
consuetudine, appartenersi a' congionti più prossimi del marito,
che l'avea acquistati, dal quale eran passati a' figli, e da questi
alla madre. In effetto, da quel tribunale fu giudicato doversi dar
l'immissione alla chiesa in vigor del testamento, ma tolta prima la
metà de' beni, che come antichi, in vigor della consuetudine si
appartenevano a' congionti del marito, donde eran pervenuti.
i. defonta: defunta. 2. tribunale . . . Vicaria: tribunale napoletano di pri-
ma istanza, nelle due sezioni civile e penale. La sua sede, come per il tri-
bunale d'appello, o Sacro Real Consiglio, era in Castelcapuano.
72 VITA DI PIETRO GIANNONE
Non si quietaron gli avversari per questa decisione, ma ebber
ricorso nel Consiglio di Santa Chiara; e con nuove allegazioni date
alle stampe, s'ingegnavano sostenere la pretensione che fosser tutti
beni nuovi e, per ciò, doversi rivocare il decreto interposto dalla
Gran Corte. Mi fu d'uopo, comporre nuova allegazione e più dif-
fusa, per convincer gli avversari e confutare tutti i loro argomenti,
la qual fu pure a mie spese data alle stampe.1 Ma mentre era per
trattarsi di nuovo la causa, stimaron finalmente que' preti che
avean l'amministrazione della chiesa, i quali, per buona sorte, s'in-
contrarono esser dotati di somma probità e che sapevano la vera
chiesa esser i poveri, di non proseguir la lite. Onde, commiscrando
lo stato miserabile de' miei clienti e che sarebbe stata empietà dif-
ferirgli quel sollievo, che la lor giustizia e la decisione di quel tri-
bunale gli dava, volentieri si confermarono all'interposizione e pa-
rere di buoni amici, i quali consigliavano che, tolta ogni lite di
mezzo, dovesse terminarsi con amicatale2 accordo. Sicché, tenute
fra noi più sessioni, si venne ad una discreta ed equabile divisione
de' beni: alla chiesa rimasero alcune case e rendite poste dentro
Napoli; a' miei clienti alcune rendite e case poste fuori della città,
nella vicina villa chiamata «Due Porte», o perché ivi si mostrano
due antiche porte, ovvero, sicome scrissero alcuni, che ivi aveano
le lor ville i due famosi fratelli Porta, celebri filosofi e letterati
napolitani.3
Ma perché questi, essendo lontani, potessero godere il frutto
della vittoria, bisognò pensare il valore de' beni assegnatigli con-
vertirlo in denaro, perché, impiegato in Puglia ne' loro paesi, gli
recasse maggior frutto di quello che potevano sperare da rendite
i. Mi . . . stampe ecc. : il Nicolini, nella sua edizione della Vita, p. 64, in nota,
osserva che « di questa causa il Panzini dice soltanto che ebbe luogo nel 1 721 .
Però, dall' insieme del racconto giannoniano, a me pare che tale data si debba
anticipare di qualche anno ». Senonche" in Panzini, p. 7, è detto (erronea-
mente) che nel 172 1 fu acquistato il casino di Due Porte, «in premio d'una
lite guadagnata ad alcuni suoi paesani », e non si accenna affatto alla data in
cui la causa sarebbe stata sostenuta. 2. amicatile: amichevole. 3. 0 per-
ché . . . napolitani', delle due versioni il Giannonc propese sempre per que-
st'ultima che faceva risalire la proprietà ai fratelli Giovan Battista (1535-
1615) e Niccolò Della Porta; anzi volle tramandarla in un'epigrafe che si
sarebbe dovuta apporre, dopo la sua morte, sulla facciata della villa: cfr.
la lettera al fratello Carlo, del 22 dicembre 1730 (Giannoniana, n.° 386). Il
testo dell'epigrafe è riportato in Vita, ed. Nicolini, p. xxxi. Sull'ubicazione
della villa cfr. T. Fasano, Lettere villeresche scritte da un anonimo ad un
amico, Napoli 1779, pp. 52 sgg., e Vita, ed. Nicolini, pp, 65-6, nota.
CAPITOLO QUARTO 73
sì lontane. Onde, fatti estimare, si venderono; ed io, detratte le
spese e le fatiche da me fatte ed il palmario1 dovutomi, colle fa-
tiche di mio fratello, mi presi le case di « Due Porte » con un picciol
podere a quelle congiunto, e gli mandai il compimento del prezzo.
Di che ne rimasero contentissimi, e ne fu stipulato pubblico istro-
mento di cessione e vendita.
Fatto ch'ebbi tal acquisto, ridussi in istato migliore quell'abita-
zione e, fornitala di tutti gli arredi e suppellettili, nelle ferie estive
e vindemiali trasferiva ogni anno a «Due Porte» il mio domicilio,
dove, non tralasciando il mio matutino e vespertino esercizio in
camminare per quelle campagne, tutto il rimanente dell'ore si con-
sumava in proseguire il lavoro dell'intrapresa Istoria. Per questo
mio ritiro, e perché, anche dimorando in città, poco solea farmi
vedere nelle conversazioni e nelle altre brigate d'amici a passar il
tempo allegro (poiché, se altri potevan farlo, non io, che oltre le
occupazioni del foro avea sopra le spalle quest'altro peso), ne ac-
quistai presso gli amici il sopranome di « solitario Piero », alludendo
all'eremita del Tasso.2 E se bene alcuni sapessero che io travaglia-
va per dover dare alla luce qualche opera, nulladimanco, poiché
io non communicai se non all'Aulisio ed al Capasso e ad alcuni po-
chi strettissimi miei amici l'idea di quella: chi s'immaginava che io
componessi l'istoria delle leggi e magistrati del regno di Napoli,
altri che io tessessi le vite de' giureconsulti napolitani, e chi una
cosa e chi un'altra. Ed io gli lasciava con questi pensieri, per non
insospettir alcuno; ed ancorché avessi compiti più libri, sicché
avrei potuto dar alla luce il primo tomo, nulladimanco ebbi a que-
sto riguardo la sofferenza di non cominciar la stampa, se non mi
fossi veduto vicino al porto. Né m'ingannai, poiché l'evento dimo-
strò che, se io avessi dato fuori il primo tomo, sarei stato sicura-
mente impedito di dar il secondo, e molto più il terzo ed il quarto,
e così lasciar l'opera manca ed imperfetta.
I primi soli tre libri, che io feci di buon carattere trascrivere da'
miei originali, furon letti dall'Aulisio, il quale, approvando l'idea
e piacendogli la maniera e la disposizione che io avea data all'o-
pera, mi animò a proseguirla. Ma non potei far lo stesso ne' se-
guenti libri, sicome io avea proposto, poiché oltre vari impedimenti
frapposti e, sopra tutto, di non consumar il tempo che dovea im-
i. il palmario: il compenso dell'avvocato. 2. solitario . . . Tasso', cfr. Ger.
lib.f I, 29, 2.
74 VITA DI PIETRO GIANNONE
piegare in emendare e configgere1 le copie, differendo di farlo,
ecco che poi il medesimo venne ad infermarsi d'una sì grave in-
fermità, che lo condusse alla morte.2 Avrei fatto lo stesso col presi-
dente Argento; ma era impresa disperata ed impossibile di poter
ottenere dal medesimo che potesse leggergli, poiché le sue gravi
e continue occupazioni, spezialmente sotto il conte Daun viceré,
erano tali che non avea un momento di tempo di poter applicare
ad altro.3
Intanto, proseguendo con ostinazione queste lunghe fatiche,
ancorché proccurassi tener un'esatta regola di vivere, né trala-
sciassi gli esercizi del corpo, fui assalito da una grave ipocondria,
che mi cagionava incessanti rutti ed acetosi, e ben si vedeva che lo
stomaco e le viscere eran viziate. Presi consiglio dal Cirillo per
trovar la maniera di liberarmene e, dopo lungo pensare e riflettere,
si credette che ciò provenisse, oltre dall'applicazione a' studi, dal
vino, che non ben si conformava al mio stomaco che lo rendeva
i. corriggere: correggere. 2. una si . . . morte: nella fine dell'Aulisio non
mancò il sospetto di veleno (cosa comune in quel tempo, per tutte le
morti non diagnosticate con esattezza) e l'accusa, non provata, contro il
nipote di lui, Niccolò Ferrara. Arrestato e processato davanti al tribunale
dei venefici (o Giunta dei veleni), fu rinchiuso in carcere per ordine del
presidente di quello, l'Argento, «per vendicare la crudo! morte d'un
tant'uomo e suo grande amico », come riferisce il Fanzini, p. 6. Dopo due
anni di carcere, «e non veggendo in fine alcuno scampo alla sua salvez-
za, impetrò dal Giannone il suo patrocinio, il quale trovando incerte e
difettose le pruove del delitto, s'adoperò talmente col presidente Argento
e co' ministri suoi colleghi, che il fé porre fuor di prigione, il Ferrara ap-
pena messo in libertà donò al Giannone in merito della ricuperata salvezza
alquanti scelti libri ch'erano dell'Aulisio, e diverse opere manoscritte,
ch'avea questo valentuomo dettate sopra vari argomenti, delle quali ne dà
il catalogo il sig. Biagio Troisc nella picciola vita dell'Aulisio preposta al
libro delle Scuole sagre di cotesto autore » (Panzini, pp. 6-7). Ciò non accad-
de, precisa lo stesso biografo del Giannone, prima dell'anno 171 9. Già però
in quello stesso anno il Giannone riusciva ad iniziare la pubblicazione di
tredici corsi universitari dell'Aulisio, i Commentarionm iiirìs civilis to?ni ///,
a cui seguirono, nel 1721, i Commentarla in TV Institutiomim canonicarum
libros. Due anni dopo, sempre dietro incitamento del Giannone, uscivano
in Napoli i due libri Delle scuole sacre . . . pubblicati dal suo erede e nipote
Nicolò Ferrara-Aulisio, presso Francesco Ricciardo. 3. Avrei . » . altro x
il Panzini, p. 14, riferisce che l'Argento lesse l'opera solo «poiché ella fu
terminata» e che una volta presane visione, commentò: «Sig. Pietro, voi
vi sete posto nel capo una corona, ma di spine». Sia la precisazione del
Giannone qui sopra, sia l'avvertenza del Panzini che l'Argento leggesse
Ylstoria civile solo dopo che essa fu compiuta, sono dettate dalla stessa
preoccupazione di smentire le accuse di quanti sospettarono una diretta
collaborazione sua al lavoro giannoniano. Cfr. infra.
CAPITOLO QUARTO 75
acetoso; sicché bisognava tórre o l'uria o l'altro. De' studi era im-
possibile privarmene, per la mia professione che mi dava il pane,
onde si venne a tormi il vino, e si prese il tempo opportuno d'una
està, nella quale pian piano, frammezzando il ber dell'acqua, mi
ridussi ad un sol bicchiere di vino al fine della tavola: qual pur si
tolse, surrogando in sua vece un grappolo d'uva.
Per tre mesi questo passaggio dal vino all'acqua chiara mi diede
pena ed una grande languidezza, che m'istigava a ripigliarlo, ma
io fermo nel proposito, non mi smossi ; sicché, passatami poi quella
languidezza, lo stomaco si rese più forte alla digestione, mi liberai
da quel acido e da altri piccioli mali; e benedico sempre la presa
risoluzione, poiché, in tutto il corso di mia vita fino al presente,
che sono in età molto avanzata, mi trovo coll'acqua pura assai
migliore e sano, che non era quando bevea vino : almanco sono si-
curo di non esser assalito da dolori nefritici, da pietre1 e calcoli,
da podagra e di altri consimili morbi gottosi. Egli è però vero che,
non potendomi privare de' studi, non ho potuto liberarmi dall'i-
pocondria, la quale sovente mi cagiona de' rutti pur troppo mo-
lesti e penosi.
Non devo tralasciare fra tante mie fatiche e noiose occupazioni,
che per rilasciar alquanto il mio animo non trovassi due maniere
di sollevarlo: la prima innocente, la seconda da condonarsi alla
debolezza e fragilità dell'umana natura. Prendeva gran piacere
degli ameni lidi del mare di Posilipo e delle campagne e deliziose
vedute di « Due Porte », dove io solea portarmi. Queste mi facevan
dimenticare e posporre tutti i diporti della città, de' teatri ed altre
feste e pompe del real palazzo. Ogni tumultuoso spettacolo, ogni
concorso della moltitudine era da me lontano, e fui sempre amante
della solitudine fra colli, pianure e valli. L'altro mio sollievo e
ristoro era di godere non men delle belle fattezze del corpo che
delle belle doti dell'animo d'una donzella,2 che io, con volere di
sua madre vedova, e de' fratelli, ebbi verginella in mio potere;
e non fu se non per tema di maggior male, poiché la loro povertà, e
l'avvenenza della giovane, forse l'avrebbe condotta a peggior de-
stino. Con lei, che m'amava tanto quanto era da me riamata, e che
io avea posta in città, in sicura custodia di donne oneste e sovente
l'avea per compagna nelle mie solitudini di Posilipo e «Due Porte»,
i. da pietre: dal mal della pietra, come dicevasi allora la calcolosi vescicale.
2. una donzella: Elisabetta Angela Castelli.
76 VITA DI PIETRO GIANNONE
alleggeriva le mie tetre e malinconiche occupazioni; e poiché te-
neva somma cura del mio corpo e delle mie cose domestiche, io
riposava in lei, né mi dava altro impaccio che de' mici studi.
Ebbi da questa onesta e castissima donna due figliuoli:1 un ma-
schio ed una femmina. E ben si conobbe quanto ella fosse savia
e dotata di somma pietà e virtù; che, costretto io a partir da Na-
poli per Timperial corte di Vienna, ella volle chiudersi in mona-
stero2 con la bambina che avea seco, dove, menando una vita san-
tissima, non ne volle uscir mai, lasciando il figliuol maschio alla
cura di mio fratello.
ni
[1721-1722]
Cominciava io intanto col progresso degli anni e del lavoro a
veder, se ben da lontano, il porto delle mie lunghe fatiche. E già
de' quaranta libri, onde V Istoria civile era divisa, non me ne man-
cavano se non gli ultimi cinque; sicché mi risolsi di cominciar la
stampa de' primi, la quale, richiedendo tempo, mi faceva sicuro
che frattanto io avrei potuto compire il rimanente. Ed incontrai,
per cominciarla, un'opportuna occasione, la quale mi liberò di
commetterla3 a* stampatori, i quali tenendo le loro stamperìe nelle
pubbliche piazze della città, oltre che avrei avuta gran difficoltà
di persuadergli che senza licenza dell'Ordinario4 potessero comin-
ciarla, erano esposti i fogli, secondo che si stampavano, a gli occhi
de' più curiosi.
Avea Ottavio Vitagliano,5 avvocato napolitano mio amico, ot-
tenuta licenza dal viceré e Collateral Consiglio di poter avere in
1. due figliuoli: Giovanni, nato nel marzo del 171 5, e Carmina Fortunata,
nata nel novembre del 1721. 2. monastero: il Real Conservatorio di
Sant'Antoniello alla Vicaria, come riferisce nella propria autobiografia il
figlio Giovanni. Scnonché è dubbio che la decisione di entrare in convento
venisse dalla Castelli, perché l'intero carteggio del Giannone col fratello
Carlo è pieno dei lamenti delle due donne, che chiedono di poter uscire
dal monastero. Qualche notizia anche in C, Caristia, Pietro Giannone e i
suoi familiari^ in Scritti di sociologia e politica in onore di L, Sturzo, Bolo-
gna 1953. 3. commetterla: commissionarla (latinismo). 4. dell* Ordinario:
del tribunale vescovile. 5. Ignazio Ottavio Vitagliano (?~i74o), nato a
Bari secondo il Giustiniani, avrebbe in seguito criticato alcuni passi del-
l'opera giannoniana (cfr. infra, e la nota 1 a p. 129). Per una sua bio-
grafia si veda L. Giustiniani, Memorie isteriche, cit., in, pp, 283-5;
C. Minieri Riccio, Memorie storiche, cit., p. 372; C. Villani, Scrittori ed
CAPITOLO QUARTO 77
sua casa una stamperia, alla quale egli avea preposto un diligente
stampatore, chiamato Niccolò Naso, che la reggesse: e, convenuti
fra di loro del guadagno, il peso di ottener le licenze rimase al Vi-
tagliano.1 Fu facile persuadere al medesimo che, contenendo la
mia opera più controversie giurisdizionali che si risolvevano con-
tro la giurisdizione ecclesiastica, secondo che s'era negli ultimi
tempi esorbitantemente innalzata, non avea bisogno di licenza de-
gli ecclesiastici ; e sarebbe stata impertinenza cercar da essi ciocché
non potevano concedere, poiché la formola da essi introdotta in
concederla, non si restava più che nell'opere da stamparsi non vi
fosser cose contrarie alla santa fede e buoni costumi, ma volevano
che non vi fosser eziandio cose contrarie alla loro pretesa giuris-
dizione. E mostratigli più essempi che per i libri ove si trattava
di contese giurisdizionali niuno l'avea cercata, si rimase fra noi,
che bastasse solo la licenza del viceré e del Consiglio Collaterale,
della quale volli io caricarmi e mandarcela. A tutto ciò si aggiunse
un'altra opportunità per me assai più acconcia e propizia, poiché,
tenendo il Vitagliano una casa di campagna prossima a «Due
Porte», la stamperia che avea nella di lui casa dentro Napoli l'avea
trasferita ivi, lontana da ogni commercio ;z sicché mi riusciva più
commodo nelle mie villeggiature di «Due Porte» di poter assistere
alla stampa. Si convenne pertanto, fra noi del denaro che io dovea
somministrar per le spese, e poiché il carattere che avea era quasi
tutto logoro, mi convenne somministrargli anche il denaro per
fonderne un nuovo, sicome altresì per un nuovo torchio. Poteva
io allora sostener queste spese, poiché i guadagni dell' awocazione
ed i palmarii di alcune cause vinte mi posero in istato, oltre di
mantener mia casa con decoro, con carrozza e servidori, di po-
terlo fare.
Si cominciò la stampa ne' princìpi dell'anno 1 721, la qual durò
per due anni continui: ciocché mi diede tempo di terminare, in-
tanto, gli ultimi libri. Né posso negare che questo biennio fu per
me il più travaglioso e molesto, poiché alle occupazioni del foro
ed al travaglio di dar l'ultima mano all'opera, si aggiunse di do-
artisti pugliesi, cit, pp. 1170-1; G. De Crescenzio, Dizionario storico-bio-
grafico degli illustri e benemeriti Salernitani, Salerno 1937» P- 524. 1. con-
venuti . . . Vitagliano-. il contratto, conservato presso l'Archivio di Stato di
Torino, mazzo n, ins. 4, M (cfr. Giannomana, pp. 419-20), fu stipulato il 23
agosto 1720. 2. commercio: pratica, relazione (latinismo).
78 VITA DI PIETRO GIANNONE
ver rivedere i fogli, secondo che uscivano dal torchio, ed emen-
dargli dagli errori occorsi nella stampa. Nel che gran sollievo ri-
trassi dall' amorevolissimo Capasso, il quale, ancorché per la morte
dclPAulisio si trovasse occupare la cattedra primaria vespertina
déiVius civile, nulladimanco, sempre che poteva, non mancava di
riveder i fogli, spezialmente quelli dove trattavasi della politia
ecclesiastica, e d'avvertire qualche abbaglio o errore occorso. Ma
poiché le sue occupazioni non permettevano che potesse riveder-
gli tutti, non devo tralasciare che mi fu di grande e continuo
sollievo Tindustria ed esattezza d'un altro mio carissimo amico,
del quale e per questo e perché non m'abbandonò mai in altri
miei bisogni e, sopra tutto ne' tempi delle mie più fiere persecu-
zioni, la gratitudine ricerca che io ne abbia fin che viva cara ed
indelebil memoria. Questi fu il gentilissimo Francesco Mela, il
quale, oltre di esser ornato di molte virtù, era dotato di gran
perizia di lingua toscana, e si avea acquistato uno stile così puro
e limpido, che le sue lettere, ancorché familiari, riuscivano cosi
terse sia nelle voci, o nelle frasi, che meritavano esser proposte a
gli altri per essempio da imitare.1 Questi non si stancò mai, se-
condo che uscivano i fogli dalla stampa, di rivedergli tutti e corri-
gergli con somma esattezza non men dagli errori grammaticali che
di ortografia; sicché pochi ne scapparono dalla sua oculatezza e
diligenza.
Avvicinandomi, dunque, al termine del quarto ed ultimo tomo,
verso la fine dell'anno 1722 ebbi ricorso al viceré, allora cardinale
Althan,2 e suo Collateral Consiglio, cercando la licenza della stampa
1. Questi . . . imitare: anche V Apologia dell'Istoria civile fu sottoposta per
la revisione e la rifinitura, anche linguistica, al Mela, oltre che al Riccardi
e all'abate Pietro Contegna: cfr. la lettera al fratello in data 16 giugno
1725 (in Giannoniana, n.° 98, parzialmente riportata in Bertelli, p, 199).
Dal Libro dei Cresimati dell'archivio della chiesa di Santa Maria Maggioro
d'Ischitclla, voi. n, f. 6r, si ricava che «compare» per il giovane Pietro fu
un certo don Antonio Miele di Napoli (cfr, C. Cannarozzi, Pietro
Giannone, cit., p. 16), Ora sembra molto probabile che Francesco Mela
possa essere il figliolo di don Antonio. Solo un vincolo di parentela (e
il comparaggio, allora, lo era) spiegherebbe d'altra parte, meglio d'una
semplice amicizia, perché al Mela il Giannone affidò la cura della moglie
e della figlia, rinchiuse in convento al momento della fuga da Napoli.
2. Friedrich Michael von Althann (1682- 1734), cardinale, fu viceré di
Napoli dal 1722 al 1728. Su di lui si consulti H. Benedikt, Dos Kò'nigreich
Neapel unter Kaiser Karl VI, Wien-Leipzig 1927, passim. Era fratello di
quel conte Venccslao, spentosi nel 1722, la cui moglie, Marianna Pigna-
telli, fu la favorita dell'imperatore, e più tardi l'amica del Mctastasio.
CAPITOLO QUARTO 79
e pubblicazione dell'opera. E commessa dal Collaterale allo stesso
Capasso la revisione, per dover far relazione al viceré del contenuto
dell'opera, questi, che in gran parte coll'occasione di riveder i fogli,
aveala letta, non tardò molto di fare una rappresentanza1 al viceré,
colla quale rendeva testimonianza l'opera esser degna delle stampe,
così perché niente conteneva che fosse contrario a' buoni costumi,
ma molto più perché in essa si sostenevano i reali diritti e regie
preminenze, e, per quanto ad un istorico si conviene, con forti
ragioni erano manifestate e difese.
Fu pertanto conceduta licenza di stamparsi e pubblicarsi, con
imporsi, secondo il prescritto delle prammatiche, di darne gli
essemplari a que' ministri a' quali si appartengono, sicome fu
prontamente eseguito.2 Venne a pubblicarsi l'opera in Napoli3 nel
mese di marzo del nuovo anno 1723. Ma poiché qui per me co-
mincia una nuova e dolorosa epoca bisognerà riportarla nel ca-
pitolo seguente.
1. una rappresentanza: una relazione. 2. Fu . . . eseguito; il testo della li-
cenza è stato inserito in Opere postume, I, p. 37, assieme alla domanda
dell'autore, nel capitolo vili dell'Apologia dell'Istoria civile. 3. Venne . . .
Napoli: il frontespizio dell'ito Oria civile reca in tutti e quattro i suoi vo-
lumi l'indicazione: «In Napoli, MDCCXXIII, per lo stampatore Nicco-
lò Naso », Sino ad allora, per un tacito accordo tra gli scrittori e l'autorità
vicereale, le opere che si volevano sottrarre al visto ecclesiastico uscivano
liberamente in Napoli, ma con una falsa indicazione di luogo di stampa
sul frontespizio. Giannone, in questo, contravvenne a quello che possia-
mo definire un gentlemerìs agreement, coinvolgendo nella responsabilità
della stampa lo stesso cardinale Althann. Di questo ci resta precisa la te-
stimonianza di Costantino Grimaldi, che nella citata Istoria dei libri (ms.
XV.B.32, f. 35 a, e ora vedi nell'edizione a cura di V. I. Comparato, cit.,
pp. 49-50) riferendo un colloquio avuto col viceré, il quale intendeva proi-
bire la ristampa dei testi della polemica col De Benedictis, scrive che a
sua difesa egli fece osservare «che credeva aver portato un rispetto al-
l'Arcivescovo» col porre la falsa indicazione di Lucca sul frontespizio,
«invece con sfrontatezza ponerci la data di Napoli; ed in effetto facendosi
in detto modo si spacciavan pubblicamente tali libri » (cioè quelli privi di
autorizzazione ecclesiastica). «Ma allora fu che replicògli il signor Viceré,
che in questo appunto era riprensibile il Grimaldi, perché spacciava la
mensogna. Mensogna era si, gli disse il Grimaldi, ma officiosa, per non
mettere in cimento l'Arcivescovo di far ciò usò col signor D. Pietro Gian-
none, che forza ebbe scomunicarlo per aver voluto porre la data di Napoli,
senza aver chiesto il suo permesso ».
CAPITOLO QUINTO
Anni 1723 e 1724, i>otto il tegno delV imperadore Carlo VI, e sotto il governo
del cardinal Althan, viceré - Napoli e Vienna.
Compita la stampa e fatti condurre gli esscmplari in mia casa,
al numero di mille ~ che tanti se ne imprimerono in carta ordinaria,
ed altri cento in carta reale, col ritratto dell'imperadore, a chi
l'opera era stata dedicata, e con mia divota lettera al medesimo
consecrata, - ne feci di questi ligar uno nobilmente ornato, e lo
presentai al cardinal viceré; il quale lo ricevè con molta umanità e
cortesia e, come intesi dopo da' suoi famigliari, non isdegnava
averlo sopra il suo tavolino e sovente, nell'ore disoccupate, di leg-
gerlo. Di questi medesimi esscmplari di carta reale ne feci ligar
altri, e gli presentai, uno per uno, a tutti i reggenti del Collaterale
ed a gli altri supremi ministri a cui eran dovuti, i quali, oltre di
cortesemente ricevergli, me ne rendettero molte grazie. Presentai
de* consimili esscmplari, uno per uno, a tutti gli Eletti della città
di Napoli, in nome della quale mi furon rese le grafie, accom-
pagnate con un dono d'argento, in memoria della loro gratitudine,
e con eleggermi avvocato ordinario della Città.1 Altro essemplarc,
riccamente ornato, come quello che dovea presentarsi alla Maestà
di Cesare, fu disposto per l'imperiai corte di Vienna, insieme con
altri essemplari che doveano presentarsi al presidente, a' reggenti
ed altri consiglieri, secretari e ministri, che componevano in Vien-
na il Consiglio di Spagna.3 Altri si presentarono a' miei amici, e
1. a tutti . . . Città: il Consiglio municipale napoletano (gli Eletti) nella sua
seduta del 17 marzo 1723 decise di concedere al Giannone un regalo in
argento del valore di 195 ducati, e di nominarlo avvocato ordinario della
città; ma già il 7 aprile era costretto a ritornare sulla propria decisione»
sospendendo nomina e regalia, e dando invece mandato a due giuristi,
Nicola Galizia e Matteo Egizio, di riferire sul valore dell'opera giannoniana.
Relazione che sarebbe stata molto probabilmente favorevole allo storico
- data l'amicizia che lo legava al Galizia e all'Egizio -, ma che fu invece
scavalcata da un intervento del viceré cardinale Althann, il quale disap-
provò pubblicamente, nella riunione del Consiglio del Collaterale del 12
aprile, la decisione degli Eletti di Napoli. Cù\ Bbrtblli, pp. 178-81. 2. il
Consiglio di Spagna-, ossia l'antico Consiglio d'Italia istituito per il disbri-
go degli affari italiani dagli Spagnoli e che, trasferito a Vienna dopo la
caduta dei possedimenti spagnoli in mano impenale, ebbe mutato il titolo
(ma non le funzioni). Era retto da un presidente affiancato da sei reggenti
(due per ogni Stato sottomesso: Sicilia, Napoli e Milano); sulla sua strut-
CAPITOLO QUINTO 8l
molti di ordinaria carta se ne mandarono a due librari della città,
ad esporgli venali1 nelle loro librarie, per un discreto prezzo.2
Non passarono quindici giorni, che leggendosi questa mia opera
a pezzi, quasi tutti si arrestavano a gli ultimi capitoli de' libri ove
trattasi della politia ecclesiastica; e dall'indice de' capitoli sco-
verta l'idea dell'opera, sembrò nuova e da altri non ancor tentata.
Alla plebe de' letterati e degli avvocati, ed a' mezzi dotti ciò recò
invidia, e con lividi occhi cominciarono a leggerla, attenti a notare
solamente ciò che ne' capitoli della politia ecclesiastica sembrava lo-
ro di strano ; poiché, ignari dell'origine e progressi di questo Stato,
credevano che il mondo così fosse sempre stato, com'essi l'avean
trovato: e sentendo da' profondi e dotti uomini lodarla, ciò mag-
giormente aguzzò l'invida loro maladicenza. Que' medesimi che
prima, per la mia ritiratezza, mi avean dato il sopranome di « soli-
tario Piero», ora, dimenticati della mia solitudine e del corso di
tanti anni, cominciarono a dire che io non poteva essere stato
solo l'autore di una sì voluminosa e laboriosa opera, ma che altri
mi avesser somministrato aiuto e la materia, chi nominando l'Ar-
gento, chi l'Aulisio, e chi altri miei amici.3
Fu veramente cosa di maraviglia e di stupore che, niente riguar-
dando al lume col quale si erano rischiarati i secoli più oscuri di
quelle provincie ond'ora si compone il regno di Napoli; niente
curando d'essersi posto in chiara luce l'origine e l'uso nel Regno
delle leggi romane e longobarde, delle normanne, sveve ed altre
patrie leggi, di cui erano ignorantissimi; niente delle origini delle
papali investiture, delle pretensioni de' principi di varie nazioni
sopra il regno di Napoli, delle loro imprese, nuovi sistemi e governi,
delle istituzioni di tanti nuovi magistrati, ufficiali e tribunali, di
tura e il suo funzionamento a Vienna cfr. P. Giannone, Breve relazione de*
Consigli e Dicasteri della città di Vienna, in Opere postume, il, pp. 195 sgg.
1. venali: in vendita. 2. per un discreto prezzo", furono venduti a quattro
ducati. 3. altri miei amici'. Niccolò Capasso e Vincenzo Ippolito. Ma so-
prattutto si accusava il Giannone di aver sfruttato i manoscritti dell' Aulisio,
come riferisce Panzini, p. 7 e pp. 13-4. A sua volta un sonetto dialettale
accennava invece all'Argento: «Ma chi l'ha dato mano a chessa 'rnpresa? /
È n'auto senza legge e senza fede / ha lo gnomme d'Argiento e l'arma
lesa / e 'mpastata de chiummo e niente crede» («Ma chi ha dato mano a
questa impresa ? È un altro senza legge e senza fede, ha il nome d'Argento
e l'arma infida impastata di piombo, e a niente crede»: cfr. il sonetto n. 7
della raccolta manoscritta conservata presso la biblioteca della Società
Napoletana di Storia Patria, XXVIII.D.15; su di essa vedi inoltre Gian-
noniana, pp. 30 sgg.)-
82 VITA DI PIETRO GIANNONE
tanti cangiamenti e di tante altre investigazioni e nuove scoverte
fatte sopra il governo civile del Regno : tutte queste cose non mi
giovarono a niente; tanto è vero che gli uomini, sicome sono più
inclinati al male che al bene, così si trovano più disposti al bia-
simo che alla lode. E conobbi esser pur troppo vero ciò che Pli-
nio il Giovane scrisse a Capitone, nell'epistola 8a del v libro,
che ristorico, ponendosi a scrivere cose nuove e da altri non trat-
tate, non altro ne ritrae, se non «graves offensac, levis gratia».1
E come se nella mia opera non si trattasse di altro che dell'ec-
clesiastica politia, cominciarono a malmenare alcuni mici detti da
essi non intesi, e sconciamente - anzi sovente falsamente - ad
altri esposti, non con altro animo che di calunniarmi e farmi ca-
dere nell'odio di tutti, spezialmente de' preti e de' monaci ; sicome
ottennero. Poiché questi, non leggendo l'opera, ma secondo che
gli era dato a credere, o mostrati alcuni pezzi tronchi, come gli
veniva più acconcio all'impostura, furon subbito persuasi che io
negassi ne' vescovi l'ordinazione; negassi i miracoli; insegnassi il
concubinato esser lecito; i pellegrinaggi a' santuari esser vani ed
inutili; negassi il Purgatorio, la venerazione ed intercessione de'
santi. Ma, sopratutto, per maggiormente istigare i frati e monaci,
[ottennero] di fargli credere che io deridessi le particolari divozioni
de' loro Ordini, sicome a' Dominicani quella del rosario, a' Franci-
scani l'altra del cordone, a gli Agostiniani quella della correggia,
ed a' Carmelitani l'altra degli abitini e loro scapulari; e, per ciò
che riguarda a' Napolitani, non si potè inventare calunnia più
acconcia a' loro perversi fini, che di fargli credere che io negassi il
miracolo del sangue di san Gennaio.3
I frati ed i monaci, temendo non per ciò gli venissero a mancare
gli emolumenti che traggono da queste loro particolari devozioni,
come tanti baccanti cominciarono a declamare nelle loro chiese e
ne' confessionari, e di predicarmi per eretico marcio; ed un gesuita
non si ritenne, fin sopra i pulpiti, far lo stesso.3 Talché fu d'uopo
al cardinal viceré, per evitare i tumulti, che alla giornata cresce-
i. «.graves . . .gratia*: cfr. v, vili, xa («gravi offese, magro compenso»).
z. il miracolo . , . Gennaio : il miracolo di san Gennaro, cioè lo sciogli-
mento del sangue del vescovo martire, che si ripete in Napoli due volte
l'anno, e che ha sempre rivestito una particolare importanza nella vita re-
ligiosa della città. 3. un gesuita . . . stesso; il padre Francesco Franchis,
dai pulpiti del Gesù Nuovo e di Santa Maria di Costantinopoli: cfr. la
lettera al fratello Carlo del 29 settembre 173 1 (Giarmoniana, n." 439) e in
CAPITOLO QUINTO 83
vano,1 di mandar ordine a' capi de' conventi di Napoli, che proi-
bissero a' loro monaci e frati di parlar più di me e della mia opera,
ed al gesuita di partir da Napoli; sicome fu eseguito.2 E poiché
la città erasi posta in tanta agitazione e curiosità, che non si par-
lava di altro in tutte le piazze e contrade, non che nelle private
case e radunanze: riputò il viceré col Consiglio Collaterale, per-
ché ogni rumore si quietasse, di far sospendere la vendita degli
essemplari mandati nelle pubbliche librarie, finché, avocata l'o-
pera a nuovo esame, non si fosse altrimenti comandato. Questo
divieto fece maggiormente crescere la curiosità ed il prezzo de'
libri, ond'erano assai più avidamente cercati e letti.3 E secondo che
s'andavan leggendo, venivano pian piano a dileguarsi le calunnie,
che da' frati e monaci, che non l'avean letti, si erano disseminate
e sparse.
Io, intanto, non mi sgomentai da tali romori, e proseguendo
sicome dianzi i miei fatti, andava a' tribunali, trattava le cause che
occorrevano, andava nelle chiese ad intervenire ne5 divini uffici,
ed a far tutto ciò che m'era di mestieri. Ma per le strade vedeva
affollar la gente per conoscermi, mostrandomi l'uno all'altro a dito,
ed osservava che della minuta plebe alcuni, doppo avermi veduto,
par che mostrassero pentimento di averci avuta tanta curiosità,
poiché vedevano un uomo come gli altri, non, come mi avean di-
pinto i frati, per un demonio orrendo e spaventevole.4 Lo stes-
Giannoniana, pp. 330-1 ; Apologia dell* Istoria civile, in Opere postume, I,
pp. 1-4; Panzini, p. 15 ; Vita, ed. Nicolini, p 48, nota, e pp. 458-9. 1. i tu-
multi . . . crescevano', notizie sulle proteste suscitate da monaci e Gesuiti, e
sulla commozione della plebe napoletana in M. M. Vecchione, Vita di
Pietro Giannone dottore in leggi e celeberrimo istonco del regno di Napoli, Pal-
myra (ma Lucca) 1765, pp. 13 sgg. ; nonché in S. Volpicella, Parere del Col-
laterale sui tumulti avvenuti per la pubblicazione della Storia Civile di Gianno-
ne, m «Archivio Storico perle Province Napoletane», 1 (1876), pp. 118-22.
Per i sonetti antigiannoniani sparsi in Napoli in quei giorni si veda Gian-
noniana, pp. 108 sgg. 2. ordine . . . eseguito: il verbale della riunione con
le decisioni qui ricordate è stato edito da S. Volpicella, Parere, cit., pp.
118-22. Si tratta di quella stessa riunione in cui fu disapprovata la deci-
sione degli Eletti di Napoli. 3. Questo . . . letti: dai quattro ducati ini-
ziali il prezzo sali sino ai quaranta ducati richiesti in Sicilia nel 1725 : cfr.
la lettera del Giannone al fratello, del 9 giugno 1725 (Giannoniana, n.°97).
4. un uomo . . . spaventevole: un ritratto del Giannone, inciso da Jeremias
Jakob Sedelmayr (1 706-1 761), è nel primo volume dell'edizione La Haye
1742. Una sua descrizione in un foglietto accluso al dispaccio dell'inqui-
sitore di Ferrara al collega modenese, in data 30 settembre 173 5, in Gian-
noniana, p. 552.
84 VITA DI PIETRO GIANNONE
so più volte mi avvenne stando a' tribunali, dove non potea dar
passo, che non mi vedessi premuto dalla calca di simili curiosi.
E poiché fra l'altre imposture si era dato a credere che io repu-
tassi lecito il concubinato, non capendo - o non volendo intendere -
che io parlava dell'antico concubinato de' Romani; alcuni, con-
fondendo questo concubinato colla semplice fornicazione, ripu-
tarono che io non la tenessi per peccaminosa. La qual dottrina a
molti, i quali forse n'eran contaminati, piaceva assai ; onde uno di
costoro, sedendo io a' tribunali, mi si accostò e, presami la mano,
forte me la strinse, dicendomi che finalmente avea io discoverta
questa verità. Ma io, non intendendo ciò che si volesse dire e
dimandatogli di chi intendesse, mi rispose con soghigno e faccia
allegra, ch'egli si rallegrava, perch'era stato sempre d'opinione che
la semplice fornicazione non fosse peccato, sicomc io avea ben
dimostrato. Allora, con riso anch'io, gli replicai che volontieri l'a-
vrei compiaciuto, se avessi potuto farlo, e nella mia opera avessi
avuta occasione di trattarne, sicome in due luoghi l'ebbi,1 trattando
dell'antiche concubine, non già della semplice fornicazione; ma
che n'incolpasse san Paolo, il quale nelle sue Epìstole, condannan-
dola, me l'avea proibito.3 Che io non parlava ivi della semplice
fornicazione ma del concubinato antico de' Romani, riputato le-
cita congiunzione, ch'era tutto altro di quello che al presente s'in-
tende, e molto differente. Ciò inteso, chinò il viso, e voltatemi le
spalle se n'andò via tutto cruccioso e malinconico.
Da questa falsa credenza, e dall'aver i monaci, fra l'altre calunnie
addossatemi, sparso da per tutto che io riputassi lecito il concubi-
nato presente, fui costretto, per disingannar i semplici, di dar fuori
una dissertazione, non però data alle stampe: Dell'antico concubi-
nato de7 Romani ritenuto nell'Imperio anche doppo la conversione di
Costantino Magno?
Intanto, il Nunzio che risiedeva in Napoli era rimproverato da
Roma come fosse stato così trascurato, che non avesse scovcrto e
dato notizia alla Corte d'una opera cosi voluminosa che si travaglia-
va in Napoli, e che almanco per lo spazio di due anni che durò la
i. sicome . . . ebbi: cfr. Istoria civile, tomo i, lib. v, cap. v, p. 357; tomo 11,
lib. xi, cap. ult, par. 1, pp. 226-7. 2. san . . . proibito: in particolare nelle
lettere: Rom., 1, 29; I Cor., 5, 1 sgg.; 6, 18-9; Eph., 5, 3 sgg.; Coi, 3, 5-6;
/ Thess., 4, 3 sgg. 3. una dissertazione . . . Magno: apparve come parte in-
tegrante della Apologia dell'Istoria civile: cfr. Opere postume, I, pp. xo8 sgg.
CAPITOLO QUINTO 85
stampa avrebbe potuto saperla, e fosse stato l'ultimo ad avvisarla,1
quando in Roma n'erano venute più casse d'essemplari e s'erano,
ancor ivi, da per tutto sparsi. Ond'egli, per compensare in parte
alla negligenza a torto imputatagli, non cessava presso il viceré
di dolersene e contro di me passar uffici di accuse, incolpandomi
d'ingiurioso alla Santa Sede, e che meritassi severo castigo. Ma il
viceré non si smosse, rispondendogli sempre ch'egli avea dato a
riveder l'opera a persone dotte e che, secondo la relazione che ne
l'avrebber fatta, vi avrebbe data provvidenza.
Dall'altra parte la Curia arcivescovile di Napoli, istigata da' mo-
naci e da' preti e da' curiali istessi, non volle in ciò mostrarsi
oziosa e lenta. Vedendo che per l'impressione dell'opera non si era
a lei cercata licenza, riputò essersi dallo stampatore offesa la giu-
risdizione ecclesiastica; ed ancorché il peso d'ottener le licenze non
s'appartenesse a lui, ed avesse in quella Curia fatte sue difese,
niente li valsero sue preghiere e ragioni, ma, invece di riportarne
scusa, o almeno perdono, vi fu scommunicato.2
Il vicario che reggeva allora quella Curia era il vescovo di Ca-
stellaneta, il quale, non facendo scrupolo di lasciar la sua chiesa e
diocesi così lontana - come posta nella provincia di Lecce - senza
pastore, era stato dall'arcivescovo Pignatelli invitato con grossi
stipendi, quanti potevan promettergli i doviziosi emolumenti di
quel tribunale, a presedere nel medesimo, come vicario dell'arci-
vescovo: ed invitato perché, prima d'esser vescovo, avendo esser-
citati più vicariati e reso pratico degli affari e stili forensi, potesse
più fruttuosamente reggerlo. Egli ci venne vecchio, con deliberato
animo di non far più ritorno alla vedova sua chiesa, sicome l'e-
vento il dimostrò: poiché, dopo molti anni che vi stette, se ne
morì in Napoli di vecchiaia, non già nel suo vescovado.3 Or a co-
1. Intanto . . . avvisarla: monsignor Girolamo Vicentini, nunzio aposto-
lico a Napoli, avvisò la Segreteria di Stato il 2 marzo; cfr. in Archivio
Segreto Vaticano, Nunziatura di Napoli, voi. 165. a. vi fu scommunicato:
copia del cedolone a stampa della scomunica è tra gli atti inquisitonali
conservati presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, manoscritto Rossiano
1180. 3. Il vicario . . . vescovado: monsignor Onofrio Montesoro (1647- ?)
era stato creato vescovo di Castellaneta nel 1696. Fu successivamente
vicario del vescovo di Pozzuoli e, trasferitosi a Napoli, preferì resignare
il proprio vescovado, nel dicembre 1722. A sua volta Francesco Pignatelli
(1652-1734), vescovo di Taranto nel 1683, nunzio in Polonia nel 1700,
arcivescovo di Napoli dal 1703, era stato creato cardinale nel 1704 e risie-
deva perciò a Roma.
86 VITA DI PIETRO GIANNONE
stui, stimulato da' suoi curiali, venne fantasia, non contento d'aver
ingiustamente scommunicato lo stampatore, di voler lanciare i suoi
irragionevoli fulmini anche sopra l'autore dell'opera.1 Ed ancorché
la bolla stessa di Lione X,2 non ricevuta nel Regno, e le regole stesse
dell'Indice, e gli editti degli arcivescovi di Napoli non compren-
dessero che i soli stampatori, non giammai gli autori, egli pretese
far ancor quest'altro passo, e già sentivano le minaccie di que'
curiali, che, sicome si era fatto collo stampatore dell'Istoria civile,
si sarebbe anche fatto coll'autore.
Ma cure assai più gravi angustiavano il mio animo; poiché es-
sendosi malignamente sparso fra la vii plebe napolitana che io
negassi il miracolo del sangue di san Gennaio, colla quale niente
mi giovava se, col libro in mano, faceva veder l'impostura, da me
non si negava il miracolo; ma rapportando l'assedio col quale Lau-
trech strinse la città di Napoli, e la costernazione nella quale erano
i Napolitani, che si credevano perduti a cagion che, quell'anno, il
sangue non si era disciolto - ciocch'essi aveano per infausto au-
gurio; e che poi l'evento mostrò il contrario, poiché l'esercito di
Lautrech assalito da una crudel pestilenza, bisognò ritirarsi e la
città fu liberata non mcn dall'assedio che dalla fame e dalla peste;
ciocché non dinotava altro, se non di non dover dar credenza a tali
sciagurati ed infelici pronostici.3
i. non . . . operai il testo della scomunica è riportato dal Gl'arnione nella
sua Apologia dell'Istoria civile: cfr. in Opere postume, i, pp. 7-8. 2. la bol-
la ... X: il papa Lione X (1475-1521) emanò una bolla il 4 maggio 15x5
con cui si vietava la stampa di libri senza la licenza del vescovo e del-
l'inquisitore o, per Roma, del Vicario e del Maestro del Sacro Palazzo;
cfr. Apologia dell* Istoria civile, in Opere postwne, 1, pp. 28 sgg. ; ma anche
Istoria civile, tomo in, lib. xxvii, cap. IV, pp. 427 sgg. 3. rapportan-
do .. . pronostici: cfr. Istoria civile, tomo iv, lib. XXXI, cap. iv, p. 25,
dove si legge testualmente che in Napoli « non si vedea altro per le stra-
de che processioni, e non s'udivano, che pubbliche preci, e dimandar
pietade; tanto che il Marchese del Vasto fu costretto ricorrere al Viceré
Moncada, perché quelle si proibissero, come fu fatto, con ìncoraggir il
popolo, che stasse di buon animo, e che lo orazioni si facessero privata-
mente nelle Chiese, e ne* Monasteri. Ma tutte queste insinuazioni niente
giovarono, quando il primo sabato di maggio, che in quell'anno fu siili 2
di quel mese, non si vide secondo il solito liquefarsi il Sangue alla vista del
Capo di S. Gennaro lor Protettore. Allora sì che s'ebbero per perduti, e
la città nell'ultima costernazione. Ma come più innanzi diremo, fur vani
gl'infausti pronostici, e seguirono effetti tutti contrari». Per le calunnie
lanciate contro il Giannone si veda anche quanto egli stesso scrive nel-
V Apologia dell1 Istoria civile, in Opere postume, r, pp. 95 sgg.; Lautrech:
Odet de Foix, visconte di Lautrec (1485-1528), maresciallo di Francia,
CAPITOLO QUINTO 87
Questi maligni interpretavano da ciò che io negassi il miracolo,
e così aveano dato a credere alla semplice e superstiziosa plebe, la
quale non poteva ricredersi del contrario, come quella che si tira
più coll'orecchie che colla ragione. A tutto ciò aggiungevan che il
santo, per questa mia tenacità e bestemmia, erasi sdegnato e che
in pena d'un tanto oltraggio non avrebbe, nell'avvenire, fatto il
miracolo, togliendo con ciò a' Napolitani la sua protezione ed aiuto,
lasciandogli in continue calamità e miserie.
Può ciascuno da ciò comprendere qual fosse stato il mio pericolo
e, per conseguenza, l'agitazione nella quale io era; poiché questi
romori vennero a crescere verso la metà del mese d'aprile, e nel
primo sabato dell'entrante mese di maggio, secondo il solito, do-
vea, in pubblica celebrità, farsi il confronto della testa del santo
col sangue. Alcune volte era accaduto che non seguisse lo sciogli-
mento : ciocché dava indizio a' Napolitani di sciagure imminenti.
Poteva questa volta accader lo stesso e certamente che si sarebbe
imputato a mia miscredenza, e datane a me la colpa; ed esser io
con ciò esposto a scempi crudeli e barbari, ad essere sbranato
a pezzi e fattane mille strazi, avendoci tanti essempi, non men di
antiche che moderne istorie, fatti certi, non esservi cosa più pro-
clive e pronta alle sceleraggini e crudeltà, quanto una prava e
corrotta religione, covrendosi sotto il manto della medesima, col
pretesto spezioso di maggior riverenza a' numi, le maggiori em-
pietà e sceleratezze. Documento che dovrebbe essere a5 principi di
non far allignare ne' loro reami perniciose superstizioni, le quali
pongono in balìa altrui la sicurezza o vacillamento de' propri loro
scettri e corone: e niun altro, quanto il regno di Napoli, ne ha di
ciò negli ultimi nostri tempi date pruove ben chiare e distinte.
Vedendomi adunque in sì gravi pericoli, col consiglio de' buoni
amici si deliberò che io dovessi partire per l'imperiai corte di Vien-
na, giacché non vi era umano aiuto che potesse scamparmi in
Napoli da sì fiera procella, che mi soprastava. Si aggiungeva che,
avendo dedicata la mia opera alla Maestà di Cesare, era proprio e
più conveniente che io, di persona, andassi a presentarcela, sicome
a gli altri principali ministri di quella Corte; affinché, espostala
che nel 1527 aveva il comando dell'armata d'Italia. Occupato il Milanese,
Lautrec si era accinto alla conquista del regno di Napoli; ma la defezione
dell'alleato Andrea Doria e un'epidemia di peste, che colpì il campo fran-
cese e lo stesso Lautrec, portarono alla più completa disfatta.
88 VITA DI PIETRO GIANNONE
a gli occhi ed esame di tutti, conoscessero i torti che mi eran fatti
in Napoli, per opra de' miei invidi e maligni persecutori, che,
con sediziosi tumulti, irritavano contro me la cieca e sciocca molti-
tudine. Tanto maggiormente che, per ciò, alla giornata io vedeva
rendersi tepidi, anzi freddi e paurosi, quegli stessi che prima si
mostraron per me forti e fervorosi, e già vedeva crollare le prime
colonne nelle quali io era appoggiato.
Poiché il presidente Argento stesso, ancorché delegato della rcal
giurisdizione, cominciava a raffreddarsi; e quando prima con sol-
lecitudine mi richiese un essemplare, per esser il primo a mandarlo
in Vienna all'arcivescovo di Valenza, allora presidente del Consi-
glio di Spagna1 - che io, ben ligato, glielo presentai subbito : seppi
che l'era passata la voglia, e se lo ritenne, temendo ch'essendo pre-
corsi a Vienna i romori per quest'opera seguiti in Napoli, non fosse
ivi ben ricevuto ; sicché mi convenne, per altra strada, incaminarne
un altro, sicuro che, leggendosi da persone dotte in quella Corte,
si sarebbero dileguati i tanti falsi rapporti, che dagli invidi si scri-
vevano da per tutto. Ma nemmeno ciò giovommi, poiché la per-
sona alla quale s'inviò, come se avesse un serpente, se lo tenne
chiuso, né fecelo comparire ; onde tanto più, al mio arrivo in Vien-
na, conobbi essere stata la mia venuta alla Corte necessaria ed
opportuna.
Erasi l'Argento anche intepidito, perché non avea presso il car-
dinal Althan, viceré, quel favore ch'ebbe prima col conte Daun,
non adoperandolo, ma valendosi di altri ministri per consiglio ; ed,
o fosse perché le materie ecclesiastiche e giurisdizionali, non aven-
dole apprese da' suoi principi, lo tenesscr dubbioso e vacillante,
o perché s'avvicinasse alla vecchiaia, erasi reso cotanto timido e
superstizioso, che arrivò fino ad avere scrupolo se, avendo Cle-
mente XI proibito il suo libro De re beneficiaria? potesse tenerlo
presso di sé; e per liberar il suo animo da questa vana religione,
il suo confessore ed altri preti e monaci, già resi consiglieri di
sua coscienza, lo consigliarono ad impetrarne da Roma licenza;
la quale volentieri ce la mandò ampissima, come in segno di suo
trionfo.
Mi accorsi ancora, che s'era dato tutto in balìa di questo suo
i. arcivescovo . . . Spagna: Antonio Folch De Cardona (1658 circa- 1724),
creato arcivescovo di Valenza nel 1700, era divenuto presidente del Con-
siglio di Spagna nel 171 5. 2. Clemente . . . beneficiaria: cfr. la nota 1 a p. 6$.
CAPITOLO QUINTO 89
confessore, chiamato il padre Cillis,1 dello stesso oratorio del padre
Torres, già morto, e dal medesimo pur troppo diverso, poich'era
quanto ignorante, altrettanto vafro,2 accorto ed intrigante; e che,
per favorire gli altri suoi penitenti, si framezzava3 nelle liti ed in
quasi tutti gli affari avanti l'Argento pendenti, estorquendo dal
medesimo favori ed arbìtri: sicché la Curia arcivescovile di Napoli
non potè trovare più efficace mezzo, per addormentarlo in qualche
sorpresa, che si tentava sopra la regal giurisdizione, che il padre
Cillis. Onde lo vedeva spesso, nell'ore solitarie, frequentar la casa
dell'Argento, ch'era alla mia congiunta; e scoprii che l'arcivescovo
Pignatelli, istigato dal suo vicario, lo mandava, perché non si op-
ponesse alla sua Curia, che intendeva scomunicarmi, per non aver
io cercata la sua licenza per l'impressione dell'Istoria civile; e che
l'Argento, in vece di reprimer l'attentato, mostravasi vacillante e
fiacco, sicome tosto me n'avvidi. Poiché, avendogli parlato forte-
mente, ch'era ciò un attentato nuovo, non essendovi essempio che
gli autori siano compresi e fatto un sol fascio cogli stampatori,
non ne ebbi altra risposta, se non che io ne avessi parlato col padre
Cillis e veduto di persuaderlo. Ben mi accorsi da ciò, che mi sa-
rebbe riuscita ogni opra vana, per impedire il lor mal concepito
disegno ; e tanto più ch'essendo stato ad informarne il Cillis, con
parlar grave e misterioso mi rispose che avrebbe informato di
quelle mie ragioni il cardinale arcivescovo, non potendo egli farci
altro.4
Vedendo, adunque, il tutto riposto alla discrezione di que' cu-
riali, pensai affrettar maggiormente la mia partenza per Vienna;
tanto più che si avvicinava il primo sabato di maggio,5 che in
1. Roberto De Cillis, preposito dei Pii Operari, era il confessore del car-
dinale Pignatelli. 2. vafro: astuto. 3. si framezzava: si intrometteva.
4. essendo . . . altro: ben diverso il Panzini, p. 17: «com'egli si portò al
monistero di S. Niccolò della Carità per favellare a quel Padre, il quale
ivi risedeva, costui no'l volle ricevere, né anche vedere a patto veruno,
via cacciandolo da sé, non pure qual uomo malvagio e scellerato, a' quali
non si dinega alla fin fine l'udienza, ma qual mostro esecrabile d'empietà,
che gli animi altrui offendesse colla sola veduta e col semplice favellare ».
5. il primo sabato di maggio: la liquefazione del sangue di san Gennaro
avviene in uno dei nove giorni dal sabato avanti la prima domenica di
maggio, nonché il 19 settembre, anniversario del martirio del vescovo di
Pozzuoli. Queste, almeno, sono le due date in cui l'avvenimento è celebrato
con regolarità; ma scioglimenti del sangue avvengono anche il 19 dicembre,
anniversario dell'eruzione del Vesuvio del 1631, e in occasione di gravi
calamità che colpiscano la città di Napoli.
90 VITA DI PIETRO GIANNONE
quest'anno 1723 veniva a cadere al primo dì del mese. E perché
la mia partenza fosse tenuta nascosta, mi giovò la somma cordialità
e diligenza del consigliero don Muzio di Maio,1 che si trovava
allora Auditor generale dell'essercito, ed in somma grazia presso il
cardinale Althan, viceré, il quale sollecitamente mi procurò dal
viceré il passaporto;2 e dato sesto, nel miglior modo clic potei, a*
miei interessi di casa, lasciando a mio fratello ampia procura d'am-
ministrargli, e fatti prestamente riporre più csscmplari dell'opera
dentro una cassa, che portai meco, con quello già apparecchiato
per Cesare, partii da Napoli, verso la fine di aprile, per Manfre-
donia, dove credeva trovar pronto imbarco per Fiume o Triesti.3
In questo mio viaggio da Napoli a Manfredonia fu d'uopo che
io cambiassi nome, poiché, in passando per gli alberghi, non tro-
vava osteria nella quale da' viandanti partiti da Napoli per loro
affari non si parlasse che del fatto mio; e, se vi capitava qualche
frate 0 monaco, i discorsi ed 1 contrasti erano più lunghi e fervorosi,
che io sovente sentiva colle proprie orecchie, chi prendendo un
partito, come suole avvenire, e chi un altro; e con mio stupore,
mi avvidi che i monaci ne aveano empite le provincie e tutti i loro
conventi: desiderosi di vedere o intendere ciò che di me fosse
seguito se, nel dì del confronto del sangue di san Gennaio con la
testa, non si fosse fatto il miracolo.
Mentre, presso il ponte di Bovino, io proseguiva il viaggio in un
galesse,4 conducendo meco una persona per mia compagnia,5 si
1. Muzio di Maio (morto nel 1733), avvocato della Vicaria, giudice di Santa
Chiara, proreggente e infine presidente della Vicaria (cfr. H. Bknkmkt,
Dos Kònigreich Neapcl, cit, pp. 134-5). L'anonimo autore delle Notizie per
il governo del regno di Napoli (Biblioteca della Società Napoletana di Sto-
ria Patria, XXI, A, 7) lo annovera tra i migliori consiglieri del Sacro Real
Consiglio (e. 37 v). 2. mi .. .passaporto: sappiamo dal Panzini, p. 17,
che il Giannone, oltre che al di Maio, si rivolse anche al barone Ansclm
Franz von Fleischmann, consigliere economico imperiale presso il viceré
Althann, il quale «s'addossò volentieri il carico d'interporsi a suo favore
col Viceré, e di disporre il costui animo a ben riceverlo, ed a benignamente
ascoltarlo in una privata udienza, ch'egli proccurò che il Giannone s'aves-
se ». I risultati di questo colloquio furono che il cardinale consigliò il Gian-
none « amichevolmente e per la privata sua sicurezza, e per la tranquillità
pubblica a torsi via da Napoli il più sollecitamente ch'e' si potesse, e condur-
si in Vienna affine di rappresentare all'Imperador Carlo VI i gravi torti 0
le sediziose contrarietà che provate avea dagli ecclesiastici » (p . 1 8). 3 . Trie-
sti : Trieste. 4. galesse : calesse. 5 . una persona . . . compagnia : il Giannone,
nel suo viaggio, si era fatto accompagnare dal fratello di Elisabetta Angela
Castelli, la donna con cui conviveva.
CAPITOLO QUINTO 91
fece incontro un galesse che avea dentro due frati franciscani,
detti de' zoccoli; i quali, appena vedutici, ed immaginando esser
da Napoli partiti, furon pronti a domandarci se san Gennaio avea
fatto il miracolo. E l'uomo di mia compagnia rispondendogli che
no, senza dargli tempo di soggiungere: «perché non era ancora
venuto il giorno del confronto, che dovea farsi nel primo di mag-
gio», tosto uno, con voce più alta, ricercò: «e di Pietro Giannone
che si è fatto?»; e, rispostogli: «niente», tutto crucciosi, borbot-
tando e bestemmiando, perché i galessi non si fermaron punto,
passarono e ci sparirono davanti.1
D'allora si procurò andar più cauto, e, giunto che fui a Manfre-
donia,2 scopertomi ad un gentiluomo di quella città, mio amico,
che io avea conosciuto in Napoli, chiamato don Tommaso Cessa,
ed al console imperiale Fiore,3 per cui io portava lettere commenda-
tizie e mostrandogli il passaporto del viceré, gli pregai mi procu-
rassero presto imbarco per Fiume o Triesti ; e dal Fiore dettomi
che non ve n'era ivi pronto, ma che io facilmente l'avrei trovato a
Barletta, si spedì colà corriero al vice-console imperiale, che ce ne
desse avviso. Il quale rispose al Fiore, ch'eravi un padron di nave,
venuto a caricar sale in quelle marine, il qual dovea fra pochi
giorni far ritorno a Triesti; sicché, il seguente giorno, partii per
Barletta; e, nel partire, non senza riso mi disse il Cessa che,
avendo saputo un canonico,4 suo parente, che si qualificava per
delegato 0 fiscale del Santo Ufficio, che io era ivi, voleva farmi
arrestare, ma da tutti schernito, e fattolo arrossire non men della
sua temerità che ignoranza, si tacque.
Giunto a Barletta, il vice-console fecemi parlare col padron del-
la nave, e, convenuti del nolo, si aspettava che fornisse5 il suo
carico, ed il tempo fosse propizio per partire; ma, di giorno in
giorno, per suoi affari, prolungava la partenza, talché mi trattenne
ivi otto giorni ; ed intanto, essendo già entrati nel mese di maggio,
1. due . . . davanti: questo stesso racconto nella lettera al fratello da Lu-
biana, in data 28 maggio 1723: vedila più oltre in questo volume.
2. giunto . . . Manfredonia: vi giunse il 27 aprile, come risulta dalla prima
lettera spedita al fratello da quella città, in data 30 aprile (Giannoniana} n.° 1).
3. Niccolò Fiori, o Fiore. Una Relation de los servicios de D. Nicolas de
Fiori, Consul Supremo Imperiai en la ciudad de Manfredonia si conserva a
Vienna, tra le carte dell'archivio del Consiglio di Spagna (cfr. H. Benedikt,
Dos Kò'nigreich Neapelf cit., p. 690). 4. un canonico: il canonico Perucci,
reggente l'arcivescovado. Maggiori notizie nella citata lettera da Lubiana
del 28 maggio. $. fornisse: finisse, completasse.
92 VITA DI PIETRO GIANNONE
venne ivi novella da Napoli che, nel dì stabilito al confronto, il
sangue di san Gennaio erasi disciolto ed avea, con giubilo uni-
versale, fatto il solito miracolo.
Non poco mi sollevò tal notizia, avendo ingombra la mente di
tetre e malinconiche imagini e di funesti successi, che, non se-
guendo, avrebber potuto accadere alla povera mia casa; e dalle
lettere che, giunto a Vienna, trovai di mio fratello, conobbi che 1
miei timori non cran vani, poiché mi scriveva ch'egli, il giorno
precedente, tolto il migliore dalla casa, erasi ritirato in luogo ignoto
e lontano dalla città; e che il viceré, per tema di qualche sedizioso
tumulto, avea disposte milizie intorno al quartiere di Pontccorvo,
ov'era posta la mia casa e quella ove abitava l'Argento, per evitar
qualche disordine, che avrebbe potuto nascere non facendosi il mi-
racolo; ma che per buona sorte, essendo seguito, tutto era in cal-
ma ed in quiete.
In Barletta, ancorché io procurassi poco farmi vedere e starci
sconosciuto, con tutto ciò, per occasione di dover prendere nel
partire le fedi della sanità,1 quell'ufficiale che avea l'incombenza
di darle, nel trascrivere il mio nome, avvertito da un prete che
Fera accanto, chi io fossi, divolgò ad altri la mia persona; e comin-
ciava ad esser mostrato a dito, ed il giudice di quella città, ch'era
napolitano, venne a visitarmi, e già altri si accingevano a far lo
stesso. E mi disse poi il reggente Alvarcz,a il quale, alquanti anni
appresso, giunse a Vienna ad occupar la carica di fiscale nel Consi-
glio di Spagna, che per occasione d'un accesso,3 essendo in questi
giorni passato per Barletta, subbito alcuni zelanti vennero a dirgli
che nella città era una persona sconosciuta, che non facea vedersi.
E poiché allora erano accadute le brighe pel duello tra il conte di
Conversano ed il marchese di Oira,4 altri erano entrati in sospetto
x. le fedi della sanità', l'attestato di buona salute, necessario a chi intrapren-
deva un viaggio ; una misura intesa a prevenire il diffondersi delle epidemie.
2. Femandez Manuel Aharez, lettore di diritto all'Università di Pavia,
quindi reggente del Collaterale a Napoli, dal 1727 reggente per Milano
nel Consiglio di Spagna a Vienna (cfr. H. Benedikt, Das Kà'nigreich Neapcl,
cit., pp. 242, 429, e M. Schipa, II regno di Napoli al tempo di Carlo di Bor-
bone) Napoli 1904, pp. 7 e 50), 3. accesso: visita giudiziaria. 4. erano . . .
Oira: del duello tra il conte di Conversano Giulio Antonio Acquaviva d'A-
ragona e il principe di Francavilla Michele Imperiali, marchese d'Oira, re-
sta un lungo resoconto nel manoscritto della Società Napoletana di Storia
Patria, n. XXVIII, e. 21, Racconto di varie notizie accadute nella città di Na-
poli dalVanno 1700* PP- 5*-4- Nell'Archivio di Stato di Torino, tra i mano-
CAPITOLO QUINTO 93
che fosse il conte di Conversano; ma dapoi egli, informatosi me-
glio, scovrì chi fosse. E mi disse che mandò nel mio albergo per
parlarmi, sapendo che io viaggiava per Vienna, ma che gli fu
risposto che io era già partito, sicom'era vero. Poiché, vedendomi
già scoverto ed avendomi detto il padrone che la sua nave era già
alle saline per caricar il sale, e che mi accingessi alla partenza,
uscii da Barletta ed andai alle saline, poste quasi due miglia lon-
tane dalla città; ed ivi aspettai due giorni, finché finisse il carico,
in un casino che per cortesia del fratello del consiglier Fraggianni,1
mio amico, mi fu offerto; il qual, anche per sua gentilezza, volle
ivi trattenersi meco e farmi compagnia, finché non partissi.
Si partì infine da quelle spiagge, e ne' primi giorni si ebbe pro-
spero vento, ma dapoi si ebbe una calma, che rese la nave immo-
bile: talché si contrastò dieci giorni, per arrivare a prender porto
a Triesti.2 Portava io lettere commendatizie del console Fiore a'
giudici di questa città, li quali benignamente mi accolsero e mi
provvidero di cavalli, per proseguire il viaggio fino a Lubiana
scritti Giannone, mazzo li, ins. 4, N e O (Giannoniana, p. 420), è conserva-
to un fascicolo a stampa di dodici pagine, col titolo Le riflessioni nel fatto del
Conte di Conversano contra ti Marchese d'Oira, e insieme accanto le risposte
in contrario, in Augusta MDCCXXIII, presso Ulderico Mayer, e la Difesa
del signor Duca di Limatola dalla impostura di certa lettera finta e stampata
in suo nome negli affari de' Signori Marchese D'Oira e Conte di Conversano,
m Montechiaro, MDCCXXIII, presso Biagio di Amato. 1. del fratello . . .
Fraggianni: del fratello del marchese Niccolò Fraggianni (1686-1763),
consigliere di Santa Chiara, consultore di Stato in Sicilia, segretario del
Regno (cioè del Collaterale) dal 1725, caporuota del Sacro Real Consiglio
e delegato della Real Giurisdizione. Sue consulte, in dieci volumi, sono
conservate presso la biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria.
La nota personale che lo riguarda, nelle Biografie di magistrati, cit., dice:
«È fratello del vescovo di Venafro. Questo ministro avendo accudito in
Vienna da Aiutante di studio al Reggente Ravaschiere, ne ebbe la fiscalia
di Lucerà, e servi molto tempo con credito nelle Provincie, e poscia fu
fatto segretario del Regno ; dopo d'aver esercitata tal carica con soddisfa-
zione di tutti, con onore e pontualità, fu promosso al posto di Consigliere
con soddisfazione pure del pubblico, per essere egli uomo dotto pontuale
e capace ... è amicissimo del Cappellano Maggiore » (Archivio di Stato di
Napoli, Segreteria di Giustizia, Biografie di magistrati, ce. 231^-232). Su
di lui si veda L. Giustiniani, Memorie {storiche, cit., 11, 1788, pp. 30 sgg. ;
D. Martuscelli, Biografia degli uomini illustri, cit., v, 18 18, pp. 127 sgg.;
E. De Tipaldo, Biografia degli Italiani illustri, vili, Venezia i84i,p. 144 sgg. ;
R. Aiello, Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel regno di
Napoli durante la prima metà del secolo XVIII, Napoli 1961, I, La vita
giudiziaria, p. 291. 2. per . . . Triesti: Giannone vi giunse il 25 maggio, e
ne diede avviso al fratello il giorno seguente, con una breve lettera {Gian-
noniana, n.° 2).
94 VITA DI PIETRO GIANNONE
- poiché non erasi allora costrutta quella commoda strada gales-
sabile,1 che trovai undici anni doppo, al mio ritorno; ma faceva me-
stieri cavalcare per quelli alpestri monti dell' Istria.
Giunto a Lubiana,2 città metropoli della Carinola,3 per mia buo-
na sorte m'incontrai, in quell'osteria, con un galantuomo4 di Fiume,
chiamato Stefano Bensoni, il quale, per i precedenti romori, avea
di me notizia. Saputo che io era ivi, venne a visitarmi e, facendo
egli lo stesso cammino, si offerse di farmi compagnia. La quale mi
sollevò non poco, poiché - come pratico di que' luoghi, avendogli
più volte scorsi in più viaggi fatti nella città di Vienna, dove egli
avea presa moglie, di cui rimasone di fresco vedovo, andava ivi
per aggiustar suoi interessi co' cognati - mi alleviò di molte cure
nel viaggio: ciocché non avrei potuto sperare dal mio uomo di
compagnia, che condussi da Napoli. E, preso insieme un galesse,
proseguimmo il cammino fino a Gratz, città metropoli della Stiria,
e di là fino a Vienna.
Giunsi a Vienna ne' princìpi di giugno,5 e rimaso per pochi
giorni in un'osteria d'un borgo prossimo al convento de' Minimi
di san Francesco di Paula, detti in Vienna «paulani», finché dal
mio uomo non mi si fosse trovato alloggio dentro la città; passai
indi ad albergarvi a gli otto di giugno; e datone avviso alla per-
sona a cui era raccomandato, ed alla quale si erano indrizzate da
Napoli mie lettere, per dovermele consignare al mio arrivo : que-
sta venne a portarmele, con dirmi che io era da molti con impazienza
aspettato, resi curiosi non pur da' privati avvisi venuti da Napoli
della mia partenza, ma da più gazzette pubbliche,6 che ne parla-
vano, che me le portò a leggere; ed in quelle lessi non pur la mia
partenza, ma la scomunica, che la corte arcivescovile di Napoli
aveami lanciata appresso; e credendola una delle solite fole de*
gazzettieri, mi affrettai ad aprir il piego,7 che mio fratello mi man-
dava da Napoli, e trovai che quelle dicevan vero. Poiché m'avvisava
che il vicario, credendo che io stassi nascosto, non già che fossi
partito, mandò un cursore della sua Curia in mia casa col monito-
rio, per intimarmelo; e dicendogli mio fratello che io non vi era,
x.galessabile: che si può percorrere in calesse, z. a Lubiana', il zy mag-
gio. Cfr. la già citata lettera del giorno seguente. 3. La Camìcia, o Krain,
era un'antica provincia dell'Impero. 4. galantuomo', cittadino benestante,
borghese, distinto da « gentiluomo ». 5. Giunsi , . . giugno : cfr. la sua prima
lettera da Vienna, in data xz del mese, qui la n. 6. gazzette pubbliche;
fogli, avvisi volanti. 7. il piego : il plico.
CAPITOLO QUINTO 95
gli rispose che avea ordine di lasciarlo a chiunque trovava in casa,
e che stasse pur sicuro che avrebbe fatta sua relazione d'averlo
così lasciato, non già d'averlo di persona a me intimato, come as-
sente. Con tutto ciò mio fratello, consapevole dell'animosità di
quella Curia, per prevenire qualche frode o inganno la mattina
seguente comparve ivi, come mio escusatore, ad allegar la mia as-
senza ; e, per pruova del vero, presentò copia autentica (che io l'a-
vea lasciata) del passaporto speditomi dal viceré, perché maggior-
mente si accertassero che io era in viaggio per l'imperiai corte di
Vienna.1 Ma perché il vicario avea in testa in tutte le maniere voler-
mi scommunicare, dicendo che nel mio caso non era bisogno di
citazione, essendo notoria la mia trasgressione di non aver cercata
licenza dalla sua Curia di stampar l'opera - assicurato dal padre
Cillis che il delegato della real giurisdizione2 non si sarebbe op-
posto, - non si ristette, mentr'io era in viaggio, contro un assente
scagliar sua scomunica,3 ed affigger cedoloni per tutti gli angoli
della città; e fu notato d'avergli affissi anche ne' luoghi insoliti
più bassi della città, dov'è più numerosa la vii plebe, perché anche
per questa via mi rendesse più odioso alla cieca multitudine. Ma
poiché, pochi giorni appresso, seguì il miracolo di san Gennaio, e
sempre più avverandosi4 la mia partenza per Vienna, e con ciò
riputandosi la scomunica nulla ed invalida, non fece alcun ef-
fetto, e si ebbe come se non si fosse scagliata; sicché fra poche set-
timane, non si videro più i cedoloni che si erano affissi, ed il tutto
posto in calma ed in una gran quiete.
Nel mio arrivo in Vienna, trovai l'imperadore con sua corte essere
a Laxemburg,5 villaggio dalla città lontano dodici miglia, ove ogni
anno suol condursi alla caccia degli aironi, a che di là, fra pochi
giorni, dovea coll'imperadrice6 portarsi a Praga, per esser incoro-
nati re di Boemia, ed ivi trattenersi per quattro mesi; onde i su-
premi ministri, che doveano seguirlo, erano tutti occupati per que-
i. Poiché . . . Vienna: ampiamente tratta di tutto questo il Panzini, pp. 18
sgg. La protesta di Carlo Giannone è inserita nella prima parte dell'Apolo-
gia dell Istoria civile, in Opere postume, i, pp. 5-6. 2. il delegato . . . giu-
risdizione: l'Argento. 3. non . . . scomunica: la difesa del Giannone contro
la sentenza di scomunica si basò, tra l'altro, anche sulla nullità della cita-
zione, intimata quando chi si intendeva colpire era assente da Napoli.
Sulla composizione di quella che sarà V Apologia dell1 Istoria civile si cfr.
Giannoniana, pp. 3 sgg. 4. avverandosi: riscontrandosi per vera. 5. La-
xemburg: Laxenburg. 6. imperadrice: Elisabetta Cristina di Brunswick-
Wolfenbiittel (1691-1750).
96 VITA DI PIETRO GIANNONE
sta partenza. Ed intanto, essendo stato io caldamente raccoman-
dato dal Cirillo al cavalier Pio Niccolò Garelli,1 medico dell'im-
peradore, suo grand'amico, e che si trovava anche bibliotecario
della cesarea biblioteca di Vienna, fui dal medesimo a presentargli
un essemplare della mia opera, ed a pregarlo che, avendo meco
l'cssemplare riccamente adorno da presentarsi alla Maestà dcll'im-
pcradore, a chi l'opera era dedicata, mi additasse la maniera come
potessi farlo, pria che partisse per Praga; e mi rispose che, come
bibliotecario, era ciò sua incombenza di farlo, e ch'egli in mio
nome ce l'avrebbe presentato a Laxemburg; e dicendomi che alla
Corte erano precorse voci di quest'opera molto a me pregiudiziali,
e che bisognava purgarmi di tante accuse fattele: gli risposi che
a questo fine io l'esponeva a gli occhi di tutti, pronto a dar conto
di quanto attorto mi s'imputava; e che la mia disgrazia era stata
che le voci maligne eran precorse, ma non già l'opera, della quale
non vedeva esser a Vienna capitato alcun essemplare; e che uno,
che io procurai stradarne, la persona a cui fu mandato non Pavca
fatto veder luce di sole, tenendoselo nascosto, come se avesse un
serpente; ma che ora si sarebbe manifestata la verità, avendone
meco portati più essemplari per presentargli a' supremi ministri,
e porgli sotto il loro esame, per emendargli se mai fossevi cosa
contraria alla nostra religione ed a' buoni costumi; che io, certa-
mente, non Pavea composta per piacere a' preti ed a' monaci ed
alla corte di Roma, donde procedevano tanti romori; ma unica-
mente per rischiarare le cose oscure ed ignote del regno di Napoli,
e sostenere le supreme regalie ed alte preminenze de* re di Napoli,
facendo conoscere che in ciò non doveano riputarsi inferiori a
1. Pio Niccolò Garelli (1 670-1739) è una figura poco studiala del nostro Set-
tecento, ma che meriterebbe invece particolare attenzione. Suoi manoscrit-
ti nella Osterreichische Nationalbibliothek. Lettore di medicina a Bologna
nel 171 9, seguì in Vienna il padre Giovan Battista, quando questi fu
nominato archiatra dell'imperatore Leopoldo, e nella carica successe al geni-
tore nel 1733; ma già da tempo ricopriva quella di protomedico e consi-
gliere di gabinetto dell'imperatore Carlo VI. Nel 1724 divenne prefetto
della Biblioteca Palatina. Fu insignito del titolo di conte. In Vienna acqui-
stò una posizione preminente, non soltanto nella colonia italiana, e fece
parte del gruppo di intellettuali che si riunivano attorno al principe Euge-
nio. Ebbe modo di costituirsi una propria biblioteca, di notevoli dimensio-
ni, della quale ci resta un catalogo, più tardo, ma pur sempre prezioso:
M. Denis, Die Merkwurdigkeiten der k. k. garellischen iìffenthche Biblio-
thek am Theresiano, Wien 1780. Sui Garelli a Vienna ctr. G. Suttniìr, Die
Garelli, Wien 1885 e ivi, edizione più completa, 1888.
CAPITOLO QUINTO 97
quelle, che i re di Francia essercitano nel loro reame; e che non
curava punto lo sdegno di quella Corte, se adempendo alle parti
d'un leale e fedel vassallo verso il mio principe, fossi meritevole
della grazia e protezione della Maestà di Cesare, a chi io avea l'o-
pera consecrata.
Il Garelli promise di volermi in ciò favorire, e venne in mia casa
a prendersi l'essemplare destinato per l'imperadore, e seco lo
condusse a Laxemburg, e lo presentò a Cesare. Il qual lo ricevè
con piacere, e mostrò curiosità di leggerlo; poiché disse al Garelli
che, sicom'era involto con coverta di fine velluto cremisi, e tutto
bordato di ricamo e f reggi di oro, ne avesse fatto togliere quella
coverta, e porre un'altra schietta di pelle rossa, per esser più ac-
concio ad esser rivoltato e letto; sicome prestamente fece fare,
riponendolo poi nel suo gabinetto: ciò che avendomi il Garelli
riferito, fecemi respirare alquanto. E poiché era quello rimaso per
uso di Cesare, bisognò che per la Biblioteca si fosse proveduto
d'un altro; sicome feci, collocandolo nella medesima, ad uso di
que' che la frequentavano.
E mostrò poi l'imperadore essergli l'opera stata grata, che, si-
come mi riferiva lo stesso Garelli, fra i libri che ogni anno dovea
preparargli, per condur seco nella villeggiatura di Laxemburg, vo-
leva che vi fosser anche i quattro tomi dell'Istoria civile di Napoli.
E, se mal non ricordo, nell'anno 1729, essendo io a Pettersdorf,1 il
conte di Sifuentes,2 che faceva le veci del Camerier maggiore, per
trovarsi questi impedito, mi disse che avea veduto a Laxemburg
i miei libri su '1 tavolino dentro il gabinetto cesareo, rallegrando-
sene meco ; di che io ne le resi molte grazie, mostrando di essermi
ignoto che que' libri, ogni anno, eran ivi portati.
Cominciai, doppo, a presentarne a lui, a' cesarei ministri e,
trovandosi allora avvocato fiscale nel Consiglio di Spagna Ales-
sandro Riccardi,3 nostro napolitano, di profonda dottrina ed in-
i. Pettersdorf: Perchtoldsdorf, «villaggio . . . lontano da Vienna dodici mi-
glia» (cfr. qui a p. no), a. ti conte di Sifuentes: Fernando de Silva y
Menezes, conte di Cifuentes e marchese di Alcanchel, fratello del conte
di Montesanto Joseph (cfr. la nota 2 a p. 119). Filoaustriaco e compro-
messo nelle agitazioni del 1704 in Andalusia, aveva seguito l'imperatore a
Vienna, dove assunse una posizione di notevole rilievo in corte, anche per
vincoli di parentela. Il fratello era infatti il genero del marchese di Villasor,
il quale dal 1726 fu il presidente del Consiglio di Spagna (cfr. H. Benedikt,
Dos Konigreich Neapel, cit., pp. 85 sgg. e passim). 3. Alessandro Riccardi:
cfr. la nota 3 a p. 64.
98 VITA DI PIETRO GIANNONE
tendentissimo delle materie giurisdizionali ed ecclesiastiche - quel-
lo stesso che avea scritto a difesa del rcgal editto intorno a' bene-
fìci del Regno da doversi conferire a* nazionali, - fui dal medesi-
mo a presentarcene uno, ed a pregarlo che l'esaminasse e rendesse
testimonianza a gli altri del Consiglio di ciò che gli pareva. E lo
stesso feci col reggente Positano, ministro provinciale per Napoli,
co* reggenti Bolagno e Pertusati per Milano, e poi co' reggenti
Almarz e Perlongo per Sicilia.1
All'arcivescovo di Valenza, presidente del Consiglio, prima che
partisse per Praga, gliene presentai un altro ;2 il quale mi disse che
l'aspettava con impazienza, come colui che, amante di libri, avendo
una magnifica ed ampia biblioteca, desiderava essere de' primi ad
avere que' che si davano alle stampe. Al che risposi che certamente
sarebbe stato il primo ad averlo, se il presidente Argento, che aveva
prima tanta ardenza3 di mandarglielo, non si fosse poi raffreddato,
temendo per i tanti romori insorti, che non fosse qui ben ricevuto.
Al marchese di Rialp,4 secretano di Stato e del dispaccio uni-
versale di Spagna, glielo presentai pure, prima che partisse per
Praga; ma, occupato per questa imminente partenza, che dovea
1. Il duca Giuseppe Positano, fratello del vescovo di Accrcnaa, poi arcivesco-
vo di Salerno» Giuseppe Maria, era entrato nel Consiglio di Spagna alla mor-
te del conte Giovan Battista Ravaschiero, nel 1715-17x6; il conte Joseph
Bolafios (morto nel 173»), senatore di Milano e dal 1710 luogotenente della
Camera di Napoli, nel 17x4 reggente per Napoli nei Consiglio di Spagna,
quindi per Milano - nello stesso Consiglio - dal 1717, infine ambasciato-
re a Venezia dal 1727; il conte Carlo Pertusati di Castelfcrro (1674-1755),
già presidente del Senato milanese ; il conte Domingo de Almarza (morto
nel 173 1) aveva lasciato nel 1723 il tribunale di Santa Chiara por la carica
di reggente per la Sicilia nel Consiglio di Spagna; lo era assieme al conto
Gaetano Perlongo. 2. All'arcivescovo , . . altro: Gian none consegnò i vo-
lumi dell'istoria civile ai primi di giugno, ma fu ricevuto dall'arcivescovo
di Valenza, Antonio Folch de Cardona (sul quale cfr. la nota 1 a p. 88),
solo il mese seguente. Cfr. le lettere al fratello del 12 giugno (qui la
n) e del 3 luglio (qui la in). 3. ardenza: ardore. 4. Ramon Perla»
de Vilhena, marchese di Rialp. Protonotario di Catalogna sotto Carlo
d'Absburgo, quando il re lasciò il paese per assumere la direzione dell'im-
pero alla morte del fratello Giuseppe, egli restò al servizio della regina in
Barcellona, come segretario della Reggenza. Nominato nel X722 segretario
del dispaccio per il regno di Napoli, vi riorganizzò l'intero servizio po-
stale, passando poi a Vienna con la carica di Segretario di Stato per l'uni-
versai dispaccio delle provincie di Spagna (su questa segreteria cfr. quanto
scrive lo stesso Gìannone nella Breve relazione de' Consigli e Dicasteri della
città di Vienna, cit., p. 204). In realtà, forte anche dell'appoggio dell'im-
peratrice, egli divenne l'eminenza grigia del governo imperiale, uno dei
più potenti ministri in Vienna.
CAPITOLO QUINTO 99
fare coll'imperadore, poiché l'arcivescovo partì doppo, non potei
parlargli, se non doppo il suo ritorno.
Ed in effetto, pochi giorni dapoi, l'imperadore, tornato da La-
xemburg a Vienna, partì subito, né io ebbi opportunità di potermi
inchinare a' suoi piedi. Ebbi però la sorte di vederlo, la sera prece-
dente al giorno della partenza; poiché, cenando quella sera presso
la vedova imperadrice Amalia,1 fui avvisato dal conte Ildaris,2 il
quale ebbe la cortesia di condurmi seco nelP appartamento del-
l'imperatrice. Ed in una gran sala, ove era preparata la tavola, ed
eravi gran concorso della primaria nobiltà e di tanti signori e
principi, vidi tutta l'augustissima famiglia, poiché coll'imperadore
e l'imperatrice regnante vi cenarono anche l'arciduchesse.3 E fin-
ché durò la cena, non solo ebbi il piacere di fisamente guardargli,
ma di conoscere altri illustri personaggi, che li facevan corona, e
fra gli altri l'abate Zinzendorf, figliuolo del Gran Cancelliere di
Corte, ora cardinale,4 che mi usò gentili cortesie e generose di-
mostranze.
Conobbi sempre più quanto fosse stata necessaria la mia venuta
a Vienna, poiché la sera, trattenendomi in casa del Riccardi, ov'e-
ra una fioritissima conversazione d'uomini letterati, fra' quali an-
che alcuni nostri Napolitani,5 questi mi dissero che eran da Na-
i. Guglielmina Amalia di Brunswick-Lùneburg (morta nel 1742), l'impe-
ratrice vedova di Giuseppe I, che aveva sposato nel 1699. Sulla sua vita
in Vienna, cfr. H. Benedikt, Dos Konigreich Neapel, cit., pp. 658 sgg.
2. Cesare Ildaris. 3. V arciduchesse: Maria Teresa (1717-1780), che, in
virtù della Prammatica Sanzione del 19 aprile 1713, sarebbe divenuta
imperatrice alla morte del padre Carlo VI (20 ottobre 1740), e Marianna
(171 8-1744). 4. V abate . . . cardinale: Philipp Joseph Ludwig von Sinzen-
dorff (1699-1747), figlio del Gran Cancelliere Philipp Ludwig (per cui cfr.
la nota 2 a p. 116), altra figura tra le più importanti della corte imperiale,
assieme al Rialp. Vescovo di Gyor nel 1726, traslato a Breslavia nel 1732,
fu creato cardinale del titolo di Santa Maria sopra Minerva in ricompensa
(scrive G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, v, Venezia
1840, p. 11) deiraiuto prestato per la restituzione di Comacchio alla Chie-
sa. Fu tra gli elettori di Clemente XII. 5. una fioritissima . . . Napolitani:
dal Pakzini, passim, nonché dall'epistolario, possiamo ricostruire abba-
stanza bene l'ambiente italiano a Vienna. Tra i Napoletani ricorderemo i
sacerdoti Pietro Contegna, fiscale nel Consiglio di Spagna, e Carlo Baro-
ne, l'abate Francesco Tosques, e ancora Giuseppe Proccurante e Ferdi-
nando Porcinari, il medico Gabriele Longobardi. Tra gli Italiani che eb-
bero contatti frequenti segnaliamo Apostolo Zeno, il marchese Clemente
Dona, ambasciatore della repubblica di Genova a Vienna dal 171 9 al
173 1, il marchese Giuseppe Roberto Solaro di Breglio, rappresentante
del duca di Savoia, il principe Tiberio di Chiusano, il duca di Maddaloni
Maurizio Carafa.
100 VITA DI PIETRO GIANNONE
poli venute lettere così velenose e maligne che, fingendosi a lor
capriccio l'eresie e bestemmie che m'imputavano avere io scritto,
arrivarono a tanta impudenza di citare fino i fogli dell'opera, della
quale non essendo capitato in Vienna alcun esscmplare, non potc-
van riscontrargli; sicché tutti ne rcstavan almen in dubbio, ed alcu-
ni vi prestavan anche credenza: ma che ora, tenendola il Riccardi
esposta a gli occhi di tutti, si erano ricreduti delle calunnie ed
imposture. Né posso negare d'esser il Riccardi stato il primo a
dileguarle, come colui che si prese la pena, sicom'era in ciò labo-
riosissimo, di leggere da capo a' piedi i mici libri; ed essendo
franco e libero di dire i suoi sentimenti, sicome non si ritenne di
avvertirmi di alcuni abbagli,1 cosi non mancò di far a molti ricre-
dere delle false accuse ed imputazioni, e qualificare la mia J storia
civile per dotta, sincera ed innocente. E non pure co' reggenti del
Consiglio e spezialmente col reggente Bolagno e con quanti s'in-
contrava de' suoi amici in Vienna, ma anche ne scrisse a que' di
Napoli, maravigliandosi come l'invida maladicenza de' compatrioti
avesse potuto giungere a tanto, di falsare fino i passi e le parole,
ed inventare tante calunnie e menzogne.
Fecene ancor di ciò avvertito monsignor Gentilotti,3 il qual,
promosso allora da Cesare da bibliotecario, in luogo del quale suc-
cede il Garelli,3 alla carica di auditor della Ruota romana, dovea
partir per Roma; e perché co' propri suoi occhi si assicurasse di
quanto egli diceva, volle che io gli presentassi un esscmplare del-
l'opera, sicome feci, pregandolo a prendersi l'incomodo di osservar-
lo, che avrebbe trovato per vero quanto il Riccardi testificava, lì co-
sì, pregando altri a leggere e riflettere, finirono a dileguarsi l'impo-
sture. Ma non potei sfuggire la maladicenza di alcuni, e spezialmente
Napolitani, che si trovavano in Vienna addetti alla corte di Roma,4
dalla quale ne speravano dignità e benefìci; i quali mi riputavano
i. non ... abbagli: cfr. la lettera, piena di critiche, in data 13 maggio
1723, riportata nel testo in Panzini, p. 27. 2. Il conte Johann Ifcncdikt
Gentilotti von Engelsbrunn (morto nel 1725), prefetto della Biblioteca
Palatina, quindi Auditore di Ruota a Roma nel 1724, vescovo di Trento
nel 1725. 3. in luogo . . . Garelli: il Garelli era stato consigliere dell'ar-
ciduca Carlo al tempo della guerra di successione per il trono di Spagna
e da questi, una volta passato dal trono spagnolo a quello imperiale, eleva-
to a consigliere del gabinetto dell'imperatore. 4. alcuni . . . di Roma: che
cioè facevano parte à^W entourage del nunzio Girolamo Grimaldi. Cfr. a
questo proposito il dispaccio del nunzio da Vienna, in data 29 maggio 1723
(Archivio Segreto Vaticano, Nunziatura di Germania, voi. 279, ce- 316-7).
CAPITOLO QUINTO IO!
ingiurioso ed irriverente alla Sede Apostolica, biasimando ezian-
dio l'amicizia che io avea contratta col Riccardi, come odioso alla
medesima,1 ed alcuni, di me più teneri, mi scusavano con dire che
io, come naufrago, mi era appigliato alla prima tavola, che erami
capitata nelle mani. E pure niuno di loro, giunto a Vienna, venne
a porgermi la mano, per darmi aiuto, ma aspettavan forse che il
naufrago si affondasse; ed uno di essi fu che, avendo la mia opera,
colla quale poteva smentire le tante calunnie sparse, tacque e ten-
nela nascosta, osservando solo dove le cose andasser a terminare, e
regolarsi secondo i successi rei o prosperi, chiamando questa ma-
niera versicolore ed ambigua, ingegnosa arte di saper ben vivere
in questo mondo.
Partito adunque l'imperadore per Praga, seguitato da' primi del-
la Corte, ma non già dal Consiglio di Spagna, che rimase a Vienna,
se ben dapoi il presidente anche ivi s'incaminasse, riputai fer-
marmi, così per evitar la spesa ed il travaglio di nuovo viaggio,
come anche perché la mia andata e dimora a Praga mi sarebbe riu-
scita quanto dispendiosa altrettanto inutile, essendo la Corte ad
altro intesa. Ed a me premeva di far ricredere a* reggenti di quel
Consiglio, ch'eran rimasi, delle calunnie addossatemi e, sopra-
tutto, ch'esaminassero la mia opera, per farne rapporto alla Mae-
stà dell'imperadore, per riceverne premio o castigo, secondo
che l'imperiai clemenza o giustizia avesse giudicato. Ed essen-
do sopragiunti a Vienna li reggenti Almarz e Perlongo per Sici-
lia, usai co' medesimi quello stesso che avea fatto con gli altri.
Ed ebbi gran contento di vedere l'Almarz, col quale io in Na-
poli avea contratta qualche familiarità ed amicizia, essendo uo-
mo di molta probità e che mi amava, e di me avea qualche stima e
concetto. Questi mi disse che, se bene in Napoli fosser cessati
tanti romori, avea però lasciato l'Argento ancora in aggitazione,
temendo che io non fossi stato ben ricevuto nella Corte ; e secondo
questo timore, variamente parlava, ora biasimandomi, ora compa-
tendomi. Ed un mio amico, al quale era ignota la sua natura, con
maraviglia me ne fece anche avvertito, al quale si rispose, che tosto
l'Argento avrebbe mutato stile, doppo che si fosse assicurato che
io e la mia opera in Vienna fossero stati ben accolti e ricevuti;
sicome in effetto di ciò reso certo, cominciò poi a scrivere qualche
i. come odioso alla medesima-, per la polemica de re beneficiaria, di cui già
s'è detto.
102 VITA DI PIETRO GIANNONE
lettera all'arcivescovo di Valenza in mia lode e commendazione,
ed a biasimare il passo irragionevolmente dato dal vicario di mia
scomunica, e che bisognava rivocarla.
Il reggente Almarz fummi anche di gran sollievo in paese stra-
nio,1 perché, convenendo la sera in casa sua molti Napolitani, non
meno che Siciliani ed altri Italiani, si passavano quelle ore allegre ;
sicché io, ora in quella del Riccardi, ora in questa, allegeriva i
passati affanni; poiché, nella casa del proprio ministro nazionale,
del reggente Positano, i Napolitani trovavano più tosto solitudine,
tetraggine e sbigottimento, che consiglio, aiuto o conforto, per es-
sere di natura restìo, difficile ed inesorabile, badando unicamente
a gli avanzamenti di sua casa.
Intanto, per i romori accaduti in Napoli doppo essersi la mia
opera pubblicata, pervenutine in Roma più esscmplari, cominciò
anch'ivi a farsi strepitosa, per i tanti clamori de' monaci e de' frati,
i quali la predicavano per empia, eretica ed alla Santa Sede ingiu-
riosa. Sedeva in quella il pontefice Innocenzio XIII, della non
men illustre che antica famiglia Conti,* il quale per lunga esperien-
za era ben inteso dell'audacia, impudenza e procacità de' frati ; ed
avvertito da savi e dotti, che avcanla letta, che non era cotanto
esecranda quanto costoro declamavano, anzi molto commendan-
dola, fu fama che lo stesso pontefice, invogliatosene, consumasse
qualche ora del giorno in leggerla, e che non le dispiacesse; anzi
sovente, co' suoi più intimi famigliari, prorompesse in dire, che
piacesse a Dio che non così fosser le cose, come io l'avea scritte;
ma non potendo allontanarsi dallo stile inconcusso di quella Corte
d'esaminar qualunque libro e proibirlo, quando non fosse in tutto
conforme alle massime della medesima, si diede l'opera ad esami-
nare a' qualificatori del Santo Ufficio, fra' quali non mancarono de'
frati e monaci; e pure, non ostante la loro animosità e gli stimoli
che l'cran dati da gli altri lor simili, non poterono avanzar tanto la
livida lor censura, che potessero qualificare in essa alcuna proposi-
zione ereticale: sicome Clemente XI, nel suo breve, col quale con-
dannò i libri dell'Argento, Riccardi e Grimaldi, non si ritenne solo
alle solite e consuete condanne, di contenere proposizioni erronee,
i. stranio: straniero. 2. Michelangiolo Conti dei duchi di Poli (1655-
1724) salì al soglio nel 1721. Da lui Carlo VI ottenne rinvestitura del
regno di Napoli.
CAPITOLO QUINTO IO3
scandalose, empie, scismatiche, età; ma vi aggiunge «imo etiam
haereticas».1 Ma i miei qualificatori si ristettero alle ordinarie for-
inole, solamente aggiungendovi « et haeresim ut minimum sapien-
tes».2 Inoltre, Clemente XI con due particolari suoi brevi gli con-
dannò ; ma la mia opera fu proibita con decreto della Congregazione
del Santo Ufficio di Roma, interposto nel dì primo di luglio di que-
st'anno 1723, 3 il qual, certamente, nel regno di Napoli, sicome in
altri paesi che non riconoscono tribunale alcuno di Santo Ufficio,
non poteva aver alcun effetto. Di vantaggio, Clemente commandava
ne' suoi brevi, che que' libri da' vescovi ed inquisitori si fosser
ricercati e gettati alle fiamme ad esser bruggiati, e che coloro che
gli ritenessero, leggessero o reimprimessero, fossero scommunicati,
né potesser da altri ottener assoluzione e perdono, se non da lui o
da' pontefici romani, suoi successori ; all'incontro, in quel decreto
non si leggevano fiamme e fuoco, né la scomunica riserbarsi al solo
romano pontefice; ma semplicemente sottoporsi i trasgressori alle
pene contenute nell'Indice proibitorio de' libri.
Fu adunque proibita la mia opera, non già che quella Congrega-
zione di Roma istessa ed i suoi qualificatori avesser potuto ravvisare
in essa alcuna proposizione ereticale, ma perché, secondo le loro
massime, la credettero contenere proposizioni erronee, empie, of-
fensive alle pie orecchie, calunniose, scismatiche, che rovescia-
vano la gerarchia ecclesiastica, ingiuriose alla Santa Sede, e che sa-
pessero d'eresia. Ciascun sa, che in Roma si è introdotto formolario
di queste proibizioni e non vi è libro, che si opponga alle sue mas-
sime, che non vi stia soggetto. E a' qualificatori costa poca fatica,
così perché non espongono le loro censure a gli autori, affinché si
difendano, ma si guardano molto bene di tenerle secrete ed ascose,
come anche perché non sono astretti4 a separatamente manifestare
quali fossero le proposizioni scismatiche, empie, ingiuriose, erro-
nee, etc. ; ma se ne sbrigano con una sola parola, respective, e così
lasciano gli autori ed i lettori in maggior confusione ed oscurità di
prima. E Roma, così facendo, fa saviamente; ed è questo un sortii
artificio di sua fina politia. Ella, con queste sì spesse ed incessanti
proibizioni, prende tutta la cieca e semplice multitudine, alla quale
1. « imo . . . haereticas»; «perfino eretiche». 2. «et . . . sapientes»: «e che,
come minimo, sanno di eresia». 3. la mia . . . 1723: il testo del decreto
è riportato integralmente in Panzini, p. 28, nota. 4. astretti: costretti.
104 VITA DI PIETRO GIANNONE
sol bada, sapendo che di questa si compone il mondo, e sopra i
quali profitta, e si cura poco de' savi, dotti ed intendenti, che, a
proporzione de' primi, sono rari e pochi. A ciò si aggiunge che,
proibendo ogni libro, che non sia conforme alle sue idee, ne ri-
cava, che se mai questo libro volesse in qualche contesa allegarsi,
ancorché scritto da persona cattolica, savia, dotta e di autorità, e
contenente dottrina sana, si sbrigano presto per la risposta e sen-
za impegnarsi ad altro, basta, perché non facci alcuna autorità e
riesca di niun peso, che si dichi esser dottrina di libro proibito e
dannato.
La maniera colla quale proibisce è molto acconcia al suo fine;
poiché, se volesse astringere i suoi qualificatori di dar fuori le
loro censure, ed a separatamente additare, una per una, le pro-
posizioni che qualificano per empie, erronee, scismatiche, etc, sa-
rebbe esporgli ad un gran cimento, ed a fargli arrossire della loro
ignoranza ed animosità. Ed a' tempi nostri se ne vide un illustre
essempio nella proibizione della Istoria ecclesiastica del padre Natal
di Alessandro1 il quale, per mezzo d'un cardinale, avendo avuta la
sorte di aver nelle mani le censure fatte da' qualificatori, onde la
sua opera fu proibita, si videro così sciapite, sciocche e livorose,2
che fattasi poi della medesima, in Parigi, una nuova e magnifica
ristampa in foglio, stimò il padre Natale inserirle ne' suoi luoghi,
colle risposte datele;3 dalle quali, sicome fu scoverta la loro pro-
digiosa ignoranza, così si scovrì l'arcano, perché queste censure si
tenevano con tanta cura scerete e nascoste, li) d'allora in poi, si
fecero più impenetrabili e recondite, sicché niuno, ancorché po-
sto in sublime grado, potè poi darsi vanto d'averle vedute, o lette.
Doppo la proibizione della mia Istoria, fatta in Roma, venne ar-
dente desìo al cardinal Althan, viceré, di aver in mano le censure
i. un illustre . . . Alessa?idro: il padre Noiil Alexandre (X639-1724), teolo-
go e provinciale domenicano a Parigi, giansenista, dottore alla Sorbon-
ne, fu tra gli «appellanti» contro la bolla Unigcnitus, salvo ritrattarsi in
un secondo tempo. La sua Historia ecclesiastica Veteris Novique Testa-
menti ab orbe condito ad annum post Christum natum millesimum sexcentesi-
mwn, Parisiis 1699, benché posta all'Indice, ebbe grande diffusione, ed è
uno dei testi che il Giannone seguì con particolare attenzione durante la
stesura del Triregno. L'Alexandre scrisse anche due commentari al Vangelo
(1703) e alle epistole paoline (17 io), e una Theologia dogmatica et moralis
secundum ordinem Concila Tridentini (1694). Su di lui si veda A. IIXnogx,
Der Kirchenhistoriker Natalis Alexander (/639-1724), Freiburg (Svizzera)
i955-# 2. livorose: piene di livore, 3. che . . . datele: l'edizione della quale
qui si parla uscì a Parigi nel 1714.
CAPITOLO QUINTO 105
de' qualificatori,1 onde la Congregazione del Santo Ufficio s'era
mossa a proibirla; ed il consiglier Maio,2 che lo stimolava a procu-
rarle, scriveva in Vienna che si sarebbero certamente avute, per
l'impegno che aveane preso il viceré presso i suoi amici in Roma.
Ma io diceva al Riccardi, che n'era impaziente, che non si sarebbero
ottenute giammai; sicome il successo3 il dimostrò, poiché, doppo
averlo lungamente lusingato, infine gli scrissero, ch'era impossi-
bile averle.
Essi, in qualificare le proposizioni, si han fatto un particolar
vocabolario, e danno alle voci altra intelligenza di quel che sarebbe
la propria. Chiamano la corte di Roma «sede appostolica », la
quale è dalla Corte tutta diversa e differente; sicché tutto ciò che
scrivesi contro gli abusi, corruttele ed intraprese della medesima,
che tenta sopra la potestà de' principi, si qualifica per ingiurioso
alla Santa Sede, eversivo dell'immunità ecclesiastica, scandaloso e
temerario. Tutto ciò che non si uniforma alle massime di quella ed
alle stravaganti, sconcie ed ambiziose opinioni de' loro teologi e
canonisti, che l'adulano, si chiama erroneo e falso. Tutto ciò che
si oppone alla pretesa lor monarchia sopra il temporale de' prin-
cipi, si qualifica per scismatico e ruinoso alla gerarchia ecclesia-
stica; i tanti ordini religiosi di frati e monaci si reputano che fos-
sero gli ordini della Chiesa, sicché, chi contro di loro scrive, av-
vertendo i semplici ed ignoranti delle loro furberie ed accorti modi
d'ingannarli, si chiama calunnioso, irriverente, e che, così di lor
parlandosi, offenda alle pie orecchie e senta d'eretico e miscredente.
Or, secondo queste ed altre consimili regole, essi qualificano e
proibiscono i libri.
Quando s'intese a Vienna la proibizione dell3 'Istoria civile, fatta
in Roma, e letto il decreto, alcuni miei amici mi consigliavano a
farne risentimento, e mostrare l'ingiustizia ed invalidità del mede-
simo; ma gli risposi che sarebbe stata cosa inutile e superflua:
chiunque leggeva quella Istoria, spezialmente il terzo tomo, ove
si tratta di queste proibizioni,4 ben si ricredeva del conto che do-
vea farsi delle medesime; questo esser un colpo già da me preve-
1. le censure de1 qualificatori: sono state pubblicate dal Pierantoni in ap-
pendice alla propria edizione dell' 'Autobiografia giannoniana, pp. 406-16.
2. il consiglier Maio: Muzio di Maio, sul quale cfr. la nota 1 a p. 90.
3. il successo: ciò che accadde in seguito. 4, chiunque . . .proibizioni: cfr.
Istoria civile, tomo in, hb. xxvn, cap. iv, pp. 427 sgg.
IOÓ VITA DI PIETRO GIANNONE
duto, come solite cose da Roma praticate; anzi che peggiore me
l'aspettava, riguardando a ciò ch'era accaduto a' libri dell'Argen-
to, Riccardi e Grimaldi, li quali non trattavano se non della difesa
d'un regio editto, conforme a' sacri canoni ed alle costituzioni
stesse de' romani pontefici; che Roma facea quel che dovea fare;
così sapessero far le corti de' principi, e dal suo essempio imparas-
sero che, sicome quella non tralascia di sostenere, come meglio
può, e difendere, a dritto ed a torto, le sue intraprese, cosi sapes-
simo far noi; che io non pretendeva impedirla, ma solo, che al-
l'incontro i principi facessero quel che lor conviene, per difesa
delle loro alte preminenze e supreme regalie, i quali per se soli
sarebbero bastanti per reprimerli; e che, sovente, non per di lei
vigore, ma per nostra debolezza, venivano gli abusi e gli attentati.
E, con tal occasione, distesi un particolar trattato De* rimedi con-
tro le proibizioni de libri che si decretano in Roma e della potestà de'
principi in non farle valere ne' loro Stati,1 non già per pubblicarsi
alle stampe, ma per istruzione delle coscienze pavide e timorose
di alcuni non ben informati di questa materia.2
A me più premea, che si fosse corretto l'ingiusto passo del vi-
cario intorno alla scomunica nullamente lanciata contro un assente,
per causa sì leggiera e vana. E per non consumare intanto inutil-
mente il tempo, che dovea aspettare il ritorno delFimperadore a
Vienna, essendo quivi rimasi i reggenti che componevano il Con-
siglio di Spagna, procurai che, la mia opera tuttavia leggendosi, si
rendesse più manifesto che trattandosi in quella di varie contese
giurisdizionali, che si risolvevano contro la giurisdizione eccle-
siastica secondo l'alto concetto che ne avean gli ecclesiastici, non
fossi io obbligato chieder licenza per stamparla da chi me l'avrebbe
certamente negata; ma che bastasse quella del viceré e suo Consi-
glio Collaterale, che me l'avea data. Lo stampatore era stato già
i.È stato inserito nell'Apologia dell1 Istoria civile^ come capitoli xvn-xix
della seconda parte (cfr. in Opere postume^ I, pp. 167 sgg.). 2. non . . .
materia-, il Panzini, p. 29, scrive che il Giannonc, una volta compiuta
questa sua difesa, e vedutola approvata dal Garelli e dal Riccardi, pensò
di darla alle stampe, « e conciossìacché diffìcilmente ciò ai sarebbe potuto
eseguire in Vienna per diversi riguardi, egli s'avea già trovata persona che
volea addossarsi il carico di farlo nel miglior modo riuscire in Tirnaw città
dell'Ungheria. Ma fu opportunamente sconsigliato da quegli stessi ch'erano
per altro approvatori della privata sua scrittura, di renderla pubblica colle
stampe, per non dare nuova cagione a' suoi nimici d'inferocire via più,
e così guastare del tutto i fatti suoi».
CAPITOLO QUINTO 107
assoluto, onde l'autore, che non era compreso negli stessi loro
editti, che allegavano, tanto maggiormente si vedea essere stato
invalidamente scomunicato.
I reggenti essendo stati da me pienamente informati, conobbero
l'insussistenza della censura; ed appartenendo al Consiglio Colla-
terale di Napoli di usare i consueti rimedi per farla abolire, alcuni
scrivendo a' loro amici in Napoli che restavano maravigliati come
il delegato della real giurisdizione ed il Collaterale non si fossero
opposti al vicario; ed altri dicendomi che io procurassi in quel
Consiglio far proporre l'affare, il quale, se non ci avesse data prov-
videnza, ne avrebber essi presa conoscenza; disposi le cose in ma-
niera, scrivendo a mio fratello ed altri avvocati miei amici in Na-
poli, che il Collaterale, col delegato della real giurisdizione, ne
procurasse l'ammenda.
II presidente Argento delegato, doppo avere scorti tali sentimen-
ti, e che io era stato ben ricevuto nella Corte, erasi tutto cangiato e
mostrava gran fervore di conferire anch'esso all'opra, anzi d'averci
la maggior parte. Ed essendosi destinate le giornate per trattar-
sene in Collaterale, coli' intervento de' capi del tribunale e delle
Ruote del Consiglio di Santa Chiara,1 allora il cardinale arcivesco-
vo Pignatelli - il quale, più tratto dalle istanze del vicario e suoi
curiali, e da' clamori de' frati, che per proprio istinto, avea dato
mano alla censura: sentendo l'apparecchio che facevasi, di doversi
trattare della medesima in un sì pieno consesso de' primi ministri
regi, cominciò a trattare coli' Argento dell'abolizione, per mezzo
del padre Cillis, della maniera che fosse a lui più decorosa, senza
strepito e tanti romori.*
Credendo io che innanzi a sì gravi ministri, e con tanto scrutinio,
dovesse esaminarsi questo affare, m'indussi a scrivere un altro
trattato de' Rimedi contro le scommuniche invalide e della potestà de'
1. essendosi . . . Chiara: la riunione della Giunta di giurisdizione si tenne
il 26 ottobre, e una relazione di essa venne inviata a Roma dai segreta-
ri della Nunziatura apostolica, il 13 novembre, allegando al dispaccio
una copia della relazione distribuita ai partecipanti, ora in Giamioniana,
pp. 149-56. 2. sentendo . . . romori: la prima riunione si sciolse senza
giungere a conclusioni di sorta, perché i reggenti - che pure si dichiara-
rono in maggioranza per un invito ufficiale al cardinale affinché questi
ritirasse le proprie censure - preferirono attendere i risultati della tratta-
tiva che lo stesso arcivescovo Pignatelli aveva aperto coli' Argento e con
Carlo Giannone. Su tutto questo cfr. Bertelli, pp. i8ysgg.
108 VITA DI PIETRO GIANNONE
principi intorno a' modi di farle cassare ed abolire,1 nel quale doppo
aver dimostrata la nullità ed ingiustizia della censura, trattai de*
modi propri e legittimi da adoperarsi per la avocazione ; pure,
non già per doversi dare alle stampe, ma unicamente per valer-
mene nella occasione presente. Non fu però d'uopo di tanto appa-
recchio, poiché il cardinal Pignatelli, il quale, a questo fine, nella
censura avea a sé riserbata l'assoluzione, mostrossi propenso a
darla. Onde, concertala la maniera coll'Argento come io, per mezzo
d'una mia lettera2 ne la chiedessi, egli con suo decreto spedito
nel mese di ottobre di questo istesso anno 1723, tolse la scomu-
nica, l'abolì e rimosse; e datone all'Argento autentico documento,
firmato dallo stesso arcivescovo e con proprio suo suggello segnato,
questi lo diede a mio fratello, il quale me lo mandò subito in Vien-
na, con avvisarmi d'essersi tolti tutti i cedoloni, ch'erano rimasi
ancor affissi alle porte di alcune chiese, ed essersi l'affare già finito
e disciolta la giunta de' ministri e posto il tutto in obblivione e
tranquilla quiete. Ricevuto che io l'ebbi, lo mostrai a' reggenti del
supremo Consiglio di Spagna, i quali se ne mostrarono soddisfat-
ti, e che non bisognava farci altro, godendo non meno della mia
pace, che d'essersi con ciò tolta ogni briga, che avrebbe potuta
nascere colla corte di Roma, nel caso che non abolendola l'arcive-
scovo, si avesse dovuto dar di piglio a' consueti espedienti econo-
mici, per farla rimovere.
1. Questo trattato trae la forza delle sue argomentazioni dall'altro di L,
E. Du Pin, Tratte historique des exeommunications, Paris 1716-1719 (due vo-
lumi). Anch'esso fu rifuso nella Apologia delV Istoria civile. 2. per mcs~
20 . . . lettera: il Panzini, pp. 31 sgg., riferisce diversamente da quanto af-
fermato qui. Proprio per prevenire ogni azione del potere civile, e per
porre la Giunta di giurisdizione di fronte al fatto compiuto, « fu presto il
padre Cillis a proporre per espediente, che poiché non v'era bastante
tempo ad attendere di Vienna l'originai lettera del Giannone, la si scri-
vesse da chicchessia a nome di costui ed anzi che giugnesse il dì stabi-
lito in Collaterale per la Giunta, si presentasse al cardinal arcivescovo.
Di fatto la lettera fu concepita e distesa nella stanza del padre Cillis, colla
data de 2 ottobre 1723 ». Questa lettera, che il Panzini riporta in nota,
dichiarando di conservarne presso di so l'originale, fu di una gravità ec-
cezionale, perché vi si ritrattava tutta l'azione condotta sino allora per
svincolare la pubblicazione dei libri dal controllo ecclesiastico. Lo stesso
Giannone non si salvò da aspre critiche per questo, come risulta sia dallo
stesso racconto del Panzini, sia da numerosi accenni nel carteggio col fra-
tello (cfr., in particolare, le lettere del 22 gennaio 1724, del 5 e del 12 feb-
braio, in Gìannoniana, nn. 33, 36 e 38). Per le reazioni che si ebbero a
Roma, si veda S, Bertelli, L'incartamento originale del San? Uffizio rela~
tivo a Pietro Giannone, in «Il Pensiero Politico», I (1968), pp. 18-9.
CAPITOLO QUINTO 109
Aspettava io intanto a Vienna il ritorno di Cesare, che già s'av-
vicinava; e tanto più caro e da tutti sospirato, perché tornava col-
rimperatrice già gravida, dal cui parto si sperava la quiete d'Eu-
ropa.1 E prevedendo la mia dimora dover essere quivi lunga, li-
cenziai l'uomo di compagnia che meco condussi, perché a Napoli
ed a sua moglie facesse ritorno ;2 e passai ad abitare nella casa del-
la baronessa Linzval,3 la quale, secondo il frequente e quasi co-
mun uso di altre case, pigliava volentieri persone di qualche conto,
dandole commodità non men di stanze che di vitto: e tanto più mi
c'indussi, perché tenea a pensione, ovvero «in costo»,4 sicome ivi
dicesi, due piccioli figliuoli del baron di Orman,5 castellano di
Barletta, mio amico.
Era questa vedova e di età evanzata, figliuola del referendario
Ernesto Plekner,6 col quale io, per tal occasione, presi amicizia,
essendo un vecchio, sopra quanti Viennesi che conobbi poi, il più
versato in legge, che sentiva e parlava la lingua italiana e pratico
degli affari della Corte, come quello che, a' tempi degli imperadori
Leopoldo e Giuseppe, per lunghi anni, come referendario, avea
retta la cancelleria di Corte. Né vi era allora cosa grave, che non
passasse per le di lui mani; e quando nel 1703, per far partire da
Vienna l'arciduca Carlo, in qualità di re di Spagna, e mandarlo
nelle Spagne contro il suo competitore, fu d'uopo che l'imperadore
Leopoldo e Giuseppe, allora Re de' Romani, rinunciassero all'arci-
duca7 tutte le ragioni che aveano sopra la monarchia di Spagna,
le minute dell'istromento di questa cessione furon dettate dal
Plekner, sicome me le mostrò originali secondo le quali si stipulò
1. dal cui . . . Europa: a corte si attendeva, infatti, l'erede al trono, che pe-
rò non venne: così come la Prammatica Sanzione del 171 3 che regolava la
successione, in mancanza di discendenza maschile, non assicurò la pace in
Europa. 2. licenziai . . . ritorno : cfr. la lettera al fratello del 13 maggio 1724
(Giannonianaf n.° 50). 3. la baronessa Linzval: Therese LeichsenhofTen,
baronessa di Linzwal. In una lettera al fratello del 22 gennaio 1724 il
Giannonc accenna a favori da lui fatti alla baronessa col raccomandarla al
barone Darmon (Giannoniana, n.° 34). 4. «wi costo»: tedesco in Kost.
5. baron di Orman: Johann Alexander Darmon, forse dal Giannone cono-
sciuto a Napoli, subito dopo l'occupazione austriaca del Regno, quando
egli era il secondo ufficiale - per anzianità - di Castel Nuovo (cfr. H.
Benedikt, Dos Konigreich Neapel, cit., p. 52), o più probabilmente a Bar-
letta, durante il suo breve soggiorno in attesa di salpare per Trieste.
6. Emesto Plekner: Jakob Ernst Edler von Ploikner, referendario della
Reichshofratskanzlei sotto gli imperatori Leopoldo I e Giuseppe I. 7. al-
l'arciduca: in favore dell'arciduca (cfr. la nota 2 a p. 62).
HO VITA DI PIETRO GIANNONE
Tistromento, che leggesi ora impresso nella raccolta fatta da Lùnig
del suo Codice diplomatico d'Italia.1
Fra le altre doti che adornavano il suo animo era la fortezza
colla quale egli pazientemente tollerava le strettezze di sua casa,
nelle quali, doppo una vita lauta e doviziosa, era caduto. E quanto
sotto gli imperadori Leopoldo e Giuseppe era adoperato ed in
floridezza, altrettanto sotto l'imperadore Carlo rimase depresso2 e
povero, poiché, secondo suole avvenire, la nuova Corte di questo
principe scacciò la vecchia; e gli emoli ed invidiosi dei Plekner
tanto, co' loro pessimi uffici, si adoperarono presso il nuovo im-
pcradore che, costretto a resignar la carica che occupava, rimase
con un picciol stipendio, che gli fu lasciato per suoi alimenti, di
duemila fiorini Tanno, e l'abitazione del quartiere3 ov'era, fin che
durasse la sua vita. Con questi dovea egli mantenere la necessaria
sua servitù e famiglia, tenendo presso di so una povera vedova,
sua figliastra, chiamata Teresa di LeichscnhofTen, alla quale, mor-
to il marito, che fu consigliero della Camera di Gratz, bisognò
darle ricetto in sua casa con cinque figliuoli, quattro femmine ed
un maschio, che avea lasciati.
Delle sue ampie facoltà non Fera rimaso che un magnifico pa-
lazzo e delizioso giardino, con alcune vigne intorno, che possedeva
nel villaggio di Pettersdorf, lontano da Vienna dodici miglia. Quivi
egli soleva condursi Testa, e dimorarvi sino al tempo delle vendem-
mie, quali finite, tornava in città. E sovente andava ivi a ritrovarlo,
dove, con suo sommo piacere, soleva trattenermi seco qualche
settimana; ed egli, con molta cortesia e cordialità, avrebbe voluto
che la mia dimora fosse stata più lunga, ma io non voleva lascia-
re gli amici di Vienna, i quali potevan aiutarmi ne* miei bisogni
in quella Corte, con preparar gli animi e disporgli, affinché, al ri-
torno di Cesare, fosser passati per me buoni uffici. Ed in effetto,
leggendosi tuttavia la mia opera, ed invogliati molti, anche te-
deschi, per averla, ebbi più richieste e da librari e da altri, per-
ché ne facessi venire più esscmplari, essendo già finiti quelli che
io avea meco portati; sicché scrissi in Napoli, che, condotti a
Manfredonia o Barletta, per la via di Fiume e di Triesti me ne
i. Il Codex Italiae Diplomaticus, Francofurti et Lipsiac, i, 1725, coli. 2331
sgg.; Johann Christian Lilnig (1662-1740), erudito tedesco, pubblicò va-
rie raccolte di documenti d'interesse storico e giuridico. 2. depresso : mi-
sero. 3. quartiere: appartamento.
CAPITOLO QUINTO III
mandassero, di volta in volta, più balle.1 E, sicome venivano,
non si dovea aspettar molto tempo in alienarle; poiché, oltre di
que' essemplari che rimanevano a Vienna, se ne mandavano in
altre città della Germania, in Fiandra, in Ollanda,2 Svezia e Da-
nimarca. Ed il general Marnili,3 nostro napolitano, che io ebbi la
sorte di conoscere a Vienna, il quale avea allora il comando di
Belgrado sotto il generale commendator duca di Wuttemberg,4 ne
provvide in Ungheria a molti suoi amici. Ed in Boemia, coll'oc-
casione della dimora della Corte in Praga, se n'inviarono altresì;
anzi fu da quivi scritto, che parlandosi di quest'opera in Praga, in
un magnifico pranzo dov'era invitato il principe Eugenio di Sa-
voia,5 questo signore se n'invogliò tanto, che scrisse al suo agente
in Vienna, che ne l'avesse tosto mandato un essemplare, sicome,
avendone io avuta notizia, procurai subito che s'inviasse, facendo
noto a Sua Altezza che io al suo ritorno ne avea apparecchiato
uno della miglior carta e riccamente adorno, che avrei avuto l'o-
nore di presentarcelo in persona. Ed avendo il suo agente passato
per me questo riverente ufficio, egli, con somma umanità, mi fece
avvertire dal medesimo, che gli sarebbe stata più grata, se l'opera
fosse sciolta, affinché potesse farla ligare conforme a gli altri libri,
onde si componeva la sua magnifica biblioteca. Sicome feci; e
vidi poi nella medesima occupare, fra gl'istorici, onorato luogo.
Ritornò finalmente Cesare, coll'imperadrice gravida e tutti que*
che lo seguirono in Vienna, verso la fine del mese di ottobre; ed
io, facendo passare alquante settimane doppo l'arrivo, quando mi
parve che fosse il tempo opportuno per aver udienza, feci scrivere
il mio nome, secondo il costume, fra gli altri che la dimandavano ;
e nell'ora stabilita alle udienze, aspettando con gli altri nella ca-
i. leggendosi . . . balle: cfr. le lettere al fratello in data 20 e 27 maggio, e 3
giugno (Giannoniana, nn.1 51, 52 e 53). 2. se ne . . . Ollanda: un ordine ÓÙ
spedizione in Olanda nella lettera al fratello del 22 luglio 1724 (Gianno-
niana, n.° 59). 3. Francesco Saverio Marnili (1675-1751). Da altra lettera
del Giannone al fratello, in data 9 settembre 1724, risulta che anche Apo-
stolo Zeno si interessò per la diffusione dell'opera giannoniana, consiglian-
do al Giannone di indirizzare i libri al libraio Niccolò Pezzana (Giannonta-
nat n.° 64). 4. Wuttemberg: il principe Eberhard Ludwig von Wurttem-
berg (1676-1733). 5. Eugenio di Savoia-Soissons (1663-1736) entrò al ser-
vizio dell'imperatore Leopoldo I al tempo dell'assedio di Vienna (1683)
e dieci anni dopo diveniva feldmaresciallo dell'impero. Capo dell'esercito
imperiale in Italia durante la guerra per la successione al trono di Spagna,
presidente del Consiglio aulico di guerra dal 1703, la sua corte viennese
rivaleggiò a momenti con la stessa corte imperiale.
112 VITA DI PIETRO GIANNONE
mera precedente a quella dove suol darle, fui chiamato dal genti-
luomo di camera, che m'introdusse. Ed avvicinato, doppo i tre
soliti inchini, avanti l'imperiai persona, ch'era all'implodi, assicu-
rato dalla clemenza dei suo volto e da un atto di sua mano, che
mi fece segno, essendo io in ginocchio, che mi alzassi, cominciai
ad esporgli brevemente la dolente istoria delle mie avventure doppo
la pubblicazione dell'opera, la quale m'avea mosse tante persecu-
zioni, perché io, in quella sostenendo come suo di voto e fedel vas-
sallo, le alte preminenze e sovrane regalie de' re di Napoli, le
quali possono legittimamente in quel Regno esercitarle, non meno
di quel che si faccino i re di Francia nel lor reame, mi avea ad-
dossato la malevolenza de' preti e monaci e della corte di Roma.
Ma che, confidando nell'imperial clemenza della Maestà Sua,
alla quale l'opera era consecrata, e che in quella non vi era cosa
che si opponesse alla nostra Santa Fede e perché ciò maggiormente
si manifestasse, l'avea esposta a gli occhi di tutti ; vivamente pregava
la Maestà Sua ad aver protezione non men dell'opera che del suo
autore, il qual prostrato a' suoi piedi, implorava quella pietà e cle-
menza, ch'era ereditaria nell'augustissima sua famiglia, e che rende-
va sicuri coloro che vi ricorrevano da ogni oltraggio ed oppressione.1
L'imperadore rispose a queste mie umili preghiere con brevi pa-
role: le prime furon da me intese, colle quali mostrava gradimento
dell'opera, e d'aver di me cura; ma non già l'ultime, che pronunciò
con voce tacita e sommessa. Nell'atto che io feci di presentargli
una mia memoria, stese la mano e se la prese, ed io ebbi l'onore di
baciarla. E ritrattomi indietro uscii fuori e narrato a' miei amici il
successo, concepirono per me buone speranze.
Fui ad inchinarmi al principe Eugenio di Savoia, il quale mi
accolse con somma umanità e cortesia, e mi tenne seco più d'un
quarto d'ora a ragionare di varie cose, mostrando aver letto in
parte la mia opera, dicendomi averle piaciuta l'idea e la disposi-
zione, con dimandarmi più cose di Napoli, e spezialmente del mi-
racoloso scioglimento del sangue di san Gennaio, e di quanto
erami occorso su la divolgata impostura addossatami, che io lo
negassi. Lo pregai della sua protezione presso la Maestà dell'im-
i. Ritornò . . . oppressione: questa udienza avvenne in epoca posteriore al-
l'i i dicembre, poiché in quel giorno il Giannone scriveva al fratello di
essersi sollecitato un intervento del principe Eugenio, e che il cavalier
Garelli aveva parlato a fortemente» all'imperatore, pregandolo di riceverlo:
«onde ora si sta attendendo da lui la giornata» (Giannoniana, n.° 38).
CAPITOLO QUINTO 113
peradore, che promise di farlo volentieri; sicome con effetto spe-
rimentai, mostrandosi verso la mia persona, in tutte le occasioni,
benefico e cortese. Sicché, assicurato di tanta umanità, non man-
cai, doppo, quasi ogni domenica, la mattina, ch'era il tempo più
opportuno, di andare a riverirlo nel suo palazzo, essendo in città,
ovvero, nell'està, nel delizioso e magnifico suo giardino, sperimen-
tandone sempre graziose accoglienze e cortesissime dimostrarle.1
Non mancai altresì far lo stesso col marchese di Rialp, il quale,
la prima volta vedutomi, cominciò a dirmi che avea la mia Istoria
fatto tanto romore, che non erasi inteso altre volte accaduto per la
pubblicazione di altri libri ; che la corte di Roma mostrava averne
avuto dispiacere, supponendola a sé ingiuriosa e temeraria. Gli
risposi, che ben erano a Sua Eccellenza note le cagioni di tanti
romori, sicome n'era stato informato dal cardinale Althan, viceré;
e che, in quanto alla corte di Roma, io certamente non l'avea
scritta perché le fosse piaciuta; poiché, così facendo, averi mancato
al mio onore ed alla lealtà, che dee avere ciascun fedele vassallo
al proprio suo principe ; esser questa solita disgrazia di coloro che
si mettono a scrivere delle preminenze e regalie de' loro sovrani,
alle quali io fui tratto dall'istituto dell'opera, non già per offender
altrui. Che questo era il vantaggio che aveano gli scrittori addetti
alla corte di Roma, che potevano scrivere ciò che si volessero in
abbassamento delle regie preminenze ed innalzamento della giu-
risdizione ecclesiastica; che niuno prendevasene impaccio, ed era-
no da quella Corte premiati; all'incontro, eran perseguitati quelli
che scrivevano per la potestà regale; e che a torto s'imputava la
mia opera per temeraria, poiché, se in Roma non sembravano te-
merarie ed ingiuriose le prediche del padre Casini, non pur reci-
tate dentro il palazzo apostolico, ma impresse in Roma, e reim-
presse, poi, a Milano,2 molto meno si dovea riputar temeraria la
mia Istoria-, e che io volentieri mi offeriva a farne confronto, ed
al paragone si sarebbe veduto quale delle due opere fosse più o
1. Fui . . . dimostrarne : il Giannone entrò ben presto nella cerchia del prin-
cipe Eugenio, stringendo amicizia anche col conte Claude-Alexandre de
Bonneval (cfr. Bertelli, p. 186). Il racconto di una seduta scientifica nella
villa del principe sabaudo è nella lettera al fratello del 24 giugno 1724, qui
la vii. 2. le prediche . . . Milano : le prediche del cardinale F. M. Casini
(morto nel 17 19): Delle prediche dette nel palazzo apostolico da fra' Fran-
cesco Maria d'Arezzo cappuccino, oggi cardinale di S. Prisca, dedicate alla
Santità di N. S. papa Clemente XI, Roma 171 3 e di nuovo Milano 1714-
I7IS-
114 VITA DI PIETR0 GIANNONE
meno a lei ingiuriosa e temeraria. Che per ciò pregava a Sua Ec-
cellenza di rispondere a coloro, che o da Roma l'avean scritto, o
in Vienna di ciò informato, che io era pronto a venire a questo
cimento, e che fosse uscito un di loro a farne pruova; pregandolo
ancora, se mai le sue gravi occupazioni il permettessero, di dar
qualche ora alla lettura della mia opera, che si sarebbe assicurato
di quanto io umilmente l'esponeva, e, con ciò, farmi degno della
valevole sua protezione presso Sua Maestà, e di sospender ogni
credenza prima di accertarsi del vero di quanto da' miei malevoli
fossegli suggerito.
Il marchese, con un soghigno, mi rispose ch'egli, fino a quell'ora,
non avea avuto tempo di leggerla, ma che vi farà osservazione, e
che avrebbe riferito a Sua Maestà le mie discolpe e quanto con-
veniva. Era io ben consapevole del doppio nodo, col quale egli
erasi stretto colla corte di Roma: avea un suo figliuolo1 in Roma,
istradato per la prelatura, e si speravano dignità maggiori ; teneva
un suo fratello arcivescovo, il qual, passato da quello di Brindisi
all'arcivescovado ricchissimo di Salerno, aspirava al cardinalato.2
Mandò poi in Roma due altri suoi nipoti, figliuoli della contessa
Figheroa, sua figlia; e teneva della contessa Vernerà sua sorella,
altri figliuoli che fatti ecclesiastici, aspiravano a prelature, ricche
commende e doviziosi benefìci.3 Con tutto ciò non disperai, poi-
ché, istrutto della sua natura ed andamenti, non mi sgomentai;
sicome poi conobbi di non dover disperare.
Il marchese Rialp, oltre il grado eminente nel qual si trovava,
di secretano di Stato, ed essere in piena grazia di Cesare, che lo
rendeva superiore a' rispetti ed alle contemplazioni per Roma era
per natura benefico ed avverso di far male e dar dispiacere ad
alcuno. E se ad altri, sovente, il suo governo riusciva grave, di-
spiacevole e dannoso, non era se non per essere troppo indulgente
de' suoi congiunti, e favorire i suoi raccomandati; onde avveniva
che gli altri pretensori, che forse avean maggior merito, restassero
i. un suo figliuolo: Juan Perlas de Vilhena. z. un suo fratello . . . cardi-
nalato: Paul Perlas de Vilhena (1669-1729), nominato vescovo di Brindisi
nel 1700, divenuto assistente al Soglio nel 17 16, e traslato all'arcivescova-
do di Salerno nel 1723. Morì senza aver raggiunto l'ambito cappello
cardinalizio. 3. Mandò . . . benefici: due figli della contessa Vernerà erano
chierici e ottennero ricchi benefici ecclesiastici; altri due nipoti del Rialp,
figli della contessa Figueroa, risultano anch'essi in Roma, alla corte di
Benedetto XIII (cfr. H. Benedikt, Dos Kò'nigreich Neapel, cit., p. 231).
CAPITOLO QUINTO 115
esclusi e dolenti. Per questi rispetti non trascurava, ne' giorni
dell'udienze, di raccomandarmici, e cercar altri intercessori, suoi
amici, che per me presso di lui passassero qualche buon ufficio.
Fra questi, la mia buona sorte mi offerì il marchese Clemente
Doria,1 che si trovava allora in Vienna, inviato della repubblica di
Genova. Questi tenendo una grave lite in Genova, nella quale si
disputava di certo fidecommisso, in vigor del quale pretendeva
escludere altri in quello ancorché compresi, ma in linea e grado
più remoti, mi fece richiedere che sarebbegli sommamente caro,
se io sopra l'articolo controverso scrivessi un'allegazione a suo
favore, la quale, in Genova, era certo che sarebbe stata ben rice-
vuta e riputata di gran peso ed autorità.
Io, ancorché senza libri forensi, avendone il reggente Almarz
seco portati alquanti, che bastavano al mio intento, me gli feci
prestare; ed avendo composta l'allegazione nel miglior modo che
potei, piacque tanto non pur a lui, ma a' suoi avvocati di Genova,
a' quali la mandò, che pensava generosamente rimunerarmi. Ma
io avendogli detto che non pretendeva altro che la sua buona
grazia e la sua intercessione per me presso il marchese Rialp, di
cui era stretto amico, egli volentieri si offerse di passar col mede-
simo gli uffici più fervorosi ed efficaci, che io potessi immaginar-
mi; sicome, con effetto o seco conducendomi, ovvero per sé solo
facendolo, fece sì che, nell'avvenire, trovassi presso il marchese
non pur compatimento delle mie sventure, ma che pensasse di
darci qualche sollievo e conforto.
11
[1724]
Eravamo già entrati nel nuovo anno 1724, ed io avendo dovuto
abbandonar la mia professione di avvocato, ch'essercitava in Na-
poli, vivea in Vienna sopra quel poco denaro che portai meco, e
sopra il prezzo de' miei essemplari che faceva venire; ma, a lungo
andare, sarebbe tutto finito. Sicché sollecitava o che Sua Maestà
mi facesse tornar in Napoli con qualche carica conveniente alla
mia graduazione di avvocato poiché, impiegandomi al suo rea!
1. Documenti concernenti Clemente Doria (per cui cfr. la nota 5 a p. 99)
in Archivio di Stato di Torino, manoscritti Giannone, mazzo 11, ins. 4, RR
(Giannoniana, pp. 423-4).
Il6 VITA DI PIETRO GIANNONE
servizio, ed avrei avuto modo di sostentarmi, e sarei coperto e
sicuro dalle insidie de' miei malevoli; ovvero, piacendole tenermi
nella sua imperiai Corte, mi dasse mezzi di potermici mantenere.
A questo fine io drizzava i mezzi, ora pregando, ora raccomandan-
domi non pure a' ministri che componevano il Consiglio di Spa-
gna, ma eziandio a quelli, che eran per li loro impieghi più da
presso alla persona deirimperadore.
Non tralasciava farmi vedere spesso dall'arcivescovo di Valenza
presidente, il quale da che cominciò ad aver lettere dai presidente
Argento in mia commendazione, mi riguardava con occhi più beni-
gni. Ed una volta, avendomi domandato quanto tempo io aveva
impiegato in comporre la mia Istoria, e rispostogli : « non meno di
venti anni », egli mi replicò che ben mostrava, per le cose recondite
e nuove, che vi avea scorte, che le fatiche dovettero esser lunghe ;
ed egli la credea opera di trenta, non pur di venti anni ; e da quanto
e* ne parlava con altri ministri di quel Consiglio, io certamente ne
avrei potuto sperare ogni favore; ma sopragiuntali, doppo, una
grave infermità, fu tale che nell'està di questo medesimo anno 1724
gli tolse la vita:1 sicché io perdei tutti gli ossequi fattigli, e le rac-
comandazioni che l'Argento ed altri amici vi aveano per me im-
piegate.
Non tralasciai di raccomandarmi anche al Gran Canccllier di
Corte, conte di Zinzendorf,2 al quale mi condusse il cavalier Garelli.
E presentatogli un essemplare ben ligato della mia opera, lo riceve
con piacere, e mi fece esibizioni generose, lungamente trattenen-
domi in vari discorsi, con tanta cortesia e gentilezza, che io non
potea desiderar maggiori. Sicché, da tutte le parti ricevendo grate
accoglienze, cominciai a sperare dalla mia venuta a Vienna prosperi
successi.
A tutto ciò si aggiungeva che, in tutto il tempo che durò il pon-
tificato di Innocenzio XIII,3 da Roma non venivano doglianze, e
1. ma . . . vita: cfr. la lettera al fratello, del 29 luglio (Gìannoniana, n.° 60) :
l'arcivescovo «ha lasciato un nome infamassimo per le tante ribalderie e
sceleragìni che si sono scoverte dopo la di lui morte . . . Non si ricorda
morte cotanto gradita da tutti universalmente, e dagli stessi Spagnoli, che
questa; ed un cavaliere Valentiniano argutamente disse quella mattina, che
fu esposto il suo cadavere, che quella era stata la prima volta, che Sua
Eccellenza avea data udienza ». 2. conte di Zinzendorf: Philipp Ludwig von
Sinzendorff (1 671 -1742) era il cancelliere dell' imperatore. Su di lui cfr. IL
Benedikt, Dos Konigreich Neapel, cit., passim. 3. in tutto . . . XIII : cioè
dal 1721 al 1724. Cfr. la nota 2 a p. 102.
CAPITOLO QUINTO 117
questo pontefice non se n'impacciava, e lasciava a lor posta grac-
chiar i frati, de' quali non era molto amante; sicome, poi, tutto al
contrario sperimentai del suo successore, Benedetto XIII,1 come
più innanzi dirassi. Ed il nunzio Grimaldi,2 ch'era allora in Vienna,
molto meno voleva saperne, né per sua bocca si passò contro di me
alcun ufficio coll'imperadore: ciocché avrebbe potuto nuocermi,
essendo Innocenzio ed il Nunzio da Cesare molto ben veduti ed in
sua somma grazia.
Conferiva anche il tempo grazioso, che si sperava imminente,
poiché il parto delTimperadrice era già maturo, e ciascuno si lu-
singava che dovess'esser maschile. E dava forza alla lusinga una
profezia, che, per opera d'un frate, si sparse per tutta Vienna;
e poiché a quelle cose che si desiderano suol darsi facile credenza,
erasele prestata intera fede.3
La profezia si appoggiava ad una lettera scritta da un frate,
nella quale leggevasi, che per intercessione di san Vincenzo Fer-
reri4 Timperadrice dovea partorire un figliuol maschio; e perché
non potesse ad altro santo ascriversi il miracolo, si soggiungeva che
avrebbe dato alla luce il parto il giorno stesso di san Vincenzo,
che veniva a' 5 di aprile. I Catalani ch'erano nella Corte, sicome tut-
ti gli Spagnoli, per esser il santo di lor nazione, la predicavano per
certa ed infallibile; ed oltre di aver fatto imprimere più sue im-
magini in seta ed in carta, che dispensavano da per tutto, fecero
stampare fino l'ufficio particolare del santo, anche tradotto in te-
desco, perché tutti ne pigliassero divozione e l'avessero per ispe-
ziale loro protettore, giacché per sua intercessione erasi data pace
all'Europa. In questo, fuwi qualche gara e contrasto co' Boemi, i
quali riputavano che ciò dovea più tosto attribuirsi alla mediazione
1. Benedetto XIII 1 al secolo Pietro Francesco Orsini (1 649-1730), del ra-
mo degli Orsini- Gravina, duchi di Bracciano, il quale, entrato diciottenne
nell'Ordine domenicano, fu creato cardinale a soli ventitré anni. Fu vescovo
di Manfredonia (1675), di Cesena (1680), di Benevento (1686). Fu eletto
papa il 29 maggio 1724. 2. Girolamo Grimaldi (1674-1733), internunzio
a Bruxelles nel 1705, nunzio in Polonia nel 1712, assistente al Soglio l'an-
no seguente, fu nominato nunzio all'imperatore nel 1720. Ottenne la por-
pora nel 1730. 3. Conferiva . . .fede: altre notizie aneddotiche su quanto
è narrato qui di seguito si hanno in due lettere del Giannone al fratello, in
data 8 e 15 aprile (Giannoniana, nn.* 45, 46), delle quali il Panzini, p. 42,
ha pubblicato due ampi brani (il primo di questi ripreso anche m Vita,
ed. Nicolini, p, 122, nota). 4. san Vincenzo Ferreri (1 350-1419), dome-
nicano spagnolo, sostenne Clemente VII, papa d'Avignone, contro Urba-
no VI, papa di Roma. Fu canonizzato da Pio II nel 1458.
Il8 VITA DI PIETRO GIANNONE
di san Giovanni Neopomiceno, santo tutelare della Boemia, poiché
Timperadrice avea concepito in Praga, ed ivi si erano scoverti pri-
ma i segni, e poi la certa sua gravidanza; onde non doveasi usar
questo torto al lor santo, e posporlo ad un forestiero catalano ; ma
la fazione degli Spagnoli, in Corte e nella città, era più forte e nu-
merosa, e maggiormente ravvaloravano il principe di Cardona,1
spagnolo, che si trovava allora maggiordomo delPimperadrice, e la
principessa Cardona sua moglie*
Or mentre si era in questa aspettazione, sopraggiunse il quinto
giorno di aprile - dì nel quale, celebrandosi la festa di san Vincen-
zo Ferreri, dovea, secondo la profezia, seguire il parto. L'impe-
radrice, né la mattina di quel giorno, e molto meno nel precedente,
avea dato alcun segno d'imminente parto; sicché la profezia co-
minciava a svanire. E mi ricordo che, nel giorno stesso, doppo
pranzo, essendo venuto il reggente Almarz a prendermi seco in
carrozza, per spasseggiare secondo il solito intorno alla spianata
fuori la città, ritornando verso la sera in sua casa e, nel cammino
favellando della burla del frate, che avea tenuti tanti sospesi in-
vano, non senza riso rammentammo li tanti apparecchi ed illusioni
de' visionari Spagnoli. Ma appena smontati di carozza, entrati in
sua casa, trovammo molti amici che ci aspettavano e ci dissero
che Timperadrice era già co* dolori di parto, e non si attcndcvan
che pochi momenti, per sapere ciò che dasse alla luce; essersi già
avverata la profezia intorno al preciso giorno, onde dovriamo or-
mai esser sicuri che, se non s'ingannò nel tempo, nemmeno errerà
nel sesso.
Nel tempo stesso, sicome mi riferì poi il cavalier Garelli, che
come medico assisteva colla levatrice ed altre matrone al parto,
gli Spagnoli, ch'erano in Corte, già senz'esitazione alcuna aspet-
tavano l'arciduca, ch'essi chiamavano il principe d'Asturia, come
primogenito dell'imperadore ed insieme re di Spagna; ed il prin-
cipe Cardona non si ritenne, mentre Timperadrice era nel colmo
de' dolori, di bussar la porta della camera e far chiamare il Garelli,
al quale consignò più immagini di seta di san Vincenzo, con inca-
ricargli che quelle ponesse sulle spalle delTimperadrice, perché il
santo Tavrebbe subito facilitato il parto. E la principessa Cardona
non cessava, intanto, in un picciolo oratorio ivi vicino, pregarlo,
i. il principe di Cardona: Joseph Folch de Cardona, maggiordomo delTim-
peratrice e presidente del Consiglio di Fiandra.
CAPITOLO QUINTO I19
che agevolasse l'uscita nel mondo al principe d'Asturia. Il Garelli
fece quanto dal Cardona gli fu imposto; e, poco dapoi, sgravossi
rimperadrice, ed in vece d'un principe, diede alla luce una prin-
cipessa.1
Dissemi il Garelli, che con tutto che gli altri rimasero freddi e
mutoli, né potessero dissimulare il dispiacere per la preceduta lu-
singa, nulladimanco gli Spagnoli non si sgomentaron punto, ma
franchi ed intrepidi rispondevano che un'altra volta il santo l'a-
vrebbe esauditi; e la principessa Cardona, inteso ch'ebbe esser
nata una principessa, rispose subbito senza smarrirsi, che ciò poco
importava, perché nel seguente anno, in questo stesso giorno,
avrebbe dato alla luce un principe.
Niun poi si prese pensiero di sapere chi fosse o non fosse il
frate indovino, né si ricercò più di lui, né parlossene di vantaggio.
Tanto è vero l'arte d'indovinare esser sicura e non mai dannosa
per chi l'essercita, se non sono avverati i pronostici; ma se il caso
o la serie e concatenazione delle cose gli avvera, essi si mettono in
istato assai sublime, non men di straordinari guadagni, che di fa-
ma, di santità, di sommi onori e venerazione.
Indarno adunque essendosi aspettata dall'imperadrice prole ma-
schile, e portatosi l'imperadore, nel fin d'aprile, secondo il solito,
a Laxemburg, mi riusciva più incommoda e dispendiosa la mia
dimora a Vienna. Poiché i ministri, sparpagliati di qua e di là,
in vari villaggi intorno, mi obbligavano a seguitargli, per rinovare
nella lor memoria le mie domande, le quali erano o di ritornar in
Napoli con qualche carica, ovvero, se piacesse a Sua Maestà che
io fossi a Vienna, di darmi modo da sostentarmi. L'arcivescovo di
Valenza presidente, se ne morì, come si è detto, in quest'està, nel
suo giardino ; né fu rifatto altro in suo luogo, ma il conte di Mon-
tesanto,2 che si trovava consigliero del Consiglio per Napoli, come
decano lo governava. E nella persona del marchese di Rialp si era
ridotto l'arbitrio di tutte le cose; sicché io, per me stesso e per l'in-
terposizione del marchese Clemente Doria, sovente replicava le
mie suppliche, alle quali aggiunsi anche gli unici, che il cavalier
Garelli spesso per me gli faceva, come colui ch'era meglio degli altri
informato, che io non poteva più a proprie spese mantenermi nella
1 . una principessa: Maria Amalia. 2. Joseph Villasor, conte di Montesanto,
reggente per la Sardegna nel Consiglio di Spagna nel 17 14, e dal 1724
presidente del Consiglio stesso.
120 VITA DI PIETRO GIANNONE
Corte. Ed in questo se ne passò tutta l'està; né frattanto ebbi altro
sollievo, se non, o portandomi a Pettersdorf a dimorare qualche
settimana col referendario Plekner, o pure le sere in casa del reg-
gente Almarz, e più spesso in quella del fiscal Riccardi, dove, a' più
amici ragunati insieme, soleva il Riccardi esporre la Comedia di
Dante, e scoprirci le bellezze di quel poeta; e poi, si prese ad espor-
re le Meditazioni ed i Princìpi di Cartesio,1 che io sentiva con
molto piacere e contento. Venni poi, ne' princìpi di ottobre, ad
infermare di febre terzana; ma Gabriele Longobardi, nostro napo-
litano, medico pure dell' imperadore e mio carissimo amico, me
ne liberò in pochi giorni, colla china-china.
Ritornato poi, verso la fine d'ottobre, l'imperadore dalla Favo-
rita2 nel palazzo di Vienna, si strinsero e replicarono assai più gli
uffici col marchese di Rialp; il quale finalmente, esposte le mie
suppliche ed estremi bisogni a Sua Maestà, ottenne dalla medesima
real decreto, col quale si comandava che io dovessi trattenermi
nella sua imperiai corte di Vienna, ed infino a tanto che non fossi
impiegato in qualche carica nel suo real servizio, mi fossero, per
mio sostentamento, somministrati da' reali diritti della spedizione
della Secreteria di Sicilia venti ungheri d'oro il mese, che face-
vano la somma di circa mille fiorini di Germania Tanno.3 La quan-
tità fu riputata da molti, e spezialmente dagli Spagnoli, avvezzi a
ricevere profuse pensioni, meschina e tenue, ed anche i più econo-
mici credettero, che almanco mi si dovessero assignare cento fio-
rini il mese; ed il marchese Clemente Doria mi disse che fossi
contento, per ora, di questa somma, ch'egli penserebbe di farmela
accrescere, ed i fiorini farli cambiare in talleri.4 Ma il marchese di
i. in quella . . . Cartesio', la notizia di queste letture in casa del Riccardi è
assai preziosa per individuare gli interessi del gruppo italiano in Vienna,
e dovrà essere accomunata all'altra che traiamo dalla lettera del Giannone
al fratello, del 24 giugno 1724, qui la vii; Meditazioni: cfr. Meditationes
de prima philosophia, in qua Dei eocìstentia et animae ìmmortalitas demon-
stratur, Parisiis 1641. Le Meditationes, erano seguite, sin dalla prima edi-
zione, da una serie di obbiezioni e dalle risposte ad esse dell'autore (più
esattamente da sei obbiezioni: una settima se ne aggiunse nell'edizione di
Amsterdam dell'anno seguente). Princìpi: cfr. Principia philosophiae, Pa-
risiis 1644. 2. Favorita: palazzo imperiale nei dintorni di Vienna. 3. ot-
tenne. . . anno: il testo del decreto imperiale, tradotto in italiano dallo
spagnolo dallo stesso Giannone, è stato inserito nella biografia dal Panci-
ni» p. 40. 4. i fiorini . . . talleri: cfr. quanto su tutto questo scrisse il
Giannone al fratello il giorno xi novembre (qui la ix lettera).
CAPITOLO QUINTO 121
Rialp, se non usò meco quella liberalità solita praticarsi con gli
Spagnoli, almanco compensò la tenuità colla sicurezza del paga-
mento, poiché me l'assignò sopra i reali diritti della Secreteria di
Sicilia, i quali non s'erano allora incorporati e confusi con gli di-
ritti delle spedizioni di Napoli e di Milano, ch'erano sotto l'am-
ministrazione e libera disposizione del Consiglio di Spagna; ma
l'arcivescovo di Valenza avea voluto tener separati quelli di Si-
cilia, perché Sua Maestà potesse disporne a prò di qualche suo
benemerito, senza partecipazione alcuna del Consiglio. Ed in ef-
fetto, finché non s'incorporasser e confondesser poi con gli altri
diritti, mi erano puntualmente pagati mese per mese. Ed io mi eb-
bi pazienza che, se bene non potessi mantenermi in Vienna con
carrozza, come faceva in Napoli essercitando la professione di av-
vocato, nulladimanco, lusingato di maggior augumento, o pure di
esser impiegato nel real servizio, sicome promettevasi nell'imperial
decreto, tirava avanti, nel miglior modo che poteva, senza incom-
modare di vantaggio la povera mia casa di Napoli.
Questo decreto fu pubblicato coll'occasione di altre mercedi con-
ferite da Sua Maestà, ne' 4 di novembre, giorno di san Carlo, ove
in Corte era pubblica gala, per ragion del nome dell'imperadore ;
ed io non mancai, verso la fine di questo mese, cercar udienza da
Sua Maestà, che mi fu data. Nella quale, doppo avere rese umili
grazie alla clemenza di Cesare, di avermi dato sustentamento in-
flno che non fossi impiegato al suo regal servizio, lo pregai vi-
vamente che non mi tenesse lungamente ozioso ed inutile, affinché
la Maestà Sua maggiormente si accertasse quanto fosse intenso il
mio desiderio d'impiegare il rimanente di mia vita in servirla, e
che, forse, in me avrebbe sperimentato non minor fede, fervore e
vigilanza, di quanti aveano l'onore d'essere ascritti nel numero de'
suoi umili e fedeli servitori e vassalli. L'imperadore benignamente
intese queste mie riverenti suppliche, e porgiutami la mano, umil-
mente gliela baciai, e mi ritrassi, uscendo fuori, nell'anticamera,
ove trovai alcuni amici, che si rallegravan meco della mercede
conferitami da Sua Maestà e della benigna udienza che mi avea da-
ta.1 Non mancai altresì di passar i medesimi uffici col marchese di
Rialp e con gli altri che avean conferito ad agevolarmela, sicome
di darne parte a' ministri del Consiglio di Spagna, i quali mostra-
1. ed io . . . data: il racconto dell'udienza è rifatto dal Giannone in una
lettera al fratello del 2 dicembre 1724 {Giannoniana, n.° 73).
122 VITA DI PIETRO GIANNONE
rono averne piacere e contento. Ma non potei sfuggire l'invidia e
scontentezza d'alcuni nostri Napolitani, i quali mal poterono co-
vrire, sotto sforzate parole di rallegrarsene meco, l'animo loro tur-
bato e mesto.
Ed in ciò passossene l'anno 1724.
CAPITOLO SESTO
Anni 1725, IJ26 e ij2j. In Vienna.
NelPentrar del nuovo anno 1725, si cominciarono a sentire da
Roma, per questa mercede fattami da Sua Maestà, nuove doglianze
e querele, le quali certamente non si sarebbero intese, se Inno-
cenzio XIII avesse avuta più lunga vita. Egli erasene morto nel
precedente anno,1 ed in suo luogo rifatto il cardinal Orsino, mo-
naco domenicano, al quale più arcivescovadi, l'illustri suoi natali
e la stessa porpora cardinalizia non poterono farli dimenticare Tes-
sere di frate; anzi nemmeno bastò il papato istesso, poiché, fatto
papa, non lasciò i vecchi suoi costumi ed andamenti. Egli, come
prima, godeva di trattar familiarmente co' monaci, da' quali era
quasi sempre circondato; e come uomo semplice e da bene, age-
volmente era tratto nelle loro reti, né si accorgeva de' loro intrighi
e gabale. Sicché fu lor facile dargli a credere che la mia Istoria
civile fosse empia, eretica ed ingiuriosa non meno alla Santa Sede,
che a tutti gli ordini religiosi, e spezialmente a' Domenicani, poi-
ché malmenava la divozione del rosario e, parlando del martirio di
Pietro da Verona, detto san Pietro Martire, domenicano, par che
lo qualificasse piuttosto per un assassinamento di ribaldi, che per
un martirio vero ? e che Fautore fosse un eretico marcio, il quale
invece di essere punito, era stato accolto in Vienna dall'impera-
dore, e di vantaggio, con pubblico scandalo, averlo ritenuto nella
sua Corte, con assignarli annuo stipendio per suo sostentamento,
infino che non fosse impiegato nel suo real servizio; e furono cosi
1. Egli . . . anno: Innocenzo XIII si spense il 7 marzo 1724. 2. dargli . . .
vero: cfr. Istoria civile, tomo 11, lib. xix, cap. ult., par. rv, p. 561 : «Furono
pertanto deputati li frati di S. Domenico inquisitori in Lombardia, Ro-
magna e Marca Trivisana, li quali adempiendo al loro ufficio con molto
rigore, cagionarono in Lombardia qualche tumulto ; perciocché avendo nel
seguente anno [1252] Innocenzio deputato inquisitore di Milano Fr. Pie-
tro da Verona . . . alcuni principali Milanesi, dubitando della lor vita per
li processi, che avean presentito aver loro fatti fabricare l'Inquisitore, si
congiurarono insieme, e risolvettero di prevenir 1* Inquisitore con farlo
morire; onde accordati gli assassini, questi postisi in aguato in ima solitu-
dine fra Milano e Como, dove all'Inquisitore occorreva passare, quando lo
videro, gli corsero subito colle spade nude addosso, e l'uccisero. Di che fat-
tosene in Milano gran rumore, e preso de' delinquenti severo castigo: In-
nocenzo per questo martirio sofferto, volle canonizarlo per santo ».
124 VITA DI PIETRO GIANNONE
spessi ed efficaci i loro cattivi uffici presso questo semplice e buon
pontefice, che l'indussero a farne doglianza co' ministri di Cesare
in Roma; anzi corse voce in Vienna, che, di pugno proprio, avesse
scritta una lettera all'imperadore, nella quale altamente si fosse di
ciò doluto.
O vera o immaginaria che fosse, questa lettera, non avrebbe
fatta impressione alcuna nell'imperial Corte, poiché già si sapeva
che il papa di simili lettere, scritte di suo carattere, ne avea empito
Napoli e Benevento, essendo facilissimo a scriverle ad ogni sorta
di persona, sino a' suoi arcipreti, parochi e compari, de' quali, in
tempo che fu arcivescovo di Benevento, avea avuta conoscenza e
contratta familiarità; ed in Vienna pur si sapeva, che n'erano capi-
tate alcune, scritte in raccomandazione di persone, che non me-
ritavano alcun riflesso, e per cose frivole e da poco. E si sapeva che
così faceva in Roma, essendo papa, come, in Benevento, essendo
arcivescovo, non comprendendo, finché visse, che si fosse l'esser
papa; e per ciò niente curando delle cose grandi di Stato, né della
papàl monarchia, era tutto inteso alle funzioni e cerimonie eccle-
siastiche, a battesimi, a consacrar tempii ed altari, a benedir cam-
pane, alla mondizia e polizia degli abiti ed ornamenti di sacristia,
e cose simili; sicché gli altri, scaltri ed accorti, che gli stavano
attorno, lasciando a lui queste occupazioni, a cui bene stavano,
seppero ben profittarsi del loro, e non suo pontificato. Da questo
principio nacque, che disprezzava i nunzi ch'erano nelle corti de'
principi, sicché niuno fu da lui promosso al cardinalato, chiaman-
dogli gazzettieri, li quali non facesser altro che spiare i secreti
delle corti e farne a Roma rapporto; e de' pieghi che da' nunzi
eran mandati in Roma, egli non voleva saperne cos'alcuna, né se
ne pigliava impaccio; ma così, puri e semplici, si mandavano al
secretano di Stato, di cui era il pensiero di darci quelle risposte
che gli pareva.
Quest'umore del papa, se ben mi nocesse per un verso, per que-
st'altro mi giovò, poiché il nunzio Grimaldi, ch'era nella corte di
Vienna, non si prese cura alcuna di ciò che il papa co' suoi mona-
ci sentisse per me e della mia opera; né con l'imperadore o con
altri ministri passò contro di me doglianze. Ma i mali uffici veni-
vano a dirittura da Roma; né mancarono chi, per acquistarsi meri-
to col papa, ed ivi ed in Vienna cooperassero per farmi cadere
dalla grazia di Cesare e de' suoi ministri.
CAPITOLO SESTO 125
Da' stimoli de' frati e monaci fu indotto pure il papa a dar un
passo, che lo rese non pur leggiero, ma che manifestò maggior-
mente quanta forza in lui avessero i Dominicani ; poiché, se bene
Clemente XI, non bastandogli aver proibita Y Istoria ecclesiastica di
Natal d'Alessandro, con particolar suo breve, dannandola, coman-
dasse che fosse eccettuata nelle licenze, che Roma dispensa per
legger libri proibiti, papa Benedetto XIII, come domenicano, e
perché Natal d'Alessandro fu pur monaco dell'istesso ordine, te-
nendo altro concetto della di lui Istoria che Clemente, tolse dal-
l'eccettuazione delle licenze l'opera di Natale;1 e, per far cosa più
grata a' monaci, in sua vece posevi la mia Istoria civile. E quando il
suo predecessore, Innocenzio XIII, si era contentato di semplice-
mente proibirla, né veniva eccettuata nelle licenze, egli comandò
ch'espressamente si eccettuasse; sicome poi se n'introdusse stile.
Sicché, coll'opere di Carlo Molineo,2 Macchiavelli ed altri, venne
anche ad eccettuarsi la mia.
Ebbero largo campo non meno i frati che altri, di mostrar con
Benedetto contro di me la loro animosità e bravura,3 offrendosi di
scrivere, e confutar la mia Istoria) e ciascuno prometteva d'ucci-
dere il gigante. Infra gli altri monsignor Anastaggi,4 arcivescovo di
i.papa Benedetto . . . Natale: cfr. su questo quanto il Giannone scriveva
ai fratello in data 20 gennaio 1725 (Giannoniana, n.° 79). 2. Carlo Molineo :
Charles Dumoulin (1 500-1 566), giurista francese convertitosi al calvini-
smo, passò quindi tra i luterani e fu esule in Germania, dove insegnò di-
ritto nelle università di Tubinga e di Strasburgo. Tenace giurisdizionalista,
avversò il diffondersi della Compagnia di Gesù e, rientrato a Parigi nel
I557> si batté contro l'accoglimento in Francia dei deliberati tridentini.
Scrisse numerose opere di diritto e fu il primo ad avviare il discorso critico
sul testo del Decretum di Graziano, con la propria edizione di esso, apparsa
nel 1554. 3. bravura-, spavalderia. 4. monsignor Anastaggi'. «degli Ana-
stagi » è la grafia, ìnnobilìta, usata da Filippo d'Anastasio (1656- 1735) dopo
il 1694. Napoletano, professore di diritto civile allo Studio tra il 1687 e il
1690, e di nuovo di diritto canonico nel 1697, membro dell'Accademia
Palatina del Medinacoeli sin dalla sua fondazione (1698), appartenne alla
cerchia di Giuseppe Valletta e ne condivise le idee giurisdizionalistiche,
sinché, nel giugno del 1699, non venne creato arcivescovo di Sorrento.
Appena preso possesso della diocesi, si impelagò in una disputa giurisdi-
zionale che lo portò a scontrarsi con il delegato della Real Giurisdizione
(allora ricopriva la carica Gennaro d'Andrea, per cui cfr. la nota 1 a p. 59)
finendo espulso dal Regno. Riparato a Roma, divenne assistente al Soglio
nel 1706. Rientrato in Sorrento nel 1710, dopo i mutamenti politici in-
tanto avvenuti, resignò nel 1723 in favore del nipote Ludovico Agnello,
dopo essersi invischiato in nuove beghe giurisdizionali, ottenendo in cam-
bio la nomina, da parte di Benedetto XIII, a patriarca di Antiochia. Su
I2Ó VITA DI PIETRO GIANNONE
Sorrento, il quale dimorava in Roma, essendo stato scacciato dalla
sua sede e dal regno di Napoli, come colui che avea posto in iscom-
piglio quella diocesi ed attaccando brighe di giurisdizione e stra-
pazzando quella del re, avea finalmente costretto il viceré e suo
Collateral Consiglio a farlo uscir dai Regno.1 Questi ritiratosi in
Roma, nel pontificato di Clemente XI e Innocenzio XIII fu, per
l'animo suo torbido ed ambizioso, mal visto e mal gradito; sicché,
per lunghi anni, vi dimorò inutile, né mai potè ottenere di far ri-
torno alla sua chiesa. Ma assunto al trono papa Orsino, egli si me-
scolò con la turba degli altri assentatori;2 ed entrato in concetto
del papa d'uom dotto e letterato, per darne saggio, senza che vi
fosse bisogno o occasione, diede alla luce un' Apologia? nella quale
pretese difendere se stesso, e qualificare per legittimi tutti i suoi
attentati, che avea commessi in Sorrento sopra la real giurisdizio-
ne ; ed ancorché il libro fosse ingiurioso a* reali diritti, con tutto ciò
lo dedicò al papa e, con licenza de* superiori, fu impresso in Ro-
ma. Ma dall'opera stessa ben si conosceva che l'avea data fuori non
già per sua difesa, poiché ogni contesa giurisdizionale di Sorrento,
per lo corso di tanti anni, erasi già terminata, né facevascne più
motto; ma si osservò che fu un pretesto per malmenare l'autore
dell'Istoria civile, strapazzandolo di qua e di là in più luoghi, ma
a disaggio, poiché non entrava punto alla sua materia ciò che quel-
l'autore avea scritto nella sua Istoria.4 E con tal pretesto, per ren-
di lui si veda G. M. Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia, cit., i, ad vocem
Anastasio, pp. 669 sgg. ; E. D'Afflitto, Memorie, cit., 1, pp. 324 sgg. ; F. Ni-
colini, Saggio d'un repertorio bibliografico di scrittori nati 0 vissuti nell'antico
regno di Napoli, Napoli 1962, advocem Anastasio, pp. 165 sgg.; per la sua
appartenenza all'Accademia si veda la raccolta di componimenti poetici per
la recuperata salute di Carlo II di Spagna, curata da G. L. Acampora, Na-
poli 1701, e G. Risfoli, V Accademia Palatina del Medinaceli. Contributo
alla storia della cultura napoletana, Napoli 1924; una breve notizia, infine,
in R. Colapietra, Vita pubblica e classi politiche del viceregno napoletano
(1636-1 J34)> Napoli 1961, pp. 126-7. 1. essendo . . . Regno: la controversia
giurisdizionalistica che fu all'origine dell'espulsione è narrata ampiamen-
te in F. Nicolini, Saggio d'un repertorio, cit., pp. 168-70. 2. assentatori:
adulatori smaccati. 3. Cfr. F. Anastasio, Apologia di quanto l'arcivescovo
di Sorrento ha praticato cogli economi de' beni ecclesiastici di sua diocesi, con~
segrata alla Santità di Nostro Signore papa Benedetto XIII, Roma 1724.
4. Ma . . . Istoria: i capitoli x-xm dell'Apologia sono una violenta critica
antigiannoniana, pur senza che dello storico si faccia il nome, se non lad-
dove l'autore promette di stendere in futuro «una dissertazione istorico-
teologica, divisa in quattro capitoli, e con ordine geometrico distesa, per
ritrarre il Giannone dalla falsa dottrina e dalle temerarie opinioni che avea
CAPITOLO SESTO 127
dersi più grato al papa ed alla corte di Roma, prometteva in questa
sua opera, ch'egli ne avrebbe data alla luce un'altra, nella quale
avrebbe fatto conoscere i tanti errori ed abbagli di quell'autore,
così nell'istoria come nella cronologia, e, sopra tutto, nelle cose
ecclesiastiche e teologiche; dando divantaggio un'idea dell'opera,
ed in quanti capitoli egli aveala divisa, soggiungendo, che lo faceva
mosso da spirito misericordioso e caritatevole, per ridurre quella
smarrita pecorella al suo ovile. U Apologia essendosi data alle stam-
pe e divolgata, pose tutti in aspettazione di quest'altra opera che
prometteva.
S'intese ancora che un frate franciscano de' zoccoli1 pur si era
accinto a scrivere, per confutare Ylstoria civile e che il cardinal
Annibale Albani2 gli avrebbe somministrato le spese per la stam-
pa. Ma nell'istesso tempo che in Roma questi campioni si accin-
gevano all'impresa, non si tralasciavano i mali uffici alla corte di
Vienna, ascrivendo a me ciò ch'essi facevano. Il marchese di Rialp
mi disse che veniva scritto, che io in Vienna preparava un altro li-
bro, per darlo presto alla luce. Non potei contenermi in rispon-
dergli, che mal conoscevano questi maligni non meno che ignoranti
quanto duro e diffidi fosse il dar libri alle stampe, giacché immagi-
navano che io, in mezzo a tanti travagli ed angosce, fossi in istato
di stampar libri, che forse si credevano che fosser frittole3 o fo-
questi attinto da torbide fonti» (cfr. Apologia, p. 134). Contro l'Anastasio il
Giannone stese una Risposta, i cui appunti autografi si conservano assieme
alla copia di amanuense nell'Archivio di Stato di Torino, manoscritti Gianno-
ne, mazzo 1, ins. 5 (Giannoniana, p.407). Questo scritto giannoniano, datato
1725, era destinato alle stampe, ma vi si oppose il marchese di Rialp. Quanto
alla dissertazione promessa dall'Anastasio, la si è voluta riconoscere in uno
zibaldone manoscritto conservato presso la biblioteca della Società Napo-
letana di Storia Patria (cfr. F. Nicolini, L'Istoria civile di Pietro Giannone
ed i suoi critici recenti, in «Atti dell'Accademia Pontaniana», xxvn, 1907,
memoria seconda; e, dello stesso autore, Saggio d'un repertorio, cit., p. 174;
ma di contro si veda Giannoniana, pp. 32 sgg.). 1. un frate . . . zoccoli: il
padre Giovanni Antonio Bianchi (1686-1758), teologo e consultore del
Sant'Uffizio ; provinciale del suo Ordine e polemista per parte della Curia
romana nella controversia con i Savoia. Fu arcade col nome di Laurisio
Tragiense. L'opera alla quale si riferisce qui il Giannone è il lavoro di mag-
giore impegno che egli abbia compiuto, e cioè i voluminosi Della potestà
e della politia della Chiesa trattati due, contro le nuove opinioni di P. Gian-
none, dedicati al Principe degli Apostoli. L'opera vide la luce in Roma tra
il 1745 e il 175 1, sei tomi in sette volumi. 2. Annibale Albani (1682-1751)
era nipote di papa Clemente XI (e cfr. p. 144). 3. frittole: frittelle.
128 VITA DI PIETRO GIANNONE
caccie. Che se essi aveano questa facilità io non ce l'invidiava;
attendessero pure a sfornar presto i loro che millantavano, che io
l'avrei reso pane per focaccia. Che io me ne stava co' miei guai, né
pensava a libri ; e, se non me ne dessero occasione, io me ne starei
in perpetuo in un profondo silenzio.1 Ma che la facenda era tutto al
rovescio, poiché in Roma erasi già mosso il vespaio, ed alcuni
eransi accinti a scrivere e, per ora, si aspettavano due confutazio-
ni: quella di monsignor Anastaggi e l'altra del padre franciscano.
E perché maggiormente il marchese se n'accertasse, e per l'av-
venire non dasse orecchio a simili falsi rapporti, e conoscesse co'
propri suoi occhi i raggiri e tranelli de* corteggiarli di Roma, i
quali nel tempo stesso che non vogliono che altri scriva, essi stan
facendo ciò che in altri riprendono e biasimano, pochi giorni dapoi
tornai da lui, e gli mostrai l' Apologia dell'Anastaggi ed i passi in
quella notati ingiuriosi alla regal giurisdizione; e pure il libro erasi
di fresco stampato in Roma, e dedicato al papa; dicendogli che io
d'una sola cosa vivamente lo pregava, non già che pretendessi
d'impedire che essi stampassero e divolgassero le loro confutazio-
ni; scrivessero pure e schiccherassero2 quanta carta ha il mondo;
ma che Tarmi ed il campo, fosse uguale ; e che, sicom'essi avean am-
pio arbitrio di scrivere, così mi si permettesse, se pur lo meritasse-
ro, di rispondergli. Alle contumelie e strapazzi, che avea di me
fatto monsignor Anastaggi, io non rispondeva, poiché non voglio
con essi contendere chi meglio sappia lanciar ingiurie, lasciandole
ad essi, a cui bene stanno ; ma se l'opera che prometteva,3 o pure
l'altra che apparecchiava il franciscano4 o qualunque altra che
i. Che io . . . silenzio: nella corrispondenza giannoniana vi sono diverse
lettere che trattano la questione di un'eventuale risposta all'Anastasio; le
ripetute assicurazioni di non aver intenzione di replicare sembrano provo-
cate da raccomandazioni alla prudenza, giuntegli da Napoli e dagli amici
viennesi. È ben vero che il 31 marzo del 1725 - quando ancora non aveva
letto la recensione stesagli da Biagio Garofalo (cfr. qui a p. 174) per sua
informazione - scriveva di desiderare attorno a sé il silenzio e di temere le
polemiche, sino ad affermare : « io contrasto qui con quei signori di Lipsia »
per la nota che si preparava per gli «Acta Eruditorum Lipsiensum » ; ma
più interessante sembra l'assicurazione data al fratello il 9 di giugno (cfr.
Giannoniana, n.° 97), che non avrebbe risposto all'Anastasio «senz'ordini
superiori», 2. schiccherassero \ scarabocchiassero. 3. V opera che promette-
va', cfr. alla nota 4 di p. 126. 4. il franciscano: Giovanni Antonio Bian-
chi. Sui vari tentativi di rispondere all'Istoria civile si veda in Gianno-
niana, pp. 32-6, 502-3.
CAPITOLO SESTO 120,
uscisse fuori, fosser tali che mi obbligassero a difendermi e pur-
garmi d'alcuna macchia o calunnia, che cercassero addossarmi, lo
pregava a non togliermi quella naturai difesa, che tutte le leggi
permettono a gli assaliti ed oppressi, per vindicare la lor fama ed
onore.1
Il marchese mi rispose che stessi io saldo e quieto, perché spe-
rava che non vi sarebbe altro, che dasse occasione di risposta o di
replica.2 In effetto, passò molto tempo che non si vide 0 intese
libro alcuno de' promessi e minacciati; anzi si scovrì dapoi, che
monsignor Anastaggi a tutto altro dovea pensare, che di attendere
a ciò ch'egli, forse per non mai adempirlo, avea millantato; poiché
si seppe, ch'era occupato a distrigarsi d'una accusa fattagli d'avere
espilata3 l'eredità d'una sua nipote, figliuola del fratello, il quale
avendo a lui lasciato il pensiero e la cura d'amministrarla, finché
la minore non giungesse ad età matura, il misericordioso arcive-
scovo aveasela a sé appropriata, e ridotta la nipote a chiudersi in
monastero. E le monache, in nome della medesima, l'avean mossa
lite nel tribunale della Vicaria di Napoli, a darne conto e restituir
la roba occupata alla nipote. Onde da Napoli, dove io avea scritto
ad alcuni amici, che uscendo l'opera che prometteva l'Anastaggi
non tardassero di mandarmela subito in vece di questa, mi man-
darono alcune allegazioni stampate, nelle quali era a pel rovescio
ben pelato monsignore, e scoverta a minuto e provata l'espilazione
con documenti chiari ed autentici. Dell'opera del franciscano non
x. fosser . . . onore: al posto del Giannone, rispose all'Apologia quell'Ignazio
Ottavio Vitagliano che dell3 'Istoria civile era stato l'editore, a ciò sollecitato
dall'Argento. Sennonché nella sua Difesa della real giurisdizione intorno a1 re-
gi dritti su la chiesa collegiata appellata dì S. Maria della Cattolica della città
di Reggio -, Napoli 1727, fini per criticare anche il Giannone, a proposito della
giurisdizione del Gran Cancelliere di Sicilia sotto la dominazione normanna
e angioina. Il Giannone, che già aveva espresso il suo stupore per l'iniziati-
va del Vitagliano (cfr. la lettera al fratello del 16 giugno 1725, in Gianno-
niana, n.° 98), quando ebbe in mano una copia del lavoro non potè esimersi
dallo stendere alcune note assai vivaci, che inviò al fratello l'ii agosto
{Giannoniana, n.° 106). Questi appunti furono debitamente ricopiati e dif-
fusi per Napoli - si veda la raccomandazione per la loro diffusione nella
lettera del 3 novembre, in Giannoniana, n.° 119 -, per Vienna (lettera del
27 ottobre, Giannoniana, n.° 118), e inseriti infine, dal Panzini, tra le Opere
postume, nell'edizione del 1766 e nelle successive. Ma cfr. per questa vicen-
da Giannoniana, pp. io e 128-30. 2. Il marchese . . . replica: cfr. la lettera
al fratello da Vienna (ma Perchtoldsdorf), del 1 settembre 1725 {Giannonia-
na, n.° 109), in cui si comunica che si è parlato con l'imperatore de\V Apolo-
gia dell'Anastasio. 3. espilata: sottratta.
130 VITA DI PIETRO GIANNONE
s'intese poi altro, se non che, se bene il cardinal Albani in una
stamperia ad Urbino ne avesse fatti tirar più fogli del primo to-
mo, non si era però questo mai veduto. E molto più si tenne cela-
to e soppresso, quando si vide, nell'anno 1729, l'esito infelice del-
l'opera del padre Sanfelice, gesuita, della quale favelleremo più
innanzi.1
Riputavano in Roma allora i più fini politici, che si dovesse
lasciar da parte l'opera, ed a torto ed a diritto perseguitar l'autore,
per ogni strada; che questa sarebbe stata la migliore e più accer-
tata risposta e confutazione. Ma i frati e monaci, de' quali il papa
era quasi sempre circondato, volevano che, non omessa questa
via, non si tralasciasse l'altra de' libri e delle scritture, ciascuno
pensando, con tal occasione, vantaggiar sua condizione e far mo-
stra de' suoi talenti. Non è credibile quanto fossero scossi questi
ed i curiali di Roma dalla notizia avuta, che l'imperadore pensasse
ad impiegarmi in suo real servizio, ed intanto avermi assignato
stipendio, per mio sostentamento, nell'imperial Corte. Non si sen-
tivano in Roma che minacce, e cercar maniera di attraversar ogni
mio avanzamento.
A questi tempi, venne voglia al reggente fiscal Riccardi di por-
tarsi in Napoli, per dimorarvi qualche mese, credendo ristabilirsi
meglio in salute, e far poi ritorno a Vienna, donde, ottenuta per
sei mesi licenza da Cesare, partì verso la fine del precedente anno
1734. E passato per Roma, e fermatosi ivi alquanti giorni in casa
del cardinal Sinfuego,2 ministro cesareo, intese colle sue proprie
1. 1* esito . . . innanzi: cfr. pp. 167 sgg. e la nota 3 a p. 167. 2. Sinfuego: Al-
varez Cienfuegos (1657-1739), teologo gesuita spagnolo, salito alla porpora
nel 172 1 ; fu ministro plenipotenziario dell'imperatore in Curia. Nel codice
miscellaneo della Biblioteca Nazionale di Napoli, X.D.8., alle ce. 414-6 v è
contenuta una breve biografia sua, stesa poco dopo il 1721 (vi si parla
della nomina a cardinale) e dalla quale stralciamo i passi più interessanti:
« Il P. Albaro Cienfuegos nacque nel principato di Asturias . . . non sono
titolati 1 suoi genitori, sono però del ceppo dell'Eccmi signori di Pegno-
randa e conti di Miranda. Egli fu il 3 ° de suoi fratelli, il p.mo de* quali
tirò avanti la Casa, il secondo fu vescovo di Popajan e viceré del Perù, il
quarto è Inquisitore del Messico ... In Salamanca entrò nel Collegio de
los Berdes proprio della nazione asturiana . . . qui studiò sei anni la legge
e facendo gl'esercitii di S. Ignatio tocco da Dio entrò nella Compagnia . . .
i padri lo scelsero per istruttore e padre degl'Accademici . . . Arrivò la
fama della sua capacità a Carlo 20 che per conoscerlo e trattarlo lo chiamò
a Madrid, dove lo fece ministro del gran Consiglio, chiamato da' Spagnuoli
la Giunta Magna . . . Sono cinque anni che sta in Vienna, 0 lamentandosi
gì* Augustissimi Principi che non sia a visitarli, già mai i suoi amici han
CAPITOLO SESTO 131
orecchie queste minacce. E mancò poco, per essere anch'egli odioso
di quella Corte, che, se non fosse stato accolto in casa di quel
cardinale ed insignito col carattere di ministro dell'imperadore,
non ricevesse qualche affronto ; facendosi per Roma insorger voce,
che il papa voleva che fosse posto in arresto. Sicché, impaurito,
bisognò che tosto, colla carrozza del cardinale, scappasse via ed
affrettasse il suo viaggio per Napoli; da dove scrisse a* suoi e
miei amici di Vienna, che mi avvertissero a star cauto, poich'egli
avea inteso parlar di me in Roma con tanta malevolenza ed odio,
più che se fossi un Lutero o Calvino, e che tentavano tutte le vie
per minarmi, e farmi perdere quanto io, con tanti stenti e preghiere,
avea conseguito.1
Per queste notizie io non era ad altro inteso, che a raccomandar-
mi nella clemenza di Cesare e pregare i supremi ministri, e spe-
zialmente il principe Eugenio, a volermi mantenere sotto la sicura
loro protezione, la quale era valevole a potermi scampare da' mali,
che m'erano da Roma minacciati. E poiché era assicurato che Sua
Maestà non sarebbe per abbandonarmi, e con effetto mi si conti-
nuava puntualmente, mese per mese, il pagamento del mio soste-
gno: pensai di non esser più a costo in casa altrui, ma viver per
me solo, in casa propria e con propria servitù. Onde mi appigionai
una picciola casa, e vissi senz'altra compagnia, che di alcuni libri,
de' quali mi era provveduto per mio sollievo, e perché mi si ren-
desse meno noiosa la mia solitudine.
Per la partenza del Riccardi per Napoli erasi dismessa la radu-
nanza d'amici, che le sere si univano in sua casa, e non vi rimaneva
altra conversazione, che quella che aveasi in casa del reggente
potuto ottenere, che dia questo gusto a quelle Maestà, le quali solo visita
nella Pasqua, e giorni loro natalizi . . . Tutto che sia sua professione la
teologia speculativa, e morale, è ancora eccellente in belle lettere, in Istorie
sagre e profane. E finalmente in tutto ciò, che può formare un soggetto
grande in ogni lustro. Siane in pruova la vita di S. Francesco Borgia, che
ne scrisse, e corre con universale applauso di tutta Europa ... E spen-
dendo la maggior parte del giorno in gravissimi negotii, spettanti al pro-
prio ufficio, la notte ritiratosi nel Collegio di S. Antonio magno, dove ri-
siedeva, compose i due tomi de Tnnitate, in cui si vede con un grande
ingegno accompagnata buona e soda dottrina». 1. scrisse . . . consegui-
to: altrettale raccomandazione di prudenza inviava allarmato il Gian-
none da Vienna al Riccardi, il 3 febbraio 1725, dicendo che da Napoli
erano giunte proteste per i discorsi che l'amico teneva pubblicamente e
che anche il Garelli intendeva scrivere a sua volta in tal senso al Riccardi
(Giannoniana, n.° 81).
132 VITA DI PIETRO GIANNONE
Almarz, dove io non mancava, non essendovi in Vienna per noi
altro luogo, ove convenissero più Italiani, spezialmente Napoli-
tani e Siciliani, e più opportuno per sapere ciò che di rimarco1 si
passava2 nella Corte o nella città, e ciò che s'avvisava di nuovo, oc-
corso in Italia, e massimamente in Napoli.
Nel mese di aprile di quest'anno 1725, si seppe la pace con-
chiusa tra l'imperadore e Filippo, re di Spagna, stipulata in Vien-
na e maneggiata secretamente, per parte del re Filippo, dal duca
Riperta,3 che per più mesi dimorò sconosciuto a Vienna, trattan-
dola col conte di Zinzendorf, gran cancelliere di Corte, e col mar-
chese di Rialp, ministri deputati dall'imperadore, senza parteci-
pazione di altri principi. Si pubblicò nel mese di maggio e più
istromenti di questa pace furon impressi, che ora si leggono rac-
colti nel Codice diplomatico d'Italia di Lìinig.4 Tutti gli afflitti
Napolitani, Siciliani e Milanesi si rallegrarono, in sentirla con-
chiusa, poiché si credea che la corte di Vienna venisse a sgravarsi
di tanti Spagnoli, i quali, stante la vicendevole restituzione de'
beni, dignità ed onori, convenuta nel nono articolo della medesima,
dovessero ritornare in Ispagna, nelle loro paterne case; e di ve-
dersi con ciò la beneficenza cesarea ristretta a' suoi propri e fedeli
sudditi e vassalli de' regni e Stati d'Italia, che stabilmente rimane-
vano sotto il clementissimo suo dominio. Ma ecco come i giudici
umani spesso s'ingannano.5 Questa pace produsse effetti contrari:
non solo quelli che vi erano, maggiormente vi si stabilirono, ma
ne vennero poi a truppe degli altri da tutti i regni della Spagna, e
spezialmente dalla Catalogna, Valenza e d'Aragona; i quali a guisa
di locuste corrodevano tutti gli emolumenti, che da' domìni d'Italia
provenivano, non lasciando a' nazionali che qualche miserabile
spicilegio che, doppo raccolta la messe rimaneva. Il Consiglio non
per ciò lasciò di chiamarsi di Spagna, come prima; né nelle spedi-
zioni si lasciò la lingua spagnola, ancorché non avesse da impac-
1, di rimarco-, di notevole (francesismo), a. si passava: accadeva (fran-
cesismo). 3. Nel ... Riperta: il barone Johan Willem van Ripperda
(1680-1737) fu una tipica figura del Settecento europeo. Olandese di na-
scita, vero avventuriero, fa il favorito di Elisabetta di Spagna, sinché non
cadde in disgrazia, nel 1726. La pace alla quale qui si allude è quella che
concludeva il lungo dissidio sorto attorno alla corona di Spagna all'aprirsi
del secolo, con la morte di Carlo II di Absburgo. 4. J. Ch. Lùnig,
Codex Italiae Diplomaticus, cit, ni, 1732, coli. 885 sgg. 5. ecco . . . sHngan-
nano: cfr. Ariosto, Ori. fur ., 1, 7, 2: «ecco il giudicio uman come spesso
erra».
CAPITOLO SESTO I33
darsi che de' soli regni e Stati d'Italia. Sicome i nomi dell'inqui-
sitore e del commissario della cruciata1 non si ristrinsero alla sola
Sicilia, poiché Napoli e Milano non han crociate; ed in quanto al-
l'Inquisizione, quella di Milano non è sottoposta a quella di Spa-
gna, e Napoli non ne riconosce alcuna, ma si ritennero come prima
quelli d'Inquisitore generale e Commissario generale delle Spagne.
E se doppo questa pace, si vide assai più multiplicare il numero
degli Spagnoli in Vienna e negli altri Stati d'Italia, sottoposti al-
Timperadore, ch'empivano le secreterie ed i tribunali, meritamente
non si dovea lasciar il nome e l'idioma di Spagna; poiché questi
Stati d'Italia eransi resi fondi fruttiferi ed ubertosi, destinati non
pur a satollar quanti Spagnoli venivano di Spagna, ma a ripulirgli e
mettergli in agiatezza e commodità ed in istato splendido e de-
coroso, ornandogli di cariche, toghe, ufHci ed altri onori e dignità;
e perché la maggior parte era gente inetta, inutile e sfaccendata,
molti eran provveduti di pensioni, benefìci, diarie ed altre sovven-
zioni. Fu cosa veramente da stupire in loro la franchezza colla
quale ci venivano, come se fosser invitati a certi e non dubbi gua-
dagni e mercedi; e se alcuni di loro eran dimandati perché, la-
sciando la propria patria, eran venuti in paese sì stranio e lontano,
rispondevano : per aver la consolazione di vedere la faccia del lor
padrone. Riputavano come se l'imperadore fosse il vero re di
Spagna, giacché in vigor della pace stessa gli era conservato il titolo
1. dell'inquisitore . . . cruciata: il Tribunale dell'Inquisizione di Spagna
era un tribunale d'appello per reati compiuti nel Regno di Sicilia con
sede a Vienna, al quale «rare volte accade che da Sicilia vengano ri-
corsi o se gli somministri materia per aver da fare; e se pur vengono casi
da risolvere, si riducono a fanatismi, a stregherie di visionari ed a bestem-
mie, le quali tosto si qualificano per ereticali, a sortilegi, bigamie e cose
simili; e poiché sovente manca affatto la materia da impiegarsi agl'Inqui-
sitori stessi di Sicilia, essi per non rimanere oziosi si danno in cerca di fare
e procurano di qualificare ogni delitto per ereticale » così il Giannone, nella
sua Breve relazione de1 Consigli e Dicasteri della città di Vienna, in Opere pò-
stume, ir, p. 202. Quanto al Tribunale del commissariato generale della
crociata, « la sua principale incombenza non si riduce ad altro, che a rive-
dere i conti della esazione, e tener ragione del numero de' biglietti che si
dispensano in quel regno per obbligar quei sudditi, pagando il dazio, a ri-
ceversi le indulgenze plenarie, ad eleggersi proprio confessore, che tosto
che sarà da essi eletto, se gl'infonde la potestà di potergli assolvere da tutti
i casi riservati, a poter mangiare cacio ed uova ed altri si fatti cibi ne*
giorni quaresimali, ed in altri dì in Italia vietati, e ad ottenere simili agia-
tezze di palato e comodità di vivere ». Così sempre il Giannone nella rela-
zione citata, pp. 202-3.
134 VITA DI PIETRO GIANNONE
di Re Cattolico e, per questa cagione, la prima arciduchessa1 la
chiamavano principessa d'Asturia. E come se Filippo V fosse ri-
maso in Ispagna governadore di que' regni, pensavano che Cesare
potesse a suo arbitrio disporre di essi e di quel principe; il quale,
per importargli molto la sua confederazione ed amicizia, sarebbegli
stato ubbidiente, e come uom ligio secondarebbe i suoi voleri e
desideri.
Quindi sursero le strane voci e fantasie di nuove nozze e pa-
rentadi, affin di stringere maggiormente questa alleanza, e che
Timperadore, avendo con sé la Spagna, poteva burlarsi di tutti gli
altri principi di Europa. Questa fu la radice della mala pianta che
germogliò poi tanti triboli, sterpi e pruni. Questa pace tirò seco
l'alienazione dell'Inghilterra e dell'Olanda dall' imperadore, e l'al-
leanza che poi l'Inghilterra strinse colla Francia ed altri principi,2
a' danni del medesimo. Quindi vennero gli sconcerti di nuova
guerra della Spagna con gl'Inglesi,3 e poi la pace di Siviglia4 colla
Spagna, Francia ed Inghilterra, escludendone Timperadore, e tanti
altri cangiamenti e variazioni di sistemi, e nuove idee de' principi
d'Europa sopra la misera Italia rimasa per segno e come bersaglio
delle altrui voglie ed invasioni.
Gli Spagnoli di Vienna nudrivano allora concetti tutto diversi e
lontani: che non vi sarebbe potenza che potesse contrastare col-
Timperadore, avendo seco unita la Spagna, lusingandosi che fosse
impossibile che questa potesse da lui staccarsi e far leghe con altri
principi. Sembrava ad essi esser un sol corpo, e reggersi da un
sol capo, qual era Timperadore; e da ciò nasceva che tutti gli Spa-
gnoli si riputavano di lui fedeli sudditi, anzi che l'Italia non po-
tesse reggersi senza gli Spagnoli, come quegli ch'erano più esperti
nell'arte del governo e nell'amministrazione della giustizia, ne'
Consigli e ne' tribunali, degl'Italiani stessi e molto più de' Tede-
schi.5 Quindi si procurava che, in luogo de' vecchi e degli estinti,
i. la prima arciduchessa: Maria Teresa. 2. V alleanza . . .principi: la Lega
di Hannover, del settembre 1725, tra Inghilterra, Francia e Prussia, a cui
aderirono anche i Paesi Bassi, la Svezia e la Danimarca, contro la costitu-
zione della Compagnia di Ostenda. 3. gli sconcerti . . . Inglesi: l'assedio di
Gibilterra del 1727. 4. la pace di Siviglia: fu firmata il 9 novembre 1729,
tra Francia, Spagna e Inghilterra. Vi aderì, il zi di quel medesimo no-
vembre, anche l'Olanda. 5, anzi . . . Tedeschi: Tironia è palesemente ama-
ra, riferendosi alla personale esperienza del Giannone, il quale trovò in
Corte sempre la strada sbarrata da Catalani e Spagnoli, nella sua ricerca
di un incarico.
CAPITOLO SESTO 135
si sorrogasser altri Spagnoli; e, dolendosi sovente l'imperadore,
quando accadeva la morte di qualche ministro spagnolo, che gli
andavano mancando gli Spagnoli, essi intrepidamente gli rispon-
devano che non ne sarebbero a Sua Maestà mancati in eterno,
poiché vi erano in Castiglia, Lione, Aragona, Valenza, Catalogna
e negli altri regni di Spagna soggetti eminenti, da potergli impie-
gare in suo real servizio, nell'imperial Corte e ne' Consigli e tri-
bunali d'Italia e di Fiandra. E questo concetto, che senza Spagno-
li Timperadore non potesse ben governare gli Stati d'Italia e di
Fiandra, fu presso di loro non men fermo e costante che antico,
finché ne fece acquisto; poiché soleami dire il conte di Serbellon,1
consigliero del Consiglio di Spagna per Sicilia, che l'arcivescovo di
Valenza, ch'egli chiamava suo zio, quando si mandarono da Vien-
na i plenipotenziari nel congresso della pace, apertosi in Cambra!,*
gli disse che avea raccomandato all'imperadore che nelle istruzioni
che dovea dargli, non si fosse dimenticato fra l'altre aggiungervi,
che rimanendo la Spagna al re Filippo, fosse in suo arbitrio di
chiamare a Vienna que' soggetti spagnoli, che gli bisognassero, per
impiegargli nel governo de' suoi Stati d'Italia e di Fiandra; e, se
non si potesse ciò ottenere indefinitamente, almanco che si conve-
nisse d'un certo e determinato numero.
La pace di Vienna di quest'anno produsse ancora altri non cre-
duti effetti, poiché invece, secondo la comune credenza che distac-
cati questi regni e provincie dalla Spagna non si dovessero per
l'avvenire adoperar ministri spagnoli, non solamente vie più si
stabilirono, ma resero il lor governo più assoluto e vigoroso, ad
esclusione di tutti gli altri che non fossero di lor nazione; anzi
n'erano così gelosi che altri non se n'impacciasse, che pian piano
si procurava da' viceregnati stessi di Napoli e di Sicilia e da' go-
verni di Fiandra e di Milano d'escluderne ogni altra nazione, per
fargli cadere nelle loro mani.
In effetto, il viceregnato di Sicilia erasi già reso spagnolo, suc-
i. Serbellon: il conte Juan Basilio Castelvi di Cerbellon, nipote ed erede
deirarcivescovo di Valenza. Fu reggente prima per la Sardegna, quindi per
la Sicilia nel Consiglio di Spagna. Cfr. H. Benedikt, Dos Kónigreich Neapel,
cit., p. 240 e passim. 2. congresso . . . Cambrai: il lungo e infruttuoso
congresso apertosi nel gennaio del 1722 e protrattosi sino al 1725, per il
regolamento delle pretese imperiali e spagnole. La soluzione fu raggiunta
al di fuori del suo ambito, nelle trattative dirette e segrete che lo stesso
Giannone ha rammentato più sopra.
136 VITA DI PIETRO GIANNONE
cedendo al duca di Montelione napolitano, il marchese d' Almenara
spagnolo ;x e doppo due trienni che lo tenne, vi fu sustituito il conte
di Sastago* pure spagnolo, al quale, se le moderne rivoluzioni di
cose non avesscr tutto cambiato, se gli era dato per successore il
marchese Rubi,3 catalano. E se non fossero accadute queste ultime
mutazioni di dominio, lo stesso sarebbe accaduto del regno di
Napoli; e già si era cominciato; poiché, rimosso il cardinal Althan,
vi fu mandato da Sicilia per viceré interino lo stesso marchese di
Almenara, che lo tenne sei mesi, fino all'elezione del conte d'Har-
rac,4 tedesco; e si millantava che, non essendovi di altre nazioni
persone idonee e capaci, finalmente doveasi ricorrere a' Spagnoli,
de' quali era propria l'arte del governo, e spezialmente de' vice-
regnati.
In Fiandra quali accorgimenti e machine non si usarono, per
far che il principe Eugenio di Savoia, che n'era governadorc, con
proporre all'imperadore, che quo' popoli resterebbero contentis-
simi, se avessero la consolazione di avere per govcrnatrice l'arci-
duchessa sua sorella,5 da far sì che il principe, accortosi delle loro
gabale, resignasse6 il governo in man di Cesare, il quale lo diede
all'arciduchessa, che si portò a Bruselles per amministrarlo? E
1. In . . . spagnolo: Nicola Pignatelli, duca di Monteleone, fu viceré
di Sicilia dal 17 19. Gli subentrò, nel 1722, il marchese di Almenara y
Palma, Joaquim Fcrnandez Portocarrero, il quale passò a sua volta, ira
l'agosto e il dicembre del 1728, a Napoli, dove resse interinaimente quel
viceregno. Sul suo governo in Napoli si veda quanto è narrato nel Racconto
di varie notizie, cit., pp. 128-47. Non va confuso con l'omonimo patriarca
di Antiochia (168 1- 1760), ministro plenipotenziario di Spagna presso la
Santa Sede, prefetto della Congregazione delle Indulgenze e infine creato
cardinale nel concistoro del 9 settembre 1743. 2.// conte di Sastago:
Cristóbal Fernandcz de Cordoba, marchese di Aguilar e conte di Sastago
y Murato, fu viceré di Sicilia dal 1728, subentrando al Portocarrero. Fu
rimosso e destituito dalla carica nel 1734, non avendo retto all'urto delle
armate borboniche. 3. il marchese Rubi: José Antonio Rubi y De Bo-
xadors (1669-1741) fu viceré di Sardegna dal 1717, dopo averne partecipato
alla conquista alla testa delle truppe imperiali. Nel 1734 venne precipito-
samente nominato viceré di Sicilia, in luogo del conte di Sastago (cfr. p. 250),
4. Aloys Thomas Raimund von Harrach (1669- 1742), conte, viceré di Na-
poli dal dicembre 1728 al giugno 1733. 5. V arciduchessa sua sorella: Ma-
ria Elisabetta d'Absburgo (1 680-1 741), figlia dell'imperatore Leopoldo I e
perciò sorella di Carlo, ebbe il titolo di arciduchessa reggente di Fiandra.
6. resignasse: rassegnasse. Tòltogli nel 1717, dopo la pace di Rastadt, il go-
vernatorato di Milano, gli era stato assegnato quello delle Fiandre, dal
quale dovette dimettersi, ancora una volta per gli intrighi di Corte, nel
1724, ottenendo in compenso il titolo onorifico di «vicario» in Italia del-
l'imperatore.
CAPITOLO SESTO 137
ciò non fu per altro, che trovandosi il principe di Cardona presi-
dente del Consiglio di Fiandra in Vienna, il quale, avendone il
principe Eugenio il governo, mal potea col suo Consiglio, che per
la maggior parte si componeva di Spagnoli, disporre delle cose di
quelle province a lor arbitrio e talento : s'ingegnarono farlo cadere
in man di femmina, affinché francamente ne potesser disporre si-
come l'evento il dimostrò. E fu veduta allora cosa molto maravi-
gliosa e stupenda, che per compensare profusamente al principe
Eugenio il soldo e gli emolumenti che ritraeva da quel governo,
pensarono che Pimperadore gli conferisse una nuova carica, quanto
splendida e illustre altrettanto vana ed immaginaria, senza funzio-
ne ed esercizio alcuno, qual fu quella di vicario generale d'Italia,
ma nel diploma, che pur si legge impresso nel Codice diplomatico
d'Italia di Lùnig,1 fu chiaramente espresso che non ne avesse es-
sercizio, né tutto ciò che seco portava la carica di onori e premi-
nenze, se non quando il principe fosse in Italia: cosa che ben pre-
vedevano esser impossibile; poiché, per le altre gravi cariche che
occupava il principe, come di presidente del Consiglio di guerra, di
generalissimo delle truppe cesaree, d'esser il primo nel Consiglio di
Stato e della Conferenza: l'imperadore non l'avrebbe mai allonta-
nato dalla sua persona ed imperiai sua Corte, se non in qualche
grave spedizione militare. Ma il più sorprendente fu, che poco cu-
rando della miseria nella quale si sarebbero ridotti gli Stati d'Italia,
con altro nuovo ed insopportabil peso: nel diploma istesso fu costi-
tuito al principe, come vicario generale d'Italia, che non si voleva
se non ideale ed immaginario, il soldo di centoventimila fiorini l'an-
no, da pagarsigli sopra gli Stati suddetti, anticipatamente e con pre-
lazione a gli stessi soldi de' viceré di Napoli e di Sicilia e del gover-
nadore di Milano ; ripartendosi la somma, la metà che dovesse pa-
garla il regno di Napoli, importante2 fiorini sessantamila, e dell'altra
metà trentamila il regno di Sicilia, ed altrettanti lo Stato di Milano.
Questi nuovi pesi non si ebbe difficoltà d'imporgli sopra Italia e
far sì che puntualmente, anno per anno, gli si fosse pagata la som-
ma, purché sodisfacessero a' loro fini e raddolcissero l'animo esa-
cerbato del principe contro di loro; il quale, a tutto altro pen-
sando, che per una tal carica, che ben sapeva dover riuscire im-
maginaria, dovesse pagarsegli vero e real soldo, ricusava riceverlo;
1, J. Ch. Lùnig, Codex Italìae Diplomaticus, cit., 1, coli. 335-8. z. im-
portante: assommante a.
138 VITA DI PIETRO GIANNONE
ma Timperadorc volle che, in tutte le maniere, l'accettasse. E fu
allora per Vienna divolgato che il principe, quando la prima volta
gli furon portate le polizze del pagamento, avesse detto che gli
Spagnoli volevano che ancor lui divenisse spagnolo; essendo fra
di essi introdotto costume che si profondessero soldi, mercedi e
pensioni, non già a chi avea servito o stesse in attuai servizio di
Cesare, e colla sua opera conferisse in qualche cosa al pubblico
bene, ma unicamente si badava al maggior agio, commodità e pri-
vata fortuna del provisto.
Il tempo dimostrò che volevano, che il principe fosse sol con-
tento di questa paga, e non s'impicciasse punto delle cose d'Italia;
e n'erano così gelosi, che se bene il principe mal volentieri s'intri-
gasse delle cose loro, se mai occorreva che alcuno ricorresse alla
sua protezione, per ottener qualche grazia 0 favore, questo istesso
bastava per esserne escluso, sicome sperimentai nella mia persona,
poiché sapendosi che io frequentava la casa del principe, non era
ciò da' Spagnoli molto gradito, e bisognava con molta riserba e
destrezza portarmi, per non guastare i miei fatti, e mostrare una
total dipendenza da loro; la quale nemmeno mi giovò, perch'essi
erano intenti a favorire quelli della propria nazione, e non pensare
ad altri.
Nell'està di quest'anno ebbi da Napoli l'infausto avviso della
morte del mio vecchio padre:1 rimanendo mio fratello solo ad
amministrare ed aver pensiero delle robe ivi rimase e di tutta la
casa. Ed inchinando quest'istesso anno verso il fine, avvenne che
il Riccardi, volendosene da Napoli tornar in Vienna, navigando
per l'Adriatico nella stagione molto avanzata d'autunno, corse for-
tuna in quel mare; e dimorato più settimane in un'isola deserta
di quel golfo, prese porto a Venezia, dove trattenutosi pochi giorni,
passò in Verona, invitato e ben accolto dal marchese Maffei,* pen-
sando ivi trattenersi fin che non passasse la rigidezza dell'inverno ;
ma, o fossero i passati patimenti e disaggi della sofferta borasca,
0 le troppe carezze del Maffei, mentr'era in Verona, una notte, fu
x. Nell'està . . . padre: ma si veda invece la lettera al fratello Carlo in data
13 ottobre 1725 (Giannoniana, n.a 116): «Quanto inaspettata, altrettanto
dolorosa m'è riuscita la novella, che in questa settimana mi dà della morte
del nostro vecchio padre». Evidentemente la memoria ha fatto qui difetto
al Giannone. 2. Lo storico, erudito e antiquario Scipione Maffei (1675-
I75S)» una delle figure di maggior rilievo del nostro Settecento.
CAPITOLO SESTO 139
assalito da apoplessia così grave, che in pochi momenti gli tolse la
vita.1
Pervenuta la rea novella di questa improvvisa morte a Vienna,
dovendosi provveder la carica di avvocato fiscale, che rimaneva
vacante, i Napolitani si credevano di poterla ottenere e si facevano
innanzi: lo stesso fecero i Siciliani, i quali pretendevano che, aven-
dola prima ottenuta un milanese, qual fu Belgredi,2 dipoi un napo-
litano, qual era Riccardi, dovea ora conferirsi ad un siciliano. I
pretensori italiani erano molti, lusingandosi che, sicome prima non
era stata provveduta se non a nazionali di que' regni e Stati, sopra
i quali si raggirava il Consiglio di Spagna: così ora non se gli do-
vesse fare questo torto, con vederla passata negli Spagnoli.
Gli amici mi consigliavano con gli altri a doverla ancor io pre-
tendere ; e tanto più, che in ciò dal principe Eugenio ne avrei potuto
ottenere ogni mediazione e favore.3 Sicome, avendolene io fatto
1. una notte . . . vita: cfr. la lettera del Maffei ad Antonio Vallisnieri,
del 29 marzo 1726: «Il Sig. Riccardi non può più portare le vostre
copie se non all'altro mondo, per il quale ha fatto viaggio la passata
notte. Il poveretto è stato colto da un colpo di apoplessia, che in mez-
z'ora l'ha finito, senza ch'abbia potuto dir parola. Questo accidente
m'ha grandemente afflitto. Benché stravagante in alcune opinioni, e giu-
dica, egli era però uno di gran letterati che io abbia mai conosciuto, e
dovevo avergli obligo per l'affetto e stima, che mostrava verso di me»
(Epistolario, a cura di C. Garibotto, 1, Milano 1955, pp. Si 3-4)- Ma si
veda anche la lettera del Giannone al fratello, del 30 aprile (Giannoniana,
n.° 143), nella quale egli dice di sperare che il Riccardi sia morto ignorando
quanto si è detto contro di lui negli ultimi tempi. Le sue esequie diedero
occasione, a Napoli, ad una manifestazione di solidarietà con le idee che
egli aveva professato, tanto da essere espressamente portate ad esempio
della difficile situazione in cui versava la Chiesa nel Regno, nell'istruzione
della Segreteria di Stato per il nuovo nunzio a Vienna, Passionei: «Mori
il Riccardi: el Ministero con tutti 1 curiali in corpo, e buon numero di
prima nobiltà, celebrò con ovazione e pompa funebre solennissimo fune-
rale . . . onore non mai fatto a i patrizi più benemeriti della patria ne'
grandi affari o di guerra o di pace » (Archivio Segreto Vaticano, Nunziatura
di Germania, 501, ce. 193, istruzione del 28 gennaio 1731). 2. Belgredi:
Giambattista Belcredi, conte, fu fiscale nel Consiglio di Spagna dal 17 13
(cfr. H. Benedikt, Dos Konigreich Neapel, cit., p. 227), avendo sotto di sé,
come profiscale, il Riccardi. Sulle cupidigie spagnole alla morte del Ric-
cardi si veda la lettera del Giannone al fratello, del 18 maggio 1726 (Gian-
noniana, n.° 147). Lo stipendio del Riccardi, in qualità di fiscale, era di
seimila fiorini, stipendio al quale andavano sommati i tremila che gli spet-
tavano in quanto prefetto della Biblioteca Palatina: cfr. p. 141. 3. Gli . . .
favore: il 16 marzo di quell'anno il Giannone aveva scritto al fratello:
«contro il mio naturale mi sono avvezzato a far tanto del corteggiano, che
non me l'avrei mai creduto, o che da me stesso avessi potuto prometter-
melo» (Giannoniana, n.° 138).
140 VITA DI PIETRO GIANNONE
motto, non me ne riputò immeritevole, anzi mi disse, che gli avessi
portato il memoriale, ch'egli l'avrebbe dato in mano di Sua Maestà,
con raccomandarmici, sicome feci; ed il principe, che fra l'altre
ammirabili sue doti adempiva esattamente quanto prometteva, non
mancò di parlarne all'imperadore e darlcne memoria.
I Tedeschi che frequentavano la Corte, a' quali io era ben noto,
parimente procuravano di aiutarmi, per quanto essi potevano;
ma io, con tutto ciò, non c'entrai in alcuna speranza, sapendo che
dovea tal prò vista passare per le mani de' Spagnoli, i quali ne
avrebbero escluso ogni altro, per farla cadere in persona d'un loro
nazionale. Essi, a questo fine, lasciarono passare la furia e gl'im-
pegni di tanti, né, per più e più mesi, si parlava di provvederla,
dando a credere a molti, che questa carica fosse inutile nel Consi-
glio, poiché tutti i reggenti erano fiscali; ma all'imperadore la
predicavano per utilissima e necessaria; sicché, doppo passati quasi
due anni, quando altri meno sei pensava, si vide provveduta in
persona del reggente Alvarez,1 spagnolo di Salamanca, il quale
dimorava in Napoli con posto di reggente di quel Consiglio Col-
laterale.
Rimaser tutti sorpresi, in vedere che dal supremo Consìglio di
Napoli si prendesse un reggente, per occupare in Vienna la carica
di fiscale, quando prima, ed in Vienna istessa ed in Madrid, nel
Consiglio d'Italia, si chiamavano da Napoli i consiglieri di Santa
Chiara ed i presidenti della Regia Camera, non già i reggenti, ad
occupare gli stessi posti di reggentati, non pur di fiscale, solito ad
eleggersi dall'Ordine degli avvocati; tanto maggiormente, che il
fiscal di Vienna avea da contrastar co' secretari di precedenza,
poiché questi pretendevano, ch'essendo essi decorati col titolo di
consiglieri, doveano nel sedere ed in ogni funzione precedere al
fiscale. Ma gli Spagnoli altramente l'intendevano, poiché, per far
entrare nella loro nazione quella carica, ch'era stata prima occupata
dagli Italiani, scelsero tutto un reggente del Collaterale di Napoli,
spagnolo, perché niuno potesse con lui contendere per graduazione
e per merito, qualificandolo ancora per un gran cattedratico: che
non si sapeva, e poi si seppe, che era in sua gioventù stato catte-
dratico, non già in Salamanca, ma a Pavia, procuratagli questa
cattedra da un suo fratello, che si trovava senatore in Milano, dove
1. reggente Alvarez: cfr. la nota 2 a p. 92.
CAPITOLO SESTO 14I
queste cattedre soglionsi dispensare a' figliuoli o parenti di que'
ministri, come se fossero benefìci semplici.
Entrata questa carica nella nazione spagnola, non ne uscì mai
più : poiché, passato dapoi l' Alvarez ad esser reggente per Milano ;
fu rifatto fiscale Esmandia,1 pure spagnolo, che si trovava senatore
a Milano; e quando prima non gli era assignato altro soldo, se
non di seimila fiorini l'anno, poiché al Riccardi se gli pagavano
novemila, esiggendo gli altri tremila come altro bibliotecario cesa-
reo, occupata che fu dagli Spagnoli, il soldo si accrebbe a novemila,
come pagavasi a tutti gli altri reggenti.
Col progresso degli anni, sicome sempre più crescevan l'avi-
dità e '1 potere degli Spagnoli nell'imperial corte di Vienna, ed alla
svelata eran da essi trattati gli Stati d'Italia come propri patri-
moni; così si scemavano le speranze de' nazionali di quella, i quali
assolutamente doveano dagli Spagnoli mendicar grazie e favori, e
raccogliere le miche che cadevano dalle lor mense.
A me non solo portava nocumento questo sistema, ch'era un
mal comune, ma si opponeva la corte di Roma, la quale sotto
Benedetto non cessava di perseguitarmi; tanto maggiormente che
alla giornata, nel processo del tempo, la mia opera era da tutte
le nazioni ricercata ed avidamente letta e commendata; ed in Na-
poli avea rischiarati molti, spezialmente la gioventù; sicché co-
minciavano nelle loro menti a germogliare altre idee di quelle, che
i libracci forensi e' goffi canonisti le tenevan ingombrate, e le
scritture che uscivano ne' tribunali, per occasione di qualche con-
tesa d'immunità locale 0 personale, ovvero reale delle persone e
beni ecclesiastici, erano dettate secondo i veri princìpi d'una solida
giurisprudenza. La gente si rese più cauta di colmare di maggiori
averi e ricchezze le chiese ed i monasteri, e si procurava d'impedirgli
ulteriori acquisti di beni stabili; e moltissimi eran ricreduti di
tante vane ed inutili superstizioni, rendendosi più accorti per elu-
dere le ippocrisie e li sottili artifici de' preti e de' monaci.
In Fiandra, spezialmente in Bruselles e Lovanio, dove più es-
semplari della mia Istoria eran pervenuti, era da molti stanca e
riletta; sicché si scrivea da' Fiaminghi a Vienna, ch'essi ora sape-
vano più del regno di Napoli, che delle proprie loro provincie; e
poiché io, in più luoghi dell'opera, non lasciai di far onorata me-
1. Esmandia-. le uniche notizie su questo personaggio sono quelle qui ri-
ferite dal Giannone.
142 VITA DI PIETRO GIANNONE
moria di Van-Espen, famoso professore di Lovanio e celebre per le
insigni sue opere,1 questo savio e venerando vecchio, che ancor
vivea, me ne fece render le grazie, ed avendo allora dato alla luce
quel dotto libro De recursu ad principem,7, me ne mandò in dono
un esscmplare, perché io avessi di lui qualche memoria.
In Francia non era meno ricercata, e da Parigi ne vennero più
richieste al cavalier Garelli, il quale non mancò, di que* essem-
plari che io feci venire a Vienna, di mandarne alcuni a' suoi amici,
che gli richiesero.
Tutte queste cose maggiormente irritavano i curiali di Roma,
talché le loro persecuzioni si resero più fiere ed incessanti; ed
arrivò la loro animosità ed odiosa malevolenza a tale estremità,
che tutti quelli che leggevano quest'Istoria, e mostravano esser
persuasi della sua dottrina, preti o monaci che si fossero, si acqui-
stavano la loro indignazione, e gli chiamavano, per rendergli odiosi
alla corte di Roma, « giannonisti ». Come se io insegnassi cose nuo-
ve, e non già vecchie, scritte da' più accurati, dotti, seri e gravi
scrittori, che io, fuor del costume degli altri storici, additava nel
margine, perché ciascuno potesse riscontrargli e non si abbando-
nasse alla sola mia narrazione; sicché io soleva dire a coloro che
mal riferivano, che mi mostrassero qual fosse questa nuova dottri-
na che io insegnava, giacché mi riputavano capo d'una nuova set-
ta. Ma per mia buona sorte le loro detrazioni e maladicenzc sparse
per Italia, e le loro insidiose gabale non poterono tesserle a questi
tempi neirimperial corte di Vienna, per un'occasione a me favo-
revole: e fu, che non ostante che Timperadorc, per i preceduti
trattati avuti col pontefice Innocenzio XIII, avesse restituito alla
Chiesa di Roma Comacchio3 su la fiducia che non si sarebbe fatta
1. Van-Espen . . . opere: cfr. la nota 3 alle pp. 41-2. 2. De recursu adprinci-
pem : vedilo negli Opera omnia canonica, integra et completa, Venetiis 1769, vr,
n.° 5. Cfr. anche la lettera del Giannone al fratello, in data 29 agosto 1725
(Giannoniana, n.° ioo), in cui avvisa di aver ricevuto l'opera in omaggio dal-
l'autore. 3. Vimperadore . . . Comacchio : le Valli Comacchiesi, considerate
feudo imperiale distinto dal ducato di Ferrara, erano state occupate dalle
truppe del generale Daun al cornando di Claude de Bonneval nel 1708
e avrebbero dovuto essere restituite al duca d'Este, al quale erano ap-
partenute sino alla devoluzione alla Chiesa del ducato di Ferrara. Sul
problema storico-giuridico di questo possesso si accese una vivace po-
lemica, che ebbe come principale protagonista Ludovico Antonio Mura-
tori, in quegli anni consultore del duca di Modena Rinaldo d'Este, ma
alla quale parteciparono largamente anche giuristi tedeschi e persino il
Leibniz. Restate sotto occupazione austriaca sino al 1725, le Valli furono
CAPITOLO SESTO I43
eseguire in Sicilia la bolla di papa Clemente XI intorno all'aboli-
zione del tribunale della Monarchia,1 ma che le cose fossero in
quello stato, nel quale prima erano, né sopra ciò si tentasse alcuna
novità; papa Benedetto, istigato da alcuni ippocriti zelanti, senza
participazione del collegio de5 cardinali, restituito che fu Comac-
chio mandò a' vescovi di Sicilia suoi brevi, co' quali se gl'impone-
va ch'esercitassero lor giurisdizione in quell'isola secondo il pre-
scritto della bolla di Clemente, niente curando gli antichi stili ed
usi, che e' riputava abusi, del tribunal della Monarchia; ed il
modo che tenne di far pervenire in man de' vescovi i brevi fu di
mandar il piego, nel qual erano chiusi, al cardinal Sinfuego mini-
stro cesareo, perché lo istradasse per Sicilia; ed a lui, come arci-
vescovo di Monreale,2 fu drizzato altro consimile particolar breve,
affinch'eseguisse quanto in quello si conteneva. E quel buon cardi-
nale, per ubidire a Sua Santità, si ricevè il breve e mandò il piego
in Sicilia all'arcivescovo di Palermo,3 a cui era drizzato; il quale di-
spensò i brevi a tutti i vescovi dell'isola, mettendola in iscompi-
glio per la novità che si pretendeva introdurre, in tempo che i
Siciliani men se '1 pensavano.
Pervenuta all'imperadore una tal notizia, se ne sdegnò forte-
mente; ed ancorché il Gran Cancelliere, conte di Zinzendorf, ed il
marchese di Rialp, l'uno, per non guastar i suoi trattati, che avea
infine sgomberate e riconsegnate al pontefice, in cambio del riconosci-
mento da parte di questi della Prammatica Sanzione, con la quale Pim-
peratore intendeva assicurare la continuità del proprio trono. In ricompen-
sa per il buon esito delle trattative diplomatiche, Benedetto XIII elevò alla
porpora il figlio del conte Sinzendorff, Philipp Joseph Ludwig. Sulla polemi-
ca comacchiese e la sua importanza per il movimento giurisdizionalista, cfr.
S. Bertelli, Erudizione e storia in Ludovico Antonio Muratori, Napoli i960,
pp. 100-74. 1. la bolla, . . Monarchia-, sull'intero problema si veda G.
Catalano, Le ultime vicende della Legazia Apostolica di Sicilia. Dalla con-
troversia liparitana alla legge delle Guarentigie (1711-1871), Catania 1950;
nonché l'ormai vecchia opera di F. Scaduto, Stato e Chiesa nelle Due Sicilie
dai Normanni ai nostri giorni, Palermo 1887. Qui basti ricordare che Filip-
po II nel 1579 aveva istituito in Sicilia un tribunale stabile, denominato
ludex monarchiae siculae, al quale delegava l'esercizio della giurisdizione
ecclesiastica, in nome della monarchia sicula, di quel diritto, cioè, preteso
dai re di Sicilia, di esercitare nel loro regno anche il supremo potere eccle-
siastico, in quanto rappresentanti della Santa Sede. Il 20 febbraio 17 15
Clemente XI soppresse il tribunale con la costituzione Romanus Pontifex.
2. Sinfuego . . . Monreale: il Cienfuegos, dopo un breve possesso della dio-
cesi di Catania (1722- 1725), era stato traslato alla sede di Monreale, che
mantenne sino alla morte (pur risiedendo in Curia, quale rappresentante
dell'imperatore). 3. arcivescovo di Palermo: Joseph Gasch (1653 circa-
1729).
144 VITA DI PIETRO GIANNONE
in Roma del cardinalato dell'abate Zinzendorf, suo figliuolo,1 aven-
dosi procurata la nomina del re di Polonia;2 l'altro, per non inter-
rompere le speranze del cardinalato all'arcivescovo di Salerno, suo
fratello, ed il corso delle fortune che si prometteva per l'abate
Pcrlas, suo figliuolo, e suoi nepoti che teneva in Roma3 s'ingegnas-
sero di raddolcire il giusto sdegno di Cesare ; nulladimanco - poi-
ché tutto il Consiglio di Spagna fortemente si opponeva alla novità,
riputandola un manifesto attentato, e di continuo rappresentava a
Sua Maestà che non si dovesse soffrire, ma che le cose rimanessero
in Sicilia nel primiero stato, cassando 1 brevi mandati, né permet-
tendo a' vescovi di attentar cose nuove: l'imperadore si appigliò
a questo savio lor parere e comandò a quel viceré che impedisse
ogni novità che mai tentassero.
A questa briga, poco dapoi, se n'aggiunse un'altra, e fu per l'oc-
casione che il cardinal Annibale Albani fece in magnifica forma
imprimere un nuovo Bollarlo* di tutte le costituzioni, bolle, brevi
ed infino i biglietti, che papa Clemente suo zio, in tempo del suo
pontificato, avea fatti, li quali, raccolti in questo volume, si pre-
tendeva farli passare per leggi universali e che servissero prò regi-
mine urbis et orbisi nel quale erano inserite più bolle, brevi ed atti
pregiudizialissimi alle reali preminenze, e spezialmente al tribu-
nale della Monarchia di Sicilia; sicché, esposto a gli occhi di Cesare,
co* fogli segnati dove si leggevano tante offese e strapazzi, che si
facevano non meno de' reali diritti, che de' ministri di Sua Mae-
stà, ciò pur mosse l'indignazione di Cesare a far sì che quello
non fosse ricevuto in tutti i regni ed ampi suoi domìni ; ed ancor-
ché dal Consiglio di Spagna si rappresentasse che dovesse, con
pubblico editto, proibirsi ne' suoi Stati, e l'imperadore mostrasse
d'uniformarsi al lor parere, nulladimanco il marchese di Rialp,
per man di cui, come secretano di Stato, dovean passar gli ordini,
gli andò differendo in guisa, che col tempo raffreddate le cose e
l'imperadore ad altro inteso : finalmente tanti romori si ridussero,
che il marchese di Rialp scrivesse una lettera al viceré di Sicilia,
i. per . . . figliuolo', trattative che ebbero buon esito, come già s'è detto,
alla nota 4 di p, 99. z. re di Polonia-. Augusto II il Forte (1679-1733),
già elettore di Sassonia, salito sul trono polacco nel 1697. 3. V altro . . .
Roma: sulle ambizioni della famiglia, e in particolare di Paul Perlas de
Vilhena, fratello del ministro, e di Juan, figlio di questi, si vedano le
note 2e3 ap. 114. 4. Clementi Undecimi pont. max. Bullarium) Romae
1723.
CAPITOLO SESTO 145
colla quale, con molta cautela e secretezza, se l'imponeva, che nel-
l'immissione de5 libri in quell'isola, avvertisse di non farci intro-
durre il Bollano dementino, con darne ordini secreti a' guardiani
de' porti. Ciò che niente giovò ; poiché si intese dapoi, che in Pa-
lermo, Messina e nell'altre città di Sicilia, se n'erano introdotti e
se n'introducevan tanti, quanti n'erano da Roma mandati.
Pendenti queste brighe, e mostrando la corte di Vienna esser
mal soddisfatta della corte di Roma, o contro di me non s'indriz-
zavan mali uffici, o se pur si tentavano erano infruttuosi, mal in-
tesi e non curati.
11
[1726]
Intanto eravamo già nell'anno 1726. Ed io, a mio danno, avea
sperimentato quanto fossi stato mal consigliato, in volere, essendo
solo, prender casa da per me,1 e mettermi nelle mani di servitori
stranieri, che avesser cura delle mie cose domestiche: non solo la
spesa erami cresciuta e resa insopportabile, ma era pessimamente
servito e, quel che fu peggio, due volte fui rubato : una da un ser-
vitore trentino, l'altra da un tedesco di Linz, capitale dell'Austria
superiore; i quali se ne scapparon via, doppo avermi votati i
scrigni, dove teneva riposto qualche contante, e se bene non fosse
molto, nulladimanco a me che non avea altro, se non quello che
m'era somministrato dalle mie mesate, ogni scossa di queste mi
metteva a terra.
Conobbi da ciò, che saviamente facevan coloro, i quali, non aven-
do grossi stipendi che potessero sostener, per sé soli, la spesa d'una
casa, procuravano entrar in costo in un'altra e, communicate le
facoltà,2 vivere più agiatamente, senza darsi in mano de' servidori,
per esser rubati e mal serviti. A me si aggiunse, per farmi risolvere
a questo partito, una particolar cagione ; e fu che, avendo contratta
amicizia e familiarità colla casa del vecchio Plekner e conosciuta
la sua famiglia, che si componeva di donne discrete, da bene ed
affezionate, volentieri mi deliberai ad unirmi con loro: e tanto
maggiormente che, oltre al maggior aggio e cura, che per le mie
cose domestiche n'avrei ritratto, avrei potuto molto giovarle e sol-
x. Intanto . . .me: cfr. p. 131. 2. communicate le facoltà: messi in comune
i mezzi di sostentamento.
146 VITA DI PIETRO GIANNONE
levarle dalle strettezze, nelle quali erano cadute doppo la morte di
quel buon vecchio.
Erasene egli morto nel mese di ottobre, a Pettersdorf, dell'anno
1724, lasciando la povera vedova Leiscenhoffen, sua figliastra con
tre donzelle, sue figlie; poiché un'altra, la maggiore erasi già ma-
ritata, ed un figliuol maschio s'incamminò per la strada della mili-
zia. L'afflitta vedova, con queste tre sue figlie, perduto il marito,
e poi il padrigno, vivea senz'altro appoggio che di picciole sovven-
zioni, che l'eran somministrate dalla principessa Montecuccoli,1
grata alla memoria ed a' servigi prestatigli dal vecchio Plekner,
quando era in fiore, e sopra una picciola pensione, assignatale poi
dall'imperadore, nella Camera di Vienna. E se bene il Plekner
avesse lasciato un figlio già stabilito, essendo consigliere della Ca-
mera, nulladimanco da questi non era da sperar soccorso ; poiché,
avendo presa moglie e tenendo figli, faceva assai a provvedere alla
propria famiglia.
Si pensò, adunque, che appigionata una casa capace, nella strada
d'Italia,* con stanze separate, sicché non si ricevesse 0 si dasse
vicendevolmente incommodo e soggezione veruna, si vivesse uniti
e la tavola fosse comune, sicome si pose in effetto ne' princìpi di
maggio di quest'anno, somministrando io il piggione per le mie
stanze e quanto bisognava per le serve e vitto. Sperimentai che,
se bene non vi fosse risparmio e mi costasse la stessa spesa, che mi
bisognava essendo solo, con tutto ciò era trattato meglio, che se
fossi in Napoli in casa propria, ben aggiato e pulitamente servito ;
e sopra tutto piacevami che fossi di gran giovamento e sollievo a
quelle infelici, le quali, molto grate e riconoscenti di quanto io le
giovava, non è da esprimere l'affezione e la cordialità, colla quale
io era trattato.
Fra le tante mie persecuzioni e sciagure, par che la divina prov-
videnza mi avesse serbata questa unica consolazione e conforto:
di aver trovate in Vienna persone cotanto amorevoli ed affezionate,
che con difficoltà avrei potuto trovare fra' miei, in Napoli. Era
la LeichsenhofTen madre, una donna, quanto d'età avanzata, al-
trettanto onesta, divota e d'incorrotti costumi. Le sue occupazioni
1. principessa Montecuccoli: la moglie del conte di Montecuccoli, Ercole Pio
(1 664-1729), feldmaresciallo dell'impero, a. strada d'Italia : la Italienische
Strasse. Si veda inoltre la lettera al fratello del iz ottobre 1726 (Gianno-
niana, n.° 167).
CAPITOLO SESTO 147
non erano che, di continuo, o nelle chiese 0 in casa, pregare a Dio
ed a' santi: caritatevole verso i poveri, a' quali somministrava al-
cuni salutari rimedi, ch'essa fabbricava colle sue proprie mani,
per la perizia che n'avea, secondo il costume di alcune case tede-
sche, nelle quali le donne si applicano volentieri a tali lavori, non
si sentiva da lei parola, che non fosse modesta e savia; nemica
delle nuove rilasciate usanze, che, alla giornata, vedeva introdotte
in Vienna, e rigida osservatrice dell'antiche. Ma molto più risplen-
devano le sue virtù, per l'educazione colla quale avea allevate le
tre sue figliuole, gentili, modeste, discrete, ben accreanzate e di
costumi santissimi, che tiravan la benevolenza ed amore di quanti
le trattavano.
Ma sopra le altre sorelle s'innalzava la mezzana, Ernestina di
Leischsenhoffen,1 la quale alla onestà, modestia, civiltà ed altre e-
roiche virtù, delle quali era ornata, accoppiava in tutte le cose una
somma diligenza, sincerità, acutezza e prudenza, e, sopra tutto,
d'esser discreta, economica ed in tal grado di perfezione, che,
essendo ancor giovinetta, il vecchio Plekner, suo avo, aveale ap-
poggiata l'economia della sua casa, che trattava con tanta saviezza,
avvedutezza e sollecitudine, che mi soleva dire quel buon vecchio,
che se non avesse in sua casa la Frailé1 Ernestina, che la reggesse,
avrebbe in istato assai peggiore passati gli anni della sua vecchiaia;
ma che Iddio l'avea lasciato almanco questo conforto, d'aver per-
sona non men fedele che affezionata, la quale tenesse esatta cura
non men del suo corpo, che delle cose sue familiari e domesti-
che. Questa savia donzella, adunque, avendo preso sopra di sé la
cura de' miei affari domestici e di tutto ciò che si apparteneva ad
abiti, mobili di casa ed ogni altro che mi bisognasse, e facendolo
con molta affezione, lealtà ed esattezza, mi alleggerì di molte fa-
stidiose cure, alle quali, massimamente in paese forastiere, io era
inetto ed impaziente, sottraendomi dagl'inganni e furberie de'
servidori: sicché, d'allora in poi, non attesi che a' miei studi ed a
procurare che non si differisse di vantaggio l'adempimento di
quanto nell'imperial decreto stavami promesso.
Essendo io sì ben aggiato ed in mezzo a' Tedeschi, ciascuno
crederà che io avessi dovuto perfettamente apprendere la lor lin-
gua; ed in vero, tali e tanti furono gli sforzi delle mie commensali,
i. Ernestina di Leischsenhqffen: vedi a p. 5. 2. Fraile: deformazione di
Fràulein.
I48 VITA DI PIETRO GIANNONE
le quali s'ingegnavano che io dovessi impararla, che cosi avrebbe
dovuto succedere; ma avvenne il contrario, poiché, invece d'ap-
prender io la lingua tedesca, impararono esse l'italiana; sicché, tol-
tone la madre, ch'era d'età molto avanzata, le tre figlie, e spezial-
mente l'Ernestina, in poco tempo l'appresero si perfetta, che spedi-
tamente poi la parlavano. Da ciò avvenne che io non ci avessi
più cura, ed avendo resa quasi tutta la casa italiana, parlava sempre
col mio linguaggio, col quale era ben inteso; oltre che la mia età
avanzata non era acconcia a poter ridurmi a fissarmi ad una sì
vasta ed intricata lingua, che ha voci composte di tante consonanti
e poche vocali, che mal si adatta alla pronuncia degl'Italiani.
Si aggiungeva il gran numero degl'Italiani ch'erano in Vienna,
co' quali io conversava, e che nelle case nobili tedesche si parlava
e s'intendeva non men il francese che l'italiano; sicché non vi era
quella necessità, ch'è la maggior maestra delle lingue, che m'obbli-
gasse ad apprenderla. Ed intorno a' libri, gli scrittori più dotti e
savi non si valevano della tedesca, dandoli alla luce, ma sì bene del-
la latina, perché fossero letti.
Proseguendo adunque con maggior aggio la mia dimora in Vien-
na, e reso noto non meno a' personaggi illustri della Corte tedeschi,
che forastieri che vi dimoravano, o impiegati con pubblico mini-
stero servendo qualche principe, ovvero per privati loro interessi ;
se occorreva trattarsi di qualche grave lor causa, sapendo la mia
professione d'avvocato, non mancarono alcuni di richiedermi del
mio patrocinio. E poiché in tutti i Consigli e dicasteri di Vienna
non è costume di parlarsi le cause in Ruota, ma solamente di scrivere
su gli articoli controversi, ed informarne i ministri nelle loro case,
sovente era ricercato, spezialmente dagl'Italiani, di farlo nelle lo-
ro liti.
Così, tenendo il console imperiale Mariconi,1 agente di Sua Mae-
stà cesarea in Genua, una lite con alcuni mercanti catalani, monsi-
gnor Mariconi, suo fratello, che dimorava a Vienna, mi richiese
che io prendessi la sua difesa; sicome feci, distendendo alcune al-
1. Il barone Bartolomeo Mariconi. In questa causa il Giannone fu aiutato
da Francesco Mela (su cui cfr. la nota 1 a p. 78): cfr. la lettera al fratello
del io agosto 1726 (Giannoniana, n.° 159) e lettere seguenti dell'agosto, del-
l'ottobre e, in particolare, quella del 16 novembre (Giannoniana, n.° 173),
nella quale indica le fonti di cui si è servito, per la discussione sulla valuta
e sui cambi.
CAPITOLO SESTO 149
legazioni,1 che dimostravano l'insussistenza della pretensione de*
Catalani. Parimente il duca della Saponara, siciliano, decorato con
titolo di Principe dell'Imperio, avendo una grave lite nella confe-
renza delle poste sopra rufficio di Corrier maggiore delle poste di
Sicilia, si valse dell'opera mia in sua difesa: la qual lite, finalmente,
fu terminata per mezzo d'un amichevole accordo, in vigor del
quale gli fu conservato l'ufficio, transiggendo le pretensioni fiscali,
collo sborso di non picciola somma di denaro.2
Fui dapoi richiesto dal marchese di Corese, Maffeo Barberini,3
romano, di scrivere nella causa, che avea col cardinal Barberini4
intorno all'intelligenza del testamento di papa Urbano Vili,5 ch'e-
scludeva le femmine nella successione de' fideicommissi ordinati,
essendovi maschi naturali, ancorché non legitimi. E vi composi
un'allegazione,6 nella quale dimostrai non pur la chiamata del
marchese, ad esclusione delle femmine; ma eziandio le alte pre-
minenze e sovrane potestà, che i monarchi tengono sopra i matri-
moni delle persone illustri, loro suddite e vassalle, che era l'altro
articolo, che ivi occorreva d'esaminarsi. E da' Genovesi, per mezzo
del marchese Clemente Doria, era ancor richiesto per difesa di
qualche lor causa.7
Da Napoli non mancavano gli avvocati miei amici di commetter-
i. alcune allegazioni: la scrittura relativa a questa causa è in Archivio
di Stato di Torino, manoscritti Giannone, mazzo n, ins. 4, GGG {Gianno-
mana, p. 436). 2. Parimente . . . denaro : questa causa, intentata dal du-
ca della Saponara, Vincenzo Di Giovanni e Zappata, principe del Sacro
Romano Impero e membro del Consiglio di Spagna, è cosa diversa dal-
l'altra, ricordata a p. 70, riguardante il marchese di Rofrano, Girolamo
Capece. Il fascicolo autografo di questa ultima causa è nell'Archivio di
Stato di Torino, manoscritti Giannone, loc. cit., FFF (Giannoniana, p. 426).
Anche per questa causa il Giannone chiese l'aiuto del Mela: cfr. la lettera
del 19 luglio 1727 (Giannoniana, n.° 208). 3. Maffeo Barberini: costui era
figlio naturale di don Urbano (morto nel 1722). 4. Il cardinale Francesco
Barberini (1662-1738). La causa, secondo quanto riferisce il Panzini, p-44>
era in realtà tra il marchese e la figlia legittima di don Urbano, Cornelia.
Il cardinale intervenne presso l'imperatore, in favore della nipote. 5. Ur-
bano Villi al secolo Maffeo Barberini (15 68-1 644), eletto pontefice nel
1623. 6. un'allegazione-, cfr. Ragioni del marchese D. Maffeo Barberini so-
pra la successione della casa Barberini derivanti dalle disposizioni del pontefice
Urbano Vili, Vienna 1726. È stata ristampata dal Panzini tra le Opere
postume, 11, pp. 207 sgg. 7. da* Genovesi . . . causa: dì questa causa man-
cano notizie precise ; però il Panzini, p. 44, riferisce che, su incarico del
Doria, il Giannone si occupò di una causa di fidecommesso a favore della
duchessa di Nevers. Materiali concernenti il marchese Doria nell'Archivio
di Stato di Torino, manoscritti Giannone, loc. cit., RR {Giannoniana, p. 423)-
150 VITA DI PIETRO GIANNONE
mi la difesa di qualche grave causa de' loro clienti, che occorreva
doversi trattare nei Consiglio di Spagna; sicome fu quella sopra
la visita particolare istituita contro il presidente di Camera Lione;1
l'altra, che dapoi fummi commessa, a difesa del duca di Maddaloni,*
imputato, di suo ordine ed intelligenza, essersi commesso in Na-
poli un omicidio in persona d'un notaio; ed altre di vari signori,
come della principessa, e poi del principe di Tarsia suo nipote,
del principe di Montemilctto,3 del duca di Sant'Agapito, ed altre
cause di baroni, sicome di comunità ed altre città del Regno, le
quali ne' seguenti anni, secondo le occasioni, mi eran commesse.
Dagli emolumenti e ricognizioni, che m'eran somministrate per
queste mie fatiche, non solo potei fornire di migliori mobili le mie
stanze e, di volta in volta, comprar qualche libro, sicché, in decorso
di tempo, potei farmi una picciola biblioteca; ma, ponendo da
parte qualche contante, arrivai sino alla somma di fiorini mille,
li quali, nel mese di decembre del seguente anno 1727, per non
tenerli oziosi, gli posi nel Banco della città di Vienna, con trarne
profitto di fiorini cinquanta l'anno.
[17271
In questo nuovo anno 1727, mentre era occupato nelle liti del
console Mariconi, del presidente Lione e del duca della Saponara,
dovendo distendere alcune allegazioni per lor difesa, e la Corte es-
sendosi, secondo il solito, trasferita nel £xi d'aprile a Laxemburg,
pensai, per più aggiatamente farlo, di passare a Petterdorf con le
1. il presidente . . . Lione: cfr. la lettera al fratello, del 9 novembre 1726
(Giannoniana, n.° 172) ; e ancora l'altra del 20 settembre 1727 (Giannoniana,
n.° 217). Da un'altra lettera, sempre al fratello, del 4 dicembre 1728 (Gian-
noniana, n.°279), sembra che alla causa fosse interessato anche l'abate Pietro
Contegna, amico del Giannone. Questa causa si trascinava ancora nell'aprile
del 1730 e nel maggio di quell'anno il Giannone finiva per disinteressarsene.
2. duca diMaddaloni: Maurizio Carafa. Cfr. la lettera al fratello, del 29 mar-
zo 1727 (Giannoniana, n.° 192), dove dice di non voler essere nominato avvo-
cato del duca. 3. ed altre . . . Montemilettoi materiali della causa del prin-
cipe d'Acaya e Montemiletto Leonardo di Tocco, nell'Archivio di Stato
di Torino, manoscritti Giannone, mazzo n, ins. 4, T (Giannoniana, p, 421);
la sua Supplica . . . a S.M.C, affinché interponga il suo real assenso per la
vendita di Fontanarosa e Torre delle Nocelle, ivi, manoscritti Giannone, maz-
zo 11, ins. 3 (Giannoniana, p. 418). Per la causa della principessa di Tarsia
contro il conte della Cerra numerose notizie si hanno dal carteggio col fra-
tello, a partire dal 20 luglio 1726. La fatica del Giannone non fu in questo
caso ricompensata, ed egli se ne lamentò a lungo.
CAPITOLO SESTO 151
genti di casa, le quali ivi aveano non meno stima e rispetto, che
tutto l'aggio e commodità: sicché nel mese di maggio ancor io vi
fui, e non posso negare, che la villeggiatura mi riuscì non men
acconcia, per finir ivi, con riposo e quiete, quelle mie fatiche, ma
molto utile per lo ristabilimento di mia salute ; né ci restituimmo in
città, se non a* princìpi di luglio, dove arrivati, mi sopragiunse
un'occasione, la quale, se la presunzione, l'invidia e l'ambizione
degli uomini non mi fossero stati d'impedimento, mi avrebbe per
nuovo merito agevolato l'adempimento della promessa, fattami da
Sua Maestà, nell'imperial suo decreto.
La corte di Roma, vedendo che Cesare ed il Consiglio di Spagna
eran fìssi nel proposito di non far seguire novità alcuna in Sicilia,
riguardante il tribunal della Monarchia, né far ivi valere i brevi
del papa, con sottil artificio propose questa controversia della Mo-
narchia di finirla per via d'una amicabile composizione; ed in
Roma, non meno i ministri del papa che que' di Cesare, spezial-
mente il cardinal Sinfuego vi davano mano, ciascuno prometten-
dosi, i pontifici dalla corte di Roma, i cesarei da quella di Vienna,
ampi premi e mercedi, se mai per le loro mani un affare cotanto
scabroso e grave, che per lunghi anni erasi aggitato e mosso, ve-
nisse a terminarsi amichevolmente e per via d'un concordato. Ma
non avrebbero i pontifici conseguito il lor intento, se non avesser
procurato trar alla lor parte due principali ministri, per i quali
allora reggevasi la corte di Vienna: il Gran Cancellier di Corte,
conte di Zinzendorf, ed il marchese di Rialp. Quali fu facile trargli
a sé: il primo, per lo cardinalato già accordato al figlio;1 il secondo,
per l'altro che sperava doversi conferire al fratello,2 oltre alle alte
speranze concepite per lo figliuolo,3 che tenea in Roma, ben istra-
dato nella prelatura. Questi si adoperarono in guisa coll'impera-
dore, che acconsentisse che si aprisse in Roma il trattato di accor-
do, lusingandolo, che avendo dalla lor parte il cardinal Coscia,4
1. lo cardinalato . . .figlio: cfr. la nota 4 a p. 99 e la nota iap. 144. 2. al
fratello: cfr. la nota 2 a p. 114. 3. lo figliuolo: cfr. la nota 1 a p. 114.
4. Niccolò Coscia (1682-1755), segretario dell'arcivescovo di Benevento Pie-
tro Francesco Orsini, ne fu il conclavista nei conclavi del 1721 e del 1724,
nel quale ultimo condusse le trattative per l'elezione dell'arcivescovo al
Soglio. Ricambiato con la nomina a segretario dei memoriali e l'elezione
ad arcivescovo di Traianopoli in partibusy fu il favorito di Benedetto XIII
e, alla morte del cardinal Fabrizio Paolucci (12 giugno 1726), gli subentrò
nella carica di Segretario di Stato, dopo essere stato elevato alla porpo-
ra nell'anno precedente, e aver ricevuto la carica di vescovo coadiutore di
152 VITA DI PIETRO GIANNONE
cotanto dal papa favorito, non poteva riuscire se non per lui van-
taggioso. E si guardavano di mescolarvi il Consiglio di Spagna,
temendo non questo rendesse vani tutti i lor disegni.
Datane adunque commissione al cardinal Sinfuego di trattarlo,
valendosi di quelle persone ch'egli riputasse capaci ed idonee, fu
cosa veramente da muovere insieme riso e compassione; poiché
in un affare sì grave e cotanto scabroso e vasto, il cardinale, che
per se stesso non ne era capace, in vece di valersi di ministri pro-
vetti, dotti ed informati, facendogli, bisognando, venir da Palermo,
come più istrutti, o pur da Napoli, che non ne mancavano intesis-
simi di tali reali preminenze, si pose nelle mani di alcuni monaci
ed altri soggetti, che non sapevano che si fosse ed in che consi-
stesse questo tribunal della Monarchia;1 e, sopra tutto, d'un tal
Perelli:z uomo idiota e senza lettere, il qual non ne intendeva
Benevento, con diritto alla successione. Spentosi il suo protettore il 21
febbraio del 1730, il giorno dopo egli fu cacciato dai palazzi pontifici su
ordine del cardinale camerlengo, mentre in Roma si avevano dimostrazio-
ni contro il suo malgoverno e la corruzione della sua corte. Apertosi un
processo, venne condannato il 9 maggio 1733 a dicci anni dì carcere, come
ladro e falsario, e rinchiuso in Castel Sant'Angelo; passò poi alla resi-
denza coatta del monastero di Santa Prassede, dalla quale fu liberato solo
con la morte del suo nemico, papa Clemente XII. Graziato dal nuovo
pontefice, Benedetto XIV, si ritirò in Napoli. 1. Datane . . . Monarchia:
la storia di queste trattative è stata ampiamente descritta da F. Scaduto,
Stato e Chiesa nelle Due Sicilie, cit., da L. v. Pastor, Storia dei papi, xv,
Roma 1933, passim, e ultimamente da G. Catalano, Le ultime vicende della
Legazìa Apostolica di Sicilia, cit. I monaci, ai quali il Giannone allude,
altri non sono che il vescovo di Tcodosia e segretario della Congregazione
del Concilio Prospero Lambertini (il futuro Benedetto XIV), e l'abate Ce-
lestino Galiani, uomini che non appartenevano certo al partito degli «ze-
lanti », né potevano dirsi imperiti come qui afferma il Giannone, il quale in-
tende criticare, soprattutto, i termini del concordato che venne raggiunto,
a. Pietro Perrelli, duca di Monasterace, giurista napoletano. Tra le carte
Galiani conservate presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia
Patria, XXX. A. io., ai fl". 1-1 1 si ha una Copia di relazione fatta a S. M. sotto
il x gennaio xj2<j dal Signor Duca Pietro Perrelh da Roma, nella quale si
danno importanti notizie su una sua missione a Napoli: «Subico, che fui
giunto a Napoli . . . cominciai dal raccogliere le notizie necessarie, e molti
ottimi lumi furono a me suggeriti dal Viceré e dal Presidente del Consiglio.
Volli ancora parlare, ma sempre con molta riserva, a qualche reggente del
Collaterale; ma in molti di essi, a tenore delle relazioni già da me ricevute,
trovai o poca esperienza in simili affari, o troppa ostinazione in non voler
andare al bene, ed anche in taluno molta inclinazione per la parte di Roma;
quindi confrontando queste osservazioni colle notizie raccolte da uomini
savi, senza ch'essi scoprissero lo scopo delle mie ricerche, mi avvidi non
essere sperabile un buon accomodamento, qualora il disegno del trattato
si comunicasse a' suddetti reggenti, o anche solamente fosse da loro pene-
CAPITOLO SESTO 153
nemmeno i termini, sol perché questi avea acquistata familiarità
e dimestichezza col cardinal Coscia, e questi era da lui riputato
Tistromento più efficace, per ridurre il trattato a buon fine.
Gli accorti e scaltri pontifici non ne vollero altro, per aggirargli
dov'essi volevano, e trattando con tali persone imperite, le quali
erano volentieri entrate neir affare, per far cosa grata più al papa,
dal quale ne speravano maggior ricompensa che dall'imperadore,
gli fu facile, co' loro arzigogoli e raggiri, tirarli non solo a ciò ch'essi
desideravano, ma di dargli a sentire che la conchiusion del trat-
tato, secondo ch'essi avean concertato, fosse più vantaggiosa per
Cesare che per Roma. Ed in vece d'un concordato, la cosa si ri-
dusse ad una costituzione, che il pontefice avrebbe stabilita, colla
quale si sarebbe data nuova forma e metodo, per regolare nell'avve-
nire le cause ecclesiastiche del regno di Sicilia. Stesero per ciò
una minuta di questa costituzione, la quale veduta, postillata ed
esaminata in Roma da que' campioni che il cardinal Sinfuego avea
scelti per parte dell'imperadore, pareva ad essi che fosse da ac-
cettarsi, e non frapporre momento di tempo per venirsi alla pub-
blicazione, come cosa cotanto vantaggiosa; e farsi presto acciocché
i pontifici non si accorgessero del loro svantaggio; ed avendone
persuaso a quel buono e semplice cardinale, questi in diligenza
spedì lo stesso Perelli a Vienna,1 a portar la minuta della bolla
concertata; il quale, come se portasse una novella d'essersi in
battaglia sconfitto qualche numeroso essercito nemico, ovvero pre-
sa per assalto un'importantissima ed inespugnabil piazza, andava da
per tutto gridando vittoria, vittoria; e portatosi dal marchese di
Rialp e dal conte di Zinzendorf, diedegli per finita, con vantaggio
di Cesare, ogni cosa: e questi, come imperiti di tal materia, leg-
trato. Tra essi il solo conte Pery mi parve il meno trasportato e sarei
per dire il più fornito delle vere massime, che possono agevolare la riu-
scita dell'affare ». Dal che si ricava come la trattativa abbia scavalcato l'in-
tero Consiglio del Collaterale, suscitando ire delle quali, ad evidenza,
il Giannone si fa qui portavoce. Segnalo che altra relazione, questa stesa
a dieci anni di distanza, per informazione di Carlo III di Borbone, è con-
servata presso la Biblioteca Nazionale di Palermo. Quanto alle relazioni
del cardinal Cienfuegos, utilizzate dal Pastor, ma non dal Catalano, queste
si conservano nell'Archivio Reuss di Ernstbrunn; esse giungono però solo
al termine dell'anno 1727. Una bibliografia delle opere, a stampa e mano-
scritte, che la controversia originò, in G. Catalano, op. cit., pp. 151 sgg.
1. spedì . . . Vienna: il Perrelli giunse a Vienna il 5 settembre 1727. Sul-
l'udienza e il colloquio con l'imperatore si veda L. v. Pastor, Storia dei
papi, cit., xv, p. 519.
154 VITA DI PIETRO GIANNONE
gendo la minuta e credendola quale il Perelli la decantava, anda-
rono a rallegrarsene coll'imperadore, dicendogli aver avuto ot-
timo successo il trattato con Roma, secondo la minuta mandata;
e che non si ricercava altro, che Sua Maestà comandasse al cardi-
nal Sinfuego (il quale aveagli pure scritto di tenor conforme a
quanto il Perelli millantava), che procurasse farne dal papa stender
la bolla, per mandarla in Sicilia. L'imperadore mostrossene con-
tento, ma volle che prima la minuta si mandasse ad esaminare nel
Consiglio di Spagna, se mai occorresse qualche altra cosa da av-
vertire. Il marchese di Rialp ed il conte di Zinzendorf, persuasi
che, come vantaggiosa, non vi avrebbe il Consiglio niente da ag-
giungere o levare, ma che in tutto l'avrebbe approvata e commen-
data, non vi posero alcun ostacolo, ma la mandarono sotto Tesarne
del medesimo, di buona voglia.
Quando nel Consiglio fu letta la minuta, tutti, e spezialmente i
reggenti provinciali di Sicilia, Almarz e Perlongo, rimasero sor-
presi che, in vece d'un concordato, la facenda si fosse ridotta in
Roma ad una costituzione, nella quale il papa tanto era lontano
che rivocasse quella di Clemente XI, che abolì il tribunale, che
sembrava più tosto che la confermasse; e che, non facendosi me-
moria delle antiche reali preminenze, né degli antichi stili ed usi
di quel tribunale, il papa di pianta1 par che nuovamente volesse
egli regolare e dar nuovo sistema in Sicilia intorno al modo di
trattar le cause ecclesiastiche, e che non si concedesse altro a Sua
Maestà, se non che la nomina o reiezione del giudice, il qual era
dal papa, in vigor di questa bolla, costituito tale, dandogli giuris-
dizione, e limitandogliela in certi casi; e, sopra tutto, si voleva
che quel giudice, il qual non si chiamava mai della Monarchia,
ubbidisse a' chirografi che fossero firmati da Sua Santità, e che in
qualunque causa eseguisse quanto per quelli gli fosse commandato.
Si accorsero ancora del sottil artificio praticato, per ingannare que'
semplici ed imperiti, co' quali fu in Roma la minuta concertata;
poiché, per non fargli accorgere di questi gravissimi pregiudizi,
che s'inferivano alle reali preminenze, gli gettarono polvere a gli
occhi, per certe nuove facoltà che si concedevano al giudice, le
quali, se bene con magnifiche parole si descrivessero per grandi,
sicché da ciò credettero che fosse l'accordo vantaggioso, in realtà,
oltre di star sottoposte ad essergli rivocate, ben esaminate si ridu-
rr dì tianta: dalle fondamenta.
CAPITOLO SESTO 155
cevano a picciole cose e Roma, concedendole, niente veniva a
perderci, ed avrebbe importato poco che il giudice l'avesse o non
l'avesse.
Non mancò il Consiglio, in ciò tutto uniforme, di rappresentare
alla Maestà dell' imperadore gli danni notabilissimi e sommi pre-
giudizi, che, con accettarsi la minuta, s'inferirebbero al tribunal
della Monarchia; che, per ciò, si dovesse rifiutare e sciogliersi
ogni trattato con Roma, che non poteva riuscire se non in maggior
ruina di quel tribunale; ma che Sua Maestà, per sé medesima,
che poteva ben farlo, desse ordini in Sicilia di non far seguire
novità alcuna, ma il tribunale fosse conservato in quella stessa
forma che l'avean fatto essercitare i re di Spagna, suoi predecessori,
senza mendicar da Roma altro aiuto o soccorso.
Il marchese di Rialp ed il conte di Zinzendorf, vedendo, fuor
di ogni loro aspettazione, che il Consiglio minava quanto essi
avean fabbricato, prevennero coll'imperadore, dandogli a credere
che il Consiglio per astio, che senza sua partecipazione erasi in
Roma aperto quel trattato, procedeva con tanta animosità, e con
intento di distruggere quanto ivi erasi fatto, ma che non bisognava
perdere sì opportuna occasione; e, se mai nella minuta vi fosse cosa
da meglio spiegarsi e moderarsi, si facesse, ma non già rompersi
ogni trattato, poiché essi non conoscevano altro modo per quietare
quel Regno e le coscienze de' Siciliani, se non per mezzo d'una
bolla pontificia, che fosse discreta e moderata, sicché non pregiu-
dicasse a' reali diritti ed altre preminenze, che teneva in quel Re-
gno; che poteva la minuta ben rivocarsi a nuovo esame, ed eleg-
gere dal Consiglio di Spagna quattro reggenti togati, i quali col
presidente l'esaminassero e notasser ciò che l'occorreva d'aggiun-
gere, mutare o cassare; e, poiché il cardinal Sinfuego avea man-
dato il Perelli, ch'era ben istrutto di quest'affare, poteva ben questi
intervenire nelle sessioni, per informargli e meglio istruirgli di
quanto in Roma erasi passato.
Fu per tanto istituita una particolare giunta, composta dal pre-
sidente già in questo tempo rifatto in luogo del defunto, che fu lo
stesso conte di Montesanto, che prima l'avea retto come decano,
e da quattro reggenti, li quali furono li due provinciali Almarz e
Perlongo, e li reggenti Positano e Bolagnos. Fu veduta allora in
Vienna una cosa mostruosa, non meno che ridicola; poiché in
questa giunta, che si teneva in casa del presidente, si vide inter-
156 VITA DI PIETRO GIANNONE
venire il Perelli, e disputare co' reggenti di cose, ch'egli non in-
tendeva nemmeno i vocabili. E pure si ebbero ad aver la pazienza
di sentire tante scempiaggini, inezie e rodomontate; e non si fece
poco, che si contentasse, se ben di mala voglia, di quella sedia
destinatagli, perché la pretendeva uguale a' reggenti, poiché, fra
le altre doti che adornavano il Perelli, una era che a maraviglia
sapeva imitar bene le parti d'un valente Trasonc.1
I reggenti col presidente stettero saldi e fermi ne' primi senti-
menti, e furon tutti concordi in rifiutar la minuta; e se era volere
di Sua Maestà di non rompere il trattato, che se ne dovesse dettar
altra, che avesse forma di concordato, non già di costituzione. Con
tutto ciò il Perelli, oltre di dolersi non essersegii data sedia uguale,
millantava col marchese di Rialp, col conte di Zinzendorf e con
altri, che era tutta la loro ostinazione e pertinacia; poich'egli avea
con dimostrazioni chiare convinti e confusi que' dottorclii, che
cosi chiamava i reggenti, non avendo che rispondergli.2 Talché al-
cuni di allegro umore, come vanaglorioso, e prendendo per vero
quel ch'era scherno, non si ritenevano, in vederlo, d'esclamare:
Viva [viva]2 il gran Perelli
che ha confusi i dottor e Ili.
Finalmente, vedendo que' due ministri, che mal potevano arri-
vare al lor intento, se in questo affare ci avesse parte il Consiglio,
procurarono d'escludcrnclo affatto; e fecero che l'imperadore lo
commettesse alla Conferenza di Stato, la qual dovesse in tutte le
maniere finirlo con accordo ed amicabile composizione. La Confe-
renza era composta dal principe Eugenio, dal conte di Zinzendorf,
dal marchese di Rialp e da alcuni pochi Tedeschi, i quali a tutto
altro pensavano, che invilupparsi in questi intrighi ; e del principe
Eugenio, occupato ad altri importanti e gravi affari, il minor suo
pensiero era questo: sicché la faccenda si ridusse a due soli, al
conte ed al marchese, ch'era quello che cercavano, per comporla
secondo la minuta ed i dettami di Roma.
1 . Trasone : il soldato millantatore della commedia di Terenzio VEwiuchtcs.
2. I reggenti . . . rispondergli: qui il Giannone è inesatto. I reggenti rin-
viarono a Roma il Perrelli con un'istruzione, al principio del febbraio del
1728. In essa si chiedevano modifiche soprattutto nel preambolo ai capitoli
della bolla, preambolo steso dallo stesso Benedetto XI IL Questa volta toc-
cò a Celestino Galiani approntare una nuova bozza, che fu spedita a Vien-
na il 27 marzo. 3. L'integrazione è proposta dal Nicolini.
CAPITOLO SESTO 157
In questo, essendo io dalla villeggiatura di Pettersdorf ritornato
in città, sentendo le tacite mormorazioni e doglianze de' reggenti
della Giunta, ch'erano stati prima condennati a disputar con Pe-
relli del tribunal della Monarchia, e poi esclusi dall'affare, con
essersi rimesso alla Conferenza, che in sostanza era agli stessi
Zinzendorf e Rialp: dissi a' provinciali di Sicilia, che pareami che
si disputava, non men dall'una che dall'altra parte, sopra fonda-
menti falsi ed erronei ; e che, fin ora, non si era conosciuto dove si
appoggiasse °xue* tribunale e la sua vera origine, poiché tutti cre-
devano che avesse per base e sostegno la bolla di papa Urbano II;1
ciocché dava le armi in mano a' pontefici di poter, con altre loro
bolle, minarlo, moderarlo e disporlo in quella maniera, che essi
volessero.2 Ma che la bisogna era tutt'altra, e che, se si fossero
scoverte le vere origini ed i giusti e legittimi titoli, donde a' re di
Sicilia derivava quella giurisdizione, ch'essercitavano in quel tri-
bunale, cessarebbero tutte le contese, se volesse Sua Maestà con
vigore farli valere: che ben giustamente potrebbe per sé farlo, sen-
za aver bisogno di Roma.
Questo mio parlare pose in curiosità i reggenti ed altri che mi
sentivano ; e poiché erano uscite molte scritture, che giravano per
Vienna, per le quali pure, sopra i soliti appoggi, si credea abbattere
le prescrizioni di Roma, le quali non molto soddisfacevano, per
impulso d'amici, e sopra tutto del reggente Almarz, fui tanto sti-
molato e scosso, che finalmente gli promisi di volergli con una
mia scrittura manifestare; della quale, se bene per le circostanze
ree che correvano non era da sperarne alcun frutto, nulladimanco,
essendovi nella Conferenza il principe Eugenio, io l'avrei al mede-
simo presentata, per farne quell'uso che riputasse migliore, non
essendovi con altri speranza, che potessero indursi a leggerla; sa-
1. Urbano III Ottone di Lagery, cluniacense, fatto pontefice nel 1088,
riprese il programma teocratico di Gregorio VII, appoggiandosi ai Nor-
manni. La bolla, con la quale si conferiva in perpetuo la carica di Legato
ai re di Sicilia, fu emessa nel 1098. 2. ciocché . . . volessero-, il privilegio
di Urbano II, che accordava ai re normanni la qualifica di Legato per la
Sicilia, era stato menzionato nella bozza inviata per l'approvazione a Vien-
na, benché da parte degli scrittori curialisti se ne contestasse l'autenticità.
Tuttavia, benché questa suonasse come una conferma della Monarchia di
Sicilia da parte romana, il Giannone non l'accettava ritenendo che i ter-
mini dovessero essere rovesciati, insistendo (sulla scia di Marc' Antonio
De Dominis) sull'indipendenza del potere regale. Il ricordo di quella bol-
la, insomma, avrebbe fatto più risaltare il carattere octroyé del tribunale
siciliano.
158 VITA DI PIETRO GIANNONE
pendo che impegnati per raccordo, si sarebbero turate le orecchie
e chiusi gli occhi, per non sentire o vedere ciò che potesse essergli
di ostacolo o d'impedimento.
Composi in men di due mesi la scrittura, in forma di rappre-
sentazione a Sua Maestà, nella quale trattai De* veri e legitimi l itoli
delle reali preminenze che i re di Sicilia esercitano nel tribunale detto
della Monarchia:1 dimostrando che non derivavano dalla bolla di
papa Urbano II, ma l'esercitavano iure imperii, come successori
degli imperadori d'Oriente, sotto i quali la Sicilia lungamente era
dimorata fin che da' Normanni non ne fossero stati scacciati i
Greci ; e succeduti essi in luogo degli imperadori di Costantinopoli,
si mantennero quelle stesse preminenze che quelli aveano intorno
all'esterior politica ecclesiastica in tutte le chiese al trono di Costan-
tinopoli sottoposte, fra le quali cran quelle di Sicilia e di Calabria.
Che da' due Codici, teodosiano e giustinianeo, si dimostravan con
evidenza i supremi diritti ed altre preminenze, che nella Chiesa
orientale vi aveano gli imperadori di Costantinopoli. Maggior-
mente ciò dimostravano le Novelle dell'imperadorc Giustiniano, e
molto più quelle dell'ìmpcradore Lione il Filosofo e, sopra tutto,
la disposizione del trono costantinopolitano, e delle chiese a quel-
lo sottoposte, e loro gerarchia, che, per costituzione dello stesso
Lione, che leggiamo presso Leunclavio,2 fu statuita; nella quale
delle chiese di Sicilia, in quel tempo tutte sottoposte al metropo-
litano di Siracusa, fassi speziai memoria come sottoposte non già
al trono romano, ma al costantinopolitano ; che nella Chiesa greca
di Oriente non poser mai piede né Decreto, né Decretali, né si co-
nosceva quel nuovo dritto canonico, che invase ed occupò le
chiese dell'imperio di Occidente. Che i Normanni, conti e poi re
di Sicilia, avrebber potuto, come successori degli imperadori greci,
essercitare maggiori preminenze, e quante ne leggiamo nelle iVo-
i. Edita dal Picrantoni, col mutato titolo II tribunale della Monarchia di
Sicilia, Roma 1892. La minuta autografa nell'Archivio di Stato di Torino,
manoscritti Giannone, mazzo 11, ins. 6 {Oiannoniana, p. 427) datata «Vienna,
li 12 novembre 1737». Ma si veda ancora, nello stesso fondo, mazzo 11, ins.
14, A, una Memoria intorno agli abusi della potestà ecclesiastica {Oiannoniana,
p. 430), databile dopo il 1727, e che è in realtà un fotte attacco all'operato
del Perrelli. 2. Leunclavio : cfr. l'opera dello storico ed orientalista Johann
Lowenklav (1541 ?-i594), meglio conosciuto con il nome umanistico di
Iohannes Leunclavius, LX librorum (SaatXtxcov, id est, Universi iuris roma-
ni, auctorìtate principum Rom. in graecam linguam traditeti ecloga sive sy~
nopsis . . . Item Novellarum antehac non publicatarum liber, Basileae 1575.
CAPITOLO SESTO 159
velie di Giustiniano e di Lione; ma si astennero di molte, come
quelli, che procurarono le chiese di Sicilia restituirle al trono ro-
mano ; e che, sicome questi principi ritennero la cancellaria greca,
dettando in questa lingua lor diplomi e bolle, così ritennero non
men la stessa cura dell'esterna politia e governo di quelle chiese,
che il rito greco e tante altre usanze, dignità, nomi e stili della Chie-
sa greca orientale.
Si dimostrò, che la bolla d'Urbano II della legazione giovò al
conte Roggiero di Sicilia,1 per non fargli perdere queste preminen-
ze, non già che gliele desse ; poiché, prima di questa bolla Roggiero
l'essercitava, sicome è manifesto da' diplomi e bolle di questo
principe, d'erezioni di chiese cattedrali, d'esenzioni ed immunità
concesse a chiese e monasteri, e di giurisdizione conceduta loro e
tanti altri atti consimili, essercitati prima d'Urbano, sicom'è mani-
festo da' diplomi stessi, rapportati dalTUghelli, dal Pirro2 ed altri
scrittori siciliani; anzi, conformi a questi furono i diplomi dell'al-
tro Roggiero, duca di Calabria,3 il quale certamente non ebbe le-
gazione alcuna da papa Urbano, e pure nelle chiese di Calabria
essercitava ristesse giurisdizioni e preminenze, non con altro titolo,
se non quello che gli proveniva iure imperii, per esser egli succeduto
in Calabria in quelle stesse ragioni, che vi essercitavano gl'impe-
radori d'Oriente. La bolla di Urbano giovò al conte di Sicilia, per
non fargliele perdere, sicome furon perdute in Calabria, sul sup-
posto, ancorché falso, che le chiese di Calabria non fosser comprese
nella bolla d'Urbano, conceduta al solo conte di Sicilia.
Fu dimostrato, in ultimo luogo, che tutti gli accordi tentati con
Roma sopra questo tribunale o furon vani, o pregiudiziali alle reali
preminenze, e che la via più ruinosa questa fosse; ma che Sua Mae-
stà potea, da se stessa, senza aver bisogno di Roma, stabilire ciò
1. Ruggiero I (morto nel noi), conte di Sicilia. Dopo la conquista dell'i-
sola, vi ristabili la religione cattolica, ponendo a capo della diocesi vescovi
da lui nominati. L'osservazione del Giannone è storicamente esatta.
a. Ferdinando Ughelli (1594-1670), cistercense, con Italia Sacra, Romae
1644- 1662, diede per primo una storia delle diocesi italiane, con notizie
biografiche di vari vescovi, documenti inediti e cenni storici delle varie
chiese. Rocco Pirri (1577-1651), erudito siciliano, storiografo regio (di
Filippo IV di Spagna dal 1643), autore di Sicilia Sacra, Panormi 1644-
1647. 3. Non di Calabria, ma di Puglia. Ruggiero (morto nel ini) era
figlio di Roberto il Guiscardo, e perciò nipote del conte di Sicilia, dal
quale ebbe più volte aiuti militari contro Cosenza e Amalfi, in cambio della
cessione dell'intera Calabria.
IÓO VITA DI PIETRO GIANNONE
che stimerà più opportuno per norma e regola di quel tribunale.
E che, se Roma non vuol attendere né alla bolla d'Urbano, né a
prescrizione, né a tanti secoli, ne' quali furono in pacifico possesso
i predecessori re di Spagna e di Sicilia, Sua Maestà volentieri ci
dia mano ; tolga pure ogni bolla e prescrizione, e riduca le cose in
quel pristino stato, nei qual erano le chiese di Sicilia sotto gl'impe-
radori Giustiniano e Lione, che furono cattolicissimi e passimi,
ed altri imperadori d'Oriente, de* quali, come re di Sicilia, rappre-
senta le veci e le prerogative. E si vedrà, se in questa maniera ella
verrà a perderci o a guadagnare.
Questi, in breve, erano gli articoli principali di questa scrittura,
la quale, copiata ch'ebbi, fecila trascrivere da buona mano, e pri-
ma che gli altri la vedessero, la presentai al principe Eugenio,
dicendogli, che già che tutti erano in moto per questa contesa
della Monarchia di Sicilia, avea voluto anch'io, come Diogene,
muovere la mia botte, affinché altri travagliando, non fossi io
solo riputato ozioso ed infingardo, come se niente mi dovesse im-
portare la conservazione de' supremi diritti ed alte preminenze,
che Sua Maestà tiene in quel regno ; avea per ciò composta quella
scrittura, che umilmente gliela presentava; affinché, se mai le sue
gravi occupazioni gli permettessero darci occhio, conoscesse che la
strada, che in essa veniva additata, era molto breve e corta, per
uscire da ogni labirinto e da tutti gli intrighi della corte di Roma;
e che se pure non volesse tentarsi, almeno si lasciassero le cose ri-
manere come stavano, e non precipitare e metter a terra con una
nuova bolla, che se gli dà nome di concordato, quell'antico tribu-
nale, conservato sempre da' predecessori re di Spagna con tanta
gelosia ed accuratezza, come la gioia più preziosa della lor corona.
Il principe ancorché cortesamente si ricevesse la scrittura, non
potè dissimularmi il tedio e la noia che l'era data per questo affare,
dicendomi che l'avean caricato di tanti volumi di scritture concer-
nenti al medesimo, che non ci bastarebbero più mesi interi per
leggergli; e spezialmente i voti de' reggenti cosi diffusi, che quello
solo del reggente Perlongo occupava una mezza resima1 di carta,
ed egli non avea tempo per consumarlo in queste cose ; ed avendogli
io risposto, che non vi era alcuna necessità di travagliarsi con più
sottil esame, quando non possa, bastando che in Sicilia si lascias-
i. resima: risma.
CAPITOLO SESTO l6l
sero le cose come si trovavano : replicommi che questa era la diffi-
coltà, che si voleva che in tutte le maniere l'affare amichevolmente
si terminasse con bolla pontificia, dando a sentire che altrimenti le
coscienze tenere e delicate de' Siciliani non si sarebbero quietate;
e dicendomi ciò con un soghigno, mi animò a replicargli che vera-
mente era a tutti nota e palese la teneritudine dilicatezza di co-
scienza di que' insulani; sicché si dovesse temere, che le sole leggi
del lor sovrano non bastassero per tenergli in freno ed in quiete.
Scorto da ciò i sentimenti del principe, e che di mala voglia ci
sarebbe entrato, compresi che tutto l'affare verrebbe finalmente a
cadere sopra le braccia del conte e del marchese, sicome il successo
il dimostrò ; poiché, ad arte non facendosene più parola, e lasciato
passar molto tempo, sicché finissero i discorsi della gente, mentre
tutti erano ad altro intesi, si seppe che le scritture tutte dalla Con-
ferenza erano passate nelle mani del marchese di Rialp, il quale si
pose a regolar l'affare, secondo che gli veniva più in acconcio.
E se bene la minuta si fosse moderata in alcune parole,1 nulladi-
manco se ne sorrogarono altre, che aveano la stessa forza; e secondo
quella, senza partecipazione alcuna del Consiglio di Spagna, si
scrisse in Roma, che papa Benedetto stendesse e pubblicasse la
bolla, sicome fu fatto; ed è quella che, datasi poi alle stampe, ne
furon da Roma mandati più essemplari in Vienna ed in Sicilia.2
Letta che fu da' ministri del Consiglio di Spagna (ad alcuni de'
quali avea io, con molta cautela e secretezza, communicata la mia
scrittura) e da altri uomini probi, dotti e savi, non poterono non
compiangere il misero stato, nel quale le cose eransi ridutte, ve-
dendo che sicome in Roma a' tempi di Tarquinio il Superbo, il
quale tolto il costume, come dice Livio, «de omnibus senatum
consulendi, domesticis consiliis rempublicam administravit»:3 così
in Vienna i regni e Stati d'Italia s'amministravano per privati con-
sigli di coloro, i quali non aveano altro scuopo, che ingrandire,
i . la minuta . . . parole : la lettera della Cancelleria imperiale, datata 2 giu-
gno 1728, con le richieste modifiche, è conservata presso l'Archivio del-
l'ambasciata austriaca presso la Santa Sede, ed è stata utilizzata nella sua
celebre Storia dei papi dal Pastor, che la definisce «lunghissima» (voi. xv,
cit., p. 520). 2. quella . . . Sicilia: il testo della bolla è ristampato in ap-
pendice al citato studio di G. Catalano, pp. 179 sgg., il quale l'ha tratto
dal Magnum Bullarium Romanum seu eiusdem continuatio, Luxemburgi, IV,
1730» PP- 37o sgg. Reca la data del 30 agosto 1728. 3. «de omnibus . . .
administravit »: cfr. Livio, 1, 49, 7 («di dover consultare il Senato su ogni
cosa, governò lo stato con dei consigli privati »).
IÓZ VITA DI PIETRO GIANNONE
con onori e ricchezze le proprie case; ed i ministri spagnoli se
stessi e quelli della loro nazione. Ed avendo io, doppo aver ben
considerata la bolla, notato i tanti pregiudizi e svantaggi che s'eran
inferiti alle reali preminenze, uno per uno gli distesi in altra breve
scrittura, la qual letta da' pochi a' quali io l'avea confidata, di-
mostravano la bolla ruinosa e pregiudizialissima a quel tribunale,
che potea dirsi nuovo e tutt'altro dell'antico, del quale crasi pro-
curato di abolirne ogni vestigio. Ma dapoi bisognò di questo affa-
re non parlarne affatto ; sicché queste mie scritture rimasero in un
profondo silenzio, non arrischiandomi di più mostrarle ad alcuno;
poiché da' fabbri, nella fucina de' quali erasi fatto questo lavoro,
era riputato delitto il parlarne con biasimo: anzi si voleva che
tutti l'applaudissero, e si stimasse la «costituzione», ch'essi chia-
mavano «concordia»,1 vantaggiosa per Cesare, il quale avea otte-
nuto ciò che Filippo II, re di Spagna, non potè mai conseguire.
Ed i cortiggiani di Roma, con sottil artificio, perché la lusinga
acquistasse maggior forza, se ne mostravano mal soddisfatti, e ad
arte facevan correr voce, che la bolla fosse di gran pregiudizio
alla Santa Sede, e che i ministri dell'imperadore avean avuta la
sorte di trattare con un buono e semplice pontefice, il qual volen-
tieri si facea tirar per naso dal cardinal Coscia e dagli altri Beneven-
tani, suoi favoriti; ma che da altri pontefici non l'avrebbero certa-
mente ottenuta.
Queste voci giovarono grandemente al Porcili ed agli altri, de'
quali il cardinal Sinfucgo erasi servito come ministri, per concer-
tarla in Roma, da' quali venivano ingrandite e sparse; sicché ne
ottennero ampi premi non meno dalla corte di Vienna, che da
quella di Roma, come assuefatti a mangiar a due ganassc, ed ingran-
dire con ciò la loro condizione e quella delle loro famiglie. All'in-
contro que' che, investigando la verità nelle cose cercavano di
manifestarla e di scoprire gl'inganni e le frodi, che sotto mentite
apparenze si nascondevano, erano mal visti e mal graditi e tenuti
lontani da ogn'impiego, perché non frapponessero ostacolo ed im-
pedimento a' loro propri vantaggi ed alla smisurata ambizione,
che nudrivano ne' loro petti.
▼ 1a bolla è infatti comunemente chiamata «Concordia benedettina».
CAPITOLO SETTIMO
Anni 1728) IJ2Q e 1730. In Vienna.
I
Con questi strani successi1 eravamo entrati già nell'anno 1728,
ed avanzati molto nel decorso del medesimo ; nel quale, a' princìpi
di maggio, io con le mie ospiti era passato ad un più comodo
quartiere,2 presso alla casa professa de' Gesuiti, nella strada che
chiamano «il piccolo Parigi». Assestati i mobili e postolo in ordine,
si passò verso la fine del medesimo a Pettersdorf nella solita vil-
leggiatura; ed in quest'anno il nuovo presidente, conte di Monte-
santo,3 ottenne dall'imperadore, che sicome gli altri Consigli lo
seguivano, passando a Laxemburg alla caccia d'aironi, così potesse
far anche il Consiglio di Spagna, che non era a quelli inferiore;
onde furon con nuovo peso gravati i villaggi d'intorno di sommi-
nistrare i quartieri a ciascuno de' consiglieri, reggenti, secretari ed
ufficiali della secreteria spagnola; ed in Medeling4 fu assignato al
presidente un capace quartiere, dove oltre le stanze per la sua abi-
tazione, potesse ivi tenersi Consiglio; e poiché Medeling non era
sufficiente a dar quartiere a tanti, bisognò che gli altri reggenti e
secretari ed ufficiali fosser ripartiti ne' vicini villaggi, per trovarsi
la mattina a Medeling a tener Consiglio.
Il presidente defonto5 non avea a ciò pensato, poiché tenendo egli
un giardino e casa nel borgo di Josephstat,6 dove solea passare ad
abitare, partito l'imperadore per Laxemburg, e dimorarci fino ad
ottobre, non fece partir mai il Consiglio dalla città; ma il conte di
Montesanto, che non avea quest'aggio, volle procurarsi per questa
via anch'esso la sua villeggiatura. Ad alcuni reggenti in questo
primo anno dispiacque la novità per gl'incommodi che s'immagi-
navano dover soffrire, ma dapoi ben si ci accomodarono, e conob-
bero quanto l'abitare in tal tempo a que' villaggi conferisse alla
lor salute. Il presidente Montesanto, ne' seguenti anni, pensò
a stabilirsi un più comodo albergo, per un'occasione che sa-
remo a rapportare. Il marchese Stella, nipote ed erede del
1. successi: accadimenti. 2. quartiere: appartamento. 3. conte di Monte-
santo: cfr. la nota 2 a p. 119. 4. Medeling: Modling. 5. Il presidente de-
fonto : cioè l'arcivescovo di Valenza Antonio Folch de Cardona (per cui cfr.
la nota 1 a p. 88). 6. Josephstat: Iosephstadt è uno dei quartieri del
centro di Vienna.
164 VITA DI PIETRO GIANNONE
conte Stella1 cotanto favorito dall' imperadore, al quale2 avea do-
nato un palazzo in Medeling, che poi ridusse in magnifica forma,
possedeva questo edificio, e doppo la morte del zio riuscendogli
inutile, pensò di venderlo, e profittò molto del desiderio che mo-
strava il conte di Montcsanto di comprarlo per suo uso e del Con-
siglio, poiché non trovando prima chi volesse comprarlo, ed a
prezzo sì caro quanto egli ne pretendeva: col presidente, che non
dovea sborsar suo denaro, trovò facilità di pagarglielo quanto volea,
che fu la somma di ottomila fiorini. La difficoltà era di trovar il
denaro, ed a ciò fu dato presto rimedio, poiché, contrastando in-
vano la Casa dell'Annunziata3 di Napoli di poter ottener l'assenso
regio ad un contratto stipulato con i suoi creditori, per tante diffi-
coltà ed ostacoli fattigli dal Consiglio: questo bisogno di denaro
glielo facilitò subbito. Furon presto risolute le difficoltà ed ogni
dubbio: fu dato l'assenso, e fattasi tassa di quanto importasse la
somma de* diritti di spedizione e suggello, che si fece ascendere a
più di quel che importava il prezzo del palazzo di Medeling, fu-
rono sborsati i fiorini ottomila e pagati al marchese Stella, il quale
ne diede il possesso al presidente, in nome del Consiglio che lo
comprò, e da indi in poi, quivi ebbe ferma abitazione, dove ogni
anno si portava il presidente con tutta la sua famiglia, per dimo-
rarci non solo il tempo che l'imperadore si tratteneva a Laxem-
burg, ma l'intiera estate, avendola fornita di propri mobili, rima-
nendo due sole stanze per uso del Consiglio.
Questa traslazione mi riuscì molto commoda, e rese la mia vil-
leggiatura di Pettersdorf più cara e gradita, non solo per la faci-
lità che avea di trattar co' reggenti di qualche affare, avendogli
vicini, ma anche per la conversazione che godeva del reggente
Almarz e degli altri amici, che venivano spesso da Vienna a visi-
tarlo, o per loro negozi; e tanto più, che il quartiere assignato al
reggente Almarz era nel villaggio di Prun,4 prossimo a Pettersdorf;
i. Rocco Stella (1661-1720), conte di Santa Croce, era figlio di un medico
di Modugno. Lasciò il regno di Napoli nel 1684 arruolandosi negli eserciti
impenali e con una brillantissima carriera giunse al grado di maggiore nel
reggimento del Montecuccoli nel 1701. Fu quindi consigliere di guerra
nella giunta dei Consiglio d'Italia e aiutante deirarciduca Carlo, che seguì
poi a Vienna. Qui mantenne la sua carica di reggente per gli affari militari
del regno di Napoli nel Consiglio di Spagna, assieme a Girolamo Capcce,
marchese di Rofrano. 2. al quale: soggetto è Yimperadore. 3. la Casa del-
»» ^i«w#ww/7f/2: osdìzì0 e luogo pio per i fanciulli esposti. 4. Prun: Brunn.
CAPITOLO SETTIMO 165
sicché io, la mattina o la sera, facendo i miei soliti essercizi, avea
per termine di riposarmi la di lui casa, e sovente era invitato a ri-
manere ivi a pranzar seco con altri amici; sicché in que* due mesi
godeva non pur l'amenità della campagna, ma la conversazione
non meno de' Tedeschi, che de' nostri Italiani e sopra tutto di
avere alcune ore del giorno, spezialmente della mattina, solitarie e
quiete, da impiegare a' miei non isforzati, ma volontari e non men
seri che ameni studi.
In questi tempi, divolgandosi sempre più la mia Istoria civile per
tutte le province della Germania, cominciai ad acquistar la cono-
scenza di molti letterati tedeschi, westfali, sassoni, svevi e di altre
città libere imperiali, i quali ebbero la cortesia non solo scrivermi
gentilissime lettere latine, ricercandomi di qualche notizia istorica
delle cose d'Italia e spezialmente dell'ultimo concilio romano, che
tenne papa Benedetto XIII, e per quali cagioni non fosse stato
ricevuto nel regno di Napoli; ma anche, dando alle stampe qualche
loro opera, di allegar la mia e far di me onorata memoria.1 Conob-
bi, per loro cortesissime lettere che mi scrissero, i due Menckeni,2
padre e figlio, al quale mandai più riposte notizie intorno alla
vita d'Angelo Poliziano, ch'era tutto inteso di dar alla luce.3 Per
1. spezialmente . . . memoria: il Panzini, p. 71, spiega questo passo scri-
vendo che « il signor Giovanni Erardo Kappio da Lipsia, amico del signor
Ottone Menchenio, . . . avendo impreso intorno all'anno 1729 a scrivere
la storia dell'ultimo Concilio di Laterano, tenuto nel 1726 ... ed insieme
con essa un* ampia descrizione dello stato presente d'Italia ... si rivolse
al Giannone, siccome a colui il cui particolare conoscimento in così
fatte materie era in Lipsia, più che in altro luogo della Germania, ben
conto ed apprezzato ». L'opera, alla quale si fa qui riferimento, è la Historia
Condili Lateranensis a Benedicto XIII P. M. 172$ Romae celebrati, ab
Anonymo hetrusce conscripta, ex ms. primum edita, latine conversa, foliolis,
in congregationibus praesynodalibus distributis, adaucta notisque subinde illu-
strata. Praemissa est Caroli VI, Rom. imp. Animadversio in Iosephum
Sanfelìcium, iesuitam, eiusque Considerationes morales et theologicas contra
Petri Giannoni, viri clarissimi, Historiam Civilem regni Neapolitani evul-
gatas, tanquam novissimum iuris imperatorii circa sacra exercitium, ex actis
publicis, fata memorabilia laudatae historiae exhtbentibus, hisque ex ms. incer-
tis, luculenter descripta. . ., Lipsiae 173 1. Cfr. la lettera al fratello del 25 feb-
braio 1730 in cui dice di aver ricevuto il frontespizio dell'opera (Giannoma-
na, n.° 344). 2. * due Menckeni'. Johann Burckard (1674-1732) e Friedrich
Otto Mencke (1708- 1754), ambedue storici ed eruditi, professori nel-
l'università lipsiense, oltre che alle loro opere, dovettero la loro fama alla
pubblicazione degli «Acta Eruditorum Lipsiensium », uno dei più famo-
si periodici della repubblica letteraria settecentesca. 3. notizie . . . luce:
cfr. F. O. Mencke, Historia vitae et in literas meritorum Angeli Politiani,
ortu Ambrogini . . ., Lipsiae 1736. Nell'Archivio di Stato di Torino, maz-
IÓ6 VITA DI PIETRO GIANNONE
la via stessa, ebbi conoscenza del famoso antiquario Sigismondo
Liebe,1 e d'altri uomini dotti, i quali si eran resi celebri per le loro
opere date alle stampe. Ebbi infine il piacere, che non vi era viag-
gentea tedesco, fiamingo o d'altra nazione, che passando per Vienna
non avesse la curiosità di venire a visitarmi. Ma tutta questa stima,
che per me aveano i forastieri, non mi valse niente presso gli Spa-
gnoli ed i nostri nazionali.
Intanto sempre più andando io perdendo la speranza d'essere
impiegato in Vienna in qualche carica (poiché gli Spagnoli preve-
nivano in occuparle tutte, ed i mali uffici che contro di me si
facevano dalla corte di Roma, servivano per pretesto d'escluder-
mene), mi risolsi a volgere altrove gli uffici e la mediazione de'
miei amici e protettori, perché almanco potessi tornare in Napoli
con posto conveniente alla mia graduazione3 d'avvocato, ed otte-
nerlo in que' medesimi tribunali, o di consiglier di Santa Chiara
o di presidente della Camera,4 ne' quali avea esercitata Invoca-
zione. Più volte pregatone il marchese di Rialp mostrava non
averci difficoltà, tanto maggiormente che l'era da me suggerito
che, rimandandomene in Napoli con carica, Sua Maestà rispar-
miava ogni anno que' mille fiorini che mi eran somministrati per
mio sostentamento, de' quali poteva valersene ad altri usi, gratifi-
cando altri suoi benemeriti. Ma poiché la provista di tali cariche
dipendeva dalle nomine de' soggetti, che i viceré di Napoli man-
dano alla Corte in occasione di vacanze, il marchese mi disse che
bisognava che il viceré, fra gli altri anche me nominasse, affinché
se gli dasse l'apertura di propormi a Sua Maestà e facilitar la
provista.
Pareva che a questi principi secondasse la sorte ; poiché essendosi
l'imperadore risoluto di rimovere dal governo di Napoli il cardi-
nal Althan, e mandargli per successore il conte d'Harrach, col
quale e co' di lui dignissimi figliuoli io avea contratta qualche
20 i, ins. 9, sono raccolti appunti del Giannone sul Poliziano, assieme ad
una minuta di lettera indirizzata a Friedrich Otto in data 28 luglio 1728,
Neil' epistolario della Biblioteca Nazionale di Roma, a seguito della lettera
del Giannone al fratello da Vienna del 7 agosto 1728 (Giannoniana, n.° 263)
è copiata una memoria sulla vita del Poliziano, stesa dall'abate Giovan
Lorenzo Acampora, che fu dal Giannone rimessa al Mcncke il 28 settem-
bre di quello stesso anno (cfr. la lettera a Carlo di quel giorno, Giannonia-
na, n.° 269). 1. Christian Siegmund Liebe (1 687-1 736), erudito e anti-
quario tedesco. 2. viaggente: viaggiatore. 3. graduazione; rango» condi-
zione. 4. Camera: della Sommaria, ossia real patrimonio.
CAPITOLO SETTIMO 167
servitù, pensai che, trovandosi l'Harrach in Napoli avrei potuto
dal medesimo ottenere, che nell'occasioni di nomine non si dimen-
ticasse della mia persona. Differì egli molto la sua partenza, sicché
diede aggio al marchese d'Almenara,1 che da Sicilia erasi portato
in Napoli, doppo esserne partito il cardinale, di proseguire il go-
verno interino per più di sei mesi; onde in questo tempo che
l'Harrach si trattenne a Vienna procurai che in mia raccomanda-
zione gli parlasse il principe Eugenio, sicome fece con molta ef-
ficacia; ed io non mancai prima di partire di raccomandarmici,
con presentargli un essemplare della mia opera, pregandolo di
rivoltar qualche foglio del quarto tomo, dove avrebbe trovati de-
scritti tutti i governi de5 predecessori viceré di Napoli, da' quali
forse avrebbe potuto ricavarne qualche profitto, con imitare i
buoni e saggi, e schifare i cattivi e perniciosi. Me ne rese molte
grazie, e con somma cortesia si esibì di volermi nelle occasioni favo-
rire; ed il principe, pochi giorni prima della sua partenza, gli man-
dò il suo secretano a ricordarglielo, e di mettermi in nota fra gli
altri suoi raccommandati. Partì finalmente l'Harrach da Vienna nel
mese di novembre di quest'anno 1728 ; e giunto a Napoli, comin-
ciò il suo governo con fama d'un ministro savio, incorrotto e
niente contemplativo per la corte di Roma, ancorché tenesse un
figliuolo stradato2 per la Chiesa, che poi abbiam veduto auditor
di Rota e, se morte non l'avesse sottratto, si sarebbe veduto anche
cardinale.
il
[J729]
Nel cader di quest'anno e cominciar del nuovo 1729, ebbi noti-
zia che finalmente, doppo sei anni, da Roma era uscita in due tomi
in-quarto, la confutazione dell'Istoria civile, composta dal padre
Sanfelice3 napolitano, gesuita, il quale, doppo averci travagliato
1. marchese d'Almenarax cfr. la nota 1 a p. 136. 2. stradato: istradato, av-
viato alla carriera ecclesiastica. Si tratta di Johann Ernst, spentosi nel 1739.
3. Giuseppe Sanfelice (1665-1737), gesuita, figlio illegittimo del cavaliere
napoletano Alfonso Sanfelice. Si noti che il Giannone era in ottimi rap-
porti con un consanguineo di Giuseppe, il cavaliere Ferdinando Sanfelice,
al quale ricorse perché convincesse il padre gesuita a desistere « dal minare
la mia opera » (cfr. la lettera al fratello, del 4 ottobre 1727, Giannoniana,
n.° 219). Ancora il 15 novembre il Giannone sperava che il cavaliere Ferdi-
IÓ8 VITA DI PIETRO GIANNONE
per tanto tempo in Napoli, era passato in Roma per darla alle
stampe. Era prima precorsa voce, che questo gesuita stasse in ciò
occupato, ma poiché il soggetto non si reputava idoneo, né che
questo peso fosse delle sue spalle, non era da molti creduto; ma
dapoi si seppe, ch'egli più volte erasi portato in Roma, e commu-
nicato co' suoi amici, che bisogna che fossero della stessa sua fa-
rina, il suo disegno, ne ricevesse applauso e maggiore stimolo, sic-
ché con più alacrità prosegui il lavoro; e tanto maggiormente,
che gli diedero a sentire che il papa ne l'avrebbe molto grazia;
ed il cardinale Pico della Mirandola1 era persuaso che potesse da
lui uscirne cosa buona, e che discreditare non men quell'Istoria,
che il suo autore; sicché per l'avvenire non fosse più letta, né
guardata. Credcasi che ne fosse stato anche inteso il cardinal Sin-
fuego,2 il quale, per essere gesuita, avea sommo piacere che, non
fidandosi altri frati e monaci3 che stavano attorno al papa, final-
mente uscisse un gesuita, che il valesse e che rovinasse tutta quella
macchina. Fu fama che la spesa della stampa P avesse somministra-
ta il cardinal Pico, vedendosi che non si guardò a risparmio ; poi-
ché un'opera, che si avrebbe potuto ristringere con mezzano carat-
tere4 in un picciol volume, si volle far comparire in due in-quarto,
valendosi d'un carattere pontificale5 e di carta con spazioso e ben
ampio margine. Usci sotto il finto nome di Eusebio Filopatro, e se
ben si fosse impressa in Roma e, come ivi si leggeva, « con licenza
de' superiori)), portava la data di Colonia.
Il gesuita Sanfelice, in forma di più lettere, introduce vari amici
che si scrivono a vicenda, nelle quali è trattato quel meschino
istorico civile con tanta piacevolezza e mansuetudine, quanta usò
nando sarebbe riuscito a convincerlo «a non lasciarsi tirare dall'ambizione
o da qualche altro fine di risvegliare questo vespaio » (Gìannoniana> n.° 225) ;
ma ogni speranza cadeva nel dicembre : il 27 di quel mese scriveva infatti
al fratello pregandolo di ringraziare il cavaliere per quanto aveva fatto in
suo favore, aggiungendo: «intorno a questo affare mi regolerò secondo i
riscontri che si avranno da Roma» (Giannoniana, n.° 231). 1. Ludovico
Pico della Mirandola (1669-1743), vescovo in partibus di Costantinopoli dal
1706, cardinale nel 17 12, prefetto dei Palazzi Apostolici, quindi della
Sacra Congregazione delle indulgenze. 2. il cardinal Sinfuego : cfr. la no-
ta 2 a p. 130, 3. non fidandosi . . . monaci: sembrerebbe un'allusione al
padre Giovanni Antonio Bianchi, il quale attese sino al 1745 per pubbli-
care la sua opera (cfr. la nota 1 a p. 127). 4. con mezzano carattere: con
caratteri tipografici né grandi né eccessivamente piccoli. 5. carattere pon-
ti-ficaie: carattere di eccezionali dimensioni, usato per libri liturgici.
CAPITOLO SETTIMO 169
Apollo scorticando Marsia.1 Non si tiene gran conto àt\Y Istoria,
né molto si bada a rispondervi, ma s'imperversa ed incrudelisce
contro Fautore, che si vorrebbe martirizato e morto. Non vi è
contumelia, opprobrio, scherno o ingiuria quanto gravissima im-
maginar si possa, che non si fosse adoperata. Lo chiama eretico,
malvaggio, concubinari, 3 non meno in iure che in facto, villano,
dottorello, leguleio ; e gli ordinari e spessi aggiunti3 sono d'empio,
scellerato, capo-demonio, ateo, senza Dio e senza croce; e, nel-
Tistesso tempo che vuole che nella sua Istoria insegni l'ateismo,
vuol anche che insegni il macomettismo.4 Lo finge epicureo,5 che
neghi la divina provvidenza e supponendolo tale, senza mostrarne
la cagione, terminate le lettere vicendevolmente scritte da' finti
amici, ne indirizza egli tre altre nominatamente all'autore delTIrto-
ria civile, nelle quali con ogni sforzo l'esorta che, lasciata la dot-
trina d'Epicuro e di Lucrezio, voglia ridursi alla sana credenza;
ed assumendo le parti di un garrulo e sciapito predicatore, vuol
che lasci la dottrina seguitata fin ora, e si appigli alla sua dimostra-
ta in quelle lettere, ed apprenda quelle massime, spezialmente del
papato e delle particolari divozioni a' santi di più ordini religiosi,
ne' quali e' riputa consistere la gerarchia della Chiesa, ch'egli in
essa cotanto inculca. Procura, in queste tre ultime lettere, mostrarsi
non men valente filosofo di quello che s'era mostrato nelle pre-
cedenti, consumato teologo e moralista. Intitola per ciò questa
sua opera: Riflessioni morali e teologiche.6
Ma ciò che reca più stupore che meraviglia è che nell'istesso
tempo che fa il correttor di costumi ed il morale, adopra le più
maligne calunnie ed imposture, che i più neri diavoli dell'Inferno
non mentiron tanto. Mendace da per tutto, stroppiatore de' sensi
e delle parole deWIstoria civile, mutilandole, viziandole e falsifi-
1. quanta usò . . . Marsia: nel mito greco il satiro Marsia, in una gara di
doppio flauto, vinse il dio Apollo e questi, offeso per l'oltraggio, lo appese
ad un albero scorticandolo vivo. 2. concubvnario: a sua volta il Gian-
none ripagò con la stessa moneta. In una lettera al fratello, del 19 feb-
braio 1729 (Giannoniana, n.° 290), si raccomandava: «Vorrei che frattanto
mi appurasse se veramente fosse bastardo, e se nato d'adulterio, ovvero di
donna libera. Ciò desidero saperlo, se mai potesse servir la notizia » : sicco-
me appunto servì nella replica (cfr. Professione di fede, in Opere postume, 1, p.
275)- 3- aggiunti: aggettivi. 4. il macomettismo: la religione di Maometto
(Macometto). 5. epicureo: le tre ultime Lettere delle Riflessioni del San-
felice esaminano appunto l'epicureismo giannoniano. 6. Riflessioni morali
e teologiche sopra V Istoria civile del regno di Napoli. Esposte al pubblico in più.
lettere familiari di due amici da Eusebio Filopatro, Colonia (ma Roma) 1728.
170 VITA DI PIETRO GIANNONE
candole; e l'impudenza e sfacciataggine è tanta, che non si ritiene
di allegar le pagine, ancorché fosse certo che i lettori riscontrandole,
facilmente si accorgerebbero della falsità ed impostura. E per darne
di ciò l'ultime pruove, nel fine del secondo volume vi attacca un
Indice,1 nel quale divide in più classi le proposizioni, che e' dice
aver notate ne' libri àtWIstoria civile, che sotto varie rubriche le
qualifica di suo capriccio ora per eretiche, per empie, schismatiche
e scandalose, ora per ingiuriose, temerarie, false, erronee, etc. E
questo Indice, ancorché dovesse andar sempre attaccato all'opera,
nulladimanco egli lo divise e mandava attorno senza l'opera, af-
finché chi lo leggeva almanco si mettesse in dubbio, non potendolo
riscontrar coll'opera, se fosser vere 0 false le accuse ed imputa-
zioni che ivi si notavano.
Di quest'opera del gesuita Sanfelice ne furon da Roma trasmessi
in Napoli molti essemplari, i quali si vendevano nella porteria2 del
maggior collegio de' Gesuiti, ma poiché rari erano i compratori,
si pensò d'esporgli venali3 nelle botteghe de' librari, e per darne a
tutti notizia, ne* pubblici Avvisi che sogliono stamparsi in Napoli
si additava il libraro, e per maggiormente invogliare la gente si
espresse ch'era un'opera scritta contro V Istoria civile del Giannoni.
Gli amici non mancarono di mandarmene in Vienna un essemplare,
tosto che poterono, e fu molto opportuno l'avermelo trasmesso,
non solo per avermi liberato dalla pena che avea in aspettandolo,
credendo che doppo sei anni di tempo, finalmente dovesse uscir
fuori cosa da pensarci, non cotanto sciocca, sciapita e satirica;4
ma eziandio perché da Roma in Vienna non si mandava l'opera,
ma pieghi, ne' quali erano acchiusi i soli fogli dell'iWzce, i quali,
capitati in mano d'alcuni Gesuiti napolitani e siciliani, ch'erano in
Vienna, questi (poiché i Tedeschi non se n'impacciavano) Tan-
davan mostrando a' nostri Italiani, e sotto mentito zelo farisaico,
quasi compassionando il mio stato infelice, nel quale era caduto
1. Indice delle proposizioni che nella Storia civile più spiccano meritevoli di
censura e che si rabbattono a suo luogo. Quest'indice presenta una numera-
zione indipendente dai volumi delle Riflessioni^ appunto perché destinato
- come lo stesso Giannone dirà qui sotto - a circolare indipendentemente
dall'opera. 2. porterìa: portineria. 3. venali: in vendita. Esemplari del
libro furono venduti nella bottega del libraio Francesco Forastieri (cfr.
Memoria per S. A. S. Eugenio di Savoia, in Giannoniana, p. 435). Copie
dell'opera vennero in seguito sequestrate nelle botteghe dei librai napo-
letani Luca Valerio e Nicola Monaco: cfr. H. Benedikt, Dos Kdnigreich
Neapel, cit., p. 380. 4. satirica: degna di satira.
CAPITOLO SETTIMO 171
essendomisi scoverti tanti errori ed eresie, mostravano desiderare
che io mi emendassi, e tornassi dalla smarrita alla dritta strada
che conduce alla salute. Ma dall'opera istessa, che solo io avea, e
che a questo fine offeriva a tutti per leggerla, facilmente si scovri-
rono le calunnie ed imposture: poiché le pagine ch'eran citate
nz\Y Indice non pruovavano niente di quanto si asseriva, ma si ri-
ducevano in ciarle, prediche ed esclamazioni vane. Fu eziandio da
tutti osservato, che quell'opera non era che una rabbiosissima sa-
tira, colma di sfacciate contumelie ed impudenti ingiurie, ed oltre
a ciò ripiena di massime ingiuriose alla potestà de' principi e pre-
giudizialissime alla regal giurisdizione, cotanto ingrandendosi la
papale, che si voleva essere venuta al papa dirittamente ed imme-
diatamente da Dio, e quella de' principi mediatamente, per mezzo
del papa, per cui regnavano i re ed i principi della terra ed am-
ministravan giustizia.
Riputatasi da tutti l'opera non meno sciocca e satirica, che in-
giuriosa alla potestà de' principi, non mancarono de' zelanti del
real serviggio e de' buoni costumi di scrivere in Napoli al conte
di Harrac viceré, ed al suo secretano di Stato e guerra,1 maravi-
gliandosi come permettessero di far girare, liberi e franchi per
Napoli libri di tal fatta, che non erano se non libelli famosi2 e
cotanto ingiuriosi a' principi, e come i ministri, di cui era il peso
d'invigilare a supprimergli, si mostrassero cotanto negligenti e son-
nacchiosi. Il viceré, avvisato da Vienna di ciò che dovea esserne av-
vertito in Napoli, e spezialmente dal delegato della real giurisdizio-
ne,3 ordinò che dal secretano di Stato (il quale da' librari n'ebbe
un essemplare) immantinente si scrivesse un biglietto al delegato
suddetto, mandandogli il libro, maravigliandosi come s'era lasciato
correre e che fin da Vienna dovea egli averne notizia, non essen-
dovi chi ce la desse in Napoli, imponendogli che l'esaminasse e
proponesse nel Consiglio Collaterale, per darvi la dovuta provvi-
denza.4 Per maggiormente affrontarlo e scuoterlo dal suo letargo,
1. secretorio . . .guerra'. JuanTomàs de Peralta, sul quale cfr. H. Benedikt,
Dos Konigreich Neapel, cit., pp. 397-9 e 493. 2. libelli famosi: già secondo
il diritto romano (e si veda il famosus libellus in Tacito, Svetonio, ecc.)
qualsiasi scritto, stampato anonimo o sotto falso nome, con cui si attribui-
vano a taluno per infamarlo {famosi', infamatori) atti o azioni disonoranti.
3. dal delegato . . .giurisdizione: Gaetano Argento. 4. ordinò . . .provvi-
denza: cfr. su tutto questo H. Benedikt, Dos Konigreich Neapel, cit.,
pp. 555 sgg., il quale pubblica le due lettere del viceré, la prima all'Argen-
to (del 18 marzo) e la seconda al presidente del Consiglio di Spagna (in
172 VITA DI PIETRO GIANNONE
gli mandò un nuovo Ufficio, che s'era stampato in Napoli, di
Gregorio VII, il quale papa Benedetto XIII voleva che fosse
adorato per santo in tutto l'universo orbe, nel quale si leggevano
tre lezioni ingiuriose alla potestà de' re e imperadori, e pregiudi -
zialissime alla real giurisdizione; e pure, di questi Uffici, che in
Francia, Germania ed altri regni non erano stati ricevuti, Napoli
era piena; anzi che per i tribunali si andavano ad alta voce ven-
dendo, ed il delegato della giurisdizione Argento, che si trovava
anche presidente del Consiglio di Santa Chiara, come se niente ciò
l'appartenesse, chiudeva gli occhi e si turava le orecchie.1
Ma ciò che fecemi maggiormente accorto quanto possa ne* petti
umani la smoderata ambizione, e quanto ampia fosse la rete colla
quale Roma tutti prende ed involve, fu che il reggente Ventura,3
data 5 aprile), nonché il verbale della riunione del Collaterale e il testo
del decreto di proibizione. La risposta dell'Argento alla lettera del Harrach
nella Biblioteca della Società Napoletana di Stona Patria, Ms. XXVII, A,
7, ff. 215-8 (con la data del 18 marzo); ma vedi anche prima, altra mi-
nuta di lettera, ai ff. 213-5. 1. Ufficio . . . orecchie: ristampato in Napoli
dal tipografo Luca Valier nel 1729, V Ufficio fu fatto sequestrare ancora in
tipografia. Gli atti del processo in data 16 marzo 1729, e le copie seque-
strate, in Archivio di Stato di Napoli, Delegazione della R. Giurisdizione,
Processure, 1730, voi. iv, ce. 495 sgg. Sull'atteggiamento dell'Argento cfr.
l'esame dell' Ufficio da lui fatto nella seduta del Collaterale del 23 marzo
1729, e la discussione sul sequestro nella seduta del 19 luglio 1730, in Ar-
chivio cit., Notamenti del Collaterale, 1730, rispettivamente voli. 142 e 144.
2. Francesco Ventura (1680-1759), giudice di Vicaria e auditore generale
dell'esercito nel 1715, consigliere del Sacro Real Consiglio due anni dopo,
reggente del Collaterale nel 1725, epurato dai ranghi della magistratura nel
1734» fu tuttavia fatto presidente del Supremo Tribunale del Commercio
nel 1739. Nelle note personali segrete dell'inchiesta borbonica del 1734 egli
viene definito: «uomo nuovo disprezzatore della Nobiltà e del Popolo,
stimatore di sé e promotore di tutti gli adulatori del suo nipotismo, creduto
imperiale, e poco affezionato a S. A. Reale; da sacrificarsi al Popolo e alla
Nobiltà per conservarsene l'affetto » (Archivio di Stato di Napoli, Segreteria
di Giustizia, Biografie di magistrati, e. 100). In altra nota della medesima
inchiesta si legge di lui : « Egli è un calabrese dotto, ma presontuoso ed al-
tiero, e facile a prender impegni sulla insinuazione d'una sua nipote, È
stato inalzato agli impieghi per li meriti del fu reggente Argento suo zio,
che fu uno de' più confidenti ministri dell' Imperadore. Per questa causa
egli ha dell'attaccamento colla Corte di Vienna. È poco ben visto dal
Publico per il suo tratto alto, ed austero, e per la facilità che ha ad impe-
gnarsi, a segno che essendo venuto ordine da Vienna per la giubilazione
del Reggente Ulloa il Vice Re non la volle eseguire perché in tal caso esso
reggente Ventura avrebbe dovuto restare decano del Collaterale, cosa che
sarebbe stata di dispiacere al Pubblico. Egli era delegato della fu Ser.ma
Casa di Parma e mostrò qualche parzialità per la medesima nelle cose
regolari e correnti e che non potevano essere pregiudiziali agli interessi
dell'Imperadore, ma quando si trattò in Collaterale l'affare dell'Isola di
CAPITOLO SETTIMO 173
nipote del presidente Argento, il quale ed in Napoli e mentr'era a
Vienna continuò meco una grande amicizia, cominciata fin da che
giovani militammo insieme sotto gli auspici del zio, e che non vi
era settimana che non mi scrivesse delle cose, anche minute, che
accadevano in Napoli, dell'opera satirica e contumeliosa del San-
felice non me ne fece motto alcuno ; e se non ne fossi stato avvisato
dagli altri amici,1 ne sarei stato per lungo tempo ignaro; e di van-
taggio, dovendosene trattare nel Consiglio Collaterale, egli con
vari pretesti cercò di non intervenirci, per non essere a parte della
provvidenza che dovea darsi,2 la quale ben previde, che dovea
recare alla corte di Roma gran dispiacere. E ciò perché avea sti-
molato il zio di mandare in Roma un suo fratel cugino, del quale
già se ne concepivano alte speranze di cariche ed onori, per illu-
strar la lor casa non meno di toghe, per parte delFimperadore,
che di dignità ecclesiastiche per via del papa; né voleano disgustar
in minima cosa quella Corte, onde speravano grandi emolumenti.
E lo stesso presidente Argento, o che indotto a mandar questo
suo nipote, figliuolo di sua sorella, in Roma, sperava d'avanzarlo
nelle prelature, sicome già per mezzo del cardinal Coscia era ivi
mantenuto a spese della Camera appostolica, ed aveane ottenuto
un canonicato; o pure fossene stata cagione la sua avanzata e
cagionevole età, sottoposta ad insulti apoplettici (da' quali nuova-
mente assalito nel seguente anno, ne restò morto) ; o l'aver sempre
a* fianchi il padre Cillis,3 suo confessore, stipendiato dal cardinal
Pignatelli arcivescovo, perché lo tenesse addormentato ed ille-
targhito, avea già perduto il primier vigore, ed era divenuto
tutt'altro e molto diverso da' princìpi suoi ; ma non potendo questa
volta sottrarsi dalle premure che l'eran date dal viceré d'esaminar
Ponza, egli non si oppose, ma si unì al sentimento degli altri Reggenti, per
sostenere la pretesa sovranità del Regno sopra quell'isola » (ivi, ce. 1 1-1 1 v).
Per la rottura dei rapporti tra il Giannone e lui, si veda la lettera a Carlo
del 21 maggio 1729 (Giannonìana, n.° 303). 1. se . . . amici: non è noto
chi provvedesse ad avvisare il Giannone, il quale, in data 1 gennaio 1729,
scriveva al fratello pregandolo di far preparare dall'abate Biagio Garofalo
un sommario delle Riflessioni morali, sommario che gli giunse a metà feb-
braio, dopo che già Nicola Capasso aveva provveduto ad inviarne un altro
a Vienna (cfr. lettere del 1 gennaio e del 19 febbraio 1729, Giannoniana,
nn. 283 e 290). Cfr. anche Panzini, pp. 54-5. 2. dovendosene . . , darsi:
numerosi furono gli assenti, perché il decreto di proibizione reca le sole
firme di Tommaso Mazzaccara duca di Castel Arignano, del duca di
Lauria Adriano Cala de Lanzina y Ulloa e di Domenico Castelli (su que-
st'ultimo vedi la nota 1 a p. 183). 3. il padre Cillis: cfr. la nota 1 a p. 89.
174 VITA DI PIETRO GIANNONE
il libro e proporlo in Collaterale, finalmente vi si pose, ma di mala
voglia; e se non fossero stati il consiglier Grimaldi1 e l'abate
Biaggio Garofalo,2 che gli fecer catalogo3 di tutte le proposizioni
ingiuriose alla potestà de' principi, che aveano notate nelPopera del
Sanfelice, egli non ne avrebbe certamente trovata la via per rico-
noscerle; e mi scrisse il consiglier Grimaldi, che si mostrava co-
tanto restio e freddo, che sempre ch'egli li parlava e mostrava
l'impudenza e le tante sfacciate contumelie e menzogne, delle quali
era l'opera piena, l'Argento, come stordito non gli rispondeva, ma
facevagli un viso, per valermi delle sue parole, d'una vacca che
piscia.
Essendosi intanto i libri da altri letti, e sentendoli l'Argento
comunemente qualificare per libelli famosi, sciocchi, impudenti ed
ingiuriosi alla potestà regale, scosso dalle voci di tanti, si pose con
attenzione e seriamente a leggergli, e trovato esser verissimo quan-
to la fama predicava, essendosi destinata giornata dal Collaterale
per doverne far relazione, finalmente la fece esattissima avanti il
viceré ed i reggenti di quel Consiglio, i quali rimasero attoniti e
sorpresi, in sentire tante contumelie e gravi ingiurie, delle quali
era caricato non solo l'autore dell'Istoria civile, ma il Comune di
Napoli e, sopra tutto, strapazzata la potestà de' principi, e che
que' libri non erano se non libelli famosi ed una perpetua satira.
Con voti concordi ed unanimi di tutto il Collaterale, con pubblico
decreto interposto a' 13 d'aprile4 di quest'anno 1729, furono di-
chiarati per libelli famosi ed ingiuriosi a' principi,5 e severamente
proibito di leggergli, tenergli, vendergli, o in qualunque modo
avergli, anche manuscritti, come satirici contro i buoni costumi
e potestà regia, imponendosi a' trasgressori pena, a' nobili di tre
anni di relegazione, ed altri tanti a gl'ignobili di galera.6 Fu pa-
rimente ordinato, che dovesse di tal proscrizione emanarsi pub-
1. il consiglier Grimaldi: Costantino. 2. Biagio Garofalo (1677-1762), eru-
dito e antiquario napoletano, della cerchia giannoniana. Notizie biografi-
che su di lui si ricavano da un gruppo di sue lettere al Giannone, edite
in Giannoniana, pp. 520 sgg. 3. gli fecer catalogo: il Garofalo stese delle
Osservazioni critiche sopra le Riflessioni morali e teologiche esposte in più let-
tere da Eusebio Filopatro, date più tardi alle stampe dal Panzini, assieme
alle giannoniane Opere postume, n, pp. 151 sgg. 4. 13 d'aprile: non il 13,
ma il 4 aprile. 5. furono . . . principi: « Dominus Vicerex . . . damnat librum
. . . tanquam contra bonos mores, laicae potestati iniuriosum, conviciis
et contumeliis refertum, et satyram perpetuam contra privatos et publi-
cum agentem ... ». 6. di galera: di servizio ai remi delle galee della flotta
inroeriale.
CAPITOLO SETTIMO 175
blico editto e banno,1 da pubblicarsi nella città di Napoli ed in
tutto il Regno, ed alla Gran Corte della Vicaria ed alle regie udienze
provinciali imposto, che contro i trasgressori procedessero irre-
missibilmente all'esecuzione delle imposte pene.
Il viceré fu di parere che si dovesse far bruggiar l'opera per man
del boia,2 al cospetto del popolo, ma ne fu dissuaso da' reggenti,
per non attaccar con Roma, donde era venuta e dov' erasi impressa,
nuove brighe usando modi sì strepitosi. Fu però conchiuso, che il
Viceré scrivesse una forte lettera al cardinal Sinfuego, acchiuden-
dogli il decreto della proscrizione e banno, che facesse sentire
al padre Sanfelice, che dimorava in Roma, per mezzo del generale
de' Gesuiti o per altra via, che non ponesse più piede in Napoli e
nel Regno ed in tutti i domìni dell'imperadore, come proscritto;
sicome dal viceré fu esattamente adempito ; ed essendosi in esecu-
zione del riferito decreto, disteso il banno e quello dato alle pub-
bliche stampe,3 fu pubblicato4 per i luoghi soliti della Città e
Regno a suon di tromba; e sparsi gli essemplari stampati da per
tutto, perché a ciascuno ne pervenisse notizia; sicome furon fatte
perquisizioni a' librari, se avessero essemplari dell'opera, e quanti
n'eran trovati o rivelati erano presi e confiscati ; e vi furono anche
de' privati, i quali, per isfuggire i primi rigori delle pene minac-
ciate, andarono spontaneamente a presentare gli essemplari che
aveano in mano del secretarlo del Regno,5 da cui eran riposti
nella regia Cancellarla, secondo il prescritto del banno. E poiché
l'opera del Sanfelice erasi stampata in Roma ed introdotta nel
Regno senza permissione, controvenendosi a più prammatiche
che proibiscono introdur nel Regno libri stampati fuori di quello
senza licenza, fu da ciò data occasione di promulgar una nuova
prammatica, per la quale, rinnovandosi l'antiche, si comandava
rigorosamente l'osservanza e puntual esecuzione delle medesime.
Fatto tutto ciò il viceré diedene distinta relazione a Cesare6 ed
i. banno: idiotismo per a bando ». z. per man del boia: cfr. quanto è detto
nel manoscritto conservato presso la Biblioteca della Società Napoletana
di Storia Patria, XXVII, A, 7, a ce. 196 sgg., dove è conservata la minuta
della relazione dell' Argento alla seduta del Collaterale. 3. dato . . . stampe:
il testo è riportato anche in Opere postume y 1, pp. 299-300, e reca la data del
16 aprile. 4. fu pubblicato: fu letto in pubblico dal banditore. 5. secreta-
no del Regno: il segretario del Collaterale, in quel tempo, era il marchese
Niccolò Fragianni (per cui cfr. la nota 1 a p. 93), amico del Giannone.
6. il viceré . . . Cesare: la lettera del Harrach all'imperatore è pubblicata in
H. Benedikt, Dos Kò'nigreich Neapel} cit., p. 558. Ma cfr. anche la lettera
176 VITA DI PIETRO GIANNONE
alla sua imperiai Corte, mandando in Vienna l'opera intera del
Sanfelice, col decreto della proscrizione, il banno e nuova pram-
matica, colla notizia di quanto erasi in Roma scritto al cardinal
Sinfuego. La cui savia deliberazione tanto più era applaudita e
commendata, quanto più si leggeva Popera del Sanfelice, riputato
da tutti meritevole non sol di questo, ma d'altro più severo ca-
stigo.1
Quest'opera, per essere cotanto sciapita e sciocca, non si sarebbe
nemmen fiutata, non che letta, ma questi romori mossero la cu-
riosità ad alcuni di guardarla, e si vide che, fra l'altre sciocche men-
zogne, l'autore con inudita impudenza avea scritto, che il tribunal
del Sant'Ufficio3 non era universalmente aborrito da' Napolitani,
ma che solamente alcuni pochi libertini l'aveano in odio, e che
l'imperadore per suoi editti non avealo affatto estinto. Cosa non
men falsa, che pur troppo sensibile a' deputati della Città, che
invigilano in quest'affare, i quali tosto che n'ebber notizia, aven-
do unita la Città, rappresentata per suoi Eletti in San Lorenzo,
con pubblica conchiusione3 stabilirono che si dovesse smentire il
falso scrittore, e gli Eletti portarsi dal viceré, e dichiarare a Sua
Eccellenza che l'odio e l'abominazione di quel tribunale era di
tutti, non di alcuni pochi Napolitani; e di rendere al viceré molte
al fratello del 9 aprile 1729 (Giannoniana, n.° 297), dove il Giarmone riferisce
della poca soddisfazione espressa dall'imperatore per la lentezza dei ministri
napoletani in tutta la faccenda. Cfr. infine la Memoria del Giannone per il
principe Eugenio, cit., in Giannonianay pp. 434-6. 1. pia si . . . castigo: si
veda quanto il nunzio Girolamo Grimaldi da Vienna scriveva alla Segreteria
di Stato, il 6 agosto 1729 (Archivio Segreto Vaticano, Nunziatura di Germa-
nia, voi. 285, ce. 461 v): il testo è pubblicato in L. Marini, // Mezzogiorno
d'Italia di fronte a Vienna e a Roma (1707-1734), in «Annuario dell'Istitu-
to storico italiano per l'età moderna e contemporanea», v (1953), p. 52.
2. il tribunal del San? Ufficio : il tribunale inquisitoriale spagnolo, che si
sarebbe voluto imporre anche al viceregno napoletano. Contro la sua costi-
tuzione Napoli si ribellò nel 1547 e di nuovo nel 1564. Nel 1661, infine,
• si giunse alla istituzione, contro la stessa autorità vicerealc, di una Depu-
tazione del Sant'Ufficio, cioè di una commissione permanente di vigilanza
contro il pericolo dello stabilimento del tribunale inquisitoriale in Napoli.
Il Giannone, nella sua Istoria civile, tomo iv, hb. xxxn, cap. v, pp. 72 sgg.,
ha dedicato numerose pagine a questa lunga storia di difesa della propria
libertà da parte della città di Napoli, con accenti fortemente illuministici,
ed è naturale che il Sanfelice polemizzasse con lui. Per un quadro comple-
to della lotta contro l'estensione del Sant'Uffizio a Napoli si veda L. Ama-
bile, // Santo Officio della Inquisizione in Napoli. Narrazione con molti
documenti inediti, Città di Castello 1892. 3. con pubblica conchiusione: il
testo di essa in Opere postume, 1, p. 300.
CAPITOLO SETTIMO 177
grazie della proscrizione d'un sì pernicioso libro, la quale era
stata ben propria e dovuta, e che ridondava in gran benefìcio del
pubblico. E destinarono il principe di Valle Piccolomini1 per ora-
tore, il quale, accompagnato dagli Eletti in pubblica forma, si por-
tò dal viceré e furon da lui, con molta eloquenza, passati gli uffici
di rendimento di grazie per la proscrizione, e data testimonianza
delFuniversal orrore che i Napolitani tengono, tramandatogli co-
me per eredità da' suoi maggiori, del tribunal del Sant'Ufficio.
Il viceré cortesemente l'accolse, lodò il zelo che aveano non meno
della reale potestà che del pubblico bene, e si offerì di mantenere
e di essergli sempre a cuore i privilegi e prerogative, che la Maestà
dell' imperadore avea, con tanta giustizia e clemenza, concedute
alla Città e fedelissimo suo Regno.
Tutti questi prosperi successi e perché l'opera del gesuita noi
meritava, mi disobbligarono d'apparecchiarmi ad una risposta; e
così dagli amici n'era consigliato, non solo perché bastantemente si
era risposto colla proscrizione, che la dichiarava libello famoso,
ma perché non vi era niente di solido, riducendosi tutta a vane
ciarle, a calunnie manifeste, a contumelie e falsificazione di passi
e di parole, che fino i ciechi l'avrebbero scoperte; e tanto maggior-
mente, ch'era da tutti biasimata e derisa; anzi da Roma si scrivea
che i cardinali stessi, i prelati e tutti gli uomini savi e dotti di
quella città la riputavano sciocca e sciapita, e n'erano fortemente
sdegnati, come da Roma, doppo sei anni fosse uscita una sì ridicola
risposta, quasi che non vi fosser altri che avrebber potuto farla
più degnamente, e d'essersi eletto uno scimunito e prodigioso
ignorante. Ed il marchese Almenara, che all'arrivo del conte di
Harrac in Napoli, tornando a Vienna, si fermò per qualche set-
timana in Roma, mi disse che parlando con alcuni cardinali e
prelati, mostravano esserne mal contenti, dolendosi di coloro i
quali stando attorno al papa qualificavano per idonei e sufficienti
tali soggetti, nelle mani de' quali sarebbe più propria la zappa che
la penna.
Per queste potenti cagioni io non pensava di risponderci affatto;2
1. Un membro della famiglia Piccolomini d'Aragona, principi di Valle.
2. Per . . . affatto: il 19 marzo il Giannone scriveva al fratello assicuran-
dolo di non aver intenzione di rispondere al Sanfelice (Giannoniana, n.*
294); il 7 maggio si rivolgeva ancora al fratello {Giannoniana, n.° 301)
perché questi pregasse Nicola Capasso di stendere una notizia in latino,
178 VITA DI PIETRO GIANNONE
fui sì bene dal marchese di Rialp, dolendomi che Roma vuol che
altri si tacciano, e nel tempo stesso permette che eschino dal Va-
ticano non libri, ma libelli famosi, per i quali sia strapazzata la
fama, l'onore e la stima degli uomini probi ed onesti, e da ciò co-
noscesse quanto poco gli cale che, con tutto che io fossi neh" im-
periai Corte, ed accolto da Sua Maestà con tanta clemenza, e go-
dessi dell'alta sua protezione, di non riputarla niente, e strapazzar-
mi colle più atroci e gravi contumelie che si potessero scagliare a'
più vili e sozzi uomini della terra. Il marchese, che per queste cose,
che e' riputava da poco e da non farsene conto, non voleva guastar
i suoi fatti colla corte di Roma,1 mi rispose con un soghigno,
dicendomi che non dovessi turbarmene, ma prenderle a riso e
burlarmene; tanto maggiormente, che dal viceré erasene preso
condegno3 castigo. Li replicai che così avrei fatto, e tanto più che
i libri del Sanfelice erano così sciocchi, che non m'obbligavano a
veruna risposta.
Ma mentre erasi in questo, ecco che da Roma furon mandati più
pieghi in Vienna, drizzati al Nunzio ed altre persone pubbliche,
ne' quali erano inchiusi più essemplari d'una nuova scrittura fatta
dal Sanfelice e stampata in Roma,3 nella quale, con inudita im-
pudenza e protervia, non solo si replicavano le stesse ingiurie e
satire, ma si attaccava il decreto regio e si malmenavano i reggenti
del Consiglio Collaterale di Napoli, con modi sì aspri e contume-
liosi, che non si ritenne l'impudente di chiamargli calunniatori,
sciocchi ed ignoranti ; e non ostante che la di lui opera fosse stata
da tutti derisa e riputata falsa, satirica e calunniosa, egli con tutto
ciò, fermo e costante ne' suoi deliri, imperversava contro tutti e
minacciava altre lettere, nelle quali avrebbe fatto conoscere quanto
egli avea nelle precedenti risparmiata la potestà de' principi; e che
quel regio decreto e banno avea recato più nocumento ed infamia
a coloro che l'avean proferito, che a lui, non avendogli tocco un
sol pelo, e che se ne burlava e facevane poco conto, poich'egli non
destinata agli « Acta Eruditorum Lipsiensium ». Ma sino a quel momento il
Giannone non conosceva direttamente l'attacco del Sanfelice, perché solo
nella lettera al fratello del 14 maggio egli dirà di aver ricevuto il libro e di
aver cominciato a leggerlo (Giannoniana, n.° 302) : una lettura che lo convin-
cerà, invece, della necessità di rispondere. 1. Il marchese . . . Roma: cfr.
infray p. 196. 2. condegno: adeguato, proporzionato (latinismo). 3. una
nuova . . . Roma: sono quattro fogli a stampa, col titolo: Difesa del libro delle
Riflessioni sopra V Istoria di P. G, dalle censure fattegli contro in Napoli.
CAPITOLO SETTIMO 179
si sgomitava1 dell'autorità, quando fosse destituita dalla ragione.
Letta quest'altra sfacciata scrittura, della quale il Nunzio stesso
non potè non stomacarsene: allora si pensò di dovergli daddovero
levare la mattìa dal capo, dubbitandosi che sicome avea fatto
con quel Consiglio, non facesse qualche altra scappata contro gli
Eletti della città, i quali pure con pubblica conclusione l'aveano
smentito, e fatte render grazie in nome del pubblico al viceré,
della proscrizione. Sicché essendo io passato nel mese di maggio
di quest'istesso anno 1729 alla solita mia villeggiatura di Pettersdorf,
pensai in quella solitudine, lontano da' romori della città, di sten-
dere una scrittura e vedere di levargli la pazzia di testa, e così di
quietarlo; né trovai altra maniera di poterlo curare d'un male sì
grave e pertinace, se non fingendo d'essere stato già convinto dalle
sue prediche, e spezialmente da quelle tre ultime sue lettere filo-
sofiche, che m'avea indrizzate, e che io vinto da' suoi forti ed effi-
caci argomenti mi era convertito ed avea abbracciata quella cre-
denza, eh' e' inculcava nelle sue Riflessioni morali e teologiche.
Dalle medesime cavai le massime che teneva intorno la monar-
chia papale ed assoluto imperio, che vuole che abbia non meno
sopra lo spirituale che il temporale de' principi, e quella credenza,
divozione e concetto, che vuol che ciascuno debba avere delle par-
ticolari divozioni degli ordini religiosi, confermate da tanti mira-
coli ch'e' rapporta. E sicome in Francia non erano mancati nobili
ed ingegnosi spiriti, dalle opere del gesuita Pallavicino, poi cardi-
nale, e spezialmente dall'Istoria del concilio di Trento cavarne un
Nuovo evangelio, compilato dalle di lui novelle massime sparse ne'
suoi libri, le quali unite insieme e ridotte in un picciol volume,
che fu stampato a Parigi,* si promulgò nel mondo questa nuova
dottrina: così procurai far io dall'opera del Sanf elice cavarne una
1 . sgomitava : sgomentava. 2. volume . . . Parigi : cf r. J. Le Nora, Les nouvelles
Lumières politiques pour le gouvernement de l'Église, ou VÉvangile nouveau du
cardinal Palavicin, révélépar lui dans son Histoire du Concile de Trente, Paris
1676. In questa indicazione di modelli per la Professione di fede bisognerà
includere anche quanto riferisce, a sua volta, il Panzini, p. 58, e che cioè
il Giannone prese l'idea « e qualcheduna delle cose che in essa si leggono, da
un libro franzese impresso in Parigi ... e dalla Confessione cattolica di Mr.
de Sancy, libro pieno di satira e di maldicenza pubblicato in Francia a'
tempi di Arrigo IV e diretto al Cardinal du Perron vescovo d'Evreux dal
Sig. d'Aubigné ugonotto, per porre in beffe quel cardinale ed altri insigni
personaggi della Comunione Cattolica». Il titolo completo di questa se-
conda fonte giannoniana è: T.-A. d'Aubigné, La Confession Catholique du
Sieur de Sancy, et Déclaration des causes tant d'état, que de Réligion, qui Vont
l8o VITA DI PIETRO GIANNONE
nuova Professione di fede* nella quale, in xn articoli fondamentali
professava quella credenza, ch'egli ed i scrittori romani della stessa
farina vogliono che si abbia del papa e suo illimitato potere. Dapoi,
in altri ix articoli secondari, professava di credere tutti que' stu-
pendi e portentosi miracoli, che per confermare le particolari di-
vozioni degli Ordini religiosi si leggevano in tante leggende, e spe-
zialmente nelle Conformità franciscane? per ciò che riguarda il
cordone di san Francesco, e nelle Cronache di san Antonino,3 per
quella de* Domenicani del rosario.
A questa Professione di fede aggiunsi alquanti Dubbi intorno alla
morale che vedeva praticata dal Sanfelice nella sua opera, cercan-
dogli che mi risolvesse, se chi teneva quella credenza ch'e' incul-
cava, e che io ne* precedenti articoli avea già professata, era libero
e franco, senza che se l'imputasse a peccato, di poter malignare il
suo prossimo presso il principe e suoi supremi ministri, per mi-
narlo ; se impunemente potea calunniarlo con imposture, falsità ed
altre indegne ed infami arti ; se era lecito di falsare passi, parole, e
storcere a maligni sensi il concetto degli scrittori ; se contro il suo
prossimo si potevano scagliare ingiurie gravi ed orrende, e se l'in-
giurie, passando non pure in iscritto, ma in istampa, poiché erano
praticate da tali credenti ne' loro scritti, dovessero questi o no
riputarsi libelli famosi; e se una tal credenza gli dava impunità
di mentire e facoltà, essendo ignorantissimi, di parer dotti e di
rendergli presuntuosi, arroganti e superbi.
Secondo che a ciascheduno di questi dubbi si apparteneva, in
più classi ridussi le tante calunnie, maledicenze, imposture, fal-
sità, menzogne, cavilli, ingiurie e gravi contumelie, che in tutta
l'opera erano sparse, che dimostrai e posi nell'ultima evidenza; e
sopra tutto in quelle cose che e' pretese corrigermi o di errore o
mèu à se remettre augiron de VÉglise Romaine. Apparve in Recueil de diverses
pièces servarti à Vhistoire de Henry III roi de France, Cologne 1 660. 1 . Pro-
Sessione dì fede: cfr. qui a pp. 475 sgg. 2. Conformità franciscane: il Gian-
none si riferisce alla celebre opera agiografica che Bartolomeo di Rinonico
scrisse tra il 1385 e il 1390: De conformitate vitae Beati Francisci ad vitam
Domini Iesu} e della quale si veda la moderna edizione critica in « Analccta
Franciscana», Ad Claras Aquas (Quaracchi), 1906-19x2. Sulle fonti della
Professione di fede cfr. anche la lettera al fratello Carlo, dell'8 ottobre 1729
{Giannoniana, n.° 323). 3. Cronache di san Antonino: Antonino Pierozzi
(13 89-1459), arcivescovo di Firenze, canonizzato da Adriano IV, scrisse di
ascetica e di teologia, oltre ad un Chronicon, che fu edito per la prima
volta a Norimberga nel 1484.
CAPITOLO SETTIMO l8l
miscredenza, mostrai quanto fosse grande la sua prodigiosa igno-
ranza, con maniera non acre, ma derisoria, qual si conveniva ad un
sì sciocco e scimunito scrittore.1 Nell'ultimo, l'avvertiva e pro-
testava, che io questa mia Professione e questi Dubbi glieli inviava
manuscritti, perché non si fossero da altri letti, ma unicamente per
suo uso e perché si rallegrasse della mia conversione, mercé delle
sue dotte e vigorose lettere che mi avea scritte in abscondito*
affinché la correzione fosse fraterna e caritatevole fra noi due soli ;
se bene non sapessi qual fosse stata la cagione che io non potessi
leggerle se non in stampa, e doppo che si erano già da per tutto
pubblicate, in Roma ed altrove.
Terminata che io ebbi questa scrittura nella solitudine di Pet-
tersdorf, tornato nel mese di luglio in città, la mostrai ad alcuni
amici, a' quali piacque sopra modo, e mi stimolavano a doverla
dare alle stampe; ma stetti saldo in non permetterlo; e se bene per
alcuni amici che l'avean letta fosse arrivata alla notizia dell'impe-
radore, e molto lodandogliela consigliavano che si fosse impressa,
io vi ripugnai sempre; e si prese il partito che se ne mandasse solo
una copia in Roma, e si tenesse modo di farla pervenire nelle
proprie mani del Sanfelice; sicome si fece,3 indrizzandola a lui,
e per sicuro ricapito con sopracarta diretta al rettore de' Gesuiti in
quel collegio o casa professa, dov'egli dimorava; ed un'altra copia si
fece pervenire a7 Gesuiti napolitani e siciliani, ch'erano in Vienna,
a' quali il padre Sanfelice avea indrizzati i pieghi dell'Indice e
dell'ultima scrittura fatta contro il decreto regio della proscri-
zione.
Se ne mandò un'altra copia in Napoli a gli amici, e questa sola
bastò, non stancandosi di leggerla e rileggerla a gli altri, per l'e-
stremo piacere che ne sentivano, che si diffondesse da per tutta la
città, né si ristette a questi limiti, che volò in Roma,4 dove ne furon
fatte innumerabili copie. Ciocché io sentiva con infinito dispiacere,
i. non acre . . . scrittore: diverso fu il parere degli amici napoletani, una
volta letto il manoscritto della replica giannoniana, come può dedursi dalla
lettera del Giannone dell'8 ottobre, più sopra ricordata. 2. in abscondito:
in segreto (latinismo). 3. sicome si fece: cfr. le lettere al fratello del 3
settembre e del 12 e 19 novembre (Giannoniana,) nn. 318, 328 e 329).
4. volò in Roma: cfr. la lettera al fratello del 24 dicembre (Giannoniana,
n.° 334) dove si dice contento che sia stata inviata a Roma una copia della
Professione di fede e suggerisce che, divulgandosene altre copie in Napoli,
si dica che esse sono giunte da Roma. Questa lettera, naturalmente, smen-
tisce quanto lo stesso Giannone afferma qui sotto.
l82 VITA DI PIETRO GIANNONE
poiché correndo manuscritta, temeva che non fosse trasformata e
guasta, e sopra tutto che i miei invidi e malevoli non la difTormas-
sero o macchiassero con qualche bestemmia o eresia, che vi ag-
giungessero. A questo fine io feci trascrivere un correttissimo es-
semplare, ed in forma di libro lo presentai al cavalier Garelli,
bibliotecario di Sua Maestà, affinché lo collocasse nella biblioteca
cesarea, dove come autografo si potesse ricorrere, nel caso si tro-
vasse in altre copie trasformato e guasto. Da Napoli erami scritto,
che alcuni volevano in tutte le maniere stamparla, ma io l'impedii
sempre, e scrissi ed istantemente pregai a* miei amici, che faces-
sero ogni sforzo d'impedirlo, sicome fecero; affinché tutti conosces-
sero che, dal mio canto, erasi adempita la promessa, e che se ben
Roma avesse quella prerogativa di dar licenza, che in mezzo di
quella città si stampassero libelli famosi, Napoli e Vienna non vole-
vano in ciò imitarla, ancorché la mia scrittura non fosse che per
difesa, mostrando le calunnie, le imposture e prodigiosa ignoranza
dell'avversario. Ma con tutto che si procurasse impedirne la stam-
pa, non fu possibile impedire il corso delle copie manuscritte;1
sicché, divolgatasi da per tutto questa contesa e resa manifesta
non meno che la scipitezza de' libri del Sanfelice, non tralascia-
rono i compilatori degli «Atti eruditi» di Lipsia di rapportarla,2 si-
come fecero i «Giornali de' letterati» d'Ollanda, Francia ed Inghil-
terra;3 onde i Gesuiti, vedendo che da tutte le parti correva per
iscostumato, satirico ed ignorante della loro società, per rimediare
nel miglior modo che potessero, da' giornalisti di Trévoix della lor
farina, i quali riducono in compendio libri sciapiti dagli altri rifiu-
tati, fecero riferir l'opera di Sanfelice, raccorciandola e dandole
altro aspetto che il naturale e proprio, s'ingegnarono farla apparire
meno deforme,4 ma poiché de' giornali di Trévoix niuno ticn conto,
i. non fu . . . manuscritte-. un censimento delle copie esistenti nelle bi-
blioteche italiane è in Gìannoniana, passim. 2. non tralasciarono . . .
rapportarla: la notizia della polemica, come s'è annotato più sopra, fu
stesa in latino da Nicola Capasso dietro richiesta del Giannone e del Ga-
relli, i quali provvidero a farla pervenire a Johann Burckard Mencke. Non
fu tuttavia pubblicata cosi come il Capasso l'aveva stesa, ma venne rima-
neggiata a Lipsia, senza darne partecipazione al Giannone (cfr. la sua let-
tera al fratello del 15 ottobre, Giannonianat n.° 324), il quale se ne giustificò
coll'amico napoletano (cfr. la lettera del 26 novembre, Giamtonianat n.° 330,
ma anche la lettera del 7 gennaio 1730, Giannoniana} n.° 337). 3. sico-
me . . . Inghilterra: questa affermazione non è stata sin qui da nessuno stu-
dioso controllata, 4. da3 giornalisti . . . deforme: nel periodico dei padri
gesuiti, le «Mémoires de Trévoux» del 1730 apparvero tre articoli di fila:
CAPITOLO SETTIMO 183
e come sciocchi, e perché ciascun sa che i compilatori sian gente
venale e stipendiata da' Gesuiti, si rimasero quelli del Sanfelice in
quel disprezzo e perpetua dimenticanza che meritavano; anzi Ro-
ma stessa si affaticava che se ne perdesse ogni memoria.
ni
I1730]
Intanto in queste occupazioni ed altre appartenenti alla difesa
delle cause che m'eran commesse, spezialmente d'alcune sue pro-
prie dal marchese Clemente Doria, se ne passò Tanno 1729, ed
eravamo entrati nel 1730 nel quale mi scrisse il reggente Castelli1
del Consiglio Collaterale di Napoli, mio amico, ed al quale pro-
fessava molti obblighi per aver prese con fervore le mie parti nel-
la proscrizione del Sanfelice, che dovessi mandarli una esatta rela-
zione di tutti i Consigli e dicasteri della città di Vienna, con distin-
zione delle loro origini, giurisdizione, numero e qualità de' mini-
stri che gli componevano. Io nella villeggiatura di quest'anno a
Pettersdorf la distesi; ma come che in villa mi mancavano alcuni
libri a ciò necessari, tornato in città la perfezionai, e manuscritta
gliela mandai, che dovesse servire unicamente per sua istruzione
e degli avvocati, suoi e miei amici, che ne mostravano desiderio,
né permettessero farne altro uso mostrandola ad altri. Ma essen-
do molto piaciuta, e di mano in mano passata alla notizia del conte
Ferdinando d'Harrac, figliuolo del viceré, che dimorava in Napoli
con suo padre, questi parlandone con altri fece che io ne fossi ri-
chiesto a Vienna d'una copia da alcuni Tedeschi, non viennesi,
ma sassoni, a' quali non potei negarla, dicendomi che, non es-
sendovi alcun autore che trattasse di proposito di questi Consigli
il primo (pp. 5-1 1) con la recensione dell'Istoria civile, il secondo (pp. 12-
68) dedicato alle Riflessioni del Sanfelice, il terzo (pp. 69-71) alla sua
Difesa (che fu la replica del Sanfelice alle Osservazioni del Garofalo).
1. Domenico Castelli, oriundo di Nocera dei Pagani, reggente del Colla-
terale e, dal 1730, presidente interinale della Giunta dei Veleni. Era il
fratello di Francesco, vicario del cardinale Francesco Pignatelli. Nell'in-
chiesta sulla magistratura napoletana, del 1734, la sua nota personale dice:
« È un napolitano di mediocre dottrina, ma di buona morale, puntuale ed
incorrotto. Non ha altro attacco colla Corte di Vienna, che per aver com-
perato da quella con danari il posto di Reggente. Non è affatto amato dal
pubblico perché è tardo nel risolvere, e si regola secondo il vento che spira »
(Archivio di Stato di Napoli, Segreteria di Giustizia, Biografie di magistrati,
ff. 12*7-13).
184 VITA DI PIETRO GIANNONE
e dicasteri, gli farei somma grazia se ne avessero da me un'esatta
notizia. Gliela diedi in fine, su la lor fede che non dovesse servire
se non per loro informazione. Seppi dapoi, che passati alquanti
anni, l'avean fatta tradurre in latino, ed imprimerla nell'anno 1732
ad Ala di Magdemburg, sotto anagrammato nome di Giano Feren-
tino.1 Né certamente potea immaginarmi che di questo libretto se
n'avesse da doler poi cotanto il nunzio Passionei, che era succe-
duto al Grimaldi,2 e farne tanti strepiti e romori, tutti indrizzati
per rumarmi, come dirassi a suo luogo e tempo, e che < assai mag-
giori di quelli che ne fecero > gli Spagnoli di Vienna, sicome intesi
partito che fui da Vienna, nella mia dimora di Venezia, ne facesse-
ro tante doglianze con altri e con Cesare istesso.
In quest'anno Menckenio padre mi mandò da Lipsia la tradu-
zione in lingua inglese della mia Istoria civile, stampata in Londra
nel precedente anno 1729, in due tomi in-foglio, ne' quali eran
compresi i quattro dell'edizione napoletana ;3 ed ancorché io non
1. Giano Ferentino : con questo stesso anagramma il Gìannone aveva firmato
la giovanile dissertazione sulle nevi del Vesuvio. Questa Breve relazione de*
Consigli e Dicasteri della città di Vienna era datata nell'autografo 19 gennaio
1731 (cfr. Panzini, p. 63) e fu edita a cura del Panzini, Londra (ma Napoli)
1766. Tradotta in latino, col titolo De Consilus, ac Dicasteriist quae in Urbe
Vindobona habentur, liber singulans, recò l'indicazione di stampa: Halae
Magdeburgicae 1732. Il Panzini, p. 64, afferma che la stampa dell'opera
fu vietata a Lipsia, dove avrebbe dovuto vedere la luce a cura di Frie-
drich Otto Mencke, per cui il Giannone provvide egli stesso a farla stam-
pare «nell'anno 1734 o in su' princìpi del 1735 da Francesco Pitteri in
Venezia». Questa notizia è ora confermata da L. Marini, L'opposizione
curiale a Pietro Giannone, 1723-1735, in «Archivio Storico per le Provincie
Napoletane», S. in, voi. v (1965), pp. 40-1. 2. il nunzio . . . Grimaldi'.
Domenico Passionei (1 682-1 761), già nunzio agli Svizzeri, sostituì il Gri-
maldi il 31 marzo 173 1. Divenne in seguito cardinale e prefetto della Bi-
blioteca Apostolica Vaticana, dopo essere stato segretario ai Brevi (1738).
Avverso ai Gesuiti e di sentimenti filogiansenistici, aperto alle nuove cor-
renti di pensiero, osteggiò ciononostante il Giannone con ogni mezzo,
ancora dopo la partenza di questi da Vienna (cfr. p. 265). La sua ric-
chissima biblioteca privata è ora uno dei fondi più importanti della Bi-
blioteca Angelica di Roma. 3. hi . . . napolitano: cfr. The Civil History of
theKingdom ofNeaples . . . Translated into English by Captain James Ogilvie,
London 1729-173 1. In Panzini, p. 60, è riferita una lettera del traduttore
al Giannone, «nella quale lo informava de' motivi dell'opera da lui intra-
presa di trasportare nel natio linguaggio la Storia Civile del Regno di Na-
poli, la quale egli vedeva d'essere tenuta in grande stima dagli uomini più
dotti e rinomati non meno dell'altre nazioni che della sua propria: ch'egli
perciò vi si era applicato con molt'assiduità nell'ozio di un viaggio, che in
qualità di capitano di vascello aveva fatto alla Nuova Zembla: che avendola
dipoi, tornato in Inghilterra, compita ed emendata la dette alle stampe ... ;
CAPITOLO SETTIMO 185
intendessi la lingua, procurai che que' che la sapevano m'interpre-
tassero alcuni passi, che io, come non conformi alla Chiesa angli-
cana, temeva non Pavesser tronchi o alterati; ma si trovarono in-
tatti, così com'erano nell'autografo, sicché potei promettermi una
traduzione leale e fedele, tanto più che i nomi delle città e provin-
ce si lasciavano intatti, sicome altre voci proprie del latino o
italiano.
Stupii in vedere l'ampio numero di coloro i quali s'erano sotto-
scritti, per agevolarne l'impressione, e la loro qualità, non man-
candovi de' milordi, arcivescovi, vescovi ed altre persone illustri e
letterate; e ve n'eran di que', che la sottoscrizione l'avean stesa
chi a quattro, chi a sei copie, ed il numero era così grande, che
bisognò farne catalogo de' nomi in un lungo alfabeto, che occupava
più fogli. In oltre, nel frontispizio si additavano non uno, ma sette
librari di Londra, dove i compratori dovessero ricorrere, dan-
dogli notizia de' loro nomi, delle strade ove tenevano le biblioteche
e loro insegne.
Non posso negare ch'ebbi estremo piacere in vedere che in
Inghilterra, ove presentemente fioriscono cotanto le scienze e le
buone lettere, sicome è manifesto da' dotti e preziosi libri che
n'escono alla giornata, Y Istoria mia fosse stata così ben ricevuta, ed
il mio nome reso cotanto rinomato e celebre. E tanto maggiormen-
te che, avendo ivi una società d'uomini savi ed eruditi preso l'as-
sunto di dar al mondo un nuovo « Giornale de' letterati», nel quale
fossero in breve accorciate in lor lingua l'opere che si davano alla
per la qual cosa avea cercata l'opportunità di fargli capitare questa sua
lettera, in cui gli dava di tutto ciò distinto ragguaglio, ed insieme gli rimet-
teva in contrassegno della sua osservanza io esemplari della sua traduzione,
per comodo di lui e de* suoi amici, ed una cambiale di 500 o 600 fiorini
di Germania, da torsene qualche singoiar cosa in sua memoria». Sulla
divulgazione in Inghilterra delle vicende del Giannone si veda inoltre F.
Venturi, Giarmoniana britannica, in « Banco di Napoli, Bollettino dell'Ar-
chivio Storico», 11 (1954), pp. 249-54. L'8 aprile del 1730» cercando di
spiegare al fratello il ritardo nell'uscita delle traduzioni latina e francese
della sua opera, il Giannone diceva che l'edizione inglese aveva preceduto
le altre «perché gl'Inglesi fanno presto, perché hanno denari colla pala, e
nelle edizioni de' libri non hanno risparmio, perché trovano compratori che
li pigliano a qualunque prezzo che li stimano» (cfr. Giannoniana, n.° 350).
Ma si veda anche la lettera, sempre al fratello, del io giugno 1730 (Gian-
noniana, n.° 359), dove dice di ritenere che se non fossero state già annun-
ciate le traduzioni dell'Istoria civile in latino e in francese, l'uscita dell'edi-
zione inglese avrebbe fatta apparire l'opera ancor più eretica.
l86 VITA DI PIETRO GIANNONE
luce in quel regno, cominciarono a darle principio dalla mia opera;
ed i primi quattro tometti che uscirono furono i compendi de*
miei quattro tomi adii Istoria civile, non dimenticandosi nel quinto
di trattar, come si meritava, dell'impudenza, ignoranza e protervia
del padre Sanfelice gesuita.1 Perciò non eravi inglese di conto, che
viaggiando, o per altri suoi affari capitando a Vienna, non fosse a
visitarmi per conoscer di vista chi avea conosciuto per fama;
e trattandosi in Londra di dar una nuova e magnifica edizione
dell'Istoria del presidente Tuano, il famoso Buckley, che n'avea la
direzione e principal cura,2 scrisse al cavalier Garelli, biblioteca-
rio delPimperadore, che gli somministrasse qualche manuscritto,
se mai si trovasse nella biblioteca cesarea, o altra notizia apparte-
nente a quell'Istoria, affinché niente mancasse di raro e pellegrino
in questa nuova edizione che si preparava. Il Garelli non mancò
di mandargli quanto potè trovare ne' codici manuscritti; ed aven-
domi richiesto di conferir anch'io in parte a' buoni desideri del
Buckley, gli risposi che volentieri l'avrei fatto, e spezialmente per
occasione di questa ristampa, di avvertire la varia lezione che si
osservava tra le prime stampe di quell'Istoria e l'edizione di Gine-
vra del 1620 (se bene alcuni essemplari portino la data di Orléans),
intorno alla moneta di oro di Ludovico XII, re di Francia, che
porta l'epigrafe: perdam babillonis nomen, la quale il Tuano,
nel primo libro delle sue Istorie, narrava essersi coniata in Napoli,
e che avesse l'insegne di Napoli, sicome leggevasi nelle prime
1 . un nuovo . . . gesuita : la «Historia Literaria» o, come diceva il sottotitolo, An
Exact and Early Account of the most Valuable Books Published in the Several
Parts of Europe, il cui primo numero usci a Londra nel 1730, recando nei
primi quattro fascicoli un sommario dei singoli volumi dell'opera gianno-
niana e, nel quinto fascicolo, un attacco ai «Mémoires de Trévoux» per
la loro recensione alle Riflessioni del Sanfelice. Promotore del periodico era
un ex-gesuita inglese, Archibald Bower, vissuto in Italia sino all'estate del
1726, e rientrato a Londra in quell'anno dopo aver abbandonato la reli-
gione cattolica. La prima notizia divulgata in Inghilterra dell'opera sul
regno di Napoli è tuttavia quella - qui non ricordata dal Giannone - di
R. Rawlinson, nel suo A New Method of Studying History, 11, London 1 728,
p. 407. Cfr. su tutto ciò Bertelli, pp. 208-9. 2. Istoria . . . cura: cfr. J,-A.
DE Thou, Historiarum sui temporis libri XXIV, Londinii, excudi curavit
Samuel Buckley, 1733. Lo storico e bibliofilo francese Jacques-Auguste
de Thou (1 553-1617), eletto nel 1595 presidente del Parlamento, oltre che
alla propria opera, ha affidato la sua memoria alla celebre «Bibliotheca
Thuana », ancor più ampliata dal figlio e che è oggi uno dei fondi della
Bibliothèque de l'Arsenal di Parigi; Samuel Buckley: erudito e bibliofilo
inglese del XVII-XVIII secolo.
CAPITOLO SETTIMO 187
edizioni. Ciocché poi si emendò nelle altre posteriori edizioni, poi-
ché né quella moneta porta l'insegna di Napoli, né fu coniata in
Napoli. E che questo era un punto da ben esaminarsi, né trascu-
rarsi: poiché, se si dovessero attendere le prime edizioni, si con-
fermerebbe l'interpretazione data a capriccio dal padre Arduino
gesuita all'epigrafe, che non avesse voluto Ludovico intender per
Babilonia Roma, ma il Cairo d'Egitto, che chiamossi pure Babi-
lonia.1
Ma poiché la verità era, che quella moneta fu fatta imprimere
dal re Ludovico, per rintuzzare l'orgoglio e temerario ardire di
papa Giulio II, e che volesse per quella minacciar Roma, né fosse
coniata in Napoli, né portasse l'insegne di Napoli, ma di Francia,
quindi bisognava con più vigorosi argomenti di quello che fin ora
erasi fatto, spezialmente da Sigismondo Liebe,2 confutar la strana
e capricciosa interpretazione dell'Arduino, e manifestare con più
chiare pruove che Ludovico, ancorché s'intitolasse nella moneta
re di Francia e di Napoli, e tacitamente con ciò volesse inferirsi
che fosse anche re di Gerusalemme, non poteva intendere del
Cairo, posseduto dal soldano3 di Egitto, perché allora Gerusalem-
me si apparteneva al soldano di Damasco, e non già a quello di
Egitto ; sicché le minaccie avrebbero dovuto indrizzarsi contro co-
lui, non contro quel d'Egitto, come fantasticava l'Arduino. E che
vi era anche molto con tale occasione da avvertire sopra i tanti
altri errori ed abbagli presi dal gesuita, per render vanissima la sua
interpretazione. La materia e l'opportunità meritava la pena di
farlo; sicché gli promisi che n'avrei distesa una dissertazione, e
fattala poi tradurre in latino, si sarebbe potuta mandare in Lon-
dra a Buckley, perché communicata con que' savi, ne avesser fatto
1. L'interpretazione . . . Babilonia: cfr. J. Hakdoutn, Opera selecta, Amstae-
lodami 1709, pp. 905-6. L'epigrafe è tratta da Isai., 14, 22 e la coniazione
della medaglia si riferisce all'urto tra Luigi XII e Giulio II, sfociato nella
convocazione del Conciliabolo pisano, nel 151 1. Jean Hardouin (1646-
1729), gesuita, fu bibliotecario al collegio Louis-le- Grand di Parigi. Molto
ammirato per la sua erudizione (vedi i dodici volumi della Conciliorum
collectio regia maxima, Parishs 1714-1715), venne però ripreso per certe
sue opinioni sulla non autenticità di talune opere classiche e della patri-
stica. 2. spezialmente . . . Liebe: cfr. Prodromi reformationis pia memoria
recolendae, sive Nummi Ludovici XII, regis Gallorum, epigraphe «perdoni
Babylonis nomen* vel «perdam Babylonem^ insignes illustrati et impnmis
contrajo. Harduinum defensi a Christiano Sigismondo Liebe, Lipsiae 1717.
3. soldano: sultano.
l88 VITA DI PIETRO GIANNONE
quell'uso che li paresse. Fu la dissertazione distesa, tradotta in
buon latino e mandata a Buckley, il quale scrisse essere stata da
tutti sommamente applaudita e che si sarebbe impressa nell'ul-
timo tomo, dov'erano raccolte tutte l'altre memorie e scritture
appartenenti non men all'Istoria, che al suo autore.
In effetto, terminata ne' seguenti anni la stampa, e riuscita vera-
mente magnifica ed accurata, divisa per le nuove giunte in sette
volumi in-foglio, nel settimo si legge la Dissertazione suddetta,
senza che si fosse espresso il nome dell'autore, sicome si scrisse
che fosse taciuto,1 e per maggior intelligenza della medesima, fu
impressa la moneta di oro, sicome trovasi in più musei; ed oltre
a questa l'altra consimile, rapportata da Lukhio3 e riferita nella
Dissertazione, nella quale, leggendosi l'anno 15 12, vengono non
pur confermati gli argomenti addotti, ma resa più manifesta la
vanità e stranezza dell'interpretazione del padre Arduino ; sicome
ciascuno per se stesso potrà conoscere leggendola nel riferito set-
timo tomo di questa nuova edizione.
Veduta che fu la traduzione inglese dell'Istoria civile, s'invoglia-
rono altre nazioni a far lo stesso ed i Francesi non furon pigri per
darne un'altra francese; ed alcuni professori francesi, che partiti
di Francia eransi stabiliti nell'Università di Losanna3 fra' Svizzeri,
I. nel settimo . . . taciuto', cfr. J.-A. de Thou, Histotiarum sui temporis libri
XXIV, cit., vii, Sylloge Scriptorum varii generis et argumenti . . ., parte vili,
pp. 34-42. La dissertazione è stata ristampata dal Panzini, in Opere postume,
II, pp. 285 sgg. La stesura originale in italiano è conservata in Archivio
di Stato di Tonno, mazzo 1, ins. 8 (Giannoniana, pp. 408-9). 2. Lukhio:
Johann Jacob Luckh, erudito tedesco del XVII secolo. Giannone si rife-
risce qui alla sua Sylloge numismatum elegantiorum quae diversi impp. reges
pnncipes comites respubhcae diversas ob causas ab anno 1500 ad annum usque
1600 cudifecerunt, concinnata et historica narratione (sed brevi) illustrata, Ar-
gentinae 1620, p. 23. 3. alcuni . . . Losanna: tra il 1728 e il 1734 vide la lu-
ce, a Ginevra, la «Bibliothèque italique», promossa da studiosi di Losanna,
Ginevra e Neuchàtel e appoggiata all'editore Marc-Michel Bousquet (per
cui cfr. la nota 4 a p. 212). Nei volumi ix e x del periodico fu pubblicato
un rendiconto del primo volume dell' Istoria civile, curato da Babaud du
Lignon, dietro suggerimento da Parigi dell'abate Grane!. Dopo la rottura
dei rapporti tra il Bousquet e il du Lignon, il compito di continuare la
presentazione dell'opera fu assunto da Charles-Guillaume Loys de Bochat;
però la sua fatica risultò inutile, per la cessazione delle pubblicazioni della
«Bibliothèque». Su tutto questo cfr. G. Bonnant, Pietro Giannone à
Genève et la pubhcation de ses oeuvres en Suisse au XVIII* et au XIX*
siècles, in «Annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari del-
l'Università di Roma», in (1963), pp- 124-5- Non ebbe invece alcun se-
guito un tentativo di traduzione in francese al quale aveva dato mano un
CAPITOLO SETTIMO 189
erano occupati di presto mandarla alla luce, poiché una società di
librari di Ginevra se ne avea preso il carico d'imprimerla, sicome
si dirà innanzi.1 E Menckenio figlio mi scrisse da Lipsia, che già
nell'interior Germania si preparava altra traduzione in lingua ale-
manna, per uso de' Tedeschi.2
Ma tutte queste grate notizie eran per me dolci cose ad udire,
non già che valessero a sottrarmi dalle miserie e strettezze, nelle
quali in quest'anno mi vidi posto dalla voracità ed ingordigia de*
Spagnoli, spezialmente de' Catalani, di Vienna; i quali quel poco,
che in ciaschedun mese m'era somministrato da' diritti delle spe-
dizioni di Sicilia, per mio alimento, l'avean confuso col denaro
del Consiglio : sicché erami ritardato il pagamento, per supplire a'
loro bisogni e quartali.3
Il nuovo presidente, conte di Montesanto, avea ottenuto dalPim-
peradore che questi diritti di spedizione e suggello della Secreteria
di Sicilia, che prima erano separati, si confondessero con tutti gli
altri del Consiglio, sicom' erano quelli di Napoli e di Milano.
Venne con ciò a mutarsi la persona che soleva somministrarmi
le mie mesate, ed in vece d'esiggerle dal secretano di Sicilia, co-
me prima, m'era bisogno di ricorrere all'ufficiai maggiore della
Secreteria del Suggello, ch'era un vecchio catalano, chiamato don
Giovanni Llacuna, ricevitore di tutto il denaro che proveniva dalle
spedizioni così di Sicilia, come di Napoli e di Milano, nelle cui
mani era riposto a disposizione del Consiglio e del presidente; il
quale, ora per un bisogno, ora per un altro, che non ne manca-
vano (poich'erasi giunto a somministrar estraordinari soccorsi di
denaro a gli Spagnoli, non pur per i funerali di loro defonti o per
qualche loro infermità, ma sino per i loro viaggi, per le spese delle
nozze delle loro figlie, se si maritavano, o pure ne' parti delle loro
avvocato del Parlamento di Parigi (cfr. Panzini, p. 52) e per il quale il
Giannone approntò alcune correzioni, tramite l'abate Pellegrini, già let-
tore di diritto a Pisa, da lui conosciuto a Vienna, e che Apostolo Zeno
definiva « gran viaggiatore e gran parabolano, e che spaccia la sua mercan-
zia più di quello che è, e che vale» (cfr. Lettere, rv, Venezia 1785, p. 122).
1. sicome . . . innanzi', cfr. pp. 212-4. z- nell'interior . . . Tedeschi: anche
per questa iniziativa il Giannone fu informato tramite Johann Burckard
Mencke, il quale gli scrisse il 22 novembre 1732 dando per imminente l'u-
scita della traduzione tedesca dell'icona civile (cfr. Panzini, p. 52). Sen-
nonché questa edizione non vide mai la luce. Uscì invece a Lipsia, in
quattro volumi, un'altra traduzione, tra il 1758 e il 1770, curata da Otto
Christian von Lohenschiold e da Johann Friedrich Le Bret: Bùrgerliche
Geschichte des Kdnigreichs Neapel. 3. quartali: parti di stipendio.
190 VITA DI PIETRO GIANNONE
mogli), teneva quasi sempre vota la borza del ricevitore; e dall'al-
tra parte, per lentezza e trascuraggine del medesimo in esigger
da Sicilia i diritti di spedizione, sempre che io mandava per riscuo-
ter le mesate, la risposta del catalano era: «no hai dinero».1
Soffrii per due, tre e quattro mesi, ma vedendo che la cosa si
prolungava ed il mio bisogno mi stringeva, da necessità costretto,
vedendo che niente mi giovavano le doglianze che faceva col pre-
sidente ed i reggenti di quel Consiglio, ebbi ricorso da Sua Maestà,
e con pieno memoriale2 l'esposi, che dalla confusione del denaro
de' diritti di Sicilia con quelli di Napoli e di Milano proveniva la
tardanza del mio pagamento, valendosi il Consiglio di tutto il
denaro; e se ve n'era della spedizione di Milano e di Napoli,
come più ubertosa, non per questo era io soddisfatto, replicandomi
che il mio assignamento era sopra quella di Sicilia; onde pregava
Sua Maestà che sicome il Consiglio valevasi de' diritti di Sicilia
confondendogli con gli altri, così il mio assignamento si stendesse
sopra quelli di Napoli e Milano, affinché se si trovassero spesi
quelli di Sicilia, avessi io donde ricompensargli; tanto maggior-
mente, che F assignamento della mia mercede fu dimostrativa-
mente fatto sopra Sicilia, come allora più sicuro, non già tassati-
vamente, sicché non potessi ricorrere alle altre spedizioni.
Ne informai pienamente il marchese di Rialp,3 al quale diedi il
memoriale, perché da Sua Maestà impetrassi questa giustizia; ed
il marchese, persuaso della mia ragione, non tardò guari che ot-
tenne da Sua Maestà decreto,4 col quale, perché non mi fosse dif-
ferito il pagamento, si ordinava che nelF assignamento fattomi ci
andasser anche compresi i diritti delle spedizioni di Napoli e di
Milano ; e se ne spedì dispaccio diretto al Consiglio.
Replicarono al decreto que' signori che lo componevano, gelosi
che non se gli toccasser i loro fondi, rappresentando a Sua Maestà
che i diritti delle spedizioni di Napoli e di Milano erano stati prima
incorporati al Consiglio, come sua dote, e che non potevano ad
altri assignarsi; sicché il mio assignamento5 dovesse rimaner ri-
stretto a quelli soli della Sicilia. Non bastava a que' signori, perché
1 . « no hai daterò » : « non ho danaro ». 2. memoriale : il testo di esso non ci è
pervenuto. 3. Ne . . . Rialp: cfr. la Memoria per VEcc.mo Sig. Marchese di
Rialp, in Archivio di Stato di Torino, manoscritti Giannone, mazzo 11, ins.
15, C, 4 (Giannonianay pp. 439-40). 4. decreto: del 14 gennaio 1730.
5. assignamento: assegno, stipendio.
CAPITOLO SETTIMO 191
fosser sicuri de' loro quartali, aversi fatti assignare nel regno di
Napoli e nello Stato di Milano i migliori corpi dell'entrate regie;
non gli bastava, per essere puntualmente pagati, il denaro che ri-
traevan ogni anno dagli uffici vendibili, non tanti altri diritti ed
emolumenti ; che vollero pur guardare attentamente a questa mi-
nuzia e bagattella, quasi che facendomi entrare in sì minutissima
parte, che non era che una gocciola a riguardo delP ampio oceano
dov'essi nuotavano, non venisser a mancargli Tacque.
Ma informato che io fui dell'animosa ed ingorda replica, vi ac-
corsi subbito con altro memoriale,1 rappresentando a Sua Maestà
che già che il Consiglio ripugnava e che voleva che non se li toc-
cassero le spedizioni di Napoli e di Milano, la stessa ragion vo-
leva che a me non si toccassero quelle di Sicilia, poiché furono a
me assignate, prima che si confondessero e s'incorporassero al
Consiglio; onde non potessero valersene, se prima non era io pa-
gato, e così, se ne spedissero ordini al pagatore Llacuna. La mia
domanda Sua Maestà la riputò giusta e che non ammettesse al-
tra replica; sicché con altro decreto2 commandò che delli diritti
delle spedizioni di Sicilia fossi io prima pagato, né il Consiglio
potesse toccarli, se non doppo la mia soddisfazione; ed avver-
tisse a chi si apparteneva esser questa la sua real volontà. Esegui-
rono senz'altra replica il decreto, e furono spedite al ricevitor
Llacuna istruzioni conformi; ma per farle capire a quello stupido
vecchio, bisognò stentar molto. Così fui pagato delle passate me-
sate e presenti, e per l'avvenire se bene non mi fosser pagate mese
per mese, con tutto ciò non passavano i due, ancorché qualche
volta anche i tre, poiché, passando le spedizioni per le lor mani,
niuno poteva sapere che denaro vi fosse, e sovente bisognava chi-
nar il capo alla terribile voce del catalano: «no hai dinero ».
A questi tempi, il Consiglio di Spagna erasi ridotto ad una vana
apparenza, poiché le cose gravi e di momento erano risolute dalla
Secreteria di Stato, ed il marchese di Rialp n'era l'arbitro e dispo-
sitore, lasciandosi al Consiglio le cose minute; e se nelle gravi si
cercavano le sue consulte, o era per ludibrio, o pure per iscorgere
se fossero conformi a ciò che erasi già il marchese deliberato di
1. altro memoriale: il testo di questo è conservato nell'Archivio di Stato
di Torino, manoscritti Giannone, mazzo il, ins. 15, A, io (Giannonìana,
p. 434). 2. altro decreto: del 17 marzo; cfr. Panzini, p. 40, in nota.
I92 VITA DI PIETRO GIANNONE
fare. Per ciò i reggenti che lo componevano, ciascuno non atten-
deva che al proprio utile e d'avanzar le loro case; ed il marchese,
purché gli lasciasse di ciò appagati e non fossero d'ostacolo colle
loro repliche ed opposizioni a quanto egli intendeva di fare, volen-
tieri ci dava mano ; sicché il minimo de' loro pensieri era il servizio
del re ed il pubblico bene. Per ciò le spedizioni di giustizia, e
quelle che non recavan grandi emolumenti eran tarde, e sovente
affatto trascurate; onde avvenne che i provinciali di Napoli, Si-
cilia e Milano non cosi spesso, come prima, ci avean ricorso;
sicché le spedizioni sensibilmente venivano a scemarsi, sicome le
commissioni a gli aggenti, i quali toltone alcuni pochi che aveano
il favore del marchese di Rialp, eransi ridotti in un'estrema men-
dicità; sicome anch'io conobbi per proprio esperimento, che sem-
pre più si scemavano le commissioni, che prima mi eran date per
difesa di qualche causa; e molto più si videro cessare ne' seguenti
anni, quando i provinciali, annoiati di sì lungo aspettare, nel mi-
glior modo che potevano accomodavano i loro fatti nelle loro città,
senza ricorrer più a Vienna.
Di ciò i reggenti se ne caravan poco, soverchiandoli i grossi
stipendi, che sopra fondi sicuri e certi erano stati loro assignati; e
già era fatta lor consueta e propria frase, che spesso replicavano,
dicendo: «quartali vengano e non curiamo del resto»; e tutto il
loro scopo non era altro che questo, e di profittare ciascuno per
se stesso. Ne diedero un chiaro documento quando, per lo pas-
saggio del reggente Bolagno all'ambascieria di Venezia, fu rifatto
in suo luogo il reggente Alvarez1 per Milano; e dapoi creato pre-
sidente del Consiglio di Santa Chiara di Napoli il reggente Sola-
nes,a a chi dovea darsi successore per Napoli, fu fatto Esmandia3
reggente.
Ciascuno credea ch'Esmandia, come quello ch'era stato lunghi
1. Bolagno . . . Alvarez: cfr. le note 1 p. 98 e 2 a p. 92. 2. Francisco
Solanes, giurista, conte, professore di diritto all'Università di Barcellona e
sin d'allora amico del Rialp, nel 1708 era passato a Napoli consigliere di
Santa Chiara. A Vienna nel 1726, successe all'Argento come presidente del
tribunale di Santa Chiara e giudice delegato in Collaterale. Cfr. H. Bene-
dikt, Dos Kónìgreìch Neapel, cit., p. 239 e passim. Ma vedi anche la let-
tera profetica del Giannone al fratello, m data 29 luglio 1730, dove scrive
che «avendo il reggente Solanes impresso ora un libro di sette disserta-
zioni legali», dubita che ciò non sia per fargli avere la presidenza del
Sacro Real Consiglio (Giannoniana, n.° 366). 3. Esmandia: cfr. la nota
a p. 141.
CAPITOLO SETTIMO 193
anni senatore a Milano ed istrutto a minuto dello Stato, né mai
avea veduto Napoli, né in qual parte d'Italia si fusse, dovesse oc-
cupare il reggentato per Milano, perché le provvidenze fosser più
accertate, trattando di paese a sé noto. All'incontro, il reggente
Alvarez, che giovane appena avea veduto Milano, e ch'era stato
in Napoli reggente di Collaterale molti e molti anni, il quale era
istrutto della Città e Regno, dovesse passar reggente per Napoli.
Con ammirazione1 di tutti, si vide il contrario: poiché rimase Alva-
rez per Milano, ed Esmandia per Napoli.
I curiosi vollero indagare la cagione, e non trovarono essere
stata altra, se non perché TAlvarez non volle muoversi dal reggen-
tato di Milano e passar in quello per Napoli, per non perdere il
piggione che pagava Milano a* suoi reggenti provinciali della loro
abitazione: ciò che non facea Napoli a' suoi: credendo bastargli i
novemila fiorini Tanno, che Sua Maestà gli paga di soldo. Tanto
bastò, perché si riputasse ragionevole la sua ripugnanza, niente
curando ch'era di maggior servizio del re e del pubblico, che l'uno
più istrutto di Milano passasse per Milano, e l'altro ben infor-
mato delle cose di Napoli fosse per Napoli, come quelli che eran
venuti di fresco, l'un da Napoli e l'altro da Milano, e conoscessero
le persone e l'ultimo stato di quel regno e di quel ducato, nel quale
eglino l'avean lasciati.
Parimente, passato l'Esmandia da fiscale al reggentato per Na-
poli, non fu più rifatto fiscale, dicendo che nel Consiglio questa
carica era superflua e vana, bastando che l'ultimo reggente sup-
plisse alle sue veci; e così rimase la carica estinta. Ciò non fu per
altro, se non perché il soldo assignato al fiscale di novemila fiorini
Tanno s'incorporasse al Consiglio e [i consiglieri] fortificasser me-
glio i loro quartali, affinché non venisser a mancare; poiché, esau-
rita la mina* degli uffici vendibili, che per lo più per mercedi si
concedevano dalla Secreteria di Stato a' Spagnoli ed altri favoriti
dal marchese di Rialp, senz' esporsi venali, mancando tuttavia i
ricorsi de' provinciali e le spedizioni, onde prima si ritraean grossi
emolumenti, e seccandosi gli altri fondi, onde derivan altre acque,
volevano per altri modi esser sicuri che non si scemasser punto o
ritardassero i loro soldi, ch'era l'unico loro scopo ed intento.
Dall'altra parte il marchese di Rialp, per la sua secreteria, reg-
1. ammirazione-, meraviglia. 2. la mina', la miniera.
13
194 VITA DI PIETRO GIANNONE
geva le divine ed umane cose: le cariche, le toghe, i regi vescovadi,
le badie regie, i benefìci di collazione o presentazione regia, e
tutto per le sue mani si dispensavano. E la norma che si teneva in
dispensargli si vide esser questa: se concorrevano al posto Spa-
gnoli e nazionali, questi eran esclusi, e preferiti i primi ; sicome se
si contendeva fra' Spagnoli, eran preferiti i Catalani. E ciò avve-
niva, quando la carica soleva darsi o per merito o per favore,
senza sborzo di denari. Ma quando occorrevan bisogni di denaro,
che non ne mancaron mai, o per qualche dote che bisognava as-
signare alle donzelle o vedove spagnole, ovvero per qualche soc-
corso secreto, che si voleva dare a qualche favorito spagnolo per
le spese delle nozze, per viaggi o altri suoi bisogni, eziandio che
non fosser necessari, ma voluttuosi o pomposi, allora le toghe, le
cariche, ed altri magistrati ed impieghi si davano a quelli che
offerivano più denaro; e vi erano particolari proxeneti,1 fra' quali
due ecclesiastici nostri, napolitani, per mezzo de* quali si contrat-
tava; e questi eran divenuti ricchissimi, ancorché appena sapessero
leggere e scrivere, senz'altro capitale, se non che, commessi stessi
vantavano, «d'aver le orecchie del marchese», cioè perché Rialp
sentiva volentieri da loro le domande e la somma del denaro che
offerivano, e perciò eransegli destinate due giornate della setti-
mana, il mercoledì e sabbato, nelle quali si trattava di tali faccende.
Sicché per Napoli non vi era toga o ministero che dovesse prov-
vedersi, se non eransi prima aggiustate le somme che per mezzo di
questi, eran offerte da' pretenzori. E la bisogna si ridusse a tale,
che anche il meritevole, graduato,2 dotto ed intero, ancorché fosse
stato nominato dal viceré, dovea passare sotto il giogo, altrimenti
non avrebbe già mai conseguito il posto. Questo sol vantaggio vi
era per lui, che se le somme offerte da più fosser pari, era il più
meritevole preferito.
Or vedendo io ridotte le cose in questo sistema, cominciai a
perdere ogni speranza di mio accomodamento, anche con qualche
posto in Napoli; poiché se bene io più volte avessi ricordato al
marchese di Rialp che Sua Maestà conferendomelo ci guadagnava
mille fiorini Tanno, che avrebbe potuto impiegargli ad altro uso;
nulladimanco ciò niente mi giovava, poiché il marchese nella prov-
vista delle toghe cercava denari contanti, che fossero in quantità
i. proxeneti: sensali (grecismo), z. graduato : che ha grado, cioè che ha già
coperto cariche nelle magistrature o negli uffici inferiori.
CAPITOLO SETTIMO 195
considerabile, per supplire a' bisogni de* suoi favoriti spagnoli, a'
quali non era sufficiente il mio picciolo assignamento, col quale
non avrebbe potuto gratificare che ad un solo.
Il conte d'Harrac viceré mostrava tutta la propensione di favo-
rirmi;1 e su la credenza che fosse richiesto di far nomina di sog-
getti per empire la piazza vacante di fiscale, per lo passaggio
d'Esmandia al reggentato, si era palesato con alcuni miei amici in
Napoli, che m'avrebbe nominato, non sapendo che il Consiglio
pensava d'estinguer la piazza, sicome Pestinse. Non gli rimaneva
altra strada, se non nelle occasioni di vacanze di piazze del Con-
siglio di Santa Chiara, o pure della Camera di Napoli, e cercava
aiutarmi, in voler nelle nomine non dimenticarsi di me; ma era
consigliato in Napoli che, trovandomi io nella Corte, né sapendosi
qual fosse l'intenzione di Sua Maestà, prima di farlo ne ricevesse
istruzione da Vienna, per regolarsi;2 onde mi scrisse3 che, non sa-
pendo se Sua Maestà voleva che io tornassi a Napoli, per non
consumar in vano il nominarmi, potendo giovar ad altri, gli facessi
scrivere una lettera dal marchese di Rialp o dal presidente, conte
x. Il conte . . .favorirmi: cfr. Panzini, pp. 65-6: «Questo Viceré aveva
avuto innanzi di partire di Vienna le più premurose sollecitazioni dal Prin-
cipe Eugenio di Savoia, cui deferiva non poco, perché adoperato si fosse
a collocare il Giannone in qualche carica conveniente alla sua dottrina ed
al suo merito. Non v'era quasi persona nella Corte, che mostrasse verso di
lui animo più ben disposto e meglio intenzionato del conte di Harrach;
e ciò non tanto per le raccomandazioni del Principe Eugenio, quanto
pe '1 grande ed alto concetto che gliene avea formato suo figliuolo il con-
te Ferdinando, giovine ... di rara erudizione e d'esatto discernimento ».
2. era . . . regolarsi: cfr. ancora in Panzini, p. 66: «Tutte coteste fa-
vorevoli disposizioni furono nondimeno attraversate da' suoi malevoli, i
quali non so per quali vie seppero artifiziosamente rappresentare al Viceré,
che dopo 1 rumori ed i tumulti ch'avea il libro della Storia Civile eccitati
fra '1 popolo, pericolosa cosa sarebbe il promuoverne a qualche dignità
l'autore, del quale non era il pubblico, se non se malcontento ». Il Panzini,
allo stesso luogo, ci dice anche chi fossero gli unici sostenitori del Gian-
none in Napoli, e cioè il Grimaldi, il Garofalo e il Fraggianni. A questo
proposito si veda la lettera indirizzata dal Giannone al viceré il 18 novembre
1730 da Vienna (Giannoniana, n.° 383) e la lettera senza data, ma risalente
a quello stesso periodo di tempo, inviata al Giannone da Napoli dal Ga-
rofalo (Giannoniana, n.° 384) e nella quale si dà notizia di una visita com-
piuta dall'amico presso l'Harrach, per raccomandare la nomina del Gian-
none « in ministeno di sommo grado ». La risposta del viceré fu « di avere
avuto informazione da un suo amico di cotesta Corte di nominare V. S.
Ill.ma in una terna di Consiglio di S. Chiara, ma che temeva di qualche
rumore del popolo». 3. mi scrisse: il 15 dicembre 1730; cfr. Panzini, p.
66, in nota.
196 VITA DI PIETRO GIANNONE
di Montesanto, che l'assicurassero che Sua Maestà sarebbe con-
tento di questo, e non l'avesse a discaro.
Il presidente, ancorché l'avessi fatto istantemente pregare dal
reggente Almarz suo intimo amico, non volle impacciarsene, di-
cendo che egli non s'era intrigato mai col viceré di scrivergli in
occasioni di nomine; che altri sì bene se n'impacciava, volendo
intendere di Rialp. Mi volsi con ciò al marchese, e fecilo anche pre-
gare dal cavalier Garelli; al quale rispose, che ne avrebbe parlato
all'imperadore e, secondo che Sua Maestà l'avesse risposto, si sa-
rebbe regolato. Fu il Garelli, alquanti giorni dopo, per sentire la
risposta; la qual fu, che avendone parlato coll'imperadore, l'avea
risposto che io tenessi pazienza per altro poco tempo.
Questa risposta fu da noi prevista, perché il marchese, quando
gli parlò la prima volta il Garelli, mostrò poco gusto che io volessi
imbarazzargli le proviste di Napoli, ch'egli avea destinate a sog-
getti che potevano somministrargli denari. Oltracché non voleva di-
sgustar la corte di Roma, la quale avrebbe amaramente inteso il
mio ritorno a Napoli con carica, nell'istesso tempo che egli trat-
tava in Roma d'un chiericato di Camera per l'abate Perlas suo
figlio, per renderlo più prossimo al cardinalato ; giacché erano riu-
scite vane le speranze di vederlo in persona dell'arcivescovo di Sa-
lerno,1 suo fratello, il quale opportunamente se n'era morto in
Napoli, in tempo che per acquistarsi maggior merito con Roma,
era stato proposto da Vienna, per terminare con amichevole ac-
cordo insieme col presidente Argento alcune contese giurisdizio-
nali riguardanti il regno di Napoli, le quali se vivea si sarebbero
certamente composte con total mina e precipizio delle reali pre-
minenze; poiché, in premio di opera sì degna, eragli stato promesso
il cappello cardinalizio. Or, il marchese, ciò che importuna morte
gli tolse, volea risarcir la perdita, per quest'altra via; e con ogni
sforzo tirava a vedersi il figlio per ora chierico di Camera, per me-
glio disporlo al cardinalato. Ma Roma accorta prolungava le spe-
ranze per trarne intanto suoi vantaggi; e tanto seppe differire,
sicché sopragiunti gl'ultimi cangiamenti d'Italia, non ebbe que-
sta sorte di veder adempiti i suoi vasti desideri.
Qual speranza, adunque, potea io avere d'essere promosso, e
che mi fosse adempita la real promessa di contentarmi di quel pic-
1. arcivescovo di Salerno', cfr. la nota 2 a p. 114.
CAPITOLO SETTIMO 197
dolo sostentamento, fin che non fossi impiegato nel real servizio ?
Questo interim me lo vedeva prolungato, non altrimenti che Vinte-
rim di Carlo V;1 onde bisognò aver pazienza, e quietarmi fin che
Dio non disponesse altrimente le cose, pregandolo a dar fine a
tante mostruosità e sconcezze, con por argine a sì strane confu-
sioni e disordini; poiché si vedeva che tutti eravamo divenuti e
fatti eredità unius domus.2 Presso il marchese di Rialp era l'arbitrio
di tutte le cose. Egli inalzava ed abbassava; egli faceva il negro
bianco ed il bianco negro, l'ignorante dotto, e rinsufEciente abile
ed idoneo ; sicome chiaramente si vide nella provista del presiden-
tato di Napoli, rimaso vacante per l'improvisa morte del presiden-
te Argento.3
Certamente che per darsi successore ad un uomo cotanto rino-
mato e dotto, bisognava por ogni studio d'elegger un soggetto
eminente, che potesse degnamente occuparlo. Fra i pretenzori,
quattro reggenti del Consiglio di Spagna erano i più avanzati: il
reggente Positano,4 nazionale; il reggente Almarz,5 nato pur in
Napoli, ma oriundo spagnolo; il reggente Alvarez, di Salamanca;
ed il reggente Solanes, catalano. I due primi per molti anni aveano
essercitato il posto di consigliero in quel medesimo Consiglio ove
ora pretendevan essere presidente; ed oltre essere istrutti del tri-
bunale che dovean reggere, erano ben veduti da' Napolitani per
le loro maniere gentili e cortesi, e molto più l'Almarz, amabilissi-
mo per la gran sua affabilità e schiettezza; e se bene per dottrina
non potessero pareggiar coli' Argento, niente però l'erano inferiori
per probità, incorruttibilità e candore de' costumi. Degli altri due,
Alvarez era pur troppo, ignudo di lettere e di giurisprudenza, che
amava far più il cavaliere che il ministro ; e se ben avesse conoscen-
za di Napoli, per esservi stato più anni reggente del Consiglio di
Santa Chiara, de' stili e modi co' quali ivi si trattavano le cause
forensi non avea pratica alcuna. Il Solanes, per essere stato cat-
tedratico in Barzellona, e poi per più anni consigliero dello stesso
Consiglio, avea acquistato qualche pratica del medesimo, né era
1. interim di Carlo V: raccordo coi protestanti, del 1548, detto «interim
di Augusta », col quale si concedeva una tregua agli aderenti alla confes-
sione Augustana. 2. unius dormisi d'una sola casa. 3. improvisa . . » Ar-
gento: cfr. la lettera a Carlo, del 24 giugno 1730 (Giannoniana, n.° 361), e
ancora le due lettere del luglio dello stesso anno, dove si parla della vedova,
donna Costanza (Giannonìana, nn. 363 e 364). 4. Positano: cfr. la nota 1
a p. 98. 5. Almarz: cfr. la nota 1 a p. 98.
198 VITA DI PIETRO GIANNONE
cotanto nudo di scienza legale; ma il suo naturale un poco rustico
e ributtante, ancorché incorrotto ed amante della giustizia, lo ren-
deva poco grato ed accetto a' Napolitani. Si aggiungeva che l'avan-
zata età e Tesser sottoposto ad insulti apoplettici l'avean reso quasi
stupido ed illetarghito.
Con tutto ciò questi sopra gli altri fu eletto, e non già per serbar
l'alternativa, poiché l'Almarz era pure oriundo spagnolo, e come
tale era reggente per Sicilia insieme col nazionale Perlongo; ma
perch'era compatrioto del marchese Rialp, suo amico, sin da ch'era
cattedratico in Barzellona, e perché sicome possedeva nella Regia
Camera di Napoli per luogotenente Aghir,1 catalano, così pure
presidesse nel Consiglio di Santa Chiara un altro catalano ; poiché
la mira e scuopo era che tutti i posti maggiori, 0 sian di Napoli, o
di Sicilia, o di Milano, fosser occupati da' Spagnoli, e sopra questi
da Catalani se si potesse.
Ma il più curioso insieme e ridicolo, che in questa elezione
intervenne si fu, che l'istesso marchese e gli altri Catalani, perché
si rendesse il Solanes sopra gli altri pretensori più meritevole e
distinto, lo spinsero a dar fuori alle stampe un libro legale;2 onde
quel povero vecchio scimunito de' vecchi scritti delle Istituzioni di
Giustiniano, ch'egli avea insegnato nell'Università de' studi di Bar-
zellona, prestamente ne compose un libro, e lo diede alle stampe,
e andò a presentarlo all'imperadore, nel tempo ch'era ancor dub-
bio e vacillante nell'elezione. Tanto bastò che, esaggerando a Ce-
sare (il quale non avea certamente tempo di guardar che conte-
nesse il libro) che fosse un'opera insigne, delle migliori ch'erano
uscite da Spagna, e che l'autore fosse il più dotto che avesse fra'
suoi ministri e degno d'occupar quel posto, non passarono dieci
giorni da che fu presentato a Sua Maestà questo libro, che si
vide calare il decreto dell'elezione in sua persona; ed i Catalani,
i. Aghir: il conte Joseph Aguirre, presidente della Regia Camera dal
1727, fratello di Domingo (morto nel 1744), a sua volta uno dei più an-
tichi seguaci di Carlo VI, essendo stato sin dal 1705 nel Consiglio d'Ara-
gona, poi presidente di Santa Chiara e reggente per la Sardegna nel Con-
siglio di Spagna nel 171 3. Su questa nomina cfr. la lettera del Giannone
al fratello, in data 27 maggio 1730 (Giannoniana, n.° 357). 2. legale: di
materie giuridiche. Il libro era il De iure et edicto praetoris, Vindobonae
1730. L'opera maggiore del Solanes è però quella, in tre volumi, uscita a
Barcellona nel 1700: El emperador politico y politica de emperadores. Sul
libro pubblicato in Vienna in questa occasione vedi quanto ne scrisse il
Giannone al fratello, il 5 di agosto 1730 (Giannonìana, n.° 367).
CAPITOLO SETTIMO 199
per lo più ignoranti, commendandola andavano presentando il li-
bro a' loro amici, sicché si rese a tutti noto. Cosa che fece tutti
stupire ed esclamare: « conclamatimi est iam»;1 poiché non vi è li-
bro, nel quale si fossero affastellate tante sciocchezze, tante puerili-
tà, cose goffe, sciapite e dozinali, che questo, pieno di solecismi e
barbarismi, ed un fanciullo, che andasse a scuola, non potrebbe
commettere tanti errori in grammatica e tante mellonaggini,2 quante
ivi si leggevano, non essendovi pagina che non ne abbondasse.
E questo libro fu riputato istromento efficace, ed una macchina
sì vigorosa per abbattere l'animo di Cesare ancor dubbio e farlo
inchinare a rendersi a' loro voleri; poiché di continuo standogli a'
fianchi, sapevano coglier il tempo giusto per farlo cadere nelle loro
reti, e pure questo libro sarebbe stato bastante, non dico ad esclu-
derlo dal posto che pretendeva, ma fargli perdere il reggentato
che teneva. D'altra parte non era tanto da incolparne l'autore, ma
coloro che lo stimolarono a questo : ciò che da un vecchio stupido
e scimunito era facile ad ottenere.
Da ciò maggiormente tutti si certificarono, che nelle provviste
non si riguardava il tribunale che dovea ristabilirsi o migliorarsi,
per l'elezione di soggetti idonei e sufficienti, non il servizio del re e
del pubblico, ma tutto regolava il riguardo della nazione e di acco-
modar le persone promosse, non già il tribunale; sicome pur si
vide a Milano, dove si mandò per presidente il Mendozza,3 non
già per ristabilire quel tribunale, ma per dargli impiego lucroso e
per maggior suo aggio, niente curando, che quel posto erasi sem-
pre occupato da togati, uomini dotti e letterati; ma si mandò il
Mendozza, ch'era un cavaliere di spada, senza lettere e senza al-
cuna conoscenza di tribunali di giustizia né di lor pratica.
Sempre più col decorso del tempo si scovrivano i disegni, che
sopra gli Stati d'Italia aveano gli Spagnoli, di avergli come tante
borze che fosser sempre piene per satollare le avide lor brame, e
di pascere il lor fasto e pompa. Quindi erano intesi con piacevo-
lezza e piacere i tanti progettanti, che offerivano di scovrir nuove
mine, onde potessero straricchire, chi proponendo un proggetto e
chi un altro; ed ancorché si fossero coli' esperienza conosciuti vani
1. «conclamatimi est iam*: cfr. Terenzio, Eun.y 348: «tutto è perduto»;
l'espressione è ormai divenuta proverbiale. 2. mellonaggini', balordaggini.
3. il Mendozza: Fernandez Mendoza y Alarcon, marchese di Valle Si-
ciliana.
200 VITA DI PIETRO GIANNONE
ed impertinenti, non per questo non si sentivano i secondi, terzi,
quarti, e quanti ne capitavano. In breve pervennesi ad una cor-
ruzione non men parziale che totale, poiché ciascuna delle guaste
parti concorreva al precipizio ed alla universal ruina. Par che tutti
cospirassero a questo; e per ciò ciascuno attendeva a se stesso,
come se nulla gli dovesse importare la rovina delle pubbliche cose,
e che gli Stati d'Italia andassero a ruba e saccomanno,1 esposti alla
voracità di tanti.
Alcuni pochi piangevan meco, prevedendo da ciò funesti ed in-
felici successi, poiché si vedevano tutti i segni, che soglion pre-
correre alle decadenze degl'imperi e monarchie. All'imperadore
fuor di ogni speranza di prole maschile, quasi stufo di più regnare,
eragli resa ogni cura noiosa e rincrescevole; e l'ordinaria e conti-
nua sua applicazione non era che quella della caccia, lasciando con
ciò a que' che gli stavan d'attorno, libere le redini del governo di
far ciò che volessero. E quel che recava maggior confusione era,
che di questi nemmeno poteva capirsi il sistema col quale si re-
golavano, scorgendosi dalli loro fatti vari ed incostanti, che so-
vente volevano ciò che prima disvollero : onde il volerne indagare
le cagioni era veramente «cum ratione insanire».2
Il marchese di Rialp nell'istesso tempo che trattava in Roma il
chiericato di Camera per suo figlio, morto papa Benedetto XIII e
rifatto in suo luogo Clemente XII fiero persecutore del cardinal
Coscia, di monsignor Targa suo fratello, e di tutti i favoriti del
suo predecessore:3 prese la difesa de' Coscia, e dando a sentire
che Timperadore avea preso la protezione de' medesimi, procu-
rava con ciò sgomentare la corte di Roma, perché non procedesse
oltre ad inquìrere4 e punire i lor enormi delitti, commessi nel pas-
sato pontificato. Ma in questa istessa vantata protezione pur si
mostrava vario e difforme: ora la invigoriva, ora la rallentava;
sicché diede materia a vari discorsi. Chi interpretava che ciò fa-
cesse, secondo le speranze prossime o lontane che se li davan da
i. saccomanno: saccheggio. 2. « cum ratione insanire»: cfr. Terenzio, Eun>f
63 : «diventar pazzo, pur essendo colla mente a posto», 3. morto . . . pre-
decessore: Lorenzo Corsini (1652-1740), eletto papa con il nome di Cle-
mente XII il 12 luglio 1730, subito dopo l'elezione si sbarazzò del cardinal
Coscia, il potente favorito del suo predecessore, intentandogli un processo
per malversazione. Cfr., qui, la nota 4 a p. 151. Monsignor Targa era detto
Filippo Coscia (1692-1759), fratello del cardinale e vescovo di Targa (Tu-
nisia') dal 1725. 4- mquìrere: istruire processi (latinismo).
CAPITOLO SETTIMO 201
Roma del chiericato di Camera, del quale era lusingato per suo
figlio; chi che questa protezione s'invigoriva o rallentava, a pro-
porzione dell'abbondante o scarsa misura de los doblones, de' quali
i Coscia erano smunti; e chi ad altre cagioni. In breve, la corte di
Roma, che era ben avvisata che la protezione dell' imperadore
non era tanta, quanto era esaggerata dal Rialp, tirò innanzi i suoi
processi e condanne: ciocché presso coloro che la credevano tale
quaFegli la vantava, era riputato come un affronto di Cesare, che
un cardinale del quale egli avea presa protezione le fosse valuta
così poco e quasi che niente.
In questi inviluppi erano intricate le menti degli uomini, così in
questo, come in ogni altro affare, andandosi lambiccando il cer-
vello sopra il perché, il fine : non avvertendo che andavan cercando
ordine e sistema in un tenebroso caos e tra le perpetue confusioni
e disordini.
CAPITOLO OTTAVO
Anni 1731, 32 e 33. In Vienna.
Intanto eravamo entrati nell'anno 1731, nel principio del quale
cominciò ad infermarsi1 il reggente Almarz, col quale, spesso ra-
gionando delle confusioni e disordini ne' quali vedevamo ridotte
le cose, compiangendole a vicenda, disacerbavamo alquanto il no-
stro dolore. Venner dapoi le sue indisposizioni ad avanzarsi, e
cadde in una languida e rìncrescevole malattia, la quale, o fosse per
malinconia d'animo, 0 altro vizio di corpo, gli cagionò una febre
grave e pericolosa; sicché i medici cominciarono a disperar di sua
salute; e tentati invano tutti i rimedi ed ogni umano aiuto, final-
mente ne' princìpi d'aprile rese lo spirito al suo Datore.
I suoi amici, e spezialmente io da cui era cotanto amato, rimasero
inconsolabili e dolenti per la perdita di un uomo cotanto caro ed
amabile, ma non già i suoi parenti, che avea seco condotti in Vien-
na, i quali allegri per la pingue eredità rimastali, accresciuta dal
molto denaro esatto in tanti anni del reggentato, che gli fruttava
quasi undicimila fiorini l'anno, di ciò non contenti, vollero pure
profittare sopra l'onorate ossa di quel buon vecchio; poiché sopra
i meriti del medesimo, poich'essi non ne aveano alcuno, con inu-
dita avidità ed impudenza cercarono ed ottennero tante grazie e
mercedi, che l'istesso imperadore finalmente s'annoiò in vedere
che non finivano i tanti memoriali che alla giornata se gli pre-
sentavano.
Nel mese di maggio fummo obbligati mutar quartiere, e dal
«Piccolo Parigi» passare ad altra casa, posta vicino a San Salva-
tore ed al Banco della città, nella contrada detta il « Grande Cri-
stofaro»;2 ed in quest'anno si mutò eziandio villeggiatura, poiché
in vece di portarci a Pettersdorf, fu trasferita a Medeling, che mi
riuscì più amena, poiché ne' miei mattutini esercizi avea ivi una
vicina valle, che al ritorno mi copriva dal sole fino a casa. Si prese
tal luogo, così perché madama LeichsenofFen trovò ivi una sua
amica, che l'offerì quartiere a minor prezzo di quello che si pagava
a Pettersdorf, come anche perché morto il reggente Almarz, che
1. infermarsi: ammalarsi, z. nella . . . Cristofaro: nella zona compresa tra
Judenplatz e Hohen Markt, poco distante dal Donaukanal.
CAPITOLO OTTAVO 203
soleva venire al vicino Prun, non avendo più la sua compagnia e
quella degli amici che venivano a trovarlo, curai poco d'allontanar-
mene. E se ben da ora innanzi si differisse l'andare a* princìpi o
metà di giugno, nulladimanco si prolungava assai più del solito la
dimora, fino al mese di agosto ; poiché io stufo della Corte e sempre
più perdendo speranza che mi fosser attese1 le promesse, vedendole
tirar in lungo, mi quietai, aspettando tempi migliori, che mi lusin-
gava poter arrivare; ed intanto mi disposi a vivere a me stesso ed
a' miei studi; tanto maggiormente che per le cagioni già dette,
cominciando a cessare le occupazioni che prima avea di qualche
causa, non avea tanta necessità di trattar co* ministri, e volentieri
me n'asteneva; oltre che, morto Almarz e disciolta la conversa-
zione che aveasi in sua casa, mi ritirava nella mia, e qualche sera
in quella del cavalier Garelli, prossima alla mia.
Cominciai2 nella villeggiatura di quest'anno ad applicarmi a studi,
che fosser drizzati unicamente alla cognizione di me stesso e del-
la condizione umana, della quale io era vestito, e ripigliare i miei
tralasciati studi di filosofia, e col soccorso dell'istoria d'investigare
più da presso la fabbrica di questo mondo e degli antichi suoi abi-
tatori: dell'uomo, della sua condizione e fine, e quanto sopra la
terra fossesi col suo discorso e riflessione avanzato sopra tutto il
mortai genere, e avesse dato principio alla società civile, onde sur-
ser le città, i regni, il culto e le repubbliche, lasciando la vita sil-
vestre e ferale a gli altri animali, a' quali non fu concesso tanto
acume, industria ed intelletto da potersene spogliare. E tralasciata
la considerazione de' moderni imperi, regni e monarchie, delle quali
abbastanza era istrutto, volli andar indietro quanto più si potesse,
seguendo le memorie che sottratte alle ingiurie degli uomini, e
de' tempi erano a noi rimase.
Ebbi sommo contento che fra quanti libri a noi furon traman-
dati da' secoli vetusti, i più antichi fossero i cinque libri del Penta-
teuco di Mosè, come quelli che ci dan notizia di popoli e regioni
assai più vetuste di quelle che ci somministra Omero, di più secoli
posteriore a Mosè. Cominciai adunque da questi; ed i libri che
eran da me stanchi, e che erano la mia assidua ed ordinaria lezione,
era la Biblia sacra ed i poemi d'Omero. A questi poi aggiunsi, per le
cose giudaiche, Giuseppe Ebreo, che lessi tutto secondo l'ultima
1. attese', mantenute. 2. Cominciai', inizia da qui la descrizione del lavoro
preparatorio a quelli che saranno i volumi del Triregno.
204 VITA DI PIETRO GIANNONE
ed accurata edizione di Ollanda, divisa in due tomi in foglio;1
e per le cose asiatiche, egizie e greche, V Istoria d'Erodoto Alicar-
nasseo, e sopra tutto i primi cinque libri della Biblioteca istorica
di Diodoro Siciliano, che io avea colla traduzione di Roterdamo,2
e la Geografia di Strabone.3
Ebbi gran piacere d'avvertire che, intorno al principio e durata
dell'imperio degli Assiri, Erodoto si conformasse più a' libri di
Mosè e de* profeti, che a quanto ne scrissero poi Diodoro, <Euse-
bio e> gli altri greci scrittori; sicome gran maraviglia recommi
come Cornelio Tacito, il quale scrisse doppo Giuseppe Ebreo e
che non poteva ignorare la di lui Istoria, che avea presentata a
Vespasiano Cesare, da cui fu caramente accolta e riposta nella
sua biblioteca, avesse delle origini ed altre cose giudaiche scritto
altrimenti; se non forse, disprezzando i Romani gli scrittori ebrei,
come creduli, superstiziosi e puerili, o non si fosse curato di legger-
la, o non vi prestasse intera fede. Egli volle più tosto seguitare Stra-
bone, Diodoro Siciliano e gli altri greci e latini scrittori, i quali a
quel popolo dieder altra origine, sicome al tempio e città di Ge-
rusalemme, che sconciamente4 ne fanno fondatore Mosè, che at-
tendere le vere e più vetuste antichità giudaiche. Né posso negare
che a questi studi mi fu di molto aiuto il tomo della Biblioteca
istorica di Dupino,5 il quale raccolse quanto più di certo e sicuro
i. Giuseppe. . .foglio: cfr. J. Hudson, Flavii Josephi quae reperivi potuerunt
opera omnia graece et latine, cum notis et nova versione J. II., Amstclaedami
1726. Giuseppe Flavio, storico giudeo della setta dei Farisei, nacque nel 37
dell'Era volgare e morì attorno all'anno 100. 2. Roterdamo: così per « Ro-
domano ». Fu infatti Lorenz Rhodomann che tradusse la Bibliotheca histo-
rica di Diodoro Siculo (lo storico vissuto circa tra l'8o e il 20 avanti l'JEra
volgare), apparsa per la prima volta ad Hannover nel 1604. 3. Strabone:
storico e geografo greco, nato attorno al 60 avanti l'Era volgare ad Amasia
nel Ponto e morto nel 20 circa dell'Era volgare. La sua Geografia ebbe
grande fortuna a partire dal VI secolo. Fu data per la prima volta alle stam-
pe da Aldo, nel 15 16, ma già ne era apparsa una versione latina di Guarino
Veronese, a Roma, sin dal 1471. Il Giannone la utilizzò in uno dei miglio-
ri commenti del tempo, quello di Isaac Casaubon, del 1587, con versione
latina di Wilhelm Holtzmann (Xylander) riveduta dallo stesso Casaubon,
secondo l'edizione parigina del 1620: cfr. infatti nell'Archivio di Stato
di Torino, manoscritti Giannone, mazzo 1, ins. 11 (Giannoniana, p. 410), il
suo Ristretto della Geografia di Strabone, basato su quest'ultima edizione.
4. sconciamente: arbitrariamente. 5. Cfr. L. E. Du Pin, Btbliothèque uni-
verselle des hùtoriens, contenant leurs vies, V abrégé, la chronologie, la géo~
graphie et la critique de leurs histoires, unjugement sur leur style, et leur
caractère, Amsterdam 1708. Louis Ellies Du Pin (1657-1719), scrittore gal-
licano, autore di una monumentale storia della letteratura ecclesiastica, la
CAPITOLO OTTAVO 205
potea additarsi intorno a questi non meno antichi che inviluppa-
ti tempi, tirandolo sino a' tempi di Alessandro Magno, ch'era la
cosa più intricata e difficile; poiché da Alessandro in poi le cose
si rendono più facili e piane, per i molti scrittori che l'illustrarono.
Si cominciarono tali studi in questa villeggiatura, nelle solitu-
dini di Medeling. Né tornato in città ne' princìpi d'agosto furon
da me tralasciati; poiché essendosi posta in ordine la magnifica
biblioteca cesarea, e di tre ampissime fattane una, riposta in un
superbo edificio costrutto vicino all'imperiai palazzo,1 dalla mede-
sima m'eran somministrati tutti que' libri, così antichi come mo-
derni, che a questi studi eran propri ed acconci; onde non trala-
sciava di frequentarla; tanto maggiormente che il primo custode di
quella, Niccolò Forlosia,2 mio amico, con somma cortesia e genti-
lezza mi offeriva tutto ciò che ivi eravi di raro e pellegrino.
11
Furono interrotti tali studi, in questo anno, da due occasioni,
che mi obbligarono a rivolgergli altrove. La prima fu che, avendo
il nuovo pontefice Clemente XII costretto il cardinal Coscia3 di re-
signar in sue mani l'arcivescovado di Benevento, sicome fece, il
papa lo conferì a monsignor Doria,4 genovese : il quale, senza aver
dal viceré ottenuto alle bolle di sua istituzione regio exequatur, e
senza sua participazione, da Roma dirittamente portossi a Bene-
vento, e prese possesso dell'arcivescovado, che si compone di più
diocesi, poste tutte nel regno di Napoli, sopra le quali cominciava
Nouvelle bibliothèque des auteurs ecclésiastiques, Paris 1 686-1 714, e delle
non meno famose De antiqua Ecclesiae disciplina dissertationes historicae,
Parisiis 1686, tra i testi più consultati dal Giannone. Professore di filoso-
fia alla Sorbona, fu aspramente attaccato dal Bossuet, e finì coll'essere
estromesso dall'università parigina quando si oppose alla bolla Unigenita.
1 . biblioteca . . . palazzo : la Biblioteca Palatina (oggi Nationalbibliothek), fon-
data da Ferdinando I nel 1526, fu interamente ricostruita tra il 1723 e il 1729,
su progetto dell'architetto Joseph Emanuel Fischer von Erlach. 2. Nicola
Forlosia, già profiscale nel Consiglio di Spagna, fu custode della Biblioteca
Palatina sotto la prefettura di Giovanni Benedetto Gentilotti di Engels-
brunn, poi di Francesco Alessandro Riccardi e di Pio Niccolò Garelli. Una
sua lettera al Giannone in Giannonìana, pp. 530-1. 3. il cardinal Coscia:
cfr. la nota 4 a p. 151. 4. Il cardinale Sinibaldo Doria (1664-1733) fu
una vittima di Benedetto XIII. Già maestro di camera di Innocenzo XIII,
per tutto il pontificato seguente subì un'eclissi, e si spiega quindi perché
venisse scelto a subentrare al Coscia in Benevento, ricevendo anche, di 11
a poco, nel settembre del 1731, la dignità cardinalizia.
20Ó VITA DI PIETRO GIANNONE
ad esercitar giurisdizione, pretendendo di convocar sinodi ed usar
altri atti pregiudiziali alle regie preminenze e supremi diritti reali.
Non meno il viceré che la Città di Napoli si scossero a tali no-
vità ed imperiosi modi : il viceré, per non essersi avuto da lui pri-
ma ricorso; e la Città, perché s'erano violate le grazie, che la Maestà
dell'imperadore avea concedute alla Città e Regno, di doversi tutti
gli arcivescovadi del Regno conferire a' nazionali, sicome di que-
st'istesso arcivescovado fece papa Benedetto, conferendolo al car-
dinal Coscia, ch'era naturale del Regno e non già a' forastieri,
qual era il Doria genovese. Ebbene la Città ricorso al viceré e suo
Collateral Consiglio, perché si purgassero gli attentati; e poiché
il Collaterale, in un affare di tanto momento non ardiva metter
mano, senza che prima non si fosser ricevute le istruzioni dell'impe-
riai corte di Vienna; la Città, perché questa fosse pienamente in-
formata delle sue ragioni, diede incombenza al suo agente, che
mantiene nella Corte, trasmettendoli le scritture e documenti ne-
cessari, perché ne facesse ricorso a Cesare ed al supremo Consiglio
di Spagna.
L'agente, ancorché patrizio napolitano, come imperito di queste
cose, fu in nome della Città a richiedermi della difesa e di voler
manifestare i torti che s'eran ricevuti, perché se ne fosse presa
emenda. Li risposi che volentieri n'avrei preso il carico, così per-
ché dovea abbracciare ogni occasione per difendere i diritti della
patria, come anche perch'era particolar mio obbligo di farlo, es-
sendo stato eletto prima di partir per Vienna da que' che la reg-
gevano avvocato della Città; onde lasciatemi le scritture attesi at-
tentamente ad esaminarle, e m'accinsi a quanto bisognava; e con
maggior fervore quando dopo ricevei lettera della Città, nella quale,
mostrando di ciò gran contento, me n'incaricava la difesa con vi-
gore e fermezza.1
Il marchese di Rialp, che avea preso a difendere il cardinal Co-
scia e a biasimar quanto contro di lui da Roma si facea, favoriva il
i. m'accìnsi . . .fermezza: primo atto del Giannone fu la stesura di una
Supplica umiliata alla S. C. R. e C. M., che Dio guardi, dalli deputati sopra
la collazione de* benefizi ed offizi della fedelissima città e regno di Napoli,
per la provvisione delV arcivescovato di Benevento, con ristretto di documenti
e ragioni che ne giustificano l'esposto, successivamente inserita tra le Opere
postume, il, pp. 259 sgg. Sulle ripercussioni in Roma alla notizia dell'in-
carico affidato al Giannone per la questione beneventana cfr. in Gianno-
niana, pp. 157 sgg.
CAPITOLO OTTAVO 207
ricorso avuto dalla Città; e molto più detestava l'attentato d'essersi
dal nuovo arcivescovo preso possesso, senza partecipazione del vi-
ceré e senza averne ottenuto prima regio exequaiur; ed ebbe a caro
che io avessi preso la difesa della Città, la quale istava eziandio,
che fosse dichiarato il regio exequaiur essere necessario non meno
nelle bolle d'istituzioni degli altri arcivescovadi del Regno, che di
quello di Benevento; affinché dovendosi presentare le bolle nel
Collaterale, avesse agio di potere opporsi ed impedirlo, nel caso si
trovassero contrarie e destruttive delle grazie e privilegi conce-
dutigli ; ond'essendo stato io coll'agente della Città ad informarlo,
non solo mostrò esser persuaso di quanto l'esposi, ma m'incaricò
la difesa eziandio sul punto dt\Y exequaiur; sicome ne avrebbe an-
che data premura al reggente Esmandia, che faceva le parti di
fiscale, affinché si andasse di concerto, ed insieme si fosser commu-
nicate le ragioni per una più valida difesa presso il presidente
e gli altri ministri del Consiglio; e che io, doppo avergli infor-
mati, avessi distesa una piena allegazione sopra i due punti, e
portatala a lui, sicome a tutti gli altri ministri; e facessi presto,
perch'egli non farebbe trattar la causa nel Consiglio, se prima non
si fosse letta e ponderata da' medesimi.
Adempii quanto mi fu imposto, ed in meno di venti giorni
composi l'allegazione, nella quale, trattando Dell'origine ed istitu-
zione dell' arcivescovado di Benevento, sua qualità e natura* dimo-
strai «esser quello compreso dalle grazie concedute dalla maestà
dell' imperadore, ed esser sottoposto al regio exequaiur, non me-
no che tutti gli altri arcivescovadi del Regno». Questa scrittura
prima d'ogni altro fu portata al marchese di Rialp, il quale, es-
sendogli estremamente piaciuta, volle che si desse alle stampe,
anche per più facilità e maggior commodo de' ministri, che dovean
leggerla. L'agente ne fece imprimere in Vienna non più che cento
1. Dell'origine . . . natura: il titolo esatto è Ragioni per le quali si dimostra
che V arcivescovado beneventano, non ostante che ti dominio temporale della città
di Benevento fosse passato af Romani Pontefici, sia compreso nella grazia
conceduta da Sua Maestà Cesarea e Cattolica a? nazionali, e sottoposto al
regio exsequatur, come tutti gli altri arcivescovadi del Regno , s.n.t. (ma Vienna
173 1). Anche questa allegazione è stata successivamente inserita tra le
Opere postume, 11, pp 233 sgg. Ad essa fu risposto con l'anonima Archiepi-
scopatus Beneventani, necnon Archiepiscopatuum inferiorumque Regni Nea-
politani Beneficiorum libertas vindicata adversus argumenta anonymi recen-
tioris, auctore saeculari presbytero, s.L, 1738, opera attribuibile a Giovanni
De Vita. Ma cfr. anche Giannoniana, pp. 157 sgg.
208 VITA DI PIETRO GIANNONE
essemplari, de' quali cinquanta bastarono per i ministri e per altri
amici, che mostrarono desiderio di averla.
Il nunzio Passionei, incaricato dalla corte di Roma di opporsi
a' ricorsi della Città, fece ogni sforzo per rendergli vani; e procu-
rato uno essemplare della medesima pur lo riputava ingiurioso alla
Santa Sede : poiché ogni cosa si qualifica per tale, quando si cerca,
ancorché con molti legittimi e con manifeste ragioni, d'impedire le
sorprese che si tentano sopra i reali diritti e sopra i privilegi delle
nazioni; e sopra i vecchi delitti m'imputava quest'altro nuovo,
per maggiormente rendermi odioso in Roma ed in quella Corte.
Altri cinquanta essemplari furon mandati in Napoli a gli Eletti
della Città: dove letti che furono, essendo molto piaciuti ed estre-
mamente commendali, crebbe a gli altri il desiderio d'avergli, ma
non bastando gli essemplari mandati, ne fu fatta ivi nuova ristam-
pa di più centinaia, i quali per le continue ricerche nemmeno
bastando, fu d'uopo farne altra impressione, che fu la terza.1
Doppo essersi pienamente da me informati i ministri del Con-
siglio, fu trattata la causa, e fatta relazione all'imperadore di ciò
che conveniva per istruzione del viceré e Consiglio Collaterale, fu
spedito da Sua Maestà lungo dispaccio per la Secreteria di Stato,
con accordo del Consiglio, dirizzato al viceré conte d'Harrach,
col quale si davan provvidenze ed istruzioni favorevoli, non solo
per ciò che riguardava il regio exequatur, ma eziandio per l'altro
punto della comprenzione dell'arcivescovado di Benevento nelle
grazie di Sua Maestà, come ogni altro arcivescovado del Regno.
Nel dispaccio era io nominato, facendosi menzione dell'allegazione
da me composta, che s'era avuta presente, sicome delle altre ri-
flessioni del reggente fiscale.2
Per vedersi in quella allegazione dimostrate e poste in chiara
luce le ragioni della Città, alla quale par che si fosse appoggiato
il dispaccio, gli Eletti della Città si posero in grandissima speranza
di doversi presto sentire dal Collaterale provvidenze vigorose e
forti, per riparare i torti inferiti; e gli avvocati della Città mi scri-
vevano commendando la mia difesa, alla quale attribuivano il tutto,
i. nuova . . .la terza: anche le ristampe apparse senza note tipografiche.
z. altre . . .fiscale: anche l'Esmandia aveva steso «una particolar memoria
0 sia voto fiscale per questo affare, formata colla direzione del nostro au-
tore », come assicura il Panzini, p. 76. Il dispaccio al viceré reca la data del
1 marzo 1732.
CAPITOLO OTTAVO 20C;
sicuri che ne avrebbero veduti gli effetti. Ma io che sapeva l'arcano,
gli risposi con sincerità, che le loro speranze dipendevano da'
trattati di Roma, e che ivi riguardassero, come stella polare: e che
se vedevano le cose del cardinal Coscia e dell'abate Perlas andar
male, sicché il marchese di Rialp sdegnato persistesse nel fervore
che mostrava, poteva la Città sperarne profitto di quanto si era
fatto ; ma se queste contemplazioni1 cessassero e ne venisser delle
nuove, la Città sarebbe abbandonata, né più si parlerebbe di Be-
nevento.
In effetto Roma, che ben sapeva i fini di Rialp, cercò con sue
lusinghe raddorcirlo, e venuta opportuna occasione, che il conte di
Sinzendorf ebbe bisogno di quella Dataria, per ottener un breve
d'eliggibilità per il cardinal suo figlio, che voleva, da un vescovado
che teneva in Ungheria, ascendere ad un altro vescovado più ricco
della Slesia, qual fu quel di Breslavia,* mostrandosi restia la Da-
taria di concederlo e facendo al cardinal Sinfuego sentire che la
ripugnanza derivava per gli strapazzi che si facevano in Napoli
all'arcivescovo di Benevento, di che il papa sdegnato avea ordinato
che per Dataria non si fosse spedita cos'alcuna che si cercasse da'
Germani; questo bastò, che il conte di Sinzendorf, lagnandosi
pubblicamente del Consiglio di Spagna, che ne voleva troppo dal-
la corte di Roma e che non bisognava disgustarla, ottenesse che
per la Secreteria di Stato fosse spedito ordine secreto al viceré
conte d'Harrac accompagnato da pressanti familiari lettere, col
quale se l'imponeva che vedesse col buono amichevolmente com-
porre quelle contese, e contentarsi di ciò che l'era da Roma offerto.
Presto presto fu tutto finito. Il viceré si contentò che l'arcivesco-
vo di Benevento gli scrivesse una lettera, nella quale gli dava parte
d'essere stato eletto da Sua Santità arcivescovo di Benevento,
dov'egli si ritrovava, aspettando suoi comandi in ciò che potesse
servirlo, con simili altre cerimonie ed espressioni di lettere cortig-
giane, che niente conchiudono. E questo si riputò bastante per
Yexequatur regium; ed intorno alla pretenzione della Città vi fu
1. contemplazioni: considerazioni. 2. venuta . . . Breslavia: cfr. la nota 4 a
p. 99; Dataria: ufficio della Curia, sorto originariamente per datare i do-
cumenti pontifici (donde il suo nome), estese la sua competenza nel Quat-
trocento all'accettazione delle suppliche, alla concessione di dispense e al
conferimento dei benefici. La sua importanza crebbe così enormemente e
fu sancita da Sisto V col breve Decet romanum pontificem, che la riorganiz-
zò come massimo ufficio di Curia.
210 VITA DI PIETRO GIANNONE
posto silenzio, né parlossene di vantaggio né trattossi mai più in
Collaterale della causa; anzi morto il Doria, il papa ne rifece un
altro, pur forastiere;* né niuno ebbe ardire di farne motto, non che
di dolersene. E quel che maggiormente dimostrò essersi perduta
ogni verecondia e rossore, nella stessa settimana che da Napoli
venne l'avviso di questo accordo, giunse al conte di Sinzendorf il
breve dell' eligibilità, spedito da Roma al cardinal suo figlio per-
ché potesse essere eletto, ed occupare l'altra più ricca cattedra da
lui ambita. Ed io non pur ne venni ad acquistare maggior odio col-
la corte di Roma, che amaramente intese le lodi ed applausi di quel-
la scrittura, divolgata da per tutto in tanti essemplari, ma tante mie
fatiche se le portò il vento, senza averne avuta dalla Città ricogni-
zione alcuna; poiché l'agente procurava per se stesso, credendo
che tanto si sarebbe scemato a lui, quanto si dava a me; onde,
dimenticatosi delle promesse, che la Città sarebbesi meco portata
grata e riconoscente, non scriveva alla Città se non per lui, né di
me faceva alcun motto. Sicché avvisato da Napoli del modo di
procedere di costui, fu d'uopo che altri per me parlasse, ma pure
infruttuosamente; poiché, sopragiunte dapoi le novità e cambia-
menti che portò l'ultima guerra,2 le cose rimasero, sicome sono
ancora, sospese e in pendenti.
in
L'altra occasione, che in questo anno interruppe i miei studi,
che avea intrapresi per la cognizione di me stesso e del mio es-
sere, fu l'avviso ch'ebbi da Napoli, d'essere uscita dalle stampe
una critica sopra il nono libro della mia Istoria civile del padre
Sebastiano Paoli, de' cherici regolari della congregazione di Lucca.3
Questi era lucchese, che io conobbi a Vienna coll'occasione d'esser
i. il papa . . .f or ostiere: fu il romano Serafino Cenci (1676- 1740), il quale,
creato subito dopo cardinale, nel settembre del 1733, lasciò la diocesi nelle
mani di un vicario, Domenico Antonio Manfredi, a. Vultima guerra', la
guerra di successione polacca, conclusasi con la pace di Vienna del 18
novembre 1738, col riconoscimento a re di Polonia del candidato imperiale
Federico Augusto II di Sassonia. 3. Sebastiano Paoli . . . Lucca', cfr. le
lettere del Giannone al fratello, del 28 febbraio, 13 marzo e 3 aprile 1728
(Giannomana, nn.1 240, 242 e 245). Per una biografia del Paoli (1684-1751),
predicatore, teologo e archeologo, si veda C. A. Erra, Memoria de* religiosi
per pietà e dottrina insigni della Congregazione della Madre di Dio, II, Ro-
ma 1760, p. 282.
CAPITOLO OTTAVO 211
venuto, una quadragesima, a predicare in Corte, sicom'è il costume
di chiamar da Italia ogni anno un predicatore italiano. Faceami
dell'amico, e mostrava aver di me stima ed affezione.
Tornato in Italia, e vagando per molte città di quella, ora in
Napoli ed in Roma, ora in Bologna, ora altrove, si diede a credere
che niuna cosa fosse più acconcia di facilitargli in Roma un vesco-
vado, al qual egli aspirava, che di scrivere contro la mia Istoria
cotanto da Roma invisa e perseguitata. ColT aiuto d'un antiquario
napolitano suo amico,1 poich'egli d'istoria non seppe mai, compose
un libriccino, sotto il titolo : Annotazioni critiche sopra il nono libro
dell'Istoria civile di Napoli? dove vantava d'avere scoverti più
errori in quell'Istoria, intorno alla venuta de' Normanni in Italia,
di cronologia, ed altri difetti; e credette, avendo ciò fatto, d'aver
dimostrata la falsità di quell'Istoria; né si ritenne di porre in fronte
al libro un passo di sant'Agostino,3 appropriandolo a sé: che si-
come colui avea scoverte le fallacie e menzogne del Manicheo,
così egli le mie; sicome in finirlo d'aggiungervi un altro passo di
san Girolamo,4 millantando che gli errori che egli avea palesati, a
riguardo degli altri che avea omessi, erano leggieri, né tanto gravi
e pesanti.
Non vi fu cardinale o prelato in Roma, al quale non si presen-
tasse il libro con molte lodi ed encomi dell'autore; ed oltre averne
molti sparsi per le altre città d'Italia, in Napoli s'eran esposti
venali nella porteria d'una casa di questi cherici regolari, chiamata
di Santa Brigida, dove si vendevano a buon mercato.
Fummene mandato da Napoli un essemplare, ed insieme scritto
che non me ne prendessi fastidio, poiché quelle Annotazioni eran
state dagli uomini dotti riputate così da poco, puerili, sterili ed
asciutte,5 che non meritavano d'esser lette, non che la pena di
farci risposta; ed in effetto, avendole io lette, sicome avendole
i. CoW aiuto . . . amico: il Giannone si riferisce qui all'archeologo e giurista
napoletano Matteo Egizio (i 674-1745), che sospettò, sembra con fonda-
mento, d'aver fornito le sue osservazioni sull'Istoria civile al Paoli. Cfr. per
questo Giannoniana, pp. 125 sgg. 2. Annotazioni . . . Napoli: apparse con
l'indicazione di Colonia (ma Roma), nel 1732, provocarono la sollecita rea-
zione del gruppo giannoniano. Una recensione critica fu pubblicata dagli
«Acta Eruditorum Lipsiensium » del 1732, p. 292. 3. un passo di sant'A-
gostino : dal Contra Epistolam Manichaei, guani vocant Fundamenti, xiv-xv.
4. passo di san Girolamo: cfr. Epistola ad Sàbinianum, xlviii: «Magna qui-
dem ista sunt pondere suo: sed fiunt eorum, quae illaturus essem, compa-
ratione leviora». 5. asciutte: aride.
212 VITA DI PIETRO GIANNONE
fatte leggere ad altri, si trovò che que' di Napoli scrivevan il vero.
Ma due forti cagioni mi mossero al contrario. Primieramente la
natura del padre Paoli a me nota, piuttosto propensa al trasonico1
e millantatore, il quale, in ogni angolo d'Italia, già vantava d'aver
ucciso il gigante. L'altra, che scovrendo con maniere un poco aspre
la di lui ignoranza, fosse repressa non pur la sua petulanza e traso-
neria, ma fosse d'essempio a gli altri frati e monaci, che non ve-
nissero ad inquietarmi ad ogni poco, con le loro scipitezze, ma mi
lasciassero in pace: poiché io a tutto altro intendeva impiegar gli
ultimi anni di vita che mi restavano, che a queste brighe, le quali
non mi avean recato altro che persecuzioni, invidie, malevolenza
ed inquietudini.
Così, verso il fine di quest'anno mi posi a rispondere una per
una alle critiche, dimostrandole sciocche, puerili e sciapite, trat-
tando l'autore qual si meritavano le sue trasonerie e rodomontate;
e poiché egli aveale date alle stampe e sparse da per tutto, si reputò
di rendergli il pari, e far imprimere anche questa risposta, che ha
per titolo: Risposta alle Annotazioni critiche sopra il nono libro
dell'Istoria civile del regno di Napoli ? della quale non si dimenti-
carono i collettori di Lipsia di rapportarla ne' loro Atti.3
Questa Risposta in Vienna, e più in Napoli, fece gran romorc,
essendo stata ricevuta con piacere e con applauso; sicché rimase
confuso non pur il padre Paoli, ma tutti i suoi, che prima lo cre-
devano qualche cosa; e d'allora in poi non s'è inteso che da
Roma, o altronde, venisse voglia d'inquietarmi con critiche o nuovi
libri; ma questo fu per me il peggior partito; poiché Roma, vedendo
che riuscivano vani ed infelici gli assalti, che si tentavano contro
la mia opera per via di libri e di carte, rivolse tutti i suoi ingegni ed
arti, valendosi di altre armi, contro l'autore, per abbatterlo ed
interamente rovinarlo; sicome, con l'aiuto di molti al fin l'uccise.
In quest'istesso anno 1731 ebbi lettere di Marco Michele Bous-
quet,4 mercante libraro di Ginevra, il quale avendo prima fatto
precorrere negli avvisi di Ollanda la notizia di essersi tradotta la
mia Istoria civile in lingua francese, e che si sarebbe fra poco data
i. trasonico: smargiasso (da Trasone, per cui cfr. la nota 1 a p. 156!).
2, Risposta . . . Napoli: edita nel 1732, è stata inserita nelle Opere postume,
I, alla fine, con numerazione propria, assieme alle Annotazioni. 3 . non si...
Atti: cfr. «Acta Eruditorum Lipsiensium », 1732, pp. 458-9. 4. Marc-
Michel Bousquet (1696- 1762) fu stampatore e libraio a Ginevra dal 1712
al 1736, a Losanna dal 1736 alla morte.
CAPITOLO OTTAVO 213
alle stampe dalla sua società, mi scriveva, che desiderando egli ed
i suoi soci, senza aver riguardo a risparmio, di dare alle stampe
questa traduzione con ogni accuratezza e magnificenza, volessi
anch'io contribuir dal mio canto di mandargli le note ed altre
aggiunte, sicome la mia vita e quanto era avvenuto dopo la pub-
blicazione della medesima; e sopra tutto di far intagliare in rame
il mio ritratto al naturale per metterlo nel frontispizio affinché
questa edizione in francese riuscisse migliore e più adorna dell'in-
glese. Io che coli* occasione delle tante precedute brighe sopra
quest'Istoria, mi trovava aver notate più cose che la confermavano
e maggiormente Pillustravano, volentieri m'esibii di farlo, sicome
di somministrargli le notizie delle contese insorte per la medesima;
ma non già la mia vita, che sarebbe stata cosa pur troppo lunga e
noiosa.
Ebbi dapoi lettere del traduttore stesso, monsieur Bochat1 fran-
cese, che si trovava ministro e professore dell'Università degli studi
in Losana, cercandomi la resoluzione di alcuni dubbi e rischiara-
mento de' passi oscuri, che l'occorrevano in tradurla; i quali da me
gli furon spianati ed illustrati; e seguitando il Bousquet a premere,
e dando incombenza a Vienna ad un altro mercante libraro suo
corrispondente, di somministrar le spese per l'intaglio e disegno
del ritratto, sicome d'alcune monete e medaglie che doveano col-
locarsi ne' loro luoghi in questa nuova impressione, fu nel seguente
anno intagliato in rame il ritratto,* che se gli mandò, e designate
le monete e le medaglie, che parimente se le mandarono. Le
nuove giunte ed annotazioni se gli promisero, secondo che si
sarebbero ripulite ed ordinate, e che se gli sarebbero mandate
fra poco tempo quelle del primo tomo, e così si sarebbe fatto degli
altri; sicome di tempo in tempo fu il tutto adempito. E certa-
mente non meno per le note e giunte, tratte da monumenti au-
tentici e da varie raccolte di diplomi ed istrumenti pubblici,
sarebbe questa edizione francese riuscita migliore della inglese,
e che per quelle monete e medaglie, le quali eran rare e pro-
prie per confermare ed illustrare molti passi dell'Istoria; le quali
io avea fatto delineare dalle originali del museo cesareo di Vienna,
1. Charles- Guillaume Loys de Bochat (1695-1753), professore di diritto
naturale a Losanna, controllore generale di quel cantone, tra i fondatori
della «Bibliothèque italique», proseguì la traduzione dell'Istoria civile, ini-
ziata e condotta già a buon punto dal padre Isaac (1663-1733). 2. il ritrat-
to : fu eseguito da Jeremias Jakob Sedelmayr.
214 VITA DI PIETRO GIANNONE
mercé la cortesia e gentilezza dell'abate Panagia1 mio amico, che
vi presideva come insigne antiquario, il quale, oltre avermi mo-
strate le antiche monete de' Goti re d'Italia, che illustravano e
confermavano quanto io de' medesimi mi trovava avere scritto
della dipendenza che aveano con gl'imperadori d'Oriente, mi mo-
strò la moneta d'oro che Grimoaldo2 duca di Benevento fece co-
niare col nome di Carlo Magno: e ciò per adempimento degli arti-
coli della pace fra lor conchiusa, uno de' quali era che Grimoaldo,
così nelle scritture, come nelle monete, dovesse al suo preporre il
nome di Carlo Magno, sìcome avea io scritto nel primo tomo,3
parlando di questa pace; ma ciò che recommi estremo contento, fu
d'aver trovata in questo museo la medaglia, che fece coniar in
Napoli il viceré don Pietro di Toledo,4 col motto erectori iustitiae,
della quale io parlo nel quarto tomo,5 la quale fu da me in vano
ricercata a Napoli, che trovai poi a Vienna.
Di questi e simili, sicuri e certi monumenti, veniva adornata
l'edizione francese, la quale, secondo le vicende delle mondane
cose, passò poi que' infortuni che saranno più innanzi ricordati.
IV
Intanto, con queste cure ed occupazioni eravamo entrati nel-
l'anno 1732, nel quale tanto più a Vienna crescevano le confusioni
e disordini, quanto che stabilita nuova pace con la Spagna e non
più prolungato il possesso all'infante don Carlos del ducato di
Parma, sembrava a' Spagnoli di Vienna che, stretto ora l'impera-
dore con nuovo vincolo colla Spagna, non avesse più che temere
di altra potenza; ed il marchese di Rialp, col numeroso seguito
di tutti gli altri Spagnoli, spezialmente i Catalani, vantavano che
l'imperadore col solo suo nome farebbe ora tremar il mondo; e
quindi derivava il disprezzo che si faceva degli altri principi,
1. Giambattista Panagia, custode del Museo Cesareo di Vienna. 2. Gri~
moaldo III (morto nell'8o6), principe di Benevento. Secondo un accordo
stipulato dal padre Arechi II con Carlo Magno a Capua nel 786, il princi-
pe di Benevento, oltre a prestare giuramento di fedeltà e pagare tributi,
avrebbe dovuto battere moneta e rilasciar diplomi in nome di Carlo. 3. nel
primo tomo: cfr. Istoria civile, tomo 1, lib. vi, cap. iv, p. 398. 4. Pedro de
Toledo (15 14-1578), marchese di Villafranca, viceré di Napoli dal 1532 alla
morte. 5. nel quarto tomo: cfr. Istoria civile, tomo iv, lib. xxxii, cap. il,
par. n, pp. 60-2.
CAPITOLO OTTAVO 215
spezialmente di quelli d'Italia, e de* loro inviati che erano in Corte.
Dall'altra parte, il conte di Sinzendorf, cancelliere di Corte, ch'era
tornato di Francia da' congressi di Soyson,1 vantando d'aver pe-
netrati l'intimi consigli del gabinetto di quel giovane re,3 e le forze
e disciplina militare di quel regno, la quale a lui sembrava esser
venuta all'ultima decadenza, millantava che la Francia non era in
istato di mover guerra all'imperadore, e ch'era sicuro, che fin a
tanto che vivea il cardinal Fleury,3 primo ministro di quella Corte,
amante di pace, non vi sarebbe guerra; e riposando l'imperadore
sopra questi due ministri, che gli promettevano lungo e tranquillo
ozio e sicura e stabil quiete in tutti i suoi Stati e domìni, fecero
che riformasse la milizia, cassando molti reggimenti, né più si
pensasse a munizioni di piazze, né a fortificazioni, anzi riputandosi
spese vane tutto ciò che si impiegava in mantenerle, il denaro
ch'era a ciò destinato s'impiegava ad altri usi, e con tutto che gli
Stati e regni d'Italia fossero tassati a mantener certo numero di
truppa, che fosse bastante per lor difesa, ed effettivamente si
pagassero le somme secondo il numero prescritto, nulladimanco
le truppe, che doveano esser ivi, non arrivavano nemmeno alla
metà; sicome si rese a tutti manifesto, coll'occasione di quest'ulti-
ma guerra,4 quando, invaso lo Stato di Milano da' Francesi e
Piemontesi, non si trovarono per la difesa che sette in ottomila
soldati e pure lo Stato pagava per diciottomila; ed il regno di
Napoli, che contribuiva per lo mantenimento di ventiduemila sol-
dati, non potè resistere a gli Spagnoli, non avendo per sua difesa
altro numero di soldati che di soli ottomila; e molto minore la
Sicilia, la quale fu pur costretta a rendersi.
Tutte queste mine e precipizi nacquero da quella sicurezza che
si avea, che niuno avrebbe ardimento di muover guerra all'impe-
radore, e dal basso concetto che si avea delle forze degli altri prin-
cipi; e per conseguenza, che fosse tutta spesa perduta di mantenere
numerosi eserciti, e di spendere in riparazioni e fortificazioni di
piazze. Quindi tutto lo scuopo era di convertire in altri usi il
1 . Soyson : Soissons. 2. giovane re : Luigi XV ( 17 10-1774), uscito dalla mi-
norità e svincolatosi dalla reggenza del duca Filippo d'Orléans nel 1723.
3. André-Hercule Fleury (1653-1743), elemosiniere di Luigi XIV, nel 1683,
precettore dell'erede al trono nel 1715, quindi cardinale e primo ministro
di Luigi XV nel 1726. Fu il presidente del congresso di Soissons (1728) e
l'artefice dei trattati di Siviglia (1729) e di Vienna (173 0- 4- quest'ultima
guerra: la guerra di successione polacca.
2l6 VITA DI PIETRO GIANNONE
denaro che dovea consumarsi a questo, e di cumular denari per
altre vie, le quali si tentavano da per tutto, per maggiormente
accrescer dovizie, fasto e pompa, ed aprirsi altre mine, per estin-
guer l'ingorda fame di tanti, non aspirandosi ad altro che a questo;
e quindi i progettanti eran più caramente accolti, ed ogni altro
che suggeriva maniere donde potesse trarsi denaro, per supplire
alle magnifiche doti che si assignavano alle spese spagnole : poiché
erasi già fatto costume, che maritandosi le lor figliuole, comincian-
dosi da' primi ministri ed ufficiali spagnoli fino a gl'infimi, l'impe-
radore l'avesse da costituire ampie doti e somministrare le spese del-
le nozze, sicome sovvenirgli in ogn'altra loro spesa di viaggi, d'infer-
mità, o altra ancorché fosse voluttuosa e niente forzata o necessaria.
Or avvertendosi dagli uomini saggi e prudenti queste confu-
sioni e disordini, ciascuno pensava di salvar se stesso dal naufragio,
che si prevedeva imminente, e badare a' suoi fatti, giacché nulla
valevano né ricordi, né ammonimenti, né affettuose preghiere, né
lagrime, né sospiri. In quanto a me, era già risoluto, con quel poco
che m'era somministrato dalle spedizioni di Sicilia, di vivere in
quiete, ritirato in un angolo, ed attendere a* miei studi, e di restrin-
germi nelle spese quanto più fosse possibile; poiché da Napoli
da mio fratello non era da sperarne soccorso ; il quale, scorgendo
che io non vi sarei più tornato, quanto più si prolungava la mia
dimora in Vienna e sminuiva la speranza del mio ritorno a Napoli,
tanto più si mostrava a me riottoso, ed affettava libero ed assoluto
dominio sopra quanto di mio lasciai sotto la sua amministrazione;
e da procuratore, non pur con altri, ma meco stesso, voleva esser
creduto signore: sicché oltre d'appropriarsi le rendite de' miei
beni ed il prezzo di più centinaia d'essemplari della mia Istoria, e
più palmarii esatti dalle cause da me difese e vinte, trattava male
le persone da me raccomandategli, quelle che sopra tutte merita-
vano maggior consuolo1 ed aiuto, strapazzando quella onesta e
savia donna, che erasi ritirata in monastero con sua figliuola di
me natagli, negandogli sovente il necessario alimento: sicché fui
costretto, che de' frutti d'un capitale di ducati mille, esatto da'
miei palmarii e fatiche fatte nella difesa di più cause della marchesa
di Baranello, ch'era presso d'un mercante, mio amico,2 egli non
più si avvalesse; e scrissi al mercante, che gli pagasse al monastero
i. consuolo: consolazione. 2. mio amico: Francesco Mela, per cui cfr. la
nota 1 a p. 78.
CAPITOLO OTTAVO 217
per alimento non men della figliuola che della madre. In oltre il fi-
gliuol maschio ch'io lasciai sotto la sua cura, egli per disbrigarsene
lo mandò nella città di Vesti a nostra sorella, ivi maritata; e poi
scordatosene affatto, senza mandargli soccorso l'avea abbandonato
alla altrui discrezione e misericordia : sicché adulto, per non soffrir
tante miserie, scappò via ed andossene in Napoli; dove, da lui
barbaramente scacciato, bisognò che io da Vienna provvedessi di
quanto era bisogno, per non farlo andar ramingo e vagabondo.1
Tanto è vero, che gli uomini beneficati e stretti che fossero di
sangue, una volta che si veggono posti in istato di non aver più de*
benefattori bisogno, ovvero che non possono più giovargli, massi-
mamente se siano lontani, perdono ogni verecondia, e dimenti-
catisi de* benefici, riescono i congionti più ingrati e sconoscenti
che gl'ignoti ed estranei. In breve sperimentai esser vero quel
comunal detto, se ben sembri fiero ed inumano, che deesi « allevare
il capo dell' animale, e quello dell'uomo annegare»; poiché a chi
considera la prava condizione dell'uomo, fin dalla sua adolescenza
inclinato al male, troverà verissimo quell'altro detto : « homo homini
lupus».3 Quantunque io reputassi non esser ciò universalmente vero,
ed esser stata questa mia disgrazia e fatai destino, che mi si rivol-
gessero i benefici in malefici, e le grazie in detestabili ingratitudini;
poiché conosco fratelli fra di loro amantissimi; e per ciò soleva
tacitamente invidiare la fortuna del Forlosia, primo custode della
biblioteca cesarea, nostro napolitano e mio buon amico, il quale
tenea fratelli in Napoli così cari ed amabili, sicome egli, dall'al-
tra parte, niente3 gli cedea, che sembravan esser più corpi, ma
una sola anima: cotanto fra di loro era concordia ed amor vicen-
devole, che l'un men curava se stesso, purché potesse giovare al-
l'altro. « Felices animae! », essendo ora nel mondo questi molto rari
e pochi, « quos aequus amavit Iuppiter ».4
Da queste non men pubbliche che domestiche mie sventure,
mi mossi daddovero a pensar a me stesso, e provvedere al rima-
nente di mia vita di una quiete solida ed interna. A questo fine,
1. In . . . vagabondo: cfr. Pautobiografia di Giovanni, in Giannoniana, pp.
184 sgg. 2. &homo . . . lupus»', k l'uomo è lupo per l'uomo», detto prover-
biale derivato da Plauto (cfr. Asinana, 495: «lupus est homo homini,
non homo») e divenuto motto del filosofo utilitarista inglese Thomas
Hobbes (1588-1679). 3. niente: in niente. 4. « Felices . . . Iuppiter»: « Fe-
lici anime » ; «che il giusto Giove amò » : cfr. Virgilio, Aen., vi, 669 e 129-30.
2l8 VITA DI PIETRO GIANNONE
colla mia cara e dolce famigliuola viennese, sopragiunto il mese di
giugno, si affrettò con madama Leichsenhoffen la nostra villeg-
giatura di Medeling, che la continuai più del solito, parendomi più
acconcia quella solitudine, che tornando in città sentire e vedere
tante sconcezze e difformità.
E proseguendo i miei intermessi studi, conferendo gli antichi
scrittori profani co' libri della Bibbia, se bene gli trovassi difformi
in più cose, spezialmente nella formazione del mondo e dell'uomo,
nella origine delle lingue, delle arti, de' popoli e nazioni onde la
terra fossesi empita, ed in molte altre; nulladimanco eran concordi
per ciò che riguardavano il fine e concetto dell'uomo, che in que-
sto primo stato di natura non fosse stato altro che di regno terreno
e di felicità mondane.
Notai che sicome questo era il concetto di tutti gli antichi po-
poli, de* quali è a noi rimasa memoria, lo stesso fosse del popolo
ebreo, secondo che da Mosè, suo legislatore e duce, eragli stato
impresso. Egli nel Genesi, che possiamo chiamarlo il primo libro
delle origini, tratta della creazione del mondo, delle parti che lo
compongono, del cielo, stelle, sole, luna, aria, terra e mare, degli
animali, delle piante, alberi, e di quanto sopra la terra si muove e
cresce, per quanto dovea aver relazione all'uomo, formato da Dio
per possederla, non già fisicamente, come a filosofo si converrebbe,
sicome fecero i Caldei e gli Egizi e poi i filosofi greci : non era que-
sto il suo scuopo, ma unicamente per far comprendere a gli Ebrei,
che Iddio avea create e disposte tutte queste cose per l'uomo, al
quale diede la dominazione della terra, delle piante e degli animali,
e quanto in essa si vede, perché se ne valesse per suo uso ; e quindi
la formazione dell'uomo si descrive doppo tutte l'altre cose ordi-
nate a questo fine, avendo1 dotato l'uomo d'uno spirito di vita più
sublime di quello che diede a gli altri animali, perché potesse do-
minargli e rendersi ad essi superiore: onde avvenne che i bruti,
che non eran dotati di tanto acume, sagacità ed ingegno, rimasero
per sempre nella vita selvaggia e ferina; all'incontro l'uomo s'in-
nalzasse sopra i medesimi, e s'avanzasse nel culto, nella società
civile, nelle arti e nelle altre discipline.
E da tutto il Pentateuco manifestamente si scorge che, in questo
primo stato di natura, dell'uomo non si ebbe altro concetto che
i. avendo: il soggetto è Dio,
CAPITOLO OTTAVO 2IO,
d'essere stato formato per posseder la terra e quanto in essa si
muove e cresce ; e tutte le sue felicità o miserie non fossero se non
mondane e terrene. Quindi le benedizioni che si promettevano a
questi primi popoli osservando i precetti e comandamenti che Iddio
avea lor tramandati, per Noè per tradizione, e per Mosè per legge
scritta, non erano che abbondanza e fertilità di campi, e fecondità
di greggi e d'armenti, longa vita, sanità, abbattimento de' nemici,
estenzion di dominio e tutte altre cose mondane e terrene ; all'in-
contro le maledizioni a' disubbidienti erano di siccità ne' campi,
pestilenze, carestie, infermità, morti, povertà, servitù e tutte altre
misure e calamità mondane. La morte presso di loro era l'ultimo
de' mali, come quella che gli tuffava in un profondo sonno, e gli
riduceva in quello stato nel qual erano prima di nascere. E l'In-
ferno presso di loro non esser altro, che la profondità della terra,
ove seppelivano i loro morti. <E questo medesimo osservai nel
libro di Giob, libro che per antichità non cede al Pentateuco di
Mosè, nel quale presso gli Idumei ed i vicini Arabi, popoli anti-
chissimi, non vi era altra idea che di felicità o di miserie tutte mon-
dane e terreno.1
Lo stesso concetto per l'uomo di regno terreno e mondano tro-
vai negli altri vecchi scrittori gentili, presso gli antichissimi po-
poli di tutta la terra ed i primi suoi abitatori, secondo le memorie
che ci restano. I primi cinque libri della Biblioteca {storica di Dio-
doro Siciliano possono, a riguardo de* Gentili, riputarsi i libri
delle loro origini, rapportandosi ivi i più antichi popoli, de' quali
è a noi rimaso vestigio de' loro nomi, così de' primi abitatori del-
l'Asia rivolta ad Oriente ed Occidente, come al Mezzogiorno e
Settentrione. Questi popoli asiatici vantano essere stati i primi
che abitasser la terra. Ma gli Affricani ce lo contrastano, e gli
Etiopi vantano essere stati progenitori degli Egizi istessi: popoli
che si danno il vanto in antichità precedere a tutti. I popoli set-
tentrionali d'Europa pur vantano inarrivabile antichità. In breve,
non vi è nazione, o sia nell'Asia, o neh" Affrica, o in Europa, che
non pretenda per sé questo preggio. In tutti questi non si troverà
altro concetto dell'uomo, che di regno terreno, e che la morte
recasse loro un perpetuo e tenebroso sonno; quindi, l'uman ge-
nere era creduto, e per ciò detto, mortale genus.
1. E questo . . . terrene: cfr. quanto il Giannone scriveva nella lettera al
fratello del 12 agosto 1730 (Giarmonianay n.° 368).
ZZO VITA DI PIETRO GIANNONE
Gli Egizi furono i primi, che per le tante celebrità1 e riti che in-
trodussero nel seppellire i loro morti, diedero occasioni a gli ar-
diti ed audaci poeti greci di fantasticar tanto sopra Acheronte,
Averno, Cocito, le paludi Stigi, Campi Elisi e tante altre splen-
dide e feconde fantasie; ed avesse piaciuto al Cielo, che nella
Grecia il male che venne da Egitto si fosse contenuto ne' soli
poeti, poiché a lungo andare corruppe anche le menti di alcuni
loro fantastici ed astratti filosofi, i quali si lasciarono abbagliare
dallo splendore delle favole de' lor poeti.
I Greci, gente, sopra tutte l'altre portata al maraviglioso e
sorprendente, con avidità l'appresero, ed accresciutele, empiron
poi la Grecia, le vicine e lontane parti di tante favole e sogni,
spezialmente al poco numero degli antichi dii d'Egitto accrescen-
done tanti altri, che arrivarono a tesserne genealogie, e ne fecero
una nuova scienza, detta presso di loro «mitiologia». I libri d'O-
mero sono perciò pieni di tante deità, che le fa prender cura non
pur delle cose umane, ma mescolarle in ogni cosa, ancorché minuta,
vile e bassa, ed infino a far congiungere dii e dee celesti con uo-
mini e donne terrene, e da' lor concubiti farne anche nascere altri
dii ed eroi.* Ma Omero, se ben come poeta si spazi e si rivolga fra
tante favole, non lascia nel tempo istesso mostrarsi un profondo fi-
losofo ed esatto istorico. A' suoi poemi, non meno che a' libri di
Mosè, dobbiamo la notizia di tanti antichi e vetusti popoli, non pur
della Grecia e dell'Asia, che dell'Affrica, de' quali, senza di lui, non
sapremmo ora nemmeno i nomi. Di tutti questi popoli, de' Greci
istessi, non fa chi dell'uomo avesse altro concetto, che di regno
terreno. Egli mescola i dii colle cose umane, e che ne avesser cura;
ma essendo irati non si minaccia a' colpevoli se non castighi ter-
reni, sconfitte d'eserciti, città arse e depredate, pestilenze, servitù,
straggi e morti ; all'incontro a' benemeriti vittoria, ingrandimento
di domìni, sanità, abbondanza e tutte altre mondane felicità. Egli
se ben come poeta per conformarsi alla sua nazione avida del ma-
raviglioso e sorprendente, a dii celesti aggiunga gl'infernali, Coci-
to, Plutone e Flegetonte e simili ciance de' favolosi poeti; nulladi-
manco del morire, come sapiente, ebbe lo stesso concetto degli
altri antichi savi, paragonando il morir degli uomini alle foglie
i. celebrità: cerimonie, solennità. 2. I libri . . . eroi: si ricordi come la
questione omerica fosse dibattuta, in quegli stessi anni, da Giambattista
Vico, ben conosciuto, anche se disprezzato, dal Giannone.
CAPITOLO OTTAVO 221
d'alberi, le quali, scosse al fin d'autunno e cadute a terra, non
più risorgon esse, ma altre nella primavera in lor vece rinascono.1
Erodoto, che meritamente dicesi padre della greca istoria, poi-
ché i nove suoi libri d'Istoria sottratti dall'ingiuria de' tempi e
degli uomini, sono stati a noi avventurosamente serbati, ancor-
ché si fosse perduta Y Istoria degli Assiri, la quale avrebbe sommi-
nistrato gran lume al libro del Genesi di Mosè:2 Erodoto, dico,
non altro concetto ci rappresenta di que' antichi popoli de' quali
ragiona, che di regno terrestre ; e se ben mescoli i dii, gli oracoli e
le Pizie3 colle cose umane, nulladimanco non si promettevan altro
da' celesti numi, se non felicità mondane, e che gli scampassero da
flagelli, miserie e tutte altre calamità terrene.
Leggasi infine quanto mai è rimaso a noi dell'istoria greca,
quante memorie ci han lasciate gli scrittori greci (poiché degli
egizi, caldei, fenici ed altri antichi non è stato a noi tramandato
libro alcuno, se non alquanti tronchi monumenti, che pur a' Greci
gli dobbiamo), che di quanti antichi popoli e nazioni trattano, di
tutte non si troverà dell'uomo altro concetto che questo. Leggasi
la Geografia di Strabone, la Biblioteca istorica di Diodoro, le quali,
non meno che Y Istoria di Erodoto, devono riputarsi tanti tesori,
ove sono riposte le più vetuste memorie che possano aversi del
genere umano, che non si troverà per lui altro che un regno ter-
reno. In breve si spazi ogni uno e trascorra per tutti gli ampi
regni ed imperi, che si videro stabiliti sopra la terra, degli Assiri,
Egizi, Medi, Persi, Macedoni, Indi, Chinesi, Greci - e di chi no ? -,
che troverà lo stesso. In fine se si fermerà nell'Imperio romano,
che colla mina de' preceduti imperi crebbe cotanto, e si distese non
pur sopra l'Europa, ma nell'Asia e nell'Affrica, per quanto era del
mondo allora conosciuto : scorgerà che mescolavan anche i Roma-
ni, come i Greci e gli antichi Etruschi da chi l'appresero, i loro
dii colle cose umane, ma non per altro, che per avergli propizi
nell'ingrandimento della loro republica, che la rendesser potente,
i. paragonando . . . rinascono: cfr. Omero, //., vi, 146-9. 2. Erodoto . , .
Mosè: la divisione della stona di Erodoto in nove libri è opera dei gram-
matici alessandrini. Quanto alla perduta Istoria degli Assiri qui ricordata
dal Giannone, si tratta in realtà di una supposizione ricavata dallo stesso
testo della storia di Erodoto, laddove egli promette (1, 184) di dare la serie
dei re di Babilonia (che egli riteneva, appunto, in Assiria), promessa non
più mantenuta. 3. le Pizie: erano le sacerdotesse dell'oracolo di Apollo
in Delfi.
222 VITA DI PIETRO GIANNONE
felice ed eterna; e così in pubblico, come in privato, non erangli
resi voti e sacrifici se non per impetrarne felicità terrene, e che gli
scampassero da mali parimente mondani; e della lor morte non
avean altro concetto, se non che gli recasse un perpetuo e tene-
broso sonno, non avendo idea di altra vita, doppo la lor morte,
che della gloria, riputandola una seconda vita, che gli rendesse
eterni ed immortali nelle bocche degli uomini ed alle future genti.
L'istoria romana, e spezialmente quella incomparabile di Tito
Livio, il quale da' princìpi di Roma continuò i suoi ingrandimenti
fino a' tempi d'Ottavio Augusto, ne* quali egli fiorì, manifesta non
pur i Romani dell'uomo e del suo morir non aver avuto altro
concetto, ma eziandio tanti altri innumerabili popoli, de' quali egli
fa memoria, e che furono da' Romani vinti e debellati. E se bene,
per l'inestimabil perdita dell'altre sue Deche, non abbiamo ora
di lui un intiero corpo d'istoria di quest'Imperio, nulladimanco
ben può supplirsi la mancanza da altri istorici e scrittori che gli
precederono, o suoi contemporanei, spezialmente da Strabone e
Diodoro, i quali pur fiorirono nell'aureo secolo d'Augusto, ovvero
d'altri scrittori romani a sé posteriori; donde si conosce che il ge-
nere umano, che non può dubbitarsi non essersi veduto in tanta
eminenza, sia per culto, sia per le arti e per le discipline, quanto
s'estolse a' tempi d'Augusto, non ebbe di sé altro concetto che di
vita mortale e di regno terreno ; e che i loro dii prendessero di lor
cura e pensiero, per quanto riguarda alle felicità mondane, pre-
gandogli per impetrar queste, e che gli scampasser da' mali e
miserie di questa mortai vita. Gl'infernali dii, i Mani, Orco, Oo-
cito ed Acheronte gli lasciavano alle splendide fantasie de' poeti
ed al volgo imperito ed alla semplice e credula moltitudine. Per
la qual cosa chiunque porrà attenzione, riandando i secoli vetusti,
da che potrà aversi notizia del mondo e dell'uomo, fino al secolo
di Augusto, in tutti i popoli e nazioni, non eccettuandone nemmeno
l'ebrea, non troverà dell'uomo e suo morire altra idea che questa.
Si accorgerà eziandio, che sopra tutti gli altri popoli della terra
gli Ebrei fossero più commendabili, per aver avuto di Dio un'idea
più giusta ed alla ragion conforme, secondo che gli fu impressa
dal lor savio duce Mosè, tanto più commendabile che, uscito da
Egitto, dove fece lunga dimora, non per questo rimase contami-
nato dalle tante lor superstizioni ed idolatrie. Egli propose al suo
popolo un Dio che fosse solo, unico, sapiente, giusto ed onnipo-
CAPITOLO OTTAVO 223
tente, creatore del cielo e della terra, facitore e dispositore di quan-
to si ammira sotto di quello e sopra di questa, ed in tutto il nostro
mondo aspettabile. A lui solo dover l'uomo ricorrere con puro e
casto cuore e divoto culto per impetrar felicità e per iscamparlo
da miserie in questa vita mortale.
Per tener mondi i loro cuori, gli prescrisse savie leggi, dove
non meno ravvisavano l'amore e venerazione che doveano avere
verso il lor creatore e benefattore, che le vere norme di giustizia
e di carità verso i loro fratelli e suo prossimo. Per render a Dio
onore e culto sincero e divoto, gli prescrisse molti e vari riti e
cerimonie, colle quali doveano adorarlo; aftinché applicati a ciò
s'allontanassero dalle tante superstizioni ed idolatrie degli altri
popoli, delli quali erano circondati. E gli stessi Strabone e Diodoro,
gentili che fossero, non possono non commendare le savie leggi
che Mosè diede al suo popolo.
Quindi nacque che i loro poeti, che chiamavano profeti, non fos-
sero contaminati di quelle illusioni e delle tante favole onde i poeti
gentili eran cotanto fecondi. Non si leggono ne' loro profeti, ancor-
ché sovente s'innalzassero ad un stile e parlar magnifico e meta-
forico, tante arditezze, e molto meno si mostrano vaghi di splen-
dide fantasie e di tante vane deità, di dii celesti ed infernali, di
Sisifo e di Tantalo, e di tante altre fole e ciancie, onde la gentilità
era ripiena. Questo fu un preggio, del quale meritamente la gente
ebrea, sopra l'altre del mondo, può vantarsi; e per ciò Iddio l'eles-
se in proprio popolo, dichiarandosene egli particolar re e signore,
e che da questo popolo dovesse sorgere al mondo il suo liberatore
e redentore.
Egli è vero che, negli ultimi tempi, gli Ebrei cominciarono a
contaminarsi, non pur ne* costumi, ma di peregrine dottrine, e
ad allontanarsi dalla sapienza solida de' loro maggiori. <Ciò av-
venne doppo che si costrusse il secondo tempio, quando, tornati
gli Ebrei doppo la cattività babilonica nella Giudea, da varie città
degli Assiri e de' Medi e de' Persi dov'erano sparsi, ci vennero
contaminati da nuove e peregrine dottrine; quindi si vide che al-
cuna abbracciassero la dottrina del fato ed altre splendide fantasie
ed illusioni de' favolosi Greci, sicome ce ne rende testimonianza
non pur Strabone, ma l'istesso Giuseppe Ebreo, di lor nazione;
<e toltone i Sadducei, i quali furono fermi e rigidi osservatori
dell'antica dottrina e disciplina, gli altri, spezialmento i Farisei,
224 VITA DI PIETRO GIANNONE
ed assai più nel decorso del tempo gl'ultimi lor rabbini e cabalisti,
si resero al mondo, per le tante lor ciance ed illusioni, non men
degni di riso che di compassione.
Ma in questo stato ridotto il mondo, e a tal corruzione il popolo
ebreo, opportunamente fu mandato in terra chi dovesse redimer-
lo; e non pur liberare l'uman genere da tanti errori ed inganni,
ma innalzarlo a più sublime stato e condizione; e quando prima
non era riputato se non capace d'un mortai regno terreno, farlo
degno e partecipe d'un per lui nuovo regno immortale e celeste;
e fu mandato non pur alla gente ebrea, ma a tutte l'altre nazioni,
poiché, sicome per Adamo tutti gli uomini si reser mortali e ter-
reni, così per questo liberatore fosser tutti resi immortali e celesti.
Questa dottrina e questo concetto del mondo e dell'uomo pa-
reami aver scorto, riandando tutti i secoli vetusti, presso le più
antiche nazioni; e che in ciò concordasse tutta la gentilità non mi
giunse nuovo, né strano; ma che questo concetto trovassi pari-
mente essersi tenuto dagli antichi Ebrei, e che, confrontando i libri
de' Gentili con quelli di Mosè e degli altri del vecchio Testamento,
<scritti sotto il primo tempio, e prima de' libri di Esdra>, gli scor-
gessi in ciò uniformi e concordi, parvenu ciò da notare e non trascu-
rarlo, sicome fin allora avea, e comunemente vedea fare a gli altri.
Ebbi sommo contento e piacere, che ne' libri di sant'Agostino
e negli altri antichi Padri della Chiesa, leggessi d'avere essi eziandio
notato che dall'uomo, secondo il suo primiero stato di natura,
descritto ne' libri dell'antica legge, non aveasi altro concetto, che
di regno terreno e di felicità mondana, e sant'Agostino in più
luoghi avverte, che bisognava che per l'uomo il regno terreno
precedesse al celeste, affinché dalle cose mortali e terrene s'innal-
zasse poi alle immortali e celesti; ed il regno terreno precedesse,
e fosse all'uomo terreno, come simbolo ed immagine di quanto
dovea avvenire allo stesso uomo, nello stato di grazia, nel regno
celeste. Tertulliano1 chiama per ciò il celeste nuovo regno, a ri-
guardo dell'uomo, e nuova promessa, dicendo: «novam promis-
sionem regni coelorum».2 E san Giovan Crisostomo3 rende grazie
i. Quinto Settimio Florio Tertulliano (secolo II-III dell'Era volgare), apo-
logista cristiano, z. « novam . . . coelorum » : cfr. Liber de praescrìptionibus
adyersus haereticos, xm. 3. Giovanni Crisostomo (344 circa-407), oratore
cristiano, vescovo di Costantinopoli, autore di numerose omelie, trattati,
panegirici e sermoni. La citazione che segue nel sermone In ascensionem
Domini, homilia xlv.
CAPITOLO OTTAVO 22$
al Signore, il quale erasi compiaciuto d'innalzar l'uomo cotanto
che, quando prima appena era stimato meritevole del regno ter-
reno, avealo reso degno del celeste.
Pareami adunque doversi considerar l'uomo secondo questi due
differenti stati, riguardando il primo di natura, ed il secondo di
Grazia. Il primo esserci rappresentato nel vecchio Testamento ; il
secondo nel Nuovo. E del mondo doversi considerare due princi-
pali epoche : la prima, che comincia dalla sua creazione, e continua
sino all'imperio di Ottavio Augusto, dove non si ravvisa l'uomo se
non nel suo primiero stato di natura, mortale e terreno ; la seconda
dalla sua redenzione, quando il Verbo, disceso in terra e presa
carne umana, conversò fra gli uomini, e mostratigli nuovo lume
ed altro sentiero, gl'innalzò dal fango e resegli immortali e celesti.
Il principio di questa nuova epoca viene a noi additata ne' libri
del Testamento nuovo, spezialmente da' quattro evangelisti, da-
gli Atti degli Apostoli di san Luca e dalle Epistole di san Paolo ;
e viene a cominciare ne' tempi d'Augusto, quando avendo data
pace all'universo orbe romano, il genere umano riposava sotto un
equabile, giusto e clemente imperio, ed i costumi degli uomini
eransi resi più culti, docili e mansueti; e sant'Agostino riflette, che
piacque al sommo Iddio, in premio della lor giustizia e d'altre
virtù, ond'eran i Romani adorni, di concedergli l'imperio del mon-
do ; affinché, resolo più culto e docile, fosser disposti gli uomini a
ricever que' ammaestramenti e quella dottrina, che dovea a questo
tempo recargli il suo Redentore.1
Questi studi mi fecero in quest'anno prolungare la mia villeg-
giatura di Medeling; sicché non mi ridussi in città, se non ne'
princìpi di settembre, con animo di proseguirgli; e disbrigato di
quanto pareami bastante intorno al primo stato di natura dell'uo-
mo, mi posi ad investigare il suo secondo stato di Grazia, che non
potea altronde apprendersi se non da' libri del nuovo Testamento
e da quanto i più seri e dotti espositori vi avean lavorato intorno,
de' quali m'era somministrata abbondante copia dalla biblioteca
cesarea, la quale era per ciò da me frequentata.
Non fui impedito ne' rimanenti mesi di quest'anno di affari
forensi, poiché da Napoli pochi ricorsi si aveano al Consiglio di
Spagna di Vienna; mi convenne però prender la difesa nel Consi-
glio Imperiale Aulico della vedova marchesa di Balestrino, dama
i. Agostino . . . Redentore: cfr. i capitoli xii-xrx del libro v del De civ. Dei.
226 VITA DI PIETRO GIANNONE
lorinese, dell'illustre famiglia Leoncourt, la quale erasi portata a
Vienna per una causa che ivi teneva contro il marchese suo figlio,
la quale per l'eternità di quel Consiglio e per i nuovi cangiamen-
ti delle cose d'Italia, accaduti per quest'ultima guerra, e per lei
e per me riuscì inutile ed infruttuosa.1
A questo tempo per la morte di re Augusto di Polonia, si co-
minciarono a sentire in Vienna gli apparecchi che si facevano per
far cadere l'elezione del nuovo re in persona del duca di Sassonia,
figliuolo del re defonto.2 Né si potè mai sapere a qual fine et cui
bono, l'imperadore si fosse mosso ad intraprender l'elevazione di
quel principe al trono di Polonia <se non quello, per indurlo a
consentire alla «prammatica sanzione», avendo per moglie la pri-
mogenita dell'imperadore Giuseppe>,3 non ostante che la Francia
fosse tutta intesa a riporci il re Stanislao, padre della regina e
suocero del re.4 Ma il basso concetto che s'avea delle forze di quel
regno, e che non v'era da temere che l'impresa non fosse riuscita,
massimamente per essersi congiunte le forze dell'imperadrice di
Moscovia,5 la qual mal volentieri soffriva che Stanislao regnasse in
Polonia, fecer sì, nulla curando de' mali che potevan da ciò nascere,
avendosi per lontani ed impossibili, che scovertamente s'indriz-
zassero i mezzi a questo fine.
Si credette che il conte di Sinzendorf, cancellier di Corte, fosse
stato il principal autore del consiglio ; e furon mandate in Moscovia
1. mi . . .infruttuosa: è rimasta l'allegazione a stampa, che il Giannone
scrisse per questa causa: Ristretto della causa tra V illustrissima signora mar-
chesa donna Cristina Maurizia di Leoncourt vedova del fu illustrissimo sign.
marchese di Ballestrino don Ottaviano del Carretto, per una parte, e V illu-
strissimo sig. marchese Domenico Donato Carretto di lei figlio per l'altra, s. n. t.
(ma Vienna 1735). Una copia in Archivio di Stato di Torino, manoscritti
Giannone, mazzo il, ins. 4, PP (Gìannoniana, p. 423). 2. L'elettore di
Sassonia Federico Augusto (1679-1733), succeduto nel 1697 a Giovanni
Sobieski sul trono polacco con il nome di Augusto II, si era spento tra-
smettendo il regno di Polonia e l'elettorato di Sassonia al figlio Federico
Augusto (1696-1763); questi salì sul trono polacco con il nome di Augu-
sto III. Vedi anche la nota 2 a p. 144. 3. la primogenita . . . Giuseppe: Ma-
ria Giuseppa (1699-1757). 4. Stanislao Leszczynski (1677-1766), già rivale
di Augusto II, era il suocero di Luigi XV, che ne aveva sposato la figlia
Maria (1703-1768). 5. imperadrice di Moscovia: Anna Joannovna (1693-
1740), figlia di Ivan, fratello di Pietro il Grande, era zarina dal 1730.
CAPITOLO OTTAVO 227
grosse somme di denaro, affinché, sicome l'imperadore sommini-
strava il denaro, così quella imperadrice sormninistxasse le truppe.
Oltre a ciò, tutta quella milizia cesarea che potè unirsi fu mandata
in Slesia a' confini della Polonia, per accorrere, in caso di bisogno.
E con tal occasione si manifestò quanto fossero scemate le forze
ed il numero degli eserciti, che pria si vantavano : poiché bisognò
fin dallo Stato di Milano far venire alcuni reggimenti, per supplire
al numero delle truppe destinate per Slesia. Sicché il Milanese,
non temendosi d'alcun insulto, rimase esposto alle invasioni, lu-
singandosi che, per conservare gli Stati d'Italia, bastasse il solo
nome di Cesare. Gli animi eran tutti rivolti a' successi di Polonia,
e niente si pensava o temeva de' propri regni e domini.
Intanto, come a spettatori oziosi, riguardando gli altrui pericoli,
non ci accorgevamo degrimminenti propri mali e sciagure che ci
soprastavano; e con questa aspettazione, eravamo già entrati nel-
l'anno 1733.
Anno 1733. Nel principio del quale, e molto più approssiman-
dosi la primavera, crebbero i romori e gli apparecchi marziali,
ma tutti drizzati per la Polonia, resasi già campo di confusioni,
di disordini e di guerre, nommeno intestine che straniere. Infra
gli altri anch'io gli rimirava come se nulla mi calessero, ed at-
tendeva a me medesimo ed a' miei studi; i quali, in questo nuovo
anno, mi furono amareggiati per i disgusti, che sempre più rice-
veva da mio fratello da Napoli; poiché, fra l'altre ingratitudini
usatemi, essendosi affatto dimenticato di quel figliuolo che io lasciai
alla sua cura, avendolo costretto di scappar via da Vesti e di riti-
rarsi a Napoli, egli, come si è detto, non volle riceverlo, lasciandolo
a perir di disaggi e di miserie; onde fu d'uopo che io, facendolo al-
levare in altra casa, lo provvedessi del bisognevole e lo facessi
stradare per gli studi, e cominciar da capo la grammatica e l'orto-
grafia e l'arte di scrivere emendato e corretto; poiché non solo
tutto ciò erasi trascurato, ma erasi fatto allevare in Vesti da rustico
e selvaggio, onde, ancorché adulto intorno a' diciotto anni, non
avea ivi appreso né lettere, né civili costumi.1
1. non avea . . . costumi: cfr. la lettera al fratello del 2 maggio 1733 (Gian-
noniana,n.° 504): «Non occorre rinfrescar più la memoria di quel fuggitivo,
o scacciato figliuolo. Io ho qui bisogno d'un giovane che abbia buon carat-
tere, per servirmene di scrittore, e penso di far allevare questo ad un per
me si necessario fine, né credo che in ciò vi bisogna gran talento, ed acume ».
228 VITA DI PIETRO GIANNONE
Fui allora per togliergli la procura ed amministrazione, che l'a-
vea lasciata della mia roba, e commetterla ad altri ; ma gli amici da
Napoli mi avvertirono, che sarebbe stato lo stesso che rovinarlo,
senza che io ne ricavassi alcun profitto, e che a* nostri invidi e
malevoli, che non mancavano, sarebbe riuscito di lor diporto que-
sta nostra discordia, ed a me di poca stima. Fui vinto dalle loro
esortazioni e mi ritenni, aspettando che il tempo forse cangiasse
i costumi, o pure mi desse più opportuna occasione di farlo. Ed
essendosi intanto avvicinato il mese di giugno di quest'anno 1733,
si pensò di passare a Medeling, ed ivi lontano dalla città e da
altre cure noiose di proseguire in quella solitudine i miei studi:
sicome si fece, con animo di non tornare dalla campagna in città,
se non quando ne fussimo cacciati da' rigori del freddo.
vi
Adunque seriamente riflettendo sopra il libro degli Evangeli e
gli Atti di san Luca, e spezialmente YEpistole di san Paolo, che
avea sempre nelle mani, compresi che l'immutazione dell'uomo
dallo stato di natura in quello della Grazia consisteva l'avere Iddio
per infinita sua bontà e beneficenza mandato il suo Verbo nel
mondo, ad assumer carne umana nell'utero d'una vergine ebrea,
che lo concepì senza ministero d'uomo terreno, ma di spirito di-
vino, affinché questo Messo, uomo insieme e Dio, conversando
fra gli uomini gli fosse di lume e scorta, additandogli la vera e si-
cura strada, onde da terreni e mortali potessero rendersi immortali e
celesti: questi essere il solo ed unico mediatore, che potesse con-
ciliar l'uomo con Dio ; e chi l'udiva e facea quanto Egli l'avrebbe
prescritto e commandato, stesse pur sicuro che, ancorché morto,
sarebbe risorto ed immutato,1 e fatto coerede del Padre e partecipe
del Regno celeste. All'incontro, coloro i quali non lo credevano, o
credendolo trasgredivano i suoi precetti e commandamenti, sa-
rebbero si bene risuscitati, ma non immutati in celesti; anzi come
terreni sterpi o tronchi sarebbero gettati nel fuoco, ad ardere
perpetuamente. Iddio averlo mandato per ridimere l'uman genere
dal peccato ond'era absorto, e che sicome2 tutti in Adamo pecca-
rono, così tutti in Cristo si sarebbero giustificati; e sicome per
i. immutato: mutato, cambiato. È latinismo, da immuto. Cfr. / Cor., 15,
51-2. 2. che sicome ecc.: cfr. Rom., 5, 12 sgg.
CAPITOLO OTTAVO 229
Adamo era entrato nel mondo il peccato, e pe '1 peccato la morte,
cosi per Cristo la giustificazione, e per lei la vita celeste ed eterna.
E poiché tutto ciò dipendeva da gratuita e divina beneficenza,
quindi questo secondo stato dovea riputarsi di Grazia che rendeva
l'uomo da terreno, celeste. L'uomo erasi perduto, l'uomo dovea
salvarsi; e per ciò, la resurezione della carne dovea precedere alla
vita eterna, non potendosi concepir l'uomo senza colpa, compo-
nendosi come sue parti intrinseche ed essenziali, non men del-
l'anima che del corpo. Quindi san Paolo inculcava1 tanto il punto
della resurezione de' corpi contro coloro che non volevan crederla,
dicendo che se negavano la resurezione era vana ogni lor cre-
denza, invano si affaticavan cotanto, ed era delusa ogni loro spe-
ranza; ma tenesser per fermo e costante che, sicome Cristo risu-
scitò, così dovean risorger tutti coloro che in lui credettero; e per
ciò era detto, che fosse il «primogenito dei morti», poiché egli fu
il primo a risorgere, e poi visitando le tombe de' Padri fece risor-
gere anche tutti quelli, che seco condusse nel celeste regno.
Questo era il punto principale, sopra il quale dovea egli combat-
tere co' Gentili, i quali, sentendolo inculcar tanto la resurezione
de' morti, se ne burlavano, come coloro che non potevano indursi
a credere che i corpi morti potessero di nuovo tornar in vita, e
negavano la resurezione di Cristo. E pur Cristo risurse ed ascese
al Padre in corpo ed anima, vedendolo co' propri occhi gli Appo-
stoli, i quali mangiaron seco, lo palparono e toccarono le cicatrici
delle piaghe sofferte, e che avea carne ed ossa, come l'ebbe prima
d'esser posto in croce e morto. Quindi i primi Padri della Chiesa,
Atenagora,3 Tertulliano ed altri combattevano contro i Gentili ed
eretici de' loro tempi, scovrendo i di loro errori, ne' quali erano
non credendo alla resurrezione, ch'era lo stesso che render vana
ogni lor fede e speranza; e Tertulliano non inculcava altro a' Cri-
stiani, che la lor fiducia era riposta nella resurezione, dicendo: «re-
surrectio mortuorum fiducia Christianorum».3 E sant'Agostino
solea per ciò dire che, togliendosi la resurezione, cade e va a terra
tutta la religione de' Cristiani: «tolle resurrectionem mortuorum,
tolles religionem Christianorum».4
I. san Paolo inculcava: cfr. I Cor.t 15. 2. Atenagora fu un apologista e fi-
losofo cristiano di Atene, vissuto nel II secolo. Scrisse un trattato Sulla
resurrezione dei morti. 3. «resurrectio . . . Christianorum » : cfr. Tertulliano,
Liber de resurrectione carnis, in Migne, P. L., il, col. 841. 4. Cfr. Triregno,
II, Del Regno celeste} p. 82.
230 VITA DI PIETRO GIANNONE
Gli uomini adunque mortali e terreni saranno resuscitati e ri-
dotti in quello stato nel qual erano prima di morire, e saranno
resi eterni ed immortali; ma con disugual sorte: coloro che cre-
dendo in Cristo adempiranno i suoi precetti e commandamenti
saranno immutati, e da terreni saran resi celesti, godendo con Cri-
sto (che fattigli suoi fratelli, gli rese coeredi del regno del Padre)
una vita beata e gioconda, non soggetta a morte; quelli che in
loro vita non dieder frutto di buone opere, come inutili spine e
triboli e come gl'infruttuosi oleastri saran gettati nel fuoco, ad
essere arsi da fiamme inestinguibili. Per far acquisto d'un tanto
regno, bisogna all'uomo che, nella mortai sua vita, non pur creda
in Cristo, ma osservi le sante sue leggi, dov'è insegnata una per-
fetta morale, ed adatti i suoi costumi ad una perfezione, quanto
più si possa, eminente.
In quanto alla credenza, fa d'uopo che confessi esservi un Dio,
creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili;
che questo Dio mandò il Verbo suo figliuolo in terra a prender
carne umana, il qual fattosi uomo insegnò all'uman genere la
strada di sua salute: questi essere il suo Messo ed il solo mediatore
tra Dio e l'uomo; aver questi sofferto per noi e per la nostra salute,
passione e morte; che trionfando della morte risuscitò, e visitando
le tombe de' Padri, gli ridusse in vita e seco condusse nel celeste
Regno; che lo stesso farà di tutti gli altri morti nel giorno novissimo,
nel quale, risorti, saranno giudicati e secondo le di loro opere, i
giusti ed eletti saran condotti nel Regno celeste, ed i reprobi e
malvagi precipitati nel Tartaro. E sicome la credenza che vuole
che si abbia in lui è tutta schietta, semplice e pura, della quale ne
fosse capace ogni rustico villano e ogni rozza e vile feminetta, così
i riti che ci lasciò furon pochi, semplici e schietti, niente operosi,
non sacrifici cruenti, non multipli, non pomposi, non magichi.
Egli non pretese dagli uomini se non un cuor puro, umiliato e con-
trito ; la sua religione la fondò sopra la carità, che ciascuno deve,
doppo Dio, al suo prossimo. In lui cessarono li tanti appariscenti
riti ed operose cerimonie degli Ebrei, poiché il fine della legge non
riguardava un regno mondano e sensibile, ma un altro più subli-
me, spirituale e celeste.
Voleva gli uomini solleciti e pien di zelo nell'amore e carità
verso di Dio ed il prossimo, donde pendevan le leggi ed i profeti.
Questo dovea essere il principal lor sforzo e l'unico scuopo, dove
CAPITOLO OTTAVO 231
doveano indrizzare tutte le loro opere, i lor pensieri e lor parole.
Serbare i divini commandamenti, esser casti, sobri, moderati, umi-
li, pazienti, benefici, misericordiosi: in breve, non far ad altri ciò
che per te non vuoi, e far al tuo prossimo quel che per te vorresti
che altri facesse.1 E tutto ciò operare essendo in questa mortai
vita; né dopo morto, sperare che tu o altri potesse giovarti. «Men-
tre siam vivi» - dicea saviamente David - «possiamo lodarti, o
Signore, ed operare secondo la tua legge, ma nel sepolcro, essen-
do morti, non potremo più lodarti, né oprare, immersi in profondo
e tenebroso sonno, cosa che possa piacerti».3 E poiché essendo
vivi e terreni in questa mortai vita dovemo ingegnarci esser mondi
e perfetti, per esser meritevoli del Regno celeste; ed all'incontro,
essendo quasi che impossibile « in tot humanis erroribus, sola in-
nocentia vivere»,3 quindi il nostro buon Redentore ci lasciò rimedi
ed ammaestramenti così efficaci e salutiferi, che ricorrendo a lui,
ci offre pronto rimedio ed aiuto, volentieri aprendo le sue pietose
braccia a chi a lui si rivolge; e ci lasciò fino la forinola, colla quale,
indrizzando le nostre orazioni al Padre, dobbiamo pregarlo, perché
ci rimetta i nostri difetti, e ci allontani dalle tentazioni, e ci liberi
da' mali e dalla contagione di questo presente mondo.
Scorsi da questi sacri libri questa essere in breve la somma delle
cose, e qui consistere la perfezione d'un vero cristiano; e queste
essere le vere massime e la sana dottrina che illumina le nostre
menti, e la vera strada che conduce alla nostra salute. Saper que-
sto, dicea Tertulliano,4 esser il vero sapere; tutto il rimanente,
che non conduce a questo fine, meglio sarà ignorarlo, che andargli
dietro, investigando ciò che, doppo mille ricerche, ne sapremo
meno che prima. A questo fine inculcava san Paolo5 che si fossero
sfuggite le contenzioni e le vane curiosità e ricerche di cose super-
flue ed inutili, che niente conducono alla nostra salute. E sant'Ago-
stino diceva6 che in tali questioni, per lo più astratte e metafisiche,
1. non far . . .facesse: cfr. Toè.,4, 15; Matth.y'j, 12; Lue, 6, 31. 2. « Men-
tre . , .piacerti y>: cfr. Psalm., 113, 17-8: «Non mortili taudabunt te, Do-
mine, / neque omnes qui descendunt in infernum; / sed nos, qui vivimus,
benedicimus Domino / ex hoc nunc et usque in saeculum». Il Giannone
cita a memoria. 3. «z« tot . . . vivere»: cfr. Livio, il, 3, 4: «periculosum
esse in tot humanis erroribus sola innocentia vivere ». 4. dicea Tertullia-
no: nel Liber de praescritìonibusì cit., vii. 5. san Paolo: cfr. Col., 2, 8;
I Tim., 1, 3-4; 6, 4; II Tim., 4, 3-4. 6. san? Agostino diceva: cfr. l'epi-
stola cxcvii, Hesychio Salonitano episcopo, de die supremo mundi non
23^ VITA DI PIETRO GIANNONE
nelle quali l'ingegno umano si sforza di saper ciò che nulla rilieva
né alla credenza, né alla norma de* costumi, meglio sarà confessare
la propria ignoranza, che andar inutilmente lambiccandosi il cer-
vello, vaneggiando sopra ciò che Iddio non ha voluto rivelarci, e
che l'uomo sapesse.
Saviamente per ciò ammoniva Eusebio, vescovo di Cesarea, che
Iddio ha per mezzo del suo Verbo rivelato all'uomo ciò che fosse
bastante per la sua salute; e per ciò non doversi ricercar altro;1
che se fosse altrimenti, bisognarebbe dire che ci avesse lasciata
mozza la sua legge, ed i suoi precetti fossero difettosi e mancanti :
sicché fosse stato bisogno di venir altri a supplirne il difetto. Que-
sta sarebbe un'empia bestemmia, e riputar la divina Sapienza mon-
dana ed imperfetta, e che per suo difetto lasciasse perire tanti, i
quali prima non ne erano istrutti. Quanto bisognava per la nostra
salute - dice Eusebio - fu a noi tramandato per le divine Scritture,
che contengono l'intiera e solida credenza che l'uom dee avere, e
la vera regola de' costumi, alla quale dee attenersi, per essere im-
mutato, e, da terreno farsi degno d'un regno celeste. «(Lattanzio
Firmiano,2 per ciò, nelle sue Divine in$titiizioni> insegnava che
Iddio «ea sola scire nos voluit quae interfuit hominem scire ad
vitam consequendam»>.3
Da ciò compresi altre verità, fin qui a me ignote; e mi avvidi
quanto in vano si travagliassero gli uomini sopra inutili ricerche
ed intorno a studi vani, i quali non han altro sostegno, che le
proprie e singolari opinioni umane ; le quali, essendo varie, poiché
gli uomini per natura sono portati a dissentir fra di loro, han ca-
gionato tante confusioni, e ridottigli miseramente ad occupazioni
vane, e a disputar di cose, che ne sapran tanto meno, quanto più
si saranno affaticati di saperle.
Compresi eziandio, ed in più chiara luce mirai l'aspetto delle
mondane vicende, che si vider dapoi sopra la terra; ed a questi
studi accoppiando quelli che io avea fatti de' tempi men a noi
rimoti, vidi con istupore, come sopra tali fondamenti d'una reli-
inquirendo, degue Hebdomadibus Danielis, in Migne, P. L., n, coli. 899 sgg.
1. Saviamente . . . altro: cfr. De fide adversus Sabellium, in Migne, P. G.f
vi, coli. 1059-70. 2. Lattanzio . . . consequendam: cfr. Div. Inst., 11, 8, 70-1
(« quelle sole cose volle che noi conoscessimo, che importava che l'uomo
sapesse per conseguire la retta vita»); Lattanzio Firmiano (secolo III-IV
dell'Era volgare), apologista cristiano, di origine africana.
CAPITOLO OTTAVO 233
gione sì schietta, umile e spazzatrice di cose terrene, si avesse
dapoi potuto innalzare una macchina cotanto sublime e vasta,
quanto niun'altra religione del mondo, ancorché mondana, e che
non avea altro fine che felicità terrene, potè aspirarvi, non che giun-
gervi o pareggiarla. E dall'istoria de* tempi che a Costantino Magno
seguirono, facilmente ne compresi le occasioni ed origini; sicome
ciascuno potrà comprenderle, riguardando che, insegnata ed am-
ministrata questa nuova religione dagli uomini infra gli altri uo-
mini, i quali da amministratori e depositari fattisi credere pa-
droni e signori, e dall'esposizioni ed esortazioni passando poi a
stabilir leggi, ridotta nella lor mano la norma del giusto e dell'e-
quo, e di bilanciare le azioni umane qualificandole a lor arbitrio
ora lecite, ora illecite, dieder in que' secoli incolti a credere alla
semplice ed imperita moltitudine, che in lor balìa fosse chiu-
dere ed aprir le porte del celeste Regno; quindi avvenne che
invece d'un regno celeste, si fabbricasser essi in terra un nuovo
regno terreno, a gli antichi affatto incognito e sconosciuto; poiché,
surto dapoi ed innalzato fra questi ministri e dispensatori uno
che, riducendo gli altri da fratelli e compagni del suo ministero,
a suoi propri ministri e servidori, potè stabilire il nuovo regno
papale, sopra le spoglie degli altri vescovi; ma più sopra l'igno-
ranza de' principi e semplicità de* popoli; e con tanto maggior
successo, quanto che gli uomini persuasi dalle novelle dottrine,
sparse a questo fine, che le cose temporali potessero cambiarsi
colle spirituali, e le ricchezze facilitassero l'acquisto del regno ce-
leste, e che le donazioni, i legati ed eredità lasciate alle chiese
materiali valessero a ridimere le loro anime da' peccati e farle vo-
lare in Cielo, aprirono questa nuova, facile e piana strada, massi-
mamente a' facoltosi e potenti; ed a riguardo di tutti gli altri addi-
tarono cammini più facili d'esteriori riti e cerimonie, di pellegri-
naggi, di particolari divozioni a' santi, di novene ed altre tante
vane superstizioni, le quali, adoperandole, gli rendesser sicuri del-
la lor salute.
Donde ne seguirono due cose, le quali, sicome rovesciarono la
vera religione da Cristo insegnataci, così stabilirono meglio il re-
gno papale. La prima, che si vide ridotta la nostra religione ad
un'arte meccanica e puramente estrinseca; poiché, con mover li
labbri a formar certe parole, ancorché non si capisse il senso, col
battersi co' pugni il petto, con movere piedi, andando alle visite
234 VITA DI PIETRO GIANNONE
delle chiese, o ne' pellegrinaggi a' santuari, con intinger la fronte
d'acqua lustrale, con baciar reliquie e portare addosso scapulari ed
amuleti, con accender lampadi e candele avanti le immagini de'
santi, e tanti altri atti estrinseci, crediamo aver saldato con Dio
ogni conto, ed esserci assicurati della nostra salute. La seconda,
che non contenti d'aver quei pochi, semplici e schietti riti, affin
d'introdurne de' nuovi, multiplici, pomposi ed operosi, siasi ri-
corso a prenderne altri, non pur dagli Ebrei, ma da' Gentili stessi ;
e con ciò aver resa la religione tutta pagana ed estrinseca: anzi
d'aver superati i pagani istessi ne' superbi e magnifici tempii,
negli altari, nelle pompose vesti, ne' ricchi vasi ed arnesi, nelle
statue ed in altre tante nuove ed operose cerimonie; e chi ne farà
paragone con la religione degli Egizi, de' Greci e Romani, anzi
di tutte le religioni del mondo delle quali è rimasa a noi notizia,
ch'ebber tante e sì innumerabili nazioni che abitaron la terra,
troverà che la cristiana, e per il numero e varie divise de' sacrifi-
canti, e per la multiplicità, apparato, magnificenza e pomposità de*
riti, sia di gran lunga a tutte superiore, anche paragonandola con
tutte l'altre unite insieme: sicché non pur abbiam fatto ritorno
all'antico gentilesimo, ma di gran lunga l'abbiam superato; ed i
popoli son divenuti già tutti pagani e superstiziosi, assai più che
non eran i Gentili.
Ma ciò che apprestò materia più atta all'innalzamento d'un sì
nuovo imperio sopra i regni e domìni de' principi fu la lor tra-
scuragine ed ignoranza di que' secoli incolti, di non fargli accorti,
che per le nuove massime e dottrine si tentava stabilire ne' loro
imperi un altro imperio, che non pur scemasse e corrodesse i pro-
pri, ma se gli rendesse soggetti, e finalmente l'assorbisse in tutto ;
sicome già gli tolse quasi la metà de' sudditi, sottraendoli dalla lor
giurisdizione e sottoponendogli alla propria, rendendogli franchi ed
immuni de' pubblici pesi, non sol per ciò che riguarda le persone,
ma anche i loro beni; e quando Iddio avea riposto nelle mani de'
principi la giustizia ed il giudizio, se le vider togliere, e la norma
del giusto e del lecito passare in altrui mano; sicché altri regolasse
la giustizia ne' contratti, ne' giudici, ne' testamenti ed in tutte
l'altre umane faccende; onde si vider sorgere ne' loro propri do-
mìni nuovi tribunali, nuove leggi e nuovi istituti.
E ben poteano accorgersi che l'intento era di spogliargli affatto
di tutti i loro reali diritti e sovrane preminenze; giacché alla sve-
CAPITOLO OTTAVO 235
lata1 fin nelle medaglie a questo nuovo principe se gli dava il
titolo di re e di monarca della repubblica cristiana, di principe
supremo ; che di lui s'intendesse di dover dominare tutta la terra,
dalPun mare all'altro; e che egli dovrebbe ridurre in un ovile
tutto l'uman gregge, e divenire unico e sol pastore; ed infine non
s'isdegnava il titolo di «vice-Dio», né si reputava bestemmia; anzi
era applaudito e caramente accolto ed inteso, quando s'udiva e si
leggeva nelle pubbliche tesi e ne* frontispizi de' libri stampati.
Importava poco che a questo intento vi repugnasse tutto, non
men l'antico che il nuovo Testamento, e tutta la divina tradizione.
Potea, a sua posta, gridar quanto si volesse Giob : « Quis constituit
super terram, aut quis posuit super orbem, quem fabricatus est?».2
Ecco che il papa dovea essere costituito da Dio sopra la terra,
per reggerla ed esserne suo vicario e vice-Dio. Esclami pur ed
altamente si protesti il nostro buon Redentore, che il regno suo,
che venne a rivelare ed a promettere all'uman genere, non era di
questo mondo. Canti eziandio ne' suoi inni la Chiesa istessa, che
egli non venne in terra a toglier a' re gl'imperi lor terreni e mor-
tali, ma a dar agli uomini regni immortali e celesti; che i principi,
come se niente loro importasse vedersi costituito in terra un vice-
Dio, che gli corroda i loro regni e dentro i loro imperi stabilisca
un altro imperio, illusi dalle nuove dottrine, che <ancorché empi
e malvagi>, salderebbero con Dio ogni conto commutando le cose
temporali colle spirituali, volentieri si lasciaron lusingare, apren-
dosi così questa facile e sicura strada di acquistare, col prezzo del
terreno, un regno spirituale e celeste.
Bisognava però a' principi per quietar meglio le loro coscienze
e non esporre gli uomini ragionevoli, a cui Dio provvide di sano
intelletto e diritto discorso, alle persecuzioni, a' martìri ed alli
strazi, che non men il papa ne' suoi, ch'essi ne' loro Stati facessero
ogni sforzo e ponessero ogni studio di far abbolire, brugiare, ed
affatto estinguere ogni memoria degli Evangeli di Cristo, degli
Atti degli Apostoli, dell' Epistole di san Paolo, e di quanto è com-
preso ne' libri del nuovo Testamento; e ciò nemmeno basta. Bi-
sognava cancellar ogni memoria di quanto da' Padri vecchi erasi
scritto intorno all'antica disciplina della Chiesa; in breve, quanto
da una sincera e fedele istoria ecclesiastica è stato a noi tramandato.
1. alla svelata: palesemente. 2. «Quìs . . . est?»: citazione a memoria di
Iob, 34, 13, che ha: « quem constituit alium . . . aut quem posuit» ecc.
336 VITA DI PIETRO GIANNONE
Non bastava essersi insegnate nuove dottrine, disseminate altre
massime e fatti nuovi Evangeli: bisognava estinguere quelli di
Cristo; poiché sempre che questi rimangono, altro ora non si fa,
che metter gli uomini in una perpetua confusione, e pretender da'
medesimi che si abbino a storcere il cervello e perdere ogni di-
ritto discorso, con fargli divenire peggiori di bruti ; e di vantaggio
non volendo abusarsi del loro lume e naturai discorso, esporgli a
persecuzioni, a ruine e calamitosi pericoli. Bruggiati che fossero
gli antichi sacri libri e spenta di lor ogni memoria, si vedrebber
gli uomini in calma, ed adatterebbero la lor mente alle nuove
dottrine ed al nuovo sistema, che si vuole che oggi si abbia della
religione cristiana.
Narra Livio,1 che doppo cinquecento anni dalla morte di Numa
Pompilio furon scavate vicino Roma due casse di pietra. In una
eravi stato riposto il corpo di Numa, che dal tempo si trovò tutto
consunto; e nell'altra eranvi riposti alcuni libri lasciati da Numa,
ne' quali trattavasi dell'antico ius pontificio e della sapienza degli
antichi. Letti che furono dal pretore urbano, questi riferì al Se-
nato che doveano bruggiarsi, poiché la lor dottrina rovesciava le
religioni che si professavan allora in Roma; poiché Numa, che fu il
primo ivi a stabilirla, fu contento di pochi dii, di pochi ministri,
di pochi riti semplici e schietti; e Livio stesso ci assicura, che in
Roma prima si prestava culto a' propri dii «pie magis quam magni-
fice » f ma che dapoi fu invasa di tante peregrine religioni e di tanti
sacrificuli, di tanti pomposi e nuovi riti e multiplici cerimonie,
che sovente bisognò al Senato metterci argine; e Porcio Catone,
in una sua orazione rapportata da Livio,3 si duole che il lusso del-
l'Asia e della Grecia avea penetrato e corrotto fino l'antica reli-
gione de' Romani, e che trasportate da Siracusa e dalla Grecia le
statue di tanti nuovi dii, con mirabil magistero ed arte scolpite in
finissimi marmi, in bronzo 0 altro eletto metallo, avean cagionato
che a' suoi dì i Romani si burlavano e deridevano i loro antichi dii,
rozzamente fatti di creta 0 di legno, facendone beffe e brutti
scherni ; ma ch'egli più tosto voleva che questi gli fosser propizi,
che i nuovi e peregrini. Quindi il Senato, su la fede del pretore,
comandò che i libri di Numa trovati, per i quali venivano a sov-
vertirsi le religioni che si professavan allora in Roma e con ciò a
1. Narra Livio: cfr. xl, 29. 2. « pie . . . magnifice»: «con maggior pietà che
magnificenza». 3. Porcio . . . Livio: cfr. Livio, xxxiv, 4.
CAPITOLO OTTAVO 237
porsi in iscompiglio la città, si fossero nel cospetto del popolo
bruggiati; sicome da' vittimari,1 acceso un gran fuoco nel comizio,
ci furon gettati dentro e consumati ed arsi.
Lo stesso bisognerebbe far de' nostri antichi libri sacri, affinché,
togliendosene ogni memoria, gli uomini potessero accornmodarsi
alle nuove dottrine e sistemi: altrimenti, rimanendo, non potran
loro apportare se non confusioni, e costringergli a far forza a*
loro intelletti di altrimente pensare, e torcere i lor discorsi contro
ciò che la natura, la ragione, l'esperienza ed il comun senso gli
guida e detta: cosa, alla quale non arrivarono i più crudeli e spietati
tiranni, che avesse avuto il mondo giammai.
In questi studi, e fra tali considerazioni passando in solitudine
i mesi della mia villeggiatura, istruiva me stesso, drizzandogli uni-
camente per essere di norma così nella credenza, come ne' costumi
al mio esser d'uomo interiore; non tralasciando, per ciò che riguarda
all'esteriore, di conformarmi a tutto ciò che la prudenza umana
dettavami dover praticare, conversando con gli altri, essendo nella
loro società civile, non dando ad alcuno occasione di scandalo,
ovvero turbando in minima cosa l'ordine della repubblica.2 Né io,
così ne' miei discorsi come nelle opere da me date alla luce, en-
trai a disputar di cose che appartenessero a' punti capitali di nostra
religione, né pretesi mai di fare in ciò il censore o riformatore.
Nella mia Istoria civile e nell'Apologia, che fui costretto a dar
fuori, non ebbi altro scuopo che di manifestare e porre in più
chiara luce i confini che framezzano tra l'imperio e il sacerdozio ;
affinché, resigli più apparenti e chiari, ciascuno potesse accorgersi
delle sorprese che eransi fatte dal sacerdozio sopra la potestà de'
principi, e quanto da ciò fossesi scemato al loro imperio, che Iddio
glielo diede sovrano, intero e perfetto sopra i di loro Stati, per
governar essi e non altri, i loro sudditi; e trattando del regno di
Napoli, dove si tentava ridurre le cose fino all'ultima estremità,
per interamente assorbirlo, ebbi più occasioni d'avvertirne i sot-
tili artifìci, de additare i fonti onde tanti mali e disordini prove-
nivano. E pure tutto ciò e l'aver sacrificato la mia vita, i miei
studi e i miei pochi talenti da Dio concessimi, niente giovommi,
per acquistarne una valida lor protezione; né pure per potermi
sottrarre dalle umane necessità, e vivere sicuro in qualche angolo
1. vittimari: sacerdoti addetti alle vittime. 2. repubblica: nel senso latino
originario di « cosa pubblica ».
238 VITA DI PIETRO GIANNONE
della terra; anzi il duro mio destino me gli rivolse in contrario, e
fece che io gli sperimentassi sdegnati ed avversi; sicome dal rima-
nente di questa dolente istoria ciascuno vedrà. La quale, se mai
avrà la sorte d'essere posta sotto i loro occhi, sicome trarrà loro
qualche lagrima, così spero che da' loro animi trarrà sensi di pietà
e compassione.
Fu continuata la villeggiatura di quest'anno fino a' princìpi di
ottobre; né ebbi occasione di condurmi in città, se non qualche
volta, sollecitato dalla marchesa di Balastrino1 ad intervenire in
alcune sessioni, che si tenevano avanti due consiglieri del Consiglio
Imperiale Aulico, a fine di comporre, con amichevole accordo, la
lite che avea col marchese suo figlio.
Ed in Vienna i pubblici discorsi non si raggiravano che sopra le
cose di Polonia; e nella mia lunga dimora in Medeling, trovandosi
ancor ivi a villeggiare il conte di Montesanto, presidente del Con-
siglio di Spagna, ed il conte di Sifuentes, suo fratello, i quali spesso
eran da me visitati, non si parlava che de' successi vari accaduti
in quel regno, ora a prò del Sassone, ora di Stanislao,2 senza che
punto si temesse dalla Francia d'improvisa invasione ne' Stati pro-
pri dell'imperadore; e pure il conte di Montesanto, come presi-
dente, e suo fratello, a cui sovente toccava adempir l'officio di
Camerier maggiore, erano frequentissimi nella Corte, né mai n'in-
tesero cos' alcuna che potesse almanco mettergli in sospetto.
E tornato ch'io fui a Vienna, dopo le vindemie, a' princìpi di
ottobre, se bene fin nelle pubbliche gazzette si leggesse che le
truppe francesi erano nel Delfinato in gran moto, ed alcuni in-
viati cesarei, ch'erano nelle corti d'altri principi, avvisassero a Vien-
na gli apparati marziali della Francia, tutto s'interpretava che fosse
dirizzato per la Polonia; ed il conte Sinzendorf assicurando dal-
l'altra parte, che finché vivea il cardinal Fleury non aveva l'impera-
dore da temere che la Francia si movesse contro i suoi Stati, si
prolungava la lusinga, e continuavan tutti a starsene spettatori
oziosi delle cose di Polonia; ed ancorché crescesse la fama le
truppe francesi muoversi per lo Delfinato verso Italia, non era at-
tesa; poiché si lusingavan che il re di Sardegna, duca di Savoia,3
1. marchesa di Balastrino: o Balestrino, della quale ha parlato a p. 225.
2. Sassone . . . Stanislao : cioè Federico Augusto e Stanislao Leszczynski.
3. il re... Savoia: Carlo Emanuele III (1701-1773), salito al trono per l'ab-
dicazione del padre, Vittorio Amedeo II, nel 1730.
CAPITOLO OTTAVO 239
non gli accorderebbe il passaggio per li suoi Stati; onde, non se
per l'aria, fra le nubi, potevan condursi in Italia; e stavan sicuri,
che Savoia non ce l'avrebbe permesso, né rotta la pace unendosi
colla Francia, per non addossarsi la collera e l'indignazione di
Cesare, il quale l'avrebbe sconvolti e dissipati i suoi Stati, e sotto-
postolo al banno imperiale.
Mentre la gente pascevasi di vento dietro queste vane lusinghe,
ecco che alla metà d'ottobre, per più corrieri, si ebbe l'avviso che
le truppe francesi eran nel Piemonte, le quali unite colle piemontesi
e savoiarde, s'avviavano nello Stato di Milano, ed erano già presso
il Ticino. Il conte Daun,1 che trovavasi governatore in Milano,
inteso il prodigioso numero degli assalitori così vicini, scappò tosto
via da Milano, e ricovrossi a Mantua: egli non avea che pochi
reggimenti: e pure lo Stato avea contribuito e contribuiva per
il numero di diciottomila soldati, pagati già, secondo il conto tra-
smesso per tutto quel corrente mese di ottobre. Le piazze eran
tutte sfornite di munizioni, di presidio e di fortificazioni; poiché
gli appaldatori, che a Vienna trattavano i loro appaldi,2 facevano
ciò che volevano, ed era rimesso al loro arbitrio e discrezione di
fornirle, senza doverne dar conto ad altri, se non a' ministri di
Vienna, da' quali l'avean ricevuti. In breve si arrivò a tal precipi-
zio, che non vi era settimana che non si sentiva essersi resa qualche
piazza, ed il presidio mandato in Mantoa. Fu resa tosto Novara,
Pavia, Tortona, Pizzichitene;3 e se ben entrati già nell'inverno,
credeasi che dovessero cessar Tarmi, nulladimanco la stagione riu-
scì così placida, serena ed asciutta, che non recò impedimento
alcuno a gli assalitori di proseguire le loro conquiste. S'intese presa
la città di Milano, e posto al castello stretto assedio, il qual in
pochi giorni fu reso e mandato il presidio a Mantoa.
Una sì grave mina pose tutti in somma costernazione e sbigot-
timento, non leggendosi nelle nuove o vecchie memorie di Lom-
bardia, che in così breve tempo lo Stato di Milano, sempre di
armi fioritissimo e di piazze munitissimo e che un palmo di ter-
reno costò, altre volte, fiumi di sangue, non men a gli Francesi
1. Il conte Daun (cfr. la nota 2 a p. 60), generale delle truppe imperiali, di-
fensore di Torino nel 1705-1706, era nel 1733 governatore di Milano.
2. appaldatori . . . appaldi: appaltatori . . . appalti. 3. Pizzichitone: Pizzi-
ghettone, difesa dal principe Ian Iiri Kristiàn z Lobkovic (1 686-1755),
dal 1732 governatore della Sicilia, poi di Milano, cadeva il 30 novembre.
240 VITA DI PIETRO GIANNONE
che a gli Spagnoli : ora a man salva ritolto al possessore passasse
all'inimico, senza perderci un soldato. E pure gli Spagnoli di
Vienna di ciò non si sgomentaron punto ; anzi gravidi di speranza
che presto si sarebbe riacquistato, minacciavano al duca di Savoia
d'invadere i suoi Stati, ed aggiungere al Milanese il Monferrato
[e] il Piemontese; e non mancarono ufficiali della secreteria di
Rialp vantar pubblicamente, che si sarebbe vantaggiosamente com-
pensata la perdita; poiché, se prima dalla loro secreteria non ne
uscivan dispacci che per lo Stato di Milano, col tempo si sarebbero
distesi nel Piemonte, Monferrato e nella Savoia stessa.
E questo spirito trasonico avea invaso non pur gli animi degli
Spagnoli di Vienna, ma di quanti ne venivano dallo Stato di Mi-
lano, ch'erano stati colà impiegati ne' magistrati e nelle civili
cariche de' tribunali e delle secretane; i quali a truppe tornavano
a Vienna con visi allegri e festosi, come se da Milano venissero
non vinti, ma vincitori; e nelTistesso tempo assordavan la Corte,
ch'essi avendo lasciate le loro cariche per non servire ad altro prin-
cipe che all'imperadore naturale lor padrone, ed essendo rimasi
senz'impieghi donde potessero sostenere se stessi e le loro fami-
glie, dovesse l'imperadore somministrargli soccorso di denaro per
vivere, finché non si fusse riacquistato lo Stato di Milano. Sicché,
alli tanti altri ch'erano in Vienna, si aggiunsero questi nuovi che
cercavan soccorsi. E trovaron pietose orecchie che gli sentisse ed
esaudisse, poiché in questo stato deplorabile invece di por argine
a preceduti disordini sopra i regni di Napoli e di Sicilia, aggiun-
sero peggiori mali, riducendogli all'ultime estremità e desolazioni ;
poiché per trarne denaro, per supplire alla mancanza di Milano
e sovvenire a' nuovi Spagnoli di là venuti, si tentarono nuovi modi,
ed infra gli altri d'esporre venali le toghe, con tassarne i prezzi ed
accrescere i tribunali di nuovi ministri sopranumerari; sicché il
Consiglio Collaterale di Napoli, che non si componeva che di
cinque soli reggenti, si vide accresciuto di altri tanti sopranume-
rari, con animo di accrescere il numero de' consiglieri del Consi-
glio di Santa Chiara, de' presidenti della Regia Camera e de'
giudici della Gran Corte di Vicaria, secondo che si trovassero com-
pratori, che volessero spender denaro, per esserne decorati; e si
trovò in Vienna un infame e sfacciato napolitano, il quale scrivea
lettere circolari a gli avvocati e ministri di Napoli, invitandogli ad
applicar alle compre con designar il prezzo; a gli avvocati, de*
CAPITOLO OTTAVO 241
magistrati de' quali desideravan esser decorati ; ed a' ministri, quel-
lo de' magistrati superiori a' quali aspiravano; non astenendosi,
perché se gli prestasse maggior fede, di scrivergli svelatamente
che ciò faceva per ordine avutone dal marchese di Rialp, secreta-
rlo di Stato, e dal conte di Montesanto, presidente del Consiglio,
affinché stessero sicuri, trasmesso il denaro, d'ottener le cariche.
Queste lettere, l'un mostrandole all'altro, che si trovavano scritte
di tenor conforme, divolgate da per tutto posero i Napolitani in
una grandissima costernazione, e sentendo che si tentavano altri
modi per cavar dal Regno denari, ed essersi perduto lo Stato [di]
Milano, prima che sapessero essersi dalla Francia e Savoia mossa
guerra all'imperadore, si credettero abbandonati, e che non si
cercasse altro prima di ceder il Regno, ch'esaurirlo: onde molti
scrissero a gli amici in Vienna lettere dolenti per un abbandona-
mene così improviso e spietato. E pure si trovarono degli ambi-
ziosi, i quali non curando d'impoverire le lor case e l'imminente
pericolo di mutar padrone, mandarono denaro in Vienna; e furon
vendute due piazze1 di reggentati ed altre di Camera, il prezzo del-
le quali fu prestamente diviso fra que' Spagnoli, i quali eran usciti
da Milano.
In tanta costernazione e disordine, pensava ciascuno di scampar
come poteva il meglio dall'imminenti mali, che soprastavano. A
me, se bene la perdita dello Stato di Milano dovesse importar
poco, poiché niente da quello mi veniva, nulladimanco cominciai
a tremare; poiché il denaro delle spedizioni di Sicilia, capitando in
mano degli ufficiali spagnoli, e stando esposto all'arbitrio del pre-
sidente, il quale erasi in ciò unito col marchese di Rialp di soccor-
rere gli Spagnoli venuti da Milano, e supplire per Napoli e Sicilia
la mancanza di quello Stato, temeva che, non ostanti i precisi ordini
di Sua Maestà di non doversi confondere il mio denaro con gli
altri emolumenti del Consiglio, non se ne valessero per propri
bisogni; ed in fatti l'ufficiai Llacuna fecemi stentar molto per
esigger le due ultime mesate di quest'anno, quelle di novembre e
dicembre onde a ragion temeva, che crescendo vieppiù il bisogno
co' mali peggiori che soprastavano, che il seguente anno mi si
fosse resa l'esazione più difficile.
Con tutto ciò mi lusingava, che drizzandosi gli apparati che
1. piazze: francesismo per «posti», «incarichi».
242 VITA DI PIETRO GIANNONE
si facevano di guerra, per ricuperare lo Stato di Milano, che la
sede della guerra dovess'essere in Lombardia, dalla quale doves-
s'esserne esente il regno di Napoli, e molto più quello di Sicilia.
Ed a gli amici di Napoli scriveva che non si sgomentassero, poiché
la lor sorte dipendeva dall'evento delle cose di Lombardia, dove
la guerra sarebbe stata non men atroce che lunga, indrizzando
l'imperadore le più valide sue forze in quella parte; sicome, in
effetto, sotto il general Merci,1 destinato supremo comandante di
quell'impresa, si disponevano i migliori reggimenti che fossero in
tutta la milizia cesarea, con intento di scacciar di Lombardia i
Francesi ed i Savoiardi.
Dall'altra parte, gli Spagnoli di Vienna erano ostinati in dire
che nella lega della Francia colla Savoia non erasi mescolata la
Spagna, la quale stava ferma di serbar quella pace, che coll'im-
peradore erasi ultimamente fermata e stabilita; e che l'imperadore
non dovea combattere che co' Francesi e Piemontesi, i quali sa-
rebbero stati presto vinti e scacciati di Lombardia. E quantunque
da tutte le parti si avvisasse che nella lega eravi anche la Spagna,
ed, oltre alla comune fama, si accoppiasse il gran ammasso di
truppe spagnole che si facevano in Barzellona, e l'imbarco da quel
porto e da altri di Spagna, e le navi istradate già per Livorno,
onuste di grossa artiglieria e di altri attrezzi militari, e che i
generali conte di Montemar3 e duca di Liria3 eran passati in Lom-
bardia ed aveano stretti colloqui col marescial Villars,4 general de'
Francesi; nulladimanco costantemente affermavano che ciò fosse,
non per unirsi a gli alleati a danno dell'imperadore, ma che la
regina di Spagna, tenendo a Parma un così caro pegno, qual era
l'infante don Carlos,5 suo figliuolo, non voleva che, ardendo in
Lombardia una sì fiera guerra, rimanesse esposto alle incursioni
militari; ma potesse, colle sue armi, conservar i suoi Stati in sicu-
rezza, e sottrargli dall'insulti stranieri. Ed il marchese di Rialp
i. general Merci: Florimond-Claude de Mercy (1666-1734), comandante
in capo delle forze imperiali in Italia, a. José Carrillo de Albornoz (1671-
1747), conte di Montemar, generalissimo dell'esercito spagnolo. 3. Jacob
Francis Fitz-James Stuart, duca di Berwick e di Lina (morto nel 1738),
generale dell'esercito spagnolo. 4. Louis-Hector duca di Villars (1653-
1743), maresciallo di Francia, e capo delle armate francesi. 5. la regina . . .
Carlos: Elisabetta Farnese (1692-1766), figlia del duca di Parma e sposa,
nel 1714, di Filippo V di Spagna, si era assicurata con la pace dell'Aia
(1720) la successione sul ducato di Parma e Piacenza in favore del primo-
genito Carlo.
CAPITOLO OTTAVO 243
mostrava di ciò esserne sì persuaso, che non s'asteneva pubblica-
mente di dire, ch'egli metterebbe il suo capo sotto il taglio d'una
scure, se mai gli Spagnoli fossero intricati nella lega che la Fran-
cia avea fermata colla Savoia.
E con questi discorsi e vane lusinghe, erasene già passato l'an-
no 1733.
CAPITOLO NONO
Anno 1734. Vienna e Venezia.
Cominciarono in questo nuovo anno i miei concatenati dolori <a
rendersi più sensibili^ i quali sempre più esacerbandosi, per pro-
prio esperimento mi fecer conoscere che la fortuna non comincia
mai per poco.1 Nel tempo istesso che gli Spagnoli di Vienna per-
sistevano in dire che nella lega non eravi compresa la Spagna, s'in-
tese che i generali Montemar e Liria, partiti da Lombardia, eransi
fermati nella Toscana, e che ne* campi intorno Siena il conte Mon-
temar faceva rassegna delle truppe spagnole, le quali sbarcate in
Livorno e ne' vicini porti s'univano insieme per qualche spedizio-
ne. Il luogo dove si rassembravano dava manifesto indizio, che la
spedizione s'indrizzasse al regno di Napoli : ciocché fu tosto avve-
rato, essendosi saputo che dal papa non pur se gli era accordato il
passaggio per li suoi Stati, ma destinati fino i commissari per la
provvisione di quanto bisognava all'esercito spagnolo sino a' con-
fini del Regno ; e che da Spagna l'infante don Carlos erasi costituito
generalissimo dell'armata.
Intanto in Vienna s'eran fatti e tuttavia si proseguivano gli ap-
parati di guerra, e s'erano incaminati gli attrezzi militari e le trup-
pe per Mantoa, e tutti gli sforzi erano drizzati in Lombardia,
per combattere i Francesi e Piemontesi, e discacciargli dallo Stato
di Milano ; ed il Consiglio di guerra e tutti i Tedeschi, che si cura-
van poco del regno di Napoli, e molto meno di Sicilia, avean per-
suaso all'imperadore che tutto lo sforzo dovea farsi in Lombardia,
né scemar i reggimenti, per mandargli in Napoli; poiché chi era
padrone dello Stato di Milano, con facilità potea riacquistar quan-
to si fosse perduto in Napoli; e con tanta forza impressero nella
mente dell'imperadore questo sistema doversi tenere nella guerra
d'Italia, che quando gli Spagnoli e spezialmente il conte di Mon-
tesanto, vedendo ora l'imminente pericolo che soprastava al regno
di Napoli, ebber ricorso a Cesare vivamente pregandolo che dal-
l'armata destinata per Milano mandasse in Napoli non più che
cinque 0 sei reggimenti che tanti basterebbero, con quelli che ivi
teneva il general Carafa2 per sua difesa ad impedire agli Spagnoli
l'entrata a' confini: l'imperadore stette fermo, con rispondergli
1 . la fortuna . . . poco : cfr. Ariosto, OrLfur., vili, 50. 2. Il maresciallo Gio-
vanni Cor afa (morto nel 1743).
CAPITOLO NONO 245
che non poteva indebolir l'esercito destinato per Lombardia, dove
si dovea principalmente insistere.
I Napolitani intanto cercavan soccorso, ed il marchese di Rialp
gli pasceva di vane speranze; e gridando che almanco vi mandassero
le reclute per fornire i reggimenti scemati del general Carafa,
non si trovò la via nemmeno di farle giungere a tempo, poiché
avviandole per imbarcarle in Fiume e Triesti furon le marcie e
grimbarchi guidati con tali disordini e confusioni, mancando il
bisognevole, che parte rimasero per istrada, parte giunsero quan-
do il Regno era in mano de* nemici, per restarvi prigionieri. E
scorgendo gli Spagnoli che a' Tedeschi nulla caleva la perdita de'
regni di Napoli e di Sicilia, e più volte sentendo colle proprie
loro orecchie le voci di molti, che sicome erano stati buoni ad
esaurirli, così ora pensassero a difendergli, il marchese di Rialp
pensò, finalmente, ad una difesa pur troppo ingegnosa e valida.
Fra l'infinita turba de' Catalani che dimoravano oziosi a Vien-
na a spese di Cesare, erano molti scherani e fuorusciti, chiamati
«micheletti»;1 di questi ne fece una compagnia, a' quali diede per
capo un famoso catalano, il quale presso di loro era stimato un
altro Rocco Guinart,2 spezialmente per la perizia negli agguati
dentro i boschi e fra le montagne, ad ingaggiar scaramucce e
tender insidie; e fornita la compagnia di pistoletti ed altre armi,
si avviò in Napoli, con fiducia che, posta in aguato tra' confini
in que' boschi, e scovertasi a gli .altri Catalani che militavano
sotto l'infante don Carlos, l'avrebber fatti tutti disertare; ed ac-
cresciuta di numero, avrebbe impedita l'entrata de' Spagnoli nel
Regno; e costò all'imperadore questa spedizione più se si fos-
se mandato un reggimento, poiché non si risparmiò spesa negli
abiti, nelle armi e nel bagaglio, che si volle magnifico e pomposo.
E con questo e colle poche truppe, ch'erano in Napoli sotto il
general Carafa, si pretendeva d'impedire l'entrata all'esercito spa-
gnolo ne' confini del Regno. Ma il marchese di Rialp, perché cor-
rispondesse il fine al principio ed a' mezzi co' quali avea governa-
to il regno di Napoli, volle terminarlo con una gloriosa azione, che
1. micheletti: fanti leggeri, armati di moschetto, che formavano truppe vo-
lontarie e locali, così chiamate in ricordo delle milizie mercenarie assoldate
dalle città basche e organizzate militarmente da Miguelot de Prats nel 1674.
a. Il brigante catalano Perot Roque Gvxnart (1582-?), ricordato dal Cer-
vantes, nei capitoli 50 e 51 della seconda parte del Don Quijote.
246 VITA DI PIETRO GIANNONE
certamente lo renderà, per tutti i secoli, illustre ed immortale.
Scrisse, a nome delFimperadore, una pampinosa1 lettera alla città
di Napoli, nella quale, con circuita di vane parole, si pretendeva
che i Napolitani dovessero, per mostrare la loro fedeltà, impedire
l'entrata a' Spagnoli a costo non pur delle loro facoltà, ma del pro-
prio sangue, con sacrificare le lor vite ed opporsi vigorosamente
alFinimico ; e quel che recò stupore, s'incoraggivano i Napolitani a
farlo, con una menzogna manifesta, scrivendogli che s'era già com-
mandato all'esercito ch'era in Lombardia di far distaccamento di
più reggimenti, per venire a soccorrergli; trattando i Napolitani
da stupidi ed insensati, come se non sapessero che non vi era tal
comando, e se pur vi fosse gli sarebbe stato inutile, poiché già gli
Spagnoli erano ne' confini, ed era facile a gli alleati e d'impedirlo,
ovvero seguitandolo porlo in mezzo fra le loro truppe e le spagnole.
Si sentì allora il marchese di Rialp una risposta fattagli dalla
Città, di poco suo gusto, rinfacciandogli i tanti milioni che s'erano
esauriti dal Regno ; la cassa militare2 più volte rifatta per mantenere
per la custodia del Regno ventiduemila soldati, e pure non esser-
vene che pochi reggimenti; i tanti donativi e le sovvenzioni som-
ministrate per le munizioni e fortificazioni de' castelli e delle piazze,
e pure vedersi di tutto sproviste; l'aver con somma istanza e pre-
mura chiesto soccorso di truppe, in tempo opportuno che per
l'Adriatico potevan mandarsi, né furon mandate; onde i Napoli-
tani, credendo che fossero abbandonati, sicome presso tutti me-
riteran lode e commendazione d'avere fin qui serbata quella fedeltà
che doveano alla Maestà di Cesare, così troveranno non pur per-
dono, ma compatimento, se abbandonati e posti nell'ultima ne-
cessità, prenderanno quel partito che fosse per riuscir loro più
salutare, e che apportasse alla Città e Regno tranquillità e riposo,3
Questi sforzi, ancorché inutili, che si facevano dagli Spagnoli di
Vienna, per la conservazione de' regni di Napoli e di Sicilia, con-
vincono che non fossero stati traditori, come comunemente si vo-
ciferava e da tutti era creduto, che intesi colla Spagna, avessero ri-
dotti que' regni così esausti di gente e di denaro, perché riuscisse fa-
1. pampinosa: piena di pampini, ampollosa. Un sunto del proclama in M,
Schifa, Il regno di Napoli, cit., pp. 110-1. 2. la cassa militare: su di essa
cfr. M. Schipa, Il regno di Napoli, cit., p. 23. 3. Si . . . riposo : il testo della
risposta della città in G. Senatore, Giornale storico di quanto avvenne nei
due reami di Napoli e Sicilia . . . Vanno 1734 e 1735, Napoli 1742, p* 50.
CAPITOLO NONO 247
cile a gli Spagnoli di sorprendergli. Non furon traditori, che pur
per essi sarebbe, se ben d'infamia, di qualche vanto ài aver saputo,
con tant'arte ed industria, venirne a capo : fu tutta loro presunzio-
ne, fasto ed albagia, credendo che il solo nome dell' imperadore
bastasse per conservarli, e che la Spagna non avrebbe avuto mai
quest'ardimento d'assalirgli. Questo concetto gli rese negligenti,
scioperati e quasi che stupidi ed insensati, non avendo questi re-
gni che come tante lor inesauste borse, né badando che ad estra-
ricchire1 e cumular tesori; i quali, però, sicome con avida ed in-
gorda mano gli rapivano, così, dall'altra, prodigamente gli profon-
devano in fasto, in lusso ed in pompose apparenze; affinché, ancor-
ché fosser in Germania, in Italia, in Fiandra ed in altri paesi stra-
nieri, potessero gareggiare, anzi soprafare gli stessi nazionali, ricchi,
potenti e nobilissimi che si fossero.
A qual fine, cui bono, dovean essere traditori, quando non po-
tevano sperare dal principe, per cui il tradimento si facea, se non
minima particella del molto ch'essi venivano a perdere ? Potea mai
la Spagna compensargli per tante cariche, magistrati, signorie,
ricchezze e tanti lucrosi impieghi, inventati unicamente per arric-
chirgli per tante pensioni, soccorsi ed infiniti altri emolumenti,
ch'essi venivano a perdere? Non furon, dunque, traditori; ma
quanto presuntuosi, fanatici, illusi e fastosi, altrettanto sciocchi,
da poco ed inutili, i quali la fortuna l'avea esaltati, non per go-
vernare, ma per esaurire la misera ed afflitta Italia.
Intanto l'esercito spagnolo, il qual tra la cavalleria ed infan-
teria,2 era composto di quattordici in qumdicimila soldati, <se bene
altri accrescevan il numero fino a diciottomila>, comandato dal
general Montemar, sotto gli auspici del giovane principe don Car-
los, erasi ne' princìpi di marzo avvicinato a' confini, e proseguendo
le marcie senza alcun ostacolo, entrarono nel Regno, e superando
il passo di Mignano,3 ove credevasi trovar chi glielo contrastasse,
s'avanzarono nel mese di aprile a Capua, ove eransi ritirate le po-
che truppe alemane, affinché unite con quelle del presidio potes-
1. estraricchire: divenire straricchi, z. infanteria: fanteria. 3. Il conte
Otto Ferdinand Traun (1677- 1748) teneva le posizioni di Mignano, dalle
quali dipendeva la salvezza di Capua, con cinquemila uomini ; cfr. M. Schi-
pa, Il regno di Napoli, cit., p. 115. Per la ricostruzione della marcia degli
Spagnoli si veda D. Sterpos, Comunicazioni stradali attraverso i tempi:
Roma-Capua, Roma 1966, pp. 178 sgg.
248 VITA DI PIETRO GIANNONE
sero difendere quella piazza; la quale bloccata da' Spagnoli, senza
impegnarsi a stretto assedio, passarono oltre, proseguendo le con-
quiste in Terra di Lavoro; e giunti ad Aversa la città di Napoli
per suoi deputati mandò a presentar le chiavi al principe don
Carlos, che si trovava a Maddaloni.1
Erano usciti già dalla città il viceré, conte Visconti,2 successore
del conte di Harrach, il general Carafa ed altri comandanti ed
ufficiali tedeschi: questi si avviarono3 colle loro truppe verso la
Puglia, con intento di conservarla colle province vicine, e quan-
do non potessero, ritirarsi in Calabria, per preservare almanco
quelle province alla Sicilia prossime. Dall'altra parte gli Spagnoli,
entrati in Napoli senza scompiglio e con somma tranquillità e
quiete di tutti, cominciarono a stringer d'assedio i castelli. Presto
se gli rese quel di Sant'Ermo, indi quel dell'Uovo, poi Castelnuovo4
e gli altri intorno, rimanendo i presìdi tutti prigionieri di guerra.
Furon poi rivolti all'assedio di Gaeta, ed una piazza, un tempo
riputata inespugnabile, in meno di dieci giorni fu resa;5 almanco
Pescara resistè quaranta giorni;6 ed i presìdi rimaser tutti prigio-
nieri di guerra. In breve, i due Abruzzi, Terra di Lavoro, le Pro-
vincie di Capitanata e del contado di Molise, e quelle di Principato
citra ed ultra, di repente passaron tutte sotto il nuovo conquista-
tore, il quale s'era avviato in Puglia, seguitando la traccia de'
nemici.
Intesa in Vienna tanta precipitosa mina, riempì gli animi di
•molti di confusione e di spavento ; ma sopra tutto degli Spagnoli i
quali miravan già da vicino le imminenti miserie nelle quali, per-
duto il regno di Napoli ch'era per essi la sorgiva più abbondante e
copiosa, di necessità dovean cadere. Fremevano contro il general
Carafa, biasimando la sua condotta, imputandolo vile e codardo,
che dovea opporsi al nemico a' confini ed impedirgli l'entrata e
non ritirarsi in Puglia; ed i loro clamori in Corte fecer sì, che il
Carafa fu chiamato in Vienna a render conto della sua condotta, e
1. a Maddaloni'. il 19 aprile; cfr. M. Schipa, II regno di Napoli, cit.,pp. 1 15-9.
2. Giulio Visconti (1664-1750) era stato nominato viceré e capitano gene-
rale delle truppe imperiali. 3. si avviarono: il 3 aprile; cfr. M. Schipa, II
regno di Napoli, cit., p. 115. 4. Presto . . . Castelnuovo: le fortezze cadde-
ro, nell'ordine, il 26 aprile, il 3 e il 4 maggio ; cfr. M. Schifa, Il regno di
Napoli, cit., p. 124. 5. Furon . . . resa: Gaeta si arrese il 6 agosto. 6. al-
manco — giorni: la città cadde il 23 luglio.
CAPITOLO NONO 249
dato il comando delle truppe alemanne al principe di Belmonte.1
Donde credean sperar salute, trovarono l'ultimo eccidio e mina:
poiché, premuto questo nuovo generale di dover venire co* nemici
a battaglia, incautamente incontrando l'esercito spagnolo nelle pia-
nure di Bitonto, dove per le spesse vigne e siepi di macere e folte
macchie, che le confinavano, la cavalleria tedesca si rendeva inuti-
le, senza pensare a farla smontare, volle attaccar la pugna; che gli
riuscì così infelice e vergognosa, che gli fu d'uopo posar Tarmi
e rendersi prigionier di guerra, con gli altri generali ed ufficiali e
tutta la milizia: sicché il conte di Montemar ebbe il piacere trion-
far pienamente del nemico, ed in una azione ridurre tutte le rima-
nenti province del Regno, la Puglia, Basilicata, Terra d'Otranto e
le due Calabrie sotto la dominazione del suo sovrano.
Del regno di Napoli non rimaneva altro che la città di Capua,
la quale, per essersi al presidio unite le truppe che s'eran ritirate
dal passo di Mignano, potè lungamente sostener l'assedio ; ma es-
sendo destituito il comandante2 d'ogni speranza di soccorso, ripu-
tò finalmente renderla con onorate condizioni, poiché il presidio
e le truppe che vi erano fu convenuto che potessero imbarcarsi ne'
porti dell'Adriatico, e salve condursi a Fiume o Triesti.
Ecco come gli Spagnoli di Vienna si videro, in pochi mesi, vo-
lare dalle lor mani il regno di Napoli, e che il prossimo di Sicilia
era per far lo stesso, e con maggior precipitanza; poiché quel Re-
gno, assai più che Napoli era destituito ed esausto di forze, di
munizioni e di gente. Ed i Siciliani, avendo innanzi gli occhi l'e-
sempio di Napoli, e che gli Spagnoli aveano ne' mari di Napoli
navi e vascelli bastanti per intraprenderne l'acquisto, volontaria-
mente si offerirono di ricevergli, e s'intese che avean mandati lor
legati a Napoli, per rendersi ; e già Lipari avea inalberate l'insegne
di Spagna, ed i Lipariotti avean unite le loro navi a quelle degli
Spagnoli.3 E pure chi '1 crederebbe? In tale stato di cose il mar-
chese di Rialp, essendosi il conte Visconti imbarcato alle marine
di Bari e salvatosi ad Ancona per indi passare a Triesti e condursi
1. Ferdinando Pignatelli di Belmonte (1689-1767), fratello di Marianna
Althann (per cui cfr. la nota 2 a p. 78), pare avesse avuto mano nel richia-
mo del Carafa: cfr. M. Schipa, Il regno di Napoli, cit., p. 127. 2. il
comandante: era il conte Traun. La città si arrese il 24 novembre: cfr.
M. Schipa, Il regno di Napoli, cit., pp. 131 sgg. 3. Ed i . . . Spagnoli:
sulla conquista della Sicilia cfr. M. Schipa, II regno di Napoli, cit., pp.
133 sgg.
250 VITA DI PIETRO GIANNONE
a Vienna, gii scrisse che non si partisse da Ancona, ma che quivi
fermasse sua residenza, attendendo gli ordini di Sua Maestà per
ciò che conveniva di fare intorno al regno di Napoli. E stando la
Sicilia per rendersi agli Spagnoli, fu rimosso il conte di Sastago,
che si trovava ivi viceré, e rifatto in suo luogo il marchese Rubi1
catalano, e mandato in Sicilia, con istruzione che, se mai al suo
arrivo trovasse quel Regno essere in mano de' nemici, passasse a
Malta, dove aspettasse gli ordini di Sua Maestà, per ciò che ri-
guardava quel Regno. E ciò perché dalla sua secretarla si ostentasse
ancora che, come prima, si spedivan dispacci a* viceré di Napoli
e di Sicilia, ma uno risiedeva ad Ancona, e l'altro dovea regger la
Sicilia da Malta. Dall'altra parte il conte di Montesanto presiden-
te, con tutto che non vi era più che fare per Milano, e molto me-
no per Napoli, e che da Sicilia periclitante non venivan più ricorsi,
nulladimanco non fece cessar il Consiglio, obbligando i consiglieri,
reggenti e secretari, con gli ufficiali di secreteria, a venir come
prima, i quali, dimandati che cosa andasser ivi a fare, rispondeva-
no : « a passar quelle ore nella lettura delle gazzette, ed a discorrere
del più e del manco intorno alla guerra presente».
Ciascuno da quest'infelice stato, nel quale eransi le cose ridotte,
potrà comprendere qual fosse la mia aggitazione e sbigottimento.
Poiché, se ancora non perduta la Sicilia io sperimentava difficile
l'esazione del mio assegnamento, qual dovea essere infelice il mio
stato, quella perduta, quando non vi era per me speranza alcuna
dove altronde potessi trovar maniera di poter sostentarmi in Vien-
na ? Da Napoli non era da sperar soccorso alcuno, poiché mio fra-
tello non solamente non era niente disposto per mandarmelo, ma
di vantaggio mi scriveva miserie, e che il nuovo governo spagnolo
era sì rigido e severo contro coloro che aveano corrispondenza di
lettere a Vienna, ch'egli con pericolo si metteva a scrivermi, e
che io per non rovinarlo stessi cauto nello scrivere, e che meglio
farei d'astenermene; e ben compresi che fosse per lui quest'occa-
sione molto acconcia di continuare a godersi della mia roba, sen-
z' alcun timore di dovermene dar conto. Rivolgendomi a gli amici
di Vienna in questa comune costernazione, trovava, invece di con-
forto, disperazione e presaggi di maggiori calamità e miserie, e
ciascuno procurava in sì universal naufragio di salvar se medesimo,
1. il marchese Rubi: cfr. la nota 3 a p. 136.
CAPITOLO NONO 251
non che di prestar aiuto ad altri. Dall'altra parte m'atterriva l'infi-
nito numero degli Spagnoli ch'era a Vienna, i quali tutti viveano
sopra i regni di Napoli e di Sicilia e lo Stato di Milano, e che erano,
nelle sovvenzioni, a tutti preferiti ; spezialmente i Catalani, i quali
altamente gridavano che sarebber periti di fame, se Pimperado-
re non gli soccorreva.
E già cominciava a sperimentare che, non perduta ancora la
Sicilia, quel poco mio denaro che dovea pagarmi l'ufficiai Llacuna,
sovente dal presidente si convertiva ad altro uso, per supplire a'
bisogni di tanti Spagnoli; e lusingandomi che almanco essendosi
per Sicilia rifatto un nuovo viceré, i diritti della spedizione de'
suoi dispacci e patenti potevan bastarmi per più mesi, rimasi de-
luso ; poiché essendo il marchese Rubi catalano, fu reso franco ed
immune d'ogni diritto di spedizione e di suggello, sicome erano
regolarmente franchi tutti gli Spagnoli. Sicché avea ragion di te-
mere che, anche se la Sicilia non fosse invasa, pure il mio paga-
mento mi sarebbe riusciuto difficile; ed in effetto penai non poco,
con esclamazioni e gridi presso il presidente, per esigger due me-
sate, che per me furon le ultime e finali.
Tutti i forastieri, ignari di tutto ciò, partito io da Vienna, in
passando per le lor città si maravigliavano come io fossi stato da
dura necessità costretto di partir da Vienna, per non potermisi
somministrare non più che mille fiorini Tanno per mio sostenta-
mento da tutto un imperadore. Ma cesseranno di maravigliarsi, se
consideraranno le circostanze che accompagnarono l'infelice per-
dita de' regni di Napoli e di Sicilia e dello Stato di Milano. Non
è - essi dicevano - cosa strana e nuova, che un monarca venga a
perdere un regno o più province: le mondane vicende spesso ca-
gionano tali perdite; ma non per questo sono abbandonati coloro
che s'han meritata qualche mercede, e che stanno alla faccia del
principe, mantenuti nella sua corte, prowedendosegli, se manca un
fondo, altronde, per loro sostentamento.
Tutto è vero, ma il mio fatai destino ha fatto che il caso occorso
fosse nuovo, né altre volte inteso ; sicché a me tutto un imperadore
non abbia potuto giovarmi; ch'era quello che più volte lagrimando
solea dire: che le mie sventure erano sì spietate, terribili e potenti,
che avean fatto crollare e cadere a terra le più forti colonne ov'era
io appoggiato e dalle quali era sostenuto. Il caso seguito è tutto
nuovo, né si leggerà nell'antiche o moderne istorie un simil esem-
Z$Z VITA DI PIETRO GIANNONE
pio. Non è mai occorso che un principe abbia sopra di sé voluto
trarre un infinito numero di persone da altrui regni e provincie,
e per lo corso di tanti anni invitar sempre delle nuove; e se fosse
stato possibile di trasportare in Vienna ed in Italia quanti Spagnoli
fossero ne' regni di Spagna, e questi tenerli nella sua Corte e nella
città di sua residenza, per la maggior parte inutili; infiniti altri,
con uffici, cariche, pensioni ed altre mercedi, empire i regni di
Napoli e di Sicilia e lo Stato di Milano. Tanta moltitudine si so-
steneva sopra i domìni d'Italia, donde venivano i grossi stipendi
per mantenere in Vienna il Consiglio di Spagna, numeroso per
tanti reggenti, consiglieri, secretari, e per l'immensa turba di tanti
ufficiali delle secreterie; donde venivano i salari per mantenere la
secretarla spagnola di Stato ; donde venivano le pensioni assignate
a tanti Spagnoli ch'erano alla Corte, per i quali fu istituita una
delegazione a parte, invigilando perché le fossero puntualmente
pagate; donde venivano le diarie ed altre sovvenzioni destinate al-
l'infinita altra turba di Spagnoli ch'erano in Vienna, inutili, sen-
z'impiego ed oziosi, tenuti unicamente per far letame ed accrescer
numero; e donde finalmente veniva il denaro per soccorrergli nel-
le doti per le loro figliuole e sorelle, ne' viaggi, nelle infermità,
funerali, ed infino alle spese voluttuose.1 La borza, che si credeva
dover essere sempre sicura ed inesausta, era la misera Italia ; poi-
ché dalla Fiandra poco era da esaurire, e quel poco appena bastava
per mantenere il Consiglio di Fiandra, composto per la maggior
parte di Spagnoli stessi. Ne' regni d'Ungheria e di Boemia non vi
era niente che fare, poiché oltre essere caricati di pesi ed assigna-
menti, i nazionali si facevan valere i loro diritti e prerogative di
non ammettere forastieri a parte delle rendite che provenivano da'
loro paesi. Lo stesso era in tutti gli altri Stati austriaci ereditari, i
quali nemmeno bastavano a supplire i pesi e le pensioni antiche
ond'erano caricati, e sovente mancava il denaro per i salari degli
Austriaci stessi, ed altri ch'erano in Corte nell' attuai servizio del-
Fimperadore. Perduti adunque sì miseramente gli Stati d'Italia,
che era l'unico fonte perenne onde derivavan l'acque per estinguer
la sete di tanti, non vi era altronde da supplire una sì grave e rui-
nosa perdita. Né bastavano piccioli torrenti o rivi, ma bisognavan
altri ampi ed inesausti fiumi, per compensarla.
i. voluttuose: voluttuarie.
CAPITOLO NONO 253
Infinite altre volte è accaduto che, perdutasi una provincia o un
regno, non sia riuscito al principe molto difficile d'accomodar al-
tronde le persone, ch'erano nella sua corte impiegate negli uffici
riguardanti i paesi perduti, perch'eran poche; e quando mancas-
sero impieghi, sovvenirgli intanto con pensioni o altri soccorsi.
Quando, sotto il re Filippo IV, la Spagna perde il regno di Por-
togallo,1 a' Portoghesi ch'erano in Madrid e negli altri regni di
Spagna impiegati, se gli diede licenza di tornarsene ne' loro paesi,
onde venne Madrid a sgravarsi; e que' a' quali non era sicuro il
ritorno, essendo pochi, fu facile provvedergli o d'altro impiego,
ovvero di pensioni per loro sussistenza. La Spagna istessa, per-
duto nel 1706-07 lo Stato di Milano ed il regno di Napoli, e poi
quello di Sicilia e di Sardegna,2 abolì tosto il Consiglio d'Italia,
ed a' nazionali che vi erano impiegati diede licenza d'andarsene
alle lor case; ed a gli altri, ch'eran pochi, fu facile impiegare
negli altri Consigli a somiglianti cariche.
Ma tutto altro fu il caso presente di Vienna. Non si trattava di
pochi, ma d'un numero infinito di Spagnoli, de' quali, parte o
non potevano per tema di non incontrar peggio, parte non vole-
van tornarsene in Ispagna ne' loro paesi, dove molti non aveano
né ciel che gli coprisse, né terra che gli sostenesse; ed avvezzi al-
l'abbondanza e fasto, col quale eransi fin qui mantenuti, non vo-
levano essere di ludibrio, tornando miseri e tapini, a' loro compa-
trioti ; e pretendevano che l'imperadore, per gratitudine della loro
fedeltà in aver seguito le sue parti, dovesse soccorrergli; e dall'altra
parte l'imperadore mostrava d'averne tutto il compatimento, e che
non gli avrebbe abbandonati; onde non solo non si vedeva sce-
mare in Vienna il lor numero, anzi accrescersi ; poiché tutti que',
che erano impiegati in Napoli ed in Sicilia e volevano mostrarsi
zelanti al suo servizio, lasciate le lor cariche venivano a Vienna,
con certa fiducia che l'imperadore l'avrebbe accolti e mantenuti.
All'incontro, a' Milanesi, Napolitani e Siciliani se gli dava facile
e presta licenza che se ne tornassero a' loro paesi, anche a que' che
avean in quest'occasione prese l'armi per Cesare; apertamente fa-
cendosegli sentire, che l'imperadore non poteva compensargli del-
1. Quando . . . Portogallo: sotto Filippo IV (1605- 1665) si accese la guerra
d'indipendenza, durata ventiquattro anni, e sancita col trattato di Lisbona
nel 1668. 3. La . . . Sardegna: con la pace di Utrecht (1713) e di Ra-
stadt (1714) a conclusione della guerra per la successione del trono di
Spagna.
254 VITA DI PIETRO GIANNONE
le perdite che avrebbon fatte de' loro feudi e beni, rimanendo al
suo servizio, né poteva mantenergli o impiegargli altrove, e ciò
perché gli Spagnoli fosser soli, né avesser compagni che potessero
scemargli le sovvenzioni secrete che speravano. Soli a* due reg-
genti nazionali, un per Napoli e l'altro per Milano, non se gli
dava licenza di tornarsene, ancorché non tirasser soldo; poiché
non si voleva così presto dismettere il Consiglio di Spagna, e,
per quel di Milano, durava la lusinga che presto si sarebbe lo
Stato ricuperato.
I Napolitani ch'erano a Vienna, quasi tutti, nel mese di maggio,
tornaron in Napoli alle lor case.
Io, ancorché niente più esiggessi dalle mie mesate, e la Sicilia,
se non perduta, fosse presto per perdersi, con tutto ciò mi restai,
volendo sperimentar Tubimi rimedi e veder l'evento delle cose di
Lombardia, lusingandosi molti che, avendo il general Merci pas-
sato il Po, sarebbe in istato di venir a battaglia coli' esercito nemico
e riportarne vittoria, onde forse si sarebbe cangiato sistema alle
cose d'Italia. Riuscir anche vane queste lusinghe, poiché la bat-
taglia di Guastalla e l'altra di Parma ebber contrari successi;1 e
sempre più di Sicilia venivan ree novelle: essere disposta a ren-
dersi, sicome all'apparir dell'armata navale spagnola tosto Palermo
fu resa, e così di mano in mano facevan l'altre città e piazze di
quel Regno.2 Mi rivolsi finalmente ad implorar aiuto e consiglio
dagli amici e da que' ministri, che credetti potermi giovare presso
la Maestà dell'imperadore, manifestandogli il mio infelice stato e
la poca sicurezza che, tornando a Napoli, avrei avuta dalle perse-
cuzioni della corte di Roma, ora che quel Regno era in mano degli
Spagnoli; i quali, per gratitudine d'avergli Sua Santità facilitato
l'acquisto, e l'Infante don Carlos tenendo in sua Corte il principe
Corsini,3 nipote del papa, dichiarato suo Cavallerizzo maggiore,
non volessero sacrificarmi ed espormi alla ira ed indignazione di
quella Corte.
Trovai presso tutti compassione e dispiacenza del mio ritorno a
Napoli; ma la costernazione era presso tutti sì grande, che niuno
i. la battaglia . . . successi: furono combattute, rispettivamente, il i maggio
e il 29 giugno del 1734. 2. sempre . . . Regno: le ultime città a cadere
furono Messina (22 febbraio), Siracusa (16 giugno) e Trapani (12 luglio
1735)- 3- Bartolomeo Corsini (1683-1752), marchese di Casigliano, duca
di Santa Colomba e principe di Pitigliano, nipote di papa Clemente XII,
divenuto viceré di Sicilia nel 1737.
CAPITOLO NONO 255
in tanta afflizione e miseria nella quale eransi le cose ridotte
fldavasi o poteva trovarci rimedio, sapendo che io sarei stato assor-
bito dall'infinito numero di tanti famelici Spagnoli, a' quali biso-
gnava dar alimento. Non potei in quest'estremo mio caso giovarmi
del principe Eugenio, il quale aggravato da moleste cure, era tutto
inteso alla spedizione dell'esercito, ch'egli dovea comandare al Re-
no, per fronteggiare a' Francesi ed impedirgli da quella parte nuovi
acquisti.
Non tralasciai rivolgermi a gli Spagnoli stessi, se ben sapessi
che tutto mi sarebbe riuscito inutile; e più volte pregai il conte di
Montesanto presidente, che vedesse non dimenticarsi di me, ne'
soccorsi che si davano a' Spagnoli ; trovai sì bene compatimento,
ma da non sperarci niente, poiché non vi era nemmen per essi tanto
che potesse bastare. Fui dal marchese di Rialp, che trovai pur
troppo diverso da quel di prima, tutto abbattuto e costernato, il
quale tant'era lontano di potermi aiutare, che piuttosto mi consi-
gliava a ritirarmi, sicome dicea ch'egli stesso avrebbe fatto, per
viver in pace que' pochi anni di vita che gli restavano. Ma ciò
che in fine fecemi perdere ogni speranza e pensar daddovero a
ricovrarmi come potea meglio altrove, fu il cavalier Garelli, nel
quale, in vece di conforto, trovai maggior sbigottimento e coster-
nazione. Egli, che come bibliotecario e come primo medico della
persona dell'imperadore e delPimperadrice frequentava spesso la
Corte, ed era ben veduto non men dall'uno che dall'altra, sa-
pendo la confusione e disordine che vi era dentro, mi disse che,
s'egli fosse solo e non si trovasse con tre piccioli figliuoli, due
femmine e un maschio, scapperebbe anch'egli, per non vedere
tante desolazioni, e non essere spettatore di disordini, che preve-
deva in Vienna dover succedere per tanti Spagnoli, che finalmente
dovean vivere; e non essendovi donde provvedergli del necessa-
rio alimento, erano esposti i Viennesi a mille insulti e pericoli ;
che egli, perché mancavano alla Biblioteca le sovvenzioni che veni-
vano da Napoli, Sicilia e Milano, avrebbe detto all'imperadore di
voler licenziare i custodi ed altri ch'eran ivi impiegati, e di serrarla
e portargli le chiavi, affinché ognuno da ora pensasse di provedersi
altrove d'altro impiego, prima che venissero a mancargli i salari;
onde, come buon amico mi consigliava a partire e ricovrarmi
come meglio poteva in Napoli, giacché la dura necessità mi co-
stringeva a farlo, per non morir in Vienna con gli altri di disagio
256 VITA DI PIETRO GIANNONE
e di fame, né bisognava più lusingarmi che l'imperadore potesse
altronde assignarmi l'equivalente; poiché si era arrivato a tale
estremità, che nemmeno quelli ch'erano neh' attuai servizio in Cor-
te, ed i medici stessi della persona dell' imperadore eran pagati
per più quartali dei loro salari. Awanzandosi di vantaggio a dirmi
che prima, a' tempi dell' imperadore Liopoldo e Giuseppe, che non
aveano l'Italia,1 si vivea in Vienna meglio e sempre in abbondanza
e dovizia, ed i costumi de' Viennesi eran più sinceri, leali e probi ;
ma che poi, sotto questo imperadore, con tutta l'Italia e Fiandra,
le miserie eran cresciute insieme co' vizi e dissolutezze, per tanti
Spagnoli venutici; i quali, profondendo i tesori che gli venivan
d'Italia, aveano ogni cosa corrotta, resi carissimi i prezzi delle ro-
be, le piggioni delle case, i salari de' servidori e delle serve, e
tutto; e che a' Viennesi niente importava la perdita d'Italia, ma i
mali che temevan eran per gli Spagnoli che ci restavano; poiché se
coli' Italia avessero anche perduto gli Spagnoli: questo per essi
sarebbe stato acquisto, non perdita.
Or chi mi dava questi consigli e m'esortava a partire era per-
sona colla quale io per undici anni continui ne' quali era dimorato
a Vienna avea procurato mantenermi in una stretta amicizia,
frequentando spesso la di lui casa; ed egli mostrava meco tanta
affezione e confidenza che, dovendo seguire l'imperadore e l'im-
peradrice, quando si condussero a prendere le acque di Carlspak2
in Praga, e poi a Linz, non ostante che lasciasse suo padre,3 vec-
chissimo, gravemente infermo e con poca speranza di trovarlo vivo
al suo ritorno, a niun altro che a me raccomandò che dovessi assi-
sterlo; e di avvisargli in ogni settimana del suo stato; sicome,
durante la sua assenza, che non fu meno di sei mesi, feci con tutta
esattezza; e Dio si compiacque di farlo vivere fino al suo ritorno,
ed alquanti mesi doppo, di ch'egli mostravasi meco tanto obbli-
gato e soddisfatto. Era persona alla quale niente era in corte ascoso
e che sapeva gPintimi penetrali di quella e quanto valesse; ma,
sopra tutto persona cotanto doviziosa e ricca, che al vasto suo patri-
monio aggiunta l'eredità opulentissima lasciatagli dal padre, co-
munemente si credea che possedesse per almanco mezzo milione
di fiorini.
1. a* tempi , . . Italia: i possessi spagnoli in Italia passarono all'impero al
seguito della guerra per la successione al trono di Spagna. 2. Carlspak:
Karlsbad. 3. suo padre: Giovan Battista Garelli (e cfr. la nota a p. 96).
CAPITOLO NONO 257
Or, chi non si sarebbe sgomentato, sentendo da un tal uomo sì
infelici pronostici di mali più gravi che soprastavano ? Io gli risposi
che mi sarei appigliato a* suoi consigli, ma lo pregava che, prima
di dar questo passo, mi facesse la grazia, avendo sì spesse occasioni
di parlare alla Maestà dell' imperadore, che per me lo pregasse;
e se mai non vi fosse speranza d'altro soccorso, che mi desse per-
missione di tornarmene in Napoli, o dove il mio fatai destino m'a-
vrebbe condotto. Mi promise di farlo, e finalmente n'ebbi questa
risposta: che avendone parlato con Sua Maestà, mostrò rincre-
scergli la mia partenza, ma che bisognava cedere al tempo ; ch'egli
avea per ciò fatto intendere al conte di Conversano,1 al principe di
Ottaiano3 ed altri Napolitani, che avean prese per lui l'arme e
che si trovavano a Venezia, che tornassero in Napoli alle lor case;
e che, se le cose cambiassero aspetto, non si sarebbe dimenticato
della loro divozione e lealtà usata verso di lui.
Questa fu la scure che recise tutte le mie speranze; sicché mi
determinai a partire, e lasciando Vienna per dura necessità, espormi
alla discrezione de' miei persecutori, incolpando la mia rea sorte,
che avea permesso che, per altrui trascuraggine, sciocca presun-
zione e stupidezza, venisser a mancarmi le più forti colonne,
ond'io era sostenuto.
Intanto tirava avanti in Vienna a mie proprie spese; e finito
quel poco contante che avea, non mi rimaneva altro ricorso, se
non dar di piglio al capitale de' mille fiorini, che teneva nel Banco
della città. Tentai di vender qualche libro della mia picciola bi-
blioteca, che a poco a poco avea accresciuta al valore di circa mille
altri fiorini; ma per Puniversal costernazione, o non si trovavano
compratori, essendosi tutti ristretti nelle spese, o pure bisognava
buttargli per vilissimo prezzo: ciocché non volli fare. Adunque
pensai di valermi di parte di quel capitale; ed essendo già entrati
nel mese di giugno, mandai al Banco, per riscuoterne duecento
fiorini; e mi fu risposto che, correndo tutti a prendersi i loro capi-
tali, si era dato ordine di non restituirgli, poiché altrimenti il
Banco sarebbe fallito ; ma che si desse un poco di tempo, che fra
1. conte di Conversano: il conte Giulio Antonio Acquaviva d'Aragona, sul
quale cfr. la nota 4 a p. 92. 2. Giuseppe Medici di Ottaiano (morto nel
I743)> duca di Sarno e principe del Sacro Romano Impero. Fu reggente
di Vicaria, ministro plenipotenziario imperiale, pretendente al granducato
di Toscana dopo la morte di Gian Gastone nel 1737.
258 VITA DI PIETRO GIANNONE
breve i capitali piccoli sarebbero interamente restituiti, ed i grossi
parte a parte con qualche intervallo di tempo.
Cominciava già co* propri occhi a vedere le miserie presaggite;
ciascuno dalle grandi abbitazioni passava alle picciole; chi di qua
levava la carrozza, e chi di là scemava il numero de* servidori e
delle serve. Non vi era da sperar da altri soccorso; anzi, in vece di
conforto, si trovavano guai peggiori, lamenti e finimondi. Ma il
maggior mio cordoglio e 51 dolore che amaramente mi trapassava
il cuore, era il vedere la mestizia e l'afflizione delle mie ospiti, le
quali né potevano esser da me soccorse, né io dalla lor povertà
potea sperarne aiuto.
Tentai infine ogni mezzo, passato come Dio volle il mese di
giugno, che, con molti impegni d'amici mi fossero restituiti dal
Banco nel mese di luglio seicento fiorini. Così respirai; e pagato il
piggione ed il salario del servidore e delle serve, mi determinai
partire verso la fine dell'entrante mese d'agosto. Avrei potuto tirar
la mia dimora in Vienna l'imminente inverno; ma sempre più le
cose peggiorando, e pensando che prolungandola fin alla ventura
primavera io mi avrei consumato il contante e ridottomi in istato
di non aver denaro per un sì lungo viaggio, fu dura necessità di
affrettarlo quanto più presto si potesse; e dovendomi condurre a
Napoli per la via di Triesti, ed imbarcarmi ivi, e per l'Adriatico
far la strada di Venezia e di là portarmi a Manfredonia, non voleva
che la stagione si avanzasse tanto, sicché quel mare si rendesse
infesto e procelloso. Trovai per buona sorte per compagno l'abate
Cusani1 mio amico, che ritornavasene pure a Napoli facendo la
stessa strada, il quale non poco mi allegerì la cura e l'incommodo
del viaggio.
Avvisai intanto a Napoli a mio fratello la dura necessità che mi
costringeva di ritirarmi, e vivere que' pochi anni che mi restavano
a me stesso, nella solitudine di «Due Porte», dove io pensava,
fuor d'ogni umano consorzio, finire i miei giorni; il quale, nel
tempo stesso che mostrava di compatirmi, non potè nascondere
la dispiacenza che avea del mio ritorno, come quello che avrebbe
dissipati tutti i mal concepiti disegni sopra la mia roba.
1. Cusani: Marcello Papiniano Cusano, professore di diritto civile a Tori-
no dal 1725 al 1727. Conobbe a Vienna il Giannone di cui divenne amico.
Dal 1734 insegnò all'Università di Napoli, dove ebbe come discepoli An-
tonio Genovesi e Ferdinando Galiani. Nel 1753 vescovo di Otranto e Tan-
no seguente di Palermo. Morì nel 1766.
CAPITOLO NONO 259
Non mancai di prender concedo da' ministri del Consiglio di
Spagna e dal presidente, i quali compatendo il mio caso, deplo-
ravano se stessi e lo stato infelice nel quale eransi ridotte le cose,
che non pativa alcun rimedio ; sicome feci con tutti gli altri buoni
amici, i quali accrescevano maggiormente la mia afflizione, mo-
strando di questo mio partire intenso dolore e somma dispiacen-
za. Infra gli altri, l'amatissimo Forlosia, il caro Gabriel Longo-
bardi, medico della persona dell'imperadore e mio affettuosissimo
amico, ed il dotto, savio e gentile Bernardo Lama,1 di cui io am-
mirava non meno la somma perizia delle lingue, che la profonda
dottrina in tutte le più serie scienze che adornavano il suo bell'ani-
mo. Solo il cavalier Garelli, come se si togliesse dalle sue spalle un
grave peso, mostrò del mio partire non già dispiacere, ma con-
tento ; o perché vedesse allontanarmi dalle miserie che presaggiva,
ovvero perché temesse, essendo quanto ricco altrettanto avaro,
non dovess'io, ne' miei bisogni, incommodarlo con chiedergli soc-
corso. Il tempo, scopritore del vero, forse ne manifesterà le vere
cagioni.
Intanto, io ricuperai al Banco i restanti quattrocento fiorini;
ed intorno a' libri, vedendo che avrei dovuto gittarli per ritrarne
qualche somma, stimai meglio portarli meco; e fattigli ben acco-
modare in casse, gli stradai per Triesti. Tutti i mobili e suppellet-
tili delle mie stanze gli lasciai alla Fraile Ernestina di Laxenhoffen,
per gratitudine dell'amore e sollecitudine che teneva di me e delle
cose mie, e per compensarle in parte de' tanti incommodi presisi
per me con tanta affezione e cordialità, che nell'età mia avanzata
e bisognosa d'affettuosa cura, non avrei potuto ottener maggiore
se fossi stato fra' miei più stretti congionti. E la gratitudine che
le devo e gli obblighi che le professo, mi costringono ad averne
perpetua ed indelebil memoria. Né fin che io viva, o lontananza
di luogo o lunghezza di tempo, né le tante persecuzioni, angoscie
e patimenti sofferti han potuto, o potranno cancellar dalla mia
mente le sublimi virtù sue ed i suoi innocentissimi costumi. E
credo fermamente che, grande che fosse l'affezione che io le por-
to, non m'inganni, né ingrandisca fuor del vero l'eminenti e rari
suoi preggi, ed oso dire che poche, a' dì nostri, possino pareg-
1. Bernardo Andrea Lama (morto nel 1760 circa), napoletano, professore
di greco, poi di eloquenza allo Studio torinese dal 1717, trasferitosi a
Vienna nel 1730.
2Ó0 VITA DI PIETRO GIANNONE
giarla, almanco di quante, nel corso di mia vita, ho avuta oppor-
tunità di conoscere in Germania ed in Italia.
Ravvisava in lei una somma pietà, non tralasciando, Tore mat-
tutine alzata di letto impiegarle in divote orazioni, e dopo portarsi
in chiesa ed intervenire al sacrificio della messa; indi, ritirata a
casa con indefessa applicazione regolare le cose domestiche ed at-
tendere a' suoi lavori. Nelle domeniche ed altri giorni festivi ces-
savano le opere manuali, ed era tutta intesa o nelle chiese ad ascol-
tar le prediche, o in casa a leggere e rileggere la Scrittura santa del
vecchio e nuovo Testamento, che teneva tradotta in lingua aie-
mana; ed erane così istrutta, che sovente conferendo i passi ed i
luoghi allegati da' predicatori, né trovandogli conformi, notava gli
abbagli, desiderando in quelli maggior memoria ed accuratezza.
Riponeva in Dio ogni sua fiducia, ed in Giesù Cristo, come unico
e solo mediatore fra Dio e gli uomini, e de' santi avea quella vene-
razione che lor deesi come a* servi di Dio ed imitatori di Cristo.
Verso madama Laxenhoffen sua madre aveva un rispetto ed una
riverenza sì grande, che anche i di lei difetti con l'altre due so-
relle qualificava per leggieri e degni di compatimento ; sicché do-
vessero pazientemente tollerarli, ed amarla e rispettarla come lor
madre. La concordia ed union d'animo fra di loro era mirabile:
sembravami che uno spirito reggesse i tre loro corpi : non vidi mai
nascer fra di loro briga o contensione alcuna e la Fraile Ernestina
ancorché fosse minore a riguardo della prima, con tutto ciò que-
sta, per l'eccellenti virtù che ammirava in lei, volentieri la secon-
dava; ed all'incontro ella con moderazione, senz'abusarsene, va-
levasi di quella subordinazione, che tutti di casa le mostravano.
Ed a ragione il facevano, poiché per accuratezza, sollecitudine ed
abilità, bisognava che tutti le cedessero. Ella nell'economia e go-
verno di casa, ne' sottili e delicati lavori delle dita, nelle maniere
gentili e cortesi, nella soavità delle parole e nel tratto, non avea
pari: sicché tirava l'amore di quanti avean occasione di trattarla,
e dalle serve stesse era non più temuta, che amata e rispettata.
Ma sopra tante virtù che l'adornavano s'innalzava in lei la for-
tezza d'animo in pazientemente tollerare le mondane sciagure, dal-
le quali sovente si vide premuta e quasi che oppressa. Ella soffrì
doppo la morte del vecchio Plekner1 suo avo, le miserie più estreme
i. Plekner: cfr. la nota 6 a p. 109.
CAPITOLO NONO 2ÓI
che possano accadere a' più disgraziati uomini della terra, che in
narrandole non poteva non trarre dalle bocche e dagli occhi de*
più duri se non sospiri e copiose lagrime; ma la tolleranza con la
quale le sosteneva, fu maggiore delle calamità sofferte: sempre
confidando in Dio, fervorosamente pregandolo che le desse forza
in sostenerle, quando non le piaceva di darle fine. Da ciò avvenne
che verso i poveri e bisognosi era sì misericordiosa e benefica, che
sovente toglieva di sua bocca il cibo, per somministrarlo ad essi;
e solea dire che niuno sapeva meglio aver compassione degli afflitti,
se non quelli i quali aveano provato quanto fosse terribile la faccia
della miseria, e ne' loro bisogni avean trovato chi gli desse aiuto
e conforto.
Or come io, commemorando queste insigni virtù che Tornava-
no, potrò contenermi dalle lagrime, avendomi il duro mio fato
diviso da persona cotanto cara ed amabile, ed averla dovuto lasciare,
forse in pericolo di non tornar all'antiche miserie, senza che io da
sì lontani paesi o v'era mcamminato potessi sovvenirla e sottrarla
da qualche necessità, dove il suo e mio crudel destino potesse con-
durla ? Ciascuno da ciò potrà comprendere qual fosse stato il no-
stro comun dolore per una sì dura divisione. E qual fosse stata la
mia indignazione in maledire coloro che furon cagione di tante
confusioni e disordini; poiché tanti mali non da altro provenivano
che dalla lor sciocchezza, fatuità e pazza presunzione ed alteriggia.
Bisognò adunque cedere a' fati, e l'unico mio conforto era la di
lei sperimentata costanza, la quale, sicome l'avea fatto paziente-
mente soffrire le passate sciagure, così coraggiosamente sostenesse
le presenti. Ed ella era disposta di farlo, tanto maggiormente che
io le promisi che, in qualunque luogo io fossi, non avrei mancato
soccorrerla ne' suoi bisogni, per quanto la mia fortuna e le poche
mie forze avrebber permesso ; sicome non mancai, non solo prima
di partire, ma dimorando a Venezia, di confermare co' fatti queste
mie sincere e leali promesse.
Partii coli' abate Cusani da Vienna, a' 29 di agosto di quest'anno
1734, dopo esserci dimorato undici anni e tre mesi, e ritornando
per la medesima strada di Gratz e Lubiana giunsi dopo dieci gior-
ni di cammino a Triesti; dove dimorati due dì, fin che non si tro-
vasse imbarco, fatte trasportare le casse de' miei libri sopra una
peota veneziana, ci avviammo per Venezia, e ci riuscì così infelice
2Ó2 VITA DI PIETRO GIANNONE
questo, ancorché breve, viaggio marittimo, che ci convenne due
giorni fermarci in un canale dentro le lacune prossime a Caurli,1
poiché il vento contrario c'impediva prender mare, per condurci a*
porti di Venezia. Finalmente, cessato il vento dopo tre notti di
patimenti, si proseguì il viaggio, e si giunse a Venezia a' 14 di
settembre; e fummo dal padron della peota condotti nelle stanze
d'una locandiera, alla casa detta «della Verona».
Quivi, malconcio da' sofferti patimenti di quelle tre notti in
mezzo alle lacune, cominciai ad infermarmi; ed avendo fatte con-
durre le casse de' libri nella doana, affinché non si aprissero do-
vendo essere trasportate altrove, attesi a ristabilirmi in salute nel
meglio che poteva, e sollecitare la partenza per Manfredonia, pri-
ma che avanzandosi la stagione, i tempi non ci rendessero pericolo-
sa, o almanco più incommoda la navigazione. Per far ciò, due cose
bisognavano : trovar commoda nave che ci conducesse, ed ottenere
dalPambasciador di Spagna, residente a Venezia i passaporti, si-
come gli altri Napolitani facevano, volendo condursi nel regno di
Napoli, passato già sotto la dominazione di Spagna.
Ristabilitomi alquanto, mi portai dall'ambasciadore, ch'era il
conte di Fuenclara :2 gli dissi chi io era, e narrandogli i miei suc-
cessi e la dura necessità che mi costringeva a ritirarmi a Napoli,
lo pregai concedermi il passaporto, sicome faceva a gli altri Na-
politani. Con molta cortesia e gentilezza si offerì di darmelo, e
che avrebbe imposto al secretano di spedirmelo; anzi, occorrendo
ne' di prossimi di dover celebrare nel suo palazzo il compleanno
del principe d'Asturias,3 m'invitò la sera d'intervenirvi, ed a go-
dere de' rinfreschi e di una scelta musica che avea fatto preparare.
Le resi molte grazie, e promisi che non avrei mancato d'adem-
pire al mio dovere e di godere delle benignissime sue grazie; sico-
me ci andai, ed ebbi l'opportunità di incontrarmi ivi col principe
Trivulzi4 e col marchese Visconti, che io avea conosciuto a Vienna,
col marchese Valignani, col duca di Mondragone ed altri nostri
1. le lacune v . Caurli: le lagune di Caorle, tra il Tagliamento e il Piave.
2. Il conte di Fuenclara, in un primo tempo, servi anche come rappresen-
tante di Carlo III. Fu trasferito alla sede di Vienna nel 1736: cfr. M.
Schip a, Il regno di Napoli, cit., pp. 149, 166 sgg. 3. principe d'Asturias:
il futuro re di Spagna Ferdinando VI (1713-1759). 4. principe Trivulzi:
Alessandro Teodoro Trivulzio (1694-1763), conte e principe del Sacro Ro-
mano Impero, fondatore della celebre Biblioteca Trivulziana. Rimasto fe-
dele all'imperatore, durante la dominazione sabauda della Lombardia pre-
ferì trasferirsi a Venezia.
CAPITOLO NONO 263
Napolitani ; ed ebbi la fortuna di conoscere l'ambasciador di Fran-
cia, il quale mi usò gran gentilezze e cortesie.
Nel tempo stesso, saputosi a Venezia il mio arrivo, essendomi
una mattina portato nella piazza di San Marco, mi vidi, fuor d'ogni
mia aspettazione, circondato da un gran numero di gentiluomini;
tutti salutandomi per nome, e l'uno additandomi all'altro, concor-
revano per vedermi e farmi esibizioni così affettuose e gentili, che
io, pieno di confusione, appena bastava a rendergli grazie ed a
rispondere alle tante domande che mi facevano, spezialmente della
mia partenza da Vienna, e dove pensava incamminarmi. Dettagli
la cagione, ed il mio intento di ritirarmi in Napoli e vivere que'
pochi anni che mi restavano a me stesso ed a' miei studi, comin-
ciarono a pregarmi che io rimanessi presso di loro, che non mi
sarebbe riuscita ingrata la dimora in una città dove, per la mia
Istoria civile che teneano riposta nella loro pubblica biblioteca,
il mio nome erasi reso cotanto chiaro ed illustre; e che non poteva
altrove trovar quella stima, che i Veneziani avrebbero avuto della
mia persona, e replicandogli che la mia età avanzata dovea ormai
farmi pensare ad un onesto ritiro, non per questo cessavano d'in-
sistere che io non partissi. Ed erami non men di confusione che
di stupore il vedere che, camminando per le strade, non vi era
gentiluomo col quale io m'incontrava, che non mi salutasse per
nome, e non si fermasse per parlarmi. Se passava per la strada de'
librari, si affollavan tutti per conoscermi, ed ogni cittadino mostra-
va la stessa curiosità; e sempre che io era nella piazza di San Mar-
co, si tornava allo stesso ; sicché rincrescendomi di vedermi sempre
esposto a gli occhi di tanti, che sovente m'impedivano di far i fatti
miei, dissi all'abate Cusani che affrettasse il padron della nave, col
quale si era già convenuto del nostro imbarco per Manfredonia, e
procurasse di far trasportare le casse de' libri e l'altre robe su la
nave, per partire; ma colui, anche dopo il trasporto della roba,
prolungava la partenza, ora, come sogliono i marinari, perché il
vento non era propizio, ora sotto altro pretesto.
In questo vennemi a parlare Domenico Pasqualigo, gentiluomo
veneziano di famiglia tanto antica quanto illustre, e fratello del
Riformatore degli studi di Padoa, dicendomi che vacando in
quella Università la cattedra primaria del ius civile, i riformatori
volentieri l'avrebbero a me conferita, pur che fosse di mio piacere,
e che, a mio riguardo, avrebbero accresciuto il soldo, affinché io
264 VITA DI PIETRO GIANNONE
non partissi da Venezia, poiché la Repubblica cercava ogni mezzo,
per avermi a' suoi stipendi.1
Le resi molte grazie dell'offerta, ma che con somma mia di-
spiacenza non poteva accettarla, poiché se bene la mia professione
d'avvocato mi obbligasse di sapere il ius civile, sicome non ne era
ignaro, nulladimanco non avendolo mai come lettore insegnato
nelle cattedre, mancavami l'esercizio; ed ora, ch'era d'età avanzata,
pareami difficile di poterlo fare con quell'esattezza e magistero
che si converrebbe in una sì degna Università ornata di tanti illustri
professori; e la mia vecchiaia non permetteva di affaticarmi in
un mestiere, che per me sarebbe nuovo, nel quale ci sarei riuscito
pur troppo infelice ed infacondo. Ma che io, costretto da tanta
beneficenza ed affezione, ancorché fossi deliberato di ritirarmi, con
tutto ciò per mostrar gratitudine e corrispondere ad un tanto
favore, io offeriva ogni mia opera, che fosse propria della mia pro-
fessione e de' miei studi, e di rimanermi, impiegandomi in altre
cariche, che fossero a me proporzionate e di maggior servizio della
Repubblica.
Questa mia moderata e sincera risposta crebbe maggiormente
presso que' gentiluomini la mia stima ed il desiderio di ritenermi ;
sicché soddisfatti delle mie ragionevoli scuse, ancorché trattenes-
sero più mesi di provveder ad altri la cattedra, si posero a pensar
altre occasioni di mio accommodamento, nel caso volessi fermarmi
a Venezia. Intanto, non cessavano a gara onorarmi ora con visite,
ora con inviti alle loro tavole, ora in condurmi a scórre le cose più
rimarcabili della città e più magnifici edifici delle chiese, conventi
e de' superbi loro marmorei palazzi, ed ora nelle splendide e son-
tuose lor feste.
Mentre io mi tratteneva a Venezia, ecco che l'ambasciador di
Spagna mi manda ad avvisare che io differissi la partenza, per
nuovo accidente sopragiunto; ed essendomi portato dal medesimo
insieme col marchese Valignani, per saperne la cagione, mi disse
ch'eragli stato proibito di darmi passaporto per Napoli, finché non
ricevesse lettera dal conte di Santo Stefano,2 primo ministro del-
1. vennemi , . . stipendi: su questa offerta cfr. L. Marini, Documenti del-
l'opposizione curiale a Pietro Giannone, in « Rivista Storica Italiana », lxxix
(1967), doc. n.° xxxii. Riformatore degli studi di Padoa era Giovanni Pasqua-
Ugo (1 667-1752); su di lui cfr. J. Facciolati, De Gymnasio patavino syn-
tagmata, Patavii 1753, pp. 162-3. 2. conte di Santo Stefano: Manuel de
Benavides y Aragón, conte di Santisteban del Puerto (1682-dopo il 1738),
CAPITOLO NONO 265
l'Infante don Carlos in Napoli, per sua regola. Rimasi sorpreso
delle novità; e poiché dall' ambasciador di Francia residente in
Venezia riceveva continui favori, sovente invitandomi seco a pran-
zo, fui a pregarlo, che se mai sapesse donde fosse venuta tal
novità, non volesse nascondermela per mia istruzione. E mi palesò
che l'ambasciador di Spagna avea ricevuta lettera da Roma da
monsignor Ratto,1 vescovo di Cordova, che si trovava allora in
Roma ministro del re di Spagna, colla quale se l'imponeva a non
darmi passaporto per Napoli, se prima non ne avesse avviso dal
conte di Santo Stefano.
Compresi subito che il colpo veniva dalla corte di Roma; la
quale, sicome mal soffriva la mia dimora nell'imperial corte di
Vienna, non voleva che io tornassi in Napoli, temendo forse che io,
nella Corte d'un nuovo principe, non fossi adoperato e sommini-
strassi materia di nuove brighe e contese giurisdizionali: nel che
molto s'ingannava, poiché io né presso quella Corte avea alcun
merito o stima che volesse valersi della mia persona, né mi ri-
tirava in Napoli, se non per vivere a me stesso, in una solitudine.
La mia partenza da Vienna, sicome la cagione, erasi resa a tutti
palese e manifesta; ed il nunzio Passionei immantinente l'avvisò in
Roma,3 colle minute circostanze del cammino preso per Venezia,
per avere il passaporto per Napoli, sicome gli altri Napolitani,
che partivano da Vienna, facevano: e ciò facendo credette fare
un'opera egreggia e meritoria, adempiendo il dovere del suo uffi-
cio, il quale, secondo il concetto che n'avea papa Benedetto XIII,
in queste cose consiste e si riduce.3 Sicché in Roma si ebbe tempo
di poter circonvenire quel ministro e come nuovo e che di me
forse e della mia Istoria non avea notizia alcuna, descriverla come
si facea con quelli che non l'avean letta, per empia ed eretica, ed
il suo autore per non meno empio e miscredente.
Né io mi lusingava che le stesse arti maligne non si fossero
figlio del viceré di Napoli Francisco, precettore di don Carlos, quindi suo
maggiordomo (e primo ministro effettivo dal 1734), fu la mente grigia della
nuova monarchia, pur senza ricoprire cariche specifiche, sino al 1738. Su
di lui cfr. M. Schipa, II regno di Napoli, cit., pp. 71-2 e passim. 1. mon-
signor Ratto: Thomaso Rato y Ottonelli (1 682-1738), vescovo di Cordoba
dal 1731, e ambasciatore di Spagna presso la Curia romana. Il testo della
lettera in Guznnoniana, p. 40. 2. il nunzio . . . Roma: cfr. Bertelli, pp.
193-4; Giannoniana, p. 160; L. Marini, Documenti dell'opposizione curiale,
cit., doc. n.° xxii. 3. il quale . . . riduce: cfr. quanto ha già scritto a p. 124.
2Ó6 VITA DI PIETRO GIANNONE
adoperate col conte di Santo Stefano in Napoli, sicché dal mede-
simo non s'avesse da ricevere un simile divieto ; sicome l'evento il
dimostrò; poiché non passarono molti giorni, che l'ambasciador di
Spagna ebbe lettera da Napoli dal conte, che mi negasse il passa-
porto; anzi seppi dapoi, che avea mandati ordini a' confini del
Regno a' commandanti di quelle piazze, che ancorché fossi mu-
nito di passaporti de' ministri di Spagna o di Francia, non mi
lasciassero entrare nel Regno.1
Non meno l'ambasciador di Spagna che quello di Francia rima-
ser sorpresi della proibizione che si faceva ad un naturale del Re-
gno di non potersi ritirare in sua patria, quando di là non era uscito
bandito o esiliato, ma per portarsi all'imperiai corte di Vienna, a'
piedi dell'imperadore, allora suo sovrano, dal quale era stato be-
nignamente accolto e mantenuto nella sua Corte, con assignargli
certo stipendio; dov'era dimorato per undici anni e tre mesi, e
che ancor ivi sarebbe, se la mutazione de' domìni e Stati d'Italia
non avesser cambiate le cose; e che se, portatosi a Venezia, si fa-
ceva da quella Repubblica ogni sforzo per ritenerlo e non farlo
partire, ora dovesse impedirseli il ritorno alla sua propria patria,
e non per altro, se non per compiacere alla corte di Roma, che
non lo voleva in Napoli. Da ciò mosso, l'ambasciador di Spagna,
compatendo il mio caso infelice, mi incoraggi a star di buon animo,
ch'egli ne avrebbe scritto alla corte di Madrid, e che io formassi
un pieno memoriale alla Maestà del re di Spagna, Filippo V,
che l'avrebbe trasmesso ed accompagnato con le sue lettere alla
Corte, e scritto al primo ministro Patigno,2 di cui egli avea la ni-
pote per moglie, il torto che mi si faceva d'impedirmi il ritorno a
Napoli. Di che io gli resi molte grazie, e promisi portargli il me-
moriale.
Intanto, per una sì improvisa novità mandai a tòr le mie robe
e le casse de' libri dalla nave, e procurai partendo l'abate Cusani,
di cercar altra abitazione più commoda, giacché dovea trattenermi
in quell'imminente inverno a Venezia. E trovatala acconcia a' miei
i. mandati . . . Regno: cfr. Vita, ed. Nicolini, p. 295, in nota, e Giannoniana,
pp. 40 sgg. 2. Patigno : Joseph Patino (1666-1736), nato a Milano da nobi-
le famiglia aragonese, gesuita, lasciò l'ordine per porsi al servizio di Fi-
lippo V di Spagna, e dal 1726, senza ricoprire cariche ufficiali, ebbe di fatto
in mano il governo di Spagna, forte dell'appoggio della regina Elisabetta
Farnese.
CAPITOLO NONO 267
bisogni, passai a' 24 del mese d'ottobre ad abitarvi, ove feci tra-
sportare e collocare i miei libri in nuove scanzie, nel miglior modo
che potei, per averne uso in que' rigidi mesi che soprastavano.
I Veneziani, ignorandone la vera cagione, si rallegrarono della
mia risoluzione di trattenermi a Venezia; e nella nuova abitazione,
come vicina alla piazza di San Marco,1 le visite erano più frequenti,
ed io non mancava con niuno, in questa parte di civiltà di restituir-
le; e con tal occasione acquistai la conoscenza di vari letterati
veneziani, non men nobili che cittadini, i quali mi rendevano som-
mo onore per la stima che mostravano avere della mia persona; e
ne trovai alcuni veramente dotti e nelle scienze profondi; e fra*
nobili l'abate Conti, Antonio Cornaro, Domenico Pasqualigo, Fran-
cesco Bettoni, il padre Rota, benedittino, il marchese Ghezzi3 ed
altri, di cui ora non mi sovvengono i nomi; e fra i cittadini, l'abate
Moazzi, Apostolo Zeno,3 che io conobbi a Vienna, il padre teologo4
della Repubblica, servita, il padre Lodoli,5 franciscano, rivisore
1. nella . . . Marco: scrive il Panzini, p. 78, che il Giannone trovò abi-
tazione presso un certo Antonio Mazzoleni, al ponte Sant'Angelo (cioè
alla Giudecca), il che contrasta con quanto qui scrive il Giannone;
più probabilmente il Panzini equivocò tra il ponte e l'omonimo campo,
questo posto tra San Marco e l'Accademia. 2. Nell'ordine, si tratta del
celebre Antonio Conti (1667- 1749), poligrafo, filosofo e matematico, corri-
spondente del Newton e del Leibniz ; di un membro della famiglia patri-
zia dei Corner ; del già ricordato patrizio veneziano Domenico Pasqualigo
(1674-?), fratello del riformatore allo Studio patavino; del padre Fran-
cesco Rota (1694-?), filosofo e matematico, benedettino cassinense, cor-
rispondente del Muratori (su di lui cfr. A. Armellini, Biblioiheca Cas-
sinensis, 1, Assisi 173 1, p. 175; J. Francois, Bibliothèque generale des
écrivains de VOrdre de S. Benott . . ., 11, Bouillon 1777, p. 510). Nul-
la sappiamo di Francesco Bettoni e del maschese Ghezzi. 3. Apostolo Ze-
no (1 668-1750) fu, col Muratori e il Maffei, una delle figure di primo
piano del nostro Settecento, e col Maffei e il Vallisnieri fondò e di-
resse dal 17 io il «Giornale dei Letterati», sul modello degli «Acta Eru-
ditorum Lipsiensium ». Erudito e letterato, acclamato librettista, venne
chiamato a Vienna con la carica di «poeta cesareo» nel 171 8, alla quale
aggiunse successivamente anche l'altra di «storiografo imperiale». Di lui,
non appena conosciutolo, scrisse il Giannone al fratello, il 26 giugno
1723 {Giamioniana, n.° 8): «Del . . . signor Apostolo devo molto lodarmi
che è interessato al mio partito. Egli è un gentilissimo letterato . . . Ha
raccolti qui buoni libri, e ne ha formata una picciola libreria che con tanta
gentilezza m'offerì in caso mi bisognassero libri nella mia dimora qui ». Lo
Zeno rientrò a Venezia abbandonando gli incarichi a corte sul finire del
1729. 4. il padre teologo: era il servita Paolo Celotti, che ricoprì la carica
dal 1717 al 1752. 5. il padre Lodoli: Carlo dei conti Lodoli (1690-1761),
autore di un volume di Elementi delV architettura lodoliana, editi postu-
mi da Andrea Menomo, Roma 1786. B. Gamba, Galleria dei letterati ed
artisti illustri della Provincia Veneziana nel secolo Decimottavo, 1, Venezia
268 VITA DI PIETRO GIANNONE
per la Repubblica de* libri che si stampano o si introducono a
Venezia, il padre Crivelli,1 il Tucci ed alquanti altri; e poiché
le sere, in casa del gentiluomo Giustiniani,2 solevasi avere un'as-
semblea d'uomini eruditi, vi fui anche invitato, ma poi non potei
continuarla, riuscendomi non solo incommoda, ma perniciosa alla
salute, dovendomi ritirar a casa di notte, fra dense e gravi caligini,
delle quali sovente è la città coverta e le strade ingombre.
Prima che io vedessi Venezia, credetti che come città fondata
nel mare il suo clima dovesse riuscirmi salubre, essendo io nato e
cresciuto in una terra del monte Gargano, non più che mille passi
lontana dal mar Adriatico, e poi dimorato in Napoli, città maritti-
ma, poco men di trenta anni; ma sperimentai tutto il contrario,
poiché io era in una falsa supposizione, credendo che la città fosse
stata costrutta in quell'angolo sopra più isolette e scogli di mare
vicini fra loro, congiunti poi con ponti ed altre fabbriche ; onde se
le fosse dato aspetto d'una città non men magnifica, che nuova e
sorprendente, vedendosi sorgere in mezzo il mare, il qual colle
sue acque empie le sue strade e circonda tutti i dilatati suoi edi-
fici. Ma non è così: ella fu costrutta in quell'angolo tutto paludoso
e pieno di stagni e di lacune, che formano i tanti fiumi, che in
quella parte e nelle vicine mettono in mare; nel che contribuiscono
non pur la Brenta ed altri minori, ma l'Adige e il Po, ampi e super-
bissimi fiumi, allagando colle loro acque, per più miglia, il ter-
reno di quell'intimo recesso; sicché gli edifici non sono fondati
sopra scogli, ma sopra terreno limaccioso e molle, nel quale con-
ficcando grosse travi strettamente congiunte sopra la punta delle
medesime innalzano la mole degli edifici ; e se non fossero queste
acque irrigate da' flutti marittimi, che le rende salse, ed il flusso e
riflusso del mare non le desse moto, certamente che come sta-
gnanti renderebbero la città pestifera, da non potersici abitare; e
per ciò fa mestieri tener i canali sempre purgati e netti, perché
l'acqua fluisca e non impaduli; e con tutta la diligenza che s'usi,
1824, ad vocem, lo dice «Impetuoso, al cinismo proclive, di singolari modi
né sempre misurati, non mancò d'avversari che lo perseguitarono sin là
dove gli odi e le invidie ammutiscono ». Su di lui cfr. anche Sigismondo
da Venezia, Biografia serafica degli uomini illustri che fiorirono nel fran-
cescano istituto, Venezia 1846, p. 789. 1. il padre Crivelli: forse Giovanni
Crivelli (1690-1743), somasco, poligrafo, fisico e matematico veneziano.
2. Giustiniani: altra famiglia patrizia veneziana. Non vi sono elementi ba-
stevoli per individuare di quale membro della famiglia si parli qui.
CAPITOLO NONO 269
pure, l'està, alcuni danno un fetore sì grave, che se non quelli che
ci sono nati possono viverci lungamente sani. Sicché non bisogna
concepir Venezia esser posta in mare, o a' lidi del mare, ma sopra
stagni irrigati da flutti marittimi. Ed è ciò sì vero, che i Veneziani
stessi, spezialmente le donne, i quali non sono usciti dalle loro
lacune, non hanno idea del mar sonante ed orgoglioso ; e mi ricor-
da che, condotto dal senator Pisani fuori al lido, in una peota nella
quale erano alcune donne di nostra compagnia, queste appena
veduto il mare spumante ed ondoso ed inteso il fremito e il romo-
re, si atterrirono come se avessero veduto un mostro spaventevole
ed orrendo.
Questa situazione, sicome rende sicura la città da pericoli ed
insulti di nemiche armate e classi1 marittime, e per le navi fluviatili
agevola il trasporto delle merci, sicché la rende abbondante; così
rende l'aria che si respira, massimamente quando soffia vento au-
strale, gravosa, umida e caliginosa, e se non quelli, che vi sono
nati ed assuefatti, possono abitarci sani ed incolumi. A me, certa-
mente che non mi conferiva punto ; e tanto più che, avvezzo ne*
mesi di està, all'apriche ed amene campagne, mi rincresceva veder-
mi in luogo, dove altro non guardava che pietre ed acqua, e nem-
meno di mare, ma di stagni e di paludi; sicché non potei mai rista-
bilirmi in una perfetta salute.
Fra gli altri gentiluomini, che con tanta cortesia e gentilezza
mi favorivano, volle distinguersi il senator Angelo Pisani di San-
t'Angelo, il quale con somma cordialità ed amore spesso seco
m'invitava a pranzo, facendomi cortesi ed affettuose offerte di
quanto fosse per occorrermi; ed ancorché fossimo alla fine di ot-
tobre, prolungandosi in Italia le villeggiature per tutto il mese di
novembre, dovendo egli condursi nella sua villa di Rovere di Crè,
presso Rovigo nel Polesine, istantemente mi richiese che io dovessi
tenerli compagnia e venire a godere l'amenità di quelle campagne,
le quali non mi sarebbero riuscite ingrate. Io, che non desiderava
altro che questo, pensando così ristabilirmi, prima che sopraggiun-
gessero i rigidi mesi dell'inverno, volentieri promisi di seguitarlo.
Intanto i Gesuiti emissari della corte di Roma mal sofferendo
che io in Venezia era stato sì ben ricevuto, e da tutti i gentiluo-
mini sì caramente accolto e trattato, cominciarono ad usar le solite
1. classi: flotte (latinismo).
270 VITA DI PIETRO GIANNONE
lor arti, per malignarmi1 presso di quelli, spargendo che immeri -
tacciente mi si facevano tante grate accoglienze, quando io nella
mia Istorie? avea trattato i Veneziani di «corta fede», e che intorno
al dominio del mar Adriatico non mi conformava co' sentimenti
della Repubblica; sicome d'altra maniera rapportava il fatto di
papa Alessandro III coll'imperadore Federico Barbarossa, e la di-
sfatta della sua armata navale per i Veneziani, e riputarsi favolosa
la vile sommissione di Federico e l'orgoglio del papa, che si narra
aver usato a quelTimperadore.3
Per ciò che riguardava l'imputarmi aver io qualificato i Vene-
ziani esser di « corta fede », fu facile fargli ricredere dell'impostura,
poiché io non parlava nel passo additato del secondo tomo di mio
proprio sentimento, ma riferendo, come istorico, il concetto che
n'aveano allora i partegiani di Federico. Più operosa faccenda era
dileguare l'altre imposture, le quali per manifestarle non bastavano
poche parole; onde consigliato da alcuni gentiluomini stessi miei
amici, mi risolsi in due brevi dissertazioni dimostrare che, così per
ciò che s'attiene al dominio del mar Adriatico, come all'istoria
d'Alessandro III, non avea in minima parte pregiudicato alla Re-
pubblica; anzi che nel fatto di Alessandro, secondo che io lo rap-
portava, riluceva assai più il decoro e la dignità del doge e del
Senato.
Per far ciò agiatamente, tanto più volentieri abbracciai l'offerta
del senator Pisani di seguitarlo in villa, per dove si partì, per acqua,
a' princìpi di novembre, navigando, passate le lacune, per l'Adige,
ed indi un ramo di questo istesso fiume ci portò a Rovigo; e
giunto che fui a Rovere di Crè, non posso negare che intesi al-
quanto ristorarmi da quelle ancor verdi campagne; e ripigliando il
mio tralasciato esercizio, cominciai a vagare per quelle pianure,
secondo che i tempi e l'avanzata stagione permettevano.
1. malignarmi: calunniarmi. Cfr. la lettera di Domenico Passionei del 13
novembre 1734 (Giannoniana, p. 160) e L. Marini, Documenti dell'oppo-
sizione curiale, cit., doc. n.° xxxi. 2. Cfr. Istoria civile, tomo 11, hb. xm,
cap. 1, par. 1, pp. 282-5. 3. sicome — imperadore: su una donazione del
Mare Adriatico ai Veneziani, compiuta in premio per la disfatta di Ottone,
figlio di Federico Barbarossa, da parte di Alessandro III, si fondava la legit-
timazione del controllo del golfo (cfr. P. Giustinian, Rerum venetarum ab
urbe condita ad annum M. D. LXXV historta, Argentorati 1 610, pp. 25-8).
Il Giannone, sia nell'Istoria civile, sia nel trattato che stese per rispondere
alle accuse, sostenne che non apparteneva al papa Pautorità di concedere il
dominio di un mare, riprendendo così la tematica del Valla.
CAPITOLO NONO 271
È vero che, trovandosi la villa da spessi fossi di acque circon-
data e alcuni piani paludosi, e le possessioni non aver altri termini
che la dividevano, se non stretti e lunghi canali dove Tacque sta-
gnavano, compresi che l'aria per me non potesse molto giovarmi;
sicome a lungo andare sperimentai; poiché, aggiunte a ciò le so-
verchie carezze e le profuse tavole, che il Pisani, coll'occasione di
più conviti fatti al vescovo, al podestà ed altri gentiluomini di
Rovigo, spesso apparecchiava, fecer sì che io venni ad infermarmi
con febre: dalla quale un medico ebreo di Rovigo me ne liberò,
non con altro, che con una rigida e severa dieta di più giorni.
Cominciai da ciò a star più cauto nell'avvenire, vedendo che niente
giovavami l'aria di quelle campagne per la digestione; sicché con
poco mangiare e molto camminare si tirò ivi avanti più settimane,
nelle quali potei compire le due dissertazioni, avendo a questo
fine portato que' libri che credetti esser bastanti per venirne a capo.
Conobbi con tal occasione monsignor Soffietti1 vescovo d'Adria,
che tiene ora la sua residenza a Rovigo, prelato non men dotto che
savio ed amante di buoni studi e di storia ecclesiastica; e mi disse
che, essendo egli d'origine greco, avea per le mani un'opera dove
trattava della politia e della disciplina della Chiesa greca. Conobbi
parimente il conte Silvestri,31 figliuolo di quel Silvestri noto alla
repubblica de' letterati per la traduzione e sposizione italiana di
Persio3 e per altre sue opere date alle stampe,4 onde i compatriotti
credono che abbia illustrata la patria, non meno di Celio Rodigino.5
Fra le sue opere io prepongo quella latina Della cronologia de9
tempi? dove con maggior esattezza degli altri tratta del vero anno
della natività di Cristo, e concilia l'antinomia che sembra essere
tra il Vangelo di san Matteo e quello di san Luca. Mi mostrò al-
cuni manuscritti di suo padre ed alcuni monumenti d'antichità
romane, delle quali facea ricerca, così di medaglie, come di marmi,
ed un libro ch'egli era per dar alla luce, appartenente alla topogra-
1. Giovanni Soffietti (1675-1742), vescovo di Chioggia nel 1716, di Adria
dal 1733. 2. Carlo Silvestri (1690-1754), storico e archeologo. 3. sposi-
zione . . . Persio : cfr. Giuvenale e Persio spiegati con la dovuta modestia in
versi volgari, Padova 1711, di Camillo Silvestri (1645-1719). 4. altre . . .
stampe: cfr. M. Zorzi, Vita del signor conte Camillo Silvestri, Padova 171 1.
5. Celio Rodigino; Lodovico Bicchieri (1469-1525), umanisticamente chia-
mato Caelius Rodiginus dalla città natale, Rovigo, grande erudito come testi-
moniano le sue Antiquae Lectiones, date alla luce nel 15 16. 6. Cfr. C. Sil-
vestri, Chronologia in tres partes divisa . . . opus posthumum italice ab auctore
scriptum et Carolo eiusfilio curante latine redditum, Lipsiae 1726.
272 VITA DI PIETRO GIANNONE
fia del Polesine e descrizione di que' luoghi palustri intorno Adria.1
Fu continuata la villeggiatura fin che il freddo non ce ne scac-
ciasse; e tornossi a Venezia a' 5 di decembre. Il Pisani, con af-
fettuose e sincere espressioni mi offeriva che io rimanessi in sua
casa, dov'egli avea un appartamento vóto, che più volte mi mostrò
a questo fine. Gli risposi che, non sapendo se dovea fermarmi a
Venezia, ed il quartiere essendo per me solo molto ampio, non vo-
leva entrarci d'inverno, dove avrei dovuto soffrire freddi estremi,
essendo io accostumato alle stufe di Vienna: onde lo pregava che
mi lasciasse stare quell'inverno nelle stanze da me prese, le quali
io avea già premunite con stuore2 ed altri ripari; ma che, se dovea
restar a Venezia, nella primavera ventura, non mi sarei abusato
delle benignissime sue grazie.
Tornato a Venezia, attesi a far trascrivere in buon carattere le
dissertazioni, che avea composte in villa, intorno al Dominio del
mar Adriatico, ed Atto di papa Alessandro con Federico Barbarossa,3
e prima di pubblicarle le feci leggere ad alcuni gentiluomini, da'
quali potea compromettermi un sincero e sano consiglio, ed un
esatto giudicio ed emenda per corrigerle; i quali sommamente l'ap-
provarono e fuwi chi mi consigliasse anche di darle alle stampe;
ma io non volli, bastandomi che girassero manuscritte per ricredere
coloro che ignoravano il vero di que' successi, che io, sicome non
offesi il dritto della Repubblica, così avea adempite le parti non
men di un buon cittadino napolitano, che d'un fedele e verace
istorico. Appena se ne trascrissero alcuni esemplari, che, letti da
molti ed altamente commendati, si sparsero da per tutto; sicché
essendo la gente non men garrula che curiosa si arrivò che non vi
era gentiluomo o cittadino che non ne volesse copia.
Si dileguarono per ciò le calunnie che s'erano sparse da' Gesuiti
per farmi cadere dalla grazia ed affezione che mostravano di me i
Veneziani; ma non per ciò si ristettero. Non passarono molti gior-
ni, che sparsero che in Francia era uscito un libretto in lingua
francese, nel quale si malmenava non pur la Istoria civile^ ma il
di lui autore, trattandolo per empio e miscredente, mostrandolo ad
1. un libro . . . Adria: cfr. C. Silvestri, Isterica e geografica descrizione del-
le antiche paludi Adriane, ora chiamate lagene di Venezia, Venezia 1736.
2. stuore: stuoie. 3. Dominio . . . Barbar ossa: cfr. J. Bonnant, Pietro Gian-
none à Genève, cit., p. 131 ; e Giannoniana, pp. 405-6 e 327. L'opera fu inse-
rita nell'eduzione delle Opere postume, 1, pp. 213 sgg., come capitolo finale
dell'Apologia.
CAPITOLO NONO 273
alcuni ed additando ad altri anche la biblioteca dov'era, ch'era
quella del Pisani di Santo Stefano, fatto poi doge,1 perché chi ne
ayea voglia potesse leggerlo. Il senator Pisani fu il primo che mi
diede notizia del romore sparso; alla quale io rimasi sorpreso,
non sapendo che si fosse questo libretto ed il suo autore. Lo pre-
gai che dal Pisani suo gentile2 lo procurasse per leggerlo, giungen-
domi strano e nuovo che, nel tempo istesso che si stava traducendo
in francese V Istoria civile, per darsi alle stampe, fosse uscita in
Francia questa inclementissima censura contro la medesima.
Non mancò il Pisani di averlo e, mostratomelo mi accorsi subito
che quel libretto non era che un tometto de' « Giornali di Trevoix »,
dove in breve era stata compendiata l'opera del padre Sanfelice,
di che io già avea notizia; poiché i Gesuiti, a conto de' quali si com-
pilavano a Trevoix quelli «Giornali», vedendo che l'opera di uno
della loro società era stata negli « Atti » di Lipsia e negli altri giornali
rapportata qual era, per sciocca, satirica e calunniosa, per riparar
al meglio che si potea la fama del Sanfelice l'aveano accorciata ne'
loro «Giornali», dandogli meno sconcio e deforme aspetto.3 Dissi
per ciò ridendo al Pisani, che i Gesuiti di Venezia erano pur troppo
sciocchi nel tessere imposture, le quali presto si sarebbero mani-
festate. Guardassero bene, che quel libretto non era opera nuova,
ma vecchia, alla quale bastantemente si era risposto; e che face-
van male d'andar rotolando queste cose, dalle quali non potevan
ritrarre se non rossore e vergogna.
Tanto più si accese al Pisani desiderio di legger la risposta che
si era data al Sanfelice; ed io che per quattro mesi ch'era dimorato
a Venezia non ne avea fatto alcun motto, fui costretto confidarla al
Pisani, a cui professava tanti obblighi, con legge che non l'avesse
ad altri mostrata. Ma fu difficile che il medesimo, avendola letta
potesse contenersi, sicché non la desse a leggere ad altri gentiluo-
mini suoi amici; onde si divolgò a Venezia, non men di ciò che
gli anni scorsi si era divolgata in Roma, Napoli e Vienna. Di che
non io, ma i Gesuiti stessi furono la vera e sola cagione.
Intanto, per adempire alle promesse date all'ambasciador di Spa-
gna, avendo disteso un pieno memoriale per la Maestà del re Fi-
1. Pisani . . . fifone: Luigi Pisani di Santo Stefano (1664-1741), creato doge
nel 1735. 2. gentile: parente (latinismo). 3. Vaveano . . . aspetto: cfr. p.
182 e la nota 4 ivi.
18
274 VITA DI PIETRO GIANNONE
lippo V, glielo portai pregandolo che con efficacia mi raccoman-
dasse in quella Corte, perché io potessi ritirarmi a Napoli, a finir
ivi in riposo i miei giorni ; ed avendolo Pambasciador letto, e det-
tomi che andava a dovere, mi promise ch'egli l'avrebbe acchiuso
nel suo piego, ed efficacemente raccomandato a Madrid a' suoi
amici e congionti; e poiché avea tutta la premura di favorirmi,
m'impose che ne formassi un altro consimile, diretto in Napoli
all'Infante don Carlos; poiché, governandosi il Regno con altro
sistema di quello di prima, era facile che la corte di Madrid non
volesse per se medesima darvi provvidenza, ma rimetterlo alla nuo-
va corte di Napoli, dove l'Infante non da generalissimo delle armi
di Spagna, né come vicario del re Filippo suo padre, ma coman-
dava in Napoli ed in Sicilia come proprio e particolar re di que'
regni.
Fin da che io era a Vienna, s'intese che l'Infante don Carlos,
mutato il titolo di Generalissimo, secondo lo qualificavano gli editti,
che il re di Spagna suo padre avea fatto precorrere, presa la città
di Napoli e gran parte del Regno, avea assunto quello di re; e
ciò per una lettera, che diceasi avere scritta il re Filippo alla città
di Napoli, nella quale commendando la fedeltà de' Napolitani ver-
so l'antico e naturai suo signore d'avere ricevute le sue armi nel
Regno e nella lor città, colPInfante suo figliuolo, in gratitudine
di tanto amore glielo dava per loro re proprio, al quale dovessero
ubbidire; sicome anche avrebbe fatto, conquistata che fosse la Si-
cilia, affinché questi due regni, separati dalla corona di Spagna,
avessero un lor proprio e particolar re, il qual collocando la sua
sede regia in Napoli, l'avesse da quivi retti e governati.1
Non poteva proporsi a' Napolitani cosa più grata e desiderabile
che questa; poiché doppo il corso di poco men che due secoli e
mezzo, si toglievano d'esser provinciali, e riacquistavano un par-
ticolar re, che a lungo andare sarebbesi reso lor proprio e nazio-
nale. Ma credeasi, che questa fosse un'ambiziosa e fantastica idea
della regina,2 madre dell'Infante, la quale non contenta di averlo
stabilito in Italia co' ducati di Parma e di Toscana un gran prin-
cipe, volesse ora colla giunta di due regni, costituirlo un gran re.
Esser certamente per i Napolitani cosa molto pregievole e speciosa,
i. Fin . . . governati-, cfr. M. Schipa, U regno di Napoli, cit., p. 128. 2. re-
gina: Elisabetta Farnese, che Filippo aveva sposato in seconde nozze. Cfr.
la nota 5 a p. 242.
CAPITOLO NONO 275
ma non si comprendeva come potesse esser durabile e ferma; poi-
ché sotto pretesto d'essersi nullamente, colla pace di Vienna del
1725, staccati questi due regni dalla corona di Spagna, si era mossa
la guerra per ricuperargli. Il re Filippo, colF armata e cogli eserciti
spagnoli e colle forze della Spagna, avergli ricuperati: come ora,
restituiti alla corona di Spagna, con una semplice lettera del re,
senza il consenso de' parlamenti e delle corti di Spagna, smem-
brargli e cedergli all'Infante, che non era successore della corona,
e farsi questo torto al principe di Asturias P1 Sapersi che i regni di
Napoli e di Sicilia gli antichi re di Spagna l'aveano uniti ed incor-
porati alla corona d'Aragona, ed esser noto che il re Alfonso,2 se
bene per l'adozione della regina Giovanna II, e più col suo valore
ed industria avesse acquistato il regno di Napoli; onde sembrava
che potesse legittimamente lasciarlo a Ferdinando suo fìgliuol na-
turale legitimato ; nulladimanco Ferdinando il Cattolico riputò in-
giusta la separazione, e scacciandone Federico3 discendente di Fer-
dinando, lo restituì alla corona d'Aragona, dicendo che Alfonso
avea acquistato quel Regno colle armi e colle forze de' regni d'A-
ragona.
Or come ora questi regni riacquistati colle truppe ed armate di
Spagna, e la spedizione essendosi fatta in nome del re di Spagna,
nella quale comandarono generali spagnoli, e l'istesso Infante non
se non come generalissimo dell'armata vi comparve : potevansi con
una lettera staccarsi dalla corona di Spagna e trasformarsi il gene-
ralissimo in re sovrano, il qual non ha propri eserciti né armate,
e la stessa dignità regale non può sostenerla, se non colle truppe
e milizie di Spagna? Se la Spagna richiama a sé i suoi eserciti
ed armate, come rimarrà questo nuovo re, non avendo Napoli e
1. questo . . . Asturias: Ferdinando era infatti il primogenito del re Filippo,
mentre Carlo era il primo dei figli di secondo letto. 2. Alfonso V il Ma-
gnanimo (1396-1458), dal 1416 re di Aragona, Sicilia e Sardegna, adotta-
to dalla regina Giovanna II di Napoli (1371-1435) che lo oppose a Luigi
III d'Angiò (1403-1434), dovette battersi per la successione, dopo la morte
della regina, contro il fratello ed erede di Luigi, Renato. Riuscì vittorioso
solo nel 1442, e si stabilì a Napoli, partecipando attivamente alle vicende
italiane, sino alla morte. Gli successe il fratello Giovanni II (1397-1479)
sul trono di Aragona, e il figlio naturale Ferdinando (143 1 circa-1494), non
senza contrasti, sul trono di Napoli. Tale successione di Ferdinando, con-
siderata illegittima, diede parvenza di legalità all'occupazione proditoria
del Regno (trattato di Granata, 1500) compiuta da Ferdinando il Catto-
lico (1452-15 16), figlio e successore in Aragona di Giovanni II. 3. Fede-
rico I d'Aragona (1451 circa-1504), re di Napoli dal 1496 al 1501.
276 VITA DI PIETRO GIANNONE
Sicilia propria milizia; e sono ormai due secoli che i Napolitani e
Siciliani han tralasciato le armi ed ogni militar esercizio ?
Questi discorsi si facevan allora a Vienna; ma intanto, P Infante
don Carlos era in Napoli salutato re e ne' dispacci e scritture così
nomato. Si aggiunse doppo la notizia che da sua parte si facevano
istanze in Roma, nella vigilia di san Pietro voler egli presentar la
chinea,1 pretendendo che il papa dovesse dargli rinvestitura del
Regno; e se bene il papa quest'anno 1734, poiché ancor Capua ed
altre città eran in mano di Cesare, non gliela accordasse, riceven-
dola dalPimperadore, nulladimanco nel seguente anno che il Re-
gno interamente fu evacuato dalle truppe tedesche, non volle più
riceverla dall' imperadore, e riputò sospendere il tutto fin che non
si vedesse ove andassero a terminar i moti d'Italia.
Ed essendo io già a Venezia, ove spesso capitavano Napolitani,
questi mi mostrarono le nuove monete d'argento, fatte coniar in
Napoli dall'Infante, nelle quali leggevasi il nome di Carlo, coll'ag-
giunta di Neapolis Rex. Egli è vero che i Napolitani non si avanza-
rono a determinare il numero, non sapendo se dovessero dirlo
sesto, o settimo, 0 pure ottavo. Se non si voleva tener conto del-
l'imperadore, era d'uopo chiamarlo Carlo VI; ma se come fran-
cese della famiglia Borbone si volesse fra la serie de' re di Napoli
porre Carlo VIII, re di Francia, bisognava dirlo Carlo VII. Ma
in ciò fortemente ripugnavano gli Spagnoli, che non volevan sof-
frire che di quel re francese si avesse conto; sicché, saviamente,
non vi poser numero alcuno ; se bene non si arrivasse mai a capire
che volesse dinotar quel motto, posto nella moneta stessa, sopra
il Sebeto: de socio princeps, che non può riferirsi né alla città,
né al nuovo re rifatto.2 Ma i Siciliani, poiché essi non aveano l'im-
broglio del re Carlo VIII, francamente omesso l'imperadore, nelle
loro monete, che pur mi furon mostrate a Venezia, determina-
rono il numero, e dissero Carolus III, Siciliae Rex; poich'essi, che
1. presentar la chinea: il regno di Napoli era infeudato al pontefice al
quale, in segno di vassallaggio, i suoi sovrani offrivano un censo annuo in
moneta aurea, portato dal loro ambasciatore su di una mula bianca (in
francese antico ihaquenée), nel giorno dei santi Pietro e Paolo. La cerimo-
nia risaliva ai tempi di Carlo d'Angiò (1266). 2. le nuove . . . rifatto:
queste monete, su disegno di Francesco Solimena (1657-1747), recavano
nel recto le armi di Spagna e nel verso la personificazione del fiume
Sebeto con intomo il motto, proposto da Matteo Egizio, e che voleva si-
gnificare come, da «alleato» in guerra, Carlo fosse divenuto re.
CAPITOLO NONO 277
non erano stati sotto i re angioini, non riconoscevano altri Carli
re di Sicilia se non Carlo V imperadore e Carlo II re di Spagna.
Or governandosi il regno di Napoli con questo nuovo sistema
di aver proprio re, riputò l'ambasciadore di Spagna che dovessi
formar altro memoriale1 per don Carlos, re di Napoli; e se bene
allora si trovasse partito per Sicilia, per ivi incoronarsi, preparan-
dosi intanto a Palermo gli apparati d'una celebrità sì solenne e
magnifica;2 nulladimanco stimò non per questo doversi rimanere,
affinché arrivasse prima che da Madrid potesse il conte di Santo
Stefano aver notizia del mio ricorso fatto in quella Corte; ed ac-
chiusolo nel suo piego, lo stradò per Sicilia, scrivendo al conte
essersi inviato a Spagna un simil memoriale al re Filippo, con
raccomandargli efficacemente di far sì che io potessi tornar in
Napoli, dove forse la mia persona non le sarebbe riuscita inutile.
E mentre si stavano attendendo le risposte non men da Sicilia
che da Madrid, avvicinandosi il Carnevale del nuovo anno 1735,
giunse da Napoli a Venezia il principe della Torella Caracciolo,3
molto ben veduto dalla nuova corte di Napoli, e ch'era adoperato
non meno nelle cose militari che negli affari politici di quel Regno;
onde stimai, avendo già saputo che io era a Venezia, di andare a
visitarlo; il quale accoltomi con molta cortesia e gentilezza, fra
le altre cose mi disse che io non m'impegnassi co' Veneziani di
rimaner ivi impiegato a' servizi di quella Repubblica, poich'egli,
avendo di me più volte parlato con Tambasciador di Spagna,
l'avea detto che nelle variazioni e nuovi sistemi che doveano darsi
a Napoli, egli stimava ivi necessaria la mia persona, come quella
che era più versata ed istruita delle cose di quel Regno ; onde che
non mi lasciassi piegare dalle lusinghe de' Veneziani, perché si
era per me efficacemente scritto non meno alla corte di Madrid,
che a quella di Napoli pel mio ritorno.
Li risposi che così avrei fatto, né dato co' medesimi alcun passo
che fosse irretrattabile, e che io avea riposta tutta la mia fiducia
nelle mani delTambasciadore, il quale con tanta affezione ed effi-
cacia avea prese le mie parti non men nell'una che nell'altra Corte;
e così pregava che volesse anche egli conferire i valevoli suoi uffici
1. altro memoriale: cfr. il testo in Vita, ed. Nicolini, Appendice, pp. 441-6.
2. preparandosi . . . magnifica: la cerimonia dell'incoronazione avvenne il 3
luglio 1735. 3. Antonio Carmine Caracciolo di Torella (1692-1740), che
fu ambasciatore a Parigi dal 1735 al 1739.
278 VITA DI PIETRO GIANNONE
in Napoli, scrivendo a' suoi amici e congionti e tornando colà
aggevolar l'impresa, poiché io fortemente temeva che la corte di
Roma avrebbe fatto ogni sforzo d'impedirmelo, e tentato ogni mez-
zo col conte di Santo Stefano di far riuscir vana ogni opera, che
per me si tentasse o nell'una o nell'altra Corte. Promise di farlo, e
che io fossi stato in ciò fermo e di buon animo, poiché le cose s'e-
rano incamminate in guisa ch'egli ne sperava prosperi successi.
Ed in questo erasene già passato il mese di dicembre, ed entrati
già per più settimane nel nuovo anno 1735.
CAPITOLO DECIMO
Anno 1735- Venezia, Modena e Milano.
Proseguiva intanto la mia dimora a Venezia, sofferendo come
poteva il meglio la rigidezza di quell'orrido inverno, in paese ove
non si badava di scacciar il freddo, se non con pelliccie e fascetti
efimeri ne' camini, non già con fuoco stabile o stufe, sicom'era io
avvezzo di fare a Vienna, dove, ancorché sotto cielo più aspro, si
era pensato efficacemente di scacciarlo affatto: sicché mi riusciva
più incommoda e noiosa la dimora, ed aspettava con impazienza
l'imminente primavera, così perché i tempi si raddolcissero, come
perché mi lusingava di poter ricever riscontri di mio sollievo o da
Madrid o da Sicilia.
Intanto non cessavano nel Carnevale que' gentiluomini di conti-
nuarmi le grate lor accoglienze, e d'invitarmi sovente a guardare
dalle lor finestre gli spettacoli che si facevano nella piazza di San
Marco, ovvero nelle opere de' lor teatri; e spezialmente da' gentilis-
simi fratelli Grimani riceveva in ciò spessi favori ; e se bene io non
fossi niente inclinato a veder spettacoli, o sentir opere o comedie
ne' teatri, nulladimanco, per non abusarmi delle lor grazie, faceva
forza a me medesimo per compiacergli.
A lungo andare fui avvertito, che i Gesuiti fortemente sdegnati
che la risposta data al Sanfelice1 correva per le mani di molti e
ch'era con piacere letta e commendata, mi tendevano insidie, e
sempre che io capitava nella piazza di San Marco, tenevan ivi
persone che notassero tutti i miei detti ed andamenti; onde che
fossi nel parlar cauto e ritenuto: anzi meglio avrei fatto, se me
n'astenessi; poiché ad ogni mia parola si davano maligne interpre-
tazioni, e sovente era calunniato di cose da me non pur pensate,
non che dette. < Seppi dapoi che, oltre i Gesuiti, si era dalla Congre-
gazione del Santo Ufficio di Roma data premurosa incombenza
all'Inquisitor di Venezia, che invigilasse sopra i miei andamenti e
s'ingegnasse di farmi reo nel di lui tribunale>.z
Feci buon uso del consiglio, e di rado mi feci poi ivi vedere e
qualche mattina, quando il tempo il permetteva, solea trattenermi
i. la risposta . . . Sanfelice: cioè la Professione di fede. 2. Seppi . . . tri-
bunale: per questa aggiunta cfr. S. Bertelli, U incartamento originale^ cit.,
pp. 20-1.
280 VITA DI PIETRO GIANNONE
nella libraria del Pitteri1 mercante di libri, dove alle volte ci tro-
vava gli abati Conti e Moazzi, o qualche altro gentiluomo, mio
amico; e passar co* medesimi in eruditi discorsi qualche ora. Il
dopo desinare solea portarmi in casa del Bettoni, ove si trovava il
Pasqualigo ed altri gentiluomini; e poiché il medesimo avea una
biblioteca di libri scelti, ed era vago di aver de' nuovi, che uscivano
alla luce o dalla Francia, Ollanda o da Inghilterra, regolarmente si
discorreva o sopra le nuove opere che si eran date alle stampe, o
pure sopra i successi della guerra di Italia, di Polonia, del Reno,
o del Turco col Persiano.
Prossimo alla casa del Bettoni era il monastero delle monache
di San Lorenzo,* dove io avea presa conoscenza con donna Maria
Riva,3 gentildonna quanto avvenente per le fattezze del corpo, al-
trettanto ornata di belle doti d'animo e di lettere, mostrando uno
spirito ed acutezza di pensare superiore al suo sesso. Sovente per
ciò andava a riverirla; e poiché Tambasciador di Francia solea
spesso andar ivi a visitarla, più volte occorreva che, incontrandoci,
non permetteva che io mi partissi, anzi mostrava piacere che io gli
facessi compagnia, discorrendo sopra varie materie; e dicendomi
una volta, che avea inteso che la mia Istoria civile s'era tradotta
i. Forse Francesco Pitteri, libraio e stampatore veneziano, primo editore
del Goldoni (cfr. C. Goldoni, Memorie, a cura di G. Mazzoni, Firenze
1907, 11, pp. 366-7; e vedi anche in H. F. Brown, The Venetian Printing
Press, London 1891, p. 413, che lo registra attivo nel 1728). Ma si ricordi
che in quegli anni lavorava a Venezia anche Marco (1702-1786), celebre
incisore e tipografo, sul quale si veda A. RavÀ, Marco Pitteri incisore
veneziano, Firenze, s. a. (ma 1923), e G. A. Moschini, Dell * incisione a
Venezia, Venezia 1926, ad vocem. 2. monastero . . . Lorenzo \ cfr. quanto è
ricordato, sotto il giorno 20 maggio 1664, in F. Pizzichi, Viaggio per Volta
Italia del Ser.mo principe di Toscana poi Granduca Cosimo III, Firenze
1828, pp. 35-6: «è il più ricco monastero di Venezia, e vi sono sopra 100
madri tutte gentildonne. Vestono leggiadrissimamente, con abito bianco
come alla franzese, il busto di bisso a piegoline, e le professe trina nera
larga tre dita sulle costure di esso ; velo piccolo cinge loro la fronte, sotto
il quale escono i capelli arricciati, e lindamente accomodati, seno mezzo
scoperto, e tutto insieme abito più da ninfe che da monache». 3. donna
Maria Piva era l'amante dell'ambasciatore di Francia marchese di Froul-
lay. Divenuta di dominio pubblico la relazione, prima il Senato veneziano
vietò alla Riva di incontrare nel parlatolo del monastero l'ambasciatore,
poi la fece trasferire a Ferrara. Il Panzini, p. 81, scrive che era «donna di
molto spirito ed ornata d'una erudizione non volgare, perché s'attirava al
giorno nel suo monistero la conversazione de' migliori uomini e de' più
distinti personaggi ch'erano in Venezia».
CAPITOLO DECIMO 281
in lingua francese, e ch'egli non avea ancora potuto averne da
Francia un esemplare, gli risposi che non dovea maravigliarsi, poi-
ché la traduzione non era ancor compita; ma che io avrei scritto
a Bousquet, mercante di libri in Ginevra, per le cui mani passava
la stampa, che, se mai si fosse impresso il primo tomo, me lo
mandasse subito affinché Sua Eccellenza fosse il primo ad averlo.
Con premura mi raccomandò di farcelo pervenire, mostrandone
grandissimo desiderio; onde io scrissi a Bousquet, maraviglian-
domi di tanta lentezza, ch'erano ormai scorsi quattro anni che io
l'avea mandate le giunte, le correzioni ed illustrazioni che mi avea
cercate, col rame del mio ritratto ed il disegno delle medaglie, e
non si vedea che ancora fosse almanco impresso il primo tomo;
che, se mai si fosse dato alla stampa, me lo mandasse, avendone
con gran premura richiesta dall' ambasciador di Francia residente
a Venezia, dove io mi trovava, e dove dovesse trasmetterlo.
Il Bousquet mi rispose che non men egli, che quelli della sua
compagnia si rallegravano che io mi trovava in Venezia, poiché co-
me più vicino potessi meglio regolar l'impressione, e rischiarare i
traduttori delli dubbi, che alla giornata l'occorrevano nella tradu-
zione; li quali, ancorché avessero sotto gli occhi la traduzione in-
glese, non sapevano risolvergli, e che per ciò la traduzione non
era ancor finita; e che essi non volevan cominciar la stampa, se
non si fosse tutto esattamente compito, pregandomi della mia assi-
stenza e che non mi rincrescesse, sicome m'avrebbero mandati i
dubbi, così di rischiarargli, affinché nel tradurre non si commettes-
sero errori.1 Da ciò compresi, che non era così presto da vederne
il fine; sicome dissi alTambasciadore che era d'uopo aspettar più
tempo, stante la lentezza non men degli impressori, che della poca
perizia de' traduttori delle cose del regno di Napoli.
Intanto la mia dimora in Venezia avendo acceso di desiderio
moltissimi di aver la mia opera, ed essendosi resa molto rara, né
da' librari di Venezia, né da quelli stessi di Napoli potendo spe-
rarsene alcun essemplare, poiché non ne aveano, invogliarono il
Pitteri ed il Berardi, che somministrava al Pitteri il denaro per
1. Il . . . errori', si veda in Giannomana, pp. 524-5, la lettera del Bousquet
del 29 gennaio 1735, con un richiamo a questa, qui ricordata, del 6 novem-
bre, e che testimonia come il Giannone, sin d'allora, pensasse ad un even-
tuale suo trasferimento a Ginevra.
282 VITA DI PIETRO GIANNONE
mantener la sua stamperia, a volerla ristampare in Venezia; ed
avendo saputo che la traduzione francese andava in lungo, ed era
ornata di nuove note e giunte, furon a communicarmi il lor pen-
siere di ristamparla e richiedermi in ciò della mia assistenza e di
volergli somministrare quanto avessi di nuovo, affinché questa
ristampa riuscisse migliore non pur della prima stampa fatta in
Napoli e della traduzione inglese, ma anche della francese, e ch'es-
si sarebbero stati con me grati ed avrebber corrisposto quanto
conveniva, secondo che io l'avessi prescritto.
Gli risposi che se essi daddovero volevan mettersi a questa im-
presa, io non solamente l'avrei somministrato quanto mandai a'
traduttori francesi di nuove giunte e medaglie, ma, di più aveva
tanto in mano appartenente a quella Istoria, in continuazione della
medesima, che avrebbe potuto formarsene un altro tomo; sicché
questa nuova ristampa sarebbe assai più desiderata che la prima
colla giunta non pur delle note e medaglie riguardanti i quattro
tomi, ma d'un quinto tomo, fin qui non impresso. Ma che avver-
tissero che, stando in Venezia esposto a gli occhi di tutti, e spezial-
mente de' Gesuiti, i quali attentamente spiavano tutti i miei anda-
menti, se mai ciò pervenisse a lor notizia, avrebber frapposti tutti
gli ostacoli per impedirla, e datane subito parte alla corte di Roma,
la quale non avrebbe mancato di far lo stesso <ignaro allora d'essersi
già data commissione all'Inquisitore> e che io, per quel tempo che
era dimorato in Venezia, avea scorto i Veneziani essere non men
garruli che curiosi, i quali amano saper più Ì fatti di altri che i
propri; onde, se in ciò non si serbava un impenetrabil secreto,
non ne sarebbero venuti mai a capo.
In oltre che io, per la stampa, non voleva assumermi il peso
d'impetrarne licenza dal magistrato a chi ciò si appartiene, ma che
questo fosse di lor carico ; ben mi esibiva di dare i miei manuscritti
al rivisore, a chi sarebbe stato commesso di esaminargli, e ciò che
forse gli sembrasse di levare, di mutare o di meglio spiegare,
volentieri avrei fatto, stando sicuro che questo quinto tomo, non
contenendo cosa che fosse contraria alla nostra religione ed a'
buoni costumi, e molto meno a' diritti de' principi, le variazioni o
cangiamenti non potrebber ridursi che a picciole cose, le quali non
altererebbero la sostanza dell'opera. E per ultimo, per ciò che ri-
guardava il mio onorario, la mia proposizione era che degli essem-
plari di questa ristampa fossero miei cento corpi, de' quali mi
CAPITOLO DECIMO 283
dovessero pagar il prezzo di cinquanta in denaro, secondo che si
sarebbero venduti a gli altri, e degli altri cinquanta fosse in loro
elezione a darmene il prezzo, ovvero gli essemplari stessi. Questa
credea che fosse una proposizione discreta e ragionevole, della qua-
le dovrebbero essere contenti e soddisfatti.
Assai più il Berardi ed il Pitteri s'invogliarono, sentendo che la
ristampa, oltre delle giunte a* quattro tomi, veniva accresciuta d'un
altro tomo, onde più fervorosamente instavano di darci principio ;
e che, in quanto al secreto, a niuno dovea importar tanto che fosse
impenetrabile, quanto che ad essi, e che di ciò mi stessi sicuro;
per la licenza sarebbe rimaso a lor peso d'impetrarla; e quando non
avessero potuto ottenere che si ponesse nel frontispizio la data di
Venezia, tanto gli bastava che si mettesse altra città d'Italia o di
Germania; ed intorno al mio onorario, ch'essi erano contenti del-
la proposizione fattale, e che così avrebbero adempito con lealtà;
e bisognando stipularne scrittura, volentieri l'avrebbero fatta. Gli
risposi che attendessero prima a quel che più importava, d'in-
camminar PafTare della licenza; poiché io intanto avrei comin-
ciato a rivedere i manuscritti e mettergli in ordine, e che secon-
do si vedeva la disposizione di potersi ottenere, così ci sariamo
regolati.
Con questi trattati ed occupazioni eravamo già entrati nel mese
di marzo, ed il senator Pisani cominciava a ricordarmi della pro-
messa, che io l'avea fatta di passare in sua casa nell'imminente
primavera. Io fin allora non avea perduta affatto la speranza di
poter ritirarmi a Napoli, per l'impegno che n'avea preso l'amba-
sciador di Spagna, ancorché avesse ricevuta risposta dal conte di
Santo Stefano non molto cortese, scrivendogli che sopra il mio
memoriale non poteva il re Carlo darci provvidenza, se prima,
già che s'era avuto anche ricorso a Madrid, non si ricevessero da
quella Corte riscontri; ma dapoi, essendosi da Madrid avuto av-
viso che il re Filippo avea rimessa la provvidenza del mio ricorso
all'Infante, re di Napoli, al quale si era trasmesso il mio memoriale,
e che il tutto dipendeva dal conte di Santo Stefano, che disponeva
di quel giovane principe come le veniva più in acconcio, non
men io che l'ambasciador istesso cominciò a dubbitarne, sapendo
la dipendenza che mostrava colla corte di Roma e la propensione
del suo animo di compiacerle, e che gli faceva più forza una let-
tera d'un cardinale, che tutte le raccomandazioni di qualunque
284 VITA DI PIETRO GIANNONE
regio ministro. E se bene <il marchese di Montallegro1 secretano
di Stato e guerra dell* Infante don Carlos, <ed il Tanucci secreta-
no^ di giustizia, mostrasser tutta l'inclinazione di favorirmi, nulla-
dimanco da' riscontri che si ebbero di Napoli della total dipendenza
del conte alla Corte romana; il qual, sicome promovea ne* magi-
strati i soggetti raccomandatigli da quella Corte, così abbassava
quelli che non aveano la di lei grazia e favore; non era da sperare
che il secretano potesse resistere.
Da ciò mosso per prevenire ogni sinistro evento, mi deliberai
passare in casa del Pisani, al quale ratificando le mie promesse,
dissi che vi sarei passato verso la fine del mese ; onde avendo fatto
ripulire il quartiere, andai ad abitarci a' 24 di marzo. Non fu mi-
nore la compiacenza del Pisani in vedermi in sua casa, che la mia
vedendo con quanta affezione e piacere mi ricevè per suo ospite;
e tanto più che le mie stanze erano nel piano superiore, non dando
né ricevendo suggezione alcuna: dove feci trasportare le mie scan-
zie co' libri e tutta quella poca roba che avea; sicché separato da
tutti poteva attendere a' miei studi; e quando non era da altri in-
vitato, senza che io soffrissi spesa alcuna di cucina, avea sempre
pronta ed apparecchiata la sua tavola, alla quale, contro il costume
degli altri gentiluomini veneziani, soleva spesso invitare altri gen-
tiluomini suoi amici 0 persone dotte e letterate.
Per non abusarmi di tanta cortesia e non incommodar alcuno
della sua servitù, avendo bisogno di chi avesse cura di me e delle
mie poche cose, mi risolsi di far venire da Napoli quel mio figliuolo,
che io faceva ivi istruire, del quale, trovandosi già adulto di circa
venti anni, e che in Napoli erasi alquanto esercitato nella gramma-
tica e nell'arte di ben scrivere, poteva valermi non solo ne' miei
studi, ma anche in ciò che fosse necessario per altri miei bisogni;
tanto maggiormente che essendo solo ed abitando in camere sepa-
rate e lontane dalla famiglia del Pisani, avea preciso bisogno di
persona che mi tenesse compagnia, per qualunque accidente che
1. il marchese dì Montallegre: José Joaquin de Montealegre, marchese,
poi duca di Salas, segretario di Stato e guerra di Carlo III, dopo il licen-
ziamento del Santisteban divise col Tanucci il potere a Corte. Veime
congedato nel 1746. 2. Bernardo Tanucci (1698-1783), professore di di-
ritto all'Università di Pisa, divenne consigliere di Carlo III, suo ministro
di giustizia, degli affari esteri e della casa reale. Salito Carlo sul trono di
Spagna, ne divenne la longa mamis nel regno di Napoli, in qualità di
membro del consiglio di reggenza.
CAPITOLO DECIMO 285
potesse occorrermi. Scrissi per ciò in Napoli al mio amico Mela
che con opportuna commodità lo mandasse, con avvertire al gio-
vane di non iscoprire che fosse mio figliuolo ; sicome io avea pre-
venuto col Pisani che, avendo bisogno d'un giovane per mia assi-
stenza e volendo essere discreto di non incommodar le genti di
sua famiglia, facea venirlo da Napoli, senza però che dovesse por-
tarli alcuna spesa; ed il Pisani, colla medesima affezione e cordialità,
mi rispose ch'era suo piacere quanto fosse per piacermi, e che avessi
disposto come meglio riputava, per mio sollievo e comodo.
Giunse il giovane a Venezia verso la fine d'aprile;1 e riuscendomi
a proposito a' miei bisogni, proseguiva la mia dimora con maggior
aggio, avendo propria persona che mi assistesse. Ma nel tempo
stesso dovea pensare che, se bene sparamiava la spesa della tavola
e delle stanze, con tutto ciò bisognava far altre spese d'abiti per
me e pel giovane, e per altri bisogni che alla giornata occorrono ;
e de' denari, che io avea esatti dal Banco di Vienna, era gran parte
consumata per viaggi ed altre spese, e sopra tutto, per sette mesi
che io a mio costo era dimorato a Venezia; né mi eran rimasi
che cento ungheri; sicché a lungo andare questi riniti, non era
altronde da sperar soccorso, non volendo abusarmi della cortesia
del Pisani, il quale ben sapeva che non poteva per me far di van-
taggio, essendo quanto d'animo benefico e magnanimo, altrettanto
non provveduto abbastanza di beni di fortuna; e non mancarono
degl' invidi, i quali, sicome biasimarono il Pisani, che sopra le sue
forze aveasi adossato questo peso, così procuravano farmi sapere
che io era appoggiato ad una colonna ruinosa e frale, e che debil
sostegno avrei potuto sperare da un povero gentiluomo. A' quali
rispondeva che non mi era ciò ignoto, ma che io, considerando che
poteva il Pisani giovarmi, senza che gli accrescessi spesa, volen-
tieri avea abbracciata l'offerta; poiché per quel che riguardava
la tavola l'istesso Pisani mi diceva, ed io l'aveva già osservato, che
la spesa sarebbe stata la stessa, scorgendo che io per cibo mi con-
tentava quanto bastasse a supplire la naturai indigenza, che non
bevea vino, e non cenava la sera; ed intorno all'abitazione niente
a lui si scemava, tenendo vote quelle camere, né i gentiluomini
veneziani sogliono affittar ad altri stanze del proprio palazzo, dove
essi abitano: sicché non doveano costoro mostrar zelo e del mio
1. Giunse . . . aprile: cfr. l'autobiografìa di Giovanni, in Giannoniana, p. 188.
286 VITA DI PIETRO GIANNONE
sostegno e dell'economia del Pisani, né essere tanto curiosi e cen-
sori degli altrui fatti.
Ciocché maggiormente mi angustiava era che, con tutto questo
aiuto, non poteva tirar molto in lungo la dimora, senz'altro soc-
corso; né da Napoli da mio fratello era da sperarlo; anzi dal mede-
simo sperimentai, in questo mio infelice stato, le più estreme ed
inudite crudeltà; poiché, istantemente ricercato da molti, che non
potendo aver da' librari la mia Istoria, procurassi farne io venir da
Napoli più essemplari, ch'essi l'avrebber comprati a qualunque
prezzo, scrissi a mio fratello che, per la strada di Mandredonia,1
di quelli che l'eran rimasi ne mandasse quanti più potesse, poiché
in Venezia l'avrei venduti il doppio ch'egli vendeva in Napoli, che
così, almanco, poteva riparare a' miei bisogni ; ed egli, con inudita
sfacciataggine, mi rispose che, se io li voleva, mandassi denari,
perch' egli que' che avea l'avea impegnati; onde mi fu d'uopo
acremente replicargli e scrivere a gli amici che lo persuadessero a
mandarmigli, poiché altrimenti l'avrei rivocata la procura e man-
datala ad altri; e con molti stenti e dura forza appena potei averne
dieci essemplari, i quali mi furono opportuni; poiché, avendone
donati due corpi al Pisani (e poi mi convenne donarne un altro a
Benedetto Pisani, suo figlio), un altro all'ambasciador di Spagna,
i rimasi vendutili, di volta in volta, per sei zecchini il corpo, il
prezzo de' medesimi mi aiutò che potessi supplire all'altre mie
spese che mi bisognavano, senza toccare quel poco denaro che
m'era rimaso di Vienna.
Mentre nel meglio che io poteva tirava innanzi la mia dimora
in Venezia, lusingandomi che cessato il rigore dell'inverno dovessi
almanco nella primavera ristabilirmi in perfetta salute, sperimentai
il contrario, poiché le continue nebbie, e sovente le dirotte piogge
mi rendevano noiosa la dimora, non men di quello che aveami
cagionato il passato inverno ; ed ancorché fra questo tempo io avessi
avuta la sorte di trovarmi nelle più solenni funzioni e nelle maggiori
celebrità e spettacoli, che sogliono accadere a Venezia, sicome per
la morte del doge Ruzini2 di veder i pomposi funerali che gli furon
i. Mandredonia: Manfredonia. 2. per la . . . Ruzini: Cado di Marco Ruz-
zoli fu doge di Venezia per soli tre anni, dal 1732 al 5 gennaio 1735, gior-
no della sua morte. Era nato nel 1653 ed era stato uno dei più attivi diplo-
matici della repubblica, partecipando, tra l'altro, alle conferenze di Passa-
rowitz e di Utrecht.
CAPITOLO DECIMO 287
celebrati; di trovarmi nell'elezione del nuovo doge Pisani e nelle
feste della di lui intronizazione ; sicome, dopo morto il Patriarca
di vedere il magnifico ingresso del nuovo rifatto,1 de' nuovi Pro-
curatori di San Marco3 ed altri pomposi apparati e feste, le quali
avrebbero dovuto, se non rallegrarmi, almanco togliermi da quella
malinconia e tetraggine nella quale era caduto; con tutto ciò, nel
tempo stesso che per l'invito di que' gentiluomini (i quali, con
molta cortesia procuravano che io le vedessi tutte con ogni com-
modità ed aggio), mi era apparecchiato d'andar, nel dì dell'Ascen-
sione, che in questo anno accadde a' 19 di maggio, a veder la
festa del Bucentoro, ecco che gravemente mi ammalai con febre
terzana, della quale i medici per la mia gracile complessione ed
avanzata età, facevan qualche conto, sicché pensarono valersi del-
la china-china per liberarmene; ma quantunque fossi risanato, poi-
ché per dura necessità, né poteva secondo il mio istituto goder della
campagna, né continuare i miei mattutini esercizi, non m'intesi
mai perfettamente sano e valido; e continuando la stagione sem-
pre varia e piovosa, ancorché si fosse ne' princìpi di està, non
passarono quattro 0 cinque settimane che non ricadessi di nuovo,
e la febre, più vigorosa che prima, mi tolse tutte le forze riducen-
domi in istato peggiore. I medici tornarono all'uso della china-
china, la qual mi tolse la febre, ma non già la languidezza. Il Pisani,
con molta affezione e cordialità, non mancava d'assistenza; ma io
gli diceva che non sarei mai ristabilito, se non uscito da quelle
lacune mi fossi veduto in campagna; onde lo pregava d'affrettare
la sua villeggiatura di Rovere di Crè, dov'egli soleva condursi,
che questa sarebbe stata per me la più efficace medicina; ma gli
affari suoi domestici, ancorché fossimo verso la fine di giugno,
non glielo permettevano, dicendomi che presto sperava di svilup-
parsene e subbito per colà partire.
Sopra queste mie afflizioni si aggiunse la notizia datami dall' am-
1. morto . . . rifatto: Francesco Antonio Correr (1 676-1 741) successe a Mar-
co Gradenigo, spentosi il 14 dicembre 1734. 2. Procuratori di San Mar-
co: una delle più antiche e importanti magistrature veneziane. Sorta sin
dal IX secolo come sovrintendenza all'amministrazione della basilica
(donde il nome), questa magistratura aveva finito per allargarsi da uno a
nove membri, estendendo la propria competenza all'amministrazione delle
entrate di tutto lo Stato e alla sorveglianza sulla tutela e sull'esecuzione
dei testamenti. Aveva i suoi uffici nei due splendidi palazzi prospicienti
la piazza San Marco (le « procuratie vecchie » e le « procuratie nuove »).
288 VITA DI PIETRO GIANNONE
basciador di Spagna, che il conte di Santo Stefano l'avea scritto
che non pensassi di tornar più in Napoli, e che tale fosse la prov-
videnza che la Maestà del re Carlo avea dato al mio memoriale,
rimessogli di Spagna.1 Il sentimento che n'ebbe Pambasciadore in
dirmelo, mi fece comprendere ch'egli ne avesse avuta somma di-
spiacenza; onde non mancai di renderle molte grazie degli uffici
per me fin qui passati, e che io n'incolpava il mio duro destino,
che per tutti i lati non mancava di perseguitarmi; che io già da Na-
poli avea riscontri di non doverne aspettare altra risposta che que-
sta, per la total soggezione e dipendenza che il conte non pur avea
colla corte di Roma, ma ostentava con tutti d'averla e ne facea
pompa; anzi, che ritirato il principe della Torella in Napoli, aven-
dogli scritto che intercedesse per me presso quel primo ministro,
non mi fece degno nemmeno di sua risposta; e poi si seppe che il
conte si preggiava che, con tutti gl'impegni che s'erano usati di
farmi tornar in Napoli, non ne avea voluto far niente; e che di
questa sua costanza ne avea data parte in Roma; e non potè con-
tenersi di dirlo al vicario di Napoli perché lo communicasse al
nuovo arcivescovo Spinelli,2 rifatto in luogo del defonto Pignatelli,
sicome venendogli opportunità non mancava di dirlo a quanti gli
venivan davanti, mostrando compiacenza d'aver in ciò ben servito
al papa ed alla sua Corte.
E pure tanta animosità non meritava la mia moderazione, usata
nel quarto tomo della mia Istoria, in descrivere il governo del conte
di Santo Stefano suo padre, che fece in Napoli quando negli ultimi
anni del re Carlo II vi fu viceré.3 Io m'astenni di favellar della fa-
volosa genealogia tessuta dal Vidania della famiglia Benavides;4
tacqui le mormorazioni che s'intesero per Napoli, quando non
i . la notizia . . . Spagna : cfr. Giannonianay pp. 42 e 406. 2. Giuseppe Spinelli
(1694-1763), napoletano, già nunzio in Fiandra e arcivescovo di Corinto,
chiamato in Curia nel 1731, subentrò tre anni dopo a Francesco Pignatelli
nelTarchidiocesi napoletana e fu creato cardinale di 11 a poco, nel gennaio
1735. A lui si deve, al tempo della sua nunziatura, la cacciata del Van Espen
dall'Università di Lovanio, episodio al quale si interessò direttamente il
Giannone (cfr. Giannonianay pp. 131, 226 e 228). 3. nel . . . viceré: cfr.
Istoria civile, tomo iv, lib. xl, cap. 11, pp. 472-6. 4. genealogia . . . Bena-
vides: cfr. Al Rey Nuestro Senor Don Francisco de Benavides . . . Representa
los servicios heredados y proprios y los de sus hijos Don Diego . . . y Don
Luis . . . 3; la Antiguedad y Cakdad de su Casa, y de las incorporadas en ella,
Napoles 1696, opera del cappellano maggiore e prefetto all'Università di
Napoli Diego Vincente De Vidania (1650-1731).
CAPITOLO DECIMO 289
curando il pubblico danno, per proprio utile alterò la seconda
volta il valore della nuova moneta, e l'altre maniere praticate per
istraricchire. Tanto è miserabile ed infelice la condizione degli
scrittori de' dì nostri, che non gli basta, per isfuggire l'odio e la
malevolenza, di tacere i vizi, ma si pretende che con isfacciate
adulazioni i difetti stessi si abbiano a trasformare in virtù, ed
encomiargli ed avergli per sommi preggi, degni di lode e di com-
mendazione. < Conobbi per proprio esperimento essere vero ciò
che Plinio il Giovane, rispondendo a Capitone che lo consigliava
a scriver istoria, gli scrisse nella sua epistola ottava del quinto libro,
che ciò a' suoi tempi era cosa molto pericolosa, poiché, e' gli di-
ceva: «si laudaveris, parcus; si culpaveris, nimius fuisse dicaris,
quamvis illud pienissime, hoc restrictissime feceris»>.1
Ricevuta dall' ambasciadore questa risposta, nel licenziarmi gli
dissi che non imputasse a mia poca urbanità o a disdegno, se nel-
l'avvenire non mi vedesse porre più piede nel suo palazzo; poiché
essendo passato ad abitare nella casa del senator Pisani, ancorché
come suo ospite e non a' suoi stipendi non fossi compreso nelle
scrupolose leggi di quella repubblica, che proibisce a' nobili ogni
commercio con gli ambasciadori, nulladimanco stando io esposto
alla malevolenza de' Gesuiti e degli altri satelliti della corte di
Roma, non voleva dargli minimo pretesto di calunniarmi; che io
quella sola volta, doppo questo passaggio, ci era venuto, costretto
dalla necessità di sapere l'ultima risoluzione che erasi presa in
Napoli del mio ritorno. Lo stesso praticai coll'ambasciador di
Francia, il quale, se bene più volte incontrandoci nel monastero
di San Lorenzo m'invitasse seco a pranzo, con vari pretesti me ne
scusava; e dolendosi sovente di questa mia, che egli credea repu-
gnanza, pregai il principe Trivulzi che le manifestasse la vera ca-
gione, e non m'avesse per sì poco riconoscente delle benignissime
sue offerte, che io riputava per me somme grazie ed onori.
Vedutomi adunque affatto escluso dal ritorno in Napoli, pensai
accomodarmi come poteva il meglio al soggiorno di Venezia. Né
era da pensare al ritorno in Vienna, poiché non sol durava la ca-
gione che mi obligò a partire, ma secondo i riscontri che avea
dagli amici colà lasciati, le miserie vieppiù crescevano, senza spe-
li. «« . . .feceris»: cfr. v, vili, 13 («la lode sembrerà insufficiente, la ripren-
sione eccessiva, pur se quella sarà pienissima, e questa moderata »).
19
290 VITA DI PIETRO GIANNONE
ranza di dover aver presto fine; anzi invidiavano la mia sorte d'es-
sermene sottratto e d'aver trovato in Venezia ricovero.
Essendo in queste angustie, non poco mi sollevò il Pitteri, il
qual, tutto allegro, venne a trovarmi e mi disse che i riformatori,
magistrato che soprastà alle stampe, di buona voglia aveano rice-
vuto il memoriale datogli per la ristampa della mia Istoria coli' ag-
giunta del quinto tomo, la quale avrebbe maggiormente rialzate le
stamperie di Venezia, e fatto che più denaro per questa via en-
trasse nella città; e che per facilitarla avean commessa la rivisione
al padre teologo della Repubblica, servita,1 il quale se in queste
nuove aggiunte e quinto tomo non trovasse cosa che offendesse la
religione ed i diritti de' principi, o fosse contro i buoni costumi,
ne avesse fatto ad essi relazione anche a voce, che tanto gli bastava,
perché volentieri Pavrebber data licenza; e che per isfuggire ogni
briga con Roma, tanto si sarebber contentati, che la ristampa appa-
risse sotto nome di altra città. E ch'egli avea già parlato col padre
teologo, il quale aspettava i miei manuscritti per leggergli, e che
l'avrebbe presto sbrigati; onde mi sollecitava che io glieli dessi,
per portarceli e non doversi perder tempo.
Non mancai di subito consignarceli, e se bene non fosser tutti
posti in ordine, nulladimanco, poiché tanto, doppo avergli letti,
ciò poteva farsi, non volli frapporre minimo impedimento, inca-
ricando al Pitteri, ora più che mai, di serbar il secreto, che fu
difficile poterlo ottener da' Veneziani; e che dicesse al padre teo-
logo che, doppo avergli letti, sarei stato da lui per conferire insie-
me di ciò che forse avrebbe stimato di togliere, mutare, o in altra
guisa esporre ed emendare. I manuscritti furono le note, corezioni
e nuove giunte, colle medaglie che doveano collocarsi ne' loro
luoghi, in ciaschedun libro de' quattro tomi. Seguivano gli altri,
che componevano il quinto tomo, con le varie critiche ed apologie
per difesa ed illustrazione dell'opera, ed altre dissertazioni e trattati
appartenenti alla medesima.
Respirai alquanto, vedendo che col guadagno che io avrei ritrat-
to da questa ristampa avrei potuto tirar avanti per più anni la mia
dimora a Venezia ed intanto, da sicura parte essere spettatore de'
successi della guerra, e vedere a lungo andare dove andassero a
terminare le cose d'Italia. Quello che mi rimaneva da ristaurare
1. padre . . . servita'. Paolo Celotti.
CAPITOLO DECIMO Zgi
era la mia salute, che tuttavia minava, onde facendo sentire al
Pisani che io non ci trovava altro rimedio, che andarmene in Me-
stri1 o in qualche altra vicina campagna, se più dovea differirsi la
villeggiatura di Rovere di Crè, egli l'affrettò il meglio che potè; e
finalmente, non prima che a' 6 di luglio, per acqua si partì per
Rovigo ; dove giunti, cominciai a migliorare e ristabilirmi alquanto
col mattutino esercizio, in riandando per quelle campagne.
Ma misero! Mentr'io così credea aver riparato alquanto alle mie
sciagure, non sapeva che altre insidie ed altri mali peggiori mi si
apparecchiavano in Venezia da' Gesuiti e dalla corte di Roma, la
quale, non soddisfatta di avermi escluso da Napoli, vedendo che in
Venezia io era in tanta stima e sì ben veduto, e che la mia Istoria
era cotanto ricercata e commendata, anzi che si trattava d'una nuo-
va ristampa accresciuta d'un altro tomo: pensò adoperare le solite
arti maligne, per mezzo de' Gesuiti, <del nunzio Oddiz e dell'In-
quisitore> ; sicché io pur da quella città fossi escluso, e con ciò inter-
rompere ogni trattato di ristampa ed ogni altro mio vantaggio, che
io avrei potuto sperare dimorando a Venezia. I Gesuiti, fortemente
sdegnati che, avendone essi medesimi data occasione, la risposta
al Sanfelice, dove si manifestava la lor perversa morale, erasi di-
volgata in Venezia e letta con piacere da tutti, con fervore ne pre-
sero l'impresa; e non tralasciavono da per tutto tendermi insidie,
detraendo la mia fama presso i di loro penitenti, descrivendomi
per un eretico e miscredente.
Chi avrebbe creduto che i Gesuiti, scacciati sotto Paolo V da
Venezia, come sediziosi e perturbatori della Repubblica, i quali
anche doppo scacciati tentarono nelle città finitime dello Stato,
come lontane dalla metropoli, nuove sedizioni e tumulti, tornati
dapoi in Venezia sotto Alessandro VII3 fossero stati non pur rein-
tegrati nello stato primiero, ma dovessero acquistare ivi maggiori
ricchezze, autorità e credito ? Tutto devono alla lor morale ed allo
scadimento di quella Repubblica, la quale sempre più precipitando
nella dissolutezza e ne' vizi trovò chi, con false dottrine e rilasciate
x. Mestri: Mestre. 2. Iacopo Oddi (1679-1770), vescovo di Laodicea,
nunzio a Venezia dal 1735 al i739> divenne cardinale nel 1743. 3. i Ge-
suiti . . . VII: la Compagnia di Gesù, bandita al tempo dell'interdetto nel
1608 sotto il pontificato di Paolo V (1552-1621), venne riammessa solo nel
1657, quando era papa Alessandro VII (i599-l667)- I P^si cne seguono
riprendono l'invettiva del Ragguaglio (cfr. qui, a pp. 538 sg.).
292 VITA DI PIETRO GIANNONE
massime di morale, accelerasse il corso, ed a chi correva alFingiù
aggiungesse stimoli di sproni più acuti e pungenti.
Né può dubitarsi che la morale che insegnano i Gesuiti a Vene-
zia abbia date l'ultime pruove della sua perfezione; poiché a' loro
divoti e penitenti tutto lece ed è permesso: quindi, negli arteggiani
tante frodi ed inganni; quindi, ne' traffichi tanto dolo; quindi, ne'
curiali tanta vafrizie1 e prevaricazione, e ne* magistrati tanta coru-
zione e sordidezza; quindi, ne* lupanari tanta frequenza, sporcizie
e sfacciataggine; ne* giochi tanta assiduità e licenza; ma ciò che sor-
prende e rende gli uomini stupefatti è il vedere ch'essi sono i con-
fessori e direttori di coscienza della maggior parte della nobiltà, ed
uno stesso sarà il confessore della dama e del gentiluomo, cioè
della putta e del drudo; poiché già corre ivi per nuova moda ed
usanza che a vicenda si cambino le mogli e si mescolino le stirpi
e le schiatte. Il gesuita confessa l'uno e l'altra ed assolve tutti due,
e sovente si vedono accostarsi all'altare l'amico e l'amica a cibarsi
dell'Ostia sacrata, e così credon aver con Dio saldato ogni conto,
e cominciar poi a metter nuove partite e calcular nuovi conti, es-
sendo pronto il computista per appianarli tutti!
Or questi zelanti della salute delle nostre anime, <coll'Inquisi-
tore> avea io per ispettori de' miei andamenti e costumi: curiosi
di sapere se io ascoltava o no ne' dì festivi messa, e se aveva adem-
pito al precetto pasquale; e trovando che io non pur ne' dì festivi,
ma sovente anche in quelli di lavoro l'ascoltava regolarmente nella
chiesa di San Salvatore, e che nella mia parocchia di Sant'Angelo,
prossima alla casa del Pisani, aveva adempito al precetto pasquale
il Giovedì Santo, che in quest'anno cadea a' 7 di aprile, comincia-
rono a calunniarmi: che io ne' miei discorsi dava indizio di non
sentir bene de' santi e loro particolari divozioni, e che l'ascoltar
messa ed aver adempito al precetto erano tutte mie apparenze e
finzioni.
Era partito da Venezia il nunzio Piazza,2 della primaria nobiltà
milanese, savio e discreto prelato, al qual niente piacevano le ip-
pocrisie, ed in suo luogo fu rifatto un altro nunzio, <monsignor
Oddi>, d'umor contrario, solenne picchiapetto e spigolistra,3 il
1. vafrizie: astuzia (latinismo). 2. il nunzio Piazza: il Giannone dev'es-
sere incorso in un errore. Il predecessore dell'Oddi fu in realtà Gaetano
Carlo Stampa (1678-1742) : nel 1717 vescovo di Calcedonia, fu nunzio pri-
ma alla corte di Toscana, poi a Venezia fino al 1735. Nel 1737 arcivescovo
di Milano, cardinale nel 1739. 3- spigolistra: bacchettone.
CAPITOLO DECIMO 293
quale volentieri unitosi co' Gesuiti <e coU'Inquisitore>, cautamen-
te gli dava fomento e coraggio di proseguire nell'impresa.
Nel mio soggiorno in villa a Rovere di Crè era ignaro di tutto
ciò, ma poi tornato in città nella fine di luglio, trovai tante novità,
ed infra l'altre mi fu riferito dagli amici, che i Gesuiti andavan
spargendo che in Venezia s'era scoverta una gran turba di gentiluo-
mini, nella quale erano eziandio alcune gentildonne, ed anche de*
religiosi e cittadini al numero di ottanta, li quali deridevano nelle
loro conversazioni le tante confratanze1 de' secolari ch'erano in
Venezia, e le particolari devozioni a' loro santi; che non osserva-
vano i digiuni, ed alcuni non si astenevano di mangiar carne nel
venerdì e sabato; che i tanti miracoli che si raccontavano erano
imposture de' frati, sicom'erasi già scoverto che la lingua rubi-
conda e fresca di sant'Antonio, che si mostrava in Padoa da que'
Franciscani, non era di carne, ma di legno dipinto a color di
carne; che l'odor di rose, che dava l'arca ov'era il deposito del
santo, veniva da' profumi che i frati, industriosamente vi replica-
vano, per ingannar la semplice e divota moltitudine; e che, per
questi e simili scandalosi discorsi, davano indizio che non ben sen-
tissero della nostra Santa Fede; onde il Nunzio ed il Patriarca, per
non far maggiormente diffondere il male, erano tutti intesi per
estirparlo, e che già dal tribunal dell'Inquisizione di Venezia si
fabbricavan processi sopra varie persone indiziate; né si astene-
vano di additare fino i loro nomi, con le più minute circostanze de'
loro pretesi delitti, e che fra breve se ne sarebbe veduto condegno
ed esemplar castigo.
Queste voci, con tanta pubblicità da per tutto sparse,3 mi fecero
entrar in sospetto non fosse una gabala tessuta per me solo, ripu-
tando inverosimile che un tribunale come quello dell'Inquisizione,
che procede con tanta accortezza e con un impenetrabile secreto,
permettesse che si divolgassero i suoi processi, i nomi de' rei, e
fino le minute circostanze de' loro delitti. Ne avvertii per ciò il
senator Pisani, pregandolo che come patrizio vecchio ed inteso,
e che avea amicizia co' ministri di quel tribunale e con altri sena-
tori, i quali potevano indagarne il vero, s'informasse con diligenza
1. confratanze". confraternite. 2. Queste . . . sparse: cfr. la lettera dell'agen-
te piemontese da Venezia al marchese d'Ormea, del 17 settembre i735> 'm
P. Occella, Pietro Giannone negli ultimi dodici anni della sua vita (1736-
1748), in Curiosità e ricerche di storia subalpina, in, Torino 1879, p. 499,
in nota.
294 VITA DI PIETRO GIANNONE
del fatto, che io lo credeva una favola ed inventata per isgomen-
tarmi e mettermi in costernazione ; se ben io non temessi, pur che si
fosse dato luogo alla difesa, d'espormi ad ogni cimento e smentire
l'indegne imposture; poiché era sicuro, che ne' miei discorsi avuti
in Venezia non avea più detto di quanto era nelle mie opere date
alle stampe, ch'erano sotto gli occhi del mondo; e sicome fin ora
avea saputo darne a tutti conto e render ragione, così avrei con
maggior facilità potuto darla a' censori veneziani; né io era stato
a Padova, né sapeva niente di lingua e di profumi. Il Pisani ed altri
senatori suoi amici non mancarono esattamente informarsene, e
doppo molte ricerche trovarono che fosse una favola, né che mai
in quel tribunale si fosse fatto di ciò motto, né posto rigo in carta,
ma che fossero vane voci, sparse da' Gesuiti ed altri della lor
farina.
Parimente pregai il Pisani che fossimo insieme a visitare il pa-
dre teologo della Repubblica; sicome si andò, per sapere se avea
letti i miei manuscritti, e se mai in quelli avesse trovata cosa da
emendare o togliere, che volentieri F avrei fatto. Il padre teologo
mi rispose ch'egli Favea attentamente letti, e che non solo non
avea trovata cosa che offendesse la nostra Santa Fede o i diritti de*
principi, ma gli riputava commendabili, per sostenersi con vigore
e chiarezza le supreme ed alte loro preminenze e regalie: ch'egli
questa testimonianza ne avrebbe data a* riformatori, e che n'avrebbe
aggevolata la stampa, perché la Repubblica non perdesse l'occa-
sione di maggiormente arricchire le sue stamperie d'un' opera, che
sarebbe da tutta Europa ricercata e commendata. Dopo resele le
dovute grazie, lo pregai che facesse presto e con secretezza, poiché
vedeva che i Gesuiti troppo invigilavano sopra di me e delle mie
cose, e che avrebbero colla corte di Roma adoprati tutti gl'indegni
ed insidiosi mezzi per impedirla.
Non per ciò mi quetai affatto, poiché dovunque capitava era
dimandato a che termine si trovava la ristampa, quando mai po-
tessero aver la consolazione di leggere il quinto tomo che con
impazienza era aspettato, che cosa conteneva, e cento di simili im-
pertinenti dimande. Io ancorché rispondessi che non sapeva co-
s'alcuna e che non m'impacciava più né di stampe né di ristampe
e mi lasciassero in pace, non era creduto affatto; ed i Gesuiti spes-
so mandavano esploratori al Pitteri ed a' miei amici, per meglio
accertarsene. Era per ciò in continue angustie, maledicendo la mia
CAPITOLO DECIMO 295
dura sorte, che m'avea ridotto fra gente cotanto curiosa, garrula e
loquace, in mezzo alla quale pareami impossibile che potesse ve-
nirsi a capo di qualunque cosa che si tentasse, dove il segreto ed
il silenzio fosser necessari; e tanto più a me, che stava esposto a
gli occhi di tanti invidi e maledici.
Procurava di sfuggir sempre tali discorsi, e m'ingegnava di non
farmi vedere così spesso nella piazza di San Marco, frequentando
il giorno la casa del Bettoni, dove trovava il Pasqualigo, il quale
solea con la sua gondola, doppo avere spasseggiato1 il Canal Gran-
de ed osservati gli ampi edifici della sua riva, condurmi la sera in
casa dell'avvocato Terzi,2 non molto lontana da quella del Pisani.
Ivi trovava alquanti eruditi gentiluomini, e sovente l'abate Conti,
co* quali fino alle tre della notte3 soleva trattenermi; e poi, con un
servitore del Pisani che veniva a prendermi col lume, mi ritirava
a casa; e così proseguendo, eravamo già entrati ne' princìpi del
mese di settembre.
Il giorno 13 di questo mese, martedì, giorno per me sempre
memorando, ebbi la mattina una lunga visita dal senatore Antonio
Cornaro,4 col quale fin ad ora di pranzo tenni lunghi discorsi so-
pra varie materie istoriche e filosofiche. Il dopo desinare, secondo
il solito, mi portai in casa del Bettoni, dove trattenutomi alquanto
con que' gentiluomini soliti ivi a ragunarsi, dal Pasqualigo in sua
gondola fui condotto al solito spasseggio del Canal Grande; e fat-
tasi sera, lo pregai che mi conducesse in casa dell'avvocato Terzi.
Trovai ivi la solita radunanza di gentiluomini, alla quale poco dapoi
sopragiunse l'abate Conti: sonate le tre della notte, ciascuno prese
la via di ritirarsi a sua casa, chi per acqua, chi per terra; quella
notte l'abate Conti, calandocene insieme secondo che portava il
discorso cominciato, non si staccò da me per lungo tratto di cam-
mino, avviandosi meco e tenendomi compagnia per tutto il campo
di Santo Stefano; quando poi si prese il vicolo stretto, che con-
duce al ponte avanti il monastero,5 ci licenziammo insieme, egli
tornando indietro per condursi in sua casa, io proseguendo oltre
col servidore del Pisani che portava avanti il lume passai il ponte
1. spasseggiato: percorso lentamente, come a passeggio. 2. Giuseppe Ter-
zi; il Panzini, p. 81, lo chiama conte e «avvocato di gran fama». 3. tre
della notte : cioè tre ore dopo il vespro, le ventidue circa. 4. Cornaro : Cor-
ner. 5. il monastero : degli eremiti agostiniani, che diede il nome al campo.
6. il ponte: probabilmente il Ponte dei Frati.
296 VITA DI PIETRO GIANNONE
e giunsi al campo di Sant'Angelo ; nel volgermi a man sinistra per
entrare nel palazzo Pisani, che era poco discosto: ecco che da*
lati m'usciron due nomini innanzi, i quali postomi in mezzo mi
dissero che io era preso; ed intanto, dando segno co' loro fischi
a gli altri, mi vidi circondato da gran turba di birri, che in Vene-
zia chiamano «zaffi», e dicendogli chi io era, e che forse prendevan
abbaglio, e per uno avesser fatta preda di un altro, mi replicarono
ch'essi ben mi conoscevano, e che bisognava venire dov'essi mi
avrebber condotto ; e frettolosamente traversato il campo di San-
t'Angelo e postomi sul capo un mantello, perché non fossi cono-
sciuto, mi condusser per que' stretti vicoli, senza sapere dov'io
fossi, fin che non giungessi nella piazza di San Marco. Se ben di
notte fossi così rapito, nulladimanco non essendo ancor le botteghe
tutte chiuse, la gente curiosa, secondo che più s'avanzava di ca-
mino, più cresceva, ed accorrendo da tutte le parti maggior nu-
mero di zaffi, mi vidi in mezzo la piazza di San Marco, circondato
da un immenso stuolo di vii plebaccia, che quasi empiva tutto
quello spazio.
Allora più cose si ravvolgevano per la mia mente, fra l'altre
pensando che finalmente la corte di Roma ed i Gesuiti eran venuti
a capo delle loro gabale ed insidie, dalle quali era difficile di po-
terne un uomo onesto scampare, ed a quali duri strazi ed altro
infelice fine sarei stato io riserbato. Considerava quanto instabili e
volubili fossero le umane vicende e quanto folle era colui che in
lor poneva speranza: quella stessa piazza, dove sovente circondato
dalla primaria nobiltà, a gara senatori ed altri gentiluomini con-
correvan in rendermi onore e cortesia, la vedeva cambiata in uno
sconcio e rozzo teatro, dove in mezzo alla vile e succida1 plebe era
miserando spettacolo della loro compassione, e forse anche delli
loro scherni e derisione. Avendo io però preparato l'animo ad
ogni sinistro caso, seguitava i miei rattori3 ove mi traevano, per
vederne il successo.
Mi condussero nelle stanze del «Misser grande» (che così chia-
mano in Venezia il Bargello Maggiore)3 il quale abitava alle Pro-
1. succida: sudicia. 2. rattorti rapitori. Tutto l'incartamento dell'arresto,
già pubblicato dal Pierantoni in appendice alla sua edizione del Rag-
guaglio, è ora in Giannoniana, pp. 370 sgg. 3. Misser . . . Maggiore: rico-
priva l'ufficio, in quegli anni, Sebastiano Bonapace, del quale ci sono
pervenute le relazioni dei pedinamenti predisposti e dell'arresto (cfr. in
f^iirnntjìnna* loc. Clt.).
CAPITOLO DECIMO 297
curatie Vecchie di San Marco. Questi, in vedermi, mi disse che io
non mi sgomentassi, poiché non era stato preso per condurmi in
carcere, ma per ordine degl'Inquisitori di Stato, i quali volevano
che io tosto uscissi da Venezia e da' suoi domìni, fuori de' quali
sarei stato condotto, e che si mandava ora un fante,1 che dovea
accompagnarmi, in casa Pisani perché si facesse consignare tutta
la mia roba, per meco portarla dovunque uscito da' confini mi
piacesse andare. A ciò gli risposi che, per far questo, non ci biso-
gnavano tanti apparati e tante turbe: bastava a' signori Inquisitori,
se non per mio riguardo, almanco per rispetto d'un lor senatore in
casa di chi io dimorava, che mi facessero sentire esser questo lor
piacere, che sarebbero stati immediatamente ubbiditi, di immanti-
nente partire ; poiché a me la sola necessità mi costringeva a dimo-
rar a Venezia, non già voglia o piacere che n'avessi. Intorno alla
mia roba, non era sì poca che potesse farsene subito fagotto e por-
tarlo meco ; che io aveva una piccola biblioteca, la quale ben pote-
va rimanere in casa del Pisani, che sarebbe rimasa in buone mani
fin a tanto che io, fermato altrove il mio domicilio, non avessi colà
potuto farla trasportare. Intanto, bastava che si facesse consignare
il mio forziere, ov' erano alquanti miei denari ed altre robe, per
supplire a' bisogni del viaggio, poiché il rimanente si avrebbe po-
tuto mandar doppo.
Ma mentre io così parlava al «Misser grande», il fante era già
partito per casa Pisani, senza che si fosse dato tempo di dirli che
cosa dovesse portarmi; né frattanto dalla casa Pisani, il quale dal
suo servidore avea già saputo il mio arresto, vedeva persona colla
quale potessi tutto ciò dire, rimanendo colla speranza che il fante,
communicando al Pisani la mia sollecita partenza per ordine degli
Inquisitori di Stato, i quali volevano che mi si fosse data la mia
roba, il Pisani gli consignasse ciò che era necessario per un sì
improviso e sollecito viaggio.
Il «Misser grande», sicome mi sollevò in dirmi che questo fosse
ordine degli Inquisitori di Stato, poiché era sicuro che la calunnia
tosto si sarebbe scoverta, non avendo io né per pensiero macchinata
cos' alcuna contro la Repubblica; così mi attristò, quando poi mi
soggiunse che l'ordine era di condurmi per acqua a' confini dello
Stato ecclesiastico, in Crespino, villaggio del Ferrarese. Allora co-
1. un fante: si chiamava Isepo (o Giuseppe) Bartoletti.
298 VITA DI PIETRO GIANNONE
minciai a pregarlo che mi portassero in altro confine, o in Triesti,
0 altra parte che non fosse dello Stato del papa, sapendo tutti le
persecuzioni che m'eran date da quella Corte, e che io non era si-
curo, capitando in luogo sì inimico e sospetto; che ben si sarebbe
adempito l'ordine degli Inquisitori portandomi altrove, i quali for-
se, se avessero a ciò avvertito, avrebbero prescritto altro confine,
non credendogli cotanto spietati e barbari, che volessero darmi in
preda de' miei fieri ed implacabili nemici; ma colui si scusava non
poter un punto trasgredire gli ordini dati, né vi era questo tempo,
essendo ormai la mezzanotte, di potergli parlare; ingegnandosi di
persuadermi che non dubitassi di funesto accidente, poiché in Cre-
spino avrei trovata pronta comodità di passar presto in altro Stato,
che non fosse della Chiesa romana.
Con questa aggitazione io era, aspettando il ritorno del fante
dalla casa Pisani colla roba per partire. Era questi un vecchio sci-
munito, il quale giunto che fu dal Pisani, non gli disse altro che
per ordine degl'Inquisitori di Stato gli consignasse tutta la mia
roba, senza dirgli che io dovea partir subito, e che la roba si cer-
cava per meco portarla: ciocché ben potea dire, poiché il «Misser
grande» l'avea a me palesato, non già in secreto, ma in sua pre-
senza e di quante persone, ch'eran molte, erano nelle sue stanze.
E pure egli, con mozze parole, non cercava altro che la mia roba ;
sicché, come seppi dapoi, pose la casa Pisani in una grandissima
costernazione, credendo tutti che io per delitto di Stato fossi stato
preso, e che la roba si cercasse come confiscata. Né in quella per-
turbazione così il Pisani padre, come suo figlio, ebber tanto d'in-
dustria o di coraggio, dal fante o da altri, o pure con mandar per-
sona dal «Misser grande», nelle cui stanze io era, d'informarsi
meglio del successo. Mi ebbero per ciò per perduto e morto; e
cercando tutti salvar se stessi, ne mandaron tosto di casa quel gio-
vane mio figliuolo, occultando il meglio che potevano le mie scrit-
ture e robe; ed insistendo il fante che gli si fosse consignata la mia
roba, il Pisani finalmente gli disse che non vi era di me in sua
casa altra roba che libri ed alcune poche cose, ch'egli ce l'avrebbe
consignati; e portatolo nella stanza ov' erano i miei libri, si co-
minciò a levargli dalle scanzie, e fattane più cumuli da' marinari,
si trasportarono nella peota che dovea condurmi a Crespino, em-
pendone la prora e la poppa di quella, alla rinfusa ed a mucchi,
secondo che li venivano alle mani.
CAPITOLO DECIMO 299
Questa era la cagione perché il fante non si vedea mai tornare:
sicché, doppo averlo aspettato due ore, venne finalmente, e det-
tomi che tutto era già stato riposto in barca, affrettò il partire.
Ed avendogli dimandato se avea ivi riposto il mio forziere, ov'erano
alquanti miei denari e gli abiti, mi rispose che il Pisani non Tavea
consignati se non libri, che per esser tanti avea dovuto impiegare
tutto quel tempo ed i marinari, per trasportarli in barca. E che ho
da far io de' libri - gli dissi, - che più tosto mi saranno d'impaccio,
quando il più necessario mi mancava? come senza denari poteva
io partire, e senz'abiti, fuor che di quelli che avea addosso ? Tor-
nasse a farsi consignar almanco il forziere e dire al Pisani che io
dovea partire, che ciò sapendo, non avrebbe mancato di consi-
gnarcelo subito; ma furono gettate al vento le mie parole e pre-
ghiere, replicandomi ch'era già tardi ed a mezzanotte tutti dormi-
vano, e non poteva differir di vantaggio la partenza; ma che biso-
gnava tosto imbarcarci, per poter arrivare la notte seguente a
Crespino. Fu dura necessità ubbidirlo ; e posto in barca, verso le
cinque ore della notte,1 così come fui preso, con que' pochi denari
ed abiti che mi trovava addosso, si navigò tutta quella notte, in
compagnia del fante e d'un soldato di guardia e de' marinari che
guidavano la peota.
All'apparir del giorno 14 del mese, non senza lagrime vidi quel
doloroso spettacolo de' miei libri, con tanta diligenza e spesa da
me raccolti, gettati di qua e di là per la nave, il numero e disordine
de' quali mosse anche la compassione del fante istesso, e cominciò
a conoscer l'errore; sicché lo pregai che, vedendo l'impossibilità di
poterli meco condurre per terra, sbarcato che io fossi a Crespino,
mi facesse la grazia di riportarseli seco e consignarli al Pisani,
perché avrei io dapoi pensato di fargli trasportare altrove; ma negò
prima di poterlo fare, persuadendomi che io, piuttosto, gli la-
sciassi in poter dell'oste a Crespino, da dove poi avrei potuto
fargli trasportare in altro luogo che volessi; né fu possibile, pro-
seguendo il cammino di quel giorno, di piegarlo; ma dapoi, la-
sciate le lacune e navigando incontro Tacque del Po, avvicinandoci
la sera a Crespino, il fatto istesso, ciò che non avean potuto le
mie preghiere, lo arrese e convinse; poiché ad un'ora di notte
giunti nel confine del Ferrarese, si trovò che l'osteria dove dovea
1. le cinque ore della notte: cioè le cinque dopo il vespro, che corrispondono
presso a poco alla mezzanotte.
300 VITA DI PIETRO GIANNONE
posarmi, essendo Tacque del fiume basse, era molto discosta dalla
riva, né potea la barca condursi fin là, ma per giungervi era d'uopo,
per terra, far lungo camino a piedi, né vi era modo di poter far
trasportare ivi tanti libri, essendo di notte, né per quelle campagne
si vedea persona: allora il fante, scorgendo l'impossibilità della
cosa, si persuase e mi promise che avrebbe seco riportati i libri, e
restituiti al Pisani; di che io sopra la sua fede rimanessi pur sicuro,
che avrebbe esattamente adempito quanto prometteva.
Poi, per ordine degl'Inquisitori di Stato fattomi sentire che io,
sotto pena della vita, non facessi più ritorno a Venezia, né a* Stati
di quella Repubblica, mi espose alla riva del Po; e datomi il sol-
dato di guardia con un marinaro, che mi accompagnassero fino
all'osteria, si camino a piedi lungo tratto, per arrivarci; dove non
si giunse se non passate le due ore di notte. Quivi mi lasciaron solo,
se non con un garzone dell'oste (poiché, essendo l'ora tarda, l'oste
e tutti gli altri dormivano), e tornarono in dietro al fante, che l'a-
spettava in barca. E questo fu il frutto che io trassi dalle tante
carezze ed accoglienze usatemi in Venezia, sperimentando in mia
persona qual veramente fosse la fede e lealtà veneziana.
Il giovane dell'oste si scusava che, essendo tardi, non avea che
darmi per cena: gli risposi che per questo non si afHiggesse; mi
desse solo un poco di pane ed un bicchier di acqua, e letto per
ristorarmi dalla stanchezza del cammino dalla barca fin qui. Mi
offerì vino, ed io dicendogli che non ne bevea, di ciò sorpreso mi
portò del pane e dell'acqua; ed intanto dimandandogli se vi era
commodità di poter la mattina per tempo partire per Modena, mi
rispose che vi era in quelle campagne un villano, che teneva un
galesse con due giumente, ma non sapeva se potesse condurmi
fino a Modena, non facendo viaggi se non ne' luoghi vicini; lo
pregai che la mattina a buon'ora lo chiamasse e conducesse seco,
per parlargli, e mi promise di farlo; onde, postomi in letto, passai
come Dio volle quella notte, aggirato di mente da mille pensieri
torbidi e funesti.
Venne l'alba, e levato di letto trovai che il giovane avea già
avvisato il villano, il quale venne da me coll'oste; e dettogli il mio
bisogno si scusava che, non essendo pratico, non poteva condurmi
se non al Ponte di Lago oscuro,1 pure nel Ferrarese, dove io avrei
t P/v»** j; Lago oscuro : ora Pontelagoscuro.
CAPITOLO DECIMO 3OI
potuto provvedermi per Modena d'altra commodità; ma dicendogli
che non voleva perder tempo in trattenermi per ciò in altri luoghi,
lo pregava che quel guadagno, meglio e di più buona voglia, l'avrei
a lui dato che a qualunque altro, onde facesse animo che, con
dimandare, facilmente gli sarebbe mostrata la via che conduce a
Modena. L'oste era dalla mia parte, e sopragiungendo un altro
vecchio, pratico de' luoghi, questi l'incoraggi istruendolo delle
strade, e che non avrebbe potuto disperderle.1 Finalmente si con-
tentò, e datogli quanto pretese, prestamente quella mattina stessa
de' 15 mi posi in galesse e tirai avanti, e con dimandare a quanti
per via s'incontravano la strada di Modena: si giunse la sera a
Cento e la mattina del dì seguente, 16 del mese, ad ora di pranzo,
arrivai a Modena; e posato nell'osteria del Gadi nella parrocchia
di Sant'Agata, vicino la chiesa di San Domenico, essendo venerdì,
giorno di posta per Venezia, immantinente scrissi al Pisani ed al
principe Trivulzi, dandogli avviso del mio arrivo a Modena, dove
pensava trattenermi sconosciuto fin che non potessi risolvermi ad
altro partito, aspettando intanto con impazienza da essi riscontri,
per sapere la cagione onde si fossero mossi gl'Inquisitori di Stato
di dar un passo sì precipitoso e barbaro, e come in Venezia si
fosse inteso ; e sopra tutto pregai il Pisani che m'avvisasse se il fan-
te avea riportati i miei libri, e se il mio giovane, l'altre mie robe,
denari e scritture fossero in salvo, e mi mandasse denari, perché
io non avea se non que' pochi che mi trovai addosso; pregandogli
a rispondermi in Modena sotto altro nome,2 che io gli additai, e
che tenessero a tutti nascosta la mia dimora in quella città.
Non prima de' 29 di questo mese ebbi risposta dal Pisani, il
quale mi avvisava che, se bene quella notte che fui preso, non sa-
pendo che di me e di loro si facessero gl'Inquisitori, la sua casa
fosse tutta costernata e piena di spavento, nulladimanco la mattina
si seppe subbito per tutta Venezia la mia partita, onde tutti di
sua casa respirarono alquanto, ed egli fece richiamare il mio gio-
vane in sua casa; e tanto maggiormente si calmarono, perché si
divolgò la cagione o '1 pretesto che allegavano gl'Inquisitori: la
quale non era altra, se non perché io, dimorando in casa d'un sena-
tor veneto, frequentava spesso la casa dell'ambasciador di Spagna
1. disperderle: smarrirle. 2. sotto altro nome: Giannone scelse il nome dì
Antonio Rinaldi. In Modena fu raccomandato dal Pisani ad Antonio Gui-
detti, fattore di casa d'Este e conoscente del Muratori.
302 VITA DI PIETRO GIANNONE
e quella di Francia; ma che tutti gli uomini di senno ed accorti,
sicome riprovavano il precipitoso passo, così credevano che questo
fosse un mendicato pretesto, ma che in realtà il colpo fosse venuto
dalla corte di Roma, la quale, mal sofferendo che io in Venezia
fossi ben veduto e che si trattava di ristampar ivi la mia Istoria
coli' aggiunta d'un quinto tomo, per mezzo del Nunzio, <dell'In-
quisitoro e de' Gesuiti, vedendo preclusa ogni altra strada per ro-
vinarmi, tentarono quella degli Inquisitori di Stato, per l'oppor-
tunità che i Gesuiti ebbero, d'essere in quel mese due de' tre In-
quisitori loro penitenti, sopra i quali aveano tutta l'autorità; ed
affrettarono il passo poiché forse non gli sarebbe riuscito nel se-
guente mese, che doveano gl'Inquisitori mutarsi. De' tre Inquisi-
tori,1 principalmente ad uno se ne dava la colpa, ch'era il più
liggio e dipendente de' Gesuiti, il qual mosse l'altro; poiché il
terzo protestava non averci avuta parte alcuna. Che tutti i gentil-
uomini, sicome compativan il mio duro caso, così non lasciavano
di biasimarne l'autori; e che alcuni, riguardando che fosse ciò
seguito dal capriccio di uno o due, senza partecipazione del Senato,
pensavano alla maniera come io potessi con onore farci ritorno.
Lo stesso vennemi confermato da altre lettere, che ricevei dal
senator Antonio Cornaro e da altri amici; ed il principe Trivulzi
mi scrisse che non si dubbitava che fosse stata gabala della corte
di Roma,3 tessuta per le mani del Nunzio e de' Gesuiti; ed ebbi
anche altri riscontri, che l'ambasciador di Spagna, essendogli rife-
rito il caso e la cagione che si divolgava per Venezia, per aver io
frequentata la di lui casa, non lasciava con tutti di dire che questo
era un pretesto troppo miserabile e buggiardo, rendendo a tutti
testimonianza che, in tutto il tempo ch'era io stato a Venezia,
non l'avea visitato che cinque o sei volte; e queste furono prima di
passar io nella casa Pisani, poiché doppo questo passaggio non vi
fui che una sol volta, per sapere che risoluzione si fosse presa dalla
Corte del re Carlo intorno al mio ritorno in Napoli. Lo stesso di-
ceva l'ambasciador di Francia, che ciò fosse un mendicato colore,3
poich'egli non mi vedeva se non quando il caso portasse che ci
fossimo incontrati nel monastero di San Lorenzo, e che più volte
invitatomi a pranzo, dopo che passai in casa Pisani, me n'era sem-
i. tre Inquisitori: erano Giorgio Contanni, Alvise Mocenigo e Federico
Tiepolo. 2. il principe . . . Roma: cfr. Giannoniana, p. 526, e S. Bertelli,
r ^nrartamento originale, cit., pp. 20-1. 3. mendicato colore-, pretesto.
CAPITOLO DECIMO 303
pre scusato; che ben si sapeva donde e per mano di chi si fosse
tessuta la macchina, e che non se non a fanciulli potevano gPIn-
quisitori dar a credere la favola ed il pretesto cercato, il quale mag-
giormente qualificava il passo per imprudente e capriccioso, e dato
unicamente per compiacere a* Gesuiti ed alla corte di Roma.
Ed in vero a chi poteva venir in mente che io, che non era a'
stipendi della Repubblica, ma un forastiere che dimorava, come
ospite, nella casa del Pisani, fossi compreso dalle scrupolose leggi
che i Veneziani a se stessi han imposte ? Quando al contrario non
si tien conto che le mogli, le figliuole, le sorelle e nipoti de' senatori
e gentiluomini abbian commerci e trattino, nelle conversazioni ed
altrove, con gli ambasciadori, secretari ed altri di lor famiglia? E
pure, sopra di me eran vòlti gli occhi de' Gesuiti per notare ogni
mio detto o passo, per che fosser somministrati i fili per ordire le
insidiose lor reti. E forse sarò io l'unico essempio ? e che in Venezia,
la quale per esser ricettacolo di tutti i ribaldi solea chiamarsi la
ricevitrice di ogni sozzura: ora i forastieri, ancorché onesti, non vi
sian più sicuri, poiché sempre che i Gesuiti, i quali avran la dire-
zione delle coscienze degli Inquisitori di Stato, vorranno rovinargli,
hanno facile la via di farlo, dipendendo dal capriccio d'uno o due
Inquisitori la fama, la roba e la vita di qualunque uomo onesto,
da bene e morigerato che e' si fosse.
Fui ancora dal senator Pisani avvisato che il Pitteri, saputa la
notte stessa la mia disgrazia, prestamente si portò la mattina se-
guente di buon'ora dal padre teologo, e con sollecitudine gli richie-
se tutti i miei manuscritti, che l'avea consignati, il quale ce gli
restituì subito; talch' essendovi egli poche ore doppo giunto per
avergli, ed avendogli il padre teologo detto che già il Pitteri avea-
segli ripigliati, immantinente si portò dal medesimo per ricuperar-
gli; ma il Pitteri negava di darceli, dicendo che, avendogli da me
ricevuti, senza mio ordine non poteva ad altri consignarli; sicché
bisognò con molti stenti e con precisi ordini del magistrato co-
stringerlo ad esibirgli; e ch'erano già in suo potere, sicome tutte
le altre mie scritture, robe ed i denari erano in salvo e nelle sue
mani. Intorno a' libri, il fante non averceli riportati, secondo pro-
mise; ma che fu d'uopo per avergli ricorrere dagl'Inquisitori, li
quali in ciò si mostrarono facili ed indulgenti, commandando che
fossero tutti restituiti e consignati in suo potere, sicome fu fatto;
se bene, al confronto che si fece col mio catalogo, si vide che ne
304 VITA DI PIETRO GIANNONE
mancavano alcuni, che fu il manco male a riguardo de' passati
pericoli.
Mi scrisse perciò che l'avesse io avvisato di quel che dovea farne;
sicome se il mio giovane, ch'era in sua casa, dovea farlo tornare in
Napoli, o pure stradarlo per dove io era, co* denari e colla roba che
mi bisognasse; e che intorno alla mia persona, vedessi quanto più
presto fosse possibile uscir d'Italia, poiché la corte di Roma, in
qualunque luogo fossi di quella, non avrebbe tralasciato di perse-
guitarmi; e che il più sano consiglio, ch'egli ed i buoni amici
potevan darmi, era che io me n'andassi ne' Svizzeri, o in Ollanda,
o se potessi in Inghilterra, ove sarei stato ben ricevuto e più sicuro.
Lo stesso mi scrivea il principe Trivulzi, sollecitandomi a partir da
Modena, che non era per me luogo sicuro; <e scrivevan il vero poi-
ché, come seppi dapoi, da Roma si eran dati ordini a tutti gl'Inqui-
sitori di Lombardia, di Fiorenza, di Genua e dove capitassi, di
arrestarmi^1 Ed io ben conosceva che questo sarebbe stato il più
savio consiglio; ma come poteva intraprendere sì lunghi viaggi, in
età così avanzata e con pochi denari, non essendomi rimasi che
ottanta ungheri, fra quelli che io avea lasciati in Venezia e portava
meco ?
Mi risolsi infine, <sconosciuto>, di passare a Milano, e di là scri-
vere a Bousquet in Genevra, che se mai ivi fosse necessaria la mia
assistenza per la traduzione francese, e la sua compagnia volesse
intraprendere la stampa di quanto erasi disposto a Venezia d'altre
mie opere italiane, me l'avvisasse, perché dalla sua risposta avrei
presa di me risoluzione. Rescrissi per ciò a Venezia al Pisani ed al
Trivulzi, che volentieri mi sarei appigliato a' consigli loro e degli
altri buoni amici, ma che senza soccorso di denaro non poteva
intraprendere sì lunghi viaggi; che a me, presentemente, bisognava
trovar modo di poter in qualche luogo onestamente vivere colle
mie fatiche, e che non mi restava altro più vicino rifuggio, se non
di tentarlo in Genevra, dove forse avrei opportunità di trovarlo;
ch'era per ciò risoluto passare a Milano, dove più da presso avrei
potuto con Bousquet trattare de' miei interessi.
Scrissi per ciò al Pisani, che volendosene tornar il mio giovane
i. ordini . . . arrestarmi: questi ordini sono raccolti nel già citato mano-
scritto vaticano Rossiano 1180. Cfr. S. Bertelli, V incartamento originale,
CAPITOLO DECIMO 305
a Napoli, gli desse quanto bisognava pe '1 viaggio; ma se pure vo-
leva seguitarmi ed essere a parte de' miei travagli, lo stradasse
con buona compagnia per Modena, al quale poteva consignare il
mio denaro e le scritture, e sopra tutto i manuscritti che avea ricu-
perati dal Pitteri, gli abiti e quella mia roba che potea portar seco,
essendo sicuro che dal medesimo avrei ricevuto il tutto con pun-
tualità ed esattezza. Intorno a' libri, che avesse la bontà di tenergli
in suo potere, infino che io non risolvea o di vendergli, ovvero di
fargli trasportare altrove, pregandolo che in ciò si compiacesse di
usar meco la solita sua affezione e beneficenza, della quale il caso
mio infelice, ora più che mai, n'era ben degno e meritevole.
Pregai affettuosamente il principe Trivulzi che, dovendo passare
a Milano, mi facesse la grazia di raccommandarmi alla principessa
Trivulzi, sua moglie,1 la quale fin che io fossi a Milano, prendesse
di me cura e protezione; e risposi alle gentili ed affettuose lettere
del senator Cornaro, nelle quali mi dava notizia d'essere stato in
Venezia da tutti il mio caso non pur compatito, ma gli autori uni-
versalmente biasimati; che era contento che presso i Veneziani
fossi nel medesimo concetto di prima, ed avesser ben conosciuta
la gabala, e donde e da chi fosse stata tessuta; ma che di questo
stesso, per mio onore, bisognava che ne fossero consapevoli anche
l'altre città d'Italia, sicome io non avrei mancato di far pervenire
alla notizia di tutti, non meno la protervia e malignità degli autori,
che il sentimento mostratone dalla parte più sana de' savi che com-
pongono il Senato e sì degna Republica.
Mi convenne por ciò trattenermi sconosciuto in Modena e fuor
del consorzio umano per più settimane, fin che non giungesse il
giovane mio figliuolo colla mia roba, manuscritti, scritture ed abiti,
e sopra tutto col denaro per poter proseguire avanti il viaggio.*
Giunse finalmente a Modena, non prima de' 26 di ottobre, mer-
cordì la sera, e portò seco il mio forziere, con gli abiti e scritture
ed il denaro che dal Pisani oragli stato consignato; ma non portò i
manuscritti che si erano ricuperati dal Pitteri, scrivendomi il Pi-
sani che per compiacere ad alcuni gentiluomini, suoi amici, che
x. pr ina f>m<* • - < "«**'>'• Margherita, figlia di Carlo Pertusati (sul quale
efr la noia x a p. <>8). 2. A questa altezza, a margine, il Giannone ha
scritto Heuss» indicanone di inserzione: «A' 3 dì questo mese di ottobre
I71S furono firmati a Vienna gli articoli preliminari della pace, concniusa
poi V x« ottobri' 173** * pubblicata dopo nel 1739».
306 VITA DI PIETRO GIANNONE
aveano gran desiderio di leggergli, glieli avea confidali, ma che
me l'avrebbe trasmessi a Milano, per commodità sicura. Rimasi
sorpreso, ma non dubbitando della di lui lealtà, prima di partir
da Modena gli scrissi che, ricuperati che l'avesse, gli consignasse al
principe Trivulzi, il quale (sicome con altre mie lettere lo pregava)
non avrebbe mancato sicuramente farmeli pervenire a Milano.
Partii col mio giovane da Modena il sabbato la mattina, 29 di
ottobre, e la sera si arrivò a Parma. Il di seguente si partì per
Piacenza, dove si giunse la mattina dell'altro giorno, lunedì, ul-
timo del mese.
La mattina del martedì, primo di novembre, si arrivò a Milano ;
dove, fermato nell'osteria di Bigatti al vico de' Visconti, la princi-
pessa Trivulzi, secondo l'avviso datoli dal principe suo marito,
che io sarei fermato a Milano in casa Bigatti, non mancò di mandar
il suo secretario, don Francesco Canari, un gentilissimo cavalier
sardo, il quale, dopo aver in nome della medesima fattemi corte-
sissime esibizioni, dicendomi che avendo la principessa desiderio
di parlarmi, l'avvisassi in qual ora dovesse mandar sua carozza a
prendermi, avendole rese le dovute grazie gli risposi che io era a
disposizione di Sua Eccellenza, e che la mandasse quando fosse
di suo comodo, perch'era sempre pronto per ricevere un tanto
favore, e che non minore era il mio desiderio di venire a riverirla;
ma che intanto la pregava di tener secreto il mio arrivo, poiché io
sotto altro nome era entrato a Milano e dimorava in quella casa,
sicome pregai il secretario che non facesse ad altri motto di mia
persona.
Scrissi a Bousquet in Ginevra, dandogli parte del mio arrivo a
Milano e che, se la sua compagnia, oltre la mia direzione per ciò
che s'attiene all'impressione della traduzione francese, voleva as-
sumer il carico di stampare quanto io avea preparato a gli stam-
patori di Venezia, volentieri mi sarei colà portato, perché l'opera,
essendo italiana e dovendosi imprimere sopra manuscritti, ricer-
cava il proprio autore per venire corretta ed esatta, e con tal op-
portunità si avrebbe potuto anche tradurre in francese il quinto
tomo, sicché l'opera riuscisse più compita e perfetta; ma che la
mia dura sorte avendomi ridotto nell'ultima necessità, non poteva
a ciò risolvermi, se non avessi riscontro che fosse lor a grado, e che
si contentassero somministrarmi quanto avea convenuto con gli
stampatori di Venezia.
CAPITOLO DECIMO 307
Aspettando tali riscontri da Bousquet fui, secondo ciò che s'era
stabilito col secretano, dalla principessa Trivulzi, la quale mi ricevè
con somma cortesia e gentilezza, ed ebbi occasione di conoscere
una dama molto discreta, savia e prudente, alla quale narrai i miei
infelici successi, e che prevedendo che la corte di Roma non mi
lasciarebbe viver quieto in Italia, dove mostrava non volermici
avendomi impedito il ritorno a Napoli e la dimora in Venezia,
avea pensato di passare in Ginevra, non già per mutar religione,
ma dove forse colle mie fatiche avrei trovato modo di poter one-
stamente vivere, credendomi abbandonato da tutti e dalli stessi
miei congionti; e che i buoni amici mi consigliavano ad uscir d'Ita-
lia e, se io potessi, andarmene in Inghilterra, non che a' Svizzeri
ed in Ollanda; e che a far lo stesso veniva consigliato dal principe
suo marito, al quale anche la mia dimora a Milano era sospetta,
scrivendomi che affrettassi al possibile di pormi presto fra' Sviz-
zeri: che con somma mia dispiacenza ero costretto di farlo, ma
la dura necessità, sicome per un verso mi costrinse uscir da Ger-
mania, così ora per un altro mi obbligava uscir d'Italia, per non
esser bersaglio delle persecuzioni della corte di Roma, la quale par
che abbia rivolte tutte le sue insidiose macchine contro di me,
per atterrarmi.
Mossesi la principessa a gran compassione per le mie parole,
e considerando il duro passo che la necessità mi costringeva a
dover dare, mi rispose che sospendessi la partenza, poich'ella, per
quanto avea potuto scorgere dal marchese Olivazzi,1 Gran Cancel-
lier di Milano e suo amico, credeva che la mia dimora a Milano non
poteva essermi sospetta; palesandomi che, doppo l'avviso ch'ebbe
dal principe di essermi incamminato per Milano, avealo con som-
mo secreto communicato al medesimo affinché, se mai dalla corte
di Torino vi fosse istruzione o ordine di non ricevermi, potesse
prevenire prima che io vi giungessi, o, giunto appena, farmene
consapevole, perché io altrove volgessi il cammino; e che l'avea
risposto che non vi era tal ordine, né fin allora se n'era fatto alcun
motto; onde mi consigliò a rimanere, anzi che stimava che io mi
fossi scoverto al Gran Cancelliere, ed ella avrebbe mandato il suo
1. Giorgio Olivazzi (1667-1742), già ambasciatore del duca di Modena a
Roma per la controversia sulle Valli Comacchiesi, agente modenese a Mi-
lano, senatore di quella città e infine reggente del Supremo Consiglio
d'Italia e Gran cancelliere.
308 VITA DI PIETRO GIANNONE
secretarlo Canari a dargli avviso del mio arrivo, ed a pregarlo
che volesse stabilirmi un'ora che li fossi più commoda, perché io
sarei venuto a riverirlo ed informarlo di tutti i miei successi; e
che intanto, essendo solito il Gran Cancelliere ed il general Petit,1
sopraintendente generale delle finanze, le sere, portarsi in sua casa,
l'avrebbe parlato in buona forma in mia commendazione, essendo
allora l'Olivazzi ed il general Petit i due primi ministri, da' quali
per la corte di Torino reggevasi la città e lo Stato di Milano.
In effetto, essendo stato il secretano dall' Olivazzi, tornato che
fu dalla sua villa, a dargli l'avviso che io era a Milano e se permet-
teva che io venissi a visitarlo, ne mostrò compiacenza e che volen-
tieri mi avrebbe parlato; e gli designò il giorno del mercordì la
mattina, che furono i 16 del mese, che m'avrebbe aspettato in sua
casa. Ed io intanto dovendo trattenermi, pregai il secretano che
mi alleggerisse dalla spesa che soffriva in casa Bigatti, e vedesse
trovarmi un paio di stanze in una casa privata;2 sicome, con somma
sollecitudine ed accuratezza, me le trovò prossime al palazzo de'
Trivulzi, ove abitava la principessa.
Il mercordì la mattina fui dal Gran Cancelliero, il qual mi ricevè
con somma benignità, ed avendogli minutamente esposti tutti i
miei successi e la dura necessità, che mi costringeva di cercar fuori
d'Italia luogo che per me fosse sicuro, ed il consiglio della princi-
pessa di fermarmi a Milano, dove forse non avrebbe dispiaciuta
la mia dimora: ciò mi avea animato di ricorrere alle sue benignissi-
me grazie, affinché scrivesse alla corte di Torino in mia commenda-
zione, e che se mai potessi aver l'onore d'essere impiegato, o in
Torino, o in Milano, a' servizi d'un principe cotanto savio e glo-
rioso, quanto era il re Carlo Emanuele,3 il qual non degenerando
dagli augusti e magnanimi suoi predecessori, avea empita l'Europa
de' suoi fatti egreggi, non meno in pace che in guerra, io l'avrei
ricevuto per singoiar grazia; tanto più che non era ignoto in quella
Corte, sicome in Vienna era ben veduto dal marchese Breglia,4 in-
viato di Sua Maestà nella Corte cesarea, e dal presidente Siccardi,5
i. il general Petit: il conte Antonio Petitti di Roreto, intendente di guerra.
2. in una casa privata: cfr. Panzinx, p. 84, che dice come il proprietario
fosse un certo Pietro Cattaneo. 3. Carlo Emanuele: cfr. la nota 3 a p. 238.
4. marchese Breglia: Giuseppe Roberto Solaro di Breglio (1680-1764), am-
basciatore sabaudo a Napoli, poi a Vienna, governatore del principe Vit-
torio Amedeo nel 1733. 5. Forse Michele Siccardi, sul quale cfr. C. Dio-
kttcattt. Stòria dei magistrati piemontesi, 11, Torino 1896, p. 289.
CAPITOLO DECIMO 309
che si trovava ivi incaricato pure dal re de' pubblici affari; e che
nemmeno era ignoto al marchese di Ormea,1 primo ministro e se-
cretano di Stato di Sua Maestà al quale avrei anche scritto, pre-
gandolo della sua buona grazia e protezione.
L'Olivazzi mi rispose che per Milano non vi era opportunità di
mio accomodamento ; ma potea sì ben incontrarsi per Torino, al-
manco per la carica d'istorico del re: ch'egli, per la premura anche
datale dalla principessa Trivulzi, n'avrebbe efficacemente scritto
alla Corte; e che ben poteva io anche scriverne al marchese di
Ormea e mandar a dirittura a lui la lettera, ed aspettar i riscontri
che si fossero ricevuti. Scrissi per ciò al marchese una molto umile
e dimessa lettera,3 esponendogli i miei duri casi, e pregandolo
fervorosamente della sua intercessione presso la Maestà del re;
al qual io, con tutto lo spirito, avrei in suo servizio sacrificato tutto
il rimanente di mia vita, in qualunque occasione che la mia opera
e la mia penna potesse esser di suo gradimento ; ed il Gran Cancel-
liere disse alla principessa aver anch' egli scritto a Torino con fer-
vore, in mia commendazione.
Intanto, ascoltando io la mattina d'una domenica messa, capitò
in quella stessa chiesa il senator Cola,3 che io non conobbi, pel
nuovo abito di toga talare del quale era adorno ; ma sì bene egli
ravvisò me, come quello che più volte aveami veduto a Vienna e
trattato insieme. Terminata la messa si avvicinò, e presami la mano
fecemi grate dimostranze, ed usciti di chiesa, mi dimandò qual
fato aveami tratto a Milano, e rispostogli che io vi era di passag-
gio, brevemente gli narrai le mie disavventure; ed entrati in vari
discorsi sopra il nuovo sistema d'Italia e della presente guerra,
egli fu il primo che, con afflitte parole, mi disse che già era immi-
nente la pace, che l'imperadore trattava colla Francia, e che fra
breve la città e lo Stato di Milano sarebbe tornato a Cesare, fuor
quella parte di là del Ticino che sarebbe rimasa a Savoia; e che
l'imperadore faceva male fidarsi della Francia, la quale l'avrebbe
ingannato e posto in maggiori inviluppi. Gli risposi che questa era
la prima volta che io lo sentiva, poiché né a Venezia, né a Modena,
1. Carlo Vincenzo Ferrerò di Roasio, marchese di Ormea (1680-1745), mi-
nistro sabaudo per gli affari interni nel 1730, per gli affari esteri nel 1732,
Gran cancelliere dal 1742. 2. Scrissi . . . Ietterai l'autografo in Archivio di
Stato di Torino, manoscritti donnone, mazzo ili, ins. 3, B, 1 (Giannonia-
na, p. 448) e P. Occella, Pietro Giannone negli ultimi dodici anni, cit.,
pp. 502 sgg. 3. Antonio Cola,
3IO VITA DI PIETRO GIANNONE
di dove veniva, ne avea intesa parola, ma che io ne dubbitava assai,
non potendone capire né il modo, né la cagione. Ma egli si osti-
nava che sicuramente così era, e presto se ne sarebbero veduti gli
effetti.
Narrai quest'incontro e questa novità al secretano Canari, es-
sendo la principessa andata in villa, il qual mi rispose che correva
questa voce per Milano; ma che gli dispiaceva essermi incontrato
col senator Cola perché questi, come timoroso di perder la toga
senatoria tornando Milano all'imperadore, ogni cosa lo sgomen-
tava, e forse l'avermi veduto a Milano lo farà entrare in sospetto
che questo fosse un nuovo indizio di presta mutazione, ed inter-
pretare che ci fossi venuto per dover ivi occupare qualche carica,
designatami forse dall'imperadore; ed alcuni, presso i quali, come
Finalino,1 era il Cola in concetto d'uomo sofistico, torbido ed in-
quieto, soggiungevano che non avrebbe mancato scrivere alla corte
di Torino questa mia venuta a Milano per misteriosa e sospetta.
Checché si fosse, o che le lettere mie e dell' Olivazzi fossero giun-
te tardi a Torino, o pure per questo sospetto, ovvero perché quella
Corte fosse stata prevenuta da quella di Roma, mentre io mi trat-
teneva a Milano aspettando di là i riscontri, un giorno doppo
pranzo, che fu il martedì 22 novembre, fu in mia casa un ufficiale
del Capitan generale di giustizia di Milano ad intimarmi un or-
dine, con lasciarmene copia in iscritto, col quale per esecuzione di
speziai comando di Sua Maestà spedito da Torino il giorno pre-
cedente, mi s'imponeva che io, sotto pena di carcerazione in caso
d'inobbedienza, dovessi fra due giorni dopo l'intimazione uscire
dalla città e domìni di Milano. Risposi all'ufficiale che Sua Maestà
sarebbe stata prontamente ubbidita; e trovandosi la principessa
Trivulzi in villa, mandai ad avvisarne il secretano Canari, il quale
essendo da me rimase, non men che io, sorpreso ed attonito ; e la
confusione era maggiore non sapendo indagarne la vera cagione,
se ciò fosse per quel sospetto del senator Cola, ovvero l'ordine
procedesse da più alti ed arcani princìpi, a noi occulti ed ignoti,
vedendosi prestamente l'ordine spedito e giunto a Milano, prima
1. Finalino: la maiuscola, usata nell'autografo, indica forse qui il cognome
d'una persona, rimastaci sconosciuta, e non già, come a suo tempo cre-
demmo, un aggettivo riferito al senatore Cola. Ma questi sospetti sulla
presenza del Giannone a Milano erano dello stesso Olivazzi, come risulta
dalla lettera che questi inviò alTOrmea il 15 novembre, edita in P. Occel-
la, Pietro Giannone negli ultimi dodici anni, cit, p. 501.
CAPITOLO DECIMO 311
che si avessero le risposte alle lettere scritte dall' Olivazzi e da me
a Torino. Ed il riflettere che mi si vietava lo stare nella città e
dominio di Milano, non già negli altri Stati di Sua Maestà, dava
indizio che forse la cagione ne fosse per toglier ogni sospetto ed
ogni sinistra interpretazione, che poteva darsi colà del mio sog-
giorno. Dissi per ciò al Canari che già conosceva la mia sinistra
fortuna, la qual non era ancor sazia di perseguitarmi; che bisognava
cedere al fato ed immantinente partire.
Avea io intanto ricevute lettere dal Bousquet,1 nelle quali non
solo m'esprimeva il contento del mio arrivo a Milano e la speranza
che avea di vedermi presto a Ginevra, per regolar la traduzione
franzese; ma che volentieri avrebbe la sua compagnia intrapresa la
stampa dell'altra mia opera, secondo ciò che si era convenuto con
gli stampatori di Venezia; e che io non dubbitassi che si sarebbe,
per ciò che si attiene al mio onorario, avuta tutta la stima ed il ri-
guardo ; e mi mandò alcuni dubbi sorti al traduttore,2 perché io
intanto ce li sciogliessi, per potersi proseguire avanti. Sicché ri-
spostogli che, già ch'eran contenti di quanto l'avea scritto, io sarei
partito da Milano e portatomi in Ginevra; che le mandava in
risposta le spiegazioni che cercava il traduttore; ed intanto vedesse
di procurarmi due stanze commode, per me ed un mio giovane,
che portava meco, affinché non fossi obbligato dimorare lungo
tempo nell'osteria, ove il galessiere ne avrebbe posato.
Scrittagli questa lettera il martedì stesso, doppo che ricevei l'or-
dine, dissi al Canari che bisognava trovar galesse per Torino, da
dove avrei indi potuto trovar altra commodità per Ginevra; e
mostrandogli la lettera di Bousquet, dove anche mi dava notizia
d'un mercante milanese, suo corrispondente ed amico, del quale
io poteva valermi per indirizzo, in caso di viaggio, si stimò chia-
marlo ; il quale, fattogli leggere il foglio di Bousquet, prestamente
mi trovò il galesse per Torino, e per sue lettere mi raccomandò
anche ad altri mercanti torinesi suoi amici, i quali mi avesser pro-
curata consimil commodità per Ginevra.
Raccomandai efficacemente al Canary che, avendomi da Vene-
zia il principe Trivulzi dato avviso d'avermi trasmessi in un fagotto
1. lettere dal Bousquet: una di esse in Giannoniana, pp. 534-5- Per le rac-
comandazioni del libraio ginevrino a mercanti torinesi, cfr. P. Occella,
Pietro donnone negli ultimi dodici anni, cit, p. 508 in nota. 2. tradutto-
re: il Bochat (per cui cfr. la nota 1 a p. 213).
312 VITA DI PIETRO GIANNONE
i manuscritti ivi lasciati, giunti che fosser a Milano me l'istradasse
per Ginevra, da dove io l'avrei data notizia del mio arrivo; pre-
gandolo di adempir le mie parti colla principessa, la quale fu
immantinente avvisata dell'improvviso ordine, da lei inteso con
somma dispiacenza, che, trovandosi in villa, il poco tempo che
avea non mi dava aggio, prima di partire, di prender da lei con-
cedo; ma che in qualunque luogo io fossi, non si dimenticas-
se di me suo umil servitore e di conservarmi nella sua buona
grazia.
Partii da Milano il giovedì doppo pranzo, 24 del mese. Si passò
per Novara, indi per Vercelli, San Germano, Cigliano e Chivasso;
donde partito, si giunse a Torino la mattina della domenica, 27.
Quivi, fermati nell'osteria della Doana vecchia,1 feci richiedere
i due mercanti torinesi, a' quali io era stato raccommandato ; i
quali, vedute le lettere di quel di Milano, si offerirono di trovarmi
buona commodità di galesse per Ginevra; e considerando la mia
avanzata età, che mal avrei potuto a cavallo passare il Monceniso,
uno de' monti alpini, alto ed asprissimo, che divide il Piemonte dalla
Savoia, stabilito il prezzo convennero col galessiere, che a sue spese
dovesse da' portantini, che sono a pie di quel monte destinati per
questo, farmi condurre in sedia di mano.
Mi trattenni a Torino il giorno della domenica ed il lunedì
seguente, vedendo la città, le sue strade, il Palazzo,2 le piazze, la
cittadella ed altre sue fortificazioni, senza sospetto o timor alcuno
di sinistro successo, sicome feci in tutto il mio viaggio per Piemon-
te e per la Savoia, poiché nell'ordine non mi era proibito se non
la dimora in Milano e nel suo dominio.
Si partì il lunedì sera da Torino ed indi, passata la città di Susa,
si giunse poi a pie del Monsenise; e rimirando la stupenda sua
altezza, non più mi parve inverisimile che a* Galli, passando sotto
Bellovenso la prima volta in Italia, sembrassero i gioghi di que'
monti esser congiunti col cielo; e che i soldati d'Annibale ripu-
tassero il passaggio insuperabile, credendo che le nevi di que'
monti fossero miste co' cieli.3 Il mio destino trassemi, in età così
avanzata, di doverlo sormontare sopra le spalle di que' portantini,
1. osteria della Doana vecchia: su questo albergo, ancor oggi esistente, cfr.
D. Ribaudengo, Vecchia Torino, Torino 1961, pp. 110-5. %. il Palazzo:
il palazzo reale, realizzato nel 1658 da Amedeo di Castellamonte (morto
nel 1683). 3. cu Galli . . . cieli: cfr. Livio, rispettivamente v, 34,7 e xxi,
32,7-
CAPITOLO DECIMO 313
i quali nel discenso, per la lor velocità in camminar si frettolosa-
mente sopra que' chini sassi e scoscese rocche,1 mi fecero più
volte accricciar le carni, temendo in ogni passo che non mi preci-
pitassero fra que' dirupi e mi riducessero in pezzi. Resi molte
grazie al Cielo quando mi vidi al piano; e proseguendo poi il
cammino col mio giovane, in galesse, per quelle vie tutte tortuose,
disuguali e pietrose, traversando le orride montagne della Savoia,
non so se il mio fato, per scamparmene, o pure per avermi desti-
nato a peggiori strazi, fece che in passando per un luogo declivo,
discendemmo dal galesse; ed ecco, che pochi passi più avanti vi-
dimo2 co' propri occhi precipitare il galesse con un cavallo fuor
di strada in un dirupo, a basso rotolando sino al piano.
Come si potè meglio, col galesse e cavallo fracassato, si giunse
finalmente a Champéry,3 città metropoli della Savoia, da Grano-
ble4 non molto lontana, a* 3 di decembre; dove ci convenne aspet-
tare una mezza giornata, fin che il galessiere non trovasse ivi altro
galesse e cambiasse cavalli, per proseguire il viaggio.
Si camminò un altro giorno, e nel seguente vidi da lontano il
lago Lemano, ed il galessiere ci mostrò dapoi la città di Genevra,
postagli ad un lato, in quella parte ove il Rodano uscendone ripi-
glia il suo corso mediterraneo e va a mettersi, presso Marsiglia, nel
Mare Gallico.5
Giunsi a Genevra la sera del lunedì, 5 di decembre, e si alloggiò
nell'osteria «de' Tre Re», dove la sera stessa, secondo l'avviso
datoli, fu a trovarmi il Bousquet, mostrando gran contento del
mio arrivo, dicendomi aver trovate le stanze dove io il dì seguente
poteva passare, e che stessi sicuro ch'egli e la sua compagnia non
avrebber mancato di somministrarmi quanto faceva bisogno per
la mia dimora nella lor città. Le resi molte grazie e dissi che per
ora non bisognava altro che trarmi da quella osteria; e posato che
io fossi nel nuovo albergo, che fosse per me commodo, per risto-
rarmi da' passati disaggi del cammino, si sarebbe cominciato a
trattare de' nostri interessi e disporre le cose in guisa che tutto
riuscisse con buona fede ed accuratezza. Si passò dapoi, il giorno
seguente doppo pranzo, nelle stanze trovatemi, dove ad un discre-
to prezzo convenni coli' ospite di quanto faceva bisogno per me e
1. rocche', roccie. 2. vidimo : vedemmo. 3. Champéry: Chambéry. 4. Gra-
nóble: Grenoble. 5. Mare Gallico: l'odierno golfo del Leone (cfr. Usimts
Gallicus dei Romani).
314 VITA DI PIETRO GIANNONE
pel mio giovane. Era questi monsieur Chénevé,1 genevrino, che
soleva in sua casa alloggiar qualche sconosciuto forastiero, tenendo
moglie ed una figliuola, le quali erano ben proprie ed acconce a
tener ben trattati coloro che ci capitavano, ed io era ben contento
della loro attività ed affezione.
Avvertii al Bousquet che palesasse a' suoi amici la vera cagione
della mia venuta, la qual non era per cambiar religione, ma per tro-
var quivi, giacché non poteva trovarlo in Italia, un onesto modo di
poter vivere colle mie fatiche; e che gli rendesse testimonianza
della nostra antica corrispondenza, [e] de' trattati avuti insieme, i
quali mi deliberarono a prender questo partito; e col medesimo
mi condussi poi dal Residente di Francia, al quale avendo esposto
i miei travagli, che mi aveano per dura necessità costretto di por-
tarmi ivi, lo pregai della sua protezione; e che vedendo un cattolico
forastiere i giorni festivi e di domenica nel suo palazzo, ove si
celebrava messa, venire ad ascoltarla, non si maravigliasse se lun-
gamente si trattenesse in quella città, sapesse per ciò la cagione
della mia dimora, e non riputasse che io ci fossi venuto per motivo
di religione. Il Residente benignamente mi accolse, e mi rispose
che non dovea ciò recargli maraviglia alcuna, poiché in Ginevra,
per loro traffichi ed affari, vi eran tanti Savoiardi e Francesi cat-
tolici, che la sua chiesetta, che prima bastava, ora non era capace
di riceverne tanti; ed a molti, per ascoltar messa, bisognava ve-
derla ed anche sentirla fuori, nel cortile, per la porta e per le fine-
stre, nel miglior modo che potevano. Il Bousquet gli rese anche
testimonianza del nostro affare, che richiedeva molto tempo per
condurlo a fine; e così con sua buona grazia partimmo da lui.
Divolgatosi in Ginevra il mio arrivo e la cagione ond'era stato
mosso a condurmici: questa maggiormente mi affezionò gli animi
di tutti, a' quali, essendo io noto per la mia Istoria civile, che con
somma stima tenevano riposta nella lor pubblica e magnifica biblio-
teca, piacque assai più la cagione, che l'arrivo stesso; e conobbi
che coloro i quali ci venivano col pretesto di mutar religione erano
mal veduti ed in poco loro stima, per lunga esperienza avendo
scorto, che per lo più erano frati o monaci, i quali scappati da'
loro monasteri per loro delitti o dissolutezza, si ricovravan ivi per
i. Charles Chénevé era un sarto ; la sua casa si trovava presso « la Fusterie » :
cfr. la relazione di Jacob Vernet, in Giannonùma, p. 577.
CAPITOLO DECIMO 315
prender moglie e vivere sciolti da tanti legami, con cui le loro parti-
colari religioni gli tenevan avvinti ed inceppati.
Furono per ciò a visitarmi i primi letterati e professori di quella
Università de* studi, alcuni de* quali erano anche pastori nelle loro
Chiese, e notai fra loro una discretezza e prudenza mirabile, che
si astenevano ne* loro discorsi d'entrar meco in punti di religione;
e se taluno mostrava di volerci entrare, tosto dagli altri era inter-
rotto, e si passava a ragionar di scienze e di altre professioni ed
arti liberali; e poiché io industriosamente feci cadere in discorso la
risposta che avea in costume dar Giacomo Cuiacio, quando, ar-
dendo allora la Francia non men di civili discordie, che di religio-
ne, alcuni gli domandavano ciò che sentisse di quelle dispute, ed
egli con poche parole se ne sbrigava, dicendogli: «nihil hoc ad
edictum praetoris».1 Sicché accortisi di questa mia condotta, vo-
lentieri si passava ad altro discorso e solamente alcuni per loro
cortesia soleanmi dire: «talis cum sis, utinam noster esses»*
Vi trovai de' profondi filosofi, de' professori peritissimi del ius
civile, i quali a ragione tengono in somma stima e venerazione le
opere di Giacopo Gottofredo, lor compatriotta, e meritamente si
preggiano sotto quel cielo avere quell'accuratissimo giurisconsulto
distesi que' dotti ed elaborati suoi Commentari sopra il Codice
teodosiano;3 ed i medici si pregiano pure del lor famoso Le Clerc,
autore dell'Istoria della medicina* sicome gli altri professori de'
loro insigni antecessori, de' quali fu quell'Università sempre dovi-
ziosa ed adorna; e molti, intendentissimi d'istoria, di varia erudi-
zione e di altre lettere umane, a dovere recavansi a gloria d'aver
avuto l'altro Clerc5 di lui fratello in Ollanda, il quale aveva empita
l'Europa di tante dotte, varie ed insigni sue opere; ma sopra tutti
risplendeva fra loro, con più chiara luce, Alfonso Turrettino,6 non
men insigne professore <di teologia e> di storia ecclesiastica di
quell'Università, che ministro di quella Chiesa, avuto per la sua
i, la risposta . . . praetoris: cfr. in Jacobi CujaciiJ. C. vita Papirii Massoni
opera et stilo conscripta, anteposta a J. Cuyas, Opera omnia, 1, Neapoli 1722,
p. n.n. (a nessun commento all'editto del pretore»). 2. a talis . . . esses*:
a oh se, essendo tale, tu fossi dei nostri I». 3. Gottofredo . . . teodosiano:
cfr. la nota 2 p. 24. 4. Le Clerc . . . medicina: cfr. YHistoire de la Me"
decine, où Von voit V origine et le progrès de cet art ... , Genève 1696, del
medico ginevrino Daniel Le Clerc (1 652-1728). 5. V altro Clerc Jean Le
Clerc (1657-1736), storico e critico dell'antico Testamento. 6. Alfonso
Turrettino: Jean-Alphonse Turrettini (1671-1737), professore di storia ec-
clesiastica dal 1697, teologo e riformatore protestante.
316 VITA DI PIETRO GIANNONE
dottrina e probità in tanta stima e venerazione presso tutti i Gine-
vrini, che lo chiamavano alcuni il papa di Ginevra. Questi era per
origine della città di Lucca, della illustre non men che antica fa-
miglia Torrentina, trasportata ivi, sicome furon altre nobili fami-
glie lucchesi che ancor durano, fin da' tempi della Riforma, si-
come a que' tempi molte famiglie d'altre città d'Italia vi si con-
dussero; e da Napoli Galeazzo Caracciolo, marchese di Vico,1 vi
avrebbe anche fatta germogliar la sua, se fatto il divorzio colla
prima moglie, lasciata in Napoli, che non volle seguitarlo, mari-
tatosi in Ginevra con una dama francese non gli fosse questa riu-
scita sterile, dalla quale non ebbe prole; ma dura quivi ancora la
nobil famiglia Carduino, la quale se ben fosse estinta in Napoli,
un ramo di là staccato germogliò in questo terreno; poiché, a*
tempi stessi di Galeazzo, un Carduino* si portò a Ginevra, dal
quale per retta linea furon procreati i presenti Carduini che sono
in Ginevra: sicome il professor Carduino, padre di più figliuoli,
mi mostrò con chiari e legittimi documenti, estratti dagli archivi
della Camera di Napoli, da' quali apparisce che i suoi maggiori
furono baroni di Pareto e d'altri feudi nel regno di Napoli, ch'eran
allora posseduti da questa famiglia.
L'esser venuto il professore Turrettino, per sua cortesia, a visi-
tarmi, subbito che seppe il mio arrivo, fu cagione che tutti gli
altri cominciassero ad avere di me maggiore stima. E per sua genti-
lezza offerendomi il Turrettino ciò che mi bisognava di libri della
sua biblioteca e quel che altro mi occorresse di sua casa, fece che io
stesso andassi a visitarlo, e con tal occasione presi conoscenza di
più soggetti d'autorità, i quali occupando vari magistrati ed am-
ministrando quella repubblica, mi offerirono tutto il lor favore in
facilitare i mezzi per condurre a buon fine i miei affari, per i quali
sapevano essermi io portato a Ginevra.
i. Giovan Galeazzo Caracciolo di Vico (1517-1586), paggio dell'imperatore
Carlo V, seguace del Valdès, amico del marchese d'Oyra Giovanni Bernar-
dino Bonifacio, abbracciò la fede protestante e si rifugiò in Ginevra, dove
finì i suoi giorni. Su di lui cfr. N. Balbani, Historia della vita di Galeazzo
Caracciolo , Ginevra 1587 (altra edizione, con prefazione e note di E. Com-
ba, Roma-Firenze 1875), e J.-B.-G. Galiffe, Le refugeitalien de Genève au
XVIe et XVIIe siècles, Genève 1881. 2. Cesare Carduino, Esiste una Jfo-
latione di Ginevra . . . dall'anno 1535 che vi fu introdotto il calvinismo e mu-
tato governo fin al giorno seguente, dovuta ad Andrea Cardoino e dedicata a
Filippo IV di Spagna (1622- 1665), nella Biblioteca Nazionale di Napoli, ma-
noscritto X. F. 1. In essa alcune notizie del ramo protestante della famiglia.
CAPITOLO DECIMO 317
Al Bousquet sommamente piaceva aver io incontrato sì bene co'
medesimi, e che il Turrettino fosse stato a visitarmi; onde tanto
maggiormente si accese il desiderio di attendere alla stampa delle
mie opere; e sollecitandolo io che ormai si accingesse a darvi
principio, mi rispose che, terminando in quest'anno la società che
avea con Pellissari,1 mercante di Ginevra, e con un altro mercante
di Ollanda, ed avendone contratta una nuova con altri mercanti
più ricchi, che cominciava nel nuovo anno, avessi io la pazienza di
aspettare altre poche settimane, che si sarebbe dato principio, con
speranza di più utile e fortunato successo. Mi quietai alle sue paro-
le, aspettando il nuovo anno ; ed intanto avvisai a Venezia, al Pisani
ed al principe Trivulzi, il mio arrivo a Ginevra, e di avere con
Bousquet trovata quella disposizione che io desiderava; sicché spe-
rava, senza dispendiarmi in più lontani viaggi di Ollanda o Inghil-
terra, ch'essi desideravano, aver trovato in Ginevra onesto modo
di poter mantenermi, fin che a Dio piacesse disporre altramente di
me e delle mie venture.
Scrissi a Milano al secretarlo Canary, che avvisasse alla princi-
pessa Trivulzi il mio arrivo e che, colla prima congiuntura, mi
stradasse i manuscritti che l'erano stati mandati da Venezia, dal
principe ; poiché aveva io già con Bousquet convenuto di doversi
fra breve dar principio alla stampa; ed affinché da' miei amici,
nell'istesso tempo che avessero la notizia del mio soggiorno a Gi-
nevra, si sapesse che io mi ci era portato non già per cambiar reli-
gione, ma perché ivi avea trovato onesto modo di poter vivere,
scrissi a Vienna ed altrove il medesimo, affinché saputasi la cagione,
non si dasse pretesto a' miei nemici di maggiormente malignarmi.
Ma misero, credea io da ciò trovar compassione; questo stesso,
sicome il successo il dimostrò, recommi maggior precipizio. Poiché
la corte di Roma non si sarebbe curato punto di me se, ricovrato
in Ginevra, avessi io colà mutata religione; anzi quest'appunto ella
desiderava; ma amaramente intese, che io ci fossi andato per dar
fuori alla luce altre mie opere ed attendere alla nuova traduzione
francese àà^ Istoria civile, accresciuta con nuove giunte: sicché ri-
prese con maggior vigore le insidiose sue armi, per all'intutto at-
terrarmi, e perché fossi d'esempio al mondo che non vi era per me
scampo, ovunque io fossi, che potesse sottrarmi dalla sua ira ed
indignazione.
1. Jean-Antoine Pellissari (1702-1738), stampatore e libraio ginevrino.
CAPITOLO DECIMOPRIMO
Anni 1736 e 1737. Ginevra, Champéry e castello di Miolans.
Il nuovo anno 1736, non meno che i due precedenti, entrò per
me pur troppo maligno e funesto. Credeva che il mio fiero destino
sazio ormai di tante avversità dovesse lasciarmi in pace, sicome mo-
strava ne' princìpi del primo mese; poiché, accolto sì umanamente
da' Ginevrini, proseguendo a favorirmi m'invitavano nelle loro
dotte radunanze, le quali a vicenda un giorno di ciascuna setti-
mana tenevano nelle loro case alcuni professori, dove in eruditi
discorsi sopra vari soggetti che si proponevano nel finirsi dell'una,
perché nell'altra venisser tutti svolti, si passavano tre o quattro
ore del giorno fruttuosamente.
SÌ erano instituite queste private adunanze anche per riguardo
di due giovani principi di Germania, i quali erano stati da' loro
parenti mandati in Ginevra per istruirsi non meno della lingua
francese e latina, che di altre liberali professioni e scienze più serie
e convenienti al loro stato, sicome di giurisprudenza, d'istoria,
del ius pubblico ed anche di filosofia, avendo ciascuno un particolar
professore che ne gli insegnasse: li quali non mancavano non solo
d'intervenirvi, ma anche con gli altri esporre i loro discorsi sopra
le proposte materie. Questi erano il principe di Hassia-Cassel1 ed
il principe di Sax-Gottha ;z due giovanetti quanto avvenenti di
corpo altrettanto di spirito sublime ed adorno di virtù veramente
regie e magnanime, gentilissimi, cortesi, e sopra tutto desiderosi
ed amanti non men delle lettere, che de' letterati.
Era io a' medesimi noto a cagion che i loro governatori mi avean
conosciuto a Vienna, e Sigismondo Liebe,3 antiquario del duca di
Sax-Gottha, avea dato al principe di me bastante notizia: siedi' es-
sendo stato a visitargli, mi ricolmarono d'infinite cortesie, ed in-
stantemente mi richiesero che io venissi nelle radunanze ch'essi
tenevano in ciaschedun giorno di settimana, nelle quali soleva an-
che intervenire il professor Torrettino, e far suoi discorsi come gli
altri; sicome il Torrettino stesso e M. Vernet,4 pastore e ministro
1. il principe di Hassia-Cassel: Federico (1720-1785), divenuto nel 1760
langravio di Hessen-Kassel. 2. il principe di Sax-Gottha: Federico, terzo
duca di Saxe-Gotha, spentosi nel 1772. 3. Liebe: cfr. la nota 1 a p. 166.
4. Jacob Vernet (1698-1789), pastore e riformatore ginevrino. Su di lui e
sulla parte che egli ebbe nelle vicende del Giannone cfr. quanto è detto in
CAPITOLO DECIMOPRIMO 319
di San Gervasi,1 più volte mi si erano offerti di condurmici. Io gli
risposi che volentieri vi sarei intervenuto, per apprendere da uo-
mini cotanto dotti e saggi i loro insegnamenti. Ed avendomi M.
Vernet fatta compagnia, fui la prima volta ad ascoltare i loro di-
scorsi; quali finiti, proponendosi il tema per la futura radunanza
m'invitarono che io, in quella, dovessi sopra la proposta materia
dar il mio parere. Me ne scusai con dire che, se ben io sentissi i
loro discorsi, ancorché pronunciati in lingua francese, nulladiman-
co non avea della medesima tanta perizia ed esercizio, sicché po-
tessi speditamente parlarne; ma tosto mi convinsero, con rispon-
dermi che io poteva ben valermi della propria lingua italiana, poi-
ch'essi, se ben non la parlassero, l'intendevan sì bene, come la
francese. Sicché fu d'uopo compiacergli, e tanto maggiormente,
perché notai anche in ciò la loro discrezione e prudenza: poiché li
soggetti ch'eran proposti non eran di controversie di religione, ma
sopra punti indifferenti di scienze, di morale o di pratica; ed il
tema allor proposto fu: Se la mercatura essercitata dd nobili oscu-
rasse la loro nobiltà.
Tennesi l'assemblea nel di stabilito, in presenza de' due giovani
principi, i quali con molto spirito e grazia recitaron i loro discorsi.
Il Turrettino ragionò sopra la proposta materia, con non minor
dottrina che eleganza, e lo stesso fecero il ministro Vernet e gli
altri professori ivi ragunati. Il mio discorso non dispiacque; sicché,
propostosi secondo il costume il soggetto per la seguente settimana,
che fu: Qual fosse stata r origine ed il primo istituto de9 cavalieri di
San Giovanni, detti poi di Rodi, e presentemente di Malta, parimente
m'invitarono a dirne il mio parere; sicome feci la seconda volta,
ed avrei fatto anche la terza, sopra il tema proposto intorno alle
virtù morali, se le mie nuove disavventure non avessero il tutto
turbato ed interrotto.
Non cominciando la rea fortuna mai per poco, mentre io solle-
citava il Bousquet a dar principio a' nostri affari, dicendogli che
ormai eran passati due mesi che io, a proprie spese, dovea sosten-
tarmi in Ginevra, e che quel poco contante che io avea presto sa-
rebbe finito, egli mi rispose che colla nuova società si sarebbe dato
principio; la quale non era cominciata, a cagion che i vecchi soci
Giannonìana, pp. 569 sgg., nonché in S. Bertelli, V incartamento origi-
nale, cit., pp. 28 sgg. 1. San Gervasi: St. Gervais.
320 VITA DI PIETRO GIANNONE
volevan prima seco aggiustar i loro conti, i quali presto si sarebber
terminati; che per ciò avessi la pazienza di aspettare qualche
altra settimana, che tutto si sarebbe adempito. Cominciai dapoi a
sentir da altri, che non così facilmente il Bousquet si sarebbe di-
strigato con Pellissari, il quale mal soffriva che avesse fatta con
altri nuova società, senza prima, a' debiti tempi, avvisarcelo ed
appianare i loro conti. Poiché il Bousquet, nella società, non vi
conferiva se non la sua personale industria, e tutto il denaro eragli
sornministrato dal Pellissari.
Postomi da ciò in qualche aggitazione: ecco che sento che il
Pellissari, in sua casa contrastando con Bousquet, mosso da ira
aveagli dato uno schiaffo, e preso poi un bastone, se non gli sfug-
giva dalle mani l'avrebbe ben bastonato ; né in ciò fu minore l'im-
prudenza del Bousquet, che lo sdegno del Pellissari; poiché il
Bousquet, ricevuto lo schiaffo, invece di tacerlo per essergli stato
dato nelle stanze di Pellissari, essendo soli, egli corse al pubblico
magistrato a farne querela: sicché il fatto si divolgò per tutta la
città, ed il Pellissari, chiamato dal magistrato, negò il fatto; anzi
l'accusò di calunniatore, dicendo che per isfuggire di dargli conto
de' denari sornrninistratigli, andava cercando tali sotterfugi. Né il
Bousquet avendo testimoni per pruovarlo, ed all'incontro il Pellis-
sari instando per la reddizione de' conti e di proibitegli intanto
ogni nuova società, con farsi sequestro de' suoi mobili, per sua
sicurtà ottenne commissario, per astringerlo a dar i conti, ed anche
il sequestro e quanto cercava; poiché il Pellissari era in Ginevra
ben veduto ed avea il favore non pur del magistrato, ma di tutti
i cittadini; i quali, sapendo che co' denari somministratigli dal
Pellissari, il Bousquet ch'era un pover uomo, erasi rialzato, gl'im-
putavano d'aver usata somma ingratitudine contro un tanto suo
benefattore.
Quanto io rimanessi afflitto per un successo che minava tutte
le mie speranze, ciascuno da se stesso potrà comprenderlo; né
posso negare che mi costernò in maniera, che mi era venuto a
noia il vivere, scorgendo, che la rea mia fortuna non cessava per
tutti i lati combattermi, per atterrarmi; e tanto maggiormente,
che Bousquet, o sia per rossore dell'affronto, o perché con tal oc-
casione, avendo io scoverto i suoi intrighi, non soffriva di più ve-
dermi, mi sparve davanti, né mai più il vidi; né con tutte le dili-
genze usate fu possibile, o in casa, o altrove, di trovarlo, nascon-
CAPITOLO DECIMOPRIMO 321
dendosi dal cospetto di tutti: sicché, lasciandomi in abbandono,
mi costrinse a scrivergli una lettera, ed usar tutti gl'ingegni per-
ché pervenisse nelle sue mani; nella quale, dolendomi del suo modo
di procedere, gli cercava che mi spiegasse il suo animo e si risol-
vesse di quel che intendeva di fare, affinché potessi io prender altre
misure, e non lasciarmi così sospeso e confuso. Appena potei rice-
verne breve risposta, dicendomi che io mi consigliassi col ministro
Vernet, suo amico; il quale, stando inteso di tutto, poteva darmi
sano consiglio di ciò che dovessi fare.
Fui dal Vernet, al quale avendo esposto il caso mio infelice e
la confusione nella quale mi avea lasciato Bousquet, lo pregai non
meno del suo consiglio, che d'aiuto, come potessi risorgere dal
fosso nel quale era caduto; mostrandoli più lettere di Bousquet,
scrittemi in nome della compagnia, nelle quali era assicurato che
avrei trovato in Ginevra l'adempimento di quanto erasi fra noi
convenuto, per le quali io fui mosso a venirci, con tanta mia spesa
e travaglio. Vernet, leggendo le lettere scrittemi con tanta sicu-
rezza, non potè nell'istesso tempo che biasimava la facilità e fran-
chezza di Bousquet di compatire il mio duro caso, dicendomi
schiettamente che io non dovea riporre più in lui speranza alcuna,
poiché Pellissari l'impediva contrar nuova società, se prima non
saldava i suoi conti e lo pagasse di quanto credea rimanergli debi-
tore, avendo per ciò ottenuto sequestro di tutti i di lui beni; e
di vantaggio, che i nuovi soci, avendo inteso tanti romori ed im-
brogli, non volevano con Bousquet società alcuna, sicché sarebbe
fuor dell'una e dell'altra: onde pensava di andarsene in Ollanda e
trovar ivi onesto modo di vivere, né rimanersi a Ginevra, dove per
raffronto ricevuto e da lui stesso divolgato era da tutti schivato e
fuor d'ogni umano commerzio.
Sentendo ciò, gli dissi che per quel che riguardava la stampa
del quinto tomo e delle altre mie opere inedite, poteva ben pen-
sarsi ad altro ; ma in quanto alla traduzione francese, colle nuove
giunte e medaglie trasmessegli, credeva che ciò dovesse andar a
conto della prima compagnia, la quale avea speso il denaro del
disegno e gravatura1 del mio ritratto in rame; onde avrebbe impor-
tato poco che Bousquet se n'andasse in Ollanda, purché Pellissari
volesse continuarla, col quale io sarei convenuto. Si esibì pertanto
i. gravatura*. incisione (francesismo).
322 VITA DI PIETRO GIANNONE
il Vernet di parlare a Pellissari; e per la stampa dell'altra opera mi
propose un altro mercante libraro, suo amico, al quale egli avrebbe
anche parlato per disporlo. E questi fu M. Barrillot,1 amico anche
del Turrettino; onde stimò che io ne dovessi anche pregare il
medesimo, affinché con efficacia gli parlasse.
Non mancai istantemente pregarne il Turrettino, il quale, com-
passionando il mio caso, tanto più si mosse con fervore a persuadere
il Barrillot, che volesse sottentrare in luogo di Bousquet nell'im-
presa, che sarebbegli riuscita utile, assicurandolo che le nuove mie
stampe sarebbero state con desiderio da tutti ricercate, non meno
che le prime; anzi che il guadagno che avrebbe ritratto dal quinto
tomo era sicuro, poiché tutti que' che aveano i quattro precedenti,
certamente avrebber desiderato il quinto, per aver l'opera intera e
compita; e che l'accordo, prima fatto co' stampatori di Venezia e
poi con Bousquet, era molto discreto, sì che poteva senza dubbio
alcuno accettarlo.
Non ci bisognò meno che tutta l'autorità ed il credito del Tor-
rettino e di Vernet perché, finalmente, il Barrillot si contentasse;
poiché gli stampatori di Ginevra hanno tutta la ripugnanza, quan-
do non siano opere latine o francesi, di impiegare le loro stampe a
libri italiani; ma dicendosegli ch'essendo l'autore presente, pote-
va star sicuro che l'edizione sarebbe riuscita correttissima, si per-
suase, e sol richiese qualche tempo; poiché, dovendo partire per
rimminente fiera di Francfort,2 non poteva se non al suo ritorno
darci principio.
Questa dilazione importava lo spazio di cinque o sei settimane,
ed io volentieri ce la diedi, così perché frattanto potessi preparargli
alcuni pochi manuscritti che avea meco, come anche perché da
Milano non avea ricevuti ancora que' che rimasi a Venezia, i quali
componevano il quinto tomo; onde scrissi al secretano Canari,
che se fin allora non l'avea scritto di sollecitar la missione, a cagion
de' nuovi miei guai accadutimi con Bousquet, ora che con altro
mercante libraro avea ristabilito il mio affare, non mancasse di
mandarmegli quanto più sollecitamente potesse, per sicura com-
modità. Scrissi parimente a Venezia al principe Trivulzi ed al se-
nator Pisani i miei travagli passati con Bousquet, i quali avean
i. Sul libraio Jacques Barrillot (i 684-1748) e le sue responsabilità per la
consegna dell'originale del Triregno all'Inquisizione si veda S. Bertelli,
JJ incartamento originale, cit., pp. 28-30. 2. Francfort: Francoforte.
CAPITOLO DECIMOPRIMO 323
differito ed erano ancora per differire qualche soccorso che potessi
avere in Ginevra di denari, onde mi conveniva tirar avanti a mie
proprie spese; e prevedendo che questo sarebbe per finire quel
poco contante che io avea, gli pregai che sopra i miei libri lasciati
a Venezia mi mandassero qualche picciola rimessa di denaro, fin
al ritorno di Barrillot da Francfort, per poter supplire intanto a'
miei bisogni.
Per ciò che riguardava la traduzion francese : avendo saputo che
le mie giunte ed annotazioni, che da Vienna mandai a Bousquet,
erano in potere di monsieur Bochat, professore in Losanna, scrissi
al medesimo che essendosi con Bousquet disciolto ogni trattato,
me li mandasse, con restituirgli al padrone; ed il medesimo non
mancò, usando somma puntualità, di tosto mandarmigli ; sicché, es-
sendo in mio potere, mi assicurai che senza di me non avrebbe
potuto altri proseguirla. Ed avendomi monsieur Vernet riferito
che, essendosi saldati i conti con Bousquet, al Pellissari era rimaso
tutto ciò ch'erasi preparato per la stampa della traduzione, e che
quella rimaneva ad utile dell'antica società, feci per mezzo suo
intendere al Pellissari ch'erano in mio potere le giunte e le anno-
tazioni, le quali, sempre che avesse voluto intraprenderne l'edi-
zione, non avrei mancato di somministrarcele, e convenire con lui
quanto erasi trattato con Bousquet.
Pellissari mandò a dirmi che volentieri sarebbe egli sottentrato
alla spesa, e che sarebbe passata quest'edizione per suo conto; e
non dubbitassi, che disbrigato ch'egli fosse da altri suoi premurosi
affari, ci avrebbe dato principio. Così nel meglio che si potè, col
favore ed autorità del professor Turrettino e di monsieur Vernet,
fu ristabilito con Barrillot e con Pellissari il trattato da più anni co-
minciato con Bousquet; il quale erasi già partito per Ollanda per
istabilirsi ivi, o pure in Losana,1 come poteva il meglio, dopo la
disavventura accadutale in Ginevra.
Intanto eravamo entrati nel mese di marzo ed io aspettava il
ritorno di Barrillot da Francfort ed i manuscrirti da Milano, per
dar principio alla stampa, donde potessi ritrarre qualche emolu-
mento per poter onestamente vivere con le mie fatiche in Ginevra
infino a tanto che il Cielo di me non avesse altramente disposto;
frequentando la casa del professor Torrettino, dal quale riceveva
1. Losana: Lausanne.
324 VITA DI PIETRO GIANNONE
estraordinari favori, offerendomi dalla scelta sua biblioteca que'
libri che mi fosser di bisogno, di che io era contento, poiché ivi
trovai d'ogni materia libri rari ed elettissimi. Ma sopra tutto gode-
va della utile e piacevole conversazione d'un uomo veramente sa-
vio e profondo nelle scienze, nell'istoria ecclesiastica e nell'altre
serie discipline, e sopra tutto intendentissimo della greca, ebraica
ed altre lingue orientali, e che nella latina aveasi acquistato uno
stile proprio, così terso, pulito ed elegante, che, nello spiegarsi
con proprietà e nettezza, avea pochi che l'uguagliassero. Ciò che
potrà renderne al mondo chiara testimonianza quel dotto ed ele-
gante Compendio dell'istoria ecclesiastica, ultimamente dato alla lu-
ce,1 del quale mi fece presente, che io ricevei come una gemma
tersa e pulita, senza ruga né macchia alcuna che l'adombrasse.2
Egli avea date alle stampe in varie occasioni altre picciole opere,
delle quali ne faceva raccolta, per darne al pubblico un giusto
volume;3 né dubbito che dalla repubblica letteraria sarà ricevuto
con quegli applausi e commendazioni, delle quali furon sempre
degni gli illustri monumenti de' suoi rari ed incomparabili talenti,
onde meritamente ed appresso il magistrato e nell'Università di
que' studi e presso tutti aveasi acquistata quell'autorità e riverenza
che se gli prestava; e mi solea dire che gli dispiaceva esser io colà
giunto in tempo non cotanto felice per quella repubblica <per in-
terne discordie già tutta sconvolta> la quale, in altri tempi, si vide
assai più fiorire, e per insigni professori e per più frequente e
dilatato commercio ; il quale avea ricevuto una terribile scossa dal-
l'ultima peste di Marsiglia,4 che avea sconvolti e divertiti5 i cammini
i. quel — luce: cfr. J. A. Tukrettini, Historiae ecclesiasticae compendium
a Christo nato usgue ad annum MDCC, Genevae 1734. Di lui possediamo
anche l'epistolario, edito a cura di E. de Bude: Lettres inédites adressées de
1686 à IJ3J àJ.-A. Turrettini, ihéologien genevois, Paris et Genève 1887 (nel
tomo in, alle pp. 223 e 226 ci sono due lettere di F.-J. de Pesmes de Saint-
Saphorin concementi Giannone, in data 20 maggio 1736 e 3 1 gennaio 1737).
2. io,,, adombrasse: ma si veda anche il giudizio dato dal Giannone ne La
Chiesa sotto il pontificato di Gregorio il Grande, in Opere inedite, a cura di P.
S. Mancini, cit. , Torino 1 852 (ma 1859), 11, pp. 1 1 6-7. 3 . un giusto volume :
numerosi discorsi, dissertazioni, tesi accademiche del Turrettini furono
raccolti in tre volumi in quarto, apparsi a Ginevra nel 1734. In altri dieci
volumi, a cura del Vemet - che del Turrettini fu allievo - uscirono i suoi
scritti di religione naturale e sulla divinità del cristianesimo : Traiti de la
verité de la religìon chrétienne, Genève 1730 e, di nuovo, ivi, 1748. Le sue
opere vennero successivamente raccolte, col titolo di Opera omnia theo-
logica, philosophica et philologica, Leovardiae et Franequerae 1774- 1776.
4. peste di Marsiglia: del 1722. 5. divertiti: allontanati.
CAPITOLO DECIMOPRIMO 325
de' negozianti ; e dicendogli io che per le savie leggi ed istituti co*
quali era amministrata, meritava un più dilatato territorio, avendo
fuori di ogni mia credenza scorto che vien terminata quasi colle
mura della città, poiché da tutti i lati coli' occasione de' miei con-
sueti esercizi girandola attorno, ora mi trovava ne* confini di Sa-
voia, ora di Francia ed ora de* Svizzeri, fra' quali era chiusa;
egli mi rispondeva, che appunto per questo avea conservata per
tanti anni la sua libertà, poiché, contenta del poco, non dava a'
vicini alcuna invidia 0 sospetto, sicché la lasciavano vivere in pace
ed in tranquillità.
Mentre io in tali occupazioni proseguiva il mio soggiorno a Gi-
nevra, aspettando il ritorno di Barrillot ed i manuscritti da Mi-
lano, dall'altra parte la corte di Roma, molto più sollecita per la
mia persona che prima - avendo saputo, e per i molti suoi emissari
ed esploratori che non mi lasciavano di vista, e per le mie lettere
istesse, scritte a Milano a Venezia ed in Vienna, nelle quali mani-
festava a gli amici che io non per cambiar religione, ma per averci
colle mie fatiche trovato onesto modo di vivere, erami portato a
Ginevra, ripigliò più fiera che mai le solite insidiose sue armi,
per atterrarmi. Non si sarebbe curata punto se io avessi mutata
religione; anzi il mutarla sarebbe stato forse e per lei di piacere,
e per me di quiete; poiché con ciò si sarebbe smorzata la sua ira ed
indignazione; ma l'aver saputo la cagione ed il fine, nulla giovan-
domi il riflettere che io, non lasciandomi luogo in Italia da poter
vivere, dovea finalmente in qualunque maniera trovarlo altrove
per sostentarmi: imperversò in guisa che non lasciava di muover
pietra, per abbissarmi.1
Furono incredibili le tante ciarle che s'inventarono in Roma,
delle quali empivano le gazzette, sopra la mia uscita da Venezia e
da Milano, ed il mio ricovro a Ginevra. Le calunnie per discredi-
tarmi anche nella corte di Vienna, arrivarono fino ad inventarci
che io dalla biblioteca cesarea avea sottratto un raro manuscritto
dell'imperador Federico II, e che Favea mostrato ad alcuni gentil-
uomini veneziani;2 ma l'impostura fu presto chiarita; poiché aven-
1. abbissarmi: subissarmi, perdermi. 2. che io — veneziani: scrive il Pan-
zini, p. 79, che «un tale abate Ruelin ch'era in Roma, scrisse in Vienna
d'aver saputo da persona di conto che il Giannone involato avesse dalla
biblioteca cesarea un manoscritto che conteneva le lettere dell'imperador
Federigo II, e che portandolo seco in Venezia lo avea quivi mostrato a
qualcheduno ». Il Garelli, direttamente chiamato in causa nella sua veste
326 VITA DI PIETRO GIANNONE
done scritto un romano in Vienna al secondo custode della bi-
blioteca, suo amico, e datali notizia della voce sparsa per Roma,
questi portò la lettera al cavalier Garelli, bibliotecario, il quale si
accorse subito della calunnia; e fattasi esatta diligenza fra' manu-
scritti, se mancava quello che diceasi aver io sottratto, si trovò
ivi che era: sicome degli altri manuscritti, fattosi confronto col
catalogo, non ne mancava alcuno. Fu smentita in Roma l'impostura,
e scritto ivi ed in Venezia come si conveniva, manifestando la sozza
ed indegna maniera di procedere de' vili calunniatori romani ; ed il
primo custode, Forlosia, a nome del cavalier Garelli, mi scrisse
una lettera,1 mentr'io era a Ginevra, nella quale, per mio consuolo,
mi diede notizia di tutto il successo; e poiché io aveagli avvisato
il mio arrivo a Ginevra, e che forse, trovandomi vicino, sarei pas-
sato a Lione per vedere quella città, mi avvertiva a non trattener-
mici lungo tempo ; poiché Roma non avrebbe mancato, anche ivi,
tendermi insidie, sicome tentava da per tutto.
Il luogo per me meno sospetto riputava la corte di Torino, poi-
ché avea fatta esperienza che di me non ne pretese altro, se non
che uscissi dalla città e Stato di Milano. Era in suo arbitrio di
farmi arrestare a Milano, dove dimorai quasi un mese; passai con
sicurezza per le città del Piemonte, ed a Torino mi trattenni due
giorni; traversai la Savoia, ed a Champéry mi fermai una notte e
mezza giornata. Nel partire da Milano la principessa Trivulzi, com-
passionando il mio caso, si dolse col gran cancelliere Olivazzi,
dì bibliotecario cesareo, non solo smentì l'accusa, ma chiese la solidarietà
dei colleghi, e Apostolo Zeno, da Venezia, gli rispose che, pur non avendo
avuto occasione di incontrarsi col Giannone a se non alla sfuggita nella
piazza di S. Marco », tuttavia aveva parlato « con più d'uno di que' signori,
che gli erano più dimestici, ed espressamente con uno di essi, che gli avea
steso il catalogo di tutti i libri che seco egli aveva; e tanto questi, quanto
gli altri mi hanno assicurato di non aver veduto presso di lui le lettere ma-
noscritte dell' imperador Federigo II né anche le stampate col nome di
Pier delle Vigne, che ne fu il segretario, soggiungendomi che di ciò non
avea mai fatta parola ne' suoi privati ragionamenti. Di tutto questo » con-
cludeva lo Zeno «l'accerto in mia piena fede, e può per me affermarlo
anche alla Maestà Imperadrice» (cfr. Lettere di A. Zeno, cit-, v, pp. 160-1).
L'accusa del Ruelin traeva origine da un progetto di edizione delle lettere
di Pietro della Vigna, che risaliva al 1725, e al quale era stato interessato,
oltre allo stesso Garelli, l'abate napoletano Giovanni Lorenzo Acampora
(spentosi nell'ottobre 1728): si vedano per questo le lettere del Giannone
al fratello, in data 23 giugno (qui la x) e 4 agosto 1725 (Giannoniana, nn.
99 e 105). Il codice faceva però parte della biblioteca del principe Eugenio.
1. una Ietterai il testo di essa in Giannonianat pp. 530-1.
CAPITOLO DECIMOPRIMO 327
che finalmente la dura necessità mi avea costretto di passare in
Torino e di là condurmi a Ginevra, giacché non trovava in Italia
alcun rifugio; onde non era a* ministri di quella Corte ignota la
mia sforzata e necessaria risoluzione di passare ivi, né mi fu im-
pedito il passaggio.
Avea adunque forti ragioni di non temere da quella alcun male,
e che, pur che non fossi suo, si curasse poco di me e che cercassi
altrove scampo: tanto maggiormente, che io non avea offeso in
cos' alcuna quel re; anzi, come a principe magnanimo e clemente,
e che in valore, prudenza e sapienza non men civile che militare
avea superato gli augusti suoi predecessori, era io ricorso a lui,
implorando la benigna e vigorosa sua protezione, della quale se
non ne fui degno, non incolpava altri, se non il poco mio merito
ed il duro ed acerbo mio destino. Tutte queste riflessioni mi ren-
devan sicuro e senz'alcun sospetto; e se io, giunto a Ginevra,
non trapassava ne* vicini confini della Savoia, era perché, giuntovi
d'inverno, que' mesi rigidi non permettevano che io dilungassi i
miei cammini in più spaziose campagne; ma il freddo mi obbli-
gava starmene per lo più in casa, 0 pure qualche giorno sereno,
far piccioli giri intorno la città, e presto ricovrarmi sotto il tetto
proprio o di qualche amico.
Ma la corte di Roma cui molto premeva che mi si togliesse il
modo di poter vivere colle mie opere, le quali non potevano pia-
cerle, poiché per più e reiterate pruove non avea altra maniera di
risponderci, se non perseguitando l'autore: dando a sentire alla
corte di Torino che la mia dimora in Ginevra sarebbe stata per-
niciosa non meno a lei che a gli altri principi, poiché io avrei pub-
blicati alle stampe libri a tutti ingiuriosi, empi ed eretici, fece sì co'
suoi accorti modi e lusinghe, che trasse quel principe a dar mano
adiutrice alle sue inique ed ingiuste voglie, e procurare che io
fossi tratto da Ginevra, e posto in arresto, in sicura custodia. E
pure le mie opere, che io preparava di dar alle stampe in Ginevra
unicamente per trovar modo da vivere, non erano che quelle stesse,
che gli stampatori di Venezia dovean imprimere, e che io avea sot-
toposte alla censura del padre teologo di quella Repubblica! E
l'altre mie opere impresse avean dato bastante e chiaro saggio al
mondo quanto fossi lontano di scrivere contro i principi, quando
tutti i miei pochi talenti da Dio concessimi non l'avea impiegati,
che per maggiormente stabilire i loro sovrani diritti ed alte pre-
328 VITA DI PIETRO GIANNONE
minenze ne* loro domini ed imperi. Ma il mio duro e crudel de-
stino, non mai stanco di perseguitarmi per ogni verso, fece che
V esecuzione del mio arresto si fosse commessa a persona la quale,
per porlo in effetto, non tralasciò d'usare i più orribili tradimenti
e le maniere più indegne, inospitali ed inumane, che fossero un-
quemai accadute ed immaginate.
L'ordine che io fossi tratto da Ginevra e posto in arresto e con-
dotto a Champéry, fu mandato al general conte Picon, governa-
tore di Champéry e luogotenente generale della Savoia.1 Questi si
trovava aver per suo aiutante di campo un tal Guastaldi, piemon-
tese, il quale avea un suo fratello a Vesenà,3 picciolo villaggio,
posto a' confini della Savoia, prossimo a Ginevra, impiegato a
riscuoter i diritti di una picciola doana che ivi era ; al quale fu data
dal governadore commissione del mio arresto, ma, secondo che poi
mi mostrò lo stesso Guastaldi3 doaniere, con termini umani e molto
discreti, senza usar strapazzi, ma con tutta destrezza e piacevolez-
za, perch'io non soffrissi disagio alcuno. Dalla commessione datali
e dalle lettere mostratemi poi, mi accorsi che l'incombenza eragli
stata data fin da' io di dicembre scorso; sicché appena saputosi il
mio arrivo a Ginevra si cominciò a tendermi insidie, e quanto più
si differiva l'esecuzione, tanto maggiormente il Guastaldi riceveva
da Champéry impulsi, secondo che crescevano gl'impegni e le pre-
mure che ne faceva Roma alla corte di Torino.
Trovavasi per mia disgrazia costui amico di più anni con Ché-
nevé, mio ospite, e soleva spesso venire in sua casa, e da buoni
compagnoni beeno e mangiavano insieme; ed a vicenda sovente il
Chénevé si conduceva a Vesenà, a far gozzoviglia e darsi insieme
bel tempo. Con tal occasione venni io a conoscere questo Guastaldi
doaniere, il quale spesso mi visitava, e mostrava aver di me somma
stima ed affezione. M'invitava con molta istanza, che piacendomi
tanto la campagna venissi a dimorare per qualche giorno a Vesenà,
che mi sarei ristabilito in perfetta salute. Ed io, non che n'avessi
1. L'ordine — Savoia: sugli avvenimenti che seguono si veda P. Occella,
Pietro Giannone negli ultimi dodici anni, cit., il quale ampiamente utilizza
una Relazione istorica di ciò che è passato all'occasione dell'arresto del Gian-
none, seguito nelle vicinanze di Ginevra, sino alla di lui morte succeduta
nella cittadella di Torino, stesa attorno al 1832 da un archivista sabaudo,
certo Filippi, e oggi conservata nell'Archivio di Stato di Torino, mano-
scritti Giannone, mazzo ni, ins. 2, E. 2. Vesenà: Vezenaz. 3. Giuseppe
Guastaldi.
CAPITOLO DECIMOPRIMO 329
alcun sospetto, me ne scusava dicendogli che i mesi di quel rigido
inverno non permettevano che io uscissi di casa, non pur dalla città;
ma che nella prossima primavera, quando le campagne erano al-
legre e verdeggianti, non avrei mancato di profittarmi de' suoi
inviti.
Intanto egli prese dimestichezza col mio giovane figliuolo e gli
faceva somme carezze; e non potendo trar me di città, mi richiese
che almanco permettessi che, in compagnia di Chénevé, ci man-
dassi lui, il quale, essendo giovane, poco dovrebbe curare la rigi-
dezza della stagione. Ed io non ci ebbi difficoltà; e da due o tre
volte che ci fu con Chénevé, gli fece grandi cortesie, trattandolo
lautamente.
Mostrava sommo contento di aver presa questa conoscenza;
spesso mi dimandava del mio affare che trattava con Bousquet, ma
più sollecitudine ne mostrava col mio giovane e con Chénevé, ri-
chiedendogli ciò che io facessi. E sovente, trovando che io era in-
teso a rivedere i manuscritti, che mi avea Bousquet fatti portare
dalla traduzion francese della mia Istoria, mi domandava quando
si sarebbero dati alle stampe, e cose simili. Egli di quanto vedea e
sentiva da me, dal mio giovane e da Chénevé, ne faceva rapporto
al suo fratello a Champéry, sicome mi confessò dapoi, scrivendogli,
essendo persona idiota e senza lettere, più cose false e sciocche,
e sopra tutto che io stava tutto inteso a scrivere contro il papa.
Passavano tre e quattro settimane che non si vedea; poi tornava,
secondo i nuovi impulsi che Teran dati in risposta de' suoi rap-
porti. E mostrando maggior affezione ed ardore di nostra amicizia,
mi richiese d'alcuni libretti italiani che io avea, per leggergli.
Glieli prestai, ancorché sapessi che poco l'intendesse; ed egli me
li cercava non per altro, se non per scrivere a Champéry che libri
fossero, e mostrar con ciò di aver meco contratta molta familiarità,
onde stesser sicuri che sarei caduto nelle sue reti.
Il Chénevé avea procurato un mio ritratto, di quelli impressi
sopra il rame, che si gravò1 a Vienna ed io avea mandato a Ginevra;
ed aveane fatto un quadro, con cornice di legno negro intorno e
vetro davanti, e tenevalo nella sua stanza. Glielo richiese con mol-
ta istanza, dicendogli che voleva tenerlo per mia memoria; ed avu-
to che l'ebbe, lo mandò a Champéry al fratello, il quale glielo
rimandò indietro, scrivendogli che Sua Maestà desiderava avere
1. si gravò: si incise (francesismo).
33° VITA DI PIETRO GIANNONE
nelle mani l'originale, non il ritratto; e che stesse pur sicuro, che
se egli veniva a capo di quest'affare, avrebbe mutata condizione
e sarebbe stato premiato dal re con cariche onorevoli e vantag-
giose. Da queste lusinghe maggiormente si accese, ed avrebbe com-
messa ogni scelleraggine pur che gli fosse riuscito d'involarmi.
Le care dimostranze sempre più crescevano: volle che io vedessi
i magazzini del sale e del tabacco, che il re teneva in Ginevra;
e dall'ardore che mostrava in condurmi in tali luoghi, e dall'infelice
caso indi seguito, compresi ch'egli dentro la stessa città di Ginevra
cercava modo di togliermi dal cospetto degli uomini e portarmene
via, tutto covrendo sotto il manto di amicizia e di affettuose espres-
sioni di venerazione e stima, che mostrava verso di me.
Io, non che avessi alcun sospetto di sinistro successo, pure, sem-
brandomi eccessiva in un uomo idiota e senza lettere tanta corte-
sia e cordialità, dissi a Chénevé che io restava maravigliato in
vedere in un piemontese tanta affezione, e molto più in un de-
forme e monoculo; poiché, oltre di mancargli un occhio, dall'al-
tro era guercio; ma il Chénevé mi rispondeva che l'era amico di
quattro anni, e che sempre l'avea sperimentato leale, di buon cuore
ed affezionato con gli amici; e così mi dicean la moglie e gli altri
di sua casa.
Per più di tre mesi, da che arrivai a Ginevra, seguitò costui la
mia traccia per cogliermi nella rete, non usando altre armi che
quelle di Giuda. Finalmente, approssimandosi la fine di marzo e
raddolciti i tempi, cominciando le campagne a rendersi amene,
riputò tempo opportuno di poter venirne a capo; e prima avendo
invogliato il mio giovine di andar un giorno a Vesenà per goder
di quell'aria, furon ambidue con Chénevé a dirmi che essendo i
giorni sereni non bisognava perderne l'occasione. Gli risposi che
per me non erano abbastanza raddolciti: andassero pur essi, che
nell'entrante mese d'aprile non avrei mancato fargli compagnia.
Ma mi lasciai poi persuadere, per una cagione ch'era molto effi-
cace, a deliberarmi di seguitarli.
In quest'anno il dì dell'Annunziata 25 di marzo, venne a cadere
nella Domenica delle Palme, e prevedendo la difficoltà che s'incon-
trava di soddisfare al precetto pasquale nella piccola cappella del
Residente di Francia, dove non vi era che un cappellano, ed all'in-
contro il numero de' Savoiardi e Francesi cattolici era immenso, si
stimò per adempierlo senza calca di tanta gente e più devotamente,
CAPITOLO DECIMOPRIMO 331
di andare nel più vicino villaggio di Savoia.1 Il Guastaldi esagge-
rava che non vi era più opportuno luogo che Vesenà, dov'egli
avrebbe fatto avvisare quel paroco, che intendeva la lingua italia-
na; e la mattina stessa della Domenica delle Palme, sicome avrebbe
fatto anch'egli, poteva io ed il mio giovane, con tutto aggio, con-
fessarmi e prender l'Eucarestia; e che per far ciò meglio era di
portarci la sera del sabato in sua casa, affinché la mattina della do-
menica fossimo i primi, senza turba ad adempirla, e rimaner ivi il
giorno a goder la campagna. Non dispiacque l'offerta; ed io, con
tutto ciò, gli dissi che sarei venuto pur che, però, il tempo fosse
placido e sereno. Egli contentissimo ci disse che, tornando a Ve-
senà, avrebbe subito fatto avvisare il paroco, aspettandoci in sua
casa il sabato la sera. Questo giorno, per mio fatai destino, riuscì
chiaro, placido ed ameno ; sicché, stimolato anche dal mio giovane
e da Chénevé, sbrigato della posta, il dopo pranzo al tramontare
del sole, per non stancarmi del cammino, ci posimo tutti e tre in
una barchetta, e solcando il lago Lemano agiatamente ci condus-
simo al lido, e smontati a* confini, si fece a piedi quel piccolo trat-
to che vi era, per giungere a Vesenà.
Il Guastaldi, che ci aspettava, quando ci vide si fece incontro
festivo e cortese ; e condottici in casa sua, ci disse aver già avvisato
il paroco, il quale la mattina seguente ci attendeva in chiesa, per
esser sbrigati i primi. Poi si pose a prepararci la cena, la quale fu
propria e moderata, secondo che io li richiesi; ed egli postosi a
cenar con noi, si passò quel tempo allegro, replicando egli e '1
Chénevé, gran bevitori, più brindisi in nostra salute. Mi mostrò il
mio ritratto, ch'egli avea nella sua stanza, dicendomi che non avea
più cara cosa di quella.
Doppo cena mi disse, che vedendo l'angustia di sua casa, avea
pregato un ginevrino, suo amico, che teneva a canto una più com-
moda abitazione, di preparargli una stanza con letto commodo,
dove io, col mio giovane figliuolo, poteva quella notte dormire;
poiché, in quanto a Chénevé, potea ben ritenerlo seco in sua casa:
e che, quando volessi passarci, mi avrebbe accompagnato; gli ri-
1. In . . . Savoia: sulla cappella del residente di Francia a Ginevra cfr. F.
Fleury, Histoire de VÉglise de Genève, li, Genève 1880, pp. 274 sgg. Quan-
to ai motivi che spinsero il Giannone ad accettare l'invito del Guastaldi,
non molto diversamente è spiegato nelle Memorie di Giovanni: cfr. in Gian-
noniana, pp. 190 sgg.
332 VITA DI PIETRO GIANNONE
sposi ch'era ormai tempo di andarci a riposare, essendo notte;
ed egli con Chénevé ci accompagnò, né si partì fin che non ci vide
posti in letto. Nel chiuder da dietro la porta, si osservò non esserci
chiave; ma egli ci disse che non bisognava, essendo in casa sicura
e d'un uomo da bene. Con tutto ciò, il mio figliuolo la chiuse
come potè il meglio, con altra chiave; e partito che fu con Chénevé,
ci posimo a dormire.
Il mio figliuolo tosto prese sonno, io era per prenderlo, quando
non era ancor passata un'ora che intesi un romore nella camera
precedente, e poi urtar con impeto la porta, e mezzo sonnacchioso,
gridando « chi era », ecco la vidi aperta, ed entrar con una lanterna
più uomini armati, che parean tanti orsi; così erano ruvidamente
vestiti, senza schioppi, ma con forche di ferro, lance e lunghi spie-
di; i quali, dando certi urli dissoni e confasi, si avvicinarono al
letto, e postoci la punta delle lame alla gola, mostravano volerci
scannare; io credendogli ladri, gridava che si prendesser ogni cosa
e ci lasciasser nudi, pur che ci salvasser la vita. Il mio figliuolo,
che profondamente dormiva, svegliato a tanti strepiti, appena aperti
gli occhi, vedendosi alla gola le punte delle forche e quelle or-
rende figure, cominciò dirottamente a piangere, cercando miseri-
cordia, perché non l'uccidessero.
In questo, fra la turba di que' che io credeva ladri, raffigurai uno
vestito rosso che gli guidava; onde, pel dubbio lume non conoscen-
dolo, indirizzai a lui le mie preghiere, che gli trattenesse e si pren-
desse tutto, con lasciarci la vita. Allora questi, dando di piglio a'
miei abiti, fece che gli altri alzassero le forche e le lance; e con voce
orrida e contraffatta imponeva che si facesse ricerca di tutto, e
sopra ogni altro, delle scritture o lettere, forse che io avessi sopra
[di me], né fin qui lo conobbi; ma dapoi, gridando egli che fossimo
presi e ligati, perché tale era l'ordine del re e del papa, mi accorsi
che non erano ladri, ma sbirri; né però credea che fosse il Guastaldi
stesso che gli guidasse, ma altri con sua intelligenza però, e tradi-
mento; ma presto mi tolsi di quest'altro errore; poiché, facendo
ricerca ne' miei abiti e prendendosi quelle lettere che io, per caso,
mi trovava addosso, e minacciando con voce contraffatta per dar-
mi maggior terrore, si avvicinò in maniera che io, finalmente, lo
ravvisai. Allora, con debile ed afflitta voce, gli dissi: «Questi frutti,
adunque, signor Guastaldi, suol dare la vostra ospitalità ed amici-
zia a' vostri ospiti ed amici?». E replicando egli che dovea ubbi-
CAPITOLO DECIMOPRIMO 333
dire al suo re, che l'avea comandato, gii soggiunsi che avendomi
in sue mani non vi era bisogno, di notte tempo, d'un sì funesto e
terribile apparato : bastava che, appena giunto in sua casa, facesse
ivi arrestarmi, con palesare che tal fosse l'ordine del re; che io,
che non era uomo facinoroso e che potessi attaccar per ciò briga
o far alcuna resistenza, mi sarei volentieri sottomesso a' coman-
di del re, dalla cui clemenza e giustizia, non avendolo offeso
in cos' alcuna, era sicuro che non avrei potuto temer alcun male.
Ma quello che mi dava pena, era d'aver da lui inteso che mi
arrestava per ordine non meno del re, che del papa: cosa che io
non poteva comprendere, sapendo che nella Savoia il re solo co-
manda, e non il papa. Egli, con faccia truce, mi rispose che così
era, per essermi io portato a Ginevra, per scrivere contro il papa;
e come se mai avessemi conosciuto, imperversava a straziarmi,
con farmi sollecitamente alzar di letto, e che presto mi vestissi;
e poi, preso un mio cinto, comandò a que' masnadieri che con
quello mi avesser ligato le mani e le braccia; ma ciò che mi diede
orrore e spavento del suo animo perverso e ferino, fu che contro
un innocente, qual era mio figliuolo, di cui mostrava essergli stret-
to amico e contro il quale non vi era alcun ordine di arresto, egli
stesso prese una fune e lo fece strettamente ligare; e così avvinti,
quella notte, ci condusse in sua casa, che la trovammo piena di
gente armata, in mezzo alla quale era ritenuto Chénevé, perché
non scappasse per darne avviso a Ginevra.
Nel calar le scale del genevrino, nella di cui casa fummo im-
prigionati, si attaccò fra costui ed il Guastaldi una rissa, chiaman-
dolo infame traditore, che avendogli cercate quelle stanze per no-
stro alloggio, se ne fosse poi abusato, con far venir di notte, in sua
casa, gente ribalda; avendo anch' egli prima creduto, per i modi
usati, che fosser venuti per assassinarci, non per arrestarci.
Fummo così trattenuti nella casa del Guastaldi tutta quella notte,
circondati d'uomini armati; de' quali sempre più cresceva il nu-
mero, poiché il Guastaldi, lasciatici con guardie, ch'erano anche
superflue, non che bastanti, per render più strepitosa e grande
l'eroica sua azione partì da noi, e quanti armati potè raccòrre da'
vicini villaggi, tutti gli mandava in sua casa, per nostra custodia;
di poi partì per Ginevra per provvedersi di galesse, per condurci
a Champéry, sicom'era l'ordine di quel governadore; e tornato la
mattina molto tardi, si mostrò non men allegro che un poco più
334 VITA DI PIETRO GIANNONE
umano, mostrandomi l'ordine del mio arresto in nome del re e le
lettere nelle quali, sempre più con premura, se gli imponeva d'e-
seguirlo; dicendomi che anche se non gli fosse riuscito ivi d'arre-
starmi, il re ne avrebbe scritto a quella repubblica, perché in
tutte le maniere non voleva che io dimorassi a Ginevra; e che non
era vero quel che soggiunse del papa, avendolo detto per maggior-
mente atterrirmi; e pregandolo istantemente, che non essendo
nell'ordine compreso mio figliuolo, lo lasciasse libero, non fu pos-
sibile persuaderlo, dicendomi che bisognava condurlo meco a
Champéry, ed avesse pensato quel governadore di fare ciò che
stimava più convenirci.
Due ore prima del mezzo giorno di quella domenica si parti
da Vesenà, e neh" entrar col mio figliuolo nel galesse, io vidi che
avea raccolto più di cinquanta uomini armati, i quali, a forma di
sguadone,1 circondavano il galesse; i quali, secondo che si passava
per i villaggi che s'incontravano per istrada, si mutavano, affinché
la mostra fosse più pomposa. Posti che fummo in galesse, fu licen-
ziato Chénevé, al quale raccomandai le mie robe lasciate in sua
casa, e che avrei da Champéry scritto a monsieur Vernet ciò che
dovea farne. Fu veramente cosa non men degna di compassione
che di riso, il vedere il Guastaldi alla testa delle sue truppe, a
cavallo, col mio ritratto alla mano, secondo ch'entrava in un vil-
laggio mostrarlo a que' contadini, i quali, uomini e donne, corre-
vano a truppe allo spettacolo; e come se conducesse preso re
Marcone di Calabria, o Rocco Guinart di Barzellona, l'un famoso
bandito del regno di Napoli, l'altro di Catalogna, vantava a quella
rozza e credula gente sue prodezze; e mossi alcuni da curiosità,
dimandandogli chi io fossi e qual delitto avea commesso, egli non
rispondeva altro, se non che avea preso un grand'uomo. Alcuni
semplici, spezialmente le donne, alla risposta rimanevano stupidi.
Altri, più accorti, fra di loro pien di maraviglia, borbottavano:
«costui va preso, per essere un grand'uomo. Bisognerà, adunque,
esser uom picciolo e da niente, per non inciampare a simili di-
sgrazie». NelTentrar d'una grossa terra, chiamata San Giuliano,
ci avvenne un fatto, non men da compiangere che da ridere. Il
Guastaldi precorse, col ritratto in mano, e postosi nella piazza,
a cavallo, a guisa di ciarlatano facevane mostra, e per esser gior-
i. sguadone1: squadrone.
CAPITOLO DECIMOPRIMO 335
no di domenica, unì gran moltitudine di gente che vi accorse.1
Eravi ivi il governadore, che chiamavano il Barone, il quale,
mosso anch' egli da curiosità, fu ad incontrarci; e fatteci mille grate
accoglienze e cortesie, volle che smontassi dal galesse e mi fermassi
in una vicina casa, fin che il Guastaldi non unisse la nuova gente,
per cambiarla con quella che ci avea ivi condotto. Smontati che
fummo, ci offerì del caffè, ed ancorché si rifiutasse, volle che in
ogni modo lo prendessimo; sicome, per non abusarci2 di tanta
gentilezza, si fece; ed avuti insieme vari discorsi, ed egli mostrando
gran compatimento del mio caso, fecemi grandi esibizioni, piene
di somma cordialità ed affezione. Licenziato che si fu, appena vol-
tate le spalle, nel volerci riporre nel galesse ci vidimo un suo
ufficiale avanti, il quale ci fece un presente di un paio di manette
di ferro, dicendoci che il costume ivi era che a' priggionieri che
passavano per quella terra e suo distretto, perché fosse più sicura
la lor custodia, si ponevan le manette; onde avessi la pazienza di
sofferirle, e preso il mio braccio sinistro col destro del mio figliuolo,
ci avvinse chiudendo colla chiave i ferri, dandoci un soldato af-
finché ci accompagnasse fino la sera, nell'osteria dove dovevamo
pernottare; il quale ce le avrebbe tolte e riportate indietro, come
fu fatto; e ritornandosene il soldato, gli dissi che in mio nome
rendesse al signor barone le debite grazie, per tanta cura che s'era
compiaciuto avere della mia persona, riputandola così cara che,
non bastandogli la custodia di quel numeroso accompagnamento
del Guastaldi, avea voluto aggiungervi anche la sua.
La sera del dì seguente, lunedì, si giunse a Champéry, verso le
due ore di notte, poiché il Guastaldi, non potendo in quella capitale,
dove risiedeva il general conte Picon, far sua mostra, procurò che
i. Fu . . . accorse; cfr. quanto riferisce il Panzini, p. 96, seguendo la te-
stimonianza di Giovanni: il Guastaldi, durante la marcia, «portava in ma-
no un ritratto del Giannone, del quale questi gliene avea fatto un presente
in Ginevra, e veniva di passo in passo gridando per via: "un grand'uomo,
un grand'uomo"; cosicché tutta la gente ch'udiva sì fatte parole, credeva
di sicuro, non essendo ancor fatta la pace di quella guerra, che fin dal 1733
erasi accesa, che qualche generale, o altro gran personaggio del partito au-
striaco fosse condotto prigioniero»; re Marcone: soprannome del brigante
Marco Berardi (seconda metà del XVI secolo). Nativo di Cosenza, riunì
una forte banda di briganti, costituendo una specie di governo ed esigen-
do tributi locali. Fu debellato dal viceré di Napoli (1559-1571) Pedro Afàn
de Rivera, duca di Alcalà; per Rocco Guinart cfr. la nota 2 a p. 245; San
Giuliano: St.-Julien-en-Genevois, allora bailliage di Ternier. 2. abusarci:
usar male.
336 VITA DI PIETRO GIANNONE
s'entrasse di notte. Ed avendo avvisato all'altro Guastaldi, aiu-
tante di campo del generale, del mio arrivo, venne costui con
molta cortesia e civiltà a dirmi, in nome del suo generale, che non
sapendo la cagione del mio arresto comandatoli dal re, fin che
non se gli desse notizia d'esser seguito, e ricevesse istruzioni come
dovesse regolarsi, mi trattenessi in casa del carcerier maggiore,
dove sarei stato ben trattato.
Condotto ivi, non posso negare che fui ricevuto col mio figliuolo
con somma umanità e cortesia, non men dal carceriere che da sua
moglie, ch'erano gentili, rimanendo nel lor quartiere in libera cu-
stodia; né il generale mancava ogni dì mandare il suo aiutante
Guastaldi a vedermi ed offerirmi ciò che mi faceva di bisogno.
Sicché dall'uno passai all'altro Guastaldi, molto però diverso dal
primo, usandomi ogni amorevolezza e cortesia. L'altro non lo ve-
dea se non rade volte, tutto turbato e malinconico poiché, fuor
d'ogni sua aspettazione, non vedeva che il conte Picon molto si
curasse di premiarlo d'una sì eroica azione, ch'egli credea aver
fatta, per la quale aveasi immaginato di dover conseguire sommi
gradi ed onori.
Il general governadore mandò a dirmi che sarebbe venuto un
giorno per parlarmi, cercando intanto da me la cagione che avesse
potuto movere il re all'arresto, e se io avessi scritto o commessa
cosa tale, che me l'avesse meritato. Io, non meno per Guastaldi
che per altri a' quali dava permissione di visitarmi, l'assicurava
che non avea offesa in minima cosa la Maestà del re, e che le mie
disgrazie venivano dalla corte di Roma; ma ch'era sicuro nella giu-
stizia e clemenza del re, che non avrebbe permesso di sacrificarmi
alla di lei ira ed indignazione; ed era contento ch'egli mi giudicasse
e conoscesse de' miei delitti, pregandolo che mi permettesse di
scrivere in una lettera al marchese di Ormea questi miei sentimenti,
ratificandogli la divozione del mio animo, che ho sempre profes-
sato verso Sua Maestà, la quale avrei conservata fin all'ultimo di
mia vita. Mi permise di scriverla; che aperta mandai, per Guastal-
di in sue mani, il qual poi mi disse averla già stradata per Torino.
Lo pregai ancora che non avendo di abiti e camicie se non que'
che portava addosso, mi permettesse di scrivere a Ginevra a mon-
sieur Vernet, che mi mandasse quanto mi facesse di bisogno ; si-
come volentieri acconsentendovi io feci, scrivendogli che, non sa-
pendo la volontà del re [e] dove fossi destinato, tenesse cura delle
CAPITOLO DECIMOPRIMO 337
mie robe, ed intanto mi mandasse il più necessario, eh' e' stimasse
per casa, o per viaggio. E la lettera, aperta, si diede al Guastaldi,
che da' riscontri che poi n'ebbi capitò in Ginevra, donde mi furon
mandati alcuni abiti e camicie. Vennero finalmente da Torino le
risposte di ciò che il conte Picon, generale, dovea fare; al quale il
re scrisse che il mio arresto non era per alcun delitto, ma per
ragion politica e di Stato ; onde che mi avesse fatto trasportare nel
castello di Miolans, dove a quel governadore comandante si eran
dati gl'ordini di tenermi in arresto in libera custodia, fin a tanto
che non disponesse altramente, ed al quale si eran dati i dovuti
provvedimenti pel mio sostentamento e del mio giovane, che Sua
Maestà non intendeva che si fosse da me allontanato, per mia as-
sistenza e compagnia.
Doppo undici giorni di dimora a Champéry fummo condotti, a'
7 d'aprile, nel castello di Miolans, lontano da Champéry dodici
miglia, e sei da Momigliano,1 posto alla costa d'un monte che ha
l'aspetto a mezzogiorno, e sotto un'altissima rocca che lo copre da
tramontana. <A piedi ha una larghissima pianura, per la quale
passa il fiume Isara;2 ed in questa pianura immagino che seguisse
quella famosa battaglia, che Fabio Massimo console diede a gli
Allobrogi ed Arverni, secondo che Plinio lib. Nat. hist. cap. 50
descrivendo il luogo del campo presso il fiume Isara rapporta;
il quale aggiunge che nel tempo istesso che Fabio vinse la batta-
glia, data nel mese di agosto, si liberò nell'arie della febre quar-
tana,3 che lungo tempo avealo tenuto mal sano e languido.4
Quivi giunti accompagnati dall'aiutante di campo Guastaldi sen-
za turba, con quattro soli soldati, fummo ricevuti cortesemente
dal comandante, il cavalier Le Blanc, savoiardo di non men probi
che gentili costumi, il quale ci assegnò una stanza che ci disse
esser la migliore del castello; sicome poi sperimentai, avendo una
finestra in oriente e posta in sito comodo, non meno per rintuzzare
la forza de' venti che i rigori del freddo; e non mancava ogni
giorno visitarci, ed il doppo pranzo, verso la sera, di condurci per
un'ora a spasseggiare per la piazza del castello, in luogo aperto,
donde si vedevano i monti che circondavano il castello, e la bassa
1. Momigliano: Montméhan. Una descrizione del castello è nelle Memorie
ài Giovanni, in Giannonianat pp. 192-3. 2. Isara: Isère. 3. quella . . .
quartana: cfr. Plinio, Nat. hist., vii, 50, 166. 4. Questo passo, poi cancel-
lato, è stato ripreso dall'autore più oltre, con alcune varianti. Cfr. qui, a
338 VITA DI PIETRO GIANNONE
e distesa pianura che gli sta a' piedi e gli framezza; e nulla mancava
alla nostra tavola di quanto produce quel terreno e può sommini-
strare il villaggio di San Pietro, che è vicino.
Il luogo deserto, il sito del castello, posto sopra una gran rupe,
e la solitudine, certamente che ne' princìpi ci diede orrore e sbi-
gottimento. Ma compensava il tutto la gentilezza del comandante :
il tenerci liberi, non sotto chiave, il condurci ogni dì festivo, la
mattina, nella chiesa del castello ad udir messa, ed il giorno alle
esposizioni del Sacramento dell'Altare, ed il somministrarci quanto
ci faceva di bisogno, faceami parere men noioso l'arresto. Ma sopra
tutto mi dava conforto il riflettere, che era stato ivi condotto per
ordine d'un principe, al quale io non avea offeso in cosa alcuna;
e volendo che non si allontanasse da me il mio innocente figliuolo,
era da sperare che, compassionando il mio stato infelice, avrebbe
dato presto fine a' miei travagli.
Pochi giorni dapoi del mio arrivo a Miolans ricevei dal general
conte Picon una gentilissima lettera de' 1 1 d'aprile, accompagnan-
dola con un dono di cafè, zucchero e tabacco per nostro uso, nella
quale, dandomi avviso di mandarmi que' abiti e camicie che avea
cercati a monsieur Vernet, m'imponeva che le mie robe, scritture
e quanto avea lasciato a Ginevra le facessi pervenire a Champéry,
in sue mani, che avrebbe egli pensato di mandarmele.1 Compresi
da ciò, che non si voleva che io più pensassi al ritorno di Ginevra;
onde scrissi a monsieur Vernet che que' miei pochi libri, scritture
ed il forziere, con altri miei abiti che avea lasciati, gl'inviasse a
Champéry; e sopra tutto, aspettando io da Milano i manuscritti
che dovean servire per la stampa del quinto tomo, che facesse di-
ligenza se fosser capitati, e gli mandasse pure a Champéry, al
governadore; e che mi scusasse presso Barrillot, se non poteva
adempire a quanto erasi fra noi convenuto, vedendo la dura neces-
sità che me lo proibiva; sicome lo stesso dicesse al Pellissari, che
intorno alla traduzione francese pensasse ad altri, poiché io non
poteva più pensarci, disciogliendo con ambidue ogni trattato.
Acchiusi la lettera aperta nella risposta che feci al generale, ren-
dendole molte grazie della cortesia usatami; e che, sicome avea
ubbidito a quanto mi avea imposto, così era per eseguire in tutto
ciò che fosse per ordinarmi, pregandolo della sua protezione presso
i. ricevei. . .mandarmele', sulla sorte delle carte giannoniane si veda S.
Bertelli, U incartamento originale, cit., pp. 23 sgg.
CAPITOLO DECIMOPRIMO 339
la Maestà del re, non avendo io nella corte di Torino persona che
potesse per me intercedere; e gli acchiusi parimenti una lettera
scritta per Milano al secretano Canary, colla quale lo pregava d'im-
petrare dalla principessa Trivulzi qualche buon ufficio per me in
quella Corte, sapendo quanto fossero per riuscire efficaci e frut-
tuose le sue interposizioni. Di questa ed altre mie lettere scritte a
Milano1 non ebbi alcun riscontro ; e avendomi detto il comandante
Le Blanc che non occorreva scriver più a Milano, non potendo
ricever egli altre mie lettere, se non quelle che scriveva a Champéry
ed a Ginevra, compresi che non si mandarono ; né potei saper mai
se i manuscritti che aspettavo da Milano si fosser mandati a Gi-
nevra, ovvero fosser rimasti ivi, o capitati in altre mani.
L'aiutante di campo Guastaldi mi scrisse doppo che M. Vernet
avea mandato a Chamberì, al governadore, il mio forziere con
Paltre mie robe, scritture e libri; ma, secondo la nota che mi man-
dò, mancavano più cose: riscrissi che vedesse di ricuperare il
rimanente, sicome m'avvisò d'aver fatto ; ma ritenendo in suo po-
tere ogni cosa, non vedeva che ne mandasse alcuna. Me ne dolsi
con altra mia lettera scritta al governadore, il quale fecemi sentire
da monsieur Le Blanc, che essendo partito per Torino il Guastal-
di, che teneva in suo potere il tutto, non poteva riceverlo se non
al di lui ritorno. Aspettai fin che non tornasse, e finalmente fummi
mandato il mio forziere con gli abiti ed alcune robe, scrivendomi
il Guastaldi che il rimanente, come a me non necessario, era rima-
so in suo potere, e che sperava fra breve, riacquistando la mia li-
bertà, di consignarlo egli nelle mie proprie mani.
Così come a naufrago vidi sparpagliate di qua e di là quelle
poche reliquie de' miei stracci, in gran parte rimase a Venezia,
altre forse in Milano o pur disperse, altre in Ginevra, ed altre a
Champerì. Niente mi curava di non avermi mandati gli avanzi
delle mie scritture, né delle altre robe; ma affliggevami di non avere
que' pochi libretti, i quali, nel disperato ozio nel quale era ed in
quella solitudine, mi avrebbero alleggerita la noia ed il tedio. Pure
io, ciò prevedendo, nel partir da Champerì, nel miglior modo che
potei mi provvidi d'un Livio, comprato ivi da un libraro, che fu
pur miracolo di trovarlo, ancorché l'edizione fosse cattiva e scor-
retta. Non posso negare che fummi di gran sollievo, consumando
x. Di' . . . Milano: cfr. V. Cian, V agonia d'un grande italiano) in a Nuova
Antologia», lxxxvii (1903), pp. 6-7 dell'estratto.
340 VITA DI PIETRO GIANNONE
più ore del giorno in leggerlo e rileggerlo, e così rendere meno
noiosa la mia solitudine.
Avendo scorto dalle lettere del general governadore e del Gua-
staldi, che il volere del re fosse di non pensar più a Ginevra, né a
stampe o ristampe, ed avendo eseguito quanto m'era stato imposto,
stimai nel mese di maggio comporre un pieno memoriale a Sua
Maestà,1 nel quale esponendo la serie de' miei successi da che
partii da Vienna, e la dura necessità che mi avea costretto di passare
a Ginevra non già per cambiar religione, ma per aver ivi trovato
onesto modo da vivere; pregava la clemenza del re ch'essendo
nelle sue mani e disposto di adempire a quanto m'avrebbe co-
mandato, non volesse permettere che io lungamente dovessi sof-
frire l'angustie nelle quali vedeami posto, non avendo bisogno di
custodia, quando io, non pur liberamente, ma con piacere, avea
protestato e le protestava di voler sacrificare il rimanente di mia vi-
ta in suo real servizio, potendo disporre di me come le piaceva; e
sopra tutto le poneva innanzi gli occhi ch'essendo un povero fo-
rastiere abbandonato da tutti, non aspettasse che per me alcuno
intercedesse presso la Maestà Sua; sicché, ragionevolmente, teme-
va che non fossi posto in dimenticanza. Avrei sì bene dalla corte
di Roma avuti molti accusatori, ma mi facesse la grazia di manife-
stare le loro accuse, con fari' esaminare; perché avrebbe scorto es-
serli io venuto in odio ed abbominazione, non già perché io avessi
sentimenti contrari alla nostra Santa Fede, né perché discordassi
ne' punti principali della religione cattolica, ma unicamente perché:
non volli con vile adulazione adottare per vere le false massime
della papale monarchia sopra tutti i principi della terra, e per avere
manifestate le sorprese fatte sopra la potestà de' medesimi, e poste
in più chiara luce le regali preminenze ed alti, sovrani ed indipen-
denti diritti, che Iddio ha lor conceduti sopra i loro Stati e domìni.
Che ciò e non altro mi avea cagionato la di loro ira ed indignazione;
onde lo pregava, come a principe savio e giusto, a non dar facile
credenza alle imputazioni addossatemi, farle esaminare da uomini
dotti e spassionati, e dar luogo che io potessi difender la mia inno-
cenza contro le insidiose armi d'una livida ed animosa maladicenza.
Fu mandato questo memoriale al governadore di Champéry, il
i. un pieno . . . Maestà: steso in data 4 maggio 1736, è stato pubblicato
dal Pierantoni in appendice alla propria edizione dell'Autobiografia, pp.
457-66, con la data errata. Cfr. in Giannoniana, p. 483.
CAPITOLO DECIMOPRIMO 341
quale mi fece assicurare da monsieur Le Blanc eh' erasi già tra-
smesso al re nella corte di Torino. Aspettai lungo tempo e non
vidi essersi data provvidenza alcuna; e intanto si prolungava il mio
penoso arresto. M. Le Blanc mi confortava, con dirmi ch'essendo
la corte di Torino occupata in altri più importanti e gravi affari,
trattandosi della pace fra l'imperadore ed i principi collegati nel-
l'ultima guerra1 mossa contra il medesimo, non era maraviglia che
non si pensasse alle altre cose minute.
Passai con questa lusinga il meglio che si potè i tre mesi dell'està;
e per render men noiosa la mia dimora e non marcire in un sì
penoso ozio, cominciai a scrivere queste memorie, le quali se non
sono compite, è perché non è ancor finita la mia vita, non sapendo
se dovrò qui finirla, ovvero il rimanente non l'avesse il mio fiero
destino serbato a più duri e crudeli strazi.
L'està di quest'anno 1736, passata in mezzo a' monti della Sa-
voia, mi mostrò più cose altrove non osservate. Vidi che in ciascun
mese, fosse stato di giugno, luglio o d'agosto, sopra la cima di
que' monti, quando nel piano pioveva, cadeva ivi nuova neve;
ne' dì piovosi, verso la sera, vedersi l'iride a' piedi de' medesimi
spezzata, e formare ora una figura di colonna curva, ora altra irre-
golare, secondo che i raggi del sole percotevano lo spruzzo delle
spezzate nebbie; alle volte il suo arco cominciava da pie d'un
monte e si terminava in un altro, senza passare la sommità de'
medesimi; sicché vedeasi dal castello l'arco tutto fra la pianura e i
monti, senza avanzarsi sopra di quelli, nell'alto cielo. Nel calor
più forte o nelle dirotte piogge i gran massi di neve formati so-
pra quelle alte rocche, nel precipitare in giù, formavano un fra-
gore sì spaventoso, che da lontano sembravano colpi di grossi
cannoni, spiantando e portando seco ciò che si fa loro incontro di
alberi, grosse rupi, tetti e capanne. E nella primavera ed autunno
i venti soffiano così impetuosi e forti, che sembravami dovesse
rovinare non pure il castello, ma tutta la macchina del mondo. E
pure tali spettacoli, fragori e procelle mi servivano per sollevare in
parte il mio animo dal lungo e penoso tedio, e volgerlo da' miei
pensieri tetri e funesti a nuovi oggetti, ancorché pieni di orrore e
di spavento.
< Spesso mi riduceva in mente che avendo quel monte, alla costa
del quale fu fabbricato il castello, a' suoi piedi una larghissima
1. ultima guerra: la guerra per la successione al trono polacco.
342 VITA DI PIETRO GIANNONE
pianura, che si distende fra que' monti per più miglia, per mezzo
della quale passa il fiume Isara, questo campo fosse quello dove
accadde quella famosa e sanguinolenta battaglia, che Quinto Fabio
Massimo console diede agli Allobrogi ed Averni, della quale Plinio
il Vecchio, descrivendo il luogo del campo presso Isara, fa memo-
ria, non essendovi fra que' monti pianura sì ampia che questa, la
quale fosse stata capace di racchiudere eserciti sì numerosi. Plinio,
nel capitolo 50 del libro vìi della sua Istoria di natura, commemora
questa battaglia, per occasione che Fabio nel calore di quella, su
'1 campo, si liberò d'una febre quartana della quale lungo tempo
era stato travagliato. Egli qui si liberò dalla febre; ma io non già
dalla mia prigionia>.
Nell'autunno, vedendo che si prolungava il mio arresto e l'in-
verno si avvicinava, mandai al governadore di Champéry altra mia
memoria per Sua Maestà, nella quale instantemente la pregava di
non permettere che io dovessi fra quelle orride montagne passarci
l'inverno, con evidente pericolo per la mia gracile complessione ed
avanzata età, di lasciarci la vita; ma quando pure a Sua Maestà
così piacesse, almanco ordinasse che mi fossero mandati que' po-
chi miei libri rimasi a Champéry, e provvedesse di farmene man-
dar alcuni altri, affinché potessi sostener la dimora con minor tedio,
in tanta solitudine. Ed aggionta a questa memoria, mandai pure al
governadore la piccola nota de' libri che cercava, pregandolo ad
intercedere per me presso il re, almanco, non potendo altro, che
in tal maniera sollevasse l'animo mio angustiato ed oppresso. Non
passarono tre o quattro settimane, che mi furono mandati da
Champéry i libri, donde compresi che io dovea in quel castello pas-
sarci tutto l'inverno; ma non tutti. E cercando io fra gli altri
VIstoria naturale di Plinio, in vece di quella mi mandarono le
Epistole ed il Panegirico dell'altro Plinio,1 forse, o perché lo cre-
dettero lo stesso, ovvero che a Champéry non si trovasse altro.
Con tal soccorso mi disposi a soffrire pazientemente quivi quel-
Torrido inverno, fra le angustie d'una stanza; poiché, toltone d'an-
dare i dì festivi ad ascoltar la messa, non si poteva fuori dar un
passo, senza intirizzire per l'estremo freddo. Ed ancorché io fossi
avvezzo a' freddi di Germania, oltre che ivi abbastanza si è oc-
corso coll'uso delle stufe, mi riuscivano però più sensibili e molesti
1. le Epistole . . . Plinio: cioè le Epistolae e il Panegyricus Traiano impera-
tori di Plinio il Giovane.
CAPITOLO DECIMOPRIMO 343
questi di Savoia, come più acuti e penetranti; a* quali mal si
rintuzzava col semplice camino, il quale non riscaldava tutta la
stanza; sicché non bisognava allontanarsi un passo dal fuoco, per
non sentirne i rigori.
Due volte, in gennaro del nuovo anno 1737 e ne' princìpi di
marzo, m'infermai di febre lenta, nata da ostruzione di viscere;
ma coli' assistenza d'un perito medico del vicino villaggio di San
Pietro, il quale, stipendiato dal re, avea la cura del castello, con
leggiere purghe ed esatta dieta me ne liberai.
[*737l
È già scorso un anno e siamo entrati nel secondo, che in questa
solitudine soffro la pena ed il tedio d'una vita misera e noiosa;
e come fuori del mondo, da che ci fui menato niente so di ciò che
sia avvenuto in quello o di pace, o di guerra, o di altro, e molto
meno de' miei congionti ed amici; sicché sembrami il mio vivere
un'immagine di morte. Né so quel che fia di noi; ma temo e pa-
vento che, sembrando alla corte di Roma troppo lungo l'aspettare
la morte d'un vecchio, qual io mi sono, non procuri co' suoi
accorti artifici ed ingegni di far prolungare qui il mio incolato,1
in sì misero ed infelice stato, per affrettarla, quanto fia possibile,
almanco con incomodi, disaggi e patimenti, a' quali la mia grave
età d'uopo è che, finalmente, soccomba.
A questo fine, se mai venissi io qui a mancare, avendomi ella
esposto come bersaglio a gli occhi di tutti, e resomi noto assai più
per l'incessanti e fiere sue persecuzioni, che per le mie opere di-
volgate alle stampe, affinché tutti siano informati de' miei avveni-
menti e sappiano discernere il vero da falsi rapporti, de' quali
non dubbito che avrà ingombrate le menti de' più semplici, ho
voluto, dandomene opportunità quest'ozio e questa solitudine, dar
al mondo una verace e fedel narrazione della mia vita e quanto nel
corso della medesima siami avvenuto.
Forse avverrà che alcuni, mossi da spirito di pietà e di compas-
sione sospireranno, morto chi, vivo, disprezzarono o non curarono.
Forse dal mio essempio si accorgeranno non avere la corte di
Roma altra difesa o schermo, per mantenere gl'ingiusti acquisti
fatti sopra la potestà e giurisdizione de' principi, se non quella di
1. incolato: dimora (latinismo).
344 VITA DI PIETRO GIANNONE
perseguitare gli autori, non già di rispondere alle di loro opere,
nelle quali con manifeste pruove sono dimostrate e poste in chiara
luce le tante sorprese ed usurpazioni. Ma ciò che forse sembrerà lo-
ro più strano, e portentoso, stupiranno come, per abbattergli e rovi-
nargli, cerchi e trovi aiuto da' principi stessi, «cut haberet instru-
menta servitutis et reges)»:1 sicché ora più non dubiteranno essersi
san Girolamo apposto al vero, quando scrisse che il vangelista
Giovanni, nell'Apocalisse, per la grande città da lui chiamata Ba-
bilonia intese di parlar di Roma corrotta;2 e di lei pur intese,
quando ci descrisse quella meretrice ornata di porpora, gemme ed
oro, la quale, prostituita sovra sette colli, fu veduta sfacciatamente
puttaneggiar co' reggi;3 sicome Dante ce ne fece pur accorti.4
A me, che non per odio altrui o per disprezzo, ma unicamente
per amor della verità e per investigarla fra Poscurità de' più incolti
e tenebrosi secoli ho sofferte tante fatiche e travagli, se accaderà
fra queste alpestri rupi lasciar il mio corpo esanime, pregherò Id-
dio, eh' è la Verità istessa, che accolga il mio spirito in pace: e
sicome per lei ho sofferti tanti strazi e martìri, giusto è che final-
mente diale tranquillità e riposo.
Pregherò pure i paesani e viandanti che traversando per questi
monti, e dovendo, nel passar per la Savoia in Francia, calcar la
strada donde non molto lontano vedesi il castello di Miolans, volti
i loro pietosi occhi al gran sasso sotto il quale giaceranno sepolte
le mie fredde ossa, mossi da spirito di pietà, in passando lor dica-
no : « Ossa aride ed asciutte, abbiate quella pace e riposo che vive
non poteste ottener giammai».
<Di nuove pene mi convien far versi>.s
*737
15 settembre. - Da Miolans giunsi alle carceri della Porta del Po.
20 settembre 1737. - A Torino.6
1. «ut . . . reges»: «avendo gli stessi re per strumenti di servitù». 2. san
Girolamo . . . corrotta: cfr. Lìber de virìs illustrìbus, in Migne, P. L., xxui,
col. 654 (Gerolamo cita non V Apocalisse, ma I Petr., 5,13). 3. quella me-
retrice . . . reggi: cfr. Apoc, 17, 1-4. 4. Dante . . . accorti: cfr. In/., xix, 108.
5. Cfr. Dante, In/., xx, 1 : «Di nova pena mi conven far versi». 6. A To-
rino: in una lettera da Ceva, del 6 luglio 1738, edita in P. Occella, Pietro
Giannone negli ultimi dodici anni, cit., p. 689, in nota, il Giannone scrive-
va di andar riprendendosi, nella nuova prigione, «dalli patimenti che ho
sofferti nelle carceri di Porta del Po dove, se io fossi più dimorato, ci avrei
sicuramente perduta la vita ».
CAPITOLO DECIMOPRIMO 345
1738
27 gennaio 1738. - Il padre Prever.1
15 marzo. - Precedenti informo3 del suddetto padre e lettera
del re a Roma, fu spedita dalla Sacra Congregazione del Santo
Ufficio commissione al padre maestro fra Giovanni- Alberto Alfe-
rio,3 vicario generale del Santo Ufficio di Torino, di ricevere la mia
retrattazione, con istruzioni per sé ed il padre Prever, mio con-
fessore e direttore di mia coscienza; il quale, portatosi in dette
carceri col detto padre, a' 4 aprile riceve la mia deposizione, ed in
conseguenza la retrattazione, secondo l'istruzione mandata sopra i
punti in essa prescritti. In esecuzione di detta commissione funa-
mi data assoluzione di tutte le censure, interdetti, etc, e data li-
cenza al detto padre Prever di ricevere la mia confessione, ed as-
solvermi di tutti i peccati e casi riserbati in Roma alla Sacra Con-
gregazione del Santo Ufficio.4
Il libretto Jani Perontini etc.5 fu condennato in Roma a' 17 ago-
sto 1735, come continente « propositiones respective falsas, con-
tumeliosas, scandalosas, simplicium seductivas, iurisdictioni Ec-
clesiae iniuriosas, temerarias, erroneas et haeresi proximas».6
Questo libretto diede motivo alla Sacra Congregazione del Santo
Ufficio di scrivere all'Inquisitore di Venezia di stargli sopra; ma
non potè conseguir niente, perché andava molto riguardoso, per
non perder quell'asilo e per poter conseguire nell'Università di
Padoa una lettura, sicome significò quell'Inquisitore.
Poco dopo si seppe che in Venezia, di notte tempo, era stato
arrestato e posto in una peota, affine di sbarcarlo fuori di Stato.
L'avviso, però, giunse troppo tardi, non ostanti le precedenti dili-
genze usate dalla Sacra Congregazione in ordinare alli Inquisitori
di Ferrara, Genova, Firenze, Pisa e della Lombardia, perché doves-
1. Giovan Battista Prever (1 684-1751), canonico di Giaveno. 2. infor-
mo : informazione. 3 . Alferio : Giovanni Alberto Alfieri da Magliano (mor-
to nel 1742). 4. fu spedita . . . Ufficio : sulle trattative intercorse tra la Curia
e la Corte sabauda per far abiurare il Giannone, si veda P. Occella, Pietro
Giamtone negli ultimi dodici anni, cit., pp. 680 sgg. Per la storia della dif-
fusione del testo dell'abiura, sino alla sua stampa, si veda S. Bertelli, L'in-
cartamento originale, cit., pp. 31-6. 5. Il libretto . . . etc. : il De Consiliis, ac
Dicasteriis, quae in Urbe Vindobona habentur, sul quale vedi la nota iap.
184. 6. a propositiones . . . proximas » : «proposizioni rispettivamente false,
calunniose, scandalose, corruttrici dei semplici, ingiuriose verso la giuri-
sdizione della Chiesa, temerarie, erronee e prossime all'eresia ».
346 VITA DI PIETRO GIANNONE
sero arrestarlo ; poiché, giunto l'avviso da Venezia, era già passato
alla volta di Ginevra.
I manuscritti lasciati a Milano si mandarono dal re al papa, il
quale, per mezzo del cardinal Alessandro Albani,1 li fece consignare
in Sacra Congregazione, con ordine di ritenerli sotto chiave; sicome
dopo mandò gli altri manuscritti che si ricuperarono da Ginevra.
A' 5 aprile fu a visitarmi l'abate Palazzi.2
A' 15 giugno, domenica, partii da Torino e fui condotto nel
castello di Ceva, dove giunsi la mattina de' 17 del suddetto mese.
In novembre caddi infermo, e durò la grave mia infermità per
tutto febbraio del 1739.
1739
Fui con carità assistito dal signor cavalier de Magistris.3
Liberato che fui dalla malattia, cominciai a stendere da' mie
cartuccie i Discorsi sopra Livio, nel principio di marzo, e gli termi-
nai al dì 15 maggio. E furono mandati a Torino con lettera al
signor marchese D'Ormea, pregandolo di presentarli al re, a cui
erano dedicati, li 8 giugno.
A' 4 novembre di nuovo m'infermai dell'istessa malattia, non
così forte come l'anno scorso, e mi durò due mesi, con tre altri
mesi di convalescenza.
1740
Quest'anno, per gli eccessivi freddi e per la morte di papa Cle-
mente XII, seguita a' 6 febbraio, fu memorabile, sicome per l'ele-
zione del nuovo papa Lambertini,4 seguita li 16 agosto; ma assai
più memorabile per la morte dell'imperadore, da me saputa la
domenica 30 ottobre, seguita in Vienna li 20 del suddetto mese.
Pure a' princìpi di novembre m'infermai, e durò la malattia fino
ad aprile del seguente anno.
1741S
1. Alessandro Albani (1692-1779), nipote di Clemente XI, era il cardinale
protettore del re di Sardegna in Curia. Sul suo ruolo nella vicenda gianno-
niana cfr. S. Bertelli, L'incartamento originale, cit., pp. 23 sgg. 2. l'abate
Palazzi: l'abate Palazzi di Selve. 3. Il conte Giuseppe Amedeo de Magi-
stris, colonnello comandante del Forte di Ceva dal 1726 al 1739. 4. Pro-
spero Lambertini (1675-1758), salito al soglio nel 1740 con il nome di Be-
nedetto XIV. 5. 17 41-. così termina il manoscritto.
ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
NOTA INTRODUTTIVA
Quando Giusto Fontanini scriveva a Domenico Passionei, avvisan-
dolo che « a Napoli un tal Giannone con la direzione di altri settari »
aveva stampato una storia del Regno «piena di orrendissime furfan-
terie contro il papato »,r il nome dello storico era del tutto sconosciuto,
la sua opera cominciava appena a circolare ed era forse già celebre
non tanto per il contenuto, ma per la vicenda dell'autore, costretto a
scappare da Napoli appena quindici giorni prima, a cercar rifugio a
Vienna. L'arcivescovo di Andra quell'opera non l'aveva mai aperta;
ne conosceva degli stralci dal primo e dal secondo volume, che il
bibliotecario del cardinale, Renato Imperiali, gli aveva letto giorni
prima. Eppure egli era già al corrente di come V Istoria civile fosse
stata compiuta sotto «la direzione di altri settari», non fosse insom-
ma parto d'un singolo autore, come appariva dal frontespizio suo.
Questa afTermazione può ritrovarsi nella polemica risposta del ge-
suita Giuseppe Sanfelice, laddove questi scrive che l'opera era nata
«coll'aiuto ed industria di altri eruditi, e riguardevoli letterati»:2 do-
ve, si noti, l'avviso non ha ancora il valore di accusa dispregiativa,
ma solo di constatazione d'un fatto. Ben altrimenti questa notizia
sarebbe stata sfruttata nel libello del Sanfelice, se questi ne avesse
compreso l'insito valore denigratorio. Per lui, invece, non era che
un puro dato di fatto, utile soltanto a coinvolgere nell'accusa di
ateismo l'intero gruppo d'intellettuali napoletani che attorno a Gae-
tano Argento si era riunito.
Saranno per i primi Bernardo Tanucci e Pietro Metastasio ad usare
questa notizia nel senso di svilire l'impegno giannoniano. Il Tanucci,
dicendo ad un suo ignoto corrispondente: «Non vi faccia specie
Giannone. Egli all'opera forense contribuì con pochi materiali fo-
rensi e la sfacciataggine, il resto fu di Capasso, di Cirillo, d'Aloisio,
gente di cattedra che, come sapete, è inquieta in tutte le parti del
mondo » ;3 il Metastasio scrivendo al grecista napoletano Saverio Mat-
tei nell'ottobre del 1775, sullo stesso tono del Tanucci, aggiungendo
di suo i nomi dell'Argento e dell'Ippolito.4
« Inverisimilissima leggenda » la definì il Nicolini, servita ai deni-
gratori del Giannone, a cominciare da quell'arcivescovo di Bostra,
Domenico Arcaroli, autore d'un Ristretto della vita di Pietro Giannone
(1787), giù giù sino a Giovanni Bonacci; e aspramente ribattuta da
1 . C f r. Bertelli, p. 1 8 1 . 2 . Cfr. Riflessioni morali e teologiche sopra V Istoria
civile del regno di Napoli. Esposte alpublico in più lettere familiari di due ami-
ci da Eusebio Filopatro . . ., Colonia (ma Roma) 1728, 1, p. 45. 3 . Cfr. Gian-
noniana, pp. x e 124. 4. Cfr. S. Mattei, Memorie per servire alla vita del
Metastasio . . ., in Colle 1785, p. 33.
350 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
tutti i suoi sostenitori, da Leonardo Giustiniani sino al Croce e al
Nicolini stesso.1 Gli uni e gli altri fermi alle sole affermazioni del
Metastasio, ignorando non solo le due sino ad oggi inedite lettere
del Fontanili e del Tanucci, ma non rilevando come la stessa notizia
fosse anche nel libello del Sanf elice. Ancorati, tutti, al fatto personale,
alla necessità di sminuire o sostenere la figura del Giannone, presa
a sé, avulsa dal contesto storico politico in cui essa venne formandosi.
Per la verità, lo stesso Giannone, nella sua autobiografia, ci informa
come l'accusa fosse nata concomitante all'apparizione dell9 Istoria ci-
vile : « Que' medesimi che prima, per la mia ritiratezza, mi avean dato
il sopranome di "solitario Piero", ora, dimenticati della mia solitu-
dine e del corso di tanti anni, cominciarono a dire che io non poteva
essere stato solo l'autore di una sì voluminosa e laboriosa opera, ma
che altri mi avesser somrninistrato aiuto e la materia, chi nominando
l'Argento, chi l'Aulisio, e chi altri miei amici».2 In tal caso, dunque,
l'arcivescovo di Andra non avrebbe fatto che raccogliere voci napo-
letane, d'invidi e malevoli, facendole proprie. Già, ma per lo storico
anche il falso ha valore, e noi che non ci ergiamo a giudici, né con-
danniamo o assolviamo, dobbiamo porci la domanda del fondamento
d'una simile accusa; e ci sembra che lo stesso Giannone, nelle pagine
precedenti della autobiografia, ne fornisca la spiegazione.
L'origine dell'Istoria civile è remota, risale ad almeno vent'anni
prima della sua pubblicazione, quando le discussioni nell'Accademia
dei Saggi in casa dell'Argento misero a fuoco la necessità di affron-
tare lo studio dell'età di mezzo, di quel diritto longobardo «a quo
feudalia iura fluxerunt», come aveva notato per il primo Francesco
D'Andrea nella sua Disputatio anfratres infeuda nostri Regni succe-
dant (1694), definita «stupenda» dal Giannone. In quell'opera un
intero capitolo era stato dedicato al ius Longobardorum e alla disamina
«qua ratione in nostro regno esset ius commune». Il D'Andrea,
insomma, apriva le menti dei giuristi meridionali sulla disputa tra
lois civiles e coutumes, parlava di ius naturae et gentium sulle orme del
van Groot e di Samuel Pufendorf, polemizzava col potere feudale,
intaccava le prerogative, anche giudiziarie, del baronaggio nel Re-
gno. Non è il caso di richiamare il significato di questa battaglia,
quali forze si muovessero dietro questi testi giuridici, del D'Andrea
come di Serafino Biscardi, del van Groot come del Pufendorf o di
Jacques Cujas.3 Quello che importa qui notare è come su questi testi
si venissero formando i giovani praticanti dell'Argento, quanto la lo-
1. Cfr. Nicolini, Scritti, p. 94, dove sono tutti i rinvìi bibliografici in merito.
a. Cfr. Vita, qui a p. 81. 3. Basti il rinvio agli studi del Marini citati in
bibliografia, e a S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli
nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965.
NOTA INTRODUTTIVA 351
ro ricerca fosse nel campo della storia del diritto, quanto essi fossero
più storici che glossatori, più interessati al de origine iuris che non
all'analisi di questa o quella pandetta, di questa o quella novella. È
in un tale ambiente che nasce la prima idea dell'Istoria civile, o più
precisamente di un'opera che riprendesse, per il regno di Napoli,
la tematica affrontata da Arthur Duck nel suo De usu et authoritate
iuris civilis Romanorum in dominiis principimi christianorum (1653). In
questo senso può ben dirsi che non si trattasse d'un'opera d'un sin-
golo - anche se materialmente stesa e portata avanti da uno solo dei
membri di quell'Accademia.
U Istoria civile nacque dunque da una discussione e da un'elabo-
razione collettiva; e fu inizialmente indirizzata secondo gli interessi
e la problematica dell'intero gruppo che attorno all'Argento si riu-
niva. La svolta decisiva in questa impostazione, il contributo origi-
nale che impose il Giannone alla testa del gruppo, fu lo scarto dalla
discussione sui diritti feudali del baronaggio laico, a quella sui diritti
della feudalità ecclesiastica. Una volta stabilita l'impossibilità di af-
frontare la storia del diritto senza inglobarla nella più ampia a storia
civile» (secondo l'indicazione baconiana, come lo stesso Giannone
riconosce), ci si accorse che « Il diritto canonico non dovea più ri-
guardarsi come appartenenza del civile e ravvisarlo ne' codici de-
gl'imperadori Teodosio e Giustiniano, e nelle Novelle degli altri im-
peradori d'Oriente, ed in Occidente ne' Capitolari di Carlo Magno,
di Lodovico e degli altri successori imperadori. Se n'era già fatto cor-
po a parte, separato ed independente, che riconosceva altro monarca
e legislatore, anzi, emulo delle leggi e del diritto civile, cercava ab-
batterlo e sottoporlo a' suoi piedi».1 Facendo una simile scoperta, il
Giannone era ben conscio delle difficoltà dell'impresa: «Conosciuta
da ciò e da altri portentosi cangiamenti la necessità che a' dì nostri
non poteva scriversi un'esatta Istoria civile, se non si teneva conto
non men dell'uno che dell'altro stato, mi vidi atterrito dall'ardua
impresa, quasi fuor di speranza di poterne venire a capo ».z Proseguì
tuttavia nell'impresa, lavorandovi con accanimento anni ed anni.
Si è detto che questa fu una svolta: e una svolta fu in effetti non
solo storiografica, ma politica. Occorre infatti chiedersi perché mai i
seguaci, gli allievi del D'Andrea, anziché proseguire l'attacco alla
feudalità laica, abbiano preferito la lotta giurisdizionalistica, abbiano
spostato il tiro della loro polemica contro la feudalità ecclesiastica.
Le linee, i fini generali della battaglia non mutano. Si tratta, sempre,
nell'uno come nell'altro caso, della difesa del regius fiscus, della difesa
dello stato assoluto contro la frantumazione della sovranità nelle tante
1. Cfr. Vita, qui a p. 57. 2. Cfr. Vita, ivi.
352 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
isole baronali, vescovili ed arcivescovili. Questa difesa delle «regalie»
ha, nel Regno, contorni e significati assai precisi, come ha ben di-
mostrato Raffaele Ajello recentemente.1 Nella carenza del potere cen-
trale, nella difficoltà di un immediato recursus adprincipem da parte dei
sudditi del Regno, la nobiltà di toga tende a riempire questo vuoto
di potere, facendosi depositaria del diritto. Essa è naturaliter portata
a contrastare la legittimità, della giurisdizione feudale nobiliare ed
ecclesiastica. La lotta delle magistrature napoletane si rivela sempre
nella continua ed esasperante e tenace avocazione a sé di tutte le
cause del Regno (e tralasciamo qui, perché esorbita dalla nostra
indagine, l'osservazione di come questa rivalità fosse anche all'in-
terno della magistratura regia, tra tribunale e tribunale), nel contra-
stare passo passo la sfera giurisdizionale del primo e del secondo stato.
Il Collaterale diviene il centro di questa lotta, così come, pochi anni
dopo, apparirà dilatata, al suo fianco, la magistratura del Cappellano
maggiore, nella lotta specifica contro la giurisdizione ecclesiastica.
Questa battaglia di predominio si ammanta e si avvale, ovviamente,
di argomentazioni ideologiche. Diritto di natura e diritto delle genti
appaiono potenti leve ideali contro la difesa del droit coutumier; sicché
l'offerta di collaborazione avanzata da questi giuristi al monarca non
è già, come a prima vista potrebbe apparire, una adesione loro al-
l'assolutismo, ma, nella particolare situazione napoletana, una richie-
sta di mandato rappresentativo del regius fiscus ai togati, da far va-
lere nei confronti della nobiltà laica ed ecclesiastica. La contestazione
del potere baronale è portata innanzi, come s'è detto, dal D'Andrea,
nella sua Disputatio come nella sua più celebre Risposta al trattato
delle ragioni della Regina Cristianissima sopra il ducato del Brabante
(1667- 1676). Su questa strada non fu però seguito dalla massa dei
togati e tra questi proprio dal fratello Gennaro, il quale aveva invece
mirato all'acquisto d'un titolo nobiliare pur essendo salito alle più
alte cariche nella magistratura del Regno.3 Il piano di Francesco, di
«ascendere al comando e all'amministrazione di tutta la repubblica»
(cioè, della respublica) e di poter «comandare a tutto il baronaggio »,3
si scontrava così con una più complessa realtà, nella quale quello
che fu detto il «ceto civile» non si presentava affatto omogeneo né
con unità d'intenti e di scopi. Troppo stretti erano i legami tra giu-
risti, avvocati e magistrati da una parte, e baronaggio dall'altra, per-
ché la lotta antibaronale potesse essere spinta oltre certi limiti. Man-
1. Cfr. Il problema della riforma giudiziaria e legislativa del regno di Napoli
durante la prima metà del sec. XVIII, Napoli 1964. 2. Su di lui si veda
la nota 1 a p. 59. 3. Cfr. Avvertimenti ai nipoti, editi col titolo I ricordi
di un avvocato napoletano del Seicento, Francesco D'Andrea da N. Cortese,
Napoli 1923, pp. 173 e 207.
NOTA INTRODUTTIVA 353
cava a questo «ceto», soprattutto, un suo carattere distintivo, una
coesione che lo opponesse dialetticamente al baronaggio, e questo fu
il suo più grave limite, che gli impedì, appunto, di riconoscersi
come ceto.
Più facile, invece, la battaglia contro la feudalità ecclesiastica, con-
tro rintromissione di Roma negli aflari del Regno. Qui era possibile
ritrovare un'unità politico-ideologica, su questo terreno era persino
facile stabilire un accordo, un'alleanza col potere baronale. Oltre-
tutto, questo era il terreno più debole, dove l'avversario aveva meno
possibilità di difesa, che non fossero le armi spirituali, la messa
all'Indice dei libri, la scomunica di magistrati o di autori di trattati
de re beneficiaria. Come si sperimentò appunto nella prima di queste
battaglie, con l'uscita delle opere dell'Argento, di Costantino Gri-
maldi e di Alessandro Riccardi, nel 1707.
La svolta pare vada situata proprio in quell'anno; anche se il
Giannone, nell'autobiografia, sembra porla in un momento imme-
diatamente precedente; ma non è escluso che la necessità di non
interrompere il discorso lo abbia costretto ad anticipare nell'ultimo
paragrafo del terzo capitolo dell'autobiografia, ciò che avrebbe do-
vuto porre in apertura del quarto capitolo. In realtà, il 1707 è una
data importante nella vita del Regno: essa segna, per la prima volta,
il passaggio dalla corona spagnola alla corona imperiale, corona che
da due anni gravava sul capo di Giuseppe I, un imperatore il cui
regno fu troppo breve perché si potesse attribuire a lui, e non al suo
più tardo successore, la politica che fu detta « giuseppinismo ». Per-
ché è ben vero che Napoli, come parte integrante della monarchia di
Spagna, rimaneva sotto la sovranità del fratello dell'imperatore, Car-
lo, e della sua corte di Barcellona, opposta a quella di Madrid di
Filippo d'Angiò; ma è anche vero che a capo del viceregno furono
successivamente posti due uomini della corte di Vienna, ben più
legati a Giuseppe che a Carlo : il conte Georg Adam von Martinitz
prima, il conte Philipp Lorenz Wierich von Daun poi. Non solo, ma
la necessità di costringere il papa a schierarsi dalla propria parte
spingeva i due fratelli, a Vienna e a Barcellona, ad attuare una me-
desima politica dai caratteri fortemente giurisdizionalistici che so-
lo più tardi, scomparso Giuseppe e succedutogli sul trono imperiale
Carlo, verranno attenuati sino a scomparire del tutto in cambio del
riconoscimento della Prammatica Sanzione, attorno al 1725.
Il nuovo dominio in Napoli si aprì quindi con una forte carica giu-
risdizionalistica e il primo importante scontro con Roma fu sull'ap-
plicazione e l'osservanza dell'editto di Carlo sulla collazione dei be-
nefìci ecclesiastici. Tra il 1707 e il 1709 si ebbero perciò una serie
di scritti, «a prò' degli editti di Sua Maestà Cattolica intorno alle
354 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
rendite ecclesiastiche» (per dirla col titolo dell'opera del Grimaldi),
tutti usciti dal gruppo dell'Argento. E fu proprio questi ad aprire il
fuoco, con le tre dissertazioni De re beneficiaria, che apparvero una
novità per il programma politico dei giovani dell'Accademia dei Sag-
gi; come testimonia ancora una volta il Giannone, quando nell'auto-
biografia ci dice che il loro maestro «entrò in questi studi affatto
nuovo e niente versato nelle cose ecclesiastiche, essendo stati tutto
altri i suoi precedenti studi ».x Dalla tematica antibaronale del D'An-
drea si passava infatti, ora, alla tematica giurisdizionalistica. Gian-
none, che pensava ancora ad uno sviluppo dell'opera del Duck in una
prospettiva regnicola, capì quali enormi implicazioni avesse in sé
questa svolta e fu pronto ad abbandonare le precedenti impostazioni
per la nuova. Del resto, la sua pratica nei tribunali l'avrebbe portato
quasi di necessità ad una simile decisione. Come scrive uno dei suoi
biografi settecenteschi, Michele Maria Vecchioni,3 fra «le prime pro-
cure, ch'egli ricevette, e dalle quali cominciò a trarre profitto, e so-
stegno della sua povera vita, una fu, e forse la principale, quella del
principe d'Ischitella suo barone». Accanto a questa causa (ed altre
baronali, come quelle in difesa di don Francesco Carafa duca di
Frosolone e marchese di Baranello o l'altra in difesa di Isabella Spi-
nelli contessa di Bovalino), egli sostenne anche la difesa dell'univer-
sità di San Pietro in Lama contro il vescovo di Lecce, conoscendo
così due aspetti peculiari della società regnicola. Egli fu contempora-
neamente l'avvocato del proprio barone, e l'avvocato di comunità
angariate dalla feudalità ecclesiastica. Ma non fu mai, invece, il di-
fensore degli oppressi contro il potere baronale. Pertanto, nella di-
fesa del regalismo, dell'assolutismo, egli preferì le nuove posizioni
giurisdizionalistiche, a quelle antibaronali d'un D'Andrea.
Una tale scelta ebbe, naturalmente, implicazioni anche nel giudi-
zio storico ch'egli s'accingeva a dare. I Longobardi, nel cui diritto
il D'Andrea aveva indicato la fonte degli abusi feudali, si mutarono
nell'Istoria civile nel popolo che più aveva rispettato e salvaguardato
il diritto romano; ma soprattutto gli apparvero come i fondatori del
nuovo stato, anzi della «nazione» napoletana. Il ducato di Benevento
e la sua storia divennero la matrice della storia del Regno.
Accanto a questa ricerca sulla storia medievale del Regno, ne af-
fiancò un'altra, sull'evoluzione dei revenus ecclesiastici, alla quale
consacrò, a chiusura d'ogni libro, una trattazione specifica. Sua guida
furono in particolare due autori: Huig van Groot per l'alto medioevo
i. Cfr. Vita, qui a p. 64. 2. Vita di Pietro Giannone dottore di leggi e cele-
berrimo istorìco del regno di Napoli scritta dal signore N...N... giureconsul-
to napoletano, in Palmira l'anno MDCCLXV, All'insegna della Verità, p. 5.
NOTA INTRODUTTIVA 355
e per la storia longobarda; Louis Ellies Du Pin per la storia eccle-
siastica. A questo nesso per lui inscindibile tra storia profana e storia
ecclesiastica, a questa « umanizzazione » della storia della Chiesa, egli
tenne particolarmente, giudicando, a ragione, di aver compiuta opera
nuova e mai prima d'allora tentata. Quando Nicolas Lenglet Du
Fresnoy ripubblicò, aggiornata nel catalogo dei principali scrittori,
la sua Méthode pour étudier Vhistoire, e tra gli scrittori di storia napo-
letana inserì anche una Istoria del regno di Napoli che era poi la sua
Istoria civile, egli prese in mano la penna non tanto e non solo per
ribattere all'accusa di essere un «auteur . . . scavant et nardi et mème
extremèment téméraire », ma per insistere su quell'aggettivo «civile »,
perché la sua fatica «per la nuova forma, e per la materia, che tratta,
è tutta differente dalle altre istorie di quel Regno, e perciò porta il
titolo d'Istoria civile, e non semplicemente: d'Istoria».1
Se, in questa sua impresa, egli sia o meno riuscito a darci una sto-
ria globale e unitaria, è tutt' altro problema. Non si può certo pre-
tendere che il tentativo d'unire i due filoni storiografici tradizionali
giungesse a risultati sensazionali da questo punto di vista. In verità,
i due temi, della storia profana e della storia ecclesiastica, raramente
si fondono in un discorso unitario ; anzi, proprio la particolare trat-
tazione, in capitoli distinti, della storia del progresso dei beni tem-
porali della Chiesa, è palese dimostrazione di come le difficoltà non
siano state del tutto superate. E tuttavia, quale scossone fu, l'appa-
rizione di quest'opera, nel mondo d'allora!
I contemporanei non tardarono ad accorgersi della forza dirom-
pente del lavoro giannoniano, forza ch'esso serbò a lungo intatta. Se
il materiale dell'opera, per il primo e il secondo tomo, era fornito in
prevalenza dal Du Pin e dal van Groot, in effetti la tematica che vi era
sviluppata non era sorretta soltanto o principalmente dalle posizioni
giusnaturalistiche o gallicane di quegli autori, ma dal più radicale e
rivoluzionario discorso dello spinoziano Tractatus theologico-politi-
cus, che il Giannone aveva conosciuto, probabilmente, per il tramite
d'un altro suo maestro, Domenico Aulisio.2 La riduzione che il Gian-
none operava della religione a fatto umano, l'osservazione distaccata
delle pratiche di culto e dell'evolversi della teologia cattolica, la lai-
i. Il testo della lettera in Giannoniana, pp. 71-2. È da rilevare che nella
edizione veneziana del 1726, «appresso Sebastiano Coleti», nel volume 11,
a p. 273, la citazione è corretta, e la nota mitigata. 2. La tematica spino-
ziana è chiaramente rilevabile in un'opera postuma dell' Aulisio, uscita per
interessamento del Giannone : Delle scuole sacre libri due postumi . . . ove
s'ha V origine, miràbile progresso e sacrilego fine delle scuole sacre fra gli Ebrei,
Napoli 1723. Degli excerpta spinoziani, dal Tractatus e dall' Ètnica, erano
posseduti manoscritti dal Giannone sin dagli anni napoletani: cfr. Gian-
noniana, p. 414.
356 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
cizzazione della Sedia apostolica, l'ideale panteistico d'una religione
ricondotta alle origini del cristianesimo (e più tardi, addirittura, alla
mitica età noetica) erano tutti motivi spinoziani, sviluppati ora in un
preciso contesto storico, nella storia dell'Italia meridionale.
Il discorso giannoniano, naturalmente, era arricchito da vaste let-
ture di autori eterodossi, ch'egli aveva potuto conoscere sfruttando,
soprattutto, la biblioteca di Giuseppe Valletta. Per averne la prova,
basti scorrere rapidamente le note apposte ai brani dell'Istoria che
qui presentiamo. Le sue letture appaiono vaste, ma indirizzate sempre
in ben precise correnti erudite. Come ci informa ancora il Vecchioni,
« il non aver egli quasi niun libro in casa, per non aver giammai atteso
alla compra di essi, tra per l'angustia del suo patrimonio, e per l'op-
portunità ch'avea di rinvenirli nelle biblioteche degli amici, e pub-
bliche, sempre che volea, facea sì, che più spesso di quel che sarebbe
stato suo piacere, veniva astretto ad uscire, ed a conversare con let-
terati amici, o per istudiare nelle loro librerie, o per isciegliere nelle
medesime i libri che bisognavangli, ed impetrare da loro di portarseli
in casa: il che non gli fu mai negato, e negli ultimi anni fin da' cu-
stodi delle biblioteche pubbliche gli venne permesso».1 In effetti,
la sua bibliografia è non solo vasta, ma molto spesso aggiornata,
diremmo in modo talvolta inusitato e non sempre riscontrabile tra
gli storici del suo tempo. Quest'ampiezza di informazioni bibliogra-
fiche ebbe però anche il suo rovescio: Giannone, scrisse Gian Do-
menico Rogadeo, «volle lavorare sempre sulle fatiche altrui, e però
né poco né molto si intrigò ne' punti, la cui strada non era stata da
altri appianata . . . Ond'è che la parte maggiore dei punti trattati in
questa . . . opera si veggono da lui omessi ... La cagione di questa
omissione derivò dall'avere trascurato le fonti, sicché si fermò solo
in quel che dagli altri era stato prima ponderato . . . Non lieve di-
fetto è ancora, in un'opera così illustre, il non aver l'Autore di lei
avuto ricorso alle fonti, che di radissimo . . . Egli riposò sulla fede
altrui, onde avviene che l'opera si scuovre piena d'innumerevoli
falli».2
Il giudizio del Rogadeo può ancor oggi sottoscriversi. Non vi è,
in questa Istoria civile, alcuna messa a frutto di documenti, di mate-
riale archivistico. Eppure varrà la pena avvisare come, per un par-
ticolare settore di quest'opera, egli sia ricorso alle fonti, sia pure
alle fonti già edite: per la storia dei Longobardi questo sforzo fu
fatto. Non a caso per quella storia, e non per altri momenti della vita
1. Cfr. Vita di Pietro Giannone, cit., pp. 8-9. 2. Cfr. Saggio di un* opera
intitolata «77 diritto pubblico e politico del regno di Napoli^ Cosmopoli
(Lucca) 1767, p. 85.
NOTA INTRODUTTIVA 357
del Regno. Perché in essa egli aveva individuato il nodo centrale
dell'evoluzione delle provincie meridionali e capì che per il suo scio-
glimento non potevano soccorrergli i precedenti autori. Che poi ab-
bia peccato d'ambizione e abbia voluto mostrare d'esser ricorso
direttamente alle fonti, facendosi cogliere in castagna dal Troya,
non ha molta importanza.1 Più importante è osservare come la man-
canza di scavo originale l'abbia costretto a farsi condizionare dai
testi editi. La sua visione della storia longobarda si basa infarti essen-
zialmente sugli autori sincroni pubblicati dal van Groot nella sua iiZz-
storia Gotthorum, Vandahrum et Langobardorum, e da Camillo Pelle-
grino ; conosce e utilizza ampiamente le raccolte di leggi longobarde,
ma dipende da una pessima edizione di esse, quella del 1537; per
l'analisi del feudo è strettamente condizionato da Jacques Cujas ; per
il ducato beneventano e in generale per la storia dei Longobardi
nell'Italia meridionale sfrutta soltanto Antonio Caracciolo e ancora
il Pellegrino o il commento al Chronicon casinense dell'abate Angelo
della Noce, e così via.
Va da sé che in un'età «muratoriana» questi rilievi sono assai gravi.
Non per nulla il Giannone, invitato dal Muratori a collaborare ai
suoi Rerum Italicarum Scriptores fini per declinare l'invito, limitando-
si a rispondere con pochi e generici consigli di circostanza.2 Evidente-
mente sapeva che non era questo il suo campo. Eppure resta sempre
da chiedersi se tali rilievi inficino davvero l'impalcatura della sua
Istoria civile, o se invece il suo valore, la sua validità non risiedano
altrove, cioè nel giudizio globale che, in sede storiografica, egli seppe
dare delle origini della storia del Regno, nonché dello sviluppo, nel
suo interno, di un secondo potere, opposto e concorrente con quello
regio : il potere dei vescovi, dei grandi abati, degli Ordini religiosi.
Perché quello che è certo è che la storiografia napoletana, sino ai
suoi giorni, si era dimostrata incapace non diciamo di affrontare il
problema della presenza di questo potere indipendente nel Regno,
ma persino di individuare i tratti caratteristici della «nazione», e
perciò di fissarne le sue stesse origini. Lo aveva tentato, in tempi
ormai lontani, sul finire del Cinquecento, Angelo Di Costanzo,
dichiarando in apertura delle Istorie della sua patria come fosse stato
suo desiderio prender le mosse dall'età longobarda; ma, aggiungeva,
il suo proposito si era presto rivelato irrealizzabile, avendo trovato
«le cose de' Longobardi . . .tanto oppresse dalle tenebre dell'anti-
chità», da perdere ogni speranza di poterne scrivere, «non avendosi
1. Sull'appunto delTroya,ra proposito del codice membranaceo Cavense,
si veda più oltre la nota 3 a p. 429. 2. Cfr. la lettera del Giannone al
fratello, del 20 novembre 1723 (Giannoniana, n.°24).
358 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
di quelle altra notizia, che quanto ne scrive Eremperto ».* Sicché
questa sognata periodizzazione, che pure avrebbe permesso di co-
struire su basi nuove la storia del Regno, s'era immediatamente
perduta, e gli storici a lui posteriori erano tranquillamente ritornati
alle origini mitologiche, da Giovanni Antonio Summonte sino allo
stesso Camillo Pellegrino.
Al Di Costanzo poteva ben obiettarsi che, oltre alla cronica di
Erchemperto, esistevano ancora sepolti negli archivi diplomi e pri-
vilegi e bolle e cronache di quell'età che andavano riportati alla luce,
da Montecassino a Cava de' Tirreni. Purtroppo gli studiosi napoleta-
ni si dimostrarono sempre allergici alla polvere degli archivi. Alla
cultura storica napoletana mancò quella formidabile spinta dell'eru-
dizione cattolica e protestante che agi invece così potentemente nel-
l'avanzamento delle conoscenze storiche altrove, modificando sino
la metodologia. Per tutto il Seicento napoletano non siamo in grado
di citare che due eruditi: Antonio Caracciolo, che nel '26 dava alle
stampe, assieme ad Erchemperto, Lupo Protospata, Falcone di Be-
nevento e l'Anonimo Cassinense; e Camillo Pellegrino, che ripren-
dendo l'edizione del Caracciolo, vi aggiungeva i capitolari di Sicardo
e di Radelchi, le cronache sincrone di Salerno e di Benevento, la
serie degli abati di Montecassino.
Anche per questo ci sembra diffìcile accusare Giannone di non
aver compiuto ricerche d'archivio, d'essersi basato solo ed unica-
mente su fonti edite. Il suo ambiente culturale non poteva spronarlo
né sorreggerlo in questa direzione. La sua fu dunque una storia
«ideologica», se così possiam dire; una proposta di nuova interpre-
tazione storiografica, in base ai materiali già in precedenza scoperti.
Anche se poi essa si paluda e si ammanta di un'erudizione che,
se vista più da vicino, non si fatica a scoprire tutta di seconda mano,
questo resta pur sempre un fatto marginale, rispetto alla forza di-
rompente insita nel giudizio globale delle vicende del Regno che
fornisce.
Sin qui, come si sarà notato, non abbiamo parlato che del pri-
mo tomo dell'opera, che ne comprende invece quattro. Ma lo ab-
biamo fatto perché, in realtà, solo in quello è la parte originale della
fatica giannoniana, e non a caso. Interessava a lui chiarire i nodi, gli
impulsi, le molle di certi sviluppi abnormi nella storia meridionale;
non mirava astrattamente ad una ennesima narrazione di fatti. C'e-
rano già le storie «scritte da gravi ed accurati autori, come furono
Angelo Costanzo e Francesco Capecelatro »3 o la più recente (ma
1. Cfr. Dell'istorie della sua patria, Napoli 1572, Proemio, p. n. n. 2. Cfr.
Vita, qui a p. 56.
NOTA INTRODUTTIVA 359
questa Giannone non la ricorda) Histoire de V origine dn royaume de
Sicile et de Naples, del gesuita Claude Buffier, apparsa nel 1701. Per
tutti e tre questi scrittori varrà ciò che egli stesso ebbe a confessare
esternando la sua ammirazione per il Di Costanzo: «Per questa ca-
gione l'istoria di questo insigne scrittore sarà da noi più di qualun-
que altra seguitata, né ci terremo a vergogna, se alle volte colle sue
medesime parole, come assai gravi e proprie, saranno narrati i loro
avvenimenti».1
Tocchiamo qui il problema dei plagi giannoniani, che diede luogo
ad una non ancora conchiusa querelle, aperta dai neoguelfì contro il
«ghibellino » Giannone, e, in primis, dal Manzoni in una pagina della
sua Colonna infame dove, dopo aver elencato i plagi dell'Istoria civile,
concludeva: « E chi sa quali altri furti non osservati di costui potrebbe
scoprire chi ne facesse ricerca; ma quel tanto che abbiam veduto
d'un tal prendere da altri scrittori, non dico la scelta e l'ordine de'
fatti, non dico i giudizi, l'osservazioni, lo spirito, ma le pagine, i ca-
pitoli, i libri, è sicuramente, in un autor famoso e lodato, quel che
si dice un fenomeno. Sia stata, o sterilità, o pigrizia di mente, fu certa-
mente rara, come fu raro il coraggio ; ma unica la f elicità di restare,
anche con tutto ciò (fin che resta), un grand'uomo ».2 Pietro Gian-
none, dunque, «plagiario e grand'uomo per equivoco», come si do-
mandava Giovanni Gentile ?3 Per la verità, Alessandro Manzoni, con
quel suo attacco, non faceva che mettere in pratica quanto molto
prima di lui aveva raccomandato Matteo Egizio in una lettera a Cele-
stino Galiani, dopo lo scandalo della Professione di fede: «Il giudicio
che dà Vostra Paternità Reverenda dell'apologia ironica del Giannone
egli è assai giusto. Egli trionfa sulla debolezza dell'avversario : ma del
rimanente non può far giammai a meno di non mostrare il suo spi-
rito contumace, superbo, e niente affatto rispettoso alla Santa Se-
de .. . Anche in Napoli ha guasta la mente di molti giovani : i quali
manchevoli di buone conoscenze, e di libri, ammirano in Giannone
la copia delle cose, da essi ignorate. Naturalmente dalla maraviglia
viene la stima, e dalla stima il credito, dal credito l'assenso. Il modo
di correggerli sarebbe di mostrare un per uno gli errori, gli abbagli,
le false citazioni dell'uomo in cose non ecclesiastiche: perché per-
duta la opinione di dotto, caderebbe da sé ogni sua dottrina. Parlo
appresso i giovani, perché gli uomini maturi discernono la verità, in
qualunque aspetto ella sia posta».4
Perché, la domanda sorge spontanea, tanto accanimento, in vita
1. Cfr. Istoria civile, tomo in, Kb. xx, pp. 3-4. 2. Cfr. Storia della colonna
infame, Milano 1840, p. 862. 3. Cfr. Pietro Giannone, plagiario, e gran-
d'uomo per equivoco, in «La Critica», il (1904), pp. 216 sgg. 4. Cfr. Gian-
noniana, p. 127.
360 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
e in morte, contro un autore che non sarebbe stato capace che di
ammassare e affastellare pagine scritte da altri ? Già il Rogadeo, no-
tando la profonda diversità, fin nello stile, tra le varie parti dell'opera,
ne aveva tentato una giustificazione : « Egli aveva ammassato il mate-
riale di quell'opera nello spazio di più anni, e come suole avvenire
l'abbozzo formato in più parti contenea pezzi intieri degli autori,
donde si erano raccolte le notizie, sulla idea di aggiungere, cambiare
ciò che avrebbe stimato opportuno allora che dovea dare all'opera
l'ultimo ritocco, ma di poi non gli fu permesso eseguire un tale di-
segno, perché essendosi divulgata la fama di tale opera, e che l'og-
getto di quella era tutto contro degli ecclesiastici, il Nunzio facea
delle gran premure, perché dalla Reggenza di Napoli, non solo se ne
vietasse la edizione, ma benanche si involassero i fogli, e si dessero
alle fiamme. Consapevole di tali premure il Giannone stimò oppor-
tuno frettolosamente fare la edizione di tutta l'opera, e cacciarla fuori
tutta in un tratto. In tali angustie non potè aver tempo di ammendare
l'opera, come avea meditato, e però lo stile ne' due ultimi tomi è
troppo diverso dai primi, perché a' primi dato avea l'ultima mano
che non fu permesso darla ai secondi».1 Che è, suppergiù, la stessa
giustificazione data dall'autore nella sua autobiografia, anche se in
essa è contraddetta l'asserzione nei riguardi dell'intervento della Nun-
ziatura.2 A riprova della veridicità di questa versione può citarsi una
lettera che Costantino Grimaldi inviò al Muratori il 22 settembre del
1722 : « qui uscirà tra brieve un'opera istorica di Pietro Giannone » ;3 e
può ben supporsi che lui, come tanti altri amici della cerchia del-
l'Argento, si fossero vantati e avessero divulgato la notizia dell'immi-
nente apparizione d'un'opera che giudicavano espressione del loro
gruppo, in Napoli e coi loro corrispondenti.
Tuttavia, come già osservò il Bonacci a commento del passo del
Rogadeo, i libri non ancora stesi, al momento dell'inizio della com-
posizione tipografica dell'Istoria civile, erano solo gli ultimi cinque
sui quaranta complessivi;4 il che significa che non solo il terzo tomo,
1. Cfr. Saggio di un* opera, cit., p. 85. 2. Cfr. Vita, qui a p. 84: «il Nunzio
che risiedeva in Napoli era rimproverato da Roma come fosse stato così
trascurato, che non avesse scoverto e dato notizia alla Corte d'una opera
così voluminosa che si travagliava in Napoli». 3. In L. A. Muratori,
Epistolario, a cura di M. Campori, Modena 1901-1922, lettera n.° 2169, p.
2321. 4. Cfr. Saggio sulla Istoria civile del Giannone, Firenze 1903, p. 25.
Cfr. ancora in Vita, qui a p. 78: «Avvicinandomi ... al termine del quarto
ed ultimo tomo, verso la fine dell'anno 1722 ebbi ricorso al viceré . . . cer-
cando la licenza della stampa»; e prima, a p. 76: «E già de' quaranta libri,
onde V Istoria civile era divisa, non me ne mancavano se non gli ultimi cin-
que; sicché mi risolsi di cominciar la stampa de' primi»; e infine a p. 77:
«Si cominciò la stampa ne' princìpi dell'anno 1721 ».
NOTA INTRODUTTIVA 361
ma anche la metà del quarto doveva considerarsi compiuta agli inizi
del 1722. Certo il Rogadeo non errava, quando notava la diversità
di stile tra i primi due tomi e i seguenti; eppure sta di fatto che i
plagi non iniziano solo col terzo, ma si ritrovano abbondanti sin
dal nono libro, che apre il secondo tomo. Plagi che Fautore non ha
mai nascosto, come s'è visto più sopra per la sua dichiarazione ammi-
rativa nei confronti del Di Costanzo, e dei quali, anzi, si servì ad-
dirittura per fare dell'ironia e cogliere in castagna il padre Sanfelice!1
Sarà bene, a questo punto, ritornare al discorso iniziale, alle accuse
del Tanucci e del Metastasio, che hanno anch'esse un loro fondamen-
to veritiero e che ci riconducono, a loro volta, daccapo al problema
dei plagi. Perché ci sembra che sino a quando l'Istoria civile sarà
considerata alla stregua di un qualunque testo di storia regnicola e si
vorranno discutere le capacità erudite dell'autore, sempre ci si tro-
verà dinanzi allo squilibrio non già tra i primi due e gli ultimi
tomi dell'opera, ma tra il primo e i restanti tre. In tal caso è innega-
bile che il problema dei plagi assumerebbe un valore così ampio da
costringerci nuovamente a ergerci a giudici, o peggio ancora a dover
parteggiare o per la requisitoria del Bonacci (il quale - sia detto
spassionatamente, ora che la infuocata polemica s'è da tempo raf-
freddata — aveva indubbiamente numerose frecce per il suo arco), o
per le appassionate arringhe difensive del Gentile e del Nicolini.
Noi crediamo, invece, che il problema vada posto su tutt'altre basi.
Per far questo, è necessario tentare di ricostruire i criteri e i modi
coi quali il Giannone usava procedere nel proprio lavoro. Non ne
abbiamo documentazione per Y Istoria civile, ma per nostra fortuna
ne abbiamo invece abbastanza per le altre sue fatiche del periodo
viennese, soccorrendoci qui largamente il suo carteggio col fratello.
È necessario, preliminarmente, avvertire come nella produzione
giannoniana VIstoria civile non sia un episodio a sé stante. Sino ad
oggi tutta la critica si è sempre soffermata sui plagi nella sua opera
storica del Regno, senza accorgersi che con la medesima frequenza e
abbondanza i plagi ricompaiono nell'Apologia dell'Istoria civile come
nel Triregno. Questo perché, purtroppo, né Pasquale S. Mancini, né
Augusto Pierantoni, né lo stesso Alfredo Parente ci hanno fornito edi-
zioni degli scritti giannoniani corredate d'un commento degno di tal
1. Cfr. in Professione di fede, «Dubbio primo» (in Opere postume, 1, p.
262): «Ma come facciamo per quel passo, che soggiungete, tratto dal
tom. 4 pag. 370 . . . che niente ristorico civile ripone del suo, ma non fa
altro, che trascrivere le parole stesse di Battista Nani ? ... E pure quelle
non sono mie parole, ma del Nani stesso ». Ora si cfr. VIstoria civile alla
pagina indicata, e si vedrà come manchi in essa ogni rinvio allo storico
veneziano!
362 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
nome. Le scarne note che possono ritrovarsi a pie di pagina nelle loro
edizioni (già così discutibili dal punto di vista del testo!) non sono in
realtà che ... le note dello stesso Giannone, asportate arbitraria-
mente dal testo senza avvertenza, talvolta cammuffate da confronti
con edizioni di testi ottocentesche o dei primi di questo secolo
(com'è il caso, ad esempio, per i rinvìi alla patrologia greca e latina
del Migne), col risultato aberrante di correggere le citazioni dell'au-
tore in base a testi ch'egli non poteva conoscere.1 Ora è indubbio che
un buon commentatore non avrebbe faticato ad indicare, anche per
queste fatiche giannoniane, fonti e ampiezza di plagi, della medesima
entità di quelli appena intravisti dal Bonacci, il quale fermò la sua
attenzione su ventitré libri soltanto, dei quaranta che compongono
V Istoria civile,
Qual era, dunque, il metodo di lavoro del Giannone ? Non si tar-
derà ad accorgersi, scorrendo l'epistolario, come il Giannone non
abbia mai lavorato da solo, ma abbia sempre sfruttato una nutrita
équipe di amici, i quali compivano con lui le ricerche e gli fornivano
materiali. Da quel che sappiamo dall'autobiografìa, occorre aggiun-
gere che anche la traccia, l'impostazione nasceva da una discussione
comune. Per V Istoria civile sappiamo, intanto, che il suo disegno era
stato discusso con l'Aulisio, Nicola Capasso, professore di diritto ca-
nonico nell'Università di Napoli, ed « alcuni pochi strettissimi . . . ami-
ci», tra i quali annovereremo Vincenzo Ippolito e il Grimaldi. Al-
l'Aulisio, inoltre, furono sottoposti per la revisione «i primi soli tre
libri», mentre non fu possibile fare altrettanto con l'Argento, per
i troppi impegni della sua carica.2 Giunto a Vienna con un primo
abbozzo dell'Apologia dell'Istoria civile* egli si rivolse ad Alessandro
Riccardi e a Pio Niccolò Garelli, ma insistè anche perché da Napoli
l'Ippolito e l'Acampora continuassero a fornirgli aiuto.4 Da una let-
tera al fratello dell' 8 aprile del 1724, sembra che anche Apostolo
1. Per questo, per parte nostra, come il lettore potrà da sé verificare, ci
siamo sforzati sin dove ci è stato possibile di proporre i confronti soltanto
con edizioni di testi e con la bibliografia critica che poteva realmente
essere a disposizione dell'autore. Per far questo dobbiamo riconoscere che
un grande aiuto ci è stato l'aver lavorato nella stessa biblioteca frequentata
dal Giannone al tempo della composizione della sua Istoria civile: la
biblioteca del Valletta, oggi inglobata nella biblioteca oratoriana dei Giro-
lamini di Napoli. Non poche volte, durante il nostro lavoro di commen-
tatori, ci è stata riserbata la soddisfazione di rintracciare in quella biblio-
teca volumi postillati dal Giannone, a conferma della giustezza della trac-
cia che seguivamo. 2. Cfr. Vita, qui a pp. 73-4. 3. Per la cronologia delle
singole parti dell'opera si veda quanto abbiamo cercato di ricostruire in
Giannoniana, pp. 3 sgg. 4. Cfr. le lettere al fratello Carlo del 3 luglio
1723» 1 gennaio e 11 marzo 1724, rispettivamente in Giannonianat nn.i io,
30 e 41.
NOTA INTRODUTTIVA 363
Zeno fosse stato interessato alla sua Apologia.1 Comunque, questa
elaborazione collettiva della difesa dell'Istoria civile appare chiara
da un passo d'un'altra lettera al fratello del 3 luglio 1723, dove è
scritto : « Qui tuttavia si sta travagliando su la scrittura che vi scrissi,
e può essere che riesca, tenendo il sig. Riccardi una famosa libraria.
Ci mancano gli esempi domestici, e perciò il sig. Presidente po-
trebbe darcene lume, siccome veda informarsi dal sig. Grimaldi
di quel fatto, che mi scriveste, che accadde per l'occasione del Sinodo
di Cantelmo ».z II plurale non è, in questo passo, un pluralis maiesta-
tis, ma indica proprio un lavoro di équipe.
Più tardi, nel 1729, in occasione della risposta al padre Sanf elice,
di nuovo questa partecipazione collettiva al suo impegno appare
chiara. Il Garelli lo segue da vicino,3 mentre a Napoli sono impegnati
nella lettura e correzione il Capasso e Biagio Garofalo.4 E va aggiun-
to che il Giannone considera questo impegno, questo aiuto, come
dovutigli. È appena arrivato a Vienna, ad esempio, e non dubita che
sia dovere del Riccardi difenderlo in nome dell'imperatore.5 Dovere,
si badi bene.
Avevano dunque ragione il Tanucci e il Metastasio, e prima il
Fontanini e il Sanfelice ? In un certo senso sì, almeno nella misura
in cui riconoscevano l'espressione della voce d'un gruppo allo scritto
giannoniano. U Istoria civile sarà allora «una colossale memoria de-
fensionale », come ebbe a definirla il Gentile e ripetè il De Ruggiero ?6
Nemmeno questa definizione ci soddisfa, non solo perché troppo
limitativa, ma perché in effetti, anziché esaltarlo, svilisce l'impegno
del Giannone e dei suoi amici. I quali, tutti, vollero invece davvero
affrontare un problema nodale nella storia del Regno e costruire,
per la loro battaglia politica, un valido strumento di rottura, e com-
pirono perciò opera altamente storiografica, e non già avvocatesca.
Ma ci sembra, giunti a questo risultato, che il problema dei plagi ne
esca di molto ridimensionato. Ai fini d'un'util izzazione strumentale
dell'Istoria civile esso, ovviamente, resta un doveroso impegno di
commentatore, preminente su ogn'altro. Ma ai fini dell'interpreta-
zione in sede di storia della storiografia riveste importanza solo in
quanto ci ha consentito di stabilire l'originalità e il maggiore impe-
gno del primo tomo sugli altri. Impegno, occorre ancora avvertire,
che ritorna intatto nei restanti tomi per le pagine dei paragrafi sulla
1. In Giamtonìana, n.° 44. 2. C£r. qui, nella scelta delle lettere, la in.
3. Cfr. la lettera al fratello del 1 ottobre 1729, in Giannoniana, n.° 322.
4. Cfr. le lettere del 6 e 13 agosto e io settembre 1729, in Giannoniana,
nn.i 314, 315 e 319. 5. Cfr. la lettera del 26 giugno 1723, al fratello, in
Giannoniana, n.° 9. 6. 27 pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e
XIX, Bari 19462, p. 25 e passim.
364 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
«politia ecclesiastica». Lasciamo dunque da parte gli sdegni mo-
ralisteggianti d'un Bonacci, come il sacro amor patrio d'un Gentile
o d'un Nicolini; e riconosciamo ali3 Istoria civile quel valore e quella
forza di rottura che i contemporanei mai si sognarono di negarle.
In una simile elaborazione collettiva del lavoro, non stupisce se si
siano raccolte intere pagine da diverse fonti, e se il Giannone le
abbia pazientemente e abilmente riunite dando loro forma di un
discorso continuato. In definitiva, l'impegno preso con la stesura di
questa nuova ricostruzione della storia regnicola non mirava a dare
nuovi contributi eruditi, ma una visione unitaria in base ad una
chiave interpretativa originale, che si volle definire «civile». Al cen-
tro di tutta questa attività, durata un ventennio, troviamo sempre il
Giannone, figura egemone del gruppo e suo intelligente portavoce.
Figura egemone anche più tardi, nel periodo viennese, quando si
tratterà di difendere l'impostazione ideologica raggiunta, in un mo-
mento di generale involuzione, come altrove diciamo.
Sergio Bertelli
DALLA
«ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI»
INTRODUZIONE
L istoria, che prendo io a scrivere del regno di Napoli, non sarà per
assordare i leggitori collo strepito delle battaglie e col romor del-
l'armi, che per più secoli lo renderon miserabil teatro di guerra;
e molto meno sarà per dilettar loro colle vaghe descrizioni degli
ameni e deliziosi suoi luoghi, della benignità del suo clima, della
fertilità de' suoi campi, e di tutto ciò che natura, per dimostrar suo
potere e sua maggior pompa, profusamente gli concedette: né sarà
per arrestargli nella contemplazione dell'antichità e magnificenza
degli ampi e superbi edifici delle sue città, e di ciò che l'arti mec-
caniche maravigliosamente vi operarono: altri quest'uficio ha for-
nito, e forse se ne truova dato alla luce vie più assai che non si
converrebbe. Sarà quest'istoria tutta civile, e perciò, se io non sono
errato, tutta nuova, ove della politia1 di sì nobil Reame, delle sue
leggi e costumi partitamente tratterassi : parte, la quale veniva di-
siderata per intero ornamento di questa sì illustre e preclara region
d'Italia. Conterà, nel corso poco men di quindici secoli, i vari stati
ed i cambiamenti del suo governo civile sotto tanti principi che lo
dominarono; e per quanti gradi giugnesse in fine a quello stato in
cui oggi '1 veggiamo: come variossi per la politia ecclesiastica in
esso introdotta, e per gli suoi regolamenti: qual uso ed autorità3
ebbonvi le leggi romane, durante l'Imperio, e come poi dichinas-
sero: le loro obblivioni, i ristoramenti, e la varia fortuna delle
tant' altre leggi introdotte dapoi da varie nazioni: l'accademie, i
tribunali, i magistrati, i giureconsulti, le signorie, gli uffici, gli or-
dini; in brieve, tutto ciò che alla forma del suo governo, così politi-
co e temporale, come ecclesiastico e spiritual s'appartiene.
Se questo Reame fosse surto, come un'isola in mezzo all'Oceano,
spiccato e diviso da tutto il resto del mondo, non s'avrebbe avuta
Il testo è tratto dalla edizione napoletana del 1723. 1 brani inseriti tra aste-
rischi sono del Giannone, secondo il testo datone dalTabate Leonardo
Panzini nell'edizione Gravier, Napoli 1770, in 8P.
1. politia: ordinamento politico. 2. qual uso ed autorità: richiamo al titolo
dell'opera del Duck, più oltre citata.
366 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
gran pena a sostenere, per compor di sua civile istoria molti libri ;
imperciocché sarebbe bastato aver ragione de* principi che lo do-
minarono, e delle sue proprie leggi ed instituti co' quali fu gover-
nato. Ma poiché fu egli quasi sempre soggetto e parte, o d'un
grand* Imperio, come fu il romano, e dapoi il greco, o d'un gran
regno, come fu quello d'Italia sotto i Goti e sotto i Longobardi,
o finalmente ad altri principi sottoposto, che tenendo collocata al-
trove la regia lor sede, quindi per mezzo de' loro ministri '1 regge-
vano; non dovrà imputarsi, se non a dura necessità, che per ben
intendere la sua speziai politia si dia un saggio della forma e di-
sposizione dell'Imperio romano, e come si reggessero le sue Pro-
vincie, fra le quali le più degne, ch'ebbe in Italia, furon certamente
queste che compongono oggi il nostro Regno. Non ben potrebbe
comprendersi loro cambiamento, se insieme non si manifestassero
le cagioni più generali, onde variandosi il tutto, venisse anche que-
sta parte a mutarsi; e poiché queste regioni, per le loro nobili pre-
rogative invitarono molti principi d'Europa a conquistarle, furon
perciò lungamente combattute, ciascheduno pretendendo avervi
diritto, e chi come tributarie, chi in protezione, e qual finalmente
come feudatarie le pretese: si è riputato perciò pregio dell'opera1
che i fonti di tutte queste pretensioni si scovrissero ; né potevano
altramente mostrarsi, se non col dare una general'idea e contezza
dello stato d'Italia in vari tempi, e sovente degli altri principati
più remoti, e de' trasportamenti de' reami di gente in gente, onde
sursero le tante pretensioni che diedon moto all'imprese e fomento.
Né cotali investigamenti sono stati solamente necessari per dare
un'esatta e distinta cognizione dello stato politico e temporale di
questo Regno, come per avventura sarà da alcuni riputato; ma
eziandio per quello che s'aspetta ad ecclesiastici affari ; imperocché
non minori furon le contese fra' principi del secolo, che fra' mag-
giori prelati della Chiesa. Fu anche questo Regno combattuto da'
due più celebri patriarchi del mondo, da quel di Roma in Occiden-
te, e dall'altro di Costantinopoli in Oriente. Per tutte le ragioni
apparteneva il governo delle nostre Chiese al pontefice romano, non
pur come capo della Chiesa universale, ma anche come patriarca
d'Occidente, eziandio se l'autorità sua patriarcale avesse voluto
restringersi alle sole città suburbicarie? ma il costantinopolitano
1. pregio dell'operai che valesse la pena (latinismo). 2. città suburbicarie:
Albano, Frascati, Ostia, Palestrina, Porto e Santa Rufina, Sabina e Poggio
INTRODUZIONE 367
con temerario ardire attentò usurpare le costui regioni: pretese
molte chiese di questo Reame al suo patriarcato d'Oriente appar-
tenersi : che di lui fosse il diritto di erger le città in metropoli, e
d'assegnar loro que' vescovi suffraganei che gli fossero piaciuti.
Era perciò di mestiere far vedere come questi due patriarcati di-
latassero pian piano i loro confini: il che non potea ben farsi senza
una general contezza della politia dello stato ecclesiastico, e della
disposizione delle sue diocesi e provincie.
L'istoria civile, secondo il presente sistema del mondo cattolico,
non può certamente andar disgiunta dall'istoria ecclesiastica. Lo
stato ecclesiastico, gareggiando il politico e temporale de' principi,
si è per mezzo de' suoi regolamenti così forte stabilito nell'Imperio,
e cotanto in quello radicato e congiunto, che ora non possono per-
fettamente ravvisarsi li cambiamenti dell'uno, senza la cognizione
dell'altro. Quindi era necessario vedere come e quando si fosse
l'ecclesiastico introdotto nell'Imperio, e che di nuovo arrecasse in
questo Reame: il che di vero fu una delle più grandi occasioni del
cambiamento del suo stato politico e temporale; e quindi non senza
stupore scorgerassi come, contro a tutte le leggi del governo, abbia
potuto un imperio nell'altro stabilirsi, e come sovente il sacerdozio,
abusando la divozion de' popoli e '1 suo potere spirituale, intra-
prendesse sopra1 il governo temporale di questo Reame: che fu
rampollo delle tante controversie giurisdizionali, delle quali sarà
sempre piena la repubblica cristiana, e questo nostro Regno più
che ogni altro; onde preser motivo alcuni valentuomini di trava-
gliarsi per riducere queste due potenze ad una perfetta armonia e
corrispondenza, e comunicarsi vicendevolmente la loro virtù ed
energia; essendosi per lunga sperienza conosciuto che se l'imperio
soccorre con le sue forze al sacerdozio, per mantenere l'onor di
Dio ; ed il sacerdozio scambievolmente stringe ed unisce Paffezion
del popolo all'ubbidienza del principe, tutto lo Stato sarà florido
e felice; ma per contrario, se queste due potenze sono discordanti
fra loro, come se il sacerdozio, oltrepassando i confini del suo po-
tere spirituale, intraprendesse sopra l'imperio e governo politico,
ovvero se l'imperio rivolgendo contra Dio quella forza, che gli ha
Mirteto, Velletri, sono le diocesi suburbicarie (cioè sottoposte all'Urbe),
ma il termine valeva più latamente a indicare ogni diocesi posta sotto Ve-
piscopus urbìcus, il vescovo di Roma. 1. intraprendesse sopra: scaval-
casse.
368 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
messa tra le mani, volesse attentare sopra il sacerdozio, tutto va in
confusione ed in mina; di che potranno esser gran documento i
molti disordini che si sentiranno perciò in quest'istesso nostro Rea-
me accaduti.
Nel trattar dell'uso e dell'autorità ch'ebbero in queste nostre
Provincie così le leggi romane, come i regolamenti ecclesiastici, e
le leggi dell'altre nazioni, non si è risparmiato né fatica, né trava-
glio : e forse il veder l'opera in questa parte abbondare, farà scoprir
la mia professione, palesandomi al mondo più giureconsulto che
politico. Veracemente meritava questa parte che fosse fra noi ben
illustrata; poiché non in tutti luoghi, né in tutti tempi fu cotal
uso ed autorità delle romane leggi sempre uniforme: onde avendo
i nostri giureconsulti trascurata questa considerabilissima parte,
siccome altresì quella dell'origine ed uso dell'altre leggi, che dapoi
nello stesso nostro Regno da straniere nazioni s'introdussero; è
stata potissima1 cagione ch'abbian costoro riempiuti i lor volumi
di gravi e sconci errori, da' quali con chiaro documento siamo
ancora ammaestrati quanto a ciaschedun sia meglio affaticarsi per
andar rintracciando in sua contrada le varie fortune ed i vari casi
delle leggi romane e delle proprie, che con dubbio e poco accerta-
mento andar vagando per le provincie altrui. Imperocché, quan-
tunque si possa per un solo tesser esatta istoria dell'origine e pro-
gressi delle lettere nell'altre professioni, e della varia lor fortuna
per tutte le parti d'Europa, siccome veggiamo esser ad alcuni talora
riuscito; nientedimeno quanto è alla giurisprudenza, la quale spesso
varia aspetto al variar de' principi e delle nazioni, egli non è carico
che possa già per un solo sostenersi, ma dee in più esser ripartito,
ciascun de' quali abbia a raggirarsi nell'uso, nell'autorità e nelle
varie mutazioni, che troverà nella propria regione essere accadute.
Così scorgiamo essersi della giurisprudenza romana per alcuni ec-
cellenti scrittori compilata qualche istoria; però quasi tutti si son
affaticati a renderla chiara ed illustre, in narrando la sua origine ed
i progressi ne' tempi che l'Imperio romano nacque, crebbe e si
stese alla sua maggior grandezza; ma i vari casi di quella, quando
l'Imperio cominciò poi a cader dal suo splendore, la sua dichina-
zione, obblivione e ristoramento, l'uso e l'autorità che le fu data
ne' nuovi domìni, dopo l'inondazione di tante nazioni in Europa
1. potissima: principalissima, fondamentale (latinismo).
INTRODUZIONE 369
stabilite; quando per le nuove leggi rimanesse presso che spenta,
e quando ristabilita quelle oscurasse: non potranno certamente in
tutte le parti d'Europa da un solo esattamente descriversi. Per-
ciò ben si consigliarono alcuni nobili spiriti, dopo aver dato un
saggio delle cose generali, nel proprio regno o provincia a figgersi
i confini, oltre a' quali di rado 0 non mai trapassarono.
Un uom di Bretagna, e dal mondo diviso, reputando gli altri in
troppo brevi chiostri aver ristretto l'ardire dell'ingegno umano,
mostrò d'aver coraggio per tant' impresa. Fu questi il celebre Ar-
turo Duck,a il quale oltre a' confini della sua Inghilterra volle in
altri, e più vicini e più lontani paesi, andar rintracciando l'uso
e l'autorità delle romane leggi ne' nuovi domini de' principi cristia-
ni ; e di quelle di ciascheduna nazione volle ancora aver conto : le
ricercò nella vicina Scozia e nell'Ibernia; trapassò nella Francia e
nella Spagna; in Germania, in Italia e nel nostro Regno ancora:
si stese inoltre in Polonia, Boemia, in Ungheria, Danimarca, nella
Svezia, ed in più remote parti. Ma l'istessa insigne sua opera ha
chiaramente mostrato al mondo non esser questa impresa da un
solo; poiché sebbene la gran sua diligenza, e la peregrinazione in
vari paesi d'Europa, come nella Francia, nella Germania e nell'Ita-
lia, avessero potuto in gran parte rimuovere le molte difficoltà al
proseguimento della sua impresa, nondimeno il successo poi ha
dimostrato essersi ciò ben potuto da lui esattamente adempiere
nella sua Inghilterra, nella Scozia, nell'Ibernia, ed in alcune re-
gioni da sé meno lontane; ma nell'altre parti, e spezialmente nel
nostro Reame, si vede veramente essersi da pellegrino1 diportato ;
conciossiecosaché, seguendo le volgari scorte, cadde in molti er-
rori, non altro avendoci soniministrato che una molto leggier con-
tezza dell'uso e dell'autorità delle leggi, così romane, come proprie,
qui introdotte da' vari principi che lo ressero. Ned egli, per la sua
ingenuità, nella conchiusion del libro potè dissimularlo, prometten-
dosi appo stranieri trovar perdono, se trattando delle loro leggi e
costumi, così parco stato fosse; e confessò altro non essere stato
suo intendimento che d'invogliare i giureconsulti d'altri paesi, ac-
a) Arthur. Duck, De usu et auth. tur. civ. Rom. in dominiis principum
christianorum.3,
1. pellegrino: straniero. 2. Vedi la nota 4 a p. 53.
24
370 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
ciocché prendendo esempio da lui, quel che egli aveva adempiuto
nella sua Inghilterra, volessero essi fare con più diligenti trattati
ne' propri loro regni o provincie. Per questa cagione, poco prima
d'Arturo, alcuni scrittori, senz'andar molto vagando, alle proprie
regioni si restrinsero. Innocenzio Cironioa cancellier di Tolosa
volle raggirarsi per la sola Francia, ancorché assai leggiermente la
scorresse. Ma Alteserrab ciò con maggior esattezza e più minuta-
mente volle ricercare in quella provincia ove ei nacque, cioè nel-
l'Aquitania. E Giovanni Costa,1 eccellente cattedratico in Tolosa,
promise di far lo stesso con maggior diligenza in tutto il regno di
Francia: ma questa sua grand'opera, che con impazienza era aspet-
tata dal Cironio,c da Arturod e da tutti gli altri eruditi, non sap-
piamo ancora a' dì nostri se mai uscita sia alla luce del mondo.
Giovanni Dovjate fece da poi lo stesso, non oltrapassando i confini
della Francia; e talora è accaduto che volendo alcuni esser troppo
curiosi nelle altrui regioni, abbiano nelle proprie trascurate le mi-
gliori ricerche, ed in mille errori esser per ciò inciampati.
Alla Germania non manca il suo istorico intorno a questo sug-
getto. Ermanno Coringiof compilò un trattato dell'origine e va-
ria fortuna delle leggi romane e germaniche, del quale fassi ono-
rata memoria presso a Giorgio Pasquio;g ed a' dì nostri Burcardo
a) Ciron., Observat. tur. con. lib. 5.2 b) Alteserra, Rerum aquitanic.
lib. 3.3 e) Ciron., lib. 5 Obser. tur. can,, cap. 6 et 7. d) Arthur.,
Kb. 2, cap. 5, num. 43. e) Dovjat., Hist. iur. civ.* f) Erm. Co-
ringio, De orig. iuris germanici? g) Georg. Pasquio, De novis inventa
1. Giovarmi Costa: si tratta di Jean Lacoste (latino Ianus a Costa, 1560-
1637), allievo del Cujas e professore a Tolosa, autore di un commentario
alle istituzioni di diritto civile. 2. Innocent Ciron (cfr. la nota 3 a pp. 41-
2), Observationum in ius canonicum libri quinque, in I. Cironii Opera in ius
canonicumt Tolosae 1645. 3. Antoine Dadin de Hauteserre (1602-1682),
giurista e storico, Rerum aquitanicarum libri quinque, in quibus vetus Aquitania
illustratur, Tolosae 1648. 4. Del giurista tolosano Jean Doujat (cfr. la
nota 4 a pp. 31-2) è qui citata VHistoria iuris civilis Romanorum, qua eius
tum origo et progressus, autoritas et utilitast tum iustinianaei partes atque
ordo partium demonstrantur ubi et gallici iuris origo perstringitur, Lutetiae
Parisiorum 1678. 5. Hermann Conring (1606-1681), giurista ed econo-
mista tedesco, De origine iuris germanici liber unus, Helmstadìi 1665.
6. Si tratta di Georg Pasch (1661-1707), celebre teologo di Danzica, autore
di . . . Schediasma de curiosis huius saeculi inventis, quorum accuratiori cultui
facem praetulit antiquitas, Kiloni 1695. È probabile però che il Giannone
si riferisca all'edizione aumentata di Lipsia, col titolo Tractatus de novis
inventis quorum accuratiori cultui facem praetulit antiquitas, Lipsiae 1700.
INTRODUZIONE 371
Struvioa ne ha compilato un altro più diffuso, rapportando altri
autori che per l'Alemagna fecero lo stesso.
Non manca all'Ollanda il suo, e Giovanni Voezio1 compilò un
libro intitolato : De usu ìuris cwilis et canonici in Belgio unito.
Per la Spagna abbiamo che Michele Molino* ne distese un con-
simile per lo regno d'Aragona. Giovanni Lodovico Cortes3 scrisse
ristoria Iuris hispanici; e Gerardo Ernesto di Frankenau4 sopra
questo argomento si distese più d'ogni altro.b Hanno pure intorno
a ciò i loro istorici la Svezia, la Danimarca, la Norvegia, e l'altre
Provincie settentrionali. Né ve ne mancano ancora in alcune parti
della nostra Italia, come in Milano per l'industria di Francesco
Grasso,0 ed in altri paesi ancora della medesima.
Nel nostro Regno solamente, ciò che gli altri, tratti dall'amor
della gloria della loro nazione fecero, è stato sempre trascurato.
Né per certo dovrebb' essere maggior l'espettazione e '1 disiderio
che vi si provedesse, della maraviglia come in un Regno così am-
pio e fecondo di tanti valorosi ingegni, che con le loro opere han
dato saggio al mondo, null'altro studio esser loro più a cuore che
quello delle leggi, abbian poi tralasciato argomento sì nobile ed
illustre. Imperciocché una storia esatta dell'uso ed autorità che
nel nostro Regno ebbero le leggi romane, e de' vari accidenti del-
l'altre leggi, che di tempo in tempo furon per diverse nazioni in
a) Struv., Hist. iur. germ., cap. 6.s b) V. Struvio in Prolegom.
ad Histor. iur., § 28. e) Frane. Grass. in Libello de orig. tur. mediol.6
1. Giovanni Voezio: in realtà il Giannone confonde. Non si tratta di Jean
Voet (1647-1714), ma del di lui padre Paul (1619-1677), giurista olandese,
autore del De usu iuris civilis et canonici in Belgio Unito, deque more promo-
vendi doctores utriusque iuris liber singularis, Ultraiecti 1657. 2. Micer
Miguel del Molino, giurista aragonese della seconda metà del XV secolo,
autore del Repertorium fororum et observantiarum regni Aragoniae, edito
per la prima volta nel 15 17 (Caesaraugustana civitate). 3. Giovanni Lodo-
vico Cortes: probabilmente Juan Lucas Cortes, scrittore spagnolo nato a
Siviglia nel XVII secolo e avvocato del Consiglio reale. 4. Gerhard
Ernst Franck von Franckenau, autore della Biblìotheca hispanica historico-
genealogico-heraldica, Lipsiae 1724, e soprattutto di Sacra Themidis Hispa-
niae arcana, iurium, legumque ortus,progressus, varietates et observantiam . . .,
Hannoverae 1703, a cui fa riferimento lo Struve. 5. Burkhard Gotthelf
Struve (1671-1738), erudito e bibliografo tedesco, Historia iuris romani iusti-
nianaeiygraeci, germanici, canonici feudalis, criminalis etpublici ex genuinis mo-
numentis illustrata . . . Prolegomena ..., Ienae 171 8. 6. Si tratta di Francesco
Grasso, giurista milanese del XV secolo, che oltre il De origine iuris medio-
lanensis compilò una raccolta delle costituzioni di Milano più volte edite.
372 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
esso introdotte, onde ne vennero le prime oscurate, e come poi
risorte avessero racquistato il loro antico splendore ed autorità, e
siansi nello stato in cui oggi veggiamo restituite ; dovrebbe in vero
essere una delle cose appresso noi più desiderabili, non per leggieri
e vane, ma per gravi ed importantissime cagioni. Non perché per
troppa curiosità, e forse inutile, si dovesse esser ansioso di spiar le
varie vicende di quelle ; non perché ne ricevano esse maggior pom-
pa e lustro, né per ostentazione di peregrina e non volgar erudi-
zione; ma per più alte cagioni: queste sono, perché da un'esatta
notizia di tutto ciò che abbiam proposto, oltre alP accrescimento
della prudenza per Puso delle leggi e per un diritto discernimento,
ciascuno potrà ritrarne l'idea d'un ottimo governo; poiché notan-
dosi nell'istoria le perturbazioni ed i moti delle cose civili, i vizi e le
virtù, e le varie vicende di esse, saprà molto ben discernere quale
sia il vero, ed al migliore appigliarsi.
Ma sopra ogni altro, da ciò dipende in gran parte il rischiara-
mento delle nostre leggi patrie e de' nostri propri instituti e costu-
mi; le quali cose non per altra cagione veggonsi da' nostri scrittori
sì rozzamente trattate, e sovente, senza comprendersene il senti-
mento, sì stranamente a noi esposte, se non perché ignari della
storia de' tempi, de' loro autori, dell'occasioni onde furono stabi-
lite: ignari dell'uso e dell'autorità delle leggi romane e delle lon-
gobarde, sdrucciolaron perciò in quei tant' errori, de' quali veg-
gonsi pieni i lor volumi, e di mille puerilità e cose inutili e vane
caricati; e tanta ignoranza avea loro bendati gli occhi che si pre-
giavano d'essere solamente leggisti, e non istorici ; non accorgendosi
che perché non erano istorici, eran perciò cattivi leggisti, e rende-
vansi dispregevoli appo gli estranei ed a molti ancora de' loro
compatrioti. Carlo Molineoa di quanti sconci errori riprese, per
ignoranza d'istoria, non pur Baldo,1 ma eziandio il nostro Andrea
d'Isernia?2 E di quanto scherno furono perciò i nostri agli altri
a) Molin., in Comment, ad Consuet. paris., par. i, tit. I, num. 91
et num. g6.3
1. Baldo degli Ubaldi (13 19 o 1327-1400), discepolo di Bartolo di Sasso-
ferrato, fu tra i più celebri giuristi del suo tempo, autore di vasti commen-
tari al Corpus iuris e alle Decretali. 2. Andrea d'Isernia: vedi più oltre la
nota 1 a p. 456. 3. Sul Molineo vedi la nota 2 a p. 125. Qui sono citati
i Commentarvi in consuetudines parisienses . . ., Parisiis 1576.
INTRODUZIONE 373
scrittori ? Di quanto riso fu a costoro cagione Niccolò Boerio,1 che
scrisse i Longobardi essere stati certi re venutici dalla Sardegna,
il nostro Matteo degli Afflitti,2 e tanti altri.
Si aggiugne eziandio Futilità grande che dalla cognizione di
tal'istoria si ritrae per Fuso del foro e de* nostri tribunali, e per le
controversie medesime forensi. Nel che non possiamo noi in que-
sti tempi allegar miglior testimonio che il Cardinal di Luca, stato
celebre avvocato in Roma, ed uomo nel foro compiutissimo, il quale
in quasi tutti i suoi infiniti discorsi, onde furon compilati tanti
volumi, con ben lunga esperienza ha dimostrato in mille luoghia
non altronde esser derivati i tanti abbagli de' nostri scrittori se
non dall'ignoranza dell'istoria legale, tanto che non predica altro,
così a' giudici, come agli avvocati, che l'esatta notizia di quella,
senza la quale sono inevitabili gli errori e le scipitezze. Ma fra'
nostri, niun altro rendè più manifesta questa verità, quanto quel
lume maggiore della gloria de' nostri tribunali, l'incomparabile
Francesco d'Andrea, il quale in quella dotta disputazione feudale,0
che diede alla luce del mondo, ben a lungo dimostrò che non al-
tronde che da questa istoria potevan togliersi le difficoltà, dove
aveano inviluppata tal materia i nostri scrittori; onde si videro
perciò in milF errori miseramente caduti. Ciò che dovea essere a
tutti d'ammonimento, quanto la cognizione dell'istoria legale sia
necessaria a tutte l'altre controversie del foro. Né lasciò questo
gran letterato, per quanto comportava il suo instituto, di darci di
quella non debil lume. E veramente nostra disavventura fu che
ciò che gli altri scrittori fecero per gli loro paesi, non avesse egli
a) Card, de Luca, De servii, disc, i De iudiciis, disc. 35 Deregularib.,
disc. 161 in Miscellaneo , et alibi saepe.3 b) Frane, de Andreys,
Disp. an fratres in fenda nostri regn. succed. etc.4
1. Niccolò Boerio : si tratta di Nicolas Bohier (latino Boerius, 1469- 153 9),
professore a Bourges. 2. Matteo degli Afflitti: vedi più oltre la nota 2 a
p. 408. Giudice di Vicaria, raccolse per primo le decisioni del Sacro Regio
Consiglio. 3. Giovanni Battista De Luca (1614-1683), giurista venosino
creato cardinale nel 1681 da Innocenzo XI. Il Giannone si riferisce al
Theatrum veritatis et iustitiae sive decisivi discursus per materias seu titulos
distincti, Romae 1669- 1673, in ventuno tomi. Da quest'opera, che riassu-
meva la sua attività legale, fu tratta una versione italiana, Il dottor volgare,
ovvero il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale
ecc., in quindici libri (Roma 1673). 4. Su Francesco D'Andrea e l'opera
qui citata vedi rispettivamente le note 3 a p. 43 e 5 a p. 44.
374 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
tentato di far per lo nostro Reame, che certamente non avremmo
occasione di dolerci oggi di tal mancanza. Poiché qual cosa non ci
avremmo potuto promettere dalla forza del suo divino ingegno,
dalla gran perizia delle leggi, dell'istoria e dell'erudizione; da quel-
la maravigliosa eloquenza, e dall'infaticabile applicazione ed esatta
sua diligenza? Né minori prerogative, a mio credere, si ricercano
per riducere una tal'impresa al suo compiuto fine, le quali, se di-
sgiunte pur con maraviglia osserviamo in molti, tutte congiunte in
lui solo s'ammiravano.
Grave dunque, e per avventura superiore alle mie poche forze,
sarà il peso ond'io ho voluto caricarmi ; e tanto più grave, ch'aven-
do riputato che non ben sarebbe trattata l'istoria legale, senza ac-
coppiarvi insieme l'istoria civile, ho voluto congiungere in uno
la politia di questo Reame con le sue leggi, l'istoria delle quali
non avrebbe potuto esattamente intendersi, se insieme, onde sur-
sero e qual disposizione e forma avessero queste provincie, che
con quelle eran governate, non si mostrasse. E quindi è avvenuto
che attribuendosi il lor cambiamento a' regolamenti dello stato
ecclesiastico, che poi leggi canoniche furono appellate, siasi veduta
avvolgersi questa mia fatica in più alte imprese, ed in più viluppi
essermi intrigato, da non poter così speditamente sciormene : per-
ciò fui più volte tentato d'abbandonarla, imperocché, pensando
tra me medesimo alla malagevolezza dell'impresa, a' romori del
foro, che me ne distoglievano, e molto più conoscendo la debolezza
delle mie forze, ebbi credenza che non solamente ogni mio sforzo
vano sarebbe per riuscire, ma che ancora di soverchia audacia po-
trebbe essere incolpato; onde talora fu, che atterrito da tante diffi-
coltà, rimossi dall'animo mio ogni pensiero di proseguirla, riser-
bando a tempo migliore ed a maggior ozio queste cure.
S'aggiungeva ancora che fin dalla mia giovanezza aveva io in-
teso che il P. Partenio Giannettasio1 nelle solitudini di Surrento,
sciolto da tutte le cure mondane, con grandi aiuti e grandi appa-
rati, erasi accinto a scrivere l'istoria napoletana; e se ben mio 'nten-
dimento fosse dal suo tutto differente; nientedimeno dovendoci
amendue, avvegnaché con fine diverso, raggirare intorno ad un
medesimo soggetto, e ch'egli spiando più dentro, mi potesse to-
glier la novità di molte cose ch'io aveva notate, ed altre forse me-
i. Partenio Giannettasio : vedi più oltre la nota 2 a p. 440.
INTRODUZIONE 375
glio esaminarle che non poteva io, a cui e tanti aiuti e tant'ozio
mancava: fui più volte in pensiero d'abbandonar l'impresa.
Ma per conforto, che me ne davano alcuni elevati spiriti,1 non
tralasciai in tanto di proseguire il lavoro, con intendimento che per
me solo avesse avuto a servire, e per coloro che se ne mostravan
vaghi; fra' quali non mancò chi, oltre d'approvare il fatto, e di
spingermi al proseguimento, con acuti stimoli, di soverchia viltà
accagionandomi, più audace perciò mi rendesse. Considerava an-
cora che queste fatiche, quali elle si fossero, non doveano esporsi
agli occhi di tutti : esse non dovevan trapassare i confini di questo
Reame; poiché a' curiosi solamente delle nostre cose erano indi-
rizzate; e che se mai dovessero apportar qualche utilità, a noi me-
desimi fossero per recarla, e spezialmente a coloro che ne' magistrati
e nell'awocazione sono impiegati, l'umanità de' quali essendo a
me per lunga sperienza manifesta, m'assicurava, non dover essere
questo mio sforzo riputato per audace, e che appo loro qualunque
difetto avrebbe trovato più volentieri scusa e compatimento, che
biasimo o disprezzo.
Ma mentre io così spinto per tanti stimoli proseguiva l'impresa,
ecco, ch'appena giunto al decimo libro di quest'opera, si vide uscire
alla luce del mondo nell'anno 17 13 la cotanto aspettata istoria na-
poletana, dettata in idioma latino da quel celebre letterato. Fu
immantenente da me letta, e contro ad ogni mia espettazione, non
si può esprimere quanto mi rendesse più animoso al prosegui-
mento ; poiché conobbi altro quasi non essere stato l'intendimento
di quel valentuomo che in grazia di coloro, che non hanno della
nostra italiana favella perfetta contezza, trasportare in buon latino
l'istoria del Summonte.2
Essendomi pertanto liberato da questo timore, posso ora impro-
metter con franchezza a coloro che vorranno sostenere il travaglio
di legger quest'istoria, d'offerirne loro una tutta nuova, e da altri
non ancor tentata.
Mi sono studiato in oltre, tutte quelle cose, che da me si narrano,
di fortificarle coll'autorità d'uomini degnissimi di fede, e che fu-
1. Ma per conforto . . . spiriti: fra gli altri Domenico Aulisio, Gaetano Ar-
gento, Vincenzo D'Ippolito, Nicolò Capasso, Nicola Cirillo, Francesco
Mela. 2. Giovanni Antonio Summonte (1550 circa - 1602), cronista na-
poletano, autore della Historia della città e regno di Napoli, edita a Napoli
in quattro tomi nel 1601, poi accresciuta d'un altro tomo nell'edizione
del 1676.
376 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
rono o contemporanei a' successi che si scrivono, o i più diligenti
investigatori delle nostre memorie. Il mio stile sarà tutto schietto
e semplicissimo, avendo voluto che le mie forze, come poche e
deboli, s'impiegassero tutte nelle cose più che nelle parole, con
indirizzarle alla sola traccia della verità; ed ho voluto ancora che
la sua chiarezza dipendesse assai più da un diritto congiungimento
de* successi colle loro cagioni, che dalla locuzione o dalla com-
messura delle parole. Non ho voluto nemmeno arrogarmi tanto
d'autorità, che si dovesse credere alla sola mia narrazione ; ho per-
ciò proccurato additar gli autori nel margine, il più contemporanei
agli avvenimenti che si narrano; 0 almeno de' più esatti e diligenti;
e tutto ciò che non s'appoggiava a' documenti legittimi, o come
favoloso l'ho ricusato, o come incerto l'ho tralasciato.
Io non son cotanto ignaro delle leggi dell'istoria che non m'av-
vegga alcune volte non averle molto attentamente osservate; e che
forse l'aver voluto con troppa diligenza andar ricercando molte
minuzie, abbia talor potuto scemarle la dignità; e che sovente, ti-
rando le cose da' più remoti princìpi, siami soverchio dilungato
daU'instituto dell'opera. Ma so ancora che non ogni materia può
adattarsi alle medesime forme, e che il mio suggetto raggirandosi
intorno alla politia e stato civile di questo Reame, ed intorno alle
sue leggi, siccome la materia era tutt'altra, così ancora doveasi a
quella adattare altra forma; e pretendendo io che qualche utilità
debba ricavarsene, anche per le cose nostre del foro, non mi s'im-
puterà a vizio, se discendendo a cose più minute venga forse in
alcuna parte a scemarsene la gravità, perché finalmente non do-
vranno senza qualche lor frutto leggerla i nostri professori, a' quali
per la sua maggior parte, e massimamente in ciò che s'attiene
all'istoria legale, è indirizzata; anzi alcune cose avrebbero perav-
ventura richiesto più pesato e sottile esaminamento, ma non po-
tendomi molto giovar del tempo, sarebbe stato lo stesso che non
venirne mai a capo. E l'essermi io talora dilungato ne' princìpi
delle cose, fu perché non altronde poteano con maggior chiarezza
congiugnersi gli avvenimenti alle cagioni; il che, oltre alla no-
tizia, mena seco anche la chiarezza, come si scorgerà nel corso di
quest'istoria.
Ma sopra quali più stabili fondamenti potea io appoggiar l'istoria
civile del nostro Reame, se non cominciando da' Romani, de' quali
fu propria, per così dire, l'arte del governo e delle leggi: quando
INTRODUZIONE 377
queste istesse nostre provincie ebbero la sorte d'esser per lungo
tempo da essi signoreggiate ? Per questo fine nel primo libro, anzi
che si faccia passaggio a' tempi di Costantino Magno, che sarà il
principio della nostra istoria, si darà, come per apparato^ un saggio
della forma e disposizione dell'Imperio romano e delle sue leggi:
de' favori de' principi, onde furon quelle sublimate: della prudenza
delle loro constituzioni : della sapienza de' giureconsulti; e delle
due celebri accademie del mondo, una di Roma in Occidente, l'altra
di Berito in Oriente;1 poiché conoscendosi in brieve lo stato florido,
in cui eran queste nostre provincie, così in riguardo di ciò che s'at-
tiene alla loro politia, come per le leggi, ne' tempi ch'a Costantino
precederono, con maggior chiarezza potranno indi ravvisarsi il di-
chinamento, e le tante rivolte e mutazioni del loro stato civile, che
seguiron dapoi che a questo principe piacque di trasferire la sede
dell'Imperio in Costantinopoli, e d'uno, ch'egli era, far due Imperi.
i. due célèbri . . . Oriente: l'Ateneo di Adriano e l'Accademia di Bery-
tus (l'odierna Beirut).
Libro III
I vari moti civili, le grandi mutazioni di Stato e le vicende della
giurisprudenza romana, che avvennero dopo la morte di Valenti-
niano III in fin al regno di Giustino II imperadore,1 saranno il
soggetto di questo libro. Si narreranno gli avvenimenti di un secolo
nel quale nuovi domini, straniere genti e nuove leggi vide l'Italia,
e videro queste nostre provincie che ora compongono il regno di
Napoli. Infino a questo tempo non altri magistrati si conobbero,
non altre leggi, se non quelle de' Romani: da ora innanzi si ve-
dranno mescolate con quelle di straniere nazioni, le quali, ancorché
barbare, meritan però ogni commendazione, non solo per le molte
ed insigni virtù loro, ma anche perché furon delle leggi romane così
ossequiose e riverenti, che non pur non osaron oltraggiarle, ma
con somma moderazione, contro alle leggi della vittoria, che det-
tavano di far passare i vinti sotto le leggi de' vincitori, le ritennero.
Non aspettino per tanto i lettori che dovendo io in questo e ne'
seguenti libri favellar de' Goti, de' Longobardi e de' Normanni,
ch'hanno una medesima origine, debbia, come han fatto moltissi-
mi, aspramente trattargli da inumani, da fieri e da crudeli, ed avere
le loro leggi per empie, ingiuste ed asinili, come vengon per lo più da'
nostri scrittori riputate.2 Splenderà ancora nelle gesta de' loro prin-
cipi, non meno la fortezza e la magnanimità, che la pietà, la giusti-
zia e la temperanza; e le loro leggi e i loro costumi, se bene non
potranno paragonarsi con quelli degli antichi Romani, non do-
vranno però posporsi a quelli degli ultimi tempi dello scadimento
dell'Imperio, ne' quali la condizione d'esser romano divenne più
vile ed abietta che quella di coloro che barbari e stranieri furono
riputati.
Dovendo adunque prima d'ogn'altro favellar de' Goti, non è del
mio instituto che venga da più alti princìpi a narrar la loro origine
e, da qual parte del Settentrione usciti, venissero ad inondare que-
ste nostre contrade. Non mancano scrittori che ci descrissero la
loro origine, i progressi e le conquiste sopra varie regioni d'Europa;
i. dopo la morte . . . imperadore: cioè dal 455 al 578. 2. debbia . . . riputate:
è il medesimo richiamo del Muratori, Antichità estensi, 1, Modena 1717,
cap. x, pp. 70 sgg.
libro in 379
ed ultimamente l'incomparabile Ugone Grozioa ne trattò con tanta
esattezza e dignità che oscurò tutti gli altri: quel che però dee
sommamente importare sarà il distinguere con chiarezza i Goti
orientali dagli occidentali; poiché dalTavergli alcuni de' nostri
autori confusi e non ben distinti, han parimente confuse le loro
leggi e costumi, ed appropriato agli uni ciò che s'apparteneva
agli altri, come si vedrà chiaro più innanzi nel corso di questo
libro.
L'origine del lor nome non è molto oscura: essi, che per l'ospita-
lità e cortesia verso i forastieri furono assai rinomati e celebri, an-
che prima che abbracciassero il cristianesimo, s'acquistarono presso
a' Germani il nome di buoni: «Boni» dice Groziob «Germanis
sunt Goten, aut Guten»; onde avvenne che poi presso a tutte
l'altre nazioni d'Europa Goti s'appellassero. Furono divisi secondo
i siti delle regioni che abitarono in Goti orientali, o siano Ostrogoti,
e Goti occidentali, ovvero Westrogoti, che i Latini corrottamente
chiamarono Visigoti. Quegli ch'abitarono le regioni più all'Oriente
rivolte verso il Ponto Eussino, insino al fiume Tiras, e che poi con
permissione degl'imperadori orientali ebbero la Pannonia, la Tracia
ed ultimamente l'Illirico per loro sede, furon appellati Ostrogoti;
ed eran governati da' principi della non meno antica che illustre
casa degli Amali, donde trasse la sua origine Teodorico ostrogoto,
che resse queste nostre provincie. Gli altri, che verso Occidente
furono rivolti, e che a' tempi d'Onorio ressero l'Aquitania e la
Narbona, e dapoi molte provincie della Spagna, Westrogoti furon
nomati: questi erano comandati da' principi della casa de' Baiti:
gente illustre altresì, ma non quanto la stirpe degli Amali, la quale
in nobiltà teneva il vanto :x Tolosa fu la loro sede, capitale della pro-
vincia, detta poi per la loro residenza questa contrada Guascogna,
che tanto vuol dire in loro lingua quanto Gozia occidentale;0 ben-
a) Grot., in Prolegom. in Hist. Got.2, b) Grot., in Proleg., pag. 13.3
e) Paulus AemiL, De reb. Frane, lib. i.4
1. Furono divisi, . .vanto: cfr. ancora Grozio, Prolegomena, pp. 41 sgg.
2. Del Grozio (cfr. la nota 2ap. 55), è citata la Historia Gotihorum, Van-
dalorum et Langobardorum, ab H. Grotto partim versa, partim in ordinem
digesta: praemissa sunt eiusdem Prolegomena . . . Accedunt Nomina appella-
tiva ecc., Amstelodami 1655. 3. Cfr. op. cit., p. 14 (e non 13). 4. Paolo
Emilio (morto nel 1529), umanista veronese, De rebus gestis Francorum . . .
libri decerti, Parisiis 1539.
380 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
che altri dicano che da' Vasconi, popoli dTspagna che varcati i
Pirenei occuparono questa provincia, fosse detta Guascogna.
cap. 1
de' goti occidentali e delle loro leggi
I principi westrogoti della stirpe de* Baiti, essendo stata loro
sotto Timperio d'Onorio da questo principe stabilmente assegnata
PAquitania e molte altre città della Narbona, in Tolosa fermaron
la loro sede, onde poi re di Tolosa si dissero. Essi a tutto potere
proccuravano stendere il lor dominio nell'altre provincie della Gal-
lia e delle Spagne, le quali eran da Vandali malmenate ed oppresse.
Più volte a Vallia, che, come si disse nel precedente libro, a Rige-
rico successor d'Ataulfo succede, fortunatamente avvenne che nelle
Spagne trionfasse d'essi e lor desse molte gravi e memorabili rotte.
Morì Vallia, dopo aver riportate contro a' Vandali tante vittorie, in
Tolosa l'anno di Cristo 428 ed a lui succede nel regno Teodorico.a
Gli scrittori variano nel nome di questo principe: Gregorio di
Toursb lo chiama Teudo; Isidoro, Teudorido; Idacio, Teodoro;
ma noi seguendo Giornandes0 scrittore il più antico e '1 più accu-
rato delle cose de' Goti lo chiameremo con Alteserrad Teodorico.
Resse questo principe l'Aquitania anni ventitré, prode ed eccellente
capitano, che contro ad Attila ne' campi di Chaalons diede l'ultime
prove del suo valore: fu egli in questa battaglia gravemente ferito,
e sbalzato di cavallo restò tutto infranto ed indi a poco morì.1
Lasciò di lui sei figliuoli maschi, Torrismondo, Teodorico il gio-
vane, Frederico, Evarico, Rotemero ed Almerico, ed una figliuola,
che collocolla in matrimonio con Unnerico figliuolo di Gizerico re
de' Vandali.
Torrismondo adunque succede nel reame, il quale ancorché si
a) Paul. Aemil. , loc. cit. b) Greg. ,1.2 Hist. Frane. , cap . 7 ,2 e) Ior-
nand,, De reb. Getic, cap. 24J5 d) Altes., Rer. aquit., lib. 5, cap. 12.4
1. e sbalzato . . . morì: cfr. Giordane, in Grozio, op. cit., p. 669. 2. Grego-
rii Turonici Hùtoriae Francorum libri decerti, nella collezione curata da
Marguerin de La Bignè Maxima bibliotheca veterum Patrum ecc., Lugduni
1677, xi, p. 717. 3. Giordane (cfr. la nota 1 a p. 24), De Getarum, sive
Gottkorum origine et rebus gestis, cap, xxxrv (e non 24), in Grozio, op. cit.,
PP- 659-60. 4. Cfr. la nota 3 a p. 370. Op. cit., 1, pp. 351 sgg.
LIBRO III • CAP. I 381
fosse trovato insieme col padre contro ad Attila, e fosse stato in
quella battaglia ferito, intesa ch'ebbe la morte del medesimo, tornò
subito in Tolosa, ove con universale acclamazione fu nel trono
regio assunto. a II regno di questo principe ebbe brevissima durata,
e se dee prestarsi fede ad Isidoro, non imperò più che un sol anno ;
poiché per opera di Teodorico e Frederico suoi fratelli, che mal
soffrivan il suo governo, fu crudelmente ucciso.b
Teodorico il giovane suo fratello gli succede nel regno : principe,
secondo Sidonio Apollinare,0 dotato di nobili ed eccellenti virtù;
ed ancorché il genio degli Westrogoti mal s'adattasse alle leggi ro-
mane, contra il costume degli Ostrogoti, che l'ebbero sempre in
somma stima e venerazione, fu non però Teodorico II amantissimo
delle medesime e n'ebbe grandissima stima.
Gli Westrogoti, per le continue guerre ch'ebbero co' Romani,
furon non poco avversi alle leggi romane; tanto che parlando de'
loro tempi, ebbe a dire Claudiano :d « Moerent captivae pellito iu-
dice leges».1 Ataulfo loro re, che come si disse ad Alarico I succede,
per la ferocia del suo animo già meditava d'esterminarle in tutto ;
ma raddolcito per le continue persuasioni e conforti di Placidia sua
moglie, cotanto da lui amata, se n'astenne, e mutò consiglio; ed
ancorché i suoi Goti mal ciò soffrissero, pur egli appresso Orosioe
confessò che non poteva senza quelle la repubblica perfettamente
conservarsi, né gli dava il cuore di toglierle affatto: «Neque Go-
thos» e' dice «ullo modo parere legibus posse, propter effraenatam
barbariem, neque reip. interdici leges oportere, sine quibus resp.
non est respublica».* Onde narrasi f che questo principe nell'anno
412 avesse per pubblico editto comandato a' suoi sudditi che le
a) Iornand., De reb. Getic, cap. 41. 3 Paul. Aemil., loc. cit. b) Al-
tes., 1. cit., e. 13. 4 e) Sidon., lib. 1, Ep. 2.5 d) Claud., lib. 2 ad
Rufino e) Oros., lib. 7, cap. 29.* f) Artur. Duck, De usu et auth.
tur. civ., lib. 2, cap. 6, num. 14.8
1. «Moerent . . . leges»: a Piangono in servitù, corrotto il giudice, le leggi».
2. «Neque Gothos . . . respviblica^'. «Né in alcun modo i Goti possono ub-
bidire alle leggi, per la loro sfrenata barbarie, né lo stato può dare il bando
alle leggi, senza le quali uno stato non è più uno stato». 3. In Grozio,
op. cit., p. 672. 4. Isidoro di Siviglia (santo, 560 circa - 636), in Grozio,
op. cit., p. 718. Diversamente in Giordane, cap. xliii, ivi, p. 675. Cfr. in-
fine Hauteserre, Rer. aquit., cit., I, pp. 357-9. 5. Cfr. la nota 1 a p. 24.
6. Cfr. la nota 1 a p. 24. 7. Vedi la nota 1 a p. 24. 8. Del De usu et autho-
ritate iuris civilis Romanorum ecc. si veda l'edizione di Napoli 17 1 9, p. 214,
382 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
leggi de' Romani insieme co' costumi de' Goti osservassero. Gol-
dastoa tra le Costituzioni imperiali ne rapporta l'editto, ma si vede
esser conceputo coll'istesse parole poc'anzi riferite d'Orosio, e mol-
te cose in esso aggiunte, che in quell'autore non sono.
Ma a Teodorico il giovane, del quale si favella, fu in tanto pregio
lo studio delle romane leggi, che Sidonio Apollinare,1* introducen-
dolo in un suo carme a parlar con Avito, così gli fa dire:
. . . mihi romula dudum
per te iura placenta
Ed altrove0 chiamò questo Teodorico «... romanae columen, sa-
lusque gentis ».3 Ed appresso Claudiano, parlandosi di questo prin-
cipe, come osservò Groziod pur si legge: «Vindicet arctous viola-
tas advena leges».3 Né gli Westrogoti, ne' tempi di questo re o de'
suoi predecessori, ebbero proprie leggi scritte, né si presero mai cura
di formarle.
Ma morto Teodorico nel decimo terzo anno del suo regno, es-
sendogli stato renduto da Evarico ciò ch'egli fece a Torrismondo,
succedette nel reame Evarico suo fratello. Questi fu il primo che
diede a' Goti le leggi scritte, come ce n'accerta Isidoro :e « Sub hoc
rege Gothi legum instituta scriptis habere coeperunt, nam antea
tantum moribus et consuetudine tenebantur»:4 per la qual cosa da
Sidoniof in una epistola, che dirizzò all'imperadore Lione, fu cele-
brato Evarico per principe saggio e conditor di leggi : « Modo per
a) Goldast., Const. imp., tom. 3.* b) Sidon., carm. 7. e) Carm.
de Narbon.6 d) Grot, in Proleg. Hist. GotP e) Isid., in Chronic^
era 504.8 f) Sidon., lib. 8, Epist. 3.*
che è quella dedicata a Domenico Caravita, famoso avvocato napoletano,
dal tipografo editore. Si veda inoltre la nota 4 a p. 53. 1. mihi . . . piacenti
a a me da tempo, per merito tuo, piacciono le leggi romane». 2. «roma-
nae . . . gentis »: «sostegno e fortuna della romana gente ». 3. « Vindicet . . .
leges -a: «delle violate leggi sarà vindice uno straniero del settentrione».
4. «Sub hoc rege . . . tenebantur»: «Sotto questo re i Goti cominciarono ad
avere per iscritto i principi delle leggi; prima infatti erano posseduti solo
per costume e consuetudine». 5. Melchior Goldast (1578- 163 5), giurista
e storico tedesco, Collectio constitutionum imperiahum . . ., Francofordiae
ad Moenum 16 13. Ma la citazione è nel De usu del Duck, loc. cit. 6. Nel-
l'opera del Grozio, p. 80: C. Sollius Apollinaris Sidonius Carmine de Nar-
bone. 7. Nei Prolegomena, a p. 35. 8. Nella cit. Historia del Grozio,
pp. 719-20. 9. Cfr. Hauteserre, op. cit., 1, p. 363.
LIBRO III • CAP. I 383
promotae limitem sortis, ut populos sub armis, sic fraenat arma
sub legibus».1
Nel regno di questo principe cominciaron le leggi de' Romani ad
oscurarsi, non già in Italia, ma neU'Aquitania e nella Narbona, ed
in alcun'altre provincie della Spagna; poiché queste nuove leggi,
che teodoriciane furon dette, proposte per opera de* Goti a' pro-
vinciali, si fece in modo che le teodosiane non cotanto s'apprez-
zassero; ed al deterioramento di quelle non poco vi cooperò ancora
la malvagità de* propri romani ufiziali, e particolarmente di Sero-
nato prefetto allora delle Gallie, il quale favorendo le parti de'
Goti, e tradendo il suo proprio principe, era a' Romani awersis-
simo ; tanto che da Sidonioa era chiamato il Catilina di quel secolo.
Costui pernizioso a' Romani stessi, non solamente per le gravi per-
dite cagionate dalla sua ribalderia all'Imperio d'Occidente nella
Gallia, ma molto più per lo disprezzo e vilipendio che faceva delle
leggi teodosiane, con innalzare all'incontro quelle de' Goti. An-
cor oggi appresso Sidoniob si leggono le querele de' provinciali
contra costui: «Exultans Gothis, insultans Romanis, illudens prae-
fectis, colludensq. numerariis, leges theodosianas calcans, theodo-
ricianasque proponens, veteres culpas, nova tributa perquirit».s
Onde si vide in questi tempi la condizione de' Romani, per la rapa-
cità di quest'uomo pestilente, che d'eccessivi ed esorbitanti tributi
gli caricava, ridotta in tale stato, che come fu detto nel primo libro
i provinciali eleggevan più tosto la servitù de' Goti che la libertà
de' Romani; onde Salvianoc d'essi parlando disse: «Passim, vel ad
Gothos, vel ad Bagaudas, vel ad alios ubique dominantes barbaros
migrant, et commigrasse non poenitet; malunt enim sub specie
captivitatis vivere liberi, quam sub specie libertatis esse captivi.
Itaque nomen civium Romanorum aliquando non solum magno
a) Sidon., lib. 3, cap. i.3 b) Sidon., lib. 2, Ep. i.4 e) Salvian.,
lib. 5 De guber. Dei.5
1. « Modo . . . legibus»: «Ora, nel territorio dell'ingrandito dominio, come i
popoli sotto le armi cosi doma queste sotto le leggi». 2. ^Exultans . . .per-
quirìt » : « Innalzando i Goti, abbassando i Romani, ingannando i prefetti,
facendosela con i contabili, conculcando le leggi teodosiane e imponendo
le teodoriciane, persegue vecchie colpe, cerca nuovi tributi». 3. Cfr.
Hauteserre, op. cit., 1, p. 364; ma il luogo di Sidonio è, anche in Hau-
teserre, lib. li, ep. 1. 4. La citazione che segue è tratta da Hauteserre,
op. cit., 1, pp. 363-4. 5. Cfr. la nota 2 a p. 411 {De gub. Dei, ed. cit.,
p. 360; e cfr. Hauteserre, op. cit., 1, pp. 364-5).
384 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
aestimatum, sed magno emptum, nunc ultro repudiatur ac fugitur,
nec vile tantum, sed etiam abominabile pene habetur a.1 Paolo Oro-
sioa attesta ancora che i provinciali eleggevan più tosto tra' barbari
vivere che tra' Romani : « Qui malint inter barbaros pauperem liber-
tatem, quam inter Romanos tributariam sollicitudinem substi-
nere».3 Quindi Isidorob potè conchiudere: «Unde, et hucusque Ro-
mani, qui in regno Gothorum consistunt, adeo amplectuntur ut
melius sit illis cum Gothis pauperes vivere, quam inter Romanos
potentes esse, et grave iugum tributi portare ».3 Ma cotanta ribalde-
ria di Seronato non rimase lungo tempo impunita, poiché strasci-
nato in Roma fugli tronco il capo, in cotal guisa soddisfacendo la
pena di tante sue scelleratezze.
Furon le leggi da Evarico stabilite chiamate teodoriciane, non
perché riconoscessero per loro autori i due Teodorici di sopra me-
morati, come diedesi a credere il Baronio,c che ne fece autore Teo-
dorico il giovane predecessore d'Evarico, poiché a tempo de* me-
desimi niuna legge scritta ebbe questa nazione. Molto meno furon
così appellate perché forse l'autore di quelle fosse stato Teodorico
ostrogoto re d'Italia, come altri si persuasero: perocché questo
principe, come diremo più innanzi, ebbe sentimenti assai diversi
intorno alla cura delle leggi romane, e regnò molto tempo dapoi in
Italia, morto già Sidonio Apollinare,4 il quale non poteva nomar
a) Oros., Kb. 7, e. 28.5 b) Isid., in Chron., era 447.^ e) Baron.,
Ann., tom. 5, a. 468, num. n.7
1. «Passim . , . habetur»; «Emigrano qua e là in direzione dei Goti o dei
Bagaudi o di altri barbari ovunque dominanti, né si pentono di aver emi-
grato : preferiscono infatti vivere liberi sotto apparenza di servitù, che schia-
vi sotto sembianza di libertà. Pertanto il nome di cittadino romano, un
tempo non solo molto stimato, ma anche acquistato a caro prezzo, è ora
addirittura ripudiato e fuggito, e viene considerato non solo senza valore,
ma quasi abominevole». 2. «Qui malint . . . substinere»: «Preferendo una
disagiata libertà tra i barbari all'esosità fiscale tra i Romani ». 3 . « Unde . . .
portare »: «Onde finora i Romani che risiedono nel regno dei Goti a tal
punto considerano che sia meglio per loro vivere poveri assieme ai Goti,
che essere potenti tra i Romani e dover sopportare il grave giogo fiscale ».
4. Apollinare-, vescovo gallo-romano, nato a Lione nel 431/432, si spense at-
torno al 487. 5. Anche la seguente citazione è tratta da Hauteserre, op.
cit., I, p. 365. 6. Cfr. Isidoro, De Gothis Wandalis et Svevis Historia sive
Chronicon, in Codicis legum Wisigothorum libri XII, edidit P. Pithoeus, Pa-
risiis 1579, p. 2; cfr. anche Hauteserre, loc. cit. 7. Cesare Baronio, An-
nales ecclesiastici, tomo vi (e non 5), Romae 1595, p. 279. Ma l'accenno è
in Ciron, op. cit., pp. 70-1.
LIBRO III • CAP. I 385
queste leggi teodoriciane perché questo Teodorico ne fosse autore.
Teodorico ostrogoto, come durassi, regnò in Italia ne' tempi d'A-
nastasio imperador d'Oriente nell'anno 493 e 500, quando Sidonio
Apollinare era già morto, com'è manifesto appresso Gregorio di
Tours;a laonde meritamente fu da Cironiob incolpato d'errore
Cujacio,1 che autore di queste leggi ne fece Teodorico re d'Italia.
Sirmondo e Dadino Alteserrac saviamente dissero che fossero
queste leggi chiamate teodoriciane per paranomasia, per opporle
alle teodosiane, acciocché sicome i Romani valevansi delle teodo-
siane, così i Goti avessero leggi proprie, che con diverso senso,
ma con conforme suono si dicessero teodoriciane: ma sicome os-
servò Cironio,d sarebbe questa una paranomasia troppo insulsa, se
Evarico non fosse stato ancora chiamato Teodorico; onde il dot-
tissimo Savarone6 sopra quel luogo di Sidonio Apollinare assai
chiaro dimostra che il vero nome di questo principe fosse stato
quello di Teodorico : Groziof poi nel suo Nomenclatore ci fa vedere
che questo re si fosse chiamato anche Evarico per questo stesso
che fu il primo fra' re goti a compor leggi: «Evarix» e' dice ce alias
Evaricus. Ewa ricch, legibus pollens. In glossis, lex ewa».2,
1. Del codice d'Alarico.
Poterono sotto il regno d'Evarico, ma molto più per la ribalderia
di Seronato sofferire questi oltraggi le leggi romane, ma tolto dal
mondo sì reo uomo, ed essendo dapoi nell'anno 484 morto Evarico,
sursero quelle di bel nuovo e tornarono nell'antico lor vigore;
poiché d'Alarico figliuol d'Evarico, che nel reame gli succede, fu-
a) Greg. Tur., Hist. Frane, lib. 2, cap. 23. 3 b) Ciron., Obs. tur.
can., lib. 5, cap. i.4 e) Altes., Rer. aquit., lib. 5, cap. i$.5 d) Ciron.,
lib. 5, e. 1. e) Savaro in lib. 2 Sid., Epist. I.6 f) Grot., in Nomen-
clat. in Hist. Got.7
1. Cujacio: cfr. la nota 2 a p. 26. 2. «Evarix o altrimenti Evaricus: ewa
ricch, valente nelle leggi. Legge ewa nelle glosse». 3. In Maxima biblio-
theca veterum Patrum cit., xi, p. 722 (cap. 24 e non 23). 4. Cfr. Ciron, op.
cit., p. 71. 5. Il rinvio a Jacques Sirmond (1559-1651) è nel Ciron, loc.
cit.; per Hauteserre cfr. op. cit., 1, p. 364. 6. C. S. Apollestaris Sedo-
nii . . . Opera. Io. Savaro [Jean Savaron, 1 566-1622, storico e magistrato]
recognovit et librum commentarium adiecit . . ., Parisiis 1599, p. 96. 7. In
Grozio, op. cit., p. 589. Il Nomenclatore è V Index propriorum nominum got-
thicorum, vandalicorum, langobardicorum, quae in hoc volumine reperiuntur.
35
386 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
rono i sentimenti assai diversi; imperocché le querele de' provin-
ciali, che mal sofferivan l'abbassamento delle medesime, trovaron
quel luogo presso ad Alarico che appo al padre non ebbon giammai.
Erano note a questo principe le doglianze degli Aquitani e degli
altri suoi sudditi, i quali mal volentieri si sarebbon accomodati
alle leggi teodoriciane, e che a gran torto lor involavansi le leggi
romane, colle quali eran nati e cresciuti. Era altresì a lui noto con
quanta stima venivan ricevute da Teodorico ostrogoto, che già ne'
suoi tempi regnava in Italia, la cui figliuola Teodelusa egli aveva
per moglie,1 e perciò da Teodorico veniva suo figliuolo chiamato,
come si vede appresso Cassiodoro in quella affettuosa epistola che
gli scrisse :a fu per tanto risoluto nel ventesimo secondo anno del
suo regno di compiacergli; onde avendo trascelti uomini pruden-
tissimi, ed i più insigni giureconsulti che fiorissero nella sua età, a'
quali prepose Goiarico,b non altramente che di Triboniano fece
Timperador Giustiniano nella compilazione delle Pandette e del
suo codice, impose a' medesimi che dalle costituzioni del Codice
Teodosiano, e dalle sentenze di vari giureconsulti sparse in diversi
libri, ne formassero un nuovo codice. E perché non si diminuisse
la maestà del suo imperio, quasi che di leggi straniere d'altri principi
avesse bisogno per governare i popoli a sé soggetti, volle che questo
nuovo codice in suo nome si pubblicasse, e che le leggi in quello
contenute da lui ricevessero la forza ed il nerbo, perché potessero
costringersi i suoi sudditi ad ubbidirle.
I più vulgati e celebri libri, ne* quali in questi tempi contenevasi
la ragion civile de* Romani, se riguardansi le costituzioni de' prin-
cipi, eran i codici Gregoriano, Ermogeniano e quel di Teodosio
con le di lui Novelle, e l'altre di Valentiniano a quello aggiunte,
e fra i volumi de' giureconsulti fiorivan in questa età, sopra tutti,
le Sentenze di Paolo e lTnstituzioni di Caio; perciò per opera di
que' valenti uomini0 fu dalle costituzioni di que' codici, dal corpo
di quelle Novelle e dalle sentenze di questi giureconsulti compi-
a) Cassiod., lib. 3 Var., e. i.2 b) Got., in Prolegom. C. Th.9 cap. 5,
num. 6.3 e) Got., in Proleg. C. Th.y cap. 5.4
i.per moglie: cfr. Grozio, op. cit., pp. 698 sgg. 2. Cfr. M. A. Cassio-
dori . . . Variarum libri XII. . ., Edictum Theoderici . . . Ennodii . . ., Pa-
rìsiis 1579» P- 54- Cfr. anche Hauteserre, op. cit., 1, p. 386. 3. Sono citati
i Prolegomena al Codex theodosianus del Godefroy (cfr. la nota 2 a p. 24),
tomo 1, p. cxcni. 4. Cfr. ivi, p. exen.
LIBRO III • CAP. I 387
lato questo nuovo ristretto codice, laonde perciò anche Breviario
del Codice Teodosiano fu dagli scrittori di que* tempi e della se-
guente età nominato, il quale secondo il computo del Gotofredoa
fu condotto a fine Tanno 506. La cui compilazione dee a Goiarico
e suoi colleghi attribuirsi,1* non già ad Aniano cancellier d'Alarico,
come stimarono Giovanni Tillio e Cujacio,1 ingannati forse da ciò
che scrisse Sigeberto.c Aniano nella fabbrica del medesimo non
v'ebbe alcuna parte, ma solamente da lui d'ordine d'Alarico fu
pubblicato e sottoscritto in Ayre città della Guascogna nel Concilio
d'ambedue gli ordini,d cioè degli ecclesiastici e de' nobili, poiché
di questi tempi in Francia il terzo ordine non era d'alcun momento,
né d'autorità veruna.® La qual pubblicazione e sottoscrizione d'A-
niano rendesi manifesta dal Co-monitorio d'Alarico diretto al conte
Timoteo, che va innanzi al Codice Teodosiano, nel quale si leg-
gono queste parole :f «Anianus vir spectabilis, ex praecepto D. N.
gloriosissimi Alarici regis, hunc codicem de theodosianis legibus
atque sententiis iuris, vel diversis libris electum, Aduris anno
xxii eo regnante edidit, atque subscripsit».2
Alcuni per questo stesso rispetto han creduto che nel medesimo
a) Gotof., in Prolegom. C. Th., cap. 5-3 b) Alteser., Rer. aquit.,
lib. 3, cap. 7.4 e) Sigeber., De Eccl. script e. 70: «Anianus vir
spectabilis, iubente Alarico r., volumen unum de legibus Theodosii
imp. edidit».5 d) Got., in Prolegom., cap. 5. e) Loyseau, Des Or-
dres.7 f) Altes., loco cit., Cironio, lib. 5 Obs. ìur. can.} cap. 2, Go-
tof r., in Proleg., cap. 5.8
1. Il rinvio a Jean Du Tillet sieur de La Bussière (morto nel 1570), Recueil
des roys de France, leurs couronne et maison . . ., Paris 1580, e al Cujas è
tratto da Hauteserre, loc. cit. 2. «Ardano, ragguardevole persona, per or-
dine del gloriosissimo nostro signore Alarico re, nel ventesimo anno del
suo regno, pubblicò e sottoscrisse ad Aire questo Codice, scelto dalle leggi
teodosiane e dalle sentenze giuridiche o da altri libri». 3. Cfr. Godefroy,
op. cit., p. cxcin. 4. Hauteserre, op. cit., 1, p. 191. 5. La citazione di Si-
geberto di Gembloux (1030 circa - 11 12), presente anche in Hauteserre, è
presa dal Godefroy, loc. cit. 6. Cfr. Codex theodosianus, loc. cit., dove il
nome della città è «Aduris . . ., idest Arurribus in Novempopulania», cioè,
appunto, Aire. Ma si veda anche Hauteserre, op. cit., i, pp. 386-7. 7. Char-
les Loyseau (1566-1627), Les CEuvres, contenans le cinq livres du droict des
offices, avec autres livres, tant des Seigneuries, des Ordres, du déguerpissement
et délaissement par hypothèque, que de la garantie des rentes et des àbus des
justìces, Paris 1640. 8. Hauteserre, op. cit., 1, p. 191; Ciron, op. cit.,
pp. 72-3 ; Codex theodosianus cit., loc. cit.
388 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
tempo Aniano avesse composte ancora le note nelle Sentenze di
Paolo e nell'Instituzioni di Caio, come scrissero Decianoa ed Arturob
con manifesto errore; poiché in questo Breviario, oltre alle leggi
trascelte dal Codice Teodosiano, vi furon anche riposte le sentenze
di questi giureconsulti da' mentovati compilatori, non già da Ania-
no. E quelle interpetrazioni che s'osservano nel Codice di Teodosio,
non ad Aniano, ma a coloro debbon attribuirsi, come diligentemen-
te osservò Gotofredo ne' Prolegomeni di quel codice.0 È da notarsi
ancora, ch'essendo state unite queste note ed interpetrazioni a quel
codice, ne nacque presso agli scrittori de' seguenti secoli un errore,
che volendo allegar le leggi di quel codice, allegavan sovente, come
costituzioni del medesimo, una di queste interpetrazioni o note di
Paolo giureconsulto, sicome fu avvertito da Savaroned sopra Sido-
nio Apollinare. Così veggiamo che Ivone di Chartres,6 che fiorì
nell'anno 1092, sovente allega per leggi di questo codice ciò ch'era
dell'interpetrazione di Paolo giureconsulto; Graziano f poi nel suo
Decreto prende moltissimi di somiglianti abbagli, sicome fu da
Gotofredog e da altri osservato.
III. Del nuovo codice delle leggi degli WestrogotL
Presso a tutti questi principi1 le leggi romane non furon in molta
stima avute, e molto meno presso a Leovigildo, il quale portando
gli stessi sentimenti d'Evarico volle alle sue leggi gotiche aggiun-
gerne dell'altre, e ciò che nelle medesime egli credette fuor d'ordine
a) Decian., in Apolog. adver. Alciat., lib. 2, cap. y.z b) Arthur.
Duck, lib. 2, cap. 6, num. 14.3 e) Got., in Proleg., cap. 5.4 d) Sa-
varo, sup. Sidon., lib. 2, ep. i.5 e) Ivo Carnut., Ep. 112: «quod ex
legib. Theod. laudat, id habet ex interpretat. ad Paul. 5 sent. 11 ».6
f) Gratian., 2, qu. 6, e. «id ex interpretat. in 5 Paul. sent. tit. de cau.
et poenis appellat, § 1 ».7 g) Got., in Proleg., e. 6.8
1. I principi vestrogoti in Ispagna, dei quali ha trattato nel paragrafo pre-
cedente, qui non riprodotto. 2. Tiberio Deciano (1509-1582), Apologia
prò iuris prudentibus, qui responsa sua edunt imprimenda adver sus dieta per
Alcìatum, TOxpépyow lib. XII, cap. ultimo, Venetiis 1602. 3. Ed. cit.„
pp. 214-5. 4. Codex theodosianus cit., p. cxciil. 5. Cfr. Sidonio, Opera
cit., loc. cit. Questo e i rinvìi che seguono a Ivo di Chartres e al decreto gra-
zianeo sono tutti tratti dal Godefroy più sotto citato. 6. Ivo di Chartres,
Epistolae, in Opera omnia, Parisiis 1647. 7. Il Decretum (o meglio Concor-
dantia discordantium canonum) di Graziano (vedi la nota 2 a p. 27). 8. Co-
dex theodosianus cit., p. exerv.
LIBRO III • CAP. I 389
o superfluo, volle correggere e togliere e con miglior metodo ordi-
nare: «In legibus quoque (narra Isidoro)a ea quae ab Evarico in-
condite constituta videbantur, correxit, plurimas leges praeter-
missas adiiciens, plurasque superfluas auferens». Accrebbe ancora
questo principe di molto l'erario, e dopo diciotto anni di regno,
nell'anno 586, morì in Toledo sua sede reggia.
Non diversi sentimenti intorno alle leggi romane portarono i
suoi successori: Reccaredo suo figliuolo (che fu il primo il quale
lasciò P arianesimo per abbracciare la religione cattolica,1 dal che fu
nomato il Re Cattolico, sopranome poi ripigliato da Alfonso e
Ferdinando re d'Aragona e da' suoi successori), Liuba II, Witterico,
Gundemaro, Sisebuto, Reccaredo II, Svintila, Sisenando, Cintila,
Tulca e Chindesvindo, principi tutti cattolici e religiosi, aggiun-
gendo le loro leggi all'altre de' loro predecessori, fecion sì che ne
surse col correr degli anni questo nuovo Codice, delle leggi westro-
gote detto.b Le leggi che si hanno in quello, alcune portano in
fronte il nome degli autori, come di Gundemaro re, e degli altri che
regnarono dopo Evarico e Leovigildo; altre sono sotto il nome di
legge antica, che potrebbero attribuirsi ad Evarico, o più tosto a
Leovigildo, che corresse ed accrebbe le costui leggi. Fu tanta l'au-
torità di questo codice che oscurò in queste provincie affatto lo
splendore delle leggi romane; poiché Chindesvindo0 re de' We-
strogoti, che a Tulca succede, promulgò un editto per cui sbandì
la legge romana da tutti i confini del suo regno, e ordinò che solo
questo codice s'osservasse, sotto vano e stupido protesto perché
quella ricercava troppo sottile interpetrazione. Ecco le parole del
suo editto :d « Alienae gentis legibus, ad exercitium utilitatis imbuì,
et permittimus et optamus; ad negotiorum vero discussionem, et
resultamus et prohibemus. Quamvis enim eloquiis polleant, tamen
a) Isid., in Chron., era 608.2 b) Ciron., lib. 5 Obser. tur. can.9
cap. 2.3 e) Altes., Rer. aquit., lib. 3, cap. 11. Got., in Proleg. C. Th.,
cap. 7* d) Leg. Wisig., lib. 2, tit. 1, e. 9.5
1. Reccaredo . . . cattolica: cfr. ancora Grozio, op. cit., p. 726. 2. Era 606
(e non 608), in Grozio, op. cit., p. 725 ; ma nel De Gothis . . . Chronicon, cit.,
p. 5: «EraDCVHi». 3. Ed. cit., pp. 71-2. 4. Hauteserre, op. cit., 1, p. 206;
Codex theodosianus cit., p. excvi. 5. Cfr. Codicis legum Wisigoihorum libri
XII, cit., p. 23. Cfr. anche Hauteserre, op. cit., 1, p. 206, dove però si rin-
via al cap. 8 anziché al 9. La citazione è presente anche in Ciron, op. cit.,
p. 75, che a sua volta rinvia ai capitoli 9 e io.
390 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
difficultatibus haerent: adeo cum sufficiat ad iustitiae plenitudi-
nem, et praesentatio rationum et competentium ordo verborum,
quae codicis huius series agnoscitur continere, nolumus, sive ro-
manis legibus, sive alienis institutionibus amodo amplius conve-
xari».1 Questa costituzione ritrovandosi per errore di Benedetto
Levita2 reggistrata tra* capitolari di Carlo M. diede occasione al
Gonzalez* di credere che Carlo fosse stato il primo a sterminare
dal foro l'uso delle romane leggi. Reciswindo suo figliuolo, che
nel regno gli succedette, rinovò gli ordinamenti del padre, e volle
che fuor di questo codice non s'ubbidissero altre leggi, siano ro-
mane ovvero teodosiane, o d'altre straniere genti. «Nullus» e' dice
« prorsus ex omnibus regni nostri praeter hunc librum, qui nuper
est editus, atque secundum seriem huius omnimode translatum,
alium librum quocumque negotio in iudicio offerre pertentet ».b
Tenne Reciswindo il regno dopo la morte del padre tredici anni, e
morì in Toledo Tanno di nostra salute 672,° nel quale Vamba fu
eletto suo successore.
Egli è però vero che questo codice ad emulazione di quello di
Giustiniano fu compilato, e diviso perciò in dodici libri. I compila-
tori ebbero presente ancora il Codice Teodosiano e quello d'Ala-
a) Gonzal., in e. super specula, de priviL, num. 2.3 b) Cod. LL.
Wisig.y lib. 2, tit. 1, cap. io; Got., in Proleg. Cod. Th.y cap. 7.4
e) Goth., loc. cit.
1. *Alienae gentis — convexari»\ «Che ci si istruisca, a scopo di profitte-
vole esercizio, nelle leggi di una nazione straniera lo permettiamo e anche
lo desideriamo; ma per la discussione delle cause e lo rifiutiamo e lo
proibiamo. Sebbene infatti abbiano vigor d'eloquio, tuttavia si soffermano
troppo in sottigliezze. Poiché alla pienezza della giustizia bastano davvero
e la presentazione delle ragioni e la misura di parole appropriate contenute
nel testo di questo codice, non vogliam più d'ora innanzi essere infastiditi
né dalle leggi romane né da istituzioni straniere». 2. Benedetto Levita:
sotto questo nome del diacono (levita) Benedetto, fu compilata in Tours
una raccolta di capitolari, apocrifa, tendente a rivendicare alcune riforme
richieste dai vescovi, attorno agli anni 847-852. Il primo a negare l'auten-
ticità di questi testi fu Pierre Pithou nel 1588. 3. Geronimo Gonzalez
(morto nel 1609), Dilucidami, ac perniile glossema, seu commentano ad regulam
octavam Cancellariae de reservatione mensium et alternativa episcoporum . . .,
Romae 1604. 4. Cfr. Codicis legum Wisigothorum cit., p. 24; Godefroy,
op. cit., p. excvi, da dove è tratta la citazione («Assolutamente nessuno
tra i sudditi del nostro regno si periti di presentare in giudizio, per qual-
siasi causa, un libro diverso da questo testé pubblicato, o che non sia
trascritto sotto ogni rispetto secondo il testo di questo »).
LIBRO III • CAP. I 391
rico, come è manifesto dalle costituzioni che in esso si leggono. a
Si valsero ancora del codice di Giustiniano, connumerandob i gradi
della consanguinità coll'istesso ordine, e quasi consistesse parole, di
cui si valse Giustiniano ne* libri delle Instituzioni; e quel ch'è più
notabile, fu con puro latino scritto, e non già con quello stile insulso
e barbaro del quale valevansi l'altre nazioni; tanto che Cujacioc
perciò ne prende argomento che fosse quella gente più eulta di
tutte Paltre. E fu cotanta l'autorità di questo codice, che non solo
presso agli Westrogoti, ma anche appo l'altre nazioni ebbe vigore
e fermezza, sicome presso a' Borgognoni ed a' Sassoni; anzi ne*
concili tenuti in Toledo1 spesso le sue costituzioni s'allegano, e di
quelle sovente fassene illustre ed onorata memoria: onde si videro
nella Spagna in cotal guisa mescolate le leggi romane con quelle de'
Goti; e non pure in questa età, ma anche ne' tempi susseguenti
furon osservate non solo da' Goti, ma anche da' Saraceni,d i quali
dopo l'anno 715 avendo inondata la Spagna, le ritennero, né nuove
leggi v'introdussero, salvo che alcune poche intorno a' giudici cri-
minali, come della bestemmia del falso lor profeta Maometto; ed
ultimamente questi essendo scacciati, da' re spagnuoli stessi furon
ritenute, come per la testimonianza di Roderico scrisse Grozio,6
fino al regno d'Alfonso IX o X il quale, essendo cancellate in
buona parte per disusanza le leggi de' Goti, introdusse nella Spagna
le romane, che nell'idioma spagnuolo, per opera di Pietro Lopez
e di Bartolomeo d'Arienza, fece tradurre e divulgare, le quali ora
ritengono tutto il vigore, e leggi delle Partite s'appellano.5
a) Cod. LL. Wisig.y lib. 5, tit. 5, cap. 9; 1. 1 C. Th., de usuris.
Cod. LL. Wisig.y lib. 3, tit. 1, cap. 1, 1. un. C. Th.t de nupt. b) LL.
Wisig., lib. 4, cap. 11. e) Cujac, Defeud., lib. 2, tit. n.2 d) Artur.
Duck, lib. 2, cap. 6, num. 15.3 e) Grot., in Proleg. Hist. Got.i
«Postquam e Saracenorum marni recuperari partes Hispaniae coe-
pere, resuscitatae a Veremundo, Aldelfunso, Ferdinando, ut Rodovi-
cus nos docet, gotthicae leges : quarum Corpus Forum Iudicum, et
olim, et nunc dicitur fons verus hispanici iuris».4 f) Covar., lib. 1
Var. resoL, cap. 14, num. 5; Artur. Duck, loc. cit., num. 16.5
1. Cfr. Ciron, lib. v, cap. 2, ed. cit., pp. 71-3. 2. In Opera omnia ecc., cit.,
ed. 1658, 11, col. 666 (cfr. le note 2 e 3 a p. 26). 3. Ed. cit., pp. 215-6.
4. Grozio, op. cit., p. 64. 5. Diego Covarrubias y Leyva (1512-1577), giu-
rista spagnolo, Opera omnia, il, Variarum resolulionum libri quatuor,
Lugduni 1661, p. 70; A. Duck, De usut ed. cit., pp. 216-7. Alfonso il Sag-
gio o il Dotto, decimo del nome re di Castiglia (1 221-1284), svolse un'in-
392 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
Questo codice delle leggi degli Westrogoti, noi lo dobbiamo alla
diligenza di Pietro Piteo,1 il qual fu il primo che comunicollo a
Giacomo Cujacio, della qual cortesia tanto se gli dimostra tenuto.
Né io voglio che mi rincresca di qui recarne le sue parole :a « Gotho-
rum, sive Wisigothorum reges, qui Hispaniam et Galiciam Toleto
sede regia tenuerunt, ediderunt xn constitutionum libros, aemu-
latione codicis Iustiniani, quorum auctoritate utimur saepe liben-
ter, quod sint in eis omnia fere petita ex iure civili, et sermone
latino conscripta, non ilio insulso caeterarum gentium, quem non-
numquam legimus ingratis : ut gens illa maxime, quae consedit in
Hispania piane cultior caeteris, hoc argumento fuisse videatur.
Communicavit autem mihi ultro Petrus Pitheus, quem ego homi-
nem, et si amore, et perpetuo quodam iudicio meo dilexi semper
vix iam ex ephebo prcfatus fore, ut probitate et eruditione aequa-
lium suorum nemini cederet: tamen prò singulari isto beneficio,
maximam modo animi benevolentiam et summa ac singularia studia
omnia me ei debere confiteor, idemque erit erga eum animus hono-
rum omnium, si, quod vehementer exopto, eos libros in publicum
conferre maturaverit».2 Ciò che Cujacio desiderava, fu da Piteo
già adempiuto; poiché non guari dapoi permise che questi libri si
a) Cujac, loc. cit.
tensa attività legislativa, provvedendo ad unificare i vari diritti locali e
personali nel Libro del Èspéculo (o Espejo de todos los derechos) e ristabilen-
do nel suo regno il diritto romano con il Libro de las Lleyes (o Las siete
partidas), una delle più importanti collectio del medio evo giuridico, ispi-
rate soprattutto all'insegnamento dell'Università bolognese, i . Pietro Pi-
teo: Pierre Pithou (1539-1596), celebre giureconsulto e storico francese. I
suoi Opera sacra, iuridica, historica, miscellanea furono editi a Parigi da
Charles Labbé nel 1609. Per l'edizione delle Leges Wisigothorum cfr. la nota
6 a p. 384. 2. « I re dei Goti o Visigoti, che occuparono la Spagna e la Ga-
lizia con reggia a Toledo, pubblicarono dodici libri di costituzioni, a emu-
lazione del codice giustinianeo, della cui autorità spesso ci serviamo volen-
tieri poiché in esse quasi tutto è tratto dal diritto civile e steso in lingua la-
tina; non quel latino insipido di tutti gli altri popoli che mal volentieri ta-
lora leggiamo: quasiché da ciò si possa arguire che quel popolo, che abita
la Spagna, sia di gran lunga nettamente più colto degli altri. Me ne ha
spontaneamente data notizia Pierre Pithou, che per quanto abbia sempre
onorato con un amore e con una stima per cosi dire perenne, avendo
previsto, fin da quando era giovinetto, che non sarebbe stato inferiore in
probità e dottrina a nessuno dei suoi coetanei, tuttavia confesso che per
questo singolare favore gli devo la massima benevolenza e ogni più grande
e particolare deferenza. Uguale sarà il sentimento di tutti i buoni se, ciò
che ardentissimamente desidero, si affretterà a pubblicare questi libri ».
LIBRO III • CAP. I 393
dassero alle stampe, come e' dice scrivendo ad Odoardo Moleo:
«Imo etiam, ne quid Orienti Occidens de eadem gente invideret,
legis Wisigothorum libros xn ut tandem aliquando ederentur con-
cessi ».a A costui parimente dobbiamo Y Editto di Teodorico Ostro-
goto re d'Italia, di cui più innanzi favelleremo.1
Né perché la Spagna fu poi invasa da' Saraceni mancò ivi affatto
il nome e '1 sangue de' Goti, sicome non mancarono le loro leggi.
Vanta con ragione la maggior parte della nobiltà di quel regno
ritenerne non meno il sangue che i nomi : ed in fatti, come osservò
Grozio,b nomi gotici sono quelli di Ferdinando, di Frederico, Ro-
derico, Ermanno, e altri consimili che gli Spagnuoli ritengono. I re
medesimi di Spagna vantarono, e vollero esser creduti, discender
essi dal figliuolo di Favilla, Pelagio, nato di regia stirpe, il quale
nell'irruzione saracinesca avendo raccolte le reliquie delle sue genti
in Asturia, quivi si mantenne, ancor che in tenue fortuna, ma con
nome regio, sperando che la sua posterità un tempo, come poi
avvenne, potesse ricuperare i loro aviti regni: «Ad hunc» come dice
Mariana,2 « Hispaniae reges nunquam intercisa serie, cum semper,
aut parentibus filli, aut fratres fratribus successerint, clarissimum
genus referunt». Frouliba moglie di Pelagio fu ancor ella gota, ed
il suo genero Aldefonso fu parimente goto del sangue del re Rec-
caredo. Goti furon dunque, e della regal stirpe de' Baiti, i re di
Spagna, i quali per lo spazio di settecento anni avendo con istan-
cabili e continue fatiche purgata la Spagna dall'inondamento ara-
bico, stesero finalmente il loro dominio non pure sopra gran parte
d'Europa, dell'Affrica e dell'Asia, ma si sottoposero un nuovo e
a) Piteus Ad Edoard. in Ep. pr deposita ad Edictum Theoderici in
Oper. Cassiod.3 b) Grot., in Proleg. hist. Got., pag. 51.4
1. A costui . . .favelleremo: nel cap, 11, par. 11, qui a p. 403. 2. come dice
Mariana: cfr. Juan de Mariana (1545 -1624), Historìa general de Espana,
Toledo i6ox, ma la citazione è ripresa da Grozio, Prolegomena, p. 52
(« A costui i re di Spagna, non essendosi mai interrotta la discendenza, poi-
ché son sempre succeduti i figli ai padri o i fratelli ai fratelli, fanno risalire
Tillustrissima schiatta»). 3. P. Pitkoeus e. v. Edoardo Molaeo senatori s.,
in Cassiodoro, Variarum libri XII cit., appendice, p. 2 (a Che anzi, perché
l'Occidente non avesse alcunché da invidiare all'Oriente riguardo alla stes-
sa gente, ho acconsentito a che i dodici libri delle leggi visigote venissero
alla fine editi»). 4. Cfr. op. cit, p. 52 (e non 51).
394 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
sconosciuto mondo, e ressero ancora per lunga serie d'anni queste
nostre provincie, che ora compongono il regno di Napoli.
Abbiam riputato diffonderci alquanto intorno alla serie di que-
sti principi westrogoti, ed intorno alla varia fortuna della giuri-
sprudenza romana, ch'ebbe presso a' medesimi nella Francia e
nella Spagna, con parlarne separatamente da quello che n'avvenne
fra gli Ostrogoti nell'Italia, non solamente per additar l'origine de*
re di Spagna, da' quali ne* secoli più a noi vicini fu questo nostro
reame governato; ma anche perché si distinguessero le vicende della
giurisprudenza romana appresso queste due nazioni, le quali non
ebbero in ciò uniformi sentimenti, ma totalmente opposti e diversi.
E tanto maggiormente dovea ciò farsi, quanto che gli scrittori mi-
schiano le leggi degli uni e degli altri; né ponendo mente alla serie
e geneologia di questi principi, e alle varie abitazioni ch'ebbero,
confondono gli uni cogli altri, e credon che in Italia appresso gli
Ostrogoti avesse avuta parimente autorità questo codice, con ascri-
vere a' principi ostrogoti ciò che gli westrogoti fecero. Nel qual
errore non possiamo non maravigliarci d'esserv'incorso eziandio il
diligentissimo Arturo Duck,a il quale senza tener conto de' tempi
e delle regioni diverse dominate da questi principi, fra i re westro-
goti confonde Atalarico ostrogoto, e con ordine alquanto torbido e
confuso tratta questo soggetto.
CAP. II
DE» GOTI ORIENTALI, E LORO EDITTI
I. Di Teodorico ostrogoto, re d'Italia.
. . . Teodorico, dopo la morte di Teodemiro suo padre assunto
al paterno reame, dominava nell'Illirico, ove gli Ostrogoti, come
dicemmo, dopo quelle conquiste, posando rarmi si fermarono.
Reggeva allora F Oriente Zenone, il quale nell'anno 474 era alPim-
perador Lione succeduto in Oriente: questi avendo inteso che
Teodorico era stato dagli Ostrogoti eletto re, dubitando che per lo
troppo suo potere non inquietasse il suo imperio, stimò richiamarlo
a) Artur. Duck, De usu et aut. tur. civ., cap. 6, num. 14.1
1. Ed. cxt., pp. 214-5.
LIBRO III • CAP. II 395
in Costantinopoli, ove giunto con incredibili segni di stima l'accolse
e fra i primi signori del palazzo lo fece in prima arroliare; non
guari dapoi per suo figliuolo l'adottò e creollo ordinario console,
dignità in que' tempi la più eminente del mondo: né gli bastò
questo, ma volle ancora che per gloria d'un sì ragguardevol perso-
naggio gli fosse eretta avanti la regia dell'imperiai palagio una statua
equestre. Ma mentre questo principe godeva in Costantinopoli
tutti quegli agi e quegli onori che da mano imperiale potevan di-
spensarsi, il generoso suo animo però mal sofferiva di veder la sua
gente, che nell'Illirico era trattenuta, invilita nell'ozio ed in povertà
ed angustie, ed egli starsene oziosamente godendo quelle delizie,
menando una vita neghittosa e lenta : da sì potenti stimoli riscosso,
si risolve a più magnanime imprese, e portatosi alTimperador Ze-
none, secondo che narra Giornande,a così gli parla. Ancorché a
me, ed a' miei Goti, che al vostro imperio ubbidiscono, niente
manchi per la vostra magnanimità e grandezza, piacciavi nondi-
meno udire i voti e' desideri del mio cuore, che son ora liberamente
per esporvi. L'Imperio d'Occidente, che lunga stagione fu gover-
nato da' vostri predecessori, va tutto in guerra, e non vi è barbara
nazione che non lo devasti, scompigli e manometta: Roma, che fu
già capo e signora del mondo, con l'Italia tutta dalla tirannide
d'Odoacre è oppressa: voi solo permetterete che, stando noi qui
oziosi e infingardi, altri depredino sì bella parte del vostro Imperio ?
che non mandi me colla mia gente a portar ivi le nostre armi?
Noi vendicheremo i vostri torti e le vostre onte, ed oltre che rispar-
mierete le gravi spese, che stando noi qui sostenete, se io coll'aiuto
del Signore vincerò, risonerà la fama della vostra pietà e del vostro
onore per tutto il mondo. Io son vostro servo e vostro figliuolo an-
cora, onde sarà più espediente e ragionevole che se vincerò abbia
io per vostro dono a posseder quel regno che ora è premuto dalla
tirannide di straniere genti, che tengono il vostro Senato e gran
parte della vostra repubblica in vile servitù e cattività: se io trion-
ferò d'esse, per tua munificenza possederò l'Occidente: se resterò
a) Iornand., De réb. Gei?
i. Giordane, op. cit., cap. lvii, in Grozio, Historia, pp. 696-7; ma vedi
anche Procopio di Cesarea, Gottkica historia, lib. I, in Grozio, op. cit.,
p. 140; Evagrio Scolastico, Historia ecclesiastica, in Maxima bibliotheca ve-
terum Patrum cit., xi, p. 989.
396 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
vinto, al vostro imperio ed alla vostra pietà niente si toglie, anzi
ne guadagnerete queste gravi e rilevanti spese.
Sì magnanima risoluzione di Teodorico, ancorché forte spia-
cesse alTimperador Zenone, che mal sofferiva il suo allontanamento,
pure, e per non contristarlo, e seco medesimo pensando che meglio
fosse che i suoi Goti, di riposo impazienti, portassero altrove le
loro armi e non inquietassero le parti orientali, volle compiacerlo,
e concedendogli tutto ciò che domandava, caricatolo di ricchissimi
doni, lo lasciò andare, raccomandandogli sopra ogni altra cosa il
Senato ed il popolo romano, di cui dovesse averne ogni stima e
rispetto. Esce fuor di Costantinopoli Teodorico ripieno d'altissime
speranze, e ritornando a' suoi Goti fa sì che molti lo seguissero,
e per cammin diritto, avviandosi per la Pannonia, verso Italia
drizza il suo esercito. Indi entrando ne' confini di Vinezia, presso
al ponte di Lisonzo non lungi d'Aquileia pone i suoi alloggiamenti.
I messi in tanto di questa mossa eran precorsi ad Odoacre, il
quale sentendo essersi Teodorico già accampato in quel ponte,
gli muove incontro il suo esercito. Ma Teodorico prevenendolo ne*
campi di Verona, gli presenta la battaglia, pugnasi ferocemente, e
Teodorico delle genti nemiche fa strage crudele; onde audacissi-
mamente entrando in Italia, passato il Po, presso a Ravenna ac-
campa il suo esercito, ed all'assedio di questa imperiai città è tutto
rivolto. Odoacre, che si ritrova dentro, fa ogni sforzo in munirla,
e sovente con notturne scorrerie inquieta l'esercito de' Goti ; ed in
questa guisa pugnando, ora perdente, ora vincente, si giunge al
terzo anno di quest'assedio : ma invano s'affatica Odoacre, poiché
fra tanto da tutta Italia era Teodorico per suo re e signore accla-
mato, ed ogni cosa così pubblica come privata i suoi voti secondava.
In tale stato scorgendo Odoacre esser ridotta la sua fortuna, e
riguardandosi solo in Ravenna, e che già per lo continuo e stretto
assedio mancavano i viveri, diliberò rendersi, onde mandò legati a
Teodorico a chiedergli pace: fugli accordata; ma dapoi entrato
in sospetto che Odoacre gl'insidiasse il regno, gli fece toglier la
vita.1
In tanto di sì avventurosi successi diede Teodorico distinti rag-
i.Ma Teodorico prevenendolo ... vita: sconfitto sull'Isonzo e a Verona
(489), rifugiatosi a Ravenna, Odoacre si arrese dopo una lunga resistenza,
con promessa di aver salva la vita. Ma fu invece ucciso (493) e sterminata
la sua famiglia e i suoi seguaci.
LIBRO III • CAP. II 397
guagli alFimperador Zenone, avvisandolo non rimanergli altro
che Ravenna sola per l'intera conquista dell'Italia; ebbene sommo
piacere Zenone, onde con suo imperiai decreto confermogli l'impe-
rio d'Italia; e per suo consiglio deponendo l'abito goto, non già
d'imperiai diadema, ma di regie insegne e di regale ammanto si
cuopre, e re de' Goti e de' Romani è proclamato.3 Indi nel secondo
anno dell'imperio d'Anastasio, che a Zenone succedette, prese,
per la morte d'Odoacre, Ravenna, e nell'anno 493 fermò in questa
città, come avevan fatto i suoi predecessori, la regia sede.
Se fu mai principe al mondo, in favor del quale nell'acquisto de'
suoi regni concorressero tanti giusti titoli, certamente dovrà repu-
tarsi Teodorico a rispetto del regno d'Italia. Era già a' suoi dì
l'Imperio d'Occidente, per la morte d'Augustolo, finito affatto ed
estinto: la Spagna da' Vandali, dagli Westrogoti e da' Svevi era
occupata: la Gallia da' Franzesi e da' Borgognoni: la Germania
dagli Alemanni e da altre più inculte e barbare nazioni : l'Italia non
potendo esser difesa dagl'imperadori d'Oriente, era stata da essi
abbandonata e lasciata in preda di più barbare genti: Gizerico re
de' Vandali la devasta e depreda: Odoacre l'invade, e sotto la sua
tirannide la fa gemere. Giunge Teodorico a liberarla, ed a suo costo
per mezzo d'infiniti perigli, col valor delle sue armi e colle forze
della sua propria nazione supera il tiranno, lo discaccia e l'uccide.
Tutti i popoli per loro re e signore l'acclamano ed il suo regno
desiderano. Se v'era chi sopra Italia avesse alcun diritto era l'im-
perador d'Oriente, ma Teodorico mandato da lui viene a conqui-
starla ed a discacciarne l'invasore. Conquistata che l'ebbe colle pro-
prie forze, gli vien da Zenone confermato l'imperio, e per suo con-
siglio ed autorità dell'insegne regali s'adorna, e re d'Italia è gridato,
transfondendo nella sua persona i più supremi diritti, niente presso
di lui ritenendosi. Nel che non vogliamo altri testimoni che i Greci
stessi; niente dico di Giornande, che come goto potrebbe forse
ad alcuni sembrar sospetto ; niente d'Ennodio, quel santo vescovo
di Pavia, che per la giustizia del suo regno gli stese una orazione
a) Iornand., De reb. Get.: «Zenonisq. imperatoris consulto pri-
vatimi habitum suaeque gentis vestitum deponens, insigne regii
amictus, quasi iam Gothorum Romanorumque regnator, adsumit».1
1. Cap. lvii, in Grozio, op. cit., p. 698 (recte: «privatim habito»).
398 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
panegirica ;a vagliami Procopiob di nazione greca, il quale nella sua
storia, sicome tanto si compiace de' suoi Greci, così a' Goti non
fu molto favorevole: ecco ciò eh' e' narra di questo fatto, secondo
la traduzione di Grozio. «At Zeno imperator, gnarus rebus uti ut
dabant tempora, Theoderico hortator est ut in Italiani iret, Odoa-
croque devicto sibi ipse ac Gothis pararet Occidentis regnum.
Quippe satius nomini in Senatum allecto, Romae atque Italis im-
perare, invasore pulso, quam arma in imperatorem cum periculo
experiri».1 Per la qual cosa i miserabili Goti, quando nel regno di
Teia ultimo loro re furono costretti da Giustiniano a lasciar l'Italia,
ricorrendo a* Franzesi per aiuto, fra l'altre cose che per movergli
alla lor difesa poser loro innanzi gli occhi, fu il dire che ciò che i
Romani allora facevano ad essi, avrebbon un dì fatto a loro altresì;
poiché or che vedevan le loro forze abbattute, con ispeziosi prete-
sti movean loro guerra, con dire che Teodorico invase l'Italia, che
a' Romani s'apparteneva: «Cum tamen» essi dicevano appresso
Agatiac «Theodericus non ipsis nolentibus, sed Zenonis quondam
imperatoris concessu venisset in Italiani, neque eam Romanis
abstulisset, qui pridem eam amiserant, sed depulso Odoacro inva-
sore peregrino, belli iure quaesivisset quaecumque ille possederat ».
a) Ennodii Panegiricus, apud Cassiodor.2 b) Procop., lib. 1 Hist.
Got? e) Agatia, lib. I.4
1. «At Zeno . . . experiri»: «Ma Zenone imperatore, abile nello sfruttare
le occasioni come le circostanze permettevano, esorta Teodorico a recarsi
in Italia e, debellato Odoacre, ad acquistare per sé e per i Goti il regno
d'Occidente. Ed era certo meglio per lui, allettato dal Senato, signoreggiare
Roma e gli Italici, dopo aver cacciato l'usurpatore, che rischiar la guerra
perigliosamente contro l'imperatore». 2. Magno Felice Ennodio (473-
521), vescovo di Pavia dal 513. Le sue opere in Maxima bibliotheca cit., ix,
e tra esse il Panegyricus dìctus . . . regi Theoderico, alle pp. 371 sgg. (Testo
critico di G. Hartel nel Corpus scriptorum ecclesiasticorum, vi, Vindobonae
1882, pp. 261-86). Per il riferimento giannoniano cfr. la citata edizione di
Cassiodoro, appendice, pp. 22-34. 3. Procopio (cfr. la nota 1 a p. 24), Got-
thica htstoria, citato in Grozio, op. cit., pp. 139 sgg. La citazione che segue
è alla p. 140. 4. Agazia Scolastico (536 circa - 582) proseguì la storia di
Procopio, conducendola sino al 558: De imperio et rebus gestis Iustiniani
imperatoris libri quinque, Lugduni Batavorum 1594. La citazione in Grozio,
op.cit.,p. 535 («Mentre invece Teodorico era venuto in Italia non contro
il lor volere, ma per concessione di Zenone un tempo imperatore, né l'aveva
sottratta ai Romani, che l'avevano da tempo perduta, ma cacciato Odoacre,
invasore straniero, per diritto di guerra s'era preso tutto ciò che quello
possedeva»).
LIBRO III • CAP. II 399
E morto Pimperador Zenone, Anastasio, che gli succede nel-
l'Imperio d'Oriente, portò gli stessi sentimenti del suo predeces-
sore, avendolo per giusto e legittimo principe; poiché se bene ap-
presso l'Anonimo Valesiano, che fu fatto imprimere da Errico
Valesio dopo Ammiano, rapportato da Pagi nella sua Dissertazione
hypatica de consulibus, si legga che i Goti, morto nell'anno 493
Odoacre, «sibi confirmaverunt Theodoricum regem, non expec-
tantes iussionem novi principis»1 (intendendo d'Anastasio, che al-
lora era a Zenone succeduto), ciò che, come avverte Pagi,a insino
ad ora fu ignorato; nulladimanco dall'epistole di Cassiodoro si
vede che Anastasio approvò poi ciò che i Goti aveano per propria
autorità fatto ; anzi finché visse mantenne con Teodorico una ben
ferma e sicura amicizia, esortandolo sempre che amasse il Senato,
abbracciasse le leggi de' principi romani suoi predecessori, e proc-
curasse sotto il suo regno mantener l'Italia unita in una tranquilla
e sicura pace: di che Teodorico ne l'accertava con promesse e con
effetti, come si vede dalle sue epistole, che appresso Cassiodoro si
leggono dirizzate ad Anastasio.15
Giustiniano stesso, che discacciò i Goti d'Italia, non potè non
riputar giusto e legittimo il regno di Teodorico e degli altri re
d'Italia suoi successori; poiché conquistata che l'ebbe per opera di
que' due illustri capitani, Belisario e Narsete, abolì sì bene tutti
gli atti, concessioni e privilegi di Totila da lui reputato invasore e
tiranno, ma non già quelli di questo principe e degli altri suoi
successori.0
*La subordinazione e riverenza, nella quale furono i re goti
agl'imperadori d'Oriente, si convince apertamente dalle monete di
questi re che si conservano ancora ne' più rinomati musei d'Europa,
nelle quali in una parte si vede l'effigie degl'imperadori, nell'altra
a) Pagi, Dissert. de consultò., pag. 300.2 b) Cassiod., lib. 1, Ep. I.3
e) Pragm. Sonetto Iustin. post Nov., cap. 1 et 2.4
1. vì sibi confirmaverunt . . .principisi: «senza attendere disposizioni del
nuovo imperatore, confermarono loro re Teodorico ». 2. Antoine Pagi
(1624- 1699), Dissertato hypaticat seu de consulibus caesareis, ex occasione
inscriptionis forojuliensis Aureliani Augusti, Lugduni 1682. Ristampata in
Critica historico-chronologica in universos Annales ecclesiasticos . . . Baronuy
I, Antverpiae 1728. 3. Cfr. Variarum libri XII cit., pp. 5-6. 4. La Sonetto
pragmatica prò petitione Vigilii, del 554, con la quale vennero promulgate
per l'Italia numerose Novellae già emanate in Oriente.
400 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
non già immagine alcuna di re goto, ma solo i loro nomi; toltone
alcune monete di rame, nelle quali forse per concessione avutane
dagl'imperadori se ne vede anche l'effigie. Di quelle d'argento nel
Museo Cesareo di Vienna se ne veggono alcune, le quali da una
parte hanno l'effigie dell'imperadore Giustiniano, e dall'altra i no-
mi di questi re: Athalaricus Rex. Theodatus Rex. Vitigis Rex.
Baduela Rex. Il Bandurio1 le ha pure impresse, ed il Parata* porta
anche una consimile moneta del re Teia. Il dubbio che sorge, come
Giustiniano permettesse a Baduela, ch'è lo stesso che Totila, coniar
monete colla sua immagine ed il di lui nome, quando lo riputava
invasore e tiranno, viene sciolto dal Bandurio, al quale volentieri ci
rimettiamo
#a
In fatti Teodorico, ancorché non gli fosse piaciuto d'assumere il
nome d'imperadore, era in realtà da tutti i suoi popoli tenuto per
tale, e Procopio stesso dice3 che niente gli mancava di quel decoro
che ad uno imperador si conveniva; anzi Cassiodoro reputò che
questo nome stava assai più bene a lui che a qualunque altro an-
corché chiarissimo imperador romano; ed in effetto questo prin-
cipe sia per riverenza degPimperadori d'Oriente, sia perché Odoa-
cre non prese altra qualità che di re, sia perché queste nazioni stra-
niere riputassero più profittevole e vigoroso il titolo di re, come
dinotante una signoria affatto indipendente e libera, che quello
d'imperadore, non volle giammai assumere tal nome d'imperadore
di Occidente, come fece dapoi Carlo M. E pure, o si riguardi l'e-
stensione del dominio, o l'eminenti virtù che l'adornavano, non
meno che Carlo M. sarebbe stato meritevole di tal onore. Egli pos-
sedeva l'Italia con tutte le sue provincie, e la Sicilia ancora. Né
questa parte d'Europa solamente era sotto la sua dominazione.
a) Vid. Eccardum in Epist. de numm. quibusd. sub regim. Theodor.
Goth. reg. in honor. impp. Zenon. et Anastas. ausisi
i. Bandurio-. cfr. la nota i a p. 25. A Parigi dal 1702 alla scuola dei confra-
telli del monastero di Saint-Maur scrisse i suoi tre lavori: Imperium orientale
sive Antiquitates constantinopolitanae (171 1), i Numismata cit. e la Bibliothe-
ca nummaria, pubblicata assieme ai Numismata. 2. Parata-, vedi la nota 1
a p. 25. 3. Procopio stesso dice: nella Gotthica historia, in Grozio, op. cit.,
pp. 141-2. 4. Johann Georg Eckhardt (1664-1730), Epistola de numis
qmbusdam sub regimine Theoderici, Ostrogothorum regis, in honorem impera-
torum Zenonis et Anastasii cusis . . ., Hanoverae 1720.
LIBRO IH • CAP. II 401
Tenne la Rezia, il Norico, la Dalmazia colla Liburnia, l'Istria e
parte della Svevia: quella parte della Pannonia, ove sono poste
Sigetinez e Sirmio : alcuna parte della Gallia, per la quale co' Fran-
zesi sovente venne all'armi, e per ultimo reggeva, come tutore
d' Amalarico suo nipote, la Spagna; tanto che Giornandea ebbe a
dire : « Nec fuit in parte occidua gens, quae Theodorico, dum vi-
veret, aut amicitia aut subiectione non deserviret».1
Non ancora in Occidente erasi introdotto quel costume, che i re
s'ungessero ed incoronassero per mano de' vescovi delle città me-
tropoli. In Oriente cominciava già a praticarsi questa cerimonia;
ed in questi medesimi tempi leggiamo che Lione il Trace, dopo es-
sere stato dal Senato di Costantinopoli eletto imperadore, fu inco-
ronato da Anatolio patriarca di quella città. Se questa usanza si
fosse trovata introdotta in Italia, e fosse piaciuto a Teodorico por-
tarsi in Roma a farsi incoronare imperadore da papa Gelasio, si-
come fece Carlo M. con papa Lione III, certamente che oggi pure
si direbbe essere stato trasferito l'Imperio d'Occidente da' Romani
ne' Goti per autorità della Sede Apostolica Romana.
11. Leggi romane ritenute da Teodorico in Italia,
e suoi editti conformi alle medesime.
Ma avvegnaché a questo principe non fosse piaciuto assumere il
nome d'imperador d'Occidente, egli però resse l'Italia, e queste
nostre provincie, non come principe straniero, ma come tutti gli
altri imperadori romani. Ritenne le medesime leggi, i medesimi
magistrati, l'istessa politia, e la medesima distribuzione delle Pro-
vincie. Egli divise prima gli Ostrogoti per le terre co' capi loro,
acciocché nella guerra gli comandassero e nella pace gli reggessero,
ed eccetto che la disciplina militare rendè a' Romani ogni onore.*
a) Iornand., De reb. Getic.3
1. «Nec fuit . . . deserviret»: «Né vi fu popolo in Occidente che per amicizia
o sottomissione non servisse con zelo a Teodorico finché egli visse».
2. Egli divise . . . (more: cfr. Machiavelli, Istorie fiorentine, 1, rv: «Fu Teo-
derigo uomo nella guerra e nella pace eccellentissimo . . . Divise costui gli
Ostrogoti per le terre, con i capi loro, acciò che nella guerra gli comandasse-
ro e nella pace gli correggessero; accrebbe Ravenna, instaurò Roma, ed
eccetto che la disciplina militare, rendè a* Romani ogni altro onore».
3. In Grozio, op. cit., p. 700.
36
402 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
Comandò in prima che le leggi romane si ritenessero ed inviolabil-
mente s'osservassero, ed avessero quel medesimo vigore ch'ebbero
sotto gli altri imperadori d'Occidente; anzi fu egli di quelle cotanto
riverente e rispettoso, che sovente appresso Cassiodoro in cotal
guisa ne favella: «Iura veterum ad nostram cupimus reverentiam
custodiri». Ed altrove: «Delectamur iure romano vivere»; ed in
altri luoghi: «Reverenda legum antiquitas, etc.».a Laonde i pon-
tefici romani si rallegravano con Teodorico, che come principe
saggio e prudente avesse ritenuta la legge romana in Italia. Così
Gelasio, secondo rapporta Gotofredo,b ower Simmaco suo suc-
cessore, secondo vuole Altesserra,c si congratulava con Teodorico :
«Certe est magnificentiae vestrae, leges romanorum principum,
quas in negotiis hominum custodiendas esse praecepit, multo ma-
gis circa Beati Petri apostoli Sedem prò suae felicitatis augumento
velie servari».1 E per questa cagione ne' primi cinque libri di Cas-
siodoro, che dell'epistole et editti di Teodorico si compongono,
non vedesi inculcar altro a' giudici ed a' magistrati che la debita
osservanza e riverenza delle leggi romane: e moltissime costitu-
zioni del Codice Teodosiano, e molte Novelle di Teodosio, di Valen-
tiniano e di Maioriano in que' libri s'allegano, delle quali lungo
catalogo ne tessè il diligentissimo Gotofredo ne' suoi Prolegomeni
a quel codice.d
Né altra fu l'idea di questo principe, che mantenere il regno
d'Italia con quelle stesse leggi, e col medesimo spirito ed unione
con cui Onorio, Valentiniano III e gli altri imperadori d'Occidente
l'avean governato. Così egli se ne dichiarò con Anastasio imperador
d'Oriente: «Quia pati vos non credimus inter utrasque respublicas,
quarum semper unum corpus sub antiquis principibus fuisse de-
a) Cassiod., lib. 3, e. 43 et lib. 1, cap. 27.* b) Got., in Proleg. ex
Gelasti PP. Ep. in decreto Ivonis, part. 1, cap. 18, ad Theodoricum.3
e) Àltes., Per, aquit., lib. 3, e. 14, ex decreto Gratiani, can. certum 12,
dist. io.4 d) Got., in Proleg., cap. 3.5
1. « Certe est . . . servari»: «È certo proprio della vostra magnificenza, che
ha stabilito di conservare le leggi degli imperatori romani negli affari
umani, di volerle assai più mantenere attorno alla Sede di san Pietro aposto-
lo, ad accrescimento della sua prosperità ». 2. Dal Godefroy citato alla no-
ta seguente. Ma cfr., anche, Variarum libri XII cit., lib. rv, ep. xxxin,
p. 91; lib. ni, ep. XLiii, p. 72. 3. Cfr. op. cit., cap. ni, p. cxci. 4. Hau-
teserre, op. cit., 1, p. 213. 5. Cfr. op. cit., pp. clxxxvii sgg. (cap. 11 e
non 3).
LIBRO III • CAP, II 403
claratur, aliquid discordiae permanere; quas non solum oportet
inter se otiosa dilectione coniungi, verum etiam decet mutuis viri-
bus adiuvari. Romani regni unum velie, una semper opinio sit».a
Per la qual cosa da Teodorico nuove leggi in Italia non furono
introdotte, credendo bastar le romane, per le quali lungo tempo
s'era governata. E se bene ancor oggi si legga un suo editto0 con-
tenente cento cinquanta quattro capi (il quale lo debbiamo alla
diligenza di Pietro Piteo, che lo fece imprimere),1 però, toltone
alcuni capi, che del gotico rigore sono aspersi, come il capo 56, 61
ed alcuni altri, tutto il rimanente è tolto dalle leggi romane, sicome
Teodorico stesso lo confessa nel fine del medesimo : « Nec cuiuslibet
dignitatis, aut substantiae, aut potentiae, aut cinguli, vel honoris
persona, contra haec, quae salubriter statuta sunt, quolibet modo
credat esse veniendum, quae ex novellis legibus ac veteris iuris
sanctimonia prò aliqua parte collegimus ».a Né vi è quasi capo del
sudetto editto che disponga cosa la quale nelle leggi romane non
si trovi. Onde sovente Teodorico per corroborar il suo comando,
o divieto, alle medesime si riporta. Così nel cap. 24 « secundum le-
gum veterum constituta»: e nel cap. 26 «secundum leges»: e nel
cap. 36 «legum censuram», ed altrove.
Ma ciò che rende più commendabile questo principe, fu che
volle eziandio che queste leggi fossero comuni non solo a' Romani,
ma a* Goti stessi che fra' Romani vivevano, come è manifesto per
questo suo editto, lasciando a' Goti poche leggi proprie, le quali,
come più a loro usuali, più tosto lor proprie costumanze erano
che leggi scritte: ma in ciò ch'era di momento, come di successioni,
di solennità di testamenti, d'adozioni, di contratti, di pene, di de-
litti, ed in somma per tutto ciò che s'appartiene alla pubblica e
a) Cassiod., lib. 1, Ep. i.3 b) Edict. Theod. in operib. Cassiod.4
1. il quale . . . imprimere: cfr. p. 393 e la nota 3 ivi. 2. « Nec cuiuslibet . . .
collegimus » : « Nessuno, di qualunque dignità, ceto, autorità, grado militare
e onore, creda di potersi opporre in alcun modo a ciò che è stato salutevol-
mente prescritto, che abbiamo raccolto dalle Novelle e per certa parte dal-
la purezza dell'antico diritto ». 3. Cfr. op. cit., p. 5 («Poiché pensiamo che
non tolleriate contrasto di sorta tra i due stati che notoriamente han sem-
pre formato un'unità sotto i principi del passato e che non solo debbono
unirsi tra loro in tranquillo amore, ma anche soccorrersi con aiuto recipro-
co. Del regno romano uno il volere, uno sia sempre il pensiero »). 4. Ed.
cit., appendice, p. 19.
404 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
privata ragione, le leggi romane erano a tutti comuni. Né altre
leggi, contendendo il goto col romano, o il romano col goto, volle
che i giudici riguardassero per decidere le loro liti, come espressa-
mente Teodorico rescrisse ad un tal Gennaro preside del nostro
Sannio: «Intra itaque provinciam Samnii, si quod negotium ro-
mano cum gothis est, aut gotho emerserit aliquod cum romanis,
legum consideratione definias; nec permittimus discreto iure vi-
vere, quos uno voto volumus vindicare».* Solamente quando le
liti s'agitavan fra goto e goto volle che si decidessero dal proprio
giudice, ch'egli destinava in ciascuna città, secondo i suoi editti,
i quali, come s'è detto, ancorché contenessero alcune cose di gotica
disciplina, non molto però s'allontanavan dalle leggi romane; ma
in ciò i Romani anche venivan privilegiati, poiché solo se la lite
era fra goto e goto poteva procedere il lor giudice: ma se in essa
occorreva che v'avesse anche interesse il romano, attore o reo che
questi si fosse, doveva ricorrersi al magistrato romano : ed in que-
sta maniera era conceputa da Teo dorico la formola della Comitiva^
che si dava a coloro che da lui erano eletti per giudici de' Goti in
ciascheduna provincia, rapportata da Cassiodoro nel settimo libro
fra le molt'altre sue formole.b
ili. La medesima politia e magistrati ritenuti
da Teodorico in Italia.
Sicome somma fu la cura di Teodorico di ritenere in Italia le
leggi romane, non minore certamente fu il suo studio di ritenere
ancora Pistessa forma del governo, così per quel che s'attiene alla
distribuzione delle provincie, come de* magistrati e delle dignità.
Egli ritrovando trasferita la sede imperiale da Onorio e Valenti-
niano suoi predecessori in Ravenna, che non a caso, e per allonta-
narsi da Roma, ivi la collocarono, ma per esser più pronti ed appa-
recchiati a reprimer l'irruzioni de' barbari, che per quella parte
a) Cassiod., lib. 2 Var., ep. 13.1 b) Cass., lib. 7, cap. 3.*
1. Cfr. op. cit., lib. ni (e non z), p. 61 («Pertanto, se nella provincia del
Sannio un romano ha una controversia con dei goti, o un goto con dei
romani, definiscila conformemente alle leggi; né permettiamo che vivano
con diritto distinto quelli che con un unico voto proteggiamo »). 2. Cfr.
la Formula Comitìvae Gothorumper singulas provincias, in ed. cit., pp. 147-8.
LIBRO III • CAP. II 405
s'inoltravan ne* confini d'Italia, ivi parimente volle egli fermarsi;
onde le querele de* Romani erano pur troppo ingiuste e irragione-
voli, quando di lui si dolevano perché in Ravenna e non in Roma
avesse collocata la sua sede regia. Ben del suo amore inverso quel-
l'inclita città lasciò egli manifestissimi documenti, ornandola di
pubbliche e chiare memorie della sua grandezza e regal animo e
della sua magnificenza, cingendola ancora di ben forti e sicure
mura. Non fu minore il suo amore e riverenza verso il Senato ro-
mano, come ne fanno pienissima fede le tante affettuose epistole
da lui a quel Senato dirizzate piene d'ogni stima e rispetto, che si
leggono presso a Cassiodoro. In Ravenna adunque, come avean
fatto i suoi predecessori, collocò la sua regia sede; e quindi resse
l'Italia e queste nostre provincie che ora compongon il regno di
Napoli, con quelli magistrati medesimi co' quali era stata governata
dagl'imperadori romani.
De' magistrati e degli altri ufficiali del palazzo e del regno, ancor-
ché alcuni ne fossero stati sotto il suo governo nuovamente rifatti,
e ne' nomi e ne' gradi qualche diversità vi si notasse; se ne ritennero
però moltissimi, se non in tutto nella potestà e giurisdizione simili a
quelli de' Romani, molti però nel nome, ed assaissimi anche in
realtà a' medesimi conformi. Si ritennero i senatori, i consoli, i
patrizi, il prefetto al Pretorio, i prefetti della città ed i questori.
Si ritennero i consolari, i correttori, i presidi e moltissimi altri.
Qualche mutazione solamente fu negli ufficiali minori, essendo
stata usanza de' Goti in ogni, benché piccìola città, mandare i
Corniti, e particolari giudici per ramministrazione del governo e
della giustizia, e di creare alcuni altri ufficiali, di cui nella Notizia
delle dignità dell'Imperio è ignoto il nome.
Ma se in questo divario de' magistrati introdotto da' Goti voglia-
mo seguire il sentimento dell'accuratissimo Ugon Grozio, biso-
gnerà dire che in ciò fecero cosa assai più commendabile che i Ro-
mani stessi ; imperciocché, e' dice, appresso a' Romani furon molti
nomi di dignità affatto vani e senza soggetto: «Multa apud Ro-
manos eiusmodi inani sono constantia, vacantium, honorariorum,
etc. ».a All'incontro i Goti ebbero sentimenti contrari, come si legge
a) Grot., in Prolegom. ad Hist. Gothor.1
1. Grozio, op. cit., p. 65.
406 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
in Cassiodoro:a «Grata sunt omnino nomina, quae designant pro-
tinus actiones, quando tota ambiguitas audiendi tollitur ubi in
vocabulo concluditur, quid geratur».1 In oltre Grozio riflette che i
Romani, mandando per ciascheduna provincia un consolare o un
preside, il qual dovesse avere il governo e la cura di tutte le città
e castelli della provincia, molti de' quali eran assai distanti dalla
sua sede: quindi avveniva che non potendo il preside esser pre-
sente in tutti que' luoghi, venivan perciò a gravarsi i provinciali
d'immense e rilevanti spese, poiché bisognava ch'essi ricorressero
a lui da parti remotissime. Presso a' Goti la bisogna in altro modo
procedeva: avevan bensì le provincie i loro consolari, i correttori ed
i presidi, nulladimeno non solamente alle più principali città, ma
eziandio a ciascheduno benché piccolo castello mandavansi i Corniti
o altri magistrati inferiori, fedeli, incorrotti, e dal consentimento de'
popoli approvati, acciocché potessero render loro giustizia ed aver
cura de' tributi e altri bisogni di que' luoghi.
Tanto che questa disposizione di magistrati, che oggidì ancora
nel nostro Regno osserviamo, di mandarsi governadori e giudici ad
ogni città, la dobbiamo non a* Romani, ma a' Goti.
E se ne' tempi nostri si praticassero que' rigori e quelle diligenze
che a' tempi di Teodorico usavansi nella scelta di tali ministri, cioè
di mandare uomini di conosciuta integrità e dottrina, e a' popoli
accettissimi, vietando perciò l'appellazioni ad altri tribunali lon-
tani, e sol permettendole quando o la gravità degli affari o una ma-
nifesta ingiustizia il richiedesse, certamente d'infinite liti e di tanti
gravi dispendi vedrebbonsi libere queste nostre provincie, ch'ora
non sono. E per questa cagione presso a molti scrittori tanto s'esa-
gera il governo de' popoli orientali ed affricani, che noi sovente
nelle comuni querele sogliamo perciò invidiargli, perocché questi
non pur nelle città, ma in ogni piccolo castello hanno i lor giudici
sempre pronti ed apparecchiati, e le liti non tantosto sono fra essi
insorte che subito veggonsi terminate, radissime volte, o non mai,
a) Cassiod., lib. 6, cap. j.z
i. « Grata sunt . . . geratur»: «Son del tutto graditi i titoli che designano
senz'altro le attività, quando è esclusa ogni ambiguità di senso allorché
nel vocabolo è racchiuso ciò di cui si tratta». 2. Cfr. la Formula Comi-
tivae sacrarum largitionum, in ed. cit., pp. 13 1-2.
LIBRO III • CAP. II 407
ammettendo appellazioni; perché la gente tenendo nella venera-
zione dovuta il magistrato, a' suoi decreti tosto s'acqueta, e soffre
più volentieri che se le tolga la roba controvertita che andar gi-
rando in parti lontane e remote con maggiori dispendi, e coll'in-
certezza di vincere, e sovente col timore di tornar a perdere; e sti-
man esser di loro maggior profitto che ad essi s'usi una ingiustizia
pronta e sollecita, che una giustizia stentata e tarda. Perciò Cle-
nardo,a avendo lasciata Europa, e in Affrica nel regno di Feza rico-
vratosi, soleva a molti suoi amici europei scrivere ch'egli non in-
vidiava le magnificenze e grandezze di tante belle città, solamente
perché non dovea più nel foro rivoltarsi tra tanta gente malvaggia
e piena di cavilli: né ivi faceva uopo de' loquaci causidici: ma se
occorreva tra quegli affricani qualche lite, era sempre presto il
giudice a deciderla, né tornavan a casa i litiganti se non terminato
il litigio. Ma questo, nello stato delle cose presenti, è più tosto da
desiderarsi che da sperarsi; poiché il male è nella radice; oltracché
nell'elezione de' magistrati non s'attendon più quelle prerogative,
che forse in quei tempi, ch'ora noi chiamiamo barbari, accurata-
mente s'attendevano: ciò che allora era rimedio, presentemente in
mortifero veleno si trasmuterebbe, giacché fin da' tempi d'Alfonso I
aragonese si trasfuse il male di concedere a' baroni del Regno ogni
giurisdizione ed imperio. E oggi sono più i governi che si conce-
dono da' medesimi, che quelli che sono dal re provveduti, e la mag-
gior parte del Regno è governata da essi nelle prime istanze; onde
era espediente che s'ammettessero que' tanti ricorsi a' tribunali
superiori che oggi giorno osserviamo; giacché non potè praticarsi
il disegno, che Carlo Vili re di Francia, in que' pochi mesi che
tenne questo Regno, avea conceputo, di togliere a' baroni ogni
a) Clenardi Epistolae ad Amoldum Streyterium et ad Jacobum La-
tomum, a 1541. Geor. Pasquius, De nov. ino. de varia fortuna. Doct.
1. Nicolaus van der Beke (Clenardus, 1493/4 - 1542), professore di lettere
greche a Lovanio, fu a Salamanca dal 153 1 al 1533, dove studiò l'arabo;
fu quindi precettore del fratello del re del Portogallo Giovanni III, e ac-
carezzò l'ambizioso proposito di convertire i musulmani per mezzo della
persuasione, recandosi per questo in Marocco tra il 1540 e il 1541. Per le
lettere qui ricordate cfr. N. Clenardi Epistolarum libri duo, Antverpiae
1566, pp. 3 sgg. e 60 sgg. - Per il Pasquius vedi la nota 6 a p. 370.
408 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
giurisdizione ed imperio, e ridurgli a somiglianza di quelli di
Francia e dell'altre provincie d'Europa.*
Ma ritornando onde siamo dipartiti : i Goti, secondo che ci rap-
presentano i libri di Cassiodoro, furon molto avvertiti nella scelta
de' magistrati, e non meno nell'elezione de' maggiori ufficiali che
in quella de' minori che mandavano in ciascuna città, ponendovi
ogni lor cura e diligenza : quindi presso a Cassiodoro leggiamo tanti
nuovi ufficiali, i cancellieri, i canonicali, i corniti, i referendari; e
le tante forinole, colle quali eran tante e sì varie dignità conferite a*
soggetti di conosciuta bontà e dottrina. Pietro Pantinob scrisse un
non dispregievol libro delle dignità della Camera Gotica: ma come
fu osservato da Grozio,c senza la costui fatica e diligenza, ben po-
tevano quelle ravvisarsi e comprendersi dal libro sesto e settimo di
Cassiodoro, ove tutte queste dignità ci vengono rappresentate e
descritte.
v. I medesimi codici ritenuti e le medesime condizioni
delle persone e de' retaggi.
Quindi può distintamente conoscersi che le nostre provincie,
estinto l'Imperio romano d'Occidente, ancorché passassero sotto
la dominazione de' Goti, non sentirono quelle mutazioni che rego-
larmente ne' nuovi domìni di straniere genti soglion accadere.1
Non furon in quelle nuove leggi introdotte, ma si ritennero le ro-
mane, e la legge comune de' nostri provinciali fu quella de' Roma-
ni, ch'allora ne' codici Gregoriano, Ermogeniano e sopra ogn'altro
a) V. Afflict. in Praelud. ad Constit. regn. Phil. Comin. Koppin,
De demanio Franciae.2 b) Pet. Pantinus, De dignit. Goth. aulae?
e) Grot., in Prolegom. ad Hist. Gothor.4
i. Quindi può . . . accadere: la polemica è qui con la storiografia umanista,
e, in primis, col giudizio del Machiavelli in apertura delle sue Istorie
fiorentine, z. Nell'ordine: Matteo D'Afflitto (1448-1528), giurista napo-
letano, In utriusque Siciliae, Neapolisq. sanctiones et constitutiones novissima
praelectio . . ., Venetiis 1612, Praeludia, e. 15 v; i Mémoires di Philippe de
Commynes (i445 circa - 151 1 ; vedi la traduzione italiana di M. C. Daviso
di Charvensod, Torino i960, lib. vii, cap. xvn, p. 435), e René Choppin
(1537-1606), giurista francese, De domanio Franciae libri III, Parisiis 1621,
p. 7. 3. Petri Pantini De dzgnitatibus et officiis regni ac domus regiae Go-
thorum Commentarius, in Hispaniae illustratae, seu rerum urbiumque Hispa-
niaef Lusitaniae, Aetiopiae et Indiae scriptores varii, 11, Francofurti 1603,
pp. 195 sgg. 4. Grozio, op. cit., p. 65.
LIBRO III • CAP. II 409
nel Codice di Teodosio, e nel Corpo delle Novelle di questo impe-
radore, di Valentiniano, Marziano, Magioriano, Severo ed Ante-
mio suoi successori si contenevano: ed a' libri di quelli giurecon-
sulti, che Valentiniano trascelse, era data piena autorità e forza.
Non s'introdusse nuova forma di governo, e si ritennero i mede-
simi ufficiali; né la variazione de' magistrati fu tanta che non si
ritenessero le dignità più cospicue e sublimi. Poiché l'idea di Teo-
dorico e poi del suo successore Atalarico fu di reggere l'Italia e
queste nostre provincie col medesimo spirito e forma colla quale
si resse l'Imperio sotto gl'imperadori ; ed è costante opinione de'
nostri scrittori che le cose d'Italia sotto il suo regno furon più quiete
e tranquille che ne' tempi degli ultimi imperadori d'Occidente,
e ch'egli fosse stato il primo che facesse quietare tanti mali e di-
sordini.
Quindi è avvenuto che ancor che queste nostre provincie pas-
sassero da' Romani sotto la dominazione de' Goti, non s'introdu-
cessero, sicome nell'altre provincie dell'Imperio romano, quelle
servitù ne' popoli, che passati sotto altre nazioni sofFerirono. Così
quando la Gallia fu conquistata da' Franzesi, fu trattata come paese
di conquista ; essendo cosa certa che si fecero signori delle persone
e de' retaggi di quella, cioè si fecero signori perfetti, così nella si-
gnoria pubblica, come nella proprietà e signoria privata:* ed in
quanto alle persone, essi fecero i naturali del paese servi, non già
d'un'intera servitù, ma simili a quelli che i Romani chiamavan
censiti overo ascrittizi o coloni addetti alla glebe.b Non così trat-
taron i Goti l'Italia, la Sicilia e queste nostre provincie, ma lascia-
ron intatta la condizione delle persone, poiché non gli governava
un principe straniero, ma un re che si pregiava di vivere alla roma-
na e di serbare le medesime leggi ed instituti de' Romani. Furon
bensì in molti villaggi delle nostre provincie di questi ascrittizi e
censiti (sicome vi furon anche de' servi, perché a' tempi de' Goti
a) Loyseau, Des seign., cap. i.1 b) Cod. de agrìc* et cens.} lib. 11.
Connan, in Comm. tur. civ., lib. 2.z
1. Charles Loyseau, in Les (Euvres ecc., cit., p. 9. 2. De agricolis et censitis
et colonis servis, in Francois de Connan (1508-1551), Commentariorum iuris
civilis libri X, stimma cura atque dUigentia a Bariholomaeo Faio . . . reco-
gniti et collati, atque etiam locupletiores factit Lutetiae Parisiorum 1658,
ce. io8v sgg.
410 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
l'uso de' medesimi non s'era dismesso), a ma quelli stessi, o loro di-
scendenti, in quella maniera che prima si tenevano da' Romani, e
di essi ci restano ancora molti vestigi ne' codici di Teodosio e di
Giustiniano, che poi i secoli seguenti chiamaron angarii e paran-
garii.b Ciò che si conferma per un avvenimento rapportato da
Ugone Falcando in Sicilia a' tempi del re Guglielmo II, poiché
essendo i cittadini di Caccamo ricorsi al re contra Giovanni La-
vardino franzese, il quale affliggeva i terrazzani con esiggere la
metà delle lor entrate, secondo che diceva esser la consuetudine delle
sue terre in Francia; e riportate queste querele al G. cancelliero,
ch'era allora Stefano di Parzio, perché questi era ancor egli fran-
zese, lasciò la cosa senza provvedimento, onde i suoi nemici gli
concitaron l'odio di tutti i Siciliani e di molti cittadini e terrazzani,
gridando ch'essi eran liberi, e che non dovea permettere, secondo
l'uso di Francia: «Ut universi populi Siciliae redditus annuos et
exactiones solvere cogerentur iuxta Galliae consuetudinem, quae
cives liberos non haberet».1
Ed in quanto a' retaggi e terre della Gallia, i Franzesi vittoriosi
le confiscaron tutte, attribuendo allo Stato l'una e l'altra signoria
di quelle.0 E fuori di quelle terre che ritennero in demanio del prin-
cipe, distribuiron tutte l'altre a' principali capi e capitani della loro
nazione; a tal'uno dando una provincia a titolo di ducato; ad un
altro un paese di frontiera a titolo di marchesato ; a costui una città
col suo territorio adiacente a titolo di contea ; e ad altri de' castelli
e villaggi con alcune terre d'intorno a titolo di baronia, castellania o
semplice signoria, secondo i meriti particulari di ciascheduno ed il
numero de' soldati ch'aveva sotto di sé; poiché davansi così per
a) Leon. Ostiens. in Ckronic. cassiti. Glossator in notis, cap. 6,
num. 532.2 b) Got., in Cod. Theod., lib. 8, tit. de curs. pub. et angar.,
1. 4-3 e) Loyseau, loc. cit.
i. « Ut universi . . . haberet»: Ugo Falcando (XII secolo), De rebus gestis in
Siciliae regno . . ., Parisiis 1550, p. 169 (e cfr. R.I.S., vii, col. 332: «Che
tutti i popoli di Sicilia fossero costretti a pagare redditi annui ed esazioni
secondo le consuetudini della Francia, che non aveva cittadini liberi»).
2. Leone Marsicano (cfr. la nota 2 a p. 56), Chronicon monasterii casinensis,
utilizzato dal Giannone nell'edizione di A. della Noce (vedi più oltre la
nota 3 a p. 422), p. 113, ad annum 528. Ma vedi anche Procopio, in Gro-
zio, op. cit., p. 344 e passim. 3. Codex theodosianus cit, 11, tit. v: De
cursu publico, angariis et parangariis, pp. 515 sgg.
LIBRO HI • CAP. II 411
essi che per li loro soldati. Non così fecero i Goti in Italia ed in
queste nostre provincie, poiché si lasciarono le terre a loro pos-
seditori, né s'inquietò alcuno nella privata signoria de' loro retaggi :
e le provincie e le città eran amministrate da' medesimi ufficiali
che prima, secondo che si governavano sotto l'imperio di Valenti-
niano e degli altri imperadori d'Occidente suoi predecessori. Né in
Italia ed in queste nostre provincie l'uso de' feudi e de' ducati e
contadi fu introdotto, se non nel regno de' Longobardi, come dire-
mo nel quarto libro di questa istoria.
vi. Insigni virtù di Teodorico e sua morte.
Fu veramente Teodorico di tutte quelle rade e nobili virtù orna-
to, che fosse mai qualunque altro più eccellente principe che van-
tassero tutti i secoli. Per la sua pietà e culto al vero Iddio fu con
immense lodi celebrato da Ennodio cattolico vescovo di Pavia. E
se bene istrutto nella religione cristiana, i suoi dottori gliele aves-
sero renduta torbida e contaminata per la pestilente eresia d'Arrio,
sicome fecero a tutti i Goti ; questa colpa non a' Goti dee attribuirsi,
ma a' Romani stessi e spezialmente all'imperadore Valente, che
mandando ad istruir questa nazione nella religione cristiana, vi
mandò dottori arriani;1 tanto che Salviano,a quel santo vescovo di
Marsiglia, nomò questa loro disgrazia, fallo non già de' Goti, ma
del magisterio romano, e testifica questo santo vescovo che nel
medesimo lor errore non altro fu da essi riguardato, se non che il
maggior onore di Dio; e per questa pia loro credenza ed affetto
non dover essere i Goti reputati indegni della fede cattolica, i quali,
comparate le lor opere con quelle de' cattolici, di gran lunga eran
a costoro in bontà e giustizia superiori, o si riguardi la venerazione
delle chiese, o la fede, o la speranza, o la carità verso Dio ; quindi è
che Socrate,b scrittore dell'Istoria ecclesiastica, a molti Goti, che
a) Salvian., lib. 5 Degubern. Dei.2 b) Socr., lib. 4, cap. 53. 3
1. questa colpa . . . arriani: cfr. Isidoro, in Grozio, op. cit., pp. 710-1.
2. Salviano (nato nel 400 circa), De gubernatione Dei, in Maxima bibliotheca
veterum Patrum cit., vili, p. 359. (Degli Opera omnia di Salviano esistevano
numerose edizioni, da quella di Konrad Rittershausen del 161 1 a quella
del Baluze del 1686). 3. Socrate lo Storico o Scolastico (cfr. la nota 2
a p. 31), Historia ecclesiastica, non già cap. 53, ma 33. Questo capitolo,
con tale numerazione, si presenta soltanto nell'edizione del Valesio: So-
412 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
per la religione furono da' pagani uccisi, dà il titolo di martiri, come
quelli che con semplice e divoto cuore eransi a Cristo lor Reden-
tore dedicati. E se per altrui colpa incorsero i Goti in quest'errore,
ben fu questa macchia tolta e compensata col merito di Riccaredo
del loro sangue, che purgò dalTarianesmo tutta la Spagna.
E fu singular pietà de' Goti e di Teodorico precisamente d'aste-
nersi da ogni violenza co* suoi sudditi intorno alla religione, né
perché essi eran de' dogmi arriani aspersi proibiva perciò a' suoi
popoli di confessar la fede del gran Concilio di Nicea;a anzi Teo-
dorico, in tutto il tempo che resse l'Italia e queste nostre provincie,
non pure lasciò inviolata ed intatta la religione cattolica a' suoi sud-
diti, ma si permetteva ancor a' Goti stessi, se volessero dall'aria-
nesmo passare alla fede di Nicea, che liberamente fosse a lor lecito
di farlo.
Maggiore rilucerà la pietà di questo principe in considerando che
della cattolica religione, ancorché da lui non professata, ebbe egli
tanta cura e pensiero che non permetteva che al governo della me-
desima s'eleggessero se non vescovi di conosciuta probità e dot-
trina, de' quali fu egli amantissimo e riverente: di ciò presso a
Cassiodorob ce ne dà piena testimonianza il suo nipote stesso Ata-
larico: «Oportebat enim arbitrio boni principis obediri, qui sa-
pienti deliberatione pertractans, quamvis in aliena religione, talem
visus est pontificem delegisse, ut agnoscatis illum hoc optasse
praecipue, quatenus bonis sacerdotibus ecclesiarum omnium religio
pullularet».1
Quindi avvenne, come Paolo Warnefrido e Zonara raccontano,0
a) Grot., in Proleg. ad Hist. Goth.2 b) Cas., lib. 8, cap. 14.3
e) Grot., loc. cit.
crati Scholastici et Hermiae Sozomeni Historia ecclesiastica. Henricus
Valesius graecum textum collatis mss. codicibus emendami, latine vertit et
annotationibus illustravi^ Parisiis 1668, p. 251; manca invece sia nella
precedente edizione di Colonia del 1621, sia nella Massima bibliotheca cit.
Tutte e tre queste edizioni sono presenti nel Fondo Vallettiano della bi-
blioteca dei Girolamini di cui s'è parlato nella Nota introduttiva (cfr. la
nota 1 a p. 362). 1. «Oportebat ., .pullular et»: «Era infatti necessario
ubbidire alle disposizioni di un buon principe, che operando con saggia
deliberazione, pur a proposito di una religione che non era la sua, scelse
un tale vescovo da farvi comprendere quanto egli soprattutto auspicava:
che il culto di tutte le chiese fiorisse di buoni ministri». 2. Grozio, op.
cit., p. 31. 3. Cfr. op. cit., ep. xv (e non 14), Senatui urbis Romae Atha-
laricus rex, p. 179.
LIBRO III • CAP. II 413
ch'essendo nato ne' suoi tempi quel grave scisma nella Chiesa ro-
mana, tosto fu da lui tolto col convocamento d'un concilio, e le cose
restituite in una ben ferma e tranquilla pace. Si leggon ancora di
questo principe rigidissimi editti, come similmente d'Atalarico suo
nipote, per li quali severamente vengon proibite tutte quelle ordi-
nazioni di vescovi, che per ambizione o interveniente denaro si
facessero, annullandole affatto, e di niun momento e vigore ripu-
tandole;* sicome più distesamente diremo, quando della politia
ecclesiastica di questo secolo favelleremo. E pur di Teodorico si
legge che, quantunque nudrisse altra religione, volle che i vescovi
cattolici per lui porgessero calde preghiere a Dio, delle quali soven-
te credette giovarsi. Per la qual cosa non dee parere strano, sicome
dice Grozio, che Silverio vescovo cattolico romano fosse stato a'
Greci sospetto, quasi che volesse e desiderasse più la signoria de'
Goti in Italia che quella de' Greci stessi.1
Ed alla pietà di questo principe noi dobbiamo che queste nostre
Provincie, ch'ora formano il regno di Napoli, ancorché sotto la do-
minazione de' Goti arriani poco men che 70 anni durassero, non
fossero di quel pestilente dogma infestate, ma ritenessero la cat-
tolica fede, così pura ed intatta come i loro maggiori l'avevan ab-
bracciata, e che potè poi star forte e salda alle frequenti incursioni
de' Saraceni che ne' seguenti tempi l'invasero e le combatterono:
imperocché piacque a Teodorico non pur lasciarla così stare, come
trovolla, ma di favorirla ed esser eziandio della medesima custode
e difensore: dal cui esemplo mossi Atalarico e gli altri goti suoi
successori, si fece in modo che durante il loro dominio non restò
ella né perturbata, né in qualunque modo contaminata.
Della giustizia, umanità, fede, e di tutte l'altre più pregiabili e no-
bili virtù di questo principe, non accade che lungamente se ne ra-
gioni: Cassiodoro ne' suoi libri ci fa ravvisare una immagine di
regno così culto, giusto e clemente, che a ragione potè Groziob dire:
«planeque si quis eultissimi clementissimique imperii formam con-
a) Cas., lib. 9, e. 15.2 b) Grot., in Prolegom. ad Hist. Goth?
1. Per la qual cosa . . . stessi: cfr. Procopio, in Grozio, op. cit., pp. 209-10;
e il Breviarium causae Nestorianorum et Eutychianorum collectum a sancto
Liberato archidiacono Ecclesiae carihaginensis regionis sextae, in Conciliorum
tomus duodecimus, ab armo DLIJI ad ammm DLXXIII, Parisiis 1644, pp.
488-91. 2. Ioanni papae Athalaricus rex> in ed. cit., pp. 203-5. 3. Gro-
zio, op. cit., pp. 33-4.
414 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI JNAFUH
spicere voluerit, ei ego legendas censeam regum Ostrogothorum
epistolas, quas Cassiodorus collectas edidit».1 Onde non senza ca-
gione potevan i Goti appresso Belisario vantarsi di questa lode:a
né senza ragione Teodorico stesso potè dire: «Aequitati fave:
eminentiam animi virtute defende, ut inter nationum consuetudi-
nem perversam, Gothorum possis demonstrare iustitiam»:2 ed al-
trove: «Imitamini certe Gothos nostros, qui foris praelia, intus
norunt exercere iustitiam ».3 E fu cotanto lo studio e la cura di que-
sto principe nel reggere i suoi sudditi con una esatta e perfetta
giustizia, che si dichiarò co* medesimi volersi portar con esso loro
in modo che si dolessero più tosto d'esser così tardi venuti sotto
l'imperio de' Goti. Procopio, ancorché greco, non può non in-
nalzare queste regie ed insigni sue virtù :4 egli custode delle leggi,
giusto nelP assegnare i prezzi all'annona, esatto ne' pesi e nelle mi-
sure e nell'imporre tributi, fu maravigliosa la sua equabilità, e so-
vente per giuste cagioni era pronto a rimettergli : se i suoi eserciti
in passando danneggiavan i paesani, soleva Teodorico a' vescovi
mandare il denaro per risarcirgli de' patiti danni;5 se v'era bisogno
di materia per fabbricar navi, o di munire d'altra guisa i suoi cam-
pi, pagava immantenente il prezzo:6 egli libéralissimo co' poveri;
e la maggior parte del suo regal impiego era il sowenimento e la
cura de' pupilli e delle vedove,7 di che chiara testimonianza ce n'ha
data Cassiodoro.
La moderazione di questo principe da' suoi fatti di sopra esposti
a) Procop., Hist. Goth*
1. «planeque . . . edidit»; «e se qualcuno vorrà attentamente scorgere un
genere di governo coltissimo e clementissimo, penserei che deve leggere le
lettere dei re ostrogoti, raccolte e pubblicate da Cassiodoro ». 2. ne senza ra-
gione . . . demonstrare iustitiam: cfr. Cassiodoro, op. cit., lib. in, ep. xxiii,
p. 64 (a Promuovi l'equità, tutela con la virtù l'altezza dell'animo, per far
riconoscere, in mezzo ai costumi perversi dei popoli, la giustizia dei Go-
ti»), 3. ed altrove . . . exercere iustitiam: cfr. Cassiodoro, op. cit., lib. ni,
ep. xxrv, p. 65 («Imitate senz'altro i nostri Goti, che all'esterno la guer-
ra, all'interno sanno esercitare la giustizia»). 4. Procopio . . . virtù: cfr.
Gotthica historiat lib. I, in Grozio, op. cit., p. 142. 5. se i suoi eserciti . . .
danni: cfr. Cassiodoro, op. cit., lib. li, ep. vili, p. 35. 6. se v'era bisogno . . .
prezzo: cfr. Cassiodoro, op. cit., lib. v, ep. xvr, p. 109. 7. egli libéralis-
simo . . . vedove: cfr. Cassiodoro, op. cit., lib. 1, ep. vili, p. 11 ; lib. rv, ep.
xl, ep. xlii, p. 94 e p. 95 (dove la frase iniziale della lettera presenta sot-
tolineate le parole «parente publico» nella copia del citato Fondo Vallet-
tiano). 8. In Grozio, Prolegomeni cit., p. 34.
LIBRO III • CAP. II 415
è pur troppo nota; e' potendo far passare i vinti sotto le leggi de*
Goti vincitori, volle che colle leggi proprie, colle quali eran nati e
nudriti, vivessero. Permise che sotto il suo regno Roma fosse dallo
stesso romano Senato governata: che giudicasse il romano tra'
Romani : tra* Goti e Romani, il goto ed il romano.1 Che quella re-
ligione ritenessero ch'avevan succhiata col latte,a awersissimo d'in-
trodurre novità, come quelle che sogliono essere sempremai alle
repubbliche pemiziosissime, e cagione di molti e gravi disordini.
La sua temperanza fu da Ennodio chiamata modestia sacerdo-
tale :2 e' secondo l'usanza della sua nazione parchissimo ne' cibi e
molto più sobrio nelle vesti. Nel suo regno i Goti si mantennero
continentissimi e casti, né fu insidiata la pudicizia delle donne:
«Quae Romani polluerant fornicatione, » dice Salvianob «mun-
dant barbari castitate»: ed altrove: <c Impudicitiam nos diligimus,
Gothi execrantur, puritatem nos fugimus, illi amant». Vivevan di
cibi semplicissimi, di pane, di latte, di cascio, di butiro, di carne,
e sovente cruda, macerata solamente nel sale. Tralascio per brevità
le sue virtù regie: infin oggi s'ammirano in Roma ed in Ravenna
i monumenti della sua magnificenza negli edifici, negli acquedotti,
ed in altre splendide opere. Dal corso de' suoi fatti egregi, inco-
minciando dalla puerizia, è pur troppo noto il suo valore, la for-
tezza, la sua magnanimità, il suo sublime spirito ed il suo genio
sempre a grandi e difficili imprese prontissimo. Principe e nella
guerra e nella pace espertissimo, donde nell'una fu sempre vinci-
tore, e nell'altra beneficò grandemente le città ed i popoli suoi: e
la virtù sua giunse a tanto che seppe contenere dentro a' termini
loro, senza tumulto di guerre, ma solo con la sua autorità, tutti i
re barbari occupatori dell'Imperio. E per restituire l'Italia nell'an-
tica pace e tranquillità molte terre e fortezze edificò infra la punta
del mare Adriatico e l'Alpi, per impedire più facilmente il passo a'
a) P. Garet., in Vita Cos., part. 1, § 12.3 b) Salvian., loc. cit.4
1. Permise . . . romano: cfr. la Formula Comìtivae Gothorum per singulas
provincias, in Cassiodoro, op. cit., pp. 147-8. 2. La sua . . . sacerdotale:
cfr. Ennodio, Panegyricus dictus clementissimo regi Theoderìco, in Maxima
bibliotheca veterum Patrum cit., rx, p. 375 ; ma cfr. anche Grozio, Proleg.,
p. 34. 3. Cfr. M. A. Cassiodori . . . Opera omnia, in duos tomos distri-
buta . . . notìs et observatìonibus illustrata . . . opera et studio J. Garetti, Ro-
tomagi 1679, 1, pp. 4-5. 4. De gubernatione Dei, lib. vii, in Maxima bi-
bliotheca cit., vili, p. 370.
4IÓ ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
nuovi barbari che volessero assalirla. Tanto eh' è costantissima opi-
nione di tutti gli scrittori che mediante la virtù e la bontà sua, non
solamente Roma ed Italia, ma tutte l'altre parti dell'occidental Im-
perio libere dalle continue battiture, che per tanti anni da tante
inondazioni di barbari avevan sopportate, si sollevarono ed in buon
ordine ed assai felice stato si ridussero.
So che alcuni credono esser queste tante virtù di Teodorico state
imbrattate dall'insidie, e morte finalmente fatta dare ad Odoacre;
e nell'ultimo della sua vita da alcune crudeltà cagionate per vari
sospetti del regno suo, con avere ancora fatto morire Simmaco e
Boezio suo genero senatori ed al consolato assunti: uomini di
nobilissima stirpe nati, nello studio della filosofia consumatissimi,
religiosissimi, e per fama di pietà e di dottrina assai insigni.
Ma se vogliano questi fatti attentamente considerarsi, la ragion
di Stato difende il primo; e dell'essere stato crudele con Simmaco
e Boezio dobbiamo di quello stesso incolpar Teodorico di che fu
incolpato da' suoi domestici: «Id illi iniuriae» come dice Proco-
pio «in subditos primum, ac postremum fuit, quod non adhibita,
ut solebat, inquisitione de viris tantis statuerat».1 In questo sola-
mente mancò Teodorico, ch'essendo stati per invidia imputati Sim-
maco e Boezio di macchinar contro alla sua vita ed al suo regno, gli
avesse senza usare molta inquisizione in caso sì grave, in cui richie-
devasi somma avvedutezza, condennati a morte; del resto, come
ben osservò Grozio,a « Actum ibi, non de religione, quae Boethio sa-
tis platonica fuit, sed de Imperii statu».2 Non fu mosso certamente
Teodorico da leggier motivo, ma per cagione di Stato, non già di
religione, come alcuni credono. Ben si sono scorti quali sentimenti
fossero di questo principe intorno a lasciare in libertà le coscienze
degli uomini ed appigliarsi a quella religione che lor piacesse. Né
per Boezio poteva accader ciò, la cui religione fu più platonica che
cristiana. E se dee credersi a Procopio, ben di quel suo fallo poco
prima di morire ne pianse Teodorico amaramente con intensissimo
a) Grot., loc. cit.3
i. *Id illi iniuriae . . . statuerat»: cfr. Gottkica Ustoria, lib. i, in Grozio,
op. cit., p. 143 («Questo gli viene soprattutto rimproverato nei riguardi
dei suoi sudditi, di aver deciso la sorte di cosi grandi uomini senza aver
prima, com'era suo costume, fatta un'inchiesta »). 2. « Actum ibi . . . statu » :
« Si trattò qui, non di religione, che in Boezio fu passabilmente platonica,
ma della sicurezza dello Stato». 3. Grozio, op. cit., Prolegomenat p. 32.
LIBRO III • CAP. II 417
dolore del suo spirito; poiché essendosegli, mentre cenava, appre-
stato da' suoi ministri un pesce di grossissimo capo, se gli attraver-
sò nella fantasia così al vivo Pimmagine di Simmaco che parvegli
quello del pesce essere il costui capo, il quale con volto crudele ed
orribile lo minacciasse e volesse della sua morte prender vendetta;
tanto che spaventato per sì portentosa veduta, corsegli per le vene
un freddo che, obbligatolo a mettersi a giacere, si fece coprir di
molti panni; ed avendo raccontato ad Elpidio suo medico ciò che
gli era occorso, « In Simmacum ac Boethium quod peccaverat de-
flevit: poenitentiaeque ac doloris magnitudine non multo post
obiit », come narra Procopio.1
Giornande2 niente dice di sì strano successo, ma lo fa morire di
vecchiezza, narrando che Teodorico «postquam ad senium perve-
nisset, et se in brevi ab hac luce egressurum cognosceret »,3 fece
avanti di lui convocare i Goti e' principali signori del regno, a'
quali disegnò per suo successore Atalarico, figliuolo d'Amalasunta
sua figliuola, il quale, morto Eutarico suo padre pur dell'illustre
stirpe degli Amali, non avendo più che dieci anni, sotto la cura ed
educazione di sua madre viveva. Non tralasciò morendo di racco-
mandare a* medesimi la fedeltà che dovevan portare al re suo nipo-
te; raccomandò loro ancora l'amore e riverenza verso il Senato e
popolo romano, e sopra tutto incaricò che dovesser mantenersi
amico e propizio l'imperadore d'Oriente, col quale proccurassero
tener sempre una ben ferma e stabil pace e confederazione: il qual
consiglio avendo religiosamente custodito Amalasunta, le cose de'
Goti infinché visse il suo figliuolo Atalarico andaron assai prospe-
ramente; poiché per lo spazio d'otto anni che regnarono manten-
nero il lor reame in una ben ferma e tranquilla pace. Tale fu la
morte di questo illustre principe, che avvenne nell'anno 526 di
nostra salute, dopo aver regnato poco men che 38 anni, e ridotta
l'Italia e queste nostre provincie nell'antica pace e tranquillità.
1. In Simmacum . . . Procopio: in Grozio, op. cit., pp. 142-3: «Pianse per
aver peccato contro Simmaco e Boezio, e per la grandezza del pentimento e
del dolore non molto dopo morì». 2. Giornande'. op. cit., cap. ldc; cfr.
in Grozio, op. cit., p. 700. 3. « postquam . . . cognosceret »: «giunto a vec-
chiaia e accorgendosi che in breve si sarebbe spento».
418 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
Libro IV
CAP. II
Del ducato Beneventano e di Zotone suo primo duca.
Aveva Aiitari, ciò che non fecero i suoi maggiori, soggiogata quasi
tutta P Italia citeriore; toltone il ducato Romano e PEsercato di Ra-
venna, che allora veniva governato da Romano,a avendone poco
prima Pimperador Maurizio levato Smaragdo, tutto il resto era in
sua mano ; ma restavagli ancora da conquistare la più bella e pre-
clara parte d'Italia, cioè quella parte e quelle provincie che oggi
compongono questo regno di Napoli. Infino a questi tempi eransi
queste provincie mantenute sotto Pimperio degPimperadori orien-
tali, che le governavano secondo quella forma che da Longino v'era
stata introdotta: avevan quasi tutte le città più principali il lor
duca: Napoli aveva il suo, Sorrento, Amalfi, Taranto, Gaeta, e così
di mano in mano Paltre, tanto che quello, che ora è regno, intorno
aU'amministrazione, in più ducati era distinto, tutti però immedia-
tamente sottoposti all'esarca di Ravenna e dopo costui agl'impe-
radori d'Oriente; e se bene nella forma del governo tenessero appa-
renza di repubblica, nulladimeno è somma sciocchezza il credere che
fossero così liberi che non riconoscessero l'imperadore d'Oriente
per loro sovrano, sotto la cui dominazione vivevano : quantunque
per la debolezza degli esarchi di Ravenna, e per la lontananza
della sede imperiale, il governo de* duchi si rendesse un poco più
libero e pieno, tanto che sovente arrivavano infino a manifeste fel-
lonie, con ribellarsi dal loro principe, la qual cosa più volte tenta-
ron di fare i duchi di Napoli, come più innanzi nel suo luogo diremo.
Queste provincie, come quelle ch'erano più lontane da Pavia,
sede de' Longobardi, e che potevano, in caso che fossero assalite,
ricever tosto soccorsi per mare, onde sono quasi tutte circondate,
con picciolissimi presìdi da' Greci eran guardate; onde Autari
espertissimo principe pensò dalle provincie mediterranee comin-
a) Marq. Freher, in Chronologia, SmaragduSy a. 584. Romanus,
a. 587.1
i. Marquard Freher (1565-1614). Il Giannone fa probabilmente riferi-
mento alla Utriusque imperii chronologia, più volte ristampata.
LIBRO IV • CAP. II 419
ciar le sue conquiste; e lasciandosi in dietro Roma e Ravenna, delle
quali non così di leggieri potevasi venire a capo, avendo nella
primavera di quest'anno 589 nel ducato di Spoleti unito il suo
esercito, fingendo di dirizzare il suo cammino in altre parti, di
repente lo torse e nel Sannio si gittò. Colti così alTimproviso i
Greci, entrarono in tale stordimento e costernazione che senza
molto contrasto venne fatto ad Autari di conquistare in un tratto
tutta questa provincia e finalmente Benevento,1 città, come cre-
dette il Sigonio, fin da questi tempi capo e metropoli del Sannio.
Indi si narra che questo principe al calore di sì ragguardevole con-
quista spingesse oltre il suo cammino, e traversando tutta la Cala-
bria insino a Reggio scorresse, città posta nell'ultima punta d'Ita-
lia lungo il mare, e che quivi, essendo ancor a cavallo, percotendo
colla sua asta una colonna posta ne' lidi di quel mare, dicesse:
«Fin qui saranno i confini de* Longobardi » ;a ond'è che l'Ariosto,
de' fatti di questo glorioso principe cantando, disse che
. . . Corse il suo stendardo
da' pie de' monti al Mamertino lido.2.
Narrasi ancora che ritornato a Benevento riducesse quella provin-
cia in forma di ducato e che ne creasse duca Zotone, ed a' due ce-
lebri ducati di Friuli e Spoleti v'aggiungesse il terzo, il quale col
correr degli anni si rendè tanto superiore agli altri due primi quan-
to questi sopravanzavan gli altri ducati minori d'Italia.
Ma poiché del principio ed instituzione del ducato Beneventano
non è di tutti conforme il parere, e questo ducato dee occupare
una gran parte della nostra istoria, per lo spazio di 500 e più anni,
sicome quello il quale non solamente per la durata, ma per la sua
ampiezza si stese tanto che abbracciò quasi tutto quel ch'è ora
regno di Napoli, non rincrescevol cosa doverà perciò essere che di
esso più partitamente si ragioni.
Il ducato di Benevento credesi comunemente che da Autari in
questo anno 589 fosse stato la prima volta instituito, e che Zotone
a) P. Warnefr., lib. 3, cap. 16.3
1. venne fatto . . . Benevento: cfr. Paolo Diacono, De gestis Langobardorum,
in Grozio, op. cit., p. 823. Il seguente rinvio è al De regno Italiae del Sigo-
nio. 2. Cfr. Stanze, frammento 11, stanza io, w. 6-7, in L. Ariosto,
Lirica, a cura di G. Patini, Bari 1924, p. 150. 3. Paolo Diacono (o Paolo
Varnefrido: cfr. la nota 1 a p. 56), in Grozio, loc. cit., cap. xxxm (altri, 16).
420 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
ne fosse stato creato duca da questo stesso principe. Passa per in-
dubitato presso a tutti gl'istorici che questo Zotone fosse il primo
duca di Benevento; ma chi ve l'avesse fatto, ed in quali tempi,
non è di tutti concorde il sentimento. Carlo Sigonioa e Wolfango
Lazio ,b non avendo ben esaminate le parole e la frase usata da
Paolo Warnefrido,c quando di questa instituzione favella, tennero
costantemente per la costui autorità che fosse stato instituito da
Autari in questo stesso anno ch'egli conquistò il Sannio e Beneven-
to, creduto da essi in questi tempi capo di quella provincia; ma dal
modo istesso con cui ne parla Warnefrido, che non con fermezza,
ma con un putatur, refertur, fama est se ne disbriga, e da ciò che
ne vien da lui soggiunto, che Zotone tenne il ducato di Benevento
venti anni: il che non s'accorderebbe colla serie delle cose dapoi
avvenute e colla cronologia de' tempi degli altri duchi che seguiro-
no, se da questo anno 589 si volessero cominciare a numerare i
venti anni del ducato di Zotone; perciò alcuni altri, fra i quali
Scipione Ammirato nelle dissertazioni de* duchi e principi di Be-
nevento, ed Antonio Caracciolo,d hanno cominciato a dubitare se
si dovesse ne' tempi più antichi fissar l'epoca di questo ducato. Ma
ciò che poi loro fece rifiutar deliberatamente l'opinione tenuta dal
Sigonio e dal Lazio, fu l'autorità di Lione Ostiense,6 il quale an-
a) Sigon., De r. ItaL, lib. I.1 b) Wolfgan. Laz., lib. 12 De migrai.
gent.z e) P. Warn., lib. 3, e. 16.3 d) Ant. Carac, in Propylaeo ad
quatuor chron.4 e) Leo Ostiens., Chron*, lib. I, cap. 48.5
1. Carlo Sigonio (cfr. la nota 3 a p. 22), Historiarum de regno Italiae libri
viginti, Hanoviae 1613, p. 15. La copia del citato Fondo Vallettiano (xlv,
8, 14) reca un richiamo a margine e una sottolineatura in corrispondenza
della frase « Beneventum ad deditionem adduxerit ». 2. Wolfgang Lazius
(1514-1565), De alìquot gentium migrationibus, sedibus fixis, rehquiis lingua-
rumque initiis et immutationibus ac dialectis libri XII, Basileae 1572. La cita-
zione è copiata da Camillo Pellegrino (1598-1663), Libri secundi Historiae
principimi Langobardorum pars prima, quae continet dissertationes de institu-
ti<me,finibus et descriptione antiqui ducatus beneventani, Neapoli 1644, p. 2.
Ma del resto tutto il discorso del Giannone si basa interamente sulla pri-
ma delle dissertazioni del Pellegrino: Ducatus beneventanus quando insti-
tutus. 3. Cfr. in Grozio, loc. cit., ancora cap. xxxiii (altri, 16); cfr. anche
C Pellegrino, op. cit., p. 1. 4. Antonio Caracciolo (cfr. la nota 1 a p. 56),
Antiqui chronologi quatuor: Herempertus Langobardus, Lupus Protospata,
Anonymus Cassinense, Falco Beneventanus, cum appendicibus historiczs . . .,
Neapoli 1626, pp. 6 sgg. Ma vedi anche in R.LS., v, pp. 8-9. La discussio-
ne col Caracciolo, come prima il rinvio al Lazius, è anch'essa tratta dal Pel-
legrino, op. cit., pp. 2 sgg. 5. Cfr. anche C. Pellegrino, op. cit, p. 5.
LIBRO IV • CAP. II 421
corché fiorisse trecento anni dopo Warnefrido, non con incertezza,
ma con molta asseveranza scrisse nella sua cronaca, secondo l'edi-
zione napoletana, che i Greci ritolsero a' Longobardi Benevento
nell'anno 891, dopo trecento venti anni da che Zotone ne fu duca;
onde secondo 1' Ostiense il principio del ducato di Zotone dovrebbe
riportarsi nell'anno 571, 0 sicome vuole TArrimirato all'anno 573,
il quale, per accordarlo colla serie delle cose accadute dapoi e colla
cronologia degli altri duchi tenuta dalTistesso Warnefrido, emenda
il luogo dell'Ostiense, e vuol che si legga non trecento venti, ma
trecento diciotto : in guisa che, secondo il parer di costoro, il ducato
Beneventano prima che Autari conquistasse il Sannio, ed alquanti
anni dopo la venuta d'Alboino in Italia, ebbe il suo principio. Altri
trovarono l'origine di questo ducato in tempi più lontani, cioè
nell'istesso anno 568, quando Alboino, uscito dalla Pannonia, ven-
ne alla conquista d'Italia, e che oltre alla provincia di Venezia,
una banda di Longobardi s'inoltrasse infino a Benevento, e quivi
fermati eleggessero Zotone per lor duca: il che comprovano per
un catalogo antico de' duchi e principi beneventani fatto da un
ignoto monaco del monastero di S. Sofia di Benevento, che va
innanzi all'istoria dell'Anonimo Salernitano, ove questo scrittore
dice:a «Anno ab Incarnatione Domini quingentesimo sexagesimo
octavo, principes coeperunt principari in principatu Beneventano,
quorum primus vocabatur Zotto »,* al quale dà egli ventidue anni
di ducato, non venti, come Warnefrido.
Ma non finisce qui la varietà de' pareri, né si contentano i più
diligenti investigatori di questo principio, ma un altro più remoto
ed in tempi più lontani se ne cerca: questo viene additato da Lione
Ostiense medesimo nella sua cronaca, nella quale, se bene giusta
l'edizione napoletana2 si legga che corsero trecento venti anni da
che fu creato Zotone duca infino all'anno 891 che fu da' Greci
riacquistato Benevento ; nulladimanco il suo originale, che si con-
a) Leggesi presso Camil. Pel., in Hist. princ. long?
1. « Anno . . . Zotto m «Nell'anno 568 dell'incarnazione del Signore, i
principi cominciarono a governare nel principato beneventano : il primo ài
questi si chiamava Zotone ». 2. Chronicon antiquum sacri monasteni cas-
sinensis, olim a Leone cardinali et episcopo ostiensi conscriptum, nunc vero
a rev. patre D. Matthaeo Laureto hispano . . . recognitum . . . et auctum,
* Neapoli 1616. 3. Op. cit., p. 3.
422 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
serva nelP Archivio Cassinese, è molto discorde dall'edizione napo-
letana; poiché ivi si legge che da Zotone insino all'anno 891 non
320 overo 318, ma ben 330 anni passarono: conformi a questa le-
zione sono l'edizioni di Venezia,1 quella di Parigi,2 e l'ultima data
fuori dall'abate della Noce:3 l'una e l'altra molto più appurate che
quella di Napoli intorno al numero degli anni, in guisa che secondo
questo conto bisognerà confessare che il ducato di Benevento aves-
se il suo principio da Zotone nell'anno 561. Ma sembrerà senza alcun
dubbio cosa molto strana e assai nuova che in questo anno si do-
vesse dire di essersi instituito quel ducato, quando verrebbe ad
aver il suo principio sette anni prima che i Longobardi usciron
dalla Pannonia per l'impresa d'Italia, e quando i Greci dominavano
con vigore tutte le provincie della medesima.
In tanta varietà, a noi giova seguitare il parere del diligentissimo
Camillo Pellegrino,* scrittore accuratissimo e che con più diligenza
di tutti gli altri trattò di proposito questo soggetto : parere, che vien
sostenuto da ciò che sull'arrivo de' Longobardi in Benevento ci
lasciò scritto Costantino Porfirogenito : autore ancorché alquanto
favoloso intorno a ciò che scrive della venuta de' Longobardi in
Italia, nulladimeno in mezzo delle sue favole riluce pure qualche
raggio di vero, che può in cosa tanto difficile e dubbia additarci il
cammino per trovare il principio e instituzione di questo ducato.
Narra questo scrittore13 che, chiamati i Longobardi da Narsete in
Italia, questi venissero con le loro famiglie in Benevento, ma che
non ammessi da' Beneventani dentro alla città, fuori delle mura si
fabbricassero le loro abitazioni, e con ciò venisse a formarsi una
a) Cam. Pel., in Dis. de Due. Ben., dis. i.4 b) Constant. Porphyr.,
De admin. Imp., cap. zy.s
1. di Venezia: cfr. Chronìca sacri casinensis coenobiì, nuper impressoriae arti
tradita ac nunguam alias impressa, in qua totius monasticae religionis stimma
consistit, Venetiis 15 13. 2. quella dì Parigi: cfr. Aimoini . . . Libri quinque
de gestìs Francorum . . . Chronicon casinense Leonis Marsicanì . . ., Parisiis
1603 (Aimoin, monaco di Fleury morto nell'889). 3, V ultima . . . della
Noce: cfr. Chronica sacri monasterii casinensis . . . ex manu scriptis codicibus
quarta hac eàitione primus evulgat D. Angelus de Nuce . . ., Lutetiae Pari-
siorum 1668. 4. Op. cit., dissertazione 1 cit., pp. 1 sgg. 5. Costanti-
no VII Porfirogenito (905-959), imperatore d'Oriente, De administrando
Imperio-, vedi sia nell'edizione J. Meursius, Lugduni Batavorum 161 1, sia
nell'altra del Banduri, Imperium orientale, Parisiis 171 1, p. 82. Anche que-
sta citazione è tratta dal Pellegrino, op. cit., p. 6.
LIBRO IV • CAP. II 423
picciola città che fin da' suoi tempi riteneva ancora il nome di
Città nova: e che quivi fermati, ne' tempi seguenti loro venisse
fatto per inganno d'entrare in Benevento armati, e posta sossopra
la città uccidessero tutti i cittadini, e che preso Benevento scorser
dapoi per tutta la provincia e la sottoposero al dominio de' Lon-
gobardi, e stendessero il loro imperio dalla Calabria infino a Pavia,
toltone le città d'Otranto, Gallipoli, Rossano, Napoli, Gaeta, Sor-
rento ed Amalfi.
Ciò che narra costui, che i Longobardi usciti da Benevento sten-
dessero il loro imperio per tutta Italia, ben si vede esser favoloso e
contrastare a tutta l'istoria, dalla quale abbiamo che, usciti dalla
Pannonia sotto Alboino, i primi acquisti furono nella provincia di
Venezia, e dapoi tratto tratto nella Liguria, nell'Emilia, nella To-
scana e nell'altre provincie. Favola eziandio è ciò che dice della
Città nova, la quale molto tempo dopo la venuta d'Alboino in
Italia, cioè ducento anni appresso, fu da Arechi per timor de' Fran-
zesi costrutta, come diremo a suo luogo. Ma ciò che questo autore
narra de' Longobardi, che sotto Narsete si ricovrarono in Beneven-
to, non è certamente favoloso; poiché da quel che si è di sopra nar-
rato è costantissimo che Narsete, prima dell'invito fatto ad Alboino
e della universal trasmigrazione, in quasi tutte le sue guerre soleva
valersi in Italia de' Longobardi; né fu questa la prima volta che
furono da lui chiamati: gli ebbe ausiliari nella guerra contro a To-
tila, e sicome dice Warnefrido, avvegnaché dopo aver riportata
quella vittoria, carichi di molti doni, fossero stati rimandati alle
proprie stanze, in tutto il tempo però che possederono la Pannonia
furon sempre in aiuto de' Romani; onde è molto probabile che,
quantunque Narsete gli licenziasse, non però tutti ritornassero alle
paterne case: ma che intorno all'anno 552 ovvero 553, molti di
essi ritenuti dall'amenità del paese in Italia si fermassero, ed a
guisa di predoni andassero vagando ora in questo ora in quell'altro
luogo, del che Procopio ancora rende testimonianza; e che in fine
spontaneamente o pure per comandamento di Narsete, per tener-
gli in freno e per impedire que' disordini, che l'andar così dispersi
cagionava, fosse stata loro assegnata per abitazione la città di Be-
nevento, e che poi nell'anno 561 l'avessero occupata, nella qual
azione avessevi avuta la principal parte Zotone lor capo. Così da
quest'anno potremo dire con Ostiense che cominciassero i Lon-
gobardi a dominar Benevento sotto Zotone, perché infìno all'anno
424 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
891, nel quale furon discacciati da' Greci, corsero appunto trecento
trenta anni: ma non già che in questi tempi si fosse instituito il du-
cato, e che quando la dominazione de' Greci era in questa provin-
cia vigorosa e potente avessero quei pochi Longobardi potuto ri-
durre il Sannio in forma di ducato e stabilirvi Zotone per duca.
Per accordare poi gli anni del ducato, che Warnefrido dà a Zotone,
colla serie de* fatti e cronologia degli altri duchi successori tenuta
da quest'istesso scrittore, bisognerà ponere per primo anno di que-
sto ducato l'anno 571, cioè quando, essendo entrato già Alboino
in Italia e conquistate più provincie, fatti più audaci que' Longo-
bardi ch'erano in Benevento, scossero apertamente il giogo de'
Greci, e ribellandosi da loro avessero occupata la regione convicina
e n'avessero poi in questo anno 571 creato Zotone della lor propria
gente duca, il quale per così oscuro principio avesse cominciato
a governargli. Venuto poscia Autari ad invadere la nostra Cistibe-
rina Italia, ed avendo al suo dominio sottoposta l'intera provincia
del Sannio, trovando Benevento occupato da' Longobardi, i quali
ubbidivano a Zotone lor duca, ne confermò a costui il governo, e
fattolo tributario, come furono in appresso tutti i duchi di Bene-
vento a' re longobardi, lasciò quel ducato sotto la sua amministra-
zione; onde avvenne che presso a' scrittori il principio del ducato
di Zotone si prese, non dal tempo che Autari occupò il Sannio,
e ridottolo in forma di ducato lo commise al suo governo, ma
dal tempo che Zotone cominciò per quegli oscuri princìpi e per
questo ordine di cose ad avere il governo di Benevento e di que'
Longobardi che come narra Porfirogenito prima l'aveano occupato.
Il ducato adunque di Benevento da sì bassi e tenui princìpi ebbe
il suo nascimento, qual narrasi che sortirono ancora le più celebri
repubbliche ed i più famosi principati del mondo : col correr poi de-
gli anni, non pur agguagliò quello di Spoleti e di Friuli, ma di gran
lunga superogli, e lo vedremo un tempo occupare quasi tutta l'Ita-
lia Cistiberina, anzi verso Settentrione stendere i suoi confini più
di quel che presentemente verso quella parte si stende il nostro
Regno. Incominciò da que' pochi Longobardi che sotto Narsete in
Benevento si fermarono ; e sopra sì deboli fondamenti pian piano
venne dapoi ad introdurvisi quella politia e quella forma di go-
verno che sotto i duchi successori di Zotone per più secoli si man-
tenne. Autari fu il primo che gli diede più stabile e certa forma, e
che cominciò a dilatare i suoi confini; imperocché tutta la provincia
LIBRO IV • CAP. II 425
del Sannio sottopose egli a questo ducato; e come vedremo gli
altri re longobardi suoi successori per mezzo de* duchi maraviglio-
samente Tacerebbero, Benevento ebbe la fortuna d'esser capo e
metropoli di un tanto ducato, non per elezione, né perché forse nel
regno d'Autari questa città s'innalzasse tanto sopra tutte le altre
città di quelle provincie, che poi dominò, onde forse per questa sua
eminenza avesse avuto d' anteporsi a tante altre: vi erano nel San-
nio altre città non meno celebri ed antiche, come Isernia, Boiano
ed altre: ed assai più ragguardevoli ve n'erano nella Campania;
all'incontro Benevento, quantunque a tempo de' Romani fosse
stata una delle più celebri colonie che avesse quella repubblica,
nulladimeno per le invasioni de' Goti pati sovente di quelle cala-
mità che soglion nascere da sì strani ravolgimenti, né in tempo di
costoro riteneva più quella sua antica dignità; anzi sotto il regno
di Totila, per aver fatto demolire questo principe le sue mura,a si
ridusse in istato pur troppo lagrimevole. Fu dunque per certo fato
e per sua prospera fortuna che Benevento, costituita sede di questo
ducato, si rendesse dapoi capo e metropoli delle provincie a sé
vicine; ma questo pregio lo venne ad acquistar molto tempo dapoi.
Ben ne' tempi ne' quali scrisse Warnefrido avea questa città innal-
zata la fronte sopra tutte l'altre; ma questo fu due secoli dopo il
regno d'Autari. Perlaqualcosa, quando questo autore descrivendo
le dicisette provincie d'Italia, e collocando nel Sannio Benevento,
nomò questa città capo delle provincie circonvicine,1 ciò disse aven-
do riguardo a' tempi che scriveva, ne' quali la sede di questo ducato
s'era renduta ampissima e ricchissima, e Benevento fu innalzato ad
esser capo non pur d'una, ma di molte provincie, come del Sannio,
della Campania, della Puglia, della Lucania e de' Bruzi, o in tutto,
ovvero in parte, come appresso diremo. Sicome tutto a rovescio,
quando questo scrittore collocò Benevento nel Sannio, ciò non
fece riguardando i tempi, ne' quali dominarono i Longobardi, ma
tenne presente la vecchia descrizione d'Italia de' tempi degli anti-
chi Sanniti; poiché secondo l'altra più recente d'Augusto, come ce
a) Procop., lib. ult.2
1. descrivendo . . . circonvicine: cfr. Paolo Diacono, Degestis Langobardorum,
in Grozio, op. cit., p. 789. Il passo è copiato di peso dal Pellegrino, op. cit.,
p. 14. 2. Cfr. Gotthica historia, lib. in (e non ultimo), in Grozio, op. cit.,
p. 318.
426 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
n'assicura Plinio,a Benevento non nel Sannio, ma nella Puglia era
collocato; e nelle altre descrizioni seguite appresso si vide questa
città posta dentro a' confini della Campania; ond'è che negli atti
di Gennaro,1 quel santo vescovo di Benevento, oggi primo tutelare
di Napoli, osserviamo che, patendo egli il martirio sotto Diocle-
ziano, fu al preside della Campania, cui appartenevasi, commesso
quell'affare. E ritroviamo ancora che Ausonio,3 favoleggiando di
coloro che mutarono sesso, e narrando che in Benevento non avea
molto tempo che un giovanetto divenne femmina, chiamò Bene-
vento città campana:
Nec satis antiquum, quod campana in Benevento
unus epheborum virgo repente futi.
E per questa ragione nell'Itinerario, che s'attribuisce ad Anto-
nino, il confine della Campania si figge ad Equo Tutico, che secondo
l'osservazione di Filippo Cluveriob è quella città che noi oggi vol-
garmente chiamiamo Ariano, posta più in là di Benevento; come
sono le parole dell'Itinerario: «A Capua Equo Tutico m. p. Lini
ubi Campania limitem habet. Caudis m. p. xxi. Benevento m. p. xi.
Equo Tutico m. p. xxi».3
Né per altra ragione ancora avvenne che i Beneventani, come s'è
detto, posero più marmi cogli elogi de' consolari della Campania,
sicome altresì facevano i Campani, i Napoletani e le altre città che
dal consolare della Campania eran governate. Da' quali documen-
ti manifestamente apparisce per qual ragione l'altro Gennaro pur
vescovo di Benevento, essendo anch' egli intervenuto nel concilio
di Sardica celebrato nell'anno 347, e correndo allora il costume di
a) Plin., lib. 3, cap. n.4 b) Cluver, in Antiq. Ita!., lib. 4, cap. 8.5
1. atti di Gennaro: cfr. gli Acta Sanctorum bollandiani, Antverpiae 1757,
voi. vi di settembre, Acta SS. lanuarii episc, Sosti, Festi . . ., auctore Ioan-
ne diacono ecclesiae S. lanuarii, cap. 11 (p. 877). La notizia è copiata dal
Pellegrino, loc. cit. 2. Ausonio : cfr. la nota 1 a p. 24. Anche la citazione
che segue {Epigram., lxxvi, 13-4) è in C. Pellegrino, op. cit., pp. 14-5.
3. «A Capua . . .m. p. XXI»: «Da Capua a Equo Tutico (Ariano Irpino),
ove è il confine della Campania, ci sono cinquantaquattro miglia. Da Ca-
pua a Caudio (Montesarchio) ventuno; da Caudio a Benevento undici; da
Benevento a Equo Tutico ventuno ». 4. Anche questa citazione della
Naturalis historia di Plinio è tratta dal Pellegrino, p. 14. 5. Philipp
Cluver (15 80- 1623), Italia antiqua eiusdem Sicilia, Sardinia et Corsica,
il, Lugduni Batavorum 1624, P» 1202. Ma la citazione è tratta dal Pellegri-
no, op. cit., p. 15.
LIBRO IV • CAP. II 427
sottoscriversi i vescovi col nome della propria città e della provincia
ove quella era posta, si fosse ivi sottoscritto in questa forma:
«Ianuarius a Campania de Benevento».1
Non altrimente fece Warnefrido quando ci descrisse le dicisette
Provincie d'Italia, rappresentandole sicome le ritrovò nella notizia
dell'uno e dell'altro Imperio fatta sotto Teodosio il giovane intorno
l'anno del Signore 440, poiché ne' suoi tempi le provincie d'Italia,
ancorché ritenessero i medesimi nomi presso agli scrittori, come
anche facciamo oggi, che per ostentar erudizione nello scrivere
non pur ricorriamo a' tempi di Teodosio, ma a più alto principio
volgendoci diamo i nomi a ciascuna delle dodici nostre provincie,
che oggi compongono il Regno, secondo erano ne' tempi della li-
bera repubblica, con nomare i loro popoli Sanniti, Lucani, Hir-
pini, Salentini e simili; nulladimeno era variata in tutto la loro am-
ministrazione, e fu divisa l'Italia in più ducati che non furono prima
provincie; onde avvenne che quello che ora è Regno, e che prima
non era diviso che in quattro provincie, se ne fossero dapoi for-
mate dodici, che acquistarono altri nomi ed altri confini, come nel
proseguimento di questa istoria vedremo.
Or ritornando in cammino, l'istituzione di questo ducato, se si
riguardano i suoi bassi princìpi, fu a caso, non ad arte, in Beneven-
to stabilita, sicome furono non solo tutti gli altri ducati minori da'
Longobardi in diverse città istituiti, ma quel di Friuli ancora e
l'altro di Spoleti, e sicome sogliono essere tutte le altre cose di
questo mondo: che se si riguarda la lor origine, surte a caso da
tenuissimi princìpi s'innalzano al sommo, ove poi giunte, uopo è
che retrocedano ed allo stato di prima ritornino, come portano le
leggi delle mondane cose: leggi indispensabile alle quali l'umana
sapienza non vale ad opporsi, né a darvi riparo. Non è però che
stabilite col correr degli anni le fortune de' Longobardi in Italia,
avendo i loro re scorto che il perpetuare con lunga serie tanti ducati
sarebbe tener troppo diviso il loro regno, non pensassero dapoi
d'estinguerne moltissimi, e ritener quelli solamente che potevano
più giovare alla conservazione dello Stato. In fatti Warnefrido
istesso ne accerta che a' suoi tempi molti erano estinti, non facendo
questo scrittore ne' seguenti anni della sua istoria menzione d'altri
ducati se non di quel di Trento, di Turino, di Bergamo, di Brescia
1. « Ianuarius . . .Benevento»: cfr. ancora Pellegrino, loc. cit.
428 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
e di questi altri tre che sopra tutti s'estolsero, cioè di Spoleti, di
Friuli e questo di Benevento.
Né egli è fuor di ragione il credere che questi ultimi tre sopra
tutti gli altri si fosse proccurato avanzargli, perché stando così di-
stribuiti veniva il regno a conservarsi con più sicurtà ed a poter
estendere assai più oltre i suoi confini : imperocché, essendo situato
il ducato del Friuli all'ingresso dell'Italia, si potesse quindi con
maggior prontezza resistere alle incursioni di straniere genti che
tentassero invaderla: dall'altro di Spoleti collocato in mezzo Italia
si potesse con più faciltà contrastare a' moti de' Romani e de'
Greci, da quali in Ravenna e in Roma fortificati venivan sovente
con varie scorrerie molestati : ed il terzo di Benevento era posto a
reggere l'inferior parte d'Italia, donde si potesse fare argine a'
Greci stessi ed a' Romani, da* quali spesso per questi lati maritimi
erano assaliti ed in continue guerre esercitati. Perlaqualcosa Mat-
teo Palmerio* accuratamente ci rappresentò la politia e forma del
governo de' re longobardi, quando disse che, avendo costituita la
loro regia in Pavia, avevano vari principati per Italia distribuiti, a'
quali preponevano i duchi; fra' quali i più cospicui, e per succes-
sione osservati, erano quel di Friuli nell'ingresso dell'Italia, l'altro
di Spoleti posto quasi nell'umbilico di quella, ed il terzo di Bene-
vento per regger l'inferior parte della medesima; dappoiché questi
tre ducati furono sempre a' re sottoposti, e con uno spirito e colle
medesime leggi si governavano, formando una sola repubblica,
ed in questa maniera stabiliti si renderon più celebri, e pian piano
stendendo i lor confini (nel che sopra tutti gli altri s'avanzò quel di
Benevento) poterono lungamente conservare in Italia il dominio
de' Longobardi . . .
a) M. Palmer., in Chron., ad a. 776.1
1. Matteo Palmieri (1406- 1475), storico fiorentino, Chronicon ex libro eius
de temporibus sive Chronicon florentinum, 449-144.9. Dopo la prima edi-
zione milanese di Boninus Monbritius (circa 1475, L. Hain, Repertorium
bibliographicum, Berlin 1925, n.° 6716), fu ristampato a Venezia nel 1483,
a Parigi nel 15 12 e nel 15 18, dal Sichard a Basilea nel 1529, e infine ripreso
soltanto nel 1748 nella continuazione fiorentina dei R.I.S. (1, pp. 216 sgg.).
LIBRO V 429
Libro v
.Luitprando re de* Longobardi, avendo nell'anno 711 fermato il
soglio del suo regno in Pavia, siccome i suoi predecessori avean
fatto, cominciò a dar saggi grandissimi della sua bontà e prudenza
civile. Egli, imitando suo padre e gli altri re suoi predecessori,
nella religion cattolica fu costantissimo, ed alla di lui pietà dee
Pavia Tossa gloriose d'Agostino; poiché egli le vendicò dalle mani
de' Saraceni, dopo avergli discacciati da Sardegna, dove trovavasi
il prezioso deposito.1 Egli seguendo Tessempio di Rotati e di Gri-
moaldo volle eziandio esser partecipe della gloria di savio facitor
di leggi; poiché nel primo anno del suo regno, avendo in Pavia,
secondo il costume, ragunati gli ordini del regno, ordinò altre leggi
e l'aggiunse agli editti di Rotari e di Grimoaldo;a2 né di ciò ben
soddisfatto, ne' seguenti anni, secondo che il bisogno richiedeva,
altre ne stabilì: tanto che fra i re longobardi, dopo Rotari, Luit-
prando fu quegli che più di ogn'altro empiè il suo regno di leggi.
1. Leggi di Luitprando.
Molte leggi di questo principe piene di somma prudenza ed uti-
lità sono ancor oggi a noi rimase nel volume delle leggi longobarde;
ma nel codice membranaceo Cavense3 si leggono interi i suoi editti,
a) P. Warnefr., lib. 6, e. 58. Bernard. Saccus, Hist. ticin., lib. 9,
e. 5. Sigon., ad a. 713.
1, edalla di lui pietà . . . deposito: cfr. Paolo Diacono, Degestis Longobardo-
rum, in Grozio, op. cit., p. 922. 2. Nell'ordine: Paolo Diacono, in Grozio,
op. cit., p. 932; Bernardo Sacco, Ticinensis kistoria, Papiae 1565, cap. v del
libro x (e non già ne: vedi anche a p. 359 della ristampa in Thesaurus antiqui-
tatum et Historiarum Italiae ... del Graevius, tomo in, parte 1, Lugduni Ba-
tavorum 1704) ; C. Sigonio, Historiarum de regno Italiae libri viginti cit., pp.
5 8 sgg. 3 . nel codice membranaceo Cavense : di questo codice ha già parlato al
libro rv, cap. vi : « Fra gli altri monumenti dell'antichità, che serba l'archivio
del Monastero della Trinità della Cava dell'ordine di S. Benedetto, il qual
dopo quello di M. Casino è il più antico che abbiamo nel Regno, èwi un co-
dice membranaceo da noi con propri occhi attentamente osservato, scritto in
lettere longobarde, dove non solamente gli editti de* re longobardi . . . ma an-
che degl'imperadori franzesi e germani, che furono re d'Italia, vi sono inseri-
ti». A proposito di questo codice, nell'edizione dell'Istoria civile di Donato
Campo (Napoli 1792- 1793) posseduta dalla Biblioteca Nazionale di Napoli
(con la segnatura nei fondi manoscritti x.c. 1 13-1 14), vi è una nota autografa
di Carlo Troya al libro v, cap. 11, par. 3, a margine del capoverso «Astolfo in-
430 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
donde le prese il compilatore di quel volume. Ivi si legge il suo
primo editto che e* promulgò nel primo anno del suo regno, con-
tenente sei capitoli, fra' quali il primo ha questo titolo : de successione
filiarum. Si leggono ancora gli altri editti che e' fece ne* seguenti
anni; poiché nel quinto del suo regno ne promulgò un altro che
contiene sette altri capitoli: nell'ottavo, dieci: nel decimo anno,
cinque: nell'undecimo, trentatré: nel decimo terz'anno, cinque: nel
decimoquarto, quattordici: nel decimoquinto, dodici: nel decimo-
sesto, otto: nel decimosettimo, tredici: nel decimonono, tredici:
nel ventunesimo, nove : nel ventesimosecondo, quattro : nel vente-
simoterzo, cinque: ed alcuni altri ne promulgò negli anni seguenti.
Di maniera che le leggi di questo principe, siccome vengono regi-
strate nello stesso codice che si conserva nell'Archivio della Cava,
arrivano al numero di cento cinquantadue, alle quali nel codi-
ce suddetto si veggono aggiunti sette altri capitoli, i cui titoli o
sommari sono : I. De mercede magistri. il. De muro. in. De annona.
iv. De opera, v. De caminata. vi. De fumo. vii. De puteo.1
tanto ... », nella quale si dimostra come il Giannone non abbia mai visto il
codice, ma si sia servito della ristampa veneziana del Sessa del 1537. Ne tra-
scrivo qui il testo : « In Lindebrogio ed in tutte le edizioni delle leggi longo-
barde di Herold, Boherio, Goldasto, Muratori, Georghis [sic], Canciani, due
sono, e non sette, le leggi di Astolfo sotto il titolo qualiter quis se defendere de-
beat per guardiani. Or dunque 19 sono le leggi qui malamente ricordate da
Giannone come leggi inserite nel volume della Lombardia: togliendone cin-
que restano le quattordici che appunto abbiamo in essa lombarda di Linde-
brogio e nella muratoriana. Senza dubbio Giannone si è servito di una qual-
che edizione delle leggi longobarde stampate in qualche corpus iurisf che io
non ho ancora trovato, e nella quale per errore di stampa si è omesso di met-
tere il nome di Carlomagno, in una legge che segue alle due leggi di Astolfo :
e si è detto Item e poi altre sei volte Item. Un simile errore mi rammento esse-
re corso nella edizione del Boerio delle leggi longobarde, Napoli, 28 Xbre
183 1 . - Or mi ricordo : leggendo in Roma all'Angelica nel 7 gennaio di questo
anno la rarissima edizione del 15 12 delle leggi longobarde di Boerio, notai
che per errore certamente di stampa la legge 5 a del lib. 40 di Liutprando è at-
tribuita al re Rotari. Napoli, Regia Biblioteca degli Studi, 16 gennaio 1832 ».
In seguito, a questa nota ne aggiungeva un'altra, che testualmente dice:
«Qual piacere! Oggi si sono trovate l'editio princeps del 15 12 di Boerio e la
stampa veneta del Sessa del 1537 col commento di Carlo di Tocco - l'editio
princeps del 1512 ha tre leggi sole di Astolfo come tutti gli altri; ma l'edizio-
ne del 1537 sbaglia ed è quella confrontata dal Giannone, attribuendo alle
leggi di Astolfo altre quattro altre leggi che sono di Carlo Magno. Ed avendo
riportate queste quattro leggi ho veduto che sono le leggi 28, 38, 39, 66 d'es-
so Carlo Magno in Muratori, Canciano, Georghis e tutto. Però è chiaro che
Giannone non istudiò il codice cavense. Così son sette per errore di stampa
nell'edizione veneta del 1537 ». 1. Cfr. Leges Longobardorum cum argutissi-
mis glosis D. Caroli de Tocco sicculi • multis marginalibus postillis decorate. Una
LIBRO V 43I
Di queste leggi, solamente 137 furono inserite nel volume delle
leggi longobarde dal suo compilatore. Nel primo libro se ne leg-
gono 48 e nel secondo 89, poiché nel terzo non ne abbiamo. La
prima che si legge nel primo libro è sotto il tit. de illicito Consilio:
l'altra sotto il tit. 8, nove altre se ne leggono sotto il tit. de homicidiù:
un'altra sotto quello de parricidiis; un'altra sotto il titolo decimo-
quarto dell'istesso libro: quattro sotto quello de iniuriis mulierum:
tre nel titolo decimosettimo: una sotto il tit. de sedutone contro,
iudicem: altra nel titolo decimonono: un'altra sotto quello de pau-
perie: quattro nel titolo vigesimoterzo : dodici sotto quello defurtis,
et servisfugacibus: una sotto il tit. de invasionibus: un'altra sotto il
vigesimonono : altra sotto il tit. de raptu mulierum: un'altra sotto
quello de fornicatione: tre sotto il tit. de adulterio: una nel titolo
trigesimo quarto : e l'altra sotto quello de culpis servorum, ch'è l'ul-
tima del primo libro.
Nel secondo ne leggiamo assai più insino ad ottantanove; due
sotto il titolo secondo; una sotto il terzo: tre nel quarto; una nel
quinto: altra nel sesto: un'altra nel settimo: otto sotto il tit. de
prohibitis nuptiis: una nel nono: un'altra nel decimo: altra nelTun-
decimo: tre sotto quello de coniugiis servorum: altra sotto il titolo
decimoterzo: un'altra sotto quello de donationibus: un'altra sotto il
tit. de ultimis voluntatibus: tre sotto il ventesimo: sedici nel tit. de
debitis et guadimoniis: una sotto quello de treugis: due sotto il ven-
tesimo quinto : un'altra sotto il ventesimo sesto : altra sotto quello
de depositis: altra sotto il tit. de rebus intertiatis: sette nel tit. de
prohibita alienatone: due sotto il trentesimo: una sotto quello de
prohibita alienatione servorum: quattro sotto il tit. de praescrìptio-
nibus: due sotto quello de evictionibus: quattro sotto l'altro de sanc-
timonialibus: due nel tit. de ariolis: quattro sotto il tit. de rever enfia
Ecclesiae, seu immunitatibus debita: cinque sotto l'altro, quaUter iu-
dices iudicare debeant: una sotto il tit. de consuetudine, un'altra sotto
quello de testibus: quattro sotto il tit. qualiter quis se defen. deb. ed
una in quello de periuriis, ch'è il penultimo titolo del libro secondo.
Nel terzo leggi di Luitprando non abbiamo, come quello che
per lo più fu composto dalle leggi di quegPimperadori che l'Italia,
cum capitulari gloriosissimi Caroli Magni . . . Addita fuere insuper in easdem
leges luculentissima commentaria . . . domini Andree de Bando. Necnon annota-
tiones clarissimi iuris utriusque interpretis Nicolai Boctii — , Venetiis, impen-
siis Melchiorris Sessa, 1537. La minuta descrizione che segue corrisponde
a questa edizione veneziana.
432 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
come successori de' re de' Longobardi, signoreggiarono, dopo aver-
gli da questa provincia discacciati: tutto che alcune pochissime
leggi di Rotari, di Rachi e di Astolfo pure i compilatori v'inserisse-
ro. Alcune altre leggi di questo re possono vedersi appresso Mar-
colf oa e Goldasto.1
Ma la saviezza che mostrò questo principe in comporre il suo
regno con sì provide leggi, e tutti gli altri suoi pregi, fur non poco
oscurati dalla soverchia ambizione di dominare e dal desiderio
estremo di stendere i confini del suo regno oltre a quello che i suoi
predecessori gli avean lasciato, la quale portò egli tanto avanti che
finalmente cagionò ne' suoi successori la mina dell'imperio de*
Longobardi in Italia; poiché non contento di aver ritolto al ponte-
fice romano il patrimonio delle Alpi Cozie,3 che poco innanzi il re
Ariperto avea confermato alla Chiesa romana, invase anche il pa-
trimonio sabinense;3 e tutto intento ad approfittarsi e ad investigar
qualunque opportunità d'ampliare il suo dominio, secondando gli
avidi consigli con una presta e destrissima esecuzione, gli venne
fatto d'allargare grandemente il suo regno sopra le rovine de' Gre-
ci.4 Tanto che la sua potenza rendutasi ormai sospetta a' pontefici
romani, finalmente veggendo costoro depressa e poco men che
estinta in Italia l'autorità degl'imperadori d'Oriente, e non fidan-
dosi più de' Greci, ch'erano divenuti loro capitalissimi nemici,
pensarono nella maniera che ora diremo di ricorrere alle forze stra-
niere per abbassare imperio sì grande.
IV. Origine del dominio temporale de7 romani pontefici in Italia.
Trovavasi veramente Gregorio in angustie grandi, perché se
bene Luitprando co' Longobardi mostravano di difenderlo contra
gli sforzi di Lione, conosceva però assai bene che questo zelo lo
a) Marcul., tit. 55, § 4.s Goldast, tom. . . .
1. Di Melchior Goldast si veda la Collectio constitutionum imperialium cit.
2. Ma la saviezza . . . Cozie: il discorso che qui fa il Giannone è copiato
dal terzo libro delle Historiae de regno Italiae del Sigonio, ad annum 716.
3. patrimonio sabinense: cfr. C. Sigonio cit., ad annum 713. 4. e tutto in-
tento . . . Greci: cfr. Paolo Diacono, lib. vi, capp. 49 e 56, in Grozio, op. cit.,
pp. 923-4 e 928-9. 5. Marcolfo fu un monaco francese vissuto probabil-
mente nel VII secolo, e autore di una raccolta di formulari, divisa in due
libri: causae regales (cioè atti pubblici) e causae pagenses (atti privati),
pubblicata per la prima volta con il titolo Formularum libri duo, Lutetiae
Parisiorum 16 13, da Jerome Bignon.
libro v 433
dimostravano non tanto per di lui servigio e conservazione, quanto
per approfittarsi sopra l'altrui discordie; per la qual cagione non
aveva in che molto fidarsi di loro, come l'evento il dimostrò. Quindi
i Romani abbominando dall'un canto l'empietà di Lione, alla quale
voleva tirargli per quel suo editto,1 e dall'altro essendo loro sospet-
ta l'ambizione di Luitprando, che non cercava altro in questi tor-
bidi che d'impadronirsi del ducato Romano, si risolsero finalmente,
scosso il giogo di Lione, mantenersi uniti sotto l'ubbidienza del
papa, al quale giurarono di volerlo difendere contra gli sforzi e di
Lione e di Luitprando. Questo fu l'origine e questi furono i primi
fondamenti che si buttarono, sopra de' quali col correr degli anni
venne a stabilirsi il dominio temporale de' pontefici romani in
Italia. Cominciò il lor dominio da questo interregno che fecero i
Romani, i quali, liberatisi da Lione, eran tutti uniti sotto il papa
lor capo, ma non già ancora lor principe.2
Ma non perché tanta avversità a' suoi disegni scorgesse Eutichio,
si perde d'animo a proseguire il suo disegno; imperocché rifatta
come potè meglio la sua armata, si portò in Ravenna, e durando
ancora le fazioni in quella città, gli fu facile, veggendosi i suoi
partiggiani soccorsi con sì valide forze, ricuperarla e ridurre i Ra-
vignani nella fede del suo principe. Questi ponderando che tutta
l'Italia era per lui perduta, e che non potrebbe mai opprimere il
papa e l'ostinazione de' Romani, sempre che Luitprando era per
soccorrergli, impiegò tutta la sua destrezza e politica per distaccar
questo principe dagl'interessi del pontefice e de' Romani ed obbli-
garlo ne' suoi. Erasi in questo incontro ribellato a Luitprando Tra-
simondo duca di Spoleto, e trovandosi Luitprando impiegato a
reprimer la costui fellonia, ardeva di desiderio di farne aspra e
presta vendetta. Si era ancora il re accorto, per la resoluzione ferma
de' Romani di darsi al papa, che niente potrebbero giovargli con
essi le arti e le lusinghe per tirargli alla sua ubbidienza, ma che
restava la sola forza per far questo colpo. Per questi rispetti offe-
rendogli l'esarca il suo esercito per reprimere prima la fellonia di
Trasimondo, come che non per altri fini s'era intrigato in questa
i. per quel suo editto : furono due gli editti iconoclasti di Leone III, un pri-
mo nel 726, e l'altro nel 730. Giannone ne ha parlato nel secondo paragrafo,
qui non riprodotto, di questo stesso capitolo. 2. Il discorso giannoniano
è qui e in seguito sorretto dalla narrazione di C. Sigonio, Historiae cit., ad
annos 727-730.
434 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
guerra, che per approfittar delle occasioni ch'ella gli avrebbe som-
ministrate di tirar grandi vantaggi o dall'una o dall'altra parte: non
ebbe Eutichio a durar molta fatica per tirarlo ne' suoi disegni;
per questo dimenticatosi dell'obbligo ch'egli aveva co' Romani, e
della parola da lui data di difendere il papa e la religione contra
gl'insulti dell'imperadore, accettò queste offerte e conchiuse con
Eutichio il trattato, il quale infatti congiunse tosto la sua armata a
quella del re e seguitollo alla guerra ch'egli andò a portare contra
il duca di Spoleti suo ribelle; la quale non durò troppo, poiché
Trasimondo restò così sorpreso di questa colleganza, la quale non
aspettava punto, che subito che Luitprando fu arrivato innanzi
Spoleti venne a gittarsi a' di lui piedi chiedendogli perdono, e l'ot-
tenne: fu medesimamente ristabilito nel suo ducato, facendo di
nuovo al re il giuramento, e dandogli ostaggi della sua fedeltà.1
Mancata così tosto l'occasione d'impiegar le armi contra ribelli,
in adempimento del trattato con Eutichio furon quelle voltate contra
i Romani, e venne Luitprando con le due armate a presentarsi
sotto Roma, accampandosi nelle praterie di Nerone, che sono tra
'1 Tebro e la chiesa di S. Pietro, dirimpetto al Castel S. Angelo.
Presentendo Gregorio l'apparecchi di Luitprando, aveva fatto mu-
nire come potè il meglio la città di Roma; ma scorgendo che mal
colla forza poteva resistere a tanto apparato di guerra, avendo in-
nanzi agli occhi l'esempio del duca di Spoleti, che colle preghiere
ottenne dalla pietà di Luitprando quel che non avrebbe potuto
sperar colle armi, volle imitarlo, e senza consultar la prudenza
umana, la quale non poteva mai persuadere ch'egli fosse andato a
mettersi nelle mani de' suoi nemici, senza grandi precauzioni e
senza aver ben prima prese le sue misure, accompagnato dal clero
e da alcuni baroni romani andò egli stesso a trovare il re. Sorpreso
Luitprando da quest'atto non preveduto, non potè resistere agl'im-
pulsi della cortesia, che gli erano molto naturali, e di riceverlo con
tutto il rispetto dovuto alla santità della vita ed all'augusto carat-
tere del sovrano pontificato. Allora fu che Gregorio pigliando quel-
l'aria di maestà, che la sola virtù suprema accompagnata da una sì
alta dignità può ispirare, cominciò con tutta la forza immaginabile
temperata con una grave benignità a spander fiumi d'eloquenza,
i. Per la stretta dipendenza di Giannone dal Sigonio, cfr. la p. 65 dell'edi-
zione citata delle sue Historiae.
libro v 435
rimproverandogli la fede promessa: il torto che faceva alla religio-
ne, della quale era tanto zelante, e ponendogli avanti gli occhi i
danni gravissimi che poteva apportare al suo regno, se mancasse
di protegger la Chiesa, lo scongiurava a desistere dall'impresa, al-
trove le sue armi rivolgendo. Luitprando o tocco internamente da'
stimoli di religione, o che vedesse in quell'istante molte cose ch'egli
non aveva considerate nell'ardore della sua passione, o perché sic-
come gli uomini non sanno essere in tutto buoni, nemmeno sanno
essere in tutto cattivi,1 rimase così tocco di queste dimostrarle di
Gregorio che senza pensare, né a giustificar la sua condotta, né a
cercare scusa per metter in qualche modo a coperto l'onor suo,
gettossi alla presenza di tutti a' di lui piedi, e confessando il suo
errore protestò di voler ripararlo allora e di non mai soffrire per
l'avvenire che si facesse alcun torto a' Romani, né che si violasse
nella di lui persona la maestà della Chiesa di cui era egli padre e
capo. Ed istando l'esarca che s'adempiessero gli ordini dell'impe-
radore,a non solo non vi diede orecchio, ma per dare al papa un
più sicuro pegno della sua parola pregollo che andassero insieme
nella basilica di S. Pietro, la qual'era ancora in quel tempo fuori
delle mura della città, e quivi in presenza di tutti i capi della sua
armata, che l'avevano seguitato, fattosi disarmare, pose sopra il
sepolcro dell'Appostolo le sue armi, la cinta e la spada, il bracciale,
l'ammanto regale, la sua corona d'oro ed una croce d'argento:
supplicò dapoi il papa che ricevesse nella sua grazia l'esarca Euti-
chio, di cui non potevasi più temere, quando non avesse l'aiuto
de' Longobardi. Gregorio sperando sempre che Lione avrebbe un
dì riconosciuti i suoi errori, acconsentì a questa dimanda: dimodo-
ché ritiratosi Luitprando coli' esercito ne' suoi stati, l'esarca fu ri-
cevuto in Roma, e trattennevisi qualche tempo molto quieto in
buona intelligenza col papa; in guisa che essendo succeduto me-
desimamente in questi tempi che un impostore, il quale facevasi
chiamar Tiberio, e che vantavasi della stirpe degl'imperadori, aveva
sedutti alcuni popoli della Toscana, che lo proclamarono Augusto,b
a) Sigon., ad a. 729. b) Anast. Bibliot., in Greg. IL2
1. gli uomini . . . cattivi: è il celeberrimo commento del Machiavelli a pro-
posito di Giampaolo Baglioni, in Discorsi, 1, xxvn. 2. Di Anastasio Biblio-
tecario (815 circa- 878 circa), antipapa, lino dei personaggi più colti del
suo tempo, vedi l'edizione Étstoria de vitis romanorum pontificum a B.
436 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
Gregorio, che non trascurava occasione d'obbligarsi Lione, veg-
gendo che l'esarca n'era entrato in pensiero per non aver forze
bastanti ad opprimerlo, si maneggiò tanto appresso i Romani che
l'accompagnarono in questa guerra contra il tiranno, il quale fu
assediato e preso in un castello: donde fu mandata la di lui testa
all'imperadore.
Ma Lione indurato sempre più portò la sua passione fino all'ul-
time estremità, perché in Oriente, ove era più assoluto il suo impe-
rio, e che non aveva chi se gli opponesse, riempie di stragi, di la-
grime e di sangue il tutto: fece cancellar quante pitture erano in
tutte le chiese : indi fece pubblicar un ordine, col quale s'incaricava
a tutti gli abitanti, principalmente a quelli che avevan cura delle
chiese, di riporre nelle mani de' suoi ufficiali tutte le immagini,
acciocché in un momento potesse purgar la città, facendole bruciare
tutte insieme. Ma l'esecuzione riuscendo strepitosa, non perdo-
nandosi né a sesso né ad età, fu questa finalmente la cagione che
senza speranza di riacquistarlo fece perdere a Lione ed a' suoi
successori ciò che restava loro in Occidente. Imperocché il papa,
disperando all'intuito la riduzione di questo principe, e temendo
che un giorno non si facesse nelle provincie d'Occidente ciò che
egli vedeva con estremo dolore essersi fatto in quelle d'Oriente,
rallentò quel freno che e' per lo passato avea tenuto forte a non
permettere che i Romani scotessero affatto il giogo del lor principe,
ma lasciando al loro arbitrio di far ciò che volessero, approvò fi-
nalmente quello che egli infino allora erasi sempre studiato impe-
dire e ciò che Ì popoli aveano già cominciato a fare da loro stessi;
onde i Romani, tolta ogni ubbidienza a Lione, si sottrassero affatto
dal suo dominio, impedendo che più se gli pagassero i tributi, e
s'unirono insieme sotto l'ubbidienza di Gregorio come lor capo,
non già come lor principe.
Alcuni nostri scrittori,1 per l'autorità di Teofane, Cedreno, Zo-
Petro apostolo usque ad Nìcolaum I nunguam hactenus typis excusa, Mogun-
tiae 1602, p. 100; la copia del citato Fondo Vallettiano (vii. 4. 31) con-
tiene in margine numerose note autografe del Giannone; ma vedi anche
C. Sigonio, Historiae cit., ad annum 729 . 1 . Alcuni nostri scrittori : lo stesso
Sigonio, Historiae cit., ad annum 725, Roberto Bellarmino nel capitolo vili
del suo Tractatus depotestate summi pontificis in rebus temporalibus, adversus
Gulielmum Barclaium, Coloniae Agrippinae 161 1 (ma si veda anche di lui
il De translatione Imperii romani a Oraecis ad Francos, adversus Matthiam
Flaccium Illyricum, Antverpiae 1589), e infine il Baronio, Annales ecclesia-
siici cit., ix, 1600, ad annum 730, pp. 97 sgg.
libro v 437
nara e di Niceforo1 autori greci, e che fiorirono molto tempo dopo
Gregorio, Paolo Warnefrido ed Anastasio Bibliotecario, rappor-
tano che i Romani, scosso il giogo, elessero Gregorio per lor prin-
cipe, dandogli il giuramento di fedeltà; e che il papa, accettato il
principato di Roma ordinasse a' Romani ed a tutto il resto d'Italia
che non pagassero più tributo alPimperadore e che di più assolvesse
dal giuramento i vassalli dell'Imperio : scomunicasse con pubblica
e solenne celebrità l'imperador Lione: lo privasse non pur de' do-
mìni che egli avea in Italia, ma anche di tutto l'Imperio: e che
quindi fosse surto il dominio independente del papa sopra di
Roma e del suo ducato : che poi per la munificenza di Pipino e di
Carlo M. si stese sopra l'esarcato di Ravenna, di Pentapoli e di
molte altre città d'Italia.
Gli scrittori franzesi, fra' quali l'arcivescovo di Parigi P. di Mar-
ca,* e que' due celebri teologi Natale3 e Dupino,b niegano che Gre-
gorio, savio e prudente pontefice, avesse dato in tali eccessi: le
epistole di questo stesso pontefice,0 Warnefrido, Anastasio Biblio-
tecario, Damasceno, l'epistole ancora di Gregorio III e di Carlo M.
a Costantino ed Irene, convincono per favolosi questi racconti;
per la testimonianza de' quali tanto è lontano che Gregorio avesse
a) P. de Marca, De concord. Sacerd. et Imp., lib. 3, cap. 11, num. 2.3
b) Dup., De antiq. Eccl. disc, diss. 7.4 e) Greg. II, in Ep. 1 ad
Leonem.5
1. Teofane nacque sotto il regno di Costantino Copronimo (741-775) e
morì nell'817 ; la sua Chronographia fu edita nel Corpus bìzantinae historiae,
vii, Parisiis 1655; Giorgio Cedreno è autore di una storia universale che
giunge sino all'impero di Isacco Comneno (1057) e basata in gran parte su
Teofane e altri cronografi bizantini; edita nel 1566 dallo Xylander, fu poi
ripresa da Carlo Annibale Fabrotus per il Corpus bìzantinae historiae (1647);
per Giovanni Zonara cfr. la nota 2 a p. 31. La sua Epitome venne tradotta
in latino da Girolamo Wolff nel 1557 e successivamente in italiano dal
Fiorentino (1560) e da Ludovico Dolce (1564); fu anch'essa inserita nel
citato Corpus con a fronte la traduzione del Wolff; Niceforo Grègoras visse
tra il 1269 e il 1360; autore di una Storia bizantina, fu edito anch'esso dal
Wolff nel 1562 e ripreso nel Corpus del Fabrotus. 2. Natale: si tratta di
Noél Alexandre (cfr. la nota 1 a p. 104), Historia ecclesiastica Veteris No-
vique Testamenti, ab orbe condito ad armum post Christum natura millesimum
sexcentesimum . . ., Parisiis 1714, v, pp. 733 sgg. 3. Pierre de Marca (1594-
1662), De concordia Sacerdotii et Imperii, seu de libertatibus Ecclesiae galli-
canae libri odo, Parisiis 1704, col. 280. 4. Per Louis Ellies DuPin e l'opera
qui citata vedi la nota 5 a pp. 204-5. Il riferimento nell'edizione ivi cit.,
pp. 508 sgg. 5. La fonte già nel Du Pin cit. ; ma si veda anche la discus-
sione fattane contro il Baronio dal Pagi, ad annum 730.
438 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
scomunicato Lione, accettato il principato di Roma, sciolti i vas-
salli dell'Imperio dal giuramento e da' tributi e deposto l'impera-
dore: che anzi ci accertano che Gregorio, ancorché in mille guise
offeso, fosse stato sempre a Lione ufficioso e riverente, ed avesse in
tutte le occasioni impedite le rivolte de' popoli e proccurato che non
si sollevassero contro al lor principe. Si oppose egli è vero agli editti
di Lione per l'abolizione delle immagini, comandando che non
s'ubbidissero, ed esortando quel principe che lasciasse il disegno
in cui era entrato; ma appresso sì gravi autori non si legge che lo
scomunicasse. Il primo pontefice romano che si die vanto di aver
adoperati i suoi fulmini sopra le teste imperiali, fu il famoso Ilde-
prando Gregorio VII, come noteremo a suo luogo, non già Gre-
gorio II. Ciò che più chiaro si manifesta per quello che scrive
Anastasio, a narrando che avendo Lione deposto dal patriarcato di
Costantinopoli Germano, per non aver voluto acconsentire al-
l'editto, e sustituito Anastasio Iconoclasta, dice egli che Gregorio
scomunicò bene sì Anastasio perseverando nell'errore, ma che al-
l'imperadore solo sgridava con lettere, ammoniva, esortava che
desistesse dall'impresa, non già che lo scomunicasse, come scrisse
di Anastasio. Più favolosa è la deposizione che si narra fatta da
Gregorio; poiché questo pontefice riconobbe Lione per imperadore
finché visse; e lo stesso fece il suo successore Gregorio III il quale
comunicò col medesimo, e di lui si leggono molte lettere dirizzate
all'imperadore piene di molta umanità e riverenza. Anzi tanto è
vero che lo riconobbe sempre per tale, che le date delle sue lettere
portano gli anni del suo imperio, come è quella di Gregorio diriz-
zata a Bonifacio, Imperante domino piissimo Augusto Leone, imperii
eius XXIILh
I nostri moderni scrittori latini, tratti dall'autorità di que' greci,
riceverono come vere le loro favole; ma non avvertirono che dovea
preponderare assai più l'autorità de' nostri antichi latini scrittori,
che fiorirono prima e che narravano cose accadute in tempo ed in
parte da loro non cotanto rimota e lontana. Non avvertirono ancora
a) Anast. Bibliotec, ad a. 658.1 b) Greg. Ili, Ep. 3 ad Bonifac.
P. de Marca, De conc. Sac. et Imp., lib. 3, cap. n, num. 5.*
1. Historia de vitis romanorum pontificum cit., p. 99. 2. P. de Marca,
De concordia, ed. cit., col. 281, dove è anche il riferimento all'epistola di
Gregorio III.
libro v 439
che i Greci di quegli ultimi tempi, oltre al carattere della loro na-
zione, che gli ha sempre palesati al mondo mendaci e favolosi,
erano tutti avversi alla Chiesa romana, e per commover gli animi
di tutti ad odio, e per recar invidia a' pontefici romani, gli rappre-
sentarono al mondo per autori di novità e di rivoluzioni, imputando
ad essi la mina dell'Imperio d'Occidente, accagionandogli di no-
vatori, ambiziosi, usurpatori dell'autorità temporale de' principi : e
che mal imitando il nostro capo e maestro Giesù, fossero divenuti
da sacerdoti principi.
Le favole di questi Greci scismatici furono poi con avidità e con
applauso ricevute da' moderni novatori e da' più rabbiosi eretici
degli ultimi nostri tempi. Essi ancora, per l'autorità di costoro,
vogliono in tutti i modi che veramente Gregorio scomunicasse
Lione, che assolvesse i vassalli dell'Imperio dal giuramento, che
deponesse l'imperadore, ordinasse che non se gli pagassero i tri-
buti, e che da' Romani ribellanti essendogli offerta la signoria di
Roma, avesse accettato d'esserne signore, onde ne divenisse prin-
cipe. Spanemio,a fra gli altri, si scaglia contra gli scrittori franzesi
che hanno per favolosi nella persona di Gregorio questi racconti:
dice che essi, scrivendo sotto il regno di Lodovico il Grande, han
voluto negar questi fatti, «ne sub Ludovico M. in romano ponti-
fice huiusmodi potestatem agnoscere viderentur»:1 ma essi intanto
vogliono che fossero veri per farne un tal paragone tra Cristo S. N.
ed il P. romano. Cristo, volendo quella innumerabile turba, tratta
da' suoi miracoli, farlo re, tosto fuggì, e loro rispose che il suo regno
non era di questo mondo: il papa, avendo i ribellanti Romani
scosso il giogo di Lione ed offerto il principato a Gregorio, tosto
acconsenti e ne divenne principe. Cristo espressamente comandò
che si pagasse il tributo a Cesare: il papa ordinò che non si pagasse-
ro più i tributi a Lione; per queste e simili antìtesi^ per queste vie,
a) Spanem. contra Maimburg., in Histor. imag., pag. 52.*
i. &ne sub Ludovico . . . viderentur»: «perché non sembrassero riconoscere
un simile potere nel romano pontefice sotto Luigi il Grande ». 2. Cfr.
Louis Maimbourg (1610-1686), Histoire de Vhérésie des iconoclastes et de la
translation de l'Empire aux Francois, Paris 1686, e la risposta ad essa di
Ezechiel Spanheim (1629-1710), in Opera, ir, Lugduni Batavorum 1703:
Liber VI continens restitutam historiam imaginum, praecipue a Lionis Isauri
sec. Vili et deinceps, contra Histor. iconoclastarum Lud. Maimburgii et NaU
Alexandrum, pp. 707 sgg.
44© ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
non tenendo né modo, né misura, han prorotto poi in quella be-
stemmia di aver il papa per Anticristo.
Or chi crederebbe che i più parziali de' Greci scismatici, ed i
maggiori sostenitori di questi rabbiosi eretici, sieno ora i moderni
Romani e gli scrittori più addetti a quella corte ? Questi, ancorché
ad altro fine, pur vogliono che Gregorio avesse scomunicato Lione,
avesselo deposto, comandando che non se gli pagasse il tributo, e
quel che è più, che offerendosegli il principato da' ribellanti Ro-
mani l'avesse accettato; onde surse il dominio temporale de' ro-
mani pontefici in Italia. Ecco, per tacer degli altri, come ne scrive
il nostro istorico giesuita autor della nuova Istoria Napoletana:3
«Tum tandem Romani orientalis Imperii iugum excusserunt,
Gregorium dominum salutarunt, eique sacramentum dixerunt etc.
Gregorius oblatum ultro principatum suscepit: quem non arma,
non humanae vires artesque, sed populorum studia anno 727
auspicato contulerunt».1 Questo principio appunto vorrebbero gli
eretici dare al dominio temporale de' papi, fondarlo su la fellonia
de* Romani, e che Gregorio mal imitando Cristo N. S. avesse ac-
cettato il principato, ed il Servo de' servi fosse divenuto Signore.
Ma per quel che diremo più innanzi, si conoscerà chiaramente che
se bene da questi deboli princìpi si cominciasse, non fu però che il
papa acquistasse allora la signoria di Roma, ma ben molti anni in
appresso; né con tutto l'interregno che far pretesero i Romani di
loro propria autorità, mancarono affatto gli ufficiali dell'imperador
greco in Roma; e possiamo con verità dire che i primi acquisti
furono nell'esarcato di Ravenna, in Pentapoli, e poi nel ducato
Romano, per quelle occasioni che saremo or ora a narrare, non già
nella città di Roma.
a) Giannettas., Htst. Neap., lib. 5, pag. 94/
1. «Tum tandem — contulerunt»-. «Allora finalmente i Romani scossero il
giogo dell'Impero d'Oriente, acclamarono Gregorio loro signore e gli fe-
cero giuramento ecc. Gregorio accettò il principato spontaneamente offerto :
glielo conferirono non le armi, non la forza o l'astuzia, ma il favore popola-
re, dopo aver preso gli auspici, nell'anno 727 ». 2. Nicolò Partenio Gian-
nettasio (1648-1715), gesuita, Historia neapolitana, Neapoli 1713, in tre
tomi.
LIBRO V • CAP. V 441
CAP. V
LEGGI DE» LONGOBARDI RITENUTE IN ITALIA,
ANCORCHÉ DA QUELLA NE FOSSERO STATI SCACCIATI:
LORO GIUSTIZIA E SAVIEZZA
Le leggi de' Longobardi, se vorranno conferirsi1 colle leggi ro-
mane, il paragone certamente sarà indegno, ma se vorremo pareg-
giarle con quelle dell'altre nazioni che dopo lo scadimento dell'Im-
perio signoreggiarono in Europa, sopra l'altre tutte si renderanno
ragguardevoli, così se si considera la prudenza e i modi che usavano
in istabilirle, come la loro utilità e giustizia, e finalmente il giudicio
de' più gravi e saggi scrittori che le commendarono. Il modo che
tennero, e la somma prudenza e maturità che praticarono i re
quando volevan stabilirle, merita ogni lode e commendazione. Essi,
come s'è veduto, convocavano prima in Pavia gli ordini del Regno,
cioè i nobili e' magistrati, poiché l'ordine ecclesiastico non era da
essi conosciuto, né avea luogo nelle pubbliche deliberazioni, e né
meno la plebe, la quale, come disse Cesare parlando de' Galli,
«nulli adhibebatur Consilio»:2 si esaminava quivi con maturità e
discussione ciò che pareva più giusto ed utile da stabilire: e quello
stabilito, era poi pubblicato da' loro re negli editti. Maniera, se-
condo il sentimento di Ugon Grozio,a forse migliore di quella che
tennero gl'imperadori stessi romani, le cui leggi dipendendo dalla
sola volontà loro, soggetta a vari inganni e suggestioni, cagionarono
tant'incostanza e variazioni che del solo Giustiniano vediamo d'una
stessa cosa aver tre e quattro volte mutato e variato parere e sen-
tenza. Presso a' Longobardi, prima di pubblicarsi le leggi per mez-
zo de' loro editti, erano dagli ordini del Regno ben esaminate e di-
scusse; onde ne seguivano più comodi. Il primo, che non v'era ti-
more di potersi stabilire cosa nociva al ben pubblico, quando v'era-
no tanti occhi e tanti savi a' quali non poteva esser nascosto il dan-
no che n'avesse potuto nascere. Il secondo, ch'era da tutti con
pronto animo osservato ciò che piacque al comun consentimento di
a) Ug. Grot., in Prolegom. ad HisU Got?
1. conferirsi', confrontarsi (latinismo). 2. Cesare . . . Consilio: cfr. De beli,
gali., vi, 13 («non veniva consultata su nulla»). 3. Grozio, op. cit., pp.
63 sgg.
442 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
stabilire. E per ultimo, che non così facilmente eran soggette a
variarsi, se non quando una causa urgentissima il ricercasse: come
abbiam veduto essersi fatto da que' re che dopo Rotari successero,
i quali se non facto periculo, e dopo lunga esperienza, conoscendo
alcune leggi de' loro predecessori alquanto dure ed aspre e non
ben conformarsi a* loro tempi renduti più docili e culti, le varia-
vano e mutavano col consiglio degli ordini. Il qual sì prudente e
saggio costume lodò anche e commendò presso a* Sueoni popoli
del Settentrione quella prudente e saggia donna Brigida, a cui oggi
rendiamo noi gli onori che non si danno se non a' Santi.1
Se si voglia poi riguardare la loro giustizia ed utilità, e prima di
quelle leggi accommodate agli affari e negozi de' privati, ed alla
loro sicurità e custodia, come sono i matrimoni, le tutele, i contratti,
le alienazioni, i testamenti, le successioni ab intestato, la sicurezza
del possesso, non potremo riputarle se non tutte utili e prudenti.2
Per li matrimoni molte provide leggi s'ammirano nel libro secon-
do di quel volume.a L'ingenuo non s'accoppiava con la libertina,
né il nobile coll'ignobile; quindi essendo i re collocati sopra la
condizione di tutti, quelli morti, le loro vedove non si collocavan
poi con altri se non eran di regal dignità decorati. Ma Giustiniano
prese Teodora dalla scena con gran vituperio del principato. Quelli
che non eran nati da giuste nozze, non si creavano cavalieri, non
eran ammessi al magistrato, anzi né meno a render testimonianza.
Le profuse donazioni tra' mariti e mogli eran vietate : prudentissi-
ma fu perciò la legge di Luitprando colla quale fu posto freno al
dono maturino che solevan i mariti fare alle mogli il mattino dopo
la prima notte del loro congiungimento, che i Longobardi chiama-
a) LL. Longob., lib. 2, tit. 4, 5, 6, 7, 8, o.3
1. Il primo . . . Santi: cfr. Grozio, op. cit., Prolegomeni, p. 65: «Apud
vestros illos populos e principe ordinumque dilectis bene expensae leges
tria habebant commoda, quod nihil publice noxium latere poterat inter
tot monitores, quod prompto animo servabantur quae communis consensus
sanxerat, quod eadem nunquam aut non nisi summa causa urgente muta-
bantur: morem hunc apud Sueones et laudat et commendat Brigitta pru-
dens femina». Cfr. inoltre L. A. Muratori, Antiquitates italicae Medii
Aevi, diss. xxii. 2. Se si voglia . . . prudenti: cfr. Grozio, loc. cit. : «Priva-
torum negotiorum summa genera sunt, matrimonia, tutelae, contractus,
alienationes, testamenta, successiones ab intestato, possidendi securitas».
3. Le già citate Leges Longobardorum cum argutissimis glosis D. Caroli de
Tocco ecc., Venetiis 1537. Cfr. anche L. A. Muratori, Antiquitates italicae
Medii Aevi, diss. xv.
LIBRO V - GAP. V 443
vano morgongapf solevan sovente i mariti d'amor caldi, allettati da'
vezzi delle novelle spose, donar tutto: Luitprandob proibì tanta
profusione, e stabilì che non potessero eccedere la quarta parte
delle loro sostanze. E per gli esempi che rapporta Ducange,1 si
vede che per tutto l'undecimo secolo fu la legge osservata. Ed è
veramente nuovo e singolare ciocché l'abate Fontanini nel suo li-
bro contra il P. Germonio2 rapporta di alcuni atti che pubblicò
d'una notizia privata dell'anno 1162, nella quale si legge che un
tal Folco da (Dividale del Friuli dona a Gerlint sua moglie tutto il
suo, « omnia sua propter pretium in mane quando surrexit de lecto ».
Gli adultèri erano severamente puniti; le nozze fra' congionti, se-
condo il prescritto non men delle leggi civili che de' canoni, erano
vietate; e Luitprandoc istesso rende a noi testimonianza che fu
mosso a vietarle anche con sue leggi: «Quia,» com'è' dice «Deo
teste, papa urbis Romae, qui in omni mundo caput ecclesiarum
Dei et sacerdotum est, per suam epistolam nos adhortatus est, ut
tale coniugium fieri nullatenus permitteremus».3
Alcuni s'offendono che in questo secondo libro delle leggi de'
Longobarda si legga permesso il concubinato, vietandosi solamente
che in un istesso tempo si possa tener moglie e concubina, non
altrimente che due mogli, essendo anche presso a' Longobardi
vietata ogni poligamia. Ma tralasciando che quella legge fu di
Lotario, non già d'alcuno de' re longobardi, questa maraviglia na-
sce dal non sapere che presso a' Romani il concubinato fu una
congiunzione legittima,6 non pur tollerata, ma permessa, ed era
a) Vide Grot. in Lexico.4 b) Luitpran., LL. Long., lib. 2, tit. 4.5
e) Luitpr., leg. 4, tit. deproh. nupt. d) LL. Long., lib. 2, tit. 13, 1. 7.
e) L. si qua illusi. C. ad S. C. Orf.
1. E per gli esempi . . . Ducange: cfr. Charles Dufresne Du Cange (16 10-
1688), Glossarium ad scriptores mediae et infimae latimtatis, Lutetìae Pari-
siorum 1678, alla voce Morganegiba. 2. Fontanini ... Germonio: cfr.
Giusto Fontanini (1 666-1736), Vindiciae antiquorum diplomatimi adversus
Bartholomaei Germonii disceptationem de veteribus regum Francorum diplo-
matibus et arte secernendi antiqua diplomata vera afalsis libri duo . . ., Romae
1705. Barthélemy Germon (1663-17 12), erudito gesuita. 3. «Quia...
permitteremus»: a Poiché, testimone Iddio, il papa romano, che in tutto il
mondo è il capo delle chiese di Dio e dei sacerdoti, con sua lettera ci ha
esortato a non permettere che avvenga una tale unione in nessun modo ».
4. Grozio, Nomina appellativa et verba gotthica, vandalica, et longobardica,
quae in hoc volumine reperiuntur, cum explicatione, in op. cit., p. 578.
5. Leges Longóbardorum, ed. cit.
444 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
perciò detto semimatrimonium, e la concubina era chiamata perciò
semiconiux? e lecitamente l'uomo poteva avere per sua compagna
o la moglie o la concubina, non però in un medesimo tempo e mo-
glie e concubina insieme, perché questa era riputata poligamia, non
altrimente se tenesse due mogli.b Questo istituto fu continuato an-
che dapoiché per Costantino Magno l'Imperio abbracciò la nostra
religione, il quale ancorché ponesse freno al concubinato, non però
lo tolse; ed appresso i cristiani di più nazioni d'Europa per molti
secoli fu ritenuto ; di che fra gli altri ce ne rende certi un concilio
di Toledo, ove fu parimente stabilito che l'uomo, sia laico, sia
cherico, d'una sola debba contentarsi, o di moglie o di concubina,
non già che possa ritenere in uno stesso tempo tutte due.c Ma vie-
tatosi poi nella Chiesa latina a' preti affatto di aver moglie, ed in
conseguenza di tener anche concubine, poiché gli ecclesiastici per
la loro incontinenza non potevan vivere soli, si ritennero le con-
cubine: fu per isradicar questo costume in vari concili severamente
proibito loro di tenerle: non ebbero queste proibizioni gran suc-
cesso e furon di poco profitto : rada era l'osservanza, ed i preti non
potevano a patto alcuno distaccarsene: furono perciò replicati i di-
vieti : non vi era concilio che si convocasse che con severe minaccie
non inculcasse sempre il medesimo, detestandosi il concubinato, e
predicandosi peggior dell'adulterio, dell'incesto e più grave d'o-
gn' altro vizio. Quindi nelle seguenti età il nome del concubinato,
che prima era riputato una congiunzion legittima, fu renduto odio-
so ed orrendo in quella maniera ch'oggi si sente. Nel regno d'Italia
non pur presso a' Longobardi, ma anche quando passò sotto la
dominazione de' Franzesi, durava ancora l'istituto de' Romani. Ap-
presso alcune altre nazioni d'Europa era anche il concubinato ripu-
tato legittimo, e Cujaccio testimonia che anche a' suoi tempi era
ritenuto da' Guasconi e da altri popoli presso i Pirenei.d In Oriente
a) Cujac, in Parai, in Pand., tit. de concitò.1 b) V. Connan, lib. 8
Commenta Arnis., De tur. connubi e) Gratian., in Decreta dist. 34,
cap. 4 et 5. d) Cujac, loc. cit. : «Audio tamen eum retinere districte
Vascones et Pyreneos ».
I. J. Cujas, Paratitla in libros IX Codicis Ivstiniani, in Opera omnia, ed. 1658,
II, pp. 182-3. 2. F. Connan, Commentariorum iuris civilis libri X, cit., il,
lib. vili, cap. xiii De concubinis, ce. 558 v sgg.; Henning Arnisaeus (1580-
1636), De iure comtubiorum commentarius politzcus, Argentorati 1586.
libro v • cap. v 445
per le Novelle di Basilio Macedone* e di Lione fu il concubinato
proibito ; ma quelle non ebbero alcun vigore nelle provincie d'Eu-
ropa, come quelle ch'erano state sottratte dall'Imperio ed ubbidi-
vano a5 loro principi independentemente dagl'imperadori d'Orien-
te: ciocché meriterebbe un discorso a parte, ma tanto basterà per
ciò che riguarda il nostro istituto.
Intorno alle tutele, furon dati savi provvedimenti: eran i pupilli
raccomandati ugualmente agli agnati che a' cognati : ma de' pupilli
nobili il principal tutore era il re.b Quindi appresso noi nacque
l'istituto di darsi dal re il balio a' baroni, e prendersi da lui le let-
tere del baliato. Davano ancora alle donne per la loro imbecillità
un perpetuo tutore, ch'essi chiamavano Mundualdo, il quale s'as-
somigliava in gran parte al tutore cessizio de' Romani antichi, sotto
la cui autorità eran sempre le donne di qualunque età fossero ed
ancorché a nozze passassero : ond'è che ancor oggi in alcuni luoghi
del nostro Regno sia rimaso di loro alcun vestigio.
Ne' contratti, l'equità e la giustizia fu unicamente ricercata: i
contratti de' maggiori, difrinendo la maggior età nell'anno de-
cim'ottavo, eran ben fermi, né alle restituzioni soggetti. I creditori
ed i compratori erano sicuri di non esser fraudati e delusi per le
tacite ipoteche e per gli occulti fedecommessi; imperocché si fa-
cevan passare tutti i contratti, le vendite, i pegni, i testamenti
stessi sotto gli occhi ed avanti i magistrati ed al cospetto del popolo.
L'ordine di succedere ab intestato era semplicissimo : colui ch'era
più prossimo in grado era l'istesso che l'erede, eccetto solamente
che i figliuoli e* lor descendenti erano preferiti a* genitori.
I giudici, che appresso i Romani eran tratti in immenso1 con
grave dispendio delle proprie sostanze e cruccio dell'animo, appo
i Longobardi eran brevi e meno travagliosi. La temerità de' liti-
ganti era frenata da' pegni e dalle pleggiarie. A' giudici niente era
a) Novel. Basii. Maced. apud Leuncl., Iur. gr. rom., lib. 2, num. 2,
tom. i.z b) Grot., in Prolegom. ad HisL Got?
1. 1 giudici . . .in immenso: intendi, le cause si protraevano per un tempo
eccessivo. Sarà, questo, uno dei temi ripresi anche dal Muratori, più
tardi, nei suoi Difetti della giurisprudenza. Per questa frase cfr. Grozio,
op. cit., p. 67: «ludicia apud Romanos in immensum tracta». 2. Johann
Loewenklau (1533-1593), Iuris graeco-romani tam canonici quam civilis tomi
duo, Francofùrti 1596, p. 87. 3. Grozio, op. cit., p. 66. Il Giannone
compendia qui, e più avanti, quanto scrive il Grozio.
446 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
più facile e spedito: nelle quistioni di fatto portava Fattore i suoi
testimoni ed il reo i suoi, e colui guadagnava che dal suo canto
avea di lor maggior numero ed autorità. Nelle cose dubbie ed am-
bigue si ricorreva alla religione de' giuramenti; questo si dava al
reo, ma con molto riguardo, cioè se produceva testimoni di pro-
vata fama che deponessero ed attestassero della di lui probità e
religione, e che essi volentieri crederebbero al suo giuramento. a
Rade eran le quistioni di legge, e se pur accadevano, non dagli infi-
niti volumi degl'interpetri, ma da' semplici e piani detti delle lor
leggi, dal giusto e dal ragionevole prestamente eran decise. Pronto
era il remedio nelle perturbazioni di possesso e subita la restitu-
zione, andando il giudice co* testimoni in su '1 luogo a conoscer
dello spoglio e ad immantenente ripararlo.1
Nella cognizion criminale de* delitti erano due cose saggiamente
osservate. La violazione della ragione e società pubblica, e di quella
del privato. Per questo, due multe furono introdotte: colTuna si
riparava al danno del privato, che chiamarono Wedrigeldium, cioè
quel che si dava per lo taglione; coli' altra si riparava alla pubblica
pace, che dissero per ciò Fedra, e si dava al re o al comune di
qualche città. Commenda Ugone Groziob questo lor istituto di non
spargere il sangue de' cittadini per leggieri cagioni, ma solo per
gravissime e capitali. Ne' minori delitti bastava che per danaro si
componessero, ovvero che il colpevole passasse nella servitù del-
l'offeso, in cui s'era peccato.
I beni de* condannati erano salvi a' loro figliuoli, né stavano
soggetti a confiscazioni. Nelle cause criminali non ammettevano
appellazioni, né questo portò a Grozio alcuna maraviglia, come non
debbono altri averla; poiché i pari della Curia con somma religione
e clemenza de' lor pari giudicavano. Quindi presso di noi nacque
l'istituto che le cause capitali de' baroni non potessero decidersi
senza quelli che diciamo Pares Curiae.
I riti e le solennità ch'essi usavano nelle manumissioni e nel-
l'adozioni eran conformi a' lor costumi feroci e guerrieri. Le manu-
a) V. Struvium, Hist. tur. crimine b) Ugo Grot., in Prolegom. ad
Hìst. Got?
1. Pronto era. . .ripararlo: cfr. Grozio, op. cit., p. 67: «possessionis vi
turbatae subita reformatio, eunte in rem praesentem cum testibus iudice ».
2. Cfr. Historia iuris cit., cap. ix, Historia iuris criminalis, § x, pp. 760 sgg.
3. Grozio, loc. cit.
libro v • cap. v 447
missioni come c'insegna Paolo Warnefrido1 si facevano «per sag-
gittam», le adozioni «per arma», siccome le alienazioni «per glebae
festucaeve coniectionem in sinum emptoris».2
Dispiacque a molti queirantica consuetudine de' Longobardi che
in alcune cause dubbie ed ambigue e ne* gravi delitti se ne com-
mettesse la decisione alla singular pugna di due, che chiamiamo
duello. Fu veramente il duello antica usanza de' Longobardi, che
poi passata in legge fu per molto tempo praticata non pur da loro,
ma da molte altre nazioni le quali da' Longobardi rappresero. In
fatti ristorie loro sono piene di questi duelli; e memorando fu
quello di Adalulfo che di adulterio aveva tentata la regina Gunde-
berta,a ed avutane ripulsa, per vendicarsene ricorse al re Arioaldo
suo primo marito, al quale accusandola falsamente che insieme con
Dato duca della Toscana gl'insidiasse la vita ed il regno, fece impri-
gionare quella infelice principessa. Di che offeso Clotario re di
Francia, dal cui sangue discendeva, mandò legati ad Arioaldo con
gagliarde richieste di dover tosto liberarla; al che avendo il re ri-
sposto ch'egli aveva cagioni giustissime di tenerla prigione, e ne-
gando i legati ciò che s'imputava alla regina, affermando che men-
tivano gli autori di taTimpostura, finalmente Ansoaldo uno di essi
richiese al re che per duello il dubbio dovesse terminarsi. Vennero
alla pugna Cariberto per la regina, e l'impostore Adalulfo pel re,
nella quale restando l'ultimo vinto fu la regina liberata e restituita
al suo antico onore. Questo genere di purgazione fu cotanto com-
mendato presso a tutte le nazioni che Cujaciob dice che anche fra'
cristiani, così nelle cause civili come nelle accusazioni criminali fu
il duello lungamente praticato, ed i nostri Franzesi Normanni,
finché tennero questo Regno, sovente l'usarono. Era ben da' re
longobardi istessi riputato un esperimento fiero ed irragionevole;
ma assuefatti que' popoli lungamente a tal usanza, e reputando mi-
a) Sigon., ad a. Ó32.3 b) Cujac, lib. i defeud., tit. I, § si autem
controversia : « Et hoc genere purgationis diu usi sunt christiani, tam
in civilibus, quam in criminalibus causis, re ornili duello commissa ».4
i. Le manumissioni . . . Warnefrido: cfir. Paolo Diacono, De gestis Langobar-
dorum, lib. I, cap. XIII, in Grozio, op. cit., pp. 752-3, e Prolegomeni, ivi,
p. 68. 2. « per glebae . . . emptoris»: la frase è di Grozio, Prolegomeni, loc.
cit. («con il lancio di una zolla o di un fuscello in seno al compratore»).
3. C. Sigonio, Historiae, ed. cit., p. 37. 4. J. Cujas, Opera omnia, ed. 1658,
il, col. 606.
448 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
nor male per placar Tira e lo sdegno di quegli animi feroci com-
metter l'affare al periglio di pochi che di vedere ardere di discordie
civili le intere famiglie, loro non parve grave se non necessario il
ritenerlo. Luitprando principe prudentissimo ben lo conobbe, ma
ad esempio di Solone, che dimandato se egli avesse date le migliori
leggi che aveva saputo agli Ateniesi, rispose le migliori che potevan
confarsi a* loro costumi, così egli in una sua legge altamente di-
chiarò questi suoi sensi, dicendo che ben egli era incerto del giu-
dicio di Dio, e molti sapeva che per duello senza giusta causa re-
stavan perditori, ma soggiunse: « Sed propter consuetudinem gentis
nostrae Longobardorum legem impiam vetare non possumus».a
La religione cristiana tolse poi questa usanza, ma non si veggono
tolte le radici, onde con tanta facilità cotali effetti germogliano:
ella è nata per isradicarle interamente, ma noi medesimi siamo
quelli che le facciamo contrasto e frapponghiamo impedimenti.
La tolsero poi gli altri principi, e presso a noi l'imperadore Fede-
rico II e più severamente gli altri re suoi successori.
Dispiacque ancora quell'altro genere di prova del ferro rovente,
dell'acqua fervente, ovvero ghiacciata;13 ma di ciò non debbono
imputarsi i soli Longobardi, ma tutte l'altre nazioni d'Europa, e più
i cristiani nostri, i quali lungamente lo ritennero e l'abbracciorono
più tenacemente; imperocché credettero derivare il costume da Mo-
sè istesso, il quale comandò che si dasse alle donne imputate di
stupro certa pozione per conoscere il loro fallo o l'innocenza.1
Non fu dunque maraviglia se i Longobardi portando la cosa più
avanti ne stabilissero anche sopra ciò delle leggi, per le quali co-
mandarono che per determinare le liti si servissero anche de' vo-
meri infocati, ovvero dell'acqua fredda o bollente. S'aggiunse, per-
ché l'error durasse, e tal costume si ritenesse, la credulità e stupi-
dezza degli uomini, i quali eran così persuasi e certi di questa pruo-
va che sovente diedero facile e sicura credenza a ciò che gli storici,
o altri che se ne spacciavan testimoni, ne favoleggiavano e per cosa
a) Lib. i, 1. 23, tit. 9 de homicid. liber. hom? b) V. Struvium,
HisU iur. crimin?
1. Mosè — innocenza: da J. Cujas, op. cit., De feudis, loc. cit., come di-
mostra la citazione dello stesso Giannone, più sotto riportata (nota a a p.
449). 2. Cfr. Leges Longobardorum, ed. cit. («Ma a motivo della consue-
tudine del nostro popolo non possiamo vietare Tempia legge dei Longo-
bardi »). 3. Cfr. Historia iuris cit., cap. rx, § vili, pp. 750-1 ; § rx, pp. 756-7.
libro v • cap. v 449
certa gliele descrivevano. Né mancarono di raccontar fatti vera-
mente strani e maravigliosi, non perché essi veri fossero in realtà,
ma prodotti da una fantasia sì fortemente accesa che faceva lor
vedere uomini posti dentro il fuoco non ardere, e buttati dentro i
fiumi non sommergersi. Celebre appresso gPistorici è quel fatto
accaduto ne* tempi d'Ottone a quella innocente contessa che, ac-
cusata falsamente dall'imperadrice sua moglie, se ne purgò con un
ferro rovente da cui non fu tocca. *I più accurati scrittori riputano
favolosi tutti questi racconti delPimperadrice moglie d'Ottone, e
della pruova del ferro rovente. Intorno a che sono da vedersi coloro
che vengono rapportati da Struvio in Syntag. Hist. Germ., in Ot-
tone, pag. 371 et Muratori, Diss. 38. *x Ma assai più celebre e memo-
rabile è quell'altro a' tempi d'Alessandro II accaduto in Firenze
di Pietro Aldobrandino, che uscì al cospetto di tutto il popolo im-
mune e salvo dalle fiamme, onde acquistonne il nome di Pietro
Igneo.2 Non senza ragione adunque Federico imperadore tra le
sue leggi militari stabilì ancora che questa pruova si praticasse nelle
cause dubbie, come Radevico e Cujacioa testificano. Ma conosciu-
tosi dapoi, seriamente pensandovi, la sua incertezza, e che molti
innocenti ne riportavano pena maggiore di quella che anche legitti-
mamente convinti per rei non avrebbero potuto temere, e che all'in-
contro ne uscivan liberi i colpevoli, e che con troppo ardimento si
pretendesse tentar i giudici divini, fu da' romani pontefici proibito.
E Cujaciob rapporta che questo costume nella Lombardia cominciò
a) Cujac, lib. 1 de feud., loc. cit.: «Tertium genus purgationis
est periculum aquae ferventis, vel frigidae, vel laminae candentis,
quo etiam diu usi sunt christiani, ducto more, argumento nescio an
bono, a potione illa, quam stupri insimulatis mulieribus dari iussit
Moses, quod usque eo processit, ut et leges scriptae iuberent adhi-
beri ignitos vomeres, vel aquam frigidam aut calidam litium diri-
mendarum causa, ut Longobardae saepe et militares Friderici im-
peratoris apud Radevicum ».3 b) Cujac, loc. cit. : « Quod tamen
primum omnium exolevit in Longobardia ».
1. I più accurati . . . Diss. 38: Finterò brano è una delle aggiunte del Gian-
none. Cfr. per queste indicazioni bibliografiche B. G. Struve, Syntagma
historiae germanicae a prima gentis origine ad annum usque MDCCXVI,
Ienae 1716; L. A. Muratori, Antiquitates italicae MediiAevi, diss. xxxvin,
De iudiciis Dei. 2. Ma assai . . . Igneo : cfr. C. Baronio, Annales ecclesia-
tici cit., xi, 1605, ad annum 1063, p. 344. 3. Cfr. J. Cujas, Opera omnia
cit., loc. cit.
450 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
prima di tutti gli altri paesi a mancare e ad andare in disusanza.
Presso a noi andò parimente in obblivione, ed ancorché i Ba-
resi lungamente ritenessero l'usanze de' Longobardi, onde il li-
bro delle loro Consuetudini fu compilato, pur confessano che
fin da' tempi del re Rugiero era già tal costume affatto mancato:
«Ferri igniti, aquae ferventis, vel frigidae, aut quodlibet iudi-
cium, quod vulgo paribole nuncupatur, a nostris civibus penitus
exulavit».a
Parve anche a molti fiero e crudele quel costume di render cat-
tivi i cristiani e riceverne per la libertà riscatti, come s'è veduto
che fecero co' Crotonesi, e con altre genti delle città, ch'erano in
poter de' Greci loro nemici: del che altamente si querelava S.
Gregorio M. Ma questo costume, siccome fu narrato nel precedente
libro, era allora indifferentemente da tutti praticato: né mancano
scrittori che lo difendono per giusto.
Per queste cagioni leggiamo noi ne' più gravi autori cotanto
commendarsi sopra tutte le straniere nazioni la longobarda per
gente savia e prudente, e che meglio di tutte le altre avesse saputo
stabilire le leggi, con tanta perizia ed avvedimento dettate. Niente
dico di Groziob che perciò tante lodi l'attribuisce, niente di Paolo
Warnefrido. Guntero1 secretarlo che fu di Federico I imperadore,
e famoso poeta di que' tempi, così nel suo Ligurino cantò de'
Longobardi :
a) Consuet. Bar., rubr. de immunità § Monomachia. z b) Ugo
Grot., in Prolegom. ad Hist. Got.
i. Guntero: Gunther de Pairis, monaco cistercense vissuto tra la fine del
secolo XII e gli inizi del XIII, fu precettore del quarto dei figli di Federico I,
Corrado. Il titolo del suo poema, Ligurinus, basato sulla cronaca di Ottone
di Frisinga, prende origine dal nome col quale egli chiama i Longobardi :
Ligures. Non sappiamo di quale edizione il Giannone si sia servito. Avanti
il 1723 esistevano comunque le edizioni del Peutinger, Augustae Vindeli-
corum 1507; dello Spiegel, Argentorati 1531; del Pithou, Basileae 1569;
del Reuber nei Veterum scriptorum, qui Caesarum et imperatorum germani-
corum res per aliquot saecula gestas literis mandarunt, tomus unus, Franco-
furti 1584; infine del Rittershusius, Tubingae 1598. 2. Cfr. Vincenzo
Maxilla o Massilia, Commentarti super consuetudinibus praeclarae civitatis
Bari — , Patavii 1550 («La prova del ferro rovente, dell'acqua bollente o
gelata, o qualunque altra, detta volgarmente paribole, andò del tutto in di-
suso fra i nostri sudditi»).
LIBRO V • CAP. V 451
Gens astuta, sagax, prudens, industria, solers,
provida Consilio, legum iurisque perita.
Né lo stile con cui furono quelle leggi scritte è cotanto insulso ed
incolto come pur troppo lo riputarono i nostri scrittori: ben furono
elle giudicate dall'incomparabile Grozio degno soggetto delle sue
fatiche e de' suoi elevatissimi talenti : aveva ben egli apparecchiato
loro un giusto commentario, siccome dell'altre leggi dell'altre na-
zioni settentrionali, così ancora di queste de' Longobardi. Ma pur
troppo presto tolto a noi da immatura morte, non potè perfezio-
narlo. È bensì a noi di lui rimaso un Sillabo2 di tutti i nomi e verbi
ed altri vocaboli de' Longobardi, per cui si scuoprono i molti ab-
bagli presi da' nostri scrittori che vollero interpretarle: e Giacomo
Cujaciob ne' suoi libri de' feudi, i quali in gran parte da queste
leggi dipendono, sovente ne mostra molte voci delle medesime
reputate dalla comune schiera per barbare ed incolte, ed a cui die-
dero altro senso, essere o greche o latine, o dipendere con perfetta
analogia da queste lingue: così quella voce arga, che s'incontra
spesso in queste leggi, riputata barbara, e che i nostri vogliono che
significhi cornuto, come fra gli altri espose Maxilla nelle Consuetu-
dini di Bari,c che da queste leggi in gran parte derivano, presso a
Paolo Warnefrido,d non significa altro che inerte, scimunito, stupido
et inutile, e la voce deriva dal greco àpyóc, che appo i Greci signi-
fica lo stesso, come dice Cujacio,6 e lo conferma coll'autorità di
Didimo. E ciò che sovente occorre in questi libri astalium1 facete,
non vuol dir altro che ingannare, e mancare al principe o al com-
militone del suo aiuto e soccorso, mentre nella pugna ne tiene il
maggior bisogno ed è in periglio di vita. Così ancora farsi una cosa
osto animo, come sovente leggiamo in queste leggi, da voce latinis-
a) Questo Sillabo si legge appresso V Istoria de' Goti di Grozio.2
b) Cujac, Defeud., lib. 1, tit. 2.3 e) Maxilla, in Consuet. Bar., rub.
de Arga: «Istud nomen Arga est Longobardorum, et idem importat
quod vocare aliquem cornutum». Vedi Carlo Du Fresne in Lexic.
latinóbarbar* d) Paul. Warnefr., lib. 6, cap. 8.5 e) Cujac, loc. cit.
1. astalium: cfr. Ch. Du Cange, Glossarium cit., ad vocem. 2. Grozio,
Nomina appellativa ecc., cit., pp. 574 sgg. 3. J. Cujas, Opera omnia cit.,
n, coli. 612 sgg. 4. È il citato Glossarium del Du Cange. 5. Paolo Dia-
cono, De gestis Langobardorum, in Grozio, op. cit., pp. 907-8.
452 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
sima deriva, eh' è il medesimo che d'animo vafro ed ingannevole:
Plauto in Paenulo :
Mea sor or ita stupida est sine animo osto.1
Ed Accio appresso Nonio:
Nisi ut asta mgenium lingua laudem.2.
Parimente quell'altra voce Strigae, che in queste leggi s'incontra,
e che presso a Festo3 è Pistesso che malefica, si ritrova ancora in
Plauto in Pseudolo :
Strigibus vivis convivis intestmaque exedunt*
che i Longobardi con voce propria della nazione chiamarono anche
Mosca, ed oggi noi chiamiamo maga o strega.
L'uso del talenone dichiarato da Festo, Vegezio ed Isidoro,5
viene anche nettamente spiegato da queste leggi. a II talenone, co-
me anche spiega la legge, non era altro che una trave librata sopra
una forca di legno, per la quale si tirava con secchi l'acqua da'
pozzi.
Il chiamare le donne non casate vergini in capillo, non altronde
deriva che dall'istituto de' Romani, i quali distinguevan le vergini
da quelle che avean contratte nozze perché queste velavano il lor
capo, ed all'incontro le vergini andavan scoverte e mostravano i
loro capelli.
Galeno credette che i cavalli, e, toltone i cani, ogni sorta di qua-
drupedi non potessero esser mai rabbiosi. All'incontro Absirto e
a) LL. Longob.y lib. 2, tit. de homicid. liber. hom.f 1. 24/
1. Plauto . . . asto: è il verso 1250 (che gli editori moderni leggono e inter-
pretano in altro modo). 2. Ed Aedo . . . laudem: Nonio Marcello, filologo
romano del IV secolo d. C, autore del De compendiosa doctrina per litteras.
Ma cfr. anche in Du Cange, Glossarium cit., alla voce Asto animo. («Ameno
che io non voglia lodare l'accortezza per ingannevole lingua»). 3. Pom-
peo Festo, glossografo romano, vissuto probabilmente tra il II e il III se-
colo d. C, autore del De significata verbo-rum. Ma cfr. anche in Du Cange,
Glossarium cit., ad vocem. 4. Plauto ... exedunt: w. 820-1. S.Flavio
Vegezio Renato, vissuto probabilmente alla fine del IV secolo d. C, è
autore di una Epitome rei militaris; Isidoro di Siviglia (cfr. la nota 4 a
p. 381) è a sua volta autore di venti libri di Etymologiae. 6. Cfr. nell'edi-
zione cit., lib. 1 (e non li), tit. rx.
libro v • cap. v 453
Hierocle mulomedicia e Porfirio1 ancora, contra il sentimento di
Galeno, scrissero che potevan ancora quelli esser rabbiosi. I Lon-
gobardi in queste loro leggib ricevettero l'opinione di costoro, e
rifiutarono come falsa quella di Galeno. Molt'altri consimili vestigi
di loro erudizione si scorgono in quelle e molte altre voci di questo
genere che ad altri sembrano barbare, quando traggon la loro ori-
gine dalla greca o latina lingua, e sono sparse in questi libri, che
non accade qui tesser di loro più lungo catalogo: ciascuno per sé
potrà avvertirle, e potrà anche osservarle nel Sillabo che ne fece
Grozio, del quale poc'anzi si fece da noi memoria.
I. Leggi longobarde lungamente ritenute nel ducato Beneventano,
e poi disseminate in tutte le nostre Provincie ond'ora
si compone il Regno.
L'eminenza di queste leggi sopra tutte le altre delle nazioni stra-
niere, e la loro giustizia e sapienza potrà comprendersi ancora dal
vedere che, discacciati che furono i Longobardi dal regno d'Italia, e
succeduti in quello i Franzesi, Carlo re di Francia e d'Italia lasciolle
intatte; anzi non pur le confermò, ma volle al corpo delle medesime
aggiungerne altre proprie, che come leggi pure longobarde volle
che fossero in Lombardia, e nel resto d'Italia, che a lui ubbidiva,
osservate.
Egli ne aggiunse molte altre agli editti de' re longobardi suoi pre-
decessori, che stabilì non come imperadore o re di Francia, ma co-
me re d'Italia ovvero de' Longobardi. E siccome la legge longobarda
non ebbe vigore presso a' Franzesi, così ancora la legge salica o
francica non fu da Carlo né da' suoi successori introdotta in Italia;
a) De' mulomedici vedi G. Gotofredo nel Cod. Tk. sotto il tit.
de cursu publico.2, b) LL. Longobar.y de pauperie, 1. 2.3
i. Porfirio di Tiro (232 o 233 -primi del secolo IV d. C), discepolo di
Plotino, del quale pubblicò le Enneadi. È autore di numerose opere, e una
di esse, sul modo in cui gli embrioni divengono animati, fu a lungo attri-
buita allo stesso Galeno. 2. Codex theodosianus cit., n, lib. vili, tit. v, lex
xxxi, p. 541. Claudio Hermerote (Absirto) è il probabile autore di un
trattato di veterinaria, Mulomedicina, risalente al IV secolo d. C. Ierocle è
veterinario dell'antichità, di cui si conosce solo il nome. 3. Cfr. ed. cit.,
lib. 1, tit. xxi.
454 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
onde si vede l'error del Sigonio,a il quale tre leggi vuole che nel-
l'imperio de' Franzesi fiorissero in Italia: la romana, la longobarda
e la salica. Senonse forse volesse intendere che appo i soli Franzesi
che vennero con Carlo in Italia quella avesse forza e vigore. Pipino
suo figliuolo, e successore nel regno d'Italia, e gli altri re ed impe-
radori che gli succederono, come Lodovico, Lotario, Ottone, Cor-
rado, Errico e Guido,1 non pur le mantennero intatte ed in vigore,
ma altre leggi proprie v'aggiunsero; e quindi nacque che l'antico
compilatore di queste leggi raccolse in tre libri non pur le leggi di
que' cinque re longobardi, ma anche quelle di Carlo M. e degli
altri suoi successori insino a Corrado, che come signori d'Italia le
stabilirono, le quali tutte leggi longobarde furon dette.
Ma presso di noi per altre più rilevanti cagioni furono mantenute
e lungamente osservate. Nel ducato Beneventano, che abbracciava
la maggior parte di queste nostre provincie che ora compongono il
Regno, sotto i re longobardi loro autori furono con somma venera-
zione ubbidite. Questo ducato, ch'era ancor parte del regno loro,
si reggeva colle medesime leggi. I re aveano la sovranità di quello,
ed i duchi che lo governavano erano a loro subordinati, e Desiderio
ultimo re vi avea creato, come s'è detto, duca Arechi suo genero.
Ma mancati in Italia i re longobardi, non per questo mancarono
nel ducato Beneventano i duchi ; anzi Arechi, come diremo nel se-
guente libro, toltasi ogni soggezzione de' Franzesi, lo resse con asso-
luto ed independente imperio. Volle di regali insegne ornarsi con
scettro, corona e clamide, e farsi ungere ed elevare in principe so-
vrano, lo mantenne perciò esente da qualunque altra dominazione;
onde maggior piede e forza presero in questo ducato le leggi lon-
gobarde, le quali poi si ritennero costantemente da tutti i principi
a) Sigon., De r. ItaL, lib. 8.2
i. Lodovico . . . Ouidoi Ludovico il Pio, figlio cadetto di Carlo, fu associato
all'Impero nell'813 e morì nelT840 ; gli successe Lotario, già più volte ribelle
al padre, assieme ai fratelli, e spentosi nelP855 ; Ottone il Grande, della casa
di Sassonia, resse l'Impero dal 936 al 973; Corrado il Salico fu eletto
imperatore nel 1034 e si spense nel 1039; Enrico I fu imperatore dal 936
e padre di Ottone; Guido, duca di Spoleto, nipote di Pipino per parte di
madre, ottenne la corona imperiale nelF89i dopo una lunga lotta con
Berengario e scomparve nell'894. 2. Ma vedi piuttosto gli inizi del libro
quarto, ed. cit., p. 90. La copia posseduta dal citato Fondo Vallettiano
(XLV. 8. 14) presenta dei richiami a margine, alle righe che qui interessano,
attribuibili con buona probabilità al Giannone.
libro v • cap. v 455
beneventani successori. E diviso dapoi il principato, e moltiplicato
in tre, cioè nel Beneventano, Salernitano e Capuano, che abbrac-
ciavano quasi tutto il Regno, maggiormente si dimisero le leggi
longobarde. Il ducato Napoletano, e le altre città della Calabria e
de' Bruzi, Gaeta, ed alcune altre città maritime, che anche dapoi
durorono per qualche tempo sotto la dominazione de' Greci, rice-
vettero più tardi queste leggi. Questi luoghi, come soggetti agl'im-
peradori d'Oriente, si governavano colle leggi loro; e quali queste
si fossero sarà esaminato nel settimo libro, ove delle loro Novelle
e delle tante loro compilazioni faremo parola. Ma discacciati che
ne furono i Greci da' Normanni, e ridotte tutte queste provincie
sotto il dominio d'un solo, i Normanni a* Longobardi succeduti
ritennero le loro leggi e le diffusero per tutto, anche nelle città che
essi tolsero a* Greci, come vedremo ne* seguenti libri; onde av-
venne che dall'essere state queste leggi mantenute in Italia sotto
altri principi, che non erano longobardi, lungamente quelle du-
rassero e mettessero più profonde radici in queste nostre provin-
cie. Quindi avvenne ancora che sebbene si lasciassero intatte le
leggi romane, e che ciascuno potesse vivere sotto quella legge, o
romana o longobarda ch'e' si eleggesse,21 nulladimeno per più se-
coli la fortuna delle longobarde fu tanta che bisognò che le romane
cedessero. Poiché essendo in Italia e nelle nostre provincie intro-
dotti in più numero i feudi, e per conseguenza più baroni, i quali
non con altre leggi vivevano che con quelle de' Longobardi, si
fece che tutti i nobili, al loro esempio, vivessero colle medesime
leggi; onde, toltone gli ecclesiastici, i quali anche per esecuzione
dell'editto di Lodovico Piob viveano (di qualunque nazione si fos-
sero) colle sole leggi de' Romani, queste appo gli altri, come per
tradizione e come per antico costume, ebbero uso e vigore; ed
essendosi per l'ignoranza del secolo trascurati tutti i codici ove
eran registrate, si rimasero presso alla gente vulgare ed ignobile,
la quale così nelle leggi come nell'usanze è l'ultima a deporre gli
antichi istituti de' loro maggiori, come più minutamente vedremo
ne' seguenti libri.
E quindi parimente nacque che nel nostro Regno, a riguardo
a) In LL. Longob., lib. 2, tit. 58.1 b) Ed. Lud. Pii in LL. Longob.,
lib. 3, 1. 37. In LL. Ripuar., cap. Ecclesia iure romano vivit.
1. Cfr. ed. cit., tit. Lvn (e non 58), lex 1.
456 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
delle nuove costituzioni che s'introdussero dapoi da altri princi-
pi normanni, suevi e franzesi, la legge longobarda fu detta ius
commune, siccome quella de* Romani ;a ma con questa differenza
che il ius commune de* Longobardi era il dominante ed in più
vigore: quello de' Romani di minor autorità, ed al quale ricorre-
vasi quando mancassero le longobarde : e ciò nemmeno sempre ed
indistintamente. Per questa cagione avvenne ancora che la legge
longobarda fosse allegata ne' tribunali, commendata da tutti e ri-
putata fonte ancora dell'altre leggi che si andavano da' nuovi prin-
cipi stabilendo. Così veggiamo che i pontefici romani spesso ne'
loro decreti se ne valsero e l'approvarono.15 La legge feudale, che
oggi appresso tutte le nazioni d'Europa è una delle parti più nobili
del ius commune, non altronde che dalle leggi longobarde ricevè il
sostegno, e sopra le quali è fondata, come non solo fra' nostri
scrissero Andrea d'Isernia ed il vescovo Liparulo,1 ma l'avvertì
ancora l'incomparabile Ugon Grozio.
Le costituzioni stesse di Federico II del nostro Regno quasi tutte
dalle leggi de' Longobardi procedono, come, oltre a' nostri, scrisse
anche Grozio,0 ed è per se medesimo palese. Le Consuetudini di
Bari dalle leggi longobarde derivano, come diremo quando della
compilazione di quel volume ci tornerà occasione di favellare.
Ma ciocché non dee tralasciarsi, e che maggiormente fa cono-
scere l'autorità loro ed il credito col quale lungamente si manten-
nero in queste nostre provincie, egli è il vedere che, restituita già
la giurisprudenza romana nell'accademie d'Italia ne' tempi di Lo-
tario II, dopo l'avventuroso ritrovamento delle Pandette in Amalfi,
e posto ancor piede nella nostra accademia a' tempi dell'imperador
Federico II, non per questo mancò l'uso e l'autorità delle medesime.
Anzi i nostri scrittori allora più che mai posero la maggior cura
a) Const. Guliel. Puritatem.2, b) Gregor., e. devotis 12, qu. 2.
e) Grot., in Prolegom. ad Hist. Got. : «lana vero, quae in Regno nea-
politano siculoque valent Constitutiones a Federico II collectae,
pene omnes fluunt e legibus Longobardorum».3
1. Andrea d'Isernia (1220 circa - 13 16) scrisse i Commentarla in usus feudo-
rum, che vennero per la prima volta dati alle stampe in Napoli nel 1477.
Il Giannone ha utilizzato Pedizione Neapoli 1571, a cura di Nardo Lipa-
rulo (morto nel 1578). 2. Lib. 1, tit. 63 delle cit. Leges Longobardorum.
3. Grozio, op. cit., p. 64.
libro v • cap. v 457
e studio in commentarle; non altrimente che fecero Gregorio ed
Ermogeniano,1 i quali allora compilarono i loro codici, per li quali
proccurarono che l'antica romana giurisprudenza non si perdesse,
quando videro che Costantino M. colle nuove leggi tirava a di-
struggere l'antiche de' Romani gentili. Così veggiamo che le fati-
che postevi da Carlo di Tocco2 commentandole, non furon fatte se
non a tempo di Guglielmo re di Sicilia; e quell'altro commento
ch'abbiamo delle medesime d'Andrea da Barletta3 avvocato fiscale
che fu dell'imperador Federico II, mostra più chiaramente che sino
a' tempi di questo principe le leggi longobarde nel nostro Regno
alle romane erano superiori; e più ancora ne' tempi posteriori, per
l'altro che vi fece Biase da Morcone,4 che fiorì sotto il re Roberto.
Nella considerazione delle quali cose se per un poco si fossero
fermati i nostri scrittori, a' quali l'istoria fu sempre inimica, e che
non fece loro distinguere i tempi, come in ciò si conveniva, non
avrebbono ricolmi i loro commentari d'infinite sciocchezze, insino
a dire (non sapendo quali si fossero gli autori di queste leggi)
ch'elle furono fatte da certi re che si chiamavano longobardi, cioè
pugliesi, i quali venuti dalla Sardegna prima si fermarono nella
Romagna ed indi passarono nella Puglia, come scrissero Odofredo,
Baldo, Alessandro e Francesco di Curte e, quel ch'è più strano,
seguitati da Niccolò Boerio,5 che volle più tosto credere a questi
sogni che dare orecchio alla vera istoria.
Né Luca di Penna,6 seguitato dapoi, come spesso accade, incon-
sideratamente da Caravita, Maranta, Fabio d'Anna7 e da altri no-
i. Gregorio ed Ermogeniano: Gregoriano, o Gregorio, raccolse le costituzioni
imperiali, probabilmente al tempo di Diocleziano {Codex gregorianus) ;
Ermogeniano fu un giurista romano del IV secolo d. C, e forse il compi-
latore del Codex hermogenianus, nel quale erano raccolte le costituzioni
imperiali da Diocleziano a Valentiniano. 2. Carlo di Tocco : il già men-
zionato glossatore delle Leges Longobardorum (XIII secolo). 3. Andrea da
Barletta: Andrea Bonello da Barletta (1190 circa- 1275 circa), glossatore
civilista. 4. Biase da Morcone: Biagio da Morcone, giurista del XIV se-
colo, autore del De differentiis inter ius LangoÒardorum et ius Romanorum.
5. Odofredo Denari (morto nel 1265), giurista bolognese; Baldo: vedi
la nota 1 a p. 372; Alessandro è probabilmente il giurista meridionale
Alessandro d'Alessandro (1461-1523); Francesco di Curte forse Francesco
Curti, giurista lombardo del XVI secolo ; Niccolò Boerio : vedi la nota 1 a
p. 373. 6. Luca di Penna: Luca da Penne (lat. Lucas de Penna, morto nel
1390 circa), giurista abruzzese. Il Giannone si riferisce a Placito principimi
seu Constitutiones Regni neapolitani cum glossis . . . Lucae de Pernia, Lugdu-
ni 1534. 7. Prospero Caravita (morto nel 1580 circa), giurista di Eboli,
458 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
stri scrittori, avrebbe avuta occasione di declamar tanto contra il
ius de' Longobardi, e di chiamarlo asinino, barbaro ed incolto, e
fece più tosto che legge. Egli diceva così perché non seppe distin-
guere i tempi, ne* quali scriveva, da' secoli trascorsi, ne* quali queste
leggi furono reputate le più colte e prudenti di quante mai ne fio-
rissero in Italia: e' scrisse ne' tempi ultimi sotto il regno di Gio-
vanna I, dalla quale nell'anno 1366 fu creato giudice della Gran
Corte, quando, avanzandosi sempre più l'autorità e lo splendore
della legge romana, cominciava già fra gli avvocati a disputarsi
qual delle due leggi dovesse prevalere; onde è che egli, trovando
altri che contra il suo sentimento contendevano a favor delle lon-
gobarde, si scagliava contro di loro, cumulando di tante ingiurie
queste leggi. E non fu se non a' tempi degli Aragonesi che queste
leggi dal nostro Regno finalmente con disusanza mancassero af-
fatto, e le romane si restituirono, come buon testimonio è a noi
Matteo degli Afflitti,1 il quale, se bene dica che a' suoi tempi non
vide mai che ne' nostri tribunali le leggi de' Longobardi prevales-
sero a quelle de' Romani, testifica però di avere inteso dagli avvo-
cati vecchi che ne' tempi antichi fu osservato il contrario. Ma delle
vicende e varia fortuna di queste leggi non mancheranno nel pro-
gresso di questa istoria più opportune occasioni di lungamente
ragionare.
CAP. ULT.
Della politia ecclesiastica.
Le Chiese d'Occidente si videro in questo ottavo secolo in grandi
disordini, e quella di Roma, che dovea esser chiaro esempio per
l'altre, fu la più disordinata. Morto che fu Paolo nell'anno 767,
invase la cattedra Costantino fratello di Totone conte di Nepi:z
questi con violenza e per via di trattati si fece prima elegger papa;
autore di una raccolta di editti e prammatiche del regno di Napoli edite
la prima volta a Venezia nel 1585 ; Roberto Mar anta (morto nel 1530 circa),
giurista di Venosa; Fabio d'Anna (1555-1605), giurista napoletano autore
di una raccolta di prammatiche edite a Venezia nel 1587. Sia queste, sia
quelle raccolte dal Caravita furono riedite insieme da Biagio Altimari
(Neapoli 1682-1695, in tre volumi). 1. Matteo degli Afflìtti: vedi la nota 2
a p. 408. 2. Morto . . . Nepi: la fonte del Giannone è qui il Sigonio,
Historiae, ad annum 767, ed. cit., p. 82.
LIBRO V • CAP. ULT. 459
e poi fecesi ordinar sottodiacono, diacono e vescovo: alcuni uffi-
ciali della Chiesa di Roma, non potendo soffrire questa violenza,
ricorsero a Desiderio re de' Longobardi, ed avendo ottenuto brac-
cio ritornarono a Roma con una truppa di genti armate. Totone
gli assalì, ma nel combattimento essendo rimaso ucciso, Costantino
fu scacciato ed in suo luogo fu eletto Filippo sacerdote e monaco;
ma non essendo stato trovato abile al posto, fu costretto ritirarsi in
un monasterio, e Stefano IV fu di comun consenso eletto nel mese
d'agosto dell'anno 768. Dopo la costui elezione, Costantino fu igno-
miniosamente deposto e trattato d'una maniera crudele fu posto
prigione e gli furono cavati gli occhi: Stefano non trovandosi ben
sicuro, inviò un deputato in Francia, a fine di far regolare quanto
apparteneva agli affari della Chiesa di Roma. Carlo e Carlomanno,
a' quali il deputato, dopo la morte del loro padre Pipino, consegnò
le lettere, inviarono dodici vescovi in Roma, i quali adunatisi in
un concilio con un vescovo d'Italia confermarono Stefano e di-
chiararono nulla l'ordinazione di Costantino. Stefano restò paci-
fico possessore di questa sede; ma poi, insorte per l'elezione del-
l'arcivescovo di Ravenna, e per altre cagioni rapportate di sopra,
gravi discordie tra lui e Desiderio, questi, portando l'assedio a Ro-
ma, esercitò ivi tanto rigore che il papa pien di spavento se ne mo-
rì il primo di febbraio dell'anno 772, lasciando successore Adriano.
Non minori disordini accadevano nell'elezione delle altre sedi
minori. I favori de' principi, le violenze, i negoziati e le simonie vi
aveano la maggior parte. La disciplina era quasi che all'intutto
mancata: vi era molta ignoranza e molta licenza fra i vescovi e fra
i cherici. Non vi era dissolutezza che non commettevasi, tenevano
femmine in casa, andavano alla guerra, si arrollavano alla milizia
militando sotto gli altrui stipendi; e scotendo il giogo non ubbi-
divano più a' loro vescovi. I pontefici romani, divenuti potenti
signori nel temporale per la donazione fatta alla Chiesa di Roma da
Pipino e da Carlo suo successore, cominciarono sopra i principi a
stendere la loro potenza: Zaccheria per aver avuto gran parte alla
translazione del regno di Francia ne' Carolingi, ed Adriano del
regno d'Italia ne' Franzesi, reseli tremendi. Si pensava con mag-
gior sollecitudine alle cose temporali che alle divine e sacrate; e
seguitando gli altri vescovi il loro esempio, venne a corrompersi
ed a mancare affatto l'antica disciplina.
Dall'altro canto i principi del secolo vedendo tanta corruzione,
460 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
s'affaticavano a tutto potere alla riforma del clero e della Chiesa;
ed oltre a ciò, dandosi loro così opportuna occasione, s'intriga-
vano molto più che prima nelP elezione de' vescovi e degli altri
ministri della Chiesa, ed a disporre delle loro entrade. Lione Isau-
rico e gli altri imperadori d'Oriente suoi successori volevano esser
tenuti per moderatori non meno della politia ecclesiastica e della
disciplina che de' dogmi ancora: promulgavano editti intorno alla
adorazione dell'immagini, e toltone il solo ministerio del sacrifi-
care, essi volevan esser riputati i monarchi e' presidenti delle chie-
se; presidevano a' sinodi e lor davano vigore: davano le leggi e
componevano gli ordini ecclesiastici; soprastavano alle liti ed a'
giudici de' vescovi e de' cherici, alle elezioni che doveano farsi
nelle sedi vacanti, e ne' suffragi che doveano darsi: trasferivano i
vescovi da una sede ad un'altra: abbassavano ed innalzavano le
cattedre a lor modo, dal vescovado al metropolitano ed arcivesco-
vado : disponevano essi i gradi ed i troni per la gerarchia: partivano
le diocesi a lor modo, ed ergevano le chiese in nuovi vescovadi o
metropoli. Quindi cominciossi il disegno d'attribuire al patriar-
cato di Costantinopoli molte chiese con toglierle a quello di Roma,
siccome nel seguente secolo fu ridotto a compimento; le tolsero
infra l'altre, come diremo a suo luogo, la Sicilia, la Calabria, la
Puglia e la Campania, le quali quel patriarcato ritenne finché per
l'opera de' nostri Normanni, e particolarmente del nostro Rogiero I
re di Sicilia, non si fossero restituite a quello di Roma: e maggiori
stravaganze si videro ne' seguenti tempi nella declinazione del loro
imperio, quando proccurarono interamente sottopporre il sacerdo-
zio all'Imperio, intorno a che potranno vedersi Giovanni Filosacoa
e Tommasino,b che distesamente ne ragionano.
I principi d'Occidente, ancorché non osassero tanto, nondimeno,
collo spezioso pretesto di riparare alla difformità del clero ed alla
perduta disciplina, s'intrigavano assai più di ciò che importava la
a) Filesac., De sacr. episc. aut.9 e. 7, § 7.1 b) Tomasin., Vet. et
noi). EccL disc, p. 1, 1. 1, e. 52, n. 6.2
1. Jean Filesac (lat. Filesacus; 1556-1638), teologo e controversista fran-
cese. Il datinone si riferisce al De sacra episcoporum auctoritate . . . Com-
mentarius, Parisiis 1606. 2. Louis Thomassin (1619-1695), oratoriano
francese, Vetus et nova Ecclesiae disciplina circa beneficia et beneficiarios,
Parisiis 1691, 1, p. 198, cap. lvi (e non 52).
LIBRO V • CAP. ULT. 461
protezione e la tutela delle lor chiese; anzi ne* primi anni di questo
secolo, non meno che gli ecclesiastici, deformarono lo stato di
quelle. Carlo Martello, dopo aver preso il governo del regno di
Francia, in vece d'apportar rimedio a* disordini che regnavano, si
pose in possesso de* beni delle chiese; donò le badie ed i vesco-
vadi a' laici; distribuì le decime a' soldati, e lasciò vivere gli ec-
clesiastici ed i monaci in maggiore dissolutezza.
In Italia ed in queste nostre provincie che ubbidivano a' duchi di
Benevento, i re ed i duchi longobardi per le continue inimicizie
che tenevano co' romani pontefici fautori prima de* Greci, e poi
de' Franzesi, cagionarono non minore deformità. Il re Desiderio,
per le contese avute col pontefice Stefano IV intorno all'elezione
fatta da lui di Michele in arcivescovo di Ravenna, fatto scacciare
dal papa, per vendicarsene fece cavar gli occhi a Cristofano ed a
Sergio uomini del papa, e poi fece anche morir Cristofano, ed inti-
morì di maniera il papa che Paccellerò la morte.1
Furono i Longobardi non meno che i Goti, e gl'imperadori d'Oc-
cidente suoi predecessori, molto accorti a ritenere tutti i diritti
che lor dava la ragion dell'imperio. Il dichiarare le chiese per asili,
e prescriver le leggi per quali delitti potessero i sudditi giovarsi
dell'asilo, e per quali il confugio ad essi non giovasse, era della loro
potestà. Il re Luitprando, imitando gl'imperadori d'Occidente, de'
quali ci restano molte loro costituzioni nel Codice di Teodosio e di
Giustiniano a ciò attinenti, stabilì ancor egli che gli omicidi ed
altri rei di morte non potessero giovarsi dell'asilo.41 Impone a'
vescovi, abati e ad altri rettori delle chiese o monasteri di non
ricettargli, di non impedire il magistrato secolare volendogli estrar-
re, e se daranno mano a fargli fuggire o occultargli, ovvero ad
impedire che non siano estratti, loro si prescrive ancora pena pecu-
niaria di 600 soldi.b Ritennero ancora i nostri re longobardi la
ragione di stabilire leggi sopra i matrimoni,0 di vietargli con chi
a) L. 2 De kis qui ad EccL confugiunt, tit. 39, lib. 2 in LL. Longob.2
b) L. 4 cit., tit. 39, lib. 2.3 e) Launojus, Regia in matrim. poteste
part. 3, art. 2, cap. 7-4
1. In Italia morte: cfr. C. Sigonio, Historiae, ed. cit., p. 83. 2. Cfr. ed.
cit., tit. xxxviii (e non xxxix; la legge 11 è di Carlo Magno). 3. Cfr. ivi,
tit. xxxviii (e non xxxix; anche la legge rv è di Carlo Magno). 4. Jean
de Launoy (1603 circa - 1678), Regia in matrimonium potestas, Parisiis 1674.
462 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
l'onestà o parentela 0 affinità recava impedimento: diffinire l'età di
contraergli: dichiarare T illegittimità delle nozze, degli sponsali e
della prole, e di stabilire tutto ciò che riguarda il maggior decoro
ed onestà di quelli, com'è chiaro dalle loro leggi.a
GPimperadori d'Oriente a' quali ubbidivano in questi tempi il
ducato Napoletano, gran parte della Calabria e della Puglia e molte
città maritime di queste nostre provincie, parimente inimici de*
romani pontefici, esercitavano sopra le chiese delle città a lor sog-
gette assoluto arbitrio. Costantino e Lione suo figliuolo volevano
far valere in quelle i loro editti per l'abolizione delle immagini:
non vollero far ammettere Paolo eletto vescovo di Napoli come
aderente al pontefice, e fecero che i Napoletani non lo ricevessero
dentro la lor città. Né fu veduta maggior diformità nella Chiesa di
Napoli che in questi tempi: si vide nel medesimo tempo Stefano,
che n'era duca, e che come ufficiale dell' imperadore teneva il go-
verno del ducato, morta sua moglie, essere stato eletto vescovo, e
non deponendo l'antica carica amministrare insieme le umane e le
divine cose. Morto che fu, e succeduto nel ducato Teofilatto suo
genero, dovendosi venire all'elezione del nuovo pastore, Esprassia,
figliuola di Stefano e moglie di Teofilatto, crucciata contra il clero,
che avea mostrato della morte di suo padre gran contento ed alle-
grezza, giurò che non avrebbe fatto eleggere niun di loro per ve-
scovo ; ed il duca suo marito, sia per non contristarla, o per avarizia,
faceva perciò differire l'elezione, tanto che i Napoletani, attediati
della lunga vedovanza della lor Chiesa, andarono uniti insieme, e
clero e popolo, a gridare avanti il ducal palagio che loro dassero
per vescovo chi volevano. Allora Esprassia, tutta d'ira e di furore
accesa, prese dal popolo un uomo laico, chiamato Paolo, e loro il
diede per vescovo : né alcuno avendo ardire di contrastarle, presero
Paolo, lo tosarono e l'elessero vescovo, il quale gito a Roma, il
pontefice per la corruttela del secolo non ebbe alcuna difficoltà di
consecrarlo e confermarlo.b
a) LL. Longob.y lib. 2, tit. de prohibitis nuptiis, Kb. 2, tit. 1 de
sponsalib. b) Io. Diac, De epis. neap. Chioc, De epis. neap., a. 795. *
1. Si tratta rispettivamente di Giovanni di Napoli (IX-X secolo), diacono
della chiesa di San Gennaro, autore di un Chronicon episcoporum S. Nea-
politanae Ecclesiae ab eorum exordio usque ad annum 872, edito dal Muratori
in R.LS., tom. I, par. li, 1723; e di Bartolomeo Chioccarelli (1575 circa -
LIBRO V • CAP. ULT. 463
In tanta corruttela, ed essendo giunte le cose in tale estremità,
si scossero finalmente non meno i prelati della Chiesa che i prin-
cipi del secolo a darvi qualche riparo: in Francia morto Carlo
Martello, avendosi diviso il regno Carlomanno e Pipino suoi fi-
gliuoli, benché non avessero la qualità di re, formarono il disegno
di operare in guisa che fosse in qualche modo riformata la discipli-
na. Carlomanno principe d'Austrasia fece nel 742 convocare un
concilio in Alemagna, e vi pubblicò col consenso de* vescovi molti
regolamenti per riforma della disciplina e de* costumi: vietò agli
ecclesiastici d'andare alla guerra: ordinò a' curati di essere sotto-
messi a' loro vescovi : fece degradare e mettere in penitenza alcuni
ecclesiastici convinti di delitti d'impurità; e nell'altra adunanza,
che Tanno seguente fece tenere in Lestines vicino a Cambray, ol-
tre di aver confermato tutto ciò, vietò ancora gli adultèri, gl'incesti,
i matrimoni illegitimi e le superstizioni pagane.1
Pipino principe di Neustria si affaticò parimente dal suo canto
perché la disciplina ecclesiastica fosse riformata: fece tener un'a-
dunanza di 23 vescovi e molti Grandi del regno in Soisson nel-
l'anno 744, nella quale furono confermati i canoni de' concili pre-
cedenti ed ordinato che inviolabilmente fossero osservati: che in
ogni anno dovessero convocarsi i sinodi: che i sacerdoti dovessero
esser soggetti a' loro vescovi: che i cherici non potessero aver
femmine nelle lor case, eccettuatene le loro madri, sorelle e nipoti;
né i laici vergini a Dio sacrate. Ne' seguenti anni 752, 755, 756 e
757 furono tenute altre consimili adunanze, nelle quali si stabilirono
altri regolamenti sopra i costumi. E Carlomanno sopra ogn' altro
quasi ogni anno fece tener queste adunanze; nelle quali parimente
furono stabiliti molti capitulari per mantenere la disciplina, rino-
vando gli antichi canoni e facendo de' nuovi regolamenti sopra i
pressanti bisogni della Chiesa. Queste adunanze non erano pro-
priamente concili: elle non erano composte solamente di vescovi,
ma eziandio di signori e di Grandi del regno convocati da' principi.
I vescovi stendevano gli articoli per la politia ecclesiastica, ed
i signori per quello apparteneva allo Stato ; e poi erano autorizzati
1647 circa), Antistitum praeclarissimae Neapolitanae Ecclesiae Catalogus,
ab Apostolorum temporibus ad hanc usque nostrani aetatem et ad annum
MDCXLIII, Neapoli, s. a. (ma 1643), pp. 77-9. 1. In tanta corruttela . . .
pagane: questa e le notizie che seguono possono essere state tratte da P. De
Marca, De concordia cit., lib. vi, cap. xxrv, coli. 980 sgg.
464 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
e pubblicati da' principi, affinché avessero forza di legge.1 Questi
articoli erano chiamati capitoli, ovvero capitolari. E questa fu la
maniera colla quale era regolata la disciplina della Chiesa di Fran-
cia e di Alemagna sotto la seconda stirpe di que' re in questo
secolo.
In Italia2 furono parimente da alcuni pontefici romani stabiliti
molti canoni per riparo della caduta disciplina. Papa Zaccheria
tenne perciò due concili in Roma, uno nell'anno 743 composto
d'intorno a quaranta vescovi d'Italia, ove fu rinovata la proibizione
fatta tante volte a' vescovi, a' sacerdoti ed a' diaconi di abitare in-
sieme con femmine, e dati altri provvedimenti; l'altro nel 745,
composto di sette vescovi e d'alcuni sacerdoti, dove furono discusse
alcune accuse fatte a' vescovi e trattati alcuni dogmi intorno all'ido-
latria, e dichiarato che molti angioli che venivano invocati erano i
loro nomi ignoti, e che non si sapevano se non i nomi di tre, cioè
Michele, Raifaele e Gabriele. Anche in Aquileia Paolino suo vesco-
vo nell'anno 791 tenne un concilio, ove dopo una confessione di
fede stabilì quattordici canoni sopra la disciplina de' cherici, so-
pra i matrimoni e sopra le obbligazioni delle monache, e sopra altri
bisogni.
In Oriente,3 dapoi che l'imperadrice Irene prese il governo del-
l'Imperio, si pensò a ristabilir la disciplina: prese risoluzione di
far ragunare un nuovo concilio per esaminare ciò che l'altro fatto
tenere da Costantino Copronimo nell'anno 753 avea stabilito intor-
no al culto delle immagini. Ne diede ella avviso al pontefice Adria-
no, che vi condescese e vi mandò due sacerdoti per tenervi il suo
luogo. L'adunanza del concilio cominciò in Costantinopoli nell'an-
no 786, ma essendo stata turbata dagli ufficiali dell'esercito e da'
soldati eccitati da' vescovi opposti al culto delle immagini, fu tra-
sferita in Nicea l'anno 787.
I legati del papa vi tennero il primo luogo;4 Tarasio patriarca di
Costantinopoli il secondo: i deputati de' vescovi d'Oriente il terzo:
1. Queste adunanze . . . legge: anche per questo cfr. P. De Marca, op. cit.,
lib. vi, cap. xxv, coli. 985-6. 2. In Italia ecc. : le notizie che qui seguono
sono probabilmente tratte dalla Histoire ecclésiastique di Claude Fleury
(cfr. la nota 3 a p. 31), lib. xlii, passim. 3. In Oriente ecc. : anche per que-
ste notizie cfr. Fleury, op. cit., lib. xliv, nn. 25 e 26. 4. I legati . . . luogo:
cfr. Fleury, op. cit., lib. xliv, n. 29: «Les deux Légats du pape sont nom-
mez les premiers dans les actes».
LIBRO V • CAP. ULT. 465
dopo essi Agapeto vescovo di Cesarea in Cappadocia, Giovanni
vescovo di Efeso, Costantino metropolitano di Cipri, con 250 arci-
vescovi e vescovi e più di cento sacerdoti e monaci. Vi assisterono
ancora due commessari dell'imperadore e delPimperadrice, ed in
più azioni fu lungamente dibattuto il dogma del culto delle imma-
gini e stabiliti sopra ciò molti regolamenti. Non meno che a' dogmi,
fu provveduto sopra la disciplina ecclesiastica per 22 canoni: fu
data norma all'esame de* vescovi, prescrivendosi di non poter esser
ammessi se non fossero atti ad ammaestrare i popoli e se non sape-
vano il Salterio, il Vangelo, l'Epistole di S. Paolo ed i canoni. Si
dichiarano nulle tutte l'elezioni de' vescovi o sacerdoti fatte da'
principi, e l'elezione d'un vescovo si commette a' vescovi convicini.
Si procede severamente contra i vescovi che ricevessero denari per
deporre ovvero fulminar le scomuniche. Si ordina che tutte le
chiese ed i monasteri debbiano avere i loro economi : che i vescovi
e gli abati non possano senza necessità vendere o donare le tenute
delle loro chiese e monasteri. Che non debbano le loro case vesco-
vili e monasteri fargli servire per osterie. Che un cherico non possa
essere ascritto a due chiese: che i vescovi e gli altri ecclesiastici non
possano portare abiti pomposi. Si proibisce la fabbrica degli oratòri
ovvero cappelle, se non vi si possiede un fondo sufficiente per sommi-
nistrar le spese. Si vieta alle femmine d'abitare nelle case de' vesco-
vi, ovvero ne' monasteri d'uomini. Si proibisce di prendere cos'al-
cuna per gli ordini, né per l'ingresso ne' monasteri, sotto pena di
deposizione a' vescovi ed a' sacerdoti; ed in quanto alle badesse ed
agli abati che non sono sacerdoti di essere cacciati da* monasteri;
permette però a coloro che sono ricevuti ne' monasteri, ovvero a'
loro parenti, il donar volontariamente o denaio, o altro, sotto la
condizione però che que' donativi debbano rimanere a' monasteri,
o che colui che v'entra vi dimori, o che n'esca, quando i superiori
non siano cagione della loro uscita. Si vieta il far monasteri doppi
d'uomini e di femmine, e si comanda che rispetto a quelli che sono
già stabiliti i monaci e le monache debbiano abitare in due case
diverse; e che non possano vedersi, né aver familiarità insieme. Si
proibisce a' monaci il lasciar i loro propri monasteri per andarsene
in altri; e per ultimo il mangiar insieme con femmine, quando ciò
non fosse necessario per lo bene spirituale, ovvero per accogliere
qualche parente, o pure in occasione di viaggio.
Tali e tanti provvedimenti, perché la caduta disciplina in qualche
466 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
modo si ristabilisse, fur dati in questi tempi : dove i vizi abbonda-
vano, bisognavano molte leggi per reprimergli; ma questa non era
bastante medicina a tanti mali: a questo fine alcuni vescovi per
riformar il lor clero fecero vivere i loro preti in comune dentro
un chiostro, ed alla lor vigilanza è debitrice la chiesa dell'ordine de'
Canonici Regolari, de' quali Crodegando vescovo di Mets sembra
essere stato l'institutore, ovvero il restauratore.1 Le chiese delle
nostre provincie, le quali parte ubbidivano agli imperadori d'O-
riente, parte a' duchi longobardi, furono perciò alquanto rialzate,
ma non tanto, sì che per la barbarie ed ignoranza del secolo non si
vedessero per anche disordinate, e pochi vestigi in quelle rimanes-
sero dell'antica disciplina.
il. Monaci, e beni temporali.
I nostri principi ed i signori grandi non cessavano di far delle
donazioni considerabili alle chiese, ed a fondare de' nuovi mona-
steri ed arricchire i già costrutti. Fu veramente questo il secolo de'
monaci: l'ignoranza e la superstizione non men de' laici che de'
preti era nell'ultimo grado: solo ne' monaci eravi rimasa qualche
letteratura, onde con facilità tiravano per le orecchie la gente a
ciò ch'essi volevano : i tanti miracoli, le tante nuove divozioni in-
ventate a qualche particolar santo, l'istruir essi per l'ignoranza e
dissolutezza de' preti il popolo, operò tanto che tirarono a sé la divo-
zione e rispetto di tutti. Il re Luitprando costrusse non pur da
pertutto dove soleva dimorare molte chiese, ma anche ben ampi
monasteri. Costui edificò il monastero di S. Pietro fuori le mura
di Pavia, che a' tempi di Paolo Warnefridoa per la sua ricchezza
si chiamava Cielo d'oro. Edificò ancora in cima delle Alpi di Bar-
done il monastero di Berceto; ed oltre a ciò fabbricò in Holonna
un tempio con mirabil lavoro in onore di S. Anastasio Martire, dove
fece anche costruire un ampio monastero.2 Egli con molta magni-
ficenza per tutti i luoghi ordinò chiese, e fu il primo che dentro
a) Paul. Warnefr., lib. 6, cap. 18.3
1. Crodegando ... restauratore-, cfr. Fleury, op. cit., lib. xliii, n. 37.
2. Edificò ancora . . . monastero: per queste notizie cfr. Paolo Diacono, De
gestis Langobardorum, in Grozio, op. cit., p. 930. 3. Cfr. in Grozio, loc.
cit., al cap. lviii e non già 18.
LIBRO V • CAP. ULT. 467
il suo palazzo edificò un oratorio dedicato al Salvatore, ordinandovi
sacerdoti e cherici, i quali ogni giorno vi cantassero i divini ufEci.1
Quindi cominciarono appo noi a rilucere con maggior dignità e
splendore le cappelle regie, le quali da' sommi pontefici arricchite
poi di molte prerogative ed esenzioni per compiacere a' princi-
pi che glie le richiedevano, non meno esse che i loro cappellani
s'elevarono cotanto, quanto ravviseremo ne' seguenti libri di que-
st'istoria.
I nostri duchi di Benevento, seguitando l'esempio de' loro re,
non meno in Benevento che in tutto il loro ampio ducato ne fonda-
rono de' nuovi ed arricchirono i già costrutti, e sopra ogni altro
quello di M. Casino. Arechi ingrandì quello di S. Sofia in Beneven-
to e di profuse donazioni lo cumulò. A questi tempi nel 707 fu
costrutto da que' tre famosi nobili longobardi beneventani Paldo,
Taso e Tato il famoso monastero di S. Vincenzo a Vulturnoa con
tanta magnificenza che ne' seguenti tempi, quasi emulo di quello di
M. Casino, innalzò i suoi abati a tanta dignità ch'erano adoperati
ne' più importanti affari della sede di Roma e de' più potenti signori
d'Occidente. Non meno in questo ducato che nel Napoletano e
nelle altre città sottoposte agl'imperadori d'Oriente, i monasteri si
multiplicarono, non pure quelli sotto la Regola di S. Benedetto
che di S. Basilio; non solamente degli uomini che delle donne.
In Napoli Stefano duca e vescovo costrusse molte chiese e più
monasteri, dotandogli d'ampi poderi e rendite; così quello di S.
Festo Martire, ora unito a quello di S. Marcellino, come l'altro di
S. Pantaleone, di cui oggi non vi è vestigio ; e restituì in più magni-
fica forma quello di S. Gaudioso.15 Antimio console e duca ne
a) Ostiens., lib. 1, cap. 4. V. Pellegr. in serie abbai, cassiti. Theo-
demar. Vedi UgheL, tom. 6, pag. 470, ove si legge la Cronaca d'Aut-
perto Abate.2 b) Chioc, De epis. neap. in Stephano, a. 7Ó4-3
1. dentro il suo palazzo . . . uffici', cfr. Paolo Diacono, loc. cit.: «Intra suum
quoque palatium, oraculum domini Salvatoris aedificavit, et quod nulli
alii reges habuerant, sacerdotes et clericos instituit, qui ei quotidie divina
officia decantarent ». 2. Per la Cronaca di Leone Ostiense si veda non già
il capitolo 4, ma il 9. Per il Ckronicon vulturnense di Ambrogio Autperto,
abate di San Vincenzo al Volturno morto nel 781, cfr. F. Ughelli (vedi la
nota 2 a p. 159), Italia sacra, vi, Romae 1659, coli. 369 sgg. Questa cronaca
fu utilizzata da Camillo Pellegrino. 3. B. Chioccarelli, Antistitum praecla-
rissimae ecc., cit., pp. 72 sgg.
468 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
fondò altri, quello de' SS. Quirico e Giulitta, la chiesa di S. Paolo,
che la congiunse col monastero di S. Andrea; e così anche fecero
non meno i vescovi e' duchi di Napoli che gli altri ufficiali e' pre-
lati delle altre città di queste provincie, onde ora si compone il
Regno, i quali possono osservarsi nella laboriosa opera dell'Italia
sacra d'Ughello. Crebbero perciò i monaci e le loro ricchezze in
immenso; e non minore fu l'accrescimento della loro autorità e
riputazione a cagion dell'ignoranza negli altri, e delle lettere che
nel miglior modo che si potè in tanta barbarie fra loro si con-
servavano.
Fondati perciò tanti monasteri, i monaci, cotanto arricchiti e
vedutisi in tanta elevatezza, tentarono ora più che mai di scuotere
affatto il giogo de' vescovi. Cominciarono egli è vero nel precedente
secolo i monasteri ad esenzionarsi dalla giurisdizione de* vescovi,
ma ciò, secondo narra Alteserra,a non si usava che di radissimo.
*(Ne' precedenti secoli furono rarissime l'esenzioni de' monaci, ed
Isacco Haberto Archiep., pag. 595 crede che il primo abate esente
fosse stato quello del monastero Lirinese, a cui dal concilio Are-
latense III fosse stata conceduta la prima volta esenzione circa le
cose temporali intorno l'anno 460) .*b L'esempio che in questo seco-
lo diede Zaccheria col monastero di Monte Casino fece che gli altri
di tempo in tempo si rendessero tutti esenti. Lo splendore nel
quale era il medesimo in questi tempi trasse a sé tutto il favore de'
romani pontefici, i quali, come se fossero presaghi che da quello
come dal cavallo troiano ne doveano uscire tanti pontefici suoi suc-
cessori, non mai si stancarono di cumularlo di privilegi e di preroga-
tive. Lo rendevano più augusto essersi ivi resi monaci, oltre a Rachi,
Carlomanno e tanti altri personaggi regali ed illustri; perciò, ristabi-
lito col favore de' due Gregori II e III da Petronace in quella magni-
fica forma, Zaccheria emulando i suoi predecessori volle di maggiori
preminenze arricchirlo. Volle egli di sua man propria consecrarlo,
a) Alteser., Asceticon, Kb. 7, cap. 12.1 b) Vid. Fleury, Hist. eccL,
1. 29, nu. 19. Thomas., par. 1, 1. 3, cap. 26, num. 16.2
1. A. Dadin de Hauteserre, Asceticon, sive originum rei monasticae libri
decem> Parisiis 1674, pp. 393 sgg. Ma cfr. anche P. De Marca, De concor-
dia cit., coli. 325 sgg. 2. Il brano tra parentesi è aggiunta del Gianno-
ne; il riferimento è a Isaac Habert (morto nel 1668), vescovo di Vabres,
autore del De consensu hierarchiae et monarchiae . . ., Parisiis 1640, e del
De cathedra seu primatu singulari S. Petti . . ., Parisiis 1645.
LIBRO V - CAP. ULT. 469
ed ivi portatosi con tredici arcivescovi e sessantotto vescovi, rendè
più augusta e magnifica la consecrazione. Furono i monaci pronti a
richiederlo che sì famoso ed illustre monastero dovesse esentarsi
affatto dalla giurisdizione del proprio vescovo nella cui diocesi era;
Zaccheria volentieri gli concedè ampia esenzione, e ne spedì privi-
legio, col quale non solo quel monastero, ma tutti gli altri apparte-
nenti a quello, ovunque posti, fossero esenti e liberi dalla giurisdi-
zione di tutti i vescovi, «ita ut nullius iuri subiaceat, nisi solius
romani pontificis», come sono le parole di Lione Ostiense.* Oltre
a ciò lo decorò ancora d'altre preminenze, che in tutti i concili
l'abate cassinense sopra tutti gli altri abati sedesse, e prima degli
altri desse il suo voto; ch'eletto da' monaci dovesse consacrarsi dal
pontefice romano ; che il vescovo entrando nella sua dizione non
potesse celebrare né far altra pontificai funzione, se non fosse in-
vitato dall'abate o dal proposito; che non gli fosse lecito esigger
decime da lui, né interdire i suoi sacerdoti, né chiamarli a' concili
sinodali; che gli abati di questo monastero potessero tener ordina-
zioni, consecrar altari e ricevere per qualsisia vescovo il Crisma.
Gli confermò ancora con suo precetto la possessione di tutti que'
beni che per munificenza di tanti principi longobardi e di vari si-
gnori avea acquistati. Gli altri pontefici successori, seguitando le
medesime pedate accrebbero questi privilegi, de' quali l'abate della
Noceb ne ha tessuto un lungo catalogo.
Gli altri monasteri sotto altre regole, ed i loro abati di non infe-
rior fama e valore con facilità impetravano da' romani pontefici
d'esser ricevuti sotto la protezion di S. Pietro, ed immediatamente
sotto alla soggezion pontificia, perché questa esenzione accresceva
in gran parte la lor potenza e portava grande estenzione della loro
autorità appresso tutte le nazioni dell'Occidente; poiché costruen-
dosi tuttavia grandi e numerosi monasteri retti da abati di gran
a) Ostiens., lib. 1, cap. 4. V. l'Abate della Noce, che testifica ser-
barsi ancora questo privilegio nelPArchiv. Cassin.1 b) Ab. della
Noce, in Excurs, hist. ad Chron. Ost., lib. 1, e. 4.2
1. Cfr. Leone Ostiense, Chronica, ed. cit. di A. della Noce, p. 103. Ma
sull'autenticità di questa bolla cfr. L. A. Muratori, Antiqmtates italicae
Medii Aevi, diss. lxx. (« Così che non dipenda dalla giurisdizione di nessu-
no, se non da quella del solo pontefice romano »). 2. Cfr. Leone Ostiense,
Chronica, ed. cit., pp. 103-7.
470 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
fama, i quali per la lor dottrina oscuravano i vescovi, nacque infra
di loro qualche gara; onde gli abati per sottrarsi dalla loro sogge-
zione ricorrevano al papa e tosto impetravano esenzioni con sot-
toporsi immediatamente sotto alla soggezion pontificia. Ne rice-
vevano oltre a ciò altri privilegi, di far essi li lettori per i loro mo-
nasteri, d'esser ordinati da' corevescovi,1 e tanti altri. Quindi nac-
que che il pontificato romano acquistasse molti defensori della sua
autorità e potestà ; poiché, ottenendo i monaci tanti privilegi e prero-
gative, per conservarsegli erano obbligati di sostener l'autorità del
concedente; il che facendo ottimamente i monaci, ch'erano i più
letterati del secolo, non passarono molti anni che si videro tutti i
monasteri esentati. Ed in decorso di tempo i capitoli ancora delle
cattedrali, essendo per la maggior parte regolari, co* medesimi
pretesti impetrarono anch'essi esenzione: e finalmente le congre-
gazioni Cluniacense e Cisterciense tutte intere furono esentate con
gran augumento dell'autorità pontificia, la quale veniva ad aver
sudditi propri in ciascun luogo, ancorché da Roma lontanissimo,
li quali, nell'istesso tempo ch'erano difesi e protetti dal papato,
scambievolmente erano i difensori e protettori della sua potestà. S.
Bernardo ancorché cisterciense non lodava l'invenzione, e di tal
corruttela ne portava spesso le doglianze non pur ad Arrigo arci-
vescovo di Sens,a ma ammoniva l'istesso pontefice Eugenio III a
considerare che tutti erano abusi, né si doveva aver per bene se un
abate ricusava di sottomettersi al vescovo, ed il vescovo al metropo-
litano. Riccardo arcivescovo di Contorberyb pur lo stesso esclamava
a) S. Ber., Epist. 42 et lib. 3 De consta, ad Eugeni b) P. Blesen.,
Ep. 68.3
1. corevescovi: o corepiscopi (letteralmente vescovi della campagna), ausi-
liari del vescovo titolare. 2. Cfr. Sancti Bernardi abbatìs primi Clarae-
Vallensis . . . genuina sancti doctoris opera . . . post Horsùum denuo recognita,
atleta . . . secundis curis dormii Iohannis Mabillon . . ., Parisiis 1690. Tutta-
via, poiché il Mabillon espunge l'epistola xlii dalla collezione delle lettere
per considerarla un trattato a sé stante, De moribus et officio episcoporum
(1, pp. 461 sgg.), è più probabile che il Giannone si sia servito della pre-
cedente monumentale edizione parigina, «e typographia regia», del 1640-
1642 (per questa cfr. rv, pp. 109 sgg.). Quanto al trattato De consideratone
si veda, in quest'ultima edizione, in particolare il cap. 2 del libro ni, pp. 48
sgg. Avverto però che quest'ultimo rinvio è anche in P. De Marca, De
concordia cit., col. 329. 3. Pietro Blesense (Peter of Blois, 1 160-1204). Cfr.
in Maxima bibliotheca cit., xxiv, pp. 987-8. Ma cfr. P. De Marca, De con-
cordia cit., col. 329.
LIBRO V • CAP. ULT. 471
con Alessandro III. Ma costoro, che non ben intendevano questi
tratti di Stato, non furono intesi, né alle loro querele si diede orec-
chio ; anzi ne* tempi posteriori battendosi la medesima via, si pro-
cede più avanti; poiché dapoi gli Ordini Mendicanti non solo ot-
tennero ogni esenzione dall'autorità episcopale, e generalmente
ovunque fossero, ma anche facoltà di fabbricar chiese in qualunque
luogo ed in quelle eziandio ministrar Sacramenti: e negli ultimi
secoli s'era tanto innanzi proceduto che ogni privato prete con
poca spesa s'impetrava un'esenzione dalla superiorità del suo ve-
scovo, non solo nelle cause di correzione, ma anche per poter esser
ordinato da chi gli piaceva, ed in somma di non riconoscere il vesco-
vo in conto alcuno; e quantunque nel concilio di Costanza alle
calde e ripetite querele del famoso Gersonea moltissime esenzioni
s'annullassero, ed ultimamente nel concilio di Trentob si procu-
rasse a tanti eccessi qualche compenso, non sono però dapoi man-
cati modi alla corte di Roma di far ricadere la bisogna, salva l'au-
torità del medesimo, in quello stato che oggi tutti veggiamo.
Questi ingrandimenti dello stato monastico portarono non solo
a' monaci grandi ricchezze, ma in conseguenza assai più alla corte
di Roma, ove finalmente vennero quelle a terminare. Si proccurava
non solo favorire l'acquisti e tener sempre aperte le scaturigini,
ma con severi anatemi proibir le alienazioni e scagliargli ancora
contro chi ardiva di turbar l'acquistato. Per l'ignoranza e supersti-
zione de' popoli i pellegrinaggi erano più freguenti: l'orazioni ed
i sacrifici a fin di liberar l'anime de' loro defonti dal Purgatorio
erano vie più raccomandati e molto più praticati. Si vide per ciò
in questo secolo una gran cura del canto, de' riti e di ben ufficiare:
le campane cominciarono ad esser comuni in tutte le chiese e
monasteri ; e le particolari devozioni a' Santi, de' quali eransi com-
poste innumerabili vite e miracoli, tiravano molti a donare alle lor
chiese e monasteri. Ma i monaci non contenti di ciò, favoriti da'
pontefici romani, invasero anche le decime dovute a' vescovi ed a'
a) Gerson., Traci, depotest. eccl., cons. io etDestatib. eccl., consid.
9.1 b) Sess. 14 de refor., e. 4 ed altrove.
1. Cfr. Jean de Gerson (1363-1429), Opera multo quam antéhac auctiora et
castigatiora, Parisiis 1606: Tractatus de potestate ecclesiastica, et de origine
iuris et legum, 1, coli. 125 sgg., e Tractatus de statibus ecclesiasticis, «De
statu prelatorum», ivi, col. 190.
472 ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
parrochi da' loro parrocchiani. Pretesero, e l'ottennero da' creduli
devoti, che impiegandosi essi assai meglio che i preti alla cura delle
loro anime, come quelli che più esperti sapevan far delle prediche
e de' sermoni, ed istruirgli nella dottrina cristiana, le decime non
a* parrochi, ma ad essi dovessero pagarle; ed in effetto per lungo
tempo vi diedero un guasto grandissimo non inferiore a quello che
v'avea dato in Francia Carlo Martello, tanto che bisognò ne* secoli
seguenti penar molto a ritoglierle e ristituirle a' propri preti, a*
quali s'erano involate.
Niun' altra provincia del mondo quanto il nostro Reame ha fatto
conoscere quanto importava a Roma la ricchezza de5 monaci: le
maggiori commende, i più grandi benefizi ch'ella oggi dispensa a'
suoi cardinali e ad altri suoi prelati per mantener la pompa e lo
splendore della sua Corte, non altronde dipendono ed hanno la di
loro origine se non da queste profusioni de' nostri principi e de'
nostri fedeli. I monasteri più ricchi perciò si videro dare in com-
mende. Quelli che il tempo consumò sono rimasi fondi di tante
rendite che ora ne traggono : e le entrate di que' tanti monasteri di
che ora appena sene serba vestigio, tutte in Roma vanno a colare.
Quindi i pontefici romani gareggiando co' principi, siccome quelli
investono i loro fedeli de' feudi, così essi a' suoi conferiscono bene-
fizi; e siccome per la materia feudale ne è surto un nuovo corpo di
leggi, così per la benefiziarla se n'è fatta una nuova giurisprudenza,
che occupa tanti volumi quanti ne ha occupati la feudale; ma di ciò
a più opportuno luogo.
PROFESSIONE DI FEDE
NOTA INTRODUTTIVA
L apparizione dell'Istoria civile del regno di Napoli produsse un no-
tevole choc tra i monsignori della Curia romana, anche se non solo
fra essi. Per capire la reazione romana occorre tener presente la data
di pubblicazione delTopera: nel 1723 Gianfrancesco Albani è appena
appena sceso nella tomba. Era stato il papa della Unigenitus e della
Pastoralis officii, cioè della grande lotta, sul piano del credo, contro
il movimento giansenista; era stato inoltre il papa del grande scontro
giurisdizionalista, contro Giuseppe I e Carlo VI per il possesso delle
valli di Comacchio, e contro Vittorio Amedeo II per la Sicilia. Era
stato il papa che aveva nuovamente usato l'arma dell'interdetto per
sostenere il proprio potere temporale. Il suo successore, Innocenzo
XIII, che lo avrebbe seguito nella tomba di lì a poco, ne aveva eredi-
tato la politica senza molti entusiasmi, preoccupato soprattutto di
sanare le ferite della lotta giurisdizionalista, come quelle della ribel-
lione giansenista. Accantonata la disputa sull'Apostolica Legazia di
Sicilia, ora che anche l'interlocutore era mutato e al Savoia s'era
sostituito l'Absburgo, concessa a Carlo VI l'investitura di Napoli die-
tro riconoscimento di vassallaggio alla Chiesa, aveva avviato trat-
tative concordatarie anche con la Spagna. Rigido difensore della Uni-
genitus sino a condannare i vescovi «appellanti», s'era però mostrato
abbastanza ostico nei confronti della Compagnia di Gesù, così da
bilanciare gli opposti schieramenti. Un pontificato tuttavia troppo
breve perché questa nuova politica potesse produrre effetti di lunga
durata, atta insomma soltanto ad allarmare, a seminare il panico tra
i monsignori di Curia, legati all'oltranzismo di Clemente XI.
Così Giusto Fontanini, che sotto papa Albani era stato il campione
di Curia nella polemica per le Valli comacchiesi, T8 maggio del 1723
scriveva a Domenico Passionei: «Adesso a Napoli un tal Giannone
con la direzione di altri settari ha stampata una Istoria di Napoli . . .
piena di orrendissime furfanterie contro il papato ex professo . , ,
Intendo che l'autore sia rifuggito agli ateisti di Vienna e passato an-
che di qua, dove con la massima di non rispondere ai libri scellerati
si crederà di rimediare con decreto di proibizione e qui tutti i zeli
vanno a finire. Io non ho veduto l'opera, ma il bibliotecario d'Impe-
riali è venuto a leggermi gli spogli letterali, che ha fatti di due tomi,
« sono cose di spavento, né mai più scritte in terre cattoliche, arri-
vando a dire che i papi e i vescovi si sono sempre serviti d'imposture
di religione per gabbare i popoli e i grandi; e questo lo dice e ridice
mille volte qua e là in varie occasioni, citando con elogi i più esa-
476 PROFESSIONE DI FEDE
grandi scrittori che anno scritto contro alla S. Sede . . . ».x Assertore
della massima quieta non movere sembra fosse, in Curia, il segretario
ai Brevi monsignor Matteo Scagliosi, il quale aveva consigliato al
pontefice «che non serve rispondere e scrivere, che è stato scritto
abbastanza», per usare le parole stesse riferite a Giusto Fontanini
dal cappellano segreto e bibliotecario di Innocenzo XIII, Giovanni
Bortoni, e dal Fontanini, a sua volta, riferite al Passionei. Natural-
mente il Fontanini se ne adontava, e diceva al suo corrisponden-
te che «se si fosse scritto e bene contro i libelli del Riccardi, Gri-
maldi e Argento, invece di contentarsi di proibirgli con un breve,
forse il Giannone non avrebbe ardito di scrivere . . . ».2
Successo a Innocenzo, nel maggio del 1724, Francesco Orsini, un
altro monsignore, questo non ancora identificato, ma probabilmente
napoletano e della cerchia di Filippo Anastasio arcivescovo di Sor-
rento, si rivolgeva al nuovo pontefice insistendo anch'egli sulla ne-
cessità di una risposta all'opera giannoniana: «È bensì da compatire
la comune miseria de' grandi, che in moltissime cose avendo neces-
sità di valersi dell'altrui opera, non sempre sono fedelmente serviti,
e perciò soggiacciono a frequenti inganni ed a non pochi, né piccoli
tradimenti ... ». Inganno e tradimento, secondo l'anonimo polemista,
era stato appunto l'aver consigliato nuovamente il pontefice che non
metteva conto affrontare di petto il Giannone: «Vostra Beatitudine
s'è abbattuta in un teologo parzialissimo di quell'autore. Ecco il giu-
dizio di questo teologo intorno 2IY Istoria civile: "Che contiene molte
verità le quali non si possono impugnare; che per quella parte ch'è
contaminata si scredita da per se stessa e che impugnandola s'eccite-
rebbono le penne de' compagni del Giannone, o quella di lui medesi-
mo a fare nuovi insulti alla Chiesa; che allora si potrebbe risponde-
re quando la risposta fosse tale che chiudesse la bocca agli avver-
sari" . . . ».3
Agli atteggiamenti di prudenza sempre più si veniva opponendo,
in Curia, la perentoria richiesta di attaccare il Giannone e il suo
gruppo; e ora che il triennio di regno di Michelangiolo Conti era
terminato, le voci oltranziste tornavano ad avere ascolto presso le
auguste orecchie. «Non dubito» scrisse il Giannone al fratello il 13
gennaio 1725 «che nel pontificato passato non era per seguire che
una indifferenza, ma nel presente bisogna star cauto per la strava-
ganza di chi ora governa. Io dal mio canto procuro di evitar tutte le
occasioni di nuove brighe, ed avendomi il sig. Menckenio . . . autore
degli "Atti di Lipsia", mandato a dire che stava facendo un ristretto
1. Cfr. Bertelli, pp. 181-2. 2. Cfr. ivi, pp. 182-3. 3- Cfr. Giannoniana,
pp. 96 sgg.
NOTA INTRODUTTIVA 477
della mia opera, per porla negli atti sudetti, l'ho fatto pregare che
lasciasse da parte l'istoria accaduta dopo la pubblicazione, e che mi
facesse il piacere di non offender la corte di Roma, come sogliono in
simili occasioni, ma si portasse con modestia e moderazione . . . ».x E
sì che di materiale contro i suoi detrattori, il Giannone ne aveva ap-
prontato abbastanza! Aveva steso, in più occasioni e momenti suc-
cessivi, un'Apologia della sua Istoria ch'era ormai giunta alla mole
d'un quinto volume; ma non aveva voluto stamparla, accontentan-
dosi solo d'una circolazione clandestina di copie manoscritte, entro
la ristretta cerchia dei suoi amici; i quali, anche essi, erano convinti
che non fosse prudente riaprire polemiche, attirarsi nuovi anatemi.
La scomunica arcivescovile, in un certo senso, era già stata preven-
tivata tra le passività al momento della pubblicazione dell'istoria
civile. Non era stata prevista la reazione d'un viceré dimostratosi più
cardinale che rappresentante dell'imperatore; neppure l'esilio del-
l'autore era stato inserito nella previsione del passivo. Era necessario
che le acque ora si calmassero, non già che venissero di nuovo agi-
tate. La bomba era stata gettata in campo nemico; bisognava che si
diradasse il fumo, per constatarne gli effetti distruttivi.
Ma, come aveva intuito lo stesso Giannone, il pontificato di Be-
nedetto XIII era ben diverso da quello di Innocenzo. Si sarebbe ri-
tornati presto al clima dei tempi di Clemente, la Unigenitus sarebbe
stata dichiarata materia di fede, tutte le lotte giurisdizionali si sareb-
bero riaperte, la pressione inquisitoriale sul suo gruppo si sarebbe
accentuata. Sicché, quando egli seppe che il padre gesuita Giuseppe
Sanf elice veniva preparando una risposta alla sua opera, cercò in ogni
modo di dissuaderlo, di farlo desistere dall'impresa, pregò un suo
congiunto, il cavaliere Ferdinando Sanfelice, perché lo ammonisse
«a non lasciarsi tirare dall'ambizione o da qualche altro fine di risve-
gliare questo vespaio»,3 fece intervenire il Garofalo:3 tutto inutil-
mente. Sul finire del 1728 vedevano la luce in Roma, con la falsa
data di Colonia, le Riflessioni morali e teologiche sopra V Istoria civile
del regno di Napoli. Esposte al publico in pia lettere familiari di due
amici da Eusebio Filopatro, e divise in due tomi, il primo di dician-
nove lettere, di sedici il secondo, che si immaginano scambiate
tra un «Vestino» e un «Campano», fuorché le ultime tre, indiriz-
zate direttamente al Giannone da Eusebio Filopatro. Il program-
ma del Sanfelice è presto detto, secondo le sue stesse parole: «Or a
seguirlo di passo in passo per tutti que' suoi grossi volumi, era un
perdere opera e tempo col lungo rispondere a ben 40 libri di stuc-
1. Cfr. Giannoniana, lettera n.° 78. 2. Cfr. ivi, lettera n.° 225. 3. Cfr.
ivi, lettere nn.i 224 e 232.
478 PROFESSIONE DI FEDE
chevolissime dicerie. Conveniva rispondere a i soli empi sentimenti,
a gl'errori e a i detti or temerari or avvelenati, li quali si trovano di-
spersi di tratto in tratto in luoghi vari e di diverso argomento»:1
errori ed empietà che egli raggruppa in sette classi: proposizioni
empie; proposizioni eretiche o che sentono d'eresia; proposizioni
temerarie; proposizioni scandalose; proposizioni offensive alle orec-
chie pie; proposizioni sediziose; proposizioni ingiuriose. Il livello di
tutte queste lettere non s'alza al di sopra della predica domenicale,
v'è ben poco di critica, molto di calunnia, non solo nei confronti
dell'autore dell'Istoria civile, ma di tutto il suo gruppo.
Davanti a questo libello v'erano tre strade da percorrere : la repli-
ca erudita, puntuale, su tutti i dati di fatto criticati dal Sanf elice ; la
reazione in sede giudiziaria, denunciando la diffamazione per otte-
nere il sequestro del libro; la replica in chiave politico-religiosa,
ribadendo la giustezza della posizione dell'intero gruppo. Furono
scelte tutte e tre. La risposta erudita fu lasciata all'abate Biagio Ga-
rofalo;3 il Collaterale fu investito della questione, e la maggioranza
giannoniana impose il sequestro delle Riflessioni e l'espulsione dal
Regno dell'autore.3 Giannone, per suo conto, s'incaricò invece del
compito più arduo, quello cioè di mantenere l'unità ideologica del
« partito », con una replica che divenisse, in realtà, un nuovo mani-
festo di rottura: e fu la Professione di fede, uno dei pochi scritti ita-
liani del tempo che, per causticità, per ironia, per coraggio, possono
stare alla pari colla corrosività degli scritti volterriani.
Naturalmente l'unità ideologica, attorno ad un simile testo, fu
mantenuta per modo di dire. Su questa strada non erano in molti a
sentirsela di continuare a seguire il Giannone, persino tra i suoi più
intirni amici. Il Capasso, ad esempio, letti i primi fogli giunti da
Vienna se ne spaventò, ed espresse il suo dissenso, meravigliando
sia il Giannone che il Garelli: «Credevamo col signor cavaliere sen-
tire una censura molto severa e rigida, ma così acerba e crudele non
potevamo aspettarcela, né credercela ... ». Si era forse dimenticato,
il Capasso, di quéll'Évangile nouveau du cardinal Palavicin pubbli-
cato a Parigi nel 1676, «che contiene articoli di dottrina assai più
scandalosa e ridicola che non è quella contenuta nella Professione » ?
E non aveva notato come gli articoli «secondari» fossero stati tutti
tratti dal De conformitate vitae beati Francisci ad vitam Domini Iesu
di Bartolomeo da Rinonico, e dal Chronicon di sant'Antonino ?4 Se-
1. Cfr. Riflessioni cit, I, p. XV. 2. Vedila pubblicata in Opere postume, 11,
pp. 151 sgg. 3. Il verbale della riunione del Collaterale, del 4 aprile 1729,
è integralmente pubblicato in Giannoniana, pp. 49 sgg. 4. Cfr. qui, nella
scelta delle lettere, la xv.
NOTA INTRODUTTIVA 479
nonché la pietà, la crudeltà, la superstizione non stupivano se lette
in quei contesti. Al più, gli uomini di cultura potevano sorriderne.
Ben diverso era invece parodiare il Simbolo apostolico, sfruttare
dialetticamente sino a porne in luce il carattere blasfemo testi di
agiografia come le conformità tra la vita di Francesco d'Assisi e quella
di Gesù di Nazareth. Nella sua Apologia dell'Istoria civile l'autore si
era difeso dalle accuse «che da alcuni ecclesiastici, e specialmente da'
frati, furono inventate», «per concitar sedizione nella plebe, appog-
giate sopra la calunnia che io negassi il miracoloso scioglimento del
sangue di S. Gennaro, negassi i Santi, e loro martiri e miracoli, e
deridessi le particolari divozioni delle Religioni mendicanti»;1 ma
ora, queste accuse trovavano ben validi fondamenti!
Negli « articoli primari », l'attacco è tutto volto alla supremazia ro-
mana. Il papa può tutto, è signore del Cielo e della terra, ha il potere
di decidere l'ultima sede delle anime, dacché può canonizzare i defun-
ti; tutti i principi della terra sono sottomessi al suo volere, è il vica-
rio di Dio, anzi, un vice-Dio. Dunque può tramutare il male in bene,
l'ingiustizia in giustizia, i vizi in virtù. In questa sua illimitata po-
testà ha origine lo sfarzo di Roma, così stridente coi princìpi di carità,
di umiltà della predicazione cristiana primitiva. E il Cerimoniale ro-
mano è qui abbondantemente saccheggiato, a conferma della monda-
nità della Chiesa. Negli «articoli secondari» invece i protagonisti
divengono gli ordini religiosi, che hanno soppiantato l'antica gerar-
chia ecclesiastica, dei diaconi, dei preti, dei vescovi. Non ha scritto
il Sanfelice che sono oggi gli ordini a lume e sostegno del cristiane-
simo»?2 E chi può più negare che essi siano oggi «tante legioni per
conservare e mantenere la monarchia romana »? « I pontefici romani
non essendo stati mai dagli altri cotanto ben serviti quanto da costo-
ro, i quali han militato sempre con ogni fervore per inalzare in infi-
nito e sostenere anche per proprio interesse la loro autorità; a dovere
di tanti privilegi e prerogative li cumularono. Chi può negare ancora
che il lor credito, e più le loro ricchezze, importava molto a Roma di
accrescerle, perché finalmente ivi doveano andare a terminare i loro
acquisti? Le tanto ricche commende, i tanto doviziosi benefìzi: i
tributi, le decime, onde di quando in quando sono tassati, gli emolu-
menti delle liti, che spesso fra di loro sorgono, i diritti de' privilegi,
e brevi e bolle, che a gara sono richieste e con danaro concedute;
l'esenzioni, elezioni, e tante altre preminenze ambite, forniscone que-
sta reggia e di stipendi e di soldati . . . ».3 Quanto a deridere le parti-
colari devozioni dei singoli ordini, sappia il Sanfelice che «non si
i. Cfr. in Opere postume, i, p. 93 e p. 95. 2. Cfr. Riflessioni cit., 1, p. 148.
3. Cfr. Professione di fede, Articoli secondari, in Opere postume, 1, p. 248.
480 PROFESSIONE DI FEDE
biasima l'aver i Domenicani introdotta la divozione del Rosario, i
Francescani quella del cordone; gl'Agostiniani quella della correg-
gia; i Carmelitani l'altra degli abitini: ma gli abusi che essi ne fecero
per arricchire con pocco onesti mezzi ; procurando seguaci, e mostran-
dosi gelosi che un ordine non si valesse della divozione dell'altro suo
emulo, esagerando ciascuno la propria, in depressione dell'altra; con
far quindi insorgere gravi contese fra loro, sino ad istituire liti in Roma
con formali processi; onde a tal fine i Domenicani impetraron che
di loro sol fosse il rosariare ; e di questi abusi, per fine di accrescere
beni temporali alle lor chiese, si parla, non già delPinstituzione, la
quale quando sia discompagnata dall'interesse puoi rimanersi pietosa
ed innocente w.1 Ma, a quanto pare, sono proprio queste osservazioni
che più offendono il gesuita Sanfelice. E allora Giannone sarà più
realista del re, più curiale del monsignore di Curia, più superstizioso
del terziario francescano, più fazioso d'un penitente di san Domeni-
co. Proclamerà l'identità di Francesco d'Assisi col Salvatore, crederà
«veri tutti i miracoli che si contano di tanti salvati, perché sol cin-
gevano i loro lombi di quella corda, poiché, che non si possono pro-
mettere i cordonati dall'intercessione di questo santo, quando il suo
domicilio in cielo co' suoi frati non è come gli altri fra i cori degli
angeli e degl'altri santi del Paradiso ? Hanno colà i Francescani il loro
nido, dentro il torace stesso di Cristo. Narra questo stesso scrittore
delle Conformità francescane, pag. 66, ch'essendo stato rapito in Cielo
un lor divoto, vide Gesù Cristo colla Vergine Maria e gli altri santi, i
quali santi processionalmente andavano a prestar riverenza a Cristo
ed alla sua madre. Non vidde fra tanti Francesco co' suoi monaci;
domandò perciò all'angelo, che lo guidava: "ubi est beatus Franci-
scus cum suis in isto loco?". L'angelo gli rispose: "expecta, etvidebis
beatum Franciscum et quem statum habet. Et ecce Christus elevavit
brachium dexterum, et de ipsius vulnere laterali exivit B. Franci-
scus, cum vexillo crucis explicito in manibus ; et post ipsum maxima
multitudo fratrum et aliorum" . . . ».2 Ma non si creda che Giannone
sia solo un simpatizzante dei Francescani! «Non essendovi voi di-
menticato de' Domenicani, né pur voglio scordarmene io, tanto più
che pure li trovo collocati in Paradiso in sede a parte, e se bene non
così degna, come i Francescani, con tutto ciò assai più onorevole e
distinta degli altri santi ; poiché mi assicura un testimonio degnissimo
di fede, quale e quanto è un S. Antonino arcivescovo di Fiorenza . . .,
che rapito una notte S. Domenico in Cielo, vidde ivi Gesù, e a destra
la sua madre Maria, la qual'era ammantata di una gran cappa "coloris
saphyrini", e girando gl'occhi intorno, vidde un'innumerabile mol-
1. Professione di fede, ed. cit., p. 249. 2. Ibid.> p. 253.
NOTA INTRODUTTIVA 481
titudine di religiosi di tutti gl'ordini e d'ogni nazione; ma ancorché
diligentemente fissasse il guardo da per tutto, non vidde in alcun
luogo i suoi figliuoli Domenicani ; onde tutto contristato e dolente,
prostratosi in terra si pose amaramente a piangere: ma il Signore,
sentendo questo piagnisteo, f ecelo alzare e lo chiamò a sé interro-
gandolo. "Cur sic amarissime ploras?". Domenico gli rispose: co-
me volete che 10 non versi lagrime, se io guardo nel cospetto della
tua gloria gl'uomini di tutte le religioni: "de mei vero ordinis filiis
hic proh dolor! nullum aspicio?". Il Signore gli disse: "vis videre
ordinem tuum?". Ed egli: "hoc desidero, Domine". Allora Gesù
stesa la sua mano, e postala sotto lo scapulare di sua madre, voltatosi
a lui gli disse: "ordinem tuum Matri commisi". Ma non rimanendo
di ciò Domenico niente sodisfatto, e sempre più mostrando l'arden-
tissimo desiderio di vedere i frati del suo ordine, di nuovo il Signore
gli disse: "omnino vis eum videre?". Ed egli: "hoc affecto, mi Do-
mine". Ed ecco allora, "Mater Domini complacuit filio, cappamque
decoratam, qua operiri videbatur, evidenter patefaciens, aperuit, et
expandit coram lacrymoso Dorninico servo suo ; eratque hoc tantae
capacitatis et immensitatis vestimentum, quod totam caelestem pa-
triam amplexando dulciter continebat ... ; conversus est ergo luctus
in gaudium, et lamentum in iubilum" ».x E con questo spogliarello
celestiale, crediamo di poter far punto.
Può ben comprendersi quali reazioni suscitasse un testo simile.
Come aveva previsto monsignor Scagliosi, provocare Giannone non
avrebbe portato che ad una recrudescenza della polemica, ciò che
puntualmente avvenne. L'opera, che in un primo tempo si pensava
di dare alle stampe, non venne più consegnata alla tipografia; ma
circolò in tali e tante copie manoscritte, che una stampa non avrebbe
certo avuto maggior diffusione. Con questo testo davvero Giannone
rompe i legami con la Chiesa romana, ben più di quanto non avesse
fatto al tempo dell' Istoria civile, quando era in discussione solo il
tema giurisdizionale, e ancora sporadici erano gli accenni alla di-
sciplina della Chiesa primitiva, rare seppur già precise le accuse alla
corruzione, alla decadenza romana. Questa Professione appare dav-
vero il fatidico Rubicone da Giannone incontrato lungo il cammino
della sua vita e senza esitazioni attraversato. Assolto dalla scomunica
per l'Istoria, ora la persecuzione contro di lui si rinnoverà, caparbia,
tenace, sino a quando non gli sarà strappata l'abiura, e oltre ancora,
col carcere a vita.
Sergio Bertelli
1. Professione di fede, ed. cit., p. 254.
31
DALLA «PROFESSIONE DI FEDE»
Molto Reverendo Padre,
Chi avrebbe potuto resistere, Padre Santo,1 a' vostri pungentissimi
coltelli ed a quelle ardenti spade onde tutte le vostre lettere sono
infiammate e cinte? Chi qualsifosse più audace e robusto, non si
sarebbe dato per vinto agl'invincibili ed irrefragabili vostri argo-
menti ? Ogni vostro detto è sì forte e penetrante che non che il mio
cuore, ma qualunque altro si fosse vie più duro ed impenetrabile
che lo scudo stesso d' Aiace, si sarebbe intenerito ed in mille par-
ti infranto. Vi siete adoperato tanto per la salute dell'anima mia
che certamente sarete per ciò al mondo unico e raro mostro. Non
era però mestieri votar tante faretre e consumar tante munizioni.
Bastavano quelle tre ultime Lettere filosofiche? che con tanta cor-
dialità vi degnaste sviatamente indrizzarmi, affinché fra noi due
soli soli, ed a quattr'occhi, come dite, si tenesse ragione del fatto
mio, per potermi toglier da ogni errore e da ogni inganno. Seb-
bene non so donde V. P. prendesse argomento di credere che io
fossi seguace della filosofia d'Epicuro, e non più tosto della carte-
siana; ancorché a confessarvi il vero io séguito la dottrina di Carte-
sio, per quanto insegnò, e disse vero, che in filosofia niuno dee
militare sotto gli altrui stipendi, dietro particolar bandiera, né giu-
rar fedeltà ad alcun capitano, ma il suo solo duce e condottiere
dee esser la sola ragione e la sola sperienza.3 Non so ancora come
sia avvenuto ch'io non potessi leggere quelle vostre amorevolissime
Lettere, se non in istampa, dopo che doveano esser passate sotto gli
occhi di molti. Ma che potea riparare in ciò la vostra bontà e mo-
destia, se prima di mandarmele foste importunato a darle alle
Per il testo abbiamo seguito quello edito dal Gravier in Opere postume di P.
Giarmone colla di lui vita ecc., I, Napoli 1770, Ì1140, pp. 347 sgg. Il titolo per
esteso è: Professione di fede, scritta da Pietro Giarmone al P. Giuseppe San-
felice, gesuita, dimorante in Roma, per la cui santità, fervoroso zelo e calde
esortazioni si è il medesimo convertito a questa credenza, che egli inculca nel-
le sue «Riflessioni morali e teologiche», co9 Dubi propostigli intorno alla sua
morale.
1. Padre Santo: sul Sanfelice, oltre a quanto detto qui nella Nota introdut-
tiva, cfr. la nota 3 a p. 167. 2. Lettere filosofiche: in Riflessioni cit., 11,
PP- 353-444- 3- *° séguito . . . sperienza: cfr. Vita, qui a pp. 33 sgg., dove
il Giannone descrive il suo itinerario filosofico.
484 PROFESSIONE DI FEDE
stampe in mezzo a Roma, perché fossero da tutti lette ? Oltreché la
vostra carità non dovea essere ristretta da sì angusti confini, né
doveva ammettere alcuno umano rispetto. Ella mi voleva conver-
tito, ed importava poco della maniera, publica, contumeliosa o
incivile che si fosse. O inudito e memorando esempio d'amore e di
carità! Purché si salvasse un reo e scellerato uomo, non si è curata
la P. V. apparire al mondo per un conviziatore, per un falsario,
per un calunniatore, per un maligno, e per un prodigioso igno-
rante, anzi per un frenetico e matto da catene. Ah quanto bene vi
stanno impressi i sentimenti di S. Paolo, che non si curò d'esser
riputato stolto in Atene,1 e altrove, purché adempisse bene la sua
missione, alla quale era stato da Dio eletto! A voi era stata destinata
questa grand'opera della mia conversione, poiché ad un altro2 della
vostra Società, che si pose in Napoli su i pulpiti a tentar lo stesso,
gli riuscì l'impresa senza successo e pur troppo infelice, essendo
stato costretto a tacere ed a scappar tosto via; onde per conseguirla
non dovevate curar punto né lode, né infamia, né qualunque altra
cosa che il mondo stima ed onora. Egli è vero che, se non il vostro,
almeno dovea un poco toccarvi l'onore della Compagnia a cui siete
ascritto, la quale, se pur vi ha tenuta parte, ciò che gli uomini savi
non possono affatto credere, non potrà farvi altra comparsa che
d'una madre che abbia nudrito in seno parto sì gentile e così bene
accostumato, che limatolo poi co' ferri della sua morale, abbialo
dato in fine alla luce del mondo per un più ben fatto e perfetto
modello della medesima. Se più d'appresso aveste voi bene scor-
ti i miei andamenti e la mia indole, come vantate, non avreste avuto
bisogno di ricorrere, come il cane o il villano dopo la percossa, a'
digrigni, agli urli ed alle contumelie: avreste trovato un cuor docile
e mansueto, ed un sol vostro argomento addirizzato con quella fina
logica, della quale vi mostrate espertissimo, avrebbe fatto in me
più forza che non fece quello di frate Rinaldo a madonna Agnesa.3
Immantinente avreste da me udito quelle stesse parole che colui
a suo prò s'intese: « Chi saprebbe rispondere alle vostre savie paro-
le ? ». E pari sarebbe stato il vostro contento, anzi incomparabilmen-
te maggiore. Colui non ottenne che un fragile e caduco mondano
1. « sentimenti.. .Atene: cfr. Act. ap.t 17, 16-33. 2. un altro: il padre
Franchis, dai pulpiti del Gesù Nuovo e di Santa Maria di Costantinopoli,
come già detto nella Vita (vedi la nota 3 a p. 82). 3. che non , . . Agnesa:
cfr. Boccaccio, Decam., vii, 3.
ARTICOLI PRIMARI E FONDAMENTALI 485
piacere; voi all'incontro ne conseguite un eterno ed inestimabile,
qual è quello d'aver posto in cammin dritto, che conduce all'eterna
salute, un traviato e perduto.
Dal concetto che si ha delle vostre Riflessioni morali e teologiche,
ben si vede chiaramente che per la mia conversione non sarebbe
stato niente sufficiente, come già fu a* tempi antichi, se io vi avessi
mandato la professione della fede contenuta nel Simbolo chiamato
apostolico. L'avreste riputato molto difettosa e mancante. So che
ne chiedete un'altra, che mi costerà non picciola fatica ; perché io
intendo soddisfarvi in tutto, e pretendo non tralasciar alcuno de-
gli articoli da voi creduti, e che credete esser necessari per la salute
delle nostre anime. E se pure ne scapperà qualcuno, perché è ora
quasi impossibile farne un esatto e compiuto catalogo, vi do ampia
facoltà di aggiungercelo ; anzi prego voi, ed i vostri amici, che chi
più ne ha, più ne metta, poiché, oltracché così facendo meglio le
converrà il nome di Simbolo, io son disposto, trattandosi della sa-
lute dell'anima mia, di piegar il capo a quanto mi sarà suggerito
dal vostro zelo e dalla vostra carità.
ARTICOLI PRIMARI E FONDAMENTALI
Primieramente io credo il pontefice romano essere signore di
tutto il mondo, non meno nello spirituale che nel temporale, e che
non solo indirettamente, ma direttamente abbia autorità sopra tutta
la terra e quanto in quella si move ed intende; e di potersi valere di
tutti i mezzi, sieno spirituali, sieno temporali, di multe, carceri,
esìli, relegazioni, ergastoli, fiamme infine e fuoco, perché non sono
adoperati se non per fine della salute eterna del genere umano.
11
Che perciò tutti i principi e somme potestà anche nel temporale
sien a lui sottoposti, siccome fra i vostri moralisti m'insegna il ge-
suita Azorio nelle sue Istituzioni morali* lib. io, cap. 6, e che
1. Assorto . . . morali: Juan Azor (1536- 1603), gesuita spagnolo, Institutio-
num moralium, in quibus universae quaestiones ad conscientiam recte aut prave
factorum pertinentes breviter tractantur, partes tres, Romae 1 600-161 1, più
volte ristampate.
486 PROFESSIONE DI FEDE
reggano i loro regni e provincie non per immediata autorità che
Iddio gli abbia concessa, poiché questo è un pregio del quale
sol può vantarsi il pontefice romano, siccome m'insegnate nella
vostra Lettera 24 alla pag. 79, ma per autorità mediata conferitagli
dal vicario di colui il quale disse: «per me reges regnant».1 E che
quindi sia nato quel costume, del quale ce ne rende testimonianza
il Cerimonial pontificale? lib. 1, tit. 7, di benedir il papa nella
notte di Natale una spada, «quem postea» sono sue parole «donat
alicui principi in signum infinitae potentiae pontifici collatae, iuxta
illud: Data est mihi potestas in Coelo et in Terra».3
ni
Che da ciò ne deriva il diritto, che ha il romano pontefice, di
spiantare i regni e fargli risorgere a suo arbitrio, e che a questo
proposito ben se gli adatti qatVH evellat et plantet etc.4 Possa perciò
deporre imperadori, re e qualunque altro principe da' suoi regni e
stati: prosciogliere i loro sudditi dal giuramento di fedeltà ed as-
solvergli dal pagare i tributi: che possan questi resistere in faccia
a' loro sovrani, se imporranno nuovi dazi e gabelle senza papale
assenso. Possa in fine trasferire gl'imperi ed i regni da una famiglia
in un'altra e di gente in gente: investire delle terre e isole discoperte
e da discoprirsi a chi sarà di suo grado, e renderle a sé tributarie.
L'Imperio Romano Germanico essere suo beneficio, e perciò l'im-
peradore sia obbligato prestar giuramento al papa di fedeltà e d'ub-
bidienza; e perché non si facesse errore in concepirlo, dico esser-
si saviamente fatto d'inserirne la forinola nel Decreto, che si leg-
ge nel Canone 33, dist. 63, che incomincia «Tibi Domino».5 Es-
sere suoi uomini ligi i re di Germania, di Francia, di Spagna,
d'Inghilterra, di Scozia, d'Aragona, di Sicilia, di Napoli, d'Unghe-
ria, di Polonia, della Russia, di Danimarca, della Croazia e Dalma-
1. «per me reges regnarti*: Prov^ 8, 15. 2. Cerimonial pontificale: è il Cae-
rimoniale romanum, compilato dal cerimoniere pontificio Agostino Patrizi
Piccolomini che lo dedicò a Innocenzo Vili nel 1488. Fu edito, con alcuni
mutamenti, da Cristoforo Marcello : Rituum ecclesiasticorum sive sacrarum
cerimoniarum S. S. Romanae Ecclesiae . . ., Venetiis 15 16. 3. a quem po-
stea . . . Terra*', cfr. ed. cit., e. 37U, libera citazione («che poi dona ad un
principe in segno dell'infinita potenza conferita al pontefice, secondo il
detto: "Mi è stata data sovranità in cielo e in terra"»). 4. evellat et
pianteti cfr. Ier., 24, 6 e 42, io. 5. la formolo . . . Domino: cfr. Decretimi
Gratiani, Lugduni 1606, dist. 63, cap. 33, Tibi Domino , col. 330.
ARTICOLI PRIMARI E FONDAMENTALI 487
zia, e di chi no? La sua dominazione stendersi non solo sopra la
superfìcie della terra continente, ma sopra il mare e sopra tutte
le sue isole; talché niente fu improprio a Bonifacio Vili di po-
tere investire altri delle iscoperte nel Mediterraneo, e ad Ales-
sandro VI nell'Oceano occidentale, tirando a sua posta linee da
un polo all'altro, e ripartendo le terre del nuovo mondo disco-
perto a' re di Castiglia e d'Aragona.1 E che molto meglio possa
adattarsi a lui quel titolo : « Ego quidem mundi dominus, lex autem
maris»,2 che non fece Timperador Antonino,3 poiché del papa fu
detto : « Dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad
terminos orbis terrarum».4 Quindi non posso per tenerezza conte-
ner le lagrime dagli occhi, quando io leggo nella iv Lezione del li
Notturno dell'Officio di S. Gregorio VII5 che essendo egli figliuolo
di un carpentiere, scherzando, come i fanciulli sogliono, colle scheg-
ge di legno che cadeano da' lavori del fabro, senza che sapesse
lettere, formò di quelle a caso quel vaticinio di Davide: «Domina-
bitur a mari usque ad mare. Manum pueri» così leggo nel Brevia-
rio « ductante Numine, quo significaretur eius fore amplissimam in
mundo auctoritatem».6 Con ragione adunque Giulio III in una
sua medaglia impressa non men dal Luckio che dal vostro gesuita
Bonanni,7 e che si conserva nel museo cesareo di Vienna, fece in-
torno alla sua immagine mettere questa iscrizione: «D. Iulius III
Reipubl. Christianae Rex ac Pater».
i. Alessandro VI . . . Aragona: fra il 3 e il 4 maggio 1493 Alessandro VI
promulgò tre atti distinti: la «donazione» alla Spagna di tutte le terre
scoperte o da scoprirsi da Cristoforo Colombo, con l'impegno di pro-
pagare la religione cristiana; un secondo atto, con l'elencazione dei pri-
vilegi e grazie già conferiti al Portogallo, e ora estesi alla corona d'Aragona
per i possedimenti africani; un terzo aveva invece valore di lodo arbitrale,
e tracciava le zone d'influenza riserbate alla Spagna e al Portogallo: una
linea meridiana tracciata dai due poli, a cento leghe spagnole ad occidente
delle Azorre, fungeva da demarcazione: le terre ad ovest e sud di questa
linea erano assegnate alla penetrazione aragonese. 2. *Ego quidem . . . ma-
ris»: «Poiché sono signore del mondo, sono legge del mare». 3. Antoni-
no Pio, imperatore dal 138 al 161 d. C. 4. ((Dominabitur . . . terrarum*:
Psalm., 71, 8: «Dominerà da mare a mare e dal fiume fino ai confini della
terra». La citazione è ripresa dal Cerimoniale, ed. e loc. cit. 5. Officio di
S. Gregorio VII: si veda la nota 1 a p. 172. 6. « Dominabitur — aucto-
ritatem » : « Dominerà da mare a mare. Dio infatti reggeva la mano al fan-
ciullo, quasi a voler dire che grandissima sarebbe stata la sua autorità nel
mondo». 7. dal Luckio . . . Bonanni: per il Luckh e l'opera cui qui si
allude vedi la nota 2 a p. 188. Filippo Buonanni (1638-1725), Numismata
pontificum romanorum quae a tempore Martini V usque ad armum MDCXCIX
. . .in lucem prodiere, Romae 1699.
488 PROFESSIONE DI FEDE
IV
Che questa sua potestà non si restringa nella sola superficie della
terra e del mare, ma si approfondi più in giù ne* due altri sotterra-
nei mondi, nel Purgatorio e nell'Inferno. Seguitando perciò le pe-
date di Clemente VI confesso con S. Antonino arcivescovo di Fi-
renze, part. 3, tit. 22 «papam tantam habere, tum in Purgatorio,
tum in Inferis potestatem, ut quantum velit animarum numerum,
quae in illis locis cruciantur, per suas indulgentias liberare et con-
festim in Caelis et Beatorum sedibus collocare possit».1 E quella
disputa, che verte fra' vostri teologi scolastici: «An papa possit
universum Purgatorium tollere», io brevemente la risolvo, e dico
di sì. Anzi se me ne darete permissione, io colla stessa prontezza
risolverò quell'altra: «An clementior sit papa quam fuerit Chri-
stus, cum is non legatur quemquam a Purgatorii poenis revocasse » ?
e dirò che l'esperienza ci ha dimostrato esser assai più clemente,
anzi clementissimo il papa per le tante liberazioni, che da più secoli
in qua sono seguite e tuttavia seguono di tante e sì innumerabili
anime da quelle pene per le sue indulgenze. Per la qual cosa non
ho più dubbio alcuno di credere la liberazione dell'anima di Fal-
conala, e di tante altre, e spezialmente di quella dell'imperador
Traiano dalle pene infernali per le preghiere di papa Gregorio Ma-
gno, gentili che stati si fossero ; anzi ho per temerari que' presun-
tuosi ed impertinenti critici, i quali ultimamente hanno avuto ardi-
mento di metter in dubbio una sì verace, fedele ed autentica storia,
siccome non dubito che per tale la crediate ancor voi, e che se mai
avreste avuta opportunità di prenderne perciò briga col P. Natale
di Alessandro, colla vostra finissima logica e nerboruto stile l'avere-
ste ben battuto e confuso per tanta temerità ed audacia ch'ebbe di
riputarla finta e favolosa.3 Ammetto perciò per vera la dottrina di
1. S. Antonino . > . possit: cfr. la nota 3 a p. 180. «Il papa ha tanta potestà,
sul Purgatorio come sopra l'Inferno, da poter liberare con le sue indul-
genze quante anime voglia, che in quei luoghi vengon tormentate, e collo-
carle tosto in Cielo e nelle sedi dei Beati». 2. <tAn clementior . . . revocas-
se»: «Se il papa sia più clemente di quel che lo sia stato Cristo, poiché di
Cristo non si legge che abbia mai liberato alcuno dalle pene del Purgato-
rio». 3. la liberazione. . .favolosa: di questi miracoli attribuiti a papa
Gregorio parla Noél Alexandre (cfr. la nota iap. 104) che è qui la fonte
del Giannone.
ARTICOLI PRIMARI E FONDAMENTALI 489
Felino1 nel e. Si papa, dist. 40, che siccome può liberare quante
anime vorrà dalle pene infernali, così possa mandarvi a migliaia
dell'altre a farle ivi eternamente penare. «Si papa» dice quell'in-
signe decretista «catervas animarum in Inferos detruderet, non
tamen cuiquam liceret ex ilio quaerere: Cur ita facis?».2
Confesso questa potestà non esser circoscritta dal nostro terra-
queo globo, ma che sorvoli più in alto in tutta l'ampiezza del cielo,
sicché non pur possa esercitarla sopra i maligni spiriti, che hanno il
lor soggiorno nell'aria, che col vostro Marchetti3 (perché non mi fido
nominarvi Lucrezio) chiamiamo cielo ; ma vie più alto, e nell'Em-
pireo stesso può correggere e comandare agli angioli del Paradiso.
Sicché a quell'altra disputa fra i vostri pur agitata: «Utrum papa
possit praecipere angelis»,4 io risolutivamente rispondo di sì, poiché
fu data a lui potestà «in Coelo et in Terra»; siccome ebbe diritto
di fare e di fatto fece Clemente VI in quella sua bolla,5 la quale io
credo che co' migliori critici la crediate per vera, poiché sebbene nel-
la vostra Lettera 19, tom. 1, pag. 403, francamente dite che non
fu parto della penna di Clemente, però, secondo il costante vostro
tenore, non apportandone prova, o almen congettura alcuna in
contrario, crederò che si rimanga nel suo essere come prima, e per
vera la teniate ancor voi, non potendo io supporre dalla vostra
discretezza che abbiate tale presunzione che si debba credere alla
vostra sola asserzione. In conseguenza di che tengo con voi che il
papa può collocare e mettere nella possessione di quel Regno cele-
1. Felino Sandeo (1444-1503), professore di diritto canonico a Ferrara,
poi a Pisa, vescovo di Atri nel 1495, traslato alla sede di Lucca quattro anni
dopo, fu Auditore di Rota in Curia e autore di Consilia e di un commento
Ad quinque libros Decretalium. 2. « Si papa . . . facis? » : « Se il papa facesse
sprofondare nell'Inferno un infinito numero di anime, non sarebbe tutta-
via lecito ad alcuno chiedergli: Perché fai così ? ». 3. col vostro Marchetti:
cfr. T. Lucrezio Caro, Della natura delle cose libri sei, tradotti da Alessandro
Marchetti, Londra 1717. 4. «-Utrum . . . angelis»: «Se il papa possa co-
mandare agli angeli». 5. siccome . . . bolla: si tratta della bolla Cum natura
fiumana, la cui autenticità è invero per lo meno dubbia (cfr. Dictiomtaire
d'histoire et degéographie ecclésiastìque, xn, Paris 1953, col. 1143). Nell'Isto-
ria civile, tomo in, Kb. xxil, cap. ult., par. I, p. 218, Giannone cita di questa
bolla il passo cui fa qui riferimento : «Et nihilominus prorsus mandamus
angelis Paradisi, quatenus animam illius a Purgatorio penitus absolutam
in Paradisi gloriam introducant».
49© PROFESSIONE DI FEDE
ste chi vuole, ed assegnargli quelle sedi e graduazioni che gli aggrada,
né possa essere a niuno impedita l'entrata in quello, sempre che ne
l'abbia egli spedito diploma, ancorché vi repugnassero i vescovi, i
cardinali e tutto il mondo. Mi conformo perciò alla sana dottrina di
Troilo Malvito in Traci, de canoniz. Sanctorum, 3 dub., che m'inse-
gna: «papam habere tantam in Coelo potestatem, ut quem velit
hominem defunctum canonizare, et in Divorum numerum referre,
possit etiam invitis episcopis et cardinalibus».1 E perciò confesso
la mia ignoranza di non aver saputo tanti papi santi, de' quali voi
nella Lettera 19, tom. 1, pag. 80 e 86,s mi date notizia, e ch'io prima
non leggeva nel mio Calendario, e detesto i temerari, sediziosi ed im-
pertinenti rumori che si sono fatti in tutta l'Europa per aver voluto
il presente pontefice far adorare per santo da tutto il mondo catto-
lico papa Gregorio VII, non conosciuto in molte provincie e regni
che sotto il famoso nome di Ildebrando. Non reputo più perniciose
alla potestà de' principi e per sorgive di sediziose conseguenze
quelle lezioni del suo Uffizio,3 nelle quali si celebrano come vir-
tù eroiche ed ispirate da divin nume l'aver deposto l'imperadore
Errico dal regno e prosciolti dal giuramento di fedeltà i suoi sud-
diti; anzi che fu ben fatto di farle passare ne' breviari, affinché i
popoli fra' divini uffizi e nelle publiche preci s'imbevino di quelle
salutari e religiose massime. Egli è però vero che se il vostro libro
delle Riflessioni, appena nato dopo la publicazione di quest'Uffizio
gregoriano, non fosse stato bandito e proscritto, sicché avessero
potuto leggerlo que' temerari, vi sarebbe corso gran pericolo di
non fargli maggiormente ostinare ne' loro errori; poiché il vostro
zelo suole talmente accendersi per la salute delle nostre anime, che
allo spesso vi fa dare in frenesie e deliri tali che fanno a tutti com-
passione, siccome vi è intervenuto anche sopra questo soggetto,
lasciandovi scappar dalla penna, tom. 1, pag. 265, che quell'infame
1. «Il papa ha tanto potere in Cielo, che se volesse canonizzare un defunto
e annoverarlo tra i beati, può farlo anche contro il parere dei vescovi e dei
cardinali ». Troilo Malvito o Malvezzi (o Malvetius), morto nel 1496, giu-
rista e decretalista bolognese; l'opera qui citata fu edita per la prima volta
a Bologna nel 1487. Cfr. Tractatus non infestivus de sanctorum canoniza-
tione, Troylo Malvitio iurisconsult. authore, edito in Tractatus illustrium . . .
iurisconsultorum, xiv, Venetiis 1584, ce. 97-103, dove però non si trova il
passo citato dal Giannone. A conclusione del secondo « dubbio » il Malvito
si limita a dire: a papa in canonizatione sancii debet consulere cardinales,
eorum tamen consilium sequi non tenetur ». 2. pag. 80 e 86: rectius 380-6.
3. IS Uffizio di Gregorio VII, del quale s'è detto.
ARTICOLI PRIMARI E FONDAMENTALI 491
autore della Istoria civile mentisce quando scrive che Gregorio
lasciasse appresso alcuni scrittori suoi contemporanei fama diversa;
e come se fosse universale e comune il sentimento di tutti gli scrit-
tori di averlo per santo, pio, misericordioso e giusto, stupite di
tanta impudenza e temerità ed esclamate: «E chi sono per vita vo-
stra questi scrittori contemporanei, presso i quali lasciò Gregorio
sì mala fama ? ». Come (averebbero detto que' temerari), così igno-
rante d'istoria è l'autor di queste Riflessioni, che non sappia quanto
di Gregorio variamente si è scritto e publicato ? Non sa egli dun-
que ciò che ne scrisse a suo prò Bertoldo Costanziense ad ann.
1073, Geroho Reichersbergense,1 ed alcuni altri, ed al rovescio i
più numerosi esser quei che scrissero il contrario? Non ha egli
letto, oltre il cardinal Benno, Alboino prete, Lamberto Scafnabur-
gense, e il suo Continuatore, Alberto Stadense, Brunone, Goffredo
Viterbiense, il Monaco Helveldense, il Cronografo Sassone, Cor-
rado Wespergense, gli Annali Hildesheimensi, la Cronaca Span-
genbergense, Golschero De gestis Trevirorum, Sigisberto Gembla-
cense,a Alberico, Giorgio Calisto, Schiltero, Reichembergio,3 e tanti
1. Bertoldo . . . Reichersbergense: Bertoldo di Reichenau (morto nel 1088
circa), autore di un Chronicon edito in C. Wurstisen, Germaniae histori-
corum ilhistrium . . . tomus unus, Francofurdi 1585, 1, pp. 345 sgg. ; Gerhoh
di Reichersberg (1 093-1 169), teologo della cattedrale di Augusta. 2. car-
dinal Benno . . . Gemblacense: si tratta, nell'ordine, della Vita et gesta Hil-
debrandi del cardinale Beno (morto verso il 11 00); delle Epistolae de co-
niugio sacerdotum per Hildébrandum damnato del presbitero Alboino (se-
conda metà del secolo XI); del De rebus gestis Germanorum di Lamberto
di Hersfeld (1028 circa-dopo il 1077), detto anche Schafhaburgensis: cfr.
in Rerum germanicarum scrtptores, Ratisbonae 17263, pp. 301-424 (alle pp.
425-40 le Additiones di ignoto, nelle quali però non si parla di Gregorio
VII); del Chronicon di Alberto di Santa Maria di Stade (morto dopo il
1261); del De bello saxonico (1073-108 1) di Bruno di Magdeburg (seconda
metà del secolo XI) ; del Pantheon, seu memoria saeculorum di Goffredo da
Viterbo (1120 circa- 1 191) ; del Chronicon . . . auihore monacho quodam Her-
veldensi (cioè ancora Lamberto di Hersfeld); del Chronographus Saxo edito
dal Leibniz nelle sue Accessiones historicae, Lipsiae 1698 e Hanoverae 1700;
di un Chronicon già attribuito a Corrado di Lichtenau (priore del mo-
nastero di Ursperg dal 1226 al 1240); degli Annales di Hildesheim, editi
dal Leibniz negli Scriptores rerum brunsvicensium (1707); probabilmente
della Sàchssische Chronica (1585) di Cyriacus Spangenberg (1528- 1604),
teologo e storico; dei Gesta archiepiscoporum trevirensium del monaco
Golscherus, anch'essi nelle Accessiones del Leibniz; e della Chronographia
di Sigeberto di Gembloux (1030 circa-1112). 3. Alberico — Reichember-
gio: Alberico delle Tre Fontane (morto nel 1241 circa), monaco cistercense,
autore di un Chronicon edito dal Leibniz nel 1698; Georg Callisen (lat.
Georgius Calixtus, 1586-1656), teologo luterano, di cui cfr. De coniugio
492 PROFESSIONE DI FEDE
e tanti altri? Non ha egli dunque mai letti i Dittati di Gregorio1
stesso, ed i tanti propri monumenti che ci lasciò, i quali soli baste-
rebbero a qualificarlo per un ambizioso, e che avesse voluto stabi-
lire nella Chiesa un dominio insoffribile, tanto sopra lo spirituale,
quanto sopra il temporale ? Ed il fatto sta che non vi manderebbero
a quegl'istorici, che hanno ultimamente scritto delle cose di Ger-
mania più accuratamente e sopra autentici documenti, come ad uno
Struvio, Syntagm. Historiae germ., in HenricoIV, a Weltramo,3 allo
Scrittore della Vita d'Errico presso Urstisio3 ed a Simone Hans,4
Historia German. perché dopo esservene informato, subito gridere-
ste: Eretici, eretici; ma agli scrittori cattolici romani, siccome sono
quasi tutti que' di sopra rammentati. Sicché se tanto è permesso
ad un vostro umil discepolo, io vi consiglierei a non entrar in briga
co' medesimi sopra punti d'istoria, perché il concetto che si ha di
voi è che non ne sappiate verbo, e che stante la vostra ritiratezza
in speculare e riflettere sopra la vostra morale e teologia, del mondo
materiale e sensibile, e di quanto in quello sia accaduto, non ne
sapete nulla, e ci state dentro sol per lasciarci letame. E questa
è la ragione che vi ha fatto credere di potere impugnare un'isto-
ria senza libri, come se aveste dovuto comporre un poema. Sicché
fate una volta a mio senno, e non v'impacciate di queste cose; ed
abbiate a grado la proscrizione delle vostre Riflessioni, perché se si
fossero lette, si sarebbe molto scemata la divozione ad un sì chiaro
e rinomato santo. Ma rimettendoci in cammino, dico :
clericorum tractatus, Francofurti 1653, pp. 412 sgg.; Johann Schilter (1632-
J705)» giureconsulto e storico, autore di De liberiate Ecclesiarum Germaniae
libri VII, Ienae 1683. Con Reichembergio Giannone si riferisce forse al
Chronicon monasterii reicherspergensis (in Scriptores rerum germanicarum,
Francofurti et Lipsiae, 11, 1 7 1 8) . 1 . Il Dictatus papae, consistente in venti-
sette proposizioni, nelle quali è enunciata la professione teocratica del po-
tere papale. Esse sono inserite nel registro delle lettere di Gregorio VII,
tra quelle del 3 e quelle del 4 marzo 1075. 2. Dello Struve (cfr. le note 5
a p. 371 e 1 a p. 449) cfr. Syntagma cit., p. 417. Con Weltramo si riferisce al
De imitate Ecclesiae conservartela, et schiomate quod fuit inter Henricum IV
imp. et Gregorium VII Pont. Max liber, Moguntiae 1520, di Walramus,
vescovo di Naumburg (XII secolo). 3. Cfr. Henrici imp. eius nominis IIII
. . . vita, in C. Wurstisen (lat. Christianus Urstisius, 1544- 15 88), Germaniae
historicorum ecc., cit., 1, pp. 280-93. 4. Simone Hans: nella Nota de* libri
in Archivio di Stato di Torino, manoscritti Giannone, mazzo v, ins. 12, è
elencato « Simon Hank Historia di Germania tomi rv voi. 2 » (cfr. Gianno-
niana, p. 475).
ARTICOLI PRIMARI E FONDAMENTALI 493
VI
Che riconoscendosi nel papa sì alta, indefinita, sovrana ed illimi-
tata potestà, ben gli stia il nome di Vice-Dio, che non pur nelle
pubbliche tesi, ma ne' libri stampati, che se gli dedicano in Roma
ed altrove, tutto dì leggiamo. Talché tengo essersi oggi già decisa
la questione, che pur si vide posta in campo : « Utrum papa simplex
homo sit, an quasi Deus participet utramque naturam cum Chri-
sto».1 Gli antichi chiosatori delle Decretali ci si confusero, e la
Glos. in praefat. Clem. reputò che fosse non Dio, non uomo, ma
un neutro tra queste due nature, «papa nec Deus est, nec homo,
sed neuter est inter utrumque».2 Altri riguardando sì alta ed illi-
mitata potestà, e che non era sottoposto ad alcuno, lo credettero
non uomo, ma vicario di Dio, siccome c'insegnò la Gloss. nel e.
fundamenta de elect. in 6 dicendo: «Et in hac parte papa non est
homo, sed Dei vicarius»;3 sicché a ragione fugli attribuito il no-
me di Vice-Dio.* E se V. P. non la stimasse bestemmia, io m'avan-
zerei con Agostino Steuco5 eugubino, bibliotecario del papa, a chia-
marlo anche Dio; poiché, se secondo questo scrittore, alla cui fede
io m'attengo, così lo chiamava quel grande imperadore del mondo
Costantino, anzi come Dio l'adorava, perché non debbo anch'io
così chiamarlo e adorarlo, che sono un verme della terra? <r Audis
(mi sgrida quel bibliotecario in lib. de donai. Constant., pag. 141,
edit. Lugduni anno 1547) summum pontifìcem a Constantino
Deum appellatum et habitum prò Deo ? Hoc videlicet factum est,
1. « Utrum . . . Ckristo*: « Se il papa è semplice uomo, o quasi Dio parteci-
pi con Cristo alle due nature ». 2. la Glos. in praefat utrumque: cfr. in
Liber sextus Decretalium D. Bonifacii papae Vili. Clementis papae V Consti-
tutiones. Extravagantes tum viginti D. Ioannis papae XXII tum communes.
Haec omnia cum suis glossis suae integrìtatt restituta ecc., Lugduni 1606,
Clementis papae Quinti Constitutiones, col. 4 («il papa non è Dio né uomo,
ma un neutro tra i due»). 3. siccome. . .vicarius: cfr. in op. cit. Sexti
Decretalium lib. 1, tit. vi De electione et electi potestate, cap. xvn Funda-
menta, col. 132 («in questa parte il papa non è uomo, ma vicario di Dio»),
4. Vice-Dio: cfr. in op. cit. Clementis papae Quinti Constitutiones, col. 4:
«vices Dei in terris gerit». 5. Agostino Steuco (1497 circa- 1548), pre-
fetto della Biblioteca Vaticana, vescovo di Kìsamos in Creta, fu l'avver-
sario del Valla, nella polemica sull'autenticità della donatio costantiniana,
col suo Cantra L. Vallam de falsa donatione Constantini, pubblicata nel
1547.
494 PROFESSIONE DI FEDE
cum eum praeclaro ilio edicto decoravit, adoravit uti Deum, ut
Christi ac Petri successorem: divinos honores ei, quoad eius potuit,
contulit, velut vivam Christi imaginem veneratus est ».x
VII
Che difficoltà adunque posso aver io ora, che a tutto ciò s'ac-
coppiano le vostre esortazioni, anzi dimostrazioni, in credere che
possa tutto tutto tutto ? Non ho difficoltà da ora avanti di confes-
sare con Baldo* nella L. tilt. C. de seni, rescinda che «papa est Deus
in terris»; con Decio3 in cap.Ide Constit. e con Felino in C. ego N.
de iureiur. che «Papa et Christus faciunt unum concistorium: ita
quod excepto peccato, potest papa quasi omnia facere quae potest
Deus, et a nernine potest iudicari»;4 coir Abate in cap. licei, de elect.
che ciò che «papa facit, facit ut Deus, non ut homo»;5 col cardinal
Parisio,6 consil. 63, n. 162, voi. 4, che «papa est quoddam numen
et quasi visibilem quemdam prae se ferens»; con Baldo stesso in C.
Ecclesia, ut lite pend. che «papa est causa causarum: unde non est
de eius potestate inquirendum, quum primae causae nulla sit cau-
1. «Audis . . . veneratus est»: «Senti come il sommo pontefice fosse chia-
mato da Costantino Dio e tenuto per Dio ? Ciò è manifesto dal fatto che,
quando lo onorò con quel suo celebre editto, lo adorò come Dio, come
successore di Cristo e di Pietro; divini onori, per quanto potè, gli tributò,
come viva immagine di Cristo lo venerò ». 2. Baldo (cfr. la nota iap. 372),
Super Decretalibus . . . commentarla . . ., Lugduni 1551, f. 232. 3. Filippo
Decio (1454- 153 6 circa), uno dei più celebri giuristi del suo tempo, fu tra le
personalità di primo piano del concilio di Pisa del 1511-1512. Scomunicato
da Giulio II, si rifugiò in Francia, divenendo consigliere del Parlamento di
Grenoble: fu assolto nel 15 15. Insegnò diritto a Pavia, Pisa e Siena. Cfr. In
Decretales commentaria — , Romae 1579, ce. 6^-7. 4. con Felino iudi-
cari: «il papa e Cristo formano una sola unione : cosicché, eccetto il peccato,
il papa può fare tutto ciò che può Dio, né può essere giudicato da alcuno ».
5. coli1 Abate . . . homo: si tratta forse di Bernardo di Montmirat detto Abbas
Antiquus, canonista provenzale i cui scritti si collocano tra il 126 1 e il 1275.
Il suo commento alle Decretali di Gregorio IX è edito in PerUlustrium
doctorum tam veterum quam recentiorum in lib. Decretalium aurei Commen-
tarti, videlicet Abbatis Antiqui età, Venetiis 1588. Qui, al capitolo licet de
electione, la frase citata però non compare. Più oltre, in un altro capitolo,
p. 26r, c'è «quod facit papa, facit ut deus», senza il «non ut homo» della
citazione giannoniana. 6. cardinal Parisio: Pier Paolo Parisio (1473-
1 545) , professore di diritto civile a Padova e Bologna, divenne cardinale
nel 1539. Scrisse numerose opere di diritto e quattro volumi di Consilia,
apparsi postumi nel 1570.
ARTICOLI PRIMARI E FONDAMENTALI 495
sa»;1 collo Speculatore2 in tit. de leg. § nunc ostendendum vers. 89
e con Giasone3 in cons. 145, voi. I, n. 3 et voi. 4, cons. 95, col.
pen., che «nemo potest dicere papae: Cur ita facis?». E final-
mente con tutti i decretisti che « de potentia papae dubitare sacri-
legium est». Non deve imputare V. P. a poco mio rispetto se io
vengo in questi articoli ad annoiarla con citazioni di curiali, perché
alla pag. 78 del tom. 2 delle vostre Riflessioni mi sgridate ch'io
siegua il costume degli eretici in spacciare queste odiose esagera-
zioni, che il papa possa tutto, senza additare que' curiali che così
scrissero. Ecco per qual fine io ora gli addito, che non è altro che
per soddisfare in tutto al vostro zelo e cristiana carità, ed adempire
al desiderio che avete di vedermi purgato da questa macchia di
aver in ciò seguito il costume degli eretici.
vili
Qual difficoltà potrò ora avere di confessare che possa tramuta-
re il male in bene, l'ingiustizia farla giustizia, ed i vizi virtù; ed
al rovescio il bene in male, la giustizia in ingiustizia e le virtù in
vizi, il quadrato in rotondo, ed il rotondo in quadrato ? In fine che
sia sopra, contro e fuori d'ogni legge e d'ogni dritto anco natu-
rale ed apostolico. Confesso colla Glossa di Graziano,4 e 15, qu.
6, e. authoritatem, e dico « quod papa potest dispensare contra ius
naturale et apostolicum». Confesso con Lodovico Gomes5 in
Reg. cancell. che «papa potest de iniustitia facere iustitiam». Con-
fesso con Baldo in L. Barbarius de officio praet. che «papa est omnia
et super omnia»; e col medesimo in cap. cum super, de caus. pro-
prietà et possess. che «papa supra ius, contra ius et extra ius omnia
1. zpapa . . . causa»: «il papa è causa di tutte le cause: perciò non si deve
indagare sulla sua potestà, perché non vi è causa d'una prima causa».
2. Speculatore: Guilelmus Durantis (1237-1296), autore dello Speculum
indiciate; compilò anche un Repertorium aureum iuris canonici, un Ponti-
ficaie, un Rationale divinorum officiorum e, infine, glosse alle costituzioni di
Gregorio X e Niccolò III. 3. Giasone del Maino (1435-1519), professore
di diritto a Pavia, lasciò un ampio commento al Corpus iuris, e numerosi
Consilia', ma per questa citazione cfr. nella seconda parte del I Decretalium,
n. 22. 4. Graziano: vedi la nota 2 a p. 27. 5. Luis Gomes (1484-1542),
giurista e canonista spagnolo, auditore di Rota in Curia, ha lasciato due
libri di Decisiones Rotae, e i commentari In regulas cancellariae apostolicae,
pubblicati entrambi nel 1546.
496 PROFESSIONE DI FEDE
potest»;1 con Ostiense* in C. cum venissent de indie, che «papa po-
test mutare quadrata rotundis ». Sicché non mi sembra più bestem-
mia quella che al rapporto del Varchi nella sua Storia di Fiorenza
solea spesso aver in bocca il cardinal Lorenzo Pucci, che al papa,
che tutto può, non si disdice cosa alcuna, anzi che tutte, ancorché in-
giustissime, gli fossero lecite.3 Posso ancora con franchezza decidere
tutte quelle questioni che tennero lungamente esercitati i vostri in-
gegni e le vostre scuole: « An papa possit abrogare id, quod scriptis
apostolicis decretum est. An possit novum articulum condere in
fidei symbolo. An possit aliquid statuere, quod pugnet cum doctri-
na evangelica. Utrum maiorem habeat potestatem quam Petrus, an
parem. An solus omnium non possit errare »,4 e mille e mille altre,
delle quali i vostri religiosi d'ogni Ordine, che vi sono tanto a
cuore, ne hanno empiti più volumi : che io a tutte resolutivamente
rispondo, e dico di sì. Onde ammetto per veri e legittimi i Dettati
di papa Gregorio VII e per niente stravagante la bolla TJnam sane-
tam di papa Bonifacio Vili,5 l'altra In Coma Domini? e quante di
1. Cfr. Super Decretalibus cit., f. zizv: a il papa è tutto e sopra tutto»; a il
papa, sopra il diritto, contro il diritto e al di fuori del diritto, può ogni
cosa». 2. Enrico Ostiense (morto nel 1271), vescovo di Ostia dal 1262,
d'ignota famiglia piemontese, insegnò diritto a Bologna, poi a Parigi,
infine in Inghilterra. Fatto cardinale si trasferì a Roma, dove scrisse i
Commentari alle Decretali, lasciati in legato all'Università di Bologna, e una
Summa delle stesse, comunemente detta Summa ostiensis, stampata per la
prima volta a Basilea nel 1537. 3. Sicché , . . lecite, cfr. Benedetto Varchi,
Storia fiorentina, a cura di L. Arbib, 11, Firenze 1843, p. 556. Lorenzo
Pucci, datario di Giulio II, poi di Leone X, divenne cardinale nel 15 13.
Conobbe una breve eclissi sotto il pontificato di Adriano VI, ma ritornò
nella pristina potenza in Curia col nuovo papa mediceo, Clemente VII.
A lui Erasmo dedicò le proprie annotazioni sulle opere di san Cipriano.
4. «An papa . . . errare»: «Può il papa abrogare ciò che è stato stabilito
dagli scritti apostolici? Può creare nuovi articoli del simbolo apostolico?
Può stabilire cose che ripugnano alla dottrina evangelica? Ha maggiore
potestà di Pietro, o uguale? Può, lui solo tra tutti, non sbagliare? ». 5. la
bolla . . . Bonifacio Vili: la bolla emanata il 18 novembre 1302, nella quale
è enunciata la supremazia temporale della Chiesa sopra «ogni creatura
umana». 6. l'altra In Coma Domini: questa bolla, al contrario di tutte
le altre bolle pontificie, è così denominata non dalle parole deWincipit,
ma perché letta davanti al papa il Giovedì santo, cioè, appunto, «in
coena Domini». Elaborata e rimaneggiata da molti pontefici, ebbe origine
verso la metà del Duecento, ed ebbe la stesura definitiva da parte di Ur-
bano Vili, con la costituzione Pastoralis romani pontìficis (1627). Contiene
l'elenco dei delitti per i quali è comminata la scomunica, talmente ampio
da ledere sensibilmente il potere dei principi.
ARTICOLI PRIMARI E FONDAMENTALI 497
simil farina se ne leggono nel Bollano Romano, anche in quello di
Clemente XI dato ultimamente alle stampe1 prò regimine Urbis et
Orbis. Confesso ora col vostro P. Bellarmino, tom. i, lib. 4, de rom.
poni., cap. 5, che se il papa errasse «praecipiendo vitia, vel prò-
hibendo virtutes, teneretur Ecclesia credere vitia esse bona et vir-
tutes malas, nisi vellet contra conscientiam peccare. Tenetur enim
in rebus dubiis Ecclesia acquiescere iudicio summi pontificis et
facere quod ille praecipit, non facere quod ille prohibet; ac ne
forte contra conscientiam agat, tenetur credere bonum esse, quod
ille praecipit, malum, quod ille prohibet».2
IX
Ora conosco e detesto il mio errore d'aver creduto che il ponte-
fice romano fosse un pastore, a cui fu commessa la cura di una greg-
gia non sua, ma di Cristo, e che questi fosse il solo Sposo e il Signore
della sua Chiesa. E perciò chiedo perdono, se tali sentimenti voi
avrete scorti ne* primi miei libri deST Istoria civile, e che a ragione
gli avete altamente sgridati sì, ma non giammai convinti per falsi ed
erronei. Contuttociò io ora li detesto, e quando prima S. Paolo ed
i Padri vecchi diceano che lo Sposo della Chiesa era Cristo, io ora
dico meglio che sia il papa, e m'uniformo al detto di Bonifacio Vili,
il quale nel cap. quoniam de immunit. in 6 se stesso così chiamò, di-
cendo: «Nos iustitiam nostrani et Ecclesiae Sponsae nostrae no-
lentes negligere».3 Anzi non la dirò più sposa del papa, ma sua
1. in quello . . . stampe-, cfr. Clementi Undecimi pont. max. Bidlarium, Ro-
mae 1723. Questo Bollano fu edito dal cardinale Annibale Albani, nipote
di Clemente, ad esaltazione della politica dello zio. Delle reazioni che tale
pubblicazione suscitò parla lo stesso Giannone nella Vita, capitolo vi, qui
a pp. 144-5. 2. Bellarmino ... prohibet: cfr. Disputationes R. Bellarmi-
ni . . .de controversiis christianae fidei adversus huius temporis haereticos,
quatuor tomis comprehensae, Venetiis 1599, tom. 1, Tertia controversia gene-
ralis, De summo poritifi.ee, quinque libris explicata, lib. rvT, De potestate spiri-
inali summi pontificis, cap. v, De decretis morum, coli. 804-5 (« . . . prescri-
vendo i vizi o proibendo le virtù, la Chiesa sarebbe obbligata a credere
che i vizi sono buoni e cattive le virtù, se non volesse peccare contro co-
scienza. La Chiesa è infatti tenuta ad acconsentire nelle cose dubbie col
giudizio del sommo pontefice e a fare ciò che egli comanda, e a non fare
ciò che proibisce; e perché non abbia ad agire per avventura contro co-
scienza, è tenuta a credere che è bene ciò che egli comanda, male ciò che
proibisce»). 3. Bonifacio Vili negligerei cfr. Liber sextus Decretalium
498 PROFESSIONE DI FEDE
serva, e non tanto m'induco a crederlo dall'insegnamento del vostro
P. Bellarmino, ma da quello che leggo ancora nel Decreto di Gra-
ziano, che so che per voi passa per libro canonico, dove, e. 1,
dist. 93, a chiare note si legge: «papa is est, cui tota parere debet
Ecclesia».1 E la ragione mi vien additata nel cap. inter corporalia
de translat. episcopor. poiché essendo un Dio in terra, deve in
conseguenza la Chiesa tutta soggettarsi e dipendere da' suoi co-
mandi; e così «quando papa» come ivi si legge « dissolvit matrimo-
nium, videtur quod solus Deus dissolvit, quia papa canonice elec-
tus est Deus in terris»;2 e da Felin. nel cap. Ego N. de iureiur.
che pur m'intuona all'orecchio: «papa gerit vicem in terris non
puri hominis, sed veri Dei ».3 Sicché avendomi voi messo in questa
buona strada, che per dritto cammino mi conduce alla vita eterna,
non avete più da sgridarmi ed a disputar meco se il papa possa
errare o no ; se sia sopra la Chiesa rappresentata in general Concilio ;
se abbia solo egli il diritto di convocarlo ; e se gl'imperadori abbian
alcuna ragione di convocargli, 0 di esserne solamente intesi e con-
sapevoli. Non avrete più occasione di contender meco del suo asso-
luto imperio sopra tutti i vescovi, arcivescovi e patriarchi, che non
sono finalmente che suoi uffiziali e ministri, poiché egli lor dà tutta
quella giurisdizione che esercitano nelle loro diocesi; ed i metropo-
litani, se non se gli mandasse il pallio, « in quo est plenitudo ponti-
ficane officii »,4 non valerebbero un fico, né potrebbero esercitare
funzione alcuna pontificale nelle loro provincie; e perciò come suoi
uffiziali meritamente vengon costretti a prestar giuramento di fe-
deltà al papa, siccome glielo prestano. Non mi fa ora più maravi-
glia che possa crear tanti vescovi quanti ne vuole, ed in Asia, ed in
Africa ed in tutta quanta è lata e grande la terra, che possa abbas-
sargli ed ingrandirgli a sua posta, denudargli degli antichi lor diritti
e prerogative, e ridurgli ad esser servi vilissimi, non pur suoi, ma de'
cardinali, che son oggi i primi ed i Grandi della sua Corte, e al dire
D. Bonifacìi papae Vili ecc., cit., col. 590, Sexti Decretaliwn lib. ni, tit.
xxiii De immunitate ecclesiarum, cap. iv Quoniam ut intelleximus («Non
volendo noi trascurare la giustizia nostra e della Chiesa nostra sposa . . . »).
1. nel Decreto . . . Ecclesia: ma, nel luogo citato dal Giannone, questo passo
non esiste. 2. * quando papa . . . terris»: «quando il papa scioglie un ma-
trimonio, è evidente che è solo Dio a scioglierlo, dacché il papa canonica-
mente eletto è Dio in terra». 3. «papa gerit . . . Dei »: «il papa tiene in
terra il luogo non di semplice uomo, ma di vero Dio ». 4. «zn quo est . . .
officii»: «in cui sta la pienezza dell'ufficio pontificale».
ARTICOLI PRIMARI E FONDAMENTALI 499
del vostro P. Pallavicino,1 suoi grandi senatori, che formano la
regia universale di sì gran principe.
Non mi sorprendono più ora le cerimonie e le celebrità ch'io leg-
go nel libro del Cerimoniale pontificale, quando vien eletto e inco-
ronato un sì gran principe, ch'è il signore de* signori e il re de' re,
e protesto essergli ben dovute. Eletto ch'egli è in Roma, s'incam-
mina a S. Pietro, e i cardinali diaconi che gli sono al lato gli sosten-
gono le fimbrie del pluviale. Ma chi gli alzerà la coda dietro ? Se si
troverà in Corte l'imperadore, avrà egli quest'onore; se no, un re,
che per sua ventura vi si trovasse; altrimenti l'alzerà un laico più
nobile; ed otto altri nobili, ovvero ambasciadori di principi soster-
ranno le otto aste del suo baldacchino. «Caudam autem pluvialis»
sono le parole del Cerimoniale «. portabit nobilior laicus, qui erit in
Curia, etiamsi esset imperator vel rex; supra eum octo nobiles
sive oratores portant umbrellam hastilibus octo sustentatam, quam
hodie baldacchinum appellant».2 Le acclamazioni devono esser
concepite dal popolo consimili a quelle che si usarono quando fu
eletto imperadore in Roma Carlo Magno, « Carolo Augusto, a Deo
coronato, Magno et pacifico Romanorum imperatori, vita».3 Così
pure il Cerimoniale fa gridare al popolo: «Domino nostro Inno-
centio, a Deo decreto summo pontifici et universali papae, vita».4
Finita la consegrazione vien elevato al Soglio sopra un'eminente
sede, e deposta la mitra se gli adatta sul capo il Triregno, detto
così perché è ornato non di una, ma di tre corone. Queste tre co-
rone, secondo m'insegna Angelo Rocca5 in Bibliotheca Vaticana
Commentario illustrata, p. 5 (libro impresso in Roma l'anno 1591
nella stamperia vaticana) rappresentano nel papa «tres potestates,
1. Pallavicino: cfr. la nota 4 a p. 36. 2. *Caudam autem . . . appellanti*:
cfr. Bituma ecclesiasticorum ecc., cit., ce. 12^-13: «Lo strascico del piviale
poi sarà portato dal più nobile dei laici che sarà presente in Curia, anche se
sia imperatore o re; sopra di lui otto nobili, o ambasciatori, porteranno
l'ombrello sorretto da otto pali, detto oggi baldacchino ». 3. « Carolo . . .
vita*: «Viva Carlo Augusto, incoronato da Dio, grande e pacifico impera-
tore dei Romani». 4. «Domino . . . vita*: cfr. JRituum ecclesiasticorum ecc.,
cit., e. 15©: «Viva il signore nostro Innocenzo, dichiarato da Dio sommo
pontefice e papa universale». 5. Angelo Rocca (1545-1620), agostiniano,
direttore della tipografia vaticana, possessore di un'importante biblioteca
da lui lasciata al convento romano di Sant'Agostino e che prese il nome
di «Angelica».
500 PROFESSIONE DI FEDE
hoc est imperatoriam, regiam et sacerdotalem, plenariam scilicet
et universalem totius orbis auctoritatem repraesentantes w.1 Si di-
spone dipoi una solenne cavalcata, nella quale cavalca il papa sopra
un cavallo bianco ben corredato, sotto il baldacchino sostenuto da
otto nobili, ovvero ambasciatori. Ma chi, mentre cavalca, gli terrà
la staffa e guiderà il freno? Se si troverà Pimperadore, o un re,
avrà egli questo onore: se vi si troveranno presenti Pimperadore ed
il re, ovvero due re, il più degno guiderà il cavallo alla man destra,
e l'altro alla sinistra per un poco; dapoi saranno sostituiti in lor
luogo due grandi nobili. « Cum papa ascendit equum, maior prin-
ceps, qui praesens adest, etiamsi rex esset aut imperator, stapham
equi papalis tenet, et deinde ducit equum per frenum aliquantulum.
Si imperator aut rex soli essent, idest non esset alius rex, soli equum
ducerent cum dextera manu; sin vero esset alius rex dignior a
dextera, alius a sinistra frenum tenerent; si non sint reges, digniores
ducant equum. Et postquam imperator, rex, sive alius magnus
princeps aliquantulum equum duxerit, substituantur alii duo ma-
gni nobiles eorum loco et mutentur».2 Ma se o per vecchiaia o per
qualche altra indisposizione il papa non può cavalcare, sicché sia
d'uopo mettersi in sedia da mano, chi dovrà collarla su le sue
spalle almeno per breve cammino ? In questo caso devono scegliersi
quattro più gran principi, e se fra questi vi si troverà Pimperadore,
o uno o più re, devono questi in onore di Gesù- Cristo collare sotto
Pincarco, e colle proprie spalle sostenerlo e portarlo per picciolo
tratto. Indi saranno sostituiti altri quattro familiari del pontefice
più validi e robusti. « Si vero pontifex non equo, sed sella veheretur,
quatuor maiores principes, etiamsi inter eos imperator, aut quivis
maximus princeps adesset, in honorem Salvatoris Iesu Christi,
sellam ipsam cum pontifice humeris suis portare aliquantulum
i. utres potestates . . . repraesentantes»: «le tre potestà, cioè la imperatoria,
la regia e la sacerdotale, che appunto rappresentano il pieno e universale
potere su tutta la terra». 2. «.Cum papa ascendit . . . mutentur *i cfr. B£-
tuum ecclesiasticorum ecc., cit., e. 17: a Quando il papa sale a cavallo, il
maggiore dei principi presenti, anche se fosse un re, o imperatore, terrà
la staffa del cavallo, quindi lo condurrà per un pezzo tenendolo per il
morso. Se l'imperatore o il re sono soli, cioè se non vi fosse altro re, soli
condurranno il cavallo con la mano destra; se invece vi sarà un altro re,
il più degno terrà il morso a destra, l'altro a sinistra. Se non vi fossero re,
i più degni conducano il cavallo. E dopo che l'imperatore, il re o alcun
altro gran principe avranno condotto per un pezzo il cavallo, siano sosti-
tuiti da altri due eccellenti nobili, e così via ».
ARTICOLI PRIMARI E FONDAMENTALI 5OI
debent ».x In questa cavalcata, siccome in tutti i viaggi che dal papa
si fanno, si vuole per cerimoniale che sia accompagnato anche dal-
l'Eucaristìa, che dentro una valigia vien adattata sopra un cavallo
bianco, mansueto e ben ornato, che deve aver nel collo una campa-
nella ben sonante, guidato da un famigliare del sagrestano vestito
di rosso. «Vehitur etiam super equo albo, mansueto, ornato, ha-
bente ad collum tintinnabulum bene tinniens, Sacramentum Cor-
poris Christi».2 Protesto ancora essergli ben meritati consimili onori
che il Cerimonial pontificale vuole che se gli rendano ne' solenni
conviti co* cardinali e prelati. Sorgerà in capo della sala un talamo
quadrato, sopra il quale sarà collocata la mensa papale, ed al muro
si porrà una ornata sede del papa, che avrà un panno d'oro pen-
dente sopra il suo capo. Se nel convito interverrà Pimperadore,
«paratur prò eo sedes ad dexteram pontificis, et mensa super plano
suggesta, super quam solus comedet imperator. Sedes habebit sca-
bellum parvum viride, et erit ornata panno aureo, non tamen ha-
bebit pendentem supra caput».3 Se per sua sorte vi si troverà qual-
che re, non avrà sede a parte, perché gli converrà sedere nella men-
sa de' cardinali dopo il primo vescovo cardinale, preparandosegli
solo una credenza poco da quella lontana. «Si vero adesset rex
aliquis, paratur credentia prò eo paulo remotior ab ea: sedes vero
nulla paratur, quia sedet in mensa post primum episcopum cardi-
nalem».4 Se vi saranno più re, «misti erunt cum primis cardinali-
bus: primo cardinalis, deinde rex successive. Si erunt mixtim prin-
cipes aut filli vel fratres regum, si non serviunt papae, debent sedere
inter diaconos cardinales, vel post eos, prò eorum dignitate et con-
ditione. Primogenitus autem regis, quia rex futurus putatur, post
primum presbyterum cardinalem erit; sed nullo modo inter episco-
pos. Et hoc tam in conviviis quam in aliis publicis actibus ».s Qui
1. *Si vero pontifex . . . debent*: cfr. op. cit., ibid.: «Se invece il papa non
cavalcherà, ma procederà in portantina, i quattro maggiori principi, e tra
essi anche l'imperatore o qual più illustre principe sia presente, in onore
del Salvatore Gesù Cristo, porteranno per un tratto la portantina con il pa-
pa sulle spalle ». 2. « Vehitur . . . Christi * : cfr. op. cit., e. 1 6v (citazione mol-
to libera). 3. tparatur . . . caput*: cfr. op. cit., e. 19: «si prepara per lui
un seggio alla destra del pontefice, e una mensa apparecchiata su un piano,
alla quale l'imperatore mangerà da solo. Il seggio avrà un piccolo sgabello
verde e sarà adorno di un panno aureo, ma non ne avrà uno che pende
sopra il capo». 4. *Si vero . . . cardinalem*: cfr. op. cit., ibi d. 5. «mixti
erunt . . . actibus*: cfr. op. cit., e. 19*?: a staranno mischiati tra i primi car-
dinali: prima un cardinale, poi un re, e cosi via. Se vi saranno indi-
502 PROFESSIONE DI FEDE
fa una chiosa l'autor del Cerimoniale, e dice: «Quod autem de im-
peratore dicimus, intelligimus de imperatore Romanorum, non au-
tem Graecorum; nam ille ut rex tractatur».1 Ma chi sarà il primo
che avrà Ponore di portar l'acqua a lavar le mani al papa ? « Nobilior
laicus, » ci risponde colui « etiam imperator aut rex, aquam ad la-
vandas pontificis manus primo ferat. Et dum papa lavat manus,
praelati et laici omnes genuflectunt, cardinales et praelati stant
capite detecto ».2 Chi sarà il primo a portargli da mangiare ? Eccolo :
« Primum ferculum portabit nobilior princeps, sive imperator, sive
rexsit: secundum alius dignior post eum, et sic successive».3 Quali
saranno que' favoriti che avran l'onore di servirlo a tavola, fin che
quella duri? Eccoli: «Pontifici servire solent nobiliores, qui sunt in
Curia, laici, etiamsi sint fratres aut filii regum, praesertim in ilio-
rum praesentia».4 Ora sì che confesso e chiedo a V. P. perdono de'
miei trascorsi, se ne' miei libri dell'Istoria civile non ho tenuto del
ponteficato romano que' concetti che voi e queste Pandette mi
suggeriscono ed inculcano. Gli detesto ora e gli abbomino, e dirò
per l'avvenire che in onore di Gesù-Cristo tutto se gli dee.
XI
Confesso ancora doversi a' suoi cardinali, che sono i grandi se-
natori di questa regia universale, maggiori o almeno uguali onori
di quelli che si danno a' re della terra. Non solo che ne' papali
conviti debbano sedere prima i cardinali vescovi, e poi i re, ma
ch'essi sieno, siccome sembrarono all'ambasciadore del re Pirro i
stintamente principi o figli e fratelli di re, a meno che non servano il papa,
devono prender posto tra i cardinali diaconi, o dopo di questi, in ragione
della loro dignità e condizione. Ma il primogenito di re, poiché si ritiene
che sarà re, starà dopo il primo cardinale presbitero, ma in nessun modo
tra i vescovi. E ciò tanto nei banchetti che nelle altre funzioni pubbliche ».
i. «Quod autem . . . tractatur-»: cfr. op. cit., e. 20: «Quando diciamo im-
peratore, intendiamo l'imperatore dei Romani e non quello dei Greci;
costui infatti è trattato come re». 2. «Nobilior . . . detecto »: cfr. op. cit.,
e. 19: «Il laico più nobile, anche imperatore o re, porti in primo luogo
l'acqua per lavare le mani del pontefice. E mentre egli si lava le mani, i
prelati e tutti i laici si inginocchiano, i cardinali e i prelati stanno a capo
scoperto ». 3. «Primum . . . successive**, cfr. op. cit., e. 20: «Il principe più
nobile, sia egli imperatore o re, recherà la prima portata: la seconda l'altro
più degno dopo di lui, e così via». 4. «Pontifici . . .praesentia»: cfr. op.
cit., e. 19: « Sogliono servire il pontefice i laici più nobili della Curia, anche
se siano fratelli o figli di re, specie in presenza di questi».
ARTICOLI PRIMARI E FONDAMENTALI 503
senatori romani, tanti re, e che formano il Senato ed il Concistoro
a sì gran principe: che sieno, quando gli sarà data qualche legazio-
ne, tanti proconsoli, siccome gli chiamava Clemente IV, e che
siccome a' proconsoli erano proprie divise ed insegne, così questi
legati, quando gli toccherà uscire dalla città di Roma, avranno pro-
prie insegne, come le vesti di porpora, la mazza, il cavallo bianco,
il freno e gli sproni d'oro.
XII
Confesso col vostro cardinal Pallavicino che per mantenere con
decoro e pompa conveniente a' re questi grandi senatori, e per
conservar con splendore questa regia universale del cristianesimo,
abbia ben fatto il papa, principe supremo, di tirare a sé tutte le
grazie, le dispense, le collazioni de' benefìci, e tanti altri emolu-
menti per le rassegnazioni, regressi, annate, pensioni e spogli, e
siensi a questo fine introdotti con molta sapienza infiniti altri
modi per tirar danaro in Roma. Ammetto per veri e ben propri que'
paragoni che in conferma di ciò mi suggerisce lo stesso cardinale,
dicendo che siccome qualunque principe riscuote senza biasimo i
diritti per le grazie e per le dispensazioni che egli concede, secondo
le tasse del governo, così non debba biasimarsi il papa, principe su-
premo e monarca, per ciò che esigge per le concessioni e dispen-
se nel cristianesimo; e che i mezzi più propri per conservar con
isplendore questa regia sien la copia e l'unione di più benefìci in
una persona senza obligarla a residenza. E che siccome l' erario del
principe, per ben governarsi lo Stato, bisogna che stia sempre
pieno; così tenere il papa principe supremo vóto l'erario, è lo stesso
che allentare la disciplina^ onde il riformar la Dataria,1 proibire a'
giudici ecclesiastici d'impor pene pecuniarie, ed il levar i diritti
delle dispensazioni, è lo stesso che rallentar la disciplina ecclesia-
stica. E per non annoiarvi con un più tedioso catalogo di consimili
articoli, che si leggono sparsi nelle opere di questo vostro insi-
gne dottore, spezialmente nella sua Istoria del Concilio di Trento,
essendosene già fatta raccolta,3 che fu impressa in Parigi l'anno
1676 sotto questo titolo: Les noiwelles lumieres politiques pour le
1. la Dataria: vedi la nota a a p. 209. 3. essendosene . . . raccolta: allude
all'opera di Jean Le Noir, menzionata anche nella Vita: eh*, p. 179 e la
nota 2 ivi.
504 PROFESSIONE DI FEDB
gauoamament da VEghse, ou VBwmgda nouuaou du cardinal Palamene
raoalépar ha. don» san Htstotre du Cimala da Tranta, e che dopo il
Hìn^g^n e divisione dell'opera comincia Chopttra premier. La ne-
camté, utihté, natura et axcaUanea da lapohttqua rabgtausa, orttc. J, e
prosegue per più capitoli dmai in più articoli, e termina alla pag.
064 fine anche della conchiusnone del libro : voglio che di parola 111
parola questo nuovo vangelo si abbia qui per inserito «iurta sui
senem, continentiam et tenorem», secondo il quale intendo di fare
la presente professione di fede, per ciò che riguarda questi primari
e principali articoli, colle cose a" medesimi annesse, connesse, di-
pendenti ed emergenti Scusi la P- V. se queste frasi le sembras-
sero un poco goffe, perché essendo 10 un misero canaletto, non so
allontanarmi dalle consuete forinole nostre forensi.
RAGGUAGLIO
DELL' IMPROVISO E VIOLENTO RATTO PRATICATO IN
VENEZIA AD ISTIGAZIONE DE' GESUITI E DELLA
CORTE DI ROMA NELLA PERSONA DELL'AVVOCATO
PIETRO GIANNONE
NOTA INTRODUTTIVA
« Toccante quella scrittura, che mi confidaste, vi dico che sarebbe
un sproposito il pubblicarla, è fatta in tempo che la colera vi ha
offuscato l'intendimento; non avete detto male bene, e poi vi sono
errori di fatto, che non vi farebbero credito, fidatevi di me, fate il
vostro negozio costì, e scordatevi di questo cielo e di questo clima,
e fate capire che sprezzate le piccole cose e che vi siete superiore >•> :
chi scriveva così al Giannone era il principe Alessandro Teodoro
Trivulzio da Venezia, il 5 gennaio 1736, dopo aver letto il Ragguaglio
delVimproviso e violento ratto.1 Ancora una volta, come già al tempo
della polemica risposta al gesuita Sanfelice, gli amici lo dissuade-
vano dal pubblicare un suo scritto polemico. E anche ora, per la ve-
rità, c'era davvero di che tirarsi addosso l'odio di tutto il mondo . . .
I Veneziani puttanieri, adulteri, ruffiani, sodomiti, la città corrotta
in tutti i suoi abitanti, sì da auspicare « che finalmente Iddio irritato
non piova sopra le piume dell'alato veneto lione fiamma dal cielo,
che tutto Tarda e consumi»:3 siamo ormai ai toni dell'invettiva
biblica.
Perché fu espulso da Venezia? I giorni del suo soggiorno non fu-
rono affatto calmi : prima fu accusato di aver calunniato la Repubblica
nella sua Istoria civile, sicché si vide costretto a dar fuori, in copie
manoscritte, una dissertazione stesa in tutta furia, sul Dominio del
mare Adriatico', poi un'improvvisa diffusione di estratti delle recen-
sioni al Sanfelice apparse prima sui «Mémoires de Trévoux» lo
convinse a far circolare anche a Venezia, sempre in copie manoscritte,
la Professione di fede, cioè un testo nel quale è messo in burletta il
Simbolo apostolico, irriso il primato di san Pietro, denunciati i culti
e le devozioni superstiziose sulle quali poggiano il loro potere mo-
naci e frati, monache e preti regolari. In quel medesimo torno di
tempo «l'Inquisizione di Venezia con concerto del nunzio e del
patriarca andava facendo perquisizione sopra molti gentiluomini al
numero di 80 ed alcune dame, contro altri soggetti eziandio preti,
monaci e frati, imputati di parlar licenziosamente di alcuni riti e
delle instituzioni in Venezia di tante confraternite e superstizioni;
aver notato in un gentiluomo che il Venerdì Santo mangiasse carne,
in altri che le particolari divozioni le reputassero impostura de' frati,
altri che non ben sentissero delle tante perdonanze de' lor santuari,
e cose simili; e che l'occasione, che s'era data a fame inquisizione,
era stato l'avere alcuni scoverto che la lingua fresca di S. Antonio,
1. Cfr. in Giamioniana, p. 527. 2. Cfr. qui, a p. 540.
508 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
che si adora in Padoa come naturale di quel santo, non era che
di legno dipinto a color di carne, e che l'arca del sacro deposito
dava quell'odor di rose, perch'era spesso profumata da' frati, che
ne avevan custodia . . . ».x Ora, come non mettere in relazione que-
sti fatti con la diffusione della Professione di fede ? Come non so-
spettare una responsabilità giannoniana, da parte del patriarca ?
Del resto Pietro Giannone s'era subito ritrovato a suo agio, in
un nuovo ambiente di hbertinage erudii, coli' abate Antonio Conti e
col principe milanese Alessandro Teodoro Trivulzio, nonché con la
monaca Maria Riva, amante dell'ambasciatore di Francia (per inciso,
pare proprio che questi ambasciatori di Francia amassero le suore
chiuse in convento: nel 1705 amante dell'ambasciatore francese era
suor Maria Candida Canal, monaca di Sant'Alvise!). Basta scorrere
un momento le lettere del Trivulzio, al Giannone in fuga, per capire
i discorsi che dovevano tenersi nel loro circolo a Venezia: «Parlatemi
del sistema delle cose; qui siamo all'oscuro, e densa caligine ci im-
pedisce di vedere » (Giannone, invece, era a Ginevra . . .) ; o ancora
la preghiera di procurargli qualche libro « che dica male », non d'or-
dinaria satira, ma «che dica male con tutta la rabbia più mordente,
e che vi sii zolfo del più distillato » ; o la richiesta di abbonarlo alle
«Lettres juives ».
Le lunghe serate nel salotto dell'avvocato Giuseppe Terzi doveva-
no dunque essere abbastanza animate, ripetendo in piccolo quelle
d'un tempo d'un'accademia degli Incogniti qual'era stata quella riu-
nita attorno al patrizio Giovan Francesco Loredan, cent'anni innanzi.
I contatti e le relazioni sociali del Giannone dovettero tuttavia essere
più ampi della cerchia d'amici qui ricordati: intanto il libraio edi-
tore Francesco Pitteri (il primo editore del Goldoni) e la sua bot-
tega, centro di ritrovo d'intellettuali. Il Pitteri avrebbe dovuto es-
sere il nuovo editore agl'Istoria civile e delle Brievi addizioni, non-
ché àe\Y Apologia, e anche questa notizia, insieme ai sospetti sulla
setta di a ateisti», allarmò non poco il nunzio apostolico.2 L'ospita-
1. Cfr. qui, a p. 528. 2. Il Pitteri sarebbe stato l'editore della traduzione
latina del suo saggio De Consiliis ac Dicasteriis quae in urbe Vindobona haben-
tur, secondo quanto asserisce il Panzini, p. 64, sulla scorta d'una lettera
del Giannone a Johann Burckard Mencke, dei 12 d'agosto 1733. Purtroppo
il Panzini non cita la lettera ma, come al solito, si limita a rinviare ad essa,
e noi non possiamo che constatare le stridenti contraddizioni tra la data di
questa lettera e Tanno dell'asserita stampa veneziana, che avrebbe dovuto
essere o il 1734 o il 1735. Come poteva il Giannone affermare nell'agosto
del 1733» essendo ancora a Vienna (se ne allontanò il 29 agosto dell'anno do-
po) che avrebbe fatto stampare la sua opera in traduzione latina a Venezia
uno o due anni dopo, facendovi apporre la falsa indicazione Halae Magde-
NOTA INTRODUTTIVA 509
lità di Angelo Pisani di Sant'Angelo apriva inoltre al Giannone le
porte di molte case nobiliari, come ricorda Giovanni nelle sue memo-
rie: il loro ospite «non solo procurava incontrare il piacere di mio
padre, ma bensì sforzarsi più del proprio dovere: non lasciava festa,
inviti, che si facevano in Venezia, che non dovesse portar o condurre
mio padre. E questo lo era in città e nella terra ferma, ne' nobili
casini di campagna di suo trattenimento».1 Infine, non ultimo epi-
sodio e motivo di apprensione per il nunzio, l'offerta giunta al profugo
da parte dell'Università di Padova di subentrare nella cattedra di
belle lettere rimasta vacua per la morte dell'abate Domenico Laz-
zarini, e per la quale si erano anche fatti i nomi di Biagio Garo-
falo e di Bernardo Andrea Lama, cioè di altri due amici del Gian-
none.
Davvero non si sa a chi credere, se a Pietro che nella sua autobio-
grafia afferma di aver declinato una così lusinghiera offerta (ma
nelle sue memorie egli parla solo d'una cattedra di ius primario,
mentre Carlo Luigi Caissotti parla di due cattedre alle quali il Gian-
none avrebbe mirato: quella di diritto ernie, e l'altra di belle let-
tere), o se invece si debba prestar fede al nunzio a Vienna Domenico
Passionei, il quale attribuiva a sé e al collega accreditato a Venezia
il merito se si era « presentemente prodotta l'esclusione da una delle
cattedre di Padova, ch'egli ardentemente bramava».2
Insomma, qual si fosse la verità, resta però documentata la con-
tinua apprensione e l'assidua vigilanza della corte di Roma sulle
mosse giannoniane. L'autore dell'Istoria civile era sempre un pericolo
per lei : pur non essendo matematicamente sicuri della paternità della
Professione di fede, restava pur sempre il Giannone l'autore della
allegazione sulla Chiesa di Benevento, che tanto scalpore e non picco-
lo incomodo aveva causato nei rapporti di Roma con Napoli e con
Vienna.3 Figuriamoci ora, ad apprendere i progetti di edizione del
Pitteri! L'occasione tanto attesa per agire si offrì con l'elezione ad
Inquisitori di Stato di Giorgio Contarmi, Alvise Mocenigo e Federico
Tiepolo, disposti ad accogliere la richiesta di espulsione dal territo-
rio veneto avanzata dal nunzio: «Per me assolutamente credo» gli
scrisse il Trivulzio il 12 novembre 1735 «che la corte di Roma abbia
avuto mano in tutto ciò che è succeduto, e che ciò che è stato detto
burgicae 1732? O forse ci troviamo davanti ad un errore di stampa nell'in-
testazione della lettera al Mencke ? Solo il suo ritrovamento potrebbe chia-
rire i dubbi sull'asserzione del Panzini. 1. Cfr. Giannomana, p. 189.
2. Su tutto questo episodio vedi Bertelli, pp. 214 sgg. 3. Si vedano i
dispacci della Segreteria di Stato e del nunzio Passionei, in proposito, in
Giannoniana, pp. 157 sgg.
5IO RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
qui, sii stato un solo pretesto».1 E un pretesto fu infatti quello di
accusarlo di aver contatti frequenti cogli ambasciatori di Spagna e
di Francia, essendo ospite d'un patrizio veneziano. Apostolo Zeno,
scrivendo a sua volta a Giusto Fontanini, gli diceva il 24 settembre
di queir anno: «È stato così strepitoso lo sfratto dato da questo
prudentissimo governo la settimana passata all'avvocato Pietro Gian-
none, che è cosa facile che alla notizia di lei ne sia pur giunto il
romore. Le persone dabbene tutte qui esultano, e ne sono sbalorditi
e mesti gli ammiratori e partigiani di lui, che non sono pochi, né
dell'ultima sfera. Con questa occasione si sussurra di altre persone
che professano moderne opinioni e nuove filosofie, le quali quanto
sieno pericolose, ella lo sa meglio di me, senza che io gliene sog-
giunga di vantaggio ».2 Parole di circostanza, che non debbono farci
credere che Apostolo Zeno, amico d'antica data del Giannone, si
trovasse ora dalla parte delle «persone dabbene»; certo non poteva
scrivere, al più acerrimo campione del curialismo settecentesco, di
essere dalla parte dei suoi arrimiratori, anche se non certo immischia-
to nell'inchiesta sugli «ateisti»: non era stato proprio lo Zeno, a
Vienna, ad aprire la sua biblioteca allo storico napoletano, ad offrir-
gli per prima cosa le opere di fra Paolo Sarpi?3 Naturalmente la
testimonianza dello Zeno è per noi preziosa proprio per quell'accenno
alla setta di arnmiratori d'opinioni moderne e di nuove filosofie, che
ci riconduce sempre più al gruppo riunito attorno all'avvocato Terzi
e al principe Trivulzio.
Ad avere la pazienza di spogliare gli inediti epistolari settecen-
teschi conservatici e custoditi nelle biblioteche d'Italia (e non solo
d'Italia), credo sarebbe possibile trovare larghe eco del provvedimen-
to persecutorio preso dagli Inquisitori di Stato. La patria del Sarpi
rinnegava se stessa! «Crescerà assai più la maraviglia, se si vorrà at-
tribuire la mia proscrizione all'avere io dimorando a Venezia invo-
gliati molti alla lettura de' miei libri, ne' quali si scuoprono i maneggi
e le arti sottili della corte di Roma, per le quali pretende a sé tirar
tutto, e che insegnino massime a quella Corte contrarie, le quali sono
distruttive della pretesa monarchia papale, onde sicome mi meritai
l'odio di quella Corte, così doveano seguitar il suo essempio l'altre
d'Italia. Se da altre città, non da Venezia fosse venuto il colpo, sa-
rebbe un tal pretesto alquanto specioso, ancor che per se stesso vano
ed insussistente; ma i Veneziani, i quali adorano come un nume il
lor famoso teologo fra Paolo Sarpi, il quale, tralasciando le altre sue
1. La lettera in Giarmonùma, p. 526. 2. Lettere di A. Zeno, v, Venezia 1785,
p. 151. 3. Cfr. la lettera di Pietro al fratello, del 26 giugno 1723, in Gian-
nonzana, n.° 8.
NOTA INTRODUTTIVA 511
opere, nella sua Istoria del Concilio di Trento si mostrò inclinatissimo
alla religione protestante, questo sì che a gli uomini saggi e di buon
senso non lo persuaderanno giammai»!1
E un attestato di solidarietà il Giannone lo ebbe ben presto, negli
stessi giorni in cui, nascosto a Modena sotto falso nome, sfogava
il suo sdegno in queste pagine, nelle quali senza tema di peccare di
ambizione si paragonava al Sarpi. Come scrisse egli stesso al Trivul-
zio una volta raggiunta Ginevra, il 19 marzo 1736: «. . .mentre
trattenevami in Modena con lusinga tener celato il mio nome, mi vidi
un giorno di repente il Muratori a farmi una visita, che non potei
sfuggire avendomi colto alTimproviso, e dopo vari discorsi che vi cor-
sero ben due ore, mi diede distinto ragguaglio del padre Bianchi San-
ciscano, che io anni a dietro, mentre dimoravo in Vienna intesi che
travagliava sopra V Istoria civile per confutarla; e che a spese del
cardinal Albani ne avea già in Urbino dato alle stampe il primo
tomo, ma lo teneva suppresso aspettando forse tempo migliore per
farlo apparire alla luce del mondo. Ma avendomi il Muratori palesa-
to la tessitura e la forza della confuta, mi ave con ciò detto che non
potea per ora sì tosto uscire alla luce, essendo la fatiga laboriosa di
più volumi, copiando quasi intiera V Istoria Ecclesiastica e la mia, dove
fa vedere la sua erudizione, dando per assunto del libro che li papi
sono stati quelli, che han dato la giurisdizione a' principi, ed i princi-
pi Phan ricevuta da' papi, essendo la giurisdizione de iure divino e non
di ragion positiva, che perciò fu lodevolmente variato, e che la Chiesa
variamente praticò quest'elezioni. Il mio dolore si è che non sarà a*
miei tempi, e non avrò la congiuntura fargli gustare una minestra
simile a quelle feci gustare tanto al padre Sanfelice, come al padre
Pauli; sicché poi non dovrà lagnarsi, che una berlina sosterrà tutti tre
insieme e finire non solo a lividure, ma a sangue come andaron pelati
quei due teste d'asini presuntuosi. Come dunque la penna deve star
quieta, e non è tempo ài tentare i cani che dormano, quando questi
stan desti più che cani levrieri, e vogliono approfittarsi del tempo ? ».2
Sembrano le ultime zampate del leone, prima d'esser rinchiuso!
Del resto, quanta carica di sdegno, di furore il Giannone avesse in sé
appare chiarissimo dalla lettura di questo Ragguaglio. Quale diversi-
tà di toni, d'atmosfera, quanto dolore e rassegnazione, invece, nella
autobiografia, in quelle amare constatazioni che un imperatore come
Carlo VI non fosse stato capace di salvarlo, che Carlo di Borbone
lo respingesse, che un Rinaldo d'Este non potesse aiutarlo, che un
1. Cfr. qui, a p. 541. 2. Cfr. in Giamtomana, lettera n.° 600. Sui rapporti
tra i due si veda S. Bertelli, Erudizione e storia in L. A. Muratori, Napoli
i960, pp. 407 sgg.
512 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
Savoia giungesse ad imprigionarlo! Quanto stupore nel dover alla
fine sperimentare i principi « sdegnati ed avversi » contro di lui, che
pure aveva sacrificato vita e studi in difesa del potere monocratico
del sovrano!
Sergio Bertelli
RAGGUAGLIO
DELL' IMPROVISO E VIOLENTO RATTO
PRATICATO IN VENEZIA AD ISTIGAZIONE DE» GESUITI E
DELLA CORTE DI ROMA NELLA PERSONA DELL'AVVOCATO
P. G., IL QUAL ESPOSTO ALLA RIVA DEL PO IN PAESE DE-
SERTO E NEMICO, FU QUIVI LASCIATO SOLO O A PERIR DI
DISAGGIO, OVVERO AD ESSER PREDA DE' SUOI FIERI
ED IMPLACABILI NEMICI
Colle querele del medesimo contro gV istigatori e coloro che 7 com-
mandarono, ciecamente eseguendo i for perversi ed iniqui consigli.
Helmstat, A. MDCCXXXV
JL ingiurioso e violento attentato per autorità pubblica pratica-
to nella mia persona in Venezia, se sol riguardasse l'aspra con-
tumelia inferitami ed i disaggi e patimenti sofferti, doppo essere
stato improvisamente di notte tempo da numerosa famiglia arma-
ta rapito ed esposto alla riva del Po ne' confini dello Stato Eccle-
siastico, e quivi lasciato solo in una misera osteria per esser o
preda de' miei nemici, ovvero a perir di dura fame, o d'altro più
crudel disaggio, non m'avrebbe dovuto certamente spingere a
manifestare al mondo in questa scrittura le querele ed i gran torti
per un atto sì spietato e barbaro. Fin che Tuoni vive, per sinistro
fato può esser tratto a simili sciagure, le quali avvenendo, quanto
più saran sofferte con pazienza ed intrepidezza d'animo, tanto mag-
giore rilucerà la di lui virtù e la sua costanza, e non picciol con-
II testo del Ragguaglio ci è pervenuto attraverso tre manoscritti: la minuta
autografa (Archivio di Stato di Torino, manoscritti Giarmone, mazzo in,
ins. i,A) mancante dell'ultima carta; un apografo tratto da questa e an-
ch'esso privo della parte finale (ivi, mazzo ni, ins. i, B); una copia ottocen-
tesca basata su un manoscritto oggi perduto (Venezia, Biblioteca Correr,
Prov. Diverse 415, b xi). La copia Correr è pertanto la sola a trametterci il
testo completo. Essa, inoltre, ci conserva un gruppo di lettere e documenti
relativi allo sfratto, che apparivano anche in un quarto manoscritto, già
conservato all'Archivio di Stato di Napoli (Segreteria Acton, Scritture di-
verse, xrv, n. 14) e andato distrutto durante l'ultima guerra mondiale
(cfr. Giannoniana, pp. 39, 378-81). Certamente, accanto alla minuta, do-
vette esistere o un secondo manoscritto autografo o una copia fatta eseguire
direttamente dall'autore, perché giudizi e consigli a non pubblicare il libello
gli venivano dati sia dal Trivulzio sia dal Pisani dopo la sua lettura (cfr.
Giartnomana, pp. 527 e 321). Da questa copia o autografo che fosse di-
33
514 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
forto ritrarrà da innumerevoli1 essempi delle passate età,2 ne* quali
scorgerà uomini santi e prudenti, e d'una vita irreprensibile, non
avere potuto sfuggire la forza d'un simile infelice destino.3 Ma il
mio caso è tutto altro, ed il tacere potrebbe presso molti farmi pas-
sare per reo di un qualche grave delitto, poich' essendo divolgata e
pur troppo nota la cortesia e gentilezza colla quale io fui accolto in
Venezia da quella illustre nobiltà e da tutti gli ordini, non men de*
cittadini che de' forastieri, note le care rimostranze4 e Tuniversal
contento d'avermi presso di loro (le quali cose per lo corso non
interrotto d'un anno intero sempre più crescendo m'aveano ricol-
mato in guisa di tanti lor favori e grazie, che a me tutto confuso
mancavan parole sufficienti per dinotarli l'infinito ossequio e l'e-
terna obligazione nella quale m'avean posto); il sentirsi ora di
repente tutto mutato ed in un subbito essersi sopra di me scagliato
un fulmine sì terribile e spaventoso, forse altri riputerà essersi
scesero sia il manoscritto Correr sia il perduto manoscritto napoletano.
La presente edizione si basa, pertanto, sulla minuta, ma con rocchio at-
tento, anche, alla copia Correr. Limitatamente ad alcuni casi, laddove la
minuta è meno sicuramente decifrabile, ci è parso opportuno riportare
anche l'interpretazione data dall'apografo, che fu compiuto per ordine
del Savoia subito dopo Parresto del Giannone. In ogni caso, sia delle va-
rianti Correr, sia dell'interpretazione del copista settecentesco della minuta,
si è sempre dato avviso in nota. I nostri interventi, per 1 quali al contrario
non ci è parso necessario far menzione nelle note, concernono solo lo scio-
glimento delle abbreviazioni (Venezia, ad es., è quasi sempre abbreviato con
V.) e la semplificazione della punteggiatura, o sono di ordine meramente
tipografico (corsivi ecc.). - Helmstat, A. MDCCXXXV sta a indicare l'in-
tenzione dell'autore di dar subito alle stampe lo scritto. Ne fu dissuaso dagli
amici, primo fra tutti il Trivulzio (cfr. Giannonianat pp. 526, 527 e 529).
Va ricordato che Helmstedt, antica cittadina della Sassonia inferiore, sede
di università, veniva allora usato, anche nella grafia che qui ricorre, come fal-
so luogo di stampa (per es. per opere del Sarpi uscite in realtà a Verona,
171 8, e a Venezia, 1750 e 176 1). In una prima redazione il titolo dello scrit-
to era leggermente diverso ed è rimasto, non cancellato, nella minuta, assie-
me a quello definitivo: «querela di P. G. g[iureconsul]to ed [awocajto
Napolitano]. Per l'improvviso e violento ratto praticato in Venezia nella di
lui persona ad istanza de' Gesuiti e della corte di Roma, poi barbaramente
esposto alla riva del fiume Po' in paese nemico, e quivi lasciato solo o a perir
di disaggio overo ad esser preda de' suoi fieri ed implacabili nemici, rapito
da numerosa famiglia armata».
1. innumerevoli: l'apografo scioglie il segno di abbreviazione in «innumera-
bili ». 2. da innumerevoli . . . età-, correr « da passati esempi ». 3. d'un si-
mile infelice destino : correr « d'un simil destino ». 4. rimostranze : dimo-
strazioni di stima.
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 515
da me commessa cosa pur troppo empia e scellerata, che avesse
giustamente meritata una sì ignominiosa proscrizione. Inoltre dura
ancora il comune concetto presso gli uomini essere Venezia un
sicuro asilo per tutti, e che quivi s'accolgono eziandio i sicari, gli
assassini, i pirati, gli apostati, i felloni, i traditori, ed i più scellerati
uomini del mondo ; tal che fin da antichissimi tempi di questa città
fu detto che fosse d'ogni sozzura ricevitrice;1 onde il non avermi
voluto più sostenere darà ad altri forse indizio ch'io abbia com-
messo delitto tale, che superi in scelleratezza ogni altro più enor-
me ed infame che si possa mai commettere da' più malvaggi e per-
versi uomini della terra. A tutto ciò si aggiunga ch'essendo venuto
il colpo dalle sole mani delli tre Inquisitori di Stato,2 forse altri
entrerà in sospetto non io avessi ordita qualche congiura contro la
veneta libertà, e sacrilegamente cospirato di dare in mano agl'infe-
deli e nemici del nome cristiano la loro Repubblica.
Adunque trattandosi di vindicare3 la mia stima ed il mio onore,
non dovea, o poteva tacendo sacrificarlo, sicome volentieri avrei
fatto di tutti gli altri oltraggi e patimenti, anzi4 della vita propria.
Questo mi spinge a far palese al mondo la mia discreta5 ed innocen-
te vita menata in Venezia per un intero anno, che vi ho dimorato, e
che non men vana che capricciosa cagione fu quella che mosse sì
precipitosamente, senza consiglio, i tre Inquisitori di Stato ad un
atto sì crudele, i quali, se mai non già per sinistre ed occulte in-
formazioni de' miei invidi e malevoli, ma si fosser presa la pena,
senza preoccupazione, di maturamente esaminar i falsi lor rapporti,
li avrebber con facilità riconosciuti animosi e maligni, e che non po-
tevon in me riconoscere ombra di delitto che mi potesse rendere
meritevole di castigo alcuno.6
I.7 Dopo la mia dimora di più di n anni fatta nell' imperiai corte
di Vienna, dove fui sostenuto da Cesare8 con quella stessa benefica
mano, colla quale clementissimamente accolse me e la mia ope-
ra dell'Istoria civile del regno di Napoli, dedicata all'augusto suo
1. ricevitrice: correr «meritrice». Ma sembra piuttosto un errore di lettura.
2. tre Inquisitori di Stato : cfr. Vitay qui a p. 302 e la nota 1 ivi. 3. vindicare :
reclamare con la forza del diritto (latinismo). 4. anzi: perfino. 5. di-
screta: appartata. 6. correr prosegue: «e molto meno di una proscrizione
sì obbrobriosa». 7. I: la divisione in paragrafi è presente solo in correr
e l'abbiamo introdotta nel testo. Qui, secondo l'uso giannoniano, sul quale
cfr. Giannoniana, p. 17, è segnato il 1 paragrafo. 8. Cesare: Carlo VI : vedi
la nota 1 a p. 60.
516 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
nome, essendo per le nuove rivoluzioni d'Italia mutate le cose,
ed il reame di Sicilia, sopra il quale erano assignati i miei stipendi,
passato in altrui dominio, mancandomi in Vienna il proprio su-
stentamento, né per le dure circostanze, che accompagnarono sì
gravi perdite, essendovi speranza che mi si potesse altronde assi-
gnar l'equivalente, da dura necessità fui costretto ad abbandonar
quella Corte, doppo aver preso concedo da Sua Maestà Cesarea e
da' supremi suoi ministri, i quali compassiando1 il mio infelice
stato, né potendo darci rimedio, volentieri me l'accordarono, e verso
Italia drizzar il mio ritorno.3
Giunto che fui a Venezia circa la metà del mese di settembre3
dell'anno scorso 1734 con intenzione di passar altrove, trovai in
questa città fuor d'ogni mia credenza il mio nome in grandissima
stima e credito acquistato per la lettura de' miei libri, de' quali per
lo corso di quasi undici4 anni, da che furon impressi, eran colà per-
venuti più essemplari, avuti non men cari ch'essercitati e resi stan-
chi.5 Al comparir che io feci per la prima volta nella piazza di S.
Marco mi vidi circondato da molti gentiluomini6 delle più cospicue
famiglie, i quali con desiderio cercavan conoscermi per tener meco
diffusi ragionamenti, ne' quali ebbi occasione di restar confusissi-
mo per li tanti encomi ed affettuose espressioni di stima e di cor-
dialità, che io come sorpreso non avea parole sufficienti per render
loro quelle grazie, che a tanta cortesia e gentilezza eran dovute. Nel
camminar per le strade non incontrava gentiluomo, che salutandomi
per proprio nome non volesse trattenermi per parlarmi con sensi
di tanta affezione e stima che sempre più cresceva la mia confusione,
riguardando il poco mio merito, che non era capace di sostener il
peso di tante lodi e commendazioni. Ciò ch'io dico de* gentiluomi-
ni, lo stesso sperimentava con tutti gli ordini di persone, avvocati,
1. compassiando: sic. correr «compasionando»; apografo «compassio-
nando ». 2. Dopo la una dimora . . . ritorno : cfr. su tutto questo quanto scri-
verà nella Vita, capitolo ix, qui a pp. 244-61. 3. la metà . . . settembre: il
14 settembre. Era partito da Vienna il 29 agosto. Cfr. Vita, capitolo ix, qui a
p. 261. 4. quasi undici: la stampa dell'istoria ebbe termine nel marzo del
1723 e il Giannone giunse a Venezia il 14 settembre del 1734: passarono
dunque più di undici anni. Il quasi è stato aggiunto dopo e undici appare
corretto su un precedente «dodici». L'apografo ha «quasi undici», mentre
correr reca «quasi dodeci». 5. eh* esser citati e resi stanchi: correr «che
letti ed esercitati ». 6. molti gentiluomini : alcuni nomi vengono riferiti dallo
stesso Giannone nella lettera al duca di Lauria, Adriano Cala de Lanzina
y Ulloa, del 25 settembre 1734, qui edita col n.° xx.
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 517
medici, negozianti, e di chi no ? Non passarono molti giorni che tro-
vandosi vacante la cattedra primaria del ius civile nello Studio di Pa-
dova,1 venne con molta premura ad offerirmela il sig. Domenico
Pasqualigo,2 fratello del Riformatore di quello Studio, persuaden-
domi d'accettarla, poiché, oltre che a mio riguardo si sarebbe ac-
cresciuto il solito stipendio, portando l'istituto3 di quella accademia
che i soldi, secondo il soggetto e gli anni impiegati in insegnare,
ricevevano sempre maggior incremento, mi poteva esser di scala
per occupar altri posti vantaggiosi, rammentandomi Pessempio
del famoso presso di loro Peregrino,4 il quale dalla cattedra passò
ad esser Consultore della Repubblica. Ala avendogli io risposto
che con mio rincrescimento non poteva ricever un tanto onore,
poiché la mia professione era tutta altra che di far il cattedratico,
non avendo alcun esercizio di lettura, e la mia avanzata età e debole
complessione5 non permetteva di espormi ad un tal faticoso cimen-
to, non mostrandone io alcun desiderio, fu interrotto ogni trattato ;
onde persistendo io in questo proponimento si pensò poi dopo
pochi mesi di provvederla ad altri.6
il. Intanto sempre più crescevano in me i favori della nobiltà,
invitandomi alcuni a desinar nelle loro case, dove era onorato delle
prime sedi7 e ricolmato de' più segnalati onori; altri invitandomi a
1. vacante . . . Padova*, per la morte dell'abate Domenico Lazzarini (1668-
1734), avvenuta nel settembre. Alla sua successione furono proposti il
Giannone e l'abate Biagio Garofalo. 2. Di Domenico Pasgualigo (nato nel
1674) non si hanno notizie biografiche. Sul fratello, Giovanni, cfr. la nota 1
a p. 264. 3. portando l'istituto: prescrivendo lo statuto. 4. Si tratta pro-
babilmente di Marco Antonio Peregrino (1 530-1616), giurista nato a Vicen-
za, professore a Padova di istituzioni civili. Fiscale del Senato di Venezia,
divenne segretario del Senato (era « Senatus veneti consultor »). Cfr. Teatro
d^huorrdni letterati aperto dall' 'abate Ghilini Girolamo, Venezia 1647,
pp. 166-7. 5- complessione: costituzione. 6. onde . . . altri: il Panzesti,
pp. 80-1, nota, pubblica un biglietto di Domenico Pasqualigo che con-
ferma i motivi addotti dal Giannone nel declinare l'offerta dell' Unive-
versità di Padova. In esso, infatti, si chiede al Giannone di porre per iscritto
« il suo animo alieno da leggere in cattedra, come altre volte me ne ha co-
mandato, per sincerare la volontà di que' Signori che lo desiderano ... ».
Però il Giannone tace qui, come il rifiuto fosse originato in realtà dalla
ferma convinzione di poter ottenere il permesso di rientrare in patria, e
forse anche un posto dal nuovo governo borbonico. Senonché in nessun
caso egli avrebbe potuto avere, anche se avesse voluto, la cattedra che gli
veniva offerta: quando si seppe delle due candidature (anche il Garofalo
apparteneva alla scuola regalista napoletana), si mosse a contrastarle il
nunzio a Venezia, sostenuto dal Passionei che -nunzio a Vienna -non
aveva perso di vista il Giannone dal momento della sua partenza. Su questo
retroscena cfr. Bertelli, pp. 213-4. 7. delle prime sedi: dei primi posti.
518 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
diporto nelle loro ville ed a più deliziosi spasseggi nelle isolette
intorno alla città; altri essendo sopragiunto il Carnevale in con-
durmi ne' teatri ad ascoltar opere e comedie, altri invitandomi a
riguardare da' loro balconi i pubblici spettacoli, che in tempo della
mia dimora se ne offeriron molti, così per la morte del doge Ru-
zini1 e per la nuova elezione fatta del doge Pisani,2 come per gl'in-
gressi pubblici del nuovo Patriarca3 e de' nuovi Procuratori di
S. Marco;4 ed alcuni, che nelle lor case solevan tenere conversa-
zione di persone erudite e dotte, delle quali io in questo tempo
avea acquistata qualche conoscenza, non mancaron con reiterate
istanze premer tanto, sì che non potei scusarmi di non far loro
qualche volta compagnia: ma questo avveniva ben di rado, poiché,
sopragiunto un orrido5 inverno, la mia età e gracile temperamento
m'obbligava le sere starmene ritirato in casa.6
Questo rigido per me e penoso inverno m'obbligò a differire a
tempi migliori, nella ventura primavera, il proseguimento del mio
cammino,7 e presi8 a mese alcune picciole stanze per ripararmi
i . del doge Ruzini: su Carlo Ruzzini vedi la nota 2 a p. 286. 2. Luigi Pisani
di Santo Stefano : vedi la nota 1 a p. 273 . 3 . nuovo Patriarca : Francesco An-
tonio Correr : vedi la nota 1 a p. 287. 4. Procuratori di S. Marco : vedi la nota
2 a p. 287. 5 . orrido : correr « crudo ». 6. starmene . . . casa : correr « quasi
sempre ritirato in casa k 7. ti proseguimento . . cammino : il Giannone, appe-
na ristabilitosi dal lungo viaggio, si era subito recato dall'ambasciatore spa-
gnolo a Venezia, il conte di Fuenclara, al quale chiese il passaporto per Napoli
(cfr. Vita, qui, a p. 262 e la nota 2 ivi). Questi accolse favorevolmente la do-
manda, e lo consigliò intanto di rivolgersi direttamente al conte di Santi-
steban, Manuel de Benavides (cfr. la nota 2 a p. 264), dal quale dipendeva
in pratica il nuovo governo borbonico napoletano. Così il Giannone stese
una lettera, che è stata edita per la prima volta da A. Pierantoni, La mente
diP. Giannone, introduzione al Triregno, Roma 1895, 1, p. xc, nella quale,
tra l'altro, diceva: « La dura necessità mi costringe di cercare, essendo ormai
vecchio, in proprio suolo l'ultimo porto de' miei travagliosi errori e, ri-
patriando, cercare un sicuro ricovero, per passare quei pochi anni di vita,
che la bontà divina mi concederà, in riposo e quiete, vivendo a me stesso ».
Dove, come ben si legge, il Giannone si impegnava a tacere per il resto dei
suoi giorni, pur di ottenere il sospirato permesso di rientro in patria. Ma po-
co tempo dopo la visita dell'esule napoletano, il conte di Fuenclara ricevette
una lettera del vescovo di Cordoba, Tommaso Ratto (sul quale cfr. la nota 1
a p. 265), «en que me partizipava la instancia que se havia hecho por parte
del papa, afin que, en caso de transitar por està ciudad para Napoles er
refendo abogado [cioè il Giannone], non le acompanase con pasaporte mio ».
Fu questo improvviso intervento da Roma che obbligò pertanto il Gian-
none a rinviare il viaggio verso il sud, non già il rigore della stagione. Ma si
veda, su tutto questo, la Vita, capitolo ix, qui a pp. 273 sgg., e Giannoniana,
pp. 39-42. 8. cammino, e presi: correr « cammino e da fermarmi, pren-
dendo intanto».
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 519
al possibile dal freddo, poiché, avvezzo in Germania all'uso delle
stufe, se ben il clima veneto non fosse come ivi cotanto rigido,
nulladimanco, poiché i Veneziani non sapevan schermirsene se non
con pellicce e con efimere e passeggiere fiamme di fascetti1 ne* loro
cammini : questo per me niente era sufficiente per scamparne2 i ri-
gori.
Mentr'io era così alloggiato, fra gli altri gentiluomini venne
per mia sorte ad offerirmi la gentilissima sua protezione e grazia
uno, di cui per me fin che viva saranno eterne le obbligazioni,
sicome immortale la memoria. Questi fu un senator gravissimo,
di gran probità e per la lunga esperienza delle prime cariche es-
sercitate nella Repubblica prudentissimo e saggio. Io parlo del
munificentissimo sig. Angelo Pisani di S. Angelo,3 il quale in cor-
dialissima benificenza volle distinguersi sopra tutti gli altri, poiché,
oltre di volermi suo a pranzo quasi tutte le mattine, con affezione
ed amor sincero procurava ogni mio sollievo ed i maggiori miei
vantaggi: egli per sua bontà con gli altri senatori suoi amici era
profuso, fuor d'ogni mio merito, in ricolmarmi di lodi e di com-
mendazione; ed avendogli per la dimestichezza seco contratta dato
saggi bastanti del mio sincero costume e della mia cristiana morale,
tanto maggiormente cresceva in lui verso di me, dirò così, il fra-
terna!4 suo amore; ed essendo solito ne' mesi d'ottobre o di no-
vembre di condursi nella sua villa a Rovere di Crè presso Rovigo,
volle in tutte le maniere che io le facessi compagnia, sicome feci
dimorando ivi seco per tutto il mese di novembre, né se non
verso i princìpi di dicembre ritornammo in città, egli nella sua ed io
nella mia picciola casa. Ma non potendo egli per sua grazia5 più
soffrire questa benché breve lontananza, riflettendo anche alla spe-
sa, che io soffriva dell'alloggio, cominciò ad insistere che io dovessi
ritirarmi in sua casa, dov'era un quartier6 vóto, nel quale con tutto
il mio commodo avrei potuto dimorare e quivi riposatamente vivere
a me stesso ed a' miei studi. Non potendo, senza taccia d'inur-
banità e scortesia, più resistere a sì affettuosi e replicati inviti, gli
promisi di farlo; ma lo pregai a differire le sue grazie finché fos-
1 . fascetti : fascine. 2. scamparne : correr « causarne ». 3 . La casa patrizia
dei Pisani era suddivisa in più rami, di cui il maggiore fu quello di Santo
Stefano, già ricordato sopra. Questo di Sant'Angelo era un ramo minore.
4. fraterna!: fraterno. 5. per sua grazia: correr «per la sua beneficenza ».
6. quartier: appartamento.
520 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
sero passati que' mesi d'inverno che correvano, poiché il quar-
tiere del suo palazzo, dove io dovea passare, lo considerava per le
sue ampie stanze che mi dovesse riuscire assai rigido; ma che vi
sarei passato ne' princìpi di primavera, ed intanto mi lasciasse stare
nelle mie picciole stanze, alle quali avea io già fatte fare le dovute pre-
cauzioni. Compiacquesi il sig. Pisani accettare le mie scuse aspet-
tando che finisse la rigidezza della stagione per ricevermi in sua
casa, ed io intanto continuai nel picciolo mio albergo. Quivi ebbi
l'onore d'esser visitato da più gentiluomini ed infra gli altri dal
dottissimo sig. abate Conti,1 dal sig. Antonio Cornaro,2 dal reve-
rendo P. Rota benedettino,3 dal sig. marchese Ghezi4 e da altri
rinomati non men per dottrina che per probità di costumi. Furono
ad onorarmi oltre i già detti altri letterati, i più insigni della città, si-
come reruditissimo sig. abate Moazzi, il sig. Francesco Fabri,5 il P.
Maestro Lodoli franciscano,6 che per lo carattere, che rappresentava
di ministro della Repubblica, a cui stava appoggiata la carica di
invigilare sopra i libri,7 che da fuori s'introducono nella città, e
d'esser destinato per uno de' Revisori de' medesimi se dovessero
porsi in istampa, io dovea avere tutta quella stima e rispetto, al
meno riguardando il suo carattere, del quale era adorno.8 Vi furono
altri garbatissimi9 signori, de' quali non mi sovvengono ora i nomi.
Per l'opportunità del sito delle mie stanze e per non esser
molto lontane, il dopo desinare cominciai a frequentare la casa
dell'eruditissimo gentiluomo Francesco Bertoni10 presso il monaste-
ro di S. Lorenzo,11 dove nella sceltissima sua libraria solevan radu-
narsi alcuni gentiluomini, infra gli altri il sig. Domenico Pasquali-
go ; e gli ordinari nostri discorsi non erano che de' correnti affari e
guerre d'Europa, osservar carte geografiche e notar ivi le distanze
de' luoghi e delle regioni; e poi che il sig. Bertoni, come amanrissi-
i. Antonio Conti', vedi la nota 2 a p. 267. 2. Antonio Cornaro: Antonio
Corner, senatore veneziano, appartenente ad una delle maggiori casate cit-
tadine. 3. Francesco Rota: vedi la nota 2 a p. 267. 4. marchese Ghezi:
menzionato anche nella Vita, qui a p. 267. 5. Moazzi . . . Fabri: non si
hanno notizie di questi due personaggi. 6. «Z P. Maestro Lodoli: vedi la
nota 5 a p. 267. 7. che per lo . . . libri: correr «del quale vedendolo ono-
rato dalla Repubblica della carica d'ispettore sopra i libri ». 8. il suo ca-
rattere . . . adorno: correr «le cariche delle quali era adorno». 9. garba-
tissimi: correr « cortesissimi ». io. Francesco Bettoni: ricordato anche
nella Vita, qui a p. 267. 11. lontane . . . S. Lorenzo : correr «lontane dalla
casa dell'eruditissimo gentiluomo Sig. Francesco Bettoni presso il mona-
stero di S. Lorenzo, cominciai il dopo desinare a frequentarla».
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 521
mo de' buoni libri soleva provvedersi de' migliori che uscivan, o ài
Francia o d'Ollanda, con tal'occasione avevo discorso1 su qualche
nuovo libro dato alla luce, o di qualche magnifica ristampa fattane,
di medaglie o monete o d'altri studi d'antichità, e cose simili. Ma
tosto la conversazione finiva, poiché all'imbrunire, uscendo di casa
il sig. Bertoni, ciascuno sen giva altrove o alla sua faceva ritorno. In
casa del gentiluomo sig. Giustiniani2 alle due della notte3 solevasi
unire una più numerosa compagnia di gentiluomini e letterati, ed
in questa per l'incessanti inviti, che me ne fece quel gentilissimo si-
gnore, vi fui una sera condotto da due gentiluomini, dove fui accolto
con tanta affezione e gentilezza, che per tanto eccesso di cortesia io
tutto confuso non sapeva renderle proporzionate grazie. Fioritis-
sima era la conversazione, e d'uomini dotti e saggi, fra' quali erano
il sig. abate Conti, il sig. abate Moazzi, il P. divelli4 e tanti altri, e
la materia de' loro discorsi per lo più non era che di filosofia, di
scienze matematiche e di lettere umane. Ma non potei continuarla,
se non per due o tre sere, poiché, tenuta di notte, non poteva sof-
frire in andarvi la rigidezza del tempo; e stimai meglio le sere di
starmene a casa senza uscirne. Narro tutte queste minute circostan-
ze forse con qualche sazietà non ad altro fine, perché si sappia che io
ho tanti uomini probi ed insigni, i quali possono render testimo-
nianza in tutti quest'incontri quali fossero stati i miei discorsi fra
di lor tenuti, se mai avesser traviati punto dall'onestà o dalla nostra
sincera, solida e cristiana religione. E non devo tacere quel che per
me riesce d'una nota distinta della mia moderazione e discretez-
za, che fra le altre lodi, che per lor bontà comunemente solevano
tutti attribuirmi, era questa: che io per me stesso avrei sempre
taciuto, e che non se non richiesto parlava e rispondeva alle di-
mande che mi eran fatte.
in. Stando le cose in questo stato, ecco che comincio a sentire
gli effetti della maledica invidia, poiché alcuni5 cominciarono a
susurrare negli orecchi de' semplici ed ignoranti, fra' quali è
l'ordinaria loro pastura, che io era immeritevole di tanti onori
che mi eran resi da' Veneziani, quando nel 2° tomo della mia Istoria
i. avevo discorso: correr «si ragionava». 2. Giustiniani: vedi la nota 2 a
p. 268. 3. alle due della notte: due ore dopo l'Avemmaria, donde iniziava
il computo delle ore. 4. U P. GriveUi: cfr. la nota 1 a p. 268. 5. alcuni:
cfr. quanto scrive nella Vita, qui a pp. 269-70, dove l'accusa è più precisa e
rivolta alla Compagnia di Gesù.
522 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IX VENEZIA
civile parlo di essi con qualche strapazzo imputandoli di « corta fe-
de», e di più, che del dominio del mar Adriatico io non sentiva be-
ne per i Veneziani, e che altramente rapportava Tatto di papa Ales-
sandro III con Timperadore Federico Barbarossa1 di quello che si
rappresentava nelle dipinture della sala del loro Maggior Consiglio.3
La prima imputazione fu facile dileguarla, facendogli avvertiti che
in quel passo ristorico non vi mette niente del suo, ma raccontando
il dubbio e l'irresoluzione di alcuni di non fidarsi totalmente in
quell'incontro ne' Veneziani, non fa altro che rapportare le loro
parole che denotavano3 non doversi fidare de' Veneziani per la lor
corta fede; questi la riputavan corta, non già ristorico, che non en-
trò punto a decidere la questione, se fosse corta o lunga; se bene
presentemente non penarebbe molto a deciderla, avendo avuta
la rea sorte di sperimentarla pur troppo breve, corta e vacillante.
Ym romori si facevano per gli altri due punti, per dilucidazione
de' quali non bastavano poche parole, onde per convincere affatto
tali calunniatori bisognò che in una diffusa scrittura facessi vedere
che io come napolitano, e che scriveva l'istoria di quel Regno, dedi-
candola a Cesare, non men arciduca d'Austria e dei Stati austriaci
adiacenti che re di Napoli e d'Ungheria, non poteva d'altra maniera
parlare del dominio del Mar Adriatico, e che con tutto ciò, facendo
le parti di leale e fedel istorico, non avea pregiudicato punto le
ragioni della Repubblica, anzi che secondo i princìpi ivi stabiliti,
sempre che saprà conservarsi nell'interrotta possessione di quello,
niuno potrà contrastargliele il dominio. Intorno all'atto di papa
Alessandro III dimostrai che maggior lode e commendazione risul-
ta alla Repubblica veneta di conformarsi a ciò che ne lasciaron
scritto gli storici antichi e contemporanei, che appoggiarsi a' ca-
pricci di favolosi pittori. Compita ch'ebbi questa scrittura,4 prima
i. quando . . . Barbarossa: cfr. Vita, qui a p. 270 e le note 2 e 3 ivi. 2. quel-
lo . . . Consiglio: la vicenda di Alessandro III e di Federico Barbarossa
costituisce uno dei temi dei dipinti apologetici della sala del Maggior Con-
siglio in Palazzo Ducale. 3. le loro parole che denotavano', correr «li lor
sentimenti, che erano di ». 4. questa scrittura: diffusa in copie manoscritte,
fu data alle stampe a Losanna, dopo l'arresto dell'autore, e inserita nelle
Opere postume, 1, pp. 213 sgg., col titolo Risposta di Pietro Giannone giuris-
consulto ed avvocato napolitano ad una lettera scrittagli da un amico, nella
gitale l'avvisava della poca sodisi azione d'alcuni in leggendo nel lib. 13 della
di lui Storia civile del regno di Napoli, al cap. I, la pretenzione de3 Napolitani
intorno al dominio del mare Adriatico e la storia ࣠trattati seguiti in Venezia
con Frederico I imperatore, ed atto di papa Alessandro III.
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 523
di divulgarla, la feci passare sotto gli occhi purgatissimi d'alcuni
dotti e savi gentiluomini, particolari miei padroni, i quali, corret-
tone alcune cose ed aggiunte dell'altre, mi consigliarono a darla
fuori, come feci. Pubblicata che fu, le richieste che io n'ebbi furono
incredibili, sicome non meno le lodi e le commendazioni. Ciascuno
volle averla, e si stancarono i copisti a farne tante e sì innumerabili
copie, che neppure bastando, vi fu chi consigliava a darla alle stam-
pe, al che io non volli acconsentire giammai. Così furono dileguate
quelle nebbie, che i miei malevoli tentarono spargere a gli occhi
de' semplici, e rilusse maggiormente la mia sincerità, e si accrebbe
la stima ed il concetto e l'affezione di tutti verso la mia persona.
Svanite queste ombre, non passò guari che si posero in opra
altri insidiosi mezzi per discredito mio. Un di que' negri animali,1
che odiano la luce,2 di soppiatto andava mostrando a qualche lor
divoto certo libricciolo francese, nel quale si leggeva una satira
inclementissima, non meno contro la Istoria civile, che contro il suo
autore, trattandolo per miscredente, per eretico e per uno senza Dio
e senza croce; e subbito fu sparsa voce che era uscito in Francia un
libro, che gettava a terra tutta quell'Istoria. Rimasi sorpreso alla
novità, avendo io riscontri tutti contrari: che colà quella mia opera
era stata tanto ben ricevuta, che s'erano3 invogliati a tradurla in lor
idioma, anzi che la traduzione francese era già finita, ed essersi il
primo tomo già dato alle stampe;4 onde, fatta più esatta perquisizio-
ne per sapere che mai si fosse questo libro, si scoprì finalmente che
quello non era altro che un tometto de* a Giornali di Trévoux», che
fanno ivi compilar i Gesuiti, ove consarcinano5 alcuni sciapiti libri
d'autori benemeriti della Compagnia, i quali per la loro scipitezza
1. animali: correr «arcadi». 2. Un di que' . . . luce: un gesuita. 3. s'era-
no: correr «alcuni s'erano ». 4. che s'erano . . . stampe: sin dal 1730 Isaac
Loys de Bochat (nipote d'una sorella di Claude Saumaise) aveva iniziato
la traduzione dell'istoria civile, per conto dell'editore ginevrino Marc-
Michel Bousquet. Dell'impresa ne era stato pubblicato anche un breve
avviso nella « Bibliothèque italique ». Tuttavia la morte del Bochat, avvenuta
a Losanna nel 1733, interruppe il lavoro, che fu ripreso dal figlio Charles-
Guillaume. Sulle vicende di questa traduzione si veda quanto è nar-
rato nella Vita dallo stesso Giannone, qui a pp. 212-4, 281 e 319-23 (cfr.
inoltre pp. 304, 306, 311, 317, 329 e 338); e in G. Bonnant, P. Giannone
à Genève et la publication de ses ceuvres en Suisse au XVIIF et au XIXe siè-
cles, in «Annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari dell'Uni-
versità di Roma», ni, n. 1-2 (1963), pp. 125-7. 5. consarcinano: rattoppa-
no, cioè cercano di migliorare riassumendo (latinismo).
524 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
sono rifiutati da' giornalisti di Francia, d'Ollanda, e d'Inghilterra e
da' compilatori degli «Atti di Lipsia».1 Di questo io già avea notizia,
poiché quando il P. Sanfelice gesuita, sotto nome di Eusebio
Filopatro diede fuori in Roma que' due suoi volumacci delle Ri-
flessioni morali e teologiche sopra V Istoria civile ,z vedendo i Gesuiti
ch'erano stati dal viceré e Consiglio Collateral di Napoli dichia-
rati «libelli famosi»,3 e sotto gravi pene proscritti insieme col suo
autore;4 che per la loro scipitezza, mordacità e prodigiosa ignoranza
dagli autori degli «Atti di Lipsia» e da* giornalisti di Francia, d'In-
ghilterra e d'Olanda erano stati riferiti con quel disprezzo e deri-
sione che si meritavano, e che erano universalmente ed in Roma
istessa derisi e beffati ; per rimediare come si potè al meglio alla ri-
putazione d'un lor compagno, pensarono di fargli da' loro giornalisti
inserire in un tometto de' loro « Giornali »,5 ed abbreviarli6 in lingua
1. zAtti di Lipsia»: gli «Acta Eruditorum Lipsiensium» tennero una posi-
zione fHogiannoniana: cfr. nel loro Supplementum del 1729, numero di
settembre, pp. 194-206, la recensione all'Istoria civile. L'accenno ai giorna-
listi d'Inghilterra richiama alla mente un'altra rivista letteraria che sostenne
il Giannone nella polemica coi «Mémoires de Trévoux», e cioè l'«Histona
literaria» di Archibald Bower: cfr. Vita, qui a p. 186 e la nota 1 ivi. 2. il
P. Sanfelice . . . civile: vedi le note 3 a p. 167 e 6 a p. 169. 3. erano stati . . .
famosi: cfr. la Vitay qui a p. 171 e le note ivi. 4. dal viceré . . . autore: la
proibizione del Collaterale e il bando del viceré sono stampati nelle
Opere postume, I, pp. 298-300. Il Giannone ricalca qui il testo del bando,
laddove dice, in apertura: «La saggia sperienza ha dimostrato che certi li-
bri di niuno o poco conto, i quali troppo per loro stessi, mercé la loro insi-
pidezza o sfacciata malignità, resterebbero negletti, sogliono il più delle
volte ricever pregio e corso dalla proibizione ... Su questo piede dovrebbe
abbandonarsi nella sua ben degna oscurità un certo libro di consimil fa-
rina, o piuttosto un libello famoso ... ». Il testo del bando fu steso dal
segretario Niccolò Fraggianni, e reca la data del 16 aprile 1729. «Sento
con piacere» scrisse il Giannone in quella occasione al fratello, il 30 aprile
«quanto è occorso in Collaterale intorno alla proscrizione del libro e del-
l'autore delle Riflessioni morali, e della renovazione della prammatica, ed i
vostri riscontri concordano con gli altri avuti da vari buoni amici, i quali
in questa occasione mi riarmo con mia confusione accresciuto di molte
obbligazioni. Certamente che in tanta corruzione non si è fatto poco».
Tra gli amici, il più solerte fu Biagio Garofalo, il quale stese delle Osserva-
zioni sopra le Riflessioni morali e teologiche (vedi in Opere postume, il, pp.
151 sgg.) che provocarono una replica da parte del Sanfelice. 5. pensa-
rono — ^Giornali*: cfr. la Vita, qui a p. 182 e la nota 4 ivi, e p. 273. I
tre articoli pubblicati dai «Mémoires de Trévoux» furono in seguito rac-
colti in estratto e divulgati in numerosissime copie, una delle quali capi-
tò nelle mani del Giannone, come egli stesso ricorda. Su questo episo-
dio si veda Bertelli, pp. 204-6. 6. ed abbreviarli: correr «racconcian-
dogli ».
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 525
franzese, riuscendo così1 meno noiosi, e covrendo al possibile que'
tanti errori, spropositi e scipitezze, che si leggono nell'originale.
Or essendosi tutto ciò scoverto, ragion voleva che si manifestasse
eziandio la risposta, che usci allora alle suddette Riflessioni morali?
del compendio delle quali si faceva tanta pompa. Questa risposta a
pochi in Venezia era nota; se ben poi si trovò che n'era prima capita-
ta qualche copia ancorché cattiva e scorrettissima. Né io fin qui,
se ben ne conservassi una emendatissima, per tutto il tempo ch'era
dimorato a Venezia ne feci motto, né mostratala mai ad alcuno.
Con tal occasione venne ad alcuni curiosità di leggerla, ed io an-
corché la negassi a molti, non potei schermirmi dalle continue ri-
chieste del sig. Pisani, al quale professava tanta obbligazione di
darcela, però con quella confidenza e stretto secreto, che soglio
praticar sempre in cose simili. Ma essendo la lettura di quella
estremamente piaciuta, non potè contenersi il sig. Pisani di non
communicarla ad altri gentiluomini suoi amici, i quali, non con-
tenti di leggerla, ciascuno volle per sé tenersi copia; onde in breve
tempo si vide quella girare per le mani di molti; non senza indigna-
zione di que' medesimi, ch'erano stati la cagione perché se ne favel-
lasse, poiché se essi non avessero stuzzicato il vespaio di far girar
attorno quel «Giornale», certamente non se ne sarebbe detta pa-
rola, sicome per tre o quattro mesi avanti non se n'era fatto motto
alcuno. Non a me dunque, ma a se stessi devono imputare la divol-
gazione di quella risposta in Venezia, nella quale io non ebbi parte
alcuna. Oltreché non so in questo trovarci colpa veruna, poiché
quella già per più anni correva in Roma per le mani di molti, e fatta-
sene tante e sì innumerabili copie ch'era nota sino a' barbieri; onde
non si capisce perché se ne dovesse mostrar tanta dispiacenza in
Venezia, quando né in Roma, né in Napoli, né in Vienna, né in altre
città d'Italia, come volgatissima,3 se n'era fatto tanto arcano e mi-
sterio. Parimente che io avessi fatto venire da Napoli alcuni pochi
essemplari della mia opera, feci quel che per gratitudine dovea per
gli obblighi immensi contratti con alcuni gentiluomini, i quali
ardentemente desideravano averla, poiché più volte, datane com-
missione a' librari di Venezia, non aveano veduto niun adempimento
1. riuscendo cosi: correr «perché così riuscissero». 2. la risposta . . . mo-
rali: il Giannone rispose all'attacco del Sanfelice con la celebre Professione
di fede (cfr. qui, alle pp. 475 sgg,). 3. volgatissima: divulgatissima.
52Ó RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
delle lor promesse, che gli davano, credendo che potessero avergli
da' librari di Napoli con far cambio de* loro libri : nel che viveano
molto ingannati, poiché in Napoli non a librari, che non ne aveano,
ma ad altri dovea ricorrersi.1 Sicché ne le procurai da chi l'avea
otto essemplari, quanti appunto furono coloro che gli richiesero,
non già per farne traffico, o per voglia che io avessi di diffondergli,
di che non avea certamente bisogno, essendosi abbastanza diffusi da
per tutto, anche per ristampe e traduzioni in più idiomi delle più
eulte e dotte nazioni d'Europa.2 E se da Roma si davano commis-
sioni in Napoli di farne venire casse intere, sicome con effetto fu-
ron mandate, qual delitto sarebbe stato, se lo stesso, ad imitazione
di Roma, avesse fatto Venezia?
rv. Ma ritornando in cammino, dileguate l'imposture, che per
via del compendio francese dell'opera del P. Sanfelice, di soppiat-
to, secondo è il costume de' notturni insidiatori,3 si tentavano presso
la gente idiota e semplice, tanto maggiore crebbe verso di me la
stima e l'affezione de' signori veneziani, spezialmente de' gentiluo-
mini; e scorsi già i mesi di quel rigido inverno, non potendo più
differire le promesse fatte al sig. Pisani, passai verso la fine di marzo
nel suo palazzo; dove in un nobile appartamento fui alloggiato con
tanta assistenza e cordialità di quel signore e del sig. Benedetto
Pisani, suo figliuolo, in cui ammirava un vivacissimo talento e pe-
netrazione di spirito singolare, che sicuro della loro sincera affezio-
ne, mi abbandonai nelle loro amorevoli braccia ed a vivere quivi a
me stesso ed a' miei studi.
La mia vita era tale ed in tal guisa avea distribuite le ore del
giorno. La mattina a buon'ora, quando i tempi lo permettevano,
non tralasciava secondo il mio costume esercitarmi in camminare
per quanto comportavano le strade ed i campi4 d'una città posta
in mezzo all'acque; e con tal occasione alle volte visitava qualche
i. non a librari . . . ricorrersi: l'Istoria civile fu stampata nel casino di Due
Porte, direttamente dal Giannone con l'aiuto dello stampatore Niccolò
Naso. Le copie dell'opera erano vendute dal fratello dell'autore; la richie-
sta di alcuni esemplari per i lettori veneziani è nella lettera del 25 dicembre
1734 (efr- Giaimoniana, n.° 565). 2. ristampe . . . Europa: di ristampe non
se n'era avuta nessuna; di traduzioni, oltre quella iniziata in lingua francese
dal Bochat, ma a quel tempo, come s'è detto, ancora non condotta a termine,
s'era avuta solo la versione in lingua inglese: cfr. la nota 3 a p. 184. 3. not-
turni insidiatori: cfr. sopra, p. 523, dove li ha definiti «negri animali, che
odiano la luce». 4. campi: in veneziano, le piazze.
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 527
amico, ma per breve tempo, altre volte mi fermava nella libreria del
Pitteri,1 e nel tornare, passando per la chiesa de' Canonici Regolari
di S. Salvatore, ascoltava ivi messa ed indi a casa facea ritorno, dove
le rimanenti ore fino a quella di pranzo le consumava ne' miei studi,
i quali alle volte venivano interrotti da qualche amico, che veniva a
favorirmi, spezialmente dal gentilissimo2 sig. Antonio Cornaro, di
cui ammirava la profonda letteratura e la notizia de* più dotti e rari
libri. Il dopo desinare mi tratteneva in casa sino alle ventidue ore,3
indi n'usciva, e se la buona sorte portava che fosse una bella e sere-
na giornata (grazie che il cielo veneto di rado dispensa), me n'anda-
va nel convento de' PP. Benedettini in S. Giorgio Maggiore4 a spas-
seggiare per quel delizioso giardino, ovvero per quelli ampli e
maestosi corridori ed amene logge : dove alle volte riceveva l'onore
d'essere caramente accolto dal dottissimo P. Rota nella biblioteca
di quel monistero, e da' altri gentilissimi padri di quell'insigne ordi-
ne e d'alcuni gentiluomini, che ivi si sogliono condurre per godere
la sera l'amenità di quel luogo. Ma non sempre i tempi o ventosi o
nubilosi ciò permettendo, regolarmente io soleva portarmi in casa
del sig. Bertoni presso S. Lorenzo, dove in compagnia di que'
garbatissimi gentiluomini, che vi trovava, si passava il tempo fino
all'imbrunire: alle volte il sig. Domenico Pasqualigo mi faceva
l'onore condurmi seco nella sua gondola, scorrendo il Canal Gran-
de ; ed additandomi i sontuosi palazzi di quella riviera, m'instruiva
degl'artefici insigni, che gli costrussero, e dei nomi delle famiglie,
che al presente gli possedono. Qualche sera, prima di ritirarmi a ca-
sa, solea per breve ora fermarmi nella Piazza di S. Marco sotto le
Procuratie Nuove nella bottega d'acque d'un nostro napolitano, più
per secondar il costume del paese, pur troppo dedito alla bevanda
del cafè, e per non rifiutare l' offerte, che me ne facevan gli amici,
che per gran voglia che ne avessi ; ma non passava l'ora di notte
che io non mi trovassi a casa, ovvero in quella del sig. avvocato
Giuseppe Terzi,5 prossima alla mia, dove la sera infino alle tre
della notte6 solevano convenire alcuni gentiluomini per profittare
de' savi consigli di quel dotto7 vecchio, di una probità e saviez-
i. Francesco Pitteri: c£r. la nota i a p. 280. 2. gentilissimo: correr «gen-
tiluomo». 3. alle ventidue ore: cioè alle quattro del pomeriggio circa.
4. in S, Giorgio Maggiore: nell'isola di San Giorgio. 5. Giuseppe Terzi:
cfr. la nota 2 a p. 295. 6. alle tre della notte: tre ore dopo rAvemmaria.
7. dotto: correr «dotto e sperimentato».
528 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
za sì incomparabili, che io lo riguardava come un altro Catone.
Così si passarono i tre mesi di aprile, maggio e giugno; ne'
princìpi di luglio il signor Pisani, volendo secondo il solito andar
nella sua villa a Rovere di Crè, volle che io le facessi compagnia,
sicome feci; e quivi quasi tutto quel mese stiedi in una vera so-
litudine, poiché sfuggiva sempre di esser con lui a Rovigo per
rimaner solo a godere di quelle amene campagne: né se non due
sole volte vi fui, la prima per visitar monsig. Soffietti,1 vescovo
d'Adria, che ivi dimora, prelato di una gran probità di costumi e
ài una profonda cognizione di storia ecclesiastica e di teologia, e la
seconda per invito fattomi dal P. abate del convento di S. Barto-
lomeo dell'ordine degli Olivetani ad intervenire in un'accademia
d'eloquenza, che ivi si tenne sotto la direzione dell'erudito P. Castro
olivetano.3 Verso la fine di luglio fecimo ritorno in Venezia, e si rivi-
dero gli amici, da' quali fummo informati delle varie novità frattan-
to occorse in città in tempo della nostra assenza. Infra l'altre ce ne
raccontarono una, che per la città vi era un susurro, che l'Inqui-
sizione di Venezia con concerto del nunzio e del patriarca andava
facendo perquisizione sopra molti gentiluomini al numero di 80 ed
alcune dame, contro3 altri soggetti eziandio preti, monaci e frati,
imputati di parlar licenziosamente di alcuni riti e delle istituzioni
in Venezia di tante confraternite e superstizioni;4 aver notato in un
gentiluomo che il Venerdì Santo mangiasse carne, in altri che le
particolari divozioni le reputassero impostura de' frati, altri che non
ben sentissero delle tante perdonanze5 de' lor santuari, e cose simi-
li; e che l'occasione,6 che s'era data a farne inquisizione, era stato
l'avere alcuni scoverto che la lingua fresca di S. Antonio, che si
adora in Padoa come naturale di quel santo, non era che di legno
dipinto a color di carne, e che l'arca del sacro deposito dava quel-
l'odor di rose, perch'era spesso profumata da' frati, che ne ave-
van custodia.7 Rimasi sorpreso8 in sentir tal novella, e tanto più,
quando poi scorsi che ad arte si andava spargendo per le piazze, e
1. monsig. Soffietti: la nota 1 a p. 371. 2. P. Castro olivetano: nulTaltro
conosciamo di questo religioso erudito. 3. contro: CORRER «e sopra».
4. confraternite e superstizioni: correr a confraternite di secolari, e di al-
cune altre superstizioni e delle tante perdonanze de loro santuari ». 5. per-
donarne: indulgenze. 6. de* frati . . . occasione: correr «di frati e cose
simili, e che l'occasione». 7. I* avere alcuni . . . custodia: cfr. Vita, qui a
p. 293. 8. sorpreso: aveva prima scritto «turbato», correggendo poi in
«sorpreso».
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 529
sino nelle botteghe pubblicamente se ne parlava, anzi sfacciata-
mente si nominavano sino le persone de' nobili, delle dame, e de'
preti, monaci e frati, i pretesi delitti e le più minute circostanze;
cosa nuova di quel tribunale, il quale procede con un impenetrabil
secreto per vie pur troppo ignote ed occulte; onde cominciai sub-
bito a sospettare non s'ordisse qualche insidiosa rete per invillup-
par anche me in quella da non potermene così facilmente districare.
Ma non passarono molti giorni che, come sono tutte le nuove di
piazza, cominciò la voce a svanire; ed usate da alcuni accorti gen-
tiluomini migliori ricerche per scovrirne il vero, non trovaron niente
di fermo e si credette che fosse una delle solite dicerie di bottega, e
per ciò non doversene pur cercar1 molto. Mi quietai intanto, non
solo perché così ne fui anche assicurato da gravissimi senatori,
quanto riguardando la mia coscienza e la passata vita, che avea
menata in que' nove mesi a Venezia, poiché due l'avea passati nelle
solitudini di Rovere di Crè presso Rovigo; ed a coloro i quali mi
dicevano che ancor io era notato nel catalogo de* miscredenti, che si
vociferava, solea rispondere che io avea un vantaggio sopra gli
altri, che non già di soppiatto, ma palesamente avea parlato, e che i
miei sensi e la mia credenza erano ne' miei libri stampati già palesi
e pubblici ; ne' quali la più rigida ed animosa censura di Roma non
aveva potuto rinvenire né pur una proposizione, che avesse potuto
qualificarla per eretica, sicom'è manifesto dal decreto della con-
danna e proibizione; onde i miei discorsi non contenendo più di
quel che io avea scritto, stava pur sicuro di poter ridarguire di
falso e d'impostore chiunque avesse voluto notarli per ereticali
ed empi; e che se questi calunniatori, lasciando le tenebre, uscisse-
ro un poco fuori alla luce del sole, e manifestassero quali fossero
l'eresie che han notato nei miei discorsi, gli farei ben vergognare con
palesargli per maligni non meno che per sciocchi e prodigiosi igno-
ranti.
v. Passato in tanto il mese di agosto, né più sentendosi di ciò
parlar altro, si venne nel mese di settembre, nel quale io, prose-
guendo il mio costume, visitava la mattina qualche amico, il dopo
desinare mi portava o dal sig. Bertoni, od in S. Giorgio Maggiore,
e la sera o in casa o in quella del sig. avvocato Giuseppe Terzi
godendo della stessa familiarità e cortesia come prima di que*
1. cercar: correr «curar».
530 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
garbatissimi signori. Ma ecco che stando in questa placidezza e
tranquillità d'animo giunse per me il giorno fatale che turbò ogni
mia quiete e contristò tutti i miei pensieri, ponendomi nel fondo
de' più travagliosi affanni e miserie. Il martedì 13 di settembre
doppo il mio maturino essercizio,1 ritiratomi a casa, ebbi l'onore
d'esser visitato dal sig. Antonio Cornaro, con cui sino ad ora di
pranzo si tennero discorsi vari e di scienze e di lettere umane secon-
do il nostro consueto stile. Doppo desinare mi trattenni a casa sino
alle 22 ore, indi passai in quella del sig. Bettoni, dove trovai il sig.
Pasqualigo, il quale, trattenuti che ivi fummo da un'ora, mi invitò al
solito spasseggio del Canal Grande, il quale dopo essersi scorso, mi
lasciò la sera nella piazza di S. Marco. All'imbrunire, di là passai in
casa del sig. avvocato Terzi, ove trovati i gentiluomini soliti ivi a
convenire, i signori Priuli, il giovane Cornaro ed altri, di cui ora non
mi sovvengono i nomi, vi sopragiunse dopo il sig. abate Conti. So-
nate le tre ore, segno del nostro ritiro, ci alzammo tutti, e calando
giù per le scale, ciascun prese il cammino verso la propria casa, chi
per acqua chi per terra. Volle quella sera accompagnarsi meco il
sig. abate Conti, e poiché per andar in casa Pisani di S. Angelo, deve
traversarsi il campo di S. Stefano; quivi col sig. abate fermati
alquanto, vidimo una turba di birri, chiamati in Venezia zaffi, i
quali oltrepassando il campo, ove noi eravamo, finsero andar altro-
ve. Io, a tutto altro pensando, seguitai il mio cammino, e giunto ad
un vicoletto, che conduce al ponte avanti il chiostro di S. Stefano
de' PP. Agostiniani, il sig. abate Conti si licenziò da me, ed io pro-
seguii avanti col servidore del sig. Pisani, che m'accompagnava con
una lanterna: passato il ponte,2 mentr'era nel campo di S. Angelo
per voltar a man sinistra ed entrar nel portone del palazzo Pisani, ecco
che mi veggo venire addosso alcuni, che m'arrestarono, e dati alquan-
ti fischi, mi vidi circondato da una turba di birri, i quali, copertomi
d'un mantello, mi rapirono, e frettolosamente mi condussero per
oblique strade nella piazza di S. Marco. Ancorché di notte tempo,
nulladimanco lo stuolo che mi circondava movendo curiosità agli
altri lor compagni ed a que' bottegai i quali tenevan ancor aperte
le lor botteghe, crebbe a guisa d'un raccolto diluvio, che giunto che
fui in quella piazza la turba era cresciuta in immenso, alla quale io
era non so se di compassionevole o di dilettevole spettacolo. Allora
1. matutino essercizio: l'ha descritto sopra, p. 526. 2. il ponte: forse il ponte
detto «dei Frati».
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 53I
fra me stesso dissi : Oh incostanza delle umane cose, e quanto folle
è colui, che in lor pone speranza. Ora conosco per proprio espe-
rimento quanto siano variabili e vacillanti le umane vicende. Que-
sta istessa piazza, che solea esser per me teatro di tanta stima, e
che quasi sempre circondato da gentiluomini, era da' medesimi co-
tanto onorato e riverito, ora in un baleno la veggo cangiata in mio
obbrobrio, dove sono esposto ad esser un miserabil spettacolo del-
la feccia d'un vile e sozzo popolaccio. Sperimentai dagl'insulani
veneti, se ben con successo contrario, quella stessa inconstanza, che
con S. Paolo praticarono gFinsulani di Malta. Egli scampato dal
naufragio, avendo posto piede a terra, fu assalito da una vipera, che
l'addentò in una mano, e credendo i Maltesi che gonfio tosto
dovesse cader morto a terra, dissero fra di loro: veramente dee
esser costui il più empio e scellerato uomo del mondo, giacché né il
mare, né la terra vogliono sostenerlo; ma quando videro Paolo con
una gran intrepidezza avere scossa dalla mano la bestia, la quale
caduta a terra non gli recò nocumento alcuno, allora in un subbito
cangiati, lo riputarono un dio, e prostrati a terra volevano in tutti
i modi come un nume adorarlo e rendergli divini onori.1
Fui condotto da' birri alle Procuratorie Vecchie nelle camere
del Bargel Maggiore, chiamato in Venezia Messer Grande,2 il quale
avendomi prima interrogato chi io fossi e dattoli3 il mio nome, mi
soggiunse che per ordine de' Signori Inquisitori di Stato io dovea
partir tosto da Venezia e suoi domini, né sotto pena di vita farvi
più ritorno, e che per tal effetto era pronta la nave per condurmi
a' confini, e che si mandava allora il fante,4 che dovea accompagnar-
mi, in casa Pisani a prender la mia roba per portarla meco. Gli
risposi che senza tanti strepitosi e militari apparati avrebbe bastato
un sol cenno di que' signori che io partissi, che tosto sarebbero
stati ubbediti; che la mia roba non era sì poca, spezialmente la
mia biblioteca,5 che potesse farsi sì prestamente fagotto per meco
subito imbarcarla; ma che per non fraporre dimora alcuna mi sarei
contentato del puro necessario per farla poi trasportare dove io
pensava di fermarmi uscito che fossi dal confine veneto. Ma intanto
il fante era partito senza poterli dire che cosa dovesse il sig. Pisani
1. con S. Paolo . . . onori: cfr. Act., 27-8. 2. Fui condotto . . . Grande: cfr.
la Vita, qui a p. 296 e la nota 3 ivi. 3. dattoli: correr «dettogli». 4. il
fante: vedi la nota a p. 297. 5. spezialmente la mia biblioteca: correr
«avendo meco la mia picciola biblioteca».
532 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IX VENEZIA
mandarmi per i miei bisogni. Pregai il Bargello che dovendo es-
ser io condotto a' confini, non fossero quelli dello Stato Ecclesia-
stico, come a me infidi e sospetti, ma qualunque altro; ma non
potei ottenerlo, poiché l'ordine era che mi conducessero a Crespino,
picciola terra a' confini del Ferrarese. Qual fosse il mio turbamen-
to in sentir questo ciascuno può comprenderlo, la malinconia sve-
gliandomi mille tetre imagini di tradimenti e di funesti successi. Ma
il Bargello, che mostrassi meco tutto umano e gentile,1 mi diede
coraggio, dicendomi che colà avrei potuto trovar pronta occasione
di vettura da poter subbito proseguir il cammino dove volessi, e
sfuggire qualunque pericolo che io fossi per incorrere, traversando
que' paesi per me sospetti. Fu dura necessità di acquietarmi come
potei al meglio, aspettando intanto il fante, che tornasse col mio
bisognevole per intraprendere un sì lungo ed improviso viaggio.
Venne finalmente doppo due ore di penoso aspettare, ma il suo
ritorno invece di sollevarmi accrebbe maggiormente le mie ango-
scie, poiché senza palesare al sig. Pisani che io dovea prestamente
partire, anzi lasciandolo nella credenza che io fossi ditenuto in
carcere dopo l'arresto, del quale era stato informato dal suo ser-
vidore, che m'accompagnava, gli chiese per ordine de' Signori
Inquisitori di Stato la mia roba per dovermela consignare ; onde cre-
dendomi nella prigione, mi mandò quasi tutti i miei libri, i quali al-
manco mi servissero ivi di compagnia, ed alcuni pochi abiti necessari
per camera, non gìk per viaggio. Dimandai al fante se m'avesse por-
tato il mio forziere, ov'erano que' pochi denari che avea, ed altre
mie cose necessarie per viaggiare, e mi rispose che non avea ricevuto
altro dal sig. Pisani che i libri ed alcuni drappi ed abiti avvolti in una
tela bianca, e che la cagione della sua dimora2 era stata perché i libri
essendo molti, dovette farli tutti trasportare nella barca apprestata,
de' quali la poppa e la prora era piena. — E che ho da far io de'
libri — gli replicai — che mi sono più tosto d'impaccio, e che non
avendomi portato il mio forziere, non ho mezzi di far la spesa che bi-
sogna per trasportarli meco, dove io dovrò andare ? Non potevi tu dire
al sig. Pisani che io dovea partire e non rimaner qui prigione ?3 — Ma
quel vecchio scimunito bruscamente mi rispose ch'egli non teneva
quest'ordine di dirlo, ma solo di cercargli la roba; esser già quella
imbarcata, e non bisognava differir più la partenza, essendo già pas-
i. gentile: correr «gentile, vedendomi sì turbato». 2. dimora: indugio.
3. qui prigione: correr «qui in prigione».
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 533
sata la mezza notte, che tutti eran in letto, e non voleva inquietar più
nissuno. In breve, per dura forza bisognò partire con que' abiti che
avea addosso, e con que' pochi denari, che mi trovava in sacca. Si
navigò tutta la notte insieme col fante e con un soldato di guardia, ed
all'apparir del giorno vidi quel doloroso spettacolo, gittati a mucchi
nella estremità della nave i miei libri di qua ed in là. Gli accommodai
come potei al meglio, pregando il fante, che ben vedendo essere im-
possibile che io potessi meco portarli, dovendomi esporre ad un
luogo, dove nemmeno io era certo di poter per me solo trovar
vettura per proseguire il cammino e pormi in paese sicuro, mi fa-
cesse la grazia di ricondurseli seco e riconsignarli al sig. Pisani,
perché io l'avrei poi scritto dove avrebbe dovuto mandargli. Ma
ricusava di farlo, perché dicendomi che in Crespino io avrei trovata
ogni commodità e se non poteva soffrir la spesa del trasporto, tanto
avrei potuto lasciargli in una stanza dell'osteria, perché sarebbero
stati intanto ben1 custoditi, per poi di colà fargli trasportare ove io
volessi. Barbara risposta, che condennava que' infelici libri a starse-
ne in paese nemico2 ed alla discrezione d'un oste. Ala all'esperienza
ed evidenza del fatto fu poi d'uopo che finalmente s'arrendesse ed
esaudisse le mie preghiere, poiché navigatosi tutto quel giorno 14
di settembre si giunse ad un'ora di notte a Crespino, che si trovò
un luogo deserto, senz'osteria e senz'alcuna di quelle commodità
che si promettevano; onde avendo fatto calare a terra un marinaro
col soldato per vedere se mai in quel contorno si trovasse albergo,
giraron un pezzo, e dopo un'ora tornò il marinaro, dicendoci
che un miglio lontano s'era trovata in campagna un'osteria, alla
quale la barca non poteva avvicinare per la secca del fiume Po, ma
che bisognava smontare quivi e far a piedi quel cammino per
arrivarci. Allora il fante conobbe l'impossibilità del trasporto di
tanti libri per terra, di notte tempo e senza veder ivi anima viven-
te, onde bisognò calare a riva, e dato il mio involto di panni ad un
marinaro* che lo portasse, ci posimo a caminar a piedi, finché si
giunse ad una misera osteria, ove non trovai nemmeno un calamaio
ed un poco di carta per iscrivere un biglietto al sig. Pisani, dandogli
ragguaglio come, per l'impossibilità del trasporto, gli rimandava i
libri, confidando alla lealità del fante, che gliele avrebbe puntual-
mente riconsignati; sicché non potendolo fare in iscritto, m'ab-
1 . ben : correr « ivi ben », 2. nemico : ciò fa pensare che il Giannone temesse
un loro sequestro.
534 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
bandonai unicamente alla fede e discrezione di colui, pregandolo che
l'eseguisse con esattezza; ed egli mi promise di farlo, e che io punto
non ne dubbitassi, sicome n'avrei avuto certo riscontro dal Pisani.
Il fante, scorgendo la miseria del luogo, non volle meco fermarsi
quella notte, ma immantinente ritornò co' suoi alla barca, e mi la-
sciò ivi solo, se non accompagnato da' miei torbidi e funesti pensieri,
e con l'aggitazione di ciò che dovesse farmi in luogo sì deserto e
sospetto, e d'aver commessi alla fede e discrezione d'un fante, di
quattro marinari ed un soldato que' miei libri, per i quali avea im-
piegato qualche denaro e gran tempo per metterli insieme. Chiesi
da cena, e mi fu risposto da un giovane dell'oste, il quale era già
andato a dormire, ch'essendo così tardi, non vi era altro che un poco
di pane e di vino: — porgimi del pane — gli risposi — ed un poco
d'acqua, perché io non bevo vino — ; e questi sentendo che io non
beveva vino, mi portò di mala voglia del pane e dell'acqua de' peg-
giori che fossero in osteria. Gli dimandai se vi fosse commodità
di galesse per partir di man mattino per tempo, e mi rispose che
non vi era nella vicinanza che un villano che teneva due giumente
con una sedia, ma che i suoi viaggi non eran più lunghi che infino
al vicino Ponte di Lago oscuro,1 non essendo pratico di altre strade
per far più lungo cammino ; e che ivi averei potuto provvedermi di
altra vettura. — Bene sta — gli replicai —, andiamo a dormire, e
dimani per tempo mi facci qui trovar quest'uomo. — Si dormì
quella notte come si potè il meglio. La mattina trovai nell'oste più
cortesia, poiché avendogli detto che mi rincresceva trattenermi2 in
quel Ponte per cercar nuova vettura, essendo il mio disegno di pas-
sar in Modena quanto più presto si potesse, disse al villano, il qual
era già venuto, che ben poteva ivi condurmi, additandogli le strade,
per le quali senza passar per Ferrara e per Bologna poteva la sera
pernottare a Cento, ed indi la mattina essere in Modena. Bisognò
penar molto così per istruirlo, come perché si contentasse, temendo
di non errare; finalmente si diede animo, mi posi in galesse, e di-
mandando a quanti passaggieri s'incontravano le vie che condu-
cevano a Cento, caminandosi tutto quel giorno di giovedì 15 del
mese, vi si giunse felicemente la sera, e la mattina seguente de' 16
prestamente proseguendo il camino arrivai a Modena alle 17 ore,
1. Ponte di Lago oscuro: Pontelagoscuro. 2. trattenermi: apografo; nel-
l'autografo « trattenni».
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 535
ove stimai come in sicuro luogo fermarmi,1 per aspettare riscontri
da Venezia se mai il fante avea restituiti i libri al sig. Pisani, e per-
ché mi si provedesse a' miei bisogni, ma sopra tutto per sapere
qual delitto mi s'imputava perché m'avessi meritata una sì improv-
visa ed ingiuriosa2 proscrizione.
Fu duro l'aspettare in tanta aggitazione e solitudine, essendomi
convenuto trattenermi ivi sconosciuto, senza communicar con al-
cuno,3 ed avvisando il mio arresto colà4 a' miei amici di Venezia,
l'avvertii a scrivermi a Modena sotto altro nome.5 Dopo quindici
giorni ebbi finalmente i cotanto aspettati riscontri, i quali furono che
il fante non restituì subito i libri secondo la fede datami, ma volle
nuovo ordine de' sig. Inquisitori, sicché il sig. Pisani fu obbligato
ricorrere a' medesimi per ricuperargli. Che in quanto alla cagione
della mia proscrizione, incerta e varia era la fama: chi l'attribuiva
a' romori che s'eran sparsi esser io nel numero di que' imputati di
miscredenza; chi alle sinistre insinuazioni de' Gesuiti, che aveano
gran potere sopra gli spiriti deboli de' tre Inquisitori; e chi che
dimorando io in casa d'un gentiluomo6 veneziano, avea dato sospet-
to d'inconfidente, praticando spesso in casa co' sig. ambasciadori di
Francia e di Spagna, e con molta familiarità co' loro domestici; ma
la comune vera credenza de' più avveduti e ben informati era che
sotto questo pretesto di pratticar in casa de' suddetti ambasciadori,
si fosse tessuta la gabala dalla corte di Roma e da' Gesuiti,7 li quali
mal sofferivano che io fossi in Venezia così ben veduto, e che le mie
opere ivi cotanto si commendassero, e maggiormente si diffondesse-
ro ; e che tutti i savi senatori e la gente più illuminata condennava
Tatto spietato ed ingiusto, e che se non si fosse proceduto con tanta
1. fermarmi: lezione dell'apografo. L'autografo forse «fermarsi». 2. in-
giuriosa: correr «obbrobriosa». 3. senza . . . alcuno: il Giannone tace qui,
per ovvi motivi di opportunità, trattandosi di uno scritto che egli intendeva
divulgare, il suo incontro con Ludovico Antonio Muratori. Giunto infatti a
Modena, lo storico del regno di Napoli trovò ospitalità presso il fattore
di Casa estense Antonio Guidetti, al quale l'aveva raccomandato il Pisani
(cfr. Panzini, p. 83 **); e in casa di questi gli fece visita il Muratori, trat-
tenendosi a lungo a parlare e dandogli « distinto ragguaglio del padre Bian-
chi franciscano », il quale stava stendendo un nuovo attacco contro V Istoria
civile (cfr. la lettera del Giannone al principe Alessandro Teodoro Trivul-
zio, del 19 marzo 1736, qui edita col n.° xxin). 4. il mio arresto colà:
correr «la mia dimora». 5. altro nome: aveva scelto il nome di Antonio
Rinaldi: cfr. Panzini, loc. cit. 6. gentiluomo: correr «patrizio». 7. Ge-
suiti: correr «Gesuiti, sopra gli animi di quei inquisitori assai potenti».
536 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
precipitarla, forse non sarebbe seguito, 0 almeno usata maniera di-
screta ed urbana; anzi che vi eran alcuni senatori, i quali detestan-
do pubblicamente il fatto, riputavano che per decoro della Repub-
blica e risarcire la mia fama, dovessi io esser richiamato con maniere
decorose ed onorevoli.1
vi. Ecco la dolente istoria della mia proscrizione da Venezia, dalla
quale ciascuno comprenderà quanto infelice fosse in Venezia la con-
dizione d'un pover disgraziato uomo esposto all'arbitrio e capriccio
di due o tre Inquisitori di Stato ad esser improvvisamente ruinato
nella stima, nella roba e nell'onore, e, quel che dà più orrore, sen-
z'esser inteso, senza processo,2 e senza potersi difendere dall'altrui
false ed animose imputazioni e di vedersi prima eseguita la sen-
tenza che si sappia il delitto, di che vien imputato. Quindi anche
comprenderà quanto facile e spedita cosa fosse a questi tali3 Inqui-
sitori, che prestono volentieri orecchio a' lor consultori di coscienza,
di malmenare così ignominiosamente i poveri forastieri, ancorché
prima ben accolti e careggiati,4 e come lor sembra un divertimento
assai dilettevole e soave de cario hominis ludere* nulla curando
d'esporgli a' più duri patimenti e disaggi, anzi ad evidenti pericoli di
perdere o la libertà o la vita istessa. E questi lor consultori di co-
scienza, che si mostrano cotanto delicati e teneri, non tanto del-
l'onor di Dio che de' santi, e così zelanti della salute delle anime
umane, con qual arte magica o trasformatrice possano fargli trave-
dere, e così tosto cangiargli il bene in male ed il male in bene ? Chi
crederà che in Venezia oggi i Gesuiti possin cotanto, quando in
tempo delle contese, ch'ebbe con Paolo V,6 non sperimentò la
Repubblica nemici fra' più fieri, sicché fu obbligata cacciargli dalla
città e da' suoi domìni,7 i quali nell'atto stesso d'esser cacciati
1. e risarcire . . . onorevoli: correr «e risarcimento della mia stima dovessi
io esser richiamato con invitti onorevoli e decorosi ». Nell'autografo maniere
è stato poi cancellato e sostituito da parole illeggibili. 2. senz'esser . . . pro-
cesso: correr «senz'aver inteso, o almanco estragiudizialmente ammonito,
senza processo». 3. a questi tali: correr «a sì fatti». 4. careggiati: acca-
rezzati. 5. de corio hominis Inderei « scherzare con la pelle dell'uomo », pro-
verbiale (cfr. Marziale, Epigr., iii,xvi,4 ecc.). 6. quando... Paolo V: nel 1605
la Repubblica aveva promulgato alcune leggi in materia di proprietà eccle-
siastica sgradite a Roma. L'arresto e processo di due preti accusati di reati
comuni diede l'occasione per un diretto intervento papale in difesa del foro
ecclesiastico; intervento che giunse sino a comminare l'interdetto contro
Venezia, provocando una grave crisi, risolta solo con la mediazione di Fran-
cia e Spagna. 7. cacciargli . . . domìni: tutto il clero regolare che non ob-
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 537
tentarono di sollevargli contro il popolo, e dopo non mancarono
nelle città dello Stato più lontane alla metropoli di tesser insidie
e congiure, perché si rivoltassero contro la città dominante ? Certa-
mente che per ciò che riguarda i miei libri, non potevano con verità
dipingergli1 per eretici, quando l'istessa censura di Roma non gli ha
qualificati2 per tali. De' miei andamenti e della mia vita menata in
Venezia in un anno che vi son dimorato, potevano i sig. Inquisitori
averne fedel testimonianza da tanti uomini dotti e da bene di sopra
riferiti, co' quali io ho praticato, e non da' Gesuiti, co' quali non
ebbi mai che fare. Il paroco di S. Angelo potea testificargli ne' prin-
cìpi d'aprile il giovedì aver io nella sua parocchia adempito al pre-
cetto pascale ; i Canonici Regolari di S. Salvatore, quasi ogni matti-
na essere stato nella lor chiesa ad ascoltar messa; ed il P. Teolo-
go della Repubblica,3 ch'ebbi la fortuna conoscerlo e trattarci per
mezzo del sig. Pisani, l'avrebbe4 potuto pure render testimonianza
essere i miei sentimenti cattolici,5 e che la mia credenza fosse in tut-
to conforme alla nostra S. Fede ed alla dottrina6 della venerata
Chiesa cattolica. Se pur tali consultori non mi avessero imputato a
delitto di non aver secondato7 il costume del paese, cioè appena
giunto di non essermi provveduto d'una amica o d'un cinedo,8 di
non scorrere9 i postriboli fra meretrici, di non frequentar i giuochi
e consumarvi almeno otto o dieci ore del giorno, ovvero di non es-
ser ogni sera andato ne' teatri a sentir opere o comedie.
I miei discorsi furono pubblici e palesi : sovente che occorreva
parlarsi delle particolari divozioni a' Santi, e di altri istituti divoti,
che riguardavano o la maggior venerazione de' medesimi, ovvero la
pietà religiosa, io soleva dir sempre che tutte queste lor istituzioni
possono esser buone e sante, quando siano discompagnate dagl'in-
teressi mondani e praticate con sentimenti di vera pietà cristiana;
bedì all'ordine della Repubblica di ignorare l'interdetto fu espulso dallo
Stato veneziano. Vi venne riammesso una volta chiusa la controversia,
ad eccezione dei Gesuiti; questi poterono rientrare solo nel 1657. 1. di-
pìngergli', lezione poco chiara dell'autografo, confermata da correr (l'apo-
grafo ha « discrivergli »). 2. non gli ha qualificati', correr « non li ha potuti
qualificare ». 3. il P. Teologo della Repubblica: Paolo Celotti: cfr. la nota 4
a p. 267. 4. V avrebbe: correr «l'avrebbe eziandio ». 5. testimonianza . . .
cattolici: correr «testimonianza de' miei cattolici sensi ». 6. alla dottrina:
correr «alla sana dottrina». 7. secondato: correr «secondato, come per-
mettono agli altri». 8. d'una amica 0 d'un cinedo: d'un'amante o di un gio-
vane efebo. 9. scorrere: correr a aver scorso».
538 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
ma lusingarsi che senza le buone opere1 possano giovare, anzi che,
secondo le perverse dottrine, che s'istillano negli animi de' semplici,
per quegli esteriori atti si saldi con Dio ogni conto, e ridurre con
ciò la religione cristiana ad un'arte meccanica, questi non eran che
sentimenti del diavolo, che gli somministrava per mezzo di colo-
ro che essi credevano operari della vigna di Dio ; ma erano in realtà
più tosto suoi ministri malvaggi, ipocriti e farisei marci, contro i qua-
li per questo appunto declamò cotanto il nostro buon Redentore re-
plicando spesso quelle sue divine parole: « Haec oportet facere, Illa
vero non omittere ».3 L'importanza era d'operar bene : esser casti,
sobri, giusti, misericordiosi, abbonir gl'inganni ne' traffici e nelle
altre umane facende, non usar frodi nelle arti, soccorrere i bisognosi
ed amar il prossimo come se stesso: «Haec oportet facere». Non
omettere sì bene gli altri riti ed istituti, ma non credere che questi
facendo e quelle omettendo si possa giammai sperar salute. Questi
furon sempre i miei sentimenti ne' discorsi alle volte tenuti sopra
questo soggetto. Del rimanente io non dovea esser mallevadore
degli altrui ragionamenti, che forse alcuni fra di lor tennero, men-
tr'io era assente:3 in fra gli altri su la lingua fresca di S. Antonio, e
dell'odor di rose della sua Arca e di quanto mai altri avessero par-
lato su l'imposture de' frati. Né io fui mai a Padoa per veder quel
santuario, né sapeva niente di lingua, né d'odori, e sol in questa
occasione ne intesi parlare.4 Se dispiace la discoverta fatta, io che
non ci ebbi parte alcuna, né mi curava certamente di farne perqui-
sizione, che entro, e che colpa ho se altri abbia rivelato quell'utile e
fruttuoso arcano?
vìi. Ma non si arriva a comprendere come questi consultori di co-
scienza mostrino in Venezia tanta dilicatezza e zelo in cose per altro
che non s'appartengono punto agli articoli fondamentali della no-
stra religione, e stiano sì attenti a queste esteriorità e minuzie, nelle
quali come indifferenti è in libertà di ciascuno di crederle o non
crederle, di farle o non farle; e dapoi nelle cose massime e di gran
peso, dove è unicamente appoggiata la salute delle nostre anime,
non pur usino connivenza, ma aggevolino colle false ed empie5 lor
1. senza le buone opere: la salvazione secondo le buone opere e non solo
per fede fu uno dei temi centrali della disputa tra cattolici e luterani.
2. *Haec oportet . . . omittere » : cfr. Matth., 23, 23. 3. mentr'io era assente:
correr «in mia assenza». 4. parlare: correr «favelare». 5. empie: cor-
rer «perverse».
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 539
dottrine le scelleraggìni ed iniquità? Pruova manifesta1 che gli quali-
fica per veri farisei e sfacciati ippocriti e malvaggi. Essi dan fomento
e pabolo2 che l'adultero coll'adultera, il concubino colla concubina
prosieguan pure i lor illeciti congiungimenti, i quali si veggono pro-
tratti per più e più anni, ed alle volte finché duri la lor vita; anzi que-
sti sono i lor più cari e ben voluti. È pur troppo noto in Venezia che
uno stesso di questi consultori di coscienza, sia il confessore dell'ami-
co e della amica, dell'adultero e dell'adultera, al quale si va nel con-
fessionario non gik per detestar il vizio con fermo proponimento di
lasciarlo, ma a confessarlo per ricever da quella farmacopea una
medicina come si possa con quiete della lor coscienza tirar più in
lungo; e gli vien tosto somministrato un efficace rimedio, non già
dissolvente, ma vie più stringente,3 sicché il nodo resti più forte-
mente stretto ed indissolubile. Quindi si replicano spesso le confes-
sioni per renderlo più tenace ed indissolubile. Vi va il mercante
fraudolento, l'artista ingannevole, l'avvocato cavilloso, e vi ritornan
più fraudolenti e calunniosi che prima; e questi, perché spesso si
confessano ed adempiono con ipocrisia quegli atti divoti esterni, che
se l'impongono, passano per essi i più uomini da bene e perfetti
cristiani, e così gli decantano con gli altri.
Nella pubblica Piazza di S. Marco all'imbrunire si veggono fra
la gente sozza e vile della minuta plebbe i sodomiti a truppe, i
quali al tocco dell'Ave Maria s'inginocchiano con gran divozione
per recitarla, ma succeduta poi la notte oscura, sotto que' portici si
contaminano fra di loro di mille sozze e nefande libidini. Nel
tempo delle maschere, che abbraccia più della metà dell'anno, e
spezialmente nel Carnevale, nelle piazze e nelle pubbliche contrade
le donne di qualunque stato e condizione, maritate, donzelle o ve-
dove, si mescolano insieme colle meretrici, poiché la maschera ogni
disuguaglianza agguaglia, e non vi è sporcizia che non si commetta
ad occhi veggenti con i loro drudi, giovani o vecchi che siano, a'
quali, essendo abituati nel vizio, ancorché deboli ed impotenti, si
soccorre colle mani mastupratrici. E non già nelle camere, ma nelle
pubbliche piazze le fanciulle co' vecchi vanno trescando e Belzebù
in mezzo. I preti, frati e monaci non si vergognano far quivi
comparsa colle loro amiche, anzi per farne pompa s'alzano la
1 . manifesta : correr r evidente v. 2. pabolo : alimento (latinismo). 3. strin-
gente: correr «stringente ed incessante».
540 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IX VENEZIA
maschera dal volto per esser conosciuti, perché ciascun vegga in
qual buon uso essi convertano le rendite delle lor chiese e mo-
nasteri e gli emolumenti che ritraggono da' confessionari, dalle
prediche e dalle messe. A' giochi ruinosi, e che sono cagione non
men della desolazione delle famiglie, che di mille altri vizi e scel-
leratezze per potergli continuare se gli presta nel Ridotto pub-
blica autorità; anzi coloro che vi presiedono, per accrescer la loro
legitirnità, vi compariscono con veste senatoria. Or io dimando a
cotesti consultori di coscienza: perché contro sì enormi abusi e
sceleraggini non ardono di zelo, non gridano ed esclamano per
impedirgli? Per questi non vi è Patriarca, non vi sono ricorsi al
Supremo Magistrato, non vi sono ricordi, increpazioni1 o minaccie,
che finalmente Iddio irritato non piova sopra le piume dell'alato
veneto lione fiamma dal cielo, che tutto Tarda e consumi. Gli pre-
me solo che troppo si parli della lingua di S. Antonio, che si deri-
dano le inutili e vane superstizioni, e che tal uno per qualche sua
indisposizione senza lor licenza abbia ne' di vietati mangiato carne,
o non frequenti le lor chiese o congregazioni, non visiti spesso i
lor santuari, e non ascolti messa ogni giorno avanti i loro altari?
Questi sono gli empi ed i miscredenti che non bisogna tollerare, ma
per far salva la Repubblica mandarli via. Meglio direbbero : perché
guastano i fatti nostri, che procediam2 fuggendo da ogni fatica e
travaglio, viviamo della credulità e dabbenaggine de' semplici e
sciocchi.
Non si sa ancor comprendere tanta dilicatezza e tenerezza di
coscienza de* signori Inquisitori di Stato di Venezia, i quali non
han voluto che io più dimori nella lor città, quando sono pur troppo
note le massime del lor governo, e di coloro che ne hanno le redini,
i quali riputano un saggio tratto di fina politica di mantenere ivi la
dissolutezza ed una vita licenziosa e libera, affinché non potendo
più tirar a sé i forastieri come prima col negozio3 e col commercio,
ora quasi che spento, almanco siano invitati da' vizi che vi trion-
fano, da' pubblici giochi, dalle meretrici, da' teatri, da scelte voci
e sinfonie, da ludicri spettacoli e da altri ameni e piacevoli diporti.
E io non ho potuto aver questa grazia di potervi dimorare, forse
i. increpazioni: rimproveri, riprensioni (latinismo). i. che procediam: pa-
rola di difficile lettura, non letta nell'apografo, correr: «che per amor di
Dio sfuggendo . . .». 3. negozio: correr «traffico».
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 54I
perché non era niente vago, né di giochi, né di teatri, né di mere-
trici, né di musici.
vili. Crescerà assai più la maraviglia, se si vorrà attribuire la mia
proscrizione all'avere io dimorando a Venezia invogliati molti alla
lettura de' miei libri, ne' quali si scuoprono i maneggi e le arti sot-
tili della corte di Roma, per le quali pretende a sé tirar tutto, e che
insegnino massime a quella Corte contrarie, le quali sono distruttive
della pretesa monarchia papale, onde sicome mi meritai l'odio di
quella Corte,1 così doveano seguitar il suo essempio l'altre3 d'Italia.
Se da altre città,3 non da Venezia fosse venuto il colpo, sarebbe un tal
pretesto alquanto specioso, ancor che per se stesso vano ed insus-
sistente; ma i Veneziani, i quali adorano come un nume il lor fa-
moso teologo fra Paolo Sarpi,4 il quale, tralasciando le altre sue
opere, nella sua Istoria del Concilio di Trento5 si mostrò inclinatis-
simo alla religion protestante, questo sì che a gli uomini saggi e di
buon senso non lo persuaderanno6 giammai. I Veneziani tengono
per indubbitato, come lo è, essere egli stato l'autore dell'istoria di
quel Concilio, fatta da lui stampare in Londra da Marc' Antonio de
Dominis,7suo amico, sotto il nome di Pietro Soave Polano, le cui let-
tere disposte in altra guisa8 contengono il vero suo nome. Or, secon-
do il giudizio di tutti i dotti ed accurati critici, anche di que' teo-
logi che furon perseguitati dalla corte di Roma, come Dupino,
Van-Espen9 ed altri, il Soave è imputato che nelle relazioni ed
1. di quella Cortei correr adi Roma». 2. V altre: correr d'altre città».
3. Se da altre città: correr a Se da altri». 4. Paolo Sarpi (1552-1623),
servita, provinciale del suo Ordine nel 1579 a soli ventisette anni, procura-
tore generale nel 1585, fu nominato teologo della Repubblica di Venezia
al momento della controversia con papa Paolo V, il 28 gennaio 1606, e in
tale veste scrisse numerose consulte e un Trattato dell'Interdetto della San-
tità di papa Paulo V. 5. U Istoria del concilio tridentino è l'opera maggiore
del Sarpi. Iniziata nel 1608, fu pubblicata a Londra nel 161 9 presso lo
stampatore del re John Bill e con un titolo apposto da De Dominisi Histo-
ria del concilio tridentino nella quale si scoprono tutti gli artificii della corte
di Roma, per impedire che né la verità di dogmi si palesasse, né la riforma del
papato e della Chiesa si trattasse. Di Pietro Soave Polano, 6. non lo persua-
deranno : correr « non lo possono persuadere i>. 7. Marc* Antonio de Domi-
nis (1560 circa - 1624), arcivescovo di Spalato, si recò a Londra nel 1616,
dove aderì alla Chiesa anglicana e pubblicò il suo De republica ecclesiastica,
uno dei maggiori e più celebri testi del giurisdizionalismo. Ritornato alla
sottomissione a Roma nel 1623, fu però arrestato e chiuso in Castel Sant'An-
gelo dove si spense. In un processo celebrato dopo la sua morte fu dichia-
rato eretico e il suo cadavere bruciato. 8. in altra guisa: anagrammate
danno Paolo Sarpi Veneto. 9. Dupino, Van-Espen; cfr. rispettivamente
la nota 5 a p. 204 e la nota 3 a p. 41.
J42 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
issai più nelle riflessioni* mal eseguendo gl'uffici d'istorico, che
dee serbar un esatto equilibrio, senza farsi parteggiano o del-
l'uno o dell'altro, sia tutto portato dal canto de' protestanti, am-
plificando i loro fatti e ragioni ed estenuando quelle de' pon-
tifici; tal che se Giovanni Sleidano3 stesso, protestante, di cui il
Soave si valse in gran parte, avesse dovuto comporla, non avrebbe
potuto mostrare maggior parzialità per quel partito che mostrò
ne' suoi Commentari istorici? Per ciò che riguarda i sentimenti e la
sua condotta,4 è noto abastanza ch'egli teneva corrispondenza co'
letterati più insigni de' suoi tempi, luterani e calvinisti,5 che egli,
sendo strettissimo amico di M.r Bedel6 inglese, che dimorava a
Venezia, teneva col medesimo secreti colloqui intorno alla maniera
di toglier da Venezia tante vane superstizioni, e ritenuti i principali
riti e la stessa esterior forma di chiesa, separarsi dalla communione
della Chiesa romana ed unirsi in stretta confederazione con gPIn-
glesi, non men la Repubblica col loro re che la Chiesa veneta col-
l'anglicana, togliendosi da ogni subordinazione7 di Roma, e scuo-
tendo affatto il giogo papale; ond'è che il duca d'Ossuna, viceré
di Napoli, lor nemico, soleva dire ch'egli non avea potuto arrivare
a sapere di qua! religione fossero i Veneziani.8 E se la corte di Roma
prevedendo questa scissura, per la costanza e fortezza di spirito
mostrata in quell'occasione da' Veneziani, non avesse ceduto alle
sue pretensioni in quella briga dell'interdetto di Paolo V, certa-
i. nelle relazioni — riflessioni: cioè nella narrazione dei fatti e nelle con-
siderazioni personali che vi fa sopra, com'è proprio del procedimento sar-
piano nella stesura dell'Istorila del concilio tridentino. 2. Giovanni Sleidano :
nome umanistico (Iohannes Sleidanus) dello storico e riformatore religioso
Johann Philippson (1 506-1 556), tratto dal paese d'origine, Schleiden.
3. Commentari istorici', i De stata religionis et reipublicae, Carolo Quinto
Coesore, commentarli, Argentorati 1555, più volte ristampati, di cui fu fatta
anche un'edizione in italiano: Commentarii o vero Historie . . .ne le quali si
tratta de lo stato de la republica e de la religione cristiana, [Basilea] 1557.
4. i sentimenti e la sua condotta: correr «condotta e sentimenti». 5. cor-
rispondenza . . . calvinisti: cfr. le sue Lettere ai protestanti, nell'edizione cri-
tica curata da M. D. Busnelli, Bari 193 1, in due volumi. 6. Bedel: Wil-
liam Bedell (1570-1642), cappellano dell'ambasciata inglese a Venezia e
futuro vescovo di Kilmore, aveva ricevuto l'incarico di promuovere la dif-
fusione della riforma protestante in Italia. 7. subordinazione : CORRER « sog-
gezione». 8. il duca . . . Veneziani: Pedro Téllez-Girón y Guzmàn (1574-
1624), duca di Osuna, fu viceré di Napoli dal 1616 al 1620, e fu tra i più
attivi nemici di Venezia al tempo della guerra degli Uscocchi. L'afferma-
zione qui riportata è in una lettera a Paolo V: cfr. quanto lo stesso Gian-
none scrive nella sua Istoria civile, tomo rv, lib. xxxv, cap. iv, p. 323.
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 543
mente che la separazione sarebbe seguita; poiché il re inglese la
fomentava, promettendo a* Veneziani la sua alleanza e di som-
ministrargli ogni suo aiuto e favore. Ma il papa da una parte spinto
da questo timore, e la Repubblica dall'altra che mal volentieri ve-
niva a quella separazione, fecer sì che tosto si conchiudesse il trattato
di pace e svanisser tutti i negoziati di fra Paolo, il quale mancò poco
per i pressanti inviti, che gli faceva M.r Bedel e gli altri suoi amici
riformati, che non passasse con lui in Londra1 a finir ivi la sua vita;
ma egli non si lasciò smuovere, e saviamente volle rimanersi in sua
patria e quivi morire. Questi fu fra Paolo, a cui per altro merita-
mente i Veneziani per la profonda sua dottrina e probità di costumi
rendono que' onori, e ne han quella stima e venerazione, che l'è
ben dovuta. E gli anni scorsi, essendosi scoverto il suo sepolcro, e
que' frati testificando che dopo un secolo aveano trovato il suo ca-
davere incorrotto, mancò poco che accorso al tumulo numeroso po-
polo non l'adorasse per santo; e presso i Veneziani è trito il detto
che, se fra Paolo avesse avuto amica la corte di Roma, sarebbe stato
certamente canonizato per santo ed adorato ora sopra gli altari. Or
se i Veneziani hanno tanta venerazione all'opere di questo loro
insigne teologo, tra le quali annoverano anche Y Istoria del Concilio
di Trento, ogni uno ora facci confronto tra quella Istoria e la mia, e
vedrà se possono i signori Inquisitori di Stato allegare per motivo
della mia proscrizione l'aver io in quella insegnate massime con-
trarie e distruttive alla pretesa romana monarchia.
IX. L'altro pretesto, che dimorando io in casa d'un patrizio
veneto era stato veduto praticare spesso co' signori ambasciadori
di Francia e di Spagna, è assai più vano ed insussistente, poiché io
prima di passare in casa Pisani non già frequentava le case di
que' signori, ma come napolitano in giungere a Venezia, tenendo3
allora intenzione di passare a Napoli, ove tengo3 la mia casa, un mio
fratello avvocato4 e la maggior parte del mio patrimonio, ragione
voleva che io fossi da quello di Spagna a raccommandargli la mia
persona, quella di mio fratello ed i miei interessi, che teneva in
quel Regno passato già sotto il dominio dell'Infante di Spagna,5
ì.fra Paolo Londra: correr «fra Paolo con Mr Bedel, da cui era sti-
molato, dopo l'accordo seguito con Roma, di passare seco in Londra».
2. tenendo: avendo (voce gergale napoletana). 3. ove tengo: correr «ove
era». 4. un mio fratello avvocato: Carlo (cfir. la nota 1 a p. 47). 5, quel
Regno . . . Spagna: cfr. Vita^ qui a p. 274.
544 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
sicome facevano tutti gli altri Napolitani, che venuti dalla corte di
Vienna si fermavano a Venezia per indi passare a Napoli: ma
fraposti in ciò alcuni ostacoli,1 e sopragiunto l'invito del sig. Pi-
sani, che volle che io mi trattenessi a Venezia in sua casa, doppo
questo passaggio, in casa de l'ambasciadore di Spagna non vi fui
che una o due2 volte a visitarlo, per mostrargli quella attenzione e
gratitudine che io gli dovea per la cortesia ed affezione prima mo-
stratami, non già che io avessi a trattar d'alcun affare, se non di
raccomandargli3 i miei interessi che teneva in Napoli. E per quel
che s'appartiene a quello di Francia, sarei stato pur troppo discor-
tese ed incivile, se incontrandoci alle volte nel monastero di S. Lo-
renzo per visitare la signora Maria Riva,4 dama ornata di tante
belle doti e di sì rare prerogative, e ricolmandomi quel gentilissi-
mo signore di tanti onori e cortesie, non avessi corrisposto con
segni di venerazione5 e di rispetto a quella stima che per sua bontà
avea della mia persona, sicome sarei stato discortese ed inurbano,
se incontrando nella Piazza di S. Marco i di loro familiari e do-
mestici, non avessi co' medesimi continuati quei atti civili ed ur-
bani, che nella società umana sono dovuti e quali sono indispen-
sabili. Né io perch'era in casa del sig. Pisani essercitava qualche
carica della Repubblica, ovvero che il medesimo mi tenesse sti-
pendiato a' suoi servizi, ma vi dimorava come un ospite forastiere
accolto dalla benignità di quel signore, che mi trattava con quella
stima, distinzione e cordialità, che suol praticarsi fra buoni e leali
amici, sicché io avessi dovuto perciò a disumanarmi e cagliarmi,6
e stringermi a quelle scrupolose leggi di non trattarci affatto ed
usar inciviltà con quelle persone, le quali, non essendo io di così
oscuro ed ignoto nome, non già che il meritassi, ma tratti alme-
no dalla buona o sia cattiva mia fama, aveano di me qualche sti-
ma, e mi rendevano que' onori, che io non avrei saputo desiderar
maggiori <, oltraché non si arriva a capire tanta dilicatezza e scru-
polosità de' sig.1 Inquisitori quando permettono che le moglie de'
i. ma fraposti . . . ostacoli: cfr. la nota 7 a p. 518. 2. una o due: correr
«una, due o tre». 3. se non di raccomandargli: così correr trascrive cor-
rettamente il tormentato testo giannoniano, che Papografo non è riuscito a
leggere. 4. signora Maria Riva: vedi la nota 3 a p. 280. 5. venerazione:
correr «vera affezione». 6. cagliarmi: venir meno; è parola di diffìcile
lettura nell'autografo, non trascritta dall'apografo.
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 545
nobili e le di loro strette parenti possano anche praticar con gli
ambasciatori anzi1 stretta amicizia e confidenza, e offendersi poi
cotanto di questi atti civili ed urbani praticati da me coi medesimi.
Chi è più stretto congiunto, la moglie col marito, la sorella col
fratello, la figlia col padre, la nipote col zio, ovvero io col sig.e Pi-
sani, che non l'era che un rispettoso amico ed un ospite forestiero
che per sua bontà volle ricevermi in casa sua?>2
x. Adunque non rimane altro per vera3 ed unica cagione della
mia disgrazia che il compiacere a' Gesuiti, e la contemplazione,
che han voluto avere i signori Inquisitori di Stato alla corte di
Roma, alla quale han preteso di sacrificare la mìa persona ed il mio
onore con una sì obbrobriosa proscrizione; e che sia così, si rende
evidente dalla maniera barbara ed inumana praticata, poiché se mai
gli fosse stata sospetta o molesta la mia dimora in Venezia, essi
ben sapevano che io era alloggiato in casa del sig. Pisani, senatore
quanto venerando, altretanto benemerito della Repubblica; che io
non era venuto in Venezia come fuggitivo, ma dopo aver dimorato
undici anni a Vienna4 pensionario di Cesare, seguendo la commu-
ne fatai sciagura degli altri trattenuti in quella imperiai Corte cogli
stipendi situati sopra gli Stati e regni d'Italia: questi perduti, fu
dura necessità d'abbandonarla e cercar altrove sostentamento : ben
sapevano5 che io non era di sì oscuro nome e condizione, e con
quanta stima6 fossi stato accolto e careggiato dalla nobiltà veneziana
e da tutti gli ordini della cittadinanza; sapevano le incessanti per-
secuzioni, che mi dava la corte di Roma per mezzo de' Gesuiti;
meritavano almanco tutte queste riflessioni che dovessero usare
con me un poco d'equità e discretezza; bastava prescrivermi quel
tempo che a lor fosse piaciuto, dentro il quale dovess'io partir da
Venezia e suoi domìni, che da me sarebbero stati esattamente
ubbiditi i lor comandi, poiché finalmente io non ci venni per lunga-
mente dimorarvi : e se non fossero stati i reiterati inviti fattimi dal
signor Pisani di rimanere in sua casa ed il desiderio universale7 de'
signori veneziani d'avermi presso di loro sino ad offerirmi una cat-
1. anzi: sarà forse errore di trascrizione, per «una sì». 2. <oltraché . . .
sua> : la frase tra parentesi è assente dall'autografo, ma presente nella copia
correr. 3. vera: correr «mera». 4. a Vienna: correr «nelTimperial
corte di Vienna». 5. sapevano: correr «sapendo». 6. stima: correr
« stima e contentezza ». 7. universale : correr « comune ».
35
546 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
tedra di Padoa,1 non però sarei certamente dimorato un intero anno
inutilmente ed a mie spese, ma sarei passato altrove ; tanto maggior-
mente che il clima umido e caliginoso di quelle paludi ed i venti gra-
vosi, che vi soffiano, niente conferivano alla mia salute ; tal che ci ebbi
a soffrire in sì corto tempo tre malarie ; e le febbri terzane, dalle quali
spesso era assalito,3 ancor che mi dassero tregua di lunghi intervalli,
non mi lasciavano mai perfettamente sano e senza timore di ri-
cidive. E se a mio riguardo non avessero voluto usare questa equità,
almanco dovea movergli la veneranda canizie d'un senatore, in
casa di cui io dimorava, cotanto benemerito della Repubblica, e per
propri meriti e per quelli di casa Pisani, ch'essi ben sapevano esser
molti e segnalatissimi, a cui un solo lor cenno bastava per essere
ubbiditi,3 e non farsi trasportar cotanto dalle maligne ed animose in-
sinuazioni de' Gesuiti, sicché per compiacergli e per far un tal sagri-
ficio alla corte di Roma, avessero da commandare un atto così spie-
tato e barbaro, di cui non si troverà un simile essempio nell'altre
proscrizioni praticate ne' passati tempi. Io non fui proscritto, ma
rapito ed involato, e rapidamente trasportato ed esposto alla riva
d'un fiume in paese nemico. Per me inerme e solo, che sicuramente
praticava per le piazze e nelle pubbliche contrade, ed era sempre
esposto a gli occhi di tutti, non bisognavano aguati, insidie e turme
di satelliti, come se avessero ad andare incontro ad un disrobador di
strade,4 ad un assassino, ad un sicario, o ad un pubblico ladrone.
Ma si volle che l'atto fosse obbrobrioso, impensato e strepitoso, e si
commandò che io fossi esposto a' confini dello Stato papale, e non
in altro confine, per render la cosa più grata e di sollazzo a' Gesuiti5
ed alla corte di Roma.6 Fu dunque lealtà veneziana questa prati-
cata da' signori Inquisitori, con uno cotanto prima da' gentiluomi-
1. di Padoa: correr a dello Studio di Padova». 2. ci ebbi . . . assalito: di
queste malattie parla nella Vita: cfr. qui, pp. 271 e 286-7. 3- ubbiditi:
nelTautografo seguono due o tre parole non chiare, che l'apografo non de-
cifra. In correr la frase è: a bastava di farmi insinuare che io andassi via,
che sarei subbito partito». 4. disrobador di strade: brigante. 5. per ren-
der . . . Gesuiti: correr «per rendere così l'opera più grata e pregevole agli
occhi de' Gesuiti». 6. a' confini . . . Roma: il Giannone si salvò solo per-
ché l'avviso dell'espulsione, inviato all'inquisitore di Ferrara dal nunzio a
Venezia, giunse tardi, quando lo storico aveva già. potuto riparare nel ducato
estense. Naturalmente le ricerche furono estese subito a Modena, ma il pa-
dre Martini, del Sant'Uffizio modenese, al quale venne addirittura comu-
nicato che il Giannone poteva esser ospitato dal Muratori, lasciò trascorrere
troppo tempo prima di intervenire. L'intero carteggio al riguardo è conser-
vato presso l'Archivio di Stato di Modena, Archivio dell'Inquisizione, b. 123.
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 547
ni1 veneziani ben veduto e caramente accolto, e che s'era totalmente
abbandonato nelle loro braccia]"?]. Ed essendo pur troppo nota la
cortesia e gentilezza colla quale m'accolsero, e la stima, che fuor
d'ogni mio merito di me facevano, sentendosi dopo una proscri-
zione3 sì ignominiosa, certamente che tutti avrebber creduto che
io avessi commesso un qualche grave ed enorme delitto, che me
l'avesse giustamente meritata, poiché tutti supporranno forse in
una città che vien retta da una sì ampia e numerosa radunanza di
tanti preclari e savi senatori, che vi avesser anch'essi avuta parte,
ignorando che fu unicamente commandata dal capriccio di due o
tre, sorpresi dalle gabale della corte di Roma e dalle maligne insi-
nuazioni de' Gesuiti. A questo fine per vindicar il mio onore e la
mia riputazione, la quale presso coloro che ne ignorano la cagione
e gli autori, avrebbe forse potuto rimaner offesa e contaminata, da
dura necessità sono stato costretto a manifestare al mondo la dolo-
rosa istoria di questo successo colle sue vere cagioni, onde i soli
tre signori Inquisitori di Stato di Venezia furon mossi a commanda-
re un atto sì crudele e barbaro. La di cui ammenda, se io, cotanto
umile e basso, non la posso sperare da umani aiuti e da mondane
protezioni, delle quali son destituto,3 rivolto a quel Supremo e
Sovrano Signore, presso cui s'uguaglia ogni umana disuguaglianza,
e ponendo in sue mani l'oltraggio e l'offesa ricevuti4 lo pregherò
vivamente ch'egli, a cui niente essendo nascosto, sono ben note non
pur le mie parole ed operazioni, mas i più riposti miei pensieri, ne
prenda quel dovuto compenso, ch'è ben proprio dell'immutabile6
ed eterna sua giustizia, e dia a gli autori e lor consultori quella
retribuzione, che la alta, potente e vindicatrice sua mano suol pra-
ticare contro gl'ingiusti e violenti oppressori dell'altrui fama, vita ed
onore.7
XI. Per quel che poi riguarda alle incessanti persecuzioni della
corte di Roma, a me certamente non doveano sembrar inusitate e
nuove.8 Ella da che fu pubblicata la mia Istoria civile, non attese
1. da' gentiluomini: correr «da i patrizi». 2. sentendosi . . .proscrizione:
correr « sentendosi ora di me una persecuzione ». 3. son destituto : correr
«mi veggo destituito». 4. ricevuti: è lettura dubbia di parola abbreviata,
non ritrascritta nell'apografo. 5. ed operazioni, ma: correr «ed opere, ma
eziandio». 6. immutabile: correr «inviolabile». 7. A questo punto, tra
dei ghirigori a penna, è segnata nell'autografo la data: «Mjpdena] 9 8bre
1735». Le pagine che seguono sono state aggiunte dopo questa data.
8. nuove: segue un periodo poi parzialmente cassato: «sicome potrà anche
548 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IX VENEZIA
ad altro che a proscriverla1 ed a combatterla. Sotto il pontificato
d'Innocenzo XIII dalla Congregazione del S. Ufficio di Roma fu
proibita ;2 Benedetto XIII,3 frate4 dominicano, suo successore, nel-
l'eccettuazione de* libri dalle licenze che dispensa Roma, tol-
se Visiona ecclesiastica del P. Xatal d'Alessandro dominicano,5
ch'era stata eccettuata da Clemente XI, ed in sua vece vi fece
porre la mia, ancorché in tutto il pontificato del suo predecessore
non si fosse mai eccettuata, ma solamente proibita con le forinole
consuete ed ordinarie di qualunque altro libro, che contenga pro-
posizioni, che non possono piacere alla corte di Roma. Passati
sei anni dopo la pubblicazione della mia opera, nel pontificato
stesso di Benedetto XIII, comeché circondato quasi sempre da
frati e monaci, fra' quali era allevato, questi, trovando in lui terren
dolce e da' loro ferri, gli proposero per mezzo del card. Pico della
Mirandola6 un campione, che stimarono a proposito di poter
rispondere e confutare la mia Istoria, e questi si fu il P. Sanfelice
gesuita. Schiccherò egli i due volumacci delle Riflessioni morali,7
che si stamparono in Roma, ancorché sotto la falsa data di Colonia,
e con qual infelice successo, già tutti i dotti '1 sanno. Il card. Albani8
sono più anni che fa travagliare un frate franciscano de' zoccoli9
per combatterla, e se ben corresse voce che a sue spese ne avesse
fatto ad Urbino stampare il primo tomo, ma non si è però fin ora
veduto alla luce del mondo. Gli anni scorsi saltò fuori un cherico
regolare della Congregazione di Lucca con alcune sue Annotazio-
ni critiche sopra il nono libro delV Istoria civile di Napoli™ e gli
fu risposto secondo meritavan le sue trasonerie11 e rodomonta-
essere a tutti palese che non invigila ad altro che per la mia mina e perdi-
zione », mancante nell'apografo, i . proscriverla : correr « prostituirmela »,
ma sembra un caso di corruzione del testo. 2. Sotto . . . proibita: cfr. Vita,
qui a p. 103. ^.Benedetto XIII: cfr. la nota 1 a p. 117. 4. frate: in
correr c'è qui una omoteleutia: «Innocenzo XIII frate». 5. P. Natal
d'Alessandro: vedi la nota 1 a p. 104. 6. card. Pico della Mirandola: vedi la
nota 1 a p. 168. 7. morali: correr «morali e teologiche». 8- Probabil-
mente il cardinale Annibale Albani, per cui cfr. la nota 2 a p. 127. 9. fra-
te . . . zoccoli: il padre Giovanni Antonio Bianchi: cfr. la nota 1 a p. 127.
L'opera del Bianchi, come s'è detto, uscì tra il 1745 e il 1751. La notizia
qui datane dal Giannone conferma che questi ultimi paragrafi del suo ma-
nifesto furono stesi dopo l'incontro che egli ebbe col Muratori in Modena,
io. un cherico . . . Napoli: il padre Sebastiano Paoli. Vedi le note 3 a p. 210
e2ap.2ii. 11. Il termine trasone e il derivato trasoneria, assai volentieri
usato dal Gl'annone, è derivato dal nome del soldato millantatore della
commedia Eunuchus di Terenzio.
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 549
te.1 Tutto va bene : questa sarebbe la vera maniera e la pugna giusta
ed uguale. Io ho scritta un'istoria, e, fuor del costume degli altri
istorici, mi sono astretto d'allegare nel margine gli autori più gravi
e' più contemporanei che si fosse potuto a' successi che si narra-
no.2 Venghi adunque 0 il gesuita, o il franciscano, o il frate, 0 il
monaco, o pur un di que' neutri che non vogliono essere né frati,
né monaci, e la convinca per falsa, per animosa, per infedele, per
ingannevole, per alterata ne' fatti, e livorosa nelle riflessioni, che io,
ancorché siano già passati dodici anni e non se ne sia veduto alcuno
che il vaglia, con tutto ciò l'attendo e l'aspetterò fin che io viva per
rispondergli, e sarà giudice il mondo savio ed illuminato per deci-
dere chi di noi difenda il torto. Né mi curerò, come è l'ordinario lor
costume, che prorompino alle onte, alle satire ed alle contumelie
contro l'autore, sicome fece il P. Sanfelice, perché io gli le condo-
nerò tutte e le lascierò ad essi, a cui bene stanno, non intendendo
contender con loro a chi si mostri più bravo conviciatore o satirico.3
xii. Ma nel caso mio la corte di Roma non molto si cura che si ri-
sponda ad un libro con altri libri, e si combatta con armi uguali, ma
lasciando V Istoria da parte, imperversa contro la mia persona, per-
seguitandola di qua e di là, e con una nuova maniera, non poten-
do convincerla di errore o di provarla per falsa,4 vuol combat-
tere ed atterrare l'autore. Ella, essendo io ricorso in Vienna sotto
l'alta e potente protezione della Maestà dell'imperadore, a cui la
mia Istoria era dedicata, ed accolto con clemenza e sostenuto dalla
benefica sua imperiai mano, sotto il pontificato di Benedetto XIII,
non sono credibili le arti maligne, che adoperò per i suoi curiali,
Gesuiti,5 frati, e monaci, che stavano sempre attorno al papa, per
discreditarmi in quella Corte, e farmi perdere la grazia di Cesare.
Avendo saputo la mercede fattami d'un annuo stipendio arrivarono6
sino a far che quel semplice e buon pontefice mandasse una lettera
1. gli fu risposto . . . rodomontate-, il Giannone replicò sollecitamente con
una Risposta alle Annotazioni critiche ...» data immediatamente alle stampe,
al contrario della Professione di fede, 2. mi sono astretto . . . narrano : si
tratta di una preziosa indicazione di metodo, che nessuno dei critici e degli
studiosi del Giannone, impegnati nella disputa sui plagi, ha mai rilevato
sinora. Cfr. su questo l'introduzione generale. 3. o satirico: correr «o
più vanamente satirico». 4. non potendo. . .falsa: l'autografo è qui in
parte illeggibile, né aiuta l'apografo. Seguiamo perciò la lezione del mano-
scritto correr. 5. Gesuiti: correr «e per mezzo de Gesuiti». 6. arriva-
rono : il soggetto manca, ma il verbo va riferito ai Gesuiti, frati, e monaci di
più sopra.
55° RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IX VENEZIA
alla Maestà dell' imperadore scritta tutta di suo proprio carattere,1
nella quale si maravigliava come un principe austriaco cotanto pieto-
so e benemerito alla Sede Apostolica permettesse che nella sua im-
periai residenza dimorasse un empio ed un eretico qual io era, e quel
che più che mi sostentasse con regio2 stipendio : l'esortava per ciò a
sradicar dal suo terreno pianta sì pestifera e velenosa, altrimenti pre-
sto avrebbe veduto i flaggelli che la vindicatrice mano del Signore
avrebbe scagliati contro di lui e de' suoi regni. La buona sorte che
mi salvò fu non tanto che i miei libri in Vienna non pur eran già
palesi, letti e commendati, ne' quali non trovavano3 ciò che la corte
di Roma dava a sentire a' semplici ed ignoranti ; quanto che in quel
tempo si era saputo che quel papa era così facile4 e pronto a scriver
a tutti lettere di suo pugno che in Benevento se ne leggevano delle
centinaia scritte fino agli arcipreti, parochi e compari, co' quali, in
tempo che vi fu arcivescovo, avea contratta familiarità ed affezio-
ne; poiché sotto altri pontefici chi non si sarebbe smosso da una
lettera scritta di proprio carattere papale, quando sono in ciò co-
sì ritenuti ed alti, che non si degnano ne' brevi che scrivono
a* principi di far comparire la firma propria del lor nome?5 Fra
que* molti, che non avean letto i miei libri, per mezzo de' Gesuiti
italiani, che si trovano6 in Vienna, poiché i tedeschi non ci davano
orecchio, facevan girare certo Indice stampato in Roma dal P. San-
felice,7 nel quale si leggevano mille proposizioni ereticali ed empie
come estratte dalla mia Istoria, ma tosto fur scoverte le maligne
imposture, poiché in quella non se ne trovò pur una delle eresie ed
empietà notate.
E per tralasciarne altre si arrivò presso la minuta gente, sem-
plice e spigolista,8 sino a spargere che la mancanza di prole ma-
schile nella famiglia austriaca proveniva dal protegere l'imperado-
re me eretico e miscredente. Niente sgomentandosi de* preceden-
ti vani e ridicoli lor pronostici, co' quali francamente9 afferma-
i. una lettera . . . carattere: di questa missiva il Giannone non fa menzione
nella Vita. z. regio : prima aveva scritto «pubblico ». L'apografo non legge
la correzione e registra « con un stipendio ». Più fedele invece il manoscritto
correr. 3. non trovavano-, correr «non si trovava». 4. era cosi facile:
correr «era egli facile». 5. nome: correr et cognome». 6. che si trovano:
correr «che dimoravano ». 7. Indice . . . Sanf elice: cfr. quanto scrive nella
Vita, qui a p. 170 e la nota 1 ivi. 8. spigolista: bacchettona. 9. franca-
mente: correr «concordemente».
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 551
vano che se si fosse restituito Comacchio alla S. Sede,1 certamen-
te Timperadrice avrebbe partorito un figliuol maschio. Ciascuno
resterà attonito e sorpreso in sentir tanta protervia e malignità, e
pure io narro cose vere, ed a molti ben note e palesi. Quali empi e
perversi consigli non si tennero, quando succeduta la grave perdita
de' regni di Napoli e di Sicilia, per la conquista da essi aggevolata
fattane dall'Infante di Spagna D. Carlo, intesero che io, mancando-
mi in Vienna il necessario sustentamento, pensava ritornar in Ita-
lia ? Il nunzio Passionei,2 avutane prima degli altri3 la notizia per la
confidenza che io ne feci con un amico,4 il quale in vece d'aiutarmi
in quel caso per me tanto infelice, e di trovar in lui qualche confor-
to, esaggerandomi maggiori miserie e calamità non solo mi consi-
gliò a partire quanto più sollecitamente potessi: ma tosto ne avvisò
il nunzio, il quale per segnalarsi colla Corte romana per un sì
importante servigio, immantinente ne diede parte a Roma colle più
minute circostanze del mio viaggio, che io era per intraprendere fra
breve a Venezia, per indi passare a Napoli.5 Sicché prima che io
fossi partito da Vienna, si cominciarono a tessere insidie in Roma
presso monsig. Ratto, vescovo di Cordova, che si trovava allora
ministro del re di Spagna, e col conte di S. Stefano in Napoli primo
ministro dell'Infante D. Carlo, i quali sorpresi dalle maligne ed
animose informazioni, che gli fecero della mia persona, scrissero
all'ambasciador di Spagna residente in Venezia che mi negasse i
passaporti per Napoli.6 Ed il conte di S. Stefano non contento di ciò,
mandò dispacci fino a' commandanti delle piazze a' confini del-
l'Apruzzo, che non mi lasciassero entrar nel Regno, ancorché avessi
passaporti di chi si sia ministro di Spagna, dichiarandosi aperta-
1. restituito . . . Sede: Comacchio era stata occupata con tutto il suo terri-
torio dalle truppe del generale Claude de Bonneval, nel 1708, su istanza del
duca Rinaldo I d'Este, che rivendicava il possesso di quelle valli, in quanto
feudo imperiale, e quindi ne contestava l'occupazione fattane al tempo
della devoluzione alla Chiesa del ducato di Ferrara (e cfr. la nota 2 a p. 142).
2. Domenico Passionei: cfr. la nota 2 a p. 184. 3. avutane prima degli altri:
correr « autane il primo ». 4. un amico : molto probabilmente Pio Niccolò
Garelli (sul quale si veda la nota a p. 96). Cfr. Vita, qui a p. 255. 5. ne
diede . . . Napoli: il dispaccio del Passionei alla Segreteria di Stato porta la
data del 24 luglio 1733 (Archivio Segreto Vaticano, Nunziatura di Germa-
nia, 294, ce. 171-172*;. Cfr. Giamtoniana, p. 160). 6. presso monsig. Rat-
to .. . Napoli: sull'intervento di Tommaso Ratto vescovo di Cordoba vedi
la nota 7 a p. 5 18. Il carteggio tra il conte di Fuenclara e i ministri di Carlo
di Borbone è conservato in Archivio di Stato di Napoli, Affari Esteri, Vene-
zia, n.° 2215; cfr. Giamtoniana, pp. 40-2.
553 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
mente che io non pensassi por piede ne' domìni del suo sovrano;1
onde giunto che fui a Venezia, e portatomi dall'ambasciador di
Spagna per avergli, con suo rincrescimento mi disse che non po-
teva darmeli a cagion che gli veniva proibito non men dall'uno che
dall'altro ministro. Mi acquietai, rispondendogli che chi non mi
voleva in casa sua, era impertinenza entrarci contro la volontà de*
padroni. Fermatomi adunque a Venezia, credeva con ciò che si fosser
quietati e soddisfatti; ma dalla dolente istoria di sopra esposta si è
ben veduto che l'odio ed il livore non si è scemato punto, non
volendomi nemmeno a Venezia, e si vorrebbe che uscissi dal mondo,
non già d'Italia.
xiii. Che dunque si ha da fare ? Posso io contendere con essi in
questa sorte di pugna? Niuno ha preteso in tanta disuguaglianza
d'uscire in campo e molto meno ài lusingarsi di vincergli. Io per me
gli cedo, rendo le armi, e mi dò per vinto. Non credo però che
questa vittoria gli riesca di molta gloria e vanto, mostrando sua
possanza contro una foglia ch'è dal vento rapita.2 Chi ha preteso mai
contrastare alla sua forza e potente suo braccio, ovvero di potersi
distrigare dalle sottili sue reti e gabale, ed artificiosi ed ingannevoli
suoi raggiri, oppure scampare dalle insidiose ed occulte sue mac-
chine, che suol fabbricare3 nelle corti de' principi, per rovinare i
poveri innocenti ? È pur gran tempo che fu scoverta questa occul-
ta sua possanza,4 quando in lei si ravisarono tutte quelle marche
colle quali ci vien descritta nell'Apocalisse quella meretrice che
suole spesso farsi vedere puttaneggiar co' principi, di cui Dante ben
seppe scovrirne le proprietà e le maniere.5 Ella oltre a ciò ha tante
i. mandò dispacci . . . sovrano-, non già il conte di Santisteban, ma il mar-
chese José Joaquin de Montealegre (sul quale cfr. la nota i a p. 284) sotto-
scrisse il dispaccio inviato a tutti i comandanti delle città di confine. Cfr.
Giannoniana, p. 40. 2. Ninno ha preteso . . . rapita: è un brano che il
Giannone aveva già scritto prima, con qualche variante, dimenticandosi poi
di cassarlo, 3. fabbricare-, correr «tessere». 4. questa occulta sua pos-
sanza: lezione di correr, probabilmente esatta, di parole che nell'autografo
riescono di difficile lettura. Nello stesso correr l'intero brano si presenta
così : « per abbattere i deboli e gl'impotenti ? È pur gran tempo che fu scover-
ta questa occulta sua possanza: quando in lei si ravvisarono tutti quei segni,
e marche colle quali ci vien descritta nell'Apocalisse quella meritrice, che fu
veduta spesso puttaneggiar co' regi, di cui Dante ben seppe esprimerne
le proprietà e le maniere e molto più acco[n]ciamente adattarle a lei».
5. quella meretrice — maniere', cfr. Inf., xix, 106-8 : « Di voi pastor s'accorse
il Vangelista, / quando colei che siede sopra l'acque / puttaneggiar coi regi
a lui fu vista ». E cfr. Vita, qui a p. 344.
RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA 553
legioni in tutto Torbe cattolico romano quante sono le innumerabili
religioni1 de' frati e de' monaci. Ha tante rocche inespugnabili,
quanti sono i numerosi e quasi che infiniti collegi de* Gesuiti, tanti
capitani3 quanti sono i metropolitani nelle lor provincie, ed i ve-
scovi nelle loro diocesi ed i generali ed abati ne' lor conventi, tanti
bravi e valorosi soldati quanto è l'infinito numero de* preti e chie-
rici : ed ha tanti fondi inesausti e fertili da poter somministrare pre-
mi e stipendi profusi ed abbondanti, che pochi principi al mondo
in ciò Tagguagliano. Or non sarebbe follia entrar con lei in contesa
con tanta sproporzione e disuguaglianza ? Io cedo e gli lascio libero
il campo, non essendo cotanto scemo di cervello che non conosca
il mio povero stato e le mie poche e deboli forze.
Ella non mi voleva in Germania, non mi vuole nel regno di
Napoli ed in tutti i domìni di quel principe, non mi vuole in Ve-
nezia ed in tutti i Stati di quella Repubblica, non mi vuole in fine
in tutta Italia e Spagna, anzi in tutto il suo orbe romano. Che dun-
que si ha da fare? Bisogna ubbidirla. Vorrebbe che io uscissi dal
mondo; oportet e mundo exire, mi sgrida con S. Paolo:3 ed in que-
sto non posso compiacerla, poiché la vita degli uomini è in mano
di Dio, di cui n'è il solo Signore e proprietario, e noi non ne siamo
che semplici usuari : quando piacerà a lui tormela, volontieri ce la
renderò, e forse si compiacerà non averla io inutilmente menata in
questo mondo, per non esservi dimorato solamente ad empir di
cibo il sacco e per lasciarvi sol letame; e spero di restituircela con
usura,4 lusingandomi que* talenti o pochi o molti, che per sua in-
finita benificenza mi ha concessi, non avergli malamente impiegati,
avendo procurato d'indrizzarli tutti alla ricerca della verità, che vuol
dire alla conoscenza di lui stesso, ch'è la sola verità che rischiara
tutto il mondo. L'ubbidirò dunque in quel che io posso: uscirò dal
suo orbe papale, e spero presso gli amatori della verità e coloro che
saranno informati de* miei sì strani ed infelici successi, di trovar
non pur perdono,5 ma pietà e compatimento, se mi sentiranno o
1. religioni: ordini religiosi. 2. tanti capitani: correr «tanti generali e
capitani». 3. oportet . . . Paolo: «occorre uscire dal mondo», che è però
parafrasi di quanto dice san Paolo : « Ne commtsceamini fornicanis : non uti-
que fornicariis huius mundi aut avaris aut rapacibus aut idolis servientibus;
alioquin debueratis de hoc mundo exisse» (ICor.t 5, 9-10). 4. con usura:
correr « con stima ». 5. non pur perdono : nell'apografo « non pur persona ».
Qui si interrompono, incompleti, l'autografo e l'apografo. La parte restan-
te è perciò tratta dalla copia correr.
554 RAGGUAGLIO DEL RATTO PRATICATO IN VENEZIA
fra gli Svizzeri o in Olanda ovvero in Inghilterra. Non di mio li-
bero volere mi son deliberato a questo poiché io dove nacqui in-
tesi sempre morire; ma ci vengo tratto da dura necessità dove Ro-
ma a viva forza mi caccia, per iscamparre dalle sue crudeli ed
incesanti persecuzioni. Forse dimorando in sì remote parti, ove i
fulmini del Vaticano non han forza, il campo sarà uguale e si com-
batterà con forze ed armi uguali: le mie armi non saranno sangui-
nolenti o mortali, non porteranno seco proscrizioni, esilii, carceri,
mutilazioni di membra, fiamme in fine e fuoco : saranno pacifiche
ed innocenti, di libri, carte e parole. Ciascuno avrà libertà d'esami-
nargli, e se traligneranno1 dal vero, dal giusto e dall'onesto, ri-
butargli a suo arbitrio. Forse per divina Providenza sarà disposto
che que' miei scritti, sopra i quali ho travagliato in comporgli di
quasi dodeci anni che sono dimorato fermo in Vienna (poiché
Roma non potendo ottener altro impedì sempre che io fossi im-
piegato nelle pubbliche cariche de' magistratti), ne' quali sono
dimostratte verità di gran momento ed importanti, non meno a
principi cattolici, perché si accorgano delle tante usurpazioni e
sorprese fattegli sopra i loro principati, togliendosegli più della
metà dell'imperio che Iddio sopra medesimi l'ha conceduto; che
a' loro sudditi, prosciogliendogli da tante e sì dure catene, nelle
quali la vana superstizione, l'altrui ambizione, avarizia e fasto gli
tiene miseramente legati ed avvinti; le quali fatiche avea io già
destinate a' tarli ed alle tigniuole, poiché sotto cielo ed in terreno
italiano non avrebbero certamente potuto allignare: forse dico av-
verà che in altro clima potranno vedere la chiara luce del sole,
crescere, farsi grandi e volare da per tutto. Iddio difenderà me e
questi miei sudori e travagli, i quali non furono impiegati che per la
sola ricerca del vero, cioè della conoscenza di lui medesimo.2 Cu-
rerò poco le altrui insidie, proscrizioni e maledizioni, purché egli
gli protegga e benedichi: sicché io possa con verità e sicurezza
replicare con il santo re Davide « Maledicent illi, et tu benedices».3
i. traligneranno: «traineranno» nell'originale. Il copista non ha tenuto
conto del segno di abbreviazione che doveva esser posto al di sopra della
lettera £, nel testo che aveva dinnanzi, 2. Forse per divina . . . medesimo: il
brano è ripreso quasi testualmente nella lettera al principe Alessandro
Teodoro Trivulzio del 19 marzo 1736: cfr. G. Ricuperati, V esperienza
civile e religiosa di P. Giannone, Milano-Napoli 1970, pp. 517-8. 3. Psalm.,
108, 28: «Maledicano quelli, ma tu benedici».
OSSERVAZIONI CRITICHE
SOPRA L'HISTORIA DELLE LEGGI E DE' MAGI-
STRATI DEL REGNO DI NAPOLI COMPOSTA
DAL SIG.RE GRIMALDI
NOTA INTRODUTTIVA
La scrittura contro il Grimaldi nasce in un clima abbastanza teso
per il Giannone. Il tono duro e acerbamente polemico si spiega solo
facendo riferimento al momento in cui essa vien concepita.
Figlio di Costantino Grimadi, compagno di ideali del Giannone e
\ittima di analoghe persecuzioni da parte curiale,1 Gregorio (1694-
1760) era stato allievo di Giambattista Vico e di Pietro Contegna.
Laureatosi in legge nel 171 o e legato alle fortune del padre (ormai
uno dei più noti anticurialisti napoletani), aveva subito di riflesso le
conseguenze del diffìcile rapporto con il cardinale Althann, che
aveva cercato a tutti i costi ài impedire la pubblicazione delle
Discussioni.2 Con i viceré successivi, Joaquim Fernandez Portocar-
rero, marchese di Almenara, e soprattutto con Alois Thomas Raimund
von Harrach, ritornando in auge il padre, ebbe maggiori possibilità
e pensò di riprendere il discorso giannoniano, dando al paese una
storia giuridica che lasciasse ai margini i problemi politici e religiosi.
Già questo programma logicamente non poteva piacere al Giannone,
ma vi si aggiunsero altri motivi di attrito. Nello stesso anno in cui
Gregorio Grimaldi pubblicò il primo tomo dell'Istoria delle leggi e
de* magistrati del regno di Napoli? il padre Sebastiano Paoli aveva
scritto le Annotazioni critiche sopra il nono libro della Storia civile.*
Il Giannone sospettava che quest'operetta - uscita anonima - fosse
stata composta dal Paoli con materiale fornitogli da un antiquario
napoletano, Matteo Egizio,5 Inoltre la collegava in qualche modo al
lavoro del Grimaldi. Qualcuno infatti gli aveva scritto che Mat-
teo Egizio, nel rivedere le bozze del primo tomo del Grimaldi, aveva
1. C. Grimaldi, Memorie di un anticurialista del Settecento, a cura di V. I.
Comparato, Firenze 1964. 2. C. Grimaldi, Discussioni istoriche, teologiche
e filosofiche fatte per occasione delle Risposte alle lettere apologetiche di Be-
nedetto Aletino, Lucca (ma Napoli) 1725, in tre tomi. 3. Lucca (ma Na-
poli) 1731. L'opera è dedicata al potente marchese Rialp con lettera del
20 novembre 173 1. Dato che il Giannone la recensì il io agosto, significa
che potè vederne una copia non «ufficiale» senza dedica. Lo conferma in-
fatti l'epistolario in cui egli comunica al fratello di averla letta tramite il
Forlosia (lettera del 6 ottobre 173 1). Cfr. il mio Giannone e i suoi contem-
poranei: Lenglet du Fresnoy, Matteo Egizio e Gregorio Grimaldi, in Miscel-
lanea Maturi, Torino 1966, pp. 55-88. Il riferimento a p. 74. 4. [Seba-
stiano Paoli], Annotazioni critiche sopra il nono libro del tomo II della
Storia civile di Napoli del sig. Pietro Giannone. Il guai nono libro è compreso
in cinquantasei pagine in quarto (Lucca 173 1). Cfr. [P. Giannone], Risposta
alle Annotazioni critiche sopra il nono libro della Storia civile, s. 1. 173 1.
5. Su questo cfr. il mio Giannone e i suoi contemporanei ecc., cit,, pp. 65-75.
55$ OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI
scoperto gli « errori » dell'Istoria civile e li aveva comunicati al Paoli.1
Dalla coscienza di questo legame fra l'erudita (e perciò più insidiosa)
polemica del Paoli e il lavoro del Grimaldi, nasce il tono della
scrittura giannoniana, inviata a Napoli al fratello, con molte rac-
comandazioni di farla leggere solo agli amici più fidati, il 15 dicembre
173 1.2 Nella corrispondenza successiva con il fratello Carlo, gli accen-
ni polemici contro Gregorio Grimaldi sono numerosi. Il 6 dicembre
1732 comunicava a Napoli di aver risposto direttamente all'autore,
ringraziandolo ironicamente di esser evenuto a levar da peccato
V Istoria civile del regno di Napoli . . . j.3
Rileggendo V Istoria delle leggi e de* magistrati a una distanza per
cui perdono valore i motivi polemici più contingenti, il giudizio del
Giannone rimane però sostanzialmente valido. Esistono naturalmen-
te, fra le due opere, mutuate anche dall'ambiente e dalle fonti, ana-
logie e atteggiamenti comuni. Ciò che però si nota immediatamente
è l'attenuazione dello spirito anticuriale, tanto che nella prefazione
non si accenna neppure all'esistenza del problema. È presente invece
l'esigenza di offrire una storia giuridica neutrale e un'esposizione e
un'interpretazione corretta delle Prammatiche, in lingua italiana (più
accessibile del testo latino delle varie raccolte), cogliendo il legame
fra conoscenza della legge e ubbidienza consapevole.
L'attenuazione del tono anticuriale è solo in parte spiegabile con
una scelta individuale. In realtà, dopo gli anni più intensi di lotta,
c'era stato un certo ripiegamento nel ceto civile, o almeno nella par-
te che aveva condiviso il tipo di politica gestita da Gaetano Argento,
un giurisdizionalismo puntiglioso e insieme cauto, tutto risolto nella
raffinatezza tecnica, timoroso dei risvolti politici e religiosi a cui
inevitabilmente portava invece il discorso giannoniano. Questo può
spiegare il rapporto, ma anche la profonda differenza fra le due ope-
re, una scritta in nome della passione politica e civile e l'altra con un
certo frigido voluto tecnicismo, che di volta in volta riprendeva e
impoveriva la sostanza dell'Istoria civile. Il primo libro è veramente
l'unico in cui il Grimaldi non segue pedissequamente il testo gian-
noniano, perché mentre il Giannone affronta il rapporto con Roma
in soli cinque capitoli, ponendo originalmente il nucleo della nuova
civitas come centro del suo racconto, il Grimaldi si diffonde minu-
tamente a descrivere «la polizia delle leggi e de' magistrati romani
1. Come si apprende dalla lettera già citata del 6 ottobre 1 731 al fratello
Carlo questo «qualcuno» era stato l'abate Biagio Garofalo, a sua volta
sospettato dal Giannone di aver «revisionato» il lavoro del Grimaldi. Cfr.
il mio Giannone e i suoi contemporanei ecc., cit., p. 74. z. Ibid., p. 75.
3. Ibid., pp. 75-6.
NOTA INTRODUTTIVA 559
dalla fondazion di Roma per insino alla decaduta dell'Imperio ;>. La
differenza è evidente: per il Giannone la struttura arriministrativa e
politica romana è il punto di partenza di una realtà che ha avuto
un successivo e originale arricchimento, mentre per il Grimaldi la
legislazione romana è il modello sul quale bisogna misurare ogni
vicenda. L'interesse del Giannone era rivolto al terreno su cui si
formarono il diritto successivo e gli organismi che gli diedero vita e
forza, mentre il Grimaldi vede in Roma un paradigma in qualche
modo rigido dalla cui conoscenza non si può prescindere. Infatti
in questo primo libro le fonti particolarmente utilizzate sono Tito
Lino (a cui dà la preferenza fra tutti gli storici romani), Gian Vincen-
zo Gravina e Cornelis van Bynkershoek. Il secondo libro tratta delle
leggi da Teodorico a Carlo Magno. j\ lanca ogni legame con il primo
e la derivazione di ogni paragrafo dall'Istoria civile è continua. Il
ritratto di Teodorico è ripreso dal Giannone, anche se nel Grimaldi
manca la chiarezza e la capacità di isolare la potente personalità del
sovrano barbaro. A proposito di Giustiniano utilizza il capitolo ni
del libro ni dell'Istoria giannoniana, Di Giustiniano imperadore e sue
leggi. Conclude rapidamente con i Goti ed affronta, con la stessa
incapacità a distaccarsi dal modello che però risulta esteriorizzato e
peggiorato, i Longobardi. Qui cita per la prima volta il Giannone,
che non vien chiamato per nome, ma semplicemente come l'autore
dell'Istoria civile. Tutte le osservazioni sui Longobardi e l'origine
dei feudi derivano dal paragrafo ni, capitolo I, libro iv dell'Istoria ci-
vile, paragrafo intitolato Origine de' feudi in Italia, dove il Giannone
afferma che contemporaneamente i Franchi in Gallia e i Longo-
bardi in Italia fondarono il sistema feudale. In questo n libro del-
Ylstoria delle leggi sono rifusi i libri v e vi dell'Istoria civile. Il Gri-
maldi ripete quanto il Giannone aveva affermato sul valore della
legislazione longobarda e sul fatto che Carlo Magno, restaurando
l'Impero, non abbia toccato le leggi longobarde, che ormai rispon-
devano meglio alle esigenze dei tempi.
Il libro in riguarda le leggi da Carlo Magno a Corrado il Salico e
qui le citazioni dal Giannone si fanno più fitte, mentre il libro iv ap-
pare come un'ampia parentesi perché è una descrizione delle con-
suetudine feudali secondo Ugolino. Anche in questo libro (fra i più
interessanti nel complesso del lavoro), nonostante che la fonte princi-
pale sia in questo caso l'opera di Burkhard Gotthelf Struve, si utilizza
ancora il Giannone, del quale sono riprese (e anticipate) le osserva-
zioni dei paragrafi i e n, capitolo ultimo del libro xin, riguardanti
la codificazione di Federico II.
Gli ultimi due libri del tomo primo, sui Normanni, seguono nuo-
vamente il Giannone, con la sola differenza che il Grimaldi si abban-
560 OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI
dona alla descrizione e al catalogo delle leggi normanne. Appartiene
completamente al Giannone (e a Camillo Tutini, che era già stato
traccia per questi) Pesame delle cariche normanne, che sono il primo
nucleo della struttura nazionale del regno meridionale : le pagine del
Grimaldi si ispirano soprattutto al paragrafo 1, capitolo vi, libro xi,
Degli uffici della corona.
Il Giannone in questa recensione tratta soltanto del primo tomo.
Il 4 luglio 1733 comunicherà al fratello, senza alcun commento, di
aver ricevuto anche il secondo.1 L'opera fu infatti proseguita dal
Grimaldi fino al regno di Federico d'Aragona e portata a termine dal
fratello Ginesio sempre con lo stesso tono di riferimento continuo
e di attenuazione dei temi politici presenti nell'Istoria civile.
L'accusa di non aver saputo intendere l'originalità e il significato
dell'Istoria civile, di averla seguita senza il coraggio di citare diret-
tamente l'autore, è certamente esatta, e, in sede storiografica, l'opera
dei Grimaldi, pur meritando di essere ricordata fra le storie del
diritto « nazionale », è abbastanza povera cosa, pur nascendo da un
programma e da un'educazione intellettuale «giannoniani».2
Della recensione rimane invece valida la sottintesa affermazione
del carattere distintivo ed originale della storiografia «civile», che
non coincide né con la storia dei principi o delle loro imprese militari,
né con il catalogo delle loro leggi. È inoltre significativa la sotto-
lineatura dell'importanza delle leggi longobarde, concreto substrato
giuridico della storia meridionale. Sono interessanti le pagine sulla
storia normanna e il ritratto del «savio» principe Ruggero, di cui
il Giannone apprezzava profondamente la politica giurisdizionale.
Le conclusioni mostrano ancora una volta come i privilegi ecclesia-
stici siano il frutto di una concessione del sovrano, lentamente trasfor-
matasi in un diritto per la rapacità della Sede apostolica. Il Giannone
supera la tradizione giurisdizionalistica non solo perché si mostra
ancora una volta polemico anche nei confronti del potere statale che
ha permesso tali abusi, ma soprattutto perché polemizza contro il
tentativo di trasformare queste concessioni, carpite dalla Chiesa sul
terreno della forza, in qualcosa che le spetta de iure divino.
Il libro del Grimaldi è cosi l'oggetto di una violenta polemica tipi-
camente giannoniana, acre e insistente, ma è soprattutto (come già la
lettera a Nicolas Lenglet du Fresnoy)3 il pretesto per difendere la
1. Cfr. il mio Giannone e i suoi contemporanei ecc., cit., pp. 76-7. G. Gri-
maldi, Istoria delle leggi e de' magistrati del regno di Napoli, ir, Lucca (ma
Napoli) 1733. Il ni tomo uscirà nel 1736 sempre col falso luogo di Lucca.
2. Cfr. G. Grimaldi, Istoria cit., I, Prefazione di tutta V opera, pp. 1 sgg.
3. Vedila in Giannoniana, pp. 71-2.
NOTA INTRODUTTIVA 561
propria opera e per ribadire le tesi, sia sul piano storiografico sia su
quello politico,1 che costituiscono l'originalità dell'Istoria civile, che
come tale si doveva imporre non solo al Grimaldi, ma anche allo
stesso Giovan Donato Rogadeo2 come un modello difficile da su-
perare.
Giuseppe Ricuperati
1. Fondamentale è in questo senso la conferma e lo sviluppo delle tesi
espresse nell'Istoria civile sul tema della Monarchia di Sicilia. Cfr. Istoria
civile, tomo 11, lib. x, cap. vtii, pp. 96-102, e cap. ult., pp. 129-36. Dopo
questo primo incontro con il problema della Monarchia e della Legazia,
in cui la fonte principale era stata l'opera di Louis Ellies Du Pin, Défense
de la monarchie de Sicile cantre les entreprises de la cour de Rome, s. 1. 1716,
il Giannone aveva ripreso il tema nel 1727 scrivendo il trattato De' veri e
legittimi titoli delle regali preminenze, che i re di Sicilia han sempre conservato
in quel regno, e esercitato per messo del Tribunale della Monarchia edito da
A. Pierantoni con il mutato titolo di II tribunale della Monarchia di Sicilia,
Roma 1892. Il Giannone ampliava il discorso implicito nell'Istoria civile
(anche per influenza del De republica ecclesiastica di M. A. De Dominis) e
sviluppava la tesi, ribadita in questa scrittura, che la concessione della
Legazia da parte di Urbano II confermava preminenze di origine bizanti-
na, che i Normanni avevano ereditato. Quindi la bolla (lungi dal fondare il
diritto sovrano) era stata soltanto uno strumento per rafforzare (e non per-
dere) un diritto già posseduto de iure proprio. È ormai evidente il distacco
dalle tesi del Du Pin, che come tutti i giurisdizionalisti precedenti si era
limitato a difendere, contro il Baronio, la tesi dell'autenticità della bolla.
Il Giannone aveva fatto invece notare al sovrano austriaco quanto fosse
pericoloso accettare che un proprio diritto finisse per dipendere da una
concessione papale. Sul Giannone e la Monarchia di Sicilia cfr. C. Cari-
stia, Pietro Giannone « giureconsulto » e «politico». Contributo alla storia
del giurisdisionalismo italiano, Milano 1947, pp. 83-120, che ha avuto il
merito di sottolineare il rapporto con l'opera del De Dominis, ma che ri-
duce il discorso in un disaccordo troppo apertamente e passionalmente
polemico contro il Giannone. Sul tema della Legazia cfr. G. Catalano,
Le ultime vicende della Legazia apostolica di Sicilia dalla controversia li-
pantana alla legge delle Guarentigie (1711-1871), Catania 1950. Cfr. ancora
S. Fodale, Comes et legatus Siciliae. Sul privilegio di Urbano II e la pretesa
apostolica Legazia, Palermo 1970, soprattutto le pp. 47-9 riguardanti il
Giannone. Vale la pena di notare che il Giannone tornò ancora una volta
sul tema della Monarchia di Sicilia in un'opera del carcere, VIstoria del
Pontificato di Gregorio Magno. Cfr. P. Giannone, Opere inedite, a cura di
P. S. Mancini, Torino 1852 (ma 1859), 11, La Chiesa sotto il pontificato di
Gregorio il Grande, pp. 385-93. In quest'ultimo intervento, che risale al
1742, il Giannone confermava quanto si è detto: la bolla di Urbano II
serviva a non far perdere gli antichi diritti. La Legazia non è quindi un
atto di munificenza di Urbano II, ma la conferma di un diritto regale già
presente nella tradizione bizantina. Anzi a p. 392 il Giannone polemizzava
con il Du Pin che nella Défense aveva fondato tutto sulla bolla di Urbano IL
2. [G. D. Rogadeo], Saggio di un' opera intitolata il Diritto pubblico e politico
del regno di Napoli intorno alla sovranità, all'economia del governo, ed agli
ordini civili. Cosmopoli (ma Lucca 1767). Il giudizio è di L. Marini, Pie-
tro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento, Bari 1950, pp. 128-9.
36
OSSERVAZIONI CRITICHE SOPRA L'HISTORIA
DELLE LEGGI E DE* MAGISTRATI DEL REGNO
DI NAPOLI COMPOSTA DAL SIG.RE GRIMALDI
Dell'Istoria delle leggi e de' magistrati del regno di Napoli.
Questo è il titolo che si premette a ciaschedun libro; ma non
sappiamo qual dovrà esser il titolo che porteranno i primi fogli del
frontispizio dell'opera, che sono gli ultimi a darsi alle stampe: poi-
ché l'opera niente corrispondendo a questo titolo, bisognerà, quel-
la finita, pensarne un altro che le sia più proprio e conveniente.
L'epoche, che si prefiggono a ciascun libro, l'autore istesso, che
spessissime volte chiama corso della sua istoria la narrazione de*
fatti, e digressioni il trattar delle leggi: ci fa comprendere che altro
sia il suo scopo che quello di trattar dell'istoria delle leggi e de*
magistrati del regno di Napoli: e non sia forse «mosso da pietà
cristiana di purgare quella scommunicata Istoria civile del Regno
da tante eresie, empietà e maldicenze» e darne fuori un'altra tutta
pura, innocente e dìvota. Non sarà però egli il primo che abbia
dato al mondo quest'esempio di dovere pensare, finita l'opera, a
mutarne il titolo, e comminciare il catalogo degli errori e delle
correzioni dall'emendazione del titolo. Ce ne diede un esempio
assai recente non ha guari il marchese Maffei,1 il quale si pose a
scrivere àzYUArte critica diplomatica: e questo titolo avea posto
nel primo e secondo libro, dove presto finì Popera. Nel primo
libro tutt'altro si leggea che precetti, metodi o regole di quest'arte ;
ma il secondo riuscì più curioso, poiché non fece altro che affastel-
lare in quello alcune antiche carte; sicché avrebbe potuto far cre-
scere in infinito il numero dei libri, secondo che le sarebbero
Questo parere del Giannone è in Archivio di Stato di Torino, manoscritti
Giannone, mazzo i, inserto 4, apografo. È inedito. Per i rapporti fra il
Giannone e Gregorio Grimaldi sul piano storiografico e politico, rimando al
mio lavoro Giannone e i suoi contemporanei ecc., cit., in cui fra l'altro, con-
tro il Nicolini, Scritti, pp. 72-3, si dimostra come sia esatta la datazione
della scrittura giannoniana « io agosto 1 731 » (e non 1732, come proponeva
il Nicolini, sul falso presupposto che l'opera del Grimaldi fosse uscita nel
1732)-
1. Ce ne diede . . . Maffei: Scipione Maffei (cfr. la nota 2 a p. 138), Istoria
diplomatica che serve d'introduzione aìTarte critica in tal materia . . ., Man-
tova 1727.
564 OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI
cresciute in mano le carte, che andava di qua e di là togliendo
ad imprestito dagli antiquari suoi amici. Impaziente di maggior
dimora volle dar presto fuori quest'opera, dalla quale, come va-
naglorioso, si prometteva gran fama; ma avvertito da alcuni uomini
da bene che quel titolo, che le avea dato, non corrispondeva a ciò
che avea fatto, poiché qual arte critica diplomatica avea egli inse-
gnata, quando quei due libri di tutt'altro trattavano che di regole
e precetti per saper distinguere i veri dai falsi diplomi? La cosa
era molto chiara e manifesta: si pensò pertanto a rimediare, come
si potè il meglio, ne' fogli del frontispizio dell'opera che dovevano
ancora imprimersi, e doppo molto pensare e ripensare, finalmente
si conchiuse che all'opera dovesse darsi questo altro titolo Istoria
diplomatica, che serve d'introduzione all'arte critica di tal materia
(che Dio sa quando l'avremo) e così fu fatto. Ma bisognava emen-
dare il titolo che portavano i due libri ne' fogli già impressi;
onde il primo errore ad emendarsi fu questo, dicendosi : « nel titolo
che siegue sta per errore arte critica, invece d'Istoria»; siccome
non senza riso si legge nell'edizione fatta in Mantua del 1727.
Così appunto sarà di mestieri praticar in questa nuova Istoria del-
le leggi. Ma io fortemente temo che sarà assai maggiore il travaglio
e l'ambascia che dovrà soffrirsi in metter un titolo proprio e
proporzionato a quel che fin ora si è fatto ed a quel che sarà per
riuscire ; poiché, a quel ch'io preveggo, siccome gli è improprio il
titolo dell'Istoria delle leggi e magistrati del Regno, così molto più
lo sarà quello secco ed asciutto di sola Istoria ovvero Catalogo delle
leggi del Regno, o altro che se ne potesse mai inventare. Ma di ciò
bisogna lasciarne la cura all'autore e suoi consultori, che siccome
non l'hanno spinto a questo, così dev'esser di loro il peso di saperne
trovare un migliore.
L'epoche che prefige a ciaschedun libro certamente che non
appartengono all'istoria delle leggi e de' magistrati di Napoli. Ecco
l'epoca del primo libro.
Lib. 1
Delle leggi e de' magistrati romani dalla fondazione di Roma
per insino alla decadenza dell' Imperio.
In tutto questo libro si vede chiaro che l'autore vuol trattare
delle leggi e magistrati di Roma, e questo esser il principale suo
OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI 565
intento, sì come lo fa in tutto il libro: materia per altro che me-
ritava, come nuova e da altri non trattata, che occupasse un libro
intero; ma il più curioso è che lo discendere, che fa di quando in
quando, a far breve paragone di tali magistrati con quei di Napoli,
egli lo reputa digressione per maggiormente far conoscere che il
suo principale intento sia per Roma, e non per Napoli. Ecco come
alla pag. 36 n. 50 ei dice: «doppo di aver dato or noi chiara idea
dello stato e polizia della città di Napoli, egli è dovere al nostro
intralasciato sentiero ritornare, e ragionar di nuovo de' magistrati
di Roma».
Non ha voluto però mancare, anche ravvolgendosi fra' gentili, di
mostrarsi alla pag. 22 n. 3 quella graziosa etimologia del lustro, che
fu detto così perché da' censori ogni cinque [anni] era Roma illustra-
ta, e di mostrar la sua pietà e divozione, poiché alla pag. 35 n. 47,
favellando delle Fratrie1 de' Napolitani, a quel « nume », che ivi sacri-
ficavano, vi mette l'aggiunto di «falso»: per tema che leggendosi
«nume» così in secco nell'Istoria civile? non si desse scandalo ed
occasione a' lettori di crederlo per vero; siccome alla pag. 64 di
edificarli con quel pio racconto della profezia avventurosa che pro-
nunziò Severino in favor di Odoacre, perfido e crudel tiranno,
animandolo all'invasione d'Italia.
Lib. 11
È assai più curiosa quest'altra epoca delle leggi e magistrati del
regno di Napoli, dalla venuta di Teodorico per insino alla coro-
nazione di Carlo Magno. Che han che fare questi due principi colle
leggi e magistrati di Napoli? I Goti lasciaron vivere i Provinciali
con quelle stesse che aveano, né v'introdussero nuove scritte leggi:
e Carlo Magno non s'impacciò di Napoli, né della Puglia, né della
Calabria, ch'eran de' Greci; e del ducato Beneventano si lasciò
la cura e il governo ad Arechi e Grimoaldo, che vi statuirono spe-
ziali capitolari: pretendendone Carlo M. solo la sovranità, che pur
gli venne contrastata da quei due principi. Piuttosto de' Longo-
bardi, che furono i primi a promulgar in Italia leggi in iscritto,
1. Fratrie: abbiamo corretto il «Franie» del manoscritto. 2. Istoria civile,
tomo 1, lib. 1, cap. rv, par. i, p. 15.
566 OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI
onde surse il corpo delle leggi longobarde, dovea tenersi ragione
e non omettersi questa parte, siccome vedesi fatto.
Ma così sarebbe se l'autore avesse voluto in questo libro trattar
di leggi e magistrati: tutt'altro era il suo intento. Egli volle scri-
vere l'istoria de' principi e de' fatti succeduti in questi tempi; e
se pur tocca qualche cosa delle leggi, si dichiara in più luoghi che
lo fa per digressione e per suo diporto. Si comincia perciò dal re
Teodorico: indi si passa al re Atalarico, dove è da avvertire l'ab-
baglio preso alla pag. 71 n. 5, facendo questo principe figliolo di
Teo dorico, quando gli fu nipote, come nato da Amalasunta figlia
di Teodorico e da Eutarico della stirpe pure degli Amali, a chi
Teodorico la diede in moglie.
Notisi ancora il grazioso passaggio nella pag. 72 dalla morte
d' Atalarico e di Amalasunta alla distinzione tolta da Giustiniano
rerum mancipi et nec mancipi, e nella pag. 74 n. 7 di far Amalasunta
madre di Teodato; siccome l'altro alla pag. 79 da Alboino a trattar
delle varie opinioni intorno all'origine de' feudi : fra la varietà delle
quali non si dimenticò pag. 80 di trascriver pure quella inezia,
ch'ebber i feudi principio dalla creazione del mondo; poiché la
Giudea fu destinata ab-eterno per feudo ai figlioli d'Israele. Notisi
pure alla pag. 82 n. 17 che seguendo l'error comune novera doppo
la morte di Clefi 30 duchi longobardi; quando non pur 30 ma
fino a 36 giungeva il loro numero. Più rara è l'altra notizia che ci
dà alla pag. 86 n. 26 facendo venire fin da Germania un duca per
succedere al re Ariovaldo, qual fu Rotari, che lo fa duca di Ba-
viera, quando era duca di Brescia.
E perché meglio in questo libro si manifestasse il suo principa-
le intento essere di scriver istoria di fatti, e non di leggi, in più
luoghi, dove gli accade far queste menzioni, torna presto al « corso
di nostra istoria» come è la consueta sua frase. Ecco alla pag. 82,
doppo aver finito di parlare dell'origine de' feudi e della varia
loro natura, soggiunge al n. 16: «Doppo sì necessaria e utile di-
gressione egli è pur d'uopo che di nostra istoria al corso ritornia-
mo ». E seguita a raccontar poi di Alboino, di Clefi etc. Alla pag. 89
doppo aver parlato di duchee e contee, soggiunge al n. 34: «Per
ritornare ora adunque della nostra istoria al corso : e seguita a nar-
rare i fatti del re Grimoaldo, la venuta de' Bulgari etc. Alla pag.
116, poiché prima si era divagato alquanto fra leggi longobarde e
sopra tutto fra rituali, cerimonie e benedizioni dell'acqua, e del
OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI 567
ferro purgatorio, fra marchesati e gastaldie, soggiunge poi al n. 67:
< Ma tempo è ornai di ritornare a pigliare il filo della nostra isto-
riai; e seguita a narrare i fatti di Arechi duca di Benevento e di
Grimoaldo, dove finisce il libro.
Così se l'epoca prefissa non ha che far niente colle leggi, alman-
co valerà qualche cosa per ciò che ha di rapporto alla narrazione
de' fatti la cui istoria era suo intento di scrivere. In questo libro
l'autore mostra gran pietà e divozione in narrare alla pag. 109 e
no minutamente le funzioni che prima la Chiesa soleva praticare
intorno ai riti, benedizioni, oremus e sacre preci, ed altri esorcismi
sopra l'acqua, o ferro destinato per le purgazioni; onde ad uno
storico sì divoto mal si conveniva quel racconto che fa alla pag. 85
n. 22 della regina Teodolinda, la quale voleva essere bacciata da
Agilulfo in bocca e non nelle mani.
Lib. ni
Delle leggi e magistrati del regno di Napoli, dalla coronazione
di Carlo Magno imperatore fino a Corrado il Salico.
Epoca di due imperatori che non han che far niente con Napoli
e molto meno colle sue leggi e magistrati; ma poiché il libro prin-
cipalmente per l'istoria fu compilato, quindi si prosiegue il filo
della medesima e se di quando in quando si fa menzione delle leggi,
si torna presto «di nostra istoria al corso». Alla pag. 135, doppo
aver brevemente parlato della compilazione de' Basilici si soggiun-
ge al n. 29 : « Or ritorniamo doppo sì necessaria digressione al
corso della nostra istoria»; e si prosiegue la narrazione de' fatti ài
Landolfo conte di Capua, d'Ajone etc. e così fa per tutto il libro.
Dove è da notare ciò che si legge alla pag. 146 n. 44, dicendo ch'egli
seguita «Torme d'un sì celebre istorico qua! fu Carlo Sigonio,
che per noi in quest'opera è la principal face, al di cui lume presso
n'andiamo per porre in chiaro di questi tempi l'istoria». Ma chi
farà confronto di quest'opera coli' Istoria civile del Regno s'accorgerà
presto dietro qual lume ei cammini. Ed avendosene voluto un poco
allontanare, e seguitar l'orme del Sigonio, si vede alla pag. 155
caduto in quella favola del brugiamento di Maria moglie di
Ottone III, riputandola di più per un fatto degno d'istoria. Se
avess'egli letto gli ultimi scrittori germani e spezialmente Burcar-
568 OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI
do Struvio, che ha tanto alla penna, nel Syntag. Hist. Gertn., in
Ottone III, pag. 37 1,1 non avrebbe dato sì facile credenza a tali
portentosi racconti.
Notisi in fine la gran divozione che mostra l'autore di S. Gen-
naro, che alla pag. 125 n. 9, parendogli poco d'esser vescovo, lo fa
arcivescovo di Benevento, nome incognito a quei tempi per i
vescovi d'Italia e molto più per quei di Campagna.
Notisi alla pag. 140 n. 36 che parlando della bussola ignota
agli antichi, porta Kippingio, de expeditione maritima lib. 3, cap. 6,3
che confuta Fullero, lib. 4 miscel. cap. [19],3 e Levino Lemnio, de
occultis nature miraculis, e. 4,4 ch'ebbero credenza che fosse lor nota,
e tralascia Boccarto,5 il quale meglio di tutti prova essere stata a'
medesimi incognita.
Lib. iv
In questo libro si cangia sistema; non si tien più conto d'epoche
d'imperatori, ma se ne forma un'altra tutta nuova, inaspettata, e
stravagante. Si dice: Libro IV, in cui si riferiscono le consuetudini
feudali secondo la di lor compilazione del G. C. Ugolino.
Ci lascia adunque a Corrado il Salico e passa alle consuetudini
feudali secondo la compilazione d'Ugolino,6 e non per altra ra-
gione se non perché Corrado il Salico fu il primo a stabilir legge
scritta sopra i feudi. Ma seguendo la compilazione d'Ugolino nel
catalogo che fa non pur de' titoli, ma di ciascun paragrafo, gli è
d'uopo affastellar anche le leggi di Corrado e di Federico I, onde
1. Burcardo Struvio . . . pag. 3J1: è qui citato il Syntagma historiae germa-
nicae a prima gentis origine ad amami usque MDCCXVI, Ienae 171 6, p.
371, dello Struve (cfr. la nota 5 a p. 371). z. Kippingio . . . cap. 6: Hein-
rich Kipping (1623 -1678), erudito tedesco, Antiquttatum Romanorum li-
bri quattuor, Franequerae 1684, lib. in, cap. vi, De expeditione maritima.
3. Fullero miscel. cap. \19\1 Nicholas Fuller (1557 circa - 1626), ebraista
inglese, Miscellaneorum theologicorum, quibus non modo Scripturae Divi-
noe . . . explicantur atque illustrantur, Heidelbergae 16 12; altra edizione,
Londini 1617. L'edizione di Heidelberg era piena d'errori, per cui fu rifat-
ta in Inghilterra. 4. Levino . . . miraculis, e. 41 Levino Lemnio (nato nel
1505), celebre medico olandese, De occultis naturae miraculis . . . libri tres,
Coloniae Agrippinae 1573. 5. Boccarto : Samuel Bochart (1599-1667), teo-
logo e orientalista protestante francese, Geographia sacra, Phaleg et Cha-
naan, Francofurti ad Moenum 1674, lib. 1, cap. xxxviii, p. 716. 6. e pas-
sa. . . Ugolino: cfr. Istoria civile, tomo il, lib. xui, cap. ult., parr. I e n,
pp. 299 sgg.
OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI 569
trattar di ciò il luogo più proprio era ai tempi di questo imperatore,
quando seguì la prima compilazione de' libri feudali. Questo libro
è il più lungo e diffuso de' precedenti, poiché l'autore ha voluto
prendersi la pena, non già di tessere istoria delle consuetudini e
leggi feudali, ma di far un catalogo longhissimo di tutti i paragrafi,
che quei libri contengono, esponendogli uno per uno. Questo non
è comporre istoria di leggi, ma far sposizioni, parafrasi, compendi
o come voglia chiamarli delle leggi. Altro deve essere l'intento e la
maniera di coloro che si mettono a comporre simili istorie, siccome
lo dimostrano infiniti autori che han compilato speziali libri su
questo soggetto, li quali, se avessero voluto far lo stesso, non
sarebbero mai venuti a capo delle loro opere ; poiché in questa ma-
niera il numero de* libri potrebbe crescere in infinito : siccome non
sappiamo a quale prodigioso numero potranno arrivare questi li-
bri del nostro autore, poiché se lo stesso vorrà fare delle costitu-
zioni del Regno secondo la compilazione di Piero delle Vigne delli
capitoli emanati in tutto il corso del tempo dei re angioini; dei riti
della Camera e dei riti della Vicaria: delle Prammatiche stabilite
sotto i re aragonesi: delle altre sotto i re austriaci, secondo le varie
compilazioni seguite di tempo in tempo ; non gli basteranno venti
volumi per tirar a fine questa sua istoria. Si aggiunga che qualifi-
cando egli per digressioni tutti quei racconti che fa sopra le leggi,
le digressioni verranno ad occupare più libri di quest'istoria. Ecco
che questo 40 libro si consuma tutto trattando delle consuetudini
feudali, di sole digressioni: poiché l'autore istesso avendolo finito,
nel cominciar del quinto dice chiaramente alla pag. 259 che nel
precedente libro «per esporre minutamente le consuetudini feu-
dali, intralasciato abbiamo della nostra storia il corso; ora egli è
dovere che in questo libro di bel nuovo ripigliandolo, entriamo a
ragionare di ciò che avvenne doppo la morte dell'imperatore Errico
il Santo circa l'elezione del suo successore». Onde ripiglia a narrare
i fatti di Corrado il Salico e così viene continuato questo libro col
terzo, lasciandosi il quarto fuori del corso di nostra istoria^ come
una digressione, poiché tratta d'altro che d'istoria.
Ma consumando egli il più voluminoso libro sopra le consuetu-
dini feudali che da Lombardia passarono nel Regno, nel quale più
per uso che per legge scritta da alcun principe acquistarono in
quello autorità: meritamente le leggi longobarde si dolgono perché
non far ad esse pure quest'onore, perché non dargli eziandio un
570 OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI
libro intiero per loro più agiata e spaziosa abitazione, con metterle
pure co' loro paragrafi in processione, come si è fatto delle consue-
tudini e leggi feudali; in vece di contentarsi solo sparpagliarle nei
libri precedenti di qua ed in là e farne sì poco conto e sì breve
motto, sicché appena fra il corso di nostra istoria si possono ravvi-
sare? Forse non meritavan elle più che le feudali, quando queste
per uso e le longobarde per leggi scritte di propri principi furono
nel Regno stabilite ed ebbero autorità e lungamente durarono,
non men sotto i re e principi longobardi, che sotto i Normanni,
sotto li Svevi ed Angioini e fin sotto i re Aragonesi e delle quali
anche oggi serba il Regno non pochi vestigi e costumi ? Ala che si
vuol fare? Ciascuno ha il suo proprio destino: chi è condennato
a perpetua dimenticanza e chi corre luminoso e risplendente su le
carte d'immortali storie.
Lib. v
Si torna in questo libro a Corrado il Salico ; e ripigliandosi l'in-
tralasciata epoca, da questo imperatore si continua l'istoria per
('infino alla morte del gran Ruggieri primo re di Sicilia».
Or qui sì che si giuoca di sbaraglio, poiché l'epoca prefissa non
conviene all'istoria del Regno, e molto meno alle sue leggi; e
perciò in questo non si tiene ordine e disposizione alcuna, ma
vedesi una confusione ed un mesculio tale che i poveri lettori in
leggendolo si espongono ad un evidente pericolo di essere assaliti
da qualche vertigine o capogiro. Alla rinfusa si mischiano leggi
con fatti istorici: le digressioni sono più spesse, ma però presto si
torna della nostra istoria al corso. Alla pag. 270 fa compassione
veder confuse in guisa le leggi feudali di Corrado e di Errico col-
l'istoria, che spariscono come nebbia al vento ; poiché doppo essersi
di quelle fatte brevi parole, presto alla pag. 272 al n. 30 si soggiun-
ge: «Ritorniamo or noi doppo la brieve esplicazione di tali costi-
tuzioni della nostra istoria al corso », e si prosiegue a parlar d'Er-
rico, de' Normanni età, infino alla pag. 291. Qui al n. 87 s'inter-
rompe il corso e parlasi brevemente di leggi, ma tosto al n. seguente
88 pag. 293 si ripiglia l'istoria, dicendo l'autore: «doppo sì brieve
idea etc. egli è d'uopo ripigliar della nostra istoria il filo: e ri-
tornando a favellar de' Ruggieri, egli è da sapere» etc.
Alla pag. 296 perché «nel corso di nostra istoria» si era breve-
OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI 571
mente parlato d'una legge di Lotario, presto al n. 95 si soggiunge:
(> Torniamo or noi, doppo aver tali costituzioni riferite » (è una sola
di Lotario II) « di nostra istoria al sentiero ». E nella pag. 297, n. 97
framezzando alcune altre costituzioni di Lotario appartenenti a
feudi, tosto alla pag. 299 n. 98 ne ripiglia il filo dicendo: " Ritornia-
mo or noi della nostra istoria al corso».
E questo libro molto più che i precedenti fa chiaramente cono-
scere che il principal suo intento è di tessere istoria di fatti e non di
leggi; poiché ne' punti più principali, che incontra appartenenti
all'istoria legale, gli sfugge e solo gli addita e passa. Non vi era
cosa più propria all'istoria delle leggi del Regno che esaminar bene
quel punto del ritrovamento delle Pandette in Amalfi posto in
dubbio a' nostri giorni per leggieri e vani argomenti da alcuni
amatori di novità; ma il nostro autore sfuggendo il disaggio per
amor di Dio, brevemente se ne disbriga alla pag. 300 n. 100, e
lascia a' lettori la pena di esaminarlo, con rimetterli alle scritture
date fuori ultimamente sopra questo soggetto dal Tanucci,1 dal
padre Grandi2 e dal nostro Asti:3 ignorando che il celebre Errico
Brencmann nella sua Istoria Pandectarum? data non ha guari alla
1. dal Tanucci'. Bernardo Tanucci (vedi la nota 2 a p. 284), Epistola de
Pandectis in amalphìtana direptione inventis ad academicos etruscos, Floren-
tiae 1731. Il Tanucci era intervenuto a sostenere le tesi del Brenkman
contro il Grandi, suo collega. Cfr. Difesa seconda deWuso antico delle
Pandette e del ritrovamento del famoso manoscritto di esse in Amalfi contro le
Vindiciae delp. G. Grandi, Firenze 1729. La tesi del Tanucci, come quella
del Brenkman, era che il diritto romano giustinianeo fosse stato ripropo-
sto dal ritrovamento delle Pandette in Amalfi. Si rifaceva cioè al primo
editore delle Pandette, Francesco Torelli. 2. dal padre Grandi*. Guido
Grandi (1 671 -1742), matematico e filosofo dell'università di Pisa, sosteneva
la tesi della continuità del diritto romano. Cfr. Vindiciae prò sua epistula
de Pandectis adversus inanes querelas Tanucci, Pisis 1728. Ma cfr. preceden-
temente Epistola de Pandectis ; Pisis 1724 (seconda edizione 1727), e, con lo
pseudonimo Luccaberti Bortolo, Nuova disanima della storia delle Pandette
pisane, collo scioglimento delle difficoltà opposte alla Epistola de Pandectis e
alle Vindiciae, s. 1. 1730. 3. dal nostro Asti: Donato Antonio d'Asti (1673-
1743), giurista napoletano, DelTuso e autorità della ragion civile nelle Provin-
cie dell'Impero occidentale . . ., 1, Napoli 1720; n, Napoli 1722; ebbe come
censore per il primo tomo lo stesso Giannone. Il d'Asti sosteneva le tesi
della non estinzione del diritto romano nell'Occidente, che più tardi sareb-
bero state riprese dal Grandi contro il Brenkman e il Tanucci. Natural-
mente il Giannone, che era un ammiratore del Duck, a cui in parte si
contrapponeva il d'Asti, era d'accordo con il Brenkman e il Tanucci.
4. il celebre Pandectarum: Hendnk Brenkman (1680 circa - 1736), giu-
rista olandese, Historia Pandectarum seufatum exemplaris fiorentini, Traiecti
ad Rhenum 1722. Nel 1709 il Brenkman andò in Toscana per studiare
572 OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI
luce in Utrech nell'anno 1722, esaminando questo passo d'istoria
tolse ogni dubbio, con far imprimere le parole della Cronaca antica,
o siano Annali Pisani, ch'egli trascrisse da un antico manuscritto
trovato nella Biblioteca de' Domenicani di Bologna: dove par-
landosi della guerra che Lotario ed Innocenzio coll'aiuto de' Pisani
mosser contro il re Ruggieri di Sicilia, si leggono queste parole:
«Li Pisani pridie nonas Augusti armarono 46 galee e furono alla
costa di Malfi, e quello dì per forzia lo presero con septe galee, e
doe nave, in le quali ritrovorono le Pandette composte dalla regia
maestà di Iustiniano imperadore, e da poi quelle brusorono etc. ».*
Parimente favellando della vulgata compilazione delle leggi lon-
gobarde appena accenna la controversia che verte per appurarne
il vero l'autore alla pag. 304 n. 107, che presto torna della «nostra
istoria al corso»; anzi averlo solamente accennato pur gli par
soverchio, poiché soggiunge al n. 108 queste parole: «siam pur-
troppo fuori del cammino di questa istoria usciti, a favellar per
altro di cosa che è molto propria al fine, per cui la intessiamo ; ma è
pur dovere che ora noi nelPintralasciato sentiero facciam ritorno.
Morto adunque Lotario» etc.
Or se gli pare esser uscito fuori del cammino di questa istoria
trattando delle leggi, quale dunque sarà il titolo che finita l'opera
dovrà darsegli ? Dire delle leggi e magistrati del Regno, questo tito-
lo li conviene tanto quanto convenivano le brache per saltero de
veli a quella Reverenda Badessa del Boccaccio.2 Dire poi così in
secco : Istoria del Regno, nemmeno ci calza, perché vi dovranno
essere libri interi ne' quali non si dovrà far altro che porre in ordi-
nanza ed in processione le costituzioni del Regno, i suoi capitoli,
riti e Prammatiche, siccome si è fatto nel 40 delle consuetudini
feudali: qual sarà dunque egli? Quello che Dio vorrà e quel che
vorranno i pii e devoti consultori dell'autore, li quali non manche-
ranno di trasceglierne uno tutto cristiano, spirituale e divoto.
il manoscritto delle Pandette della Biblioteca Medici; pubblicò nel 1722
il suo lavoro e nel 1735 l'Epistola ad Franciscum Hesselium, Traiecti 1735,
in cui discusse le tesi del Grandi confutandole. Cfr. A. Momigliano,
Scipione Maffei ed Hendrik Brenkman. Due progetti di collaborazione in-»
tellettuale italo-olandese nel '700, in «Atti dell'Accademia Nazionale dei
Lincei», anno ccclek (1962), s. 8. Rendiconti, estr. dal voi. xvn, fase. 8-12
(luglio-dicembre 1962, pp. 7-20). 1. «Li Pisani . . . brusorono etc.»: in H.
Brenkman, op. cit., pp. 409-10. Cfr. anche pp. 24-50. 2. le brache . . . Boc-
caccio: cfr. Decameron, E£, 2.
OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI 573
Non ha tralasciato eziandio in questo libro l'autore di mostrare
in più occasioni il rispetto e divozione verso il vicario di Cristo,
poiché alla pag. 306 n. no fa «buttare a' piedi di papa Innocenzio»
il re Ruggieri et il duca di Puglia suo figliolo, siccome alla pag. 338
n. 7 fa prostrare cC piedi del pontefice Adriano il re Guglielmo I ; né
mancano in tutto il corso del libro altri consimili saggi della gran
sua pietà e divozione. In oltre non si ardisce di nominar mai per
proprio nome e cognome l'autore dell'istoria civile ^ per non con-
taminar i fogli de' suoi libri con un nome sì scommunicato e nefan-
do ; anzi sovente per non rinovellarne la memoria, lo denota sotto
la voce «altri», siccome fa alla pag. 304 n. 107 dove non è nomi-
nato quell'autore, che si oppone al sentimento di coloro che ri-
putano per compilatore delle leggi longobarde Pier Diacono, che
sotto il nome d'« altri». Non si sa però come i suoi consultori di
coscienza non gli abbino posto in iscrupolo di nominar più volte
nettamente Carlo Molineo1 e non chiamarlo o l'autor della Glossa
Parzsiense, ovvero non designarlo con qualche aggiunto d'autor
dannato, di dannata memoria, o con simili carezze, colle quali
soglion trattarlo.
Si trascrive in questo libro il catalogo delle leggi stabilite dal re
Ruggieri tolto dall'autore dell'Istoria civile. Il quale intanto si prese
questa briga d'annoverarle e determinarne il numero, poiché nel
volume delle costituzioni del Regno alcune portavano l'iscrizione
di Ruggieri, le quali doveano attribuirsi a Guglielmo ed altre tutto
l'opposto; sicché per toglier questa confusione ed avvertire gli
abbagli per ciò presi da' nostri scrittori, si procurò fissarne il nu-
mero, con ridurlo a soli 39 o 40.2 Ma il novello scrittore delle
leggi del Regno vuole alla pag. 309 n. 116 che siano 44, asseren-
done il numero di 4 o 5 di più, non per altro se non perché in quel
volume le leggeva sotto al nome de' Ruggieri. Ma non si può
esprimere abbastanza quanto sian graziose le cagioni che adduce
per accrescer la quarantunesima, che si legge sotto il titolo de
adulteriis coercendisy che l'autore dell'intona civile l'avea tolta a
Ruggieri ed attribuita a Guglielmo II non tanto per quella postilla,
che si legge nel margine: «alias rex Guglielmus», quanto che se-
1. Carlo Molineo: Charles Dumoulin (vedi la nota 2 a p. 125), Commentarìì
in Consuetudines parìsienses authore Carolo Molinaeo . . ., Parisiis 1576.
2. a soli 39 o 40: cfr. Istoria civile, tomo 11, Hb. xi, cap. v, pp. 180 sgg.
574 OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI
condo i documenti rapportati dal Tutini1 e dal Ughello2 si convince
che ad istigazione di Gualtieri arcivescovo di Palermo fu indotto
quel buon e semplice principe a dar la conoscenza degli adultèri
a' vescovi del Regno. Volete sapere le ragioni perché ora si toglie
al re Guglielmo II e si restituisce al re Ruggieri? Eccole esposte
alla pagina 319 n. 152. La prima perché, come sono le sue parole:
«leggendola noi sotto al nome di Ruggieri, abbiamo voluto tra le
di lui leggi rapportarla». Dunque se si vorrà andar così ciecamente
dietro alle iscrizioni che porta la vulgare edizione delle costituzioni
del Regno e senza esaminar se vi possa esser accaduto errore o no,
starne alla sola epigrafe, a che serviva il travaglio di separar l'une
leggi dalle altre, con riportarle a' veri facitori, quando quel volume
ce l'avrebbe abbastanza dimostrato con additarne in fronte gli
autori?
La seconda è assai più graziosa; soggiungendo: «non essendo
per altro verisimile che Guglielmo avesse voluto pregiudicare a suoi
diritti di sovrano e di legato nato in quel reame».
Si crederebbe in sì poche parole un mucchio di tanti spropositi ?
Come la Legazione di Sicilia, alla quale si dà principio fin dal
diploma d'Urbano II conceduto al conte Ruggieri, ed essere ri-
putati quei re legati nati3 in quel reame, venne a' tempi di Gu-
glielmo, e non vi furono anche il re Ruggieri e Guglielmo I padre
del II. E chi fu che meglio stabilisse ivi la monarchia che il gran
Ruggieri I re di Sicilia? Certamente che presso questo savio prin-
cipe sarebber riuscite vane ed inutili le istigazioni dell'arcivescovo
di Palermo, in conceder a' vescovi la conoscenza di quel delitto, le
quali ebbero felice successo nell'animo pur troppo divoto e dimesso
di quel buono e semplice re. Così questa ragione, che si adduce,
piuttosto convince al contrario e maggiormente fa conoscere che
non Ruggieri, ma il buon Guglielmo funne l'autore. In oltre che ha
che fare qui monarchia di Sicilia con questa legge? Dalla quale in
niente vien quella offesa, anzi per la medesima si accresceva mag-
1. dal Tutini : Camillo Tutini (morto nel 1667 circa), I discorsi de* sette
offici, o vero de* sette grandi del regno di Napoli, Roma 1666. Autore ancora
Dell* origine etfundatione de1 seggi di Napoli, del tempo in che furono institui-
ti . . ., Napoli 1644. 2. dal Ughello: Ferdinando Ughelli (cfr. la nota 2 a
p. 159), Italia sacra sive de episcopis ItaUae . . ., Romae 1644-1662. Ultalia
sacra fu ampliata e ristampata da Nicola Coleti a Venezia, 1717-1722, in
dieci volumi. 3. legati nati', cfr. Istoria civile, tomo li, lib. x, cap. vili,
p. 98.
OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI 575
giormente la conoscenza delle cause del giudice della monarchia,
al quale in grado di appellazione dovevano ripportarsi tutte le cause
agitate in prima istanza ne* tribunali de* vescovi ed arcivescovi di
quel reame.
Dimostrasi poi assai più grazioso l'autore nell'intelligenza che
dà a questa legge, con quella sognata distinzione ed emendazione
che fìnge. D'onde ci fa avvertiti ch'egli non ne abbia intesa la forza
e sia perciò caduto in altri errori, credendola pregiudiziale alla
real giurisdizione, se non veniva a soccorrerla con quella distin-
zione di adultèri commessi da chierici, ovvero da laici; ^ond'eragli
paruto necessario dilungarsi alquanto su questa materia, che per
l'autorità» (sono sue parole alla pag. 321) (di questa legge, e de'
suoi chiosatori non creda alcuno che il delitto d'adulterio sia delitto
canonico, o ecclesiastico, o almeno mixtifori». Né la corte di Ro-
ma, e molto meno i nostri magistrati regi gli sono molto obbligati
di questa sognata distinzione, con separare gli adultèri commessi
da chierici, de' quali solo debbe intendersi la legge, e di quelli
commessi da laici. La legge è generale ed abbraccia non men gli
uni che gli altri, per ciò che riguarda il delitto d'adulterio. E sic-
come il punir gli insulti e le violenze usate forse in commettergli
era riserbato al magistrato regio non men degli uni che degli altri
(del che gli ecclesiastici nemmeno son contenti, pretendendo che i
loro giudici debbano punire nei chierici non men gli adultèri che
tutte le violenze che mai commettessero), così parimente era rip-
portata a' tribunali de' vescovi la conoscenza del delitto d'adulterio
indistintamente. Ciò è manifesto dalle parole istesse della legge e
dall'Editto rapportato dall' Ughello (in appendici tomo 7 De episcop.
pennensi)1 spedito in esecuzione della medesima dalla regina Co-
stanza in Palermo l'anno 1197, dove impone a' conti giustizieri,
baroni, camerari ed a' bagheri della diocesi del vescovato di Penne
ed espressamente loro proibisce di procedere nei delitti d'adulte-
rio, ma che lascino procedere in quelli la giustizia ecclesiastica. E
quando accadesse che negli adultèri si fosse usata violenza, il giu-
dice ecclesiastico conosceva dell'adulterio ed il magistrato secolare
della violenza.
Ma tutto ciò niente pregiudica alla real giurisdizione, che è l'in-
1. Ciò è manifesto . . . pennensi: cfr. F. Ughelli, Italia sacra, ed. Coleti cit.,
ma tomo i, Pennenses et hadrianenses episcopi, coli. 11 11-53. Il documento
citato a coli. 1129-30.
576 OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI
ganno nel quale si vive. Che i principi abbiano per loro leggi e costi-
tuzioni conceduto alla Chiesa sovente il poter conoscere d'alcune
cause e delitti, non è nuovo. Hanno fatto male di farlo per le ree
conseguenze che ne sono seguite; poiché da poi i vescovi quel che
fu privilegio e concession di principi l'hanno voluto tirare a propria
autorità e potere e per non farsela scappar più dalle mani sono
andati inventando titoli assai più potenti e speziosi e dicendo che
tal podestà venga loro de iure divino. Così Roma niuna cosa ab-
borisce tanto quanto il dire che la conoscenza d'alcune cause e
delitti fosse passata a' vescovi per privilegio e concessione de' prin-
cipi, li quali ben sanno che abusandone possono revocarlo, re-
stringerlo ed interpretarlo come lor piace. Infatti fin che durò il
regno d'una femina, qual fu la regina Costanza, fu fatta valere la
concessione. Ma succeduti nel regno i Suevi, e spezialmente
l'imperatore Federico II, non si permise che i vescovi s'intricassero
più nella conoscenza de' delitti di adulterio, ma tutto era ripportato
a magistrati regi così per quel che riguardava la violenza, come la
punizione dell'adulterio. E lo stesso seguitossi a praticare nel
regno degli Angioini, degli Aragonesi ed Austriaci, non dandosi
luogo a prevenzione, né riputandosi per delitto ecclesiastico, ovvero
di foro misto.
Ma stanco l'autore, ed annoiato di parlar di leggi, de' magistrati
e de* sette uffiziali del Regno, non men ch'io d'andar dietro a
queste sue frasche, ritorna egli alla pag. 330 in cammino, e dice
al n. 168 : « Ritornando ora al corso della nostra istoria» e prossiegue
i fatti di Ruggieri, finendo il libro colla sua morte.
Lib. vi
A questo libro si prefigge pure un'epoca che non conviene né
all'istoria né alle leggi. Dice: Dal principio del governo di Guglielmo
per insino alla morte del re Tancredi^ ultimo della stirpe normanna.
Non conviene all'istoria normanna perché si lasciano fuori Rug-
gieri re e gli altri conti di Sicilia e di Calabria e duchi di Puglia
suoi predecessori e non si tiene conto né di Guglielmo III figliolo
e successore di Tancredi, né della regina Costanza, ultima del san-
gue legittimo normanno.
Non conviene all'istoria delle leggi normanne, perché si lasciano
fuori le leggi del re Ruggieri, delle quali trattò nel libro precedente;
OSSERVAZIONI SOPRA L'HISTORIA DI G. GRIMALDI 577
e molto più che quest'epoca si fa finire in Tancredi, del quale non
abbiamo legge alcuna
In questo libro èwi un intricato mescolamento di fatti istorici e
di leggi alla rinfusa. Ma sempre però che gli tocca parlar di leggi,
dà a intendere, seguendo il suo intrapreso stile, che lo fa per di-
gressione, tornando presto «della nostra istoria al corso». Ecco
alla pag. 361, dopo avere nelle precedenti favellato de' fatti del re
Guglielmo I e dell'imperatore Federico Barbarossa, delle costui
leggi feudali e delle Regalie ristabilite in Italia, soggiunge al n. 17:
0 Ora convien ripigliare l'intralasciato filo della nostra istoria ». E
prossiegue a narrare i disgusti passati tra Federico e papa Adriano,
gli avvenimenti del re Guglielmo e le rivoluzioni di Sicilia insino
alla pag. 370.
Qui finisce l'istoria ed al n. 35 si comincia il catalogo delle 21
leggi lasciate da Guglielmo I, che va ampiamente una per una
sponendo, né sappiamo a quanto dovrà crescere la mole di questo
libro, poiché l'ultimo foglio non arriva che alla legge tredicesima.
Insino al re Tancredi si dee credere che con questo sesto libro si
terminerà il primo volume, che crescerà ad una giusta mole. Se lo
stesso si vorrà fare nella rimanente istoria e sopra le leggi, costitu-
zioni, capitoli, riti e prammatiche di ciascun re e viceré, sino a'
nostri tempi, secondo il calcolo fattone a proporzione potrebbe
arrivare a venti volumi. Iddio conceda tanta lena e forza all'autore,
sicché possa vederne il fine.
Vienna, io agosto 1731.
37
IL TRIREGNO
NOTA INTRODUTTIVA
Il Triregno è senza dubbio l'opera più complessa del Giannone, e
fra le più significative della cultura europea della prima metà del
Settecento. Diverse componenti contribuiscono a renderla interes-
sante. C'è la tradizione meridionale1 che si può riassumere nella fi-
gura suggestiva del suo maestro, Domenico Aulisio. Il rapporto del
Giannone con la cultura meridionale affonda le radici nel liberti-
nismo erudito della fine del Seicento. In quel mondo paradossale e
contraddittorio, il Parere sull'incertezza della medicina di Lionardo
di Capua3 - significativamente una delle più importanti opere di
svecchiamento culturale - riprendeva i temi umanistici della pole-
mica contro la medicina. Il pirronismo storico agiva come dissolvente
non solo contro la storiografia seicentesca, ma contro la stessa ragion
di Stato, contro la saldezza del giusnaturalismo. Il relativismo scien-
tifico poneva fecondamente in crisi la validità di ogni scienza. Era
il mondo in cui Gassendi era penetrato più che non Cartesio e Spi-
noza; dietro Gassendi, letto soprattutto nell'Abrégé di Francois Ber-
nier, Lucrezio, e, dopo Lucrezio, ancora Guillaume Lamy, il medico
francese materialista, dai cui De principiis rerum e soprattutto dai
Discours anatomiques, gli «ateisti» napoletani avevano appreso il loro
materialismo, come testimoniano, più che le accuse del gesuita Be-
nedetto Aletino, le acute pagine dell'opera di Giacinto Gimma,3
significativamente contemporanea a quella giannoniana. Poi c'era
stato Spinoza, e un'ulteriore crisi della tradizione, e i faticosi ten-
tativi di costruire una visione antiscolastica, che permettesse il supe-
ramento del dubbio e insieme l'acquisizione della scienza e della cul-
tura moderne. Il Giannone si inserisce nel dibattito intellettuale
mentre la crisi stava per essere superata: dal Parere di Lionardo di
Capua, che metteva sotto accusa una tradizione di medicina anti-
scientifica, gli a antichi», ma anche (ed era la persistenza di un mo-
i. Studiata da Nicola Badaloni nella sua Introduzione a G. B. Vico, Mi-
lano 1961. Per il rapporto fra il Giannone e T Aulisio cfr. G. Ricuperati,
L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1970,
pp. 47-78. 2. Parere del Signor Lionardo di Capoa divisato in otto ragiona-
menti ne* quali partitamente narrandosi l'origine e 7 progresso della medicina,
chiaramente l'incertezza della medesima si fa manifesta, Napoli 1681. Cfr.
ora M. Rak, Una teoria dell'incertezza. Note sulla cultura napoletana del
secolo XVII, in « Filologia e letteratura », anno xv (1969), fase. 3, pp. 233-97.
3. G. Gimma, Idea della storia dell'Italia letterata, Napoli 1723, in due
volumi. Per un'analisi di quest'opera e per i riferimenti cfr. G. Ricuperati,
L'esperienza ecc., cit., pp. 155-6.
582 IL TRIREGNO
tivo umanistico) la scienza stessa, si passava al De difficultate medi-
cinae di Lucantonio Porzio,1 in cui la medicina era vista come la
sintesi più alta di tutte le scienze e di tutte le forme di conoscenza.
Contemporaneamente il Vico scriveva il De uno e il De constantia
iurisprudentis per fondare la certezza del diritto.
Il Giannone aveva frequentato con il Vico l'Accademia Medina
Coeli, dove accanto ai vecchi campioni del libertinismo erudito, co-
me Giuseppe Valletta, c'erano tutti i giovani che avrebbero dominato
intellettualmente e politicamente durante il viceregno austriaco.
L'Accademia, nei suoi temi, è tipica di questa transizione, fra il pir-
ronismo e la storia, fra il relativismo e la scienza, fra l'erudizione e
la politica. Il Giannone, per scrivere l'Istoria, si era appartato, non
partecipando che da spettatore attento e curioso a tutte le vicende
della cultura napoletana, per esempio ai ludi contro l'Aletino del suo
amico Costantino Grimaldi (il più giovane, ma presto anche il più
autorevole fra gli oppositori del gesuita), le cui Lettere, più tardi
raccolte in un'opera rimeditata,2 sono ben più vivaci che non le
inedite risposte di Francesco d'Andrea.3
I temi storiografici dell'età del Vico, che il Momigliano ha recen-
temente riproposto,4 sono già presenti nel primo lavoro del Gianno-
ne: la storia civile, deteologizzata secondo l'insegnamento di Ba-
cone, si intreccia con la storia ecclesiastica, proponendo un rapporto
nuovo fra storia sacra e storia profana; il diritto non è più inteso in
una dimensione di eternità che ipostatizzi il modello romano, ma
piuttosto nella sua storicità concreta. Inoltre c'era stato l'incontro
con i grandi storici civili del Rinascimento, da Machiavelli a Guic-
ciardini fino a Sarpi e Marc' Antonio De Dominis, con i gallicani, co-
me Jacques-Auguste De Thou, Claude Fleury, Louis Ellies Du Pin,
con i protestanti, come Grozio, William Cave, Gilbert Burnet, con lo
1. Cfr. L. A. Porzio, Opera, a cura di F. Porzio, Napoli 1736, 1, pp. 291
sgg. 3. C. Grimaldi, Discussioni istoriche, teologiche e filosofiche fatte per
occasione della Risposta alle lettere apologetiche di B. Aletino, Lucca (ma
Napoli) 1725, in tre volumi. Cfr., oltre alle Memorie di un anticurialista del
Settecento, a cura di V. I. Comparato, Firenze 1964, dello stesso Compa-
rato, Ragione e fede nelle discussioni istoriche, teologiche e filosofiche di Co-
stantino Grimaldi, in Autori vari, Saggi e ricerche sul Settecento, Napoli
1968, pp. 48-93. 3. Cfr. B. De Giovanni, Filosofia e diritto in Francesco
D'Andrea. Contributo alla storia del previchismo, Milano 1958; S. Mastel-
lone, Francesco D'Andrea politico e giurista (1648-1698). L'ascesa del ceto
civile, Firenze 1969. Per una precisa messa a punto filologica sulle risposte
del D'Andrea cfr. ora A Quondam, Minima Dandreiana, in a Rivista storica
italiana», anno t.xxxti (1970), fase, rv, pp. 887-916. 4. A. Momigliano,
La nuova storia romana di G. B. Vico, in «Rivista storica italiana», anno
Lxxvn (1965), PP- 773 sgg.
NOTA INTRODUTTIVA 583
stesso Pierre Bayle, citato, sia pur fuggevolmente, nell'Istoria a pro-
posito di Giordano Bruno.
A Napoli non mancava un certo tipo di informazione europea: le
biblioteche del Valletta e di Sant'Angelo al Nido erano ricchissime
di tutte le grandi opere della «crisi della coscienza europea j».1 Inoltre
non mancavano, come è noto, né i rapporti, diretti, ma necessaria-
mente saltuari, con gli eruditi protestanti, né quelli con le grandi
riviste europee, che sono quasi tutte presenti nella biblioteca di
Sant'Angelo al Nido.
Pur distratto dall'istoria, il Giannone seguiva sia il dibattito scien-
tifico, con gli amici Nicola Cirillo e Lucantonio Porzio che riceve-
vano le «Philosophical Transactions », sia quello erudito-religioso,
attraverso l'amicizia con PAulisio. Costui lesse e rivide i primi tre
tomi dell'Istoria, ma fece ben altro, suggerendogli quell'interesse per
il mondo della storia ebraica, che doveva raccogliersi e condensarsi
nel primo libro del Triregno. Il maestro, che non solo si occupava
di storia (secondo Lorenzo Giustiniani fu l'ispiratore e la guida di
Domenico Antonio Parrino),3 di diritto, di medicina e di erudizione
sacra, è già in un certo senso un modello per il Giannone. Ma c'è
una dipendenza più diretta, ed è quella tra l'opera dell' Aulisio inti-
tolata Delle scuole sacre3 e il Triregno. Le Scuole sacre sono un ten-
tativo simile a quello di Pierre-Daniel Huet di polemizzare contro
Spinoza, assorbendone in parte lo spirito, nel senso che, come l'Huet,
l'Aulisio è costretto a sviluppare negativamente la dicotomia posta
da Spinoza nel Tractatus iheologico-politicus tra filosofia e teologia.
Per Spinoza era un'operazione liberatrice, che completava, nel campo
della filosofia, il discorso del Machiavelli ; per Huet e per l'Aulisio è
una forma di pessimismo radicale verso la ragione. Ma nel complesso
l'Aulisio applica e a volte allarga i risultati di Spinoza; così farà
anche il Giannone, conservando, significativamente, rispetto allo
Spinoza, certi atteggiamenti di relativismo e di sfiducia nella ragione
che gli derivano dal maestro.4
Inoltre il Triregno accetta, sia pur allargandolo, anche lo schema
dell' Aulisio : fra scuole ebree e cristiane (pretesti per un discorso
che investe differenze e continuità delle due civiltà), e i tre regni, ci
sono più punti in comune di quanto non sia stato sottolineato.5 Il
Giannone rivede, sotto una dimensione intellettuale che è ormai
1. Cfr. V. I. Comparato, Giuseppe Valletta. Un intellettuale napoletano
della fine del Seicento, Napoli 1970, pp. 86-138. 2. Cfr. G. Ricuperati,
Uesperienza ecc., cit., p. 153. 3. Napoli 1723, in due volumi. 4. Cfr.
G. Ricuperati, Uesperienza ecc., cit., pp. 58-60. 5. Per un'analisi delle
Scuole sacre cfr. G. Ricuperati, L'esperienza ecc., cit., pp. 60-78.
584 IL TRIREGNO
dominata da altre esperienze europee, lo stesso mondo ebreo-cri-
stiano dell'Aulisio. Vi aggiunge il Regno papale-, ed è quanto egli ha
decisamente in più, come storico e come intellettuale, rispetto all'e-
rudito napoletano, una dimensione politica e religiosa che si muove
ormai verso l'IUuminismo.
A Vienna il Giannone trova l'ambiente adatto per scrivere il Tri-
regno : i suoi amici coltissimi, Pio Nicolò Garelli, Alessandro Riccardi,
Nicola Forlosia, Francesco Antonio Spada e più tardi Biagio Garo-
falo e Bernardo Andrea Lama,1 gravitano intorno alla Biblioteca
Palatina e quindi hanno la possibilità di avere a disposizione libri
rarissimi. Inoltre, fin dai tempi del prefetto Giovanni Benedetto
Gentilotti, che il Giannone conobbe appena, cioè dalla fase di rias-
sestamento della Palatina, i bibliotecari han rapporti con gli eruditi
protestanti, con i dotti luterani di Lipsia che pubblicano, sotto il
segno di uno spirito universalistico e religiosamente aperto perché
di eredità leibniziana, gli «Acta Eruditorum Lipsiensium ».
Vienna, durante la guerra di successione spagnola, aveva inaugu-
rato un rapporto nuovo, più polemico e duro, nei confronti della
Santa Sede, di cui l'episodio di Comacchio era stato soltanto il segno
più esterno. Una confusa, ma percettibile volontà di egemonia sui
paesi tedeschi, protestanti e cattolici, contro l'emergere della Prus-
sia, aveva avuto come conseguenza un certo interconfessionalismo,
che circola soprattutto nel mondo della diplomazia.2 Inoltre Cle-
mente XI, tentando di contrastare l'elezione a imperatore di Carlo
attraverso il voto dei tre vescovati cattolici, aveva provocato la rea-
zione degli scrittori giurisdizionalisti imperiali. E ancora, a Vienna
non era mancato il lavoro dei diplomatici europei per la successione
protestante sul trono d'Inghilterra. La diplomazia intorno al prin-
cipe Eugenio era in parte protestante e decisamente libertina, come
quell'affascinante figura di aiutante del principe, il barone Georg
Wilhelm Hohendorf,3 che tenne le fila dei rapporti con l'Inghilterra
e con la Francia, guadagnandosi, in queste segrete manovre che con-
cludevano una vita avventurosa trascorsa in Oriente, la possibilità
di raccogliere una splendida biblioteca e di contribuire, anche nei
lunghi soggiorni olandesi, a quella del principe Eugenio.
Quando il Giannone giunse a Vienna, si viveva in realtà il riflusso
1. Cfr. ibid., pp. 231 sgg. 2. Cfr. M. Braubach, Geschickte und Abenteuer.
Gestalten um den Prinzen Eugen, Miinchen 1950. Cfr. ancora, dello stesso,
Versailles und Wien von Ludwig XIV bis Kaunitz, Bonn 1952 ; Die Geheìm-
diplomatie des Prinzen Eugen von Savoyen, Kòln und Opladen 1962;
Prinz Eugen von Savoyen, Miinchen 1963-1965, in cinque volumi. 3. Ol-
tre alle citate opere del Braubach cfr. G. Ricuperati, L'esperienza ecc.,
cit., pp. 397 sgg.
NOTA INTRODUTTIVA 585
di questa esperienza, che aveva coinvolto politica, religione e cultura:1
il viaggio di Leibniz nella capitale asburgica era un ricordo lontano;
anche i contatti con John Toland, che era stato l'agente librario e
l'amico dell'Hohendorf e quindi del principe Eugenio, erano ormai
perduti nel tempo. Il principe stesso aveva smorzato, nella nuova
fase della politica austriaca (di tentato riavvicinamento alla Francia
e al papato) la carica interconfessionalistica e libertina dei suoi anni
giovanili, o almeno la mascherava dietro il cinismo intelligente del
grande collezionista, che guarda i fatti contingenti con la saggezza
amara ed esperta del protagonista ormai stanco. In un impero che
poco prima della pubblicazione dell'Istoria aveva chiesto rinvesti-
tura al papa per il regno di Napoli, e che aveva scelto come viceré
dello stesso stato Friedrich Michael Althann, il cardinale che aveva
avuto il merito di ottenerla, un anticurialista come Alessandro Ric-
cardi era per tutti un pittoresco, ma anche un pericoloso soprav-
vissuto.2
Restavano i rapporti con i protestanti di Lipsia e soprattutto i
libri libertini e deistici e di polemica antiromana raccolti dall'Ho-
hendorf e da Eugenio, dall'arcivescovo di Valenza Folch de Cardona,
oltre che dal Riccardi stesso. E non solo i libri, ma anche i mano-
scritti, le primizie del pensiero deistico, collezionate dalTHohendorf
in Inghilterra, in Francia e in Olanda, o inviate, come missive ben
più ardite dei testi che saranno stampati, dallo stesso Toland ai suoi
amici nobili e libertini.3 Di questo mondo in riflusso, proprio nella
misura in cui il suo impiego politico diventava impossibile, il Gian-
none prese la guida, nei rapporti con i protestanti, collaborando agli
«Acta» e utilizzandoli non solo per difendere l'Istoria di fronte a un
tribunale europeo, ma per conoscere il mondo anglicano e confron-
tarlo con le proprie esperienze. Inoltre leggeva e studiava i testi li-
bertini e deistici della letteratura post-spinoziana che si accumula-
vano, dopo la morte dell'Hohendorf, del Cardona e del Riccardi,
nella Palatina. Il Triregno nasce significativamente negli ultimi anni
della permanenza viennese: dal 173 1 al 1734 diventa, a poco a poco,
l'esperienza dominante. Ma non si deve dimenticare quel documento,
di cui altrove ho sottolineato la perplessità e la drammaticità, che è
la recensione alla Pkilosophia adamito-noetica di Antonio Costantino.4
Mentre sta raccogliendo il materiale per il Triregno, il Giannone è
angosciato di fronte al vuoto che vede aprirsi dinnanzi. Se questo
1. Cfr. ibid., cap. vi. 2. Cfr. ibid., pp. 274 sgg. 3. Cfr. ibid., cap. vi.
4. Cfr. G. Ricuperati, Alle origini del « Triregno *: la « Pkilosophia adamito-
noetica'» di Antonio Costantino, in «Rivista storica italiana», anno lxxvii
(1965), fase. 3, pp. 602-38.
586 IL TRIREGNO
documento è della fine del 1731, come ho tentato di dimostrare, si-
gnifica che all'inizio della ricerca egli volle porre a sé i limiti che
nella recensione pone al Costantino, le stesse barriere che la coscien-
za europea più sensibile, cattolica e protestante nelle diverse con-
fessioni, andava cercando di innalzare di fronte all'offensiva deistica,
post-spinoziana. In questo momento il Giannone si scontra con le
stesse preoccupazioni che avevano mosso il vecchio vescovo d'A-
vranches, l'Huet, da parte cattolica, Jacques de La Faye ed Elie
Benoist fra i calvinisti, e da parte luterana Salomon Deyling e il
giovane Johann Laurenz Mosheim.1
Ma nel lavoro egli non tenne più conto di nulla; fatalmente, come
il maestro aveva subito Spinoza, il Giannone subisce la lezione della
letteratura postspinoziana e deistica. I grandi motivi del Triregno
sono soprattutto tre: il rapporto con Spinoza, o meglio con la lette-
ratura che parte da Spinoza; il rapporto con Cartesio, cioè con la
letteratura materialistica europea che dalla bète machine giungerà al-
Yhomme machine-, il rapporto con una religiosità che non è più cat-
tolica o protestante, ma che si compone nello spirito di tolleranza
nato in seno al luteranesimo, al calvinismo e all'anglicanesimo. Il
Giannone, riallacciandosi all'irenismo, alla tradizione di pace reli-
giosa che si coglie così intensamente nell'esperienza gallicana del De
Thou, ma confrontando questi valori con il presente, rappresenta
(e in questo ci può essere spirito riformatore) il contributo del suo
punto di partenza cattolico alla circolazione europea delle idee.
Per quanto riguarda Spinoza, il Giannone lo accetta o lo discute
serenamente, con la piena acquisizione del suo pensiero e con la
perfetta conoscenza della grande quérelle successiva. Ma se Spinoza
può essere perfino scavalcato a sinistra (anche se è infelice il giudi-
zio di «vecchio rabbino » datogli da Guido De Ruggiero in un con-
fronto col napoletano),2 il Giannone è consapevole che quelli con
cui bisogna fare i veri conti sono ormai i nuovi libertini, i deisti. Si
apre il problema del rapporto fra il Giannone e il Toland, che può
essere studiato solo tenendo conto che a Vienna, nelle mani del
gruppo giannoniano, manoscritte o stampate, circolavano in fran-
cese o in latino tutte le opere del deista irlandese.3
Da costui (Letters to Serena e Origines iudaicae) il Giannone ricava
la teoria che gli Ebrei non conoscessero immortalità dell'anima e che
avessero una concezione puramente terrena della vita. Tutto il Regno
terreno è un comporsi in discorso storico delle intuizioni radicali,
1. Cfr. G. Ricuperati, V esperienza ecc., cit., pp. 446-55. 2. G. De Rug-
giero, U pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari 1946,
p. 34. 3. Cfr. G. Ricuperati, L'esperienza ecc., cit., pp. 409 sgg.
NOTA INTRODUTTIVA 587
ma un po' giornalistiche del Toland, risalendo naturalmente ai suoi
maestri, lo Spinoza, John Spencer e John Marsham.
Il Giannone, accettando le tesi del Toland, non solo le allarga e
le consolida, inserendole nel proprio discorso, ma le confronta con
tutta la polemica antitolandiana che il mondo protestante, nelle varie
componenti, ha articolato; si serve del luterano Salomon Deyling per
ricostruire tutto il dibattito sul problema, risollevato almeno in parte
da Spinoza, dell'immortalità o meno dell'anima. Ma naturalmente
egli rovescia le tesi del Deyling, o meglio le utilizza dialetticamente;
riesce ad inserire, sia pure per informazione indiretta, in un quadro
europeo, le proprie idee, che coincidono con quelle di William Co-
ward, del Toland e di Henry Dodwell.1
Il rapporto con la cultura post-cartesiana si può capire solo tor-
nando un momento indietro, alla formazione stessa del Giannone:
antico scotista, poi gassendiano e solo più tardi cartesiano, attraverso
Malebranche. La scoperta del De inquirenda meritate si inseriva in
quella fase di ricostruzione di cui si è parlato prima. A Vienna aveva
riletto Cartesio, ma mentre scriveva il Triregno era in atto la crisi
della fisica cartesiana, sotto l'assalto del newtonianesimo.2 Alla me-
tafisica cartesiana il Giannone non si era mai avvicinato con troppo
interesse ; per quanto riguardava la fisica gli permanevano un atteg-
giamento empirista e alcune obiezioni di origine gassendiana. Contro
Cartesio, il Giannone, che è decisamente anti-dualista, compone ar-
gomenti tratti dalla formazione gassendiana, dal materialismo tolan-
diano e anche dal newtonianesimo.
Se ciò riguarda soprattutto i primi due temi, sul terzo, cioè il
significato storiografico e i suoi riflessi religiosi, occorre dire che il
Giannone nel Triregno accentua il rapporto di apertura e di simpatia
verso le fonti protestanti. Accoglie entusiasticamente l'opera di Jo-
seph Bingham, le Origines sive antiquìtates ecclesiasticae, il più grande
lavoro della storiografia erudita anglicana (frutto di una tradizione
che dal De Dominis passa attraverso William Cave, James Usher,
Edward Brerewood) e lo confronta con le esperienze di Louis Ellies
Du Pin e di Zeger Bernard van Espen. Utilizza Salomon Deyling, uno
dei primi, con le Observatùmes sacrae (assieme al giovane Mosheim),
ad avvertire i rischi impliciti nel discorso del Toland e a collegare
l'esperienza del deista con Spinoza, Richard Simon, Marsham e
Spencer. L'opera del Deyling era una poderosa risposta allo spino-
1. Cfr. ìbid., pp. 467-70. 2. Cfr. la mia rassegna Studi recenti sul primo
Settecento italiano: G. V. Gravina e A. Conti, in «Rivista storica italiana»,
anno lxxxii (1970X fase. 3, pp. 611-44.
588 IL TRIREGNO
zismo, di cui denunciava materialismo e panteismo, e la minaccia
contro la tradizione.
L'opera del Mosheim, rivolta contro le Origines iudaicae, ma so-
prattutto contro il Nazarenus,1 conteneva addirittura una proposta
di alleanza fra cattolici e protestanti per combattere il nuovo mostro,
il Toland, dietro il quale coglieva il richiamo al radicalismo anabat-
tista e al comunismo evangelico, una minaccia che perciò andava
ben oltre le istituzioni religiose e investiva un discorso politico. In
realtà il Giannone si serve, per verificare la sua verità, del confronto
con gli autori che polemizzano contro il Toland, e talvolta ne accetta
provvisoriamente l'alleanza; ma più spesso, come nel caso del Dey-
ling, li forza fino a farsi rivelare - e quindi apprendere - proprio quel
deismo che essi volevano combattere.2
Resta da affrontare la proposta storiografica: del cristianesimo sin-
golare che emerge, di tipo deistico, si è già detto.
Il Salvatorelli,3 in una rassegna di studi sulla storia del cristiane-
simo, sottolineava l'importanza del Toland per le modernissime in-
tuizioni. Altrettanto avrebbe potuto sostenere del Giannone, se aves-
se avuto a disposizione una migliore edizione del Triregno, perché
quest'opera raccoglie, con maggiore serietà storiografica ed uma-
na, le migliori intuizioni del Toland. Lo capì, con felicissima sensi-
bilità, l'Omodeo, che trasformò la sua recensione al Triregno in un
vero e proprio saggio4 parlandone come di una grande opera di
storia religiosa che vive un complesso rapporto con tutta la lettera-
tura dell'età del Bayle e che avrebbe potuto avere una profonda
incidenza, se messa in circolazione, sulle origini dellTUurriinismo
europeo.
Certo, nel Regno celeste il Giannone ha utilizzato, più che non il
Toland, la storiografia protestante, polemica contro la paganizza-
zione di Roma e tutta volta a cogliere il significato della venuta di
Gesù, la radicale cesura spirituale con il mondo di prima. Il Cristo
del Toland, più che il grande impostore della tradizione libertina,
era piuttosto un personaggio storico del mondo settario ebraico. Al
Nazareno il Toland contrappone il discorso di Paolo, vero fondatore
del cristianesimo. Il Fariseo ellenizzante però ha tradito la tradizione
mosaica, viva tra gli Ebioniti e i Nazareni, e che si ritrova piuttosto
1. Cfr. G. Ricuperati, L'esperienza ecc., cit., pp. 452-5. 2. Cfr. ibid.,
pp. 439 sgg. 3. L. Salvatorelli, Da Locke a Reitzenstein, in «Rivista
storica italiana», anno xlv (1928), pp. 341-69 ; e anno xlvt (1929), pp. 5-66.
4. A. Omodeo, recensione al Triregno edito da A. Parente (Bari 1940, in tre
volumi), in «La Critica» (1941), ora in II senso della storia^ Torino 1948,
ristampa del 1955, pp. 245 sgg.
NOTA INTRODUTTIVA 589
(in un'analisi in cui l'elemento comparatistico è squilibrato dalla
carica polemica) nel maomettanesimo.1
Per il Giannone, che proviene da un'esperienza profondamente
diversa, la storicizzazione della venuta ài Cristo è più difficile; il
senso del primo messaggio cristiano più autentico. Ma coglie subito
l'istituzionalizzarsi della speranza, il politicizzarsi delle gerarchie,
che strumentalizzano ai loro fini anche la delusione provocata dal-
l'attesa chiliastica. Il cristianesimo primitivo è una realtà molto com-
plessa in cui sulla matrice ebraica (che viene a contare profondamente
per la prima diffusione, legata alla distribuzione delle comunità ebree
e alle sinagoghe) si inserisce la dimensione romana, cioè l'assorbi-
mento sempre più profondo delle strutture dell'Impero da parte
della Chiesa. Sulla strada della deteologizzazione della storia, anche
rispetto al Toland, il Triregno non è un passo indietro. Inoltre apre
il problema (e significativamente anche il Mosheim si muoverà su
questa strada) di una visione comparatistica del fenomeno religioso.
Tale prospettiva sarà posta, almeno come esigenza, nell'ultimo im-
portante libro, F Istoria del pontificato di Gregorio Magno, fra le opere
del Giannone del carcere quella che si riallaccia significativamente
di più ai temi e alle ipotesi previste, ma ancora da svolgere, nel
Regno papale.
Alla luce di quanto si è detto prima è possibile misurare Fimpor-
tanza dell'ultima parte del Triregno, che, non bisogna dimenticarlo,
è soltanto un abbozzo. Se nel Regno terreno e in quello celeste avevano
dominato come impulsi unificanti gli interessi filosofici e religiosi
(dal deismo al protestantesimo), nella terza parte prevale piuttosto
l'interesse storico e politico, che naturalmente trova la sua giustifica-
zione nell'impianto precedente.2 In questo senso il Triregno voleva
essere un'opera di storia a contemporanea », cioè voleva affrontare e
risolvere, in termini non più riconducibili al giurisdizionalismo o al
gallicanesimo, i problemi del potere, di un potere ecclesiastico ancora
molto forte nel mondo contemporaneo al Giannone, ma ormai, sia
pur per segni quasi impercettibili, in crisi. Studiarne storicamente
l'evoluzione fino al proprio tempo sarebbe stato un modo per tra-
durre in tennini politici la «rottura» spinoziana e post-spinoziana,
allargare la crisi della coscienza religiosa europea, aprire quel pro-
cesso di « decristianizzazione » di fronte al quale egli stesso ambigua-
mente arretrava. Avrebbe voluto essere quindi, nella parte appena
abbozzata, una storia civile e religiosa della società occidentale, in
cui tutte le fila del discorso precedente, sul mondo gentile, ebreo e
1. Cfr. G. Ricuperati, V esperienza ecc., cit., pp. 410 sgg. 2. Cfr. B. Vi-
gezzi, Pietro Giannone riformatore e storico, Milano 1961, pp. 278-300.
590 IL TRIREGNO
cristiano, fossero ricondotte alla spiegazione della realtà presente.
Che cos'è il Regno papale ? Non è la storia del « dominio che i pon-
tefici romani di volta in volta si hanno acquistati sopra alcuni stati
d'Italia, ed in Provenza sopra Avignone, e nella nostra Campagna
sopra Benevento. Questi acquisti si appartengono al regno terreno,
perché derivano da prescrizioni e titoli umani, e non differiscono
dagli acquisti degli altri principi del secolo . . . ».z La realtà tempo-
rale, vista acutamente come una sopravvivenza del regno terreno, è
soltanto una delle conseguenze politiche del «nuovo regno chiamato
papale», cioè il potere che i pontefici «tengono sopra il mondo e so-
pra le teste coronate stesse degli imperatori, re e de' più potenti
principi della terra. In vigor di questo regno essi pretendono spian-
tare i regni e fargli risorgere a loro arbitrio; deporre gl'imperatori,
i re e tutti i principi da' loro imperi, da' loro regni e stati, e tra-
sferirgli ad altre famiglie e nazioni; che possino assolvere i loro
sudditi da' giuramenti di fedeltà, e disobbligarli di pagar loro i
tributi, e muovere eziandio le armi contro gli stessi loro legittimi e
naturali sovrani; che possino investire delle terre ed isole discoperte
e da scoprirsi chi sarà di loro grado, e rendersele a sé tributarie . . . ».2
La storia di questo potere (che utilizzerà proprio le caratteristiche
diverse del cristianesimo rispetto alle altre religioni, volte piuttosto
a migliorare la vita civile) si svolge attraverso una serie di vicende
in qualche modo parallele a quelle già tracciate nell'Istoria ; ripro-
pone quindi per tutta la società umana i temi già percorsi e indicati
per il regno di Napoli.
Il Regno papale prevedeva una suddivisione in dieci periodi : Gian-
none ne scrisse per intero soltanto il primo e parte del secondo ; degli
altri ci ha lasciato una consistente traccia.3 Gran parte del periodo ili
(che appare progettato anche nella suddivisione in capitoli e para-
grafi)4 sarà ripresa nell'Istoria del pontificato di Gregorio Magno. I
periodi iv e v dovevano essere dedicati ai rapporti fra papato e
Impero dalla crisi carolingia a Innocenzo III, cioè al momento di
massima espansione del discorso teocratico. Il periodo successivo
«termina col ponteficato di Bonifacio Vili, che fu il fine della mag-
gior grandezza del papato, e '1 principio della sua decadenza».5 I
periodi vii e vili avrebbero compreso la storia della Chiesa dalla
cattività avignonese alla rottura della res publica Christiana ad opera
del protestantesimo. Il Giannone mostra - in questo schema - di
valutare il significato politico-religioso di tale rottura, non compen-
sata dai «nuovi acquisti dell'America e dell'Indie Orientali».6 I due
i. Cfr. Il Triregno, ed. Parente cit., in, p. 3. 2. Ibid., pp. 4-5. 3. Ibid.9
pp. 14-5. 4. Ibid., pp. 216-9. 5- Ibid., pp. 220-1. 6. Ibid., p. 222.
NOTA INTRODUTTIVA 591
ultimi periodi tendevano a descrivere il comportamento del papato
dopo la rottura protestante : dalla politica nepotistica rinascimentale,
che avrebbe abbracciato tutto il nono periodo fino a Sisto V, alle
conseguenze della Controriforma, con il piccolo nepotismo e la ten-
denza del potere papale a sopravvivere a co* maneggi e sottili artifizi
praticati nelle corti de' principi d'Europa*^.1 Ma egli coglieva - sia
pur nella schematicità dell'abbozzo - il mutamento che si stava veri-
ficando non solo nella politica della Chiesa, ma anche nella società
civile europea. La prima si misurava infatti non solo più con l'asso-
lutismo statale, ma con un'opinione pubblica e una circolazione delle
idee che avevano infranto in qualche modo la censura ecclesiastica;
in questa fase, che giungeva fino a Clemente XII, la politica papale
sarebbe stata descritta dal Giannone in tutta la sua strategia difen-
siva e minimale (ma ancora pericolosa e soprattutto da non sottova-
lutare perché sottilmente corruttrice) nei confronti della nascente
società illuminata: <?e scorgendo di non potere più porre in opra le
scomuniche e gl'interdetti, per non esporsi a grandi pericoli, tutti i
loro pensieri furono finalmente rivolti, affin di sostenere l'autorità
loro, a tenersi ben affetti i primi ministri delle principali corti di
Europa con promesse di cardinalati e di altre prelature, di dispense,
grazie, privilegi ed indulgenze; e sopratutto di pensioni, benefizi
semplici, i quali non obbligano a residenza, e di tutto ciò che può
dispensare la dataria, la penitenzieria e la cancellaria di Roma a. z
Queste conclusioni possono oggi apparirci in qualche modo pro-
fetiche, se per esempio vengono riferite alle stesse vicende umane
del Giannone, vittima esemplare della paziente ed inflessibile trama
curiale che implicò non solo ecclesiastici, ma anche uomini politici,
dal marchese d'Ormea a Carlo Emanuele III.3 Ma valgono ancora
di più in un certo senso a prefigurare quanto sarebbe accaduto alla
stessa sua opera. La Curia romana utilizzò la Corte piemontese non
solo per l'arresto e la detenzione, ma anche per averne, in tutti i
modi, i manoscritti, fra cui (almeno in parte) l'autografo del Triregno.*
Successivamente riuscì a procurarsi anche l'apografo, facendolo ac-
quistare a Ginevra, con l'inganno, da un proprio agente,5 che sarà
premiato con una somma di denaro e una pensione ecclesiastica per
il proprio figlio.6 Ma l'operazione, che pur impedi l'uscita dell'opera
quando questa avrebbe avuto un profondo significato politico-reli-
gioso, non riuscì a cancellarne definitivamente ogni traccia. L'auto-
1. Il Triregno, ed. cit., p. 223. 2. Ibid., p. 223. 3. Cfr. G. Ricuperati,
L'esperienza ecc., cit., pp. 543-6. 4. Cfr. Giannoniana, p. 341. 5. Si trat-
ta di Jean Bentivoglio, su cui cfr. G. Ricuperati, V esperienza ecc., cit.,
PP- 533-5- 6. Ibid., p. 536.
592 IL TRIREGNO
grafo del Regno celeste raggiunse Napoli molto prima del 17661 e fu
utilizzato da Leonardo Panzini per la Vita del Giannone. Fra il 1766
e il 1768 una copia dell'apografo, fatta fare probabilmente da un
ecclesiastico influente, lasciò Roma e iniziò la fortuna sotterranea di
questo grande lavoro, di cui si parla compiutamente nell'edizione
delle Opere postume del 1 76 S3 e di cui Pietro Verri annunciava negli
stessi anni la prossima pubblicazione in Olanda.3
Tale progetto non fu realizzato ; l'opera continuò la sua latomica,
ma precisa circolazione nei frammenti,4 nelle copie parziali e com-
plete. Ma anche quanto era richiamato nei cenni riassuntivi di Leo-
nardo Panzini (che con la sua attività di editore e biografo aveva
aperto il a giannonismo » dell'età tanucciana) faceva affiorare un di-
scorso politico-religioso così complesso e inquietante che andava oltre
la dimensione meramente regalistica e giurisdizionalistica in cui si
tendeva ad utilizzarlo in quegli anni.
Giuseppe Ricuperati
1, Cfr. P. Giannone, Opere postume, a cura di L. Panzini, Napoli 1766,
pp. 102 sgg. 2. Panzini, pp. 85 sgg. Cfr. Giannoniana, p. 342. 3. Cfr.
Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri, I, parte 11, Milano 1923, p. 124.
Cfr. Giannoniana, p. 349. 4. Cfr. Giannoniana, p. xi.
DAL .TRIREGNO.)
LIBRO PRIMO
DEL REGNO TERRENO
PARTE I
IX CUI SI CONTIENE LA DOTTRINA DEGLI EBREI,
PALESATACI NE» LIBRI DEL VECCHIO TESTAMENTO
CAP. IV
Come in tutta la posterità di Xoè, donde si vuole empita la terra
di abitatori, si fosse mantenuta la stessa credenza e concetto che
si ebbe per Vuomo di regno terreno y solo di felicità o miserie
mondane e lo stesso concetto del suo essere e morire.
Se gli uomini avessero seriamente atteso ai successi che si nar-
rano dopo questa dispersione delle genti e princìpi di tanti regni
ed imperi sopra la terra stabiliti, a quella religione che fu da Noè
tramandata a' suoi figliuoli e da questi a* loro posteri, alle loro
leggi e costumi, ed a' premi che speravano ed a' castighi che te-
li Triregno ebbe la sorte di restare inedito fino al 1895, quando fu pubblicato
a Roma da Augusto Pierantoni, genero di Pasquale Stanislao Mancini
(l'editore delle Opere postume del Giannone), in una edizione scorrettissi-
ma. Fu ripubblicato a Bari nel 1940 a cura di Alfredo Parente, il quale
ebbe il mento di correggere gli errori più grossolani. Però anche questa
edizione oggi non è più soddisfacente, perché si basa su una ricerca di co-
dici manoscritti molto limitata. Quello su cui egli ha condotto la propria
edizione (Biblioteca Nazionale di Napoli, mss. D. 5-6-7) è una copia del
1783 dell'intero Triregno eseguita da un certo M. C. de Samnitibus; non
ha invece conosciuto la copia integra che è oggi presso la Biblioteca Mar-
ciana di Venezia (It. ci. XI codd. 262-263-264). Inoltre a Vienna, alla
òsterreichische Nationalbibliothek (codd. 11581-11582), c'è una copia del
Regno celeste, da cui derivano sia il codice della Biblioteca Ambrosiana di
Milano (y 171 sup.), utilizzato dal Pierantoni, sia i codici napoletani (una
copia del Regno celeste alla Biblioteca Arcivescovile di Napoli, O. 4. 24,
da cui deriva quella della Società napoletana di Storia patria, xxi D. 21).
Oggi un'edizione critica del Triregno dovrebbe essere condotta sul codice
della Marciana, collazionato, per quanto riguarda il Regno celeste, con il co-
dice di Vienna e per il Regno papale con un lungo frammento presente nella
Biblioteca Corsiniana di Roma (cod. 1577)- Così è stato fatto per le parti
qui riprodotte, non senza tuttavia accettare in alcuni casi la lezione del
testo Parente, e precisamente là dove questo offre un'interpretazione plau-
sibile di contro alla trascrizione palesemente scorretta di quei codici.
Per una ricostruzione dei codici del Triregno cfr. Giarmoniana, pp. 338-63.
Oltre che nella punteggiatura e in altre particolarità di ordine tipografico,
siamo intervenuti, senza tuttavia farne menzione in nota, nelle citazioni
38
594 IL TRIREGNO
mevano; certamente che saremmo ora fuori di tante vane larve e
di tanti errori ed illusioni e di tanti vani timori e pregiudizi che
abbiamo succhiato col latte delle nostre madri. Ci han dipinta
quest'infausti e malaventurosi indovini1 tutta la posterità di Noè per
una massa perduta e dannata, e che tutti gli uomini dopo il peccato
d'Adamo per propria natura ed originai vizio fossero destinati alla
perdizione e ad eternamente penare nel Tartaro ne' più profondi
e ciechi abissi dell'inferno, dove in compagnia de' neri e tristi
diavoli che foron scacciati come ribelli dal cielo, miseramente do-
vran essere tormentati ed afflitti; che l'essere stati alcuni sottratti
dal comune flagello, come gl'antichi patriarchi Noè, Abramo,
Isaac, Giacobbe, e tutti coloro che furono a Dio cari, ciò gli av-
venne per ispecial sua grazia e privilegio e fuori del naturai corso
della loro condizione, che gli porta tutti all'inferno come a suo
centro ed ultimo fine; che perciò niuno ha ragione di dolersi per-
ché fu riposto fra l'infinito numero de' reprobi e non in quello assai
corto degl'eletti, poiché niun torto od ingiustizia se gli fa, avvenen-
do ciò per proprio e naturai istinto ; e siccome niuno si maraviglia
perché l'acqua corre all'ingiù, così non dobbiamo maravigliarci, e
molto meno dolerci, se tutti come massa dannata corriamo alla
perdizione; né dev'esser tocchi d'invidia se Iddio alcuni pochi sot-
traga da questa fatai rovina, avvenendo ciò per suo special favore
e grazia, che dispensa gratuitamente a suo arbitrio ed a chi gli
piace, valendosi della parabola dell'Evangelio e di quelle parole:
«Amice, non facio tibi iniuriam, tolle quod tuum est et vade».* E
se gli dimandate dov'essi han letto sentenza sì terribile e crudele
e scritta con sì fieri caratteri di sangue ? Essi presto si mettono in
bocca quelle parole di S. Paolo : « Omnes in Adam peccaverunt et
latine, là dove i copisti sono incorsi in veri e propri svarioni o hanno grosso-
lanamente fraintese le abbreviazioni. Per questo lavoro di restauro ci siam
valsi, fin dove ci è stato possibile, delle stesse edizioni di cui si servì il
Giannone.
i. Ci han dipinta . . . indovini: il Giannone polemizza con tutte le interpre-
tazioni pessimistiche del cristianesimo, da quelle cattoliche a quelle pro-
testanti. Egli respinge soprattutto l'idea dell'umanità dannata a priori,
perché ogni forma di predestinazione è contraria alla libertà dell'uomo:
questi concetti, che chiariscono le precedenti polemiche contro i teologi,
troveranno un largo sviluppo, come si vedrà, nell'Apologia de* teologi sco-
lastici, Cfr. le osservazioni di B. Vigezzi, Pietro Giannone riformatore e sto-
rico cìt., pp. 233 sgg. 2. « Amice . . . vade»: cfr. Matth., 20, 13.
DEL REGNO TERRENO • PARTE I • CAP. IV 595
per peccatimi in mundum intravit mors».1 Tutti adunque pec-
cammo in Adamo, e per conseguenza tutti siamo condannati a
perdizione ed irreparabil morte.
ì\Ia se costoro avessero ben letta in Dio questa faccia e con-
siderata attentamente la divina sua parola e specialmente questi
primi capitoli del Genesi, non avrebbero certamente trovata scritta
sì terribile e fiera sentenza. La maledizione che Iddio dopo la
trasgressione di Adamo diede all'uomo, non fu che ài dover pas-
sare la sua misera vita fra travagli ed angoscie, in tribolazioni,
stenti e dure fattiche : che la terra gli porterà spine, ortiche e triboli,
e che nel sudore della sua fronte gli converrà mangiar il suo pane;
che finalmente dovrà morire e ridursi in polvere e terra, donde
ebbe sua origine e principio. Da questa maledizione ne derivò an-
cora che la sua natura fosse più inclinata al male che al bene,
quindi Iddio pentissi d'averlo fatto, siccome egli chiaramente ce
lo spiegò quando disse a Noè, Gen., 8,21 : <f Sensus enim et cogita-
tiones humani cordis in malum prona sunt ab adolescentia sua».
Questi furono i perniciosi effetti della trasgressione d'Adamo, e
questa fu la sorgiva donde derivarono nell'uomo tante calamità e
miserie che chiamansi efletti del peccato di Adamo e maledizione
di Dio trasfusa a tutta la sua posterità. Questa naturai propensione
al male l'espose a mille e spesse trasgressioni a' divini precetti, e
per conseguenza a doverne riportare altrettanti castighi, flagelli,
desolazioni e morti; ma tutto ciò non oltrepassava l'istessa sua
naturai condizione. Egli fu fatto mortale; mortali per conseguenza
doveano essere non meno i suoi premi che i suoi castighi e suplizi.2
1. <*Omnes . . . mors*: cfr. Rom., 5, 12. Sul significato di questo brano cfr.
K. Barth, L'Epistola ai Ramarri, a cura di Giovanni Miegge, Milano 1962,
pp. 153-5. Sul rapporto fra il Giannone e san Paolo cfr. la Vita, qui a
p, 228: «Adunque seriamente riflettendo sopra il libro degli Evangeli e gli
Atti di san Luca, e spezialmente l'Epistole di san Paolo, che avea sempre
nelle mani ... ». Cfr. le interessanti osservazioni del Vigezzi, op. cit., pp.
252-5, dove si mostra fra l'altro che il richiamo a san Paolo per definire i
dogmi cristiani è prevalente nel Triregno, anche se il Giannone proprio
in queste pagine attenua la drammatica cesura fra il mondo antico e T espe-
rienza cristiana. 2. Egli fu fatto . . . suplizi: questa concezione riassume
quanto il Giannone ha precedentemente affermato, cioè che gli Ebrei non
avevano altra idea di felicità o di castigo, se non terreni. Questa tesi risale
a John Spencer (De legìbus Hébraeorum ritualibus et earum ratiombus libri
tres, Hagae 1686, soprattutto il capitolo hi, p. 1 1) e a John Toland (Adeisi-
daemon sive Titus Livius a superstitione vindicatus , . . Armexae sunt eiusdem
Origines iudaicae, Hagae-Comitis 1709).
596 IL TRIREGNO
La trasgressione ed il peccato d'Adamo introdusse nel mondo al-
l'uomo le miserie, i travagli e la morte, ultimo de' mali, ma morte
nella quale per lui tutto finiva, e lo riduceva in quelTesser nel qual
era prima che fosse nato. Questo era il concetto che costatamente
si teneva della morte dell'uomo, e non altro.
Falsissima adunque, crudele e che fa somma ingiuria ad un Dio
cotanto giusto, sapiente e misericordioso, è la fiera idea che si vuol
far concepire agl'uomini, che tutta la posterità di Noè fosse massa
perduta e dannata: anzi è apertamente contraria alle benedizioni
che Iddio gli diede quando gli salvò dalla comune sciagura del
diluvio e quando, serenato il cielo, usciti dall'arca, gli diede la do-
minazione sopra la terra e sopra gl'animali e sopra quanto in quella
si muove e cresce. Né ad altro fine, come si è veduto, Iddio avea
fatto gli uomini, a' quali non altro regno che terreno fu promesso
e con effetto dato. Questa istessa dominazione confermò a' figliuoli
di Noè ed ai loro posteri e discendenti, loro dicendo che cresces-
sero, moltiplicassero ed empissero la terra. «Et terror vester ac
tremor sit super cuncta animalia terrae et super omnes volucres
coeli; cum universis quae moventur super terram, omnes pisces
maris manui vestrae traditi sunt, et omne quod movetur et vivit
erit vobis in cibum: quasi olerà virentia tradidi vobis omnia»,
Gen., 9,1. x
Se si riguardava poi le benedizioni che partitamente furon date
a ciascheduno de' figliuoli di Noè e loro particolare progenie, ecco
quelle che si diedero a Iafet, figliuol primogenito : ch'egli colla sua
discendenza dilaterà i confini della dominazione sopra la terra assai
più dell'altre due famiglie, anzi che abiterà negli stessi paesi desti-
nati a Semo ed alla di lui posterità: «Dilatet Deus Iaphet et habitet
in tabernaculis Sem», Gen., 9,27. Alla numerosa discendenza di
Iafet però si attribuiscono tante ampie e vaste regioni, non meno
in tutta Europa che nelle parti settentrionali d'Asia. Quindi leg-
giamo nel Genesi, cap. 10,5: «Ab his divisae sunt insulae gentium
in regionibus suis, unusquisque secundum linguam suam et fa-
milias suas in nationibus suis».
1. Et terror . . . Gerì,, 9, 1: «Abbiano timore e tremore di voi tutti gli ani-
mali della terra e tutti gli uccelli del cielo. Assieme a tutti gli esseri che si
muovono sulla terra, sono consegnati nelle vostre mani tutti i pesci del
mare. Tutto ciò che si muove e vive sarà vostro cibo. Tutto vi ho conse-
gnato, al pari delle erbe verdeggianti».
DEL REGNO TERRENO • PARTE I * CAP. IV 597
Chi potrà ancor dubitare delle benedizioni date a Semo, altro
figliuolo di Noè, ed a tutta la sua progenie, quando da questa
razza dovea sorgere un popolo a Dio cotanto caro e diletto quanto
fu l'ebreo da lui trascelto, e di cui dichiarossi doversi essere pro-
prio e particolar Dio, siccome colui era proprio suo popolo ? Alla
costui posterità furono pure destinate in Asia ampie regioni da
dominare, ch'era la marca più distinta della divina affezione e be-
neficenza verso coloro ch'eran a Dio più cari; onde della medesima
pur leggiamo, Gen.y 10,31 : u Isti sunt filii Sem secundum cognatio-
nes et linguas et regiones in gentibus suis». Riputino ora questi
infelici ed infausti indovini tutta la posterità di Iafet e di Sem
massa perduta e dannata?
Ma che diremo di quella di Camo, minor figliuolo di Noè?
almanco questa sarà perduta? Questa certamente che fu da Noè
maledetta per l'obbrobrio che Camo gli fece di non coprire le ver-
gognose sue membra. Così è: Noè la maledisse dicendo: "Male-
dictus Canaam». Ma che cosa importavano gli efletti di questa
maledizione? non altro che vii servigio e perdita di signoria; dover
esser scacciati dalla dominazione delle terre dove avean posto piede
e servire alle due altre famiglie dei suoi fratelli: 'cMaledictus Ca-
naam: servus servorum erit fratribus suis, Benedictus dominus
Deus Sem. Sit Canaam servus eius. Dilatet Deus Iaphet, et ha-
bitet in tabernaculis Sem; sitque Canaam servus eius», Gen., 9,27. x
Ecco fin dove s'estendevano le imprecazioni ed i flagelli minacciati
nella maledizione di Canaam.
Ma perché riputare tutta la posterità di Noè per massa perduta
e dannata? Forse, serbando quella religione che appresero da Noè,
tutta facile e semplice, quella morale e quelle leggi di natura ch'a-
vevano scritte ne' loro cuori, non potevano piacere a Dio e dive-
nire a lui cari ed amici ? Tutta la sacra istoria è piena di documenti
i quali convincono che tutte le nazioni, contenendosi nel vero culto
di Dio pratticato da Noè, non abbandonandosi nell'idolatria e ser-
bando solo le leggi di natura, che dettavano di fare o non fare ad
altri ciò che per te vuoi o non vuoi, questo solo bastava per piacere
a Dio ed esser suo amico. E gli effetti che a riguardo dell'uomo
provenivano dalla sua amicizia o inimicizia, non eran nei buoni
che prosperità mondane, imperi, fecondità, ricchezze, abbondanza,
1. Gen., 9, 27: rectius 9, 25-7-
598 IL TRIREGNO
sapienza ed altre terrene felicità; nei cattivi, non altro che desola-
zione, servitù, miserie e stoltizia, calamità e morte; siccom'è chiaro
da quest'istessi sacri libri e si dimostrerà più innanzi fino all'ultima
evidenza. Essendo questo il concetto che s'avea dell'uomo e della
sua felicità o miseria, quindi per conseguir l'una e sfuggir l'altra
tutta la posterità di Noè, serbando quella pura e semplice religione
che gli tramandò e quelle leggi di natura che avevano scritte nei
loro cuori, potevano piacere a Dio ed essere suoi amici; siccome
moltissime nazioni del mondo, che non furono né della razza di
Semo, né della stirpe d' Abramo o d'Isaac, lo furono con effetto;
e ristoria sacra istessa ce ne soministra infiniti esempi.
1
DELLA RELIGIONE NOETICA
La religione che tramandò Noè a' suoi posteri1 non fu certa-
mente molto operosa, sottile e difficile, sicché tutti non potessero
capirla e praticarla. Ella era tutta pura, semplice, senza riti, senza
cerimonie, senza sacerdoti, senza tempii e senza altari; ella non
ricercava altro, che si riconoscesse in tutto l'ampio universo un
solo unico ed onnipotente Iddio, il quale avesse creato e cielo e
terra e sole e luna, uomini ed animali, e quanto si vede, nutre e
cresce in tutto il mondo aspettabile. Questo Dio non esser circo-
scritto da alcun termine 0 confine, non aver alcun proprio nome,
non forma umana, e molto meno d'animale o d'altra cosa creata.
Essere invisibile ed eterno, e colla sua presenza tutto empie e
regge. Perciò non aver bisogno di tempii, né di altari dove rinchiu-
derlo o collocarlo. Tutto il cielo, tutta la terra, tutto infine l'ampio
universo esser suo tempio, essere suoi altari. Gli uomini, per gra-
titudine d'avergli creati e data la dominazione della terra e di tutti
gli animali e di quanto sopra e dentro di quella si nutre e cresce;
per espiazione de' loro falli e per placare il suo sdegno perché non
gli avvenga male, e per pregarlo che gli siegua il bene, devono pre-
stargli sacrifici ed immolargli vittime, ma schietti, puri e semplici,
senza molti apparecchi e pompa. Immolar le vittime a ciel scoverto,
1. La religione . . . posteri: sul problema della religione noetica cfr. G. Ri-
cuperati, Alle origini del Triregno: la Philosophia adamito-noetica di An-
tonio Costantino^ in «Rivista storica italiana», anno lxxvii (1965), fase. 3,
pp. 602-38, passim.
DEL REGNO TERRENO • PARTE I • CAP. IV 599
in campagna, senza celebrità e cerimonie, seguendo l'esempio di
Noè stesso, il quale, uscito dall'arca, in rendimento di grazie al
Signore per averlo colla sua famiglia scampato dalla commune
sciagura, prese degli animali mondi e ne fece a Dio olocausto. Sol
avvertì, che fu il suo primo divin commando intorno a prestargli
culto, che si guardasse mangiar colla carne insieme il sangue degli
animali. E Mosè, rinnovando quest'istesso commando agli Ebrei,
ce ne spiegò la cagione, dicendo che il sangue di quelli dovea ser-
barsi per offerirlo ne' sagrifici e per espiazione e mondezza delle
loro anime; poiché riputandosi l'anima de' bruti essere nel sangue,
giusto era offerire a Dio il sangue di quelli per espiazione delle loro
anime. Non più di questo ricercava dagl'uomini la religione di
Noè; e coloro che l'osservavano erano a Dio cari e meritevoli della
sua benedizione. Donde ne seguiva che coloro che, ciò tralascian-
do, si davano all'idolatria e ad altri culti moltiplicando numi, riti
e superstizioni, erano detestabili e per conseguenza degni di male-
dizioni, flagelli, calamità e morti.
Se i nostri scrittori,1 i quali hanno posto tanto studio e cura di
andar notando ne' gentili i loro riti, leggi e costumi, anzi le scienze
ed arti tutte per derivarle dai nostri libri sacri, se da' posteri di
Noè fanno popolar tutta la terra, e di più sono andati investigando
i cammini che tennero, i viaggi che intrapresero,2 e qual razza avesse
popolato l'Asia, quale l'Europa, e quale l'Affrica; perché non s'han-
no voluto poi prendere la pena e metter attenzione che in molti
antichi popoli e nazioni si ravvisava anche quell'istessa religione che
Noè tramandò a' suoi posteri ? perché non far avvertiti gli uomini
con aditarle i fonti onde quelle attinsero la loro religione e culto ?
E che quanto più si va indietro all'antichità, tanto più chiari vestigi
1. i nostri scrittori: si riferisce a Samuel Bochart (Opera omnia, hoc est,
Phaleg et Chanaan, seu Geograpkia sacra et Hierozoicon, Lugduni B. 1676,
in due volumi, oltre all'edizione già citata di Francoforte del 1674: cfr. la
nota 5 a p. 568), a Pierre-Daniel Huet (Demonstratio evangelica, 1, Parisiis
1679; 11, Amstelodami 1680), allo Spencer, op. cit., e a John Marsham
(Chronicus canon aegyptiacus, hebraìcus, graecus, et disquisitiones, Londini
1672). Sul rapporto fra il Giannone e questi autori cfr. il mio saggio Alle
origini del Triregno ecc., cit. 2. se da' posteri . . . intrapresero : si riferisce a
W. Lazius, De aliquot gentium migratiombus, sedibus fixis, reliquiis lingua-
rumque initiis et immutationibus oc dialectis> Basileae 1572; H. Grotius,
De origine gentium americanarum dissertatio, 3.1. 1642, e Dissertano altera,
Parisiis 1643 ; G. Horn, De origimbus americanis libri quattuor, Hagae 1652.
Cfr. infatti Triregno, 1, pp. 88-91.
ÓOO IL TRIREGNO
s'incontrono, ne' più vetusti popoli de* quali è rimasa a noi me-
moria, della religione istessa che fu professata da Noè e suoi di-
scendenti ?
Certamente che la più rimota antichità non conobbe nome al-
cuno proprio di Dio. Narra Erodoto, lib. 2, e. 4, ch'essendo egli
nella città di Dadone,1 gli fu riferito da que' savi che anticamente
si facevano le immolazioni ed i sagrifici degli dei senza nome pro-
prio, come quelli che alcuno non ne conoscevano, e che molto
tempo dapoi d'Egitto furono portati i nomi divini; da chi gli pre-
sero i Pelasgi, e da questi i Greci. Ed altrove, lib. 2, e. i,2 ci rende
pur testimonianza che i nomi dei dodeci dii furono primieramente
dagli Egizi trovati, e che i Greci da essi gli aveano presi; siccome
gli Egizi essere stati i primi inventori de' simulacri, degli altari,
e di tutti gli altri divini onori. Ma gli Etiopi contrastavano que-
sta prerogativa, i quali si davano il vanto esser stati essi gli primi
a venerar con simulacri e pompe esterne i dii e con magnifiche e
splendide celebrità; sicché a ragione Omero gli preferì in ciò a
tutte l'altre nazioni. Anzi Erodoto fu di sentimento che quasi fino
ai suoi tempi, che furon quelli di Xerse, non si erano saputi tanti
nomi di dii e tante loro genealogie, imperoché, ei dice al lib. 2,
e. 4,3 Esiodo ed Omero, i quali da 400 anni e non più furono avanti
a questo tempo, sono coloro che hanno introdotto la progenie de'
dii in Grecia, ed a lor modo gli hanno dato figure, onori e diverse
possanze. Dall'essere l'introduzione di dar nomi a' dii nova e re-
cente, a riguardo della più rimota antichità, quindi derivò la tanta
varietà de' loro nomi presso tante e sì diverse nazioni. Gli Egizi gli
chiamavano d'una maniera ed i Caldei d'un' altra. Quest'istessa
varietà osservaremo negli Sciti, ne' Fenici ed in tanti altri popoli e
regioni; e presso gl'Ebrei stessi non se non a' tempi di Mosè acqui-
stò proprio nome di Ieova il Dio d' Abramo, che i Greci chiama-
vano Iao.4
1. Dadone: si tratta di Dodona. Il Giannone cita Erodoto dalla traduzione
del Boiardo, edizione veneziana del 1539. L'edizione da me utilizzata è la
ristampa del 1565, libro 11, capitolo iv, f. 49: «Et ho inteso a Dodona, che
anticamente si facevano le immolati oni e sacrifici degli dei, senza nome
proprio . . .». 2. lib. a, ex: cfr. ed. cit., f. 39: «I nomi de* dodici dei
fumo primieramente dagli Egitti ritrovati. . .». 3.0/ lib. 2, e. 4: cfr.
ed. cit., f. 49. Sul problema cfr. F. E. Manuel, The Eighteenth Century Con-
fronto the Gods, Cambridge 1959- 4- Quest'istessa . . . Iao: il Giannone si
riferisce a quanto afferma soprattutto THuet nella citata Demonstratio
evangelica.
Per questa caggione leggiamo essersi da' più vetusti popoli sa-
crificato vittime a Dio in campagna ed a cielo scoperto, e che molti
non intendessero per Dio che il cielo, il sole, la terra e tutto l'ampio
universo ; onde sopra gl'altissimi monti sagrificavano, non avendo
né tempii né altari e molto meno simulacri o statue, riputando mal
convenirsi di restringere in sì brevi chiostri e dar forma e figura
a chi non può essere circonscritto da alcun termine, né è capace
d'esser effigiato o dipinto. Quindi narra Erodoto istesso, lib. i,
cap. 9,1 che i Persiani anticamente non edificavano né tempii né
altari, né avevano statue, anzi si beffavano di coloro che simili cose
facevano. Che perciò immolavano le loro ostie nelle cime de5 monti
altissimi a Giove, il quale però non intendevano che fosse altro
se non che tutto il giro del cielo, e secondo quest'istesso concetto
sacrificavano ancora al sole, alla luna, alla terra, al fuoco, alli venti
ed alle acque: ciò che fu anche avvertito da Strabone, Kb. 15 Geogr.2
dicendo: ftPersae nec statuas nec aras erigunt; sacrificant in loco
excelso. Coelum Iovem putant; colunt Solem, quem Mithram vo-
cant, item lunam et Yenerem et ignem et tellurem, et ventos, et
aquam». E ciò ch'è notabile, rapporta che ne' loro sacrifici, della
vittima che imolavano non lasciavano a' dii porzione alcuna: ' Nulla
parte diis relieta; dicunt enim» soggiunge Strabone :Deum nihil
velie praeter hostiae animam».3 Ch'era appunto quello che Noè
impose alla sua famiglia, e Mosè agli Ebrei, di lasciare a Dio l'ani-
ma degli animali, cioè il loro sangue ne' loro sagrifici, e perciò che
si astenessero dal sangue de' medesimi. Gli Sciti, secondo il loro
credere primi uomini che abitarono le parti settentrionali dell'Asia
e dell'Europa, non d'altra maniera rendevano4 a' loro dii sagrifici:
Strabone stesso narra de' settentrionali Celtiberi, lib. 7:* idnnomi-
natum quemdam Deum noctu in plenilunio ante portas cum totis
1. Hb. I, cap. 9: cfr. ed. cit., f. 29: «Templi non edificano, né statue — v.
2. Strabone, Mb. 15 Geogr. : il Giannone si servi dell'edizione parigina del
1620 con commento del Casaubon: cfr. la nota 3 a p. 204. La citazione che
segue è a p. 732 (« I Persiani non innalzano né statue né altari; fanno i loro
sacrifici su un luogo elevato; Giove lo credono il cielo; venerano il sole, che
chiamano Mitra, e parimenti la luna e Venere, e il fuoco e la terra e i venti
e l'acqua»). 3. & Nulla parte . . . anvmam»'. ed. cit., ibid, («. . . dicono in-
fatti che Dio non desidera altro che l'anima della vittima»). 4. rendevano
Parente (p. 1 14) ; prendevano ven. 5. lib. 7 : si tratta in realtà del libro in :
cfr. ed. cit., p. 164 («venerano nottetempo, col plenilunio, un dio senza
nome davanti alle porte con tutta la gente di casa danzando e cantando e
facendo festa tutta la notte»).
Ó02 IL TRIREGNO
familiis choreas ducendo totamque noctem festam agendo vene-
rari». E Diodoro Siciliano1 rapporta nel lib. 2 della sua Biblioteca
Istorica che i Trabolani, popoli insolani dell'Oceano Indico orien-
tale, la stessa religione avevano e gli stessi sagrifici e culto pratica-
vano co' loro dii, dicendo: e. Pro diis colunt primo coelum, quod
omnia continet; deinde solem et cuncta denique coelestia».
Da ciò nacque che Strabone, Diodoro e gli altri scrittori exotici,
i quali, osservando in molti antichi popoli questa religione e culto
verso i loro dii, e scorgendo che Mosè al suo popolo ebreo aveva
severamente proibito simulacri e statue, e ch'egli non fabricò tem-
pio alcuno al dio Ieoin, ma i sagrifìzi si facevano in campagna, od
al più sotto lor tende e tabernacoli, scrissero che Mosè e gli Ebrei
per questo loro Dio non intendessero altro che l'ampio cielo, e che
non lo distinguessero dall'universo, facendolo una medesima cosa;
onde alcuni moderni scrittori2 vogliono perciò far passare Mosè
per panteista, ed alcuni non si sono ritenuti chiamarlo anche spi-
noststa, perché così lo riputarono Strabone e Diodoro. E non vi è
dubbio che costoro questo concetto ebbero della dottrina di Mosè,
1. Diodoro Siciliano: della Bibliotheca historica di Diodoro Siculo il Gian-
none utilizza nel Triregno due diverse edizioni e traduzioni: una a cura
di Sébastien Chateillon, Basileae 1578, l'altra a cura di Lorenz Rhodo-
mann, Hanoviae 1604. Il brano che segue non corrisponde all'edizione
Chateillon (lib. 11, cap. xm, p. 69), ma a Rhodomann, p. 141, che non ha
indicazione di capitolo e paragrafo. (Nelle edizioni moderne 11, 59, 2:
« Venerano come divinità prima il cielo, che tutto contiene, poi il sole e in-
fine tutti i corpi celesti»). 2. alcuni moderni scrittori: si tratta del Toland,
che afferma ciò nelle citate Origines iudaicae, p. 117: «Mosem enimvero
fuisse pantheistam sive, ut cum recentioribus loquar, spinosistam in-
cunctanter affirmat in isto loco Strabo ... ». In realtà il Toland aveva già
usato il termine panteista, di cui è l'inventore, in un pamphlet del 1705,
Socinianism Truly Stated . . . Recommended by a Pantheist to an Orthodox
Friend. Ma il legame fra il termine panteista e spinozista c'è solo nel passo
citato delle Origines. Polemizzando contro quest'opera il pastore di Utrecht
Jacques de la Faye creò a sua volta il termine panteismo, in Defensio reti-
gionis, necnon Mosis et gentis iudaicae, cantra duas Dissertationes Ioh. To~
laudi . . ., Ultraiecti 1709, p. 195, opera recensita nello stesso anno dagli
«Acta Eruditorum Lipsiensium ». Oltre al de la Faye, polemizzò contro il
Toland anche Salomon Deyling con le Observationes sacrae, la cui prima
edizione, in due tomi, fu pubblicata a Lipsia dal 1708 al 1715. L'edizio-
ne di cui ci siamo serviti è quella di Lipsia, 1735-1748®, in cinque tomi:
nella Pars 11, Observ. i, An auctor Pentateuchi Moses fuerit pantheista? con-
futa le Origines del Toland collegandole a Spinoza. Il Toland doveva con-
cludere la sua vita intellettuale pubblicando il Pantheisticon, Cosmopoli (ma
Londra) 1720, in cui si teorizza l'esistenza della setta dei panteisti. Sul pro-
blema cfr. P. Vernière, Spinoza et la pensée francaùe avant la Revolution,
Paris 1954, 11, pp. 357 sgg.
DEL REGNO TERRENO • PARTE I • CAP. IV 603
scrivendo di lui Strabone al cap. 16 Geogr.1 che credesse: «Id
soliim esse Deum, quod nos omnes continet et terram et mare,
quod coelum et mundum et rerum omnium naturam appellamus,
cuius profecto imaginem nemo sanae mentis alicuius earum rerum
quae penes nos sunt similem audeat effingere. Proinde omni simu-
lacrorum effictione repudiata, dignum ei templum ac delubrum
constituendum, ac sine aliqua figura colendum». E Diodoro, in
quel frammento del lib. 40 che ci conservò Fozio, chiaramente pur
di Mosè scrisse: « At nullam omnino deorum imaginem statuamve
fabricavit: quod in Deum minime cadere formam humanam; sed
coelum hoc quod terram circumquaque ambit, solum Deum esse,
cum cunctaque in potestate habere iudicaret ».2 Ma non è maravi-
glia che tali scrittori avessero attribuito a Mosè ed agrEbrei cioc-
ché in altri popoli osservarono, poiché costoro delle cose dei Giudei
non ne furon molto curiosi, né se ne prendevano cura, deridendole
come fanatiche e pazze, e sovente si fermavano a' rapporti volgari
che da incerta fama pervenivano a loro notizia; siccome si vede
in Diodoro istesso, il quale in questo libro scrisse Mosè avere sta-
bilito il regno degl'Ebrei, fondato Gerusalemme e costrutto quivi
il tempio, attribuendo a lui ciocché a' tempi posteriori dovea attri-
buirsi a Davide ed a Salomone. E la dottrina di Mosè fu tutt'altra
che di confondere Iehova coll'ampio universo e farlo una cosa
istessa, anzi di separare il creatore dall'universo, sua fattura, seb-
bene si voleva ch'egli empisse e regesse il tutto, siccome fu ezian-
dio il sentimento degli altri profeti, e specialmente d'Isaia, il quale
nel cap. 40,18 a ragione disse: «Cui ergo similem fecistis Deum?
aut quam imaginem ponetis ei?», ed al num. 22: «Qui sedet super
gyrum terrae», ed al cap. 66, i: «Haec dicit Dominus: "Coelum
sedes mea, terra autem scabellum pedum meorum. Quae est ista
i. al cap. 16 Geogr. : non capitolo, ma libro xvi: cfr. ed. cit., p. 761 (* che Dio
sia soltanto ciò che contiene noi tutti e la terra e il mare, ciò che chiamiamo
cielo e mondo e natura di tutte le cose, la cui immagine nessuno invero
sano di mente oserebbe rappresentare come simile ad alcuna delle cose che
ci stanno intorno. Per cui, rifiutando ogni ritratto o immagine, ritengono
che gli si debba innalzare un degno tempio e santuario, e lo si debba ve-
nerare senza alcuna immagine»). 2. E Diodoro . . . iudicaret: cfr. Fozio,
Bibliotheca, ccxliv (in Migne, P. G., cui, col. 1391, dove però la traduzione
non corrisponde a quella usata qui dal Giannone. «Ma non foggiò, degli
dei, ritratto o immagine di sorta, poiché riteneva che non ci fosse figura
umana atta a rappresentare Dio, ma che questo cielo che circonda da ogni
parte la terra fosse il solo Dio e avesse ogni cosa in sua potestà »).
604 IL TRIREGNO
domus, quam aedificabitis mihi?"»; e di Geremia, il qual pur
disse, cap. 23,24: «"Numquid non coelum et terram ego impleo?"
dicit Dominus ». Sicome ad altro proposito sarà da noi più ampia-
mente dimostrato.
Intanto, se la posterità di Noè che popolò la terra avesse voluto
serbar quella religione che gli fu tramandata da Sem, Cam ed
Iafet suoi figliuoli, non era altra che questa tutta schietta, tutta
pura e tutta semplice, niente operosa e che non avea bisogno né
di tempii, né di sacerdoti, né di altari. Ma in discorso di tempo,
essendo gli uomini per proprio istinto inclinati al male e portati
naturalmente alla superstizione ed a dar facile credenza a' sorpren-
denti e favolosi rapporti degl'indovini ed impostori, siccome con
verità disse Lucrezio, lib. 4, v. 598 r1 «Ut omne humanum genus
est avidum nimis auricularum»; quindi fu facile da questa schietta
e semplice religione passare all'idolatria ed a fingersi tanti dii e
semi dii. E cominciata la faccenda in Egitto, trapassata poi dagli
Egizi a* favolosi Greci, quindi si viddero nel mondo propagati tanti
dii, fingersene progenie e genealogie, e tanti altri portenti e chime-
re: gli Egizi in quali frenesie non diedero? sino a formar simulacri
di bestie ed attribuirle a Dio; talché Strabone, il quale credette
Mosè esser uno de* sacerdoti di Egitto, scrisse, lib. 16, che Mosè,
non potendo soffrire tanta sciempiaggine, facendosi capo d'un nu-
meroso popolo uscì fuor d'Egitto, cercando altra regione. «AfEr-
mabat enim» disse Strabone di Mosè «docebatque Aegyptios non
recte sentire, qui bestiarum ac pecorum imagines Deo tribuerent,
itemque Afros, et Graecos, qui diis hominum figuram afEngerent».3
Si vidde perciò i sagrifici, che prima erano tutti puri e semplici,
contaminati per tanti riti e superstizioni, ed infine profanarsi a
segno, che si arrivò sino a render olocausti ed ostie di vittime umane.
Sacrificarsi le mogli sopra i roghi de* loro mariti; i figli da' padri
ed i sudditi ne' funerali de' loro re, e tanti altri mali ed abomina-
zioni che la corrotta religione introdusse negli animi umani.
1. lib. 4, v. 59s- in edizioni moderne w. 593-4 («a tal punto l'intero genere
umano è avido di frottole»). 2. lAffirmabat enim . . . affingerent*'. è la
parte precedente il brano cui fa riferimento la nota 1 a p. 603. Cfr. ed. cit.,
p. 760 («Asseriva infatti ed insegnava che gli Egizi erravano nell'attribuire a
Dio figure di bruti e di animali, e parimenti gli Africani e i Greci nell*ap-
plicargli sembianze umane»).
DEL REGNO TERRENO • PARTE I • CAP. IV 605
II
Non si annoverava certamente fra i pochi articoli della religione
noetica quello dell'immortalità dell'anime umane;1 anzi i dettami
di Dio sopra la caducità dell'uomo, il quale, siccome di terra era
fatto, così dovea risolversi in polvere, e l'esperienza che ne avea
dato il diluvio,2 che uguagliò la morte degl'uomini con quella de'
bruti, « universi homines et cuncta in quibus spiraculum vitae est
in terra, mortua sunt»,3 dimostrò a tutti il contrario, sicché la
credenza d'essere mortali fu comune presso tutta la posterità di
Noè, e quanto più vassi indietro nelle età più vetuste, tanto maggio-
re troveremo in ciò conforme il sentimento di tutte le più antiche
nazioni, le quali sopra ciò non vi ebbero dubbio alcuno ; e non fu
che nei secoli posteriori che dalla celebrità delle pompe funebri
e dagli onori che rendevano gli Egizi a' defonti sorse l'opinione
di finger altra vita negl'uomini dopo morte, come si vedrà4 chiara-
mente più innanzi. La credenza antica delle più vetuste nazioni,
delle quali è a noi rimasa memoria tramandatagli da' posteri di
Noè, fu che colla morte tutto si finiva, mortale fosse la condizione
dell'uomo, siccome di tutti gl'altri animali ne' quali era lo spirito
delle vite.
Il regno d'Egitto per antichità e durata non vi è dubbio che
fosse il primo stabilito sopra la terra, e che avesse più ampi e
dilatati confini, più colto degli altri, e dove la mondana sapienza
ebbe suoi princìpi e natali donde l'altre nazioni la derivarono.5 Si
è veduto che l'imperio degl'Assiri fu posteriore, poiché a' tempi
che l'Egitto era già stabilito in ampio regno diviso in quattro dina-
stie, l'Assiria era divisa in piccioli e minuti regni, e non se a' tempi
di Nino e di Semiramide cominciò ad acquistare nome d'imperio.
Quindi a ragione gl'Egizi vantano maggior antichità, culto, civiltà,
i. Non si annoverava . . . umane: cfr. le opere già citate di Spencer e di
Toland. 2. Sul diluvio cfr. Dictionarium historicum, criticum, chronologi-
cum, geographicum et litterale Sacrae Scripturae . . . authore R. P. D. A.
Calmet ... e gallico in latinum translatum a J, D. Mansi, Venetiis 1734, 1,
p. 39. 3. ^universi . . . sunt»: Gen., 7, 21-2. 4. si vedrà Parente (p. 1 17);
succederà ven. 5. Il regno d'Egitto . . . derivarono: cfr. L. Ellies Du Pin,
Bibliothèque universelle des historiens ecc., Amsterdam 1708, pp. 13-8 e
246-56, riguardanti rispettivamente gli storici e la cronologia egizia.
Quest'opera, come il Giannone confesserà nell'autobiografìa (vedi qui
p. 204 e la nota 5 ivi), gli era stata molto utile per il Triregno.
6o6 IL TRIREGNO
e più sapienza nelle discipline e nelle arti; ed i Caldei forse potran-
no pregiarsi della sola astronomia, nella quale furono i primi ed i
più eccellenti. Or presso gl'antichi Egizi la credenza che si teneva
dell'anime umane fu che fossero mortali, e che ugual fosse in ciò
la condizione degl'uomini e degli animali, non altrimenti che ci
vien manifestata da questi primi capitoli del Genesi, e per ciò chia-
mavano alla rinfusa uomini e bruti «mortale genus». Quindi Ero-
doto, lib. 2, cap. 6,1 ci rapporta un antico costume de' più colti e
doviziosi Egizi, che usavano ne' loro conviti, i quali nel fine della
cena facevan portare intorno a' convitati un morto fatto di legno,
ma dipinto e lavorato in maniera che somigliasse ad un morto
dadovero; e colui che lo portava diceva cantando: «Bevete, ralle-
gratevi e datevi diletto, dopo la morte questo somigliarete ».
La dottrina che dapoi cominciò fra essi ad allignare per le
pompe de' funerali ed onori che rendevano a' loro defonti, venne
molto tardi, quando i loro sacerdoti, sopra il trasporto che si fa-
ceva con gran pompa e celebrità de' cadaveri all'altra sponda del
fiume, cominciarono a finger inferno ed a favoleggiare sopra Cerere
e Bacco, a cui diedero il principato di questo regno infernale; ma
secondo ch'Erodoto istesso ci rende testimonianza nel lib. 2, e. 9,*
in questi princìpi i sacerdoti istessi non credevano che in quest'in-
ferno andasse anima alcuna umana, siccome nemeno in cielo ; ma
furono i primi a fantasticare che l'anime fossero immortali, sulla
vana e pazza credenza che passassero da uno in l'altro corpo dopo
la morte del primo, aggiungendo altre pazzie, cioè che dovevano
trapassare per tutte tre le sorti corporee, terrestri, acquatili e vo-
latili; e dopo aver compito questo giro entravano di nuovo ne'
corpi degl'uomini nuovamente formati, e questa circuizione dice-
vano farsi in termine di 3000 anni.
Questa fu la prima e nuova dottrina degl'Egizi intorno all'immor-
talità dell'anime umane, la quale, per la naturai inclinazione degli
uomini alla novità ed al portentoso, fu da alcuni avidamente ab-
bracciata e trasportata ad altre più rozze ed incolte nazioni; e si
sa che Pitagora questa dottrina l'avesse appresa dagl'Egizi e tra-
1. lib. 2, cap. 61 cfr. ed. cit., f. 54: oc quando si fa convito a casa d'huomini
potenti, nella fine della cena portano intorno a* convitati un morto di legno
fatto, ma dipinto e lavorato in maniera che assomigli a un morto da dovero:
e colui che lo porta va cantando, e dice: Beveti, allegrativi e dativi diletto,
dopo la morte questo somigliarete». 2. nel lib. 2, e. 9: cfr. ed. cit., f. 65.
Tutto il brano giannoniano è ricalcato su quello di Erodoto.
DEL REGNO TERRENO • PARTE I • CAP. IV 607
sportata a' Greci siccome scrisse Diodoro, lib. i, pag. 88 :x «Et
quod Pythagoras . . . animarum in quodvis animai transmigra-
tionem ab Aegyptiis acceperit». Ed Erodoto, loc. cit.,3 non niega
che alcuni de' Greci l'usurparono come da sé questa invenzio-
ne che fu degli Egizi, i nomi de' quali ei soggiunge non voler
palesare; ma ben si comprende che voglia intendere di Pitago-
ra, celebre non meno sofista tra' filosofi che famoso impostore.
Costui eziandio narrasi che avesse portata questa nuova dottrina
ai Geti, fra tutti i Traciani valentissimi, i quali perciò si stimavano
immortali, perché credevano che le loro anime uscite dai corpi
andassero a Salmosin, ch'era un loro dio, chiamato d'alcuni di
loro anche con altro nome di Beleizim, al quale, siccome rapporta
Erodoto, lib. 4, cap. 6,3 brutalmente sacrificavano uomini vivi, e lo
collocavano sotto terra. Ed Erodoto stesso4 dice aver egli inteso
da* Greci in Ponto che questo Salmosin fu un vilissimo uomo e
grand'impostore, il quale visse servo di Pitagora nell'isola ài Samo,
e fatto poi franco e ad un tratto divenuto ricchissimo, ritornò in
Tracia sua patria, dove tra quelle rozze genti e bestiali prese in
breve grandissimo credito, come colui che lungamente tra' Greci
era conversato, e con Pitagora. Questi imposturava così quella rozza
gente, affermando che né esso, né alcuni di loro ch'erano con lui
morirebbero mai, ma che con seco, dopo la presente vita, godereb-
bero eterni beni; e facendosi sotterra un'abitazione vi stette tre
anni, credendolo i Traciani morto ed amaramente piangendolo. Al
quarto anno ritornò nel cospetto degl'uomini, e con questo fece
credibili quelle cose che detto avea. Soggiunge Erodoto che sebbene
i Greci così dicessero, egli però credea che molti anni avanti a Pi-
tagora fosse costui ed in tal guisa imposturasse i Traciani. Che che
ne sia, certamente che al mondo non mancarono mai impostori;
e da Pitagora ne uscirono valentissimi, poiché da costoro e dalla
di lui falsa dottrina fu corrotta la pura e semplice credenza di al-
cune antiche nazioni, e peggior male nelle seguenti età portarono
1. lib. i, pag. 88: della citata edizione Rhodomann. (1, 98, 2: a Pitagora ap-
prese dagli Egizi la trasmigrazione dell'anima in un quale che sia animale »).
2. loc. cit.: cfr. ed. cit., f. 65: «Alcuni de* Greci si hanno usurpata questa
inventione ... ». Si riferisce ^immortalità dell'anima. Il Giannone uti-
lizza Erodoto e Strabone come aveva già fatto il Toland nelle Letters to
Serena e nelle Ongines iudaicae. 3. lib. 4, cap. 6: cfr. ed. cit., f. 140. Il
Giannone dice Beleizim invece di Gebeleizim, ricavandolo dalla traduzione
del Boiardo. 4. Ed Erodoto stesso: ibid.
608 IL TRIREGNO
al mondo i suoi settari pittagorici, non inferiori a quei che poi si
portarono i platonici. Degl'Indi brachfmjani1 e di altri popoli rozzi
pur si narra che fossero stati contaminati di questa fantastica dot-
trina. Strabone, parlando nel lib. 152 di questi bracamani filosofi,
non potè negare che i medesimi, siccome in molte cose convenivano
co* Greci, così pure essi tessevano delle favole, come Platone, in-
torno aU'immortalità dell'anima, all'inferno e cose simili, dicendo:
«Texere etiam fabulas quasdam, quemadmodum Plato, de im-
mortalitate animae et de iudiciis quae apud inferos fiunt, et alia
huiusmodi non pauca». E Diodoro ci rende testimonianza al lib. 5,
pag. 306,3 che insino alcuni popoli della Gallia ne fossero stati
corrotti, dicendo: «Pythagorae enim apud illos opinio invaluit,
quod animae hominum immortales, in aliud ingressae corpus, de-
finito tempore denuo vitam capessant». E Strabone, lib. 4 Geogr.*
pur rapporta che nella Gallia i Druidi pur ebbero tal credenza, di-
cendo : « Cum hi, tum alii (intendendo de' bardi e de' vati) animam
interitus expertem statuunt et mundum; tamen aliquando ignem
et aquam superatura».
Ma tutte l'altre nazioni più vetuste, nelle quali non penetrò
questa contagione, mantennero l'antica e pura credenza de' loro
maggiori, e quindi in alcune leggiamo essersi introdotto costume
di piangere quando nasceva loro un fanciullo e far festa quando si
moriva, riputando la morte per ultimo porto e placido sonno e
quiete, che liberava l'uomo da tutti i mah e disaventure di questa
misera vita. Narra Erodoto, lib. 5, cap. i,s che i Trausi, popoli an-
cor essi della Traccia, aveano questo costume differente dagli altri
Tracciarli, che quando nasceva un fanciullo i parenti standogli at-
torno lo piangevano tutti quanti, e lamentandosi raccontavano tutte
le miserie che sarà necessario patire, essendo entrato nella sorte
dolente della vita umana. Ma qualunque di loro moriva, con suoni
e canti l'accompagnavano alla sepoltura, e con gran feste raccon-
1. brach[m]ani: qui ves ha «brachani»; due linee sotto ha a bracamani».
2. nel lib. 15: ed. cit., p. 713 (« Inventarono anche delle favole, come Pla-
tone, suu'irnmortalità dell'anima e sul giudizio che avviene negli Inferi, e
parecchie altre cose del genere i>). 3- al lib. 5, pag. 306 : della citata edizione
Rhodomann. (v, 28, 6 : « Invalse infatti presso di loro la credenza di Pitagora,
che l'anima immortale degli uomini, entrata in un altro corpo, prenda di
bel nuovo vita per un certo tempo »). 4. lib. 4 Geogr. : ed. cit., p. 197 (« Sia
questi, sia altri, si figurano immortali l'anima e il mondo ; tuttavia hanno
talvolta il sopravvento il fuoco e l'acqua»). 5. lib. 5, cap. 1: cfr. ed. cit.,
fi 163-4.
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. II 609
lavano di quanti mali e disavventure fosse per la morte liberato.
Quest'istesso costume narra Filostrato, rapportato da Boccarto in
Canaam, lib. i, cap. 34, z avere avuto i Gaditani, popoli antichis-
simi di Spagna, li quali < festis cantibus (ei dice) hominum mortem
celebranti). Ed Eliano,3 presso Eustazio, de' medesimi pur disse
che riputavano la morte <• communis quies et ultimus portus ».
PARTE 11
DELL'ORIGINE DEL MONDO E FORMAZIONE DELL'UOMO:
SUA NATURA E FINE, SECONDO IL SENTIMENTO
DE» PIÙ GRAVI E SERI FILOSOFI
CAP. II
In che gl'Egizi, i Fenici, i Greci ed altri filosofi facessero consiste-
re la natura dell'uomo, e come fossero di conforme sentimento con
Mosè che uno spirito animava l'universa carne sì degVuomini
come degli animali.
Diodoro Siciliano, nel primo libro della sua Biblioteca isterica,3
sebbene, come s'è veduto, in sentenza degl'Egizi e de' Greci istessi,
come d'Anassagora e d'Euripide, ci rappresenti una nova dottrina
intorno alla formazione del mondo e dell'uomo e delTorigini delle
cose diversa da quella che Mosè insegnò ai suoi Ebrei, specialmente
in ciò che riguarda il facitore dell'universo ; con tutto ciò, per quel
che s'appartiene alla natura di questo spirito vivificante, par che4
que' filosofi fossero stati conformi a' sentimenti di Mosè palesatici
nel lib. del Genesi.5 Mosè fece Iddio creatore del tutto. Gli Egizi
davano alla natura Tistesso potere ed efficacia che Mosè attribuisce
ad Iddio, facendo Iddio e la natura una cosa stessa, riputandola
perciò insieme coll'universo eterna e non creata. Ma rapporta che
questi istessi filosofi ammettevano anche essi nell'universo uno
1. in Canaam, lib. r, cap. 34: della Geograpkia sacra del Bochart è citata la
già menzionata edizione di Francoforte del 1674, Chanaan, De coloniis et
sermone Phoenicum, p. 675 («celebrano la morte degli uomini con canti di
festa »). 2. Claudio Eliano (170-235 d. C), sofista di Preneste. Il Giannone
cita traendo dal Bochart, loc. cit. : « Sic Aeliano teste apud Eustathium . . . ».
3. Bibliotheca historica, 1, 11, 12. 4. par che Parente (p. 271) ; perche ven.
5. palesatici . . . Genesi', cfr. Gerì., 1, 24: «Producat terra animare viventem
in genere suo ... ».
6lO IL TRIREGNO
spirito vivificante, il quale, secondo la qualità e la disposizione della
materia alla quale s'unisce, ha tanta forza e vigore di dargli vita,
moto e senso, sicché possa produrre e piante ed animali e uomini
istessi: in brieve che l'universa carne possa sorgere «in animam
viventem». Disse perciò al cap. 2 del primo libro1 che gl'Egizi la
generazione di tutto ciò che si vede nell'universa natura principal-
mente l'attribuivano al sole ed alla luna, da' quali sublimissimi
corpi, ch'essi aveano per dii, ne derivava tutto ciò ch'essi ripu-
tavano essere principalmente necessario alla generazione, siccome
all'altre parti onde si compone il mondo, le quali somministravano
la materia, l'umido ed il gravoso; onde dai primi ne derivavano
questo spirito ch'essi chiamavano Giove ed il fuoco che dissero
Vulcano, poiché il caldo molto conferisce alla perfezione della ge-
nerazione; e dai secondi il secco, intendendo della terra, che, come
vaso ove tutto si fa e si riceve, prese il nome di madre, detta ancora
la dea Cibelle; l'umido, intendendo dell'acqua, onde l'Oceano lo
riputavano anche padre delle cose e perciò anche dio, e l'aria chia-
mata anche la dea Pallade e figlia di Giove. Chiamavano questo
spirito Giove, ch'era Dio maggiore ed il primo fra tutti i dei,
poiché questo è il principio e la cagione onde tutte le cose animate
ricevono moto, vita e senso: « Sicut spiritus Iuppiter » dice Diodoro
«si interpreteris, nominetur; quod vis animalis in viventibus ab eo
tanquam auctore proficiscatur; ideoque omnium quasi parens exi-
stimetur; clarissimo quoque inter Graecos poetarum suffragante
ubi de hoc deo loquitur: Parens hominumque deumque».2
Sanconiatone di Berito, di cui fa memoria Filone Biblio allegato
da Eusebio, lib. 1 Praepar. evangeli cap. io,3 rapportando la teo-
logia dei Fenici, della quale ne fa maestro ed autore Taauto, che
eziandio da alcuni si vuole che fosse lo stesso che Mosè, siccome i
Greci lo dicono Mercurio, dice che costui fece pure la medesima
ipotesi della formazione del mondo, cioè che nel caos vagava questo
spirito che fecondò l'universo: «Principium huius universitatis po-
1. Disse perciò . . . libro: Diodoro, op. cit., 1, 11, 4 sgg. Ed. Rhodomaim cit.,
p. 11. 2. « Sicut spiritus — deumque»: op. cit., 1, 12, 2. Ed. Rhodomann
cit., p. 11 («Giove, se si interpreta, è denominato spirito, in quanto la forza
animante nei viventi procede da lui quale autore, e perciò è considerato
come il padre di tutti, del che dà conferma anche il più grande poeta greco
quando parla di questo dio: "Padre degli uomini e degli dei" »). 3. Prae-
parationis evangelicae libri quindectm, in Migne, P. G., xxi, col. 87.
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. II 6ll
nit aérem tenebrosum ac spiritu fetum, seu mavis tenebrosi aéris
flatum ac spiritum, caosque turbidum altaque caligine circumfusum
etc. Is quidem rerum omnium procreatdonis principium fuit».1
I Fenici non può dubitarsi che portarono ai Greci, non meno che
gl'Egizi, le prime nozioni di filosofia e delle lettere; e Boccardo2
fa vedere che Omero molte cose dai Fenici apprese e trasportò ne'
suoi poemi, dai quali Virgilio fu mosso nell'Eneide di valersi di
questa istessa dottrina, e per farla apparire antichissima, qual'era
in verità, fa che il padre Anchise l'esponga ad Enea suo figliuolo,
dicendogli al lib. 6:3
Principio coelum ac terras camposque liquentes
lucentemgue globum lunae titaniaque astra
spiritus intus alit, totamque infusa per artus
mens agitai molem et magno se corpore miscet.
Inde hominum pecudumque genus vitaeque volantum
et quae marmoreo feri monstra sub aequore pontus.
I Greci che, come si è detto, dagli Egizi e dai Fenici presero i
semi della filosofia, ammisero ancora essi questo spirito per prin-
cipio, onde tutte le cose animate ricevono senso e vita; ed Anassa-
gora, che sopra Talete, Anassimandro, Anassimene4 e tutti gli altri
suoi predecessori spinse le ricerche e le conoscenze: e Pericle,
Archelao5 ed Euripide suoi discepoli, che empirono la Grecia di
filosofi, non ne dubitarono punto.
Eusebio istesso, lib. io Praeparat Evangéli cap. 14, rapportan-
doci la successione dei filosofi greci, dice che Anassagora, maestro
di Euripide, ade principiis distincte primus et enucleate disputa-
1. e Principium kuins . . .futi»', questo brano manca nel manoscritto napo-
letano utilizzato dal Parente (p. 272). Si tratta di Eusebio di Cesarea,
op. cit., 1, x, col. 75 (« Come principio di questo universo pone un aere tene-
broso e pieno di spirito, o meglio un soffio e uno spirito di aria tenebrosa,
e un caos torbido e circondato da profonda caligine. Questo invero fu il
principio della creazione di tutte le cose »). 2. Boccardo : S. Bochart,
Geographia sacra, ed. cit. di Francoforte 1674, Chanaan, lib. i, cap. xxxiii,
p. 642. 3. al lib. 6: w. 724-9 («Al principio un alito vitale nutre dal di
dentro il cielo e la terra e le distese marine e il risplendente globo della
luna e il sole, e un'anima diffusa nelle giunture muove il tutto e si mischia
alla gran massa. Di qui la stirpe degli uomini e quella degli animali e la vita
degli uccelli, e i mostri che il mare porta sotto lo specchio dell'acqua»).
4. 1 nomi sono stati copiati male dal copista di yen: Orassimandro, scritto
più sotto Orissamandro e Orassimene, più sotto Orissamene. 5. Pericle,
Archelao : in ven scritti erroneamente «Peride» e « Archealo».
6lS IL TRIREGNO
vit; neque enim de universi tantum natura uri priores illi (cioè
Talete Milesio, il quale «princeps inter Graecos de rebus naturali-
bus philosophari coepit », Anassimandro suo discepolo, ed Anassi-
mene maestro, ed Anassagora), sed etiam de ipso motus eius auc-
tore philosophatus est. "Cum enim res omnes, inquit, confusae
simul permixtaeque ab initio forent, mens penitus eas permeans,
ab illa perturbatione in ordinem elegantiamque \óndicavit" w.1 E
così appunto Giuseppe Ebreo, lib. i, cap. i Antiq. iud., in sen-
tenza di Mosè, aveva pur detto di questo spirito, che3 la vulgata
Scrittura, che « ferebatur super aquas »,3 e spiritu superne permean-
te ».4 Ma nello spiegare la natura di questo spirito che negli uomini
potè produrre tanto discorso ed accorgimento, così i riferiti filosofi
come i di loro successori Pitagora, Democrito, Platone, Aristotile,
Epicuro5 e tanti altri, furono fra di loro molto vari e discordi.
Né minore fu la discrepanza tra i nostri più moderni filosofi, come
vedremo più innanzi, dopo aver riferito le opinioni degli antichi.
Aristotile nel lib. 2 De generai, anìm., cap. 3, attribuisce a questo
spirito diffuso ne' semi di tutte le cose natura celeste, simile alla
natura delle stelle. «Inest in semine omnium» ei dice «quod facit
ut foecunda sint semina, videlicet quod calor vocatur, idque non
ignis, non talis facultas aliqua est, sed spiritus qui in semine spu-
mosoque corpore continetur, et natura (idest anima) quae in eo
spiritu est, proportione respondens elemento stellarum».6 Aristo-
tile adunque non si contenta solo di questo spirito, ma vuole che
in esso vi sia qualche altra cosa di più che chiama natura, cioè ani-
ma, perché qualunque spirito per se stesso, per proprio vigore ed
efficacia, non potrebbe ordinare e disporre le figure, i numeri, il
sito, la grandezza e picciolezza e quanto bisogna per fare sorgere
1. 1 Greci . . . vindicavit: in Migne, cit., col. 839 («per primo esaminò con
chiarezza e precisione l'origine delle cose; infatti non filosofò soltanto sulla
natura dell'universo, come quei primi, ma anche sullo stesso autore di quel
moto. "Essendo infatti, egli dice, tutte le cose all'inizio frammischiate e
confuse assieme, una mente, penetrandole profondamente, le trasse da
quella confusione disponendole in un ordine preciso" »). 2. che: sarà forse
stato « l'istesso che ». Parente (p. 273) « come ». 3 . * ferebatur super aquas » :
Gen.y 1, 2. 4. «spiritu superne permeante»: Flavio Giuseppe, loc. cit.
(«pervadendole un soffio dall'alto»). 5. Epicuro: letto da ven «Epiccero».
6. « Inest . . . stellarum »: «È diffuso nel seme di tutte le cose, il che rende i
semi fecondi, ed ovviamente è chiamato calore. E questo non è il fuoco,
non una tal quale facoltà, ma uno spirito racchiuso nel seme e nella massa
spumosa, e la natura (cioè l'anima) che c'è in questo spirito è paragonabile
all'elemento delle stelle».
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. II 613
un corpo «in animam viventem», se non abbia un altro principio
attivo per cui si produchino tutti questi effetti, e che gli sommini-
stri tutta questa "virtù ed efficacia: quindi egli nell'addotto luogo
distingue questo spirito o sia calore del seme dalla natura nella quale
dice essere questa virtù architettonica, in guisa che la natura ch'è
in questo spirito somministra al medesimo tutta quella virtù ed
efficacia, dicendo: «Virtutem architectonicam esse naturam quae
in spiritu seminis est».1
Ippocrate nel lib. De aliment? riconosce ancora nello spirito del
seme questa natura, la quale perciò disse aillam eruditam esse»,
perché somministra a questa spiritosa parte del seme la virtù ed
efficacia di disporre e formare il corpo organico, sicché possa sor-
gere «in animam viventem»: con tutto ciò Galeno questa virtù o
forza architetonica la chiama ora «nativum calorem», ora «insitum
temperamentum», sovente «spiritum», che, nel lib. De trem. et
rigore, dice essere «substantiam per se et mobilem».3
Quindi fu data occasione ai successori filosofi e medici, non al-
trimenti che fecero i loro maestri, di darci nuove spiegazioni sopra
ciò. Le quali finalmente non si riducano che a vane parole e nuovi
vocaboli che niente significano, tanto è lontano che spiegano la
natura di questo spirito. Deisingio,4 lib. z Degener.foet., definisce
questo spirito non essere altro che « substantia quaedam immate-
rialis e materia emergens de summo Deo, sic ad materiam deter-
minata ut sine ea nec esse, nec subsistere, nec operari queat».
Altri con Avicenna chiamarono la virtù architetonica racchiusa
in questo spirito «intelligentiam». Alcuni altri con Averroe e Scoto
«vini coelestem» ovvero «divinam virtutem». Giacomo Schegkio,5
1. « Virtutem . . . est »: «La natura infusa nello spirito del seme è una virtù
architettonica ». 2. Ippocrate . . . alimenta : cfr. Opera quae extant, Ve-
netiis 1588, I, De alimento, pp. 353-7. 3. Galeno . . . mobilem: cfr. De
tremore, palpitatione, convulsione et rigore, cap. v. 4. Deisingio: Anton
Deusing (1612-1666), medico tedesco, studiò a Leida ed ebbe la cattedra
a Groninga. Su di lui cfr. J. Roger, Les sciences de la vie dans la pensée
franpaise du XVIII siècle, Paris 1963, passim, ma soprattutto pp. 71-2. Di
lui Giannone cita qui la Genesis microcosmi, seu De generatione foetus in
utero dissertatio . . ., Amstelodami 1665, pars li, sectio 1, De efficiente causa
conformationis, p. 71 (a una sostanza immateriale che emerge dalla ma-
teria provenendo dal sommo Dio, così determinata dalla materia che
senza di questa non può né esistere, né sussistere, né operare»). 5. Già-
corno Schegkio: Jacob Degen (Schegk), filosofo e medico tedesco (15 11-
*587), professore a Tubinga e commentatore di Aristotele. L/opera qui
ricordata è il De plastica seminis facultate libri tres, Argentorati 1580,
614 IL TRIREGNO
lib. i De plast sem. fac, mostra di dirci qualche cosa di più, ma
in realtà niente c'insegna di nuovo, dicendo che per questo spirito,
o forza «plastica», non deve intendersi altro che fcformam substan-
tialem, quae nullo sensu, sed dumtaxat mente et ratione percipi-
rur».1
Li platonici dissero essere « animam generalem per totum mun-
dum diffusam», la quale, per la diversità delle materie e dei semi,
produce diverse generazioni; nulla di meno il gran platonico Plo-
tino, lib. Ennead. 3,2 questa virtù architettonica la distingue dalla
platonica « anima del mondo », siccome il prodotto dal producente,
chiamando quella virtù «natura che dall'anima del mondo» deriva
ad essere atto essenziale di quella e vita da lei dipendente. Temistio,
Cotn. De anima et 12 metaphisic? dice questa virtù architettonica
essere formatrice, essere « animam in semine potentia animato in-
clusam». E Deusingio, lib. De ortu animae,4' chiama quella ch'è
nel seme «naturam», cioè, com'egli stesso insegna e spiega: «ani-
ma la citazione che segue deriva dall'opera di Daniel Sennert Institu-
tionum medicmae libri V, Parisiis 1631, lib. I, De nutritùme, p. 76, ed è un
giudizio riassuntivo dello stesso Sennert, dal quale il Giannone trae il ma-
teriale per questo capitolo. Daniel Sennert (1572-1637), medico tedesco,
studiò medicina a Wittemberg e a Lipsia. Nel 1601 ebbe la prima cattedra
di chimica a Wittemberg. Sostenne la tesi dell'immortalità dell'anima delle
bestie e fu accusato di empietà. Cfr. P. Bayle, Dtctionnaire historique et
critique, Rotterdam 1720, ni, pp. 2567-71, dove si afferma che il Sennert
credeva che il seme degli esseri viventi fosse dotato di anima. Cfr. ancora
F. A. Lange, Storia del materialismo > Milano 1932, 1, p. 324, che considera
il Sennert un timido esponente del pensiero materialistico tedesco del
XVII secolo. Sul Sennert cfr. ancora J. Roger, Les sciences de la vie ecc.,
cit., pp. 106-11, che dà un'interpretazione «spiritualista» del suo pensiero,
e T. Gregory, Studi sulV atomismo del Seicento'. 11, Daniel van Goorle e
Daniel Sennert^ in a Giornale critico della filosofia italiana», anno xlv
(1966), fase. 1, pp. 44-63. 1. sformavi . . . percipitur*'. «una forma sostan-
ziale che non viene percepita da alcun senso, ma al più dalla mente e dalla
ragione ». 2. Enneadis tertiae liber IV, De proprio cuiusgue daemone. Cfr.
soprattutto il paragrafo IV, Natura vegetalis sempiterna est. Anima mundi
sine attentione regit corpus et sentii. 3. Temistio . . . metaphisic: Temistio
(317 circa d. C. - 388 circa) conquistò un posto tra gli esegeti di Aristotele
con le sue a parafrasi», tra l'altro al De anima e alla Metaphysica qui men-
zionate. Come afferma il Roger, op. cit., p. 97, era stato Giulio Cesare
Scaligero a risuscitare nel 1557 la tesi di Temistio sull'anima per evitare il
materialismo vitalista implicito nei trattati biologici aristotelici. (« Un'anima
racchiusa nel seme animato in potenza »). 4. Deusingio . . . animae : A. Deu-
singii Oeconomus corporis animalis: oc speciatim De ortu animae humanae
dissertatio . . ., Groningae 1661, p. 64: la citazione che segue sembra a me-
moria e composita (« un'anima sussistente in potenza nel seme, e principio
e causa per sé esistente del moto»; «anima esistente in atto»).
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. II 615
mam potentia in semine subsistentem, ac prindpium et causam
motus per se existentem»; ma nel corpo già formato la chiama
' animam actu existentem»: e così senza necessità alcuna una cosa
istessa la distingue in due, ponendogli due nomi distinti secondo
ch'è o in quiete o in moto, o secondo la diversità del soggetto, o da
formarsi ovvero già formato. Quando una sol cosa è che nel seme
sin da principio può formare il corpo organico e che in atto lo
forma e così da poi continuando rimane forma e vita. Mostra Deu-
singio aver tirata questa sua sentenza dagli istituti1 dei platonici,
i quali distinguono tra «animam» ed «esse animam», cioè «inter
animae substantiam», la quale sotto il nome di natura è nascosta
nel seme, « et animam quae iam actu agit »3 e che rimane poi ferma
dal corpo organico a cui dà moto, senso e vita. Fernelio,3 lib. 4 Phi-
siol., cap. 2, chiama questo «spirito» forza «plastica», non inten-
dendo per ciò di quel commune spirito che i medici fanno sorgere
dagl'umori e dalle viscere per la concozione e preparazione, ma
d'un altro assai più nobile e di maggior vigore: «Est igitur spiritus
corpus» e' dice «aethereum, caloris facultatumque sedes et vin-
culum primumque obeundae functionis instrumentum»:4 e nel lib.
I De abdit., cap. io,5 crede essere una virtù che dal cielo s'influisce,
poiché ei dice: « Coelum nullo semine multos profert tum animan-
tes tum stirpes, at semen nihil quidpiam sine coelo generat. Se-
1. istituti Parente (p. 276); istuti ven. 2. Mostra Deusingio . . . agit: cfr.
Oeconomus ecc., cìt., pp. 80-1. 3. Fernelio: Parente (p. 276) ha «Temi-
stio », che è errore di M. C. de Samnitìbus, il copista napoletano. Si tratta
di Jean Fernel (1497-1558), medico francese, seguace di Ippocrate e cele-
bre avversario della scolastica. Cfr. J. Roger, Les sciences de la vie ecc., cit.,
passim, ma soprattutto pp. 326-8. L'opera qui citata è la Universa medici-
na... Pars prima continens Physiologiae libros VII, Francofuxti 1 574, lib. rv, De
spiritibus et innato calido, cap. 11, Spiritum quendam cunctis datum viventùrus,
qui vitae color em continet, p. 1 3 1 . 4. « Est igitur spiritus . . . instrumentum » :
op. cit., p. 135 («Lo spirito è dunque un corpo etereo, sede e carcere del
calore e delle sostanze, e strumento primo per compiere la funzione»).
5. lib. 1 De abdit.y cap. io: op. cit., De abditis rerum causis Ubri duoy lib. 1,
cap. x, Re ornnes caducas et mortales divinitus olim conditas fuisse; eas mine
codesti virtute et gìgni et gubernari, quae eadem piane est divina, pp. 95 sgg.
La frase citata è a p. 97 : « Quocirca coelum nullo semine multa profert ... ».
II resto coincide. La differenza si spiega perché il Giannone cita indiretta-
mente dal Sennert, Institutionum medicinae ecc., cit., hb. 1, cap. x, p. 76 («Il
cielo crea senza alcun seme in gran numero sia viventi sia stirpi; il seme al
contrario non genera alcunché senza il cielo, limitandosi a preparare e a
disporre acconciamente e convenientemente la materia alle cose per gene-
rare. Il cielo infonde la somma perfezione nella forma preparata e suscita
la vita in ogni cosa»).
6l6 IL TRIREGNO
men gignendi rebus materiam concinne duntaxat et convenienter
apparat et instruit. Coelum in apparatam illam speciem surnrnam-
que perfectionem immittit vitamque suscitat in omnibus». Sog-
giungendo poco da poi: «Animantium, stirpium, lapidum et me-
tallorum omnium quaecunque et fuerunt et esse possunt formas,
una coeli forma potestate comprehendit, et innumerabilibus illa
quasi gravida formis, omnia gignit et fundit ex sese».1 In brieve
tutti concordano ne* semi essere questo spirito in cui è quella effi-
cacia chiamata da alcuni anima, da altri natura e da alcuni intelli-
genza o virtù divina o celeste o architettonica, ovvero formatrice o
plastica; e Virgilio, lib. 6 Eneid.? non ne dubitò punto dicendo:
Igneus est ollis vigor et coelestis origo
seminibus . . .
Ma non sono concordi in spiegare la natura e l'essenza i più mo-
derni, come Giuseppe Scaligero,3 Subiti, exercii., cap. 5 usque ad
11, Ludovico Mercati,4 tom. 1, lib. 1, qu. 9, 8, ed altri tutti difen-
dono acremente ne' semi essere quest'anima, le di loro orme cal-
cando il Gassendo, tom. 2, Phis. Sect. 3, membr.post., lib. 3, cap. 3,s
e Daniele Sennerto: ebbe costui molta ragione di dire, Insiti. med.,
lib. 1, cap. io,6 che andavano di gran lunga errati coloro i quali
1. a Animantium . . . se$e*i J. Feknel, op. cit., p. 98 («Da sola la forma del
cielo, quasi gravida di innumerevoli forme, comprende nel suo potere le
forme degli esseri animati, delle stirpi, delle pietre, dei metalli, quante
furono e possono esserci, ogni cosa da sé generando e sprigionando»).
2. lib. 6 Eneid. : w. 730-1 («Vi è in quei semi un ardente vigore e un'origine
celeste»). 3. Giuseppe Scaligero: naturalmente si tratta di Giulio Cesare
Scaligero (1484-1558), il celebre medico e umanista, di cui son citati gli
Exotericarum exercitationum libri XV. De subiditate ad Hieronymum Carda-
num9 Francofurti 1592, lib. vi, capp. v-xi. Il Parente (p. 277) corregge
senza avvertire. 4. Ludovico Mercati: Luis Mercado (1520- 1606), celebre
medico spagnolo, autore di numerose opere più volte riunite in edizioni
complete. Cfr. gli Opera omnia, Venetiis 1609, tomo 1, lib. 1, pars. rv.
5. Gassendo . . . cap. 3: Pierre Gassendi (cfr. la nota 2 a p. 33), Opera omnia
in sex tomos divisa, curante Nicolao Averanio, Florentiae 1727, tom. n,
quo continentur Syntagmatis Philosophici partis secundae, seu Physicae sectio-
nis tertiae membra duo, Sectio III, Membrum posterius, lib. in, De anima,
cap. ni, pp. 217-21. Il Gassendi in questo terzo libro affronta il problema
di che cosa sia l'anima, esaminando la tesi di quelli che la credettero incor-
porea (pp. 206-12), di coloro che la considerarono corporea (pp. 212-6), che
cosa sia l'anima dei bruti e quella umana (pp. 216-25). 6. Institutionum
medicinae ecc., cit., lib. I, De nutritione, cap. x, De generatione, pp. 71 sgg.
La citazione è a p. 77 (« Giacché, essendo da tutti ammesso che nel seme vi è
una potenza atta a dar forma, va anche ammesso che in quello vi è un'anima.
Non essendo infatti le facoltà separabili dall'anima, di cui appunto sono fa-
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. II 617
credevano nel seme non essere anima, poiché non si può negare
l'anima essere la causa della formazione del feto e della sua vivi-
ficazione. « Etenim » e* dice « cum vim formatricem in semine esse
ab omnibus concedatur, animam etiam in eo esse concedendum
est. Nam cum potentiae non sint separabiles ab anima, cuius sunt
potentiae, impossibile est potentiam aliquam alicui propriam esse
in subiecto, in quo non est forma a qua fluit potentda. Et cum ex
operationibus ad latentis essentiae notitiam perveniamus, quid cau-
sae est cur semini animam non tribuamus quae suis in eo operatio-
nibus satis se prodit? Sunt autem illae duae: seminis et conceptus
vivifìcatio et partium omnium, quae ad vitae actiones edendas ne-
cessariae sunt, efformatio. Quodvis enim semen, ut in plantis mani-
festum est, vegetante anima conservatur et aliquandiu prolificum
permanet, et quandiu integrum et incorruptum est in loco idoneo,
et praesente alimento, ut vivens operatur et exercet suas actiones
in eam, quae praesto est, materiam, non secus ut ipsum vivens
integrum omnibus partibus; quod non solum in animalibus in
actione et partium nonnullarum regeneratione, sed praecipue in
plantis videre est. Nam eaedem operatdones in semine et in pianta
omnibus numeris integra conspiciuntur: quae propterea idem in
colta, è impossibile che in un soggetto, in cui non vi è la forma da cui fluisce
la facoltà, vi sia una facoltà propria ad alcunché. E se dalle operazioni rice-
viamo la nozione di una essenza nascosta, che motivo c'è per non attribuire
al seme un'anima che con le proprie operazioni si palesa in quello a suf-
ficienza? E queste sono due: la vivificazione del seme e del feto e la for-
mazione di tutte le parti necessarie a produrre le azioni della vita. Infatti
qualsivoglia seme, come è manifesto nelle piante, si conserva in vita e si
mantiene prolifico per un lungo periodo a motivo di un'anima vivificante,
e finché è integro e incorrotto in luogo idoneo ed ha pronto l'alimento, opera
come un essere vivente ed esercita la sua attività sulla materia che ha a
propria disposizione, non altrimenti che lo stesso vivente integro in tutte le
sue parti. Il che è possibile vedere non solo negli esseri animati, nel loro
dar moto a diverse parti e nel rigenerarle, ma particolarmente nelle piante.
Nel seme infatti e nella pianta integra in tutte le sue funzioni si riscontrano
le stesse operazioni; che perciò rivelano nell'uno e nell'altra lo stesso prin-
cipio e movente. Poiché si tratta assolutamente della stessa operazione quan-
do l'anima nascosta nel seme forma, dalla materia a sé tratta, l'insieme della
pianta, e quando poi rinnovella di anno in anno le foglie cadute e i fiori,
mette nuovi germogli, rami e radici; ed è perciò, questa operazione, indizio
di una affatto stessa facoltà e di una stessa anima. E si deve ammettere che
lo stesso avviene, non solo nelle piante, ma anche nei semi degli esseri ani-
mati perfetti. Poiché, se è vero che dal sangue non si fa la carne se la carne
stessa animata non muta il sangue in carne, ancor meno potrà dal sangue
farsi un essere animato qualora il seme sia privo di anima »).
6l8 IL TRIREGNO
utroque principium et movens indicant. Eadem enim est omnino
operatio, quum anima in semine latens ex attracta materia corpus
plantae fabricat, et cum eadem postea singulis annis amissa folia
et flores instaurat, novos surculos, ramos, radices protrudit; et
propterea eiusdem omrino facuìtatis eiusdemque animae indicium
est. Neque hoc solum in plantis, sed in animantium perfectorum
seminibus idem fieri concedendum est. Xam, si non fit ex sanguine
caro, nisi caro ipsa animata sanguinem in carnem mutet, multo
minus fiet ex sanguine animai, si semen anima careat». Soggiun-
gendo poco da poi: r Xam animatum corpus cum sit praestantius
et perfectius, sequitur non animatum non esse principalem animati
corporis causam, sed animatum ab animato, ut principali causa,
produci .* E non vi è dubbio gli argomenti di Sennerto essere
vigorosi e convincenti per prova evidente ne* semi essere questo
spirito vivificante, o sia anima.
Siccome bisogna eziandio confessare che i medici più moderni,
avendo in questi ultimi tempi ad una soda filosofia accoppiata una
esatta notomia, ridotta da essi quasi nell'ultimo punto di perfe-
zione, hanno sopra di ciò non pur stese le investigazioni e le ri-
cerche, ma con buon successo è sovente lor riuscito stendere anche
le cognizioni; ed alcuni si sono ingegnati spiegare fino le maniere
come dal solo vigore ed efficacia di questo spirito vivificante, unito
a* corpi organici, possano sorgere3 non pur gli animali e le piante,
ma gli uomini istessi, senza esserci bisogno di ricorrere ad altre so-
gnate idee di sostanze cogitanti, immateriali ed incorporee, che le
riputano non senza ragione vere imposture di infelici ed astratti fi-
losofi. I medici inglesi negli ultimi nostri tempi vi si applicarono con
fervore e non senza successo: in fra gli altri Covardo,3 medico di Lon-
i. zXam . . . produci r: op. cit., p. 78 («Infatti, poiché il corpo animato è
più eccellente e più perfetto, ne consegue che il non animato non può
essere la causa primaria del corpo animato, ma che è animato dall'animato
come da causa primaria *>). 2. possano sorgere Parente (p. 278); posso
scorgere ven. 3. Covardo: il Parente (p. 278), seguendo il codice napo-
letano, scrive « Cudworth ^. Ma Ralph Cudworth (16 17- 1688), autore di
The Trite Intellectual System ofike TJnivers, London 1678, non era un me-
dico, ma professore di lingua ebraica a Cambridge. Inoltre il codice na-
poletano e quello veneziano recano la data del « 1704 » come anno di queste
polemiche. La data e 1674* di Parente (ivi) appare quindi come una sua
arbitraria correzione, nel tentativo di mettere in relazione queste polemiche
con la vita del Cudworth. ven reca Covardo, che il copista napoletano,
dotato di una certa cultura, ha corretto in « Cudworth ». In realtà il brano
del Giannone ricalca, come una traduzione fedele, Salomon Deyling,
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. II 619
dra, fu sì ardito che, nel 1704, essendosi esposto a pubblico cimento
sostenne1 uno essere il principio naturale e fisico nell'uomo che
lo fa muovere, vivere, sentire e ragionare, e che fu una solenne
impostura filosofica la giunta di una nuova sostanza che ci venga
di fuori come raggio di sole, che non può affatto concepirsi; ed
oltrecciò, ne diede fuori alle stampe una difesa col titolo Vindica-
tiones rationis et religionis cantra imposturas philosophiae.2 Giovanni
Tolando pur lo stesso sostenne nella seconda epistola ad Severum3
onde in Inghilterra venne questa materia a disputarsi acremente
Observationum sacrarum pars secunda, Lipsiae 1737, terza edizione, observ.
11, p. 31, dove si analizza il passo della Genesi, 2, 7, sullo spirito delle vite,
e si parla del Coward. William Coward (1657-1725), medico e fisico inglese,
aveva studiato a Oxford. Nel 1702 aveva pubblicato, con lo pseudonimo
di Estibius Psychai^thes, Second Thoughts Concerning Human Soul,
London, in cui si afferma che la tesi dell'immortalità dell'anima è contraria
al cristianesimo. Gli scrisse contro John Turner, autore di A Brief Vindica-
tion of the Separate Existence and Immortality of the Soul . . ., London 1702,
e di A Farther Vindication . . ., London 1703. Il Coward rispose con un
altro lavoro: The Grand Essay: or a Vindication of Reason and Religion,
Against Impostures ofPhilosophy, [London] 1704, che polemizza anche con-
tro John Broughton, autore di un'opera intitolata Psychologia . . ., London
1703. Il Coward scrisse successivamente The Just Scrutiny: or a Serious
Enquiry Into the Modem Notions of the Soul (1705 ?), attaccando Cartesio e
la tesi che l'anima sia nella ghiandola pineale e riallacciandosi alle obiezioni
già mosse da Spinoza a questa tesi neWEthica. Cfr. R. L- Colie, Spinoza
and the Early English Deisis, in «Journal of the History of Ideas >\ January,
1959, voi. xx, n. 1, pp. 23-46. Cfr. J. S. Spink, French Free-Thought from
Gassendi to Voltaire, London i960, pp. 219-22, che colloca fra l'altro le
opinioni del Coward nel loro contesto europeo, segnalando inoltre le recen-
sioni che queste opere ebbero sul a Journal des Savants» e sulle «Nouvelles
de la république des lettres ». Cfr. inoltre la recente riedizione del classico
lavoro di L. Stephen, History of English Thought in the Eighteenth Century,
London 1962, 1, p. 177. 1. esposto a pubblico cimento sostenne Parente
(p. 278) ; ven essendosi a pubblico cimento sostenuto. 2. Vindicationes . . .
philosophiae'. è la traduzione latina del titolo dell'opera del Coward che
abbiamo poco sopra citato, opera peraltro mai tradotta in latino ; Giannone
la trae da S. Deyung, op. e loc. cit., p. 34. 3. seconda epistola ad Severum :
corruzione del copista veneziano; anche nel codice napoletano. Si tratta na-
turalmente della celebre opera del Toland Letters to Serena, London 1704,
che il Giannone non poteva però conoscere in questa edizione inglese.»
Furono tradotte in francese solo nel 1768 dal barone d'Holbach, con il titolo
di Lettres philosophiques* Cfr. V. W. Topazio, D'Holbach's Moral PhUo-
sopky, its Background and Development, Genève 1956, pp, 39-41. La cita-
zione deriva dal Deyling, op. e loc. cit., p. 34. In realtà a Vienna, per me-
rito del principe Eugenio e del barone di Hohendorf, vi era una nutrita
collezione di opere deistiche e soprattutto del Toland, fra cui una tradu-
zione manoscritta francese, in due copie, delle prime due lettere fatta dallo
stesso Toland per il principe Eugenio e il barone di Hohendorf. Su tutto
ciò cfr. il mio V esperienza civile e religiosa ecc., cit., capitolo vi, pp. 395-423.
Ó20 IL TRIREGNO
fra' diversi e contrari partiti. Fu primieramente sopra di ciò com-
battuto tra Giovanni Lockio e Stillingfleto;1 indi fu rinovata la
disputa da Dodivelo,z il quale puie acremente sostenne l'anima
negli uomini essere un principio naturale, fisico e corporeo, contro
il quale sorsero, impugnandolo, Samuele Clarchio,3 Tomaso fil-
lio,4 Giovanni Turpero5 ed Emondo Chishullo;6 passarono da poi
le dispute da Londra in Amsterdam, dove dallo Hoschio,7 discepolo
i. Fu primieramente . . . StìlUnjfleto: cfr. S. Deyling, op. e loc. cit., p. 34.
Edward Stillingfleet (1635-1699), vescovo anglicano di Worcester, scrisse
contro il Saggio sull'intelletto umano di Locke. La polemica tra i due si svolse
con le seguenti opere : The Bishop of Worcester's Anszcer to Mr. Locke Letter,
London 1697; Anszier to Mr. Locke Second Letter, London 1698, e Mr.
Locke' s Reply to the Bishop of Worcester3 s Anszcer, London 1699.
2. Dodhelo : ven ha Rodivelo >. Si tratta evidentemente di Dodwell : Henry
Dodwell (1 641 -17 11), professore di storia ad Oxford, autore delle Disser-
taliones cypnamcae, Oxoniae 1684. L'opera che riguarda questa polemica
è An Epistolary Discourse Frorcing from the Scriptures and the First Fathers
that tìie Soul is a Frinciple Xaturally Mortai; but Immortalized Actually
by the Fleasure of God, London 1706, opera che sosteneva una tesi così estre-
mistica, da provocare contro il Dodwell anche la polemica dei deisti modera-
ti. 3. Clarchio: Samuel Clarke (1675-1729), teologo e discepolo di Newton,
partecipò alla polemica contro il Dodwell scrivendo una Letter to Mr. Dod-
zcelly London 1706. Cfr. L. Stephen, History ofEnglisk Thought ecc., cit., pp.
100 sgg. 4. Tomaso Millio: il Parente (p. 279) corregge scrivendo «Tom-
maso Willio \ Invece va conservata la lezione adottata qui, che è anche del
codice utilizzato dal Parente: si tratta di Thomas Milles. L'errore si spiega
perché il Parente, cercando di coordinare tutto il brano sull'età del pre-
sunto Cudworth, ha modificato la data iniziale di questo dibattito portan-
dola indietro, nel 1674, anno in cui Thomas Willis, il celebre autore del De
anima brutorum, era ancora vivo. Ma il Giannone, che si informa sul Dey-
ling, si riferisce a una polemica avvenuta tra la fine del XVII secolo e gli
inizi del XVIII e che si condensa nella data del 1704. Mentre la data pro-
posta dal Parente collocava questa polemica fuori dal dibattito spinoziano
in Inghilterra, in quanto YÈthica è del 1677, essa deve essere riportata
al clima creato dall'opera dell'olandese, come d'altra parte afferma esplici-
tamente il Giannone. Thomas Milles (1 671 -1740), vescovo anglicano di
Waterford, scrisse The Naturai Immortality of the Soul Asserted and Proved
from the Scriptures and First Fathers: in Answer to Mr. DodwelVs Epistolary
Discourse . . ., Oxford 1707. 5. Turpero: evidentemente John Turner che
partecipò, come si è detto, alla polemica contro il Coward. 6. Emondo
Chishullo: Edmund Chishull (1671-1733), teologo ed antiquario inglese,
scrisse A Charge ofHeresy, Maintained Against Mr. Dodwell' s Late Epistolary
Discourse, Concerning the Mortality of the Soul, London 1706. 7. Hoschio :
si tratta del medico tedesco Friedrich Wilhelm Stosch, autore di una
Concordia rationis et fidei sive harmoma philosophiae moralis et religionis
christianae, Amstelodam [Berlin] 1692. Su di lui cfr. L. Back, Spinosas
erste Einivirkungen auf Deutschland, Berlin 1895, pp. 41-50, in cui prova la
derivazione óaàl'Ethica delle tesi materialistiche dello Stosch. F. A. Lange,
Storia del materialismo cit., 1, pp. 325-6, considera lo Stosch come il mag-
gior esponente del materialismo tedesco spinozista.
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. II Ó2I
di Spinosa, fu difesa1 la stessa dottrina, la quale negli ultimi tempi
passò ne' medici di Germania, per lo più evangelici, fra' quali si
distinse Petermano.z Gio. Adamo Hoffstettero3 medico d'Aaìa, al-
quanti anni prima insegnò pure il medemo, e lo stesso ultima-
mente fece Israele Conrado4 medico gedanense, siccome può ve-
dersi presso Deilingio,5 part. 2, p. 32-33.
Ala con tutto che le speculazioni di tanti preclari ingegni fos-
sero assai penetranti e sottili in ispiegare la natura ed efficacia di
questo spirito, o sia principio delle vite, commune non meno
agl'animali che agli uomini; pure, chi attentamente considera i
loro argomenti, non può non ricadere nelle medesime difficoltà,
anzi, per meglio dire, sempre torniamo nella istessa oscurità: come
e da chi questo spìrito riceve tanta virtù ed efficacia, sicché possa
disporre con tanto magistero ed arte le parti del seme, onde si for-
mi un corpo sì maravigliosamente organizzato, sicché lo faccia sor-
gere «in animam viventem», che vuol dire lo faccia capace di senso
e d'imaginazione, e negli uomini anche di discorso? Tutti fin qui
non ci danno se non che parole ed idee vaghe e confuse, e, come
si vedrà più innanzi nel cap. 40,6 Cartesio fu il primo che ce ne
additò la più verisimile e probabile maniera.
S. Agostino,7 ed assai meglio il P. Malebranche,8 ruppero, non
già disciolsero il nodo, dicendo il primo che questo spirito tutta la
sua efficacia l'ebbe da Dio, dal giorno che lo creò, e per questa
1. difesa Parente (p. 279); deistesa ven. 2. Petermano: cfr. S. Deylixg,
op. e loc. cit., p. 34. Si riferisce a D. A. Petermanns, medico di Lipsia, au-
tore di Casuum medico-legalium decas prima . . ., Leipzig 1708. 3. Gio.
Adamo Hoffstettero: cfr. S. Deyling, op. e loc. cit., p. 35. Johann Adam
Hofsteter era un medico di Halle. Il Deyling si riferisce probabilmente alla
sua Epistola gratulatoria, in qua integrum generationis humanae negotium
exMbetur.. ., [Halle 1704]. Cfr. anche, dello stesso, Epistola gratulatoria, in
qua occasione dubitationis cartesianae de coniecturis medicorum agitur , , . ad
J. G. Petermarm, [Halle 1704]. 4. Israele Comodo'. Israel Conradt, di
Danzica, autore di una Disputatio medica inauguralis de sanguine . . .,
Lugduni Batavorum 1659, e di una Dissertatio medico-physica de frigoris
natura et effectibus, [Danzig] 1677. 5. siccome . . . Deilingio: come si è
detto tutto il brano è ricalcato sul lavoro del Deyling, ma la prospettiva è
esattamente l*opposta: mentre il Deyling combatte e denuncia l'influenza
di Spinoza, il Giannone utilizza quest'opera del professore luterano per
informazione, traendone notizie sulla diffusione europea delle dottrine
materialistiche a cui aderisce. 6. come . . . nel cap. 40: cfr. Parente, pp.
304 sgg. e, inoltre, il cap. ni, qui a pp. 624 sgg. 7. S. Agostino: nel De
Genesi ad litteram imperfectus liber, in JMigne, P. JL., xxxiv, coli. 219 sgg.
8. Malebranche: sul rapporto fra il De inquirenda ventate e il Giannone
cfr. Vita, qui a p. 50.
622 IL TRIREGNO
sua infallibile virtù fu chiamato specialmente - spirito di Dio >>.
Così egli lo differii nel lib. De Gen. ad Ut., cap. 4, essere avitalem
creaturam, qua universus iste visibilis mundus et omnia corporea
continentur et moventur; cui Deus omnipotens tribuit vim quan-
dam sibi serviendi ad operandum in iis quae gignuntur».1
Il P. Malebranche, neile Illustrazioni ai lib. 6 De inquir. verit.,
argum. 7,2 dice di più, che tutta l'efficacia che volgarmente si crede
essere nelle cause seconde, debba attribuirsi a Iddio solo che gliela
diede nel principio e di continuo gliela dà e conserva, non essendo
per lui altro la conservazione che una perenne e continua creazione.
Così quando leggiamo nel Genesi, cap. i,3 -Germinet terra her-
bam virentem; producant aquae reptile animae viventis et volatile;
producat terra animam viventemv), e quando nei Vangelo di S.
Marco Cristo S. N., favellando della semenza che cade in terreno
buono, disse: Et terram ultro producere primo herbam deinde
spicam deinde plenum frumentum in spica»,4 non deve sentirsi
che per se stessa la terra, l'acqua e la semenza avessero tale virtù
ed efficacia, o ch'Iddio Favesse loro data nel principio, e che per
anco in quella ora la suscita, ma che Iddio sempre operando gliela
conservi, sicché a lui come sola cagione debbano attribuirsi tutti
gli effetti delle cose create; esse non somministrano, siccome non
somministrarono, che la sola materia, ma la virtù ed efficacia è
tutta di Dio, ei dice. La divina Scrittura istessa, anzi Dio medesimo
ci rende testimonianza che egli fa tutto: «Ego sum Dominus» ei
dice ( faciens omnia, extendens coelos solus, stabiliens terram, et
nullus mecum», Isaia, cap. 44, v. 24. Giobbe pur disse, io, 16 :s
Manus tuae fecerunt me, et plasmaverunt me totum in circuitu»;
e la savia e coraggiosa madre dei Maccabei, ispirata dal Signore,
così parlò ai cari suoi figliuoli: «Nescio qualiter in utero meo ap-
paruistis, età; singulorum membra non ego ipsa compegi; sed
enim mundi creator, qui hominis formavit nativitatem», Macab. 2,
cap. 7, v. 22 et 23. E S. Luca, Ad. Apost.y i7,28,6 pur disse: « Cum
1. tvitalem . . . gignuntur»: De Genesi, cap. rv, 17, in Migne cit., col. 226
(«una creatura "vitale nella quale sono contenuti e si muovono l'universo
mondo visibile e tutte le cose corporee; alla quale Dio onnipotente ha con-
ferito una tal quale efficacia di servirlo per operare nelle cose che vengon
generate»). 2. De inqmrenda ventate lari sex, Coloniae 1691, IUustratio-
nes . , . . ad lib. VI, arg. 7, pp. 126 sgg. 3. cap. 1: rispettivamente ai ver-
setti ii, 20 e 24. 4. «2?f terram . . . spica»: cfr. Marc, 4, 28, 5. 10,16:
rectùis io, 8. 6. 17,28: rectius 17, 25.
DEL REGNO TERRENO ■ PARTE II • CAP. II 623
ipse Deus det omnibus vitam, inspirationem et omnia». Ne' Salmi,
103,148/ pur si legge: «Producens foenum iumentis et herbam ser-
vitoti hominum » ; ed infiniti altri luoghi, non meno del Vecchio che
del Nuovo Testamento, convincono Tistesso.
Dalla terra e dall'acqua Iddio formò gli animali e le piante,
non perché la terra e l'acque da se stesse potessero generare cosa
alcuna, ma perché dalla terra e dall'acqua furono da Dio formati
i loro corpi, siccome dal cap. 2 seguente del Genesi2, è manifesto:
u Formatis igitur dominus Deus de humo cunctis animantibus ter-
rae et universis volatilibus coeli ». Furono adunque gli animali ter-
restri, i volatili ed i pesci formati di terra e d'acqua, non già pro-
dotti dalla terra e dall'acqua. E Mosè, narrando come gli animali
ed i pesci per commando di Dio fossero prodotti, aggiunge < Deum
ipsum illa fecisse», affinché la loro produzione non s'attribuisse
unicamente alla terra ed all'acqua. « Creavitque Deus» e' dice «cete
grandia et omnem animam viventem atque motabilem, quam pro-
duxerant aquae in species suas, et omne volatile secundum genus
suum».3 E più innanzi, doppo aver parlato della formazione degli
animali, soggiunge: «Et fecit Deus bestias terrae iuxta species suas
et iumenta et omne reptile terrae in genere suo ».4
Non v'è dubbio alcuno che questa maniera di spiegare l'efficacia
e la virtù di questo spirito sia la più facile e spedita, poiché, rifon-
dendosi ogni cosa ad Iddio, si arriva a concepire benissimo la sua
efficacia, e che possa essere principio di vita e moto e senso agli
animali e di cognizione agli uomini, essendo nelle sue mani riposto
di dare quel potere ed efficacia che vuole alle cose da lui create. Ed
in ciò non avvertì Malebranche che, riponendosi tutto sopra la virtù
ed efficacia ch'Iddio sempre somministra a questo spirito, che ne-
cessità v'era dunque d'imaginare nell'uomo un'altra sostanza cogi-
tante e farla venire da fuori ad informar il suo corpo per renderlo
discorsivo, quando siccome a quello de' bruti dà tanta virtù ed
efficacia di fargli crescere e sentire, così bastava che nell'uomo si
stendesse un poco più questa efficacia per farlo discorsivo, essendo
nelle mani di Dio il potere di far ciò che vuole, e rendere le cose,
siccome da insensibili farle sensibili, così queste passarle e spin-
gerle a fargli discorsive. Ma questo è l'istesso che sfuggire il tra-
1. 103, 148- rectius 103, 14. 2. Gen., 2, 19. 3. *Creavitque . . . suum»:
Gen.9 1, 21. 4. *Et fecit . . . tt/o»: Gen., 1, 25.
Ó24 IL TRIREGNO
vaglio nelle investigazioni delle cose naturali. Xé giovano i passi di
Mosè di sopra allegati, primieramente perché, secondo l'osserva-
zione de5 dotti» è solita frase della Scrittura ed antico costume
degl'Ebrei di riferire ogni cosa a Dio, ancorché per vie communi
e naturali avvenissero; e per secondo, presso i filosofi gentili e
coloro che, non attribuendo a' nostri libri sacri divina autorità,
vogliono il tutto sottoporre ad esame ed alla umana ragione e
discorso, tutto ciò ad essi non fa forza alcuna, e niente più viene
spiegato che quello stesso che i rapportati filosofi dissero: che la
natura ch'è in questo spirito dà al medesimo la virtù ed efficacia
di operare. Ciò che Mosè, S. Agostino e Malebranche dicono di Dio,
que' dicevano della natura, che la facevano una stessa cosa con Dio.
Così, quando S. Agostino dice che Iddio onnipotente ha data que-
sta forza a questo spirito < ad operandum in iis quae gignuntur»,
e quando Malebranche, spingendo più innanzi questa dottrina, non
si contenta che Iddio avesse data tal forza alle creature, ma che
Iddio stesso, sempre in quelle operando, è cagione di tutte le ge-
nerazioni e degli altri effetti che si veggono nell'universalità della
natura, i filosofi gentili all'incontro attribuivano tutto alla natura,
che non la distinguevano da Dio, anzi chiamavano questo istesso
spirito Dio Giove, siccome era l'opinione degl'antichi Egizi se-
condo il rapporto di Diodoro Siciliano e degli altri filosofi, siccome
si è veduto nel capitolo precedente, onde si conosce che di nulla
forza è la soluzione di S. Agostino, e molto meno quella di Male-
branche, a riguardo di coloro che non hanno per divini i libri di
Mosè, ma gli riputavano, come tutti gli altri, umani e terreni. Bi-
sogna adunque altronde investigarne la cagione ed indagare le for-
ze, e se forse Cartesio si fosse in ciò apposto al vero ; ciò che esa-
minaremo nel cap. seguente.
CAP. Ili
Del nuovo sistema dì Cartesio intorno alla creazione del mondo,
formazione delVuomo e natura di questo spirito.
Forse all'uman genere sarebbe stato più utile e profittevole, se,
siccome questo insigne ed incomparabile filosofo venne a noi così
tardi, fosse sorto ne' secoli a noi più rimoti, quando ai filosofi era
data licenza di liberamente dire ciò che sentivano intorno alle cose
naturali e di esporre in liberi sensi le verità che dopo lunghe e
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. Ili 625
travagliose ricerche avevano rintracciate. Venne a noi Cartesio1
quando il mondo cristiano era tutto persuaso che Ì nostri sacri libri
doveano essere a noi di norma e di scorta non pure nelle cose di
religione, ma anche nelle fisiche e naturali, e quando si credeva
per costante che que' libri c'insegnassero che fosse un punto di
religione già stabilito che le nostre anime fossero immortali ed
affatto indipendenti da' nostri corpi e di sostanza diversa, sicché
fuori del corpo avessero proprio stato e propria sussistenza.2 E con
tutto che questo gran filosofo fosse tutto inteso a togliere dalle men-
ti umane i molti pregiudizi onde s'erano somministrati i tanti osta-
coli per la ricerca della verità, nientedimeno non potè non soccom-
bere, né resistere al impetuoso fiume onde tutto il mondo era as-
sorto, e che assordava tutti co' suoi alti e strepitosi romori, per
divina rivelazione essere certo l'anime umane esser immortali ed
avere propria sussistenza indipendente affatto dal corpo e per con-
seguenza proprio stato, ancorché da quello fossero separate. E cer-
tamente che la buona filosofia istessa insegnava che alle divine
rivelazioni dovea cedere ogni umano discorso, poiché, non essendo
stato l'uomo formato per dovere sapere e comprendere tutto l'am-
pio universo e le vie tutte per le quali opera la natura, né essere
fatto per avere ed intendere tutte le idee delle cose che nell'universo
sono, non essendo egli per altro che una picciolissima e minuta
parte onde tutto l'universo si compone, a ragione, se mai l'uomo
avesse avuta questa grazia, ch'Iddio, autore e fabro della natura,
avesseli rivelati gli arcani di quella, ancorché dal corto suo inten-
dere impercettibile, dovea, per l'autorità di chi gliela insegnava,
come3 onnipotente, sapiente, infinitamente buono e giusto, e dal
quale dovea esser lontano ogni inganno e bugia, prestargli intera
1. Cartesio', sul rapporto fra il Giannone e Cartesio cfr. la Vita, qui a p. 49,
dove parla del superamento del primitivo gassendismo alla luce del carte-
sianesimo, sotto lo stimolo di amici come Nicolò Capasso e Nicolò Cirillo;
e a p. 120, dove racconta di aver riletto Cartesio a Vienna con la guida di
Alessandro Riccardi. Sulla diffusione del cartesianesimo in Italia cfr.
F. Bouillier, Histoire de la philosopkie cartésierme, Paris-Lyon 1854;
G. Maugain, Étude sur revolution intellectuelle de ritolte de 1637 à 1750
environ, Paris 1909, pp. 179-81, dove fra l'altro si cita questo brano del
Triregno; L. Berthé de Besaucèle, Les cartésiens d'Italie . . ., Paris 1920.
Per quanto riguarda i rapporti fra il cartesianesimo e la cultura meridionale
cfr. l'ottimo lavoro di N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Milano i960.
2. sussistenza Parente (p. 283); sustinza ven (ma si veda, qualche riga più
sotto, sussistenza). 3. come: « che come * in ven ; abbiamo espunto il * che ».
626 IL TRIREGNO
fede e credenza e render servo il suo ingegno ed esser lontano dalle
ricerche del come. Se a me fosse certo che quel che scrive S. Paolo
nelle sue epistole di corpo spiritale1 fosse stato da Dio rivelato
nettamente e non per mistero, certamente ch'io dovrei tener per
indubbitato che si dasse un corpo spirituale del quale io non posso
in fisica aver idea alcuna. Se io son certo che G. Cristo non pur
fosse stato un profeta mandato da Dio, ma Dio stesso,2 non ho
più da dubitare ch'egli avesse potuto risorgere, penetrar i corpi
solidi ed entrar nel cenacolo ancorché le porte fossero chiuse, darci
a mangiare della sua carne e bere del suo sangue, e moltiplicarsi
in tanti luoghi non in apparenza ma in realtà, risuscitare morti e
fare tutte opere prodigiose quante i vangelisti ne raccontano. Sa-
rebbe stato ben in sua mano mutare ed in altra guisa disporre l'or-
dine della natura; né io fui fatto per sapere ed intendere tutte
l'opere della sua infinita onnipotenza.
Ora l'incomparabile Cartesio, perché le sue ricerche non sem-
brassero contrarie alle credute divine rivelazioni intorno a ciò che
riguarda la fabrica di questo mondo aspettabile, alla maniera ed ai
princìpi onde formossi, affin di non offendere il commune concetto
degli uomini, si pose con molti pretesti e con gran cautela a filo-
sofarne. Per non urtare ne' libri di Mosè, egli dichiarossi che, cre-
dendo l'universo essere stato creato da un Dio onnipotente, sa-
piente e buono, era certo che dal principio fosse stato creato
con tutta la sua perfezione, in guisa che fossero in lui e sole e stelle,
cielo, terra, luna e tutti gli altri pianeti: che nella terra non sola-
mente fossero i semi delle piante, anzi le piante istesse: non pur
i semi degl'animali, ma gli animali stessi: né che Adamo ed Eva
fossero stati fatti dalla terra infanti, ma formati uomini grandi ed
adulti. Nulladimeno, siccome per bene intendere la natura delle
piante, degli animali e degli uomini è riputata più esatta e sicura
via d'esaminar la maniera come dai semi a poco a poco sorgono,
che considerarli come da Dio nell'origine del mondo fossero stati
creati, se3 mai si potessero trovare princìpi non meno facili e sem-
u S. Paolo . . . spiritale: cfr. I Cor., 15, 44. 2. non pur . . , stesso: la frase
è incompleta in Parente (p. 284) : «fu un profeta mandato da Dio stesso ».
3. se Parente (p. 285); sia ven.
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. Ili 627
plici che fecondi da' quali, come semi, avessero potuto prodursi e
sole e stelle e terra e luna e mare e tutto ciò che s'arnmira in questo
ampio mondo aspettabile, ancorché forse non fossero stati i mede-
simi e così disposti ; gioverà però mostrandoci sufficienti a spiegare
quanto si fa nell'universo e meglio conoscere la loro natura, ed a
poter bene intendere e adattare gli effetti alle loro cagioni. Ecco
come saviamente ne discorre questo insigne filosofo nella 3* parte
dei suoi Prìncipi:1 «Non enim dubium est quin mundus ab initio
fuerit creatus cum ornili sua perfectione ita ut in eo et sol et terra
et luna et stellae extiterint; ac etiam in terra non tantum fuerint
semina plantarum, sed ipsae plantae; nec Adam et Eva nati sint
infantes, sed facti sint homines adulti. Hoc fides Christiana nos
docet, hocque etiam ratio naturalis piane persuadet. Attendendo
enim ad immensam Dei potentiam, non possumus existimare illum
unquam quidquam fecisse, quod non omnibus suis numeris fuerit
absolutum. Sed nihilominus, ut ad plantarum vel hominum na-
turas intelligendas, longe melius est considerare quo pacto paula-
tim ex seminibus nasci possint, quam quo pacto a Deo in prima
mundi origine creati sint; ita, si quae principia possimus excogi-
tare, valde simplicia et cognitu facilia, ex quibus tanquam ex se-
minibus quibusdam et sidera et terram et denique omnia quae in
hoc mundo adspectabili deprehendimus oriri potuisse demonstre-
mus, quamvis ipsa nunquam sic orta esse probe sciamus; hoc pacto
1. nella . . . Princìpi: R. Des Cartes Principia philosophiae, editio quarta,
Amstelodami 1664, pars tertia, De mundo adspectabili, § xlv, p. 57 («Non
vi è infatti dubbio che il mondo sia stato creato al principio con tutte le
perfezioni che ha, tanto che esistevano in esso il sole, la terra, la luna e le
stelle; e inoltre nella terra non c'erano solo i semi delle piante, ma anche già
le piante; e Adamo ed Eva non nacquero bambini, ma furono creati uomini
adulti. Questo ci insegna la fede cristiana, ed anche la ragione naturale
ce ne persuade assolutamente, poiché considerando Fimmensa potenza di
Dio, non possiamo credere che egli abbia mai fatto alcunché senza tutta la
perfezione che doveva avere. Cionondimeno, come per capire la natura
delle piante e degli uomini è assai meglio considerare come si siano svilup-
pati a poco a poco da semi, che come sono stati creati da Dio all'inizio
del mondo ; così se riusciremo a escogitare alcuni princìpi, assai semplici e
facili a conoscersi, mostrando che da essi, come da semi, sian potuti nascere
gli astri, la terra e infine tutto ciò che osserviamo in questo mondo visibile
— benché sappiamo bene che non è stato affatto prodotto così -, in questa
maniera pure faremo intendere la loro natura assai meglio che se li descri-
vessimo come sono ora ». Per questa e per le citazioni seguenti dei Principia^
abbiamo tenuto presente la traduzione di Paolo Cristofolini, Torino 1967,
quando non l'abbiamo riprodotta fedelmente).
628 IL TRIREGNO
tamen eomm naturam longe melius exponemus, quam si tantum
qualia iam sint describeremus ».
Credette questo filosofo aver trovati princìpi non pur fecondi,
ma anche facili e semplici; ed il caos, che gli altri filosofi lo descris-
sero tutto confuso e torbido, dal quale secondo le leggi della natura
fecero nascere e sole e luna e terra e quanto venne poi disposto ed
ordinato nel mondo, egli ce lo rappressenta niente confuso, ma tutto
uguale, schietto e semplice, dicendo che la confusione non può
convenire colla somma perfezione di Dio creator dell'universo.
Oltra di che con maggior facilità possono da noi comprendersi le
cose ordinate e semplici, che le ineguali e confuse. «Etsi enim» e'
dice forte etiam ex chao per leges naturae idem ille ordo qui
iam est in rebus deduci posset, idque olim susceperim explican-
dum; quia tamen confusio minus videtur convenire cum summa
Dei rerum creatoris perfectione, quam proportio vel ordo, et mi-
nus distincte etiam a nobis percipi potest; nullaque proportio, nul-
lusve ordo simplicior est et cognitu facilior, quam ille qui constat
omnimoda aequalitate: idcirco hic suppono omnes materiae parti-
culas initio fuisse tam in magnitudine quam in motu inter se ae-
quales »* Egli adunque dalla materia, che è una e la stessa in tutti i
corpi, divisibile in qualsivoglia parte e già per se stessa in molte di-
visa, la quale diversamente si muove e che conserva nell'universo la
stessa quantità del moto che sino dal principio della sua creazione
gli fu impresso, fa nascere tutto ciò che si ammira in questo mondo
aspettabile. Suppone tutte le parti e particelle della materia sin
dal principio, così nella grandezza come nel moto, essere state fra
di loro eguali. Considera non aver potuto essere in questo prin-
cipio di figure sferiche, poiché più globi insieme giunti non riem-
piano come spazio continuo ; ma che, di qualunque figura si fossero
allora quelle, non poterono poi in progresso di tempo non farsi se
1. *Etsienim* . . aequales*: ibid., § xlvii, p. 58. Abbiamo restaurato il brano
vel ordo . , . proportio caduto in ven per omoteleutia (<* Benché infatti anche
dal caos, secondo le leggi della natura, si potesse per avventura dedurre
quell'ordine che ora è nelle cose - il che altra volta ho intrapreso a spie-
gare -, tuttavia, poiché la confusione sembra convenire meno alla somma
perfezione di Dio creatore delle cose che non l'ordine e la proporzione -
e anche da noi può essere meno distintamente compresa -; e poiché non
c'è alcuna proporzione, né alcun ordine, che sia più semplice e più facile a
comprendersi di quello che consiste in una perfetta uguaglianza, ha suppo-
sto allora qui che tutte le particelle della materia siano state al principio
uguali fra loro, tanto in grandezza quanto in movimento »).
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. Ili 629
non rotonde, per i vari moti circolari ch'ebbero. Da questo muo-
versi, urtarsi e raggirarsi insieme la materia degl'angoli percossi e
striturati, venne ad occupare que' minuti intervalli che fra le parti
rotonde rimasero; sicché formaronsi due generi di materia per
figura molto diversi: quelle parti più minute e più agili e preste,
e che scorrendo impetuosamente aggitate per tutti quei angustis-
simi intervalli, ed adattandosi le lor figure ad empire tutti quei
stretti spazi che sono fra le parti rotonde, egli chiamò « primo ele-
mento ». L'altre divise in particelle sferiche di certa e determinata
quantità, e divisibili in altre particelle molto minori, le disse '; se-
condo elemento»; a* quali due elementi successe il terzo elemento
di parti più grossolane e ramose, aventi figure meno atte al moto.
Questi egli chiama & elementi a di questo mondo aspettabile. E se-
condo le leggi che1 del moto prescrisse con tanta accuratezza nella
seconda parte dei suoi Princìpi, con minuta ed esatta operazione3
meccanicamente da' tre princìpi suddetti fa sorgere tutto ciò che
s'osserva in questo mondo aspettabile. '. Ex his tribus » ei dice " om-
nia huius mundi adspectabilis corpora componi ostendemus : nem-
pe solem et stellas fixas ex primo, coelos ex secundo et terram cum
planetis et cometis ex tertio. Cum enim sol et fixae lumen ex se
emittant: coeli illud transmittant ; terra, planetae ac cometae re-
mittant: triplicem hanc differentiam in adspectum incurrentem,
non male ad tria dementa referemus ».3
Sarebbe dilungarsi troppo dal nostro istituto e divertire sover-
chio l'altrui applicazione in cose cotanto minute e sottili e che
richiedono tutta la penetrazione del nostro spirito, se volessi rap-
portare qui la maniera colla quale questo miracoloso ingegno va
secondo le leggi del moto, per vie cotanto piane e semplici, tirando
innanzi il suo assunto. Ciascuno o il sa o potrà attentamente os-
servarlo ne' suoi Princìpi, sopra i quali tanto si è dibattuto e scritto.
Certamente che l'ipotesi è così bella ed ingegnosa che si adattano
molto a proposito quei versi del nostro Torquato Tasso :
1. che Parente (p. 287); manca in ven. 2. operazione Parente (p. 287);
osservazione ven. 3. *Èx his tribus . . . referemus*: ibid., § lii, p. 59 (a Mo-
streremo che tutti i corpi di questo mondo visibile si compongono di questi
tre elementi: cioè il sole e le stelle fisse del primo, i cieli del secondo, e la
terra, i pianeti e le comete del terzo. Infatti, poiché il sole e le stelle fisse
sprigionano la luce da sé, i cieli la fanno passare, e la terra, i pianeti e le co-
mete la riflettono: non a torto riferiremo ai tre elementi questa triplice
differenza che ha luogo nel mondo visibile»).
63O IL TRIREGNO
Magnanima menzogna, or quando è il vero
sì bello che si possa a te preporre?1
Or, quantunque questo gran filosofo, volendo fra i cristiani in-
segnare una nuova filosofia, come la quale,2 fra quante al mondo
ne furono e fiorirono, niuna è sì acconcia a spiegare i fenomeni della
natura, avesse usate tante riserve e protesti, non potè sfuggire però
l'abbuso d'alcuni che vollero tirarla dove meno si dovea. Da questa
ipotesi certamente niente potea dedursi che si opponesse ai libri
di Mosè, anzi, supponendosi la materia creata e che, secondo le
leggi del moto che Iddio gli diede a misura e proporzione della
materia creata, conservi sempre nel mondo quella istessa quantità
del moto dal quale e dalla materia suddetta, anche divisibile in
mille e mille parti, tutta si possa produrre, maggiormente s'ammira
che la divina onnipotenza e sapienza, che per vie così piane e
semplici ordinò e dispose l'universo, dasse3 princìpi sì fecondi,
onde quanto in quello s'ammira, si produca.4
Quello però che nella 2d.a parte dei suoi Princìpi credette in-
torno alla natura ed essenza di questa materia corporea ed estensa
onde il tutto si compone, non fu ben ricevuto da' più savi, per
le conseguenze pur troppo perniciose che ne potrebbero derivare;
poiché, credendo che non consistesse in altro l'essenza del corpo
che nell'essere estenso in lungo, lato e profondo, poiché tutte le
altre modificazioni che può ricevere il corpo, o sia di gravità, o di
leggierezza, o fluidità, ovvero durezza, o di rotondità, o di altre
qualsivogliono figure, possono cancellarsi o variarsi, ma non giam-
mai potrà perdere l'estensione in lungo, lato e profondo, ne venne
in conseguenza che dovesse ammettere per corpo anche lo spazio,
che pure ritiene le proprietà istesse; e così non meno il luogo,5
ovvero spazio interno sarà corpo, che lo spazio esterno : quindi era
duopo dire che non si dasse in natura vacuo alcuno, ma che tutto
fosse pieno, e per conseguenza la materia non essere altro che uno
spazio continuato, non potendosi concepire spazio senza che nel-
l'istesso tempo non concepiamo estensione, cioè corpo. Ecco come
questo filosofo ne ragiona nella 2d.a parte de' suoi Princìpio « Vacuum
1. Ger. lib.t 11, 22. 2. come la quale Parente (p. 288); la quale ven.
3. dasse Parente (p. 288); e dasse ven. 4. si produca Parente (p. 288); e
si produca ven. 5. il luogo Parente (p. 289) ; il luogo che ven. 6. Prin-
cipia cit., pars secunda, De principiis rerum materialium, § xvi, p. 26
(< Che poi non si possa dare il vuoto secondo il modo di parlare dei filosofi,
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. Ili 631
autem, philosophico more sumptum, hoc est in quo nulla piane
sit substantia, dari non posse manifestum est, ex eo quod extensio
spati, vel loci interni, non differat ab extensione corporis. Nam
cum ex hoc solo, quod corpus sit extensum in longum, latum et
profundum, recte concludamus illud esse substantiam: quia om-
nino repugnat ut nihili sit aliqua extensio, idem etiam de spatio
quod vacuum supponitur est concludendum: quod nempe cum in
eo sit extensio, necessario etiam in ipso sit substantia». Così, facendo
egli consistere la natura della sostanza corporea nella sola estensio-
ne, e non distinguendola dall'estensione che si attribuisce a qualun-
que spazio esterno, inane o imaginario che fosse1 ripetendo poco
da poi: «Postquam sic advertimus substantiae corporeae naturam
in eo tantum consistere, quod sit res extensa; eiusque extensionem
non esse diversam ab ea quae spatio quantumvis inani tribui solet»3
etc, quindi alcuni hanno ragionevolmente presa occassione di dire
che in sostanza, di sentenza ài Cartesio, l'ampio universo sia infi-
nito, poiché qualunque spazio noi possiamo immaginarsi più in là
oltre i suoi confini, sempre trovaremo3 estensione, che per lui sarà
lo stesso che sostanza corporea, e si caderà nella sentenza di Lu-
crezio, Kb. 1, che vuole la materia infinita.4 Né si appagarono del-
l'equivocazione dell'indefinito, quasi che l'universo non già fosse
infinito ma indefinito, non potendoli noi assegnare fine alcuno, poi-
ché questo non è che un gioco di parole; anzi perché noi non pos-
siamo al mondo assegnare fine, non potendo concepire più in là
spazio senza estensione, senza corpo, questo istesso sarà farlo infi-
nito, siccome apertamente di ciò vien convinto Cartesio nell'istesso
luogo dicendo : « Cognoscimus praeterea hunc mundum, sive sub-
come ciò in cui non vi sia nessuna sostanza, è manifesto dacché l'estensione
dello spazio, o luogo interno, non differisce dall'estensione del corpo. In-
fatti, mentre dal fatto solo che un corpo è esteso in lunghezza, larghezza e
profondità, concludiamo giustamente che esso è una sostanza, poiché ri-
pugna del tutto che il nulla abbia qualche estensione, si deve concludere
lo stesso anche per lo spazio che è supposto vuoto; infatti poiché in esso
vi è estensione, necessariamente vi è anche sostanza»). 1. spasto . . .fosse:
nostra congettura (cfr. p. 638) ; ven e Parente (p. 289) hanno « passo esterno
innanti, o imagina ciò che fosse j, senza senso. 2. « Postquam . . . solet a : ibid.,
§ xrx, p. 27 (« Dopo che abbiamo così avvertito che la natura della sostanza
corporea consiste soltanto nel fatto che è cosa estesa, e che la sua estensione
non è diversa da quella che si suole attribuire allo spazio vuoto a piacere. . . »).
3. trovaremo Parente (p. 289); trovarono ven. 4. Lucrezio . . . infittita:
cfr. J. S. Spine, French Free-Thought ecc., cit., cap. vii, Lucretius and Na-
turai Pkilosophers, pp. 103 sgg. Cfr. De rer. nat., 1, 146-264.
632 IL TRIREGNO
stantiae corporeae universitatem, nullos extensionis suae fines ha-
bere. Ubicumque enim fines illos esse fingamus, semper ultra ipsos
aliqua spatia indefinite extensa non modo imaginamur, sed etiam
vere imaginabilia, hoc est realia esse percipimus ; ac proinde etiam
substantiam corpoream indefinite extensam in iis contineri : quia,
ut iam fuse ostensum est, idea eius extensionis quam in spatio
qualicumque concipimus, eadem piane est cum idea substantiae
corporeae».1 Quest'istesso adunque sarà riputar la materia infinita,
giacché non possiamo prefiggerli fine alcuno, poiché nelTistesso
tempo che ci forzaremo imaginarselo, subito occorre che più in là
vi sia molto spazio, e questo sarà pure materia, e per conseguenza
anderemo neirinfinito. Questo fece che non tutti rimasero persuasi
della sua sentenza, non già che quella si opponesse ad Esaia nel
cap. 40,v.i8,2 dove dice Iddio aver posti i termini alla terra: «Deus
sempiternus Dominus, qui creavit terminos terrae », poiché è chiaro
che qui il profeta parla de' termini della terra, non già di tutto
l'ampio universo. Oltre che s'è abbastanza da' più savi dimostrato
che il favellar della Scrittura di queste cose fisiche e naturali dovea
essere quello che si adatta al commune uso degli uomini; e non fu
che popolare, non filosofico, poiché altrimenti Giosuè sarebbe stato
riputato pazzo dall'esercito ebreo, se, invece di commandare al
sole che si restasse, avesse detto alla terra che non si movesse. Pa-
rimenti Elieu Buzite, amico di Giob, parlò secondo la sua e la
volgare credenza quando disse, cap. 37,v.i8: «Tu forsan cum eo
fabricatus es coelos, qui solidissimi quasi aere fusi sunt?»: sarebbe
ora certamente beffato e deriso chi, parlando filosoficamente, di-
cesse i cieli essere solidissimi e come rame o bronzo fusi.
Inoltre Cartesio tirò più innanzi questa sua dottrina, dicendo
che noi possiamo più facilmente avere idea deU'iiifinito che del
finito, poiché in natura non possiam considerare termine tale, che
oltre di quello non concepiamo altri spazi, almeno immaginari; se
1. " Cognoscimus . . . corporeae ->: Principia cit., pars secunda, § xxi, p. 27
(n Conosciamo inoltre che questo mondo, ossia la totalità della sostanza cor-
porea, non ha alcun limite alla sua estensione. Infatti, dovunque ci figuria-
mo che quei limiti siano, sempre non solo immaginiamo, ma percepiamo
che sono anche veramente immaginabili, cioè reali, spazi infinitamente estesi
al di là da essi; e quindi che anche una sostanza corporea indefinitamente
estesa è contenuta in essi. Poiché, come s'è già diffusamente mostrato, l'idea
di quell'estensione, che concepiamo in qualunque spazio, s'identifica
senz'altro con l'idea di sostanza corporea»). 2. v. 18: rectius 28.
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. Ili 633
questi certamente hanno Fistessa proprietà di largo, lato e profon-
do, non possiamo non concepirli che estensi e per conseguenza per
corpi infiniti, perché non possono avere mai fine.1
A rutto ciò s'aggiunga che, secondo questa ipotesi, Iddio pri-
ma della creazione dell'universo non avrebbe potuto creare due
soli corpi sferici, poiché questi due corpi per essere sferici non
s'avrebbero potuto toccare insieme secondo tutti i lati, ma solamen-
te in un punto ; dunque fra le altre parti della loro circonferenza
avrebbe dovuto frapporsi qualche spazio perché non si toccassero:
se questo spazio mi si dirà anche corpo, perché sarà sibbene estenso
siccome i due corpi sferici creati, non avrà più creato Iddio due
corpi sferici, ma un sol corpo uguale, indivisibile ed infinitamente
estenso.
Dacciò ancora ne deriva che, non facendosi consistere in altro
la materia che nello spazio ch'è sempre stato e sarà sempre, per
conseguenza si cade nell'opinione de5 Caldei, i quali, secondo che
scrive Diodoro, lib. 2, cap. 8: ■ Mundum sempiternum esse aiunt,
neque principium habuisse, neque sortiturum esse finem».3 Cer-
tamente che, siccome dal niente lo creò, puoi Iddio a niente ridur-
re tutto l'universo, e non possiamo questo niente non imaginarselo
che un ampio ed immenso vuoto, dove niuna sostanza sia, ma non
cessaremo d'immaginarselo infinitamente lungo, lato e profondo,
che, in sentenza di Cartesio, questo sarebbe farlo reale, poiché ei
dice: «Ac proinde etiam substantiam corpoream indefinite exten-
sam in iis contineri».3 Se dunque dell'universo, così imaginando,
non possiamo concepir fine, per la ragione istessa non potremo assi-
gnarli principio alcuno, poiché questo spazio siccome sarà sempre,
così bisogna dire che sempre sia stato. Quindi con molta ragione
questa dottrina dello spazio di Cartesio alcuni non ebbero ritegno4
di riputarla un delirio, siccome la riputò M.r Nicole,5 il quale, tom.
1. estensi . . .fine: sugli sviluppi materialistici della fisica cartesiana cfr.
A. Vartanian, Diderot e Descartes, Milano 1956, soprattutto i capitoli 11
e rv. Sul concetto di spazio in Cartesio, Gassendi e Newton cfr. M. Jam-
mer, Storia del concetto di spazio, Milano 1963, pp. 46 sgg. 2. Diodoro . . .
finem: il manoscritto questa volta rinvia all'edizione Chateillon cit., p. 57
(nelle edizioni moderne 11, 30, 1 : * Sostengono che il mondo è eterno, che
non ha avuto un principio né raggiungerà una fine »). 3. «Ac proinde —
contineri*: cfr. la nota 1 a p. 632. 4. ritegno: per errore di trascrizione ven
ha «ritengo». 5. Pierre Nicole (1625-1695), teologo francese filogianse-
nista, autore degli Essais de morale. Su di lui cfr. H. Busson, La religùm des
classiques, 1660-168 5, Paris 1948.
634 IL TRIREGNO
2, epist. 83 in fine ci rende ancor testimonianza che M.r Pascale1 fu
del medesimo sentimento. Ma non perché in ciò avesse preso abba-
glio quest'incomparabile filosofo, dovrà dirsi che per questo rovi-
nerà o sarà gittato a terra queU'ammirando ed ingegnoso suo siste-
ma. Sussiste ben egli, né puole da questo urto ricevere nel rimanente
crollo alcuno : siccome non si rovinò il sistema di lui formato intorno
alla fabrica dell'uomo e sue operazioni ed effetti, perché dapoi da'
più periti ed esperti notomici fu osservato che la glandola pineale,
per essere sovente ricettacolo di mucchi3 ed impurità, non poteva
essere adattata ed acconcia ad essere stabilita centro ove derivas-
sero ed andassero a terminare tutti i nervi e filamenti3 ond'è sparso
il nostro corpo, sicché avesse ivi potuto collocarsi la principale sede
della nostra anima, per ivi dare e ricevere insieme le impressioni
dei corpi che ci circondano, poiché basterà che nel nostro cerebro,
o nelle sue cavità 0 membrane, si trovi questo punto ove vadino
a terminare tutte le linee della circonferenza del nostro microcosmo,
poco importando che si stabilisca questo luogo o in quella glandola
o in altra più intima e riposta parte: non si rovinerà perciò la sua
ingegnosa ipotesi dell'uomo:4 cosi non si rovescierà il sistema con-
cepito intorno alla fabrica del mondo, se a questa estensione si darà
un soggetto per sé essistente, sicché l'essere lato, lungo e profondo
sia sua modificazione e proprietà intrinseca che lo faccia distin-
guere dalle altre cose che Iddio ha potuto creare nell'universalità
della natura, che non siano estense, delle quali noi, come si dirà
più innanzi, infinora non abbiamo idea alcuna, perché l'uomo non
è stato formato per aver idea di tutte le cose che possono essere
nell'universo e che l'onnipotenza divina ha potuto creare.5
Questo soggetto sarà la sostanza, cioè cosa che per sé esista, nel
che possono convenire tutte le altre cose che Iddio ha creato o può
creare, e che per sé sussistono. La sostanza è un genere nel quale
tutte le cose convengono al moto esterno, inane ed imaginario che
1. Pascale-, è Biagio Pascal. 2. macchi', per t muchi». 2. filamenti Pa-
rente (p. 292); finalmente ven. 4. Sussiste ben egli . . . uomo: cfr. UHom-
me de René Descartes et la formation du fcetus avec les remar ques de 'Louis
de La Forge. A quoy Von a ajouté le Monde, ou tratte de la lumière du mesme
auteur, Paris 1677. La prima edizione è del 1664. Sulla polemica a propo-
sito della ghiandola pineale, cfr. B. Spinoza, Etnica, pars v, Praef. 5. cosi
non si rovescierà . . . creare: è evidente l'interpretazione materialistica che il
Giannone dà del cartesianesimo, che si concreterà più avanti, quando
affermerà che Festensione è Tunica sostanza.
DEL REGNO TERRENO • PARTE II - CAP. Ili 635
niente ha di reale, e per conseguenza in cotal guisa potremo trovare
e concepire i confini dell'universo, e non farlo esterno ed infinito;
e l'istesso Cartesio nella sostanza fa convenire Iddio stesso colle
sue creature.
Ma v'intende una grandissima differenza tra l'un essere e l'al-
tro. Iddio è per se stesso, e le sue creature sono per lui; onde Mosè
bene ne concepì l'idea quando scrisse Iddio avergli rivelato il suo
proprio nome essere il Dio <? sono », ovvero t quel che fu, e quel che
sempre sarà», dagli Ebrei perciò chiamato Iaheuh, ovvero il Iao,
come anche legge Boccardo,1 oltre Diodoro Siciliano. È nota l'isto-
ria che pascendo Mosè (ne' sacri libri) la greggia nell'Arabia sul-
l'Oreb, Dio gli commandò che, calato in Egitto, dicesse al popolo
d'Israele che il Dio de' loro padri lo inviava ad essi: Esod„ 3, v. io.
Dubitò tantosto Mosè che questo popolo rozzo, come uso a sen-
tirsi continuo risuonar nell'orecchio dio Chamo, dio Giano, dio Diri,
e sifartì nomi di deità, ove la prima voce è il nome appellativo e la 2a
è il proprio, gl'avrebbe chiesto qual era il nome proprio di questo
Dio de* padri loro. Pertanto interrogò a Dio, se veniale fatta tale
richiesta, che dovea rispondere ? Allora Dio per rendergli noto che
gl'altri erano dei vani e di sol titolo, ed esso solo il vero, si pose
due nomi propri, un «sarò», l'altro «fu», che la vulgata versione
legge così, Esod., 3, v. 14: uDixit Deus ad Mosen: "Ego sum qui
sum: sic dices filiis Israel: Qui est misit me ad vos" », poiché quel
che sempre fu e sarà, sempre è. Ma questo ultimo nome di ». fu »
ormai più gli piacque e il si ritenne. Simile istoria venne da Dio
stesso spiegata allor che altra volta in Egitto disse a Mosè: rio
sono laheuch, ovvero Iao {Esod., 6, v. 2-3), e comparvi ad Abramo,
ad Isaacco ed a Giacobbe, come Dio Saddai, cioè onnipotente, e
nel nome mio laheuch (Iao) non fui conosciuto da essi loro ».
Ed in vero di Dio solo può dirsi che sia, e questo nome spiega
acconciamente la sua divina essenza, poiché tutte le altre cose che
nascono e muoiono non posson propriamente dirsi che siano. Verità
conosciuta eziandio dagli antichi filosofi, e sopra ogni altro da Pla-
tone in Timeo, il quale perciò i nostri teologi, seguendo il lor costu-
me, voglion che tal dottrina l'avesse appresa dai libri di Mosè.
Platone, di questo essere parlando, disse:3 «Quid illud est quod
1. come ... Boccardo: S. Bochart, Geographia sacra, ed. cit. del 1674,
Chanaan, lib. 11, cap. xvn, p. 859. 2. Platone . . . disse: in Parente (p. 294)
c'è solo l'inizio (Quid illud uttum habet) della citazione dal Timeo
636 IL TRIREGNO
semper est, nec tamen ortum ullum habet; quid illud contra, quod
semper nascitur et nunquam est? Prius illud quidem, quod sem-
per atque eodem modo est, ab sola intelligentia cum ratione perci-
pitur. Altemm hoc, quod oritur simul et occidit, neque unquam
vere est, in ea dumtaxat, quam sensus ab omni ratione vacuus
efficit, opinione versatur;,. Ciocché Numenio Pitagorico1 spiegò
assai dottamente dicendo al lib. 2° de bono: < "Quod enim est, id
sempiternum est, atque eodem sese modo constanter habet etc.
Maneat igitur et tanquam verum sumatur incorporeum esse, id
quod est. Quaerit Plato, quid illud sit, quod est; id sine dubio
carere ortu statuens; mutaretur enim alioqui: si autem mutaretur,
sempiternum id non esset". Inde aliquantum progressus haec ad-
dit: "Si quod est, id omnino sempiternum et immutabile est, nec
ab sese ulla unquam varietate discedit, sed in una semper eadem-
que ratione permanet, illud unum profecto sit oportet, quod in-
telligentia cum ratione capiatur" ». Leggasi quel savissimo discorso
di Plutarco nel lib. De syllaba zi (es) delphico tempio inscripta^ dove
fra le altre cose dice: 'fNos enim nullo modo sumus, sed omnis
omnino natura mortalis, in quodam interitus ortusque medio con-
stituta, umbram sui dumtaxat aliquam exilemque, ac lubricam
opinionem ostendit».2 E poco dapoi: «Ecquid igitur illud est quod
(27<i-28a) di Platone, che il Giannone trae da Eusebio di Cesarea, Praepa-
rationis evangelicae cit., hb. xi, cap. rx, De ente» ex Mosis Platonisque doctrina,
in Migne, P. G.y xxi, col. 870 («Cos'è quell'essere che sempre è e che non
ha origine ? e cos'è quello che al contrario nasce sempre e non esiste mai ?
Il primo invero, poiché esiste sempre e allo stesso modo, viene appreso
solamente dall'intelligenza con la ragione. Quanto all'altro, poiché ad un
tempo nasce e muore e non esiste mai realmente, è oggetto dell'opinione,
quell'opinione che la sensazione, priva di ogni ragione, fa nascere»).
1 . NuTnenic d'Apamea, filosofo neo-pitagorico, vissuto nella seconda metà
del II secolo d. C. Considera Pitagora maestro di Platone; sotto l'influsso
di Filone Ebreo, vede in Platone un erede della sapienza orientale, dandogli
il nome di « Mosè atticizzante -. La citazione che segue manca in Parente
(p. 294) e deriva da Eusebio, op. cit., lib. xi, cap. x, Ex libro secando Numerai
Pythagorici, De bono, coli. 871-4 (« "L'essere è eterno e si conserva allo stes-
so modo costantemente ecc. Resti dunque per dimostrato e si ammetta per
vero che l'essere è incorporeo. Platone si chiede che cosa è l'essere, stabi-
lendo che deve senz'altro esser privo di origine [poiché nega che nell'essere
possa esservi origine], se no si muterebbe, e se mutasse non sarebbe più eter-
no". Poi procedendo alquanto aggiunge: "Se l'essere è affatto etemo e
immutabile, e non si diparte mai da se stesso per varietà alcuna, ma perdura
sempre in un unico identico stato, bisogna che esso sia solo ciò che può
essere compreso dall'intelligenza con la ragione" »). 2. Leggasi . . . osten-
dit: anche questa citazione manca in Parente (p. 294) e deriva da Eusebio»
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. Ili 637
vere est ? Id unum utique quod sempiternum est, quod ortu simul
interituque caret, cui nullum tempus mutatfonem afTert».1 Leggasi
ancora quanto Eusebio, Kb. 11 Praeparat. evang.f cap. 11, da cui
fu questo luogo trascritto. Prenderò ancora su i riferiti passi di
Platone e di Numenio nel lib. n Praeparat evangelica, cap. 9 e
io.2 Dee recar maraviglia come non sia caduto in mente a' no-
stri scrittori, sentendo Omero mettere per proprio3 aggiunto de-
gli dii essere «sempre esistenti d, non abbiano detto che lo prese
da Mosè.
Ma non si sono accorti i nostri semplici ed innocenti teologi
che di questo modo di parlare i filosofi gentili se ne valevano per
ispiegare la differenza che intercede tra le cose composte ed i loro
primi princìpi semplicissimi ed incorruttibili. Questi l'avean per
eterni, ed a' quali attribuivano un vero essere; a tutte le altre di
natura mortale, che, scomponendosi, passano ora in una forma
ora in altra, che ora nascono ora muoiono e spariscono, non gli
davan per questa loro volubilità e spesso cangiamento quel essere
che sempre fu e sarà sempre eterno ed immutabile. A* primi semi
delle cose attribuisce quest'essere Lucrezio in tutti i suoi libri della
Natura delle cose, che perciò gli fa eterni ed immutabili. Altri
filosofi a tutta la natura, che perciò la fanno eterna ed infinita.4 E
poiché questi non ebbero idea di creature e creatore, supponendo
che dal niente non si possa crear altro che un nulla, ma che da
cosa si faccia cosa, quindi male vengono adattate queste loro frasi
alla dottrina che Mosè ci lasciò nei suoi libri intorno al vero essere,
da lui non attribuito che al solo Iddìo d* Abramo.
Quando concepiamo un Dio creatore, certamente che a questo
Dio conviene più che alle sue creature il nome di Essere, poiché
l'essere da lui ricevono, e perciò quelle impropriamente si dicono
op. crt., lib. xi, cap. xi, Ex Plutarchi opuscolo, de syUaba si Delphico tem-
pio inscripta, col. 875 (« In realtà noi non esistiamo affatto, ma tutta quanta
la natura mortale, disposta come al mezzo tra morte e nascita, mostra di sé
al più una qualche esile ombra e un ingannevole nome ». Es è la traduzione
latina di si). 1. E poco dctpoi . . . offerti manca in Parente (p. 294). Eu-
sebio, op. e loc. cit., col. 878 (« Che cosa dunque è quello che veramente
è ? Assolutamente solo ciò che è etemo, che è insieme privo di nascita e di
morte, al quale nessun scorrer di tempo reca mutamento *>). 2. Leggasi an-
cora . . . cap. 9 e io: manca in Parente (p. 294). 3. per proprio: così in-
terpretiamo la confusa lezione di ven; in Parente (p. 294) perpetuo.
4. Lucrezio . . . infinita: cfr. la nota 4 a p. 631. In Parente (p. 296), per
un fenomeno di omoteleutia, manca la frase gli fa eterni . . . perciò.
638 IL TRIREGNO
sustanze. E perciò Cartesio disse che Iddio e le creature conven-
gono neU' esser sostanze, ma non già univoce,1 come si parla nelle
scuole. Ma non potrebbero dirsi sue creature se non fossero state
dal niente ridotte in qualche essere, ancor che flussile, variabile e
sempre mobile ed inconstante, le quali a riguardo del primo essere
possono ben dirsi che non siano, ma non perciò saranno uno spazio
vano; sono cose, ma che tutto il loro essere lo derivono da Dio che
gli puoi fare meritare il nome di sostanza, alla quale aggiunto l'attri-
buto di longo, lato e profondo, fassi che possa denominarsi su-
stanza esterna, che la distingue dalla sustanza divina, ch'è incor-
porea ed infinita, e della quale per la sola nostra cogitazione, non
già per li sensi e per l'imaginazione, possiamo averne idea. Così
non errerà chi dice che l'estensione sia una modificazione della
sostanza, e per conseguenza lo spazio inane ed immaginario non sarà
corpo, né sostanza estensa, né creatura, ma un puro niente. Egl'è
vero che alcuni questa sostanza che riconoscono nelle creature non
han potuto separarla dalla sustanza divina, e che Iddio stesso
fosse la sustanza, la natura e Y essere di tutte le cose ; nel che, oltre
Benedetto Spinosa, ch'ha questa dottrina per fondamento del suo
sistema, par che inclini eziandio Malebranche,2 poiché a Dio tutto
rifonde. Ed in vero, siccome si è veduto nella prima parte, così
interpretavano il Dio di Mosè i gentili, che fosse nel tutto, e che
ogni cosa in lui fosse: sicché quest'avere che alle cose si dà non lo
credevano dipendere da Dio, come egli dal niente l'avesse create,
non potendo ciò capire, sul pregiudizio che da niente si fa niente,
ma che fosse Iddio stesso; e Malebranche dice di più, che tutte le
operazioni che s'attribuiscono alle cause 2e devono attribuirsi ad
Iddio e non alla virtù ed efficacia forse dateli nel principio della
creazione, dicendo che Dio tutto fa, perché egli è il tutto. Fozio
nella sua Biblioteca^ cod. 244, pag. 1151, ci conservò, come si è
detto, quel lungo passo tratto dal quarantesimo libro di Diodoro
Siciliano, ora perduto.3 Dove questo insigne storico, rapportando
x. unwoce: in Parente (p. 295) « unione ». 2. Spinosa . . . Malebranche: sul
rapporto fra Spinoza e Malebranche cfr. P. VerniÈre, Spinoza et la pensée
francióse ecc., càt., 1, pp. 167-71. Il Giannone conosce perfettamente
tatta l'opera dì Spinoza, come mostrano i suoi appunti in Archivio di Stato
li Torino, manoscritti Giannone, mazzo 1, ins. 16. Cfr. G. Ricuperati,
Istoria civile e storia ecclesiastica in P. Giannone, in «Bollettino di studi
Ji storia valdese»* dicembre 1963, n.° n, pp. 30-1. 3. Fozio . „ . perduto:
fc Fozio, BiUiatheca, in Migne, P. G., cui, coli. 1391 sgg.
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. III 639
la religione e le savie leggi stabilite da Alosè al popolo ebreo, narra
che degnamente costui concepì l'idea di Dio, facendolo non di
forma umana o di animale, come l'altre nazioni se '1 finsero, ma
ch'egli solo contenesse in sé e cielo e terra e mare e tutto : ^ Imagines
deorum » e' dice ' omnino non sculpsit, quod putavit humana Deum
non videri forma, sed coelum terram ambiens esse Deum, et om-
nia suo imperio gubernare d.1 Erodoto questa istessa opinione, co-
me pure fu avvertito nella parte prima, rapporta de' Persiani.2
Gli stoici confusero eziandio le creature col creatore, e Seneca, lib.
6 De beneficiti, cap. 7, scrisse pure: 'Deum non esse sine natura».3
Cicerone ci ha conservato pure un frammento di Pacuvio4 poeta,
il quale di Dio pur tenne lo stesso concetto, dicendo: "Quidquid
est hoc, omnia animat, format, alit, auget, creat, / sepelit, recipitque
in sese omnia omniumque idem est pater, , indidemque eademque
oriuntur de integro atque eodem occidunt».5
Quindi Manilio, in quel suo elegantissimo carme consegrato ad
Augusto, cantò pure:
Omnia mortali mutantur lege creata^
nec se cognoscunt terrae vertenttbus annis.
Exutae varìant faciem per saecida gentes,
at manet incolumis mundus, suaque omnia servai;
quae nec longa dies auget mimritque senectus;
nec motits puncto currit cursusque fatigat.
1. « Imagines . . .gubernare»: prosegue la citazione di Diodoro da Fozio,
op. cit., col. 1391. (Qui il testo del Migne corrisponde esattamente a quello
citato dal Giannone. «Non modellò affatto effigie alcuna di divinità, poi-
ché riteneva che Dio non potesse esser visto con sembianze umane, ma che
Dio fosse il cielo che gira intorno alla terra e che egli reggesse col suo co-
mando ogni cosa»). 2. Erodoto ... Persiani: vedi la nota 1 a p. 601.
3. Seneca naturai cfr. De ben.y rv, vili : « quia nec natura sine deo est nec
deus sine natura, sed idem est utrumque, distat officio ». Questa citazione il
Giannone la trae da S« Deyijng, Observationum ecc., cit., pars 11, obser. 1,
An auctor Pentateuchi Moses fuerit pantheista?, p. 3. Tutto il brano se-
guente del Giannone è tratto dal Deyling, ma non si tratta di un semplice
plagio. Il Giannone, come si è già detto, inquadra nel suo discorso il mate-
riale che gli offre il Deyling, ma non ne condivide affatto lo spirito che è
di polemica contro Spinoza e Toland. 4. Pacuvio: in ven il nome è stor-
piato in maniera illeggibile. 5. Cicerone . . . occidunt: cfr. De divinatione,
1, lvti, 131. Si tratta di un frammento della tragedia Cryses di Pacuvio. Il
Giannone non cita però direttamente, ma di seconda mano dal Deyling,
op. e loc. cit., p. 3 («Qualunque cosa ciò sia, tutto anima, forma, nutre,
accresce, crea, tutto annienta e richiama a sé, e di tutte le cose è il medesimo
padre, e tutte ugualmente e sempre le stesse nascono di nuovo e allo stesso
modo finiscono»).
640 IL TRIREGNO
Idem semper erit, quoniam semper fuit idem.
Xon alium ridere patres* ahumve nepotes
adspicient: Deus est qui non mutatur in aevo.1
Strabone, reputando che Mosè fosse di quest'istessa credenza,
parlando di lui nel lib. 16 disse: - Afìirmabat enim docebatque
Aegyptios non recte sentire, qui bestiarum ac pecorum imagines
Deo tribuerent; itemque Afros et Graecos, qui diis hominum fìgu-
ram efnngerent. Id vero solum esse Deum quod nos et terram
ac mare continet, quod coelum et mundum et rerum omnium
naturam appellamus, cuius profecto imaginem nemo sanae mentis
alicuius earum rerum quae penes nos sunt similem audeat effin-
gere. Proinde omni simulacrorum effictione repudiata, dignum ei
templum ac delubrum constituendum ac sine aliqua figura colen-
dum;>.a
Donde avvenne che alcuni, per rendere il contro cambio ai nostri
teologi, han detto che Mosè fosse panteista, ovvero spinosista ;3 che
con Dio confondesse pure tutte le cose e credesse ch'Iddio fosse
lo stesso che la natura e tutto l'ampio universo.4
Ma, in verità, la dottrina di questi gentili filosofi non è in tutto
1. Quindi Manilio . . . aevo: la citazione di Manilio, Astronomica^ 1, 515-
23, deriva dal Deyling, op. e loc. cit., p. 3. A sua volta il Deyling, inconfes-
satamente, trae tutte le citazioni, di Seneca, Pacuvio e Manilio, dal de la
Fave, Defensio ecc., cit., p. 248, che le traeva dal Toland, Origines iudaicae
cit., pp. 106-8 e 1 18-9. Il Toland le riprendeva nel Pantheisticon, Cosmopoli
(ma London) 1720, p. 55, che anche il Giannone poteva conoscere, essendo-
vene copia a Vienna presso il principe Eugenio. (« Tutte le cose create si mu-
tano secondo una legge mortale, e più non si conosce la terra col volger degli
anni. Spogliate, cambiano aspetto le stirpi nei secoli; ma l'universo rimane
intatto e conserva ogni sua cosa, che né la durata dei giorni accresce, né
scema la vecchiaia, né il moto affretta di un istante, né la corsa affatica.
Sempre sarà il medesimo, perché il medesimo sempre fu. Non ne videro i
padri uno diverso da quello che vedranno i nipoti. È Dio che non si muta
per l'eternità <*). 2. Strabone . . . colendum: vedi la nota 1 a p. 603 (a Infatti
sosteneva e insegnava che gli Egizi non l'intendevano bene, poiché attri-
buivano a Dio figura d'ammali e di bestie; e ugualmente gli Africani e i
Greci poiché ritraevano gli dei con aspetto umano» ecc.). 3. Donde . . .
spinosista: cfr. S. Deyling, op. e loc. cit., dove si rimanda polemicamente,
oltre che allo Spinoza, al Toland del Pantheisticon e al deista inglese An-
thony Collins. Cfr. p. 7: «Tolandus pantheìsmi auctoritatem conciliaturus
ipsum Mosem in pantheistarum sive spinosistarum numerum referre non
dubitavit — ». 4. che con Dio — universo: cfr. S. Deyling, op. e loc.
cit., p. 8: «Nam secundum theologiam Spinozae et Tolandi, machina
mundi, sive natura metaphysica universalis est deus, et vicissim deus est
mundus in metaphysica abstractione sumptus ... ».
DEL REGNO TERRENO - PARTE II • CAP. Ili 64I
conforme ai sentimenti di Mosè, che ci espresse ne' suoi libri,
come è per se stesso manifesto a chi attentamente ne' medesimi
riguarderà la destinzione che fa tra creatore e creatura; o almeno
de che in quelli al uomo s'attribuisce propria e naturai malizia, e
che sia una creatura di sua natura inclinata al male, cosa dall'idea
di Dio, secondo Mosè istesso, affatto lontana ed impropria; sep-
pure non voglia dirsi che la bontà e la malizia siano modificazioni ed
attributi della sostanza, la quale per la stessa considerata, trascende1
da ogni vizio o virtù ; ed Iddio, secondo la sustanza, è tutto l'uni-
verso, non già a riguardo delle modificazioni, che nulla sono né
hanno proprio e vero essere. Meglio questa dottrina si adatta al-
l'opinione di quei filosofi (alla quale finalmente, tolta ogni equi-
vocazione, par che si riduchi il sistema di Spinosa), li quali, sic-
come s'è detto, confusero Iddio colla natura, e ciò che Mosè disse
di Dio attribuiscono alla natura, includendo nella medesima tutto
l'ampio universo, che perciò lo finsero eterno, infinito e che non
ebbe principio alcuno siccome non avrà mai fine, siccome Lucre-
zio ci descrisse i primi semi e princìpi delle cose, e che sono,
furono e saranno in eterno.2
11
Siccome non possiam sostenere l'ipotesi di Cartesio, se alla
estensione non sia dato per appoggio cosa creata che per sé sussista,
così a torto fugli imputato che, secondo il suo sistema, l'universo
senz'architetto fosse surto, e che, secondo le leggi del moto, il tutto
meccanicamente siasi fatto, poiché egli non men quelle leggi l'ha
come da Dio dettate,3 ma il moto istesso lo fa prodotto, non eterno
ed increato, dicendo che Iddio non men creò nel principio la ma-
teria che il moto istesso, ed egli prescrisse quelle leggi che ne* corpi
che si movano osserviamo. Nell'idea che abbiamo del corpo, e'
dice, non c'includiamo certamente moto alcuno, e molto meno
x. o almeno de . . . trascende', il testo è probabilmente corrotto. In Parente
(p. 297) è mutilo: «o almeno è strano ed improprio e non combinabile col-
Tidea di Mosè tutto ciò che da costoro si è stranamente attribuito al creatore
di malizia e d'inclinazione al male. Né perché la malizia e la bontà sieno
modificazioni ed attributi della sostanza, la stessa però, considerata da sé,
trascende » ecc. Evidentemente il copista napoletano è intervenuto per dare
un senso alla frase. 2. siccome Lucrezio . . . eterno: cfr. De rer. nat.9 1, 54-
264; 483-550. 3. dettate Parente (p. 298); dottate ven.
642 IL TRIREGNO
quiete. Sicché l'estensione non ha niente di commune col moto e
colla quiete, o che fossero sue apparenze. Iddio nella creazione della
materia lo diede e communicò a' corpi, ed Iddio ce lo conserva nel-
la quantità istessa che sin dal principio gli diede con quelle leggi.
Né perché da poi in seguela dalle medesime, serbando un tenor
costante, ne sia surto meccanicamente tutto ciò che s'ammira in
questo mondo aspettabile, possiamo dire che sia prodotto senza
architetto. Anzi ammiriamo piuttosto la sapienza ed onnipotenza
del fabro, che per vie cosi semplici e piane, secondo quelle schiette
e facili leggi di moto impresso alla materia, ne abbia potuto fare
sorgere una macchina sì varia ed ammirabile, e sì portentosa e stu-
penda. Ma è altresì vero che si attendano le acute riflessioni di
Newtone e di . . .,* i quali han dimostrato che l'ipotesi di Car-
tesio e la sua meccanica non basta a far che i corpi celesti abbiano
quel moto circolare e periodico e che dovrebbero, assai confuso
e disordinato, non così metodico come l'osserviamo. Certamente
che a Dio che lo regola, a libro, dovrem ricorrere.2 Secondo questo
filosofo adunque, questa gran macchina del mondo surse da que-
gl'elementi e secondo le leggi del moto che Iddio impresse alla
materia; tutto fu prodotto e s'ebbe quel ordine che nell'universo
si vede, poiché, poste tali leggi, questa disposizione e non altra
doveane seguire, e tutto quello che in natura accade secondo queste
immutabili leggi, spontaneamente non meno che di necessità suc-
cede. Egli ancora, secondo questi suoi princìpi, spiega tutti i feno-
meni che osserviamo in natura: quanto nel cielo, nel sole, nelle
stelle e nelle comete si vede; quanto nella terra e negli altri pianeti.
Ciò che nel mare e suo flusso e riflusso, e quante meteore nell'aria
si formino ; ciò che nella terra si produce, nelle mine de5 metalli e
dentro le sue viscere de' tremuoti e de' fuochi sotterranei. Il prodi-
gioso fenomeno della magnette, la produzione del fuoco, del lume,
1. di Newtone e di . . .: il copista del codice veneziano ha storpiato in «Me-
celtone a il nome di Newton. Il Giannone, come conferma questo brano,
conobbe, a Vienna, almeno indirettamente, l'opera del Newton; infatti
fra le sue carte si trova un fascicolo autografo, Agger obiectus cartesùmorum
vorticum ehmionibus, che è del suo amico e concittadino Bernardo Andrea
Lama (Archivio di Stato di Torino, manoscritti Giannone, mazzo I, ins. 19)
e che è la traduzione latina di un articolo comparso sulla « Bibliothèque
italique » a favore di Newton. L'altro nome, che il copista ha omesso, è
probabilmente quello di Christian Huygens (1629-1695), fisico-matematico
e astronomo olandese. 3. Ma è altresì . . . ricorrere: questo brano manca
in Parente (p. 298).
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. Ili 643
de' colori, del suono, e mille e mille altre ricerche che ciascuno non
senza maraviglia e piacere può vedere nella 4** parte de' suoi Prin-
cìpi: ed in ciò certamente tolse il preggio a Lucrezio, dandoci una
più verisimile e più solida filosofia. Ne diede anche altri chiari e
manifesti saggi negF ammirabili suoi trattati della Diottrica e delle
Meteore* ch'egli perciò chiama Specimina, per confermare mag-
giormente l'ipotesi da lui formata ad essere sufficiente a spiegare
tutti gl'effetti ed ammirabili fenomeni della natura e rinvenire le
cagioni ; e con questi soli suoi princìpi e leggi del moto senza ricor-
rere a qualità, a cagioni finali o virtù occulte, come si facea: già
ch'era lo stesso che ignorarle e pascere di vento gl'intelletti umani
con vane ed inutili parole.
Non in tutto piacque agl'ultimi filosofi de' nostri tempi il sistema
del mondo di Cartesio, e ne foggiarono de' nuovi. Tra gl'inglesi
Tomaso Burnet2 ne immaginò un altro, e di poi M.r Wlston3 ne
concepì altro più ingegnoso, i quali posero ogni loro studio per
adattare le loro immaginazioni ed ipotesi alla creazione del mondo
secondo che ce la descrisse Mosè. Ma, se bene intorno a quel che
s'è detto dello spazio ed in alcune poche cose di sopra notate pos-
sono riprendere d'errore il Cartesio, incomparabilmente riesce più
verisimile quello ideato da questo gran filosofo, che i di loro sistemi
bizzarri, vani e fantastici.
Ciò che Cartesio avea perfezionato intorno il sistema del mon-
do, avea egli in animo di proseguire intorno all'uomo, e perciò
avea destinato alle quattro parti de' suoi Princìpi aggiungerne due
altre: nella quinta trattar delle piante ed animali, e nella sesta
àtWnomo. Ma per molti esperimenti che li mancavano, e perché
senza una esatta perizia di notomia non se ne potea con fondamento
filosofare e venirne a capo, differì l'impresa, essendosi perciò dato
allo studio di notomia, a questo fine dandone intanto nella quarta
parte un breve saggio. Egli, se morte pur troppa acerba ed im-
1. Diottrica . . . Meteore: R. Des Cartes Specimina philosophiae, seu dis-
sertatio de methodo recte regendae rationis et verìtatts in scientiis investigandae;
Dioptrice et Meteora. Ex gallico translata [a S. de Courcelles] et ab auctore
perlecta variisque in locis emendata, Amstelodami 1644. 2. Thomas Burnet
(1635 ?-i7i5), teologo inglese. Scrisse Telhtris theoria sacra (Amstelodami
1694) e il De statu mortwrum et resurgentium Uber (Londini 1720). Il Gian-
none possedeva una copia di quest'ultima opera. Cfr. L. Stephen, History
of English Thought ecc., cit., 1, pp. 68 sgg. 3. Wlston: Thomas "Woolston
(1669-173 1), uno dei più radicali fra i deisti inglesi. Cfr. L. Stephen, op.
cit., pp. 100-13.
644 IL TRIREGNO
matura non avesse resi vani i suoi disegni, avea deliberato, dopo
avere trattato delle piante, degl'animali e dell'uomo, per raccorre
qualche frutto di tante sue gloriose fatiche, di procurare, se mai
fosse possibile, di spingere più innanzi le conoscenze intorno alla
medicina, prefiggendosi per ultima mèta lo studio della morale,
fine dell'uomo, ed alla quale dee egli dirizzare tutti i suoi precedenti
studi, che sempre riusciranno vani ed inutili se non saranno driz-
zati a questo fine.
La morale è quella che ci fa riflettere a dovere di tante ammira-
bili opere della natura renderne grazie al creatore ed infiammarci
del di lui amore, e prendere di esse quel buon uso che si conforma
alla giustizia ed all'onestà, e di non far ad altri ciò che a noi non si
vorrebbe essere fatto. E siccome della medicina non se ne pretende
altro uso, se non sani i nostri corpi, così della morale per le nostre
menti, aftinché in noi « sit mens sana in corpore sano ». La morale
è quella che alle cose ci fa aggiungere i fini ed i rispetti, poiché, se
quelle si considerano fisicamente, non ci trovaremo fine alcuno.
La natura fisicamente considerata è cieca ed opera secondo il co-
stante tenore delle sue eterne ed invariabili leggi, e solo Iddio che
la creò può mutarla e darle altro corso.1 L'uomo, dottato di miglior
accorgimento che non è ne' bruti, hawi nelle cose trovato il fine
e ridottele ad uso. Né bisogna credere che quanto è nell'ampio
universo tutto siasi prodotto unicamente per l'uomo, e che di tutto
ciò che contiene non vi possa essere altro uso. L'uomo non è che
una minima parte dell'universo, né fu da Dio creato per avere tutte
l'idee delle cose che racchiude, ed aver uso del tutto, ma, avendolo
Iddio dottato di miglior discorso, al quale i bruti non possono ar-
rivare, questo ha fatto che delle cose arnmirabili della natura abbia
saputo trovarne uso ed adattarle a' suoi fini. Perciò si dice avergli
Iddio sottoposta la terra e tutto ciò che in essa vive e cresce, cioè
piante ed animali, e perciò d'averlo creato a sua imagine e simili-
tudine, per l'intelletto del quale lo fornì più sublime, affinché avesse
potuto dominare la terra e tutto ciò che in essa vive e cresce. Ma
questo non fa che quanto si produce in natura tutto si faccia per
l'uomo, e che Iddio per l'uomo avesse creato ogni cosa: «Quamvis
enim (dice saviamente Cartesio nel principio della terza parte de'
i. Sul rapporto morale-natura cfr. J. Ehrakd, Vìdee de nature en France
dans la première moitiè du XVIIIe siècie, Paris 1965, 1, cap. vii, pp. 331 sgg.
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • CAP. Ili 645
suoi Principi)1 in ethicis sit pium dicere omnia a Deo propter nos
facta esse, ut nempe tanto magis ad agendas ei gratias impellamur
eiusque amore incendamur; ac quamvis etiam suo sensu sit verum,
quatenus scilicet rebus omnibus uti possumus aliquo modo; saltem
ad ingenium nostrum in iis considerandis exercendum, Deumque
ob admiranda eius opera suspiciendum : nequaquam tamen est
verisimile sic omnia propter nos facta esse, ut nulius alius sit eo-
rum usus ; essetque piane ridiculum et ineptum id in physica con-
sideratione supponere, quia non dubitamus quin multa existant
vel olim extiterint, iamque esse desierint, quae nunquam ab ullo
nomine visa sunt aut intellecta, nunquamque ullum usum ulli
praebuerunt ». E nella terza Meditazione2, così ragiona: ' Cum enim
sciam naturam meam esse valde infìrmam et limitataci, Dei autem
naturam esse immensam, incomprehensibilem, infìnitam, ex hoc
satis etiam scio innumerabilia illum posse quorum causas ignorem;
atque ob hanc unicam rationem totum illud causarum genus quod
a fine peti solet, in rebus physicis nullum usum habere existimo.
Non enim absque temeritate me puto posse investigare fines Dei».
Per la qual cosa saviamente ponderò Bacon di Verulamio, Kb. 3
De augm. sciente, cap. 4,3 che fu maniera indegna d'un filosofo
quella che sovente tennero Aristotile e Platone di indagare nella
1. Principia philosophiae cit., pars tertia, De mundo adspectabili, § ni, p. 44
(t Per quanto infatti nell'etica sìa pio dire che tutte le cose sono state fatte
da Dio per noi, in modo da essere spinti a rendergli tanto maggiori grazie,
ed essere esaltati dal suo amore; e per quanto sia anche vero, in un certo
senso, dato che di tutte le cose possiamo fare uso in qualche modo, almeno
per esercitare il nostro ingegno nel considerarle, e per scorgere Dio attra-
verso le sue opere mirabili: non è tuttavia assolutamente verosimile che
tutte le cose siano state fatte per noi in tal modo, che non vi sia nessun altro
uso di esse; e sarebbe senz'altro ridicola e poco acconcia questa supposizione
in una considerazione di fìsica, poiché non dubitiamo che esistano molte
cose, o che siano un tempo esistite, e che già abbiano cessato di essere, le
quali non furono mai viste o intese da alcun uomo, e che non offrirono mai
alcun uso ad alcuno»). 2. nella terza Meditazione: non ni, ma rv, De vero
et falso. Cfr. R. Des-Cartes Meditationes de prima phUosophia, in quibiis Dei
existentìa et animae humanae a corpore distincto demonstrantur . . ., Amstelo-
dami 1678, p. 26 («Sapendo infatti che la mia natura è assai debole e limi-
tata, e quella di Dio invece è immensa, incomprensibile e infinita, da ciò so
anche a sufficienza che egli ha potere di fare un'infinità di cose, di cui ignoro
il motivo ; e per questa unica ragione ritengo che tutto quel genere di cause
che soglion trarsi dal fine, nella fisica non è di nessun uso. Poiché credo che
non mi sia possibile investigare i fini di Dio senza temerità-)). 3. De digni-
tate et augmentis scientiarum libri IX, Londini 1623, lib. ni, cap. ni (e
non rv).
646 IL TRIREGNO
natura fisicamente riguardata questi fini, quasi che da lei fossero
intesi, e che perciò forni gli occhi di palpebre per diffenderli dalla
polvere e dai raggi solari, e che avesse proveduta alla faccia d'una
cute delicata insieme e forte, affinché, dovendo essere sempre espo-
sta all'aria, non ricevesse oltraggi da' corpi che la circondano; e
mille altre puerilità e cagioni finali inventate a capriccio, fingendo
in ciascheduna opera di natura particolare intelligenza che Pin-
drizzi e guidi. La natura è per se stessa cieca, e niente opera a
determinato fine che ella s'abbia; e perciò non devono riputarsi
cotanto empi i libri di Lucrezio che pur ciò insegnano, e que' suoi
versi quando, fisicamente parlando, disse, lib. 4, ver. 832:
Nil ideo quomam natum est in corpore ut uti
possemus, sed quod natum est id procreai usum.
Nec fuit ante ridere oculorum lumina nata,
nec dictis orare prius quam lingua creata est;
sed potius longe linguae praecessit origo
sermonemt multoque creatae sunt prius aures
quam sonus est auditus, et omnia denique membra
antefuere (ut opinor) eorum quam f or et usus.1
Intorno a che è da vedersi Gassendo, tom. 2 Phisicae Sect. 3,
memi, post., lib. 2, cap. 3,2 ove rapporta altri filosofi che furono dello
istesso sentimento. Quantunque l'incomparabile Cartesio, per l'a-
cerba ed al genere umano purtroppa dolorosa e dannosissima morte,
non avesse potuto condur a fine la meditata sua impresa, e per ciò
che riguarda la filosofia delle piante e degl'animali niente avesse a
noi lasciato, con tutto ciò, per quel che riguarda alla natura e prin-
cìpi dell'uomo, oltre dell'ammirabile suo trattato Delle passioni3 che
diede in luce vivendo, dopo sua morte si trovorono pregiatissimi
manuscritti, ne' quali è manifesto ch'egli avea posto mano alla fa-
brica dell'uomo, ed a spiegarcene i suoi princìpi e fattezze; e quan-
tunque l'opera non si fosse ridotta al suo compiuto fine, come si
1, De rer. nat., rv, 834-41 («Poiché nessun organo del nostro corpo è stato
creato per nostro uso; ma è Porgano che crea Puso. Né fu possibile vedere
prima che fossero nati gli occhi, né parlare prima che fosse creata la lingua;
ma piuttosto l'origine della lingua precedette di molto il parlare, e le orec-
chie sono state create assai prima che il suono fosse percepito, e infine,
così credo, vi furono tutte le membra prima che ce ne fosse Puso»).
2. Cfr. ed. cit., tom. il, Physicae sectio IH, Membrum posterius, lib. il, De
usu partium in animaUbus, cap. ih, pp. 197 sgg. 3. trattato Delle passioni:
R. Des-Cabtes, Les passions de Vàme, Paris 1649.
DEL REGNO TERRENO • PARTE II • GAP. Ili 647
vede da' suoi principiati1 e non compiti trattati De homine et de
f or mattone foet us,2 dove egli avea proposto prima trattare del corpo,
da poi separatamente anche dell'anima, e finalmente dimostrare
t quo pacto hae duae naturae iunctae et unitae esse debeant ad
componendos homines, qui nobis similes sint->; e non ci avesse
lasciato che la descrizione del corpo e la maniera colla quale e' cre-
dette dal seme formarsi nell'utero delle nostre madri il feto, nul-
ladimanco tanto bastò che si dasse stimolo agli altri ài proseguire
l'impresa, e seguendo la sua traccia,3 adempire come si potè meglio
le sue promesse; nel che non possiamo defraudare della meritata
lode Ludovico de la Forge,4 il quale, oltre averci date savie note
sopra quel trattato De homine, procurò eziandio supplire la seconda
parte col suo trattato De mente fiumana; e Malebranche nel suo
dotto e savio libro De inquirenda meritate procurò in qualche modo
supplire anche alla terza. Gioverà pertanto al nostro istituto che
qui si rapporti ciò che questo filosofo credette intorno alla produ-
zione e natura dell'uomo, e di quali sostanze lo facesse composto.
1. principiati Parente (p. 302) ; principi ven. 2. R. Des-Cartes Tractatus
de homine et deformationefoetus, quorum prior notis perpetua L. de La Forge
Ulustratus, Amstelodami 1677. La prima edizione in francese, sempre a cu-
ra del de La Forge, Paris 1664 («in che maniera queste due nature debbano
essere congiunte e unite per produrre uomini che siano simili a noi»).
3. traccia Parente (p. 303); travia ven. 4. Louis de La Forge, medico
francese che esercitava a Saumur intorno al 1660. Il Giannone si riferisce al
Tractatus de mente kumana, eiusfacultatibus etfunctionibus, necnon de eiusdem
unione cum corpore secundum Principia R. Descartes, Amstelodami 1669,
la cui edizione in francese era uscita a Parigi nel 1661. Sul de La Forge
cfr. J. S. SprNK, French Free-Thought ecc., cit., pp. 207, 209, 227, 243.
LIBRO SECONDO
DEL REGNO CELESTE
INTRODUZIONE
A' tempi di Tiberio Augusto, essendo tetrarca della Gallilea Erode
Antipa e proconsule della Giudea Ponzio Pilato, da' deserti vicini
al Giordano si vidde uscire un uomo selvaggio, che non si cibò che
di miele silvestre1 e di locuste, e non cinse le sue reni che di cuoio,
né vesti le sue membra che di peli di camelo, il quale andava gri-
dando per le contrade: r Poenitentiam agite; appropinquavit enim
regnum coelorum :>.3 Era costui Giovanni figliuolo di Zaccaria, sa-
cerdote della stirpe di Abia, nato prodigiosamente da Elisabetta,
vecchia e sterile, in un luogo posto fra le montagne della Giudea,
il quale, fin dalla sua giovinezza vivendo nelle solitudini di quei
deserti, non ne uscì3 se non dopo che pervenne all'età di trent'anni,
annunziando questo nuovo regno celeste ed un nuovo messia, di
cui egli era solo precursore ed indegno nemmeno di potergli scal-
zare le scarpe da' piedi, al quale dovessero credere; e che siccome
egli battezzava nell'acqua, così costui avrebbe battezzato nel fuoco
e nello spirito.
Per questo nuovo messia intendeva Giovanni Gesù di Nazaret,
città della Gallilea, nato in Betelem di Giudea, mentre i suoi pa-
renti Giuseppe e Maria, della famiglia di David, da Nazaret si
portavano nella Giudea per ubbidire all'editto della numerazione
di Cesare Augusto in far descrivere4 i loro nomi in Betlemme,
città della stirpe di Davide, poiché ciascheduno dovea professare
nella città della propria casa e famiglia d'onde traeva l'origine.
Questo fu quell'aspettato messia che dovea Iddio mandare in
terra per ridimere l'uman genere e purgare l'umanità di que' vizi
contratti per la caduta del primo uomo Adamo. Questi come figliuol
di Dio dovea incarnarsi, accoppiando alla divina l'umana natura,
per la quale unione venne l'intiera umanità a nobilitarsi; e, dive-
i. miele silvestre: lezione del codice viennese (o.n.b.); cfr. Matth., 3, 4:
«esca autem eìus erat locustae et mei silvestre», ven ha «erbe silvestri».
z. iMatlh, e. 3. v. 2 » (Ò.N.B.). 3. non ne usci ò.n.b. ; non uscì ven. 4. de-
scrivere ven e Ò.N.B.; Parente (p. 3) corregge in «iscrivere», ma cfr. Lue,
2, 1 : «Factum est autem, in diebus illis exiit edictum a Caesare Augusto,
ut describcretur universus orbis ».
DEL REGNO CELESTE * INTRODUZIONE 649
nendo egli fratello di tutti gli uomini, fece sì che fossero i medesimi
degni di essere ammessi come suoi coeredi al regno di suo padre,
non essendo stato altro lo scopo principale di questa incarnazione
che ogni cosa ristabilire e salvare tutti gli uomini, li quali, siccome
in Adamo tutti muoiono, così in Cristo son vivificati, secondo che
ce ne assicura san Paolo.1 Egli dovea abbattere totalmente la spi-
ritual morte degli uomini, ch'era il peccato, e vincere l'inferno;
poiché, distrutto il peccato in tutti gli uomini, non vi è più morte
eternale né inferno.
San Paolo stesso ci dichiara il piacere2 di Dio nell'avere man-
dato in questo mondo il suo figliuolo, che era ^che tutta la sua
plenipotenza abitasse in lui affine di riconciliar seco per mezzo suo
tutte le cose, tanto quelle che sono ne' cieli, quanto quelle che sono
nella terra».3 Chiama perciò questo suo figliuolo incarnato primo
nato di tutte le creature, ed a riguardo degli uomini fratello primo-
genito;4 e siccome egli, essendo figliuolo, è d'ogni cosa erede del
Padre, così ora gli uomini come fratelli di Gesù Cristo divengono
coeredi, e per conseguenza ammessi alla parte dell'eredità di questo
regno celeste.5 Spesse volte san Paolo nelle sue epistole fa questo
confronto di Adamo e di Gesù Cristo e degli effetti che dall'uno e
dall'altro ne ha ricavato Puman genere. Come, egli dice, per un
sol uomo è entrato nel mondo il peccato, e per lo peccato la morte,
così per una sola giustizia giustificante è venuto il dono della giu-
stificazione della vita sopra tutti gli uomini, aggiungendo egli che,
siccome gli uomini sono stati resi peccatori per la disubbidienza di
1. «"Christus Iesus venit in hunc mundum peccatores salvos facere"
Ad Tim. ep. 1. e. 1. v. 15. "Qui omnes homines vult salvos fieri", e. 2. v. 4.
"Et sicut in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivifica-
buntur" I ad Cor. e. 15. v. 22. "Qui destruxit quidem mortem" II ad Tim.
e. 1. v. io » (la nota è in tutti i codici, meno in quello napoletano su cui
Parente ha condotto la sua edizione. La riportiamo, come pure le altre che
seguono, secondo la lezione di ò.n.b., che è la più corretta, anche se è do-
vuta a una mano che in un secondo tempo intervenne appunto nelle note
rifacendole e correggendole). 2. piacere'. Parente (p. 4) scrive «parere-)
seguendo il codice napoletano, ma il codice veneziano, anteriore, ha piacere.
La correzione risale al codice viennese. 3. e A1 Colossensi e. 1. v. 19 et 20:
"Quia in ipso complacuit omnem plenitudinem inhabitare. Et per eum
conciliare omnia in ipsum pacificans per sanguinem crucis eius sive quae
in terris, sive quae in coelis sunt" » (nota presente in tutti i codici, meno
quello napoletano). 4. Chiama . . . primogenito', cfr. rispettivamente Col.,
1, 15 e Rom., 8, 29. 5. e siccome . . . celeste: cfr. Rom.f 8» 15-7 e Gal.,
4, 5-7-
650 IL TRIREGNO
un solo, così per l'ubbidienza di un solo saranno resi giusti; e
siccome un tempo abbondò il peccato, così ora soprabbonderà la
grazia,1 la quale farà che gli uomini che prima nati di terra erano
destinati per un regno terreno, saranno ora innalzati ad un su-
premo regno celeste.
Gesù Nazareno, adunque, dopo aver nel Giordano ricevuto da
Giovanni il battesimo dell'acqua, essendo arrivato all'età di circa
trentanni, cominciò ne' luoghi vicini, e dappoi nelle sinagoghe
stesse, a predicare e discovrire questo nuovo regno celeste fino a
questo tempo a tutti ignoto e che era già prossimo ad arrivare,
dicendo pure: Poenitentiam agite, appropinquavit enim regnum
coelorunr).3 E non pure, scorrendo nelle città e castelli della Galli-
lea e della Giudea, alle turbe, ma dentro le sinagoghe stesse inse-
gnava e predicava questo nuovo regno, come ce ne rende testimo-
nianza l'evangelista Matteo, testimonio di veduta, dicendo : « Do-
cens in synagogis eorum et praedicans Evangelium regni»;3 ed
altrove:4 «Circuibat Iesus omnes civitates et castella, docens in
synagogis eorum et praedicans Evangelium regni». Co' suoi disce-
poli e colle turbe il soggetto più frequente de' suoi discorsi non
era che di favellare di questo regno, valendosi per ispiegarlo e
adattarlo alla loro intelligenza di parabole e similitudini, ora prese
dal5 granello della senape, ora dalla zizania cresciuta ne' campi,
ora dalla buona semenza, ora dal fermento ascoso nella farina,
ora dal tesoro nascosto, ed ora da altre somiglianze delle quali san
Matteo fa lunghe e spesse ricordanze.6 Ma le turbe con tutto ciò
non arrivavano a capirlo, e maravigliando fra sé dicevano : « Quid-
nam est hoc ? Quaenam doctrina haec nova ? ».7 E molto più se ne
stupivano in Gallilea i suoi compatrioti quando nelle sinagoghe di
Nazaret cominciò ad insegnare questa nuova dottrina dicendo:
«"Unde huic haec omnia? Et quae sapientia est quae data est illi
et virtutes tales quae per manus eius efficiuntur? Nonne hic est
faber, filius Mariae, frater Iacobi et Ioseph et Iudae et Simonis?
1. Come . . . grazia: cfr. Rom., 5, 12; 5, 18-20. -giustificazione della vita è
lezione di ò.n.b. : cfr. Rom., 5, 18: «in iustifìcationem vitae». ven e Parente
(p. 5) hanno « giustificazione a. 2. «Mattk. 4. e. 17» (5.N.B.). 3. «Cap. 4.
v. 233 (ò.n.b.). 4. «Cap. 9. v. 353 (ò.n.b.). 5. dal: lezione di ò.n.b. Il
codice yen ha « il a. Anche i dalla e i dal che seguono sono lezione di 5.N.B.,
mentre ven ha rispettivamente «della» e «del». 6. «Cap. 13. e cap. 25»
(ò.n.b.). 7. *Marc. 1, 27» (ò.n.b.).
DEL REGNO CELESTE • INTRODUZIONE 651
Nonne et sorores eius hic nobiscum sunt?". Et scandalizabantur in
ilio j».1 Ma i suoi discepoli non se ne scandalizavano, poiché ad essi
era stato dato di conoscere questi misteri, e agli altri no ; epperciò,
quando gli domandavano perché parlava alle turbe in parabole,
loro rispose : '< Quia vobis datum est nosse mysteria regni coelorum,
illis autem non est datum j>.s
Questa dottrina di regno celeste sembrò nuova agli Ebrei, per-
ché non aveano altro concetto di regno che di terreno. Molto più
strana e nuova sembrò a' gentili; ed in Atene, quando que' filosofi
epicurei e stoici udirono san Paolo che parlava di questo nuovo re-
gno e della resurrezione de' morti, tutti sorpresi dalla novità di-
cevano: «Quid vult seminiverbius hic dicere?»; e portatolo avanti
l'areopago gli domandavano : « Possumus scire quae est haec nova,
quae a te dicitur, doctrina ? >).3
Perciò da' Padri antichi della Chiesa fu detto che Gesù, nuovo
messia, fu il primo a rivelarlo ed a prometterlo4 agli uomini, onde
Tertulliano5 la chiamò a ragione <- novam promissionem regni coe-
lorum ». E Crisostomo,6 nell'omelia recitata nel di festivo dell'ascen-
sione del Signore, quando si venne a consumare interamente il di-
segno della venuta del messia in terra, che non era altro che rive-
lare agli uomini questo nuovo regno, e, precedendo egli come capo
e primogenito de' risuscitati, far degni anche gli uomini come sue
membra della possessione del medesimo, dice: «Nos qui terra
videbamur indigni, hodie in coelum sublati sumus. Qui ne terreno
quidem principatu eramus digni, ad supremum cadeste regnum
ascendimus.7 Coelos pervasimus, thronum regalem, atque do-
minium apprehendimus, et natura, propter quam paradisum ser-
I. a Marc. 6. v. 2 et 3» (ò.n.b.). 2. cMatth. 13. 11» (ò.n.b.). 3. a Ada
apostol. cap. 17. v. 18 et 19^ (ò.n.b.). 4. rivelarlo . . .prometterlo Ò.N.B.;
rivelarla . . . prometterla ven. 5. «De praescrzpt. adv. haeret. czp. 13 >
(ò.n.b. - È il Liber de praescriptionibus adversus haereticos, in Migne, P. L.,
II, coli. 26-7. Cfr. Vita, qui a p. 224). 6. «Homil. 45. de ascerà. Dom.
Tom. 11. edit. parisien. Baron de Montfaucon pag. 449 d *j (ò.n.b. - In
ascensionem Burnirà nostri Iesu Ckristi sermo, in Migne, P. G., l, col. 445.
Cfr. Vita, qui a pp. 224-5). 7. ad supremum . . . ascendimus è lezione di
Ò.N.B. mancante in ven e in Parente (p. 6), come pure il brano che segue:
thronum . . . apprehendimus. (« Noi che sembravamo indegni della terra, oggi
siamo stati innalzati al cielo ; che non eravamo neppure degni del principato
terreno, siamo ascesi al supremo regno celeste. Abbiamo conquistato i cieli,
ci siamo impadroniti del trono regale e del dominio; e quella natura a mo-
tivo della quale i Cherubini custodivano il paradiso, siede oggi al di sopra
dei Cherubini»).
652 IL TRIREGNO
vabant Cherubini, ipsa supra Cherubini sedet hodie». Il nostro
non men poeta che teologo Torquato Tasso ben mostrò intenderne
la novità quando nella sua Gerusalemme introduce Plutone a ri-
membrar le onte e gli oltraggi che il suo tartareo trono soffriva per
avere il Padre eterno a suo danno mandato il figliuolo in terra a
romper le tartaree porte e por piede ne' suoi regni. La più dura
ed amara rimembranza fu quella che, avendolo scacciato dal cele-
ste regno con gli angioli rubelli che lo seguirono, in lor vece vi
avea invitato gli uomini vili e di vii fango nati :
ne* bei seggi celesti ha Vuom chiamato
Vuom "Cile e di vii fango in terra nato.1
Oltraciò, disceso nell'inferno, quelle anime de' padri antichi che,
in tenebroso luogo essendo, erano a lui dovute, gliele tolse, e resti-
tuitele a' loro corpi, seco in cielo portone:
Ei venne e ruppe le tartaree porte,
e porre osò ne' regni nostri il piede,
e trarne Valme a noi dovute in sorte,
e riportarne al del sì ricche prede,
vincitor trionfando, e in nostro scherno
V insegne ivi spiegar del vinto Inferno.2,
Sarà dunque del nostro istituto il vedere che cosa si fosse questo
nuovo regno celeste, dove sia posto, a chi promesso e che debba
farsi per poterlo conseguire quando arriverà, e se «in die novissi-
mo»,3 «in consummatione saeculi»;4 che sarà frattanto delle nostre
anime prima della resurrezione de' loro corpi, dove saranno,5 e
perciò si farà memoria de' loro alberghi favolosamente immaginati
in cui fossero intanto trattenute ad aspettarvi; né infine ci dimenti-
caremo di favellare di questo vinto inferno apparecchiato pure
agli uomini malvagi e rei.
Divideremo perciò questo libro in quattro parti : nella prima trat-
teremo della natura di questo regno, del tempo quando avverrà,
del luogo ove sia e che debba farsi per possederlo.
Nella seconda tratteremo della general resurrezione de' morti,
i. Ger. Mb., iv, io. II codice veneziano ha «regni» invece di seggi, ma 5.N.B.,
correttamente, seggi. 2. Ger. lib., rv, 11. 3. *in die novissimo»: cfr. Ioan.t
6» 39» 4*>> 44» 55; 7» 37; 11» 24; 12» 48 (sempre «in novissimo die»). 4. «in
consummatione saectdi » : Matth., 1 3 , 49. 5 . dove saranno : lezione di Ò.N.B. ,
mancante in ven.
DEL REGNO CELESTE - INTRODUZIONE 653
come punto più assai importante di quello che communemente si
crede.
Nella terza de' vari alberghi intanto inventati per le anime in
fino alla resurrezione de* loro corpi e delle nuove dottrine sopra
di ciò surte ne' secoli inculti e barbari.
Nella quarta finalmente trattaremo del regno infernale come al
celeste opposto, e quanto si fosse da' nostri teologi sopra il mede-
simo favoleggiato, sicché ne tolsero il pregio a* poeti stessi gentili,
onde la religion cristiana si vidde poi intieramente trasformata in
pagana.
LIBRO TERZO
DEL REGNO PAPALE
PERIODO SECONDO
DALLA CONVERSIONE DI COSTANTINO M. INFINO ALLA
MORTE DELL'IMPERATOR GIUSTINIANO IL GRANDE
E PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
Questo periodo, ancorché non oltrepassi il corso di tre secoli quan-
to fu il precedente, con tutto ciò contiene cagioni più grandi, in
maggior numero, e più vigorose di sorprendenti mutazioni e can-
giamenti che non avvennero ne' passati secoli, mentre l'Imperio
era gentile,1 e gentili tuttavia erano gl'imperatori, il senato, il po-
polo, i magistrati; in fine i rettori e magistrati di tutte le città e
Provincie che lo componevano. E poiché niun è che dubiti che la
cagion potissima di tanta variazione fosse stata la conversione di
Costantino Magno al cristianesimo, è d'uopo che, prima di passar
avanti, qui brevemente se n'espongano i motivi e le cagioni, le
quali invano si cercheranno in Eusebio Cesariense, il quale, avendo
potuto, come contemporaneo, darcene certe e sincere relazioni,
gli è piaciuto invilupparle di tante visioni, favole e menzogne,
quante gli avveduti e diligenti scrittori hanno scoverte non meno
nella sua Istoria che nella Vita di Costantino,2, e, manifestatele nelle
di loro opere, ne han fatti accorti i leggitori. Prima d'Eusebio,
Egisippo e Giulio Africano ne avean tessuta qualche istoria; ma
le memorie si son perdute, e bisogna ora starne alla fede di Euse-
bio, che ne rapporta qualche frammento.
Si sono ancor perdute, sia per frode o per ingiuria del tempo
o negligenza degli uomini, le opere di tanti scrittori de' tre prece-
denti secoli, le quali averebbero potuto somministrarci più accu-
rate e copiose memorie per tessere una esatta istoria ecclesiastica
de' tempi più prossimi alla conversione di Costantino per concepire
un'idea più chiara e distinta delle cagioni e fini. Si sono perduti i
cinque libri di Papia, vescovo di Ieropoli, le Apologie di Quadrato
Ateniese e di Aristide, i ventiquattro libri di Agrippa compilati
contro l'eretico Basilide, i cinque libri di Egisippo, le opere di
Melitone, vescovo sardicense, di Dionisio Corintio e di Apollinare
i. gentile: pagano. 2. De vita imperatoris Constantim libri quatuor, in
Migne, P. G., xx, coli. 910 sgg.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II
J:o
Ieropolitano, e l'epistola di Pinito Cretense. Ove sono le opere di
Filippo, di Musano, di Modesto e di Bardasene? Ove quelle di
Panteno, di Rodano, Milziade, Apollonio, Serapione, Bacchilo e
di Policrate vescovo di Efeso ? Ove l'altre d'Eraclio, di Massimo,
Ammonio, Trifone, Ippolito Africano, Dionisio Alessandrino e di
tanti altri? Di questi non abbiamo che i nudi nomi e soli titoli
presso Eusebio, S. Girolamo1 ed alcuni altri che ce ne conservaro-
no i soli nomi. I libri che, sottratti all'ingiuria del tempo e degli
uomini, sono a noi rimasi, oltre esser pochi, non interi, ma laceri,
trasformati e sol rimastici per misero avanzo, non appartengono
dirittamente all'istoria ecclesiastica, essendo autori ad altro intesi.
I trattati di Giustino, di Tertulliano, di Arnobio, di Teofilo, di
Clemente, prete alessandrino, e di Lattanzio, per lo più si raggi-
rano o a difendersi dalle calunnie e criminazioni delle quali erano
da' gentili imputati i cristiani, o a declamare contro l'empie supersti-
zioni e riti de' gentili, contro le vane loro deità e tanti sognati numi,
ovvero a combattere l'ostinazione e protema de' Giudei. Altri,
come Atenagora, Ireneo, Cipriano, Origene, Tertulliano istesso ed
altri, furon rivolti a confutare gli errori e le sconce opinioni sorte
a' loro tempi, feraci di tanti fantastici e deliranti eretici; ond'è che
dalle loro opere sparsamente di qua e di là si posson raccòrre alcuni
lumi per aver qualche idea della storia della Chiesa, non essendo
a noi rimasto scrittore alcuno che di proposito avesse preso a scri-
verla. Eusebio Cesariense, adunque, ci rimane ora il primo che
cominciò a compilarne un giusto corpo d'istoria, ond'è che si vanti
«se primum aggressum esse hoc argumentum», e nel lib. i, e. i,
Hist. EccUs. ci dica: «Nullis superiorum trita esset via quam ca-
pessebat».2 E, deducendola da' princìpi del cristianesimo, la pro-
segui fino che da Costantino Magno fu Licinio superato ed estinto,
e data intieramente pace alla Chiesa; ciocché avvenne nell'anno ài
Cristo 324. Rufino, dopo averla tradotta in latino, vi aggiunse del
suo due altri libri e la prolungò sino alla morte di Teodosio Magno;
ma siccome non fu molto fedel traduttore, così fu pessimo istorico;
1. presso Eusebio, S. Girolamo: Eusebio, Historia ecclesiastica, in Migne,
P. G., xx, coli. 48 sgg., passim; Gerolamo, Epistola lxx, in Migne, P. L.t
xxii, col. 667. 2. « se primum . . . capessebat*: Historia ecclesiastica, 1, 1, in
P. G. cit., col. 50, ma il testo del Giannone non è quello riprodotto dal
Migne (« di aver per primo affrontato questo argomento » ; « aveva preso una
strada da nessuno percorsa in precedenza»).
656 IL TRIREGNO
poiché di più favolosi ed incredibili racconti empì i suoi libri.
Seguiron da poi altri istorici e collettori, siccome l'autore dell'Isto-
ria miscelici, Socrate, Aurelio Vittore, Sulpizio Severo, Filostorgio,
il favoloso Teodorico Engelhusio,1 Xiceforo, Cedreno, Zonara e
tanti altri.
CAP. 11
Come, dopo la conversione di Costantino, la sopraintendenza de'
vescovi molto più veloce che prima corresse verso la dominazione,
per V autorità, lustro e splendor che gli diede, e fosse quindi sorta
fra' minisiri della Chiesa una più ampia e maestosa gerarchia di
metropoliti,2, primati ed esarchi, ovvero patriarchi, corrispondenti
a' magistrati dell'Imperio.
Dopo avere nella maniera già detta Costantino abbracciata la
religione cristiana, posto in riposo e tranquillità le chiese, arric-
chitele di suppellettili e di poderi, e resele capaci di acquistar legati
ed eredità, i vescovi che vi presedevano si videro in un maggior
splendore ed in una più ampia e nobile gerarchia; poiché, oltre di
render le loro chiese capaci di acquistar beni temporali, Costantino
gli onorò ed ebbegli in molta stima e rispetto; e non pur resegli
venerandi, ma gli ornò pure anche nell'esterno d'abiti maestosi e
di reali insigne, perché al popolo si rendessero più augusti e rispet-
tosi. Di molti ornamenti adornò i vescovi delle sedi maggiori, spe-
cialmente quello di Roma, che non concedevansi prima se non a'
patrizi ed a' primi personaggi dell'Imperio. Se si dovesse prestar
fede a quel fìnto decreto della favolosa donazione di Costantino,
che inserì Graziano3 nel suo Decreto, Dist. 96, con* 14, dovremmo
ancor dire che fra le decorose insegne fosse stato anche il pallio,
fulgentissimo e pomposo manto imperiale; poiché fra' molti vari e
discordanti istromenti di questa donazione che si leggono presso
1. Teodorico Engelhusio: non «Teodorico, Angelnusio» come in Parente
(p. 103), quasi fossero due autori. Cfr. Chromcon M. Theodorici Engelhusii,
continens res Ecclesiae et Reipublicae, ab orbe condito ad annum Christi circi-
ter 1420 . * . edidit Ioachimus Iohan. Maderus, Helmstadii 1671. Per alcuni
degli storici qui nominati cfr. J. A. Fabricii BtbUothecae graecae libri V,
pars altera, sive volumen vi, Hamburgi 1714, lib. v, cap. rv, pp. 112 sgg.,
Scriptores graeci hùtoriae ecclesiasticae deperditi. 2. metropoliti Parente
(p. 122); metropoli ven. 3. Graziano: vedi la nota 2 a p. 27.
DAL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. II 657
più scrittori, in uno di essi, rapportato da Balsamone,1 si legge che
Costantino concedè a Silvestro papa il pallio.3 Di che anche ce ne
renderebbe testimonianza il Libro pontificale, che va attorno sotto
il nome di Damaso,3 nel quale si parla dell'uso del pallio ch'ebbe
il vescovo d'Ostia, vivente ancor l'imperator Costantino Magno.
Ma come che oggi abbastanza si è dimostrato che quel finto istro-
mento di donazione fu fabbricato molti secoli dopo Constantino,
e quel Libro pontificale, secondo che i dotti han pur fatto conoscere,
non merita alcuna fede, sopra fondamenti sì deboli e ruinosi non
è da por molta fidanza.4 Ma ciò che dee da ciò dedursi è che da
otto secoli, finché non si fosse scoperta la falsità di questo istro-
mento, degli atti di Silvestro papa, e del Libro pontificale attribuito
a Damaso, la Chiesa romana ebbe questa credenza, che il pallio
fosse vestimento imperiale concesso a' pontefici romani per dono
degli imperatori, della quale fu cotanto persuasa che fece inserire
fino nel Decreto di Graziano quest'apocrifo istromento. Quel che
è certo si è che, avendo Costantino presa cura e governo della Chiesa
per ciò che riguarda Festerior sua polizia, e dichiaratosi perciò
capo di tutti i vescovi, o egli o pure i di lui successori cristiani
imperatori ornarono i vescovi delle sedi maggiori di questo pallio,
come insegna della vicaria lor potestà che gli concedevano in am-
ministrare l'esterior governo delle loro chiese, secondo quell'esten-
sione delle diocesi o delle provincie che ad essi sottoponevano,
ora allargandone, ora restringendone i confini. Solevano gl'impe-
ratori d'Oriente, a' vescovi delle sedi maggiori, i quali presedevano
alle chiese delle città metropoli dell'Imperio, concedere per questi
ornamenti ed insegne che gli mandavano molta autorità, costituen-
dogli come loro vicari; ed il pallio era l'insegna per la quale si
dimostrava aver innalzati i vescovi in metropolitani con distendere
la lor giurisdizione oltre i confini della propria parecchia, che ora
chiamiamo diocesi.
1. Teodoro Balsamone (1140 circa - 1199), patriarca di Antiochia. Le sue
opere in Migne, P. G., cxxxvn e cxxxviii. 2. il pallio Parente (p. 122) ;
in ven cinque punti. 3. il Libro . . . Damaso: Catalogus romanorum ponti-
ficum sub Liberio descrìptus (vedilo in Migne, P. L., xni, coli. 441 sgg.).
4. Ma come che . . .fidanzai cfr. E. Schelstrate, Antiquitas Ecclesiae dis-
sertationibus, monimentis oc notis illustrata, 1, Romae 1692, dissert. ni,
cap. ni : An antiquior Catalogus a Damaso papa conscriptus sit. Et an dime
Epistolae Damasi et Hieronymi ea de re editae supposititiae censendae shtt?9
PP- 346 sgg.
658 IL TRIREGNO
Solevano perciò a questi mandare il pallio, che era, non già
come ora chiamiamo, quella breve e corta stola incrocicchiata che
Roma manda a' metropolitani, di moderna invenzione, ma un
manto ben ampio e talare, a guisa di clamide, che avea molto rap-
porto al piviale d'oggi giorno, detto perciò da' Latini pallium e da'
Greci superhumerale, costituendogli per queste insegne come loro
vicari per ciò che riguarda l'esterior governo e polizia ecclesiastica
delle lor provincie, e dipendendo1 la lor giurisdizione oltre la pro-
pria parrocchia.
Non vi è dubbio che Costantino volle in ciò troppo intrigarsi,
con farsi capo de' vescovi ed attendere con sollecitudine all'esterior
polizia della Chiesa. Convocava egli per ciò i concili, vi presedeva
e voleva sentire le contese insorte fra' vescovi. E se la faccenda si
fosse ristretta alla sola disciplina esteriore, che era sua propria in-
combenza, sarebbe stata comportabile; ma ciò che in decorso di
tempo portò danni gravissimi fu che anche volle di soverchio in-
trigarsi nelle loro vane ed inutili questioni insorte sopra la natura
di Dio, sua sussistenza ed unità, ed altre conoscenze ed intrigate
altercazioni di oziosa sottilità delle divine persone, che non si ap-
partenevano punto alla semplicità di quella credenza che Cristo
ci lasciò, né conducevano alla morale e molto meno alla salute delle
nostre anime. Egli fu il primo che stabili nella Chiesa quella sepa-
razione d'interno ed esterno. Quindi presso Eusebio leggiamo ch'e-
gli a' vescovi solea dire: «Vos quidem in iis quae intra Ecclesiam
sunt episcopi estis. Ego vero in iis quae extra geruntur episcopus a
Deo sum constitutus ».2 Ed Eusebio istesso, lib. 1 De vita Const.,
e. 37, lo chiama perciò «communem episcopum».3 Questa distin-
zione e separazione, che, sebbene adombrata ne* due precedenti
secoli, volle ora Costantino maggiormente manifestare e stabilire
tra Chiesa interiore ed esteriore, tra disciplina interna e polizia
esterna,4 tra cura interna spirituale ed esterna ecclesiastica; questa
separazione, dico, a lungo andare portò all'imperio delle somme
x. dipendendo ven e Parente (p. 124). Forse è da intendersi «distendendo».
2. *Vos quidem . . . constitutus*: cfr. De vita imperatore Consumimi cit.,
lib. rv, cap. xxiv, in Migne, P. G., xx, col. 1171 («Voi invero siete gli ispet-
tori di ciò che è dentro la Chiesa; ed io sono stato costituito da Dio ispet-
tore di ciò che si compie fuori »). 3. Ed Eusebio . . . episcopum: il rinvio è
sbagliato, e non siamo riusciti a correggerlo. 4. Questa distinzione . . .
esterna: in Parente (p. 124) distinzione è invece «destinazione»; tra disci-
plina interna e polizia esterna è «tra disciplina interna ed esterna».
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • GAP. II 659
potestà conseguenze assai perniciose e deplorabili. Costantino, am-
messa ch'ebbe nell'Imperio questa nuova religione, ebbe credenza
che dovesse trattarsi come la gentile o almanco come l'ebrea; e
siccome gl'imperatori gentili preser cura non men dell'una che
dell'altra, poiché, nell'istesso tempo che permettevano la giudaica
agli Ebrei, vollero anche averne ispezione e soprintendenza, così
potesse anche farsi della cristiana. Nel qual inganno agevolmente
vi entrò, poiché a' suoi tempi vedeva i vescovi, specialmente que5
d'Oriente, posti in qualche eminenza, e la Chiesa cominciava a
prendere altra forma di quella nella quale Cristo ed i suoi apostoli
la lasciarono. Né mancarono a' suoi dì Padri1 che in ciò la confor-
tavano e maggiormente ce l'invogliavano, non potendosi veramente
a questi tempi sospettare che questo principio doveva recare in
progresso di tempo un notabilissimo danno nell'Imperio. L'ingan-
no e l'errore fa veramente non men pernicioso che grande, poiché
la nuova religione che Cristo lasciò in terra, e la sua Chiesa che
fondò, della quale egli se ne dichiarò capo e maestro, non era capa-
ce, come la gentile o l'ebrea, di esterno. Ella tutta era interna, e
perciò l'intento del fondatore fu che si abolissero tutti i riti e ceri-
monie esterne delli Ebrei. Non voleva tempii, né altari, né maggio-
ranza fra' suoi ministri. Tutta era gregge, ed egli solo dovea es-
serne il guardiano ed il supremo pastore. Voleva che si prendesse
cura non de* nostri corpi, ma delle sole anime, ed esser guidate e
rette a guisa di mandre di pecore, delle quali i ministri fossero i
suoi pastori, perché l'ovile era suo, e non ch'essi ne fossero i pa-
droni. Egli solo essendo il signore delle nostre anime, il governo
adunque dovea esser tutto spirituale, come riguardante la mondezza
ed illibatezza de' costumi, perché si arrivasse a quella perfezione
necessaria per esser introdotti nel celeste regno, del quale ci fece
eredi; i riti pochi,2 semplici e schietti, né ricercati assolutamente
per necessari, potendo per i medesimi supplire la fede, la carità e
la speranza, siccome si è dimostrato nel precedente libro, nella
prima parte al capitolo primo.3 Non vi era bisogno di ricca sup-
pellettile, non di superbi ornamenti e pomposi ammanti, non di
molti ministri, non di tempii, non d'altari, non di liturgie; bastava
1. d svuoi di Padri; in Parente (p. 125) «a' suoi padri». La supposizione
dell'Omodeo, nella citata recensione al Triregno, era esatta. 2. eredi; i riti
pochi Parente (p. 125); coeredi. I riti poiché ven. 3. primo Parente
(p. 125); ven ha cinque punti.
6Ó0 IL TRIREGNO
una casa dove convenire, un cenacolo, una mensa per celebrare in
commemorazione della sua passione e morte la cena: in breve, un
poco di pane e di vino per la cena, ed un poco di acqua per lo
battesimo. Non richiedevasi distinzione d'abiti fra' ministri e plebe.
Ciascuno vestiva come tutti gli altri, fossero stati vescovi, preti,
diaconi o laici. Ciocché durò per tutto il 4.0 secolo, siccome ha ben
dimostrato in fra gli altri ultimamente Bingamo,1 Orig. eccles., lib.
6, cap. 4, § 18, 19 et 20. Nelle obblazioni e distribuzioni dell'ele-
mosine tutto regolava la carità, siccome la mansuetudine nelle cen-
sure e correzioni. Tutto in breve consisteva nell'interno, in esorta-
zioni, consigli, preghiere, sermoni, niente la Chiesa avendo d'im-
perio, sicché gli fosse bisogno di forma estrinseca di gerarchia, di
tribunali, di magistrati e di littori. Non avendo riti operosi e molto
meno multiplici e pomposi, bastavano pochi ministri, perché tutte
le cose di Chiesa potessero perfettamente adempirsi. « Presbyteris »
solea dire S. Epifanio «opus erat et diaconis; per hos enim duos
ecclesiastica compleri possunt»;2 onde non era3 da pensar molto
all'esterno di questa nuova Chiesa e religione.
Ma Costantino, che non la ritrovò così, cioè come Cristo e gli
apostoli la lasciarono, si credette, e ne fu facilmente persuaso, che
ammettendola nell'Imperio e permettendo che pubblicamente po-
tessero tutti professarla, che se gli dovesse dare una speciosa e
magnifica apparenza. Quindi avvenne che il nome di patriarca,
che davasi a' sommi sacerdoti degli Ebrei, si fosse trasportato nel
4.0 e 5.0 secolo a' primati ed arcivescovi de' cristiani, siccome appo-
nendosi al vero fu avvertito da Bingamo, Orig. eccL, lib. 2, cap. 17,
§ 4,4 e che i sacerdoti de' cristiani non dovessero esser riputati infe-
riori di quelli degli Ebrei o de' gentili, siccome i loro tempii ed
altari, ed i ministri che vi doveano soprintendere, fossero non men
numerosi che autorevoli e maestosi. Sopra i quali, dandosi ora alla
Chiesa questa nobile e magnifica apparenza, dovesser gl'imperatori
1. Bingamo ■: Joseph Bingham (1 668-1723), storico della Chiesa e archeolo-
go, curato anglicano. L'opera sua maggiore, che è qui citata nella versione
latina di J. H. Grischovius, Origines sive antiquitates ecclesiasticae, Halae
1 724-1729, in dieci volumi, è una delle maggiori fonti del Triregno e del-
V Apologia de9 teologi scolastici. I passi cui si rinvia nel volume 11, pp. 417
sgg. 2. « Presbyteris .. .possimi»: «erano necessari presbiteri e diaconi;
da questi due infatti possono essere assolti gli uffici ecclesiastici ». 3. onde
non era: in Parente (p. 126) «onde era ». 4. Orig. eccL, lib. 2, cap. 17 y § 4:
ed. cit., voi, 1, p. 236.
DEL REGNO PAPALE * PERIODO II • CAP. II 66l
presedere ed invigilare, siccome i vescovi nell'interno della mede-
sima, così essi nell'esterno. Quindi, a somiglianza degl'imperatori
gentili a riguardo della pagana, volle esser riputato Costantino verso
la cristiana; onde avvenne che presso gli istessi imperatori cristiani,
suoi successori, per lungo tempo, inflno a Graziano, si fosse rite-
nuto il titolo di pontefice massimo, dichiarandosi essi capi e mo-
deratori degli affari ecclesiastici, siccome ce ne rende eziandio certi
Socrate, il quale nel proemio del lib. 5 della sua Istoria eccles.
scrisse: '(Ex ilio tempore quo imperatores christiani esse coeperunt,
Ecclesiae negotia ex illorum nuru pendere visa sunt; atque adeo
maxima concilia de eorum scientia et convocata fuere et adhuc
convocantur».1 Quindi anticamente facevasi paragone tutto opposto
di ciò che poi Innocenzo III2 ne fece di due luminari. L'Imperio
si paragonava al sole ed il sacerdozio alla luna, poiché intorno al-
Testerior polizia ecclesiastica tutto il lume e la possanza gli veniva
somministrata dall'Imperio che gli dava potere e giurisdizione.
E Giustiniano imperatore, calcando le orme istesse, presedé alle
cose esterne della Chiesa, non meno che all'Imperio; ed a' suoi
di, più che in altri tempi, si vide aver egli congiunto e restituito
all'Imperio il pontificato, prendendo cura del governo della Chiesa
e sopratutto attendendo che fossero osservati li sacri ed antichi
canoni de' Padri, stabiliti ne' concili ed avvalorati dalle leggi de-
gli imperatori, perché da' popoli fossero esattamente ubbiditi, non
avendo la Chiesa altre armi che la persuasione per fargli osservare,
non già con stringimento ed impero alcuno, che era tutto degl'im-
peratori e suoi magistrati. Quindi, costituiti i vescovi come loro
vicari, mandavano a' medesimi il pallio, ch'era l'insegna dell'au-
torità che gli conferivano3 sopra le loro provincie quando gl'innal-
zavano4 a primati e metropolitani. Non altrimenti di ciò che pratd-
cavasi co' sommi sacerdoti degli Ebrei, quando, avendo i Romani
soggiogata la Palestina, Pompeo Magno eleggeva i sommi sacerdoti.
Ridotta la Giudea in provincia, ancorché l'imperator Claudio
1. e Ex ilio . . . convocantur »: in Migne, P. G.t Lxvn, col. 566, ma con tra-
duzione non corrispondente a quella che Giannone cita. («Dal tempo in
cui gli imperatori cominciarono a essere cristiani, gli affari della Chiesa
parvero dipendere da un loro cenno, e perfino i massimi concili furono
convocati, e tuttora son convocati, dopo che ne son portati a conoscenza a).
2. Innocenzo III (11 98-1 21 6) rappresentò la maggior offensiva teocratica
contro il potere imperiale. 3. conferivano Parente (p. 127) ; conferiva ven.
4. innalzavano', nostra congettura; ven e Parente (ivi) hanno « innalzava s.
6Ó2 IL TRIREGNO
avesse permesso che i Giudei vivessero colle stesse lor leggi ed
usi patrii, con tutto ciò serbaronsi gl'imperatori romani la somma
potestà sopra la polizia delle loro sinagoghe, prescrivendo agli ar-
chisinagoghi leggi, com'è chiaro dal Codice teodosiano 1. ... ;x ed
Erode da Claudio impetrò questa facoltà: di potergli creare, ma per
sua concessione, siccome narra Giuseppe,2 Kb. 2, e. i, il quale al
libro 15, e. ult. et 20, ci, ci rende ancor testimonianza che rinve-
stitura, la stola e gli altri ornamenti del sommo sacerdote davansi
al medesimo da' Romani; le quali insegne si custodivano per ciò
nella Torre Antonina. E deiTimperator Giustiniano èwene mira-
colosamente rimaso vestigio della concessione del pallio del ve-
scovo arelatense, del quale favellaremo a più opportuno luogo.
Pietro di Marca, De concord. . . . et Imp.> lib. 6, cap. 6, n.° 2, non
può negare che questa potestà vicaria si concedeva quando si dava
il pallio col consenso dell'imperatore, poiché (e* dice) il pallio,
essendo «genus imperialis indumenti, concedi non poterat absque
consensu imperatoriss, l'uso del quale dagli imperatori essere stato
concesso a' patriarchi, da' quali fu comunicato a' metropolitani.3
Cristiano Lupo,4 De appellationibus ad Cathedram S. Petri, dis-
sert. 2, cap. 8, proponendo il problema: aNum pallium metropo-
litae aut primatis sit imperiale donum?», ci dà presta risoluzione,
e vuol che no; ma dovendo rispondere agl'invincibili argomenti
del Marca, se stesso intriga ed infelicemente ci riesce; anzi, trat-
tando quell'arcivescovo con molta acerbità, secondo il solito stile
de' romani scrittori, fondasi più nell'invettive ed inutili declama-
zioni e vane ciarle, che in argomenti solidi e vigorosi. Ma di ciò
1. Codice teodosiano /....: manca il riferimento. 2. siccome narra Giusep-
pe: i riferimenti che seguono sono ovviamente alle Antiquitates iudaicae.
3. Pietro di Marca . . . metropolitani: il Giannone cita qui a memoria, ri-
componendo due passi diversi. Cfr. De concordia Sacerdotiì et Imperiif seu
de libertattbus Ecclesiae gaUicanae libri odo, Parisiis 1669, loc. cit., p. 192.
Pierre de Marca (15 94- 1662), vescovo di Couserans in Catalogna, è uno
degli autori gallicani più utilizzati dal Giannone. La prima edizione del De
concordia è del 1641 ; fu posto all'Indice nel 1642 (e. . . un genere di abi-
to imperiale, non poteva concedersi senza il consenso dell'imperatore »).
4. Cristiano Lupo: Christianus Lupus (Christian Wolf, 1612-1681), agosti-
niano belga, difensore della Santa Sede. È qui citato il Divinum oc immo-
bile S. Petri — circa . . .ad romanam eìus cathedram . . . appellationes, ad-
ver sum prof anas hodievocum novitates assertum privilegium, Moguntiae 1681,
pp. 466 sgg. L'edizione completa delle sue opere apparve a Venezia fra
il 1724 e il 1729 m dodici volumi (« Se il pallio del metropolita o primate
sia un dono imperiale 0-
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 663
altrove più distesamente si terrà conto quando ci toccherà favellare
del pallio mandato al vescovo d'Arelate a' tempi di Giustiniano
Magno.
[cap. in]
[Come questa nuova polizia della Chiesa si adattasse a quella del-
l'Imperio, secondo le diocesi e province del medesimo, alle quali
furono preposti per lo governo ecclesiastico
gli esarchi e i metropolitani.]1
Intanto non è da dubitare che, data che fu da Costantino pace
alla Chiesa, ammessa questa distinzion di Chiesa esterna ed in-
terna, i vescovi, che in que' tre primi secoli, in mezzo alle perse-
cuzioni, nelle città dell'Imperio aveano la soprintendenza delle lor
chiese, ora che pubblicamente poteva da tutti professarsi la reli-
gion cristiana, e che cominciavano ad ergersi tempii ed altari, e gli
antichi tempii gentili a trasformarsi in chiese, e i riti e cerimonie
divenir più operose, splendide ed in maggior numero, per man-
tenere il culto della medesima in maggior splendore e lustro, ed
accrescendosi sempre più quasi in infinito il numero de* cristiani,
si videro per conseguenza, secondo la maggioranza delle città nelle
quali reggevano le chiese, in vari, diversi ed in più alti gradi di-
sposti, ed in maggior eminenza costituiti.
Ed essendo dapoi a Costantin piaciuto, sedate le cose di Roma
e d'Italia, passare in Oriente, vinto nell'anno 325 e spento Licinio,
fattosi già monarca di tutto l'Imperio, cominciò a tentar nuove e
grandi mutazioni nell'Imperio, poiché, vòlto in Oriente, volle nella
Tracia innalzar Bisanzio, piccola città allora di quella provincia,
ed ingrandirla, anzi gettarvi più magnifici fondamenti con intento
di ridurla alla magnificenza di Roma, sicché potesse ragionevol-
mente poi chiamarsi nuova Roma, siccome da lui, cancellato il
nome di Bisanzio, si disse Costantinopoli. Egli fu anche spinto
ad innalzarla cotanto per l'amenità e piacevolezza del suo sito.
Ci rimane ancora delle deliziose sue maniere2 un'antica testimo-
1. Nel codice ven questo capitolo è invece un paragrafo del capìtolo pre-
cedente ed è privo del titolo. M. C. de Samnitibus, copiando, ha corretto,
tenendo conto dell'indice pubblicato da L. Panzini in Opere postume, 11,
p. in. Anche per i capitoli successivi conserviamo la numerazione del co-
dice napoletano. 2.mamere: forse errore di trascrizione, in luogo di
«marine».
664 IL TRIREGNO
nianza di Erodoto Alicarnasseo, il quale nel lib. 4 della sua Istoria,1
narrando la spedizione di Dario contro gli Sciti, scrive che, giunto
che fu Dario a Calcedonia sopra Bisanzio, e* vide i tre mari, cosa
degna da riguardare, perché tra tutte le marine questa è la più
strana di sito, di spettacolo ben degno e di maravigliosa lunghezza.
Or, gettati che ebbe quivi Costantino i fondamenti della nuova
Roma, e posto tutta la sua cura e studio di renderla nella magnifi-
cenza e splendore uguale all'antica, trasferì alla perfine in Oriente
l'imperiai sua sede, consumandovi il resto di sua vita, contento di
mirar da lontano le cose d'Occidente; onde nacque il principio
della declinazione di Roma e d'Italia e di tutte le altre occidentali
Provincie.
Stabilita adunque la sede dell'Imperio in Oriente, trovando quivi
le città e le provincie più numerose di cristiani e non tanto attac-
cate all'antica religione de' gentili, com'era Roma, conobbe esser
l'Oriente più disposto a farci la cristiana maggiori progressi; onde
si videro notabili cangiamenti nella polizia esterna delle lor chiese
e particolarmente nelle persone de' suoi vescovi, poiché que' d'An-
tiochia, di Alessandria e di tutte le altre città d'Oriente, d'Asia,
d'Egitto, di Ponto e di Tracia, secondo la maggioranza delle città
nelle quali reggevan le loro chiese, si videro in un tratto costituiti
in maggior eminenza, e cominciaron quindi a sentirsi i nomi di
metropolitani, di primati, d'esarchi, ovvero patriarchi, corrispon-
denti a quelli de' magistrati secolari, secondo la maggiore o minore
estensione delle provincie che essi governavano.2
Non vi è dubbio che prima della conversione di Costantino in
Oriente si osservava ne' vescovi delle città maggiori, più numerose
ed ampie, qualche differenza nella stima e nell'onore, che non eran
gli altri delle città minori ; poiché, oltre i vescovi d'Antiochia e d'A-
lessandria, Tito, vescovo di Creta, secondo la testimonianza d'Eu-
sebio, Histor. eccles., lib. 3, e. 4,3 avea l'ispezione di tutta quell'iso-
1. Erodoto. . . Istoria: cfr. la nota 1 a p. 600; lib. IV, cap. vili, f. 149.
2. Stabilita . . . governavano: da qui innanzi il discorso dipende da L. E.
Du Pin, De antiqua Ecclesiae disciplina dissertationes historicae, Parisiis 1686,
diss. 1, De forma et distribuitone Ecclesiarum, praesertim attorto Ecclesiae
saeculo, ubi de patriarckìs et metropolitis, illorumque iure oc praerogativis agi-
tur, pp. 1-92. Ma cfr. anche Istoria civile, tomo I, lib. 11, cap. ult., DelTeste-
rior politia ecclesiastica, da' tempi delTimperador Costantino M. infino a
Valentiniano III, pp. 118 sgg. 3. Eusebio . . . lib. 3, e. 4: cfr. in Migne,
P. G., xx, col. 219.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 665
la; a Timoteo, vescovo d'Efeso, dice Crisostomo, HomiL xv in / 7Y-
moth.* « eredita fuit Ecclesia, immo gens fere tota asiatica»; siccome
del vescovo di Cipro era la soprintendenza di tutta quell'isola, senza
subordinazione alcuna al vescovo d'Antiochia. E parimente, nel-
l'Africa, sopra gli altri vescovi africani era manifesta Feminenza
del vescovo di Cartagine fino a' tempi di S. Cipriano,2 siccome
nella Gallia del vescovo di Lione. Ma, sebbene a questi tempi nelle
sedi delle città maggiori era notabile la maggioranza de' vescovi a
riguardo di quelli costituiti3 nelle città minori, con tutto ciò, es-
sendo stata ancor ammessa nell'Imperio questa nuova religione e
nelle parti orientali, come a Roma lontane, più per convenienza4
era tollerata che permessa, nelle occidentali perseguitata e riputata
superstizione; quindi eran tali semi occulti e nascosti, e come scin-
tille di fuoco sotto le ceneri coperte. Ma, dichiarata poi da Costan-
tino questa religione non pur lecita e permessa per tutto l'Imperio,
ma vera, legittima e veneranda, e le chiese non più già collegi
illeciti, ma commendabili e santi, quindi ciò che era nascosto fu
palesato, e quelle faville che come ceneri erano seppellite, scoppia-
rono in luminose e risplendenti fiamme. Allora vennero a dichia-
rarsi ed a stabilirsi questi gradi di metropolitani, primati, esarchi,
ovvero patriarchi, ed a sorgere questa nuova più alta gerarchia; e
che non pur le leggi degl'imperatori, ma i canoni istessi, comin-
ciandosi da quelli del concilio niceno, maggiormente la stabilis-
sero5 e confermassero. Talché si appone più al vero la sentenza di
Lodovico Elia Dupin, De antiq. Eccles. discìp., diss. 1, § 6,6 seguitata
poi da' più accurati scrittori, e fra gli altri ultimamente da Binga-
mo, Orig. eccles., lib. 2, e. 9/ che l'opinione di Pietro di Marca,
di Cristiano Lupo, di Usserio, Bevereggio, Schelstrate ed altri, li
quali immaginarono che da Cristo, ovvero dagli apostoli, fossero
stati nella Chiesa tali gradi istituiti. Con molta evidenza ed esat-
tezza Dupino, confutando gli argomenti recati dall'arcivescovo di
Parigi, siccome Bingamo quelli di Schelstrate, fanno conoscere
1. In Epistolam primam ad Timotheum howiUae, xv, 2, in Migne, P. <?.,
lxii, col. 582 («ni affidata la Chiesa, anzi quasi tutto il popolo dell'Asia»).
2. S. Cipriano: il Giannone utilizza il Du Pin, op. cit., diss. I, § vili,
pp. 21 sgg. 3. costituiti Parente (p. 131); sostituiti VEN. 4. convenienza
Parente (p. 131); connivenza ven. 5. stabilissero Parente (p. 131); rista-
bilissero VEN. 6. diss. i,§6: ibid., paragrafi vi-vni, pp. 15-23. In ven Elia
corregge un primitivo «Ellies». 7. Orig. eccles. , lib. 2, e. 9 : ed. cit., voi. i,
lib. il, cap. xvi (e non rx), De primatìbus seti metropolitanis, pp. 203-5.
666 IL TRIREGNO
che né da Cristo, né dagli apostoli fossero state tali dignità istituite,
ma che dopo la conversione di Costantino, data che fu pace alla
Chiesa, cominciarono a stabilirsi, e che la Chiesa allora infante, la
quale non più nascosta ma libera compariva al mondo, adattò le
sue membra a quelle dell'Imperio già adulto e grande, secondando
la disposizione delle provincie dell'Imperio e le condizioni delle
città metropoli di ciascheduna di quelle; onde sorse nella Chiesa
questa nuova polizia, e sì pomposa ed alta gerarchia.1
E la maniera colla quale ciò si facesse fu cotanto naturale e pro-
pria, che sarebbe stata maraviglia se altrimenti fosse avvenuto.
Poiché, chiunque si porrà innanzi gli occhi la disposizione delle
Provincie dell'Imperio, nella quale erano sotto Costantino, e la di-
visione delle quattro prefetture, composta ciascuna di più diocesi
e queste di più provincie, facendone poi confronto con quel che
avvenne nella esterna polizia ecclesiastica, vedrà chiaro che, la
Chiesa essendo stata introdotta nell'Imperio, non già l'Imperio
nella Chiesa, come dice saviamente Ottato Melevitano,3 non poteva
prender altra forma che questa.3
i. Talché gerarchia: cfr. Istoria civile, loc. cit., pp. 118-9. Ma di fronte
al problema dell'origine delle istituzioni della Chiesa, il Giannone ha
molto allargato la sua visuale. Si tratta infatti di un problema che vede
schierati da una parte Du Pin e Bingham, dall'altra un cattolico come
Christian Wolf e anglicani come Usher e Beveridge. James Usher (1581-
1656), irlandese, arcivescovo di Armagh, episcopalista, sostenne la tesi che i
metropoliti fossero stati creati dagli apostoli. Cfr. J. Rainolds, The
Judgement qf Doctor Reignolds Concerning Episcopacyy tohether it be Gods
Ordinance, London 1641 ; e soprattutto J.Usserii Opuscula duo, mine primum
latine edita: quorum alterum est de episcoporum et metropolitanorum origine;
alterum de Asia proconsulari . . ., Londini 1687. Bevereggio: William Be-
veridge (1 638-1708), teologo e orientalista protestante inglese, editore del
Euvo&xòv, sive pandectae canonum SS. apostolorum* et concilìorum ab Eccle-
sia graeca receptorum . . ., Oxonii 1672, in due tomi, e autore del Codex
canonum Ecclesiae prìmitvcae vindicatus oc iUustratiis, Londini 1678, in cui
riprende le idee dell'Usher. Emmanuel de Sckelstrate (1649-1692), teo-
logo belga, difensore della Santa Sede, conservatore della Biblioteca vati-
cana. Il Giannone fa riferimento alla Dissertano de auctoritate patriarchali
et metropolitica adversus ea quae scripsit E. Stillingfleet in libro de origini-
bus britannicis, Romae 1687, tradotto in inglese Tanno dopo. Cfr. ancora,
oltre l'opera citata alla nota 4 di p. 657, Ecclesia africana sub primate cartha-
giniensiy Parisiis 1679. Il Giannone naturalmente vede confermato quanto
aveva sostenuto nélTIstoria, e appreso dal Du Pin, op. cit., diss. 1, dal
Bingham, che dedica alla questione delle origini della gerarchia il capitolo I
del libro rx. 2. Melevitano: meglio «Milevitano » (Parente, p. 132). Otta-
to, vescovo di Milevi in Numidia (seconda metà del IV secolo), antidona-
tista. 3. E la maniera . . . questa: il passo è tratto dati.' Istoria civile, loc.
cit., p. 119.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II ■ CAP. Ili 667
In quattro prefetture si vide diviso tutto Torbe romano sotto
Costantino Magno, alle quali fùr dati quattro prefetti pretorii per
governarle. Queste furono l'Oriente, l'Illirico, le Gallie e l'Italia.
Ciascuna componevasi di più diocesi, siccome queste di più Pro-
vincie.
ORIENTE1
Questa prefettura era divisa in cinque diocesi: Oriente, Egitto »,
Asiana, Pontica e Tracia, ciascuna delle quali poi si componeva
di più provincie.
La prima diocesi era chiamata d'Oriente strettamente preso,
la quale ebbe per sua città primaria, capo di tutte le altre, Antiochia
nella Siria, ond'era ben proprio che questa città anche nella polizia
ecclesiastica innalzasse il capo sopra tutte l'altre, e che il vescovo
che reggeva quella cattedra s'innalzasse parimenti sopra tutti gl'al-
tri vescovi delle chiese di tutte quelle provincie, delle quali questa
diocesi si componeva; poiché, siccome nelle cose civili tutto si
riportava al magistrato supremo di quella città, così nelle cose ec-
clesiastiche tutto a quel vescovo. Si aggiungeva ancora l'altra pre-
rogativa d'avere in Antiochia il capo degli apostoli S. Pietro pre-
dicatovi l'Evangelio, e dalla chiesa antiochena essersi posto più in
uso il nome di cristiani, quando prima eran chiamati nazareni.
Le provincie che componevano le diocesi d'Oriente prima non
eran più che dieci: la Palestina, la Siria, la Fenicia, l'Arabia, la
Cilicia, l'Isauria, la Mesopotamia, Osdrocena, Eufrate e Cipro.
Ma da poi crebbe il lor numero infino a quindeci, imperciocché
la Palestina fu partita in tre provincie, la Siria in due, la Cilicia in
due e la Fenicia parimenti in due. Ecco come ora rawisaremo in
ciascheduna di queste provincie i loro metropolitani secondo la
polizia dell'Imperio.
La Palestina, prima che fosse divisa, non riconosceva altra città
sua metropoli che Cesarea, onde il suo vescovo acquistò le ragioni
di metropolitano sopra i vescovi dell'altre città minori della pro-
1. Oriente: per tutto il brano cfr. L. E. Du PrN, op. eh., diss. I, pp. 21 sgg.,
spesso qui seguito alla lettera. Da questo punto alla fine il testo è stato
collazionato anche sulla copia Corsini 1577 (sulla quale cfr. Giamumiana,
p. 178).
668 IL TRIREGNO
vincia istessa; ed essendo stata poi divisa in altre due, nella seconda
ebbe per metropoli la città di Scitopoli e nella terza quella di Geru-
salemme. Ma, non perché d'una provincia ne fossero fatte tre,
vennero per questa nuova divisione ed accrescimento di due altre
metropoli a derogarsi le ragioni di metropolitano del vescovo di
Cesarea, ma rimasero com'erano i vescovi di Scitopoli e di Geru-
salemme suflraganei al metropolitano di Cesarea : non bastava che
gl'imperatori, partendo in due o tre una provincia, s'intendesse
con ciò, in quanto alla polizia ecclesiastica, pregiudicare le ragioni
dell'antico vescovo metropolitano, ma bisognava che gl'imperatori
espressamente lo comandassero ; che siccome moltiplicavano le me-
tropoli intorno al governo ernie, così fosse ancora per ciò che
riguardava l'ecclesiastico; anzi sovente spiegavano la lor mente
ch'era di non doversi con ciò1 recar mutazione alcuna intorno al-
Testerior polizia ecclesiastica, siccome soleva fare l'imperatore Giu-
stiniano, ed è manifesto dalle sue Novelle 28 e 31, ca. 20.2 Ed al
contrario, sowente, in partir le provincie solevano pur ordinare
che l'ecclesiastica seguitasse anche la nuova forma e disposizione
civile, dipendendo ciò dal loro volere ed arbitrio, essendo presso
degl'imperatori, come capi di tutti i vescovi metropolitani ed esar-
chi, il regolare la polizia esterna delle chiese, siccome fin all'ultima
evidenza si dimostrerà più innanzi. Per questa ragione, presedendo3
Costantino M. al gran concilio di Nicea, ancorché a Gerusalemme,
città santa, molti onori e prerogative fossero state concedute, in
niente però vollero Costantino e quei Padri che si recasse pregiu-
dizio al metropolitano di Cesarea, «metropoli propria dignitate
servata» da il settimo canone di quel concilio;4 e non per altra
ragione, se non perché, essendo allora una la provincia della Pale-
stina, e Cesarea sua antica metropoli, trovandosi acquistate già
tutte le ragioni di metropolitano da quel vescovo, non era di do-
vere che per quella nuova divisione venisse a perderle o a scemarle.
Né se non molto tempo da poi la Chiesa di Gerusalemme fu deco-
rata della dignità patriarcale, come più innanzi diremo.
L'altra provincia di questa diocesi d'Oriente fu la Siria, ch'ebbe
per metropoli Antiochia, capo ancora di tutta la diocesi; ma poi,
1 . doversi con ciò cors (ma il con è aggiunto posteriormente) ; doversi ciò
ven. 2. Noveìlae Constìtutionesy xxm, xxxi. 3 . presedendo cors e Parente
(P* 134); precindendo vent. 4. Del concilio di Nicea (325). Cfr. L. E. Du
PlN, op. cit., p. 19 («salvaguardata la dignità propria della metropoli»).
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 669
divisa in due, oltre ad Antiochia, riconobbene un'altra, che fu
Apamea. E qui bisogna avvertire per quel che poi diremo del ve-
scovo di Roma, che sowente in una persona solevansi unire più
poteri e prerogative, secondo i vari rispetti e diversi oggetti ove
la lor potestà veniva ad esercitarsi. Nella persona del vescovo
d'Antiochia si considerava la potestà di metropolitano a rispetto
della propria sua provincia qual'era la Siria, e la potestà di esarca
per ciò che riguardava gl'altri metropolitani a sé soggetti, siccome
era quella d' Apamea nella Siria istessa e gli altri metropolitani
dell'altre provincie onde si componeva la sua diocesi, della quale
egli era capo ed esarca.
La Cilicia, che parimenti fu in due provincie divisa, riconobbe
ancora due metropoli: Tarso ed Anazarbo. La Fenicia, divisa che
fu in due provincie, riconobbe anche due metropoli: Tiro e Da-
masco. Eravi ancora nella Fenicia la città di Berito, celebre al
mondo per la famosa Accademia delle leggi ivi eretta, onde ne
uscirono tanti valenti professori. Ne' tempi di Teodosio il Giovine,
Eustazio, vescovo di questa città, ottenne da quel principe rescritto
col quale Berito fu innalzata a metropoli; per la qual cosa Eustazio,
in un concilio che di que' tempi si tenne in Costantinopoli,1 diman-
dò, ch'essendo la sua città stata fatta metropoli, si dovesse in con-
seguenza far nuova divisione delle chiese di quella provincia, ed
alcune di esse, che prima s'appartenevano al metropolitano di Tiro,
dovessero alla sua nuova metropoli sottoporsi. Fozio, che si trovava
allora vescovo di Tiro, scorgendo l'inclinazione di Teodosio, bi-
sognò per dura necessità che approvasse la divisione. Ma, morto
l'imperator Teodosio, e succeduto nell'Imperio d'Oriente Mar-
ciano, portò il vescovo Fozio le sue doglianze al nuovo imperatore
del torto fattogli, chiedendo che alla sua città, antica metropoli, si
restituissero quelle chiese che l'erano state tolte. L'imperatore
Marciano delegò la causa a' Padri che s'erano uniti in concilio a
Calcedonia,* perché l'essaininassero nuovamente, i quali decreto-
rono a favor di Fozio, dirimendo che tal affare, non secondo la nuo-
va disposizione di Teodosio e le novelle divisioni d'altri impera-
i.in un concilio . - . Costantinopoli: non già un concilio, ma piuttosto un
sinodo del clero costantinopolitano. Per tutto questo racconto cfr. L. E.
Du Ptn, loc. cit. ; ma anche C. Fleury, Histoire ecclésiastique, lib. xxviii,
cap. xrx. 2. II rv concilio generale di Calcedonia, del 451 ; la controversia
tra Fozio ed Eustazio fu giudicata nella quarta sessione (17 ottobre).
670 IL TRIREGNO
tori dovesse regolarsi, ma a tenor de* canoni antichi, confermati
dalle leggi imperiali; e lettosi nell'assemblea il canone del concilio
niceno, col quale si stabiliva che in ciascheduna provincia un solo
fosse il metropolitano, fu determinato a favor del vescovo di Tiro
e restituite alla sua cattedra tutte le chiese che n'erano state divolte,
poiché, secondo l'antica disposizione delle provincie della diocesi
d'Oriente, la Fenicia era una provincia, e riconobbe un solo me-
tropolitano.
Presidendo gl'imperatori a tutti questi affari esterni ecclesiastici,
come capi e direttori dell'esterior polizia della Chiesa, quindi fu
introdotto stile che quando i vescovi, non contenti della lor pa-
rocchia, volevano intraprendere sopra le ragioni del loro metropo-
litano, solevano ricorrere dagl'imperatori ed ottener divisione della
provincia, e che la lor città s'innalzasse a metropoli, affinché po-
tessero appropriarsi le ragioni di metropolitano sopra quelle chiese
che nella divisione si toglievano al più antico. Gl'imperatori alcune
volte ributtavano le loro ambiziose domande; altre volte,1 in odio
de' metropolitani antichi, lo facevano. Infatti l'imperator Valente,
in odio di Basilio, divise la Cappadocia in due parti; e, così facen-
dosi nell'altre provincie, vennero a moltiplicarsi anche i metropo-
litani, seguendo la polizia della Chiesa quella dell'Imperio, siccome
ce ne rende testimonianza Nazario, peroché, ne' tempi che segui-
rono, non fu sempre ritenuto il rigore del concilio niceno,3 ma
secondo il voler degl'imperatori, che, dividendo le provincie, in-
nalzavano alcune città in metropoli, si mutava per ordinario anche
la polizia delle chiese; anzi, lo stesso concilio calcedonense, sem-
pre che gl'imperatori non avessero altramente disposto in queste
divisioni, con suo canone xvii dichiarò che la Chiesa dovesse
seguitare la polizia dell'Imperio, dicendo: « Sin autem etiam aliqua
civitas ab imperatoria auctoritate innovata fuerit, civiles et publi-
cas formas ecclesiasticarum quoque parochiarum ordo consequa-
tur».3 Quindi poi nacque che, mutandosi la disposizione e polizia
dell'Imperio, ed innalzandosi alcune città in istato più alto ed emi-
i. ributtavano . . . volte: ven e coes (manca in Parente, p. 136). z. niceno
Pabente (p. 136); di niceno VEN e cors. 3. *Sin autem . . . consequatur*;
il canone xvn è riportato dal Do Pin, op. cit., p. 20 (« Se poi una città sia
stata mutata dall'autorità imperatoria, anche l'ordinamento delle parroc-
chie ecclesiastiche assuma le forme civili e pubbliche »).
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 671
nente, siccome fra le altre fu veduto in Costantinopoli, si vide-
ro anche tante mutazioni nell'esterior polizia ecclesiastica, seb-
bene Timperator Giustiniano, per toglier le contese, saviamente
fosse solito, nelle divisioni o unioni di provincie che faceva, di di-
chiarare espressamente, nelle sue Novelle, quando voleva divisio-
ne o no intorno a' sacerdozi ed alle ragioni degl'antichi metro-
politani.
In cotal guisa l'altre provincie di questa diocesi d'Oriente, come
l'Arabia, l'Isauria, la Mesopotamia, Ostrocena, Eufrate e Cipro,
secondo la disposizione e polizia dell'Imperio, riconobbero i loro
metropolitani, i quali furono così chiamati [perché] presidevano
nelle chiese delle città principali delle provincie, e per conseguenza,
siccome da queste dipendevano l'altre città minori delle medesime,
a queste si riportavano1 tutti i giudizi de' loro tribunali, a queste
per li negozi civili e per altri affari, come suole avvenire, tutti i
provinciali ricorrevano; così questi metropolitani godevano d'al-
cune ragioni e prerogative che non avevano gl'altri vescovi pre-
posti alle chiese delle città minori dell'istessa provincia. Così essi
ordinavano i vescovi eletti dalle chiese della provincia, convocavano
i concili provinciali ed avevano la soprintendenza e la cura perché
nella provincia la fede e la disciplina si serbasse incontaminata e
pura: ch'erano le ragioni e privilegi de' metropolitani per i quali
si distinguevano sopra i vescovi; ed in tal maniera, dopo il concilio
niceno, intesero il nome di metropolitano tutti gli altri concili,
che da poi seguirono, e gl'altri scrittori ecclesiastici del quarto e
quinto secolo.
Ecco come nelle provincie della diocesi d'Oriente ravisiamo i
metropolitani secondo la disposizione delle città metropoli del-
l'Imperio. Ecco, ancora, come in questa diocesi ravisaremo il suo
esarca, ovvero patriarca, che fu il vescovo d'Antiochia, come quegli
che, presidendo in questa città, capo dell'intera diocesi, presedeva
ancora sopra tutti i metropolitani di quelle provincie delle quali
questa diocesi era composta, ed anche di cui erano le ragioni e
privilegi patriarcali, cioè d'ordinare i metropolitani, convocare i
sinodi diocesani ed aver la sopraintendenza e la cura che la fede
e la disciplina si serbasse incontaminata nell'intera diocesi. Prima
questi erano propriamente detti esarchi, perché alle principali città
1. si riportavano cobs; si riputavano ven.
672 IL TRIREGNO
delle diocesi erano preposti; e in più1 provincie di Calcedonia in
cotal guisa e per questa divisione di provincie e di diocesi si di-
stinguevano gresarchi da' metropolitani. Così, Filallete, vescovo di
Cesarea, e Teodoro, vescovo di Efeso, furono chiamati esarchi,
perché il primo aveva sotto di sé la diocesi di Ponto, ed il secondo
quella d'Asia. Egli è vero però che alcune volte questo nome fu
dato anche a' semplici metropolitani ed i Greci, negl'ultimi tempi
lo diedero profusamente a più metropolitani,2 come a quel d' An-
dra, di Sardica, di Nicomedia, di Nicea, di Calcedonia, di Larisso,
ed altri. Nulladimeno la propria significazione di questa voce esarca
non denotava altro che un vescovo il quale a tutta la diocesi prese-
deva, siccome il metropolitano alla provincia. Alcuni di questi
esarchi furon detti anche patriarchi; il qual nome in Oriente,
in decorso di tempo, a soli cinque si restrinse, fra i quali fu l'an-
tiocheno.
I confini dell'esarcato d'Antiochia non s'estesero oltre a' confini
della diocesi d'Oriente, poiché l'altre provincie convicine, essendo
dentro i confini dell'altre diocesi, appartenevano a' loro esarchi.
Così la diocesi d'Egitto, come quindi a poco vedrassi, era all'esarca
d'Alessandria sottoposta, e l'altre tre diocesi d'Oriente, come l'asia-
na, la pontica e la tracia, erano fuori del suo esarcato; anzi nel
concilio costantinopolitano espressamente la cura di queste tre dio-
cesi a' propri vescovi si commette. Né, quando il vescovo di Co-
stantinopoli invase queste tre diocesi ed al suo patriarcato le sotto-
pose, come diremo più innanzi, si legge che il vescovo di Antiochia
gliele avesse contrastate come a lui appartenenti.
113
La seconda diocesi ch'era sotto la disposizione del prefetto pre-
torio d'Oriente, fu l'Egitto. La città principale di questa diocesi fu
la cotanto famosa e rinomata Alessandria. Quindi il suo vescovo
sopra gl'altri tutti alzò il capo, e la sua chiesa, dopo quella di Ro-
ma, tenne il primo luogo. S'aggiungeva ancora un'altra preroga-
tiva, che in questa cattedra vi sedè S. Marco evangelista, primo
suo vescovo, e che fin da' primi tempi fu de' cristiani numerosissima
1. e in più Parente (p. 137); e più yen e cors. 2. ed i Greci . . . metro-
politami ven e cors (manca in Parente, p. 137). 3. ili la fonte è ancora
Du Pin, op. cit., pp. 21 sgg.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 673
non meno che di Ebrei, e di avere il vanto, innanzi tutte l'altre
chiese, avere introdotti i dottori ecclesiastici: in Alessandria ebbe
la teologia la sua prima origine.
Fu prima questa diocesi divisa in sole tre provincie : l'Egitto stret-
tamente preso, la Libia e Pentapoli ; e quindi è, che nel sesto ca-
none del concilio niceno si legga: u Antiqua consuetudo servetur
per Aegyptum, Libyam et Pentapolim, ita ut alexandrinus epi-
scopus horum omnium habeat potestatem».1 La Libia fu poi di-
visa in due provincie, la superiore e l'inferiore. Si aggiunge l'Arca-
dia, la Tebaida e l'Augustanica, e finalmente si vidde questa dio-
cesi divisa in dieci provincie, sorgendo altrettante città metropoli;
onde dieci metropolitani furono a proporzione del numero delle
provincie indi accresciuti. Questi al vescovo d'Alessandria, come
loro esarca e capo della diocesi, erano sottoposti, sopra i quali
esercitò tutte le ragioni e preminenze esarcali. I confini del suo
esarcato non si distendevano oltre alla diocesi d'Egitto, che ab-
bracciava queste provincie. Né s'impacciò mai dell'Africa occiden-
tale, siccome dimostrò l'accuratissimo Dupino,2 De antìq. Eccl.
disc, diss. 1. Onde furono in grandissimo errore coloro che sti-
marono tutta l'Affrica, come terza parte del mondo, al patriarcato
d'Alessandria essere stata sottoposta. Anche questo esarca, come
quello d'Antiochia, acquistò da poi il nome di patriarca, e fu uno
de' cinque più rinomati nel quinto e sesto secolo.
ni
La terza diocesi disposta sotto il prefetto pretorio d'Oriente fu
l'asiana, nella quale una provincia, detta ristrettamente Asia, fu
proconsolare; e metropoli di questa provincia, ed insieme capo
dell'intiera diocesi, fu la città d'Efeso. Le altre provincie, come
Panfilia, Ellesponto, Lidia, Pisidia, Licaonia, Licia, Caria, e la Fri-
gia, che in due fu divisa, Pascaziata e Salutare, erano al vicario
dell'Asia sottoposte, e ciascuna ebbe il suo metropolitano. Oltre
ciò era un metropolitano3 nell'isola di Rodi, ed un altro in quella
di Lesbo.
1. « Antiqua . . . potestatem »: « Si conservi l'antica consuetudine per l'Egit-
to, la Libia e la Pentapoli, cosicché il vescovo di Alessandria abbia potestà su
queste tutte». 2. Dupino: in ven e cors scritto per errore «Eupino».
3. Oltre ciò . . . metropolitano cors; caduto, per omoteleutia, in yen.
674 IL TRIREGNO
Questa diocesi asiana divenne una delle autocefale1 come quella
che né al patriarca d'Alessandria, né a quello d'Antiochia fu giam-
mai sottoposta. Riconosceva solamente il vescovo d'Efeso per suo
primate, come colui che nella città principale di tutta la diocesi era
preposto. Per questa ragione Teodoro, vescovo d'Efeso, fu chia-
mato esarca, siccome furono appellati tutti gl'altri che ressero2
quella chiesa; poiché la loro potestà si distendeva non pure in una
sola provincia,3 ma in tutta la diocesi asiana. Ma non poterono
questi esarchi conseguire il nome di patriarca, poiché tratto tratto4
quello di Costantinopoli non pur ristrinse la loro potestà, ma da
poi sottopose al suo patriarcato tutta intiera questa diocesi.
IV
La quarta fu la diocesi pontica,5 la cui città principale era Cesarea
in Cappadocia. Prima questa diocesi si componeva di sei sole Pro-
vincie, le quali furono Cappadocia, Galazia, Armenia, Ponto, Pa-
flagonia e Bitinia. Tutte queste da poi, toltone Bitinia, furono di-
vise in due, onde, di sei che prima erano, si vidde il lor numero
multiplicato in undeci, che altretanti metropolitani conobbero. In
questa diocesi era la città di Nicea, la quale nel civile e nell'eccle-
siastico ebbe la prerogativa d'essere dagl'imperatori Valentiniano
e Valente innalzata a metropoli. Si oppose a tal innalzamento il
vescovo di Nicomedia, ch'era la città metropoli di quelle provincie,
pretendendo che ciò non dovesse cagionar detrimento alcuno alle
ragioni e preminenze della sua chiesa metropolitana. Ma perché
Valentiniano e Valente avevano sì bene conceduta a Nicea quella
prerogativa, ma non già che per ciò intendessero togliere i dritti
altrui,6 perciò furono al metropolitano di Nicomedia conservati i
privilegi della sua chiesa, e che quella di Nicea potesse ritener sola-
mente l'onore ed il nome ma non già le ragioni e privilegi di metro-
1. autocefale Parente (p. 139), che corregge «antecesali» del copista napo-
letano; «antacesalia ven; « austrasali » cors, tutti derivanti da una lezione
difficile, che i copisti evidentemente non han compreso. 2.. ressero cors;
resero ven. 3. provincia ven e cors; parrocchia Parente, p. 139. 4. trat-
to tratto cors; tratto ven. 5. La quarta . . .pontica: il Giannone ha qui
invertito l'ordine del Du Pin, op. cit., p. 32, che pone come terza la dio-
cesi del Ponto con capitale Cesarea, e come quarta l'Asia, con capitale
Efeso. 6. che per ciò . . . altrui cors. Tutto il brano in Parente (p. 140)
è corrotto perché il codice napoletano corregge arbitrariamente un salto
per omoteleutia di yen che ha: «che perciò furono al metropolitano» ecc.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 675
politane Sopra tutti questi metropolitani presedeva il vescovo di
Cesarea, ch'era la città principale di questa diocesi. Per questa
ragione fu anch'egli appellato esarca, come quelli di Antiochia,
d'Alessandria e d'Efeso; ma non già come que' due primi potè
acquistar l'onore di patriarca, poiché la sua diocesi fu da poi, non
altrimenti che l'asiana, sottoposta al patriarcato di Costantinopoli.
La quinta ed ultima diocesi della prefettura d'Oriente fu la Tra-
cia, capo della quale era la città d'Eraclea. Si componeva di sei
Provincie: Europa, Tracia, Rodope, Emimonto, Mesia1 e Scizia, e
ciascuna riconobbe il suo metropolitano ; ma da poi in questa dio-
cesi si videro delle molte e strane mutazioni, così nello stato civile
ch'ecclesiastico. Prima per suo esarca riconosceva il vescovo d'Era-
clea, come capo della diocesi, il quale avea per suffragane© il vescovo
di Bisanzio; ma, essendo piacciuto a Costantino Magno ingrandir
cotanto questa città, che, fattala capo d'un altro Imperio, volle2
anche dal suo nome chiamarla Costantinopoli, il suo vescovo, se-
condando la Chiesa la polizia dell'Imperio, innalzossi sopra tutti
gl'altri; e non solamente non fu contento delle ragioni di metropo-
litano, ovvero d'esarca, con sopprimere quello d'Eraclea, ma, deco-
rato anche del titolo di patriarca, pretese poscia stendere la sua auto-
rità oltre a' confini del suo patriarcato ed invadere ancora le Pro-
vincie del patriarcato di Roma, siccome più innanzi diremo. Ecco
in breve come, dopo avere Costantino abbracciata la religion cri-
stiana e resala libera per tutto l'Imperio, ed aver innalzati i suoi
vescovi, sorse questa nuova polizia nella Chiesa corrispondente a
quella dell'Imperio, e crebbe l'ordine ecclesiastico, e resesi più
augusto per quest'alta ed illustre gerarchia.
ILLIRICO
Non disuguale potrà ravvisarsi l'ecclesiastica polizia in quelle
diocesi che al prefetto pretorio dell'Illirico ubbidivano, cioè nella
Macedonia e nella Dacia. La diocesi di Macedonia, che abbracciava
1. La sola Mesia inferiore. Ma la distinzione manca anche in Du Pin, op.
cit., p. 22, di cui sono ripetute alla lettera le parole. 2. volle cors e
Parente (p. 141); che volle yen.
676 IL TRIREGNO
sei provincie, cioè Acaia,1 Macedonia, Creta, Tessaglia, Epiro Vec-
chio ed Epiro Nuovo, ebbe ancora la città sua principale che fu
Tessaglia, dalla quale il suo vescovo, come capo della diocesi, reg-
geva l'altre provincie, e sopra i metropolitani di quella esercitava
le sue ragioni esarcali. La diocesi della Dacia di cinque provincie
era composta: della Dacia mediterranea e Ripense, Mesia Prima,
Dardania e parte della Macedonia Salutare. La varia fortuna di
queste diocesi, e come per la maggior parte passassero sotto il ve-
scovo romano, si racconterà quando del patriarcato di Roma tratta-
remo. E, potendo fin qui bastare ciò che brevemente della polizia
dello stato ecclesiastico d'Oriente fin ora s'è detto, per la confor-
mità ch'ebbe con quella dell'Imperio, passaremo in Occidente per
poter fermarsi in Italia, per iscorgere più da presso gl'ingrandimen-
ti del vescovo di Roma, che finalmente sottopose tutto l'Occidente
al suo patriarcato.
GALLIE
Non è dubbio, secondo che notarono i più diligenti investiga-
tori dell'antichità ecclesiastiche, in fra gl'altri Dupino ed ultima-
mente Bingamo, che più esattamente corrispose la polizia della
Chiesa e quella dell'Imperio in Oriente che in Occidente. Nell'O-
riente appena potrà notarsi qualche diversità di picciol momento.
Ma nell'Occidente se ne osservano molte. Nelle Gallie se ne veg-
gono delle considerabili, ma molto più nell'Affrica occidentale, ove
le metropoli ecclesiastiche non corrispondono alle civili, siccome
accuratamente osservò Bingamo, tom. ni Orig. eccl., lib. ix, cap.
H, § v.2
Le Gallie, secondo la disposizione dell'Imperio sotto Costan-
tino, le quali ubbidivano al suo prefetto pretorio, erano divise in
tre diocesi : la Gallia strettamente presa, che abbracciava diecisette
provincie, la Spagna, che si componeva di sette, e la Brettagna di
cinque.3
La Gallia non v'è alcun dubbio che prima tenesse disposte le
1. Acaia: nostra congettura sulla base di J. Bingham, Origines sive anti-
qwtates ecclesiasticae, ed. <nt., voi. in, 1727, p. 496. ven e cors hanno
«Acadia >; Parente (p. 141) «Arabia». 2. J. Bingham, Origines ecc., ed.
cit., loc. cit., pp. 415-21. 3. Le Gallie . . . cinque-, la fonte è ancora il
Du Pin, op. e loc. cit, § x, pp. 27 sgg.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 677
sue chiese secondo la disposizione delle provincie che compone-
vano la sua diocesi, in maniera che ciascuna metropoli ecclesiastica
aveva corrispondenza colla ernie, ed in questi primi tempi non
riconobbe la Gallia niun primate, ovvero esarca, siccome ebbero
le diocesi d'Oriente, ma i vescovi co5 loro metropolitani reggevano
in commune la Chiesa gallicana. E la cagione era perché nella Gal-
lia non vi fu una città cotanto principale ed eminente sopra tutte
l'altre, sicché da quella dovessero tutte dipendere, siccome fu nel-
l'Asia la città d'Antiochia, in Egitto quella d'Alessandria, in Italia
Roma e Milano; siccome in queste parti istesse del mondo si vide
nell'Africa occidentale ergersi cotanto Cartagine, in Asia Efeso,
Cesarea ed Eraclea, e tante altre. Ala nella Gallia per quest'istesso
si viddero da poi delle notabili variazioni; poiché alcune delle città
delle sue provincie, nel medesimo tempo awanzandosi e crescendo
sopra l'altre, quindi sorsero fra' loro metropolitani varie contese,
ciascuno per sé pretendendo le ragioni di primate. Nella provincia
di Narbona fuvi gran contrasto fra i vescovi di Vienna e l'arela-
tense, di cui ben a lungo trattò Dupino, De antiq, eccl. disc, diss. i.1
Nell'Aquitania, ne' tempi posteriori, altra contesa si accese fra il
vescovo di Bourges e quello di Bordeaux, della quale tratta Aite-
serra,2 Rer. aquiL, lib. rv, cap. rv. Talché negl'ultimi tempi, caduto
l'Imperio d'Occidente e partito fra straniere nazioni, secondo ch'e-
rano innalzate le città principali, i vescovi, i quali n'erano metro-
politani, si arrogarono molte prerogative sopra gl'altri metropoli-
tani, e vollero esser soli chiamati primati, ancorché prima questo
titolo si attribuiva indifferentemente a tutti i metropolitani. Cosi
nella Francia il metropolitano di Lione appellasi primate, ritenen-
do assai più prerogative che non gl'altri metropolitani.3
La Spagna riconobbe in questi primi tempi qualche polizia ec-
clesiastica, conforme a quella dell'Imperio, ma da poi nella deca-
denza4 dell'Imperio d'Occidente, mutandosi il suo governo poli-
tico, fu tutta mutata, e, secondo che una città, o per la residenza
di nuovi principi, o per altra cagione, s'innalzava sopra l'altre di
altre provincie, così il vescovo di quella chiesa, non contento delle
1. Dupino . . . diss. I: ed. cit., p. 31. 2. Alteserra ecc.: vedi la nota 3 a
P- 37°* 3- £0 Gallia non v'è . . . metropolitani: l'intero passo è riportato
dall' Istoria civile, tomo 1, lib. 11, cap. ult., p. 126. In yen e cors «appellos-
si », ma appellasi nel luogo cit. dèi* Istoria e in Parente (p. 143). 4. ma
da poi nella decadenza-, manca in yen ed è lezione di CORS.
678 IL TRIREGNO
ragioni di metropolitano, s'arrogava molte prerogative sopra gl'al-
tri, e primate dicevasi. Così oggi la Spagna ha per suo primate l'ar-
civescovo di Toledo, come la Francia quello di Lione.
La Brettagna, ancorché prima riconoscesse qualche polizia ec-
clesiastica, conforme alla civile dell'Imperio, nulladimeno, occu-
pata che fu poi da' Sassoni, perde affatto ogni antica disposizione,
né si ritenne alcun vestigio della vecchia polizia così nello stato
civile, come nell'ecclesiastico.1 Tutte queste tre diocesi non si ap-
parteneva punto a questi primi tempi al vescovo di Roma, e si
governavano in commune da' loro vescovi metropolitani e primati,
siccome han ben provato gli scrittori francesi, spagnuoli ed inglesi,
ed intorno alla Brettagna ultimamente fin all'ultima evidenza ha
dimostrato Bingamo, lib. ix, cap. 1, § x, confutando nel § xi le
opposizioni di Schelstrato, il quale infelicemente s'era sforzato di
sostenere il contrario.3
ITALIA
Eccoci in Italia, riserbata nell'ultimo luogo, poiché in essa do-
vremo fermarci per iscorgere più d'appresso l'antico stato del ve-
scovo di Roma, i suoi voli ed ingrandimenti, per i quali sorse que-
sto regno papale di cui saremo a ragionare.
Il vescovo di Roma non v'è dubbio che, prima che Costan-
tino Magno abbracciasse la religion cristiana, era molto distinto
sopra gl'altri, e per la credenza ch'alcuni Padri del terzo secolo
ebbero, siccome S. Ireneo, Cipriano e Tertulliano, che S. Pietro,
capo degl'appostoli, fosse stato in Roma, e che quivi non meno che
in Antiochia vi avesse fondata chiesa e presedutovi in quella come
vescovo; ma molto più per riguardo della città, la più cospicua ed
eminente ch'era allora nel mondo, nella quale questa cattedra ve-
niva ad essere collocata,3 Ed i vescovi di Roma, sin dal terzo secolo,
erano entrati in questa presunzione d'essere più degl'altri, siccome
si vidde dal fatto di S. Stefano, vescovo di Roma, il quale non si
sgomentò, nella controversia se dovevasi o no reiterare il battesimo
dato dagl'eretici o scismatici, di privare dalla communione i ve-
1. La Spagna . . . ecclesiastico ; anche questi due periodi sono riportati dal-
V Istoria ovile, loc. cit 2. Bingamo . . . contrario: cfr. Origmes, ed. cit.,
voi. in, §§ citt, pp. 391 sgg. e § xii, pp. 401-8. 3. Eccoci . . . collocata: cfr.
Istoria civile, loc. cit., p. 127.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 679
scovi d'Affrica, che contro il suo parere stavano per la reiterazione.
Ma que' vescovi, tra' quali Cipriano e Fimiliano, seppero ben repri-
mere l'arroganza, scrivendogli una grave lettera, nella quale fra
l'altre cose gli dissero : a Xeque enim quisquam nostrum episcopum
se esse episcoporum constituit aut tyrannico terrore ad obsequendi
necessitatem collegas suos adegit;;, Cypr., Ep. lxxiv.1 Ora, data che
fu poi da Costantino pace alla Chiesa, ed avendo egli in Roma
trionfato, innalberando il primo quivi la croce di Cristo, e careg-
giando2 Silvestro che si trovava allora vescovo di quella chiesa, ed
arrichendola di preziose suppellettili e di beni mondani; era ben
ài dovere che, siccome i vescovi di Antiochia e di Alessandria estol-
sero il lor capo in Oriente, dovesse eziandio innalzarlo in Occi-
dente quello di Roma, prima città allora del mondo, la quale non
era anche3 a questi tempi Costantinopoli che potesse uguagliarla
e molto meno con lei contender di maggioranza, siccome ambizio-
samente fu da poi preteso.
Ma con tutto che fosse Roma riputata a questi tempi capo del
mondo, nulladimeno la nuova disposizione nella quale erano allora
le diocesi e le provincie dell'Imperio d'Occidente non potè portare
alla sua chiesa ed al suo vescovo quell'estensione, eminenza e su-
periorità che recò al vescovo d'Antiochia e d'Alessandria in Oriente,
poiché in questa prefettura d'Italia fu fatta altra disposizione che
non fu in quella d'Oriente. In questa, che pur fu divisa in tre dio-
cesi, Illirico, Affrica ed Italia, le diocesi furono altramente disposte.
Delle due prime, Illirico ed Affrica, non accade qui favellare, poi-
ché ne ragionaremo appresso, quando il vescovo di Roma, non
contento delle provincie suburbicarie, si sottopose anche l'Illirico,
dove mandava suoi vicari e lo stesso pretese far nell'Affrica; onde
della terza, strettamente detta Italia, nella quale veggiamo fondato
il regno papale, è di mestieri che qui più diffusamente si ragioni.
Questa diocesi, a differenza dell'altre di Oriente, fu partita in
due vicariati, i quali, pure colle due diocesi d'Illirico e d'Affrica,
erano sottoposti al prefetto pretorio d'Italia. Il primo fu detto il
vicariato di Roma, capo del quale era la città di Roma, il secondo
1. Negue enim . . . Ep. LXXIV: in Migne, P. L., in, col. 1092, la frase ap-
partiene al Carthaginense conctlium di Cipriano (« Poiché nessuno di noi si
è costituito vescovo dei vescovi o ha costretto i suoi colleghi all'ossequio
col terrore dispotico»), a. careggiando: rendendosi amico. 3. non era an-
che cors; non anche ven.
68o IL TRIREGNO
chiamavasi il vicariato d'Italia, capo del quale era la città di Mi-
lano.
Il vicariato di Roma si componeva di dieci provincie, le quali
erano: i. Campagna, 2. Puglia e Calabria, 3. Lucania e Bruzi,
4. Sannio, 5. Etruria, 6. Umbria, 7. Piceno Suburbicario, 8. Si-
cilia, 9. Sardegna, io. Corsica e Valeria.
Del vicariato d'Italia erano sette1 provincie: 1. Liguria, 2. Emi-
lia, 3. Flarninia, 4. Piceno Annonario, 5. Venezia, a cui fu da
poi aggiunta l'Istria, 6. Alpi Cozzie, 7. e l'una e l'altra Rezia.
Questa divisione d'Italia in due vicariati portò in conseguenza
che la polizia ecclesiastica d'Italia non corrispondesse a quella d'O-
riente, poiché non ogni provincia d'Italia, siccome aveva la città
metropoli (come la Campagna Capua, l'Etruria Fiorenza, e così
l'altre), ebbe il suo metropolitano, come in Oriente; ma le città
come prima ritennero semplici vescovi, e questi non ad alcuno
metropolitano, ma o al vescovo di Roma, o a quello di Milano
erano sottoposti: quegli del vicariato di Roma al vescovo di quella
città, e gli altri del vicariato d'Italia al vescovo di Milano, siccome
ha ben provato Pietro di Marca, De concor^ lib. 1, cap. in, n.° 12,
e si vedrà chiaro più innanzi.
Or, chi averà innanzi gl'occhi questa disposizione delle diocesi
d'Italia ed il canone sesto2 del concilio niceno, facilmente comporrà3
la disputa insorta fra' vari scrittori intorno a' confini dell'esarcato,
o sia patriarcato di Roma, mettendo attenzione a ciò che s'appar-
teneva al vescovo di Roma come metropolitano nella propria pro-
vincia, o quello che se l'apparteneva sopra l'altre provincie delle
quali si componeva il vicariato di Roma, e delle quali egli veniva
ad essere come esarca. Non altrimenti di ciò che s'è veduto del
vescovo d'Alessandria e di Antiochia. Quello d'Alessandria, come
preposto ad una città capo dell'intiera diocesi d'Egitto, esercitava
le sue ragioni metropolitiche nella propria provincia, qual'era l'E-
gitto strettamente preso, e le esarcali nell'altre provincie onde si
componeva l'intiera diocesi, come la Libia, divisa poi in due prò-
1. sette cors; tutte ven; M. C. de Samnitibus correggendo in sette aveva
intuito giusto. 2. camme sesto : lezione esatta di ven e coes, ripetuta anche
più sotto. Parente (p. 146) ha « canone istesso ». Si tratta del canone vi del
concilio generale niceno (335), da cui è riportato più oltre il brano. Cfr.
Ph. Labbé-G. Cossart, Sacrosancta concilia, Lutetiae Parisiorum 1671, n,
col. 31. La fonte del Giannone è ancora una volta il Du Ptn, op. cit., § ul-
timo, p. 81. 3. comporrà ven e cors; comprenderà Parente (p. 146).
DEL REGNO PAPALE - PERIODO II • CAP. Ili 68l
vincie, e Pentapoli, alle quali s'aggiunsero da poi l'Arcadia, la
Tebaide, e l'Augustanica. L'altro d'Antiochia, città capo dell'in-
tiera diocesi d'Oriente, esercitava le sue ragioni di metropolitano
nella propria provincia della Siria, e l'esarcali nelle altre provincie
onde si componeva quella diocesi, le quali erano la Palestina, la
Fenicia, l'Arabia, la Cilicia, l'Isauria, la Mesopotamia. E così ap-
punto il concilio niceno ci addita che dovesse riputarsi il vescovo
di Roma a riguardo delle provincie dei vicariato di Roma. Ecco le
parole del suo can. 6: «Antiqui mores serventur, qui sunt in Ae-
gypto, Lybia et Pentapoli, ut alexandrinus episcopus horum om-
nium habeat potestatem, quandoquidemque episcopo romano hoc
est consuetum. Similiter, et in Antiochia et in aliis provinciis sua
privilegia ac suae dignitates et auctoritates ecclesiis serventur».1 E,
secondo la versione di Dionigi il Piccolo: «Antiqua consuetudo
servetur per Aegyptum, Lybiam et Pentapolim ita ut alexandrinus
episcopus horum omnium habeat potestatem; quia et urbis Ro-
mae episcopo parilis mos est. Similiter autem et apud Antiochiam
ceterasque provincias suis privilegia serventur ecclesiis».
Chi dasse occasione alla disputa fu Ruffino, il quale, traducendo
dal greco in latino questo canone, l'espresse così nella sua versio-
ne ed epitome: «Et apud Alexandriam et in urbe Roma vetusta
consuetudo servetur, ut vel ille Aegypti, vel hic suburbicariarum
ecclesiarum sollicitudinem gerat ».2 Or, quali fossero queste chiese
suburbicarie da Ruffino intese, Sirmondo,3 De suburbio . region.,
lib. i, cap. vii, si appose4 al vero dicendo che queste erano le chiese
delle città, le quali s'appartenevano ed erano comprese nel vicariato
di Roma, onde per quest'istesso furono appellate suburbicarie. Gia-
como Gotofredo in Cod. Theod., lib. xi, De annona, leg. tit. 1. rx,5
i. «Antiqui mores . . . serventur iti «Si conservino le antiche usanze che ci
sono in Egitto, Libia e Pentapoli, cosicché il vescovo di Alessandria abbia
potestà su queste tutte, dal momento che ciò è consueto anche per il ve-
scovo di Roma. Parimenti anche in Antiochia e nelle altre province si con-
servino alle chiese i propri privilegi e le proprie dignità e autorità j>. 2. Buf-
fino . . . gerat : da L. E. Du PlN, op. cit, p. 86 («come ad Alessandria, così
in Roma si conservi l'antica consuetudine: sicché il vescovo d'Alessandria
abbia cura dell'Egitto e quello di Roma delle chiese suburbicarie »).
3. Sirmondo: Jacques Sirmond (1 559-1651), patrologo cattolico, ebbe una
fiera polemica contro il Godefroy e il Saumaise. Contro quest'ultimo scrisse
il Propempticum CI. Salmasio adversus eius Eucharìsticon de suburbicartis
regionibus et ecclesiis, Parisiis 1622. La fonte giannoniana è però sempre la I
dissertazione del Du Pin, op. cit., p. 87. 4. appose: nostra congettura
(yen, cors e Parente, p. 147, hanno «si oppose»). 5. Giacomo Gotofredo
682 IL TRIREGNO
Cave,1 Giovanni Launeio,2 in Dìssert. De recta Niceni Canonis VI
intelligentia, e Claudio Salmasio3 queste chiese le restrinsero in
troppo brevi confini, poiché pretesero che fossero state quelle che
per cento miglia intorno a Roma, e non oltre, si estendevano, e che
al prefetto della città di Roma, non al vicario ubbidivano. Altri
diedero in un'altra estremità, e sotto il nome di province suburbi-
carie intesero chi l'universo orbe romano, e chi almeno tutto l'Oc-
cidente, siccome con grandi apparati studiaronsi provare Emanuel-
Io Schelstrate, Antiq. illustr., part. i, diss. il, cap. in,4 e Lione Al-
iaci, De occid. et orìent. cons., lib. i, cap. ix.s E Natal d'Alessandro,
tom. rv saec, dissert. xx, prop. il,6 inclina pure ad ampliar l'esar-
cato romano in tutte le chiese d'Occidente. Ma il sudetto canone vi
niceno fa chiaramente conoscere la vanità ed insussistenza non men
dell'una che dell'altra di queste due opposte sentenze. Non pos-
sono quelle chiese restringersi alle sole città, al solo prefetto di
Roma supposte per cento miglia intorno, poiché il paragone fatto
dal concilio, del vescovo di Roma con quello d'Alessandria e di An-
tiochia, sarebbe inetto ed improprio; molto meno diffondersi per
tutte l'ampie regioni d'Occidente, poiché, siccome il vescovo d'An-
tiochia non aveva niente che impacciarsi colle altre diocesi e Pro-
vincie d'Oriente, né quello d'Alessandria coll'altre provincie d'Af-
frica, così nemeno il romano aveva di che impacciarsi non pur colla
Gallia, Spagna, Brettagna e l'altre provincie d'Occidente, ma nem-
meno in quelle d'Italia istessa ch'erano sottoposte al vicariato d'Ita-
ecc. : vedi la nota 2 a p. 24. Dal Bingham, op. cit., voi. ni, p. 388, è qui citato,
oltre al Codex, «lib. xi. tit. 1. de annona, leg. rx », anche il Cave. 1. William
Cave (1637-1713), teologo e storico anglicano, autore di A Dissertation
Conceming the Government of the Ancient Church by Bishops, Metropolitans
and Patriarchs. More Particularly, Conceming the Ancient Power andjuris-
dictionof the Bishops of Rome ecc., London 1683. 2. Giovanni Launeio: Jean
de Launoy (1602 circa - 1678), teologo e storico francese, di cui si cita qui
la De recta nicaeni canonis VI et prout a Rufino explicatur inteUigentia dis-
sertano y Lutetiae Parisiorum 1662. 3. Claudio Salmasio: nome umanistico
dell'erudito francese Claude de Saumaise (1588-1653). L'opera cui si al-
lude è VEucharistìcon Iacopo Sirmondio prò adventoria, de regionibus et ec-
clesiis suburbicariis, Lutetiae Parisiorum 1621. 4. Antiquitas Ecclesiae
illustrata cit., tomo il, Romae 1697, diss- Vi. 5. Lione Aliaci: Leone Al-
lacci (1586- 1669), teologo e storico della letteratura, di cui qui si cita De
Ecclesiae ocddentalis atque orientaUs perpetua consensione libri tres, Coloniae
Agrippinae 1648, loc. cit., coli. 170-1. 6. Natal d'Alessandro . . .prop. II:
il rinvio è alla Historia ecclesiastica Veteris Novique Testamenti ecc., tomo rv,
Parisiis 1714, secolo IV, diss. xx, De sensu sexti canonis nicaeni, prop. n,
pp. 281 sgg., di Noè! Alexandre (vedi la nota 1 a p. 104).
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 683
lia, delle quali appartenevano le ragioni esarcali al vescovo di Mi-
lano.
Quindi la sentenza di Sirmondo, come più vera e conforme
allo stato delle provincie d'Italia di questi tempi, fu abbracciata e
vigorosamente sostenuta da Dupino, De antiq. EccL disc, diss. i,1
ed ultimamente da Bingamo, Orig. eccL, lib. rx, cap. i,3 il quale,
facendo pur paragone fra' vescovi di Roma, Alessandria ed Antio-
chia, viene a riconoscere quello di Roma come metropolitano a
riguardo della sua propria provincia, ristretta forse in quel circuito
che al prefetto della città ubbidiva, e come esarca a riguardo delle
provincie suburbicarie sottoposte al vicario di Roma, che abbraccia-
vano non pur molte regioni mediterranee d'Italia, ma fino l'isole
di Sicilia, Sardegna e Corsica.
E ben l'istoria e gl'antichi monumenti rimastici3 di quest'età
confermano che tal fosse l'autorità del vescovo di Roma sopra que-
ste provincie, non già ristretta solamente alla propria provincia,
perché l'esercitava sopra le medesime con potere assai maggiore
che non facevano gl'esarchi d'Oriente nelle provincie delle loro
diocesi, poiché, sebbene il vescovo di Roma non potesse propria-
mente dirsi esarca, perché non l'intiera diocesi d'Italia fu a lui
commessa, siccome erano gl'esarchi d'Oriente, i quali dell'intiere
diocesi avevano cura, per essersi partita la diocesi d'Italia in due
vicariati, con tutto ciò, come che in queste provincie suburbicarie
non vi era a questi tempi alcun vescovo che vi si fosse innalzato
ad esser metropolitano, quindi il vescovo di Roma, come esarca
insieme e metropolitano, esercitava in quelle non pur le ragioni
esarcali, ma eziandio le metropolitiche, imperciocché a lui s'ap-
partenevano non pur le ordinazioni de' vescovi delle città metropoli,
come di Capua in Campagna, di Benevento nel Sannio, di Regio
e di Salerno nella Lucania, e ne' Bruzi, di Taranto e Bari in Puglia
e Calabria,4 di Fiorenza nelTEtruria, di Siracusa in Sicilia, e così
nell'altre provincie, ma anche l'ordinazioni di tutti gl'altri vescovi
minori delle medesime, quando, in Oriente, gl'esarcati l'ordinazio-
ne di questi vescovi la lasciavano a' loro metropolitani. Così le
chiese di tutte queste provincie suburbicarie ebbero il solo ponte-
1. dìss. I, § ultimo cit., pp. 87 sgg. 2. Orig. eccl., Hb. IX, cap. I, § rx,
ed. cit., voi. in, pp. 387-91. 3. monumenti rimastici cors e Pare>tte (p.
148); momenti rimassici ven. 4. e Calabria ven e cors. L'errore è quin-
di dell'apografo copiato da entrambi.
684 IL TRIREGNO
fice romano e per esarca e per metropolitano, perché a lui s'appar-
teneva l'ordinazione de' vescovi, siccome dimostra accuratamente
l'avvedutissimo Dupino, loc. cit. Onde, quando mancava ad una
città il vescovo, il clero ed il popolo eleggevano il successore, poi si
mandava al vescovo1 di Roma perché l'ordinasse; il quale sowente,
o faceva venire l'eletto in Roma, ovvero delegava ad altri la sua
ordinazione. Del qual costume il registro dell'Epistole di Celestino
I, di S. Leone Alagno, e più quello di S. Gregorio Magno, serba
moltissimi esempi, come si scorge nell'elezioni de' vescovi di Ca-
pua, epis. xiii lib. rv et epis. xxviii lib. vili,2 de' vescovi di Na-
poli, ep. 4 lib. 83 et epis. xv lib. 11, de' vescovi di Cuma, epist.
rx lib. ir4 e di Miseno, epist. xxv lib. vii5 nella provincia di Campa-
gna ed in quella del Sannio, de' vescovi di Teramo, epist. xiii lib. x6
e nell'epis. in di Celestino I,7 dell'elezione de' vescovi di Calabria e
di Sicilia: poiché in Sicilia, come provincia suburbicaria, pur os-
serviamo la medesima autorità esercitata da' romani pontefici in-
torno all'elezione de' suoi vescovi, come è manifesto dalla suddetta
epistola di Celestino e dall'epist. xvi di S. Leone dirizzata ad
Episcopos Siciliae* e da quella di S. Gregorio stesso, epist. xin
lib. v.9
Ma siccome l'istoria ci fa manifesto di non dover restringere la
potestà del vescovo di Roma al solo territorio, che cento miglia
intorno lo circondava, così si manifesta ancora che fuori di queste
Provincie suburbicarie non aveva egli niente che impacciarsi non
solo nella Gallia, nella Spagna ed in Brettagna, nell'Affrica e nel-
1. al vescovo cors e Parente (p. 149), correttamente: cfr. Istoria civile, to-
mo 1, lib. 11, cap. ult., pp. 129-30. ven ha « il vescovo ». 2. Gregorio Magno,
Epistolae, lib. v (e non iv), ep. xiii, in Migne, P. L., lxxvii, col. 734, ma
questo riferimento non appare del tutto pertinente, mentre l'altro che segue
(epist. xxviii lib. vili) è erroneo. 3. de* vescovi di Napoli, ep. 4 lib. 8 è
lezione di cors mancante in ven. Deve trattarsi di rinvio erroneo. Cfr. in
Migne cit., lib. n, ep. vi, col. 542; ep. ix, col. 545; ep. xv, col. 550; lib. ni,
ep. xxxv, col. 631. 4. epist. IX lib. Ili in Migne cit., lib. 11, ep. xxv, col.
561. 5. epist. XXV lib. VII: in Migne cit., lib. rx, ep. lxxv, col. 1009.
6. epist. XIII lib. X: in Migne cit., lib. X, ep. lxviii, col. 11 18. 7. epis. Ili
di Celestino I: cfr. in Migne, P. L., L, Epistolae, v, Aduniversos episcopos per
Apuliam et Calabriam constitutos, coli. 436-7. 8. epist. XVI . . . Siciliaei
in Migne, P. L., liv, coli. 695 sgg. 9. epist. XIII lib. V: cfr. in Migne,
P. L., lxxvii, lib. I, epp. 1 e lxx; lib. vi, ep. xiii; lib. xi, ep. li, rispettiva-
mente coli. 441, 525, 805, 1169. Ma cfr. per l'intero passo Istoria civile,
tomo 1, lib. 11, cap. ult., p. 130.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 685
P Illirico e tutte l'altre provincie d'Occidente, ma nemmeno in quel-
le provincie d'Italia ch'erano comprese nel vicariato d'Italia, le
quali al vescovo di Milano si appartenevano.
Intorno alla Gallia, sotto il cui nome erano comprese la Germania
ed il Belgio, se ne leggono le prove in Pietro Piteo,1 Della libertà
della Chiesa gallicana; e Dupino, Antiq. EccL disc, diss. 1, n.°xrv~ lo
dimostrò abbastanza, ed a riguardo della Germania lo stesso fece
Giovanni Schiltero3 nel suo trattato De liberiate ecclesiastica Ger-
maniae, Ienae 1683, e Baluzio, nella prefazione del libro d'Antonio
Augustino De emendai. Gratiani* dimostrò chiaramente che a que-
sti tempi, e per sino al secolo IX, cioè 800 anni avanti ch'egli scri-
veva, che fu nel secolo XVII, i sinodi della Gallia non mai permi-
sero che de' loro decreti si portasse appellazione al romano ponte-
fice. E che i vescovi della Gallia fossero stati tutti ordinati da' loro
metropolitani, in niente impacciandosene il vescovo di Roma, è
pur manifesto dal can. vii del concilio II5 d'Orleans celebrato
nell'anno 533 e dal can. in del concilio III celebrato pur quivi nel
53 8.6 Ed oltre ciò che si legge presso Ainemaro in veteribus formulis
e7 presso Ivone Carnutense ep. lx,8 sono pur noti i molti esempi
1. Pietro Piteo: vedi la nota 1 a p. 392. Il Traitez des droits et libertes de
V Église gallicane (1594), qui citato, fu la sua opera più famosa e servì di base
alle Dichiarazioni del 1682. 2. n°. XIV: è il § ultimo cit. 3. Giovanni
Schiltero: Johann Schilter (vedi la nota 3 a pp. 491-2), la cui opera qui ci-
tata, De liberiate Ecclesiarum Germaniae libri VII, Ienae 1683, apriva la
polemica per una Chiesa nazionale germanica, sulla falsariga degli argomen-
ti addotti dal movimento gallicano, e fu per questo bene accolta anche in
Francia, dove teologi e canonisti vedevano dilatarsi oltre i confini nazionali
le loro idee di indipendenza da Roma. 4. Baluzio . . . Gratiani: Etienne
Baluze (1 630-171 8), storico ed erudito francese. Il riferimento è ad Anto-
nii Augustini archiepiscopi terraconensis Dialogorum libri duo de emendatio-
ne Gratiani. Stephanus Balutius . . . emendava, notis illustravit et novas emen-
dationes adiecit, Parisiis 1672; si veda in particolare il paragrafo vili della
prefazione. Il Giannone ha però tratto l'indicazione da J. Bingham, Origines
ecc., cit., voi. in, p. 397. 5. concilio 11 cors; ven, erroneamente, * conci-
lio III». 6. è pur manifesto . . . nel 538: cfr. Ph. Labbé - G. Cossart, Sa-
crosanta conalia cit., tomo rv, coli. 1779 sgg., e v, coli. 294 sgg. 7. Aine-
maro in veteribus formulis e: è lezione di cors mancante in ven. Si tratta
probabilmente di Hincmar vescovo di Reims (806-882), le cui opere in
Migne, P. L., cxxv e cxxvi, o del nipote, Hincmar di Laon, vescovo dal-
1*858 alP87i, le cui opere in Migne, cxjov, coli. 979-1072. 8. Ivone Car-
nutense: Ivo vescovo di Chartres (1040-1116). Le sue Epistolae in Opera
omnia, Parisiis 1647; ma vedi anche la moderna edizione della Correspon-
dence, tradotta e a cura di J. Leclercq, Paris 1949-
686 IL TRIREGNO
che rapportano Cave1 e Baluzio istesso delle vigorose e forti resi-
stenze che fecero i vescovi gallicani alle usurpazioni che tentavano
di volta in volta far i pontefici romani sopra le loro chiese: ed
infino al decimo secolo durarono le proteste e le querele de' loro
attentati, fra* quali assai memorando è l'esempio che Glabro Ro-
dolfo,2 lib. il Hist. Frane, cap. iv, rapporta accaduto a' suoi dì,
dell'attentato che fece il pontefice Giovanni XVIII, il quale, cor-
rotto da doni e da molta moneta che gli diede Folco conte d'Angiò,
ardì di far consacrare la chiesa di Belluge bello loco della diocesi
del metropolitano di Tournon;3 quando questo arcivescovo non
avea voluta consacrarla, per essere stata fabbricata da Folco di ra-
pine e de' danari che aveva rubati a' suoi sudditi. Infino a questi
tempi di Glabro i vescovi di Francia confessavano sì bene che il
pontefice romano per la dignità della sua apostolica sede era sopra
tutti gl'altri vescovi del mondo venerando, ed a cui doveva portarsi
tutta riverenza e rispetto per essere il primo tra' vescovi; ma non
perciò che potesse nelle loro diocesi esercitare potestà alcuna esar-
cale, la quale era solo ristretta dentro i confini delle sue chiese
suburbicarie, e non già doveva trascorrere nell'altre provincie d'Oc-
cidente, i di cui vescovi in quelle avevano la potestà istessa che il
romano aveva nelle sue. «Licet namque» sono le parole di Glabro
«pontifex romanae Ecclesiae, ob dignitatem apostolicae sedis, cae-
teris in orbe constitutis reverentior habeatur; non tamen ei licet
transgredi in aliquo canonici moderammis tenorem. Sicut enim
unusquisque, orthodoxae Ecclesiae pontifex ac sponsus propriae
sedis, uniformiter speciem gerit Salvatoris; ita generaliter nulli
convenit quidpiam in alterius procaciter patrare episcopi dioecesi ».4
i. Di William Cerne cfr. A Dissertation Concerning the Government of the
Ancient Ckurch ecc., cit. La citazione è di seconda mano e deriva dal
Bingham, op. e loc. cit. 2. Rodolfo il Glabro (985 circa - 1050), monaco
francese, cronista, di cui è citata qui l'opera principale: Historiarum sui
temporis libri quinque, lib. 11, cap. v (e non iv), in F. Duchesne, Historiae
Francorum scriptores, Lutetiae Parisiorum 1 636-1 649, tomo rv, p. 15.
3. Tournon cors; Tumon ven; Parente (p. 151) Eumon. 4. « Licet
namque . . . dioecesi»: in F. Duchesne, op. cit., pp. 15-6 («Va bene che
il vescovo della Chiesa romana, per la dignità della sede apostolica, sia con-
siderato più venerabile di tutti gli altri costituiti nel mondo ; non gli è tut-
tavia lecito oltrepassare in alcunché il tenore della regola canonica. Come
infatti ciascuno, in quanto vescovo della ortodossa Chiesa e sposo della
propria sede, rappresenta uniformemente il Salvatore, cosi generalmente
non s'addice ad alcuno di intraprendere protervamente alcunché nella dio-
cesi di un altro vescovo»).
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II ■ CAP. Ili 687
Per ciò che riguarda la Spagna, chiunque avrà innanzi gli occhi
i tanti concili nazionali tenuti in questa diocesi e quelli convocati
in Toleto, specialmente il can. xix del concilio Toletano IV1 cele-
brato nell'anno 633, scorgerà pure che i vescovi della Spagna erano
tutti ordinati da' loro metropolitani, e questi da' vescovi compro-
vinciali ragunati nella città metropoli. Ed i vescovi spagnuoli, seb-
ben fossero riverentissimi al pontefice romano e lo avessero in
somma stima e venerazione, con tutto ciò non permettevano che
s'intrigasse ne' loro ecclesiastici affari, regolandogli essi assoluta-
mente ed i loro re, i quali spesso solevano anche presedere ne' loro
concili e davano vigor di legge a' canoni che in essi stabilivano,
perché fossero da tutti inviolabilmente osservati.
Nella Brettagna più scrittori inglesi hanno dimostrato che in
questi primi tempi, ed insino che il monaco Agostino fu colà man-
dato missionario di Roma, quei vescovi non riconoscevano il ro-
mano, ma sibbene il vescovo <i Caèrlegionis super Osca» per loro
primate, che aveva la cura di governargli; ed avendo voluto Ago-
stino persuadergli che si sottoponessero a quello di Roma, essi,
secondo che rapporta Spelman, Condì. Britan., A. DCI, tom. 1,
p. 108,2 gli risposero: «Nescire se obedientiam papae romano debi-
tam, sed esse se sub gubernatione episcopi Caèrlegionis super Osca,
qui sit sub Deo supremus ipsorum antistes ». Ed il venerabile Beda
in più luoghi della sua Histor. geni. Anglor., lib. 11, cap. xxrx, lib.
in, cap. xxv, lib. v, cap. xvi et xxii,3 dimostra che fino a' suoi tempi
la Brettagna non riconosceva sopra sé potestà alcuna patriarcale del
pontefice romano. Ciocché negl'ultimi nostri tempi fu ben provato
da' più accurati investigatori dell'antichità brittaniche, siccome in-
fra gl'altri da Brerewood,4 da Watsanio,5 De EccL Brìi, antiq. liber-
1 . il con. XIX del concilio Toletano IV: lezione di ven e cors mancante in Pa-
rente (p. 151), che ha « quello ». 2. Henry Spelman (1564-1641), antiquario
inglese, Concilia, decreta, leges, constitutiones in re Ecclesiarum orbis britannici,
Londini 1 639-1664, in due volumi; ma la citazione è tratta dal Bingham,
op. cit., voi. in, lib. rx, cap. 1, p. 398, che in nota cita lo Spelman («che
ignoravano di dover ubbidienza al papa romano, ma che erano sotto il go-
verno del vescovo di Caerleon sulTUsk che è, sotto Dio, il loro supremo
presule »). 3. Beda, Historia ecclesiastica gentis Anglorum, in Migne, P. L.,
xcv, lib. 11, cap. xix, col. 113; lib. ni, cap. xxvi, col. 163; lib. v, cap.
xv, col. 255; cap. xxin, col. 282. 4. Edward Breretcood (1565 circa -
161 3), antiquario e matematico inglese. Cfr. la sua opera Patriarchal
Government qf the Ancient Church, London 1687, testo che naturalmente il
Giannone conosce indirettamente, attraverso il Bingham. 5. Watsanio :
Richard Watson (1612-1658), teologo anglicano, polemizzò contro puritani
688 IL TRIREGNO
tate, thes. n, dal Cave,1 Stillingfleet, Orig, Brittan., cap. v, p. 356,*
ed ultimamente dal Bingam, il quale nel lib. ix, cap. 1, § xn Orig.
eccl.3 confuta gl'argomenti di Schelfrate,4 che infelicemente tentò
opporsi alla sentenza degl'inglesi scrittori.
Nelle provincie dell'Illirico occidentale, siccome nella Pannonia
I e II le cui metropoli erano Laureaco e Sirmio, nella Savia, di cui
pure la metropoli era Sirmio, sebbene altri voglino che fosse stata
Vindomana,5 nella Dalmazia, la di cui metropoli era Salona, e nel
Norico, di cui alcuni pretendono che fosse stata la metropoli Sa-
lisburgo, a questi tempi, prima che il pontefice romano non comin-
ciasse a mandarvi suoi vicari, non era riconosciuto come loro pa-
triarca, ma si governavano in commune da' propri vescovi e metro-
politani. E non se non molto tempo da poi passarono sotto il di lui
patriarcato, come diremo a suo luogo.
Per ciò che s'appartiene alle provincie dell'Affrica occiden-
tale, le quali pure s'è preteso attribuirle all'esarcato, ovvero pa-
triarcato romano, è pur manifesto che queste ebbero proprio esarca,
qual fu il primate di Cartagine il quale con assoluta e libera potestà6
senza altrui dipendenza governava tutte quelle chiese, secondo la
facoltà concedutagli dagl'imperatori, nella quale sino a' tempi di
Giustiniano la ritennero; anzi dal medesimo, per aver Cartagine
anche decorata del suo nome, volendo che si chiamasse Giusti-
niano II, fu maggiormente stabilita e confermata per la sua no-
vella 131, e. iv,7 comandando: «Simili quoque modo ius pontificis,
quod episcopo iustinianae Carthaginis africanae civitatis dedimus,
ex quo Deus hanc nobis restituit, servari iubemus » ; e dalla novella
xxxvii,8 secondo che distesamente si legge fra le Novelle di Giusti-
e presbiteriani. È qui citato il De antiqua libertate Ecclesiae brittannicae,
Londini 1687. 1. Del Cave, oltre all'opera citata alla nota 1 di p. 682, cfr.
anche Primitive Christianity : or the Religton qf the Ancient Christians in the
First Ages qf the Gospel, London 1673. 2. Edward Stillingfleet, Origines
brittannicae, or the Antiquities qf the British Churches, London 1685. Cfr.
ancora, precedente, Irenicum, a W eapon- Salve f or the Churches Wounds;
or, the Divine Rìght qf Particidar Forms qf Church Government, Discusseci and
Examined, London 1 661. Tutti e due questi testi come i precedenti sono più
volte citati dal Bingham. 3. Orig. eccl. cit., voi. m,pp. 401-8. 4. Schelfrate:
naturalmente Schelstrate. 5. Vindomana ven e cors; Vindobona Parente
(p. 152). 6. con assoluta e libera potestà ven e cors (manca in Parente, p.
153). j.Novellae, cxxxi, De eccles. tiu, cap. rv: «In simil modo coman-
diamo pure che sia conservato il diritto di pontefice che abbiamo conferito
al vescovo di Cartagine giustinianea, città africana, da quando Dio ce la
restituì». 8. novella XXXVII, De africana Eccl., §§ n-iv.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 689
niano, è manifesto che il vescovo di Cartagine era il papa dell'A-
frica. La qual costituzione rende vani ed insussistenti gli sforzi del
Baronio, di Schelstrate e di Cristiano Lupo, i quali a tutto potere
s'ingegnano di far credere che, sebben fosse stata grande la potestà
del vescovo di Cartagine in Affrica, era però dipendente dal vescovo
di Roma, poiché fu quella novella diretta a Salomone, prefetto
pretorio dell'Affrica; e siccome Giustiniano aveva dato a questa
provincia un prefetto pretorio il quale avesse la suprema potestà
sopra la medesima, e così vi volle1 pure in Cartagine costituire un
patriarca, ovvero primate, che nelle cose ecclesiastiche avesse pari
autorità; e siccome il prefetto pretorio dell'Affrica non era dipen-
dente da quello d'Italia, così sopra questo patriarca di Cartagine
non avea niente da impacciarsi quello di Roma: < Ut civitas» come
sono le parole di Giustiniano <,quam nostri nominis cognomine
decorandam esse perspeximus, imperialibus privilegiis exornata
florescat».2 Le quali ultime parole smentiscono3 pure il Baronio
che sognò4 che gl'imperatori in elevar i vescovi a primati abbian
bisogno dell'autorità del romano pontefice, anzi, come si vedrà al
suo luogo, era tutto contrario: che i papi avevano bisogno della
licenza degl'imperatori quando volevano mandare il pallio a qual-
che vescovo per innalzarlo ad essere metropolitano. Della quale
indipendenza del vescovo di Roma e di Cartagine furono in pos-
sesso molto tempo innanzi di Giustiniano, e nel IV e V secolo,
sedendo S. Agostino nella cattedra d'Ippona, il quale intervenne
ne' concili d'Affrica, si oppose sempre cogP altri vescovi nazionali
agl'attentati e sorprese de' pontefici romani. È manifesto che non
si lasciarono conculcare i loro diritti, impedendo le appellazioni in
Roma il lor mare, e tutti gl'affari ecclesiastici e le controversie che
sorgevano nelle loro provincie quivi erano terminate. È pur troppo
noto il can. xxn del concilio milevitano II celebrato nell'anno 416,
col quale si stabilì: «Placuit ut presbyteri, diaconi vel ceteri infe-
riores clerici, in causis quas habuerint, si de iudiciis episcoporum
suorum questi fuerint, vicini episcopi eos audiant; et inter eos,
quicquid est, finiant, adhibiti ab eis ex consensu episcoporum suo-
1. vi volle cors ; si vuol ven. 2. « Ut civitas . . . florescat » : « Affinché la città
che abbiamo riconosciuto doversi adornare del nostro nome, fiorisca abbel-
lita dai privilegi imperiali ». 3. smentiscono Parente (p. 1 54) ; ammentisco-
no ven e cors. 4. pure il Baronio che sognò CORS. Mancano in ven e in Pa-
rente (p. 154).
690 IL TRIREGNO
rum. Quod si ab eis provocandum putaverint, non provocent nisi
ad africana concilia, vel ad primates provinciarum suarum. Ad
transmarina autem (Roma scilicet) qui putaverit appellandum, a
nullo inter Africam in communionem suscipiatur «-1 Questo de-
creto fu più volte confermato dagl'altri loro nazionali concili per
l'occasione che spesso gli davano i romani pontefici d'usurparsi il
dritto dell'appellazioni; ed è celebre la controversia insorta per
l'appellazione interposta in Roma da Apiario, prete affricano, il
quale da un sinodo essendo stato scommunicato, avendone portato
i ricorsi a Roma, il pontefice Zosimo pretendeva assumerne la co-
gnizione, sforzandosi che fosse Apiario restituito nella loro com-
munione; ma si opposero vigorosamente que' Padri, e rompendo
tutte l'imposture e cavillazioni che si tentarono sopra i canoni del
concilio niceno, facendogli conferire cogl'originali che si conserva-
vano in Antiochia, Alessandria e Constantinopoli, per convincere
la frode di questa impostura e della maniera di confondere i canoni
del concilio niceno con quelli di Sardica. Savissimamente scrisse
Daleo, De usu Patrum, Kb. 1, cap. ni3 sebbene par che ammetta per
vere le apocrife epistole di Lione M. e di Teodosio e Valentiniano
imperatori che si leggono nel tomo 11 ConciL, p. xxv (xxxi, A xxxii,
A) soggiungendo: «Neque rum accepta ab africanis Patribus re-
1. «Placuit ut . . . suscipiatur»: è il canone xxii del concilio provinciale di
Nurnidia, cui partecipò sant'Agostino, di condanna dell'eresia pelagiana.
La citazione è ripresa da J. Bingham, op. cit., voi. ni, lib. ix, cap. 1, p. 395
(e voi. vili, p. 73). Cfr. inoltre Ph. Labbé - G. Cossart, Sacrosancta conci-
lia cit., tomo 11, col. 1542, can. xxii (« Si è stabilito che presbiteri, diaconi
o altri chierici inferiori, se nelle cause che hanno avuto han da lamentarsi
per i giudizi dei loro vescovi, vengano ascoltati dai vescovi vicini; e defi-
niscano tra loro, col consenso dei loro vescovi, qualunque cosa presa in esa-
me. E se han deciso di appellarsi, non si appellino se non a concili africani
o ai primati delle loro province. Ma se qualcuno ha deciso di appellarsi al di
là dal mare — cioè a Roma —, non sia ricevuto da nessuno nella comunione
dell'Africa»). 2. Daleo: Jean Daillé (1 594-1670), uno dei maggiori teologi
ugonotti. Cfr. De usu Patrum, Genevae 1656, loc. cit., pp. 11 sgg. e 18-21.
La cit. a p. 21, compreso il riferimento ai Concilia, tomo rv (e non 11) epistole
(e non pp.) xxv-xxxn, coli. 51-62 (« Né il rifiuto allora opposto dai padri afri-
cani impedì che diversi anni dopo papa Leone, scrivendo all'imperatore
Teodosio, lo investisse con lo stesso artificio e sostituisse all'autentico canone
niceno quello di Sardica. Onde Valentiniano e Galla Placidia, scrivendo allo
stesso Teodosio, non dubitarono che i canoni vecchi e i niceni avessero con-
cesso al pontefice romano il diritto di giudicare della fede e dei presuli della
Chiesa. Evidentemente sull'autorità di Leone, da cui avevano ricevuto il
decreto di Sardica come canone niceno. E così tanto avanti si è andati con
questa pia frode che la massima parte dei cristiani è convinta che il primato
romano sia stato stabilito per decreto del concilio di Nicea, cosicché in
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 69I
pulsa obstitit quominus aliquot post annis Leo papa, ad Theodo-
sium imperatorem scribens, eadem arte ipsum adoriretur et sardi-
censem prò vero canone nicaeno supponeret. Unde fit ut Valenti-
nianus et Galla Placidia, ad eumdem Theodosium scribentes, extra
dubitare veteres et nicaenos canones de fide et praesulibus Ecclesiae
iudicandi ius pontifici romano concessisse. Authore scilicet Leone,
a quo sardicense decretum prò canone nicaeno acceperant. Atque
ita porro porrectum est in fraude ista pia, ut maximae christiano-
rum parti persuasum sit nicaeni concilii decreto romanum prima-
tum fuisse constitutum, ita ut in hac controversia maxima illius sy-
nodi auctoritas prò hac sententia passim obstrudatur».
Scoperta la frode, i vescovi d'Affrica scrissero finalmente quella
terribile lettera sinodica al pontefice Celestino, il quale dopo Boni-
facio era succeduto a Zosimo, che si legge nel Codice de' Canoni
affricani, tom. il Concila cap. 135. 36. 37. 38, dove, fra l'altre cose,
acremente rimproverandolo1 che non s'intricasse in quello che non
se le apparteneva, gli dicono : « Presbyterorum quoque et sequen-
tium clericorum improba refugia, sicuri te dignum est, repellat sanc-
titas tua; quia et nulla Patrum definitione hoc Ecclesiae derogatum
est africanae, et decreta nicaena, sive inferiores clericos, sive ipsos
episcopos, suis metropolitanis apertissime commiserunt. Pruden-
tissime enim, iustissimeque providerunt, quaecumque negotia in suis
locis, ubi orta sint, finienda. Nec unicuique providentiae gratiam
sancti Spiritus defuturam».2 Ed avendo il pontefice con sottil ri-
questa controversia la grandissima autorità di quel sinodo incontra ovunque
degli ostacoli a motivo di questa opinione»). 1. rimproverandolo ven;
riprendendolo cors. 2. Scoperta la frode . . . defuturam: nel concilio d'Afri-
ca del 426, tenuto contro Apiario. Questi, condannato come eretico dai ve-
scovi africani, si era appellato direttamente al pontefice Zosimo, provo-
cando una prima protesta nel concilio d'Africa del 419, dove si affermò che
i chierici non potevano appellarsi, contro il giudìzio del loro vescovo, a
vescovi d'altre province, ma solo al primate e al concilio provinciale. Ri-
fugiatosi Apiano a Roma, intervenne nella controversia Celestino papa as-
solvendo Apiario e indirizzando in suo favore una lettera ai vescovi afri-
cani. Il rinvio del Giannone è a Ph. Labbé - G. Cossart, Sacrosancta con-
cilia cit., tomo 11, coli. 1144 sgg. (la citazione a col. 1148), ma cfr. anche
L. E. Du Pin, op. cit., diss. il, pp. 174 sgg. (la citazione a p. 180) e J. Bin-
gham, op. cit., voi. ni, lib. rx, p. 396 («La tua santità, come è degno di te,
impedisca l'iniquo scampo dei presbiteri e dei chierici che li seguono, poi-
ché senza alcuna definizione dei Padri si è derogato al diritto della Chiesa
africana e poiché i decreti niceni hanno chiarissimamente affidato ai propri
metropolitani sia i chierici inferiori, sia gli stessi vescovi. Provvidero infatti,
assai giustamente e saggiamente, a che ogni lite dovesse definirsi nel luogo
692 IL TRIREGNO
trovato proposto che in caso di gravame, per non far trasportar le
cause oltra mare, voleva egli mandar in Affrica suoi delegati, gli
fa risposto che in niun concilio de' Padri avevano trovata questa
nuova prattica ch'egli voleva introdurre, e perciò che se n'aste-
nesse, dicendogli : « Executores clericos vestros quibuscumque pe-
tentibus nolite mittere, nolite concedere, ne fumosum typhum
saeculi in Ecclesiam Christi, qui lucem simplicitatis et humilitatis
diem Deum videre cupientibus praefert, videamur inducere w.1 Non
è dunque da dubitare che a questi tempi del IV e V secolo, ed infino
a Giustiniano imperatore, il pontefice romano non aveva dritto
alcuno patriarcale sopra le chiese affricane, le quali da' loro metro-
politani o dal primate di Cartagine erano rette e governate, siccome
eziandio ben dimostrano Salmasio, De prL papae, cap. xv, p. 23 62
ed ultimamente Melchiorre Leyderchero,3 De ecclesia affricana, vin-
dicandolo di tutte le cavillazoni ed ingiurie degli scrittori romani.4
Ma se quest'istesso ravvisiamo nelle sette provincie d'Italia
istessa ch'erano del vicariato d'Italia, alle quali presideva il vescovo
di Milano, qual motivo di dubitare vi rimarrà per l'altre provincie
d'Occidente, fuori d'Italia?
Milano a questi tempi era riputata la città metropoli d'Italia, cioè
d'Italia5 strettamente presa, ch'era tutta quella regione che al vi-
cario d'Italia ubbidiva, compresa da queste sette provincie, cioè:
Liguria, Emilia, Flaminia, Piceno, Annonario, Venezia ed Istria,
Alpi Cozzie e l'una e l'altra Rezia, non altrimenti che Roma era
capo dell'altre provincie suburbicarie sottoposte al vicario di Ro-
ma. Quindi dagli scrittori del IV e V secolo Milano era chiamata
«metropoli d'Italia», infra gl'altri da Attanasio nzVUEpist. adsolitar.,
stesso in cui ha avuto inizio ; né mancherà a ciascuno, per provvedere, la
grazia, dello Spirito Santo»). 1. «Executores . . . inducere»: la supplica è
sempre nella lettera a Celestino, che il Du Pin riporta integralmente nella
diss. 11, pp. 179-80, e il Bingham a p. 397 del in voi. cit. (a Non mandate
vostri chierici esecutori, chiunque li richieda, non lo permettete, perché
non sembri che si voglia introdurre il fumoso tifone del secolo nella Chiesa
di Cristo, il quale offre la luce della semplicità e il chiarore del giorno a chi
desidera vedere Dio »). 2. Claude Saumaise (cfr. la nota 3 a p. 682), Li-
brorum de primatu papae pars prima cum apparata, Lugduni Batavorum
1645, cap. xv, pp. 236 sgg. ^.Melchiorre Leyderchero: Melchior Ley-
dekker (1642-1721), teologo calvinista olandese, avversario delFarrniniane-
simo e fautore di un riavvicinamento fra calvinisti e luterani ortodossi. Di
lui è citata qui la Historia Ecclesiae africanae, Ultraiecti 1690. 4. scrittori
romani cors: scrittori r. ven. 5. cioè d'Italia: lezione di cors mancante
in ven.
DEL REGNO PAPALE - PERIODO II • CAP. Ili 693
tom. i1 dove, parlando de' vescovi delle città metropoli della Gallia
e di Sardegna, di Dionisio, ch'era allora vescovo di Milano, dice:
t'Dionysius Mediolani est autem et ipsa metropolis Italiaea. Pa-
rimenti Teodoreto, lib. 11, cap. xv,3 parlando di Liberio vescovo
di Roma, e di Paolino della Gallia e di Dionisio dell'Italia, disse
pure : ' Liberius episcopus urbis Romae, Paulinus metropolis Gal-
liarum, Dionysius metropolis Italiae ->, cioè di Milano. E questa fu
la cagione perché, quando nella convocazione de' concili s'univano
i vescovi di tutte le xvii provincie d'Italia, perché si distinguessero
quali fossero quelli delle provincie suburbicarie e quali d'Italia
strettamente presa, nelle soscrizioni solevano i primi particolar-
mente denominarsi dalle provincie e città ove presiedevano, ed i
secondi denominavansi generalmente col solo nome d'Italia e della
città. Così osserviamo nelle soscrizioni de' vescovi rapportate a
questa occasione3 da Camillo Pellegrino,4 Definib. Ducat. benez:,
diss. 11, dagl'atti del Concilio di Sardica, celebrato nell'anno 347,
che alcuni si sottoscrissero così: 0 Ianuarius a Campania de Bene-
vento; Maximus a Tuscia de Luca; Lucius ab Italia de Verona;
Fortunatus ab Italia de Aquileia; Stercorius ab Apulia de Canusio;
Severus ab Italia de Ravenna; Ursacius ab Italia de Brixia; Pro-
tasius ab Italia de Mediolano» etc. E questo era perché Verona,
Aquileia, Ravenna, Brescia e Milano erano nelle provincie le quali
al vicario d'Italia ubbidivano. Ciocché non poteva dirsi di Beneven-
to, di Lucca e di Canosa, le quali città erano nelle provincie di
Toscana, di Campagna e di Puglia, le quali erano del vicariato di
Roma, non già d'Italia.
Or, siccome il vescovo di Milano non avea di che impacciarsi
1. Si tratta dell'Epistola ad solitari che il Bingham, op. cit, voi. ni, p. 393,
in nota, cita indicando due edizioni: & tom. I p. 831 edit. Par. 1627 (p. 363 d.
edit. Par. 1697)». («Dionisio [vescovo] di Milano, che è poi la metropoli
d'Italia»). 2. Teodoreto, lib. II, cap. XV: della Ecclesiastica historia di
Teodoreto è qui citato il lib. 11, cap. xn (e non xv), in Migne, P. G.,
Lxxxn, col. 1030. La citazione - che è presa dal Bingham, op. cit., voi. ili,
p. 394, in nota - è mozza in ven (manca Gallìarum, Dionysius metropolis)
e completa in cors (« Liberio vescovo di Roma, Paolino della metropoli
delle Gallie, Dionisio della metropoli d'Italia *). 3. occasione Parente ; yen
e cors non hanno letto la parola e recano dei punti. 4. Di Camillo Pelle-
grino (1 598-1 663), storico napoletano, è qui citata la Libri secundi Historiae
principimi Langobardorum pars prima, quae continet dissertationes de institu-
tione, finibus et descriptione antiqui ducatus beneventani, Neapoli 1644, diss.
li, Ducatus beneventani^ air institutus, p. 15.
694 IL TRIREGNO
delle chiese al vicariato di Roma appartenenti, così il vescovo di
Roma non s'intricava in quelle che s'appartenevano al vicariato
d'Italia; onde nelle loro ordinazioni, siccome il romano non era
consecrato dal vescovo di Milano, ma da quello d'Ostia, così il
milanese non già dal vescovo di Roma, ma da quello d'Aquileia, e
questi dal milanese erano vicendevolmente ordinati, siccome è ma-
nifesto dall'epist. xvn dell'istesso Pelagio I,1 che sedè in Roma
nell'anno 555, che si legge nel tomo v Concila e da ciò che rapporta
Teodoreto,2 lib. iv hist, e. vii, dell'ordinazione di S. Ambrogio.
E Pietro di Marca, De concord., lib. vi, e. iv, n.° vii,3 non potè ne-
gare che insino a' tempi di S. Gregorio M. il vescovo di Roma
s'astenne sempre nell'ordinazione di quello di Milano, di Aquileia,
di Ravenna e dagl'altri vescovi d'Italia, i quali al vicariato d'Italia
s'appartenevano. Ne' princìpi del VII secolo, nel pontificato di S.
Gregorio Magno, lvtii anni appresso quello di Pelagio, si comin-
ciarono le sorprese per un'occasione opportuna, che, secondo credè
l'arcivescovo istesso di Parigi, gli somministrò lo scisma che insorse
a que' tempi tra la Chiesa di Milano e quella d'Aquileia: Gregorio,
col pretesto di occorrere a sedizioni, tumulti4 ed alle ambizioni,
e datigli a credere che ciò si fosse anche per consuetudine altre
volte pratticato, cominciò a mandare in Milano un suo messo, il
quale dovesse assistere all'elezione, la quale si lasciava come prima,
secondo il prescritto de' sacri canoni, al clero ed al popolo, l'uni-
versal consenso5 de' quali dovesse ricercarsi, e che l'eletto si con-
sacrasse pure come prima da' vescovi comprovinciali; aggiunse che
vi dovesse ancora concorrere la sua autorità ed assenso. Così si
legge in una sua epistola drizzata al romano patrizio ed esarca
d'Italia, epist. xxxi: «Necesse fuit prò servanda consuetudine (la
quale non mai era stata, anzi tutto il contrario dimostrano l'elezioni
1. epist. XVII dell'istesso Pelagio I: Epistola XV ad Narsen patricium, in
Migne, P. L., lxix, col. 397. La fonte è qui il Bingham, op. cit., voi. in,
pp. 393 sgg. Il Parente, pp. 157-8, attribuisce ad Ambrogio, nella nota suc-
cessiva, quanto invece si riferisce a Pelagio. 2. Teodoreto : così correggiamo
«Teodorico » di ven e cors in base al rinvio che segue: cfr. in Migne, P. G-,
t.xxxti, Ecclesiastica historia, lib. rv, cap. vi, De ordinazione Ambrosii epi-
scopi mediolanensis. (Parente, p. 157, ha «Teodosio» senza il rinvio).
3. P. de Marca, De concordia Sacerdotii et Imperii ecc., cit., lib. 1, cap. vii,
par. in, p. 23; lib. vi, cap. rv, par. vii, p. 187. Il de Marca, soprattutto
nel primo caso, si rifa al Sirmond. 4. sedizioni, tumulti ven; sediziosi tu-
multi cors. 5. consenso: così correggiamo «conteso» di ven e cors («con-
tesa» in Parente, p. 158).
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 695
de' precedenti tempi) militem Ecclesiae nostrae dirigere, qui eum
in quo omnium voluntates atque consensum concorditer convenire
cognoverit, a suis episcopis, sicuti vetus mos exigit, cum nostro
tamen assensu faciat consecrari \l E lo stesso pontefice, scrivendo
a Giovanni sottodiacono, al quale avea data commissione d'eseguire
i suoi ordini, si vale d'altra frase più acconcia per istabilire questo
nuovo dritto, dicendogli: Tunc eum a propriis episcopis, sicuti
antiquitatis mos obtinet cum nostrae auctoritatis assensu, facias
consecrari, quatenus huiusmodi servata consuetudine, et apostolica
sedes proprium vigorem retineat, et a se concessa aliis sua iura
non minuat ».2 Quest'epistola in altri darebbe sospetto non di sim-
plicità, come in Gregorio, ma di furberia,3 perché sarebbe una inge-
gnosa invenzione per stabilir un nuovo dritto di concedere facoltà
a' vescovi comprovinciali della quale non avevano bisogno, som-
ministrandogli la propria autorità il poter da se stessi ciò fare;
e nelTistesso tempo gliela concede, vuol che non restino pregiudi-
cati né minuiti i loro dritti e ragioni, ricercando anche in ciò il suo
assenso. Di queste sottili ed accorte maniere4 se ne additeranno ben
mille e mille ne' princìpi dell'usurpazioni, e non d'altra guisa fu-
rono tutte l'altre intraprese, sicché ciascuno potrà per se stesso
chiaramente comprendere su quali fondamenti si fosse appoggiato
questo sì maestoso e splendido regno papale.
Ma nel periodo nel quale ora siamo, prima di Gregorio M.,
tal'era la potestà del vescovo di Roma in Italia istessa, la quale non
si estendeva sopra le chiese di quelle provincie che nel vicariato
d'Italia eran comprese. Aveva questo vicariato il suo esarca, ch'era
il vescovo di Milano, il quale, oltre i vescovi minori, aveva sotto
di sé grandi ed illustri metropolitani, siccome erano il vescovo
d'Aquileia e quello di Ravenna, li quali (siccome quello di Milano)
1. «.Necesse fuit . . . consecrari»; Gregorio Magno, Epistolae, lib. ni, ep.
xxxi, in Migne, P. L., uocvii, col. 628. La citazione viene dal Bingham,
op. cit., voi. in, p. 395, nota. («Si rese necessario, per rispetto alla con-
suetudine, inviare un funzionario della nostra Chiesa per far consacrare
dai propri vescovi, come vuole Fantico uso, e tuttavia con la nostra appro-
vazione, colui che vedesse ricevere concordemente il voto e il consenso di
tutti»). 2. « Tunc eum . . . minuat*: lib. ni, ep. xxx, ibid., col. 628. Sempre
dal Bingham, loc. cit. (ff Fallo consacrare dai propri vescovi, come vuole il
costume dell'antichità, con l'assenso della nostra autorità, affinché, rispet-
tata tale consuetudine, e la sede apostolica conservi il proprio potere e non
veda diminuiti i propri diritti che ha accordato ad altri/»). 3. di furberia
cors; in furberia ven. 4. maniere: lezione di Parente (p. 159) mancante
in ven e cors.
696 IL TRIREGNO
non riconoscevano sopra di loro giurisdizione o superiorità alcuna
nel vescovo di Roma; anzi quello di Ravenna «de pari cum papa
certabat»,1 e più contese di giurisdizione ebbero insieme, delle
quali lunga istoria continuata per più secoli tessè l'accuratissimo
Guglielmo Cave2 per tutto il cap. v, alla quale bisogna rimettere i
lettori come degna d'esser veduta e letta.
Il vescovo di Roma era riputato fra tutti gl'altri dell'ordine cri-
stiano il più venerabile e reverendo, per ragione che la sua catte-
dra era fondata nella prima città del mondo, siccome i Padri del
concilio di Calcedonia non ad altra ragione attribuiscono questa
sua preminenza sopra tutti gl'altri, dicendo nel can. xxvni:3 «Ete-
nim antiquae Romae throno, quod urbs illa imperaret, iure Patres
privilegia tribuerunt». E gl'altri imperatori per ciò gli concedettero
i primi onori e le preminenze nella convocazione de' concili o
nell'altre occorrenze di funzioni ecclesiastiche, come per ciò ben
dovute ; siccome dopo che4 innalzarono Constantinopoli sopra An-
tiochia ed Alessandria, facendola città capo dell'Imperio d'Orien-
te e chiamandola nuova Roma, per quest'istesso il suo vescovo
venne ad innalzarsi cotanto, sicché gli rimasero indietro i vescovi
d'Alessandria e d'Antiochia, ed occupò fra i patriarchi il secondo
luogo dopo il romano, sicché più innanzi potrà vedersi. Intanto,
quella maggior riverenza e venerabilità non gli recava maggior
dritto sopra l'altrui diocesi, né importava che potesse comandar
gl'altri. Egli è però vero che questo rispetto fu cagione, per l'igno-
ranza e decadenza dell'Imperio d'Occidente, e molto più di quello
d'Oriente, che la riverenza si cangiasse in superiorità, e che innal-
zasse poi il suo triregno, non più tiara sacerdotale, la quale fu
trasformata in imperiai diadema sopra tutte l'altre mitre, anzi so-
pra gli scetri istessi e corone de' più potenti re della terra. Ecco
una mostruosa metamorfosi: da primo qual era de' vescovi, si vid-
de da' medemi fatto principe e signore. Ma, fino che durò nel suo
vigore l'Imperio, non s'estendevano più oltre di ciò che s'è detto i
suoi dritti e ragioni esarcali. Anzi a questi tempi ne' quali siamo
1. « de pari . . . certabat*: «contendeva da pari a pari col papa». 2. lunga
istoria . . . Cave: W. Cave, Scriptorum ecclesiasticorum historia literaria, a
Christo nato usque ad saeculum XIV \ Londini 1688-1689. 3. can. XXVIII:
cfr. Ph» Labbé - G. Cossart, Sacrosancta concilia cit., tomo iv, col. 769
(« Giustamente infatti, poiché quella città signoreggiava, i Padri conferirono
privilegi al trono dell'antica Roma»). 4. ben dovute . . . che cors; manca
in ven e in Parente (p. 160).
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. Ili 697
non l'era dato nemmeno nome di patriarca, il qual nome fu più
antico agPesarchi d'Oriente che questo di Roma, se voglia riguar-
darsi l'antichità della Chiesa: fu prima questo nome dato in Oriente1
per encomio anche a' semplici vescovi, siccome ha ben provato
l'accuratissimo Dupino, De antiq. Eccl. disc, diss. i.a Poi si restrinse
agli esarchi, che avevano cura dell'intiere diocesi, per la qual cosa
presso a' Greci tutti gl'esarchi con questo nome di patriarca eran
chiamati. Ma, fra' Latini in Occidente, il primo che si fosse così
chiamato fu il pontefice romano, ed i Greci istessi furono i primi a
dargli quest'encomio, ma non prima de' tempi dell'imperator Va-
lentiniano III e di papa Leone Magno. Questo pontefice da' Greci
e da Marciano istesso, imperatore d'Oriente, fu chiamato patriarca.
Né prima, come notò l'accuratissimo Dupino, da' Latini medesimi
e da' Greci se gli diede tal nome. Anzi il Sirmondo, De eccl.
suburbi lib. 11, cap. vii,3 scrivendo contro Claudio Salmasio, non
potè allegar sopra ciò esempi più antichi che degl'imperatori Ana-
stasio e Giustino, i quali chiamarono patriarca Ormisda, vescovo
ài Roma.
Ecco dunque qual fosse l'esterior polizia della Chiesa del IV
secolo. A questi tempi si noverano più esarchi, ovvero patriarchi,
i quali avevano a riguardo delle proprie diocesi egual potestà, né
l'uno era soggetto o dipendente dall'altro. Brerewood4 novera sino
a xiii o xrv esarchi nelle diocesi dell'Imperio romano, l'uno indi-
pendente dall'altro: i. il patriarca alessandrino soprala diocesi d'E-
gitto; 11. il patriarca antiocheno sopra la diocesi d'Oriente; in. il
patriarca efesino sopra la diocesi asiana; rv. il patriarca di Cesarea
di Cappadocia sopra la diocesi pontica; v. l'altro di Eraclea sopra
la Tracia; vi. quello di Tessalonica sopra la Macedonia ovvero Illi-
rico orientale; vii. l'altro di Sirmio, sopra l'Illirico occidentale;
vili, il romano sopra il vicariato di Roma; rx. l'altro di Milano so-
pra il vicariato d'Italia; x. il cartaginese sopra l'Affrica; xi. quello
di Lione sopra la Gallia; xii. l'altro di Toleto sopra la Spagna;
xiii. Peboracense sopra la Brettagna.
Oltre ciò vi erano alcuni metropolitani, li quali parimenti erano
1. che questo di Roma . . . Oriente ven e cors (manca in Parente, p. 160).
2. siccome . . . diss. I: L. E. Du Pin, op. cit., diss. 1, § v, De nomine patriarchae,
pp. 9-14. Ma cfr. anche la diss. rv, De primatu romani pontifica, cap. il,
§§ i-ii, pp. 333 sgg. 3. Sirmondo . . . cap. VII: vedi la nota 3 a p. 681.
4. Brerewood: cfr. la nota 4 a p. 687. Trae dal Du Pin, op. cit., diss. 1,
§ XI, De institutione et limitibus patnarchatuum, pp. 35 sgg.
698 IL TRIREGNO
indipendenti, né sottoposti ad alcun esarca, siccome furono i me-
tropolitani di Cipro, di Bulgaria, d'Iberia, ch'ora communemente
chiamano la Giorgia dell'Armenia, ed alcune chiese della Bretta-
gna, che riconoscevano solo l'arcivescovo « Caérlegionis » per loro
primate indipendente da qualunque altro patriarca. Parimenti, se
fra nazioni barbare convertite alla fede di Cristo sorgeva alcun ve-
scovo, governava questi indipendentemente dagl'altri la sua na-
zione. Così il vescovo di Tomidi nella Scizia, narra Sozomeno,
lib. vi, cap. xxi,1 che come metropolitano governava tutta quella
provincia; siccome le chiese d'Etiopia, della Persia e dell'Indie, e
di tutte quelle regioni ch'erano fuori dell'Imperio romano, da' loro
propri sacerdoti erano governate.
CAP. IV
I capi e moderatori di quesf esterior ecclesiastica polizia erano
gl'imperatori cristiani, come supremi ispettori da Dio costituiti
per averne cura e protezione.
Essendo chiara cosa e manifesta che quest'esterna polizia della
Chiesa s'adattò a quella dell'Imperio, onde sorsero gl'esarchi pri-
mati ed i metropolitani corrispondenti a' magistrati dell'Imperio,
secondo la maggiore o minor estensione delle diocesi e delle Pro-
vincie ch'essi governavano, in conseguenza di ciò ne doveva seguire
che, siccome nell'Imperio v'era un capo che lo reggeva, qual era
l'imperatore, così nella Chiesa dovesse parimenti sorgere uno che
tutta la reggesse e fosse il supremo commandante ed ispettore so-
pra tutti i patriarchi, esarchi e metropolitani, siccome era l'impe-
ratore sopra tutti i magistrati dell'Imperio. Coloro che negano que-
sta prerogativa al pontefice romano, pareggiandolo agl'altri esar-
chi, né dandogli maggior potestà nella propria diocesi di quella che
avevano tutti gl'altri nelle loro, nelle quali egli non poteva por mano,
per isfuggir questa difficoltà si riducono a dire che non in tutto
l'esterior polizia della Chiesa si conformò a quella dell'Imperio, e
che perciò non ebbe alcuno che fosse vescovo universale ad imi-
tazione dell'imperatore, che siccome questi governava tutto l'Im-
perio, così quegli dovesse governar tutta la Chiesa. Infra gl'altri
1. narra Sozomeno . . . cap. XXI: nella Historia ecclesiastica, loc. cit., in
Migne, P. G., lxvii, col. 1343.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. IV 699
Bingamo, Orig. eccl., lib. ix, cap. i, § vili,1 così si sbriga dicendo:
"Exemplum reipublicae non in omnibus est imitata. Non habuit
umquam universalem aliquem episcopum in universalis imperatoris
imitationem; neque orientalem et occidentalem pontificatum in
imitationem orientalis et occidentalis Imperii; nec quatuor magnos
administratores spirituales, convenientes quatuor magnis status mi-
nistris, praefectis videlicet praetorio in civili Imperio ;>.
Ma costoro sono caduti in quest'errore perché, confondendo
Y interno coli5 esterno della Chiesa, non hanno saputo ben distin-
guere queste due appartenenze. La Chiesa interna e spirituale da
Cristo fondata non aveva mestieri di conformarsi coli' Imperio, né
prender da quello forma e disposizione. In questa uno è il vescovo,
come s'è detto, uno è il capo ed il maestro, Cristo; né ha niente
d'esterno, di appariscente ed operoso. Può sussistere senza tempii,
senza altari e senza tanti fastosi ministri. Di pochi e semplici riti
ha bisogno, e, siccome diceva S. Epifanio, da' soli preti e diaconi
tutte le funzioni di questa Chiesa possono adempirsi.2 Tutto quello
che ha ora & esterno fu aggiunto da che Costantino Magno la fece
ricevere nell'Imperio, e per conseguenza, come quivi stabilita, do-
vevano gl'imperatori prenderne cura e pensiero, come supremi di-
rettori di tutto ciò che dentro l'Imperio è racchiuso; e perciò a
ragione soleva dire Costantino a' vescovi: ce Vos quidem in iis quae
intra Ecclesiam sunt episcopi estis. Ego vero in iis quae extra gerun-
tur episcopus a Deo sum constitutus ».3 Or, questa Chiesa esterna
anche in aver un capo visibile e supremo direttore si conformò
all'Imperio, e siccome ebbe gl'esarchi ed i metropolitani corrispon-
denti agl'uffiziali dell'Imperio, così ebbe un supremo direttore, e
questi era l'imperatore; e diviso l'Imperio, gl'imperatori d'Occi-
dente avevano cura della Chiesa occidentale, e quelli d'Oriente
dell'orientale. Certamente che, divisa questa Chiesa in tanti esarchi,
l'uno indipendente dall'altro, ed avendo pure metropolitani non
sottoposti ad alcun esarca, ma anche per se stessi con indipendenza
1. J. Bingham, Origines sive antiquitates ecclesiasticae, ed. cit., voi. in,
p. 386 («Non in tutto la Chiesa seguì il modello dell'Impero. Non ebbe
mai un vescovo universale ad imitazione dell'imperatore universale, né un
pontificato orientale e uno occidentale ad imitazione dell'Impero d'Oriente
e di quello d'Occidente, né quattro grandi amministratori spirituali corri-
spondenti ai quattro grandi ministri di stato, cioè ai prefetti pretorii del-
l'Impero civile»). 2. siccome . . . adempirsi: cfr. sopra, p. 660. 3. *Vo$
quidem . . . constitutus*: cfr. sopra, p. 658 e la nota 2 ivi.
700 IL TRIREGNO
dagl'altri governavano le loro chiese, se non vi fosse stato un capo
e supremo direttore che v'avesse la cura e Fispezzione, si sarebbe
veduta in molte confusioni e disordini. Quindi, quando infra di
loro accadevano discordie o intorno alla dottrina o disciplina, per-
ché non mettessero sotto sopra l'Imperio, convocavano gl'impera-
tori i concili, ed in quelli presidendo, facevano esaminare da' ve-
scovi i punti controvertiti di religione, lasciando ad essi, come più
periti, la conoscenza del dritto, perché risolvessero le controversie,
e quelle, secondo la pluralità de' voti, decidessero,1 affinché i sud-
diti avessero certi dogmi da dover seguitare, e dichiarare le con-
trarie opinioni per false ed ereticali; sapessero il doverle schivare,
e con ciò le risse e discordie si spegnessero affatto, doppo che i con-
cili avevano per mezzo de' loro canoni deciso ciò che parevagli più
conforme alla dottrina che Cristo ed i suoi apostoli insegnarono;
che nell'Imperio tal credenza dovesse tenersi e non altra, minac-
ciando esìli, proscrizioni, infamia, molti ed altri castighi contro
coloro che non l'eseguissero. In cotal guisa erano ben distinte le
appartenenze: a' vescovi ne' punti di dottrina e di religione si la-
sciava la cognizione del dritto, perché ciò apparteneva alla Chiesa
interna. Ma, perché esterna, il costringimento ed il commando in
far eseguire da' popoli, poiché la Chiesa non aveva imperio e giuri-
sdizione alcuna, s'apparteneva agl'imperatori, li quali, come capi
delTesterior polizia della Chiesa, per mezzo delle loro costituzioni
che promulgavano per tutto l'Imperio, affinché quello si mante-
nesse in tranquillità e riposo e non si vedesse ardere tra sedizioni e
tumulti, che soglion esser più perniciosi allo Stato quando siano
cagionati per causa di religione, commandavano2 che si detestassero
le opinioni qualificate da' concili per eretiche, si confessasse da
tutti la tal credenza da essi prescritta e non si disputasse d'avvan-
taggio sopra tali articoli. Per questa ragione leggiamo nel lib. xvi
del Codice teodosiano tante costituzioni sopra ciò stabilite, e nel
Codice di Giustiniano que' titoli: «De summa trinitate», «de ss.
Ecclesiis», «De clericis et haereticis», e non ad altro fine Giusti-
niano diede fuori quella sua prof essione difedey della quale si par-
lerà a suo luogo, se non che tutti i sudditi dell'Imperio sapessero
qual credenza dovevano tenere su que' articoli. Molti che non san-
no, né distinguono ciò che s'appartiene all'esterna o interna poli-
i. decidessero Parente (p. 164); decise ven. 2. commandavano: correggia-
mo così (come anche in Parente, p. 164) il a commandava» di ven e cors.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. IV 701
zia ecclesiastica, si maravigliono, anzi riprendono Teodosio e Giu-
stiniano, perché ponessero a ciò mano; ma non se ne maraviglia-
vano gl'istessi vescovi e Padri antichi che sapevano questo essere
propria incombenza degl'imperatori ; le quali cose, trascurandole,
dovevano renderne conto a Iddio, il quale gFavea costituiti ispet-
tori e diffensori della sua Chiesa, perché nell'Imperio fosse conser-
vata pura e monda.
Ne' punti di disciplina ecclesiastica era maggiore la potestà e la
cura degl'imperatori. Essi, come capi di tutti i vescovi, dovevano
prenderne1 cura e pensiero. Ergevano perciò le metropoli ; dichia-
ravano gl'esarchi ed i metropolitani; mandavano 2! medesimi il
pallio in segno della giurisdizione che sopra le provincie e diocesi
a loro sottoposte amministravano, siccome si vedrà chiaro ne' se-
guenti capitoli. Disponevano non meno delle persone che delle
robbe ecclesiastiche, dando a' vescovi norma intorno all'elezioni,
età, requisiti, ed intorno all'amministrazione de' beni, siccome è
manifesto dal Codice teodosiano e di Giustiniano, e molto più dalle
sue Novelle. Sicché intorno a questa esterna disciplina non deve
ricercarsi altro centro per mantener l'unità, né l'altro capo visibile
che gl'imperatori istessi che n'erano i direttori, dopo che nell'Im-
perio fu ammessa la religion cristiana; poiché, siccome ad essi s'ap-
parteneva d'invigilare a tutto ciò ch'era dentro l'Imperio, così do-
veva appartenere l'ispezione sopra l'esterior polizia della Chiesa:
giacché, come diceva Otato Melivitano, «la Chiesa è dentro l'Im-
perio, non già l'Imperio dentro la Chiesa».3
E poiché una delle maggiori preeminenze era quella d'innalzare
ed abbassare le sedi de' vescovi, quindi nacque il cangiamento
dell'esterior polizia fin qui rapportata nel V e "VI secolo, poiché,
avendo gl'imperatori d'Oriente innalzato cotanto il vescovo di Co-
stantinopoli, pareggiandolo a quello di Roma, ne venne quel can-
giamento che saremo per rapportare ne' capitoli seguenti.
1. prenderne Parente (p. 165); renderne ven e cors. 2. giacché . . . Chie-
sa: cfr. Istoria civile, tomo 1, lib. li, cap. ult., p. 119.
702 IL TRIREGNO
CAP. V
Come nel V e VI secolo, sotto gV altri imperatori cristiani succes-
sori di Costantino Magno, si fosse variata quesf esterior polizia
per i favori e prerogative che i medesimi concedettero a Costanti-
nopoli dichiarandola a nuova Roma», sede e capo dell'Imperio
d'Oriente, pareggiando per conseguenza il suo vescovo a quello
dell' & antica Roma >, sede dell1 Imperio d'Occidente.
Essendo piacciuto a Costantino Magno, dopo ch'ebbe abbrac-
ciata la religione cristiana, d'introdurre nella Chiesa questa distin-
zione di polizia spirituale ed interna, e di polizia temporale ed
esterna, volendone egli dell3 'esterna prenderne cura e pensiere con
dichiararsene capo e moderatore, conformandola alla polizia del-
l'Imperio, doveva per conseguenza esser sottoposta a cangiamenti e
variazione, siccome era soggetta quella dell'Imperio. All'incontro,
la Chiesa spirituale ed interna che Cristo fondò non è sottoposta
a variazione alcuna, sempre fu e sarà la stessa, immutabile e ferma;
anzi i cieli e la terra non pur s'immuteranno, ma passeranno, ma
la sua divina parola perdurerà in eterno. Uno è il vescovado di
questa Chiesa in tutto il mondo, non diviso in provincie e nazioni,
ed ogni vescovo o prete possono reggerla e governarla da per tutto
e scorrerla in ogni clima, siccome fecero gl'appostoli ed i loro di-
scepoli, senza che vi sia chi possa porgli argine o confine. Ella, di
pochi e semplici riti è contenuta1 ed i suoi precetti sono pur piani,
schietti e facili, che da ogni rustico e uom di villa, e da ogni vile e
semplice feminetta possono apprendersi. Quanto appare di fuori
di pomposo, operoso, maestoso ed esterno non s'appartiene punto
a lei, ma tutto il resto che dipende da forme estrinseche ed umane
vicende e provvedimenti, sta per conseguenza sottoposto a varia-
zioni e cangiamenti.
Ben i successi de' secoli seguenti hanno questa verità2 mani-
festata, e specialmente da ciò ch'ora rawisaremo ne' due vescovi
di Roma e di Costantinopoli si farà maggiormente chiaro e palese.
Questi due vescovi in discorso di tempo innalzarono le loro sedi
sopra tutti gl'altri; il romano ed il constantinopolitano; ma con
questa differenza, che il romano con sottili ingegni e finissime arti
i. contenuta yen e cors (manca in Parente, p. 166): forse «contenta*.
2. questa verità Parente (p. 167); quest'unità ven e cors.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. V 703
distese i suoi confini e si sottopose l'altrui diocesi, non potendo
allegar per sé altri titoli che Y usurpazione; all'incontro il constanti-
nopolitano allega per sé le leggi ed il favore degl'imperatori d'O-
riente che lo stabilirono, ed i concili che glielo confermarono. I
pontefici romani non devono ad altro questo loro ingrandimento
che alla propria industria, ingegno ed accortezza, colla quale sep-
pero poi tirar anche a sé i favori de' creduli principi ed imperatori,
siccome si vedrà chiaro più innanzi. È ancor da notare un'altra
differenza fra l'uno e l'altro. I patriarchi d'Oriente, come l'ales-
sandrino, l'antiocheno e l'efesino, quel di Cesarea ed il costantino-
politano, sebbene non fossero sottoposti al romano, ma si manten-
nero nella loro antica libertà, nella quale i canoni e le leggi degl'im-
peratori l'avevano posto; da poi il cesariense, quel d'Eraclea e
l'efesino passarono sotto quello di Costantinopoli, e questi final-
mente, negl'ultimi tempi, fu pure manomesso. Ma gl'esarchi d'Oc-
cidente, come quel di Milano, di Sirmio e tutti gl'altri primati e
metropolitani delle Gallie, Spagna e Brettagna, furono tutti dal
romano soggiogati e manomessi, e questi da niuno giammai. I
princìpi di tali ingrandimenti, non meno di quello di Roma che di
Costantinopoli, sebbene cominciarono nel finir del IV secolo, nel
V però e nel VI si videro maggiormente stabiliti, e specialmente
sotto Giustiniano Magno, il quale per sue Costituzioni e Novelle
regolò poi questa nuova ecclesiastica lor polizia.
Il vescovo di Bisanzio prima non era che un semplice suffragane©
del vescovo d'Eraclea, il quale anche come esarca presedeva in
tutta la Traccia, secondo ch'è manifesto dall' epist. I di Gelasio.1
Si è veduto che in Oriente i più celebri ed eminenti patriarchi fu-
rono due: l'alessandrino e l'antiocheno. Quello d'Alessandria te-
neva il secondo luogo dopo il patriarca di Roma, forse perché
Alessandria dopo Roma era riputata la seconda città del mondo.
L'altro d'Antiochia teneva il terzo luogo, riguardevole ancora per
la memoria che serbava d'avervi S. Pietro, capo degl'appostoli, te-
nuta la sua prima cattedra. Così le tre parti del mondo tre Chiese
parimente riconobbero sopra tutte l'altre celebri ed eminenti: l'Oc-
cidente quella di Roma, l'Oriente quella d'Antiochia ed il Mezzo-
giorno quella d'Alessandria. Non è però, come s'è veduto, che
1. secondo . . . Gelasio: epistola xili, Ad episcopo* Dardaniae, in Migne,
P. £., lix, col. 65. Cfr., per quel che segue, L. E. Du Pin, De antiqua Ec-
clesiae disciplina ecc., cit., diss. i, § v, pp. 9 sgg.
704 IL TRIREGNO
sopra tutta Europa esercitasse la sua potestà esarcale quello di
Roma, ovvero quello d'Antiochia per tutta l'Asia e l'altro d'Ales-
sandria in tutta l'Affrica. La potestà di ciascuno non oltrepassava
i confini della diocesi a sé sottoposta. Le altre diocesi ubbidivano
agl'esarchi propri, e molti altri luoghi ebbero ancora i loro vescovi
autocefali* cioè a niuno sottoposti. Tali furono, siccome s'è detto,
i vescovi di Cartagine e Cipro ; tali furono un tempo nell'Occidente
i vescovi della Gallia, della Spagna, della Germania, Brettagna e
delle più rimote regioni.3 Le chiese de' barbari certamente non
furono soggette ad alcun patriarca, ma si governavano da' loro
propri vescovi. Così le chiese d'Etiopia, della Persia, dell'Indie e
dell'altre regioni, ch'erano fuori del romano Imperio, da' loro pro-
pri sacerdoti venivano governate e rette.
Ma ecco ora come, verso la fine del IV secolo, cominciasse il
vescovo di Constantinopoli a sottrarsi non pure dal vescovo di
Eraclea, ma ad appropriare a sé tutta la Tracia ch'era a quello
sottoposta. Renduta Costantinopoli sede degl'imperatori e capo
dell'Imperio d'Oriente, fu riputata la seconda Roma e la seconda
città del mondo ; onde il suo vescovo cominciò anch'egli ad estol-
lere il capo ed a scuotere il giogo del proprio metropolitano. In-
nalzata adunque questa città dagl'imperatori, e secondando la po-
lizia della Chiesa quella dell'Imperio, ecco che nel concilio primo
costantinopolitano, convocato nell'anno 381 per commandamento
di Teodosio Magno, furono conceduti al suo vescovo i primi onori
dopo quello di Roma; e non per altra ragione, siccome s'esprime
nel canone ni : & Constantinopolitanus episcopus habeat priores ho-
noris partes post romanum episcopum. Eo quod sit ipsa nova Ro-
ma»? Còsrj quando prima, dopo il romano i primi onori erano del
patriarca d'Alessandria, sottentra ora quello di Costantinopoli ad
occupare il suo luogo. Egli è vero, come ben prova Dupino, loc.
cit., che i soli onori furono a lui dal concilio conceduti, non già
veruna patriarcale giurisdizione sopra le tre diocesi autocefali,4 le
1. autocefali: non «acefali» come in Parente (p. 168). In cors «autore-
fali». 3. regioni cors; legioni ven; in Parente (p. 168) «parti». 3. a Con-
stantinopolitanus . . . Roma*: cfr. J. Bingham, Origines sive antiquitates ec-
clesiasticae, ed. cit., voi. ni, lib. rx, p. 383. Cfr. ancora Ph. Labbé - G. Cos-
sart, Sacrosancta concilia cit., tomo n, col. 948. Ma anche L. E. Du Pin,
op. cit., diss. 1, § xi, pp. 35 sgg. («Il vescovo di Costantinopoli abbia la
precedenza negli onori dopo il vescovo di Roma, per il fatto che Costanti-
nopoli è una nuova Roma»). 4. autocefali: non «acefale» di Parente (p.
169); cors «autorefali».
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. V 705
quali erano la Tracia, l'Asia e Ponto; ma tanto bastò che col spe-
zioso pretesto di quest'onori cominciasse egli le sue intraprese,
non altrimenti che il romano, il qual, per esser il primo fra' vescovi
d'Europa, fece sopra l'altre diocesi d'Occidente maravigliosi acqui-
sti. Non passò adunque gran tempo che invase la Tracia, ed eser-
citando ivi le ragioni esarcali, si rendè esarca di quella diocesi, ed
oscurò le ragioni del vescovo d'Eraclea. Dopo essersi stabilito nella
Tracia, invade le vicine diocesi, cioè l'asiana e pontica, ed infine al
suo patriarcato le sottopone. Non in un tratto le sorprende, ma di
tempo in tempo col favor degl'imperatori e de' concili, che, fatti
convocare da' Cesari, maggiormente stabilirono a' vescovi costan-
tinopolitani tanta autorità. Infra gl'altri S. Giov. Grisostomo non si
quietò se non intieramente le occupasse. Onde infine venne ad
appropriarsi non solo la potestà d'ordinar egli i metropolitani del-
l'Asia e di Ponto, ma ottenne legge dall'imperatore che niuno senza
autorità del patriarca di Costantinopoli potesse ordinarsi vescovo;
sicché, coll'appoggio di questa legge, si fece lecito poi ordinare an-
che i semplici vescovi di tutte tre queste diocesi. Narra Sozomeno,
Hist. eccL, lib. vili, cap. vi,1 che Crisostomo, portatosi in Efeso,
convocò ivi nel 401 un sinodo di settanta vescovi e depose tredeci
vescovi simoniaci, parte della Licia e Frigia, e parte dell'Asia istes-
sa, e sostituì in lor luogo altri. Valesio,3 in Noi. ad Sozom^ e Du-
pino, Bibliotk.,2 voi. in, in Vita Chrisost., emendano il numero de'
vescovi deposti rapportato da Sozomeno, ed invece di tredici narrano
che non fossero più dì sei. E perché il trono costantinopolitano fosse
in ciò maggiormente stabilito, ed i suoi vescovi fossero più sicuri e
rendessero più ferme le loro conquiste, sì fecero confermare questa
prattica da più editti degl'imperatori, rapportati da Liberato, in
Breviar., e. xiii,4 e, quel che è più, dal concilio di Calcedonia, con-
vocato in Bitinia per comando dell'imperatore nell'anno 451, dove,
addattando quelle medesime ragioni dell'antica Roma alla nuova
nel canone xxvin fu stabilito : « Sanctorum Patrum decreta ubique
1. Historia ecclesiastica, loc. cit., in Migne, P. (?., lxvii, col. 1530. 3. Va-
lesio: Henri Valois (1603 -1676), erudito francese, fratello di Adrien, edi-
tore e curatore, oltre che di classici greci e latini, di una collezione di storici
ecclesiastici (fra cui appunto Sozomeno) che ebbe molta fortuna, Parigi
1 659-1 673, in tre volumi. Cfr. in Migne, P. G.y lxvii, col. 1533. 3. L. E.
Du Pin, Nouvelle bibliothèque des auteurs ecclésiastiques, ni, Paris 1693, p. 9.
4. Liberato, arcidiacono di Cartagine, nel Breviarium causae nestorianorum
et eutychianorum, cap. xili, in Migne, P. Z,., lxviii, coli. 969 sgg.
706 IL TRIREGNO
sequentes, et canonem, qui nuper lectus est, centum et quinqua-
ginta Dei amantissimonim episcoporum agnoscentes, eadem quo-
que et nos decernimus et statuimus de pri\"ilegiis sanctissimae Ec-
clesiae Constantinopolis novae Romae. Etenim antiquae Romae
throno, quod urbs Ma imperare^ iure patres privilegia tribuerunt.
Et eadem consideratione moti centum quinquaginta Dei amantis-
simi episcopi sanctissimo novae Romae throno aequalia privilegia
tribuerunt, recte iudicantes urbem, quae et imperio et senatu ho-
norata sit, et aequalibus cum antiquissima regina Roma privilegiis
fruatur, etiam in rebus ecclesiasticis, non secus ac illam extolli ac
magnifieri, secundam post illam existentem: ut et ponticae et
asianae et thraciae dioecesis metropolitani soli, praeterea episcopi
praedictarum dioecesium quae sunt inter barbaros a praedicto thro-
no sanctissimae constantinopolitanae Ecclesiae ordinentur; uno-
quoque scilicet praedictarum dioecesium metropolitano, cum pro-
vinciae episcopis, provinciae episcopos ordinante, quemadmodum
divinis canonibus est traditum. Ordinari autem, sicut dictum est,
praedictarum dioecesium a constantinopolitano archiepiscopo, con-
venientibus de more electionibus et ad ipsum relatis».1
I pontefici romani, non potendo soffrire un tanto ingrandimento
ci si opposero con molto vigore; infra gl'altri Leone il Santo, che
si acquistò il sopranome di Magno, gliele contrastò audacemente.
i. cSanctotum Patrum . . . relatis*: cfr. Ph. Labbé - G. Cossart, Sacro-
sancta concilia, tomo rv, col. 769, can. xxvm; vedi J. Bingham, op. cit.,
voi. in, lib. rx, par. vii, pp. 382-3, da cui deriva la citazione («Seguendo
in tutto i decreti dei Santi Padri e confermando il canone, testé letto, dei
centocinquanta vescovi amantissimi di Dio, abbiamo decretato e stabilito
le stesse cose circa i privilegi della santissima Chiesa di Costantinopoli,
nuova Roma. Giustamente infatti i Padri hanno attribuito privilegi al
trono dell'antica Roma, poiché quella città signoreggiava- Mossi dalla stessa
considerazione i centocinquanta vescovi amantissimi di Dio hanno confe-
rito al santissimo trono della nuova Roma uguali privilegi, ritenendo giu-
stamente che la città che è adorna del governo e del senato e gode di privi-
legi uguali a quelli di Roma antichissima regina, non diversamente da quel-
la sia innalzata e magnificata anche nelle cose ecclesiastiche, venendo se-
conda dopo quella: cosicché i soli metropolitani delle diocesi del Ponto,
delTAsia e della Tracia, e inoltre i vescovi delle predette diocesi che sono
tra i barbari siano ordinati dal predetto trono della santissima Chiesa di
Costantinopoli; vale a dire che ciascun metropolita delle predette diocesi,
assieme ai vescovi della provincia, ordini i vescovi della provincia, come
è stato tramandato dai canoni divini. I vescovi delle predette diocesi siano
poi ordinati, come s'è detto, dall'arcivescovo di Costantinopoli, fatte, se-
condo l'uso, proprie elezioni e a lui riferite»).
DEL REGNO PAPALE ■ PERIODO II • CAP. V 707
Il consimile fecero i suoi successori, e sopra tutti papa Gelasio, che
tenne la cattedra di Roma dall'anno 492 insino all'anno1 496, scri-
vendone e portandone aspre doglianze dapertutto, siccome è ma-
nifesto dalle sue epistole rv e xiii ad episcopos.2 Ma tutti i loro
sforzi riuscirono vani, poiché, tenendo i patriarchi di Costantino-
poli tutto il favor degl'imperatori, fu loro sempre non meno con-
fermato il secondo grado d'onore dopo il patriarca di Roma che la
giurisdizione in Ponto, nell'Asia e nella Tracia. L'imperator Ba-
silisco,3 in un suo editto rapportato da Evagrio, lib. in, cap. ni,
gliele ratificò. L'imperator Zenone fece lo stesso per una sua costi-
tuzione che si legge nel nostro Codice4 sotto il tit. De sacris Ecclesiis,
1. decernimus, xvi. E finalmente Giustiniano Magno, con la sua No-
vella 131, e. i,s secondando quel che da' canoni del concilio di Cal-
cedonia era stato statuito, comandò il medesimo. Ciocché poi fu ab-
bracciato dal consenso della Chiesa universale, poiché, essendo stati
inseriti i canoni de' concili costantinopolitano e calcedonense ne'
codici de' canoni delle chiese, fu ne' seguenti secoli tenuto per
costante il patriarca di Costantinopoli tener dopo il romano il se-
condo grado di onore.
L'ingrandimento di questo patriarca giunse a tanto che gli fu
dato il titolo d'ecumenico ed universale, e fu chiamata la sua chiesa
capo delle chiese. Giustiniano Magno nella Nov. vii e xxxxn6 chia-
mò Mena, Epifanio ed Antemio ecumenici ed universali patriarchi.
L'imperator Lione nella Novella il e in e xn chiamò Stefano7 uni-
versa! patriarca. Talché le querimonie che per questo titolo ne
1. 492 insino all'anno ven e cors (manca in Parente, p. 171). 2. TV e XIII
ad episcopos: in Migne, P. L., lix: epistola rv, Seu commonitorium, ad
Faustum magistrum fungentem legationis officio Constantinopoli, coli. 26
sgg.; epistola xin cit., coli. 61 sgg., in cui afferma che Acacio fu giusta-
mente condannato a solo giudizio della Santa Sede. 3. Basilisco ven e
cors, non «Basilio», come il Parente (p. 171). Si tratta di Basilisco (morto
nel 484), ammiraglio dell'Impero d'Oriente, che fu sconfitto dai Vandali
di Genserico, probabilmente perché corrotto, nel 468. Combatté contro
l'imperatore Zenone e nel 476 rivesti la porpora imperiale, appoggiando i
monofisiti. Sconfitto da Zenone nel 477, fu ucciso in carcere. Giannone
rinvia a Evagrio Scolastico (nato nel 536 circa), scrittore ecclesiastico di
origine siriana, di cui cita la Historia ecclesiastica a temporibus in qutbus
Socrates et Sozomenus desierant . . ., lib. ni, capp. ni sgg., in Migne, P. G.,
Lxxxvi bis, coli. 2598 sgg. 4. nel nostro Codice: Novellae constitutiones, in,
v, xvi, xliii e lxxx. 5. Ibid., cxxxi, 1 . cors ha nov. 13. 6. Ibid., vii e xlii.
7. L'imperator Lione ... Stefano: Leone VI (866-911), imperatore d'O-
riente, detto il Sapiente, depose Fozio, patriarca, nell'886. Stefano, fratello
708 IL TRIREGNO
fece papa Gregorio Magno contro il patriarca Giovanni, che si
faceva chiamar vescovo universale, non erano per usurpazione nuova,
ma antica. E s'ingannano coloro che riputarono che i patriarchi di
Costantinopoli si appropriarono questo titolo non prima de' tempi
di Gregorio Magno, poiché è manifesto che fino da' tempi di Giu-
stiniano M. era lor dato. Anzi, quest'imperatore, in una costitu-
zione che ancor leggiamo nel suo Codice, lib. i, tit. n, e. xxrv,1
s'avanzò sino a chiamare la Chiesa costantinopolitana capo di tutte
V altre chiese; e non per altra ragione, che, siccome Costantinopoli
era pareggiata a Roma e, per essere sede dell'imperatore, chiama-
vasi nuova Roma, doveva godere degl'istessi privilegi d'onore e di
potestà, e delle medesime prerogative che la vecchia Roma. Onde,
siccome che la romana era riputata capo di tutte l'altre chiese d'Oc-
cidente, così quella di Costantinopoli dovesse riputarsi per capo
delle chiese d'Oriente. In cotal guisa questo patriarca si lasciò in-
dietro non pur tutti gl'altri esarchi d'Oriente, ma l'alessandrino
istesso e l'antiocheno. Non fu gran fatto che si lasciasse pure in-
dietro quello di Gerusalemme, poiché questo, se si riguarda la di-
sposizione dell'Imperio, non meritava la prerogativa non che di
patriarca, ma nemmeno di esarca, essendo un semplice vescovo
sufTraganeo a quello di Cesarea, metropoli della Palestina; ma se
gli diedero gl'onori di patriarca, poiché fin da' tempi degl'appostoli
fu riputato un gran preggio il sedere in questa cattedra posta in
Gerusalemme, città santa, dove Cristo istituì la sua Chiesa, e dalla
quale il Vangelo per tutte l'altre parti del mondo fu disseminato.
Le altre sedi maggiori d'Oriente per altre calamità sofferte, non
minori di quelle di Gerusalemme, andarono sempre più in deca-
denza, poiché non solo per3 le frequenti scorrerie de' barbari che
invasero le loro diocesi, ma assai più per le sedizioni e contrasti
che sovente insorsero fra i vescovi maggiori intorno all'elezioni ed
intorno alla dottrina ed alla disciplina, perderono il loro antico
lustro e splendore, sicché da poi si cominciarono a numerare le
sedi patriarcali con quest'ordine: la romana, la costantinopolitana,
l'alessandrina, l'antiochena e la gerosolimitana. Quest'ordine tenne
di Leone, era stato da questi nominato patriarca appena sedicenne. Cfr.
Leone VI, NoveUae constitutiones aut correctoriae legum repurgatùmes, il, in
e xn. i. Codex iustiniamts, lib. i, tit. il : De sacrosanctis Ecclesiis et de rèbus
et privUegUs earum, paragrafi vi e xxrv. 2. per: lezione di Parente (p. 172)
mancante in ven e cors (in quest'ultimo manca anche il per che segue).
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. V 709
il concilio di Costantinopoli celebrato nell'anno 536: questo me-
desimo tenne Giustiniano Magno nel Codice e nelle sue Novelle,
e tennero da poi tutti gì' altri scrittori non meno greci che latini.
Non era però ristretto a questi tempi il nome di patriarca a soli
questi cinque. Alcune volte solea darsi per encomio anche ad in-
signi metropolitani, siccome nel mentovato concilio di Costantino-
poli si diede anche ad Epifanio vescovo di Tiro; e Giustiniano,
così nel Codice come nelle Novelle, dà generalmente questo nome
agl'esarchi che avevano il governo di qualche diocesi. Ma non
tardò guari che in Oriente si restrinse pur1 questo nome a que' soli
cinque. Non così in Occidente, poiché, fino al IX e X secolo, si
diede in Italia ed in Francia anche a* più insigni e celebri metropo-
litani ovvero primati.
A ragione i pontefici romani erano gelosi e tanto solleciti per
impedire l'ingrandimento de' vescovi costantinopolitani, non pur
perché non fossero interrotti i propri ingrandimenti sopra le Pro-
vincie d'Occidente, ch'essi, non meno che que' facevano in Oriente,
procurando distendere ed ampliare i loro confini; ma anche perché,
ingrandito2 soverchio il patriarcato di Costantinopoli, non questi
attendesse sopra le sue provincie, siccome l'evento dimostrò non
esser stati vani ed intempestivi i loro sospetti e timori, poiché,
come vedremo, invasero infino la Sicilia e la Calabria, provincie al
vicariato di Roma attribuite.
Il vescovo di Roma aveva forse più speziosi pretesti e colori
che non quello di Costantinopoli; ma non ebbe gl'imperatori così
favorevoli come l'ebbe quello di Costantinopoli. Non se gli con-
trastava il primo onore per ragion della sua cattedra stabilita in
Roma, città un tempo capo del mondo, sicché per le ragioni stesse,
confondendosi a bello studio questa prerogativa d'esser il primo
fra' vescovi colla potestà esarcale, ch'esercitava nelle chiese subur-
bicarie comprese nel vicariato di Roma, cominciò pure ad invadere
le altrui provincie, non pur quelle sottoposte al vescovo di Milano,
come esarca del vicariato d'Italia, ma sopra tutte l'altre provin-
cie3 d'Occidente; ma i fondamenti del suo ingrandimento non si
appoggiavano alle leggi degl'imperatori, ma ad altre argutezze e
sottili invenzioni, quali i pontefici romani, nella decadenza dell'Im-
x.pur cors; per ven. 2. ingrandito Parente (p. 173); ingrandirono ven
e cors. 3. non pur quelle . . . Provincie ven e cors (manca in Parente,
P. 174)-
710 IL TRIREGNO
peno d'Occidente, e più per l'ignoranza e superstizione de' popoli,
sopragiunta ne' seguenti secoli in queste provincie per l'irruzione
di straniere nazioni incolte e barbare, se le fecero in discorso di
tempo ben valere, siccome si vedrà chiaro nel capitolo seguente e
nel progresso di questo libro.
cap. vi
Delle cagioni delV ingrandimento del vescovo di Roma, onde
distese V autorità sua esarcale sopra altre diocesi e Provincie
d'Occidente non comprese nel vicariato di Roma.
Nel soggetto, che abbiamo ora per le mani, perché non ci la-
sciamo1 abbagliare d'alcune vane apparenze e sorprendenti* splen-
dori, bisogna attentamente distinguere i veri dai falsi ed immaginati
fondamenti d'un tanto ingrandimento, e separare le cagioni antiche
dalle nuove, inventate da poi per darle maggior stabilimento e
fermezza. I veri fonti donde derivarono le tante prerogative ed
onori al vescovo di Roma furono primieramente per esser fondata
la sua sede nella prima città del mondo; e quest'era riputata la
vera, principale e potissima ragione onde il romano negl'onori do-
vesse anteporsi a tutti gl'altri vescovi, siccome quest'era dagl'im-
peratori, anzi da' Padri istessi della Chiesa riconosciuta per la più
legitima, fondamentale e stabile di tutte l'altre; ed i Padri del con-
cilio di Calcedonia non altra più propria e vera seppero esprimer-
ne nel canone xxviii se non questa, dicendo: «Etenim antiquae
Romae throno, quo d urbs illa imperare^ iure Patres privilegia tri-
buerunt».3 E da quest'istesso principio vollero derivare le prero-
gative del vescovo di Costantinopoli, una nuova Roma, riputando
essersi rettamente costituito d'innalzarlo pure ad uguali onori, con-
correndo in lui i motivi e la considerazione istessa che nel vescovo
dell'antica Roma; onde soggiunsero:4 «Et eadem consideratione
moti centum quinquaginta Dei amantissimi episcopi sanctissimo
novae Romae throno aequalia privilegia tribuerunt, recte iudicantes
urbem, quae et imperio et senatu honorata sii, et aequalibus cum
i. lasciamo cors e Parente (p. 175) ; lasciarono ven. 2. sorprendenti cors e
Parente (p. 175); sopraintendenti ven. M. C. de Samnitibus aveva intuito
giusto. 3. ed i Padri . . . tribuerunt 1 vedi, per questa e la citazione che se-
gue, la nota a p. 706. 4. soggiunsero Parente (p. 175) ; soggiunse ven e cors.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II ■ CAP. VI yil
antiquissima regina Roma privilegio fruatur, etiam in rebus eccle-
siasticis, non secus ac illam, extolli ac magnifieri, secundam post
illam existentem ». Quindi Sozomeno, parlando nel lib. vii, cap. del
can. in,1 del concilio costantinopolitano, che uguagliò in ciò Co-
stantinopoli a Roma, disse: Ut, post episcopum urbis Romae,
constantinopolitanus habeat honoris praerogativam utpote qui iu-
nioris Romae episcopatum administret. lana tum enim urbs illa, non
solum hanc appellationem meruerat et senatum et ordines po-
puli, ac magistratus similiter habebat, verum etiam contractus ci-
vium huius urbis, iuxta leges Romanorum, qui in Italia sunt, iudi-
cabantur; iuraque omnia et privilegia aequalia seniori Romae possi-
debati). Nel che sono d'accordo tutti gl'altri istorici ecclesiastici,
quali contemporanei, nelle loro memorie che ci lasciarono: sic-
come Socrate, lib. v Hist. eccL, cap. vili,3 Niceforo, lib. xii Hist.
eccl.y cap. xiii,3 ed altri scrittori.
Secondariamente non può dubitarsi, ch'essendo stabilita questa
cattedra in Roma, città ove le lettere e le discipline fiorivano e
dove concorrevano i più insigni domini del mondo, la Chiesa ro-
mana era riputata la più dotta e saggia. S. Paolo, il più forte cam-
pione della fede di Cristo, trascielto per la conversione de' gentili,
era ivi lungamente dimorato, predicandola ed istruendo4 i novelli
convertiti ; sicché Roma in ciò non ebbe che invidiare all'altre città
dell'Oriente, scorse e ricorse da lui e dagl'altri appostoli.
Ebbe vescovi molto saggi, come S. Clemente, Cornelio ed altri,
onde avvenne che gl'altri vescovi anche delle sedi maggiori non
facevano difficoltà di riccorrere a questa sede di Roma per consul-
tare de' loro affari, così appartenenti alla dottrina che alla disciplina,
onde ebbero origine le loro lettere decretali. E si vede che sino a'
tempi di Tertulliano aveasi acquistata gran fama di dottrina e di
1. nel lib. VII, cap. del can. Ili: Ermia Sozomeno, Historia ecclesiastica,
lib. vii, cap. rx, in Migne, P. G., lxvii, col. 1435. Il Giannone, o il copista,
sbaglia la citazione (« Affinché, dopo il vescovo di Roma, quello di Costanti-
nopoli abbia il privilegio dell'onore come colui che amministra l'episco-
pato della più giovane Roma. Già allora infatti quella città non solo aveva
meritato questo nome ed aveva parimenti il senato e gli ordini del popolo e
le magistrature, ma anche gli affari dei cittadini di questa città erano giudi-
cati secondo le leggi dei Romani che vivono in Italia ; e aveva tutte le leggi
e i privilegi uguali a quelli della più antica Roma a). 2. lib. V Hist. eccl.t
cap. Vili: in Migne, P. G.t usvii, coli. 575 sgg. 3. Niceforo Callisto,
Ecclesiastica historia, loc. cit., in Migne, P. G.t cxlvt, col. 782. Cfr. anche
lib. vili, cap. xxvi, col. 102. 4. istruendo Parente (p. 176); istruendola
ven e CORS.
712 IL TRIREGNO
santità, talché questo dottore ne faceva somma stima, avendola
in grandissima venerazione; e molto più fecero i Padri del IV se-
colo e specialmente S. Agostino.
Per terzo non è da controvertirsi che il primo degl'imperatori
cristiani, qual fu Costantino Magno, dalla Chiesa di Roma comin-
ciasse ad esercitare la sua munificenza e magnanimità in favorirla
cotanto, arrichirla di beni mondani, di preziose suppellettili, ed
innalzare il suo vescovo a sommi onori, adornandolo del pallio, o
sia manto imperiale, e di regali insegne, ed avendone quella rive-
renza e rispetto, quanto l'istoria di que' tempi racconta e da noi
s'è detto ne' precedenti capitoli:1 le cui orme furono da poi calcate
da Costante e Costanzo suoi figliuoli, da Gioviniano,2 Valentiniano
I e II, da Onorio e Valentiniano III imperatori d'Occidente, suoi
successori, siccome è manifesto dalle leggi loro, che sono inserite
nel Codice teodosiano. Di cui poi ebbero eguale stima e rispetto
Teodorico ed Atalarico re d'Italia, e tutti gl'altri re ostrogoti, an-
corché3 fossero arriani, siccome è noto dall'opere di Cassiodoro, di
Giornandes, Ennodio, Procopio, Agatia, e di chi no? Ed essendo
stati scacciati d'Italia i Goti sotto l'imperio dell'imperator Giusti-
niano, questi, siccome fecero gl'altri imperatori d'Oriente suoi più
vicini successori, ebbe il vescovo di Roma come suo vicario in
Occidente, il quale non poteva eleggersi, né intronarsi, senza loro
consenso degli imperatori, e fu commesso4 per adempire in loro
vece quelle parti in Occidente ch'essi in Oriente adempivano, in-
torno ad aver cura e pensiero delle cose ecclesiastiche e dell' este-
rior polizia della Chiesa, siccome si vedrà nel seguente capitolo.
Queste sono le vere e potissime cagioni della sua preminenza
sopra gl'altri vescovi dell'orbe cristiano. Ma da poi i pontefici ro-
mani non vollero attenersi a queste, ma per rendere la loro auto-
i. ne* precedenti capitoli: soprattutto nel il, qui a pp. 656 sgg. 2. Giovinia-
no*. in cobs e Parente (p. 177) « Giustiniano », evidentemente errato perché
il Giannone parla di imperatore d'Occidente. Sicuramente Flavio Gioviano
Augusto, imperatore dal 363 al 364, successore di Giuliano l'Apostata,
cristiano convinto, che abolì la magia e l'arte divinatoria, ven: « Gioviniano
e Valentiniano III» (salta un brano per omoteleutia) ; cors: «Giustiniano,
Valentiniano I e II, da Onorio e Valentiniano III » (dà il testo più completo,
ma correggendolo male, come farà M. C. de Samnitibus). 3. ancorché Pa-
rente (P- *77) ; li quali ancorché ven e CORS- 4. ebbe il vescovo . . . commesso :
adottiamo qui per intero il testo Parente (p. 177), senz'altro più leggibile
di ven e cors che hanno: «ebbero il vescovo di Roma come lor vicario in
Occidente, il quale perciò non poteva eleggersi, né intronarsi senza loro
commesso e consenso».
DEL REGNO PAPALE - PERIODO II • CAP. VI 713
rità assoluta ed indipendente da' concili e dagl'imperatori istessi
e dall'Imperio, ne inventarono altre, sopra le quali s'ingegnarono
stabilire e fondar meglio la loro potenza, per poterla poi stendere
per tutto il mondo, senza che vi fosse argine alcuno che potesse
raffrenarla, siccome per l'ignoranza e superstizione de' secoli se-
guenti fortunatamente avvenne.
Ne' princìpi del V secolo cominciarono a rifletter meglio sopra
quell'umana tradizione, radicata già nell'opinione di tutti, che S.
Pietro, lasciata la cattedra d'Antiochia, fosse gitto in Roma a sta-
bilir quivi la sua sede, e ch'egli ne fosse stato il primo vescovo.
E poiché ciò nemeno bastava al lor intento, bisognò trasformar S.
Pietro da capo qua! era degl'appostoli, e farlo principe e monarca
della Chiesa, dicendo che a colui furono consignate da Cristo le
chiavi, e detto che pascesse le sue peccorelle, e che sopra le sue
spalle fu unicamente appoggiata ed edificata la Chiesa, la quale,
perché non rovinasse, era mestieri che non potesse errare, e fosse-
gli per conseguenza dato tutto il potere sufficiente per poterla so-
stenere e conservare. Che dovendo questa Chiesa durar perpetua-
mente, tale prerogativa e maggioranze non dovevano essere per-
sonali, sicché si estinguessero nella di lui persona, ma attaccate
alla sua cattedra, che non doveva mai morire, ed a tutti i suoi suc-
cessori che dovevano in quella sedere. Ed ancorché qui pure in-
contrassero delle gravi difficultà da superare, poiché forse con
maggior ragione poteva ciò pretendere la cattedra d'Antiochia, che
fu la prima sede di S. Pietro, essi perciò non si sgomentarono,
dicendo che S. Pietro abbandonò quella cattedra e la trasferì in
Roma, e che dovevasi attendere questo fine, non già quel principio;
ed oltre aver finte molte favole su di questa traslazione di sede da
Antiochia in Roma, perché non rovinasse così presto sì arenoso1
fondamento, si finse una rivelazione su questo trasferimento di
sede, che si legge nel Decreto di Graziano 11, q. 1, Rogemus,2 la qual
cosa, presso i dotti, dall'istesso Natal d'Alessandro è presa a beffe
e riputato un favoloso sogno. Ma a questo si provide da poi con
più efficace mezzo, poiché si procurò che si stabilisse nella Chiesa
1. arenoso ven e cors; oneroso Parente (p. 178). 2.Decretum Grattarti,
causa xxrv, quaestio I, 15.
714 JL TRIREGNO
romana una particolar festa di questa traslazione, affinché più in-
contestabilmente1 passasse alla memoria dei posteri come cosa certa
e da non potersene più dubitare.
Certamente che recarà stupore, non che maraviglia, come in
mezzo a tante ed inestricabili difficoltà, fra scogli sì duri e perigliosi,
fra cammini sì stretti, alpestri e disaggevoli, siasi potuto avanzar
tanto, e, superati tanti fossi e ripari, scorrer poi da per tutto, e
sopra i dubi e rovinosi fondamenti estoller edifizi sì portentosi e
magnifici; poiché doveva in prima saltarsi quel fosso ed appurar
bene quel fatto, se mai S. Pietro fosse stato in Roma, quando non
si puoi provare dalla Scrittura santa: anzi gl'Atti degV Appostoli di
S. Luca, e ristesse Epistole di S. Paolo pare che2 convincono il
contrario. E questa credenza non si appoggia che ad una tradizione
umana: Ireneo, Cipriano e Tertulliano, scrittori non contempo-
ranei ma del III secolo, che vissero intorno a due cento anni dopo
S. Pietro, e da Roma stranieri, due affricani e l'altro vescovo della
Gallia, da' quali fu poi tramandata a' scrittori del IV secolo.3 Don-
de i romani pontefici seppero bene approfittarsi e studiarci poi
tanto con sì fortunato successo. Per 2.0, fattosi pure passar S. Pietro
in Roma, avendo lasciato in Antiochia il suo successore, perché a
questa cattedra non dovevano rimanere quelPistesse prerogative
delle quali una volta ne avea già fatto acquisto ? E perché Antio-
chia non dovrà essere la prima e Roma la seconda? Giacché sono
attaccate alla cattedra e non alla persona? Tanto maggiormente
che, d'aver in Antiochia avuta la sua sede S. Pietro v'è un appoggio
stabile e fermo, qual è quello della divina Scrittura; all'incontro,
d'essere stato S. Pietro in Roma non si fonda che in una tradizione
umana. Oltracché, le prime spose essendo le più legitime e da
preferirsi alle seconde, perché doveva farsi questo torto ad Antio-
chia, città pure raguardevole dell'Imperio e la capitale di tutta
l'Asia, donde la prima volta uscì il nome di cristiano, siccome
d'Alessandria quello di teologo? E che si risponderà a S. Gregorio
Magno istesso, il quale in Reg. Ep. 991, ad Eulogium Alexan.,4
1. incontestabilmente: nostra congettura; indetestabilmente ven, cors e Pa-
rente (p. 179). 2. pare che cors; che ven. 3. Certamente . . . secolo: cfr.
L. E. Du Pin, op. cit., diss. iv, cap. 1, § n, Petti primatus ex veterum testi-
monUs asseritur, p. 313. 4. Gregorio Magno, Epistularum lib. v, ep. xliii,
Ad Eulogium et Anastasium episcopos, in Migne, P. L., Lxsvii, col. 770.
Eulogio era patriarca di Alessandria e Anastasio di Antiochia. Si riferisce
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP- VI 715
scrisse che li vescovi d'Antiochia e d'Alessandria sono successori
di S. Pietro, non meno che il vescovo di Roma, perché sedono
nella medesima cattedra di Pietro? Per 3.0 dovevasi ancor superare
un'altra invincibile difficoltà: che S. Pietro, capo degl'appostoli,
ebbe quelle prerogative come appostolo, non come vescovo, poiché
la sua vocazione e missione principale non fu di vescovo, il qual
dovesse fermarsi in una città, ma di appostolo, cioè di dover scor-
rere da per tutto e piantar la novella religione per quelle provincie
dove non era nota, non già fermarsi in una città già convertita;
e quantunque non fosse cosa impropria agl'appostoli di fermarsi in
qualche luogo ove scorgevano che la loro più lunga dimora potes-
se essere di maggior profitto e quivi adempire le parti di vescovo,
presidendo il presbiterio, con tutto ciò non era questa la lor pro-
pria e principal incombenza, ma, ridotti gl'Ebrei e gentili alla
fede di Cristo, istituire ne' luoghi convertiti vescovi per istruttori
della plebe ed ispettori al presbiterio, e scorrer altrove. E per ultimo
rimaneva di francar quell'altro più duro passo, che sebbene S.
Pietro fosse riputato il primo fra gl'appostoli, nulladimeno la po-
testà che Cristo lasciò a' medesimi fu in tutti eguale,1 dichiarandosi
egli stesso il capo e lo sposo della sua Chiesa, reiterando loro bene
spesso quella sentenza massima: che chiunque fra di loro vorrà
presumere d'esser maggiore e più grande dell'altro, egli sarà il
servo di tutti. Né Cristo intorno alla predicazione ed amministra-
zione della sua Chiesa diede più potere a S. Pietro che agl'altri.
Sono mandati a due a due a predicare come compagni, perché
s'escludesse fra loro ogni superiorità. Cristo promette a tutti che
giudicheranno le dodeci tribù d'Israele, sedendo sopra le dodici
sedi, e non dà a S. Pietro un luogo più alto ed eminente degl'altri.
Quando ci vien descritta da S. Giovanni, ApocaL, xxi,2 la Chiesa
trionfante come una città che avea dodici fondamenti, e che in
quelli era scritti i nomi delli dodici appostoli dell'agnello, non si
legge che S. Pietro fossevi posto per pietra angolare* Quando gl'ap-
postoli ricevettero lo Spirito Santo e la potestà di legare e sciogliere
allo scontro con Giovanni patriarca di Costantinopoli per il titolo di ecume-
nico. Sarà un tema ben più sviluppato nell'opera riguardante il pontificato
di Gregorio Magno. 1. nulladimeno . . . eguale: cfr. L. E. Du Pin, op. e
loc. cit., § ni, In quo ostenditur nihil obstare Petri prìmatui Apostolorum
inter se aequalitatem, et recentioris de Petri et PauU individuo primatu sen-
tentìa examinalur, pp. 317 sgg. 2. Apoc, 21, 14.
716 IL TRIREGNO
ed il commando di predicare per tutto il mondo, e quando Tistesso
Spirito Santo discese sopra di loro, si trovarono tutti insieme,
né alcuno di essi in tutto questo è preferito agl'altri. E salito Gesù
in cielo, dagl'Atti1 di S. Luca è manifesto che S. Pietro non poteva
o faceva3 più degl'altri : dagl'appostoli fa mandato con Giovanni in
Samaria. E dal concilio gerosolimitano istesso, riferito pure in
quest'irte",3 convocato dagli appostoli, S. Pietro fu il primo a pro-
porre, ma il primo a dar suo giudicio fu S. Giacopo, vescovo di
Gerusalemme,4 ed ebbe sovente egli a dar conto a* suoi compagni
delle sue missioni ed a giustificare a que' la sua condotta, spezial-
mente quando gli fu imputato a delitto d'essere entrato nella casa
di Cornelio centurione ed aver ivi5 battezati que* gentili i quali
non s'erano prima circoncisi.6 E S. Paolo più volte gli resistè in
faccia e lo rimproverò di cose delle quali era da doverne esser
ripreso. Né a' primi secoli della Chiesa si pensò a questi sofismi,
anzi nemeno si sognò di ricorrere a que' arzigogoli e cavilli su '1
«Tibi dabo claves», e sopra il «Tu es Petrus, et super hanc petram
aedificabo Ecclesiam meam», e sopra il «pasce oves meas»; poiché
i Padri antichi, anche nel IV secolo, ben ne conobbero la vera e
genuina7 intelligenza e che le « chiavi » ed il « pascere » furono8 egual-
mente a tutti concedute, e che la «pietra» era Cristo, confessò a S.
Pietro,9 e non l'istesso Pietro : onde, data la potestà a lui, non di-
struggeva quella egualmente a tutti conceduta, siccome que' passi
i. Act., 8, 14. 2. ofacevavENe cors (manca in Parente, p. 181). 3. Act.t
15, 7-1 1 e 13-21. 4. Gerusalemme: Giacomo non era vescovo di «Galizia»
(come in Parente, p. 181), ma di Gerusalemme, ven e cors recano «V. di
G. » che abbrevia appunto vescovo di Gerusalemme. Si riferisce al concilio
ivi tenuto nel 51, in cui ci fu il conflitto con i giudaizzanti. 5. ivi cors;
avuto ven; né Tuna né l'altra lezione in Parente (p. 181), che manca pure
del circoncisi che segue. 6. spezialmente . . . circoncisi: cfr. Act., 11, 1 sgg.
7. genuina cors (come aveva corretto M. C. de Samnitibus) ; germana ven.
8. furono Parente (p. 1 8 1) ; fu ven e cors. 9. confessò a S. Pietro ven e cors
(manca in Parente, p. 181) e si tratta probabilmente di lezione lacunosa, il
cui significato può tuttavia essere inteso alla luce del passo delle Retracta-
tiones di Agostino poc'oltre menzionate: «Sed scio me postea saepissime
sic exposuisse quod a Domino dictum est "Tu es Petrus, et super hanc
petram aedificabo Ecclesiam meam", ut super hunc intelligeretur quem
confessus est Petrus dicens: "Tu es Christus filius Dei vivi" (Matth. xvi,
18, 16): ac sic Petrus ab hac petra appellatus personam Ecclesiae figuraret,
quae super hanc petram aedificatur, et accepit claves regni coelorum. Non
enim dictum est illi "Tu es petra", sed: "Tu es Petrus". Petra autem erat
Christus; quem confessus Simon, sicut eum tota Ecclesia confitetur, dictus
est Petrus. Harum autem duarum sententiarum quae sit probabilior, eligat
lector ».
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. VI 717
spiegarono Cipriano, De sin, pret,,1 Gio. Crisostomo, HomiL LV
in Matth. et in Psalm, XXXII,3 S. Ambrogio in Epistola ad Ephes,,
cap. 11, x,3 S. Agostino in più e diversi luoghi delle sue opere.
Circa Iudaeos, pagan, et arian. et trac, X et xxiv in Iohan. et de
verbis Domini Serm. xx, e più chiaramente 11 RetracLf S. Girolamo,
in Matth, et ad Gaiat, cap. il,5 S. Bernardo e tanti altri gravi e seri
dottori della Chiesa. Ciò è stato agli ultimi nostri tempi da valenti
scrittori posto in tanta chiara luce, che non accade più ora dispu-
tarne o por dubbio.
Ma se questi sforzi per superar tante difficoltà si fossero fatti
tutti ad un tempo, non v'è dubbio che audace, temeraria, difficile,
anzi impossibile dovea riputarsi l'impresa, e molto più strano e
sorprendente sembrarebbe il fortunato successo. Ma non si tenne
questa maniera, né gl'assalti furono tutti in un tempo e repentini ;
pian piano s'andava avanti. Si cominciò prima, con speciose appa-
renze e ben acconcie esaggerazioni ed accorte insinuazioni, a far
credere per cosa certa che S. Pietro in Roma avesse trasferita la
sua sede, e sopra questo fondamento cominciarono le riflessioni ed
esagerazioni ed encomi di quella cattedra. Que' Padri che credet-
tero S. Pietro avere in Roma sofferto martirio, in fra gY altri S.
Agostino, da ciò ne derivano nella sede di Roma stima sì e preggio,
ma non maggior potere con autorità sopra le altre sedi maggiori o
minori fuori del vicariato di Roma. S. Agostino, scrivendo contro
Giuliano, che poco conto faceva dell'autorità de' vescovi d'Occi-
dente che contro di lui si allegavano, così lo ripiglia e riprende nel
1. Cipriano, De sin. pret. : il testo è forse qui corrotto. Cipriano Cartaginese
tratta l'argomento nel Liber de imitate Ecclesiae, cap. iv, in àligne, P. L.t
iv, coli. 512-6. 2. Homiliae in Matthaeum, lv, 111 Migne, P. G., lviii, coli.
531 sgg. Quanto alla citazione che segue, dev'esserci un errore, poiché
nelle « esposizioni » di Crisostomo ai Salmi non esiste quella al salmo xxxn.
3. Commentarium in Epistolam ad Ephesios, il, 20 (e non io), in Migne,
P, L., xvii, col. 380. 4. Cantra Iudaeos, paganos et arianos sermo de sym-
bolo, in Migne, P. L., xui, lib. vili, coli. 1 1 17 sgg., forse cap. xxi, col. 1 129 ;
In Ioanms Evangelium tractatus CXXIV, non già tract. x e xxiv, ma più
verisimilmente tract. cxxin e cxxiv, in Migne, P. L., xxxv, coli. 1965 sgg. ;
Sermones, lxxvi, cap. 1 ; ccxcv, capp. 1 e 11 ; ccxcvi, cap. iv, in Migne, P. L,,
xxxviii, rispettivamente coli. 479, 1348-9 e 1354; Retractationes, lib. 1 (non
il), cap. xxi, in Migne, P.L., xxxn, col. 618. Cfr. inoltre De agone christiano,
cap. xx, in Migne, P. £., xl, col. 308. (In Parente, p. 181, manca la cita-
zione delle Retractationes). 5. S. Girolamo, in Matth. et ad Galat. cap. II:
cfr. in Migne, P. L., xxvr, rispettivamente coli. 120 sgg. e 357 sgg. In
Parente (p. 181) la citazione, presente in ven e cors, manca.
718 IL TRIREGNO
lib. I, cap. iv : «An ideo contennendos putas quia occidentalis Ec-
clesiae sunt omnes, nec ullus est in eis commemoratus a nobis
Orientis episcopus ? Quid ergo faciemus, cum illi graeci sint, nos
latini ? Puto tibi eam partem orbis sufficere debere, in qua primum
apostolorum suorum voluit Dominus gloriosissimo martyrio coro-
nare. Cui Ecclesiae praesidentem B. Innocentium si audire voluis-
ses, iam rune periculosam iuventutem tuam pelagianis laqueis
exuisses d.1 Parimenti nel VI secolo, essendosi vie più radicata que-
sta credenza, non ebbe difficoltà l'istesso imperator Giustiniano
nella Novella ix di chiamar Roma «veneranda sedes summi apo-
stoli Petri»; ma ciò dinotava maggior dignità e riverenza, non già
maggior potere ed autorità sopra l'altre sedi maggiori, specialmente
sopra Costantinopoli, chiamata pure dall'istesso Giustiniano capo
delle chiese, ed il suo vescovo patriarca ecumenico. Or questo,
ch'era maggior stima, riverenza e rispetto, in tempi posteriori si
trasmutò in primato e superiorità, sicché pian piano, così disposte le
cose, si venne alle prese più strette, cioè questo primato farlo pas-
sare per principato o monarchia, ed a dar assai più ingegnose inter-
pretazioni a' riferiti passi del «tibi dabo claves», del «pasce oves»
e dell'edificarlo;2 le quali furono l'ultime armi che s'impugnarono
ne' tempi più bassi, superstiziosi ed incolti.
Ne' princìpi del V secolo ecco come i pontefici romani comin-
ciarono a parlare di quest'eminenza del vescovo di Roma sopra
gl'altri vescovi, niente piacendogli che se ne attribuisse la cagione
alla città dì Roma, capo del mondo, ma per aver in quella cattedra
seduto S. Pietro, capo degl' appostoli. Anzi Innocenzio I, scrivendo
ad Alessandro, vescovo d'Antiochia, la maggioranza della di lui
sede pur a questo principio la riporta, non tanto alla magnificenza
della città d'Antiochia e d'esser riputata capo e metropoli dell'Asia,
e che perciò a lei sarebbe dovuto il primo onore; senonché dopo
i. *An ideo . . . exuisses»: Agostino, Contro. Iidicmum haeresìs pelagianae
defensorem, lib. i, cap. iv, 13, in Migne, P. L., xliv, col. 648 («Forse per
questo pensi di poterli disprezzare, perché appartengono tutti alla Chiesa
d'Occidente e non ne abbiamo menzionato alcuno di quella d'Oriente?
Che faremo dunque, dacché quelli sono greci e noi latini? Penso debba
bastarti quella parte del mondo nella quale il Signore volle cingere con la
gloriosissima corona del martirio il primo dei suoi apostoli. E se tu avessi
voluto ascoltare il beato Innocenzo che governa questa Chiesa, fin d'allora
avresti liberato dai lacci pelagiani la tua gioventù in pericolo »). 2. edifi-
carlo veh; edificarla cors; edificarle Parente (p. 183): è probabile errore
di trascrizione per «aedificabo».
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. VI 719
bisognò trasportarlo in Roma, perché quivi poi S. Pietro trasferì
la sua cattedra. Ecco come, parlando della Chiesa d'Antiochia, e'
dice nell'epist. xviii:1 ^Unde advertimus, non tamaro civitatis
magnificentia hoc eidem attributum, quam quod prima primi apostoli
sedes esse monstretur, ubi et nomen accepit religio Christiana, et
quae conventum apostolorum apud se fieri ceieberrimum meruit,
quaeque urbis Romae sedi non cederet, nisi quod illa in transitu
meruit, ist a susceptum apud se consummatumque gauderet ->. Chi se-
riamente attenderà a quest'espressioni non potrà ravvisarvi che
manifesti paralogismi, esser tutte vane e sforzate ragioni, poiché
non s'arriva a comprendere, anche dato per vero questo passaggio
di sede in Roma, perché Antiochia avea da perdere la maggioranza,
quando quella fu la prima sposa di S. Pietro, e doversi spogliare
la prima per amarne la seconda? Innoltre, che il vescovo d'Antio-
chia fosse successor di S. Pietro era certo, avendo la sua ragion
provata e fondata nella santa Scrittura: all'incontro, quella del
vescovo di Roma non era appoggiata, siccome s'è detto, che alla
tradizione umana; anzi negl'ultimi secoli, essendosi più accurata-
mente esaminato questo punto d'istoria, vi è chi almeno ha forte
ragione di dubitare se mai S. Pietro fosse stato in Roma; di più,
se la ragione espressa da Innocenzo I valesse, ne avrebbe da se-
guire che almeno il vescovo d'Antiochia avesse avuto da occupare
il secondo luogo, dopo quello di Roma; eppure è chiaro che il se-
condo l'occupò sempre il vescovo d'Alessandria, ed il terzo quello
d'Antiochia. Prova evidentissima che la maggioranza di queste
Chiese non si misurava da S. Pietro, né da S. Marco, né dagl'altri
appostoli o evangelisti che ne presiderono, essendo quelli in po-
testà tutti eguali, ma dall'eminenza delle città, secondo la polizia
e disposizione dell'Imperio; onde avvenne ch'Alessandria, ch'era
riputata la seconda città del mondo dopo Roma, ottennesse nella
polizia ecclesiastica il secondo luogo. Bonifacio I, Celestino, Sisto
III, S. Lione Magno e tutti gl'altri loro successori non con altro
1. epist. XVIII, altri xxrv, Ad Alexandrum episcopum antiochenum, cap. I,
in Migne, P. L.t xx, col. 548 (« Onde notiamo che le è stato conferito questo
onore, non tanto per la magnificenza della città, quanto perché è additata
come prima sede del primo apostolo, dove anche la religione cristiana rice-
vette il suo nome; e perché meritò di accogliere la celeberrima adunanza
degli apostoli e non fu inferiore alla sede di Roma se non perché fu degna
del passaggio di Pietro, mentre questa si compiacque di accoglierlo e che
vi ricevesse il martirio»).
720 IL TRIREGNO
linguaggio di poi parlarono, siccome vedrassi più innanzi, e si ar-
rivò a tanto che Gelasio I voleva farsi valere questa ragione anche
co' vescovi d'Oriente, scrivendogli: e Qua enim ratione, vel con-
sequentia, aliis sedibus deferendum est, si primae beati Petri sedi
antiqua et vetusta reverentia non deferatur, per quam omnium
sacerdotum dignitas semper est roborata atque firmata? jk1 E quan-
to più si andava avanti, tanto più s'esaggerava questa ragione ne'
secoli seguenti, dove la superstizione e l'ignoranza avevano poste
più profonde radici, sicché non s'astennero di farsela valere e ado-
perarla2 contro gl'istessi imperatori d'Oriente. Così, nel IX secolo,
Nicolao I, scrivendo alTimperator Michele, non ebbe difficultà
alcuna di dirgli che i privilegi e preminenze della sua Chiesa gli
venivano dalla propria bocca di Cristo, che gli diede a S. Pietro,
da che i pontefici romani la derivavano, e non altronde.3
li
Si valsero anche i romani pontefici per le loro sorprese d'un'al-
tra opportunità che loro somministrava4 un apparente dritto di
poter stendere sopra altra diocesi la potestà loro esarcale, poiché
ciò ch'era maggioranza d'onore, di rispetto e di riverenza sopra
gl'altri vescovi, lo tramutarono in potestà; e siccome non se gli
poteva negare ch'essi fossero i primi nell'amore, così pretendevano
anche essere i primi nel potere. Sicché tutti gl'altri vescovi doves-
sero essere a loro sottoposti, attribuendo a propria e singoiar loro
autorità e prerogativa, come successori di S. Pietro, quel ch'era
commune a tutti i vescovi. Questa maniera tennero per invadere
l'Illirico non men occidentale che orientale, e sottoporsi la Mace-
donia, Tessaglia, Acaia, Epiro, Sirmio, la Pannonia, la Bulgaria e
l'altre provincie d'Occidente, nelle quali cominciava a sorgere la
religion cristiana; poiché, per la sollecita cura che tenevano, tosto
i. «Qua enim . . .firmata? »: non nella lettera Ad episcopos orìentales, in
Migne, P. L.y Lix, coli. 90-9, ma nella precedente: Epistola XIV, sìve
Tractatus Gelasti papae ecc., ibid.t col. 89 («Per qual ragione o convenienza
si deve usar deferenza alle altre sedi, se non la si usa, secondo la passata an-
tica riverenza, alla prima sede del beato Pietro, da cui la dignità di tutti i
sacerdoti è sempre stata rafforzata e confermata ? »). 2. e adoperarla cors
e Parente (p. 184); e doperarla ven. 3. Nicolao I . . . altronde: cfr. Epi-
stolae, xlvi, Ad Michaelem imperatorem, in Migne, P. L., exix, col. 854.
4. loro somministrava ven e cors (manca in Parente, p. 185).
DEL REGNO PAPALE - PERIODO II • CAP. VI 72I
che vedevano ridotta qualche provincia alla fede di Cristo, di man-
darci istruttori ovvero istituir que' vescovi, siccome narrasi che a
questo secolo V facesse Celestino I nella Scozia ridotta alla fede
di Cristo, istituendo1 ivi per vescovo Palladio, dichiarandogli so-
vente loro vicari; si credette che ciò fosse per l'ispecial potestà
che n'avevano come successori di S. Pietro; e pure questo era un
dritto di tutti gl'altri vescovi, i quali, tutti essendo successori de-
gl'appostoli, siccome quelli aveano la cura di propagar la novella
religione e stabilirla in tutte le provincie ove scorrevano, con isti-
tuire i vescovi per istruzione de' novelli convertiti, così tutti i
vescovi, se mai scorgevano qualche nazione a sé vicina esser dispo-
sta a ricever la fede di Cristo, era della loro incombenza d'occorrere,
istruire i novelli convertiti, ordinare quivi preti, diaconi ed anche
vescovi, bisognando.
Il vescovo di Roma per l'eminenza del suo grado ebbe molte
opportunità di essere il primo a far ciò in molte nazioni ; ma l'equi-
voco che si dava ad intendere era che il vescovo di Roma lo fa-
cesse per sua propria particolar podestà che ne avesse, confondendo
il primato d'onore, del quale lo forniva l'esser vescovo di una città
capo del mondo, colla potestà esarcale, perché potesse difenderla
a man salva sopra tutte l'altre provincie e sottoporsi gl'altri ve-
scovi. Non per altro specioso pretesto Damaso, Silicio ed Anasta-
sio cominciarono le loro intraprese sopra l'Illirico, le quali poi
furono con maggior vigore proseguite da Innocenzio I, Zosimo,
Bonifacio, Celestino, Sisto e sopra tutti da Leone I detto il Magno.
Ecco le belle e speciose ragioni d'Innocenzio I, colle quali si stu-
diava persuadere a Rufo, vescovo di Tessalonica, perché ricono-
scesse per sovrana la sua sede, creandolo a questo fine suo vicario,
valendosi dell'esempio degl' appostoli, il quale niente conchiude al
suo proposito: «Nec aliter» e* dice «apostolorum forma promul-
gata est, quam ut ipsi principes Evangelii constituti ceterarum re-
rum causas necessitudinesque suis discipulis curandas obeundas-
que mandarint. Ita denique tota miseratione mirabilis Paulus Tito
quae curet apud Cretam, Thimotheo quae per Asiam disponat,
commisit . . . Divinitus ergo haec procurrens gratia ita longis in-
tervallis a me disterminatis ecclesiis discat consulendum, ut pru-
dentiae gravitatique tuae committendam curam, causasque, si quae
1. istituendo Parente (p. 185); instruendo ven e cors.
46
722 IL TRIREGNO
exoriantur per Achaiae, Thessaliae, Epiri Veteris, Epiri Xovae et
Cretae, Daciae Mediterraneae, Daciae Ripensis, Moesiae, Darda-
niae et Praevali ecclesias, Christo domino annuente, censeant. Ar-
ripe itaque, dilectissime frater, nostra vice per suprascriptas eccle-
sias, salvo earum primatu, curam; et inter ipsos primates primus,
quicquid eos ad nos necesse fuerit mittere, non sine tuo postulent
arbitratu. Ita enim aut per tuam experientiam quicquid illud est
finietur, aut tuo Consilio ad nos usque perveniendum esse man-
damus a.1
Or quanto Innocenzio esagerava di S. Paolo e degl'altri appostoli
che commettevano a' loro discepoli la cura delle chiese che s'an-
davano ergendo, a Tito in Creta, a Timoteo in Asia, chi non vede
che lo stesso poteva dire a Rufo il vescovo d'Antiochia, quel d'A-
lessandria, di Gerusalemme, quello d'Eraclea ed ogn' altro a cui
fosse stata data occasione di accorrere a dar aiuto e sollievo a quelle
chiese? Ciascun vescovo aveva perciò sufficiente potere, poiché,
siccome S. Agostino, scrivendo a Bonifacio vescovo di Roma, savia-
mente disse, Contr. epist. Pelag. in praefat. ad Bonifac:2 «commu-
nis est nobis omnibus, qui fungimur episcopatus officio (quamvis
ipse in eo celsiore fastigio praemineas) specula pastoralis». Onde
a ragione diceva S. Cipriano che uno era l'episcopato, tenendosi da
ciascun vescovo in sollidum la sua parte; e quindi nell'Epistola
i. *Nec àliter . . . mandamus*: Innocenzo I, Epistolae, xni, 1-3, in Migne,
P. £., xx, coli. 515-6 ("Né per altro motivo è stata promulgata la figura
degli apostoli, se non perché questi, costituiti principi del Vangelo, affidas-
sero ai loro discepoli il carico di tutte le altre cose e necessità perché se ne
curassero e vi attendessero. Così per l'appunto Paolo, straordinario per
l'intera sua pietà, affidò a Tito le cose di cui doveva occuparsi in Creta,
e a Timoteo quelle che doveva disporre per l'Asia . . . Adunque questa
grazia abbondante per divina ispirazione si studi di provvedere alle chiese
separate da me per così grandi lontananze, così che esse, con l'assenso di
Cristo signore, affidino alla tua saggezza e gravità la cura delle questioni
che possono sorgere nelle chiese dell' Acaia, Tessaglia, Antico Epiro,
Nuovo Epiro e Creta, della Dacia mediterranea, di quella danubiana, della
Mesia, Dardania e Prevale. Pertanto, dilettissimo fratello, prendi cura delle
dette chiese, in nostra vece e salvo il loro primato ; e, primo tra gli stessi
primati, fa' che, di qualunque cosa abbian essi bisogno presso di me,
la richiedano non senza il tuo giudizio. Così infatti stabiliamo, che qualsiasi
cosa o sia definita secondo la tua esperienza, o che si debba ricorrere fino
a noi secondo il tuo parere »)* 2. Cantra duas epistolas pétagianorum ad
Bonifacium rormanae Ecclesiae episcopum libri quatuorf lib. I, cap. I, in Migne,
P. L., XLiv, col. 551 («noi tutti che esercitiamo l'ufficio episcopale godiamo
di una comune specola pastorale, sebbene in quello tu sia superiore a
motivo di un posto più elevato»).
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • GAP. VI 723
LXVIII ad Stephan.1 scrisse: «Nani, et si pastores multi sumus,
unum tamen gregem pascimus, et oves universas, quas Christus
sanguine suo et passione quaesivit, colligere et fovere debemus».
Per la quale ragione S. Gregorio Nazianzeno, Orai. XVIII, in land.
Cypr.? soleva chiamare S. Cipriano vescovo universale, dicendo:
' Quod Episcopus universalis fuerit; neque enim carthaginiensi tan-
tum Ecclesiae, nec Africae, sed Occidentis omnibus regionibus, ac
prope etiam orientali omni atque australi et septentrionali orae
praefectus fuerit». E lo stesso dice di Atanasio, Orai, xxi: <,quod
cum alexandrino populo praefectus fuerit, idem sit ac si universo
terrarum orbi praefectus fuerit».3 E S. Basilio, ad Atanasio scriven-
do, disse egli pure, Epist. lii:4 «Tantam geris omnium ecclesiarum
curam, quantam eius quae tibi peculiariter a Domino nostro eredita
est». E per la medesima cagione Crisostomo, Omil. VI adz\ Iud.,5
chiamò Timoteo vescovo dell'universo orbe, siccome l'autore che
volle nascondersi sotto il nome di Clemente Romano chiamò Gia-
como, vescovo di Gerusalemme, rettore di tutte le Chiese. Onde
S. Girolamo, Epist. lxxxv ad Evagr.,6 con verità scrissegli che in
ciò eguale era la potestà del vescovo di Eugubio con quello di
Roma, eguale quella del vescovo di Reggio che del costantinopoli-
tano, ed eguale quella del vescovo di Tanide coli' alessandrino. E
quindi fu introdotta prattica nella Chiesa che, ricercandolo il biso-
gno e la necessità, i vescovi senza chieder licenza alcuna potevano
1. Epistola LXVIII ad Stephanum papam, in Migne, P. L.t m, col. 103 1
(« Sebbene infatti come pastori siamo in molti, pascoliamo tuttavia un solo
gregge, e dobbiamo perciò raccogliere e curare tutte quante le pecore delle
quali Cristo, con il suo sangue e con la sua passione, è andato in cerca»).
2. OrationeSy xxiv (e non xviii), In laudem S. martyris Cypriani, xii, in
Migne, P. G., xxxv, col. n 83: Giannone però cita un'altra traduzione
(« che era vescovo universale, poiché presiedeva non solo alla Chiesa carta-
ginese e all'Africa, ma anche a tutte le regioni d'Occidente, e inoltre a tutta
la zona orientale, meridionale e settentrionale »). 3.0 quod cum . . . fuerit a :
così ven e cors, con probabili errori e secondo una traduzione che non
abbiamo identificato. Chiara è quella in Migne cit., Orationest xxi, In lau-
dem Magni Athanasii episcopi, vii, col. 1087: «Alexandrino populo, quod
idem est ac si dixissem universo terrarum orbi, praeficitur » (« è a capo del
popolo di Alessandria, che è come dire di tutto il mondo *). 4. Epist. LII:
altri lxix, in Migne, P. G., xxxii, ep. lxix, col. 430 («Hai il governo
tanto di tutte le chiese, quanto di quella che in modo peculiare ti è stata
affidata da nostro Signore »)• 5- Adversus Iudaeos orationes, vili, in Migne,
P. G., xlviii, col. 939. 6. Epist. LXXXV ad Evagr.: in Migne, P. L.,
xxii, ep. cxlvt (altri lxxxv), Ad Evangelwn, col. 1194.
724 IL TRIREGNO
esercitar fuori della loro diocesi in tutto Torbe l'autorità vescovile
in ordinare, siccome, per la testimonianza che ce ne lasciò Socrate
istesso, lib. 11, e. xxiv,1 fece S. Atanasio istesso in molte città che
non erano della sua diocesi, fece Eusebio Samosatense in tempo
della persecuzione ariana sotto Valente, il quale siccome narra Teo-
doretto, lib. rv, cap. xii,3 scorrendo con abito militare tutta la Siria,
la Fenicia e la Palestina, ordinava que' preti diaconi e provvedeva
a tutto ciò che bisognava a quelle chiese, quando lo stesso, siccome
soggiunse il medesimo scrittore al lib. v, e. rv,3 fece nella Cilicia,
in Beroe, Seropoli,4 Calcide, Edessa ed in altre città; siccome Epi-
fanio ordinò Paulino,5 fratello di S. Girolamo, in un monisterio
posto nella Palestina fuori della sua diocesi, di che egli ad Io.
HyerosoL se ne purga, assegnando aggiunta6 questa istessa ragione
d'averlo fatto perché lo poteva fare. Ma i vescovi di Roma non
l'intendevano così, e davano a credere che questo fosse lor affare
come successori di S. Pietro, e niun altro dovesse impacciarsene.
E pure si valevano di armi che facilmente potevano rivoltarsi con-
tro essi medesimi, poiché, se confessavano che ciò facendo irnmita-
vano7 gl'appostoli, dunque tutti i vescovi che sono nella Chiesa
in luogo di quelli potranno fare lo stesso? E se riportano questa
potestà a Dio, dicendo che le veniva a divinitus », non minor sarà
quella degl'altri vescovi, che pur da Dio la riconoscono. Meglio
forse altri avrebbero riputato che i pontefici romani riportassero8
tutto alla preminenza di Roma capo del mondo, pel che sarebbero
stati certamente gl'unici; ma essi più accortamente fecero di ripor-
tarla a S. Pietro, così perché, come venutagli « divinitus » non stava
sottoposta a cangiamento né variazione alcuna, come ancora per-
ché per9 questa via si poteva giungere a spogliare gl'imperatori de*
loro supremi dritti e della sopraintendenza della Chiesa e dell'este-
1. lib. II, e. XXIV della Ristoria ecclesiastica, in Migne, P. G., Lxvii,
col. 263. 2. lib. TV, cap. XII della Ecclesiastica kistoria, in Migne, P. G.,
t.xxxti, col. 1147. 3. al lib. V, e. IV delTop. cit., in Migne cit., col. 1203.
4. Beroe, Seropoli: Parente (p. 188) legge «Berea» e non ha Seropoli.
5. Paulino ven; Pauliano CORS. Si tratta di Pauliniano, fratello di Gerolamo.
Per la comprensione del brano cfr. Gerolamo, Epistolae, Li, S. Epipkanii
ad Ioannem episcopum Ierosolymorum a Hieronymo latine reddito, in Migne,
P. L., xxn, coli. 517-27. Per Pauliniano cfr. col. 517, nota. 6. ad Io. Hye-
rosoL se . . . aggiunta: lezione di cors e ven (ma quest'ultimo «che» in
luogo di se), mancante in Parente (p. 188). 7. immitavano cors; imitando
ven. 8. riportassero Parente (p. 188); riputassero ven e cors. 9. per:
lezione del solo cors.
DEL REGNO PAPALE • PERIODO II • CAP. VI 725
rior ecclesiastica polizia, e dispogliar anche gl'altri vescovi delle
loro facoltà e prerogative, siccome fortunatamente in discorso di
tempo gli successe; poiché, come s'è avverato1 nel IX secolo, Nic-
colò I non ebbe difficoltà alla svelata, scrivendo a Michele impe-
rator d'Oriente, di dirgli che per questa ragione li privilegi e pre-
minenze della sua chiesa niuna umana potenza avea autorità di
diminuire o infringere, avendo per fondamento Cristo stesso, che
gli concedette a S. Pietro, e sopra di cui la Chiesa romana fu stabili-
ta e fondata. Ecco le sue parole: < Ecclesiae romanae privilegia,
Christi ore in beato Petro firmata, in Ecclesia ipsa dispositi, anti-
quitus observata et a sanctis universalibus synodis celebrata atque
a cuncta Ecclesia iugiter venerata, nullatenus possint minui, nulla-
tenus infringi, nullatenus commutari; quoniam fundamentum quod
Deus posuit, humanus non valet amovere conatus . . . Ista igitur
privilegia huic sanctae Ecclesiae a Christo donata, a synodis non
donata, sed iam solummodo celebrata et venerationi habitat." E
papa Adriano, scrivendo all'imperator Costantino ed Ireneo, dice
che l'autorità della sede romana dalTappostolo Pietro fu distinta-
mente concessa. N. Ales. tom. vi, p. 667, lit. A. 13.3
Zosimo, successor d'Innocenzio I, Bonifacio I, Celestino I e
Sisto III, calcando le stesse pedate, vie più esageravano questa
prerogativa di successori di san Pietro, ponendola per fondamento
e base di quella potestà che s'arrogavano sopra l'Illirico. Ecco come
Bonifacio I, scrivendo a' vescovi di Tessaglia, gli dice : « Institutio
universalis nascentis Ecclesiae de beati Petri honore sumpsit prin-
1. avverato Parente (p. 1S9); avvenuto ven; accennato cors. 2. «Ec-
clesiae . . . habita » : Nicola I, Epistolae, lxxxvi, Ad Mìchaelem impera*
torem, in Migne, P. L., cxix, col. 948 (« I privilegi della Chiesa di Roma,
assicurati a san Pietro dalla parola di Cristo, disposti nella stessa Chiesa,
osservati fin dall'antichità, celebrati dai sacrosanti sinodi universali e con-
tinuamente venerati da tutta quanta la Chiesa, non possono in alcun modo
essere sminuiti, in nessun modo infranti, in nessun modo mutati, poiché
il fondamento posto da Dio non può essere rimosso da umano disegno
. . . Adunque questi privilegi furono donati alla santa Chiesa da Cristo, non
da sinodi, dai quali furono solo celebrati e tenuti in venerazione^). 3. N.
Ales. tom. VI ecc.: cfr. N. Alexandre, Historia ecclesiastica Veteris No-
vique Testamenti ecc., Parisiis 1714, tomo v (e non vi; in cors recte), saec.
VIII, cap. 11, art. 1, par. rv, Historia singularum actionum synodi septimae,
p. 667. Il Giannone, che in quest'ultima parte utilizza l'Alexandre, abban-
donando il Du Pin e il Bingham, si è servito di quest'edizione.
726 IL TRIREGNO
cipium in quo regimen eius et summa consistit. Ex eius enim
ecclesiastica disciplina per omnes ecclesias, religionis iam crescente
cultura, fonte manavit».1 Quindi, non tralasciando di qualificare i
vescovi dell' Illirico per loro vicari, finalmente ottennero in questa
diocesi ciò che, come s'è veduto, non poterono ottenere da' vescovi
d'Affrica, e fecero sì che dovessero riportar ad essi le cause mag-
giori delle loro provincie, e che niuno potesse in quelle adornarsi
vescovo senza il loro permesso, le quali dovessero pure informar
la sede apostolica romana di quanto nelle loro provincie occorreva
per riceverne istruzione e norma come dovevano governarle, sic-
come è noto dalle lor epistole drizzate a' vescovi dell'Illirico.
Ma niuno con maggior fermezza stabilì questo dritto della sede
romana nell'Illirico, che il pontefice Leone I, successor di Sisto,
il quale, scrivendo nelTepist. 44* ad Anastasio, vescovo di Tessa-
lonica e primate dell'Illirico, dopo d'avere annoverato i tanti privi-
legi e prerogative che come vicari [o] della sede apostolica erano stati
a lui conceduti, dandogli ancora istruzioni come doveva regolarsi
nell'elezione ed ordinazione de' vescovi di quelle provincie, volle
espressamente riservare a sé le appellazioni e le cause maggiori, per
maggiormente stabilire alla sua sede questi sovrani dritti, dicen-
dogli: «Si qua vero causa maior evenerit, quae a tua fraternitate
illic praesidente non potuerit definiri, relatio tua missa nos consu-
lat, ut revelante Domino, cuius misericordiae profitemur esse quod
possumus, quod ipse nobis aspiraverit rescribamus; ut cognitioni
nostrae prò traditone veteris instituti et debita apostolicae sedis
reverentia, nostro examine vindicemus. Ut enim auctoritatem tuam
vice nostra te exercere volumus, ita nobis quae illic componi non
1. *Institutio . . . manavit »: Bonifazio I, Epistolae, xrv, in Migne, P. L.t XX,
col. 777 («L'istituzione della Chiesa universale nascente prese principio
dall'onore conferito a san Pietro, donde ha fondamento il suo governo
e la sua perfezione. Da quel fonte sgorgò infatti la disciplina ecclesiastica
per tutte le chiese, man mano che la crescita della religione si sviluppava »).
z. nelTepist. 44: Leone Magno, Epistola*, vi (altri rv: quindi il copista può
essere passato da 4 a 44), cap. v, in Migne, P. L., ltv, col. 619 («Ma se
capiterà una causa più grave che non potrà definirsi dalla tua fraternità colà
presidente, manda una tua relazione per consultarci affinché, rivelandolo
il Signore - dalla cui misericordia riconosciamo ogni nostro potere —, scri-
viamo in risposta ciò che egli ci avrà rivelato; per rivendicarla alla nostra
cognizione per nostro esame, secondo la tradizione di un antico istituto e
la riverenza dovuta alla sede apostolica. Come infatti vogliamo che tu eser-
citi in nostra vece la tua autorità, così riserviamo a noi quanto non potrà
essere risolto costà, ovvero i casi di appellazione»).
DEL REGNO PAPALE ■ PERIODO II • CAP. VI 727
potuerint, vel qui vocem appellationis emiserit, reser\"amus ». Infine
si arrivò a tanto che Gregorio Magno sospese il vescovo di Salona
in Dalmazia, perché, senza sua permissione e scienza del suo re-
sponsale, s'era fatto ordinar vescovo, come è manifesto dalla sua
ep. xxxix lib. rv.1 Questi vicariati che cominciarono i pontefici ro-
mani ad instituire, conferendoli con sottile ritrovato a* medesimi
metropolitani delle provincie, furono la potissima cagione ed il più
efficace mezzo perché potessero stendere la loro potestà esarcale
nelle altre provincie. Questa medesima via tenne Zosimo nella
Gallia col vescovo arelatense, ciocché fu poi meglio stabilito da
Leone I e da Illario suo successore, e così pian piano si fece in
Spagna, nel resto d'Italia ed in tutte l'altre provincie d'Occidente.
Non senza ragione fu al pontefice Leone dato il sopranome di
Magno, poich'egli sopra tutti i suoi predecessori fu il primo che
stendesse più lunghi passi e facesse molto più valere in profitto
della sua sede quella nuova riflessione di successore di S. Pietro,
sicché più dell'altre sedi meritasse il titolo d'appostolica, il qual
sopranome, che era a tutte l'altre chiese commune, a lungo andare
si rendesse speciale della romana. Egli fu il primo che del pontifi-
cato romano sì altamente sentisse, e che s'ingegnò far riputar il papa
per unico e supremo moderatore e principe di tutte le chiese del
mondo cristiano, facendo quel paragone con dar tanti encomi a
Roma, la quale meritamente potea dirsi eterna, poiché, essendo
gentile, fu capo e signora del mondo secolare e profano; così a'
suoi dì erasi trasformata in capo e maestra nelle cose spirituali e
sagre di tutto il mondo cattolico, in guisa che2 gli uomini allora,
nella potestà spirituale, non dovevano riconoscere altro che il solo
pontefice romano, che sopra tutti presidesse. Paragone e lezione
che, per esser molto acconcia all'intento3 degl'altri suoi successori,
si fece passare ne' breviari romani, perché, tra' divini uffizi con-
culcato e rammentato, niuno se ne scordasse.4
1. Gregorio . . . ep. XXXIX lib. IV: cfr. in 3\ligne, P. L., lxxvii, Epistolae,
lib. rv, ep. x, coli. 677-8, ep. xx, coli. 689-90; lib. vi, ep. xxv, coli. 815-7 e
ep. xxvi, coli. 817-8. 2. che Parente (p. 191); che siccome ven e cors.
3. intento Parente (p. 191); interno ven e cors. 4. lezione . . . scordasse:
cfr. a questo proposito l'episodio dell' Uffizio di Gregorio VII, segnalato
dal Giannone (cfr. Vita, qui a p. 172 e Giarmoniana, pp. 67-9).
DISCORSI
SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
SCRÌTTI DA PIETRO GIANNOLE GIURECONSULTO
ET AVVOCATO NAPOLITANO NEL CASTELLO DI CEVA
L'ANNO 1739
NOTA INTRODUTTIVA
La tentazione di una disperazione assoluta è stata certo un momento
fondamentale nella storia psicologica del prigioniero, ma a noi inte-
ressa solo perché possiamo misurarne il rifluire nella prima opera or-
ganica dopo la Vita, i Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, scritti
fra il 1736 e il 1739. È un* opera in qualche modo occasionale, che
riflette, nella complessa redazione, lo stratificarsi delle successive
intenzioni del Giannone. Questi, nei primi tempi della prigionia,
per completare l'educazione del figlio naturale Giovanni, che lo ave-
va seguito nelle ultime vicende, cominciò a leggergli e a commentar-
gli, fra altri testi, anche Livio. Probabilmente questo incontro con lo
scrittore latino molto presto gli suggerì Pidea di non limitarsi ad
una azione didattica. In realtà il progetto dovette prendere forma
fin dal tempo del soggiorno a Miolans, se il figlio potè in qualche
modo vantarsi di aver scritto lui stesso quest'opera. Afferma infatti
Giovanni Giannone: «La dimora in questo castello fu di un anno
e mezzo, e l'occupazione si era ne' libri, che ad uom racchiuso in
gabbia più di questo non li vieti permesso. Ed io avendo per le
mani Tito Livio notai molte cose, e ne composi due discorsi diviso
in due parti, la prima concerneva La religione de' Romani e suoi riti,
la seconda parte II dilatamento de* Romani sulle Provincie e regni
di tutto il mondo allor conosciuto: e la sapienza e politica ch'ebbero
a saperli governare. E per fare un'opera da potersi leggere, se mai
veniva alla luce, ci diede una limata mio padre . . . ».J Inoltre ricor-
dava altri lavori di traduzione dal francese compiuti a Miolans, con-
cludendo: «Tutti questi manoscritti sono rimasti in detto castello,
assieme colla vita di mio padre, che il medesimo quivi compose ».2 La
prima tentazione sarebbe quella di liquidare come un'ingenua van-
teria questa attribuzione di paternità: in realtà il discorso è più com-
plesso. Fra le carte del Giannone manca questa ipotetica stesura pri-
mitiva dei Discorsi ad opera di Giovanni. Dobbiamo però rilevare
il fatto che questi, separato definitivamente dal padre il 7 settembre
1737, prima di questa data conoscesse (e potesse attribuirsi) un'o-
pera che nelle linee generali rispecchia precisamente lo schema dei
Discorsi. Ma c'è di più. Esiste una minuta della prefazione, di pugno
di Pietro Giannone (scritta fra l'altro sul verso di un appunto pre-
1. Cfr. Memorie de* successi accaduti a d. Giovanni Giannone nel corso di
sua vita, in Giannonìana, p. 193. Ma cfr. Panzini, p. 97. 2. Ibid.
732 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
sumibilmente del figlio),1 in cui l'autore dell' Istoria civile fìnge (scri-
vendo in prima persona come se fosse Giovanni) che l'opera sia il
frutto di un amore adolescenziale verso Tito Livio, che sia legata ad
un progetto di traduzione italiana iniziato a Napoli e proseguito nel
carcere di Miolans, che il padre vi abbia avuto ben poca parte, di-
stratto com'era dai propri problemi.2 La minuta dei Discorsi, tor-
i . Archivio di Stato di Torino, manoscritti datinone, mazzo iv, ins. i , C i
L'appunto, di mano estranea (Giovanni ?), è intitolato La vita di Esopo di
Frigia di Mr. della Fontana, tradotta dal francese in lingua italiana. La
minuta di Pietro Giannone è tutta autografa, ma vi è la presenza di in-
chiostri diversi. Dopo «Prefazione», in un tempo successivo è stato intro-
dotto «Al Serenissimo Real Principe Vittorio Amedeo di Savoia». Segue:
«Avendo fin dalla mia infanzia nelle scuole inteso celebrar cotanto l'istoria
di Tito Livio Padoano, la quale non pur ne' secoli meno a noi lontani,
ma presso gli stessi antichi scrittori romani fu riputata sempre incompara-
bile e stupenda, fui acceso di tanto ardore verso questo insigne istonco, che
sicome fu uno de' primi libri da me letto, così lo proponeva a qualunque
altro ... ». La parte seguente corrisponde alla Prefazione premessa all'ul-
tima redazione dei Discorsi. Cfr. P. Giannone, Opere inedite, i, Discorsi sto-
rici e politici sopra gli Annali di TitoLwio, Torino 1852 (ma 1859), pp. 12-4.
Dopo le parole «una preziosa reliquia» le due redazioni sono completa-
mente diverse e in questa minuta di prefazione segue quanto sarà citato
nella nota successiva. 2. Ibid.: «... Da tanti e tali stimoli, e più per l'i-
nesplicabile piacere che in leggendo sperimentava, fui mosso ad aver
quest'autore per mio indivisibil compagno : e per meglio esercitarmi nella
mia giovanezza e per meglio apprender la proprietà, e candore delle vo-
ci, e frasi latine, cominciai a tradurre i libri che ci rimangono dal latino
in idioma italiano, e tanto maggiormente quanto che la traduzione del
Nardi sembravami molto difettosa ed in molti luoghi non aver compreso
il sentimento dell'autore. Mentre io ero occupato in Napoli in questi
studi ebbi la sorte nell'anno 1735 d'esser chiamato in Venezia dal ce-
lebre avvocato Pietro Giannone mio zio, che io stimava più che padre, il
quale da Vienna, per li cangiamenti che recò la guerra accesa in Italia,
fu obbligato ivi condursi: dove io gli fui compagno non men negli stu-
di che nelle sue persecuzioni, poiché gl'implacabili suoi nemici non con-
tenti d'impedirgli il ritorno a Napoli sua patria, l'obbligarono a partir da
Venezia, ed andare a Milano, ma di ciò nemmeno soddisfatti, non rima-
nendoli in Italia alcun luogo sicuro, la dura necessità finalmente lo costrin-
sero a ritirarsi in Ginevra, non già per cambiar religione, ma per sot-
trarsi dalle loro insidie, ed attendere alla edizione di altre sue opere, che
pensava di dar alla luce a richiesta e preghiera di que' stampatori, che si
offrirono sornministrargh le spese. E seguitandolo io in tutti questi viaggi,
appena fermati in Ginevra per tre mesi, ed alquanti giorni, che fummo per
comando del re di Sardegna Carlo Emanuele duca di Savoia nel mese di
marzo del nuovo anno 1736 trasportati in Chambery e di là nel castello
di Miolans lontano da questa città non più che dodici miglia. In questa
solitudine, fuori d'ogni umano commercio, tra li alpestri e rigidi monti
della Savoia ci convenne passar miseramente più mesi, ne' quali, per non
marcir nell'ozio, avendo presso di me le deche di Livio, queste ci servirono
di compagnia e per unico conforto e ristoro, sicché le ore del giorno ci riu-
scissero meno noiose; e se bene senz'altro libro fuor che dell'istoria naturale
NOTA INTRODUTTIVA 733
meritata come ogni prima stesura, è però inequivocabilmente di Pie-
tro Giannone.1
A questo punto sono possibili due ipotesi: i. Che esistesse effetti-
vamente una stesura primitiva di entrambi o del solo Giovanni e che
si sia perduta (o che il Giannone stesso l'abbia distrutta dopo la
propria rielaborazione). Se, come si è detto, la minuta è tutta di
pugno del Giannone padre, nelle prime carte c'è però la traccia di
una mano estranea (che potrebbe essere di Giovanni): il Catalogo
delle città memorate ne' quattro Evangeli? seguito dal Catalogo delle
città memorate da T. Livio nelle XIV Deche? sembra di mano diversa
e corretto in un tempo successivo dal Giannone. Questa parte del
lavoro, che non compare nella redazione finale consegnata al sovrano,4
era un tentativo di confronto della geografia sacra (secondo le indi-
cazioni che venivano offerte dai Vangeli) con quella profana (tratta
dal testo di Livio) per studiare anche nella dimensione spaziale i
rapporti fra religione ed Impero e le radiali della diffusione del cri-
stianesimo primitivo.5 2. Che il Giannone (avendo utilizzato più
o meno la collaborazione del figlio) avesse però progettato, fin dal
tempo del soggiorno a Miolans, di pubblicare sotto il nome di questi
di Plinio, di Cornelio Tacito e l'epistole di Plinio il Giovane e senz'altri aiuti
di dizionari o di altre istorie, con tutto ciò continuai ivi l'intrapresa tradu-
zione di queste deche; e secondo che m'inoltrava in alcuni passi più illustri
e degni di particolar attenzione, io ne feci separata materia per tessere a
parte alquanti discorsi; che ora son quelli che vi presento, cortesissimi
lettori. Agevolmente da ciò conoscerete di quanta scusa e compatimento
sia io meritevole, se non so darveli adorni di peregrine erudizioni e di altri
freggi, onde potessero meritare la vostra commendazione. Dovete riguar-
dargli come parto di un giovane, che non eccede l'età di ventidue anni;
come concepito e nato tra le angustie e tenebre d'una prigione, fra tante
sollicitudini, timori e sospensione d'animo, senza libri, senza soccorsi, e
senza potersi consultare con chi più che me era oppresso da gravi angoscie
e da pensieri tetri e funesti, il quale a tutt' altro che a queste mie giovanili
fatiche poteva por mente e riguardare, ed corrigerle ed emendarle, sicché
fossero degne di comparire al vostro cospetto. Comunque elle siano, pren-
detele con grato e piacevol animo come primizie del mio corto e debil in-
gegno, il quale avrebbe forse meritato più propizia arte e non così tetra e
mesta occasione di potervene presentare di più purgate, amene ed aggra-
devole, i. Archivio di Stato di Torino, manoscritti Giannone, mazzo IV,
ins. i, A. z. Ivi, Catalogo delle città memorate né* quattro Evangeli, negli
Atti degli Apostoli, nelle Epistole di S. Paolo, e negli altri libri del Nuovo
Testamento, ci. 3. Ivi, Catalogo delle città memorate da T. Livio nelle
XIV Deche, supplite da L. Floro nelle sue Epitome rapportate e ragguagliate
dalV antica alla presente geografia. Europa, ce. 2-14. 4. È la bella copia
autografa della Biblioteca Reale di Torino, Var. 305. 5. Archivio di Stato
di Torino, manoscritti Giannone, mazzo rv, ms. 1, B, Indice geografico delle
città memorate in quest opera e da Livio nelle XIV Deche . . .
734 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
i Discorsi per facilitarne in qualche modo l'uscita. Ciò spiegherebbe
la concordanza fra l'ingenua vanteria di Giovanni e la minuta della
prefazione, che dovrebbe quindi risalire alla prima stesura dell'o-
pera. In questo caso è interessante notare che la stessa prefazione
ha subito un processo : in una prima « stratificazione » il Giannone la
rivolgeva, come captatio benevolentiae, ai lettori; poi la corresse, di-
rigendola al principe Vittorio Amedeo sempre a nome e sotto le
spoglie del figlio; infine la utilizzò come calco per la prefazione
(scritta a nome proprio) che compare nella redazione definitiva,
tendente a presentare i Discorsi come esempio di letteratura ad usum
Delphini.1
È certo che il Giannone tra la fine del 1738 e il 1739 riprese e
completò questo lavoro3 con l'intenzione ormai di offrirlo alla Corte
sabauda come un vero e proprio trattato per l'educazione del prin-
cipe e insieme a saggio della propria ortodossia dopo l'abiura. Non
è troppo diffìcile indovinare come abbia avuto quest'idea. Carlo
Emanuele III in quegli anni aveva dovuto affrontare il problema
dell'educazione del primogenito. Fra l'altro era stato nominato go-
vernatore del principe Vittorio Amedeo (fin dal 1733) Roberto So-
laro di Breglio,3 ex ambasciatore sabaudo a Vienna ed antico amico
del Giannone, che gli rivolgerà dal carcere alcune suppliche.4 Inoltre
i Savoia da tempo avevano mostrato interesse per un trattato sul-
l'educazione del principe. Già Vittorio Amedeo II aveva sollecitato
l'abate Jean-Joseph Duguet, che nel 17 15 si era rifugiato in Piemonte
per la sua inflessibile opposizione alla Unigenitus,5 perché lo scri-
vesse. Il Duguet iniziò il suo trattato in Savoia e lo proseguì do-
po il suo ritorno a Parigi. Una parte di questo fu inviata a Torino
dall'abate giansenista tramite il segretario di Charles Rollin.6 Il so-
vrano piemontese sollecitò il resto, ma il Duguet preferì non pub-
blicarlo. Anzi si era opposto a un tentativo di far uscire l'opera in
1. Cfr. P. Giannone, Discorsi ecc., ed. cit., pp. 11-8. 2. La minuta auto-
grafa dei Discorsi già citata, a e. 24 nell'angolo superiore destro reca la data:
«a 4 marzo 1739»; a e. 256: «27 febbraio 1739». La bella copia (Var. 305)
a e. 3 è datata «Dal castello di Ceva 15 maggio 1739». Tale data è apposta
alla dedica a Carlo Emanuele che nella minuta appare invece non datata e
con dei puntini sospensivi. 3. M. Zucchi, I governatori dei principi reali
di Savoia, Torino 1925, p. 61. 4. Archivio di Stato di Torino, manoscrit-
ti Giannone^ mazzo in, ins. 4. 5. Cfr. P. Stella, La bolla Umgenitus e i
nuovi orientamenti religiosi e politici in Piemonte sotto Vittorio Amedeo II
dal 17 13 al 17 30 , in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», a. xv, n.° 2
(1961), pp. 216-76; sul Duguet, pp. 248-9. 6. J.-J. Duguet, Institution
d'un prince ou Traiti des qualitéz, des vertus et des devoirs d'un souverain,
Londres 1750, in quattro tomi, r, Vie de Vauteur, p. liv.
NOTA INTRODUTTIVA 735
Savoia nel 1733, lui vivo.1 Fu quindi stampata nel 1739 postuma ed
ebbe una notevole fortuna, come testimoniano le numerose edizioni
in pochi anni.2 Divenne il testo fondamentale per l'educazione non
solo di Vittorio Amedeo, ma di tutti i principi successivi.3 Il Gian-
none stesso potè leggerla, ne ricopiò e tradusse una parte in italiano
e soprattutto la lodò molto nelle lettere al fratello Carlo.4 Ma proprio
un confronto con V Institution d'un prince (che egli conobbe quando
ormai aveva consegnato alla corte i propri Discorsi)5 mostra come
l'opera del napoletano non possa esser vista solo in questa dimensio-
ne didattica e come quindi la scelta di fare un manuale per l'educa-
zione del principe fosse rimasta un fatto puramente esteriore, appic-
cicato in qualche modo alla stesura finale. L'opera del Duguet è uno
dei tanti esempi di letteratura ad usum Delphini che si sarebbe esau-
rita proprio in questo secolo, dopo il Cours d'études del Condillac.6
È semmai caratteristica per lo spirito giansenistico e gallicano che la
nutre; riflette la crisi dell'assolutismo di Luigi XIV, in un'oscilla-
zione irrisolta fra la concezione del potere sovrano come di origine
divina (e quindi parallelo e in qualche modo contrapposto al sacer-
dozio) e una sua giustificazione per la felicità pubblica.7 L'opera del
Giannone muove invece ancora una volta in direzione di quella cul-
tura deistica che egli aveva potuto conoscere ed utilizzare a Vienna.
Anche in questo caso il commento iniziale a Tito Livio si anima e
1. Ibìd.t Préface de la première édition, p. lxxxii. 2. Dopo quella con il
luogo di Leida del 1739 (e non 1729 come affermano lo Zucchi e lo Stella),
quella del 1740, del 1743, e questa del 1750. 3. Cfr. M. Zucchi, 1 governa-
tori ecc., cit., p. 64. 4. Cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa
di Pietro Giannone, Milano-Napoli, pp. 603-4. 5- H Giannone lesse que-
st'opera fra il 1 luglio 1745 e il 18 febbraio 1746. 6. Cfr. L. Guerci, La
composizione e le vicende editoriali del Cours d'études di Condillac, in Mi-
scellanea Maturi, Torino 1966, pp. 187-220. 7. La prima parte è dedicata
alle qualità del principe rispetto al potere temporale. La sua autorità è
sempre legittima, sia che la utilizzi bene, sia che ne abusi (p. 7), ma «l'un
est la felicité publique et l'autre un malheur public ... ». La seconda parte
(tomo li) indica cosa deve fare. Fra l'altro, nonostante le riserve sul piano
religioso, si vede chiaramente che il modello del Duguet è ancora Luigi XIV,
da cui l'abate giansenista trae l'esempio di politica economica da seguirsi,
anche se successivamente criticherà il lusso eccessivo e le guerre di aggres-
sione. In questa parte fra l'altro è esaltata, come esempio, la civiltà politica ro-
mana (pp. 252 sgg). Anche la politica culturale di Luigi XIV è indicata come
linea d'azione (pp. 313 sgg.). Nella terza (tomo ni) si insiste sul legame fra
politica e religione, delineando quali vantaggi porta questa al principe
cristiano; nella quarta (tomo iv) si affronta il tema dei doveri del principe
verso il popolo. È naturalmente la parte più influenzata dal gallicanesimo.
Il Duguet, riaffermando la responsabilità sacerdotale del sovrano, sosteneva
la necessità della piena indipendenza dal potere ecclesiastico.
736 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
prende senso nella misura in cui ripropone - per la storia romana -
temi e metodi utilizzati già nel Triregno. Come per una forza invin-
cibile, anche in quest'opera, che avrebbe dovuto convincere la Corte
piemontese della sua ortodossia, il Giannone affronta il discorso uti-
lizzando non solo i pochi libri a disposizione (Livio, Tacito, Plinio,
i Vangeli e sant'Agostino), ma soprattutto la cultura della crisi della
coscienza religiosa europea - fra erudizione e deismo - ben presente
nella sua memoria.
Tutta la prima parte non è altro che lo sviluppo dell' Adeisidaemon
di John Toland, che il Giannone certamente aveva letto, essendo
stato pubblicato insieme con le Origines iudaicae.1 Il sottotitolo di
quest'operetta riprendeva quello del Tractatus theologico-politicus di
Spinoza estremizzandolo;3 ormai non è solo nociva la mancanza di
libertà religiosa, ma la superstizione viene considerata più pericolosa
dell'ateismo. Nell'epistola introduttiva rivolta ad Anthony Collins il
Toland polemizzava contro gli avversari di Livio, soprattutto Gre-
gorio Magno, che ne aveva fatto bruciare il testo, perché pieno di riti
pagani.3 Per il Toland invece era possibile dimostrare che Livio ave-
va polemizzato sempre contro ogni superstizione e culto pagano.
Il deista confrontava la posizione dello storico romano con quella di
Plinio, che nel libro secondo della Naturalis historia aveva visto
l'universo come increato ed eterno e nel libro settimo aveva negato
rimmortalità dell'anima.4 Anche Livio, secondo l'inglese, aveva così
poca fede nei prodigi, da poter essere considerato meno supersti-
zioso di molti cristiani, consapevole com'era che la religio è utile ai
politici, ai magistrati e ai sacerdoti. Sui falsi miracoli come strumenti
di potere, sul carattere puramente politico delle istituzioni religiose,
su Romolo (fatto scomparire dai senatori e deificato) o su Numa
Pompilio, il deista inglese ofrriva una traccia concreta a questo lavoro
del Giannone. Le fonti del Toland sono d'altronde Pierre Bayle e
Anton van Dale, entrambi noti al napoletano. Dopo aver rilevato
la presenza nel mondo romano, in uomini come Livio e Plinio, di
i. J. Toland, Adeisidaemon, sive Titus Livius a superstitione vìndicatus. In
qua dissertatione próbatur Livium kistoricum in sacris, prodigiis et ostentis
Romanorum enarrandis, haudquaquam fuisse credulum aut super stitiosum;
ipsamque superstitionem non minus reipublicae (si non magis) exitiosam esse
quam purum putum atheismum . . . Annexae sunt eiusdem Origines iudai-
cae . . ., Hagae-Comitis 1709. z. Il titolo dell'opera di Spinoza era Tracta-
tus theologico-politicus continens dissertationes aliquota quibus ostendìtur li-
bertatem philosophandì non tantum salva pietate, et reipublicae pace posse
concedi, sed eandem nisi cum pace reipublicae ipsaque pietate tolli non posse.
3. J. Toland, Adeisidaemony Epistola . . . ad Do. Antonium Colhnum . . .,
pp. n. n. 4. Ibid., pp. 2-3.
NOTA INTRODUTTIVA 737
una dottrina materialistica, che negava l'immortalità dell'anima, il
Toland difendeva tale scelta, condivisa nell'antichità da quanti non
erano superstiziosi. Inserendosi sul tema bayliano dell'ateo virtuoso,
il deista sosteneva che fra ateismo e superstizione era preferibile in
fondo il primo, che è un atteggiamento tipico della morale aristocra-
tica e quindi di pochi, alla seconda, che raggiunge le masse e si pro-
paga rapidamente : entrambi gli apparivano come esasperazioni legate
fra di loro, vere Scilla e Cariddi di una stessa dimensione di paura e
di mancanza di libertà. L'operetta si concludeva esaminando un altro
tema che sarà ripreso dal Giannone, le Epistole di Gregorio Magno.
L'azione di questo papa contro Livio veniva spiegata come una rea-
zione del cristianesimo, alla sua prima istituzionalizzazione, contro
il paganesimo che aveva ancora un suo fascino, soprattutto sugli in-
tellettuali. Ma mentre il Toland limita il tema e il motivo tutto in
relazione a Livio, per il Giannone questo sarà il punto di partenza
per un altro e più complesso lavoro.
Inoltre, nella stesura dei Discorsi, più che in ogni altra opera, an-
che a causa della propria drammatica esperienza di prigioniero del
potere sovrano ottuso e arbitrario, il Giannone si avvicina alla com-
ponente «antitirannica» del Toland. Naturalmente, nel valutare que-
sta componente, bisogna tener conto che scriveva da una prigione
e rivolto ad una corte, per cui il discorso vien fatto in termini mode-
rati e coperti. Il Giannone non nomina i Discorsi sulla prima Deca di
Machiavelli, ma naturalmente è solo una questione di prudenza;
che li conoscesse benissimo è indubbio, anche se la relazione con
Machiavelli, come del resto aveva còlto acutamente Cesare Cantù,
passa ancora per il Toland.1 Anzi in realtà l'opera del Giannone e quel-
la del Toland si collocano entrambe in quella riscoperta del Machia-
velli «repubblicano » (e quindi dei Discorsi) tipica del mondo inglese,
olandese e tedesco tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento.2
Nel mondo inglese si riallacciava, oltre che al radicalismo deista dei
true WkigSy alla tradizione rivoluzionaria e repubblicana; da questo
ambiente anche un altro italiano, fra l'altro amico del Giannone,
Antonio Conti, aveva tratto il repubblicanesimo machiavelliano delle
sue tragedie.3
i. Cfr. C. Cantù, Gli eretici d'Italia, Torino 1865-1866, in tre volumi, ni,
p. 431 : «Per incoraggiar la casa Savoia nella lotta contro il papa, scrisse i
Discorsi sulle Deche di Tito Livio imitando non tanto il Machiavello, quanto
il Toland ... ». 2. Cfr. G. Procacci, Studi sulla fortuna di Machiavelli,
Roma 1965 ; cfr. anche M. Rosa, Dispotismo e libertànel Settecento. Interpre-
tazioni «repubblicane» di Machiavelli, Bari 1964. 3. Cfr. N. Badaloni,
Antonio Conti. Un abate libero pensatore fra Newton e Voltaire, Milano
1968.
738 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
Il Giannone, paragonando Tacito e Livio, e scegliendo risoluta-
mente il secondo, non ha solo presente Machiavelli e gli anti-machia-
vellici, ma coglie altresì il superamento del «tacitismo»1 e il ritorno
alla grande storiografia liviana tipico ormai del suo tempo, come mo-
strava l'interesse nuovo verso lo storico romano della cultura erudita
europea. Nella seconda metà del Seicento, mentre significativamente
si andava esaurendo l'interesse dei politici verso Tacito, non solo
Johann Freinsheim scriveva i Supplemento, di Livio che avrebbero
goduto una fortuna grandissima, ma Johann Friedrich Gronov pre-
parava la sua edizione, che sarebbe stata una delle principali.2 Pochi
anni dopo il celebre canonista francese Jean Doujat, preparando la
sua edizione ad usum Delphini, in cui fra l'altro accoglieva i Supple-
mento- del Freinsheim, mostrava come ormai il problema della «stru-
mentalizzazione » del testo liviano per uno scopo prevalentemente
pedagogico-politico, almeno nei terrnini cinquecenteschi, era lon-
tano dai suoi interessi.3 Infatti la filologia e la critica tendevano ad
utilizzare il ritorno a Livio per la lotta contro il pirronismo storico,
come nel caso celebre di Iacopo Perizonio.4 Il discorso, almeno negli
ultimi anni'1 del secolo XVII, sembrava ritornare quindi nei termini
eruditi e storiografici, in cui per esempio era posto dal padre René
Rapin, che nel 1681 aveva confrontato Tito Livio e Tucidide.5 Que-
sto fra l'altro potrebbe perfino spiegare il disinteresse verso Livio di
Pierre Bayle, che non gli dedicò una voce nel Dictionnaire, conten-
1. Cfr. A. Stegmann, Le Tacitìsme: programme pour un nouvel essai de dé-
finition, in Machiavellismo e antimachiavellici nel Cinquecento, Firenze 1969,
numero speciale de «Il pensiero politico», pp. 117-30, che fra l'altro ana-
lizza la bibliografia più recente. 2. Johann Freinsheim (1608-1660) pub-
blicò i Supplementa a Livio fra il 1649 e il 1654; Johann Friedrich Gronov
(1611-1671): la sua prima edizione, Lugduni Batavorum 1644- 1645, e i*1
quattro volumi. Anche il figlio, Jakob Gronov (1645-1716), si occupò
di Livio. 3. L'edizione del Doujat usci a Parigi in sei volumi fra il
1679 e il 1680. Cfr. la riedizione di Venezia, 1714-1715, J. Doujatii
Appendix ad ea quae supra collecta . . . De Livio, eius monumenta, stylo ali-
isque adiunctis; tum de editionibus et interpretibus recentioribus: «... Poli-
ticis observationibus, quae nos longis abripere potuissent, ex praescripto
abstinui». 4. Jacob Voorbroek (Perizonius, 1651-1715), celebre filolo-
go olandese. Qui ci si riferisce soprattutto al De fide historiarum contra
pyrrkonismum historicum, Lugduni Batavorum 1702. Si era però occupato
di Livio in Animadversiones historicae . . ., Amstelaedami 1685, cap. vii.
Il Giannone ignorava l'opera dello storico calvinista Louis de Beaufort
(morto nel 1795), Dissertation sur Vincertitude des cinq premiers siècles de
Vhistoire romaine, Utrecht 1738, in polemica col Perizonio, e che apriva
un discorso nuovo sulla critica delle fonti. 5. René Rapin (1621-1687),
gesuita. Ci si riferisce a La comparaison de Thucydide et de T. Live, Paris
1 681, in cui sostenne che il primo era più esatto, ma il secondo più ornato
stilisticamente.
NOTA INTRODUTTIVA 739
tandosi forse di quanto era stato scritto da Louis Moreri,1 mentre
invece parlò ampiamente di Tacito.
Nel primo decennio del Settecento altre due edizioni critiche fon-
damentali venivano pubblicate: quella oxoniense di Thomas Hear-
nez e quella col luogo di Amsterdam di Jean Ledere.3 Anche in Italia
si lavorò in questa direzione: a Venezia, dopo un'edizione del 1706,
fra il 17 14 e il 171 5 fu pubblicata una riedizione del Doujat, con i
Supplemento, del Freinsheim e le note di Jean Ledere.4 Non solo:
nel 1734 sempre a Venezia era stata ristampata la traduzione di Livio
di Iacopo Nardi con ampie aggiunte.3 Negli stessi anni a Lipsia si
preparava un'edizione a cura di Johann Mathias Gesner che com-
prendeva le note del Gronov e quelle di Jean Ledere, mentre a Parigi
Jean-Baptiste-Louis Crevier riproponeva il lavoro critico del Doujat e
ad Amsterdam, qualche tempo dopo, si affrontava l'impegno di una
nuova edizione che comprendesse tutto l'apparato critico precedente.
Fra l'altro il Crevier era allievo di Charles Rollin, e ne avrebbe prose-
guito alla morte VHistoire romaineP Ora, proprio Charles Rollin,
di cui il Giannone avrebbe letto successivamente l'opera, confron-
tandola con i propri Discorsi* non solo nel suo Traiti des études9
per quanto riguarda la storia profana mostrava il suo continuo inte-
resse e riferimento a Livio, ma nel trattare il tema delle origini di
Roma sceglieva consapevolmente il modello liviano.10 Ma proprio
1. Nel Grand dictiormaìre il Moreri afferma che l'edizione del Doujat è una
delle migliori. 2. Oxford 1708, in sei volumi. Thomas Hearne (1678-
1735), antiquario inglese. 3. Amsterdam 1710, in dieci volumi. 4. Que-
st'edizione fu pubblicata a Venezia fra il 1714 e il 171 5, a cura di Carlo
Buonarrighi, che dedicò i primi cinque tomi ad aristocratici veneziani. Il
sesto contiene l'epitome di L. Floro. Vale la pena di ricordare ancora le edi-
zioni patavine del 1692 e del 1707. 5. Le deche di Tito Livio padovano
delle Historìe romane tradotte in lingua toscana da m. Iacopo Nardi cittadino
fiorentino . . ., a cura di Francesco Turchi, Venezia 1734. Il carmelitano
Francesco Turchi, di Treviso, aggiunse la traduzione della seconda deca
(pp. 200 sgg.). 6. Johann Mathias Gesner (1691-1761) ristampò a Lipsia
con una propria prefazione Livio con le note del Gronov e del Ledere nel
1735 ; nello stesso anno Jean-B.-Louis Crevier (1693-1765) cominciò la sua
edizione di Livio che riprendeva quella del Doujat (Parigi 173 5-1742); nel
1738 si cominciò a pubblicare un'edizione di Livio ad Amsterdam, che sa-
rà conclusa nel 1746, che raccoglieva tutti i più importanti commenti, la vita
di Livio del Tomasini e le prindpali discussioni su problemi liviani,
7. C. Rollin, Histoire romaìne depuis lafondation de Romejusqu'à la bataille
d'Actium, e7 est à dire jusqu'à la fin de la république, Paris 1741-1744, in
cinque volumi. Il v fu concluso dal Crevier. Charles Rollin (1661-1741).
8. Cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa ecc., cit., p. 605.
9. C. Rollin, Tratte des études. De la manière d'enseigner et dètudier les
belles-lettres par rapport à V esprit et au cceur, Paris 1740, in due volumi, il,
De V histoire. io. C. Rollin, Histoire r ornarne ecc., cit., 1, livre 1, Avant-
propos, p. il.
74° DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
quest'opera, che nella sua neutralità accademica era abbastanza lon-
tana dall'interesse « politico », mostrava però che la « riscoperta » di Li-
vio non sarebbe rimasta nell'ambito della filologia e dell'erudizione.
Nella prefazione infatti era citata come particolarmente significativa
e robusta l'operetta di Montesquieu sulle cause della grandezza e
decadenza dei Romani,1 in cui veniva riproposta, ma in modo nuovo,
ormai proteso verso l'Illuminismo, l'utilizzazione politica della storia
romana e di Livio.
L'opera del Giannone è quindi a mezza strada fra la riscoperta
erudita di Livio, l'utilizzazione che ne aveva fatto il Toland, la quale
si inseriva nella riscoperta del Machiavelli «repubblicano», e una
nuova utilizzazione «politica» di Livio (e di Machiavelli) di cui l'o-
peretta di Montesquieu (quasi certamente sconosciuta al Giannone)
diventava in un certo qual modo il documento esemplare.
Mentre il I discorso della prima parte riguarda le fonti e il metodo di
Livio, il li affronta le favolose origini che città e nazioni sono solite dar-
si.3 Rientriamo nella cultura che è alla base del Triregno, come nel caso
della dissertazione su Enea di Samuel Bochart.3 Secondo il Giannone,
Livio era perfettamente consapevole della falsità delle leggende, ma
non le toccò per prudenza e perché doveva riconoscenza ad Augusto.
Ma non si fece dominare del tutto da questi sentimenti e non mancò
di smontare e smitizzare l'origine divina di Romolo.4 Il in discorso,
qui riprodotto, è la ripresa precisa del tema del Toland sulla fran-
chezza e la mancanza di superstizione in Livio.5 Ma in Giannone vi è
qualcosa di più, in quanto ciò che per l'inglese è pura polemica anti-
religiosa, in Giannone diventa volontà di capire l'atteggiamento dei
Romani nei confronti della religione. Anzi mostra di avere un'intui-
zione esteriormente piuttosto simile a quella del Vico. Infatti parla
di tre generi di teologia: poetico, tutto favoloso e fantastico; filoso-
fico o naturale (che coincide con l'idea di un solo Dio animatore della
natura) ; e un ultimo genere, politico o civile, cioè la teologia che serve
al principe per governare i popoli, non svelando loro la falsità dei
miti, ma utilizzandoli per mantenere il potere. La fonte è sant'Ago-
stino.6 A differenza del Vico, però, al Giannone non interessa la teo-
i. Ibid., p. xxxn ; dove il libro del Montesquieu è definito «... très court,
mais très solide et très capable de donner une juste idée du caractère de ce
peuple». 2. P. Giannone, Discorsi ecc., ed. cit., pp. 30-48. 3. Ibid.,
p. 33. La citazione del Bochart è probabilmente sulla base dei ricordi. L'o-
pera dell'erudito tedesco figura tra quelle possedute dal Giannone, ma, co-
me egli stesso afferma e si può controllare dalle citazioni, in questo periodo
della prigionia egli ebbe a disposizione pochissimi libri e tutti classici o di
apologetica cristiana. 4. Ibid., pp. 44-8. 5. Ibid.t pp. 49-62. 6. De ci-
miate Dei, rv, xxii.
NOTA INTRODUTTIVA 74I
logia favolosa. È invece attento a quella naturale, che ritrova in Lu-
crezio, Orazio, Livio e Plinio (e che nel Triregno aveva osservato nella
vigorosa terrenità del mondo ebraico); e a quella civile, che spiega
come Roma si sia dilatata politicamente. L'atteggiamento di Livio
verso la teologia è quindi di pura adesione a quella naturale (con-
cordando con quanti non credono ad altra evidenza che a quella ter-
rena) e di franchezza demistificatrice verso la teologia favolosa.1 È
la stessa sincerità che lo portava a difendere Pompeo, pur essendo
egli un favorito di Augusto, per cui l'imperatore scherzosamente lo
chiamava «pompeiano». Viene espressa chiaramente a questo punto
l'idea del principe magnanimo che il Giannone sognava: un sovrano
il quale sappia accettare che lo storico sia coerente ai suoi princìpi
fino in fondo. Per la stessa ragione Tiberio è da condannare per aver
punito Cremuzio Cordo.2 E non affiora solo l'ideale di un sovrano
« antitirannico », ma soprattutto quella di uno storico capace di com-
piere il dovere verso la verità, il cui modello più concreto era ancora
Jacques-Auguste De Thou. Il principe ideale è tollerante e lascia
che gli intellettuali parlino di politica e di religione liberamente,
come Augusto permise a Livio, ma soprattutto come Tito accettò
da Plinio, il quale fece franca e piena afTermazione di materialismo
e di «panteismo».3
Tutta questa prima parte richiama direttamente o indirettamente
il Toland e riconferma, ampliandole, le tesi del Triregno. Il vi discor-
so riguarda, sempre secondo lo schema suggerito dall'inglese, i por-
tenti e i prodigi, mentre il vii gli oracoli che i Romani trassero dagli
Etruschi.4 Il Giannone, dopo aver mostrato, con Toland, che Livio
non credeva né alle profezie, né ai maghi, afferma che i veri profeti
sono solo presso gli Ebrei. È un tentativo di ripiegare nell'ortodossia
e di negare l'influenza di Spinoza; l'analisi del fenomeno religioso
che il deismo gli ha suggerito quanto più si acuisce nei confronti della
religione gentile, tanto più si appiattisce per tutto ciò che riguarda
il mondo ebraico-cristiano. Anzi in questo arretramento il Giannone
giunge a negare (ma più che una contraddizione intellettuale, è un
dramma che impietosisce) uno dei presupposti fondamentali del
Triregno, l'inscindibilità fra anima e corpo. Con un atteggiamento
1. P. Giannone, Discorsi ecc., ed. cit., p. 51. 2. Nell'edizione veneziana
1714-1715 già citata è riportato un elenco di giudizi su Livio: fra gli altri
anche questo da Tacito, Ann., iv, 34-5. Dato che il Giannone anche nella
prefazione utilizza uno di questi frammenti (da Plinio il Giovane, lib. li,
ep. 3), questa potrebbe essere l'edizione consultata, anche se egli conosceva
quella di Amsterdam 1710 a cura del Ledere, come mostra a p. 214 dei
Discorsi cit. 3. P. Giannone, Discorsi ecc., ed. cit., p. 61. 4. Ibid.,
pp. 100 sgg.
742 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
più di rassegnazione che di convinzione ritorna al dualismo cartesia-
no, anche se lo circonda di tutto lo scetticismo implicito già nella
posizione del suo maestro Aulisio: come questi arriva a negare che
di fronte a certi problemi l'uomo possa conoscere il qua re e il quo
modo.1 Ma dopo questa pausa di stanchezza, il Giannone nel discorso
successivo analizza l'astrologia giudiziaria, che ha origine in Persia,
riprendendo pagine del Triregno, per esempio quelle riguardanti
Samuele e la sua anima, che derivano dalla lettura di Salomon Dey-
ling. La fonte diretta e maggiore è però il libro xxx della storia pli-
niana, sulla cui scorta mostra come la magia, sorta in Oriente, abbia
contaminato e corrotto la religione gentile. Questo è un altro tema
tipicamente tolandiano e infatti il Giannone utilizza gli stessi passi
di Plinio citati anche dall'inglese, in cui si afferma, contro il cieco
volere degli astri, la forza liberatrice dell'educazione. Vero filosofo
è per entrambi colui che sa reagire razionalmente anche di fronte a
un presagio avveratosi.2
Il discorso ix riguarda il significato che i Romani attribuivano alla
loro religione e quindi il carattere di tripudio delle cerimonie, fatte
per piacere, oltre alle divinità, anche agli uomini, colpendone la
fantasia. Esamina in seguito come a Roma, nonostante la decisione
di non ricevere culti esterni, per necessità si accolsero religioni stra-
niere, quanto più lo Stato acquistava nuove regioni. Fra l'altro mo-
stra di aver conservato alcune caratteristiche tipiche del libertinismo
erudito, per esempio quando contrappone alla moltitudine supersti-
ziosa il piccolo gruppo di intellettuali, che, come Livio, non credeva,
ma non ardiva affrontare la polemica contro i miti popolari.
È soprattutto con il diffondersi della potenza romana nel mondo
orientale che Roma venne a contatto con i culti egizi: si corruppe così
la concezione primitiva molto vicina alla religione naturale, semplice,
legata a poche divinità e a pochissimi precetti. Anche un altro ele-
mento cambia: con il diffondersi dei culti orientali si accettano il
lusso e la corruzione dei costumi, fino alla follia dei baccanali.3
Il discorso xn riguarda il concetto che ebbero i Romani della morte.
Riafferma con vigore che tutte le religioni dell'antichità riguardavano
soltanto la vita terrena, senza alcuna idea dell'immortalità. E la stessa
grandezza dei Romani era legata alla loro visione della morte come
fine di tutto, per cui non la temevano affatto. Questa consapevolezza,
accettata nel mondo greco da Democrito, Leucippo, Epicuro, fu
ripresa e sviluppata a Roma soprattutto da Lucrezio.
• Un'altra occasione per fare un'analisi demistificatrice di una su-
perstizione riguarda la sepoltura: Numa Pompilio ne stabilì le re-
i. Ibid.y pp. 152-4. 2. Ibid., p. 188. 3. Ibid.} pp. 207 sgg.
NOTA INTRODUTTIVA 743
gole e perché fossero eseguite diffuse la voce che le ombre degli in-
sepolti avrebbero continuato a vagare ai margini degli Elisi. Ancora
una volta il Giannone mostra come nasce una superstizione e con-
trappone la morale dell'elite consapevole e incredula a quella del
popolo. Come si è visto, partendo dall'operetta del Toland, ha dato
ben altro sviluppo ai temi ivi appena accennati ; ancora una volta ha
utilizzato, con maggior senso storico, la cultura deistica per ricostrui-
re la religione gentile, parallela a quella ebraica, essendo come questa
destinata alla felicità terrena.
La seconda parte ricerca le ragioni del successo politico : i Romani
furono il primo esempio di un «impero» nell'Occidente, che fino ad
allora, a differenza dell'Oriente, era stato sempre diviso in piccoli
Stati e repubbliche. Dopo aver analizzato l'incapacità degli Etruschi
a creare le condizioni per un grande Stato a causa delle divisioni
interne e delle guerre esterne contro nemici fortissimi, il Giannone
afferma che la forza dei Romani fu l'abilità con cui seppero imporre
una politica di alleanze, facendo più guerre per difendere i «socii»
che per i propri interessi. Questa è la parte più legata al Machiavelli :
per esempio quando si sofferma a paragonare lo stato presente del
regno pontificio con l'antico e ne misura tutta la differenza, natural-
mente a favore del passato.1 Secondo il Giannone, i Romani antichi
avevano due sole attività: l'agricoltura e la milizia. Per questo la
storia sociale ruotava tutta intorno alle leggi agrarie e «la plebe che
viveva sui campi non voleva soffrire i torti che i nobili tentavano di
arrecarle per la divisione de' medesimi ».a Vi è una forte idealizzazione
del romano antico: ogni cittadino, desideroso del bene pubblico,
era guerriero. In evidente rapporto con il Machiavelli dei Discorsi,
il Giannone idealizza la repubblica, dove si allevavano i figli a due
ideali : milizia e agricoltura. Fra il presente e il passato non sono mu-
tati clima e natura, ma solo il tipo di educazione.
Un segreto dei Romani era di combattere sempre guerre di con-
quista con l'intima persuasione che fossero giuste: questo ripropone
il tema più generale della sapienza giuridica di Roma. La positività
delle leggi romane sta nel fatto che tutto il popolo le accettò, avendole
potute esaminare e modificare. La repubblica è la sintesi felice di
buone leggi, di una sana economia agricola e di una buona morale.
Anzi si riuscì ad evitare che il diritto diventasse monopolio dei sacer-
doti, come si stava verificando con lo ius pontifidum> e soprattutto
che ciò si rivolgesse a danno della plebe e a favore degli aristocratici.
Un plebeo rubò il testo dello ius civile e lo divulgò, favorendo nella
1. Ibid.y pp. 286 sgg. 2. Ibid., p. 303.
744 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
collettività la conoscenza e lo studio del diritto.1 Qui appare scoperta
la fede politica del Giannone, il quale non è affatto un teorico del-
l'accentramento, ma crede nella funzione dello Stato, nella felicità
pubblica di cui le buone leggi sono gli strumenti essenziali e il so-
vrano, se mai, il semplice custode. Questa è la ragione per cui i
Romani, anche quando persero il potere, rimasero maestri al mon-
do. La conquista si spiega cioè come una capacità di amministrare e
soprattutto di offrire un governo ragionevole, di fronte alla debolezza
di altri regimi, che vivevano in forme di ingiustizia collettiva e di
dispotismo tirannico.
Il discorso xiii riguarda l'origine del censo, che risale a Servio
Tullio ed è paragonabile per importanza civile all'introduzione del-
la religione: significa non solo la numerazione, ma anche la di-
stribuzione dei carichi fiscali.2 Si crearono i censori per disciplinare
questa materia e i patrizi seppero avocare a sé questa responsabilità,
senza l'opposizione dei tribuni della plebe, i quali non colsero l'im-
portanza che la carica avrebbe assunto soprattutto col censimento
delle colonie.
Con Augusto tutte le province furono censite: anche Gerusalem-
me dopo la morte di Erode. Ritorna il tema di Gesù e degli inizi del
cristianesimo nel mondo ebraico, che i Romani avevano trasformato
in provincia. Il Giannone conferma in queste pagine la sua visione
del cristianesimo primitivo di origine deistica: era un'eresia ebraica,
contro cui i Farisei stavano per scatenarsi, se non fossero stati fer-
mati da Gamaliele. Ma proprio l'atteggiamento dei Romani nei con-
fronti degli Ebrei mostra la loro moderazione in campo religioso:
lasciarono infatti a tutti i popoli i loro riti, anche se contrari ai propri.
Lo testimonia il fatto che gli Ebrei poterono costruire sinagoghe in
tutto il mondo, e anche in Italia, come aveva insegnato PAulisio
nelle Scuole sacre? Per quale ragione perseguitarono allora il cristia-
nesimo, cosa che sembra contraddire quanto afferma sant'Agostino
sull'Impero di Roma come sede naturale ed opportuna per la diffu-
sione della religione di Cristo ? Secondo il Giannone gli imperatori
da principio non la bandirono dall'Impero, ma la confusero con l'e-
braismo, prendendo il cristianesimo per una nuova setta. Fin dalle
origini Pilato aveva fatto di tutto per non condannare Gesù, ma fu-
rono gli Ebrei a volerlo a tutti i costi, considerando i cristiani come
settari dissidenti, Nazareni. Infatti l'apostolo Pietro rimase un con-
vinto sostenitore dell' ebraismo, mentre Paolo e Barnaba si volsero
i. Ibid., p. 309. 2. Ibid, pp. 375 sgg. 3. D. Auusio, Delle scuole sacre
libri due postumit Napoli 1723, due tomi in un volume.
NOTA INTRODUTTIVA 745
a convertire i gentili. Come aveva sostenuto il Toland nel Nazarenus,1
anche il Giannone afferma che fu Paolo a rompere decisamente con
le leggi mosaiche, mentre Pietro, pur avendo sostenuto che bastava
la sola fede per salvarsi, non aveva rotto del tutto con la tradizione.
Sono veramente molto belle e moderne queste pagine in cui il
Giannone ha chiara la percezione dell'importanza di Paolo nella tra-
sformazione del cristianesimo da eresia ebraica in religione univer-
sale. Le prime persecuzioni nella Giudea e nelle altre province sono
opera non dei Romani, ma degli Ebrei; e furono queste tensioni
una delle cause del diffondersi del cristianesimo in tutte le province
dell'Impero. I Romani non perseguitarono la religione cristiana fino
a che questa, che si separava sempre più da quella ebraica, non urtò
contro le leggi dello Stato e i costumi romani. Le cause di ciò van
trovate nel gran numero di eresie che sorsero immediatamente divi-
dendo la Chiesa e divenendo causa di torbidi. Fra le eresie fiorirono
culti sanguinosi, che favorivano nei gentili l'idea che i cristiani pra-
ticassero riti abominevoli. Inoltre se i cristiani denunciavano con
violenza la religione pagana, i gentili attribuivano superstiziosamente
a loro la responsabilità di tutte le disgrazie. Nonostante ciò gli im-
peratori furono piuttosto clementi e gran parte delle persecuzioni
sono state esagerate dall'apologetica cristiana.
Costantino lasciò ai pagani la possibilità di mantenere i loro riti,
ma protesse il cristianesimo, per cui convissero tre religioni: l'ebraica,
la gentile e la cristiana. Quando scelse Bisanzio, lasciò Roma al suo
nuovo destino: sarebbe stata la sede dell'impero spirituale (e mon-
dano) dei papi. Ancora una volta il Giannone riprende il celebre
passo di Ottato Milevitano : il cristianesimo, superata la matrice
ebraica, si colloca ora nelle strutture dell'Impero e le assorbe: sono
le tesi sfiorate nell'Istoria civile e sviluppate nel Triregno, che aveva
tratto da Louis Ellies Du Pin e successivamente confermato attra-
verso la lettura di Joseph Bingham. Da questo punto iniziava il di-
scorso abbozzato nel Regno papale.
Giuseppe Ricuperati
i. J. Toland, Nazarenus . . ., London 171 8.
DISCORSI
SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
SCRITTI DA PIETRO GIANNONE GIURECONSULTO
ET AVVOCATO NAPOLITANO NEL CASTELLO DI CEVA
L'ANNO 1739
PARTE I
DISCORSO III
Della franchezza colla quale Livio scrisse delle cose appartenen-
ti alla religione romana; e come non solo intorno al culto de*
dii, e lor vantati miracoli, ma in tutti i suoi rapporti serbasse
uri incorrotta sincerità di fedele istorico e di profondo
e grave filosofo.
Quest'opera, edita con il titolo Discorsi storici e politici sopra gli Annali di
Tito Livio, in Opere inedite cit., 1, a cura di P. S. Mancini, attende ancora
chi la rioffra in un'edizione corretta. In realtà il testo del Mancini appartie-
ne solo parzialmente al Giannone, tanto pesante è l'intervento del curatore,
sulla forma, ma anche sul contenuto. In attesa che qualcuno dia un'edi-
zione critica, mi sono servito esclusivamente del manoscritto che il Gian-
none aveva inviato al sovrano piemontese per l'approvazione. Questo ma-
noscritto è alla Biblioteca Reale di Torino, Var. 305, con il titolo qui ripro-
dotto. L'8 giugno dello stesso anno fu presentata al ministro Ormea; que-
sti la fece leggere all'abate Palazzi di Selve che vi scrisse sopra le Osserva-
zioni che sono in appendice al manoscritto della Reale e che furono pub-
blicate dal Mancini (pp. 471-9). Eccone le conclusioni: «Da queste poche
osservazioni sembra che possa congetturarsi che l'autore ritenga peranco
le idee che aveva espresso ne' suoi manoscritti del Regno terreno e celeste.
E certamente questa sola opera rappresentando il genere umano stato sem-
pre affascinato con varie illusioni ed imposture non meno per fini politici di
principi, che per artificio e frode de' sacerdoti, e dall'altro canto non rap-
presentando che leggermente, e con motivi che facilmente può chi legge
immaginar sospetti od insufficienti, lo stabilimento della vera religione;
questa opera sola, dissi, potrebbe preparare l'animo degl'imbecilli, e mas-
simamente de' giovani, a' quali è indirizzata, a spogliarsi di quella credu-
lità e fede, che si dee a' divini oracoli ed alla Chiesa ». - Oltre all'autografo
della Reale, vi è la minuta autografa, di cui mi son valso per correggere
qualche errore di trascrizione (Archivio di Stato di Torino, manoscritti
Giannone, mazzo iv, inserto 1 : ha in più, rispetto alla bella copia, un in-
dice geografico) e una terza copia (mazzo iv, ins. 2), solo parzialmente au-
tografa e con molte varianti. Cfr. Nicolini, Scritti, pp. 41-5; G. Ricupe-
rati, Le corte torinesi di Pietro Giannone, Torino 1963, pp. 65-6 e 90;
Giannoniana, pp. 453-6 e 492. Cfr. inoltre G. Ricuperati, L'esperienza
civile e religiosa ecc., cit., pp. 352-64.
748 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
Forse ad alcuni sembrerà Livio poco religioso1 se scrivendo le cose
di Roma, città religiosissima e ch'era la più attaccata al culto ed a'
riti de' suoi numi, alla cura e provvidenza de' quali riportava l'in-
grandimento della repubblica: Livio all'incontro adempendo le
parti d'un sincero e verace istorico, tutto riporti alla disposizione
ed ordine naturale delle cose, alla serie e concatenazione degli ef-
fetti colle loro cause, ed agli potenti ed insuperabili fati, al potere
de' quali sottopone gli stessi creduti lor numi. I tanti prodigi ch'e'
rapporta non l'imputa a' miracoli, né a cose di religione, ma acca-
duti secondo il corso di natura, ancorché alle volte, perché non ne
i . Livio poco religioso : il tema è quello dell' Adeisidaemon del Toland, co-
me si è detto nella Nota introduttiva, p. 736. Cfr. infatti l'ed. cit., so-
prattutto l'epistola del maggio 1708 al Collins, che vi è premessa, e in par-
ticolare i paragrafi ivev (pp. 3-5) e vii (pp. 9-13). Contro l'opera del To-
land cfr. J. Fayus, Defensio religionis, necnon Mosis et gentis tudaicae, con-
tra duas Dissertationes Ioh. Tolandi quorum una inscnbitur Adeisidaemon,
Ultraiecti 1709. Jacques de la Faye coglie acutamente (p. 1) l'unità del di-
segno del Toland nel* Adeisidaemon e nelle Origines: il deista inglese vuol
distruggere la religione naturale e quella rivelata. Il de la Faye, che cono-
sceva le Letters to Serena, dopo una breve analisi della filosofia tolandiana,
sintetizzabile in spinozismo, materialismo e vitalismo, cogliendone le fonti,
oltre che in Spinoza, in Bayle, soprattutto delle Pensées sur la comète, af-
ferma che purgare Livio dall'accusa di superstizione per il Toland signi-
fica farne un ateo. Polemizzando con l'atteggiamento eversore dell'inglese,
il pastore olandese difende tutte le tradizioni religiose, nega che l'ateismo
sia migliore della superstizione e ne vede l'implicita carica rivoluzio-
naria verso il potere dello Stato (cfr. pp. 1-168). L'opera fu recensita
sugli «Aera Eruditorum Lipsiensium» dello stesso anno. La polemi-
ca fu ripresa qualche anno dopo, con maggiore precisione, da un altro
pastore, Elie Benoist, della Chiesa vallona di Delft, che scrisse un Mélange
de remarques critiques, historiques, philosophiques, théologiques sur les deux
dissertations de M. Toland intitulées Vune Uhomme s.ans superstition, et Vautre
les Origines judaiques, Delfi: 1712. Significativamente il Benoist in un'ampia
introduzione polemizza con il pirronismo, difendendo i valori della tradi-
zione ebreo-cristiana. La sua critica investe la prima opera di metodo
comparatistico scritta da un cattolico dopo la pubblicazione del Tractatus
di Spinoza, la Demonstratio evangelica dell'Huet. Entrando più diretta-
mente in argomento, il Benoist confuta la presenza di una moralità atea nel
mondo greco-romano, che fosse consapevole. In realtà gli atei erano di-
sprezzati come il Mezenzio di Virgilio. Questa moralità, attribuita a Livio,
contro il Possevin e il Voss, che ne avevano lamentato piuttosto lo spirito
superstizioso, ha un grave limite dal punto di vista politico : gli atei sono
incapaci di rispettare le leggi. Per questo il paese sognato dal Toland do-
vrebbe avere un sovrano ateo il quale lasci al popolo la religione come « su-
prema salus regni» (pp. 1-154). Il Benoist, come si può notare, coglie nel
discorso tolandiano, più che la carica antitirannica vista dal de la Faye, il
tradizionale libertinismo aristocratico della morale consapevole di pochi
intellettuali, contrapposta alla ignoranza e alla schiavitù del popolo.
PARTE I • DISCORSO III 749
sappiamo le cagioni più immediate, sembrino a noi strani e porten-
tosi ; e deride la credulità del volgo, che le illusioni, spettri, insogni,1
ed altre vane immagini ed ombre riputa cose reali e salde, dando
sovente alle cose ideali corpo e vera sussistenza. Della religione
romana parla come ad un leale istorico e ad un saggio filosofo si
conviene, la quale i Romani indrizzavano alla sola conservazione
ed ingrandimento della repubblica, e per le felicità mondane, e non
vi è dubbio che sovente potè più ad incoraggir i loro animi ad im-
prese veramente ardue e magnanime la forza della religione che il
proprio lor valore, le concioni de' loro capitani e l'arte militare de'
loro eserciti.
I Romani riguardavano la religione come efficace mezzo per
mantenere a dovere i cittadini, sicché fra di loro fosse giustizia e
concordia; e stretti da questo vincolo potessero attendere non pur
alla conservazione del pubblico bene, ma al maggior suo accresci-
mento; e non già se n'abusassero, come alle volte alcuni cattivi
facevano, per proprio commodo e privato interesse. Essi non l'in-
drizzavano ad un fine più alto e sublime, come facciamo noi, i quali
istrutti in migliore scuola, e professando una religion pura e vera,
come quella che fu da Iddio stesso a noi rivelata, posponiamo il
riposo di questo mondo e le felicità terrene alle celesti; ed aspettia-
mo doppo questa mortale un'altra vita tutta immortale ed eterna,
la quale, secondo che ci avremo meritato, ci sarà data o gioconda e
gloriosa, ovvero infelice ed angosciosa. I Romani in troppo brevi
chiostri restrinsero il preggio e la condizione dell'uman genere,
non riguardando che il riposo e felicità di questa breve e mortai
vita; e per ciò, sicome tutte l'altre cose terrene, così la religione
eziandio l'indrizzavano per la sola conservazione ed ingrandimento
dello stato mondano e terreno. Quindi da' loro dii non si promet-
tevano che felicità mondane; e gli rendevano sacrifici e voti perché
gli scampassero da miserie e calamità parimente mondane. Ragiona-
vano della loro religione e de' loro numi diversamente che noi, ed
i loro teologi aveano altre massime e sistemi opposti a que' de'
nostri.
A' tempi ne' quali scrisse Livio i suoi Annali, la loro teologia
avea fatti gran progressi che non furono a' primi tempi rozzi ed
incolti di Roma; onde se bene presso il volgo si procurasse tener
i. insogni: sogni (è un latinismo, da insomnià).
750 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
occulti i veri sentimenti, non era però che non pur da' filosofi e
da' giurisconsulti, ma eziandio da' sacerdoti e pontefici stessi non
fosse diversamente trattata ed esposta da ciò che il volgo credea.
I libri di Varrone, i quali se ben ora perduti, in gran parte gli do-
vemo a S. Agostino, il quale, come si è detto, ce ne conservò molti
pezzi nell'opera della Città di Dio, ci fanno accorti che i sapienti
della sua età ben conobbero le tante vane superstizioni e l'infinito
e favoloso numero di tante deità. Le opere di Cicerone che ci
rimangono dimostrano lo stesso; e questo insigne non meno ora-
tore che filosofo, secondo che S. Agostino istesso nel cap. 27 del
libro iv della Città di Dio1 ce ne rende testimonianza, commendava
la sentenza di Q. Muzio Scevola pontefice massimo e celebre giu-
risconsulto suo coetaneo, il quale solea far tre classi ovvero generi
de' dii romani. Il 1 essere il poetico, e questo tutto favoloso e fan-
tastico. Il 11 il filosofico, che non ammette che pochi dii, anzi se-
condo i più saggi e seri filosofi che un solo ; ed i politici reputavano
non fosse espediente divolgarsi alle città, anzi doversi nascondere
ed occultare al volgo, il quale sicome per istinto naturale è portato
più al sorprendente, straordinario e maraviglioso, che al fisico e
reale; così abbraccia più volontieri e l'è più gradito i\ poetico che il
filosofico ; e molte volte è espediente che le città siano conservate e
mantenute nelle volgari superstizioni ed antiche credenze. Il in
essere il politico, cioè quello de' principi, i quali ne' loro domìni
dovran conservare quella religione e que' numi a' quali i popoli
avranno prestato culto e credenza da tempi antichissimi e che fu
ad essi tramandata da' loro maggiori ; la quale senza gravi disordini
e confusioni, e sovente senza tumulti e sedizioni non si potrà svel-
lere da' loro animi ; e la lunga esperienza l'avrà fatti accorti che le
gare e contenzioni surte per cagion di religione sono più feroci
ed arrabbiate che quelle nate per la conservazion della patria e
della libertà istessa. Quindi presso gli antichi pagani sursero tre
generi di teologia: la favolosa, la naturale e la civile, secondo che
da' libri di Varrone raccolse S. Agostino nel cap. 5 del libro vi
della Città di Dio.2
Or Livio nel tempo istesso che da serio filosofo e grave istorico
1. secondo . . . Dio: in Migne, P. L.t xli, col. 133, De tribus generibus deorum,
de quibus Scaevola pontifex disputat. 2. nel cap, 5 . . . Dio: cfr. ibid.t col.
180, De tribus generibus theologiae secundum Varronem scilicet uno fabuloso,
altero naturali, tertioque civili.
PARTE I * DISCORSO III 751
fa conoscere la superstizione e le tante vane credenze del volgo
credulo ed ignaro, dimostra che per ciò che riguarda la civile teolo-
gia non devono i principi trascurare di mantenere ne' loro domìni
quella religione che i popoli han ricevuta col latte delle loro madri,
non solo per contenergli in una tranquilla società civile, ma ezian-
dio perché la forza dell'avita religione conduce molto nelle spedi-
zioni militari stesse per incoraggir i soldati ad azioni difficili e
malagevoli. Queste parti sono accuratamente distinte ed adempite
da Livio ; onde si mostra non men grave e serio filosofo che avve-
duto ed accorto politico.
1. Per ciò che riguarda la teologia naturale.
In quanto alla prima parte, finiranno di maravigliarsi se Livio
scrivendo di Roma città religiosa parli con franchezza da filosofo
delle favolose origini, de' vaticini, de' immaginari miracoli ed altri
portenti e creduti prodigi. Egli scrisse la sua istoria non già ne'
tempi incolti e superstiziosi di Roma, ma nel più culto ed illumi-
nato secolo qual fu quello di Augusto : quando fioriva in Roma colle
altre discipline la vera e solida filosofia. Non vi è dubbio che i
Romani si applicarono molto tardi a questa scienza, quando ap-
presso i Greci era per più secoli innanzi la più essercitata, avendoci
la Grecia dati i migliori filosofi; ma questa tardanza la compensa-
rono colT accuratezza di sapere eleggere fra tante sette di filosofi,
onde la Grecia era piena, la filosofia più seria e verisimile, che l'al-
lontanava dalle favole de5 poeti e da altri più splendidi sì, ma vani
ed ideali sistemi. Rifiutarono per ciò i più seri la splendida ed
astratta filosofia di Platone e quella inviluppata ed oscura di Ari-
stotele, e si appigliarono alla filosofìa solida di Democrito e di Epi-
curo; ed a riguardo della morale alcuni seguitarono la dottrina
degli stoici. Tito Lucrezio Caro vi fece maravigliosi progressi, e la
divolgò a* Romani in versi latini, con tanta eleganza e proprietà
scritti, che ancorché la novità del soggetto e la povertà della lingua
dovessero sgomentarlo dalla dura impresa e fosse stato il primo a
tentarla,1 nulladimanco gli riuscì così prospera e felice, che sicome
fu il primo, così rimase il solo, che oscurò la fama di tutti. Né vi è
1. ancorché . . . tentarla: cfr. Lucrezio, De ter. nat.t 1, 136-9: «Nec me ani-
mi fallit Graiorum obscura reperta/ difficile inlustrare latinis versibus esse, /
multa novis verbis praesertim cum sit agendum / propter egestatem linguae
et rerum novitatem», e ibid., 926 sgg.
752 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
dubbio che gl'ingegni più preclari ed insigni, li quali contempo-
ranei di Lucrezio e doppo di lui fiorirono in Roma, avessero ab-
bracciata questa dottrina, sicome ne dieder saggio nelle loro opere
che lasciarono; dalle quali è facile raccorre che fosser convinti di
quanto Lucrezio avea scritto ne' suoi libri della Natura delle cose,
e spezialmente che i loro dii non avesser cura delle umane cose ; e
che quanto accadeva di portentoso era secondo Timmutabil corso
di natura. E poiché questo rinomato non men poeta che filosofo,
per la sua acerba ed immatura morte non ebbe tempo di ridurre i
suoi libri all'ultimo punto di perfezione, credesi che Cicerone e
Virgilio l'avesser poi ripuliti e ridotti in quella forma che ora leg-
giamo. Né è da dubbitare che questi due scrittori non avessero
avuti i medesimi sentimenti, i quali mal poterono nascondere nelle
di loro opere, Cicerone in più luoghi, e Virgilio in que' versi :
Felix qui potuti rerum cognoscere causas:
ille metus omnes, et mexor abile fatum
subiecit pedibus, strepitumque Acherontis avari.1
Di Orazio, che fosse epicureo non se ne dubbita, e lo stesso dee
dirsi di Catullo e di altri latini poeti che fiorirono a' tempi di Au-
gusto. La qual dottrina si diffuse in questa età eziandio presso i
romani giurisconsulti, sicome ce ne rende testimonianza Alfeno
Varo3 contemporaneo di Augusto nella 1. proponebatur D. de iudi-
ciìs, li quali sicome in quanto alla dottrina de' costumi seguitarono
gli stoici, così in quanto alla fisica quella di Democrito e di Epicuro.
Livio in questi suoi Annali in più luoghi, che saranno notati ne'
seguenti discorsi, mostra aver tenuta l'istessa dottrina; onde non
dee sembrar cosa strana se de* prodigi, miracoli, augùri e di altre
cose appartenenti all'antica religione romana abbia sentimenti poco
religiosi: sovente deridendo la sciocca credulità del volgo, ed altre
volte scovrendo l'accortezza e furberia de' sacerdoti e degli àuguri,
e tante altre vane e puerili superstizioni. Livio stesso sovente ci
dice che a' suoi tempi, per esser negletti i loro dii, non fu presso i
Romani tanta la forza della religione ne' giuramenti, ne' voti, ne'
i. Georg., li, 490-2 («Fortunato colui cui è riuscito di conoscere l'origine
delle cose; costui s'è messo sotto i piedi ogni timore e l'inesorabile fato,
e il rimbombo dell'insaziabile Acheronte »). 2. Alfeno Varo : giureconsulto
romano del I secolo a. C, di Cremona, allievo di Servio Sulpicio Rufo. I
suoi Digesta sono stati ampiamente utilizzati dai compilatori del Digesto
di Giustiniano.
PARTE I • DISCORSO III 753
patti e convenzioni e nelle altre umane facende, quanta fu ne* tem-
pi antichi; né teneva cotanto ingombrati gli animi de' Romani la
religione, di riportare ogni cosa a* dii, che prendessero cura delle
cose degli uomini, quanto fu già ne* secoli vetusti. Così egli nel
terzo libro della i deca, rapportando quanto nel terzo secolo di
Roma fossero i Romani religiosi, spezialmente ne' giuramenti,
ciocché non era a' suoi tempi, dice: «sed nondum haec, quae nunc
tenet seculum, negligentia deum venerat: nec interpretando sibi
quisque iusiurandum et leges aptas faciebat, sed suos potius mores
ad ea accommodabat».1 Onde avvenne che seguendo egli con tenor
costante l'istituto prescrittosi di rapportare in ciaschedun anno i
prodigi ed i portenti ch'erano annunziati, i quali gli antichi Ro-
mani riportavano non già a cagioni naturali, ma a minacce de' loro
dii ed a cose di religione, ne fu ripreso da' suoi coetanei, come quelli
che a' loro tempi riuscivano ristucchevoli, sciapiti e ridicoli, poi-
ch'eran persuasi che i lor dii non prendevan cura delle cose umane,
e che per ciò que' portenti, come seguiti secondo il corso di natura,
non più si annunziavano in pubblico, né, come prima, si riferivano
negli annali o pubblici commentari. Quindi è che negli Annali ed
Istorie di Tacito ben di rado si leggono consimili portenti e prodi-
gi; i quali a' suoi tempi né si denunciavano, né si notavano ne'
commentari: Livio con tutto ciò nel terzo libro della v deca si
scusa, se scrivendo delle vetuste cose de' Romani, gli riferisca ne'
suoi Annali, dicendo: «Non sum nescius, ab eadem negligentia,
qua nihil deos portendere vulgo nunc credunt, neque nunciari
admodum nulla prodigia in publicum, neque in annales referri.
Caeterum et mihi vetustas res scribenti, nescio quo pacto antiquus
fit animus, et quaedam religio tenet, quae illi prudentissimi viri
publice suscipienda censuerint, ea prò dignis habere, quae in meos
annales referam».2 Ma nel tempo istesso che gli rapporta, non tra-
lascia di notare la credulità ed ignoranza di que' primi incolti e
i . a sed nondum . . . accommodabat » : in, 20, 5 (« ma non era ancor sopraggiun-
ta quella dimenticanza degli dei che ha ora invaso questa età, né ciascuno
adattava a se stesso giuramenti e leggi interpretandoli, ma al contrario
accordava sé e i propri costumi a quelli »). 2. « Non sum nescius . . . referam » :
xliii, 13, 1-2 (a So bene che per la stessa indifferenza per cui generalmente
si crede che gli dei non predicono nulla, non si annuncia più in pubblico
alcun presagio, né lo si riferisce negli annali. Tuttavia, se scrivo cose ve-
tuste, e Panimo mi si fa, non so in che modo, antico, e mi prende un certo
scrupolo di considerare degno di esser riportato nei miei annali quanto
quegli awedutissimi uomini stimarono di dover pubblicamente accogliere»).
48
754 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
rozzi secoli. A' suoi tempi il prodigioso numero di tanti dii maschi
e femmine si lasciava al volgo semplice ed ignaro, il qual credea che
sopra ciascuna azione umana o avvenimento sia d'infermità, di
naufragio, viaggi o altro, fosse una deità che vi presedesse alla
quale potessero ricorrere con voti e supplicazioni perché o gli scam-
passe da' mali ond'eran premuti, ovvero gli concedesse prosperità
e contentezze. Quindi crebbe la turba di tanti dii dell'uno e l'al-
tro sesso quanti ne annoverò Varrone;1 e l'immenso lor numero
sempre più cresceva quanto più la superstizione gravava i di loro
animi. In una sola umana azione qual' era quella delle nozze, cre-
deano che concorresse tanto numero di dii e di dee, che se non si
fossero immaginati celesti, ma di corpo terreno, certamente che
non solo non avrebbero potuto capire nella camera nuziale, dove
invocati venivano ad assistere, ma in qualunque più ampio e spa-
zioso edificio. Nel parto e prima e doppo concorreva non inferior
numero di dii e di dee. Nell'infanzia prendevan cura del nato altri
numi; sicome altri nella puerizia, nell'adolescenza e nella gioventù
la dea Iuventa: finché condotto al sepolcro non lo lasciassero alla
discrezione e giudicio de' mani e degli dii infernali. Per una sola
voce udita o immaginata, « Gallos adventare », narra Livio nel quin-
to libro della I deca che Camillo in quel luogo dove fu intesa co-
strusse un tempio alla dea Locutio.2 I nomi di Giove Statore, di
Marte Gradivo vennero dallo stare e dall'andare degli esserciti,
sicome di Giove Elido dagli augùri che s'impetravan felici, e tanti
altri. Anche da' vizi o virtù degli uomini ne facevan nascere altri-
tanti dii e dee; quindi la dea Pudicizia, Clemenza, Concordia, Fe-
de, Speranza; la dea Mente, il dio Onore, Pavore, Pallore e tanti
altri. Da' morbi ancora, dalla peste, ed altri mali, che pavidi cer-
chiamo che sian da noi lontani, sursero nuovi dii e nuovi tempii
ed altari. Fino alla dea Febre fu, nel Palazzo, eretto in Roma un
tempio; ed un'ara alla Mala Fortuna; anche a' dii infernali, a' dii
mani per avergli pacati e benigni, affinché non gli nocessero.
Or presso i sapienti romani non si avean questi certamente per
veri numi; ma considerando la fragile umanità, la quale, memore
della sua debolezza, per riceverne sollievo gli divide in tante por-
zioni e ne forma tante deità perché sian preste a soccorrergli, com-
patiscono la miseria dell'umana natura; ma il volgo gli crede non
i. quanti — Varrone: nel De lingua latina, v, 57 sgg. z. Per una sola
Locutio: cfr. v, 32, 6 («che i Galli si avvicinavano») e v, 50, 5.
PARTE I • DISCORSO III 755
illusioni, ma gli reputa cose salde, dando corpo e propria sussisten-
za a chi mai non l'ebbe, la quale non è che nella nostra fantasia
ed immaginazione. Quindi i savi scrittori si studiano nelle loro
opere far sì che ciascuno possa ben comprendere ciò che sia il
favoloso, o il civile genere de' dii, e distinguerlo dal naturale e
filosofico, secondo il concetto che ne aveano i più saggi e dotti;
sicome ottimamente adempì Livio in questi suoi Annali; e questa
fu la cagione perché non ostante che scrivesse delle cose di Roma
cotanto pia e religiosa, favellasse con tanta franchezza e con sì
liberi sensi della religione romana; poiché a' suoi tempi moltissimi
avean liberati i loro animi da tante vane credenze e dall'infinito
numero di tanti dii e di tanti operosi riti e vane superstizioni; né
fu per ciò imputato miscredente, se con troppa libertà ne scrivesse.
A ciò si aggiunga, che scrivendo egli nell'aureo e felice secolo di
Augusto, «ubi sentire quae velis et quae sentias dicere licebat»,1 non
pure in cose di religione, ma in ogni altra azione politica e di stato
potè mostrare la stessa franchezza e libertà, sicome sarà più innanzi
avvertito.
il. Per ciò che riguarda la teologia civile.
Ma sicome quest'ammirabile scrittore non mancò a questa par-
te, così esattamente adempì l'altra di accurato e savio politico, adat-
tandosi alla civile religione de' Romani sicome dovea ogni onesto
e buon cittadino ; poiché non tralascia di rapportare molti successi
per li quali si dimostra che la civile religione a' principi sia assolu-
tamente necessaria, non solo per contenere i popoli in una tran-
quilla società civile, ma eziandio nelle spedizioni stesse militari,
e che sovente abbia più incoraggito gli animi de' soldati ad im-
prese difficili ed ardue la forza della religione che l'essempio, ov^
vero l'esortazioni o rimproveri de* più eloquenti e valorosi capitani.
Egli incominciando da Romolo, che fu il primo re e fondator di
Roma, rapporta che per contenere gli animi selvaggi e feroci della
promiscua moltitudine, con saggio tratto di fina politica si rivolse
in prima ad istillar loro il timore e la riverenza de' dii; e nel monte
Palatino, dov'egli era stato allevato, celebrò sacrifici a' dii Albani
ch'eran propri della regione, con rito albano; solamente sacrifi-
cando ad Ercole si valse di peregrino rito, ch'era greco; poiché
i. «ubi sentire . . . licebat*: cfr. Tacito, Hist.> i, i («quando era lecito pen-
sare come si voleva e dire ciò che si pensava»).
756 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
Evandro, il quale profugo dal Peloponneso, reggendo in que' se-
coli vetusti quelle contrade, avea con rito greco istituiti sacrifici in
quel monte ad Ercole, figliuolo di Giove, il quale ivi avea nella
spelonca ucciso Caco.1 Ne' più vetusti tempi i rettori de' popoli
erano principi insieme e sommi sacerdoti, ed aveano cura non
meno delle umane che delle divine cose; poiché, sicome si è avver-
tito, la loro religione non era indrizzata se non per la conservazione
dello stato terreno e mondano. Istituto praticato da' Greci e da
altre più vetuste nazioni: ond'è che presso Omero leggiamo che
Priamo, Agamennone, Ulisse, ed altri eroi de' loro tempi sacrifi-
cavano, essendo i medesimi e principi e sacerdoti. E di altri popoli
più antichi leggiamo pure presso Erodoto, Strabone, Diodoro, Plu-
tarco ed altri, che facevano lo stesso ; e Virgilio cantò pure che Anio
era insieme re e sacerdote di Apollo.3 Romolo, calcando le pedate
stesse, si rese per ciò a' suoi popoli venerabile, acquistandosi, per
l'onore che rendeva a' dii immortali, fama d'immortalità alla quale
i suoi Fati lo portavano. Quindi riportando al voler di Giove i
fortunati successi delle sconfitte che diede a' popoli vicini da lui
vinti, deponeva le spoglie de' nemici nel Campidoglio, dove desi-
gnò a Giove un tempio, perché fosse nell'avvenire fedel deposita-
rio di opime spoglie, che i suoi posteri, debellati i nemici, vi avreb-
bero dedicate.3 E fu tanta la sua cura d'istillare negli animi de'
suoi soldati questi concetti, che sovente nell'imprese pericolose,
dove mostravan di cedere, invocava Giove Statore che levasse la
paura a' Romani e fermasse la lor fuga; onde guerreggiando contro
i Sabini, i quali avean posti in fuga i Romani, doppo aver fatta a
Giove una tal preghiera, finse di averla quel sommo dio intesa e die-
de a sentire a' soldati che Giove l'avesse risposto e commandato di
reiterare la pugna; sicché i Romani riputando la voce di Romolo
comando celeste, ripigliarono con tanto ardore la pugna che final-
mente sconfissero rinimico ed uscirono dalla battaglia vincitori.4
Né presso i più saggi e gran capitani fu cosa con tanta maggior cura
e studio procurata, che questa d'incoraggire i soldati, con fargli
credere presente l'aiuto de' dii, i quali con essi militavano e gli
promettevano certa vittoria; di che non men nell'antiche che mo-
derne istorie occorrono moltissimi esempi.
i. celebrò . . . Caco: cfr. i, 7, 3-15. 2. e Virgilio . . . Apollo: cfr. Aen.t ni,
80. 3. Quindi . . . dedicate: cfr. Livio, 1, io, 5-6. 4. invocava . . . vincitori:
cfr. i, 12, 4-9.
PARTE I - DISCORSO III 757
Queste cose, sicome l'estremo suo valor militare, non altamente
che si credette di Ercole, fecero riputare che veramente Romolo
fosse di origine divina e che doppo la sua morte fosse molto più
creduta la sua divinità. Quindi fu data facile credenza a* padri che
l'uccisero i quali, presa l'opportunità del fragore ed oscurità di
quella impetuosa procella, occultando gli stracci del lacerato suo
corpo, divolgarono alla plebe che Romolo fosse stato rapito in cielo
e tolto al cospetto de' mortali ; onde avvenne che, da pochi prima
dato principio, cominciaron poi tutti ad invocarlo «dio nato da
dio, re e padre della città di Roma»,1 e ad implorare con calde pre-
ghiere il suo aiuto e patrocinio e che fosse sempre propizio alla sua
progenie. E Livio come cosa stupenda narra ch'erano cotanto gli
animi oppressi di questa vana religione, che fu data facile credenza
al detto di un solo uomo, il quale fintasi un'apparizione gli animò
a sustituire in luogo di Romolo un altro re, e non lasciar cadere la
potestà regia in mano de' padri, i quali per ciò abbonivano che se
gli fosse dato successore. Questi fu Proculo Giulio, il quale ve-
dendo la moltitudine presa di desiderio e sollecita di avere un re,
ed avversa a' padri che non lo volevano, mentr'era il popolo ragù-
nato, si fece in mezzo e con alta voce gli disse: «Quiriti, Romolo
padre di questa città nell'apparir dell'alba di repente calato dal
cielo mi si fece incontro. Io sorpreso di orrore, essendomi con ogni
riverenza a lui avvicinato, con umili preghiere gli cercai che, se era
lecito, a me si manifestasse. Allora egli mi disse: "Va, annunzia a*
Romani esser volere de* celesti dii che la mia Roma sia capo del-
l'universo orbe. Per ciò che abbiano cura delle cose militari, e le
sappiano, e così le tramandino a' posteri; poiché niuna forza umana
potrà resistere alle armi romane": e dette queste parole se ne volò
in alto e mi sparve».2 Dice Livio che fu cosa maravigliosa quanta
fede a quest'uomo fosse data e quanto desiderio di Romolo si fosse
svegliato nella plebe, la quale, credendolo, sicome mitigò il dolore
della perdita, così si rese più certa della di lui immortalità;3 ed al
numero de' dii Albani si accrebbe quest'altro nuovo dio, che chia-
marono « Quirino » per meglio conciliarsi gli animi de' Sabini, pren-
dendo da essi il nome, non già dagli Albani o da' Latini, e poiché
lo credevano nato da una vergine Vestale per opra d'un dio che
i. *dh nato . . . Roma»: Livio, I, 16, 3: «deum deo natum, regem paren-
temque urbis romanae salvere universi Romulum iubent ». 2. Queste co-
se . . . sparve: cfr. i, 16, 1-7. 3. Dice Livio . . . immortalità: cfr. 1, 16, 8.
758 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
la compresse, perciò l'invocavano « deum deo natum » ; e credutolo
rapito ed asceso in cielo, riposto fra gli altri dii immortali, quindi
eran persuasi che prendesse speziai cura delle cose romane e del-
l'ingrandimento della loro repubblica da' celesti dii presaggito.
Da questo principio di religione erano i Romani incoraggiti ad
imprese difficili ed ardue, che gli diede tanto vigore sicché pote-
rono abbattere le forze de' loro vicini popoli, e stender poi le adulte
e vigorose braccia ad altre più lontane e remote regioni. Questo
impulso di religione, questi divini presaggi e questi creduti augùri
gli resero animosi, forti e costanti non meno nelle prospere che
nell'avverse fortune. Ma Romolo, come più guerriero che intento
alle cose civili, si valse solo della religione per animare i suoi soldati
nelle militari spedizioni. Egli è però vero che non trascurò il de-
coro e dignità dell'imperio. Egli doppo aver resa venerabile la sua
persona con regali insegne ed abiti distinti e con comitiva di dodici
littori, per farla apparire più augusta elesse trecento armati per la
custodia del suo corpo non meno nella guerra che nella pace. Insti-
tuì per le cose civili il Senato composto di cento padri : diede quelle
leggi alla moltitudine che fossero più acconcie all'agreste lor vita
ed a' guerrieri lor costumi: aprì l'asilo per accrescerla: procurò
connubi co' popoli vicini per renderla perpetua: divise il popolo
in trenta curie, ed istituì tre centurie di cavalieri;1 nulla di manco
lo scuopo principale era per la milizia; e per ciò Proculo Giulio
nella di lui apparizione finse che non raccomandasse altro a' Ro-
mani che la cura delle cose militari e lor perizia. Questa parte del
governo civile, e di far entrare la religione non solo nella guerra,
ma eziandio nella pace ed in tutti gli affari civili, e di mescolare i
dii in tutte le pubbliche o private umane facende fu riserbata al suo
successore Numa Pompilio* il quale l'adempì così esattamente,
quanto sarà esposto nel seguente discorso.
in
Intanto è da riguardare che Livio la stessa franchezza mostrò
in tutto il corso della sua istoria, eziandio nelle azioni politiche e
militari; e quel che merita maggior commendazione si è che scri-
i. Egli doppo aver . . . cavalieri: per tutte queste istituzioni cfr. rispettiva-
mente, sempre del i libro di Livio, i capitoli 8, 3; 15, 8; 8, 7; 8, 6; 9, 1-2
e 13, 6 e 8. 2. Questa parte . . . Pompilio: cfr. 1, 19-21.
PARTE I • DISCORSO III 759
vendo a* tempi di Augusto, da cui era cotanto favorito, con tutto ciò
trattando delle guerre civili fra Cesare e Pompeio, né il favor di
Augusto, né vinto da timore lo fece traviar dal vero; e con som-
ma sincerità non meno che franchezza prendendo le parti di Pom-
peo, niente occultò delle sue lodi e virtù, e della giustizia delle sue
armi, ch'erano drizzate per la libertà della repubblica: talché Au-
gusto, senza per ciò alienarlo dalla sua amicizia e familiarità, solea
chiamarlo «pompeiano»: onde sicome da ciò rilusse non meno la
sincerità di Livio, che la magnanimità di Augusto, così rimane in-
fame la memoria di Tiberio, il quale essendo sol per adozione
congiunto nella famiglia di Giulio Cesare, quando Ottavio vi era
per sangue, volle prender severa e grave ammenda di Cremuzio
Cordo, sol perché questi ne' suoi Annali avea lodato M. Bruto e
C. Cassio. Narra C. Tacito nel libro quarto de' suoi Annali, ftz le
altre crudeltà di Tiberio, di aver fatto accusare Cremuzio d'un
nuovo e la prima volta inteso delitto, cioè di aver lodato Bruto e
Cassio; il qual successo meglio sarà rapportarlo colle sue parole:
« Cornelio Cosso, Asinio Agrippa Coss., » e' dice « Cremutius Cor-
dus postulatur, novo ac tum primum audito crimine, quod editis
annalibus, laudatoque M. Bruto, C. Cassium Romanorum ulti-
mum dixisset».1 Fu obbligato per ciò il misero Cremuzio, per
isfuggire le crudeltà di Tiberio, dar a se stesso volontaria morte;
ma prima volle difendersi nel Senato, e recitò quella elegante ora-
zione da Tacito rapportata, nella quale fra gli altri essempi recati
in sua difesa rammenta la franchezza di Livio, dicendo: «Verba
mea, P. C, arguuntur: adeo factorum innocens sum . . . Titus Li-
vius eloquentiae ac fìdei praeclarus in primis Cn. Pompeium tantis
laudibus tulit, ut pompeianum eum Augusrus appellaret; nequeid
amicitiae eorum offecit ».2 E finita l'orazione, « egressus dein Senatu,
vitam abstinentia finivit. Libros per aediles cremandos censuere
patres, sed manserunt occultati et editi ».3 Non tralascia C. Tacito
i. Narra . . . dixisset: cfr. Ann., iv, xxxiv, i («Sotto il consolato di Cornelio
Cosso e di Asinio Agrippa, Cremuzio Cordo venne processato per un crimi-
ne nuovo e fino allora sconosciuto : aveva pubblicato degli annali, dove lo-
dava M. Bruto e chiamava C. Cassio l'ultimo dei Romani»), 2. «Verba
mea . . . offeriti*'. Tacito, Ann., iv, xxxiv, 4 e 6 («Sono delle mie parole
che vengon poste sotto accusa: tanto sono innocente per le mie azioni! . . .
Tito Livio, tra i primi per eloquenza e sincerità, ha esaltato Gneo Pompeo
con tanti elogi che Augusto lo chiamava pompeiano, senza che ciò pregiu-
dicasse alla loro amicizia»). 3. « egressus . . . editi»: ivi, iv, xxxv, 5 («Poi
uscì dal Senato e mise fine alla sua vita astenendosi dal nutrirsi. I senatori
760 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
vituperare maniere sì barbare ed inumane, le quali sovente hanno
contrario effetto di quel che si propongono simili tiranni, soggiun-
gendo queste non men savie che vere riflessioni : « Quo magis se-
cordiam eorum inridere libet, qui praesenti potentia credunt extin-
gui posse etiam sequentis aevi memoriam. Nam contra, punitis
ingeniis gliscit autoritas ; neque aliud externi reges, aut qui eadem
sevitia usi sunt, nisi dedecus sibi, atque illis gloriam peperere».1
Ne' felici tempi di Augusto, né perché Livio della religione ro-
mana scrivesse con tanta licenza, né perché pigliasse le parti di
Pompeo contro Cesare, fu imputato 0 di miscredente ovvero d'in-
giurioso alla maestà di Ottavio ; anzi questi come principe giusto e
magnanimo l'ebbe in somma stima e conservò nell'antica sua gra-
zia. Il carattere ch'egli avea assunto d'istorico lo rendeva rispette-
vole a tutti gli uomini dotti e probi, i quali ben sanno che l'istorico
dee seguitare unicamente la traccia del vero, senza pendere a de-
stra o a sinistra, senza moversi da odio o da amore o da qualunque
altra umana passione: le cose dee narrarle nel loro puro, sincero e
naturai essere; né altro dover esser il principal suo scuopo se non
la ricerca della verità, e così nuda esporla a' lettori, sicome doppo
lunghe vigilie, sudori e fatiche, si era tratta fuori da monumenti
antichi e da sinceri ed incorrotti e fedeli autori. Questa fu la cura
ed il sommo studio che in tutto il corso di sua vita pose Livio in
questa immortale sua opera; non isgomentandosi di dover navi-
gare per un mare sì ampio e procelloso. Gli riuscì avventurosa-
mente di vedersi in porto, e terminare con immortai sua gloria
un'istoria del maggior imperio che siasi veduto sopra la terra, e
quando si vide il genere umano innalzato cotanto che né prima fu,
né doppo sarà veduto in maggior altezza ed in uno stato sì florido
ed eminente ; e tanto fu lontano da sì maligne imputazioni che al
contrario fin dall'ultime e remote parti del mondo venivano i dotti
in Roma a vederlo; tanto che a lui avvenne ciò che di pochi è
scritto, che sopravivesse alla gloria dell'immortal suo nome.
Fu cosa avvertita da molti savi e dotti scrittori, sicome l'espe-
ordinarono agli edili di bruciare i suoi libri, che però si salvarono, prima
nascosti e poi pubblicati »). 1. a Quo magis peperere » : ivi, iv, xxxv, 6-7
(« Onde si può maggiormente deridere la stupidità di coloro che credono,
con la loro forza attuale, di poter spegnere il ricordo anche nella generazio-
ne che segue. Al contrario à genio, se lo si punisce, cresce d'autorità, e né
i re stranieri né coloro che hanno usato della loro stessa sevizia, hanno
ottenuto altro che disonore per sé e gloria per quello»).
PARTE I • DISCORSO III 761
rienza negli rese accorti, che sicome sotto principi giusti, magna-
nimi e clementi, gli scrittori furon sempre sicuri da livida maledi-
cenza ed invidioso dente, così sotto i crudeli e tiranni si videro
sempre esposti alle altrui false accuse e maligne detrazioni. Sotto
Augusto furon così sicuri che per ciò il suo secolo fu detto aureo
e felice, che produsse tanti grandi e maravigliosi ingegni. Giravano
a' suoi tempi per le mani degli uomini le epistole di Antonio, le
concioni di Bruto, i carmi di Bibaculo e di Catullo ne' quali non
erano risparmiati gli stessi Cesari ; e pure soggiunge Tacito in per-
sona di Cremuzio : « Ipse divus Iulius, ipse divus Augustus et tulit
ista, et reliquere : haut facile dixerim, moderatione magis, an sapien-
tia; namque spreta exolescunt: si irascare adgnita videntur».1 Sotto
grimperatori Vespasiano e Tito suo figliuolo, principi cotanto be-
nigni ed amabili che di Tito fu detto che fosse la delizia dell'uman
genere, cessate le crudeltà e simulazioni di Tiberio, ed i disordini
sotto Caligola e Claudio, cessate le tirannidi e crudeltà di Nerone,
e le confusioni sotto Galba, Ottone e Vitellio, sotto questi due Ve-
spasiani cominciarono a rifiorire gl'ingegni e si tornò quasi all'aureo
secolo di Augusto. Gli scrittori non erano oppressi e gravati da
dura servitù. Ciascuno potea con franchezza seguire la traccia del
vero ; e pur che da' loro scritti fosse lontana la falsità e la calunnia,
potevan francamente esporre i loro liberi sensi. Plinio il Vecchio
sotto questi Vespasiani, de' quali fu in tanta stima, compose i
trentasette libri della sua Istoria di natura e gli dedicò a Tito, pre-
sentandogli un'opera cotanto diffusa, laboriosa, erudita e varia
quanto è la natura stessa. E pure, ancorché dedicata e presentata a
Cesare e data fuori alla luce ed al cospetto di tutto il mondo gi-
rasse per le mani di ogn'uno, non si ritenne Plinio2 nella medesima
ài esporre francamente ciocch'egli sentiva della divina natura, che
non fosse altra che tutto l'ampio universo; che non vi fosse altro
Dio, ma che l'unico e solo nume non fosse altro che la natura
istessa; deridendo non pure il prodigioso numero di tanti dii così
1. Giravano videntur: cfr. ibid., rv, xxxiv, io («Lo stesso divo Giulio,
lo stesso divo Augusto sopportarono ciò e lo lasciaron correre, se per mo-
derazione o piuttosto per saggezza, non saprei dire. Non tenendone conto,
infatti, son cose che passano dimenticate; irritarsene invece, significa che
sono rimproveri meritati »). 2. non si ritenne Plinio ecc. : tutto il brano che
segue riecheggia V Adeisidaemon del Toland e fa riferimento agli stessi
brani di Plinio citati dall'inglese. Cfr. infatti Adeisidaemon, cit., paragrafo
li, p. 2. Sull'ateismo di Plinio, cfr. J. Fayus, Defensio ecc., cit., p. 102 e
ancora p. 130.
762 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
celesti come infernali e la credulità del volgo semplice ed ignaro;
ma apertamente negando nelle cose umane ogni divina provvi-
denza, scrivendo nel cap. 7 del 11 libro e ripetendolo sovente in
tutto il corso dell'Istoria: «irridendum vero agere curam rerum
humanarum illud quidquid est summum».1 Inoltre al cap. 55 del
vii libro chiama puerili deliri, dementia e sciocchezza promettersi
doppo la presente altra vita, e che la morte ci riduca in quello stato
nel quale eravamo prima di nascere, tuffandoci in un tenebroso e
perpetuo sonno.2 Ma questi arditi e temerari trasporti non oscu-
rarono la sua fama, né contaminarono la sua Istoria, la quale per
l'immensa erudizione e dottrina non solo fu gradita da Tito, ma
corse luminosa per tutti i secoli e nazioni, e pervenne a noi tutta
intera, sottratta dall'ingiurie degli uomini e del tempo; ed il suo
autore meritò da S. Agostino nel cap. 9 del xv libro della Città di
Dio3 esser nominato coll'elogio d'ccuomo dottissimo». Quindi l'ac-
curatissimo C. Tacito avvertì la sicura marca che qualifica i prin-
cipi per saggi e magnanimi esser la moderazione e sapienza di tole-
rare ne* scrittori qualche trasporto d'ingegno, ed esser lontani di
porgli freno con premergli d'una misera servitù: questo rendere i
loro domini felici e fertili di uomini dotti ed insigni: e per ciò egli
aveasi nella sua vecchiaia riserbato di scrivere del principato di due
sapientissimi imperatori, di Nerva e di Traiano : « rara temporum
felicitate,» e' soggiunge «ubi sentire quae velis, et quae sentias
dicere licet».4
discorso xiii ed ultimo
De* mani e sepolture de' Romani.
Il savio re Numa Pompilio, re insieme e sommo sacerdote de'
Romani, avendo da' padri eletto un pontefice al quale commise la
cura delle cose sacre, dandogli minute istruzioni come dovesse
regolarle affinché ne potesse istruire il popolo, fra gli altri culti
religiosi e sacre cerimonie gli prescrisse ancora quali dovessero
1. «irridendum . . . summum»-. cfr., dell'edizione a cura di Jean Hardouin,
Parisiis 1723, in tre tomi, I, pp. 71 sgg. («va certo irrisa l'opinione che
quel sommo, qualunque sia, si prenda pensiero delle cose umane»).
2. Inoltre . . . sonno: cfr. ed. cit., tomo 1, pp. 4x0-11. 3. nel cap. 9 . . .
Dio : in Migne, P. L., xli, col. 448 : «Plinius Secundus, doctissimus homo ».
4. e per ciò egli . . . licet : cfr. la nota a p. 755.
PARTE I • DISCORSO XIII 763
essere i legittimi riti da adoperarsi nel seppelire i morti e nelle fu-
nebri e luttuose pompe, e ciò per placare i dii mani;1 poiché avea
dato lor a credere che fin a tanto che i cadaveri de' morti non fos-
sero ritamente seppeliti, o pure le ossa rimanessero esposte sopra
la nuda terra ad esser mosse dal vento e bagnate dalla pioggia,
le ombre de' morti non aveano mai pace e riposo e che vagassero
di qua e di là querule e dolenti. A questa vana credenza si aggiun-
sero delle altre, come suole avvenire una volta che gli animi sono
presi da superstizione : che non pure, insepolti i loro corpi, andas-
ser vagabonde, ma se morti invendicati de' torti fattigli in vita non
si espiasse per loro, o prendesse vendetta, non avrebbero mai posa e
quiete, che perciò solevano apparire a' congionti ed amici la notte
mentr'erano in quiete, 0 pure anche di giorno, vigilando. Ed em-
pite le fantasie del volgo di queste immaginazioni, resi da ciò pavidi
e timorosi, il timore stesso sovente facevagli vedere cose invisibili,
e sentir gemiti, lamenti o romori, che non aveano altro sostegno
che la depravata e corrotta lor fantasia. E poiché gli uomini sono
pur troppo avidi di narrare, ovvero di udire cose portentose e
strane, con piacere si raccontano e si sentono, e con pari credulità
se gli presta intera fede, dandosi sovente alle ombre ed alle nostre
vane immaginazioni corpo fisico e reale che giammai non ebbero.
Gli uomini seri e sgombri da tali pregiudici ed i profondi filosofi
se ne burlaron sempre, e lasciavano queste larve al volgo ed a'
fecondi poeti, affinché a lor posta più splendidamente e con maggior
maraviglia e stupore potesser tessere lor favole.
Nel secolo di Augusto, quando i libri della Natura delle cose di
Tito Lucrezio Caro avean fatto in Roma meravigliosi progressi,
eran tutti i savi e dotti ricreduti esser queste fole e ciancie; e Li-
vio, che scrisse l'incomparabile sua istoria in questo secolo già reso
più illuminato e culto, se bene non manca di rapportare ciò che ne*
tempi incolti e ruvidi scrissero gli antichi Romani de' mani, non
tralascia però con somma accortezza e grazia palesar il concetto
che ne avea, sicome fecero gli altri scrittori de* suoi tempi. E rap-
portando nel libro terzo della 1 deca2 il tragico successo di Virginia,
la quale fu uccisa dal dolente padre che non ebbe altra maniera
per iscamparla dalla servitù e dall'imminente infame stupro di
Appio Claudio decemviro, narra che discacciati per ciò da Roma
1. Il savio re . . . mani: cfr. Livio, I, 20, 5-7. 2. nel libro . . . deca: in,
44 sgg.
764 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
i decemviri fu presa dell'indegno attentato di Appio, de' ministri
che avea disposti per conseguirlo e de* suoi colleghi, intera ven-
detta e meritato castigo. Appio per sottrarsi dall'imminente sup-
plicio diede a se medesimo morte. Sp. Oppio suo collega avanti il
giorno destinato al giudicio parimente nelle carceri finì sua vita,
e così i beni di Claudio come quelli di Oppio furono pubblicati;
gli altri colleghi furon mandati in perpetuo esilio ed i loro beni
parimente pubblicati, e M. Claudio, colui che per compiacere ad
Appio chiamò in servitù Virginia per sacrificarla alla di lui libidine,
essendo stato condennato, avendogli Virginio padre della vergine
rimessa l'ultima pena, partì da Roma e gissene altrove in esilio.
Livio, doppo avere tutto ciò narrato, termina graziosamente il suo
racconto, e come per ischerzo imitando i poeti, dice che i mani di
Virginia, più felici doppo morta che viva, essendo vagati per tante
case e non avendo lasciato alcuno impunito, finalmente si quieta-
rono, così accortamente deridendo la volgare credenza della molti-
tudine sciocca ed imperita: «Manesque Virginiae, mortuae quam
vivae feliciores, per tot domos ad petendas poenas vagati, nullo
relieto sonte, tandem quieverunt».1
Questo medesimo scrittore nel libro ottavo della 1 deca,2 raccon-
tando le fiere contese di Lucio Annio pretore de' Latini e di T.
Manlio console de' Romani, le quali furon cagione della guerra
che si accese fra questi due popoli, fra le molte illusioni de' Ro-
mani d'immaginarsi più cose atte a far credere che i dii fossero
dalla lor parte contro a' Latini, rapporta che i consoli romani, in-
vasi da vane religioni raccontavano che una notte, mentr' erano in
quiete, gli fosse comparsa un'ombra 0 fantasima che rappresentava
la figura d'un uomo più augusta e grande dell'altre umane forme,
dalla quale fossero uscite queste voci: «Ex una acie imperatorem,
ex altera exercitum diis manibus Matrique Terrae deberi; utrius
exercitus imperator legiones hostium superque eas se devovisset,
eius populi partisque victoriam fore».3 Queste notturne visioni
bastarono, che, fatti chiamare l'aruspici, questi secondando, co-
m'era la lor furberia, al genio de' consoli, dissero che avendo fatti lor
1. ((Manesque . . . qtdeverunU: in, 58, 11. 2. nel libro . . . deca: vili, 4-6.
3. «Ex una acie . . .fore*: vili, 6, io («che una schiera era debitrice agli
dei mani e alla Madre Terra del suo comandante, l'altra dell'intero eser-
cito; che la vittoria sarebbe stata di quel popolo e di quella parte, il cui
comandante supremo avesse offerto in olocausto le truppe nemiche e inol-
tre se stesso»).
PARTE I • DISCORSO XIII 765
vaticini, concordavano colle visioni avute, sicché: «ubi responsa
aruspicum» dice Livio «insidenti iam animo tacitae religioni con-
gruebant»,1 date fra lor le sorti, uno de' consoli per salvar Tesser-
ato romano se stesso immolò, ed entrato in mezzo alTessercito
nemico si fece trucidare, perché i dii mani e la Madre Terra, sod-
disfatti dalla parte de' Romani colla perdita del capitano, dovesser
poi soddisfarsi dalla parte de* Latini colla perdita e total destru-
zione del loro essercito. Queste che non erano se non illusioni, so-
gni, ombre e cose vane, ebbero un tempo presso i Romani gravati
di religione tanto vigore e forza che, sprezzando ogni pericolo, gli
facevan correre fino a ricever con piacere certa ed indubbitata
morte.
E se bene, come si è detto, nel secolo di Augusto, doppo che in
Roma fu introdotta una più solida e seria filosofia, si fosser gli
animi liberati da tante superstizioni e da sì vani pronostici ed illu-
sioni, nulladimanco per gli antichi pregiudici pur rimase presso
alcuni in dubbio, se tali ombre o fantasime avessero propria figura
e sussistenza sicché fosse in loro qualche nume, ovvero fossero
idoli vani senza soggetto, e cose all'intutto vote ed inani e che tutta
la loro apparenza dipendesse dal timore e dalla nostra viziata fan-
tasia. I profondi e seri filosofi tosto decidevan il dubbio, che fosser
nostre illusioni e panici timori, e Plinio il Vecchio n'era abbastanza
persuaso. Ma Plinio il Giovane, che non era, sicome il zio, a fondo
instrutto di solida filosofia, non solo ne dubbitava, ma nella sua ep.
27 del vii libro mostra inclinare nell'opinione del volgo che le
crede essere qualche cosa; ne scrive per ciò a Sura suo amico, il qua-
le come filosofo lo risolvesse di questo dubbio, ed affinché volendo
convincerlo del contrario lo facesse con forti argomenti, sicché non
avesse più luogo da dubitare, gli scrive le ragioni per le quali egli
era indotto ad una tal credenza, pronto ad abbandonarla se fossero
risolute con chiare ed efficaci risposte. Non sappiamo ciò che Sura
l'avesse risposto; ma le ragioni che adduce non sono da filosofo,
ma tratte da favolosi racconti e vane dicerie del volgo, alle quali
egli, come pur troppo credulo, dava intera fede. Narra essergli
state riferite due visioni ch'ebbe Curzio Rufo in Affrica, d'una
donna che gli comparve più grande e bella delle comunali, la quale
1. tubi responsa . . . congruebant»: vili, 6, 12 («poiché il responso degli
aruspici s'accordò con il tacito timore già padrone dell'animo ...»).
766 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
profetò di lui più cose che tutte poi si avverarono, sicome anche
Tacito l'accenna nel libro XI de' suoi Annali.1 Ma ciò che a Plinio
faceva più forza era di aver data facile credenza ad un'istorietta
che gli fu raccontata d'un fatto accaduto in Atene, nella quale vi
mescolavano un filosofo perché maggiormente la favola si ren-
desse credibile. Narra che in Atene un'ampia e spaziosa casa era
rimasta disabitata e vota a cagion che nel silenzio della notte si
sentivano imprima suoni di ferri, poi strepiti di catene, ed in fine
appariva una fantasima rappresentante un vecchio tutto emaciato e
squallido con barba lunga ed orridi capelli, il quale avea ceppi nelle
gambe e nelle mani catene, le quali scosse davan quel suono. Ab-
bandonata adunque la casa di abitatori, il padrone come meglio
poteva cercava di venderla o affittarla, e perché più aggevolmente
trovasse oblatori, pose in quella cartelloni ne' quali eran invitati
alla compra o all'affitto per un prezzo assai tenue e basso. Per sorte
capitò in Atene un filosofo chiamato Artemidoro, il quale ignaro
del vizio, leggendogli, si pose in sospetto per la viltà del prezzo,
e dimandò che ciò si fosse; ed informato del tutto, tanto maggior-
mente s'indusse ad affittarla per andarvi ad abitare, deridendo la
simplicità del volgo timido ed ignaro. Andò dunque con franchezza
ad abitarvi e perché non si distraesse col pensiero alle cose narra-
tegli, la sera fecesi portare il lume e gli altri stromenti per comporre
e con tutta attenzione si pose a scrivere, tenendo la mente, gli
occhi, le mani e tutti i sensi fissi ed intenti alla scrittura; ma ecco,
che nel silenzio della notte cominciò a sentire i suoni de' ferri e
poi il rumore delle catene, ed egli fisso nel lavoro prosiegue senz'al-
zar occhi né mover capo; ma sempre più il rumore crescendo ed
avvicinandosi la larva, vide nel hmitare della stanza il vecchio,
secondo ch'eragli stato descritto, il quale stando in piedi gli faceva
col dito segno come d'uom che chiama; il filosofo intrepido fecegli
ancor egli colla mano segno che aspettasse, e prosiegue a scrivere,
né si mosse; ma il vecchio avvicinatosi più cominciò a scuotergli
le catene sopra il capo con fargli segno che con lui venisse; allora
Artemidoro si alzò, prese il lume ed accennò di volerlo seguitare.
Andava il vecchio innanzi gravato di catene a lenti passi, ed uscito
dalla stanza nell'area della casa di repente profondò sotto terra,
né più si vide, lasciando il segno del fosso ov'era caduto. Il filosofo
i. sicome . . . Annali: cfr. xi, xxi, 2.
PARTE I • DISCORSO XIII 767
il giorno seguente, avendo riferito al magistrato il successo, do-
mandò che avessero fatto scavare nel luogo ov'era profondato, si-
come fu fatto ; e nello scavare si trovarono alcune ossa avviluppate
con catene, onde fu dato indizio che il corpo di colui dal tempo e
dalla terra putrefatto avea sol lasciato Tossa colle catene delle quali
forse era stato avvinto. Furono per ciò in presenza del magistrato
con diligenza raccolte le ossa e ritamente fatte sepelire; e d'allora
in poi, dice Plinio « domus postea, rite conditis manibus caruit. Et
haec quidem affirmantibus credo ».z Chi non conosce che la favola
si fosse tessuta per maggiormente confermare la vana credenza
che si avea allora de' morti insepolti, le ombre de' quali andasser
vagando e disperse fin che non fossero ritamente sepelliti ed aves-
sero quindi riposo e quiete ? Stando gli uomini preoccupati da que-
sti pregiudizi, sicome mostra esservi stato Plinio, era cosa molto
facile che avesser data credenza a questa e simili altre ciance e
fole. Quel che poi soggiunge nella medesima lettera come testimo-
nio di veduta, di essersi trovati recisi i capelli a Marco suo liberto
e ad un altro fanciullo, i quali affermavano che dormendo l'erano
apparse fantasime, le quali sedute alla sponda del letto colle forbici
alle mani gliele avesser recisi, la sua testimonianza sarà vera d'aver
veduto i capegli recisi, ma chi gliele tagliò non fu certamente om-
bra vana o fantasima, ma mano fisica e reale d'un qualche tristo
che volle o per gioco o per obbrobrio prendersene sollazzo o ven-
detta. Meglio adunque avrebbe fatto se in ciò avesse seguitato la
dottrina del zio, il quale non ebbe dubbio alcuno che fossero vane
nostre illusioni e che non avessero altro sostegno che la vana no-
stra immaginazione e sciocca credenza, sicome in più luoghi del-
la sua Istoria naturale manifesta e spezialmente nel cap. 55 del
vii libro.3
Innumerabili sono i racconti del volgo semplice di aver veduto
spettri, fantasime ed ombre, ed udito strepiti, suoni e lamenti, i
quali non sono, come saviamente dice Livio, che «ludibria oculo-
rum auriumque eredita prò veris ».3 Alessandro di Alessandro nostro
napolitano, infra gli altri, ne rapporta moltissimi ne' suoi Giorni
1. a domus . . . credo»: Epist., vii, xxvn, 11 -z («la casa in seguito non fu più
visitata dai mani, finalmente seppelliti secondo il rito. E ciò invero credo
sull'affermazione altrui »). Ma nella minuta, come anche nel testo di Plinio,
il filosofo è Atenodoro di Tarso, stoico. 2. e spezialmente . . . libro : cfr.
Nat. hist., ed. cit., tomo I, pp. 410- 1. 3. «ludibria . . . verismi xxiv, 44, 8
(«abbagli della vista e dell'udito presi per veri»).
768 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
geniali? e se bene ne' seguenti secoli più culti ed illuminati si
fosser molti ricreduti essere tutte fole e ciance, con tutto ciò, poiché
nel mondo il numero degli sciocchi è infinito, non si è potuto da
pochi far argine ad un sì ampio ed impetuoso fiume. Gli antichi
Romani ne furon presi ed illusi, poiché Numa Pompilio loro pro-
pose questa credenza come un punto di religione, e fra gli altri
religiosi riti volle che per placare i dii mani bisognava nel seppelire
i loro morti e nelle pompe funebri si adoperassero solenni riti e
cerimonie, non altrimenti che si faceva nel culto de' dii per placare
la celeste lor ira ed avergli propizi; ed a' sacerdoti, che da Numa
furon instituiti per amministrare, ed istruire il popolo, le cose sa-
cre, furon date anche istruzioni per i funebri riti. Quindi i sepolcri,
anzi il suolo istesso ov'eran fabricati erano riputati luoghi religiosi,
ed il violargli era sacrilegio, e sacrilegi eran riputati coloro i quali
rubassero o i marmi ond'eran costrutti 0 le statue e gli altri orna-
menti, e molto più se ardissero estrarne i corpi 0 involarne le ossa
e le ceneri; contro i quali severissime pene furono stabilite, delle
quali l'imperador Giustiniano ce ne lasciò nelle sue Pandette sotto
il titolo de sepulcro violato più vestigi. Anzi i padroni stessi nem-
meno ardivano senza permesso del Senato o del collegio de' ponte-
fici trasportarle da un luogo ad un altro; ed a' tempi di Plinio si
ricorreva a gPimperadori come pontefici massimi, per impetrarne
licenza, sicom'egli amministrando con potestà proconsulare Bitinia
e Ponto, richiesto da alcuni provinciali, li quali per giuste cause
desideravano trasportare le ossa de' loro defonti in altro luogo, ne
scrisse all'imperadore Traiano per ottenerne permissione: «quia
sciebam (sicome leggesi nelTep. 73 del x libro) in urbe nostra ex
eiusmodi causis collegium pontificum adiri solere, te, domine, ma-
ximum pontifìcem consulendum putavi, quid observare me velis ».2
Al che Traiano rispose, esser cosa molto dura obbligare i provin-
ciali di ricorrere infino a Roma al collegio de* pontefici per impe-
trarne licenza, ma ch'egli concorrendovi giuste cause potesse per-
metterlo. «Durum est» sono le savie parole di Traiano «iniungere
necessitatem provincialibus pontificum adeundorum, si reliquias
1. Alessandro . . . geniali: cfr. Genialium dierum libri sex . . ., Parisiis 1532.
Alessandro d'Alessandro (1461-1523), giurista napoletano, fu uno degli
esponenti della giurisprudenza «eulta». 2. « quia . . . velis»: cfr. Epist., x,
lxxiii (altri Lxvin ; «poiché so che nella nostra città per motivi consimili si
suole ricorrere al collegio dei pontefici, ho ritenuto, o signore, di dover
consultare te pontefice massimo, su ciò cui devo attenermi»).
PARTE I • DISCORSO XIII 769
suorum propter aliquas iustas causas transferre ex loco in alium
locum velint. Sequenda ergo potius tibi exempla sunt eorum qui
isti provinciae praefuerunt, et ex causa cuique ita aut permitten-
dum aut negandum».1 Tanta scrupolosità non dipendeva da altro,
se non da quella vana credenza che le ombre de' morti con trasfe-
rire o in altra maniera smovere o violare le loro ossa o i loro sepol-
cri, venissero a perdere la lor quiete, e non lasciandole in riposo
fosser obbligate di vagare di qua e di là raminghe e dolenti. Questa
credenza o Numa per proprio instinto l'introdusse, ovvero da pere-
grina religione i Romani l'appresero. Certamente che presso i Gre-
ci era ancor tenuta e da tutti abbracciata, ed i Greci dagli Egizi
l'appresero, i quali, secondo che ce ne rende testimonianza Diodoro
Siciliano,2 per la gran cura e superstizione che aveano in seppelire
i loro morti, diedero occasione a' Greci favolosi, se non d'imitargli
nel condire i cadaveri, di vaneggiar cotanto sopra i dii infernali,
sopra gli spettri, fantasime ed ombre de' defonti. Livio stesso nel
libro primo della rv deca,3 doppo aver narrato le crudeltà, gl'incendi
e le mine che Filippo re di Macedonia fece ne' contorni di Atene,
abbattendo i tempii e le statue de' dii e minando i sepolcri de'
morti, non lasciandovi pietra sopra pietra, dice che nel concilio
degli Etoli i legati ateniesi non tralasciarono rinfacciare a' Macedoni
questa empietà ed inudita barbarie di Filippo, il quale prima avea
mossa guerra a' dii infernali, minando tutti i sepolcri e monumenti,
lasciando denudati i mani e le ossa scoverte sopra la nuda terra, e
poi imperversato anche contro i dii celesti, rovesciando tutti i loro
tempii, spezzando i loro simulacri e mettendo a ferro ed a fuoco
tutto il rimanente: «adeo omnia» essi dicevano «simul divina hu-
manaque iura polluerit, ut priore populatione cum infernis diis,
secunda cum superis bellum nefarium gesserit: omnia sepulchra
monumentaque diruta esse in finibus suis, omniumque nudatos
manes, nullius ossa terra tegi». Riputavano i Greci ancora, che
lasciandosi le ossa de' morti insepolte, si movesse empia guerra a'
mani, che denudati avesser perduto il lor riposo e vagassero que-
1. fnDurum est . . . negandum»; cfr. ibid., x, lxxiv (altri lxix; «È cosa pe-
nosa imporre ai provinciali l'obbligo di ricorrere ai pontefici se per qualche
giusto motivo vogliono trasferire da un luogo in un altro i resti dei loro
congiunti. Segui dunque piuttosto l'esempio di coloro che governarono
questa provincia e, secondo i motivi, nega o concedi a chiunque il per-
messo »). 2. secondo che . . . Siciliano: cfr. Diodoro Siculo, Bibl. kist., 1, 96.
3. nel libro . . . deca: xxxi, 30.
77° DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
ruli e dolenti. I Romani adunque, che non può negarsi da' Greci
e dagli Etruschi aver appreso in gran parte i loro riti e superstizioni,
essendo nella medesima credenza, non è meraviglia se de' loro
morti avessero lo stesso concetto, e con somma cura per ciò atten-
dessero non meno alla costruzione che alla custodia de' loro mo-
numenti e sepulture.
Il costume di deificare doppo lor morte gli imperadori, pur rap-
presero da' Greci e da' popoli vicini. Collocarono Romolo fra' dii
celesti e dapoi grimperadori; ma le cagioni furon diverse. Ne* primi
rozzi ed incolti tempi furon mossi da vana religione; ne' secoli
culti ed illuminati da ambizione per chi gli ambiva e da adulazione
e vii servaggio per chi gliele offeriva; sicome fecero di Augusto,
di Tiberio e di Nerone stesso deificato anche in sua vita. Ciocché
maggiormente manifestò la menzogna e l'adulazione, derisa me-
ritamente da Tacito molto più di quel che non fece Livio della
deificazione di Romolo.
i
Conchiusione di questa i parte.
Tale era la religione antica de' Romani, ristretta ed indrizzata al
riposo di questa presente vita ed alle felicità terrene e mondane,
per la conservazione ed ingrandimento della loro repubblica, per
la prolazione dell'imperio e suoi trionfi. Quindi a' loro dii non si
rendean sacrifici, adorazioni e preghiere, se non perché gli scam-
passe dalle avversità de' mali e concedesse prosperità de' beni,
così gli uni come gli altri tutti mondani e terreni. Doppo la lor
morte non riputavano rimanergli altra vita che la gloriosa nel con-
cetto e nelle bocche degli uomini, adoperando cose grandi ed illu-
stri; ovvero ignominiosa se si fosser contaminati di azioni infami
e vituperose. E pure questo solo vincolo fu riputato bastante per
contenergli in una perfetta società civile; perché fossero fedeli ne'
patti e nelle promesse, osservantissimi ne' voti, religiosissimi ne'
giuramenti, e adoperassero infine tante magnanime, illustri ed one-
ste azioni, e fosser adorni di tante belle virtù morali di giustizia, di
temperanza, di castità, di tolleranza, di fortezza, di magnanimità,
di prudenza, di clemenza, di benignità e benificenza e di tante altre
insigne virtù, per le quali a ragione S. Agostino credette che per
divina provvidenza fosse stato dal sommo Iddio lor conceduto l'im-
perio del mondo.
PARTE I • DISCORSO XIII 77 1
Or si facci confronto degli antichi Romani co' nostri cristiani, a'
quali si è aggiunto per fargli essere maggiormente perfetti un vin-
colo assai più tenace e forte, qual'è una religione quanto vera e
certa, come da Dio revelata, altrettanto semplice e schietta, e che
c'insegna una morale assai più perfetta e pura di quella de' più
elevati filosofi gentili, la quale cotanto c'inculca la dilezione del
prossimo e di fare o non fare agli altri ciò che per te stesso vuoi
o non vuoi : una religione, la quale non è solo ristretta ed indrizzata
al riposo di questo mondo, ma s'inalza ad un più sublime fine;
che c'insegna doppo questa mortai vita essercene apparecchiata
un'altra infinita ed eterna, alla quale paragonata la presente tutta
sparisce ed è un punto indivisibile, e che qui noi ci siamo peregrini,
e peregrini momentanei; una religione la quale ci rende certi che
secondo che ci saremo portati in questo pellegrinaggio, trovaremo
colà permanente abitazione, dove per sempre ci converrà menare
una vita o tutta beata e gioconda, ovvero infelice, tormentosa e
misera che non avrà fine né sarà prescritta da tempo alcuno.
Non dovranno adunque, attente queste verità, i cristiani, che
traviano dal giusto sentiero, riputarsi per gli uomini i più malvaggi
e perversi che siansi mai veduti sopra la superficie della terra?
Non dovranno riputarsi i più empi e protervi di quante nazioni
furon giammai nel mondo? poiché tutte non indrizzando la loro
religione che alle felicità mondane, le quali finalmente presto volano
e spariscono, non aveano un vincolo così tenace e forte che potesse
trattenerle da' vizi e malvagità, alle quali par che la nostra depra-
vata natura ci spinga e ci conduca, come abbiam noi, i quali siamo
certi che ci soprasta un'altra vita immortale ed eterna. Né è vero
che tanta rilassatezza e pravità de' costumi nasca per difetto di
fede, quasi che tanti perversi sian caduti e continuano nelle loro
malvagità per non aver più credenza dell'altra vita che non l'aspet-
tano; poiché l'esperienza tutto giorno ne convince del contrario,
che i maggiori scellerati sono quelli, che pur troppo ci credono,
lusingandosi chi per un verso, chi per un altro, e tutti abbandonan-
dosi alla divina misericordia; anzi questi sono i più facili di passare
dalla religione alla superstizione, e covrire i loro falli sotto speziosi
pretesti, e nascondere l'ambizione, l'avarizia e gli altri loro vizi
col manto dell'ipocrisia e d'una affettata umiliazione e pietà.
Queste riflessioni ci dovrebbero far arrossire ed aver vergogna
di noi stessi, i quali non ostante un legame sì forte, dal quale non
772 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
erano avvinti gli antichi Romani, non possiamo arrivare a quella
morale ed a quelle insigni e sublimi virtù da loro essercitate ; ed a
pochi è ciò concesso, «quos aequus amavit Iuppiter»,1 quando a
questa mèta dovrebbero tutti aspirare, usare ogni sforzo e porvi
ogni cura e studio per arrivarci. Se da dovero e seriamente gli uo-
mini a ciò riguardassero, forse il clero amerebbe di tornare all'an-
tica ecclesiastica disciplina, i monaci a' primi loro austeri instituti ;
anzi i secolari stessi dovrebber popolare i boschi e le solitudini di
romiti e di anacoreti.
PARTE li
DISCORSO XVII
Per quali cagioni in discorso di tempo fossero state dcù Romani
proibite d cristiani le loro chiese o siano unioni, riputandogli
collegi illeciti, e procurato di abolirli, e come dapoiper Costantino
Jkf. la religione cristiana fosse stata ricevuta nell'Imperio.
I Romani non furon dapoi mossi ad abolire il cristianesimo nel-
l'Imperio per cagion d'una nuova religione che i cristiani profes-
sassero, ovvero che adorassero come un nuovo dio Giesù Nazareno.
Se le cose si fossero solo in ciò ristrette, non l'avrebbero certamente
inquietati, sicome praticavano nelle altre religioni di più nazioni,
alle quali lasciavano libero il religioso culto de' loro patri dii, né
niente mutavano de' loro riti e sacrifici: e se, come narra Livio,2
Paolo Emilio, giunto ad Oropo dell'Attica, trovò che quivi adora-
vasi per dio Amfiloco loro indovino, a cui avean eretto un ameno
tempio, e gli lasciò in pace; qual difficoltà poteano avere di lasciare
a' cristiani adorar Cristo per loro dio ? Tanto maggiormente che a'
questi primi tempi non l' avean eretto né tempio, né altare alcuno.
Le loro chiese non altro erano che assemblee di fedeli, i quali si
univano insieme nelle private case ad orare e cantar divoti inni a
Cristo, e frangere il pane nelle loro cene, secondo che in sua me-
moria aveagli Cristo imposto che facessero. E da ciò che narra Elio
Lampridio dell'imperatore Alessandro Severo,3 si conosce che que-
i. «quos . . . Iuppiter»: Virgilio, Aen., vi, 129-30 (a che il giusto Giove
amò»). 2. come narra Livio: cfr. xlv, 27, io. 3. E da ad . . . Severo:
cfr. in Alexander Severus, xliii, 6, in cui si afferma che volle Cristo fra gli
dei, e lxix, 6, in cui vi è il passo al quale si fa qui riferimento.
PARTE II • DISCORSO XVII 773
sto concetto n'ebbero i savi e prudenti romani imperadori, poiché
contrastando alcuni osti certa parte di ospizio a* cristiani, i quali
solevano ivi ragunarsi a lodare Iddio e frangere il pane, preten-
dendo appropriarsela e mutarla in uso di cucina; l'imperadore ri-
presse la loro ingordigia, e comandò che il luogo rimanesse a* cri-
stiani, dicendo che qualunque dio o in qualunque maniera ivi i
cristiani l'adorassero, il luogo rimarrebbe più casto e puro, che se
si fosse mutato a sozzo e vile uso di cucina. Non furon dunque i
Romani mossi a proibire a* cristiani le loro unioni per cagion di
religione, ma per cause riguardanti la pubblica tranquillità dello
Stato, e perché non fossero offese le pubbliche leggi e cambiati i
loro riti e gli antichi romani costumi.
Si conobbe in discorso di tempo che questa religione si andava
allontanando dalla giudaica, sicché apparisse nuova e tutt'altra. E
S. Paolo predicando in tutte le città che la sola fede bastava per
giustificare gli uomini, non essendovi bisogno delle opere della
legge,1 con impegno di disobligare gli Ebrei stessi convertiti dal-
l'osservanza della legge mosaica, si venne chiaramente a conoscere
che queste fossero due religioni varie e diverse e che la nuova sor-
gesse per abbattere l'antica e fosse tutt'altra; sicome in effetto fu-
ron dapoi totalmente divise e separate le chiese dalle sinagoghe
degli Ebrei. Questa adunque riputandosi tutta nuova, si cominciò
a temere non la sua novità potesse cagionare effetti pregiudiziali
al pubblico Stato, i quali per sì lungo tempo non avea portato alla
loro repubblica la religione giudaica, né vi era timore di potergli
recare nell'avvenire; poiché questa religione si mantenne sempre
ristretta fra' soli Ebrei, né vi era pericolo che fosse da altri abbrac-
ciata, riputandosi da tutti per fanatica e stolta; ed erano molto lon-
tani, per professarla, di farsi circoncidere ed astringersi a tante ope-
rose cerimonie, e spezialmente di rimanere immobili i giorni del
sabato senza poter operare cos'alcuna. All'incontro, doppo che dal
concilio gerosolimitano2 fu determinato che non si dovessero ob-
bligare i gentili a giudaizare, allora la cristiana si andava sempre
più diffondendo; poiché non dovendo i gentili passare sotto il
i. E S. Paolo . . . legge: cfr. Rom., 3, 27-8. 2. concilio gerosolimitano: verso
il 49-50 d. C. gli Apostoli e i presbiteri si riunirono a Gerusalemme per
una controversia sollecitata dai giudaizzanti, che esigevano la circoncisione
dei pagani convertiti e l'obbligo alla legge mosaica (vedi Gal., 2, 1-10 e
Act., 15, 1-35). Cfr. D. Aulisio, Delle scuole sacre ecc., cit., n, cap. xxxm,
P- 137.
774 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
giogo giudaico, ma di doversi solamente astenere di poche cose,
volontieri era da tutti abbracciata. A ciò si aggiunse, come fu detto,
la credenza che da' cristiani si avea allora, che il giorno estremo
dovesse presto arrivare; onde tutti procuravano affrettarsi, e di
buon animo abbandonavano e padre e madre e fratelli, e quanto
poteva dargli il mondo di ricchezze, di piaceri e di onori, e cerca-
vano tesaurizare in cielo, dove aspiravano di dover presto godere
una vita eterna e beata, la quale era certamente da preporsi a qua-
lunque altra vita mondana, la quale presto finiva ed era involta di
mille calamità e miserie. E pure nemmeno il prodigioso numero,
che tuttavia andava per ciò crescendo de' credenti, avrebbe mosso
i Romani a vietarla.
Le potissime cagioni furono: l. perché sicome cresceva il nu-
mero, così crebbero fra que' che l'insegnavano strane e portentose
dottrine: e ciascuno avendo suoi seguaci fecesi che il numero de'
falsi e depravati cristiani oscurasse la vera e semplice dottrina de*
puri cristiani. Quante sette di eretici sursero nello stesso I secolo
della Chiesa ? a' tempi stessi di S. Paolo e di S. Giovanni ? E sempre
maggiormente si vide crescere il lor numero ne' due seguenti secoli.
Niuno senza stupore non potrà leggere i cataloghi che ne formarono
gli scrittori ecclesiastici non meno moderni che antichi. I nicolaiti,
gli ebioniti, i seguaci di Cerinto, i catafrigi, i pepuziani, gli euchiti,
gli gnostici e tanti altri.1 Né può dubbitarsi che tanto male non
derivasse dalla scuola di Alessandria.2 Sicome Antiochia ci diede
il nome di cristiani, così la Chiesa di Alessandria diede a noi i primi
teologi. I gentili, sicome fu detto nella I parte, aveano altra sorte
di teologia, ed in altra guisa l'adoperavano ; ma i nostri primi teo-
logi, non contenti della semplice e piana via delle Sacre Scritture,
poiché in Alessandria fioriva il celebre Museo ove s'insegnava la
filosofia di Platone e poi vi fu anche introdotta quella di Aristotele,
cominciarono a mescolare la sacra dottrina colla profana filosofia,
sicché da Alessandria ne uscirono, come dal cavallo troiano, tanti
strani e fantastici teologi, i quali con opinioni nuove e stravolte
1. 1 nicolaiti . . . altri: il Giannone trae informazione da sant'Agostino, De
kaeresibus ad Quodvultdeum liber unus (in Mxgne, P. L.f xlii, coli. 21-51).
Cfr. più oltre le pagine dell'Apologia de1 teologi scolastici. 2. scuola di Ales-
sandria: il Giannone riassume un tema dell'Aulisio, che dedica alla scuola
alessandrina di teologia una gran parte delle sue Scuole sacre (cfr. n, cap.
n, p. io, Che 'n Alessandria ebbe la teologia la sua prima origine).
PARTE II • DISCORSO XVII 775
turbarono le chiare e limpide acque del Nuovo Testamento, e die-
dero in eresie pur troppo mostruose e fantastiche. Ed essendosi
dapoi sparso il nuovo metodo presso i fervidi cervelli africani,
questi finirono di render tutto guasto e corrotto. Quindi tante fre-
netiche opinioni, tante inutili questioni, infinibili ed interminate
genealogie, e tante dispute vane, onde S. Paolo cotanto inculcava
ed ammoniva i suoi che le sfuggissero.1 Quindi tanti sconci errori,
ed opinioni le quali erano sostenute da' loro dottori con non minor
pertinacia che strepito, furore e contrasto. Vi furono di quelli, i
quali non contenti di commendare il celibato, come uno stato più
puro e mondo del coniugale, insegnavano a* novelli cristiani che
affatto dovessero astenersi dalle nozze, e che il matrimonio fosse
un ritrovato del diavolo. Altri che dovessero almanco astenersi
dalle seconde nozze, e proibivano affatto le terze, e molto più le
quarte: e vi furon anche di quelli che volevano che ogni cosa fra'
cristiani fosse comune, eziandio le mogli. Gli appostoli ed i seniori
di Gerusalemme furono contenti che i gentili convertiti si astenes-
sero solamente d'immolare agli idoli, di cibarsi del sangue e delle
carni delle ostie immolate; ma questi novelli dottori, tirando più
innanzi il rigore, insegnavano che gli artefici, i quali vivevano del
guadagno della scultura e de' loro lavori in formar statue o di-
pinture de' dii o altre opere appartenenti alla religione pagana, si
astenessero affatto di più essercitare il lor mestiere; anzi si proibiva
a' mercanti di vender incenso a' gentili, i quali non l'impiegassero
ad altro uso se non per brugiarlo avanti gli altari de' loro dii.
Leggasi Tertulliano, il quale s'infervora ed imperversa cotanto con-
tro gli scultori degl'idoli, che vorrebbe che gli fossero troncate le
mani.* I consigli di S. Paolo, di astenersi i fedeli dalle liti,3 si da-
vano per precetti; e s'inculcava a' convertiti che non piatissero più
avanti giudici e magistrati gentili, ma per via di amicabile composi-
zione terminassero le loro liti. In fine si pose in dubbio se i cristiani
potessero ascriversi nella milizia romana e militare sotto gl'impe-
radori gentili; e Tertulliano riputava idolatri que' soldati cristiani
i quali, sicome era il militar costume, si ornavano della corona di
alloro, come ad Apollo, falso nume, consecrata.4
i. dispute . . . sfuggissero : cfr. ad esempio II Tim., 2, 14 e 23. 2. Leggasi . . .
mani : nel De idololatriat cap. vii (in Migne, P. L., 1, col. 745). 3. dalle
Itti: cioè dal ricorrere in giudizio; cfr. I Cor., 6, 1 sgg. 4. e Tertulliano . . .
consecrata: cfr. De idololatrta, cap. xv (in Migne cit., coli. 759 sgg.).
776 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
I Romani, se bene nella loro repubblica ammettessero più collegi,
e davan loro facoltà di statuire quelle convenzioni e regole che
fossero alla società più utili e salutari; nulladimanco queste si per-
mettevano, purché per esse non si offendessero le pubbliche leggi
e gli antichi romani costumi. Si proibivano perciò e dannavano
tutti que' collegi, ed erano riputati illeciti e meritevoli di castigo
le persone che gli componevano, quando si scrovrisse che ivi si
trattasse di cosa che fosse contro gl'instituti romani e le pubbliche
leggi. E poiché le nuove ed erronee dottrine sparse posero in so-
spetto che tali fossero le assemblee de' cristiani, furono per ciò
proibite e riputate collegi illeciti, ed imposta pena a chi li convo-
casse, e spezialmente in Oriente, ov'erano più frequenti; e Plinio
il Giovane narra di sé, mentre amministrava le provincie di Bitinia
e di Ponto, averle ivi proibite per suo editto, eseguendo gli ordini
avutine dall'imperadore Traiano.1
11. Si aggiunse, per accrescere il rigor delle pene, che fra' cri-
stiani stessi, anche intorno a' costumi, sursero de* cattivi e perversi
i quali contaminarono la fama de' buoni: ed i Romani che non
sapevano discernere gli uni dagli altri, ne fecero un sol fascio, e
per le sceleratezze di pochi si credette che tutti, come di una setta
prava e pertinace, fossero da abominarsi, e che il solo nome di
cristiano fosse bastante delitto per punirgli. Surse fama, forse per
dissolutezza di alcuni, ch'essendo soliti convenire i cristiani in-
sieme di notte tempo avanti che spuntasse l'aurora nelle private
lor case in certi statuiti giorni, e quivi uomini e donne ponendosi
a cantar inni a Cristo, apparecchiavan le cene e mangiavano e
beveano : che nel silenzio della notte tra le vivande ed il vino, me-
scolati insieme maschi e femmine si contaminassero di varie e sozze
libidini; e che nelle lor cene si cibassero di carne e del sangue
de' loro fanciulli immolati: confondendo ciò che Cristo in sua
commemorazione aveagli prescritto, di cibarsi del pane come sua
carne, e bere del vino come suo sangue. Ed in effetto de' falsi
cristiani, spezialmente de' catafrigi e pepuziani, si raccontavano
molti infanticidi, de' quali non si dimenticò S. Agostino nel cap.
58 del xviii libro della sua Città di Dio,2 li quali solevano pungere
1. e Plinio . . . Traiano: cfr. Epist., x, xcvn (xcvi)> 7. 2. nel cap. 58 . . .
Dio: ma non corrisponde, perché il libro xvm ha solo cinquantaquattro ca-
pitoli. Inoltre non vi è traccia in quest'opera di tali temi. Cfr. piuttosto
De haeresibus cit. (in Migne, P. L.t xlii, col. 30, riferito ai catafrigi).
PARTE II • DISCORSO XVII 777
con spilletti le tenere carni de' bambini, e del sangue spremuto
mischiato con farina farne il pane, del quale si servivano nell'Eu-
caristia; e lo stesso facevano gli euchiti ed i gnostici, secondo che S.
Agostino stesso scrive a Quodvuldeo.1 Si credette per ciò che i
cristiani in queste cene avesser per pasto la carne de' loro bambini
e per bevanda il di lor sangue. Quindi dagli scrittori romani, che
fiorirono ne' secoli di Nerone, de' Vespasiani, di Nerva, di Traiano
e de' seguenti imperadori fino a Costantino M., furono i cristia-
ni nelle loro opere aspramente trattati, spezialmente da Tacito,
da Svetonio, Plinio il Giovane, Ulpiano ed altri: credendo che i
cristiani, per la dissolutezza di pochi, fossero tutti perniciosi e di-
struttori de' buoni costumi e delle pubbliche leggi, e doversi avere
come nemici del genere umano. Cominciarono per ciò tali unioni
a riputarsi per esecrande, non altrimente che le assemblee, che pur
di notte si tenevano da uomini e donne baccanti ne' sacrifici di
Bacco, ove non vi era scelleragine della quale non si contaminas-
sero, come si è rapportato nella I parte parlando de' baccanali,
che fu duopo da Roma e da tutta Italia abbolirgli ed affatto ster-
minargli.
ni. In fine furono i Romani spinti a vietare a' cristiani le loro
chiese, poiché sempre più crescendo il di lor numero nelle Pro-
vincie dell'Imperio spezialmente nell'Asia e nella Grecia, veniva
visibilmente a scemarsi il culto a' loro dii. Ed era impresa molto
facile a' Padri della Chiesa di manifestare la vanità di tanti numi
e la superstizione colla quale erano adorati, ed i più savi ed accorti
Romani stessi si erano internamente già persuasi e convinti ; sicome
fu dimostrato nella i parte e sicom'è manifesto da' libri di Varrone,
de' quali S. Agostino ci conservò buona parte, da' libri di Lucrezio,
dall'opere di Cicerone, dagli Annali di Livio, dall' Istoria naturale
di Plinio e di tanti altri. Per questa nuova religione adunque, che
ruinava l'antica pagana, vedeansi i loro tempii non esser più fre-
quentati come prima; e le vittime che s'immolavano non trovavano
compratori, ed i macellari non più le volevano, poich' essendo proi-
bito a' cristiani di mangiar carne di vittime immolate, niuno andava
da loro a comprarla; e per ciò i sacrifici erano, spezialmente in
Oriente, quasi che all'intutto intermessi. Per ciò da' zelanti e te-
naci dell'antica romana religione erano i cristiani chiamati atei,
i. secondo . . . Quodvuldeo: cfr. De haeresibus, loc. cit.
77$ DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
sacrilegi ed empi, i quali niente curassero de' loro dii né de' loro
sacrifici, e che gli beffassero e deridessero come vani e superstiziosi ;
onde ogni sinistro successo che avveniva alla loro repubblica, per
render più odiosi i cristiani, imputavan che ne fosser essi la cagio-
ne, e che per ciò i dii sdegnati l'affliggessero, vedendo che si tolle-
ravano tanti uomini sacrileghi e contumeliosi a7 numi. Quindi fu
data occasione a S. Agostino, per convincergli dell'errore, di scri-
vere i libri della Città di Dio, e ad Orosio la sua Orchestra,1 per la
quale acquistossi l'encomio di «avvocato de' cristiani» e che me-
ritasse da Dante esser per ciò posto in paradiso fra gli altri grandi
dottori della Chiesa.2
Per queste cagioni furon mossi i Romani a proibire le chiese a'
cristiani e prendere di lor castigo. Ma questo castigo, secondo che
diversa era l'indole degl'imperadori così fu vario, non mai unifor-
me. Sotto gl'imperatori universalmente riputati crudeli e barbari,
sicome furono Nerone e Domiziano, le persecuzioni furono fiere
ed inumane, sempre però cercandosi pretesto per punirgli con pe-
na di morte o imputandogli gravi delitti, sicome fece Nerone, il
quale gli calunniò avere i cristiani attaccato il fuoco in più parti
della città di Roma, per rimover da sé la colpa: ovvero di aver mosse
sedizioni e tumulti o violate le statue de' dii o degl'imperadori o
altri consimili eccessi; e Tacito istesso, ancorché avverso a' cristia-
ni, non potè tacere che la strage, che ne fece far Nerone nel x° anno
del suo imperio, fu sotto il pretesto di avere incendiata Roma: il
che fu dato facilmente a credere al volgo, per essere i cristiani, per
le cagioni già dette, a tutti odiosi; ma con tutto ciò Tacito non potè
non condannare l'azione per barbara, crudele ed inumana.3 E se
questo tiranno non la perdonò alla propria madre, al fratello ed
al suo maestro Seneca, qual maraviglia se quattro anni dapoi fa-
cesse morire in Roma le due principali basi della Chiesa, gli appo-
stoli Pietro e Paolo ? Ma sotto gl'imperadori savi, prudenti e pii,
i. Orchestra: è il titolo che alcuni codici danno ai sette libri delle Histo-
riae di Paolo Orosio: cfr. in Migne, P. L., xxxi, col. 642, le osservazioni
in proposito dell'Havercamp. Vedi anche in Triregno, ni, p. 117. 2. ac-
quistossi . . . Chiesa-, cfr. Par., x, 119: «quello avvocato de' tempi cri-
stiani ... ». NelTidentificare questo personaggio i commentatori antichi
sono divisi fra sant'Ambrogio e Paolo Orosio. Sostenitore di quest'ultima
tesi il Buti: «e però dice [Agostino] che Orosio fu "avvocato dei tempi
cristiani", cioè difenditore ». 3. e Tacito . . . inumana: cfr. Ann., XV,
XLIV, 3-9.
PARTE II • DISCORSO XVII 779
non erano inquietati, sicome furono sotto Vespasiano, Tito, Nerva,
Adriano, Alessandro Severo ed altri di consimil tempra. E che
maraviglia è, se Domiziano avesse relegato nell'isola di Patmos
l'appostolo Giovanni, quando questi per giudicio universale era
riputato il più sozzo mostro che avesse prodotto la natura, crudele,
ladrone, empio e malvaggio, sicché debitamente fu ucciso per li-
berar l'Imperio di un sì barbaro tiranno ?
E se bene a' tempi di Traiano, sotto cui accadde il martirio di
Simeone II vescovo di Gerusalemme, fossero minacciati a' cri-
stiani gli ultimi supplici, non se non rade volte si veniva a pena
capitale, dandosi luogo al pentimento; e bastava per sottrargli da
ogni pena, ed esserne mandati liberi nelle lor case, se promettes-
sero di non volerci più essere.1 Non si ricevevano accuse, senza che
i libelli non fossero sottoscritti dagli accusatori, i quali doveano
provare i delitti; e non provati erano come calunniatori puniti.
Non si faceva contro di loro inquisizione alcuna. E si ricercava per
punirgli con pena di morte più il delitto che la meritasse, che la
credenza o il solo nome di esser cristiano. Di questa pratica giudi-
ciaria tenuta da' magistrati romani in punirgli, n'è a noi rimaso
vestigio in una epistola di Plinio il Giovane, ed in un rescritto
dello stesso imperadore Traiano.2 L'ordine giudiciario era questo.
Se nelle provincie erano accusati avanti i presidi o proconsoli, e
convinti o confessi non ostinandosi nella loro credenza volevan
abiurarla, tanto bastava per esser liberati. Se si trovavano godere
della cittadinanza romana, i presidi non p rende van della causa
conoscenza, ma gli mandavano in Roma, dove da que' magistrati
eran puniti con quelle pene solite praticarsi co' cittadini romani.
Se i rei erano provinciali, i supplici erano secondo il costume pra-
ticato in ciascuna provincia. E secondo il maggiore o minor nume-
ro che se ne scovrivano, il rigore si accresceva, o rallentava. Nelle
Provincie di Oriente come in quelle, ch'essendo state le prime, il
numero de' cristiani era prodigiosamente cresciuto, onde i tempii
eran quasi che desolati, i sacrifici intermessi, né per le vittime tro-
vavasi compratore, si pensò di proposito a darci riparo, affinché la
superstiziosa contagione, come i Romani la credevano, più non
s'inoltrasse. E pure, ancorché il numero fosse cotanto cresciuto,
i. di non volerci più essere: cioè, di non voler più essere cristiani. 2. Di
questa . . . Traiano: cfr. Epist., x, xcvn (xcvi) cit., e xcvm (xcvn).
780 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
non si praticava altro rigore che il già detto. Trovandosi Plinio il
Giovane a governare con potestà consolare le provincie di Bitinia
e di Ponto, atterrito dal gran numero e perch'egli non era giamai
intervenuto a tali questioni contro i cristiani, né sapeva ciò che
ne' medesimi dovesse punire, se i delitti che se l'imputavano nelle
loro notturne assemblee commettere, ovvero la loro superstiziosa
credenza, ancorché non fosse contaminata di alcun misfatto, stimò
di ricorrere alTimperadore Traiano affinché gli dasse istruzioni co-
me dovesse regolarsi nella conoscenza di tali cause. Il numero
de' cristiani in queste due provincie era sì grande, che n'eran pieni,
non pur le città, ma eziandio i vichi e le ville stesse, che sono le più
tarde a deporre e cambiare i loro antichi costumi ed instituti: «Ne-
que enim (scrive a Traiano lib. io, ep. 97) civitates tantum, sed
vicos etiam atque agros superstitionis istius contagio pervagata
est; quae videtur sisti et corrigi posse».1
Più cose dimandava Plinio a Traiano per sua norma e direzione.
Primieramente non sapendo la maniera, e che cosa dovesse ne'
cristiani punirsi o ricercarsi, chiedevagli se dovesse farsi distin-
zione di sesso, di età, di ordine, e separare i forti ed i robusti da'
deboli ed invalidi; poich'erano deferiti ed accusati e maschi e
femmine, e giovani e vecchi, e nobili ed ignobili, e validi ed imbe-
cilli: «Multi enim, » e' dice «omnis aetatis, omnis ordinis, utriusque
sexus etiam vocantur in periculum, et vocabuntur».2 E pria aveagli
ricercato: «sitne aliquod discrimen aetatum, an quamlibet teneri
nihil a robustioribus differant».3 Per il dimandava se si dasse luogo
alla penitenza, ovvero bastasse per punirgli di essere stati cristiani,
ancorché poi non lo fossero: «Detur ne paenitentiae venia, an ei
qui omnino christianus fuit, desiisse non prosit ». Per in se debba
punirsi il cristiano per lo sol nome, ancorché non si trovasse aver
commesso alcun delitto, 0 pure i delitti al nome coerenti: «Nomen
ipsum, etiam si flagitiis careat; an flagitia coherentia nomini pu-
niuntur».4 Per rv se dovea prenderne conoscenza per via d'cùnqui-
sitione», ovvero de' solo deferiti ed accusati. Per v se dovea rice-
1. «-Neque enim — posse»: Epist., x, xcvn (xcvi), 9 («. . . che sembra pos-
sibile arrestare e correggere»). 2. a Multi enim . . . vocabuntur»: cfr. ibid.
(è la frase immediatamente prima di quella sopra citata). 3. a sitne aliquod
. . . differant»: cfr. ibid., 2 («se si debba tener conto dell'età, o se, per
quanto tali, i giovinetti in nulla debbano differire dagli adulti»), 4. «De-
tur ne paenitentiae . . .puniuntur»: cfr. ibid. (si legga «puniantur»).
PARTE II • DISCORSO XVII 781
vere libelli di accuse senza soscrizione degli accusatori, e conoscere
per punirgli sopra i nomi solamente di quelli che si erano deferiti.
Espone Plinio a Traiano la maniera ch'egli intanto praticava
nella conoscenza delle cause de' cristiani, i quali erano a lui defe-
riti. Inprima gli domandava se erano cristiani. Se confessavano
di esserci, gli minacciava il supplicio se non abiurassero. Chia-
mavagli poi la seconda volta e gPinterrogava lo stesso : se persiste-
vano nella prima confessione, tornava a minacciargli il supplicio
se in ciò si ostinassero. Dapoi la terza volta richiamati, se si mo-
stravano duri ed ostinati, comandava che vi fossero menati. Non
può negarsi che Plinio in ciò usavagli sommo rigore, e si portasse
con molta inclemenza per quello stesso, ch'egli soggiunge, per sua
discolpa all'imperatore; poiché confessa che se bene in molti non
vi conoscesse delitto, il qual meritasse la morte, pure gli conden-
nava per la sola pervicacia ed ostinazione che mostravano, dicendo :
« Neque enim dubitabam, qualecumque esset quod faterentur, per-
vicaciam certe et inflexibilem ostinationem debere puniri».1 Se
Plinio stimava doversi punire la loro costanza, ch'egli chiama osti-
nazione e pervicacia, si potrebbe condonare alla diversità delle reli-
gioni e di essere i Romani allora troppo lontani di credere al Van-
gelo; ma la punizione non dovea estenderla cotanto fino a pena
capitale. Se egli riputava i cristiani pazzi ed illusi, bastavano rele-
gazioni, esìli, carceri e consimili pene estraordinarie, giacché non
trovava in essi delitti capitali che meritassero morte.
Prosiegue a dire che di questi ostinati, avendone trovati alcuni,
i quali erano cittadini romani, egli aveagli separati dagli altri per
mandargli in Roma: «Fuerunt alii similis amentiae, quos, quia
cives romani erant, annotavi in urbem remittendos».3 Riferisce
dapoi i vari casi occorsigli nel tratto del tempo, diffondendosi sem-
pre più, com'è' dice, la contagione. Gli fu presentato un libello
senza soscrizione dell'autore, il quale conteneva più nomi di coloro
ch'erano imputati di essere cristiani: e fattigli venire avanti di
lui, alcuni negavano di essere cristiani, o di esservi mai stati;
ond'egli, secondo che praticavasi da' magistrati romani, per mag-
giormente assicurarsi del vero, facendo portare avanti di lui le
statue de' dii e l'immagine dell'imperadore, l'obbligava ad invo-
cargli e render loro supplicazioni con vino ed incenso; e di van-
1. Espone Plinio . . . puniri: cfr. ibid.> 3. 2. « Fuerunt . . . remittendos »: cfr.
ibid., 4.
782 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
taggio, maledire a Cristo ; e ciò fatto gli mandava liberi. Questo era
un segno indubbitato che veramente non fossero cristiani ; poiché
i veri cristiani soffrivano più tosto mille tormenti e morti che male-
dir Cristo ; anzi volontieri incontravano la morte, che per essi era
un sicuro pegno di futura vita beata ed eterna. Ecco le parole di
Plinio: «Propositus est libellus sine auctore, multorum nomina
continens qui negarent se esse christianos, aut fuisse ; quum prae-
sente me, deos appellarent, et imagini tuae, quam propter hoc
iusseram cum simulacris numinum afferre, thure ac vino suppli-
carent; praeterea maledicerent Christo; quorum nihil cogi posse
dicuntur, qui sunt re vera christiani, dimittendos putavi».1 Trovò
degli altri dall'indice nominati, i quali prima dissero essere cri-
stiani, dapoi subito negarono. Altri, che furono, ma che dapoi
lasciarono di esserci, chi tre anni avanti, chi più anni ed alcuni
eziandio venti anni. Tutti questi, doppo avere adorati i simulacri
de* dii e l'immagine di Cesare e maledetto Cristo, furon rilasciati:
« omnes et imaginem tuam, deorumque simulacra venerati sunt, ii
et Christo maledixerunt ».2 Plinio, secondo che sentiva variamente
parlare di queste unioni de' cristiani, dubbitando non sotto il manto
di religione si covrissero in quelle notturne assemblee sozze libi-
dini, infanticidi ed altre sceleratezze, sicome accadde in Roma, che
sotto pretesto di render sacrifici a Bacco, si commettevano ne*
Baccanali esecrande enormità; volle far perquisizione ed indagine
di ciò che i cristiani facevano in quelle antelucane radunanze; ed
avendo esaminati que' cristiani, che prima furon tali e poi lascia-
rono di esserci; sicome avendo posto ne' tormenti due femmine,
delle quali i cristiani si valevano per lor ministre: non ricavò altro
che in certi statuiti giorni avanti l'aurora s'univano insieme, e fra
di loro a vicenda cantavano inni a Cristo come a lor dio : che s'era-
no con giuramento astretti a quella società, non per commettervi
qualche delitto o scelleragine, sicom'erano astretti coloro che vole-
vano iniziarsi a Bacco, anzi che si obbligavano di astenersi da' furti,
ladrocini, adultèri, non ingannar alcuno: esser fedeli ne' depositi
e serbar fede a tutti (ch'erano que' precetti a' quali obbligava loro
il decalogo). Che si tornavan poi ad unire a cibarsi, ma di cibo
promiscuo ed innocuo, non già come l'avea divolgati la fama, che si
cibassero della carne de' loro fanciulli e beessero del lor sangue.
1. «Propositus est . . .putavi»: cfr. ibid., 5. z. Trovò degli altri . . . male-
dixerunt: cfr. ibid., 6.
PARTE II • DISCORSO XVII 783
In breve, Plinio stesso non potè imputargli di altro se non d'una
prava e soverchia superstizione. Ecco ciò ch'egli riferì a Traiano di
questa perquisizione fatta, ed esame preso da' rinegati stessi cri-
stiani: «AfErmabant autem hanc fuisse summam vel culpae suae,
vel erroris; quod essent soliti stato die ante lucem convenire: car-
menque Christo, quasi deo, dicere secum invicem: seque sacra-
mento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta, ne latrocinia,
ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum appel-
lati abnegarent: quibus peractis morem sibi discedendi fuisse: rur-
susque coeundi ad capiendum cibum, promiscuum tamen et inno-
xium: quod ipsum facere desiisse post edictum meum, quo se-
cundum mandata hetaerias esse vetueram. Quo magis necessarium
credidi ex duabus ancillis, quae ministrae dicebantur, quid esset
veri, et per tormenta quaerere. Sed nihil aliud inveni, quam su-
perstitionem pravam et immodicam».1
Credea Plinio, e così scrisse all'imperadore Traiano, che se bene
il numero de' cristiani in quelle provincie fosse cotanto cresciuto,
nulladimanco che potesse reprimersi ed emendarsi, massimamente
se si dasse luogo al pentimento. Ch'egli avendo per suo ordine
promulgato editto, col quale proibì a' cristiani le loro ragunanze,
aveale fatte cessare; e ch'era manifesto che quando prima i tempii
erano quasi che desolati, cominciavasi in quelli a celebrare, ed a
ripigliarsi i solenni sacrifici da gran tempo intermessi; e che le vit-
time le quali prima non trovavano compratori, cominciavano a
vendersi ; onde dava speranza a Traiano che concedendosi perdono
a coloro, che se ben cristiani, non volessero più esserci, il numero
di tanti si potrebbe emendare. « Certe satis constat» gli scrive «pro-
pe iam desolata tempia coepisse celebrari et sacra solemnia diu
intermissa repeti: passimque venire victimas, quarum adhuc raris-
simus emptor inveniebatur. Ex quo facile est opinari, quae turba
hominum emendali possit, si sit poenitentiae locus».2 Nel che
molto s'ingannava; poiché se la conversione di tanti fosse derivata
da opera ed industria umana, avrebbe egli potuto sperarne emenda;
ma venendo da Dio, mostrossi assai più savio Gamaliele, il quale
persuase a' seniori ed al concilio degli Ebrei di non inquietare gli
appostoli, ma lasciargli nella loro libertà; poiché se il lor potere
veniva da Dio, non l'avrebber con tutti i loro sforzi potuto abbat-
1. «Affirmabant autem . . . immodicam»: cfr. ibid., 7-8. 2. «Certe satis . . .
locus»: cfr. ibid., io.
784 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
tere e vincere : « si vero ex Deo est, » gli dicea « non poteritis dissol-
vere illud».1
L'imperadore Traiano lodando la condotta di Plinio, se bene
come a savio principe gli rispondesse che in tanta diversità di casi
non si poteva universalmente costituire una certa forma per tutti,
ma secondo le circostanze dovesse regolarsi; nulladimanco stabilì
che l'esser cristiano non importando grave misfatto, sicché dovesse
procedersi contro i sospetti per via d'« inquisizione», sicome prati-
cavasi ne' delitti di Stato, di maestà lesa, o di altri enormi eccessi:
non si dovesse contro i medesimi «inquirere», ma accusati e con-
vinti, dovessero punirsi. Rescrisse eziandio, che se bene per lo
passato fossero stati cristiani e ne avesser dato sospetto : se nell'av-
venire non volevano esserci, e col fatto ciò manifestassero adorando
i dii romani, che impetrassero perdono e si lasciassero liberi, ba-
stando il pentimento che ne mostrassero; ed infine che contro i
medesimi non si ricevessero libelli di accuse senza il nome dell'au-
tore. Ecco il savio rescritto dell'imperatore Traiano, del quale, si-
come dell'epistola di Plinio, non si dimenticarono Tertulliano, Eu-
sebio di Cesarea, ed Orosio:2 «Tr. Plinio S. Actum quem debuisti,
mi Secunde, in excutiendis causis eorum, qui christiani ad te de-
lati fuerant, secutus es. Neque enim in universum aliquid, quod
quasi certam formam habeat, constitui potest. Conquirendi non
sunt: si deferantur, et arguantur, puniendi sunt: ita tamen qui
negaverit se christianum esse, idque re ipsa manifestum fecerit,
supplicando diis nostris, quamvis suspectus in praeteritum fuerit,
veniam ex poenitentia impetret. Sine auctore vero propositi li-
belli nullo crimine locum habere debent. Nam et pessimi exempli,
nec nostri saeculi est».3
Questo prudente rescritto di Traiano coli' accurata lettera di Pli-
nio, meritarono che fossero con dotti commentari illustrati dal
celebre giurisconsulto Francesco Balduino;4 e dapoi Girardo Vos-
1. «si vero . . . illud*: cfr. Act., 5, 34-9. Gamaliele: patriarca negli anni 25-
50 d. C, maestro di Paolo. 2. del quale . . . Orosio: cfr. Tertulliano, Apo-
logeticus, 11 (in Migne, P. L., I, col. 321); Eusebio di Cesarea, Hist. eccl.,
in, xxxiii (in Migne, P. G., xx, col. 286), e Paolo Orosio, Hist., vii, xn
(in Migne, P. L.t xxxi, coli. 1090-1). 3. «TV. Plinio . . . saeculi est»: nel-
l'epistolario di Plinio U Giovane, x, xcvin (xcvii) cit. 4. Francesco Bal-
duino: Francois Bauduin (1520-1573), giurista, teologo, storico francese
allievo del Dumoulin e amico deU'Hotman. Il Giannone si riferisce al
Commentarius in relationem seni consultationem Plinii et ad hanc rescriptum
PARTE II • DISCORSO XVII 785
sio1 volle pure, come se lavorasse nel proprio fondo, non già prima
da altri occupato, impiegarvi i suoi talenti, senza far motto di Bai-
duino; e volendolo scusare del plagio commesso, bisognerà dire
che non avesse avuta notizia del commento di Balduino, e si fos-
sero per caso incontrati a trattar d'un medesimo soggetto.
Or chi crederia che contro un rescritto cotanto savio e prudente
e degno della romana moderazione e sapienza, Tertulliano avesse
potuto declamar tanto, deridendo e riputandolo per contradittorio,
e secondo il costume de' fervidi cervelli africani, con isciapiti con-
traposti ed antitesi malmenarlo e schernirlo ? Leggasi il suo Apolo-
getico, ed ogni uno stupirà come possa nel tempo istesso che mo-
stra ignorare la giurisprudenza romana e l'ordine giudiciario tenuto
da que' sapientissimi uomini, insultar cotanto, deridere e riputar
Traiano per uno scimunito, che se stesso intricasse ed ordinasse
cose opposte e fra di loro repugnanti? Se non vuole, e' dice, che
sopra i cristiani si facesse inquisizione, perché dunque punirgli?
Se l'assolve, perché poi gli condanna? O sentenza inviluppata ed
a se stessa ripugnante e contraria! Era adunque ignoto a Tertul-
liano il prudente modo di procedere de' Romani nella conoscenza
delle cause criminali, ed erano a lui ignote le varie maniere delle
accuse, e quali delitti meritassero «inquisizione» e quali non l'am-
mettessero. Se ciò avesse saputo, avrebbe compreso non pure non
esservi nel rescritto contradizione alcuna, ma da quello conoscersi
la somma clemenza di Traiano verso i cristiani; poiché comman-
dando che non si fosse usata contro i medesimi inquisizione, riputò
i cristiani rei di delitti sì, ma non gravi, enormi e detestabili, per
i quali soli poteva procedersi per inquisizione; ed ammettendogli
col pentirsi al perdono, ben si conosce che non riputava delitto
l'esser cristiano, ma più tosto superstizione e stoltizia. La puni-
zione cadeva unicamente contro gli ostinati ed induriti, credendo
che per punirgli bastasse la loro pervicacia di mostrarsi cotanto
pertinaci ed inflessibili, di non volersi piegare al comando de' pre-
sidi o proconsoli che l'imponevano di dover sacrificare a' loro dii.
Troiani imperatori* de ckristianìs, compreso in C. Rittershusii Liber com-
mentariiis in Epistolas Plinii et Troiani, cui accessit commentarius F. Balduini
in Plinii consultationem et Troiani rescriptum de christianis . . ., Ambergae
1609. 1. Girardo Vossioi Gerhard Johannes Voss (1577-1649), teologo e
filologo calvinista. Il Giannone si riferisce a G. J. Vossn In epistolam
Plinii de christianis et edicta Caesarum Romanorum adversus christianos com-
mentarius, in Opera, iv, Amstelodami 1699.
786 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
Se vi fu eccesso, come si è avvertito, fu perché potendo esser con-
tenti d'una estraordinaria pena, l'estendevano fino all'ultimo sup-
plicio. Ma ciò non era tanto per la loro pertinacia, o per impedirgli
di credere ciò che volessero, ma per dar essempio agli altri di aste-
nersene, vedendo che il numero de' cristiani, spezialmente nelle
Provincie dell'Asia, cresceva in immenso, e che l'antica romana
religione tuttavia minava, i tempii quasi desolati, i sacrifici pre-
termessi, e le sollennità sacre quasi in tutto abolite o sprezzate.
Era massima antica de' Romani, che sovente bisognava punire i
rei con supplici gravi e severi, ancorché i delitti per se stessi noi
meritassero, quando facevasi per essempio a terrore degli altri, ed
il male pe'l gran numero de' periclitanti era per più diffondersi e
corromper tutta la moltitudine; riputando che l'atrocità dell'es-
sempio venisse compensata colla pubblica utilità che da ciò deri-
vava.
Questa fu la maniera della quale i magistrati romani valevansi
nella conoscenza delle cause de' cristiani accusati, quando dura-
vano le loro persecuzioni sotto que' imperadori i quali non vole-
vano soffrirgli, la quale secondo l'indole de* medesimi fu sempre
varia: ora sotto i pii e clementi rilasciandosi il rigore, ora sotto i
crudeli ripigliandosi; anzi doppo Traiano ve ne furono de' pietosi,
i quali affatto non l'inquietavano, ma gli lasciavano in pace. Donde
si convince esservi bisogno di molta critica e d'un esatto scrutinio
per discernere i veri da' tanti favolosi strazi, e da' tanti spietati ed
inumani supplici che si contano in più Leggende ed in alcuni autori
greci, posteriori di grande intervallo alle cose che narrano, che aves-
sero i magistrati romani praticato contro i cristiani, come se a
questi fosse stato lecito di incrudelire a lor talento, contro le leggi
romane, e contro gli stili ed ordine giudiciario praticato ne' loro
tribunali ; e come se a tutti fosse stato lecito di farne quella orribile
e spietata carnificina, che ne fece Tempio e barbaro Nerone. Quindi
la provida e saggia nostra madre Chiesa per suoi canoni impose a'
vescovi che fossero attenti ad esaminare gli Atti de' martiri, e senza
loro precedente scrutinio non permettessero di fargli leggere, co-
me costumavasi, fra' divini uffici, onde preser il nome di Leggende;
affinché non si facesse de' veri e favolosi un sol fascio, ed i popoli
creduli e semplici non rimanessero dalle altrui fantastiche relazioni
sorpresi ed ingannati.
Più persecuzioni date a' cristiani da' tempi di Nerone fino a
PARTE II • DISCORSO XVII 787
Costantino M. si narrano; e S. Agostino nel cap. 52 del xviii libro
della Città di Dio1 ne annovera diece. Tre sotto grimperadori Ne-
rone, Diocleziano e Traiano : la rv sotto Antonino Vero cognominato
il Filosofo: la v sotto Settimio Severo: la vi sotto Massirnino: la
vii sotto Decio, a' di cui tempi accadde il martirio di Lorenzo:
l'vin sotto Valeriano, nella quale ricevè il martirio Cipriano ve-
scovo di Cartagine : la ix sotto Aureliano, e la x sotto Diocleziano e
Massimiano, la quale fu delle altre più crudele a cagion de' ma-
nichei e degli altri settari eretici, i quali con false e perniciose dot-
trine aveano diffamato il nome cristiano e resolo a tutti odioso.
Ma innalzato al trono imperiale Costantino il Grande, questi
non pur imitando l'esempio de' pietosi suoi predecessori, i quali
gli lasciarono in pace, non l'inquietò, ma con non minor pietà che
grandezza di animo diede a tutta la Chiesa riposo e tranquillità.
Egli fu il primo, che in Roma inalberò il vessillo della croce, e da
vile ed obbrobriosa la rese trionfale e gloriosa. Egli ricevendo nel-
l'Imperio la religione cristiana, fece che le sue chiese non fosser
più riputate collegi illeciti, ma permessi, anzi venerandi. Egli fa-
vori i vescovi, e sopra tutti quello di Roma, come colui il quale
occupava la prima cattedra, dove avea seduto il principe degli ap-
postoli S. Pietro, sopra le cui spalle Cristo avea edificato la sua
Chiesa,* e come quello che teneva collocata la sua sede in Roma
capo del mondo. Egli col consiglio e sapienza de' non men pii
che dotti vescovi potè discernere i veri da' falsi cristiani, con pren^
der de' primi cura e protezione, e de' secondi castigo ; ed in fine
egli stesso, per dar essempio della sua pietà a' suoi figliuoli che gli
successero nell'imperio, essendo in punto di morte, volle dalle
mani di Eusebio vescovo di Nicomedia ricever battesimo e morir
cristiano.
Così tratto tratto conformandosi l'Imperio all'essempio de' suc-
cessivi imperadori cristiani, se bene si lasciasse in libertà de' gentili
di professar l'antica religione pagana, non altrimenti che a' fedeli
la cristiana, sicché tre religioni erano nell'Imperio ricevute, la gen-
tile, la cristiana e l'ebrea, nulladimanco favorendo gl'imperadori la
1. nel cap. 52 . . . Dio: cfr. in Migne, P. L., xli, coli. 614-6. Tutto questo
brano riprende e sviluppa la prima parte del Regno terreno, a. sopra le
cui spalle . . . Chiesa: rispetto alla tesi del Triregno (cfr. qui, p. 716), il
Giannone sembra qui capovolgere il suo pensiero sulla carica affidata da
Cristo a Pietro.
788 DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
cristiana, in discorso di tempo, sicome questa venne a diffondersi
per tutte le provincie dell'Imperio, cosi l'antica romana a decadere
e porsi in dimenticanza. E ne* seguenti secoli la cristiana penetrò
nelle parti settentrionali di Europa, nella Gallia, nella Germania,
nella Brettagna e nelle più remote provincie del Nord, dove prima
non avea potuto por piede, così perché i primi cristiani non ci
trovavano sinagoghe dove potessero predicarla, sicome fecero nel-
l'Asia, neir Affrica, nella Grecia, Macedonia, Illirico, in Italia e
fino nella Spagna; come anche perché i viaggi erano non tanto
lunghi, quanto pericolosi, alpestri e disagiosi, dovendo traversare
fra gente inospita e selvaggia, ed allora fuori del commercio degli
uomini e de' confini dell'orbe romano. E sicome sempre più si
andava avanzando la religione cristiana, così la pagana andava nelle
città rovinando: sicché questa fu poi veduta ristretta ne' paghi,
vichi e villaggi, i quali sono gli ultimi a deporre le loro antiche
usanze: onde avvenne che la religione gentile fossesi poi detta
pagana, poich'era solamente ritenuta ne' paghi presso i rustici ed
uomini di campagna i quali furon gli ultimi a deporla.
Non è dubbio che Costantino volgendo poi l'aquila romana da
Occidente in Oriente contro il corso del cielo,1 recasse a Roma ed
in Italia non pur cangiamento, ma fosse cagione della mina dell'Im-
perio di Occidente invaso da più straniere ed inculte nazioni ; nul-
ladimanco se Italia e Roma per questo passaggio perde il preggio
di esser capo dell'orbe romano, per Costantino ne acquistò un
maggiore. Ciò che sarà il soggetto di questo ultimo discorso.
i. volgendo . . . cielo: cfr. Dante, Par.» vi, 1-2.
APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
NOTA INTRODUTTIVA
L Apologia de9 teologi scolastici è probabilmente l'opera a cui il
Giannone ha dato maggior importanza fra quelle scritte in carcere.
Più che non i Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, frutto di un lavoro
intenso, ma occasionale, si riallaccia per tanti versi al Triregno, ri-
prendendone ed ampliandone i temi. La prima idea può risalire al
periodo trascorso a Torino, quando il padre Giovan Battista Prever,
che aveva avuto dal marchese d'Ormea l'ordine di portarlo all'abiura
in sei mesi, trovandolo singolarmente docile, gli offrì in lettura al-
cuni libri, fra cui il De civitate Dei di sant'Agostino: «come parato a
me il più adattato a maggiormente istruirlo, e confermarlo nel suo rav-
vedimento». Lo stesso padre Prever, a cui fu dedicata l'opera (un
buon oratoriano che non brillava certo per intelligenza, ma se mai per
un'umanità pietosa e caritatevole), scrisse ancora nella Relazione sin-
cera: «Voleva per fine dare di mano ad un'opera, ed era anche se-
condo il mio desiderio, per trattare delle massime del Vangelo e
di quelle del mondo, e già ne avea in mente l'idea e l'ossatura, e me
ne fece una distinta narrazione, di cui ero contento, ma Iddio di-
spose altamente, perché caduto infermo fu troncato il filo dell'o-
pera e della vita . . . ».x II Prever parla quindi dell'Apologia come
di un'opera scritta verso la fine della vita del Giannone, ma que-
sto non è in contraddizione con quanto si affermava precedente-
mente, che almeno l'idea risalga al primo soggiorno torinese e sia
stata elaborata in una prima stesura fra il 1739 e il 1740. Anzi sotto
questo aspetto le osservazioni di Maria Begey2 che la considera
precedente V Istoria del pontificato di Gregorio Magno (e quindi da
collocarsi appunto fra il 1739 e il 1740) sono solo parzialmente esat-
te. Infatti il Giannone la scrisse subito dopo i Discorsi. Ma appar-
tengono al periodo 1739-1740 i capitoli i-m del libro I,3 mentre
i capitoli iv-X* sono stati evidentemente scritti dopo il 1745, quan-
do, trasferito nuovamente a Torino, potè utilizzare i libri forniti
dal residente inglese Arthur de Villettes.5 Infatti sono costruiti col
1. Relazione sincera di quello che ho osservato e conosciuto ne* sentimenti del
fu avvocato P. Giannone napolitano, sì per il tempo che visse, e n'ebbi la dire-
zione, che in occasione della di lui morte, datata Torino, io febbraio 1749.
Vedila in Osservazioni critiche di G. A. Tria . . . intorno alla polizia della
Chiesa che si legge . . . ne' quattro tomi della Storta civile del regno di Napoli
scritta da P. Giannone, Roma 1752, pp. xii-xrv. 2. M. Begey, Per un'ope-
ra inedita di P. Giannone, in «Memorie dell'Accademia delle scienze di
Torino», serie 11, tomo lui (1903), pp. 181-220. 3. Apologia, in Archivio
di Stato di Torino, manoscritti Giannone, mozzo v, ins. 2, ce. 5-25- 4- Ibid.,
ce. 26-60. 5. Cfr. Giannoniana, p. 490; cfr. ancora G. Ricuperati, L'espe-
rienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1970, pp. 564-81.
792 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
materiale di cui rimangono gli appunti datati dopo il 1745 e riguar-
danti la lettura di Thomas Hobbes, Richard Cumberland, Jean Bar-
beyrac.1 Il capitolo XI e la restante parte dell'opera appartengono in-
vece agli anni precedenti: infatti il capitolo xi era un vili cancellato
e corretto, e così via. Alcune date ne possono precisare meglio lo
sviluppo : tornato da Torino con l'idea di utilizzare le proprie letture
dei Padri, il Giannone, ancora impegnato con i Discorsi, scrive al
Prever da Ceva il 23 febbraio 1739 raccomandandoglieli.3 Esatta-
mente un anno dopo, l'8 aprile 1740, stende sotto forma di lettera
allo stesso Prever la minuta della prefazione della nuova opera, che
probabilmente, almeno in una prima stesura, era finita.3 Un'altra
cosa da osservare: l'ultima parte riguardante Gregorio Magno non
è altro che la traccia per V Istoria del pontificato* Nel manoscritto
dell'afona del pontificato di Gregorio Magno c'è, cancellato, libro
11. Il Giannone aveva pensato quindi questa seconda opera, termi-
nata nel 1742, come uno sviluppo da un progetto unitario ; successi-
vamente l'analisi della figura del pontefice e delle sue epistole ha
ottenuto una totale autonomia. Quindi la parte centrale deW.3 Apologia,
aggiunta fra il 1746 e il 1747, è stata l'ultima fatica del Giannone.
La cronologia viene ad assumere un'importanza notevole nell'ana-
lisi di quest'opera, in quanto esprime due situazioni psicologiche ed
umane molto diverse: la prima stesura, nata per fine apologetico e
per convincere della serietà della propria conversione, è più prudente
e priva, almeno in apparenza, di esplicite affermazioni poco ortodos-
se. Anzi, vi è un'esaltazione, contenuta ma più volte richiamata,
dell'arte della perfezion cristiana del cardinal Sforza Pallavicino,5 che
sembrerebbe far pensare ad un certo adeguamento del Giannone, a
un suo conformismo poco coraggioso, anche se comprensibile. In
realtà non è così: il paradosso di definirla Apologia nasce dal fatto
che è una difesa degli scolastici solo in quanto tutti i loro errori
vengono fatti risalire ai Padri. Tale difesa paradossale, che sposta
le défaillance^ del cristianesimo agli stessi Padri, utilizza la polemica
libertina, protestante, deistica e giusnaturalistica.6 In quest'opera
1. Ibid., pp. 601-15. 2. Archivio di Stato di Torino, manoscritti Giannone,
mazzo v, ins. 4, B, 2. 3. Ibid., mazzo 1, ins. 15, A. 4. Ibid., mazzo v,
ins. 1, e. 5. 5. Arte della perfezion cristiana del card. Sforza Pallavicino
divisa in tre libri, Venezia 1666 e Milano 1666. La prima edizione, Roma
1665, era anonima. 6. Per quanto riguarda i precedenti che il Giannone
poteva trovare nella cultura napoletana cfr. quanto afferma V. I. Compa-
rato, Giuseppe Valletta. Un intellettuale napoletano della fine del Seicento,
Napoli 1970, nel capitolo v, sulla libertà filosofica, in particolare p. 212.
Per i rapporti fra il Giannone e il Valletta cfr. quanto dice L. Marini, Il
Mezzogiorno d'Italia di fronte a Vienna e a Roma e altri studi di storia meri-
dionale, Bologna 1970, su un tentativo di edizione di un'opera del Val-
NOTA INTRODUTTIVA 793
(nella prima stesura) l'elemento più rilevante era la critica severis-
sima contro il rigorismo e il quietismo. Il primo è visto sia nel mondo
cattolico, come giansenismo, sia nel mondo protestante, come calvi-
nismo. Manca invece ogni accenno al pietismo. Tutti e due gli er-
rori risalgono a sant'Agostino, verso cui il Giannone ha un senti-
mento contraddittorio, di ammirazione, ma anche di irritazione per
gli aspetti irrazionalistici, che hanno appunto favorito il quietismo.
Per questa demolizione della tradizione religiosa, scientifica e mo-
rale dei Padri, che mostra la loro inadeguatezza come modelli assoluti
e la loro responsabilità nei successivi errori della Scolastica, il
Giannone si serve, con spirito veramente illuministico, dell'opera di
un erudito gesuita del Seicento, le Stnore, di Giovanni Stefano Me-
nochio,1 una specie di curiosissima enciclopedia delle opinioni favo-
lose, assurde, degli aneddoti più strani riguardanti soprattutto la
storia ecclesiastica. Tale utilizzazione è veramente l'operazione più
illuministica compiuta dal Giannone, che con intelligente ferocia si
fa consegnare gli aneddoti più paradossali per screditare i Padri
creduli, spesso creatori di tali leggende. Forse il Menochio gli era
capitato per caso fra le mani in carcere, ma nessuna scelta poteva
essere più felice di questa in quanto le Stuore, che precedono di
qualche decennio il Tractatus theologico-politìcus di Spinoza, sono
il tipico prodotto di quella cultura che la crisi della coscienza eu-
ropea avrebbe cancellato: un coacervo disordinato ed acritico di
leggende, di erudizione e di problemi filologici, in cui il Giannone
affonda il rasoio della sua consapevolezza ormai illuministica. Si
ripeteva (fatte le debite distanze) quanto era capitato al Moreri
con il Bayle.2 Il risultato (in questa prima stesura) era che dopo la
distruzione dei Padri, fra rigorismo e quietismo, il Giannone sce-
glieva un cristianesimo «ragionevole»; e non importa che per deli-
nearlo si servisse di un testo gesuitico come VArte della perfezion
cristiana. Essere cristiani gli appariva un'arte che non imponeva al-
cuna deformazione del senso della vita: e da essa apparivano lontani
tanto coloro che credono a un Dio di pura e rigorosa giustizia, senza
amore, quanto coloro che si sentono giustificati irrazionalmente e
misticamente dalla divinità. Il richiamo al Pallavicino è natural-
mente un pretesto. Nella morale del gesuita, piena di tollerante las-
letta da parte del Giannone, a Vienna, p. 203. Temi analoghi sono presenti
in Costantino Grimaldi: cfr. V. I. Comparato, Ragione e fede nelle Discus-
sioni istoriche, teologiche e filosofiche di Costantino Grimaldi, in autori vari,
Saggi e ricerche sul Settecento, Napoli 1968, pp. 49-93. 1* Su Giovanni
Stefano Menochio cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile ecc., cit., p. 567.
2. Louis Moreri (1643-1680), erudito francese, autore di un Grand diction-
naire historique . . ., Lyon 1674, dal quale criticamente prese le mosse il Bayle.
794 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
sismo, il Giannone insegue il suo cristianesimo «ragionevole», in
una dimensione in cui non e* era più posto per il rigorismo giansenista.
La polemica, ancora una volta, colpiva a tempo giusto : l'alleanza fra
spirito riformatore e giansenismo si stava ormai spezzando comple-
tamente. Lontano dai clamori delle polemiche giurisdizionalistiche
in cui il giansenismo era stato per lungo tempo un alleato, non esita
a scoprirne il volto reazionano o per lo meno anacronistico. Questo è
il senso di un'opera singolarmente vicina all'eudemonismo illumi-
nistico:1 i capitoli aggiunti, più che modificarne la direzione, ren-
dono esplicito il discorso, lo confortano con una documentazione che,
probabilmente non sconosciuta, ma ricordata a memoria dagli anni
precedenti, viene ricostruita più direttamente sui testi fra cui si inseri-
sce. E ancora una volta ~ quando ormai il Giannone ha la consapevo-
lezza che non uscirà vivo dal carcere e quindi è meno condizionato
dalla prudenza - conferma quel cattolicesimo ragionevole e deistico,
che ha profondamente radicato il senso del dialogo. Fin dalla pre-
messa afferma che il padre Prever, a cui è dedicata l'opera, non do-
vrà scandalizzarsi se troverà citati con onore autori protestanti. Solo
in tempi più recenti si è presa l'abitudine superstiziosa da parte di
qualche fanatico di rifiutare in blocco il pensiero di chi è fuori dal
mondo cattolico. Egli pensa che non sia affatto il caso di temere di
servirsi di autori protestanti. In quest'opera, oltre alla riconferma di
alcuni motivi del Triregno, agisce una componente che deriva so-
prattutto dalla cultura protestante. Prima di tutto c'è una notevole
somiglianza anche strutturale fra V Apologia e il Traile de la morale
des Pères di Jean Barbeyrac.2 Anzi l'unico modo di comprenderla è
di inserire l'opera del Giannone in un dibattito a cui non è rimasta
estranea qualche frangia del mondo intellettuale cattolico, come il
gruppo mainino, o Louis Ellies Du Pin. Già nel Triregno il Gian-
none aveva utilizzato il De usu Patrum di Jean Daillé3 che iniziava
da parte ugonotta la critica ai Padri come interpreti della Sacra
Scrittura e depositari della tradizione. Un'altra opera conosciuta dal
Giannone è quella di Daniel Whitby, Dissertatio de Scripturarum
interpretatione secundum Patrum commentariosf in cui si completava
la demolizione della loro autorità, come interpreti della Bibbia, iniziata
i. R. Mauzi, L'idée du bonheur au XVIII siede, Paris i960; cfr. anche
C. Rosso, Illuminismo Felicità Dolore. Miti e ideologie francesi, Napoli 1969.
2. Amsterdam 1728. 3. J. Daillé, De usu Patrum ad ea defimenda reti-
gionis capita, quae sunt hodie controversa, libri duo latine e gallico nunc pri-
mum a I. Mettayero redditi, ab auctore recogniti, aneti et emendati, Gene-
vae 1656. La prima edizione, in francese, era stata edita nel 1632. 4. Lon-
dini 1714- Daniel Whitby (1638-1726), teologo anglicano, si era reso fa-
moso per le polemiche anticattoliche.
NOTA INTRODUTTIVA 795
dal Daillé. Ma il merito di proporre la discussione sulla morale dei
Padri era toccato nel 17 12 al Barbeyrac. Nella prefazione alla tradu-
zione francese dell'opera di Samuel Pufendorf Le droit de la nature
et des gens, aveva sostenuto, fondandosi sul Locke, una visione pura-
mente razionale del cristianesimo in cui tutti i Padri, da Tertulliano
ad Agostino a Gregorio, venivano rifiutati dal punto di vista di
un'etica moderna. In conclusione, per il Barbeyrac, quanti - fra
cattolici e protestanti - si facevano idolatri delle antichità cristiane
erano costretti ad accettare una morale contraria alla civiltà. La pre-
fazione fece scandalo, soprattutto nel mondo cattolico. I « Mémoires
de Trévoux» consigliarono ai lettori di Pufendorf di saltare la pre-
fazione, mentre il benedettino Remy Ceillier scrisse un' Apologie de
la morale des Pères de VÉglise contre les injustes accusations du sieur
Barbeyrac.1 Il bollente benedettino ebbe una prima risposta da Jo-
hann Franz Buddeus nella Isagoge historico-theologica7, e nel 1728
dallo stesso Barbeyrac, che scrisse il Traiti de la morale des Pères,
in cui allargava le tesi già espresse nella prefazione al Pufendorf,
documentando la sostanziale negazione di civiltà implicita nella mo-
rale dei Padri. L'opera recensita e riassunta lo stesso anno dalla
« Bibliothèque raisonnée», forse dallo stesso Barbeyrac, ebbe molta
diffusione. Servendosene, il Giannone la collega ad un'esperienza
più vasta, alla polemica deistica contro la tradizione cristiana, intesa
come istituzionalizzazione del sentimento religioso. Fin dalle pagine
iniziali vi è una conferma di tutte le tesi più importanti del Triregno :
gli Ebrei non concepivano che un regno terreno; mancava loro ogni
idea di quello celeste. Il pensiero di un inferno era nato presso i
farisei, per cui il cristianesimo primitivo è una mescolanza di tesi
farisee e sadducee. Anche se sul purgatorio e sul limbo attenua le
posizioni più radicali, sostanzialmente li ammette più per un atto
di fede che per un'intima convinzione. In realtà, fedele ad alcuni
atteggiamenti costanti della propria esperienza culturale e religiosa,
il Giannone accoglie anche questa volta certe esigenze radicali di fare
i conti con la tradizione tipiche del mondo deistico e le misura con
un discorso scientificamente più corretto. Ma in fondo, fra la irri-
dente e negatrice polemica di John Toland (che confuta il discorso
dei Padri per liberare dal mistero e quindi rendere «ragionevole»
quel cristianesimo che proprio i Padri con il loro gusto per le alle-
1. Paris 1718. Remy Ceillier (1688-1761), celebre erudito benedettino fran-
cese. L'opera contro il Barbeyrac fu il suo primo lavoro importante.
2. J. F. Buddei Isagoge historico-theologica ad theologìam universam singu-
lasque eius partes, Lipsiae 1727. Johann Franz Budde (Buddeus, 1667-
1729), teologo e filosofo tedesco fra pietismo e ortodossia luterana.
796 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
gorie avevano reso esoterico),1 e la volontà del Barbeyrac di spezzare
il nesso fra morale e tradizione religiosa, portando la propria sensi-
bilità di giurista contro l'etica e il diritto ricavati dal discorso patri-
stico, non c'è una distanza così profonda come a prima vista si po-
trebbe pensare : entrambi muovono consapevolmente non solo dalla
dicotomia spinoziana fra teologia e filosofia, ma soprattutto dal di-
scorso di Locke e dal suo cristianesimo «ragionevole».2 E ad esso si
richiama anche il Giannone, dopo aver offerto anche il suo contri-
buto a un'analisi demistificatrice della morale patristica. Infatti que-
st'opera, pur scritta in carcere e dedicata al suo confessore (quindi
con parecchie rinunce o per lo meno attenuazioni), non occulta una
delle caratteristiche principali della sua esperienza intellettuale: il
superamento delle differenze religiose, la radicale conclusione che la
cultura è un valore a cui partecipano tutti, senza distinzione. Ma
soprattutto chiarisce, attraverso la demolizione della Patristica, quan-
to già nel Triregno muoveva implicitamente verso l'eudemonismo
settecentesco e illuministico : la civiltà umana ha bisogno di una mo-
rale «ragionevole» non fondata sulla repressione e sul terrore.
Giuseppe Ricuperati
1. Cfr. P". Toland], Christianity not Mysterious . . ., London 1696. 2. Sui
precedenti cfr. J. Lecler, Histoire de la tolérance au siede de la Réforme,
Paris 1955, in due volumi. Su Locke cfr. C. A. Viano, John Locke. Dal
razionalismo alV Illuminismo^ Torino i960.
DALLA «APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI»
LIBRO I
Al molto Rev. P. Gio. Battista Prever1
sacerdote della Congregazione dell'Oratorio di
S. Filippo Neri di Torino.
In questa mia solitudine fra' deserti monti delle Langhe,2 per alle-
viare in parte la noia ed il tedio, e perché vie più s'avanzasse il mio
cammino per quella strada nella quale mi pose dello studio delle
cose sacre e religiose, ben proprio e conveniente alla mia vecchiaia,
richiesi V. R. di alquanti libri ne' quali per le precedenti cognizioni
credeva poter soddisfare il mio desiderio e metter in maggior quiete
l'animo mio e disporlo con più tranquillità all'ultima partita, richie-
dendogli alcuni autori non men dotti, che pii e prudenti, i quali, nel
dechinar dello scorso secolo e ne' princìpi del corrente diedero alla
luce opere veramente insigni, e degne de' loro alti e sublimi ta-
lenti.3 Ma fuor di ogni mia aspettazione, o perché V. R. non ebbe
Quest'opera è completamente inedita : il manoscritto autografo in Archivio
di Stato di Torino, manoscritti datinone, mazzo v, ins. a. Cfr. M. Begey,
Per un'opera inedita di P. Giannone cit. L'elenco dei sette libri in cui è
divisa, dei capitoli e paragrafi, con il riassunto di alcuni passi, in Nicolini,
Scritti, pp. 57 sgg. (ma sbaglia ncll'afTermare, a p. 58, che la numerazione
dei capitoli del 1 libro è errata: gli è sfuggito il cap. 11, Dispute intorno alla
creazione del mondo, a e. 6v). Cfr. G. Ricuperati, Le carte torinesi di P.
Giannone, in «Atti e Memorie dell'Accademia delle scienze», Torino 1963,
p. 67; Giannoniana, pp. 456-7, e ancora G. Ricuperati, V esperienza civile e
religiosa ecc., cit., pp. 564-81. Il titolo primitivo era: Dell'uso ed autorità
degli antichi Padri, spezialmente di Lattanzio Firmiano, de' libri di S. Agosti-
no e delle opere di S. Gregorio Magno. Quello definitivo, per esteso, è:
Apologia de' teologi scolastici, overo dell'avvertenza e somma cautela che dee
aversi in leggendo gli antichi Padri, e spezialmente Lattanzio Firmiano, i libri
di S. Agostino e di S. Gregorio M>; e che a' nostri tempi questi studi saranno
meglio e con maggior profitto impiegati sopra l'opere de' nuovi saggi ed accurati
scrittori, come più esatti, più utili e più sicuri (a e. 5).
i. Gio. Battista Prever (1 684-1 751), oratoriano, canonico di Giaveno, con-
fessore del Giannone su designazione dell' Ormea. La minuta di questa
dedica, colla data dell' 8 aprile 1740, in Archivio di Stato di Torino, mano-
scritti Giannone, mazzo 1, ins. 15, A. 2. Langhe: regione del Piemonte me-
ridionale in cui sorgeva il castello di Ceva dove il Giannone fu prigioniero
dal 1738 al 1745. 3. autori . . . talenti: il Giannone chiarirà soprattutto
nell'ultimo libro dell'Istoria del pontificato di Gregorio Magno il suo interes-
se verso gli autori «moderni». Ma tutta l'Apologia è legata a questo tema.
798 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
agio di potermeli procurare 0 per qual che si fosse altra cagione, mi
furori resi da questo signor comandante del castello di Ceva sola-
mente i libri di Lattanzio Firmiano i1 cinque tomi nemmeno con-
tinuati dell'opere di S. Agostino, malamente stampati in Venezia
in 40 nel 1570* e le opere di S. Gregorio Magno.3 Ma non per ciò
tralasciai di rendernele debite grazie; poiché in tanta penuria fra'
luoghi miseri, inospiti e selvaggi, pure mi furono di sollievo, facen-
domi la loro lezione passar con minor tedio e rincrescimento le
ore penose di questa mia infelice prigionia; ed affinché l'afflitto
mio cuore, e da continuo merore cruciato,4 si confortasse alquanto,
e la mia mente si sviluppasse nel miglior modo che si potesse da
tetri e malinconici pensieri, volli più intensamente occuparla in
profonde speculazioni ed in più alte ricerche, alle quali fui spinto
dalla lezione de* libri sudetti; e doppo varie riflessioni ed accorgi-
menti, maggiormente mi confermai nel concetto che io teneva de*
Padri antichi, e conobbi che a* nostri felicissimi tempi ne* quali
questi sacri studi si sono cotanto avanzati, e quasi che posti nel-
l'ultimo punto di perfezione da' nostri ultimi scrittori ecclesiastici,
i vecchi Padri devono sì bene venerarsi, ed avergli in somma stima,
e valersene per ciò che riguarda l'istoria e la disciplina ecclesiastica
de' loro tempi, ma non già proporsi oggi a* studiosi per principal
materia, e sola occupazione de' loro ingegni, intorno alla quale
dovessero unicamente raggirarsi ed impiegare i lor talenti: sicché
non curando i nuovi scrittori e forse disprezzandogli, dovessero
abbandonarsi ne* sentimenti de' vecchi, adottando la lor dottrina
e valersene così per ciò che riguarda il dogma, come la morale e la
disciplina, facendone rapporto a ciò che presentemente tiene ed
insegna la nostra comune madre e cattolica Chiesa romana. S'in-
ciamparebbe, ciò facendo, in molti e gravissimi errori, in manifeste
eresie, in portentosi e strani deliri ed in isconci paralogismi. Si
darebbe di petto a tante contradizioni, confusioni e scompigli, da
metter sossopra ed in un caos tutta la morale, la dottrina e la
presente disciplina della Chiesa. A questo fine io riputai sempre
esser più utile e sicuro rivolgere, ed aver nelle mani, non già i
1. i libri . . . Firmiano: L. Coelii Lactantii Firmiani Opera quae extant,
Oxonii 1684. 2. cinque tomi . . . 15701 Augustini Opera, Venetiis 1570,
in sei volumi. 3. le opere . . . Magno: Gregorii Magni Opera omnia quae
reperiri potuerunt, Parisiis 1615, in due volumi. 4. da continuo merore
cruciato: tormentato da continuo affanno (latinismo).
libro i 799
vecchi, ma i nuovi ed accurati scrittori, i quali con sommo studio
ed accurata critica, non discompagnata da profonda dottrina ed
erudizione, non solamente han saputo meglio illustrar i nostri li-
bri sacri, esporgli più nettamente senz'enigmi, inviluppi e mistiche
intelligenze, ma eziandio accommodargli al sistema presente se-
condo i nuovi lumi e le nuove determinazioni della Chiesa, e nel
tempo istesso avvertir anche i lettori de' tanti errori ed abbagli de'
Padri antichi, de' quali dovessero farne buon uso, ed accortamente
e con molta cautela leggergli, e non già ciecamente abbandonarsi
alla loro autorità, senza prima farne esatto scrutinio e diligente
esame.
Conoscerà V. R. da quest'opera che attorto sono incolpati i teolo-
gi scolastici de* secoli a noi più prossimi di aver conturbata la di-
vina parola, trattandola come una scienza moderna, e com'essi
fossero stati i primi, aprendosi un più largo campo, di aggiungere
alla teologia umana ragioni tratte dalla filosofìa e dall'altre scienze
terrene, di aver corrotta la morale e con ciò posto il tutto in disor-
dine e confusione. Al paragone di quel che i primi teologi, fin dal
I secolo della nascente Chiesa, e de' seguenti, fecero mescolando
le cose divine colle umane, spariscono gli errori ed i vaniloqui di
questi secondi, e sono tanto più questi scusabili, in quanto che da'
primi Padri ne furon date le mosse, ed essi furono le prime origini
e le prime cagioni di tanto male e di tante confusioni e disordini.
Conoscerà V. R. che con tutto che si fosse studiato di mandarmi
le opere di S. Agostino, le quali in ciaschedun tomo portano in
fronte questa sicurtà, o mallevadoria: «curavimus removeri ea
omnia, quae fidelium mentes haeretica pravitate possent inficere,
aut a catholica et orthodoxa fide deviare»,1 nulladimanco troppo
neghittosi e melensi furono questi espurgatori, i quali in vece di
darci un S. Agostino al lor credere purgato e limpido, l'han mag-
giormente cospurgato e reso inutile. Non è questa la via di darci
purgati con nuove ristampe i Padri antichi, ma quella che a' nostri
tempi han tenuta i più dotti e prudenti editori, spezialmente i
Benedettini della Congregazione di S. Mauro,2 i quali tutte intere,
non tronche, non mutilate, ci han date le loro opere così come le
i. « curavimus . . . deviare»: «abbiamo procurato di rimuovere tutto ciò
che per pravità eretica potesse guastare la mente dei fedeli e deviarla dalla
fede cattolica ortodossa». 2. spezialmente . . . Mauro: cfr. l'edizione mau-
rina degli Opera di Agostino, Parisiis 1679- 1700, undici tomi in quindici
volumi.
800 APOLOGIA DE5 TEOLOGI SCOLASTICI
scrissero ; e con dotti e savi avvisi han avvertito i lettori della pre-
sente disciplina e delle nuove determinazioni della Chiesa, affin-
ché non s'inciampasse negli antichi errori, e sapessero che quel che
prima era variamente tra' Padri antichi disputato, oggi da' concili
e dalla Sede appostolica era stato deciso, né accadeva più porlo
in disputa: sicché quella credenza dovessero tenere, ch'era dalla
Chiesa ora insegnata e professata, senza invilupparsi fra le antiche
dispute e discordanti pareri. Male de me actum foret1 se dovessi
oggi conformarmi all'antica lor credenza; ed in vano mi sarebber
riuscite le affettuose sue esortazioni da Dio ispirategli, per le quali
fui indotto a cercar perdono delle mie follie, ed a ritrattarmi de*
miei passati errori, sicome conoscerà chiaramente da quest'opera,
la quale ho voluto indrizzare alla vostra carità e piacevolezza in
dimostrazione delle tante obbligazioni che le professo, e porla
unicamente sotto i purgatissimi suoi occhi e ne' secreti recessi del
suo cuore, pregandola a non confidarla ad alcuno, affinché non
potendo per le sue pietose occupazioni aver questo tempo di leggere
tanti lor volumi, abbia un saggio della lor dottrina, ed avvertire i
vostri allievi nello spirito di esser cauti ed attenti nella loro le-
zione.
Di due cose prima di cominciare devo avvertirla: i. Di non
riputar mal fatto se tra' teologi de* tre primi secoli, i quali diedero
in isconci errori e perniciose eresie, mescoli i Padri antichi; poiché
questi se ben none adottassero le strane loro opinioni ed i lor por-
tentosi deliri, nulladimanco diedero pure di petto ad altri errori,
anzi alcuni seguitarono le loro tracce abbracciando alcune loro
fantastiche idee; ed altri, se bene sopra punti non ancor dalla Chiesa
decisi, sostennero dottrine false, e volerle al presente tenere s'in-
ciamparebbe a manifeste eresie; tal che se que' Padri dalle lor
tombe sorgessero, e volesser fra noi ritenerle, e non ritrattarle, non
sarebbero esenti oggi dalle pene che infligge a' miscredenti il tri-
bunal dell'Inquisizione. Sicché la differenza fra di loro è fra il poco
e il molto, ma tutti furon tinti d'una medesima pece, chi per un
verso e chi per un altro; onde non deve maravigliarsi se le vedrà
mescolati insieme. L'altra avvertenza che dovrà avere, è di non
parerle strano se tra' scrittori e teologi moderni si commendino
anche que' che non sono della communione della Chiesa romana,
x. Mede de me actum foret: «sarebbe malamente finita per me».
LIBRO I 801
ma addetti o alla Chiesa anglicana, o ad altra Chiesa, che professi
la religion reformata, concessi la pretendono. Di questo scrupolo
nato dalla ignoranza d'alcuni spigolistri de* nostri tempi, non ne
furono certamente assaliti i Padri antichi della Chiesa, né gli scrit-
tori savi e dotti de' nostri tempi, i quali ancorché fossero cattolici
romani non hanno alcuna ripugnanza di allegare, e valersi quando
bisogna di autori protestanti; seguendo in ciò Fessempio de' Padri
antichi, i quali non perché si opponessero alle eresie ed opinioni de'
loro antigonisti, lasciavano1 sovente di valersi, ed allegare i loro
libri, quando in essi vi leggevano dottrine buone e sane, ancorché
riprovassero le false; secondo che n'erano ammaestrati da S. Paolo,
il quale inculcava a' suoi, che di tutto facesser pruova, e rifiutato il
pravo, ritenessero il buono: «Omnia probate, quod bonum est,
tenete».2 Per tralasciar moltissimi essempi degli antichi, S. Ago-
stino ancorché avesse per eretico Ticone,3 come donatista, con
tutto ciò in alcune cose lo loda e si vale di lui, sicome fa di Tertul-
liano e d'altri autori contaminati d'eresia. De' moderni i più saggi
e dotti non hanno avuto difficultà alcuna d'imitargli, sicome per
tralasciar altri fecero il P. Petavio4 gesuita ed altri moltissimi; ed il
P. Mabillon dotto benedittino non solo l'allega, ma nel suo trat-
tato De' studi monastici5 fino a' suoi monaci permette che nelle loro
biblioteche possano aver di simili autori per profittare delle loro
ingegnose speculazioni indifferenti e che non contrastino alla dot-
trina della Chiesa romana. Sicché se fra' nostri scrittori cattolici
che si commendano leggerà anche autori riformati, come un Gro-
zio, un Relando, un Bocarto, un Usserio, un Marsham, un Prideux,6
i. lasciavano: correggiamo il «lascivano» del manoscritto. 2. « Omnia
tenete»: I Thess., 5, ai. 3. Ticone: Ticonio, donatista morto dopo il 400
d. C. Ebbe grande influenza su Agostino. Cfr., di quest'ultimo, Contra
epistolas Parmeniani libri tres, 1, 1, in Migne, P. L., xliii, col. 34: «Thico-
nium, hominem quidem et acri ingenio praeditum et uberi eloquio, sed
tamen donatistam». 4. Petavio: Denys Petau (1583-1652), gesuita fran-
cese autore dell' Opus de doctrina temporum, Lutetiae Parisiorum 1627, in
due volumi. 5. Jean Mabillon (1 632-1707), monaco benedettino francese,
De studìis monasticiSf Venetiis 1729, in due volumi. Cfr. in Archivio di
Stato di Torino, manoscritti Giannonet mazzo 1, ins. 15, N, gli appunti del
Giannone tratti da quest'opera del Mabillon. Su di lui cfr. H. Leclercq,
Dom Mabillon, Paris, 1, 1956, n, 1957- Cfr. soprattutto, del tomo 11, il
capitolo XXII, Mabillon et Vabbé de Pance. Le traiti des études monastiques,
pp. 503 sgg. 6. Grozio (cfr. la nota 2 a p. 55) è certamente uno degli
autori più cari al Giannone. Cfr. in Archivio cit., manoscritti Giannone,
mazzo I, ins. 15, O, gli appunti del Giannone tratti dal De veritate religionis
802 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
ed altri, non deve offendersene, per aver questi, precisa la lor cre-
denza, date alla luce del mondo opere veramente dignissime di
lode.
CAP. Ili
Delle ricerche fatte sopra l'uomo, sopra la natura delle anime
umane, loro immortalità, stato doppo la morte de' corpi,
e resurezione de' medesimi.1
Per ciò che riguarda la nostra religione e la salute delle nostre
anime, bastava che fossimo assicurati dalla divina revelazione dalla
propria bocca di N. S. della loro immortalità, e che non dovessimo
temere di quelli che uccidono il corpo, poiché «animam» e' disse
«occidere non possunt»;a con tutto ciò i nostri primi teologi, as-
sumendo la persona ed ufficio di filosofi, come se tali ricerche si
appartenesser alla nostra religione vollero fisicamente esaminare la
natura delle medesime, di qual genere di sostanza fossero, come se
create dal niente ovvero per propagine negli uomini derivassero,3
e per quali fisiche e morali ragioni si dimostrassero immortali;
nelle quali dispute molti caddero in gravissimi e perniciosi errori.
christianae, Hagae Comitis 1718, a cura di J. Le Clerc. Gli appunti sono
datati «maggio 1747». Relando è Adriaan Reeland (1676-1718), orientalista
olandese, allievo del Graevius. Il Giannone si riferisce soprattutto a Pa-
lestina ex monumentis veteribus illustrata, Traiecti B. 1714, in due volumi.
Bocarto: Samuel Bochart: vedi la nota s a p. 568. Usserio: James Usher:
vedi la nota 1 a p. 666. John Marsham (1602-1685), scrittore inglese, autore
del Chronicus canon aegyptiacus, hebraicus, graecus, et disquisitiones, Londi-
ni 1672, in cui è rifusa la maggior parte della precedente Diatriba chronolo-
gica (1649). PnVfciiac : Humphrey Prideaux (1648-1724), orientalista inglese:
cfr. la sua Histoire des Juifs et des peuples voisins depuis la décadence des
royaumes d* Israel et de Judas jusqu'à la mort de Jesus Christ, Paris 1742,
in sei volumi. Cfr., alla Biblioteca Reale di Torino, Var. 303, ce. 1-62, le
osservazioni inedite del Giannone su quest'opera del Prideaux, letta fra il
1 gennaio 1747 e il 28 settembre dello stesso anno. 1. In questo capitolo
il Giannone riprende e sviluppa uno dei temi fondamentali del Triregno.
2. «animam . . . possunt»: Matth., io, 28. 3. per propagine . . . derivassero:
si tratta del traducianesimo, di cui i principali sostenitori furono Tertul-
liano in senso materialistico (l'anima deriva dai genitori attraverso il seme)
e Agostino. Sull'importanza delle tesi di quest'ultimo nella cultura europea
cfr. J. Roger, Les sciences de la vie dans la pensée franpaise du XVIII siede,
Paris 1963, passim, ma soprattutto p. 329, dove si analizzano le tesi del
libro X del De Genesi ad litteram, dedicato al problema dell'anima.
LIBRO I • CAP. Ili 803
Coloro che vollero esaminarne la natura e la sostanza diedero in
opposte e contrarie opinioni secondo la varietà delle sette de' filosofi
che seguitavano. I priscillianisti,1 de' quali fu capo in Ispagna Pri-
scilliano, vescovo di Merida, fra gli altri errori insegnavano che
l'anime umane fossero della stessa natura e sostanza della quale
era Dio. I luciferiani2 surti in Sardegna da Lucifero vescovo di
Cagliari, insegnavano il contrario, ed esser tanto lontano che le
anime fossero della stessa natura di Dio, che anzi le facevano cor-
poree, e trasfondersi e generarsi con i corpi, ed essere di sostanza
di carne, e dalla carne derivare; e poiché questa dottrina esser
l'anime corporee non era stata ne* primi secoli dalla Chiesa né
rifiutata, né affermata, lasciandosi in libertà de* vecchi Padri di
disputarla a lor arbitrio, quindi alcuni costantemente le asserivano
corporee, infra gli altri Tertulliano,3 il quale se bene affermasse
l'anime umane esser immortali, le credeva però corporee, anzi che
lo stesso pensare fosse atto di corpo, dicendo: «ipse cogitatus actus
corporis est»; e Lattanzio Firmiano, il qual pure le fa immortali,
nel libro De opificio Dei* non riputò falsa l'opinione d'alcuni filoso-
fi, che le facevano eteree, o di fuoco, 0 di esile e tentassimo vento,
o spirito; sicome diremo trattando de' suoi libri. Quindi S. Ago-
stino, se bene fosse di contrario sentimento, facendole spiritali e
incorporee, con tutto ciò non per questo riputò Tertulliano eretico,
ma sì bene per esser passato nella credenza de' catafrigi,5 i quali
dannavano come stupri le seconde nozze, contro ciò che dall'appo-
1. priscillianisti: seguaci di Priscilliano (345-385), vescovo eretico di Avila.
Negano la trinità e separano l'anima dal corpo, che è frutto del male, men-
tre per Panima seguono la teoria emanatista di origine gnostica. 2. luci-
feriani: seguaci di Lucifero da Cagliari, vescovo di questa città dal 370:
sono rigoristi. L'interesse del Giannone per questa setta nasce dalle parole
di Agostino (cfr. De haeresibus ad Quodvultdeum liber unus, lxxxi, in Migne,
P. L., xlii, col. 45) che riferisce che i luciferiani credevano anche l'anima
generata col corpo dai genitori. 3. infra gli altri Tertulliano: nel Liber de
anima, v-vili, in Migne, P. L., li, coli. 652 sgg. Per la citazione che segue
cfr. il Liber de resurrectione carnis, XV, ibtd., col. 814: «cogitatus carnis est
actus». Il Giannone aveva già utilizzato il pensiero di Tertulliano sulla
corporeità dell'anima nel Triregno. 4. De opificio Dei, cap. xvn, De
anima deque ea sententìa philosophorum, in Migne, P. L., vii, coli. 68 sgg.
5. catafrigi: è uno dei tanti appellativi dei montanisti. Praticavano un ri-
goroso ascetismo in attesa della parousia.
804 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
stolica dottrina era tenuto, onde nel libro De haeresibus1 indrizzato
a Quodvuldeo scrisse: «Non ergo ideo est Tertullianus factus
haereticus, sed quia transiens ad Cataphryges, quos ante destru-
xerat, coepit etiam secundas nuptias contra apostolicam doctrinam
tanquam stupra damnare». Ma Tertulliano passò più innanzi, af-
fermando non pur gli angeli, ma lo stesso Dio esser corporeo f
ciò che diede la spinta a Tomaso Hobbes nel suo Leviathan3 di
francamente dire Dio esser corpo, sul supposto che chi dice «so-
stanza immateriale ed incorporea» dice nulla, non potendosi con-
cepir sostanza senza corpo. La disavventura di Hobbes fu che la
Chiesa anglicana si trovava già sin dall'anno 1562 nel trentesimo
nono articolo aver espressamente deciso: «Deum esse sine cor-
porea e se bene Hobbes dicesse che nella S. Scrittura non era ciò
dichiarato, e ch'essendo questa una questione di filosofìa, non ap-
parteneva alla Chiesa deciderla, con tutto ciò fu obbligato a ritrat-
tarsene, sicome fece nel libro De cive, cap. 15, n. 14.4 Parimente
S. Agostino non riputò eretico Tertulliano perché teneva l'anime
umane «per traducem propagari», e secondo dicevano i luciferiani,
«ex transfusione generari»; poiché S. Agostino istesso fu sempre
dubbio e vacillante, se l'anime umane si propagassero ex traduce,
ovvero fossero nella concezione de* feti da Dio dal niente create;
e per questa ragione disputando egli intorno alla natura dell'anima
e sua origine con Vincenzo Vittore,5 per altri suoi errori, non già
perché riputasse l'anime corporee, lo qualificò per eretico, ancor-
ch'egli sostenesse che fossero spiritali ed incorporee, sicome più
ampiamente diremo, quando tratteremo dell'uso ed autorità che
dovrà tenersi de' suoi libri. Quindi degli stessi luciferiani scrivendo
a Quodvuldeo, sospese il suo giudizio se doveano per ciò riporsi
1. De haeresibus cit., lxxxvi, col. 47. 2. Ma Tertulliano , . . corporeo: cfr.
Liber adversus Praxeam, vii, in Migne, P. L., 11, col. 162: «Quis enim ne-
gabit Deum corpus esse, etsi Deus spiritus est?». 3. Leviathan, London
1651. 4. De rive, Amsterodami 1647. Questo testo era a disposizione del
Giannone e fu letto nel maggio 1747. Cfr. infatti Archivio di Stato di To-
rino, manoscritti Giannone, mazzo 1, ins. 15, O, ce. 5-8, gli appunti del Gian-
none tratti da questa edizione; ce. 8-9, gli appunti tratti da Le corps poli-
tique (traduzione di S. Sorbière), s. 1., 1652. Tutto il brano è però ripreso
da R. Cumberland, Traiti philosophigue des loix naturelles, Amsterdam
1744, p. 53, che il Giannone lesse nello stesso maggio 1747 (Archivio cit.,
mazzo 1, ins. 15, O, 6). Sul problema cfr. S. I. Mnsrrz, The Hunting of
Leviathan, Cambridge 1962, soprattutto pp. 145-6. 5. disputando . . .Vit-
tore: cfr. De anima et eius origine libri quatuor, in Migne, P. L.t xliv, coli.
475 sgg.
LIBRO I • CAP. Ili 805
fra il numero degli eretici.1 Vi furono però degli altri, i quali die-
dero in aperte bestemmie, sicome furono gli ermiani,2 i quali fa-
cevano autori delle anime umane gli angeli, non già Iddio, i quali
le infondessero ne' corpi, non già dal niente, ma le formassero
dallo spirito e dal fuoco. Altri insegnavano, fra' quali fu Vincenzo
Vittore,3 che Iddio infondesse l'anime ne' corpi umani, non già
creandole dal niente, ma derivandole dal suo spirito. Del qual
sentimento sembra che fosse stato Teodoreto,4 il qual anche cre-
dette avere Iddio insufflata l'anima ad Adamo « utique ex suis ipse
visceribus»; e S. Girolamo ad Eliod. scrisse pure: «Deus suis e
visceribus expromptam tibi in faciem et in pectus vitam indidit ».s
Ma i manichei diedero in più portentose e stravaganti frenesie.
Essi, ammettendo due opposti princìpi, sognarono in conseguenza
che s'infondessero ne' corpi umani due sorti di anima, l'una di
natura buona, l'altra di natura perversa e cattiva, e quindi nascesse
nell'uomo quel conflitto del quale parla S. Paolo; e S. Agostino
ragguagliando a Quodvuldeo degli errori de' manichei, fra gli al-
tri gli dice: «Easque duas animas, vel duas mentes, unam bonam,
alteram malam in uno homine inter se habere conflictum, quando
caro concupiscit adversus spiritum et spiritus adversus carnem »,6
ond'è che in confutazione di questa falsa dottrina scrivesse contro
i medesimi il libro De duàbus animàbus? E chi potrebbe annoverare
di questi e di altri fanatici quanto di strano fantasticarono sopra la
natura delle nostre anime: ciocché non si apparteneva punto alla
cristiana religione?
11
Ve ne furono ancora de' più arditi e temerari, i quali non ac-
quetandosi alla divina revelazione, vollero mettere anche in disputa
la loro immortalità, ed alcuni farle anche co' corpi morire: ripu-
1. Quindi . . . eretici', cfr. De haeresibus cit., lxxxi, col. 45. 2. sicome . . .
ermiani: cfr. ibid., Lix, col. 41. 3. fra7 quali. . . Vittore: c£r. De anima
ecc., loc. cit. 4. Teodoreto: vedi la nota a a p. 31. Le sue opere in Migne,
P. <?., lxxx-lxxxiv, ma non ci è riuscito di rintracciare il passo citato.
5. eS. Girolamo . . . indidit: due le lettere di Gerolamo a Eliodoro in Migne,
P. L., xxn : la xrv, coli. 347 sgg. e la lx, coli. 590 sgg. ; ma in nessuna di esse
c'è il passo qui citato (« Dio ti ha infuso nel volto e nel petto la vita traendola
fuori dalle proprie viscere»). 6. e S. Agostino . . . carnem: cfr. De haeresi-
bus cit., xlvi, coli. 34 sgg. La citazione a col. 38; il passo di san Paolo in
Gal., 5,17. 7. De duabus animabus contra manichaeos liber unust in Migne,
P. L.9 xlii, coli. 93 sgg.
806 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
tando non per ciò distruggersi la religione cristiana, né togliersi
doppo morte l'altra vita immortale ed eterna e la retribuzione se-
condo i meriti, poiché la generale resurezione ch'essi la credevano
non meno de* corpi che delle anime, riponeva tutto l'uomo nel suo
pristino stato: sicché ciascuno riceveva la pena, o il premio, secondo
che nel corpo si avea meritato. Si abusavano di quanto S. Paolo
inculcava a* Corinti, ep. i, e. 15, i quali dubbitavano della risul-
zione de' morti, dicendogli che se i morti non dovessero risuscitare,
sarebbe perduta tutta la loro speranza, e tutte le loro angoscie e
patimenti sarebbero riusciti vani, e sofferti senza speranza di pre-
mio alcuno, se l'uomo non fosse restituito per la resurezione nel
primiero suo stato. Si abusavano eziandio delle declamazioni di
Tertulliano contro coloro i quali negavano la resurezione della
carne, dicendogli che se toglievano la resurezione, toglievano e
buttavano a terra tutta la religione cristiana, il cui principal fon-
damento ed unica base era la resurezione, la quale era necessaria
poiché sicome tutto l'uomo, che non può concepirsi se non d'ani-
ma e di corpo, in sua mortai vita meritossi premio per le buone
opere, o castigo per le prave, così tutto l'uomo dovea essere resti-
tuito per godere 0 della vita beata, ovvero soffrir tormenti nel[l'in-
ferno].1
S. Agostino dal libro sesto dell'Istoria di Eusebio scrisse a Quod-
vuldeo che nell'Arabia erano alcuni eretici cristiani, ch'egli chiama
Arabici, « qui dixerunt » e' dice « animas cum corporibus mori, at-
que dissolvi, et in fine seculi utrunque resurgere ».2 In breve, sico-
me presso gli Ebrei vi fu gran contrasto sopra l'immortalità del-
l'anima tra farisei e sadducei, così pure tra' cristiani fra gli Arabici
ed altri cattolici delle altre nazioni; e sicome la sentenza de' farisei,
i quali erano per l'immortalità, era la più ricevuta, e comunemente
abbracciata, ed all'incontro la contraria de' sadducei, i quali giu-
dicavano le anime esser mortali insieme co' corpi, da pochi era ac-
cettata, così la dottrina degli Arabici era da pochi ricevuta, e la
contraria universalmente era abbracciata e sostenuta, secondo che
per gli Ebrei ce ne rende testimonianza Flavio Giuseppe nel lib.
1. \Vinferno\i il manoscritto è qui guasto, e integriamo cosi il testo. 2. S.
Agostino . . . resurgere: cfr. De haeresibus cit., lxxxiii, col 46. La citazione
di Agostino è tratta da Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, vi, xxxvn
(«i quali dissero che l'anima muore e si dissolve con il corpo e che ambedue
risorgono alla fine dei tempi»).
LIBRO I • CAP. Ili 807
18 delle sue Antichità giudaiche.1 Quindi leggiamo presso Tacito,
lib. 5 Hist.y fra le comuni credenze de* Giudei rapportare anche
questa, dicendo: «animasque proelio aut suppliciis peremtorum
aeternas putant » f poiché sebene i sadducei tenessero contraria dot-
trina, eran sì pochi i lor seguaci, che non poterono far argine ad
una moltitudine ampia e sì diffusa. S. Luca negli Atti, cap. 23, 8,
pur rapporta che i sadducei contro ciò che tenevano i farisei nega-
vano le tradizioni, negavano esservi spirito o angelo alcuno, nega-
vano ogni resurezione, e che Panime insieme co' corpi perivano
senza speranza di più risorgere. Ma non per questo erano esclusi
dalla comunione della chiesa giudaica; la Sinagoga Magna ch'era
in Gerusalemme, sicome tutte Paltre innumerabili sinagoghe ch'e-
rano sparse nella Palestina non meno che in tutte le provincie della
Grecia, dell'Asia, dell'Affrica e dell'Europa, erano composte ugual-
mente de' farisei e de' sadducei, ed a vicenda ora un partito, ora
l'altro si rendeva più forte, e l'autorità degli uni ora vedeasi sce-
mata, ora ingrandita sopra gli altri, perché nell'antica Legge tutto
si aggirava nel regno terreno, ed anche coloro che ammettevano la
resurezione, resuscitati che fossero, non se l'assegnava altro regno
che pur terreno, non avendo alcun concetto di regno celeste, onde
non era un articolo fondamentale della loro religione, e poteva di-
sputarsi del prò e del contro., sicome altrove sarà ampiamente esa-
minato.3 Lo stesso concetto ebbero gli eretici Arabici, che non
perch'essi avessero dell'anime umane quella credenza, doveano
riputarsi fuori della Chiesa cristiana, e non della stessa comunione;
poich'essi erano veri cristiani, e credevano gli altri articoli e spe-
zialmente i fondamentali e più importanti della consumazione del
mondo, della generale resurezione, del giudicio, della vita eterna,
del paradiso e dell'inferno; e che dovendo tutti risorgere, questa
resurezione dovea essere non meno del corpo che dell'anima ambo
già risoluti per morte, perché tutto l'uomo fosse restituito nel suo
primiero stato. Né riputavano per questa lor dottrina offendersi
punto la buona morale, quasi che rendesse gli uomini più dissoluti,
sicome quelli che doppo la lor morte non temevano alcuna pena
1. secondo che . . .giudaiche: cfr. Antiq. iud., xvin, 1, 3-4. a. «animasque
. . .putant»: Hist.t v, 5 («ritengono eterne le anime di coloro che son
morti in battaglia o nei tormenti»). 3. Ma non per questo . . . esaminato:
ritoma, senza attenuazioni, una delle tesi del Triregno, che la resurrezione
e anche l'immortalità dell'anima non fossero un dogma dell'antica legge.
808 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
per le loro anime, la quale era differita doppo la resinazione e giu-
dicio universale; poiché ciò non dovea essergli di lusinga per non
menare una vita pura ed incontaminata, niente importando essersi
differita la pena o il premio doppo la fine del mondo. Per ciò che
riguarda a gli uomini è tutt'uno, poiché all'anima separata dal
corpo, tuffandosi in un profondo sonno, qualunque lunghezza di
tempo, che framezzi tra il nostro morire ed il giorno estremo, sem-
brerà un sol momento, e gli parrà come se allora fosse uscita dal
corpo, sicome l'esperienza tutto giorno ci manifesta ne* dormienti,
e molto più in coloro a* quali, oppressi da grave e lungo letargo,
svegliati che sono, sembra un momento tutti i giorni scorsi del lor
letargo. Ed è famosa l'istoria presso Plinio, Plutarco ed altri an-
tichi scrittori, di quel giovane, il quale stanco dal cammino e dal
caldo, postosi in una spelonca a dormire, non si svegliò se non
dopo cinquanta, anzi come scrive Plinio, lib. 7, cap. 52, doppo
cinquantasette anni, maravigliandosi di trovar mutata la faccia del-
le cose, poiché credea «velut postero experrectum die».1 In queste
follie ed in tali estremità non sapendo tener la via di mezzo, diedero
gli Arabici, i quali furon cagione che altri, calcando contrari sen-
tieri, dassero in un'altra estremità non meno perniciosa e folle che
la già detta.
in
Vi furono di quelli, i quali niente curando de' corpi, ed ascri-
vendo alle sole anime l'altra vita eterna che succederà doppo questa
caduca e mortale, negarono assolutamente la resurezione de' corpi,
e che le sole anime, secondo i lor meriti, fosser destinate al godi-
mento d'una vita beata e gioconda, ovvero al patimento d'un'op-
posta, rea e tormentosa. L'anima sola peccare, non il corpo ; l'ani-
ma meritare, all'anima attribuirsi le virtù ed i vizi, e per conseguen-
za la pena ed il premio. Valentino,2 della scuola di Alessandria,
fu colui che negando la resurezione della carne, insegnò, come
scrisse S. Agostino a Quodvuldeo: «Animarti tantum et spiritum
affirmat per Christum salvari»;3 della qual eresia ne furono conta-
1. « velut . . . die»: cfr. Naturalis historia, Parisiis 1723, in tre tomi, a cura di
J. Hardouin, I, p. 408 («come se si fosse destato il giorno dopo»). 2. Va-
lentino: eretico gnostico del II secolo. 3. «Animam . . . salvati»: cfr. De
haeresibus cit., xi, col. 28 (citazione non testuale: «afferma che soltanto
LIBRO I • CAP. Ili 809
minati, non solo i valentiniani della sua setta, ma trasse ancora
gran numero di credenti, come i marcioniti, i basilidiani, ed altri.
Si abusavano di quelle parole di S. Paolo : che la carne ed il sangue
non possono godere del regno de* cieli;1 ed oltre ciò riputavano
la generale resurezione di tutti i corpi, con restituirsi a ciascuno il
suo proprio, essere impossibile e ripugnare in fisica, e con ragioni
naturali e filosofiche abbattere la divina revelazione. E poiché da'
quattro Evangeli, dagli Atti di S. Luca, dall'epistole di S. Paolo e
dagli altri appostoli erano manifestamente convinti del contra-
rio, poiché Cristo veramente risuscitò riprendendo la propria sua
carne ed ossa, manifestandosi e facendo palpare il suo corpo a gli
appostoli, i quali lo vider poi co* propri occhi ascendere in cielo,
veduto anche da più di cinquecento altri secondo la testimonianza
che ce ne rende S. Paolo, / ad Corint, 15, 6, che furono risuscitati
più corpi de' santi, che condusse seco in paradiso ; ed altre mani-
feste ed indubbitabili pruove d'una vera, reale e fisica resurezione,
essi per non sapersi sviluppare da tali indissolubili nodi, diedero
in più stravaganti vaniloqui e fanatismi: alcuni sognarono che
Cristo non realmente sofferse passione e morte, ma fu tutta visione
ed apparenza, sicome insegnavano i merintiani, ed i cerdoniani
diceano, sicome rapporta S. Agostino a Quodvuldeo : « Christum-
que ipsum neque natum ex foemina, neque habuisse carnem, nec
vere mortum, vel quicquam passum, sed simulasse passionem»,*
nel qual errore narra S. Agostino nelle sue Confessioni che cadde
Nebridio,3 suo caro amico, ancorché poi si ritrattò e morì cattolico,
il qual pur credea che la carne di Cristo non fosse reale, ma fanta-
stica. Ed Apelle, da cui sursero gli apelliti, dice S. Agostino che
insegnava che Cristo cesine carne resurgens, in coelum ascendit»,4
e da poi lo stesso sostennero anche i manichei ed un tal Marco, il
l'anima e lo spirito si salvano per mezzo di Cristo »). Cfr. D. Aulisio, Delle
scuole sacre libri due postumi, Napoli 1723, tomo 11, cap. xix, Che dal ruo-
lo de* teologi alessandrini Filippo Sidete cassò Valentino e Ario, pp. 86 sgg.
1. quelle parole . . . cieli: I Cor., 15, 50. 2. sicome . . .passionem: cfr. De
haeresibus cit., vili, col. 27: «Cermthiani a Cerintho, udemque merinthiani
a Merintho, mundum ab angelis factum esse docentes . . .»; cfr. ancora
ibid.t xxi, col. 29: «Cerdoniani a Cerdone nominati . . .». Questi ultimi
sostenevano la sola natura spirituale di Cristo. La citazione nel testo a
col. 29. 3. narra . . . Nebridio: Conf., ix, ni, in Migne, P. L.t xxxn, col.
765. 4. Ed Apelle . . . ascendit: cfr. De haeresibus cit., xxin, col. 29 («risor-
gendo senza carne sali al cielo »).
8lO APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
quale, secondo che scrisse S. Agostino a Quodvuldeo, negava la
resurezione della carne «et Christum non vere, sed putative pas-
sum asseverans »,* onde dicevano che Cristo così pure in apparenza
risuscitò e fosse veduto dagli appostoli, e non già fisicamente e
realmente.
Ma ciò che diede loro la spinta maggiore di negare la resurezione
de' morti, spezialmente a Valentino ed agli altri professori del
Museo di Alessandria i quali dal gentilesimo passarono al cristia-
nesimo,3 fu perché la riputarono impossibile, e ripugnare in fisica
che ciascuno potesse ripigliare lo stesso suo corpo che lasciò mo-
rendo ; poiché le parti minime che lo compongono, secondo il co-
stante tenore e perpetuo trasmutamento che s'esperimenta in na-
tura, passano in altre varie ed infinite forme, faccendosene e terra e
piante e frutti ed erbe, le quali mangiate dagli uomini e dagli ani-
mali, e questi pure servendo per cibo all'uomo, fassi che di nuovo
si convertano in carne umana e formino un altro uomo, il qual poi
morto, del suo corpo fassi lo stesso trasmutamento, e così in infini-
to ; sicché in discorso di tempo, di quelle stesse minute parti che
componevano un uomo successivamente se ne formano innume-
rabili altri, e fino alla resoluzione del mondo, doppo il corso di
tanti secoli, certamente che nel dì della universale resurezione se
ne troveranno moltissimi i quali saranno stati formati delle stesse
parti; dovendosi adunque restituire a ciascuno il suo corpo, a chi
dovranno restituirsi, a* primi o a gli ultimi ? E se a tutti, certamente
che mancherà la materia per formargli. Di un simil argomento si
valsero i sadducei, i quali negavano la resurezione, quando, ten-
tando il nostro Redentore, che cotanto inculcava la resurezione,
gli dimandarono: «Magister, Moyses dixit: Si quis mortuus fuerit
non habens filium, ut ducat frater eius uxorem illius et suscitet
semen fratri suo. Erant autem apud nos septem fratres : et primus
uxore ducta, defunctus est : et non habens semen, reliquit uxorem
suam fratri suo; similiter secundus, et tertius, usque ad septi-
mum. Novissime autem omnium et mulier defuncta est. In resur-
rectione ergo cuius erit de septem uxor? Omnes enim habuerunt
eam», Matth., 22, 24, Marc, 12, 19, Lue, 20, 28.3 Ma Giesù Cristo
1. secondo . . . asseverans: cfr. ibid.t xiv, col. 28 («sostenendo che la passione
di Cristo non fosse reale, ma immaginaria »). 2. cristianesimo : correggiamo
il «cristianissimo» del manoscritto. 3. Magister . . . Luc.y 20 , 28: la cita-
zione è tratta da Matth.t 22, 24-8-
LIBRO I • CAP. Ili 8ll
prontamente rispose alla loro dimanda dicendogli che gli uomini
di questo secolo si maritano poich' essendo soggetti a morte vi è
d'uopo che in lor vece per le nozze si sorroghino altri ; ma coloro
che doppo la resurezione saranno degni dell'altro secolo immortale
ed eterno, non avran questo bisogno di maritarsi, poiché, come
soggiunge S. Luca, 20, 28 :z «neque ultra mori poterunt: aequales
enim angelis sunt et filii sunt Dei, cum sint fìlii resurrectionis ».
Questa risposta se bene chiuse la bocca a' sadducei a riguardo della
lor dimanda di chi di que' sette dovea esser moglie, giacché nella
prima vita l'avea avuti tutti per mariti, non potea però niente
giovare per risolvere il proposto argomento, onde i nostri Padri
antichi si affaticarono di cercar altronde altro scioglimento. Tra'
primi fu Atenagora,3 non men famoso teologo che celebre filosofo
della scuola di Alessandria, il quale per abbatterlo compose di
proposito sopra ciò un particolar libro trattando fisicamente della
proposta materia, esaminando come si facea la digestione de' cibi
nel nostro stomaco, e facendo altre simili fisiche osservazioni; ma
a giudicio delli stessi Padri riuscì così debole ed insufficiente che
più tosto rese i contrari maggiormente più arditi e di se stessi
più altieri, vedendo che non si trovava risposta al loro insolubile,
come lo credevano, ed invincibile argomento. Si accinsero per
ciò molti, fra' quali Tertulliano, Lattanzio Firmiano, Cirillo Gero-
solimitano ed altri per abbatterlo con maggior nerbo e forza, ma
pure la loro impresa riuscì infelice e senz'alcun frutto. Finalmente
S. Agostino ne' libri della Città di Dio tentò pure far lo stesso,
ma sfuggì, sicome sarà manifesto a chi attentamente li leggerà, la
principal difficoltà già detta, cioè come desistesse particelle, es-
sendosene in discorso di tanti secoli formati successivamente più
corpi umani, possa a ciascuno delle medesime rifarsi il proprio,
giacché ciò seguendo, a gli altri certamente mancherà la materia,
e prendendosene altra, non sarà lo stesso corpo, ma tutt'altro e
diverso. Egli così nel primo libro della Città di Dio come negli
ultimi, e nell'altre sue opere, se ne disbriga dicendo: «quanto mi-
nus debent de corporibus insepultis insultare christianis, quibus
et ipsius carnis membrorumque omnium reformatio, non solum
1. S. Luca, 20 , 28: rectius 20, 36. 2. Atenagora: cfr. quanto dice D. Auli-
sio, Delle scuole sacre cit., tomo n, cap. xxi, Atenagora, 1 professore nella
sacra scuola d'Alessandria, innestò la ragione umana nella teologia, pp. 93 sgg.
Cfr. soprattutto p. 97.
8l2 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
ex terra, veruni etiam ex aliorum elementorum secretissimo sinu,
quo dilapsa cadavera recesserunt, in temporis puncto reddenda,
et redintegranda promittitur».1 Ciocché ripete nel libro De cura
prò mortuis1 scritto a S. Paolino vescovo di Nola, ed altrove, ma
non discioglie la difficoltà proposta. E forse meglio il P. Francesco
Suarez gesuita, 3. p., q. 53, a. i,3 e con più accuratezza di tutti
gli antichi Padri esaminò questo punto; ed è anche da vedersi
Nathanaélem Carpentario, che trattò pure della resurezione de'
corpi nelYExercit. 16 Liberae philosophiae*
Lo scioglimento vero d'un tal nodo dipende dai ponderare in
natura chi faccia che una cosa si dica la stessa, o simile ovvero di-
versa; e si troverà che non siano le minime particelle che compon-
gono i corpi, ma sì bene la positura, l'ordine, il sito, la relazione,
la collocazione, infine la disposizione ed armonia del tutto, che
facci riputar lo stesso corpo, e non già le minime particelle che lo
compongono. Ciò, oltre awerlo avvertito Aristotele, ed i più gravi
e seri filosofi, si rende manifesto dall' istessa esperienza. I fiumi
sono riputati sempre gli stessi, ancorché le stille di acque che li
formano non siano certamente le medesime, rapidamente fuggen-
do, e sempre nuove surrogandosi in luogo delle scorse. I nostri
corpi stessi, sicome acutamente fu avvertito da Alfeno Varo, non
men profondo filosofo che sapientissimo giurisconsulto, nella 1. Pro-
ponébatur D. de iudiciis,5 se dovessero attendersi le minime particel-
le delle quali constano non sarebbero gli stessi di quelli che furono
venti anni a dietro, poiché di continuo svaporando, ed in lor vece
sorrogandosene altre, sono altri e diversi; ma la stessa collocazione,
ordine, relazione e sito fa che siano i medesimi, sicome accade in
1. « guanto mìnus . . .promittitur»: De evo. Dei, 1, xn, 2, in Migne, P. L.,
xli, col. 27 (« quanto meno debbono oltraggiare i cristiani per il fatto che i
loro corpi sono rimasti senza sepoltura, poiché è stato promesso ai cristiani
che la loro carne, che tutte le loro membra, rifatte non solo dalla terra, ma
anche dal più recondito seno degli altri elementi, in cui sono spariti dis-
solvendosi i cadaveri, verranno loro d'un tratto restituite e rinnovate»).
2. De cura prò mortuis gerenda ad Paulinum hber unus, in Migne, P. L., XL,
coli. 591 sgg. 3. Del famoso teologo e gesuita spagnolo Francisco Suarez
(1548- 16 17) si cita qui il commento a san Tommaso: Commentariorum ac
disputationum in tertiam partem divi Thomae, s. 1. 16 17, in cinque tomi.
4. Nathanaélem . . . philosophiae: di Nathanael Carpenter (1585-1628), fi-
losofo inglese antiaristotelico, vien qui citata la Philosophia libera duplici
exercitationum decade proposita . . ., Francofurti 1621. 5. Su Alfeno Varo
vedi la nota 2 a p. 752. Cfr. Digesto, v, 1, De iudiciis, par. lxxvi, dove si
cita il libro vi dei Digesta di Alfeno.
LIBRO I • CAP. Ili 813
tutti gli altri animali ed in tutte le cose che nel cielo, nell'acqua e
sopra la terra si muovano e crescono. Lo stesso osserviamo ne'
corpi civili; sarà lo stesso popolo, ancorché gli uomini che prima lo
componevano non siano gli stessi; lo stesso senato, ancorché altri
fossero i senatori presenti che i passati ; la stessa centuria, la stessa
legione, lo stesso essercito, ancorché non i medesimi capitani, non
gli stessi duci, non gli stessi soldati. Anche nelle cose manufatte
si osserva il medesimo ; saranno gli stessi edifici, ancorché di tempo
in tempo rifatti non siano le stesse prime pietre; la stessa nave,
ancorché spesso rifatta a lungo andare non serbi tavola alcuna di
quelle onde la prima volta fu costrutta, come lo fu la nave di Teseo
lungo tempo conservata in Atene per pruova della vittoria riportata
sopra Minotauro re di Creta. E chi potrebbe annoverare tanti altri
infiniti essempli, per li quali è manifesto che le cose siano le stesse
non già per le minime particelle che le compongono, ma per la
relazione, positura ed ordine ? Or riducendo questa verità al sog-
getto che abbiam per le mani deve in prima riflettersi Dio esser
Punico fabro della natura e di quanto di visibile ed invisibile con-
tiene l'ampio universo, al quale è pronta ed apparecchiata ogni
materia, dalla quale possa rifare a ciascuno il proprio corpo se-
condo quella stessa forma che lo lasciò morendo ; e sarà il medesimo,
poiché avrà la stessa figura, disposizione e relazione; la stessa col-
locazione, grandezza, sito e qualità delle membra che prima lo
componevano. Quanti corpi umani sono dalle fiere divorati ? Quanti
bruggiati ed arsi, e sovente le loro ceneri sparse al vento o gettate
nel mare? Quanti naufragati sono ingoiati da' pesci e resi fiero
pasto de* mostri marini? Narra Eusebio nella sua Istoria ecclesia-
stica tradotta dai greco in latino da Rufino, nella Gallia più corpi
di martiri brugiati e le ceneri sparse nel Rodano;1 ciocché S. Ago-
stino rammenta nel libro De cura prò mortuis, dicendo : « Legimus
in Ecclesiastica historia, quam graece scripsit Eusebius et in latinam
linguam vertit Rufinus, martyrum corpora in Gallia canibus expo-
sita, canumque reliquias atque ossa mortuorum usque ad extre-
mam consumationem ignibus concremata: eosdemque cineres flu-
vio Rhodano ne quid ad memoriam qualemcumque relinqueretur,
inspersos».2 Non avrà dunque Iddio modo di rifargli tutti nel
1. Narra Eusebio . . . Rodano: Hist. eccl, v, 1, in Migne, P. G., xx, coli.
407 sgg. z. «Legimus . . . inspersos»: De cura prò mortuis gerenda cit., vi,
col. 597 («Nella Storia ecclesiastica, che Eusebio scrisse in greco e Ru-
814 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
giorno dell'universal resurezione ? In troppo brevi confini ristrin-
gono costoro la divina onnipotenza; ed intorno alla formazione
degli uomini, dicono il profeta Esaia e S. Paolo che sono in mano di
Dio sicome la creta in mano del vasaio,1 con questa differenza che
a costui potrà mancar la creta per formar suoi vasi, ma a Iddio,
unico fabro di tutte le cose, la materia è sempre pronta ed inesau-
sta. Or aggiungendo al corpo rifatto la stessa anima che prima l'in-
formava, chi potrà dubbitare che non sia lo stesso individuo, lo
stesso Pietro, Paolo o Giovanni? Queste sono le solide e vere ra-
gioni onde si pruova appresso Iddio la resurezione generale degli
uomini non essere impossibile; né vi era bisogno di ricorrere per
provarla a quel vano rifuggio, onde Tertulliano, S. Cirillo, S. Am-
brogio ed altri antichi Padri ebber ricorso, ciò è alla favola della
Fenice, la quale credeasi che nelle ceneri sue muore e rinasce.
Favola oggi ben conosciuta, essendo certissimo che questo uccello
non sia unico e raro, ma nella Persia se ne veggono molti, i quali
nascano per generazione naturale, per l'accoppiamento di maschio
con femmina, come tutti gli altri uccelli.
Con tutto ciò fu cotanto sparso e difuso questo errore di riputar
impossibile la resurezione ne' primi teologi, i quali in ciò mostra-
rono esser non meno protervi, resistendo alla manifesta divina
revelazione, quanto malfilosofì, che per i tre primi secoli della
Chiesa ne fu pieno l'Oriente ed il Mezzogiorno; e la contagione si
diffuse in molti anche ne* posteriori tempi. Ne furon contaminati
oltre i simoniani, che l'appresero da Simon Mago lor duce, il qual
fu il primo a negare la resurezione della carne, i valentiniani, i
marcioniti, i basilidiani, anche i merintiniani, gli arconti, i cerdonia-
ni, gli apelliti, i severiani, gli origeniani, gli ierachiti, i seleuciani,
i proclianiti, e tanti altri,2 onde le prime sedi, e le più cospicue
Chiese cattoliche, scorgendo un tanto numero di traviati, perché
l'errore non si diffondesse ne' veri cristiani usarono ogni sforzo
per fargli argine, stabilendo ne' loro simboli per articoli fondamen-
tali non pur la general resurezione, il 2° advento del Signore in
fino tradusse in latino, leggiamo che in Gallia furono gettati ai cani dei
corpi di martiri, e che gli avanzi e le ossa furono bruciati fino alla completa
distruzione, e che anche le ceneri furon disperse nel Rodano perché non
ne restasse in alcun modo memoria»), i. dicono . . . vasaio: cfr. Isai., 29,
*6j 45» 9 e Rom., 9, 20-1. 2. Ne furon contaminati . . . altri: questo elenco
di eretici è ripreso dal De haeresibus, l'opera di Agostino più volte citata,
mentre lo spirito del discorso deriva dall' Aulisio.
LIBRO I • CAP. IX 8lS
maiestate per giudicare i vivi ed i morti, ma espressamente «la
resurezione della carne» e «la vita eterna», sicome si legge in tutti
i simboli delle Chiese di Oriente e di Occidente: «Carnis resur-
rectionem, vitam aeternam. Amen».
CAP. IX
Dell'austera morale de' Padri antichi.
Gli ammiratori della rigida e severa morale degli antichi Padri
biasimano e declamano contro i casuisti e teologi scolastici per la
rilasciata lor morale, qualificandola per dissoluta e corrotta, fino a
porgli in ridicolo e farne brutti e miseri scherni. Ingegnose ed ap-
plaudite furon per ciò le Lettere provinciali di M.r Nicole pubbli-
cate sotto il nome di Lodovico Montalto.1 Il P. Diana,2 riputato
troppo largo ed indulgente, per derisione fu chiamato l'Agnello di
Dio, che toglieva i peccati del mondo: «ecce qui tollit peccata
mundi » ; ed i Gesuiti spezialmente furon per ciò aspramente mal-
menati, che da' loro confessionari ne uscivan assoluzioni a buon
mercato, e che smaltivan merci per ogni sorte di persone, regolan-
dosi secondo il gusto ed inclinazioni e sentimenti de* loro penitenti.
E pure tutti i lenitivi e raddolcimenti di questi non bastano per
1 . Lettere . . . Montalto : il Giannone naturalmente si sbaglia attribuendo
al Nicole l'opera di Pascal, che si celava sotto lo pseudonimo di Louis de
Montalte. Il Nicole era stato il traduttore in latino e il commentatore, oltre
che il primo a fornire precise notizie sulla genesi dell'opera, e si celava sotto
lo pseudonimo di Guillaume Wendrock. Cfr. Les provinciales ou lettres
écrites par Louis de Montalte à un provincial de ses amis, avec des notes de
Guillaume Wendrock, Amsterdam 1735. Cfr. gli appunti del Giannone su
questa edizione delle Provinciales in Biblioteca Reale di Torino, Var. 303,
ce. 67-9, databili intorno al 1747, qualche mese prima della morte. L'opera
del Pascal fu inviata al Giannone da Arthur de Villettes, residente inglese a
Torino, che aveva messo la propria biblioteca a disposizione del prigioniero
(cfr. ibid., ce. 55-6, un appunto autografo intitolato: Libri notati nel catalogo
del XJ42 di Mr. Arthur de Villettes residente di S. M. Brittannica alla corte
di Torino presso il Re di Sardegna). Sul giansenismo delle Provinciales cfr.
A. Gazier, Histoire generale du mouvement janséniste . . ., 1, Paris 1924,
cap. vi, pp. 93 sgg. Sul significato teologico e religioso cfr. P. Serini, Pa-
scal, Torino 1942, soprattutto il cap. vi, Le «Provinciales», pp. 149 sgg.
Cfr. inoltre la traduzione italiana: B. Pascal, Le Provinciali, Bari 1963, a
cura di P. Serini, soprattutto la Nota storica, pp. ix-xl. 2. Si tratta del
teatmo Antonio Diana (1595-1663), palermitano, autore delle Resolutiones
morales . . An quibus selectiores casus conscientiae explicantur (1646). Nella
quinta delle Provinciales viene preso in giro per il suo lassismo.
8l6 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
mitigare 1' amarezza delle aspre antiche massime, né arrivare a
compensare se non in parte la loro severità e rigore. Tutto ciò è
avvenuto perché non ben indagarono i veri princìpi donde deriva la
buona morale, onde né gli uni, né gli altri seppero tenere la via di
mezzo, ma traviando diedero in opposti sentieri. I primi, non sa-
pendo distinguere nella morale del Vangelo ciocché si inculcava
per arrivare ad una somma perfezione, alla quale pochi vi giungono,
anzi niuno senza una speziai grazia divina che gli venghi da fuori,
dall'ordinario corso della vita umana, vorrebbero per ragioni astrat-
te e metafisiche disumanar gli uomini e rendergli insensati sassi
e duri tronchi, senz'affetti, senza cupidità, senza passioni e senza
commozione, seguendo in ciò la dottrina degli stoici. I secondi si
appigliarono a quella de' peripatetici, li quali lasciano all'uomo
tutte le passioni, sovente utili, ma che la vera virtù morale consi-
sta in saperle ben dirigere e moderare. Della morale d'Epicuro,
forse la migliore di quella de' stoici e de' peripatetici, non si fa
motto, poiché questo filosofo non potè mai por piede, come si è
detto, nella scuola d'Alessandria donde uscirono i primi teologi,1
e molto meno, per lo discredito nel quale fu posto per le invet-
tive de' Padri, potè porlo nelle nuove Accademie in Europa insti-
tuite, nelle quali la dottrina d'Aristotele teneva il campo.
Ma fra quanti filosofi che vanta la Grecia, Socrate fu il primo,
come ce ne rende testimonianza Cicerone,3 il quale lasciate le in-
vestigazioni delle cose fisiche, come incerte, si diede alle morali,
come quelle che conducono e ci aprono la strada di poter menare
con saviezza e probità la nostra vita, ch'è quello che deve sopra
tutte le cose Puom curare. Variamente non men dagli antichi che
da' moderni filosofi e teologi fu disputato intorno a' veri princìpi,
donde deriva la buona morale, ma l'opinion più comune e forse
la più vera fu che le regole di una saggia morale devono appren-
dersi dal buon uso che ciascuno deve far della ragione, non essen-
i. teologi: cosi par corretto, ma confusamente, un precedente «filosofi».
Il Giannone segue qui il suo maestro Domenico Aulisio, Delle scuole sacre
cit., tomo il, cap. u, Che *n Alessandria ebbe la teologia la sua prima origine,
pp. io sgg. L* Aulisio riprendeva un'intuizione del Tractatus theologico-
politicus di Spinoza, a cui fra l'altro si rifaceva anche il Toland. 2. Cicero-
ne: cfr. gli appunti del Giannone in Biblioteca Reale di Torino, Var. 303,
ce. 69-79: Excerpta ex libris phìlosophìcis M. Tullii Ciceronis, datati «die
prima martii 1747». Per il passo di Cicerone cui allude qui il Giannone,
cfr. Tusc. disp., v, iv, io.
LIBRO I • CAP. IX 817
do la buona morale che un dittarne della divina Ragione circa quelle
cose che dobbiamo fare o non fare per condurre la nostra vita
quanto più saggiamente si possa; poiché l'uomo che nasce in
questo mondo viene a porsi fra il bene ed il male, anzi il male su-
pera il bene e per conseguenza per suo raziocinio e retto discorso
deve sempre colla bilancia alla mano pesare in ciascheduna azione
se contenga più del buono o del cattivo. In oltre quando se l'offe-
riscono cose che racchiudono o minacciano più male o presente o
futuro che bene, dovemo tralasciarle, ancorché ci allettino sotto
l'apparenza del bene, ed all'incontro, quando rincommodo, la noia
e la molestia sia minore di ciò che promettono di bene futuro,
dobbiamo abbraciarla e soffrirla. E questo è far buon uso della
ragione, che è quella legge che S. Paolo dice essere scritta nel
cuore degli uomini.1
In far ciò niente conducono le sottili speculazioni e gli astratti
raziocini e ragioni metafisiche, ma sì bene l'uso, la pratica, l'espe-
rienza ed i fatti, onde suol dirsi che vale più un'oncia di fatto che
mille libre di speculazioni astratte. Chiarissimo documento lascia-
rono a noi due rinomati filosofi inglesi, Tomaso Hobbes nel suo
Leviatan, e nel libro De rive, ed il vescovo Cumberland nel suo
Trattato filosofico delle leggi naturali? il qual pretese confutare gli
Elementi della morale di Hobbes. Hobbes con ragioni pur troppo
sottili ed astratte e sovente fantastiche ci rappresenta l'uomo come
dovrebbe essere, non già come in realtà ed in pratica sia. Cumber-
land, ancorché nel minare il sistema di Hobbes e di far conoscere
le sue contradizioni siavi riuscito, nulladimanco avendo egli vo-
luto edificarne un altro, ha dato in maggiori stravaganze e sofistiche
speculazioni. Forse si appose più al vero M.r Pope pur inglese ne'
suoi Princìpi della morale, ovvero Saggio sopra l'uomo,3 dove lon-
tano da metafisiche astrazioni si attiene seriamente alle cose reali
e solide.
La principal regola che da questi naturali Princìpi deriva è che
ciascuno debbia amar se stesso e debba aver cura della vita propria
1. quella legge . . . uomini: cfr. Rom., 2, 15. z. De rive . . . naturali: cfr. la
nota 4 a p. 804. Richard Cumberland (1631-1718), filosofo inglese, vescovo
di Peterborough. Nell'opera citata polemizzò contro Hobbes. 3. Saggio
sopra l'uomo : Essai sur Vhomme, par M. Pope. Traduit de Vanglais enfrangais
par M. D. S. (de Silhouette), s. 1. 1736. Cfr. A. Prospero, Il poeta del ra-
zionalismo settecentesco, A. Pope, Bari 1943» PP- I2^ sgg.
8l8 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
e difenderla da qualunque aggressore, e poiché da questo amor
proprio, depravata che fu la natura umana doppo la caduta d'Ada-
mo, deriva che gli uomini siano inclinati più al male che al bene,
e che sovente per propria malvagità sian divenuti a riguardo degli
altri tanti lupi, quindi fa duopo per ben regolarlo di tutta la forza
di un'invitta ragione per contenerlo ne* giusti limiti; e da ciò av-
viene che, emendando colla ragione la prava propensione che si ha
al male, siamo disposti questo amore a diffonderlo ad altri e di-
stinguerci dagli animali bruti, i quali mancando d'intelletto e di di-
scorso rimangono per sempre nella vita ferale e selvaggia, ma del-
l'uomo non è accaduto lo stesso poiché stendendo quell'amore a gli
altri ha saputo dalla vita ferale passar alla vita civile, più utile
e commoda. Ma in ciò dee usarsi pure discrezione e prudenza, non
alla cieca, ma a gradi e con ordine ripartirlo. Primo, alla patria, a'
parenti, a5 congiunti, a' cittadini e finalmente a tutti, procurandogli
ciò che per sé vorrebbe ed astenendosi di farli ciò che altri non
vorrebbe che facessero a lui. In breve per quanto può dal suo
canto giovarli, poiché da ciò deriva non solo l'esercizio di tutte le
virtù, ma anche la vera gloria, e di rendersi per sua beneficenza
a tutti caro e commendabile. Così considerando l'uomo nel suo
stato di natura nella primiera sua vita ferale e selvaggia, dirà vero :
«Homo homini lupus».1 Considerandolo nella vita eulta e civile,
quando voglia far buon uso della ragione, beneficando gli altri,
dirà anche vero: «Homo homini deus».
Or i nostri antichi Padri lontani da questi schietti, piani e sem-
plici princìpi, per difetto d'una solida filosofia, ancorché molti
usciti dalla scuola d'Alessandria, e per essersi abusati della morale
del Vangelo, o non intesa, o mal interpretata, affettando austerità
e rigidezza diedero in opinioni stravaganti e mostruose. Ma non
dee ciò ad alcun recar meraviglia considerando la lor condizione.
Per la maggior parte i Greci, ancorché affettassero d'esser filosofi,
non erano che sofisti e declamatori, e de' Latini, parte affricani e
parte retori, ma tutti declamatori. Chi non sa che per la ricerca
del vero non bisognava per trovarlo se non i veri e sodi filosofi,
non declamatori, i quali sanno innalzare o deprimere secondo lor
riesce in acconcio le cose, e arringar ora a prò, ora in contrario
di una cosa stessa, sicome di sé davasi vanto Cameade, che ugual
i. *Homo homini lupus)); cfr. Vita, qui a p. 217 e la nota 2 ivi.
LIBRO I • GAP. IX 819
travaglio e fastidio a lui costava di lodar l'ingiustizia che la giu-
stizia. Da ciò che si è detto e da quel che si dirà vedrassi quanto
sforzate ed iperboliche fussero le loro espressioni ; e quanto vales-
sero nell'interpretazione delle Divine Scritture si è pur veduto, e
molto più si porrà in chiara luce nel seguente capitolo. Di vera e
solida filosofia, spezialmente di morale, toltone S. Agostino nella
logica e fisica, gli altri ne furon poverissimi, ma nel tempo stesso
molto di sé presumevano. Lattanzio Firmiano non ebbe difficoltà
ingaggiar liti con Cicerone stesso di cui si ingegnava imitar lo
stile, ed a disputar con lui sopra le virtù morali. Si mette sovente
a disputar contro Epicuro m fisica ed in morale, quando non capì
mai il sistema di questo filosofo, né seppe la di lui fisica e molto
meno la di lui morale, non essendo che un retore d'eloquenza latina
ed instrutto d'erudizion greca. S. Ambrogio volle far la scimia a
Cicerone, in comporre pur egli un trattato De officiis? e quel ch'è
più contrastar con Cicerone su le virtù morali; in che mostrò non
solo la sua semplicità, ma la presunzione di attaccar un'opera la
più insigne che sia uscita dalla penna di Cicerone, nella quale si
ammira la più saggia morale, come quella che raccoglie il fiore di
quanto i più antichi filosofi hanno scritto. Veggasi Pufendorf,3 lib.
II, cap. 5, § 14, e Barbeyrac,3 che difendon Cicerone da quanto a
torto li vien imputato da S. Ambrogio. S. Agostino anche sovente,
spezialmente ne' libri della Città di Dio, disputa contro gli antichi
filosofi sopra la difinizione delle virtù morali; giudica sopra la morte
di Lucrezia romana, ed a suo modo co' soliti suoi contraposti e
rime ne favella;4 ma quanto sciapitamente ben sarà dimostrato
quando trattaremo spezialmente de' suoi libri. Altri Padri fecer
lo stesso, de' quali sarà dato occasione di favellare altrove. Fortu-
nati però, li quali scrissero quando niun ardiva di confutar le loro
1. De officiis ministrorum libri tres, in Migne, P. L., xvi, coli. 23-184. 2. Di
Samuel Pufendorf (1637- 1694), giurista e storico sassone, è citata qui l'ope-
ra più famosa, nella traduzione del Barbeyrac: Le droit de la nature et des
gens ou système general des prtncipes les plus importans de la morale, de la
jurisprudence et de lapolitique, traduit du latin defeu mr. le Baron de Pufen-
dorf par Jean Barbeyrac , Amsterdam 17 12, in due tomi. 3. e Barbeyrac:
si riferisce alla Préface du traducteur (p. xlix, ed. 173 1) alTop. cit. del Pu-
fendorf. Jean de Barbeyrac (1674- 1744), giurista ed erudito francese,
criticò l'autorità dei Padri della Chiesa con il Tratte de la morale des Pères
cit. Su di lui cfr. Ph. Meylan, Jean Barbeyrac, Lausanne 1937. 4. S. Ago-
stino . . .favella: cfr. De civ. Dei, I, xix, De Lucretia, quae se ob iìlatum sibi
stuprum peremit, in Migne, P. L., xli, coli. 32-4.
820 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
opere, e quando essi solo erano riputati i savi e* dotti ; e se pur girava
qualche risposta, i monaci, supprimendola, non lasciaron che fosse
tramandata a* posteri. Più fortunati, quando sempre più crescendo
l'ignoranza ne' secoli barbari che seguirono, le loro opere crebbero
assai più di riputazione e di stima. Fortunatissimi, ch'ebbero tanti
monaci, che poco curando di altri libri, massimamente de' gen-
tili, non attesero che a moltiplicarne le copie, essendo uso de'
principali studi monastici il trascriverne più essemplari onde si
empirono le biblioteche.
i. Intorno al disprezzo della propria vita ed annientazione
di se stesso.
Molti degli antichi Padri non contenti di por argine all'amor
proprio regolandolo con moderazione e saviezza, preteser d'estin-
guerlo affatto, anzi con uno zelo indiscreto e furioso inculcavano
a' cristiani di doversi volontariamente esporre a certe e non dubbie
morti, a pericoli evidenti d'esserne di lor fatta strage crudele, ed
esporsi volontariamente a duri tormenti e spietati martìri, senza
che la necessità gli costringesse di farlo, per la costanza che doveano
avere in confortare la lor fede e d'esser cristiani. Gli proibivano
ogni fuga o scampo, ma che dovessero andar essi ad offrirsi a'
supplici e ricever con intrepidezza la morte. E ciò per un principio
falso, cioè di dover imitare G. Cristo nostro capo, il quale volon-
tariamente si offerì al Padre per vittima per ridimere col suo sangue
il genere umano. Puossi immaginare paragone sì indegno, sì dif-
forme e sì improprio che questo ? Metter al confronto ciò che per
altissimi misteri Dio volle, e ch'ebbe in ciò uniforme la divinità
di Cristo, con quel che l'uomo per naturai instinto e per legge di
natura è tenuto per la conservazione di se stesso, che l'obbliga
non pur ad evitar la morte, ma difender la sua vita contro qualun-
que aggressore? Se voglia considerarsi la stessa umanità di Cristo
unita colla sua divinità, pure rawisaremo qualche rincrescimento
e ripugnanza ch'ebbe di bere quel amaro calice, uniformandosi
però nel tempo stesso al volere del Padre. Quando intese che S.
Giovan Battista era stato tradito e preso, si ritirò in Galilea (Matth.,
e. 4, 12). Perché l'ora fatale di sua morte non era ancor giunta
fuggì la rabbia de' Giudei, e si nascose nel Tempio. Ma lezione
assai più chiara lasciò a' suoi appostoli e discepoli destinati alla pre-
LIBRO I • CAP. IX 821
dicazione del suo Vangelo per tutte le parti del mondo, a' quali
prescrisse (Matih^ x, 23) che se in una città fossero perseguitati,
fuggissero ed andassero in un'altra, dove sarebbero sicuri dalle
persecuzioni : « Cum autem persequentur vos in civitate ista, fugite
in aliam». Tertulliano a* riferiti suoi rigori aggiunse quest'altro
nel libro De fuga persecut.,1 di non dover fuggire. S. Cipriano come
ammiratore delle opere di Tertulliano tirò la cosa più innanzi, ed
inculca nella prefat. del suo libro De exhortat. martyrii, indrizzato
a Fortunato, di doversi il martirio desiderare, andargl'incontro ed
abbracciarlo: «Amplectenda res est» e* dice «et optanda et omni-
bus postulationum nostrarum precibus expetenda, ut qui servi Dei
sumus, simus et amici».3 Confusero due cose fra di lor differenti.
Altro è l'aver l'animo disposto a soffrire il martirio, quando ci ar-
riva; ed altro è il desiderarlo2 e cercarlo. Nel I si mostra una perfetta
rassignazione alla volontà di Dio, nel caso ch'egli giudichi a pro-
posito di chiamare un cristiano a soffrire la morte per causa del
Vangelo. Ma nel 11 del diritto desiderio del martirio, e procurarcelo
puramente e semplicemente come tale, questo è un desiderio con-
trario ugualmente alla natura che al Vangelo stesso, il qual non
distrugge la natura. G. Cristo non ha giammai derogato ad una
legge sì naturale, ed una delle più evidenti ed indispensabili, la
qual vuole che ciascun travagli, per quanto può, alla propria con-
servazione. Il vantaggio della società umana, e quello della società
cristiana, ricercano ugualmente che le genti da bene e li veri cri-
stiani non sian tolti dal mondo, se non quanto più tardi si possa, e
per conseguenza di non esporsi essi medesimi senza necessità a
certe e non dubbie morti. Queste fervide esortazioni de' Padri non
poteron riuscire se non calamitose per molti infelici, i quali per-
suasi che così si toglievano dalle miserie di questa vita, e nel tempo
istesso volare in cielo, essi medesimi andavano a denunciarsi a'
magistrati romani preposti al governo delle provincie ed a rivelarli
esser cristiani. Ma che non puote negli animi umani una depravata
religione, quando un umor malinconico che l'assale, un tedio di
vivere, la noia delle presenti angustie d'una misera vita, sovente si
1. Liber de fuga in persecutione, in Migne, P. L.f 11, coli. 103-20. 2. «Am-
plectenda . . . amici)) : cfr. Epistola ad Fortunatum de exhortatione martyrii ,
praef., IV, in Migne, P. L., iv, col. 680 («Lo si deve abbracciare e deside-
rare, e domandare con tutte le preghiere delle nostre richieste, affinché noi,
i servi di Dio, siamo anche i suoi amici»). 3. desiderarlo: correggiamo il
« desiderio » del manoscritto.
822 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
affrettano la morte per togliersi da ogni impaccio ? Notabile Pisto-
ria rapportata da Cicerone nel libro i Tuscul. qq.1 di Hegesia Cire-
naico, il quale compose un libro, dove non fu sol contento di mo-
strare doversi disprezzar la morte, ma di doversi desiderare, e gli
effetti che ne seguirono furono che molti di ciò persuasi davano a
se medesimi morte; talché fu costretto il re Ptolomeo per liberar
gli animi da una tal pazzia di proscrivere il libro e di proibire a
Hegesia che nelle scuole non insegnasse dottrina sì prava: «Hege-
sias Cyrenaicus » narra Cicerone « librum composuit non solum de
contemnenda morte, sed desideranda: liber a rege Ptolomeo pro-
scriptus, et prohibitus Hegesias illa in scholis dicere, quod multi,
his auditis, mortem sibi ipsi consciscerent ».2
Simil successo ebbero le declamazioni de' Padri per que' mise-
rabili che volontariamente si offerivano a' magistrati romani per-
ché fossero, scoprendosi cristiani, menati a* supplici. Agevolò molto
il fascino la vana credenza, secondo che i Padri stessi affermavano,
che prossimo era il fine del mondo, che per ciò si affrettassero a
morire con morte sì preziosa del martirio, essendo sicuri che tosto
sarebbero fatti partefici3 del regno celeste. Il costume e la pratica
giudiciaria tenuta da' magistrati romani nelle cause contro i cri-
stiani nel II secolo, secondo che ce la descrive Plinio il Giovane
nel libro x, ep. 98* e si comprende dal rescritto dell' imperador
Traiano dato in risposta della consultazione di Plinio, il quale
trovandosi allora preside della Bitinia, dove il numero de* cristiani
era molto cresciuto, lo richiedeva come dovesse regolarsi, fu tale:
quel savio imperatore mitigando il rigore usato, commandò che i
cristiani non dovessero esser inquietati per inquisizione : « conqui-
rendi non sunt», ma che dovesse procedersi contro di loro per
accusaztone e gli accusatori dovessero firmare col proprio lor nome
il libello, senza riceversi libelli ciechi, ed esporsi alle pruove, e
i. Tusculanarum disp., I, xxxrv, 83. Egesia, filosofo greco di scuola cirenaica
(III secolo a. C), aveva portato alle estreme conseguenze la teoria dell'in-
differenza, per cui teorizzava la rinuncia alla vita ed era chiamato «persua-
sore di morte». 2. a Hegesias . . . consciscerent)): loc. cit., ma il testo ci-
ceroniano è alquanto diverso, e si tratta probabilmente di citazione di
seconda mano (« Egesia Cirenaico scrisse un libro sulla morte, non solo da
disprezzarsi, ma anche da desiderarsi: il libro fu bandito dal re Tolomeo e
ad Egesia fu vietato di esporre nelle scuole quelle dottrine, poiché molti,
ascoltatele, si davano la morte»). 3. partefici: così nel manoscritto.
4. nel libro X, ep. g8 : cfr. i Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, qui a
pp. 779 sgg.
LIBRO I • CAP. IX 823
sicome nell'altre cause criminali d'esser puniti, se si fossero sco-
verte le accuse calunniose. Che convinti o confessi i rei dovessero
punirsi; ma che si dasse luogo alla penitenza, cioè se volesser ritrat-
tarsi e, renunciata la religion cristiana, tornare alla pagana, con
adorare loro dii e rendergli sacrifici, gli lasciassero andar liberi nelle
loro case ; se si ostinassero, ammoniti tre volte, e persistessero nella
lor credenza, allora dovessero menarsi al supplicio; e la premura
de' magistrati era non già di farli morire, ma di salvargli ritrattan-
dosi; ed i tormenti l'usarono a questo fine perché tornassero all'an-
tica lor religione; e secondo che vedremo trattando de' libri di
Lattanzio Firmiano, l'impegno de' giudici era questo, e quando li
trovavano duri ed ostinati di mala voglia eran fatti morire. Così
credevano scemarne il numero, usando verso di loro modi placidi
e quanto men rigorosi potessero. Ma tutto questo non bastò, per-
ché per l'esortazioni inculcate da' Padri di doversi desiderare il
martirio, ed andargli incontro, molti, non ricercati, né accusati, vo-
lontariamente andavano avanti i magistrati a scoprirsi e confessare
d'essere cristiani, e persistendo nel proposito obbligavano i giudici
a condannargli per esecuzione delle leggi, dalle quali venivan co-
stretti. S. Giustino in due luoghi (Apohg. il, vulgo 1, cap. xn, pag.
31 ed. Oxon. cap. iv e v, pag. 9 e io)1 rapporta il costume de' suoi
tempi d'andar molti cristiani ad offerirsi per se stessi al martirio, né
disapprova un sì imprudente zelo, anzi mostra di commendarlo;
e che sovente eran da' magistrati ripresi, dicendogli: «Giacché voi
avete tanta brama di morire, per andare a Dio, uccidetevi voi stessi,
e non date a' tribunali sì funesta occupazione». Tertulliano (Ad
Scapulam, cap. ult.) rapporta d'un proconsole d'Asia il qual stanco
di condannare a morte li cristiani d'una città della sua provincia,
i quali venivano a folla a presentarsi a lui, ed a palesarsi esser cri-
stiani, doppo averne mandato qualch'uno al supplicio, voltandosi
a gli altri disse loro : « Miseri ed infelici a che venite da me, se voi
volete morire: vi mancano forse precipizi, vi mancan corde, ferri e
veleni, perché per voi stessi adempiate il vostro desiderio ? ».z Giu-
stino a tali dimande freddamente risponde che a' cristiani Iddio ha
proibito di ciò fare, perché altrimenti se tutti per se medesimi
s'uccidessero finirebbe il mondo. Povera ragione!
1. S. Giustino . . - pag. 9 e io: cfr. in Migne, P. G., vi, coli. 450-4 e 463.
2. Tertulliano . . . desiderio: cfr. Ad libros apologeticos appendix. Lìber ad
Scapulam, v, in Migne, P. L., 1, coli. 782-3.
824 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
Sovente Iddio ha confuso temerità sì folle di fidarsi delle proprie
forze, senza uno special suo soccorso, del quale siamo incerti se
voglia o non voglia somministrarlo. Più antichi essempi ce ne som-
ministra l'istoria ecclesiastica. Un cristiano della Frigia nominato
Quinto, il quale volontariamente per se stesso presentossi al mar-
tirio, ed avea animato altre persone ad imitarlo, venuto al cospetto
delle bestie feroci, che doveano divorarlo, concepì tant'orrore, che
avendogli il proconsole offerto la vita, se voleva ritrattarsi e sacri-
ficare a' dii, volontieri abbracciò l'offerta, giurò per lo Genio del-
l'imperatore e sacrificò agl'idoli. La Chiesa di Smirne, che rap-
porta il fatto in una sua lettera circolare per occasione del martire
Policarpo, aggiunge: «Per ciò, miei fratelli, noi non approviamo
punto coloro, i quali si presentano per se medesimi, perché l'Evan-
gelio non ha giammai insegnato tal cosa ». Questa lettera del mar-
tirio di Policarpo si legge al tom. 11 part. 1 Patrum apostolica § 4,
pag. 196 ed. Amst. 1724,1 dalla quale si comprende che, Policarpo
lodandosi, ed all'incontro riprendendosi coloro che volontariamen-
te si presentavano, non andò egli spontaneamente incontro al mar-
tirio, ma lo soffrì con intrepidezza; e potendo nascondersi non lo
fece, perché lo credette inutile e vano per poter scappare dalle
mani degli arcieri, che circondarono la casa dov'egli dimorava.
Veggasi Eusebio, Hist. Eccles., lib. iv, cap. 15,2 ed una lettera d'Isac
Vossio,3 che si trova nella 11 parte del voi. Patrum apost., p. 448.
11. Si commendano le femmine e spezialmente le vergini, le
quali, per evitare d'essere per forza violate, prevengono la
violenza con darsi per se medesime morte.
Sono anche da alcuni Padri commendate le femmine che per non
soffrire violenti stupri si danno morte; e che se bene la regola gene-
rale sia di non essere in nostro arbitrio darcela, anche in tempo di
persecuzioni, nulladimanco da ciò vengono eccettuate le femmine
quando la loro castità fosse in pericolo. Le vergini tanto maggior-
mente lodate, che per questo mezzo sfuggirono le violenze, perché
1. tom. II . . . Amst. 1724: si tratta di I. B. Cotelerius, SS. Patrum qui
temporibus apostolicis floruerunt . . ., recensuit . . . /. Clericus, Amstelaedami
1724, in due tomi. 2. Veggasi . . . cap. 15: cfr. in Migne, P. G., xx, coli.
339-64. 3. Isac Vossio: Isaac Voss (16 18-1689), filologo, figlio di Gerhard
Johannes.
LIBRO I • CAP. IX 825
conservarono il tesoro inestimabile della loro verginità, e vengono
annoverate fra' martiri. S. Girolamo, il qual, come si è già detto,
fu il più fervente panegirista della verginità e della castità, l'eccettua
dalla regola, scrivendo nel Comment. in Ionam, tom. vi, p. 150 d:
«Non est nostrum mortem adripere, sed illatam ab aliis libenter
accipere. Unde et in persecutionibus non licet propria perire manu,
absque eo ubi castitas periclitatur; sed percutienti colla submittere».1
S. Ambrogio, se bene ciò non permetta a' perseguitati di potersi
uccidere per non cadere in mano de' persecutori, non ha difficoltà
di permetterlo alle vergini per serbarsi inviolate, ed averle per
martiri; e che quelle che si precipitarono per ciò ne* fiumi, ed an-
negarono, riputa quelle acque si per esse salutifere come è l'acqua
del battesimo a' rigenerati; e fa dire a S. Pelagia, che per questo
mezzo salvò sua virginità, ch'ella non offese punto Dio avendo
avuto ricorso ad un tal rimedio, e la fede toglie il delitto: «Quid
super eorum meritis existimandum sit (e' scrisse nel lib. in De
virginibus)2 qui se praecipitavere ex alto, vel in fluvium demerse-
runt, ne persecutorum inciderent manus ? Quum Scriptura divina
vim sibi christianum prohibeat inferre. Et quidem de virginibus in
necessitate custodiae constitutis enodem habemus assertionem,
quum martyris extet exemplum. Sancta Pelagia apud Antiochiam
quondam fuit etc . . . Deus remedio non offenditur, et facinus
fides elevat». E delle vergini annegate nell'acque soggiunge questi
giochetti di parole: «Et hoc baptisma est, quo peccata donantur,
regna quaeruntur. Et hoc baptisma est, post quod nemo delinquit.
Excipiat nos aqua, quae regenerare consuevit. Excipiat nos aqua,
quae virgines facit»3 etc.
1. «Non est nostrum . . . submittere»: cfr. Commentartorum in Ionam prò-
phetam liber unus, vers. 12, in Migne, P. L., xxv, col. 1129 («Non è in
nostro potere darci la morte, ma data da altri accettarla volentieri. Onde
non è lecito morire di propria mano nemmeno nelle persecuzioni, tranne
quando è in gioco la castità, ma offrire il collo all'uccisore »). 2. De virgini-
bus, ni, vii, in Migne, P. L.t xvi, coli. 229-30 («Come dev'essere giudicato
il mento di coloro che si sono buttati da un precipizio, o si sono annegati
in un fiume, per non cadere nelle mani dei persecutori, dato che la Scrit-
tura divina proibisce ai cristiani di togliersi la vita ? Eppure per le vergini
poste nella costrizione della prigionia abbiamo una chiara affermazione in
favore di ciò, poiché vi è l'esempio di una martire. Vi fu un tempo presso
Antiochia santa Pelagia ecc. ... Il rimedio non offende Dio, e la fede
mitiga il misfatto»). 3. «Et hoc baptisma. . .facit»: ibid.t col. 230 («E
questo è un battesimo in cui i peccati sono rimessi, e procacciato il regno.
8a6 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
S. Gio. Crisostomo estolle S. Pelagia e l'altre vergini che l'imi-
tarono, Berenice, Prosdoce e Domnina. Egli ne tessè lunghi panegi-
rici ne' giorni delle loro feste; e riguarda come S. Ambrogio questo
genere di morte sufTogate nell'acque come un battesimo straordi-
nario. Veggasi YOratio panegirica in S. S. Ber mie. Prosdoc. et Dom-
nino tom. v e VOmilia 77 in Ioan., tom. n.1 Ma ciò che merita
d'esser avvertito è che S. Agostino, il quale della virginità ebbe lo
stesso concetto, non ebbe però ardimento di approvare il fatto, e
dubbita della loro salute, e nel libro 1, cap. 26, della Città di Dio2,
parlando delle vergini, le quali si precipitarono nel Tevere, quando
nell'incursione e sacco di Roma de' Goti sotto Alarico furono in
pericolo d'esser violate, non le loda, ma ne dubbita; ed in un sol
caso, dice, possono lodarsi, se per ispirazion particolare di Dio fos-
sero state spinte a darsi morte, ma soggiunge, chi ci assicura che
avessero avuta tal inspirazione e non si fosser mosse da illusioni
fantastiche ed immaginarie, alle quali le femmine sono pur troppo
soggette? E per ciò non si determina assolutamente di biasimarle;
e quel che reca maggior maraviglia è che ne' libri stessi concede
che possa ritenersi la virginità, ancorché fisicamente fossero state
violate le parti genitali delle femmine per forza estrinseca, ciò che
può accadere in mille guise, o per una caduta sopra punte di scogli,
o di palo, o di altra cosa aguzza, ovvero per morbo di ulcere o di
postemi e simili cagioni. Ed in fatti chi potrà negare che, sforzate
le vergini, né potendo resistere ad una forza esteriore, essendo l'a-
nimo non pur innocente, ma avverso all'aborrito attentato che s'usa
al corpo, non abbiano a riputarsi ugualmente vergini che prima ?
S. Agostino, che sì sottilmente volle esaminar lo stupro che patì
Lucrezia,3 non avvertì che non solo il padre Lucrezio, ma lo stesso
marito Collatino, per confortarla e consolar l'egro suo animo, le
rammentarono ch'essendo stata forzata dovea riputarsi immaco-
lata come prima: «mentem peccare (le diceano) non corpus: et
unde consilium abfuerit, culpam abesse», come leggesi appresso
E questo è un battesimo dopo il quale più nessuno pecca. Ci accolga l'acqua
che ha il potere di rigenerare, ci accolga l'acqua che rende vergini»).
1'. Veggasi . . . tom. II: cfr. rispettivamente De sanctis martyribus Bernice
et Prosdoce virginibus et Domnina matte earum homilia panegyrica, in Migne,
P. G., L, coli. 629 sgg., e In Ioannem homilia LXXVII, in Migne, P. G.,
Lix, coli. 413 sgg. 2. nel libro ... Dio: in Migne, P. L.t xu, col. 39.
3. S. Agostino . . . Lucrezia: cfr. la nota 4 a p. 819.
LIBRO I • CAP. IX 827
Livio, dee. 1, lib. 1 in fine.1 A che dunque queste infelici precipi-
taci ne' fiumi o nel vorace mare, a soffrire la più disgraziata ed
infausta morte che possa alFuom arrivare? Se non acconsentendo
al violento stupro, né potendo resistere alla maggior forza eran
vinte, non potendosi ad esse imputar colpa veruna, a che farsi ree
d'omicidio e d'un delitto sì enorme quanto è darsi a se medesime
morte ? E pure si sono trovati panegiristi che ciò commendarono
come un'eroica virtù, e le qualificarono per magnanime, corag-
giose e martiri.
in. Si condanna la giusta difesa di se medesimo e de* propri
suoi beni.
Fa veramente maraviglia come i Padri antichi, cotanto propensi
alle interpretazioni allegoriche, profetiche e mistiche della S. Scrit-
tura, sovente nel tempo istesso si siano attenuti in alcuni passi al
senso litterale ed alla sola corteccia delle parole; ed è da stupire
come Origene istesso, il più fecondo di mistiche interpretazioni,
non pur intendesse alla lettera ciò che Cristo S. N. disse di coloro
che si castrano per lo regno de' cieli,2 ma volle in effetto castrarsi,
e nella propria sua persona eseguire il preteso comando. Così pure
vediamo essere avvenuto per ciò che riguarda la giusta difesa di
se medesimo e de' propri beni. Perché Cristo per esortar i fedeli
a disprezzar le ingiurie e soffrire pazientemente ciò che ci vien di
fuori di danno, 0 di contumelia, e ricever l'offese senza ira e senz'a-
nimo di vendicarsene, si vale d'una sentenza proverbiale, che
« chiunque percoterà la tua guancia, offerisci l'altra perché la per-
cota anche».3 Ecco che da ciò ricavano la regola, che a' cristiani
fosse proibito di far qualunque difesa anche contro l'ingiusto agres-
sore, che intenda non sol mutilare qualche nostro membro, ma
togliere la vita istessa. Perché N. S. per inculcare il disprezzo delle
ricchezze e de' beni di questo mondo per tesaurizare in cielo, e non
esser cotanto attaccati alle cose terrene, si vale di quest'altra pro-
verbiai sentenza, che «se uno ti vuol toglier la tunica, e tu dalli an-
che il mantello»,4 eccone surta un'altra regola, che a' cristiani fosse
1. mentem . . .fine: I, 58, 9 («la mente pecca, non il corpo, e dove non
c'è deliberazione non c'è colpa»). 2. ciò che Cristo . . . cieli: cfr. Matth.,
19, 12. 3. «chiunque . . . anche»: cfr. Matth., 5, 39. 4. « se uno . . . man-
tello»: cfr. Matth., 5, 40.
828 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
proibito di difendersi contro gli usurpatori de' nostri beni, contro
coloro che intendono involarli, ma lasciarceli togliere, né per ciò
istituirne giudicio o formar processo o muover lite per la restitu-
zione ed aver ricorso a* magistrati; ma unicamente ricorrere alla
pazienza cristiana, che tutto dee tolerare. Atenagora apertamente
insegnò l'una e l'altra regola nella Legata1 cap. i, pag. 20, ed. Oxon.,
e con maggior fervore Tertulliano, il quale innanzi il passaggio al
montanismo compilò un intero libro De patientia Christiana? dove
non inculca altro di dover soffrire ogni insulto che si faccia dal-
l' agressore sopra la nostra persona, ed ogni perdita che i ladri e gli
usurpatori tentino sopra la nostra roba. Ma se si dimanda a Ter-
tulliano, perché tanto rigore? Eccone la graziosa risposta, che si
legge nel cap. vii,3 pag. 144: perché i cristiani sono obbligati,
secondo i precetti della S. Scrittura, di disprezzare i beni di questo
mondo, ad essempio di G. Cristo N. S. il quale non avea niente.
Se noi non dobbiamo cercar i beni di questo mondo perché N. S.
non l'ha mai cercati, non dovemo attristarci in perdere o in parte
0 in tutto i nostri beni, quando ci siano tolti. Aggiunge un'altra
ragione non meno ingegnosa che la già detta. Tutto ciò, e' dice,
che sembra esser nostro, non è proprio nostro bene, ma s'appar-
tiene ad Iddio, sicome tutte le altre cose e noi medesimi. Se dun-
que noi saremo sensibili alla perdita di ciò che ci vien tolto, questa
sensibilità della perdita d'un bene che non è nostro è una specie
di cupidità. Conchiude in fine : « Qui damni impatientia concitatur,
terrena coelestibus anteponendo, de proximo in Deum peccat . . .
Alioquin quomodo duas habens tunicas, alteram earum nudo dabit,
nisi idem sit, qui auferenti tunicam etiam pallium offerre possit ? »4
Non meno per la perdita de' beni, che per l'insulti della persona,
vuol che si usi la stessa pazienza, né resistere all'agressore, ancor-
ché insidiasse la nostra vita, valendosi delle già dette parole pro-
verbiali di N. S. di «offerir l'altra guancia al percussore». Né men
ingegnosa è la ragione che ne adduce al cap. x,s pag. 145, dicendo
1. Legatio prò christianis, 1, in Migne, P. G.t vi, coli. 889 sgg. 2. De
patientia liber, in Migne, P. L.t I, coli. 1359 sgg. 3. nel cap. VII: cfr.
ibid.y coli. 1371-3. 4. *Qui damni . . .possiti»: cfr. Und.9 col. 1372 («Chi
si irrita per l'incapacità di sopportare il danno, anteponendo le cose terrene
alle celesti, pecca contro Dio a riguardo del prossimo . . . D'altronde,
come potrà, avendo due tuniche, darne una a chi ne è privo, se non sarà
capace di dare anche il mantello a chi gli toglie la tunica?»). Cfr. Matth.,
5, 40. 5. al cap. X: cfr. ibid.t coli. 1375-7.
LIBRO I • CAP. IX 829
che dobbiamo astenersi da ogni difesa e resistenza e lasciar ad
Iddio di prenderne castigo e vendetta, non potendo noi rendere
il male per lo male ; e saremo d'ugual condizione colTagressore, ed
entrambi diverremo colpevoli, onde dovremo tutto soffrire senza
difendersi puramente per essercitare la nostra cristiana pazienza.
S. Cipriano, ammiratore de' libri di Tertulliano, proibisce assoluta-
mente ogni difesa, e di poter prevenire l'ingiusto agressore ucci-
dendolo, e per ciò i cristiani essere invincibili, perché non temono
punto la morte; né si difendono contro gli agressori, perché, in-
nocenti che siano, non è lor permesso uccidere il nocente: «et
hoc ipso invictos esse (christianos) quia mori non timent; nec re-
pugnare contra repugnantes, quum occidere innocentibus nec no-
centem liceat; sed prompte et animas et sanguinem tradere», come
leggesi néiVEpist. lx,1 pag, 142. Ma curioso è l'essempio che adduce
di Abele,2 lodandolo di non essersi difeso contro suo fratello, e
che si lasciò uccidere, come per dare un preludio della costanza de'
martiri e delle obbligazioni della pazienza cristiana, poiché questi
grandi elogi che gli dà di una non resistenza che è tutta chimerica,
non han qui luogo, poiché dalla maniera colla quale l'istoria sacra
si esprime narrandoci la morte di Abele, si conosce che fu ucciso
più tosto per tradimento, o almeno senza che avesse avuto tempo
o modo di difendersi.
Lattanzio Firmiano con maggior rigore proibisce ogni difesa
contro l'ingiusto agressore e che non possiamo senza enorme delitto
toglierli la vita per salvar la propria, ma astenersi di combattarlo,
e per ciò assolutamente proibisce a' cristiani di portare qualunque
sorte di armi, sicome da noi sarà detto esaminando il vi libro
delle Divine sue instituzioni? S. Basilio proibisce anche qualunque
sorte di difesa ed ha per omicida volontario chi uccide l' agressore.
S. Agostino nel libro I De libero arbitrio,4 num. 11-12 col. 224-
225, ed. Bened. Antverp., tom. 1, mostra essere stato dello stesso
sentimento, poiché facendo paragone fra un soldato, ch'eseguendo
i comandi del suo principe nella guerra uccide rinimico, ed un
privato, il qual uccide un ladrone o l'agressore ingiusto, dice che
1. Epist. LX: in Migne, P. Z,., ni, è l'epistola xni Ad S. Cornelium papam;
la citazione a col. 858. 2. Ma curioso . . . Abele: nel De bono patientiae
liber, x, in Migne, P. L.f IV, col. 652. 3. Divine sue instituzioni: cfr. Div.
inst., vi, De vero cultuy in Migne, P. L.t vi, coli. 633 sgg. 4. De libero ar-
bitrio libri tres, 1, v, 11-2, in Migne, P. L., xxxn, coli. 1227-8.
830 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
il soldato « in hoste interficiendo minister est legis », ma come possan
difendersi i privati che uccidon altri, ancorché la legge glielo per-
metta, io non ne trovo la maniera: «Quapropter legem quidem
non reprehendo, quae tales permittit interrici, sed quo pacto istos
defendam, qui interficiunt, non inverno». Veggasi Ugon Grozio,
De tur. beli etpac^ lib. I, cap. ni, § 3, n. 3.1 Non vi è però dubbio
che S. Ambrogio nettamente proibisca ogni difesa nel lib. ni, cap. 4,
De offic.2,
iv. Si condannano nell'umana società tutte sorti di giochi e di
onesti diporti: tutto ciò che a* nostri sensi esterni può recare
innocente piacere: tutte sorti di abbigliamenti, anche nelle fem-
mine, e s'impongono a* cristiani altre catene e rigori, onde per
ammenda eran condennati a dure e pubbliche penitenze.
Non senza ragione rimarrà ciascun sorpreso come gli antichi
Padri trattando dell'uomo non già posto nello stato di sua prima
vita incolta e selvaggia, ma doppo d'esser passato alla vita eulta e
civile, sembrano di volerlo ridurre di nuovo alle ghiande, e di pri-
varlo di tutto ciò che la stessa prodiga e benigna natura gli dispensa ;
la quale in più occasioni ha mostrato all'uomo che quantunque
non voglia esser corrotta e vinta dalle nuove arti e magisteri, ami
con tutto ciò e richieda dall'uomo d'esser aiutata e soccorsa, affin-
ché la di lei asprezza fosse raddolcita e la sua selvatichezza fosse
resa monda e eulta. Rimarrà assai più sorpreso riflettendo che se i
cristiani avessero sortito per lor capo e conduttiere un uom rigido
e severo, come fu S. Gio. Battista, il qual menò sua vita nelle selve,
né si cibò se non di locuste e di miele silvestre, né vestì altri abiti
che di peli di camelo,3 sarebbero scusabili; ma essendo instrutti
da' quattro Evangeli che G. Cristo al contrario secondo i suoi an-
damenti fu tutto gentile e cortese, indulgente e conversabile, non
spigolistro, né ippocrito o picchiapetto; che non ricusava gl'inviti
e che volontieri andava a pransi, anche convitato da' pubblicani e
pubblici peccatori; che onorò colla sua presenza le nozze celebrate
1. De iure belli ac pacis libri tres, curavit I. F. Gronovins, Hagae Comitis
1680, passo cit., pp. 52-3. Vi sono le citazioni di Agostino e Ambrogio
che il Giannone riferisce. 2, lib. Ili, cap. 4, De offic: in Migne, P. L.t
xvi, col. 152. 3. S. Gto. Battista . . . camelo: cfr. l'Introduzione al Regno
celeste^ qui a p. 648, e la nota 1 ivi.
LIBRO I • CAP. IX 831
in Cana, vi cenò e provide di buon vino i convitati; che non ricusò
di farsi ungere dalla Maddalena di prezioso ed odorifero unguento ;
che riceveva le care rimostranze della operosa e sollecita Marta, e
che potevan avvertire altri simili suoi liberi e gai portamenti. Né
vita meno allegra menarono i suoi appostoli e discepoli, onde i
discepoli di S. Giovanni gli dimandarono: «Quare nos et pharisaei
ieiunamus frequenter; discipuli autem tui non ieiunant?», Matth.y
9, 14, e presso S. Lue, 5, 33: «tui autem edunt et bibunt?». Ma
ciò che gli toglie affatto ogni scusa, è che lo stesso nostro buon
Redentore apertamente si dichiara ch'egli volle usare diversa ma-
niera di quella del suo precursore per ridurre a buon cammino i
traviati giudei, e scorgendo non aver in niente giovato la via cal-
cata dal Battista, volle tentarne un'altra da quella differente; ma
che con tutto ciò la lor protervia fu tale, e tanta, che nemmeno
seppero profittarsene, onde dolendosene gli dice : Venne Giovanni
co' suoi rigori e penitenze, e non fu inteso ; vengo io usando modi
diversi, mostrandomi indulgente, dolce e conversabile, e mi bia-
simano, dicendo che io mangio e bevo e mi do bel tempo ne* pransi
e conviti, anche nelle case de' publici peccatori. Che dunque si ha
da fare per ridurgli in via ? « Venit enim Ioannes neque manducans
neque bibens et dicunt: demonium habet. Venit filius hominis
manducans et bibens et dicunt: Ecce homo vorax et potator vini,
publicanorum et peccatorum amicus», Matth., xi, 18-19. Donde
dunque appresero tanta austerità ed asprezza, superando in ciò
gli stessi stupidi ed insensati stoici? Non da altro, se non perché
N. S. spinto dal S. Spirito, per fini a noi imperscrutabili, una sol
volta andò nel diserto per esser tentato dal demonio, e quivi di-
giunò per 40 giorni e notti, Mattiti iv, 2, e perché ne' suoi sermoni
loda sovente la sobrietà e temperanza, sicome conveniva ad uno
che insegnava una più alta e sublime morale per render gli uomini
perfettissimi. Non per altro perché, non penetrando il vero senti-
mento di alcune parole di S. Paolo, che si leggono nelle sue epi-
stole, e spezialmente in quella scritta a' Romani, l'interpretarono
a lor talento, sforzandole con argomenti puerili e vani, per renderle
conformi alle strane loro immaginazioni, sicome si vedrà chiaro
più innanzi.1
1. Non per altro . . . innanzi: ritorna un tema del Triregno, la polemica con-
tro un eccessivo rigorismo, che in questa Apologia però avrà uno spazio
ben più grande.
832 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
I. S. Clemente Alessandrino uscito dalla scuola d'Alessandria
adottò nel suo Pedagogo1 la dottrina de* stoici, e non si contenne a
ciò che di vero e di sodo insegnarono nella loro morale, ma trascorse
fino ad abbracciare le strane e fantastiche massime contenute ne'
loro Paradossi: sicom'essi aveano per massima che il solo sapiente
è ricco, così egli dice che il solo cristiano è ricco, che le ricchezze
siano incompatibili colla virtù e colla pietà, ed altre simili confor-
mità che si leggono ne' suoi libri. Non avvertendo che gli stoici
ci diedero una idea del sapiente pur troppo orgogliosa e superba,
tutta opposta 2$ umiltà cotanto dal Vangelo inculcata; e che voler
ridurre il cristianesimo allo stoicismo, sarebbe lo stesso che porlo in
ridicolo, sicome da' pagani stessi furon posti in ridicolo li Paradossi
della filosofia stoica, e fatti di essi brutti e miseri scherni. Cicerone
stimò non contener quelli cos'alcuna di vero o di ragionevole.
In tutte le cose vi entra il modo e la discretezza; ma confondere
l'uso legittimo delle cose per se medesime indifferenti, e li piaceri
innocenti, colla scostumatezza, colla crapula, col lusso e colla
ubriachezza, è pur troppa cecità e sciempiezza. Ecco Clemente nel
libro 11 del suo Pedagogo, cap. i,2 prescrivendo la quantità e qualità
de' nostri alimenti, gli restringe per la sola conservazione di nostra
vita, ed esclude tutti i piaceri innocenti, che soglion accompagnare
un moderato mangiare e bere, come se tali piaceri fosser incompa-
tibili coll'utilità, e come non giovassero a render i cibi più atti alla
digestione ed al nutrimento, di che ci tornerà occasione di trattarne
quando esaminaremo i libri di S. Agostino. Egli condanna com'un
eccesso di bocca l'uso del pan bianco, perché effemina, e riduce un
alimento sì necessario alla voluttà,3 p. 164-165. Nel cap. il4 prescri-
ve doversi bere acqua come naturai bevanda, nel che non s'ingan-
na; ma la ragione che n'apporta è ben graziosa, dicendo che Iddio
al percuoter di Mosè colla verga la rocca fece uscir acqua e non
vino, perché gl'Israeliti doveano nel deserto esser sobri; ma che
dapoi essendo in riposo, la Santa vigna produsse il grappolo pro-
fetico, cioè il grappolo che gli esploratori portarono, il qual figu-
1. nel suo Pedagogo: cfr. in Migne, P. G., vili, coli. 247 sgg. Su Clemente
cfr. le osservazioni di Domenico Aulisio in Delle scuole sacre cit., tomo 11,
cap. xxiii, pp. 99-100. 2. Clemente ... cap. i: Paedagogus cit., n, 1,
Quomodo circa alimenta versori oporteat, coli. 378 sgg. 3. Egli condanna
. . . voluttà: cfr. ibid., col. 383. 4. Nel cap. Il: intitolato Quomodo inpotu
se gerere oporteat; cfr. ibid., col. 410.
LIBRO I • CAP. IX 833
rava G. Cristo spremuto per Noè, ed il suo sangue, o sia il vino
dell'eucaristia, mescolandovi altre mistiche idee e fantastiche in-
terpretazioni.
Ma S. Girolamo in questo lo supera nel rigore, poiché niega
a* cristiani non solo il vino, ma di mangiar carne, come quella che
fu proibita da N. S. il quale, sicome proibì il divorzio e la circonci-
sione, così anche di mangiar carne. E se si dimanda dond'egli ciò
ricava, quando dall'Evangelio siamo instrutti del contrario ? Ecco
l'ingegnoso argomento. G. Cristo essendo venuto nella fine del
mondo, ha voluto ridurlo a' suoi princìpi; nel principio del mondo
non si conobbe divorzio, ma dapoi Mosè lo permise per la durezza
del suo popolo ebreo ; e Cristo dapoi lo tolse. Nel principio non vi
fu circoncisione, fu dapoi introdotta da Abraamo, ma Cristo colla
nuova legge la tolse. Nel principio per tutta la prima età del mondo
fra' cibi dell'uomo non vi fu l'uso di carne d'animali, né si legge che
Iddio l'avesse permesso. Doppo il diluvio lo permise a Noè ed alla
sua posterità, purché si astenesser dal loro sangue. Così G. Cristo
(e' dice nel lib. I dell'Invettiva contro Giovinianó),1 «essendo venuto
nella fine de' giorni, ha rimenato la fine al suo cominciamento, in
guisa che sicome ora non è a noi permesso né di repudiar la moglie,
né farsi circoncidere, così né di bere vino, né di mangiar carne,
sicome dice l'appostolo (Rom., xiv, 21) "bonum est non manducare
carnem, et non bibere vinum", poiché l'uso del vino ha cominciato
con quello della carne doppo il diluvio». Da questo discorso che
copiò da Tertulliano già montanista, poiché lo trasse dal lib. De
monogamia, cap. 5,z si rende manifesto che S. Girolamo vuol che i
cristiani si astengano dal vino e dalla carne sicome dal divorzio e
dalla circoncisione, e che uguale sia la reità del fallo. Puossi pen-
sare raziocinio più falso e torto di questo ? Primieramente se bene
non si leggesse avere Iddio nel principio espressamente concesso
all'uomo di mangiar carne d'animali, nemmeno si legge avercela
proibita. Mosè, «eruditus omni sapientia Aegyptiorum », sicome
ce ne rende testimonianza S. Stefano, Actor., vii, 22, era ben
istrutto che quando il mondo era infante l'ordinario cibo degli
uomini era de' frutti degli alberi e dell'erbe della terra; e che da
poi cominciossi a por in uso anche la carne degli animali; e per
1. Invettiva contro Giovinianó-. cfr. Adversus Iovinianum, I, 18, in Migne,
P. L., xxiii, col. 248. 2. De monogamia, cap. 5: cfr. in Migne, P. L., II,,
coli. 935-7-
53
834 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
ciò saviamente nella i età del mondo non fé motto di carne, ma sì
bene nella n, quando l'uso l'introdusse. Per 2° il divorzio non fu,
come si è detto e si dirà più ampiamente quando trattaremo de'
libri di S. Agostino, vietato da N. S. generalmente ed assoluta-
mente in tutte le provincie dell'orbe romano,1 poiché si ritenne
anche doppo che fu reso cristiano da' cattolici imperadori, ma sola-
mente volle restringere la soverchia licenza degli Ebrei di mandar
i libelli del repudio per qualunque minima e leggier causa. Per 30
il passo allegato di S. Paolo niente pruova ed è sforzato, impro-
prio ed estraneo per quel che si allega, anzi niun appostolo o evan-
gelista fu in ciò tanto indulgente che S. Paolo, il quale soleva dire
ch'egli sapeva abbondare e necessità soffrire? e quando non vi era
occasione di dar scandolo, non avea difficoltà di mangiare la carne
degl'istessi animali immolati a Dio. Niente è più comune tra' sacri
scrittori che il dire bonum est sia lo stesso che melius est; sicom'è
manifesto in S. Matteo, xvin, 8, 9, ed ha avvertito in altri passi della
S. Scrittura Salomon Glassio, Gramm. Sacr., lib. in, tract. 1, can.
18.3 Sarebbe certamente migliore se si potesse astenersi dalla carne
e dal vino, li quali sovente producono ne' corpi umani penose in-
fermità, ubriachezze e libidinose voglie; ma S. Paolo stesso, il qual
conosceva il temperamento di Timoteo,4 debole di stomaco ed in-
fermiccio, e che con tutto ciò seguitava a bere acqua, lo ammonisce
a non più ber acqua, ma valersi d'un poco di vino : « Noli adhuc
aquam bibere, sed modico vino utere propter stomachum tuum
et frequentes tuas infirmitates », 2" Tintoti cap. v, 23. Nella stessa
Ep. ad Rom., xiv, 2, 3, 20 et seg., chiaramente si vede che S. Paolo
riguarda l'uso del vino e della carne come una cosa lecita e sol per
qualche circostanza deve l'uomo astenersene, quando la carità cri-
stiana il richiegga per non iscandalizare gli animi deboli.
1. Per 2° il divorzio . . . romano', ritornano, confermali, i temi dell'Istoria
sul concubinato dei Romani. Poiché questo era stato uno dei punti discussi
e condannati, il Giannone aveva composto ima dissertazione: Dell'antico
concubinato de' Romani ritenuto nell'Imperio, cominciata a Napoli nell'aprile
del 1723 e rifusa nei capitoli vi-xrv della parte 11 dell'Apologia dell'Istoria
civile di Napoli. In Archivio di Stato di Torino, manoscritti Giannone,
mozzo v, ins. 18, una copia autografa della dissertazione. Cfr. NlCOLiNi,
Scritti, p. 29. 2. sapeva . . . soffrire: cfr. Philip., 4, 12. 3. Salomon . . .
can. 18: Salomon Glass (lat. Salomo Glassius, 1593-1656), teologo lutera-
no tedesco, Philologìae sacrae . . . libri quinque, . . . ui-iv, Grammatica sa-
cra, Francofurti 1653. 4. Timoteo: discepolo di Paolo e vescovo di Efeso.
LIBRO I • CAP. IX 835
11. Ma facciam ritorno a* rigori di Clemente in altro genere di
cose. Egli nel suo Pedagogo, lib. 11, e. 3,1 bandisce senza guardar
condizione di persona, alta 0 bassa che sia, tutta sorte di mobili
preziosi, tutti i vasi d'oro e d'argento. Nel cap. 4 bandisce ne' fe-
stini tutta sorte d'istrumenti di musica. Nel cap. 5 e ne' seguenti
prescrive la maniera come nella conversazione e festini debba ri-
dersi e comporre il suo viso; ed in ciò trovò chi superasse il suo
rigore, perché Clemente fu contento di moderare il ridere, non di
toglierlo affatto, ma S. Basilio assolutamente proibisce il riso a
tutti li cristiani, senz'eccezione, come si legge Regni, brev., inter-
rogai. 3i,a tom. n, p. 635, e non per altra ragione perché Cristo
istesso presso Luca, vi, 25 disse: « Vae vobis qui ridetis nunc : quia
lugebitis et flebitis». E nota in tanto l'ordinario costume de' Padri
antichi d'interpretare le Divine Scritture. S. Clemente in questo
suo Pedagogo* si mette ad instruire ed a dar regole intorno a l'of-
ficiosità e civiltà nel trattare; e prescrive molte regole di buona
creanza, ma così debolmente e confusamente che comparato que-
sto suo Galateo a quello del nostro M.r Della Casa4 arcivescovo di
Benevento, gli rimane di gran lunga in dietro. Proibisce, come si
è detto, le corone de' fiori e gli odorosi unguenti, de' quali gli
antichi, spezialmente le femmine, valevansi nel lavarsi e nel pet-
tinarsi i capelli. E se gli si opponeva, ma come? il nostro buon
Redentore non si fece egli ungere dalla Maddalena, ancorché pec-
catrice? Ecco come se ne sviluppa: non bisogna attender la lettera
di quella istoria, ma l'allegoria che in sé racchiude. Proibisce i
bagni caldi, e sol permette li tepidi, ma alli giovani tutti affatto.
Intorno a gli abiti, a' colori, abbigliamenti ed ornamenti non
pur degli uomini, ma delle stesse femmine, le quali non hanno
altro sollievo e compiacimento che aiutando 0 supplendo la natura
di vedersi ben ornate, non è men rigido che stravagante. Condanna
assolutamente tutte sorti di tinture ne' panni di lana o di seta, poi-
ché, secondo lui, sono cose inutili e che fanno oltraggio alla verità :
solo il color bianco conviene al candore d'un cristiano ; e di questo
1. Paedagogus, 11, ni, Quod in sumptuosam vasorum suppellectilem non sii
studium conferendum, in Migne, P. G., vili, col. 431. 2. Regulae brevius
tractatae, interrogatio xxxi, An omnino ridere non liceat, in Migne, P. G.,
xxxi, col. 1103. 3. in questo suo Pedagogo: nel libro 11, passim, in Migne,
P. G., vili cit. 4. Giovanni Della Casa (1503 -15 56), segretario di Stato di
Paolo IV. Il Galateo, scritto fra il 1551 e il 1554, ni pubblicato nel 1559.
836 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
colore furori le vesti di Dio quando comparve nelle visioni profe-
tiche, e per ciò non altro conviene a* nostri abiti, e nel cap. xi1 di
questo 11 libro passa Clemente alla maniera come dobbiamo cal-
zar i nostri piedi e le nostre gambe, e nel cap. xn,2 eh* è l'ultimo
di questo libro, proibisce di portar oro, perla alcuna 0 altre gemme.
Nel libro in, cap. i,3 si diffonde alla sua maniera stoica in mostrare
che la vera beltà consiste solo nella virtù e non nell'apparenza, e
nel cap. 24 si infervora contro le femmine, le quali vi sono pur trop-
po inclinate: declama, fra le altre cose, contro Puso degli specchi,
che riguarda come una specie d'idolatria, ed eccone la ragione:
« Se Mosè (egli dice, pag. 258) ha proibito di rappresentar Iddio per
alcuna immagine, le femmine potranno mai elle ragionevolmente
dipingersi dentro uno specchio, che rappresenti la loro falsa inda-
gine ? ». Della qual ragione si valse pure Tertulliano, De spectaculis,
cap. 13,5 per condennar le finte rappresentazioni nelle comedie,
e nel cap. iv6 biasima quelle che nutriscono i cagnolini, li pappagalli
e simili sorte d'animali.
Ma dalla austera scutica di questo Pedagogo non ne sono esenti
nemmeno gli uomini. Egli, non contento di biasimar in loro tutto
ciò che sia effeminatezza, nel cap. 37 trascorre oltre e riputa gran
delitto di farsi radere la barba, perché la barba, e' dice, distingue
il maschio dalla femmina, «oltreché,» prosiegue «li capelli di no-
stra testa son tutti numerati» (MattL, io, 30) e per conseguenza
tutti i nostri peli della barba e del nostro corpo, onde non possono
esser rasi. Sol permette nel cap. xi,8 pag. 291, di tosarli un poco
aggiungendo che una barba interamente rasa rende l'uomo d'aspet-
to villano. In questo stesso cap. parla Clemente degli anelli e per-
mette agli uomini di portarli solo al piccolo dito, ma poiché gli an-
tichi se ne servivano anche per suggello, proibisce di portar quelli
ne' quali sia scolpita qualche figura ignuda o qualche falsa divinità,
1. nel cap. XI: intitolato De calceamentis, in Migne cit., col. 535. 2. nel
cap. XII: intitolato Quod non oporteat gemmas et aureum ornatum stupere
et admirari, col. 539. 3. cap. 1: intitolato De vera pulchritudine, coli.
555 s£g- 4- riél cap. 2 : intitolato Quod non sit cultu utendum, coli. 559 sgg.
La citazione che segue a col. 571. 5. De spectaculis liber, cap. xxm (e non
13), in Migne, P. L., 1, col. 730. 6. e nel cap. IV: ritorna al Paedagogus
di Clemente, cap. iv, Cum quibusnam habenda sit consuetudo, in P. G. cit,,
col. 598. 7. nel cap. 3: intitolato Adversus viros qui formam colunt, coli.
578 sgg. 8. nel cap. XI: intitolato Compendiosa optimae vitae pertractatio,
coli. 626 sgg.; sulla barba, col. 635.
LIBRO I • CAP. IX 837
e di più anche se portassero impressa una spada o un arco, perché
questi sono istromenti che non convengon punto alla pace, o pure
un bicchiere, perché dà indizio d'intemperanza. Proibisce, infine,
tutti i giochi di fortuna, come malvaggi di lor natura; e nel cap. xn1
proibisce a* mariti di far carezze e baciare le loro mogli in presenza
de* domestici. Se alcuno avesse voluto opporgli l'esempio in con-
trario di tutto un patriarca qual fu Isaac, il quale ciò faceva con
tanta pubblicità con Rebecca, che fino Abimelech re di Gerara
dalla finestra vide che si trastullavano insieme, onde comprese che
Rebecca le fosse moglie, e non sorella, come Isaac ne avea fatto
sparger voce, Genesi, xxvi, 7, 8, Clemente tosto l'avrebbe risposto
colle solite sue allegorie e sensi mistici. Bisogna in quel fatto ri-
guardar i misteri che comprende, non la corteccia e l'apparenza.
Isaac, dice nel cap. va del lib. 1 del Pedagogo, dinota il riso; Abi-
melech, la sapienza, che d'alto mira il mondo; Rebecca impazienza.
«O saggio gioco,» esclama «o divin gioco! Questo è il medesimo
gioco, ch'Eraclito dice, col quale il suo Giove soleva giocare».
Aggiunge un'altra allegoria, e dice che «Abimelech, riguardante
per la finestra, è G. Cristo nostro re, che riguarda dal cielo il no-
stro riso», ed altre simili puerilità ed inezie.
Ma sopra tutto declama Clemente e tratta di grande impietà l'uso
de' falsi capelli, sicome fecero gli altri Padri che lo seguirono, li
quali, se l'uso delle parrucche fosse stato comune a' loro tempi,
sicome è ne' nostri, certamente che l'avrebbero affatto proibite non
solo a gli ecclesiastici, ma a' cristiani tutti. Essi declamarono contro
ifalsi capelli, perché credevano di farsi ad Iddio una grave ingiuria,
accusandolo di non averci data una bella capillatura. La testa, dice
Clemente, che porta falsi capelli, non è la stessa dataci da Dio, e
così quando il prete in qualche funzione del suo ministero impone
le mani ad una tal femmina, non è la stessa persona che benedice,
ma un'altra.
Tertulliano (De cultu f eminar., cap. vi-vii,3 p. 156-157) per la
cagione stessa declama contro ifalsi capelli, dicendo che coloro che
se ne vagliono rendono Iddio mendace e buggiardo, il qual presso
S. Matteo, V, 36, disse: «non potes unum capillum album facere
1. nel cap. XII'. intitolato Brevis optimae vitae simihter pertractatio, coli.
663 sgg. 2. nel cap. Vi intitolato Quod omnes qui circa ventatevi versantur
sint apud Deum pueri, coli. 262 sgg. La citazione che segue a col. 275.
3. De cultu feminarum libri duo, n, vi-vn, in Migne, P. L., 1, coli. 1436-9.
838 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
aut nigrum». Tertulliano aggiunge, inveendo contro le femmine;
«Adfigitis praeterea nescio quas enormitates capillorum, nunc in
galeri modum, quasi vaginam capitis et operculum verticis, nunc
in cervicem retro suggestum. Mirum quod non contra dominica
praecepta contenditur. Ad mensuram neminem sìbi adiicere posse,
pronunciatum est. Vos vero adiicitis ad pondus ; colluras quasdam,
vel scutorum umbilicos, cervicibus adstruendo»1 etc.
S. Cipriano ammiratore de* libri di Tertulliano, che avea stan-
chi, declamando pure contro i falsi capelli, si vale del passo stesso
di S. Matteo, De habitu virgìnum? pag. 99, e così si scaglia contro
le femmine: «Manus Deo inferunt quando id quod ille formavit,
reformare et transfigurare contendunt, nescientes quia opus Dei
est omne quod nascitur, diaboli quodcumque mutatur ... Ut enim
impudica circa homines et incesta fucis lenocinantibus non sis,
corruptis violatisque quae Dei sunt, peior adultera detineris». Pro-
siegue minacciandole che nel giorno della resurezione il supremo
Giudice le dirà di non conoscerle, che la vostra figura sia guasta e
corrotta, non già la mia opera e la mia immagine, e le vostre teste
sono piene di vanità e di menzogna; e nel libro De lapsis? p. 123,
chiama i capelli tinti: «Capilli mendacio colorati». Chi può negare
che sovente le femmine danno in ciò in qualche eccesso, e non sian
da riprendere per l'affettazione e soverchia sollecitudine che por-
gono in ornarsi? Ma sovente accade anche ch'esse medesime n'e-
sperimentano il castigo, e tanta industria produce effetti contrari
alla loro ambizione, ed in vece di essere commendate e tenute
care sono biasimate ed abborrite. Sovente in alcune le loro negli-
genze vagliono più che tutti gli artifici delle più scaltre. In tutte le
cose v'entra il ne quid nimis. Cicerone loda ne' suoi libri De officiù
1. «Adjzgitis . . . adstruendo y>: De cultu feminarum cit., 11, vii, col. 1438
(a Vi mettete su non so quali enormi parrucche ora a mo' di galero, co-
me un involucro e un coperchio del capo, ora a mo' di palco sulla nuca.
Strano che non ci si scagli contro i precetti del Signore. È stato proclamato
che nessuno può aggiungere alcunché alla propria statura [cfr. Matth., 6,
27], ma voi aggiungete al peso, applicandovi in testa come delle focacce o
centri di scudo »). 2. Liber de habitu virginum, xv, in Migne, P. L., iv, coli.
467-8 («Levano le mani contro Dio quando si adoperano per cambiare e
trasformare quel che Dio ha formato, ignorando che ogni cosa che nasce
è opera di Dio, del diavolo tutto ciò che si cambia . . . Ancorché infatti
con l'attrattiva dei belletti tu non sia impudica e invereconda a riguardo
degli uomini, tuttavia, poiché hai corrotto e contaminato quel che è di
Dio, sei considerata peggio d'una adultera»). 3. Liber de lapsis, vi, in
Migne, P. L.} iv, col. 483.
LIBRO I • GAP. IX 839
la munditia,1 la quale e per la vita civile, e per la propria nettezza e
salubrità è necessaria, ma si biasima l'affettazione e la troppa cura.
Livio rapporta d'una vergine Vestale, la quale perché nel culto di
sua persona era soverchia, diede di sé qualche sospetto d'impudici-
zia, onde ne fu accusata innanzi al sacerdote a cui s'apparteneva
di punire i lor difetti ; ma esaminata la causa, si trovò innocente :
fu ben sì ripresa che per l'avvenire si astenesse di abbigliarsi con
tanta cura, per non dare di sé sospetto alcuno.2
Di questi e simili rigori ci sarà data altra occasione di trattarne
quando esaminaremo spezialmente i libri di S. Agostino, da cui
derivarono i rigoristi de' passati e de' nostri tempi; dove in più
chiara luce vedrassi quanto opportunamente fossero surti i nostri
più clementi e benigni teologi scolastici per toglier all'uman genere
tanti lacci e catene; e si conoscerà maggiormente quanto provida
e saggiamente avesse poi la Chiesa tolto l'abuso delle penitenze
pubbliche usate dagli antichi Padri con tant' asprezza e rigore, che
furono cagione di tanti disordini, infamie e pubblici affronti ; aven-
do l'esperienza fatto conoscere che per l'emendazione di nostra
vita Iddio ricerca il cuore, lo spirito, la verità (come dice S. Gio.,
iv, 24), non assolutamente V esterne pubbliche penitenze; la mutazione
in fatti della vita rea alla buona è la vera penitenza, ed è la neces-
saria, poiché l'esperienza ci ha dimostrato che i più grandi ipocriti,
i più ottenebrati delle più grosse illusioni, e che non hanno alcun
serio desìo di convertirsi, sono ordinariamente quelli che volontieri
abbracciano l'austerità e le mortificazioni esteriori, avendo ridotta
la facenda ad una pura meccanica, e sono più facili a sofferirle che a
rinunciare le loro favorite passioni; e quel ch'è peggio e deplorabile
in quelle maggiormente si confermano, su il falso pregiudizio di
ottenere la remission de' loro peccati per queste estrinseche morti-
ficazioni, menando intanto la lor vita come prima tra vizzi e disso-
lutezze. Di quanti scandali e disordini fossero stati cagione i rigori
usati nelle pubbliche penitenze, a' nostri tempi e de' nostri maggiori,
da' moderni scrittori si son date alla luce più dotti trattati non men
da' cattolici romani, come da Morino,3 Tommasino4 ed altri, che
1. Cicerone . . . munditia: cfr. De officiis, 1, xxxvi, 130. 2. Livio rapporta
. . . alcuno: cfr. IV, 44, 11-2. 3. Morino: Jean Morin (1591-1659), teolo-
go francese, studioso di problemi biblici. Cfr. il suo Commentarius histori-
cus de disciplina in administratione sacramenti poenitentiae, Parisiis 1651.
4. Tommasino: Louis Thomassin: cfr. la nota 2 a p. 460. Oltre all'opera ivi
citata, edita la prima volta a Parigi nel 1688, cfr. i Traitez historiques et
840 APOLOGIA DE> TEOLOGI SCOLASTICI
da' pretesi riformati, come da Giovanni Dalleo,1 De poenis et sati-
sfactionibus, da Giuseppe Bingam,3 Orig. eccles., e da M.r Le Clerc
nella Vita di S. Cipriano, nella « Bibliot. univers. », tom. xn, pag.
294 et seg.3 E per ciò che riguarda la morale degli antichi Padri
possono vedersi gli ultimi scrittori, che han esaminato con accu-
ratezza e somma critica questa materia, fra gli altri Puffendorf,
De iur. notar, et genti., e Giovanni Barbeyrac nella sua Prefazione
e note sopra l'opera suddetta di Puffendorf.4 Ultimamente venne
voglia al P. D. Remigio Ceillier5 religioso benedittino della con-
gregazione di S. Vanne e di S. Idolfo di confutare ciò che Barbeyrac
aveva scritto nella Prefazione suddetta intorno alla morale de' Padri
antichi, e nel 171 8 stampò in Parigi un volume in 40 sotto questo
titolo : Apologie de la morale des Pères de VÉglise, contre les injustes
accusations du seur Jean Barbeyrac, professeur en droit à Groningue
etc. Meglio sarebbe stato per lui di astenersi di dar fuori una Apolo-
gia nella quale dovea porsi in necessità di difendere il falso, sicome
il successo lo dimostrò, poiché il Barbeyrac gli rispose con tanto
vigore e forza nel suo trattato De la morale des Pères de VÉglise
stampato in Amsterdam nel 1728 che non gli lasciò scampo, sicché
finora, per quel ch'io sappia, non se n'è veduta replica alcuna.
CAP. XI
Delle questioni vane, ridicole e curiose, onde gli scrittori de' secoli
rozzi ed incolti han riempito i lor volumi, seguendo
la traccia de* Padri antichi.
Molti oggi disprezzano e deridono i tanti volumi de* nostri teologi
scolastici ripieni d'infinite questioni non pur vane, inutili e curiose,
dogmatiques de VÉglise et de la morale chrétienne, Parisiis 1683, in due vo-
lumi, i. Giovanni Dalleo: cfr. la nota z a p. 690. Il Giannone si riferisce
qui al De poenis et satisfactionibus htanams libri septem, Amstelodami 1649.
Vedi anche la nota 3 a p. 794. 2. Giuseppe Bingam ecc. : vedi la nota 1 a
p. 660. 3. Di Jean Le Clerc (cfr. la nota 5 a p. 315) è qui citata la re-
censione, apparsa sulla «Bibliothèque universelle» del 1727, tomo e loc.
citt, agli Òpera S. Cypriani, Parisiis 1726, a cura di Prudent Maran, il
quale premise alla sua edizione una Vita S. Cypriani. 4. fra gli altri . . .
Puffendorf: cfr. le note 2 e 3 a p. 819. 5. Remy Ceillier: cfr. la nota 1 a
p. 795- Contro la sua opera polemizzarono Johann Franz Budde e lo stesso
Barbeyrac (cfr. p. 795 e la nota 2 ivi), che rispose con il Traité da cui il
Giannone trasse gli appunti conservati ali* Archivio di Stato di Torino,
manoscritti Giannone, mozzo 1, ins. 15, O, 1.
LIBRO I • CAP. XI 84I
ma eziandio fantastiche e ridicole, come se essi fossero stati i primi
ad infrascarle nell'interpretazione della Divina Scrittura. Stupi-
scono del lor numero e della vasta mole, per cui non bastano ampie
sale e camere per potergli capire. Alfonso Tostato,1 detto l'Abu-
lense perché fu vescovo di Avila in Ispagna, sopra l'Evangelio solo
di S. Matteo scrisse sette tomi in foglio, e non finì di spiegarlo
tutto; e sicome notò Sisto Senense nel lib. 4 della sua Biblioteca?
sopra un solo capitolo mosse cento settanta questioni. Così pure si
mostrò fecondo ed ubertoso negli altri tomi che lasciò sopra la
Scrittura Santa, tal che in Ispagna nacque il proverbio per ischer-
nire qualche prolisso autore di più libri, che avea scritto più che il
Tostato. Lo stesso Sisto fa menzione nel lib. 3 della sua Biblioteca
di Enrico Langestenio,3 il quale avendo consumati molti anni nella
sposizione della Genesi, appena in quattro anni arrivò al quarto ca-
pitolo di quel libro. Aggiunge il P. Menochio nelle sue Stuore, tom.
1, cent. 11, cap. 44,4 che molto più diffuso fu Tommaso Asserbachio,5
1. Alfonso Tostato: Alonso Tostado Ribera (1400-1455), teologo ed esegeta
spagnolo. Per la sua prolissità divenne proverbiale in Spagna: «Escribe mas
que el Tostado ». Per il commento a Matteo cfr. Opera omnia, Venetiis
1596, ventisei tomi in dodici volumi in folio. 2. Sisto . . . Biblioteca-. Sisto
da Siena (1 520-1 569). Di origine ebrea, si convertì al cattolicesimo fa-
cendosi francescano e successivamente domenicano. Biblista, scrisse una
Bibliotheca sancta ex praecipuis Catholicae Ecclesiae autoribus collecta, Ve-
netiis 1566. Il libro iv è dedicato all'esame degli esegeti cattolici (cfr.
p. 311 : Alphonsus Tostatus). 3. Lo stesso . . . Langestenio: Heinrich Hein-
buche von Langestein (morto nel 1397), erudito e teologo tedesco. Profes-
sore a Parigi, poi, nel 1387, all'Università di Vienna, di cui divenne rettore
nel 1393. Cfr. Bibliotheca cit., hb. in, p. 284, De coacervatione. 4. Ag-
giunge ... cap. 44: Giovanni Stefano Menochio (1575-1655), gesuita,
teologo ed esegeta, autore di opere famose come i Commentarii al Vecchio
Testamento e il De republica Hebraeorum, ricordato come opera di parti-
colar pregio dal maestro del Giannone, rÀulisio, in Delle scuole sacre cit.,
tomo I, p. 5. Qui sono citate Le Stuore, ovvero trattenimenti eruditi del pa-
dre G. S. Menochio, la cui più antica edizione, con lo pseudonimo di Gio-
vanni Corona, è quella di Roma del 1646- 1648, in due volumi. Altra edi-
zione, Roma 1648- 1652, in cinque volumi. Il Giannone utilizza l'edizione 'w.
tre tomi: Stuore, Roma 1689, ordinata in maniera diversa dalle precedenti:
cfr. infatti tomo I, centuria li, cap. xliv, Se siano più degni di lode quegli
spositori che scrivono diffusamente sopra la Scrittura, 0 quelli che brevemente
la dichiarano, pp. 242 sgg. Di qui derivano le citazioni del Tostado, di
Sisto e di Langestenio. A sua volta il Menochio si ispira alla Bibliotheca
di Sisto, lib. in, p. 284: «Hunc longe prolixiore opere superavit Thomas
Hasselbachius . . .». 5. Tommaso Asserbachio: Thomas Hasselbach. Non
ho trovato altre notizie, oltre quella tratta da Sisto, pervenuta al Giannone
attraverso il Menochio.
842 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
il quale spiegando il primo capitolo d'Isaia vi consumò anni ven-
tuno, e con tutto che sopra quel profeta scrivesse ventiquattro libri,
non potè con tutto questo vedere il fine di dichiararlo tutto. Ascanio
Martinengo, commentando la Genesi,1 compose due gran volumi in
foglio e non passò il secondo o terzo capitolo di quel libro. Il P.
Francesco Mendozza portoghese sopra li due primi capi del I Libro
de' Re2 ha dato alle stampe un volume in foglio di giusta grandezza, e
dapoi due altri simili, ma in tutti questi tre gran tomi non si spiegano
più che quindici capi di quel libro istorico. Il P. Giovanni Filippo3
compose un molto grosso volume sopra Osea, nella dichiarazione
del quale non fece altro progresso che di spiegare i primi soli
quattro capitoli. Termina in fine il P. Menochio con dire che non
gli riuscirebbe cosa molto difficile di tessere un lungo catalogo di
sì fatti scrittori non meno moderni che antichi;4 e disse vero, poiché
i moderni dagli antichi l'appresero, i quali ne dieder l'esempio e le
prime mosse.
La natura con tenor costante ha sempre prodotto e produrrà
sempre ingegni chiari e sublimi, ed in ciaschedun secolo non ne
sono mancati giammai. Que' ch'ebbero la sventura di nascere ne'
secoli rozzi ed incolti, e che s'impiegarono a questi studi teologici
sopra la S. Scrittura, non trovando altra guida che l'istradasse che
i libri de' Padri antichi, de' quali tutta Pobbligazion si dee a'
monaci che non pur gli conservarono, ma nelle lor solitudini gli
moltiplicarono lasciandone più copie, avidamente presero a stu-
diargli. E sicome altrove si è avvertito, una volta che gli umani in-
gegni, guidati per sentieri obliqui e confusi, s'inoltrano nella con-
templazione di que' oggetti che si mettono ad essaminare, non ne
sanno poi trovar né modo né misura. A ciò si aggiunga l'insito no-
stro desiderio della gloria, e di non volere essere a' primi inferiori,
anzi di vincergli e superargli. Tante innumerabili e la maggior
1. Di Ascanio Martinengo (1 541- 1600), erudito e religioso di origine bre-
sciana, cfr. Glossae magnae in sacram Genesim . . ., Patavii 1597, in due
volumi. Da G. S. Menochio, op. e loc. cit., p. 242. 2. Francesco . . . de'
Re: Francisco de Mendoca (1 573-1626), gesuita portoghese, Commentarii
in quattuor libros Regum, Conimbricae 1621. Da G. S. Menochio, op. e
loc. cit., p. 242. 3. Giovanni Filippo: non sappiamo di chi con precisione
si tratti. Da G. S. Menochio, op. e loc. cit., p. 242. 4. Termina . . . anti-
chi: cfr. ibid.: «Questo medesimo modo di scrivere trattati è piacciuto ad
altri, e moderni e antichi, de' quali non sarebbe cosa difficile tessere un
lungo catalogo ».
LIBRO I • CAP. XI 843
parte vane questioni onde han caricato i loro volumi, non furono
essi i primi ad infrascarle ne* sacri libri, ma calcando le stesse
pedate degli antichi Padri, vollero non pur in ciò imitargli, ma
superargli ancora. Gli antichi ne diedero essempio : essi comincia-
rono a fantasticare ed a muover più questioni sopra il paradiso
terrestre, sopra le fattezze e statura gigantesca di Adamo, sopra
l'arca di Noè, sopra la salute di Esaù, di Sansone, di Salomone e
sopra tante altre inutili questioni intorno al Testamento Vecchio e
lo stesso fecero sopra il Nuovo. Sicché non dee recar meraviglia
se que' che gli successero, spezialmente ne* secoli incolti, tirando
innanzi il cammino ne suscitassero altre molto più vane e curiose,
anzi ridicole, sicome vedrassi qui e nel progresso di quest'opera.
Né devono sorprendersi d'un così prodigioso numero, poiché se
si tireranno giusti i conti, si troverà che non fu inferiore quello
degli antichi. I Greci furono i primi e spezialmente quelli che usci-
rono dalla scuola di Alessandria.1 Si è veduto di quante questioni
filosofiche invilupparono la divina dottrina. Origene capo di quella
scuola per tante sue sposizioni allegoriche e misteriose ne accrebbe
il numero, e via più crescendo tra le mani degli altri Padri greci
che seguirono, si venne ad un gran cumulo. Fra* Padri latini S.
Agostino superò S. Ambrogio e tutti gli altri suoi coetanei. Egli,
che di ogni cosa volle sapere il quare ed il quomodo, inondò la
Scrittura non men dell'Antico che del Nuovo Testamento d'innu-
merabili questioni. Intorno al Pentateuco di Mosè ne mosse infì-
nite.a Sopra la Genesi cento settanta tre,3 ed altre tante sopra
V Esodo. Novantaquattro sopra il Levitico, e sopra i Numeri sessan-
tacinque; e nel Deuteronomio cinquantasette. Sopra il libro di
Iosue trenta, e sopra i Giudici cinquantasei.4 Delle questioni sopra
il Nuovo Testamento compilò più libri. Nel 1 e 11 sopra gli Evan-
geli se ne contano novantotto, e sopra l'Evangelio di S. Matteo
1. scuola di Alessandria', il Giannone, ancora una volta, riassume un tema
che ha un particolare sviluppo nell'opera del maestro Aulisio: cfr. Delle
scuole sacre cit., tomo 11, soprattutto i capitoli xxi-xxiv. 2. Intorno . . .
infinite: cfr. Quaestionum in Heptateuchum libri septem, in Migne, P. L.,
xxxiv, coli. 547-824. 3. cento settanta tre: cfr. De Genesi contra mani-
chaeos libri duo ; De Genesi ad litteram imperfectus liber, e De Genesi ad litte-
ram libri duodecim, in Migne, P. L.t xxxiv, rispettivamente coli. 173-220;
219-46 e 245-486. Cfr. inoltre In Heptateuchum locutionum libri septem,
lib. I, Locutiones de Genesit ivi coli. 485 sgg. 4. sopra l'Esodo . . . Giudici
cinquantasei: cfr. In Heptateuchum locutionum libri septem cit., coli. 501-46.
844 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
dicisette.1 Tutti i quattro libri che scrisse De consensu Evangelista-
rum2 sono ripieni di infinite altre. A questi aggiunge un altro libro
che ne contiene ottantatré;3 dapoi un altro di ventuno.4 A Simpli-
ciano, vescovo di Milano, successore di S. Ambrogio, mandò due
libri colla resoluzione di più questioni ed un altro a Dulcito.5 Un
altro libro in forma di dialogo, i di cui interlocutori sono Orosio
che dimanda ed Agostino che risponde, si propongono sessanta-
cinque questioni.6 In un altro voluminoso libro in più parti diviso
se ne esaminano altre; alcune separatamente sopra il Vecchio, altre
sopra il Nuovo Testamento; ed in ultimo luogo promiscuamente
sopra l'uno e l'altro.7 E chi potrebbe annoverarle tutte, quante se
ne leggono in tanti suoi volumi ?
Chi niega che molte non fossero degne da proporsi, e doppo
diligente e maturo esame esser risolute ? Ma fra le utili e necessarie
moltissime se ne affastellarono sopra ricerche di cose oscure, diffi-
cili ed impercettibili, non solo per se stesse inutili, ma per l'essem-
pio dannose, poiché altri tirando le cose più innanzi empirono dopo
i loro volumi di mille altre tutte puerili, vane, anzi ridicole, mal
profittando di quel savio ammonimento di Cicerone il quale nel
libro 1 De officiis* nella ricerca del vero, sicome condanna la preci-
pitarla di tosto decidere, senza che preceda un maturo e lungo
esame, così biasma il vizio di metter sommo studio nelle cose
oscure e difficili e non necessarie: «Alterum est vitium» e' dice
« quod quidam nimis magnum studium multamque operam in res
obscuras, atque difficiles conferunt, easdemque non necessarias ».
Noi qui ne accennaremo alcune, le quali dagli antichi Padri ebber
origine, sicché possiamo dire ch'essi partorirono l'uova e gli altri
poi covandole ne schiusero i polli; e per non recar confusione
1. Nel leu... dicisette: cfr. Quaestionum Evangeliorum libri duo e Quae-
stionum septemdecim in Evangelium secundum Matthaeum liber unus, in Mi-
gne, P. L., xxxv, rispettivamente coli. 1323-64 e 1365-76. 2. De consensu
Evangelistarum libri quatuor, in Migne, P. L.t xxxiv, coli. 1041-230. 3. A
questi . . . ottantatré: cfr. De diversis quaestiontbus LXXXIU liber unus, in
Migne, P. L., xl, coli. 1 1-100. 4. un altro di ventuno: cfr. ibid., coli. 725-
32, Viginti unius sententiarum sive quaestionum liber unus. 5. A Simplicia-
no . . . Dulcito: cfr. De diversis quaestionibus ad Simplicianum libri duo, ivi,
coli. 101-48, e De odo Dulcitii quaestionibus liber unus, ivi, coli. 147-70.
6. Un altro libro . . . questioni: cfr. Dialogus quaestionum LXV, ivi, coli.
733-5^* 7- In un altro . . . V altro: cfr. De mìrabilibus Sacrae Scripturae
libri tresy e Quaestiones Veteris et Novi Testamenti, in Migne, P. L., xxxv,
rispettivamente coli. 2149-200 e 2213-416. 8. De officiis, I, vi, 19.
LIBRO I • CAP. XI 845
separaremo quelle fantasticate sopra il Vecchio, dall'altre mosse
sopra il Nuovo Testamento.
1. Questioni sopra il Vecchio Testamento.
Si cominciò da' Padri antichi ad investigare dove mai, ed in
qual parte della terra awesse Dio piantato il paradiso terrestre.
Origene non potendone sopra la superficie della terra trovar il sito,
per uscir d'impaccio lo pose fuori del terraqueo globo, e lo collocò
in alto al terzo cielo, e così salva Enoc dall' innondazione del dilu-
vio; e se bene S. Girolamo sopra il cap. io di Daniele1 riprovi opi-
nione sì fantastica, con tutto ciò fra' moderni Francesco Giordano2
nel tom. 1 de' suoi Problemi non si rimosse di seguire l'opinione di
Origene, poiché finalmente quando si tratta di fantasticare a ca-
priccio ogni uno pretende per fantasia non ceder all'altro.3 Altri
Padri, come Basilio, Damasceno, Ruperto Abate, ed altri, lo po-
sero sì bene in terra ferma, ma tanto sollevato in alto sicché toccasse
il cielo della luna; ad altri più moderati gli bastò che fosse alto
tanto sicché nella di lui sommità non vi arrivassero venti o piogge;
e questo lo fecero per compassione di Enoc, per salvarlo pure dal-
l'acque del diluvio. Da ciò ne venne che poi di tempo in tempo
altri si lambiccassero4 il cervello, chi cercandolo nell'Armenia, chi
nell'Etiopia, chi nella Mesopotamia e finalmente, come si è detto,
venne il P. Arduino5 a fissarlo nella Palestina. Né di ciò contenti,
si venne di voler precisamente sapere la sua lunghezza e larghezza,
1. *S. Girolamo . . . Damele: si tratta del Commentariorum in Danielem pro-
phetam liber unus, x, vers. 4. (In Migne, P. L.f xxv, col. 554, il passo contro
Origene, di cui non sapremmo indicare la fonte precisa, non si trova,
poiché, come dice la nota ivi, «in nostns manuscnptis non habetur»).
2. Francesco Giordano : forse è un lapsus giannoniano, e si tratta del minori-
tà veneziano Francesco Giorgio, autore di In Scripturam Sacram proble-
mata, Venetiis 1536, menzionato dal Menochio nel luogo citato alla nota
seguente. 3. Si cominciò . . . altro: deriva da G. S. Menochio, Stuore
cit., tomo 1, cent. 1, cap. xxin, In qual parte del mondo fosse il para-
diso terrestre . . ., p. 38. 4. lampiccassero: così nel manoscritto. 5. il P.
Arduino: Jean Hardouìn: vedi la nota 1 a p. 187. Il brano del Giannone
deriva dal Menochio, op. e loc. cit., p. 39, ma il Giannone si riferisce al
lavoro dell'Hardouin, Nouveau tratte sur la situation du paradis terrestre^
La Haye 1730, conosciuto nella traduzione latina, De situ paradisi terr estris
disguisitio, che lo stesso Hardouin pubblica nella sua edizione della Natu-
rate historia di Plinio, cit., tomo 1, pp. 359-68, dove segue le emendationes
al libro vi.
846 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
ed alcuni lo vollero sì largo ed ampio, nel quale potesse capire
tutto il genere umano, poiché se Adamo non peccava, per esso non
vi era altro luogo che il paradiso terrestre. Di più alcuni Padri vol-
lero che tutto intiero ancor durasse, e che durerà sopra la superficie
della terra, sino al fine del mondo, dove albergono ancora Enoc ed
Elia; se bene gli ultimi viaggianti, i quali hanno scorso tutte le
parti e contrade del mondo, non han avuto la fortuna di trovarlo
giammai ed anzi questa consolazione di vedere e parlare con que*
due vecchioni, sicome a* tempi di Carlo M. Pebbe Astolfo il quale
nell'orbe della luna trovò S. Giovanni evangelista col quale ebbe
lunghi e piacevoli colloqui.1
Si entrò anche in un mare che non ha né fondo, né riva, cioè a
proporre questioni sopra il se Adamo non peccava, che sarebbe stato
di noi e del mondo. Or qui sì ch'entrossi in un pelago infinito:
« nec ipsum arbitror mundum capere posse eos, qui scribendi sunt,
libros»,2 come de* fatti di N. S. scrisse S. Giovanni. S. Agostino
fu in ciò fecondissimo, e sicome vedremo trattando de* suoi libri
della Città di Dioy tra l'altre questioni gli venne fantasia di cercare,
se Adamo non peccava, in quale maniera si sarebbe giaciuto colla
sua moglie Eva;3 e risolse la questione con dire che que' congiun-
gimenti non sarebbero stati come s'usano oggi, ma senza carnale
concupiscenza, e senz'alcuna commozione avrebbe egli posto il
vomere nel solco di Eva, e così piantati gli uomini. Nel cap. 13
del 1 libro sopra la Genesi4 che scrisse contr'a' manichei propone
il dubio, se Adamo non peccava, la terra non avrebbe prodotto
spine e triboli e piante velenose, come fa ora; e lo risolve che non
ci sarebbero state, poiché queste furono da Dio prodotte in castigo
del suo peccato. E trovò chi lo credesse, sicome furono Beda, Ru-
perto Abate, Rabano ed Alcuino,5 scrivendo questi che le spine
1. sicome cC tempi . . . colloqui: cfr. Ariosto, Orl.fur., xxxiv, 54-68. 2. «nec
ipsum . . . libros»: Ioan.t 21, 25. 3. S. Agostino . . . Eva: cfr. De evo. Dei,
xrv, xxn-xxni, in Migne, P. L., xli, coli. 429-32. 4. De Genesi contro,
manichaeos cit, in Migne, P. L., xxxiv, col. 182. Da G. S. Menochio, op.
cit., tomo 1, cent. 11, cap. xci, Se avanti il peccato d'Adamo hahbia Dio
creato le herbe velenose . . ., p. 327. 5. JS" trovò . . . Alcuino: da G. S. Me-
nochio, op. e loc. cit., p. 328. Beda (672-735), benedettino inglese, dottore
della Chiesa, scrisse commenti al Vecchio e al Nuovo Testamento. Ru-
perto Abate (1075-1130), benedettino belga, anch'egli autore di commenti.
Rabano Mauro (780-856), benedettino tedesco, autore di commenti alla
Bibbia. Alcuino (735-804), consigliere di Carlo Magno, scrisse le Interpre-
tationes et responsa in Genesim.
LIBRO I • CAP. XI 847
ed i pungenti triboli sono nati per la maledizione di Dio che si
legge nella Genesi, 3, 17. E se bene S. Agostino si ritrattasse poi
nella sposizione della Genesi ad literam, cap. 3,1 di quel che avea
scritto in quel libro contro a* manichei, Beda però e gli altri non si
legge che facessero lo stesso. S. Basilio nélOmìlia 5 sopra VEsa-
merone volle esaminar il dubbio spezialmente sopra le rose, e dice
che avanti il peccato di Adamo erano senza spine, ma doppo di
quella disubidienza Dio vi aggiunge le spine ; e lo stesso insegnò il
suo pedissequo S. Ambrogio nel lib. 3 àtVd Esamerone,7, li quali
furon poi seguitati dal Damasceno, Procopio ed altri. Si cercò
anche di sapere se li serpenti nel principio fossero stati da Dio
formati con umana favella, poiché quello che ingannò Eva gli parlò
e vi tenne colloquio, e se caminassero dritti; e sembrò ad alcuni
che così uscissero dalle mani d'Iddio, e così sarebbero rimasi, se
uno di essi non avesse indotto Eva a trasgredire il divino comando ;
ma che dapoi in pena del fallo avessero perduta la parola, e con-
dennati a caminar bocconi strascinando per terra i loro corpi.3
Si volle anche sapere qual preciso frutto fosse stato da Dio
vietato a' nostri primi parenti, se fu una mela, o altro pomo, ovvero
un fico. Teodoreto nella qu. 28 sopra la Genesi4 francamente de-
cide il dubbio dicendo che fu fico : « Certe sine controversia arbor
illa erat ficus»; e trasse molti altri scrittori nel suo sentimento,
riflettendo che, accorgendosi doppo averlo mangiato essere nudi,
diedero di piglio alle sue frondi per coprire le parti vergognose.
Ciò non ostante, altri, a' quali forse i fichi non riuscivano molto
gustosi a lor palato, frutti senza odore e di non molto grata vista,
si appigliarono ad un grappolo di uva, e dissero che quel albero
fu una vite. Altri stimarono che fosse un albero di pero o melo,
poiché i pomi che producono sono veramente belli a vedere, odo-
rosi, e soavi a mangiare, sicome giudicò Eva quel pomo «bonum
1. De Genesi ad litteram libri duodecim cit., non cap., ma lib. ni, cap. xviii,
coli. 290-1. 2. S. Basilio . . . Esamerone: cfr. Basilio, HomUia V in Hexae-
meron, De germinatione terrae, in Migne, P. G., xxix, col. 106, e Ambrogio,
Hexaemeron libri sex, lib. in, De opere tertii àtei, cap. xi, in Migne, P. L., xiv,
col. 188. Entrambi da G. S. Menochio, op. e loc. cit., p. 328. 3. Si cercò
anche . . . corpi: cfr. G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent. 11, cap. vi,
Del serpente che parlò ad Eva nel paradiso terrestre . . ., p. 171. 4. Teodo-
reto . . . Genesi: cfr. Quaestiones in Genesim, interrogatio xxviii, in Migne,
P. G., ixxx., col. 126. Da G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent. 11, cap. n,
Se il frutto vietato da Dio ad Adamo fu pomo, ofico, 0 altro ..., pp. 165-6,
dove è riportata la citazione di Teodoreto.
848 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
ad vescendum, et pulchrum oculis, aspectuque delectabile ».z Tra-
lascio le dispute, e le sottili indagini, qual fosse stata reità maggiore,
quella di Eva, ovvero di Adamo in questa trasgressione, e simili
altre curiose ricerche, le quali possono leggersi nelle Stuore del
Menochio. Donde si convince che delle opere di Dio noi abbiam
voluto, non già credere, ma sapere, quando i gentili stessi de' loro
dii insegnavano: «sanctius et reverentius visum de actis deorum
credere quam scire^?
Si venne anche a disputare sopra le fattezze di Adamo ; se fu di
statura gigantesca;3 e Gilberto Genebrardo nella sua Cronografia
e Giovanni Lucido nel lib. 1 De emendatione temporum* seguendo
le conietture di S. Girolamo, in tutte le maniere vogliono che fosse
stato un gigante, di una prodigiosa grandezza di corpo, ben fatto,
e chi lo vuole, quando Iddio lo formò, che mostrasse Perà di 30,
chi di 40, altri di 50 anni, e per ciò computandosi questi anni al-
cuni lo fanno morto più vecchio di Metusalem; e certamente sa-
rebbe così se se gli dovessero imputare quegli anni che non visse
e tutto quel tempo che prima d'essersi formato dimorava nel paese
del nulla. Si disputò anche intorno alla sua sepoltura : chi lo vuole
sepolto in Hebron nella città di Arbe, secondo che sembra aver
creduto S. Girolamo nel libro De locis hebraicis.5 Molti, sicome S.
Atanasio, De passione Salvatomi S. Cipriano, Serm. de resur.
1. «bonum . . . delectabile»: cfr. Gen., 3, 6. a. «sanctius . . . scire»: Tacito,
Germ., xxxiv («riguardo alle azioni degli dei si giudicò più santo e più
rispettoso credere che sapere»). 3. Si venne anche ... gigantesca; cfr.
G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent. 1, cap. xvm, Se Adamo fosse di
statura gigantesca; e se sia vero che fosse sepolto nel monte Calvario, pp.
28 sgg. Da questo brano derivano le citazioni successive. 4. Gilberto . . .
temporum: cfr. ibid.t p. 28: «Gilberto Genebrardo nella sua Cronografia
e Gio. Lucido, lib. 1 De emendatione temporum, cap. 4, stimano che Adamo
fosse di statura gigantesca». Gilbert Génébrard (1537-1597), erudito e
religioso francese, autore di Chronographiae libri quatuor . . ., Parisiis 1580.
L'opera di Giovanni Lucido (Iohannes Lucidus) è Emendationes temporum
in duas partes dwisae . . ., Venetiis 1537 (poi, ivi 1545 e 1575 con titoli
diversi). 5. De locis hebraicis: cfr. Liber de situ et nominìbus locorum he-
t braicorum, in Migne, P. L.f xxin, col. 906. Per ciò che segue cfr. G. S.
' Menochio, op. e loc. cit., p. 30: «Altri però vogliono che Adamo sia
sepelito nel monte Calvario, e non in Hebron, il che se fosse vero, l'argo-
mento pigliato da quel testo restarebbe del tutto inefficace, così tiene S.
Agostino, serm. 72 De tempore, san Cipriano, Ser. de resurrect. Christi,
sant'Anastasio, De passione Salvatoris, S. Ambrosio, lib. 5, ep. 19, Origene,
Tract. 5 in Matth., S. Gio. Chrisostomo, HomiL 84 in Ioannem, S. Epi-
fanio, Haeresi 46, S. Basilio, sopra il cap. 5 d'Isaia ed altri », 6. De pas-
sione et cruce Domini, 12, in Migne, P. G., xxvm, col. 207.
LIBRO I • CAP. XI 849
Christi* Origene, Tract. 5 in Matth.,2 S. Gio. Crisostomo, OtniL
84 in Ioannem? S. Epifanio, Haer. 4Ó,4 S. Basilio, sopra il cap. 15
d'Isaia,5 S. Ambrogio, lib. 5, ep. 19,6 S. Agostino, Serm. 72 De
tempore7 ed altri, vogliono che fosse sepellito nel monte Calvario.
Seguì dapoi una terza opinione per conciliare sì discordanti pareri,
della quale, sicome avverte il P. Menochio nella cent. 1, cap. 18,8
non ne fu il primo autore Onorio Augusto dunense,9 ma ha più
antica origine, come quella che fu tratta da Giacomo Orrohaita
Edesseno,10 maestro di S. Efrem siro, il qual visse a* tempi di S.
Basilio, seguitata dapoi da moltissimi, i quali fantasticarono che
Noè portò seco nell'arca il corpo di Adamo, e che cessato il diluvio
divise l'ossa a' suoi figliuoli ; ed a Sem sopra gli altri da lui amato
diede il capo, assignandogli quella parte del paese che poi nomossi
Iudea; e che per ciò nel monte Calvario fu sepolto il solo capo,
non già tutto il corpo. Da ciò poi avvenne che i dipintori e gli scul-
tori, i quali godono l'istesso privilegio de' poeti, nel pingere o
scolpire l'imagine di Cristo crocifisso pongono una testa di morto
a' piedi della croce, che il volgo crede che rappresenti quella di
Adamo."
Intorno a' figliuoli che generò, Mosè scrisse che oltre Caino,
Abele e Seth ebbe altri figli e figlie: «genuit filios et filias»,IZ
non dichiarando quanti fossero, e come se oltre il Pentateuco di Mo-
sè fossero a noi rimasi altri scrittori o più antichi o suoi contempo-
ranei, i quali avessero a noi tramandate memorie più esatte di
questa sua prole, si volle ricercare il preciso numero, il sesso e
fino i nomi. S. Epifanio, trattando dell'eresia de' sethiani, i quali,
1. Serm. de resur. Christi: in Migne, P. L., in e iv, non vi è traccia di un'o-
pera del genere, per cui Terrore - se d'errore .si tratta - risale al Menochio
sopra cit. z. Origene . . . Matth. : cfr. Commentarla in Evangelium secun-
dum Matthaeumf in Migne, P. G., xm, col. 1777. 3. In Ioannem homilia
LXXXV (lxxxiv), in Migne, P. G., tix, col. 459. 4. S. Epifanio, Haer.t
46 : cfr. Adversus octoginta haereses, lib. I, tom. ni, Haeresis xlvi, Contra
Tatianos, in Migne, P. G., xli, col. 843. 5. S. Basilio . . . Isaia: cfr. Com-
mentarla in Isaiam prophetam, cap. v (e non 15), in Migne, P. G., xxx, col.
347. 6. lib. 5, ep. XQ : cfr. in Migne, P. L., xvi, Epistolarum classis II, ep. lxxi,
io, col. 1243. 7- Serm. *jz De tempore: in Migne, P. L.t xxxrx, Sermo VI, De
immolatione Isaac, 5, Adam sepultus in CaVoariae loco, coli. 1750-1. 8. Me-
nochio . . . cap. 18: cfr. op. e loc. cit-, p. 30. Tutto il brano deriva da que-
sto già citato capitolo del Menochio. 9. Onorio Augustodunense: Onorio
di Autun, teologo del XII secolo, io. Giacomo Orrohaita Edesseno: Gia-
como di Edessa, teologo del IV secolo. 1 1 . Seguì dapoi . . . Adamo : quasi
alla lettera dal Menochio, ibid. 12. « genuit . . .filias»: Gen., 5, 4.
850 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
secondo scrisse S. Agostino a Quodvuldeo, da Seth presero il nome,1
scrisse che Adamo doppo di Seth generò nove altri figli maschi,
compiendo il numero di dodici, e due sole figlie femmine, una delle
quali si chiamò Save e l'altra Azura: la prima fu moglie di Caino e
la seconda di Seth.* Altri accrebbero il numero delle femmine sino
a quello de' maschi, poiché altrimenti diece sarebbero rimasi senza
donne e costretti a viver celibi, ciocché ripugnava alla propaga-
zione del genere umano principalmente pretesa da Dio nel principio
del mondo, onde sembra più probabile che Eva ogni anno in un
parto dasse alla luce un maschio ed una femmina, e Saliano3 nel 3
anno del mondo tom. 1, aggiunge che li parti di Eva furono sempre
di due o di tre per volta, se bene nelPan. 930 n. 2 se ne mette in
dubbio considerando che le tante afflizioni che soffrì Adamo dop-
po che fu scacciato dal paradiso poterono distoglierlo dall'opere
voluttuose e renderlo raffreddato e pigro nelle cose veneree.
Si volle ancora sapere il preciso segno che pose Iddio a Caino
perché non fosse ucciso : chi vuole che fosse un tremore per tutto
il corpo ed una faccia controfatta come d'uomo spaventato ed
atterrito; sicome immaginò S. Girolamo nell'epistola 135 scritta
a Damaso.4 I fantastici rabini ebrei dicono che il segno fu un
cane il qual sempre andava avanti Caino. Altri che fu un corno che
gli nacque nella fronte, ed altri che fosse una marca impressagli
nella faccia, nella qual opinione inclina anche il Lirano.5 E non
facendo la S. Scrittura in luogo alcuno menzione della morte di
Caino, si volle pure investigare del modo, da chi e del quando.
E chi mai potrebbe annoverare tutte le questioni mosse ed ag-
1. secondo . . . nome: cfr. De haeresibus cit., xix, in Migne, P. £., xlii, col.
29. 2. S. Epifanio . . . Seth: cfr. Adversus octoginta haereses, hb. 1, tom.
ni, Haeresis xxxix, Contra sethianos, in Migne, P. G., xli, col. 671. Cfr.
G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent. 1, cap. xxvn, Del numero grande de*
figliuoli che, come vogliono alcuni, Eva partorì ad Adamo suo marito, pp.
45 sg. 3. Saliano: Jacques Sahan (1558-1640), gesuita francese studioso
di problemi biblici. Cfr. i suoi Annales ecclesiastici Veteris Testamenti,
Lutetiae Pansiorum, 1620- 1624. Tutto il brano, compresa la citazione,
deriva dal Menochio, ibid., p. 46. 4. sicome ... Damaso : cfr. Epistola
XXXVI , Ad Damasum papam, in Migne, P. L.t xxn, coli. 453-4. Questa
epistola era la cxxv (ma il nostro manoscritto ha JJ5) nelle edizioni prece-
denti la benedettina. Da G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent, in, cap.
xli, Qual segno fosse quello che pose Dio in Caino accioché non fosse ucciso,
e della sua morte, p. 412. 5. Lirano: Nicolò da Lira (Lyranus, 1 270-1 349),
francescano francese, esegeta biblico, autore di una Postilla litteralis che
ebbe una grande diffusione.
LIBRO I ■ CAP. XI 851
gitate non già unicamente da' moderni, ma fin da' Padri antichi
sovra l'arca di Noè e le sottili dimenzioni e providenze? distri-
buendo le mangiatoie per gli animali, provedendoli del fieno e della
paglia, allocandogli commodamente in più appartamenti, descri-
vendogli con tanta acuratezza e diligenza come se essi ne fossero
stati i proveditori e gli architetti. Si venne anche ad esaminare più
sottilmente di quel che fece Mosè le specie degli animali che vi
furono introdotti. Si dubbitò se vi fossero gli animali anfibi, cioè
quelli che vivono parte in acqua e parte in terra e per conseguenza
se le sirene vi ebber luogo : ma poiché queste, ancorché si pingano
con sembianza umana, ad ogni modo sono veramente pesci, ne
furono escluse perché potevano vivere nell'acqua, proporzionato
loro elemento. Più spinoso e difficile a risolversi fu il dubbio se
nell'arca di Noè vi fu l'uccello chiamato, per la bellezza delle
penne, del paradiso,1 che si trova nell'Isole Molucche; e con ciò
venne ad aprirsi un largo campo a' più oziosi ingegni di cercar lo
stesso di quanti uccelli mai e di tanti nuovi animali terrestri che
l'Indie Orientali ed Occidentali ci han al presente manifestato.
Veggansi Giovanni Buteone2 ed Arias Montano3 ne' libri de Arca;
il Saliano negli anni del T. V., tom. I, A. M. 1557,4 il Pereiro,5
Bonfrerio6 ed altri sopra il cap. 6 della Genesi, E se fu deriso Ti-
berio che sovente, come scrive Svetonio nella di lui Vita, cap. 70,
disputava coi grammatici, ricercando quali carmi cantassero le
Sirene per addormentare Ulisse ed i marinari; che nome prese
i. Più spinoso . . . paradiso: cfr. G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent, ni,
cap. xx, Se sull'arca di Noè ci fu l'uccello che si chiama del paradiso, se due
avoltoi, o uno solo, e le sirene, pp. 375 sgg. 2. Giovanni Buteone: nome
umanistico di Jean Bollirei (1492-1572), matematico francese, monaco,
autore del De arca Noe libellus, in Critici sacri, sive annotata doctissimorum
virorum in Vetus et Novum Testamentum, Amstelodami 1698, tom. 1, pars 11,
coli. 29 sgg. Da G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent. 1, cap. xcvni, Delle
misure, capacità e dispositìone interiore dell'arca di Noè, pp. 158 sg. La ci-
tazione a p. 159. 3. Benito Arias Montano (1527-1598), esegeta spagnolo.
Cfr. Bibita sacra, Antverpiae 1 569-1 572, in otto volumi. Da G. S. Me-
nochio, op. e loc. cit., p. 159. 4. il Saliano . . . I5S7- cfr. ibid., p. 159:
«Saliano ne gl'annali del Testamento Vecchio, tomo primo, anno mundi
1557»- 5« Pereiro: Benito Pereyra (1537-1610), gesuita spagnolo, esegeta.
Cfr. Commentariorum et disputationum in Genesim tomi guatuor, Coloniae
Agrippinae 1601 (edizione più completa. La prima, Roma 1591-1598)-
Da G. S. Menochio, ibid. 6. Bonfrerio: Jacques Bonfrère (1573-1643),
esegeta belga. Cfr. Pentateuchus Moysis commentario illustratus, Antverpiae
1625. Sempre dal Menochio, ibid.
853 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
Achille quando dalla madre Teti fu in abito di donna mandato
nella corte del re Licomede e posto fra le altre donzelle; che
nome avesse avuto la madre di Ecuba e simili altre fanciulla-
gini, quanto più degni di derisione dovranno riputarsi que' i quali
sopra libri cotanto venerandi van con tanta pena ricercando cose
vane e puerili, le quali ancorché verificate e sapute non vagliono
un fico né migliorano il nostro intendimento, né molto meno ren-
don pregiabile la nostra memoria caricandola di tante cose inutili
e vane.
11. Sopra il libro di Giob.
Molti stupiscono, fra' quali un tempo fui anch'io, come sia pos-
sibile che sopra quattro fogli di carta onde si compone quel picciol
libro di Giob, abbia potuto il P. Pineda1 in commentandolo dar
fuori due sì grossi volumi in foglio, ripieni di tante questioni in
gran parte vane e curiose ? Ed un ingegno cotanto sublime, adorno
d'una stupenda erudizione, di una perizia sì grande di lingue,
"d'una profonda dottrina fossesi inviluppato fra tante inutili ricer-
che delle quali se ne sa meno doppo che prima? Ma io che in
questa mia solitudine ho avuto agio di rivoltargli da capo a piedi
mi avvidi tosto della cagione, onde cessò in me la maraviglia.
Egli non ebbe solo ad interpretarlo ed esporre, sicome ottimamente
ha fatto, il vero senso literale di quel libro ma, doppo la turba di
tanti scrittori così antichi come moderni, i quali l'aveano già riem-
pito di tante false intelligenze, di questioni o inutili o mal risolute
e di tanti misteri e sensi allegorici tirati a capriccio, ha dovuto di
nuovo esaminarle e moltissime dimostrarle erronee, ed i lor sensi
mistici sovente qualificargli per illusioni e che non aveano altro
appoggio che la loro fantasia. Si volle in questo libro sapere la vera
patria e la stirpe di Giob e se non fu uomo finto, ma vero ; in qual
parte dell' Idumea fosse nato; se fu re o uomo privato e tante altre
indagini non affatto inutili, nelle quali se si fosse tenuto modo sa-
rebbero comportabili, ma dapoi, sicome suole avvenire, quanto più
vi si lavorava intorno, tanto più crebbero le ricerche vane, delle
quali non fu certamente il primo ad investigarle il P. Pineda. Le
dispute se ogni dì i figliuoli di Giob aveano pranzi e simbosii e
1. Juan de Pineda (1558-1637), gesuita spagnolo, autore di Commentario-
rum in Iob libri tredecim} Coloniae Agrippinae 1 604-1605, in due volumi.
LIBRO I • CAP. XI 853
facevan a vicenda gozzoviglia sicché, finito il torno, si ricominciasse
di bel nuovo ; se le tre sue figlie ebber marito o furon sempre ver-
gini; chi fosse sua moglie e di qual razza; chi gli amici che vennero
a visitarlo e se Giob era più vecchio di loro ; se tutti i figli furono
oppressi dalla ruina, ovvero alcuni si salvassero; se realmente
Giob ricevesse sputi da' suoi irrisori, quali fossero i veri e propri
nomi delle sue tre figlie e simili ricerche si leggono anche ne'
Padri antichi, de' quali Origene fu il confaloniere. Le tante belle
speculazioni sopra l'infermità di Giob, che si vuole che quanto la
natura ne produce tutte fossero nella sua persona, non certamente
dal Pineda furono di pianta inventate. Perché si grattasse la scabie
leprosa colla testa1 e non con l'unghie? Questa fu una disputa che
tenne pure essercitati i Padri antichi : Crisostomo e Policronio la
discorrono d'una maniera; Origene e S. Gregorio M. d'un' altra,
e così pure fra' suddetti fu gran contrasto intorno al letamaio, e
se nudo si giacque e senza letticiuolo nella dura terra e se nell'aria
aperta. E chi potrebbe annoverarle tutte? Né alcun creda che il
Pineda fosse stato il primo ad esaminare se fra tanti mali Giobbe
avesse patito anche di morbo gallico: punto d'istoria veramente
molto importante a sapersi; molto prima il Vetablo* seguito da
Cipriano Cisterciense3 scrissero che veramente Giobbe avesse il
mal francese, non giacché li venisse dal nuovo mondo allora inco-
gnito, ma che Satana, al quale era stata data da Dio potestà di afflig-
gerlo d'ogni male, poteva ben saperlo ed adoperarlo per maggior-
mente tormentarlo; oltre che, se il Vetablo, come si è veduto,
portò le navi di Salomone sino al Perù, ch'egli crede fosse lo
stesso che l'Ophir,4 non dovrà riputarsi incredibile che nelFIdu-
mea fosse penetrato prima che negli ultimi secoli dall'America si
trasportasse in Europa. A me stesso incresce andarmi tra tante
1. colla testa: con il coccio (latinismo). Cfr. Iobf 2, 8. 2. Vetablo: Francois
Vatable o Watebled (lat. Vatablus, morto nel 1547), biblista francese. Il
Giannone cita da G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent. 11, cap. lxxii,
Quali fossero le infermità che per la persecutione del demonio patì il santo Iob,
pp. 295 sg. 3. Cipriano Cisterciense: Cypriano de la Huerga, monaco
cistercense, autore dei Commentarla in librum beati lab editi nel 1582.
4. Le dispute se ogni dì . . . Ophir: il Giannone fa riferimento a due brani
del Menochio: op. cit., tomo 1, cent, in, cap. xvi, Se sia probabile che
li figliuoli di Iob facessero fra di sé conviti ogni dì tutto Vanno, p. 370, e cent.
1, cap. lii, Che paese fosse quello di Ofir, dove andavano le annate del re Sa-
lomone, pp. 84 sg. Tutto il discorso sul libro di Giobbe tiene inoltre conto
del commento del padre Pineda.
854 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
inezie ravvolgendo, onde farem passaggio a gli altri libri del Vec-
chio Testamento.
in
Si disputò acremente sopra la zazzera di Absalone, intorno al
peso, colore ed il tempo dell'incisione. Arias Montano, Pagnino,1
Vetablo ed altri vogliono che Absalone se la tosava una volta l'anno.
S. Girolamo rapporta che i rabbini insegnavano che si tosasse
una volta il mese e FI. Giuseppe, lib. 7 Antiq., cap. 8, scrisse che
gli crescesse tanto che ogni otto giorni bisognava tosarsi, perché
altrimenti non avrebbe potuto sopportare il peso. S. Ambrogio,
lib. 6 Examer., cap. 9, la vuole di colore biondo.2 Altri non sanno
determinarsi ad un certo colore, poiché la Scrittura non lo dichiara.
Intorno al peso il Tostato ed il Lirano non convengono con Sa-
liano3 e Sanchez4 e variamente interpretano nel cap. 14, 26, del 11
libro de' Re quelle parole: «ponderabat capillos capitis sui ducentis
siclis pondere publico », sicome potrà vedersi nella centuria ili del
P. Menochio al cap. 17 e nella Mescolanza d'istoria e letteratura
di M. de Vigneul Mandile,5 tom. I.
Da' Padri antichi, non già da' moderni teologi, si aprì quel vasto
campo di disputare sopra la salute o dannazione di più persone
non men del Nuovo che del Vecchio Testamento, e di rendere con
ciò infinibili le questioni assumendo le parti di giudice ed essami-
nando la vita e le operazioni di ciascuna, assolvendo una e conden-
nando l'altra. Si cominciò dalla persona di Salomone.6 Teodoreto,
i.Pagnino: Sante Pagnini (1470-1541), domenicano italiano, ebraista,
tradusse in latino tutta la Bibbia dai testi originali (Lione 1527). 2. Si
disputò . . . biondo: da G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent, ni, cap. xvn,
Della zazzera di Absalone figlio del re David, pp. 371 sg. 3. Intorno . . .
Saliano: cfr. ibid., p. 372. 4. Gaspar Sanchez (1554-1628), gesuita spa-
gnolo, esegeta biblico. Cfr. In quatuor libros Regum et duos Paralipomenon
commentarti, Lugduni 1623; e ancora i Commentarii in librum lob, Antver-
piae 1712. Le sue opere in J.-P. Migne, Scripturae sacrae cursus compie-
tus . . ., Pansiis 1837-1845, in ventotto volumi, ix-x. La citazione del Gian-
none sempre dal Menochio, tbid. 5. de Vigneul Marville: Noel Argonne,
detto Bonaventure (1634-1704), letterato francese, che scrisse con lo
pseudonimo Vigneul-Marville i Mèlanges dyhistoire et de littérature, Paris
1699, in tre volumi. Il Giannone lesse quest'opera nella ristampa, Paris
1725, in tre volumi. Cfr. gli appunti presi fra il 2 settembre e il 1 ottobre
1746, in Archivio di Stato di Torino, manoscritti Gian?ione> mazzo 1, ins.
15, B. 6. Si cominciò . . . Salomone: cfr. G. S. Menochio, op. cit., to-
mo 1, cent. 1, cap. vili, Se Salomone si sia dannato 0 sia salvato, pp. 12 sgg.,
da cui derivano le citazioni che seguono.
LIBRO I • CAP. XI 855
S. Gregorio M., Prospero Aquitanico, Eucherio, Beda, Rabano ed
altri molti lo vogliano dannato e perduto. I più misericordiosi,
sicome S. Ambrogio, S. Girolamo, S. Epifanio, S. Isodoro, S.
Cirillo Ierosolimitano, S. Ireneo ed altri lo voglion salvo, e gli
autori spagnoli, fra gli altri il Pineda nel 7 libro de reb. Salomonis
e nel lib. 8, cap. 1, n. 44, * come se fosse stato di lor nazione, in
tutte le maniere lo vogliono salvo e che nel fine di sua vita si pen-
tisse de* trascorsi errori onde conseguisse l'eterna salute; ed il P.
Natal di Alessandro* nella sua Istoria ecclesiastica rapporta che in
Ispagna mostravasi una antica lamina di piombo dove in vetuste
lettere era scolpita la sua penitenza, se ben egli come francese la
riputa recente e finta. Da Salomone si passò a far esame della vita
e gesta di Esaù, e se bene alcuni interpretando a suo danno quelle
parole di S. Paolo: «ne quis fornicator aut profanus ut Esaù, qui
propter unam escam vendidit primitiva sua», che si leggono nel-
l'ep. ad Hebr., e. 12,3 lo vogliono dannato; nulladimeno altri, fra
quali il P. Cornelio a Lapide4 sopra il cap. 9 dell' ep. ad Roman.,
ed il P. Bonfrerio, sopra il cap. 36 della Genesi, sostengono che sia
salvo. Si chiamò ancor Sansone in giudicio e si volle esaminar la
sua causa, la cui cognizione diede molto che fare a' sindicanti;
poiché da una parte gli moveva ad assolverlo d'essere stato uno
de* giudici cotanto da Dio favorito, per le cui mani si era compia-
ciuto ad operar tanti miracoli contro i Filistei; dall'altra parte si
ponderavano le sue lascivie e prostituzioni con Dalida e con altre
meretrici; ma sopra tutto se gli apponeva che fosse morto da di-
sperato poiché se stesso uccise andando incontro ad una certa mor-
te purché restassero uccisi i suoi nemici. Alcuni adunque l'assol-
vono ed altri lo condannano e doppo tanto esame resta ancora
dubbia la sua salute o perdizione. Se ne chiamarono altri in giu-
dizio del Vecchio Testamento, sicome anche del Nuovo, come ve-
drassi nel cap. seguente. E come se avesser finito le cause di tutti
1 . Pineda . . .n. 44: cfr. Ad suos in Salomonem commentarios Salomon prae-
vius, sive de rèbus Salomonis regis libri orto, Lugduni 1609. Dal Menochio,
ibid., p. 13. 2. Natal di Alessandro: vedi la nota 1 a p. 104. Cfr. Histona
ecclesiastica, ed. cit., tomo 11, diss. in, De aeterna sorte Salomonis, pp. 162-7.
3. Hebr., 12, 16. Cfr. G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent. 11, cap. in,
Se Esaù fratello maggiore di Giacob sia dannato, pp. 166 sg. 4. Cornelio a
Lapide: Comelis Cornelissen van den Staen (1 567-1 637), gesuita ed ese-
geta belga. Dal Menochio, ibid., p. 167, come pure la citazione del Bonfrère
che segue.
856 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
gli Ebrei e non gli restasse altro che fare, per non rimaner oziosi
si diede di piglio ad esaminar quelle de* gentili. Si volle prima di
ogni altro esaminar la causa di Socrate e disputare anche della sua
dannazione o salute. S. Giustino nella 1 Apologia che distese a
favore de* cristiani indrizzata alTimperadore Antonino Pio, e nella
il Apologia presentata a M. Aurelio Antonino ed a Lucio Vero
figliuoli di Antonino Pio, inclinò a credere che avendo egli sofferto
intrepidamente la prigionia e la morte per rimovere gli uomini
dall'idolatria che si fosse salvato.1 Altri aggiunsero che quel Genio
dal quale^era assistito fosse non già un demonio, ma un angelo
buono che Dio gli assignò per suo custode, e che non dee riputarsi
cosa strana se anche a* gentili si assignassero angeli custodi. In
breve il P. Pietro Halliox2 gesuita neir Annotazioni sopra la vita di
S. Giustino, cap. 28, in tutti i modi lo vuol salvo. Veggasi il P.
Menochio nelle sue Stuore, cent, iv, cap. 31. Che cosa adunque
impedisce se per queste considerazioni, e pel finto commercio di
lettere ch'ebbe con S. Paolo, lo stesso non possa dirsi di Seneca
morale ?3
IV
I Padri antichi mostrarono la strada a' nuovi scrittori di tirar
innanzi le loro perquisizioni. Essi cominciarono ad investigare se
nel giardino piantato da Dio ad Adamo le rose fossero senza spine,
come si è detto ; qual maraviglia fia dunque se i moderni avessero
voluto far simili ricerche nei giardini di Salomone? Il P. Alcasar
nel suo trat. De malis medicis aggiunto al suo commentario sopra
la Cantica nella sess. 2 et 3,4 mosse la questione se ne' deliziosi
1. S. Giustino . . . salvato: da G. S. Menochio, op. cit, tomo 1, cent, iv,
cap. xxxi, Se sia probabile che Socrate filosofo habbia havuto la fede di Dìo e
di Christo che è necessaria per conseguire V eterna salute, pp. 561 sgg. La
citazione di Giustino è tratta da questo luogo del Menochio (p. 561): cfr.
Apologia I e Apologia Zi in Migne, P. G., vi, rispettivamente coli. 327 sgg.
e 441 sgg. 2. Pietro Halliox: Pierre Halloix (1571-1656), gesuita belga.
Cfr. Vita et documenta S. Iustvni philosophi et martyris . . ., Duaci 1622.
Dal Menochio, ibid., p. 564, donde deriva l'erroneo Halliox. 3. Che cosa
adunque . . . morale?: cfr. G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent. 1, cap. iv,
Se le Epistole che vanno a torno come scritte da san Paolo a Seneca e da Seneca
a san Paolo siano vere 0 finte, pp. 7 sgg., e tomo 11, cent, vii, cap. xlvi, Se sia
stato Seneca ne* costumi tale, quale appare da* libri che ha lasciato scritti,
PP- 413 sgg. 4- Alcasar . . . sess. 2 et 3: da G. S. Menochio, op. cit., to-
mo 1, cent, ni, cap. xi, Se al tempo del re Salomone fosse nella Palestina la
pianta de gli aranci, cedri e limoni, p. 362.
LIBRO I • CAP. XI 857
orti di questo re fossero alberi di aranci, di limoni e de' nostri
cedri; poiché quelli del Libano sono tutt'altro che i nostri; e la
risolve con dire che non vi fossero poiché l'autore del libro del-
V Ecclesiastico, che fu posteriore a Salomone, nell' enumerazione
degli alberi più scelti e nobili fa sì bene memoria del cedro del Li-
bano, del cipresso del monte Sion, della rosa di Gierico e di tanti
altri, ma non già dell'arancio e del limone. Altri al contrario in
tutte le maniere vogliono che vi fossero gli aranci, i cedri ed i limo-
ni, ingegnandosi di provarlo da alcuni passi della Scrittura rappor-
tati dal P. Menochio, cent, in, cap. n,1 e da FI. Giuseppe nel lib.
13, cap. ai, delle sue Antichità giudaiche f ed il P. Menochio ag-
giunge che quando il terreno della Giudea non li producesse, si
puoi credere che quel re, che fu dottissimo nella cognizione di
piante, e che disputò dal cedro del Libano sino alFisopo, erba che
nasce ne* muri, dato alle delizie e che particolarmente si dilettò
dell'amenità de' giardini, l'avrebbe fatto venire dal vicino paese
dell'Affrica, che n'abbonda.
Si cercò anche se Salomone, essendo istruttissimo di cose natu-
rali, avesse la pietra beazar, che si genera nel gozzo di certe capre
indiane e si crede aver particolar virtù contro i veleni. Il P. Pao-
lo Sherlongo3 nell'investigazione xxi sopra la Cantica, conside-
rando che le classi di Salomone scorrevano fino all'India, ha per
probabile che fra le altre preziose mercanzie fussevi anche questa
pietra. Di più s'inoltrò più inanzi e disse che Salomone avesse
non pur la pietra, ma le stesse capre indiane che la producono, poi-
ché di là poteva farle venire e farle pascere nel monte Libano, parte
la più fresca del suo regno. Se bene qui il P. Menochio, nella
cent, n, cap. 80, ha le sue difficoltà poiché, se bene quelle capre
nell'Indie amano i luoghi freddi, non si assicura di affermare se
trovassero nel Libano pascolo proporzionato alla loro natura, sicché
ritiene la pietra, ma non ci vuole le capre. Non la finirei mai più
se volessi qui annoverare tutte le altre ridicole investigazioni che
si fanno sopra i libri del Vecchio Testamento, le quali mi han
1. cent. Ili, cap. 11 : cfr. loc. cit., pp. 362-3. 2. nel lib. 13 . . . giudaiche:
dal Menochio, ibid.t p. 363. 3. Paolo Sherlongo (o Sherlogo, come nel
Menochio): Paul Sherlock (1595-1646), erudito ed esegeta biblico inglese,
la cui opera qui menzionata è probabilmente Anteloquia cogitationum in
Salomonis Canticorum Canticum . . ., Lugduni 1 640-1646. Il Giannone
cita da G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent. 11, cap. lxxx, Se Salomone
havesse la pietra beazar 0 le capre dalle quali si cava, pp. 308 sg.
858 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
fatto ricordare delle consimili che si leggono presso Michel di
Cervantes nel suo D. Chisciotte,1 libro il più giocondo ed inge-
gnoso che fosse uscito dalla Spagna. Scrive questo graziosissimo
autore che mentre D. Chisciotte viaggiava per la Mancia per ve-
dere le maraviglie che in sé racchiude la grotta di Montesino, gli
tenne compagnia un umanista di quel contorno, al quale avendo
l'errante cavaliere domandato in qual sorte di studi si esercitasse,
gli rispose che i suoi studi ed essercizi erano di comporre libri per
dargli alla stampa, tutti di gran profitto per la republica; e dopo
averlo ragguagliato di due che aveva già composti, gli soggiunse
che avea allora per le mani un altro al quale egli aveva dato titolo
Supplemento di Polidoro Virgilio2, nel quale trattava dell'origine e
princìpi di più cose uscite di mente a Polidoro e ch'egli verificava
e con galante stilo dichiarava; fra l'altre gli disse che Virgilio si
scordò di dichiararci chi fosse stato il primo ch'ebbe catarro al
mondo ; ed il primo che pigliò unzioni per medicarsi del mal fran-
cese. Sancio Panza, ch'era presente quando intese le perquisizioni
eh' e' faceva, gli venne voglia di far anch'esso simili ricerche e gli
dimandò chi fosse stato il primo che si grattò il capo, soggiungen-
dogli ch'egli credeva che fosse il nostro primo padre Adamo. Al
che l'umanista rispose che senza dubbio fu Adamo, poiché avendo
capo e capelli ed essendo il primo uomo del mondo potè avvenire
che qualche volta si grattasse. Torna Sancio a dimandare chi fosse
stato il primo saltatore del mondo. A questo secondo quesito colui
s'imbrogliò, né sapendo darci pronta risposta, chiese tempo per
risolverlo, e che tornato a casa ove avea suoi libri l'avrebbe studiato
e datagli soddisfazione. Non occorre, replicò Sancio, che si pigli
per questo briga, poich' eragli in quel punto sovvenuta la risposta,
ed era che il primo saltatore del mondo bisognava che fosse Luci-
fero quando lo cacciarono dal cielo, che rotolando venne sino a gli
abissi. D. Chisciotte, udendo la pronta risposta di Sancio, gli disse
che non era sua, ma che l'avea intesa da altri; al che rispose Sancio
che per dimandare scioccherie e rispondere spropositi non avea
bisogno di aiuto di compagno alcuno; e D. Chisciotte gli soggiunse
1. Il Giannone aveva, fra i libri acquistati a Vienna, un'edizione spagnola
del Don Chisciotte: cfr. Archivio di Stato di Torino, manoscritti Giannone,
mazzo v, ins. 13. Ma si veda più oltre, p. 869 e la nota 1 ivi. 2. Polidoro
Virgilio: Polidoro Vergilio (i47°-i555), storico-umamsta urbinate, stabili-
tosi in Inghilterra scrisse per incarico di Enrico VII V Anglica historia m
ventisette libri, fino al 1538 (Basileae 1555).
LIBRO I • CAP. XII 859
che avea ragione, perché si ritrovano alcuni che si straccano in
sapere e verificar cose che poi sapute e verificate non vagliono un
quattrino. Ma è ormai tempo di ridurci in via e far passaggio alle
questioni non meno vane e ridicole che si sono mosse sopra il
Nuovo Testamento.
CAP. XII
Delle questioni curiose e ridicole sopra il Testamento Nuovo.
Nel mover inutili e ridicole questioni sopra il Testamento Nuovo
i Padri antichi non risparmiarono nemmeno il nostro Redentore,
che pur vollero sottoporlo alle loro perquisizioni, così intorno alle
fattezze del suo corpo come intorno a* suoi andamenti. Vollero
in prima sapere se fosse bello 0 brutto.1 È veramente da stupire
come francamente alcuni dissero esser stato bello, altri brutto,
quando essi non l'aveano giammai veduto né dagli evangelisti o
da qualunque altro scrittore coetaneo o a lui prossimo fu scritta
cos' alcuna della sua forma e figura. Essi scrissero, chi doppo du-
cente, chi doppo trecento, chi doppo quattro o cinquecento anni
della sua ascensione ed in paesi dalla Giudea lontani ; donde dun-
que gli venne questa voglia di sapere e di determinare la sua brut-
tezza o bellezza? Questo non fu altro che un effetto dell'abuso
che erasi introdotto nell'interpretazione della Divina Scrittura ti-
randola coi loro sensi mistici, profetici ed allegorici di qua e di là,
secondo che veniva a lor fantasia. Quelli i quali ciò che leggevano
ne' salmi di Davide riportavano a Cristo, leggendo nel salmo 44:
«speciosus forma prae filiis hominum»z etc. lo vogliono bellissimo
e graziosissimo, fra' quali fu S. Grisostomo il quale nelPomilia 28
sopra S. Matt.3 ciò che si dice di Cristo che le turbe lo cercavano
e detenevano, interpreta che lo facessero non solo per li miracoli
che operava, ma perché «visu gratiosissimus traditur fuisse; idque
Profeta multo ante clamaverat: "speciosus pulchritudine" » etc, e
S. Anselmo, lib. 1, era in collera con quei pittori che altramente lo
1. Vollero . . , brutto: cfr. G. S. Menochio, Stuore cit., tomo 1, cent.
IV, cap. xx, Se Christo Signor Nostro fu bello di corpo, pp. 543 sgg.
2. «speciosus . . . hominum»: Psalm., 44, 3. Da G. S. Menochio, ibid., p.
543. 3. S. Grisostomo . . . Matt.: da G. S. Menochio, op. cit., p. 544.
Quanto all'omelia xxvm su Matteo cfr. Migne, P. G.t lvi, coli. 775 sgg., e
lvii, coli. 343 sgg., ma non vi abbiamo rintracciato la citazione che segue.
8ÓO APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
pingevano : « cura speciosam formarci prae filiis hominum informi
figura pingi videret».1 Niceforo nel lib. I della sua Istoria, cap. 40?
come se co' propri occhi l'avesse veduto, afferma che avea una
faccia vivida e gli occhi pieni di grazia, e più minutamente ce la
descrive S. Bernardo nel sermone De omnibus Sanctis?
Ma altri furono di contrario sentimento e ce lo rappresentarono
brutto e deforme; e se si domanda, onde ebbero sì rare notizie?
pervenne forse ad essi qualche suo antico e vero ritratto ? Questa
imagine la presero anch'essi dal magazzino delle figure, de' sensi
mistici e profetici. Tertulliano nel cap. 14 adv. ludaeos* pretese
che quel «Iesus» del quale parla Zaccaria nel cap. 3 si debba in-
tendere di Giesù Cristo (ancorché secondo il senso literale mani-
festamente Zaccaria parli d'un altro Giesù), e poiché ivi si legge
che colui «erat indutus vestibus sordidis»,5 ciò s'interpreta della
bruttezza del corpo del Redentore, e nel trattato De idolatria?
cap. xviii, pag. 96, lo fa sparuto di faccia e d'aspetto misero e
tapino, sicome l'aveva predetto Isaia.7 Ma Lattanzio Firmiano nel
lib. iv delle sue Div. inst., cap. 14,8 come cosa indubbitata afferma
che Zaccaria parlasse precisamente di Giesù Cristo leggendosi ivi:
«Audi itaque, Iesu, sacerdos magne», e gli sembra così chiara ed
invitta questa profezia che rivolto contro gli Ebrei gli chiama stolti
e privi di mente « qui cum haec legerent et audirent, nefandas ma-
nus suas deo suo intulerunt». Per ciò egli proseguendo nel cap. 169
1. e S. Anselmo . . . videret: cfr. Cut Deus homo, i, li, citato a senso, in Mi-
gne, P. L.t CLvni, col. 363 («vedendo deformemente dipinta la bellezza
superiore a quella dei figli degli uomini ») . Da G. S. Menociiio, ibid. 2. Ni-
ceforo . . . cap. 40 : cfr. Ecclesiastica historia, 1, xl, De divina humanaque oris
corporisque figura et forma Servatoris nostri Iesu Christi, in Migne, P. G.,
cxlv, col. 747. Da G. S. Menochio, ibid. 3. £. Bernardo . . . Sanctis:
cfr. Sermones de Sanctis, In festo omnium sanctonm, sermo 1, in Migne,
P. L., clxxxiii, coli. 454-5. Da G. S. Menochio, ibid. 4. Tertulliano . . .
Iudaeos: cfr. in Migne, P. L., n, col. 640. Da G. S. Menochio, ibid.
Scerai .. .sordidis)): Zach., 3, 3. (Abbiamo corretto il «sordibus» del
manoscritto). 6. De idolatria: cfr. De idololatria liber, in Migne, P. L., I,
col. 766. Questa citazione manca nel Menochio. 7. sicome . . . Isaia: cfr.
Isai., 53, 2. 8. cap. 14: intitolato De Iesu sacerdotio aprophetis praedicto,
in Migne, P. L.t vi, coli. 487-90; la citazione a col. 489 («sebbene legges-
sero e ascoltassero ciò, misero addosso al loro Dio le lor empie mani »). An-
che questa citazione manca nel Menochio. Perii passo di Zaccaria cfr. Zach.,
3, 8. 9. nel cap. 16: intitolato De Iesu Christì passione, quod fuerit prae-
dieta, ivi, col. 498 («Leggendo infatti con quanto valore e splendore il fi-
glio di Dio sarebbe dovuto venire dal cielo, e vedendo poi Gesù umile,
modesto, meschino e brutto, non credevano che fosse il figlio di Dio »).
LIBRO I • CAP. XII 86l
dello stesso libro a declamare contro la cecità dei medesimi, dice
che non sapendo i due adventi del Signore, uno in forma di servo,
l'altro in maiestate, vedendo Gesù «sordido, deforme ed umile» non
lo credettero figlio di Dio : « Nam quum legerent cum quanta vir-
tute et claritate filius Dei venturus esset e coelo: Iesum autem
cernerent humilem, quietum, sordidum et informem, non crede-
bant fìlium Dei esse». S. Atanasio nell'orazione De humana natura
suscepta, esaggerando la sua umiliazione pur disse che fosse « specie
contemptibilis ».z E S. Cirillo sopra il cap. 3 d'Isaia dice pure es-
sere stato «facie inhonorata».* E gli altri Padri, come S. Basilio,
Teodoreto, S. Agostino e lo stesso S. Cirillo sponendo quel luogo
del salmo 44 di Davide dicono che non debba intendersi della
bellezza del corpo, ma della bellezza dello spirito,3 della sua virtù
e del candore del suo animo, onde S. Cirillo conchiude: «totum
enim mysterium incarnationis est exinanitio sicut scriptum est ab
Isaia: vidimus eum et non habebat speciem atque pulchritudi-
nem».4 Lo stesso insegnarono Clemente Alessandrino, lib. 3 Pe-
dagoga cap. i,5 Cassiodoro ed altri. Ecco sopra quali fondamenti
si appoggia disputa sì vana e fantastica. Questa era una questione
di puro fatto e niuno potrà deciderla se non chi in re presenti avesse
trattato e conosciuto Cristo e si fosse dapoi presa la cura di descri-
vere le corporali sue fattezze e tramandarle alla posterità; ma niuno
attese a sì fatte puerilità ed inezie, avendo di lui tante altre cose
grandi e stupende da scrivere che, secondo scrisse S. Giovanni:
«nec ipsum arbitror mundum capere posse».6
Vollero anche sapere che cosa scrivesse col dito in terra, quando
due volte avendogli i farisei e gli scribi presentata la donna adul-
tera s'inchinò, e sicome narra S. Giovanni: «scribebat in terra»,7
1. S. Atanasio . . . contemptibilis: cfr. Oratio de incarnatione Verbi, in Mi-
gne, P. G., xxv, coli. 95 sgg. Da G. S, Menochio, op. cit., p. 544. 2. E
S. Cirillo . . . inhonorata: non di hai., 3, ma di IsaL, 53, z deve trattarsi:
cfr. infatti Commentarius in Isaiam prophetam, in Migne, P. G., lxx, lib. v,
tomo 1, col. 1171 : «sed species eius inhonorata». Da G. S. Menochio, ibid.
3. sponendo . . . spirito: cfr. in Migne, P. G., lxix, col 1031. 4. E gli altri
Padri . , . pulchritudinem: da G. S. Menochio, ibid. Il passo di Cirillo, ci-
tato a senso, sempre nel Commentarius in Isaiam, P. G.} lxx, col. 1171
(a tutto infatti al mistero dell'incarnazione consiste nella spoliazione, come
ha scritto Isaia: lo guardammo e non aveva decoro e bellezza»). 5. cap. 1:
intitolato De vera pulchritudine, in Migne, P. G., vili, coli. 555-9- Da
G. S. Menochio, ibid. 6. *nec ipsum . . .posse»: Ioan., ai, 25. 7. «scri-
bebat in terrai: Ioan., 8, 6 e 8. Da G. S. Menochio, op. cit, tomo 1, cent.
8Ó2 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
né dice altro. S. Ambrogio in due sue epistole scritte ad Studium1
vuole che la prima volta quando si abbassò scrivesse queste parole
di Geremia: «in terra scribebat viros abdicatos», e la seconda volta
quell'altre: «festucam quae in oculo est fratris tui vides, trabem
autem quae in oculo tuo est, non vides». Ma poiché quando si
apre questa strada d'andar fantasticando a suo modo, niuno in far
l'indovino vuol cedere all'altro, al venerabile Beda ciò non piace e
dice che scrivesse in terra quello stesso che poi disse a' scribi, cioè :
« qui vestrum sine peccato est, primus in illam lapidem mittat ».2
Aimone fu di altro sentimento ed è di parere che Cristo non fa-
cesse altro in terra che certe figure; li sovvenne forse la positura
di Archimede quando nella presa di Siracusa fu trovato che stava
delineando in terra figure matematiche;3 meglio di tutti tra' Padri
greci fece Eutimio, il quale disse che non scrivesse cos' alcuna,
ma che solamente si abbassasse come per scrivere per levarsi d'at-
torno que' importuni che lo molestavano.4 Che maraviglia è dun-
que se dapoi il P. Tirino5 ed altri scrittori moderni, seguendo la
traccia degli antichi, si poser pure a far gl'indovinelli ? Si volle
anche sapere se Cristo occorrendogli parlar co' Romani che si
trovavano nella Giudea gli parlasse in lingua latina. Vedi il P.
Menochio, cent, iv, cap. 28.6
Si chiamò anche Cristo a render conto perché avesse eletto
Giuda all'apostolato, sapendo che dovea riuscirgli cattivo e tradi-
tore? Or qui per iscusarlo si mettono in opra tante belle specula-
zioni di S. Ambrogio, di S. Agostino e di tanti altri così antichi
che moderni, quali potranno leggersi presso il P. Menochio nella
cent, iv, cap. 16.7
Si volle anche esaminare che si facesse del suo prepuzio doppo
IV, cap. xv, Dello scrìvere in terra che fece Christo quando gli fu presentata
V adultera . . ., pp. 536 sg. 1. *S. Ambrogio Studium: cfr. ep. xxv, 4, in
Migne, P. L., xvi, col. 1041, e ep. xxvi, 13, ivi, col. 1045, dove sono rispet-
tivamente citati i passi di Geremia, 22, 29 (secondo una versione diversa dal-
Vulgata) e Matteo, 7, 3 ; da G. S. Menochio, ibid. 2. « qui vestrum . . . mit-
tat»: cfr. Ioan., 8, 7. 3. Aimone . . . matematiche: cfr. G. S. Menochio,
ivi, p. 537. 4. Eutimio . . . molestavano: cfr. ibid., p. 536. 5. Tirino: Jac-
ques LeThiry (Iacobus Tirinus, 1 580-1636), gesuita e teologo belga. Scrisse
un Commentarius in Vetus et Novum Testamentum, Antverpiae 1632. Da G.
S. Menochio, ibid., p. 537. 6. cap. 28: intitolato Che lingua parleranno il
beati in cielo; e che lingua parlò Christo in terra, e particolarmente se in
qualche occasione parlò in lingua latina, tomo 1, pp. 556 sgg. 7. cap. 161
intitolato Se Giuda fu in qualche tempo buono; e perché Christo lo elegesseper
apostolo, sapendo che doveva essere traditore, tomo 1, pp. 537 sgg.
LIBRO I • CAP. XII 863
la circoncisione;1 e vi è chi lo vuole ancor oggi esistente in una
terra lontana da Roma non più che venti miglia chiamata Calcata
della famiglia Anguillara, sicome il card. Francesco Toledo2 sopra
il cap. 2 di S. Luca ne fa minuta relazione trascritta dal P. Meno-
chio nella cent, iv, e. 2. In fine si fecero esatte ricerche intorno al
suo sudore3 e fino a gli escrementi.
Ma il più curioso è che, di ciò non contenti, vollero anche sa-
pere, doppo esser risorto e salito in cielo, come colà si stasse, se
all'in piedi o pur seduto, se nudo o vestito.4 Chi lo vuole seduto
per quelle parole: «sedet ad dexteram patris»;5 altri lo vogliono in
piedi, e perché così lo vide S. Stefano: «vidit Iesum stantem»,6 e
perché il sito naturale dell'uomo è di stare in piedi, ed il sedere è
venuto per la stanchezza che cerca riposo, la quale non può con-
siderarsi in Cristo. Intorno se stia nudo o vestito, S. Agostino nel-
l'ep. 1467 non ardisce diffinire questa importantissima questione;
inclina però a credere che portasse veste, che però non mai si lo-
gorasse o si consumasse sicome le vesti degl'Isdraeliti ne' qua-
ranta anni che furono nel deserto. Altri stimano superflue queste
vesti in cielo e specialmente a Cristo: a che possono mai servire?
Non per coprire qualche suo difetto, non per suo ornamento e
molto meno per difenderlo dal freddo 0 dall'umido. E TAbulense
portò la cosa più innanzi e disse che Cristo nemmeno in que* qua-
ranta giorni che doppo la resurezione conversò con la madre, col-
P altre donne e co* suoi discepoli, portò vestimento alcuno, ma che
girava attorno essendo immortale nudo tra* mortali vestiti. Cosa
che nemmeno il P. Menochio, cent, iv, cap. 33, potè inghiottirsela.8
Si fecero in oltre esquisite e diligenti ricerche per iscoprire chi
fosse quel soldato che colla lancia aprì il costato a Cristo, e non
altrimenti che presso gli oziosi grammatici greci si disputava, come
1. Si volle . . . circoncisione', cfr. G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent, iv,
cap. ir, Narratione curiosa e maravìgliosa delVinventione del preputio di
Christo Nostro Signore, pp. 516 sgg. 2. Francisco de Toledo (1533-1596).
gesuita spagnolo. Scrisse In prima duodecim capita Evangelii secundum
Lucam, Romae 1600, a cura di M. Vasquez. La citazione da G. S. Me-
nochio, ibid.y p. 516. 3. Infine . . . sudore: cfr. G. S. Menochio, op. cit.,
tomo I, cent, iv, cap. xxn, Del sudor di sangue di Christo . . ., pp. 546 sg.
4. Ma il più curioso . . . vestito: cfr. ivi, cap. xxxni, In qual parte del cielo sia
Christo Signor Nostrot e se stia sedendo 0 in piedi; e se vestito 0 senza vesti,
PP- 567 sgg. 5 . « sedet . . . patris » : nel Credo, o simbolo apostolico. 6. « vi-
dit Iesum stantem»: AcL, 7, 55. 7. nelVep. 146: cfr. Epistolarum classis III,
ep. cev (cxlvi), Augustinus Consertilo, in Migne, P. L.t xxxm, col. 942. Da
G. S. Menochio, ivi, p. 569. 8. E VAbulense . . . inghiottirsela: cfr. ibid.
864 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
leggesi in Plutarco, in qual mano Diomede ferì Venere, se nella
destra o nella sinistra, e di qual piede zoppicasse il re Filippo di
Macedonia, se nel manco o nel destro, così pure si volle sapere se
quel soldato lo ferì nel lato destro o sinistro, e se fu cieco e rima-
nesse dapoi illuminato. Veggasi il cit. P. Menochio nella cent, in,
e. 98.1 Si volle ancor sapere di qual materia fosse il calice adope-
rato nell'ultima cena,2 e se bene niuno de' Padri antichi si arri-
schiasse di affermarlo di oro o di argento, nulladimanco il Venera-
bile Beda nel lib. De locis sanctis, cap. 2,3 lo vuole di argento e
che avea due manichi ; e vi furono di più moderni, sicome il Vitto-
relli,4 che scrisse essere stato di pietra agata. Intorno al pane, S.
Epifanio in Ancorato lo vuole che fosse di figura rotonda, e circa
al vino alcuni vogliono che fosse stato di color rosso.5 Leggasi il P.
Giovanni Valterio nel suo libro De triplici coena Christi, coena in,
e 38.6
Ma più curiose e ridicole furono le ricerche fatte sopra le nozze
di Cana di Galilea e di quel convito.7 Si volle sapere chi fossero
que' sposi; e poiché degli evangelisti solo S. Giovanni racconta
Tistoria, fu creduto ch'egli fusse lo sposo e per ciò in quelle nozze
fossero stati invitati Cristo e la sua madre Maria con gli altri di-
scepoli. Così francamente affermarono il Venerabile Beda, Ru-
perto Abate, Dionisio Cartusiano, S. Bonaventura, S. Antonino ed
il Lirano, li quali in compruova della loro asserzione allegano i due
prologhi antichi sopra l'Evangelio, uno creduto di S. Girolamo e
l'altro di S. Agostino. Ma il più curioso è che, di ciò non contenti,
si avanzano in dire che Giesù Cristo in vece di rallegrar quelle
1 . e. 98 : intitolato Chi fosse quel soldato che con la lancia aprì il costato di
Ckristo . . ., tomo 1, pp. 508 sgg. Cfr. anche, ivi, cent, iv, cap. xv, Del san-
gue che uscì dal costato delVimagine di Gesù Christo signor nostro crocifisso
ferito da un hebreo di B erito . . ., pp. 521 sg. z. Si volle . . . cena: cfr. G. S.
Menochio, op. cit., tomo 1, cent, iv, cap. xvn, Della materia e forma del
calice del quale si servì Christo nelVultima cena . . ., pp. 539 sg. 3. De locis
sanctis libellus, n, in Migne, P. L., xciv, col. 1181. Da G. S. Menochio,
ivi, p. 540. 4. Andrea Vittorelli (morto nel 1653), erudito e teologo:
da G. S. Menochio, ibid. Cfr. E. SA, Aphorismi Confessariorum ex Dodo-
rum sententiis collecti . . . editio postrema . . . Indicatis DD. locis annotatio-
nibusque per Andream Victorellum . . . illustrati et aneti, Duaci 1623.
5. £. Epifanio . . . rosso: cfr. G. S. Menochio, ibid. 6. Leggasi ...c.38:
da G. S. Menochio, ibid. 7. Ma più curiose . . . convito: cfr. G. S. Me-
nochio, op. cit., tomo 1, cent. 11, cap. lvii, Chi fosse lo sposo nelle nozze di
Cana di Galilea, dove Christo mutò V acqua in vino, e chi fosse la sposa,
pp. 268 sg.
LIBRO I • CAP. XII 865
nozze, sicome fece tramutando l'acqua in vino, le disturbasse, poi-
ché tolse lo sposo Giovanni alla sposa, il quale abbandonandola
seguì Cristo che lo chiamò all'apostolato.1 Altri rigettano questi
racconti come fantastici e favolosi, e vogliono che lo sposo fosse
Simone cananeo apostolo,3 sicome fra gli altri scrisse Niceforo
Callisto nella sua Istoria eccL, lib. 8, e. 30.3 Ma chi diremo che
fosse stata la sposa ? Ella fu Maria Maddalena secondo che scrisse
5. Antonino4 nella in parte della Somma, tit. 21, § 3. E che si fece
di lei vedendosi abbandonata dallo sposo ? Si diede alla vita licen-
ziosa e d'allora cominciò il suo meretricio. Heu prodigia stultìtìae!
Veggasi il P. Menochio nella cent, n, cap. 57, il quale non potè
negare esser tutto ciò finto e favoloso. Si volle ancor sapere il
preciso numero di que' demòni che Cristo cacciò da' corpi di
que' indemoniati e gli permise entrar ne' corpi de' porci.5 Come
che domandato il demonio qual nome avesse, rispose: «Legio mihi
nomen est, quia multi sumus »,6 si venne a cercare quanti diavoli
componessero questa legione; e qui sono incredibili le contese
insorte per difEnire un certo numero, poiché presso i Romani il
numero de' soldati che componevano una legione fu secondo i
tempi e le circostanze sempre vario ed incostante. Altri si atten-
nero al più sicuro, e secondo il numero de' porci ne' quali entrarono
lo determinarono. S. Marco al cap. 5 dice che fossero duemila,7
onde assignando un demonio per porco il lor numero non potè
essere più di duemila, e chi ce ne vuole più, più ne metta. Da que-
sto successo nacquero infinite altre dispute; poiché se questo de-
monio avea nome, si cercò se gli angeli e li beati in cielo e se gli
altri demòni nell'inferno avessero propri nomi. Chi fossero i pa-
droni di que' porci, se giudei o gentili, e sembrò ad alcuni che fos-
sero gentili poiché gli Ebrei che abboriscono quella carne non
potevano aver greggi porcini; altri che potevan avergli per farne
mercanzia e pascergli per i gentili. Chi pagò il danno a' padroni,
poiché quel gregge « praecipitatus est in mare ad duo millia et
1, Ma il pia curioso . . . apostolato", cfr. ibid., p. 269. z. Altri . . . apostolo:
cfr. ibid. 3. Niceforo . . . e. 30: cfr. in Migne, P. (?., CXLVI, col. 114. Da
G. S. Menochio, ibid. 4. S. Antonino (1389-1459), arcivescovo di Fi-
renze, autore della Summa moralis, a cui fa riferimento il Menochio,
loc. cit. 5. Si volle . . . porci: cfr. G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent.
IV, cap. xii, Alcune osservationi circa Vhistoria di due spiritati liberati da
Christo, pp. 531-3, con le citazioni che seguono dei passi di san Marco.
6. « Legio mihi . . . sumus*: Marc, 5, 9. 7. S. Marco . . . duemila: cfr.
Marc, 5, 13.
866 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
suffocati sunt in mare»?1 Niuno: poiché Cristo non solo era Si-
gnore del mondo, ma avea anche il dominio particolare delle robbe
di ciascheduno. Veggasi il P. Menochio, cent. IV, cap. 12 et 14.*
1. Sopra i Magi.
S. Matteo, il solo evangelista che fa di questi Magi memoria,
non dice più nel cap. 2 che: «Magi ab Oriente venerunt Ierosoly-
mam».3 Quanti fossero e di qual precisa parte dell' Oriente venis-
sero non fa motto alcuno; ed intorno alla loro condizione gli bastò
di dire che fossero Magi; poiché a* suoi tempi era notissimo che
i popoli di Oriente, spezialmente nell'Assiria e nella Persia, abbon-
davan di questi Magi, ch'erano i loro sapienti, i quali se ben non
fossero re, erano però potentissimi nelle corti de' re, spezialmente
nella Persia, sicome a ciascuno può esser noto leggendo V Istoria
naturale di Plinio, Diodoro Siciliano, Strabone e gli altri antichi
istorici che trattano di quelle nazioni. Or venne curiosità ai nostri
antichi Padri di sapere il preciso numero, e per determinarlo non
essendovi alcun altro scrittore contemporaneo o prossimo a que'
tempi, da' quali potessero ricever lume, si voltarono al consueto
rifuggio de' sensi mistici, misteriosi e profetici. S. Agostino il quale,
sicome altre volte si è detto, in ciò era fecondissimo, nel primo
sermone dell'Epifania4 vuole che non fossero stati più che tre.
E se si dimanda dond'egli fu mosso per determinarsi a questo
numero ? La risposta è pronta, poiché in essi era figurato il misterio
della Trinità, sicome nelle tre cose donate, oro, incenso e mirra,
questo misterio era significato. Né si maravigli alcuno della stra-
nezza dell'applicazione, poiché egli fu sempre inclinato in tutti i
terni trovarci questo misterio. Leggendo ne' princìpi di quasi tutte
l'epistole di S. Paolo e degli altri appostoli che si esprimono i soli
nomi del padre e del figlio, né dello Spirito Santo si fa motto al-
cuno, egli vuole che stia nascosto sotto le parole di pax et gratta,
e così in tutte quelle salutazioni vi ravvisa la Trinità; ma accorgen-
1. «.praecipitatus . . . mare*: ibid. 2. 14: cfr. G. S. Menochio, ivi, cap.
xiv, Se Christo signor nostro in quanto huomo fu re temporale e padrone di
tutto 'l mondo, pp. 534 sgg. 3. «Magi . . . Ierosolymam»; Matth., 2, i.
Cfr. G. S. Menochio, op. cit, tomo 1, cent, ni, cap. lxxix, Chi fossero lì
Magi che vennero ad adorare Christo . . ., pp. 475 sgg. 4. S. Agostino . . .
Epifania: cfr. Sermo CUI, In Epiphania Domini V, in Migne, P. L.t
xxxviii, col. 1036. Da G. S. Menochio, ivi, pp. 476.
LIBRO I • CAP. XII 867
dosi che nel principio dell'epistola di S. Giacomo mancano quelle
parole, e solo il padre ed il figlio si mentovano, poiché si legge la
parola salutem in questa egli trova pure la Trinità. E se si domanda
dond'egli lo ricava? Eccola, perché nella lingua punica salus è lo
stesso che dire tria, ed acciocché non si creda esser ciò incredibile
di S. Agostino, rapportarono la favoletta colle stesse sue parole
che si leggono nell'Esposizione dell' epist. di S. Paolo ad Romanos,
dove doppo aver detto che S. Giacomo « salutem prò ipsa Trinitate
posuisse mihi videtur», soggiunge: «Quo loco prorsus non arbi-
tror praetereundum, quod pater Valerius animadvertit admirans.
In quorundam rusticanorum collocutione, cum alter alteri dixisset
salus, quaesivit ab eo qui et latine nosset et punice quid esset salmi
Responsum est tria. Tum ille agnoscens cum gaudio salutem no-
strani esse Trinitatem, convenientiam linguarum non fortuitu sic
sonuisse arbitratus est, sed occultissima dispensatione divinae pro-
videntiae, ut cum latine nominatur salus, a Punicis intelligantur
tria, et cum Punici lingua sua tria nominant, latine intelligatur
salus».1 Ciocché da noi si rapporta per consolazione de' nostri giu-
risconsulti, i quali con questo essempio possono difendere il no-
stro Accursio2 e far tacere i di lui derisori, i quali tanto si burlano
della sua glosa se per mezzo di tre dita insidiatori degli occhi de'
contendenti fece capire il mistero della Trinità. Ma altri non fu-
rono persuasi di questa ragione, e per altri riguardi vogliono che
non fossero stati più che tre, ciò è per dinotarsi le tre parti del mon-
do: Asia, Africa ed Europa, nelle quali dovea la fede propagarsi:
«tres hommes» dice Ruperto Abate parlando de' Magi nel 20 libro
sopra S. Matteo «tribus partibus orbis Africae et Europae fidei
confessionis et adorationis exempla existere meruerunt».3 S. An-
1. Esposizione . . . salus: cfr. Epìstolae ad Romanos inchoata expositio, 12-3,
in Migne, P. L., xxxv, col. 2096 («mi sembra abbia messo salus in luogo
della stessa Trinità . . . Per questo passo ritengo non doversi affatto di-
menticare ciò che il padre Valerio notò con meraviglia. Nella conversazione
di taluni rustici, avendo uno detto all'altro salus, chiese a quello che cono-
sceva sia il latino sia il punico che cosa salus significasse. Gb" fu risposto:
Tria. Allora egli, comprendendo con gioia che la nostra salute è la Trinità,
giudicò che il rapporto di significato tra le lingue non fosse casuale, ma
derivasse dalla misteriosa economia della divina provvidenza, sicché quan-
do m latino si dice salus, in punico si intende tria, e quando i Punici dicono
tria nella loro lingua, i Latini intendono salus »). 2. Accursio: giurista della
scuola bolognese morto a Firenze nel 1263, il cui nome è legato alla Glossa.
3. « tres homines . . . meruerunt*: cfr. De gloria et honore filii hominis super
868 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
selmo ed altri sopra quel capitolo di S. Matteo stimano che cia-
scuno desse oro, incenso e mirra per denotare che a Cristo come Dio
se gli offeriva incenso, come re oro, e come mortale mirra. Or
questi ancorché vari nei misteri, tutti convengono nel numero che
non eccedesse il trino; se bene la glosa sopra quel capitolo tiene
che fossero molti. Stabilito il numero di tre ed approvato dal co-
mun consenso, a' dipintori riusciva meglio dipingergli da re,
adorni di abiti regali, per far pompa della lor arte e render più
vistose le loro dipinture; tanto più che non mancarono de* scrittori
che tali li facevano, ancorché S. Agostino nel sermone 2 delPEpi-
fania,1 Origene, S. Basilio ed altri non si contentarono di quali-
ficargli per puri Magi, cioè sapienti, ma l'ebbero per incantatori,
sacrilegi e malefici. Prevalse però l'opinione di essere re; anzi il
Venerabile Beda in collectaneis? come se gli avesse co' propri occhi
veduti ne descrive a minuto le fattezze; gli dà propri nomi, di che
età fossero, di qual colore fossero i loro volti, capelli e barbe e quale
dono ciascuno portasse. Il primo, che si chiamava Melchiorre, era
vecchio: avea i capelli bianchi ed una gran barba, e che lui fu che
offerì a Cristo l'oro in riconoscenza della sua sovranità. Il secondo,
chiamato Gaspare, era giovane, senza barba e rubicondo, il quale
gli offerì l'incenso per marca della divinità, ed il terzo, nominato
Baldassare, era bruno e barbuto, che l'offerì la mirra, dinotando
la sua umanità. Di più descrive i colori e la qualità de' loro abiti
e come fossero fatti. Non si sa se i dipintori di questa descrizione
avessero presa l'idea di pingergli nella forma che vediamo ne' loro
ritratti, o pure se qualche fantastico pittore a' tempi di Beda non
se l'avesse così finti, donde Beda l'apprendesse. Ecco le sue parole :
«Primus dicitur fuisse Melchior senex et canus, barba prolixa et
capillis, aurum obtulit regi domino. Secundus, nomine Gaspar,
iuvenis imberbis, rubicundus, thure, quasi Deo oblatione digna
Deum honorabat. Tertius fuscus, integre barbatus, Baltassar no-
mine, per myrram filium hominis moriturum professus est».3 D.
Matthaeum, 11, in Migne, P. L., clxvtii, col. 1338. Giannone omette « Asiae »
dopo orbis («tre uomini meritarono di essere modello della confessione di
fede e dell'adorazione per le tre parti del mondo, Asia, Africa ed Europa »).
1. S. Agostino . . . Epifania: cfr. Senno CC, In Epiphania Domini II, in
Migne, P. L.t xxxvni, col. 1030. Da G. S. Menochio, ivi, pp. 475-6.
2. Collectanea, in Migne, P. L., xciv, coli. 539 sgg. Da G. S. Menochio,
ibid., p. 476. z.*Primus dicitur ... prof essus est»: cfr. Collectanea cit.,
col. 541. Il Giannone riporta la citazione dal Menochio (loc. cit.).
LIBRO I • CAP. XII 869
Chisciotte, dimandato dal Piovano che opinione egli avea intorno
a' visi di Rinaldo di Montalbano, di Orlando e degli altri dodici
paladini di Francia, poiché tutti erano stati cavalieri erranti, gli
rispose che Rinaldo fu largo di viso, di color rosso, gli occhi balle-
rini ed un poco sporti in fuori, puntuale, collerico sopra modo,
amico di ladri e di gente minata. Intorno ad Orlando egli assicu-
rava che fosse di mezzana statura, largo di spalle, con le gambe un
poco torte, brunetto di viso, di barba castagniccia, di poche parole,
ma molto cortese e ben creato.1 Ad illusioni maggiori può giungere
la forza d'una fervida e depravata fantasia. Ma ritornando in via,
si disputò acremente da qual precisa parte di Oriente vennero.
Chi gli fa venire dalla Persia, chi dalla Caldea, ovvero Mesopota-
mia; ed altri dall'Arabia, alla qual opinione sembra inclinare il P.
Menochio, cent, ni, cap. 79.
n . Sopra la Vergine Maria e S. Giuseppe.
Chi potrà mai noverare le tante ricerche fatte sopra la V. Ma-
ria ? Imprima si volle sapere se essendo ancora nell'utero di sua
madre avesse l'uso della ragione;2 e que' che l'ammettono in S.
Gio. Battista essendo rinchiuso nel ventre di sua madre, vogliono
che il medesimo privilegio abbia avuto anche la Vergine. Se uscita
alla luce del mondo gli fosse stato assignato angelo custode; e se più
d'uno;3 uno nell'infanzia, un altro nell'adolescenza, ed altri nel
rimanente di sua vita; e di qual ordine gerarchico si pigliassero.
Alcuni riputarono non averne avuto alcuno, perché non avea bi-
sogno di aio o direttore. Altri glielo danno, ma lo vogliono preso
dall'ordine de' Serafini; altri non vogliono far questo torto all'an-
gelo Gabriele, ed intorno al numero l'Abulense4 è di opinione che
in diversi tempi fosse governata da diversi angeli custodi; uno dalla
sua nascita infino all'incarnazione nel suo utero del figliuol di Dio ;
1. D. Chisciotte . . . creato: cfr. M. Cervantes, L'ingegnoso cittadino Don
Chisciotte della Mancia, Roma 1677, in due tomi, traduzione di L. Fran-
ciosini, parte seconda, cap. primo, p. 14. È l'edizione da cui più oltre il
Giannone cita alla lettera, z. Imprima . . . ragione cfr. G. S. Menochio,
op. cit., tomo I, cent. IV, cap. xlviii, Se la B. Vergine hebbe l'uso di ragione
nel ventre della madre, pp. 590 sgg. 3. Se uscita . . . uno: cfr. ibid., cap.
xlvii, Se la Beata Vergine habbta havuto angelo custode; e se più d'uno,
cioè uno in un tempo e un altro in altro tempo; e di guai ordine fosse detto
angiolo, pp. 589 sg. Tutto il brano giannoniano è ricavato da qui. 4. l'A-
bulense: Alfonso Tostado: cfr. la nota 1 a p. 841.
87O APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
e questo fosse preso dall'infimo coro degli angeli, poiché allora
non era più che persona privata alla quale non si doveva custodia
d'angelo più sublime. Dopo l'incarnazione la guardia fu mutata e
se gli diede un serafino come quella che già sosteneva carico di
persona publica, il quale n'ebbe cura fino alla morte di Cristo.
Doppo la passione e morte, quando era già compita l'opera della
redenzione, tornò di nuovo l'angelo dell'ultimo coro alla di lei
custodia. Altri, sicome il P. Menochio, non si sentono di così largo
gozzo a poter inghiottire sì grossi bocconi ed argomentano in con-
trario. Veggasi la di lui cent, iv, cap. 47 ed il P. Mendozza1 pur
gesuita nel suo Viridario al lib. 2, probi. 8.
Si fecero ancora diligenti inquisizioni per sapere di che età
maritossi con S. Giuseppe;2 chi non gli fa passare quattordici o
quindici anni; altri la vogliono di più matura virginità, e prolun-
gano lo sponsalizio sino all'età di venticinque anni. Veggasi il P.
Menochio, cent, iv, cap. 59. Ma il punto più importante fu di
esaminare se fosse stata bella di corpo;3 e tutti convengono, an-
corché niuno l'avesse veduta, che fu bellissima, anzi ce ne descri-
vono minutamente la statura, il colore, la lunghezza del naso, la
floridezza delle labra, la figura della faccia, la lunghezza delle mani
e delle dita e fino il colore de' suoi abiti. Ecco come Niceforo Cal-
listo ce la dipinge nella sua Istoria, lib. 2, cap. 23 ,4 con queste
parole, il qual dice averle prese da S. Epifanio: «mores formaque
et staturae eius modus talis ut inquit Epiphanius. Erat in rebus
omnibus honesta et gravis: pauca admodum, eaque necessaria lo-
1. Mendozza: cfr. la nota 2 a p. 842. Qui è citato il Vvrìdarium sacrae et
prophanae eruditionis, Lugduni B. 163 1. Cfr. G. S. Menochio, loc. cit.,
p. 590. 2. Si fecero . . . Giuseppe: cfr. ibid.t cap. ux, Di che età fosse la
Beata Vergine e S. Gioseppe quando si maritarono insieme, pp. 606 sg.
3. Ma il punto . . . corpo: cfr. ibid., cap. xlix, Se la Beata Vergine fosse bella
di corpo, pp. 592 sgg. 4. Ecco come . . . cap. 23: cfr. in Migne, P. G.,
cxlv, col. 815. Da G. S. Menochio, loc. cit., p. 593. («I suoi costumi, la
sua bellezza e statura furono quali li disse Epifanio. Onesta e seria in ogni
cosa: parlava pochissimo e solo il necessario; pronta all'ascolto e straordi-
nariamente affabile, a tutti dimostrava rispetto e devozione. Fu di statura
media, benché vi sia chi dice che la superasse alquanto. Usò con tutti di una
convenevole libertà nel parlare, senza risa, senza turbamento e soprattutto
senza collera. Il colore era simile a quello del frumento, i capelli biondi,
gli occhi vivi, con le pupille giallicce e come di color d'uliva. Le soprac-
ciglia incurvate e convenientemente nere; il naso un po' lungo, le labbra
floride, piene di soavità nel dire; il volto non tondo né affilato, ma alquanto
lungo, e così le mani e le dita »).
LIBRO I • CAP. XII 871
quens ; ad audiendum facilis et perquam affabilis et honorem suum
et venerationem omnibus exhibens. Statura fuit mediocri, quamvis
sint qui eam aliquantulum mediocrem longitudinem excessisse
dicant. Decenti dicendi libertate adversus omnes homines usa est,
sine risu, sine perturbatione ac praesertim sine iracundia. Colore
fuit triticum referente, capillo flavo, oculis acribus, subflavas et
tamquam oleae colore pupillas in eis habens. Supercilia ei erant
inflexa et decenter nigra; nasus longior, labia florida, verborum
suavitate piena; facies non rotunda et acuta, sed aliquanto longior,
manus simul et digiti longiores». Il P. Menochio, il quale nella
cent, iv, cap. 49, trascrisse queste parole, non potè contenersi di
soggiungere: «se questa descrizione della bellezza della Vergine è
vera, pare che più tosto consistesse nella proporzione delle mem-
bra, nella modestia e grazia che nella soavità del colore, perché
l'essere bruna e non avere gli occhi neri, ma di colore di olivo,
pare che pregiudichi senza dubbio alla bellezza feminile». Così
appunto giudicò il Piovano Manceco1 nella descrizione fatta da
D. Chisciotte delle fattezze di Orlando, il quale doppo aver inteso
che fosse stato di mezzana statura, largo di spalle, colle gambe un
poco torte, brunetto di viso e di barba castagniccia, gli disse:
« Se Rolando non è stato più bello di quello che V. S. ha detto,
non fu maraviglia se la signora Angelica la bella lo sdegnasse e
lasciasse per la gentilezza, garbo e grazia che dovea avere il Mo-
retto barbiponente in cui potere ella si diede, e fece prudentemente
di amar più tosto la piacevolezza di Medoro che l'asprezza di Ro-
lando ».2 Una figura assai più piacevole e risplendente ce ne diede
Dionisio Cartesiano3 nel lib. 1 De laudib. Virg., cap. 36, il quale
attribuisce alla Vergine un certo splendore sopranaturale nella sua
faccia, che la rendeva ragguardevole; aggiungendo che il suo corpo
era tutto odorifero e che fosse un giglio fuori d'ogni spina perché,
ancorché bellissima, non pungeva né stimulava ad impurità quelli
che la miravano. Con tutto che questi scrittori si fosser ingegnati
1. il Piovano Manceco: prosegue la demitizzazione delle leggende dei Padri
confrontandole con quella del romanzo di Cervantes. 2. « Se Rolando . . .
Rolando)): cfr. M. Cervantes, L 'ingegnoso cittadino Don Chisciotte della
Mancia, ed. e loc. cit., pp. 14-5. - il Moretto barbiponente è trasposizione
letterale dell'originale spagnolo: «el morillo barbiponiente » (cioè «di primo
pelo», «principiante»), 3. Dionisio Cartesiano: Dionigi Certosino (1402-
147 1), teologo belga. La citazione dal Menochio, ibid.
872 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
per descriverla di cumulare in lei tutte le grazie e bellezze che si
trovarono sparse nelle più belle donne del mondo, nulladimanco i
dipintori ciascuno ha seguito il genio della propria nazione e la
dipingono con quelle fattezze colle quali nascono le donne ne* loro
paesi. Così gli orientali, che sono brunetti ed amano gli occhi
grandi, la dipinsero bruna e con occhi bovini simili a quelli che
secondo Omero avea la dea Giunone.1 I Germani e gli abitanti del
Settentrione, che produce la gente bionda, candida e vermiglia
con occhi cerulei, la dipingono bianchissima, vermiglia, con gli
occhi della dea Minerva e con biondi capelli. In Italia, ciascuna
provincia imita le fattezze delle donne proprie ed a Milano mi ac-
corsi in più imagini che la pingevano d'una corporatura grande
come un'amazone, poiché le donne milanesi sono di statura gigan-
tesca; e così in Francia, Spagna ed altrove, ciascuno secondo che
il lor terreno le produce. Ed io reputo che fanno meglio questi
dipintori che non fecero i riferiti scrittori, i quali senz'averla ve-
duta han preteso di darcene determinata, certa e precisa forma.
Tralascio in fine le tante altre curiose domande : se patisse deliquio
quando il nostro Redentore fu deposto dalla croce; se fosse stata
battezzata, quando e da chi? Le finte lettere che a lei si attribui-
scono e tante altre inutili ricerche le quali possono leggersi nella
centuria iv del P. Menochio ne' cap. 50, 51, 53 e 54.*
S. Giuseppe si fa sempre vecchio anche quando sposò nostra
Signora.3 Si volle far ricerca se prima avesse avuta altra moglie, e
non mancò tra* Padri greci scrittore il quale ci diede notizia, né si
sa donde l'avesse appresa, che l'ebbe, e di più che si chiamava
Salomè, colla quale ebbe 4 figli maschi e due o tre femmine. Nella
Biblioteca Imperiale di Vienna si conserva un ms. greco dove si
trova un frammento di Sofronio patriarca di Costantinopoli che
ciò scrisse, ma secondo il costume de' Greci senza portarne pruova
alcuna. Intorno al suo mestiere, poiché la Scrittura non ci dice
altro che fu fabro, si volle sapere qual arte essercitasse, e comu-
1. simili . . . Giunone: cfr. //., 1, 551 ecc. 2. cap. 50, 51, 53 e $4: cap. L,
Se la B. Vergine patisse deliquio, quando Christo N. S. fu deposto di croce,
VP' 594 SS- ; cap. li, Del maraviglioso accrescimento e moltiplicatione di grafia
della Beata Vergine, pp. 595 sg. ; cap. lui, Se la Beata Vergine fu battezzata,
dove, quando e da chi, pp. 597 sgg.; cap. liv, Se la Beata Vergine habbia
scritto qualche cosa, pp. 599 sg. 3. S. Giuseppe . . . Signora: cfr., sempre
del Menochio, il citato cap. lix, Di che età fosse la Beata Vergine ecc., pp.
606 sg.
LIBRO I ■ CAP. XII 873
nemente si vuole che fosse carpentiere, ma il Ven. Beda lo vuole
marescalco.
III. Ricerche sopra Pilato, Giuda, sopra i 24 vecchioni
dell'Apocalisse, Anticristo, resurezione,
paradiso ed inferno.
Si venne pure a disputare sopra la salute di Pilato e di Giuda
non altrimenti che si fece sopra il Testamento Vecchio di Salomone,
di Esaù e di Sansone. Della moglie di Pilato, che gli danno non pur
il nome di Claudia Procula, ma che fosse la stessa Claudia memo-
rata da S. Paolo nella 2a ep. ad Tintoti cap. 5,1 non han dubbio che
fosse salva; ma del marito èwi gran contesa fra scrittori non men
antichi che moderni. Tertulliano nell'Apologetico, cap. 21,2 lo vuol
salvo perché ve lo finse internamente cristiano: «et ipse iam» e*
dice «prò sua conscientia christianus » ; e S. Agostino nel sermone
33 de Epifania2 perché procurò di liberar Cristo dalla morte lo
vuole anche salvo; ma Paolo Orosio, lib. 7, cap. 5, Eusebio e Cas-
siodoro nelle loro cronache lo voglion dannato seguendo l'istoria
di FI. Giuseppe, il quale nel lib. 18, cap. 5, delle Antich. giud. narra
di Pilato che fu in pena de' gravi suoi delitti relegato in Vienna
della Gallia Narbonense, ed essi aggiungono che s'uccidesse per se
stesso. Veggasi il P. Menochio, cent, iv, cap. 44.
Ma chi crederebbe che sopra la stessa persona di Giuda non
fosser tutti concordi di precipitarlo nel Tartaro? Comunemente
così si crede; le maledizioni e terribili imprecazioni che si danno
a' scommunicati, di essere le loro anime insieme con quella di
Giuda traditore tormentate nell'inferno, ce lo fan credere; ed il no-
stro Dante lo rinserra nella Caina al fondo presso Satanasso.4 E
pure da qualche autore spagnolo, sicome altri di quella nazione
i. cap. 5: il rinvio esatto è 4, ai. Cfr. G. S. Menochio, op. cit., tomo 1,
cent. IV, cap. xliv, Della moglie di Pilato e della visione eh* ella hebbe al tempo
della passione di Christo, pp. 585 sg. 2. Apologetica , xxi, in Migne, P. L.,
1, col. 461. Da G. S. Menochio, loc. cit, p. 585. 3. S. Agostino . . . Epi-
fania: cfr. Sermo CCX, In Epiphania Domini III, cap. li, In Pilato et Magis
significatele gentes ab Oriente et Occidente congregandae, in Migne, P. L.,
xxxviii, coli. 103 1-2: se questo è il passo cui fa riferimento il Giannone
(traendolo dal Menochio, ibid.), si tratta però di una forzatura di quanto
scrive Agostino. Anche le citazioni che seguono di Paolo Orosio, Eusebio,
Cassiodoro e Flavio Giuseppe nel Menochio, ibid., p. 586. 4. Dante . . .
Satanasso: cfr. Inf., xxxi, 142-3 e xxxiv, 61-3.
874 APOLOGIA DEJ TEOLOGI SCOLASTICI
fanno ogni sforzo di salvar Salomone1 penitente, si vuole che Giuda,
pentitosi, anche si salvasse ; tanto maggiormente che della penitenza
di Giuda abbiamo nella Scrittura qualche riscontro, che non si
ha di quella di Salomone, leggendosi in S. Matteo, cap. 27, 3, 4 che:
«poenitentia ductus retuht triginta argenteos principibus sacerdo-
tum et senioribus dicens : peccavi tradens sanguinem iustum » ; e se
bene dapoi se stesso uccise, ciò non fu per disperazione, ma per im-
peto del gran dolore che lo trasportò a darsi morte. Io non ho lette
l'opere di S. Vincenzo Ferrerò3 catalano, sicché potessi rendere di
ciò testimonianza, ma mi ricordo aver letto nel catalogo degli ere-
tici antichi e moderni che il Bingarn, rinomato scrittore inglese, ag-
giunse alla sua opera Origines eccles.,3 fra gli altri moderni averci
affastellato anche il Ferrerò perché sosteneva Giuda essersi salvato.
Si narra anche che Pimperador Michele Balbo fra gli altri suoi
errori credesse anche salvo Giuda, annoverandolo fra* beati, sicome
scrisse il P. Menochio, cent, vili, cap. 83 .4
E chi mai potrebbe annoverare le tante vane e curiose ricerche
fatte sopra V Apocalisse ? Libro il più difficile del Testamento Nuo-
vo ; e pure come se l'avessero bastantemente esposto e dichiarato,
gli portò la curiosità a far perquisioni5 sopra cose inarrivabili,
sicome di voler sapere precisamente chi fossero que' ventiquattro
vecchi ivi memorati e cose simili, intorno a che quante fantastiche
interpretazioni si ponessero in campo ciascuno non senza maravi-
glia potrà leggergli presso il P. Menochio, cent. 11, e. 8z.6 Si volle
anche sapere la patria dell'Anticristo, il nome, la nazione, la durata
e fino i suoi più minuti andamenti, e qual genere di morte gli sarà
data. Chi lo vuole non uomo, ma un demonio incarnato; altri,
ancorché convengono che sarà uomo, discordano circa la patria e
la nazione; chi lo fa giudeo, poiché vuol esser creduto per il Messia
promesso da' profeti; ed intorno alla patria, chi l'assegna Cafarnao,
1. sicome . . . Salomone: cfr. G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent. 1, cap.
vili, Se Salomone si sia dannato 0 sta salvato, pp. 12 sgg. 2. *S. Vincenzo
Ferrerò: vedi la nota 4 a p. 117. L'edizione più recente delle sue opere è
quella curata da H. D. Fages, CEuvres de S. V. Ferretti Paris 1909, in due
volumi. 3. nel catalogo . . . eccles.: ma il Giannone confonde, perché nel-
l'opera del Bingham (vedi la nota 1 a p. 660) tale catalogo non c'è. 4. cap,
83: intitolato Notabile historia della morte di Leone Armeno imperatore di
Costantinopoli, e dell'assunzione al medesimo Impero di Michele Balbo, to-
mo 11, pp. 653 sg. 5. perquisioni: cosi nel manoscritto. 6. e. 82 : intitolato
Detti ventiquattro vecchi che si dice nell'Apocalisse di S. Giovanni che stanno
sedendo intorno al trono di Dio, tomo 1, pp. 311 sg.
LIBRO I • CAP. XII 875
chi Betsaida e chi Corozaim, e non sono mancati alcuni che lo
vogliono babilonese, nato in Babilonia. Intorno alla durata, chi
l'abbrevia e chi la prolunga; alcuni la determinano ad un solo anno,
altri due ed altri tre anni e mezzo. Veggasi il Vega1 nell'Apocalisse,
cap. 13, ed il P. Menochio, cent, iv, cap. 98.*
Sopra il paradiso, quante inutili e curiose ricerche si fanno?
In qual precisa parte de' cieli sia collocato ; e que' che s'immaginano
i cieli concentrici, e che Puno inchiuda l'altro, lo ripongono nel-
l'Empireo il più alto e da noi lontano. Già ne han ripartito gli
alloggiamenti, le classi e la gerarchia. Ne han numerati i più illu-
stri abitatori ed acremente si disputa sopra le persone che si appar-
tengono al Testamento Vecchio, quali di queste v'entrassero con
Cristo dopo esser risorto. S. Matteo nel cap. zy3 non ne dice più
di questo : « multa corpora sanctorum qui dormierant surrexerunt
et exeuntes de monumentis post resurrectionem eius venerunt in
sanctam civitatem et apparuerunt multis». Or qui si vuol sapere
chi questi si fossero, ancorché S. Matteo non l'avesse nominati.
Né si creda che la curiosità venne tardi a' soli nostri teologi scola-
stici ; fu più vecchia e cominciò fin dagli antichi Padri, li quali non
già perché avessero scrittori contemporanei a S. Matteo da' quali
forse ne ricevesser lume, ma fondati a semplici loro conietture ed
immaginazioni. Né il P. Pineda fu il primo ad introdurci Giob;4
ma altri vi aveano già introdotto Adamo, Abramo, Melchisadech,
Davide e Giona. Altri vi aggiunsero Mosè, Giosuè, Samuele, Isaia,
Geremia, Ezechiele e gli altri profeti. S. Epifanio in Ancorato5
dice che fra que' risuscitati è molto probabile che vi fossero anche
Zacaria padre di S. Gio. Battista, Simeone, S. Gioachino, S.
Giuseppe e gli altri suoi parenti morti poco prima ed altri molti,
perché conveniva che Cristo ascendente in cielo avesse una comi-
tiva non tanto scarsa, ma che fosse numerosa e per la moltitudine
dell'accompagnamento pomposa e maiestosa. Ma di questi catalo-
1. Vega: probabilmente Andrés Vega (1498-1560 circa), teologo francesca-
no spagnolo, le cui opere principali sono YOpusculum de iustificatione,
gratta et mentis (Venezia 1546) e la Tridentini decreti de iustificatione expo-
sitio et defensio (ivi 1548). z. cap. 98: intitolato Del nome ed origine del-
l'Antichristo, costumi ed atti suoi, tomo 1, pp. 670 sg. Cfr. anche, nello stesso
tomo, cent, ni, cap. lxxxvii, Di guai sorte di morte dica la Scrittura Sacra
dover morire VAntìchristo, pp. 489 sgg. 3. nel cap. 27, 52-3. 4. il P. Pi-
neda . . . Giob: cfr. la nota a p. 852. 5. in Ancorato: cfr. Ancoratus, in
Migne, P. G., xliii, col. 198, dove si limita a citare Matth., 27, 53.
876 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
ghi, ne' quali le donne si videro escluse, se ne richiamarono, sem-
brandogli esserseli fatto torto non far anche quest'onore ad Eva,
Sara, Anna e tante altre illustri femmine del Vecchio Testamento.
Il P. Lorino1 però nel cap. 2 degli Atti di S. Luca sta fermo in
escluderle tutte, perché non conveniva che prima della Vergine
Maria entrasse alcuna donna in cielo; ma Francesco di Luca,2
al quale par che inclini il P. Cornelio a Lapide,3 più indulgente,
vuole che con Adamo risuscitasse anco Eva, come madre del ge-
nere umano. Veggasi il P. Menochio, cent, v, cap. 80.
Altre dispute, altre ricerche si fecero sopra l'universal resure-
zione de' morti che precederà l'estremo giudicio, cominciate pure
da' Padri antichi. Se questa resurezione sarà di giorno o di notte;4
e chi la vuol di mezza notte e chi di mattina. Se risusciteranno tutti
d'un colore, 0 pure alcuni bianchi, altri negri secondo furono in
vita.5 Se della stessa età e statura ch'ebbero morendo ; e se bam-
bini avran in cielo bisogno di nutrici. In fine si pose in disputa
di qual lingua i beati parleranno in paradiso, ed alcuni in tutte le
maniere vogliono che si parlerà in lingua greca, non altrimenti di
ciò che si disse di quella sopramodo elegante di Platone, ch'era
degna che colla medesima parlassero i dei. Altri fan quest'onore
alla lingua latina; e finalmente altri all'ebrea. Veggansi il P. Suarez,6
tom. 2, in 3 par., disp. 50, sect. io, ed il P. Menochio, cent, vii,
cap. 5, 6 e jP
Dell'inferno si è già delineata una esatta e minuta topografia
della sua larghezza, profondità e sua capacità; quante porte avesse
1. Lorino: Jean de Lorini (1559-1634), gesuita francese, esegeta. Scrisse
In Ada Apostolorum commentaria, Lugduni 1605. Cfr. G. S. Menochio,
op. cit., tomo I, cent, rv, cap. lxxxix, Se in Paradiso saranno pia huomini 0
piti donne, pp. 655 sg., e tomo il, cent, v, cap. lxxx, Chi furono quei santi
che risuscitarono con Christo; e se in questa occasione risuscitarono ancora
alcune sante donne, pp. 136 sgg. Di qui la citazione del Lorino (p. 137).
2. Francesco di Luca: Francesco Maria De Luca (1610-1685), gesuita
italiano, autore di un Elogium de Immaculatae Virginis Immaculata concep-
Uone, Viennae 1648. Da G. S. Menochio, loc. cit , p. 138. 3. Cornelio a
Lapide: cfr. la nota 4 a p. 855. 4. Se questa . . . notte: cfr. G. S. Me-
nochio, op. cit., tomo 11, cent, vii, cap. v, Se la risurrettione universale
sarà di giorno 0 di notte, pp. 344 sg. 5. Se risusciteranno . . . vita: cfr.
ibid., cap. vi, Se nella risurrettione universale gli huomini risusciteranno d'un
colore, 0 pure alcuni bianchi, come sono hoggi gli Europei, ed altri neri, come
quelli d*Ètiopia . . ., pp. 345 sgg. 6. Francisco Suarez: cfr. la nota 3 a
p. 812. 7. Il cap. vii è intitolato Che lingua parleranno li beati in paradiso,
tomo 11, pp. 347 sg.
LIBRO I ■ CAP. XII 877
e quante bolge, ove i dannati, secondo la qualità de* loro falli,
saranno puniti. Considerando che saranno più i reprobi che gli
eletti, si è pensato di farlo quanto più grande si possa perché basti
a capire rinnumerabii moltitudine de' dannati. Si è fatto già il
conto che se il mondo non durerà più che sei mila anni, il numero
de* dannati possa arrivare a venti o trenta mila milioni d'uomini,
sicché potrebbero capire nello spazio di mille e seicento stadi, che
fanno ducento miglia italiane. Al P. Lessio,1 lib. 13 De perfectionib.
divinis, cap, 24, sembra questo spazio troppo grande, ed il P.
Menochio, cent, iv, cap. 76, riflette che i dannati saranno disposti
non già di restar ritti all'in piedi, ma più tosto accumulati l'uno
addosso all'altro, onde tanto spazio par superfluo e s'uniforma al
parere del Lessio che basti lo spazio di quattro miglia di diametro
per capire tutto il suddetto numero de' dannati. All'incontro il P.
Cornelio a Lapide rifiuta l'opinione del Lessio parendogli il luogo
da lui assignato troppo angusto.2 Non si crederebbero, se co' pro-
pri occhi non si leggessero, tante sciocchezze e vaniloqui. Veggasi
il P. Cornelio a Lapide ed il P. Menochio, cent, iv, cap. 76.
Misurata l'ampiezza del luogo, si venne, non altrimenti che si
fece nell'arca di Noè delle mangiatoie ed appartamenti per gli
animali, ad assignare a' dannati, secondo la gravità dei peccati
commessi, vari e distinti luoghi e bolgie, sicome con varie e diverse
pene affliggere i lussuriosi, i sodomiti, gli avari, i simoniaci, i
vendicativi, gli omicidi, i ladri, gli spergiuri, i fraudolenti, i be-
stemmiatori, gli adulteri, i superbi, i traditori e tanti altri, ed a
descrivere a ciascuno la maniera e qualità de' tormenti secondo i
loro meriti. Leggansi i quattro libri de' Dialogi di S. Gregorio M.,
la Cronaca di Lione Ostiense, Pietro Damiano, Dionisio Carte-
siano, il Passavanti e le tante antiche cronache scritte da' monaci,
fecondissimi ed ingegnosi ad immaginare tante varie e strane for-
me di tormenti e di tormentati. E donde il nostro Dante prese nel
suo Inferno si vive fantasie se non da' loro scritti? Se bene rese da
lui più vivaci, più minute ed evidenti, rendendole col suo alto stile
e sublime ingegno più maravigliose e sorprendenti.
1. Lessio: Léonard Leys (1554-1623), gesuita e teologo belga, di cui si cita
qui De perfectionibus moribusque divinis libri XIV, Antverpiae 1620. Da
G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent, iv, cap. lxxvi, Quanto sia grande
V inferno de' dannati, pp. 632 sg. 2. All'incontro . . . angusto: cfr. ibid.,
p. 633.
878 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
Veramente i nostri poeti italiani deono molto a questi scrittori
ecclesiastici, i quali resero più feconde le loro fantasie. L'Ariosto
alla sua Isabella appropriò ciò che Niceforo Callisto nel lib. 7 della
sua Istoria, al cap. 13,1 scrisse di Eufrasia vergine e martire di
Nicomedia, la quale perché non fosse oltraggiata da quel giovane
insidiatore della sua virginità, l'ingannò e fece recidersi in un colpo
il capo, lasciandolo deluso. Ciò che mosse la collera del card.
Baronio,2 il quale nelTa. 30 nel fine acremente lo strapazza per
aver un'istoria sacra convertita in favola. Lo stesso credo avrebbe
fatto del nostro Torquato, il quale nel suo Goffredo2 ci dipinge
Sofronia ed Olindo con gli stessi colori che S. Ambrogio, lib. 3
De virginìbus? ci descrive una vergine di Antiochia ed un soldato
cristiano e la magnanima lor contesa, se non l'avesse trattenuto
che questo poeta la favola l'indrizzò ad un pietoso fine.
Si assignarono anche per porte dell'inferno tutti que' monti
ch'eruttano fuoco e fiamme, per dove i demòni conducono le
anime di quelli che muoiono impenitenti con peccato mortale. In
Sicilia il monte Etna, ora chiamato Mongibello, Ulcano e Stron-
goli a Lipari, in Napoli il Vesuvio, dove non mancarono testimoni
di veduta, i quali videro per colà discendere l'anima di Guaimaro
principe di Salerno, di Pandolfo principe di Capua e di tanti altri
ricchi e potenti, sicome ce ne rendono testimonianza Pier Damiano
e le antiche lor cronache.5 In Irlanda il monte Ecla erasi un'altra
porta; e se avessero avuta notizia di altri monti consimili, che nella
Licia, in Farsalide ed altrove eruttan pure fuoco e fiamme, l'avreb-
bero riputate altre tante bocche dell'inferno.
Da ciò avvenne che i nostri poeti italiani nel descriverci l'in-
1 . al cap. 13 : intitolato De aliis virginibus et monachis, pudicitia simul et
martyno claris, in Migne, P. G., cxlv, coli. 1230 sgg. Da G. S. Menochio,
op. cit., tomo 11, cent, v, cap. xil, Dell 'artificio e per così dire stratagema,
con il quale due sante vergini furono liberate dal pericolo di perdere la loro
pudicitia, pp. 20 sg., dove il Menochio aggiunge: «Questa historia fu dal-
l'Ariosto con troppo gran licenza, anzi con molta temerità convertita in
favola . . .». Cfr. Orlando furioso, xxix, 1-31. 2. Ciò che mosse . . . Baro-
nio: negli Annales ecclesiastici, Parisiis 1622, tomo 1, anno 309 (non 30),
p. 322. La frase del Baronio è riportata per intero dal Menochio, loc. cit.,
p. 21. 3. nel suo Goffredo: cfr. Ger. lib., 11, 14-53. 4- De virgìnibus ad
Marcellam sororem suam libri tres, lib. 11 (e non in), cap. iv, in Migne, P. L.t
xvi, coli. 212-6. Da G. S. Menochio, ibid., p. 20. 5. Si assignarono . . .
cronache: cfr. G. S. Menochio, op. cit., tomo 1, cent, iv, cap. lxxxii, Che è
stato opinione d'alcuni gravi autori, che ne1 monti che gettano fiamme siano
le porte dell' 'inferno, pp. 641 sgg.
LIBRO I - CAP. XII 879
ferno, i tormenti ed i tormentati che racchiude, fossero riusciti
più fecondi, ubertosi e redundanti che i Padri greci e latini nelle
descrizioni dell'Orco, di Oocito, di Acheronte, di Averno, di Cer-
bero, di Tizio, Sisifo, di Tantalo e di tanti altri lor sogni.
E poiché non si verrebbe mai a capo se si volesser annoverare
tutte le ricerche e questioni vane ed inutili sopra il Vecchio e
Nuovo Testamento, possono bastare quelle fin qui rapportate per-
ché comprenda ogn'uno che non furono i nostri teologi scolastici
i primi che le mossero, ma i Padri antichi cominciarono ; e sicome
in tutte le discipline suole avvenire, che una volta che a gli umani
ingegni si apre una strada, tirando le cose più innanzi non sanno
poi trovar né modo né misura; così appunto è avvenuto nella teo-
logia giunta in tanta mole ed a tal estremità che par incredibile
come i di lei professori abbiano potuto empire le biblioteche di
tanti ed innumerevoli volumi al cui numero non giunge la stessa
giurisprudenza ancorché abbia campi assai più vasti ed ampi. La
giurisprudenza, se si riguardano i volumi de' consigli, responsi,
allegazioni, decisioni e simili, non è maraviglia che ne abbia pro-
dotti tanti, poiché i casi particolari, onde son compilati, essendo
quasi che infiniti, doveano per conseguenza accrescerne il numero.
Ma se si farà paragone delle sposizioni e commenti sopra i Digesti,
Codici, Novelle, libri de* feudi, ed io vi aggiungo anche gli statuti
particolari, le leggi proprie e municipali di ciascun regno e pro-
vincia, i loro Riti e Consuetudini, si conoscerà che i volumi sopra
ciò compilati non arrivano a quel numero ed a quella mole di tanti
libri teologici; e pure i teologi non han per le mani altro testo
che sporre e commentare se non il solo volume del Testamento
Vecchio e Nuovo,
Si aggiunga per accrescerne la maraviglia che la religione gen-
tile, con tutto che un tempo si vide occupare tutta la superficie
della terra, ch'ebbe tante numerose turbe di dii e dee, quante S.
Agostino nel lib. 4 Civ. Dei, cap. 8,1 potè raccorre da' libri di Var-
rone a' suoi tempi non perduti e che secondo altri, che se ne prese
la cura di annoverargli, arrivavano sino al numero di trentamila,
e che la lor teologia fosse stata maneggiata da tanti fantastici e
favolosi greci ch'empirono il mondo di tante loro mitologie, con
tutto ciò questa religione non produsse che pochi libri. Se si ri-
1. S. Agostino . . . cap. 8: in Migne, P. L., xli, coli. 11 8-9.
880 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
guarda la religione giudaica, ancor che avesse tanti fantastici e
visionari rabini, con tutto ciò i loro libri non arrivano a tanto nu-
mero né a tanta mole, sicome può vedersi nella Biblioteca rabinica
del Bartolocci.1 Niente dico della maomettana, la quale ancorché
diffusa in gran parte d'Europa, nell'Africa, nell'Egitto, nella Per-
sia, nell'India ed in altre regioni dell'Asia, ha pochi libri, con-
tenta del solo Alcorano; né gli spositori si piglian molta pena di
farci glose e commenti. Come dunque la sola religione cristiana,
fondata sopra pochi semplici e schietti princìpi, sopra pochi libri
dalla Chiesa ritenuti e qualificati per canonici, abbia in decorso di
tempo potuto produrne tanti, ed in mole ed in numero, quasi
ch'infiniti? Ma a chi considerarà quanto fin qui si è detto e ne'
precedenti capitoli, che il lavoro cominciossi fin dal principio della
nascente Chiesa da' primi teologi che uscirono dalla scuola di
Alessandria, continuato dapoi nei seguenti secoli dai Padri greci e
latini e ripigliato ne' secoli incolti e rozzi da' monaci oziosi e
sfacendati, i quali nelle loro solitudini non aveano altra maggior
occupazione che questa, non dovrà sembrar cosa strana e porten-
tosa se nel corso ormai di xvili secoli la mole ed il numero sia
giunto a tanto.
A ciò si aggiungano le ricche badie, i numerosi monasteri
dov'erano ben pasciuti tanti monaci, i nuovi conventi di frati di
tanti e sì diversi ordini istituiti, i ricchi collegi e tante altre co-
munità di religiosi i quali non attesero ad altro essendogli stati
proibiti gli altri studi come profani, e che non dovevano col sudore
delle loro fronti guadagnarsi il pane, trovando ciò che gli era di
bisogno e la mensa sempre apparecchiata e pronta; che maraviglia
è dunque se milioni d'ingegni, pel corso di tanti secoli, abbian em-
pito le biblioteche di tanti volumi ? Aggiungo in fine che fra si di-
versi ordini religiosi, essendo fra di lor entrata competenza ed emu-
lazione, ne venne che fossero divisi in fazioni; e poiché per naturai
istinto gli uomini sono inchinati a dissentire, quindi sursero varie
e discordi dottrine, e ciascuno volendo sostener la sua, multipli-
carono le contese e per conseguenza i libri e le questioni. Nel che
i. Giulio Bartolocci (1613-1687), da Celleno, orientalista cistercense. La
sua opera più importante è la Bibliotheca magna rabbinica de scriptoribus et
scriptis hebraicis ordine alphabetìco hebraice et latine digestis, Romae 1675-
1683, in quattro volumi. Un quinto volume, postumo, nel 1693.
LIBRO I ■ CAP. XIII ED ULTIMO 88l
contribuì molto la nuova arte tipografica che facilitò le edizioni e
la moltitudine delli esemplari.
E tanto sopra ciò basti, terminando questo libro col capitolo
seguente che sarà l'ultimo dove lo stesso rawisaremo ne' Padri
antichi per ciò che riguarda l'istoria e la cronologia.
CAP. XIII ED ULTIMO
Imperizia ne' Padri antichi d'istoria e di cronologia
emendata da' nuovi scrittori.
Non è dubio che la cognizione d'una esatta cronologia e del-
l'istoria profana, particolarmente della greca e della latina, sia
necessaria non meno che la perizia delle lingue, specialmente per
miglior intelligenza del Testamento Nuovo e sopra tutto degli Atti
degl'appostoli, ove si contiene l'istoria della nascente Chiesa, del-
le epistole di S. Paolo e degli altri appostoli. Ed in ciò sono stati
senza dubbio recati maggiori lumi da' nuovi scrittori che dagli
antichi Padri li quali non ne furono abbastanza1 intesi. Quanti
errori d'istoria e di cronologia si leggono negli antichi Padri av-
vertiti ed emendati da' nuovi scrittori ? Eusebio vescovo di Cesarea
nel suo. Cronologico2, fu cagione che i posteriori Padri ed infra
gli altri S. Agostino ne' libri della Città di Dio seguendolo inciam-
passero negli stessi anacronismi. Quanti errori di Eusebio nel
fissare i tempi furono scoverti ed emendati dal P. Petavio, nel
lib. io, cap. i, Della dottrina de' tempii3 Non fu Eusebio che in
questa sua opera, credendo che i due Plinii il Vecchio ed il Gio-
vane fossero una stessa persona, diede a S. Girolomo occasione,
in Isaia ed Ezechiele* di credere lo stesso? Dello stesso Eusebio
sopra V Antichità giudaiche di FI. Giuseppe furono avvertite molte
alterazioni e cangiamenti da' moderni autori. E V Istoria di Costan-
tino M. del P. Varenness religioso teatino ha scoverti nella Vita di
i. abbastanza: correggiamo l'«abbasta» del manoscritto, 2. nel suo Crono-
logico: cfr. Chronicorum libri duo, in Migne, P. G., xix, coli. 101-598.
3. Petavio . . . tempi: cfr. la nota 4 a p. 801. 4. in Isaia ed Ezechiele: cfr.
Commentariorum in Isaiam prophetam libri duodeviginti, in Migne, P. L.,
xxiv, col. 523, e Commentariorum in Ezechielem prophetam libri quatuordeam,
ivi, xxv, col. 271. 5. Varennes: Bernard de Varenne, teatino francese, au-
tore di una Histoire de Constantin le Grand, premier empereur chrétien, Pa-
ris 1728.
sa
882 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
Costantino scritta da Eusebio molti abbagli e fattala conoscere più
tosto un romanzo che una grave e seria istoria.
Nelle opere di S. Giustino Martire quanti abbagli d'istoria greca
e romana si sono da' moderni avvertiti ? Egli allega, per cagion di
esempio, la Biblioteca {storica di Diodoro Siciliano per pruovare
che Mosè fosse stato il primo legislatore ch'ebbe l'Egitto, e lo
confonde con Mneve il qual, secondo Diodoro, diede le prime
leggi a quel regno, e pure da quello scrittore chiaramente sono di-
stinti, facendo Mneve primo legislatore degl'Egizzi e Mosè primo
legislatore degli Ebrei.1 Egli pure ignorando che Semone Sango
fosse stato un dio de' Sabini, il qual poi da' Romani fu adottato
anche per lor dio al quale, secondo la testimonianza di Livio2 e
d'altri antichi romani scrittori, eressero in Roma nell'isola del Te-
vere un tempio ed altari con iscrizione: «Semoni Deo Sango»,
egli credette che fosse questo Semone Simone Mago samaritano,
sicome si legge nella sua Apologia de9 cristiani indrizzata ad Anto-
nino Pio con queste parole: «in amne Tiberi inter duos pontes,
est erecta statua, latinam hanc habens inscriptionem : Simoni deo
sancto »,3 e fu cagione che Tertulliano, S. Ireneo ed Eusebio ca-
dessero nel medesimo errore, il qual manifestamente apparve
quando a' tempi di Gregorio XIII, secondo che rapporta il P.
Menochio nelle sue Stuore, cent. 8, cap. 17,4 nelPistessa isola Ti-
berina fra* ruderi dell'antichità fu scavata la lapida coli' iscrizione:
« Semoni Sango deo Fidio sacrum» età, la quale ci rende testimo-
nianza il medesimo che a' suoi tempi era conservata nell'orto de'
Religiosi mendicanti situato nella stessa isola. Se pure fu di S.
Giustino quell'Apologia, poiché Lattanzio Firmiano fra gli apolo-
gisti di Cristo non fa motto alcuno di Giustino, che dovea esser il
primo a memorarsi.
Da ciò anche avvenne che a gli altri Padri ed a S. Agostino
istesso nel libro scritto a Quodvuldeos fu data occasione di scrivere
1. Nelle opere . . . Ebrei: il Giannone ripete osservazioni già fatte nel Regno
terreno: cfr. Triregno, p. io. Cfr. Diodoro, Bibl. hist., 1, xciv, 1 (per Mneve),
e xl, in, 3-8 (per Mosè). 2. secondo . . . Livio: cfr. Livio, vili, 20, 8.
3. sicome si legge . . . sancto: cfr. Apologia prima prò chrtstianis, ad Antoni-
num Pium, in Migne, P. (?., vi, col. 367. 4. G. S. Menochio, Stuore
cit., tomo 11, cent, vili, cap. xvn, Di Simone Mago e della sua caduta
quando promise a Nerone di volare e della sua morte, pp. 538 sgg. Da questo
brano del Menochio derivano gli accenni a Tertulliano, Ireneo, Eusebio e
Giustino. 5. nel libro . . . Quodvuldeo: cfr. De haeresibus ad Quodvultdeum
liber unus, I, in Migne, P. L., xlii, col. 25.
LIBRO I • CAP. XIII ED ULTIMO 883
che in Roma erano adorate Pimmagini di Simon Mago e di Silene
sua meretrice. Origene nella 2a omilia sopra la Cantica tradotta in
latino da S. Girolamo, sopra quelle parole: «unguentum efrusum
nomen tuum», volendo pure darci un'interpretazione profetica,
immaginò che per l'unguento effuso designavasi Cristo, poiché
sicome quello effuso sparge l'odore da per tutto, così doppo la
predicazione del Vangelo il nome di Mosè e de' profeti, ignoto a*
gentili, fu divolgato, che prima era stato ristretto fra gli angusti
confini della Giudea: «Nunc Mosis nomen» e' dice «auditur quod
prius Iudaeae tantum claudebatur angustiis. Neque enim Graeco-
rum quispiam meminit eius, neque in ulla gentilium literarum
historia de ilio scriptum aliquid invenimus. Statim autem ut Iesus
radiavit in mundo, eduxit secum leges et prophetas, et vere com-
pletimi est: "unguentum effusum nomen tuum"».1 Mostra qui
Origene non esser ben istrutto dell'istorie de' gentili, presso i quali
molto tempo prima della predicazione del Vangelo avrebbe tro-
vato fatta menzione di Mosè come d'un uomo assai celebre ed
illustre, fondatore della republica degli Ebrei, a' quali diede le pri-
me leggi, e rinomatissimo per le opere sue grandi e maravigliose.
Avrebbe letto il suo nome ne' frammenti di Sanconiatone, di Be-
roso, di Manetone e di altri antichissimi scrittori conservatici da
più autori. Avrebbe trovato fatta di Mosè onorifica menzione da
Trogo presso Giustino, lib. 36,* da Diodoro Siciliano, da Numenio
Pitagorico,3 da Longino e da Strabone, nel libro 16 della sua
Geografia* Meritamente dal P. Pererio nelle questioni selette sopra
il cap. 1 dell'Esodo, disp. 4,s fu riputata falsa questa credenza di
Origene. E notisi intanto quanto fosser proclivi gli antichi Padri
di esporre i sacri libri con interpretazioni profetiche sovente ap-
poggiate su falsi ed immaginari fondamenti. Lattanzio Firmiano
1. Origene . . . tuum: in Migne, P. G.t xni, col. 42, la citazione appartiene
all'homilia I. Cfr. Cant., 1, 2 («Il nome di Mosè, prima racchiuso soltanto
nei brevi confini della Giudea, è ora famoso. Nessuno infatti tra i Greci lo
ricorda, né di lui troviamo scritto alcunché nelle storie dei gentili. Ma non
appena Gesù sfolgorò nel mondo, trasse seco le leggi e i profeti, e veramen-
te si compi quel detto : "sparso unguento è il tuo nome" »). 2. lib. 36", 11,
11 sgg. 3. Per Diodoro Siculo, cfr. loc. cit. sopra. Degli scritti di Nu-
menio di Apamea (cfr. la nota 1 a p. 636) ci rimangono solo frammenti.
4. Longino . . . Geografia: cfr. rispettivamente De sublimitatet ix, 9 (dove
si cita non espressamente Mosè, ma Genesi, 1, 3 e 9), e Geogr., xvi, 35-6
e 39- 5- Pererio . . . disp. 4: cfr. la nota 5 a p. 851. Qui si cita Selectarum
disputationum in S. Scripturam, I, Super libro Exodi, Ingolstadii 1591.
884 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
nelle sue Divine istituzioni commise tanti errori di cronologia e
d'istoria quanti se ne vedranno notati quando trattaremo di que'
suoi libri. Ne' libri della Città di Dio di S. Agostino furono molti
errori d'istoria e di cronologia avvertiti da Lodovico Vives,1 ne'
quali inciampò per aver seguito il Cronologico di Eusebio.
Tertulliano, sicome fu avvertito da M.r Dupin in Dissert. pre-
limin. sopra la Bilia, lib. li,2 diede false notizie sopra Tiberio
e Pilato, che questi avesse fatta relazione a Tiberio de' miracoli di
Cristo e che perciò questo imperadore voleva arrollarlo fra '1 nu-
mero degli altri dii se non fosse stato impedito dal Senato.
Leggansi le ragioni solide rapportate in una latina lettera (lib.
il, epist. 12) dal dotto Tanneguy Le Fevre,3 che dimostrano esser
tutto ciò favoloso, le quali rimangono nel lor vigore ancorché Gio.
Pearson,4 Oper. posthum., lect. 18 [. . .]s ed altri abbian preteso
confutarle. E chi potrebbe annoverare tutti gli abbagli d'istoria e
di cronologia che si leggono sparsi nelle opere degli altri Padri?
Basti per darne un saggio che S. Girolamo istesso, con tutto che
fosse dimorato lungo tempo nella Palestina e che dell'istoria ebraica
e romana fosse istrutto abbastanza, pure non ne fu esente. In fra
gli altri, non determinando S. Luca negli Atti degli appostoli il
preciso tempo nel quale S. Paolo da Cesarea fu condotto prigione
in Roma, egli lo fissa nel z° anno dell'imperio di Nerone ; quando
da' medesimi Atti e dal lib. 20 dell'Antichità giudaiche di FI.
Giuseppe si convince che ciò avvenne nel quarto o quinto anno
di Nerone; poiché S. Luca istesso scrive che, essendo preside
della Cilicia Felice, S. Paolo dal tribuno Lisia, che lo sottrasse
dalla rabia furiosa del popolo gerosolimitano, fu richiesto se egli
era quell'egizio il quale aveva poc'anzi concitato in Gerusalemme
un tumulto e tratti seco nel deserto quattromila sicari: «Nonne
tu es aegyptius qui ante hos dies tumultum concitasti et eduxisti
in desertum quatuor milia virorum sicariorum ? », 21, 38. Or que-
1. Ioannes Ludovicus Vives (1492- 1540), celebre umanista spagnolo, amico
e seguace di Erasmo, autore di un commento al De civitate Dei di Agostino,
Basileae 1522. 2. Dupin . . . lib. Ili cfr. la nota 5 a p. 204. Qui è citata la
Dissertation préliminaire ou prolégomènes sur la Bible, Paris 1699, in due vo-
lumi. 3. Tanneguy Le Fèvre (lat. Tanaquillus Faber, 16 15-1672), filologo
umanista francese, di cui si citano le Epistolae, quorum pleraeque ad emenda-
tionem scriptorum veterum pertinente Salmuni 1659-1665, in due volumi.
4. John Pearson (16 13- 1686), vescovo anglicano di Chester, uno dei mag-
giori eruditi dell'anglicanesimo. Si riferisce ad Opera posthuma, chronolo-
gica . . ., Londini 1688. 5. [. . .]: il manoscritto è qui guasto.
LIBRO I • CAP. XIII ED ULTIMO 885
sto successo rapporta FI. Giuseppe che avvenne nei primi anni
dell' imperio di Nerone, sotto il preside Felice che fugò l'egizio falso
profeta e sterminò i suoi seguaci.1 Felice tenne prigione S. Paolo in
Cesarea, come scrive S. Luca, due anni interi, e così lasciollo al
suo successore Festo, il quale poi fece trattar della causa; ed avendo
S. Paolo appellato a Cesare, lo fece trasportar in Roma, e per più
mesi la nave, ove fu con gli altri prigionieri posto, fu sbattuta
da fiere tempeste, convenendogli, scampato il naufragio della gen-
te sì, ma non della nave, dimorare in Malta tutto quell'inverno, ed
indi con prospera navigazione fu condotto in Roma dove è forza
dire che giungesse al più presto nel quarto o quinto anno di Ne-
rone.
Infiniti altri consimili abbagli d'istoria e di cronologia si veg-
gono oggi emendati dagli ultimi accurati scrittori, i quali con
maggior diligenza ed esattezza han fissati i tempi più certi, sicome
è manifesto dalle opere di Petavio gesuita, delPUsserio,2 di Mar-
sham,3 del cardinal Noris,4 del Pagi,5 del Silvestri6 nella sua Cro-
nologia ultimamente data alle stampe, e altri insigni e rinomati
autori.
li?
Questi istudi, sicome il rivolgere i libri degli antichi Padri già
posti in dimenticanza, si cominciarono nel XVI secolo ad intra-
prendere con fervore per occasione dell'eresia di Lutero, e si
avanzarono molto più nel secolo seguente e furon poi ridotti quasi
nell'ultimo punto di perfezione nel dechinar del passato e ne*
princìpi del presente secolo, poiché si conobbe che de' novatori
le loro opinioni traevan origine dagli antichi errori più tosto rino-
vati che di nuovo prodotti; onde si cominciò a studiare sopra i
vecchi scrittori e si avvertì che veramente in quelli fosse varietà
di opinioni e discordanza intorno ad alcuni punti di nostra reli-
gione già poi decisi da' seguenti concili, i quali per più canoni
1. Or questo . . . seguaci: cfr. Ant. iud., xx, vili, 6. 2. Usserio: lames Usher :
vedi la nota 1 a p. 666. 3. John Marsham: cfr. la nota 6 a pp. 801-2. 4. En-
rico de Noris (1631-1704), teologo e cardinale agostiniano, uno dei mag-
giori eruditi italiani del XVII secolo. Cfr. Opera omnia. Verona 1729-1732,
in quattro volumi; un quinto, Mantova 1741. 5. Antoine Pagi: cfr. la
nota 2 a p. 399. 6. Camillo Silvestri: vedi le note 3 e 6 a p. 271. 7. II:
così nel manoscritto, dove però manca, in precedenza, l'indicazione del
1 paragrafo.
886 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
stabilirono regole certe e fisse non men sopra i dogmi che per la
disciplina della Chiesa, affinché s'uscisse da tante brighe e dispute
che i novatori pretendevan rinovare, e ciascun sapesse qual fosse
la vera credenza da doversi tenere, non essendovi altro modo più
leggitimo e sicuro per porre nella Chiesa una stabile tranquillità e
quiete; altrimente si verrebbe ad un caos di confusione ed incer-
tezza, ed in perpetue risse, sedizioni e contrasti. Scorgendosi adun-
que che la lettura delle opere degli antichi Padri non era molto
sicura per tanta varietà di pareri, e trovandosi già introdotta la
nuova arte tipografica, le prime stampe facendosi sopra gli origi-
nali ms. riuscirono a questi conformi e per conseguenza venivan
pure ad essere de' medesimi errori contaminate. Si credette nello
stesso XVI secolo, per toglier l'occasione ad altri di errare, che
nelle nuove ristampe si dovesse togliere da' loro libri tutto ciò
che potesse imbrattare le menti de* fedeli di eretica pravità, ov-
vero fargli deviare dalla fede cattolica romana, onde le nuove im-
pressioni e ristampe si videro tutte mutilate e tronche, ed infra
l'altre in Venezia nell'anno 1570 dalla stamperia di Giovanni Va-
risco e compagni uscirono alla luce le opere di S. Agostino divise
in più tomi in 40, dove gli stampatori non fecero difficoltà nel
frontispizio di ciaschedun tomo d'avvertirne i lettori dicendogli:
«curavimus removeri ea omnia, quae fidelium mentes haeretica
pravitate possent inficere, aut a catholica et ortodoxa fide de-
viare».1 Maniera tutta opposta al fine che si voleva, ed il peg-
gior partito che poteva pigliarsi, poiché da quest'istesso i nova-
tori cominciarono a rendersi più arditi ed insolenti ed a declamare
contro i cattolici trattandogli per falsari ed impostori. Ma i nuovi
scrittori e gli ultimi editori per riprimer la calunnia ci diedero le
loro ristampe tutte intere e fedeli secondo i veri originali, senza
ricorrere ad un asilo sì povero e vergognoso. A questi ultimi dob-
biamo, e spezialmente a' Padri della Congregazione Benedittina
di S. Mauro, di aver oggi le di loro opere non pur intere, ma
accresciute da nuovi ms. A questi ultimi autori dobbiamo di averle
con note e dotte osservazioni adornate, ed avvertito ne* propri
luoghi i lettori degli abbagli ed errori presi e delle opinioni e loro
varietà, le quali se a' loro tempi eran disputate e poste in contro-
versia, oggi per le nuove determinazioni della Sede appostolica e
1. in Venezia . . . deviare: cfr. sopra p. 798 e la nota 1 a p. 799.
LIBRO I • CAP. XIII ED ULTIMO 887
di più concili non esser più lecito porle in dispute ed in contese.
Per ogni verso adunque da' nuovi ed ultimi scrittori, coloro
che vorranno applicarsi a questi studi trarranno maggior utilità;
essi riusciranno più profittevoli, sicuri e lontani da ogni dubbio
ed esitazione che facendogli sopra i nudi antichi Padri, dove tro-
veranno confuse brighe e contrasti; e quel eh' è peggio perniciosi
errori e dottrine niente conformi a quel che presentemente tiene
la Sede appostolica e la cattolica Chiesa romana nostra commune
madre e direttrice. De* Padri antichi dee sì bene farsi stima ed
avergli pronti in occasione di qualche disputa per riscontrargli
quando vengono allegati; ed il principal loro uso sarà di appren-
dere in essi la disciplina della Chiesa de' loro tempi, la quale non
fu sempre la stessa, e gli ultimi scrittori dell'istoria ecclesiastica i
più accurati e dotti non han tralasciato di notarla sopra i di loro
libri per meglio manifestarla nel decorso di ciaschedun secolo.
Fin qui sia detto abbastanza generalmente parlando de* Padri
antichi, ma per darne spezialmente un saggio di alcuni particolari,
che mandatimi in questa solitudine sono presso di me, cioè de'
libri di Lattanzio Firmiano, delle opere di S. Agostino e quelle di
S. Gregorio M., faremo de' medesimi particolar esame ed un più
minuto ed esatto scrutinio.
LIBRO III
DE» LIBRI DI S. AGOSTINO
CAP. Ili
De9 rigoristi.
Pure da questi libri delle Confessioni di S. Agostino e da alquante
rigide espressioni che si leggon nell'altre sue opere ne vennero i
rigoristi, i quali a* rigori di Agostino vollero aggiunger de* nuovi
e così disumanare gli uomini e rendergli tronchi stupidi ed insen-
sati.1 Non vi è dubbio che in queste sue Confessioni sovente dipinga
per scelleratezze ciò che saranno o puerili trascorsi ovvero impeti
inevitabili di natura. Quel picciol fatto di alquante pere, ch'essendo
fanciullo insieme cogli altri giovanetti suoi compagni commise,3
spogliando l'albore di que' pomi più per giovanile leggerezza che
per gola o avarizia, lo descrive dandogli aspetto così deforme ed
orribile come se avessero dato il sacco a qualche città e postola
a sangue ed a fuoco. Egli negl'ultimi libri, scorrendo per tutti i
nostri sensi così interiori come esteriori, sicome mostra una pro-
fonda filosofia nello spiegargli, così nel porre in essi i confini tra il
lecito e l'illecito è sì rigido che sembrangli peccaminosi anche gl'i-
nevitabili moti di natura, e vorrebbe togliere affatto il piacere che
la natura ha posto a tutti i nostri sensi. S. Paolo pregava Iddio che
gli volesse levare gli stimoli della carne che desto lo tormentavano ;3
i. Pure da questi . . . insensati: il Giannone aveva già iniziato questa polemi-
ca contro il rigorismo in alcune pagine del Triregno qui riportate (cfr. pp.
593-8). Per rigoristi intende tutti coloro che con le loro dottrine sulla giu-
stizia originale, sul peccato d'Adamo, sulla grazia efficace, sulla libera pre-
destinazione, sull'idea stessa di Dio, han gettato un velo di pessimismo tale
sul cristianesimo da renderlo inconciliabile con il mondo moderno. Per il
Giannone il rigorismo è assurdo come il quietismo. Superando e insieme
riproponendosi le esperienze religiose attraversate, e approfondendo il
discorso del Triregno, spezza risolutamente in queste pagine l'alleanza che
si era realizzata nel primo decennio del secolo fra giansenismo e spirito
riformatore e giurisdizionalistico, alleanza resa possibile da un comune
fronte contro la Chiesa di Roma e la Costituzione Unigenitus. Quanto più il
Giannone si avvicina a una concezione religiosa di cristianesimo ragione-
vole, di origine deistica, accentuata, non negata, in carcere, tanto più si
sente lontano dal rigorismo conservatore dei giansenisti. 2. Quel pic-
ciol . . . commise: cfr. Con}., 11, iv, Furtum cum sodalibus perpetratum, in
Migne, P.L., xxxn, coli. 678-9. 3. S. Paolo .. .tormentavano: cfr. il
Cor., 12, 7-8.
LIBRO III • CAP. Ili 889
ma S. Agostino fervorosamente lo pregava che gli levasse anche
gl'insogni che contro sua voglia quando dormiva gli rappresenta-
vano sì vivamente le immagini delle cose veneree, che gli pareva
star su '1 fatto ; ovvero che dasse quella stessa forza alla sua anima
addormentata, che quando era desta, per potergli discacciare;1 e
pure in ciò niente vi era di peccaminoso poiché, secondo in sen-
tenza di tutti i filosofi saviamente scrisse Plinio il Vecchio nel lib.
35 Nat. hist., cap. 18: «Visa in quiete venerea sponte naturae
erumpunt»,2 non avendovi parte alcuna la mente, la quale sopita
non comanda al corpo, ma tutto dipender dallo involontario e
sregolato corso degli spiriti, i quali scorrendo per le tracce im-
presse nel nostro cerebro, risveglian quelle immagini nella nostra
fantasia, onde procedono le involontarie polluzioni delle quali non
ne sono esenti nemmeno i più rigidi ed austeri romiti. Tanto vero
che Parte medica stende anche sopra di essi sua giurisdizione pre-
scrivendo rimedi per scacciargli. Così Plinio stesso scrisse nel lib.
20, cap. 7,3 che il seme trito della sativa lattuca bevuto col vino
«libidinum imaginationes in somno compescit»; sicome la ruta
reprime «Venerem crebro per somnia imaginantibus », lib. eod.,
cap. 13,4 e lo stesso effetto prodursi dalla portulaca la quale «Vene-
rem inhibet Venerisque somnia», cap. 20 eod. lib.5 E S. Agostino
il qual avea letto Plinio, sicome dimostra nei libri della Città di
Dio qualificandolo per uomo dottissimo,6 potea ben ricordarsi che
questo scrittore nel lib. 35, cap. 18,7 rapporta che Calvo, famoso
oratore romano della famiglia Licinia, solea cingersi i lombi di
lamine di piombo per reprimere le notturne polluzioni le quali
l'infievolivano in guisa che non potea con vigore attendere a* suoi
studi. E se la Chiesa oggi ne' suoi inni priega ancora: «procul re-
cedant somnia et noctium phantasmata»,8 ciò fassi per evitar il
pericolo nel qual Tuom potrebbe esporsi, poiché sovente accade a*
deboli che que* fantasmi cominciano di notte ad assalirgli mentre
1. ma S. Agostino . . . discacciare: cfr. Conf.t x, xxx, Confitetur ut se habet
ad tentationes carnalis libidinis, in Migne, P. L., xxxn, coli. 796-7* 2. Pli-
nio . . . erumpunt: cfr. Nat. hist.t ed. cit., tomo li, lib. xxxiv (non xxxv),
cap. xvili, p. 670 («le immagini veneree irrompono nel sonno per sponta-
neo impeto di natura»). 3. nel lib. 20i cap. 7: cfr. ibid., p. 198. 4. lib.
eod., cap. 13: cfr. ibid.} p. 209, 5. cap. 20 eod. hb.: cfr. ibid.t p. 220.
6. sicome dimostra . . . dottissimo: cfr. la nota 3 a p. 762. 7. nel Hb- 35,
cap, 18: anche qui, come sopra, il libro è il xxxiv, ed. cit., p. 670. 8. «-pro-
cul.. . phantasmata » : nell'inno Te lucis ante terminum attribuito a sant'Am-
brogio («lungi svaniscano i sogni e i fantasmi della notte»).
890 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
dormono e riportili poi la vittoria a viso aperto, essendo già vigi-
lanti e desti; ma di ciò tornerà a noi l'occasione di trattarne quando
favellaremo dell'epistole di Gregorio M.
Scorre dapoi per tutti i sensi esterni, ed intorno al gusto della
nostra lingua e palato nel cibarsi e nel bere vorrebbe che nella
stessa guisa che prendiamo i medicamenti così ci disponessimo a
prender i cibi; sicome non prendiamo le medicine di qualunque
sorte elle siano se non per fugar le malatie, i dolori e le febri ; così
i cibi e le bevande se non per discacciar la fame e la sete, le quali
non sono che una sorte di dolori che consumano ed a guisa di
febre uccidono quando per mezzo della medicina del cibo non
soccorriamo. Ma gli dispiace che in far questo passaggio dalla
fame alla sazietà, dalla sete al rinfrescarsi, si pruovi piacere e di-
letto. Qui, qui, egli dice, si trova il laccio della concupiscenza
per prendermi; poiché il principal fine del mangiare e del bere
dee unicamente essere il nostro sustentamento e la nostra sanità;
ma nondimeno si accompagna dietro ad essa a guisa di serva non
so qual pericolosa giocondità, la quale per lo più procura porre
il passo avanti alla sua padrona, accioché si faccia per causa di lei
ciocché dee farsi per rispetto della sanità. Or qui vuole che chi
mangia e chi beve stia attento, si guardi, cibandosi quanto basta
per suo sostentamento, di trascorrere nel piacere, mostrandone
cupidigia e di compiacersi molto della giocondità che seco portano
i cibi e le bevande.1 In breve bisogna star sempre con la bilancia
in mano e sottilmente pesare Puno e l'altro. Or vedete in quali an-
gustie, in quali ceppi e catene si ligano i miseri mortali, a' quali
sono pur troppo soverchie le tante calamità e miserie che si speri-
mentano in questa valle di lagrime. Iddio autor della natura ha
posto a' cibi ed alle bevande quella giocondità perché l'uomo con
moderazione se ne valga e per suo uso l'ha creati affinché gustan-
done il piacere benedichi l'alta sua provvidenza e gli renda grazie
di tanta sua benignità e munificenza. Anche nello stato dell'inno-
cenza Iddio avea posto alle cose aspettabili bellezza perché a gli
occhi degli uomini fossero gioconde e delettabili, sicome alle cose
comestibili pose soavità perché al gusto de' medesimi riuscissero
piacevoli, dolci e soavi, avendo dalla terra prodotto «omne lignum»,
come si legge nel 2 cap. del Genesi, « pulchrum visu et ad vescen-
1. Scorre dapoi . . . bevande: cfr. Conf., x, xxxi, Ut se gerit ad tentatìones
gulae, in Migne, P. L., xxxii, coli. 797-9.
LIBRO III • CAP. Ili 891
dum suave a.1 E doppo che l'uomo prevaricò, per sua bontà lasciolle
nel loro stato aggravandolo solo di procacciarsele con istenti e
sudori. Or se l'uomo con sudori, travagli ed angoscie ha da procac-
ciarsi il vitto, mal volentieri soffrirebbe tante fatiche se oltre il
suo sostentamento non ci trovasse per suo ristoro quel piacere e
giocondità che Iddio ci ha posto; ma se al rovescio dovessero i
cibi riuscirgli ristucchevoli, noiosi ed insipidi, sicome le medicine
agl'infermi, troppo misera ed infelice sarebbe la sua condizione,
peggiore di quella de' bruti. La giusta misura in valendosene è
quella che gli detta la ragione, cioè di bilanciare se il piacere, vo-
lendosi spingere oltre il dovere e l'indigenza, non cagioni appresso
maggiore molestia; non sconcerti e guasti l'armonia e buona di-
sposizione d'un corpo sano, e lo renda morboso, grave a se stesso
ed inetto ad operare. Se non contenti di quanto la natura gli som-
ministra di cibi semplici che in sé racchiudono un sapor solido e
salubre, consumano i loro patrimoni in ricercar i più rari da lontani
mari e remote terre, non contentandosi di ciò che la natura pro-
duce ne' loro terreni e con operosi magisteri ed opificio di eccellenti
cuochi, che ricercano da' più remoti paesi, con vari mescolamenti
alterando e corrompendo la natura, cagionano per conseguenza ne'
loro corpi chiragre, podagre ed altre pertinaci e lunghe malatie; ed
in vece di valersi de' cibi per rispetto della sanità si rivolgono al
contrario per la destruzione della medesima, questa si chiama
scostumatezza, intemperanza e vera gola. Ma chi con moderazione
e prudenza si vale di que' piaceri innocenti che trova ne' cibi
semplici e nelle schiette bevande, questi è colui del quale può
dirsi: «omne tulit punctum qui miscuit utile dulci».* Saviamente
Cicerone nel lib. 1 De officiis in poche parole pose i giusti confini
tra' voluttuosi ed i sobri: «sin sit quispiam» e' dice «qui aliquid
tribuat voluptati, diligenter ei tenendum esse eius fruendae mo-
dum. Itaque victus cultusque corporis ad valetudinem referantur
et ad vires, non ad voluptatem. Atque etiam, si considerare volu-
mus quae sit in natura excellentia et dignitas, intelligemus quam
sit turpe difHuere luxuria et delicate ac molliter vivere; quamque
honestum parce, continenter, severe, sobrieque».3 Il cardinal Pal-
1. 11 omne lignum . . . suave*: Gen., z, 9. z. «orane tulit . . . dulciti Orazio,
Ars poet.y 343 («riscuote l'approvazione di tutti colui che ha unito l'utile
al piacevole»). 3. a sin sit quispiam . . . sobrieque»: De off., I, xxx, 106 («ma
se taluno vuol concedere qualcosa al piacere, deve accuratamente moderar-
892 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
lavicino, il quale in quell'aureo suo libretto dell9 Arte della perfe-
zione cristiana esaminò quest'istesso con non minor filosofia di ciò
che in questi libri delle Confessioni fece S. Agostino, e forse con
maggior giudicio e discretezza, fa vedere che uomini da bene e
solidamente religiosi e pii possono ben accoppiare, nella giocondità
e piacere che si trova ne' cibi e nelle bevande, una perfetta mode-
razione e continenza, anzi che dalla soavità che si gusta ne' mede-
simi trarre riflessioni assai alte e sublimi. E' narra che stando se-
dere a tavola col padre . . . gesuita spagnolo non men dotto che
di gran probità di costumi, fra le prime vivande si presentarono
delle fragole inzuccherate e ben rinfrescate ; la stagione era fervente
ed il gesuita spagnolo, che vuol dire di temperamento caldo e
adusto ; sicché gustandole ne trasse tanto piacere e diletto che non
potè contenersi d'esclamare e dire: «or se qui l'uomo trova tanta
giocondità e dolcezza, or che sarà nella gloria del paradiso?».1
Questo fra gl'altri di lodare e benedire il sommo fabro della natura
è il buon uso che ciascun può fare della soavità de' cibi e delle
bevande, e farà forse meglio di ciò che gli schizzinosi fanno di
privarsene con dire sciapitamente che astenendosene offeriscano a
Dio tanti fioretti.
Io non parlo de' religiosi, i quali astretti alle regole de' loro isti-
tuti si privano di molte cose. Essi così facendo adempiscono il lor
dovere e facendo altrimenti sarebbero ingiusti e trasgressori delle
loro regole: «haec lege contraxi»;2 sicome coloro i quali non vo-
gliono sottoporsi a' digiuni, alle astinenze ed altri divieti sopra
si nel goderne. Pertanto il nutrimento e la cura del corpo devono essere
vòlti alla salute e al vigore, non al piacere. E inoltre, se considereremo Pcc-
cellenza e la dignità della natura umana, comprenderemo quanto sia ver-
gognoso poltrire nella lussuria e vivere voluttuosamente e mollemente, e
quanto sia dignitoso vivere parcamente, temperatamente, austeramente e
sobriamente»). 1. Il cardinal Pallavicino . . . paradiso: dell'opera del Pal-
lavicino qui citata (cfr. le note 4 a p. 36 e 5 a p. 792) il Giannonc, nella
polemica contro il rigorismo, utilizza soprattutto il libro 11, Non doversi
infievolir ne7 cristiani la speranza de1 beni eterni come poco verisimìli d* acqui-
starsi, posta la debolezza umana in rispetto alla difficultà della legge divina ecc.
Il Giannone si riferisce particolarmente ai capitoli iv-vn di questo libro,
che riguardano il vizio della gola. La posizione del Pallavicino e molto mo-
derata e tollerante. Cfr. soprattutto il capitolo vi, Quanto la golosità sia
contraria al prò mondano delVhuomo generalmente e allo stesso piacer della
bocca. L'episodio qui riferito, nel libro in, capitolo 11 (p. 293 dell'edizione
di Milano 1666. 1 punti di sospensione sono del Giannone, che cita a senso,
e il nome del personaggio è Antonio Perez). 2. *haec lege contraxi»: «mi
sono obbligato a ciò con una legge ».
LIBRO III • CAP. Ili 893
ciò dalla Chiesa prescritti, a ragione sono riputati riottosi, disubi-
dienti e contumaci, poiché non adempiono il lor dovere ripugnando
alla nostra pietosa e commune madre e non prestandole quella do-
vuta ubbidienza che se gli dee; ma parlo di que' i quali, sciolti da
ogni ligame, affettano una rigorosa astinenza. Essi rifiutano ogn'in-
vito che se gli facci; e pure dovrebbero ricordarsi che N. S. non
rifiutò essere tra il numero dei convitati nelle nozze di Cana Ga-
lilea; né sfuggì gl'inviti fattigli dagl'istessi peccatori e pubblicani.
Alcuni non vogliono cibarsi se non di legumi, e quanto più le vi-
vande riescano sciapite ed insipide a* loro palati, tanto maggior-
mente se ne compiacciono ; e pure dovrebber riflettere che, austera
che fosse la vita del profeta Elia, con tutto ciò Iddio per suo so-
stentamento lo provvedeva per ministerio de' corvi non pur di
pane, ma anche di carne.1 S. Paolo non rifiutava ciò che se gli
metteva innanzi, anzi che quando potesse farlo senza darne scan-
dolo non avrebbe avuto scrupolo di mangiare ristessa carne delle
vittime immolate da' gentili ai loro falsi dei; e ch'egli secondo le
circostanze de' luoghi e de' tempi sapeva abbondare e necessità
soffrire.2 In fine dovrebber avvertire che Cristo S. N. ci diede am-
maestramento che non ciò che si mette dentro la nostra bocca con-
tamina l'anima, ma ciò che n'esce di fuori, di maldicenze, mormo-
razioni, calunnie, spergiuri, menzogne, bestemmie, ed altre ini-
quità.3
Proseguendo S. Agostino ad esaminare i piaceri degli altri sensi
esterni, in quel dell'odorato non molto si dilunga poiché egli dice
che gli odori non eran da lui né ricercati, né rifiutati, ed era appa-
recchiato a starne di senza continuamente; ma i piaceri delle
orecchie sì che lo tenevano ben intricato e dubbioso.4 Anche in
udire con soave artificio cantati i Salmi di Davide avea dubbio se
quel canto, recandogli diletto, non venisse la sua carne a conta-
minare la sua mente, con distorla dal senso delle parole. Sicché
era in continua esitazione se dalla Chiesa dovesse togliersi ogni
sorte di melodia, colla quale suol cantarsi soavemente il Salterio
di Davide, ovvero permettersi. Gli parea più sicuro ciò che l'era
1. lo provvedeva . . . carne: cfr. Ili Reg., 17, 6. a. S. Paolo . . . soffrire:
cfr. rispettivamente I Cor.f 8, 1 sgg., e Philip., 4, 12. 3. In fine . . . iniquità :
cfr. Matth., 15, 11. 4. Proseguendo ... dubbioso: cfr. rispettivamente
Conf., x, xxxii, Ut se geni ad odorum ìllecebras, in Migne, P. L., xxxn,
col. 799, e x, xxxiii, Ut se gerit ad voluptates aurìum, ivi, coli. 799-800.
894 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
stato riferito di Atanasio vescovo di Alessandria, il quale con po-
chissima inflessione di voce faceva risonare i salmi dal lettore, in
modo che pareva più tosto che schiettamente gli pronunciasse che
gli cantasse. Dall'altro canto, quando si ricordava che in Milano
S. Ambrogio permetteva il canto nella sua Chiesa e Futilità che
da quello ne trasse ne* princìpi della sua conversione, non poteva
non commendare l'instituto. Così ondeggiando, e' dice, fra '1 pe-
ricolo del piacere e l'esperienza del giovamento, ancorché non
intendesse in ciò proferire sentenza irrefragabile, pure inchinava
ad approvare la consuetudine del cantare in chiesa, acciocché per
lo diletto delle orecchie si sollevi l'anima nell'affetto di pietà. Ma
quando più gli movea il canto di quello che dovea moverlo la cosa
che si cantava, confessa di peccare e di esser degno di pena, ed al-
lora avrebbe voluto che non mai avesse udito cantare. Di qui i
rigoristi han preso le armi e l'ardire di altamente biasimare la
presente pratica di permettere nelle chiese sinfonie non men d'istro-
menti che di voci, declamando che si fossero i tempii trasmutati
in teatri; tanto gli strepitosi e multiplici suoni e le modulazioni di
tante voci affatto estinguono, cassano e cancellono le parole e le
cose che si cantano, e la moltitudine vi corre unicamente per udir
la melodia, il canto e '1 suono, niente curando di ciò che si canta,
che vien assorbito dallo strepito e romore degli istromenti e dalle
modulazioni de' cantori.
Intorno al piacere degli occhi1 si duole e piange Agostino di
essere pericoloso, pien di lacci ed insidie. Gli occhi, e' dice, amano
delle figure varie e de' vaghi ed ameni colori; queste cose, si lagna
che tutto giorno l'infestavano, né gli davan riposo; ch'erano troppo
lusinghiere e con pericolose maniere condivano la vita del presente
secolo a' suoi ciechi amatori. Ch'egli procurava far resistenza a
gl'inganni degli occhi e sollevare la sua vista a più alti oggetti non
terreni e corporei, ma non sempre gli riusciva di mantenersi ne*
voli sì alti e sublimi. Spesso lo facevan discendere in giù le varietà
di innumerabili lavori ed artifici intorno alle vesti, scarpe, vasi ed
altre opere manuali; anche intorno alle dipinture, alle varie figure,
immagini e statue, tanto di quelle che servano a' necessari e mo-
derati usi umani, quanto di quelle che sono indrizzate alla pietà.
Gli uomini, e' dice, han procurato in ciò di servire al piacere degli
1. Intorno . . . occhi: cfr. Conf., x, xxxiv, Ut se gerit ad oculorum illecebras,
ivi, coli. 800-1.
LIBRO III • CAP. Ili 895
occhi seguendo nel di fuori ciò che ricerca l'artificio, ed abbando-
nano quel che ivi dovrebbero ricercar di dentro, cioè di riconoscer
in quelle più tosto il magisterio del Creatore che il lavoro degli
artefici.
I rigoristi, non sapendo tener né modo né misura, da tutto ciò
conchiudono che deonsi assolutamente fuggire i teatri, i pubblici
spettacoli e le amene vedute;1 condannano i lavori ed il sommo
artificio che si pone negli abiti, ne* vasi, negli apparati; né vogliono
suppellettile molto preziosa, ma semplice e schietta. In brieve per
l'umana vita concedono il solo e puro necessario, togliendo l'utile
ed il dilettevole, ancorché ristretto tra* confini del lecito e dell'one-
sto. Biasimano ed altamente declamano contro i magnifici edifici
delle chiese, dannano le incrostature de' marmi ne' loro muri, le
dipinture, le sculture, le indorature, i preziosi arredi degli altari,
le illuminazioni e le ricche statue, che vorrebbero che fosser di
legno e di creta, non già di eletti marmi, molto meno d'avorio,
d'oro o d'argento o d'altro metallo. Mostrano con ciò non ben in-
tendere la condizione umana, e quanto la natura abbia resi gli
uomini proclivi al magnifico e sorprendente; né esservi cosa che
più gli tragga alla divozione e pietà che queste splendide apparenze,
allettando i più schivi e spingendo i più tardi e morosi. Quanti
sfacendati ed oziosi, i quali marcendo nell'ozio padre de' viziy
non trovarebbero la via per risorgere e torsi dal fango, se non fos-
sero allettati e finalmente spinti da illuminazioni, suoni, canti ed
altre magnifiche apparenze ad entrar nelle chiese, dove per questi
mezzi rientrando in se stessi cominciano poco a poco a risolversi
di mutar vita ed a piacergli i sermoni ed i divini uffici per li quali
apprendono una pietà vera e solida? Tutte queste cose possono
ben accoppiarsi colla morale cristiana quando l'uomo non voglia
abusarsene, e volendole, ora che tutto il mondo è cristiano, e cri-
stiano vecchio, biasimare ed affatto astenersene bisognerebbe, co-
me ad altro proposito disse S. Paolo, «e mundo exire».2
1. 1 rigoristi . . . vedute: la polemica sul teatro, che non è solo tipica del
mondo cattolico (basti pensare allo scontro fra Voltaire e l'antico amico del
Giannone, il pastore ginevrino Jacob Vernet), avrà il suo campione nel
giansenista Daniele Concina, che scriverà contro il teatro il De spectaculis
theatralibus . . ., Romae 1752. 2. Tutte queste cose . . . exire: il Giannone
sintetizza efficacemente i motivi per cui una morale rigorista, che si fondi
sulla lettera del discorso patristico e non tenga conto della storia, sia profon-
damente incivile e irrazionale. Per la citazione di Paolo cfr. I Cor., 5, io.
896 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
S. Agostino in questi libri delle sue Confessioni non prosiegue il
suo esame, sicome ha fatto degli altri, nel senso del tatto; l'abuso
del quale non può oggi ravvisarsi se non fra' coniugati usando del
lor matrimonio; poiché, fuor di essi, ogni lascivo tatto di baci ed
altri toccamenti disonesti in tutto il resto è assolutamente vietato,
onde non ne bisogna esame per fissarne i giusti limiti. Agostino
che sopra se stesso faceva scrutinio de' suoi peccati per confessar-
gli, non avea allora né sposa, né moglie; ruppe gli sponsali contrat-
ti con quella di Milano per viver celibe,1 e ritornato in Affrica
quando scrisse quelle Confessioni era nel sacerdozio ed ammini-
stratore, come e* dice, de* santi sacramenti; e visse dapoi sempre
casto ed in celibato puro e perfetto; onde non ebbe occasione di qui
parlarne. Ma negli altri suoi libri, spezialmente in quello De sancta
virginitate e negl'altri De bono viduitatis ad Iulianam, De continenza,
De bono coniugali, De adulterinis coniugiis, De nuptiis et concupi-
scentia? ne tratta con tanta austerità e rigore fra' coniugati che se
S. Paolo non l'avesse trattenuto, volontieri avrebbe condannate le
nozze, poco importandogli che il mondo verrebbe a finire, poiché,
e* dice, se ne cominciarebbe un altro per gli eletti tutto beato e
felice: «Novi quosdam» e* scrive nel libro De bono coniugali, cap.
io « qui murmurant quid si omnes velint ab omni concubitu absti-
nere, unde subsistet genus humanum ? ». E risponde : « utinam hoc
omnes vellent, multo citius Dei civitas compleretur et acceleraretur
terminus saeculi».3 Ma scorgendo esser questo un caso metafisico
e per dura necessità essendo costretto ad ammettere i matrimoni,
vorrebbe che i coniugati, se fosse possibile, si astenessero da que'
piaceri che seco portano i maritali congiungimenti, che gli reputa
duetti del peccato originale, il qual per essi si propaghi nei posteri,
e che Punico scuopo ed assoluto fine del matrimonio debbia essere
1. Agostino . . . celibe: cfr. Conf., vi, xm, Uxor quaeritur Angustino, e vi,
xv, In locum discedentis concubinae alia succedit, in Migne, P. L., xxxii,
rispettivamente coli. 730-1 e 731 -a. a. Cfr. De sancta virgìnitate lìber
unus, in Migne, P, L., xl, coli. 395-427; De bono viduitatis lìber seu epistola
ad Iulianam viduam, ivi, coli. 431-50; De continentia lìber unus, ivi, coli.
349-72; De bono coniugali lìber unus, ivi, coli. 373-96; De coniugiis adulteri-
nis ad Pollentium libri duo, ivi, coli. 451-486, e De nuptiis et concupiscentia
ad Valerium comitem libri duo, ivi, xliv, coli. 413-74. 3. zNovi quosdam . . .
saeculi»: loc. cit., col. 381 («So di alcuni che borbottano: "Se tutti si aste-
nessero da ogni accoppiamento, come potrebbe continuare a esistere il
genere umano?". Magari lo facessero tutti, il regno di Dio si attuerebbe
molto più in fretta e sarebbe accelerata la fine del mondo »).
LIBRO III - CAP. Ili 897
la sola propagazione della prole. Vorrebbe che gli uomini si pian-
tassero non altrimenti che si fa de' semi colla zappa e col vomere
ne* solchi della terra, senza commozione, senza affetto, senza di-
letazione e senza compiacenza; e ben istrutto non men dalla filo-
sofia che dal proprio [esperimento]1 che ciò sarebbe andar contro
la natura ed esser impossibile [vivere] ; almanco egli esorta che si
usi ogni sforzo di reprimergli e rendergli quanto [meno] sensibili
si possa, e con tutto che conosca ciò non esser in nostro arbitrio,
pure que' diletti fra* coniugi, quando accoppiandosi insieme non
pensino unicamente alla propagazione della prole, l'ha per peccati
se non mortali ad minimum veniali, li quali però se saranno molti e
continuati pure sommergono l'anima: «sed etiam minuta, si ni-
mium plura sint, mergunt ».a Se sono suoi que' sermoni De Sanctis,
i quali comunemente a lui si attribuiscono, nel iv egli fra' peccati
veniali annovera questi, ne' quali il marito inciampa tante volte
quante conosce la moglie: «quoties,» e* dice «excepto desiderio
filiorum, uxorem suam cognoscit».3 E nel lib. Quaest. Evang.
secundum Mat., in fine, uguaglia agl'eccessi che si commettono nel
mangiare e nel bere quando il marito « cum ipsa coniuge concubere
amplius quam oportet».4 Trascriver qui tutti i passi che si leggono
ne' rammentati suoi libri, per i quali tutto ciò apertamente si rav-
visa, non è questo il proprio luogo. Ben saranno manifestati quando
altrove ci sarà data occasione di rammentargli.
Or chi mai avrebbe creduto in uno perduto tra piaceri di Ve-
nere tanta mutazione, tanta nausea ed abbonimento che vorrebbe
che fino i mariti e le mogli se ne privassero? E pure quanto e'
sopra ciò esaggera [e insegna è] contrario non meno alTinstituto
del Sommo Creatore che alla discip[lina e] inveterata pratica della
Chiesa. Iddio unico fabro della natura pose in quei congiungimenti
intense voluttà e piaceri, poiché altrimenti non si sarebbe conse-
1. Qui, e più oltre, tre grosse macchie rendono alquanto ardua la lettura
del manoscritto. Abbiamo perciò messo tra parentesi quadre quanto ci è
sembrato di poter decifrare. 2. « sed etiam minuta . . . mergunt»: non ab-
biamo rintracciato il luogo esatto. Un pensiero analogo nei Sermones de
diversis, sermo ccxcu, De castitate coniugali, 6, in Migne, P. L.t xxxrx,
col. 2299 («ma anche i più piccoli, quando siano numerosi, sommergo-
no»). 3. « quoties . . . cognoscit»: anche qui, come sopra: cfr. loc. cit., 3,
col. 2298 («ogniqualvolta, senza desiderio di prole, conosce la propria
moglie»). 4. «cum ipsa ... oportet»: cfr. Quaestionum septendecim in
Evangelium secundum Matth. hber unus, xvn, 2, in Migne, P. L.t xxxv, col.
I37S («giace con la moglie più di quanto è necessario»).
57
898 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
guito il fine della propagazione. Saviamente, e forse con miglior
filosofia di quella che usò qui S. Agostino, il cardin. Pallavicino
in quel accurato suo libro dell'Arte della perfezione cristiana, av-
vertì che Iddio avea posto maggior diletazione in questo senso che
in quello del gusto, poiché altrimenti gli uomini non si sarebbero
indotti a copularsi insieme, considerando le gravi molestie, le sol-
lecitudini, i dolori, i travagli e le angoscie che seco portano i parti
nelle donne, mentre gli dan fuori alla luce e quando rallevano;
e ne* mariti, adulti che siano, quante moleste cure nel sostentargli,
nel reggergli ed indrizzargli ne* dritti cammini perché non traviano
dal giusto e dall'onesto.1 Chi vorrebbe porsi fra tanti malanni se
non fossero spinti da quel forte pungolo che gli stimola e preme ?
Nel mangiare e nel bere per invogliargli non si bisognavano sì acuti
stimoli, poiché naturalmente ciascun è spinto a conservar sua vita
propria, la qual certamente è più cara e desiderata che la futura
vita della sua posterità. Alla mancanza del cibo e del poto siegue
di necessità la morte, che ciascuno a tutto potere cerca tenerla
da sé lontana quanto più si possa. Fu adunque somma provvidenza
ed infinita sapienza dell'alto e sovrano fabro della natura di con-
dire que' congiungimenti, i quali per se stessi sarebbero schifosi,
con liguori sì soavi e piacevoli, e rendergli desiderabili e focosa-
mente voluti e ricercati.
Non sono già questi piaceri effetti del peccato originale, sicome
l'istesso S. Agostino non potè avanzarsi in dire che fossero gli
altri che sperimentiamo nel senso del gusto e negli altri sensi
esterni; e nello stato dell'innocenza ad Adamo, congiungendolo
con Eva, Iddio disse che crescessero e multiplicassero ; ciocché non
poteva conseguirsi se non per queste vie, seguendo la traccia di
natura e di quell'istinto che Iddio aveva posto nella fabbrica de'
loro corpi; sicome sarà più ampiamente dimostrato quando trat-
tando dei libri della Città di Dio vedremo quanto paradossa e strana
fosse la sua opinione in volere che se Adamo non prevaricava con
Eva di altra guisa si sarebbero piantati gli uomini.2 Gli effetti del
peccato originale si ravvisano in noi per la propensione che ab-
1. Saviamente . . . onesto: cfr. op. cit., libro ir, capitoli vm-x (pp. 168 sgg.
dell'edizione di Milano 1666). 2. sicome . . . uomini: cfr. De evo. Dei, xiv,
xxiv, Quod insontes homines et merito obedientiae in paradiso permanente*,
ita genitalibus membris fuissent usuri ad generationem prolis, sicut caeteris ad
arbitHum voluntatis, in Migne, P. L.t xli, coli. 432-3.
LIBRO III • CAP. Ili 899
biamo più al male che al bene e per quell'insita inclinazione che
abbiamo di abusarci delle nostre passioni, le quali contenute nei
giusti termini e confini sono commendabili, tanto è lontano che
dovessimo affatto spogliarcene per renderci stupidi ed insensati e
peggiori degli animali bruti.
Ripugna eziandio il rigore di questa dottrina alla disciplina ed
alla pratica della Chiesa la quale, se ben richieda ne' matrimoni
per principal fine la procreazione de* figliuoli, non esclude però
l'altro di soccorrere alla nostra debolezza ed umana fragilità; e
per ciò permette che non pure con le quinquagenarie possano
contraersi, ma tra vecchi della più decrepita età, da' quali non vi
può esser speranza o lusinga di prole alcuna. S. Agostino in tutti
que' libri cotanto inculca e ripete quel liberorum procreandorum
causa, formola che i gentili Romani soleano apporre ne' loro con-
tratti matrimoniali; ma noi siamo in differenti casi. Presso i Roma-
ni questo era il principal intento de' matrimoni, la procreazione che
da quelli derivava, affinché la repubblica fosse piena d'uomini li-
beri e legittimi, e per ciò favorirono di tanti privilegi le doti ed i
matrimoni ; per ciò gli proibirono colle quinquagenarie ed imposer
pena a' celibi ; ma essi aveano un altro ricorso per soccorrere l'u-
mana fragilità e debolezza; oltre di permettere impunemente la
semplice fornicazione, aveano un altro accoppiamento lecito e per-
messo qual era il concubinato1 da essi chiamato semìmatrimonio,
dove non ricercavasi quel proposito di congiungersi liberorum pro-
creandorum causa, ma si prendeva la concubina per soccorrere alla
fragilità e perché vi fosse in casa chi avesse cura de' loro corpi e
delle cose domestiche. Ma fra' cristiani oggi non si riconosce altro
accoppiamento lecito che il solo matrimonio, il quale dee soccorrere
ed all'uno ed all'altro; ond'è che S. Paolo ammoniva quelli che
non potevano contenersi, che si maritassero.3 Per questa ragione
providamente dalla Chiesa non fur proibite le nozze colle quinqua-
genarie, anzi permesse tra' vecchissimi ancorché da quelli non si
possa aver prole. Tutti questi adunque, a' quali possiamo aggiun-
gere anche gli sterili, secondo l'autore di quel sermone che si attri-
buisce a S. Agostino, saranno in continuo peccato, ed ancorché
veniale come che abituale e permanente gli porrebbe in un evi-
1. aveano . . . concubinato: ancora una riconferma delle sue tesi sul concu-
binato. 2. S. Paolo . . . maritassero: cfr. I Cor., 7, 9.
900 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
dente e certo pericolo di sommergere le loro anime, e se così fosse
non dovrebbero maritarsi in eterno.
Or i nostri rigoristi non ben prima esaminando le cose, seguono
alla cieca ciò che S. Agostino i[n] que' libri scrisse; anzi, non ben
soddisfatti di quelle restrizioni e rigori, aggiungono altri ceppi e
catene. Consigliano alle mogli, dove trovano terren più molle, che
si astenghino di far vezzi a* mariti, che, se non ricercate per adem-
pire al precetto di S. Paolo, non facciano a' medesimi copia de* loro
corpi; sfugghino al possibile ogni tatto che potesse recargli diletta-
zione e si congiunghino unicamente col sol proposito e fine della
prole. Sono arrivati sino a proibirgli il tatto delle carni delle altre
membra del lor corpo e che per ciò le lor camicie da per tutto fosser
cucite e ben serrate, lasciando solamente un forame per dove il
vomere possa entrar nel solco per piantar l'uomo:1 risum teneatis
amici?' Più volte si sono intese da queste schizzinose alte querele
e rimproveri contro Dio istesso, il quale dovea in altra maniera di-
sporre la generazione, e non in questa così schifosa, sozza e vergo-
gnosa. Non fu dunque a proposito che venisse il P. Sanchez3 ge-
suita col suo trattato De matrimonio per confondergli e liberare
i tapini mariti e le spigolistre mogli da tanti lacci e catene, sic-
ché con maggior libertà potessero valersi de' loro matrimoni ?
cap. mi
De9 gomoristi, arminiani* e giansenisti.
Da questi libri delle Confessioni, e dalle dispute che S. Ago-
stino ebbe co* pelagiani e semipelagiani, vennero le tante brighe
i.per dove . . . Vuomo: tipico riecheggiamento boccacciano. z. risum te-
neatis amici: cfr. Orazio, Ars poet., 5. 3. Del teologo e gesuita spagnolo
Tomàs Sanchex (1550 circa - 16 io) il Giannone cita qui i De sondo matri-
monii sacramento disputationum libri, Genuae (Madrid) 1602-1605, in tre
volumi. 4. gomoristi, o meglio gomaristi, come anche lo stesso Gianno-
ne scrive più oltre, sono i seguaci di Francois Gomar (1563-1641), teo-
logo protestante belga. Cfr. i suoi Opera theologica omnia, Amstelodami
1644, in tre volumi. Il Gomar ebbe come collega a Leida Arminio,
contro cui condusse una lotta senza quartiere che divise la Chiesa olan-
dese. Causa di questa lotta le teorie più mitigate di Arminio sulla pre-
destinazione, che il Gomar, seguace ortodosso del calvinismo, accusava
di semipelagianesimo. - arminiani: seguaci di Jacob Harmensz (Armi-
nio, 1560-1609), discepolo di Théodore de Bèze a Ginevra; nel 1603
ebbe la cattedra di teologia a Leida. Inseritosi nella polemica fra supra-
lapsarì e infra-lapsari a difesa dei primi e del Beza, sostenne, in nome del
LIBRO III • CAP. IV 901
ed inestricabili contese intorno alla dottrina della grazia e del
libero arbitrio. Gli uomini curiosi, non contenti di quanto per la
Scrittura Santa fu a noi rivelato dalla divina grazia, ciocché avreb-
ber dovuto bastare per la nostra salute, vollero più in dentro spiare
come ed in qual maniera operi interiormente nelle nostre anime
la grazia. Vollero saperne i minuti progressi: la divisero in tanti
gradi; se ne formò una nuova scienza ed una nuova nomenclatura;
in breve sopra quattro parole di S. Paolo in discorso di tempo
vennero a comporsi tanti libri ch'empiano oggi una ben ampia
biblioteca. Gli antichi Padri prima di S. Agostino non ebbero tanta
curiosità di indagare sì sottilmente il quomodo e furon contenti di
quanto da' sacri libri era stato rivelato: avanzarsi più oltre ri-
putavano temerità e vana ed inutile curiosità.1 Pure presso i
gentili, come si legge in Omero,2 entrò il dubbio se i dii ispiras-
sero nelle menti umane le azioni grandi ed audaci, ovvero l'uomo
facesse dio il suo proprio volere ? « Dii ne », disse Niso ad Eurialo
presso Virgilio, o pure noi stessi facciamo dii le nostre cupidità?3
Ciocché il nostro Torquato imitandolo espresse nella persona di
Clorinda pagana, quando dimandò ad Argante se quel pensiero
che gli venne di andar a brugiar la torre in mezzo a* nemici gliele
avesse Dio ispirato:
O Vuom del suo voler suo Dio si face?4.
Ma non si legge tra' loro teologi 0 filosofi sopra ciò nata briga o
contrasto alcuno, né fattosene tanto strepito e fragasso, quanto poi
da' nostri fu fatto. S. Agostino, disputando col solito suo fervore ed
ardenza contro i pelagiani, mancò poco che riportando tutto a
Dio non togliesse affatto negli uomini il libero arbitrio, almeno
per ciò che riguarda nelFoperare il bene. In questi libri delle
libero esame, che la dottrina del decreto assoluto di Dio faceva Dio stesso
autore del peccato e ne restringeva la grazia, dannando senza speranza la
gran massa degli uomini. Fu per la tolleranza di dottrine diverse in seno
al protestantesimo. Gli si scatenò contro il Gomar, che provocò una vera
e propria persecuzione degli arminiani. Fra i seguaci più illustri di Arminio
vi fu il Grozio, che si ispirò alParminianesimo nell'opera De ventate reli-
gione christianae, profondamente conosciuta e amata dal Giannone. 1. Gli
antichi ... curiosità: cfr. D. Aulisio, Delle scuole sacre cit., tomo 11,
cap. xiv, Che la teologia non cerca ti come, pp. 63 sgg. 2. come si legge in
Omero: cfr. Od., iv, 712-3. 3. Dii ne . . . cupidità: cfr. Aeri., IX, 184-5:
«Nisus ait: diine hunc ardorem mentibus addunt, / Euryale, an sua cuique
deus fit dira cupido?». 4- Oer. Uh., xil, 5.
902 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
Confessioni, poich'egli avea sempre in mano le epistole di S. Paolo,
e la sua conversione la riputò simile a quella che a questo ap-
postolo accadde, a ciò che S. Paolo scrisse di sé accrebbe S.
Agostino maggiori e più forti espressioni in narrando il suo
cangiamento. S. Paolo nell'atto istesso che stava perseguitando i
novelli cristiani fu in un tratto da impensato e straordinario colpo
di vigorosa e potente mano sottratto dal perverso stato nel qual
era, e non pur tutto mutato, ma reso vaso d'elezione ed eletto
appostolo delle genti; a ragione adunque cotanto lodava e ma-
gnificava la grazia del Signore e che gli uomini senza di quella
niente possono e niente vagliono, e che tutto il nostro bene dob-
biamo riconoscerlo da Dio, né aver presunzione d'esserne noi la
cagione, ovvero per nostri meriti Iddio usar con noi tanta benifi-
cenza, ma esser un suo puro e gratuito dono. S. Agostino, an-
corché posto in altre circostanze, non persecutore, ma sol dubbioso
ed esitante, intesa ch'ebbe quella voce «tolle, lege»,1 che credutala
procedente da Dio immantinente mutò vita, credenza e costumi. In
queste Confessioni ne le rende per ciò tante lodi e grazie, e confessa
essere stato il suo cangiamento tutto lavoro della sua alta e pietosa
mano. In far questo, troppo a minuto e sottilmente va indagando
le tracce che Dio tenne; e vuole che in questo suo cangiamento
egli niente vi avesse cooperato, ma tutto fosse stato effetto della
sua grazia ; trascorre dapoi a generalmente diffinire che gli uomini
niente contribuiscono nel bene, ma tutto sia opra di Dio ; sicome
al contrario nel male niente Iddio c'influisca, ma tutto sia dell'uo-
mo. In breve il volere ed operare il bene vien unicamente da
Dio e l'uomo non vi ha parte alcuna; né meno dee vantarsi di
avere alcun merito per cui forse Iddio si movesse a concedergli la
sua grazia; ella è tutta gratuita e data senz'alcun nostro precedente
merito. In oltre vuole che le orazioni, le preghiere istesse che fac-
ciamo a Iddio di concedersi la sua grazia, quest' istesso sia pur effet-
to della medesima senza la quale noi per noi soli non potremmo
disporci a farle. In fine arriva tanto in punta e nell'ultime estre-
mità che non si sgomenta di dire che questo istesso conoscere di
non poter pregarlo, senza che prima non ce l'abbia egli concesso,
sia pure effetto di sua grazia; e così più oltre spingendoci arriva-
remo certamente all'infinito.
i. a tolle, lege»: cfr. Conf., vili, xn, Vocis admonitu quomodo totus conversiti,
in Migne, P. L., xxxn, col. 762 («prendi, leggi»).
LIBRO III • CAP. IV 903
Ne* libri De natura et gratta cantra pelagianos, De grafia Christi
contra Pelagìum et Celestinum, e negli altri De praedestinatione et
gratta, De praedestinatione Dei et sanctorum, De grafia et libero
arbitrio,1 assai più a minuto e sottilmente e con una inarrivabile
metafìsica tratta di questa materia; ed i suoi trasporti e forti espres-
sioni saranno notati quando spezialmente di questi libri tratteremo.
Il monaco Pelagio2 e Celestino3 suo discepolo, che fiorirono nel
V secolo a' suoi tempi, calcando opposte vie diedero in un'altra
estremità. Pelagio, filosofando sopra la grazia non co' principi di
S. Paolo, ma più tosto di natura, pose Puomo per ciò che riguarda
il suo operare in una tal indipendenza dalla divinità che tutto
riportava al suo libero arbitrio e niente dava al Creatore. Vennero
poi i semipelagiani,4 i quali postosi in mezzo pretesero com-
porre i discordanti pareri, concedendo qualche cosa a Iddio, ma
molto più all'uomo. Furiosamente furono attaccati da S. Agostino,
il quale co* suoi libri dimostrò i loro errori con tanto vigore ed ap-
plauso che gli uni e gli altri furono per differenti concili condan-
nati. Le dispute si calmarono e pareva che tutto fosse in riposo e
tranquillità, sicome insino al IX secolo non se ne fece alcun motto
ed i monaci attendevano ad altro. Ma in questo IX secolo surse
I. Cfr. De natura et grafia ad Timasium et Iacóbum contra Pélagium liber
unus, in Migne, P. L., XLIV, coli. 247-90; De gratta Christi et de peccato
originali contra Pélagium et Coelestium libri duo, ivi, coli. 359-410; De
praedestinatione Sanctorum liber, ivi, coli. 959-92; De gratta et libero arbitrio
ad Valentinum et cum ilio monachos liber unus, ivi, coli. 881-912; Liber de
praedestinatione et gratia, in P. L., xlv, coli. 1665-78; De praedestinatione
Dei, ivi, coli. 1677-80; Epistola de gratia et de libero arbitrio, ivi, coli. 1793-
802. 2. Pelagio (354-427), di origine inglese, vissuto a Roma e morto
nella regione di Alessandria, sviluppò in morale una dottrina di rigorismo
ascetico, in opposizione ad ogni teoria della fede senza le opere. Teologica-
mente fu sostenitore déiVimpeccantia, adempimento integrale della legge
divina. Accentuò la responsabilità dell'uomo e combatté la dottrina del
peccato originale, affermando la totale libertà dell'uomo, non contamina-
ta all'origine. 3. Celestino: Celestio (morto circa nel 431), probabilmente
italico. Si incontrò a Roma con Pelagio nel 405 e ne accettò la dottrina, ma
rifiutandone il rigorismo e sviluppando il pelagianesimo in senso raziona-
listico e naturalistico. Combatté la pratica del battesimo dei bambini e negò
l'esistenza del peccato originale. Il pelagianesimo si estinse nel V secolo.
4. semipelagiani: semipelagianesimo è il nome dato nel XVII secolo al mo-
vimento teologico del V secolo sorto m reazione alla teoria della grazia di
sant'Agostino. Gli iniziatori furono Cassiano, Vincenzo da Lérins e Fausto
di Riez. Il semipelagianesimo rifiuta il pelagianesimo di Celestio, ma vuole
salvaguardare il Ubero arbitrio. Contro l'idea agostiniana della «massa
dannata», sostiene l'universalità dell'appello divino. Il semipelagianesimo
fu condannato nel 529 al concilio di Orange.
904 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
Gottescalke1 monaco benedittino, il quale rivoltando i libri di
S. Agostino spinse più oltre la sua dottrina e cominciò assai più
duramente a dogmatizare sopra questa materia privando assolu-
tamente l'uomo di sua libertà. Sicché per occorrere all'errore e
fargli argine fu la sua dottrina condennata ed egli posto in arresto.
Si ripresse con ciò il suo corso; né fino al secolo XIV più parlos-
senc. Tornò in questo secolo a ripullulare in Inghilterra per To-
maso Bradwardin,2 il quale prese a difendere la dottrina di Got-
tescalke, e non pur con prediche e sermoni, ma con un libro che
compose, ma non fece gran progressi, né il suo libro fu dato
alle stampe se non molto tempo dapoi, nel XVII secolo. L'eresie
poi di Lutero e di Calvino rinovellarono queste dispute; poiché
questi, non altrimente che Gottescalke, tirando troppo in punta la
dottrina di S. Agostino, venivano in fine a togliere all'uomo la
libertà ed arbitrio nelPoperare; sì che fu mosso il concilio di Trento
fra gli altri loro errori a condannarne la dottrina.
Non si quietarono con tutto ciò gl'ingegni umani, ed impre-
sero a filosofar sopra questa materia in altra guisa per non dare
nell'una o nell'altra estremità. Sursero i gomaristi, i quali mo-
stravano d'allontanarsi sì bene dalla durezza della dottrina del
monaco Gottescalke, ma s'appigliarono a quella di Lutero e di
Calvino credendola più discreta. Sursero nel tempo istesso gli
arminiani nomati anche remostranti, i quali temperavano assai più
la dottrina di Calvino, e la loro procuravano di accordarla ed avvi-
cinarla a' sentimenti della Chiesa.
Si attaccarono dapoi nello stesso secolo XVI sopra il medesimo
soggetto altre dispute fra' cattolici stessi. Il famoso Bayus3 ne'
suoi libri sparse più proposizioni troppo dure ed avanzate sopra
1. Gottescalkei Gottschalk von Orbais (801-870 circa), monaco sassone, stu-
diò a Fulda con Rabano Mauro. Fu il protagonista della polemica predesti-
naziana nel IX secolo. Sostenne infatti la doppia predestinazione : alla gra-
zia e alla dannazione, ma fu contrario alla predestinazione al peccato.
Studioso di sant'Agostino, si rifece al suo pensiero. Cfr. CEuvres théologi-
ques et grammaticales de Godescalc d' Orbais, Louvain 1945. 2. Tomaso
Bradwardin: Thomas Bradwardine (1290-1349), teologo, filosofo e scien-
ziato inglese. La sua opera in questione è la Stimma de causa Dei contra
Pelagium, Londini 16 18. Professò un determinismo che lascia alla libertà
individuale ben poco margine, traendo le conseguenze da sant'Agostino,
di cui fu grande studioso. 3. Bayus: Michel de Bay (15 13-1589), teologo
belga. Studiò sant'Agostino con Jan Hessels. Per lui l'uomo ha perso con il
peccato originale l'integrità. Distingue però libertà da necessità, e libertà
LIBRO III • CAP. IV 905
la materia della grazia in pregiudicio della libertà dell'uomo, che
bisognò condannarle come eretiche e troppo dure. Ma in Fian-
dra per quest'istesso le contese divennero più strepitose ed ar-
denti. In Lovanio nel 1586 Lessio, celebre teologo gesuita, in-
segnava proposizioni contrarie a quelle di Bayus sopra la pre-
destinazione e sopra la grazia; ma i Domenicani portarono i suoi
scritti alle facoltà di Lovanio e di Doiiay, e tanto fecero sicché
ottennero che fossero le proposizioni di Lessio condannate.1 Ecco
accesa tra questi ed i Gesuiti fiera ed ostinata contesa. Il pontefice
Sisto V,2 avvocando a sé la conoscenza di quest'affare, impose
silenzio agli uni e agli < altri >,3 comandandogli che non più fra
loro sopra ciò disputassero. Ma che prò? Vie più feroci si ri-
presero le contese. Papa Gregorio XIV4 rinova le medesime proi-
bizioni, ma tutto fu inutile e vano. Dall'altra parte in Ispagna
s'inasprirono le discordie per Lodovico Molina5 gesuita. Questi
in Lisbona nell'anno 1588 pubblicò un libro dove credea aver tro-
vata la maniera per accordare insieme la grazia col libero arbi-
da servitù. L'uomo ha ancora la libertà da necessità, mentre è servo e schia-
vo del peccato. Il sacrificio di Cristo ristabilisce la possibilità di una nuova
giustificazione e quindi integrità. 1. In Lovanio . . . condannate: per im-
porre le loro tesi, nel 1587, de Bay ed Hendrik van Kuyck attaccarono il
Lessio (cfr. la nota 1 a p. 877) e i Gesuiti di Lovanio sulla dottrina della
grazia, censurando trentaquattro proposizioni del Lessio; una risposta
questa alla condanna che le proposizioni baiane avevano riportato con Pio V
nel 1567 con la bollai?*; omnibus affectionibus. - Doiiay: Douai, nella Francia
settentrionale, sede di una famosa Università. 2. Sisto V: Felice Peretti
(1520-1590), di origine marchigiana. Impose al de Bay e al Lessio silenzio
mediante il proprio nunzio Frangipani (1588). 3. altri: restauriamo la
parola, caduta per errore nel manoscritto in seguito a correzione. 4. Gre-
gorio XIV: Nicolò Sfondrato da Siena (15 35-1591), successore di Sisto V,
morì dopo dieci mesi di papato, senza poter far altro che rinnovare il si-
lenzio imposto da Sisto V, pur essendo favorevole alle tesi dei Gesuiti.
5. Luis de Molina (1536-1600), gesuita spagnolo. Essendo passata in
Spagna la polemica sorta fra de Bay e Lessio a Lovanio, ed essendo di-
ventata di fatto polemica fra Domenicani e Gesuiti, il Molina cercò di dare
una sistemazione alla teoria gesuitica sulla grazia. Il Lessio, per tutelare il
libero arbitrio, negava l'efficacia intrinseca della grazia. Il Molina cercò di
conciliare le tesi gesuitiche con quelle domenicane applicando alla grazia
il concetto di prescienza divina dei futuribili. Cfr. infatti Concordia liberi
arbitrii cum gratiae donis, divina praescientia, providentia} praedestinatione
et reprobatione . . ., Ohssopone 1588. Vi si sostiene che Dio conosce la
realtà in quanto possibile, in quanto futura, in quanto potrebbe esistere
dipendentemente dalla libera scelta di una volontà creata. Tale libera
determinazione è un futuribile, che Dio conosce, ma non predetermina.
Dal Molina nacque il molinismo, che è anche una reazione di parte cattolica
al De servo arbitrio di Lutero.
906 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
trio. Egli rifiuta i decreti assoluti di Dio a riguardo delle azioni
libere e la premozion fisica, ma sostiene la predestinazione gra-
tuita come procedente da Dio solo. Molina credette aver trovato
un temperamento per conciliare il libero arbitrio colla prescienza
di Dio, la providenza e la predestinazione. E* dice che il libero
arbitrio consiste nella facoltà di fare o di non fare; di fare una
cosa, di sorte che Puom possa fare il contrario. Egli concede che
l'uomo per le sole forze della natura non può niente fare fuor
dell'ordine della grazia, ma aggiunge che se bene Iddio distri-
buisce come vuole le grazie che G. Cristo ha noi meritate, nulla-
dimanco accommoda le leggi di questa distribuzione all'uso del
libero arbitrio, alla condotta degli uomini ed a* loro sforzi. Così
l'uomo per operare nell'ordine della vita eterna non ha bisogno
che d'una grazia preventiva per eccitare il suo libero arbitrio, e
che Iddio non ricusa di darla, sopra tutto a que' che la domandano
con ardore; ma dipende dalla loro volontà di corrispondere o non
corrispondere a questa grazia. Altre sottili speculazioni diede fuori
il P. Molina intorno alla predestinazione ingegnandosi di confor-
marle a quelle di S. Tommaso, ma i Dominicani della sua dottrina
non ne furon punto soddisfatti. Uscito che fu il suo libro, i teologi
dell'ordine di S. Domenico, spezialmente quelli di Salamanca, fu-
riosamente si opposero. Domenico Beanez1 sottilmente l'esamina
e crede averci trovate più proposizioni erronee, le quali furono
denunciate all'Inquisizione di Portogallo. I Gesuiti vogliono di-
fenderle e qui s'accendono fieri contrasti, talché papa Clemente
Vili, avocando alla S. Sede la conoscenza, ordinò che fossero in
Roma esaminate per diffinirle. A questo effetto istituisce nel 1597
una Congregazione di più cardinali per esaminarle chiamata De
auodliis.2. Il peggior partito che potesse prendere; poiché vie più
1. Domenico Beanez: Domingo Banez (1528-1604), teologo domenicano,
interprete di san Tommaso. Interrogato sul citato libro del Molina, vi
trovò proposizioni condannate dalla Chiesa e pubblicò con altri Domeni-
cani l'Apologia fratrum praedicatorum . . . adversus quasdam assertiones
cuiusdam doctoris L. Molinae, Madridi 1595, dove si accentua la sovranità
e il dominio di Dio sulla creatura. Il Banez diede origine al bannesianesimo,
caratterizzato da una rigorosa aderenza al tomismo. L'azione di Dio non è
solo necessaria, ma è ontologicamente anteriore ad ogni attività della
creatura. z.I Gesuiti. . . auodliis \ la Congregazione De auxiliis divinae
gratiae fu istituita da Clemente Vili, Ippolito Aldobrandino (1536-1605),
per dirimere le controversie fra Gesuiti e Domenicani. Nel 1597 una com-
missione di cardinali esaminò le opere del Molina, di cui censurò sessan-
LIBRO III • CAP. IV 907
le parti contendenti furon posti in moto. I consultori tratti da'
Dominicani dimandavano al papa la condennazione di Molina;
ma il papa per non precipitar la decisione nomina nuovi con-
sultori i quali ridussero tutta la disputa a sapere se refficacità
della grazia dipende da una premozion fisica che determina la
volontà, come volevano i Domenicani, ovvero se PefEcacità della
grazia dipende dalle circostanze per le quali Iddio accorda la
grazia e le quali fanno che la volontà per il buon uso ch'ella ne
farà la rende efficace, come pretendevano i Gesuiti. Sopra queste
astratte e metafisiche sottigliezze si tennero trentasette assem-
blee nelle quali non si potè niente conchiudere, ed il papa Cle-
mente Vili, sopragionto dalla morte nel 1605, non potè aver
questa consolazione di poterle decidere. Leone XI1 che gli succes-
se per la brevità del suo pontificato né pure potè terminarle. Venne
Paolo V2 il quale fece replicar altre ed altre congregazioni, le quali
tutte riuscirono infruttuose, sicché pensò imitando Sisto V d'im-
poner perpetuo silenzio alle due parti contendenti, commandandole
che più non ne parlassero, riputando saviamente tali questioni
vane ed inutili, le quali non meritavano né esser decise né riprese.
Questo divieto però non impedì che i loro chiostri non risuonas-
sero di altercazioni e di tumulti e le loro penne non fornissero le
biblioteche di nuovi libri. Si compilarono dall'una e l'altra parte
più volumi. In fine un frate dominicano a* nostri tempi si applicò
a racorre memorie sì care e preziose di fatti sì illustri e memorandi
per conservarli alla posterità; ne compilò una ben ampia istoria
che in un grosso volume in foglio diede alle stampe sotto questo
titolo: Historia congregationum de auxiliis? Gran pruova della fe-
condità dell'ingegno umano, il quale non pur dallo scibile, ma dal-
V inscibile stesso sa cavarne tante sottili questioni e dettare sì ampi
tuno proposizioni. Nel 1600 la condanna si limitò a ventuno proposizioni.
Con Paolo V la polemica riprese e nel 1606 furono condannate quaranta-
due proposizioni molimstiche. Nel 1607 la Congregazione fu sciolta da
Paolo V. 1. Leone XI: Alessandro de' Medici (1535-1605), eletto nel 1605,
fu papa per pochi giorni, z. Paolo V: Camillo Borghese (1552-1627),
sotto il cui pontificato si verificò il conflitto con Venezia. 3. In fine . . .
auxiliis: si tratta di Jacques-Hyacinthe Serry (1658-1738), teologo dome-
nicano nato a Tolone e morto a Padova. Gallicano, fu allievo di Noèl Ale-
xandre, e perseguitato perché accusato di cripto-calvinismo. La sua opera,
conosciuta dal Giannone, che la possedeva e che gli ha ispirato queste pa-
gine, è la Historia congregationum de auxiliis divinae gratìae, pubblicata
a Lovanio nel 1700 e ripubblicata ad Anversa nel 1709.
908 APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
e numerosi volumi. Da ciò avvenne che ad alcuni faceti ingegni
proclivi a* scherni ed alle derisioni si fosse data occasione di dire
dalle loro sottili, astratte e metafisiche opinioni non potersi ricavar
altro se non d'esser la grazia un nescio quid, e que' che si son serviti
della parola grazia doppo S. Agostino sino al presente non sap-
pian essi medesimi ciò che si vogliano dire.
Ora di nuove brighe mi conviene far parole,1 non meno strepi-
tose che le già dette, spezialmente in Francia e nelle Fiandre, nate
pure per la stessa cagione. Giansenio,* vescovo d'Ipri nella Fian-
dra spagnola, avendo fatti profondi studi sopra Popere di S. Ago-
stino, credette di avere sviluppati gl'intricati sentimenti di questo
dottore sopra la predestinazione e sopra la grazia e darne un'idea
più chiara e distinta, onde compose un libro intitolato Augustinus
Jansenii\ ma nel 1638 dalla morte prevenuto, non potè darlo alle
stampe lasciandolo ms. e dichiarando ch'egli lo sottometteva al
giudicio della Santa Sede. Questo libro doppo due anni della sua
morte nel 1640 comparve impresso in Lovanio, e Framondo,3 il
quale ne fu l'editore, vi aggiunse del suo un parallelo della dottrina
de' Gesuiti con gli errori de' semi-pelagiani. Ciocché fu muovere
il vespaio ed irritare i Gesuiti a vendicarsi dell'ingiuria d'essere
paragonati a' semi-pelagiani. L'opera di Giansenio era divisa in
tre tomi. Nel primo, ch'è più istorico che dogmatico, continente
otto libri, si espongono gli errori de' pelagiani e de' semi-pelagiani.
Il secondo riguarda lo stato dell'innocenza, cioè avanti il peccato
d'Adamo, nel quale l'uomo interamente libero godeva d'una grazia
sottomessa alla sua libertà. Nel terzo trattasi ampiamente in diece
libri della grazia del nostro Redentore nello stato della coruzione,
nel quale noi siamo, e dove la grazia opera d'altra maniera; poiché
in questo stato, e' dice, l'uomo ha bisogno d'una grazia invincibile
che lo facci necessariamente operare. In fine Giansenio insegna che
G. Cristo per sua morte e suo merito non ha resi tutti gli uomini
meritevoli che delle sue grazie generali, ma non già dell'invinci-
bile,4 la quale dipende unicamente dal suo volere ed arbitrio senza
1. di nuove . . . parole: cfr. Dante, Inf.y XX, 1 : «Di nova pena mi conven far
versi». 2. Giansenio; Comelis Jansen (1 585-1 638), vescovo di Ypres dal
1635. Cfr. A. Gazier, Històire generale du mouvement janséniste depuis $e$
origines jusqu'à nosjours, Paris IQ345, in due volumi, 1, pp. 3 sgg. 3. Fra-
mondo: su Libert Froidmund (Fromundus) cfr. A. Gazier, op. cit., 1, pp.
45-7. 4. invincibile: correggiamo F« invincile» del manoscritto.
LIBRO III • CAP. IV 909
che l'uomo vi abbia parte alcuna. Questa dottrina, tratta da' libri
di S. Agostino, rinovò le precedenti dispute e credutasi contraria
alle proibizioni già emanate dalla S. Sede, papa Urbano Vili1
ad istigazione de' Gesuiti nel 1644 condennò il libro di Giansenio
e la sua bolla fu ricevuta ne' Paesi Bassi. Ma in Francia, ove
Giansenio avea teologi dal suo canto non men forti che numerosi,
non ebbe il medesimo successo. Antonio Arnaldo,2 dottor della
Sorbona, prese la difesa del libro e de' sentimenti del vescovo d'Ipri
con tanta forza e vigore che diede molto che fare a* teologi del
contrario partito. Si videro nel 1644 e I^45 più Apologie3 in difesa
di Giansenio e dall'altra parte altre tante risposte. Tutta la Fran-
cia era in moto ed i vescovi ed i religiosi non men dell'uno che
dell'altro sesso, tra lor divisi, chi aderiva ad un partito, chi ad un
altro; infoio che nel mese di luglio dell'anno 1649, estratte dal
libro di Giansenio cinque proposizioni, non fossero presentate alla
facoltà de' teologi di Parigi per esser esaminate e censurate.4 Roma
in questo stato di cose avvocò a sé l'affare nell'anno 1650 e nel
seguente 1 651 fu posto ad esame. I discepoli di Arnaldo e gli altri
parteggiani di Giansenio inviarono a Roma loro deputati per impe-
dire la condanna delle cinque proposizioni, credendole cattoliche;
dall'altra parte que' vescovi ch'erano del partito contrario man-
darono i loro per sollecitare la condanna. Fu formata una congrega-
zione de' cardinali e data facoltà alle parti contendenti di allegare
lor ragioni: ciocché fecero non meno in voce che in iscritto com-
pilando più allegazioni, le quali furon ricevute da' consultori per
esaminarle. I Gesuiti furon in rivolta e si dieder con molto vi-
gore e diligenza a procurarne la condanna. I defensori di Giansenio
procuravano tirare dal lor canto i Domenicani, dandogli a sentire
che la dottrina contenuta in quelle cinque proposizioni fosse la
stessa di S. Tomaso. In oltre trassero, per rendergli il contro-
cambio, da' libri de' Gesuiti cento proposizioni e le presenta-
rono a' consultori perché fosser condennate. Ma in fine la vinsero
i Gesuiti. I consultori stimarono che le cento proposizioni non
s'appartenessero alla loro conoscenza e fossero estranee di quello
che si trattava. In breve le cinque proposizioni furono condannate
1. Urbano Villi vedi la nota 5 a p. 149. 2. Antonio Arnaldo: Antenne
Arnauld (1612-1694), il maggior rappresentante del giansenismo francese.
Cfr. A. Gazier, op. cit., I, cap. I, pp. 1-18. 3. Si videro . . . Apologie:
cfr. ibid.y I, pp. 80-5. 4. infino che . . , censurate: cfr. ibid., I, p. 85.
910 APOLOGIA DE» TEOLOGI SCOLASTICI
ed il papa Innocenzio X neir ultimo di maggio del 1653 ne promulgò
bolla, la quale fu mandata in Francia e nell'altre Chiese.1 In luogo
di estinguer Pincendio, maggiormente in Francia si vide acceso;
poiché i difensori di Giansenio, entrati in collera di vederle conden-
nate e riputando essersegli reso manifesto torto, non si ritennero
di declamare contro una sì manifesta ingiustizia, concessi la cre-
devano, ed oltre ciò diedero alle stampe una Relazione satirica con-
tro i consultori e' giudici trattandogli da ignoranti e sordidi e che
fosser stati da' Gesuiti corrotti, sotto il titolo Journal du Sieur de
Saint Amour* scrittura cotanto maledica e rabbiosa che l'istesso
Giacomo Basnage,3 ministro de' riformati a Rotterdam e poi a
L'Aja, solea dire che se si avesse a pubblicare una satira contro la
Chiesa e corte di Roma non dovrebbe farsi altro che di ristampare
questo Giornale.
I giansenisti, vedendo che la bolla del papa era stata ricevuta
dal clero di Francia e che il re aveala fatta registrare in diversi
parlamenti, ricorsero ad un altro scampo dicendo ch'essi accorda-
vano le cinque proposizioni essere state giustamente condannate,
ma che quelle così ed in quel senso ch'erano state condennate,
non si trovavano nel libro di Giansenio ; almanco le quattro ultime ;
e la prima in Giansenio non si leggeva in quel senso ch'era stata
condennata. Che questo era un error di fatto del quale niuno era
esente, onde la bolla non impediva che ciascuno non potesse avere
il libro di Giansenio per cattolico come prima. Questo sutterfugio
fu tale che pose l'affare a nuovo esame e diede luogo ad un nuovo
processo. Papa Alessandro VII4 successore di Innocenzio X fu ob-
bligato a far di nuovo esaminare il libro di Giansenio. Non poteasi
però sperare decision contraria, la quale avrebbe qualificati i primi
consultori per ignoranti o corrotti; onde nel mese di ottobre del
1656 fu deciso che le proposizioni erano state condannate come
estratte dal libro di Giansenio, e che devono esser proscritte nel
senso medesimo che Giansenio l'avea sostenute. Questa nuova bol-
1. In breve . . . Chiese: cfr. tbid.t 1, p. 86. Innocenzo X: Giambattista Pam-
phili (1574-1655), papa dal 1644. 2. Journal . . . Amour: Louis Gorin de
Saint- Amour (1619-1687) giansenista, rettore della Sorbona, famoso per
il Journal de Mr. Saint-Amour . . . de ce qui s'estfait à Rome dans V affaire
des cinq propositions . . ., s. 1. 1663, messo all'Indice nel 1664. 3. Jacques
Basnage (1653-1723), pastore protestante, storico e politico di origine fran-
cese. 4. Alessandro VII: Fabio Chigi (1599-1667), avversario dei gian-
senisti.
LIBRO III • CAP. IV 911
la del papa1 fu pure ricevuta dal clero di Francia ed i Gesuiti, di ciò
non contenti, spinsero le cose più innanzi e fecer sì che il clero
ed i vescovi formassero un nuovo formolario dov'erano inserite le
cinque proposizioni e che niuno potesse aspirare a' gradi e dignità
ecclesiastiche se prima non giurasse d'averle per erronee e conte-
nute nel libro di Giansenio. Così tante dispute sopra cose astratte
e metafisiche si videro produrre effetti reali e fisici. La Chiesa di
Francia si vide in maggiori turbolenze, poiché non per ciò i capi del
contrario partito cessarono di declamare che si volevano a' fedeli
imporre nuovi lacci e catene ed obbligargli a professare quel for-
molario non altrimenti che il simbolo della Fede. Non potevano
darsi pace come l'infallibilità della Chiesa sopra la decisione de'
dogmi e condanna delle proposizioni erronee si volesse anche sten-
dere sopra i fatti; quando dagli errori di fatto non ne sono esenti
nemmeno gli stessi concili generali. Bisognò in fine cedere ed il
nome di giansenista fu reso così odioso e vitando non altrimenti
che quello di luterano e di calvinista. Ecco il frutto che trasse
Giansenio dal suo Augustinus.
1. Questa . . .papa: cfr. A. Gazier, op. cit., 1, p. 116. Il 16 ottobre 1656
la condanna di Alessandro VII.
ISTORIA DEL PONTIFICATO
DI GREGORIO MAGNO
NOTA INTRODUTTIVA
"L'Apologia de' teologi scolastici, nella sua prima stesura, come si
è detto, si concludeva con un libro vii intitolato Delle opere di S.
Gregorio Magno.1 Il Giannone vi continuava e ultimava la sua anali-
si dei Padri della Chiesa, in cui gli aspetti critici e demistificatori
tendevano a prevalere: «Le opere di questo dotto e religioso ponte-
fice possono leggersi senza timore d'inciampare in qualch'eresia o
pernicioso errore, riguardando la presente dottrina. Fa d'uopo con
tutto ciò esser attento a non lasciarsi trarre dietro la sua gran sem-
plicità e somma credulità, onde rese i suoi libri specialmente que
de* Dialoghi pieni di visioni e sogni, secondo portava il costume de'
suoi tempi e l'applicazione ordinaria d'allora de' studi monastici ... ».
Dopo un breve profilo biografico, il Giannone cominciava ad
esaminare le opere, per prime quelle sul Vecchio e Nuovo Testa-
mento. Notava quindi gli errori di Gregorio: «ignaro delle lingue
orientali, della storia di quegli antichissimi tempi, delle monarchie
e regni che fiorivano allora, delle città e de' popoli da' quali erano
abitati, per ciò egli di tutto altro parlando, fuor di quel che si con-
tiene nel testo, si divaga in questioni morali, in dar a quel libro nuovi
sensi allegorici, profetici mistici e tropologici, li quali non hanno al-
tro appoggio che la propria immaginazione, secondo era il costume
di allora de' monaci . . . ».3 Queste osservazioni riguardano il com-
mento al libro di Giob,4 argomento su cui il Giannone conosceva,
sulle tracce del proprio maestro,5 la bibliografia e le interpretazioni
più moderne, ma offrono un preciso esempio del tipo di analisi a
cui i testi di esegesi erano sottoposti. Anche i libri dei Dialoghi erano
così pieni di puerilità e di visioni miracolose che critici zelanti del-
l'onore di questo pontefice tentarono di negarne l'appartenenza a
Gregorio. In realtà soprattutto nel mondo protestante, con Andre
Rivet, si era dubitato di questa appartenenza, che era stata difesa
da Mabillon e da tutti gli editori parigini delle opere di Gregorio
Magno.6 Il Giannone però faceva un'ipotesi: molti sogni, miracoli
e visioni potevano essere stati aggiunti dai monaci. Il problema della
x. Apologia de' teologi scolastici, in Archivio di Stato &J0™\™no*"^
Giannone, mazzo v, ins. 2, ce. 196-202. 2. Ibid e. 196, 3. JWL, * -W
4.GREGORH Magni Morahum libri, svoe expositio tn hhm™*-*™> ™
Mignc, P.L., lxxv, coli. 509-1162; lxxvi, coli. 9-782. *D. Atobw,
Delle scuole sacre libri due postumi, Napoli 1723, 1, PP- x«-9; 6- Gre 00 Rii
Papae Dialogorum libri IV, de vita et miraculis ^ *f^* J
aeternitate anhnarum, in Migne, P.L lxxvii, <^Wa- ™ col i£
a col. 146 il Migne riporta le precedenti prefazioni (1675 e 1705;- ^
Rivet cfr. coli. 137-8.
916 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
corruzione del testo e dell'intervento dei copisti riguardava del resto
anche sant'Agostino.1 Nel complesso, accanto a questi elementi che
proseguivano e concludevano il discorso di tutta l'Apologia, emerge-
va un certo interesse per la funzione di Gregorio come organizzatore
della Chiesa. Questo tema raggiunse successivamente una tale auto-
nomia da trasformarsi a sua volta in uno studio a sé stante : Y Istoria
del pontificato di Gregorio Magno. Nell'introduzione all'Apologia
si sono analizzati i motivi che fanno pensare a una dipendenza fra
le due opere e a una loro continuità. Vediamo ora come sia stato
possibile al Giannone fermare cosi a lungo la sua attenzione sulla
figura del grande pontefice, fino a farne scaturire un libro. Vale la
pena di accennare alla discussione storiografica (naturalmente legata
a complesse scelte politico-religiose) che precede l'opera del Gian-
none sulla figura di Gregorio Magno, discussione che egli almeno
parzialmente conosceva e alla quale talvolta fa riferimento. Solo
in questo modo sarà possibile cogliere il valore della proposta gian-
noniana. Come si è detto, André Rivet aveva dubitato dell'appar-
tenenza dei Dialoghi a Gregorio. Un suo compagno ugonotto, il
celebre professore di Sedan Pierre Du Moulin, pur cercando di
contrapporre la Chiesa di Leone e di Gregorio a quella dei propri
tempi, nel 1650 aveva iniziato il processo alla «cultura» del pon-
tefice, accusandolo di essere ignorante e fantasioso esegeta del Vec-
chio e del Nuovo Testamento.2 Quest'opera era chiaramente l'ultima
propaggine di un clima di urto frontale legato alle guerre di religione
in Francia. Nel 1675 Pierre de Gussainville pubblicava a Parigi
un'importante edizione che correggeva le precedenti.3 Nel 1686 ve-
niva pubblicata a Parigi una monografia su questo pontefice, che ri-
vela chiaramente la propria appartenenza a un nuovo clima politico-
religioso, VHistoire du pontificai de S. Grégoire le Grand, di Louis
Maimbourg. Era infatti scritta da un ex-gesuita, celebre per le po-
lemiche contro i giansenisti e i protestanti, che avevano sollecitato
la risposta polemica di Pierre Bayle. Acceso gallicano e cacciato dal-
l'ordine per questo, stipendiato da Luigi XIV, egli era diventato
in qualche modo l'interprete ufficiale, lo storico e l'apologeta della
politica religiosa del re Sole. Estremamente indicativo in questa
1. Apologia de7 teologi scolastici, cit., e. 201. 2. P. Du Moulin, La vie et
religion de deux bons papes, Leon premier et Grégoire premier > où est monstre
que la doctrìne et religion de ces pontifes tant célèbres est contraire à la religion
romaine de ce temps, Sedan 1650. 3. S. Gregorii Papae Primi . . . Opera
in tres tomos distributa . . . Additae sunt quaedam notae in dialogos et episto-
las eiusdem S. Gregorii, cura et studio Petri Gussanvillaei, Lutetiae Parisio-
rum 1675, in tre volumi.
NOTA INTRODUTTIVA 917
direzione il Traité historique de Vétablissement et des prérogatives de
VÉglise de Rome et de ses evesques.1 In quest'opera riaffermava la piena
ortodossia del gallicanesimo. Non negava affatto il primato di Roma
come sede scelta da san Pietro, ma riduceva drasticamente i poteri
papali, rifiutando ogni infallibilità ed affermando che quando i
pontefici decidono fuori dei concili possono sbagliare, I Padri della
Chiesa erano quindi piegati a dimostrare questa tesi. UHistoire du
pontificai de S. Grégoire le Grand si collocava in qualche modo dopo
quelle che aveva dedicato agli iconoclasti e allo scisma greco. Tutti
i motivi a cui si è accennato acquistano un preciso rilievo: nella
dedica al sovrano egli afferma che il maggior merito ài Gregorio
è di «avoir trouvé l'art de contraindre sans violence, selon l'esprit
de l'Evangile, de rentrer dans PÉglise catholique ceux qui en estoient
sortis par le schisine, ou par l'hérésie . . . ».a Luigi XIV viene quindi
esaltato a confronto di questo modello come il sovrano che aveva
realizzato l'unificazione francese sotto il cattolicesimo. UAvertis-
sement conferma le scelte del Maimbourg: la polemica contro i pro-
testanti (è confutata l'opera del Du Moulin) e contro la tradizione
romana (Baronio), l'impostazione nettamente gallicana e regalista.
Inoltre egli non intendeva scrivere una biografia, ma una storia del
pontificato. Non manca di dare un certo spazio all'elemento mira-
coloso, riportando la leggenda (che gli sarà rimproverata sprezzante-
mente da Bayle) di una colonna di luce apparsa a segnalare il luogo
in cui si era rifugiato Gregorio per sottrarsi all'elezione.3 Gli altri
elementi sottolineati sono: la sottomissione del pontefice ai concili,
il potere dell'imperatore Maurizio, il confronto fra Gregorio e
Luigi XIV nell'azione verso gli eretici. Molto indicative sono le pa-
gine sullo scontro con i patriarchi d'Oriente per il titolo di ecume-
nico. Il Maimbourg tende a ridurre tutto il conflitto a un fatto ver-
bale, a una cattiva interpretazione del termine. Secondo lui esiste-
vano tre interpretazioni della parola: quella del concilio di Calcedonia
(il pontefice vescovo della Chiesa universale); quella usata dai pa-
triarchi d'Oriente (che si consideravano vescovi di una gran parte
del mondo); quella che Gregorio intese -e secondo Maimbourg
fraintese - nei patriarchi d'Oriente, secondo cui questo titolo esclu-
deva il potere degli altri vescovi. Il Maimbourg da una parte riduce
il conflitto a una pura incomprensione verbale, tendendo quindi a
minimizzarlo, dall'altra polemizza con coloro (protestanti) che han
visto in questa polemica contro l'ecumenicato come un rifiuto da
parte di Gregorio del proprio stesso primato. Ricostruisce succes-
1. Paris 1686. 2. Histoire du pontificai de S. Grégoire le Grand, cit., pp.
n.n. 3. Ibid.t p. 9.
918 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
sivamente il rapporto di Gregorio con l'Inghilterra e la Francia,
sempre dallo stesso punto di vista, di esaltare la politica religiosa di
Luigi XIV e di trovare le radici prime del gallicanesimo. Nell'ultima
parte infatti, trattando dell'opera di organizzazione della società
ecclesiastica, contrappone Gregorio Magno a Gregorio VII, rifiu-
tando e mostrando falsi tutti i tentativi di far risalire al primo le
teorie teocratiche. Così ne emerge l'immagine di una Chiesa che non
pretende nessuna superiorità sul potere civile, che lascia ampie
autonomie alle realtà locali, alle tradizioni «nazionali», che utilizza
il patrimonio di S. Pietro per i poveri, che cerca di tener lontani gli
ecclesiastici e soprattutto i monaci dagli affari.
Pierre Bayle, che era intervenuto contro il Maimbourg precedente-
mente, a proposito della sua storia del calvinismo, recensì abbastan-
za criticamente quest'opera nelle «Nouvelles de la républiquc des
lettres » del febbraio 1686.1 Fa notare come il Maimbourg abbia ac-
cettato acriticamente il miracolo della colonna di luce che fece sco-
prire Gregorio dopo la sua fuga. In realtà, secondo il Bayle, si tratta
di qualcosa che ricorda troppo la leggenda dei Re Magi guidati da
una luce a Gesù bambino. Ma il Maimbourg, che egli precedente-
mente aveva descritto come un autore di romanzi storici a tesi, senza
alcun problema di certezza e di verità, «rapporte plusieurs autres
prodiges de ce temps-là (car la saison en étoit ancore bonne) et n'en
rejette que fort peu».2 Inoltre non dubita dell'appartenenza a Gre-
gorio dei Dialoghi, e non ne coglie criticamente il tono troppo sco-
pertamente credulo. Al Bayle non sfugge il tentativo di ridurre tutta
la polemica sull'ecumenismo a un fatto puramente verbale. È però
soprattutto sottolineato polemicamente ed ironicamente il continuo
raffronto fra Luigi XIV e Gregorio I come pacificatori religiosi.
Riflettendo sulle vicende contemporanee, trova assolutamente impro-
prio un paragone di questo genere, che avrebbe permesso al sovrano
(il quale stava costringendo i protestanti all'esilio) di passare per un
pacificatore e un organizzatore della unità religiosa nel proprio
paese senza violenza. Soprattutto egli polemizza con la distinzione
tra infedeli (come erano gli Ebrei al tempo di Gregorio, che questi
comandava ai vescovi di non perseguitare e di non convertire con la
violenza) e ribelli, cioè quelli che abbandonavano la fede per ab-
bracciare una nuova opinione. Ancora una volta questa recensione
oscillava dal passato al presente e metteva in luce quelli che erano
1. Cfr. P. Bayle, CEuvres diverses, La Haye 1737, 11, Critique generale de
Vhistoire du calmnisme de Mr. Maimbourg, pp. 1-160; Nouvelles lettres
de Vauteur de la Critique generale de Vhistoire du calvinisme, pp. 161-335.
La recensione citata è riportata nel tomo 1 di questa edizione, pp. 493-8.
2. Ibid., p. 493.
NOTA INTRODUTTIVA 919
gli elementi essenziali della storiografia di Maimbourg, la mancanza
di scrupoli e la perfetta adesione agli aspetti più discutibili della
politica di Luigi XIV. Il Bayle proseguiva il processo di riduzione
della figura di Gregorio che era presente in Du Moulin, ricordando
l'appoggio indiscriminato di questo pontefice a un tiranno come
Focas e alla crudelissima regina di Francia Brunehauld.
Negli anni successivi il discorso tornava in mano agli eruditi,
anche se non perdeva una sua carica politico-religiosa. È il caso
dell'ampia monografia dedicata a Gregorio I da Louis Ellies Du Pin
nella Nouvelle bibliothèque des auteurs ecclésiastiques,1 che non per-
deva occasione, sia pur con maggiore correttezza del Maimbourg, di
confermare il proprio gallicanesimo. L'atteggiamento di Gregorio è
caratterizzato secondo il Du Pin da due elementi essenziali: la
volontà di far osservare i Canoni (e in ciò consisteva l'autorità della
sede romana); la piena accettazione delle deliberazioni dei concili.
Secondo il Du Pin per Gregorio Magno il primato di Roma rispetto
alle altre sedi vescovili era effettivo solo quando c'era stata da parte
della diocesi una colpa qualsiasi. A parte questo compito in qualche
modo giurisdizionale, Gregorio teorizzava la parità assoluta ed era
contro il titolo di ecumenico non solo per il patriarca di Costantino-
poli, ma anche per il vescovo di Roma. Confermando quanto aveva
già detto nella sua opera sulla antica «disciplina» della Chiesa, il
Du Pin afferma che le rendite del patrimonio di S. Pietro e di tutti
i lasciti ecclesiastici dovevano essere divise in quattro parti : ai preti,
ai poveri, alle chiese e ai vescovi. Inoltre Gregorio, che per ragioni
puramente religiose intervenne spesso e anche caldamente presso i
sovrani, aveva ben chiare le diverse sfere di influenza e sapeva di-
stinguere il piano religioso da quello politico. Questo spiega perché
si sia più volte subordinato a Maurizio, allo stesso Focas e abbia ac-
cettato senza critiche la regina Brunehauld. Così per quanto riguar-
da la disciplina interna della Chiesa, egli, pur favorendo gli ordini
religiosi regolari, non li sottrasse affatto alla giurisdizione dei vescovi.
Monaci e preti avevano compiti distinti; perciò i primi erano tenuti
lontani dalle pratiche fondamentali, come la possibilità di dir messa
e di distribuire i sacramenti. Fra le opere, il Du Pin accenna ai
Dialoghi; non dubita che siano di Gregorio Magno, ma li trova ri-
dicoli e indegni di un così grande pontefice: «On y fait les miracles
si frequens, si extraordinnaires, et souvent pour des choses de si
peu de conséquence, qu'il est bien difficile de les croire tous ».a
Mentre l'opera e la figura di Gregorio Magno erano l'oggetto di
studio e di interesse per le grandi storie ecclesiastiche di ispirazione
1. Paris 1690, IV, pp. 239-344. 2. Op. cit, iv, p. 325.
920 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
gallicana, come quella di Noel d'Alexandre1 e di Claude Fleury,2 un
benedettino della scuola di Saint-Maur sentiva il bisogno di misu-
rarsi con questo soggetto, dedicandogli una monografia che prece-
deva di qualche anno l'edizione critica delle opere, a cui egli avrebbe
partecipato con altri.3 Si tratta di Denis de Sainte-Marthe, Hìstoire
de S. Grégoire-le-Gr and pape et docteur de VÉglise tirée principalement
de ses ouvrages* L'opera del Sainte-Marthe intendeva essere la prima
monografia obiettiva sul grande pontefice. NélVAvertissement infatti
affermava che in quegli anni erano state scritte le vite di tutti i Padri
della Chiesa, meno quella di Gregorio. C'era stata l'opera del Maim-
bourg «mais outre que cette histoire ne comprend pas toute la vie
du saint, M. Maimbourg ne s'est attaché qu'à certains faits de son
pontificat qui entroient dans ses desseins et dans ses vùcs, négli-
geant tous les autres qui toutefois méritent d'ètrc connus . . . ».s
Per sottolineare i punti di vista diversi, il Sainte-Marthe afferma
ancora in implicita polemica: «l'unique but que je me suis propose,
a été d'éclaircir la vérité et en m'instruisant moi-mème, de travailler
à l'instruction et a l'édification d'un grand nombre de personnes . . . ».6
La prima preoccupazione è filologica: afferma di essersi servito
dell'edizione parigina del 1675 come la più corretta, utilizzando
altresì le note di Thomas James,7 che aveva accusato le edizioni ro-
mane di essere poco scrupolose nel forzare a favore di Roma gli
scritti di Gregorio. Inoltre analizza le altre fonti di cui si è servito,
da Gregorio di Tours, a Beda, a Paolo Diacono, collocandole storica-
mente. Naturalmente polemizza con le interpretazioni protestanti,
soprattutto con quella di Pierre Du Moulin, ma discute anche le tesi
del Du Pin.8 L'opera è divisa in quattro libri ed è di taglio nettamente
1. Historìa ecclesiastica Veteris et Novi Testamenti ab orbe condito ad annum
post Christum natum millesimum sexcentesimum, Parisiis 17 14, in otto tomi,
v, pp. 380-91. La prima edizione, Parisiis 1699, in otto tomi. 2, Histoire
ecclésiastique, vili, Paris 1727, pp. 1-238. La prima edizione, Paris 1691-
1738, in trentasei volumi. 3. Sancti Gregorii Papae I . . , Opera omnia
. . . studio et labore monachorum ordinis S. Benedicti e congregatone S.
Mauri (D. de Sainte-Marthe, B. Pétis de La Croix et G. Bessin)s Parisiis
1705, in quattro volumi. 4. Rouen 1697. 5. Ibid., p. n.n. 6. Ibid., p.
n.n. 7. Ibid., p. n.n. Si riferisce a Thomas James (1573 P-IÓ29), erudito
inglese autore di un Bellum gregorianum, sive corruptionis romanae in operi-
bus D. Gregorii M. iussu pontificum rom. recognitis atque edìtis ex typographia
vaticana loca insigniora, observata a theologis ad hoc officium deputatis, Oxo-
niae 1610. Si tratta di una polemica contro l'edizione voluta da Sisto V,
curata dal vescovo di Venosa P. Ridolfi, Romae 1588-1593, in sei volumi.
Sulle edizioni di Gregorio, precedenti quella benedettina, cfr. la prefazione
dell'edizione 1705 riportata dal Migne, P.L., lxxv, coli. 15-36. 8. Ibid.,
p. n.n. Si tratta naturalmente della monografia compresa nella Nouvelle
biblioihèque des auteurs ecclésiastìques, cit.
NOTA INTRODUTTIVA 921
biografico. Il primo riguarda la vita di Gregorio dalla nascita al
pontificato. Sono ricostruiti con accuratezza l'ambiente familiare,
gli studi, la carriera politica, la vocazione e le scelte religiose. La
storia della sua fuga dopo la nomina e il suo ritrovamento è accet-
tata, secondo la tradizione leggendaria, ma senza troppa insistenza:
« Une colomne de lumière parut sur le lieu de sa retraite ».J II secondo
è dedicato ai primi quattro anni di pontificato. Il Sainte-Marthe
conferma la piena sottomissione di questo pontefice ai concili e ne
descrive l'opera di riorganizzazione della Chiesa, sottolineando l'eli-
minazione dei laici dall'amministrazione dei beni ecclesiastici. Un
certo spazio è dedicato al problema dei Dialoghi. Il Sainte-Marthe
ha un atteggiamento pienamente apologetico e devoto, che gli sarà
rimproverato dal Bayle. Egli infatti afferma che ad alcuni studiosi
non sono piaciuti tutti i miracoli di cui questi Dialoghi sono pieni.
Ma non è una critica valida. Se si applicasse un criterio del genere
bisognerebbe estenderlo a sant'Agostino. In effetti secondo il Sainte-
Marthe c'erano più fatti miracolosi alle origini e quindi le scritture
dei Padri registrerebbero una realtà. Solo sull'episodio (riportato
da Giovanni Diacono) del battesimo dell'anima di Traiano per in-
tercessione di una povera donna, il Sainte-Marthe condivide le
precedenti confutazioni (dal Baronio e Bellarmino ai più recenti
autori) e utilizza gli stessi Dialoghi per smontare questa storia,
mostrandone la falsità e la pericolosità.
È invece decisamente polemico con il Maimbourg che aveva ri-
dotto a nulla il significato e il valore della polemica sull'ecumeni-
smo. Gli ultimi due libri, che raccontano gli anni successivi del
pontificato, proseguono su questo tono fortemente apologetico.
Per esempio difende Gregorio dall'accusa di aver lodato e appog-
giato Brunehauld, affermando che i suoi crimini furono scoperti
dopo la morte del pontefice. Lo stesso afferma per il rapporto con
Focas.
Quando Pierre Bayle scrisse la voce Gregoire I sul Dictionnaire2
aveva quindi a disposizione un materiale notevole : egli infatti fondò
la sua voce sul Maimbourg, sul Sainte-Marthe e in misura minore
sul Du Pin, a cui rimandava per un'analisi dettagliata delle opere.
Per quanto riguarda il Maimbourg, si rifa alla propria recensione
del 1686, ripetendo le osservazioni sulla colonna di luce che ricorda
la leggenda dei Re Magi e polemizzando soprattutto con il paragone
fra Gregorio e Luigi XIV. Ma in questa voce, ben più che nella re-
censione, il Bayle chiariva e approfondiva, alla luce dei propri lavori
i.Ibid., p. 130. 2. P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, Amster-
dam 1734, in, pp. 103-13.
922 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
e delle proprie scelte, il problema della libertà di coscienza, mostran-
do i limiti non solo del sovrano francese, ma anche del pontefice:
« Ses maximes touchant la contrainte de la conscience n'ont pas étés
uniformes et il donnoit quelquefois dans un grand relàchement.
Aussi est-il bien difficile d'avoir des règles pour une chose si con-
traire à la raison ».* Le osservazioni nascono da quanto riportava lo
stesso Maimbourg, che Gregorio rifiutasse le conversioni violente
degli Ebrei e invece sollecitasse la persecuzione degli eretici. Bayle,
teorizzando la libertà di coscienza, afferma che la Chiesa non ha il
diritto di trattare come ribelli quelli che la lasciano : « C'est attribuer
à PÉglise un pouvoir qu'elle n'a pas, que de prétendre qu'elle peut
traiter tous ceux qui la quittent, comme les états humains traitent
les rebelles . . . ».z Per lo sviluppo di questi temi rinvia al proprio
Commentaire philosophique. Inoltre Gregorio propugnava una morale
troppo rigida; i preti dovevano essere vergini, fatta eccezione per i
vedovi. Nel complesso «merita le surnom de Grand, mais on ne
saroit excuser la prostitution de louanges avec la quelle il s'insinua
dans Pamitié d'un usurpateur . . . ».3 Oltre che con Focas, ebbe
compiacenza eccessiva verso la regina Brunehauld. Il Bayle inoltre
sfiorava un problema interessante e destinato ad aver sviluppo in
Toland. Secondo una tradizione, Gregorio sarebbe stato un distrut-
tore delle reliquie più belle della civiltà pagana, per il timore che chi
veniva a Roma avesse più interesse per i templi gentili e gli archi di
trionfo che per le chiese. Questa azione del pontefice non è docu-
mentabile, come non è certa l'altra, che egli abbia fatto distruggere
un'infinità di libri pagani e fra l'altro Tito Livio (era una voce ri-
portata dal Voss). Nello stesso Dictionnaire il Bayle tornava ancora
una volta su Gregorio a proposito della voce Trojan tutta dedicata
alla leggenda di cui si è già detto.4
Nel 1705 veniva pubblicata l'edizione delle opere di Gregorio, a
cui aveva collaborato il Sainte-Marthe. Quest'edizione fu recensita
ampiamente e favorevolmente dagli «Acta Eruditorum»5 di Lipsia
che evitavano ogni rilievo polemico di carattere religioso e che, dopo
averne dato un'ampia descrizione, sottolineavano soprattutto due
punti : i benedettini sostenevano l'appartenenza dei Dialoghi a Gre-
gorio ; negavano la favola della liberazione dell'anima di Traiano da
parte del pontefice. Vale forse ancora la pena di ricordare che pochi
anni dopo nella stessa città, da parte di un teologo luterano evidente-
mente abbastanza lontano dallo spirito di dialogo e dal cristianesimo
1. Ibid.t p. 104. 2. Ibid., p. 105. 3. Ibid., p. 107. 4. Ibid., v, pp. 395-6.
5. «Acta Eruditorum Lipsiensium », settembre 1706, pp. 385-95.
NOTA INTRODUTTIVA 923
universalistico di ispirazione leibniziana degli «Acta», venne pub-
blicata un'opera che riporta bruscamente a un clima di controversie.
Si tratta di Gregorius Magnus papa lutheranus sive der lutherische
Pabst contra papistas, imprimis monachos parisienses, ordinis S. Bene-
dirti, S. Marthe, Bellarmìnum, Baronium, Schelstratium aliosque, ex
5. Gregorii libris et epistolis vindicatus ... di Johann Peter Stute.1
Come si è già accennato nell'introduzione ai Discorsi sopra gli An-
nali di Tito Livio, la figura di Gregorio Magno aveva colpito il Toland
nel suo Adeisidaemon.2 Questi aveva infatti accettato e sviluppato
quanto il Bayle riportava sia pur dubitativamente nella sua voce:
neìV Adeisidaemon infatti Gregorio era visto come il distruttore delle
storie di Livio. Lo aveva quindi posto al centro di un processo di
irrigidimento e di istituzionalizzazione del cristianesimo, di una
reazione, in fondo cieca ed ottusa, al fascino ancor vivo della cultura
pagana.
Come si colloca l'opera del Giannone in questa discussione mi-
suratasi nell'arco di un secolo su un nodo essenziale della storia
ecclesiastica e civile? Bisogna prima di tutto osservare che il pro-
blema non si poneva per la prima volta al Giannone del carcere. A
Gregorio Magno sarebbe stato dedicato ampio spazio nel periodo
terzo del Regno papale, la parte non compiuta del Triregno, di cui
però egli aveva già indicato la traccia.3 In questo senso diversi e
complessi sono gli impulsi che hanno spinto il Giannone ad ammon-
tare il tema: proseguire V Apologia, riprendere quanto nel Triregno
era stato solo previsto ed abbozzato, misurarsi ancora una volta con
un'intuizione del Toland. Se V Apologia prendeva a modelli la
seconda parte delle Scuole sacre di Domenico Aulisio4 e soprattutto
i. L'opera fu pubblicata a Lipsia nel 171 5. 2. Adeisidaemon, sive Titus
Livius a superstitione vindicatus . . ., Hagae Comitis 1709, pp. 79~97«
3, Cfr. Il Triregno, ed. Parente, ni, p. 216. I primi due capitoli sarebbero
stati dedicati a Gregorio Magno. Il capo 1, Del ponteficato di Gregorio Ma-
gno nel quale il nuovo regno papale fece notabili progressi, non meno in Occi-
dente che in Oriente, prevedeva nove paragrafi: 1. Nelle province suburbicarie
del vicariato di Roma; 2. Nelle province sottoposte al prefetto d'Italia, e spe-
zialmente: 3. Nella Liguria, Venezia, Istria, Norico e nella Rezia; 4. Nella
Pannonia, nella Dalmazia, Macedonia e Bulgaria; 5. Nell'Illirico occidentale;
6. Nella Francia; 7. Nella Spagna; 8. Nell'isole britanniche, Anglia, Scozia
ed Ibernia; 9. Nella Germania. Il capo 11, Papa Gregorio Magno si mantenne
nella grazia delVimperator Maurizio, finché questi visse. S'intrigò nelle guerre
co' Longobardi, nelle paci ed in altri affari politici. Ubbidiva alle leggi de-
gl'imperatori d'Oriente; e la stessa venerazione, fede ed ubbidienza continuò
coll'imperador Foca, successor di Maurizio. Come si vede, la struttura geo-
grafico-storica era già stata prevista per il Triregno, ma in questa successiva
opera appare ben più complessa. 4. Delle scuole sacre ecc., cit., n, Delle
scuole sacre d'Alessandria.
924 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
il Traiti de la morale des Pères di Jean Barbeyrac,1 questa Istoria è,
almeno in parte, un proseguimento del Triregno. Nell'Apologia aveva
discusso le fonti della morale cristiana, negando, con la stessa forza
dei deisti, ma con un acume storico più preciso, la tradizione, por-
tando la polemica fino alle origini del pensiero cristiano. Ora, con
gli strumenti di un'erudizione eterogenea e complessa, si propone
di affrontare le Epistole di Gregorio per ricostruire l'organizzazione
e la disciplina della Chiesa medievale. In questo senso l'opera del
Giannone non si presta ad essere riportata soltanto nell'ambito
delle monografie sul pontefice che sono state indicate precedente-
mente. Accanto a queste dovremmo ricordare non solo tutte le
grandi storie ecclesiastiche, che egli conosceva, ma anche le opere
di diritto canonico e di erudizione sacra, dal Du Pin, al van Espen,
al Bingham.2 Questa cultura era particolarmente familiare al Gian-
none, che aveva utilizzato gli autori citati soprattutto nel Triregno.
È difficile dire con esattezza che cosa avesse realmente a disposizione
mentre componeva quest'opera ; oltre agli Opera di Gregorio Magno
(non si sa in quale edizione, ma la numerazione delle Epistole fa
escludere quella benedettina del 1705),3 Plinio, nell'edizione com-
mentata da Jean Hardouin,4 e Livio, che egli cita abbondantemente,
gli altri riferimenti potrebbero essere o indiretti (tratti cioè dalle note
dell'Hardouin, per esempio) o, come in altri casi, fatti a memoria.
1. Cfr. quia p. 794. 2. Cfr. le note 3 app. 41-2 e 1 ap. 660. 3. Da quanto
il Giannone afferma ne La Chiesa sotto il pontificato di Gregorio il Grande,
in Opere inedite, a cura di P. S. Mancini, Tonno 1852 (ma 1859), ir, p. 210:
«Se i collettori de* dodici libri di queste Epistole, siccome han fatto qui,
aggiunto avessero le risposte alle lettere del pontefice (che non dubito in
que' tempi dovessero negli archivi di Roma esisterne gli originali), certa-
mente di più chiari lumi e di più riposte notizie attinenti anche all'istoria
di que' secoli ci avrebbero arricchiti ... », parrebbe che il Giannone avesse
a disposizione l'edizione romana (1588-1593, in sei volumi) o qualche ri-
stampa di questa. Fra l'altro parìa di dodici libri delle Epistole, mentre
nell'edizione benedettina del 1705 diventarono quattordici, con un ordine
mutato, rispetto alle precedenti edizioni, compresa quella del 1675, che
aveva conservato l'antico. A quest'ultimo corrispondono le citazioni del
Giannone. Cfr. anche quanto afferma nel titolo originario intero e nella
prefazione A' lettori, p. 2, in cui, propugnando una nuova disposizione di
questo materiale, più storica, sembra ignorare i criteri (in realtà simili ai
propri) seguiti dai benedettini nel 1705. Questa prefazione è importante
perché egli applica alla geografia gli stessi criteri che nella Vita aveva
utilizzato per la giurisprudenza, distinguendo una «antica geografìa de'
Romani», la geografia media «del periodo barbarico», «la bassa e infima
geografia delle epoche moderne ». 4. C. Punii Sectjndi Naturalis historiae
libri XXXVII, Interpretatione et notis illustravit Ioannes Harduìnus . . .,
Parisiis 1685, in cinque volumi. Fu ristampata a Parigi nel 1723, in tre
tomi. Quest'opera (e le note dell'Hardouin) sono una fonte costante per il
Giannone del carcere.
NOTA INTRODUTTIVA 925
Solo un'edizione critica potrebbe rispondere in maniera soddisfacen-
te a questo problema. Certo egli ebbe a disposizione anche altri libri,
parte propri, parte avuti in prestito, come per esempio l'opera di
Francesco Agostino della Chiesa, che è citato come il «vescovo di
Saluzzo », uno dei maggiori storici piemontesi.1
Comunque c'è uno sviluppo e una continuità in tutta la produ-
zione del carcere. Non solo più volte nell'Istoria del pontificato egli
fa riferimento a quanto aveva scritto nei Discorsi e nell'Apologia,
ma utilizza ancora ampiamente la ricerca che aveva fatto sul testo di
Livio e sui Vangeli per ricostruire la geografia dell'Impero.2 In
questo nuovo lavoro Plinio e soprattutto Livio gli offrono il materiale
per confrontare la struttura geografica romana con quella che emerge
dal testo delle Epistole per cogliere variazioni e persistenze. Quindi
ritorna alla storia civile, come l'aveva concepita precedentemente,
per studiare la genesi di un processo in cui la Chiesa stava sostituen-
do l'Impero, ma alla dimensione diacronica (lo studio di tutte le
modificazioni avvenute dalle origini ai suoi giorni in una regione
limitata, il regno di Napoli, come nella Istoria civile, o per tutto l'Oc-
cidente, come nel Triregno) si sostituisce la scelta sincronica, la
volontà di ricostruire un momento fondamentale per tutta l'area
occidentale, cogliendo nella dimensione geografica più vasta la di-
versa e complessa reazione a due fenomeni contemporanei: la crisi
della società civile e la volontà di affermazione del papato. Le Episto-
le, rivolte da Gregorio a tutti i vescovi del mondo occidentale, per-
mettono al Giannone una ricostruzione analitica e piena di spessore
(con i continui riferimenti al prima, la geografia dell'Impero, tratta
da Livio, e al poi, la realtà che il Giannone ben conosceva come sto-
rico e politico militante). In questo senso l'opera del Giannone non
solo non può essere riportata facilmente ai modelli di monografie
su Gregorio che abbiamo citato precedentemente, ma neppure a
uno dei tanti esempi di «geografia sacra» a cui certamente si ispirava:
pur essendo a tratti classificatoria e inevitabilmente descrittiva,
nel complesso è un'opera di storia, o meglio un tentativo piuttosto
originale di geografia storica, con un forte interesse «politico» e una
profonda passionalità alle spalle, come mostrano non solo i ricordi
personali che affiorano ogni tanto, ma soprattutto le precise riprese
del proprio discorso, le dure polemiche contro i tentativi di com-
promesso, come nel caso del de Marca, gallicano moderato,3 o le
1. Cfr. La Chiesa sotto il pontificato di Gregorio il Grande, cit., p. 138; pp.
224-37. Si riferisce a F. A. Della Chiesa, S.R.E. cardinalium, archiepisco-
porum, episcoporum et abbatum pedemontanae regionis cronologica historia,
Torino 1645. 2. Cfr, qui, p. 733 e le note ivi. 3. La Chiesa sotto il pon-
tificato di Gregorio il Grande, cit., p. 235.
926 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
critiche al Du Pin, che nel complesso egli ammirava e seguiva.1 Inol-
tre, se è vero che il Giannone, dopo aver abbozzato il proprio di-
scorso su Gregorio Magno nell'Apologia, decise di riprenderlo ed
ampliarlo, è altresì vero che il taglio scelto è molto diverso. NélTApo-
logia il centro di interesse era l'opera intellettuale di Gregorio Ma-
gno, con i suoi limiti teorici (dovuti al tempo), ma anche con i suoi
pregi, ora invece è la società europea che viene minuziosamente
ricostruita nell'impegno organizzativo del grande pontefice. È la
società in cui nacque, come una realtà nuova e gravida di conse-
guenze, il primato della sede romana, favorito dalla profonda crisi
della società civile.
Tale primato si stabilì non solo per il trasferimento di Pietro da
Antiochia a Roma, ma soprattutto per il fatto che quando Costantino
creò Costantinopoli, denominandola la seconda Roma aveva ri-
conosciuto implicitamente il fascino e la grandezza della prima.
Comunque fino al V secolo si trattava solo di un fatto di onore e il
vescovo di Roma non poteva ingerirsi negli affari delle altre Chiese.
Nel V secolo si cominciarono a far valere le prime pretese e con
Leone Magno la Chiesa di Roma aspirò ad essere la più importante.
Con la crisi dell'Impero d'Oriente, con la perdita di prestigio delle
Chiese orientali, nel VI secolo Gregorio riuscì a stabilire la propria
autorità non solo sulle Chiese d'Africa, ma anche sui patriarcati di
Gerusalemme e di Costantinopoli. Il regno papale si formò quindi
in un vuoto di potere imperiale; a Gregorio fu facile respingere le
pretese dei patriarchi orientali di essere ecumenici nella misura in
cui le loro fortune erano legate all'Impero e quindi ne subivano
tutte le perdite, mentre la Chiesa di Roma contrapponeva la propria
autonomia e il proprio prestigio sull'Occidente. Il Giannone studia
il lento, ma inarrestabile processo che porta al papato come realtà
ecumenica proprio nei termini che la polemica di Gregorio contro i
patriarchi orientali sembrava voler negare. Ricostruisce tale vicenda
per tutta l'area occidentale, servendosi, oltre che delle Epistole, di
Pierre de Marca e di Louis Ellies Du Pin per la Francia e di Joseph
Bingham per gli altri paesi. Fra le altre cose riprende il tema della
lotta contro le immagini. Il suo atteggiamento è molto meno rigida-
mente moralistico che nel Triregno, dove la diffusione delle immagini
era riportata - secondo un radicalismo di origine protestante - a un
ritorno neo-pagano della Chiesa di Roma, che non aveva avuto il
coraggio di affrontare un'esistenza puramente spirituale e si era
istituzionalizzata, assorbendo (come al suo tempo i Gesuiti in Cina)
i riti gentili, per rendersi più accettabile agli occhi di un mondo solo
1. Ibid., p. 392.
NOTA INTRODUTTIVA 927
esteriormente convertito e ancora legato alle forme cultuali pagane.
Osserva ora le stesse cose con un occhio più aperto e distaccato;
dairalto del suo cristianesimo tollerante e ragionevole afferma che
è stata assurda una polemica1 su cose così poco importanti. Ma se
ciò potrebbe far pensare a una tipica incomprensione ormai illumi-
nistica verso le lotte di religione, il Giannone si abbandona assai
poco alla tentazione di liquidare il passato senza capirlo sia pure in
nome di una razionalità tollerante. Infatti inserisce la polemica sul
culto delle immagini nel clima in cui sorse il maomettanesimo ;
qui probabilmente raccoglie gli echi di un'opera inseribile nella
tradizione post-spinoziana e deistica, le Lettres juives del marchese
d'Argens.2 Le aveva lette a Ginevra poco prima dell'arresto, in un
ambiente in cui circolavano fra i suoi amici e in cui il tipografo
Marc-Michel Bousquet (che avrebbe dovuto stampare la traduzione
francese dell5 'Istoria) si preparava a farne una riedizione.3 Secondo
il Giannone il maomettanesimo si inserì nelle accuse di paganiz-
zazione rivolte ai cristiani, portando la lotta in nome del nuovo pro-
feta e del nuovo culto. Come avevano affermato il Toland nel Na-
zarenus* e, meno radicalmente, il d'Argens nelle Lettres juives, il
maomettanesimo si presentava come un ritorno alla tradizione mo-
saica, contro il gentilesimo cristiano, pur essendo in realtà un mi-
scuglio di elementi ebraici e cristiani. Il culto delle immagini viene
quindi compreso come il frutto di tempi rozzi e primitivi, che portò
a vari eccessi, di cui vi è una divertente descrizione. Rivive anche
a questo proposito una parentesi autobiografica, un accenno al
proprio soggiorno ginevrino e al suo incontro con uomini come
Jean-Alphonse Turrettini e Jacob Vernet, che è un bellissimo omag-
gio al loro tollerante cristianesimo,5 Tornando al tema principale, il
Giannone cerca di studiare le conseguenze del programma di Gre-
gorio in quanto la penetrazione del cristianesimo nella restante Eu-
ropa investe i secoli successivi, ma si modella ancora sui suoi im-
1. Cfr. Il Triregno, ed. Parente, il, pp. 341-5; per un confronto La Chiesa
sotto il pontificato di Gregorio il Grande, cit., pp. 1 1 1-7. 2. J.-B. d'Argens,
Lettres juives, ou correspondance philosophique, historique et critique entre
un juif voyageur à Paris et ses correspondans en divers endroits, La Haye
1736. Sulla lettura di quest'opera cfr. Giannonìana, pp. 529-30; G. Ricu-
perati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli
1970, pp. 512-3. 3. L'edizione di Losanna del 1738 ebbe come editore
il Bousquet. Altra edizione La Haye 1738. 4. London 1718. 5. La Chiesa
sotto il pontificato di Gregorio il Grande, cit., pp. 116-7. Su J.-A. Turret-
tini cfr. E. De Bude, Vie deJ.-A. Turrettini, théologien genevois. 1671-1737,
Lausanne 1880; su J. Vernet, Idem, Vie de Jacob Vernet théologien genevois.
1698-1789, Lausanne 1893. Cfr. inoltre G. Ricuperati, L'esperienza civile
e religiosa ecc., cit, pp, 518-41.
928 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
pulsi. Accanto agli autori già citati, per la Germania e i paesi pro-
testanti riprende P immagine dell'Europa di Pufendorf x che gli per-
mette di allargare i confini della res publica cristiana anche alla Sve-
zia, alla Norvegia, alla Finlandia, alla Polonia e alla Russia.
La terza parte delP opera riguarda il papato di Gregorio in funzio-
ne dell'Italia. Dopo la crisi dell'Impero d'Occidente e le invasioni
barbariche, anche il potere espresso dagli imperatori d'Oriente at-
traverso l'esarca di Ravenna era diventato nominale. In realtà i ter-
ritori interni erano dei Longobardi, mentre le isole e le fasce costiere
dei Bizantini. Gregorio, accortamente, fece in modo che queste due
forze non solo non lo danneggiassero, ma che, contrapponendosi,
gli garantissero maggiore autorità assicurando la preminenza anche
politica di Roma. Le pagine riguardanti l'Italia Meridionale ri-
tornano ai temi dell'/storta civile. La presenza di un numero notevole
di vescovati nel Mezzogiorno è ricondotta - secondo la lezione del-
PAulisio - alla presenza di altrettante sinagoghe primitive. Con-
trappone i costumi dei vescovi di allora, che giudica semplici come
quelli dei greci ed armeni dei suoi tempi, al fasto e alle ricchezze
che si imposero successivamente. Anche qui vi è un ricordo di quella
simpatia verso la Chiesa d'Oriente, creduta più pura nei costumi, o
perché sotto il controllo dell'imperatore, o perché povera e costretta
a sopravvivere in paesi ostili, che deriva dalla lettura di Marc' Anto-
nio De Dominis,2 oltre che dalla tradizione gallicana. La corruzione
dei vescovi occidentali fu proprio dovuta alle ricchezze, che li spin-
sero sempre più sulle vie del mondo. Per questa ragione arrivarono
all'immoralità pubblica e all'utilizzazione personale delle rendite, di
cui erano solo amministratori in nome dei poveri secondo l'antica
disciplina. La polemica si rinsalda con quanto aveva affermato nel-*
l'Istoria civile e con le sue letture, dal Du Pin a Zeger Bernard van
Espen. Infatti il capitolo xvm, sul tribunale della monarchia di Si-
cilia, è una piena riconferma delle tesi giurisdizionalistiche.
L'opera si conclude su due temi in cui i richiami al Du Pin sono
inevitabili: la disciplina della Chiesa d'Occidente e la carenza di
una vera storia ecclesiastica. Il Giannone vuol mostrare come la
disciplina ecclesiastica appartenga al costume, cioè sia una realtà
storica che si modifica nel tempo. Con Gregorio Magno si era rag-
giunta la superiorità e la piena affermazione del soglio romano sugli
1. S. Pufendobf, Introducilo ad historiam europaeam latine reddita a I. F.
Cramero, Ultraiecti 1693. a. M. A. De Dominis, De republica ecclesiastica
libri X, Londini-Francofurti 1 617-1658, in tre volumi. Sul rapporto Gian-
none-De Dominis cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa ecc.,
cit., soprattutto pp. 491-2.
NOTA INTRODUTTIVA 929
altri vescovi ; era significativo di ciò il nuovo titolo di cardinale, dato
ai legati e ai nunzi di Roma. Si impediva però che i monaci prendes-
sero tutti gli ordini, lasciandoli alla preghiera, allo studio e al lavoro.
La Chiesa di Roma, pur non avendo un suo territorio, era già in
possesso di un cospicuo numero di beni, che servivano per le spese,
assai più modeste di quelle che si fecero in seguito, quando il papato
cominciò a gareggiare con le corti mondane. Era il patrimonio di
S. Pietro, amministrato con molta oculatezza da Gregorio. Ma pro-
prio allora si cominciarono a raccogliere (soprattutto dalla pietà dei
principi) donazioni per Roma.
Il Giannone conclude affermando che per quanto riguarda la
disciplina ecclesiastica non ci si può basare né sui Padri, né sugli
autori della scolastica, ma sui documenti, che devono essere analiz-
zati con senso storico e collocati nel loro tempo criticamente : di qui
l'esigenza di una nuova storia ecclesiastica. In realtà il discorso tende
a porre in crisi il significato stesso di storia ecclesiastica nel senso
che riafferma l'esigenza baconiana di una storia delle religioni,1 pur
usando ancora il termine tradizionale. E qui naturalmente si deve
tener conto di tutta l'esperienza giannoniana se non si vuol correre
il rischio di trovare addirittura sproporzionata quest'appendice,
giustificata solo esteriormente rispetto al tema di Gregorio Magno.
In quest'ultima parte confluiscono le vicende intellettuali di tutta
una vita: diventa incomprensibile se appunto non si tien conto
che chi l'ha scritta, dopo V Istoria civile aveva affrontato un grandioso
tentativo di storia dell'umanità, dal mondo ebraico-gentile a quello
cristiano, assorbendo, come si è detto, non solo la cultura della crisi
della coscienza europea, ma alcune radicali intuizioni del deismo. Il
Triregno sarebbe in un certo senso impensabile senza il rapporto
con Spinoza e Toland, perché mancherebbero due punti di riferi-
mento costanti, ma sarebbe anche impensabile senza la conoscenza
di tutta la cultura erudita cattolica e soprattutto protestante che,
nella crisi, rinnova la storiografia religiosa. E inoltre, dietro il
Triregno, c'era un mondo inespresso di cui queste pagine sono una
prova sottile : il mondo delle curiosità orientali, del libertinismo che
si incuriosisce per i costumi degli altri paesi, soprattutto quelli
fuori della tradizione cristiana, e ne spia avidamente analogie e di-
versità, nelle relazioni dei missionari, nelle cronache dei viaggiatori,
nelle collezioni di splendidi disegni che tanto il principe Eugenio
che il barone di Hohendorf amavano raccogliere per le loro biblio-
teche. Questo mondo che ci parla di una Vienna protesa verso l'O-
1. Cfr. F. Bacon, De dignitate et augmentis scientiarum libri IX, in Opera,
1, Londini 1623. La prima edizione, in inglese, usci a Londra nel 1605.
50
930 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
riente, legittimamente curiosa della civiltà turca, e, oltre questa, di
tutte le civiltà orientali, in cui le intuizioni del deismo si inserivano
con un'evidenza ancor più profonda (erano gli stessi uomini che
avevano viaggiato per l'Oriente, che avevano combattuto i Turchi,
che come Alexander Bonneval1 o l'Hohendorf 2 ne avevano assimila-
to anche i costumi, ad aver rapporto con la letteratura deistica, ma-
gari con una coloritura conservatrice e con la saggezza aristocratica
dei vecchi libertini), era stato evidentemente respirato dal Gian-
none. Se ne trova un'eco in queste pagine che non solo confermano
il Triregno, ma pongono, almeno sul piano dell'esigenza, un di-
scorso ben più avanzato. La storia ecclesiastica viene ormai concepita
come una storia che abbracci -per le intime e profonde correla-
zioni - tutte le religioni : gentile, giudaica, cristiana e maomettana.
Con forza il Giannone riafferma il legame fra la religione gentile e
quella cristiana secondo il comparatismo deistico. Le eresie stesse
sono il frutto del drammatico sopravvivere nel cristianesimo del
paganesimo: anche questo lo aveva detto per primo Spinoza e lo
aveva confermato il Toland. Inoltre il mondo non finisce con l'Euro-
pa: gran parte dell'Asia è ancora gentile, come testimonia tutta la
letteratura sui riti cinesi.3 La religione naturale (in cui Dio coincide
con la natura) è ancora la più diffusa in Cina, India e Giappone.
Dato che l'Africa è più gentile che maomettana o cristiana, la reli-
gione pagana è in realtà la più grande delle religioni. Partendo da
quella cultura che si era nutrita di motivi assai diversi - risalenti
tutti però al cambiamento delle dimensioni del mondo e all'interesse
per i confronti-, il Giannone mostra di aver ereditato, come si è
già detto, l'esotismo presente negli ambienti libertini della corte
di Vienna. La scoperta di una religiosità diversa dalla propria non
nutre solo il relativismo scettico, che pure contribuì potentemente
al superamento degli atteggiamenti tradizionali; in una fase più
avanzata ha determinato il passaggio ad una consapevolezza storio-
grafica del fenomeno: dalla storia ecclesiastica a quella delle reli-
gioni.
Venendo a trattare della religione giudaica, il Giannone ritorna
ai temi del Triregno, riassumendoli, confermando il carattere pura-
mente terreno e mondano dell'ebraismo del primo Tempio e sot-
tolineando con più forza il legame tra l'idea dell'immortalità raccolta
i. Sul Bonneval cfr. H. Benedikt, Der Pascha-Graf Alexander von Bon-
neval 1675-1747, Graz-Koln 1959. 2. Sull'Hohendorf cfr. G. Ricupe-
rati, L'esperienza civile e religiosa ecc., cit., pp. 394-431. 3. Sui riti cinesi
cfr. F. Bontinck, La lutte autour de la liturgie chinoise aux XVII et XVIII*
siècles, Louvain-Paris 1962.
NOTA INTRODUTTIVA 93I
fra gli Egizi (come aveva sostenuto il Toland) e la corruzione del-
l'ebraismo. Inoltre coglie in esso (anche se corrotto dalla gentili-
tà) una tolleranza delle opinioni diverse che venne a mancare nel
cristianesimo a causa della rigida istituzionalizzazione. Ponendo le
origini della storiografìa moderna nel metodo umanistico e critico
erasmiano, coglie altresì il valore della rottura protestante. All'inter-
no del mondo cattolico la sua simpatia va ai gallicani, da Claude
Fleury, a Sébastien Le Nain de Tillemont, a Noèl Alexandre. Ma
rileva acutamente i difetti di questa scuola: la sopravvalutazione
della tradizione gallicana, il disinteresse verso le altre religioni,
verso la Chiesa orientale soprattutto, la volontà di isolare la religione
come momento fondamentale, senza saperla porre in relazione con
le dimensioni storiche e politiche dell'ambiente. Lo stesso limite è
colto nella storiografia anglicana, mentre la Germania protestante
ha almeno il merito di aver preparato il sottofondo erudito per una
storia ecclesiastica e civile. Nei motivi conclusivi di questo ultimo
capitolo, qui riprodotto, vi è un appassionato invito a studiare la sto-
ria del cristianesimo non solo in una dimensione erudita e documen-
taria, come aveva fatto la scuola maurina, ma soprattutto compa-
ratistica.
Sulla religione maomettana possono valere le osservazioni fatte
precedentemente: il collegamento stabilito con il mondo libertino
di Vienna e il discorso del Toland sul vangelo di Barnaba (Nazare-
nus), legame fra mondo ebraico e mondo maomettano. Il Giannone
è certo molto più cauto del Toland e senza dubbio più teso a non
cadere nel puro paradosso. Ma tolandiano mi pare soprattutto il
modo di sottolineare fortemente il motivo ebraico nel maomettane-
simo ; per esempio il Giannone afferma, con Toland, che i maomet-
tani, spinti dal monaco Sergio, mentre non perseguitavano gli Ebrei,
accusavano i cristiani di aver corrotto con il culto delle immagini e
un nuovo gentilesimo la morale mosaica. Naturalmente le fonti del
Giannone non sono solo il Toland o i missionari, ma anche le grandi
opere della cultura seicentesca sul mondo mussulmano, dal Rycaut
al Reeland,1
Le conclusioni riguardano la propria esperienza intellettuale ed
esaltano lo storico che compie il dovere di raccontare la verità: i
modelli sono ancora una volta Livio, Plinio e Jacques-Auguste de
Thou.2 Sono significativi perché dietro due di essi ritroviamo il
1. P. Rycaut, The Present State of the Ottoman Empire, London 1668.
Ma il Giannone lesse certamente la traduzione francese a cura di M. Briot
pubblicata a Parigi nel 1670; A. Relandi, De religione mohammedica libri
duo, Ultraiecti 1705. 2. Cfr. G. Ricuperati, op. cit., pp. 154-5; 162-3
e passim.
93^ ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
Toland: il riferimento a Livio significa infatti un atteggiamento
intellettuale e politico nei confronti del sovrano ben diverso da quello
che si è soliti attribuire al Giannone. Dietro Plinio - come già in
Toland - c'è il fascino di una visione terrena e concreta dell'esisten-
za, una morale naturalistica che si richiama allo stoicismo. Le Histo-
riae sui temporis del de Thou sono lo strumento che ha accompagna-
to il Giannone in tutte le esperienze. Modello nell'Istoria civile, come
opera di uno storico giurista della nobiltà di toga francese, acquistano
soprattutto ora un significato pregnante: è un'opera che ha avuto il
coraggio di denunciare le crudeltà commesse in nome della religione
e di battersi per la pace, per il superamento dei conflitti, resi inutili
dalla cultura e da una prospettiva più aperta. C'è un quarto modello :
il Giannone stesso, confermato con ostinazione, esaltato nonostante
la contingente prigionia, offerto al futuro per un giudizio.1 La co-
scienza di aver contribuito a questo discorso storiografico e non solo
con l'Istoria, ma soprattutto con il Triregno, è chiarissima e anzi
drammaticamente delineata dalla stanchezza presente, dalla coscien-
za offesa, dal senso della morte che la vecchiaia e la prigionia gli
ispirano.
Giuseppe Ricuperati
i. Cfr. La Chiesa sotto il pontificato di Gregorio il Grande, cit., pp. 470-1
(qui, pp. 985-6).
ISTORIA DEL PONTIFICATO
DI GREGORIO MAGNO
LIBRO IV
CAP. ULTIMO
Che ancor oggi fra le cose desiderate debba riporsi un'esatta,
generale e compita istoria ecclesiastica.
Parrà senza dubbio cosa strana, doppo essersi travagliato cotanto
da più scrittori moderni, spezialmente da' Francesi, sopra l'istoria
ecclesiastica, che io osi di dire che ce ne manchi ancora un'esatta,
generale e compita; ma chiunque vorrà prendersi la pena di at-
tentamente riguardare le più alte ed intime ragioni, cesserà di
maravigliarsi, e confesserà di essermi apposto al vero.
L'istoria ecclesiastica non ha si brevi confini, dentro i quali
questi scrittori han voluto ristringerla. Ella ne ha più ampi e distesi
e se in tesserla non si terrà conto di tutte le quattro principali re-
ligioni onde il mondo è ricoperto, cioè della gentile, giudaica,
cristiana e maomettana, non potrà certamente aversene una compi-
ta e perfetta; poiché l'una ha avuto ed ha molta correlazione e rap-
porto coll'altre; né si possono ben conoscere i vari stati e le varie
vicende, che sopra la superficie della terra han sortite, se di tutte
non si tenga ragione. Alcuni han conosciuto in parte questa verità,
onde han dato principio alle loro istorie cominciando dalla religio-
ne giudaica, riputata madre della cristiana*, ed il P. Natal d'Alessan-
dro,1 prima di trattar di questa, premette ben due grossi volumi
Quest'opera fu pubblicata nelle Opere inedite di P. Giannone, a cura di
P. S. Mancini, Torino 1852 (ma 1859), 11, con il titolo arbitrario La Chiesa
sotto il pontificato di Gregorio il Grande, Sui criteri editoriali del Mancini
cfr. Nicolini, Scritti, pp. 45 sgg. Per le pagine offerte in questa raccolta,
data l'impossibilità di utilizzare l'edizione citata, per i continui e pesanti
interventi del Mancini, ci siamo serviti esclusivamente dell'autografo con-
servato nell'Archivio di Stato di Torino, manoscritti Giannone, mazzo v,
ins. 1, con il titolo (e, 5) Istoria del pontificato di Gregorio Magno disteso
sopra le tre parti del mondo allora conosciuto : tratta delle sue epistole esposte
secondo il lor ver senso e ridotte in miglior ordine e disposizione. A e. 165 la
data finale: «12 settembre 1742». Cfr., oltre al Nicolini, cit., G. Ricupe-
rati, Le carte torinesi di Pietro Giannone, Torino 1963, p. 66; Giannoniana,
p. 456. Per un'analisi di quest'opera, nel contesto dell'intero discorso gian-
noniano, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa ecc., cit., so-
prattutto le pp. 581-91.
1. Natal d'Alessandro-, vedi la nota 1 a p. 104.
934 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
per darci contezza dell'istoria della chiesa giudaica, ben compren-
dendo che runa avendo molto rapporto colFaltra, non possono
andar disgiunte e separate. Conobbe pure che lo stesso avrebbe
dovuto farsi della maomettana ; ma egli nel VII secolo se ne disbriga
in poche pagine, come se fosse fuori del suo istituto, vedendo che
gli altri scrittori o non ne parlano, ovvero appena l'accennano nelle
loro istorie, quando non avrebbe dovuto essere trascurata. Ma della
gentile non si fa da tutti motto alcuno, come se non si appartenesse
affatto ad una compita istoria ecclesiastica, nel che sono andati di
gran lungo errati.1
Un'intera, perfetta e compita istoria ecclesiastica dee abbrac-
ciare tutte quattro, poiché chi dice istoria ecclesiastica^ dice istoria
di tutti i collegi ed assemblee di uomini insieme uniti per causa di
religione. E se bene presso i Greci e' Romani la voce ecclesia avesse
un più ampio significato, e comprendesse anche tutte le altre as-
i. Parrà senza dubbio . . . errati-, questa premessa è particolarmente signi-
ficativa in quanto mostra la profonda insoddisfazione del Giannone per la
storiografia ecclesiastica come era stata realizzata soprattutto in Francia,
da parte degli storici gallicani, come Fleury, Tillemont e Alexandre; una
insoddisfazione che naturalmente, più che un significato di critica verso
un'esperienza a cui pur il Giannone aveva fatto riferimento, vuole avere un
significato positivo, indicando cioè nuove prospettive. Dietro queste pa-
gine c'è, ancor viva, l'eco di una spinta ricevuta fin dalla giovinezza, dal
De augmentìs scientiarum di Bacone, in cui si esprime per la prima volta
l'esigenza del superamento della storia ecclesiastica per giungere alla storia
delle religioni. Ma questa eco era passata attraverso V Istoria civile (in cui
Vistoria ecclesiastica era stata utilizzata per capire la storia in senso lato,
e la Chiesa vista come una istituzione storica, spogliata di ogni diritto di-
vino), attraverso il Triregno, in cui, nonostante il permanere di uno sche-
ma teologico, la storia sacra aveva fatto sempre i conti con la storia pro-
fana, diventata strumento di demitizzazione e di dissacrazione; attraverso
l'incontro con il deismo e le sue esigenze non solo demistificatrici, ma so-
prattutto comparatistiche. È quanto il Giannone conserva del proprio pas-
sato: la volontà di analizzare il fenomeno religioso senza isolarlo né dal
contesto di civiltà che in un certo senso lo giustifica, né dalle altre espe-
rienze religiose. Ma se, forzatamente, egli tende a far passare questo suo
interesse come una migliore chiarificazione per il cristianesimo stesso, in
realtà la religione gentile, quella ebrea, quella maomettana, lo interessano
per se stesse, come è possibile notare anche nell'economia delle pagine che
seguiranno. Per intendere questa discussione storiografica, è necessario
quindi tener presente che il Giannone è passato attraverso tutte quelle espe-
rienze, dal libertinismo pirronista allo spinozismo, al deismo, che, fatico-
samente, han permesso il superamento di una concezione della storiogra-
fia ecclesiastica per giungere allo studio delle religioni e al metodo compa-
ratistico. Su questi problemi cfr. K. VÒlker, Die Kirchengeschichtsschrei-
bung der Aufklàrung, Tubingen 1921, e W. NiGG, Die Kirchengeschichts-
schreibung. Grundsnìge ihrer historischen Entwicklung, Mtinchen 1934.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 935
semblee d'uomini legitimamente ragunati per causa di politia civile
pel pubblico bene delle città, sicome S. Luca negli Atti, cap. 19, v.
39, chiamò ecclesia la legittima e pubblica radunanza di Efeso:
«in legitima ecclesia poterit absolvi», e nel v. 40: «dimisit eccle-
siam»; e Plinio il Giovane nelPep. 11 1 del libro x indrizzata al-
Pimperator Traiano chiamò pure ecclesia il pubblico consiglio degli
Amiseni in Bitinia: «et ecclesia consentente», nulladimanco dal
comun uso questa voce fu poi ristretta alle sole radunanze per causa
di religione. Sicché propriamente conviene non meno all'una che
all'altra di queste quattro. E più cagioni e forse più potenti dovean
movergli, sicome non han omessa la giudaica, di non trascurare la
gentile.1
1. Gentile.
Primieramente dovea di qui darsi principio per far comprendere
quanto la religione possa sopra gli animi umani, e che questa fosse
propria degli uomini, non già comune a gli animali bruti; e che
quella religione, che proviene dal solo istinto e propensione degli
uomini, per necessità dovea esser soggetta a mille errori ed inganni,
poiché la vera religione non dee riconoscer altro principio che la
divina rivelazione. Questa fu chiamata gentile, poiché al solo genere
umano appartenevasi, ed era presso tutte le genti comune; ond'è
che i savi romani giurisconsulti la religione erga deos la riposero
fra' diritti del ius gentium, sicom' erano i contratti, le permutazioni
e cose simili, non già tra il ius naturae? sicome l'accoppiamento de*
1. E pia cagioni , . .gentile: il Giannone, nel complesso dell'esperienza fi-
nora maturata, dall'/stona civile al Triregno, alle opere del carcere, ha
cercato di valutare nella storia del cristianesimo due componenti, che la
storiografia precedente aveva visto in contrapposizione: la componente ro-
mana e gentile (ma rovesciando il discorso del Baronio), per affermare che
il cristianesimo ha subito una progressiva istituzionalizzazione sulle tracce
dell'Impero, e quindi ne ha fatalmente assorbito anche certe cerimonie;
la componente ebraica (che gli derivava dal maestro Aulisio), per cui il
cristianesimo agì sulle linee di movimento dell'ebraismo e si confuse per
un certo tempo come una setta ebraica. Il Giannone coglie la possibilità di
far convivere queste due componenti, che si inseriscono perfettamente
nella sua volontà di analizzare la storia delle religioni come storia dell'at-
teggiamento umano di fronte al fenomeno religioso. 2. Questa . . . nata-
rae: ripete un motivo già sostenuto altrove, cioè che la religione non sia
nella sfera del diritto naturale, ma nella sfera del diritto delle genti; stabi-
lisce cioè implicitamente un rapporto più profondo fra religione e civiltà.
936 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
maschi colle femmine, la procreazione de' figliuoli, e simili ; e non
la compresero in questo dritto di natura poiché sarebbe stato lo
stesso che farla comune co' bruti ; onde Giustiniano M. come impe-
radore cristiano ascrivendola pure al ius delle genti, saviamente nelle
sue Pandette, ciò che gli antichi giurisconsulti gentili ne* loro libri
scrissero erga deos religio, egli tramutò in erga Deum religio ; sicome
fece S. Luca ne* suoi Atti, il quale rapportando l'iscrizione di quel
tempio in Atene che secondo gli antichi Padri e scrittori gentili di-
ceva così: « Ignotis diis », scrisse «Ignoto Deo», poiché oltre d'esser
più acconcia al tema di S. Paolo, così conveniva ad uno scrittore
cristiano.1 Adunque que' scrittori moderni i quali cotanto parlano
ed han sempre in bocca e nella penna «religione naturale», non
sanno essi medesimi che si voglion dire, poiché niuno disse che la
religione fosse iurìs naturae, ma sì bene iuris gentium, per escluder-
ne da quella gli animali bruti, i quali non sono capaci di religione
alcuna, essendo sola degli uomini; se non forse per ius naturale
intendano lo stesso negli uomini che ius gentium, sicome fa sovente
Cicerone nel Kb. 3 De officiis, il quale però per non confondere l'uno
coli' altro, si spiega dicendo: «hoc solum natura, id est iure gen-
tium)),2, chiamando il ius delle genti naturale, come quello che deriva
dalla umana natura, non già assolutamente dalla natura. E se bene
Plinio il Vecchio ne' suoi libri dell'Istoria di natura dia agli elefanti
anche religione, ed altrove nel lib. 7, in proem., par che agli uomini
solo attribuisca la superstizione, sicome l'ambizione e l'avarizia,3
non già la religione-, nulla di manco ciò in lui derivò dal concetto
che avea la natura essere eterna, non creata ed il solo nume, e che
non fosse già sorda, muta e cieca, ma intelligente, savia e provida,
e l'attribuì fino il profetare, dimenticandosi affatto del suo creatore;
che maraviglia fu dunque che facesse anche gli animali bruti parte-
cipi di religione? Ma questo medesimo scrittore nel cap. 7 del
1. onde Giustiniano . . .cristiano: veramente curioso e rivelatore il para-
gone stabilito fra Giustiniano, che trasforma Verga deos religio dei giuri-
sti gentili in erga Deum religio, per inserire il cristianesimo nel diritto delle
genti e nelle Pandette, e quanto fa Luca (Act., 17, 23), che trasforma l'iscri-
zione del tempio di Atene « Ignotis diis » in « Ignoto Deo », per accomo-
darla al discorso di Paolo e perché «così conveniva ad uno scrittore cri-
stiano». - scrittori gentili: così ci sembra di poter interpretare una confusa
abbreviazione. 2. Cicerone . . . gentium : De off., ili, v, 23 . 3 . E se bene Pli-
nio . . . avarizia: cfr. Naturalis historia, a cura di Jean Hardouin, Parisiis
1723, in tre tomi, rispettivamente lib. vili, cap. 1, sect. 1, tomo I, p. 435,
•e lib. vii, sect. 1, proemio, ivi, pp. 369-70.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 937
lib. 2° ben fa concepire che l'innumerabil turba di tanti dei o dee
non se non dagli umani affetti e dal timore ed infermità degli uomini
ebbe origine: «ut portionibus coleret quisque, quo maxime in-
digeret a.1
Da questo principio deriva che quella religione che proviene
dal solo istinto e propensione degli uomini, come che vani nel
pensare e ne' concetti, per necessità dovea esser soggetta a mille
illusioni, errori ed inganni; e quindi nella gentile derivarono il pro-
digioso numero di tanti dii e dee e le tante loro vane e fantastiche
idee. I loro dii per la maggior parte erano immaginari e finti; e
molti prodotti dal timore ne' mali imminenti, o dalla speranza di
futuri beni; onde non aveano altra sussistenza che nella loro
fantasia ed immaginazione. Erodoto, lib. 8, cap. ni, 112, e Plu-
tarco in Themìst.2 narrano che Temistocle doppo la battaglia di
Salamina fu vòlto a porre in contribuzione l'isole del Mar Egeo, e
giunto a quella d'Andros fece sentire agl'abitanti che «veniva ad
essi accompagnato da due potenti divinità»: dalla dea Persuasione
e dalla dea Forza; ma que' gli risposero ch'essi dal lor canto aveano
pure due divinità che gli difendevano non meno potenti che le sue,
le quali non gli permettevano somministrargli il denaro richiesto,
ch'erano la Povertà e ^Impotenza. Altri ne' luminosi corpi celesti,
come a noi superiori e cotanto sublimi, immaginarono divinità; e
come tanti numi gli prestavan religioso culto. L'immaginarono
eziandio nelle pioggie, onde il dio Pluvio^ ed in tutti gli altri strani
avvenimenti che nell'aria appariscono, de' quali ignorandone le
cagioni, erano attribuiti a' numi celesti. Nella superficie della
terra stessa che calcavano co' piedi seppero trovar deità, ne' fonti,
ne' fiumi, ne* laghi, ne' monti, nelle selve, nelle valli, nelle spe-
longhe Fauni, i Sileni, Pan ed in fino ne' sordi tronchi degli alberi
le ravvisavano. E non riguardando la loro religione se non il riposo
di questo mondo, felicità o miserie tutte terrene, quindi i loro voti
e preghiere non si raggiravano che intorno a suppliche di scam-
pargli da' mali e di prosperargli di felicità e mondane contentezze.
Da ciascuna umana passione, da ciascuna virtù, anzi da' vizi stessi,
1. Ma questo medesimo . . . indigeret: Plinio, come il Toland nel più volte
citato Adeisidaemon (cfr. la nota 1 a p. 736), viene utilizzato in senso anti-
superstizioso. Il passo citato in Nat. hist., ed. cit., tomo 1, p. 72 («cosi che
ciascuno venerava settorialmente quelle divinità di cui soprattutto aveva
bisogno»). 2. Themìst, 21, 2.
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dalle nostre infermità o difetti facevan nascere anche dii e dee.
Quindi sursero le dee Pudicizia, Concordia, Clemenza, Fede, Spe-
ranza, e la dea Mente. Quindi il dio Onore, Favore, Pallore e tanti
altri. Fino i ladroni ebbero Mercurio e la dea Laverna, perché
prendessero di lor protezione e favorisse i loro furti e rapine. A
questa dea aveano consecrato un bosco vicino a Roma, dove s'uni-
vano a dividersi le loro prede, alla quale rendevan voti e suppliche
affinché li procurasse di buone prede. Nel medesimo bosco aveano
eretto un altare alla dea Fraude, pregandola di soccorso. Anche
da' morbi, dalle pesti, dalla scabie ed altri mali che pavidi e timorosi
cerchiamo fosser da noi lontani, sursero nuovi dii e nuovi tempii
ed altari. Infino alla dea Febre fu eretto in Roma nel Palazzo un
tempio, ed un'ara alla Mala Fortuna. Al silenzio assegnarono
Harpocrate per dio a gli uomini, e per le femmine la dea Tacita.
Per una sola voce udita o immaginata, « Gallos adventare », narra
Livio nel lib. 5 della I deca che Camillo in quei luogo costrusse
un tempio alla dea Locutione.1 Ma alla dea Fortuna quante pre-
ghiere, e sovente anche accuse ed imprecazioni si fanno da' miseri
mortali? Ella sola s'invoca in ogni luogo ed in ogni ora: si loda,
si biasima e maledice come incerta, vaga ed incostante, fautrice
degl'indegni ed avversa a* buoni. E pure noi ce l'abbiamo finta e
collocata in cielo. Niente è in natura fornito, e sempre con perpetua
serie cosa nasce da cosa; noi che non sappiamo l'immediate cagioni
onde con tal effetto si produce, immaginiamo che sia fortuito, e
pure di necessità così dovea accadere, e maraviglia sarebbe se fosse
accaduto il contrario, quindi saviamente disse Giovenale :
Te deam, Fortuna, facimus, coeloque locamus.3.
Ne' sponsali e ne' parti delle donne e prima e doppo, quanta
turba di dii e dee concorrevano? Nell'infanzia prendevan cura
del nato speciali numi; altri nella puerizia; altri nell'adolescenza;
altri nella gioventù, raccomandandogli alla dea Iuventa; finché
condotto al sepolcro non lo lasciassero alla discrezione e giudizio
degli dii infernali, a' quali pure rendevan adorazioni e religioso
1. Da ciascuna umana . . . Locutione: ripete un brano dei Discorsi: cfr. qui
p. 754 e la nota 2 ivi. 2. Sat.t x, 365-6: «nos te/nos facimus, Fortuna,
deam, caeloque locamus» («noi, noi facciamo di te una dea, o Fortuna, e
ti collochiamo in cielo»).
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 939
culto, per avergli placati ed affinché non gli nocessero. Tanti numi
non furon prodotti se non per proprio istinto e dalla debolezza e
fragilità dell'umana condizione, la quale sperimentando nel corso
di questa vita tante sciagure, le divide in tante porzioni, e ne forma
tante deità perché sian preste a soccorrergli.
Un altro non men redundante ed ubertoso fonte gli produsse,
poiché gli trasse da gli uomini stessi. Nell'antichissimo regno
d'Egitto, il costume di condire1 e conservare i cadaveri de* loro
morti, esporgli al cospetto delle famiglie nelle proprie case, e imo
di mettergli a tavola ne' loro conviti, fece che a lungo andare il
vedersi avanti gli occhi i corpi imbalsamati de' loro defonti che
aveano amati ed onorati in vita, e conservandone la memoria anche
con statue e dipinture rappresentandogli come se fossero vivi, si
eccitò a far verso di essi atti di venerazione, la qual pian piano
crescendo, sicome suole avvenire in tutte le cose, la venerazione
si tramutò in adorazione, onde sursero altri dii e dee. In cotal guisa
ciò che i figliuoli fecero a' loro padri, ricevettero essi da' figliuoli,
e se ne multiplicò il numero ; sicome saggiamente fu espresso nel
libro della Sapienza, cap. 14, 15, ove leggiamo queste parole:
«Acerbo enim luctu dolens pater, cito rapti filii fecit imaginem,
et illum qui tunc quasi homo mortuus fuerat, nunc tanquam
deum colere coepit, et constituit inter servos suos sacra et sacri-
ficia».
Derivarono anche da gli uomini per un altro verso. I primi
conquistatori, i primi inventori delle arti e delle scienze si merita-
rono doppo la lor morte onori divini, e di esser numerati fra* dii
celesti. Chiunque porrà mente alla primiera vita degli uomini tutta
selvaggia ed incolta, troverà che viveano sparsi sopra la superficie
della terra in separate famiglie; non ridotti in una società civile, ma
ciascun padre di famiglia era il re e signore della sua casa, secondo
che apprendiamo dalle antichissime memorie che ancor ci restano,
a noi tramandate da' vetusti scrittori, da Omero, da Erodoto, da
Diodoro Siciliano che le raccolse ne* suoi primi cinque libri della
Biblioteca istorica, e sopra tutti dal libro di Gioì e dalla Genesi di
Mosè:a libri i più vetusti di quanti la più remota antichità ha
1. condire: seppellire, imbalsamare (latinismo). 2. Chiunque — Mose', cfr.
D. Aulisio, Delle scuole sacre libri due postumi, Napoli 1723, due tomi in
un volume, 1, cap. xxvi, De* poeti idumei, pp. 143 sgg-> soprattutto p. 148,
in cui si afferma che il libro di Giobbe è, almeno per una parte, il più
940 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
potuto somministrarci. Ma quando dapoi, surti uomini di valore,
di estraordinaria forza e coraggio, cominciarono a farsi capi di
numerose truppe e scorrer la terra, di predare e fare conquiste di
ampi paesi, allora si vide il mondo prender altra faccia. Quindi
sursero i regni e le grandi monarchie, quindi l'antichissimo regno
di Egitto, i regni di Argo e di Sidone; quindi il vasto imperio degli
Assiri, a' quali succedetter poi i Medi, i Persi, i Greci sotto Ales-
sandro M., e finalmente i Romani. Tutti questi primi insigni
conquistatori presso più nazioni furono ascritti nel numero de' dii
celesti, ergendogli tempii ed altari e prestandogli religioso culto.
Quindi nella Grecia si vide sorgere queir innumerabile schiera di
dii e di dee maggiori e minori, che non furono se non dal fango
e dalla vii terra nati. Così nella Grecia, la quale empì il mondo
di tante deità, doppo le conquiste di Acmone, Uranio suo figliuolo
che gli successe, per render più rispettabile la memoria di suo pa-
dre, gli fece prestar da' popoli onori divini, onorandolo con sacrifici
ed ascrivendolo tra il numero de' dii. Lo stesso fu dapoi a lui ren-
duto dal suo figliuolo Saturno. E, sicome suole avvenire, sempre
più il fascino e l'adulazione avanzandosi, si vide multiplicare il di
lor numero ; poiché Uranio e Saturno avendo per mogli, sicom'era
il costume di que' primi tempi, le proprie sorelle, ambi chiamate
Vesta, i figliuoli che ne nacquero, da ambo i lati procedendo da
stirpe divina, furon ancor essi riposti fra il numero de* dii. Quindi
sursero i dii maggiori e più potenti, Giove, Plutone, Nettuno,
Giunone, figli di Saturno : ma niuno ne fu più fecondo quanto che
Giove, il quale non pur da Giunone, sua moglie insieme e sorella,
ma da tante altre sue concubine o amorose ne accrebbe il numero.
Di Giunone trasse Marte ed Ulcano: di Latona, Apollo e Diana:
poiché Minerva, essendo di madre incerta, la favola finse esser
surta dal capo di Giove. Di Maia Mercurio, e di Diana trasse
Venere; e questa ch'ebbe più mariti ed amanti multiplicò il nu-
mero e ci diede altri dii, Imeneo, Priapo, Cupido, che procreò da
Mercurio, ed un altro Cupido natogli da Marte; e la favola vi ag-
giunge anch'Enea, procreato da Anchise. Di Apollo venne Escu-
lapio, e così di tanti altri dii e dee. Né meno numerosa fu la pro-
genie degl'eroi o semidei, che non furono che uomini: Ercole, Te-
antico documento storico, basando tutta la dimostrazione (che il Giannone
riprenderà nell'io ingegnosa) sulla presenza del più antico nome di Saddai
invece del più recente Jahvè.
LIBRO IV - GAP. ULTIMO 941
seo, Castore e Polluce, Giasone, Orfeo, Cadmo e tanti altri, a' quali
prestaron pure divini onori.
A' primi inventori delle cose, delle arti e delle scienze attri-
buirono gli stessi onori. A Bacco non pur come figlio di Giove e
gran conquistatore, ma eziandio perché a lui s'ascrisse l'invenzione
del vino; sicome a Cerere la cultura del frumento e delle biade ed
a Mercurio le lettere. Così pure a Titone ed a Belo per l'astrono-
mia. Ad Enetone figlio di Ulcano per l'invenzione de' carri. A
Prometeo delle statue. A Pane inventor del flauto. Ad Aristeo
dell'oglio e del coagulo. A Triptolemo del aratro. Ad Atlante per
l'astrologia. A Danao inventor delle navi. A' Cureti per le danze;
e chi potrebbe annoverargli tutti? A tutti questi, come quelli che
aveano sollevato il genere umano da una vita ferale e selvaggia ad
un'altra più civile e eulta; dalle ghiande e dall'acqua al pane ed al
vino ed a più saporose vivande, dalle spelonche ad abitazioni ma-
nufatte e ad altri agi e commodi, prestaron pure religioso culto,
ergendogli tempii ed altari, istituendogli propri sacrifici, giochi e
feste proprie, vittime, sacerdoti e sacerdotesse, poiché ve n'erano
dell'uno e l'altro sesso, e tanti altri riti e varie religiose cerimonie.
E poiché una tal religione non era guidata se non dal proprio umano
istinto, dalle nostre passioni ed affezioni, dalle nostre illusioni,
timori e speranze e vane fantasie, quindi ne vennero i tanti vari,
ridicoli e sconci riti e sacrifici: ed avesse piaciuto al cielo che le cose
si fosser fermate qui ; ma poiché non vi è chi possa maggiormente
spingere gli animi umani alle maggiori crudeltà e scelleraggini,
quanto una prava religione, quindi si videro in alcune nazioni ef-
ferate e barbare riti a sé conformi; obbligare i sacerdoti di Cibele a
castrarsi ; ad esser seppellite vive le vergini della dea Vesta perché o
non serbarono castità, ovvero per lor negligenza essersi estinto il
foco alla lor custodia raccommandato per uso de' sacrifici: ed in
fine a render vittime infelici gli uomini stessi, ed i padri incrudelire
contro i propri figliuoli, scannandogli avanti i loro altari.
Ora come chi tesse una general istoria ecclesiastica potrà omet-
tere tutte queste cose, se al confronto della religione giudaica e
cristiana riescono di pruove evidenti ed irrefragabili della loro
verità, ed all'incontro mettono in più chiara luce la falsità della
gentile? La religione giudaica e cristiana rimove tutti questi falsi
princìpi e c'insegna che la vera religione non dee aver altro princi-
pio e fondamento che la divina rivelazione. E la ragione apparirà
942 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
manifestissima a chi vorrà riguardare la miseria e debolezza della
umana condizione; poiché se a noi sono ignote fino le cose più
vicine, che ci circondano, delle quali dovremmo saperne la sustan-
za, e non arriviamo a concepirne se non i modi, l'apparenze e sol
quanto a' nostri sensi esterni si offerisce, come possiamo penetrare
nella sommità de* cieli, e sapere la natura divina, e come gli piaccia
esser adorata, ed in qual maniera prestategli religioso culto, se
non per alta e divina sua revelazione ? Per questa ragione la nazione
ebrea, ancorché ristretta in un picciol angolo del mondo, ebbe sopra
tutte le altre genti quella giusta, savia e vera idea della divinità,
perché revelata. Essere un solo l'eterno nume, infinito, onnipotente,
sapiente; tutta mente, tutto spirito, tutto senso. Creatore e mode-
ratore di quanto di visibile ed invisibile è nell'ampio universo.
Fabro della natura, alla quale diede legge, moto e figura; e che
sicome la formò, così possa a sua voglia cangiarla, mutarla, e dargli
altro corso e disposizione. Al cui volere ubbidiscono i venti, il mare,
il cielo e la terra; si restano dal lor corso i pianeti ed i fiumi. Vanno
i monti e si appianono, e s'innalzano le valli. Non confusero gli
Ebrei Dio colla natura; né Mosè fu panteista,1 sicome attorto
interpretarono la sua dottrina Diodoro Siciliano e Strabonc, i quali
non ebber notizia de' suoi libri, dove avrebber letto por egli
tanta differenza tra Dio e la natura, quanta è fra creatore e creatu-
ra, fra li quali non può immaginarsi maggiore e più infinita di-
stanza.
Per divina revelazione gli Ebrei appresero la maniera come deb-
bia esser adorato, e come rendersegli i sacrifici, le vittime e gli olo-
causti: non già inventati di lor capriccio, secondando gli umani
istinti, le nostre passioni ed affetti, e le nostre illusioni e fantasie ;
e quindi i loro riti e religiose cerimonie erano pure, semplici ed
i. né Mosè fu panteista', ritorna ancora una volta, in un tentativo estremo,
la volontà di polemizzare contro l'espressione usata dal Toland nelle
Origines iudaicae a proposito di Mosè panteista: il Giannone si affianca in
questo alla polemica del Deyling (cfr. la nota 2 a p. 602). Ma il significato
di questa polemica forzatamente limitativa si attenua pensando che molte
delle osservazioni precedenti sulle origini dei culti e soprattutto sulle su-
perstizioni in generale valevano anche per l'ebraismo. L'espressione più
sopra «i padri incrudelire contro i propri figliuoli, scannandogli avanti i
loro altari » può riferirsi ugualmente all'episodio di Ifigenia o di Mcropc,
come a Isacco o alla figlia di Iefte. In realtà, come, nonostante tutto, il
Giannone conferma anche nelle opere del carcere, l'ebraismo è una reli-
gione naturale e terrena.
LIBRO IV • GAP. ULTIMO 943
innocenti, ed i loro sacrifici non contaminati di uman sangue.
E discendendo alla religion cristiana, far comprendere che in
essa non pur lo stesso avenne, ma ad una revelazione assai più
sicura e manifesta esser appoggiata; poiché nel Vecchio Testamento
Iddio parlò a gli Ebrei per mezzo de* profeti, ma nel Nuovo per
se stesso, mandando in terra Punico suo figliuolo, vero Dio, ad
assumer carne umana per rivelarla a gli uomini e di esser mediato-
re fra il cielo e la terra. Conobbero anche i più saggi gentili que-
sta verità, che la religion pura dee dipender da divina revelazio-
ne; e perciò i più grandi e sapienti fondatori di repubbliche e di
regni si studiarono far credere a' popoli che quelle leggi che sta-
bilivano intorno alla lor religione erano state ad essi revelate
da* sommi dii. Così secondo rapportan Diodoro Siciliano e Stra-
bone, feccr Mneve presso gli Egizi e Licurgo presso i Lacede-
moni,1 il quale, sicomc rapporta Giustino nel 3. lib., finse che
l'avesse apprese da Apollo.* Parimente Minos ogni nove anni una
volta si ritirava in certa spelonca; ed ivi fermandosi qualche tem-
po, ne usciva poi, e faceva credere al popolo di Creta che avea
trattato con Giove, dal quale avea ricevuto le leggi da doversi osser-
vare in quel regno. «Minos Cretensium rex» scrive Valerio Mas-
simo, lib. 1, cap. 3 «nono quoque anno in quod[d]am praealtum,
et vetusta religione consecratum specus secedere solebat, et in eo
commoratus, tanquam a love, quo se ortum ferebat, traditas sibi
leges praerogabat».3 Solone presso gli Ateniesi, Zaleuco, Zamolci
ed altri capi e direttori di popoli incolti e rozzi lo stesso fecero:
e Livio rapporta che il medesimo facesse Numa Pompilio co*
Romani, dando a sentire alla credula multitudine eh* egli avea not-
turni colloqui colla dea Egeria, dalla quale apprendeva gl'instituti,
i riti e le leggi, le quali a* dii piacessero, e fosser loro grate ed ac-
cette.4 Ma questi medesimi scrittori, e spezialmente Livio, ci
rendono testimonianza che dalla gente savia ed accorta fu ben com-
preso che ciò fosse un tratto di lor fina politica, non essendo cosa
più efficace di contenere in disciplina la multitudine imperita che
la forza della religione; ed affinché le loro leggi avute per divine
1. Così secondo . . . Lacedemoni: ritornano i temi del Triregno (cfr. la nota 1
a p. 883), ma questi si completano significativamente con i temi dei Discorsi
scritti in carcere, z. il quale . . . Apollo: Giustino, Epit., m, ni, io.
3. « Minos Cretensium. . .praerogabat»: Fact. et dicU mem>, i, il (e non
in), ext. 1. 4. e Livio . , . accette: cfr. i, 19, 5-
944 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
fossero da' popoli con riverenza ricevute e con prontezza ubbi-
dite. Ciocché non poteva dirsi dell' ebraica, e molto meno della
cristiana, la quale non riguarda la felicità ed il riposo di questo
mondo, ma un fine assai più alto e più sublime.
A tutto ciò si aggiunga che la mitiologia gentile è necessaria per
ben capire i libri dell'Antico Testamento, poiché' essendo gli
Ebrei circondati da nazioni idolatre colle quali ebber sempre con-
tese ed aspre guerre, ed o vincenti, o perdenti, furon pure conta-
minati di gentilesimo, adorando i lor numi. Or se è così, come
senz'averne cognizione potranno intendersi i dii nominati in
que' libri, cioè il dio Apis degli Egizi, rappresentato in un vitello
d'oro ; gli altri dii degli Assiri e de' Babilonesi, di cui il maggiore
fu reputato Belo che credesi esser lo stesso che Nembrot, al quale
eressero in Babilonia quel magnifico tempio, i cui vestigi ancor
oggi si mostrano a' viandanti per cosa maravigliosa e stupenda?
Terafi ed Astarte dea de' Sidoni, Remnon dio de' Damasceni, il
dio Moloch, adorato dagli Accaroniti, al quale sacrificavano i loro
propri infanti; ed alla quale inumanità furono anche spinti gli
Israeliti? Belphegor dio de' Moabiti. Astaroth e Dagon dii de'
Filistini. Chamo dio degli Amorceni. Melchon dio degli Ammoni-
ti. Adone che il P. Arduino vuole che fosse la dea Diana.1 Il dio
Priapo figlio di Venere e guardiano degli orti, memorato pure in
questi libri? sicome qualche volta nominati dalla Scrittura la mi-
lizia del Cielo, e di tanti altri ? E nel Testamento Nuovo negli Atti
di S. Luca il famoso tempio in Efeso2 della dea Diana, dell'altro
in Atene dedicato «Ignoto deo», di Castore e Polluce e di altri
nominati da S. Luca e da S. Paolo nelle sue epistole? Di tutti que-
sti non se non trattando della religione gentile potea aversene
notizia.3
i. Adone. . . Diana: cfr. Plinio, Nat. hist., lib. xrx, cap. iv, sect. xix, la
nota i a pp. 161-2 del tomo 11 della citata edizione del 1723. 2. il famoso
tempio in Efeso : cfr. Act. ,19, 24-3 5 . 3 . Non si deve dimenticare che il Gian-
none ha una profonda conoscenza non solo del Bochart e dell'Huet (cfr.
la nota iap, 599), come dimostrava a suo tempo la recensione all'inedita
Philosophia adamito-noetica di Antonio Costantino, ma che ormai aveva
preso le distanze da questo tipo di letteratura, che, nata in una dimensione
puramente erudita, come nel caso del Bochart, o addirittura a scopo apolo-
getico, in Huet, aveva contribuito a porre in discussione quella tradizione
contro cui la punta più estrema era stata l'opera di Spinoza. Di tutto quel-
l'avventuroso deduttivismo, il Giannone vuole salvare l'elemento storica-
mente valido: l'utilizzazione della conoscenza dei culti, che si intersecano
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 945
il. In secondo luogo per un'altra ragion potissima non dovea
omettersi nell'istoria ecclesiastica la religione gentile, poiché que-
sta ebbe pure miracoli e profezie. Vantava miracoli stupendi de*
quali sono piene le loro istorie, spezialmente quelle di Livio, e
presso i Greci si arrivò fino a far risuscitare i morti, de' quali fu
da noi lungamente trattato nella 1 parte de' Discorsi sopra Livio,
disc. 5.1 Vantava profezie, oracoli, Pizie, indovini, de' quali ampia-
mente fu da noi ragionato nel discorso 3.* Tutti questi miracoli e
profezie bisogna mettergli al confronto di que' che debitamente
vantano la religione giudaica e cristiana, per maggiormente convin-
cergli per favolosi, per fantastici ed illusioni, e le profezie per arti-
fizi, inganni e furbarie de* loro indovini; e per dimostrargli tali non
contentarsi di quanto i Padri antichi ne han scritto per confutargli,
fra gli altri Lattanzio Firmiano nelle sue Istituzioni divine, e S.
Agostino ne' libri della Città di Dio ; poiché questi troppo potere
danno a' demòni, e quasi tutti gli rapportano a virtù diabolica, a'
prestigi e magiche operazioni le quali per se stesse niente hanno
di efficacia e sono tutte vane illusioni e visioni fantastiche, né i
demòni per se stessi, come cose create e poi ridotte nella più vile
ed infima condizione, possono cos' alcuna e molto meno presag-
girc il futuro. Le armi più forti le somministrano gli stessi savi
scrittori gentili, i quali o assolutamente negano i fatti, ovvero gli
qualificano per illusioni ed inganni dell'imperita e credula mul-
titudine, sicome Livio in fra gli altri; e fa maraviglia come Lat-
tanzio e S. Agostino in molti non negano, anzi consentano ne' fatti,
quando questo savio ed accurato scrittore gli niega, o gli deride,
nò in altra guisa tratta i loro oracoli ed indovini, sicome da noi fu
avvertito nell'Apologia de' teologi scolastici trattando de' libri di
Lattanzio,3 ed ampiamente dimostrato ne' cit. Discorsi sopra gli
Annali di Livio* I savi, profondi ed accurati istorici e filosofi greci,
profondamente nell'ebraismo e perfino nel cristianesimo, per conoscere
meglio la storia delle religioni. 1* de1 quali . . . disc. 5: cfr. P. Giannone,
Opere inedite, a cura di P. S. Mancini, Torino 1852 (ma 1859), h Discorsi
storici e politici sopra gli Annali di Tito Livio, discorso v, De' finti miracoli
accaduti presso a? Romani, a1 quali prestavasi intiera fede, pp. 77 sgg.
2. nel discorso 3 : cfr. qui, pp. 747 sgg. 3. sicome . . . Lattanzio : cfr. Apolo-
gia de* teologi scolastici, libro n, De* libri di Lattanzio Firmiano, in Archivio
di Stato di Torino, manoscritti Giannone, mazzo v, ins. 2. 4. Il Giannone
contrappone, come aveva già fatto il Toland, la capacità demistificatrice di
Livio e di Plinio, nei confronti dei falsi miracoli, alla credulità dei Padri,
Questa e la pagina seguente sono una riconferma dei Discorsi e dell' Apolo-
go
946 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
i prudenti, avveduti e seri romani scrittori, fra gli altri Varrone,
•Lucrezio, Cicerone, Livio, Orazio, Plinio il Vecchio e tanti altri,
sicome si burlavano del prodigioso numero de' loro dii, così ripu-
tarono illusioni, inganni e furbarie i loro miracoli e profezie; ed
Erodoto, ancorché s'ingegnasse di accommodarsi al genio de'
superstiziosi e creduli Greci, con tutto ciò non potè dissimulare
nella sua istoria le furbarie delle Pizie, le quali sovente per danaio
vendevano le profezie secondo che i compratori volevano che l'ora-
colo rispondesse.1 E sopra questo principale ed importantissimo
punto devono gli scrittori delPistoria ecclesiastica insistere e fer-
mar il piede; poiché la divinità de' nostri sacri libri sopra queste
due basi si appoggia: sopra i miracoli e sopra le profezie, facendo
conoscere che le sole religioni giudaica e cristiana ebbero veri
miracoli e profezie; poiché il cangiar corso alla natura, variarla e
produr effetti fuori dell'ordinario suo corso, dove consiste il mira-
bolo, è di Dio solo, e per ciò i profeti e i santi del Nuovo Testamento
niente a sé attribuivano, ma tutto riportavano all'onnipotente Id-
dio, di cui non erano che semplici istromenti; e non era altro il
lor pregio se non di aver la sua grazia di essersi ad essi manife-
stato e per lor mezzo adoperargli. Parimente nelle profezie, poiché
di Dio è solo d'aver presente anche il futuro, né di ciò possono van-
tarsi i demòni, né gli angeli stessi, tutto si ascriveva a divina revela-
zione; né per propria virtù altamente dichiaravasi che profetassero,
ma le loro consuete formole erano : « Haec dicit Dominus », « Ver-
bum Domini», e simili. Queste due sono le più chiare e rilevanti
marche che distinguono la verità di queste religioni dalla falsità
delle altre, e che ci somministrano le pruove più evidenti della
divinità de' nostri sacri libri. La profezia, la quale ci narra le cose
future, come l'istoria le passate: ciocché non puoi ottenersi se non
unicamente dalla divina prescienza, essendo a Dio solo palese il
futuro. I miracoli, i quali sono un'evidente pruova della divina
onnipotenza, la quale sola può immutare il corso della natura e
variarla a sua posta, essendone egli l'unico autore e maestro. Quin-
di saviamente scrisse S. Agostino nel lib. io, cap. 7 e 8, della Città
di Dio: «Divinam Scripturam e coelo descendisse; nam huic
Scripturae, huic legi, talibus praeceptis tanta sunt attestata mira-
gia e di quanto del discorso tolandiano vi permaneva. Cfr. i Discorsi, qui
a PP- 753 sgg. i, ed Erodoto . . * rispondesse: cfr. vi, 66.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 947
cula, ut de eius divinitate satis constet».1 I nuovi nostri istorici
ecclesiastici han fatti maravigliosi progressi, ed han dimostrato
insino all'ultima evidenza V antichità ed autenticità de' nostri sacri
libri; ma intorno a pruovare la loro divinità non si è travagliato
quanto meritava un punto sì importante. Ciocché senza metter
a confronto i miracoli e profezie che vanta la gentile con quelli
delle religioni giudaica e cristiana, non potrà ottenersi giammai.
in. In terzo luogo, per ciò che riguarda ristoria della Chiesa
cristiana si è fin qui trascurato un altro punto non meno impor-
tante, cioè di non farsi alcun motto come da' gentili teologi fosse
stata maneggiata la loro religione: quando senza una tale notizia
non potranno intendersi giammai le cagioni e scovrirsi i fonti
onde ne* tre primi secoli della Chiesa scaturissero tante sì strane
e fantastiche eresie, che corruppero la pura, semplice e limpida
dottrina cristiana. Ebbero i gentili pur i loro teologi, i quali se bene
sotto il nome di filosofi ed in altra guisa trattassero la loro religione,
furono cagione che, resi dapoi cristiani, voller anche la semplice
dottrina, che ci lasciò il nostro buon Redentore, trattarla come
mondana, ed adattarla alla loro filosofia platonica o aristotelica da
essi professata. Dal primo libro dell' Apologia de' teologi scolastici
si è abbastanza conosciuto che da' primi nostri teologi, i quali
uscirono dalla scuola di Alessandria, ove prima professavasi la fi-
losofia di Platone, e dapoi vi fu introdotta anche quella di Aristo-
tele, vennero tante opinioni e sì varie e fantastiche dottrine.* Que-
sti dal gentilesimo passando al cristianesimo vollero adattare alla
nuova religione che abbracciarono le stesse forme, metodi e ma-
niere trattandola come se fosse una scienza mondana; e sicome
trattando della gentile cercarono ne' loro dii mitologie con divider-
la in poetica, filosofica e civile, di investigare ne' libri di Omero
e negli altri poeti sensi allegorici, mistici e morali; così pure intra-
presero di maneggiar la cristiana. Quindi le tante dispute sopra i
libri di Mosè intorno alla creazione del mondo e sopra l'epistole
di S. Paolo e di S. Pietro, del suo fine e rinovellamento ; della
I. «Divinam . . . constei»: De cìv. Dei, x, vii, in Migne, P.L„ xli, col. 285,
citazione ad sensum («che la Divina Scrittura fosse discesa dal cielo: infatti
questa Scrittura, questa legge e questi precetti son comprovati da così tanti
miracoli, da essere a sufficienza evidente la loro divinità»). 2. Dal pri-
mo .. . dottrine: ancora una volta il Giannone si rifa al suo maestro Auli-
sio, oltre che allo Spinoza e al Toland.
948 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
resurezione de' morti, della natura delle anime umane, dello stato
delle medesime fuori de' loro corpi, e tante altre metafisiche, vane
ed astratte dispute da noi rapportate in quel libro; ed ancorché
S. Paolo gridasse a' suoi che si astenessero di queste inutili brighe,1
non fu però possibile che non ne fusse pieno l'Oriente, dove il
cristianesimo, sicome fece i primi ed i maggiori progressi, così si
vide inviluppato tra* cristiani stessi fra tante alterazioni, dispute
e contenzioni ; ciocché presso i Romani, i quali non sapevano ben
discernere i veri e puri da quelli fanatici ed impuri, facendone un
sol fascio, furono i cristiani riputati atei, sacrilegi, pazzi, frenetici
e peste del genere umano. Le nostre istorie ecclesiastiche rap-
portano sì bene l'eresie surte in que' tempi, e narrano le mostruose
e strane opinioni; ma lasciano i lettori dubbiosi per credere che le
menti umane avesser potuto dare in tanti deliri, poiché non ad-
ditano le vere cagioni onde ciò avvenisse per toglierne la maraviglia
e l'esitazione.
iv.a Come potranno ben capirsi i progressi fatti in Oriente ed
Occidente dalla religione cristiana sopra la gentile, l'epistole di
S. Paolo, gli Atti di S. Luca, e l'istoria di questa nascente Chiesa,
se non precederà la notizia della gentile che avea occupato tutto
il mondo, e che le più grandi conquiste furono sopra questa, non
sopra gli Ebrei, ristretti in un angolo del mondo e sparpagliati di
qua e di là sopra la terra? Come potran conoscere la sapienza di
que' primi seniori della Chiesa di Gerusalemme, i quali ragunati
in concilio stabilirono le regole per la conversione de' gentili, non
obbligandogli ad altro che di astenersi dagl'immolati, dal sangue
e dalla pagana fornicazione, ciocché produsse quel maraviglioso
cangiamento, che si vide in Oriente, e spezialmente nella Bitinia
e Ponto, come ce ne rende testimonianza Plinio il Giovane nel-
l'ep. scritta all'imperadore Traiano, dove rari eransi resi i sacrifici
ed i tempii quasi tutti chiusi, poiché non s'immolavano più ostie,
né maggiori né minori, onde i macellari non trovavano più com-
pratori di carni di vittime scannate innanzi gli altari, poiché a*
gentili convertiti ciò era proibito di mangiarne ?3 Come in fine in-
i. S. Paolo . . . brighe: allude forse a Rom., 12, 3: «non plus sapere quam
oportet sapere», z. JV\ in margine alla carta precedente, 1511?, ma senza
segno di richiamo, il Giannone ha scritto : « iv. La miglior intelligenza de*
progressi della cristiana sopra la gentile, e degli Atti di B. Luca ed cp. di
S. Paolo». 3. Plinio il Giovane . . . mangiarne?', cfr. qui p. 783 e la nota
2 ivi.
LIBRO IV ■ CAP. ULTIMO 949
tendere, per tralasciar altri esempi, la costanza de' nostri martiri e
confessori, se non si premetterà la notizia della maniera che ten-
nero i gentili magistrati in punire i cristiani, contro i quali ado-
peravano cruci ed i più esquisiti tormenti, non già. per fargli mo-
rire, ma per fargli abiurare la cristiana, ed adorare i loro dii falsi e
bugiardi, ed aver la gloria di aver vinto la loro costanza, sicome
narra Lattanzio,1 il qual ne fu spettatore, che praticavano in Bi-
tinia que* proconsuli e facevan gli altri neir altre provincie ro-
mane?
v.2 Ma se mai l'istoria della religione gentile in altri tempi fu
creduta non cotanto necessaria, al presente, che la Chiesa ha preso
altro aspetto, e nella quale vedesi introdotta ed esser per più secoli
stabilita altra disciplina, nuovi riti e nuove religiose cerimonie,
certamente che dee reputarsi molto più necessaria che mai, non
già per vana curiosità, ma per cagioni solide e di molta importanza.
I detrattori della presente disciplina e di tanti nuovi riti e cerimonie
non altro hanno in bocca e nelle loro penne, se non di declamare
che finalmente la religione cristiana siasi cangiata in pagana e che
abbiamo fatto ritorno al gentilesimo; e ciò perché in molte cose
lor sembra imitare i riti, i costumi e gl'instituti de' gentili. Il
cardinal Baronio3 non è dubbio che ne* suoi Annali è più pro-
penso a derivarne l'origine da' gentili, che da' Giudei. E se l'istoria
della chiesa giudaica è riputata necessaria anche per questo, per-
ché nella cristiana molti riti e cerimonie derivano dall'ebraica,
quanto maggiormente sarà della gentile, dalla quale in maggior
i . sicome narra Lattanzio : cfr. Divin. institi v, xi, De crudelitate gentilium
in christianos, in Migne, P.L., vi, col. 586. 2. V: anche qui, come sopra,
marginalmente, in calce alla e. 152 recto: «v. Il culto de' nostri Santi»,
titolo che conviene meglio al capoverso seguente, mentre a questo si ad-
dice l'annotazione, sempre marginale e senza segno di richiamo, in calce
al verso, e cioè: «vi. Più conformità oggi ne* riti e feste colla gentile che colla
giudaica, secondo il Baronio ». Il Giannone riprende una tesi del Baronio,
quella della dipendenza dei riti e delle feste e cerimonie cristiane più dal
paganesimo romano che dall'ebraismo, per ritornare a uno dei temi fon-
damentali del Triregno e tipici di una radicale polemica protestante, della
paganizzazione della Roma cristiana. È significativo che in carcere il Gian-
none, fra gli altri libri chiesti ad Arthur De Villettes, avesse annotato un'o-
pera di Conyers Middleton, Conformité des cérémonies modernes avec les
anciennes, avec une lettre écrite de Rome par Mr. Middleton, Amsterdam
1744, che svolgeva appunto il tema della progressiva paganizzazione del
cristianesimo (cfr. Giannoniana, p. 490). 3. Baronio: cfr. la nota 2 a
p. 965.
950 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
numero a lei pervennero ? Di molti riti affatto indifferenti, i quali
per se stessi non contengono pravità alcuna, non dee chi che sia
maravigliarsi, poiché finalmente essendo la religione cristiana sot-
tentrata nell'Imperio in luogo della gentile, e professata da quelli
stessi popoli che prima furon gentili, qual maraviglia se ne abbia
adottati alcuni e resi propri? E se a Mosè fu lecito dagli Egizi pren-
der alcuni riti ed istituti, sicome fu avvertito da' dotti e gravi
espositori de* suoi libri, non dee sembrar cosa mostruosa di essersi
lo stesso fatto da' cristiani d'averne alcuni presi da' gentili.
Il rapporto, ed assai più il confronto è necessario per conoscere
la gran differenza che intermezza tra gli uni e gli altri, ancorché
nell'apparenza paiano simili. Noi nelle nostre Apoteosi non inten-
diamo ciò che i gentili credevano di render gli uomini dii, e perciò
adorargli, costruirgli tempii ed altari e prestargli religioso culto. Noi
i nostri martiri e santi, da uomini che furono non gli facciamo dopo
lor morte dii o dee; ma crediamo le loro anime volare protinus in
cielo, sicome determinò il concilio fiorentino,1 e quivi averli per
nostri intercessori appresso Iddio, e ricorrer al loro patrocinio, non
già perché essi ci liberino da' mali presenti e scampino da' futuri,
ovvero ci concedano que' beni che desideriamo, ma che colle loro
preghiere l'impetrino da Dio, il qual solo può sottrarcene ed il
quale è l'unico dispensiere di grazie e benedizioni. Abbiamo eretti
loro tempii, perché il popolo, non nelle piazze ed a ciel aperto,
ma abbia luogo acconcio da poter ivi convenire e pregargli della
loro intercessione. L'abbiamo eretti altari, statue ed immagini non
perché in esse fossero numi e le venerassimo come tante divinità,
ma perché fossero a noi di memoria, rappresentandosi le eroiche
loro gesta mentre furon tra* mortali per imitarle; e si è già altrove
avvertito che le dipinture nelle chiese non s'introdussero se non
per istruire il popolo senza lettere, affinché da' muri apprendes-
sero ciò che i letterati apprendevano da' libri. I gentili, che prima
non l'aveano, doppo che le arti meccaniche introdusser le statue
e le dipinture, se ne valsero pure per un fine innocente, cioè che
solamente servissero per simbolo in rappresentando la divinità che
adoravano; ma dapoi, sicome suole accadere tra la multitudine
imperita, pur troppo inclinata dalla religione far passaggio alla
i.il concilio fiorentino: aperto a Ferrara nel 1438, Tanno seguente fu tra-
sferito a Firenze, dove si protrasse fino al 1442, e continuò con lo sessioni
di Roma del 1443-1445.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 951
superstizione, trascorsero a prender il simbolo per la cosa rappresen-
tata, e riguardavano le statue come la divinità stessa. Preghiamo
avanti le statue o immagini di S. Rocco e di S. Sebastiano perché
c'impetrino dal sommo Iddio liberarci dalla peste che ci flaggella,
ma non già come facevano i gentili ad Apollo e ad Esculapio, i quali
a questi dii attribuivano il mandarla o toglierla dalla terra. In-
vochiamo nelle tempeste e navigazioni la Vergine Maria, chiaman-
dola Maris Stella, e S. Antonio di Padoa, perché impetrino da Dio
la nostra salvazione ed il condurci a porto, ma non già commessi
facevano a Nettuno, ad Eolo ed a Castore e Polluce avuti per numi
da' naviganti. Imploriamo l'intercessione di S. Antonio abate negli
incendi e nel morbo del sacro fuoco, perché preghi Iddio a libe-
rarcene, non già concessi facevano ad Ulcano ed alla dea Vesta;
e così in tanti altri simili ricorsi. Noi non abbiamo fatto nascere
da ogni morbo un dio od una dea, ma invochiamo que' santi per
mezzo de* quali il sommo Creatore si è compiaciuto sovente libera-
re i miseri languenti. Di altra maniera trattiamo noi il lor patroci-
nio e la tutela delli particol[ar]i regni, provincie, città o famiglie
di ciò che facevan essi de* dii Penati. Parimente se essi a ciascu-
na persona assignavano due geni, un buono e l'altro cattivo, noi
che pure a ciascuno diamo l'angelo buono, che ne sia il custode,
ed il demonio tentatore, perché la virtù combattuta maggiormente
si affini e riluca, abbiamo altro fine ed assai più alto ch'essi non
aveano.
I nostri sacrifici sono tutti puri ed incruenti, non vittime scan-
nate, non sacrifici di vacche, tori, cavalli, pecore, capre ed il sangue
di altri animali, sicché siamo molto lontani ed avversi da quelle
crudeltà d'immolare uomini stessi, né, come si è detto, perdonare
a' propri infanti. Se essi per la purificazione delle vittime che
doveano esser immolate si valsero dell' acqua lustrale, noi dell'acqua
benedetta facciamo altro uso puro ed innocente. In breve le nostre
feste, i nostri sacerdoti, le nostre vestali, e molti altri riti e cerimo-
nie che sembrano alle pagane conformi, donde si presero, hanno
altro intendimento, rachiudono altri misteri, e tutto altro dinotano
di quel che i gentili intesero. La qual differenza non potrà mettersi
in più chiara luce, se non da chi tratta dell'istoria ecclesiastica non
si terrà cura di metter in confronto i sacrifici, i riti e le cerimonie
dell'una e l'altra religione, ciocché non potrà ottenersi se non,
sicome si è fatto della giudaica, non si facci anche della gentile.
952 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
VI.1 Per ultimo bisogna toglier dalle menti umane Terrore di
riputar inutile la conoscenza di questa religione come quella che
già dileguata ed estinta non può esser di nissun uso e per ciò non
poter entrare in una general istoria ecclesiastica. Vanno costoro
di gran lunga errati. Né si lascino abbagliare dalle splendide iperboli
di S. Agostino, per quel suo cotanto ripetito Toto mundo credente,2.
Sopra la superficie della terra, dove si trovano uomini i quali non
siano istrutti di altra ed i quali se ne siano stati «sine predicante»,3
come diceva S. Paolo, si troverà la gentile, essendo per ciò riputata
iuris gentium, e per conseguenza dove saranno genti, si troverà che
ivi sia. S. Agostino intese dell'orbe romano, poiché a' suoi tempi la
religione cristiana avea nell'Impero romano fatti gran progressi; ed
a lui, che negava gli antipodi, sembrava il mondo ristretto in troppo
brevi ed angusti confini. E pure a* suoi tempi, dell'Imperio romano
istesso non occupò se non parte, e tutto il resto si rimase nella
antica sua gentile; poiché, se bene Costantino M. l'avesse am-
messa nell'Imperio, e di proscritta non pur la raccolse, ma i suoi
collegi riputò non pur legittimi, ma venerandi; con tutto ciò non
proibì la gentile e lasciò in libertà di ciascuno di ritenerla: sicché
nell'Imperio si videro pubblicamente esser professate tre religioni,
l'antica gentile, la nuova cristiana e presso gli Ebrei la giudaica.
Ma il favore degl'imperadori cristiani successori di Costantino
verso la cristiana e l'avversione alla gentile fecer sì che a lungo
andare nelle città e nelle persone nobili e cospicue, regis ad exem-
plum, tutte si conformassero alla religione professata nella loro
corte, ma negli uomini di campagna, ne* vichi e nelle ville, le quali
sono l'ultime a deporre le antiche usanze e costumi, si ritenne. E
da queste epistole di S. Gregorio si è veduto che in Italia istessa,
e nelle isole, a' suoi tempi in taluni luoghi era ancor da' rustici
ritenuta. E S. Benedetto nel Monte di Casino, ove ritirossi a me-
nar vita monastica, trovò un tempio dove que' rustici adoravano i
loro idoli, quali abbattuti lo tramutò in una chiesa. Si è veduto
ancora che nelle parti settentrionali di Europa, nclPAlcmagna,
i. VI: ancora una volta, in margine alla e. i$zr, senza segno di richiamo,
abbiamo nel manoscritto un titolo, con correzione, conseguente alle pro-
cedenti annotazioni marginali, del numero romano: «vii. Non esser vero
la gentile essersi estinta». 2. S. Agostino . . . credente: cfr. De civ. Dei,
XXII, v, De resurrectione carnis, quam quidam mundo credente non credunt,
in Migne, P.L., XLI, coli. 755-7- 3- «sine predicante»: Ront., io, 14.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 953
nella Sassonia, nella Polonia, nella Boemia, Ungheria e molto più
nella Svezia, Danimarca ed in tutte risole del mar Oceano, nella
Brettagna, Ibernia, Islanda, Grotlandia ed altre, molto tardi vi fu
introdotta la religione cristiana, e forse anche ora in quelle più
rivolte al nort non è penetrata: né osarei di dire che nell'Europa
tutta, spezialmente ne' Tartari ed in tutte le sue isole del setten-
trionale Oceano, la gentile fosse affatto estinta.
Ma che diremo dell'Asia, la più gran parte del mondo ? Questa,
ancorché assorbita dalla religione maomettana, se si faranno giusti
i conti, si troverà che la gentile occupa più regioni, isole, imperi,
Provincie e regni che la maomettana stessa. Chiunque porrà at-
tenzione alle relazioni che abbiamo de' più savi ed accurati viag-
giatori, in fra gli altri del cav. Chardin nel Giornale1 de' suoi viaggi
nella Persia e nell'Indie orientali, del Sanson,3 missionario ap-
postolico, nello Stato presente del reame di Persia, ed i viaggi del
Brun riguardanti l'Asia,3 e le relazioni del Bernier,4 e del P. Ca-
trou5 gesuita, troverà che nella Persia istessa, ancorché la religion
dominante fosse la maomettana, poiché i re persiani vantano esser
i legittimi successori di Maomet per Ali, che lo credono il vero
1. Jean Chardin (1643-1713), celebre viaggiatore francese protestante, am-
mirato da Montesquieu, Rousseau e Gibbon. L'opera qui citata è il Journal
du voyage du chevalier Chardin en Perse et aux Indes Orientales, par la Mer
Novre et la Colchide, Londres 1686. 2. Sansoni null'altro conosciamo di
lui, oltre l'opera qui menzionata dal Giannone, Estat présent du Royaume
de Perse, Paris 1694 (nel frontespizio è chiamato «Sanson, missionaire
apostolique »). 3 . i maggi . . . Asia : cfr. Voyages de Corneille Le Brun par la
Moscovie, en Perse et aux Indes Onentales.. ., Amsterdam 1718, in due vo-
lumi. In realtà si tratta di Cornelis de Bruyn (165 2- 1726), pittore e viaggia-
tore olandese, autore di un Voyage au Levante (prima edizione olandese,
Delft 1698; in francese, Delft 1700; Paris 17 14) e dei Voyages citati (prima
edizione olandese, Delft 1711-1714). 4. Francois Bernier (1620-1688),
filosofo, viaggiatore e medico: cfr., di lui, VHistoire de la dentière revolu-
tion des états du Grand Mogol . . ., Paris 1670, e Suite des Mémoires du Sr.
Bernier sur l'Empire du Grand Mogol . . ., Paris 167 1. Il Bernier è l'autore
dell'Abrégé de la philosophie de M. Gassendi, Lyon 1684*, conosciuto dal
Giannone (cfr. G. Ricuperati, V esperienza civile e religiosa di Pietro Gian-
none, Milano-Napoli 1970, p. 42). 5. Francois Catrou (165 9- 1737), pre-
dicatore e letterato, uno dei fondatori dei «Mémoires de Trévoux» (1701),
che diresse per dodici anni. Cfr. Histoire generale de l'empire du Mogol . . .
sur les mémoires portugais de M. Manouchi — par le P. F. Catrou . . .,
Paris 1705-17 15, due tomi in un volume, e Histoire de la vie et du règne
d'Orangzéb, dernier empereur mogol, ou Suite de VHistoire generale de l'em-
pire du Mogol . . ., Paris s. d. Entrambe sono fondate su Nicolò Manucci
(163 9- 1708), viaggiatore veneto, che lasciò delle memorie in portoghese.
954 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
erede di quell'impostore, nulladimanco il numero de' gentili è
quasi che infinito, dividendosi fra loro in due sette riputate eretiche
da' maomettani. Narra Pietro della Valle1 ne' suoi Viaggi della
Persia, par. n, cap. 16, che nella provincia di Lar ed in altri paesi
dell'Imperio persiano la più numerosa di queste due era quella
chiamata della Gente di verità, ovvero di certezza ; li quali credono
che non vi sia altro Dio che la Natura, formata di quattro elementi,
da' quali si compongono tutte le cose, e che l'uomo istcsso non sia
altro che un composto de' medesimi, il quale doppo sua morte si
risolve in quelli, con che ritorna a Dio donde fu tratto. Che il
paradiso ed inferno siano in questo mondo, secondo le prosperità
o miserie nelle quali l'uomo cade o s'innalza, e che questa sia la
rimunerazione della buona o mala vita menata. L'altra setta, non
cotanto diffusa e numerosa, la chiamano Via degli avari', e si crede
che Manete persiano l'avesse diffusa nella Persia; e che fosse una
propagine de' sadducei, poiché negano la resurczione, gli angeli,
gli spiriti, e credono che Dio sia da per tutto ed in tutte le cose, e
che quanto è e si vede nel mondo sia Iddio. Ma chi puoi negare
che nell'India, ancorché in gran parte dominata dal G. Magol, la
religione gentile sia la più diffusa? Narra lo stesso accuratissimo
viaggiante nella par. IH, cap. i,2 che due religioni sono professate
nell'India, la gentile e la maomettana; e se bene questa fosse la
religion dominante, poiché il Mogol e la sua corte sono maomettani,
nulladimanco che in Sural istessa il numero maggiore era de* gen-
tili. E da una disputa sorta a' suoi tempi tra' Gesuiti di Goa e gli
altri religiosi che sono nell'India, rapportata minutamente da
quest'istesso scrittore, si convince che ancor oggi la notizia della
religion gentile può esser posta in uso, né doversi riputare inutile
e sol per pascere la curiosità degli uomini. E' narra che nell'India
i Brahmani ritengono ancora i medesimi antichi loro istituti e
l'antica fama d'essere riputati i soli sapienti, dedicati solo alle let-
tere ed al culto de' tempii e per ciò riputati i più nobili, e sopra gli
altri distinti; ed in testimonio di questa lor preminenza essi soli
i. Pietro della Valle (1586-1653), viaggiatore italiano, del quale si citano
qui i Viaggi , . . descrìtti . . .in cinquantaguattro lettere familiari . . v Ro-
ma 1650-1658, in quattro tomi, tomo n, parte li, Persia, lettera xvi,
Dai giardini di Sciraz, 27 luglio 1622, par. xiu, p. 370. 2. Narra . . .
cap. X: cfr. ìbid., tomo iv, parte ni, India, Sural, 22 marzo 1623, par. vi,
p.24.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 955
han privilegio di portare una certa insegna di nobiltà colla quale si
distinguono da gli altri, eh' è un laccio composto di tre fili ; che se
lo mettono addosso come una collana; e poiché questo laccio non
si dà se non a persone cospicue con molte superstiziose cerimonie,
quindi nacque la disputa fra' Gesuiti e gli altri religiosi, se il laccio
fosse protestativo di religione, ovvero semplice insegna di nobiltà,
e se si avea da permettere o no l'uso di esso agl'Indiani che si
convertivano e si rendevano cristiani, i quali mal volontieri s'in-
ducevano a deporlo. I Gesuiti, non altrimenti di ciò che accadde
nella Cina per quel famoso contrasto intorno a gli onori che si
rendevano a Confucio, se doveano riputarsi puri civili, ovvero
culto religioso, sostenevano che si dovesse lor permettere, come
cosa non appartenente a religione, ma semplice insegna di nobiltà.
All'incontro gli altri religiosi con gran ardore e contenzione si
opponevano, fermi in pruovare che il permetterlo fosse di sua
natura totalmente illecito a' cristiani, come superstizione affatto
gentile; dall'una e l'altra parte furon compilate dotte scritture di
cui il Valle rapporta in breve i motivi e le ragioni, soggiungendo
che la lite fu portata in Roma ove furon trasmesse le allegazioni ;
ma non ci istruisce della determinazione indi seguita, né portatosi
a Goa, dove credeva poterla sapere, ne fa più motto. Nella stessa
epistola però ci dà notizia che della religione gentile ritenuta nel-
l'India, della geneologia di Brahmà principale lor dio e degli altri
favolosi dii indiani e di quanto si appartiene alla loro teologia
ampiamente ne avea scritto il P. Francesco Negrone portoghese,
il quale lungamente trattenuto nel regno di Bisnaga, ove la reli-
gione e le scienze degl'Indiani hanno la principal sede, nell'isola di
Zelan che credesi essere l'antica Taprobana* ed in altri paesi, era
istruitissimo e che forse de' moderni sarà l'unico che di questa
materia ne abbia dato conto in Europa. Leggansi le Memorie ed i
viaggi al Mogol del Bernier, e le Memorie del Mogol del Manou-
chi,2 le quali ci somministrano anche molte notizie appartenenti
alla lor religione, sicome anche l'Istoria del Mogol del P. Catrou
gesuita.
i. Su Francesco Negrone non mi è riuscito di trovar notizia. - Bisnaga:
dall'indiano Vijainagara, città capitale del regno di Canarà, che i Porto-
ghesi chiamavano Bisnaga. Su Taprobana (Ceylon) cfr. Plinio, Nat. kist,
ed. cit., tomo i, lib. vi, cap. xxn, sect. xxiv, p. 322, nota io. 2. Manouchi:
Nicolò Manucci: cfr. la nota 5 a p. 953.
956 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
Nel vastissimo Imperio della Cina qual'altra religione è profes-
sata se non la gentile? E quanto abbia giovato il saperne la parti-
colar sua istoria de' riti, cerimonie, credenza intorno alle anime
umane, lor morale e filosofia, ben dagli ultimi scritti dati alla luce
per contese insorte in materia di religione ciascuno può com-
prenderne l'utilità ed il buon uso che può farsene. Chiare pruove
ne danno i libri di due giesuiti fra di lor discordi, del P. Ricci,1
il qual commenda la morale e la filosofìa de' Cinesi, e che debita-
mente prestino al lor Confucio quo' onori ch'egli riputa puramente
civili, e del P. Longobardi,2 il qual pretese di provare che li Cinesi
non han giammai riconosciuta sustanza incorporea e spirituale
distinta dalla materia, e che per ciò non hanno una giusta idea di
Dio, né degli angeli, né dell' anime umane, e che quelle cerimonie
colle quali onorano Confucio ed i loro morii siano dannabili e
superstiziose. Leggansi in oltre le Memorie della Cina del P.
Comte,3 la descrizione di quest'Imperio del P. du I laide,4 e l'istoria
del P. Dorléans,5 tutti tre gesuiti, ed i tanti scritti dati fuori fin a*
nostri tempi da' religiosi domenicani e da altri del contrario parti-
to, che confermano l'uso che può aversi ancor oggi della cono-
scenza di questa religione. E nell'ampio vicino Imperio del Giap-
pone, di cui fin ora verso l'Oriente non si sono potuti scorgere gli
ultimi confini, qual altra religione i Giapponesi professano se non
la gentile ? Leggasi V Istoria naturale, civile ed ecclesiastica dell'Im-
perio del Giappone scritta per Kempfer,6 per esserne maggiormente
persuaso. Ed in tante altre isole di quel vasto Oceano non abbastan-
i. Matteo Ricci (1552-1610), gesuita e celebre viaggiatore italiano. Cfr.
De Christiana expeditione apud Sitias suscepta alt Socictatc tt*8U> ex /*. itte-
thaei Riccii . . . Commentariis libri V . . . auctore P, Nicolao Trtgautio . . ,,
Augustae Vindelicorum 1615. 2. Nicolò Longobardi (X566-1654), gesuita
e missionario siciliano, di cui cfr. VExemplum epistola?. . , . anno i$yìi ex
China conscriptae, Moguntiae 1601, e il Tratte sur qutlquvs points de la
réligion des Chìnois, Paris 1701. 3. Louis-Daniel Le (Umtte (1655-1728),
gesuita francese, era stato missionario in Cina. Cfr. Nouvvaux mt'moires
sur Vétat présent de la Chine, par le P. Louis Le (lamte . . ., Pari» i6<)6,
4. Jean-Baptiste DxxHalde (1674-1743), gesuita francese, era stato missio-
nario in Cina. Di lui si cita qui la Descriptton géoftraphique, historique,
chronologigue, pohtique et physique de V Empire de la < lime et de la Tartarie
chinoise . . ., Paris 1735. 5 *# Pierre- Joseph D'Orléans (1644-16^8), gessuita
e storico francese, autore di una Histoire des deux conquérans tartares qui
ont subjuguéla Chine, Paris 1688. 6. Istoria . . , Kempjvr: Kntfelbert Kiimp-
fer (1651-1716), viaggiatore tedesco, Histoire naturette, civile et ecclésiastique
de VEmpìre du Jfapon . . ., La Haye 1729, in due volumi.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 957
za da noi esplorate, e che alla giornata dagl'industriosi naviganti se
ne vanno scoprendo delle nuove, qual'altra religione è ritenuta
se non l'antica di tutte le genti} E chi può darsi il vanto di avere
scorti appieno tutti i vasti paesi della G. Tartaria, e l'innumerabili
popoli che ancor la ritengono ? Onde chiunque vorrà prendersi la
cura di farne esatto computo, troverà che nell'Asia la più gran
parte è occupata da questa, e la minore dalla maomettana e dalla
cristiana.
Forse alcuni crederanno che almeno nell'Affrica la maomettana
debba superarla, e pure in ciò vivon in errore; poiché se bene ne'
regni dell'Affrica rivolti all'uno ed all'altro mare, al Mediterraneo
ed al vasto Oceano meridionale, sia comunemente professata la
maomettana, e nell'Etiopia la cristiana, ancorché guasta, mista e
corrotta dalla giudaica, per esser più frequentati dal commercio di
più nazioni; nulladimanco nell'interior sua parte che resta ancora
sconosciuta, negl'immensi spazi mediterranei lontani dal mare,
dove i commerci riescono non meno inutili ed infruttosi che peri-
colosi ed impraticabili, tutto l'uman genere che qui vi dimora e che
ancor ritiene la natia sua vita ferale e selvaggia, ritiene eziandio la
religione delle genti, alla quale per umano istinto sono inclinati e
propensi. Leggansi V Affrica di Luigi Marmol tradotta dallo spa-
gnolo in francese per Nicolò Perrot d'Ablancourt,1 la novella
istoria dell' Abissinia ovvero d'Etiopia tratta dall'istoria latina di
M. Ludolfe,2 e Y Introduzione all'Istoria dell1 Asia, dell Affrica ed
America di M. Bruzen de la Martinière.3
Per la ragione istessa nel nuovo mondo discoperto, che chiamiamo
1. V Affrica . . . Ablancourt: il Giannone si riferisce a LAfrique de Marmol,
de la traduction de Nicolas Perrot, sieur dAblancourt . . . avec VHistoire des
Ckénfs . . ., Paris 1667, in tre volumi, di Luis del Màrmol y Carvajal,
storico spagnolo del XVI secolo, autore della Descripción general de Affrica,
Granada 1573, tradotta appunto da Nicolas Perrot d'Ablancourt (1606-
1664), scrittore e traduttore francese protestante. 2. Ludolfe'. Hiob Lu-
doif o Leutholf (1624-1704), orientalista tedesco, di cui si cita VHistoria
aethiopica, sive brevis et succincta descriptio regni Habessinorum, quod vulgo
male Presbyteri Iohannis vocatur . . ., Francofurti ad Moenum 1681- Scrisse
successivamente un Ad suam Historiam aethiopicam . . . Commentanti?, ivi
1691 ; Relatio de hodierno Habessinìae statu, ivi 1693, e Appendix secunda
ad Historiam aethiopicam, ivi 1694, oltre a una serie di grammatiche orien-
tali. 3. Antoine-Augustin Bruzen de la Martinière (1662- 1746), letterato
francese, segretario del duca di Meclemburgo, amico del Desmaizeaux e
di Voltaire, del quale è qui citata VIntroduction à Vhistoire de VAsie, de
VAfrique et de VAmérique, Amsterdam 1735, in due volumi.
958 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
America, il qual forma quasi la metta del terraqueo globo ; se ben
gli Spagnuoli, i Portoghesi, i Francesi, gl'Inglesi, gli Ollandesi, i
Svedesi ed i Danesi, popoli di Europa tutti istrutti nella religione
cristiana, vi avessero fatte più conquiste; gli Spagnoli nel Messico,
nel Perù e di altre isole e provincie dell'America meridionale,
i Portuesi nel Brasile ed altri porti ed isole, i Francesi nell'America
Settentrionale, e così pure gl'Inglesi e TOllandesi, e fino gli Svedesi
e' Danesi, ancorché gli acquisti di questi ultimi non fossero molto
considerabili: nulladimanco i missionari che vi mandarono gli
Spagnoli ed i Portuesi ridussero sì bene gl'insulani alla religion
cristiana, e que* regni del continente prossimi al mare; ma gli
abitatori di que' immensi e vasti paesi mediterranei, dove come
inutili al commercio niuno degli Europei è penetrato, rimangono
ancora nella antica lor religione e nella stessa vita incolta e selvag-
gia; e le relazioni de' viaggianti ci rendono testimonianza che na-
zioni intere vivono ancor nudi, ed i lor abiti altro non sono che le
dipinture che a vicenda fanno le mogli ed i mariti a' loro corpi e de'
figliuoli di colori spremuti dall'erbe ed altre piante. Intorno alla
qual parte più scrittori spagnoli ce ne han date istorie: ma oggi
riescono più accurate le relazioni degli ultimi viaggianti, e deono
anche leggersi i due volumi di M. de la Mattinière e l'vm e ix vo-
lume che servono di continuazione all' Introduzione di Puffendorf.1
E quante altre isole di quel vasto Oceano rimangono ancora ignote
e sconosciute, dove è da credere che la stessa religione si professi
che quella che si trovò nell'altre scoverte e conquistate. Non è
dunque da dubitare che ancor oggi sopra la superficie della terra
occupi più spazio la gentile che la cristiana e maomettana. Tra-
lascio altre ragioni che convincono la necessità di far entrare l'istoria
della religione gentile in una generale e compita istoria ecclesiastica,
le quali caderanno facilmente nella penna di chi vorrà prendersi la
cura di scriverla. Ha questa religione oggi più scrittori moderni, i
quali risparmiano la fatica d'andarla ricercando fra gli antichi
autori greci e latini: Girardo Vossio,2 De idololatria; il Seldeno,3
i. e VVXU . . . Puffendorf'. cfr. S. Pufendorf, Introduction à VHistoire ge-
nerale etpolitique de l'univers . . . complétée et continuéejusqu'à X743 {"45) par
Mr. Bruzen de la Martinière, Amsterdam 1743-17453, in otto volumi*
2. Girardo Vossio: cfr. la nota np. 785. L'opera qui citata è il De theolo~
già gentili etphysiologia Christiana, sive de origine acprogressu idololatriae . . .,
Amsterdam! 1 641 . Cfr. in Opera, v, Amstelodami x 700. 3 . il Seldeno : John
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 959
De diis syriis ; Natale Comite1 italiano che scrisse la sua Mithologia
nel XVI secolo; il P. Jouvenci2 gesuita nell'Appendice De diis et
heroibus; l'abate Banier3 nelle sue sposizioni istoriche sopra le
Metamorfosi di Ovidio e le Favole; il P. Gautruche4 gesuita nella
sua Istoria poetica; il professore Rollin nella sua istoria antica
greca e romana;5 ed altri i quali han dichiarata l'antica gentile, si-
come le relazioni de' viaggianti dichiarano la presente professata
nell'Asia e nell'America; a' quali possono aggiungersi le Ricerche
curiose sopra la varietà delle religioni in tutte le principali parti del
mondo di Brerewood,6 professore di umanità a Londra; ed il libro
di M. Simon sotto il titolo Religioni d'Oriente par le Sieur Mony?
A questi si aggiunga Tommaso Hide8 inglese, che ha composto un
trattato della religione degli antichi Persiani sotto questo titolo:
Historia reltgionis veterum Persarum, eorumque Magorum, Oxonii
1700, dove fa vedere che i Persi non adoravano il fuoco come nume
con culto di latria, ma come simbolo della divinità: e fino la Ger-
Selden (1584- 1654), erudito, giurista e uomo politico inglese, la cui opera
qui citata è De diis syriis syntagmata II . . ., Londiru 161 7, ristampata negli
Opera omnia, Londini 1736, an tre volumi, voi. 11. 1. Natale Comite: Na-
tale Conti (1 520-1582), umanista e storico milanese, di cui si cita Mytho-
logiae, sive explicatìonum jabularum libri decem . . ., Venetiis 1568. 2. il P.
Jouvenci: Joseph de Jouvancy (1643-17 19), gesuita e umanista francese, la
cui Appendix de diis et heroibus poeticis adpoetarum vntelligentiam necessaria
è in Q. Horatius Flaccus, Carmina expurgata, Rotomagi 1709. 3. An-
toine Banier (1 673-1 741), erudito francese, autore fra l'altro di un com-
mento a Ovidio, Les métamorphoses, Amsterdam 1732, due tomi in un
volume, e dell3 Explication historique des fables . . ., Paris 171 1, in due vo-
lumi. 4. Pierre Gautruche (1602-1681), gesuita francese, la cui opera qui
citata, L'histoirepoétiquepour l'intelligence despoètes et des auteurs anciens ...»
Caen 1671, godette grandissima fortuna. U Appendix citata dello Jouvancy è
la traduzione pressoché letterale dell'opera del Gautruche. 5. Rollin . . .
romana: vedi la nota 7 a p. 739. Altra edizione della Histoire, Paris 1738-
1748, in otto volumi. Lo scrittore e storico francese era conosciuto dal
Giannone: cfr. gli appunti in Archivio di Stato di Torino, manoscritti
Giannonet mazzo I, ins. 15, l. 6. Brerewood: vedi la nota 4 a p. 687. Cfr.
Recherches curieuses sur la diversité des langues et religions par toutes les
principales parties du monde, par Ed. Brerewood . . . et mises en franpais par
I. de La Montagne, Paris 1640. 7. Simon . . . Mony: in realtà dietro lo
pseudonimo Le Sieur si celava Richard Simon (1638-1712), il celebre
oratoriano francese ben conosciuto dal Giannone per la sua opera di stu-
dioso della storia ecclesiastica e di esegeta biblico. Cfr. Histoire critique de
la créance et des coutumes des nations du Levant, publiée par le Sr. de Moni,
Francfort [Olanda] 1684. 8. Tommaso Hide: Thomas Hyde (1 636-1 703),
orientalista inglese.
960 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
mania ha il suo particolar autore Scendio,1 il quale scrisse delle
Divinità germaniche.
lì. Intorno alla religione giudaica.
Si è ben da' nostri scrittori conosciuto esser questa necessaria
per lo rapporto che ha colla cristiana, ed oggi non può negarsi da
molti dotti ed accurati autori essersi delle cose giudaiche trattato
con diligenza, ed illustrate le più oscure, e poste in aperto le più
nascoste, e certamente che i nuovi scrittori han superati gli antichi,
non eccettuandone S. Girolamo istesso, ancorché dimorato più
anni nella Palestina, sicome da noi fu dimostrato nell'Apologia de'
teologi scolastici. Con tutto ciò mancano in due importantissimi
punti. Il primo di non aver ben distinto lo stato di quella chiesa
sotto il I Tempio dall'altro che prese sotto il II, quando rifatto si
videro sorgere nuove dottrine e nuovi costumi; ed il secondo di
non essersi tenuto conto delle tante sinagoghe degli Ebrei sparse
in tutto T Imperio romano: ciocché conduce molto per ben capire
le vere cagioni della prodigiosa propagazione della cristiana in
quasi tutte le provincie dell'Imperio romano. La chiesa giudaica
sotto il I Tempio non riguardava che il riposo di questo mondo:
tutte le benedizioni o maledizioni, tutte le preghiere, i sacrifici e gli
olocausti non riguardavano che felicità o miserie tutte mondane,
né s'indrizzavano se non per la prosperità terrena, ovvero per
sottrar gli Ebrei da' mali, calamità e sciagure mondane, sicom'è
manifesto da' libri di Mosè, e da noi fu avvertito nel primo libro
dell'Apologia de' teologi scolastici? Non aveano gli Ebrei concetto
di regno celeste^ nel che tutti i Padri e S. Agostino istesso consento-
no, e l'uomo era considerato nel solo stato di natura. Nel II Tempio
cominciarono le nuove opinioni; e la cagion fu, che doppo la cat-
tività babilonica, sparpagliati che furono in più città dell'Assiria,
de* Medi e in altre provincie di Oriente, dimorando fra' gentili
appresero le loro dottrine; onde restituiti poi in Gerusalemme e
nell'altre città della Giudea, risorto il nuovo Tempio, i sacerdoti,
i. Scandio: si tratta di Elias Schedius (1615-1641), erudito e scrittore tede-
sco. L'opera è De diis germanis, sive veteri Germanorum, Gallorum, Bri"
tannorum, Vandalorum religione, syngrammata quatuory Amsterodami 1648
(riedita a cura di Johann Jarke e Johann A. Fabricius, Halae 1728). 2. e
da noi . . . scolastici: cfr. ad esempio qui, p. 807.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 961
scribi, e sopra tutto i farisei introdussero nella nazione nuovi dogmi,
nuova morale e nel concetto degli uomini nuove opinioni. Quindi,
secondo che ci rende testimonianza FI. Giuseppe nelle sue Anti-
chità giudaiche, molti eran persuasi ed abbraciarono la dottrina
del Fato; altri che le anime de' forti e coraggiosi, i quali militando
per la patria eran uccisi, rendevansi immortali e gloriose: quindi
assignare alle altre ne' luoghi infernali varie abitazioni, aggiate,
pien di solazzo, o pure triste e disaggiate, secondo il concetto de*
gentili. Quindi il dover gli Ebrei tutti risorgere ed occupare un
nuovo regno tutto giocondo, ripieno di delizie, di felicità e contenti,
ma regno pur terreno e mondano, e tante altre superstizioni e vane
osservanze che Cristo S. N., rimproverandole a' farisei, le chiamò
«traditiones hominum)).1 All'incontro i sadducei, tenaci della pri-
ma dottrina e rigidi osservatori dell'antica disciplina, negavano
tutte le tradizioni e si attenevano a' soli libri di Mosè; negavano la
resurezione; negavano i tanti ricettacoli e luoghi infernali per l'ani-
me, le quali facevano morire insieme col corpo; negavan gli spiriti,
gli angeli, e tutte riputavan cose fantastiche ed illusioni. Tutto
ciò era nel II Tempio disputato fra gli Ebrei; e se bene la setta de'
farisei fosse la più numerosa, nulla di manco per dottrina e saviezza
non era riputata inferiore quella de' sadducei', ed il loro Sinedrio
ovvero Sinagoga Magna, che formava la lor chiesa, era composto
non men degli uni che degli altri; e secondo le vicende delle
mondane cose in alcuni tempi il partito de' sadducei prevalse, e
in altri si rese più potente quello dei farisei?' Molti stupiscono e non
posson rendersi capaci come due sette, le quali disconvenivano in
punti cotanto importanti, potessero formare una sola chiesa ed
aver insieme comunione l'una coll'altra e non fra lor dividersi con
formarne due. Bisogna adunque manifestare le vere cagioni per
toglierne la maraviglia, ciocché fin ora non si è fatto. Le cagioni
furono, perché questi punti non erano stati allora dichiarati per
articoli fondamentali della loro fede; solamente riputavano i prin-
1. fa traditiones hominum »: cfr. Marc, 7, 8. 2. Tutto ciò era . . . farisei: il
Giannone, ancora una volta nella scia dell' Aulisio, riafferma la presenza nel
mondo ebreo dì una tradizione sadducea, che, fedele alla dottrina mosaica,
aveva una concezione tutta terrena della vita e non credeva nell'immorta-
lità dell'anima. Ispirandosi inoltre allo Spencer e al Toland, ribadisce che
fino al primo Tempio gli Ebrei erano tutti convinti della pura terrenità
dell'esistenza e che col secondo Tempio, a contatto con le religioni gentili,
accettarono l'idea della resurrezione.
61
962 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
cipali esser quelli che si contenevano ne' libri di Mosè, sopra i
quali era appoggiata: tutto il resto lo lasciavano alla disputa de*
dottori della legge, ed a ciascuno era lecito di seguitar l'uno o
Paltro partito; né perché fosser vari nelle opinioni, si rompeva la
lor comunione; poiché la religione ebraica non riguardava, come
si è detto, che un regno terreno, né avea alcun concetto di regno
celeste, e per ciò importava poco Pignorare che si facesse delle
anime doppo la lor morte, se si estinguessero insieme co' corpi e
dapoi co* corpi risuscitassero, o pure avesser altrove ricetto ne' luo-
ghi infernali o pure in più alti ricettacoli ; non altrimenti che nella
religione gentile, la quale non riguardava l'uomo se non secondo il
suo stato terreno e mondano, il disputarsi fra gli Egizi, Greci o
Romani o altre nazioni sopra Pimmortalità o mortalità delle anime
umane, 0 dello stato nel quale passavano doppo essersi separate
da' corpi, era riputata una contesa la quale non si apparteneva
punto alla loro religione e per ciò variamente e francamente da
tutti disputata, non già da' soli filosofi. Disputavano gli Ebrei sopra
la resurezione de* morti, e dell'esistenza degli spiriti, come punti
indifferenti, i quali non si appartenevano a' fondamentali articoli
della loro religione, e cosi degli altri, poiché se risorgessero i morti,
pure non altro regno era da essi aspettato che terreno e mondano ;
e per la cagione istessa importava poco ad essi che vi fossero 0 no
spiriti ed angeli. Non altrimenti che nella Chiesa cristiana istessa
si è veduto nel libro 1 dell'Apologia de* teologi scolastici1 che fu tra'
Padri antichi lungamente disputato sopra lo stato dell'anime uma-
ne separate da' corpi, se avessero di noi più cura 0 notizia, se si
rimanessero intanto fino alla general resurezione de* morti in un
profondo obblìo e tenebroso sonno, o sentissero le nostre preghiere
ed i nostri affanni; si disputò pure sopra l'eternità de' supplici
infernali, sopra il fuoco2 Purgatorio, e tanti altri punti con varietà
di pareri; né perciò si ruppe fra essi la comunione, ma eran riputati
d'una medesima Chiesa. Dapoi che da' concili furon per loro de-
terminazioni le dispute decise, allora i canoni sopra ciò stabiliti
passarono per articoli dì religione, e chiunque non vi prestasse
intera fede e credenza è meritamente riputato ora o scismatico o
eretico o miscredente, rotta l'unione e separata la comunione.
Così pure dapoi avvenne alla chiesa ebraica; poiché agli ultimi
1. si è veduto . . . scolastici: il Giannone riconferma qui una delle tesi fon-
damentali del Triregno, 2. fuoco : aggiunto posteriormente.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 963
rabini piacque determinar con loro decisioni quelle dispute, e
formaron anch'essi nuovi articoli, e nelle loro sinagoghe sono anche
riputati eretici que' che sentano altrimenti.
Non si sono ancora dichiarate abbastanza doppo la cattività
babilonica le tante loro trasmigrazioni seguite in vari tempi in più
occasioni in molte provincie dell'Oriente, nell' Affrica ed in Euro-
pa, e le tante sinagoghe da per tutto quivi instituite; e pure si è
veduto da' precedenti libri che la propagazione del Vangelo a
queste si dee, dove prima fu predicato : e che scorgendosi il poco
profitto presso gli ostinati Ebrei furono rivolti gli operai della
vigna del Signore alle genti, riuscendo presso questi i loro travagli
assai fruttiferi, doviziosi ed abbondanti. Ciocch'è necessario espor-
re per lo gran rapporto che ha coll'istoria della nascente Chiesa
cristiana, per i lumi co' quali s'illustrano l'epistole di S. Paolo, gli
Atti di S. Luca e gli altri monumenti che ci restano di que* tempi,
e per maggior chiarezza de* tre primi secoli della Chiesa.
In fine non bisogna fermarsi néH antica e media chiesa giudaica,
ma avanzar il camino e scorrer V ultima e la presente : poiché se bene
ora non avendo più Tempio né Sinagoga Magna non gli possa pro-
priamente convenire il nome di chiesa, nulladimanco nelle tante
ed innumerabili sinagoghe, che ritengono ancora nell'Asia, Affrica
ed Europa, è quella rappresentata e vi è molto da notare ancor
in essa intorno alla varia e nuova disciplina che ha preso, differente
dall'antica, non meno che la nostra. Nuovi riti e nuove cerimonie
negli sponsali, nelle nozze, ne' sacrifici, nelle sepulture; abolita fra
di loro la poligamia, essendo contenti d'una sola moglie; ritenuto
però il libello del ripudio, ma prescritte le leggitime cause; mutate
le antiche lor feste, ed introdotti tanti altri nuovi costumi ed usanze.
Sono per ciò da leggersi Seldeno nella sua Uxor hebraica1 e V Istoria
de* Giudei di M. Prideaux.* Né si creda che questo studio fosse di
sola curiosità e del quale non si potesse avere giammai alcun uso.
Come che sono essi sparsi oltre l'Asia, l'Affrica, in Europa, toltone
la Spagna, in quasi tutte le sue città occorre sovente, molti ab-
bracciando la religione cristiana, disputare de' loro matrimoni, già
contratti, se possano ritenere le mogli ebree, se possano, essendo
cattolici fra' quali i divorzi sono proibiti, mandar loro i libelli del
i. Del già menzionato John Selden è qui citata VUxor ebraica, seti de nuptiis
et divortiis ex iure civili, id est divino et talmudico, veterum Ebraeorum, libri
tres, Londini 1646. 2. V Istoria . . . Prideaux: vedi la nota 6 a pp. 801-2.
964 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
ripudio affinché possino rimaritarsi con altri Ebrei, e tante altre di-
spute. Anzi in Italia a* nostri teologi e spezialmente agl'inquisitori
ed altri ministri di quel Tribunale la cognizione della loro religione
è assolutamente necessaria, poiché questo Tribunale ha attribuito
a sé la conoscenza delle cause appartenenti alla medesima, to-
gliendone il giudizio e il castigo a* loro rabbini e sinagoghe, in
guisa che contro i talmuldisti, o contro que' che ritengono i loro
libri, o pure altri indiziati di loro eresie, procede il S. Ufficio; e gli
punisce con ammende ed altre pene pecuniarie; onde se non saran-
no istrutti degli articoli di questa religione, per conoscere quali
gli facci eretici e quali innocenti, non potranno certamente darne
un giudicio esatto ed ingiungergli una pena corrispondente alle
loro colpe.
ni. Istoria della Chiesa cristiana.
Sono ormai due secoli da che si è cominciato a travagliar di
proposito intorno a quest'istoria; e non vi è dubbio essersi da
preclari ingegni fatti maravigliosi progressi e che abbiano di lunga
mano per esattezza, serietà e disposizione superati i primieri greci
scrittori, i quali la cominciarono fin dal IV secolo, ma secondo il
greco costume la riempirono di molte menzogne, come fece Euse-
bio di Cesarea, e gli altri greci che lo seguirono : Socrate, Sozomeno
(la di cui Istoria, secondo la testimonianza che ce ne rende S. Gre-
gorio nell'ep. 31 del lib. vi, come mendace non fu ricevuta dalla
Chiesa di Roma), Teodoreto, Evagrio, Filostorgio e Teodoro Let-
tore.1 Questi istorici han potuto e possono servire a* nuovi scrittori
per rischiaramento de' tempi ne' quali scrissero: ma non già ab-
bandonarsi nella lor fede in cose da loro lontane, i di cui racconti
sovente riescono 0 favolosi ovvero alterati- Presso i Latini (toltone
Sulpizio Severo,2 che ce ne diede una elegante, ma breve e ristretta
1. Eusebio . . . Lettore: per Eusebio di Cesarea, Socrate, Sozomeno e Teo-
doreto vedi la nota 2 a p. 31. Per il passo di Gregorio Magno cfr. Epistolae,
lib. vii (non vi), ep. xxxiv (altri xxxi) Ad Eulogium episcopum> in Migne,
PX., lxxvii, col. 893. Di Evagrio (circa 536-600), detto lo Scolastico, ci
resta una Storia ecclesiastica in sei libri, che è una continuazione di quelle
degli altri storici sopra menzionati. Per Filostorgio vedi la nota 1 a p. 24.
Teodoro il Lettore (secolo VI), storico bizantino, scrisse una Storia eccle-
siastica, da Costantino il Grande al 518, di cui si conservano solo estratti.
2. Sulpizio Severo : vedi la nota 2 a p. 3 1 .
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 965
ne' primi secoli), sempre più l'ignoranza e la non curanza delle
buone lettere avanzandosi nell'Occidente, non si videro ne* secoli
incolti che particolari cronache di monaci de' loro monasteri, ed
altri insipidi e goffi volumi, finché il venerabile Beda1 non la rial-
zasse alquanto ; ma colpa sua non già, ma de* tempi ne' quali scrisse,
non potè darcene una generale, bene scritta ed accurata. Tacquero
poi gli altri scrittori ecclesiastici ad altro intesi, a dispute metafisi-
che, scolastiche ed inutili, ed intrigati in una spinosa e nuova lor
teologia. Le novità dapoi surte in Germania ne* princìpi del se-
colo XVI per le prediche di Lutero, e le alterazioni indi seguite
sopra più punti non pur di disciplina, ma di dottrina, dieder oc-
casione di essaminarli più a fondo per iscoprirne le cause e le
origini, ciocché prima non erasi fatto, ciascuno appoggiandosi su
l'altrui fede e credenza, acquetandosi all'uso ed al costume ed a
que' istituti che da lungo tempo vedeva essersi stabiliti. Quindi
alcuni accorgendosi che non altronde potevan tante dispute riceve-
re rischiaramento, se non dal lume d'una sincera istoria ecclesiasti-
ca tratta da' princìpi della nascente Chiesa, cominciarono ad in-
traprenderne lo studio. I primi furono i Centuriatori di Magde-
bourg, i quali con indefessa fatica e sommo travaglio facendo ac-
curate ricerche fra' monumenti rimastici de' tre primi secoli, la
tirarono innanzi fino al quarto. Ma poiché il lor travaglio fu intra-
preso non già per darci una schietta, fedele ed imparzial istoria,
ma per convincere i loro avversari, sicome essi credevano, de' loro
errori ed inganni, quindi l'empirono di dissertazioni teologiche,
d'interpretazioni di concili e de' Padri per trarre dal lor canto l'au-
torità e le testimonianze de' medesimi. Per occorrere e toglier la
forza ad una machina non men insidiosa che dannosa alla Chiesa
dì Roma, surse il card. Baronio, e cominciò a dar fuori i suoi
Annali ecclesiastici,7, ne' quali non dissimulando le difficultà, pro-
1. Beda: vedi la nota 5 a p. 846. 2. 1 primi furono . . . ecclesiastici: il Gian-
none aveva avvertito con molta sensibilità lo iato esistente tra la prima
storiografia ecclesiastica, legata alla cultura greca, e la ripresa degli studi
di storia religiosa nel XVI secolo: la frattura tra cattolici e protestanti im-
pedì o almeno limitò fortemente quel rapporto tra la filologia umanistica
e la storia ecclesiastica che per esempio Erasmo aveva cercato di stabilire.
Rifiorisce sì la storia ecclesiastica, ma rifiorisce sul terreno della polemica,
senza alcuna capacità di essere imparziale e obiettiva. Di questo tipo di
storiografia i due monumenti principali sono appunto l'opera dei Centu-
riatori di Magdeburgo e gli Annali del Baronio. Cfr. Ecclesiastica historia
integram Ecclesiae Christi idearti . . . secundum singulas centurtas perspicuo
966 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
cura sviluppare e scìorre tutti i nodi, e rischiarare con altre in-
terpretazioni i sensi e le parole de* concili e de' Padri ; e non vi è
dubbio che il suo travaglio non fu inferiore a quello de' Centuria-
tori, ammirato dagli stessi suoi avversari; e quindi bisognò pure
che gli ricolmasse di dissertazioni non meno istoriche che teologi-
che. Ciascuno da ciò comprende che ricominciossi lo studio dell'i-
storia ecclesiastica non già perché gli scrittori assumessero il carat-
tare d'istorici, ma più tosto di oratori o declamatori, prendendo
la difesa della sua causa con intento di vincer l'avversario, poco
curando la verità delle cose, ma ciascuno a dritto o a traverso ti-
rarla dal suo canto; onde diedero in estremità opposte, e lo studio,
l'affetto e la passione delle parti contendenti di leggieri gli fece tra-
scorrere, oltre essere i primi, in molti errori, sicché dapoi le loro
opere ebber bisogno di più critiche per renderle pure e metterle
nel diritto cammino della verità, affinché la posterità, alla quale
unicamente devono gl'istorici badare, non inciampasse ne* medesi-
mi errori. Chi in scrivendo assume il carattere d'istorico non dee
esser tocco di amore 0 di odio, ma le sue narrazioni disporle se-
condo la naturale e semplice positura delle cose, chiamar fico il
fico, e vomere il vomere, senza raddolcire o inamarire i fatti o i
vocaboli fuori della lor natura e proprietà, e molto meno farsi ac-
cecare dagli umani affetti, e mettersi in croce per compiacere ad
una delle parti quando incontra de' duri passi, ma francamente
oltrapassarli, calcando il sentiero della verità. Il card. Baronio
sovente si è veduto per ciò in molte angustie, nelle quali tutto si ag-
gita e si contorce; senza riflettere ch'egli si era posto a scrivere
l'istoria d'una religione amministrata fra gli uomini, non dagli
angeli, ma da uomini stessi, i quali sottoposti a mille debolezze e
passioni, è facile trascorrere nell'ambizione, avarizia, dissolutezza,
ordine complectens . . . per aliqiiot studiosos etpios viros in urbe Magdeburgica,
Basileae 1559-1574, in sette volumi divisi in tredici (non tre) centurie (=• se-
coli). È la prima storia generale della Chiesa di parte protestante. Ne fu diret-
tore e animatore Flacio Illirico (Matthias Vlacich), istriano (1530- 1575). Sul
significato e il valore dell'opera dei Centuriatori cfr. E. Fuister, Storia della
storiografia moderna^ traduzione di A. Spinelli, Milano-Napoli 1970®, pp.
330-5. La risposta da parte cattolica ai Centuriatori doveva venire da un
rappresentante della storiografìa erudita italiana: Annales ecclesiastici auc-
tore C. Baronio , Romae 1588-1607, in dodici volumi. Su Cesare Baronio
(1538-1607), oratoriano e cardinale, cfr. le pagine del Fueter, op. cit., pp.
338-41, in cui si mostrano i limiti e le deficienze di questa esperienza sto-
riografica rispetto alla tradizione umanistica.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 967
anzi a maggiori vizi e sceleratezze. Questo cardinale, mentre stava
tessendo la lunga tela de' suoi Annali, quando pervenne al tempo
del famoso scisma tra* papi di Roma e quelli di Avignone, e che la
Francia, la Spagna e la Savoia prestava ubbidienza a que' di
Avignone; e l'Imperio, l'Ungheria e l'Italia a que' di Roma, in
tanta turbazione e sconvolgimento di cose, poich'egli avea preso
la parte de' Romani, scrisse una lettera a Giacomo Sirmondo,1 dove
fra le altre cose gli dice: «Mi trema in petto il cuore e nella mano
la penna, qualora ripenso di dover pervenire a sviluppare le ma-
terie di questi tempi, di cui giammai non saprei come farmi arbitro
a darne definitiva sentenza». In questi casi chi prende il carattere
d'istorico non dee angustiarsi, ma schiettamente, non inclinando
a destra o a sinistra, proseguire la narrazione de' fatti secondo la lor
giacitura e propie circostanze, senza assumer la persona di giudice
e dar sentenza, ma lasciare al giudicio de* lettori di proferirla. Né
sgomentarsi se occorrerà nel filo dell'istoria rammentare fatti i più
empi e scellerati che fosser mai accaduti di persone ancor che
illustri ed in somma dignità costituite; e molto meno chi tesse
l'istoria della Chiesa cristiana, doppo aver narrata la giudaica-,
poiché in quella, spezialmente del II Tempio, avrà scorti maggiori
scelleraggini de' sommi sacerdoti, e più esecrande empietà ne' loro
preti e leviti, ed essersi giunto fino a vendersi pubblicamente il
pontificato per denaio, ed esserne investito colui che offeriva mag-
gior prezzo, sicome avvenne a' tempi del G. Pompeio, il quale ebbe
il piacere di esporlo venale, e trovar più compratori che a gara se '1
contrastavano. Se i ministri della religione, poiché sono uomini
anch'essi, nell'una e nell'altra chiesa furon contaminati di abo-
minevoli vizi, che fa questo alla religione? Niente gli tocca, né per
ciò ella rimane contaminata e guasta.
Questo non men laborioso che dotto scrittore proseguì i suoi
Annali fino e per tutto il XII secolo: e trovò doppo sua morte
continuatori, ma di gran lunga a lui inferiori. Poca lode si meritò
Bzovio,2 un polacco domenicano; ma il P. Odorico Raynaldi3 prete
1. Giacomo Sirmondo \ cfr. la nota 3 a p. 681. Non mi è riuscito di sapere da
dove il Giannone ha tratto questa notizia. Nessun accenno nella Vita del
Baronio premessa all'edizione parigina degli Annales del 1622. 2. Bzovio:
Abraham Bzowski (1 567-1 637) continuò gli Annales dal 11 98 al 1572 (Ro-
mae 161 6-1 672, in nove volumi). Il giudizio del Giannone, molto severo,
concorda con il nostro, perché il Bzowski mancava di ogni senso critico.
3. Odorico Rinaldi (Raynaldus, 1 594-1671), oratoriano, è il più importante
968 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
dell'Oratorio di Roma impiegò molto travaglio nel rischiaramento
de' secoli seguenti, dandone fuori ben diece volumi, i quali però
non meritano nome né d'istoria né di annali, ma riusciranno utili
a chi vorrà comporgli; essi deono aversi come tante selve o ma-
gazzini, onde trarne la rude materia, poiché sono ripieni di molti
pezzi, scritture e documenti di que' tempi, da' quali potrebbe
tessersene una ben fondata istoria. Ancor oggi, per istituto di quel
Oratorio, da un altro lor prete sono continuati; e se non per altro,
riusciranno almeno profittevoli per le varie carte e scritture originali
che rinserrano come preparate raccolte. Nel XVII secolo e più nel
suo fine, in tempi meno turbati, questo studio cominciò a fiorire
nella Francia, e molti preclari ingegni di questa nazione sull'istoria
ecclesiastica si videro applicare i loro talenti. Oltre lo Spondano1
vescovo di Pamiers ed il P. Antonio Pagi,2 che travagliarono ad
emendare e corriggere gli errori occorsi negli Annali del Baronio
ed a continuargli, sursero altri a dar fuori l'istoria ecclesiastica
nella loro propria lingua ; ed il primo fu Antonio Godeau3 vescovo
di Vence, il quale in Parigi nel 1663 e I^78 diede alla luce cinque
volumi proseguendola fino alla fine del IX secolo ; ma non si trovò
poi chi la continuasse, poiché l'abate Fleyri4 oscurò la costui fama.
Questi con istile semplice e modesto, ancorché non s'innalzasse
quanto Godeau, riuscì per la critica più al gusto de' Francesi, e
spezialmente per i suoi discorsi che vi framezzò, ma non avendo
potuto continuarla fino a' suoi tempi, si rimase al cominciamento
del XV secolo. Trovò il suo continuatore che la proseguì fino al
continuatore degli Annales ecclesiastici, riprendendoli e conducendoli fino
al 1567 (Romae 1646-1662, in otto volumi). È anche l'autore di un com-
pendio del Baronio in tre volumi (Romac 1 64 1 - 1 643 ) . 1 . Spondano : Henri
de Sponde (1568-1643), proseguì gli Annales fino al 1641. 2. Antoine
Pagi (1624-1699), frate minore francese. L'opera cui il Gìannone allude è la
Critica historico-chronologica in Annales ecclesiastìcos cardinalis Baronii>
Pansiis 1689; gli altri tre tomi furono pubblicati dal nipote Francois
Pagi (Antverpiae 1705), a sua volta autore di un Breviarium historico-
chronologico-cnticum . . ., Antverpiae 17 17, in quattro volumi. 3. Antoine
Godeau (1605-1672), letterato e prelato francese membro dell'Accademia,
autore di una Histoìre de VÉglìse . . ., nouvelle édition augmentée, Paris
1663-1678, in cinque volumi. 4. Si tratta naturalmente di Claude Fleury,
per il quale si veda la nota 3 a p. 31. Il Giannone si riferisce alla Histoire
ecclésiastique . . ., Paris 1 691 -1720, in venti volumi, che giunge fino al
1414. Cfr. F. Gaquère, La vie et les oeuvres de Claude Fleury > 1640-1723,
Paris 1925. Cfr. le critiche, piuttosto severe, che gli muove il Fueter, op.
cit., pp. 404-5.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 969
secolo presente e questi fu il P. Favre,1 prete dell'Oratorio di
Parigi, il quale non si acquistò quella fama e riputazione dell'abate
Fleyri per esser troppo diffuso, facile ed ardito, e la troppa copia
e sua facilità fa che s'incontri nell'opera di questo n Raynaldi quella
nausea che si sperimenta nel 1. Ma sopra questi s'innalzò il cotanto
celebrato Tillemont,3 il quale prese altro stile, e diede nuova forma
trattando dì questa materia: egli s'interna ne' sensi e nelle parole
degli autori originali, abbonda di riflessioni savie, di esatta critica,
di ben ragionati discorsi: accurato e prudente nella discussione
de' dubbi, e sopra tutto modestissimo in lasciar sovente la decisione
a' lettori, de' quali fa somma stima; per ciò egli non ardì a' suoi
volumi dar titolo d'istoria, ma sol di Memorie per servire all'istoria
della Chiesa. Ma con tutto che vi avesse travagliato per lo corso
di quaranta anni, per la sua perplessità, e pur troppo ricercata esat-
tezza e somma scrupolosità, non ci diede se non i primi cinque se-
coli, né potè darci il compimento del sesto: sicché l'opera rimane
mancante de' seguenti, né si è trovato scrittore che la continuasse.
Il P. Natal d'Alessandro3 domenicano, nella sua latina Istoria
ecclesiastica data fuori ne' medesimi tempi, prese nuovo metodo e
diede alla materia nuova forma e nuova disposizione. Egli s'inge-
gnò di adattarla al gusto de' frati e de' monaci, perché s'invoglias-
sero a saperla, e risolvere le loro quistioni scolastiche con l'autorità
de' Padri e con princìpi più alti e solidi; in breve trasformare la lor
teologia da scolastica in dogmatica. L'empie per ciò di più dis-
sertazioni non meno istoriche che teologiche per convincere i no-
vatori de' loro errori; nel che mostra di aver fatto sommo studio
sopra i libri de' Padri antichi, trascrivendone lunghi passi e non
dissimulandone alcuno, ancorché apertamente si opponesse al suo
intento ; mostra in ciò una gran lealtà e schiettezza d'animo, ancor-
ché nel tempo stesso una gran simplicità e debolezza nello sciogli-
mento delle difficultà, acquetandosi ad ogni leggiera e futile rispo-
1. il P. Favre: Jean-Claude Fabre (1668-1753), oratoriano francese. Cfr.
la sua continuazione alla Histoire ecclésiastique, Paris 1734, in sedici vo-
lumi. 2. Tillemont: vedi la nota 3 a p. 31. Il Giannone gli accorda la
sua simpatia per due ragioni: perché, sia pure in due opere distinte, aveva
tentato di narrare insieme la storia civile e la storia ecclesiastica, conside-
randole completantesi a vicenda, ma soprattutto perché, pur avendo una
solida passione politico-religiosa, da buon gallicano-giansenista, non forza
mai le fonti, ma tende a lasciare al lettore il giudizio. Cfr. E. Fueter, op.
cit., pp. 402-4. 3. Natal d'Alessandro: vedi la nota 1 a p. 104.
970 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
sta. L'opera non può negarsi esser laboriosa e d'una immensa fatica,
e merita commendazione per avere diffusamente trattato della
chiesa giudaica, e dato minuti ragguagli de' libri del Vecchio Testa-
mento, e di aver conosciuto che se questa non preceda, non potrà
ben capirsi quella della cristiana e molto meno i libri del Nuovo
Testamento. Egli fu il primo che pensò d'inserirci anche l'istoria
della maomettana, ma, come fu detto, credendola non cotanto
necessaria, se ne sbrigò in poche pagine. Della medesima, la quale
fu tirata fino al XVI secolo, per esser un gran magazzino dove si
racchiudono infinite cose notabili, può farsene buon uso ; e poiché
il continuarla sino al presente costerebbe immenso travaglio, do-
vendosi varcare due spinosi secoli, niuno fin qui ha avuto il co-
raggio di accingersi a sì dura e malagevole impresa. La Francia ha
date altre istorie, che si raggirono intorno allo stesso oggetto, sico-
me V Istoria della Chiesa e dell'Imperio del Sueur;1 l'altra di Giaco-
mo Basnage,2 Istoria della Chiesa, ovvero della dottrina e de' dogmi;
e l'altro Basnage3 di Flottemanville suo cugino diede anche fuori
un'altra istoria ecclesiastica in lingua latina.
Tutti questi scrittori francesi, ancorché promettessero di scrivere
una generale istoria ecclesiastica, e non trascurassero le altre Chiese
di Europa, nulladimanco sembra che il lor principal intento non
fosse altro che d'illustrar e metter in prospetto la loro Chiesa
gallicana; e quivi impiegano i loro studi con sottili ricerche, ed
adoprano i più vivi colori per adornarla e renderla più vistosa o,
com'essi dicono, più brillante al mondo. Delle altre Chiese non si
han preso molta cura, né fatte quelle ricerche che bisognavano.
Della Chiesa greca, che un tempo ingombrava quasi tutto l'Oriente,
i. Istoria . . . Sueur: Jean Lesueur (1602 circa- 1 681), pastore protestante
e storico ecclesiastico francese, Histoire de VÉglise et de VEmpire . . . depuìs
la naissance de Jesus Christ jusques à Vati $26 . . ., Genève 1674- 1687, in
otto tomi ; proseguita da B. Pictet, Histoire . . . pour servir de continuation
à V Histoire de VÉglise et de VEmpire de Mons.r Le Sueur, Genève 171 3, in
due tomi. 2. Jacques Basnage: cfr. la nota 3 a p. 910. Polemizzò con
l'opera del Bossuet scrivendo V Histoire de la religion des Églises réformées . . .
pour servir de réponse à VHistoire des variations des Églises protestantes par
Mr* Bossuet, Rotterdam 1690, a cui il Bossuet rispose con la Défense de
Vhistoire del 1691. Il Basnage replicò con VHistoire de VÉglise ...» Rotter-
dam 1699, in due volumi, cui fa riferimento il Giannone. 3. Samuel
Basnage (1638-1721), cugino del precedente, pastore a Vaucelles, morto in
Olanda. Scrisse: De rebus sacris et ecclesiasticis exercitationes historico-
criticae, in quibus cardinalis Baroniì Annales, ab anno Christì XXXV, in
quo Casaubonus desiit, expenduntur . . ., Ultraiecti 1692.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 971
e che ancor oggi nella Russia ed in più paesi dell'Imperio ottomano,
dell'Europa e dell'Asia sussiste, appena si fa motto, come se
questa non fosse una gran parte, la qual dee per necessità entrare
in un corpo d'istoria generale, com'essi promettono. Nelle ricerche
delle particolari e minute istorie a quella appartenenti non può
negarsi che furono esatti, sicome fu Goffredo Hermant1 nell'istoria
delle vite di S. Attanasio, di S. Basilio e di S. Gregorio Nazianze-
no; di S. Gio. Grisostomo e di S. Ambrogio; e fu Antonio Godeau
in quella della vita di S. Agostino.3 Parimente non mancarono nel-
l'esattezza e diligenza in tesser particolari istorie dell'eresie e degli
eretici, come fu quella che ci diede il Beausobre3 del manicheismo ;
l'altra degli Albigesi e Valdesi del P. Benoist;4 quella di Giacomo
Benigno Bossuet delle Variazioni delle Chiese protestanti-* l'altra
del calvinismo di Pietro Soulier;6 degli iconoclasti del P. Maibourg7
e di tanti altri sopra altre eresie. Né mancarono di accuratezza nel-
l'istoria di particolari concili, sicome nelle istorie monastiche di
Oriente e di Occidente. Ma tutte queste, staccate e separate da una
1. Godefroy Hermant (1 617- 1690), canonico francese, rettore della Sor-
bona, giansenista, autore di una Apologie pour M. Arnauld, Paris 1644.
Le opere qui citate sono: La vie de S. Athanase, patriarche d'Alexandrie,
Paris 1671, in due volumi; La vie de S. Basile le Grand . . ., celle de S.
Grégoire de Nazanse . . ., Paris 1674, in due volumi; La vie de saint Jean
Chrysostome, patriarche de Constantinople et docteur de VÉglise, Paris 1664,
e La vie de S. Ambroise, archevèque de Milan, Paris 1678. 2. Antonio
Godeau . . . Agostino : il Giannone si riferisce a La vie de saint Augustin . . .,
Paris 1652, del già menzionato Antoine Godeau. 3. Isaac Beausobre (1659-
1738), teologo protestante. Cfr. la sua Histoire critique de Manichèe et du
manichéisme, Amsterdam 1734- 173 9, in due volumi. 4. Benoist: Jean Be-
noit (1632-1705), storico domenicano francese, di cui il Giannone cita
l' Histoire des Albigeois et des Vaudois ou Barbets . . ., Paris 1691, in due
volumi; dello stesso la Suite de V Histoire des Albigeois contenant la vie de
saint Dominique . . ., Toulouse 1693. 5. Jacques-Benigne Bossuet (1627-
1704), vescovo di Meaux, Histoire des variations des Églises protestantes,
Paris 1688, in due volumi. Il Bossuet, come si è detto, dovette difendere
la sua opera dal Basnage: Défense de VHistoire des variations contre la réponse
de M. Basnage, Paris 1691. Si scontrò inoltre con il Jurieu, contro il quale
scrisse Premier avertissement aux protestane sur les lettres du ministre
Jurieu contre VHistoire des variations . . ., Paris 1 689-1 691. Cfr. l'ampio
lavoro di A.-G. Martimort, Le gallicanisme de Bossuet, Paris 1953.
6. Pierre Soulier (nato nel 1640 circa), sacerdote, controversista, autore
di una Histoire du calvinisme contenant sa naissance, son progrès, sa déca-
dence et sa fin en France, Paris 1686. 7. Maibourg: Louis Maimbourg
(1610-1686), gesuita, storiografo di simpatie gallicane. Il Giannone si rife-
risce &\V Histoire de Vhérésie des iconoclastes, Paris 1674.
972 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
general istoria, non fan quel risalto che acquistarebbero se fosser
unite e congiunte, ed oggi chiunque vorrà tesserne una generale
potrebbe farne un miglior uso, collocandole a* loro propri luoghi
e dovuti tempi.
L'Inghilterra, per accuratezza, se non per numero, non ha che
cedere in ciò alla Francia, essendo uscite da' loro scrittori istorie
esattissime e d'una esquisita critica; e quantunque il principal loro
intento fosse stato d'illustrare la loro Chiesa anglicana, nulla di
manco somministrano preziose gemme per adornarne una genera-
le, in fra gli altri gli Annali dell'Antico e Nuovo Testamento del
vescovo Usserio;1 le accurate opere del Marsham,2 del Cave,3 del
Relando, e di molti altri.4
Finalmente la Germania ha in questi ultimi tempi ripigliato
questo studio, e dato fuori raccolte insigni e più laboriosi volumi
d'istoria compilati intorno alla Germania sacra,5 li quali sono d'ine-
stimabile valore per i molti diplomi ed originali scritture che rac-
chiudono, donde possono trarsi le basi sicure per tesserne una ge-
nerale. E non vi è dubbio che in ciò a' Germani molto si dee, per
esser instancabili a raccorre da' loro archivi le più belle memorie,
onde sono rischiarati i tempi più oscuri di secoli incolti, che sono
i documenti più stabili sopra i quali con sicurezza può ciascuno
appoggiare il suo lavoro. E più volte si è da noi avvertito che per
trarre una istoria sincera da que' tenebrosi tempi non vi è altro
soccorso che ricorrere alle cronache ed a' scritti degli autori con-
temporanei ancor che rozzi e sciapiti, ed alle carte, bolle e diplomi,
de' quali oggi si sono fatte più raccolte, spezialmente di quelle tratte
i. Usserio: vedi la nota i a p. 666. Qui sono citati gli Annales Veteris et
Novi Testamenti, a prima mundi origine deducti usque ad extremum Templi
et Reipublicae iudaicae excidium . . ., Lutetiae Parisiorum 1673. 2. Mar-
sham: vedi la nota 6 a pp. 801 -a. 3. William Cave: vedi la nota 1 a p. 682.
L'opera cui si allude qui possono essere le Antiquitates apostolicae or the
Lives, Acts and Martyrdoms of the Holy Apostles . . ., London 16778, come
la Scriptorum ecclesiasticorum historia litteraria a Christo nato usque ad
saeculum XIV . . ., Londini 1688- 1698, in due volumi. 4. V Inghilterra . . .
altri: il Giannone coglie precisamente l'importanza della storiografia an-
glicana nel settore degli studi ecclesiastici. Stranamente dimentica però
il Bingham, che pure era stato uno dei suoi strumenti più preziosi (cfr. la
nota 1 a p. 660). È invece un errore materiale l'inserimento del Reeland
fra gli storici inglesi, dato che questi era un olandese (cfr. la noia 6 a pp.
801-2), insegnante a Utrecht e a Lipsia. 5. Germania sacra, Augustae
Vindelicorum 1727- 1729, in due tomi, del gesuita austriaco Marcus Hansiz
(1683-1766).
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 973
dagli archivi di più antichi monasteri. Per questa ragione condu-
cono molto, come altrove si è detto, Yltalia sacra dell'Ughello,1
la Sicilia sacra del Pirro,2 l'istoria cronologica ecclesiastica del
vescovo di Saluzzo,3 la Gallia, V Anglica e la Germania sacra, e le
consimili altre fatiche impiegate da scrittori di più nazioni, cia-
scuno nella sua propria, perché contengono pezzi inestimabili per
metter in chiaro molti punti d'istoria fin ora riputati oscuri ed
inestricabili. E dobbiamo oggi alla diligenza e travaglio di più col-
lettori, spezialmente a' Germani, 1 quali ci han in gran parte liberati
dalla pena e dalla polvere di riccorrere a lontani, poco noti e sovente
inacessibili archivi, sicché possiamo dire esser a noi pronta ed ap-
parecchiata la materia.
Egli è vero che ci rimane maggior fatica per conferirle insieme,
e con esatto e maturo giudicio valersene; dove consiste il preggio
dell'opera. Plinio il Giovane rispondendo a Capitone, o pur a
C. Tacito, che lo consigliava a scrivere istoria, dice nell'ep. 8 del
v lib.: «Vetera et scripta aliis, parata inquisitio, sed onerosa col-
latio ».s A noi, oltre esser l'inquisizione non cotanto apparecchiata,
poiché si hanno a ricercare, doppo l'uso della stampa, tanti e sì vari
volumi, rimane maggior travaglio intorno al conferirgli insieme, e
sopra tutto a trattar delle cose con maturità e prudenza, e dar
miglior disposizione ed ordine alle narrazioni, e di dover navigare,
spezialmente trattando dell'istoria della Chiesa cristiana, in un pe-
lago profondo e spazioso, con leggiera speranza di venire a porto ;
nulla di manco non per ciò gl'ingegni animosi e grandi dovran
disperare, né sgomentarsi per la lunghezza e malaggevolezza del
cammino ; poiché che non puote il tempo, la toleranza e sopra tutto
il piacere di consignare alla posterità un'opera veramente magnani-
ma ed immortale ? Compenseranno la noia ed il travaglio col riflet-
1. Ughello: vedi la nota 2 a p. 574. 2. Pirro: vedi la nota 2 a p. 159.
3. vescovo di Saluzzo: Francesco Agostino della Chiesa (15 93- 1662): cfr.
la nota 1 a p. 925. 4. Cfr. rispettivamente Sammarthani Scaevolae et
Ludovici Gallia Christiana, qua series omnium archiepiscoporum, episcoporum
et abbatum Franciae . . . per quatuor tomos deducitur, Lutetiae Parisionim
1656 (gli autori, Scaevola e Louis de Sainte-Marthe, sono due eruditi fran-
cesi fratelli) ; e H. Wharton, Anglia sacra, sive collectio historiarum partim
antiqui tus, partim recenter scriptarum de archiepiscopis et episcopis Angliae,
Londini 1691. Henry Wharton (1664-1695), erudito inglese, fu editore di
Usher e collaboratore del Cave. 5. « Vetera . . . collatio»: Ep., v, vili, 12.
Le edizioni moderne hanno punto interrogativo dopo aliis.
974 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
tere che avranno per le mani una materia che nel preggio e nobiltà
di gran lunga supera quella di qualunque altra istoria civile, mili-
tar o naturale che altri intraprenderanno; poiché riguardando le
origini, i progressi, l'ingrandimento e declinazione di questa sola
religione in Europa, comparandola con l'altre religioni che occu-
pano la maggior parte del mondo, avranno colla maraviglia insieme
il piacere e il diletto di conoscere le vere cagioni, come avesse
potuto far cangiare i suoi popoli di costumi e di pensieri, ed intro-
durre nelle loro menti nuove idee, nuove massime e nuovi istituti.
E riflettere che gran parte di questo cangiamento, e d'essersi intro-
dotte nelle menti umane nuove massime ed idee e per consequenza
nuovi costumi, sì deve alle esaggerazioni, omelie e declamazioni de*
Padri antichi. Avranno ancora occasione di riflettere, come ma-
neggiata ne* primi tre secoli da que' filosofi, che dal gentilesimo
passarono al cristianesimo, avesse potuto negl'intelletti umani pro-
durre tante portentose e varie idee e tante strane e fantastiche opi-
nioni? Come dapoi ne' secoli incolti, senza lettere e discipline,
avesse potuto intrigare tanti elevati ingegni tra quistioni quanto
sottili e metafisiche, altretanto vane e inutili, e che niente a lei si
appartengono? Si è intesa mai religione al mondo ferace di tanti
dottori della sua legge, di tanti teologi, di tanti spositori ed inter-
preti? Comparandola colle altre, ammireranno come da pochi e
semplici riti abbia avanzate tutte le altre, anche la gentile, nel
culto e nelle religiose cerimonie e nella ricchezza della suppellet-
tile sacra: come da pochi e poveri ministri abbia superate tutte
l'altre sia nel numero, sia nello splendore, sia nel fasto e nella
pompa. Ne' tempii e negli altari aver superato nei numero, nella
magnificenza e ricchezza quelli de' gentili. Ma sopra tutto stupi-
ranno come da princìpi, da' quali ciascuno avrebbe dovuto pro-
mettersi altri effetti, se ne sien veduti altri tutti contrari ed opposti.
Puossi immaginar religione che tutta si appoggiasse sopra l'umil-
tà, disprezzo delle ricchezze, onori, aggi ed altri beni di questo
mondo terreno, aspirando solo ad un regno celeste? E pure per
lei si è veduto sorgere in Europa un nuovo ed a tutta l'antichità
sconosciuto Regno papale,1 il quale sopra e dentro V Imperio stesso
ha stabilito un altro imperio, emulando l'antico con nuovi corpi
i. E riflettere che gran parte . . .papale: nelle conclusioni si armonizzano
e si ripropongono i temi del* Istoria civile e del Triregno con quanto è sta-
to pensato in carcere.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 975
di leggi, alle Pandette opponendo il Decreto, a' Codici le Decretali,
alle Novelle i Bullari, alle Istituzioni altre canoniche diverse dalle
civili, ed in sino a* libri feudali opporre una nuova giurisprudenza
detta beneficiaria-, affinché sicome nelle sue provincie, nelle sue
università de' studi e ne* suoi tribunali si videro due corpi di leggi,
così si riconoscesser due somme potestà e due sovrani principi.
Né fermarsi solo neirammirazione di effetti sì portentosi ; ma inol-
trarsi ad indagarne le vere cagioni, le quali non troveranno nel-
l'altre religioni; cioè d'essersi per lei confuse queste due potestà,
Imperio e Sacerdozio, le quali prima eran separate, ed essersi esclusi
i principi cristiani dall'ispezione dell'esterna politia ecclesiastica.
I Romani altamente gridavano presso Livio, dee. I, lib. 5 : « Salii,
Flaminesque nusquam alio, quam ad sacrificandum prò populo,
sine imperiis ac potestatibus relinquantur » ;z ma dapoi videsi il
tutto cangiato, e prender le cose altro aspetto e nuove forme.
Dalla esterior politia ecclesiastica, della quale erano prima custodi
e vindici gl'imperadori cristiani, sicome è manifesto da' due Codici
teodosiano e giustinianeo, e dalle Novelle non men sue che di più
imperadori suoi successori, essendone poi isclusi gli altri principi
ne' nuovi domìni in Europa stabiliti, non poteva presaggirsene se
non grandi mutazioni e cangiamenti. Considereranno in oltre di
aver questa religione recato a' romani pontefici il dominio di più
vaste provincie d'Italia e di avergli resi signori di Roma istessa, e
fargli anche por piede nel potentissimo regno di Francia. Chi non
stupirà nella narrazione di quel fascino delle cruciate che tenne
occupata l'Europa per più secoli con tante stragi de' suoi popoli?
Conosceranno al paragone se vi sia stata mai religione al mondo
che l'abbia riempito di avvenimenti cotanto strani e portentosi e
che abbia sopra la superficie della terra senza esserciti e senza
armate distese cotanto le sue conquiste, e prodotti effetti sì stu-
pendi, ammirandi e prodigiosi, contro l'aspettazione degli uomini,
e contro ciò che promettevano i suoi princìpi ed i suoi primi insti-
tuti. Cose tutte ad invogliare i più restii, e di essergli di acuti stimoli
per intraprenderne con alacrità il travaglio, ancor che lungo, dif-
ficile ed operoso. E ammireranno nello stesso tempo quanto fos-
sero intricate e difficili le vie del Signore, e quanto inarrivabili gli
alti e profondi divini giudici di condurre la sua Chiesa, militante
1 . « Salii . . . relinquantur » : iv, 54, 7 (« Salii e Flàmini siano lasciati solo
alle funzioni dei pubblici sacrifici, senz'alcun comando o autorità»).
976 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
per queste strade, ad uno stato sì alto e sublime nella stessa terra
dove alberghiamo come semplici ospiti e pellegrini.
Ma sopra tutto scopriranno una verità, la quale maggiormente
gli confermerà nel concetto di esser ella divina, e che da mano
alta, potente ed invisibile fosse sostenuta; poiché (oltre i tanti
effetti prodigiosi e stupendi fuor del corso de* mondani avveni-
menti, i quali non possono certamente attribuirsi alla sola indu-
stria umana) ravviseranno che per abbatterla sovente s'unirono
insieme due potenti nemici, e pur non gli fecero dar crollo. Nemici
di fuori, i quali furono i perfidi maomettani e le tante sette di ere-
tici; e nemici di dentro, che furono i più insidiosi e valevoli per
atterarla affatto, cioè i suoi più stretti ed intimi ministri, poiché
si accorgeranno che questi, siano alti o bassi, par che avesser posto
ogni lor studio e opra per la loro incredulità, frodi, ambizione,
avarizia, lussuria e rilasciatezza di costumi, d'interamente estin-
guerla, e pure sempre salda e forte ha vinto le loro empietà e scel-
leragini, e trionfato non men dell'inferno che degli stessi perfidi,
insidiosi e malvaggi suoi interni ed occulti nemici; onde a ragione
potranno esclamare e dire: «Vere digitus Dei est hic».1
iv. Intorno alla religione maomettana.2
Fa veramente maraviglia come i nostri scrittori, in tessendo una
general istoria della Chiesa, abbiano fatto si poco conto della
religione maomettana, appena facendone motto; quando ella non
pur colla giudaica, ma colla cristiana istessa ha molto rapporto, né
potranno ben intendersi le vicende dell'una senza sapersi i prin-
cìpi e i progressi dell'altra; e più ragioni convincono che debba
di necessità entrare in una general istoria ecclesiastica.
Primieramente perché vantano i maomettani esser la loro fi-
gliuola della giudaica non meno che la cristiana, e che fra di loro
sia tanta amistà e strettezza quanta è fra due sorelle. Di vantaggio
i. « Vere . . . hio)i cfr. Exod., 8, 19. 2. Intorno alla religione maomettana:
il Giannone riflette un interesse per il maomettancsimo e per il mondo
arabo che ha due componenti: una libertino-deistica: e basterebbe citare
i nomi del Toland, del Boulainvilliers, del Radicati, del d'Argcns ; l'altra
derivantegli dall'ambiente viennese, che aveva frequenti contatti con il
mondo orientale e nel quale certe conoscenze erano quasi ovvie, data la
politica non solo di contenimento ma anche di espansione verso Oriente
esercitata da Vienna.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 977
il lor profeta nel dettar il suo Alcorano essersi valso non meno
della dottrina del Vecchio che della morale del Nuovo Testamento.
Questo libro non esser altro che un mescolamento dell'una e del-
l'altra legge, ma che debba preporsi a* quattro Evangeli, perché
in esso fu consumata l'opera; e ciocché il profeta Giesù, ch'essi
confessano essere stato il messia degli Ebrei, avea cominciato, il
profeta Maometto avea ridotto a perfezione e compimento. Si è
veduto nel primo libro dell'Apologia dey teologi scolastici che di-
sputando il Valle1 co' maomettani della Persia, questi stupivano
come i cristiani rifiutassero il lor Alcorano, quando doveano pre-
stargli quella stessa credenza che hanno nel Vangelo, giacché da
quello di S. Giovanni l'era indicato che dovea venire un altro pro-
feta, il quale l'avrebbe istruito di altre cose le quali non potevano
allora sopportare; che il Paracleto l'avrebbe dapoi insegnato il
rimanente: e questi esser disceso nel nuovo profeta Maometto, il
quale per mezzo dell'angelo Gabriele riceveva i divini avvisi ed
istruzioni. Questo famoso impostore2 nato nella Mecca, città dell'A-
rabia Felice, l'anno 568, vantava esser della stirpe d'Ismaele, e per
conseguenza della posterità di Abraamo. Dotato dalla natura d'uno
spirito pronto ed ardito, e d'una eloquenza superiore a quella della
sua nazione, seppe farsela valere in guisa che, ancorché grossolana-
mente istrutto della religione giudaica e della cristiana, aiutato dal
monaco Sergio, ebbe l'ardire e il coraggio di formare e predicar loro
un nuovo sistema di morale e di dottrina; ed ebbe anche l'industria
che usaron gli altri formatori di nuove religioni, di far credere a
quella semplice e cieca multitudine, non ad altro intesa che alle
armi ed agli affari de' commerci mercantili, ch'egli per mezzo
dell'angelo Gabriele avea comunione con Dio, dal quale appren-
deva gl'insegnamenti, valendosi opportunamente d'un' epilessia alla
quale era soggetto, dando a intendere che quella non fosse che
un'estasi, durante la quale era trattenuto con l'angelo Gabriele
suo istruttore. Egli adunque per compiacere a' Giudei ritenne la
circoncisione, l'abominazione alle statue ed immagini, il rispetto
alla legge di Mosè, i precetti del decalogo, che fanno la più sana
parte del suo Alcorano; l'idea d'un solo Dio creatore; i digiuni
1. il Valle: cfr. la nota iap. 954. 2. Questo famoso impostore ecc. : il ritrat-
to di Maometto rientra perfettamente nei termini di quella letteratura
libertino-deistica, in cui alla figura dell'impostore si aggiunge quella del
capo politico accorto e capace di dare una legislazione adeguata alle esi-
genze del suo popolo.
978 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
e l'astinenza dalla carne porcina, ancorché vi aggiungesse anche
quella del vino ; permise la poligamia, secondo il vecchio costume
de' tempi di Abramo e degli altri antichi Ebrei; le frequenti la-
vande del corpo, che gli Ebrei chiamavano battesimi, e simili altri
riti. Per compiacere a' cristiani egli parla con sommo rispetto e
venerazione di Giesù Cristo ; abbraccia la sua morale insegnata nel
Vangelo, e sopra tutto inculca la carità col prossimo e di soccorrere
i bisognosi. Ancorché riputasse Mosè per un gran profeta, lo fa
però inferiore a Giesù Cristo, riguardandolo come il vero messia
ispirato da Dio e sua parola. Ha della venerazione per S. Giovan
Battista, per gli appostoli e per li martiri. Ammette la punizione
de' vizi e la ricompensa delle virtù, la resurezione de' corpi e le
pene dell'inferno, ancorché non le faccia eterne, perché forse il
suo istruttore Sergio fu dell'opinione di Origene. Nel dar idea al
suo popolo del paradiso, glielo rappresentò conforme alla lor vita
voluttuosa, che colà meneranno per sempre una vita tutta gioconda
e festante, tra fiori, piante odorifere e deliziosi giardini, in compa-
gnia di vaghe donzelle sempre giovani, sempre belle e vezzose, che
avran occhi bovini somiglianti a quelli della dea Giunone,* e che
non invecchieranno giammai.
Ma tanta industria ed allettamenti non gli giovarono co' suoi
compatriotti, i quali confermando co' fatti ciò che per antiche
pruove, e per quel che il nostro buon Redentore, a cui lo stesso
intervenne, disse, che niun profeta sarà accetto alla sua patria, lo
scacciarono dalla propria sua tribù, e l'obbligarono fuggire dalla
Mecca li 16 di luglio dell'anno 622 e ricovrarsi nella città di Medi-
na. Ma questa sua fuga presso ì maomettani riuscì un avvenimento
cosi glorioso e rimarcabile che servì loro d'epoca cronologica, da
questa numerando i loro anni, che non si compongono che di
dodici lune, e ch'essi chiamano VEgira. Riuscì eziandio per lui
avventurosa, poiché in Medina crebbe prodigiosamente il numero
de' suoi seguaci, sicché potè formarne un'armata, e postosi alla
testa di quella comparve al suo popolo guerriero con carattere non
solo di profeta, ma anche di sovrano, emulando i fatti di Mosè,
il qual dal popolo ebreo fu riconosciuto e per profeta e per principe.
Così a guisa d'un gran fiume, che quanto più avanza di cammino
accresce le sue acque, egli crebbe di forze maggiori e si vide in
1. occhi bovini . . . Giunone: cfr. la nota 1 a p. 872.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 979
istato, come sovrano, di eleggere quattro valorosi generali, Abu-
becker, Omar, Oshman, e Ali, a' quali dà animo e coraggio di
stender le conquiste sopra il mondo, trarlo dalla idolatria nella
quale era caduto, e sottometterlo alla sua dottrina e religione. Ed
in qualità di profeta sovente fece loro ed a* soldati più discorsi o
concioni, ne' quali con queir eloquenza ch'era a lui connaturale
non inculcava altro che precetti di morale, accompagnandoli anche
di storie, vere o false che fossero, di portenti e di prodigi per tirar
un popolo poco istrutto per l'orecchie e sowente con illusioni
per gli occhi a prestargli fede ed ubbidienza. Egli ebbe il piacere di
conquistar parte dell'Arabia, e rendersi signore della città stessa
della Mecca, dove fece morire tutti i suoi nemici, e dove finalmente
nel 632 se ne morì; e dove rimane ancor sepolto in una tomba di
ferro sostenuta sopra quattro colonne di marmo negro, intorno alla
quale si veggono pendenti più lampadi accese per accrescer mag-
gior venerazione e riverenza al suo tumulo. Tutto ciò è d'uopo ma-
nifestare per togliere i nostri Europei da tanti errori ed inganni e
rimovergli da quelle fole che sia quella tomba di ferro sospesa in
aria, non già per miracolo, ma tratta dalla volta che la cuopre, fab-
bricata con pietre di calamita. Ella è appoggiata sopra quattro ben
salde marmoree colonne; né i maomettani stessi savi e sinceri,
toltone alcuni del volgo sciocco ed ignorante, narrano altrimenti.
Ma un'altra non men forte che necessaria ragione convince di
doversene far rapporto in una general istoria ecclesiastica: poiché
si rende vie più chiara e manifesta la gran differenza che intercede
tra la propagazione del Vangelo sopra la terra e quella dell'Alcorano.
La religione cristiana fu sparsa per lo mondo senz'esserciti e sen-
z'armate, colla sola predicazione, colla costanza e sangue de' mar-
tiri, e per mezzo di altre virtù sublimi e veramente eroiche. Quando
nella maomettana, sicome si è accennato, e si dirà più innanzi, alle
predicazioni precedevano gli esserciti, onde non dee recar maravi-
glia se ne' primi lor secoli la maomettana facesse maggiori progressi
che la cristiana. Non già che que' generali li quali, morto Maometto,
succedettero in suo luogo, e poi gli altri Califi usassero violenza a
gli Ebrei o cristiani, e gli facesser forza di rendersi maomettani;
poiché il loro Alcorano non era che una mescolanza di quelle due
leggi mal note a quell'impostore, onde lasciavansi gli Ebrei nella
lor credenza sicome i cristiani: ma contro questi imperversarono
per cagion di quel falso pregiudicio nel quale aveagli posto il mo-
980 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
naco Sergio, fomentato ed avvalorato sempre da' Giudei, che i
cristiani dovessero riputarsi idolatri, e trattarsi come gentili per
l'uso e l'adorazione che prestavano alle statue ed immagini, vietata
non pur dalla legge di Mosè, ma ch'era contraria alla pratica della
primitiva Chiesa cristiana, e che per ciò bisognava purgar i cri-
stiani dal gentilesimo nel quale erano caduti. E ciò bisogna far
capire, e non confonder le cose, sicome sinora si è fatto.
Per ultimo, come potran intendersi gli guasti, le mine e gl'ir-
reparabili e gravissimi danni che questa nuova religione recò alla
cristiana, maggiori di quelli ch'ella rese alla gentile, se non saran
esposti i suoi progressi fatti sopra più ampie e vaste provincie
d'Europa, d'Asia e di Affrica, le quali avean già abbracciata la
cristiana, e dove era da tutti venerata, non che professata ? Ben da
questi soli libri dell'epistole di S. Gregorio si è conosciuto ab-
bastanza che questo gran pontefice stese la sua autorità non meno
in Europa che nell'Asia e nell'Affrica; ma opportuna morte lo sot-
trasse da' dolori e da' cordogli ch'erano serbati a' suoi successori.
Questi videro l'imperio di Maometto, doppo aversi sottoposta
l'Arabia, inoltrarsi nella Persia, ed i di lui successori Califl tutta
sconvolgerla e manumetterla. Stendere le loro conquiste nella Pa-
lestina, e sottoporsi la città santa di Gerusalemme. Ma de' Califi
di Egitto quali portentosi progressi non si videro ? Non pur l'Egit-
to, ma gran parte dell'Asia e dell'Affrica loro ubbidiva; e si è veduto
già come i Saracini innoltrassero le loro conquiste non pur nell'isole
del mar Mediterraneo appartenenti all'Italia ed alla Spagna, ma nel
continente de' regni stessi di Spagna, e poser terrore all'Italia stes-
sa. A' Califi di Egitto succeduti i Saladini, questi più oltre distesero
l'impero, poiché si valsero de' Circassi, popoli forti e guerrieri che
abitarono intorno ai Mar Negro ed alla palude Meotide: colPaiuto
di questi conquistarono il regno di Damasco, tutta la Soria e ritol-
sero nel 1189 a' cristiani la Giudea con Gerusalemme, doppo che
per 89 [anni] l' avean tenuta, e s'impadronirono di gran parte del-
l'Asia; onde si videro nel tempo istesso tre potentissimi monarchi
dominare l'Oriente ed il Mezzogiorno: i re di Persia, i Saladini
di Egitto, e gl'imperatori de' Turchi, tutti tre professando la re-
ligione maomettana; ancorché, come fu detto, con qualche com-
petenza fra di loro intorno al primato.
E sicome in Occidente la religione cristiana, per averla abbrac-
ciata i nuovi conquistatori: i Westrogoti, gli Ostrogoti, i Franchi,
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 981
i Burgundi, i Longobardi ed altre straniere nazioni che l'occupa-
rono, si distese e si mantenne; così in Oriente e nel Mezzogiorno
per questi nuovi conquistatori la maomettana fu diffusa da per
tutto, abbracciandola le nazioni non men vicine che lontane: i
Circassi, gli Tartari, i Turchi e chi no? Infino nell'India per i G.
Mogoli, i quali han origine da una razza de* Tartari, chiamati
Magholi, fece, come si è detto, meravigliosi progressi. A' Saladini
successero i Circassi, i quali elessero per lor capo un valoroso
capitan generale da essi chiamato Soldano. I Soldani costituirono
un formidabilissimo regno nell'Egitto e nella Soria; ma durò il
loro impero poco più che quello de' Saladini, poiché ad essi fu
renduto da' Turchi ciò ch'essi resero a' Saladini. Fin qui vi era
speranza che contendendo fra di loro sì barbare e feroci nazioni,
finalmente struggendo Puna l'altra, avesse da risorgere l'Impero
d'Oriente nella persona de' cristiani imperadori di Costantinopoli,
e ritogliere a tanti usurpatori le grandi ed ingiuste lor prede. Ma
vedi quanto sieno imperscrutabili gli alti giudici di Dio. Avvenne
il contrario, poiché la nazione turca, ch'erasi stabilita nell'Asia
minore, oggi detta Natòlia, nella Panfilia, nella Lidia, nella Frigia,
nella Paflagonia e nell'altre provincie dell'Asia, resa formidabile e
potente sotto Amurat1 dilatò le conquiste; e questi collocando la
sede dell'Imperio in Adrianopoli, minacciava l'ultime mine al
cadente Imperio de' Greci. In fine Selim II2 ebbe la gloria nel 1516
di debellare i Soldani, e rendersi signore di Damasco, di tutta la
Siria, la Palestina e l'Egitto, sicome Maometto II3 nel 1453 di
Costantinopoli e dell'Imperio greco. E sempre più prosperando
l'Impero ottomano, e distendendo più oltre i vasti suoi confini,
videsi la religion maomettana diffusa e maggiormente stabilita in
tutto il vastissimo suo Imperio, che abbraccia non pur un tempo
le più floride e eulte provincie della Grecia: PAcaia, Elide, Laco-
nia, Argo, Arcadia, Corinto e tutto il Peleponneso e l'isole tutte
dell'Arcipelago, e tante altre provincie d'Europa: la Tracia, la
Macedonia, Epiro, l'Illirico, gran parte della Pannonia e tanti
altri vasti e sterminati paesi, ma si stende oltre nell'Asia, in Egitto
e nell'Affrica stessa, dove la religion dominante è la maomettana.
i. Amurat: Muràd I (morto nel 1389): sotto di lui i Turchi conquistarono
Adrianopoli (1361). 2. Selim II: forse confonde con SelPm I (1467-1520),
che conquistò la Siria e PEgitto nel 1516-1517. Seli'm II vivrà dal 1524
al 1574- 3- Maometto II (1430-1481).
982 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
E la buona sorte portò che le loro armate non oltrepassarono le
colonne di Ercole, poiché nel nuovo mondo discoperto ve l'avreb-
bero anche introdotta, sicome han fatto nell' America della cristiana
i nostri principi di Europa. Quindi nasce la boria e l'orgoglio
degPimperadori ottomani, i quali come succeduti in luogo degli
antichi Caliti di Egitto, contendono co' re di Persia del primato di
lor religione; sicome vinti e debellati gFimperadori greci, vantano
rappresentare le ragioni dell'Imperio di Oriente, riputandosi suc-
cessori di Costantino Magno.
Come adunque avvenimenti sì grandi e dolenti per la nostra
religione possono omettersi, trattando d'una general istoria ec-
clesiastica, quando fanno una gran parte della medesima ? Nò oggi
che siamo in un secolo cotanto culto, e che a noi precedono più
autori che hanno scritto di queste nazioni, dobbiamo riputar grave
ed onerosa l'inquisizione, ed andarla ricercando tra gli archivi del-
la Mecca o di Costantinopoli. Abbiamo più accurate istorie, e se
ci manca una compita ed esatta istoria de' Saraceni, non ci manca
quella de' Turchi, e fra' nostri stessi italiani abbiamo più scrittori
che vi han travagliato, sicome il P. Fiorelli veneto frate agostinia-
no, Giovanni Sagredo, il Sansovino, il Giovio1 e tanti altri; e se si
potesse avere l'istoria manuscritta della repubblica di Venezia del
doge Contarmi,3 si avrebbe gran lume, poiché questo savio scrittore
della religione de' Turchi ragiona con molto giudicio ed esattezza.
Il Giovio nel lib. 13 della sua Istoria2 ci somministra anche la me-
1. Giacomo Fiorelli (XVII secolo) scrisse La monarchia d'Oriente . . . comin-
cia da Costantino 7 Grande nelVanno 330 e termina in Constantino Paleologo
nelVanno *453> Venetia 1679; Giovanni Sagredo (1617-1682), veneziano,
autore di Memorie istoriche de' monarchi ottomana Venetia 1673 ; Francesco
Sansovino (1 521-1586), poligrafo italiano. Scrisse: GV annali turcheschi, ove-
ro Vite de* principi della casa othomana, Venetia 1573; Paolo Giovio (1483-
1552), storico e umanista. Il Giannone si riferisce al Commentario delle
cose de* Turchi ... a Carlo Quinto imperadore Augusto, Romae 1532.
2. Nicolò Contarmi, doge dal gennaio 1630 all'aprile 1631. Il manoscritto
qui menzionato, Delle historie venetiane, et altre a loro annesse cominciando
dàlVanno 1597 et successivamente, è conservato in Archivio di Stato di
Venezia, Fondo Codici ex Vienna, dodici libri in due tomi. Sul Contarini
cfr. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano
agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, soprattutto il capitolo v dedi-
cato all'analisi delle Historie venetiane. Il Giannone deve aver conosciuto
quest'opera, inedita, a Vienna o a Venezia. Il giudizio del Giannone sull'in-
teresse di quelle pagine è confermato dall'analisi del Cozzi. 3. lib. 13 . . .
Istoria : cfr, P. Iovn Historiarum sui temporis tomus primus, XXIIU libros
complectens, Lutetiae Parisiorum 1553, ff. 133 sgg.
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 983
moria d'un nuovo profeta Ismaele, il qual pure fingendo aver com-
mercio con gli angeli, si separò dalla conversatione degli uomini,
ed andò ad abitare nel monte Antitauro, e facendo quivi asprissima
penitenza procurava accreditarsi presso quella gente semplice e
credula, sicché con questa simulazione di santità si acquistò il
titolo di savio, ed introdusse ne' Persiani certa sua riforma del-
V Alcorano e del maomettismo. Non mancano eziandio diligenti
scrittori francesi, fra gli altri De la Croix nelle sue Memorie e nello
Stato generale dell'Imperio ottomano.1 Ma sopra questi s'innalzaro-
no due accuratissimi scrittori inglesi : Paolo Ricaut,2 il quale essen-
do dimorato più anni in Costantinopoli secretano d'ambasciada
della Corona d'Inghilterra, e idiede accurate notizie di quel Impero
in due sue opere, tradotte dall'inglese nell'idioma francese per
M. Briot; ed il celebre Adriano Relando,3 il quale specialmente
trattò della religione de' Turchi poco prima conosciuta, ma da
questo savio scrittore ben illustrata in quel suo dotto libro scritto
in idioma latino.
Io ben veggo che molti si sgomenteranno di accingersi ad un'im-
presa sì ardua e difficile, e durar sì lunghe ed ostinate fatiche per
venirne a capo, e se ben avran occhi da vedere la sommità di monti
1. Non mancano . . . ottomano: all'analisi di tipo libertino-deistico si ag-
giunge, come si è detto, quella più specificamente politico-diplomatica,
per cui nel discorso giannoniano riecheggiano non solo gli interessi del-
l'erudizione, dal Reeland all'Hyde, al Prideaux, che sono le fonti di Toland,
Boulainvilliers e Radicati di Passerano, ma anche quelle dei viaggiatori e
dei politici. Il de La Croix (morto nel 1704 circa) era stato infatti segre-
tario d'ambasciata a Costantinopoli per la Francia. Scrisse: Mémoires du
sieur de La Croix . . . contenans diverses rélations très-curieuses de l'Empire
othoman, Paris 1684, in due volumi; Guerres des Turcs avec la Pologne, la
Moscovie et la Hongrie} Paris 1689, e La Turarne chrétienne . . . som lapuis-
sante protection de Louis le Grand . . . contenant Vétat présent des Nations et
des Églises grecque, arménienne et maronite dans V Empir e otoman, Paris 1695.
2. Ricaut: Paul Rycaut (morto nel 1700), diplomatico inglese, viaggiatore,
si soffermò per diversi anni in Turchia : cfr. Histoire de Vétat présent de
l'Empire ottoman . . . traduite de Vanglois de M. Ricaut . . . par M. Briott
Paris 1670, e Histoire de V Empire ottoman . . . traduite par M, Briot, La
Haye 1709, sei tomi in tre volumi. 3. Adriano Relando: vedi la nota 4 a
p, 973. L'opera qui menzionata dal Giannone è: De religione mohamme-
dica libri duo, quorum prior exhibet compendium theologiae mohammedi-
cae . . . posterior examinat nonnulla quae falso mahommedanis tribuuntur,
Ultraiecti 1705.
984 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
sì alti, non tutti avran gambe sì forti da potervi salire; ma oltre
di dovergli essere di acuti stimoli il trattar d'un soggetto sì nobile
e pieno di sì grandi avvenimenti, molto superiore a qualunque altra
istoria mondana, che potesser intraprendere, dovranno aver innan-
zi i loro occhi Pessempio di due grandissimi uomini, i quali punto
non si sgomentarono d'intraprendere opere veramente vaste ed
immense, e pure ebbero il piacere di condurle a fine. Questi furono
il non mai abbastanza celebrato Tito Livio, ed il non men dotto
che accuratissimo Plinio il Vecchio. Livio non si sgomentò, come
Cicerone, che a' conforti ed inviti de' suoi amici se ne scusò,
d'intraprendere l'incomparabile sua istoria da' fondamenti di Ro-
ma, e tirarla fino a' suoi tempi sotto il grande Augusto, quando
l'Imperio romano si vide nella maggior sua estenzione e floridezza,
cioè a dire di abbracciare quasi tutto il mondo allor conosciuto.
Più volte, navigando in un pelago sì vasto e profondo si vide quasi
absorto e fuor di speranza di condursi in porto, parendogli che
quanto più avanzava di cammino, in vece di scemarsi tanto più
cresceva il travaglio e la fatica: «Iam provideo animo,» scrisse nel
principio della iv deca « velut qui proximi littori vadis inducti mare
pedibus ingrediuntur : quicquid progredior, in vastiorem me alti-
tudinem, ac velut profundum invehi et crescere pene opus, quod
prima quaeque perficiendo minui videbatur».1 Ma che non puotc
in lui la fortezza di animo, la tolleranza e lo stimolo di consignare
alla posterità un'opera veramente grande ed immortale? Egli
giunse in fine al desiato porto, lasciandoci cento quaranta libri di
quest'insigne sua opera, che se non tutti per l'ingiuria de' tempi
e degli uomini a noi pervenuti, que' soli che ci rimangono bastano
a lui di eterna gloria ed a noi d'averne sempre cara e veneranda
memoria. L'altro fu Plinio il Vecchio, il quale non si atterrì in-
traprendere una sì ampia, vasta, multiplicc e varia istoria quanto
è la natura istessa, non tentata innanzi da scrittore alcuno, sia
greco sia latino; abbracciando tutto il mondo e le più minute e
quasi che infinite sue parti, descrivendole con tanta accuratezza,
con tanta erudizione e dottrina, che sembra quasi impossibile
1. *Iam provideo . , .videbatur»: Livio, xxxi, 1, 5 («Già prevedo, come
quelli che prossimi al litorale entrano in mare attratti dal fondo basso, che
di mano in mano m'inoltro, son trascinato in una più vasta profondità e
come in un abisso, e che la fatica, che prima nel corso del lavoro sembrava
diminiiìre, quasi si accresce»).
LIBRO IV • CAP. ULTIMO 985
come un uomo solo abbia potuto arrivare a tanto. E pure vi giunse,
lasciandoci un'opera di trentasette libri, che intera correrà sempre
chiara e luminosa per tutti i secoli del mondo.
Conosco ben io, e lo so per proprio esperimento, che pervenendo
a trattar delle presenti cose che saranno sottoposte a' loro occhi,
incontreranno pure «graves offensae, levis gratia».1 Ma abbino
altamente riposto nelle lor menti quel savio ammonimento del
celebre presidente Tuano,3 il quale scrivendo a' suoi amici, che
lo confortavano a soffrire con pazienza le persecuzioni che per
cagion della sua istoria pativa, rispose loro ch'egli ben le previde,
ma che assumendo egli il carattere d'istorico, non dovea riguardare
il secolo presente, ma sicome deono far tutt'i leali e fedeli istorici
principalmente intesi alla ricerca della verità, riguardare i secoli
futuri e consignar la sua alla posterità, presso la quale non vi sa-
rebbe stato livido occhio che la riguardasse, né maligno dente che
la mordesse; poiché essendo il tempo padre della verità, sicome
la discuopre e manifesta, così la difende contro gli sforzi di qua-
lunque invida e velenosa maladicenza; sicome il successo lo con-
fermò correndo oggi in magnifiche stampe, sempre più chiara e glo-
riosa, da tutti riverita e commendata. Per ciò non era mancato in
me l'animo e l'ardire d'intraprenderla e d'averne anche delineati
alcuni membri per adattargli insieme e comporne un proporzionato
corpo; ma le incessanti mie persecuzioni e le tante e sì varie mie
sventure han interrotto ogni bel disegno e prolungato cotanto que-
sto mio infelice e misero stato, sicché oppresso dagli anni e giunto
ad una estrema vecchiaia, «vires corporis affectae, sensus oculorum
atque aurium hebetes, memoria labat, vigor animi obtusus »,3 sento
scemarmi le forze, la memoria svanire, affievolirsi la vista, e tutti
i sensi indebolirsi, in guisa che posso dire con S. Paolo: «ego iam
delibor, et tempus resolutionis meae instata;4 onde se la real be-
nignità e clemenza non si compiacerà di me altrimenti disporre,
forte temendo che non abbia a lasciar qui questa misera vita, ho
voluto di quel che io non ho potuto eseguire incoraggir altri, i qua-
li forse con miglior lena e con maggior elevatezza d'ingegno potran-
no adempirlo e lasciare al mondo un'istoria quanto per la potesterità5
1. « graves . . .gratta*: cfr. la nota 1 a p. 82. 2. Tuano: vedi la nota 2 a
p. 186. Anche il Giannone aveva collaborato all'opera del de Thou: cfr.
qui, pp. 186-8 e la nota 1 a p. 188. 3. «.vires . . . obtusus»: Livio, v, 18, 4.
4. «ego iam . . . instai»: II Tim., 4, 6. 5. potesterità: così nel manoscritto.
986 ISTORIA DEL PONTIFICATO DI GREGORIO MAGNO
utile, altretanto per essi gloriosa ed immortale; mentre io stanco
da gli anni, logorato per lunghe fatiche e da tanti angosciosi travagli
oppresso, forza è che soccomba e che la mia Clio qui si taccia e qui
deponga la mia stanca e mal temperata penna.
12 settembre 1743.
L'APE INGEGNOSA
OVERO
RACCOLTA DI VARIE OSSERVAZIONI
SOPRA LE OPERE DI NATURA E DELL'ARTE
NOTA INTRODUTTIVA
Dopo il 12 settembre 1742, giorno in cui concluse V Istoria del ponti-
ficato di Gregorio Magno, il prigioniero non si dedicò più ad alcun
lavoro di respiro unitario : la stanchezza e l'angoscia delle ultime pa-
gine di quest'opera non sono un'artificio retorico, ma il segno di una
condizione umana che si rifletteva naturalmente sul lavoro. Ma il
Giannone continuava a provare l'intenso piacere della lettura im-
pegnativa, il bisogno di una verifica e di una conferma del proprio
pensiero. Da questo stato d'animo nasceranno le osservazioni che
compongono VApe ingegnosa e la nuova redazione dell'Apologia, qua-
si a testimonianza di un'attività ripiegata di tono, ormai priva della
forza di affrontare grandi problemi o di organizzare lavori a struttura
unitaria, in un certo senso marginale rispetto all'impegno precedente.
Ma non mancava l'ambizione di confrontarsi con i grandi moralisti,
di offrirsi ad un genere letterario di cui era ricca la cultura europea.
UApe ingegnosa fu cominciata a Ceva nell'agosto 1743.1 Con la
solita diligente consapevolezza il Giannone, oltre la data, ci comunica
anche la ragione : « L'animo stanco e le scemate forze » non gli con-
sentono più «lunghi travagli di opere grandi e laboriose». Un mec-
canismo intellettuale ostinato, la volontà di non stare in ozio, il bi-
sogno di capire fino a che punto la propria esperienza era ancora
in relazione con la cultura europea, i cui echi attenuati in qualche
modo gli arrivavano in carcere, lo spinsero a quest'opera che ha
carattere minore, rapsodico, dove, oltre a tutti i temi della vita,
confluivano anche le inevitabili carenze e vischiosità di una cultura
che non sempre era riuscita a rinnovarsi e rischiava quindi di appa-
rire anacronistica. Le fonti principali sono la Naturalis historia di
Plinio, nell'edizione curata e commentata da Jean Hardouin2 e le
Stuore del Menochio,3 di cui si è già parlato a proposito dell' Apolo-
gia. Se quindi spesso in quest'opera la cultura del Giannone appare
invecchiata, non bisogna dimenticare che egli, non essendo uno
scienziato, fa uno sforzo di sistemazione sul materiale che Plinio e
1. Cfr. il manoscritto autografo in Biblioteca Reale di Torino, Varia 304,
e. 5. Alla e. 194 la data conclusiva: «26 agosto 1744». 2. Parisiis 1723, in
tre tomi. La richiesta di quest'edizione da parte del Giannone al marchese
d'Ormea è in una lettera del 12 luglio 1739. Vedila in Archivio di Stato
di Torino, manoscritti Giannone, mazzo v, ins. 6, B, 1. 3. Cfr. la nota 4
a p. 841. Nel manoscritto della Biblioteca Reale di Torino, Varia 303,
da e. 80 a e. 90 ci sono gli appunti per varie osservazioni ed il materiale è
quasi tutto tratto dal Menochio.
990 L'APE INGEGNOSA
l'Hardouin gli offrono: il suo interesse, in questa operazione, e ri-
volto soprattutto a confermare, reinserendole nella nuova e comples-
sa condizione di convertito, le esperienze precedenti. In questo senso
VApe ingegnosa, proprio per il suo carattere in qualche modo più
«letterario», meno militante, è particolarmente utile a consegnarci
un'immagine reale dell'esperienza intellettuale e religiosa del Gian-
none, una specie di bilancio in cui sono particolarmente notevoli
le conferme e le attenuazioni del proprio precedente discorso. Diventa
quindi essenziale chiarire il rapporto del Giannonc con un'altra ope-
ra fondamentale nell'età della crisi della coscienza europea, i Principia
mathematica naturalù pkilosophiae di Newton.1 Mentre scriveva VApe
ingegnosa egli doveva averne a disposizione una copia, come testimo-
niano alcune citazioni dirette. In realtà il discorso e più complesso
ed investe il rapporto non tanto con il pensiero scientifico e fisico
(che il Giannone era solo relativamente in grado di capire) quanto
piuttosto con quella che è stata recentemente chiamata «l'ideologia
newtoniana »,a l'utilizzazione teologica e filosofica dell'immagine del-
l'universo-macchina. In questo senso vale forse la pena di tracciare
le linee essenziali, o meglio i precedenti di questo incontro ormai di-
retto e senza mediazioni del Giannone con il testo fondamentale di
Newton, che si può collocare dopo il 1742, quando cominciò VApe
ingegnosa. Fin dai tempi della sua partecipazione all'Accademia Me-
dina-Coeli egli poteva aver sentito parlare di Newton, ma certamente
il contesto in cui Agostino Ariani aveva utilizzato il filosofo inglese
per far le lodi della geometria era ancora totalmente e sostanzial-
mente cartesiano.3 Gli anni viennesi offrono una traccia più consi-
stente. Fra il 1730 e il 1734 egli fu amico e compagno di esperienze
di Bernardo Andrea Lama, un napoletano, ex professore dell'Uni-
versità di Torino ed allievo di Celestino Galiani, che era in grado di
spiegargli gli elementi essenziali della filosofia newtoniana.4 Una
prova diretta di questo è il manoscritto Agger obiectus cartesianorum
vorticum eluvionibuss che il Giannone si copiò e che era apparso in
1. La prima edizione fu pubblicala come è noto nel 1687. Ma il Giannone
dovette avere a disposizione una delle tante ristampe della terza. Su Newton
cfr. ora A. Pala, Isaac Newton, Scienza e filosofia, Torino 1969. Il Pala
è anche autore di una buona traduzione dei Principia; Principi matematici
della filosofia naturale, Torino 1965* 2. Cfr. M. Candee Jacob, John To-
land and the Newtonian Ideology, in «Journal of Warburg and Courtauld
Institutes », Volume Thirty-two (1969), pp. 307-31. 3. Cfr. G. Ricupera-
ti, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1970,
pp. 22-3. 4. Cfr. il mio Bernardo Andrea Lama professore e storiografo nel
Piemonte dì Vittorio Amedeo II, in «Bollettino storico bibliografico subal-
pino», i-ii (1968), pp. ii-iox. $.Ibid., pp. 74-9.
NOTA INTRODUTTIVA 991
francese sulla « Bibliothèque italique ». Nel Triregno questo approccio
a Newton si condensava in un riferimento airimmagine dell'uni-
verso-macchina e alla funzione di Dio verso il moto, che era cosi
poco chiara che il copista M. C. de Samnitibus la espunse.1 A Vene-
zia il Giannone ebbe rapporti intensi e significativi con Antonio
Conti,2 che in quegli anni non solo faceva il propagandista della filo-
sofia newtoniana, ma cercava altresì di offrirne un'immagine diversa
da quella teologica e spiritualistica dei discepoli ufficiali di Newton
(da Richard Bentley a Samuel Clarke)3 e sostanzialmente materia-
listica e despiritualizzata. Anzi, come ho avuto occasione di mostrare
altrove, vi fu certamente una relazione precisa fra l'arresto e l'allon-
tanamento da Venezia del Giannone (che avvenne drammaticamente
al ritorno da una passeggiata col Conti)4 e il processo, finito in nulla,
contro il patrizio padovano, accusato di aver sostenuto la mortalità
dell'anima e altre proposizioni tipicamente deistiche.5 Inoltre gli an-
ni che precedono e seguono immediatamente l'arresto del Giannone
sono per la cultura europea e quindi anche per quella italiana anni
in cui il discorso newtoniano comincia a diventare familiare. Nel
1733 a Venezia era stato tradotto il saggio di Henry Pemberton del
1728, che era effettivamente alla portata di un lettore di modesta
preparazione scientifica, come poteva essere il Giannone.6 Inoltre
anche a Ginevra, dove il Giannone si era rifugiato, stava sempre più
maturando l'interesse verso la filosofia di Newton, come mostrano
per esempio gli articoli e le segnalazioni della «Bibliothèque itali-
que».7 Gli editori ginevrini, dietro i quali c'era l'esperienza di uo-
mini come Jean-Alphonse Turrettini e soprattutto Jacob Vernet, si
preparavano negli anni successivi a offrire al loro pubblico, che era
sostanzialmente non solo quello protestante della Svizzera, ma anche
quello italiano e francese, una delle più belle e importanti edizioni
dei Principia (Barillot),8 ma soprattutto la raccolta di opuscoli mate-
matici, filosofici e filologici (Bousquet),9 la cui traduzione in latino
i. Cfr. qui, p. 642, e L'esperienza civile ecc., cit, p. 476. 2. N. Badaloni,
Antonio Conti. Un abate libero pensatore fra Newton e Voltaire, Milano
1968. Per i rapporti fra il Giannone e il Conti cfr. la mia rassegna Studi
recenti sul primo '700 italiano. Gian Vincenzo Gravina e Antonio Conti, in
«Rivista storica italiana», ili (1970), pp. 611-44. 3- Cfr. P. Casini, L'uni-
verso-macchina, Bari 1969, soprattutto i capitoli 11-rv. 4. Cfr. Vita, qui a
p. 295. 5. Cfr. N. Badaloni, Antonio Conti ecc., cit., pp. 190-3. 6. Sag-
gio della filosofia del signor Cav. Isacco Newton dato in luce dal signor Enrico
Pemberton . . ., Venezia 1733. 7. Cfr. alle pagine citate il mio saggio sul
Lama. 8. 1. Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica . . .,
Genevae, Barillot, 173 9- 1742, in quattro volumi. 9. Opuscula mathema-
tica, philosophica et philologica, Lausannae, Bousquet, 1744, in tre vo-
lumi.
99^ L'APE INGEGNOSA
era stata affidata a un giovane italiano, Giovanni Salvemini Casti-
glione1 che a sua volta sarebbe stato traduttore dell' Bssay on Man di
Alexander Pope,2 in qualche modo un testo fondamentale nella storia
del deismo moderato, dove l'immagine di un dio-architetto dell'uni-
verso-macchina si sposa perfettamente con l'ottimismo leibniziano.
E non a caso era ancora l'editore Bousquet a stampare una traduzio-
ne francese di quest'opera, che il Giannone potè leggere in carcere.3
A Ginevra il Giannone aveva avuto intensi rapporti con il Vemet
proprio mentre questi stava in qualche modo organizzando il suo
singolare tentativo di incanalare gli impulsi del nascente Illumini-
smo in una dimensione di religiosità razionale ed universalistica.
Questo spiega non soltanto la protezione offerta al Giannone, ma il
suo incontro con Montesquieu e i rapporti, complessi e drammatici,
con Voltaire.4 L'interpretazione teologica dell'universo-macchina si
inseriva perfettamente in questo discorso e spiega quindi, oltre le
ragioni puramente commerciali, come mai gli editori che erano in
qualche modo guidati dal Vernet, pubblicassero Newton e Pope. In
realtà negli anni successivi all'arresto del Giannone la teoria di New-
ton era ormai uscita dall'ambito degli specialisti attraverso alcune
fondamentali divulgazioni: oltre al Pemberton, basti ricordare quelle
dell' Algarotti del I7375 e quella di Voltaire, che non riguardava solo
l'ottica, ma tutta la fìsica.6
Gli studi più recenti su Newton, sulle interpretazioni della sua
filosofìa, sulle utilizzazioni da parte dei teologi anglicani dell'uni-
verso-macchina ci pongono il problema: quale tipo di lettura il Gian-
none può aver fatto dei Principiai Ricerche come quella di Paolo
Casini o quella della Candcc hanno affrontato molto precisamente
l'analisi della ideologia newtoniana, sottolineando come sia stata
contrapposta al deismo radicale di Toland. Appare chiaro come
Newton, ormai collegato con un establishment moderato, abbia ac-
cettato e sviluppato l'interpretazione teologica della propria opera
che era stata elaborata da uomini come Richard Bentley, Samuel
Clarke, Roger Cotes, William Derham. Il Casini soprattutto tende
i. Giovanni Francesco Salvemini Castiglioni (1708-1791), di origine to-
scana. 2. A. Pope, Saggio sull'uomo tradotto dal sig. G. Castiglione Berna
1760. 3. Essai sur Vhomme par Monsieur Alexandre Pope. Traductionfran-
foise par Mr, £.***, Lausanne et Genève, chez Marc-Michel Bousquet,
1745. 4. Cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile ecc., cit., pp. 518-41.
5. F. Algarotti, Ilnewtonianesimoper le dame, ovvero dialoghi sopra la luce
e i colori, Napoli 1737. 6. Elémens de la philosophie de Neuton mis à la
portée de tout le monde, par Mr. De Voltaire, Amsterdam 1738. Sulla diffu-
sione in Francia delle teorie newtoniane cfr. P. Brunet, Vintroductìon des
théories de Newton en France au XVIIIe siede, Paris 1931. Significativa-
mente il 1738 è considerato una svolta.
NOTA INTRODUTTIVA 993
a vedere nelle Letters to Serena di John Toland la prima opposizione
a Newton o meglio alla precoce teologizzazione dell'universo-mac-
china.1 Su questo punto l'ottima ricerca del Casini è forse un po'
forzata, quando legge la iv e la v lettera a Serena solo come in pole-
mica contro Newton.2 In realtà il Toland, mentre attacca da sinistra
Spinoza, tende a utilizzare Newton per giustificare il proprio mate-
rialismo. Gli fa un unico appunto, la teoria del vuoto.3 Ma spiega
chiaramente che se si considera la forza di gravità come inerente alla
materia, la teoria newtoniana concorda con il proprio materialismo.4
Non si deve dimenticare che il Toland, come ha mostrato la Candee,
era stato allievo di David Gregory,5 uno dei primi seguaci di New-
ton. A questo punto, colpito dalle accuse di Leibniz e temendo que-
sta « lettura» materialistica della propria opera, Newton nella se-
conda edizione aderì alla lettura dei teologi e rispose in senso spiri-
tualistico.6 Neirultirna edizione preparata lui vivente,7 consumata
ormai l'operazione «teologica», erano diventati un ricordo abbastanza
pallido e scolorito sia i tentativi di cattura del Toland, sia le accuse
di aver reintrodotto le qualità occulte.8 Erano gli anni che vedevano
in Inghilterra il trionfo di un nuovo equilibrio, moderato e conser-
vatore, in cui l'ideologia newtoniana, come ha mostrato la Candee,9
con il suo modello di universo-macchina mosso da Dio rassicurava
perfettamente le nuove classi dirigenti. Di questa ideologia, ottimi-
stica e «deista», era appunto esponente perfetto il poeta Alexander
Pope con il suo Saggio sull'uomo.10 Ma il limite degli studi citati
(Casini e Candee) è di vedere solo l'utilizzazione «teologica» e spi-
ritualistica di Newton, sottolineando in Toland (non scienziato e
i. P. Casini, L'universo-macchina, cit., pp. 205-39. 2. Ibid.f pp. 223-36.
3. Cfr. J. Toland, Letters to Serena, Faksimile-Neudruck der Ausgabe
London 1704, Stuttgart-Bad Cannstatt 1964, Letter v, pp. 163 sgg.
4. Ibid., soprattutto pp. 183-4. 5. M. Candee Jacob, John Toland and
the Newtonian Ideology, cit., p. 310. 6. Cfr. Ted. 17 13. Sul Cotes, colla-
boratore di Newton in questa seconda edizione, cfr. A. Pala, Isaac Newton
ecc., cit., cap. vi, La prefazione di Cotes, pp. 109-29. Ma cfr. anche nell'e-
dizione dei Principi matematici della filosofia naturale, cit., la prefazione
del Cotes, soprattutto a p. 62, in polemica con l'autocinesi e la teoria
dell'etere. Su Newton e l'etere cfr. N. Badaloni, Antonio Conti ecc., cit.,
p. 60. 7. Su quest'edizione, Londra 1726, cfr. A. Pala, Isaac Newton
ecc., cit., p. 108. 8. Non si deve dimenticare che se nel 1706 Newton
aveva criticato la nozione di etere, nel 1717, ripubblicando VOpticks, al-
l'interno delle otto nuove questioni vi si era riconvertito. Cfr. Principi
matematici della filosofia naturale, cit., Introduzione di A. Pala, p. 39.
9. M. Candee Jacob, John Toland and the Newtonian Ideology, cit., p. 331.
io. Cfr. I. Kramnick, Bolingbroke and his Cit eie. The Politics of Nostalgia
in the Age of Walpole, Cambridge 1968. Su Pope, pp. 217-23.
63
994 L'APE INGEGNOSA
quindi ideologo) il ruolo dell'oppositore. Il Casini1 afferma che
saranno i philosophes a despiritualizzare Newton e a restituire una
funzione più politica all'immagine dell 'universo-macchina. In realtà
il bel libro di Nicola Badaloni3 su Antonio Conti integra e modifica
questa immagine. Il Conti è proprio uno che tenta di sviluppare con
competenza matematica e scientifica ben superiore al Toland la pos-
sibilità materialistica del newtonianesimo. È il segno che il tentativo
presente nelle Letters to Serena non è un mero espediente, ma una
«lettura» di Newton (sia pure critica sul problema del vuoto, a cui
il Toland contrapponeva la tradizione del pieno), soprattutto pole-
mica verso l'immagine teologica, che apparteneva più agli inter-
preti che a Newton.
A questo discorso il Giannonc non è affatto estraneo. Anche se
non conosceva l'inglese e quindi non poteva aver letto la iv e la v
lettera a Serena,3 egli era stato, come si è detto prima, intimo del
Conti, che propagandava in quegli anni l'interpretazione materiali-
stica del newtonianesimo. Inoltre egli stesso aveva aderito in senso
più generale al materialismo del Toland,4 accettando l'idea della
mortalità dell'anima. Qual'ò stata quindi la lettura giannoniana dei
Principia ? Porsi questo problema significa non solo offrire una chiave
interpretativa per YApe ingegnosa, ma anche tentare di valutare il
punto di arrivo della sua esperienza, per esempio il significato della
sua entusiastica lettura del Saggio sull'uomo del Popc,s l'adesione a
questo documento fondamentale del deismo moderato e dell'eude-
monismo settecentesco, che è in fondo una spia del suo rapporto
con la cultura del proprio tempo. Non si tratta di una ricerca psico-
logica o di un'indagine puramente ipotetica su quanto può essere
avvenuto nella coscienza del Giannone. Si tratta di cogliere, nella
lettura e utilizzazione di Newton, come in quella successiva di Pope,
il rapporto fra queste tre componenti: i. la volontà di un uomo vec-
chio, in prigione (con un numero di libri non solo limitato, ma sele-
zionato), che cerca di confermarsi, pur avendo accettato di rientrare
nella religione ufficiale (è disposto ad attenuare, ma non a rifiutare
il proprio discorso precedente) ; 2. la cultura del mondo esterno,
vista anche come ideologia, che ha un suo processo, per cui dietro
gli stessi segni si incontrano negli anni successivi valori modificati
e molto diversi; 3. la volontà di aggiornamento e nello stesso tempo
1. P. Casini, Vuniverso-macchina, cit., p. 277. 2. N. Badaloni, Antonio
Conti ecc., cit., soprattutto pp. 59 sgg. 3. Cfr. G. Ricuperati, Uespe-
rienza civile ecc., cit., soprattutto il capitolo vi, per quanto riguarda la
conoscenza da parte del Giannone delle opere del Toland. 4. Cfr. Ibid.
L'opera fondamentale in questo senso è il Triregno. 5. Cfr. Vesperienza
civile ecc., cit., pp. 618-9.
NOTA INTRODUTTIVA 995
la vischiosità della propria esperienza precedente, che condiziona
irrimediabilmente anche le letture nuove. A questo punto si può
ricapitolare. Fino al settembre 1742 il Giannone fu impegnato a
confermare o a sviluppare opere e discorsi precedenti. Dal 1743 si
dedica olì' Ape ingegnosa. Per scrivere questa utilizza i Principia,
quando ormai quest'opera comincia ad essere in qualche modo dige-
rita dalla cultura europea. Quale lettura ne fa? Il suo precedente
materialismo semi-vitalistico, la sua adesione (sia pure non totale)
alle teorie del Toland, il rapporto col Conti, potrebbero suggerire
una lettura materialistica di Newton. La sua condizione umana, l'in-
contro con i Principia ormai filtrati da una tradizione teologica razio-
nalistica, ma moderata, che pone Dio come responsabile ed equili-
bratore dei moti dei pianeti, indicherebbero la possibilità di quest'al-
tra lettura. In realtà nell'Ape ingegnosa il Giannone non sceglie ; in
qualche modo presenta razionalizzandole nella propria esperienza
intellettuale entrambe le interpretazioni. Le prime osservazioni in-
fatti si ispirano ai Principia in questo secondo senso teologico ra-
zionalista del deismo moderato. La perfezione dell'universo ha bi-
sogno di un architetto. Ma nelle osservazioni successive egli legge il
libro terzo dei Principia prendendo la ripristinata ipotesi dell'etere
come una concordanza di Newton con il proprio materialismo semi-
vitalistico. L'ipotesi dell'etere diventa lo spirito delle vite che anima
tutte le cose e dopo la morte si restituisce alla materia. In sostanza
la lettura di Newton da parte del Giannone comporta i seguenti
risultati: 1. l'esistenza di un creatore, il Dio architetto (ma la ten-
tazione panteistica in Giannone è molto forte, come vedremo in
seguito) ; 2. l'accordo fra morale naturale, contenuta nella rivela-
zione mosaica, e scienza, contro la corruzione presente nel cristia-
nesimo, anche primitivo (come ha mostrato il suo duro attacco alla
patristica, contraria alla società civile); 3. una filosofìa empiristica
anticartesiana (e antiplatonica, identificando in quest'ultima il ten-
tativo più organico di teorizzare una forma di immortalità per le
anime, facendole di origine divina) ; 4. la possibilità di conciliare
l'esistenza di un Dio-architetto (a cui non si devono culti che inte-
riori) con il rifiuto della religione istituzionale; 5. la possibilità di
conciliare quest'immagine di un Dio-architetto con il persistente
materialismo, o comunque negazione (abbastanza contraddittoria,
ma ripetuta) di un'anima immateriale; 6. il rifiuto del miracolo:
non c'è posto per esso nell'uni verso-macchina; 7. il rifiuto del pes-
simismo teologico e la ricerca della felicità come adeguamento del-
l'uomo alla natura. Stabilite queste linee di lettura si può capire non
solo l'apparente contraddittorietà dell'Ape ingegnosa, ma anche l'en-
tusiasmo che egli avrà successivamente, dopo il 1745, a leggere il
996 L'APE INGEGNOSA
Pope nella traduzione francese del Silhouette e nell'edizione Bou-
squet.1 In questa opera degli anni trenta si presentava, stilizzata in un
classicismo elegante e razionalistico, la morale di un nuovo està*
blishment in cui il deismo moderato conciliava l'universo-macchina
di Newton con l'armonia prestabilita di Leibniz. Non un'ideologia
rassicurante per 1 nuovi equilibri politici della borghesia inglese vi
leggeva il Giannone, ma una conferma della propria esperienza: in
uno sforzo di cui bisogna cogliere la complessità oltre le contraddi-
zioni e i ritardi, anche il Giannone muoveva nella direzione indicata
nella Préface du traducteur: «Est-ce détruire l'empire de la religion
que d'établir celui de la raison ? Le Dieu de la nature seroit-il rivai
de celui des chrétiens et la loy naturelle exclueroit-clle la loy chré-
tienne ? Pourquoi donc prcndre l'allarme et la donner ? ».2 Anch'egh,
superando il proprio pessimismo individuale, che era un consapevole
riflesso della condizione di prigioniero, identificava nella ricerca della
felicità e nell'eudemonismo sociale lo scopo dell'uomo. Il suo entu-
siasmo per il Pope nasceva quindi dal fatto che egli credeva di aver
identificato gli stessi temi in questa sua ultima opera, di aver in
qualche modo non perduto il rapporto con quella cultura europea
che dal tempo di Vienna si era abituato a considerare affine alla
propria esperienza. Ma solo da una «lettura» sia pur rapida dei moti-
vi principali dell'Ape ingegnosa può essere veramente confermato il
quadro interpretativo che ho indicato. Fra l'altro da questa analisi
emerge anche un'altra caratteristica, un certo sviluppo organico de-
gli argomenti, che va oltre l'apparente casualità. Le prime cinque
osservazioni sono dedicate al rapporto fra natura e creatore; le
cinque successive all'uomo nello stato di natura e in quello di grazia.
Poi si analizzano sentimenti, atteggiamenti, errori, superstizioni. Il
discorso si sposta dall'osservazione xx in poi, dopo una premessa
che esalta la filosofia sperimentale, verso le tecniche, le invenzioni e
le innovazioni dei moderni rispetto agli antichi. Le osservazioni fi-
nali, dalla xxxiii in poi, passano dal tema dei tempo e delle varie
misure di questo, a quello della vita umana, alla morte.
La prima osservazione è dedicata al problema del rapporto fra Dio
e il mondo: Sopra il gran magistero di questo mondo aspettabile: suo
costante ordine, disposizione ed armonia; onde si convince esservi una
Mente infinita, sapiente ed onnipotente, la quale non informa il mondo
sicome la nostra anima il nostro corpo, ma sicome lo creò, così lo regga e
1. Essai sur Vhommepar Monsieur Alexandre Pope. Traduction franpoise par
Mr. £.*** cit. Su Etienne de Silhouette (1709-1767) cfr. D. H. Pageaux,
Images du Portugal dans les lettres francaises (ly 00-1755), Paris 1971, pp.
73-94. 2. Ibid., p. xvil.
NOTA INTRODUTTIVA 997
governi.1 Il tema era già presente nel Triregno, ma qui viene sviluppato
secondo Pimmagine delPuniverso-macchina che con la sua perfezione
prova resistenza divina: «Chiunque attentamente riguarderà questa
gran fabrica dell'universo, ed il costante suo tenore ed armonia, preci-
sa ogni divina revelasione, è costretto ad affermare esservi un ente infi-
nito, eterno, sapiente ed onnipotente, il qual sicome ne fu il fabro,
ne sia il sovrano ed universal signore. Né dall'umana sapienza può
trarsi una più vigorosa ed invitta dimostrazione che da un sì stu-
pendo e mirabil lavoro; e quanti filosofi giammai così antichi come
moderni si sono affaticati per dimostrarcene l'esistenza, non certa-
mente potranno proporne una più certa ed irrefrangabile che questa
la quale sempre più acquista maggior forza e vigore, quanto più si
sono oggi distese le conoscenze sopra il corso, distanza, regolar
moto e compagine del sole, delli pianeti, delle comete e degli altri
astri, che formano il nostro mondo aspettabile. E se le stelle fisse
dovranno riputarsi altri tanti soli, centri pur esse di loro vortici,
poiché la loro luce è della stessa natura del sole, ed a vicenda l'un
sistema all'altro influisce, e corrisponde, tanto maggiormente si rende
stupendo ed ammirabile il gran magistero, ed esigge da noi un più
pronto, anzi inevitabile assenso, al quale quasi di necessità siam por-
tati più che ad ogni altra manifesta e matematica dimostrazione . . . ».3
Il richiamo a Newton è diretto. Il Giannone si riferisce alle nuove
investigazioni sulle comete e al flusso e riflusso del mare : gli antichi
conoscevano che il moto della luna vi aveva parte, ma «non seppero
spiegarne la maniera della pressione, ed il come, come si è fatto da'
moderni filosofi e ultimamente da Isaac Newton ».3 Il tema centrale
di questa osservazione è che la relazione fra Dio e il mondo non è
la stessa che esiste fra anima e corpo: «L'anima, ancorché informi
il nostro corpo e sia presente in tutte le nostre viscere, con tutto ciò
non le sa, se non quando tratte di fuori non le mira con gli occhi e
tocchi con le mani, valendo più facilmente ad animarle che a cono-
scerle. Ella stessa non sa come muova le membra del suo corpo e
per qual cagione alcune ubbidiscano al suo comando, altre contu-
maci resistano, ed all'incontro non sa com'ella sia mossa dagli og-
getti che di fuori circondano il suo corpo, o dagli sensi non meno
interni che esterni. Non sa ove sia collocata la principal sua sede, se
nel cerebro, nel cuore, o nel sangue, dalla quale imperi le altre mem-
bra. Non sa donde proceda, e come, e da chi siasi formata, poiché certa-
mente ella non fece se stessa. Non sa il corso de' fluidi del suo corpo,
del sangue, degli spiriti ; in fine nemmeno come si compagino le ossa,
i. VApe ingegnosa, manoscritto cit., ce. 6 sgg. 2. Ibid., e. 6. 3. Loc. cit.
998 L'APE INGEGNOSA
si e spandine) e tessino i suoi nervi, arterie, vene e membrane ; il loro
uso, le tracce, gli anfratti, e tutte le intricate lor vie. Ma questa in-
finita, immensa, sapiente e provvida Mente, che chiamiamo Dio,
per la quale si regge l'ampio universo, tutt'altra è la natura e l'intel-
ligenza, onde non gli conviene e mal se gli adatta il nome di Anima
mundi. Ella tutto sa, e tutto conosce, non pur le presenti, ma le fu-
ture cose, e quanto mai saper si possa; alla quale sono piane e mani-
feste tutte Pintricate vie della natura, di cui ella è l'artefice, ed il
moderatore. È presente in tutte le cose, ed in ogni luogo, né è cir-
coscritta da spazio alcuno, ovvero dal tempo ; sempre dura e sempre
opera; ed è presente in tutte le cose non per la sola sua virtù, ma
eziandio per la sua sustanza, poiché la virtù senza sustanza non può
sussistere. In lei si contengono e si muovono tutte le cose dell'ampio
universo, ma senza mutua e vicendevole passione. Ella niente patisce
per i moti de' corpi, sicome la nostra anima patisce per i moti del
nostro corpo ; né i corpi sentono alcuna resistenza per la sua presen-
za, sicome i nostri corpi per la presenza della nostra anima . . . ».x
Il Giannone accentua, per contrasto, l'incorporeità di Dio e la cor-
poreità dell'anima, ma non riesce a sfuggire al linguaggio spinoziano
considerando Dio sostanza infinita. Non avendo superato convin-
centemente l'ostacolo del panteismo, ripiega sull'affermazione che
compito del filosofo è di investigare la natura delle cose e non quella
di Dio; per questo Lucrezio intitolò De rerum natura il suo poema.
Una fede senza troppe speculazioni metafisiche, un orientamento de-
cisamente sperimentale si collegano come si è detto al superamento
del cartesianesimo : « Per ciò io reputo più sicura e solida la maniera
di filosofare praticata in ciò da Isaac Newton nei suoi Principi della
filosofia naturale che quella tutta astratta e metafisica di Cartesio nel-
le sue Meditazioni . . . ».3
Ritornando al mondo ebraico, si riconferma allievo dclPAulisio,
riprendendone il tema dell'antichità del libro di Giob e riscrive le
proprie obiezioni al Mosè panteista di Toland: «da ciò gli scrittori
profani, fra' quali Diodoro Siciliano nella,, sua Biblioteca, e Strabone,
non avendo letto i libri di Mosè, né degli altri profeti, per fama ed
altrui rapporti credettero che il Dio di Mosè non fosse altro che tutto
l'ampio universo, e che lo confondesse colla natura istessa, nel qual er-
rore caddero molti che credettero essere stato Mosè panteista, quan-
do da' loro libri è manifesto, e più chiaro della luce del sole, che non
i. VApe ingegnosa, manoscritto cit., e. 7. Tutto questo brano non è altro
che una parafrasi e una traduzione talvolta letterale dello Scolium generale
dei Principia. Il Giannone vi interpola unicamente il confronto fra Dio
e l'anima. 2. Ibid., e. 8.
NOTA INTRODUTTIVA 999
lo descrissero solamente come anima del mondo, ma come facitore,
signore e moderatore dell'universo . . .w.1 Naturalmente è in pole-
mica con tutte le interpretazioni «catastrofiche» o che comunque
spiegano l'origine della vita dalla corruzione e dal caos, contrarie non
solo ai libri sacri, ma anche alla filosofia più moderna: «La vera filo-
sofia ha dimostrato oggi, mercé la cura e diligenza di valenti ed accu-
rati investigatori delle cose, che niente in natura si produce dalla
corruzione o putredine, ma tutto nasca da semi che sparsi per tutta
la superficie della terra e per gli ampi spazi dell'aria, producono gli in-
setti simili ciascuno alla specie donde derivarono, ne' quali sono deli-
neati minutamente le parti organiche, e che l'umido e temperato calor
della putredine non facci altro che schiudergli e dargli a poco a poco
incremento, sicché da poi resi fermi dal sole, volino, saltino e faccino
quelle operazioni, alle quali sono portati dal naturale istinto di lor na-
tura . . . ».3 Rispetto al Triregno vi è l'utilizzazione diretta di Newton e
un riferimento più preciso alla biologia moderna. Il motivo dell'armo-
nia della natura, prova della presenza divina, è sviluppato anche nella
seconda osservazione. In realtà più che l'aspetto apologetico - anche
qui legato a una lettura del newtonianesimo - o la volontà di confer-
mare l'accordo esistente fra il Vecchio Testamento e le scoperte
scientifiche, al Giannone interessa sottolineare il rapporto fra natura
e morale, nel senso che fa parte della natura anche l'esigenza di un'e-
tica che nasca come regolamentazione quasi spontanea. L'uomo è
passato dallo stato naturale a quello civile con la creazione degli stru-
menti che rendono comoda la vita; fra questi le forme di convivenza.
La prima specie di vita politica è la tribù, legata alla pastorizia e quin-
di con un notevole grado di vicinanza alla natura, che appare in
grado, prima che l'uomo inventi nuovi mezzi di sopravvivenza, come
la caccia e la pesca, di provvedere con i frutti non coltivati alla vita
umana. Quando nascono forme più complesse, si amplia il desiderio
di ricchezza e sorgono come impulsi dominanti l'avarizia e l'ambizio-
ne. Con quest'ultima nasce la guerra, da cui deriva l'istituto della
servitù. Ma il Giannone si sottrae presto a questa problematica hob-
besiana, pur così suggestiva e vicina a certe intuizioni del Vico. Ri-
mangono perciò impliciti alcuni motivi di superamento del giusna-
turalismo mutuati da Hobbes, soprattutto nella contrapposizione fra
una natura immutabile (ma il cui momento di ferinità lo interessa
assai poco) e la civiltà che è modificazione, dominio del costume
transeunte. Infatti il Giannone oscilla fra questo tipo di analisi e
i. VApe ingegnosa, manoscritto cit., e. 9. 2. Ibid., e. io. Cfr. per analogia
J. Roger, Les sciences de la vie dans la pensée frangaise da XVIIIe siede,
Paris 1963.
IOOO L>APE INGEGNOSA
un'altra in cui la contrapposizione fra natura e civiltà si tinge di
moralismo e diventa il tema della degenerazione dalla semplicità
naturale. L'osservazione v, Sopra la minuta gradazione che si scorge
in natura tra' viventi; sicché sovente riesca assai difficile di porre giusti
confini fra Vuno e V altro genere,1 è un interessante esempio della teoria
della grande catena degli esseri,2 contiene molte bizzarrie tratte da
Plinio, ma vi è precisato il superamento del cartesianesimo, in quanto
mostra che la vita non può nascere solo dalla disposizione ordinata
delle parti: «è duopo che siano invase, e per esse scorra uno spirito
sottilissimo, attuosissimo e velocissimo, dal quale si ecciti la sensazio-
ne .. . ».3 Questo superamento è interessante non solo in quanto ri-
propone la teoria dello spirito vitale (a cui rimane fedele), ma soprat-
tutto perché, analogamente al Toland e all'interpretazione «materia-
listica» del Conti, fa riferimento per giustificarla alla filosofia di
Newton4 e all'ipotesi dell'etere. Il Giannone polemizza contro la
concezione degli automi cartesiani, allineandosi con un'interpre-
tazione vitalistica, o semi-vitalistica della natura che risale al natura-
lismo rinascimentale, ma che ora vien provata, contro il meccanici-
smo cartesiano, anche attraverso l'ipotesi di Newton.
Le osservazioni successive sono una riconferma di quanto aveva
sostenuto nel Triregno sull'anima, contro qualche accenno forzata-
mente ortodosso (o meglio cartesiano) dei Discorsi. Infatti attribuisce
a sant'Agostino la propria concezione materialistica dell'anima come
spirito vitale tratto dalle aure genitali di cui si parla nella Genesi,
Non solo sostiene che sant'Agostino aveva oscillato fra le due teorie
(dell'anima come intelligenza e dell'anima corporea) : ritornando an-
cora una volta a temi tipicamente tolandiani (storia dell'immortalità
dell'anima nella seconda lettera a Serena), attribuisce alla scuola
d'Alessandria e ai suoi teologi di aver parlato dell'anima razionale
distinta da quella corporea, quando invece per i primi Padri (come
a Roma era stato per Lucrezio) l'anima era solo corporea. Ciò che
interessa al Giannone è combattere l'opinione platonica dell'anima
divina; affermare che nel cristianesimo primitivo la mortalità dell'a-
nima non era un'eresia; mostrare come il problema sia stato risolto
a favore dell'immortalità solo dal concilio laterano V, contro il Pom-
ponazzi: «Così si tolsero tutte le dispute, e l'antica opinione d'alcuni
Padri della Chiesa, che le facevano corporee, e derivare da' genitori,
i. Qui a pp. 1014 sgg. 2. Cfr. A. O. Lovejoy, La grande catena dell'essere,
Milano 1966. Cfr. soprattutto a pp. 197 sgg. esempi da Locke ed altri che
ricordano questa osservazione del Giannone. Per questo tema in Conti cfr.
N. Badaloni, Antonio Conti ecc., cit., cap. 1. 3. Cfr. qui, p. io 16. 4. N.
Badaloni, Antonio Conti ecc., cit., pp. 59-77.
NOTA INTRODUTTIVA IOOI
onde fra* teologi non venne ciò più in disputa ... e nelle cose di reli-
gione fu riputato consiglio il credere e non il sapere . . . n.1 Anche
T osservazione seguente2 può essere ricondotta a temi tolandiani, per
esempio nella preferenza data alla morale stoica e nella tesi che la
differenza fra gli uomini consista nel corpo - che condiziona intelli-
genza ed atti - e nell'educazione. Il Giannone oscilla cosi fra una
ripresa dei temi deistici (anche se storicizza più nettamente il feno-
meno religioso, collegandolo non con lo ius naturae, ma con lo ius
gentium, all'esigenza di vita civile) e una componente di tipo fidei-
stico, relativistico, non del tutto assente nel Triregno e che gli deri-
vava dal maestro Domenico Aulisio.
Le osservazioni vili e ix sono un importante tentativo di rilettura
del Triregno in chiave ortodossa: l'vin3 infatti riassume e conferma
tutti gli elementi essenziali del regno terreno (la mancanza di un'idea
dell'immortalità nelle civiltà antiche, la mortalità dell'anima, ecc.),
ma la ix pone il regno celeste come uno stato di grazia di cui non vi
era traccia precedentemente e che rappresenta una radicale rottura»
Lo stato di natura durò fino alla venuta di Cristo. Questi «Negò co'
sadducei tutte le tradizioni de' farisei come tradizioni umane, non di
Dio ; ed al contrario, approvò la dottrina de' farisei degli angeli, degli
spiriti, delle anime e de' ricettacoli loro ne' luoghi infernali negati
da' sadducei; approvò la credenza della resurrezione de morti ne-
gata pure da' sadducei, ma in ciò discordò da' farisei, ch'essi vole-
vano che risorti sarebbe stato loro riserbato un altro regno, ma pur
terreno; ed egli annunciò e promise, risorti che fossero, a que' che
in lui credessero, e fossero umili e caritatevoli e perfetti "sicut pater
meus coelestis est", un nuovo regno tutto giocondo e celeste; a
reprobi e miscredenti, che gli stassero apparecchiati nella profondità
della terra luoghi infernali e colmi d'ogni infelicità e miseria, dove
con gli demòni dal cielo scacciati saranno tormentati in eterno . . . ».4
A questa forzata ortodossia, che non riesce a prescindere dalla «sto-
ricizzazione », si collega anche l'osservazione x5 in cui si distruggono
i miracoli dei pagani, che sono alla base della affermazione di ogni
religione, cercando di salvare quelli cristiani. Come la religione è
essenzialmente un'esigenza caratteristica dell'uomo, così altri senti-
menti, come l'ambizione, l'avarizia e la cura del futuro «anche
doppo morte » sono tipici dell'uomo. Ma sempre, per la sua fiducia
i. L'Ape ingegnosa, manoscritto cit., Oss. vi, Dell'uomo, sua origine, con-
cezione, natività e fine, e. 29. 2. Ihid,, Oss. vii, Sopra la natività dell'uomo,
ce. 38 sgg. 3. Ibìd., Oss. vili, Sopra tifine dell'uomo secondo il suo stato di
natura, e. 40. 4. Ibid., Oss. ix, Delfine dell'uomo secondo il suo stato di gra-
zia, e. 44. 5. Vedila qui a pp. 1027 sgg.
1002 L'APE INGEGNOSA
nella grande catena degli esseri, il Giannone dimostra che alcuni
atteggiamenti umani (il rìso, il pianto, la sagacità)1 non sono ti-
pici soltanto deiruomo e li possiedono anche i bruti, seppure in
misura minore. Questo discorso ne apre un altro sulla memoria e
l'immaginazione.2 Presenti anche nei bruti, tali facoltà hanno una
natura puramente biologica e materiale, come aveva già cercato di
spiegare Cartesio. Proseguendo in una rigorosa despiritualizza-
zione delle facoltà umane, egli afferma che ambiente e struttu-
re corporee intervengono sull'immaginazione. Così anche le visio-
ni notturne e i sogni dipendono dai meccanismi del nostro corpo.
Accanto alla preoccupazione di trovare una spiegazione materiali-
stica e puramente biologica a questi aspetti della nostra vita, c'è an-
che la volontà antisuperstiziosa, la tensione a sottolineare come la
scienza (in accordo con la stessa rivelazione mosaica) possa spiegare
fatti a cui una immaginazione primitiva attribuiva significato mira-
coloso e magico. Mentre affiora un elemento che è del resto tipico
dell'eudemonismo settecentesco, la centralità dell'uomo nell'ordine
universale,3 all'ottimismo del Giannone, che pur combatte in queste
pagine una sua rigorosa campagna contro la superstizione e contro
ogni forma di irrazionalismo magico, anche Terrore appare giusti-
ficato, in quanto non solo è un modo (sia pur inadeguato) di avvi-
cinarsi alla realtà e conoscerla, ma è un mezzo stesso di sopravviven-
za, a volte un necessario instrumentum regni. Ne emerge una tipica
preoccupazione che sarà presente anche fra i philosophes: «chi filo-
sofo vorrebbe fare il muratore, lo spazzacamino, il calzolaio, il sar-
tore ed esercitarsi nelle altre arti meccaniche, cotanto necessarie
alla vita civile ... ? ».4
L'osservazione xix è datata io marzo 1744: Le comete niente por-
tendono overo presaggiscono 0 di bene 0 di male, quando si rendono a noi
1. VApe ingegnosa, manoscritto cit., Oss. xi, V ambizione, V avarizia, e la
cura del juturo anche doppo morte esser propri umani affetti, e. 55; Oss. xn,
Il riso, il pianto, il sermone, la sagacità, industria e l 'accorgimento non es-
sere così propri dell'uomo, sicché i bruti non ne abbiano qualche immagine,
ancorché languida, debole ed imperfetta, e. 62, qui a pp. 1042 sgg. 2. Ibid.,
Oss. xiii, La memoria, V immaginazione, e gVinsogni, ancorché fossero comuni
anche a* bruti, nulla di manco agli uomini sono in grado eminente e producono
in essi effetti molto strani e maraviglisi, e. 69 ; Oss. xiv, Dell'imaginazione
dell'uomo e suoi stupendi e portentosi effetti, e. 72; Oss. xv, DegVinsogni, e. 86.
3. Ibid., Oss. xvi, Che nell'universalità della natura non vi sia cosa migliore,
né peggiore dell'uomo, e. 96; Oss. xvii, Che nel mondo abbia sempre prevaluto
l'errore alla verità e che se fosse altrimenti accaduto ogni società civile si sa-
rebbe disciolta e fatto ritorno all'antica vita pastorale ed agreste, e. 99. Sulla
felicità cfr. R. Mauzi, L'idée du bonheur au XVIII6 siede, Paris i960.
4. Oss. xvii cit., e. 102.
NOTA INTROt>UTTIvA 1003
aspettabili.1 È interessante notare come si tratti di un'operazione
culturale abbastanza complessa; il tema richiama senza alcun dub-
bio la celebre opera di Pierre Bayle. \\ senso stesso del discorso non
è che l'ultimo sviluppo della problematica bayliana, ma questi, che
non era certamente ignoto al Giannole, non viene neppure nominato.
In realtà il Giannone utilizza piuttosto, per questa ripresa della te-
matica antisuperstiziosa, il libro terzo dei Principia di Newton, De
mundi systemate, attraverso il quale viene provato che le comete non
sono vapori (come le avevano credute gli antichi), ma corpi solidi,
che girano con leggi costanti intorno ai pianeti. La filosofìa newto-
niana è anche la protagonista dell'osservazione successiva, la xx, Che
la sperienza dee precedere sempre al filosofare; ed indarno si specula,
se non prima siano accuratamente esaminate le circostanze del fatto,
dove viene consumata completamente ogni tentazione di conoscenza
astrattamente razionale, esaltando la sperimentazione: «Per ciò la ma-
niera di filosofare di Isaac Newton ha visto a' nostri tempi quell'ap-
plauso, che meritatamente se gli dee, perché senza finger ipotesi,
insistendo unicamente nella filosofia sperimentale, nella meccanica e
nell'osservazione di vari sperimenti da lui accuratamente fatti, ha
saputo trarre certe induzioni e dare que' sì ben ordinati e stabili
principi matematici della sua naturai filosofia . . . ».2 Per contrasto
narra invece un'infelice deduzione «astratta» del MafTei3 che aveva
cercato di spiegare l'improvviso bruciamento di una donna con la
formazione di un fenomeno simile al fulmine all'interno del corpo,
quando poi si era scoperto che questa si era cosparsa di acquavite e
inavvertitamente avvicinata a una lampada. Le osservazioni succes-
sive riguardano le invenzioni umane, l'intervento del caso, la possi-
bilità di scoprire in futuro cose che ora appaiono impossibili. Siamo
in pieno ottimismo settecentesco, con la continua contrapposizione
dei moderni agli antichi. Non mancano i temi autobiografici; alcuni
fra l'altro sono molto importanti perché ci danno la misura del suo
giudizio negativo sul viceregno austriaco.4 Denunciano acutamente
l'impossibilità di una politica di riforme nello Stato meridionale da
parte di una Corte lontana e rapace, i difetti di una politica fiscale
spesso troppo subordinata agli interessi di Vienna. Molto interessanti
sono le pagine dedicate alle biblioteche,5 sia a quelle napoletane, sia
a quelle viennesi, fra l'altro preziose per ricostruire i suoi ambienti
di lettura nella capitale asburgica. Le biblioteche sono viste come uno
1. Vedila qui a pp. 1061 sgg. 2. L'Ape ingegnosa, manoscritto cit., e. 106.
3. Su questo episodio e sulle lettere sui fulmini del MafTei cfr. N. Bada-
loni, Antonio Conti ecc., cit., pp. 186-7. 4- Cfr. G. Ricuperati, U espe-
rienza civile ecc., cit., p. 596. 5. Cfr. qui a pp. 1071 sgg.
1004 L'APE INGEGNOSA
degli strumenti più importanti nello sviluppo della civiltà, anche se
in questo caso il motivo autobiografico sopraffa ben presto ogni altro
interesse. Ma è comunque notevole l'articolazione di tutto il discor-
so, che è in sostanza un'interpretazione dello sviluppo della cultura
occidentale, dalla funzione dei monaci copisti, al ruolo del Petrarca
come scopritore di codici e sollecitatore del mecenatismo dei princi-
pi, al legame fra riscoperta della civiltà classica e rinnovamento del-
l'università. Il Giannone estende il suo discorso ad altri strumenti
della civiltà umana, come le monete, la carta, i sistemi di misurazione
del tempo. Sono interessi verso le tecniche, gli oggetti dell'uomo che
- presenti nell'erudizione di gusto libertino dell'Accademia Mcdina-
Coeli - avevano avuto un fascino notevole anche su Domenico Au-
lisio. Ma il Giannone inserisce questa curiosità in un interesse più
ampio, volto alle istituzioni politiche, geografiche, di costume: le
città, i regni, le repubbliche, le divisioni in province, le leggi, il lin-
guaggio. L'erudizione si trasforma in impegno storico. Sono realtà
immobili per il profano, ma che vivono una loro vita, sempre sotto*
poste a variazioni, cangiamenti, decadenze. Come si e detto, il Gian-
none corrode il giusnaturalismo attraverso una analisi di tipo relati-
vistico, le cui origini andrebbero cercate nella formazione scotista,
nel rinnovamento gassendiano, nella assidua lettura di Hobbcs e di
Bayle.
La cronologia è uno dei problemi di queste ultime osservazioni:
Sopra la divisione del tempo dall'uomo fatta ed ordinata e sopra le varie
epoche fissate per ordinare i fatti istorici e che la piti sicura misura sia
quella che si trae dall'osservazioni astronomiche e delle ecclissL1 Basta l'i-
nizio di questa osservazione per richiamarci i Principia di Newton:
« Il tempo non è altro in natura che la durazione delle cose ; né per
se stesso pone qualche cosa di più nell'universo ; e questo ò il tempo
vero, proprio ed assoluto, che sempre uguale scorre. Noi per ordinar
meglio le nostre azioni abbiam ritrovato il tempo relativo, dividendolo
in più porzioni, in anni, mesi, giorni ed ore, ed adattandolo alle cose
sensibili ed esterne e lo facciamo ora corto, or lungo . . . ».* Dopo
questo inizio il Giannone affronta il problema della cronologia della
storia profana e di quella sacra. La prima gli appare più fantasiosa
perché proietta in un passato vertiginoso l'apparizione dell'uomo. Il
guaio sta però nel fatto che nella storia sacra non c'ò concordanza
esatta fra la Bibbia ebraica e la versione greca. Di fronte a queste in-
certezze non c'è che il metodo scientifico : « La natura è quella che con
tenor costante serba sempre l'ordine stesso e negli astri lo stesso corso
e giro. Questa traccia seguitò il celebre Newton il quale ci mostrò una
i. VApe ingegnosa, manoscritto cit., Oss. xxxm, e. 163. 2. Ibid., loc. cit.
NOTA INTRODUTTIVA lOOJ
nuova e più sicura maniera di noverare gli anni per via di osserva-
zioni astronomiche ; ed ancorché il padre Souciet gesuita si sforzasse
con le sue dissertazioni sconvolgere la di lui cronologia, nulladiman-
co i dotti non lasciano di commendar il nuovo calcolo, come il più
accurato ed esatto. Quindi l'epoche più certe e sicure non possono
a noi derivare se non dalle osservazioni astronomiche, spezialmente
dagli eclissi ; e per ciò, sempre che un gran fatto istorico è accompa-
gnato da un'eclisse che per poco o lo precedette, ovvero per poco lo
seguì, possiamo con certezza riportarlo a suoi giusti tempi; e sicome
gli astronomi facendo esatte efemeridi, non errano in presaggire le
future eclissi, molto meno possono errare in additarci le passate . . . ».x
Ma il problema del tempo lo riporta a quello della duraia della vita
umana e dei viventi, che sono tutti mortali. Con una progressione
tipica, viene a riflettere sulla vecchiaia, sull'imminenza della morte,
sul timore verso di essa. E in queste pagine ritorna alla solita sim-
patia per la morale stoica, che permette di non temere la morte.
L'osservazione XLa riporta questo tema al suo significato più gene-
rale e riprende argomenti della letteratura libertino -deistica: il con-
cetto di essa presso gli antichi e l'affiorare dell'idea di una seconda
vita nella religione naturale fra gli Egizi e poi fra i Greci attraverso
i costumi funerari e il culto degli illustri defunti. Contro tale idea
si ergono Democrito in Grecia e Lucrezio in Roma. È ancora una
volta lo schema della seconda lettera a Serena del Toland. L'ultima
osservazione3 conferma ed attenua le tesi del Triregno inserendole
nello schema dualistico dello stato di natura a cui è contrapposto
quello di grazia. Si nota nelle ultime pagine dell'Ape ingegnosa, ma
del resto in tutte le opere del carcere, un'ostinata volontà di ritornare
sui propri temi e di giustificarli, reinserendoli nella propria nuova
condizione di convertito. La conversione non era stata né un radi-
cale cambiamento, né un'adesione strumentale alla volontà del mar-
chese d'Ormea; era stata piuttosto, sotto la spinta della necessità
da una parte, di una crisi spirituale di stanchezza e di vuoto dall'al-
tra, un nuovo incontro con gli elementi più accettabili della tradizione
cattolica. L'intellettuale era cambiato minimamente; l'uomo almeno
un poco. E VApe ingegnosa è l'esperienza umana e intellettuale di un
vecchio deluso, che disperatamente difende, nelle condizioni nuove
in cui si è trovato con la prigionia, il senso di ciò che ha vissuto ed
organizzato nelle proprie opere. Fedeltà ai temi del Triregno, impo-
verimenti ed attenuazioni dei medesimi, convivono in un'attività di
1. Ibid., e. 164. Sul Newton cronologo e sulle polemiche con il gesuita
Souciet cfr. F. E. Manuel, Newton Hìstorian, Cambridge 1963. 2. Ve-
dila qui a pp. 1079 sgg. 3. Qui a pp. 1094 sgg.
IOOÓ L'APE INGEGNOSA
cui bisogna cogliere soprattutto il significato di riconferma della so-
stanza delle proprie tesi. Solo le frange vengono più o meno abil-
mente abbandonate al compromesso, che ormai, più che un atto ri-
volto al mondo esterno, nella speranza di essere liberato, e un riflesso
condizionato — drammatico e pur esso significativo — di una stan-
chezza angosciosa, di un senso della morte che forse né la morale
stoica, né l'eudemonismo di fondo delle ultime letture, riuscivano a
consolare completamente, ma che non modifica la sostanziale coe-
renza,
Giuseppe Ricuperati
DA «L'APE INGEGNOSA
OVERO RACCOLTA DI VARIE OSSERVAZIONI
SOPRA LE OPERE DI NATURA E DELL'ARTE»
PROEMIO
L/ animo stanco1 e le scemate forze non potendo più sostenere in
questa mia estrema vecchiezza lunghi travagli di opere grandi e
laboriose, per non marcire nell'ozio e nella desidia,2 la quale anche
ne' vecchi è biasimata da Cicerone,3 ho riputato ne' pochi anni di
vita che mi restano rivolgermi a studi meno severi, e per la va-
ghezza giocondi e per la varietà meno noiosi; imitando le ingegnose
api, le quali ne' fioriti campi di qua e di là succhiando da' fiori
soavi liquori, ne formano i dolci favi. Né poteva io in questa età e
solitudine, privo d'uman commercio e senza libri, procacciarmi
miglior occupazione se non rivolgendo il gran libro del mondo,
che mi è sempre innanzi e che di breve avrò da lasciare.
Non certamente poteva altrove trovare un più spazioso campo,
se non contemplando l'opere di natura, multiplici, varie e ciascuna
per se stessa mirabile e stupenda; nell'interpretazione della quale
pochi libri bastano per soccorso d'una ben disposta e giusta mente,
a' quali per buona sorte non fu impedito di tenermi compagnia.
Ed alli vecchi questo solo rimane di consolazione e di conforto,
cioè rivolgere colla mente gli studi passati, e col riflettere e colla
lezione profittevole e gioconda d'ingegnosi autori far nuovi acqui-
sti e stendere maggiormente le cognizioni. Saviamente per ciò
Quest'opera è inedita, salvo qualche brano pubblicato da V. Cian, V agonìa
di un grande italiano sepolto vivo, in «Nuova Antologia», clxxxvii (1903),
pp. 698-721. Il manoscritto autografo, da cui sono tratti i brani riprodotti,
è in Biblioteca Reale di Torino, Varia 304. Appunti e abbozzi di queste
osservazioni in Varia 303, ce. 80-90. Nicolini, Scritti, pp. 65-71, elenca
i titoli delle osservazioni. Cfr. G. Ricuperati, Le carte torinesi di P. Gian-
none, Torino 1962, p. 90; Giannoniana, pp. 491-2. Per un'analisi di que-
st'opera nel contesto dell'attività del Giannone in carcere cfr. G. Ricupe-
rati, L'esperienza civile e religiosa di P. Giannone, cit., soprattutto le
PP- 591-9.
1. L'animo stanco: questo motivo della stanchezza è già sviluppato nel
capitolo conclusivo dell'Istoria del pontificato di Gregorio Magno, qui a pp.
985-6. A e. 5 dell'autografo, in alto a sinistra, la data d'inizio: «Li 12
agosto 1743». 2. desidia: pigrizia, inazione (latinismo). 3. la quale.,.
Cicerone: cfr. De off., 1, xxxiv, 123: «Nihil autem magis cavendum est
senectuti quam ne languori se desidiaeque dedat».
IO08 L'APE INGEGNOSA
S. Girolamo scrivendo a Nepoziano, ep. 2,1 gli diceva che non es-
sendo più i vecchi capaci di que' gusti e piacevoli trattenimenti
che godono quelli che sono giovani e vigorosi di forze, altro non
gli resta che lo studio col quale consolano e dilettano la loro
cadente età; ed a me precisamente, che ho maggior bisogno di que-
sti conforti, prolungandosi fuor di ogni aspettazione l'incoiato3
in questa misera ed infelice mia prigionia, profittando dell'esserne
pio di Demetrio Falereo, il quale scacciato dalla patria «multa
praeclara in ilio calamitoso otio scripsit », come ce ne rende testi-
monianza Cicerone nel lib. v De finib. bonor. et malora soggiun-
gendo4 che «multi cum in potestate hostium essent, aut tyran-
norum, multi cum in custodia, multi cum in exilio, dolorem suum
doctrinae studiis levaverunt».5 Né agli antichi mancano essempi
moderni. Tralasciando d'aver Boezio nella prigione composto
l'eccellente libro De consolatione philosophiae,6 Grozio nella prigio-
ne compilò quel dotto Commentario sopra S. Matteo ed il libro
De ventate religionis christianae.1 Bucanano nell'angustie d'un mo-
nastero di Portogallo compose la bella parafrasi de' Salmi di Da-
vide.8 M. Pellisson dell' Academia francese, durante i cinque anni
di sua prigionia, riprese gli studi della lingua greca, della filosofia
e della teologia.9 Girolamo Maggio tra' ferri presso i Turchi scnz'al-
1. ep. 2: ep. m (alias 2), Ad Nepotìanum, de vita clericorum et monachorum,
in Migne, P. L., xxn, col. 527. 2. Vincolato: la dimora (latinismo). 3. De
fin., v, xix, 54. 4. soggiungendo: correggiamo «soggiundo» dell'autografo,
evidente lapsus. 5. «multi . . . levaverunt)): loc. cit., ma nel paragrafo pre-
cedente, il 53 («molti, trovandosi in potere di nemici 0 di tiranni, in pri-
gione o in esilio, alleviarono il proprio dolore con lo studio della scienza»).
6. Severino Boezio (480-524), senatore romano, filosofo e consigliere di
Teodorico, da cui fu fatto imprigionare e uccidere. Scrisse in carcere il
De consolatione philosophiae. 7. Del Grozio (cfr. la nota a a p. 55) sono
citati qui le Annotationes in libros Evangeliorum, Amsterdam! 1641, e il
De ventate religionis christianae, Lugduni Batavorum X629, composto dopo
il 161 9, anno in cui era stato incarcerato a vita, essendo stato travolto dalla
disgrazia del Barneveldt, accusato di eresia e di intelligenza con gli Spa-
gnoli. Il Giannone conosceva molto bene l'opera del Grozio. In carcere
rilesse il De ventate religionis christianae nell'edizione del Ledere (Aia x 7 x 8).
Il primo titolo dell'opera era: Sensus librorum sex, quospro ventate religionis
christianae batavice scripsit H. Grotius, Lugduni Batavorum 1627. Cfr. G.
Ricuperati, V esperienza civile ecc., cit., pp. 608-9. 8. Bucanano . . . Da-
vide: George Buchanan (1506-1582), umanista scozzese, insegnò a Bor-
deaux, dove fu maestro di Montaigne. Passò a Coimbra, dove fu colpito
dall'accusa di eresia e recluso in un monastero, in cui iniziò la parafrasi
dei Salmi (1548) : Davidis Psalmi aliquot, latino Carmine expressi . , ., s.l.
1556. 9. Pellisson . . . teologia: Paul Pellisson-Fontanicr (1624-1693), let-
PROEMIO IOO9
tro soccorso che della memoria, compose i suoi Trattati* Stefano
Zagedin durante la sua captività in Costantinopoli scrisse i libri
della teologia.2 E narrasi che Michel Cervantes sopra le galee di
Barbaria avesse composto il famoso Don Chisciotte^ libro il più
ingegnoso che fosse mai uscito dalla Spagna.3
Niun è che possa vantarsi, vecchissimo che sia, di sapere ab-
bastanza, poiché molto più gli resta da imparare di quello che cre-
de di sapere; onde il piacere che si sperimenta nell'acquisto di
nuove cognizioni non si estingue se non colla morte. A ciò si ag-
giunge che a' vecchi da Tullio nella persona di Catone non meno è
commendato l'essercizio del corpo che quello dell'animo,4 per con-
servarsi in una vecchiaia salubre, meno fastidiosa e molesta.
Per queste ragioni uomini saggi, consumati ne' studi e resi
celebri per tutto l'universo, sicché niente alla loro fama rimaneva
da aggiungere nell'ultima loro vecchiezza, non per ciò tralasciaro-
no lo studio delle lettere, ed in questa stessa età diedero al mondo
opere insigni non meno di ciò che avean fatto ne' loro floridi e
vigorosi anni. Platone con tutto che le lunghe e disagiose peregri-
nazioni sofferte l'infievolissero, non tralasciò di studiare e di scri-
vere fino alF8i. anno, che fu quello di sua morte.5 Isocrate, essendo
in età di novantaquattro anni, compose quella tanto lodata orazio-
ne intitolata Panatenaicus.6 Gorgia Leontino7 assai più vecchio non
cessò fino all'età di centosette anni che visse di scrivere, sicome
rapporta Cicerone nei libro De senectute: «Est enim» e' dice
terato francese di famiglia protestante. Nel 1653 scrisse VHistoire de VAca-
démie francaise. Nel 1661, per difendere Fouquet, fu imprigionato e re-
stò cinque anni alla Bastiglia dove lesse intensamente 1 Padri. 1. Girolamo
. . . Trattati: Girolamo Magi o Maggi (1523-1572), ingegnere di Anghiari,
nel 1572 prigioniero a Famagosta e trucidato. La sua opera principale,
Delle fortificazioni delle città, è del 1564, quando non era prigioniero dei
Turchi. 2. Stefano Zagedin . . . teologia : non mi è riuscito di identificare
questo personaggio. 3. E narrasi . . . Spagna: il Giannone confonde. Il
Cervantes, mentre stava tornando in Spagna nel 1575, fu preso da un
corsaro algerino e venduto ad Algeri come schiavo, per cui fu riscattato
solo nel 1580 da un amico. Ma il Don Qwjote fu immaginato e iniziato solo
dopo il 1599, quando il Cervantes, passato da Siviglia a Valladolid, era
stato arrestato per una rissa. La prima parte dell'opera uscì nel 1604.
4. da Tullio . . . animo: Cicerone, Calo maior de senectute, xi, 36: «Nec
vero corpori soli subveniendum est, sed menti atque animo multo magis ».
5. Platone . . . morte: il grande filosofo ateniese visse ottantanni (427-347
a. C). 6. Isocrate . . . 'Panatenaicus: il famoso oratore ateniese (436-338
a. C.) scrisse il Panathenaicon fra il 342 e il 338. 7. Gorgia Leontino (483
circa-375 a. C), sofista greco.
6+
IOIO L'APE INGEGNOSA
« lenis senectus, qualem accepimus Platonis, qui uno et octogesimo
anno scribens mortuus est; qualem Isocratis, qui cum librum,
qui Panatenaicus inscribitur, quarto et nonagesimo anno scripsisse
dicitur, vixitque quinquennium postea; cuius magister Lcontinus
Gorgia centum et septem complevit annos, neque unquam in suo
studio atque opere cessavit».1 Valerio Massimo nel lib. 8, cap. 7,
all'esempio d'Isocrate aggiunge il vecchio Catone2 il quale presso
Cicerone nel cit. libro, ancor che vecchissimo, cosi di se stesso
favella: «Septimus mihi Originum libcr est in manibus: omnia
antiquitatis monumenta colligo ; causarum illustrium quascumque
defendi, nunc quam maxime confìcio orationes; ius augurum,
pontificum, civile tracto, multum etiam graecis litcris ».3 Aggiunge
Valerio l'essempio di Terenzio Varrone, il quale infino all'ultima
vecchiaia, quando anco giaceva nel letto per l'età decrepita di
cent'anni, ad ogni modo desideroso d'imparare non tralasciò mai
lo studio : « Terentius autem Varrò » dice Valerio « humanae vitae
exempla, et spatio nominandus, non annis, quibus sacculi tempus
aequavit, quam stylo vivacior fuit, in codem enim lectulo et spi-
ritus eius, egregiorum operum cursus extinctus est».4
Or se è lecito parva componere magnisi le costoro vestigia io
calcando, gli anderò, se ben di lungi, seguendo; e non potendo
con pari opere gravi e serie imitargli, mi studierò di farlo con
questa raccolta, ch'io chiamo YApe ingegnosa] poiché «floriferis
ut apes in saltibus omnia libant»,6 così dalle varie osservazioni
fatte sopra l'opere di natura e dell'arte l'ho compilata.
Nelle iscrizioni di simili libri, scrive Plinio nella dedica della
sua Istoria di natura7 a Tito Vespasiano che i Greci furono assai
1. «Est enim . . . cessavit »: Caio maìor de senectute, v, 13. 2. Valerio , , .
Catone: cfr. Fact. et dicU mem.t vili, vn, 1. 3. «Septimus . . * literis»: Cato
maior de senectute, xi, 38 («Sto scrivendo il settimo libro delle Orìgini:
raccolgo tutti i monumenti dell'antichità; ordino ora più che mai le ora-
zioni di tutte le cause illustri che ho difeso ; tratto il diritto augurale, ponti-
ficio e civile, [mi servo] anche molto della produzione letteraria greca»).
4. «Terentius autem . . . extinctus est»: cfr, Fact, et dict. mem,f vili, vii, 3
(«Terenzio Varrone, da celebrare per affabilità e longevità, non fu meno
vivace di penna che di anni, coi quali compì un secolo: sul medesimo letto
si estinse infatti il suo spirito e insieme il corso di opere egregie »). Si legga
«esemplo». 5. parva componere magnisi da Virgilio, Georg., iv, 176: «si
parva licet componere magnis », divenuto proverbiale, è. «floriferis . . .
libant)): Lucrezio, in, 11 («come le api per le balze fiorite van gustando
ogni cosa »). 7. Cfr. Historiae naturalis libri XXXV1J, quos interpretatione
PROEMIO IOII
festivi ed ingegnosi. Chi gli attitolò Favos poiché come i favi del
miele contenevano raccolti insieme più soavi liquori. Altri Cotnu-
copiae, dov'eran trattate le scienze ed arti promiscuamente di ogni
genere; e Gellio nel lib. primo, cap. 8, rapporta Sozione filosofo
peripatetico aver composto un libro sotto questo nome.1 Altri l'in-
titolarono le Muse, sicome fra' Greci fece Erodoto, alle nove Muse
ascrivendo i suoi nove libri d'istoria; e lo stesso fece Bione retore,
secondo scrive Laerzio in Bione ; e fra' Latini P. Aurelio Opilio
alle Muse attitolò i suoi, secondo che rapportano Svetonio, lib.
De illusi, gramm., cap. 6,a e Gellio, lib. i, cap. 25-3 Chiamarono
altri simili raccolte di più cose Pandectae, come chiamò i suoi libri
di varie questioni Tullio Tiro liberto di Cicerone, sicome rapporta
lo stesso Gellio, lib. 31, cap. o,;4 e Doroteo compose anche le sue
Pandette che sono citate da Clem. Alessandrino, lib. 1 Strom.5
Al di cui esempio Triboniano e gli altri compilatori, a' quali l'imp.
Giustiniano diede la cura di raccorre ed unire insieme le sentenze
degli antichi giurisconsulti, chiamarono quella raccolta Pandectae.
Vi furono anche autori i quali a' loro libri manuali, ove in breve
erano più cose raccolte, diedero il nome di Enchiridion^ sicome fu
detto Y Enchiridion di Epiteto,6 al cui essempio i giurisconsulti
greci diedero fuori i loro manuali collo stesso titolo.
I più festivi e d'ingegno ameni si compiacquero dare alle loro
raccolte chi il titolo di Prati, sicome fece Pamfilo Alessandrino
grammatico, il quale, secondo Suida, tom. 2, così attitolò la varia
sua raccolta, quasi che rappresentasse i vari fiori d'un prato.7 Chi
et notis illustravit Ioannes Harduinus . . . editto altera emendatior et auctior,
Parisiis 1733, in tre tomi, tomo 1, p. 4. La prima edizione a cura dell'Har-
douin è del 1685, in cinque tomi, ma non può essere quella utilizzata in
carcere dal Giannone perché, come si vedrà in seguito, egli trae dall'Har-
douin molte informazioni, anche bibliografiche, aggiornate fino al 171 1,
per cui l'edizione utilizzata può essere o quella del 1723 con note più
ampie (è quella di cui ci siam serviti anche noi) 0 la ristampa del 1741»
1. Gellio . . . nome: cfr. Noct. attt) 1, vili, 1. 2. Altri . . . cap. 6: cfr. Plinio,
Nat. kist.f ed. cit., tomo 1, lib. 1, p. 4, nota 21. 3. Gellio — cap. 25: cfr.
Noct. att., 1, xxv, 17. Da Plinio, loc. cit. 4. sicome . . . cap. 9: cfr. Noct.
att.t xiii (e non 31), ix, 3. Da Plinio, loc. cit., p. 4, nota 22. 5. Doroteo . . .
Strom. : cfr. Clemente Alessandrino, Stromatum, 1, in Migne, i\ G., vili,
col. 867. Da Plinio, loc. cit. Doroteo era un giurista bizantino del VI
secolo. 6. Vi furono . . . Epiteto: naturalmente si tratta dello stoico Epit-
teto. Da Plinio, loc. cit., p. 4, nota 23. 7. 1 pia festivi . . . prato: si riferisce
a Panfilo Alessandrino, lessicografo del I secolo a. C, autore di un'opera
intitolata Prata. - Suida è un'enciclopedia bizantina del X secolo. Le cita-
1012 L'APE INGEGNOSA
vi pose il titolo di Viole, chi di Fiori, onde i nuovi scrittori preser
l'essempio d'inscrivere le loro opere con titoli conformi, sicome
fece Grozio in quel libricciuolo Florum sparsio \l e quindi i Prati
fioriti, i Viridarii, i Frati spirituali, e simili titoli nelle opere de*
moderni.
Altri si compiacquero di titoli simbolici, come di llasta, ovvero
Telum, sicome presso Fozio, in Bibliot., cod. 165, leggiamo che
Himerio sofista intitolò un suo libretto;3 onde presso i moderni
venne l'idea d'intitolar i loro Peplum, e cose simili. In fine tra'
Greci Diodoro Siciliano fu il primo che «desiit nugari»,3 come
dice Plinio, contentandosi di non dar altro titolo alla sua varia
istoria che di Biblioteca.
Gli antichi scrittori romani furono in ciò più seri e semplici, con-
tentandosi di modesti titoli, come di Antiquitatmn, sicome Varro-
ne, Exemplorum, come Valerio Massimo, Artium, come altri; ed
i più faceti non oltrepassarono il titolo di Lucubrationes. Ma dapoi
Varrone stesso si prese licenza nelle sue Satire di cianciare alquan-
to: una attitolandola Sesqui-Ulysis, cioè Ulisse e mezzo, che vuol
dire un vafro ed astuto più che Ulisse, citata spesse volte da Nonio,
cap. 2, n. 481 ed altrove, e l'altra Flextabula, citata pure da No-
nio, cap. 1, n. 109 et 113, et cap. 3, n. 171.4 M. Furio, cognominato
Bibaculo, poeta facetissimo, si prese dapoi maggior licenza, Fiori
costui nel mezzo dell'età di Catullo e di Orazio, nel qual tempo
lo ripone Quintiliano, lib. io Instit, cap. 1; e S. Girolamo, in
Chronic, ad Olymp* 169 ari, 3, lo fa di patria cremonese: «M. Fu-
rius poeta» e' dice «cognomento Bibaculus Crcmon[a]e nascitur».5
Questi raccolse tutti i giocosi fatti e detti di Cicerone ed altri
antichi in un volume, sicome ce ne rende testimonianza Macrobio,
zioni nelle note delTHardouin si riferiscono all'edizione di Colonia del
1619, in due volumi. Cfr. Plinio, loc. cit., p. 5, nota 1: «Apud Suidam,
tom. 2, p. 415». 1. Florum sparsio ad ius iustinianeu?nr Parisiis 1642.
2. Fozio . . . libretto : cfr. Bibliotheca, cod. clxv, Himerii sophistae declama-
tiones, in Mignc, P. G., cui, col. 463. Da Plinio, loc. cit., p. 5, nota 3.
3. «desiit nugari»; Plinio, nel proemio del libro I, ed. cit., p. 5 («fini di
celiare »). 4. Ma dapoi Varrone . . . n. ijx : Marco Terenzio Varrone (x 16-
27 a. C), autore delle Satire menippee e fecondissimo scrittore; Nonio
Marcello (IV secolo d. C), lessicografo e grammatico, di cui ai veda il
De compendiosa doctrina, lib. r, De proprietate sermonum, e lib. Vi, De im-
propria. Tutte queste citazioni da Plinio, loc. cit., p, 5, nota 8. 5. M,
Furio . . . nascituri Marco Furio Bibaculo, poeta cremonese nato nel 103
a. C, scrisse giambi contro Cesare. La citazione di Quintiliano (Inst. or.,
PROEMIO IOI3
lib. 2 Satur., cap. i.1 Di lui fanno anche memoria Tacito ne' suoi
Annali? Svetonio, De illustr. gram., cap. 4, e Carisio, cap. i.3 Ci
rimangono alcuni suoi carmi, raccolti da Pietro Piteo, e posti nella
sua raccolta di vari poemi ed epigrammi, pag. 3Ó.4
Seguirono dapoi altri scrittori, i quali chi dal luogo, 0 dal tempo,
e chi per altro riguardo, alle loro raccolte diedero vari titoli. Ad
Aulo Gellio piacque chiamar la sua Noctes Atticae, poiché l'avea
composta presso Atene neir Attica terra. Macrobio, il qual molto
profittò da Gellio senza però nominarlo, chiamò la sua Saturnalii,5
e così Lipsio ed altri a sua imitazione.6 Ad alcuni, lasciate le Notti,
piacquero più i Giorni; onde il nostro Alessandro ab Alexandro
attitolò la sua Giorni geniali,1 ed altri Giorni caniculari. Fuvi chi,
lasciati i Giorni e le Notti, si appigliò all'Ore, onde Horae subeisivae
e simili.
Ad altri piacquero i titoli metaforici ed enigmatici. Tertulliano,
avendo composta un'operetta contra li gnostici, eretici, i quali
come tanti scorpioni avvelenavano e diffondevano il veleno delle
loro false dottrine da per tutto, l'intitolò perciò Scorpiaco} A sua
imitazione S. Epifanio, il libro che compose Adversus haereses lo
chiamò Panarium, cioè arculam medicami poiché, secondo egli
scrive ad Acacio e Paolo, i quali Phaveano spinto a scriverlo, ed
a' qua' l'indrizzò, avea composti tanti antidoti contro i morsi
x, 1, 96) e quella che segue di Gerolamo (Interpretatio Chronicae Eusebii
Pamphili, loc. cit., in Migne, P. L., xxvn, col. 521) son tratte da Plinio,
loc. cit., p. 5, nota 7. 1. Macrobio . . . cap. 1: sempre da Plinio, ibid.
2. Ann., iv, 34. 3. Svetonio . . . Carisio, cap. 1: ancora da Plinio, ibid.
Flavio Sosipatro Carisio, grammatico latino della metà del IV secolo d. C,
autore di un* Ars grammatica in cinque libri. 4. Ci rimangono . . . pag. 36:
su Pierre Pithou cfr. le note i a p. 392 e 1 a p. 685. Qui sono citati, sempre
dalla nota 7, p. 5, della citata edizione di Plinio, gli Epigrammata etpoematia
vetera . . ., Parisiis 1589. 5. Macrobio . . . Saturnalii: il nome di Satur-
nalia deriva dal fatto che i colloqui, che sono di imitazione gelliana, si
fingono svolti durante le feste di Saturno. 6. Lipsio . . . imitazione-, Joost
Lips (1547- 1606), umanista fiammingo; di famiglia cattolica, aderì al pro-
testantesimo, riconvertendosi successivamente al cattolicesimo. Cfr. I.
Lipsii Saturnalium sermonum libri duo, qui de gladiatoribus . . ., Antverpiae
1585. 7. Alessandro . . .geniali: si tratta del grande giurista napoletano
Alessandro d'Alessandro (1461-1523), la cui opera, fortunatissima, s'in-
titola Genialium dierum libri sex . . ., Lugduni Batavorum i673a (prima
edizione, Romae 1522). Cfr. D. Maffei, Alessandro d'Alessandro, giurecon-
sulto umanista, x 461-1 {$23, Milano 1956. 8. Tertulliano . . . Scorpiaco: cfr.
Adversus gnosticos Scorpiace, in Migne, P. L., Il, coli. 121-54. 9. S. Epi-
fanio . . . medicami cfr. Panarium, sive arcula adversus octoginta haereses,
in Migne, P. G., xli, coli. 173 sgg.; xui, coli. 9 sgg.
IOI4 L'APE INGEGNOSA
velenosi di que' eretici, perché servissero di rimedio « iis qui morsu
petiti sunt, vel eos quibus ne incidant periculum est praemuniant
ac conservent . . . Panarium, sive arculam medicam, ad eorum, qui
a serpentibus icti sunt remedium, iure opus illud, ac opus inter-
pretabimur».1 Lo stesso Epifanio, richiesto da' fedeli che fosse
contento di ammaestrargli più ampiamente negli articoli della fede,
gli sodisfece con un altro libro, che intitolò Ancorato? perché
poteva servire al cristiano a guisa d'ancora per mantenerlo fermo e
stabile nella fede cattolica. Ma sopra tutti niuno mostrò in ciò
più giudicio e sagacità che il P. Menochio gesuita, il quale come
religioso adattò alle sue Centurie il titolo di Stuore,3 ad imitazione
degli antichi anacoreti, i quali nelle loro solitudini dopo le orazioni
non se ne stavano oziosi ed infingardi, ma chi lavorando stuorc,
chi panieri, altri fiscelli o cucchiari a capo dell'anno vendendoli si
procacciavano onestamente il vitto senz'andarlo pitoccando. A
questo modo forse io avrei dato titolo più proprio ed acconcio a
quest'opera, chiamandola Calze, overo col nome di altro simil
lavoro di dita, nel quale in carcere, per isfuggir la noia ed il tedio,
sono occupati i meschini prigionieri; ma per la cagione già detta
ho lasciato correr quello che state ora leggendo.
OSSERVAZIONE V
Sopra la minuta gradazione che si scorge in natura tra7 viventi;
sicché sovente riesca assai difficile di porre giusti confini fra
Vuno e V altro genere,
Niun dubbita lo spirito delle vite esser da per tutto diffuso, per
cui si vivificano le piante, gli animali e gli uomini; e che breve e
quasi insensibile sia il passaggio dalle cose inanimate all'animate,
i. secondo egli scrive , . . interpretabimur: cfr. in Migne, P. C, xu, Acacil
et Fatili presbyterorum epistola ad Epiphanium, coli. 155 8gg.; Rescriptum
Epiphanii, coli. 157 sgg. La citazione a coli. 158-9 (si legga però: «opus
illud, ac librum*: «. . « a coloro che sono stati feriti da morsi, 0 per difen-
dere e preservare quelli che corron pericolo di cascarci, a buon diritto
chiameremo Panaria, cioè cassetta medica questa impresa e questo libro, a
rimedio di coloro che son stati colpiti dai serpenti»), 2. Lo stesso . . . An-
corato: cfr. Ancoratus, in Mignc, P. G., xml, coli. 1 1-236. 3. Sul padre
Menochio e sul rapporto stabilito dal Giannone con le Stuore, cfr. la Nota
introduttiva all'Apologia de' teologi scolastici, qui a p. 793 e la nota 4 a
p.841.
OSSERVAZIONE V IOI5
e poi da queste alle sensitive, ed in fine alle razionali; nel che in
natura si osserva una mirabile gradazione.1
E cominciando dalla morta terra: si vede che da lei si passa a for-
mar i tartufi) i quali non si sa se debbano riputarsi più tosto un callo
della terra ovvero riporsi fra' viventi; poiché non han radici, non
fibre, non capillamenti colla terra complicati, donde possan da lei
trarre alimento; non producon seme per propagarne la specie, né
seminati germogliano. Si osserva non esser altro che la terra stessa
turbinata, e crescono secondo che tra essa si raggirano. Pruova
evidente di ciò è quel che narra Plinio, lib. 19, cap. 2,2 essere a* suoi
tempi accaduto in Ispagna a Larzio Lacinio, il quale mentre mor-
deva un tartufo senti i denti smoversi a cagion che in quello un
picciol denaro era inviluppato: «quo manifestum erit» dice Plinio
«terrae naturam in se globari»; onde a ragione reputò che non
possiamo propriamente dirlo terra, ma non esser altro « quam ter-
rae callum», I Latini li chiamarono tuberà, ma i nostri italiani, for-
se meglio ne spiegarono la proprietà con chiamargli tartufi, cioè
tufo di terrai terrae tofus.3 Veggasi la dissertazione di Gioffredo
il giovane, che si legge nell'Istoria dell' Academia regia delle Scienze
di Parigi all'anno 171 1, pag. 23, il quale esamina la maniera, come
dalla terra si formino.4
Da' tartufi si passa alla gramigna, ed all'altre erbe che per se
stesse germinano: indi all'altre piante più pompose e varie: indi
a' frutici, indi a' corbezzoli ed agli altri arboscelli ed alle viti;
poi a gli alberi grandi; a' pini, cipressi, a' platani, olmi, palme,
roveri, e finalmente alle annose quercie.
Passi poi passaggio a' sensitivi. E qui s'incontra un altro passo
1. Niun dubbita . . . gradazione: viene riconfermata la teoria materialistica,
già espressa nel Triregno, della presenza di un unico spirito vitale animatore
della natura e degli uomini. L'espressione spirito delle vite deriva dalla
Genesi (2, 7), 2. Plinio, lib. io, cap. 2: cfr. Nat. hist., ed. cit., tomo 11,
lib. xix, cap. 11, sect. xi, p. 159. Su Larzio Lacinio, o meglio Licinio, cfr.
la nota 2 della stessa pagina. 3. tartufo viene dal latino tardo terri-<tu>be-
rum, con tuber sostituito dalla forma dialettale (osca) tufer (Battisti-Alessio).
4. Veggasi . . .formino: cfr. Plinio, loc. cit., p. 159, nota 3: «De hoc argo-
mento vide dissertationcm D Geoffroy iunioris, m Historia Academiae
Rogiac Scientiarum, anni 171 1, pag. 23 ». Questa nota è interessante perché
permette di stabilire che il Giannone in carcere non ebbe l'edizione ad
usum Delphini del 1685, ma quella ampliata del 1723 (o la ristampa del
1741). Cfr. Histoire de VAcadémie royale des sciences, Paris 1714, pp. 23-35.
Claude-Joseph Geoffroy (1685-1752), naturalista parigino, detto iunior per
distinguerlo dal fratello Etienne-Francois (1672-173 1), celebre medico.
I0l6 L'APE INGEGNOSA
stretto; poiché in questo confine si fanno innanzi cose che non si
sa se debbiano porsi nella classe de' vegetabili, overo de' sensitivi.
Questo è uno dei punti più difficili che occorrono nell'esame della
natura delle cose, e che ha tenuto esercitati gli ingegni non men
degli antichi che de' moderni filosofi, come dalle cose che non han
senso possano prodursi i sensitivi ; poiché non e dubbio che questi
non si compongono che di parti insensibili, e dalla predisposizione
ed organizatione ne sorge il senso, non altrimenti che dalla varietà
delle corde o canne degl'istromenti nasce l'armonia, ancorché
ciascuna di esse per sé sole non siano armoniche. Ma la sola
organizazione delle parti non basta, ò duopo che siano invase, e
per esse scorra uno spirito sottilissimo, attuosissimo e velocissimo,
dal quale si ecciti la sensazione, e fa che le membra degli animali
secondo la lor volontà si muovano, ciò è per le vibrazioni di questo
spirito propagate per li solidi capillamcnti de' nervi dall'esterni
organi de' sensi al cerebro, e dal cerebro ne' muscoli. Come ciò si
facci è difficile comprenderlo; e l'istcsso Newton, accuratissimo
filosofo, nel fine de' suoi Princìpi matematici della naturai filosofia
confessa non esservi copia sufficiente d'esperimenti per li quali si
possano determinare e dimostrare accuratamente le leggi delle
azioni di questo spirito: «ncque adest» e' dice «sufficiens copia
experimentorum, quibus leges actionum huius spiritus accurate
determinari et monstrari debent».1 In noi non è tanta la difficoltà di
comprenderlo, poiché per propria coscienza conscii a noi stessi at-
tribuiamo il dolore ed il senso de' nostri esterni organi più tosto
all'anima che al corpo; e S. Agostino nel lib. 21, cap. 3, De civ.
Dei, acutamente osservò che il dolore si appartenga alla nostra ani-
ma, non al corpo : «animae cnim est » e' dice « dolere, non corporis »,*
poiché quella che sia in noi percezione del dolore, 0 di qualunque
altro senso così intcriore come esteriore, è della sola anima, non
del corpo. Non già che S. Agostino negasse a' bruti senso, poiché
nel lib. 5, cap. 11, gli dà non pur senso ed appetito, ma eziandio
memoria;3 anzi nel lib. 11, e. 27, gli concede pure «quaedam scien-
1 . Vislesso Newton . . , debent : cfr. Phìlosophiae naturalis principia mathe-
matica . . ., Amstaelodami 1733, p. 484. 2. S. Agostino . . . corporis: cfr.
De civ. Dei, xxi, ili, An consequens sit ut corporeum dolorem sequatur carnis
interitus, 2, in Migne, P. L., xli, col. 711. 3. poiché .. .memoria: cfr.
ibid., v, xi, De universali providentia Dei, cuius legibus omnia continentur,
col. 154.
OSSERVAZIONE V IOI7
tiae similitudo».1 Cartesio si contenne pure in questi limiti, ed in
una sua epistola manifesta di non negare a' bruti senso, la perce-
zione del quale egli in se stesso dice esser conscio che si apparte-
neva alla sua anima, non al corpo ; ma non sapeva ciò che fosse ne'
bruti, non valendo penetrare nelle loro viscere.2 I cartesiani, come
suole avvenire quando le inquisioni3 si vogliono spingere fuor il
dovere, si avanzarono più oltre, e negarono a' bruti ogni senso,
facendogli automati: paradosso che il mondo non ha potuto in-
ghiottirselo.4
Or in far questo passaggio da' vegetabili a' sensitivi s'incontrono
più difficultà, spezialmente ne' purgamenti del mare che getta al
lido, e nelle ortiche e spogne marine. Osservò Aristotele, lib. 5
Hist. anim.y cap. 15,5 ciò che Plinio conferma, lib. 9, cap. 45, le
spogne di mare alcune essere spesse e molli, altre rare, altre tenui
e dense, delle quali si formano i pennelli che noi chiamiamo
ce spogne fine». Queste tutte nascono ne' scogli e nelle pietre, dove
sono attaccate ed affìsse ; si nutriscono di limo 0 alga, ed anche di
pescicoli e di minute conchiglie, poiché aperte vi si sono trovate;
staccate dalle pietre, se vi rimangono le radici, tornano a pullulare.
Fin qui le credereste a' vegetabili indifferenti, ma la loro natura si
stende oltre, poiché sentono la mano di chi le svelle e si ristringono ;
strettamente a' sassi attaccate rendono difficile l'estrazione ; e così
parimente si rannicchiano quando da' flutti marini sono impetuo-
samente percosse. Aristotele e Plinio affermano che svelte anche si
nudriscono e che dalle loro spesse vote fistole come tante bocche
traggono il pasto, e che tratte lasciano nelle pietre il cruore,6
spezialmente nelle Sirti di Affrica.
1. anzi . . . similitudo: cfr. ibìd., xi, xxvn, De essentia et scientia, et utnusgue
amore, 2, col. 341. 2. Cartesio . . . viscere: cfr. R. Des Cartes Episto-
lae . . ., pars li, Francofurti ad Moenum 1692, Epist. XL ad Mersennum . . .
de operatìone brutorum, p. 138. 3. inquisioni: così nell'autografo. 4. 1 car-
tesiani . . . inghiottirselo : riprende un motivo del Triregno : la polemica con-
tro una fìsica cartesiana ridotta al puro meccanicismo. Cfr. A. Vartanian,
Diderot e Descartes, Milano 1956, soprattutto i capitoli i, L'eredità carte-
siana, e IV, Dalla biologia meccanicistica all'uomo macchina e al materialismo
evoluzionistico. Ma l'autore ha il torto di sopravvalutare il significato del-
l'eredità cartesiana. Cfr. ancora a questo proposito le osservazioni di J.
Erhard, L'idée de nature en France dans la première moitiédu XVllIe siede,
Paris 1963, tomo 1, soprattutto i capitoli 1 e n. 5. Aristotele . . . cap, 15 "•
la citazione proviene da Plinio, subito dopo citato, Nat. hist., ed. cit,
tomo 1, lib. ix, cap. xlv, sect. lxix, p. 529, nota 1. 6. cruore: sangue
(latinismo).
IOl8 L'APE INGEGNOSA
Più strana è la natura doll'ordiche marine, secondo gli allegati
autori. Sono anch'esse di doppio genere; alcune si stanno affisse
alle pietre, né mai da quelle si staccano ; altre amano i luoghi piani
ed i lidi, e mutano la notte sede. Di queste vaghe Guglielmo
Rondelezio, Depiscibus, lib. 17, cap. 19 et 20, ne dipinge l'effigie;1
e tutte hanno le foglie o siano branche carnose; e si nutriscono,
secondo Aristotele, lib. 8, cap. 3 e lib. 4, cap. 46 i,a e Plinio, loc.
cit.,3 di carne de' piccioli pescicoli che ad esse si abbattono. Si
rannicchiano in sé ed in passando i pesciulli spargono le branche,
li prendono e li devorano. Toccate lasciano un mordace prurito,
non altrimenti che l'ortiche terrestri, donde presero il nome; e so-
vente di notte fanno anche preda di pettini e di echini,4 da noi detti
amini. Plinio, in contemplando la natura dell'ortiche e delle spo-
gne di mare, confuso a qual classe debba ascriverle, dice non poter
negare essere in esse senso; ma che non per ciò ardisce di anno-
verarle5 tra gli animali, e molto meno fra' vegetabili; ma che
formino una terza natura, media fra gli uni e gli altri: «Equidem»
e* dice « et his inesse sensum arbitror, quae ncque animalium, ncque
fruticum; sed tertiam quandam ex utroque naturam habent: urticis
dico et spongiis».6
Il mare e feracissimo di questi aborti, gettando al lido spurga-
menti che non si sa se debbiano aversi per sue alghe, ovvero per
pesci. Narra Pietro della Valle ne' suoi Viaggi, part. n, cap. 17,7
che nel lido del mar Persico vide gettati da flutti marini in su l'are-
ne alcuni pescetti rotondi e bianchi, ch'egli assomiglia a quelle
monete di argento che chiamiamo patacche, li quali attacati ai
suolo non giammai si muoveano; ed infiniti altri fra le arene se
n'osservano di simili in altra figura, e d'insensibile movimento;
1. Di queste vaghe , . . effigie: Guillaume Rondelet (1506-1557), naturalista
e medico francese, dx cui vengono qui citati i Libri de piscibus marinis,
Lugduni Batavorum 1554-1555, in due volumi. Da Plinio, loc. cit., scct.
Lvni, p. 529, nota 3. 2. Aristotele . . . cap. 46X: da Plinio, subito dopo
citato, loc. cit., p. 529, note 364. (Alla nota 3: «Arist. lib. 4 hist, anim*
cap. 461 », dove cap. 461 sembra refuso, riprodotto nel testo del Giannonc,
per «pag. 461 »). 3, Plinio, loc. cit. : a p. 529. 4. pettini: specie di mollu-
schi conchiliferi; echini-, ricci di mare. 5. annoverarle: correggiamo «an-
noverle» dell'autografo, evidente lapsus* 6. « Equidem .. .spongiis»: Pli-
nio, loc. cit., p. 529. 7. Pietro della Valle . . . cap. 17: vedi la nota up.
954. Cfr. Viaggi, ed. cit,, tomo n-in, parte 11, lettera xvn, 29 novembre
1622, par. xvin, p. 513.
OSSERVAZIONE V IOI9
né minor è il numero ne' scogli, dove sovente si veggono pic-
ciole conchiglie a' passi indifferenti. Tutti questi Plinio alla fine del
libro 32 chiama «purgamenta maris», e più tosto crede doversi ri-
putare alghe marine, che ascrivergli fra gli animali: «Exeunt» e*
dice parlando degli animali del mare «praeter haec purgamenta
aliqua relatu indigna, et algis potius annumeranda, quam anima-
libus».1 I Greci chiamavano questa sorte di viventi zoofiti, ripu-
tandogli parte animali, e parte piante, partecipando dell'una e
dell'altra natura. Ecco quanto sia difficile porre i giusti confini
ne' viventi tra vegetabili e sensitivi.
Procede in oltre la natura insensibilmente alla produzione di
mille foggie d'insetti: alle minutissime zanzare, a vermiccioli qua-
s'invisibili, ed a tanti altri minutissimi animaletti : ne' quali, come
si è detto, maggiormente si ammira l'incomprensibile suo lavoro e
magistero. Indi a poco a poco si arriva a gli animali più visibili e
perfetti; e fra questi s'entra in un mare che non ha né fondo né
riva; poiché si scorgono innumerabili generi diversi dotati chi di
più, e chi di meno accorgimento. Ne' pesci niuna voce, ma tutti
muti. Negli animali terrestri e negli uccelli voce, ed in alcuni anche
loquela; e ne' corvi e pappagalli capacità d'essere istruiti ad arti-
colar anche voci umane. Altri torpidi, inerti, stupidi e sonnacchiosi.
Altri s'elevano a più sublimi operazioni e sottili artifici. I ragni a
tesser minutissime tele. Gli uccelli a fabricarsi industriosi nidi. Le
api ingegnose a formarsi ben composti favi. Le provide formiche a
costruirsi i granai e provvedergli di formento. Le astute volpi ed
altri animali le tane industriosamente disposte di più uscite; e chi
potrebbe annoverar tutti i loro sottili accorgimenti ? de' quali sarà
altrove data occasione di più ampiamente ragionarne, non ricono-
scendo altra maestra che la natura ed i propri loro naturali istinti.
Ammiriamo anche in alcuni imagini d'umane virtù; ne' cani la
fedeltà verso i loro padroni, ne' cavalli di secondare il genio guer-
riero de' cavalieri ; le scimie imitare non pur la figura, ma gli atti
e le gesta umane e verso i loro parti affettuose ; la generosità ne'
leoni; ne' gelosi tori la gloria di vincere Temolo, a' quali Tacito
debitamente ascrive « gloria frontis » ? la docilità e società de' delfi-
ni coll'uomo : in breve ammiriamo in essi memoria, amore, odio,
x. «Exeunt . . . ani?nalibusv: Plinio, Nat. hi$t., ed. cit., tomo n, lib. xxxn,
cap. xi, sect. nv, p. 596. 2. « gloria frontis»: Tacilo, Germ., 5.
1020 L'APE INGEGNOSA
pianto, riso, mestizia, ilarità, e che no? Ma sopra tutti s'innalza
l'elefante, di cui gli scrittori non meno antichi che moderni narrono
cose veramente stupende : che intendono il patrio sermone di que'
che li reggono ed ubbidiscono a' loro comandi, sicome scrissero
Plinio, lib. 8, cap. i,1 ed Eliano, De indicis elephantis, lib. xi Hist
anim., cap. 14 ;2 della loro docilità in rendersi rispettosi e prestare
a' re adorazione, fino ad inginocchiarsi e presentargli corone, ce
ne rendono testimonianza Aristotele, lib. 9 Hist. anim., cap. 72,
Dione, lib. 48,3 lo stesso Plinio, e Marziale, Epigr. 17 De supplice
elephante;* della solerzia ne' giochi di arme, della palla, nelle salta-
zioni e simili, oltre che Seneca e Plinio ce n'assicurano anche Svc-
tonio in Galba, Vopisco nella Vita di Carino, Dione nella Vita di
Nerone,5 e fra moderni Busbequio,6 ep. 1, ed il P. Arduino7 gesuita,
il quale nelle note sopra il cit. luogo di Plinio aggiunge: «similes
quoque ludos edi nostra vidit aetas non sine ingenti voluptate in
regio nemorc Versaliis, ab elephante eximiae magnitudinis ». Leg-
gasi anche il Carme composto nell'anno 1584 da Giovanni Passc-
razio sopra l'elefante, trascritto dallo stesso Arduino nell'emenda-
zioni a Plinio, lib. 8.8 Ma ciò che supera ogni maraviglia è che
Plinio dà all'elefante anche religione, ciocch'ò propria dell'uomo.
Egli afferma (ed in ciò trova chi '1 consente: Plutarco, lib. De so-
1 . Plinio, lib. 8, cap. X : ed. cit., tomo 1, scct. 1, p. 435. 2. Eliano . . . cap, 14 :
Claudio Eliano, De animalium natura libri XVII, lib. xi, cap. xiv, Uìs Loria
de elephanto, diligenti infantis ipsi traditi curatore, anche il cap. xv, 1 Ustoria
de elephantìs duobus, adulterii ultoribus. Da Plinio, loc. cit., p. 435, nota 1 :
«Refert hoc Aclianus, De indicis elephantìs, 1. xi Hist. anim,, cap. 14».
3. Aristotele . . . lib. 48: da Plinio, loc. cit., p. 435, nota io: «Id quoque
Arist. lib. 9 hist. anim. e. 72. Et Dio lib. 48». 4. Marziale . . . depilante:
cfr. Epigr., xvii, 1 sgg.: «Quod pius et supplex elcphas te, Caesar, adorat»
ecc. Da Plinio, loc, cit, p. 435, nota io. 5. Svetotiio . . . Nerone: tutte e
tre le citazioni da Plinio, loc. cit., sect. 11, p. 435, nota 7. 6, Busbequio: da
Plinio, loc. cit, nota 7: «Busbcquius, epist. 1, fol. 27». Si tratta di (ìhislain
Ogiar de Busbecq (1522-1592), olandese, ambasciatore in Turchia per due
volte. Lasciò quattro lettere clic contengono le relazioni delle sue ambascia-
te e Epistolae ad Rudolphum II imperatorem e Gallia scriptae (1630). Cfr.
gli Opera omnia, Lugduni Batavorum 1633. 7. Arduino: Jean Ilurdouin,
l'editore e commentatore della edizione di Plinio che andiamo citando:
su di lui si veda la nota 1 a p. 187. La citazione che segue da Plinio, loc.
cit., p. 435, nota 5 («giochi simili a questi si videro non senza gran diletto
ai nostri giorni nella reggia di Versailles, fatti da un elefante di notevole
grandezza»). 8. Leggasi . . .lib. 8: cfr. Plinio, ed. cit, tomo I, lib. vili,
Notae et emendationes ad librum Vili, p. 486, scct. l. Jean Passerat (1534-
1602), umanista e poeta francese.
OSSERVAZIONE V 1021
lertia animai., Eliano, lib. 7 Hist. anim., cap. 44 e lib. 4, cap. io,1
e Solino, cap. 2$)z che gli elefanti adorino per suoi numi il sole e
la luna. Aggiunge anche aver autori i quali scrissero che nelle selve
della Mauritania ad un certo fiume chiamato Amilo, solennemente
ivi si purifichino nell'acqua di quel fiume spargendosela intorno, e
dapoi avendo salutato il nume «salutato sidere (e* dice, che altri
interpretano della luna, ma Solino del sole) in silvas reverti, vitu-
lorum fatigatos prae se ferentes».3 Di più che intendono l'altrui
religione, poiché invitati non entrano nelle navi, se non il rettore si
obblighi con giuramento di ritornargli nel luogo stesso donde l'han
presi : « Alienae quoque religionis intellectu, creduntur maria tran-
situri non ante naves conscendere, quam invitati rectoris iureiu-
rando de reditu».4
Ecco fin dove si fa giungere la condizione degli animali. Potremo
adunque da questi far ora passaggio a gli uomini ? Non già, poiché
s'incontrano altri viventi, de' quali è gran dubbio se debbiano ri-
porsi nell'una o nell'altra classe, ovvero essere d'una terza natura,
sicome si è detto delle spogne ed ortiche marine fra' vegetabili e
sensitivi. S'incontrano inprima i satiri, che si dipingono di san-
guigna faccia, petto e braccia umane, ma con velate coscie e piedi
simili alle capre. Se vorremo dar credenza a scrittori non meno an-
tichi che moderni, e spezialmente a S. Girolamo ed agli altri
nostri Padri, ed a più istoriette che se ne contano, certamente che
saranno d'una natura media fra noi e gli animali, mezz'uomini e
mezzo capre; poiché gli danno discorso, raziocinio, loquela ed
incesso umano: arte nel sonar le tibie ed altri accorgimenti. Altri
gli negano affatto e gli lasciano co' Blemi ed Egipani5 a' favolosi
poeti. Plinio gli concede, ma vuole che solamente abbiano umana
effigie e sembianza, e siano di natura degli altri quatrupedi: «Sa-
tyris» e' dice nel lib. 5, cap. 86 «praeter figuram nihil moris Imma-
ni», e nel lib. 7, e. 3,7 gli fa di corso velocissimi sopra gli altri
animali : « sunt et satyri subsolanis Indorum montibus . . . perni-
1. Plutarco . . . cap. io: ambedue le citazioni da Plinio, ed. cit., tomo I, lib.
vili, cup. i, sect, 1, p. 435, nota 3. a. Solino, cap. 251 cfr. ibid., note 4 e 6.
3. «salutato sidere . . . ferentes »: loc, cit., sect. 1, p. 435 («salutato l'astro
ritornano nella foresta, spingendo innanzi a sé i piccoli stanchi ») , 4. « Alie-
nae . . . reditu»: ibid. 5. Blemi, o meglio Blemni: popolazione dell'Etiopia
su cui circolarono molte leggende; Egipani: seguaci o figli del dio Pan, dal
piede caprino. Cfr. Plinio, luogo citato alla nota seguente. 6. lib. $, cap. 8:
sect. vili, p. 253 deired. cit. 7, lib. 7, e. 3: sect. 11, p. 373 dell'ed. cit.
1022 L'APE INGEGNOSA
cissimum animai ... humana effigie»; ed altrove, lib. 8, e. 54,
lib. 11, 44,1 gli ripone nel genere delle scimie 0 scimioni, poiché,
se ben quatrupedi, sovente corrono dritti valendosi de' piedi poste-
riori, e degli anteriori si servono, a guisa d'uomo, come tante brac-
cia e mani; e sovente caminano anche proni come tutti gli altri
quatrupedi. Più accortamente Pomponio Mela, lib, 1, cap. 8,3 ce
gli descrisse per semiferi, mettendo però in dubbio se vi fossero,
dicendo, parlando dell'Affrica ferace de* mostri: «Intra, si credere
libet, vix iam homines, magisque semiferi: Acgipanes et Blemmyes
et Satyri, etc». Saviamente «si credere libet», poiché secondo il
giudicio de' più dotti e seri devono riputarsi favolosi ; onde i satiri
non devono porci in angustie, poiché 0 non ci sono, né furono giam-
mai, ovvero alla classe degli altri animali dovranno riporsi. Sicome
i Pigmei al presente non ci fanno difficoltà; poiché i più esperti ed
eruditi han finalmente fatto conoscere che sopra la superficie della
terra non vi siano intere populazioni tali quali gli antichi ce le
descrissero, nella Scizia, nell'India, nell'Etiopia, nell'Egitto ed
altrove, poiché questa favola si è resa da per tutto vagante e diffu-
sa. Omero fu il primo che l'inventò nell'Iliade, lib. 3, v. 6,3 e finse
la guerra che hanno colle gru. Si descrivano non più alti chi d'un
cubito, ed i più lunghi non eccedere la misura di due piedi, o poco
più, come scrissero Plinio e Gellio. Nudi abitare nelle case che si
fabbricano di loto, di penne e di scorze d'ova delle gru. Aristotele
nel lib. 8 Hist anim., cap. 15,4 dice che abitano anche nelle caverne
e la fama aggiunse che infestati dalle gru nella primavera discen-
dono al mare e cavalcando sopra i dorsi degli arieti e delle capre
corrono armati a truppe, e muovono alle gru aspra guerra, con-
sumano le ova ed i lor pulii perché nell'avvenire non siano infe-
stati. Pomponio Mela, seguendo l'autorità di Aristotele, rapporta
nel lib. 3, cap, 8, che nell'interiore Egitto, tra le paludi dalle quali
1. lib. 5, e. 54, Uh. Jjr, 44: rispettivamente sect. lxxx, p. 482, e sect. e, p. 638.
2. lib. J, cap. 8: del De situ orbìs, cum observationibus I. Vossii, llagae 1658,
pp. 10-1 : cfr. Plinio, ed. cit., tomo 1, lib. v, cap. vnr, sect. vizi, p. 252,
nota 15. Ma la citazione che segue è nel lib. I, cap. iv, del De situ orbìs.
3. Iliade, lib. 3tv.6: cfr. G. S. Menochio, Stuore, Roma 1689, in tre tomi,
tomo 1, cent. 1, cap. ix, Chi siano quelli Pigmei de* quali si fa menzione nel
cap. 2j di Esiechiello, pp. 15-6, Il Menochio cita //., ni, 1-9. 4. Aristote-
le. . . cap. J5: la citazione è tratta da Plinio, ed. cit., tomo 1, lib. vii, cap.
il, sect. n, p. 373 e nota 19 ivi. Ma cfr. anche il Menochio, loc, cit., p. 15,
che ha, rectius, lib. 8, cap. 13.
OSSERVAZIONE V 1023
credeasi il Nilo aver origine, vi erano de' Pigmei, li quali combat-
tendo sempre colle gru per le biade furono finalmente da queste
sterminati : « Fuere » e' dice « interius Pigmaei, minutum genus et
quod prò satis frugibus contra grues dimicando defecit». Nel-
l'India anche li trovò Plinio, nel lib. 6, cap. 19,1 a cui consentano
Solino, cap. 52, e Marziano, lib. 6, cap. de India? onde saviamente
avvertì Arduino nel luogo cit. di Plinio: «in multas orbis regiones,
ut solent vagari fabulae, minutum hoc genus hominum dissemina-
tum est».3 Il vero è, secondo che al presente da più accorti viag-
gianti che hanno scorse tutte le parti del mondo siamo assicurati,
che non vi siano intere populazioni pigmee, e che né alla Scizia né
all'Etiopia, India, Egitto o altrove, ma che ne' paesi 0 soverchia-
mente freddi ovvero caldi per opposte e diverse cagioni, sogliono
alle volte nascere uomini piccioli, non già sì brevi d'un cubito,
ma di due 0 tre; e sicome in natura in diverse regioni si veggono
altri nascere e crescere in una prodigiosa grandezza, che chiamia-
mo giganti, non già che vi siano popolazioni intere gigantesche,
cosi accade ne' Pigmei, i quali non è dubbio che debbiano riporsi
nella classe degl'uomini, non già de' bruti; aggiunge per ciò nel cit.
loc. Arduino : « Dari tamen integras pumilionum gentes tam falsum
est, quam quod falsissimum. Brevis staturae causa aestus est et
frigus intensum; quamvis diversa ratione. Nec tamen hoc in
omni fetu evenit. Plurimi Aethiopes proceri sunt. Qui pusilli ex
iis non Pygmaei tamen, sive cubitales sunt; ad ternos ut minimum
cubitos exerescunt».4
La difficoltà maggiore nasce negl'uomini selvaggi, de' quali se-
condo le relazioni degli antichi e de' moderni scrittori non pos-
siamo dubbitare che vi siano, e le scoverte fatte nell'America inco-
gnita a gli antichi maggiormente ce ne rendono certi. Gli antichi
1. lib. 6, cap. 19 : sect. xxn, p. 319 dell'ed. cit., tomo I. 2. Solino . • . India :
ambedue le citazioni da Plinio, loc. cit., p. 319, nota 25. 3. onde savia-
mente . . . disseminatimi est : ibi d. (« questa piccolissima stirpe umana, sic-
come soglion diffondersi le favole, è sparsa su tutta la terra»). 4. «.Dari
tamen . . . exerescunt »: ibid.; è il seguito della citazione che precede («Ma
che ci siano interi popoli di nani è tanto falso quanto ogn* altra cosa più
falsa. Causa della corta statura sono il caldo e il freddo intenso, sebbene
in modo diverso. Né tuttavia ciò accade per ogni prole. Gli Etiopi in maggior
parte son di alta statura, ma quelli di essi che son piccoli non sono però
Pigmei, cioè dell'altezza di un cubito, ma crescono almeno fino a tre
cubiti»).
1024 L'APE INGEGNOSA
non dubbitarono nelle parti settentrionali abitare nelle spclonghe
gli Arìmaspi, «uno oculo in fronte media insignes», come dice
Plinio, lib, 7, e. 2,1 li quali combattono co* grifi per avidità di torgli
Toro, che questi raccolgono dalle miniere, È vero che se bene Ero-
doto nel lib. 3 e 42 allegando Aristea Proconnesio ciò rapporti, egli
però non ci presta credenza; sicome altri avvertirono che si disse
avere un occhio per essere valenti saggittari, i quali per colpire al
segno chiudevano l'altro, e per ciò creduti d'averne un solo. Lo
stesso potrebbe dirsi di que' che si narra esser senza capo ed avere
gli occhi nel petto, sicome nell'Etiopia e nella Scizia alcuni scrit-
tori rapportano: poiché questi non è che veramente non avesser
capo ed avesser gli occhi nel petto ; ma sembra cosi per la brevità
del collo e per l'elevatezza degli omeri, sicome saviamente avvertì
Ugon Grozio nel lib. IV Hìst. de reb. beìg^ pag. 230,3 dicendo:
«Quod certiore testimonio firmatur, capite truncos homines, qui
vultus in pectore gerant, esse, aut colli brevitate erectisque humc-
ris tales videri, haud pertinaciter refellam: satis gnarus, ut alibi
ignium intemperie, ita vi frigoris nimia peccare naturam». Ch'è
la ragion fisica e naturale e la più vera di quella metafisica che im-
maginò S. Agostino, dicendo che sicome in ciascheduna società
d'uomini s'osservano alcuni mostruosi, così nell'universo genere
umano vi siano «quaedam monstra gentium».4 Plinio gli reputa
scherzi e giochi dell'ingegnosa natura, dicendo nel lib. 7, e. 2:
« Haec atque talia ex hominum genere ludibria «ibi, nobis miracula,
ingeniosa fecit natura».5
Ma che diremo di quella razza d'uomini che han testa di cane,
vestono di pelli ferine, non hanno umana voce, ma sol latrano come
cani, ed armati d'ugne come bestie rapaci si procaceiono il vitto
delle carni degli uccelli e delle fiere? Di questi, oltre Plinio, loc.
1. Plinio, Uh. 7y e. 2: sect. n, p. 370 dcll'ed. oit., tomo 1 («famosi per un
solo occhio in mezzo alla fronte»), a. Erodoto, ni, 116 e iv, 13: In cita-
zione dal luogo cit. di Plinio, p. 370, nota 14. 3. Ilistoriae de rebus bet-
gicis, in H. Grotti Annales et Historiae de rebus belgicìs, Amstolaedami
1658, p. 338; si legga aut esse («Ciò che viene affermato con pìix sicura
testimonianza, di uomini mutili del capo che hanno gli occhi nel petto,
che vi siano realmente, o che sembrino tali perché hanno il collo corto e
le spalle elevate, non lo rifiuterei ostinatamente, ben sapendo che, come
altrove per eccesso di calori, cosi la natura pecca per straordinaria forza
del freddo»). 4- « quaedam monstra gentium»: nel De civ. Dei, xvi, vili,
citato in Plinio, ed. cit, tomo 1, lib. vw, cap. ir, sect. ir, p, 374, nota 19.
5. Plinio . . . natura: ibid., p. 374.
OSSERVAZIONE V IO25
cit., Gellio, lib. 9, cap. 4,1 e Solino, cap. 52, ci rende anche testi-
monianza S. Agostino, lib. 16 De civ. Dei, cap. 8, ciò che Lo-
dovico Vives2 in questo luogo conferma con altri autori ; ed i mo-
derni seri e gravi scrittori affermano presso i Tartari essere alla
faccia ed a* costumi simile gente, sicome rapportano il Maiolo,
Colloq. 2, e Nierembergio,3 lib. 8 Hist. nat., cap. 1. Che diremo
de' simili veduti nell'Etiopia, i quali, secondo Plinio, lib. 6, e. 30,4
e Solino non hanno uso di sermone, ma co' cenni e moti de' mem-
bri s'intendono fra loro ? Pietro Martire5 narra di consimili uomini
i quali non han sermone, ma s'intendono a' gesti, essersene trovati
molti nell'interiori parti dell'Indie Occidentali, e spezialmente
nell'isola chiamata Ispaniola. Ciocché diede molto che fare a' teo-
logi spagnoli, se se gli dovesse dar battesimo, alcuni riputandogli
idonei, stimandogli uomini, altri incapaci, non distinguendogli da'
bruti. E certamente se si farà paragone tra questi colle volpi, cani,
scimie ed elefanti, si troverà maggior convenienza fra di loro, che
con gli uomini stessi. Tralascio gli uomini e le donne marine, le
quali rese familiari avendo appreso l'arte del filare, han posto in
dubbio a qual classe dovessero riporsi, di che l'istorie d'OUanda
ci somministrano molti essempi.
Accrescono la difficoltà i parti semiferi, nati dall'accoppiamento
dell'uomo colle bestie. Le antiche e moderne relazioni in ciò con-
cordano. Plinio per autorità d'Artemidoro afferma che alcuni po-
poli dell'India si mescolano colle femmine d'altro genere, e ne
nascano parti semiferi: «Duris» e' dice nel lib. 7, e. 2 «Indorum
quosdam cum feris coire, mixtosque et semiferos esse partus ».6 E
1. Gellio, lib. 9, cap. 4: citato in Plinio, loc. cit., p. 370, nota 17, come pure
Solino, p. 371, nota 2 (ma capitolo 15, e non 52), e Agostino, p. 370, nota 17.
2. Lodovico Vives: si riferisce al già citato commento al De civitate Dei
edito e curato dal Vives nel 1522: cfr. la nota 1 a p. 884. La citazione da
Plinio, ed. cit., tomo 1, lib. vi, cap. xxx, sect. xxxv, p. 345, nota 20. 3. Ma-
iolo . . . Nierembergio : si tratta rispettivamente del fisico astigiano Simone
Maiolo (nato nel 1520 circa), autore dei Dies caniculares, hoc est colloquia
tria et viginti physica nova et penitus admiranda . . ., Muguntiae 1607 (Co-
loniae 1608), e di Juan Eusebio Nieremberg (1590-1658), gesuita e teologo
spagnolo, autore di Historia naturae, maxime peregrinae, hbris XVI di-
stincta . . ., Antverpiae 1635; ambedue citati in Plinio, ed. cit., tomo 1,
lib. vii, cap. il, sect. il, p. 372, nota 20. 4. Plinio, lib. 6, e. 30 : sect. xxxv,
ed. cit., tomo 1, p. 345 e nota 20. 5. Pietro Martire d'Anghiera (1449-
1526), storico e geografo, autore della Decades de orbe novo fra il 1511 e il
1530. Da Plinio, loc. cit., p. 345, nota 20. 6. «Duris . . .partus»: loc. cit.,
sect. il, ed. cit., tomo 1, p. 374.
65
I02Ó L'APE INGEGNOSA
che lo stesso accada, in questi congiungimenti umani colle bestie,
che tra le fiere stesse, ancorché di diverso genere, pur che fra esse
vi sia qualche somiglianza ed analogia. Non è dubbio che l'Affrica
sia ferace di tali parti anfibi ; poiché, sicome altrove saviamente os-
servò lo stesso Plinio,1 in que' paesi ove le pioggie sono rare,
unendosi insieme ne* fiumi, ove tutti accorrono per estinguere la
lor sete, si mescolano insieme il liopardo colla lionessa, e così gli
altri animali terrestri, fra* quali sia analogia, e fecondono. Lo stesso
si osserva ne' volatili, che fra loro han qualche somiglianza, sicome
a punto arriva fra' cani e lupi, asini con giumente, cavalli con asine,
e da' promiscui congiungimenti di tori con giumente, e di cavalli
con vacche lo stesso accadere. Sono più autori, anche de5 moderni,
i quali rendono testimonianza che sovente gli scimioni mescolati
colle nostre donne l'han lasciate gravide e nati parti vitali; anche
de* rustici e pastori di greggi con capre e pecore dalle quali sono
nati parti semiferi. Il nostro Gio. Battista della Porta-4 rapporta
molti casi seguiti di simili parli; nel che veramente come d'un
punto molto importante dovrebbero le di loro relazioni commet-
tersi ad un più esatto e rigoroso esame, e per mezzo di più ed
accurate esperienze assicurarsi del vero. Che diremo di tutti
questi con que' selvaggi di sopra rammentati, dove gli riporremo:
nella classe degli uomini, ovvero de' bruti? Certamente che se si
farà paragone tra questi e que' nobili spiriti i quali colle invenzioni
di tante utili arti han sollevato l'uman genere e trattolo dalla vita
ferale e selvaggia, o pure con quo* sublimi ingegni di tanti egregi
e rinomati filosofi, si troverà essere maggior distanza fra loro, che
non è fra' medesimi colle volpi, cani, elefanti, ed altri industriosi
animali. Sicome intercede minor distanza tra questi con quo'
uomini selvaggi, che non è colle conche marine affisse a' scogli, a'
sassi indifferenti, o pure alle spogne ed ortiche marine, ed altri
viventi che gitta il mare a' lidi, de' quali, come s'è detto, ancor si
dubbita se debbano ascriversi a' sensitivi ovvero a* vegetabili.
Cotanto è difficile porre giusti confini fra tanti generi de' viven-
ti; e non minor difficoltà s'incontra di porgli fra questi più tosto
mostri d'uomini, con i perfetti, puri ed ingenui. Molta riflessione,
i. sicome . . . Plinio: ed. cit., tomo i, lib. viti, cap. xvi, scct xvit, p. 443.
2. Gio. Battista della Porta (1535-1615), scienziato e drammaturgo napo-
letano : cfr. Dei miracoli et maraviglisi effetti dalla natura prodotti libri
IV . . ., Torino 1582, lib. 11, cap. xxxin, pp. 85 sgg.
OSSERVAZIONE X 1027
molto accorgimento e laborioso ed esatto scrutinio ricerca que-
st'indagine, e sopra tutto lunga e reiterata esperienza, operose
pruove ed infiniti esperimenti, per venirne a capo. A ragione adun-
que e con molta sapienza S. Agostino nel cit. cap. 8 del libro 16
De civ. Dei1 scrisse esser cosa molto difficile e doversi in ciò cauta-
mente procedere, conchiudendo: «Quapropter ut istam quaestio-
nem pedetentim, cauteque concludam : aut illa quae talia de quibus-
dam gentibus scripta sunt, omnino nulla sunt; aut si sunt, homines
non sunt; aut ex Adam sunt, si homines sunt».
OSSERVAZIONE X
Che la religione sia propria e sola dell'uomo, la quale, quando
non sia da Dio rivelata, è sempre sottoposta a vari errori
ed inganni.
1. La vera religione non essere che la rivelata da Dio.
Chiunque fisamente riguarderà il proprio stato dell'uomo, la
sua fragilità e debolezza e che non sia che una miserabilissima parte
dell'ampio universo, formato non già per aver cognizione di tutte
le cose che in lui si contengono, ma proveduto d'intelletto sol
perché potesse soggettarsi la terra e quanto in lei si move, nutre e
cresce, facilmente comprenderà che l'uomo non può aver vera
religione, se non sia da Dio revelata; poiché se a noi sono ignote
fino le cose più vicine che ci circondano, delle quali dovremmo sa-
perne la sustanza, e non arriviamo a concepirne se non i modi,
l'apparenze e sol quanto a' nostri sensi esterni si offerisce: come
possiamo penetrare nella sommità de' cieli e sapere la divina natura
e come gli piaccia esser dagli uomini adorato ed in qual maniera
prestarsegli religioso culto, se non per alta e divina sua rivelazio-
ne ? Tutti i savi ed i più insigni filosofi della gentilità istessa in ciò
convennero, che la vera religione dee unicamente derivare da rive-
lazione divina e per ciò i più grandi e sapienti fondatori di regni e
1. De civ. Dei: da Plinio, ed. cit., p. 374, nota 19, donde è tratta la citazione
che segue («Laonde, per concludere la questione con precauzione e cau-
tela, dirò che tali cose, che sono state scritte di certe genti, non esistono
affatto, o, se esistono, non si tratta di uomini, e, se si tratta di uomini,
provengono da Adamo »)•
1028 L'APE INGEGNOSA
di republiche si studiarono far credere a* popoli clic quelle leggi
che stabilivano intorno alla religione erano state ad essi rivelate da'
sommi dii. Cosi, secondo rapportano Diodoro Siciliano e Strabone,
fecero Mneve presso gli Egizi e Licurgo presso i Lacedemoni, il
quale, sicome scrisse Giustino nel 3. libro, fìnse che l'avesse ap-
prese da Apolline; parimente Minos ogni nove anni una volta si
ritirava in certa spelonca, ed ivi fermandosi qualche tempo ne
usciva poi, e faceva credere al popolo di Creta che avea trattato
con Giove, dal quale avea ricevute le leggi da dover osservare in
quel regno, sicome rapporta Valerio Massimo, lib. 1, cap. 3: «Mi-
nos, » e* dice « Cretensium rex, nono quoque anno in quod[d]am
praealtum et vetusta religione consecratum specus secedere solebat
et in eo commoratus, tanquam a love, quo se ortum ferebat, tra-
ditas sibi leges praerogabat». Lo stesso fecero Solone presso gli
Ateniesi ; Zeleuco, Zamolci ed altri capi e direttori di popoli rozzi
ed incolti. Livio anche rapporta che Numa Pompilio usò co' Roma-
ni la stessa industria, dando a sentire alla credula multitudine
ch'egli avea notturni colloqui colla dea Egeria dalla quale appren-
deva le leggi, i riti e le religiose cerimonie, le quali a' dii piacessero
e fossero lor grate ed accette.1 Tanto era presso i savi dell'antichità
certo e costante che la religione dee da revelazione divina, non già
per naturai umano istinto, procedere e derivare.
Rimaneva solo all'uomo saggio ed accorto di esaminare e far
esatto scrutinio per conoscere e separare il vero dall'impostura:
quali uomini avessero veramente avuto commercio e conversazio-
ne co* dii, e quali se l'avesser finta per accorta politica, scorgendo
non esservi cosa più efficace di contenere la multitudine in discipli-
na che la forza della religione, affinché le loro leggi, avute per divi-
ne, fossero da' popoli con riverenza ricevute e con prontezza ubi-
dite. Gli antichi savi e que' medesimi scrittori che rapportano le
già riferite vantate rcvelazioni, conobbero che ciò fosse un sottile
artificio; e Livio apertamente scrisse che Numa ciò facesse per
1 . Tutti i savi . . . accette : l'intero brano è riportato quasi alla lettera
dall'Istoria del pontificato di Gregorio Magno, libro iv, cap, ultimo: cfr. qui,
p. 943 e le note ivi. Cfr. inoltre, per il riferimento a Diodoro su Licurgo,
Bibl. hist.y vii, xiv. Il tema dei legislatori è tipico nella cultura della «crisi
della coscienza europea». Zeleuco: Zaleuco, antichissimo legislatore greco
di Locri Epizefìri, autore della più antica legislazione scritta in greco,
risalente al VII secolo a. C. Zamolci'. Zamolxi, divinità 0 eroe degli antichi
Geti. La leggenda vuole che sia stato schiavo di Pitagora.
OSSERVAZIONE X 1020,
ingannare la credula multitudine, essendosi dalla gente savia ed
accorta ben compresa l'industriosa impostura. Erano gli antichi
savi persuasi che gli uomini non potevano avere alcun commercio
co* dii, la cui abitazione era ne' cieli, e quella degli uomini nella
terra, e che intercedevan fra di loro ampi spazi ed un'immensa
distanza. Ed è notabile ciò che si legge presso Daniele, e. 2, dove
que' savi 0 sian maghi della corte di Nabucodònosor re di Babilo-
nia, rispondendo tutto tremanti a quel pazzo re, che pretendeva
sapere da' medesimi non pur l'interpretazione, ma il sonno stesso
del quale s'era dimenticato, gli dissero che solo i dii potevano
saperlo, co' quali essi come uomini non ci aveano conversatione
alcuna: « Non est homo» dicevano «super terram, qui sermonem
tuum, rex, possit implere: sed neque regum quisquam magnus et
potens verbum huiusmodi sciscitatur ab omni ariolo et mago et
chaldeo. Sermo enim quem quaeris, rex, gravis est: nec reperietur
quisquam, qui indicet illum in conspectu regis : exceptis diis, quorum
non est cum hominibus conversatio ».* L'uomo per sé non puoi avere
commercio alcuno con Dio; ma dipende dalla sola divina bontà
se gli piaccia communicar egli coll'uomo, o per se stesso o per
mezzo delle altre sue creature. E la pruova più certa ed evidente
quando ciò siegua, non può l'uomo dedurla se non da questi due
principali fonti: da' miracoli evidenti, che superano e mutano il
naturai corso delle cose, ciò che da Dio solo può farsi, come l'unico
fabro della natura; e dalle profezie, che sono narrazioni di avveni-
menti futuri, sicome l'istoria è de' passati: cioché pure da Dio solo
può sperarsi, a cui è presente non meno il passato che il futuro.
Queste due marche qualificarono prima per vera la religione giu-
daica, e qualificano oggi per certa la cristiana-, poiché il commercio
ch'ebbe Iddio con gli antichi patriarchi, con Abramo, Isac, Gia-
cobbe, Mosè e con gli altri profeti fu autenticato e reso certo da
patenti e stupendi miracoli e da manifeste profezie avverate tutte
dagli avvenimenti seguiti doppo il corso di molti e molti anni. E
queste due marche maggiormente rilussero nella religione cristiana ;
poiché nel Vecchio Testamento Iddio communicò con gli Ebrei
per mezzo de' profeti; ma nel Nuovo per se stesso, mandando in
terra l'unico suo figliuolo, vero Dio, ad assumer carne umana, con
farlo mediatore tra il cielo e la terra, e rivelare a gli uomini quella
1. Ed è notabile . . . conversatio \ cfr. Dan., 2, i-n.
IO30 L'APE INGEGNOSA
religione che doveano tenere per far acquisto del regno celeste. La
qual missione fu resa manifesta e confermata da maggiori e più
stupendi miracoli, che non si leggono nella religione ebraica, la
quale poche resurezioni di morti può vantare; ma la cristiana ne
conta moltissime; sicome le profezie avverate che si leggono nel
Nuovo Testamento sono più chiare e manifeste di quelle degli
Ebrei. E da queste due note che sono le più efficaci e distinte si
traggono le pruove più forti ed evidenti della divinità de' libri
non meno del Nuovo che dell'Antico Testamento, le quali al con-
fronto della gentile la dimostrano vana, falsa e buggiarda.
La gentile vantava pure miracoli e profezie. Vantava molti
miracoli, de' quali sono piene le istorie profane, spezialmente le
greche, e le latine ancora, come è manifesto presso Cicerone, Livio,
Valerio Massimo, Tacito, e di chi no? Anzi i Greci si avanzarono
fino di far risuscitare i morti a* loro dii. Vantava anche profezie,
oracoli, Pizie ed indovini; ma al confronto colla giudaica e cristiana
svaniscono e sono i miracoli convinti per favolosi, fantastichi, ed
illusioni; e le profezie per sottili artifici, inganni e furberie de' loro
indovini. Egli è vero che la strada che presero gli antichi Padri e
la maniera che tennero in confutar i miracoli e le profezie de*
gentili non è molto sicura e propria; poich'essi per uscir d'impaccio
ricorsero all'unica àncora de' prestigi di demòni, a' quali diedero
quel potere che non hanno, cioè d'immutar il corso della natura,
dove consiste il vero miracolo ch'è solo di Dio che ne fu il fabro,
non già de' demòni e degli angeli stessi ; e di sapere gli avvenimenti
futuri, ciocché è pure al solo Dio riserbato. A ciò si aggiunga che i
savi gentili filosofi in tutto l'ampio universo non ci ravvisavano de-
mòni, e si burlavano de' geni, spettri, spiriti ed ombre, che le
lasciavano alla credulità del volgo semplice ed ignorante e a gli
ardiù e favolosi poeti; ed in ciò erano di conforme sentimento co'
sadducei, i quali, come si è detto, negavano i demòni, gli angeli
e qualunque spirito. Altri, fra quali Plinio il Vecchio, immaginan-
dosi la natura essere il solo nume, e facendola provida, sapiente
ed onnipotente nelle sue sorprendenti e maravigliose opere, non ci
fa avere parte alcuna a' demòni, che non li riconosce affatto nel-
l'universalità del mondo: ascrivendo fino il profetare alla natura,
e che intanto le Pizie e gli altri indovini davano i loro oracoli e
risposte nelle spelonghc, grotte ed altri certi luoghi sotterranei,
perché da quelli uscivano esalazioni tali che gli rendevan abili a
OSSERVAZIONE X 103 I
vaticinare, né ci chiamavano i demòni o loro dii; e Plinio n'era
così persuaso che non ebbe difficoltà di dire nel lib. 2, cap. 93:
« Alibi fatidici specus, quorum exalatione temulenti futura praeci-
nunt, ut Delphis, nobilissimo oraculo. Quibus in rebus quid possit
aliud causae afferre mortalium quispiam, quam diffusae per omne
naturae subinde aliter atque aliter numen erumpens?».1 Donde
nacque la vana credenza di molti, in tempi più culti e dotti della
romana republica, quando la filosofìa gli fece aprir gli occhi in mol-
te cose, che vedendo cessare in Delfo ed altrove gli oracoli, ed
ammutire le Pizie, credettero che ciò fosse avvenuto perché, sicome
vediamo che colla lunghezza del tempo si fanno gran mutazioni
nelle cose naturali, alcune terre non essendo così feconde come
prima, seccarsi i fonti che prima erano abbondanti e cose simili:
così esser avvenuto in quelli spechi e grotte, dove mancando per
la lunghezza del tempo quelle esalazioni, non potevano le Pizie e
gl'indovini render più oracoli e risposte. Cicerone nel lib. 1 De
divinatione, introducendo Quinto suo fratello a parlare del ces-
samento dell'oracolo di Delfo, fa che apporti questa cagione, di-
cendo : « Potest autem vis Illa terrae, quae mentem Pythiae divino
afflatu concitabat, evanuisse vetustate, ut quosdam exaruisse
amnes, aut in alium cursum contortos et deflexos videmus».* La
medesima cagione fa Plutarco nel dialogo De defectu oraculorum
rapportare a Lampridio, uno degl'interlocutori di quel dialogo.3
Ma i gravi e seri filosofi, fra' quali certamente fu Cicerone, deri-
devano cagione sì puerile ed inetta, della quale si burla lo stesso
Cicerone nel lib. 2 De diviniti come se gli oracoli avessero la stessa
proprietà del vino, de' salsamenti o di altra simil cosa che col tempo
svanisce e perde il suo vigore: «Evanuisse aiunt» e' dice «vetustate
vim loci eius, unde anhelitus ille terrae ficret, quo Pythia mente
incitata oracula ederet. De vino, aut salsamento putes loqui, quae
1. e Plinio . . . erumpens?: cfr. Nat. hist., ed. cit., tomo 1, loc. cit., sect.
xcv, p. 116. 2. Cicerone . . . videmus: De dw., 1, xrx, 38 («Quella forza
della terra, che con alito divino eccitava la mente della Pizia, può d'altron-
de essere svanita per invecchiamento, allo stesso modo che vediamo pro-
sciugarsi certi fiumi o piegare e volgere in altro corso»). La citazione di
Cicerone è tratta da Plinio, loc. cit., p. 116, nota 2, e da G. S. Menochio,
Stuore, ed. cit., tomo ili, cent, x, cap. xc, Della causa del cessare gli oracoli
de gli antichi, p. 322. 3. La medesima . . . dialogo: uno dei personaggi del
dialogo di Plutarco è Lampna. La citazione è tratta dal Menochio, loc. cit.,
come ancora la seguente di Cicerone, De div., 11, lvii, 117.
lO^Z L'APE INGEGNOSA
evancscunt vetustate». Oltre le fonti, se mancano in un luogo,
sorgono in un altro, ma per più secoli si e veduto che in tutta la
superficie della terra non si sono scoverte più simili antri e spelon-
che. In verità gli oracoli non è che cessarono, perche mai vi furo-
no; e non erano se non « opinionum commenta quae dies delet».1
Donde si convince che fin'a' tempi di Cicerone, anzi molto prima,
cominciando a cessare gli oracoli, fu, se ben pia, vana quella ca-
gione che i Padri antichi assignarono, essere cessati per l'advento
del nostro Redentore: pie magis, quam vere. Non cessarono tutti
in un colpo, ma in vari tempi ed in vari luoghi, secondo più tosto
o più tardi gli uomini si resero meno creduli.
Que' filosofi fantastici e visionari, i quali per lo più erano i
platonici, che nell'universalità della natura ammettevano i demòni
ed i geni, ne assignavano un'altra graziosa cagione, dicendo che i
geni, o siano demòni, ancorché di vita lunghissima, che se la fin-
gevano durare fino a novemila settecento e venti anni, con tutto
ciò erano pur mortali; del quai sentimento fu Cleombroto, uno
degli interlocutori di quel dialogo di Plutarco, il quale narra una
fola della morte di Pan accaduta a' tempi deirimp. Tiberio,3 con
tante altre scipitezze, che presso Plutarco si leggono. Ma i seri e
profondi filosofi ed i più gravi scrittori, ancorché gentili, tutte
queste fole le lasciavano al volgo, da raccontarsi
stando al foco a filar le vecchiarelle^
Questi non si andavano lambiccando il cervello in andar cercan-
do cagioni del ecssamento degli oracoli, perché tennero per fermo
che nel mondo non mai vi fossero stati oracoli, e che mimo potesse
giammai vantarsi di scuoprirc il futuro; che le Pitie e gl'indovini
furono tanti impostori, i quali con lunghi giri di parole tutte invi-
luppate ed oscure ingannavano la credula moltitudine cotanto
curiosa del futuro e davano le risposte in maniera intricata affinché
i. «.opinionum . . . delet»: delet e nostra congettura. Nell'autografo la pa-
rola si legge solo parzialmente («invenzioni di pregiudizi che il tempo
cancella»). La frase e comunque di Cicerone: cfr. De fiat, dcor., n, n, 5:
« Opinionum enim commenta delet dies, naturac iudicia conia rmat ». 2. del
guai sentimento . . . Tiberio: Plutarco, De defectu oraculorum, 17. Cleom-
broto è con Lampria un altro personaggio del dialogo. La citazione è tratta
dal Menochio, loc. cit, p. 322. 3. È probabile si tratti del verso di un
petrarchista, se non di un rimaneggiamento giannoniano, Cfr, Petrarca,
Mime, xxxni, 5: «levata era a filar la vecchiarella ».
OSSERVAZIONE X IO33
seguito l'evento potessero secondo le loro interpretazioni adattarlo
all'oracolo, poiché prima era impossibile intenderne ciò che si
volesse dire. Lo stesso Erodoto, di greca istoria padre, ancorché
s'ingegnasse di tesserla secondo il genio de' fantastici Greci, con
tutto ciò non si potè contenere di scoprire la furberia delle Pitie,
le quali sovente prezzolate vendevano le risposte secondo che si
accorgevano dover essere più grate a' compratori;1 e Cicerone nel
lib. 2 De divinai, pur le deride; e Livio gravissimo scrittore, nel-
l'incomparabile sua istoria scuopre sovente l'imposture e gli ac-
corti modi degl'indovini, che tenevano per ingannar que' sciocchi
e creduli che ricercavano le lor risposte, ed il fine principale di tutti
gli oracoli era di doversi mandare al tempio un ricco dono, onde
que' santuari si resero cotanto ricchi e doviziosi. Noi nella prima
parte de' Discorsi sopra gli Annali di Livio abbiam lungamente
ragionato della lor vanità e furberia, a' quali rimettiamo il lettore,
onde la più sicura maniera di convincer la vanità degli oracoli è
questa, di prender le arme che riescono più vigorose e forti dagli
stessi autori gentili che furon riputati i più seri e dotti, i quali
l'ebbero per vani e fantastici senza ricorrere a' demòni, che non
hanno questa virtù di predire il futuro e da' filosofi seri e profondi
erano negati che fossero nell'ampio universo. Alcuni de' nostri
Padri antichi, spezialmente Lattanzio Firmiano nelle sue Divine
inst.2, e S. Agostino anche ne' suoi libri della Città di Dio,3 se
bene questi con più moderazione, si valsero delle Pizie ed oracoli,
credendo per li medesimi convincere i gentili, deducendone pro-
fezie che adattavano al Verbo come il vero messia, il quale fin
dalle Sibille fosse stato vaticinato; ma altri Padri più gravi e seri
rifiutarono pruove si deboli ed indegne d'un sincero e dotto cristia-
no, che non ha bisogno di appigliarsi a queste tele di ragni. Del ri-
manente la vera cagione perché in que' secoli più culti ed illumi-
nati cessassero gli oracoli fu che, presso i Romani, ancorché tardi,
penetrò in fine una solida filosofia, la quale gli fece ravveduti e più
accorti ed idonei a capirne gl'inganni e le frodi. Quanto più s'inol-
1. Lo stesso . . . compratori: cfr. Erodoto, v, 63 e 90; vi, 66 e 75. 2. Divi-
narum institutionum, lib. 1, De falsa religione deorum, cap. vi, De divinis
testimonio et de Sìbyllis et earum carminibus, in Mignc, P. L., vi, colL 138
sgg- 3- De civ. Dei, lib. xviu, cap. xxm, De Sibylla Èrythraea, quae inter
alias Sibyllas cognoscitur de Chnsto evidentia multa cecinìsse7 in Migne,
P. L., xli, coli. 379-81.
1034 L'APE INGEGNOSA
travano nella conoscenza d'una solida filosofia, tanto meno oracoli
si ascoltavano; onde i scrittori del secolo di Augusto, di Tiberio,
di Traiano e degli altri seguenti imperadori fino a Costantino M.,
sempre più ne ammiravano il cessamento e n'andavano fantasti-
cando la cagione. Strabone nel hb. 9 della sua Geografia dice:
«Hodie profecto in summa mendicitate delphicum oraculum est»;1
e Giovenale nella satira 6 afferma a' suoi tempi esser cessata affat-
to : «... Cessant oracula Delphis ».2 E Porfirio in tutti i luoghi, non
pur in Delfo, le Pizie ed Apollo essere spante, come dice nel libro
De responsis:
Ablata est Pythìi vox hand revocabilìs itili
temporibus longìs; etenim iam cessit Apollo:
clavibus occlusus silet.3
Ed è da notare che tutti que' luoghi della Grecia e dell'Asia,
ove furono i più famosi tempii o spelonghe, dove credeasi Apollo
dar gli oracoli a' creduli suoi devoti, sono da lungo tempo passati
sotto gl'imperadori ottomani, nel cui imperio dominando la reli-
gione maomettana, aversa e nimica della gentile, non vi e rimaso
alcun vestigio di que' si venerati e celebri santuari e si ò affatto
perduta e cancellata ogni lor memoria. Tanto è vero quel savio
detto di Cicerone, che tutto ciò che deriva dalle opinioni degli
uomini, il tempo finalmente lo abbolisce e cancella; ma i giudici
della natura ed il suo fermo e costante tenore ò sempre lo stesso
e dal tempo maggiormente sono confermati.4 Una solida e vera
filosofia fa sparire tutte queste larve. Chiarissimo documento è
quello che l'istoria romana, spezialmente quella di Livio, ci som-
ministra del costume che gli antichi Romani aveano di denunciare
ogni anno i prodigi ed i portenti e riferirgli ne' loro annali, creden-
dogli segni d'ira de' loro dii, e per ciò erano tutti solleciti di pro-
curarne l'espiazione con sacrifici, supplicazioni ed altri loro religio-
i. Strabone . . . est: cfr. Geogr., ix, in, 8 («Senza dubbio l'oracolo di Delfi
è oggi nella più grande miseria»). Ancora dal Menochio, loc. cìt, p. 321,
come anche le citazioni che seguono di Giovenale e Porfirio. 2. Giovena-
le .. . Delphis: cfr. Sat., vi, 555: «... Delphis oracula cessant». 3. Que-
sti versi di Porfirio di Tiro (vedi la nota 1 a p. 453), citati, come s'è detto,
dal Menochio, appartengono a un frammento, conservato da Eusebio di
Cesarea nella Praeparatio evangelica, v, 16, 1, dell'opera intitolata De philo-
sophia ex oraculis haurienda (lib. n, vv. 296-9 del testo greco, ed. WoMI
1856). 4. Tanto è vero . . . confermati: cfr. la nota 1 a p, 1032.
OSSERVAZIONE X IO35
si riti, affinché placati gli scampassero da' mali che l'erano per que'
portenti, secondo il lor credere, minacciati. Ma dapoi nel dotto
secolo di Augusto, resi accorti che que' portenti non erano ch'ef-
fetti naturali e che la fisica ed una esatta conoscenza delle meteore e
delle cose naturali poteva ben assignarne le cagioni, non le ripu-
tarono più segni d'ira celeste, onde si tolse il costume di denun-
ciargli e di notargli ne' loro annali e procurarne più espiazione con
sacrifici e supplicazioni. Tanto vero che Livio, ne' suoi primi libri,
seguendo gli antichi annali che li riportavano, non tralascia di ri-
ferirgli anche ne' suoi, di che ne fu ripreso da' suoi amici, dicendo-
gli che scrivendo egli la sua istoria negli illuminati tempi di Au-
gusto, ne' quali i prodigi non si imputavano più a cose di religione,
ma a cagioni naturali, non dovea inserirgli ne' suoi. Egli se ne scusa
dicendo al lib. 3 della v deca che se gli antichi annali gli rapporta-
vano, non avea riputato improprio che se que' « prudentissimi viri
publice suscipienda censuerint, ea prò dignis habere, quae in meos
annales referam».1 Ed in effetto negli Annali di Tacito, che pos-
siamo avergli come una continuazione di quelli di Livio, non si
rapportano prodigi e portenti se non rarissime volte, e questo
savio scrittore que' pochi non l'ascrive ad ira de' dii, ma a cagioni
fisiche e naturali, sicome prima di lui fecero Seneca, Plinio il
Vecchio e tutti gli altri seri e gravi romani scrittori. Così pure av-
venne del cessamento degli oracoli, non già perché nelle spelonghe
mancarono le profetiche esalazioni, né perché l'oracoli fossero
mortali, ma perché una solida filosofia tolse le tenebre ed il fascino
dalle menti umane e scoprì gl'inganni e le frodi al volgo credulo
ed ignaro; donde si convince che la religione gentile, per confes-
sione degli stessi profani scrittori, i più dotti e sublimi, non ebbe
vera profezia.
Lo stesso da' medesimi scrittori si convince per ciò che riguarda
i loro vantati miracoli, senza ricorrere a' demòni: essi deridono la
semplicità e credulità della moltitudine, e Livio sovente li qualifica
e gli chiama «aurium et oculorum ludibria»,2 sicome fa narrando
il miracolo di quella statua di Giunone, che si credette avere
parlato a coloro i quali « iuvenili ioco » l'avean dimandato : « Visne
Romam ire, Iuno?» e l'avesse risposto «velie»;3 deridendo anche
x. Egli se ne scusa . . . referam: vedi qui, p. 753 e la nota 2 ivi. 2. « au-
rium . . . ludibria»: cfr. la nota 3 a p. 767. 3. sicome fa. . . velie: Livio,
V, 22, 5-6.
IO36 L'APE INGEGNOSA
il miracolo dell'attratto Attimo, che se ne tornò a casa co' suoi
piedi,1 e simili altri, a' quali non dà credenza alcuna, e sempre gli
riferisce con le consuete sue formule: aiunt, ferunt, traditum me-
moriae, fama est e simili, che dinotano i fatti non essere appoggiati
che ad una incerta e vana tradizione. E quanti se ne contano nelle
altre istorie ed autori, come Valerio Massimo ed altri e quelli di
Vespasiano presso Tacito2 e tanti altri: tutti per confessione de*
scrittori stessi profani, e per quanto lo stesso Cicerone ne scrisse,
possono convincersi per illusioni, imposture e soverchia credulità
degli uomini, li quali naturalmente sono portati al portentoso e sor-
prendente. Di che anche nella suddetta 1 parte de' Discorsi sopragli
Annali di Livio fu da noi ampiamente trattato, convincendoli per
vani, favolosi e fantastici senza ricorrere a' demòni.
Ma l'istoria greca maggiormente convince quanto vano ed in-
sufficiente sia un tal ricorso, poiché i greci scrittori s'avanzarono
fino a credere che i loro dii in più occasioni aveano resuscitati
morti. Che i miracoli del loro dio Esculapio non si restavano solo
a guarir gl'infermi; ma, morti, anche di resuscitargli. L'allegorico
parlare di Platone nel libro x della sua Repubblica^ l'interpretavano
secondo il senso vero e literale e credevano che veramente Platone
avesse risuscitato Hicronc Pamfilo, di cui tratta Macrobio nel 1
libro ;4 ma non gik lo credette Cicerone.5 1 libri de' Greci sono pieni
di queste favole. Plutarco nel lib. 2 De anima riferisce che un tal
Enario, ancorché morto, fu da Dite, o sia Plutone, risuscitato, il
quale tornato in vita raccontava che giunta la sua anima ne' luoghi
infernali, riconosciuta da Plutone, fu tosto rimandata ad informar
di nuovo il suo corpo. Altri simili risorgimenti de* favolosi Greci
sono rapportati da Plinio, lib. 7, cap. 52,* sicome di Ermotino
Clazomenio, di Gnosio e di Aristeo, della cui anima si narrava che,
in figura d'un corvo, usciva di sua bocca e vi faceva dapoi ritomo.
Or qui che vagliono i demòni ? A Lattanzio istesso ed a niuno de'
Padri antichi passò per pensiero che i demòni potessero risuscitare
i morti; ed i Romani questo potere lo negarono anche a' loro dii:
1. il miracolo . . .piedi; Livio, n, 36, 6-8. z. quelli di Vespasiano presso
Tacito: eh. Hist.t rv, 81. 3. Platone, De rep.} x, x, 614 b. 4. di cui trat-
ta. . .libro: Macrobio, Comm. in somnium Scipionist r, r, 0. 5. ma non
già . . . Cicerone: cfr. De re pubi., vi, in, 4 (da Agostino, De civ. Dei, xxn,
xxvin). 6. lib. 7, cap. 321 sect. lui, ed. cit., tomo 1, p. 407, da cui sono
tratti gli esempi citati di Ermotino, Gnosio e Aristeo.
OSSERVAZIONE X IO37
«nec mortuos, » dice Plinio, lib. 2, cap. 7 «aeternitate donare, aut
revocare defunctos w.1 S. Agostino nel lib. 22, cap. 18, della Città
di Dio non trova altro scampo che di negare i fatti e riputargli per
favolosi.2 E cosi pure si troverà de' vantati miracoli de' Romani, li
quali sono derisi dagli stessi savi ed accorti romani scrittori, qua-
lificandogli per illusioni e fole.
I nostri teologi han fatto meravigliosi progressi ed han dimostra-
to fino all'ultima evidenza V antichità ed autenticità de' nostri libri
sacri, ma intorno a provare la loro divinità non si è travagliato abba-
stanza e quanto meritava un punto sì principale ed importante. La
loro divinità non se non da queste due marche può dimostrarsi:
miracoli e profezie: facendo confronto con quelli della religione
gentile e manifestando la gran differenza tra gli uni e gl'altri. Pri-
mieramente i profeti dell'antica legge e gli appostoli nella nuova,
niente così ne' miracoli come nelle profezie a se stessi attribuivano,
alla loro arte, forze o prodigi, ma tutto riportavano a divino potere,
altamente dichiarandosi che non erano se non meri esecutori ed
istrumenti : le consuete lor forinole, spezialmente di Mosè, in ado-
perar miracoli ed in profetare queste erano: Haec dicit Dominus,
Vcrbum Domini e simili; e Daniele, il quale non pur interpretò,
ma ridusse in memoria il sogno del quale erasi dimenticato quel
re, ammirando questi il portento, gli disse che non egli, ma Iddio
gliel'avea rivelato, e cessasse per ciò di maravigliarsene.3 Per 11
le profezie non erano inviluppate, ambigue ed oscure, ma alcune
così chiare e distinte che veramente sembravano istorie delle cose
future; così furono quelle di Balaam intorno al vaticinio sopra
Saul ed il re Agag, verificato doppo 400 anni, Numer., cap. 24.
Mirabili ancora sono quelle profezie, che si raccontan nel cap. 13
del lib. 3 de' Re, verificate puntualmente doppo 361 anni, sicome
si ha nel lib. 4 de' Re, cap. 23,4 e àzìY Antichità giudaiche di FI.
Giuseppe, lib. io, cap. 5. Quelle del profeta Isaia sono chiaris-
sime, ond'è che S. Girolamo lo chiama istorico delle cose future,
x. <nntìc fnortuos . . . defunctos»: Plinio, ed. cit., tomo 1, lib. 11, cap. vii, sect.
v, pp. 73-4- Ma si legga «mortales» in luogo di mortuos («non donano
l'immortalità ai mortali, né resuscitano i defunti »). 2. S. Agostino . . .
favolosi: cfr. De civ. Dei, hb. xxn, cap. xxvin (e non 18), Quid ad veram
resurreetwnis fidem vel Plato, vel Labeo, vel etiam Varrò con/erre sibi pò-
tuerint, si opiniones eorum in unam sententiam convenissent, in Migne, P. L.,
xu, coli. 795-6. 3. Daniele . . . maravigliarsene: cfr. Dan., 2, 14 sgg.
4. sicome . . . cap. 23: IV Reg., 23, 4 sgg.
IO38 L'APE INGEGNOSA
spezialmente quando nel cap, 45 predisse il regno di Ciro re di
Persia,1 il qual doppo 200 anni era per nascere, esprimendosi il suo
nome, la sua potenza, guerre, vittorie, spoglie, ricchezze e bene-
ficenza verso la nazione ebrea; di che lo stesso FI. Giuseppe ne
racconta gli avvenimenti secondo che furono predetti nel cap. 1 del
lib. xi delle sue Antichità, e di tante altre simili delle quali po-
trebbe tessersi un lungo catalogo. Ma per pruova della divinità
di questi libri, bastano una o due; né vi era bisogno di affastel-
larne tante con ricorrere anche all'oscure ed inviluppate. Uno o due
di questi saggi soverchiano per dimostrare il vero e reale commer-
cio che Iddio ebbe con que' profeti. Parimente in dimostrazione
dell'altra marca, onde si pruovano per divini, bastano que* por-
tentosi, ammirandi e stupendi miracoli adoperati da Mosè e dagli
altri insigni profeti, i quali niente a sé ascrivendo, tutto riporta-
vano alla divina onnipotenza, dalla quale sola potevano adoperarsi.
Intorno alla pruova della divinità de' libri del Nuovo Testa-
mento, bastano que' chiari, potenti ed incontrovertibili che si leg-
gono ne' quattro Evangeli e negli Atti apostolici, e spezialmente
le molte resurezioni de' morti e quella stupenda d'un quatridua-
no;* e ciò che riguarda la profezia: quali più chiare e manifeste
potranno mostrarsi se non quelle del Redentore, il qual predisse
la sua morte, e morte di croce, che dovea tosto soffrire, che dovea
esser tradito da Giuda; predisse dopo tre giorni il suo risorgimen-
to; predisse le persecuzioni che doveano soffrire i suoi appostoli e
discepoli; l'eccidio di Gerusalemme e del tempio; e sopra tutto
mirabile è quella profezia che il suo Evangelio dovea predicarsi
per l'universo mondo ; e che per ciò quel fatto della Madalena, la
quale rotto il vaso di alabastro effuse l'unguento sopra il di lui capo,
accaduto in Betania, picciolo castello della Giudea, tra l'anguste
pareti della casa d'un leproso, dovea rendersi noto a tutto il mon-
do e raccontarsi in sua memoria : « ubicumque praedicatum fuerit
Evangelium istud in universo mundo, et quod fecit hacc narra-
bitur in memoriam eius», Marc, 14, 19.3 Vaticinio ed impresa
che a que' tempi secondo le circostanze e situazione delle cose,
quando il mondo era tutto invaso di gentilità, dovea sembrare non
che dura e difficile, ma anche impossibile ; e pure tutto abbiam ve-
duto avverato.
1. spezialmente . . . Persia: cfr. Isai., 45, 1-4. 2. quatriduano: di quattro
giorni. 3. Marc, 14, Jp: rectius, 14, 9.
OSSERVAZIONE X IO39
E qual altra più chiara e patente possiam noi desiderare, se non
quella proferita dalla sua santissima madre Maria? registrata da
S. Luca nel suo Evangelio, 1, 48, la quale se ben si considera dovrà
sembrarci pur alta e sorprendente, poiché in quello stato di cose
nel quale era, umile e basso, una povera donna vaticinò di se stessa
che il Signore, avendo riguardato la sua umiltà, da ciò tutte le
nazioni del mondo l'avrebbero celebrata per beata: «ecce enim
ex hoc beatam me dicent omnes generationes ». Si riduchi ciascuno
a memoria lo stato nel quale era allora questa povera donzella sposa
d'un fabro, e quello nel quale ora veggiamo di essersegli per tutto
il mondo eretti tempii ed altari e venerarsi come regina del cielo
e della terra: e conoscerà se una tal predizione poteva derivare se
non da spirito divino e celeste, a cui le cose future non meno che le
passate sono vicine e presenti.
Queste sono le marche che provano la divinità de' nostri sacri
libri e che ci assicurono veramente Dio avere communicato con
gli uomini per se stesso per mezzo del suo figliuolo, vero Dio e suo
mediatore; onde la religione venne a noi rivelata per un canale il
più limpido e puro che possa mai desiderarsi. Quindi a ragione
S. Agostino nel libro io, cap. 7 et 8, della Città di Dio, potè dire:
«divinam scripturam e caelo descendisse; nam huic scripturae,
huic legi, talibus praeceptis tanta sunt attestata miracula, ut de
eius divinitate satis constet».1 Provati adunque per ta' mezzi esser
divini, assicurati per ciò della divina revelazione, importerà poco
che non arriviamo a comprendere gli alti ed imperscrutabili misteri
che racchiudono. Né l'uomo dee avere questa presunzione di sa-
perne il guare ed il quomodo. Chi è l'uomo se non una miserabile
parte della terra, il quale, come si è detto, non è stato da Dio
formato per comprendere quanto egli possa, quanto in sé rac-
chiuda l'ampio universo e le nature delle cose da lui create. Ap-
pena con tanti sforzi abbiamo potuto elevare la nostra mente a
concepire due sole idee, cioè dell'estensione e della cogitazione;2 del
1. S. Agostino . . . constet: la citazione, ad sensum, nel cap. vn, m Migne,
P. L., xli, col. 285 («La Divina Scrittura è scesa dal cielo; infatti mira-
coli così grandi comprovano questa scrittura, questa legge e questi precetti
da render sufficientemente certi della sua divinità »)• 2. estensione . . . co-
gitazione*, il Giannone nel Triregno aveva polemizzato con il dualismo car-
tesiano. In carcere, dopo l'abiura, accetta i termini di questo discorso per
giustificare la separazione dell'anima dal corpo, ma lo circonda di un note-
vole scetticismo, per cui resta sostanzialmente fedele alla sua concezione
monistica.
IO40 L'APE INGEGNOSA
corpo e della mente ì e di questa ancor si va a tentoni ed al buio.
Se ignoriamo noi stessi le nature degli ogetti che ci sono alla mano
e le cose più basse che ci circondono, stentiamo ad intendere la
gravità ne' corpi, i colori nelle cose, il senso negli animali, il lume,
il tempo, il moto istesso e tanti altri effetti che come familiari do-
vrebbero essere a noi notissimi, qual presunzione sarà d'indagare
le intricate vie del Signore, sormontare neir altezze de' cieli e pe-
netrare negli abissi de' divini voleri? Dee in ciò a noi bastare la
divina revelazione perché con ragione sottoponiamo il nostro in-
telletto in ossequio della fede alla quale siamo costretti renderci
per impulso della ragione stessa, ed averla assai più certa che qua-
lunque altra matematica dimostrazione, poiché in queste ci pos-
siamo ingannare, ma Iddio ne può egli ingannarsi, né per la sua
infinita bontà può ingannare a gli altri. Quindi mal argomentava
Celso1 contro i cristiani, imputandogli di troppa credulità, sup-
ponendo che senza ragione credessero, e che bastava loro il cre-
dere, perché la sola fede gli rendeva salvi. Quindi Galeno fu in
gravissimo errore, quando nel libro suddetto delle differenze de*
polsi, scrisse ch'egli rifiutava la scuola di Mosè e di Cristo, per-
ché né l'una né l'altra era roborata da alcuna dimostrazione.2 Quan-
do ì fedeli erano assicurati per tanti miracoli ed avverate profe-
zie della divina revelazione, quando per ciò eransi resi certi della
divinità de* nostri sacri libri, non imprudentemente credevano, né
per leggerezza o fanatismo, né senza fondamento e chiare dimo-
strazioni, ma avean fortissime ragioni di credere; anzi il non cre-
dere sarebbe stata lor demenzia e rendergli privi di ogni umano
discorso, giacché ogni buon senso ed ogni diritto raziocinio ci
obbliga e costringe a credere più ad un Dio verace, onnipotente e
sapiente, che agli uomini sottoposti a mille errori ed inganni.
Da quanto fin ora si è detto ben si comprende quanto gravoso
sia il peso de' nostri teologi e quanto spinosa, difficile e travagliosa
sia la cura de' medesimi di separare le vere revclazioni dalle false e
fantastiche; spezialmente quando si riferiscono dalle donne, na-
turalmente credule e più soggette ad esser illuse. Il P. Mcnochio
1. Celso: filosofo platonico del II secolo d. C. Scrisse contro i cristiani ed
è soprattutto noto per il libro polemico di Origene, Centra Celsum. Per
ciò che segue cfr. appunto quest'opera, 1, 9, in Migne, P. G., xi, col. 671.
2. Quindi Galeno . . . dimostrazione: cfr. Corpus medicorum graecorum, Lip-
siae 1821-1833, Vili, De pulsuj pp. 579 sgg. -roborata: corroborata.
OSSERVAZIONE X 1041
gesuita saggiamente avverte nella centuria x, cap. 87 ed 88,1 quanto
sia difficilissimo discerner le vere dalle false revelazioni, e che con-
venga a' teologi con gran prudenza, esattezza e riserba esaminarle ;
adduccndo per pruova di ciò quel che accadde in Francia per la
famosa Nicola di Rems,* la quale per le sue illusioni avea tratta
quasi tutta la Francia a dargli fede; e nel cap. 1003 della stessa
centuria narra un simil caso di Marta Brosseria, pur francese, e
l'industria che il P. Luigi de Guzman della sua Compagnia usò
con un'altra illusa, alla quale dimandò se in quelle sue visioni gli
era mai apparso lo spirito tropologico, ed avendogli risposto di no,
aggiunse il P. che infìno che non vedeva questo spirito era in grado
molto basso di santità. Tornò la donna il giorno seguente dal padre
e disse che l'avea veduto; ed interrogata di che figura fosse, gli
rispose l'illusa e dissegli infiniti spropositi e sciocchezze. Mille di
consimili essempi potrebbero addursi; ma ciò basti per quanto
appartiene al nostro assunto che l'aver l'uomo con Dio commercio
è cosa pur troppo rara e difficile, poiché dal solo suo divin volere
ciò dipende, non da alcun nostro merito o industria; e per assicu-
rarcene vi bisognano pruove ed esperienze molto chiare ed evi-
denti, oltre d'un finissimo accorgimento e consumata prudenza.
A ciò si aggiunga la fecondità della nostra immaginazione e quanto
strani e portentosi siano gli effetti d'un'alterata fantasia. Nella mia
lunga dimora nell'imperial corte di Vienna fui condotto da alcuni
amici a vedere il sacro tesoro dell'imperiai palazzo, dove si conser-
vano molte reliquie e preziose memorie appartenenti a cose sacre e
religiose : fra le altre il custode mi mostrò un crocifisso, dicendomi
che col medesimo sovente l'imp. Ferdinando II avea parlato. Non
potei contenermi di rispondergli che io non avea alcuna ripugnan-
za di credere che Ferdinando gli parlasse: la mia difficoltà era se
quel crocifisso gli avesse risposto. Pure que' giovani che da Vei
portavano in Roma la statua di Giunone gli domandarono, alcuni
gravati da religione, altri, come dice Livio, «iuvenili ioco», se
1. Il P. Menochio . . . 8? ed 88: cfr. Stuore cit., tomo ni, cent, x, cap.
LXXXVir, Che non si deve facilmente dar fede a visioni e rivelationi, massime
di donne; con un notabile esempio a questo proposito , pp. 316 sgg., e cap.
LXXXVin, Che non si deve facilmente dar fede a rivelationi e visioni partico-
larmente di donne; e vi si riferisce urChistoria molto notabile a questo proposito,
pp. 317 sgg. %. adducendo . . . Rems: cfr. ibid.t pp. 318-9, la storia di Ni-
cola di Rcmis (o Rcms). 3. nel cap. zoo: intitolato Historia notabile d'una
spiritata finta, pp. 337 sgg.
66
IO42 L'APE INGEGNOSA
volontieri andava a Roma, e secondo l'alterata lor fantasia, chi disse
che la dea avea mosso il capo accennando di sì; altri, tirando la
cosa più innanzi, affermarono che aveano inteso anche la sua voce:
«volo»; e pure, secondo lo stesso Livio, non erano che «ludibria
aurium et oculorum». Altrove della fantasia ci sarà data occasione
di trattare in un'osservazione a parte, quando esami naremo la
forza dell'umana imaginazione.1 Noi intanto proseguendo il nostro
istituto passaremo ad esaminare le altre propensioni ed affetti
umani, che si appartengono unicamente all'uomo, de' quali i bruti
sono affatto privi.
OSSERVAZIONE XII2
II riso, il pianto, il sermone, la sagacità, industria e l'accorgimen-
to non essere così propri dell'uomo, sicché i bruti non ne abbiano
qualche immagine, ancorché languida, debole ed imperfetta.
Il P. Menochio, nelle sue Stuore, alla cent, vii, cap. 39,3 si stu-
dia come scolastico gesuita di difendere al meglio che può la de-
finizione4 delle scuole dell'uomo, le quali per separarlo da' bruti,
oltre il definirlo essere un animale superiore, vi aggiungono per
nota distintiva anche la risibilità, dicendo « homo animai risibile ».
Ma forse gli starebbe più acconcia la definizione di essere « animai
flebile »,s secondo il sentimento di Plinio nel principio del vìi libro,6
il quale al solo uomo dà il lutto, e che di sua natura non habbia
«aliud naturac sponte, quam Aere»; nulla di manco le scuole han
riputato meglio diffmirlo per la risibilità, poiché il pianto non è così
proprio dell'uomo sicché non convenga a* bruti, alcuni de' quali
i. Altrove . . . imaginazione: nell'osservazione xiv, qui non riprodotta, in-
titolata Dell 'imaginazione delVuomo e suoi stupendi e portentosi effetti.
2. La minuta di questa osservazione, incompleta, in Biblioteca Reale di
Torino, Varia 303, ce. 84-5. Era l'osservazione vm. 3. Sluore cit., tomo
11, cent, vii, cap. xxrx (e non 39), Per qual causa li filosoft definiscano o
descrivano Vhuomopiu tosto dall'essere risibile che dall'essere flebile, pp. 384 sg.
.4, definizione: correggiamo «definionc», evidente lapsus dell'autografo.
5. «homo . . .flebile»; ambedue le citazioni dal Menochio, loc. cit., p. 384.
6. nel principio del VII libro: cfr. Nat hist, ed. cit., tomo 1, lib. vn, sect. i,
p, 369. Cfr. G. S. Menochio, op. cit., tomo n, cent, vii, cap. xxxix, Se
siano ragionevoli le querele di quelli autori che deplorano la miseria deWhuomo
che non nasce provisto d'armi come la gran parte de gli animali, pp. 401 sg.
La citazione a p. 401.
OSSERVAZIONE XII IO43
anche piangono, e mostrano '1 lor lutto e mestizia, sicome si rav-
visa ne' cani, ne' cavalli, ne' tori, lioni, ed anche negli asini di Mauri-
tania s'è osservato il pianto, secondo che scrissero lo stesso Plinio,
Svetonio, Claudiano, Eliano ed Isidoro;1 tralascio i poeti come
Omero, il quale fa piangere i cavalli di Achille, sicome fa anche
Virgilio, i quali si rappresentano tutti dolenti e lagrimosi per la
perdita o sciagura de' loro padroni. Ciocché che non si legge ne*
medesimi essersi osservato riso alcuno. Ma sicome alcuni segni
che ravvisiamo in essi ci fanno credere che indicano negli animali
afflizione e pianto, cosi ne' medesimi pur ne ravvisiamo altri opposti,
che dinotano riso ed allegrezza: sicché non meno del pianto che del
riso sono essi partecipi, ancor che languido ed imperfetto. Certa-
mente che non mancano autori i quali han ravvisato in essi anche
segni di riso, sicome del pianto ; in fra gli altri Lattanzio Firmiano
nel libro ili delle sue Divine instituzioui^ nel cap. io, apertamente
gli dà il riso, dicendo « ridendi quoque ratio apparet in his aliqua,
cum demulsis auribus, contractoque rictu, et oculis in lasciviam re-
solutis, aut homini alludunt, aut suis quisque coniugibus ac foetibus
propriis ».* E sicome per difetto di naturali istromenti che han gli
uomini meglio organizati e non i bruti, il pianto loro non è simile
al nostro, cosi parimente il lor riso non può uguagliare al nostro ;
onde la definizione delle scuole cade e va a terra e forse meglio
Tavrebber descritto per lo pianto che pe '1 riso, 0 pure né per l'uno
né per l'altro.
1. Intorno al sermone.
Qui per sermone, o favella, non s'intende di quelle voci articola-
te, le quali per lungo studio ed arte de' maestri e replicati atti si
avezzano gli uccelli a proferire, sicome narra Plinio, lib. io, cap.
42 e 43, 3 de cardellini, del dordo di Agrippina, moglie di Claudio,
il quale imitava le voci umane; di quel famoso corvo, il quale ogni
1. asini dì Mauritania. . .Isidoro: cfr. Plinio, ed. cit., tomo 1, lib. vili,
cap. xvi, sect. xrx, p. 445, nota 16, dove THardouin menziona Claudiano,
Ehano e Isidoro. 2. Lattanzio . . . propriis: cfr. Div. inst.t in, X, Proprium
hominis est Deum cognoscere et colere, in Migne, P. L., vi, col. 374 (« in loro
si manifesta anche una maniera di ridere, quando, lisciate le orecchie,
contratta la bocca e illanguiditi lascivamente gli occhi, celiano con l'uomo
o con le loro compagne e i propri figli»)- 3« Plinio, lib. io, cap. 42 e 43:
ed. cit, tomo 1, sect. ux e lx, pp. 567-8.
1044 L'APE INGEGNOSA
mattina volando ne' rostri nominatamente prima salutava Tiberio,
doppo Germanico, poi Druso ed ultimamente il popolo romano;
dell'altro assai rinomato per quel detto ben opportuno ed acconcio
per sollievo del suo padrone: oleum et operarti perdldì; e di molti
rosighiuoli e stornelli presso gli antichi, i quali cosi bene parlavano
latino e greco, sicomc oggi veggiamo che parlano in italiano le gaze
ed i papagalli. Né si parla de* favolosi sermoni che Omero finge del
cavallo d'Achille ed altri arditi poeti fingono per prosopopeia in
più animali, e molto meno delle voci articolate, che gli antichi an-
nali de' Romani rapportano proferite da' buoi o vacche, le quali
Livio stesso riputò «aurium ludibria».1 Qui si parla del sermone
naturale degli animali per esprimere l'affetto de* loro cuori, che lo
producono; poiché quelle voci, ancorché articolate, pronunciate
con tanto magistero3 ed arte ed a forza di replicati atti, non è
proprio lor sermone, né prodotte per esprimere i loro affetti, e
per ciò non intendono quello ch'essi medesimi proferiscono, non
altrimenti che gl'istromenti di musica quando se gii dà fiato. Negli
animali e spezialmente negli uccelli si ravvisano voci, se bene non
ben articolate, per difetto di naturali istromenti, varie però e
diverse, per le quali dinotano i loro affetti, e per le quali o cercano
aiuto, o avvertono dell'imminente pericolo, o invitano altri al
pasto; in breve fan sì che gli altri della loro specie intendono e con-
cepiscono ciò ch'essi vogliono: ciocché è fra di loro una specie di
colloquio; sicome Lattanzio non ebbe difficoltà di ammetterlo,
fra essi, nel lib. 3, cap. io, dicendo: «Quum enim sua» voces prò-
priis inter se notis discernunt atque dignoscunt colloqui videntur».3
Omero, che fu maraviglioso in dar propri aggiunti alle cose per
ispiegar la lor natura e qualità, sovente a gli uomini dà questo ag-
giunto: «articulate loquentcs mortalcs», tliad., lib. 2,4 e nel lib. 9,
v, 340: «articulata voce loquentcs hominos», e nel lib. ir: «arti-
culate loquentibus hominibus», ed altrove, per dinotare la diffe-
renza del sermone ch'è tra gli uomini e gli animali bruti, che questi
i. « aurium ludibria)): cfr. la nota 3 a p. 767. 2. magistero: maestria.
3. sicome Lattanzio . . . videntur: loc. cit, col. 374 («Poiché sembra che si
parlino quando tra loro con segni distinguono e riconoscono le proprie
voci»). 4< ffi&d*, lib. 2: il riferimento e al verso 285. 11 Giannono aveva
letto V Ilìade nella traduzione latina, in prosa, di Lorenzo Valla (cfr. Vita,
qui a pp. 35-6 e la nota 1 a p. 36). Qui però cita secondo un'altra versione,
differente e probabilmente in versi. La citazione del libro xi si riferisce
al verso 28, mentre l'altra ancora va rettificata: XI. y xix, 407.
OSSERVAZIONE XII IO45
per difetto d'istromenti non hanno articolato sermone, come gli
uomini, ma un sermone inarticolato, e quindi nel lib. 19, v. 410,
disse che la dea Giunone avea dato a Xanto cavallo d'Achille arti-
colato sermone : « Xantho Achillis equo articulatum sermonem red-
didit ». In effetto l'esperienza e le reiterate osservazioni fatte intorno
a* loro istinti ed andamenti ci han fatto accorgere che han un pro-
prio e naturai sermone, per cui l'uno intende l'altro. Nelle vacche
si osserva altro suono di voce quando chiamano i loro vitelli sper-
duti, altro quando si sente muggire l'armento nel pascolo e nelle
mandre. L'abbaiare de' cani è diverso quello che adoperano nelle
cacce quando abbiano scoverta la fiera, di quello quando si pros-
sima per avventarsi, altro quando abbaiano a' lupi ed a' ladri;
altre voci adoprano quando fanno carezze a' loro padroni, altre
quando gli veggono sdegnati e quando temono d'essere battuti. I
lupi diversamente mandan fuori le lor voci quando siano per
chiamar altri ed unirsi a truppe, altre quando percossi o feriti
chiamano soccorso, altre scherzando co' loro lupicini, altre colle
loro coniugi; e chi avrà attentamente osservati gli andamenti degli
altri animali, troverà la stessa varietà di sermone. Ma sopra tutto
negli uccelli, come a noi più familiari che non sono le fiere selvag-
ge, si è maggiormente manifestata questa verità; poiché la gallina
dà una voce quando chiama i suoi pulcini per dargli da mangiare;
ma altra tutta diversa quando, vedendo il nibbio che sia vicino per
involargli, gli sgrida ed avverte che scampino dell'imminente
sciagura con appiattarsi e nascondersi. I passeri invitano gli altri
al pascolo con altra voce di quella lor ordinaria. Cosi pure i corvi
quando invitano altri al pasto di qualche cadavere, o pure a' luoghi
ove sia seguita battaglia. L'usighiolo di una voce canta per diporto,
di altra tutta dolente, diversa e lamentevole, quando si accorge
dal duro villano essere stati involati
dal nido i figli non pennuti ancora.1
I rustici, 0 pastori di greggi o di armenti, poiché menano la lor
vita in campagna, fra boschi, valli e monti, avvertano il vario lor
sermone, e da ciò derivò la favola che Mopso2 intendesse il parlar
1. Vusighiolo , . . ancora: cfr. Virgilio, Georg. > iv, 511-5. a. Mopso: figlio
di Ampico e della ninfa Clori, originario della Tessaglia, cacciatore cali-
donico, indovino degli Argonauti. Per la favola cfr. Ovidio, Metam., xii,
5*4 sgg.
IO46 L'APE INGEGNOSA
degli uccelli, poiché avendo posta cura di notare le varie lor voci,
per lunga pratica intendeva ciò che volessero dinotare. A chi ri-
guarda i presenti nostri umani sermoni, cotanto ubertosi di parole,
così ben disposti, lunghi e concatenati, parrà certamente un para-
dosso raffermare ne' bruti esservi sermone; ma chi volgendo gli
occhi della mente in dietro ne* antichissimi tempi del mondo sem-
plice ed infante, troverà che se l'uomo non fosse uscito dalla prima
sua vita ferale e selvaggia, i suoi sermoni sarebbero ancora ben
corti e di poche parole avrebbe avuto bisogno per esprimere i suoi
affetti e desideri. Chi ha prolungati i nostri discorsi, resigli si re-
dundanti di parole, di tropi e di figure, se non la vita civile in cui,
lasciata la selvaggia, fece passaggio? Le nuove invenzioni delle
arti e delle scienze, le nuove cose trovate accrebbero di nuovi vo-
caboli il nostro sermone, sicome saviamente fu avvertito da Ci-
cerone nel lib. 3 De finib. bonor. et malor.i «In omni arte» e'
dice « cuius usus vulgaris communisque non sit, multam novitatem
nominum esse, cum constituantur earum rerum vocabula, quae in
quaque arte versentur. Itaque et dialectici et physici verbis utuntur
iis, quae ipsi Graeciae nota non sint. Geomctrae vero, musici,
grammatici etiam, more quodam loquuntur suo, Item ipsae retho-
rum artes, quae sunt totae forenses atque popularcs, verbis tamen
in dicendo quasi privatis utuntur ac suis. Atque, ut omittam has
artes elcgantes et ingenuas, ne opifìces quidem tucri sua artifìcia
possunt, nisi vocabulis utercntur nobis incognitis, usitatis sibi.
Quin etiam agricultura, quae abhorret ab omni politiore elegantia,
tamen eas res, in quibus versatur, nominibus notavit novis. Quo
magis hoc philosopho faciendum est».1 Donde ricavasi una valida
difesa per i filosofi e teologi scolastici, i quali di nuovi vocaboli han
x. «In omni arte . . .faciendum est»: De fin., ni, i-n, 3-4; si legga «docen-
do » in luogo di dicendo (« In ogni professione, il cui esercizio non sia a tutti
comunemente noto, c'è molta novità di nomi, poiché per le cose che sono
oggetto di ciascuna arte sono prescritti dei particolari termini. Pertanto sia
i dialettici sia i fisici usano parole ignote alla Grecia stessa. I geometri al-
tresì, i musici, i grammatici pure, parlano secondo un certo lor uso. Pari-
menti anche l'arte oratoria, benché tutta forense e popolare, si serve tut-
tavia per l'insegnamento di parole particolarmente proprie. E, per non
parlare di simili arti eleganti e nobili, neppure gli artigiani potrebbero
proteggere i loro artifici se non si valessero di parole a noi sconosciute,
usuali per loro. E perfino l'agricoltura, aliena da ogni raffinata eleganza,
ha impiegato parole nuove per quelle cose che rientrano nel suo ambito.
Tanto più lo stesso deve fare il filosofo »).
OSSERVAZIONE XII IO47
arricchita la loro filosofia e teologia, della quale non si dimenticò
per difendergli il Pallavicino in quel suo dotto libro dell'Arte dello
stile.1 Ma ritornando in via, tante arti e discipline resero il nostro
sermone più redundante, artificioso, elegante e nobile; e poiché
all'uomo, oltre l'intelletto, non mancavano que' naturali istro-
menti, de' quali i bruti sono privi, per formar chiare, distinte e ben
articolate voci, quindi il suo parlare divenne sì facondo e copioso.
Se l'uomo si fosse rimaso nella prima sua vita, di poche parole
sarebbe stato il suo linguaggio, poiché poch'erano le cose a lui
note, delle quali avea bisogno: bastavano per esprimere il suo
desiderio venti o trenta vocaboli perché avesse potuto conservare
la sua vita e quella de' suoi. Quindi non dee parer strano ciò che
Plinio rapporta di que5 uomini selvaggi, de' quali il lor sermone
non era altro che stridole voci, cenni, moti di braccia o di altra
parte de' loro corpi.2 Tanto bastava perché fossero da' loro simili
intesi e per conservar la lor vita e supplire a' bisogni della natura.
Più accurati viaggianti e scrittori rapportano che nell'interior Mo-
scovia anticamente (non ora che si è resa cotanto eulta e civile)
a' mercanti europei, i quali si conduceano colà per far compra di
pelli d'armellini e di altre morbide e delicate di que' animali che
produce quel clima e quel terreno, bastava che s'istruissero non
più di venti parole moscovite per trattare i loro negozi, poiché il
linguaggio loro era si corto e breve che pochi vocaboli eran suf-
ficienti a comporlo.
il. Sagacità, industria ed accorgimento.
La natura in tante guise ha manifestato negli animali bruti es-
sere sagacità, industria ed accorgimento, che più antichi autori
ne han compilati speziali trattati ; e la materia riuscì loro sì ampia
ed ubertosa che molte altre cose da avvertire scapparono dalla pre-
sa delle lor mani: sicché diedero occasione a' scrittori moderni di
comporne altri libri. Sono a tutti note le opere di Aristotele, di
Plinio il Vecchio, di Eliano nella sua Varia istoria, di Plutarco,
1. Pallavicino . . . stile: vedi la nota 4 a p. 36. 2. ciò che Plinio . . . corpi:
cfr. Nat. hisU, ed. cit., tomo 1, lib. v, cap. vn, sect. vni, p. 252: «illis
[Troglodytis] . . . stridorque, non vox: adeo sermonis commercio carent»;
e lib. vi, cap. xxx, sect. xxxv, p. 345: «Quibusdam prò sermone nutus
motusque membrorum est».
IO48 L'APE INGEGNOSA
Luciano e di tanti altri, che tutte si raggirono in raccorrò li tanti e
vari loro accorgimenti, gl'industriosi artifici, la sagacità e l'ingegno.
Da ciò avvenne che altri scrittori, persuasi dell'opinione di Pita-
gora, di Diogene, di Empedocle e di altri antichi filosofi, i quali
sostennero negli animali bruti esservi anima razionale, non meno
che negli uomini, non sapendo tener la via di mezzo diedero in
quella estremità di concedere a' bruti anche intelletto, raziocinio e
cogitazione.1 Sesto Empirico non ebbe difficolta di dare a' cani
raziocinio, perché il cane, seguendo la fuggitiva fiera, se s'incontra
in un trivio fiuta una via e, non trovandone indizio, fiuta l'altra, e
se in questa né pur lo trova, senza fiutar la terza, corre di filo per
questa per arrivarla, quasi che seco argomentasse che se per la pri-
ma e seconda non era passata, certamente era per la terza, onde
non bisognava cercar altro indizio.2 Lattanzio Firmiano nel lib. 3
delle sue Div. instit., cap. io e nel lib. De ira Dei, cap. 7, seguendo
le tracce del suo autore, dico di Cicerone, il quale nel lib. 2 De
finib. bonor, et malor. disse : « videmus in quodam volucrum genere
nonnulla indicia pietatis, cognitionem, memoriam, in multis eliam
disciplinam »,3 spinge tanto innanzi la condizione de' bruti che,
tolta la religione, gli fa uguali all'uomo: gli concede providenza
del futuro, cogitazione, raziocinio e discorso: «Potcst aliquis negare
(e' dice nel cit. lib. 3) illis inesse rationem, cum hominem ipsum
saepe deludant ? ». E poco dapoi : « Inccrtum est igitur, utrum ne
illa, quae homini tribuuntur, communia sint cum aliis viventibus :
religionis certe sunt expertia. Equidem sic arbitror universis ani-
1. Sono a tutti note . . . cogitazione: sono gli autori citati in precedenza.
Ma il Giannone si riferisce, copertamente, a una polemica ben più attuale,
riguardante l'anima dei bruti. I termini del problema erano stati posti
chiaramente dall'articolo Rorarius del Dictionnaìrc di Pierre Bayle: o si
accettava pienamente l'ipotesi cartesiana della bète machine, o fra bruto e
uomo, ammessa dagli scolastici nel primo l'anima sensibile, ci sarebbe
stata solo differenza di grado e non di qualità. 2. Sesto Empirico . . . in-
dizio : del pensatore e medico greco di origine africana, vissuto fra il 1 1 e il
III secolo d. C, cfr. i Lineamenti del pirronismo, 1, xiv, 69. 3. seguendo le
tracce . . . disciplinam: questo brano è stato aggiunto dal Giannone in mar-
gine all'autografo (e. 64 r). Si noti che Lattanzio, nei passi che seguono
delle Divinae institutiones e del De ira Dei, cita si Cicerone, ma non questo
passo del De fimbus, n, xxxui, no, che sembra in parte contraddire il
pensiero di Lattanzio (« osserviamo in certi uccelli diversi indizi di pietà,
osserviamo conoscenza, memoria, in molti anche istruzione»), sibbene il
De legibus, 1, vm, 24: «nuUum est animai practer hominem quod habeat
notitiam aliquam Dei».
OSSERVAZIONE XII IO49
malibus esse datam rationem».1 E nel cap. 7 De ira Dei non pur
ripete lo stesso, ma chiaramente gli attribuisce cogitazione, creduta
propria dell'uomo: «Quid tam proprium nomini» e* dice «quam
ratio et providentia futuri ? Atqui sunt animalia quae latibulis suis
diversos et plures exitus pandant, uti si quod periculum inciderit
fuga pateat obsessis: quod non facerent, nisi inesset illis intel-
ligentia et cogitatio ».2 Da ciò anche avvenne che alcuni de' nostri
Padri antichi, infra gli altri S. Basilio e Salviano, leggendo pure
ne' sacri libri darsi conoscenza al bue, iiitelligenza al gallo e sapien-
za alle formiche, portassero tanto in punta la condizione delle
anime de' bruti che picciola differenza ponessero fra esse e l'ani-
me umane.
Ma i più maturi e prudenti filosofi sicome i Padri più sobri e
moderati sfuggirono d'urtare in questo scoglio e tennero la via di
mezzo, affermando essere sì bene ne' bruti accortezza, sagacità
ed industria, e S, Agostino nel cap. 12 del lib. v della Città di Dio
vi aggiunge anche « quaedam scientiae similitudo »,3 ma comparate
cogli umani accorgimenti, induzioni e discorsi riescono languide,
deboli ed imperfette, non avendo che un'immagine ed una sola
apparenza e somiglianza coll'umane; e la differenza nasce da due
potissime cagioni : primieramente perché nelle viscere umane scor-
re uno spirito tutto depurato, sublime, attivo e più che fiamma
agile e presto, ed all'incontro ne* bruti gravoso, ottuso e crasso,
onde non possono elevarsi a tanta sublimità di pensieri e di di-
scorso; e per 20 gli organi de' corpi sono pur troppo fra lor diversi,
e spezialmente del capo, donde derivano le riflessioni, gli accorgi-
menti, l'industria e la sagacità, dove si conservano le imagini delle
cose ed è il magazzino della nostra memoria, dove siede la mente
1. «Potest aliquis . . . rationem»: Lattanzio, Div. inst., in, x cit., in Migne,
P. L.y vi, col. 374. La citazione del De leg. a col. 375 (« Si potrebbe negar
loro raziocinio, dal momento che sovente ingannano l'uomo ? ... È dun-
que incerto se le facoltà attribuite all'uomo siano o no comuni ad altri
viventi: certo è che non hanno la religione. In effetti ritengo che a tutti
quanti gli animali sia stato dato raziocinio »). 2. « Quid tam proprium . . .
cogitatio»: Lattanzio, De ira Dei, cap. vii, De homine et brutis, ac religione,
in Migne, P. L., vii, col. 94. La citazione del De leg. a col. 93 (« Che cosa
è tanto proprio all'uomo quanto il raziocinio e la previsione del futuro?
Eppure vi sono degli animali che nelle loro tane aprono più sbocchi e in
diversa direzione, affinché in caso di pericolo sia possibile agli assediati la
fuga: il che non farebbero se in essi non ci fosse intelligenza e riflessione »).
3. S, Agostino . . . similitudo: il Giannone sbaglia qui libro e capitolo del
De civ. Dei: li aveva citati giusti nell'osservazione v: cfr. la nota 1 a p. 1017,
IO50 L'APE INGEGNOSA
al suo governo, non altrimenti che il nocchiero al timone della
nave: «hic culmen altissimum, hic mentis est regimcn», come
saggiamente scrisse Plinio, lib. 11, cap. 37, e dove è collocata l'arce
di tutti i nostri sensi: «Hanc habent sensus arcem»,1 dice il mede-
simo autore. Or nel capo si ravvisa una gran differenza tra gli uni
e gli altri; quello de' bruti, ancorché in molti animali sia il capo di
più vasta mole, nulla di manco il cerebro colle sue pliche2 e con-
cavità non giunge in quanto al numero di queste ed alla grandezza
a quello dell'uomo, il quale si osserva eccedere nel duplo e sovente
anche nel triplo a quello de' bruti. Rufo Efesio3 affermava il cere-
bro dell'uomo esser più grande di due cerebri di bovi ; anzi Riolano4
nel lib. 1 Anihropographiae scrisse esser quattro volte più grande.
Per ciò avverti Aristotele nel lib. 2 Degenerata anim.5 che i fanciul-
li non possono tener il capo ritto per la mole e gravezza del loro
cerebro, che in quell'età non ha proporzione con gli altri suoi mem-
bri. Aggiungi a questo il copioso sermone onde comunicano insie-
me i loro concetti, le mani industriose ed adiutrici, delle quali
l'uomo è fornito ed i bruti son privi, onde il paragone è indegno e
pur troppo disuguale. Ciocché gli animali fanno è per istinto pro-
prio, di cui la natura in ciò fu ad essi più larga e profusa che non
fu all'uomo. L'uomo, sicome si è detto, e saviamente fu avvertito
da Plinio,6 senza dottore che l'ammaestri, lo guidi ed insegni, per
se stesso niente sa; ma essendo stato dotato d'intelletto, questo
compensa e supera quanto a' bruti la natura ha conceduto di na-
turali istinti e proprietà; poiché co' suoi accorgimenti, seguendo le
lor traccie ha saputo coll'invenzioni delle arti superargli in guisa
ch'essi sono rimasi e vi dureran per sempre nella vita ferale e sel-
vaggia; all'incontro l'uomo innalzato ad una vita cotanto com-
moda, eulta e civile, ha saputo domare e vincere la lor ferocia, e
con le poche e deboli sue forze abbattere le più forti e terribili.
Noi annoveraremo qui gli accorgimenti, l'industria e la sagacità
1. uhic culmen . . . arcem»: Plinio, Nat. hìs£.} ed. cit., tomo 1, lib. xi, cap.
xxxvn, sect. xlix, p. 616 («qui la vetta più alta, qui c'è il governo della
mente, qui hanno i sensi la loro sede»), 2. plicJie: pieghe. 3. Rufo Efe-
sio: medico greco del I secolo d. C, studioso di anatomia. È citato in Pli-
nio, loc. cit., p. 615, nota 3. 4. Riolano: Jean Riolan (1580 circa-1657),
medico francese. Il Giannone si riferisce alla Anthropographìa ex propriis
et novis observationibus collecta, Parisiis 16 18. Da Plinio, tbid. 5. De gen.
an.t 11, vi, citato in Plinio, ibid. 6. e saviamente . . . Plinio : cfr. Nat. hist.,
ed. cit., tomo i, lib. vii, sect. 1, p. s6q: «hominem scire nihil sine doctrina».
OSSERVAZIONE XII IO51
degli animali non solo per manifestare la loro natura, ma quindi
avvertire che da' loro naturali istinti per la maggior parte ebbero
origine le arti e le tante altre conoscenze che l'uomo ha più oltre
distese, per le quali s'innalzò a quello stato culto e civile nel quale
oggi ritrovasi.
Ne' primi tempi del mondo infante, quando gli uomini venivano
fra di loro in risse e in guerra, non si valevano di altre arme se non
di pugni, calci, di sassi, e di rami di alberi scossi e gettati dal
vento nella nuda terra; ma avendo scorto che i tori, e gli altri
armati dalla natura di corna, artigli e pungenti aculei, aguzzavano
prima di venir alla pugna le naturali loro armi alle pietre, a'
tronchi, e que' ch'eran armati di spine lanciarle a gl'insidiatori di
lor vita: trovato il fuoco, e scoverto l'uso del ferro, aguzzarono
ancor essi i rami e gli providero di punte : si valsero di mazze fer-
rate e di spiedi ; e sicome il riccio avventava le sue spine, cosi essi
impararono a lanciare le freccie ed i loro dardi ed aste. Avendo
avvertito che gl'ichneumoni,1 animaletti simili a' ghiri, prima di
venire a battaglia coll'aspide suo nimico si ravvolgono nel loto e
doppo essersi in quello ben inviluppati si giacciono a' raggi del
sole per farlo indurire, sicché gli servisse di scudo e di celata, così
l'uomo attese anche a provvedersi di lorica, di scudo, celata, torace
ed altre armi difensive.
Chi ha insegnato all'uomo le difese, gli aguati, gli stratagemmi e
gl'inganni da por in uso contro l'oste nemica, se non gl'instinti
degli animali ? Il gatto con quanta pazienza e silenzio sta in aguato
per sorprender l'uccello o '1 topolino! Con quanta prestezza si
scaglia loro adosso! Quanta cura pongono gli animali nella difesa
de' loro parti essendo di età novella? Per difesa de' medesimi, se
veggono avvicinarsi forza nemica arruffano il pelo o la piuma e ad
un certo modo si gonfiano per zelo della salvezza della prole; met-
tono fuora le loro arme, adoprano il becco, le unghie, li denti, li
calci, le corna, secondo che sono stati dalla natura provveduti
d'istromenti offensivi ovvero difensivi; e dove non arriva la forza
suppliscono coll'industria, sicome fa la pernice, la quale per al-
lontanare l'uccellatore dal suo nido vola poco lontano, si finge
storpiata, e dà speranza di lasciarsi pigliare; e quando stima che
non vi sia più pericolo per i pulcini, spedita e leggiera vola lontano,
i. ichneumoni: cfr. Plinio, ed. cit., tomo i, lib. vili, cap. xxiv, sect. xxxvi,
P. 452.
IO52 L'APE INGEGNOSA
e lascia delusa 1' avidità di chi la perseguitava. Molti animali, che
non hanno forza di resistere all'avversario, trovano rimedio nella
fuga o nell'inganno. La volpe volendo appiattarsi in qualche luogo
e quivi nascondersi per non esser ritrovata dal cane, fa quanto
più può lunghi gli ultimi salti, acciocché non ne senta l'odore e
talvolta si mette a nuoto nell'acqua che scorre onde il bracco ed il
levriero ne perde la traccia. Da tutto ciò si convince che non deb-
biano riputarsi incredibili o favolose le relazioni che Plinio rap-
porta nel lib. 8, cap. 38/ del lcontofono, il quale istrutto dalla
natura la sua urina esser al lione mortifera, nella pugna gliela
sparge adosso e così l'uccide; e della lince, la quale copre la sua
urina, dalla quale gelata credeasi formarsi la gemma lingurio* e cosi
delude le insidie de* cacciatori, e gli toglie la traccia d'inseguirla;
non altrimenti che il gatto domestico copre lo sterco di polvere per
evitar le bastonate del padrone. Parimente il tasso cosi chiamato
oggi in Italia, dagli antichi detto meles,3 animai sonnacchioso di
orrido pelo ed invitto alle pioggie, il qual non altrimenti che la
volpe fassi la sua tana dentro terra, se trovato da' cacciatori, o da'
cani è assalito, distende la sua pelle a guisa di tamburro che resiste
a' colpi dell'uomo ed a' morsi de' cani. E chi potrebbe annoverar
la solerzia e sagacità di tanti altri animali li quali non han altro che
l'insegni se non la maestra e provida natura?
La sagacità e l'apparecchio che le pernici e le coturnici (dagl'Ita-
liani chiamate ora quaglie) usano ne' combattimenti fra di loro,
o co' galli ed anche co' gatti, aprì all'uomo una grande scuola per
apprendere la maniera di guerreggiare, sicché dapoi potò stendere le
cognizioni e ridurre l'arte della guerra in quello stato che oggi veg-
giamo. Narra Luciano delle coturnici, che in Atene con tanta
curiosità occorreva il popolo a vedere i loro combattimenti l'une
contro le altre, come se fossero gladiatori, che mosse a Solone di
far una legge, colla quale si commandava che li giovani dovessero
trovarsi presenti alle pugne, che facevano tra sé li galli o le co-
turnici, affinché vedendo la fortezza colla quale questi uccelli
combattevano fino all'estremo spirito, pigliassero animo di fare
essi ancora lo stesso nelle battaglie per la patria.4 Il P. Menochio
1. lib. 8t cap, 38: ed. cit, sect. lvii, p. 462. 2. lingurìo: «lyncurium» nel
luogo citato di Plinio (con evidente etimologia da lynx). 3. melesi cfr.
ibid., sect. Lvm, p. 462. 4, Narra Luciano . . . patria: Luciano, Anacharsis
rive De exercitationibus, 37.
OSSERVAZIONE XII IO53
nelle sue Stuore, alla centur. xn, cap. 44, rapporta che l'Aldrovan-
do nel tom. il della sua Ornithologia, al cap, 15, pag. 161,1 parlando
delle coturnici afferma che in alcuni luoghi d'Italia, e particolar-
mente a Napoli, sogliono alcuni allevare di questi uccelli assuefatti
a questi combattimenti, e se ne pigliano gran piacere. A questo
effetto, prosiegue il Menochio trascrivendo Aldrovando, preparono
una tavola lunga, e doppo di averle ben pasciute di miglio pongono
le due coturnici che devono combattere l'una da un capo e l'altra
dall'altro, le quali al principio fermano il passo e si guardano
scambievolmente come sogliono fare ancora li galli prima di az-
zuffarsi ; poi con gran velocità vanno ad incontrarsi ed assaltarsi e
combattono con tanta ostinazione e fierezza che non si ritirono
dal combattimento se non soprafatte dalla violenza dell'avversario
e doppo di averci lasciato delle penne e del sangue. Aggiunge che
due sogliono essere li padroni delle due combattenti, li quali gio-
cano danaro o altra cosa, che debba essere di quello la cui quaglia
resterà vincitrice, e che alcune valenti in queste zuffe ed abbatti-
menti sono preziose e si vendono tal volta dieci 0 dodici scudi.
Mi vaglio del P. Menochio, non potendo io esserne testimonio di
veduta, poiché a' miei tempi questi giochi in Napoli si erano trala-
sciati ed i Napolitani attendevano ad altri diporti. Le pernici ne'
combattimenti fra di loro 0 co' galli ed anche co' gatti usano gli
stessi apparecchi e fierezza; e gli antichi molto godevano di queste
pugne, rapportando Elio Lampridio nella Vita di Alessandro Se-
vero,2 che questo imperatore ne' giorni festivi si pigliava piacere
di vedere combattere le pernici con li cagnolini; ed Ateneo, nel
lib. 9 Deipnosopk.y cap. 13, vi aggiunge una favola, che li Pigmei,
li quali hanno continua guerra colle grue, procurono d'avere in
aiuto loro le pernici, come animale atto ed inclinato a combattere.
Della sagacità delle lionesse e delle cicogne in celare i loro adul-
tèri a' mariti, si narrano cose mirabili. Rapporta Plinio . . . che
neir Affrica, per penuria di acque e di fonti, gli animali di ogni
i.HP. Menochio . . . pag. 161 : cfr. Stuore, ed. cit., tomo in, cent, xn, cap.
xliv, Si dichiara un detto di S. Giovanni Climaco circa la pugnacità delle
pernici) pp. 586 sg. - Aldrovando: Ulisse Aldrovandi (15212-1605), scien-
ziato bolognese, rappresentante del naturalismo enciclopedico rinasci-
mentale. Il riferimento è a Ornithologiae, hoc est de avibus historiae, libri
XII (XX) . . ., Bononiae 1 599-1 603, in tre volumi. 2. Alex. Sev.} 41, 5.
Citazione tratta dal Menochio, loc. cit., p. 586, al pari di quella che segue,
di Ateneo.
1054 L'APE INGEGNOSA
specie corrono a' fiumi per estinguere la lor sete ed ivi si mescolano
insieme, onde l'Affrica è sì ferace di mostri e di animali amfibi.
Quivi la lionessa sovente si mescola col liopardo, la quale perché
il marito all'odore non si accorgesse del fallo, prima di avvicinar-
segli s'immerge nel fiume e si lava tutta.1 Cosi pure, secondo che
narra il P. Menochio nella cent, xn, cap. 6o,a fanno le cicogne
adultere, le quali ancorché siano osservanti della fedeltà verso i
loro mariti, nulla di manco se per sorte vengono a mescolarsi col-
l'adultero, perché il geloso marito non se ne avveda, calano a' fonti
e si lavano. Rapporta questo autore che fu osservato che, volando
il maschio a cercarsi pastura, la femmina rimasa in casa sovente
con un altro maschio che colà volava si giaceva; dapoi, calatasi
al fonte, si lavava. Il padrone di quella casa notò il fatto e sospettò
quel ch'era, onde impedì che la cicogna si lavasse; ritornò il marito
ed all'odore conobbe il fallo e dissimulò per allora; ma il giorno
seguente accompagnato da altri presene vendetta e percotcndola
col becco suo e degli altri la fece morire.
Sono ancor mirabili gl'instinti di alcuni uccelli di conoscere i
tempi, da' quali l'uomo molto apprese per l'arte àc\V agricoltura,
e la di loro industria in costruirsi i loro nidi, onde l'uomo imparò
la maniera di costruire le case e dapoi estendere le cognizioni per
V architettura delle fabbriche eccelse e magnifiche. Alcune sorti di
uccelli, sicomc il milvo, la gru, la tortore, la cicogna, la coturnice,
la rondine ed altri, per proprio naturai istinto conoscono gl'im-
minenti tempi, onde, secondo le stagioni, mutano paesi, e quando
l'inverno si avvicina si sanno trasferire a clima più temperato ; ma
l'ordine, la diligenza e disposizione delle torme nella loro marcia
è non meno maravigliosa e sorprendente. Hanno capi per guida e
non meno provedono la loro vanguardia che la retroguardia. Le
grue fanno le loro sentinelle quando si posono, e volano alto per
guardar da lungi i luoghi per dove passare. Delle cicogne, oltre
l'esperienza, ne abbiamo la testimonianza di Virgilio nel lib. 3
delle Georg.? e d'Isidoro nel lib. 12, cap. 7, dove per ciò le chia-
1. Rapporta Plinio . . . tutta: cfr. Nat. hist.t ed. cit, tomo 1, lib. vili, cap.
xvi, sect. xvii, p. 443. 2. cap. 60: intitolato Della pietà delle cicogne verso
de* veccfii loro genitori, e della castità e gratitudine delle medesime^ ed. cit.,
tomo m, pp, 612 sgg. 3. Virgilio, George 11, 319-20: «Optima vinetis
satio cum vere rubente / candida venit avis longis invisa colubris », versi
citati dal Menochio, op. cit., tomo in, cent, xn, cap. xlviii, De gli uccelli
che secondo le stagioni dell1 anno mutano paese, pp. 592 sgg.
OSSERVAZIONE XII IO55
ma «hae veris nuntiae, societatis comites». Le tortore parimente
mutano paese nel tempo d'inverno, sicome l'attestano Aristotele,
De animalib., lib. 8, cap. 16, e Varrone, lib. 3, cap. 5.1 Delle rondini
è a tutti notissimo che d'inverno mutano clima trasferendosi a luo-
ghi dove l'aria sia più dolce e poi vi ritornano nella primavera.
Il P. Menochio nella xn centur., cap. 48, rapporta aver letto ne*
libri di Olao Magno3 che le rondini ne' paesi settentrionali, sicom'è
la Polonia ed altri vicini, non cercano altro paese distante dove go-
dono l'aria più tepida, ma molte insieme unite s'immergono ne*
stagni e nelle paludi, le quali si aggiacciono, e dentro di quel giac-
cio stanno racchiuse tutto l'inverno, e n'escono quando dal caldo
della primavera il giaccio si risolve in acqua, vivendo frattanto,
come le lumache, del proprio sugo. Il P. Menochio non ardisce
di averla per favola, come credo che sia, ma si maraviglia ch'es-
sendo la rondine tanto amica della libertà, che se per un sol giorno
è tenuta chiusa in gabbia si muore, possa stare, mentre fugge l'aria
fredda, in prigione strettissima di giaccio, e quivi vivere per molti
mesi senza cibo. Le coturnici, o siano quaglie, mutano ancor esse
paese e passano il mare, riposandosi nell'isole o scogli, ed alcuni
affermano che si posano anche sopra lo stesso mare andando a galla
con un'ala alzata, che hanno per vela. Plinio nel lib. io, cap. 23/*
scrive che vengono alquanto prima delle grue ed in tanta quantità
e con tal impeto che pongono tal ora a pericolo li vascelli ed i navi-
ganti, urtando nelle vele que' copiosissimi stormi, o sopra esse
riposandosi; aggiungendo esser gravi di corpo e di poche forze, e
che aspettano la commodità del vento fresco, che aiuti il lor volare,
e che hanno certi luoghi o posti determinati, dove fanno le loro
posate.
Ma chi abbastanza ha scorta la loro industria e solerzia in co-
struirsi i nidi e le tane? Mirabile è la costruzione de' lor nidi in
Egitto presso le rive del Nilo per conservar l'uova dall'innondazio-
ne di quel fiume; costruendogli, secondo che maggiore o minore
deve essere l'innondazione, o più vicino o più discosto alla riva.
Delle tane delle testudini e de' cocodrili ed altri animali di quel
paese pur si narra lo stesso, onde dalla maggiore o minor lonta-
1. Isidoro . . . cap. 5: tutte e tre le citazioni tratte dal Menochio, loc, cit.,
p. 593. 2. Olao Magno: Olof Mànson (Olaus Magnus, 1490-1557), sto-
rico, cartografo, umanista svedese, vescovo di Upsala, citato dal Menochio,
tbid. 3. Plinio . . . cap. 23: ed. cit„ tomo 1, sect. xxxiii, p. 557.
IO56 L'APE INGEGNOSA
nanza di tali nidi e tane gli Egizi prendono argomento quanto deb-
ba crescere il fiume al solito tempo deirinnondazione di ogni anno,
sicome rapportano Eliano nel lib. 5 De ammaliò., cap. 52,1 e
Plutarco nel fine del libro De anìmalìum terrestrhun et aquatilium
comparatione.2. Il medesimo dice Plinio nel lib. xo, cap. 33,1 delle
rondini, le quali nel tufo delle rive del Nilo si cavano il nido, e che
alquanti giorni prima che la crescente arrivi a quel luogo l'ab-
bandonano. Aggiunge il P. Menochio nella cent, xrr, cap. 49,* es-
sere stato osservato che taluni uccelli facevano i loro nidi negli al-
beri ne' rami più alti, se dovea essere il tempo quieto e senza venti ;
e ne' più bassi, se era per esser l'aria quell'anno borascosa ed aggi-
tata da' venti. Ed è veramente ammirabile con quanta diligenza,
industria ed arte l'uccelli formano i loro nidi, aspri nel di fuori,
intrecciati di stecchi e fortificati con varie legature o con fango, ma
di dentro molli ed aggiati, pieni di piume e di lanugine acciocché
i tenui pulcini non siano offesi dall'asprezza della materia, e siano
fomentati e difesi dal freddo; onde a ragione Arnobio, Adv. gente* ,5
cotanto ammira il di lor artificio e sottile ingegno. Ho veduto io
mentre dimorava in Vienna alcuni nidi d'uccelli trasportati per
maraviglia da' boschi d'Ungheria in quella città, tessuti a guisa di
borze con tant'arte che sembravano fatti da mano umana, le quali
si trovavano appiccate nell'estremità ed ultima parte de* piccioli
rami; e secondo l'osservazione de' rustici abitatori di quelle selve,
ciò non per altro se non perché, abbondando que' boschi di
serpenti, i quali ascesi ne' rami divoravano l'ova ed i polli che vi
trovavano, gli accorti padri e madri tessevano i loro nidi nelle
estreme punte di que' ramoscelli dove le serpi non potevano giun-
gere a cagion che il lor peso, non potendo esser sostenuto da que'
piccioli rami, precipitavano giù a terra. Nel covare gli ovi quanta
diligenza pongono perché il calore sia diffuso egualmente in tutti,
onde i pulcini schiudano vitali ? La gallina covandone molti ed ac-
corgendosi che sotto di lei non tutti sono ben coperti, col suo becco
muta i lor siti, affinché tutti ugualmente partecipino del calore.
Chi in fine non ammirerà la solerzia delle bestie terrestri in costrui-
1 . cap. $2 ; intitolato De aspìdibus aliisque ferìs ad Nìlum degmtibus* z. Plu-
tarco . . . comparatione: cfr. Scripta moralia, 11, Terrestriane an aquatilia
ammalia sint callidiora. 3. Plinto . . . cap, 33: ed. cit., tomo 1, scct. XUX,
p. 562. 4. cap. 40: intitolato Che nelle bestie si scorge una certa apparenza
d'uso di ragione e di discorso, ed. cit., tomo in, pp. 595 sgg. 5. Arnobio,
Adv. gentes, vi, xvx, in Mignc, P. L.t v, col. 1199.
OSSERVAZIONE XII IO57
re le loro tane con varie uscite «ut si quod periculum inciderit,
fuga pateat obsessis», come disse Lattanzio, il quale per ciò non
ebbe difficoltà di affermare che noi farebbero « nisi inesset illis intel-
ligentia et cogitatio».1
Molti animali, ancorché privi d'intelletto, seguendo solo quel
instinto ch'è stato lor dato dalla natura, ad ogni modo operano
con tant'ordine e con tanta industria, come se perfettamente ap-
prendessero ed intendessero quello che fanno ; onde avvenne, come
si è detto, che alcuni antichi scrittori si persuasero che avessero
qualche uso di ragione, se bene imperfetto, del qual argomento
scrisse Plutarco un opuscolo, e S. Agostino ne* libri della Città
diedegli per ciò «quaedam scientiae similitudo »,2 poiché chi non
ammirerà l'arte del ragno, da cui l'uomo l'apprese, in tessere la
sua tela con fili sottilissimi ugualmente tirati, tanto che una maglia
non sia maggiore dell'altra, e tutta la rete tanto forte e tenace che
possa fermare la mosca volante, alla quale si scaglia adosso il ra-
gno, la lega, l'uccide e la porta al suo covile, correndo sopra le fila
della rete con maravigliosa leggerezza?
Le api formano i favi loro di cera distinti in varie celle, che tutte
hanno sei angoli. Volano per l'aria e si fermano sopra de' fiori, da'
quali raccolgono la ruggiada dolce caduta dal cielo e la ripongono
acciocché serva di pascolo nel tempo dell'inverno. Portano l'acqua
necessaria al loro lavoro o con la bocca o attaccata a quella lanugine
della quale sono vestite; e l'une l'altre si aiutano; alcune fabbricano
il favo o lo puliscono, altre scaricano quelle che venendo di fuori
portano la materia; e quando hanno di quel loro nettare empite le
celle, con una sottilissima membrana le ricuoprono, accioché non
si sparga. Si governano in forma di repubblica, soggette ad un su-
premo capo ch'è il re loro, maggiore di corpo e più bello di fat-
tezze. Insieme lavorano, insieme riposono e tutte scambievolmente
si aiutano in quello che fa di mestieri. Il verme filatore della seta
cava dalle sue viscere quelle sottilissime fila di seta colla quale
formano il boccio, nel quale si racchiudono, e poi, mutata forma,
n'escono alati. Lo spino sale sopra la vite e ne scuote molti acini
maturi, poi calando a basso tra quelli si rivolge e con le punte
delle sue native spine li raccoglie e li porta a' suoi figli; ed il me-
desimo fa degli altri frutti.
1. « ut si quod . . . cogitatio ni cfr. la nota 2 a p. 1049. a. S. Agostino . . .
similitudo: cfr. la nota 1 a p. 1017.
67
IO58 L'APE INGEGNOSA
Altri animali mostrano nelle loro operazioni tanta sapienza che
diedero a S. Basilio nell' Esamerone1 ed a S. Ambrogio nel suo* la
spinta di avanzar troppo la loro condizione e quasi che, toltane la
religione, di fargli uguali all'uomo, del cui argomento trattò anche
fra' moderni con molta eloquenza il Granata nel suo Simbolo della
fede.3 La formica Salomone la prepone per essempio al pigro ed
infingardo e vuol che da quella impari la sapienza, poiché in
questo picciolo animaletto si osserva ed ammira la provvidenza e
la sollecitudine di provedersi di vettovaglia nell'està, per avere di
che sostentarsi nell'inverno ;4 ciocché fa in modo che pare abbia
discorso ed elegga il meglio, lasciando quello che non è tanto buo-
no, sprezzando l'orzo, per portare il grano nelle sue buche e ca-
verne sotterranee. E perché non basta riempire le celle e le dispense
di grano se non si provede che non si guasti e che col umido del
terreno rammorbidito non germogli, le formiche lo cavano e l'e-
spongono al sole ne' giorni sereni, cioch'è segno certo che non deb-
ba piovere quando espongono fuori la loro provvisione. Di più con
maravigliosa diligenza rodono in ciaschedun grano quella parte
nella quale risiede la virtù di germogliare; ed in questa maniera
si assicurano che la provvisione debba essere di durata e preservata
dal pericolo di corrompersi. Si fanno caverne sotterranee ove
covano l'ova con vari ravvolgimenti perché non vi entrin Tacque
delle piogge. Plinio nel cap. 30 dcll'xi libro ammira ancora la loro
sagacità, dicendo: «Et quoniam ex diverso convehunt, altera
altcrius ignara, certi dies ad recognitionem mutuam nundinis
dantur. Quac tunc carum concursatio ? Quam diligens cum obviis
quaedam collocutio atque percontatio?».5 Altre accortezze dì que-
sto animaletto raccolse Aldrovando nel lib. 5 De insectis, dove
1. S. Basilio neìVBsamerone: cfr. Homiliae in Jrlescaemeron, soprattutto le
JSTora. vii, De rcptilibus; vili, De volatihbus et aquaticis, e IX, De tcrrestribus,
in Miglio, P. G*, xxix, coli. 147 sgg. Dal Mcnochio, loc. cit., p. 595.
2. S. Ambrogio nel suo : cfr. Hexaemeron libri sex, lib. V, De opere quinti
dieiy in Migne, P. L., xiv, coli. 219 sgg. Sempre dal Mcnochio, ibid.
3. il Granata , . .fede: non sono riuscito a sapere niente di più intorno al-
l'autore e all'opera; ma la citazione deriva dal Mcnochio, ibid* 4. La
formica . . . inverno: ancora dal Mcnochio, ibid. Cfr. Prov., 6, 6-7. 5. Pli-
nio . . .percontatio: ed. cit., tomo 1, ttb. xi, cap. xxx, scct. xxxvi, p. 610
(«E poiché trasportano il loro carico da direzioni opposte, ignare Turni
dell'altra, vengono stabiliti dei giorni determinati di mercato per una
mutua ricognizione. Quale via vai, allora, che attento conversare e inter-
rogarsi quando s'incontrano!»)-
OSSERVAZIONE XII IO59
coirautorità di Alberto M. riprova Popinione di Girolamo Carda-
no,1 che immaginò le formiche non aver occhi, affermando avergli
come gli altri, e per ciò vedersi far tanti viaggi su ed in giù, di qua
e di là, che senza il lume della vista certamente non potrebber ese-
guire. Plinio, nel cit. luogo, di questo solo insetto dice osservarsi
che abbia cura di seppelire i suoi morti come l'uomo; ma Eliano,
lib. 1 Hist. an., cap. 22,2 e Tzetzes3 attribuiscon il medesimo al-
l'elefante, al delfino, alla rondine, all'orso ed all'ape.
Ma che diremo degli animali più grandi e perfetti, come degli
elefanti, de' lioni, de' cavalli, cani ed altri: da' quali gli uomini
stessi han appreso d'esser generosi, clementi, fedeli, docili ed altre
virtù ? Agli elefanti, Plinio, come si è detto, diede anche religione.
Da' generosi lioni si è appreso la generosità e la clemenza; da' cani
la fedeltà; e ne' cavalli, che non si ammira di animo guerriero e
generoso ? Giob nel cap. 39 ce ne dipinse un'elegante e molto viva
immagine: «gloria narium eius terror. Terram ungula fodit, exultat
audacter in occursum, pergit armatus»4 etc. Intorno alla loro do-
cilità, ingegno e memoria da vari autori si riferiscono cose mirabili;
onde a ragione Plinio nel lib. 8, cap. 42,* ebbe a dire: «ingenia eo-
rum inenarrabilia». È nota l'istoria de' cavalli de' Sabariti e l'indu-
stria de' Crotoniati rapportata da Aristotele nella sua Politica dove
parla della repubblica de' Saberiti, e riferita anche da Ateneo nel
lib. 12, cap. 6, del Convito de1 savi.6 Tra' moderni veggansi Giulio
1. Altre accortezze. . . Cardano*, la citazione delTAldrovandi dal Meno-
chio, loc. cit., p. 595. Cfr. U. Aldrovandi De animalibus insectis libri sep-
tem . . ., Bononiae 1602, liber v, qui est de insectis apteris pedatis, primum
de formica, p. 517, dove cita il De Subtilitate, lib. 9, del Cardano, e Alberto
Magno, Tract., 4, lib. 6, cap. 1. 2. Eliano, lib. 1 Hist. an., cap. 22: la
fonte è ancora Plinio cit., p. 610, nota n alla sect. xxxvi. Il Giannone ha
però frainteso il rinvio di questa nota a Eliano, e la citazione giusta di
Eliano è: «lib. 5 Hist. anim., cap. 49». 3, Giovanni Tzetzes, grammatico
bizantino del XII secolo, autore di uno zibaldone in versi intitolato Libro
delle storie, più noto come Chiliadi per essere i tredici libri che lo compon-
gono di mille versi ciascuno. La fonte in Plinio, ibid.: «Tzetzes chiliad. 4
Hist. 127, vers. 153». Nell'Index auctorum praecipuorum, in ed. cit., tomo
1, p. n.n., THardouin cita l'edizione di cui si è servito: «Ioan. Tzetzes
Variarum historiarum versus politici. Inter Poetas graecos, Genevae 1614,
folio1». 4. Giob . . .armatus: da G. S. Menochio, Stuore cit., tomo in,
cent, xn, cap. xlvii, Della docilità et altre buone qualità de i cavalli, pp. 591
sg. La citazione a p. 591. Cfr. Iob, 39, 20-1 (ma si legga «armatis» anziché
armatus). 5. Plinio nel lib. 8, cap. 42: ed. cit., tomo 1, sect. lxv, p. 466.
Cfr. anche in Menochio, loc. cit, p. 591. 6. È nota V istoria ... savi:
la notizia in Plinio, loc. cit., sect. lxiv, p. 466, nota 16. Aristotele è men-
IOÓO L'APE INGEGNOSA
Cesare Scaligero1 nell'essercitazione 269, Lipsio2 in una sua let-
tera scritta sopra questa materia e Gregorio Tolosano, De repub.,
lib. 13, cap. 13.3 Ed intorno all'amore e fedeltà de' cavalli verso i
loro padroni celebre è l'istoria della pietà del cavallo di Clclio cava-
lier romano stato ucciso nella famosa battaglia di Canne, elegante-
mente descritta dal nostro Silio Italico.4
In fine donde se non da' loro naturali instinti apprese l'uomo in
gran parte l'arte medica? Poich'essi per proprio instinto sanno
distinguere i pascoli e l'erbe nocive e salutevoli, ed il modo di cu-
rarsi nelle loro infermità e ferite. Il cane scarica lo stomaco con
masticare la gramigna e provocarsi al vomito e purgarsi dall'umo-
re bilioso. Il . . .5 quando si sente che nel suo corpo il sangue ab-
bonda, si getta tra pungenti cannucce di laghi 0 stagni e così dalle
vene lo tragge fuori e se ne sgrava. Il cervo ferito ricorre al dit-
tamo. La ibi per iscaricare il ventre del suo becco si vale per
argomento affin di sgravarsene. Il colombo salvatico, il merlo e la
pernice si purgano con le foglie del lauro. La rondine si medica gli
occhi con la celidonia. La donnola con la ruta si preserva de' veleni,
ed altri animali in diverse maniere occorrono a' loro mali. Di che
zionato da Ateneo, che però non rinvia alla Politicai ma genericamente a
un passo in cui lo Stagirita parla della politela dei Sibariti. 1. Giulio Cesare
Scaligero: il riferimento è tratto dal Menochio, loc. cit., p. 591. Sullo
Scaligero vedi la nota 3 a p. 616: cfr. Exotericarum exercitatìonum libri
XV . . ., Francofurti 1582, non esercitazione 269, Quae de coitu. Passer
(pp. 815-6), che non c'entra, ma 209, Equi docilitas, p. 669. 2. Lipsio:
cfr. la nota 6 a p. 1013. Ancora dal Menochio, loc. cit., p. 592: «da una
epistola di Lipsio che è tutta di questa materia». 3. Gregorio Tolosano . . .
cap. 13 : anche questa citazione è tratta dal Menochio, ibid. : « Pietro Gre-
gorio Tolosano racconta nel libro 13 cap. 13 della sua repubblica». Si
tratta del canonista Pierre Grégoke (1540- 1597), nativo di Tolosa, autore
di De republica libri sex et vigìnti . . . emendati et additionibus aneti, Lug-
duni 1609, due tomi in un volume. 4. Ed intorno . . . Italico: sempre
dal Menochio, ibid.: «Udiamo come questo fatto sia descritto da Silio
Italico ... ». Seguono i versi di Silio Italico, Punica^ x, 458-66, cui il
Giannonc allude. Il brano che segue, sugli accorgimenti dogli animali per
curarsi delle loro malattie, eccezion fatta per l'ippopotamo e per l'ibi,
è tratto quasi alla lettera dal Menochio, op. cit., tomo ni, cent, xn, cap.
un, Delle notabili industrie d1 alcuni animali^ p. 602. 5. Cosi nell'autogra-
fo. Si tratta dell'ippopotamo: cfr. infatti Plinio, Nat. hist, ed. cit., tomo 1,
lib. vili, cap. xxvi, sect. xl, p. 453: «Hippopotamus in quadam medendi
parte etiam magister extitit. Assidua namque satietate obesus exit in litus,
recentes arundmum caesuras speculatum: atque ubi acutissimum videt
stirpem, imprimens corpus, venam quamdam in crure vulnerat, atque ita
profluvio sanguinis morbidum alias corpus exonerat, et plagam limo rursus
obducit».
OSSERVAZIONE XIX IOÓI
in una osservazione a parte ampiamente si dirà, quando manifesta-
remo che il caso ovvero i naturali istinti degli animali hanno
istruito l'uomo e spinto all'invenzione delle arti e delle scienze.
OSSERVAZIONE XIX1
Le comete niente portendono overo presaggiscono 0 di bene 0 di
male, quando si rendono a noi aspettabili?
Convengono3 oggi tutti i migliori e peritissimi astronomi che le
comete non siano fenomeni che si producono da vapori o esalazioni
ignee, sulfuree o bituminose della terra, accese nella suprema
regione dell'aria, ove si generano tutte le altre meteore. Elle sono
corpi solidi, durabili ed erranti, le quali hanno la lor sede comu-
ne colle altre stelle erranti nella sommità del cielo, sopra ogni
altro pianeta, non pur della Luna, ma di Saturno istesso, donde
discendono e si raggirono poi vagando nelle regioni de' piane-
ti; onde avviene che vagando in sì sublimi regioni sian vedute
da nazioni fra di lor lontanissime e quasi per infinito spazio di-
stanti.
Sicome nella produzione delle medesime niente la terra vi confe-
risce di sue esalazioni o vapori, cosi parimente è falso che sijfor-
1. Nel margine dell'autografo, in alto a sinistra, la data «io marzo 1744».
2. portendono: annunziano, presagiscono; aspettabili', visibili (latinismi).
3. Convengono ecc.: senza citare Bayle, il Giannone ne riprende il grande
tema, utilizzando i Principia del Newton. Cfr. le seguenti opere del Bayle :
Lettre à M.L.A.D.C, docteur de Sorbonne, où il est prouvé par plusieurs
raisons tirées de la phìlosophie et de la théologie, que les comètes ne sont point
le présage d'aucun malheur . . ., Cologne 1682; Pensées diverses écrites à un
docteur de Sorbonne à Voccasion de la comète qui parut au mois de dicembre
x68o, Rotterdam 1683, e Continuation des Pensées diverses . . ., Rotterdam
1705. Sul Bayle cfr. P. Bayle, Pensieri sulla cometa e Dizionario storico e
critico, a cura di G. B. Brega, Milano 1957, che è una discreta antologia; É.
Labrousse, Pierre Bayle, La Haye 1963, in due volumi, che è certamente
l'opera più aggiornata sui Bayle, ma tende ad assorbirlo nella dimensione
del teologo protestante; B. Talluri, Pierre Bayle, Milano 1963, soprattut-
to le pp. 37-46, riguardanti le comete; W. Rex, Essays on Pierre Bayle and
Relìgious Controversy, La Haye 1965, pp. 30-74, che si muove nella stessa
direzione della Labrousse. Ma cfr. G. Cantelli, Teologia e ateismo. Saggio
sul pensiero filosofico e religioso di Pierre Bayle, Firenze 1969. Vedi, per un
interessante confronto, la voce Comète dell' Bncyclopédie, ni, 1753, pp.
672 sgg., fondata su Newton e sull'opera del fratello di Johann Bernouilli,
Jacob, Conamen novi systematis cometarum . . ., Amstelacdami 1682. Al
Bayle si ispirano le pagine del Toland nell5 Adeisidaemon . . ., Hagae Comi-
tis 1709, par. xxi, pp. 37-41*
I0Ó2 L'APE INGEGNOSA
mino dalle esalazioni del sole e de' pianeti, intorno alle quali esse
si aggirono, e che sicome di repente nascono, così di repente si
estinguano. Questa fu un'opinione antica de' peripatetici, riferita
da Seneca, lib. 7 Natur. qu., cap. 19, da Plinio, lib. 2, cap. 25, e
da Galeno o chi altro si fosse l'autore del libro De hìst. philos., cap.
18, che va inserito nel tom. 2 dell'opere di Galeno,1 rifiutata da'
più insigni astronomi non meno moderni che antichi. Fra gli antichi
la rifiutarono i pitagorici, i quali costantemente sostennero che le
comete fossero corpi stabili e perpetui ; e se bene il lor corso fosse
vario ed irregolare, non ordinato e costante come quello de' piane-
ti: nulla di manco non mai s'estinguono, ma ritornano anch'esse
doppo il lor giro ed àmbito ad apparir di nuovo; quantunque si
renda assai difficile di ravvisare ed avertire essere le stesse, poiché
spesso cangiono forma ed aspetto. De' pitagorici intese Plinio
(sicome saggiamente avverti il P. Arduino) nel lib. 2, cap. 25 in fi-
ne, quando scrisse: «Sunt qui et haec sidera perpetua esse cre-
dant, suoque ambitu ire, sed non nisi relieta a sole cerni»;2 e del
medesimo sentimento fra gli antichi fu Galeno nel cit. lib., capp.
22 et 23. 3 Tra moderni i più sublimi ed accurati astronomi tennero
ciò per indubbitato e costante, e per tacer di altri dovran certa-
mente prevalere le diligenti osservazioni fattane dal cclebratissimo
Isaac Newton, il quale nel lib. ili de' suoi Princìpi matematici della
naturai philosophia, De mundi systemate,4 non ebbe difficoltà di
affermare: «quod corpora cometarum sunt solida, compacta, fixa
ac durabilia ad instar corporum planetarum. Nam si nihil aliud
essent quam vapores vel exhalationes terrae, solis et planetarum,
cometa hicce in transita suo per viciniam solis statim dissipari
debuisset». E quest'insigne autore è inchinato a credere che le
1. Questa fu . . , Galeno: cfr. Plinio, Nat. hist., ed. cit., tomo 1, lib. n,
cap. xxv, sect. xxni, p. 89; qui, alla nota 15, le citazioni di Seneca, di Ga-
leno e deWHistoria philosophica. 2. De7 pitagorici ... cernì: Plinio, loc.
cit., pp. 89-90, e ancora nota 15 a p. 89 (« V'è chi ritiene che anche questi
astri siano perpetui e che si muovano secondo una propria orbita, ma che
non si distinguono se non quando sono abbandonati dal sole»). 3. e del
medesimo . . . 22 et 23: da Plinio, loc. cit., p. 89, nota 15 cit. 4. Philoso~
phìae naturali* principia mathematica cit., lib. in, lemma IV, Cometas esse
luna superiores et in regiones planetarum versari, pp. 439 sgg. La citazione
che segue a lemma xi, p. 466 («i corpi delle comete sono solidi, compatti,
fissi e durevoli come quelli dei pianeti. Poiché, se non fossero altro che
vapori ed esalazioni della terra, del sole e dei pianeti, questa cometa qui
avrebbe dovuto all'istante dissolversi al suo passaggio per la vicinanza del
sole »).
OSSERVAZIONE XIX I063
comete siano della stessa natura e genere de' pianeti e che ricevan
anche dal sole la luce, ancorché abbiano vie torte ed oblique e
sovente contrarie al corso de* pianeti : « Nam cometae (e* dice nel
cit. lib.) vias obliquas nonnumquam cursui planetarum contrarias
secuti, moventur omnifariam liberrime et motus suos etiam contra
cursum planetarum diutissime conservant. Fallor ni genus plane-
tarum sint, et motu perpetuo in orbem redeant ».* Con tanta riserba
e cautela scrisse quest'illustre autore, sicome ogni savio scrittore
dee usare nella contemplazione di cose a noi si remote e sublimi;
ma vi furono altri moderni astronomi, sì arditi ed audaci, i quali
non si ritennero solo di affermare che con moto perpetuo girano e
faccino a noi ritorno, ma si sono avanzati sino a predire il lor
ricorso ed a rissarne certo e determinato tempo, non altrimente che
fassi nel presaggire gli ecclissi. Bernoul, astronomo di Basilea,
costantemente asseverò che la cometa apparsa nell'anno 1680 dovea
la stessa tornare nel 1719, nel primo grado 12 d'Ariete, sicome si
riferisce nell'Istoria dell'Accademia Regia delle Scienze di Parigi
nell'ann. 1705, pag. 140. Ed in effetto rapporta il P. Arduino
gesuita nella not. 15 al lib. 2, cap. 25 di Plinio,2 che a' suoi tempi
a Berlino nel predetto a. 1719 fu osservata una cometa, ancorché
picciola ed alla terra vicina. Ma che fosse la stessa apparsa nel
1680 è difficile il diffinirlo, perché sovente le stesse comete cangiano
aspetto, e quella che prima mostrossi caudata 0 crinita, destituta
da' raggi solari gli perde sicome dall'istoria delle comete è mani-
festo, che sovente doppo un secolo siano di nuovo apparse nel se-
guente anno secolare, come avvenne nell'a. 1477, 1577, 1677, ma,
come si è detto, è impresa molto ardua l'affermare sicuramente che
sempre siano le stesse.
Parimente è cosa molto incerta, anzi vana il voler diffinire il
1. aNarn cometae . . .redeant*: loc. cit., lemma iv, corollario 3, p. 444
(«Le comete infatti seguendo spesso vie oblique contrarie al corso dei
pianeti, si muovono in tutte le direzioni nel modo più libero e conservano
per lunghissimo tempo il proprio moto contro il corso dei pianeti. Se non
sbaglio sono del genere dei pianeti e tornano nell'orbita terrestre con un
movimento perpetuo»). 2. Bernoul .. .Plinio: cfr. Nat. kist., loc. cit.,
pp. 89-90, nota 15 alla sect. xxm, dove si parla del Bernouilli e si cita
V«Historia Academiae regìae scientiarum, anni 1705, pag. 140». Cfr. Histoire
de VAcadémie royale 1705 cit., Paris 1730, pp. 176 sgg. - Johann Bernouilli
(1667- 1748), dal 1705 professore di matematica a Basilea e dal 1699 mem-
bro dell' Accademia delle Scienze di Parigi.
I064 L'APE INGEGNOSA
preciso tempo della lor durata, e quanto siano a noi aspettabili. Gli
antichi, sicome rapporta Plinio, lib. 2, cap. 25, * lo diffinirono non
esser meno di sette giorni, né più lungo di ottanta. Ma l'esperienza
per varie osservazioni fatte ci ha dimostrato che il tempo che si
rendono a noi aspettabili sia incetto. I Conimbricensi, tract. 3
Meteor.y cap. 3,* narrano aver veduta una cometa la quale appena si
sollevò sopra l'orizonte, che subbito da' loro occhi sparve. Kccher-
mano, lib. 6 System, physici,3 rapporta d'un'altra la quale doppo
cinque quadranti d'ora cessò di farsi vedere. Sicome al contrario
si è sovente osservato durare più degli ottanta giorni, spessissime
volte tre mesi, altre volte sei mesi, sicome si narra della come-
ta apparsa nell'imperio di Nerone, presso Seneca, lib. 7 Natur.
qu., cap. 21. 4 Così pure la cometa che apparve ncll'a. 603 doppo
nato Maometto; l'altra apparsa nel 1240 quando il G. Tamber-
lano innondò quasi tutta l'Asia; ed altre riferite dal P. Ricciolo
gesuita nel suo Almagesto, tom. 2, lib. 8,s e se dee prestarsi fede a
FI. Giuseppe nel lib. 7 Belli iudaici,6 quella che apparve sopra Ge-
rusalemme prima del suo eccidio durò sempre fulgida un anno
intero.
Le varie lor figure sono quasi che infinite, sicome sono varie ed
infinite le opere di natura: ora appaiono caudate, ora crinite, ora
barbate, ora a guisa d'un'asta da lanciare; altre in figura di spada,
altre di botte concava, altre di disco, altre cornute, altre di lampadi
ardenti ed altre di diverse forme le di cui immagini possono ve-
dersi presso Cornelio Gemma,7 De Naturae divinis characterismis,
1. Plinio, lib. 2, cap. 25: cit., scct. xxn, p. 88. 2. 1 Conimbricensi . . . cap. 31
da Plinio, loc. cit., sect. xxn, p. 88, nota 14: «Narrant Conimbriccnscs,
traci. 3 Meteor.t cap. 3 ». Si tratta dell'opera di commento ad Aristotele
del Collegium Conimbriccnsc Societatis Iesu : Commentarii Coltegli Conim-
bricensis . . .in quatuor libros De coelo, Metcorologicos et Parva naturalia
Aristotelis . . ., pubblicati a Coimbra nel 1603. 3. Kechermano . . . physici:
cfr. Systema physicum septem libris adornatum et anno Chnsti ìùoy publice
propositum . . . a B. Keckermanno, Dantisci 161 o. Da Plinio, nota 14 cit.
Bartholomaus Keckcrmann (1571-1608), filosofo riformato tedesco.
4. presso Seneca . . . cap. 21: da Plinio, loc. cit., sect. xxn, p. 88, nota 15.
5. P. Ricciolo . . . lib. 8: ancora dalla stessa nota 15 di Plinio. L'opera del
gesuita ferrarese Giovanni Battista Riccioli (1 598-1 671) s'intitola Alma-
gestmn astronomiam veterem novamque complectens observationibus alio-
rum . . ., Bononiae 1651. b.lib.J Belli iudaici: la citazione viene da Plinio,
loc. cit., p. 88, nota 1, ma va rettificata: Bell. iud.t vi, v, 3. 7. Cornelio
Gemma (i535-i579)> astronomo di Lovanio, è un autore utilizzato dal-
OSSERVAZIONE XIX I065
overo Cosmocriticoni lib. i, cap. 8, il quale accuratamente le de-
scrisse.
Conosciuta la propria natura delle comete, o si vogliano ascrivere
nella classe delle stelle erranti, o pure nel genere de' pianeti: è ma-
nifesto che niente portendono o presaggiscono sia di bene o di
male, quando si rendono a noi aspettabili; non altrimenti che le
stelle erranti, o pure, come se rimmaginò Newton, gl'altri pianeti.
Dall'antichità fu riputata la cometa stella infelice e terrifica, che
annunziasse rivoluzioni, cangiamenti di domìni ed altri funesti
avvenimenti; ma i savi e profondi filosofi questi sciagurati prono-
stici gli lasciavano alla credulità del volgo semplice ed ignaro ; ed i
prencipi ed i politici gl'interpretavano secondo veniva più in ac-
concio a* loro fini e disegni, per tener i popoli illusi, coprendo so-
vente sotto tal manto le loro malvagità e scelleratezze; sicome narra
Tacito del crudele Nerone, il quale non vi era cometa che a' suoi
dì apparisse, che non fosse espiata coll'illustre sangue di tanti
preclari e nobili spiriti, condotti per tal occasione a dure e spietate
morti: «sidus cometes» e' dice nel lib. xv de' suoi Annali «sanguine
illustri semper Neroni expiatum».1
Questo fascino ottenebrò un tempo le menti umane in guisa che
non vi era cosa funesta che accadesse sopra la superficie della terra,
che non si attribuisse agl'influssi di una tale stella, che la credevano
terrifica e spaventosa. Il genere umano è pur troppo inchinato al
sorprendente e portentoso, e come saviamente disse Lucrezio
«est nimis avidum auricularum»,* e per ciò davasi facile credenza
a tali prcsaggi, che da' gl'imperiti ed impostori astronomi si ven-
devano al volgo credulo ed incauto. E presso i Romani fin che
durò l'ignoranza d'una vera e solida filosofia, le comete si aveano
per portenti, e per ciò si denunciavano e si notavano ne' publici
annali, affinché se ne procurasse l'espiazione. Ma nel felice secolo
di Augusto nel quale la vera filosofia rischiarò le loro menti e tolse
il vano lor timore, non si denunciavano più, né le loro apparenze
l'Hardouin per le note a Plinio. Cfr. ed. cit., Index autorum praecipuorwn,
p. n.n.: «De naturae divinis characterismis, sive Cosmocriticon libri II,
Antverpiae 1575, 8°». 1. «sidus cometes . . . expiatum»; Ann,, xv, xlvii, 1.
2. ««i nimis avidum auricularum»: cfr. De rer. nat.t iv, 594.
I0Ó6 L'APE INGEGNOSA
si notavano negli annali, sicome non si notavano le ecclissi, dopo
avere scoperte le loro fisiche e naturali cause; con tutto ciò il fa-
scino durò per più tempo presso il volgo poiché avea per sostenitori
tre forti campioni. Il popolo incapace e rude di filosofia. Gl'imperiti
ed impostori astronomi, ed i politici.
Il popolo, come che il caso fortuito è sparso da per tutto e le co-
mete vagando per regioni sublimi si scuoprano per lunghi spazi
sopra la superficie della terra, sicché abbracciano immensi paesi,
dove sovente accadono e prosperità e sciagure, obliando le pro-
sperità d'un regno o d'una provincia, contempla solo le avversità
accadute ad un'altra, seguendo i pregiudici che tiene dell'apparsa
cometa, che la crede funesta e terrifica. Cosi quando cominciò
nell'anno di Roma 678 la guerra civile con Sertorio, si credette
che fosse stata presaggita dalla cometa poco prima apparsa. Pari-
mente la guerra civile di Cesare con Pompeio, poiché più comete
apparsero doppo che Cesare trapassò il Rubicone, s'imputò pure
a' maligni loro influssi. Essendo per l'infame Agrippina tolto dal
mondo per veleno Claudio, e l'imperio trasferito nella persona di
Nerone, questo funesto passaggio fu interpretato anche ed ascritto
alla cometa che precedette, riputata venefica ed infausta. Ma i pre-
saggi che si fecero dal volgo nell'undecimo anno dell'imperio di
Nerone, quando una cometa per sei mesi si rese aspettabile, non
ebber altra caggione se non che attediati i popoli d'un imperio co-
tanto empio e crudele, si lusingarono che tosto dovesse finire e che
quella cometa presaggiva mutazione di principe; onde, come se
Nerone fosse stato già scacciato, cominciarono a fantasticare sopra
il nuovo successore. Tacito apertamente nel libro xiv de' suoi
Annali questa opinione l'ascrive al volgo, non che i savi credessero
il portento, dicendo : «Et sidus cometes eflulsit, de quo vulgi opinio
est, tanquam mutationem regis portendat Igitur quasi iam depulso
Nerone»1 etc. Cosi pure avanti l'eccidio di Gerusalemme essendo
comparsa una cometa in forma d'una spada che secondo FI. Giu-
seppe durò un anno, si disse, doppo il successo, che fu presaga del-
la mina di quella città. E lo stesso si fantasticò della cometa apparsa
dopo nato Maometto, nel 603, che presaggiva i danni che quest'im-
1. *Et sidus . . . Nerone)): Ann., xiv, xxn, 1. Da Plinto, loc. cit., p. 89, sect.
xxiii, nota 16. Anche il brano successivo riguardante il Tamerlano è co-
struito sulle note di Plinio, p. 88, sect. xxn, nota 15.
OSSERVAZIONE XIX I067
postore dovea recare al cristianesimo; e nell'anno 1240 de* danni e
desolazioni che dovea apportare il G. Tamerlano nell'Asia. Ma
è da avvertire che tutti questi presaggi si facevano doppo seguito
qualche funesto evento ed allora tutto si riportava alla malefica
stella. E tante volte che nulla seguiva, anzi il contrario, non se ne
facea alcun motto, a guisa degl'indovini, i quali se per caso si av-
vera qualche loro predizione, si suona la tromba, ma se succede il
contrario, o non si avvera, tutto si mette in un profondo silenzio.
Pruova evidente della fallacia e vanità di tali sgraziati ed infausti
presaggi.
Gl'imperiti astronomi, fra' quali ve ne furon eziandio degli
impostori, anche dalla lor parte vi han molto contribuito per man-
tener l'errore e gl'inganni. Essi, credendo che le comete si produ-
cessero dall'esalazioni de' pianeti intorno a' quali si raggirono,
insegnavano che prendessero la loro virtù d'influire in que' segni
del Zodiaco dove si saranno avvicinati, e dalle lor figure e somi-
glianze predivan i presaggi; quindi diedero al volgo semplice a
credere tante ciancie e fole, rapportate in gran parte da Plinio, lib.
2, e. 25, che quando prendevano figura di tibie minacciavano a'
musici sciagure ed infelicità; se ingombrasser le parti verende de'
segni celesti presaggivano sozzi ed osceni essempi di libidine ;x se
prendevan figura triangolare 0 quadrata minacciavano a gl'ingegni
ed eruditi danni e ruine; se apparivano nella testa del serpente
settentrionale influivano velenosi effetti; e tante altre fole le quali
da Ptolomeo ed altri raccolse il P. Ricciolo nel suo Almagesto,
tom. 2, dove si rapportano tutti i presaggi di quest'infelici astrono-
mi. Sovente il caso verificava il presaggio, poiché sull'estensione
si immensa de' paesi dove le comete si rendono aspettabili poteva
benissimo in tanti milioni di persone accadere in uno o più indivi-
dui un successo conforme al presaggio. Altri più sobri e moderati,
contenti d'indagare solo gli effetti per ciò che riguarda il loro
influsso sopra le cose vegetabili della terra, su '1 falso supposto che
le comete fosser generate da' vapori ed esalazioni de* pianeti, im-
1. quindi diedero . . , libidine: Plinio, loc. cit., sect. xxni, p. 88: «Tibiarum
specie musicae arti portendere: obscenis autem moribus, in verendis par-
tibus signorum». E nella nota 9 THardouin commenta: «Si tibiarum spe-
ciem sic positi [situs ac loci cometarum] referrent, credebantur musicis
aliquid significare: si partes signorum imaginumque caelestium verendas
occuparent, fore ut libidinis exempla ederentur obscena».
I0Ó8 L'APE INGEGNOSA
maginarono che attraendo anche a sé dalla terra que' vapori ed
esalazioni, ad essa necessarie, cagioneranno una siccità permanente
anche de' fiumi e de' fonti, onde ne seguirà una dannosa e misera
sterilità. Ma questi vanno di gran lunga errati ; poiché tanto è lon-
tano che possano indicare sterilità, che i più dotti ed accurati astro-
nomi, i quali hanno le comete per corpi stabili e perpetui, non già
prodotti dall'esalazioni de' pianeti, affermano il contrario, che
l'esalazioni e vapori ch'escono dalle stesse comete giovano mirabil-
mente alla fecondità della terra; e sicome l'esalazioni del mare,
dalle quali converse in nubi in gran parte si producono le piogge,
«sic ad conservationem marium et humorum» scrisse Newton nel
terzo libro de' suoi Princìpi, in fine «in planctis requiri videntur
cometac, ex quorum cxalationibus et vaporibus condensatis,
quicquid liquoris per vegetationem et putrefactionem consumitur
et in terram aridam convcrtito, continuo suppleri et refici pos-
siti1 I politici in fine han maggiormente reso evidente che sono
tutte fole e ciance i presaggi infelici che si voglion trarre dalle co-
mete; poich'essi sovente han raggirato il volgo semplice in fargli
credere, secondo veniva più acconcio a' loro disegni, che più tosto
presaggivano prosperità, felicità e contenti, che avvenimenti fu-
nesti ed infelici. Chiarissimo ed illustre cssempio è quello che ci
somministra l'istoria romana. Poco doppo la morte di Giulio Ce-
sare apparve in Roma una fulgida cometa: Augusto, erede e suo
figliuol adottivo, interpretò per quel segno felicità e diede a credere
al volgo ch'era apparsa quella nuova stella, dov'era stata ricevuta
l'anima di Cesare fra gl'immortali numi de' dii; e per ciò esser
fausta e felice; e cosi fu creduto: «creditumque est» dice Svetonio
in Iulìo, cap. 883 «animam esse Caesaris in caelum recepti : et hac de
causa simulacro eius in vertice additur stella»; e Plinio nel luogo cit.
notò pure lo stesso, dicendo : « Eo sidere signiflcari vulgus credidit
Caesaris animam inter deorum immortalium mimiiia receptam:
i . « sic ad conservationem . . . possìt » : cfr. Philosophiae naturalis principia
mathematica cit., in, p. 473 («così le comete paion necessarie per la conser-
vazione dei mari e dell'umidità sui pianeti, poiché dalla condensazione delle
loro esalazioni e dei loro vapori può venir subito ricostituito e rifatto
quanto di liquido si perde attraverso la vegetazione e la putrefazione, 0 si
converte in arida terra»), a. Svetonio in lulio, cap, 88: cfr. Plinio, loc.
cit., sect. xxiii, p. 89, nota io: «Svetonio, in Iiàìo> cap. 88»: segue la
frase citata dal Giannone. Anche tutti i brani di Plinio sono a p. 89.
osservazione xix ioóg
quo nomine id insigne simulacro capitis eius, quod mox in foro
consecravimus, adiectum est w.1 Augusto, per mantenere ne' popoli
tal credenza, volle che l'immagine di quella cometa fosse collocata
in Roma nel tempio, alla quale dovesse rendersi religioso culto
per la felicità dell'imperio, che in lui avea presaggita: «cometes»
dice Plinio «in uno totius orbis loco colitur in tempio Romae,
admodum faustus divo Augusto iudicatus ab ipso » ; soggiungendo :
«Haec ille in publicum, interiore gaudio sibi illum natum, seque
in eo nasci interpretatus est».2 Ecco come sovente le comete han
ricevuta varia interpretazione, secondo che veniva più a' principi
in acconcio, non già ch'esse per [se] stesse portentassero cos'alcuna,
sia di bene o di male. Gli uomini saggi e prudenti furon sempre
lontani di credere a sì vani presaggi; e tutto il loro studio dee
essere, calcando il sentiero della virtù, di adempire, ciascuno se-
condo il suo stato, al suo dovere e confidare nella infinita bontà di
Dio, di cui solo è sapere il futuro; e sicome sono a lui presenti
tutte le cose, non meno le passate che le future, così è nostra vana
presunzione d'indagare gli alti ed imperscrutabili suoi giudici; ed
il nostro Torquato, fino dal suo mago Ismeno fa dire a Solimano :
Ciascun qua giù le forze e *l senno impieghi
per avanzar fra le sciagure e i mali:
che sovente adìvien ch'il saggio e yl forte
fabro a se stesso è di beata sorte.3
A questo proposito non voglio tralasciare di aggiunger a questa
la seguente osservazione, da me dettata per toglier li vani pronostici
e presaggi che si eran formati da' volgari astronomi d'Italia per
la cometa apparsa ne' princìpi di questo anno 1744, la quale, doppo
essersi resa a noi aspettabile per lo spazio poco men di tre mesi,
sparì: osservata anche in remotissime regioni, sicome nella Svezia
x. *Eo sidere . . . adiectum est»: «Il volgo credette che quella stella signifi-
casse l'anima di Cesare accolta tra gli spiriti degli dei immortali; e per
questo motivo l'emblema di una stella è stato collocato sul busto di Cesare
che poco fa gli abbiamo consacrato nel Foro». 2. «cometes . . . est»: «il
solo posto al mondo in cui una cometa, che il divo Augusto ritenne del
tutto propizia, è oggetto di venerazione, è un tempio a Roma». «Questo
[cioè le parole riguardanti Cesare sopra citate] egli disse in pubblico; ma
in segreto egli interpretò la cometa come nata a suo proprio vantaggio e
come se in quella fosse contenuta la sua propria nascita». 3. Tasso, Ger.
lib.t x, zo. - Nella parte superiore della e. 106 r vi è un frammento evi-
dentemente non di questa osservazione.
IO70 L'APE INGEGNOSA
e nella corte del re di Prussia, negli osservatorii di Upsala e di
Berlino.1 Li vani presaggi tanto più si multiplicarono, quanto che
apparsa in tempo che ardca la guerra in Italia e nella Germania:
tempo feracissimo di simili portenti e vaticini. Così pure mentre
ardeva la 11 guerra punica in Italia, Spagna ed Affrica, dice Livio
che crebbe in immenso il numero de' denuncianti di prodigi e
portenti, tanto che aveano stancati i sacerdoti per tanti sacrifici,
per espiarli e placare l'ira celeste.2 Cominciarono in questa presente
guerra, mentre ardea in Boemia, a sentirsi tanti prodigi di acque
ed alberi tinti di sangue ; di figure miracolose scoverte ne' tronchi
degli alberi nell'esser recisi, e tante altre illusioni, alle quali sono
sottoposti i Boemi, gente grossa e credula. Apparsa dapoi questa
cometa furono innumerabili gl'infausti pronostici: chi, secondo lo
studio3 delle parti, presaggiva desolazioni ed estermìni di repub-
bliche, regni e domìni, 0 di questo 0 di quello de' principi conten-
denti ; chi fame, penuria e sterilità nelle campagne ; ed un astrologo
di Milano vaticinava siccità nella terra, ne' fonti e fiumi, tremuoti
ed infecondità ne' campi; e pure allo sparir della cometa succede
una primavera piovosa, umida e straordinariamente nevosa. Questi
vani presaggi diedero occasione al seguente discorso che io ho
voluto qui inserire come un'osservazione alla precedente connessa
ed appartenente.
1. A questo proposito , . . Berlino: il Giannonc seguiva le cronache politiche
e scientifiche attraverso le gazzette, ma non vi è alcuna traccia di ciò nelle
cronache del «Mercure historique et politiquc» che egli aveva a disposizio-
ne in carcere. Il discorso sulle comete, in questa osservazione, che, come
si è detto, riprende, senza alcun accenno, il tema di Bayle, si colloca nella
stessa dimensione di reazione a un clima superstizioso creato dalla presenza
di una cometa durante la guerra di successione austriaca. Come liayle,
anche il Giannonc, sia pure in tono minore, vuole liberare, riportando il
discorso in termini scientifici, P umanità dalla paura. Questo è in perfetta
coerenza con i Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio in cui il Giannonc
sviluppava un'intuizione di Toland (senza peraltro nominarlo) sulla non
superstizione di Livio. 2. dice Livio . . . celeste : il riferimento è forse a xxin,
36, io: aNcc alter consul Fabius, qui ad Calcs castra habobat, Volturnum
flumen traduccre audebat exercitum, occupatus primo auspiciis repetendis,
dein prodigiis quae alia super alia nuntiabantur; expiantique ea haud facile
litari haruspices respondebant ». 3, lo studio: la passione (latinismo).
OSSERVAZIONE XXVIII I07I
OSSERVAZIONE XXVIII
Delle biblioteche.1
ni
La Germania (chi '1 crederia) quella che fin a' tempi di C. Tacito
visse nelle caliginose tenebre d'ignoranza, senza lettere, non pur
senza libri, avesse dovuto poi fiorir cotanto per numerose biblio-
teche non men pubbliche che private ? E che per varie e laboriose
Raccolte di recondite memorie sottratte dalle tignole e polvere de'
loro archivi avesse in ciò superato ogni altra nazione ? Certamente
che coloro i quali vorranno applicarsi a scriver glorie di secoli più
oscuri e tenebrosi doppo la decadenza dell'Impero, e quando estin-
ta la virile stirpe di Carlo M. l'Imperio passò a' Germani, dovran-
no a queste Raccolte con tanta fatica, industria e diligenza fatte in
Germania infinita obbligazione, poiché su fondamenti stabili, non
fìnti 0 favolosi come per lo passato, protranno sicuramente ap-
poggiare le loro narrazioni, e togliere nel concetto degli uomini tan-
ti errori, fole e menzogne, ond'erano contaminati» Si sono oggi in
Germania fatte esquisitissime ricerche per iscovrire la verità de'
successi ; e da' pubblici archivi delle più principali lor città, e da que'
delle più antiche loro chiese, badie e monasteri si sono estratti
monumenti sinceri ed autentici della cui fede non è da dubbitare, e
molto meno della conosciuta probità de' germani collettori.3
1. Il Giannone affronta in questa osservazione il tema delle biblioteche:
dopo aver parlato di quelle antiche, si sofferma su quelle napoletane, so-
prattutto del cardinal Seripanclo, di San Giovanni in Carbonara, e della
famiglia Brancaccio, di Sant'Angelo al Nido. Il Giannone riflette esperien-
ze dirette, in quanto erano state, soprattutto l'ultima, gli strumenti del suo
lavoro per V Istoria civile. Amplia quanto aveva già affermato nell'autobio-
grafia (cfr. qui, p. 32), di cui fra l'altro ripete alcuni motivi. Per questo mi
è sembrato più interessante offrire la sola parte riguardante le biblioteche
di Vienna. 2. Si sono . . . collettori: il Giannone si riferisce alla cultura
erudita tedesca che ha in Leibniz il suo affascinante protagonista. Non si
devono dimenticare i rapporti del Giannone con i Mencke e con la rivista
« Acta Eruditorum Lipsiensium» (cfr. la nota 2 a p. 165), che riflettevano
l'eredità leibniziana e il rinnovamento culturale tedesco legato soprattutto
all'Università di Lipsia della cui cultura gli «Acta» erano strumento di
diffusione. Questa cultura, che nella dimensione erudita aveva superato il
pirronismo, aveva prodotto le grandi raccolte del Leibniz sugli scrittori
brunsvicensi e di Johann Burckard Mencke sugli scrittori sassoni, che era-
no state di modello e di stimolo al Muratori.
IO72 L'APE INGEGNOSA
Non minore e slata la cura e diligenza in raccorre insieme vari
libri e mamiscritti, e formarne ampie e doviziose biblioteche; e
se bene tardi fosse entrato in loro questo studio, nulladimanco
han compensata questa tardità colla multiplicilà e splendidezza
delle suppellettili, ed ampie sale de' loro palaggi, destinate per
uso delle medesime; ed a miei dì non pur in tutte le corti di tanti
principi e sovrani e città libere imperiali, onde si compone l'Im-
perio germanico, ma quasi tutti i particolari conti e baroni e nobili
hanno nelle case instruttc speciose biblioteche; e sicome un tempo
prevalse il costume di render premiabili le loro gallerie con far ri-
cerche di statue e di pitture eccellenti di scultori e dipintori illu-
stri, così tutti secondo il lor potere s'ingegnavano di fornire le loro
abitazioni di biblioteche adorne delle migliori e più magnifiche
edizioni e di libri rari e non a tutti comuni; ed ultimamente molti
si eran applicati di far ricerche delle prime e più antiche edizioni,
ad ogni prezzo comprandole da' vecchi conventi de' frati, che non
le stimavano e stupivano come profondessero tanto denaro in libri
così vecchi, coverti per lo più di rozze tavolette ed alcuni di carat-
tere gotico o longobardo appena intelliggibile; non comprendendo
che questa era la sicura via e maniera per iscovrire le alterazioni,
cangiamenti, mutilazioni e nuove giunte false, che si leggevano
nelle seconde o terze ristampe, per le quali quasi tutti i libri si
eran conturbati e guasti. Ma quel ch'era più da recar maraviglia,
che non solo que' destinati ed occupati a ministeri politici di consi-
gli o dicasteri, ma i militari istessi, i generali e capi d'esserciti e di
armate se n'invogliarono in maniera che vollero pure nelle loro case
avere biblioteche ; e la Biblioteca Imperiale il maggior splendore ed
accrescimento l'ebbe da una che, come si dirà, fu comprata in
Fiandra, che l'avea raccolta un general di armata,
La Biblioteca Cesarea degli Augusti imperadori austriaci, doppo
che restituirono da Praga la lor sede in Vienna, fu sotto l'imp.
Leopoldo accresciuta di rari manuscritti e di pregiatissimi libri;
ed avendo avuto la sorte di avere per bibliotecario Pietro Lambe-
cio, questi fu che la riordinò ed arrichì di preziose memorie, e
sopra tutto l'illustrò per que' suoi dotti ed eruditissimi Commentarvi,
stampati in Vienna nell'anno 1677, in foglio in otto volumi.1
i. Pietro Lambeao . . . volumi: cfr. P. Lambecii Commentariorum de au-
gustissima Bibliotheca Caesarea vindobonensi . . . editto altera opera et studio
OSSERVAZIONE XXVIII IO73
Quando io nel 1723 giunsi a Vienna per presentar alla Maestà del-
l' imp. Carlo VI la mia Istoria civile del regno di Napoli, a lui de-
dicata,1 la trovai riposta in alcune stanze d'una casa prossima al-
l'imperiai palazzo; di cui erane bibliotecario il Gentilotti,2 il qual
nominato dall'imperadorc auditor di Rota per la Germania, tosto
passò in Roma, lasciando per suo successore il Garelli,3 primo
medico della persona di Cesare, che lo sostituì al Gentilotti insie-
me col Riccardi,4 nostro napolitano; ma questi non volle impac-
ciarsene, sicché rimase la cura al solo Garelli ed a due custodi5
che la reggevano. Intanto preparavasi un superbo edificio6 eretto a
questo fine, a canto dell'imperiai palazzo, nel quale dovea traspor-
tarsi la biblioteca, poiché essendo al doppio accresciuta per la nuova
compra della biblioteca fatta in Fiandra, che costò all'imperadore
centomila fiorini, era bisogno d'un più magnifico ed ampio edificio;
sicome a' miei tempi si perfezionò,7 riuscendo il più superbo, e di
suppellettili e di pinture ed indorature e di statue di marmo ricco
e risplendente; sicché io ebbi il piacere di vedere in esso collocata
l'antica biblioteca e la nuova di Fiandra, ed essendosene non guari
doppo morto l'arcivescovo di Valenza8 presidente del Consiglio di
Spagna, lasciando una magnifica biblioteca, numerosa se non di
codici manuscritti, di libri rari di ogni sorte, poiché non risparmia-
va denaro per avergli, sia da Ollanda, Inghilterra, Francia e da
altri più lontani e remoti paesi, l'imperadore la comprò pure per
A. F. Kollarii . , ., Vindobonac 1766. Nel tomo 1, coli. 433 sgg., il Kollar
offro un esauriente profilo del Lambcck (1628-1680), ex protestante am-
burghese convertitosi al cattolicesimo. La prima edizione dei Commentarii
fu stampata a Vienna dal 1663 al 1673. Il Giannone cita evidentemente a
memoria. 1. Cfr. Istoria civile, tomo x, pp. n.n., la lettera dedicatoria a
Carlo VI del xz febbraio 1723. 2. Gentilotti: cfr. Vita, qui a p. 100 e la
nota 2 ivi. Vedi anche il profilo che di lui traccia il Kollar nella citata rie-
dizione dei Commentarii lambeciani, tomo 1, coli. 728 sgg. 3, Garelli:
cfr. Vita, qui a p. 96 e la nota ivi. 4. Riccardi: vedi la nota 3 a p. 64. Per
il Garelli e il Riccardi cfr. quanto scrive il Kollar nei citati Commentari^
tomo X, coli. 753 sgg. Cfr. anche il mio lavoro, La difesa dei «Rerum itali-
carum scrìptores » di L. A. Muratori in un inedito giannoniano, in « Giorn.
stor. d. lctt. it. », voi. cxlii (1965), fase. 439, passim. 5. due custodi: si
tratta di Nicola Forlosia (vedi la nota 2 a p. 205) e di Gottfried Spannagel.
Su entrambi cfr. il mio La difesa ecc., cit., pp. 407 sgg. 6. un superbo
edificio: si tratta dell'attuale sede della Nationalbibliothck di Vienna in
Josephplatz. La nuova biblioteca acquistata in Fiandra era quella del baro-
ne di 1 lohendorf. 7. perfezionò : l'autografo ha « perfeziò », evidente lapsus.
8. Varcivescovo di Valenza: vedi la nota 1 a p. 88. La sua biblioteca, rior-
dinata dal Forlosia, era di circa quattromila volumi.
68
1074 L'APE INGEGNOSA
unirla alle altre due, sicché si accrebbe l'imperiale maravigliosa-
mente, non men per numero che per qualità e richezza di libri, e
potè garreggiare con quella regale di Pariggi, e di qualunque altra
in Europa più rinomata e celebre.
La magnificenza dell'edificio, il numero, il preggio de' libri e
sopra tutto i preziosi e rari manuscritti che conserva, avrebbe me-
ritato per bibliotecario un altro Lambccio, per farla maggiormente
risplendere, o almeno seguendo l'esempio dell'abate Bignon1 far si
che di essa se ne fosse letto un catalogo ben ordinato de' manu-
scritti e libri che racchiude. Fin da che arrivai a Vienna trovai nella
vecchia biblioteca quel custode co' suoi scrivani che attendeva a
questo, dicendomi che si travagliava per dar fuori alla luce un ca-
talogo ben ordinato ed esatto, di cui il bisogno era maggiore per li
nuovi acquisti ed augumenti di due altre numerose biblioteche.2
Il Gentilotti in tutto il tempo che vi fu bibliotecario non avea at-
teso ad altro, che da que' antichi manuscritti trarre vecchi Anti-
fonari, e ne avea compilati più volumi, con intenzione di dargli
alle stampe;3 e partendo per Roma caldamente raccomandò al suo
successore Garelli che non facesse perdere quelle sue fatiche, e
non defraudasse la Repubblica Letteraria d'un'opera cotanto utile
e profittevole; ma debitamente si curarono poco i suoi ricordi, e
nulla se ne fece, non essendovi bisogno di gravare i lettori e fargli
perdere il tempo in leggendo inutili e sciapiti Antifonari, compi-
lati in tempo d'ignoranza e di barbarie.
Questo sospirato e promesso catalogo in tutti gli anni che io di-
morai a Vienna, che furono poco meno di dodici, non si vide mai
che venisse ad effetto ; né di là partito seppi che si fosse poi compito
e dato alla luce; e molto più ne perdei la speranza quando in questo
castello intesi l'infelice novella della morte dcll'imperadore,4 se-
guita a' 20 di ottobre dell'anno 1740, e che l'anno seguente minac-
ciata Vienna di assedio si fosscr frettolosamente trasportati i ma-
nuscritti ed i libri in Ungheria. Ho cagion presentemente di sperare
che calmate le cose si fosscr restituiti al pristino luogo, e che si
x.Jean-Paul Bignon (1662-1743), oratoriano francese, bibliotecario del re
di Francia Luigi XV. 2. quel custode — biblioteche: si tratta probabil-
mente del Forlosia. Cfr. infatti Nationalbibliothek di Vienna, cod. 11924,
N. Forlosiae Catalogus manuscriptorum. 3. Il Gentilotti . . . stampe: il ca-
talogo del Gentilotti in Nationalbibliothek di Vienna, Codd. scr. n., 2207-
2221. 4. imperadore: si tratta di Carlo VI.
OSSERVAZIONE XXVIII IO75
prosiegua il cominciato lavoro, affinché sicome ora gli amanti delle
lettere per cura dell'abate Bignon hanno il piacere di leggere il ca-
talogo della Biblioteca Regia di Parigi,1 così l'abbiano di quella di
Vienna, la quale e per la multiplicità e preggio de' libri, e per la
rarità di preziosi manuscritti, non avea niente che cedere alla Re-
gale di Pariggi.
Lasciai a Vienna, doppo questa, un'altra magnifica biblioteca
instrutta nel suo palazzo dal Marte del nostro secolo, voglio dire dal
principe Eugenio di Savoia,2 non men commendabile per ciò di
quello che fu il ligure Alcide Colombo. Raccolse da tutte le parti
pregiatissimi libri, li più rari e delle migliori edizioni, non rispar-
miando a spesa veruna, e facendo venire da Levante pelli finissime
di vari colori, avea il piacere di fargli legare a suo modo e di covrirgli
tutti di quelle pelli ed indorare in guisa ch'entrando nella sua bi-
blioteca vi sembrava d'entrare in varie stanze guarnite di tapezzarie
d'oro di più colori, cosi erano ben disposti ed ordinati; ed essendo
io, giunto che fui a Vienna, a rendergli i miei rispetti, accolto
benignissimamente, ed esponendogli la cagion del mio venire e che
i quattro volumi della mia Istoria destinati per S. A. S. l'avrei dati
al miglior ligatore per presentargli nella forma dovuta ad un tanto
principe, mi fece intendere dal suo bibliotecario che S. A. amarebbe
meglio che se gli fossero presentati sciolti, perch'egli l'avrebbe fatto
ligarc a suo modo alla conformità degli altri, sicome da me fu
eseguito; e poi ebbi il piacere di vedergli vestiti d'un color confor-
me e riposti fra' più eletti e pregiati autori.3 Avea questa biblioteca
un preggio che non potè averlo quella di Cesare ; poiché conservava
una delle due machine (poiché non più di due se ne formarono in
Londra da peritissimi astronomi) della fabrica del mondo,4 secondo
il sistema di Copernico, e di Cartesio; nel centro della quale ac-
cendendosi una face dentro un globo di vetro rappresentando il
sole, con mirabile magistero rivolgendosi intorno, mostrava il corso
i. sicome ora . ♦ , Parigi: la notizia del Giannone sembra imprecisa. Il Bi-
gnon riordinò dal 1723 al 1735 i manoscritti della Biblioteca Reale di Parigi,
ma un catalogo vero e proprio era stato pubblicato da Nicolas Clémcnt dal
1688 al 1714 in trentacinque volumi, rifuso dal 1743 al 1753 in sei volumi.
2. Lasciai . . . Savoia : la biblioteca del principe Eugenio (vedi su di lui
la nota 5 a p. 111) fu riordinata alla sua morte dal Forlosia. Cfr. il mio La
difesa ecc., cit, p. 406. 3. i quattro volumi . . , autori: cfr. Vita, qui a p.
ni. 4. Avea . . . mondo : cfr. la lettera al fratello Carlo del 24 giugno
1724, qui a p. 1136.
IO76 L>APE INGEGNOSA
de* pianeti e come venivano illuminati ; mostrava le stagioni, i mesi,
Tanno, li giorni e le notti : gli ecclissi del sole e della luna, ed altre
astronomiche osservazioni. Doppo la morte di questo eroe, non
so di questa biblioteca che ne sia seguito, e se dalla principessa
di Savoia sua nipote ed crede si conservi nella stato in cui trovolla.
Ben io, essendo in Torino, avvertii che il re di Sardegna non dovea
curare spesa per averla, e porre ogni studio per farla trasportare
nel suo palazzo regio a Torino, tanto più che non v'era biblioteca
regia, ma quella pubblica si apparteneva al Comune ed Universi-
tà de* studi di Torino, né era abbastanza fornita di pregiati libri,
spezialmente di que' dati ultimamente alla luce da celebratissimi
autori. Ed essendo poi stato condotto in questo castello, e per la
morte deirimperadorc accadute tante rivoluzioni di cose, e surte
tante fiere ed ostinate guerre, nelle quali ardono ancora la Germa-
nia, la Fiandra, la Francia e l'Italia, in questa solitudine non so
quel che ne sia seguito.
Lasciai parimente a Vienna una pubblica biblioteca instrutta in
alcune stanze attaccate ai convento de' PP. Domenicani1 prossimo
alla porta d'Ungheria, composta di due lasciate dalia benificenza
di due testatori, i quali a pubblico uso la destinarono per tutti, e
stabilirono fondi per sostentamento de7 custodi che la reggono.
Sono prescritte Tore della mattina e del doppo pranzo, nelle qua-
li a' studiosi è permesso di andarvi a studiare, non alt rimonte
di ciò che si pratica in Napoli in quella di S. Angelo a Nido. ìi
copiosa di libri, massimamente legali; né ò precluso l'adito anche
in que' rigidi inverni, poiché le stanze sono riscaldate dalie loro
stufe.
Non mancano ancora di molte private, poiché sicome si è detto
le biblioteche sono ora l'ornamento delle case. Ma fra queste
private supera di lunga mano tutte le altre quella raccolta dal
protomedico e bibliotecario Garelli,3 per l'opportunità ch'ebbe
d'ingrandirla senza molta sua spesa; poiché godendo del favore di
Cesare, colle compre di nuove biblioteche per ingrandire la Ce-
sarea, di tutti que' libri duplicati l'imperadore solca a lui far-
ne dono. Il nostro Riccardi fiscale del Consiglio di Spagna ne
1. Lasciai . . .Domenicani: questa biblioteca è stata dispersa dopo la de-
molizione del convento dei Domenicani. 2. quella . . . Garelli: cfr. M.
Denis, Die Merkwitrdigkeiten der k.k. garetlischen ò'ffentlichc IHblìothek arri
Ther esiano , Wicn 1780, in due volumi.
istruì anche una in Vienna pregiatissima, di libri elettissimi e
de* più insigni autori ; ma repentinamente morto in Verona l'anno
1726, fu tutta sparpagliata di qua e di là, ed il misero avanzo
fu dapoi esposto venale per auctione1 nel 1734, e così affatto dile-
guossi.3
Meritano i Germani somma lode, oltre per le laboriose Raccolte
già dette, per aver dato fuori alle stampe un catalogo di libri ap-
partenenti a ciascheduna professione, perché i professori sappiano
di quali debbiano valersi, ed il celebre Struvio ne compilò uno
accuratissimo per la giurisprudenza.3 Altri si preser la pena di
comporre una biblioteca di tutti gli autori anonimi, ovvero falsiano-
nimi, manifestando i veri autori ed i veri lor nomi, nel che stupenda
ed immensa fatica fu quella del . . .4 Altri di cataloghi di libri dati
alla luce da autori di particolari provincie, regni e stati. Sicome in
Italia non mancarono alcuni di far lo stesso, ed i Napolitani devono
molto obbligo a Niccolò Toppi,5 ed al suo addizionatore Nicode-
mo,6 per la cura presasi di dar fuori la Biblioteca napolitana, dove
si manifestano i tanti preclari ingegni de* quali il Regno in ogni età
ha sempre fiorito, sicome fece mons. della Chiesa7 vescovo di Sa-
luzzo de* scrittori piemontesi e savoiardi, ed altri delle loro proprie
regioni.
Ma sopra tutti reputo commendabile il travaglio presosi da Fi-
1. auctione: è un latinismo, e significa «vendita all'incanto». 2. Il nostro
Riccardi . . . dileguossi: ì\ Giannone dà una notizia sbagliata. La biblioteca
del Riccardi, acquistata dal sovrano austriaco e ordinata dal Forlosia, fu
inserita nell'attuale Nationalbibliothek di Vienna. Cfr. il mio La difesa
ecc., cit, pp. 408 sgg. 3. ed il celebre . . . giurisprudenza', si tratta della
Biblìotheca turis selecta secundum ordinem liner arum disposìta, lenae 17052,
dello Struve : cfr. la nota 5 a p. 371. 4. fu quella del . . . : il Giannone lascia
in sospeso nome e titolo. Si tratta probabilmente di Johann Vogt (1695*
1765), erudito tedesco, pastore protestante a Brema, autore di un Catalogus
historico-criticus librorum rariorum . . ., Hamburgi 1732, più volte in se-
guito riedito. 5. Niccolò Toppi (1607-1681), erudito napoletano. L'opera
cui il Giannone allude è la Biblioteca napoletana et apparato a gli huomini
illustri in lettere di Napoli e del Regno . . ., Napoli 1678. 6. ed al suo . * .
Nicodemo: cfr. le Addizioni copiose alla Biblioteca napoletana del dottor
Niccolò Toppi, Napoli 1683, di Leonardo Nicodemo, erudito napoletano del
XVII secolo. 7. Francesco Agostino della Chiesa (1 593-1662), vescovo di
Sahxzzo, autore di un Catalogo di tutti li scrittori piemontesi, et altri de i
altri stati dell'Altezza Serenissima di Savoia . . ., Torino 16 14. L'autore ne
curò una seconda edizione più ampia: Catalogo de scrittori piemontesi,
savoiardi e nizzardi . . . con V aggiunta d'altri tanti autori e libri, Carmagnola
1660. A quest'ultima deve riferirsi il Giannonc.
IO78 L'APE INGEGNOSA
lippo Labeo1 gesuita, di averci data una Biblioteca di codici manu-
scritti, impressa a Pariggi in quarto nell'anno 1635, sotto il titolo
Nova bibliotheca mss. librorum; ed io rimasi sorpreso in leggendo
nel P. Arduino, alle note dcll'cp. 5 del Kb. 3 di Plinio il Giovane,
che un nostro napolitano chiamato Scipione Tcttio2 aveva compo-
sto un Indice di libri non ancor impressi, stampato dal Labco in
questa sua nuova Bibliotheca alla pag. 167, Indice ', ancorché napo-
litano, a me affatto ignoto ; e bisogna che fosse accurato, poiché fra*
libri non ancor impressi faceva memoria de' xx libri Bellorum
Germaniae che scrisse Plinio il Vecchio, memorati anche da Tacito,
lib. 1 Armai, da Simmaco, lib. 4, cp. 18, e da Svetonio Tranquillo
in Caio Caligula, cap. 8, e ne parla come se a' suoi tempi fossero
ancor esistenti, quando che oggi si credono perduti. Ecco le parole
di Arduino sopra quelle parole di Plinio il Giovane : « Bellorum Ger-
maniae vigniti»: «Illud esse suspicor, cuius mentio in indice li-
brorum nondum editorum, confecto a Scipione Tcttio neapolitano,
quem Labbeus nostcr edidit in Nova Bibliotheca librorum mss.
pag. 167 hoc lcmmatc: "Plinii senioris historiarum libri xx"».
Più gloriosa ed immortale, ma di molta pena e travaglio, sarebbe
se alcuno, o più insieme, consumati nello studio dell'antichità,
volessero prendersi la cura di darci una Nuova biblioteca de' libri
di quelli [che], se ben ora perduti, in più scrittori antichi che ci re-
stano se ne conservano le memorie, i nomi de' loro autori, e di
ciò che trattarono ; e verrebbe loro somministrata abbondante ma-
teria dalle opere filosofiche di Cicerone, dalla Biblioteca istorica di
Diodoro Siciliano, dal primo libro dell'Istoria naturale di Plinio, da
Strabone, dallo Pandette di Giustiniano per ciò che riguarda la
giurisprudenza, e da altri non men greci che antichi scrittori latini,
e sopra tutti dalla Biblioteca di Fozio, opera che possiam ancor
dirla tesoro d'antichità; ed il P. Arduino gliene somministrarebbe
1. Filippo Labeo : si tratta di Philippe Labbé (1607- 1667), gesuita francese.
Il Giannone si riferisce a Nova bibliotheca mss. librorum, sivc specimen
antiquarum lectionum latinarum et graecarum . . ., Parisiis 1653 («cambio di
cifre nel Giannone). 2. Scipione Tettio: Scipione Teti, erudito napoletano
del XVI secolo su cui cfr. L, Nicodkmo, Addizioni ecc., cit., pp. 227-8.
Il catalogo del Teti si trova alle pp. 166-74 dell'opera citata del Labbc.
Il rinvio alPHardouin è nell'edizione citata della Naturatis historia di Pli-
nio il Vecchio, tomo 1, pp. n.n., Testimonia selecta veterum de (\ Plinio
Secundo. C. Plinii Caecihi epistolae duae. In quibiis de vita Plinii axmnculi
sui disserit . . ., epìstola v del libro in, nota 4. Da questa stessa nota le
citazioni di Tacito (Ann., 1, lxxx, 3), Simmaco e Svetonio.
OSSERVAZIONE XL IO79
un saggio per quel maraviglioso indice, che prepose al suo Plinio,
degli autori de* quali il medesimo si valse nella sua Istoria naturale,1
la maggior parte ora perduti. Questa nuova biblioteca è da riporsi
nella classe delle cose desiderate] e per ciò a' nobili spiriti dovrebbe
esser di acuto stimolo di porvi ogni studio per ridurla ad effetto ;
e se qualche autore scapperà la presa delle lor mani, importerà
poco, poiché altri che verranno dopo con facilità potranno supplire
il difetto con nuovo spicilegio, e la gloria sarà tutta loro, che furono
i primi.
OSSERVAZIONE XL
Del concetto ch'ebbero del nostro morire gli antichi nell'età più
vetuste delle quali è a noi rimasa memoria; e come dal costume
degl'Egizi, di condire2 e con molta celebrità seppellire i loro
morti, e da' fatti magnanimi di uomini grandi e generosi si fosse
data occasione di pensare ad un'altra seconda vita, che
a questa prima succede.
Qui si ragiona del concetto ch'ebbero gli uomini del morire gui-
dati dal naturai loro discorso, accorgimento e riflessione, non già
da divina religione che fosse stata ad essi revelata; di che ragio-
naremo nell'osservazione seguente; e non vi è dubbio che, consi-
derandosi mortali come gli altri animali, tutti credettero che la
morte recasse loro un perpetuo e tenebroso sonno : gli tuffasse in
un profondo oblio e gli riducesse in quello stato nel quale erano
prima di nascere. Né dee ciò recar maraviglia, poiché presso tutte
le più vetuste nazioni del mondo, delle quali assi notizia, la reli-
gione di tutte le genti non riguardava altro che la felicità della pre-
sente vita e lo stato temporale e mondano ; e per ciò non Tindriz-
zavano se non di pregare i loro dii che gli scampassero da' mali
presenti o futuri, ne' quali fossero o temevan di cadere nella lor
vita mortale; o pure pregargli a conceder loro prosperità, abbon-
danza, sanità, ricchezza, onori e tutto ciò che riguarda la felicità
dello stato mondano. Né dee recar maraviglia se lo stesso concetto
del morire troviamo ne* più vetusti libri che ci rimangono, cioè in
1. quel maraviglioso . . . naturale: ed. cit., tomo 1, pp. n.n., Index auctorum
praecipuorum qui inplinianis notis citantur, illustrantur, emendantur. 2. con-
dire-, imbalsamare (latinismo).
I08o L'APE INGEGNOSA
quelli di Giob, di Mosè, di Davide, di Salomone e degli antichi
profeti del I Tempio] poiché Giob, Mosè e gli altri rammentati
trattarono dell'uomo secondo il suo stato di natura, non già del
2° suo stato di grazia \ sicomc fu avvertito ncll'osserv.1 Si e veduto
qual concetto Giob avesse del morire, e non dissimile fu quello
che n'ebbe Mosc il quale, narrando nel cap. 3 della Genesi i
rimproveri da Dio fatti ad Adamo per la trasgressione del suo
comando, gli rinfaccia doversi rammentar di averlo formato eh
terra e dover pensare che sicome non altro era che terra, così
nella terra dovea far ritorno: «quia pulvis es et in pulverem rc-
vcrteris».2 E nel cap. 7 rapportando per l'inondazione dell'acque
del diluvio esser periti tutti gli uccelli, gli uomini e le bestie della
terra, ugualmente ci descrive la morte degli animali che degli
uomini, e lo stesso intento3 esser accaduto cosi a gli uni come a gli
altri: «universi homincs et cuncta, in quibus spiraculum vitae est
in terra, mortua sunt. Et dclevit Deus omnem substantiam quae
erat super tcrram, ab homine usque ad pecus, tam reptile, quam
volucres caeli; et deleta sunt de terra».4 Si e neli'osser. . . .s ve-
duto che nel Deuteronomio ed altrove questo gran profeta insieme
e filosofo, trattando dell'uomo terreno secondo il suo stato di na-
tura, non gli propone altra felicità 0 miseria che terrena e mondana.6
Le sue benedizioni, 0 maledizioni, non oltrepassano questo stato.
Il S. re Davide7 ne' suoi Salmi altamente cantava che sicome il
cielo era l'abitazione di Dio, cosi la terra quella degli uomini;
e che la morte recasse a' medesimi un perpetuo sonno ed eterno
oblio e dimenticanza, ponendogli in uno stato d'inazione, in cui
non potevano lodarlo né esser più di lui ricordevoli; onde lo pre-
gava di conservarlo in vita per poter commendare le sue misericor-
die e celebrare le alte sue virtù divine : « quoniam » e' dice nel salmo
i.neWosscrv.: il Giannonc ha omesso il numero dell'osservazione. Cfr.
Oss. 1, Sopra il gran magistero di questo mondo aspettabile, suo costante or-
dine, disposizione, armonia . . ., ce. 8 sgg.; Oss, vni, Sopra il fine delVrumio
secondo il suo stato di natura, co. 41-4; Oss. ix, Il fine delVuomo secondo il
suo stato di grama, ce. 44-6 ; Oss. x, Che la religione sia propria e sola del"
Vuomo, la quale, quando non sia da Dio rivelata, è sempre sottoposta a vari
errori ed inganni, ce. 46-55. 2. a quia pulvis . . . revcrteris»: Gerì., 3, 19.
2.ìnterito: morte (latinismo). 4. «universi .. .terra»: Oen., 7, 21-3.
5. neli'osser ... : anche qui il numero è omesso. Si tratta della vili cit.
6. trattando . . . mondana: è la piena riatfermazione delle tesi del Triregno,
che gli Ebrei non conoscessero altra felicità che quella terrena. 7. Il S.
re Davide ecc.: riprende e riassume un potente passo del 'Triregno, x,
pp. 204-5.
OSSERVAZIONE XL Io8l
6,6 «non est in morte qui memor sit tui: in inferno autem quis
confitebitur tibi ? ». Di Salomone è a tutti noto qual fosse il suo
sentimento, avendolo manifestato ne' suoi libri che ci rimangono e
spezialmente in quello intitolato l'Ecclesiaste. Il pio re Ezechia,
minacciato d'imminente morte, e dipoi per ispezial grazia di Dio
prolungatagli la vita per altri quindici anni, rende le debite grazie
al Signore, perché Pavea dato maggior tempo di lodarlo con salmi
ed inni nel tempio ch'è di lui casa; ciocché non potea farlo doppo la
morte, la quale l'avrebbe posto in una perpetua inazione e dimenti-
canza, tuffato in un profondo oblio e ridottolo in quello stato nel
qual fu prima di nascere : « Tu autem (sicome leggesi presso Isaia,
cap. 38, 17) eruisti animam meam, ut non periret, proiecisti post
tergum tuum omnia peccata mea. Quia non infernus confitebitur
tibi, neque mors laudabit te; non expectabunt, qui descendunt in
lacum, veritatem tuam. Vivens vivens ipse confitebitur tibi, sicut
et ego hodic: pater filiis notam faciet veritatem tuam. Domine,
salvum me fac, et psalmos nostros cantabimus cunctis diebus vitae
nostrae in domo Domini».1 E chi attentamente rivolgerà questi
antichi libri non troverà, mentre durò il 1 Tempio, altro concetto
di questo presso gli antichi Ebrei del lor morire. Nel 11 Tempio,
doppo la cattività babilonica e spargimento degli Ebrei di qua e
di là in più provincie dell' Oriente, mescolati con straniere nazioni,
tra Assiri, Medi e Persi, ritornati per munificenza di Dario e di altri
suoi successori in Gerusalemme, e concessogli di ristabilire il
tempio, in questo risorgimento nacquero fra gli Ebrei nuove dot-
trine ed opinioni intorno allo stato delle loro anime doppo morte:
assignandogli nella profondità della terra vari ricettacoli: surse in
alcuni la credenza della resurezione, e risorti dover abitare in un
altro regno, pure con tutto ciò terreno e mondano, ed altre vane
credenze; le quali però non si appartenevano a gli articoli fonda-
mentali dell'antica loro religione, ma erano disputate variamente
fra' loro dottori, non per ciò disciogliendosi l'unità della loro
chiesa; ed il G. Sinedrio, sicome tutte l'altre minori sinagoghe, si
componevano non meno de' farisei sostenitori delle nuove dottrine,
che de' sadducei rigidi osservatori dell'antica credenza, che le ri-
fiutavano.*
1. a Tu autem Dovimi »: IsaL, 38, 17-20. 2. Nel II Tempio . . . rifiuta-
vano: è, ancora una volta, la conferma delle tesi che il Giannone aveva
trovato nel Tractatus theologico-politicus di Spinoza, in Spencer, De legibus
Io8z L'APE INGEGNOSA
L'origine d'andar investigando altra vita ed altro stato delle no-
stre anime doppo morte uscite da' corpi, tutti si accordano che
provenisse dall'Egitto; e dapoi, sicome accade in tutte le cose, si
andasse spandendo la nuova dottrina da per tutto, aiutata anche da'
filosofi, spezialmente da' pitagorici e platonici e molto più dagli
arditi ed audaci poeti. Diodoro Siciliano ne' primi cinque libri
della sua Biblioteca isterica, che doppo quelli di Mosò possiamo
avergli per un tesoro dell'antichità, ne' quali son riposte le prime
origini de' costumi ed umani instituti e riti, rapporta il costume
antichissimo degli Egizi, i quali morto l'uomo o la donna si espone-
va il cadavero al publico e si dava a tutti licenza o di commendare
le loro virtù, tessendo elogi e panegirici delle preclare loro gesta,
ovvero di biasimare e con pubbliche invettive detestare i loro vizi
colle forme più opprobriosc ed inclementi che si potesse. Costume
che riusciva loro molto utile ed assai profittevole; poiché, ancorché
nulla o di conforto o di doglia ne sentissero i morti, nulladimanco a'
vivi che presenti l'ascoltavano instillava tanto amore per le virtù
ed odio ed aborrimenti a' vizi, per le lodi o infamia che doppo lor
morte dovean sperare o temere, che tutti s'ingegnavano di vivere
virtuosamente e secondo il prescritto dalle loro leggi. Per questo
istcsso fine introdussero di onorare i defonti con pompose esequie,
condire i loro corpi con imbalsamargli con molta spesa ed arte,
perché ridotti in mumie lungamente si conservassero, ed ergere per
loro sepolcri superbi mausolei e piramidi; e per coloro che non
potevano soffrire tanta spesa, costruire in una gran pianura coverta
di arena molti pozzi, dentro i quali riponevano gl'imbalsamati ca-
daveri, coprendogli sovente di quella arena, e perché fosser distinti
e non si confondessero vi attaccavano lamine nelle quali erano scol-
piti i loro nomi. Per giungere a questa vasta pianura bisognava
traggittar i morti per un lago spazioso che forma il Nilo ; ed in pic-
ciolo barche tratte a remi, e guidate da' barcaroli riporgli ivi; e
poiché presso gli Egizi il barcaiolo era chiamato Caronte, quindi,
come suole avvenire, essendo tutti gli uomini portati al portentoso,
cominciossi a dire che per colà erano trasportate le anime alle
Hebraeorum ritualibus, nel Tolatid, e che, già espresse nel Triregno, sono
qui riconfermate. Dal Toland trac per esempio la tesi dell'origine egizia
dell'immortalità dell'anima (Letters to Serena, ix). Dalla cultura della « cri-
si della coscienza europea» trae anche il motivo della polemica contro la
poesia creatrice di miti come questo dell'immortalità dell'anima.
OSSERVAZIONE XL I083
destinate loro sedi infernali per Caronte, ed il lago prender nome
di palude Stige, di Oocito, Averno, di Acheronte e di tanti altri
terribili e spaventosi nomi. I favolosi Greci con avidità appresero
da Orfeo, doppo che questi da Egitto fece ritorno nella Tracia e
nella Grecia, queste favole, accresciute poi da essi a maraviglia;
ed i loro poeti, se ben prima con moderazione, come fece Omero,
dapoi non seppero tener né modo né misura, fingendo sette princi-
pali porte per le quali s'entra nella città dolente,1 e sopra la super-
ficie della terra in vari luoghi scoprendo nuove bocche d'inferno,
nuovi cerberi custodi, giudici istituiti per esaminar le colpe, e
tante altre orrende pene di nuovi tormenti e nuovi tormentati,
quante Dante ne finse nella sua Comedia. Il virtuosissimo ed accu-
rato viaggiante Pietro della Valle nella 1 parte de' suoi Viaggi
all'ep. n scritta dal Cairo,2 rapporta ch'egli osservò questa città
non esser molto lontana dal luogo dov'era Babilonia egiziaca, fon-
data da' Caldei, che rifuggiti in Egitto, accolti dal re, gli diede li-
cenza di costruire la nuova Babilonia; soggiungendo aver quivi
vedute molte piramidi dal tempo non affatto consumate, le quali
non furono che sepulture magnifiche de' re di Egitto; ed avere
osservato in quella gran pianura coverta di arena molti di que' pozzi
e trovati i cadaveri ridotti in mummie nella maniera appunto che
gli descrive Diodoro Siciliano, le quali erano cercate da persone
pratiche, che sapevano in quella vasta pianura trovar le bocche
de' pozzi e scavarle per venderle, poiché la medicina l'ha adottate
e riposte tra gli altri suoi rimedi ; e che per giungere a questa pia-
nura bisognava traggittar un lago formato dal Nilo.
Da questi princìpi si cominciò a filosofare sopra lo stato delle
anime umane separate da' corpi, e se non affatto estinte fosser
destinate ad una seconda vita, o penosa ovvero gioconda, secondo
i meriti o demeriti della passata. Cicerone credette che il primo
filosofo che avesse cominciato ad esaminar questo punto e di affer-
marle immortali fosse stato Ferecide Siro maestro di Pitagora.3 A
tutti è noto che Pitagora suo discepolo stese oltre le sue conoscenze
e diede in tanti paradossi quanti ciascun sa : che non giammai mo-
1. nella città dolente: cfr. Dante, Inf., in, i, 2. Pietro della Valle . . . Cairo:
vedi la nota up. 954. Cfr. Viaggi, ed. cit., tomo 1, parte 1, lettera xi,
Cairo, 25 gennaio i6i6> p. 344. 3. Cicerone . . . Pitagora: cfr. Tusc. disp.,
1, xvi, 38. Ferecide di Siro, scrittore greco del VI secolo a. C, autore di
una specie di teogonia, Heptàmuchos, che ebbe influenza su Pitagora.
1084 L'AIMi INGEGNOSA
risserò, ma trasmigrassero da un corpo ad un altro, e sovente, se-
condo i demeriti della precedente vita informassero anche corpi
di animali bruti ; e dapoi faecsser ritorno a gli umani e così vagas-
sero in perpetuo giro. Ed i moderni viaggianti ci assicurono che
anche oggi questa folle credenza la ritengono molti indiani, giap-
ponesi ed alcune nazioni orientali. Platone colle suo splendide
idee l'elevò in un più alto stato; e sicome in assignar loro l'origine
cadde in isconci errori, così uscite da' loro corpi diede in istravagan-
ze maggiori, facendole o tornare alle loro stelle, donde derivarono,
ovvero ad alcune prescrivendo certi luoghi da purgarsi; ad altre
con farle trasmigrare da uno in altro albergo; altre trasfigurarsi,
considerando in esse vari stati, i quali non hanno altro appoggio
che la sua asserzione e la propria fantasia ed immaginazione ; ciò
che diede a7 fecondi poeti ampia materia di lavorarci intorno e di
rendere più minute le descrizioni de* Campi Elùsi, delle paludi
Stiggie, Orco, Cocito, Acheronte e tante altre lor fole e ciance,
Aristotele suo discepolo non si appagò punto delle splendide idee
del suo maestro, ma intorno alla natura delle anime umane fu
sempre vario ed incostante; o perché non seppe investigarla, o
pure, secondo il suo costume, volle invilupparla, perché niuno
potesse sapere qual fosse in ciò il suo sentimento. In efletto sino
ad ora disputano gli aristotelici, ed è fra di loro una delle grandi e
difficili questioni a risolvere, se Aristotele ponesse l'anime umane
mortali o pure immortali. Gli stoici fra di loro non ben si accorda-
vano su questo punto, non essendo tutti concordi in farle immor-
tali; e sicome si e veduto Seneca inclinava all'opinion contraria.
Altri filosofi in fine, scorgendo tante dissensioni e contrasti non
vollero prendersi briga alcuna, e reputarono esser l'esame di ciò, e
molto più la decisione, fuori dell'umano intendimento, conforman-
dosi a quel che solea dire Eraclito: «tcrminos animae ncquaquam
invenisse».1
I rigidi veneratori dell'antichità non si lasciarono smovere da
sì vari, nuovi e discordanti pareri. Stettero fermi nel concetto che
si ebbe sempre del nostro morire e che per ciò gli uomini fosser
detti mortale genus, perché commune aveano con gli altri animali
il morire. Leucippo, Democrito, Epicuro e tutti i filosofi della lor
1. «terminos . . . invenisse»: «che non aveva in nessun modo trovato i ter-
mini dell'anima» (cfr. Fragmente der Vorsokratiker, ed. Diels-Kranz, Ber-
lin 19547, fr. 45).
OSSERVAZIONE XL 1085
setta costantemente sostennero questa dottrina, la quale T. Lu-
crezio Caro la distese cotanto presso i Romani che nell'aureo se-
colo di Augusto i più seri, niente abbagliati dalle splendide idee
di Platone, e molto meno sorpresi dalle favole de* poeti, tal con-
cetto ebbero del nostro morire, che ci recasse un perpetuo e tene-
broso sonno. Dall'opere stesse di Varrone e di Cicerone che ci
rimangono, se ben si riguardano, si conosce che l'innumerabile
turba di tanti numi, l'Orco, Acheronte, Cocito e gl'infernali dii
si lasciavano alla credulità del volgo ed all'arditezza de' poeti; e
Livio in tutto il corso della sua incomparabile istoria fu del me-
desimo sentimento, sicome chiaramente lo palesò, quando nel
libro primo della v deca, narrando la strage che i Romani fecero
degli Istri, i quali oppressi dal vino e dal sonno furono improv-
visamente assaliti e molti nel sonno estinti, dice che gli uccisori
non fecero altro che continuargli la morte : « aliis somno mors con-
tinuata est».1 Ed i loro stessi poeti, quando non intendevano tes-
ser favole, ma attenersi al reale e serio, trattando da filosofi le cose
vere, non l'ombre come cose salde, pure ne' loro carmi manifesta-
rono lo stesso, sicome apertamente cantò Virgilio in que' versi:
Felix qui potuti rerum cognoscere causas,
tlle metus omnes et inexor abile fatum
subiecit pedibtis, strepitumque Acherontis avari.2
Da' carmi di Orazio è manifesto che pur fosse del sentimento
medesimo, sicome Catullo quando del nostro morire cantò:
Nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda,*
imitando la frase di Teocrito, il quale cantò pure:
Ut semel occidimus sub terra lumine cassi
dormimus longum, immensum, aeternumque soporem*
Da questo principio derivò il costume, anche ne' più sapienti e
forti, negli ultimi ed estremi casi, o per isfuggire ignominia, o mag-
1. «aliis . . . est»'. Livio, xu, 4. Cfr. Discorsi storici e politici sopra gli Annali
di Tito Livio in P. Giannone, Opere inedite, i, Torino 1852 (ma 1859),
p. 228. 2. Cfr. la nota 1 a p. 752. 3. Catullo, Carni., v, 5-6 («Dobbiamo,
allorché la breve luce della vita è cessata una volta per tutte, dormire un
sonno ininterrotto»). 4. Non Teocrito, ma Mosco, IdylL, in, 103-4
(«Quando per sempre terminiamo sotto terra privi di luce, dormiamo un
sonno lungo, smisurato, eterno »).
I086 L'APE INGEGNOSA
giore miseria, ovvero nelle insanabili e dolorose malattie, e sovente
per non essere spettatori della servitù propria o de* suoi, ovvero
della patria, di affrettarsi volontariamente la morte: di ehe in-
numerabili sono gli essempi di uomini riputati savi, gravi e d'in-
corrotti costumi, rinomati ed illustri; anzi raffrettarsi in questi
casi il morire deliberatamente, non per ìmpeto o furore, ma con
bilanciar prima le ragioni per la vita e quelle per la morte, riputava-
si somma sapienza non meno che costanza d'un animo forte e gran-
de. Così, per tralasciar altri, riputò Plinio il Giovane la volonta-
ria morte di Tito Aristene, scrivendo nell'ep. 22 del primo libro:
«Id ego arduum in primis et praecipua laude dignum puto: non
impetu quodam et instinctu procurrere ad mortem, commune
cum multis: deliberare vero et causas eius expendere, utque suase-
rit ratio vitaeque mortisque consilium suscipere, vel ponere, in-
gentis animi est».1 Ed è notabile ciò che Valerio Massimo nel cap.
185 scrisse de' Marsiliesi, i quali nella loro città in luogo pub-
blico tenevano riposta la cicuta perché fosse pronta a chi, bilan-
ciate le ragioni della vita e della morte, deliberasse meglio esser il
morire: «Venenum» e' dice «cicuta temperatimi in Massiliensi ci-
vitate publice custoditur; quod sapienter excedere cupienti ce-
lerem fati viam praebet: ut vel adversa vel prospera nimis usi
fortuna, comprobato exitu vita terminetur»? E da questo principio
ne dedussero quel precetto morale, che l'ebbero per uno de' più
salutari rimedi non meno ne' morbi dell'animo che del corpo, qual
era di dover riflettere che la natura, fra tutti i beni che avea dato
all'uomo, il xnaggiore era quello d'un'opportuna morte, ed in ciò
l'ottimo di potersela ciascuno dare a se stesso. Ciocché Plinio il
Vecchio cotanto in più luoghi della sua Istoria ripete ed inculca;
e nel lib. 28, cap. 1, ecco come ne parla: «Hoc primum quisque
in remediis animi sui habeat: ex omnibus bonis, quae nomini tri-
buit natura, nullum melius esse tempestiva morte: in eaque id
optimum, quod illam sibi quisque praestarc poterit».3 Né questa
morale offendeva punto la loro religione, la quale, come si è più
i.tld ego arduum . . . cst*\ Plinio il Giovane, Ep.t 1, xxn, C. Plinius Catilio
Severo suo, 9-10. 2. «Venenum . . . terminctumi Valerio Masaimo, Faci,
et dict. mem.t 11, vi, 7. 3. «Hoc primum . * . poterit »: Plinio, Nat. hi$L,
ed. cit., tomo 11, lib. xxvni, cap. 1, scct. 11, p. 444 (« Questo sia per ognuno
la principale risorsa dell'animo: che di tutti i beni che la natura ha dato
all'uomo, nessuno è preferibile a una morte che venga al momento oppor-
tuno, soprattutto se potrà procurarsela da sé»).
OSSERVAZIONE XL I087
volte detto, non riguardava se non il presente stato di questo mon-
do; né prometteva altra futura vita dopo morte.
Non riconoscevasi altra vita doppo la presente che la gloriosa per
que' che in vita si erano segnalati con fatti eroici e magnanimi, o
pure ignominiosa ed infame per que' che vituperosamente avean
menata la precedente. Ciò ch'era un acuto stimolo per animargli
ad imprese dure e difficili ed esercitare le più alte ed eroiche virtù,
esponendosi sovente a certe e non dubbie morti, non curando né
pericoli né strazi o tormenti, né in fine le più crudeli ed acerbe mor-
ti, sostenendole con somma intrepidezza e maravigliosa costanza.
Quindi derivò il coraggio ad Orazio Coclide, a Muzio Scevola, a
M. Curzio, a' Dccii padre e figlio ed a tanti altri valorosi capitani, i
quali volontieri per la salute degli esserciti e della patria se stessi
immolavano e coraggiosi andavan incontro alla morte. Quindi la
costanza di Lucrezia e di tante altre madrone romane, che di-
sprezzaron la morte, purché si rendessero a' posteri gloriose ed
immortali. E pure questa seconda lor vita riguardava ed avea sol
relazione al vivere nel concetto dei presenti e futuri, non già
perch'essi doppo morte, come tuffati in un tenebroso oblio, ne
scntisscr cos' alcuna, ma vivendo la credevano non men vera e
reale che la vita presente; sicché riputavano non morire, anzi
sopravivere in un'altra più illustre, e che la lor morte non dovesse
esser pianta, né accompagnata da funeste e lugubri pompe, ma
più tosto di allegre e giolive, come principio d'un'altra vita im-
mortale e luminosa. Così di Ennio fu detto che non si dovesser per
lui sparger lagrime, né usar funebri apparati, poiché viveva più
glorioso nelle bocche degli uomini;1 e coloro i quali morivano in
guerra sul campo di battaglia, si riputavano sempre vivere, sicché
a' padri di famiglia non si scemava per ciò il numero de* figlioli,
e godevano degli stessi privilegi dei padri onusti, sicome prima,
poiché non si riputavan morti.
Sicome la vita gloriosa che speravan doppo morte gli faceva
disprezzar strazi, tormenti, pericoli e non dubbie morti, così l'or-
rore che si avea dell'infamia, che temevano non succedesse alla lor
morte, gli faceva curar poco la vita; e sovente si astenevano affret-
tarsi il morire, che l'avrebbe sottratti da mille strazi ed angoscie,
t. Così di Ennio . . . uomini: cfr. il frammento dello stesso Ennio conservato
da Cicerone, Tusc. di$p.} i, xv, 34: «Nemo me lacrumis decoret nec funcra
fietu / faxit. Cur? volito vivus per ora virum».
I088 L'APE INGEGNOSA
se fosser certi che uccidendosi sarebbero per ricevere doppo morte
infamia e vituperio; ed e notabile che questo concetto si ebbe ezian-
dio dalla moltitudine e dalla più bassa ed infima plebe. Narra
Livio nel primo libro della i deca1 le opere magnifiche che Tar-
quinio Prisco in tempo di pace, per tener occupata la plebe, intra-
prese in Roma di farla cincere di muri, di appianar i colli ed empir
le valli per render i luoghi piani e di costruire nella profondità della
terra ampie cloache ed altre sotterranee cave ed aquidotti, sì ampi
e spessi che sembrava per i tanti sotterranei lavori la città fosse quasi
che pensile. Aggiunge Plinio nel libro 36, cap. 15/* che della plebe,
per isfuggire i pericoli ed insoffribili travagli ne' lavori sotter-
ranei, moltissimi davano a se stessi morte, chi gettandosi nel
Tevere e chi procurandosela in altre guise: allora Tarquinio per
darci riparo, «novum» dice Plinio «et inexeogitatum sui tea postea-
que remedium invenit ille rex»; ed il rimedio fu di far affiggere i
corpi trovati morti nel Tevere o altrove, in tante croci, che fos-
sero di spettacolo a gli altri cittadini, ed capoti ad esser lacerati
dalle fiere e per pasto degli avvoltoi o corvi e degli altri carnivori
uccelli. Or il pudore e l'ignominia di veder pendenti i cadaveri dalle
croci, supplicio a que' tempi il più infame e vituperoso, trattenne
gli altri a non far lo stesso, riputando non l'uccidersi, ma l'infamia
e l'opprobio che ne sarebbe seguito, più orribile e spaventoso. Così
la plebe istessa curava poco il morire, ma sì bene guardavasi del-
l'infamia che doppo morte gli soprastava. Né in discorso di tempo
gl'impcradori romani poterono usare rimedio più efficace per por
argine alle tante volontarie morti, se non per loro costituzioni im-
por pena d'ignominia ed infamia alla lor memoria, rendergli inte-
stabili, ed altre che si leggono nelle Pandette e nel Codice dell'i m-
pcradorc Giustiniano.
Questo era il concetto che si avea della seconda vita, che alla
mortale succedeva; ma i favolosi Greci e que' che furono abbagliati
dalle splendide idee di Platone e dalle ingegnose favole de' fecondi
poeti, diedero corpo a chi non l'ebbe, trattando l'ombre come cose
salde. Finsero che separata l'anima umana dal corpo si fendesse in
1. Narra Livio . . . deca: cfr. Livio, i, 38, 6-7. 3, nel libro 36 , cap. r$:
ed. cit., scct xxiv, p. 743.
OSSERVAZIONE XL I089
due parti : la sublime, spezialmente quella degli eroi e de* grand'uo-
mini, volasse in cielo; la più grossolana calasse giù ne' luoghi in-
fernali, come ombra, onde gli spettri, le fantasime, i mani ovvero
i dii infernali. Così Omero fìnse nel libro xi al fine v. 601 che l'om-
bra o sia fantasima di Ercole era nell'inferno, ma che egli fosse
collocato in cielo fra' dii celesti.1 Quindi ebbe origine fra' Greci
V apoteosi, cioè di deificare doppo la lor morte i gran monarchi, o
eroi, e collocargli fra' numi; onde i Romani l'appresero, facendo
anch'essi lo stesso de' loro re ed imperadori, ma le cagioni furon
diverse. Ne' primi tempi rozzi ed incolti furon mossi da vana re-
ligione, sicomc fecero di Romolo, riponendolo fra' dii celesti; ne'
secoli culti ed illuminati si mantenne il costume per l'adulazione
e vile servaggio, sicomc si diede a credere di Giulio Cesare ; e l'adu-
lazione arrivò sino a far credere che in quella nuova stella cometa
apparsa doppo la sua morte era volata e riposta la sua anima.
Niente dico di Augusto, di Tiberio e di Nerone istesso deificato
anche in sua vita. Ciocché maggiormente manifestò la menzogna
e l'adulazione derisa meritamente da Tacito con molta maggior
ragione di ciò che fece Livio della deificazione di Romolo. Quindi
l'opinione di alcuni di riputar l'anime de' grandi, che si erano se-
gnalate al mondo per eroici fatti, non estinguersi col corpo, ma
esser riposte fra' celesti ed i loro mani o sian ombre degne di pietà
e di rispetto, onde i panegiristi empirono di tali concetti le loro
orazioni funebri, recitate in lor morte; e Cicerone, sicome altrove
fu detto, assumendo una tal persona lo stesso fece in commenda-
zione della sua figliuola Tullia nel lib. De consolatìone,2, e C. Tacito
in grazia del suo socero Agricola, in finir la di lui vita, a lui rivolto
gli disse: «Si quis piorum manibus locus, si, ut sapientibus placet,
non cum corpore extinguuntur magnae animae : placide quiescas »3
etc. E gli Ebrei stessi doppo la lor dispersione in più provincie
dell' Oriente, contaminati da stranieri costumi ed opinioni, nel u
Tempio adottarono li medesimi sentimenti, onde leggiamo presso
Tacito nel lib. v delle sue Istorie che disprczzavano la morte e per
1. Così Omero . . . edesti: il riferimento è all'Odissea, xi, 601-3. *• e Ci-
cerone . . . consolatìone: cfr. Consola xv, 53 sgg. La Consolatio è però con-
siderata opera «incerti auctoris ». 3. *Si quis . . . quiescas»: Tacito, Agric,
46 (« Se davvero esiste un luogo per i mani dei pii, se, come i saggi riten-
gono, l'anima dei grandi non s'estingue col corpo, tranquillamente ripo-
sa . , . »).
IO90 L'APE INGEGNOSA
dar coraggio a' combattenti davansi a credere che l'anime di coloro
che morivano sul campo di battaglia fossero eterne.1 Sicomc pro-
curarsi volontaria morte per sottrarsi da ignominia, servitù e
opprobrio. Quindi leggiamo nel lib. 2 de1 Maccabei, cap. 14, 42,
che Razia* per sottrarsi dalle violenze che Nicànore, ministro di
Antioco, usava con gli Ebrei per fargli idolatrare, diede a se mede-
simo morte: «Eligens» come ivi si legge «nobilitcr mori potius,
quam subditus fieri pcccatoribus et contra natales suos indignis
iniuriis agi».
Ma circa queste ombre, o siano spettri o mani, quante Jole e
ciance inventarono i Greci, che contaminarono in ciò anche i Ro-
mani. Che se i loro cadaveri non fossero stati ritamente sepolti,
ovvero che Tossa rimanessero esposte sopra la nuda terra ad esser
mosse dal vento e bagnate dalla pioggia, non avesser le loro ombre
mai pace e riposo, ma che vagassero di qua e di là misere e dolenti;
e molto più quando, violati i loro sepolcri ove furon riposti, si fosser
Tossa sparse per terra. Quindi Livio nel lib. primo della v deca,3
doppo aver narrato le crudeltà, gTincendi e le mine che Filippo
re di Macedonia fece ne* contorni di Atene, abbattendo i tempii
e le statue de* dii, e minando i sepolcri de' morti, non lasciandovi
pietra sopra pietra, dice che nel concilio degli Ktoli i legati ateniesi
non tralasciarono rinfacciare a' Macedoni questa crudeltà ed inu-
dita barbarie di Filippo, il quale avea mossa guerra a' dii infernali
minando tutti i sepolcri e' monumenti, lasciando denudati i numi e
le ossa scovcrte sopra la nuda terra, e poi imperversato anche
contra i dii celesti, rovesciando tutti i loro tempii, spezzando i loro
simulacri e mettendo il tutto a ferro e fuoco: «adeo omnia» essi
dicevano «simul divina umanaque iura polluerit, ut priore popula-
tionc cum inferis diis, secunda cum superis bellum nefarium ges-
scrit: omnia sepulcra monumcntaque diruta esse in finibus suis
omniumque nudatos mancs, nullius ossa terra tegi ». I Romani da'
Greci appresero queste vane religioni e Numa Pompilio le ac-
crebbe e confermò; e sicome suole avvenire a gli animi gravati
di superstizione, si aggiunse un'altra vana credenza, che non pur
quest'ombre, insepolti i loro corpi, andassero vagando misere e
1. onde leggiamo . . , eterne: Tacito, Ilist., v, 5. 2. Manda era uno detfli
Anziani di Gerusalemme, che, quando il ministro di Antioco V, Nicànore,
tentò di paganizzare gli Kbrei, si oppose. Minacciato di cattura, hi uccise.
3. nel lib. primo della V deca: Livio, xxxi, 30 (quindi nella xv deca).
OSSERVAZIONE XL IO9I
dolenti; ma se morti invendicati de* torti fattigli in vita, non si
espiasse per loro e prendesse vendetta, non avrebber mai posa né
quiete, e che per ciò soleano apparire a' congionti 0 amici perché
vendicasscr le loro onte. Lo stesso Livio nel lib. 3 della 1 deca,1
rapportando il tragico successo di Virginia, la quale fu uccisa dal
dolente padre che non ebbe altro modo per iscamparla dalla ser-
vitù e dall'imminente infame stupro di Appio Claudio decemviro,
narra che discacciati per ciò da Roma i decemviri, fu preso del-
l'indegno attentato di Appio, de' suoi ministri e colleghi, degno
castigo, e così fur vindicati i mani di Virginia, soggiungendo gra-
ziosamente che i mani di Virginia furono più felici doppo morte
ch'essendo viva, li quali vagando di qua e di là cercando vendetta,
ottenutala, finalmente si quietarono: «manesque Virginiae, mor-
tuae quam vivae feliciorcs, per tot domos ad petendas poenas
vagati, nullo relieto sonte, tandem quieverunt».
Di qui nacque, ch'empite le fantasie del volgo di sì vane cre-
denze, resi per ciò pavidi e timorosi, la paura istessa sovente fa-
cevagli vedere cose invisibili ed udire gemiti o rumori che non
aveano altro sostegno che la depravata e corrotta lor fantasia; e
poiché, come altrove si è avvertito, gli uomini sono pur troppo
avidi di narrare, ovvero di udire cose portentose e strane, con pia-
cere si raccontavano e si sentivano, e con pari credulità se gli
prestava intera fede. Quindi le tante favolette, che anche oggi si
raccontano
Stando al foco a filar le vecchiarelle.2,
E quel che fa maraviglia, anche scrittori gravi, non meno antichi
che moderni, han piene le carte di questi sogni; e Plinio il Gio-
vane, il quale non era sì a fondo istrutto d'una solida filosofia come
suo zio, non solo ne dubbitava, ma mostrava inclinare all'opinione
del volgo che le crede essere qualche cosa, non pure illusioni. Leg-
gasi la sua ep. 27 del vii libro, indrizzata a Sura, e stupirà di tanta
sua simplicità in dar orecchio a simili ciance. Ed è da avvertire che
simili favolette, una volta che si sono immaginate, si replicano e si
fanno vagare in più luoghi ed in diversi tempi, e ciascuno le narra
come testimonio di veduta o d'udito, quando non è che una ri-
petizione di favola antica. Veggasi il P. Menochio nella cent, v,
1. nel lib. 3 della I deca: Livio, in, 58, 11. 2. Cfr. la nota 3 a p. 1032.
IO92 L'APE INGKGNOSA
cap. 34, dove ne rapporta più essempi.1 La Tavoletta clic si narrava
d'una donna di istraordinaria grandezza apparsa a Dione Siracu-
sano, che si legge presso Plutarco nella vita di Dione/ è la stessa
di quella che Plinio il Giovane narra qua in persona di Curzio
Rufo, al quale in Affrica diceasi apparso simile spettro.3 Ne S. Ago-
stino fu in tutto libero di sì fatte credulità, riferendo nel lih. 22
De civ. Dei, cap. 8,4 che a' suoi dì simili spettri, o siano spiriti fol-
letti, davano molestia a gli animali ed a gli uomini che abitavano
nella casa d'un tal Hesperio; se bene questi libri della Città di Dio,
essendo stati ne' secoli incolti depravati di molte giunte, che puzza-
no della semplicità di que' rozzi tempi, ninno può assicurarsi in ciò
del vero sentimento di questo gran filosofo. Niente dico de* Dia-
loghi di S. Gregorio M.5 e di quante simili fole affastellò Giovanni
Diacono nel lib. 4, cap. 89, della di lui vita.6 Molto meno degli
altri più moderni scrittori, fra' quali il nostro Ales. ab Alex andrò
ne' suoi Giorni gemali,7 lib. 2, e. 9, di Gio. Tritemio ndìYJstoria
del Monastero Hirsaugicnse* del P. Pietro Possino gesuita nella
Vita di Antonio Boretto senatore del Parlamento di Tolosa? e di
altri rapportati dal P. Menochio nella cent, x, cap. 97, i quali di
questi sogni han empiti i loro libri ; ed il P. Menochio credette che
queste apparizioni non fossero di ombre di morti o di anime
purganti, ma più tosto demòni. Nò alcuni pochi savi poterono far
argine ad un sì redundante fiume di tante fole, sicché il volgo non
ne fosse innondato e non vi sia anche al presente. Mentre io era
in Vienna di Austria, mi raccontavano che tutto quel vasto regno
1. Veggasi . . . essempi: G. 8. MENOcrno, Stuore, ed. cit., ionio ir, cent, v,
cap. xxxiv, Alarne osservationi sopra un fatto di san Germano vescovo Anti-
sìodorense, pp. 58 sg. 3. che sì legge , . . Dione: cfr. Dio, $$. 3. è la stes-
sa . . . spettro: nell'epistola xxvh del vii libro, poco sopra citata dal Gian-
none. 4, De civ. Dei, xxii, via, 6, in Mignc, P. L., xu, eoli. 764-5. La
storia di Hesperio a col. 764. 5. Gregorio Magno, Dialogorum libri IV,
in Mignc, P. L., Lxxvn, coli. 149-430. Questa citazione, come anche tutte
le altre che seguono, e tratta dal Menochio, op. cit., tomo in, cent, x,
cap. xcvn, De' spiriti che inquietali le case con strepiti, apparitioni et i?t altre
maniere, pp. 333 sg. 6. Giovanni Diacono . , . vita: cfr* *ST, ( fregar ii Ma-
gni vita, loc. cit,, in Mtgne, P. L., lxxv, col. 234. 7. Ales. ab Alexandro . . .
geniali: cfr. la nota 7 a p. 1013. 8. Gio. Tritemio . . , Mirsaugiensc: lohun*
nes Heidelberg detto Tritheim (1462-1516), storico benedettino tedesco.
L'opera citata fu pubblicata la prima volta a Basilea nel 1550 e poi, più inte-
gralmente, nel 1 690 a San Gallo. 9, Pietro Possino . . . Tolosa : Pierre Pous-
sìnes (Pussinus, 1609-1686), gesuita francese, storico, di cui il Giannone
cita De vita Arnaldi Boreti senatoris tolosani libri quattuor, Parisiìs 1639.
OSSERVAZIONE XL IO93
d'Ungheria era invaso di questo fascino, e che sovente intorno a'
cimiteri si udivano gemiti e si vedevano strane forme di ombre di
morti querule e dolenti ed in questa credulità era non pur il volgo
rozzo e semplice, ma eziandio la gente più eulta e civile.
Né si fermò qui l'illusione, ma si raddoppiò in andar cercando
rimedi perché queste fantasime non inquietassero le case ; e sicome
per liberarsi da' maghi e loro magie s'inventarono antimagici se-
creti, non meno vani e ridicoli che le magie; così per liberarsi di
tali spettri si fantasticarono non meno dagli antichi che da' mo-
derni varie ed inutili superstizioni. Apollonio Tianeo,1 quel famoso
impostore, insegnava che per scacciargli o perché si quietassero,
era efficace rimedio di caricargli di contumelie e dirli le più atroci
ingiurie, sicome rapporta Filostrato2 nella di lui Vita, lib. 2, cap. 2.
Altri più ridicoli rimedi, sicome notò il Menochio nella cit. cent.,
cap. C;8,3 finsero i poeti seguendo le favole di Omero e di Virgilio.
Omero nel lib. xi della sua Odissea, ripiena di spettri e di magie, al
contrario dell9 Iliade, fa che Ulisse con la spada alla mano tenesse
da so lontane quell'ombre, o sian anime de' defonti.4 Virgilio fa
dire dalla Sibilla ad Enea, che calava nell'inferno, che sguainasse
la sua spada per abbattere quelle ombre se venissero ad infestarlo ;5
ed altre vane superstizioni adoprarono i gentili contro questi spiriti,
ch'essi chiamavano Lemures e Lemuria, delle quali trattarono Ales.
ab Alexandro, lib. 3, cap. 12, e Pietro Tireo, De locis inferis, part. 3,
a cap. 54 ad cap. 64. Alcune sono rapportate anche da Ovidio
nel lib. 5 de' Fasti e da Plinio, lib. 18, cap. 12. Il P. Menochio
aggiunge de' più moderni altre fole per discacciargli; infra l'altre
quella che insegna Paolino, che scrisse la Vita di S. Ambrogio,6
cioè esser efficace rimedio per fugarli il lume ovvero il fuoco:
Apage tot nugas?
Tante strane e sì varie opinioni si andaron fantasticando intorno
allo stato delle anime umane separate da' loro corpi, considerando
1. Apollonio Tianeo: Apollonio di Tiana in Cappadocia (I secolo d. C),
neopitagorico, maestro itinerante e asceta dai poteri miracolosi. 2. Flavio
Filostrato (170-244 circa d. C), ateniese, autore, tra l'altro, di una Vita
di Apollonio di Tiana. 3. cap. q8: intitolato De* rimedi contro V infestazione
de* spiriti, tomo ni, pp. 335 sg., donde derivano anche la citazione di Filo-
strato e gli esempi di Omero e di Virgilio. 4. Omero . . . defonti: Od., xi,
48-50. 5. Virgilio . . . infestarlo: cfr. Aen., vi, 258-60. 6. Ales. ab Ale-
xandre . . . Ambrogio: citati tutti dal Menochio, loc. cit., p. 336, 7. Apage
tot nugas: «Via tutte queste frottole I».
1094 L'APE INGEGNOSA
l'uomo secondo il suo stato di natura, non avendo altra guida ne'
seri che una soda e semplice filosofia, e ne' fantastici ed illusi che
vane immaginazioni e splendide idee, che non han altro sostegno
che la propria fantasia. Ma innalzato l'uomo allo stato di grazia,
sgombro da tanti errori ed inganni, riflettendo che ad un altro più
sublime fine, non al terreno e mondano, era stato elevato, ha po-
tuto istruirsi meglio di quella seconda vita, che alla presente mor-
tale gli sovrasta. Ciocché sarà il soggetto della seguente ed ultima
nostra osservazione, ed insieme ultimo nostro fine ed intento.
OSSERVAZIONE ULTIMA
Che innalzato Vuomo ad un più sublime fine nel suo stato di gra-
zia, non dee riputarsi sol terreno e mondano, ma aspirare doppo
la presente ad uri altra vita, in un regno non giù terreno
e mortale, ma celeste ed eterno.
Fu savia riflessione di S. Agostino che la divina previdenza,
dopo essersi sotto Cesare Augusto l'Imperio romano disteso co-
tanto e reso l'uman genere più docile e culto, e molte barbare
nazioni dirozzate dall'antica loro barbarie e salvatichczza, riputasse
il tempo più proprio ed acconcio di mandare in terra il suo Verbo
ad assumere carne umana,1 allora quando Roma «sparsa congrega-
re imperia» come scrisse Plinio, lib. 3, e. 5, «rituaque molli ret,
et tot populorum discordes ferasque linguas sermonis commercio
contraheret ad colloquia et humanitatem nomini daret; breviter-
que una cunctarum gentium in toto orbe patria fìoret»/ Allo-
ra piacqueli di mandare in terra il figliuolo ad innalzar l'uomo
ad un più sublime stato e di terreno e mortalo renderlo celeste ed
immortale, il quale presa umana carne come mediatore fra Dio e
gli uomini potesse torgli da tanti errori ed inganni, rischiarargli
ed additargli una nuova e più sicura strada di lor salute; e divol-
gare nel mondo una nuova religione, che fosse la più salubre, alla
1 . Fu savia riflessione . . . umana : è una dello tosi di fondo del De cimiate
Dei. 2. « sparsa congregaret * . .fieret»: Plinio, Nat. hist., ed, cit., tomo 1,
lib. ni, cap. v, sect. vi, p. 148 («riunì domini smembrati e raddolcì i riti,
e con la diffusione della lingua radunò insieme i linguali discordanti e
selvaggi di tanti popoli dando all'uomo conversazione e umanità, e in
poche parole divenne Tunica patria in tutto il mondo di tutte le genti»).
OSSERVAZIONE ULTIMA IO95
quale dovcsser tutte le nazioni, non sol l'ebrea, appigliarsi per es-
ser salvi, additando loro la via sicura per la quale potesser giungere
a quello stato nel quale aveagli innalzati. Fu questo l'annunzio e
la promessa d'un nuovo regno celeste, prima a tutti incognito ed a
gli Ebrei stessi, e per ciò da' nostri Padri antichi fu chiamato «No-
vara regni coelestis promissionem ». S. Paolo per ciò scrisse ad . . ,x
che sicomc per un solo uomo terreno, Adamo, era entrata nel mon-
do la morte; così per un solo uomo divino vi era entrata la vita,
poiché l'uomo terreno erasi tramutato in celeste, e per ciò dobbia-
mo deporre le spoglie del vecchio Adamo e vestirne altre d'un
nuovo uomo spiritale ed incorruttibile. Non già le sole anime de'
grandi e degli eroi, come immaginarono alcuni saggi antichi, esser
destinate alle celesti sedi, ma a tutto l'uman genere, credendo in
lui, e serbando i suoi precetti, fu promesso questo regno celeste.
Tutti furono innalzati da terreni e mortali ad uno stato celeste ed
immortale, poiché il sommo Dio, sicome duolsi Plutone presso il
nostro Torquato, non men teologo che poeta,
Ne* bei seggi celesti ha Vuom chiamato:
Vuotn vile e di vii fango in terra nato.'2.
Non a' soli Sisifo, Tantalo, Encelado, Anassarete ... ed altri rei e
perversi furon destinate le pene, secondo le favole de' loro poeti,
ma per tutti coloro i quali, contaminati di gravi colpe, se ne rcndon
meritevoli, fu preparato un fuoco inestinguibile da ardergli senza
consumargli giammai, in eterno. Per ciò non debbiamo temere
della morte e di coloro che possono uccidere il corpo, non già l'ani-
ma, ma si bene di colui che può perdere insieme l'anima ed il corpo;
sicome di propria bocca del nostro Redentore siamo assicurati
dal Vangelo di S. Matteo, io, 28. Non dobbiamo piangere la morte
de' nostri amici e parenti, non già come si disse di Ennio,3 perché
forse per i loro fatti egreggi si resero memorandi per correr vivi e
luminosi nel concetto e nelle bocche degli uomini, ma per altra
cagione da S. Paolo additataci, il quale scrivendo a' Tessalonicensi,
h 4> *3> gli ammoniva di non dover piangere né contristarsi per li
morti, sicome gli altri facevan, intendendo de' gentili, i quali non
1. S. Paolo ecc.: cfr. Rom., 5, 12 sgg. (l'omissione della citazione è del-
l'autografo). 2. Ger. lib., iv, io. Questi versi sono citati anche nell'In-
troduzione del Regno celeste. 3. come si disse di Ennio: cfr. la nota a p*
1087.
IO96 L'APE INGEGNOSA
aveano speranza alcuna di risorgere; ma che i fedeli di Cristo,
credendolo morto e resuscitato, doveano sperare che così essi an-
cora risusciteranno e saran fatti partecipi del regno celeste.
Molto meno di doverci affrettar la morte e volontariamente pro-
curarcela per uscir presto dalle presenti mondane afflizioni e
miserie, poiché ciò sarebbe lo stesso che renderci rei d'un grave
misfatto, il quale ci portarebbe ad una certa e non dubbia dan-
nazione, e questo 2° morire sarebbe incomparabilmente peggiore
del primo. E S. Agostino ne' libri della Città di Dio fu in ciò sì
rigoroso, che dubitava della salute di quelle vergini le quali sotto
Alarico, depredando i Goti Roma, e mettendola a saccomanno,
per non esporsi a violenti stupri si gettarono nel Tevere, affret-
tandosi la morte per salvar la loro virginità.1
Altro adunque dee essere il nostro concetto del morire, opposto
a quello che ne aveano gli antichi Greci e Romani ; poiché* elevati
ad un più sublime stato, non dobbiamo più reputarci sol mondani
e terreni, ma aspirare ad un più alto fine, che ci rende celesti ed
immortali; e che la seconda vita, gioconda 0 penosa che ci soprasta,
dovrebbe renderci più solleciti di por tutto il nostro studio in meri-
tarci quella perenne e beata vita, sicome usar ogni sforzo per non
urtare ne' pericoli i quali potrebbero farci piombare nel Tartaro,
e trar ivi una perpetua e tormentosa vita tra fiamme inestinguibili
ed eterne. Nella considerazione delle quali cose, se oggi seriamente
gli uomini si profondassero, forse terrebbero miglior condotta in
reggere la presente vita. Dovrebbero seriamente riflettere che tutte
le antiche nazioni del mondo, Greci, Romani, e chi no? non indriz-
zavano la loro religione se non al riposo di questo mondo, e runico
loro scuopo non era altro che di felicità tutte terrene e mondane.
Quindi non rendevano a' loro dii sacrifici, vitime, adorazioni e
preghiere, se non perché gli scampasse da' mali presenti o futuri,
e concedesse loro prosperità de' beni, tutti cosi gli uni come gli
altri mondani e terreni. Doppo la lor morte non riputavano rima-
nergli altra vita che la gloriosa nel concetto e nelle bocche degli
uomini adoperando cose grandi, virtuose ed illustri, ovvero igno-
miniosa, se si fosser contaminati in vita di azioni infami e vitu-
perose.3 E pure questo sol vincolo fu riputato bastante per con-
1. E S. Agostino . . . virginità: cfr. la nota a a p. 826. a. Dovrebbero stria*
mente . , . vituperose: sono rtconf ormate, in conclusione, le tesi del Tri"
regno.
OSSERVAZIONE ULTIMA IO97
tenergli in una perfetta società civile perché fossero fedeli ne' patti
e nelle promesse, osservantissimi de' voti, religiosissimi ne' giura-
menti; ed in fine, spezialmente gli antichi Romani, adoperassero
tante illustri, magnanime ed oneste azioni e fosser adorni di tante
belle virtù morali, di giustizia, di temperanza, di castità, di fortezza,
di toleranza, di magnanimità e di tante altre virtù, per le quali a
ragione S. Agostino credette che per divina provvidenza fosse stato
dal sommo Dio ad essi conceduto l'imperio del mondo.
Or si facci confronto degli antichi Romani co' nostri cristiani, a'
quali si è aggiunto, per fargli maggiormente perfetti, un vincolo
assai più tenace e forte, qual'è una religione, che non riguarda il
riposo di questo mondo, nel quale abitiamo come momentanei
peregrini e passaggieri, ma un'altra vita permanente ed eterna:
una religione che c'istruisce d'una morale assai più perfetta e pura
di quella de' più elevati filosofi gentili; la quale cotanto c'inculca la
dilezione del prossimo e di fare o non fare a gli altri ciò che per te
stesso vuoi o non vuoi; la quale c'insegna doppo questa mortai
vita essercene apparecchiata un'altra infinita, alia quale parago-
nata la presente tutta sparisce, ed è un punto indivisibile, onde il
S. re Davide solca dire che presso Dio « mille anni tanquam dies ex-
terna quae practeriit»:1 una religione la quale ci rende certi che,
secondo ci saremo portati in questo pellegrinaggio, trovaremo
colà permanente abitazione, dove per sempre ci converrà menare
una vita o tutta beata e gioconda, ovvero infelice, tormentosa e
misera, che non avrà mai fine né sarà circoscritta da tempo alcuno.
Queste circostanze rendono oggi assai più rei e colpevoli coloro che
traviano dal giusto sentiero; sicché meritamente dovremo riputare
i mali cristiani per gli uomini i più malvaggi e perversi che siansi
veduti giammai sopra la superficie della terra, e riputargli i più
empi e scellerati di quante nazioni furono al mondo giammai;
poiché tutte non indrizzando la loro religione che alle felicità
mondane, non aveano un vincolo sì tenace e forte che potesse
trattenerle e por freno a' vizi, a' quali la nostra depravata natura
ci spinge e ci conduce, come abbiamo noi, i quali procuriamo di
covrire, ciocché è il peggio, le nostre malvaggità sotto colorati manti
di affettata pietà e d'ipocrisia, e dentro coviamo le fraudi, gl'in-
ganni ed una prodigiosa ambizione, una sordida avarizia e mille
1. umilio anni. . .praeterìit»: cfr. Psalm., 89, 4.
IO98 L'APE INGEGNOSA
enormi vizi e scclcraggini. Non dovrebbe essere a noi di sommo
scorno e rossore, che non ostante tanti nuovi vincoli e saggi avvisi
d'una religione sì pura e santa, non possiamo arrivare a quella mo-
rale ed a quelle insigni e sublimi virtù esercitate da tanti che vissero
nella caligine d'una religione falsa, adorando dii fantastici, vani
e buggiardi ? E pure pochi sono oggi che a ciò riguardano, quando
tutti dovremmo proporci avanti gli occhi della mente una sì alta
ed illustre mèta, e tutte le nostre cure, i nostri pensieri ed i nostri
studi dovremmo indrizzargli ad un fine sì alto al quale per divina
bontà e munificenza fummo dalla benefica mano del Signore in-
nalzati.
26 agosto 1744 C. [astello] di Ceva.
LETTERE
NOTA INTRODUTTIVA
Alcuni epistolari settecenteschi (ma anche di età precedenti, del-
l'Umanesimo, del Rinascimento o del Seicento) sembrano formati in
vista di una loro pubblicazione, post mortem auctons. Vi sono colle-
zioni celebri di lettere, proposte all'attenzione dei lettori dall'editore
più per il loro valore retorico (sull'esempio ciceroniano delle epi-
stole Ad Atticum, Ad Quintum fratrem, Ad Brutum ecc.) che per il
loro contenuto. Altre, invece, omogenee per contenuto, quasi un
unico discorso ribadito e a lungo continuato dall'autore coi suoi cor-
rispondenti su temi religiosi (ad esempio, l'epistolario camaldolese
edito da Giovanni Benedetto Mittarclli e da Anselmo Costadoni nel
Ì773* ° le lettere del Dolfìn edite in parte sin dal 1523), 0 su temi
eruditi, com'è per lo più il caso per gli epistolari sci-settecenteschi
(del Magliabechi e al Magliabechi, di Apostolo Zeno ecc.). Persino
epistolari quali quelli del Muratori o del MafTci, editi solo ai nostri
giorni, come l'altro, ancora in corso di pubblicazione, del Leibniz,
conservano un loro essenziale carattere erudito ; molto spesso in essi
la lettera assume la forma di una vera e propria dissertazione, di un
saggio, d'un articolo. L'epistolario, in questi casi, svolge una fun-
zione analoga a quella del giornalismo letterario sci-setteccntcsco, né
ò infrequente il caso d'una lettera divulgata in numerose copie mano-
scritte, ad iniziativa del corrispondente o dello stesso scrivente. Si
direbbe che proprio in questo scambio continuo di notizie librarie,
di recensioni, di informazioni erudite, stia il motivo più profondo
delia formazione dell'epistolario stesso ; il quale, come si comprende,
e solo fino ad un certo punto un epistolario «privato)», nel senso,
almeno, che certi giudizi negativi su di un libro, richiedevano, per
essere divulgati, un certo riserbo, il consenso preventivo dello scri-
vente, ma nulla più. Sono lettere, come dicevamo, scritte già con
l'impegno d'una loro eventuale futura divulgazione, in cerchie e
ambienti più o meno ristretti, o addirittura a mezzo delle stampe.
Anche Pietro Giannone ebbe, naturalmente, un epistolario simile,
seppure di non ampia mole. Ne restano labili tracce in alcune sue
lettere ai due Menckc, padre e figlio, in una lettera di Sicgmund Lie-
be a lui ; ma sappiamo che la corrispondenza con Johann Burckard
e con Friedrich Otto Menckc fu molto più nutrita (il Panzini, che la
conobbe, cita dieci lettere di Friedrich Otto e altrettante di Gian-
none a lui, nonché due di Johann Burckard e tre di Giannone),1
e dalla sua autobiografia risulta che egli ebbe rapporti epistolari an-
1. Cfr. Panzini, pp. 52-3, 60, 64, 67 e 69-71.
1102 LETTERE
che con Zegcr Bernard van Espen. Disperso e anche il gruppo di
lettere scamhiate con il medico napoletano Nicola Cirillo, professore
nell'Università di Napoli (il Panzini ricorda trentuno lettere gian-
noniane a lui, e sci del Cirillo a Pietro),1 e questa ò forse la perdita
più grave, la lacuna più grossa della corrispondenza giannoniana,
perche il Cirillo «profondo filosofo, gran botanico e peritissimo me-
dico e notomico» (cfr. Vita, qui a p. 49) era stato allievo di Nicola
Partenio Giannettasio, membro dell'Accademia Palatina del Medi-
nacoeli, corrispondente di Antonio Valhsnieri e di Isaac Newton, ed
a lui s'era sempre rivolto per consiglio e aiuto il Giannone. Ritrovare
questo nutrito gruppo di lettere sarebbe una delle più importanti
scoperte per gli studi giannoniani, e forse anche per la ricostruzione
di quell'ambiente filosofico naturalista, oscillante tra Cartesio e Gas-
sendi, che vanta accanto al Cirillo nomi quali quello dell'Aulisio,
autore di quello studio Delle scuole sacre fra gli Ebrei che ne fu forse
la migliore espressione. Speranza non del tutto infondata, che basta
scorrere il nostro censimento dei manoscritti giannoniani,2 per os-
servare quante lettere del Giannone fossero rimaste sino ad oggi
sepolte in biblioteche e archivi, sconosciute agli studiosi; sicché
sembra lecito presumere che più larghe e minuziose ricerche, so-
prattutto tra carte non ancora inventariate in biblioteche e archivi
pubblici e privati, possano un domani portare a nuovi e più ampi
ritrovamenti.
L'epistolario giannoniano ebbe infatti una sorte diversa da quella
di tutte le sue carte. Non cadde nelle mani dei Savoia, ma rimase a
lungo nascosto in Svizzera, a Saconncx, almeno sino al 1760. Dopo
questa data fu restituito a Giovanni Giannone, che lo richiese per
l'abate Leonardo Panzini, il quale si accingeva a scrivere la biogra-
fia di suo padre. È ben vero che, a quella data, doveva aver già
subito alcune perdite, perché, come riferì Jacob Vernct al Pruno
Sindaco di Ginevra, al momento dell'arresto di Giannone a Vezenaz
egli e il Turrcttini compirono una cernita delle sue carte («nous en
fimes un triagc»), «brulant quelques lettres et mettant à part tout
ce qui auroit pu commettre diverses personnes du dehors».3 Però,
a giudicare dalla mole delle lettere utilizzate, citate o solo ricordate
dal Panzini, l'epistolario doveva essere ancora abbastanza volumi-
noso, se non più intatto. La scelta che ne fece il figlio, e che e giunta
sino a noi, ò invece molto più lacunosa, nò ò facile spiegarcene il
motivo. Alcune lettere, a quel che sembra, non furono restituite dal
Panzini a Giovanni: un confronto tra le lettere ricordate nella bio-
1. Cfr. Panzini, p. 59 & passim, 2. Cfr. Giannoniana. 3. Cfr. ibid., pp.
577-8.
NOTA INTRODUTTIVA II03
grafia, e quelle ricopiate dal figlio di Pietro Giannone, dimostra
come dal carteggio manchino nove lettere a Carlo Giannone per
Tanno 1723, altre cinque allo stesso per l'anno 1724, due per il 1735,
tre per il 1734; tutte lettere sino ad ora non reperite. Anche l'altro
cospicuo numero di lettere oggi depositate presso la Biblioteca Na-
zionale di Firenze1 deve ritenersi tra quelle non restituite dal Pan-
zini. Ma Giovanni, a sua volta, fece di più: occultò tutte le lettere a
lui indirizzate dal padre, e delle quali ci sono pur tuttavia pervenute
le minute, la maggior parte ancor oggi tra le carte dell'Archivio di
Stato di Tonno, una nel fondo Gamba della Biblioteca Civica di
Bassano del Grappa.3 Il che si può anche spiegare, perché, a quanto
appare dalla loro lettura, i rapporti con questo figlio sradicato non
erano certo molto facili. Ciò che è più difficile comprendere, a prima
vista, è il criterio in base al quale Giovanni raccolse le restanti lettere
paterne, conservandoci solo quelle inviate allo zio Carlo, e non anche
le tante altre indirizzate agli altri corrispondenti (il Cirillo, appunto,
il Capasso, il Grimaldi, l'Ippolito e gli altri corrispondenti napole-
tani). Né è da dire che abbia voluto scegliere solo lettere familiari,
perché da esse ha espunto proprio tutte quelle parti che più diretta-
mente riguardavano i rapporti del padre con la madre e la sorella,
rinchiuse a Napoli in convento; mentre, d'altra parte, ha aggiunto
alla corrispondenza alcune lettere indirizzate al Giannone da Co-
stantino Grimaldi, da Pietro Contegna, da Biagio Garofalo e da
Angelo Pisani, lettere, tutte, a quanto pare, ignorate dal Panzini,
perché in quella sua biografia non appaiono utilizzate, pur rivestendo
una qualche importanza.
È lecito dunque supporre che l'epistolario sia stato formato da
Giovanni in due momenti diversi; sempre, comunque, dopo la fa-
tica del Panzini. In un primo tempo, venuto in possesso della corri-
spondenza paterna, Giovanni ne fece partecipe l'abate Leonardo
Panzini, inviandogli di volta in volta gruppi di lettere che questi gli
avrebbe dovuto restituire, dopo averle utilizzate: «Ecco rimetto a
V. S, ventiotto lettere, ed altre cinque prima, sono numero 33 - che
farà dapoi il favore restituire : nelle medesime vi è tutto ciò disidera,
e potrà più lungamente servirsene circa a' fatti che in quelle si de-
scrivono»; «Rimetto a V. S. quattro lettere del fu mio padre ed
un'altra già rimisi giorni passati, sono in tutto lettere cinque, che
avrà la bontà unirle coll'altre scritture, che poi terminata la vostra
incombenza mi restituirà».3 Successivamente, diciamo attorno al
1765, procedette ad una raccolta e trascrizione di quelle indirizzate
1. Cfr. Gìannonìana.) pp. 516 sgg. 2. Cfr. ibid., pp. 366-7. 3. Cfr. ibtd,,
PP- 533-4.
1104 LETTERE
allo zio Carlo, in maniera abbastanza scrupolosa e rispettando gli
originali. Formò, così, quello che è oggi il volume della Biblioteca
Nazionale di Roma segnato Fondo Vittorio Emanuele 358. Ma ritor-
nato sui criteri di scelta e copiatura, tagliò e rabberciò i dispacci del
padre, dandoci i due volumi oggi segnati Fondo Vittorio Emanuele
359 e 360. Quali motivi lo spinsero a questa decisione?
Pietro Giannone era solito inviare, da Vienna, al fratello, due di-
stinte lettere nel medesimo involto, con lo stesso procaccia. Una
trattava questioni familiari, l'altra riguardava invece 1 suoi rapporti
col mondo esterno, con gli amici lasciati a Napoli. E qui entriamo
nel vivo del carteggio.
Come si diceva più sopra, benché il Giannone avesse avuto an-
ch'egli un epistolario erudito, quasi interamente oggi smarrito, que-
sto non doveva essere di grosse proporzioni. Intanto, perché a Na-
poli, avanti la pubblicazione da\V Istoria civile, egli non era conosciuto
come studioso che in una ristrettissima cerchia; né la stampa della
sua dissertazione sul persistere della neve sulle due cimo del Vesu-
vio e del monte Somma, apparsa nel 17 18 sotto l'anagramma di
Giano Perentino, era uno di quei contributi che potessero segnalare
il suo nome nella respublica litteraria. La fama lo raggiunse solo a
quarantasettc anni, nel 1723, accompagnata però dalla persecuzione,
dalla scomunica ecclesiastica, dalla conscguente fuga ed esilio vien-
nese. Insomma, nessun erudito italiano fu invogliato ad indirizzarsi
a lui, dopo l'uscita della sua opera, per aver l'onore di carteggiare
col nuovo storico del Regno. Ma nemmeno a Vienna, dove le possi-
bilità di rapporti epistolari, almeno con eruditi protostanti, potevano
essere maggiori, nemmeno a Vienna egli fu ricercato e richiesto di
scambi cpistolain. Ostava, questa volta, la difficoltà della lingua.
Giannone non solo non conosceva il tedesco (cfr. Vita, qui a pp.
147-8), ma ò lecito dubitare che fosse in grado di scrivere corretta-
mente in latino/ sicché la via ad un carteggio con eruditi di lingua
germanica o fiamminga gli era preclusa.
1. L'impressione ch'egli non fosse in grado di scrivere in un corretto latino
la si ricava da diversi elementi. Prima di tutto dalla richiesta fatta all'amico
Nicola Capasse, professore di diritto canonico all'Università di Napoli, di
stendere per lui una notizia libraria per gli « Acta Kruditorum Lìpsicnsium »,
in merito alla polemica del Sanfclicc; ancora, dalla constatazione che quel
brano latino oggi conservato nel fondo San Martino della Ittblioteea Na-
zionale di Napoli, e che il Minicri-Riccio (cfr. Giannoniana, p. 63) cre-
dette una «prima idea» del Triregno, non sia altro che una traduzione
latina del primo paragrafo dell'ultimo capitolo del Repio terreno, messa in
bella dal Giannone, verisimilmente dopo essersi fatto correggere la propria
traduzione, se non addirittura dopo averne dato incarico ad altri; ma so-
NOTA INTRODUTTIVA II05
Occorre aggiungere che Giannone, nonostante ogni apparenza,
non ebbe mai la stoffa dell'erudito; almeno nel senso che non ebbe
mai la pazienza di compiere ricerche di prima mano, di passare gior-
nate intere nella lettura e decifrazione di testi antichi. La sua fu
sempre un'erudizione di seconda mano ; tant'è vero che, quando il
Muratori lo invitò a collaborare ai suoi Rerum Italicarum Scriptores,
si guardò bene dall'accettare un'offerta che per altri sarebbe stata
enormemente lusinghiera. Va anche osservato che i suoi interessi
erano più politici che storici, al tempo dell'Istoria civile, più filosofici
che eruditi, al tempo delle ricerche sulle religioni ebraica e cristiana.
La gran parte del suo carteggio, dunque, risale agli anni viennesi,
ed è diretta agli amici rimasti a Napoli : il Cirillo, il Capasso, il Mela,
il Grimaldi, il Garofalo, l'Ippolito. Che vi fossero scambi epistolari
con tutti costoro è indubbio, perché o ci sono rimaste loro lettere
indirizzate al Giannone, o ne abbiamo notizia da altre fonti. Per-
ché, allora, Giovanni non ha provveduto alla trascrizione anche di
queste risposte paterne alle missive dei corrispondenti napoletani?
Perché si è limitato alla raccolta del solo carteggio del padre con lo
zio Carlo? Per due ragioni, crediamo. La prima, l'impossibilità di
rintracciare presso gli eredi la corrispondenza paterna; mentre quella
dello zio era pervenuta nelle sue mani alla morte di Carlo Giannone,
dopo cioè il 14 febbraio 1755.1 Ma anche (e questa seconda ragione
ci sembra la più importante) perché in realtà il carteggio cogli amici
napoletani si svolgeva essenzialmente proprio attraverso il carteggio
con Carlo. Salvo casi sporadici, non era infatti prudente che da
Vienna il Giannone scrivesse direttamente agli amici rimasti in pa-
tria. Anzi non era prudente nemmeno indirizzare la posta al fratello,
tant'è vero che questa veniva tutta indirizzata al Micaglia o a Fran-
cesco Mela, un intimo del Giannone, forse figlio di quell'Antonio
ch'era stato padrino 0 compare di battesimo alla nascita di Pietro.
Sicché, concludendo, quando Giovanni trascriveva le lettere pa-
terne allo zio, egli trascriveva l'intero suo epistolario, salvo casi
sporadici impossibili per lui di ricostruire.
prattutto dall' aver affidato ad altri la traduzione della sua dissertazione
sulla moneta di Luigi XII col motto «Perdam Babillonis nomen» (cfr.
Vita, qui a pp. 186-7) e dell'altra dissertazione sui dicasteri di Vienna (cfr.
sempre Vita, qui a pp. 183-4). Infine potrà osservarsi che nessuno di quei
pochi scritti in lingua latina, autografi, conservatici tra le carte giannoniane,
è frutto della sua penna: sono tutti scritti d'amici, ch'egli ricopiò per sé.
E cfr. Panzini, p. 53, il quale a proposito delle lettere scritte dal Giannone
ai Mcnckc scrive che sono « assai male scritte in latino, dacché il Giannone
occupato sempre in istudi più seri e rilevanti non si era giammai esercitato
a scrivere in cotesto linguaggio ». 1. La data di morte di Carlo è ricordata
da Giovanni nella sua autobiografia: cfr. Giannoniana, p. 210.
IIOÓ LETTERE
Carteggio dunque privato, questo del Giurinone. Fausto Nicolini,
parlandone nel suo saggio Gli scritti e la fortuna di Pietro Giannone*
lo definì « impubblicabilc per la sua lunghezza, per la sua aridità e
monotonia, e anche per la guerra spietata che vi si fa alla grammati-
ca», aggiungendo che «occorre buona dose di pazienza, per leggerlo
fino in fondo; e conviene, per esempio, rassegnarsi a sentire ripetere,
chi sa per quante lettere, in cui il "lei" e il "voi" vivono in paci-
fica concordia, non solamente nello stesso periodo, ma anche nella
medesima proposizione, le lamentele del Giannone perché non gli
s'inviava in contrabbando, da Napoli, in una cassa di libri, una sca-
tola di tabacco o una dozzina di fazzoletti, o perché all'amante di lui,
rinchiusa in un monastero, non venisse corrisposto il tenue assegno
mensile da lui fissato». Un carteggio, dunque, cosi «familiare», così
«privato»? Per qual motivo, allora, Giovanni sarebbe stato spinto a
quell'immane fatica di amanuense, trascrivendo tante lettere paterne,
sì da darcene due grandi volumi in quarto? Soprattutto, come avreb-
be potuto credere che un simile carteggio fosse degno di pubblica-
zione (perché certamente la sua fatica di trascrittore mirava proprio
a questo)?
Chi legga i pochi exempla che di questo carteggio pubblichiamo
qui di seguito, ma soprattutto chi abbia la buona volontà di scorrere,
nella sua progressione cronologica, il regesto che dell'intero carteg-
gio noi abbiamo dato nel nostro censimento,2 potrà agevolmente ac-
corgersi come, in realtà, il copialettere di Giovanni non contenga
affatto, come affermava il Nicolini, «una folla di aneddoti d'ogni
genere: dal pettegolezzo di corte, di salotto o di gabinetto, all'im-
pressione suscitata da un nuovo libro; dalle gesta gloriose di qualche
frate truffatore, alle discettazioni di politica estera, che si facevano
nei più alti circoli dell'impero».3 Altro che pettegolezzi, altro che
cicalate politiche! Questi dispacci, che settimanalmente il Giannone
inviava al fratello a Napoli, in due lettere distinte, sono ben altro
che una corrispondenza familiare! Naturalmente, non mancano no-
tizie private: il problema del mantenimento della moglie e della fi-
glia in convento e costante; spesso si accenna alla sorte di Giovanni,
che lo zio Carlo non intendeva mantenere a Napoli, e che nemmeno
la zia Fortunata voleva allevare a Vieste. È anche vero che, qualche
rara volta, si trova in fine d'una lettera la richiesta d'invio d'un
poco di tabacco, d'una stoffa per una dama viennese, di sementi per
il giardino d'un amico. Ma possiamo far rientrare tra i discorsi fami-
liari anche le lettere con cui si davano disposizioni per la divulgazione
i. Nicolini, Scritti, p. 80. 2. Cfr. Giannoniana, pp. 3x3 sgg, 3. Nico-
lini, Scritti, p. 80.
NOTA INTRODUTTIVA II07
della Professione di fede, o per il sequestro del Breviario di Gregorio
Vili o gli inviti perché gli amici napoletani intervenissero in difesa
del van Espen ? Possiamo far rientrare nella sfera privata del carteg-
gio tutte le notizie, disposizioni, critiche a processi e sentenze, le
prese di posizione nei confronti di giuristi e personalità politiche e
diplomatiche (il Ventura, il Vitagliano, l'Egizio, il duca Perrelli . . .),
quella, cioè, che è la parte sostanziale del carteggio ? È mai possibile
che sino ad oggi nessuno si sia reso conto che, anziché una corrispon-
denza privata, ci è pervenuta attraverso questo copialettere la preci-
sa documentazione dell'attività politica del Giannone e del suo
gruppo ?
Delle due lettere settimanalmente inviate da Vienna, una conte-
neva affari privati e riservati, era realmente destinata al fratello o alla
conoscenza di pochissimi intimi; ma l'altra era scritta a parte, pro-
prio perché fosse fatta leggere all'esterno dell'ambiente familiare.
Lo sbaglio del Nicolini è stato quello di non accorgersi della diver-
sità delle due lettere, di aver creduto che il volume oggi segnato 358
fosse una copia dei volumi 359 e 360, e non gik il primo copialettere
approntato da Giovanni, come in efletti è. Perché inizialmente Gio-
vanni fu un fedele trascrittore dei dispacci paterni, dandocene la
versione integra. Senonché, forse spaventato dalla mole che in tal
modo veniva assumendo il suo lavoro, decise in un secondo momento
di unificare in una le due distinte lettere d'ogni spaccio, operando
arbitrari tagli, occultando, soprattutto, le vicende della madre e della
sorella rinchiuse in convento: come può riscontrarsi collazionando
la copia 358 con quella segnata 359. E fosse stato almeno intelligente!
ci avrebbe dato una raccolta guidato da precisi, seppur arbitrari
criteri, che avrebbe conservato una qualche fisionomia. Ma Giovanni,
dopo un'infanzia infelice e priva d'alcuna istruzione, aveva appena
imparato a leggere e a scrivere, destinato a far da segretario e da
amanuense del padre. Vicino a lui, avrebbe potuto forse dirozzarsi;
ma padre e figlio si riabbracciarono, dopo dodici anni di separazione,
nel pieno della tempesta: da Venezia a Ginevra alla prigione di
Miolans. Di nuovo brutalmente separato dal padre, era finito sol-
dato in un reggimento posto alla difesa di Belgrado, e soldato rimase
anche una volta rientrato in Napoli, col grado di tenente. La sua
sconfinata venerazione per il padre, mista d'affetto e di orgoglio, lo
spinse a rendersi divulgatore della sua opera, impiantando a Napoli
un vero e proprio scrittorio per la diffusione latomica delle sue opere,
in innumeri copie manoscritte. Con questi stessi intenti si cimentò
nell'impresa dell'epistolario. Ma un conto era far opera di amanuen-
se, un altro cercare di trasformarsi in editore e curatore delle lettere
paterne! Dopo il suo intervento di forbici, riesce impossibile rico-
H08 LETTERE
struirc i dispacci originali, e non resta che accontentarci di quanto,
fortunosamente, è giunto smo a noi, relitto di un ben più ampio
carteggio.
Sergio Bertelli
LETTERE
I
A CARLO GIANNONE1 • NAPOLI
Lubiana 28 maggio 1723.
In Manfredonia, dove, come avvisai,2 giunsi a 27 del passato mese,
nel giungere nell'osteria fui non so da chi conosciuto, il quale nell'i-
stesso tempo che io del mio arrivo ne diedi parte alli signori Cessa
e Fiore,3 ne avvisò il canonico Perucci che, per l'assenza di mon-
signor arcivescovo4 e del vicario generale, che si trovava allora
coirarcivescovo in S. Giovanni,5 aveva la sopraintendenza dello
spirituale. Questo signor canonico, appena ebbe l'avviso del mio
arrivo, si pose in agitazione che dovesse fare, stante i rumori che
correvano e le rappresentazioni fatteli dal principe N. N., concesso
diceva, ma io supposi che fossero stati del cardinal Zapatta;6 e
Nella trascrizione del carteggio giannoniano ci siamo attenuti il più fedel-
mente possibile alla stesura delle copie delle lettere esistenti nella Biblio-
teca Nazionale Centrale di Roma (B.N.R., Fondo Vittorio Emanuele 358
e 35 0-3 60) e nelP Archivio di Stato di Tonno. Abbiamo ridotto le maiu-
scole, sovrabbondanti, semplificato la punteggiatura e sciolto le abbrevia-
zioni (ad esempio, «S.r» e «Sig. r» in signor, «111. mo» in illustrissimo, «s.e»
in sempre, « med.mo » in medesimo, « 20 » in secondo, e così via).
I. B.N.R., F.V.E. 358, ce. 27-29. La lettera è indirizzata ad Antonio Mela,
«Venezia per Napoli», cui viene inviato il bigliettino qui riprodotto in
calce alla medesima. - 1. Carlo Giannone, nato ad Ischitella de' Dauni nel
1688, andò a Napoli su invito del fratello Pietro, che lo istradò «pria ne*
studi di filosofìa, poi in quelli di legge e, finalmente, . . . nella strada de*
tribunali » (cfr. Vita, qui a p. 47). Divenuto procuratore di Pietro durante il
forzato esilio di questi, Carlo tradì la fiducia del fratello, abusando dei
propri poteri e provocando l'indignata reazione del fratello (cfr. Vita, a
pp« 227-8, e la lettera xxiv, qui a p. 1191). Il disaccordo tra i due sfociò,
alla morte di Pietro, nella lite per l'eredita fra Carlo e il nipote Giovanni,
lite che trovò una conclusione definitiva solo con la morte di Carlo avve-
nuta il 14 febbraio 1755 (cfr. il racconto di Giovanni, in Giannoniana,
pp. 209-10). 2. come avvisar, cfr. la lettera del 30 aprile, in Giannoniana,
n.° I, ce. 26-261?. Il Giannone era fuggito da Napoli il 22 aprile. 3. Tom-
maso Cessa, amico del Giannone, che lo aveva conosciuto a Napoli, come
è ricordato nella Vita, qui a p. 91 ; Niccolò Fiore era il console imperiale
di Manfredonia: cfr. Vita, qui a p. 91 e la nota 3 ivi. 4. monsignor arcive-
scovo: Giovanni de Lerma (morto nel 1735) era a Manfredonia (Siponto)
dal 1708 j traslato a Tiro nel 1725. 5. in S. Giovanni: a San Giovanni
Rotondo, a una ventina di chilometri da Manfredonia. 6. cardinal Zapat-
ta; Joseph Gabriel Zapata (1676?- 1727), dal 1720 vescovo di Zamora in
Spagna (e non cardinale).
IIIO LETTERE
credendomi fuggitivo, pensava arrestarmi, tanto più ch'egli di-
ceva esser ministro del S. Uffizio, e non so che altre prerogative
tenesse, in vigor delle quali poteva esercitar il suo mero e misto
imperio contra quoscunque. Alcuni preti, non cotanto scimuniti,
s'opposero, dicendo che bisognava prima avvisarne monsignor ar-
civescovo, onde il Perucci risolvè spedir tosto un corriere al mede-
simo, come fece, aspettando con impazienza risposta di quel che
dovea fare. Intanto i signori Cessa ed il signor Fiore mi ricolma-
rono di favori, ed il Perucci, biasimando le accoglienze, minacciava
gran cose. Ricevè monsignor arcivescovo il corriere quando già
l'era capitata una mia lettera, che l'avea scritto da Napoli, dando-
gli parte della mia partenza per Manfredonia e della cagione di
quella, onde può ciascun comprendere di quanto riso gli fosse
stato cagione il corriero spedito, e trovandosi con lui il vicario lo
rimandò in Manfredonia ad offerirmi l'abitazione nel suo palazzo;
ma perché già s'era ricevuto riscontro da Barletta che dovessi por-
tarmi colà per l'imbarco, gli resi le grazie, e quella giornata che mi
ebbi poi a trattener in Manfredonia ebbi l'onore da molti che
furono a vedermi, ma il Perucci si rese invisibile, né mancarono de'
suoi compatrioti che pubblicamente deridessero la sua mellonag-
gine. Questi favori ebbi dal canonico Perucci, non so se più pa-
rente che debitore del nostro signor don Nicolò Pepe, in grazia
del quale s'intenda fatta questa digressione.
Giunto che fui in Barletta, trovai che il padrone della nave non
era ancora disbrigato de' suoi negozi, onde mi convenne aspettarlo,
e intanto avendo presentito che pure in questa città si parlava de'
mici libri, tenni celato il mio nome; ma dapoi essendosi saputo
per la fede di sanità1 che bisognai prendere, cominciò la curiosità
in alcuni di volermi vedere, ed il primo fu il giudice di quella città,
che nell'osteria venne a visitarmi: intesi dapoi che il nipote del
signor giudice Ruggiero voleva far lo stesso, e cosi il signor Por-
tolano, ed altri: non mancando nell'istesso tempo alcuni preti met-
tersi in aguato per vedermi e mostrarmi nelle strade ; onde presi
la rcsoluzionc d'andarmene nelle Saline doppo otto giorni, che
stiedi in Barletta, ed alli sette del corrente mese andai nel bordo
della nave, donde calai in terra accolto con gratissime dimostrazioni
dal signor F raggiarmi* nel suo casino che tiene colà. Ebbi in Bar-
x. la fede di sanità: il certificato di buona salute. 2. Saverio Fraggianni,
fratello di Niccolò (per cui cfr. la nota x a p. 93), ricordato da Giovanni
LETTERE II II
letta la consolazione di sentire che il primo del mese, sabbato, era
seguito con prestezza il miracoloso scioglimento del sangue di san
Gennaro : talché i frati, che fomentavano la plebe perciò, restaron
delusi ; ed è bene che sappino che per istrada due frati de* zoccoli1
in passando dimandarono prima se il Santo avea fatto il miracolo,
ed essendoli risposto di no, perché non era giunto ancora il tempo,
replicarono immantencnte con grand'ansia, che s'era di me fatto,
li fu risposto: niente; di che essi molto si crucciarono, perché
aspettavano sentire stragi, incendi ed altre revoluzioni; ed erano
di tal farina, che non sapevano né meno il giorno della festa, do-
mandando, prima che fosse, se era seguito il miracolo. Non man-
carono pure alcuni preti in Barletta far insinuare al padron della
nave che guardasse bene chi conducesse seco, perché il suo viag-
gio avrebbe avuto infelicissimo fine.
Si partì non ostante quest'infausti pronostici il martedì n del
corrente dalle Saline, con prospero vento, ed il mercordì fummo
alla punta di Vesti,3 dove ci colse una calma così quieta che ci
convenne trattenere un giorno a vista di quella città, non essendo
più lontani da quella che sei miglia in mare. La notte spirando vento
favorevole, si proseguì il viaggio, tal3 il giovedì 13 giunsimo a Lissa,
isola de' Veneziani ; e dapoi per nuova calma il venerdì ci fermam-
mo ne' lidi di Scibinico4 a vista di quella città e sue fortezze. Il
sabbato non si fé cammino, durando ancor la calma; ma la dome-
nica si partì facendo poco viaggio per la nuova calma che sopra-
giunsc, la quale ci obbligò fermarci in mare per tutto il lunedì.
Martedì poi giunsimo ad alcune isolette vicine a Zara, dove, es-
sendo calato in terra sopra una di quelle, vidi la città di Zara,
perché la nuova calma ci diede questo tempo; e ne* due giorni
seguenti per ristessa cagione si fece poco cammino, talché venerdì
31 giunsimo a* lidi di Rovigno, ed il sabbato a Parenzo, a Città
nuova ed al Capo d'Istria. Tutti prendemmo speranza che la do-
menica mattina dovessimo giungere a Trieste; ma non essendo
da questa città lontani che sei miglia, ci sopragiunse all'improviso
una fiera borrasca di mare, talché obbligò il padrone a dar fondo
Giannonc nelle sue Memorie come «luogotenente delle Saline di Barletta»
(cfr. Giannoniana, p. 197). 1. de' zoccoli: o zoccolanti, denominazione
popolare dei frati minori osservanti. 2. Vesti: Vieste. 3. tal: talché.
4. Scibinico: la città di Sebenico era famosa per i forti veneziani di San
Nicolò, Sant'Anna, San Giovanni e «Il Barone».
II 12 LETTERE
in quella spiaggia, dove per due giorni continui fummo combattuti
dall'onde, che aggitavano in guisa la nave, che ci cagionò vomiti
e fastidi insoffribili. Il martedì poi 25 si calmò, ed a 18 ore posimo
piede in Trieste.
Questi due ultimi giorni inamarirono tutte le passate tranquillità,
poiché, se bene il viaggio ci era riuscito noioso per le continue cal-
me, nulladimanco il mare non ci diede fastidio, le proviste, sino
alla neve, ci eran durate, e passava il tempo col mio lido compagno
don Chisciotte;1 ma còlti quasi in porto, e cosi sproveduti in tempo
che mcn si pensava, coll'agitazione del mare, che non permetteva
il cibarsi, perché subito si restituiva, ci pose in una grandissima
costernazione, la qual poi col favor divino cessò il martedì per
nuova calma.
In Trieste, portando io lettere del signor Fiore dirette a quelli si-
gnori giudici che governavano la città, fui ricevuto da' medesimi
con cortesia e gentilezza, e con mia meraviglia intesi ch'essi ancora
aveano notizia de' miei libri e del rumore cagionato tra' frati. Un
sol giorno ci trattenimmo quivi; e provveduti da' medesimi di
buoni cavalli, anche per le robe, senz'aver bisogno di carro, c'in-
caminammo per Lubiana, dove giunsimo domenica la notte 27 del
corrente.
In Lubiana da dove scrivo ho trovato in quest'osteria un genti-
luomo di Fiume,2 persona assai di garbo, il quale pure va in Vienna,
e stav'anch'egli inteso della mia opera, e con molto suo desiderio
mi dice attenderla da Napoli, dove avea data incombenza per aver-
la, ed ha avuto incrcdibil contento di conoscermi. Questo galan-
tuomo m'ha data notizia che già da Roma era uscita la proibizione
e che n'avea avuto certi riscontri da più luoghi, lo se non sarò a
Vienna non potrò saper niente di certo, e perciò non si risparmiano
ad avvisarmi ogni cosa per mia norma. Qui ho saputo ancora che
il signor impcradorc3 non partirà per Praga, se non nel mese d'a-
gosto, onde spero che giungerò a tempo di presentargli i miei
libri.
1 . col mio . . . don Chisciotte : probabilmente non si tratta di un riferimento
al romanzo di Cervantes, che il Giannone conosceva, ma di un'ullunione
scherzosa al fratello di Angela Elisabetta Castelli, dal quale il Ciiannone
si fece accompagnare nel suo viaggio per Vienna (efr. Vita, qui a p. 00).
a. un gentiluomo di Fiume: si chiamava Stefano Ronzoni (cfr. Vita, qui a
p, 94): con lui il Giannone intrattenne cordiali rapporti anche più, tardi.
3. tmperadore: Carlo VI (cfr. la nota 1 a p.6o).
LETTERE III3
Ora che sto scrivendo si prepara il calesse per proseguire il
viaggio per Gratz, accompagnandosi con noi anche questo genti-
luomo, il quale per essere prattico assai m'ha sommamente giovata
la sua compagnia; partiremo oggi sabbato a mezzo giorno, che
sono li 29 del corrente mese, e colPaiuto del Signore, arrivando in
Vienna, spero trovar lettere, almeno dentro il piego del signor
Mastcllone,1 da dove parimente le scriverò. Saluto caramente tutti
gli amici. Al signor presidente2 ed alli signori consiglieri Ventura
e Maggi oco3 portate i miei rispetti, siccome al signor auditore ge-
nerale deiresscrcito4 ed al signor Cirillo,5 i quali son sicuro che
non si saranno dimenticati di scrivere in Vienna a' loro amici in
mia raccomandazione. Questa lettera l'acchiudo dentro quella del
signor don Antonio Mela,6 affinché vi capiti presto, e raddrizzo
per Venezia. Priego il Signore che non si smarrisca, affinché ab-
biate di me riscontri per vostra quiete, e caramente l'abbraccio.
Illustrissimo signor mio e padrone sempre osservandissimo,
La sua cordialità m'assicura d'inviarle il qui acchiuso foglio,
affinché mi faccia il piacere di mandarlo subito a mio fratello,
perché riceva da me con tutti gli amici riscontro del mio arrivo
in Lubiana con buona salute. Scuserà l'incommodo che le porto.
E la priego salutarmi caramente il signor don Francesco suo fra-
tello e mio stimatissimo signore. Per quanto vaglio l'offerisco la mia
servitù e divotamente le resto, b. le m. - Lubiana 29 maggio 1723. -
Di V. S. illustrissima devotissimo ed obbligatissimo servidor
vero Pietro Giannone.
1» Francesco Mastcllone era giudice della Gran Corte della Vicaria. 2. si-
gnor presidente : Gaetano Argento (cfr. la nota 4 a p. 40). 3 . Per Francesco
Ventura vedi la nota 2 a p. 172; il Maggioco era anch'egli consigliere del
Sacro Real Consiglio. 4. auditore generale delV essercito : Muzio di Maio
(cfr. la nota np. 90). 5. Per Nicola Cirillo vedi la nota 2 a p. 49. 6. An-
tonio Mela era fratello di Francesco (per cui si veda la Nota introduttiva,
a p, 1x05, e Vita, qui a p. 78, nota 1).
IU4 LETTERE
II
A CARLO GIANNONIì • NAPOLI
Vienna u giugno 17J3.
Questo foglio lo scrivo a parte, perché non lo communiehiate se non
al signor consigliero Ventura e signor auditor generale, li quali di
quanto occorre ne potranno anche informare il signor presidente,
per sua regola in potermi con più franchezza favorire, lo devo
confessare molta obbligazione al signor Cirillo ed al signor audi-
tore generale per li favori continui che ricevo dal signor cavalier
Garelli1 e signor Riccardo/ La prima visita che feci fu quella del
signor Garelli, al quale portai i libri, e non posso esprimergli con
quanta cordialità m'accolse. Volle essere informato di tutto, e gli
appurai per imposture le dicerie scritte da costà, del che ne gode
molto. Mi sollecitò che presto finissi di far V Apologia? e che ce
l'avessi subito portata, perché l'avrebbe letta col signor Riccardo
e Contegna,4 tanto che mi obbligò in una notte ed un giorno, che
mi chiusi a finirla, e portarcela, che la ricevè con gusto.
Io il giorno dopo pranzo li portai i libri,5 la mattina immediata-
mente seguente venne egli di persona a favorirmi in casa, ed in-
nammorato forse della lettera dedicatoria,6 e di quel poco che avea
potuto leggere, m'abbracciò e mi disse ch'egli il giorno dovea por-
tarsi a Laxemburg7 al signor imperadore, e perciò voleva egli por-
tare i libri a presentarceli, e pregarlo che prima di partire per Praga
m'ammettesse al bacio della mano. Perciò presi la cassetta dov'e-
rano riposti, ed egli gli sciolse e dissaprovò la legatura in velluto
ed il bordo d'oro, dicendomi che l'imperadore gradiva più di pelle
rossa. Si prese i libri, coir appuntamento8 che il giorno seguente
mi fossi fatto trovare in casa del signor Riccardo per portarmi la
II. B.N.R., F.V.E. 358, ce. 29^-31. - i. Su Pio Niccolò Garelli vedi Iti nota
a p. 96. 2. Riccardo : su Francesco Alessandro Riccardi vedi la nota 3 a p.
64. 3. Apologia ddV Istoria civile dì Napoli, in Opere postume, 1, pp, x-233.
4, L'abate Pietro Contegna (1670 circa- 1736 circa) ora agente fiscale del
Consiglio d'Italia a Vienna; dal 1725 circa fiscale a Napoli, nel 1733 verrà
eletto presidente della Regia Camera della Sommaria. 5. i libri: i quattro
tomi dell'intona civile del regno di Napoli (e cfr. Vita, qui a p. 96). 6. let-
tera dedicatoria: del 12 febbraio 1723 a Carlo VI, in Istoria civile, tomo 1,
pp. n. n. 7. Laxemburg: Laxcnburg (cfr. Vita, qui a p. 95). 8. appunta*
mento: accordo, intesa (francesismo).
LETTERE III5
risposta. Con somma puntualità l'ora stabilita si portò dal Riccardi,
e quel che ci narrò che l'accadde col signor imperadore fu questo.
L'imperadore avendo veduto quattro volumi cosi vistosi si pose in
curiosità dimandargli che cos'erano, allora li disse la mia venuta a
suoi piedi, e ch'era venuto a posta, essendo que' libri dedicati a S.
M., per presentarceli, e che desiderava quest'onore di pormi a suoi
piedi. Mostrò, come mi disse il signor Garelli, che l'imperadore
non era stato niente informato di questi libri, né in bene, né in
male, ciò che molto gli piacque, onde cominciò con maggior spi-
rito a lodargli l'opera; onde l'imperadore li disse che avesse fatto
levare quel bordo e quel velluto, e fattici mettere altra coverta,
perché voleva leggerli; il signor Garelli rispose di farlo presto, e che
un giorno m'avrebbe condotto a' suoi piedi. Del che l'imperadore
mostrò compiacersi.
Ora il signor Garelli, come prefetto della Biblioteca Imperiale,
insieme col signor Riccardi, attende a farli accommodare ed, es-
sendo d'umore assai allegro, mi disse che con ciò egli ci guadagnava
il velluto ed il bordo, e metteva a suo conto quel che si sarebbe
speso per la nuova coverta. Di vantaggio con molto affetto s'ha
preso la cura di parlarne al principe Eugenio, e di portarlo uno
sciolto, perché così lo desidera,1 e mi diede l'indirizzo, ripartendo
gli altri che avea portato meco a chi dovessi darli. Il corpo3 per
l'arcivescovo di Valenza3 mi disse che ce l'avessi portato subito,
dicendomi che se bene era difficile aver tosto udienza, tanto che
mi disse che si fidava più presto introdurmi dal signor imperadore,
che da lui, con tutto ciò era bene almeno per mostrar quest'atten-
zione di portarcelo. In fatti questa mattina, ancorché giornata di
lettere, avendomi il signor Riccardi favorito della sua carozza,
stando l'arcivescovo nel suo giardino fuori della città, sono stato
da lui, e certamente se non era giornata di posta, io v'avrei parlato;
ma il paggio, che prese l'ambasciata, entrato dentro co' miei libri,
mi riporto questa risposta: che S. E. con grandissimo desiderio
stava attendendo questi libri e che mi ringraziava molto, dispia-
cendogli, per esser giornata di posta, di non potermi parlare, ma
che m'aspettava un altro giorno, avendo gran desiderio di cono-
scermi. Le risposi che sarei venuto mille volte a riverirla, e che
x. principe Eugenio . . . desiderai cfr. Vita, qui a p. 11 1 (e la nota 5 ivi).
a. corpo: esemplare (detto di un'opera in più volumi). 3. arcivescovo di
Valenza: Antonio Folch de Cardona (cfr. la nota 1 a p. 88).
Xll6 LETTURE
godeva molto del gradimento mostrato, e gli promisi la settimana
seguente tornarci. 11 signor Garelli stima anche necessario che si
porti un corpo a Zizendorf,1 siccome già l'ho serbato; e mi dispiace
che mi mancano per compire con gli altri.
Io non posso esprimergli l'ardenza e l'impegno che ha preso
il signor Garelli di favorirmi, e tutto si cruccia della congiuntura
presente, clic il signor impcradore abbia da partir per li 19 per
Praga, con tutto ciò egli m'assicura che ciò non importerà se non
qualche picciola dilazione, e che lasci fare a lui. Perciò vadi dal
signor Cirillo e gli faccia inteso di tutto ciò, con riverirlo da mia
parte, e pregarlo che scriva al signor Garelli, ringraziandolo delli
tanti favori che mi fa.
Per potermi il medesimo maggiormente favorire, m'ha insinuato
che non palesi a niuno questi suoi uffici, ma che diehi che ho
cominciato da lui perché, avendo inteso ch'egli era prefetto del-
l'Imperiai Biblioteca, era dovere che i libri, che si dedicano al-
rimperadore, si portassero a lui; e perciò priegherà questi signori
che tenghino celate queste prattiche, come fo io qui, perché non
si scrivano da qui ; perché devono sapere che vi è una gelosia gran-
dissima tra la fazione del Garelli e quella del signor Positano.-
Onde io essendo stato dal medesimo mi son portato con molta
disinvoltura sopra ciò, mostrandomi di voler dipendere totalmente
da lui.
Quel che presentemente si fa è di sincerare la gente, che stava
gravida dell'imposture scritte da costà, per poter procedere con
più spirito e libertà nel rimanente; e per quanto sin'ora si è potuto
penetrare, dalla corte di Roma qui non si è praticato niuno ufficio,3
tal che siamo giunti a tempo per prevenire ogni sinistro informo.
S'accudirà dunque pubblicamente dal signor presidente arci-
vescovo e signor Positano, e con più riserba dal signor Garelli, e
con molta maggiore dal signor Riccardi per sfuggir le gelosie. Non
ho ancora veduto il signor abbate Tosquez,4 essendo fuori ne' bor-
ghi, il quale so che m'abbia favorito coll'arcivcscovo ; con che sti-
mo ora a proposito, che col medesimo si passi dal signor presidente
1. Zìzendor}\ Philipp Ludwig von SinzcndorrT (cfr. la nota z a p. 116),
da non confondersi con il figlio, Philipp Joseph Ludwig, cardinale. 2. Giu-
seppe Positano : vedi la nota 1 a p. 98. 3. dalla corte di Roma . . . ufficio:
in ciò il Giannone s'ingannava. Cfr. Bertelli, p. 185. 4. Tosquez : l'abate
Francesco Tosques era agente di commercio a Vienna del viceré di Napoli
Friedrich Michael Althann.
LETTERE III7
qualche ufficio premoroso, sicome dal signor reggente Mauelone1
con Perlas,2 il quale sta aspettando i miei libri, ed io nell'entrante,
prima che parte per Praga, anderò a riverirlo.
Il signor Perlongo ed il signor Almarz3 non sono ancora giunti,
e subito sarò a riverirgli. Col signor Riccardi e Contegna avemo
qui delle contese tutte diverse, perch'essi credono che io abbia
scritto molto poco, anzi con molta adulazione della corte di Roma,
avendogli dato assai più che si conviene. Io non ho più tempo di
scriverle minutamente altre circostanze, perché questa settimana
sono stato occupatissimo per finire Y Apologia, che il Garelli tanto
desiderava, per potermi difendere con più vigore in caso occor-
resse. Quello che si è stimato da lui e da altri, che per ora non si
pubblicasse, ma che si stasse su l'osservazione; se bene il Garelli
era d'opinione che per quel che riguarda la scommunica si dovesse
cacciare qualche scrittura, per non pregiudicare la giurisdizione
regale, ma si è sospeso di farlo, attendendo da Napoli la resoluzio-
ne del Collaterale di quel che farà,4 onde con anzietà stiamo atten-
dendo i riscontri, ch'è quanto per ora devo dirle, riserbandomi il
resto nell'entrante e caramente l'abbraccio.
in
A CARLO GIANNONE • NAPOLI
Vienna 3 luglio 1723.
Colla solita legge del segreto potrà confidare a chi sa come lunedì
passato fui ricevuto dall'arcivescovo di Valenza con molta genti-
lezza, encomiando la mia opera e dicendomi che, se bene non abbia
avuto tempo di leggerla, per quel poco che ne avea veduto e per
le relazioni fatteli dagli uomini letterati di qui, la fatica era gloriosa:
io le resi molte grazie, e lo pregai che, essendo voluminosa, con suo
r. Mauelone: il reggente conte Lupcrcio Maulcon, che firmò il permesso
di stampa dall'Istoria civile. 2. Perlas vedi la nota 4 a p. 98. 3. Gaetano
Perlongo era reggente per la Sicilia nel Consiglio di Spagna; sul conte
Domingo de Almarx vedi la nota 1 a p. 98. 4. la resoluzione . . .farà: il
Consiglio del Collaterale, convocato come Giunta di Giurisdizione, con
all'ordine del giorno la scomunica lanciata contro il Giannone, si riunì
il 26 ottobre 1723 ; ma a quella data era già intervenuta l'assoluzione vesco-
vile, che rese superflua ogni procedura del potere civile. Cfr. Vita, qui a
pp. *o6 sgg.; Bkhtelu, pp. 189-90 e Giannoniana, pp. 43-8.
III. B.N.R., F.V.E. 358, ce. 43W-44Z;.
Hl8 LETTURE
agio c commodo potrà leggerne qualche libro, chi dove poteva co-
noscere l'idea dell'opera, e se per quella si rechi utile alle premi-
nenze del nostro padrone:1 mi promise di farlo, e con somma cor-
tesia m'impose che spesso mi flussi fatto a vedere, tanto che sta
appuntata la giornata di lunedi prossimo d'andarlo a riverire di
nuovo, e così continuare nella sua buona corrispondenza. Il giorno
poi seguente, martedì, furono a riverirlo il signor Riccardi ed il
signor Condegna, colli quali parlò de' miei libri con aria niente
pregiudicata; anzi, li disse che Timperadore prima di partire per
Praga li dimandò se aveva ricevuti da (Jiannone i libri, e che egli
i suoi se li portava in Praga per leggerli: l'arcivescovo li rispose
avergli ricevuti, ma non avea avuto tempo di leggergli, come farà,
ma per quello che sentiva dagli uomini dotti, la riputava una
grand'opera. L'imperadore, come e il suo genio allegro, scherzando
li rispose che ben comprendeva ch'egli sarebbe deiristessi senti-
menti del suo amico, intendendo del signor Riccardi : al che rispose
ch'egli era de' sentimenti dell'autore, e non del signor Riccardi,
perché questi controvertiva molte cose, che l'autore abbonava al
pontefice romano, pigliandosi la cosa in burla. lui infatti il signor
Riccardi contrastò coli 'arcivescovo quel giorno, perché diceva che
io passava per certo che san Gregorio Magno avesse deposto al-
cuni vescovi," quando era dubbio, perché non avea questa facoltà.
Di più ponendo io sant'Ermenegildo per santo, il Riccardi s'op-
pone, dicendo che questa è una favola per l'autorità che allega
d'Isidoro.3 L'arcivescovo difendeva la mia opinione, tanto che ri-
ducendosi pure la cosa in ischerzo li disse che bisognava sopra
questi punti farci delle osservazioni, e pensare ad una giunta ed
ad una nuova edizione. L'arcivescovo non è niente spigolistro,4 ed
ancorché spagnuolo non gli fece alcuno sentimento la disputa so-
i. utile . . .padrone: utile alla giurisdizione civile dell'imperatore. %* san
Gregorio , . . vescovi: cfr. Istoria civile^ tomo i» lib. iv, cup. uh., par. 1, pp.
«94-5 • 3« sant* Ermenegildo . . . Isidoro: il nome di sant'Kxmenegildo (com-
memorato il 13 aprile) e infatti espunto dagli sì età Sanctorum dei padri
bollandisti. Per il riferimento a Isidoro di Siviglia (5O0 circa-636), cfr.
Gothorum, Vandalorum et Svevorum in Hispania (ìhromcon, in IL Grossi o,
Historia Gotthorum, Vandalorum et Langóbar dorimi . , ., Amstelodomi 1655,
pp. 735 e 740. A diflcrenaa di Isidoro, sulla vita e sulla morte di san-
t'Ermenegildo si dilunga Gregorio di Tours: si vedano i suoi Ilistoriae
Francorum libri decem, in Maxima bibliotheca vetcrum Patrttm . . . primo
quidem a Margarino de la Bignè . . .in lucerti edita, xr, Lugdum 1677, pp.
753-4» 762-3» 767-8* 784* 4- spigolistro: bigotto, bacchettone.
LETTERE III9
pra quel santo. Sicché siamo ora assicurati che i miei libri cotanto
costà appresi per ereticali, qui sono riputati moderati e sobri. Que-
sto è quel che m'importava che s'apprendesse. Del rimanente fac-
cia ora il Cielo, perché non avrò ora niun rimorso di non aver qui
usate tutte le diligenze per la mia difesa.
Qui tuttavia si sta travagliando su la scrittura che vi scrissi, e
può essere che riesca, tenendo il signor Riccardi una famosa li-
braria. Ci mancano gli esempi domestici,1 e per ciò il signor pre-
sidente potrebbe darcene lume, sicome veda informarsi dal si-
gnor Grimaldi3 di quel fatto, che mi scriveste, che accadde per
l'occasione del sinodo di Cantelmo,3 con mandarmene nota di-
stinta.
Si è stimato che ora, assicurato di questi buoni riscontri, scri-
vessi io un'ossequiosa lettera al signor viceré,4 come ho fatto que-
sta sera, pregandola della sua protezzione ancora costà, e con tal
occasione spingerlo a prender espediente sopra la censuia e sopra
lo stampatore.5 Lo stesso si farà nell'entrante a qualche reggente,
e sopra ogni altro al nostro signor presidente ed al signor reggente
Maulionc. Vi ricordo la missione de' libri per Fiume, essendo
da qui partito il fratello del signor Benzoni con particolar incom-
benza di mandarli subito se li troverà già arrivati in Fiume, con
esserseli avvertito che l'indrizzi al signor Garelli per la Biblioteca
Imperiale.
IV
A CARLO GIANNONE • NAPOLI
Vienna 28 agosto 1723.
Sento dalla vostra ricevuta in questa settimana l'assoluzione dello
stampator Naso,6 e le buone disposizioni che vi sono, mediante la
protezzione ed efficacia del signor presidente, così presso il cardì-
1. domestici: cioè, napoletani. 2. Per Costantino Grimaldi vedi la nota 2
a p. 64. 3. per l'occasione . . . Cantelmo: cfr. Apologia dell1 Istoria civile di
Napoli, in Opere postume, 1, pp. 49-50. 4. viceré: Friedrich Michael von
Althann (cfr. la nota 2 a p. 78). 5. lo stampatore: dell' 'Istoria civile, Nic-
colò Naso; anch'cgli, come il Giannone, era stato scomunicato.
IV. B.N.R., F.V.E. 358, ce. 53-55^. - 6. Vassóluzione . . . Naso: cfr. la nota
5 qui sopra.
II 20 LETTERE
nal arcivescovo,1 come in cotesto Collatcral Consiglio intorno ad
abolire la mia invalida censura. Non si dubbila qui, tanto maggior-
mente che il signor presidente regola quest'affare, che abbia da
sortire felice evento; e mi dice il signor Riccardi che il signor
reggente Mazzaccara2 non solo non farà ostacolo, ma faciliterà e
seconderà il signor presidente, perché presentemente lo tien sotto
ed ha bisogno di lui, onde m'avviserà come si porla per sua istru-
zione, non potendo credere che in questo mio affare, nel quale
ha bastantemente palesato a tutti il suo impegno, voglia il signor
Mazzaccara opporsìci, sicché gli dia occasione di disgustarselo.
Stante queste buone disposizioni qui si è dibattuto intorno al modo
da tenersi, perché bisogna usar ogni industria por non venire al
pregiudicio dell'assoluzione, la qual veramente non potrebbe aver
luogo in una censura nulla; se non prò hono [>acist riceverla in
segreto da qualunque confessore. Se veramente il signor cardinal
arcivescovo ha sentimenti pacifichi, vi sarebbero due strade di
composizione, la prima dalla sua Curia far ricevere le nullità, e
provedere sopra quelle col ohstare\ l'altra, essendosi ora resa la mia
assenza, far ricevere nuova istanza dal mio escusatorty* allegan-
dola, e conceder termine ad denunciami um, ed intanto sospendere
la censura, col concerto poi di non parlarsene di vantaggio. Tutti
però han conchiuso di rimettere questa prattica e qual altro espe-
diente che mai potesse prendersi al signor presidente, onde al
medesimo potrà communicare questi sentimenti e dipender dalla
sua prudenza. Intanto qui s'attende resito di ciò che il signor
presidente ed il Collaterale otterranno dall'arcivescovo, ed ad al-
cuni reggenti di questo Consiglio l'ho assicurati che stante l'inter-
posizione ed autorità del signor presidente non devono dubbitare
che il tutto riuscirà con facilità, per togliere ad essi ogni briga in
caso di contumacia; sicché può pensare con quanto desiderio s'at-
tende l'esito di questo affare. Frattanto qui non si perde tempo
per prevenire ad ogni caso ; ed è ben che sappiate che qui4 non si
manderanno nullità, che cercate, ma libri donde, bisognando, con
facilità potrete costà comporlc. Il lavoro ò cresciuto ad un giusto
x. il cardinal arcivescovo: Fruncesco Pianateli» : vedi la nota 3 a p. 85.
2. Il reggente Tommaso Mazzacara (morto nel 1733) nella seduta del
Collaterale del 12 aprile 1723 sul caso Giannone aveva in«istito soprattutto
per la carceratone del Naso. 3. escusatore: cioè il fratello Carlo. Cfr,,
per tutta la vicenda, Fanzini, pp. 19-20 e 22 «##, 4. qui: da qui.
LETTERE II2I
volume;1 e se veramente la cosa non prenderà quel buon esito che
si spera, non dovranno lagnarsi se per tutta Europa vedranno cor-
rere quest'altra nuova fatiga, dove togliesi ogni velo alle scommu-
niche de' tempi correnti; sicché nissuno da dowero abbia a te-
merle: dove si dimostra che sopra l'impressione de* libri essi non
v'hanno parte alcuna, e che tutta è de' principi: dove si fa vedere
se il vescovo di Castellaneta, avendo abbandonata la sua chiesa,
possa presiedere alla fabbrica de' processi in cotesta Curia: sicché
come pubblico e notorio trasgressore de' canoni, tutti gli atti fatti
e che farà soggiacciono ad evidenti nullità;3 e mille altre verità con
quest'occasione scoverte, che per essi meglio sarebbe che giaces-
sero in un profondo silenzio sepolte. L'edizione di questa scrittura,
per non esporla qui al rischio che si corre per li Gesuiti, che pre-
siedono in Vienna alle stamperie, si è preparato già di farla in
Tirnavia,3 città dell'Ungheria, e già si è trovata ivi persona che
se ne prenderà la cura. Si aspetterà solo la risposta di questa mia
lettera, perché si crede che fra un mese si saprà l'esito che pren-
deranno costà le cose, e nell'istesso tempo si ripulirà frattanto e
passerà sotto gl'occhi degl'intendenti prima di darsi alle stampe.
Mi dispiace molto che prima di darsi questo passo non posso man-
darle costà manuscritta, perché sarei sicuro, che passata prima sot-
to gli occhi del signor presidente e degli altri letterati amici di
costà, l'opera potrebbe sicuramente uscir fuori, ben ripulita e per-
fetta. Ma due cose m'impediscono a ciò fare: la prima, che qui
non vi sono buoni copisti, e que' che vi sono hanno dell'eternità:
la seconda, perché io per tutto il mese di settembre voglio vedermi
sbrigato da queste cure, perché, ritornando qui Cesare in ottobre, ,
dovranno i miei pensieri essere impiegati in altro. Confido però
nella bontà divina, che senza venire a tanto, m'abbiate fra questo
mese dar la consolazione d'essersi costà, per la valevole protezzione
del signor presidente, supito4 il tutto, sicché di questa censura non
se n'abbia più a parlare, non che imprimere.
Questo foglio non lo communicarete che al signor presidente ed
i. // lavoro . . . volume*, si tratta, dì una parte del materiale confluito nel-
V Apologia dell'Istoria civile di Napoli: cfr. Vita, qui a p. 106 e la nota i ivi.
a. il vescovo di Castellaneta . . . nullità: cfr. Vita, qui a p. 85 e nota 3 ivi,
e Apologia dell'Istoria civile di Napoli, in Opere postume, 1, p. 3. 3. Tir-
navia: probabilmente l'odierna Tamow, in Galizia (e cfr. Panzini, p. 29).
4. supito : sopito.
71
1122 LETTERE
a' miei signori consigliere Ventura e signor don Muzio,1 a' quali
devotamente riverisco. E state ben avvertito, perché da Napoli
vengono a vari amici di qui richieste, che cosa io scrivo, sopra che
travaglio, se sarò provisto, e mille altre vane curiosità. Io a tutti
rispondo che mi dò bel tempo: vado spesso in casa del signor
consigliere Pleittner,2 dove in mezzo a sue cinque nipoti bellissime
passo il tempo allegro; e cosi gli deludo e soddisfo la loro cu-
riosità.
Sento ancora per la sua il desiderio del mio compar Naso, che
vorrebbe seguitarmi sino alle ceneri: io sicomc lo ringrazio di tanta
cordialità: così non tralascio di dirgli che qui non e stanza per lui,
perché la sua arte ò misera, e poco si stampa: volermi favorire per
cameriere, oltre di non comportarlo le mie forze, i camerieri che
qui non sanno la lingua tedesca sono inutili, anzi essi avrebbero
bisogno di guida: sicché non occorre che ci pensi, ma meglio sarà
di procurare costà rimettersi nel suo impiego, che non potranno
mancare occasioni.3
Con dispiacere ho intesa la morte del nostro signor Cutini, e
tanto più che la suppongo molto travagliosa e piena d'angoscia.
Iddio per salvazione della sua anima l'ammetta per buone quelle
orazioni che Tanno passato per lui si porsero a Due Porte,4 presi-
dente il padre Guevara. E della morte dell'altro che m'avvisa, non
dubbito che i suffragi di tanti frati, de quali egli era gonfaloniere,
l'avranno di lancio portato al godimento d'una vita eterna.
Sto attendendo riscontri del signor baron Ormond a questa
baronessa,5 e godo sentire che la madre di questi figliuoli fu cotanto
amica di nostra sorella: se ha occasione di vederlo dimandategli se
ha ricevuta una lettera latina scrittagli da don Liopoldino suo in
occasione di complimenti, molto ben fatta; ed e meraviglia come
questo figliuolo parli così speditamente latino, ed all'incontro del-
l'italiano non ne sappia parola, nel che è vinto da sua sorella, la
quale intende non men l'italiano che il francese.
i. Per don Munto di Maio si veda la nota i a p. 90. 2. Pleittner: Ploikner:
vedi la nota 6ap, 109. 3, Sento . . . occasioni: il Naso non ascoltò gli
avvertimenti del Giannone, e raggiunse Vienna nel giugno 1725, creando
non pochi imbarazzi all'esule. Cfr. in Gìannoniana% nn.i xoo, 101, 104, 106,
le lettere a Carlo del 29 giugno, 7 luglio, 28 luglio, 1 1 agosto 1725, 4. Due
Porte: cfr. Vita, qui a p, 72 e la nota 3 ivi. 5. Per il baron Ormoni (o
d'Orman), si veda la nota 5 a p. 109; questa baronessa: si tratta di Thercsc
LcichsenhofTcn (cfr. la nota 3 a p. 109).
LETTERE 1123
Ho ricevuto la lettera di cambio rimessami delli fiorini duecento,
che è stata da me consignata al mio tesoriero signor Mastellone
perché dal mercante gli riscuota. Avemo fatta osservazione che
con tutto il mezzo del nostro signor don Francesco Mela, pure con
questo cambio si vengono a perdere dodeci ducati; onde non si
farebbe male se veramente ci potesse riuscire altra strada; ma
quando altro non si possa, meglio sarà continuare la via presa.
Con mia consolazione ho inteso l'arrivo del signor don Silvestro
Tosques,1 che partì da qui veramente minato di salute: spero che
l'abbia costà da ricuperar affatto, di che n'attendo riscontri per
consolazione del signor abate suo fratello, il quale l'altro dì fu a
favorirmi in casa, dove per due ore continue non si fece altro che
discorrere sopra i miei libri, che han trovata tanta fortuna col me-
desimo, che, come mi disse, ha stabilito tre ore il giorno per loro
ordinaria lezione, sicché già stava in fine del terzo tomo. Col signor
marchese Dattilo2 anche ci vediamo spesso, e se io vi volessi far
motto d'ogni cosa, non ci basterebbero due giornate la settimana
per scrivere, ed io non ho molto tempo, né l'avrò se non si finisce
questa scrittura, che mi costa un travaglio grandissimo per non
aver la commodità di libri in casa, né chi m'aiuti a scrivere ed a ri-
scontrar gli autori. Il mio Dattilo di qui sta molto mortificato del
nostro Dattilo di costà per l'abilità che se l'è scoverta di tratteg-
giare sì soavemente, che avanzava il Rota ed il Carignani. Questo
ch'ò qui sia tutto mio: l'altro che io rimasi costà sia tutto dello
Scassa3 e del Pepe: col primo almeno gli gioveranno le magie, ma
col secondo son sicuro che né incantesimi, né sorprese faranno
frutto.
Le casse de' libri, ancorché siavi riscontro d'essersi incamminate
già da Fiume, non sono ancora qui giunte, ma s'attendono a mo-
menti. Se questa mia lettera sarà a tempo, alle quattro altre casse,
che avete disposto mandare, vedete se oltre Etmullero4 potè inzep-
I. Silvestro Tosques era il fratello di Francesco (per cui vedi la nota 4 a p.
1 1 1 6). 2. Il marchese Saverio Dattilo (morto nel 1732). 3 , Onofrio Scas-
sa, consigliere del Sacro Rcal Consiglio, secondo quanto narra il Panzini,
p. 5, aiutò ramico Pietro, mentre questi veniva stendendo V Istoria civile,
«per rilevarlo d'alcuna picciola parte della sua fatica, quanto si era quella
dello scrivere e del riscontrare i luoghi degli autori, che faceangli bisogno ».
4. Etmullero: il Giannone probabilmente allude ai due tomi degli Opera
medica theoretico practica. M. E. Etmullerus filius . . . mendas susttdit . . .,
Francofurti ad Moenum 1708, del celebre medico tedesco Michael Et-
mullcr (1644-1683), professore a Lipsia, sua città natale (nel 1701, a Lon-
1124 LETTERE
parvi un poco di cioccolata, quattro faccioletti di scia ; e quando li
libri di carta realclla si riduchino a trenta corpi, tanto potranno
mandare; se più fossero di carta reale, e meno di carta realclla,1
sarebbe ottimo.
Mi rincora non poco il nostro spirito intorno alla mia dimora
qui; e se non fosse la considerazione delia strettezza di nostra casa,
certamente che io non penserei affatto a ritornarmene: contuttociò
di quel che m'avverrà non possiamo ora far presaggi; e ben so
che il tempo maturerà più d'una cosa: rimettiamoci adunque a
colui nelle di cui mani sono le fortune degli uomini, e seguane ciò
ch'egli disponerà di noi.
Sento con incredibil piacere che il nostro Capasso* non m'abbia
giammai negato3 per i miei libri, ch'ò quello che molto mi impor-
tava: né deve dolersi di non avergli attesa la promessa: già finita
l'opera mi son dato qui alla birba; e molto più strepitosa la farei
riuscire, se avessi non più che un terzo della sua cattedra. Che birba
voleva che io facessi costà, ove sono tante catene e tanti riguardi ?
Qui bisognarebbe ch'egli s'affacciasse un poco, e poi far paragone
tra la vita austera da me menata, ch'e' la riputa birba, e quella che
fino i vescovi qui menano, e gli uomini riputati i più gravi e seri.
Mi meraviglio che volete saper notizie da me, che nulla mi de-
vono importare. Ve ne darò pur una, che vai per mille, che l'ho
differita sin ora, perché prima non era appurata. Da Praga s'ha
che oggi appunto si sarebbe pubblicata la gravidanza della nostra
imperadrice, giorno del suo compieanos* Vi son preceduti più col-
legi di medici e d'ostetrici per venire a questa pubblicazione, onde
si tiene per cosa sicura. Salutatemi il vecchio padre5 con tutti gli
amici, e caramente l'abbraccio.
dra, erano usciti gli Opera omnia in compendium redacta). Un'edizione degli
ctmUUoriani Opera omnia in quinque tomos distributa . . . Accesserunt notae,
consitia, dissertationcs Nicolai Cyrilli . . ., Neapoli 1728, provocherà una re-
censione piuttosto polemica negli «Acta Kruditorum Lipsiensium », mag-
gio 173 x, pp. 229 sgg, 1. reale . . . realclla: sui due tipi di carta tornerà
nella lettera del 24 giugno 1724: cfr. qui a p. 1x37, 2. Per Nicola ("apasso
si veda la nota 1 a p, 49. 3. negato: rinnegato. 4. Da Praga . . . complea-
Hos: cfr. Vita, qui a p. 109 (V imperatrice Elisabetta era nata il 28 agosto
1691). 5. il vecchio padre: Scipione Giannonc (1646-1725), tiglio di Pie-
tro da Capuano e di Francesca Donatello d'Ischitella, in gioventù aveva
indossato Pabito talare, ma, lasciati gli ordini minori, nel 1677 aveva sposato
ad Ischitella Lucrezia Micaglia, llglia di Matteo da Peschici e di Isabella
Sabatello. Di professione farmacista, nell'estate del 17x5 aveva raggiunto il
figlio Pietro a Napoli.
LETTERE 1125
V
A CARLO GIANNONE ■ NAPOLI
Vienna 22 gennaro 1724.
Questo foglio non passerà se non sotto gli occhi del signor presi-
dente, de' signori consiglieri Ventura e Magioco, perché so che
di quanto vi scrivo ne faranno buon uso. Io tanto è lontano che
vada stuzzicando il vespaio intorno all'affare giurisdizionale, che
se non fosse stato per me si sarebbe acceso un gran fuoco tra due
principali ministri, che stanno quasi sempre alle orecchie di Cesare,
uno spagnuolo e l'altro tedesco,1 che non poteva soffrire Tinorpel-
lamento che si dava alla mia assoluzione; ma essendo stato io chia-
mato, e riferito che lo spagnuolo non era stato informato del modo
tenuto in darla, e che perciò non avea potuto riferire con distin-
zione il tutto a S. M., se non in brievc, quanto forse l'era stato
scritto dal signor cardinal Althan viceré, non poteva incolparsi
d'avergli celato il vero : sicché non se ne fece poi più motto, né a
me altro premeva, se non che S. M. stasse ben informata che non
io, conoscendo forse il mio errore, fossi con suppliche ricorso a
dimandarne assoluzione.2 Il signor arcivescovo di Valenza, per le
notizie distinte che ne avea avute dal signor presidente, poteva
anche assicuramela, ma perché per due mesi rare volte è andato
in Corte e pensava ad altro, si stimò a proposito che il gran can-
celliere di Corte Zinzendorf avesse per me la bontà distintamente
informarne S. M., la quale si vide poi con effetto che non prese a
male i passi dati, ne' quali io non ci avea avuta parte alcuna, con
chiamarmi subito alla prima udienza ed ascoltarmi con benignità
e somma clemenza. Sicché ora sopra ciò, per chiarire i più zelanti,
almeno per quello che mostrano, di questo Consiglio di Spagna,3
m'uniformo a quel che saviamente dice il signor presidente, di
tenersi la Giunta, pigliare forti espedienti, e di tutto farne qui rela-
zione, perché in questo modo si rifonderà poi ad essi quella debo-
V. B.N.R., F.V.E. 358, ce. 70-72. - i. due principali . . . tedesco: probabil-
mente il Rialp e il Sinzcndorff: cfr. rispettivamente la nota 4 a p. 98 e la
nota 2 a p. 116. z.néame... assoluzione: sui termini in cui venne ri-
chiesta e concessa l'assoluzione cfr. Bertelli, pp. 187-8. 3. Consiglio dì
Spagna : cfr, la nota 2 a p. 80.
II2Ó LETTERE
lezza, che imputano ad altri, se non vorranno venir poi alla ese-
cuzione. Del rimanente io qui né a' ministri di più alta gerarchia,
né a quo' del Consiglio parlo più di questa materia, ed attendo
unicamente a sgombrare tutte quelle nebbie che i maligni aveano
sparse contro i miei libri, e per grazia del Signore ho ridotto Taf-
fare in tale stato, che, per notizie certe avute, gli stessi aderenti
della corte di Roma ora si sono ridotti a lodare i libri, e non altro
m'imputano che io con parole troppo mordaci e piene d'astio e
livorose trattassi quella Corte, ancorché nell'istesso tempo non pos-
sono negare avere io scritto la verità. Mi sono assicurato ancora,
per vie quanto recondite, altrettanto certe, che l'animo di Cesare
è inclinato per me, e ne' privati discorsi tra' suoi più confidenti
mostra sentimenti conformi a quelli che tengono i savi e spregiu-
dicati, e non men di costoro si ride, ed internamente si burla del-
l'affettate ipocrisie e superstizioni, che ad arte nudrisce quella Cor-
te ; ma nello istesso tempo non vuol nella politica esser da lei avan-
zato, simulando ancoragli rispetto e riverenza, onde perciò in que-
sto mio fatto si procederà con molto riflesso: sicché non deve pa-
rervi strano che, sentendo tante cose per me adoperate per sì effi-
caci mezzi, non mi vedete di repente ministro. Io alle tante infami
relazioni, che da costà vennero, trovai compassione in alcuni, che
dubitavano non esserci capitato male; anzi sino al presente vi vo'
a dire che alcuni nostri Napoletani, sapendo che io non avea cer-
cata udienza, andavan già dicendo che l'imperadore non voleva
ammettermi, né ascoltarmi; né mancano di questi ancora che im-
pallidiscono, quando qualche mio buono amico gli narra di me
qualche buon successo, né possono assignarne altra cagione, se non
perché sono impastati, secondo la nazione, di malignità ed in-
vidia.
Non vi e altro rimedio, per vincergli, che la simulazione e soffe-
renza, e nascondersi dagli occhi loro in tutto quel che s'opera per
noi, e col tempo vincere la loro malvagità.
Sento per la sua ricevuta in questa settimana l'incombenza che
l'arcivescovo ha data al signor presidente de' libri del padre fra
Francesco della Croce,1 di che anche l'abate Acampora2 ne dà ra-
i. Sento . . , Croce; è diflìcile stabilire a chi alluda qui il Oiannone. Forse
a quel Francisco de la Cruz che stampò a Barcellona, nel 1643, ho admìrabìt
intent de un religios carmelita . . . que . . . porto . . . una gran Creu al coli,
pera impetrar de Deu la pan universal de la Chrìstiandat. 2* U abate Ciò-
LETTERE 1127
guaglio: mal collocate diligenze per libri sì ridicoli: comunque sia
bisogna secondare il genio di chi s'impone ; ed ha fatto bene d'of-
ferire quelli che sono nella nostra libraria, però saranno più grati
gli Spagnoli. E credo che saprete che li tradotti in italiana vanno
pure in un tomo in foglio di migliore edizione, che io lo vidi in
casa del signor Giovan Battista Ronzo; onde dovendosi mandare
gl'italiani, meglio sarà mandargl' in foglio.
Sento ancora con molto contento che tuttavia si continui spessa
corrispondenza di lettere tra l'arcivescovo ed il signor presidente,
ed io non dubbito dalla cordialità del signor presidente, che non
tralascierà raccomandargli la mia persona; li quali uffici tanto più
ora saranno profittevoli, perché già s'ha tolto di testa quella malin-
conia di ritirarsi, avendogli Cesare preventivamente di sua pro-
pria bocca nelle passate udienze comandato che non pensasse più
a tali risoluzioni, perch'egli non avrebbe mai permesso di privarsi
d'un si gran ministro; onde egli, vedendosi cosi soprafatto, e con
tanta benignità e finezza, si è finalmente reso, e mostrandosi più
ilare del solito, si vede ora intraprendere con maggior vigore gli
affari del suo Consiglio, ed a pensare di rimediare a' disordini del
nostro Regno. Si tenne perciò giovedì scorso una conferenza in
sua casa, nella quale intervennero i soli reggenti Positano, Almarz
e Perlongo, che durò sette ore. Il segreto fu premorosamente im-
posto, talché un reggente disse che né meno all'imperadore po-
tevano palesare ciò che ivi erasi trattato. Ha dato ciò materia di
vari discorsi, e quelli che più s'appongono al vero, dicono che si
consultasse su la lettera della Città,1 che cerca licenza d'inviar am-
basciatore, e sopra i disordini che tuttavia si sentono in Napoli:
altri, che si consultasse ancora sopra gli affari de' benefìci non
meno di Napoli che di Sicilia; e diede maggior fondamento alle
loro conietture l'essersi veduto il venerdì mattina il nunzio ponti-
ficio2 in casa del marchese Perlas. Forse il signor presidente ne
vanni Lorenzo Acampora (nato nella seconda metà del secolo XVII), anti-
curialista, prese le parti del Giannone contro l'arcivescovo di Sorrento
Filippo Anastasio (cfr. Vita, qui a pp. 125 sgg.). Editore, tra l'altro, della
Raccolta di rime di poeti napoletani . . ., Napoli 1701, e revisore delle
Ragioni a prò della fedelissima città e regno di Napoli contr'al procedimento
straordinario nelle cause del Sant'Officio (Napoli 1709) di Niccolò Caravita,
mvierà al Giannone notizie sul Poliziano da comunicare a Friedrich Otto
Mencke (cfr. Vita, qui a p. 165 e la nota 3 ivi). 1. della Città: di Napoli,
ossia dell'amministrazione cittadina. 2. nunzio pontificio : Girolamo Gri-
maldi (si veda la nota 2 a p. 117).
1128 LETTERE
potrà esser informato da più alti e sicuri canali. Il certo e che per
l'avvenire il Consiglio di Spagna non starà così sonnacchioso e
lento in riparare i disordini di Napoli, e perciò godo assai che il
nostro signor presidente viva lontano dalle confusioni di palazzo.
Il signor cavalier Garelli ha molto goduto della seconda nota de'
libri mandatami per quelli trovati di nuovo, e se mai avrà congiun-
tura di mandar per via di terra qualche libro, procuri mandare il
Buonmattei* ed altri libri di vaglia ed i migliori, lasciando gli altri
per l'altra missione per mare, avendo intanto tempo di far ricerca
per quel che manca alla nota mandatele. Il signor abate Acampora
scrive che si siano cominciate già a stampare le Scuole mediche del
celebre Aulisio,2 avvisatemi se ciò sia vero, e chi ne abbia preso
la cura.
vi
A CARLO GIANNONE ■ NAPOLI
Vienna 29 pennato 7727.
Per la sua ricevuta in questa settimana sento in prima la voglia
che ora sia costà venuta a molti per l'impressione delle opere ma-
noscritte d'Aulisio,3 e la premura che vi vien data per l'esibizione
degli esemplari, e che il Ferrara,4 con una mia ricevuta che mostra,
1. Buonmattei: molto probabilmente l'edizione napoletana, presso Fran-
cesco Ricciardo, 1723, di Benedetto Buommatei (1581-1647), Della lingua
toscana libri due, che fu la prima grammatica logica italiana. 2. tv Scuo-
le.. . Aulisio: cioè le Historiae de or tu et progressu medicinac. Libri Vili
di Domenico Aulisio (per cui cfr. la nota 2 a p. 19). Su quest'opera, che
non fu mai edita (lo stesso Aulisio ne aveva sospeso la stampa per l'uscita
dell'opera, analoga, di Daniel Le Ocre: cfr. la nota 4 a p. 3x5), cfr. Istoria
civile, tomo iv, lib. xl, cap. v, pp. 491-2; G. M. Ckkscimbmni, Notìzie
{storiche degli Arcadi morti, m, Roma 1721, pp. 65-9; G. M. Mazzucciikl-
li, Gli scrittori d'Italia, Broscia 1753, voi. 1, parte 11, p. 1263. Kra, invece,
uscita r edizione Delle scuole sacre. Libri due postumi del conte palatino
Domenico Aulisio . . . Pubblicati dal suo erede e nipote Nicolò Ferrara-Auli~
sto, Napoli 1723, a cui l'allievo Biagio Troisio aveva premesso una nota
biografica e un catalogo delle opere stampate (ma non tutte pervenuteci)
del maestro,
VI. B.N.R., F.V.E. 358, ce. 73-75^. - 3. l'impressione * . .Aulisio: cfr. la
nota 2 qui sopra. 4. Nicolò Ferrara Aulisio, nipote del magistrato, era
stato incolpato della morte dello zio, incarcerato e sottoposto a giudizio da
parte del Tribunale 0 Giunta dei Venefici. La sua difesa fu assunta dal
LETTERE 1120,
ve gli richicgga ; ed oltre a ciò, che il signor Cacace1 abbia restituito
il Timeo,7, non a voi, ma al signor Orsi, che tanto in ciò s'affanna e
si travaglia. Io veramente stupisco della soverchia licenza che co-
storo si prendono, quasi che que' m. s. non fossero miei, reputan-
domi forse come un semplice depositario. Bisogna pertanto disin-
gannargli, e credo che saprete che io in soddisfazione delli docati
trecento, che mi furono dal S. C. tassati per mie fatiche e palmario3
nelle cause, che patrocinai del Ferrara, ricevei così i libri stampati,
come tutti i sudetti m. s., e nella quietanza che feci al Ferrara
espressamente si dichiarò che io a riguardo del zio gli faceva
questa agevolezza di contentarmi de' sudetti libri e m. s., e rila-
sciargli il di più che avanzava sino alla sudetta somma di docati
300. Sicché non vorrei tanta libertà sopra la mia roba; e se io fui
così indulgente col signor Vitagliano, che seppe così bene contro-
cambiar il beneficio con somma ingratitudine sicché né meno potei
conseguire una decina d'esemplari, fu per non disgustarmelo per
l'impressione allora pendente de* miei libri. Onde potrà palesare
tutto ciò al signor presidente, e dirgli che niuno ch'egli potrà co-
mandarlo, e che sempre che sia di sua volontà e piacere gli origi-
nali si daranno come dono che a lui si fa, eh' è ben poco alle obbli-
gazioni che le professo, ma che io non posso soffrire questa bal-
danza di voler l'originali così, senza che niuno me n'abbia grazia,
onde non avrà espresso comando del signor presidente non gli dia
a niuno, e quando pure il signor presidente lo comanderà, permet-
terà ancora che s'usi con me quella regola, che s'usa con tutti
coloro che somministrano gli originali : cioè di pattuirsi con essi di
dovermene dare almeno cinquanta esemplari impressi.
Giannone, il quale riuscì a farlo assolvere, sul finire del 171 9. Per sdebi-
tarsi, come è spiegato in questa lettera, il Ferrara consegnò la biblioteca e i
manoscritti dello zio al Giannone, il quale curò l'edizione de In IV Insti-
tutionum canonicarum libros commentarla, Neapoli 1721, lezioni universi-
tarie di Domenico Aulisio, rimaste sino ad allora manoscritte, forse le stesse
che Giannone aveva ascoltato in gioventù (cfr. Vita, qui a pp. 19 sgg.).
Per la stampa il Giannone si avvalse dell'aiuto di Gaetano Argento e di
Ottavio Ignazio Vitagliano (cfr. le note 5 a p. 76 e 2 a p. 74), servendosi inoltre
dello stesso stampatore cui ricorse per l'edizione della propria Istoria civile,
Niccolò Naso. 1. Leonardo Cacace (morto nel 173 1), professore di medi-
cina all'ateneo napoletano. 2. il Timeo: cioè un'edizione del celebre dia-
logo platonico, ^.palmario: compenso promesso dal cliente al difensore
in sostituzione degli onorari legali, o in aggiunta ad essi, alla conclusione
favorevole di una lite o di una questione stragiudiziale.
II30 LETTERE
Intorno all'impressione che si medita A&W Istoria della medicina,
io gli scrissi quello che s'era qui pensato, ma già che si vuole stam-
pare costà, per cortesia e per non far più oltraggio di quello che
si è fatto all'autore nell'edizione delle Scuole sacre,1 avverta e priega
incessantemente al signor presidente che non commetta la cura
di ciò ad altri che al signor Cirillo/ perché in altro caso l'opera
verrà assassinata non meno di quella delle Scuole sacre, dove alla
giornata si scuoprono errori intollerabili nell'ebreo, nel greco, ed
infino all'italiano. Se il signor Cirillo vorrà prendersi questa cura
la cosa anderà a seconda del genio di molti, che qui la desiderano,
e ne procurarebbero lo smaltimento con gran utile dell'impressore,
altrimente non se ne terrà conto per l'esempio preceduto dell'edi-
zione delle Scuole sacre.
Io per quanto posso e vaglio ne priego ancora il signor Cirillo,
sicome fa il signor Garelli, che non vorrebbe vedere quest'altro
strapazzo d'un'opera, ch'egli stima che potrebbe avere maggior
fama di quella del Clerico. Porterà al medesimo mille saluti in
nome mio e del signor cavaliere, il quale tiene già pronto il pa-
glietto3 de' «Giornali di Lipsia»,4 che arrivano per tutto dicembre
1. Intorno . . . Scuole sacre: cfr, la nota 2 a p. 1128. 2. non commetta . . .
Cirillo: il Cirillo accettò la proposta del Giannone per l'« emendazione
dell'opera» dell'Aulisio (cfr. la lettera a Carlo del 4 marzo 1724, in B.N.R.,
F.V.E. 358, e. 84); né sembra riuscisse destacelo al progetto l'uscita in
quei tempi di un'opera consimile: le De mediarne origine et progrmu dis-
sertatìones . . ., Traiccti ad Rhcnum X723, del medico e chimico Johann
Conrad Barchusen o Barckhausen (x 666- $723). 11 x8 marzo 1724, infatti,
il Giannonc scriveva al fratello che quelle dissertazioni «si vede essere inet-
tissime, tanto che ciò non solo [non] deve impedire Tediatone che il signor
Cirillo ha per le inani, ma maggiormente animarlo a proseguire l'impresa »
(B.N.R., F.V.E. 358, e. 88). Altre difHcolta dovettero però sopraggiun-
gere in seguito, perché il 13 novembre 1728 il Giannone scriveva al fra-
tello (in B.N.R., F.V.K. 358, ce. 435-435^): «Ho parlato al signor cavaliere
intorno air edizione dell' istoria della medicina, e mostra non avervi inclina-
zione alcuna di prendersi questo pensiero, perché vi bisognarebbe una
indefessa fatica di metter in netto l'originale; e poi dovendosi mandare in
Lipsia, s'avrebbe da stare alla discrezione di quo' compositori, li quali
potrebbero stroppiarla, tanto maggiormente perché l'autore ha mostrato in
tutte le sue opere una somma accuratezza nelle lingue ed in altre minuzie,
che richiedono grandissima vigilanza ed attcnsione; e quando i fogli non
possono passare sotto un diligente e prattico correttore, sexnpre s'incorrerà
negli errori. Mi rimane tentare solamente se il signor Menckenio volesse
prendersi questa briga, ed in questo caso stimerei la cosa più riuseibilc».
3 . paglietto : pacchetto. 4. « Giornali di Lipsia » ; gli « Acta Kruditorum, Lip-
siensium» (cfr. la nota 2 a p. 165).
LETTERE II3I
del passato anno 1723, né io tralascierò per la prima congiuntura
di mandarcelo, tenendone dal medesimo gran premura, che gli ca-
piti presto.
Il prete, che mi avvisa dover essere qui col fardello de* consaputi
libri, non è ancor giunto, ed intanto ho consignata la nota acclu-
sami al signor cavaliere de' libri che ora si mandano, di che n'è
sommamente restato soddisfatto, così del prezzo come della scelta
fattane, onde con anzietà lo stiamo attendendo. Frattanto facci rac-
colta degli altri per trasmetterli secondo l'avviso che ne avrete;
né tralascierò di far accudire al prete raccommandatomi in tutto
quello che gli potrà occorrere.
Ho tolta qui la curiosità d'alcuni, che aveano per quella Storia
del Gimma,1 ora che m'avete avvisato l'autore, ed ora se ne fa
quel conto che ne fate costà. La sciocchissima scrittura d'Egizio,
che il marchese Sanfclice ha fatta qui imprimere,2 ora va per le
mani de' ministri di questo Consiglio di Spagna; io n'ebbi pure
un esemplare dal medesimo, ed a prima conobbi avere stroppiato
quel che ha appreso da' miei libri, perché ne' primi versi allega
Varrone in quel luogo appunto da me citato, il quale non dice
verbo delle File, ma solamente delle Fratrie ch'erano in Napoli,
sicomc io ne porto le parole e la nota fattavi da Scaligero.3 È ripiena
dì consimili errori, di perpetue confusioni, e ben si conosce che
ancorché avesse lavorato sopra l'altrui fatiche, non essendo ciò del
suo mestiere, fu troppa sua temerità «nostra temerare claustra»,4
come di Erasmo disse Cujacio. Io mi maraviglio, come il nostro
signor Vincenzo d'Ippolido,5 che avrebbe potuto far sopra tal sog-
getto una buona scrittura, se ne stia colle mani in cintola: forse
altri rispetti gli avranno ritenuto: riveritelo da mia parte, e non si
dimentichi di quanto gli scrissi nelle passate settimane, di far nota
di ciò che forse avrà notato d'errori ne' miei libri.
1. Giacinto Gimma (1668-1735), erudito e poligrafo barese, fondatore della
Società scientifica degli Incuriosi di Rossano (1696), arcade dal 1702, è
l'autore di una Idea della storia dell 'Italia letterata, esposta colVordine cro-
nologico dal suo principio fino all'ultimo secolo . . ., Napoli 1723. 2. La
sciocchissima . , . imprimere: cfr. Giannoniana> pp. 125-6. Per Matteo Egi-
zio si veda la nota 1 a p. 21 1» 3. Varrone . . . Scaligero: cfr. Istoria civilet
tomo 1, lib. 1, cap. iv, par. 1, p. 16, nota 3. 4. «nostra temerare claustrali
«violare ì luoghi a noi riservati ». 5. Vincenzo d'Ippolito (morto nel 1748),
consigliere di Santa Chiara, poi presidente del Sacro Real Consiglio,
fu uno dei più strenui difensori del Giannone, anche dopo l'avvento di
Carlo III di Borbone.
1132 LETTERE
Salutatemi ancora il signor don Franco, con assicurarlo che io
qui son difensore delle sue Rime'.1 ed intorno a ciò clic mi scrive
del signor conte della Corra,2 se ne avrò qui richiesta, saprò rego-
larmi nella risposta, ed intanto se sarete costà di nuovo assalito,
rifondete a me il rimanente, senza impacciarvi d'altro. Non mi
scrivete niente del signor Pepe, di cui sovente col signor marchese
Stella3 facciamo lunghi discorsi: salutatelo da mia parte, sicome
allo Scassa, che io venero ora come Mercurio fautor de* ladri.4
Sento il corso che s'è dato alia causa di Cesa,5 per cui questa
settimana il signor don Antonio Coppola nipote dei signor reg-
gente Almarz m'ha parlato in raccomandazione del signor don
Agnello Longobardi, che ne l'ha scritto. Vedete di far quel che si
potrà per donna Felice sua sposa, e ditele avermene già il signor
Coppola parlato, e che io n'abbia scritto. Mi preme assai più il
disbrigo della causa del Vinchiaturo,6 per la quale non lasciarete
pregarne di continuo al signor presidente, perché da ciò dipende
la riscossione integrale del palmario. Sicome non lasci di veduta
gli interessi di Camera da' quali dipende ancora il nostro sosten-
tamento.
x, don Franco . . . Rime: forse il Giurinone confonde e si tratta del Filippo
de Angehs menzionato nulla Vita-, cfr. la nota 1 a p. 33. 2. della Cerreti
il conte di Accrra, sul quale cfr. II. Bknkdikt, Dos Ktìnigreich Neapel
unter Kaiser Karl VI, Wien- Leipzig 1927, pp. 48 t sgg., 502 sgg., 5*8 »gg-
3. Del marchese Pietro Stella (morto noi 1730), nipote del eonte Hocco,
si parla anche in Vita, qui alle pp, 163-4. Wu di lui cfr. inoltre IL Hknk-
djckt, op. cit., pp. 235 0 237. 4. Scassa . . . ladri: 1,'8 gennaio 1724 il
Giannonc aveva scritto al fratello (IÌ.N.U,, F.V.K. 358, co. 670-68): «Sto
molto goduto . . . che siasi chiarita l'impostura che il ladro, per aver com-
pagni, avea addossata a quelle puntuali persone; e tanto più ora mi mara-
viglio che il padrone lo protegga». In margine una postilla (probabilmente
di Giovanni Giannonc): « Il servitore di don Onofrio Scassa avea involato
alcuni corpi dall'Istoria civile, ed altri eran incolpati di simil furto ... e il
detto proteggeva il ladro». 5. causa di (lesa: questa causa in cui si con-
testava un'eredità, facendo pressioni perché le beneficiate si ritirassero in
convento, era una di quelle lasciate improvvisamente dal Giannonc, al
momento della sua fuga da Napoli. La causa fu discussa, con qualche suc-
cesso, nell'estate del 1725. Cfr., in B.N.R., F.V.K. 358, ce. 195-959, la
lettera a Carlo del 4 agosto. 6, causa del Vinchiaturo : altra causa lasciata
insoluta dal Giannonc al momento della partenza da Napoli, e di cui parla
diffusamente nell'epistolario. L'università (ossia municipalità) di Vinchia-
turo, un paese del Sannio, contrastava in una questione di conimi con la
comunità di Campochiaro. Il ( Cannone dovette occuparsi anche di altri
interessi del comune di Vinchiaturo, come risulta da più cenni nelle let-
tere al fratello, e da una controversia insorta nel 1726, per il pagamento
dei palmari dovutigli.
LETTERE II33
Ho inteso i sentimenti del signor presidente intorno all'affare
della Giunta1 e delle buone ammonizioni degli amici, quali io già
eseguo. Il signor marchese Cavaniglia2 m'ha detto che il signor
consigliere Ventura l'avea scritto per li consaputi libri destinati
per S. E. Scrottembac,3 che gliele avrebbe già trasmessi, e ch'egli
ne avea dato già avviso al signor cardinale, ch'erano in suo potere.
Avrete saputo i titoli di conte, de' quali S. M. ha fatta mercede
a' signori reggenti Almarz e Perlongo. Il nostro signor reggente
Almarz è in somma grazia di S. M. e spesso l'ammette alla sua
udienza: gli parla con spirito e con molto zelo del suo regal ser-
vigio, talché si spera che per l'avvenire le cose anderanno con mi-
glior ordine.
Il nostro signor duca di Laurino,4 di cui alla giornata ne speri-
mento continue cortesie, si è segnalato nel fatto occorso lunedì
passato al signor marchese Perlas, a cui un cavalier catalano teme-
rariamente, dopo vicendevoli contumelie, ardì corrergli addosso
per malmenarlo. Vi occorse opportunamente il duca, che si tro-
vava nell'anticamera, e furiosamente rispinse il catalano, sicché
occorsevi l'altre persone ch'erano ivi, scappò via. L'essere spa-
gnolo lo salverà dal giusto castigo, che sarà perniciosissimo esem-
pio per gli altri ministri.
Ho in questa settimana dai signor don Gabriele Longobardi5
x . La Giunta di giurisdizione. Nella lettera seguente, del 5 febbraio (B.N.R.,
F.V.E. 358, ce. 76-76*;), scriveva: «stento ancor io a credere la forte ri-
prensione che si dice avuta per la mia assoluzione, se non si voglia ad arte
far apparire che, sicome qui da alcuni di questo Consiglio di Spagna non
fu approvato il modo tenuto in darla, così all'incontro vogliano dar ad
intendere che da Roma si pretendesse cosa maggiore. Comunque sia in
questa settimana, essendo stato di nuovo dal signor marchese Perlas che
mi communicò haver S. M. dato a lui il memoriale, che gli presentai, e che
mi parlò con molta umanità e gentilezza, dicendomi che S. M. l'avea di
me parlato, e dettoli che io era stato alla sua udienza, fra l'altre cose mi
disse che questi modi s'erano usati per far restare negli atti di quella Curia
quest'esempio, per potersene servire con pregiudizio della regal giurisdi-
zione in casi simiglianti; e che perciò era bene che anche presso di noi
rimanessero vestigi contrari, almeno per futura cautela: 10 gli risposi,
che per questo appunto si sarebbe tenuta un'altra Giunta di giurisdizione,
affinché s'emendassero li pregiudici e nulla giovasser loro quegli atti».
2. marchese Cavaniglia; il marchese Agostino Colome, marchese di Cava-
nillas, segretario di guerra a Napoli con i viceré Schrattenbach e Althann.
3, S. E. Scrottembac: il conte Karl Wolfgang Hannibal Schrattenbach
(1 670-1738), creato cardinale nel 17 12, viceré di Napoli, sul quale cfr.
H. Benedikt, op. cit., pp. 208-14. 4. duca di Laurino: Giuseppe Spinelli.
5. Gabriele Longobardi: cfr. Vita, qui a pp. 120 e 259.
1X34 LETTERE
ricevuti molti saluti per parte del nostro signor abate Belvedere,1
risalutatelo caramente da mia parte. Bene sta l'occorso de' libri,
che poi ha saputo essersi commessi per parte del figliuolo di Per-
las: venghino spesso simili ignoranze. Del signor consigliere Ma-
gioco ho ricevuto in questa settimana la lettera che dovea ricevere
la passata, a cui rispondo. Ieri vidi il Castelli/ clic si va riavendo:
mi dice che partirà fra quindici giorni: così sia: nò mi curo di
quel ch'egli si faccia: se ne curi il signor Antinori.3 Mille saluti
al nostro signor don Francesco Mela, signor Onofrio, signor Cailò,
ed a' tutti i buoni amici, e godo sentire che il vecchio padre stia
bene, sicomc di que' di Vesti,4 de' quali non mancate darmene no-
tizia, e caramente l'abbraccio.
L'acchiuso foglio lo consignerete al signor consigliere Ventura,
ch'è in risposta del suo favoritomi.
vii
A CARLO GIANNONK • NAPOLI
Vienna ì)*j giugno lya^f.
Sento per la sua ricevuta in questa settimana la propensione colla
quale mostra il signor presidente di favorire i miei interessi, della
quale io non ho avuto mai motivo di dubbitarne ; né io ho fondato le
mie speranze costà, se non per impulsi che doveano venire da qui
nel caso che fossimo nel sistema di nomina.5 Mi dispiace che gli
urlici che il nostro signor presidente ha consumati coU'arcivescovo
di Valenza siano per riuscir vani, disperandosi affatto di sua salute,
e che possa più salire in questo Consiglio/' tanto che si pensa del
x. L'abate napoletano Andrea Belvedere (i652?-i732), pittore, letterato e
filodrammatico, dal 1604 al 1700 era stato alla corte madritena di Carlo II,
poi di nuovo a Napoli, dove era amico, tra gli altri, del Capasso. 2. il
Castelli; si tratta del fratello di Angela Elisabetta. Nella lettera del 13
maggio 1724 (B.N.R., F.V.K. 358, e. 100) il Oiannone comunica di aver
ricevuto notizia dell'arrivo del Castelli in Napoli. 3, Antinori: forse quel-
l'abate Antinori, zio delle figlie del duca dì Brindisi, che avrebbero ♦spo-
sato due fratelli di Angela Elisabetta Castelli (efr, quanto scrive Giovanni
Giannone nelle sue Memorie, in Giannonìana, p. 187), 4. quo di Vestii la
sorella Vittoria (nata nel 1685), sposata a Domenico Tura, e il figlio Gio-
vanni che allora abitava con lei.
VII. B.N.R., F.V.E. 358, ce. 109V-112. - 5.* miei interessi ... nomina;
cfr., a pp. 1 144-S» quanto scrive nella lettera dell*! 1 novembre 1724. 6. di-
sperandosi. . . Consiglio: l'arcivescovo di Valenza si spense il 21 luglio, e
LETTERE II35
successore: comunque sia il favore e la cordialità del medesimo
può giovarci in cento occasioni, e perciò non tralasci portargli an-
che in mio nome quegli ossequi che li sono dovuti. Il Santoro1 col-
la protezione del signor viceré ha promossa qui una pretenzione di
futura, in caso di passaggio in Collaterale del signor regente Ven-
tura, però se la cosa passerà per questo Consiglio, anderanno vóti
i disegni che si fanno. Qui si dice che siano già firmati i capitoli
matrimoniali tra il nostro signor Porcinari2 con questa figliuola del
regente Aguirre:3 avvisatemi se sia vero e se le cose siano già alle
strette, come qui si parla. Tutta la Corte è tornata in città, ed i
regnanti sono alla Favorita.4 Ciò che aggevola i mici negozi, ancor-
ché li caldi, che qui si sentono in quest'anno, non siano inferiori a*
vostri, e perciò riescano gli affari alquanto noiosi.
Dalle mie passate lettere avrà scorto il concetto che si è formato
qui della promozione in papa del cardinal Orsini,5 e molto più del
ministero fatto.6 Godo che de* miei libri abbia quel sentimento che
mi scrive e spero che per me abbia secondo tutti i versi a riuscir
la cosa in bene, tanto che ora si vanno toccando Tacque più da
presso. Non mancate intanto avvisarmi le novità che si prevedono,
perché saranno stravagantissime.
cosi ne diede notizia il Giannone il giorno seguente: «L'arcivescovo di
Valenza alle dieci della passata notte trapassò, e per le tante cose scelle-
rate, che ora di lui dicono, lascia nome tale, che sarà d'orrore per tutt'i
secoli» (lettera a Carlo del zz luglio 1724, in B.N.R., F.V.E. 358, e. n6u).
1. Francesco Santoro, fiscale di Camera, uno dei favoriti del cardinale
d'Althann: segretario del regno, fu poi reggente del Consiglio Collaterale
(cfr. Panzini, p. 24). Si veda H. Benkdikt, Das Konìgreich Neapel ecc.,
cit., p. 363. 2. Ferdinando Porcinari (1689-1743), allievo di Domenico
Aulisio, con Carlo VI consigliere di Santa Chiara, diverrà caporuota dello
stesso tribunale con Carlo III di Borbone. 3. d' Aguirre: cfr. la nota 1 a
p. 198. 4. La Favorita era uno dei palazzi imperiali nei dintorni di Vienna.
5. Dalle mie . . . Orsini: appena giunta «la stravagante notizia dell'elezione»
alla tiara del cardinale Pierfrancesco Orsini (Benedetto XIII: cfr. la nota
I a p. 117), il Giannone aveva scritto al fratello, il io giugno 1734 (B.N.R.,
F.V.E. 358, ce. 1070-108): «Si penò molto a crederlo, e qui si sta in gran-
dissima espettazione di sapere più individuali notizie, essendo cosa che
ha storditi tutti, e l'istesso Cesare rimase sorpreso della stravaganza . . .
II signor dottor Giuseppe di Capua con asseveranza mi dice aver egli ietti
i miei libri, ma non sa che concetto ne fece ; ma l'essere frate domenicano
mi fa temere. Io per me vorrei che facesse la riuscita di Gregorio VII,
come si spera, che così le cose andarebbero meglio, e forse altri che ora
dorme si desterà dal lungo letargo ». 6. ministero fatto : si riferisce alla
nomina a segretario di Stato del cardinale Niccolò Coscia (cfr. la nota 4
a p. 151).
II36 LETTERE
Al caro signor Cirillo mille saluti, come fa il cavalier Garelli, il
quale vive sicuro che dalle sue mani l'opera1 riuscirà emendatissima.
Li giorni passati in casa del signor principe Eugenio io desiderava
anche l'intervento della sua persona nell'osservazione che si fece
della maravigliosa macchina, portata da un inglese al signor prin-
cipe, del sistema di Copernico. Si osservano minutamente i movi-
menti de' pianeti e della nostra Terra. Il eentro è il sole fatto in
maniera che nel seno riceve una fiamma, che illumina l'orbe. Si
notano l'ecclissi, le stagioni, e tutto; talché non più per forza della
ragione e dell'immaginazione, ma della veduta de' nostri occhi
siamo accertati che quel sistema è sufficiente a spiegare tutti i fe-
nomeni, e, sin a tanto che non si porterà cosa più convincente,
dobbiamo stare a questo. Si conosce anche da ciò quanto sia gran-
de la nostra miseria a riguardo di tanti altri ed infiniti soli, che
sono centri di innumerabili altri vortici, onde si compone l'uni-
verso. Il signor principe Eugenio non se non a persone di riguardo
fa questo favore, conservando questa macchina nella sua famosa
biblioteca con molta diligenza ed attenzione, la quai'è necessaria
avere per essere il lavoro finissimo ed intricato di varie ruote, molle
e penduli, per far tanti e si diversi movimenti. Tiene un perfetto
matematico stipendiato per questo, il quale con molta esattezza
spiega il sistema e' movimenti, e ne sa render ragione, essendo an-
che cartesiano. Ci fu il signor regente Riccardi, il signor abate Ugo
franzese, inviato di Condé,2 ed altri personaggi, e ne feci avvisare
il nostro signor regente Almarz con don Pietro suo fratello gran
cartesiano, don Antonio Coppola e suo figliuolo, li quali n'ebbero,
particolarmente don Pietro, sommo diletto. Videro anche costoro
questa famosa biblioteca, ed io ebbi il piacere vedere ivi collocati
i miei libri con ligatura tutta indorata in pelle rossa, sicome sono
ivi tutt'i libri, che danno ammirazione a chi riguarda tanta ricchez-
za e polizia e la rarità e bellezza delle edizioni.
Alla notizia, che mi dà in questa settimana, che la carretta può
portare centoventi corpi di libri, ed il dubbio che ho, che in ricever
questa forse si troveranno già spediti per Barletta, sono alquanto
turbato, non supponendo che potesse portarne tanti, li quali per
x. V opere la progettata edizione a cura del Cirillo delle Uìstoriae de or tu
et progressi* medìcinae di Domenico Auliaio (cfr. la nota 2 a p. 11 28).
». Louis-Henri de Bourbon, principe di Condé (1692-1740), conosciuto
come Monsieur le Due, primo ministro di Luigi XV dal 1733 al ijzò.
LETTERE 1137
essere di carta realella vi vorrà molto tempo per ismaltirgli qui,
dove si vorrebbero di carta regale. Credeva che non ne fosse più
capace che di cinquanta, o al più di sessanta corpi, secondo le altre
due precedenti missioni. Con tutto ciò, se la cosa non è più intera,
si lasci pure correre, perché se ne manderanno in Olanda un paio
di balle, ancorché poi s'abbia da aspettar molto tempo per la ri-
scossione del prezzo, e que' mercanti desiderarebbero più tosto
far cambio d'altri libri, che sborzar denaro, o pure aspettarne lo
smaltimento. Oltreché io non vorrei che in Italia ne rimanessero
pochi esemplari, da dove se ne spera più presto smaltimento; e
per dirla, se ne può sperare miglior uso in Italia che in queste parti,
e spezialmente nel Settentrione. Che m'importa che in Danimarca,
Svezia e Prussia si diffondi quest'opera? Il general Marnili1 ne
vorrebbe empir l'Ungheria, dove molti pochi s'intendono di let-
tere. Ed in Germania questi mercanti di Lipsia e Nurimberg2 li
vorrebbero di carta regale. In questa fiera de' rimasi alcuni si sono
venduti, altri l'ho cambiati colle opere di Goldasto.3 Sicché se la
missione è fatta, non vi è rimedio ; nel caso non sia seguita, si re-
goli secondo ciò che li scrivo. E potrà avvisare al signor Fraggianni
che si è levata ogni contumacia co' Veneziani ; affinché non si facci
angariare da' padroni di barche col pretesto di quarantana, essen-
dosi come prima reso libero il commercio. Il signor baron Darmon
non è ancor qui giunto, ed attendo dal medesimo il consaputo
foglio col libro che si manda al signor Garelli, se bene avrei meglio
ricevuto il Crescenzio,4 se costà è finita la ristampa.
1. Francesco Saverio Marnili (1675-1751), già al servizio della Spagna,
passò nell'esercito imperiale, partecipando, e distinguendosi, alle battaglie
di Petervaradino e Belgrado (1 716- 171 7). Dopo la pace con i Turchi fu
nominato da Eugenio di Savoia governatore delia Serbia. 2. Nurimberg:
Norimberga. 3. opere di Goldasto: forse i volumi della Collectio constitu-
tìonum imperialium . . ., Francofordiae ad Moenum 1 613, e dei Commentarli
de regni Bohemìae . . . iuribus ac privilegiis} Francofurti ad Moenum 1719,
del celebre giurista e storico tedesco Melchior Goldast von Heiminsfeld
(1578- 1635). Cfr. l'elenco dei libri della biblioteca viennese del Giannone
(fra cui, appunto, le opere del Goldast) in Giannoniana, pp. 474-5- 4- #
Crescenzio : si tratta di una traduzione del celebre Liber ruralium commodo-
rum del giudico bolognese Pietro de* Crescenzi (1230-1321): Del trattato
dell* agricoltura . . . già traslatato nella favella fiorentina . . . dallo 'Nferigno
accademico della Crusca [i.c. Bastiano de' Rossi], ed in questa nuova impres-
sione ripurgato da innumerabili errori . . ., Napoli 1724» in due volumi.
L'opera sarà stata richiesta dal Garelli, nella cui biblioteca infatti figu-
ra (cfr. M. Denis, Die Merkwilrdigkeiten der kaiserliches und kdnigliches
II38 LETTERE
Sta bene che abbia rigalato al signor regente Solane» * il corpo
de* libri, dal quale ricevei risposta ; e molto più godo in sentire che
abbia riscossi li docati cento da Civitclla : ciò che vi dovrà spingere
ad invigilare a gli altri nostri interessi.
In questa settimana ricevo una lettera dal signor Giovanni di
Napoli, al quale non rispondo, perche con molto appretto* richiede
la soddisfazione della consaputa somma. In questo affare deve uni-
camente attendere se con questa dilazione si porta travaglio ed an-
gustia alla nostra Isabella,3 perche se costei non ò molestata, potrà
ben il signor Giovanni aspettare a tempo più proporzionato, non
essendo ora in istato di levarsi denaro, ma più tosto ad accumularlo
per qualunque caso che avvenisse. Forse non s'avrà da tardar molto
per poterci far migliori conti, e per ciò per ora bisogna aver soffe-
renza.
Mi riverisca il signor abate Belvedere, il quale a quest'ora
avendo ricevuto il privilegio del consaputo ufficio, s'avrà levato
tutt'i vani sospetti che l'ingombravano la mente. Il signor Longo-
bardo e buono amico, e per l'abate non pur vorrebbe, ma molto
più potrebbe spendere somme maggiori. Vadi pure a sollazzarsi in
Chiaia, e lo pregherà da mia parte che mi saluti spesso il cotanto
da me amato Posilipo.
Sento con piacere che al signor Romolo siasi data l'incombenza
per ricuperare la risposta dal signor marchese di Misurata, sapendo
la sua attività, onde potrà includerla nella mia quando l'avrà.
Non ho potuto contener le risa in leggendo il nuovo matrimonio
gardllschcn ojjentliche Bibliothek avi Thcrv$ianot Wicn 1780, p, 458).
1. Francisco Solmies: vedi la nota % a p. 102. Cfr. anche quanto il Giannotto
scriverà al fratello il 5 agosto 1730 (B.N.R., F.V.F. 358, ce. 41^-43): «11
nuovo presidente, siccome mi disse, partirà verso hi line di settembre, o
metà di ottobre; gli raccomandai caldamente la sua persona, dicendomi
conoscervi molto bene, e che io stassi pur sicuro che vi distinguerà sopra
gli altri e ne avrà particolar protezione. Sappiatevene dunque profittare,
perché gli Spagnoli non sogliono riuscire cotanto infruttuosi come i nostri
nazionali. Mi regalò il suo libro, ed io non mostrandomi inteso d'averlo
letto, gli resi le grazie, e me ne sbrigai con parole ceremoniali, fra me stesso
dicendo che quel libro dovea porlo in rischio di farli perdere tutto il fatto ;
ma come che di queste cose non si tien conto, egli poteva scriver peggio,
che pur sarebbe stato lo stesso». A proposito di questo libro del Selline»,
De iure et edicto praetoris> Vindobonae 1730, cfr. Vita, qui a p. xy8.
a. appretto : affettazione (francesismo). 3. Isabella Spinelli, contessa di Bo-
valino e benefattrice del Giannone, di cui questi difese numeroso cause
(cfr. Vita, qui a p. 58).
LETTERE II39
del settemplario.1 Povero cavaliere; e gran torto veramente si è
fatto ad un nipote del duca di Brindisi. Credo che sua sorella avrà
molta prudenza e conoscerà il suo stato, e perciò l'obbligazione che
deve professarmi; e se vorrà prender partito di maritarsi tanto li
farò conoscere che non sono stati mal impiegati i suoi travagli;
ed io anche da qui potrei procurarle sposo d'onorata condizione
che pensa passare in Napoli. Fatene passar parola dal signor Ono-
frio,2 ma con riserba, che ciò non provenisse da me, per iscorgere
il suo animo ; ed intanto procurerà tenerla soddisfatta e non darle
occasione di disgusti.
Al caro signor don Francesco Mela mille saluti, come alli signori
Onofrio, Cailò, e tutti i buoni amici ; e non si dimentichi con ispe-
zialità risalutare il signor giudice Cirillo; e godendo che il vecchio
padre passi bene, sicome gli altri di Vesti, resto infine caramente
abbracciandolo.
Appunto parte il signor Gemelli, al quale ho pregato che procu-
rasse di non incontrarsi col baron Darmon, affinché non lo facesse
qui venire con sé funesto augurio. Parte ostinato più che mai a non
volersi prendere i dispacci, e riuscirà gustoso in sentirlo parlare
del misero avanzo della nazione.
vili
A CARLO VI • VIENNA
[fiovembre 1724.]
Pietro Giannone avvocato napolitano posto a piedi di V. M.C.C,
umilmente l'espone com'è già un anno e mezzo che si truova in
questa città di Vienna,3 dove fu costretto portarsi per isfuggire le
x. settemplario: dovrebbe trattarsi del fratello di Angela Elisabetta Castelli,
nominata infatti più sotto come «sua sorella». 2. Onofrio: probabilmente
Onofrio Palumho (morto nel 173 1), che assolveva alle funzioni di inter-
mediario tra il Giannone e la sua amante rinchiusa m monastero (cfr., a
p. xx 47, la lettera dcll*xx novembre 1724).
VIII. À.S.T., manoscritti Giannone> mazzo 11, ins. 15, A, 3. Autografo;
bella copia di supplica a Carlo VI (e cfr. Giannoniana, pp. 431-3)- -
3. com'h #iVì . . . Vienna: il Giannone giunse a Vienna ai primi di giugno del
17*3; la supplica dovrebbe dunque cadere sul finire del 1724. Poiché in
csna si accenna chiaramente a difficoltà nella riscossione del sussidio (con-
II40 LETTERE
persecuzioni d'alcuni ecclesiastici, e spezialmente de' frati, li quali
mal soffercndo che nella sua Istoria civile del regno di Napoli avesse
posto in chiaro le supreme regalie1 che V. M. tiene in quel Regno,
e difesa la vostra regal giurisdizione con iscovrirc i loro attentati
sopra di quella, ed i loro immensi acquisti de* beni temporali in
pregiudizio gravissimo dell'erario regale e de' patrimoni de' sud-
diti di M. : l'addossarono mille imposture, e sopra tutto che i suoi
libri contenessero molte eresie. Ma dapoi la proibizione distesa de'
medesimi fatta in Roma gli smonti ; poiché quantunque la corte di
Roma abbia in orrore simili opere, che difendono li regali diritti, e
manifestano le sorprese della giurisdizione ecclesiastica, riputando-
le tutte per temerarie, scandalose, scismatiche, erronee, e che sen-
tano d'eresie;3 nulladimanco avendoli rigorosamente fatteli esa-
minare da' suoi qualificatori,3 non han potuto in quelli qualificare
proposizione alcuna per eretica: ciocché sicuramente avrebber fatto
per la prontezza, che ne tengono nelle proibizioni di consimili libri;
sicome si vide gli anni a dietro nelle proibizioni de' libri, che si
diedero alla luce per difesa de' diritti di V. M. sopra i benefìci
del Regno da doversi conferire a nazionali.4 lui avendo il suppli-
cante, per maggiormente chiarire la sua innocenza, presentati a
V. M, i libri suddetti a cui erano dedicati e consegniti,5 l'espose an-
cessogli nell'ottobre di quell'anno: cfr. Vita, qui a p. 120) e si torna ad
insistei e per il conferimento di una carica, si può ritenere che in essa siano
ripetute le richieste avanzate a voce dal Giannone nel corso della seconda
udienza che egli ottenne da Carlo VI, negli ultimi giorni del novembre del
1724 (cfr. Vita, qui a p. 121). 1. le supreme regalie: 1 diritti della giuri-
sdizione reale. 2. temerarie . . . eresie: Giannone parafrasa qui il decreto
di condanna del Sant'Uffìzio (1 luglio 1723): « temerarias, scandalosa*},
seditiosas . . . erroncas, schismaticas atquc impias et haereses ut minimum
sapientcs». Cfr. Panzini, p. 28, nota. 3. qualificatori: quei teologi, cioè,
incaricati di quali lìcarc la natura di proposizioni deferite ad un tribunale
ecclesiastico. 4. sicome . . . nazionali: subito dopo l'occupazione austriaca
del regno di Napoli (7 luglio 1707), tra le grazie che vennero chieste al
nuovo viceré, Georg Adam von Martinitz, vi fu quella che tutti i benefìci
ecclesiastici dovessero essere conferiti «a regnicoli, escludendo li franatesi
e di qualsivoglia natione» (cfr. Diario napoletano dal J700 al xjoi), in
«Archivio storico per le Provincie napoletane», X885, p. 406). In appoggio
a questa richiesta videro la luce tre importanti scritture che furono con-
dannate da Clemente XI: vedi la Vita, qui a p, 64, e le note 1,203,1"
p. 65 e nota x. Cfr., inoltre, L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo
a Napoli nel Settecento, Bari 1950, pp. 61 sgg. 5. * libri. . » cowegratii
i quaranta libri dell'Istoria cknle erano infatti dedicati all'imperatore. Por
la storia della loro presentazione cfr. Vita, qui alle pp. 96 sgg.
LETTERE II4I
cora alla censura non meno de' reggenti che M. V. tiene nel Consi-
glio Collaterale di Napoli, che de' reggenti che qui compongono
il supremo Consiglio di Spagna,1 e di tutti gli uomini dotti e disap-
passionati, affinché o gli scovrissero gli errori, accioché se ne po-
tesse emendare; ovvero notassero i luoghi ove credono avere il
supplicante trascorso, perché l'avrebbe fatto chiaramente vedere
che tanto ò lontano che la sua opera dovesse riputarsi licenziosa,
che più tosto moderata e sobria debba stimarsi per rinfinite cose
che si sono risparmiate all'ordine ecclesiastico. Ma sono scorsi or-
mai due anni, che si è quella data alla luce,3 e non solo non si è
veduto persona che avesse potuto mostrare i falli de' quali era
imputata, ma tuttavia seguitamente leggendosi,3 quasi tutti si sono
ricreduti, essere state solenni imposture d'alcuni frati, li quali per
loro particolar interesse cercavano discreditarla.
Ma non perciò, S. M., si è potuto riparare al danno gravissimo,
che per queste false accuse ha il supplicante patito, avendo dovuto
abbandonare la sua professione d'avvocato ch'esercitava in Napoli,
e vivere lontano dalla sua patria in estraneo paese, dove li è con-
venuto per suo sostentamento consumare le proprie sostanze, le
quali essendo molto tenui non poteano lungamente durare, sicché
non si veda ora ridotto in un estremo bisogno, senza i mezzi neces-
sari di potere sostentare la sua vita secondo la sua condizione;
né altra fiducia l'è rimasa, se non nella benificenza e magnanimità
di V. C. e C. M., la quale compassionando questo lagrimevole
ed infelice suo stato, voglia sollevarlo da tante angustie nelle quali
si ritrova. E non avendo havuta la sorte nella prossima provista di
tre piasse sopranumcrarie, una di presidente della Regia Camera
di Napoli, e due di consigliere di S. Chiara, d'essere consolato,
sicome ne portò riverenti suppliche alla M. V., ma essendosi com-
x. r espose ... Spagna: su questa iniziativa del Giannonc cfr. Bertelli,
pp, 187 sgg. 2. Ma sono . . . luce: si è già detto come questa supplica
debba datursi sul finire del novembre 1724: poiché l'Istoria civile vide la
luce nel marzo 1723 (cfr. Vita, qui a p. 79) è evidente che questa dichiara-
zione del Giannonc è imprecisa. D'altra parte si tenga presente che la
richiesta per il permesso di stampa fu avanzata «verso la fine dell'anno
1722» {Vita, qui a p. 78). 3. seguitamente leggendosi: cfr. quanto scriverà
nell'autobiografia {Vita, qui a p. 81): «leggendosi questa mia opera a
pezzi, quasi tutti sì arrestavano a gli ultimi capitoli de' libri ove trattasi
della politia ecclesiastica». Da qui questa precisazione del leggersi la
«uà opera « seguitamente », e non già a brani staccati.
II4-2 LETTERE
piaciuta conferirle ad altri soggetti,1 è venuto il supplicante a ri-
maner deluso delle sue speranze, e di poter essere di presente im-
piegato a qualche altro diverso impiego di suo regal serviggio, ed
intanto privo del suo necessario sostentamento.
Ricorre per ciò alla somma clemenza della M. V. e devotamente
la priega che, insin che piacerà alla M. V. consolarlo,* voglia intan-
to stabilirli qui un decoroso sostentamento, e condegno, non già a'
suoi meriti, ma alla celebrata magnanimità della M. V., affinché
possa sostentar la sua povera persona; e per tal cileno dar gli or-
dini opportuni, che se li somministri per sicure vie, o con dar pre-
cisi ordini in Napoli, perché la somma che la M. V, si degnerà
assignare al supplicante gli sia qui in Vienna rimessa dal delegato
del Consiglio di Spagna nel medesimo tempo che per quartali
rimette il soldo destinato per sostentamento del sudetto Consiglio
di Spagna:3 ovvero per altra maggior pronta esecuzione che la
M. V. stimerà più opportuna al caso che lo richiede; pregandola
a riguardare che, trattandosi d'alimenti, non permetterà la M, V.
che abbia il supplicante a sofferire maggior disagio, e che altri
possano con i soliti sutterfugi rendere elusone le henignissime
grazie della M. V. trattandosi di proprio sostentamento che non
puoi patire dilazione alcuna. Cosi s'affida nella clemenza della M.
V. dalla quale lo riceverà a grazia singolarissima. Ut deus.
IX
A CARLO GIANNONE • NAPOLI
Vienna 1 1 novembre i JJ.}.
In risposta della sua ricevuta in questa settimana sono a dirli che
le consapute quattro halle non solo sono felicemente giunte a Fiu-
me, ma il signor Benzoni sin dalla settimana passata avvisò averle
i. E non avendo . . . soggetti: su tutto questo cfr. la lettera n Carlo in data
il novembre, edita qui di seguito. 2. consolarlo: assegnandoli, cioè, una
carica in un tribunale, come il Giannonc chiedeva e continuerà in seguito
a postulare. 3. con dar precisi . , . Consiglio di Spagna: correzione latta a
margine (con segno di richiamo posto dopo «predai ordini»). Nella prima
stesura (ma le parole non sono poi state cassate) aveva scritto: «o con dar
precisi ordini al delegato del Consiglio di Spagna, che tiene in Napoli, inca-
ricandogli di rimettere il denaro insieme con quello deputato a* ministri, che
compongono questo supremo Consiglio»; quartali: parti di uno stipendio.
IX. B.N.R,, F.V.K. 358, ce. I33-X35*.
LETTERE II43
già incaminate per Vienna, e le sto aspettando di momento in mo-
mento. V'avvisai la settimana scorsa aver ricevuta la lettera di
cambio delli fiorini trecento; ora soggiungo di dover di nuovo
ringraziare il signor Torre,1 perché questi signori Palm2 a chi egli
la indirizzò, avendogli egli con lettera a parte scritto che, non
ostante essere a giorni otto, la pagassero subbito, non solo non
hanno avuta difficoltà di farlo, ma si sono offerti con molta genti-
lezza di quanto potea occorrermi per l'affettuosa lettera scritta
dal medesimo, il quale da questi mercanti è stimato il più puntuale
e da bene; di che io molto mi sono rallegrato, vedendo che lo ten-
gono in assai miglior stima che tutti gli altri mercanti napoletani.
In gran parte la mia scrittali la passata settimana l'avrà tolta la
costernazione nella quale si vedea posto, perché nelle passate pro-
viste non si sia fatta di me menzione alcuna. Potrà ora in mio nome
dire ai curo signor Cirillo che continui a salutarmi; ed io non li
scrivo a parte perché so la sua cordialità, che non va cercando tali
cose, e per ciò questa mia intendo che sia comune, ed anderà a
riverirlo in mio nome e dirli che io non so, né voglio passar colla
sua amabilissima persona li soliti uffici di ringraziamenti e le solite
forinole d'eterne obbligazioni, sparger il sangue, e cose simili.
Siano lontane da noi simili affettazioni; il cuore e l'opera parlerà
per noi. Oli dica che fra gli altri devo veramente eterna obbliga-
zione al signor Garelli, che da dovvero pose colle spalle al muro
il marchese Perlas, il quale di lui ha tutto il riguardo, sapendo che
continuamente sta alle orecchie di Cesare. L'istoria sarebbe lunga
a raccontarsi. Io ho avuta in questa occasione le più pessime avver-
sità, che si potevano immaginare. Un impegno positivo del papa
istesso per Ram.3 Il cardinal viceré,4 che dava alle smanie per San-
1. Torre 1 forno l'autore dell'operetta De cambiìs, compresa tra i volumi della
biblioteca del (Jiunnone (cfr. Giannoniana, p. 475), e da questi citato come
fonte autorevole in materia cambiaria nella lettera a Carlo del 16 novembre
1726 (si veda il brano riprodotto alla nota di p. 1158). Da altre lettere del
( Jiunnone risulta comunque che il nome di questo signor Torre è Francesco.
2. 1 Palm erano mercanti viennesi presso i quali il Giannone effettuava le
rimesse in denaro. Un Johann David Palm figurava tra i segretari della Ca-
mera delle finanze di Corte: cfr. M. BRAtTBACii, Geschichte und Abenteuer.
Gestalten um den Prinxen Eugen, Munchen 1950, pp. 198 sgg. 3. Ram:
forse quel Ramone, amico del cardinal Coscia, imprigionato alla morte di
papa Benedetto XIII. Cfr. L. v. Pastor, Storia dei papi, xv, Roma 1933,
p. 642. 4. Il cardinal viceré: Friedrich Michael von Althann (cfr. la nota
2 a p. 78).
1144 LETTERE
toro, dichiarandosi che avrebbe lasciato il governo, se soffre que-
sto affronto, tanto più che ha veduto la ripugnanza di questo
Consiglio col qual ha ragione di cozzare alla svelata, perché ha
chi sopra sostiene le sue parti. Il reggente Aguirre,1 che andava
esclamando e movendo compassione ch'essendo vecchio e cadente
bisognava rimaner collocate le sue povere figlie. Tutto il Consiglio
impegnato per Cammerota3 tante volte escluso con tutto che fosse
stato sempre nominato in primo luogo. Dall'altra parte per me
v'erano impegni forti d'un personaggio d'altissima gerarchia, ed
il signor Garelli non stava colle mani alla cintola, sempre premendo
il marchese Pcrlas parlandole con efficacia e nerbo. Il marchese
Doria inviato di Genova, che me l'obbligai per un'allegazione che
da me volle in una causa àijìdei commisso per la duchessa di Nivers,
che dovea mandarsi in Francia, come si mandò, stretto amico di
Pcrlas, anche mi favoriva.3
Conosca ora il caro signor Cirillo i fieri contrasti e compren-
derà, che se il signor Garelli non fosse stato di ciucila cordialità
ed efficacia, ch'è sua propria, noi sariamo stati interamente assor-
biti in questa sinistra occasione, ove s'erano scatenati tanti, Non
si crede da chi e fuori di questa Corte quanto nel mondo oggi regna
l'ambizione: tutti, chi per un verso, chi per un altro, vogliono ma-
gistrati, ed il meno che si bada è l'abilità del pretensore.4 Final-
mente il marchese Pcrlas vedendosi cosi stretto, né potendo sfug-
gire l'impegni altrui, perché forse erano quelli che maggiormente
ridondavano in suo profitto, cercò di soddisfar tutti, e pensò cosi
quietare coloro che per me l'assistevano, che non potendo in
quest'occasione esser io promosso per la mala situazione delle cose,
m'avrebbe fatto assicurare da S. M. che per la prima vacanza io
sarei stato provisto d'un posto riguardevole, ed intanto m'avrebbe
i. Il reggente Aguirre: molto probabilmente si tratta di Joseph, e non del
fratello Domingo (per cui si veda la nota * a p. 198). 2, L'avvocato napo-
letano Ferdinando Cammerota tenne un posto nel tribunale di Santa Chiara
fino al 1725, in qualità di consigliere soprannumerario insieme a Ferdinan-
do Porcinari (cfr. in Giannaniana, pp. 436-8, la supplica dei Giannone, in
data 14 dicembre 1725, al marchese di Rinlp). 3. Jl marchese . * .favoriva:
cfr, quanto lo stesso Giannone scrive nella sua Vitay qui ap. 115 e la nota
ivi. 4. Conosca . . ,pretemorc: il x6 marzo 1726 il Giannone avrebbe con-
fessato al fratello: «contro il mio naturale mi sono avevate a far tanto del
corteggiano, che non me l'avrei mai creduto, o che da me «tesso avessi
potuto promettermelo» (in JJ.N.R., F.V.K. 358, e, 247),
LETTERE II45
fatta mercede di fiorini mille l'anno da pagarmeseli qui puntual-
mente mese per mese,1 In conformità di ciò, vedendo che non si
potea far altro, calò la settimana passata il decreto di S. M. come
vi scrissi, il quale si è già ora qui pubblicato, onde non occorre ser-
bar più segreto. Il decreto non può esser concepito con formole
più decorose e per me onorevoli, oltre la promessa geminata di
S. M. di provedermi di posto nella prima occasione. I miei amici
che m'han favorito avrebbero voluto che in vece di mille fiorini,
si fosse S. M. steso a mille talleri, supponendo che, dovendomi
ora mantener con carozza, questi non bastano. Ma io l'ho risposto
che non bisogna consumar altri impegni per Taugumento, perché
a me bastano, ma aspettar la congiuntura della provista promessa
da S. M. ed ivi serbargli, che sarà migliore, e così si farà, perché si
è fatto il conto che trenta fiorini il mese qui bastano per mantener
una carozza. Io di tutto ciò ne ho reso le debite grazie al signor
Garelli, il quale ne ha goduto tanto, come se io fossi stato suo fi-
1. Finalmente . . . mese: cfr. in L. Marini, // Mezzogiorno d'Italia di fron-
te a Vienna e a Roma e altri studi dì storia meridionale, Bologna 1970,
pp. 270-1, la lettera del 25 novembre 1724 del nunzio Girolamo Grimaldi
a Fabrizio Paulucci di Calboli: «Fu detto ne* giorni passati che l'impera-
tore avesse assegnato con suo diploma una pensione a Pietro Giannone . . .
Io ne ho parlato seriamente con il signor marchese di Rialp ... ed egli mi
ha risposto che . . . Sua Maestà ha ordinato che gli si paghino ottanta
fiorini il mese». Ma secondo il Grimaldi per il Giannone il «posto riguar-
devole» non sarebbe mai stato trovato (il che, puntualmente, si verificò). -
In margine la seguente nota di Giovanni Giannone (ce. 134-134^): «Ri-
flessione come sicgue. Ecco quanto si vede nel mondo un'opera che con-
tiene la parte più delicata qual'è la giurisdizione del principe, ed in premio
di ciò so li concede fiorini mille I O memorando esempio! Voglio portare
questo esempio in confronto di quello accadde all'abate Galliano, nipote
di quel dotto Galliano capellan maggiore [Ferdinando Galiani, 1728- 1787,
l'autore del trattato Della moneta e dei Dialogues sur le commerce des bleds,
era nipote di Celestino Galiani, 1 681 -1735, nel 173 1 arcivescovo di Ta-
ranto, nel 1732 cappellano maggiore del Regno, poi arcivescovo di Tcssa-
lonica]. Questi essendosi portato ad osservare il nostro Vesuvio lungi dalla
città di Napoli pochi miglia, in questa voragine fatta dalla Terra si vede
continuamente eruttar roba bituminosa, che poi indurita rassembra una
pietra durissima dalla quale ne viene lastricata la città intiera di Napoli ;
qui s'osserva ancora, e proprio intorno alla bocca di detto Vesuvio una
varietà di pietre di vari colori che, poste in bello, rappresentano tante pietre
orientali. Di queste ebbe il pensiero detto abate di farne una raccolta e
fattoci sopra delle medesime una erudita scrittura ne fece un dono al
sommo pontefice Lambcrtino, Benedetto XIV. Questo santissimo papa che
fece per gratificare il predetto abate ? gli concedo un beneficio annuale di
scudi sei cento l'anno. Dunque meritamente S. S. trova chi per lui difenda
i suoi dritti»*
U46 LETTKKE
gliuolo; c perciò priego il caro signor Cirillo di scrivere al medesimo
una lettera affettuosa di ringraziamenti, e nell'istesso tempo signi-
ficarli che io unicamente da lui riconosco questa grazia concedu-
tami da S. M. Li scriva per tanto di buon inchiostro, e fatevi dar
la lettera con acchiuderla dentro la mia, affinché possa io consi-
gliarla nelle sue proprie mani.
Il signor Riccardi appunto hier sera fu introdotto dal signor
Garelli a baciar la mano a S. M. ed a licenziarsi, e mi raccontò
quel che li disse S. M., spezialmente se in Napoli v'erano altri
ni. s., al quale rispose che bisognava avere un ni. s. raro, che io
citava nella mia Istoria, ed era il codice delle leggi longobarde,
che si conserva nel monastero della Trinità della Cava,1 e con taroc-
casene si parlò di me, e S. M. applaudiva quanto il signor Ric-
cardi di me e della mia opera li raccontava in mio onore, raeeom-
mandandogli che giunto in Napoli proceurassc averlo, sicome che
dicesse al cardinal viceré che sollecitasse li denari destinati per
questa Imperiai Biblioteca. Io l'entrante settimana, ovvero la se-
guente, sarò introdotto pure a baciarli la mano ed a ringraziarlo,2
sicome espressamente me l'incaricò il marchese Perlas; e dimani
mattina devo passare gli stessi uffici col signor principe Kugenio.3
Salutatemi caramente i nostri signori Capasso ed Ippolido, con
dirli che qui si suda freddo ed il meno che s'attende è la perizia
delle scienze. E Dio sa quanto si è stentato di ridurre lo stato delle
mie cose a quello che vi ho scritto. Bisogna però durare, che final-
mente s'arriva.
Al caro signor Onofrio Palumbo mille grazie delli tanti ineom-
modi, che per me s'ha presi, ed altre tante al signor don Francesco
Mela, per quelli che per sua gentilezza si prenderà in ridurre a
miglior consiglio l'ostinazione che s'ha d'andare in casa de' fra-
telli. Io dall'acchiusa risposta che le fo non posso approvarlo, per-
ché sarebbe lo stesso che minarsi, e non trovar più stato, che sa-
rebbe facile trovarlo stando in monastero. Spero che ora che sente
che S. IVI. m'ha impiegato in Vienna al suo servizio 0 che il mio ri-
x. il codice . . . Cava: vedi la nota 3 a p. 429. z. Io V mitrante . . . rht#ra<«
zìarlo ; il Giannone fu ricevuto dall'imperatore alla fine di novembre. Cfr.
la lettera a Carlo del 2 dicembre, in B.N.R., RV.K, 358, ce. t38t;-*4ot>,
e Vita, qui a p. izi. 3, devo . . . Eugenio : la visita al prìncipe Kugenio e
descritta in una lettera a Cario del 18 novembre, in IJ.N.R*, F.V.K. 358,
ce. 1350-138U.
LETTERE II47
torno Dio sa quando sarà, voglia mutar parere, onde bisogna batte-
re su questo, e stimo facile che possa il signor Onofrio persuaderne
suo fratello, che con un bicchiere di buon vino si riduce a ciò che
si vuole. Perciò bisogna guardarsi di non farla uscir dal monastero,
perché sarebbe la sua mina. Attendo ch'effetto farà l'acchiusa, la
quale priego il signor Onofrio voglia consignarle nelle sue proprie
mani, e far egli poi il resto a viva voce;1 di che anche vivamente ne
priego il signor Mela, che caramente riverisco.
L'allegazione che ho fatta per li creditori di Dubii e Regazzi
contro li Bolza, non creda che sin'ora m'abbia fruttato cos'alcuna:
lo feci ad istanza del signor don Luzio di Sangro e del signor Dat-
toli,^ che me ne diedero incombenza, e mi son rimesso alla loro
cortesia; perché qui è mestieri non molto conosciuto e molto meno
pagato. L'altra che feci per Doria fu ben impiegata, perché m'ha
molto giovata l'amicizia di costui col marchese Rialp ; e spero che
molto più mi gioverà in appresso. Ne feci un'altra per il marchese
Spinola, ma essendo un genovese che in avarizia si è reso assai
celebre : questi poi partì per Genova, con lasciarmi carico di lodi
e di promesse, che tosto sparirono, né a me conveniva farne ro-
more.
Salutatemi il signor marchese di Longano, con dirli che non mi
dimenticherò di servirlo; sicome ora che ha tanta agitazione potrà
pensare più seriamente a quanto mi scrisse del nostro Tura,3 che
potrà «alutarlo, e darli parte della risoluzione di S. M. presa per
me, con salutare la nostra Vittoria con tutti di casa, di cui goderò
x. ridurre . . . voce: come si ricorderà, l'amante del Giannone, Angela Eli-
sabetta Castelli, era stata rinchiusa nel monastero di Sant'Antoniello alla
Vicaria, insieme alla figlia Carmina Fortunata, mentre il figlio Giovanni
era stato affidato allo zio Carlo, il quale, a sua volta, se ne era sbarazzato,
spedendolo a Vieste, in casa di Domenico Tura, marito della sorella Vit-
toria. In una lettera del Giannone del 3 luglio 1723 (in B.N.R., F.V.E. 358,
e. 43^) si legge: « lo non so se si faccia bene o male di mandar il figliuolo
in Vesti, dipendendo ciò dalla particolar notizia delle circostanze che vi
possano colà occorrere. Alla madre non bisogna dare il minimo disgusto,
meritando ogni riguardo per la sua onestà ed ottimi costumi, sicché io
anche per debito di coscienza molto li debbo. So che si facci cosa di suo
genio lo mantenerla in monastero, né ora è tempo di pensar a dote per ma-
ritarla, ma bisogna aspettare tempo migliore sicché questo disborso non mi
riesca grave ». In corrispondenza dell'ultimo periodo, in margine (ed è certo
postilla di Giovanni) : «e con ragione, poiché non si deve dire qui maritarla,
ma rimaritarla, cui voleva la dispensa dei sommo pontefice». 2. Franco
Dattolù 3. Tura: cfr. la nota 1 qui sopra.
U4B LETTERE
sentire che si passino bene. Al nostro vecchio padre potrà anche
tenerlo in lusinga che il mio ritorno sarà breve e per la prima con-
giuntura eli posto vacante per Napoli. E non si prenda niun pen-
siero di Giannone Alitto,1 sicome facciamo qui io ed il signor
Ilderis, sapendo i suoi fastidiosi ed importuni fiotti.
Salutatemi tutt'i buoni amici, e datemi avviso del baron Dar-
mon, e come stia disposto a pagare, se fra breve, o dovrà aspettarsi
lungo tempo, sicome di ciò che avrà fatto il signor Pecci, e cara-
mente l'abbraccio. L'acchiusa lettera prima di darla suggellatela.
x
A CARLO (UANNONK • NAPOLI
Vienna ììj giugno i?~\5.
Già si sono dati gli avvisi in Fiume al signor tenzoni, ed attendo,
come mi scrive nella sua, che ricevo in questa settimana, la polisa
di carico per prevenire qui in donna. Leggo la resinazione di
monsignor arcivescovo di Manfredonia,4 e per questo nelle gaz-
zette io avea letto la preconizazione del vescovo nuovo di Vesti.3
Mi dispiace sentire che non vi sia più capitata la lettera dispersa;4
e dubbito che non sia qxiella nella quale vi era per il signor ('apasso
un biglietto, che mi dispiacerebbe assai. Ne attendo con ansietà
riscontri, ed intanto lo saluterà da mia parte, con dirli che, se ciò
sia avvenuto, bisogna rifarne un altro perché abbia informazione
di quant'occorre circa il consaputo suo affare. Attendo pure con
disiderio l'arrivo del signor marchese ttanfeliee, e che rabbia eon-
signato il libro5 che li mandai, intorno a che li ricordo non per-
der punto di tempo di far cominciare dal signor Mela e signor Ca-
x. I Giannonv-Alitto erano una nobile famigliti di Hitonto, inHtgnita del
titolo baronale, o con la quale il Giaunone era legato da una lontana paren-
tela. Ver questo accenno cfr. la lettera di Antonio (jitumonc-Alitto pub-
blicata in Vita, ed. Nicolini, p. 453,
X. B.N.R., F.V.K. 358, ce, x8at>-x84*>. La lettoni è indirizzata all'abate
Antonio Mela. - z. la resignastione . . . Manfredonia: Giovanni de Lerma
(cfr. la nota 4 a p. 1x09) resignò il 14 marzo 17*5, 3. wwww nuovo di
Vestii alla sede di Vieste fu chiamato Niccolò Pietro Caatriotu (X676-X750).
4. la lettera dispersa: forse è quella datata 0, giugno 1725 ((Jùmnomana, n."
97). 5. il libro: il manoscritto del1 Apologia dell* Istoria civile di Napoli,
Cfr, la nota 3 a p, 1x53.
LETTERE II49
passo quanto li scrissi per soggiungerli poi il di più che dovrà
farsi.
Io sono del parere del signor abate Garofali1 per quello che mi
scrive di quanto quel vescovo disse al signor presidente, il qual è
così buono che lo credette. Mi dispiace sentire che pensi tornar
di nuovo in Roma, perché niun meglio di lui avrebbe potuto pet-
tinar bene l'Anastasio. Mi son sempre riso dell'impresa del Vita-
gliano,2 non essendo de* suoi omeri questo peso, e priego Iddio
che la cosa non riesca per non vedere tante seccaggini ed inezie.
Il signor abate Acampora dice assai vero, che i cancellieri di Fran-
cia non eran sempre ecclesiastici; ma quello che convince il Vita-
gliano non aver inteso il mio passo, è che io impugno Freccia,
che si maravigliava come tal giurisdizione sopra gli ecclesiastici
potesse esercitarsi senza autorità della Sede Apostolica, e pure in
Francia Tarcicappellani l'esercitavano, perché veniva loro conce-
duta dal re, e non dal papa. Era da compatire Marino Freccia, per-
ché credette, come volgarmente si crede, che gli ecclesiastici de
iure divino siano esenti dalla giurisdizione del re; ma chi tiene che
tutto procedette per concessione de' principi, non li sembrerà stra-
no se i principi se la ritennero negli ecclesiastici del proprio palaz-
zo, e sopra tutti i preti palatini.3 Ma che si vuol fare con questa
razza d'asini presuntuosi?
Mi facci il piacere riverire il signor abate Acampora e dirli da
mia parte che con tal occasione, avendo discorso col signor cavalier
Garelli della sua persona e del pensiero che una volta li venne di far
1. abate Garofali: cfr. la nota a a p. 174. 2. niun — Vitagliano: cfr.
quanto il Giannone aveva scritto al fratello in data 16 giugno (B.N.R.,
F.V.E. 358, ce. 180^-181) : «Mi sembra stranissimo che il signor presidente
abbia permesso che il signor Vitagliano si metta a rispondere ali3 'Apologia
d'Anastasio ... Io son certo che, se mai uscirà alla luce questa risposta,
saremo fatti ludibrio a' dotti, perché ben prevedo dove abbia a finire questa
faconda, cioè ad un affastellamento di materia cruda ed indigesta, senza si-
stema e con una verbosità stomachevole ». Il Giannone si riferisce all'at-
tacco mosso contro la sua Istoria civile, e più in generale a tutto il movi-
mento giurisdizionalista, da monsignor Filippo Anastasio: vedi, oltre la
nota 4 a p. 125, le note 3 e 4 a p. 126. È da segnalare che Ottavio Ignazio
Vitagliano (per il quale cfr. la nota 5 a p. 76), anziché difendere il Gian-
none, fini per criticarlo : si veda la nota 1 a p. 129. 3. Il signor . . . palatini:
cfr. Istoria civile, tomo 11, lib. XI, cap. vi, par. in, p. 306. Il giurista Marino
Freccia (1503-1566), regio consigliere a Napoli dal 1539 al 1560, è noto
soprattutto come autore dell'opera De subfeudis baronum et investitura feu-
dorum (i554).
USO LETTERE
ristampare l'epistole di Pietro delle Vigne, libro reso oggi eosì raro,
non può credere quanto gli piacque, e sopra tutto m'inculcò che
non si dovesse ciò trascurare, perché poteva riuscire un'edizione
assai migliore di quante ve ne sono, perché nella Biblioteca Impe-
riale vi sono due antichi manoscritti di queste epistole; e di più
il signor principe Eugenio ne tiene un altro codice assai più antico,
dove vi sono da 20 epistole non mai impresse, che con tal occasione
si potrebbero dare alla luce; ed egli mi darebbe tutto l'aggio di
confrontarli con l'impresse per osservare le varie lezioni, e di van-
taggio mi procurarebbe l'altro del signor principe Eugenio, e mi
darebbe due 0 tre giovani per poterle collazionare e mandarvi
costà le variazioni e l'aggiunte per poterle imprimere. Se dunque
il signor abate vorrà pigliarsi questa cura, io espressamente ne lo
priego, perché, sapendo la sua esattezza, potrei assicurare il signor
cavaliere, che mostra averci tutto l'impegno, che la cosa verrebbe
esattissima.1 La spesa non sarebbe molta, e l'utile grandissimo; e
se vi fosse bisogno di trovar persona che dovesse somministrar la
spesa, tanto per questo non mancherà. Sicché mi sappia a dire
l'intenzion del signor abate; ma sopra tutto li raceommando la
secretezza, affinché non se ne penetri cos'alcuna costà, e precisa-
mente che non arrivi alle orecchie del signor Riccardi ; ed il signor
abate nemmeno lo confidi a qualche suo amico di qui, perché pò»
trebbesi facilmente divulgare, che sarebbe lo stesso che guastare
ogni cosa.
Mi riverisca divotamente lo stimassimo signor consigliere don
1. Mi facci , . . esattissima: l'edizione critica degli KpìsUììarum libri Vi di
Pier delle Vigne, progettata dal Garelli e dal (ìiannone e che avrebbe
dovuto avere l'aiuto dell'erudito abate Acampora, non vide mai la luce:
e per la morte dell'abate e, forse, perché, nell'estate del 1731, erano so-
pravvenuti gli studi preparatori per il Triregno. Il progetto fu ripreao tra
il 1733 e il 1734; dal Forlosia che intendeva dedicare il frutto d<À proprio
lavoro al Garelli (e si veda, in Osterreichiache Nationalbibliothek di Vien-
na, cod. 14014, N. Koklosiak, . . . Adversaria prò parando vditione epi$tu~
lanini Pctrì de Vineis), ma che non riuscì a condurre a termine la propria
fatica. Usciranno invece più tardi gli Epistolarum libri VI . . . Novara hanc
editionem adiectis variis lectionibus curavit I. R. hclius . . ., Batuleac 1740,
in due volumi. I manoscritti delle lettere di l*ier delle Vigne, comunque,
sono ancor oggi conservati a Vienna: cfr. Tabulae codìcum manti scrìptorum
praeter Graecos et orientalcs in Bibliotheca Palatina Vindoboncnsi asserva-
tortini, odidit Acadcmia Caesarea Vindobonensia, 1, Vindobonae 3(864, nn.
40X, 1; 464» 3; 47o; 605, 2; 1064, 14, rispettivamente alle pp. 63, 76» 73,
105, 188.
LETTERE 1151
Matteo di Ferrante, con dirli che resta assodato nel concetto di
tutti questi signori del Consiglio, fra tutti coloro che sedono nel
Consiglio di S. Chiara, i duo fulmina belli essere il Maggioco ed il
Ferrante. Io non ho avuta molta pena di confermarli in questa
verità, perché le cose erano pur troppo chiare e manifeste; ed ho
avuto un gusto indicibile quando coll'esperienza han veduto per
quella dottissima fatica che io diceva il vero, e che le mie parole
non erano enfatiche e procedenti forse da passion di amicizia, ma
da proprio e sincero sentimento e dalla forza della verità. Può per
tanto star sicuro ch'egli [è] intricato ne' più gravi affari che occor-
reranno, e trascelto sopra gli altri con consolazione de' suoi buoni
amici.
Mi riverisca ancora divotamente il signor abate Garofalo, ed ho
speziai commissione dal signor Garelli di salutarlo in suo nome,
avendo ricevuto avviso dal signor Riccardi averli consegnata la sua
lettera, e conosce ora che la risposta non poteva averla la passata
settimana; nò si maraviglia non averla nemmeno ricevuta in que-
sta, perché forse per darvela più adequata avrà avuto bisogno di
qualche settimana ; l'attende per tanto con ansietà nell'entrante per
saper novella delli due consaputi libri commessili, ed intorno al-
l'opere del Tasso1 mi dice che bene sta, che li manda, perch'egli,
ancorché ne aspetti un altro corpo da Firenza, come li scrissi la
passata, questo lo prenderà per la Biblioteca Imperiale, e l'altro
per sé.
Credo che a quest'ora i caldi costà saranno eccessivi, giacché tali
resperimentiamo anche qui, e che visitarete spesso Dueporte, sic-
come ho cominciato in questa settimana a far io a Petterdorf.2 Mi
piace sentire che al signor di Cesare piaccia il nostro casino, e ben
io ho pensato di fornirlo di parati, che qui si fanno; ma la difficoltà
non è per la spesa, che non sormontarebbe gran cosa, ma per la
congiuntura di mandarli; e pagar il porto per cosa che non vai
1, intorno aW opere del Tasso: cfr. la lettera a Carlo in data 16 giugno 1725
(K.N.R., F.V.K. 358, ce. x8i-x8is>): «passerà in mio nome col signor
abate Garofalo quest'ufficio, che l'altro giorno il signor cavalier Garelli
ai dolse della risposta fatta al signor reggente Riccardi , . ., che se non vo-
leva l'Opere ultimamente ristampate del Tasso in Fircnaa, che il signor
abate li mandava . . „, ce l'avesse rimandato in dietro ». Si tratta dell'edi-
zione curata dal Bottari delle Opere di Torquato Tasso colle controversie
sopra la Gerusalemme liberata, divise in sei tomit Firenze 1724- 2. Petter-
dorf: cfr. la nota 1 a p. 97.
1X52 LETTERE
tanto e pazzia. Bisogna aspettar congiuntura tale che io potesse far
rinfrancar il porto, e questa sarà molto difficile, perché so ch'c
impertinenza fastidir l'amici per cosa tale. Forse il tempo ce ne
darà occasione, nò io me ne dimenticherò.
Il nostro signor regente Almarz sta bene, siccome quel disgra-
ziato, avendolo a mie spese fatto condurre dallo spedale di S.
Marco a quello degli Spagnoli, e migliorato assai, essendo ben
trattato, e mi dicono che fra otto o dieci giorni sarà libero affatto,
ed io penso farnelo tornar subbito.1 Se capiterà qui Naso,-* io pro-
curerò farli assaggiare le stesse carezze.
Salutatemi caramente il nostro signor don Francesco Mela, ed
attendo riscontri di quanto m'accenna in questa settimana, rimet-
tendomi alle passate. Salutatemi il vecchio padre con li Vestani,
siccome al signor Onofrio, signor Cailò, e tutti i buoni amici, e
caramente l'abbraccio.
XI
A CARLO GIANNONK • NAPOLI
Vienna x$ agosto lya^.
Alla sua, che ricevo in questa settimana, rispondo che sempre sarà
bene procurar prima nomina da cotesto signor viceré, siccome col
signor abate Tosques si vanno facendo le disposizioni, e poi operar
con maggior fervore qui, perche il signor Pandolfelli resti servito,3
i. quel disgraziato . , . subbilo: il Naso aveva indirizzato a Vienna, racco-
mandandolo al Gìannone, un suo conoscente di Oria Casale d* A versa, il
quale pretendeva una nomina a caporale nell'esercito imperiale. Clr. le
lettere a Carlo del 19 maggio 1725 (B.N.K., F.V.K. 358, ce. 17^-177)^ del
a giugno (e. %7(): «Non si «cordi pure di salutarmi il mio signor compare
Naso, e dirli che il suo raccoxnmandato già sta traendo l'anima nello spe-
dale»), del 20. giugno (e. 185: «Per grazia d'Iddio si guarì nello spedale
degli Spagnoli . . . Partirà dimani»)* 3* He . . « Naso: cfr, la lettera del 20
giugno (ce. 184*;- 185): «uvea preveduta la disgrazia che dovea vedermi
sopra Nicolò Naso ... il quale è venuto qui a piedi senza un quatrino,
senza scarpe e senza vestiti . . . col suo arrivo si è scoverta un'altra impo-
stura . . , che la lettera, che mi portò queir uomo da lui raceommandato, era
falsa, ed avendoli fatti affrontare l'uno non conosceva l'altro »,
XI. B.N.R., F.V.K. 358, ce. 200-202. La lettera è indirizzata all'abate An-
tonio Mela. - 3. sempre sarà. ♦ . servito: monsignor Nicolò Paolo Pan-
dolfelli (X689-1766) postulava una nomina a vescovo, grazie anche alle
insistenti raccomandazioni del Giannone presso i suoi potenti protet-
LETTERE II53
potendolo riverire da mia parte; siccome farà col signor abate
Garofalo, avendo assicurato il signor Garelli (che ritornò qui sin
da martedì sera) che il Bollano1 è già in suo potere. Il medesimo
ha già risposto alla sua lettera attenente a* consaputi libri, e lo sa-
luta caramente, come fa al signor Cirillo, colli quali saluti potrà ac-
compagnare anche i miei.
Non bisognano più prediche per ciò che s'attiene a dar fuori il
consaputo ms.,2 perché io non lo mandai costà a questo fine, sa-
pendo benissimo che ora non è tempo di queste cose, e mi maravi-
glio come abbiano potuto dubitare di ciò. Affrettava l'emendazione
cosi del signor Mela, come del signor Capasso, affinché si fosse in
tempo di rimandarlo colla congiuntura del signor regente Riccardi,
e credo che questo tempo avrebbe potuto bastare, perché il mede-
simo partirà per li principi dell'entrante mese. Io mal volentieri
incontrarci altra congiuntura di ritorno, così perché sarà difficile,
come anche perché non è da fidarsi se non a persone di cui s'ha
esperienza. Se partisse Muscettola, come si crede, potrebbe dal
signor duca di Spezzano suo fratello, e mio amico, farcelo racconci-
mandare, con dire ch'è un libro, come feci io qui col signor mar-
chese Sanfclice;3 ma se il ritorno del signor Riccardi si prolon-
gasse,4 non vi sarebbe migliore congiuntura, anche se non vi fosse
tori, nel 1733, al vescovado di Mottola. Cfr. la lettera a Carlo del 14
luglio 1725 (B.N.R., F.V.E. 358, e. x88a): «abbiamo avuti lunghi di-
scorsi col signor abate Tosquez per la persona del signor Pandolfel-
lo . . . Si pensa per ora farlo raccommandare al signor viceré . . . affin-
ché nella prima occasione lo metta in nomina». 1. il Bollano: cfr. la
lettera a Carlo del 2 giugno 1725 (B.N.R., F.V.E. 358, ce. 176-176*;): «Ga-
relli . . . s'era dimenticato di pregarli [l'abate Garofalo] di trovar modo
come si potesse avere il nuovo Buttano ài Clemente XI » ; e si veda Vita,
qui a p. 144 e la nota 4 ivi. 2. il consaputo ms. : intendi L3 Apologia del-
l'Istoria civile di Napoli. 3. come feci . . . San/elice: cfr. la lettera del 16
giugno (B.N.R., F.V.E. 358, ce. iSov-i&zv), dove il Giannone avvisa il
fratello di aver consegnato al marchese Sanfelice «un involto con tela
incerata e suggellato con soprascritta a voi diretta. L'ho detto ch'era un
libro sciolto e che mi facesse il piacere di portarlo a voi. Ma sappia che ivi
è una copia della mia Apologia, la quale bisogna che serbiate con tutto il
segreto . . . Non la mostrate per óra a niuno, ma prima fatela leggere al
signor don Francesco Mela, il quale mi farà il piacere di corriggere Terrori
occorsi nella lingua . . . Secondo saranno sbrigati i quinterni dal signor
Mela, con tutta la secretezza li farete osservare al signor don Nicolò Ca-
passo, co* pregarlo che cassi, muti, aggiunga con tutta libertà quel che
li pare nella margine, ma con tutta segretezza». 4. ma se . . . prolongasse:
Alessandro Riccardi si mosse da Napoli per rientrare in Vienna solo sul fi-
73
1 154 LETTURE
tempo mandarne copia, perché basterebbe che si rimandasse l'o-
riginale così come que' signori avran stimato d'emendare. Mi dia
riscontri di ciò che si farà, per mia regola.
Al carissimo signor don Francesco Mela mille saluti; ed ho
letto con piacere il suo viglietto acchiusomi, scorgendo la sua cor-
dialità ed avvedutezza. Bisognava parlare di quelle imputazioni
puerili e sciocche per maggiormente discreditare gl'impostori ed
i maligni; tanto maggiormente che il maggior romore della plc-
baccia fu sopra queste accuse: gli uomini intesi conosceranno a
qual disgrazia sono sottoposti coloro che non possono secondare
le vulgari dicerie. Il parlar della scomm unica è a sol (ine di mo-
strare come, dopo provata l'invalidità, si possano prendere i remedi
per non temerla. Si propone la mia scomunica, come per un esem-
pio; ed intorno al punto della latitatone non possono sfuggire la
nullità, perché anche legitimamente provata non è lo stile di spedirsi
citazione alcuna danti, ma vi si richiede per vdictuvi. Ma nel caso,
non si potrà dire essersi legitimamente provata, perché dovea sen-
tirsi il mio escusatore, ch'era comparso già ed avea allegata l'as-
sensa. Intorno all'assoluzione mandata, io nella fine esporrò il fatto
con tutta verità, né si niegherà esserne stato inteso mio fratello;
ma brevemente soggiungerò che queste assoluzioni non fanno pre-
sumere la validità delle censure, e porterò molti esempi che tali
assoluzioni si sono ricevute, senza pregiudicarsi punto alle ragioni
o pubbliche del principe o private. Se questo trattato si cacciasse
fuori per difesa contro la censura, certamente che si dovrebbe
stimar superfluo, e cosa molto affettata; ma non dovendo uscir
ora alla luce, ma dovendo servire per una istoria delle cose acca-
dute dopo la pubblicazione della mia opera, era a proposito tener
questo metodo per esaminare ancora di proposito l'autorità degli
ecclesiastici intorno alle licenze, che presumono dare giudicial-
mcntc a' libri che si stampano. Forse il tempo porterà che la scrit-
tura, siccome ora parla in mia persona, cosi si potrebbe cambiare
stile ed introdurre una altra persona; e ciò dipenderà dalle circo-
stanze che accompagneranno la pubblicazione se mai dovrà farsi.
Intanto priego il carissimo signor don Francesco per minor suo
incommodo cominciare l'emendazione secondo la tessitura pre-
sente, perché quando sarà ciò fatto con esattezza, ci vorrà poco
iure dell'anno; ma non giunse mai a destinazione; mori a Verona, dove era
ospite del Matìfci, il 39 marzo 1727 (cfr. Vita, qui a pp. 138-9).
LETTERE 1155
cambiar le persone, e siccome ora si ragiona in prima persona, farla
parlare in terza. Mi maraviglio ancora che il signor Mela abbia
dubbitato che dovesse ora darsi alla luce, sapendo che non sono
questi tempi accettabili. Si farà quando verranno le occasioni;
anzi, io penso, per non doverci pensare più, d'aggiungervi a que-
sto trattato un catalogo di tutti gli errori occorsi ed emendarli,
overo meglio spiegarli, e di farvi ne* loro luoghi qualche giunta;
affinché, se mai l'opera dovesse ristamparsi, si sappia ciò che do-
vrebbe mutarsi, ovvero emendarsi. Questo richiede tempo, e per-
ciò io priego vari amici a favorirmi delle loro osservazioni; affinché
in questa Giunta si possa una volta pensare a tutto.
Priego per tanto il signor don Francesco a favorirmi con cor-
dialità, come me lo prometto ; e molto più lo priego non dimenti-
carsi di quanto li scrissi la passata settimana delle novità del mo-
nastero,1 per evitar le quali bisogna ora veramente badare, perché
importano più; ed io sempre tremo per la facilità, che veggo ora
intraprendere di questi viaggi.
Sono qui giunti li signori Perrelli3 da Roma col padre Pauli;3
ho lungamente discorso co1' primi, che mostrano avere grande ami-
cizia col cardinal Coscia,4 da' quali sono stato informato che il
medesimo non e così fiero contro i miei libri, come alcuni Napoli-
tani che sono ivi; da dove credo che dipenda tutto il male e le
sinistre, anzi sciocche accuse, che tuttavia ancor durano. Ho caro
sentire ciò che si farà del signor don Saverio Dattilo, e de' medesi-
mi ho saputo anche qualche cosa, siccome degli andamenti pre-
1. lo priego: . . . monastero', cfr. la lettera a Carlo del x8 agosto (B.N.R.,
F.V.E. 358, e. i99z>): «Ho ... in questa settimana un'altra più curiosa
lettera dal monastero . . . [che] conchiudevasi . . . con una preghiera, ch'io
volessi permettere che potesse uscire dal monastero per due giorni, affin
di ristorarsi in casa di suo fratello. Io concepisco . . . che vi si cavi qualche
risoluzione d'intraprender qualche viaggio . . . Perciò io priego il signor
don Francesco Mela . . . di . . . dirgli apertamente che se per un momento
stasse fuori del monastero, io non sarei per sentirne più parola e che an-
dasse a fare i fatti suoi». 2. li signori Perrelli: i monsignori Filippo e
Pietro Paolo, di cui parla B. Croce, Monsignor Perrelli nella storia, in «Na-
poli nobilissima», xiv (1905), fase. ni. Ricordiamo che ad un altro mem-
bro della famiglia, Pietro, fu affidato l'incarico delle trattative con Roma
per la controversia sul Tribunale della Monarchia di Sicilia, nel 1727. Cfr.,
per questo, Vita, qui alle pp. 151 sgg.; L. v. Pastor, Storia dei papi, xv,
Roma 1933, pp. 516-21 ; H. Benedikt, Das Kónigreich Neapel ecc., cit, p.
375 e passim, 3. Per il padre Sebastiano Pauli si veda la nota 3 a p. 210.
4. Per il cardinal Coscia cfr. la nota 4 a p. 151.
II 56 LKTTIÌRK
senti di quella Corte, la quale per maggior nostro disprezzo non
solo, dopo averci lungamente tenuto a bada, e'ha burlato per la
cruciata, ma ora ha spediti brevi terribili per abbattere affatto la
Monarchia di Sicilia.1
Mi saluti caramente il nostro carissimo Capasso, e che io voglio
da luì consiglio: che devo fare con questo raggiratore di Mastello-
ne, che da settimana in settimana mi va burlando per lo consaputo
dispaccio? Mi rincresce per non offenderlo, di farlo spedire da al-
tri, perché poi ci dovrei venire ad atti irretratt abili; però aspetterò
questa sua risposta, ed intanto lo tenero sollecitato continuamente,
affinché poi abbia ragione di fare qualche strana resoluzione.
Non si dimentichi riverirmi il signor abate Aeampora ed il si-
gnor de Aste;a siccome al vecchio padre, Vestani, ed al caro signor
Onofrio e signor Cailò con tutti i buoni amici, e caramente l'ab-
braccio.
XII
A CARLO QIANNONJB • NAPOLI
Vienna -'./ agosto tyjfì.
Sento con molto piacere per la sua ricevuta in questa settimana
che siano riusciti secondo aspettatone li funerali del signor Ric-
cardi, e secondo il disegno della machina ed iscrizioni venute qui,
veramente fumo magnifici, ed il signor cavaliere ne ha parimente
ricevuto sommo contento,3 e si ride del biglietto spedito per lo
i.fta spediti* , . Sicilia: lo ntenao Giannone intervenne nella polemica che
«i accese per il tentativo eli Benedetto XIII di abolire il Tribunale della
Monarchia di Sicilia, atendendo nel 1727 un Trat tato de* veri e legittimi
titoli delia regali preminenze, che i re di Sicilia hanno sempre consertata in
quel Regno ed esercitato per mesata del Tribunale della Monarchia, edito a
cura di A. Picruntoni nel ttyz. Su quest'opera tfiannoniumi cfr. L. Mauiki,
Per il testo critico degli scritti politici minori di Pietro (Marmane, in « Annali
della Scuola Normale Superiore di Pisa», xix (1050), p, 22. Vedi inoltre
la nota 1 a p. 561, 2. r7 signor de. Aste.: si tratta fonie di quel Donato An-
tonio d'Asti autore dell'opera Dell'uso e dell'autorità della ragion civile nelle
province delVimpero occidentale, edito a Napoli da felice Monca nel 1720
con parere favorevole del Giannone. Nei 1722 use! il neeondo volume.
XH. B.N.R., F.V\K. 358, ce. 283*1-285. La lettera e indirizzata a Matteo
Micaglia, - 3. il signor cavaliere . „ . contento: il Garelli, in memoria dell'a-
mico scomparso, fece murare una lapide nella Biblioteca Palatina, il cui
LETTERE II57
canale di cotesto regente di Vicaria, perché anche a questo si ri-
medierà, siccome più a lungo ne scrivo al signor regente Ventura.
Ho ricevuta in questa settimana lettera del signor Francesco
Torre per mano del signor don Michele Sardano, e vi acchiudo
la risposta aperta, affinché, chiusa che l'avrete, ce la mandiate, con
assicurarlo che io non tralascierò di servirlo, ma se non vedrò le
scritture prima, io non so che farci. Mi sono esibito anche col si-
gnor Sardano di scrivere al signor conte, sempre che stima ne-
cessaria la mia opera, e mi sono dichiarato che non sono avvezzo
di dar parere così in aria, senza osservar minutamente le scritture
e tutto ciò che si riduce a parole, io non stimo nulla a proposito,
e così anche potrà dichiararsi col signor Torre.1
Sono sicuro che a quest'ora sarà ritirato in Napoli il nostro si-
gnor Contegna, al quale potrà mandar subbito, ovvero consignare
l'acchiusa, che li rimetto, consignatami dal signor Garelli per sicu-
ro ricapito. Salutatelo da mia parte, siccome non mancherà di
passare li medesimi uffici col signor Perlongo, ed avvisatemi come
si porti, e li piaccia il paese e gli abitanti.
Al carissimo signor Cirillo mille saluti, come fa il signor cava-
liere, il quale prima di partire ieri per la Favorita, essendo la
corrente settimana di suo servizio, m'impose espressamente che in
suo nome lo salutassi, e lo ringrazia ancora d'aver anche egli con-
tribuito a' funerali. Stiamo attendendo la consaputa missione,2 e
di quanto manderete me n'acchiuderà nota, avvisandomi ancora
il signor abate Garofalo d'averli mandate le Novelle del Sacchetti3
testo, ricopiato dal Giannone nella lettera dell* 11 maggio 1726 (B.N.R.,
F.V.E. 358, e. 259*0 e riportato anche nelle Memorie isteriche degli scrit-
tori legali del regno di Napoli raccolte da Lorenzo Giustiniani, in, Napoli
1788, p. 103. Gli amici napoletani del Riccardi diedero alle stampe, da
parte loro, una raccolta di componimenti per la cui uscita il Giannone si
era raccomandato non si ricercasse licenza dall'Inquisizione: «non s'ar-
rischino di cercarne licenza per la stampa, ma la faccino apparire essersi
impressa altrove» (cfr. la lettera a Carlo del 3 agosto 1726, in B.N.R.,
F.V.K. 358, e. 279^). 1. Ho ricevuta . . . Torre: né del parere richiesto,
nò della causa vi sono ulteriori tracce nell'epistolario. La risposta del Gian-
none dovette evidentemente far cadere ogni ulteriore richiesta. 2. la con-
saputa missione: nella lettera precedente, del 16 agosto (cfr. Giannoniana,
n.° 160) il Giannone aveva scritto a Carlo: «coll'ultimi fogli di Cujacio ed
Ktmullero . . . veda anche d'unirvi V Addizioni di Nicodemo alla Biblioteca
di Toppi, che mancano al signor Garelli, e senza queste niente vale questo
libro ». 3. Forse l'edizione in due volumi Delle novelle di Franco Sacchetti
cittadino fiorentino, Firenze 1724.
1158 LKTTKRE
per rimetterle qui al signor Garelli. Attendo anche l'avviso d'es-
sersi partito il procaccio colla consaputa scatola, con avvisarmi il
numero.
Quanto soggiungo ò dirizzato al carissimo signor Mela, il di
cui foglio, che mi acchiude, e stato da me sommamente gradito,
tanto più che ci siamo incontrati ne* raziocini, e solo confesso es-
sermi molto piaciuto la riflessione fatta intorno alla differenza delle
lettere e delle girate, e molto più la ragione da me non avvertita.1
Deve ora sapere che sopra questo punto mi ò convenuto farci una
ben lunga nota, che qui è stata molto commendata, ed un'esemplare
è stata già mandata al signor Mariconi in Genova, che credo per-
verrà anche nelle mani del signor Puisserver. Per esser volumi-
x. Quanto . . . avvertita: il (visitinone si riferisco qui, come spicca anche
più sotto, ad una causa in favore di un certo Maricom, e di cui restano
abbondanti tracce nell'epistolario. Sull'argomento ritornò ampiamente nel-
la lettera del x6 novembre xyzù (in B.N.R., F.V.K. 358» ce. 304-305): «Al
carissimo nostro signor Mela mille abbracci, e ben egli può. comprendere
quanto mi siano di piacere i carissimi suoi righi. I Io molto goduto che il
Torre ed il Peri [nell'elenco dei libri del Giaunone, in (hatwtmiana^ p. 475,
è compreso un «Torre De Cambiis», dì cui non si hanno ulteriori indica-
zioni; per il Pvricir. la nota seguente,] la valuta contici Tanno per cambiati,
perché la Ruota romana nella decis. 20 appresso il cardinal de Luca, de.
Usur. et Camh. ed Ansaldo de Commercio nel disc. 2, n, 32, l'interpretano
di valuta ricevuta in contanti. Lo priego però notarmi i luoghi cosi di
Torre, come di Peri, perché io sin'ora non ho avuto tempo d'osservarli.
Ho ben sì letto ad un autore tedesco moderno, che nel 1721 stampò un
dotto libro intitolato Institutiones iuris cambialis, chiamato Giovanni Cristo-
foro Francie, le varie forinole delle lettere di cambio, che s'usano e sono
regolari oggi fra* negozianti, infra le quali ci trovo anche quella dettata per
valuta in conti] ed ho goduto che le dia quella stCH.sa forza, che io le diedi
nella nota fatta. Non si meravigli, perché io reputo Mariconi per mandata-
rio ad esiggere, perché deve sapere che non si verificò mai il caso che al
signor Mariconi pervenissero effetti di Corte, sicché potesse estinguere le
cambiali, ma insorto un nuovo debbito del signor Puisserver col signor
Mariconi, questi non vedendo altra via di potersi soddisfare, per dura
necessità si fece girare dal Puisserver quelle medesime lettere, e nella gi-
rata ai disse: "e per me li pagate al «ignor Maricono valuta avuta in bi-
glietti di cartulario". Or il signor Mariconi venne qui, e tanto fece, e tanto
si adoperò finché dopo tre anni a vari stenti ottenne dalla Corte alcuni
assegnamenti in soddisfazione della somma contenuta in dette lettere. I
signori Dalmasas e compagni pretendono che quelle lettere essendo lor
proprie non si potevano cedere al signor Mariconi, Farò tutti gli sfor-
zi, non potendo per lettera scrivergli tutti i motivi, ohe pervenghino in
suo mani così la prima nota, come Palmi ohe ultimamente feci in ri-
sposta delPallegasrionc contraria, dove troverà bastante materia di sod-
disfarsi ».
LETTERE II59
nosa, perché ho dovuto spiegar la materia da' suoi princìpi, non
essendo qui ben capita, non posso trasmetterla, ma tanto se avrà
opportunità di scrivere in Genova, tanto credo che Puisserver tro-
verà modo di mandarvela. Intorno alle frasi varie delle valute mi
sono servito del Negoziante del Peri,1 libro molto sopra ciò com-
mendato dal cardinal de Luca,* e da Ansaldo de Ansaldis.3 Avrei
voluto che lo stesso fosse valuta in conti che valuta contici, ma da più
decisioni della Ruota romana si vede che sono diverse, perché il
contici si dice per sincope, che vai lo stesso che contatici, e corri-
sponde alla valuta in contanti-, ma comunque si fosse non distrugge
la nostra ragione, che in qualunque maniera fosse la valuta, sem-
pre fa la girata irrevocabile. Il nostro Cafaro4 nelle sue Pellegrine
questioni vuole che la girata sia come una nuova lettera di cambio,
impugnando il consiglier Rocco;5 ma io dimostro che ancor ciò
supposto non sminuisce la ragion di Mariconi, il quale deve con-
siderarsi, per la girata fatta a lui dal Puisserver per causa onerosa,
come mandatario per esiggere, non già per pagare. Avrei caro se
il signor don Francesco potesse avere quella mia nota, perché son
sicuro che non li dispiacerebbe, siccome a me non dispiace il suo
parere, che ho grandissima probabilità che sarà qui seguito.
Vi acchiudo la risposta alla lettera della signora principessa di
Tarsia,6 che potete consignarcela, ed insieme portarli i miei rispetti
1. Cfr. // negotiante di Gio. Domenico Peri genovese [secolo XVII] diviso
in quattro parti, Venetia 1 672- 1 673 , in quattro volumi, 2. Il giurista Giam-
battista De Luca (16 14- 1683), specializzato in questioni economiche e fi-
nanziarie, fu uditore di Innocenzo XI, segretario dei memoriali e, dal 168 1,
cardinale* Cfr. il suo Theatrum veritatis et iustitiae . . . Liber quintus de
usuris et interesse; par. IX de cambiìs . . ., Romae 1669, e di questo la ridu-
zione in lingua italiana, Il dottor volgare: se ne veda il Libro quinto. Il
quale contiene . . . Parte prima delVusure e degl'interessi. Parte seconda de*
cambi. . ., Roma 1673. 3, Ansaldo de Ansaldis (1651-1719), poeta e av-
vocato, allievo di Ferrante Capponi e del De Luca, ricoprì varie cariche
in Curia: fu anche uditore della Sacra Rota (1696). Cfr. la sua opera, di
carattere eminentemente pratico, De commercio et mercatura discursus lega-
les, plerumque ad veritatem editi . . ., Romae 1689. 4. Costantino Cafaro
(1600 circa- 1663), architetto (tino al 1653 circa fu regio ingegnere) e av-
vocato, è l'autore dello Speculum peregrinarum quaestionum forensium decì-
sarum . . ., uscito postumo, a Napoli, nel 1665 a cura dei figli Niccolò e
Francescantomo. 5. Dell'avvocato Francesco Rocco (1605-1676), giudice
di Vicaria, consigliere dal 1657 del Sacro Real Consiglio, si vedano soprat-
tutto i due tomi dei Responsorum legalium cum decisionibus . . ., Neapoli
1655* 6. principessa dì Tarsia: cfr. la nota 3 a p. 150.
IXÓO LETTERE
ed assicurarle che qxii è servita con ardenza, e che bisogna soffrire
la tardanza connaturale in questo clima.
Saiutatemi il signor Onofrio, signor Cailò, e non vi scordate de'
Vestani, ed avendo tenuta oggi una posta molto lunga, non mi
fido scrivere di vantaggio, e caramente l'abbraccio.
XIII
A CARLO (MANNONK ■ NAPOLI
Vienna \ma Perchtoldsdorj \ lì /o giugno 17. iti.
Questa sarà l'ultima lettera che vi rispondo da Pettcrsdorf, poiché
il giovedì la sera, essendo da Laxcmburg partita la Corte per Nai-
stat,1 dove si fermerà due giorni, per proseguire il viaggio di ( il rat/,,
cominciano gli altri a seguitarla, ed i nostri regenti questa sera si
restituiranno tutti a Vienna, lo penso seguitarli l'entrante setti-
mana, bisognando trattenermi qui per tutto giovedì, Ilo ricevuta
lettera in questa settimana dal signor Moscati, al quale potrà rive-
rire da mia parte, con dirli che restituito a Vienna m'abboccherò
coi signor Mastellone per istradare i *suoi affari, allineilo ne solle-
citi la spedi/ione di quo* dispacci, che per ora potranno spedirsi,
e non mancherò darli riscontro di ciò che si sarà fatto. Al carissimo
signor Ippolito mille saluti, dicendoli che ho ricevuta in questa
settimana una gentilissima risposta dal signor regente Castelli/ che
mi obbliga a replicargli, come fo, per essere riconoscente di tanta
cordialità che mostra aver meco; non tralasciando ancora di scri-
vermi le finezze che vi ha fatto sempre che ha avuta opportunità di
vedervi, onde non tralasciaste di coltivare la sua amicizia, la
quale forse potrà giovarvi più di qualunque altra affettata e con-
templativa.
Al nostro signor Cirillo altri tanti saluti, ed il signor cavaliere
prima di partire m'impose che, nel caso il procaccio giungesse qui
prima ch'egli sia di ritorno, la lettera co' frontispiar' gliele man-
XIII. B.N.R., F.V.IC. 358, ce. 416H-4X8. Ln lettera è intHri'/fcata a Matteo
MicatfHii. - i.Naistat: Neuwtadt. 2. Domenico Castelli: efr. lu nota 1 a
p, 183. Nella seduta di Collaterale del 4 aprile 1730 converrà «nella pro-
scrimone del libro [del Sanfelice*), come cantra botws nmres et cantra rega-
lia! come un perpetuo libello famoso da princìpio «ino all'ultimo contro
Giannotto e suoi fautori» (cfr. in Ciannoniana, p* $2). 3, signor ( Hrilto ♦ . .
frontispimi il Cirillo aveva annunciato rinvio di alcune «uc note erudite
LETTERE Il6l
dassi a Gratz; cotanto vive desideroso di vedere il fine di questa
grande opera co' suoi propri occhi. Si fa il conto che possa resti-
tuirsi qui con S. M. verso li princìpi di ottobre, e caramente lo
riverisce.
Il signor abate Acampora con ragione si stomaca in vedere che i
compilatori degli «Atti di Lipsia» tanto si travagliano per inten-
dere le fantastiche ed impercettibili idee del Vico;1 quando per non
torcersi il cervello non dovrebbero nemmeno fiutare i suoi libret-
tini ; ma bisogna compatirli, perché alle volte manca la materia per
far un giusto volume di quell'anno, e vi affastellono quanto li viene
alla mano. Intorno all'edizione delle Vigne si farà la diligenza ap-
presso i padri di S. Mauro,3 ma io stimo vana la voce. Quello che
di reale si è che in Germania si vanno riscontranno più ms. di
quelle epistole, in varie biblioteche; siccome si è fatto in tre esem-
plari che si trovano qui, ed io fui parlato per lo riscontro con quello
che tiene il signor principe Eugenio ;3 e questi signori letterati del-
l'Imperio (perché nell'Austria se n'è perduta la semenza) hanno
la bontà di scrivermi spesso di qualche raccolta che pensano fare
delle cose nostre, atterriti dalle forte reprensioni, che dicono che
io fo degli scrittori forastieri, quando vogliono mettersi a scrivere
delle cose altrui, siccome gli anni passati accadde a Carlo Stefano
Giordano, il quale stampò in Prislavia una dissertazione de lordano
Bruno Nolano* ed io li feci sentire che non avea detto la metà di
(corto quelle premesse alla sua edizione dell'Etmuller: cfr. la nota 4 a p.
1123). Si veda la lettera del 29 maggio 1728 (B.N.R., F.V.E. 358, e. 413),
in cui il Giannone scrive di attendere «con desiderio» l'esemplare dell'o-
pera destinatogli, «per aver occasione di leggere con piacere quelle sue
dotte ed erudite note ». 1 . i compilatori . . . Vico : nella noterella, comparsa
nella rubrica Nova liner aria degli «Acta Eruditorum Lipsiensium », ago-
sto 1727, p. 383, contro i vichiani Princìpi di una scienza nuova (Napoli
1725) si leggeva tra l'altro: «Multo labore contra Grotu . . . doctrinas et
principia disputat, ingenio tamen hic magis indulget quam ventati, lon-
gaque coniecturarurn mole tandem sibi ipsi deficiens ab ipsis Italis taedio
magis quam applausu excipitur ». Il Vico replicò con le proprie Vindiciae
(Napoli 1729). Per più ampie notizie cfr. B. Croce, Bibliografia vichiana
accresciuta e rielaborata da F. Nicoliniy 1, Napoli 1947, pp. 41-4» 194-5»
199-201. 2.1 padri di S. Mauro: i famosi benedettini del convento di
Saint- Maur-des Fossés, che diedero vita ad una delle più importanti scuole
d'erudizione del secolo XVII-XVIII. 3. siccome . . . Eugenio: cfr. la let-
tera del 23 giugno 1725, qui a p. n 50 e la nota ivi. 4. Carlo . . . Nolano:
il letterato Charles-Etienne Jordan (1700-1745) di origine francese, già pa-
store evangelista, fu segretario dcll'allora principe ereditario Federico di
Il 62 LETTERE
quello che Nieodemo uvea raccolto nelle Addizioni alla Biblioteca
di Toppi:1 opera da lui ignorata.
Talché in questa settimana ini scrive da Lipsia il celebre Men-
kenio regolatore di questi «Atti», ch'egli voleva far una raccolta
delle opere di Angelo Poliziano e scriverne la vita, ma, se io non
le suggeriva altre notizie, non ardiva darla alla luce.4 Li risposi che
questo non toccava a me, ma a' Fiorentini, con tutto ciò non avrei
mancato scriverne a' letterati napoletani, che se mai serbassero
qualche notizia rara ine la somministrassero. Per ciò priego il si-
gnor abate che se avesse da avvertir qualche cosa o pure qualche
suo amico, me l'avvisi, affinchè non riesca a colui il ricorso total-
mente infruttuoso.3 Se avrò tempo, forse l'entrante li manderò4
copia della lettera scrittami; ed intanto lo priego di far qualche
diligenza. Tornando ora all'edizione delle Vigne, se il signor abate
non vi ha impegno, io stimarci che si dovesse far correre questa
che si sta preparando in Germania, perché dagli apparecchi ed
esatte diligenze che si fanno, l'edizione verrà esattissima ed accre-
sciuta, oltre le varie lezioni notate in più esemplari; e si aggiunge-
ranno forse con tal'occasione alcune lettere dell'arcivescovo di
Capita5 contemporaneo, scritte intorno a medesimi successi, che
manoscritte si conservano nella Biblioteca ("esarca, e non sono
uscite ancora alla luce. Tenga il signor abate tutto coti so, e me ne
dia il suo sentimento con tutta libertà, e veda cptel che io debba
fare per servirlo.
La logge che mi scrive ora promulgata io la lessi molto tempo
prima, e mi ricordo che ebbi con tal occasione a ricordarli la gaza
Prussia (il C «nitide). 11 Giannonc alludo qui alla Disquisitilo historico-lìtcraria
de lordano Urtino f Nolano r Primittlaviue [i72Ó|. x. Nicodvmo . , . Toppi:
vedi la notti 3 a p. 51:. 2. Talché . . . luce: oÌV. Vita, qui u p. 165 <; lo note
a e 3 ivi. La lettera di Friedrich Otto Meueke, secondo il Pankinx, p. 52,
era datata 21 aprile 1728. 3. Li risposi . . . infruttuoso: il Giannonc inter-
pellò il CapiuMo, l'abate Acampora e il fiorentino Bartolomeo Intieri, che
fungeva da tramite con il dottissimo bibliotecario di Firenze Giovanni
Bottari. Ricordiamo che il Meneke, nella prefazione alla mia 1 Ustoria vitae
et in lìteras meritorum Angeli Politlani « , ., Lipsia** *73°» ringraziò pub*,
biicamente il Giurinone e gli altri studiosi italiani che lo avevano aiutato»
Cfr., infine, in A.H.T., manoscritti (fiatinone, mastsso 1, inn. q, le Notizie
intorno ad Angelo Poliziano e sue opere (Giannoniana, p. 409). 4. li man-
derò: con la lettera a Curio in data 26 giugno 1728 (efr. Giannoniana, n.°
*57)' 5* arcivescovo di Capita: Iacopo (morto nel 1247), giù vescovo di
Patti q traslato all'arcivescovado di Capua da Onorio IH nel 1225. Fu
•vicino a Federico II di liohenataufen, che segui in Palestina (1227).
LETTERE I163
dell' Ariosto.1 Se l'inviati2 straordinario ed ordinario, che mi ac-
cenna, sono que' che m'immagino, saranno molto inutili ed in-
fruttuose le loro missioni, poiché delle cose di questa Corte non ne
sanno la corteccia. Comunque sia, attenda a regolarsi con prudenza
e tirare innanzi fintanto che Dio vorrà; e sono ottimi i desideri di
far passare alcuno qui per rinforzare il commando, ma non so se si
possono prometter tanto, che a' desideri possa corrispondere l'ef-
fetto.
Il signor Dattilo credo che intenderà delle Fraile nipoti del
consigliere Plekner, colle quali l'anno passato mi vide a Petters-
dorf,3 e sono ora; e poiché egli non ha veduto che la corteccia del
paese, non vi avrà potuto dir niente delle rare virtù che l'accom-
pagnano. Il signor regente Ventura pure mi scrisse la passata setti-
mana che il medesimo l'avea date «distinte» relazioni di tutti noi
che siamo qui, ma mi fece ridere quella parola «distinte», poiché
ciò non era da pretendersi o sperarsi dal medesimo, e per ciò ho
riputato con verità li suoi rapporti pieni di esaggerazioni.
Salutatemi il carissimo signor Mela, signor Capasso, signor Ono-
frio, e tutti gli amici, ed il simile facendo a' nostri Vestani, resto
caramente abbracciandolo.
XIV
A CARLO GIANNONE • NAPOLI
Vienna li 7 maggio 1729.
Sento per la sua ricevuta in questa settimana che i tempi piovosi
avranno impedito al signor consigliere Grimali4 e signor abate
Garofalo il rispondermi, onde attenderò nell'entrante le loro let-
tere, potendo intanto salutarli in mio nome carissimamente. In
quanto mi soggiunge, poiché questa lettera non dovrà mostrarla a
niuno, e sottrarvi dall'impertinenze, con rispondere non averne ri-
cevuto, dico che fa bene dissimular costà il tutto, siccome fo io
1. la gasa dell'Ariosto: cfr. Sat, ni, 109-50. 2. Gli inviati della città di
Napoli a Vienna. 3. .Frate. . . Pettersdorf: cfr. Vita* qui a pp. 150-1;
Fraile sta per Fràulein.
XIV. B.N.R., F.V.E. 358, ce. 475-477^- La lettera è indirizzata a Mat-
teo Micaglia. - 4. Grimali: Grimaldi (deve trattarsi di un errore del co-
pista).
1164 LETTERE
qui; ma questo non deve impedire che ciascuno veda aggiustar i
fatti propri. Sicché, tirando avanti il successo in cotesto ("oliatemi
Consiglio, affinché possiamo valersene ed usarlo con profitto» potrà
essere dal nostro signor Capasse) e coinmuuiearli che avendomi
mandato il signor secretarlo Fraggianni in questa settimana copia
sì del decreto come del bando,' e latta conferenza col signor cava-
liere, abbiamo risoluto ora, senza aspettare il libro, perché il pro-
caccio non e ancor giunto, di non doversi far altro che questo:
mandare in Lipsia la copia de' medesimi e della Prammatica che
si rinoverà, e negli «Atti», sotto la rubrica delle Novelle letterarie,
farveli stampare sotto il mese d'aprile di quest'anno. Crede il si-
gnor cavaliere, che in ciò vuol anche seguitare il parere del signor
Capasso, che il medesimo non ripugnerà, onde quel che lo pre-
ghiamo si è per non esporsi a' traduttori di Lipsia, che non inten-
dendo bene l'italiano sovente stroppiano i sensi, che faccia il favore
di stendere in latino questa novella,'* ragguagliando ehi fosse l'au-
tore nascosto sotto il nome di Muschio Filopatro: essere il padre
Sanfelicc non già della famiglia legittima di questo casato, ma ba-
stardo; averlo fatto stampare in Roma, ancorché portasse la data
di Colonia; e che, mandato in Napoli, cominciò prima a vendersi
nella porteria del Collegio de' Gesuiti; poi si ebbe l'ardimento di
farlo esporre venale in una bottega d'un lor librare; di che aceor-
i. avendomi . . . bando: alludo al rinnovo della prammatica contro l'intro-
duzione nel remilo eli Napoli di libri stampati all'estero e privi della pre-
scritta licenza e al bando comminato per la trasgressione delle disposizioni
previste dalla prammatica «tessa contro l'opera e l'autore delle Riflessioni
morali e teologiche sopra V Istoria civile del refino di Napoli, esposte al pub-
blico in più lettere familiari di due amici da Eusebio Filopatro leìofc du Giu-
seppe Sanfelicc: efr. la nota 3 a p. 167], Colonia (ma Roma) 1728. La
prammatica e il bando furono pubblicati il tu aprile 1720; si vedano, in
(jiannoniana, pp. 48-55, gli «tralci delle sedute del Collaterale per opera
del segretario del Restio Nicola Fraggianni (per cui efr, la nota 1 a p. 03),
e, alle pp. 434*61 la Memoria sullo stesso argomento destinata ad Kugeuio
di Savoia. 2. mandare. . . novella: in realtà la nota (rimaneggiata, però,
da Friedrich Otto Menckc) sull'opera del Sanfelicc e le notizie concer-
nenti il bando e la prammatica apparvero nella rubrica Nova titteraria
degli «Actu Eruditorum Lipsicnsium» del settembre (e non aprile) 1729,
pp. 423-4. Sui motivi delle modifiche apportato al testo del Capasso (non
pervenutoci, ma di cui abbiamo la traccia stilata dal Giurinone) si veda la
lettera a Carlo del 30 luglio 1729, in D.N.R., F.V.K. 358, e. 4W. Ricor-
diamo, infine, che in questa nota si rinvia alla recensione dell'Atomi civile
(Napoli 1723, tomo 1) pubblicata nel supplemento degli «Àeta» del «729
(tomus ix, scotio v, pp. 194-200).
LETTERE I165
tosi il signor viceré conte d'Harac,1 fece esaminar il libro e proporlo
in Collaterale, e trovatosi ingiurioso alla potestà de' principi, pieno
di contumelie e calunnie, dannò il libro, lo proscrisse età, com-
mandò rinovarsi la Prammatica etc, e diede bando al medesimo
che non accostasse più nel Regno, né negli altri Stati di S. M.;
e perché si trova in Roma, furono mandate insinuazioni al cardinal
Cinfuegos,2 che non gli spedisse passaporti e facesse intendere a'
superiori Gesuiti la deliberazione del signor viceré e del Collateral
Consiglio, siccome fu fatto sentire a' superiori di Napoli. Ed in
esecuzione del quale fu spedito il seguente bando, che bisognerà
tradurlo in latino. Poi inserirvi anche la nuova Prammatica pure
tradotta in latino. Aggiungervi qualche cosa della soddisfazione
ricevuta dal pubblico e della commendazione universalmente data
al signor viceré e Collaterale, con tutto ciò che stimerà più proprio
in lodando il suo governo e zelo verso il servizio di S. M. e riposo
de' suoi sudditi, in così castigando i calunniosi e maligni, etc.
Dettata che il signor Capasso l'avrà con suo aggio e commodità,
potrà mandarmela, affinché veduta dal signor cavaliere possa man-
darla in Lipsia al signor Menckenio. Siccome non si dimentichi,
stampato che si sarà il bando e la Prammatica, mandarmene per la
posta più esemplari, uno de' quali bisogna pure mandarlo in Lip-
sia, affinché se vorranno ristamparlo in italiano, faccino come vo-
gliono.
Il signor viceré ha mandato a S. M. un esemplare del libello
famoso3 che si è rimesso in questo Consiglio, ed ora si trova in
mano del secretano Bermuda,4 dal quale io avrei potuto averlo,
ma non ho voluto perché il procaccio si aspetta a momenti, onde
potrò aspettare altri pochi giorni. Penso far un catalogo solo delle
calunnie, e manoscritto portarlo attorno a questi signori regenti,
perché non voglio perder tempo di notar gli errori, che suppongo
che siano così prodigiosi e grossi, che non avran bisogno di chi
gli scopra a' lettori.
Il signor principe Eugenio ebbe sommo piacere in aver le copie
del decreto e bando, e mi disse volerne scrivere al signor viceré,
lodandolo. Altre se ne son fatte per S. M., e tutti i buoni amici
x. conte d'Harac: cfr. la nota 4 a p. 136. a. cardinal Cinfuegos: cfr. la nota
2 a p. 130. 3. libello famoso: cfr. la nota a a p. 171. 4. Bermuda: Ber-
mudez.
IIÒ6 LETTERE
han lodata la composizione e goduto del buon successo, toltone,
come vi scrissi, i nostri idioti mastri Francischi.1
Salutatemi caramente il nostro signor Contorna, con dirli che il
signor duca* ò passato alla casa del baron Pi lati, ed io sarò nell'en-
trante a riverirlo. Salutatemi il signor Ippolito, signor Cirillo,
signor Mela, di cui non se ne ha più novella, signor Onofrio, e
tutt'i buoni amici, e lo stesso facendo a' nostri Veslani, resto cani-
mente abbracciandolo. Al signor Fraggianni li dica che io gli ri-
spondo a direttura.
xv
A CARLO OIANNONR • NAPOLI
Vienna li <V ottobre /?jq.
Mi porta assai più disturbo la vostra lettera ricevuta in questa set-
timana in sentire che né peranche avete ricevuto il mio secondo pie-
go, che v'indrizssai doppo il primo,3 che non mi dà noia la vostra
lunga predica. Sono per ciò con impazienza aspettando l'entrante
settimana, che devo avere riscontro del terzo e se l'avrà ricevuto
potrò lusingarmi e sperare che se quello si trova smarrito, non sarà
per altro, che per trascuraggine di questi ufficiali, e che lo riceverà
quando meno se l'aspetta.
Intorno poi a quanto declamate secondo anche i sentimenti del
signor Capasse), certamente che ci fa meraviglia, se non che il me-
desimo, essendo uscito di fresco da' Criminali, li parrà ogni cosa
criminale. Credevamo col signor cavaliere sentire; una censura
molto severa e rigida, ma così acerba e crudele non potevamo
x. * nostri . . . Francischi: alludo txLV entourage della Nunziatura di Vienna.
2. Il duca Carafa di Maddaloni era «tato chiamato a Vittima dall'impera-
tore, per discolparsi dall'aecuna di essere «tato il mandante. dell'assassinio
di un notaio napoletano. Fu difeso dal Giurinone: si veda in Vita, qui a
p. X50.
XV. B.N.R., F.V.1C. 358, ce. 505-50ÓV. La lettera b indirtata a Matteo
MicagUu. - 3. in sentire . . . t7 primo : il CJiannonc» aveva spedito a Napoli
la copia della risposta al Sanfelice (cioè la Professione di fede: si veda qui
allo pp. 475 sgK.)> predando il Capaaao e gli altri amici napoletani di voler
dare il loro parere sul lavoro, così come già in precedenza aveva sottoposto
al loro giudizio il testo &e\V Apologia dell'Istoria civile, Cfr, per questo la
lettera a Carlo del 6 agosto X729 (H.N.R., F.V.K. 358» e. 494»),
LETTERE I167
aspettarcela, né credercela, doppo aver letto il suo Omero.1 Si sarà
il medesimo dimenticato del nuovo Evangelio stampato in mezzo
Pariggi, tratto dall'Istoria del Concilio del Pallavicino,2 che contiene
articoli di dottrina assai più scandalosa e ridicola che non è quella
contenuta in quella Professione. E gli articoli secondari sono per
lo più presi dalle Conformità Franciscane2 e dall' 'Istoriale di san-
t'Antonino,4 scrittore da Melchior Cano5 istesso domenicano di-
chiarato per visionano e leggiero, non men che furono e sono
riputati da tutti quelle scurrilità franciscane.
Io poi non stampo, né ne fo schiamazzi; mando quella mia Pro-
fessione al mio padre spirituale, e se vorrà egli pubblicarla, io l'ac-
cuserò al S. Ufficio, che ha rivelata la mia confessione, e posso ad
altri ben negare i miei peccati. È troppo dura questa legge, che com-
manda di non potersi rispondere a lettere pubbliche e stampate,
nemmeno con una manuscritta ed in confessione. La maraviglia
non dovrà averla il signor Capasso solamente dal signor cavaliere,
ma da quanti amici fedeli e leali, che qui l'hanno letta, e che sanno
tener il secreto sin tanto che bisognerà. Ed ora si procura che colla
stessa diligenza serve di divertimento a' ministri supremi, e forse
avrà la fortuna di passare sotto occhi assai più alti e sublimi. Sic-
ché non credete che se mai si verrà a qualche passo, non siegua
doppo matura riflessione e doppo che ci saremo accertati che, se
mai venissero ricorsi e riclamori, non fosse tutto già prevenuto, e
stiano appieno intesi quelli a' quali è lor consueto di ricorrere e
far querele. Oltre che Roma presentemente sta nella maggior abiez-
ione e pessimo concetto che mai, per le tante mostruosità che si
i. Usuo Omero: cioè la traduzione in dialetto napoletano dell'Iliade, giunta
fino al III canto, fatta dal Capasso, di cui si parla frequentemente nell'epi-
stolario giannoniano. 2. nuovo . . . Pallavicino: vedi la nota 2 a p, 179.
3. Conformità Franciscane: si tratta della celebre opera agiografica fran-
cescana De conformìtate vitae beati Francisci ad vitam Domini lem che il
pisano Bartolomeo da Rinonico scrisse tra il 1385 e il 1390 (una recente
edizione critica in due volumi è pubblicata negli Analecta Francescana,
iv-v, Ad Claras Aquas [Quaracchi], 1906-1912). Un'edizione del De con-
formiate figura nella biblioteca garelliana: cfr. M. Denis, Die Merkwurdig-
keitcn ecc., cit., pp. 448-9. 4. Istoriale di sant'Antonino: vedi la nota 3 a
p. 180. L'opera di sant'Antonino è il corrispettivo, per l'agiografia domeni-
cana, dell'opera di Bartolomeo da Rinonico. 5. Melchior Cano (1509-
1560), oratore e teologo domenicano spagnolo, professore ad Alcalà e
a Salamanca, teologo imperiale (155 1) al Concilio di Trento, vescovo
nel 1552 (ma rinunciò all'incarico), fu noto soprattutto per il De locis
theologicis: cfr. gli Opera . . ., edidit R. Vadilaus, Coloniae Agrippi-
ne 1605.
II 08 IATTURE
sentono sotto questo pontificato. Ed airinconlro non si minacciali
clic nuovi insulti, ed alla giornata si sentono millanterie, che ora
stia scrivendo un francescano, ora un altro. Tutti della feccia degli
uomini, come sono per lo più oggi que' che contano in Roma.
Qualche nostro gesuita, ch'è qui co' suoi idioti paesani, non
cessa nelle occasioni stimolar la pazienza mia infinita, ed in questa
settimana ho saputo che in sua stanza si facea galloria,1 perché un
sciocchissimo autore avea stampato in Venezia un indice, nel quale
arroilava tutti gli scrittori italiani, fra' quali poneva me, dando
giudicio della mia opera e dicendo ch'era venuta molto rara, per-
ché ne furono bruggiati più essemplari. Si segnava il foglio di
quest'indice, per mostrarlo a chi vi capitava. Tal che si è scritto a
Venezia a persone di conto per obbligare quel impostore, o impo-
sturato, a ritrattarsi.* Sicché non si finirà mai questa baia, se non
ne resterà uno ben concio, e pelato per essempio degli altri. Per
finirla, non occorrano tante prediche. Non si darà alcun passo, se
non doppo che il tutto sarà ben preveduto, e colla maggior cautela
immaginabile. Intanto starà bene che i fogli mandati, quali prego
Iddio che vi capitino tutti, in forma di libro, li conservi il signor
abate Garofalo, al quale più diffusamente scrivo sopra questa ma-
teria; e so bisognerà al medesimo qualche denaro per farne fare
una copia ben pulita e corretta, e poi si stimasse farne qui perve-
nire una per la posta drizzata a quel gesuita, potrà somministrarli
anche la spesa dell'affrancatura del piego. So che la maggior diffi-
coltà vostra sarà di non aver denari per far queste spese. Ma in
questo, almeno, il nostro signor Mela in conto potrebbe sommi-
nistrarli questi pochi carlini o ducati che possano arrivare, perché
x. galloria*, manifestazione rumorosa in segno di compiacimento e soddi-
sfuxionc. 2. un sciocchissimo ... ritrattarsi: efr. N. b\ Haym, lìiblioteca
italiana, 0 sia notizia de1 filtri rari nella lingua italiana . . , Annessovi tutto il
libro dcW 'Eloquenza italiana di monsig. (iìusto Fontamm . . ., Venezia 1728.
La correzione protetta dal Giannono non fu mai accolta! efr* nel tomo 1
dell'edizione di Milano, 1771, p. 90: «Opera «orina con molto fuoco, e
troppa libertà. Uopo la Storia del presidente Tuuno si vuole non sia sortita
la migliore di questa. Fu condannata dalla Chiotta, e lu maggior parte delle
copio delia prima edus. furono abbruciate per ordine superiore, perciò è
assai rara»). Si noti, del resto, che lo Haym non diceva espressamente che
l'Istoria civile, fosse stata bruciata per mano del carnefice, ed era d'altra
parte nel vero quando asseriva che il clero ai preoccupò di venire in pos-
sesso della maggior parte possibile delle copie per distruggerle: cfr. a
questo proposito la lettera dell'arcivescovo di Atene, vicario torinese, pub-
blicata in MfiRTKi-u, pp, 332-5.
LETTERE 1169
ben conosco che non bisogna pretender complimento, perché du-
rerà ancora la penuria. Salutatemi il signor Ippolito, signor Cirillo,
signor Onofrio, e tutti gli altri amici; ed il simile facendo a' nostri
Vestani, resto caramente abbracciandolo.
XVI
A RAMON DE VILHENA, MARCHESE DI PERLAS RIALP1
VIENNA
[febbraio-marzo 1730."]
il signor conte Ferdinando d'Harrac figliuolo del signor viceré
trasmetterà nell'entrante settimana da Napoli un piego diretto al-
l'ecc.mo signor marchese di Rialp, dentro il quale a forma di libret-
to vi è una distinta relazione manuscritta diretta al signor cavaliere
Garelli, nella quale da persona molto savia e che ha soggiornato
in Roma 24 anni, ed ha osservato i più reconditi arcani di quella
Corte, ed ha conosciuto i caratteri delle persone, che oggi com-
pongono il collegio de' cardinali, si dà distinta relazione delle in-
clinazioni ed umori de* medesimi, per regolare con prudenza
l'importantissimo affare del futuro conclave ;a affinché avendo l'o-
nore d'esser letta da S. M. possa col suo alto sapere prevenire le
gabale e gl'intrichi a' quali si veggono preparati gl'invidiosi della
gloria di S. M.
Dee ancora portarsi alla notizia del signor marchese come si è
scoverto che in Napoli un altro gesuita chiamato il padre Auria3
XVI. A.S.T., manoscritti Giannone, mazzo 11, ins. 15, C, 4. Autografo.
Memoria per V eccellentissimo signor marchese di Rialp: cfr. Giannoniana,
pp, 439-40. - 1. Rialp: cfr. la nota 4 a p. 98. 2. del futuro conclave: que-
sta memoria è priva di datazione, ma essa può ricavarsi proprio da questo
passo, da unirsi all'accenno che più sotto è fatto all'opera del padre Sanfe-
Hce. Poiché infatti le Riflessioni morali apparvero a Roma nel 1728, non
può che trattarsi del conclave che seguì la morte di Benedetto XIII (21
febbraio 1730). È ben vero che il conclave, dal quale doveva uscire eletto
Lorenzo Corsini, durò quattro mesi, essendosi concluso soltanto il 12 lu-
glio, ma si noti che qui si parla del «futuro » conclave. Siamo cioè nei giorni
immediatamente seguenti la morte del papa, comunque avanti il 5 marzo,
giorno in cui i cardinali si chiusero in conclave. Anche tenendo conto del
ritardo con cui la notizia pervenne a Vienna, non dobbiamo allontanarci
da questa data per fissare la cronologia di questa memoria. 3. il padre
Auria: su questo personaggio si vedano in Giannoniana^ pp. 34-Sj le ipo-
tesi avanzate per individuarne l'identità; ma il problema è rimasto irri-
solto.
1170 LKTTRRK
stava stampando un'opera voluminosa in 4 tomi in foglio, della
quale essendosene tirati i fogli del primo tomo si è seoverto che
l'opera non era meno satirica e contumeliosa di quella del padre
Sanfelicc, e nella quale si malmenavano i punti più importanti
della giurisdizione e regalie di S. M. a tal segno che i (Jesuiti
stessi di Napoli, scorgendo tanta impudenza, sono ricorsi al signor
presidente Argento delegato della Rogai Giurisdizione e fattali
istanza di ordinare la soppressione ed il ritiramento de* libri del
suddetto padre Auria, compromettendosi di pagare la spesa allo
stampatore Felice Mosca acciò non proseguisse la stampa e con-
sonassi i fogli tirati.1 K come che si teme che questi ricorsi de'
Gesuiti non siano apparenti per deludere il delegato, ed intanto di
soppiatto far proseguire la stampa, si priega scrivere al signor
viceré 0 all'istesso signor presidente Argento che avverta coti som-
ma vigilanza in questo aliare con farne relazione a S. M. della
verità dell'occorso.
In ultimo si priega il signor marchese di Rialp, con darli notizia
come il povero Giannone non solo vien bersagliato da tante parti,
ma quel che più li preme è che il suo assegnamento fattoli delli
fiorini 80 il mese sopra i reali diritti della spedizione di Sicilia,
li vien mancando ed il signor don Giovanni Llacuna officiai mag-
giore della Secretoria del Suggello, sono passati già tre mesi che
non lo paga, mandandoli sempre a dire non esservi denaro," per
essere mancata in gran parte la spedizione di quel Regno, e che
non corre ora come prima. Sicché vedendosi in così mal partito,
rinova le suo suppliche al signor marchese con pregarlo vivamente
a non trascurarlo nella provista che fra breve occorrerà da farsi nel
Consiglio di S. Chiara di Napoli: dove oltre la piazza ordinaria
che vaca per la morte del consigliere) ibrasticro e per ciucila che si
teme fra breve di dover vacare, stante la gravissima infermità del
consigliere) Pania itti, che vien disperato da' medici di poter più
lungamente vivere, sono ancora da provvedersi le due piazze so-
pranumerane, che ancor vacano: ed oltre ciò facendosi passare
all'essercizio di reggente in Collaterale, il reggente Paterno,3 questi
x.s Gesuiti stessi . . . tirati: malgrado ogni ricerca non è stato possibile
rintracciare nò il ricorao, né gli atti del «equestre» presso il tipografo tra
ic carte della Giunta di GiuriHdhaone delPArchivio di Stato di Napoli.
2, il suo assegnamento , . . denaro: efr. in Vita, qui alle pp. 189-90. 3» ihx
Ludovico Paterno era stato avvocato lineale del Real patrimonio (efr. PAN-
ZINI, p. 33).
LETTERE II71
lasciarebbe un'altra piazza vacante nel Consiglio di S. Chiara. Vi
sarebbero adunque più occasioni di poter godere della beneficenza
di S. M. e nell'istesso tempo levarlo da tali angustie. Ch'è quanto
umilmente, con tutto lo spirito deve supplicarla.
XVII
AI) ALOIS THOMAS RAIMUND D'HARRACH • NAPOLI
Illustrissimo ed eccellentissimo signore, signore e padrone mio
sempre colendissimo.
Non mcn li passati, che li presenti favori, che ricevo dalla somma
benificenza e magnanimità di V. E., mi obbligano per mezzo di
questo mio riverente foglio e per l'interposizione del degnissimo
signor conte suo figlio, degnissimo auditor di Ruota,1 di rendere
a V. E. vivissime grazie di quella benignità e protezione che si
degnò V. E. mostrare al signor abbate don Biagio Garofalo, che
non si sarebbe dimenticata di me suo umilissimo servidore nel-
l'occasione della terna dell'avvocazia fiscale di questo Consiglio di
Spagna.2 Di tanta benignità e cortesia ne rimanessi sorpreso e con-
XVII. B.N.R., K.V.E. 359-360, ce. 63-63?;. - 1. signor conte . . . Ruota: il
conte Johann Ernst von Harrach (1705-1739), auditore di Rota a Roma
nel 1732, croato vescovo di Neutra (Ungheria) nel novembre 1737. 2. che
si degna . . . Spagna: nel manoscritto segue, a questa lettera, copia della
missiva del Garofalo, priva di data, e che dice: «essendo l'altro giorno an-
dato a visitare il signor viceré* alla Barra, procurai di far entrare nel di-
scorso la sua degnissima persona con insinuare al suddetto signore che
olla dovea ossero impiegata in ministerio di sommo grado, per le prerogati-
ve 0 rari preggi delle cognizioni che l'adornano, e ch'ella m'avea sempre
scritto delle somme lodi di monsignor uditore suo degnissimo figlio; con
tale occasione egli uscì nel discorso meco di avere avuto insinuazione da
un suo amico di cotcsta Corte di nominare V. S. illustrissima in una terna
di eonsigliero di S. Chiara, ma che temeva di qualche rumore del popolo.
À questo io risposi esser detti e parole de' vostri malevoli e di coloro che
temono del vostro grande ingegno e del sommo zelo che avete per le rega-
lie cesaree, e che tal richiesta forse non era per venir qui per consigliero,
ma solo per una certa qualificazione e graduazione, che vai molto appresso
li Spagnoli che regolano cotesta Corte, benché per altro ella avesse in as-
segnamento i mille fiorini per paga, e mercede datagli secondo la forma
elio alcuni anni addietro avevano i consiglieri, ricordando anche a S. E.
i titoli e l'espressioni onorifiche che sono nel diploma datogli da S. M.
Soggiunsi di poi che il rumor passato era un rumor panico mosso di alcuni
li quali non avendo letto i vostri libri reputavano dapprima esservi cosa
progiudiziale alla religione; onde poscia han veduto e confessato, siccome
U72 LKTTKRIS
fuso, non e da dimandare, considerando il poco mio merito, e
molto più di non avere avuta la fortuna con alcun mio basso ed
nmil ossequio di poter meritare da V. E. un favore sì scgnalatissi-
mo; onde per la speziai servitù che professo col suddetto signor
conte, di cui ho spesso l'onore d'ammirarne la somma probità,
dottrina e saviezza, corsi immantinente dal medesimo a darli con-
tezza di un sì straordinario eccesso di bontà e nell'istesso tempo a
pregarlo che, non credendo bastare questo mio umile e riverente
ufficio, supplisse anch'egli per me a renderne a V. K. i dovuti rin-
graziamenti in mio nome; ragguagliandolo ancora distintamente
della cagione per la quale fìn'ora non avea V. li. avuta incombenza
di mandar la terna di questa carica vacante, siccom'ò l'ordinario
stile, poiché tal provista sicura per ora tener lontana per quei mo-
lo fanno presentemente tutti che non vi e altra eresia e scisma, se non
quella di difendere anche con moderazione i regali dritti e prerogative del
principato avvilito ed abbassato dalle pretensioni di Roma; assegno ohe i
medesimi preti e menici non solo di Napoli, ma di Roma leggono i vostri
libri con ammirazione, ed in quella città solamente ne sono state rimesse
pili della metà delle opere stampate: alla line concimisi che aironi il diletto,
il timore e la viltà fu del Collaterale, che non mostrò coraggio, e fu man-
canza positiva del cardinal Althan. Onde i preti presoro ardire di far no-
vità, nò tralasciai di rappresentargli come S. E. avea qualificali i vostri
libri nella Prammatica fatta contro il padre Sanfeliee, per la quale tutti gli
uomini e tutt'i ceti di questa citta sono rimasti persuasi non esservi in
loro cosa pregiudiziale a' doveri della religione, e della buona morale, e
che dopo d'essa dovea S. K. aver la gloria di promoverla; e che la vostra
persona per lo sapere e prudenza civile era formata a proposito di sedere
nel Consiglio di Spagna: allora egli mi soggiunse che non avrebbe mancato
di porlo nella tema dell 'avvocala llsoale d'esso; del che n'avea già fatto
richiesta d*aver la permissione di farla in eotcsta Corte; anssi si era lamen-
tato di non averne avuto il carico* Lo ringraziai colle maggiori espressioni
possibili, e nel medesimo tempo mi commise dì avvisarglielo, perciò sti-
marci a proposito che V. S. illustrissima le desse le dovute grafie, per
assicurarsi nella risposta, che farà, pubblicarlo maggiormente, e quando
non avesse altro canale sicuro e secreto potrà inviarmi la lettera, acciò abbi
l'onore di servirla come devo» (B.N.R., F.V.M 359-360, ce, 64-647'). A
quali risultati approdassero questi buoni propositi può riscontrarsi nella
lettera del Giannone al fratello, in data zo ottobre 173*, in B,N,R., l«\V.K.
359-360, ce. I24?>-J25: «Sento per la sua ricevuta hi questa settimana . - »
gli uffici per me passati col signor abate Garofalo, il quale, «e bene l'a-
vesse freddamente risposto, con tutto ciò mi scrive che parlò con efficacia
a monsignor d'IIarraeh, e che questi con fervore l'avesse promesso di par-
lare al signor viceré suo padre. Che ne sia seguito, lo saprò forse Pentrante
settimana. Del rimanente in occasioni simili per lunga esperienza ho cono-
sciuto che non bisogna molto affannarsene, poiché il meno ohe ci ha parte
è l'industria e diligenza umana ». La nomina, infatti, non giunse mai.
LETTERE II73
tivi che communicai al signor conte, de* quali lo pregai anche che
ne avesse informata V. E., e che scrivo ancora al suddetto signor
abbate Garofalo, dal quale potrà anche V. E. restarne a pieno
intesa. A questo fine fu pregata V. E. di onorarmi intanto nelle
occasioni delle terne di cotesto Consiglio di S. Chiara di pormi in
nomina; poiché, avendo oggi questi nostri Spagnoli posto in altro
sistema questa carica di fiscale, e quando prima e qui ed in Ma-
drid i fiscali si solevano ordinariamente prendere dagli ordini degli
avvocati o de' cattedratici, ora richiedono anche graduazione di
ministero. Cosa inventata per non far uscire la carica da mano
della nazione ed escludere con questo pretesto coloro che secondo
il giudizio universale sarebbero assai più meritevoli, che non sono
i loro graduati. Il signor marchese di Rialp, e per propria sua bontà
verso di me, e per l'interposizioni de* mici grandi protettori e
suoi buoni amici, ha tutta la propenzione di vedermi graduato in
una di coteste cariche del Consiglio di S. Chiara, e so che insieme
co* medesimi ne ha passati efficaci uffici con S. M., la quale con
tutto ciò, con mia infinita confusione, mostra di non volermi al-
lontanare da questa Corte, e S. A. Serenissima il signor principe
Eugenio di Savoia, di cui ho il preggio d'essere annoverato tra'
suoi più divoti servidori, so che abbia i medesimi sentimenti ; sic-
come più volte mi ha dato a conoscere, e per se stesso, e più chia-
ramente per mezzo del signor consigliere Coti, suo secretano. A
V. lì., per tanta benignità che ha per me, son tenuto riverentemente
esporre tutto ciò con quella sincerità e lealtà che si conviene ad
un personaggio della sua gran qualità, affinché, ponendomi io to-
talmente nelle benignissime mani, se mai reputasse che non fossi
cotanto inutile ad essere impiegato nel servizio di S. M., disponga
V. lì, di me in quella maniera, che la sua gran prudenza stimerà
più propria, poiché, essendo a tutti noto a bastanza quanto sia
fervoroso il zelo che tiene del maggior servizio del nostro padrone,
tutt'i mezzi che saranno indrizzati ad un si laudevol fine, non po-
tranno non essere se non sommamente applauditi e commendati;
li quali non discordano dalle altre gloriose sue imprese, non po-
tranno non accrescere a V. E. maggiormente la sua fama e Tim-
mortal suo nome. Intanto non rimanendo d'incessantemente pre-
gare Dio gli conceda a V. E. lunghi e felici anni di vita per total
ristabilimento di cotesto Regno e per maggior gloria di S. M., resto
facendoli profondissima riverenza. - Vienna 18 novembre 1730. -
1174 LKTTKRK
Devotissimo obbligatissimo servidor vero Pietro Giannone. A S. K
il signor conte d'Harach, viceré nel regno di Napoli.
XVIII
A CAULO <;iANNONK • NAPOLI
Vienna [ma Modling] li <) agosto tyjj.
Rispondo alla sua ricevuta in questa settimana da Medelin,' dove
ieri sera tornai dopo avere servito in città il signor principe di Tar-
sia, per quello m'impose per sua lettera;*1 ed intanto io ora questi
passaggi, perché som libero dall'assistenza del signor Garelli vec-
chio,3 il quale per grazia di Dio sta migliore ed ha tutti burlato;
sicché avrò questa consolazione che il figlio tornando qui lo troverà
meglio di quel che lo lasciò,4 Ilo lettera del signor Contegna in
questa settimana, nella quale mi scrive della finezza fattali dal
signor viceré, e ch'egli, finito che avrà di prender i bagni, piglierà
possesso della carica conferitale da S, M.5 Godo sommamente del-
la sua contentezza, ed ha ben ragiono di rallegrarsene, sapendo
ora l'ostacoli che s'han dovuto superare, fraposti da' suoi antichi
malevoli. Resta ora che si conservi in salute, per poterla esercitare,
e che non si scordi degli amici, che in quest'occasione han saputo
ben servirlo.
Intorno alla consaputa ristampa6 vi scrissi la maniera che io peu-
XVIII. B.N.R., F.V.tt. 359-360, oc* 173^-175*7. Noi manoscritto la let-
tera era numerata come cccuxxxiv. In questa, come in tutte le altre, di
questo gruppo, scritto, al fratello, vi ora l'intestazione, poi cancellata, di:
a Carissimo fratello)»; manca invece l'indicazione del destinatario, che, nel
K.V.R. 358, ora spesso un prestanome di comodo. » 1. Medelin: Modling
(efr. in \/ita% qui a p* 163). 2. il signor . . * lettemi si tratta del nipote del-
la principessa di Tarsiu; il Giannone no patrocinò una causa, di cui rosta
memoria nella Vita, qui a p. X50. 3. signor (Jaretti vecchio: Giovan Bat-
tista Garelli, medico di Leopoldo l ; si veda la nota a p. q(>. 4, il figlio . , »
lasciò: Pio Niccolò Garelli si era allontanato da Vienna al seguito dell'im-
peratore, in un viaggio a Karlsbad e u Linz. Cfr. in Vita} qui a p. 256.
5. Ilo lettera . . . da *S\ Mr. si tratta, forse, della nomina di Pietro ('onte-
gnu a presidente della Regia Camera, In suo favore si ora mosso Joseph
Montesunto, marchese di Villasor, presidente del Consiglio di Spagna: vedi
la lettera del Giannotto al fratello in data 28 giugno 1732 (B.N.K., l\V\K.
359-360, e. 165??), 6. consaputa ristampa: il Giannono intendeva ristam-
pare la sua Risposta alte Annotazioni critiche* sopra il nono libro delV Istoria
civile . . ., s. 1. 173» (e si veda in Opere post urne > if pp. 355 sgg. della seconda
LETTERE II75
sava, cioè di mandargli da qui la correzione ad uno degli essem-
plari mandatimi, non vedendo altra miglior via, perché lo stampa-
tore sopra la medesima possa corrigere gl'innumerabili errori oc-
corsivi. Ne attendo riscontro, giacché vi sarà questo tempo in-
sino che finiranno di smaltirsi gli essemplari che vi restano. Al
carissimo signor Capasso mille e mille saluti, sicome fo al signor
Cirillo, di cui forse nell'entrante avrò risposta; e potrà informare
a* medesimi d'un fatto curiosissimo accaduto in Modena al signor
Bousquct1 col signor Muratori; il quale maggiormente conferma
d'essere stata ben opportuna la Risposta consaputa per reprimere
la millanteria di quel Trasone, il quale per tutta Italia avea ma-
gnificate quelle sue inettissime Critiche,2, e ci avea già incappato il
signor Muratori con quella affettata lode che li dava. Mi scrive
in questa settimana il signor Bousquet ritirato già in Ginevra,
sollecitandomi la trasmissione del rame,3 essendosi già posto mano
alla stampa del primo tomo e trovandosi la carta stagionata, m'as-
sicura che in fine di quest'anno si darà alla luce il primo e secondo
tomo, che passando per Modena fu a visitare il signor Muratori,
suo antico corrispondente ed amico,4 e discorrendogli di questa
nuova edizione in francese, ch'egli procurava che venisse la più
esatta e magnifica che si potesse, quegli li rispose che bisognava
emendarla di molti errori di cronologia, che v'avea scoverti il pa-
dre Sebastiano Paoli della Congregazione de' Cherici Regolari di
Lucca, il quale avea stampato un libretto, che girava attorno. Mi
scrive per ciò il signor Bousquet tanto pregandomi che li mandassi
numerazione), che il fratello aveva incautamente affidato al tipografo Naso :
ne erti uscita un'edizione piena di errori tipografici e, per di più, in carta
di cattiva qualità. 1. Per Marc-Michel Bousquet cfr. la nota 4 a p. 212.
2. la millanteria . . . Critiche: intendi le Annotazioni critiche del padre Se-
lciano Paoli (cfr. la nota 3 a p. 210 e la nota 2 a p. 211); Trasone è il
nome del soldato fanfarone e smargiasso dell' 'Eunuco di Terenzio. 3. sol-
lecitandomi . . . rame: il Bousquet aveva chiesto al Giannone di fornirgli un
ritratto da poter stampare nel frontespizio dell'edizione in francese del-
Vlstoria civile che il ginevrino stava approntando. Lo storico si affidò al-
lora al noto miniaturista e incisore Jeremias Jakob Scdelmayer (cfr. la nota
4 a p. 83) che richiese in pagamento duecento fiorini: si veda H. Bene-
dikt, Das Konigreich Neapel ecc., cit., p. 534. 4. passando . . . amico: il
lìousquet si era recato a Modena, raccomandato da Scipione Maffei, so-
prattutto per tentare di ottenere la commissione della stampa delle Anti-
quitates Italicae Medii Aevi (cfr. la lettera a Lodovico Antonio Muratori,
in data 25 maggio 1732, in S. Mawei, Epistolario, a cura di C. Ganbotto,
Milano 1955, pp. 620-1).
llj() LETTERE
nota di questi orrori, perche se io gli stimava tali che meritassero
esser corretti, tanto era a tempo di farlo. Li rispondo come si
conviene, e coll'occasionc del rame gli mando un essemplare di
questa Risposta, affinché si rida di queste ciarle e tira avanti a far
il fatto suo e non si mova da queste frasche; e eredo che il tradutto-
re1 nella Prefazione non tralascici^ di far al Paoli qualche carezza,
sicome sento che abbiano fatto i compilatori dogli «Atti di Lipsia»
nel mese di giugno di quest'anno/ che non l'ho avuto ancora m
mano, ma si manderanno al signor Cirillo insieme con gli « Alti »
de* precedenti mesi. Dica ora il nostro signor Ippolito che poteva
farsi di manco rispondere a quelle inezie, non sapendo gli anda-
menti di quel Trasone? Se stimeranno cosi il signor Capasso e
signor Cirillo, crederei che con semplice sopracarta si potrebbe driz-
zar a Modena al signor Muratori un piego ben battuto e rifilato di
qxiesla Risposta, sicome si fece al signor Manfredo* in Bologna.
Dico questo, perché il signor cavaliere mi scrive in questa setti-
mana da Praga, aver ricevuto riscontro dal signor Manfredi della
Risposta avuta, e che colà si era letta con indicibil soddisfazione,
e se n'erano in tutte le conversazioni fatto solennissimo risate,
perché il buon padre Pauli procurava tenerla occulta, né faceva
motto alcuno d'averla ricevuta, forse mandatale dal suo caro ICgi-
35ÌO,4 sicome scopriron poi ch'egli sapeva il tutto, e taceva. Sicché
sicom'cgli procura nascondersi, giusto sarà che si sveli, e molto
più col signor Muratori, col quale scorgo che abbian fatta impres-
sione le sue rodomontate. Di ciò ohe mi scrive della risposta data
dal medico Buonoeorc5 all'agente di Parma potrà informarne il si-
i. il traduttore: Isaac Loys de Itochat (cfr, la nota i si p. 2x3). 3. sicome
sento . . * annoi cfr. «Acuì Kruditorum Liptiicnaium », giugno 17^2, Nova
tttterarm, pp. 202-3. 3. Molto probabilmente si trutta di lùtntaehio Man*
fredi (1674-1739), celebre «cioncato e letterato bolognese, i ondai ore del-
l'Accademia degli Inquieti (fusaai poi con l'Iatiruto delle «densa» di Luigi
Ferdinando Marnili) e corrispondente del Muratori. 4. suo caro ttyjzìo:
cfr. Memorie storico-critiche degli storici napoletani di b'ranceacanUmh Sona,
1, Napoli 17BX, p. 220: «Stava [cioè Matteo Kgizio) per entrare in forte
briga col Giannonc, il quale suppose ch'egli avesse avuta ninno nellVl/N
notazioni critiche acrittc contro alla tuia Storia dal padre Paoli» ma poi la
cosa andò buonamente a sopirai ». Ma cfr. anche Panjsiw, p. 67, e (Hanno»
niana, p. 126, 5. L'iachitano Francesco lìuonocore, allievo del Cirillo,
soggiornò per parecchio tempo in Spagna alla Corte, per poi ritornare in
Italia al seguito di Carlo III di Borbone, quale suo medico pernottale. Nel
1734 diverrà protomedico del regno di Napoli.
LETTERE II77
gnor Cirillo, il quale saprà farlo arrossire di queste vane e ridicole
politiche spagnole; quando io so che molti essemplari della mia
opera sono stati ricercati qui a' ministri spagnoli, li quali l'han
mandato a' loro amici, e n'hanno ricevuti eccessivi ringraziamenti.
Ma che bisogno vi era di Buonocore, quando mi scriveste che il
signor abate Garofalo ve ne avea fatto mandar quattro essemplari
in Fiorenza al signor abate Bottari,1 il quale in ciò ha più credito
e perizia di Buonocore, e questo dovea bastargli, e non andar cer-
cando altro.
Stupisco come il signor Leognani tardi cotanto di mandar la
consaputa rimessa,2 ed intanto io son tormentato dagli ufficiali
della Secretaria del Suggello, che avendo finito il lor travaglio,
ora si veggono differita la soddisfazione. Ciò servirà per l'avvenire
per mio ammaestramento di non intricarmi con simili persone.
Ne occorre rinovar nella mia memoria la spedizione del dispaccio
per Puisserver,3 e che si fosse scritto a Milano al signor Alario,
perché son cose da far stomaco a chi che sia, che quando altri
pagarebbero a peso d'oro simili dispacci per ottenerli, sicome ora
nel caso che, ottenuto, non ci sono nemmen denari per pagar i
diritti soli della spedizione. Non bisogna intricarsi in queste brighe
quando o non si voglia, o non si possa complire a quel che si
deve.
Rispondo in questa settimana al signor principe di Tarsia, che
m'ha favorito d'un grosso piego, e rispondo secondo il disiderio
del signor avvocato Capozzuti espresso nel suo viglietto trasmesso-
mi, e credo che il signor principe rimarrà soddisfatto della mia
attenzione ed opera, che fin ora ho impiegato per servirlo. Non pos-
so dissimulare che son rimasto sorpreso che il signor principe vuol
x* Forse il fiorentino Giovanni Gaetano Bottari (1680-1775), il principale
compilatore della quarta edizione del Vocabolario della Crusca (1729-1738).
Professore di storia ecclesiastica a Roma dal 173 1 e custode della Biblio-
teca Vaticana dal 1768, appartenne al circolo rigorista del cardinale Pas-
sione! e fu in relazione con gli ambienti giansenisti olandesi. 2, Stupisco . . .
rimessa: il cavaliere gerosolimitano Antonio Leognani si era rivolto al Gian-
none perché questi patrocinasse una sua causa in Vienna. Ottenuto il de-
creto desiderato, lasciò tuttavia passare lungo tempo prima di versare i
diritti di segreteria richiesti per la spedizione. Di ciò si parla a lungo nel-
l'epistolario giannoniano. 3. la spedizione . . . Puisserver: altra causa a lun-
go dibattuta, e terminata - come scrive il Giannonc nella lettera del 5 gen-
naio 1732 (Gìannoniana, n,° 444) - «in grado di nullità». Su di essa cfr., a
pp. 1158-9, la lettera del 24 agosto 1726.
117** LI2TTKRE
esser servito in due gravissimi alluri, ed in uno che deve impren-
dersi contro tutto un reggente di Collaterale quaVè il signor reg-
gente Paterno, ed in vece di mandar rimesse manda pieghi, perché
gli avvocati cominciano essi a spendere del proprio, oltre a metterci
la fatica. Il signor Capozzuti, che così bene lo consiglia ne' suoi
interessi, come poi si dimentica in quel che più importa, senza
aver almanco riguardo alla sua professione istessa. Il nostro signor
Contegna non faceva così quando si trattava di servire al signor
duca di Maddaloni; e poi si lagnano di passarsi uflici tardi e lenti,
ed intanto costà non ci vorrebbero metter altro che un par di let-
tere, cominciare e finire in raccommandazioni, ringraziamenti, ed
altre vane ed inutili parole. To vedrò doppo questa mia risposta,
e d'averlo servito in cosa che non pativa dilazione, che si farà,
per potermi regolare nel rimanente, per non esser destinato sem-
pre doppo il fatto a cercar mercede e pagamento.
Pure in questa istessa settimana il signor consigliere Grimaldi
mi favorisce d'un altro piego;' gli rispondo con questa letterina
che racchiudo, giacché i miei peccati vogliono cosi. Mi saluti cara-
mente il signor conte Perlongo,*5 sicome fo a tutti gli altri buoni
amici, e lo stesso facendo a' nostri Vestani, resto caramente ab-
bracciandolo.
XIX
A OAKLO (ÌIANNONK ■ NAPOLI
\yhmnti\ A' ~*J mttfffiio tyj'h
Non so come in questa settimana non mi siano giunte vostre let-
tere, quando ad altri sono capitate colla data de* 4 del corrente
mese, nelle quali si ragguagliava l'ultimo stato delle cose dì costà,
d'essersi anche reso il Castello dell'Uovo, e che fra giorni si atten-
t. Pure . * .pitgo: Gregorio Grimaldi aveva chiesto raccomandazioni a
Vienna; efr. la lettera del %% marzo (H.N.R., F.V.K. 359-360, e, 156):
«Ricevo con infinita pazienza la lettera del aignor Grimaldi, inclusa alla
quale trovo un'ultra diretta al signor Garelli, per un'altra nuova preten-
sione venutagli in testa ». K vedi anche la lettera del io maggio, in <ììan~
noniana, n." 454. a. Gaetano Perhn^o era reggente per la Sicilia nel Con-
siglio di Spagna.
XIX. A.S.T., manoscritti dannane, mazzo u, in». 16, A. Lettera autografa
indirizzata a Matteo Micaglia» il solito prestanome di comodo.
LETTERE II79
deva la resa del Castelnuovo, preparandosi intanto l'entrata del
principe don Carlo in Napoli con quella magnificenza conveniente
ad un tanto personaggio.1 Alcune lettere, spezialmente di Roma,
avvisano un fatto d'arme accaduto tra Monte Milone e Spinazzola
non lontano da Gravina; ma se n'attende la conferma per non es-
sere i canali molto legittimi, e di non essersi qui fin ora veduto
corricro alcuno; e l'arrivo fatto ieri qui del signor conte di Figue-
roa nemmeno ha giovato, o perché partì dopo il fatto, o pure
sapendolo, non ha stimato palesar il vero, per non far arrossire i
Catalani che cotanto in questa occasione esaggeravano le prodezze
del loro famoso Caraschetto.
Intorno al politico, chi scrive che si fa scrutinio sopra i ministri,2
per lasciar quelli riputati i più meritevoli, e cassare gl'immerite-
voli, e sopranumerari; altri, che si fosse per ora permesso a tutti
ritornare a' tribunali ad essercitar le loro cariche inflno ad altro
nuovo regolamento. A me premono più queste notizie politiche
che le militari, e sopra tutto di sapere i ministri che prevagliano
in cotesta nuova Corte. Da Sicilia si ha avviso che quel viceré3 da
Palermo siasi ritirato in Messina, per rinserrarsi nella Cittadella
in caso di bisogno ; e corre voce che siansi da qui spediti gli dispac-
ci ai signor conte de Cerbellon per passare colà viceré in luogo di
Sàstago, che si richiama.4 Veramente è compassionevole lo stato
di quel buon signore che, appena veduti i regni destinati al suo
i. si ragguagliava . . .personaggio: su questi avvenimenti cfr. P. Colletta,
Storia del reame di Napoli, a cura di N. Cortese, 1, Napoli 1957, pp. 96 sgg.;
II. Benewkt, Das Kò'nigreich Neapel ecc., cit, pp. 457 sgg.; M. Schipa,
// regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Napoli 1904, pp. 124 sgg.
(seconda edizione, Milano 1923, 1, pp. no sgg.); F. Nicolini, Sulla ri-
conquista sabaudo-borbonica del regno di Napoli, appunti e documenti inediti,
in La spedizione punitiva del Latouche-Tréville, Firenze 1939, pp. 163 sgg.
Il Castello dell'Uovo si arrese il 4 maggio ; Castelnuovo due giorni dopo,
il 6. Il principe don Carlo fece il suo ingresso trionfale in Napoli il io
maggio, z. scrutinio sopra i ministri', Carlo di Borbone ordinò un'inchie-
sta segreta su tutti i magistrati del Regno e, in base ai rapporti pervenutigli,
procede ad una profonda epurazione. Gli atti di questa inchiesta, assai
preziosi, sono tuttora conservati presso l'Archivio di Stato di Napoli.
3. quel viceré: il conte di Sàstago (cfr. la nota 2 a p. 136). 4. corre . . .
richiama : il conte Sàstago venne sostituito non dal Cerbellon (per cui cfr.
la nota 1 a p. 135), ma dal marchese José Antonio Rubi y De Boxadors
(si veda la nota 3 a p. 136). Il conte Cerbellon, che era stato spedito a Na-
poli per occuparsi degli affari critici del Regno, era per il Giannone «spe-
cialissimo padrone, con cui per molti anni ho passata somma confidenza »
(cfr. la lettera a Carlo del 13 marzo 1734, in Giannoniana, n.° 548).
Il8o LBTTERE
governo, è obbligato di scappar via; sicché meglio sarebbe stato
per lui di non partir da qui: come ragionevolmente se ne querela
la signora contessa sua moglie assai savia e molto letterata, spe-
zialmente intesissima d'istoria, colla quale facciamo spesso do-
glianze intorno all'infelice situazione delle cose presenti. Iddio ne
cavi il meglio. Intanto salutatemi gli amici, spezialmente il nostro
don Cirillo» signor I polito, ed il gentilissimo nostro signor Ca-
passe. E resto ansioso di sapere se il signor Mela abbia ricevuta
mia lettera, con salutarlo anche da mia parte e dirgli che fra breve
si vedrà sopra il Curtis,1 che si accinge tuttavia con molti altri alla
partenza per costà. Perciò devo incaricarlo che usiate ogni dili-
genza perché le vostre lettere mi sian spedite per sicuri canali,
perché le desidero non tanto per soddisfare la curiosità per le co-
se correnti, quanto per mia istruzione e norma per istradare le
mie cose con qualche prudenza, che un caso cotanto inopinato e
strano ricerca, la quale bisogna che sia grande, perché, alla ma-
niera che qui corrono le cose, cominciamo anche a tremare dei
proprio terreno che calchiamo, li resto caramente abbracciandolo.
xx
AD ADRIANO LANZINA V UM,OA, DUCA DI LAURIA* ♦ NAPOM
Illustrissimo ed eccellentissimo signore e padrone sempre colen-
dìssimo.
La singolare affezione, che per effetto di sua magnanimità e
cortesia si e V. K compiaciuta praticar verso di mo suo divotissimo
i. il ("urtisi dall'epistolario giunnoniano risulta che contro questi «tu in-
tentata una causa che nascondeva «la più sottile metafìsica legale» per
«la materia intricatissima citi* cambi» (cfr. la lettera del z$ giugno *73r,
in OiannonianUj n.° a8a)* Nel maggio del $73 1 il CurtÌH e a Vienna, forse
a caccia di raccomandazioni; nell'estate del 1732 è a Praga dove si mantiene
vendendo sete e drapperie,
XX. M.N.U., KV.K. 359-360, ce. aoS-aoo. Nel manoscritto la lettera e
numerata come pxxvxi; viene premessa ravvertenssa: «Quelita lettera fu
scritta al signor duca di Lauria UUoa, consigliere di Staio'». A «signor»
seguivano originariamente, poi cassate, le parole: «conte di Sunto Stefano
in Napoli - Marchese Tunucei». -■ 2. duca di Lauria: reggente del Collate-
rale sotto Carlo VI, ministro del Consiglio di Stato sotto Carlo III» presi-
dente del Sacro Real Consiglio e delegato della Regia Giurisdizione, quin-
di presidente della Camera di Santa Chiara dopo il 1735. Morì nel X740.
LETTERE Il8l
servidore, e quando molti anni già sono mi fece l'onore di aver
costà per quanto comportavano le mie deboli forze adoperato in
cosa di suo serviggio, ed ultimamente nel tempo della mia dimora
in Vienna, quando con gentilissima sua m'onorò de' stimatissimi
suoi commandi, mi spinge ora con fiducia d'indrizzarle questa
mia divota lettera. Ora prendo l'ardire di ragguagliarla della mia
necessaria partenza dalla corte di Vienna,1 da dove, correndo la
comune fortuna di tutti gli altri a' quali sopra i tenimenti d'Italia
eran stabiliti,2 e vedendomi mancare il proprio sustentamento for-
z'era che dovessi allontanarmi. La dura necessità mi costringe di
cercare essendo ormai vecchio in proprio suolo l'ultimo porto de*
miei travagliosi errori, e ripatriando cercare un sicuro ricovero per
passare que' pochi anni di vita che la bontà divina mi concederà
in riposo e quiete, vivendo a me stesso.
Fra' miei grandi protettori non ho potuto pensare un più efficace
ed affettuoso quanto la degnissima persona di V. E., la quale ben
informata di tutti i precedenti successi, non permetterà che da'
miei malevoli mi sia interrotta, anzi che l'autorità sua agevolerà
che quella quiete che io vado cercando la possi costà trovare ben
sicura e stabile. Io nel prendere concedo dalla Maestà dell'impe-
radore trovai nella medesima tutto il compatimento, e la di lei
clemenza ammise le mie potenti ragioni per irrefragabili, come
quelle alle quali non vi era altra risposta per risolverle, se non di
pensare per me nuovo assignamento sopra gli Stati ereditari au-
striaci : ciocché secondo lo stato presente delle cose, così per la di-
spendiosa guerra che preme, come per sovvenire l'innumerabile,
anzi, infinita turba de' Catalani che tiene sopra le spalle, che prima
vivean sopra la corrosa Italia, era impresa impossibile, non che
dura e disperata. Ne' primi ministri della Corte trovai altresì
compatimento, ma non già aiuto o speranza alcuna, anzi, in alcuni
approvazione della risoluzione presa e consiglio a mandarla presto
in effetto per tema di maggiori strettezze ed angustie, che sì pre-
veggono; e lo stesso trovai ne' miei buoni ed affezionati amici, i
quali conoscendo meglio che io i secreti e gli arcani della Corte,
1. partenza . . . Vienna-, il Giannone aveva lasciato Vienna il 29 agosto 1734-
Cfr. Vita, qui a p. 261. 2. stabiliti: sottintendi, gli emolumenti. Nel caso
del Giannone la pensione era stabilita sopra i diritti di spedizione della se-
greteria di Sicilia, ed era quindi venuta a mancare dopo che il regno delle
Due Sicilie era passato sotto i Borbone di Spagna.
II 82 LKTTKRK
come più intrinseci, mi confortarono a partire, per noti espormi a
vedere colà la terribile faccia delia miseria, inverso la quale par
che tutte le cose sarebbero andate a terminare.1 Sicché con permis-
sione di Cesare, e de7 suoi ministri ottenni permesso di ripatriarmi
e d'ubbidire a (pici principe che Iddio per ignote vie della sua
impenetrabile provvidenza avea fortunatamente dato a' Napoli-
tani.3
Giunto a Venezia, fuor d'ogni mia credenza, trovai il mio nome
in molta stima e riputazione presso il signor ambaseiador di Spagna,
signor conte di Fuenclara,J che mi accolse con somma gentilezza e
cortesia, come persona a lui nota e della (piale, come mi disse,
aveanc qui da molti avute ben distinte e vantaggiose relazioni: lo-
dando altresì la mia risoluzione di Spatriare ed offerendomi tutto
il suo favore e protezione. Gentilmente degnossi ordinar la spedi-
zione de' passaporti per Napoli; anzi, correndo giovedì scorso il
giorno del compleanno* del signor principe d'Asturias,'1 celebrato
da lui con molta pompa e celebrità, m'invitò che la sera io fossi
venuto in sua casa ad intervenire ad una gran serenata ch'egli
avea apparecchiata, sicome vi fui da S. li. accolto con distinzione
con gli altri soggetti di riguardo, ch'egli avea invitati. li sparsasi
per Venezia la notizia del mio arrivo, ebbi l'onore con mio sommo
rossore, essendomi io portato nelle Procuratorie di S. Marco,5 che
molti signori nobili e senatori, e spezialmente i signori Pasqualigo/'
Leonardo Diedo, Francesco Bettoni,7ed i senatori Canale e Riva,
e moltissimi altri vollero conoscermi e a lungo ragionar meco,
invitandomi con molta gentilezza nello loro case, dove fui accolto
con incredibile cortesia e trattato assai onorevolmente più di quel
che la mia graduazione e merito richiedeva, offerendomi anche
impieghi, e rimanere in serviggio della Repubblica,8 ma risposto-
gli che non poteva accettar altro servizio se non quello del mio
principe, e che il mio ardente disiderio era di morir dove nacqui,
i. Io nel prendere . . . terminare: cfr. Vìtaì qui allo pp. 254 «gg. 2. quel
principe . . . Napolitani: l'infante don Carloa, divenuto Curio III re di Na-
poli. 3. Per il conte di Fuenclara, ambasciatore di Spagna a Venezia, cfr.
la nota 2 a p. 262. 4. prìncipe d'Asturias : il principe ereditario Ferdinando
(1713-1759), VI come re di Spagna (6 luglio 1746). 5, Procuratorie di #.
Marco: cfr. la nota % a p. «87. 6. Per i Pasqualino cfr. le note r a p. 264
e 2 a p. 517. 7, Francesco limoni h menzionato anche nella Vitat qui a
p. 267 e nel Ragguaglio, qui a p, 520. 8, invitandomi . » . Repubblica: cfr.
VitC) qui alle pp, 263-4.
LETTERE 1183
me ne scusai, rendendo loro molte grazie dell'onore offertomi. Ri-
fiutati dunque i loro cortesi inviti per non mettermi a navigar
l'Adriatico nella rottura de' tempi, affrettai il proseguimento del
mio viaggio, che resta appuntato per l'entrante settimana, purché
i tempi lo permettono.
Porto tutto ciò alla notizia di V. E., pregandola nel mio arrivo
costà prender con vigore la mia protezzione, ed intanto prevenire
a quanto da' miei invidi potessero tentare per inquietarmi il mio
ritiro; e trovandosi V. E. degnamente collocata in cotesta real
Corte in quel sommo grado che meritano gli non meno antichi
che nuovi servigi, la prego far noti alla medesima questi miei umili
sensi di quella divozione che deve professare qualunque umilissimo
suddito ai suo naturai signore. Sicché possa esser riputato non
immeritevole di quella alta e potente protezzione che i principi
sommi e sovrani per atto di loro clemenza e benignità dispensano
a' loro più bassi ed umili servidori e vassalli. La lunga esperienza
che ho della cortesia e cordialità di V. E. verso di me mi fa sperare
che sia per esaudire queste mie divote suppliche che li porgo;
e pregandola mantenermi nella pregiatissima sua grazia, nella quale
ora più che mai mi raccomando, resto facendole profondissima
riverenza. - Di V. E., Venezia li 25 settembre 1734. - Divotissimo
ed obbligassimo servidor vero Pietro Giannonc.
XXI
AI) ADRIANO MANZINA Y ULLOA, DUCA DI LAURIA • NAPOLI
Illustrissimo ed eccellentissimo signore, signor mio sempre osser-
vandissimo.
Dalla mia precedente lettera,1 che le scorse settimane ebbi l'ar-
dire indrizzare a V. E., avrà conosciuto quanto mi è occorso nel-
l'arrivo che feci in questa città e la somma cortesia e gentilezza colla
quale io fui accolto dal signor ambasciadore di Spagna, signor
conte di Euenelara, ed avendomi continuato i suoi favori ed assi-
curato dagli amici che lo trattono che di me, occorrendo l'occasio-
XXI, B.N.R., P.V.K. 359-360, ce, 299-3000. Nel manoscritto la lettera è
numerata come pxxvm; alla dicitura: «Altra lettera scritta al signor duca
di Lauda Ulloa consigliere» seguivano, poi cassate, le parole: «al signor
conte di Sunto Stefano». - %* mia precedente lettera: in data 25 settembre
1734, qui alle pp. u8os#g.
II84 LETTURE
ne, ne parlava con distinzione, avendo da altri inteso che io m'ac-
cingeva alla partenza per costà: ini fece sentire per mezzo del signor
marchese Valignani1 che per mio maggior servizio avessi avuta la
pazienza di trattenermi qui qualche altra settimana: al che io pron-
tamente ubidii, così perché la dimora qui non mi riesce noiosa per
l'affezione e cordialità che m'usano questi signori nobili, e per
essermi ristabilito in perfetta salute, come anche per aspettare ri-
scontri delle grazie che costà m'avrà V. H. compartite, ed attendere
da qui migliori notizie, che serviranno per mia scorta e guida. Kd
avendo il signor marchese Valignani discorso col signor secretano
d'ambaseiada lungamente sopra questo dìsiderio del signor amba-
sciadore, per iseorgerne i motivi e le cagioni per mia regola, non
potò ricavarne altro che io stassi pur sicuro che S. K. avea tutta
la propenzione di favorirmi, e che questo trattenimento non era
per imbarazzarne. Da ciò non potei ricavarne altro che forse il
signor ambasciadore, avendo dato avviso a cotesta Corte del mio
arrivo fatto in Venezia, non volesse aspettarne da costà riscontro
per sua regola; ma questo non esclude il dubbio che non possa
essere per altra cagione, se mai da costà o dal secretano di Stato o
da altra persona còlta all'improviso, per qualche sinistra informa-
zione fattale da' miei malevoli/' non si fosse scritto al medesimo
d'andar sopra ciò con cautela finché ne avesse da cotesta Corte
nuovi riscontri. Io fin ora non ho avuto tempo per altri mezzi più
propri ed efficaci cavarne il netto, come spero ricavarlo nell'en-
trante settimana; perché nel primo caso non me ne prenderei molta
pena, lusingandomi di potersi prestamente rimediare; ma se mai
fosse per insinuazione suggerita da costà per istigazione ile* miei
malevoli sarebbe molto sensibile, giacché mi vederci esposto alle
loro calunnie senza che precedentemente si fosse fatto maturo esa-
me delle circostanze che concorrono di un suddito di potersi riti-
rare nella propria patria, quando all'incontro sono preceduti in-
dulti sì ampi ed universali, che non ne sono esclusi i delitti più
x, fcSi tratta dì quel Federico VaUfinmti% marchette dì Ccpugatti, autore di
Chieti, Centuria di sonetti istorici, Napoli 1739, opera dedicata n Ciarlo VI
e recensita negli «Aeta Krudìtorum LipmenHium », novembre 1730, nup-
plemento, pp, 530- jc, su «egnuluzione del Giannone. a. ma questo . . . ww-
levoli: sui retroneena che vietarono il ritorno a Napoli del Giannone vedi
le note in Vita, ed. Nicolini, \iy* 308-9. Nella ste»8a edizione dell'auto-
biografìa, alle pp. 441-6, e pubblicato il memoriale inviato dui G tannano
a Carlo III di Borbone (e efr» (Hanttoniana, pp. 41 -a)»
LETTERE ll8$
enormi di qualunque criminoso, ed io in me non posso ravvisare
delitto alcuno per i miei libri dati alle stampe, anche attenta la
condanna istessa di Roma, la quale non ci ha potuto trovare pro-
posizione eretica, sicome li brevi di Clemente XI qualificarono i
libri del reggente Argento, del consigliere Grimaldi e del signor
Riccardi, scritti nella controversia nota de' benifici,1 proscrivendoli
con clausole più terribili che non s'usarono nella mia opera, la
quale non soggiacque se non ad uno degli ordinari decreti di sem-
plice proibizione resa oggi familiare alle Congregazioni di Roma
sopra qualunque libro, che non vada a seconda delle sue massime
intorno all'immunità e lor pretesa giurisdizione ecclesiastica; ed
altro delitto non si potrà imputare alla medesima, se non d'aver
difeso con vigore e franchezza cristiana le supreme regalie ed alta
giurisdizione reale de' predecessori re di Napoli come veri monarchi
del Regno; anzi mi lusingo che, avendo la somma divina provvi-
denza a' nostri tempi fattoci vedere ciò che i nostri maggiori in-
vano sospiravano, e di sortire fortunatamente un proprio re,s non
possa ella aver uso più proprio ed adattato che in questi felicissimi
tempi, e nel nuovo sistema che il Regno va avventurosamente ad
incontrare. V. E., che per lunga esperienza e per propria penetra-
zione sa la costituzione del medesimo, ben comprende che io l'e-
spongo il vero e che scrivo con sensi di veracità, onde tanto più
mi comprometto, che con vigore sarà per intraprendere la difesa
della verità e per l'efficacia della valevole sua protezione sarà per
dileguare tutte quelle nebbie che forse gl'invidi avran potuto spar-
gere per malignarmi presso coloro che, come nuovi nel governo,
stanno esposti alle loro sorprese. La prego, per quanto possa in ciò,
della sua protezione, affinché, se mai per sinistre informazioni siasi
dato qualche ordine a questo signor ambasciadore di sincerarlo e
metter in chiaro la verità, affinché tolto ogni ostacolo possa ricevere
dal medesimo quelle grazie alle quali mostra esser disposto di
compatirmi. Sarà persona ben veduta da V. E., che in mio nome
porterà queste mie suppliche, sperando che siano esaudite, affin-
ché ritrovandomi qui, senz'espormi inconsideratamente a qualche
inquietitudine, possa ottenere quel onesto ritiro che unicamente
disidero per mia quiete, e regolarmi nell'avvenire ne' ulteriori pas-
si, sicché non lasci quelle opportunità che per amor della patria e
I* sicome li brevi . . . benifici*, vedi la nota 4 a p. 1140. 2. un proprio rei
nella persona dell'infante don Carlos*
75
II 86 LKTTBRK
della mia quiete mi trovo aver posposte. Tutto mi promette la
gran generosità ed affeziono che ha mostrato sempre per somma
sua gentilezza verso la mia persona, la (piale può ben compren-
dere in che grado d'obbligazione si vegga posta, e se quella sarà
sempre eterna, e da non cancellarsi in tutto il tempo di mia vita.
Iddio per consolazione di cotesto Regno conservi la distintissima
persona di V. K. per lunghi e felici anni ; e sempre più pregandola
d'esercitare in questa premurosa occasione gli effetti delle beni-
gnissime grazie, resto a V. K. facendo profondissima riverenza.
Di V. K., Venezia li 9 ottobre 1734. Divenissimo ed obbligatis-
simo servidor vero Pietro Gian none.
XXII
A CARLO VINCENZO KKRUURO DI ROASIO D'OUMKA1
TORINO
Eccellentissimo Signore
Nell'istesso tempo che adempio al mio dovere di dar notizia a
V. E. del mio arrivo in questa città di Milano, e di vivamente pre-
garla che si degni questo mio divoto e. riverente uiHcio spingerlo
in più alta e sovrana parte presso la Maestà d'un re" cotanto sag-
gio e glorioso: mi si olire la fortunata occasione di poter mostrare
a V. E. con segni manifesti e palesi quella divozione ed ossequio,
che ho tenuto nascosto nell'animo per lungo tempo, da che la
fama della stia gran prudenza, dottrina e savia condotta negli af-
fari civili del Regno ed ampi Stati di S, M. pervenne nelle mie
orecchie. Io per ciò ho sempre ammirato il distinto favore e speziai
benificenza di Sua Divina Maestà di avere ad un si grande e valo-
roso principe accoppiato un ministro cotanto savio e prudente,
ondo di necessità ne sia derivata quella felicità che sperimentono
i popoli che hanno la fortuna di essere soggetti al di lui equabile
e giusto impero; sicché riputava ancor mia felicità se mai un tempo
avessi potuto avere questo onore, servendolo, meritare le benignis-
sime sue grazie. Forse sarà nota a V. K. la mia lunga dimora nel-
l'imperiale corte dì Vienna di undici e più anni: dove la Maestà
XXII. A.S.T., manoscritti Ch'annone, mazzo in, ina. 3, ft, t. Autografo. -
x. Per il marchese d'Ormea cir. Vìta> qui a p. 309 e la nota 1 ivi. a, un
re: Carlo Emanuele III: efr, la noti* 3 a p. 338.
LETTERE II87
delP imperatore, alla quale io dedicai la mia Istoria civile del regno
di Napoli, volle che io mi trattenessi suo pensionano; ma i miei
stipendi situati sopra i regni di Napoli e di Sicilia, questi perduti,
fui costretto da dura necessità abbandonarla, mancandomi il ne-
cessario sustcntamento, doppo aver tentato ogni mezzo perché
altrove mi si assignasse l'equivalente ; ma riuscì vano ogni sforzo,
poiché la turba immensa de' Spagnoli che colà dimorano esclude-
vano i poveri Italiani, perché ad essi non fosser mancate le sov-
venzioni, poco curando che altri avessero da perir di fame; sicché
preso concedo da S. M. C. e da' supremi suoi ministri, i quali
nell'istcsso tempo che compassionavano l'infelice mio stato, si di-
chiaravano che non potevano darci rimedio, mi portai a Venezia,
dove da quella nobiltà fui caramente accolto,1 offerendomi la cat-
tedra primaria del ius civile dello Studio di Padoa, che si trovava
allor vacante;2 ma la mia professione di avvocato ed istorico es-
sendo tutta altra che di cattedratico, mi scusò di non poter ricevere
un tanto onore ; e mentre si pensava di provvedermi di altra carica,
avendomi intanto il senator Pisani di S. Angelo3 trattenuto in sua
casa onorevolmente, i Gesuiti instancabili miei persecutori, i quali
si trovavano avere gran potere sopra i tre Inquisitori di Stato di
Venezia per essere lor confessori, mi calunniarono presso i mede-
simi, che stando io in casa d'un patrizio veneto praticava di conti-
nuo con i signori ambasciadori di Francia e di Spagna; onde sotto
questo pretesto d'inconfidente mi ordinarono improvisamente e
senza darmi tempo di poter chiarire l'impostura che io dovessi
subito uscir da Venezia e dagli Stati della Repubblica, sicome per
dura forza mi convenne d'uscirne.4 Prego V. E. a compatirmi se
forse nel racconto d'un successo cosi strano le abbia recata noia
ed impedita per pochi momenti dalle gravissime ed importanti sue
occupazioni, poiché la benignità di V. E. ben comprende la pre-
mura che dovea avere d'informarne sinceramente a V. E.; e se
volesse degnarsi di averne più minuto riscontro da' suddetti si-
1. i miei stipendi . , . accolto; cfr. Vita, qui a pp. 251 sgg. 2. offerendo-
mi „ . . vacante il veneziano Domenico Pasqualigo offri, infatti, al Gian-
none, su incarico del fratello Giovanni, riformatore dello Studio di Padova,
la cattedra di lettere umanistiche di quella Università, resasi vacante per
la morte dell'abate Lazzaroni (cfr. Vita, qui a pp, 263-4). Su questa trat-
tativa e l'opposizione giunta da Roma cfr. Bertelli, pp. 213-4. 3. il se-
nator Pisani di *S\ Angelo : cfr. la nota 3 a p. 519, 4. i Gesuiti . . . d'uscirne:
cfr. Ragguaglio, qui a pp. 530 sgg.
I l88 LKTTKRK
gnori ambasci adori, maggiormente si accerterà di quanto con in-
genuità le scrivo, essere stata gabala de' Gesuiti, e che questo fu
un allettato pretesto: potendole que' signori render testimonianza
che se bene io avessi tutta ciucila stima e rispetto che dovea con
personaggi di sì alta categoria per li tanti onori che fuor di ogni
mio merito mi compartivano: non era niente vero che io frequen-
tassi le loro case e che vi avessi ciucila stretta confidenza, che i
Gesuiti diedero a sentire a' signori Inquisitovi di Stato.
Giunto qui a Milano, avendomi fatto insinuare per mezzo della
signora principessa Triulzi,1 mia singoiar padrona, al signor mar-
chese Olivazzi2 gran cancelliere, fui a presentarmi al medesimo,
che mi riceve con somma cortesia e gentilezza, al quale più di-
stintamente raccontai i miei successi e palesai il mio ardente desi-
derio, se mai potessi ottener questa grazia, che per ine sarebbe
segnalatissima, di militare sotto le gloriose insegne d'un re cotanto
saggio e valoroso. Ed ancorché fosse troppa mia presunzione, pure
osarci dire che ad un eroe cosi magnanimo e grande forse non man-
carebbe il suo l'rocopio-1 per poter eonsecrare all'eternità le alte e
maravigliose sue gesta'' fin qui adoperate, e le maggiori, che dal
suo valore e coraggio si presaggiseono nell'avvenire, degne ili chia-
ra gloria e d'immortal rimembranza, non meno di quelle ch'ebbe
a tessere colui del gran Giustiniano e del famoso Belisario. Mi lu-
singo che se mai V, E. sarà per interporre presso S. M, gli ettieaei
e vigorosi suoi uffici, de' quali cotanto supplico V. E., potrei otte-
nere un tanto e si inestimabil onore, onde le mie obbligazioni che
dovrò professarle non si estingueranno che eolla mia vita: pregan-
dola in ciò per quanto io possa della protezione di V. E, e di anno-
verarmi tra* suoi più fedeli ed umili servidori. E sempre più rac-
commandandomi nella pregiatissima grazia dì V. E. le resto fa-
cendo profondissima riverenza.
Di V. E. Milano li 18 novembre 1735. - Divotissimo ed obbli-
gatissimo5 . . . Metro Giannone.
t. principessa Trinimi: cfr. hi nota 1 u p. 305, 2. Il marchetu' (ìtorgio
Olivastri (cù\ la nota u p. 307) aveva proponto al Cullinone, durante la
brevissima permanenza di queatt a Milano, il posto di .storico eli eana Sa-
voia, che ora stato di Demanio Andrea Lama. 3, Prosapia di Cenami:
cfr. la nota i a p. 34. 4. maravtglhm* sue gettai Carlo Kmamiele III,
impegnato nella guerra di aueeenaione polacca, a capo deliVuereito franeo-
piemontosc aveva ottenuto sugli Auntriaei una vittoria memorabile a Cua*
stalla il 19 settembre 1734. $, abbi iratissimo: nel mammeritto negiumo
segni difficilmente decifrabili; con tutta probabilità: «aervidor vero».
LETTERE 1189
XXIII
AD ALESSANDRO TEODORO TRIVULZIO1 • VENEZIA
Caro signor principe Trivulzio
Le dotte vostre lettere e gli ammaestramenti che in quelle espri-
me non vi è dubbio che dovrebbero a me essere leggi espresse ; ma
come facciamo che i tanti miei persecutori non lasciano d'inquie-
tarmi e tentar la mia somma sofferenza e pazienza, e debba a lor
dare la causa vinta, quando per me «male appellatum», e per loro
«bene iudicatum»? e debbia andare la faccenda sempre al rove-
scio ? Fra tanti miei guai e disgrazie e mentre trattenevami in Mo-
dena con lusinga tener celato il mio nome;2 mi vidi un giorno di
repente il Muratori a farmi una visita, che non potei sfuggire
avendomi còlto all'improviso, e dopo vari discorsi che vi corsero
ben due ore, mi diede distinto ragguaglio del padre Bianchi San-
ciscano, che io anni a dietro, mentre dimoravo in Vienna, intesi
che travagliava sopra V Istoria civile per confutarla; e che a spese
del cardinal Albani ne avea già in Urbino dato alle stampe il pri-
mo tomo, ma lo teneva suppresso aspettando forse tempo migliore
per farlo apparire alla luce del mondo.3 Ma avendomi il Muratori
palesato la tessitura e la forza della confuta, mi ave con ciò detto
che non potea per ora si tosto uscir alla luce, essendo la fatiga labo-
riosa di più volumi, copiando quasi intiera V Istoria ecclesiastica* e la
mia, dove fa vedere la sua erudizione dando per assunto del libro
che li papi sono stati quelli che han dato la giurisdizione a' prin-
cipi, ed i principi l'han ricevuta da' papi, essendo la giurisdizione
de iure divino ; e non di ragion positiva, che perciò fu lodevolmente
variato, e che la Chiesa variamente praticò quest'elezioni. Il mio
dolore si ò che non sarà a miei tempi; e non avrò la congiuntura
fargli gustare una minestra simile a quelle feci gustare tanto a
XXIII. B.N.R., F.V.E. 359-360, ce. 35CW-352. Nel manoscritto la lettera
e numerata come DLXV. - 1. Per Alessandro Teodoro Trivulzio si veda la
nota 4 a p. 262. Questa lettera è in risposta a quelle del Trivulzio, in data
5 gennaio, 9 e 22 febbraio, pubblicate in Giannonianat pp. 527-30. 2. con
lusinga . . . nome: l'affermazione suona strana, perché l'ospite modenese
del Giannonc, Antonio Guidetti, era un conoscente del Muratori. 3. pa-
dre Bianchi . . . mondo: vedi la nota 1 a p. 127. 4. V Istoria ecclesiastica:
cioè VUistoire ecclésiastique di Claude Fleury (cfr. la nota 3 a p. 31), alla
quale il Oiannonc fu molto vicino per ispirazione.
II 90 LETTKRK
padre Sanfclicc come al padre Pauli;1 sicché poi noti dovrà lagnarsi
che una berlina sosterrà tutti tre insieme, e finire non solo a livi-
dure, ma a sangue, come andaron pelati quei due teste d'asini
presuntuosi.
Come dunque la penna deve star quieta," e non e tempo di ten-
tare i cani che dormano? quando questi stan desti più che cani
levrieri e vogliono approfittarsi dei tempo? Con all'occasione devo
dirli per ultimo scopo del mio sentimento fermo e eostante di
quanto ho scritto, stampato e quello ancora dovrò stampare, ac-
ciocché i principi dovessero aprir gli occhi e scorgere le tante usur-
pazioni fattale ne' loro Stati dagli ecclesiastici: poiché forse un
giorno per divina provvidenza sarà disposto clic quei miei scritti
sopra i quali ho travagliato in comporrli per lo spazio di dodici
anni che sono dimorato ozioso in Vienna (poiché Roma non po-
tendo ottener altro, impedì sempre che io fossi impiegato nelle
pubbliche cariche de' magistrati), ne* quali sono dimostrate verità
di gran momento ed importanti, nommeno a1 princìpi cattolici,
perché si accorgano delle tante usurpazioni e sorprese fattale so-
pra i loro principati togliendoli più della metà dell'imperio, che
Iddio sopra i medesimi l'ha conceduto: che a* loro sudditi, pro-
sciogliendoli da tante e sì dure catene, nelle emuli la vana supersti-
zione, l'altrui ambizione, avarizia e fasto gli tiene miseramente av-
vinti e ligati. Le quali mie fatighe avea io già destinate a' tarli ed
alle tignuole, poiché sotto cielo ed in italico terreno nou avrei»-
ber potuto certamente allignare. Forse, dico, avverrà che in altro
clima potranno vedere la chiara luce del sole, nascere, farsi grande
e volare da per tutto/1 Iddio difende a me e questi miei travagli
che non furono impiegati che per la ricerca del vero, cioè la eono-
1. una minestra . . . Punti: cioè, analoga alla Professione dì fede (ni veda alle
pp. 475 s#g.) e alla Risposta atte Annotazioni critiche (cù\ Vitat qui a pp.
3 10-3 e le note ivi)* 2. Come . . .quietai il Trivubdo aveva soonjiitflinto
il Giannonc dal rendere pubblico il suo Ragguaglio: «Toccante quella
scrittura, che mi confidaste, vi dico che sarebbe un sproposito il pubbli-
carla, è fatta in tempo che lu colera vi ha oiTuscato l'intendimento . , .
scordatevi di questo ciclo e di questo clima, e late capire che «prezzate le
piccole cose e che vi siete superiore» (lettera del 5 gennaio 1736, in (*ian*
noniana> p. 527), 3, quei miei scritti . . » tutto: il Giannonc allude qui al
Triregno e alla possibilità di una Hua stampa in Ginevra, potabilità che
era balenata dopo che Jacques Barillot si era impegnato» alla ime di feb-
braio del 1736, a subentrare a Marc- Michel Bousquet nell'edizione fran-
cese dell 'Istoria civile: cfr. Vita, qui alle pp, 3x0^4. Per riutero brano cl'r.
il Ragguaglio, qui a p. 554.
LETTERE II9I
scenza di lui stesso. Curerò poco le altrui insidie, proscrizioni e
maledizioni, purché egli gli protegga e benedichi : sicché possa con
verità e sicurezza repplicare ciocché il santo re Davidde solea dire,
PsaL 108: «maledicent illi, et tu benedices».1
In quanto alle lettere che mi scrivete2 ho dato Tincombensa al
signor Bousquet, il quale scriverà al suo corrispondente che faccia
ricerca delle medesime, e secondo quello gli avviserà farò in ma-
niera che pervenghino in potere del Canari3 sotto vostra direzione.
Spero presto vedere i lampi di Marte in riposo,4 e me levato da
paesi sospetti e riposto nel cattolico grembo di Santa Chiesa, ove
nacqui, e colà morire. Amatemi e difendetemi da tanti miei rumici,
e di vero cuore l'abbraccio. Ginevra 19 marzo 1736. Devotissimo
ed obbligatissimo servitor vero Pietro Giannone.
XXIV
A CARLO GIANNONE • NAPOLI
Dal castello di Ceva, li 13 novembre I741*
La diffusa sua lettera de' 24 dello scorso mese, resami la passata
settimana, non creda che mi recasse noia o disgusto per le tante
stravaganze che avete ivi affastellate. Né io pretendo che si rimova
da quelle, perché servono almanco per pascer l'animo di sì belle
idee. Non avrei però voluto che si ponesse a narrarmi fatti antichi,
che non sapete, de' quali io sono meglio informato, «et quorum
x. «maledicent . . . benedicessi Psalm., 108, 29: «maledicano quelli, ma tu
benedici». 2. In quanto . . . scrivete: nella lettera del 22 febbraio 1736
(Giannoniana, pp. 529-30) il Trivulzio aveva chiesto al Giannone di cer-
cargli le Lettresjuives, ou correspondance philosophique, histonque et critique
entre un juif voyageur à Paris et ses correspondans en divers endroits . . ., La
llaye 1736- 1737, in sei volumi. Si tratta dell'opera, tipicamente deistica,
del letterato francese Jean-Baptiste de Boyer, marchese d'Argens (1704-
1771). 3. Francesco Canari era il segretario del Trivulzio (cfr. Vita, qui a
p. 306). 4. Spero . . . riposo-, la guerra di successione polacca, che durava
dall'ottobre del 1733, aveva subito una battuta d'arresto con i preliminari
di pace di Vienna (3 ottobre 1735) e con l'armistizio di Mantova (1 dicem-
bre) firmati da Austria e Francia. Nel febbraio 1736 aveva aderito alla tre-
gua anche la Spagna. Passeranno, tuttavia, altri due anni prima che la pace
definitiva sia conclusa.
XXIV. B.N.R., F.V.E. 359-360, ce. 349-3500. Nel manoscritto la lettera è
numerata come dlxiv.
lìi)2 LKTTKUK
pars maxima fui », f e voi oravate allora fanciullo, né" di riputarsi a
quei tempi pupillo ed orfano, avendo padre e madre, ed io senza
alcun obbligo che mi stringesse vi chiamai in mia casa in Napoli,
dove ignudo veniste/ e stupisco in leggere in questa sua che tra-
sportò seco quel poco di residuo di roba, quando tutta rimase in
potere de' nostri genitori, della quale fu poscia dotata la nostra
sorella/ Non vorrei amareggiarvi gettando a terra il fondamento
d'una chimerica società che vi fìngete, pretendendo che dal niente
possa nascere alcuna cosa: «ex nihilo nihil fit ». Per la società si
richiede collazione dì roba ed industria personale, proposito e vo-
lontà di contrarla, ciocché tutto manca nel caso nostro. Che serve
adunque andarsi infrascando la mente di vaghe e generali dottrine,
tratte da Mtcaiorio4 ed altri autori di simil farina, le quali niente
han che fare col caso presente? Molto men noiosa dovea riuscirmi
l'estensione che avete data a questa immaginaria società facendola
volare sino a Vienna, dandogli ali sì spaziose ed ampie» che abbrac-
ciasse anche i guadagni da me ivi fatti, anzi la mercede stessa con-
feritami dalla Maestà deirimperadore. Gran virtù veramente han-
no tali società, poiché come ideali possono portarsi fin dove si vuo-
le. Quello che poi mi ha dato sommo piacere è stato di leggere quel-
la graziosa distinzione di spese fatte per cause illecite e men oneste,
le quali non entrano in commtmione e devono imputarsi solo a
colui che l'ha fatte. 11 grazioso consiste che voi applicate un testo
di Papiniano5 alle spese che per umana fragilità spesso occorrono,
e Papiniano parla di quelle fatte «oh maleficium ». Non credo
certamente che Papiniano riputasse maleficio le semplici forni-
cazioni. Se mi aveste allegato un testo di san Paolo, il quale nelle
sue epistole le condanna,6 siccome fa delle eommessazioni, ubria-
x* «H quorum. . ./;//»: efr. Virgilio, Aenn n, 6: «et quorum pars ma^na
fui»). 2. ed io senza . . . venisti*: efr, Vitat qui u p. 47, dove aggiungo che
fu lui a istradare il fratello «pria ne* studi di filosofia, poi in quelli di k*g«e
t\ finalmente, metterlo nella strada de* tribunali». 3, la nostra sorella;
Vittoria, andata «posa al medico Domenico Tura, di Vieste. 4. Mirato*
rio; si tratta di Hiatfio Micalori» giurista urbinate vissuto nel XVII secolo,
di cui cfr. Tractatus de fmtribu$% in tres parte* divisus « . . Additis in firn;
in hac nova impressione^ sexagìnta saerae romana** Motae deeiswnibus> (ìcne-
vae 1665. «5. Secondo la cosiddetta logge dello citazioni di Teodosio II
e Valentininno ili (426), Papiniano (morto nel zio) era uno dei cinque
sommi giureconsulti dei quali soli si poteva allegare nei tribunali le opi*
nioni, e, in caso di pariti, la sua opinione prevaleva su tutte le altre, L'au-
tonta papinianeu perduro fino a tutto il Settecento. 6, san Paolo . . , am~
danna; cfr. Vita, qui a p. 84 e la nota a ivi.
LETTERE II93
chczzc, mormorazioni e colpe simili, sarebbe stato comportabile;
poiché presso Iddio sono vietate e peccaminose; ma per le leggi
civili, che le permettono, né v'impongon pena, come volete che
siano comprese sotto la parola « maleficium » ? Con tal'occasione
mi avete fatto ricordare di quella piacevole novella del Boccaccio,
dove avreste potuto anche apprendere che tali spese ne* libri de'
conti s'ammettano ed hanno una speziai rubrica e son collocate
sotto questa: «Spese in dulcitudine».1 Veda adunque se questa
vostra lettera potea essermi di disgusto, quando mi è stata cagione
di molto riso.
Il decreto del re Davide anticamente praticato da' principi e
generali d'armate, i quali dividevano la preda fra* soldati che si
trovavano nella battaglia, e quelli che, pronti ancor essi per com-
battere, furono commandati alla custodia del bagaglio, sebbene
ora secondo la presente disciplina militare i bottini non si mettono
più «in communi», ma chi piglia piglia: come si adatti al caso
nostro, io noi comprendo. E non già che se n'abbia da attristare,
ma unicamente per sua istruzione, permettemi che io sol v'accenni
un altro decreto d'un gran senato proferito non già fra' soldati, ma
tra due fratelli, il minore de' quali pure senz'averci niente posto,
anzi alimentato dal maggiore, fantasticava ideale società e preten-
deva divisione, e separarsi. Il decreto che uscì sopra la sua doman-
da fu questo: «Esci di casa, e la divisione è fatta». E facendo fine,
resto caramente abbracciandolo.
x. «Spese in dulcitudine»: cfr. Decam., vili, io.
INDICE DEI NOMI
INDICE DEI NOMI
Abate, vedi Bernardo di Montmirat
Abele, 829, 849
Abia, 648
Abimclcc, 837
Abramo, 594, 598, 600, 635, 637,
«33» «75, 977, 978, 1029
Absirto (Claudio Hermcrote), 452,
453
Ab fi Hckr (Abubccker), 979
Abulcnsc, vedi Tostado Ribera A.
Acacìo, presbitero, corrispondente
di sant'Epifanio, 1013, 1014
Acacio di Costantinopoli, 707
Acanipora G. L., xxxr, 126, 166,
326, 362, 1126, 1127, 1128, 1149,
1150, 1156, u6r, 1162
Accio 1/., 452
Accursio, 867
Acerra, conte di, 11 32
Achille, 852, 1043, 1044, 1045
Acmone, 940
Acton J. F. K., 513
Adalulfo, 447
Adamo, xxu, 224, 228, 229, 594,
595, 596, 626, 627, 648, 649, 805,
8x8, 843, 846, 847, 848, 849, 850,
«56, 858» «75, 876, 888, 898, 908,
1027, 1080, 1095
Adone, 944
Adorno O. A., 42
Adriano, imperatore, 377, 779
Adriano I, papa, 459, 464, 725
Adriano IV, papa, j8o, 573, 577
Adriano VI, papa, 496
A fan de Rivera i\, duca di Alcald,
335
aitò l, 36
Agag, rti degli Amalcciti, 1037
Agamennone, 756
Agapcto, vescovo di Cesarea in
Cappadocia, 465
Agapito, duca di Sant', 150
Agamia Scolastico, 398, 7x2
Aghir, vedi Aguirre J.
Agilulfo, re dei Longobardi, 567
Agnello L., 1:25
Agnello di Napoli, 34, 35, 37
Agnesa, 484
Agostino A., santo, 43, 211, 224,
225, 229, 231, 429, 621, 624, 689,
690, 712, 716, 717, 718, 722, 736,
740, 744, 750, 762, 770, 774, 776,
777, 778, 787, 79i, 793, 795, 798,
799, 801, 802, 803, 804, 805, 806,
808, 809, 810, 811, 813, 819, 826,
829, 830, 832, 834, 839, 843, 844,
846, 847, 848, 849, 850, 861, 862,
863, 864, 866, 867, 868, 873, 879,
881, 882, 884, 886, 887, 888, 889,
892, 893, 894, 896, 898, 899, 900,
901, 902, 903, 904, 908, 909, 915,
921, 945, 946, 947, 952, 96o,
1000, 1016, 1024, 1025, 1027,
1033, 1036, 1037, 1039, 1049,
1057, 1092, 1094, 1096, 1097
Agostino di Canterbury, santo, 687
Agricola Gn. G., 1089
Agrippa A., console, 759
Agnppa Castore, 654
Agrippina minore, 1043, 1066
Aguirre D., 198, 11 44
Aguirre J., 198, 1135, 1144
Agustin y Agustin A., 22, 23, 41,
685
Aiace Tclamonio, 483
Ajello R, xxxvii, 93, 352
Almerico, figlio del re dei Visigoti
Teodorico I, 380
Aimoin, monaco di Fleury, 422
Aimone, 862
Aincmaro, vedi Hincmar
Ajone, 567
Alarico I, condottiero dei Visigoti,
381, 826, noi
Alarico II, re dei Visigoti, 385, 386,
387
Alario, 1177
Albani Alessandro, cardinale, xix,
346
Albani Annibale, cardinale, 127,
130, 144, 497, 5", 548, "89
Albani G. F., vedi Clemente XI
Alberico delle Tre Fontane, 491
Alberto Magno, 1059
Alberto di Santa Maria di Stade,
491
II 98
INPICK DKI NOMI
Alboino, te dei Longobardi, 421,
-423, 424, 506
Alboino presbitero, 491
Aibornoz J. C , conte di Monte-
mar, 242, 244, 247, 24<)
Aleasar, 850
Aleiato A., 41
Alcuni» di Yoik, 846
Aldobrandini I., vedi Clemente
Vili
Aldobrandino I*., 440,
Aldrovandi U., 1053, 1058, 1059
Alessandro, vescovo d'Antiochia,
718
Alessandro II, papa, 449
Alessandro 111, papa, 270, 471,
522
Alessandro VI, papa, 487
Alessandro VII, papa, 291, 910, 911
Alessandro Magno, 205, 940
Alessandro Severo, inipeiatore, 772,
77"
Alessio G., 1015
Alessio I Comneno, imperatore
d'Oriente, 31
Aldino B., 581, 582
Alexandre N., 104, 125, 437, 488,
548, 682, 713, 725, 855, 907,
920, 931, 933, 934» «fa;
Alieno Varo, 752, 8ia
Alleno, vedi Alfieri da Mugliano
G. A.
Alfieri da Mariano Ci. A., 345
Alfonso I il Cattolico» re delle Astu-
rie, 389, 391, 393
Alfonso V il Magnanimo, re di Ara-
gona, IV di Catalogna, I di Na-
poli, 275» 4<>7
Alfonso X, il SiiftKio o il Dotto, re
di Castella e di Leon, 391
Amaretti I«\, 992
'Ali ibn Ahi Tfdib, 953» 079
AliRhiori I)., 35, T20, 344, 552, 778,
788, 873, 877, 908, 1083
Alitto, famiglia, (5
Allacci L., 682
AlmarsB I\, 1136
Àlmur/a D. de, 9B, iox, 102, 115,
120, 132» 154, 155, 157, i<>4> i«A
197, 198, 202, 203, 1117, 1127,
1x32, 1x33, u 36, X152
Almcnura, marchese di, vedi Por-
tocarrero J, F.
Alt esena, vedi O.uhn ile Haute-
sene A
Althann K INI. von, cardinale, vi-
ceié di Napoli, XIV, \v, 9, 78, 79,
80, 88, 90, 104, 1 13, 130, i()(),
557» 5^5. nid, un;, 1125, 1133,
i*35» iH.l. »*7~
Althann \' von, 78
Althann I'ijmatclh M., contessa di,
7o\ 249
AHimari B., 458
Alvaica K. M., 92, 140, 141, 192,
x«)3, i<)7
Amabile L , xxxvi, 176
Amalanco, re dei Visigoti, 401
Anuilusunta, regina degli Ostrogoti,
.J17, 566
AmbiOKÌo, santo, 094, 717, 778,
814, 819, 825, 826, 830, 843, 844,
847, 8.|8, 849, 854, 855, 862, 878»
889, 894. 97 1> 1058
Ammaino Marcellino, 24, 399
Ammirato S., 420, 421
Ammonio, 655
Ampioo, 1045
Amurut, vedi Muràd I
Anassagora, 609, 011, 612
Anassarete, 1095
Anassimandro, 611, 61*1
Anassimene di Mileto, (in, tnz
Anastutftfi, vedi Anastasio K,
Anastasio, santo, 466, 848
Anastasio, patriarca di Antiochia,
7M, 7-51
Anastasio, patriarca dì Costantino-
poli, 438
Anastasio, vescovo di Tehsalouiea»
720
Anastasio I, imperatore d'Oriente,
3«S» 3<>7> 3<W. 402, (>97
AnaMasio Bibliotecario, 435, 4^7,
Anastasio K., 125, 126, 127, 128,
X29»47^» 1137» 1149
Anatolio, patriarca di Costantino-
poli, 401
Anchine, (hi, 940
Andrea d'Iscmia, 372, 456
Andreas de Bando, vedi Monello A,
Andreys F. de, vedi D'Andrea K.
Andriulli A., xxxi, xxxn
Anlìloeo, 772
Angelica, 871
INDICE DEI NOMI
"99
Angclis F. de, 33, 35, 36, 1132
Angiò Filippo d', vedi Filippo V re
dì Spagna
Anguillara, famiglia, 863
Aniano, cancelliere di Alarico II,
387, 388
Amo, sacerdote di Apollo, 756
Anna, santa, 876
Anna Joannovna, zanna di Russia,
226
Annibale Barca, 312
Annio L., 764
Anonimo Cassinense, 358, 420
Anonimo Salernitano, 421
Anonimo Val esiano, 399
Ansaldis A. de, 1159
Ansegiso, abate di Fontanelle, 57
Anselmo d'Aosta, santo, 859
Ansoaldo, 447
Antctnio, patriarca di Costantino-
poli, 707
Antctnio Procopio, imperatore, 409
Antimio, duca di Benevento, 467
Antinori, abate, 1134
Antioco V Eupatore di Siria, 1090
Antonino, arcivescovo di Firenze,
santo, 180, 478, 480, 488, 864,
865, 1167
Antonino da Piacenza, santo, 426
Antonino Pio, imperatore, 487,
856, 882
Antonio M., il triumviro, 761
Antonio da Padova, santo, 7, 293,
507» 53**, 538, 54o, 95i
Apollo, eretico, 809
Apiario, prete africano, 690, 691
Apis,944
Apollinare Ioropolitano, 654
Apollo, 1Ó9, 22 x, 756,775» 94o, 943»
951, 1028, 1034
Apollonio, 655
Apollonio di Tiana, 1093
Arbib L., 496
Arcadio, imperatore d'Oriente, 23
Arcaroli D., 349
Archelao, 611
Archimede, 862
Arduino, vedi Hardouin J,
Arezzo F. M. d', vedi Casini F. M.
Arcante, 901
Argens J.-B* d', 927, 97&"
Argento C, 197
Argento G., xm, xiv, xv, xvn,
xxxvxi, 40, 41, 43, 44, 45, 47, 52,
59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66,
67, 7o, 74, 81, 88, 89, 92, 95, 98,
101, 102, 106, 107, 108, 116, 171,
172, 173, 174, 175, 192, 196, 197»
349» 350, 351, 353, 354, 360, 362,
375» 476, 558, 1113» 1129, 1170,
1185
Argonne N., 854
Ariani A., 990
Arias Montano B., 851, 854
Arichi II, duca di Benevento, 214,
423, 454, 467, &$, 567
Ario, 31, 411
Anoaldo, re dei Longobardi, 447,
566
Ariosto L., 132, 244, 419, 846, 878,
1163
Ariperto II, re dei Longobardi, 432
Aristea Proconnesio, 1024
Ansteo, 1036
Aristeo, figlio di Apollo, 941
Aristide, 654
Aristone T., vedi Tizio Aristone
Aristotele, 16, 51, 612, 613, 614,
645, 751, 774, 812, 816, 947,
1017, 1018, 1020, 1022, 1047,
1050, 1055, 1059, 1060, 1064;
1084
Armellini A., 267
Arminio, vedi Harmensz J.
Arnauld A., 909
Arnisaeus H., 444
Arnobio, 655, 1056
Arrigo, arcivescovo di Sens, 470
Artemidoro, 766
Artemidoro di Efeso, 1025
Asburgo, principi, 3
Assalonne, 854
Asserbachio T., vedi Hasselbach
Th.
Astaroth, 944
Astarte, 944
Asti D. A. d', 571, 1156
Astolfo, 846
Astolfo, re dei Longobardi, 429,
430, 432
Asturie, principe delle, vedi Ferdi-
nando VI, re di Spagna
Atalarico, re degli Ostrogoti, 394,
400, 409, 412, 413, 417, 566, 712
Atanasio di Alessandria, santo, 692,
723, 724, 848, 86i> 894, 971
1200
INDICI': DISI NOMI
Ataulfo, re ch'i Visigoti, 380, 381
Atenngora, 22«), 655, 811, 838
Ateneo, 1053, 10^9, tono
Atenodoro di Tarso, 767
Atlante, 941
Attila, ic demi i Unni, 380
Attlnio, 1030
Aubignc T.-A. d\ 170
Augusto, (>. <iiulio Cesai e Otta-
viano, imperatore, 22, 222, 225,
425, 639, 648, 740» 74 1> 744.
75i» 75-s. 755» 759, 760, 761, 763,
765, 770, 084, 103.1, 1035» io»5,
1068, 1069, 1085, 1089, 1094
Augusto II il Forte, re di Polonia,
144, 226, 238
Augusto IH, re di Polonia, 210,
226
Aulisio I)., XVI, XXI, XXV, XXXI» IO,
20, 24, 26, 27, 32, 40, 5N» 73. 74.
7**» H*> 34<), 350, 355» 362, 375.
5***. $$*, S«4i 742» 744» 773. 774,
809,811,8x4,816,832,841,843,
QOi, 915, 023, 028, 035, 030, 047,
961, 998, tooi, 1004, 1102, 1128,
X120, 1130, 1135, *U»
Aureliano, impeiatore, 787
Auria, gesuita, 1169, 1170
Ausonio I). M., 24, 426
Àuturi, re dei Longobardi, 4 18, 4i<>>
420, 421, 424. 435
Autperto A., 467
Avalos A. d\ marchese di Pescara e
del Vasto, 86
A venni i N., fu 6
Averroè, 613
Avertiti C. d\ 1152
Avicenna, 613
Avito, imperatore, 382
Azuni, figlia di Adamo, 850
Bacchilo, 655
Macchini B,, xxtv
Bacco, 606, 777, 782, 941
BUck L., 620
Bacone R, 54, 582, 645, 929, 934
Badaloni N., xxxvn, 581, 625, 737,
99*> 993> 994. 1000, rooj
Baditela, vedi 'Potila
Buglioni C, 435
Balaam, indovino, 1037
Balbani N., 3x6
Baldassarre, uno dei re magi» 868
Baldo degli Ubaldi, 372, 457, 494,
495
Balduino K., vedi Bauduin Ki.
Balestrino, marchesa di, 225, 238
Balsamone T., 657
Baiti, principi, 370, 380
Baluze fi., 411, 685, 686
Banduri A , 2$, 400, 422
Baiìcz I)., 906
Banier A., 950
Baranello, nuuchese di, 2i(>
Barberini ('., 149
Barberini K., cardinale, 149
Barberini M., marchese eli Coi esc,
149
Barberini M., vedi Urbano Vili
Bai berini II., 149
Barbeyrae J., xix, XX, 792, 794. 795»
796, 810, 840, 9-4-1
Barellaseli J. C., 1130
Barekhuusen, vedi Barehuscn J.C.
Bardasane, 655
Barillot J., xvu, 322, 323, ^z$, 338,
991, ti 90
Barnaba, santo, 744
Barnaba (vangelo di), «31
Barncveldt J, van, 1008
Barone C, 99
Baroni» C, 22, 384, 399, 436, 437,
449. 561, 689» 878, 917» W> Wt
935. 949, 965, 966, 967, 968
Barth K., 595
Bartoletti I. o (»., 297
Bartolo di Sassoicrrato, 372
Bartolocci GM 880
Bartolomeo d'Arieiwa, 301
.Bartolomeo da Rinonieo, 180, 478,
1167
Basii ide, eretico, 654
Basilio I il Macedone» imperatore
d'Oriente, 445
Basilio di Cesarea, «unto, 467, 670»
H29, XS$> «45» «47» M> «49»
861, 868, 97 1, 1049» 1058
Basilisco, imperatore d'Oriente»
707
Basnage J., 910, 970
Basnago S., 970
Battisti C, 1015
Bauduin (Balduino) Fr,, 41, 784»
7«5
Bay M. de, 904, 905
Bayle P,, xvi, xxiv, 3, 583» 588» 614»
INDICE DEI NOMI
1201
736, 738, 748, 793, 9i6, 917, 918,
OT9, 921, 922, 923, 1003, 1004,
1048, 1061, 1070
Buy us, vedi Bay M de
Bcaufort L. de, 738
Bcaurcgurd l., xxvn
Beausobre I., 971
Beccaria C, xvnt
Bcda, il Venerabile, 687, 846, 847,
855, 862, 86^, 868, 873, 920, 965
Beddevole J., vedi Bcntivogho J.
Bedell W., 542, 543
Begey M , 791, 797
Beke N. van der, 407
Bekker B , xxiv
Belcredi G. B., 139
Beici ztm, vedi Gebeleizim
Belfagor, 944
Belisario, 399, 414, 1188
Bellarmino R., 436, 497, 498, 921,
<)23
Bellini B,, 37
Belloveso, 312
Bellucci A., 55
Belmonte, principe di, vedi Pigna-
tolli F. di Belmonte
Belo, 941, 944
Belvedere A., 1134, 1x38
Bembo 1\, 35, 36
Bemporad, editore, xxx
Benavidea, famiglia, 288
Benavides y Aragón F. de, conte di
Santisteban del Puerto, 18, 265
Benavides y Aragón M. de, conte
di Santisteban del Puerto, 264,
7.65, 266, 277, 278, 283, 284, 288,
5«8, 551, 552, 1180, X183
Benedetto da Norcia, santo, 467,
Benedetto XIII, papa, 114, 117,
123, 125, 126, 141, 143» 151»
i$6t 161, X65, 172, 200, 205, 206,
265, 476, 477, 548, 549, i*35>
1143, 1156, 1169
Benedetto XIV, papa, 152, 346,
1*45
Benedetto Levita, 390
Benedikt li., xxxvi, 78, 90, 91, 92,
97, 99, X09, *H> «6, 135, 139,
170, 171, 175, 192, 930, **32>
3CI33, M35» 1*55, 1X75, 1179
Beno (Benno), cardinale, 491
Benoist fi., 586, 748
Benoit J., 971
Bensoni, vedi Benzoni S.
Bentivoglio J., xxvn, 591
Bentley R., 991, 992
Benzoni S., 94, 11 12, 1119, 1142,
1148
Berardi, stampatore, 281, 283
Berardi M., 334, 335
Berengario I, re d'Italia e impera-
tore, 454
Berenice, santa, 826
Bermudez, 1165
Bernardo di Chiaravalle, santo, 470,
717, 860
Bernardo di Montmirat, detto Ab-
bas Antiquus, 494
Bcrnicr F., 581, 953, 955
Bernouilli Jacob, 1061
Bernouilli Johann, 1061, 1063
Beroso, 883
Bertelli S., xxvin, xxxv, xxxvi,
xxxix, 9, 78, 80, 107, 108, 113,
143, 186, 265, 279, 302, 304, 319,
322, 338, 345, 346, 349, 476, 509,
511, 517, 534, 1116, 1117, 1125,
1141, 1168, 1187
Berthé de Besaucèle L.7 625
Berti A P., 55
Bertoldo Costanziense, vedi Ber-
toldo di Reichcnau
Bertoldo di Rcìchenau, 491
Bettoni F., 267, 280, 295, 520, 521,
527, 529, 530, 1182
Beveridge W., 665, 666
Bèze Th. de, 900
Biagio da Morcone, 457
Biamonte R., xxix
Bianchi G. A., 127, 128, 168, 511,
535, 548, 1189
Bibaculo M. Furio, 761, io 12
Bigatti, 306, 308
Bignè M. de la, 380, 11 18
Bignon J., 43^
Bignon J.-P., 1074, 1075
Bill J., 541
Bingham J., xvn, xx, xxi, 587, 660,
665, 666, 676, 678, 682, 683, 685,
686, 687, 688, 690, 691, 692, 693,
694, 695, 699, 704, 7o6, 7^5, 745,
840, 874, 924, 926, 972
Bione, retore, io 11
Biscardi S., 41, 44, 35°
Boccaccio G., 36, 484, 572, 11 93
76
1202
INDICK OKI NOMI
Boc.eardo (Boecarto), vedi Bocharl
S.
liochart S., 568, 509, 600, 611, 635,
740, 801, 802, 944
Bochat, vedi Loys de Bochat
Boetius N., vedi Bohier N.
Boerio (Bocrius) N., vedi Bohier
N.
Boezio S., 416, 417, 100S
Bohier N., 373, 430, 431, .157
Boiardo M. MM <>oo, 007
Bolanos (Bolagno) J., 98, ioo, 155,
192
Bolza, 1147
Bonacei G., xx, xxx, xxxi, xxxn,
54, 349, 3<>o, 3<u>3"2, J64
Bonapaee tt., »<)(>
Bonaventura, santo, 864
Bonetto A., 431, 457
BoniYùre. J., 851, 855
Bonifacio, corrispondente di Gre-
gorio III, 438
Bonifacio 1> papa, 6gi, 7*9» 72*»
722, 725, 726
Bonifacio VIH, papa, 487, 493,
496, 497, 498, 590
Bonnant G>, xxxvi, 188, 272, $z$
Bonnoval A., 930
Bonnevul CI. do, generale, 142, 551
Bonneval C.-A. de, 113
Bontinok 1«\, 930
Borbone, principi, 3, 276, uSi
Borghese C, vedi Paolo V
Borrelli M., 5$
Borromeo C, «unto, 121
Borromeo- Arene CI,, 0.5
Bortoni G,, 64, 476
BosHuet J.-B,, 205, 9701 97 *
Botmrì G. G., 1151, 1x62, 1 177
Bouillier V.t in 5
Boulninvilliers II. de, 976, 983
Bourrel J., 851
Bousquet M.-M, xxvm, 6, 188,
2x2, 213» 281, 304, 306, 307, 311,
313» 3X4» 3*7, 3^0, 320, 321, 32»,
333» 3*0» 5»3» 9*7, 99*, 902, 99<>,
1175, 1190, rx<;t
Bowcr A., t86, 524
Boycr J,~B. de, marchese d'Argens,
X191
Bradwardine Th., 904
Braga G. B,, 1061
Brahmà, 955
Brancaccio, famiglia, 1071
Brancaccio V. M., 3^
Brancaccio S., 32
Brauhacti M., 58.), 1 143
Broglia, vedi Solaio di Bicglio G.
R.
Brenkman II., 571, S72
Bivrewood E., 587, 087, 607, 050
Brigida, .santa, 4.1.1
Bnoi M., ou, 083
Bn.sson B., 22, -jt
Brosseiia M., 1 04 1
Brnughton J , oi<>
Brovvn II. K, 280
Brune! l\, 992
Brunilde, regina merovingia, 919,
02it 922
Bruno (}., 583
Bruno di Magdoburg (Brunone),
4-9 *
Brunswick- Luncburg G. A., 09
Bruto, IVI. Giunio, 759, 70»
Bruyn ('. de» 953
Bruzen de la Martinietv A. -A., 957»
95*
Buchanan G., 1008
Buekley S., 180, 187, 188
Budde (Buddeus) J. t\, 795, 840
Biute <>., 41
Buflier C, xxxi» 359
Buonunatei B„ tizH
Buonanni K., 487
Buonarrighi CJ., 739
Buonocore I«\, 1176, 1177
Burckard J*, ttoi
Burnet G,, 582
Burnct Th., 643
Buabceq G. (), de, 1020
Buxnelli M. I)„ 542
BitttHon II», h ,\à
Buteone, vedi Bourrel J.
Buti, Franceneo dì Bartolo da, 778
Bynkerwhoek C\ vnn, 559
B&sowhIo A., 967
Cacaee I..» na<)
Caco, 756
Cadmo, 94 1
Cafaro C, 1159
Cu furo F,, 1159
Cataro N., 11 59
Cattò, 1 1 34» j 139, 1 1 52, x 1 56, 1 160
Caino, 849, 850
INDICE DEI NOMI
I203
Caissotti C. L., 509
Caligola, imperatore, 761
Calltscn G., 491
Calopresc G., 51
Calvino G., 131, 904
Calvo, G. Licinio, 889
Cam, 597, 604
Camillo, M. Furio, 754, 938
Cammerota F., 1144
Campo IX, 429
Campori M., 360
Canaan, figlio di Cam, 597
Canal M. C, 508
Canale, senatore veneziano, 1182
Canari (Canary) F., 306, 308, 310,
3". 3*7, 322, 339, 1191
Canciani P., 430
Candee Jacob M., 990, 992, 993
Cannarozzi C, xxxiv, 15, 78
Cano M., 1167
Cantelli G., 106 1
Canta C, 737
Capasse) N., 49, 50, 73, 78, 79, 81,
173, 177» *8z, 349, 362, 363, 375,
478, 625, 1103, 1104, 1105, 1124,
1134, 1146, 1148, 1149, 1153,
1156, 1x62, 1163, 1164, 1165,
1166, 1167, 1175, 1176, 1180
Capece G., marchese di Rofrano,
70, 149, 164
Capecelatro F., 56, 358
Capitone T., 82, 289, 973
Capottiti, avvocato, 1177, 1178
Cappelli L., xxxi
Capponi F., 1159
Caputo G., 59
Caracciolo, principe di Marano,
47
Caracciolo A., $6, 357, 358, 420
Caracciolo F,, 42
Caracciolo G. G., marchese di Vi-
co, 316
Caracciolo di Torcila A. C, 277,
a88
Carafa C, 42
Carafa F\, duca di Frosolone e mar-
chese di Maranello, 61, 354
Carafa G., 244, 245, 248, 249
Carafa M,, duca di Maddaloni, 99,
150, n66, 1178
Carafa-Quìroga, duchessa di Fro-
solone» madre di Francesco Ca-
rafa, 61
Caraglio, marchese di, io
Caramelli G., io
Caraschetto, 1179
Caravita D., 382
Caravita N., 18, 1127
Caravita P., 457, 458
Cardano G., 1059
Cardoino, famiglia, 316
Cardoino A., 316
Cardoino C, 316
Cardona, principessa, 118, 119
Cardona A. Folch de, arcivescovo
di Valenza, 88, 98, 102, 116, 119,
121, 135, 163, 585, 1073, 1115,
1125, 1134, 1135
Cardona J. Folch de, 118, 119, 137
Canberto, 447
Cangnam, 1123
Carisio, FI. Sosipatro, 1013
Canstia C, xx, xxxn, xxxiv, 76,
561
Carlo I d'Angiò, re di Sicilia, 276
Carlo II, re di Spagna, 18, 58, 62,
126, 130, 132, 277, 288, 1134
Carlo III di Borbone, re di Spagna
(VII come re di Napoli e Sicilia),
153, 214, 242, 244, 245, 24% 248,
254» 265, 274, 275, 276, 277, 283,
284, 511, 543, 55*> 1131, H35,
1176, 1179, li 80, 11 82, 11 84,
1185
Carlo V, imperatore, 62, 197, 277,
316
Carlo VI, imperatore (III come re
di Spagna, VI come re di Napo-
li), xni, xiv, 60, 62, 63, 80, 90,
96, 98, 99, ioo, 102, 109, no,
136, 164, 198, 262, 276, 283, 288,
302, 353» 475, 5ii, $15> 5&4,
1073, 1074, 11 12, 11 14, 1135,
1139, 1140, 1180, 1184
Carlo Vili, re di Francia, 276, 407
Carlo Emanuele III di Savoia, re
di Sardegna, xvm, xix, xxin,
238, 240, 308, 512, 514, 591, 732,
734, 11 86, 11 88
Carlo Magno, imperatore, 30, 57,
214, 35i, 390, 400, 401, 430, 437,
453, 454, 459, 461, 499, 559, 5^5?
567, 846, 1071
Carlomanno, re d'Austrasia, 459
Carlomanno, figlio di Cario Mar-
tello, 463
1204
indici-: m«:r nomi
C'arlo Martello, 401, 463, 472
Ciarlo di Tomi, 430, 442, 457
Cameade eli Cirene, 818
('monte, 1082, 1083
Carpenler N., 812
Cartesio K., vedi Descartes R.
Casanova <ì. (»., 3
Casaubon I., 204, (>oi
Casini K. M., 113
Casini I\, 00 1, <)<>2, <)03, <)<H<
Classano, baroni* di, 70
C'assumo C, <>ojj
Cassio Longino, (»., 7«>o
Cassiodoro, 24, $$, 386, ^)i,t 308,
3gg, 400, 402, 403, 404, .105, 400,
408, 412, 4«3i'M4. *M5» 7tA H«i,
«73
Castellamontc A., 312
Castellani C, xxix
Castelli, 1134
Castelli I)., 173, 183, ri 60
Castelli K. A., 5, 75. 7<>> °o, 11 12,
ii34» H3g, H47
Castelli R, 183
Castore, 041» <M4i «)S>
Castriotu N. I»., 1148
Castro, padre olivetano, $z$
Catalano O.» 143, 152, 15?, 161,
561
Catilina, L. Sergio, 383
Catone, M. Poreio, detto il Censo-
re, 236, 528, iooo, toio
Catrou F.» 053, 055
Cattaneo R, 308
Catini e J.» xxvu
Catullo, Ci. Valerio, 752, 761, 1012,
1085
Cavaniglìa, vedi Colonie A., mar-
chese di Cavanillas
Cave W., 582, 587» 682, «86, 088,
606, 072,' 973
Oeclreno* vedi Giorgio ('edreno
CeilHer R.» 705, 8.jo
Celestino 1, papa, 684, 6gi, 002,
7x0, 721, 725
Celestio, 003
Celio Rodigino, vedi Rieehieri L.
Cclotti 1*., 267, 2tjo, 537
Celso, 1040
Cenci 8., 210
Cerbellon (Serbellon), Castel vi J.
lì., conte di» 135» **7<>
Corda y Artigón, L. F. de la (duca
di Medmaeoeli), 18, 48, 30, 4^
52, 58, 125, 58.*., 1 102
Centone, 800
Cerere, 600, <;.j 1
Cerinto, 774, 8og
Cerra, eonte della, 1 50
Ceivantes M., 2.15, 858, 8o<>, 871,
IOO<), 11 12
Cesa, 1 132
Cesare, (J. Cuilio, 441, 750, 760,
7<>i, 1012, ioO<>, 1008, ioo<),
io8<)
Cessa T., <n, i 100, uro
Chamo, O35, <M.|
Chapuis A., xxv u
Chardin J., 053
Chateillon S., 602, 633
Chénevc Ch.» 314, 328, jaì), 330,
•U>» .U*. J.U. .U4
Chiesa F. A. della, 925, 973, 1077
Chigi I«\, vedi Alessandro VII
Chinda.svimlo, re dei Visigoti, 380
Chioecarelli lì., .162, 407
Chisciotte» vedi Don Chisciotte
C:hishull K.» (uo
Chiosano T.» principe di, 00
Chopptn U., 408
Cian V.» 330, 1007
Cìbele, 6 io, o.ji
Cicerone, M, Tullio, (>ju, 750, 7«,;2t
777, 816, 810, 822, 832, 838» 8,*}.},
801, 036, 046, 08.J, 1007, 1008,
too<), roto» lou, 1012, 1030,
1031, 1032, 1033, *034, 1036,
io.jo, J04K» 1078, 1083, 1085,
1087, 1089
Cicerone, Q. Tullio» 1031
Cienfuegos A., 130, 143, r 5 r , 152,
«53» «54* *.S5> !<>"*> i<»«» »75> *7<>>
30<), n 65
CilWntes, de Silva y Menezea l\,
conte di, 97» 238
Cillis, vedi De Cillis R.
Cintila» re dei Visigoti, 380
Cipriano, vescovo di Cartagine e
padre della Chiesa» «unto, 4<;o»
<)$$> 665, M. <>7<>i 7M» 7^A 722,
723» 7K7, «21, 820, 838, 848
Cipriano Cistcrciense, vedi Cipria-
no de la Iluerga
Cirillo di Gerusalemme, minto, 8n,
8«4. «55» H6i
Cirillo N.» 40, 51, $Jtt 68» 74» g6,
INDICE DEI NOMI
1205
349, 375, 583, 625, 1102, 1103,
1105, 1113, III4, H16, 1124,
1130, 1136, H39, 1143, 1144,
1146, 1153, 1157, n6o, 1166,
1169, 1175, 1176, H77, "So
Ciro, re di Persia, 1038
Ciron (Ciromo) I., 41, 42, 370, 384,
385. 387, 389, 39i
Clarkc S., 620, 991, 992
Claudia, 873
Claudia Procula, 873
Claudiano, Claudio, 24, 381, 382,
1043
Claudio, imperatore, 661, 662, 761,
764, 1043, IO°6
Claudio Ap., decemviro, 763, 764,
1001
Claudio Hermerote, vedi Absirto
Claudio Mamertino, 24
Cleri, re dei Longobardi, 566
Clelio, cavaliere romano, 1060
Clóment N., 1075
Clemente IV, papa, 503
Clemente V, papa, 493
Clemente VI, papa, 488, 489
Clemente VII, papa di Avignone,
1x7
Clemente VII, papa, 496
Clemente Vili, papa, 906, 907
Clemente XI, papa, 63, 64, 65, 88,
102, 103, 125, 126, 127, 143, 144,
154» 346, 475, 477, 497, 548, 584,
1140, 1153, 1x85
Clemente XII, papa, 99, 152, 200,
205, 254, 346, 59i, "69
Clemente XIV, papa, 43
Clemente Alessandrino, 655, 832,
«35> 836, 837, 861, xon
Clemente Romano, 723
Clemente S., 711
Clenardo, Clenardus, vedi Beke
N. van der
Cleombroto, 1032
Clio, 986
Clori, 1045
Clorinda, 90 x
Clotario II, re dei Franchi, 447
Cluver Ph., 426
Cocito, 220, 222, 879
Cola A., 309, 310
Colapictra R., xxxvn, 126
Coleti N., 574, 575
Colati S., 355
Colie R. L., 619
Collatmo, L. Tarquinio, 826
Colletta P., 1179
Collins A., xvi, 640, 736, 748
Colombo A., 1075
Colombo C, 487
Colome A., marchese di Cavanillas,
«33
Comba E., 316
Comite Natale, vedi Conti N.
Commercio A. de, 1158
Commynes Ph. de, 408
Comparato V. I., xxxvni, 64, 79,
557, 582, 583, 792, 793
Comparelli G. B., 18
Concina D., 895
Condé, L.-H. de Bourbon, principe
di, 1136
Condillac, Bonnot de É , 735
Confucio, 955, 956
Coniglio G., xxxvu
Connan F. de, 41, 409, 444
Conradt I., 621
Conrmg H., 370
Consenzio, corrispondente di san-
t'Agostino, 863
Contarmi G., 302, 509
Contarmi N., 982
ContegnaP., 78, 99, 150, 557, 1103,
1114, 1117, 1157, 1166, 1174,
1178
Conti A., 8, 267, 280, 295, 508, 520,
521, 530, 737, 991, 994, 995, 1000
Conti M., vedi Innocenzo XIII
Conti N., 959
Conversano, Acquaviva d'Aragona
G. A., conte di, 92, 93, 257
Copernico N., 1075, 1136
Coppola A., 11 32, 1136
Cornelio, centurione romano, 716
Cornelio, papa, 711
Cornelio T., 59
Cornelio a Lapide, vedi Cornelis-
sen van den Staen C.
Cornelissen van den Staen C, 855,
876, 877
Corner (Cornaro) A., 267, 295, 302,
305, 520, 527, 530
Corona G., vedi Menochio G. S.
Corrado II, imperatore, detto il Sa-
lico, 454, 559, 567, 568, 569, 570
Corrado III, re dei Romani, 450
Corrado di Lichtenau, 491
izo6
iNDic.M ma NOMI
Correr K. A., 287, 518
Corsano A., xxi, xxxn, xxxiit,
XXXIV
Corsini B., marchese eli Casigliano,
354
Coisim LM vedi Clemente XII
Corsini N., cardinale, xvin, xix
Cortanzc, marchese di, vedi Roeio
di Coitanze IC T.
Cortes J. L., 371
Cortese N., 41, -j 3 , 352, 117»)
Croscia F., 200, 20t
Coscia N„ cardinale, 151, 153, 162,
173, 2too, 201, 205, 206, <>,og,
i«35> *r43> 1 «55
Cossart G., 680, 68 s, 600, óoi, 606,
704, 706
Cosso Cornelio, console, 750
Costa G,, vedi Lacoste J.
Cosi adoni A., not
Costante T, imperatore, 712
Costantino, metropolitano di Cipri,
4<>5
Costantino I il Grande, imperatore,
22, 23, 28, 2% 30, 31, 55, 233,
377, 444, 457, 4<>3, 4fM> <>54, 655,
656, ^57, °5^, 659» 060, 66i, 663,
664, 665, 066, 667, 668, 675, 676,
678, 670, 600, 702, 7*3, 725» 745,
773, 777» 7«7» 7HH, 884, 026, 952,
964, 082, 1034
Costantino V Copronimo, impera-
tore d'Oriente, 437, *|62, 464
Costantino VII Porfirogenito, 422,
424
Costantino II, antipapa, 458, 450
Costantino A., xxu, xxtn, 585,
586, 044
Costanza d'Altavilla, imperatrice,
% 30» 575. 57f>
Costanzo II, imperatore, *y\2
Cotolier J.-IJ., 824
Cotes R., y<)2, 903
Coti, segretario di ICugenio di Sa-
voia, 1173
Cotogno U., 52
Covurrubias y Leyvu I),, 391
Coward W„ 587, 618, 610, 620
Cimisi O., <)8a
Cromaselo Cordo, A., 741» 750» y(n
Crescendi P. di»', 1137
Creacimbeni G, M., 55, 1128
Crevier J.-tt.-L,, 734)
Custofano, 46 1
Cristofolini I*., ()ZJ
Crivelli O., 268, 5-:i
Cioce H., xxx, xxxvi, 350, 1155,
1 161
Crodegungn, veseovo di Metz, 466
Cronografo Sassone, 401
Cruz K. de la, ii<;<>
Cudworth KM 618, (>zo
Cujas J., 26, 4». 315, .\$o% 357, 370,
3^5» 3^7. 3<>i,3<V<» 444,447» 4-^,
440, 451, 1131, 11 57
Cumberland R., 70.1, 80.), S17
Cupido, <mo
Cui eie» C., x\XV
dirti I<\, 457
Curtis, ri 80
Curzio IVI., 1087
Curzio Rufo, (J., 765, 1002
Cusano (Cusant) IVI. I*., .558, z(>it
-163, zMì
duini, 1122
Cypriano de la Huergn, 853
Dadin de Mantenerre A., 370, *8o,
381,38^,383,384,385,^86,387,
380, 4<u, 4,68, 677
D'Afflìtto H., u, *^>
D'Afflitto M.» 373, -108, 458
D'Afflìtto N.. 68, 60
Dagon, 044
Daìlle, JM 600, 704» 7(>H, K40
Date A. vim, 736
IV Alessandro A., 457, 767, 768,
IOI3, IG02, I0(>3
Dalida (Dalila), 855
Dahnasas, 1158
Damasceno, vedi Giovanni Dama-
sceno
Damaso I» papa, 657, 7^1, 850
Danno, <).fi
D'Andrea K., 41» 43, 44, 50» 350,
35», 35-i, 354» 373. 5**-*
IV Andrea G., 50, w,$t 35^
Daniele, profeta, 845, 1020, 1037
Daniele da lsehttelht, 15
Dario, re di Pernia, 664, 1081
Darmon (Orman) J. A.» 100, nu
U37» **3v, H4H
Durmon L., tua
Dato, duca di Toscana, 447
Dattilo S., 1*23, 1155, 1163
Dattoli 1«\» U47
INDICE DEI NOMI
1207
Daun, Wicrich Ph. L., von, xm,
60, 63, 65, 74, 88, 142, 239, 353
Davide, re d'Israele, 231, 487, 554,
603, 648, 859, 861, 875, 893,
1008, 1080, 1097, noi) 1193
Daviso di Charvensod M. C, 408
De Benedictis G. B., 64, 79
De Bude E., 324, 927
Deciano T., 388
De Cillis R., 89, 95, 107, 108, 173
Decio, imperatore, 787
Decio F , 494
Decio Mure, P., 1087
De Crescenzio G., 77
De Dominis M. A., 157, 541, 561,
582, 5«7> 928
Degen (Schegk) J., 613
De Giovanni B., 43, 582
Della Casa G., 835
Della Noce A., 357, 410, 422, 469
Della Porta G. B., 72
Della Porta N>, 72
Della Valle P., 954, 955, 977, 1018,
1083
Delmmio G. C, 35, 36
De Luca G. B , 373, 1158, 1159
De Luca F. M., 876
De Magistris G. A., 346
Demetrio di Faloro, 36, 1008
Democrito, 6x2, 742, 751, 752,
1005, 1084
Denari, vedi Odofredo Denari
Denis M., 96, 1076, 1137, 11 67
Derham W., 992
De Rosa L., xxxvm
De Rudero G., xxx, xxxn, xxxm,
4» 3f>3» 586
De Samnitibus M. C, xvn, 593,
615, 663, 680, 710, 712, 716, 991
De Sanctis F., xxx
Descartes R., 4, 33, 35, 49, 5°> **°>
483, 581, 586, 587, 619, 621, 624,
625, 626, 627, 631, 632, 633» 635,
638, 64r, 642, 643, 644, 645, 646,
647, 998, 1002, 1017, 1075, 1103
Desiderio, re dei Longobardi, 454,
459» 461
Desmaiscaux P., 957
Desmonceaux de Villeneuve, xxvn
De Tipaldo K., 93
Dousing A., 613, 614, 615
De Vita G., 207
Dcyling S., 586, 587, 588, 602, 618,
619, 620, 621, 639, 640, 742, 942
Diana, 940, 944
Diana A., 815
Di Capua G., 1135
Di Cesare, 1151
Di Costanzo A., 56, 357, 358, 359,
361
Didimo, 451
Diedo L., 11 82
Diels H., 1084
Di Giovanni B., xxxvn
Di Maio M., 90, 105, 113, 1122
Diocleziano, G. A. Valerio, impera-
tore, 426, 457, 787
Diodoro Siculo, 204, 219, 221, 222,
223, 601, 603, 607, 608, 609, 610,
624, 633, 635, 638, 639, 756, 769,
866, 882, 883, 939, 942, 943, 998,
1012, 1028, 1078, 1082, 1083
Diogene di Apollonia (?), 1048
Diogene di Sinope, 160
Diogene Laerzio, 34, 1011
Diomede, 864
Dione Cassio Cocceiano, 22, 1020
Dione Siracusano, 1092
Dionigi d'Alessandria, santo, 655
Dionigi il Certosino, 864, 871, 877
Dionigi di Corinto, santo, 654
Dionigi il Piccolo, 681
Dionisio, vescovo di Milano, 693
Dionisio Cartesiano, vedi Dionigi
il Certosino
Dionisotti C, 308
D'Ippolito V., 81, 349, 362, 375»
1103, 1105, 1131, 1146, 1160,
1166, 1169, 1176, 1180
Diri, 635
Dite, 1036
Di Vittorio A., xxxvin
Dodwell H., xxi, 4, 587, 620
Dolce L., 437
Dolfin P., noi
Domenico di Guzmàn, santo, 480,
481
Domiziano, T. Flavio, imperatore,
778, 779
Domnina, 826
Donatello d'Ischitella F., n 24
Donato F. A., 16
Don Chisciotte, 858, 869, 871, n 12.
Doria A., 87
Doria C, 99, 115, 119» 120, 149,
183, 1144
ijìoH
INDICI'] DM NOMI
Doria I». IVI., 44
Doria S,, cntdinale, 205, 206, 210
D'Orléans I\-J„ ()s<)
Doroteo, giurista bizantino, 18,
101 1
Douaren K,, 41
Doujat J., ji, 32, 370, 7JN. 730
Druso, 1044
Duini, 1 147
I)u C'angc, Dui resile Ch., 443, 451,
45-s
Duebesne K., 080
Duck A.» 53, 35 r» JtS-4» 3'» 5» .*<>*>»
37o, 3«»i 3*o\ .W, 3<M
Duguet J.-J., 7.14, 7.? 5
I)u Cialde J.-b\ <)s<)
Duleito, 844
Ou Lignon »., iKH
Dumoulin Cb., 125, 372, 573, 784
Du Moulin I*,, 016, 017, oh), 020
Duns Scott» Ci,, 16, 33, O13
Dvi l'ernm, J. Davy, cardinale, 170
I)u Pin L. K., xvn, xxxui, 4, roX,
204, 355, 437, 541, 561, 582, 587,
O05, OO4, 665, 066, 667, 068, M«),
670, 672, 673, 674, O75, 676, 077,
08o, 68 1, 683, 684, 685,601,602,
697» 703» 7©4. 705» 714» 7i5. 7^5i
745, 794, 884, giy, 020, 021, 024,
026, 028
Durante G., 405
I)u Tillct J., sieur de La Bussiere,
Jl»7
Kekbardt J. <*., 400
Kouba, 852
Kfrem, nanto, 84 <)
Kgeria, 043, ioa8
Kgesiu di Cirene, 822
Kgisippo, 654
Kgiìsio M.» 80, 211, 276, 359» 557,
1107, 1131, 1 r70
Klia, profeta, 846, 893
Ubano CI., 600, 1020, 1021, 1043,
1047, 1056, 1050
Kliodoro, santo, 805
KlinabcUa, santa, 648
Kliaabetta di BrunNwick-Woifen-*
bOttcl-LUnehurg, imperatrice,^,
1*24
Elisabetta Farnese, regina di Spu-
gna, X32, 242, 266, 274
Kliu Musate, 632
Klpidio, medico di Teodorico, 417
Kniiho I»., 370, 381
Ktnma dei conti di Lecce, 56
Kmpedocic, 1048
Knaiio, 103O
Kneelado, to^.s
Knea, (hi, 740, 040, to<n
Knctonc, 04 \
Kril*c\\\w>vti D., Osò
Knnio Q , 1087, 10**5
Knnndio, M. I\, 3<>7, 308, 41 1,415,
712
Knoeb, 845, 846
Knrico l, re di Germania, 454
Knrico II ti Santo, imperatore, 5O0,
, 570
Knrico IV, itupei suore, ,\t)0
Knrico VI, imperatore, 30, £0
Knrico IV, re di l'Yaneia, 41, 170
Knrico VII, re d'Inghilterra, 858
Molo, <)$l
KpicUM», 34, !<»<), 483, 0i.ì, 742,
75L 75-i» 8r0, Xnu toH,\
Kpiianio, santo, OOo, non, 707, 700,
848, 840, H.S5» «<»4, «7o» 875,
1013, 1014
Kpittcto, tot 1
Kruclio, (>K5
Kruclito, 837, 1084
Krawmn da Rotterdam, 4^0, 884,
065, n3t
Krcbcmpcrto, 50, 35*8, 420
Krcole, 755, 750, 757» 1*40, io8<j
Krhard j., O44, 1017
Krmeiu'^iUlo, sunto, iu8
Krmogcufcmo, giurista romano, 457
Krmotino ('la/.omcnio, 1036
Krodc Amìpu» 648, OO2
Krodc il Grande, re dì Giudea,
7-14
Krodoto, 204, 221, Ooo, 60 1, 0o6,
607, O08, 630, 664, 756, 037, 039,
04O, tou, 1024, 1033
Kna i\ A., 210
Khìu\ 843, 855, 873
K«calona, duca di, vedi Vitbcna,
J. M. F. Paebeco, marcbeHC <li
Kscidapio, 040» 95 1 , 1036
Ktttlru, 224
KMÌodo, 600
ICsmandia, 141, HJ2, x<;3, t<t$> 207,
308
Knpm '/,. U. van, 4*» 42, 142» 288,
INDICE DEI NOMI
1209
541» 587, 924> 928, 1102, 1107
Esprassia, 462
Este, casa d', xn, xiv, 301
Estibius Psychalcthes, vedi Coward
W.
Etmuller M., 1123, i*57> 1161
Eucheno di Lione, 855
Eufrasia, santa, 878
Eugenio III, papa, 470
Eulogio, patriarca di Alessandria,
7i4
Eumenio, retore romano, 24
Eunapio, storico greco, 24
Eurialo, 901
Euripide, 609, 611
Eusebio, vescovo di Nicomcdia,
787
Eusebio di Cesarea, 31, 204, 232,
610, 611, 636, 637, 654, 655,
658, 664, 784, 806, 813, 824, 873,
881, 882, 884, 964, 1034
Eusebio di Samosata, santo, 724
Eusebio Filopatro, vedi Sanfeli-
ce G.
Eustazio, vescovo di Berito, 669
Eustassio di Tessalonica (?), 609
Eutanco, principe del ramo degli
Amali spagnoli, 417, 566
Eutichio, esarca di Ravenna, 433,
434, 435
Eutimio, 862
Eva, 626, 627, 846, 847, 848, 850,
876, 898
Evagrio Scolastico, 395, 707, 964
Evandro, 756
Evurico, re dei Goti, 380, 382, 384,
385, 388, 389
Ezechia, re di Giuda, 1081
Ezechiele, profeta, 875
Fabio d'Anna, 457, 458
Fabio Massimo, Q., il Temporeg-
giatore, 1070
Fabio Massimo Allobrogico, Q.,
337, 342
Fabre J.-C., 968
Fabn F., 520
Fabricius J, A., 656, 960
Fabroni A., xxvm
Fabrotus C. A., 26, 437
Fages H. D., 874
Falcando U., 410
Falcone di Benevento, 358, 420
Falconila, 488
Farnese O., duca di Parma, 242
Fasano T., 72
Fatmi G., 419
Favila, padre del re delle Asturie
Pelagio, 393
Favre A., 40
Favre J.-C, vedi Fabre J.-C.
Faye B., 409
Faye J. de la, 586, 602, 640, 748,
761
Federico, figlio di Teodorico I, re
dei Visigoti, 380, 381, 393
Federico, langravio di Hessen-Kas-
sei, 318
Federico, duca di Saxe-Gotha, 318
Federico I d'Aragona, re di Napoli,
275, 560
Federico I Barbarossa, imperatore,
270, 449, 450, 522, 568, 577
Federico II, imperatore, 30, 56,
325, 326, 448, 456, 457, 559, 576,
1162
Federico II il Grande, re di Prussia,
nói
Federico Augusto di Sassonia, vedi
Augusto II il Forte, re di Po-
lonia
Federico Augusto II, elettore di
Sassonia, vedi Augusto III, re di
Polonia
Felice A., procuratore della Giudea,
884, 885
Felino Sandeo, vedi Sandeo F.
Ferdinando il Cattolico, II (V)
d'Aragona (III di Napoli, II di
Sicilia), 275, 389
Ferdinando I d'Aragona, re di Na-
poli, 275
Ferdinando I il Grande, re di Ca-
stiglia e di Leon, 391
Ferdinando I d'Asburgo, impera-
tore, 205
Ferdinando II d'Asburgo, impe-
ratore, 1041
Ferdinando VI il Saggio, re di Spa-
gna, 119, 262, 275, 11 82
Ferecide di Siro, 1083
Fernel J., 615, 616
Ferrante M. di, 115 x
Ferrara F., xxxvn
Ferrara N., 74
Ferrara Aulisio N., 11 28, 1129
1210
indici: dei nomi
terrori V., santo, 117, n8, 874
Fesro, S. Pompeo, 452
Festo Poreio, vedi Poreio Festo
Feza, 407
Figueroa, conte, ti 79
Figueroa, contessa, figlia del mar-
chese di Rialp, 114
Filallete, vescovo di Cesarea, 672
Fi lesuc J., 460
Filippi, archivista, 328
Filippo, 655
Filippo, antipapa, 459
Filippo, duca d'Angiò, vedi Filip-
po V, re di Spagna
Filippo II, re di Macedonia, 760,
864, 1090
Filippo II, re di Spagna, 143, 162
Filippo IV, re di Spugna, 159, 253,
3x6
Filippo V, re di Spagna, 39, 57, 58,
60, 62, 132, 134, 135, 242, 266,
5>73> 275» 277, 283, 353
Filippo G., 842
Filone di Alessandria (Filone K-
breo), 636
Filone FDrennio (Filone ttiblio), 610
Filostorgio, 24, 656, 964
Filostrato FI., 609, 1093
Finalino, 310
Fiorclli G., 982
Fiorentino (Marco Kmilio), 437
Fiorentino F., xxxvi
Fiori o Fiore N., 91, 93, 1109,
aito, ii 12
Firmiliano, vescovo di Cesarea, 679
Fischer von Krlach J. K., 205
Fiaeìo Illirico (Matthias Vlacìch),
066
Fieischmann A. F. von, 90
Ficury A.-II., cardinale, 215, 238
Flcury CI., xxxm, 31, 464, 466,
468, 582, 6(>y, 920, 931, 934» </>8,
969, 1189
Fleury F., 331
Floro, L. Antico, 739
F'ocas, imperatore d'Oriente, 9K),
921, 92», 923
Fodale S., 561
Folco IH, conte d'Angiò, detto
Nerra (il Nero), 686
F'olco da Cividale del Friuli» 443
Fontanini G., 349, 350, 363, 443,
475, 476, 5*°, **68
Forastico F., 170
Forlosia N., xvn, 205, 217, 259,
326, 557, 5«4, 1073, io74, 1075,
^ 1077, 1150
Fortunato, destinatario di un'opera
di Tertulliano, 82 1
Fortunato, vescovo dt Aquiloia, 61)3
Fouquet N., 1009
Fozio, patiiarca di C'osi antinopolt,
603, 638, 639, 660, 707, 1012,
1078
Futggtanni N., 93, X75, 195, 524,
uro, X164, xx(>6
Fraggianni S., uxo
Framondo, vedi FYoidnumd L.
Francesca da Rimmi, vedi Polenta,
Francesca da
Francesco d'Assisi, santo, 180, 479,
480
Francesco Borgia, santo, 131
Francesco Caracciolo, santo, 43
Francesco I di Valois, re di Fran-
cia, 41
Franchis F., 82, 484
Franciosini L., 869
Franck G. C, 1x58
Franekenau G. K. F. von, 371
Francois J., 267
Frangipani O. M., <)o$
Frati C,, 64
Freccia M., ti 49
Freher M., 4x8
Freinshcim J., 738, 739
F'roidrmmd L., 908
FVosolone, duca di, vedi Carafa F,
FVosolone, duchessa di, vedi Cara-
fa-Quiroga
Frouliba, moglie di Pelagio re delle
Asturie, 393
Froullay, marchese di (ambasciato-
re francese a Venezia), 280
Fu bini M., xxxv
Fuenclara, conte di (ambasciatore
spagnolo a Venezia), 262, 5x8,
551, 1x82, 1x83
Fue ter K., xxxu, xxxiv, 966, 968,
069
Fuller N., 568
Gabriele, arcangelo, 869, 977
Gaio, giurista, 386, 388
Galba, Servio Hulpicio, imperatore,
761
INDICE DEI NOMI
I2II
(«aleno Claudio, 4, 51, 452, 453,
613, 1040, 1063
Galeotto, 35
Galmm C, 49, 58, 152, 156, 359,
900, 1145
Galiani F., xxx, 258, 1145
(ialiOV J.-B.-G., 316
Galizia N., 80
( Julia Placidia, 381, 690, 691
Gumuliele, 744, 783, 784
Gamba B., 267, 1103
Gaquere F., 968
Garelli G. B., 96, 256, 1174
(barelli F. N , xvn, 37» 49, 96, 97,
ioo, 106, 112, 116, n8, 119, 131,
142, 182, 186, 196, 203, 205, 255,
25<>> 325, 326, 3<>3» 363, 47^, 55i,
584, 1073, 1074, 1076, 11 14,
u 15» 11 16, 1117, 1119, 1128,
1130, 1136, 1137, 1143, 1144,
1145, 114». **49, X150, 1151,
x*53» **5«, 1157» 1158, 1169,
1174, **7**
Garet J., 4x5
(Janbotto C, 139, 1175
Garofalo B., 128, 173, 174, 183,
»<)$, 363. 477, 47**, 500, 517, 52*1»
558, 584, 1103, iios, 1149, 1151,
**53, 1157, 1163, 1168, 1171,
1172, xi73> 1x77
(rasch JM 143
Gaspare, uno dei re magi, 868
Gaaaemli I\» 4, 33, 34, 35, 4»» 49,
50, 581, 6x6, 633, 646, 11 02
Gaudioso, santo, 467
Gaulruehe I',, 959
(rassicr A., 815, 908» 909, 911
Gebule i/,im y 607
Gelasio I, papa, 401, 402, 703, 707,
720
Gellio A.» xon, 1013, 1022, 1025
Gemelli, 1x39
Gemma C, 1064
Génébrard G., 848
Gennaro, vescovo di Benevento,
«anto, 82, 86, 89, 90, 91, 92, 95,
XX2, 426, 479, 5«8, 693». ixxx
Gennaro, preside del Sannio, 404
Genovesi A.» xvnx, 258
Genserico, re dei Vandali e degli
Alani, 3N0» 397, 7°7
Gentile G., xxx, xxxi, xxxn, xxxm,
359» 3<>*> 363» 364
Gentilotti von Engelsbrunn J. B.,
100, 205, 584, 1073, 1074
Geoffroy C.-J., 1015
Geoffroy É.-F., 1015
Georg Callisen, 491
Georgisch P., 430
Geremia, profeta, 486, 604, 862,
875
Gerhoh di Reichersberg, 491
Gerhnt, moglie di Folco da Civi-
dale, 443
Germanico, Giulio Cesare, 1044
Germano I, patriarca di Costanti-
nopoli, santo, 438
Germon B., 443
Gerson J. de, 471
Gcsner J. M., 739
Gesù Cristo, xxiv, 228, 229, 230,
233, 235, 236, 260, 271, 412, 439,
440, 467, 479, 480, 481, 488, 493,
494, 497, 500, 501, 502, 588, 589,
622, 626, 648, 649, 650, 651, 659,
660, 665, 666, 679, 686, 699, 700,
702, 708, 711, 713, 715, 7i6, 720,
721, 722, 723, 725, 744, 772, 776,
782, 783, 787, 808, 809, 810, 820,
821, 827, 828, 830, 833, 835, 837,
849, 859, 860, 861, 862, 863, 864,
865, 866, 868, 870, 872, 873, 875,
882, 883, 884, 893, 905, 906, 908,
918, 947, 961, 977, 978, 1001,
1038, 1040, 1096
Gherardcsca Ugolino della, 35
Ghezzi (Ghezi), marchese, 267, 520
Ghilini G., 517
Giacobbe, 594, 635, 1029
Giacomo, parente di Gesù, 650
Giacomo il Minore, vescovo di
Gerusalemme, santo, 716, 723,
867
Giacomo di Edessa, 849
Gian Gastone de' Medici, granduca
di Toscana, 257
Giannantonio P., xxxvi
Giannettasio N. P., 49, 374, 44°,
1102
Giannone C, 15, 38, 47, 7©, 72, 76,
82, 95, io7, 138, 166, 173, 180,
197, 362, 543, 558, 735, 1075,
1103, 1104, 1105, 1106, 1109,
1114, 1117, 1120, 1122, 1125,
1128, 1130, 1132, 1134» "35,
1142, H43, H4<>, "47, 1148,
1212
INDITI? OHI NOMI
1151, 1152, 1153, U55, 1156,
1x57, uno, 1162, n(>3, 116,4,
xi 66, 1 174, 1178, x 179, 1 191
Giannonc Carmina K., 76, 1x47
Giannonc Fortunata, 1106
Giannonc Francesca, 15
Giannonc G., xxvin, 5, 9, 76, 217,
^5> 33'» 335. 337» 509, 517» 73 1>
73-i 733» 734, no2, 1103, 1x05,
xxo6, 1107, 1*09, ino, 1132,
i*34» IH5» 1!47> xi«7
Giannonc Pasquale, 45
C riunitone Pietro da Capuano, 1 124
Giannotto S., 15, 17» 1124
(riannone T., 15
(ìiannone V., 15, 67, 113^, 1147»
1192
Giaxmone-AHtto, famìglia, 15, 1 148
Giannonc-Alitlo A., 1148
(Siano, 635
Giunsenio, vedi Janson C.
Giasone, 941
Giasone del Maino, 495
Gibbon K., xvni, 053
Gimma G., 35, 581, 1131
Gioacchino, santo, 875
(Giobbe, 219, 235, 622, 632, 85J,
«53, 875, 9x5, 939, 9<)8, 1059,
xo8o
GiolTredo il giovane, vedi GeoxTroy
C.-J.
(Mona, profeta, 875
Giordane, 24, $$, 380, 381, 395,
397, 401, 4x7, 7*»
Giordano F., vedi Giorgio F.
Giorgio F., 845
Giorgio Godrono, 436, 437, 656
Giosuè, 632, 843, 875
Giovanna 1 d'Ansio, regina di Na-
poli, 458
Giovanna lì d'Ansio, regina di Na-
poli, 275
Giovanni, evangelista, 14, 344, 652,
715, 7i6, 774, 779, 814» 831, «3<;>
846, 86 x, 862, 864, 865, 977
Giovanni, patriarca di Costantino-
poli, 708, 715
Giovanni, ttottodiacono, corrispon-
dente di Gregorio Magno, 695
Giovanni, vescovo di KFeso, 465
Giovanni II, re di Catalogna- Ara-
gona, I dì Navarra, 275
Giovanni HI, re di Portogallo, 407
Giovanni XVII 1, papa, 680
Giovanni XXII, papa, 493
Giovanni Battista, 648, 650, S20,
830, 831, 869, 875, 078"
Giovanni Crisostomo, santo, 224,
65 x, 665, 705, 717, 723, 826, 848,
849, 853, 859, 97'
Giovanni Damasceno, santo, 437,
«45, «47 .
Giovanni Diacono, 921, 1092
Giovanni di Napoli, 462
Giovanni Nepotniceno, santo, 118
Giove, 217, 601 , 610, 624, 754, 756,
77*> «37» <MO, 941 > 043, 1028
Giovenale, D. Giunio, 938, 103-}
Gioviano, imperatore, 7t2
Giovio I*., 082
Girolamo, santo, 31, 21 x, 344, 655,
7x7, 723, 724, 805, 825, 833, 845,
848, 850, 854, 855, 864, 881, 883,
884, 960, 1008, XOI2, IOI3, X02I,
IO37
Giuda Iscariota, 3 so, 862, 87^ 874,
1038
(linda Taddeo, apostolo, 650
Giuliano l'Apostata, imperatore,
712, 717
Giulio II, papa, 187, 494, 496
Giulio III, papa, 487
Giulio Africano, 654
Giunone, 872, 940, 978, 1035, 1045
Giuseppe, parente di Gesù, 650
Giuseppe, santo, 6, 648, 869, 870,
872, 875
Giuseppe 1, imperatore, jciv, 60, 62,
98, 99» 109, ito, 226, 356, 353,
475
Giuseppe Flavio, 203, 204, 223,
6x2, 662, 806, 854, 857, 873, 881,
884, 885, 961, 1037, *°3N» 1064,
to66
Giustinian P., 270
Giustiniani, gentiluomo veneziano,
268
Giustiniani L., 19, 45, 49, 64, 76,
<>3> 350» 583
Giustiniano I, imperatore d'Orien-
te, x8, 19, 20, 2X, 22, 23, 24, 36,
»7> sWi 55» 57» 15H, I5<>. *6o, *««,
351» 3*6, 390, 39*, &zt 3<>H» 399*
400, 410, 441;, 442, 461, 55o, 566»
572, 654, 66i> 662, 663, 668, 67* ,
688, 689, 692, 700, 701, 703, 707,
INDICE DEI NOMI
1213
708, 709, 713, 718, 752, 768, 936,
1011, 1078, io88, 1188
Giustiniano II Rinotmeto, impe-
ratore d'Oriente, 688
Giustino, santo, 655, 823, 856, 882
Giustino I, imperatore d'Oriente,
607
Giustino II, imperatore d'Oriente,
Giustino Giuntano M , 883, 943,
1028
Glass S., 834
Gnosio, 1030
Godeau A., 968, 971
Godefroy D., 41
Godefroy J., 24, 41, 42, 55, 63, 315,
386, 387, 388, 389, 390, 402, 410,
453» 081
Goffredo da Viterbo, 491
Goiarieo, 386, 387
Goldast. von Ileiminsfeld M., 382,
430, 432, M37
Goldoni C, 280, 508
Golscherus, monaco, 491
Gomur F., 900, 901
Gomes L., 495
Gonzalo/. G., 390
Gonzalo/, y Virtus ft., 41 , 42
Gorgia Loontino, 1009, 1010
Gorin do Saint -Amour I,., 910
Gosso II.-A., xxv u
Gos.se I\, xxvn
(Joto frodo, vedi Godefroy J.
Gottsehalk von Orbais, 904
Gradenigo M., 287
GracviuK J, Cì., 429, 802
Grandi G., 571, 572
Gran Mogol, 954
Grasse t V., xxvn» xxvni
Grasso F., 371
Gravier G., xxvn, xxvni, 365, 483
Gravina G. V., 51, 559
Graziano da Chiusi, 27, 30, 125,
388, 40», 444, 486, 495, 498» 656,
657, 661, 713
Grégoire I*., xoóo
Gregoriano 0 Gregorio, 386, 408,
45». 457
Gregorio l Magno, papa, 450, 488,
654, 684, 694» 695, 7o**> 7H, 715,
7*7, 736, 737» 703» 795» 79**» 853,
*SS> «77» ««7» 890, 915, 916, 917,
9x8, 919, 9*0, 921, 932, 923» 934,
925, 926, 927, 928, 929, 952, 964,
980, 1092, n 18
Gregorio II, papa, 432, 434, 435,
436, 437, 438, 439, 440
Gregorio III, papa, 437, 438
Gregorio VII, papa, 157, 172, 438,
487, 490, 491, 492, 496, 727, 9i8,
ii35
Gregorio IX, papa, 494
Gregorio X, papa, 495
Gregorio XIII, papa, 882
Gregorio XIV, papa, 905
Gregorio Nazianzeno, 723, 971
Gregorio Tolosano, vedi Grégoire
P.
Gregorio di Tours, 380, 385, 920,
1118
Gregory D., 993
Gregory T., 614
Grimaldi C, xi, xm, xiv, 64, 65, 79,
102, 106, 174, 195, 353, 354, 360,
362, 363, 476, 557, 582, 793,
1103, 1105, 1119
Grimaldi Ginesio, 560
Grimaldi Girolamo, 100, 117, 124,
176, 184, 1127, 1145
Grimaldi Gregorio, 556, 557, 558,
559, 560, 561, 563, 1163, 1178,
1185
Gnmani (fratelli), 279
Grimani V., 60, 63, 65
Gnmoaldo I, duca di Benevento, re
dei Longobardi, 429, 566
Grimoaldo III, principe di Bene-
vento, 214, 565, 567
Grischovius J. H., 660
Gronov J., 738
Gronov J. F., 738, 739, 830
Groot (Grozio, Grotius) H. van,
XIV, XXXIII, 55, 350, 354, 355, 357,
379, 380, 381, 382, 385, 386, 389,
39i, 393, 395, 397, 398, 401, 405,
406, 408, 410, 411, 412, 413, 4H,
415, 416, 417, 419, 420, 425, 429,
432, 441, 442, 443, 445, 446, 447,
450, 4SI, 453, 456, 466, 582, 599,
801, 830, 901, 1008, 1012, 1024,
1118, nói
Guadagno V., xxxiv, 58
Guaimaro, principe di Salerno, 870
Guarino Veronese, 204
Guastaldi G., 328, 331, 332, 333,
334, 335, 336, 337, 339, 34<>
1214
INDICE T>KÌ NOMI
Guerci L., 735
G uè vara, 1122
Guglielmo I il Malo, re di Sicilia,
573» 57<>. 577
C Juglielmo 1 1 il Huono, re di Sicilia,
4io, 573
Guglielmo III, re di Sicilia, 56, 457,
C Guicciardini F., 37, 582
Guidetti A., 301, 535, 11 89
Guido, duca di Spoleto, 454
Guinart P. U., 245, 334
Guisa, famiglia, 23
Gundeberga, regina dei Longo-
bardi, 447
Gundcmaro, te dei Visigoti, 389
Gunther de Pairis, 450
Gussainvillc P. de, 916
Guznian L. de, 1041
Hubert 1., 468
Ihitn L., 428
llalloix 1\ 856
Ilìinggi A., 104
1 lans S,, 492
I [ansia M., 972
Hardouin (Arduino) J., 187, 188,
762, 808, 845, 924, 936, 044.» 080,
990, ioir, io 12, 1020, 1023,
1043, 1050, 1002, 1063, 1065,
1067, 1078
Harmensz J-, 900, 901
Ilarrach A. Th, K. von, viceré di
Napoli, 136, 166, 167, 171, 172»
175» «77, *<->5> ao8> 209, 248, 557»
1165, 1 174
Ilarrach F. von, 183, 195, 1x69
Ilarrach J. lì. von, 167, 1171, 1172
Ilartcl C, 398
Ilasselbach Th., 84X
Haasia-Casfiel, vedi Federico lan-
gravio di IIc8Hen«Kii88cl
Hauteserrc, vedi Dadin de Ilautc-
aerre A,
Haverkamp S., 778
Ilaym N. F., 1168
Hcarne Th., 739
Heidenberg I., detto Tritheim,
1092
Hermant G., 971
Herold lì, J., 430
Hesperio, 1092
flessela J., 904
Hierone Pamtìlo, 1036
Hmcmar, \ escovo di Reinis, 085
Ilincmar di Laon, 685
Hobbes Th., 217, 792, 804, 817,
999, 1004
Ilofstetcr J, A., 621
Ilogarth \V , 3
Hohendorf G. W., 584, 585, 019,
92<;, 030, 1073
Uoltztnann W., 204, 4 17
Ilonlhem J. N von, XVIH
Horn G , 500
Ilolman F., 41, 784
Hudson J., 204
Uuet P.-I)., XVU, XM, NXIII, xxv,
5^3, 5^6, 5W. »oo, 74X, 944
lluygens Ch , 642
Uyde, Th., 959, 983
Iacopo, arcivescovo di Capun, 1 162
Iafct, 590, 597, 604
Idazio, vescovo, cronista, 380
lette, 942
I erode, 453
Ifigenia, 942
Ignazio di Loyola, santo, 130
Ilario, papa, 727
Iklaris C\, 99, 1 148
I Idcrìa, (orse Ildaris (!., vedi
Imeneo, 940
Imerio, .sofista, 1012
Imperiali M., marchese d'Oìra, 92
Imperiali K., 349
Innocenzo I, papa, 718, 7*0, 721,
722, 725
Innocenzo U, papa, 572, 573
Innocenzo III, papa, 30, 590, 66 1
Innocenzo IV, papa» 123
Innocenzo Vili, papa, 486, 499
Innocenzo X, papa, 910
Innocenzo XI, papa, 32, 373, 1159
Innocenzo XIII, papa, 102, 113,
117, 123, *35» 126, 142, 205, 475»
47<>» 477» 54»
Intieri B., 1162
lordane», vedi Giordane
Ippocrate, 613
Ippolito Africano, 655
Irene, imperatrice d'Oriente, 437,
464
Ireneo di Lione, santo, 655, 678,
7*4» 725, «SS» Ma
Isabella, 878
INDICE DEI NOMI
1215
II
Isacco, 213, 594, 598, 635, 837, 942,
1029
Isacco I Comncno, imperatore d'O-
riente, 437
Isaia, profeta, 187, 603, 622, 632,
814, 842, 848, 849, 860, 861, 875,
1037» 1038, 1081
Ischitella principe di, vedi Pinto y
MondosKt F. K.
Isolili (Iselms) J. R., 11 50
Isidoro di Siviglia, santo, 380, 381,
382, 384, 389, 41X, 452, 855,
1043, 1054, 11 18
Ismaele, 977, 983
Ismeno, mago, 1069
I soci ut e, 1009, 1010
Ivan V Aleksecvie, zar di Russia,
226
Ivo di Chartres, 388, 685
James Th., 920
Jatnmcr M., 633
Junsen C, 908, 909, 910, 9
Jarke J., 960
J emolo A. C, xxxn, xxxm
Jordan Ch.-fà., 1161
Jouvancy J. de, 959
J ti ri cu P,, 971
Kiimpfer E., 956
Kupp (Kappio) J. E., 165
Keckcrmann H., 1064
Kipping IL, 568
Rollar A. F., 1073
Kramnick I., 993
Krunz W., 1084
Kuyck H. van, 905
Labbé Oh., 392
Labbé Ph., 680, 685, 690, 691, 696,
704, 706, 1078
Labeo F., vedi Labbé Ph.
Labrousse É., 1061
Lacoate J., 370
La Croix de, 983
La Forge L. de, 49, 634, 647
Lama B. A., xvn, 259, 5°9> 584,
642, 990, 991, ir 88
Lambeck I\, 1072, 1073, *°74
Lambcrtini P., vedi Benedetto XIV
Lamberto di Hersfeld, 491
I^ampria, 1031, 1032
Lampridio E,, 772, 1053
Lamy G., 581
Lancellotti G. P., 18, 27, 57
Lancillotti S., 3
Landau M., xxxvi
Landolfo, conte di Capua, 567
Lange F. A., 614, 620
Langestein H. H. von, 841
Lanzina y Ulloa A., duca di Launa,
172, 173, 516, 1180, 1183
Larzio Licinio, 1015
Laterza G., xxxi, xxxm
Latona, 940
Lattanzio F., 232, 655, 798, 803,
811, 819, 823, 829, 860, 882, 883,
887, 945, 949, 1033, 1036, 1043,
1044, 1048, 1049, 1057
Launoy J. de, 461, 682
Lauretus M., 421
Lauria y Ulloa, vedi Lanzina y
Ulloa A.
Laurino, duca di, vedi Spinelli
Giuseppe
Laurisio Tragiense, vedi Bianchi
G.A.
Lautrec Odet de Foix visconte di,
86, 87
Lavardin J., 410
Lazius W., 420, 599
Lazzarini D., 509, 517, 11 87
Le Blanc, cavaliere sabaudo, 337,
339, 34i
Le Bouyer de Fontcnelle B., xxiv
Le Bret J. F., xxvn, 189
Le Brun C, vedi Bruyn C. de
Leder J., 796
Ledere D., 315, 1128
Ledere J., xvii, xxr, 315, 739, 741,
802, 840, 1008
Leclercq H., 801
Leclercq J., 685
Le Comte L.-D., 956
Leconte A., 41
Le Fèvre T., 884
Leibniz W. G., xm, 142, 267, 491,
585, 993, 996, 1071, noi
Leichsenhoffen E., 5, 147, I48, 359,
260
Leichsenhoffcn Th., baronessa di
Linzwal, 109, no, 146, 202, 218,
260, 1122
Lemnius L., 568
Lenglet Du Fresnoy N., 355, 560
Le Noir J., 179, 503
I2t6
INDICE DEI NOMI
Leognani A., ti 77
Leoncourt, famiglia, 226
Leone I, imperatore d'Oriento, 382,
401
Leone II, imperatore d'Oriente,
394
Leone HI Isaunco, imperatore
d'Oriente, 432, 433, 435, 43<>»
437» 438, 439» 440, 460
Leone IV il Cazaro, imperatore
d'Oriente, 462
Leone VI il Sapiente, imperatore
d'Oriente, 29, 158, 159, 160,
445, 707, 708
Leone I Magno, papa, 684, 690,
691, 697, 706, 719, 721, 726, 727,
916, 926
Leone III, papa, 401, 433
Leone X, papa, 86, 406
Leone XI, papa, 907
Leone Morsicano (Leone Ostiense),
56, 410, 420, 421. 432, 432» 467.
469, 877
Leopoldo I d'Asburgo, imperato-
re, 62, 96, 109, no, xxi, 136,
256, 1072, 11 74
Leovigildo, re dei Visigoti, 388,
389
Lerma G. de, 1 109, 1148
Le ttiour, vedi Simon R.
Lessio, vedi Leys L.
Lesueur J., 970
Le Thiry J., 862
Leucippo, 742, 1084
Leunelavio, vedi Lowenklav J,
Leydekker M,, 692
Leys L., 877, 905
Libanio, 24
Liberato, arcidiacono di Cartagine,
705
Liberio, papa, 693
Licinio, imperatore, 31, 655, 663
Licinio Sura, 765, 1091
Licomede, 852
Licurgo, xxiv, 943, 1028
Liebe Ch. S., 166, 187, 318, noi
Lindenbrog F,, 430
Linsswal, baronessa di, vedi Leich-
«cnhoilen Th.
Lionardo di Caputi, 581
Lione, presidente di Camera, 150
Liparulo N., 456
Lips (Lipsie) J., 1013, 1060
Lirano e Lyranus, vedi Nicolò da
Lira
Lina, vedi Stuart J. F. F. J.
Lista, ttibuno, 884
Liutprando, re dei Longobardi,
429, 430, 43i, 432, 433» 434» 435»
442, 443, 448, 461, 400
Liuva II, re dei Visigoti, 380
Livio T., xix, 2i, 25, 50, 101, 222,
231,236, 312,33*)» 559, 73* » 732,
733» 735, 7.K>» 737» 738, 73<>, 740,
741, 742, 747, 748, 749, 750, 75 1,
752, 753» 754, 755» 75<>, 757» 75«»
759, 7»o, 763, 764, 705, 767, 768,
770, 772, 777, 827, 839, 882, 022,
923, 924, 925, 93i» <>32, 938, 943,
945, 94<>» 975, 984, 985, 1028,
1030, 1033, 1034, 1035, 1036,
1041, 1042, 1044, 1070, 1085,
ro88, 1089, 1090, 1091
Llacuna G., 189, 191, 241, 251,
1170
Lobkovic 1. I. K. /,, 230
Locke J., xu, xvi, xxt, xxni, xxiv,
620, 795» 79», *ooo
Locutio, 754
Lodoli C, 267, 520
Lohenschiold O. Ch. von, xxvn,
189
Longano, marchese di, 11 47
Longino, prefetto d'Italia, 418
Longino C, 883
Longobardi A., 1132
Longobardi F., 1132
Longobardi (»., <)9, 120, 259, H33,
U38
Longobardi N., 956
Lopez I\, 391
Loredan G. F., 508
Ix>renno, santo, 787
Lorint J. de, 87O
Urtano 1, re d'Italia e imperatore,
443, 454
Lotario li di Suplimburgo, impe-
peratore, 456, 571, 572
Lovejoy A. ()., 1000
I^owenklav J., 158, 445
U>ys de Hoehat Ch>-G., xxvn, 188,
2*3, 3««» 3»3, 523» H7<>
Loys de Hoehat I., 523, 526
Ix>yscau Ch,, 387, 409, 410
Luca, evangelista, 225, 228, 231,
371, 595» <>22, 648, 7*4» 7 *<>» 807»
INDICE DEI NOMI
1217
809, 810, 811, 831, 83S, 863, 876,
884, 885, 935, 93<>, 944, 948, 963,
1039
Luca da Penne, 457
Luccaberti li., 571
Luciano di Samosata, 1048, 1052
Lucido G., 848
Lucitero di Cagliari, 803
Lucio, vescovo di Verona, 693
Lucio di Sandro, 1147
Lucio Vero, imperatore, 856
Luckh J.J., 188, 487
Lucrezia, 819, 826, 1087
Lucrezio Caro, T., 34, 169, 489,
581, 604, 631, 637, 641, 643, 646,
741, 742, 751, 752, 763, 777, 946,
998, 1000, 1005, 1010, 1065, 1084
Lucrezio Tricipitino, Sp , 826
Ludolf o Leutholf II., 957
Ludovico I il Pio, re dei Franchi e
imperatore, 57, 351, 454, 455
Luigi XII, re di Francia, 186, 187,
1105
Luigi XIV, re di Francia, 62, 215,
439, 735, 9i6, 917, 9i8, 919, 921
Luigi XV, re di Francia, 215, 226,
1074, 113»
Luigi III d'Angiò, re titolare di
Sicilia, 275
Lìinig J. Ch., no, 132, 137
Lupo C, vedi Wolf Ch.
Lupo Protospata, 358, 420
Lutero M., 131, 904, 905, 965
Mahillon J., 470, 801, 915
Machiavelli N., xix, 31, 37, 125,
401, 408, 435, 58a, 583, 737, 738,
740, 743
Macrobio, 1012, 1013, 1036
Maddalena, 831, 835, 865, 1038
Maddaloni, conti (vedi anche Ca-
rafa), 61
Maderus I. I., 656
MafFei D., 1013
Maffei S., xi, xn, xm, xxv, xxvi,
138» 139, 267, 563, 1003, noi,
xi 54, XX75
MafTeius Raphael Volaterranus, 36
Maggioco (Magioco), consigliere
del Sadro Real Consiglio, n 13,
X125, ii34, xxs*
Maggioriano (Maioriano), impe-
ratore d*Occidente, 402, 409
Magi (Maggi) G., 1008, 1009
Magini G. A., 25, 26
Magliabechi A., noi
Maia, 940
Maiello C, 64
Maimbourg L., 439, 916, 917, 918,
919, 920, 921, 922, 971
Maiolo S., 1025
Malato E., xxxv
Malebranche N. de, 50, 587, 621,
622, 623, 624, 638, 647
Malvito o Malvezzi T., 490
Mancini P. S., xxvn, xxix, 6, 324,
361, 561, 593, 747, 924, 933, 945
Manete persiano, 954
Manetone, 883
Manfredi, re di Sicilia, 35
Manfredi D. A., 210
Manfredi E., 1176
Manicheo, 211
Manilio M., 639, 640
Manlio Imperioso Torquato, T.,
764
Manouchi, vedi Manucci N.
Manson O., 1055
Manucci N., 953, 955
Manuel F. E., 600, 1005
Manuzio A., 204
Manzoni A., xxx, 359
Maometto, 169, 391, 953, 977, 979,
980, 1064, 1066
Maometto II, 981
Maran P., 840
Marano, principessa di, 47
Maranta R., 457, 458
Marca P. de, 437, 438, 463, 464,
468, 470, 662, 665, 680, 694, 925,
926
Marcellino, santo, 467
Marcello C, 486
Marchetti A., 489
Marciano, imperatore d'Oriente,
409, 669, 697
Marciano (di Eraclea?), 1023
Marco (eretico), 809
Marco, evangelista, 622, 650, 651,
672, 719, 810, 865, 961, 1038
Marco, liberto di Plinio il Giovane,
767
Marco Aurelio, imperatore, 787,
856
Marco Emilio, vedi Fiorentino
Marcolfo, monaco, 432
77
I2l8
INDH'K DKI NOMI
Marconc re di Calabria, vocìi He-
rardi M.
Maria, figlia di Stanislao Leszczyri-
ski, 226
Maria, moglie di Ottone III, 567
Maria Amalia d'Asbuigo, 119
Maria Elisabetta d'Asburgo, 136
Maria Giuseppa d'Asbuigo, 226
Maria Vergine, xu, 6, 480, 648,
C50, 864, 869, 871, 872, 876, 951,
1039
Mariana J. de, 393
Marianna d'Asburgo, 90
Maria Teresa d'Asburgo, impera-
trice, oy, 134
Mariconi, monsignore, 148
Manconi li., 148, 150, 1158, 1159
Marini L., xxxtv, xxxvn, 44, 04,
176, 184, 265, 270, 350, 561, 702,
1x40, 1145, 1 1 56
Màrmol y Carvajal L. del, 057
Marsham J., 587, 599, 801, 802,
885, 973
Marsia, 160
Marsdi L, F., 1176
Marta, santa, 821
Marte, 754, 940, xk>i
Martimort A. -Ci., 971
Martinengo A., 842
Martini, 546
Martinio L. A. ss, 60, 62, 63, 353,
1140
Martiniòrc de lu, vedi ttruzen de la
Martinicre A.-A.
Martinitz G. A. von, vedi Martinir.
1. A. z
Martuscelli I)., 51, 93
Marulli F. S., in, 1137
Marvill A., 24
Marciale, M. Valerio, $$(>, jroao
Massimiano, imperatore, 787
Massimiliano l d'Asburgo, impe-
ratore, 6a
Massimàrio, imperatore, 787
Massimo, 655
Massimo, vescovo di Lucca, 693
Mastcllono F., H13, 1x23, 1*56,
ixóo
Mastclione S,, xxxvn, 44, 350, 582
Mastricht P. von, 31
Mattei tì., 349
Matteo, evangelista, 6, 231, 271,
538, 594> Ó4«> 650, 651, 654, 7*6»
802, 810, 820, 82 1, 827, 828, 8 li,
834, «36,837, 838, 841,8.13,859,
802, 8(>6, 807, 868, 874, 875, 893,
1095
Matteo degli Alllitti, vedi DWlllit-
lo M.
Matusalemme, 848
Mangani G , 34, 625
Mauleon L., 1 117, mio
Maurizio, impciatore d'Oiu-nte,
418, 917, 919, 923
Mauzi R., 794, 1002
Maxilla o Massi Ha V., -150, 451
Mazzaeura Y., 173, 11 20
Mazzolem A., 267
Mazzoni G., 280
MazzuchelU G.M., 19, 33, 59» 120,
1128
Mcclemburgo, duca di, 957
Medici A. de', 907
Medici (»., principe di Ottaiano,
257
Medinacoeli, duca di, vedi (Vrda y
Aragón, L. F. de la
Medoro, 871
Mela A., 1105, 11 09, n 13, 1148,
1152
Mela F., xv, 78, 148, 149» 216, 285,
375, 1105, in;;, 1123, 1134,
1139, 114'». 1 S47» **4«» 1x52,
1153, 1154» «155» H58, 1150,
xt(>3, u6(>, n 68, u8o
Mela Pomponio, 20» 1022
Melchiorre, uno dei re magi, 898
Mclchisedee, 875
Melchon, <H4
Meiitone, 654
Memmo A., 267
Mena, patriarca di Costantinopoli,
707
Mcncke F. C)., 165, x(>6, X84, 189»
1071, noi, U05» U27, 1162,
1164
Mencke J. lì,, 165, x8a, X84, 189
47«» 50H, 509, 1071, noi, 1105,
xt3o, 1165
Mendoeu F. de, 842, 870
Mendovsa y Alurcon F., 199
Menochio G. S,, xx, 793, 841, 842,
845, 846, «47, «4», «40» «50, «Si,
«53» «54, «55, «56, «57» «5v> «<>o,
861, 86», 863, 864, 865, 866, 868,
869, 870, «7*> «73, «73» «74> «75»
INDICE DEI NOMI
1219
«76, 877, 878, 882, 989, 1014,
1022, IO31, IO32, 1034, IO4O,
1042, 1052, 1053, 1054, 1055,
1056, 1058, 1059, 1060, 1091,
1092, 1093
Morcado L., 616
Mercati L., vedi Mcrcado L.
Mercurio, 6 io, 938, 940, 941, 11 32
Mercy F.-C. de, 242, 254
Mennto, eretico, 809
Meropc, 942
MetastasioP., 51, 78, 349, 350, 361,
363
Meter Vitale G , xxxvu
Mcursius J., 422
Meylan Ph., 819
Mczcnzio, 748
Micaglia L., 15, 1124
Micaglia M., 17, 1105, 1156, n 60,
1163, 1166, 1178
Micalorì B., 11 92
Michele, arcangelo, 464
Michele, arcivescovo di Ravenna,
461
Michele II il Balbo, imperatore
d'Oriente, 874
Michele III, imperatore d'Oriente,
720, 725
Middleton C, 949
Miegge G., 595
Miele A., 78
Migne J.-P., 229, 232, 344» 362,
603, 610, 612, 621, 622, 636, 638,
639, 651, 654, 655, 657, 658, 661,
664, 665, 679, 684, 685, 687, 693,
694, 695, 698, 705, 707, 71 x, 714»
717, 718, 719, 720, 722, 723, 724,
725, 726, 750, 762, 774, 775, 77<3,
778, 784, 801, 803, 804, 805, 809,
8x2, 813, 819, 821, 823, 824, 825,
826, 828, 829, 830, 832, 833, 835,
836, 837, 838, 843, 844, 845, 846,
847, 848, 849, 850, 854, 856, 859,
860, 861, 862, 863, 864, 865, 866,
867, 868, 870, 873, 875, 878, 879,
881, 882, 883, 888, 889, 890, 893,
896, 897, 898, 902, 903, 915, 920,
947, 949, 952, 964, 1008, 1011,
10x2, 1013, 1014, 1016, 1033,
X037, 1039, 1040, 1043, 1049,
1056, 1058, X092
Milles Th., 620
Milziade, 6$$
Minerva (Pallade), 610, 872, 940
Minien Riccio C, 33, 51, 64, 76,
1104
Minosse, 943, 1028
Minotauro, 813
Mintz S. I., 804
Misurata, marchese di, 11 38
Mitra, 601
Mittarelh G. B., noi
Mneve, 882, 943, 1028
Moazzi, abate, 267, 280, 520, 521
Mocenigo A., 302, 509
Modesto, 655
Mogol, vedi Gran Mogol
Mole Ed., 393
Molina L. de, 905, 906, 907
Molmeo, vedi Dumoulin Ch.
Molino del Miguel M., 371
Moloch, 944
Momigliano A., 572, 582
Monaco N., 170
Monbritius B., 428
Moncada H. de, viceré di Napoli, 86
Mondragone, duca di, 262
Mongitore A., 25
Montagne I. de la, 959
Montaigne M. de, 1008
Montalte L. de, vedi Pascal B.
Montealegre J. J. de, 284, 552
Montecuccoli, principessa di, 146
Montecuccoli E. P., principe di,
146, 164
Monteleone, vedi Pignatelli N.
Montemar, vedi Albornoz J. C.
Montemiletto, Leonardo di Tocco,
principe di, 150
Montesanto, vedi Villasor J.
Montesoro O., vescovo di Castella-
neta e di Pozzuoli, 85
Montesquieu, Ch.-L. de Secondat
de, 740, 953, 992
Montfaucon B. de, 651
Monti G., xxxvn
Mopso, 1045
Morandi C, xxxvn
Moreri L., 739, 793
Morin J., 839
Mornac A., 41
Moroni G., 99
Morselli A., xxxiv
Mosca F., 1156, 1170
Moscati, xi6o
Moschini G. A., 280
1220
INDICE DEI NOMI
Mosco, 1085
MOSC, 203, 204, 2l8, 2I<), 220, 221,
222, 223, 224, 448, 449, 599, ÓOO,
601, 602, 003, 604, 609, 6x0, 612,
623, 624, ()2(), 630, 635, 636, 637,
638, 039, 640, 641, 643, 810, 832,
«33» 836, «43» 840» 851, 875,
878, 882, 883, 939, 942, 947» 950»
960, 961, 962, 977, 978, 980, 998,
1029, 1037, 1038, 1040, 1080,
X082
Mosheim J. L., 586, 588, 589
Muràd I, sultano ottomano, 98 1
Muratori L. A., xi, xn, xin, xiv,
xv, xxi, xxiv, xxv, xxxr, 142, 267,
301, 357, 3<>o, 378, 430, 443, 445,
449, 462, 469, 5"» 535, 54<>, 548,
X07X, xior, 1105, 1175, X176,
1x89
Musano, 655
Muscettola G., X153
Musto G., 40
Muzio G., 36
Nabucodònosor, 1029
Nani Ci. I*., xxi, 36 x
Nardi J., 739
Nat-sete, 399, 422, 423, 424
Naso N., 77, 79, 526, xx 19, X120,
1x22, X129, 1x52, 1175
Natale d'Alessandro, vedi Alexan-
dre N.
Naudé G., 3
Nassurio, retore latino, 24, 670
Nebridio, amico di sant'Agostino,
809
Neurone F., 955
Nembrot, 944
Nepoziano, «tanto» corrispondente di
san Girolamo, xoo8
Nerone, imperatore, 434, 761, 770,
777» 778, 7»&» 787» 884, 885,
X064, xo6$, 1066, X089
Nerva, imperatore, 22, 24, 762, 777,
779
Nestorio, teologo, 3*
Nettuno, 940, 95 x
Novera, duchessa di, 149, 1x44
Newton J., 8, 49, 267, 620, 633, 642,
990, 991, 99»» 993, 994, 995, 996,
997, 99&> 999, *ooo, XO03, X004,
1005, xoxó, xo6x, xoóa, 1065,
X068, XX02
Nicànore, ministro di Antioco V,
XO90
Niccolò I, pupa, 720, 725
Niccolò III, papa, 495
Niceforo Callisto, 437, 656, 711,
860, 865, 870, 878
Nicodemo L., 51, 1077, 1078, 1157,
1 162
Nicola di Reni ih (o Rema), 104X
Nicole I\, 033, 815
Nicolini K., xxx, xxxi, xxxn, xxxin,
xxxiv, xxxv, xxxvi, xxxix, 18, 19,
33, 48, 5A "4, <>9, 7*. 83, xi7,
126, 127, 156, 266, 277, 349, 3 so,
3<>i> 3<>4. 5«3. 747, 707, 834, 933,
1007, ixoo, 1107, 1x48, xiòx,
XI79, 1*84
Nicolò da I/ira, 850, 854, 864
NierembcrK J. K., 1025
Nigg W., 934
Nino, leggendario fondatore del-
l'Impero assito, 605
Niso, 901
Noè, XXII, 219, 593, 594, 595, $<A
597, 598, 599, <>00, <>°i> <>04, «05,
833, 843, 849, 850, 877
Nonio Marcello, 452, toiz
Noris K. de, 885
Novario G. M., 08
Ninna Pompilio, re di Roma, 236,
736, 742, 758, 7<>*> 7<>8, 943,
ro28, 1090
Numenio d'Apamea (Pitagorico),
636. «37, 883
Oceella P., XXIX, 293, 309, 3 io, 3 X x,
328, 344, 345
Oddi l„ 29 x, 292
Odoacre, re barbarico, 30, 395,
39f>, 397» 398, 400, 41 6, <#5
OdoiVedo Denari, 457
Ogilvie J., xxvn, 184
Oira, vedi Imperiali M.
Olao Magno, vedi Mìlnson O.
Olindo, 878
Olivati G., 307» 308, 309, 3x0,
3 xx, 326, 1x88
Oixiar, generale di Maometto, 979
Omero, 35, 36, 203, 220, 2ax, 600,
fox, 637, 756, 872, 901» 939» 947,
1022, X043, X044, X083, X089,
1093» xxf>7
Omodeo A., xxxiv, 588, 659
INDICE DEI NOMI
1221
Onorio, imperatore d'Occidente,
379, 402, 404, 712
Onorio di Autun, 849
Onorio III, papa, 1x62
Opilio Aurelio, ioti
Oppio Sp., decemviro, 764
Orazio Coclite, 1087
Orazio Fiacco, Q., 741, 752, 891,
900, 046, 959, 1012, 1085
Orfeo, 941, 1083
Origene, 827, 843, 845, 848, 849,
853» W>8, 883, 978, 1040
Origlia (J. G., 35, 49, 58
Orlando, 869, 871
Orléans, Philippe II duca d', reg-
gente, 215
Orman e Ormond, vedi Darmon
J.A,
Ormoa, C. V. Ferrerò di Roasio,
marchese di, 293, 309, 310, 336,
346, 591, 747, 791, 797, 989,
1005, 1186
Ormisda, papa, 697
Orosio P., 24» 381, 382, 384, 778,
784, 844, 873
Orsi, xi 29
Orsini 1<\, vedi Benedetto XIII
Orsini-Gravina, famiglia, 117
Osea» profeta, 842
Oshman, generale di Maometto,
979
Osanna, duca di, vedi Tóllez-Girón
y Guzman I\
Ostiense, il cardinale, 496
Ostiense, vedi Leone Marsicano
Otone, imperatore, 761
Ottaiano, principe di, vedi Medi-
ci O.
Ottato, vescovo di Milevi, xxi, 29,
666, 701, 745
Ottone, figlio di Federico Barba-
rossa, 270
Ottone l il Grande, imperatore e re
di Germania, 454
Ottone III, imperatore e re di Ger-
mania, 449, 567
Ottone IV di Brunswick, impera-
tore, 30
Ottone di Frisinga, 45°
Ottone di Lagery, vedi Urbano II
Ovidio Nasone, ?,, 95 9» io45»
1093
Oyra G. B. B., marchese di, 316
Pacato Drepanio, L., 24
Pace G., 20
Pacuvio M., 639, 640
Pageaux D. H., 996
Pagi A., 399, 437, 885, 968
Pagi F., 968
Pagnim S., 854
Pala A., 990, 993
Palazzi di Selve A., 346, 747
Paldo, nobile longobardo beneven-
tano, 467
Palladio, vescovo di Scozia, 721
Pallavicino S. P., 36, 43, 179, 478,
499, 503, 504, 792, 793, 892, 898,
1047, X167
Palm, mercanti, 1 143
Palm J. D., 1143
Palmieri M., 428
Palumbo O., 1134, 1139, 1146,
1147, 1152, 1x56, 1160, 1163,
1166, 1169
Pamphili G., vedi Innocenzo X
Pan, 937, 941, 1021, 1032
Panagia G., 214
Pandolfelli N. P., 1152, 1153
Pandolfo, principe di Capua, 878
Panfilo Alessandrino, io 11
Panigarola F., 36
Pantaleone, santo, 467
Panteno, 655
Pantino P., 408
Panzini L., xvin, xxvu, xxvin,
xxxix, 9, 15, 17, 18, 40, 46, 48, 61,
68, 69, 70, 72, 74, 81, 83, 89, 90,
95, 99, *00» i°3, 106, 107, 108,
117, 120, 129, 149, 165, 173, 174,
179, 184, 188, 189, 191, 195, 208,
267, 280, 295, 308, 325, 335, 365,
508, 509, 517, 535, 592, 663, 731,
noi, 1102, 1103, 1105, 1120,
1121, 1124, 1135» 1140, 1162,
1170, 1176
Panzuti, 1170
Paoli S., xi, xxvni, 210, zìi, 212,
5«» 548, 557, 558, 1155, 1175,
1176, 1190
Paolino, vescovo della Gallia, 693
Paolino II, patriarca di Aquileia,
santo, 464
Paolino di Bordeaux, vescovo di
Nola, 24, 812, 1093
Paolo, apostolo, 84, 225, 228, 229,
231, 235, 276, 465, 484, 497,
IZZZ
INDICE DK1 NOMI
53*» 553, 588, 594, 595, 6a6, 649,
651, 71 1, 714» 7*6, 721, 722, 744,
745, 773, 774, 775, 77**, 784, 801,
80 s, 806, 809, 814, 817, 831, 834,
855, 856, 807, 873, 881, 88.1, 885,
888, 893, 895, 896, 899, 900, 90 r,
902, 903, 936, 944, 947, 948, 952,
«/U, 985, 1095, 1192
Paolo, presbitero, corrispondente di
sant'Epifanio, 1013, X014
Paolo, vescovo di Napoli, 462
Paolo I, papa, 458
Paolo IV, papa, 835
Paolo V, papa, 291, 536, 54 r, 542,
907
Paolo Diacono (Paolo Varnofrido),
55, 56, 413, 4^9, 430, 42t, 423,
424, 425, 427, 429, 432, 437, 447,
450, 451, 466, 467, 920
Paolo Emilio, L., console, 772
Paolo C>., 386, 388
Paolucci R, 151
Papia di Gerapoli, 654
Papiniuno Umilio, 11 92
Parente A., xxxxn, xxxix, 361, 588,
590, 593, 601, 605, 609, 6 x 1, 612,
615, 616, 6x8, 619, 620, 621, 625,
626, 629, 630, 63 1, 634, 635, 636,
<>37> 638, 641, 642, 647, 648, 649»
650, 651, 656, 657, 658, 659, 660,
66 1, 665, 666, 668, 670, 672, 674,
675, 676, 677, 680, 68 r, 683, 684,
686, 687, 688, 689, 693, 694, 695,
696, 697, 700, 70 x, 702, 704, 707,
708, 709, 710, 7r i, 7x2, 7x3, 7x4,
716, 7x7, 718, 720, 72X, 724, 725,
727, 9*3» 9=67
Parisio P. 1\, 494
Panino D. A., 583
Parata R, 125, 400
Pascal 1*., 634, 8x5
Pascli G., 370, 407
Pasquali G., xvin, xxvrx, xxvxii
Pasqualino LX, 263, 267, 280» 295,
5x7, 520, 527, 530, xx8«, 1x87*
Pasquio G., vedi Pascb G.
Passavano L, 877
Passerat J., 1020
Passionci IX, X39, 184, 208, 265,
*7°, 349» 475» 47*» $0Q, S»7. SSh
**77
Pastor L. von, 152, 153, x6x, 1143,
11$$
Paterno L., 1170, 11 78
Patino J,, 266
Patrizi Piecolonimt A., 486
Pauliniano, fratello di san Gerola-
mo, 724
Paninoci di C.alboli E., 1 1 -| s
Peaison J., 884
Pecci, 1148
Pelala, santa, 825, 826
Pelagio, 903
Pelagio, re delle Asturie, 393
Pelagio 1, papa, 694
Pellegrini, abate, 189
Pellegrino (*.., 357, 358, \2o, 421,
422, 4^5, 4~<>, 427. 4<>7» 693
Pellissari JT.-A , 317, 320, 321, 322,
323, 338
Pellisson-Kontanier I*., xooK
Pemberton li., 991, 992
Pepe (»., xxx tv
Pepe N., i no, 1 123, 1132
Peralta J. T. de, 171
Peregrino M. A., 5x7
Peretti K., vedi Sisto V
Pe.reyra B., 851, 883
Pòrca A., 20, 892
Peri G. I)., 11 58, U59
Pericle, 6xt
Per ino E., xxtx
Perigonio E, vedi Voorbroek J.
Perla» de Vilbena J., 1x4, 144, 196,
209
Pcrlas de Vilbena 1\, 1x4» 144, 19O
Perlas de Vilhena R., marchese di
Kiulp, 98, 99, 1*3, 114» 1 15, 1X9,
X20, X2X, 127, X32» X43, X44, xsx,
*53> *54» i$5> >S^> '57, *6x, 166,
178, X90, x<;x, 192, 193, 194» »95i
196, X97, 198, aoo, 20 x, 206, 207,
209, 2x4, «40, 24 *» 34*» 345»
246, 249, 355, 557, xx 17, 1125,
XX27, «133, »34i **43» *H4,
XX45, XX46, 1x47, XX69, xt70,
Perlongo G,, 98, xor, X54, t$$t r6o,
198, xxx7, XX27, 1x33, » Jt 57» *i78
Pel-rolli E., 1x55
Perrelli 1\, X52, 153, 154, t$$> i$(>,
157» 158, X62, XX07
Perniili P.P., 1x55
Perrot d'Abluncourt N., 957
Persico T,, xxxvi
Persio Placco, A.» 271
INDICE DEI NOMI
1223
Pert usati di Castelferro C, 98, 305
Periteci, canonico, 91, li 09, ino
Pery, vedi Peyri L.
Peschici M. da, n 24
Pesrnes de Samt-Saphorin F. J. de,
324
Petau I)„ 8or, 88r, 885
Pctavio, vedi Petau D.
Petermanns D. A., 621
Petitti di Roreto A., 308
JVtiaroa F., 35, 36, 51, 1004, 1032
IVutmger K., 450
Peyn I,»., conte, 153
Pezzami N., in
PhihherL A., xxvm
Philibert C, xxvm
Philippson J., 543
Piazza, nunzio, 292
Piecolomini d'Aragona, principe di
Valle, 177
Pico della Mirandola L,., 168, 548
Pieon, conte, governatore della Sa-
voia, 7, 328, 335, 336, 337, 338
Pietet H., 070
Pienmtoni A., xxjx, xxxin, io, 105,
158, 296, 340, 361, 5*8, 561,
593. 1*56
Pier dello Vigne, 326, 569, 1150,
1161, 1x62
Pierozzi A., vedi Antonino, arcive-
scovo di Firenze, santo
Pierro U, xxxi
Pietro, apostolo, 276, 344, 494, 496,
507, 667, 678, 703, 713, 7H» 715,
716, 717, 7r8, 719» 720» 721, 7*4,
725, 7»6, 727, 745, 778, 787, 814,
917, 926, 947
Pietro Hlcftcmc (Peter of Blois),
470
Pietro Damiano, 877, 878
Pietro Diucono, 573
Pietro 1 il Orando, zar di Russia,
226
Pietro Igneo, vedi Aldobrandino P.
Pietro Martire d'Anghiera, 1025
Pietro da Verona (san Pietro Mar-
tire), X23
Pignattai F., cardinale, 85, 89, 107,
108, X73> 183, 288, 1120
Pignatelli F. di Bclmonic, 249
Pignatelti M., 78
Pignatelli N-, X36
Pilati, barone, xi66
Pilato Ponzio, 648, 744, 873, 884
Pineda J. de, 852, 853, 855, 875
Pinito Cretense, 655
Pinto y Mendoza F. E., principe
d'Ischitella, 48, 70, 354
Pio II, papa, 117
Pio V, papa, 905
Piovani P., xxxvn
Pipino III il Breve, re dei Franchi,
437, 454, 459, 4^3
Pirn R., 159, 973
Pirro, re dell'Epiro, 502
Pisani di Sant'Angelo A., xvi, 269,
270, 271, 272, 273, 283, 284, 285,
286, 287, 289, 291, 292, 293, 294,
295, 297, 298, 299, 300, 301, 303,
304, 305, 317, 322, 509, 513, 519,
520, 525, 526, 528, S3Q, 531, 532,
533, 534, 535, 537, 544, 545,
1103, 1187
Pisani di Sant'Angelo B., 286, 298,
526
Pisani di Santo Stefano L., 273, 518
Pitagora, 606, 607, 608, 612, 636,
1028,' 1048, 1083
Piteo, Pithoeus, vedi Pithou P.
Pithou P., 384, 390, 392, 393, 403,
450, 685, 10x3
Pitten F., 184, 280, 281, 283, 290,
294, 303, 305, 508, 509, 527
Pittori M., 280
Pizzichi F., 280
Platone, 43, 608, 612, 635, 636, 637,
645, 75i, 774, 876, 947, 1009,
1010, 1036, 1084, 1085, 1088
Plauto, 217, 452
Plinio il Giovane, 22, 59, 82, 289,
342, 733, 741, 765, 766, 767, 768,
776, 777, 779, 78o, 781, 782, 783,
784, 822, 881, 935, 948, 973, 1078
1086, 1091, 1092
Plinio il Vecchio, 4, 22, 337, 342,
426, 733, 736, 74i, 742, 761, 762,
765, 777, 808, 845, 866, 881, 889,
924, 925, 93i, 932, 936, 937, 944,
945, 946, 955, 984, 989, 1000,
1010, 1011, 1012, 1013, 1015,
1017, 1018, 1019, 1020, 1021,
1022, 1023, 1024, 1025, 1026,
1027, 1030, 1031, 1035, 1036,
1037, 1042, 1043, 1047, 1050,
1051, 1052, 1053, 1055, 1056,
1058, 1059, 1060, 1062, 1063,
1224
INDICE DEI NOMI
1064, 1065, 1066, 1067, 1068,
1069, 1078, 1079, 1086, 1088,
100,3, 1094
Ploikner (Plekncr) J. K. E. von,
xog, rio, 120, 145, 146, 147, 260,
X122, 1163
Plotino, 453, 614
Plutarco, 636, 756, 808, 864, 937,
X020, 1031, 1032, 1036, 1047,
io5C>, 1057, 1092
Plutone, 220, 652, 940, 1036, 1095
Polenta, Francesca da, 35
Policarpo di Smirne, santo, 824
Policrate, vescovo di Efeso, 655
Policromo, 853
Poliziano A., 165, 166, 11 27, 11 62
Polluce, 941, 944, 951
Pomba, editore, xxix
Pompeo Magno, Gn., 661, 741, 759,
760, 967, 1066
Pomponazsci P., 1000
Pomponio S,, 53
Pontieri E., xxxvi
Popajan, vescovo di, viceré del Perù,
130
Pope A., 817, 992, 993> 994» 99»
Porcinari I<\, 99, 1x35, 1144
lercio Pesto, procuratore della Giu-
dea, 885
Porfirio di Tiro, 453, 1034
Porta G, U. della, 1026
Portocarrero J. F., marchese di AI-
menarti y Palma, 136, 167, 177,
557
Portolano, xxxo
Porzio F., 51, 582
Pomo U A., 51, 52, 582, 583
Positano G,, 98, 155, in6, 1x27
lusitano G. JML> vescovo di Ace-
renza, 98, 102, X97
Possevino A., 748
Poussines P., xoy2
Prats Miquelot de, 245
Prcvcr G. B., xxv, 345? 79*» 792,
794» 797
Priamo, 756
Priapo, 940, 944
Prideaux IL, Box, 802, 963» 983
Priscilliano, vescovo eretico di Avi-
la, 803
Priuli, 530
Procacci G., 737
Proccurante G., 99
Procopio di Cesarea, 24, $$> 395,
398, 400, 4x0, 413, 414, 4x6, 417,
423, 425, 712, 847, 1188
Proculo Giulio, 757, 758
Prometeo, 941
Prosdoce, santa, 826
Prospero d'Aquìtania, santo, 855
Prospero A., 8x7
Protasio, vescovo di Milano, 693
Pucci \j., cardinale, 490
Puiendorf S., 350, 795, 8io> 840,
928, 95^
Puisserver, 1158, 1159, 1177
Quadrato Ateniese, 654
Quintiliano, M. Fabio, X012
Quirino, 757
Quiroga, famiglia, 6x
Quodvultdeo (Quodvuldeo), 777,
804, 805, 806, 808, 809, 810, 850,
882
Quondam A., 582
Rabano Mauro, 846, 855, 904
Hachi, re dei Longobardi, 432
Radelchi l, duca di Benevento, 358
Rade vico di Frisinga, 449
Radicati di Passerano A., xxiv, 3,4,
976, 983
Raffaele, arcangelo, 464
Rainolds J., 666
Rak M., 58 x
Ramone, X143
Rapin R., 738
Rato y Ottonelli T,, 265, $iHf 55 x
Ravà A., 280
Ravagnini Vendramin F., xxvm
Ravaschiero G. lì,, 93, 98
Rawlinson R., 186
Raynaldi <)., vedi Rinaldi ().
Ra/ja, 1090
Rebecca, 837
Reccaredo I, re visigoto di Spagna,
3#9, 393» 4*3
Reccaredo li, re visigoto di Spa-
gna, 389
Reeesvindo, re visigoto di Spagna,
390
Reeland A., 8ox, 802, 93 1, 972, 983
Regali, XX47
Regi» P.~S„ si
Reichembergio, 49 x, 492
Rernnon, 944
INDICE DEI NOMI
1225
Renato I d'Angiò, duca di Lorena,
275
Rcubcr J., 450
Reuss, archivio, 153
Rcx "W., 106 1
Rhodomann L., 204, 602, 607, 608,
610
Rialp, marchese di, vedi Perlas de
Vilhena R.
Ribaudengo D., 312
Riccardi F. A., xn, xin, 64, 6$, 78,
97» 99, 100, 101, 102, 105, 106,
120, 130, 131, 138, 139, 142, 205,
353, 362, 363, 476, 584, 585, 625,
1073, 1076, 1077, 11 14, 11 15,
1116, 1117, 1118, 1119, 1120,
1136, 1146, 1150, 1151, 1153,
1156, 1157, 1185
Riccardo, arcivescovo di Canter-
bury, 470
Riccardo I, re d'Inghilterra, detto
Cuor di Leone, 56
Ricchieri L. (Celio Rodigino), 271
Ricci M., 956
Ricciardo F., 74, 1128
Riccioli G. B., 1064, 1067
Ricuperati G., xxxv, xxxvi, 41, 554,
581,583, 584> 585, 586, 587, 588,
589, 591, 598, 619, 638, 735, 739,
747, 79i, 793, 797, 9*7, 9*8, 930,
93*, 933, 953, 99°, 99*, 992, 994,
1003, 1007, 1008
Ridolfi I\, 920
Ricz F. di, 903
Rigerico, re dei Visigoti, 380
Rinaldi O., 967, 969
Rinaldo, irate, 484
Rinaldo d'Este, duca di Modena e
Reggio, xv, 142, 511, SS*
Rinaldo di Montalbano, 869
Rinierì L, 53
Rinucci G. B., 51
Riolan J,, 1050
Ripperda J, W. van, 132
Rispoli G., xxxvi, 126
Rittershausen (Rittcrshusius) K.,
22, 23, 411, 45o, 785
Riva, senatore veneziano, 11 82
Riva 3\1, 280, 508, 544
Rivet A.» 915» 916
Roberto d'Angiò, re di Sicilia, 457
Roberto il Guiscardo, duca di Pu-
glia, 159
Rocca A., 499
Rocco, santo, 951
Rocco F., 1159
Rodano, 655
Roderico, 391
Rodolfo il Glabro, 686
Roero di Cortanze E. T., io
Rofrano, marchese di, vedi Capece
G.
Rogadeo G. D., 356, 360, 361, 561
Roger J , 613, 614, 615, 802, 999
Rolhn Ch., 734, 739, 959
Romano, esarca di Ravenna, 418
Romeo R., xxxv
Romolo, 11 38
Romolo, fondatore di Roma, 736,
74o, 755, 756, 757, 758, 77o, 1089
Romolo Augustolo, imperatore, 30,
397
Rondelet G., 1018
Ronzo G. B., 1127
Rosa M., 737
Rossi B. de', 1137
Rossini R., xxxiv
Rosso C, 794
Rota, 11 23
Rota F., 267, 520, 527
Rotari, re dei Longobardi, 429, 430,
432, 442, 566
Rotemero, figlio di Tcodorico I,
380
Rousseau J.-J., 4, 953
Rubi y De Boxadors J. A., 136, 250,
251, 1179
Ruelin, abate, 325, 326
Rufino di Aquileia, 655, 681, 813
Rufo, vescovo di Tessalonica, 721,
722
Rufo di Efeso, 1050
Ruggero, duca di Puglia, 159
Ruggero I, conte di Sicilia, 56, 159
Ruggero II, re di Sicilia, 450, 460,
560, 570, 572, 573, 576
Ruperto Abate, santo, 845, 846,
864, 867
Russo A., 49
Ruzzini C. di M., doge di Venezia,
286, 518
Rycaut P., 931, 983
Sa E., 864
Sabalelli C, 17
Sabatelli I., 15, 1124
\z%h
INDICI! DUI NOMI
KabatelU L., 17
Subatolli M., is
Sacchetti V., 1 157
Sacco B., 429
Sagredo (}., 982
Sainthe-Marthe I). de, 920, 921,
<)2Z, 923
Sainte-Marthe L. de, 973
Saintc-Marthe S. do, 973
Salian J., 850, 851, 854
Salmasio C, vedi Saumaise CI.
Salomc, 872
Salomone, re d'Israele, 603, 680,
843, 853, 854, 855, 856, 857, 873,
874, 1058, 1080, 1081
Salvatorelli L., xxxn, xxxnr, 588
Salvemini Castiglioni Ci. F., 902
Satviano di Marsiglia, 383, 411,
4*5, 1049
Sai viali L., 35, 36
Samuele, 742, 875
Sanchoz G., 854
Sanchesc T., 900
Sancio Panna, 858
Sancuniatone, 6 io, 883
Sancy, sieur de, vedi Aubigné
T.-A. d'
Sandco F., 489, 494, 498
Sanfoliee A., 167
Sanfelice F., 167, 477
Sanfelice C, xxi, 130, 167, 168,
rC)9, 170, 173, 174, 175, i7"> *77>
t78, 179, 180, t8x, 182, 183, 186,
273) 379» 291, .W> 350, 3<>*. 3<Kh
477» 47«» 479, 4^» 4*3» 5«7» 5 « ».
524, 525» 5»6» 54^, 549. 550»
1104, n6o, 1164, xi 66, 1169,
1170, 1172, 1190
Sanfelicc M., 1131, 1148, 1153
Sanson, misaionario, 953
Sansone» 843, 855, 873
Sansovino i<\, 982
Santoro I<\, 1135
Santo Stefano» conte di, vedi Hona-
vide» y Aragón 3VL do
Sapegno N.„ xxi, xxxm, 8
Saponara, Di Giovanni e lappata
V., duca della, 149, 150
Sara, 876
Sardano M., 1157
SarpiP., 36, 5x0, 5x1, 5x4» 54»» 54»»
543» $8*
Sdstago y Murato, C, F. de Cor-
doba, marchese di Agii dar, conte
di, 136, 250, 1170
Saturno, 940* i°U
Saul, re d'Israele, 1037
Saumaise CI., 523, 68 1, 682, 692,
697
Savaron J , 385, 388
Save, figlia di Adamo, 850
Savoia, casa, puncipi, 3, 127, 737,
1076, no2, il 88
Savoia-Soissons Kugcnio di, 58,
96, ni, U2, 113, 131, 136, 137,
i.V)» 156, 157» 160, r(>7, 176, 105,
255> 326, 584, =585, (no, 640, 020,
1075, 11 15, 1130, ii37» 1146,
X150, 1161, 1164, 1165, 1173
Savonarola (»., xxxi
Sax-Gottha, vedi Federico, duca di
Saxe- Gotha
Scaduto F., xxxvi, 143, 152
Scafnaburgensc, vedi Lamberto di
Ilonsield
Scagliosi M., 476, 481
Scaligero G. C., 614, 616, 1060,
1131
Scansa ()., 1123, 1 132
Scevola, G. Muoio, 1087
Sccvola, Q, Mucìd, 750
Sehedius K., 960
Schegkio G., vedi Dcgen J.
Scholstrute li, 657, 665, 666, 678,
682, 688, 689
Schiller J.f 49 x, 492, 685
Sciupa M., xxxvi, 93, 246, 347,
248, 249, afo, 2O5, 274, 1x79
Schrattcnbach K. W. II., 1132
Sebastiano, santo, 951
Sodelmuyr J.J., 83, «175
Selden J., 958, 950, 963
Seli'm I, sultano ottomano, <>8x
Selt'm II, sultano ottomano, <)Ht
Sem, 596, 597, 598, 603, 849
Semiramide, leggendaria regina a«-
Hira, 605
Scino Saxicu» Diu« Fidiua, 882
Senatore G,, 246
Seneca, L. Amico, 4, 639» 640, 778,
856, 1020, 1035, 1062, X064,
1084
Sennert I)., 6x4, 6x5, 6x6, 6x8
Scrao F., 49
Scrapionc, Bantu, 655
Serbellon, vedi Cerbellon
INDICE DEI NOMI
1227
Sergio, 461
Sergio, monaco, 931, 977, 978, 980
Senni P., 815
Senpando G., 32, 1071
Scronato, prefetto delle Gallie, 383,
384, 385
Serra Gaetano, 15
Serra Giulia, 15, 17
Serra D'Isca R., vedi Riccardi F. A.
Serry J.-H., 907
Sersc 1, re di Persia, 600
Sertorio Q,, 1066
Servio Tullio, re di Roma, 744
Sessa M., 430, 431
Sesto Empirico, 34, 1048
Seth, 849, 850
Settembrini L., 40
Settimio Severo, imperatore, 787
Severino, santo, 565
Severo, vescovo di Ravenna, 693
Severo L., imperatore d'Occiden-
te, 409
Sfrondato da Siena N., vedi Gre-
gorio XIV
Shcrlock P., 857
Sicardo, principe di Benevento, 358
Siccardi M., 308
Sichard J., 428
Sidonio Apollinare, santo, 24, 381,
382, 383, 384, 385, 388
Sifuentes, vedi Cifuentes
Sigeberto di Gembloux, 387, 491
Sigismondo da Venezia, 268
Sigonio C, 22, 419, 420, 429, 432,
433, 434, 435, 43<>, 447, 454,
458, 461, 567
Silene, 883
Silhouette É. de, 817, 996
Silio Italico, 1060
Silvcrio, papa, 413
Silvestri C., 271, 272, 885
Silvestro I, papa, 657, 679
Simeone, 875
Simeone, vescovo di Gerusalemme,
779
Simmaco, papa, 402
Simmaco, senatore, 416, 417
Simmaco, Q. Aurelius, 1078
Simon R. (Le Sieur), xvn, xxi,
xxiv, 587, 959
Simon Mago, xxvi, 814, 882, 883
Simone, apostolo, 865
Simone, parente di Gesù, 650
Simpliciano, santo, 844
Sinfuego, vedi Cienfuegos A.
Sinzendorff Ph. J. L. von, cardi-
nale, 99, 143, 144, 11 16
Sinzendorff Ph. L. von, Gran Can-
celliere, 99, 116, 132, 143, 151,
153, 154, 155, 156, 157, 209, 210,
215, 226, 238, 1116, 1125
Siricio, papa, 721
Sirmond J., 385, 681, 683, 694, 697,
967
Sisebuto, re dei Visigoti, 389
Sisenando, re dei Visigoti, 389
Sisifo, 223, 879, 1095
Sisto III, papa, 719, 721, 725, 726
Sisto V, papa, 209, 591, 905, 907,
920
Sisto da Siena, 841
Sleidano, vedi Philippson J.
Smaragdo, esarca di Ravenna, 418
Socrate, 816, 856
Socrate, storico, 31, 411, 412, 656,
661, 711, 724, 964
Soffietti G., 271, 528
Sofia Carlotta, regina di Prussia, 4
Sofronia, 878
Sofronio, patriarca di Costantino-
poh, 872
Solanes F., 192, 197, 198, 1138
Solaro di Breglio G. R., 99, 308,
734
Solimano, 1069
Solirnena F., 276
Solino, G. Giulio, 1021, 1023,
1025
Solone, 448, 943, 1028, 1052
Sorbière S., 804
Soria F., 1176
Souciet É., 1005
Soulier P., 971
Sozionc, peripatetico, io 11
Sozomeno E., 31, 412, 698, 705,
711, 964
Spada F. A., 584
Spangenberg C, 491
Spanheim E., 439
Spannagel G., 1073
Speculatore, vedi Durante G.
Spelman H., 687
Spencer J., 587, 595, 599, 605, 961,
1081
Spezzano, duca di, 1153
Spiegel J., 450
12ZH
INDICI? DKI NOMI
Spinelli, famiglia, 70
Spinelli A., 966
Spinelli Giovanni, ig, 34, 40
Spinelli Giuseppe, 288, 1133
Spinelli l., contessa di Rovalino,
47, 5**, 6r, 35-4. 113H
Spink J. S., 61 <j, 631, 647
Spinola, marchese, 1x47
Spinoza H., xvn, xx, xxm, xxiv, 3,
4» 5*> 5^i> 5**3. 5**6, 5**7i 602,
6x9, 621, 634, 638, 639, 040, 64 1,
736, 741, 748, 703, 816, 020, 030,
044, 947» 993, io8x
Spendano, vedi Spondo II. do
Sponde II. de, 968
Stampa G. C, 292
Stanislao Lcszczynski, 226, 238
Stefano, patriarca, 707
Stefano, santo, 678, 833, 863
Stefano II, duca e vescovo di Na-
poli, 462, 4Ó7
Stefano IV, papa, 450, 461
Stefano di Perche (Parato), 410
Stegmann A., 738
Stella Pietro, 734, 735
Stella Pietro, marchese, 163, 164,
ri 32
Stella R., conte di Santa Croce,
X64, xi 32
Stephen L., 610, 643
Stercorio, vescovo di Cimosa, 693
Sterpo» I)., 247
Steuco A., 403
StiUingfleet K., 620, 688
Stosch l<\ W., 620
Straberne, 26, 204, 221, 222, 223,
6ox, 602, 603, 604, 607, 608, 040,
756, 866, 883, 042, 943, 998»
1028, 1034, 1078
Struvc il G,, 371, 446, 448, 449,
493, 559, $(&> 1077
Stuart J. K, K. J., duca di Berwick
e di Liria, 242, 244
Studio, corrispondente di sant'Am-
brogio» 862
Sturalo L., xxxtr
Stute J. P., 923
Sitarci F.» 812, 876
Sueur, vedi Lesueur J.
Sulpicio Rufo, Ser,, 752
Sulpicio Severo, 31, 656, 964
Summonte Ci. A., 358, 375
Sura Licinio, vedi Licinio Sura
Suttner G., g<>
Svetonio Tranquillo, G., 22, 171,
777» 851, 1011, 1013, 1020, 1043,
1068, 1078
Svilitila, re dei Visigoti, 389
V aauto, 610
Tacito, P, Cornelio, 22, 171, 204,
733, 736, 738, 739, 74», 753, 755,
759, 761, 7<>2, 766, 770, 777, 778,
807, 848, 973, 1013, io 19, 1030,
1035, 1036, to(>5, 1060, 1071,
1078, 1089, rogo
Talete di Mileto, 61 r, 6r2
Talluri IJ., 1061
Tamerlano, sovrano turco, 1064,
1066, io(>7
Tancredi, re di Sicilia, 56, 576, 577
Tantalo, 223, 879, 1095
Tanucci R., 284, 349, 350, 361, 363,
571, ti8o
Tarasio, patiiarea di Costantino-
poli, 464
Tarf?a, vedi Coscia b\
Tarquinio Prisco, re di Roma, xo88
Tarquinio il Superbo, re di Roma,
161
Tarsia, principe di, 150, 1174, X177
Tarsia, principessa di, X50, 1:159,
X174
Tartarotti G., xxiv, 54
Taso, nobile longobardo beneven-
tano, 467
Tasso T., 73, 629, 652, 878, 90X,
1069, 1095, 1x51
Tato, nobile longobardo benven-
tano, 467
Teia, re degli Ostrogoti, 398, 400
Teiless-Girón y Guzmun P., duca
di Osanna, 542
Temistio, 614, 615
Temistocle, 937
Teocrito» 1085
Teodato, re. degli Ostrogoti, 400,
566
Teodelusa, 386
Teodemiro, re degli Ostrogoti, 394
Teodolinda, regina dei Longobardi,
567
Teodora, imperatrice d'Oriente,
442
Teodoreto di Ciro, 3*, 693, 694,
724, 805, 847» H54» 86 1, 964
INDICE DEI NOMI
1229
Teodorico, re degli Ostrogoti, 55,
379, 384, 385, 386, 393, 394, 396,
397» 398, 399, 400, 401, 402, 403,
404, 406, 409, 411, 412, 413, 4H,
416, 417, 559, 565, 566, 712, 1008
Tcodonco I, re dei Visigoti, 380,
384
Teodonco II, re dei Visigoti, 380,
381, 382, 384
Teodoro, vescovo di Efeso, 672, 674
Teodoro il Lettore, 964
Teodosio I, il Grande, imperatore,
655, 704
Teodosio II, imperatore d'Oriente,
23, 29, 31» 55» 57, 351, 386, 388,
402, 409, 410, 427, 461, 669, 690,
691, 701, 1192
Teofane, cronografo bizantino, 436,
437
Tcofìlatto, duca di Napoli, 462
Teofilo, giurista bizantino, 18
Teofilo (di Antiochia?), 655
Terafì, 944
Terenzio Afro, P., 156, 199, 200,
548, 1175
Tertulliano, Q. S. Fiorente, 224,
229, 231, 651, 655, 678, 711, 714,
775» 784» 785, 795, 801, 802, 803,
804, 806, 811, 814, 821, 823, 828,
829, 833, 836, 837, 838, 860, 873,
882, 884, 1013
Terzi G., 295, 5°8, 510, 527» 529,
530
Teseo, 813, 940
Teti, 852
Teti S., 1078
Thomassm L., 460, 468, 839
Thou J.-A. de, 186, 188, 582, 586,
741, 931, 932, 985, 11 68
Thyracus I*., 1093
Tiberio, 435
Tiberio Claudio Nerone, impera-
tore, 648, 74i, 759, 7<>i, 77o,
851, 884, 1032, 1034, 1044, 1089
Ticonio, 801
Ticpolo F., 302, 509
Tillemont L,-S. Le Nain de, 31,
931» 934, 969
Timoteo, conte goto, 387
Timoteo, vescovo di Efeso, 665,
721, 722, 723» 834
Tindal M-, xvn
Tirino, vedi Le Thiry J.
Tito, imperatore, 22, 741, 761, 762,
777, 779, 1010
Tito, vescovo di Creta, 664, 721,
722
Titone, 941
Titone V., xxxiv
Tizio, 879
Tizio Anstone, 1086
Tobia, 231
Tocci O. S., 42
Tocco C. di, vedi Carlo di Tocco
Toland J., xvi, xix, xx, xxi, xxin,
xxv, 4, 585, 586, 587, 588, 589,
595, 602, 605, 607, 619, 639, 640,
736, 737, 740, 74i, 743, 745, 748,
761, 795, 796, 816, 922, 923, 927,
929, 930, 93i, 932, 937, 942, 945»
947» 961, 976, 983, 992, 993, 994,
995» 998, 1000, 1005, 1061, 1070,
1082
Toledo F. de, 863
Toledo P. de, marchese di Villa-
franca, 214
Tolomeo I Sotere, re d'Egitto, 822
Tolomeo Claudio, 25, 1067
Tornasóli G. F., 739
Tommaseo N., 37
Tommasino, vedi Thomassin L.
Tommaso d'Aquino, santo, 812,
906, 909
Toppi N., 51, 1077, 11 57, 1162
Torella, principe di, vedi Carac-
ciolo di Torella A. C.
Torelli F., 571
Torre F., 1143, "57, "S8
Torres A., xxxm, 42, 43, 89
Torrismondo, re dei Visigoti, 380,
382
Tosques F., 99, 11 16, 1123, 1152,
1153
Tosques S., 5, 6, 1123
Tostado Ribera A., 841, 854, 863,
869
Totila, re dei Goti, 399, 400, 423,
425
Totone, conte di Nepi, 458, 459
Tozzi L., 49
Traiano, M. Ulpio, imperatore, 22,
488, 762, 768, 776, 777, 779, 780,
781, 783, 784, 785, 786, 787, 822,
921, 922, 935, 948, 1034
Trasmondo II, duca di Spoleto,
433, 434
23°
INDICI? DEI NOMI
"maone, 156, 213, 1175, 1176
'muti C). F., 247, 249
'ria G. A., 791
^riboniano, 18, 386, 1011
Vi fon e, 655
>ifono R., xxxvi
'rissino G. G., 36
"ritemio G., vedi lleidenberg I.
Yittolemo, 941
Vivulzio A. T., principe di, 5, 8,
262, 289, 301, 302, 304, 305, 306,
307, 3**> 317, 322, 507, 508» 509,
510, 5x1, 513, 514, 535, 554,
X189, 1190, 1191
Trivulssio Pertusati M., principes-
sa di, 305, 306, 307, 308, 309, 310,
317, 326, 339, 1188
Trogo Pompeo, 883
Troise B., 74, 1128
Troya C., 357, 4^9
Tuano, vedi Thou J.-A. de
L'ucci, 268
Tucidide, 738
Tulea, re dei Visigoti, 389
Tullia, figlia di Cicerone, 1089
Tullio Tiro, liberto di Cicerone,
xoxx
Tura D., 67, 1134, 1147, 11 92
Turchi F., 739
Turner J., 619, 620
Turrettini J.-A., xxm, 7, 315, 316,
3x7, 318, 3x9, 323, 3^3» 334, <)Z7,
99X, XX02
rmxni e, 560, 574
Taetecs G., X059
Jghelli F., X59, 4^7» 4^> 574, 575»
973
Jgo, abate, 1136
Jgolino, vedi Gherardesca Ugolino
della
Jgolino dei Presbiteri, 559, 568
JIÌ88C, 756, 851, X0I2, IO93
Jlpiano, 777
Jnncrico, re dei Vandali, 380
Uranio, 940
Jrbano lì, papa, 157, 158, 159,
x6o, 561
Jrbano VI, papa, 1x7
Jrbano Vili, papa, X49, 496, 909
Jrsacio, vescovo di Brescia, 693
LJsher J., 587, 665, 666, 8ox, 802,
885, 97», 973
Vadilaus K., 1167
Valdès J. de, 316
Valente, imperatore, 2<|, 411, 670,
674, 724
Valentimano, cavaliere, ri 6
Valenl intano l, imperai ore, 674,
712
Valentimano II, imperatore, 386,
402, 409, 457, 712
Valentininno 111, imperatore d'Oc-
cidente, 23, 55, 378, 402, 404,
4x1, 690, 09 x, 697, 712, 1192
Valentino, eretico gnostico, 808,
810
Valemmo, I\ Licinio, imperatore,
787
Valerio, 867
Valerio L., 170
Valerio Massimo, 943, io io, 10x2,
X028, X030, 103O, 1086
Valesio, vedi Valous 1 1.
Valier L,, X72
Valignani F., marchese di Cepagat-
li, 262, 264, ti 84
Valla L., 36, 270, 493, 1044
Valletta F., 54
Valletta G., 54, 55, 125, 356, 3<>*,
5^2, 5^3» 79»
Valletta N., 54
Vallia, re dei Visigoti, 380
Valli«nieri A., 49, X39, 267
Valois A., 705
Valois II. , 399, 4xr, 412, 705
Valterio G., 864
Vamba, re dei Visigoti, 390
Varchi B., 496
Varenne B. de, 881
Vario A., 63
Varisco G., 886
Varrone, M. 'Terenzio, 750, 754,
777, H79, 946, xoxo, iox2, X055,
X085, X13X
Vartanian A., 633, 10x7
Vasqueis M., 863
Vatable F., 853, 854
Vecchioni M. M., xxvnt, 83, 354,
356
Vega A., 875
Vegeto, 452
Venere, 60 x, 864, 889, 897, 940, 944
Ventura F., 172, 1x07, 1x13, XXX4,
X122, XX25, XX33, XX34, KX3S,
XX57, XX63
INDICE DEI NOMI
1231
Venturi F., xxxv, 185
Veremundo, 391
Vctgiiio 1\, 858
Vernerà, contessa, 114
Vcrne t J., xvn, xxii, xxin, xxvn, 7,
3i4> 318, 319, 321, 322,323,324,
334» 33<>> 338, 339, 895, 9^7, 99*,
9<j2, n 02
Verniero P., 602, 638
Verri I\, 592
Vespasiano, T. Flavio, imperatore,
22, 204, 761, 777, 779, 1036
Vesta, 940, 941, 951
Viano C. A., 796
Vicentini G., 85
Vico G. B., 18, 33, 34, 48, 220, 557,
582, 740, 999, n6x
Vidanui D. V. de, 288
Vigezzi li., xxxv, 589, 594, 595
Vigneul-Marville, vedi Àrgonne N.
Vilhena, J. M. F. Pachcco, mar-
chese di, duca di Kscalona, 39, 58
Villani C, 33, 76
Villani G., 36
Villani P., xxxvn
Villari P., xxxi
Villare L.-IL, duca di, 242
Villasor J., conte di Montcsanto,
97, «9» «55» i^3, 164, 189, 196,
238, 241, 250, 255, 1174
Villettes A. de, io, 791, 815, 949
Vincenzo da Lórins, 903
Vinnen A., 20, 21
Virgilio Marone, P., 23, 217, 611,
616, 748, 752, 756, 772, 901,
ioto, ro43, X045, 1054, 1085,
1093, 1192
Virginia, 763, 764, 109 1
Virginio L., 764
Visconti (>., viceré di Napoli, 248,
249, 362
Vitagliano LO., 46, 47, 76, 77, 129,
XS07, 1x29, 1149
Vitellio A., imperatore, 761
Vitige, re degli Ostrogoti, 400
Vittcrieo, re dei Visigoti, 389
Vittore, H. Aurelio, 656
Vittore V., 804, 805
Vittorelli A., 864
Vittorio Amedeo, principe di Sa-
voia (futuro Vittorio Amedeo
HI), 308, 733)734,735
Vittorio Amedeo II di Savoia,
re di Sardegna, 238, 475, 734
Vives I. L., 884, 1025
Voet J , 371
Voct P , 371
Vogt J., 1077
Volaterrano Rafaello, vedi Maffeius
Raphael Volaterranus
Vòlker K , 934
Volpicella S., 83
Voltaire (F.-M. Arouet), xxm, 895,
957, 992
Voorbroek J., 738
Vopisco Flavio, 1020
Voss G. J., 748, 784, 785, 824, 922,
958
Voss I., 824, 1022
Vulcano, 610, 940, 941, 951
Walramus, 492
Watson R., 687
Wendrock G., vedi Nicole P.
Wharton H., 973
Whttby D., 794
Willis Th„ 620
Wolf Ch., 662, 665, 666, 689
WolfF G., 437, 1034
Woolston Th., 643
Wurstiscn C, 491, 492
Wùrttemberg E. L. von, 111
Xylander, vedi Holtzmann W.
Zaccaria, padre di Giovanni Batti-
sta, 648, 875
Zaccaria, papa, 459, 464, 469
Zaccaria, profeta, 860
Zagedm S., 1009
Zaleuco, 943, 1028
Zamolxi, 943, 1028
Zangari D., 41
Zapata J. G., 1109
Zeno A., 99, m, 189, 267, 326,
362, 510, noi
Zenone, imperatore d'Oriente, 394,
395, 396, 397, 398, 399, 7°7
Zinzendorf, vedi Sinzendorff
Zonara G., 31, 412, 436, 656
Zor/À M., 271
Zosimo, papa, 690, 691, 721, 725,
7*7
Zotone, duca di Benevento, 418,
419, 420, 421, 422, 423, 424
Zucchi M., 734, 735
INDICE
INTRODUZIONE di Sergio Bertelli XI
1UBHOORAFIA di Sergio Bertelli XXVII
VITA DI PIETRO Gì ANNONE
{a cura di Sergio Bertelli)
Nota introduttiva 3
VITA DI PIETRO GIANNONK SCRITTA <IN SAVOIA> NEL CA-
STELLO DI MIOLANS <DA LUI MEDESIMO E CONTINUATA
NELLA LIGURIA NEL CASTELLO DI CEVA>
[ Proemio | 13
('M'itolo primo. [Anni 1676-1692] 15
capitolo secondo. Anno 1694, sotto il regno di Carlo II re di
Spagna e sotto il governo del conto di S. Stefano e poi del duca
di Medina Codi viceré 18
capitolo terzo. Anno 1701, sotto il regno di Filippo V, re di Spa-
gna, e sotto il governo dello stesso duca di Medina Coeli e poi del
duca d'Kscalona, marchese di Viglicna, viceré 39
capitolo quarto. Anno 1707, sotto il regno del re, poi imperadore,
Carlo VI, e sotto il governo del conte Daun e cardinal Gnmani, e
poi di nuovo sotto il conte Daun, viceré 60
capitolo quinto. Anni 1723 e 1724, sotto il regno dell'imperadore
Carlo VI, e sotto il governo del cardinal Althan, viceré. - Napoli
e Vienna 80
capitolo sesto. Anni 1725, 1726 e 1727. In Vienna 123
capitolo settimo. Anni 1728, 1729 e 1730. In Vienna 163
capitolo ottavo. Anni 1731, 32 e 33, In Vienna 202
capitolo nono. Anno 1734. Vienna e Venezia 244
capitolo decimo. Anno 1735. Venezia, Modena e Milano 279
capitolo DECtMOPUtMO. Anni 1736 e 1737. Ginevra, Champéry e
castello di Miolans 3*8
ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
(a cura di Sergio Bertelli)
Nota introduttiva 349
DALLA «ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI»
Introduzione 365
7«
1234 INDICE
Libro TU 378
cai*, t. De* (roti occidentali e delle loro leggi 380
I. Del codice d'Alarico 385
hi. Del nuovo codice delle legni degli Westrogoti 388
cai», a. De' < foli orientali, e loro editti
1. Di Teodorico ostrogoto, re d'Italia 394
ti. Leggi romane ritenute da Teodorieo in Italia, e suoi editti
conformi alle medesime 401
ili. La medesima polìtìa e magistrati ritenuti da Teodorieo m
Italia 404
v. I medesimi codici ritenuti e le medesime condizioni delle
persone e de* retaggi 408
vi. Insigni virtù di Teodorico e sua morte 411
Libro IV
cai», il. Del ducato Beneventano e dì Zotone suo primo duca 418
Libro V 42<>
1. Leggi di Luitprando 430
iv. Origine del dominio temporale de' romani pontefici in Italia 432
cai», v. Leggi de' Longobardi ritenute in Italia, ancorché da queliti
ne fossero stati scacciati: loro giustizia e saviezza 441
I. Leggi longobarde lungamente ritenute nel ducato Bene-
ventano, e poi disseminate in tutte le nostre Provincie ond'ora
si compone il Regno 453
cai», ur/r. Della polttia ecclesiastica 458
II. Monaci, e beni temporali 466
PROFESSIONE DI KEDE
(a cura di Sergio Bertelli)
Nota introduttiva 475
I)A(-LA «PROFESSIONE DI KUDK» 483
Articoli primari e fondamentali 485
RAGGUAGLIO
DELL'IMPROVISO K VIOLENTO RATTO PRATICATO
IN VENEZIA AD ISTIGAZIONE DB' OKSUITI K DELLA
CORTE DI ROMA NELLA PERSONA DELL'AVVOCATO
PIETRO GIANNONE
(a atra di Sergio Bertelli)
Nota introduttiva 507
RAGGTJAUO DKLL'IMPROVISO K VIOLENTO RATTO PRATI-
CATO IN VKNKZIA AD ISTIGAZIONI* DK> OKSUITI E DKM.A
INDICE I235
CORTE DI ROMA NELLA PERSONA DELL'AVVOCATO P. G., IL
QUAL ESPOSTO ALLA RIVA DEL PO IN PAESE DESERTO E
NEMICO, FU QUIVI LASCIATO SOLO O A PERIR DI DISAG-
GIO, OVVERO AD ESSER PREDA DE' SUOI FIERI ED IMPLA-
CABILI nemici. Colle querele del medesimo contro gl'isti-
gatori e coloro che '1 commandarono, ciecamente eseguendo
i lor perversi ed iniqui consigli. Helmstat, A. MDCCXXXV 513
OSSERVAZIONI CRITICHE
SOPRA L'HISTORIA DELLE LEGGI
E DE' MAGISTRATI DEL REGNO DI NAPOLI
COMPOSTA DAL SIG.RE GRIMALDI
(a cara di Giuseppe Ricuperati)
Nota introduttiva 557
OSSERVAZIONI CRITICHE SOPRA L'HISTORIA DELLE LEGGI
E DE* MAGISTRATI DEL REGNO DI NAPOLI COMPOSTA DAL
SIG.RE GRIMALDI
Dell1 Istoria delle leggi e de' magistrati del regno di Napoli 563
lib. 1. Delle leggi e de* magistrati romani dalla fondazione di
Roma per insino alla decadenza dell'Imperio 564
i-m. 11 565
uh, in. Delle leggi e magistrati del regno di Napoli, dalla co-
ronazione di Carlo Magno imperatore fino a Corrado il Salico 567
li», iv 568
i.m. v 570
uh. vi 576
IL TRIREGNO
(a cura di Giuseppe Ricuperati)
Nota introduttiva 581
DAL «TRIREGNO»
Libro primo. Del regno terreno
PARTE I. In cui si contiene la dottrina degli Ebrei, palesataci ne1 libri
del Vecchio Testamento
cai», iv. Come in tutta la posterità di Noè, donde si vuole empita
la terra di abitatori, si fosse mantenuta la stessa credenza e
I236 INDICE
concetto che si ebbe per l'uomo di regno terreno, solo eh feli-
citai o miserie mondane e lo stesso concetto del suo essere e
503
PAUTK IL DeWon'gmv del mondo e formazione dell'uomo • sua natura e
fine, secondo il sentimento de* piti gravi e seri filosofi
CAI», n. In che gl'Egizi, i Greci ed altri filosofi facessero consistei e
la natura dell'uomo, e come fossero dì conforme sentimento con
Mosc che uno spirito animava l'universa carne sì degl'uomini
come degli animali boi)
cai», in. Del nuovo sistema di Cartesio intorno alla creazione
del mondo, formazione dell'uomo e natura di questo spirito (124
Libro secondo, Diu. rkc.no cklkktk
Introduzione O48
Libro terzo. Dia rkuno papali;
PKRIODO SECONDO. Dalla conversione di Costantino M. infitto alla mor-
te dell' ìmperator Giustiniano il Grande e pontificato di Gnyotio Mastio 654
cap. 11. Come, dopo la conversione di Costantino, la soprainten-
denza de* vescovi molto piti veloce che prima corresse verso la
dominazione, per l'autorità, lustro e splendor che gli diede, e
fosse quindi sorta fra' ministri della Chiesa una più ampia e
maestosa gerarchia di metropoliti, primati ed esarehi, owero
patriarchi, corrispondenti a' magistrati dell'Imperio 656
[cai», ni]. [Come questa nuova polizia della Chiesa si adattasse a
quella dell'Imperio, secondo le diocesi e province del medesimo,
alle quali furono preposti per lo governo ecclesiastico gli esarchi
e i metropolitani] 663
cai\ iv. I capi e moderatori di quest'csterior ecclesiastica polizia
erano gl'imperatori cristiani, come supremi ispettori da Dio
costituiti per averne cura e protezione 698
cai», v. Come nel V e VI «ecolo, sotto gl'altri imperatori cristiani
successori di Costantino Magno, si fosse variata quest'est erior
polizia per i favori e prerogative che i medesimi concedettero
a Costantinopoli dichiarandola «nuova Roma», sede e capo
dell'Imperio d'Oriente, pareggiando per conseguenza il suo
vescovo a quello dell'" antica Roma», sede dell'Imperio d'Oc-
cidente 702
cap. vi. Delle cagioni dell'ingrandimento del vescovo di Roma,
onde distese l'autorità sua esareale sopra altre diocesi e Provin-
cie d'Occidente non comprese nel vicariato di Roma 710
INDICE 1237
DISCORSI
SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO
SCRITTI DA PIETRO GIANNONE GIURECONSULTO
ET AVVOCATO NAPOLITANO NEL CASTELLO DI CEVA
L'ANNO 1739
(a cura di Giuseppe Ricuperati)
Nota introduttiva 731
DISCORSI SOPRA GLI ANNALI DI TITO LIVIO SCRITTI DA
PIETRO GIANNONE GIURECONSULTO ET AVVOCATO NAPO-
LITANO NEL CASTELLO DI CEVA L'ANNO 1739
Parte I
discorso ni. Della franchezza colla quale Livio scrisse delle cose
appartenenti alla religione romana; e come non solo intorno al
culto de' dii, e lor vantati miracoli, ma in tutti i suoi rapporti ser-
basse un'incorrotta sincerità di fedele istorico e di profondo e
grave filosofo 747
I. Per ciò che riguarda la teologia naturale 751
II. Per ciò che riguarda la teologia civile 755
ni 758
discorso xii ed ultimo. De' mani e sepolture de' Romani 762
I. Conchiusione di questa 1 parte 770
Parte II
discorso xvn. Per quali cagioni in discorso di tempo fossero state
da' Romani proibite a* cristiani le loro chiese o siano unioni, ri-
putandogli collegi illeciti, e procurato di abolirli, e come dapoi
per Costantino M. la religione cristiana fosse stata ricevuta nel-
l'Imperio 772
APOLOGIA DE' TEOLOGI SCOLASTICI
(a cura dì Giuseppa Ricuperati)
Nota introduttiva 791
DALLA «APOLOGIA DI?' TEOLOGI SCOLASTICI»
Libro I
Al molto Rcv* P, Gio. Battista Prever sacerdote della Congrega-
zione deW Oratorio di S. Filippo Neri di Torino 797
cai», ili. Delle ricerche fatte sopra l'uomo, sopra la natura delle
anime umane, loro immortalità, stato doppo la morte de' corpi, e
resurexione de* medesimi 802
I23<S UNDICI*
I 803
II S05
III 808
cai». IX. Dell'austera morule de1 Padri antichi 815
I. Intorno al disprezzo della propria vita ed annienta/ione di
se «tesso 830
II. Si commendano le femmine e spezialmente le verdini, le «pia-
li, per evitale d'esseie per forza violate, prevengono la violenza
con darsi per se medesime morte 8.».j
XII. Si condanna la tfiushi chiesa di se medesimo e tic' propti suoi
beni 847
IV. Si condannano nell'umana società tutte sorti di fiochi e di
onesti diporti: tutto ciò che a* nosiii sensi esterni può recare
innocente piacere: tutte senti di abbigliamenti, anche nelle lem-
mine, e s'impongono a' ciistiani altre catene e rigori, onde per
ammenda eran condennati a dui e e pubbliche penitente 8^0
cai». XI. Delle questioni vane, ridicole e curiose, onde «li scrittoli
de' secoli rozzi ed incolti han riempito i lor volumi, seguendo la
traccia de' Padri antichi 8,}o
I. Questioni sopra il Vecchio Testamento 845
li. Sopra il libro di Giob 852
ni 854
iv 850
cai», xii. Delle questioni curiose e ridicole «opra il Testamento
Nuovo 850
I. Sopra ì Matfì 8(>6
II. Sopra la Verdine Maria e S. Giuseppe 86<>
in. Ricerche sopra Pilato, < Jiuda, sopra i 34 vecchioni dell'Apo-
calisse, Anticristo, resurczione, paradiso ed inferno 873
cai», xin ki» ui/rtMo. Imperizia ne' Padri antichi d'istoria e di cro-
nologia emendata da' nuovi scrittori 881
n 885
Libro III. /V libri di S, Affasti no
CM\ tu. De* rigoristi 888
cai», m. De* gomoristi, arnunian: e giunttemuti 000
ISTORIA DICI. PONTIFICATO
DI GUKGORIO MAGNO
(a cura dì Giuseppi1 Ricuperati)
Nota introduttiva gì 5
ISTORIA OKI, PONTIFICATO M OKUCKMMO MAGNO
Libro IV
cai», ultimo. Che ancor <>#$ fr» le cobi* desiderate debba riporsi
un'esatta, generale e compita istoria eedesiastieu 933
INDICE 1239
I. Gentile 935
II. Intorno alla religione giudaica 960
in. Istoria della Chiesa cristiana 964
iv. Intorno alla religione maomettana 976
v 983
L'APE INGEGNOSA
OVERO
RACCOLTA DI VARIE OSSERVAZIONI
SOPRA LE OPERE DI NATURA E DELL'ARTE
(a cura di Giuseppe Ricuperati)
Nota introduttiva 989
DA «L'APE INGEGNOSA OVERO RACCOLTA DI VARIE OSSER-
VAZIONI SOPRA LE OPERE DI NATURA E DELL'ARTE»
Proemio 1007
osservazione v. Sopra la minuta gradazione che si scorge in natu-
ra tra' viventi ; sicché sovente riesca assai difficile di porre giusti
confini fra l'uno e l'altro genere 1014
osservazione x. Che la religione sia propria e sola dell'uomo, la
quale, quando non sia da Dio rivelata, è sempre sottoposta a
vari errori ed inganni
1. La vera religione non essere che la rivelata da Dio 1027
osservazione xii. Il riso, il pianto, il sermone, la sagacità, indu-
stria e l'accorgimento non essere così propri dell'uomo, sicché
i bruti non ne abbiano qualche immagine, ancorché languida,
debole ed imperfetta 1042
I. Intorno al sermone 1043
II. Sagacità, industria ed accorgimento 1047
osservazione XIX. Le comete niente portendono overo presaggi-
scono o di bene o di male, quando si rendono a noi aspettabili 1061
I 1065
osservazione xxviii. Delle biblioteche
in 1071
osservazione xl. Del concetto ch'ebbero del nostro morire gli
antichi nell'età vetuste delle quali è a noi rìmasa memoria; e
come dal costume degl'Egizi, di condire e con molta celebrità
seppellire i loro morti, e da' fatti magnanimi di uomini grandi e
generosi si fosse data occasione di pensare ad un'altra seconda
vita, che a questa prima succede 1079
I 1088
osservazione ultima. Che innalzato l'uomo ad un più sublime
fine nel suo stato di grazia, non dee riputarsi sol terreno e mon-
dano, ma aspirare doppo la presente ad un'altra vita, in un regno
non già terreno e mortale, ma celeste ed eterno 1094
1240 INDICI*
LKTTKRK
(a cut u di Sergio lìvrtt'IIi)
Nota introduttiva noi
MHTKRK
1. A (lui lo (Iiannono • Napoli (Lubiana 28 maj^io 1733) 1100
li. A Ciarlo Ginnnone 'Napoli (Vienna 12 tfiufmo 1723) t r 14
ih. A Carlo (iiannono -Napoli (Vienna 3 luglio 17-13) 1117
iv. A Carlo (iiannono «Napoli (Vienna 28 agosto 1723) un)
v. A Carlo C iiannono -Napoli (Vienna 22 Gennaro 1724) 1125
vi. A Carlo (iiannono -Napoli (Vienna 20 Gennaro 1724) 1128
vn. A Carlo (iiannono • Napoli (Vienna 24 jnuj-mo 1724) 1134
vui. A Carlo VI • Vienna [novembre 1724I 1130
IX. A Carlo (iiannono «Napoli (Vienna ir novembre 1724) XX42
x, A Carlo (Jiannono «Napoli (Vienna 23 tfiutfno 1725) H48
xi. A Carlo (iiannono ■ Napoli (Vienna 25 agosto 1725) n$z
xii. A Carlo Giannotto -Napoli (Vienna 24 agosto 1726) 1156
XHi. A Carlo Giannono «Napoli (Vienna [ma IVrebtoldsdorf |
li x<> tfiutfno 1728) noo
xiv. A Carlo Giannono «Napoli (Vienna li 7 maj^io 1720) 1163
XV. A Carlo (iiannono • Napoli (Vienna li 8 ottobre 1720) 1 1 66
xvi. A Ramon de Vilhcna, murehewe di Periati Uialp - Vienna
[febbraio-marzo 1730"] 1160
xvn. Ad Àlois Thomas Raimund d'Harraeh * Napoli (Vienna
18 novembre 1730) 1171
xvin. A Carlo C iiannono • Napoli (Vienna (ma Modlin^l li 9 ago-
sto 1732) 1174
xix. A Ciarlo (iiannono «Napoli ([Vienna] A* 22 maggio 1734) 1178
XX. Ad Adriano Laiv/ina y Ulloa, duea di I nutria « Napoli (Ve-
nezia li 25 «etiombre 1734) 1180
xxi. Ad Adriano Lan/.ina y Ulloa, duca di I /iurta • Napoli (Ve-
nezia li 0 ottobre 1734) 1 183
xxn. A Cario Vincenzo Ferrerò di Roanio d'Ormoa * Torino
(Milano li 18 novembre 1735) n86
xxm. Ad Alessandro Teodoro Trivufoiio • Venezia (Ginevra 10
marzo 1736) n8o
xxxv, A Carlo (iiannono • Napoli (Dal castello di Cova, li 13 no-
vembre 1741) xi 01
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DALLA STAMPERIA VALDONHGA
DI VKKONA