Skip to main content

Full text of "Poeti, prosatori e filosofi"

See other formats


'"Vi 


ì^^  m<^\ 


i«* 


'^m 


. ,  -^_. 


^-   ul'-^ 


■ytT-^ 


.^5L- 


,Y/,       -  .  .    .    . 


Digitized  by  the  Internet  Archive 

in  2010  with  funding  from 

University  of  Toronto 


littp://www.arcliive.org/details/poetiprosatoriefOOcliec 


ProDsatorn  ©  FnE(0)§®ffn 

NEL  SECOLO   CHE   MUORE 


(Giuseppe  Cbcccbia 


Poeti  Pposatori  e  Fi 


pel  secolo  cl^e  rpaore 


i^ttidi,  Ritratti  e  8o^i?^etti 


CASERTA 
SALVATORE  MARINO 

Tipografo  Editore 
1900 


Proprietà  Letteraria  Dell'Editore; 


Edizione  numerata  da  1  a  1100. 


Le  copie  non  mimi f e  della  firma  dell'  Autore,  si  riter- 
ramio  contraffatte ,  e  f  Editore  procederà  a   norma  delle 

leggi- 


Copia  N.^^,^ 


A 

GIOSUÈ  CARDUCCI 

CHE    PRIMO    IN    QUESTI    ULTIMI    TEMPI 
-CON    ORIGINALE    E  SOLITARIA    OPERA  DI    RINNOVAMENTO 

LE    OBLIATE    TRADIZIONI    ANTICHE 
■CONGIUNSE  AGLI  SPIRITI  E  ALLE  FORME  DELL'eTÀ  NUOVA 

l'autore 

queste  povere  fronde  disperse 

che  qui  raccolse  un  affetto  memore  e  pio 

■Con    AMMIRAZKjNE  di  studioso  e   con    gratitudine  di  DISCEPt)I.O 
DEDICA    MODESTO    E    RIVERENTE 


J?.v52JU5fe>S 


j^i  lettori. 


Per  hen  altro  desiderio  che  di  gloria  ho  qui  l'accolto  in 
volume  queste  pagine  sparse  che  sono  a  j^^na  una  parte  [forse 
nemmeno  un  quinto)  dell'  iminenso  materiale  che  da  oltre  un 
ventennio  son  venuto  via  via  accumulando:  solo  un  terzo  di 
esso  venne  gradatamente  alla  luce  in  moltissime  riviste  del 
Regno,  alle  quali  dovè  spesso  corrispondere,  contro  ogni  m,ia 
huona  volontà,  così  V  indole  del  contenuto  come  V  impronta 
dello  stile. 

Non  che  talvolta  non  avessi  potuto  far  meglio  e  dare  ai 
miei  lavori  una  piìt  pensata  e  organica  orditura;  non  che 
mi  fossi  piaciuto,  quasi  per  solletico  di  vanità  o  per  impo- 
tenza, di  offrir  sempre  alle  rassegne  il  pallido  barlume  di 
piccole  idee  o  il  futile  ritaglio  di  cultura  spicciola  e  minuta, 
come  i  pili  de'  nostH  fanno;  ma,  pur  avendo  sempre  fermi 
gV intendimenti  e  gl'indirizzi  della  critica  e  dell'arte,  fui  vera- 
mente costretto  a  ridurre  talvolta  o  a  stremare  il  pensiero, 
pur  di  acconciarlo  al  breve  e  livido  orizzonte  di  poche  pagine 
o  colonne  de'  periodici  in  cui  Vangustia  della  trattazione  do- 
veva esser  pari  all'  angustia  dello  spazio.  E  non  basta.  Mi 
conveniva  spesso  accomodare  anche  i  lineamenti  e  i  colori 
dello  stile,  anche  le  tempere  e  i  caratteri  de'  giudizi  e  delle 
osservazioni ,  per  foggiarli  su  lo  stampo  o  sul  taglio  di 
stagione  cZe'  giornali,  e  in  corrispondenza  all'  indole  degli  ar- 
gomenti, varianti  metodicamente  secondo  lo  spirar  del  tempo, 
del  minuto,  dell'ora,  varianti  secondo  le  mutevoli  esigenze  di 
quelle  misere  occasioni  che  con  vocabolo  impuro  dicono  oggi  di 
attualità.  Ahi!  tidto  guasta  e  isterilisce  in  Italia  la  stampa 
periodica,  questa  edicola  del  pensiero,  questo  minimo  serbotoio 
del  gusto.  Essa  non  accoglie  che  p)iccoli  estratti  di  ricerche, 
poveri  saggi  di  erudizione  e  di  critica,  miseri  sommari  di 
coltura  a  buon  mercato;  essa  sorge  ad  uso  e  consumo  di 
editori  venali  con  la  sistematica  finzione  di  educare  il  po- 
polo. Del  resto  il  novo  spirito  de'   tempi   aborre    dal  grande 


vili 


lavoro  organico  che  apparisce  di  radoj  sia  jìerchè  dal  vivo 
seno  del  metodo  sperimentale  che  tutte  jjervade  le  fonti 
della  vita  moderna  non  può  nascere  che  una  grande  divi- 
sione di  studi  speciali  intesi  a  rinnovare^  a  ricomporre, 
a  ricostruire  a  poco  a  poco  tutte  le  umane  discipline  che  ben 
tardi  da  un  uomo  di  genio  potranno  essere  organate  e  assommate 
in  un  quasi  digesto  di  poderoso  e  definitivo  lavoro^'  sia  perchè 
non  possono  ora  questi  fecondi  studi  renderci  altro  che  pic- 
coli esperimenti,  minime  conquiste,  ricerche  modeste  le  quali 
trovano  posto  anche  in  questi  popolari  serbatoi  della  cultura. 
Dal  fondo  di  queste  industriose  elaborazioni  sorge  il  saggio, 
l'estratto,  il  sommario  che  i  buoni  rendono  con  sintesi  nutrita 
e  i  mediocri  guastano,  corrompono,  diluiscono:  V  una  cosa  e 
l'altra  vorrebbero  essere  come  la  quint'  essenza  delle  cose,  come 
r  esprit  della  dottrina,  come  il  frutto  primaticcio  dei  trovati 
parziali,  ma  che  pur  troppo  anche  ne'  piii  chiari  scrittori  non  di- 
ventano  neppure  l'embrione  del  vero.  I  nostri  vecchi  invece,  pri- 
ma del pienodomin  io  del  metodo  sperimentale,  cipoteano  dare  i 
molti  e  grandi  volumi,  poiché  dal  jjroprio  fondo  originale  e 
psicologico  sapevano  derivare  tutto  un  organesimo  di  veri,  di 
principii,  di  jiostulati,  frutto  potente  della  grande  idealizzazione 
e  speculazione  del  j^^f^siero  solitario  e  geniale.  Se  un  po'  di 
quel  vivo  lume  potesse  rinfiammar?  le  nostre  scienze  aride,  e 
ne  sarebbe  tempo,  non  mancherebbe  neanche  a  noi  quella 
grande  idealità  ch'ora  ci  manca  in  tutto,  anche  nelle  lettere 
e  nelle  arti,  intormentite  e  guaste  dal  ghiaccio  della  dottrina  e 
della  erudizione. 


Ciò  non  ostante  non  mi  lasciai  invadere  tatto  da  questa 
quasi  tirannide  della  pubblicità,  che  anzi,  come  potei,  ^:)»/' 
volli  pensare  e  scrivere  a  modo  mio,  anche  a  costo  di  ritrarmi 
all'ombra  de'piccoli  diari  e  senz'ambire  agli  alti  gradi  delle 
grosse  riviste  dove  pur  troppo  si  arriva  non  senza  aver  prima 
pagato  il  jyedciggio  della  servilità.  A  poco  a  poco,  dalle  mo- 
deste ma  più,  libere  effemeridi  minori  giunsi  senza  aspettar- 
melo a'  cerchi  ambiti  di  alcune  riviste  gravi  dove  mi  fu 
concessa  quella  indipendenza  che  per  intima  forza  di  carat- 
tere sempre  andavo  cercando;  ma  da  me  non  fu  tocca  nem- 
men  la  soglia  del  Sancta  Sanctorura  delle  venerabili  cricche, 
con  grande  conforto  e  vantaggio  dell'  animo  e  dell'  ingegno. 
Cosi  mi  avvenne  di  liberarmi  almeno  in  parte  da  quella 
soggezione  o  imposizione   psicologica   che  in    Italia    fa    seni- 


IX 


pre  asservire  le  intelligenze  agli  aridi  j^ostulatì  o  alle  misere 
dottrineile  sorte  jnù  a  benefizio  degli  uomini  che  de'  prin- 
cipii;  volli  anzi  insorgere  con  ispirilo  equanime  contro  di 
esse,  e,  senza  dimezzarmi ,  curai  esprimere  netto  e  distinto 
il  mio  giudizio  e  il  mio  convincimento  pur  quando  dalle  asso- 
ciazioni cointeressate  me  ne  potesse  venire  biasimo  o  rampogna. 
Di  questa  equanimità  e  imparzialità  credo  di  aver  dato  saggio 
in  questa  raccolta  che  volli  far  rispondere  al  concetto  infor- 
matore del  titolo,  eh'  è  appunto  quello  di  dar  come  in  un 
quadro  di  vario  e  assortito  disegno,  dove  largamente  e  dove 
rapidamente,  un'  id^a  almeno  generale  e  quasi  un  prospetto 
a  brevi  0  di /fusi  conforni,  della  coltura  contemporanea  in  Italia, 
qual  essa  specialmente  si  rivela  nelle  opere  di  poesia  e  di 
prosa  di  quest'  ultimo  scorcio  di  secolo  che  potrebbe  aver  le 
]}roporzioni  di  un  trentennio. 

Questo  concetto  informatore  mi  balenò  sempre  nella  mente 
pur  quando  composi  i  più,  brevi  minuzzoli  di  critica,  ma  non 
seppi  né  potei  per  le  ragioni  che  dirò  appi-esso  conseguire  pie- 
namente la  vagheggiata  unità.  E  già  fin  dal  1885  avea  fatto 
annunziare  un  libro  con  questo  titolo:  -  L'ultimo  trentenn^'o 
nella  critica  e  nell'arte,  libro  che  presso  a  poco potea  rispon- 
dere all'  indole  di  questa  raccolta  e  delle  altre  che  verranno 
dopo  di  sul  ricco  materiale  che  ho  già  pronto  da  un  jjezzo. 


Avrei  voluto  raccogliere  il  meglio  de'  miei  lavori,  ma  ne 
fui  impedito  dalla  natura  e  dalle  difficoltà  del  vastissimo 
tema  il  quale,  come  disegno  anche  sommario  ili  tutta  la  let- 
teratura contemporanea,  abbraccia  tali  e  tanti  argomenti  che 
non  poterono  esser  tutti  lumeggiati  da  quella  serie  di  articoli 
o  di  studi  apparsi  entro  i  confini  di  un  solo  e  breve  jteriodo 
o  del  migliore  momento  della  mia  operosità:  il  perchè  ho  dovuto 
accogliere  composizioni  anche  mediocri,  capitoli  talvolta  leg- 
geri 0  di  troppo  rapida  conteneìiza  critica,  cenni  o  bozzetti 
intorno  ad  opere  gravi  di  scrittori  anche  insigni,  che  per  tempi 
diversi,  e  secondo  le  occasioni  e  i  ])e>  iodici  a  cui  servirono, 
son  venuto  scrivendo  con  proporzioni  spesso  modeste,  o,  per 
manco  di  meglio,  sotto  forma  di  linee,  di  tratti,  di  appunti. 
Data  questa  necessità  od  angustia,  non  mia  ma  di  quelli  che 
dirigono  in  Italia  il  carrozzone  della  cultura,  e  data  insieme 
la  vastità  del  contenuto  e  il  troppo  lungo  corso  di  tempo  nel 
quale  la  mia  mente  ha  potuto    assorbirlo  od  assimilarlo,  n'è 


dovuto  naturalmente  derivare  uno  svolgimento  dove  monco  o 
troppo  ristretto  e  dove  largo  ed  analitico^  dove  minuzioso 
ed  eccessivo  e  dove  finalmente  manchevole,  sterile,  oscillante^ 
o  per  difetto  di  sludi  non  ancora  ben  sodi  o  per  giovanile 
leggerezza  d'  impressioni  e  di  entusiasmi.  Tutti  questi  capitoli 
furono  da  me  composti  nel  troppo  lungo  periodo  di  oltre 
veni'  anni:  troppo  lungo  davve>'0  per  chi  sa  quanto  mutar  di 
idee  e  di  sentimenti  avviene  nelV  ingegno  e  nell'animo  di  chi 
comincia  a  scrivere  adolescente  e  seguita  maturo  in  mezzo 
alle  piÌL  ardue  difficoltà  il  progressivo  svolgimento  della  sua 
formazione  ed  evoluzione  ideale.  Certo  sarebbe  stato  piti  utile 
l'accogliere  insieme  sott'altro  titolo  gli  scritti  dell'età  matura^ 
ma  non  ho  potuto  farlo,  avendo  dovuto  ordinare  e  comporre 
un  volume  la  cui  trattazione  meglio  arridesse  alla  grande 
maggioranza  de'  lettori,  i  quali  son  piic  tosto  avidi  della 
varietà  o  della  novità  curiosa  che  non  del  ponderoso  e  diffì- 
cile contenuto;  ed  insieme  ho  dovuto  anche  pensare  alla  for- 
tuna mercantile  del  libro,  non  per  bramosia  di  siibiti  gua- 
dagni, ina  i>^ì'  ritrarne  almeno  quel  tanto  che  ini  bastasse  a 
sopperire  alle  ingenti  spese  della  pubblicazione.  La  quale  si 
è  venuta  facendo  a  poco  a  poco  e  quasi  a  tratti  e  a  sbalzi, 
e  senza  un  disegno  prestabilito  sia  dell'  ampiezza  che  della 
scelta  de'  capitoli  e  degli  argomenti;  e  questa  titubanza  pro- 
venuta un  po'  dalle  esigenze  mie  e  un  po'  da  quelle  dell'edi- 
tore ha  prodotto  qua  e  là  un  certo  disordine  nella  distribu- 
zione della  materia  che  avrebbe  dovuto  esser  molto  più  organica, 
disordine  che  certo  disjjarirà  in  una  prossima  edizione.  Inoltre, 
data  la  mole  del  volume,  ho  dovuto  sopprimere  molti  e  molti 
studi  assai  larghi  i  quali,  se  rispondexmno  agli  argomenti, 
non  rispondevano  del  pari  all'ampiezza  materiale  delle  pagine; 
onde  vi  ho  rijmrato  as.sai  limitatamente  con  il  libro  IV  nel 
quale  sono  stato  dolorosamente  costretto  per  V  assoluta  man- 
canza di  spazio  a  sostituirli,  su  tipi  assai  mìmdi  e  diversi 
da  quelli  de'  tre  libri  precedenti,  con  una  larghissima  serie  di 
tratti  e  di  apjy unti  espressamente  composti  e  richiesti  dal  titolo 
e  dal  disegno  dell'  opera,  tratti  e  appunti  c/ie  alla  lor  volta 
saran  seguiti  da'  relativi  e  più  diffusi  capitoli  nelle  raccolte 
successive  che  sp)ero  di  dar  presto  alla  luce.  De'  filosofi  ho 
appena  discorso,  limitandomi  a  quelli  i  quali  han  pregio 
di  p)rosatori  o  che  pì'ojjrio  era  un  torto  dimenticare  del  tutto 
rispetto  ad  alcuni  caratteri  troppo  spiccati  dell'  opera  loro, 
sia  come  indirizzo  sia  come  svolgimento.  Cinedo  quindi 
venia  delle  non  poche  lacune  o  restrizioni,  e  della  disu- 
guaglianza   della     contenenza    critica    dove    troppo    estesa    e 


XI 


dove  troppo  rapida  e  succinta  :  del  resto  ,  com'  era  pos- 
sibile dar  piena  omogeneità  a  lino  svolgimento  di  così  vaste 
proporzioìii  ne'  termini  assegnati  di  un  volume  anche  grosso? 
e  com'  era  possibile  parlare  ugualmente  di  tutto  e  di  tutti  ? 
Certo  non  mi  pare  di  aver  dimenticato  il  meglio  della  nostra 
letteratura,  e  pur  dove  ho  dovuto  restringere  mi  son  provato 
a  dare  sotto  brevità  e  come  a  grandi  linee  tutto,  la  fìsonomia 
degli  scrittori  nettamente  rilevata  da  tutta  V opera  loro,  secondo 
il  maturo  giudizio  in  ine  formatosi  dopo  lunghi  anni  e  dopo 
accurate  e  frequenti  letture.  Ad  ogni  modo  non  è  questo  se 
non  come  un  primo  assaggio  del  modo  onde  io  penso  possa 
venir  tratteggiata  una  storia  almeno  sommaria  delle  lettere 
contemporanee  che  in  seguito  aura  sotto  altri  titoli  la  sua 
continuazione  in  altri  volumi. 


Alcuni  degli  articoli  che  son  compresi  in  questa  prima 
raccolta,  come  quelli  intitolati  Alla  ricerca  de'  microbi  cho- 
lerici,  Vecchi  e  novi  retori,  Novelle,  furono  pensati  nella, 
prima  età,  e  un  po'  pili  tardi,  cioè  intorno  all'  80,  comin- 
ciati a  comporre  e  a  jjubblicare:  quelli  intorno  a  tutta  l'opera 
del  Carducci,  che  non  sono  tutti  né  sempre  i  migliori  (  gli 
altri  verranno  ììì  luce  in  un  secondo  volume),  appartengono 
al  periodo  delle  Odi  barbare  e  delle  Rime  nuove,  e  di  quel 
tempo  rendono  fedelmente  i  sitbiti  entusiasmi  e  le  prime  e 
facili  impressioni  di  gioventit,'  e  qua  e  là  pel  volume  non 
mancano  pochi  altri  trucioli  o  frammenti  di  que'  primi  im- 
paraticci di  critica  e  di  arte  i  quali  sono  stati  sol  dall'  ar- 
gomento richiesti  e  non  dal   mio    gusto  e  dalla  mia  volontà. 

Ala  fin  dal  1887  io  mi  volsi  con  maggior  prep  trazione  ad 
argomenti  molto  pili  gravi  e  fecondi,  ne'  quali  mi  provai 
congiungere  il  ricco  e  fedele  patrimonio  de'  maestri  a  qualche 
mio  personale  e  audace  tentativo  suggeritomi  anche  dalla 
scienza  positiva  del  tempo,  o  meglio,  dalla  simpatica  e  ge- 
niale dottrina  della  Evoluzione,  che  una  rassegna  assai  dotta 
e  profonda,  la  Rivista  di  filosofia  scientifica  di  Enrico  Mor- 
selli^ la  quale  per  colpa  de'  tempi  non  vive  già  p>iìc,  andava 
allora  propagando  e  quasi  popolar izzando  in  Italia  coll'aiuto 
de'  pili  insigni  filosofi  e  naturalisti.  Il  gennaio  di  quell'anno 
apparve  per  la  prima  volta  un  mio  studio  sul  Metodo  storico- 
evolutivo  nella  Critica  letteraria  che  ad  alcuni  fra'  piii  egregi 
letterati  e  scienziati  del  tempo  non  dispiacque:  esso  vide  la 
luce  nella  mentovata  rivista,    la  quale  fin  dal  marzo  -  aprile 


XII 


del  1884  avea  cominciato  ad  accogliere  altri  miei  saggi  assai 
pili  pensati  de' precedenti,  come  quello  su  T  Intermittenze 
storiche  di  cui  si  occupò  anche  la  Nuova  Antolo2;ia  nel  fase, 
del  1°  decembre  del  medesimo  anno  ipp.  589,90)  ,  e  che  , 
non  ostante  qualche  esagerazione  od  avventataggine  ,  parve 
allora  una  interpretazione  quasi  nuova  della  dibattuta 
questione.  In  generale  tutt'  i  capitoli  di  questo  volume  che 
dal  J887  furon  cominciati  a  comporre,  rivelano  il  graduale 
svolgimento  del  mio  senso  critico  e  un  più  sicuro  avviamento 
verso  forme  piti  omogenee  e  proprie  e  verso  contenuti  più 
personali  e  diretti.  Mi  il  fondo  —  devo  par  confessarlo  — 
fin  dai  primi  anni  della  mia  educazion".  bdteraria.  sin  per 
affinità  del  mio  ingegno  e  del  mio  gusto  a  qaell'  indirizzo  pili 
s  ma,  sin  pel  mutevole  e  caotico  apparire  della  cultura  etero- 
genea, l'attinsi,  e  fu  bene,  doli'  opera  di  un  grande  maestro, 
il  Carducci,  di  cui  mi  feci  quasi  V  unico  esemplare,  e  delle 
cui  dottrine  e  teoriche  divenni  sinceramente  e  razionalmente 
il  pili  fedele  e  convinto  e  acceso  banditore.  Ecco  perché  nelle 
pagine  di  questo  volume  torna  assai  spesso  il  nome  del  Car- 
ducci, la  cui  grande  autorità  vien  quasi  costantemente  e  osti- 
natamente citata.  Ma  non  si  creda  abbia  pensato  mai  di 
ripeterne  servilmente  il  jyensiero  o  con  opera  di  mosaico  e  di 
plagio  o  con  riflesso  e  minuto  esercizio  di  amplificazione:  a 
lui  devo  soltanto  il  sostrato  dell'opera  san  rinnovatrice,  e  qua 
e  là  alcuni  atteggiamenti  o  linee  di  composizione  e  pili  spesso 
alcuni  giri  di  costrutti  o  nerbi  di  forni?  inconsciamente  e  inav- 
vediUamente  assimilati  e  fusi  co'  naturali  rilievi  del  proprio 
mio  stile,  il  quale,  con  tutti  i  suoi  difetti,  risponde  benissimo 
al  mio  animo  e  al  mio  ingegno.  Ne'  lavori  miei  giovanili  è 
certo  più,  evidente  questo  quasi  detrito  de' contenuti  e  delle 
forme  del  maestro,  ma  esso  va  sempre  piìi  attenuandosi  se 
non  disparendo  del  tatto  ne  lavori  dell'età  matura.  Oh!  certo 
non  ho  potuto  spogliarmene  interamente,  piichè  questo  assor- 
bente scrittore  iiigLia  troppo  del T  (mima  e  del  cuore  di  chi 
lo  stadia  e  lo  intende:  or  come  potevo  perdere  ogni  impronta 
di  quelle  strette  tenaci  quando  questo  mio  grande  amore  della 
gioventii  mi  ha  sempre  tentato  ed  accompagnato  per  oltre 
vent'  anni,  con  una  voluttà  di  entusinsnio  e  con  un  fervore 
di  ammirazione  ch'è  stato  quasi  una  fe1)bre,  ma  di  quelle  che, 
come  diceva  il  Settembrini,  fan  crescere  la  persona?  Antichis- 
simo e.  ancor  vero  il  detto  tiineo  hominem  unius  libri;  ma 
con  ìnoltissimi  vantaggi  questo  culto  assiduo  di  un  esemplare 
solo  porta  jjure  qualche  angustia  nelle  facoltà  inventive.  Però 
degV  insegnamenti  del  maestro  mi  feci  tutta  ima  sintesi  prò- 


XIII 


pria,  e  a  mio  modo  li  accomodai,  li  dilargai,  li  applicai,  sia 
con  l'esercizio  diretto  delle  mie  attitudini  e  delle  mie  facoltà, 
sia  con  gli  elementi  e  i  fondamenti  venutimi  da  altre  disci- 
pline e  da  altri  indirizzi;  ma  conservai  sempre  dell'  opera 
carducciana  questi  caratteri:  un  culto  profondo  per  l'arte  clas- 
sica e  un  molteplice  senso  estetico  in  tutte  le  produzioni  let- 
terarie, e  insieme  una  fermezza  e  indipendenza  di  giudizi  e 
intendimenti  critici  e  artistici,  i  quali  soprattutto  si  fondano 
su  C armonica  compenetrazione  dell'  antico  col  nuovo,  della 
parte  tradizionale  colla  rivoluzionaria,  di  quello  che  sul  vecchio 
fondo  ancora  permane  con  ciò  che  di  vpgeto  e  di  sano  ci  offre 
jjure  il  clima  storico  dell'  età,  cosi  nella  forma  coni",  nel 
pensiero. 

E  con  la  medesima  guida,  come  studiai  quasi  tutte  le  fonti 
della  coltura  contemporanea  neW  oliera  specialmente  dei  cri- 
tici e  degli  artisti  migliori,  cosi  d'  altra  parte  non  mancai  di 
scorrere  tutto,  o  quasi,  il  territorio  della  nostra  grande  lette- 
ratura classica,  dove  mi  avvenni  spesso  iìi  elementi  preziosi 
ch<i  alla  sua  volta  lo  stesso  mio  maestro  avea  tolti  e  assimi- 


lati per  l'opera  sua. 


Qnaiid'  io  mi  vuhl  interamente  al  Carducci  già  era  tutto 
pieno  della  nostra  produzùme  eteroclita:  avea  letto  e  assai 
raramente  digerito  una  quantità  strabocchevole  di  libri  d'ogni 
ordine  e  rf'  ogni  disciplina;  avea  scritto  novelle,  romanzi,  com- 
medie, tragedie,  drammi;  avea  perpetrati  non  so  quanti  delitti 
di  poesia,  ed  ero  già  per  essere  travolto  e  ingoiato  dalla  poz- 
zanghera del  Verismo.  3Ii  salvai  a  tempo  per  V  autorevole 
consiglio  di  un  illustre  scrittore  che  vii  propose  come  unico 
modello  il  Carducci,  il  quale  soltanto  potea  liberarmi  da 
quello  scompiglio  ideale,  purificarmi,  correggermi,  e  ridurre 
cosi  ad  unità  organica  i  miei  studi  e  le  confase  idee  che  ini 
faceano  ressa  nella  mente.  Ora  dirò  perchè  mi  fu  consigliato  e 
perchè  anche  dopo  seguii  sempre  questo  esemplare  solo  e  non 
pili  altri  che  avrei  potuto  scegliere  fra'  migliori  critici  del 
tempo  nostro.  Non  lo  feci  perchè  non  dovevo  farlo,  o  non  lo 
avrei  potuto  senza  mio  danno:  e  ciò  per  piìi  altre  ragioni  degne. 

Primamente  il  Carducci  è  il  solo  che  fra'  piii  insigni  in- 
tende a  un  tempo  cosi  al  metodo  sperimentale  come  all'  indi- 
rizzo estetico  della  critica,  avvalorandoli  e  compiendoli  con 
l'opera,  sua  di  prosatore  e  di  poeta;  secondamente  egli  è  anche 
il  solo  che  ha    scritto    genialmente  intorno  alle    piit  nuove  e 


XIV 


jiiù  varie  manifestazioni  dell' arte  ìnoderna  e  della  contempo- 
ranea, e  insieme  intorno  alle  questioni  più  vive  e  piii  fresche 
di  lingua^  di  stile,  di  metodi,  di  scuole,  rf'  indirizzi:  in  terzo 
luogo  niuno  più  di  lui  ha  piic  2->ro fondamente  e  piic  sana- 
mente esercitato  una  cosi  grande  influenza  o  almeno  una  così 
durevole  impressione  su  gli  animi  della  presente  generazione, 
ed  anche  di  quelli  che  dopo,  per  torte  e  oblique  vie,  o  de- 
viarono dall'  arte  sua  o  la  snaturarono  per  impotenza  od 
isforzo  di  novità:  in  quarto  luogo,  nell'informe  e  quasi  anar- 
chico accozzo  di  metodi,  di  dottrine,  di  principii,  di  sistemi 
che  da  oltre  un  ventennnio  agitano  e  conturbano  il  vitale 
e  armonico  organesimo  dell'arte,  egli  è  quasi  l'unico  esempio 
da  seguire,  come  quegli  che,  filologo,  critico,  storico,  stilista, 
poeta,  sa  congiungere  al  sopravvivere  delle  forme  antiche  piii 
adatte  il  progressivo  svolgersi  delle  nuove;  e  finalmente  lo 
spirito  polemico  che  anima  le  sue  prose  e  le  sue  poesie  ne' 
più  svariati  argomenti,  antichi  e  nuovi,  eccita  nell'animo  de' 
giovini  un  rivolgimento  ideale  che  può  in  alcuni,  come  av- 
venne in  me,  determinare  un  avviamento  a  un  ordine  fisso 
di  dottrine  e  di  studi.  Ecco  perchè  mi  giovò  sostanzialmente 
la  scelta  di  questo  solo  modello.  Devo  poi  aggiungere  che  in 
questo  volume  non  ho  potuto  fare  a  meno  di  riportare  a'  lor 
luoghi  e  piii  di  una  volta  cosi  le  fonti  carducciane  come  le 
mie  e  le  altrui;  ed  è  natumle:  obbligato  a  scrivere  per  tanti 
periodici  intorno  a  moltissimi  e  differenti  argomenti,  gli  ar- 
ticoli, ciascun  de'  quali  era  come  un  piccolo  organismo  a  sé, 
richiamavano  di  necessità,  o  per  incidenza  a  per  la  natura 
de'  soggetti,  pensieri  e  idee  ed  osservazioni  che  potevano  o 
dovevano  esser  fatte  per  altri  articoli:  e  ciò  tanto  più  m'era  pos- 
sibile 0  necessario  ,  quanto  piii  io  sentiva  il  bisogno  di  ri- 
chiamare intorno  agli  argomenti  diversi  l'unità  fondamentale 
delle  questioni,  cioè  lo  studio  e  il  riscontro  di  tutta  la  p)^'0- 
duzione  contemporanea  allo  specchio  delle  tradizioni  classiche 
e  in  corrispondenza  alle  leggi  universali  della  evoluzione  este- 
tica applicate  allo  storico  divenire  dell'  Arte  ne'  molteplici 
climi  storici. 


Ad  alcuni  pjotrà  forse  parere  strano  ch'io,  anzi  che  spendere 
il  temp)0  intorno  ad  argomenti  di  p)ura  critica  estetica  o  in- 
torno al  contenuto  della  nostra  fecondazione  contemporanea 
■da  me  ritenuta  in  gran  parte  assai  frivola  e  dannosa,  non 
abbia  meglio  rivolto  l'ingegno  eie  attitudini  a  studi  più  gravi 
e  alla  ricerca  o  disamina  di  alcuni  punti   ancora    ignorati 


XV 


della  nostra  letteratura  classica  nella  quale  tanti  altri  ci  han 
dato  cosi  belle  e  utili  prove  di  osservazioni  e  di  trovati.  Ve- 
rissimo. Ma  io,  costretto  a  vivere  in  luoghi  troppo  angusti  e 
perciò  privi  di  larga  circolazione  ideale,  non  potetti  aver  mai, 
come  pur  desideravo,  il  benefizio  di  ricche  biblioteche  e  d'inesplo- 
rate fonti  storiche  le  quali  avessero  potuto  aiutarmi  in  tal 
natura  di  studi,  veramente  utili  quando  non  troppo  arida- 
mente minuti  e  facchineschi,  e  ne'  quali  tentai  pure  qualche 
cesa  che  per  manco  di  altri  documenti  non  potei  continuare: 
ripetere  V  altrui  o  farne  esercizio  di  compilazione,  è  da  pe- 
danti; aggiungere  alle  sottigliezze  erudite  le  sottigliezze  pensate, 
è  da  retori  o  da  svisatori  del  vivo  e  del  vero  pensiero  classico. 
Perciò  tutto  quello  che  ho  pensato  ed  ho  scritto,  mi  è  convenuto 
derivarlo  quasi  interamente  dal  mio  intuito,  dal  mio  ingegno  e 
da  quella  cultura  che  da  solo  ho  potuto  procacciarmi.  Ora,  non 
rimanendomi  altra  messe  se  non  quella  che  di  anno  in  anno 
mi  veniva  fornita  da  quel  tanto  di  letteratura  o  di  scienza 
contemporanea  che  mi  riusciva  di  raccogliere  ne'  libri  venu- 
timi a  mano  con  molti  stenti  e  con  molti  sacrifizi,  ho  p>otuto 
su  di  essi  soltanto  affinare  il  mio  gusto  e  le  mie  facoltà,  con 
faticoso  esercizio  di  tidVi  giorni,  con  assidui  e  solitari  tenta- 
tivi, col  inii  vivo  desiderio  di  mirar  diritto  alla  meta  an- 
che se  non  mi  fosse  agevole  toccarla.  E  se7apre,  anche  ne- 
gli scritti  miei  piii  giovanili,  ebbi  cura  assidua  non  solo  del 
contenido  ma  ancoim  della  lingua  e  dello  stile,  e,  per  quanto 
potei,  mirai  pure  all'arte,  avvisando  che  all'opera  del  cri- 
tico, come  in  generale  oggi  non  avviene,  debba  andare  con- 
giunta quella  del  vero  scrittore;  poiché  sarebbe  strano  e  irra- 
gionevole che  il  giudice  delle  cose  altrui,  il  rivelatore  o  il 
discopritore  di  tante  sovrane  bellezze  non  desse  egli  primo 
V esempio,  non  dico  di  emularle,  ma  di  almeno  tentarle  con 
il  piic  puro  sentimento  e  intendim,ento  estetico.  E  cosi  nel 
corso  di  moltissimi  anni  ho  potuto  accumulare  una  gran 
mole  di  articoli,  di  studi,  di  piccole  monografìe,  sterili  forse 
ma  ostinati  esercizi  di  uno  studioso  autodidattico  che  tutto 
deve  a  sé  stesso,  senz'altri  aiuti  che  del  proprio  ingegno  e  di 
una  costante  ojjerosità.  Povero  frutto  di  queste  fatiche  cosi  a 
lungo  durate  é  solo  in  parte  questo  modesto  volume  che,  se 
non  altro,  rivela  forse  l'equanime  rettitudine  de'  pensieri,  la 
franchezza  delle  osservazioni  e  delle  impressioni,  V  onesto  e 
indipendente  coraggio  di  esprimer  netto  ed  intero  anche  se 
acre  quel  convincimento  che  non  da  rapide  letture  ma  da 
studi  lenti  e  meditati  ho  derivato  nell'animo  e  nella  coscienza: 
onde  posso  confessare    che  non   recai  giudizio  inai  su   opere 


XM 


che  non  avessi  prima  seriamente  studiate,  e  intorno  ad  autori 
di  cui  non  conoscessi  per  molte  prove  la  mitura  evoluzione 
dell'  ingef/no.  Potrò  certo  essermi  ingannato  o  non  piacei'e 
talvolta  a'  lettori  specialmente  interessali  o  ignoranti,  come 
sarei  ben  lieto  se  potessi  accorgermi  e  poi  ricredermi  dell'in- 
ganno; ma  non  credo  di  esser  venuto  meno  mai  a  quella 
impavida  e  onesta  sincerità  d'  intendimenti  per  mezzo  della 
quale,  con  opera  vivace  di  legittima  reazione  e  spesso  co'  co- 
lori troppo  accasi  dello  stile  polemico,  lio  voluto  opportuna- 
mente insorgere  contro  la  procace  e  dannosissima  impostura 
delle  cricche  letterarie  che  con  la  venale  e  reciproca  solida- 
rietà di  lodi  e  di  vituperi  turbano  in  Italia  il  razionale  e 
dislhteressato  svolgimento  dell'arte  non  pure  ne'  facili  volumi 
ma  ancora  e  piìi  ne''  soliti  diarii  ove  la  critica  vien  fatta  ed 
esercitata  da'  ciarlatani  i  quali  si  arrogano  il  diritto,  da  po- 
chi a  loro  conteso,  di  parlar  di  tutti  e  di  tutto,  alimentando 
così  le  vanità  delle  piccole  glorie  d'Italia. 

Tali  ragioni  vengono  finalmente  a  dimostrare  che  questo 
si  lungo  discorso  non  mi  fu  ispirato  dal  vano  desiderio  di 
parlare  di  me,  che  son  certo  un  modesto  ed  oscuro  scrittore, 
ina  solo  dal  bisogno  di  additare  e  in  parte  giustificare  le 
molte  imperfezioni  dell'opera  mia,  la  quale  è  destinata,  non 
ai  dotti,  ma  a  que'  lettori  men  culti  i  quali  fossero  vaghi  di 
avere  almeno  una  generale  conoscenza  della  letteratura  con- 
temporanea di  cui  il  presente  volume  pare  sia  il  primo  sag- 
gio che  vpgga  oggi  la  luce  in  Italia,  almeno  rispetto  all'am- 
piezza e  interezza  sintetica  del  difficilissimo  argotnento;  e  per 
questo  soprattutto,  dopo  gli  ostinati  incitamenti  di  tanti  amici 
e  benevoli,  mi  son  finalmente  determinato  di  raccogliere  con 
qualche  ordine  un  grosso  nucleo  di  articoli  e  di  studi  sparsi, 
che  in  gran  parte  io  aveva  già  dimenticati.  Vorrei  non  aver 
speso  invano  le  mie  fatiche,  e  vorrei  anche  sperare,  non  in- 
dulgenza, ma  giustizia  ed  equanimità,  da'  lettori  buoni  e  va- 
lenti a  cui  soltanto  mi  rivolgo  ed  a  cui  mando  i  saluti  egli 
auspica  tra  il  secolo  che  si  chiude  e  l'altro  che  sta  per  sor- 
gere. 

Lacera  (Foggia),  i'J  marzo  1900. 


Elenco  degli  Autori 


(1] 


QUELLI  CHE  FURONO  (2) 


Arnesi  G.  —  387. 
Albicini  C.  —  416. 
Albirizzi  Teiitochi  I.  —  387. 
Aleardi  A.  —  439;  443. 
Amari  iM.  —  409. 
Amoretti  P.  —  386. 
Angiulli  A.  —  37;  98:  351-57. 
Aragona  (cV)  T.  —  385. 

Baravalle  C.  —  441:  444. 
Bartoli  A.  —  393;  399;  «ET 
Bassi  L.  —  386. 
Belli  G.  —  442. 
Benedettini  T.  —  385-86. 
Bersezio  V.  —  103;  424-25. 
Biagi  G.  A.  —  416. 
Bianchi  C.  e  N.  —  416. 
Bonghi  R.— 82:   108;    133;  137;  170; 

»  204:  323;  320  (EL);  323 

»  333;  401. 

Borgognoni  A.— 89;  145;  150;  170-71 

»  397;  405. 

Brofferio    A.  —  441-42. 
Bùccola  G.  —  9S. 
Bugeili  B.  —  388. 

O 

Cafiero  M.  —  105;  320  (B) 
Canelio  U.  A.  —  65. 
Canestrini  G.  —  98. 
Carmelo  E.  —  444. 


Castagnola  P.  E.  —  443. 
Cattaneo  C.  —  199. 
Cattermole    Mancini  E.    (Contessa 
»  Lara).  41:  96;  104;  389. 

Cavallotti  F.— 109-10;  145;  170;  245; 

»  319;  337-40;  402;  427; 

»  4-J4-45;  449-50. 

Ceneri  G.  —  195. 
Cibrario  L.  —  442. 
Cocchi  G.  —  442. 
Colonna  V.  —  384-85. 
Correnti  C.  —  404. 
Cossa  P.  —  442. 

r> 

DairOngaro  F.  —  442. 
D'Arcais  F.  —  416. 
Darwin  C.  —  64-87. 
De  Castro  G.  —  416. 
De  Sanctis  F.— 20-21;  130;  238;  364; 
»  365;  398;  408;  411. 

De  Zerbi  R.  —  32u  (F). 
Di  Lantosca  Riccardi  V.  —  444. 
Di  Varano  C.  —  386. 
Dorè  G.  —  100. 

Fanfani  P.  —  89;  90;  91. 

Fedele  C.  —  385. 

Ferrai  E.  —  415. 

Ferrigni  P.  C.  (lorik)  —  422-23. 

Ferrieri  P.  —  415. 

Filippi  F.  —  416. 

Filopanti  Q.  —  170;  195. 


(1)  Vi  son  compresi  anche  quelli  pur  una  volta  citati;  ma  i  classici  ,  di  cui 
spesso  nfil  volume  si  parla,  non  sono  stati  registrati  in  questo  elenco  che  altri- 
menti sarebbe  riuscito  troppo  lungo  e  prolisso. 

(2)  Vi  son  compresi  i  nomi  delle  scrittrici  anche  antiche  e  di  cui  si  dà  nel 
volunje  un  particolare  ricordo. 


Fornaii  V.  —  415. 
Fortis  L.  —  117. 
Fusinato  A.  —  387-88. 
Fusinato  E.  —  387-88. 

G 

Gando  G.  —  98. 

Gargani  T.  —  3GG. 

Gargiolli  C.  —  l-l4. 

Giuliani  G.  B.  —  415. 

Gonzaga  G.  —  386. 

Guacci  G.  —  38(3. 

Guasti  C.  —  415. 

Guerrazzi  F.  D.— 1.33-139;  170;  402. 

Hillebrand  G.  —  155;  170. 


Imbriani  V.  —  320  (V] 
Julia  V.  —  4.54. 
Ivon  E.  —  320  (F). 


Landau  M.  —  29. 
Lessona  M.  —  369-73. 
Lignana  G.  —  411. 
Lombardi  E.  —  444. 


408-9. 


IVI 


Maccari  G.  B 
Mamiani  T.  - 
Manzoni  A.— 


Marenco  L. 
Mario  A.  — 
Marselli  N. 
Massari  G. 
Maupassant 


-  443. 

—  170;  188;  194;  443. 
—14-15;  17;  44-45;  131: 

327-30;  405-7;  413-14; 
419;  409-41; 

—  444. 
170;  416. 

—  4i6. 

—  416. 

.  —  104. 


Melza  T.  —  386. 
Milli  G.  —  388. 
Minghetti  M.  —  404. 
Monnier  M.  —  170. 
Morato  0.  —  386. 
Muller  G.  —  416. 

IV 

Nencioni  E.  — 99;  169;  363-68;  395; 

»  396;  444;  445;  448. 

Nievo  I.  —  443. 


o 

Occioni  0.  —  415. 

Padula  V.  —  454. 
Parzanese  F,  P.  —  443. 
Perez  F.  444. 
Perusino  G.  S.  —  98. 
Petruccelli  della  Gattina  G. — 394; 

»  »  427. 

Praga  E.  —  443. 
Prati  G.  —  443. 

Regaldi  G.  —  442—43. 
Ptenan  E.  —  25. 
Revere  G.  —  443. 
Ricotti  E.  —  416. 
Rosa  G.  —  416. 


Sai  mi  ni  V.  —  444. 
Saluzzo  Roero  D.  — 
Sbarbaro  P.  —  320  (FG);  374-78. 
Settembrini  L.  —  XlI-86. 
Siciliani  P.  —  347-50;  352-55. 
Stampa  G.  —  385-86. 
Stoppani  A.  —  404. 

T 

Tabarrini  M.  —  416. 

Tari  A.  —  408-9. 

Tarchetti  I.  U.  —  425;  443. 

Tommaseo  N.  —  442. 

Trezza  G.  —  20;  65;  66;  67;  84-85; 
»  98-99;    145;  153;  169; 

»  170;  294;  297;  305;  320 

»  (F);  341-46;  398. 

Turrisi  Colonna  G.  —  386. 


Vallauri  T. 
Vitrioli  D. 


Zanella  G. 


-  415. 
98;  358-62. 

z 


244;  393-94,-  297;  354; 
»  356;  404;  432;  444. 

Zendrini  B.  —  444. 


QUELLI  CHE  SONO 


Abba  G.  C.  -  416. 

Acri  F.  —  429. 

Aganoor  V.  —  388. 

Agostino  P.  da  Monteteltro  —  307- 

313. 
Allievo  G.  —  98;  429. 
Antona-Traversi  C.  —  18;  26;  412. 
Arciiinti  (Cliirtani)  L.  —  104;  416. 
Ardigò  R.  —  98;  297. 
Arnaboldi  A.  —  245;  445-46. 
Ascoli  G.  —  71;  400;  401. 
Asturaro  A.  —  429;  436. 
Avanzini  B.  —  59;  99. 

Baccelli  A.  —  452-53. 

Bacci  0.  —  415. 

Bacci  V.  —  415. 

Barbiera  C.  R.  —  100;   415. 

Barboni  L.  —  170. 

Barrilli  A.  G.  —  421-22;  425. 

Barzellotti  G.  —  64;  116;  429-30. 

Beccaria  C.  —  98. 

Bernardi  I.  —  98. 

Berta  A.  —  455. 

Bertacchi  C.  —  104;  455. 

Bertini  Attili  C.  —  389. 

Bertoldi  A.  —  415. 

Bertolini  F.  —  416. 

Betteloni  V.  —  245;  445;  448. 

Biagi   G.  —  415. 

Bianchi  L.  —  433-34. 

Boccardo  G.  —  104. 

Boito  A.  —  445;  449. 

Boito  C.  —  416. 

Boner  E.   G.  —  455. 


Botti-Binda  R.  —  390. 
Bovio  G.  —  162;  4:i9;  431-32. 
Brilli  U.  —  263;  415. 
Brunamonti-Bonacci  A.  —  388-89. 

o 

Canestrini  G.  —  429. 

Cannizzaro  T.  —  104;  445-47. 

Cantoni  C.  —  429;  436. 

Cantoni  G.  —  429;  436. 

Capitelli  G.  —  457-58. 

Capuana  L.-26:  27;  320  (F);  420-21. 

Carducci  G.— XII-XIV;  11;  14;    17 
»  69-70;  89-91;    99-100: 

»  130;  137-40;    140-234: 

»  252-53;  298-99;  328-29: 

»  363;  366;  369;  410;  436: 

»  440-41;  445:  423:  450- 

»  51. 

Casini  T.  —  263;  413. 

Gavazza  P.  —  415. 

Cena  G.  —  455. 

Cerquetti  Alfonso  —  412. 

Cesareo  A.  G.  —  27;  104:  412:  450. 

Checchi  E.  —  59;  99. 

Checcucci  C.  —  147. 

Chialvo  G.  —  455. 


Chiappelli  A 
Chiarini  G.— 


Ciampoli  D. 
Clan  V.  —  415. 
Cima  A.  —  416. 
Cimmino  F.  —  320  (B). 
Cipolla  C.  —  416. 


436. 

59;  95;  99;  135-36;  139; 
145;  155;  168-69;  171; 
193;-94;  200:  245;  320 
(D);  320  (F):  366;  496 
412;  44.5-46. 
320  (\i). 


Cipollini  A.  —  415-16. 

Cocchia  E.  —  416. 

Connetti  De  Martiis  S.— 429:  435-36. 

Colaprosso  F.  —  415. 

Colaianni  U.  —  429;  434. 

Colautti  A.  —  455. 

Colozza  G.  —  97;  436. 

Comparetti  D.  —  137;  393;  397. 

Contorti   L.  —  455. 

Conti  A.  —  404:  429. 

Coppino  M.  —  362. 

Corradini  C.  —  415;  455. 

Cortese  G.  —  416. 

Costanzo  G.  A.  —  245;  445;  446. 

Crescini  V.  —  415. 

Crivellucci  A.  —  416. 

Cagnoni  G.  —  415. 

r> 

D'Ancona  A.  —  99;  .393;  398-99. 
D'Annunzio  G.  —  37-38;  107;  113; 

»  266-92;  320  (BD) 

»  452. 

De  Amicis  E.  —  417-20;  432;    455. 
De  Bella  A.  —  434-35. 
De  Dominicis  F.    S.-70;  429;  436. 
De  Gubernatis  A.  —  97;  104;   411. 
De  lohannis  A.  —  429. 
Deledda  G.  —  390;  425. 
De  Leva  G.  —  416. 
Della  Giovanna  I.  —  263:  412. 
Della  Porta  A.  —  455. 
Della  Sala  Y,  —  420  |B). 
Del  Lungo  1.  —  393;  397. 
De  Lollis  C.  —  415. 
Delpino  F.  —  429. 
De  Luca  B.  —  325;  416. 
Depanis  G.  —  103. 
Di  (liacomo  S.  —  320  (B) 
Di  Thaler  C.  —  170. 
D'Ovidio  F.  —  410-11. 

E 

Ellero  P.  —  195. 
Errerà  A.  —  104. 

F 

Fabretti  A.  —  416. 
Faldella  G.  —  427-28. 


Falorsi  G.  —  415. 

Fambri  P.  —  428. 

Farina  S.  —  27:  104;  425-26. 

Farnese  P.  —  316. 

Fasiani  A.  —  453-54. 

Fava  0.  —  320  (C). 

Federzoni  G,  —  415. 

Ferrai  L.   A.  —  416. 

Ferrari  S.  —  40-41;  246;    263,  452. 

Ferrerò  G.  —  434. 

Ferri  E.  —  429:  434. 

Pinzi  G.  —  108:  41.5;  455. 

Fiorini  V.  —  415. 

Flamini  F.  —  415. 

Flechia  G.  —  71;  416. 

Fleres  U.  —  320.  (F);  416;  454. 

Fogazzaro  A.  —820;  245;  428;  432; 

»  445;  449. 

Fontana  F.  —  455. 
Fornaciari  Pv.  —  412;  415. 
Fornelli  U.  —  43(). 
Fraccaroli  G.  —  416. 
Franchetti  A.  —  41i). 
Fradeletto  A.  —  415. 
Frati  L.  —  416. 
Fucini  R.  —  388;  422-23;  455. 
Fulvia  —  96. 
Fumagalli  L.  —  416. 
Fumi  G.  F.  —  41(). 


o 


Gandino  G.  B.  —  415. 
Garoglio  D.  —  4.55. 
Gentile  I.  —  416. 
Gliisleri  A.  —  199. 
Giachi  V.  —  415. 
Giacosa  G.  —  319;  423-24. 
Gianelli  E.  —  389-90. 
Gigli  G.  —  460. 
Giorgini  G.  B.  —  415. 
Giovagnoli  R.  —  415;  455. 
Giussani  C.  —  416. 
Gnoli  D.  —  24.5;  445-46. 
Gotti   A.  —  416. 
Graf  A.  —  245;  402-3. 
Grilli  G.  —  455. 
Grosso  S.  —  416. 
Guarnerio  P.  E.  —  4.55. 
Guerrini  0.  —  245;    389;    397;  445; 
»  450-51. 


Ibsen  E.  —  19;  25. 

lessie  Withe  vedova  Mario  —  416. 

Inama  V.  —  415. 

Kerbaker  M.  -  US;  410-11. 
L 

Labanca  B.  —  436. 

Labriola  A.  —  421»;  436. 

Liov  P.  —  432-33. 

Lombroso  C.  —  82:  207;    370;  429; 

»  431;   434. 

Loria  A.  —  429;  43(). 

^1 

Mantegazza  P.  -  69;  371;    432-33. 

Mantit-a  G.  —  454. 

Mantovani  D.  —  415;  428. 

Marano  Attanasio  G.  —  461. 

Marcati  A.  —  107. 

Marchese  N.  —  455. 

Mariani  Pv.  —  436. 

Marinelli  G.  —  429;  496. 

Mariotti  F.  —  412. 

Marradi  G.  —  26;  40-41:  162;  2141 
»  245-65:    318-19;  320 

»  (F);  450;  152. 

Martello  T.  —  108. 

Martini  Felice  —  415. 

Martini  Ferdinando  —  19;    59;  99. 

Mascagni  P.  —  24:  40. 

Masci  F.  —  429. 

Masi  E.  —  99;  393;  398. 

Massarani  T.  —  399. 

Mastri  P.  —  455. 

Mattirolo  0.  —  429. 

Mazzoni  G.  —  2e};  40-41;  246;  263; 
»  320  (F):  444;  452. 

Melani  A.  —  416. 

Menasci  G.  —  96;  455. 

Menegazzi  G.  B.  —  96. 

Mestica  G.  —  412-13. 

Mezzanotte  G.  —  316;  321  (C). 

Michelangeli  L.  —  415. 

Milelli  D.  —  245;  314-320;  445-45. 

Miranda  G.  —  107. 


Misasi  N.  —  320  (B). 
Molmenti  P.  —  416;  428. 
Mommsen  T.  —  145;  170. 
Monaci  E.  —  393;  398-99. 
Morandi  L.  —  413-14. 
Morelli  V.  —  355. 
Morselli  E.  —  97;  429;  433-34. 
Mosso  A.  —  429;  515. 

IV 

Neera  (Anna  Zuccaro  Pi.adius)  96. 
Negri  A.  —  41;  390;  415. 
Negri  G.  —  415. 
Nitti  F.  S.  —  434. 
Nevati  F.  —  415. 

o 

Oietti  U.  —  286. 
Orvieto  A.  —  96:  455. 


Pais  E.  —  416. 

Pais  F.  —  195. 

Panbianco  G.  —  63;  458-60. 

Panzacchi  E.— 95-96;  99;  140;  158 
»  161;    169;  194;    195 

»  245;  320  (I);  395  445 

»  448-49;  452. 

Paoli  C.  —  429. 

Pascarella  G.  —  454. 

Pascoli  G.  —  40-41:  9ù:  246;  263; 
»  320  (F);  415. 

Pasqualigo  F.  —  98. 

Pelliccioni  G.  —  416. 

Petrocchi  P.  —  88-92:  414. 

Pica  V.  —  320  (B)-246:  416. 

Picciola  G.  —  452. 

Pichler  —  170. 

Piccolomini  E.  —  416. 

Pieretti  L.  —  412. 

Piergili  G.  —  412. 

Pilo  M.  —  409;  432-33;  455. 

Pinelli  L.  —  245;  293-306. 

Pio  Oscar  —  455. 

Pisani-Dossi  A.  —  320  (F). 

Pizzi  I.  —  415. 

Pollazzi  P.  —  100-101. 

Posocco  G.  U.  —  455. 

Prati  R.  —  25. 


Prudenzano  F.  —  455. 
Puccianti  G.  —  415. 
Puglia  F.  -  42P:   434. 

Ragnisco  P.  —  429. 
Ragusa-.Moleti  G.  455. 


Ramorino  F. 
Rapi  sardi  M. 


318; 


415. 
-  40-41;    245; 
445;  450. 

1;  85;  393;  398-99. 
429. 


Rajna   P.  ■ 
Regalia  E. 
Renier  R.  —  95:  403-404. 
Ricci  C.  —  245;  397. 
Ridolfl  C.  —  1U8. 
Rigutini  G.  —  414. 
Rinaldi  B.  —  98. 
Rizzatti  F.  —  432-33:  455. 
Rocchi  F.  —  195. 
Rolando  A.  410. 
Romiti  G.  —  429. 
Rondarli  A.  —  415. 
Ronzon  A.  —  415. 
Rossi  —  108. 
Rovetta  G.  —  42(5-27. 
Roux  Amedeo  —  170. 
Rubichi  E.  (Richel)  -  101-2. 

Sabbatini  R.  —  41»;. 

Sacerdoti  E.  —  lOG. 

Salvador!  G.  —  320(1));   415;  454. 

Salveraglio  F.  —  415. 

Sanlelice  E.  —  455. 

Scalinger  G.  M.  —  105. 

Scarfoglio  E.  —  2.39:    320  (D);  434. 

Schiattarella  R.  —  434. 

Serao  M.  —  320  iBi:  428. 

Serena  A.  —  456-57. 

Sergi  G.  —  98:  429:   434. 

Sesler  F.  —  412. 

Schanz  Giulio  —  154;  170. 

Schiaparelli  G.  —  41(3. 

ScheriDo  M.  —  415. 

Solerti  A.  —  415. 

Sommaruga  A.  —  94-100;  320   (AB 

»  CDEFGH). 

Spencer  E.  —  98. 
Speraz  B.  (Bruno  Sperani)  —  428. 
Stampini  E.  —  145;  170;  415. 
Stiavelli  G.  —  4.55. 
Straccali  A.  —  412. 


Strafforello  G.  —  104;  415. 
Strinati  E.  —  455. 

T 

Tamassia  E.  —  429. 

Tamburini  A.  —  429. 

Tanganelli  A. 

Tedeschi  P.  —  415. 

Testa  Cesario  (Papiliunculus)— 320 

»  (F);  454. 

Teza  E.— 104;  167;  170;  195; 

»  410. 

Tocco  F.  —  349:  429;  436. 
Torelli  A.  —  455. 
Torraca  F.  —  411-12. 
Tozzetti  Targioni  G.  —  415. 
Treves  E.  —97;  100-101. 
Trevisan  F.  —  415:  4.55. 
Turbiglio  S.  —  429. 
Turati  F.  —  108. 


401-2; 


Uda  F. 
Uda  M. 


XJ 

425;  445:  44(5. 
425. 


Valcarenghi  U.    04. 

Valdarnini  A.  4.36. 

Vecchi  A.  V.    (lack    la  Bolina)  — 

»  104;  428. 

Vecchini  A.  —  95. 
Venturi  A.  —  415. 
Verdi  G.  —  24;  40. 
Verdinois  F.  —  18;  19:  .320  (F). 
Verga  G.  —  27;    31:   271:  320    (F); 

»  420;  425;  426. 

Vignoli  T.-294;  299;  300-301;   429. 
Villari  P.  —  409-10. 
Vivanti  Annie  —  45:  .389. 

z 

Zambaldi  F.  —  415. 

Zardo  A.  —  415. 

Zenatti  A.  e  0.  —  415. 

Zingarelli  N.  —  412. 

Zola  E.  —  25;  39. 

Zuccaro  Radius  A.  (Neera);  — 428. 

Zumbini  B.  -130;  137;  266;  274;  384; 

»  385;  393;  394-95;  397; 

»  398;  446. 


Libro  I. 


Studi  e  bozzetti  su  argomenti  di 
varia  e  generale  letteratura. 


I. 


Prosa  coiiteniiioranea. 


JUANTI  mai  oggi,  fra  quelli  clie  più  sono  in 
voce  di  scrittori  e  di  artisti,  sanno  indu- 
giarsi con  sapiente  industria  di  lima  intorno 
a  un  periodo  classico? 

Quanti  mai  ,  anche  fra  quelli  che,  studiosissimi 
ricercatori  delle  tradizioni  dell'arte  nella  nostra  storia 
letteraria  ,  hanno  autorità  grande  di  critici  dotti  e 
acuti,  sanno  attingere  da'  lor  scrittori  meglio  disa- 
minati, elementi  e  materiali  e  forme  per  una  prosa 
forbita  ed  elegante  nell'agevole  e  ricca  italianità  dello 
stile  ? 

Quanti  mai  de'  giovani  anche  migliori  eh'  escon 
fuora  novellieri  e  bozzettisti  da'  nostri  instituti  clas- 
sici (neppur  parlo  delle  scuole  e  degl'instituti  tecnici, 
né  di  altre  case  di  cultura),  mostrano,  nella  foga  dello 
scrivere  e  dello  stampare  ,  anche  un  accenno  alle 
nostre  classiche  tradizioni  dell'arte  ? 

È  proprio  innegabile  che,  così  nella  prosa  come 
nella  poesia,  1'  odierna  grafomanìa  italiana  segna  un 
vero  e  desolantissimo  decadimento. 

Tolti  il  Carducci  ,  che  —  mirabile  e  inimitabile 
esempio  —  prosegue  costante  e  con  aria  sana  di  mo- 
dernità   il  classico  culto  della  forma,  e,  a  non  breve 


distanza  ,  altri  pochi,  i  più  de'  nostri  non  possono 
avventurare  alla  posterità  sola  una  pagina  che  possa 
reputarsi   perfetto  modello  di  stile. 

Altri  potrà  per  avventura  ,  e  a  bella  prima,  tac- 
ciarmi di  troppo  rigido  escliisivisvio,  ove  sol  noti  e 
consideri  alcuni  pregi  veramente  notevoli  ma  insuffi- 
cienti ,  e  a  cui  devono  più  che  venti  scrittori  la  lor 
fama  di  artisti. 

Mi  spiegherò  meglio,  e,  potendo,  senza  frasi.  Non 
vo'  dire  che  in  Italia  non  abbondino,  anc'  oggi,  let- 
terati pur  egregi  od  illustri  come  prosatori:  non  vo' 
dire  che  i  più  de'  critici  nostri  non  scrivano  agili  e 
corretti:  neanche  vo'  affermare  che  parecchi  giovani, 
veramente  ammirabili  in  certa  nativa  e  ridondante 
spontaneità  e  freschezza  di  stile,  non  conservino  pregi 
di  prosatori  non  volgari. 

Siamo  d'accordo. 

La  prosa  contemporanea  la  quale  —  volere  o  non 
volere  —  è  proceduta  per  diritta  linea,  ma  sotto  dati 
punti  di  vista,  dall'  inimitabile  modello  manzoniano, 
ha  certamente,  se  non  la  purezza  e  la  proprietà  della 
lingua,  se  non  la  finissima  e  complicata  architettura 
del  periodo,  se  non  la  vigorosa  e  densa  plasticità 
dello  stile,  un  più  libero  e  disimpacciato  andamento 
nell'arte,  andamento  che  la  classica  prosa  -  bisogna 
pur  dirlo  -  non  ebbe  così  spontaneo  e  immediato.  Ma 
son  elleno  sufficienti,  per  uno  stile  organico  e  finito, 
le  scarse  doti  della  prosa  contemporanea,  almeno  co- 
me la  scrivono  i  più  de'  nostri  ,  troppo  assidui  coo- 
peratori alla  coltura  odierna  ? 

Alla  prosa  italiana  contemporanea,  perchè  sia  com- 
piuta, manca  il  c?ilio  della  forma  nelle  classiche  tra- 
dizioni dell'  arte. 

E  vorrei  ragionarne  così. 

Il   pensiero  —  non  importi  considerarne  il  contenuto 

—  si  svolge  e  moltiplica  nella  mente,  almeno  quand'è 
complesso,  di  parvenze  molteplici  e  diverse,  e  n'esce 
colorato  come  da  un'  iride  di  luce  e  con  gradazioni 
ed  isfondi  sì  vari  e  ricchi  di  contorni,    da    parere  — 

—  starei  per  dire  —  quasi  un  caleidoscopio  di  splen- 
dori e  di   riflessioni  ottiche. 


13 


Un  grido  di  dolore,  un  accento  d'  ira,  un  rantolo 
di  rabbia,  uno  scatto  qualunque  del  nostro  dramma 
interiore,  hi  esplosioni  veementi,  sanguigne,  vertigi- 
nose che  par  lingueggino  serpeggiando  come  su  per 
tutti  i  tasti  della  nostra  lingua  articolata,  secondo  la 
irrequietudine  degli   strappi  e  de'  fremili  interni. 

E  il  pensiero,  com'  è  vario  e  molteplice  nella  raf- 
figurazione psichica  e  interiore,  così  dev'  esser  ricco 
di  movenze,  di  elasticità  e  di  giunture  nella  rappre- 
sentazione sensibile,  geometrica,  plastica  dell'arte.  Ciò 
eh'  è  dentro  dev'  esser  fuori,  in  una  perfetta  e  lucida 
armonia,  in  una  quasi  matematica  distribuzione  di 
linee  e  di  rilievi. 

\\  pondo  ascoso  dell'idea  deve  balzare  con  tutt'  quanti 
i  lineamenti  della  sua  figura  internamente  concetta. 
Or  questa  perfettissima  rispondenza  tra  il  pensiero  e 
la  forma,  tra  l'espressione  e  il  concetto,  tra  l'imagine 
e  la  frase,  tra  il  senso  e  la  parola;  questa  fedelissima 
ricreazione  es:eriore  del  fenomeno  psicologico,  deve 
aver  nell'arte  ,  la  sensibile  e  dinamica  ripercussione 
vivente  e  immediata  della  visione  interiore. 

Questo  ottennero  ,  in  grado  mirabile,  i  classici 
maestri. 

Che  cosa  sono  mai  dunque  codeste  tradizioni  clas- 
siche,  nella  forma  e  nello  stile? 

Lo  dirò  subito. 


Le  tradizioni  classiche  —  lo  scrissi  già  altrove  — 
si  compendian  tutte  in  queste  parole  sole:  culto  della 
forma,  eh'  è  quanto  dire,  lavoro  industre  e  accura- 
tissimo dello  stile,  o,  eh'  è  meglio,  educazione  aristo- 
cratica nel  portamento  e  negli  abiti  del  proprio  pen 
siero.  É  il  limae  labor,  come  dicea  il  vecchio  Orazio, 
della  opera  letteraria,   critica  o  artistica  che  siasi. 

E,  così,  esse  possono  scorgersi  nell'  orditura  squi- 
sitamente elaborata  del  periodo  che,  non  con  mosse 
comuni  e  consuetudinarie,  ma  senza  innaturali  con- 
torcimenti s'  atteggia  e  si  snoda    agile  e  moltiforme, 


u 


denso  e  vigoroso,  scultorio  e  vibrante,  nelle  oppor- 
tune trasposizioni  e  ne'  sottili  e  levigatissimi  giri  e 
contorni  e  ligamenti  della  frase,  delle  proposizioni, 
de'  membri.  Questo  fecero  gli  antichi,  e  a  questo  sa- 
rebbe riescito,  se  non  l'avesse  distratto  la  politica  de' 
tempi  tumultuosi,  quell'atletico  ingegno  di  Francesco 
Domenico  Guerrazzi;  e  a  questo  è  alfine  riuscito  un 
solo  vivente  prosatore:   Giosuè  Carducci. 


Il  Manzoni,  anima  potentemente  equilibrata  e  lim- 
pidamente serena,  nell'  uguale  e  pur  varia  concinnità 
dello  stile,  sì  ben  rispondente  all'armonia  calma  e  pro- 
fonda del  pensiero  e  dell'osservazione,  rese  in  sommo 
grado,  a  simiglianza  de'  classici,  non  gì'  impeti  e  i 
turbini  della  passione  impervia  al  suo  cuor  timorato 
di  cattolico  e  credente,  non  la  magniloquenza  della 
rappresentazione,  non  la  nervosa  elasticità  e  prodi- 
galità delle  forme,  ma,  come  in  vivo  specchio,  quel- 
l'onda corrente  e  soavemente  mormorante  che  affa- 
ceasi  allo  spirito  suo,  quieto  e  candido  notomizzatore 
di  quel  realismo  umano  che  sol  fu  possibile  dopo  la 
tempesta  del   1815. 

E  non  stenterei  a  credere  che  il  Manzoni,  pur  ri- 
manendo fermi  gì'  ideali  suoi  nell'arte,  avrebbe  rive- 
lato, in  tempi  diversi,  quelle  grandi  qualità  dello  stil 
classico,  eh'  egli  mostrò  di  emular  sì  bene  nelle  sue 
poesie  giovanili,  mentre  faceva  le  sue  prime  armi  alla 
bella  scuola  del  Parini,  quando  cioè  scrisse  il  poemetto 
Urania  e  il  carme  in  morte  di  Carlo  Imbonati.  E  con 
altra  tempra  di  carattere,  con  indole  più  accesa  m? 
non  meno  virile,  sarebbe  riescito  prosatore  intima- 
mente classico,  e  ci  avrebbe  reso  così  tutti  i  caratteri 
di  quello  stile  e  di  quell'arte,  non  senza  mescolarli  alle 
correnti  più  mosse  dello  scrivere  moderno,  che  gio- 
vine seppe  attingere  con  tanto  gusto  da  quel  vivaio 
di  cultura  che  furono  i  circoli  di  madama  Helvetius, 
e  di  madama  Cabanis,  ad  Auteil. 


15 


Con  questo  vo'  dir  soltanto  che  non  è  giusto  met- 
tere innanzi  e  invocar  sempre  il  Manzoni  quasi  a 
scusare  la  puerilità  e  manchevolezza  della  prosa  vi- 
vente, tutta  nervi  ma  senza  muscoli,  tutta  lascivie  e 
rammollimenti  ma  senza  palpiti  e  sangue. 

L'avvenimento  della  prosa  femmiìiina  a'  tempi  nostri 
fu  il  portato  della  corruzione  della  vera  arte  manzo- 
niana, fu  come  il  logico  procedimento  della  impotenza 
de'  falsi  imitatori  dell'  insigne  lombardo,  che  riman 
tuttavia  inimitabile  esempio  di  quel  che  sarebbe  rie- 
scita  una  prosa  nuova,  in  Italia,  dopo  il  ritorno  asce- 
tico del  15  e  dopo  la  tempesta  della  rivoluzione,  se 
r  unità  italiana  avesse  potuto  evitare  tanto  decadi- 
mento. E  quindi,  nell'  arte  de'  nostri,  permangon 
tuttavia  alcuni  caratteri  prbnigenii,  alcuni  elementi 
potenziali,  sto  per  dire,  di  quello  stile  allo  stato  greg- 
gio: vi  manca  l'aristocratica  finitezza  e  l' industria 
sottile  di  quella  tecnica  meravigliosa. 

E  mentre  il  Manzoni  si  mostrò  sempre  come  incon- 
tentabile dell'assiduo  e  tenace  lavoro  di  lima  per  me- 
glio rispecchiare  il  pensier  suo,  i  nostri,  pur  contenti 
della  massima  volgare:  Scrivete  come  parlate,  si  la- 
sciano andar  troppo  solleciti  alla  fretta,  a  quella  fretta 
che,  come  dicea  Dante,  l' onestate  ad  ogni  atto  dismaga. 

E  cosi,  se  il  grande  lombardo  andò  riguardoso  nella 
elezione  de'  materiali  e  delle  forme,  i  nostri  accettano 
ogni  più  brutto  gergo  dialettale  o  di  gazzetta,  e  scri- 
von  senza  nesso  di  giusti  legamenti,  senza  varietà  di 
lucida  orditura,  ben  paghi  d'  esprimersi,  com'  essi 
dicono,  alla  buona  e  senza  retorica.  E  così,  se  1'  uno 
riesce  nitido  e  trasparente,  gli  altri  si  mostran  vaporosi 
e  ondeggianti;  se  1'  uno  è  proprio  e  semplice  e  inge- 
nuo, gli  altri  son  puerili,  prolissi,  ineleganti,  pedestri: 
se  l'uno  raggiunge  finissimamente  nella  piana  e  cri- 
stallina euritmia  della  forma,  nella  matematica  e  pro- 
porzionata architettura  del  periodo,  nell'  uguaglianza 
mirabile  dello  stile,  le  varie  mosse  e  sfumature  del 
pensiero,    le    diverse    adombrature    dell'  imagine,    gli 


r6 


altri  bamboleggiano  con  uno  stil  misero,  rattrappito, 
stereotipato  e  ch'essi  acconciano  a  tutte  le  idee,  a  tutti 
i  fantasmi,  a  tutte  le  situazioni.  Tale  è  la  differenza! 


Ora  un  logico  e  non  esclusivo  ritorno  al  Manzoni 
e,  con  sempre  in  mano  questo  prezioso  modello,  agli 
esemplari  migliori  de'  classici  nostri,  non  senza  una 
sana  nutrizione  di  greco  e  di  latino;  un  ritorno,  dico, 
al  Manzoni,  che  scaltri  di  movenze  nuove  e  più  cor- 
renti questa  lingua  italiana  che  al  Byron  parve  come 
una  musica  favellata,  e,  nel  tempo  istesso,  alle  tradi- 
zioni più  intimamente  classiche  de'  secoli  o  periodi 
migliori  della  nostra  lettetatura,  un  tale  ritorno,  dico, 
sarà  certo  un  grande  bisogno  del  nostro  avvenire  lette- 
rario. 

Il  Manzoni  solo,  non  basta.  Il  grande  lombardo, 
ancor  pieno  la  mente  delle  influenze  umanitarie  e  fi- 
lantropiche della  cultura  francese,  dedusse  dalla  let- 
teratura di  Francia  quel  che  all'arte  classica  mancava 
o  non  prevaleva,  cioè  un  più  libero  e  spedito  anda- 
mento dello  stile  nell'arte;  ma,  sì  pel  carattere  suo, 
sì  per  r  ideale  religioso  che  proseguiva  costante,  sì 
per  colpa  de'  tempi,  non  trasfuse  nell'arte  quell'anima 
e,  quella  vita,  quell'orchestra  di  suoni  e  di  armonie, 
quella  varia  e  sottil  compagine  dello  stil  classico  an- 
tico: egli,  simiglievole  in  ciò  a  ogni  grande  novatore 
—  vo'  dirlo  colle  parole  efficaci  del  primo  prosatore 
vivente  —  cotne  si  fu  impossessato  di  quello  stile,  lo 
stancò  colle  firie  delle  carezze  di  un  primo  amore. 

Or  quale  sarebbe  invero  l'ideale  da  raggiungere  in 
fatto  di  stile? 

Mi  si  si  permetta  eh'  io  lo  dica  colle  parole  d'  un 
altro  novator  grande,  del  Carducci,  che  ce  ne  dà 
esempi  mirabili  e  viventi. 

Il  Carducci  scrive: 

«  Né  parrà  audace  per  avventura  il  congetturare 
che  r  Italia  tutta  fosse  per  tenere  dell'  industre  e  sa- 
piente eclettismo  romano,  della  contemperazione  arti- 
stica che  l'Italia  tutta  fece  nel  secolo  decimoquarto  e 


17 


decimosesto  tra  l'antichità  e  il  medioevo.  Ella  sarebbe 
chiamata  a  trovar  la  sofrosine  classica  delle  letterature 
surte  o  rinnovate  dalla  rivoluzione  »  (*) 

Non  si  può  dir  meglio  ! 

E  nella  prosecuzione  di  tale  ideale,  soggiungo  io, 
non  avrebbe  parte  ultima,  per  quel  che  concerne  lo 
stile  moderno,  la  efficace  influenza  dell'  immortale 
autore  de'  Promessi  Sposi. 

Così  potrà  esserci  dato  di  aspettare  il  Verbo  del- 
l'arte futura,  nella  poesia  e  nella  prosa. 

Ma  per  raggiungere,  almeno  in  parte,  tale  ideale,  ci 
è  pur  bisogno  di  rialzare  di  molto,  nelle  nostre  scuole 
e  segnatamente  ne'  nostri  instituti  classici,  il  troppo 
basso  livello  della  cultura  classica  e  nazionale. 

Potremo  almeno  sperarlo? 


(')  Carducci- Discorsi  lellerari  e  slorici  -  pagg.    317-18,    Bologna, 
Zanichelli,  1889. 


IL 


Per  Pavyenire  del  Teatro  Nazionale. 


fi^M|AMiLLO  Antona-Traversi,  l'applaudito  autore 
^te^  delle  Rozeìio  e  l'industrioso  ricercatore  delle 
<S^i-^  memorie  leopardiane,  proponeva  pur  di  re- 
cente ,  come  utile  preservativo  al  rialzamento  delle 
sorti  e  all'  avvenire  del  teatro  nazionale  da  tempo 
caduto  sì  in  basso  ,  una  «  commissione  di  lettura 
drammatica  »  o  almeno,  prima  che  questa  si  venisse 
man  mano  organando,  il  giudizio  illimitato  e  sincero, 
intorno  alle  opere  italiane,  d'  uno  de'  nostri  critici 
teatrali  più  insigni,  sul  quale  questo  o  quel  capoco- 
mico riponesse  fiducia  maggiore.  Così  l'uno  potrebbe, 
secondo  il  bisogno  ,  designare  scortamente  il  critico 
suo  che  giudicherebbe  in  prima  istanza:  1'  altro  giudi- 
cherebbe in  seconda;  ma,  di  comune  accordo,  tutti 
e  due  porgerebbero  agli  autori  quei  consigli  e  sug- 
gerimenti che  fossero  del  caso,  e,  con  avvisato  criterio, 
si  metterebbero  in  guardia  contro  le  animose  e  pe- 
destri riprovazioni  e  anche  contro  le  appassionate 
rappresaglie  della  platea  e  della  stampa  per  difendere 
l'opera  immeritamente  naufragata,  quando  ne  fosse  il 
tempo.  Parecchi  hanno  accolto  con  plauso  la  proposta 
che  —  a  parte  l'ottimismo  di  chi  primo  la  concepì  — 
si  presta  a  facili  attacchi  e  a  giudizi  molteplici  e  di- 
versi. Ma  un  pò  discorde  m'  è  parso  il  parere  d'  un 
critico  arguto  ,  di  Fedrigo  Verdinois  ,  il  quale,  nel 
n.°  213  òi&\  Mattino  àx  Napoli  (14-15  ottobre  1892),  con 
uno  scettico  risolino  fé'  boccucce  alle  buone  inten- 
zioni del  Traversi,  e  conchiuse  testualmente  cosi:  — 
Una  delle  due:  o  voi  credete  che  il    teatro    sia    una 


19 


cosa  seria  e  che  giovi  al  cosi  detto  «  avanzamento 
de'  lumi  »  o  non  ci  credete.  Se  no,  lasciamo  andare 
e  parliamo  di  altro;  se  sì,  è  lecito  desiderare  che  il 
Governo  si  occupi  anche  di  cose  serie  e  che  il  mini- 
stero della  istruzione  pubblica  metta  anch'  esso  la 
mano  a  quest'illuminazione.  —  Ma,  ahimè,  sono  scet- 
tico anch'io,  e  non  credo  neppure  alla  illuminazione 
ufficiale  per  parte  dello  Stato  dirigente  !  Non  credo 
affatto  all'intervento  e  all'utile  cooperazione  di  quel 
pubblico  illuminatore  che  ,  assai  povero  di  bilanci, 
non  riesce  a  divenir  neanche  un  buono  e  operoso 
ministero  della  pubblica  istruzione  in  Italia  !  A  pro- 
posito, appena  il  Martini  venne  assunto  al  Ministero 
della  Pubblica  Istruzione,  si  fé'  circolare  forse  ad  arte 
la  voce  ch'egli  intendesse  por  mano  a  questa  illumi- 
nazione. Tutti  allora  ,  sapendo  essere  il  Martini  un 
commediografo  insigne  e  un  geniale  artista,  trepida- 
rono di  speranza  e  gettarono  all'  aure  un  accorato 
sospiro.  Ma  la  voce  venne  subito  smentita.  Era  na- 
turale. Nient'altro  ci  vorrebbe  che  questo  cataplasma 
a  ristorar  le  membra  consunte  della  vecchia  inferma! 
e  pur  questo  ci  vorrebbe  a  consolar  le  condizioni 
della  povera  Minerva  italiana! 

La  illuminazione  ufficiale,  checché  altri  ne  dica,  in 
ogni  libera  manifestazione  dell'  arte  ,  se  non  certo 
nociva  è  stata  sempre  assai  poco  feconda.  Questa  di 
voler  sempre  far  capo  allo  Stato  ,  per  curar  quello 
eh'  è  difetto  de'  tempi,  è  una  malnata  tendenza  de- 
gl'  italiani  ,  che,  non  avendo  vitali  succhi  in  terreno 
vergine,  impetran  la  cura  artificiale  del  Governo  che, 
second'essi,  dovrebbe  entrare  in  tutto,  sino  a  modi- 
ficare, trasformare,  innovare  le  tendenze  e  lo  spirito 
estetico  dell'età.  La  Commedia  muore?  Lasciamola  pur 
morire  in  pace!  Il  Carducci,  con  intimo  senso  del  vero, 
in  una  succosa  noticina  apposta  alle  Odi  Barbare,  fin  dal 
giugno  1877  scriveva:  «  il  dramma  agonizza,  e  i  troppi 
medici  non  lo  lasciano  né  meno  andare  in  pace  ».  — 
Dopo  quindici  anni  il  dramma,  di  cura  in  cura,  ago- 
nizza ancora,  e  per  godere  ancora  il  teatro  si  é  ricorsi 
a  Enrico  Ibsen:  di  Francia  si  é  passati  in  Norvegia! 


Ma    che     Francia!   che   Ibsen  !    che  Norvegia!   L'  arte 
drammatica   muore! 


Ma  io  vo'  scendere  in  campo  anche  più  pratico  e 
oggettivo.  Si  può  mai  parlare  d'  innovazioni  senza 
prima  por  l'occhio  alla  vita?  Ove  attinge  il  dramma- 
turgo la  inspirazione  immediata  all'opera  sua  ?  dallo 
Stato,  dalle  «  commissioni  di  lettura  »,  dal  giudizio 
de'  critici,  o  dall'ambiente?  non  è  dall'ambiente  ch'e- 
gli, quasi  senza  addarsene,  per  istintivo  bisogno  del- 
l'anima e  delle  facoltà,  deriva  le  sue  figure,  coglie  e 
ricrea  le  filiazioni  del  suo  spirito,  attingendole  come 
da  una  voce  per  sé  stessa  mossa  f  È  inutile  illudersi: 
quando  il  soffio  animatore  del  tempo  non  avvia  e 
dispone  1'  artista,  come  per  inattesi  incentivi,  a  ido- 
leggiare e  insieme  a  fecondare  le  creature  che  gli 
si  offrono  spontanee  e  immediate  per  ogni  sbocco  e 
su  per  ogni  via  ove  gemono  o  ridono  brandelli  di 
anime  e  di  cuori,  è  impossibile  eh'  egli  le  rifletta  in 
sé  per  un  ripiegarsi  violento  delle  facoltà  special- 
mente inventive  intorno  a  un  reale  che  non  spiccia 
fuori  da  native  sorgenti,  ma  si  devolve  per  forza  da 
alvei  artificiali  e  da  scaturigini  sterili.  È  dal  clima 
storico  -  come  il  Trezza  avrebbe  detto  -  che  ogni  forma 
d'arte  germina  e  si  feconda  connaturandosi  nelle  co- 
scienze disposte:  è  nell'  aria,  negli  echi  della  vita, 
per  entro  le  sinuose  compagini  del  tessuto  sociale, 
dappertutto,  che  lo  scrittore  fiuta  e  respira  gli  stimoli 
egli  assilli  dell'arte  e  della  creazione  geniale.  Quando 
questa  pervadente  influenza  non  lo  attira  ed  avvampa 
come  in  un  lavacro  d'  aff"etti  incandescenti,  tutto  è 
vano:  potete  indurlo  a  sagaci  e  industriosi  tentativi, 
ma  l'arte  se  n'  è  ita,  e,  per  quanti  sforzi  altri  faccia, 
in  quel  clima  suo  non  torna  più:  riman  materia  greggia. 
Certe  forme  spariscono  così,  e  allor  sorge  la  critica 
delle  forme;  e  questa  critica  -  una  forma  ella  stessa  - 
vuol  dire  che  quelle  forme,  che  ne  sono  il  contenuto, 
son    proprio  finite.     Il    De  Sanctis,    quel  geniaiissimo 


critico  napoletano  né  letto  né  inteso  da'  sacristanelli 
e  da'  manifatturieri  mestieranti  della  spicciola  critica 
odierna,  in  un  breve  e  originalissimo  suo  studio  sulla 
Scienza  e  la  Vita  ricordo  che  pensava  così:  la  Scienza 
vive  a  spese  della  Vita:  muore  l'arte  e  allor  ne  sorge 
la  critica:  muore  il  tumulto  eroico  de'  popoli,  e  allor 
ne  sorge  l'istoria,  e  Plutarco  interroga  le  tombe  de' 
grandi  morti:  muore  la  pratica  esperienza  sociale  ed 
umana  e  allor  ne  sorge  la  filosofia.  Ci  siamo.  Ago- 
nizza il  dramma,  e  i  troppi  medici  non  lo  vogliono 
lasciar  morire  in  pace. 


Ancora.  Il  clima  storico  d'una  determinata  forma, 
la  quale  in  quel  suo  dato  e  attuale  momento  psico- 
logico ha  il  suo  svolgimento  e  il  suo  divenire  sino  a 
che  maturi  alla  perfezione  suprema  per  poi  neces- 
sariamente decadere,  non  é  mai  il  clima  storico  di 
tutte:  ogni  forma  organica  vive  sempre  a  spese  di 
alcune  altre  decadenti.  È  vero  che  nel  500,  come  ne' 
grandi  secoli  per  eccellenza  artistici  e  universalmente 
estetici,  posson  fiorire  tutte  quante;  ma  sempre  alcune 
o  parecchie  rimangon  la  riflessione  puramente  estetica 
e  nient'affatto  psicologica  delle  medesime  ben  vissute 
in  periodi  o  climi  propri:  così  la  epopea  o  il  romanzo 
cavalleresco  nel  sec.  XVI.  In  questi  secoli  é  sol  vivo 
il  bisogno  A^W arte  per  l'arte,  la  quale  non  é  certo 
una  funzione  visceralmente  organica  che  abbia  con- 
tenuto e  virtualità  in  tutte  le  vere  fonti  della  vita 
universalmente  vissuta:  quegli  uomini  amano  e  ricer- 
cano il  bello  in  tutte  le  sue  forme,  anche  nel  fanta- 
smagorico talvolta,  anche  nel  fattizio  e  nel  conven- 
zionale, appunto  perchè  amano  il  bello  per  il  bello, 
e  nuU'altro;  e  quest'  estetico  bisogno  é  anch'esso  una 
forma,  un  distintivo  peculiare  di  quell'  età,  un  clima 
tutto  proprio,  un  centro  in  cui  si  appuntano  tutt'i  gusti 
dell'ambiente.  Il  bello,  così  inteso,  è  in  questi  periodi 
forma  e  spirito  a  un  tempo;  ed  é  naturale  che  in  essi 
prevalgano  meravigliosamente  le  forme  a  danno  del- 


l'alto  contenuto  psicologico.  Ma  in  altri  ambienti,  se- 
condo le  particolari  manifestazioni  della  civiltà,  cioè 
secondo  che  questa  s'  inalza  o  s'  abbassa  ne'  cicli 
evolutivi  sopravvenienti  e  trasformantisi  in  novi  or- 
ganismi di  climi  storici,  son  poche  le  vere  forme  che 
vi  si  svolgono.  Ne'  periodi  di  transizione  scadono 
tutte  e  s'incrociano  arruffate  e  confuse,  o,  come  ap- 
punto nel  nostro  ,  s'  abbattono  informi  di  fronte  al 
prevalere  della  scienza,  la  quale  pervade  tutte  le  fonti 
della  vita  e,  grado  a  grado  ,  essicca  le  vergini  sor- 
genti dell'  arte.  Benissimo  il  Carducci  nello  scritto 
citato  :  —  Tant'  è  :  a  certi  termini  di  civiltà,  a  certe 
età  de'  popoli,  in  tutt'i  paesi  certe  produzioni  cessano, 
certe  facoltà  organiche  non  operano  più.  — 


Ritorniamo  al  dramma,  che  ,  come  tutte  le  forme 
dell'  arte,  ha  il  suo  divenire  e  anche  il  suo  disparire 
di  fronte  al  risorgimento  di  altre  produzioni.  Esso 
ha  vigore  e  svolgimento  in  età  nelle  quali  freme  e 
turbina  la  vita,  psicologica  e  reale,  de'  popoli:  allora 
questi  o  s'agitano  violenti  per  colorire  e  raggiungere 
ideali  ornai  maturi,  e  s'avventano  ribelli  al  conquisto 
della  libertà,  dell'  indipendenza,  dell'avvenire  econo- 
mico, dell'uguaglianza;  o  si  movono  animosi  nel  pu- 
gilato vivo  e  nell'accesa  propaganda  delle  idee  e  delle 
aspirazioni  generali  da  un  pezzo  escite  dal  fattizio 
cerchio  della  retorica  e  dalla  ideologica  utopia  poli- 
tica e  sociale,  e  ormai  fuse  e  conflagranti  nella  con- 
scienza universale  del  tempo.  Qui  è  generale  agita- 
zione d'  idee,  e  lì  è  insurrezione  d'uomini  che,  alla 
lor  volta,  alle  medesime  idee  s'abbrancano,  operando 
fecondi  nel  conflitto  della  vita  pratica.  Il  dramma  si 
svolse  in  Grecia  tra  le  guerre  civili:  in  Francia  e  in 
Inghilterra  tra  le  guerre  quasi  fratricide  della  cristia- 
nità, promosse  dalla  riforma  in  antinomia  col  cattoli- 
cesimo: in  Francia,  dopo  l'aureo  secolo  di  Luigi  XIV, 
dopo  l'olimpico  ciclo  d'arte  del  Corneille,  del  Molière, 
del   Racine,  del  Regnard,  l'arte  gladiatoria  e  tribunizia 


23 


del  Diderot,  un  de'  precipui  cooperatori  della  Enci- 
clopedia, fé'  presentire  i  brividi  della  rivoluzione  so- 
ciale del  1889.  Ecco  la  vita  ,  il  clima  storico  del 
dramma. 


Or  dunque,  che  c'è  mai,  oggi,  in  Italia,  che  accenni 
a  un  vero  movimento  d'idee,  a  una  seria  agitazione 
di  principi  comuni?  Nulla,  nulla,  nulla.  Il  popolo  ita- 
liano —  quello  che  veramente  dicesi  popolo,  —  ormai 
stracco  e  indolenzito,  assiste  quasi  impassibile  allo 
svolgimento  della  cultura,  della  politica,  di  tutto:  i  po- 
chi partiti  anarchici,  con  variopinta  leccatura  di  socia- 
lismo ,  hanno  vita  e  fermento  solo  in  Romagna  e  in 
Lombardia,  e,  all'infuori  dei  radissimi  crocchi  retorica- 
mente repubblicani,  qua  e  là  disparsi  nelle  rimanenti 
regioni  d'Italia,  non  abbiamo  una  vera  utopia  sociali- 
stica o  anarchica  nel  cuore  della  Nazione.  Nella  stessa 
Romagna  il  movimento  si  riduce  a  iftia  spiccata  e  as- 
soluta opposizione  all'attuale  forma  di  Governo,  e  non 
a  un  ordine  di  principi  eminentemente  sociali  ;  che 
anzi  di  questi  gli  anarchici  romagnoli  si  servono  per 
combattere  unicamente  il  partito  dell'ordine:  essi  mi- 
rano diritto  allo  scopo  immediato  del  loro  ideale  es- 
senzialmente politico  e  che  ha  qualche  fiammolina 
sprizzante  dalle  nobili  tradizioni  del  gran  partito  maz- 
ziniano, sorpassato  dalla  evoluzione  de'  tempi.  Sicché 
il  repubblicanesimo  di  Romagna  non  ci  rappresenta 
un  grande  veicolo  d'intenti  comuni  a  tutta  la  Nazione; 
e  anche  le  poche  idee  che  parrebbero  avere  qualche 
propaganda,  sono  ancora  arruffate,  volubili,  incerte, 
né  sono  uscite  del  tutto  dal  vuoto  olimpo  delle  teo- 
riche. È  vero  che  si  agitano  alcune,  ancora  intricate, 
questioni  intorno  al  capitale  e  al  lavoro,  ma  anche 
esse  par  che  non  movano  universalmente  la  coscienza 
di  tutto  il  popolo  italiano,  e  solo  si  vedon  conciliate 
alla  politica  dirigente  che  co'  soliti  palliativi  vorrebbe 


24 


tradurle  nella  pratica  sociale.  (*)  E,  in  fatto  di  cultura, 
non  vi  fu  mai  periodo  nel  quale  gli  animi  si  fosser 
trovati  sì  neghittosi  e  indolenti  come  nel  nostro:  quel 
piccolo  soffio  intellettivo  che  avanza  lo  respira  sol- 
tanto la  borghesia  grassa:  in  generale,  per  quel  ma- 
lessere che  tutti  pervade  dinanzi  a'  problemi  sociali 
non  bene  ancor  fermi  e  sicuri  ,  per  quel  manco  di 
bisogno  estetico  che  si  manifesta  nel  tempo  ,  siamo 
invasi  dalla  mania  del  brutto,  dalla  febbre  del  deforme; 
e,  naturalmente,  come  all'  ebbro  ogni  sorta  di  vino 
piace,  così  il  popolo  italiano,  da  gran  tempo  respinto 
o  deviato  da'  grandi  godimenti  intellettuali,  si  lascia 
andare  a  sùbiti  entusiasmi  e  come  a  un  parossismo 
nevrotico  di  adorazione  dinanzi  al  superficiale  e  al  ca- 
duco, dinanzi  all'arte,  che  passa.  Un  popolo  che  al- 
l'Oie//o  di  Verdi  concede  solo  un  gran  successo  di 
stima,  ma  batte  invece  con  fremiti  convulsi  le  mani 
alla  Cavalleria  Rusticana  ,  dà  il  segno  più  alto  della 
sua  impotenza  estetica  e  del  suo  senso  artistico  de- 
pravato: è  in  questi  momenti  fugaci  che  salgono  re- 
pentine alla  gloria  di  capolavori  le  più  grette  mani- 
festazioni del  mediocre.  Sola  una  manifestazione  ve- 
ramente seria  accenna  a  mantenersi  in  vita:  la  critica 
nella  scienza  e  la  scienza  nell'arte  e  nelle  altre  umane 
discipline  sperimentali.  Or  questo  appunto  dimostra 
che,  secondo  quello  che  dianzi  dicemmo  ,  la  povera 
arte,  se  n'escludi  soltanto  la  lirica  individuale,  se  n'è 
ita,  ed  è  follia  il  volerla  risuscitare.  Quando  nel  suo 
tempo  l'uomo  denuda  le  sue  piaghe  e,  bisognoso  di 
profondarsi  nel  suo  interiore,  diventa  il  critico  e  il 
medico  di  sé  stesso,  allora  la  produzione  spontanea, 
la  elaborazione  disinteressata  e  immediatamente  in- 
spirata, cioè  non  riflessa,  non  può  rivivere  più,  per  la 
cotitraddizion  che  noi  consente:  arte  e  scienza  son  due 
termini  opposti,  contraddittori!.  Altro  dovrei  dire  sul 
positivismo  borghese  e  sul  bottegaio  e  mercantile 
gusto  del  tempo;   ma  basta. 


(*)  Questo  io  pensava  ben  sette  anni  fa:  ora  devo  confessare    che  il 
movimento  si  ò  di  mollo  dilargato  nelT  Italia  segnatamente  superiore. 


Or  dato  questo  ambiente  sì  avverso  al  dramma,  è 
impossibile  che  lo  Stato ,  che  comitati  permanenti, 
che  «  commissioni  di  lettura  »,  che  giudizii  e  con- 
sigli di  critici  anche  sommi  valgano  a  infondergli 
lena  e  vigore:  potete  soltanto  prolungar  la  esistenza, 
del  mediocre,  ma  è  inutile  sperare  nel  classico  risor- 
gimento e  anche  nella  progressiva  vitalità  d'una  forma 
d'  arte  che  muore.  Lasciatela  morire  in  pace.  Se  no 
avrete  la  scienza  invece  del  dramma.  Questo  lo  vedete 
da  un  pezzo.  Per  opera  di  Emilio  Zola,  il  romanzo 
vien  fatturato  ne'  gabinetti  di  clinica,  e,  di  tanto  in 
tanto  ,  ascende  agli  onori  del  palcoscenico.  Così  un 
francese  molto  più  illustre,  pur  ieri  morto,  il  Renan, 
volle  innestare  ,  con  fermo  intendimento  critico,  la 
scienza  delle  religioni  al  dramma,  e  scrisse  la  Badessa 
di  Jouarre,  che,  dopo  un  successo  di  stima,  fini,  e  fu 
l'opera  più  mediocre  di  quel  felicissimo  ingegno.  Oggi 
abbiamo  V Ibsen  del  quale  ha  parlato  sì  bene,  su  que- 
sta medesima  rivista,  Romolo  Prati.  Oh  !  la  smania 
di  voler  drammatizzare  la  morale  e  di  predicarla  su 
le  scene  —  cosa  unicamente  possibile,  ma  con  danno 
dell'arte,  in  tempi  nei  quali  ogni  forma  di  cultura  è 
un  arnese  di  battaglia  morale  e  materiale  ,  come  il 
1848  e  altri  anni  di  poi  in  Italia  —  sarà,  nel  dram- 
maturgo norvegese,  un  forte  tentativo  che  applaudi- 
rete per  un  pezzo,  ma  è  la  morte,  la  ossessione  del 
dramma,  che  sol  rugge  nel  cervello  ma  non  sanguina 
nel  cuore  delle  moltitudini.  È  un  pregiudizio  che  pro- 
cede dal  difetto  de'  tempi. 

Ma  dobbiam  chiudere  i  teatri?  No,  certo.  Tornate 
all'  antico  ,  e  contentatevi.  Quando  siete  impotenti  a 
far  meglio,  rinnovatevi  ne'  lavacri  della  grande  arte, 
che  non  muore.  C'è  tanto  dell'antico  ancor  vivo  I  Ma 
noi  crediamo  ancora  in  qualche  cosa:  vogliamo  pro- 
durre! Volete  produrre  ?  Sta  bene.  Producete!  Ma 
allora  inspiratevi  almeno  a  quel  po'  di  vero  che  co- 
mincia a  divenire  conscienza  nazionale.  Ascendete! 
Strappate  all'anima  de'  tempi  quel  po'  di  luce  fioca, 
quel  barlume  di  vero  che  comincia  a  serpeggiarci 
d'  intorno  ,    e  ,    senza    rinnegare    le  grandi  tradizioni 


26 


dell'  arte  sana,  scrivete.  Avete  una  questione  sul 
capitale  e  sul  lavoro?  Vivaddio!  fatela  palpitare  su  le 
scene.  E  siate  benedetti  !  Prendete  dal  tempo  quello 
ch'è  intima  conscienza  del  tempo,  e  uscite  dal  brago 
e  da'  gabinetti  d'ostetricia.  Voi,  Camillo  Antona-Tra- 
versi,  che  avete  gran  volontà  di  fare  e  vero  talento 
d'  artista  ,  siate  incurioso  degli  altri  e  dell'avvenire 
dell'  arte  ,  ma  per  esclusivo  conto  vostro,  tentate: 
potete  fare  qualche  cosa  anche  superiore  alle  vostre 
meritamente  applaudite  «  Rozeno  ».  Ognuno  che 
abbia  vera  voglia  di  lavorare,  lavori  di  buzzo  buono, 
e  dimentichi  la  critica,  per  carità,  dimentichi  lo  Stato, 
dimentichi  le  Commissioni  di  lettura,  dimentichi  tutto: 
trovi  in  sé  gl'impulsi  e  gl'incentivi  all'opera  propria. 
Libero,  senza  pregiudizio,  disinteressato,  s'inspiri  al 
tempo,  e  ne  faccia  circolare  la  vita  nell'  anima  sua, 
e  dall'anima  sua  nell'arte.  Chi  sa  allora?  Potrà  darsi 
che,  con  questo  lavorìo  indipendente  ,  individuale, 
produttivo,  avremo  trovato  uno  scorcio  di  via  buona. 
Ma  intanto  l'artista  dica  a  sé  stesso:  incipit  a  me  vita 
nova. 


_i==^ 


III. 

Novelle.  (*) 

i^\^<^/iOTTO  questa  intitola2ione  un  artista  insigne, 
K^^t!Vlì4  Luigi  Capuana,  nel  numero  i8  (annata  1887) 
v^rt^;^  del  «  Fanfulla  della  Domenica  »,  segnalava 
alla  pubblica  lode  due  giovani  novellieri  poco  noti  alle 
lettere:  Federico  De  Roberto  e  il  genovese  Zena,  au- 
tore il  primo  di  un  libro  di  novelle  che  porta  il  titolo 
«La  sorte»,  il  secondo  di  «  Storie  semplici  ». 

Ma,  sotto  la  medesima  intitolazione,  io  vo'  dire 
qualcos'  altro:  discorrere  cioè,  ne'  limiti  d'  un  breve 
articolo,  delle  vigenti  condizioni  della  novellistica  con- 
temporanea e  dell'  indirizzo  eh'  essa  dovrebbe  avere 
perchè  veramente  risorga,  valendomi  de'  miei  poveri 
studii  intorno  all'  argomento. 

Pare  che,  da  qualche  anno,  cominci  a  scadere  l'ab- 
bondanza strabocchevole  e  morbosa  degli  elzeviri  e 
delle  poesie  da  alcòva;  che  anzi,  fra'  pochi  che  scrivon 
tuttavia  de'  versi,  non  mancano  di  quelli  che,  come 
il  Cesareo,  il  Mazzoìii,  il  Ferrari,  il  Marradi  e  qualche 
altro,  ci  manifestano  come  un  ritorno  alle  sane  tra- 
dizioni della  vera  e  grande  arte. 

Invece  le  novelle,  più  e  meno  insulse  o  scipite, 
se  ne  togli  qualche  notevole  esempio,  non  accennano 
a  finire,   ma  parmi  che,   con  disdoro  non  piccolo  del- 


(*)  Questo  capitolo  fu  pensato  e  composto  più  che  dodici  anni  fa; 
ond'esso  —  é  quasi  inutile  dirlo  —  mostra  ancora  certa  leggerezza,  cosi 
di  forma  come  di  pensiero,  ch"é  della  gioventii  non  ancora  ben  ferma.  Del 
resto  lo  ripubblico,  perchè  il  fondamento  critico  di  esso  mi  pare  ancora 
giusto  e  opportuno. 


28 


l'arte  nostra,  sempre  più  aumentino  nella  lor  produ- 
zione quantitativa.  Ed  è  male.  Che  anzi  mi  è  dato 
sorprendere  un  caso  veramente  curioso.  Nell'atto  che 
i  veri  e  grandi  artisti,  come  il  Verga,  il  Capuana, 
Salvatore  Farina  e  qualche  altro,  sembra  che  si  vadan 
come  allontanando  dalla  produzione,  ecco  i  giovani 
italiani  —  e  i  ginnasi  ed  i  licei  ne  forniscono  un  nu- 
mero considerevole  —  prendere  animo  dal  silenzio  dei 
loro  maestri  a  scriver  vertiginosamente  novelle  e  boz- 
zetti su  la  stampa  periodica  e  pei  libri. 

Or  guardiamo  che  cosa  valgano,  e  qual  parte  rap- 
presentino dell'arte  italiana,  queste  novelle. 

Anzitutto  i  novellatori  odierni,  ingenerale,  mancano 
addirittura  d'una  qualità  artistica  grande  ed  essen- 
ziale: la  pienezza  vigorosa  e  larga  della  rappresenta- 
zione in  una  forma  elegantemente  corretta. 

Lo  stile,  è  vero,  corre  limpido  e  piano,  ma,  ne'più, 
è  un  po'troppo  svenevole  e  cascante,  stile  che  rinno- 
vella,  in  tempi  che  dicono  di  rigido  verismo,  le  sla- 
vature lambiccate  de  '  peggiori  tempi  della  scuola 
romantica  allorquando  questa,  senza  nessuno  attrito 
sociale,  divagò  dal  vero  e  cercò  nella  mobile  e  va- 
porosa idealità  il  contenuto  e  le  forme.  Ma  questo 
stile  non  ha  nulla  che  ricordi,  anche  alla  lontana^ 
quella  vispa  e  festiva  vivacità  briosa  e  umoristica  del 
Sacchetti  o  quell'  ondeggiamento  largo  e  ridondante, 
nei  luoghi  e  nelle  parti  sue  migliori,  della  novella 
boccaccesca,  né  quella  vigorosa  e  ben  nutrita  mor- 
bidezza e  facilità  di  qualche  grande  prosatore  o  pro- 
satrice  francese  di   questi  ultimi   tempi. 

La  novella,  perchè  veramente  risorga,  ha  bisogno, 
a  parer  mio,  che  si  rinsangui  di  una  vera  e  larga 
cultura  classica,  attingendo  dall'  antico  quelle  forme 
e  quei  colori,  que'  tipi  e  quelle  movenze,  que'  rilievi 
e  que'  caratteri  di  rappresentazione  che  è  bene  rinno- 
vellare,  adattandoli  al  gusto  contemporaneo  e  alle 
assuefazioni  particolari  del  presente  momento  storico 
nella  vita  propriamente  nostra,  cioè  intimamente  ita- 
liana. 

Ora,   questa  cultura  classica  è  quella  che  manca  ap- 


29 


punto  a'  nostri  novellatori  i  quali,  come  se  fosser 
disposti  sur  una  falsariga  come  tanti  tipi  da  marionette, 
si  rassomigliano  tutti,  e  in  tutto:  uno  è  il  congegno 
meccanico  che  li  tira  e  li  move  ne'  lor  diversi  atteg- 
giamenti o  nelle  loro  smorfie  imitatrici.  Messe  in  un 
fascio  tutte  le  novelle  italiane  dell'ultimo  decennio  — 
salvo,  s'  intende,  alcune  eccezioni  notevolissime  — 
è  ben  difficile  trovarne  dieci  che  abbiano,  non  dico 
un  po'  di  originalità,  ma  quello  che  può  dirsi  il  ca- 
rattere distintivo  della  tempra  d'  uno  scrittore  o  la 
tonalità  di  un'  opera  d'  arte.  Che  anzi,  in  grandissima 
parte,  la  novellistica  italiana  contemporanea  può  dirsi 
la  rifusione,  in  mille  guise  diverse,  d'una  novella  sola, 
cucinata  con  diversi  ingredienti  e  rimaneggiata,  con 
di  più  l'appiccico  di  due  o  tre  movimenti  o  situa- 
zioni convenzionali,  da'  diversi  scrittori  italiani  i  quali 
par  si  pompeggino  troppo  in  questa  scimiotteria  ste- 
reotipata di  un  medesimo  tipo  e  d'uno  stessissimo 
modo  di  rappresentazione. 

Di  fatti,  prendete  pure  due  novelle  le  quali  abbiano, 
per  ciò  ch'è  forma  e  per  ciò  ch'è  contenuto,  una  tal 
quale  differenza  e  diversità;  ebbene,  non  ci  vuol  molto 
a  dimostrare  che  il  periodo  si  snoda  allo  stesso  modo 
e  coi  medesimi  ligamenti,  che  la  lingua  è,  su  per 
giù,  la  stessa,  cioè  poco  corretta  e  punto  italiana,  e 
che  il  movimento  dello  stile  è,  salvo  alcune  acciden- 
tali differenze  di  composizione,  mirabilmente  identico. 
Non  mai  com'oggi  la  stereotipia  nell'arte  ha  raggiunto 
proporzioni  così  alte  e  paradossali,  e  non  mai  come 
oggi  —  è  un  bel  caso!  —  gli  scrittori  han  gonfiata 
la  voce  sulla  originalità,  più  o  meno,  d'un'opera  d'arte! 

Ma  veniamo,  che  n'è  tempo,  a  un  altro  ordine 
d'idee. 

É  inutile  ch'io  dimostri  come  il  nostro,  in  fatto  di 
produzione  artistica,  è  un  periodo  di  grande  scadi- 
mento, e  come  la  novella,  questo  portato  fecondissimo 
e  originalissimo  d'oltr'alpe,  non  è  proprio  nostro  e 
poco  si  attaglia  al  genio  paesano  dell'arte  nostra.  Le 
fonti  del  Decameron  —  fu  dimostrato  da  molti  critici, 
insigni,    e    segnatamente    da    Marco  La?idau  —  sono 


30 


tutt'altro  che  del  Boccaccio  e  italiane,  e  lo  stesso  può 
dirsi,  quasi,  del  Sacchetti,  del  Lasca,  del  Firenzuola 
e  d'altri  molti. 

L'italiano  non  è  un  popolo  nuovo,  come  quello  che 
vanta  una  civiltà  troppo  antica  e  tutta  sua,  una 
civiltà  esaurita  omai  più  nel  campo  dell'azione  che 
in  quello  ideale;  il  perchè,  prima  e  dopo  il  Medioevo, 
la  nostra  arte  altro  non  fu  che  il  rimaneggiamento 
di  elementi  e  contenuti  non  originali,  ma  che  ci  ven- 
nero dal  di  fuori.  E  i  nostri  grandi  novellieri  rifog- 
giarono italianamente  —  e  dovrei  dire  toscaìiainente  — 
cónti ,  avventure  o  leggende  passate  e  trascorse  di 
mezzo  a  mille  redazioni  straniere,  alle  quali  altro  non 
dieder  di  nostro  che  la  forma,  una  forma  latinamente 
classica  ed  elegante.  Potrei  meglio  dimostrare,  con 
molti  altri  argomenti,  la  inferiorità  e  la  nessuna  ori- 
ginalità della  novella  italiana. 

La  novella  ne'  popoli  colti,  è  il  prodotto,  elaborato 
e  riflesso,  di  età  intimamente  artistiche  e  aristocrati- 
camente foggiate,  come  il  Cinquecento  in  Italia:  in 
esse  r  arte  non  è  sempre  il  rispecchiamento  limpido 
e  fedele  della  vita  attuale,  della  temporaneità  del  mo- 
mento storico,  ma  sì  uno  svago,  un  semplice  svago 
dello  spirito  inteso  a  cercare  gli  allettamenti  dell'a- 
nimo nella  riproduzione,  un  po'  grottesca,  del  reale, 
sia  questo  anche  d'  altri  tempi  o  d'  altre  civiltà.  — 
La  novella  è  fatta  unicamente  per  dilettare  società 
molli  ed  oziose  le  quali,  lungi  da'  grandi  rivolgimenti 
politici  e  sociali,  amano  ricrearsi  anche  per  mezzo 
dell'arte,  la  quale  in  simili  condizioni  è  veramente 
fine  a  sé  stessa:  in  questi  periodi  abbiamo  ciò  che 
dicesi  appunto  V arte  per  V arte.  Ora  la  novella  altro 
non  è  che  un  semplice  ricreamento  dello  spirito,  senza 
nessun  bisogno  etico  e  morale,  e  appartiene  a  mo- 
menti storici  tranquilli  e  calmi  com'è  appunto  il  no- 
stro. Perciò  io  credo  che  sia  consentaneo  al  nostro 
tempo  il  voler  recare  un  tal  quale  rinnovamento  in 
questa  bella  e  dilettevole  manifestazione  artistica,  che 
anzi  i  tempi  le  si  volgono,  più  che  prima,  opportuni. 
Ma  io  penso  che,  a  volerla   veramente    rinnovellare, 


i  nostri  abbian  bisogno  di  studiare  i  grandi  modelli 
stranieri  e,  con  questi,  gli  esempì  dei  nostri  più  grandi 
novellatori,  riproducendo  alla  stregua  e  sotto  la  guida 
de'  suddetti  esempì  e  modelli  quel  po'  di  vita  che 
ricircola  ne'brevi  limiti  d'un  villaggio,  d'una  cittaduzza 
di  provincia,  d'una  regione,  e  coi  colori,  diciam  cosi, 
locali.  La  novella,  insomma,  io  la  vorrei  democratica, 
cioè  la  espressione,  viva  e  immediata,  della  plebe  e  della 
picciola  borghesia  de'nostri  monti:  la  vorrei  dunque, 
per  dirlo  con  una  parola  d'uso,   affatto  campagnòla. 

E  a  così  farla,  e  in  gran  parte  v'è  riuscito  a  me- 
raviglia, ha  pensato  quel  poderoso  ingegno  di  Gio- 
vanni Verga.  La  costui  novella  siciliana  è  la  vera 
novella  campagnòla:  quella  vigorosa  e  nervosamente 
plastica  rappresentazione  dei  costumi  e  delle  passioni 
di  que'  rozzi  isolani,  quella  grande  arte  di  scolpire, 
a  tratti  rapidi  incisivi  corti,  come  in  un  quadro  solo 
e  con  contorni  netti  e  precisi,  una  moltitudine  di 
fatti,  coloriti  e  delineati  come  non  si  può  meglio; 
tutto  questo,  dico,  è,  nonostante  le  opinioni  contrarie 
di  molti  egregi  scrittori,  un  singolare  esempio  della 
novella  locale  e  propriamente  nostra.  Ora,  il  Verga, 
pur  serbando  alle  sue  novelle  il  colorito  locale,  do- 
vrebbe essere,  per  la  forma  e  le  dizioni  e  i  costrutti, 
men  regionale  e  più  italiano,  men  siciliano  e  più  na- 
zionale. Ove  la  sua  novella  venisse  rinfrescata  alle  pure 
e  grandi  sorgenti  della  nostra  grande  arte  antica, 
essa  sarebbe,  a  parer  mio,  sotto  tutti  gli  aspetti  ori- 
ginalmente perfetta.  Il  difetto  del  Verga,  cui  molti 
negano  a  torto  fin  la  conoscenza  della  grammatica,  è  di 
voler  rappresentare  con  modi  e  forme  quasi  dialettali, 
con  frasi  ed  espressioni  e  ligamenti  troppo  native, 
l'ambiente  selvaggio  della  sua  isola.  Ma  no:  dia  pure, 
il  Verga,  alla  rappresentazione  il  colorito  denso  e 
crudo  della  sua  Sicilia,  rappresenti  quella  vita  colla 
nervosità  scultoria  d'un  grande  scrittore  qual  egli  è 
senza  dubbio,  ma,  più  che  catanese,  si  serbi  italiano 
nella  forma,  altrimenti  la  novella  sua  non  sarà  nazionale 
mai.  Questo  io  penso,  e  perciò  consiglio  i  giovani 
perchè,  senza    scimiottarsi  fra  di  loro,    studino    bene 


il  paese  ove  son  nati  e  ne  rappresentino  novellando 
i  costumi,  le  tradizioni,  le  passioni,  i  caratteri  diversi, 
ma  risalendo  —  badino  bene  —  a  quella  rappresen- 
tazione ch'è  intimamente  letteraria  e  nazionale;  e  per 
questo  si  fortifichino  di  larghi  e  sodi  studi  classici. 
Ma  essi,  oggigiorno,  i  classici  non  li  conoscono  nem- 
meno, e  leggon  troppo  i  libri  modernissimi  e  con- 
temporanei ;  ecco  perchè  1'  arte  loro  ,  fatta  sulla 
falsariga  di  alcuni  buoni  scrittori  odierni,  è  una  stam- 
piglia; a  questo  modo  non  potranno  essere  artisti 
mai  ,  ma  ,  tutt'  al  più  ,  fotografi,  abili  copisti.  L'  e- 
sempio  da  seguire  sia  per  essi  il  Verga,  ma  il  V^erga, 
com'  ho  detto  già,  corretto,  il  Verga  finito;  e  per- 
ciò per  la  parte  manchevole  della  novella  del  Verga, 
io  offro  loro  un  raro  e  mirabile  esempio  nel  Carducci 
narratore  e  prosatore.  Leggano,  essi,  nella  Serie  se- 
conda delle  Co/ifessiotii  e  Battaglie  quelle  pagine  au- 
tobiografiche, classicamente  mirabili,  che  si  intitolano 
«  Per  S.  Miniato  al  Tedesco  »:  leggano  nella  Sei-ie 
terza  delle  Cotifessioni  medesime  le  pagine,  non  meno 
perfette,  che  si  intitolano:  //  secotido  centenario  di 
L.  A.  Muratori.,  Giambi  ed  Epòdi,  pz  ira:  in  esse  i  gio- 
vani italiani  potranno  osservare  quella  che  può  dirsi, 
sotto  tutti  gli  aspetti,  rappresentazione  compiuta  d'un 
fatto,   d'una  avventura,   d'  una  realità  qualsiasi. 

Si  paragonino  queste  prose  carducciane  colle  tante 
altre  di  certi  novellatori  piccinini  che  vogliono  rus- 
seggiare  e  portare  non  so  che  rivoluzione  nella  novella 
nostra,  e  si  ritenga  pure  che  la  novella,  specialmente 
la  campagnòla,  perchè  possa  dirsi  artistica,  deve  es- 
sere sanamente  vigorosa  e  comprensiva,  e,  anzitutto, 
italiana,  italiana,  italiana.  Siamo  ristucchi  oramai,  per- 
chè l'abbiam  saggiato  in  tutte  le  salse,  di  questo 
rappresentar  le  cose  con  una  forma  civettolamente 
svenevole  e  femminina.  —  Via  gli  scrittori  evirati! 
Dopo  tanti  sdilinquimenti,  un  po'  di  virile  nervosità 
rappresentativa,  a  uso  Verga  e  Carducci,  non  farà 
male  a'  novellieri  rivoluzionari:  dopo  tanta  civetteria, 
fa  bene  un  po'   di  serietà,   di  serietà    artistica.  Ritor- 


33 


niamo  all'  antico  ,  pur  restando  moderni  :  ritornia- 
moci per  apprendervi  ciò  che  è  perenne  e  duraturo 
nell'arte,  e,  più  che  tutto,  quella  mirabile  euritmia 
tra  il  pensiero  e  la  forma,  tra  il  concetto  e  l'espres- 
sione, tra  l'idea  e  la  sua  più  netta  e  lucida  rappre- 
sentazione. Rifacciamo  il  muscolo,  direbbe  il  Carducci; 
e,  di  fatti,  bisogna  che  l'arte  forte  e  sana  trionfi 
contro  la  mollezza  sporcacciona  della  novella  odierna, 
sia  pur  cattipagnòla:  bandiamo  i  ninnoli  da  salotto  e 
le  figurine  isteriche:  guardiamo  al  popolo,  e  rappre- 
sentiamone, crudamente  ma  veramente,  le  passioni  e 
gli  ideali  secondo  la  maniera  del  Verga,  narriamone 
anche  le  leggende  e  i  costumi  ,  come  saprebbe  nar- 
rarle il  Carducci,  e  descriviamo  prendendo  a  modello, 
per  esempio,  le  descrizioni  del  lago  di  Garda  e  del 
Valdarno  fiorentino  ,  come  ci  è  dato  ammirarle  nel 
p?  ira  della  serie  terza  delle    Confessioni  e  Battaglie. 

Non  vo'  parlare,  e  non  ve  n'è  proprio  bisogno, 
d'altri  novellatori  buoni,  come  il  Capuana,  Salvatore 
Farina  e  qualche  altro  fra'  migliori,  non  indiziati  di 
russomanìa,  perchè  divagherei  troppo,  e  sarei  co- 
stretto a  ripetere  le  stesse  cose.  Questo  potrà  essere 
argomento  d'  un  altro  articolo:  qui  ho  pensato  di 
guardare,  nelle  sue  linee  capitali,  la  novellistica  ita- 
liana contemporanea. 

Ed  ora  altro  non  ci  resta  che  concluder  bene. 

La  novella  dev'essere  adunque,  come  la  dicono 
oggi  ,  campagnòla  e  locale,  rinfrancata  di  una  larga 
cultura,  classica  e  antica,  e  di  forti  studi  sulla  novel- 
listica straniera. 

Se  non  che,  più  innanzi  dissi  che  la  novella  è 
poco  consentanea  all'indole  nostra,  ch'è,  per  dirlo 
con  parola  più  propria,  punto  o  poco  indigena,  per  le 
ragioni  summentovate.  Ora,  appunto  per  questo,  biso- 
gna guardare  ai  grandi  modelli  stranieri,  antichi  e 
moderni  ,  senza  dimenticare  i  nostri  del  Trecento  e 
del  Cinquecento.  Da'  primi  apprenderemo  certo  j 
modi  onde  la  novella  s'intreccia  e  si  svolge,  il  pro- 
cesso, insomma,  e  l'andamento  suo  artistico:  da'  se- 
condi la  rappresentazione  tutta  nostra,  nazionale,  ita- 

3 


34 


liana.  Ma  il  contenuto  attingiamolo,  non  più  dagli 
altri,  sì  da  noi  stessi;  c'è  nelle  tante  regioni  italiane, 
tanta  vita  da  rappresentare  e  da  coglier  dal  vero;  c'è 
tante  tradizioni  e  costumi  e  leggende  da  far  rivivere 
nell'arte. 

Guardiamo  al  popolo:  esso  dev'esser  per  noi  la 
fonte  perenne  delle  inspirazioni  e  de'  concepimenti 
geniali  :  esso  ci  dee  movere  a  pensare,  a  imaginare, 
a  sentire  nell'orbita  luminosa  della  parola.  E  al  popolo 
ci  guidano  tutte  le  scienze  positive  odierne,  le  quali 
posson  dirsi  l'affermazione  e  l'espressione  della  demo- 
crazìa umana.  Ogni  artista  vero  e,  fra  gli  altri,  il 
novelliere  e  il  romanziere,  in  questo  periodo  politi- 
camente inerte  e  tranquillo,  debbono  ripiegarsi  sopra 
sé  stessi,  e,  senza  lasciarsi  menomamente  sopraffare 
dalla  servii  maggioranza  degli  scriventi  italiani,  rap- 
presentare un  fatto,  una  tradizione,  una  leggenda, 
un  carattere  ch'essi  colgono  di  bocca  e  fra'  costumi 
del  popolo,  rappresentarlo,  dico,  crudamente,  di  scorcio 
e  a  contorni  netti,  riconcentrando  in  un  quadro  solo 
una  folla  di  fatti  o  di  parvenze  diverse.  Questo  ritor- 
nello erotico  del  romanzo  e  della  novella  odierna  è 
bene  che  s'amplifichi  e  si  dilarghi  co'  vigori  della 
varietà,  e,  non  perdendo  d'occhio  l'avventura  amo- 
rosa ,  bisogna  fonderla  bene  con  altre  manifestazioni 
della  vita  popolana  come  c'è  dato  sorprenderle  nella 
breve  spera  d'un  villaggio,  fra  rozzi  contadini  e  popo- 
lani, fra  montanari,  ritraendone  la  vita  rozza  e  sel- 
vaggia negli  urti  e  negli  scoppii  veementi  delle  lor 
passioni,  de'  loro  sentimenti  e  ideali.  Ma  —  potreb- 
bero dirmi  alcuni  —  allora  la  novella  sarà  la  rap- 
presentazione, non  di  costumi  gentili  e  raffinati,  ma 
della  rude  crudezza  della  vita  plebèa.  No:  il  novella- 
tore, pur  guardando  al  popolo,  è  bene  che  spazi  an- 
cora nella  borghesia,  nell'aristocrazia,  che  anzi  —  chi 
ben  guardi  —  nelle  avventure  popolane  non  mancano 
mai,  specialmente  in  fatto  di  galanterie  amorose,  il 
borghese  e  l'aristocrate.  La  novella,  anzi,  pur  ser- 
bandosi popolare,  dev'essere  sempre  il  rispecchia- 
mento della  vita  di  questi  tre  stati,    limitati   e  circo- 


35 


scritti  nel  villaggio,  nella  città  di  provincia,  nella 
regione:  fuor  di  questi  limiti  non  abbiamo  più  la 
novella,  la  quale,  com'abbiam  detto,  è  d'indole  rigi- 
damente locale. 

Con  questi  criterii,  e  su  questa  base,  può  risorger 
veramente  la  novella,  e  farsi  intimamente  italiana,  pel 
contenuto  e  per  la  rappresentazione.  Ma  non  ci  di- 
mentichiamo che  bisogna  rinsanguarla  d'una  cultura 
genialmente  classica  e  nostra. 

Così  essa  sarà  la  riflessione  ,  artistica  e  vera^  del 
nostro  popolo  ;  e  ci  farà  via  ,  a  poco  a  poco  e  col 
metodo  istesso,  allo  svolgimento  molto  più  largo  ed 
ondeggiante  del  vero  Romanzo  italiano. 


IV. 


L'Arte  muore. 


^^' CADUTO  ornai  l'anno  (1894) — assai  breve  in- 
.mF^  tervallo  nella  vita  de'  secoli — col  peso  delle 
l^-l^L^  sue  noie  e  de'suoi  dolori,  ma  senza  il  pondo 
ascoso  dell'  avvenire.  É  caduto  e  si  è  spento,  sterile, 
insoddisfatto,  stanco,  come  l'uomo  che  chieda  al  suo 
fato  anche  violento  l'ultima  infinita  pace  oltre  il  dif- 
ficile passo  della  vita.  Ma  pare  che  muti  qualcosa 
nel  ritmo  del  mondo  :  par  veramente  che  qualcosa 
si  scolori  o  ritorni  coli'  andar  delle  stagioni  anche 
fisiche  e  ne'  ricorsi  delle  età.  Ma  quanto  deve  durar 
davvero  per  la  sconfinata  marèa  dei  mondi  il  piccolo 
ronzio  degli  umani  su  la  scomposta  argilla  di  questa 
vecchia  nebulosa  ? 

E  intanto,  ritraendo  la  stanca  pupilla  dai  foschi 
e  impenetrabili  confini  del  gran  mar  dell'essere,  vol- 
giam  rapido  lo  sguardo  sur  un  punto  di  questa  par- 
ticella della  terra,  e  proviamoci  a  indagare  quali  segni 
di  agonia  dà  presso  noi  l'ultimo  rantolo  dell'arte,  in 
quest'ultimo  frammento  di  secolo  che  muore. 

Ahimè  ,  che  deserto  !  De'  giovani,  quali  e  quanti 
han  saputo  almeno  ostentare  ne'  lor  bricioli  di  sa- 
pienza accattata  o  di  morbosa  affettività  il  nòcciolo 
d'  un'  idea  o  il  primo  barlume  d'  una  promessa  per 
l'arte  e  per  la  scienza,  per  il  costume  e  per  la  vita? 
Essi  sono  ancor  lì  con  i  soliti  amminicoli  di  bozzetti, 
con  i  soliti  imparaticci  di  novelline  e  di  romanzi,  ove 
non  sai  se  più  vituperare  la  inanità  e  bassezza   della 


37 


invenzione,  o  la  scurrilità  della  forma,  dilagante  im- 
pura e  lasciva  per  entro  la  morta  gora  delle  pozzan- 
ghere nuove,  in  cui  si  crogiola  la  così  detta  lingua 
dell'uso  vivo  o  manzoniano  o  del  diavolo  che  la  porti. 
Anche  il  1894  fu  ricco  e  prolifico  di  molta  carta  stam- 
pata; ma  chi  ora  si  ricorda  più  ,  anche  dopo  letture 
pazienti  ,  di  quella  piccola  merce  infronzolita  e  fra- 
grante come  di  bacche  selvatiche,  or  tutta  raccolta 
intorno  a'  frutici  secchi  solo  attesi  da  una  consolante 
vampata  nelle  ore  rigide  d'  inverno  ?  Ninno  ora  più 
ricorda,  né  i  nomi  ne  le  cose.  Al  fuoco,  al  fuoco,  o 
bacherozzoli  morti  ,  o  poveri  bachi  frulli  e  frusti,  o 
sgualciti  cenci  di  Arcadia!  Ma  intanto,  qualcuno  vor- 
rebbe rinnovar  l'arte,  la  lingua,  la  prosa,  lo  stile, 
r  armonia,  1'  idea,  la  musica,  il  mondo:  tutto;  come 
se  fosse  da  un  solo  il  consolar  l'umanità,  tutto  d'un 
fiato,   di  tante  cose  belle  e  peregrine. 

Eccovi  là  //  trionfo  della  morte ,  che  non  è  quello 
del  Petrarca,  e  nemmeno  quello  dell'  Orgagna  nel- 
l'antico camposanto  pisano.  È  invece  il  trionfo  della 
morte  del  secolo.  Non  dirò  io  —  sono  omai  sazio  di 
ritornare  su  certe  cose  e  di  riparlare  di  certe  vanità  — 
non  dirò  io  qui  quale  e  quanta  vuotezza,  falsità  e 
pretensione  di  tecnica  e  di  contenuto  è  in  questo 
romanzo  ,  1'  ultima  prova  provata  di  una  forma  e  di 
una  sostanza  dell'  arte  che  più  non  han  ragione  di 
esistere,  dentro  e  fuori  della  tradizione.  Rifacendomi 
un  po'  indietro,  e  mirando  un  po'  alla  storia  della 
coltura,  è  bene  ricordare  che,  quando  per  esaurimento 
dell'  ultimo  portato  di  una  letteratura  finita  e  della 
sua  rappresentazione  ideale,  l'arte  si  affatica  impotente 
ad  esplorare  nuovi  trovati  e  nuove  elaborazioni,  oltre 
i  confini  della  tradizione  o  di  ciò  che  fu  il  finale  svol- 
gimento di  un  lungo  periodo  e  processo  estetico, 
tutta  un'  organica  forma  letteraria,  tutto  un  genere 
artistico  ,  tutto  un  ciclo  ideale  si  è  fatalmente  esau- 
rito. E  ciò  viene  a  rivelarsi  appunto  in  quell'  ultimo 
tentativo  che,  per  opera  anche  di  un  genio  ,  riesce 
alla  più  alta  esagerazione  o  deviazione  di  forme  e 
contenuti  già  vecchi,   anche  se  quello   possa    destare 


38 


gli  entusiasmi  del  senso  guasto  in  quel  confine  di 
età  in  che  esso  appare.  Questo  proprio  dimostra  per 
me  il    Trionfo  della  morte  di  Gabriele  D'Annunzio. 

Pace,  o  ammiratori.  Quello  che  è,  convien  sia.  Nel- 
l'ultima opera  dannunziana  ciò  che  meglio  seduce,  lì 
dove  più  sforzatamente  splendida  è  la  linea,  è  roba 
già  vecchia,  voluta  intormentire  con  affinamento  arti- 
ficioso da  un  ostinato  virtuoso  della  forma  che  fa  in 
arte  presso  a  poco  quello  che,  bella  e  morta  la  lette- 
ratura greca,  fece  Simmia  da  Rodi.  E  quello  poi  che 
nel  Trioìifo  parrebbe  nuovo  o  come  il  primo  spunto 
d'  una  via  sconosciuta,  non  è  altro  che  contorci- 
mento in  una  sottile  assimilazione  di  uno  svolgimento 
finito,  insieme  con  1'  infaticato  studio  che  1'  autore 
mette  nel  moltiplicare,  nel  distendere,  nel  diluire  ciò 
che  i  classici  seppero  fare  condensando  con  rilievo 
di  linee  e  con  semplicità  e  varietà  di  disegno.  Alla 
potente  e  durevole  sintesi  dell'arte  classica  si  è  voluta 
oggi  sostituire  la  tensione  snervante  e  smascolinata 
A€iV aìialisi,  che  m'ha  l'aria  di  chi  per  indolenzimento 
tutto  si  dilati  e  si  stiri,  tra  continui  e  prolungati  sba- 
digli, nudo  e  piagato  al  sole.  È  avvenuto  o  sta  avve- 
nendo al  romanzo  quello  che  alla  commedia:  i  molti 
medici  non  la  lasciano  ?iemmetio  morire  in  pace.  Che  la 
commedia  sia  morta  davvero,  lo  dicono  proprio  quelli 
che  dovrebbero  saperne  qualcosa.  Certo,  in  quest'ul- 
timo anno  i  parti  non  sono  stati  molti  ,  e  ,  tranne  i 
pochi  che  piacquero  (notevolissimo  quello  recente  del 
Martini,  Vipera,)  o  che  si  fecero  piacere,  gli  altri  sono 
coselline  cosi  minuscole,  da  non  valere  proprio  il  costo 
di  parlarne;  benché  non  manchi  —  dicono  gli  inten- 
denti —  qualche  buona  prova  di  qualche  giovane  di 
buona  volontà.  Ma  nessun  valoroso  ,  assolutamente 
nessuno  —  sfido  io  !  chi  dovrebbe  esser  mai?  —  ose- 
rebbe oggi  dire  che  la  covimedia  batta  o  sia  per  bat- 
tere una  via  nuova.  Ohibò  !  si  parla  di  compagnie 
drammatiche  e  di  ruoli,  di  comitati  d'incoraggiamento 
e  che  so  io:  anche  il  Ministero  della  Istruzione  premia 
e  soccorre.  Oh!  quando  si  arriva  a  simili  aiuti  o  pal- 
liativi,   r  arte,  eh'  è  tutta  spontanea  e  disinteressata, 


39 


non  è  più  moribonda  ,  la  è  bell'e  spacciata.  Ma  pel 
romanzo  vo'  anche  accennare  a  un  fatto  notevole  e 
recente. 

Emilio  Zola  ha  compiuto  recentemente  un  viaggio 
artistico  per  V  Italia  :  è  stato  a  Roma,  a  Napoli,  a 
Firenze,  a  Milano,  e  in  ultimo  a  Venezia  per  salutar  la 
patria  de'suoi  maggiori.  Ciò  all'intento  di  por  termine 
alla  promessa  trilogia  sua  con  due  romanzi,  Roma  e 
Pompei,  che  continueranno  1'  altro  già  noto  e  troppo 
diversamente  discusso,  quello  di  Lourdes.  Che  sia  o 
quanto  valga  questo,  non  vo'  dire,  e  forse  è  inutile. 
Ma  che  saranno  o  quanto  varranno  gli  altri,  è  facile 
prevederlo.  E'  chiaro.  Quando  l'artista  va  ricercando 
con  industrioso  amore  i  materiali  dell'opera  sua,  come 
un  amator  di  fòssili  i  frammenti  dispersi  di  crani  antichi; 
quando  da  una  quasi  anatomia  comparata  di  fenomeni 
e  parvenze  esteriori  si  vuol  dedurre  la  sorgente  de' 
fatti  dell'anima  e  della  coscienza,  e  questa  analizzare 
e  scomporre  come  fa  di  un  cadavere  il  notomista: 
quando  lo  scrittore  ,  anzi  che  lasciarsi  prendere  da 
quanto  lo  circonda  e  da  quanto  con  immediato  soffio 
lo  inspira,  cerca  faticosamente  1*  arte,  prima  o  senza 
che  questa  lo  inveschi  o  s'impossessi  di  lui,  facendogli 
vibrare  tutte  le  corde  dell'anima;  quando  da  tutta  una 
serie  di  appunti,  d'indagini,  di  osservazioni,  di  piccole 
conquiste  si  fa  derivare  una  ingegnosa  preparazione 
di  materiali  ,  a  mo'  di  piccole  gemme  da  incastonar 
poi  in  monili  di  finissimo  lavoro:  quando,  ripeto,  tutto 
questo  avviene,  l'arte  è  finita.  Avrete  l'artefice,  non 
l'artista:  1'  artifizio,  non  l'arte.  Questo  è  avvenuto  e 
finirà  di  avvenire  a  tutta  l'opera  zoliana  e  al  romanzo 
sperimentale,  che  non  riescirà  mai  né  arte  né  scienza, 
né  realità  ne  idealità,  in  quella  quasi  ossessione  do- 
cumentata ch'é  l'ultima  esagerazione  d'una  evoluzione 
artistica  che  finisce. 

Quando  la  scienza,  rotte  le  dighe,  ha  comprese  di 
sé  tutte  le  forme  e  tutti  gl'instituti  sociali;  quand'essa 
ha  inaridite  le  sorgenti  della  vita  affettiva  ,  è  inutile 
apportare  gli  ultimi  rimedi  alla  gran  moribonda,  che 
più    non   potrà  dare  que'   fiotti  di  sangue  che  son  la 


40 


vita  ,  tutta  la  vita.  Allora  è  già  apparso  il  dominio 
della  scienza  ,  svoltosi  il  quale,  risorgerà  per  evolu- 
zione storica  r  arte  nuova.  Arte  e  scienza  sono  nel 
precedente  periodo  due  termini  contradittorì,  ma  ben 
conciliativi  nell'ultimo:  allora  l'una  potrà  abbracciare 
l'altra.  Col  romanzo  dunque  e  col  dramma  finiranno 
anche  di  essere  que'  mostricini  che  ne  derivano,  o 
che  li  preparano:  il  bozzetto  ,  il  piccolo  studio  de- 
scrittivo, la  commediola  in  un  atto,  la  novella  ,  che 
paion  la  dimostrazione  più  eloquente  della  impo- 
tenza creativa:  sono  1'  abbozzo  del  brutto.  Ma  che 
resterà  mai  in  tanta  invasione  della  scienza  ?  la  mu- 
sica forse?  quella  dell'avvenire?  Domandatene  a  Verdi. 
Chi  dopo  lui  la  farà  risorgere?  Pietro  Mascagni  sarà 
mai  un  tùbero  o  un  radicchio  o  un  nutrito  pollone 
della  musica  positiva?  Ahimè!  è  anch'ella,  la  musica, 
un'  altra  gran  moribonda,  che,  mancati  i  più  grandi 
maestri  del  passato,  seguiterà  a  vivere,  poveretta,  di 
soli  spettacoli  coreografici  a  luce  elettrica  o  di  musi- 
chette a  soggettini  brevi  che  sembreranno  tanti  lirici 
singhiozzi  di  un'arte  che  muore.  Ma  quale,  Dio  mio, 
sarà  mai  quella  forma  che  vivrà?  La  poesia  forse?  — 
Vediamo. 

La  poesia  epica  e  la  gnomica  o  didascalica,  la  prima 
come  elaborazione  riflessa  e  la  seconda  come  insegna- 
mento e  come  satira,  finirono  col  Parini  e  col  Monti: 
i  posteriori  e  specialmente  gli  ultimi  tentativi  ,  fra' 
quali  quelli  del  Rapisardi,  fatti  nell'  una  e  neh'  altra 
forma,  ne  son  l'estremo  sbiadito  esaurimento,  ne  son 
l'esagerazione  voluta  e  meditata  a  spese  della  scienza 
o  della  passione  personale.  Venti  anni  fa  si  diceva 
che  la  sola  lirica  individuale  accennasse  a  resistere, 
purché  si  fosse  mantenuta  candida  e  castigata.  Ma, 
ahimè  ,  all'  infuori  di  alcuni  soli  che  son  vitali  ger- 
mogli del  vecchio  tronco  carducciano  ,  che  gran  de- 
serto sul  morto  fogliame  della  rimerìa  odierna  1  Ma 
la  ròvere  resiste  ,  nocchiuta  e  solitaria  ,  su  questa 
solitudine,  e  sott'essa  riparano  per  un  po'  di  ombra 
consolatrice  quattro  o  cinque  soltanto:  Giovanni  Mar- 
radi,  Guido  Mazzoni,  Giovanni  Pascoli,  Severino  Fer- 


41 


rari,  i  quali  pur  di  recente  (*),  con  melodie  e  inspi- 
razioni diverse,  liberarono  a'  venti  tali  gorgheggi  di 
strofi  e  di  canti,  da  parer  di  vivere  sotto  altro  cielo 
e  fra  maghi  sognatori  di  altra  età.  E  come  su  da' 
cerchi  della  vita,  garrula  squittisce  la  strofettina  con- 
cettosa del  Mazzoni,  così  per  l'aere  molle  di  prima- 
vera si  dondola  e  si  culla  soavemente  canòra  la  me- 
lodica strofe  del  Marradi  e  la  ballata  classica  e  po- 
polare del  Ferrari,  mentre  col  bulino  Giovanni  Pascoli 
incide  sui  cammei  de'  suoi  quadretti  la  natura  che 
piange  e  che  sospira  intorno  al  suo  sepolcro  di 
famiglia.  (O  casa  di  mia  gente,  unica  e  mesta!). 

Ma  a  trovare  il  quarto  di  quella  famiglia  mi  sento 
sgomento.  Il  Rapisardi  è  un  altro  solitario  che  quando 
è  veramente  poeta  e  lascia  il  limo  di  certe  inspirazioni, 
ritorna  a  un  romanticismo  classico  che  mormora  e 
frondeggia  in  certi  cullamenti  di  endecasillabi  e  di 
ottave  di  non  pochi  bellissimi  quadri.  Le  ultime  cose 
sue  {Giobbe,  Atlantide)  tengon  de'  medesimi  pregi  e 
de'  medesimi  difetti.  Oltre  questi  confini  od  erme 
dell'  arte  nostrana  ,  pe'  cui  fossili  detriti  sorge  a 
quando  a  quando  qualche  fiorellino  campestre  di  mezzo 
alle  acute  fraganze  delle  salvie  e  de'  timi  (sono  altri 
quattro  o  cinque  dalle  cui  anime  escono  talvolta  per 
naturale  germoglio  gruppi  di  strofi  bellissime  per 
quanto  non  suggellate  dal  magistero  dell'arte);  oltre 
questi  confini,  ripeto,  ciò  che  luccica  non  è  oro,  ma 
soltanto  un  fuggevole  saluto  di  sole  su  la  fanchiglia. 
Que'  facili  e  sùbiti  entusiasmi  intorno  i  nomi  di  Eva 
Cattermole  Mancini  {Contessa  Lara),  di  Annie  Vivanti, 
di  Ada  Negri  e  di  qualche  altra,  la  cui  prosa  mèlica 
in  endecasillabi  e  sonetti  è  andata  a  finire  in  un  fu- 
macchio dopo  i  primi  luminosi  ondoleggiamenti  di 
razzi,  conservano  appena  qualche  eco  lontana  in  qual- 
che anima  solitaria  invescata,  più  che  dalla  poesia, 
dal  fascino  editoriale  e  dal  naturale  rombazzo  di  alcune 
gazzette  devote.  Fortuna  per  noi  che  la  ròvere  resiste. 


(*)  o.  G.  Marradi,  Ricordi  lirici,  Treves  ,  1893.  —  b.  G.  Mazzoni, 
Voci  della  vita,  Zanichelli,  1893.  —  e.  S.  Ferrari,  Versi,  Modena,  E. 
Sarasino,  1892.  —  d.  G.  Pascoli,  Mi/rinae,  Livorno,  R.  Giusti,  1894. 


42 


Giosuè  Carducci  è  intorno  alla  storia  del  risorgimento 
italiano  e  al  riordinamento  definitivo  di  tutta  l'opera 
sua:  ancora  aspettiamo  il  commento  completo  del  suo 
Petrarca  (*),  e,  da  dieci  e  più  anni,  il  suo  poemetto 
storico  della  Canzone  di  Legnano,  di  cui  soltanto  brevi 
frammenti  saggiammo  nella  defunta  Cronaca  Bizantina 
del  Sommaruga.  Guest'  anno  non  abbiamo  avuto  di 
lui  l'annuale  alcaica  che  da  più  anni  era  uso  di  pub- 
blicare in  settembre,  ma  in  quella  vece  la  maschia  e 
virile  prosa  intorno  alla  repubblica  di  San  Marino,  a 
dispetto  de'  mille  untuosi  cenciatorelli  manzoniani  che, 
rifugiandosi  sotto  l'ombra  amica  del  loro  grande  mae- 
stro, piallatore  meraviglioso  di  stile,  si  son  ridotti  a 
scrivere  colla  lingua  sboccata  de'bamberottoli  e  de' 
ciani  ,  raccogliendo  gli  avanzi  di  Mercato  Vecchio. 
Che  dir  poi  delle  arti  grafiche  ,  della  pittura  ,  della 
scultura  e  dell'architettura?  Non  ho  voglia  di  dirlo, 
e  poi  uscirei  dai  segnatimi  confini  dell'  argomento. 
Ma,  ahimè,  che  sfacelo  in  queste  altre  manifestazioni 
dell'  arte  !  che  brutte  statue  equestri,  che  miserevoli 
macchiette  ,  che  fragilità  di  edifizi  che  sembran  di 
cartapesta  !  E  tutto  in  grazia  di  quel  vero  che  de'' 
vati  è  tomba,  come  diceva  la  buona  anima  di  Vincenzo 
Monti. 

Il  vero  ?  il  vero  ?  Oh  dunque,  entriamo  nel  regno 
soleggiante  della  scienza.  O  menestrelli  e  giullari 
dell'arte,  abbassate  il  sipario.  La  Commedia  è  finita! 


(*)  Proprio  in  quest'anno  (  maggio  1899)  è  uscito  il  Commento  inte- 
gro del  Petrarca,  che  il  gran  poeta  ha  compiuto  con  gli  aiuti  di  un  suo 
discepolo,  Severino  Ferrari. 


V 


Lingua  corrente 
e  letteratura  stagnante. 


.^/^^BBiAMO  noi  veramente,  come  già  le  nazioni  più 
Wf^^^  eulte,  come  certo  la  Francia,  la  Germania, 
ttfe^^rM  l'Inghilterra,  un  codice  universale,  definitivo 
e  organico  della  nostra  favella?  Son  già  troppi  anni 
che  una  manata  di  brava  gente  —  il  meglio  dei  no- 
stri filologi  —  volsero  il  pensiero  e  l'opera  a  ricom- 
porre, o  meglio,  a  rinfrescare  il  gran  Dizionario  degli 
Accademici  della  Crusca  in  quel  che  avesse  di  ri- 
morto o  di  men  vivo  dopo  tanto  scorrere  di  tempo  e 
di  forme  e  d'idee;  ma  i  cruscanti  novelli  si  messero 
al  lavoro  assai  lenti,  onde  il  lessico  nuovo  è  ancora 
in  via  di  formazione.  In  qual  secolo  si  potrà  mai  ri- 
scontrare intero?  quando  forse  non  ci  servirà  più? 
Manca  nel  comporlo  l'alacrità  diligente  e  animosa  con 
la  unità  organica  de'  criteri  e  degl'intendimenti  me- 
todici. Se  la  lingua  è  il  gran  vivaio  delle  forme 
prime,  atte  poi  a  comporre  1'  ordito  dello  stile  mol- 
teplice nelle  infinite  parvenze  del  pensiero;  duplice 
è  il  bisogno  alla  difficile  compilazione  perchè  riesca 
armonica  ed  intera:  cioè,  una  piena  concordia  di  la- 
voro e  di  metodo  nelle  faticose  ricerche,  e  un  assi- 
curato vaglio  di  tutte  le  voci  del  migliore  uso  toscano 
riflesso  da  tutti  gì'  idiomi,  politi  e  greggi,  allo  spec- 
chio del  latino  e  della  tradizione  classica,  e  in  riscon- 
tro a'  singoli  generi  e  stili  letterari.  Sarebbe  quindi 
necessario  che  in  questo  laborioso  e  paziente  lavoro 
di  crivello,  entrasse  il  parere,  il  giudizio,  la  dottrina 
di  ciascun  componente  1'  Accademia,    perchè  da  una 


44 


generale  e  severa  disamina  scaturisse  il  patrimonio 
certo  della  nostra  lingua,  più  che  dalle  acustiche  pre- 
dilezioni e  dalle  monche  indagini  di  un  solo.  Così 
avremmo  quel  gran  testimone  dell'autorità  nazionale 
che  lascia   paghi    gli    scriventi  di  tutte  le  colture. 

Invece  ora  sembra  che  questi  e  quegli  procedano 
discordi  nel  lavoro  separatamente  compiuto.  Non  è 
più  logico  volta  per  volta  comunicare  gli  studi  sin- 
goli a  ciascun  accademico  che  li  accolga  o  modifichi 
o  respinga?  Non  è  egli  più  esatto  il  consentimento 
de'  più  in  una  consapevole  comunità  di  pensiero  per 
una  critica  e  ferma  revisione  di  accertamento?  Im- 
proba fatica,  ma  necessaria.  A  questo  modo  soltanto 
si  potrebbe  almeno  sperare  la  unità  scritta  e  parlata 
dell'uso,  sancita  dall'autorità  nazionale  nel  gran  Di- 
zionario degli  Accademici. 


Da  quando  il  Manzoni,  con  esempio  mirabile  di 
gusto  e  di  pazienza,  volle  detergere  con  1'  aiuto  di 
toscani  il  suo  romanzo  ne'correnti  lavacri  della  lingua 
paesana,  credendo  così  di  ridurre  ad  unità  perfetta  l'uso 
vivo  della  nostra  favella;  sorse  fra  noi  un  movimento 
lessicografico  nelle  angustie  della  così  detta  lingua 
paiolata,  e  si  comincio  presto  a  restringere,  a  impo- 
verire, a  livellare  l'uso  classico,  stremandolo  ne'brevi 
confini  di  una  città  sola  o  di  una  sola  regione;  onde 
l'unità  accentratrice  della  patria  geografica  parve  trar 
seco  l'unità  accentratrice  di  un  solo  idioma.  Al  grande 
lombardo  ciò  servì  solo,  con  fiuto  squisitissimo  d'arte 
e  con  razionale  libertà,  a  scozzonare  e  sveltire  la  fa- 
vella in  un  più  mosso  atteggiamento  di  stile  e  di  rap- 
presentazione, foggiando  il  periodo  lucidissimo  con 
facili  volute  di  legamenti  e  d'incisi,  meravigliosamente 
interpunti,  e  con  orditura  levigata  e  sapiente,  sem- 
plice e  ricca,  uguale  e  un  po'  monotona,  agile  e  pa- 
cata, ma  senza  i  vigori  e  gli  splendori  della  prosa 
classica. 


45 


Ma  r  esempio  del  Manzoni,  così  inimitabile  nella 
sua  apparente  facilità,  divenne  parodia  o  infantile 
smorfia  in  chi  si  provò  emularlo  o  seguirlo  pur  di 
lontano.  Quale  de'  più  culti  e  ardenti  manzoniani 
che  pur  trattarono  da  par  loro  come  critici  e  come 
filologi  la  intricata  questione  della  lingua,  riuscirono 
a  darci  scrivendo  sola  una  carezza  e  un  tocco  di  quello 
stile?  Ma  ne'  mediocri,  falsi  interpreti  di  quella  scuola, 
quell'armonica  struttura  si  abbiosciò  fra  le  grinze  di 
forme  povere,  scolorate  e  non  pure;  e  quello  che  fu 
finissimo  e  paziente  magistero  di  tecnica  superiore, 
venne  confuso  con  la  scurrilità  del  concepire  e  dello 
scrivere  e  ne  derivò  una  sconsigliata  reazione  al  clas- 
sicismo, che  non  fu  aumento  di  ricchezza,  ma  steri- 
lità. Scrivete  come  parlate,  ecco  la  massima  che  vale 
a  un  di  presso  l'altra:  Scrivete  come  vi  piace.  E  fu  a 
danno  dell'arte. 


Intendiamoci.  Neil'  opera  lessicale  recente  spesso 
non  manca  un  avveduto  criterio  di  raffronti,  e  qua 
e  là  s'incontrano  ricche  miniere  della  nata  e  non  fatta 
lingua  del  popolo;  com'  anche  di  fronte  a'  bisogni  no- 
velli fu  opportuno  attingere,  più  largamente  che  non 
si  facesse  d'avanti,  al  migliore  uso  toscano.  Fu  però 
vizio,  come  analiticamente  dimostrerò  altrove,  l'aver 
voluto  spingere  oltre  i  termini  del  possibile  questo 
troppo  sistematico  indirizzo,  che  rattrappì  e  cristal- 
lizzò lo  stile  e  i  diversi  atteggiamenti  dell'  arte.  Ne 
conseguitò  come  una  strettura  di  pensiero  a  canto  uno 
scartamento  di  più  centinaia  di  vocaboli  che  se  non 
vivi  nella  bocca  del  popolo,  zampillano  ancora  schietti 
e  a  luogo  efficaci  nel  nobile  eloquio  de'  classici,  i 
quali  durano  ancora  strumenti  fecondi  delia  nostra 
vitale  cultura.  Ed  ora  tocchiamo  un  pò  dell'  Uso.  Ve 
n'ha  di  più  ragioni.  Primo  vien  quello  che  puro  e 
nativo  va  per  le  bocche  di  tutti,  colti  e  incolti,  e  serve 
a  rendere  il  senso  delle  cose  più  comuni  alla  vita; 
se  non  che  in    Toscana  è  assai    mondo    dalla    scoria 


46 


eh'  hanno  i  dialetti  delle  altre  regioni.  Onde  per  con- 
seguire la  vantata  unità_,  è  indispensabile  la  ricerca 
di  tutte  le  voci  comuni  a  tutt'  i  dialetti,  i  quali  vo- 
gliono esser  ripuliti  por  mezzo  del  toscano,  che  darà 
come  la  brunitura  a    quella  materia  greggia. 

Ma  questo  industrioso  purificamento  dee  farsi  com- 
parativamente al  latino  e  al  nostro  esempio  classico, 
poiché  l'uno  e  l'altro  ci  dan  ragione  piena  della  evo- 
luzione e  della  regolarità  delle  forme,  così  di  quelle 
che  devon  durare  tuttavia,  come  delle  altre  che  la  filo- 
logia e  la  linguistica  vogliono  sentenziate  al  museo.  I 
lessicologi  han  da  guardare  soprattutto  alla  necessità 
di  sostituire  una  dizione  all'  altra,  quando  la  prima 
è  rispetto  alla  seconda  più  efficace  e  colorita,  più  pla- 
stica, più  riverberante,  come  suono  a  sé,  come  ar- 
monia sintattica,  come  espressione,  come  stile.  Ma 
pure  vi  é  un  uso  per  lo  stile  mezzano,  per  lo  stile 
culto  della  borghesia  che  veste  a  modo  e  parla  ed 
opera  decentemente,  per  quello  stile  insomma  onde 
sono  improntate  le  opere  minori,  fatte  per  la  gente 
che  possiede  una  coltura  generale,  e  si  dirozzò  nelle 
scuole  secondarie  o  di  umanità,  come  dicevano  meglio 
i  nostri  vecchi.  Vi  é  infine  un  uso  più  raro  e  più  alto, 
cioè  quello  che  informa  le  opere  maggiori;  ed  ha  ra- 
dice nel  Sublime.  Di  quest'  ultimo  uso,  che  tutte  ac- 
coglie le  forme  de'  due  precedenti,  sarà  lecito  inda- 
gare quello  che  ha  di  suo  proprio  rispetto  a'  diversi 
svolgimenti  dell'arte.  E  qui  occorre  una  osservazione. 
Uso  vivo  de'  classici  di  tutti  i  tempi  e  di  tutte  le 
migliori  età,  sarà  sempre  quello  che  pur  contro  la 
voga  modificatrice  del  presente  decadimento,  serberà 
ancora  la  sua  vitalità  nell'intima  struttura  delle  forme 
che  il  tempo  non  avrà  saputo  correggere,  né  sostituire, 
né  emulare:  peggio  se  dagli  scriventi  se  ne  affetta  lo 
spregio  e  l'oblìo,  o  meglio  la  ignoranza,  quando  le 
sue  linfe  pullulano  ancor  fresche  pe'margini  dell'arte. 
Stare  al  fiuto  di  questa  o  quella  frase  che  i  nostri 
maestri  in  quel  caso  avrebber  meglio  preferita;  attin- 
gere dal  greco  o  dal  latino  quel  modo  che  non  offende 
il  conio  paesano,  ma  giova  o  bisogna  allo   stile;  e  ria- 


47 


novare,  raffinare,  levigare  sempre  una  più  netta  e  ri- 
levata espressione:  ecco  il  segreto  de'  nostri  vecchi 
e  di  chi  vuole  educarsi  scrittore  e  stilista.  Quanti  de' 
nostri  fanno  così?  E  daremo  del  vecchiume  alle  voci 
classiche,  sol  perchè  i  novellini  non  le  adoperano  e 
non  le  sanno,  paghi  della  forma  spicciola  e  vagante, 
mentre  il  pensiero  ne  richiede  un'   altra  più  nobile  e 


più  rara? 


Non  vollero  i  filologi  recenti  mirare  all'  arte  e  allo 
stile  nel  ritrovamento  o  nel  disseppellimento  della  lin- 
gua classica:  e  fu  assai  male.  11  materiale  delle  voci 
corre  vario  e  diverso,  anche  se  raro  e  difficile,  per 
emulare  e  seguire  come  per  salienti  note  le  molte- 
plici parvenze  e  le  adombrature  e  sfumature  del  pen- 
siero; e  dal  continuo  attrito  di  questo  con  la  espressione 
rispondente,  emerge  la  struttura  icastica  e  riflessa 
della  nuova  forma  letteraria,  non  meno  snella  ed  ele- 
gante anche  se  rara,  e  pur  nell'artificio  splendida  di 
armonia  e  di  rilievo;  una  forma  che  il  comune  serba- 
toio del  popolo  non  può  certo  dare,  e  non  può  creare. 

Pretendere  che  il  balzello  popolare  e  parlato  entri 
da  per  tutto,  è  lo  stesso  che  ignorare  i  graduali  e 
svariati  svolgimenti  della  parola;  come  1'  andar  rac- 
cattando il  materiale  della  lingua  soltanto  per  casali 
e  borghi  della  Toscana,  è  da  linguaioli,  non  da  scrit- 
tori e  da  artisti.  L'effetto  è  questo:  quando  questi  si- 
gnori hanno  da  mettere  insieme  i  lor  vocaboli  anche 
in  una  breve  prefazione;  quando  questi  magazzinieri 
della  lingua  corrente  sentono  il  bisogno  di  dare  il 
volo  a  qualche  pensiero;  riescono  così  miseri,  incerti 
e  rattrappiti  che  fanno  pietà:  il  lor  periodo  si  muove 
con  le  grucce,  né  c'è  caso,  quando  non  fanno  in- 
cetta di  frasi  e  di  riboboli,  che  scrivano  eleganti  o 
almeno  non  pedestri.  Lingua  corrente  oggi  è  sinonimo 
di  letteratura  stagnante.  Mi  ricorre  in  mente  una  si- 
militudine felice  di  uno  scrittore  vero  e  che  non  ac- 
catta vocaboli  dai  soliti  cenciaiuoli  di  frasi,    ma    de- 


48 


riva  l'arte  da  una  mirabile  fusione  del  moderno  e 
dell'  antico;  e  citandola  mi  piace  finire:  —  E  credo 
che  i  manzoniani  ridurrebbero  l'Italia  ad  armeggiare 
nella  prosa  con  cinquecento  vocaboli  e  uno  stile,  a 
quel  modo  che  i  cinesi  mangiano  il  riso  con  uno  stec- 
chino.  (*) 


(*)  Carducci  G.  «  Confessioni    e    Battaglie  »,    pag.    47  —  Bologna, 
Zanichelli,  1890. 


VI. 
Vecchi  e  nuovi  retori. 

I    PRODIGHI    E    GLI    AVARI. 


(eri  gridavano  a  nome  del  realismo,  e  fu  una 
vera  gazzarra  di  piccoli  novatori  per  la  gial- 
lognola e  rosea  fiorita  de'  volumettini  in  el- 
zevir.  Oggi,  minimi  iconoclasti  delle  tradizioni  del 
passato,  bestemmiano  a  nome  della  scie7iza,  e  scrivon 
volumi  molto  più  noiosi  de'  palinsesti.  Ma  già  i  vec- 
chi romantici  se  la  presero  con  moti  non  meno  con- 
vulsi contro  il  mitico  Olimpo  e  1'  omerico  Parnaso 
della  civiltà  greco-latina;  e  le  lor  querule  voci  acui- 
rono nel  versatile  ingegno  del  Monti  i  bellissimi  sciolti 
in  difesa  del  classicismo.  Non  c'è  che  dire:  nella  evo- 
luzione de'  tempi  è  un  assiduo  far,  disfare,  rifare  di 
retorica  più  o  meno  bolsa,  appiccicaticela,  bituminosa. 
Ma  oggi  i  ribelli,  intinti  nel  santo  crisma  del  positi- 
vismo, tentano  demolire  le  granitiche  rocche  della 
tradizione  classica,  e  di  ridurle  in  macerie  ,  senza 
neppure  serbarne  la  memoria.  È  vero  che  i  vecchi  — 
ce  n'è  rimasti  ancora  molti  —  sono  i  laudatores  tem- 
poris  adi;  ma  i  novellini  sono  anche  più  accademici 
e  intolleranti,  con  questo  di  meno,  che  gli  uni  ci  la- 
sciaron  monumenti  veramente  degni  di  sopravvivere 
al  tempo  loro,  mentre  gli  altri,  cibandosi  soltanto  di 
sfoglie  e  tenerume  retorico,  non  ancora  hanno  trovato 
la  lor  via  maestra.  Piacemi  assomigliarli  nelle  lor 
guerricciole  a'   prodighi  e    agli    avari    della    mirabile 

4 


terzina  dantesca  nel  canto  VII  e  tra  il  terzo  e  quarto 
cerchio  dell  ' /«/<?;'«<?.• 

Percotevansi  incontro,  e  poscia  pur  li 
Si  rivolgea  ciascun,  voltando  a  retro. 
Gridando:  «  Perchè  tieni?  »  e:  «  Perchè  burli?  » 

Così  anche  si  dicon  villania  gli  avari  e  i  prodighi 
del  tempo  nostro.  Gli  avari  custodiscono  gelosi  il 
sacro  patrimonio  intellettivo  del  passato  ,  e  m'  han 
l'aria  di  conservatori:  i  prodighi,  fatto  getto  degli  ideali 
più  santi  e  delle  memorie  più  pure  de'  lor  vecchi 
maestri^  s'avventano  leggeri  e  pretensiosi  all'avvenire, 
spesso  raccogliendo  ortiche  e  false  margherite  pe' 
campi  non  ancora  ben  dissodati  dalla  giovane  .>-cienza 
del  tempo,  e  si  vantan  radicali.  Gli  uni  sono  i  retori 
del  passato,  gli  altri  del  presente.  Ma  intanto  si  questi 
che  quelli  non  mirano  al  graduai  divenire  de'  fatti 
umani.  Non  credon  gli  avari  che  vera  spilorceria,  che 
miserevole  grettezza  è  il  tenere:  non  pensano  i  pro- 
dighi che  intemperanza  e  anche  miseria  è  il  gettare. 
E  negli  estremi  de'  lor  difetti  si  riscontrano  spesso 
sulla  medesima  via,  e  si  rinfacciano  a  vicenda.  Non 
guardano  alle  immanenti  leggi  storiche  e  alla  neces- 
sità, pe'  gradi  diversi  de'  cicli  succedenti,  della  co7i- 
servazione  e  del  progresso.  Il  presente  continua  il  pas- 
sato: nulla  va  perduto  nel  tempo. 

Ora,  il  voler  la  soppressione  incondizionata  e  si- 
stematica di  tutto  l'antico,  è  illusione  e  audacia  che 
non  iscusa  la  debolezza  e  il  difetto  de'  tempi.  Rispet- 
tate, o  ribelli,  la  tradizione,  ma  continuatela.  Move- 
tevi, o  avari,  verso  1'  avvenire,  pur  mirando  al  pas- 
sato. O  prodighi  e  avari,  abbracciatevi!  Quando  un' 
organica  evoluzione  ideale  ha  percorsa  tutta  intera 
l'orbita  sua,  non  e'  è  ricorsi  né  richiami  che  la  faccian 
rigirare  intorno  a  sé  stessa:  dee  moversi  in  un'orbita 
più  larga,  ma  l'ultimo  circolo  dee  comprendere,  a  sé 
concentrici,  gli  altri  tutti.  É  anche  vero  che  quando 
i  novi  retori  si  afTacciano,  qualcosellina  s'  é  mutato 
nell'ordine  delle  idee  e  de'  sentimenti:  ma  ancora  non 
è  apparso  il  primo  vagito  del  nuovo  vero,  ed  é  pre- 


51 


coce  la  tendenza  di  volerlo  far  naturare  per  forza  e 
immediatamente.  Aspettate,  sui  confini  dell'antico,  la 
nova  incarnazione  del  Verbo,  ma  guardate  innanzi.  I 
prodighi  deWa.  scienza,  dell'arte,  della  poesia,  ricordino 
che  non  è  l'ultimo  germoglio  dell'ultimo  vero  quello 
che  si  manifesta  nel  primo  embrione.  Ogni  svolgi- 
mento ha  bisogno  d'una  gestazione  assai  lenta.  Quan- 
do avrete  trovato  un  punto  medio  ove  le  due  forze 
concorrano,  cospirino,  s'appuntino  armoniche  e  inte- 
gre, allora  solo  avrete  trovato  l'equilibrio  tra  il  pas- 
sato e  il  presente.  Ma  è  miseria  per  gli  uni  e  per 
gli  altri  il  farsi  innanzi  o  il  farsi  indietro  senza  la 
•concorrenza  delle  due  forze.  Sappiatele  unire  e  conci- 
liare, e  allora  soltanto  sarete  nel  vero.  Ma,  intanto, 
diamo  posto,  per  ora,  ai  retori;  facciam  largo  ,  pel 
momento,  a'  prodighi  e  agli  avari:  essi  son  sempre, 
■con  tutti  i  lor  difetti,   i  vessilliferi  dell'avvenire! 


'"^"==^ 


VII. 

Alla  ricerca  di  novi  microbi 
colerici.  (*) 


1^ 

NATURALE  che,  nel  nostro  bel  secolo  bor- 
ghese, o,  meglio,  in  quest'ultimo  scorcio 
di  secolo  di  mercanti,  l'utopistico  ideale 
della  vecchia  Enciclopedia  umanitaria,  debba  prender 
senso  e  colore  nella  materialità  pratica  della  vita.  I 
frenetici  Diderot  del  vecchia  Francia  son  oggi  diven- 
tati operosissimi  bottegai  e  industriali:  al  sacro  foco 
delle  grandi  battaglie  ideali  è  sottentrato,  nella  scienza 
e  neir  arte,  il  puerile  fremito  della  libreria  ciompa. 
E  già  tutti,  più  o  men  volenterosi  e  bene  intenzio- 
nati a  moltiplicare  la  futile  ma  nitida  ed  elegante 
merce  tipografica,  si  dan  briga  di  offerire  la  venale 
opera  loro  in  soccorso  del  prossimo,  che,  secondo  il 
mosaico  Decalogo,  dobbiamo  amare  come  noi  stessi; 
ma  alle  sante  leggi  delle  dodici  tavole  si  è  oggi  so- 
stituita la  farragginosa  e  nebulosa  dottrina  di^W al- 
truismo. E  perciò  i  nostri  produttori  altruistici  stam- 
pano, e  i  giovani  nostri,  provando  un  caro  solletico 
nella  dolce  parola,  si  piacciono  più  di  belle  edizioni 
e  di  civettuoli  elzeviri  che  non  di  ottimo  e  sano  con- 
tenuto. E  così,  dietro  i  confini  dell'arduo  e  alpestre 
monte  per  la  cui  china  lavorano    inosservati    pochis- 


(*)  Il  tono  un  po'  troppo  vivace  di  questo  breve  scritto  mi  In  con- 
sigliato sia  dalla  natura  della  rivista  (Scena  Illusirala),  dove  apparve  la 
prima  volta,  sia  dalle  miserevoli  condizioni  della  giovane  e  venale  gra- 
fomania contemporanea. 


53 


simi  Archimandriti  del  novo  pensiero,  molto  più  giù 
e  molto  più  lontano,  in  plaghe  fiorite  di  cavoli  marci 
e  dove  son  più  noiosamente  romorosi  gli  echi  della 
vita,  di  mezzo  allo  scricchiolìo  e  agli  sbattimenti 
delle  piccole  e  delle  grandi  macchine  industriali,  si 
agita,  vola,  fermenta  e  si  spampana  la  minutissima 
ma  diffusissima  merce  libraria  colla  quale  s'impartisce 
il  pane  della  scienza  e  dell'arte  ai  piccoli  nostri  bor- 
ghesi, così  sitibondi  di  luce  come  di  assenzio,  cosi  in- 
namorati del  vero  come  di  damine  galanti  e  di  cipria. 

Essi,  i  produttori,  di  sulle  quarte  pagine  o  piccole 
cronache  de'  giornali,  e  per  le  gingillanti  vetrine  delle 
lor  ditte  dorate,  gridano  e  strombazzano  a'  quattro 
venti:  —  Avanti,  o  piccoli  operai  del  pensiero,  ve- 
nite pure  alle  nostre  officine  ,  e  dispensate  ,  a  pochi 
spiccioli  ,  il  pane  della  cultura  molteplice  e  inno- 
vatrice. Venite,  venite,  o  giovani  promesse  della  patria, 
e  anche  voi,  o  vecchi  rimbambiti  ma  ancor  gravi  nei 
grigi  cernecchi  della  vostra  dottrina,  e  rimpiccinite, 
rammeschinite  ,  mantrugiate  ,  quanto  più  potete  ,  in 
minuscoli  libricciattoli  ,  la  scienza  ,  la  poesia  ,  l'ar- 
te. Venite  :  qui  troverete  non  pur  la  casa  ma  il 
core  aperto.  —  E  così  questi  infiniti  produttori  uma- 
nitari e  altruistici  fan  la  chiama  pe'  ginépri  della  cul- 
tura, e  sparnazzano  la  loro  fecondità  di  mecenati  novi, 
per  quanto  non  cesarei  nemmeno  nella  forma  della 
prosa  e  nel  metrico  andamento  de'  versi.  Avanti,  o 
produttori  sommarughiani  in  ritardo,  o  béceri  peri- 
niani,  o  fossili  sonzognani,  o  minerali  hoepliani!  Non 
vedete?  tutto  il  fremito  produttivo  e  disinteressato 
del  cervello,  é  diventato  un'industria!  non  per  niente 
questo  scorcio  di  secolo  é  il  più  sfolgorantemente 
progressivo  di  quanti  ne  vantino  le  vecchie    istorie  ! 

E  proprio  vero.  Sempre  lasciando  stare  quelle  ra- 
dissime eccezioni  di  scrittori  che  pure,  di  quando  in 
quando,  aiutano  del  loro  nome  e  di  qualche  lor  librat- 
tolo  la  speculazione  librario-economica,  oggi,  la  cultura 
nazionale  si  é  veramente  convertita  nell'  infinitesimo 
atomico  della  produttività.  E  così  ,  col  prodigioso 
trasformismo  dei  tempi,   ci  moviamo  verso  V Aweriire! 


54 


Oh!  non  ricordate  quel  che  dicono  i  produttori?  Sen- 
tite come  strillano  in  piazza!  Ascoltate:  «  Avanti,  si- 
gnori: per  pochi  baiocchi,  eccovi  il  romanzo  dell'Av- 
venire. Avanti,  signori:  per  pochi  soldi,  eccovi  la 
poesia  dell'Avvenire.  Avanti  ,  avanti,  signori:  per 
dieci  soli  centesimi,  eccovi  qua  il  gran  dramma  del- 
l'Avvenire. » 

Oh!  sì,  noi  ci  avviciniamo  all' y4vve?izre ,  ma  col 
rischio  di  arrivarci  come  atomi  impercettibili.  E  chi 
sa  che  potrà  diventare  l'umanitti  ventura  nelle  ato- 
miche combinazioni  della  nostra  povera  specie  disfatta! 
Quali  altre  forme  potremo  allora  prender  noi?  in  linea 
ascendente  o  discendente?  saremo  farfalle  o  sarem 
vermi?  sarem  luce  o  polviscolo?  astri  raggianti  o  ne- 
bulose? o  rimarremo,  per  sempre,  atomi  erranti?  Di- 
telo voi,  o  dant'i?tiani,  o  speiiceriaiii,  o  evoluzionisti 
dell'ultim'ora! 

Prima  la  scienza  era  l'inestimabile  tesoro  di  radis- 
sime menti,  e  grandeggiava,  con  iscarsi  sorrisi  al 
volgo  degli  ignoranti,  ne'  grandi  volumi,  negl'im- 
mensi palinsesti  che  a'  contemporanei  fan  venir  la 
vertigine,  tanto  li  spaventano!  E  se  voi,  laboriosi 
e  indipendenti,  li  cercate,  vi  gridano  contro:  «  An- 
date là,  menti  incartapccorite,  fossili  polverosi,  topi 
da  biblioteca,  gente  da  palinsesti,  e  chi  più  n'  ha 
più  ne  metta.  »  Oggi,  invece,  su  pe'  detriti  melmosi 
e  lungo  il  misero  tritume  delle  vecchie  scorie  sedimen- 
tarie della  giovane  scienza  e  della  giovine  arte,  ven- 
gon  su,  a  miriadi,  come  nubecole,  come  infiniti  eserciti 
d'insetti  invisibili,  volumettini  bacillari,  microbi  Ko- 
ckiani  di  fogliolini  volanti  ove  la  scienza  e  l'arte 
vedonsi  trasformate  néìV i?ifinitame?ite  piccolo. 

Qualche  scrittore  idealista  vede  qualcosa  di  questo 
sfacelo,  e  colla  fantasia  ancor  troppo  pruriginosa  di 
solleticanti  utopie  e  d'iridescenti  promesse,  grida  a 
nome  de\VAvve?iire,  e  fa  inviti  all'arte  russa,  al  ro- 
manzo tolstoiano,  perchè,  con  vigoroso  innesto,  ci 
purghi  e  ci  rinnovi.  Il  grido  è  forse  sincero,  ma  re- 
torico anch'esso,  e  non  senza  qualche  avventataggine 
di  posa. 


55 


Oh!  l'arte  russa  è  grande,  con  tutt'i  suoi  difetti  e 
con  tutte  le  sue  anomalità,  ma  è  grande  in  Russia,  e 
in  Russia  e  negli  scrittori  russi  noi  l'ammireremo: 
ivi  è  il  terreno  vergine  di  quell'arte  vigorosa,  non 
qui.  A  noi  manca  ancora,  e  mancherà  per  un  pezzo, 
per  più  ragioni  storiche  ed  etnografiche,  il  clima  novo 
dell'arte:  per  averlo  ci  conviene  scavare,  scavare, 
scavare  ancora,  sinché  non  abbiam  trovato  nuove 
sorgenti  d'acqua  nostra  in  nuovo  terreno  fecondo. 
Allora  soltanto,  forse,  saremo  arrivati.  Oggi  no.  Ci 
conviene  ancora  tornare  all'antico  per  mescolarlo  alle 
pochissime  limpide  scaturigini  del  novo,  non  come 
pensiero  sterile,  non  come  vero  puramente  scientifico, 
ma  come  forma  d'arte  immediata,  spontanea,  nazio- 
nale, tutta  nostra,  e  non  mai  riflessa,  qua  e  là,  da 
svolgimenti  che  non  sono  e  non  possono  esser  no- 
stri per  leggi  storiche.  Quando  noi  eravamo  grandi, 
la  Russia  ancora  non  era  nata  nell'arte.  Ora  è  nata 
e  vive  d'una  vita  tutta  sua  e  ben  connessa  a'  suoi 
problemi  sociali  e  politici:  lasciam  dunque  che  ci 
canti  o  ci  narri  le  sue  grandi  ribellioni  e  che  con 
esse  risalga'e  ci  rivalichi  nel  luminoso  prisma  dell'arte. 
Noi  l'ammireremo,  e  anche  le  farem  coraggio  nelle 
rivendicazioni  e  nelle  esplosioni,  espresse  non  dalla 
dinamite,  che  distrugge  e  non  rinnova,  ma  dall'arte 
che  ascende  e  turbina.  La  cosa  è  degna  di  molto 
più  lungo  studio,  e  noi,  se  all'ottimo  direttore  di 
questa  rivista  non  spiacerà,  ci  torneremo  subito. 

Ora  come  ora,  siamo  in  fondo  alla  rupe  Tarpea 
dell'arte,  ove  giacciono  i  traditori  della  nostra  gran 
patria  classica,  quelli  che  han  dimenticato  i  sommi 
uomini  nostri,  i  nostri  vecchi,  i  nobili  sognatori  e  ri- 
creatori,  che  non  morranno    mai. 

Siamo,  oggi,  proprio  nel  fondo;  e  il  miserevole  e 
stopposo  contenuto  l'orpelliamo  col  nitor  delle  edi- 
zioni e  colla  frangia  sfolgorante  delle  novissime  ditte. 
L'aria  è  tutta  appestata  di  microbi  cholerici,  e  l'epi- 
demia de'  megalomani  e  grafomani  giovani,  perdura, 
e  durerà  ancora,  chi  sa  per  quanto!  Oh!  non  è  meglio 
che  ci  risani  un  buon  lavacro  di   studi    e    di  antiche 


56 


e  sante  memorie?  O  misere  carcasse  della  poesia  nova, 
o  lucciole  erranti  del  romanzo  e  del  dramma  dell'Av- 
venire, o  giovani,  o  giovani,  o  giovani,  tornate  una 
volta  alle  vive  fonti  del  passato  glorioso  ! 

Il  dottor  Kock  allarghi  pure  le  sue  nuove  esperienze; 
osservi  nello  scibile  odierno,  in  questa  cholerica  epi- 
demia intellettuale  d'Italia  ,  quanti  novi  strati  bacil- 
lari si  trovino:  ne  faccia  raccolta  e  ne  riunisca  i  più 
significanti  per  la  scienza,  sotto  la  sua  campana  di 
cristallo;  li  conservi  colla  sua  gelatina,  e  ascolti  e 
noti  tutti  i  battiti  di  polso  di  questa  povera  e  inu- 
tile arte  nazionale,  e  quanti  minuti  ancora  le  avan- 
zino perchè  raggiunga  il  finale  esaurimento.  Avanti, 
o  editori,  o  produttori:  moltiplicate  pure  i  vostri  ba- 
cilli, gettateli  a'  quattro  venti,  e  sollecitate  la  fine  di 
questo  secolo  che  muore.  O  scrittori  giovani,  sudate 
e  scervellatevi  alla  produzione  de'microbi,  e  voi,  scien- 
ziati kokiani,  esaminateli  e  conservateli.  O  editori  e 
produttori,  avanti! 


vili. 


stampa  periodica. 


(l  far  gustare  a  spizzico  e  a  centellini  un  po' 
di  cultura  paesana  ,  l'offerire  a  sbrendoli  un 
;^  zinzin  di  poesia  e  di  prosa,  di  scienze  e  di 
lettere,  è  certo  una  delle  cause  più  dirette  della  fri- 
vola e  leggera  grafomania  contemporanea.  Il  giornale, 
grande  arnese  della  Riforma,  importazione  alemanna 
e  palestra  di  discussione  libera  e  democratica,  fu  senza 
dubbio  un  grande  trovato  del  secolo  decimottavo;  e 
in  Germania  e  in  Inghilterra,  ove  prima  si  svolse  nei 
fecondi  attriti  del  pensiero  e  nell'animoso  pugilato 
della  vita,  conserva  tuttavia  la  nobile  sua  tradizione: 
informare  il  pubblico  con  dignità  e  sincerità  di  fatti 
e  di  avvenimenti  a  lui  utili  o  necessari,  per  avviarlo 
o  ravviarlo  nell'opinione  politica  e  seriamente  erudirlo 
nelle  nove  ricerche  della  scienza  o  delle  lettere  ;  raffi- 
nargli il  gusto  con  l'arte;  fornirgli  una  cultura  gene- 
rale a  scanso  di  molti  libri  intorno  a  discipline  non 
proprie,  e  prepararlo  a  studi  confacenti  alle  particolari 
attitudini  o  competenze.  E  per  questo  difficilissimo 
compito  esso  è  affidato,  almeno  nelle  riviste  e  ne'diarii 
più  gravi,  ad  uomini  di  larga  esperienza  pratica  e, 
con  grande  divisione  di  lavoro,  a  speciali  studiosi  di 
materie  diverse.  In  Inghilterra  e  in  Germania  il  gior- 
nale è  grande  preparazione  alla  vita  politica,  letteraria, 
scientifica;  onde  furon  giornalisti  di  professione  gli 
statisti  più  insigni  e  quanti  di  quelle  classiche  terre 
maneggiarono  l'istrumento  delle  lettere  e  furon  scien- 
ziati o  poeti.  Gladstone,  il  più  grande  statista  inglese, 


58 


è  un  dotto  commentatore  e  traduttore  di  Dante,  come 
la  Regina  Vittoria  è  una  delle  più  illuminate  sovrane 
di  Europa.  In  Francia  particolarmente  ed  in  generale 
in  tutte  le  nazioni  latine  o  romanizzate  il  giornale  ha 
sempre  avuto  caratteri  men  scrii  o  temperanti  per 
essere  stato  ringhioso  e  battagliero.  Come  tale  ebbe 
però,  prima  e  durante  e  dopo  la  rivoluzione,  un  grande 
splendore  nella  feracissima  terra  del  disquilibrio  po- 
litico; certo  la  Eìiciclopedia  fu  il  più  gran  vivaio  del 
pensiero  latino  intorno  ai  dritti  dell'uomo.  Noi  giun- 
gemmo più  tardi,  e  di  tradizioni  gloriose  altro  non 
vantiamo  veramente  che  la  celebre  Frusta  di  Aristarco 
Scannabue  (  Giuseppe  Baretti  ),  il  Politecnico  di  Carlo 
Cattaneo,  e  la  Giovine  Italia  di  Giuseppe  Mazzini:  tre 
meravigliosi  focolari  della  nostra  letteratura,  della  no- 
stra scienza  e  della  nostra  libertà. 


Il  giornale  ebbe  nomi  diversi:  effemeride,  periodico, 
rivista,  rassegna,  monitore,  avvisatore,  bollettino,  dia- 
rio, gazzetta.  Ora  ci  contentiamo  di  chiamarlo  rivista 
di  scie?ize,  di  lettere  e  d' arti,  con  titoli  eterocliti  o 
speciosi  accennanti  a  progresso  o  a  rinnovamento.  La 
più  ghiotta  e  ricercata  in  questi  ultimi  tempi  fu  V ef- 
femeì'ide  ebdomadaria,  cioè  la  rivista  domenicale  che 
fu  politica  o  religiosa,  economica  o  educativa,  lette- 
raria o  scientifica,  tecnica  o  sperimentale.  Veramente 
la  denominazione  latina  fu  opera  di  preti  o  di  frati; 
anzi  una  delle  prime  origini  di  questo  giornale  fu 
presso  di  noi  fratesca;  e,  se  vogliamo,  que'  periodici 
che  conservano  anc'  oggi  una  pedantesca  cultura  di 
seminario,  sono  almeno  più  omogenei,  certo  men  di- 
sorganici. La  Civiltà  Cattolica,  per  esempio,  velenoso 
semenzaio  gesuitico  che  ogni  due  sabati  stilla  a  sa- 
cerdoti e  a  chierici  l'ombrosa  e  uggiosa  sua  cultura, 
è  scritta  assai  meglio  di  troppe  riviste  nostre,  e  la 
compilano  uomini  versatili  e  dotti  nell'  ordine  dei  loro 
principii.  In  Italia  la  cultura  periodica  non  ha  avuto  mai, 


59 


air  infuori  di  rarissime  eccezioni,  alcun  vitale  nutri- 
mento di  pensiero  e  alcuna  utilità,  che  anzi  ha  spesso 
danneggiato  gli  studi  in  quella  sua  facile  e  prolifica 
moltiplicazione  di  sùbite  vanità  e  di  leggerissimi  cer- 
velletti, annacquati  di  stupida  sapienza  e  di  misero 
orgoglio.  —  Dal  '79  cominciammo  ad  avere  la  istru- 
zione indomenicata  per  mezzo  del  Fanfulla,  fatto  al- 
lora assai  bene  e  compilato  da  gente  seria  e  matura; 
e  di  quello  stampo  avemmo,  a  dir  vero,  diverse  do- 
meniche letterarie,  ma  per  poche  stagioni:  l'ultima  fu 
quella  del  «  Fanfulla  »,  che  visse  un  anno,  sotto  le 
vigili  cure  di  Giuseppe  Chiarini.  In  generale  ebber 
vita  breve  tutte:  uno  o  due  anni.  Unico  resiste  il 
Fanfulla.  Povero  Fanfullal  Passato  di  mano  in  mano, 
prima  dall'  Avanzini  al  Martini,  indi  dal  Martini  al 
Checchi  e  ad  altri  vigilati  o  curati  da  lui,  ora  è  diven- 
tato un  fantoccino  a  trastullo  di  giovincelli  o  di  cre- 
staie. Se  in  tutte  le  domeniche  del  Signore  si  voles- 
ser  contare  le  frivolezze  le  untuosità  e  le  sgrammati- 
cature di  quei  giovinotti,  ci  sarebbe  da  far  penitenza 
per  molte  e  molte  quaresime. 

* 

*  * 

L'  Italia,  a  dir  vero,  può  fare  a  meno  del  gionale, 
non  essendo  questo  un  vero  e  necessario  alimento 
della  sua  cultura.  Di  fatti,  esso  ha  ucciso  il  libro,  il 
quale  è  piuttosto  un  estratto  più  o  men  largo  di  ar- 
ticoli, che  non  un  geniale  ed  organico  lavoro.  E  si 
pensi  che  anche  i  migliori  intelletti  della  Nazione  han 
facilmente  obbedito  a  questo  sminuzzamento  del  pane 
della  scienza,  onde  i  libri  che  oggi  si  pubblicano  m'han 
l'aria  di  botteghe  o,  meglio,  di  bazar  con  più  e  più  ge- 
neri assortiti  di  nozioni  e  d'idee,  a  quel  modo  che 
gli  artisti  mi  paion  tanti  rivenditori  di  chincaglieria 
o  di  vasi  da  notte.  Le  grandi  eccezioni  naturalmente 
non  mancano,  come  non  mancano  filologi  e  critici  che 
pur  senza  fare  il  libro  producono  studi  brevi  e  in- 
sieme originali.  Ma  la  grande  folla  è  tutta  di  chinca- 
glieri. —  Il  periodico  ha  da  noi  perduto  il  vero  suo 


6o 


obbiettivo:  da  istruttivo  è  diventato  mercantile.  Di 
fatti,  non  gli  scrittori  ma  son  gli  editori  quelli  che 
lo  avviano  e  lo  mandano  al  corso  sotto  gli  occhi  e 
fra  le  meraviglie  dei  cialtroni.  Or  quando  l'interesse 
di  bottega  entra  nella  cultura,  è  segno  che  questa  va 
esaurendosi  o  è  nulla.  E  gli  editori  van  cercando  uno 
scrittore  pur  che  sia,  e  questi  il  più  delle  volte  è  un 
giovine  di  ginnasio  o  di  liceo  già  bocciato  più  volte 
nell'italiano  e  nel  latino,  e  che  vuol  vendicarsene 
sgrammaticando  nel  giornale  a  dispetto  o  in  barba  dei 
suoi  professori.  E  non  basta.  L'editore  cerca  1'  articolo 
che  vada  così  e  così,  secondo  la  moda,  cioè  l'articolo 
strano,  arrembato,  sbilenco  e  porco.  È  proprio  così! 
E  l'impubere  giovine  lo  fa  perchè  a  farlo  gli  costa 
poca  fatica,  cioè  gli  costa  quella  banale  ignoranza  di 
tutto  per  cui  venne  mitriato  di  zeri  negli  ultimi  esa- 
mi di  licenza.  —  Tutto  codesto  sembra  uno  scherzo, 
e  pure  è  la  più  santa  verità.  Potrei  nominare  almeno 
almeno  una  cinquantina  di  giornalisti  che  dopo  le 
bocciature  lasciaron  la  scuola  :  potrei  nominarne  pa- 
recchi che  vennero  riprovati  appunto  nella  storia  e 
nell'italiano.  E  son  proprio  costoro  che  ci  ammanni- 
scono  sicuri  e  gravi  ed  insolenti  la  politica  quotidiana, 
la  letteratura  domenicale,  la  scienza  quindicinale  e 
mensile.  Non  si  può  negare  che  da  qualche  anno  il  gior- 
nalismo istruttivo  vada  sempre  più  decadendo  anche 
nella  quantità  della  carta  stampata:  mancano  quattrini 
e  mancano  associati.  In  Italia  non  si  legge  più.  E'  un 
gran  bene.  —  Rimangono  ancora,  piuttosto  stentate 
ed  anemiche,  alcune  riviste  gravi,  e  forse  ce  n'è  qual- 
cuna che  vive  e  si  fa  leggere.  Troppo  poco  per  un 
popolo  che  ha  più  di  trenta  milioni  di  abitanti.  Del 
resto,  tutto  questo  è  un  lusso  di  cui  si  può  fare  a 
meno:  pensiamo  a  comporre  il  libro  per  gli  adole- 
scenti, pei  giovani,  per  la  gente  sennata,  pei  vecchi. 
É  quello  che  ci  vuole. 


Un'  altra    causa  di  questo  decadimento  o  decresci- 
mento della  stampa  periodica  è    la    grande    sporcizia 


6i 


od  avarizia  degli  editori.  Questi  non  pagano  o  pagano 
assai  male.  I  più  non  pagano  affatto,  onde  lo  scrit- 
tore, poveretto,  è  costretto,  anche  se  buono,  a  pregar 
r  editore  di  accettar  gratuitamente  1'  opera  sua:  egli 
è  trattato  al  di  sotto  del  più  vile  artiere,  perchè  in 
Italia,  magna  parens  frugum,  V  arte  ,  la  cultura,  la 
scienza  son  la  merce  più  inutile  e  più  spregevole:  un 
saltimbanco  e  un  giocator  di  bussolotti  valgono  assai 
più  di  un  letterato  o  di  un  poeta.  Ora,  non  c'è  opera 
più  preziosa  di  quella  dell'  ingegno.  Ne  convengono 
tutti,  ma  son  tutti  pure  d'  accordo  nel  disprezzarla. 
Che  ne  avviene?  Lo  scoramento  in  chi  produce  davvero, 
e  l'ambizione  o  vanità  in  chi  produce  male.  E  allora 
una  vera  invasione  di  gente  raccogliticcia  si  accampa 
nella  rivista,  e  scrive  e  scrive  e  scrive,  per  la  irre- 
quietudine nervosa  di  versar  parole  come  fa  del  vino 
l'ubbriaco,  per  la  frollaggine  cachetica  e  smaniosa  di 
chiacchierare  e  non  di  pensare,  per  la  satiriasi  della 
posa,  per  istintivo  egotismo,  per  vedersi  annoverata 
nella  nobile  caterva  degli  uomini  stampati.  La  colpa 
è  dunque  di  chi  tiene  od  alimenta  queste  case  di 
cultura:  s'egli  eleggesse  meglio  il  lavoro  e  lo  pagasse 
benissimo,  troverebbe  disponibili  assai  pochi  scrittori, 
ma  valorosi  ed  onesti;  e  questi  ,  incoraggiati  dalla 
soddisfazione  di  vedere  altamente  apprezzato  il  loro 
ingegno,  darebbero  il  meglio  dei  loro  studi,  con  pre- 
parazione larga  e  insieme  disinteressata,  e  più  che 
scrivere  pel  giornale  scriverebbero  per  sé,  e  al  gior- 
nale darebbero  quello  eh'  essi  avessero  già  pronto, 
frutto  di  lunghi  studi  e  di  laboriose  ricerche.  Scrivere 
presto  più  e  più  cose  esclusivamente  pei  periodici  e 
a  fine  di  lucro  è  la  cosa  più  immorale  che  esista,  ed 
è  quello  che  abbiamo  sempre  visto  in  Italia;  la  mis- 
sione dello  scrittore  è  la  più  severa  cooperazione  del 
pensiero  nella  più  alta  stima  del  pubblico.  Ma  è  an- 
che necessario  che  1'  opera  dell'  ingegno  venga  alta- 
mente valutata  quanto  la  più  nobile  delle  professioni 
e  delle  arti,  come  usa  in  Francia,  in  Germania  e  in 
Inghilterra. 


62 


Dopo  ciò  tutto,  dovrei  sconsigliare  codesta  pubbli- 
cazione periodica  (*).  Io  invece  amo  incoraggiarla  per 
più  ragioni  degne,  massime  per  queste.  Primieramente 
la  cultura  e  serietà  di  chi  la  dirige  inspira  fiducia  e 
speranza:  in  secondo  luogo,  potrà,  se  compilata  bene, 
essere  un  antidoto  contro  molte  altre  consimili  com- 
pilate assai  male;  e  finalmente  perchè  ogni  cosa  buona 
è  sempre  utile  se  non  necessaria.  Noi  vi  coopereremo 
non  per  blandire  le  piccole  vanità  dei  giovani,  ma  per 
farla  fruttificare  sempre  in  meglio,  volgendo  il  pen- 
siero alle  sane  tradizioni  della  patria  letteratura.  Noi 
la  vogliamo  libera  palestra  di  studi  non  volgari,  pi- 
gliando le  mosse  dall'  antico,  da  quell'eterno  vivaio 
di  pensiero  e  di  sapienza  nella  luce  dell'arte  e  nello 
splendore  delle  forme,  donde  si  volle  in  questi  ultimi 
tempi  discendere  per  ismania  di  novità  e  per  vii  sol- 
letico di  vuota  saccenteria.  Vengan  pure  innanzi  i 
giovani  migliori,  con  le  fulgide  fantasie  degli  anni 
loro,  col  severo  e  pensato  esercizio  degl'ingegni  baldi, 
con  l'agile  e  franco  svolgimento  degli  animi  liberi. 
Ma  innanzi  tutto  desideriamo  sincerità  di  pensiero, 
larga  preparazione  d'  idee,  grande  educazione  delle 
forme  e  dello  stile.  Tutti  i  più  grandi  scrittori  fecero 
ancor  giovanetti  le  prime  loro  armi  con  esperimenti 
ancora  un  po'  incerti,  ma  con  le  sicure  attitudini  a 
diventar  poi  schermitori  maestri.  Però  questo  non  dee 
parere  un'  abile  scusa  pei  mediocri  o  per  quelli  che 
vogliono  fare  a  mezzo.  Ai  buoni  e  ai  volenterosi  sol- 
tanto dee  aprirsi  questo  libero  arringo;  non  agl'impo- 
tenti. L'accolta  de'  vari  commensali  intorno  alla  lauta 
imbandigione  dell'arte  dev'essere  un  libero  e  geniale 
convivio  del  pensiero  e  della  fede  nei  più  alti  destini 
della  specie:  dev'  essere  un  libero  scambio  di  affetti 
e  di  speranze,  d'inspirazioni  e  di  fantasmi,  di  dolori 
e  di  gioie,  per  entro  il  ricco  ordito  della  parola,  in 
una  perfetta  comunanza  di  veri  e  di    aspirazioni,  nel 


(*)  Questo  studio  servi  di  preludio  a  una  rivista  letteraria. 


63 


comune  patrimonio  delle  lettere  e  delle  arti.  E  come 
gli  scrittori  eccellenti  si  cibano  del  pane  intellettuale 
e  insieme  lo  dispensano,  elargitori  munifici,  ai  piccoli 
e  a'  meno  destri,  così  questi  siedono  a)  medesimo 
desco  quali  baliosi  figlioletti  sotto  gli  occhi  e  i  sorrisi 
dei  padri  e  delle  madri,  come  operai  leggiadri  o  vispi 
garzonetti  sedenti  a  mensa  con  gli  operai  maestri.  In 
questa  concordia  di  lavoro  è  il  sommo  dell'arte  e  della 
scienza:  tutti  dovrebbero  mirare  con  armonica  dire- 
zione di  uffici  a  comporre  i  vari  legamenti  della  com- 
plicata struttura  dell'edifizio  intellettuale  e  morale,  ma 
con  propositi  fermi,  con  volontà  vigorosa,  con  morali 
intendimenti,  con  alacrità  di  vicendevoli  esercizi.  Tale 
dovrebbe  essere  l'obbiettivo  di  una  buona  rivista.  Io 
auguro  tutto  questo  all'  amico  Panbianco,  di  vero 
cuore  e  con  disinteressato  amore  dell'arte.  Oh  !  ben 
venga  intanto  1'  opera  sua  direttrice  a  portare  nelle 
menti  stracche  ed  afifralite  da  troppo  lunghi  ozi  del- 
l' anima  un  sorriso  di  consolazione  e  un  lampo  di 
bellezza,  òasi  benedetta  pel  gran  deserto  dell'  intelli- 
genza. Ebe,  la  pagana  dea  della  giovinezza,  ci  apporti 
pure  da  un  ignoto  e  vedovo  sito  la  tanto  desiderata 
gioventù  del  pensiero  e  degli  studi. 


<\^i 


IX. 

Del  metodo  storico  -  evolutivo 

nella  Critica  Letteraria. 

1. 


Inche  i  fenomeni  letterari  seguono  le  leggi 
darwiniane.  La  storia  contribuisce  non  poco 
alla  ricostruzione  scientifica  degli  avvenimenti 
o,  diciam  semplicemente,  prodotti  artistici.  Ma  basta 
ella,  la  istoria,  a  saperci  svolger  le  fila  onde  un  dato 
fatto  letterario  collegasi  all'altro?  può  ella,  la  istoria, 
metterci  addentro  nel  macrocosmo  della  vita  dei  po- 
poli? ci  sa  ella  spiegare,  di  fronte  al  darwinismo,  la  in- 
fluenza modificatrice  su  date  civiltà  di  alcuni  popoli 
eh'  han  diversi  e  i  riti  e  le  costumanze  e  i  caratteri 
di  razza?  E  pure,  chi  consideri  l'arte  come  il  reflesso 
irraggiamento  di  tutta  la  vita  psicologica,  di  tutto  lo 
spirito  collettivo  d'  un'  età,  non  può  fare  a  meno  di 
considerarla  sotto  un  aspetto  men  subbiettivo,  men 
preconcetto:  quegli  anche  si  studierà  approfondirla 
di  fronte  a'  moderni  progressi  dell'  evoluzionismo 
darwiniano. 

La  teoria  dell'evoluzione  —  nessuno  lo  nega  —  è 
la  più  bella  ipotesi  scientifica  di  questi  ultimi  tempi; 
ma  ancor  le  manca  altro  e  più  ricco  corredo  di 
dati  e  ricerche  e  nozioni  perchè  possa  dirsi  scienza. 
Ma  anche  questa  bisogna  intenderla  in  un  senso  molto 
largo  e  relativo,  non  potendo  noi  positivisti  assorgere 
mai,  come  i  metafisici,  alla  dottrina  dell'Assoluto.  La 
nostra  scienza  è  perenne  come  la  natura,  e  non  può 
soffermarsi  o  fissarsi  assolutamente,  né,  come  sotto 
alcuni  aspetti  le  matematiche,  potrà  mai  dire  d'essere 
arrivata.  La  scienza  può  dirsi,  come  nota  e  scrive  il 
Barzellottì,  un  assottigliamento  della  umana  ignoranza. 


65 


E  però  —  io  penso  —  stante  queste  troppo  rigide 
condizioni  della  scienza  nostra,  bisogna  anche  accet- 
tare quella  teorica  la  quale,  più  ricca  di  dati  scientifici 
o  più  solida  di  base,  è,  o  si  può  dire,  l'ultima  ascen- 
sion  dottrinale  del  tempo.  Ora,  la  teoria  che  più  gi- 
ganteggia nel  campo  delle  scienze,  è  quella  della  Evo- 
luzione: dunque  accettiamola  anche  in  Letteratura,  e 
vediamo  se  non  ci  sia  dato  spiegar  con  essa  tanti  fe- 
nomeni artistici. 

Le  linee  capitali  della  complessa  dottrina  darwiniana 
si  riassumono  tutte  in  queste  principalissime  leggi:  lotta 
per  l' esistenza,  adattamento,  selezione  iiaturale,  soprav- 
vivenza del  pili  adatto,  clima,  trasmissiorie  ereditaria, 
atavismo.  Ne  tralascio  qualche  altra  che,  a  parer  mio, 
appartiene  unicamente  alla  vita  zoologico-fisica,  come 
ad  esempio  la  selezione  sessuale,  sebbene  anche  que- 
sta, sotto  alcuni  rispetti,  possa  venir  ammessa  nella 
scienza  critica  dell'arte.  Ma  come  —  potranno  dirmi 
alcuni  ipercritici  novellini  —  come  possiamo  noi  let- 
terati accettar  nell'  arte  queste  leggi  ?  Dobbiamo  noi 
svisare  il  carattere  della  sua  storia?  dobbiamo  anche 
noi  esporci  a'  vaneggiamenti  di  certi  filosofi  positivi 
che,  credendo  afferrar  sempre  il  vero  ,  vedon  luce 
dove  è  ombra?  —  Non  si  sgomentino,  e  vediamo  se 
ci  potrà  tornar  utile  anche  nell'arte  la  teorica  darwi- 
niana (*). 


(*)  Gaetano  Trezza,  uno  dei  più  insigni  nostri  filosod  geniali  e  che 
altri  cliiaiuó,  con  felice  appropriazione,  il  Renan  d'Italia,  fu  il  primo,  se 
non  vado  errato,  che  propugnò  presso  noi  la  dottrina  della  Evoluzione 
anche  nella  Critica  Letteraria.  Le  sue  pagine  della  «  Critica  Moderna  » 
sono  delle  più  acute,  e  rivelano  un  grande  intelletto  innamorato  del  vero: 
son  pagine  dotte,  brillanti,  splendidissime,  che  si  l'anno  leggere  perchè  arti- 
sticamente leggiad'^e,  e  che  inducono  a  pensare.  Anche  n^lle  altre  sue 
opere  su  Litcrejio  e  su  Epicuro,  nel  Commento  di  Orazio,  nei  Saggi 
critici  e  nei  due  bellissimi  studi  su  San  Vaolo  e  snW Origine  delle  Re- 
ligioni, il  Trezza  fa  mostra  di  tutte  le  attrattive  dell'artista  unite  alla 
arditezza  dei  concetti  ed  alla  vastità  della  erudizione.  Ingegno  veramente 
critico  aveva  pure  il  rimpianto  prof.  Ur;o  Angelo  Canello  il  quale,  dotto 
ed  erudito,  seguiva  con  giovanile  entusiasmo  la  dottrina  dell'evoluzione 
anche  applicata  alle  lettere.  Peccato  che  il  chiaro  professore  dell'  Uni- 
versità padovana  ci  venne  tolto  cosi  presto  mentre  che  più  in  alto  ten- 
deva il  suo  fervido  ingegno! 

Che  in  Italia,  da  alcuni  giovani  all'infuora,  si  cerchi  applicare  il 
metodo    darwiniano   in   Letteratura,  non    parrebbe:  i  critici  migliori,  pur 


66 


2. 

La  prima  legge,  eh'  è  fondamento  delle  altre,  fu 
formulata  da  Carlo  Darwin  nella  ben  nota  frase: 
lotta  per  V esistenza.  Che  per  la  esistenza  —  potreb- 
bero osservarmi  alcuni  —  lungo  la  scala  zoologica, 
lottino  gli  esseri  organizzati  ,  va  bene;  ma  che  vi 
lottino  anche  le  forme  letterarie  ,  ohibò  !  nemmeno 
per  sogno.  Oh  !  certo,  diversa  è  la  lotta  degli  uni 
dalle  altre.  E  pure  ,  anche  le  forme  e  i  contenuti 
letterari,  a  traverso  i  vari  e  diversi  periodi  della 
nostra  letteratura,  subiscono  una  lotta,  e  quale  lotta! 
Le  forme  di  ieri,  esaurite,  oggi  non  tornan  più:  son 
sentenziate  al  museo;  mentre  alcune  altre,  le  classiche 
ad  esempio,  dopo  lunghi  contrasti  o  resistenze,  sono 
alfìn  trionfate  colla  estinzione  di  elementi  anche  nuovi 
o  di  altre,  per  dir  meglio,  funzioni  artistiche,  «  A  certi 
termini  di  civiltà  —  così  scrive  un  solennissimo  cri- 
tico e  poeta,  —  a  certe  età  dei  popoli  ,  in  tutti  i 
paesi,  certe  produzioni  cessano,  certe  facoltà  organi- 
che non  operano  più.  La  epopea  intanto  è  sotterrata 
da  un  pezzo:  violare  il  sepolcro  della  gran  morta 
cancaneggiandovi  su,  anche  se  non  fosse  indizio  di 
svogliatezza  depravata,  non  diverte.  Il  dramma  ago- 
nizza, e  i  troppi  medici  non  lo  lasciano  né  meno  in 
pace.  La  lirica,  individuale  com'  è  ,  par  che  resista, 
e  può  durale  ancora  qualche  poco,  a  condizione  per 
altro  che  si  serbi  arte  »  (*).  Lottano,  sì  o  no,  le 
forme  letterarie?  altrimenti  come  intenderne  la  scom- 
parsa? o  dobbiamo  invece,  come  già  in  geologia,  am- 
mettere anche  i  cataclismi  nell'  Arte  ? 

ìl  qui  l'Evoluzione,  come  nota  acutamente  il  Trezza 
in  un  suo  bozzetto  critico  (**),  la  quale  compie  il  me- 


seguendo  attentamente  il  moto  delle  discipline  sperimentali,  ancor  si  at- 
tengono al  metodo  cosi  detto  sloi-ico,  né  lascian  trapelare,  qua  e  là  ne' 
loro  scritti,  qualche  accenno,  pur  menomo,  alla  dottrina  della  Evoluzione. 
Egli  è  perciò  che  io  ho  stimato  opportuno  scrivere  brevemente  intorno 
al  nuovo  metodo  col  quale  studiare  le  produzioni  dell'arte. 

(*)  Carducci,  Confessioni  e  Battaglie,  serie  ],  pag.  139.  Roma  1883, 
Editore  Sommaruga. 

(**)  Trezza,  Un  vi^io  nella  critica  contemporanea  «  Napoli  Lette- 
raria »,  Anno  terzo.  Nuova  serie  (numero  sesto). 


67 


todo  rigidamente  storico,  risalendo  alle  leggi  che  go- 
vernano que'  dati  fenomeni  letterari  pei  quali,  scom- 
parse certe  forme,  quelle  che  resistono  son  diversa- 
mente atteggiate  secondo  le  differenti  condizioni  am- 
bienti, secondo  la  momentaneità ,  vorrei  poter  dire,  del 
clima  storico,  come  il  Trezza,  coniando  un'espressione 
ardita  ma  efficacissima  ,  avrebbe  detto  in  tal  caso. 
Perchè,  dunque,  la  epopea  è  sotterrata  da  un  pezzo 
ed  è  follia  il  volerla  risuscitare  ?  perchè  agonizza  il 
dramma?  perchè  la  lirica,  la  sola  lirica  individuale, 
accenna  a  resistere  ?  Debbono  esservi  leggi  che  go- 
vernano tali  mutazioni  o  scomparse;  e  quelle  non  ci 
vengono  se  non  dalla  dottrina  darwiniana:  applichia- 
mole anche  alla  Letteratura  ,  e  così  vedremo  o  ci 
darem  ragione  di  certe  apparenti  sincopi,  di  certe 
deviazioni,  di  certi  movimenti  onde  si  esplica,  più 
verso  questa  che  quella  parte,  il  processo  storico- 
dinamico  della  realtà  umana,  dell'evoluzione  estetica 
nella  Scienza  della  parola.  E  la  lotta  per  l' esistenza  in 
Letteratura  ha  da  intendersi  così:  un  lavorìo  latente, 
incessante,  evolutivo,  mercè  il  quale  la  elaborazione 
artistica  tende  al  miglioramento  delle  sue  manifesta- 
zioni estetiche,  facendo  anche  getto  di  forme  e  con- 
tenuti che,  dopo  non  piccioli  contrasti  ,  sono  stati 
sorpassati  da  altre  forme  e  contenuti  più  consentanei 
al  clima  storico,  all'ambiente  attuale  dell'arte.  Che  sia 
cosi,  porto  un  esempio:  la  lotta,  storicamente  famosa, 
tra  il   Romanticismo  e  il  Classicismo. 

Due  scuole,  con  intendimenti  opposti  ,  si  conten- 
deano  il  primato.  La  prima,  secondata  allora  dall'am- 
biente, non  volle  che  fare  un  ritorno  all'  irrazionai 
medioevo,  ricostruendo  i  vecchi  templi  e  i  vecchi  dèi, 
e  prediligendo  forme  e  caratteri  e  colori  che  sono 
appunto  la  negazione  dell'  arte.  La  seconda  fece  an- 
che un  ritorno  al  passato,  ma  all'  antichità  classica 
greco-latina;  e,  da  poi  che  quelle  forme  classiche  — 
sereno  e  limpido  rispecchiamento  dell'umanesimo  ver- 
gine e  primitivo  dell'  uomo  pagano  —  rispondeano 
alle  tendenze  del  risorgente  ellenismo  ,  esse  ,  dopo 
grandi  contrasti  ma  con  nuovi  alleati,  han   presente- 


68 


mente  trionfato  delle  romantiche.  Anzi,  guardando  sotto 
questo  aspetto  la  Letteratura  nostra,  io  dico  che  tutta  la 
storia  del  pensiero  italiano  si  riduce  alla  lotta,  poc'anzi 
detta,  tra  il  Classicismo  e  il  Romanticismo,  e  fin  dai 
primordi  di  essa  Letteratura.  E  la  mia  opinione  non 
parrà  strana  a  chi  consideri  che  i  caratteri  fonda- 
mentali della  nostra  Arte  della  parola  possono  riassu- 
mersi in  una  lotta,  tenace  e  gagliardissima,  che  pos- 
siamo osservare  tra  il  misticismo  medioevale  e  la 
classica  antichità,  tra  l'ascetismo  e  il  paiganesimo,  tra 
il  Medioevo  e  il  Risorgimento.  E  in  questa  lotta  non 
vediam  trionfare  unicamente  le  forme  —  a  queste  sol- 
tanto la  vera  e  grande  arte  non  si  riduce  mai  — ,  ma 
e  i  pensieri,  e  le  aspirazioni  sociali,  e  le  passioni  po- 
litiche e  civili,  e  così  via.  Sicché  a  me  pare,  se  non 
piglio  errore,  che  la  nostra  istoria  delle  lettere  può 
ben  definirsi  come  il  progressivo  ed  evolutivo  svol- 
gimento della  Rojnaìiità  pagana  nelle  lettere,  nelle  arti, 
nelle  scienze,  nel  reggimento  politico,  traverso  le  te- 
nebre del  Medioevo;  e,  a  seconda  dello  affermarsi  di 
essa  romanità,  1'  arte  della  parola  assunse  nuovi  ca- 
ratteri e  forme. 

A  questo  modo  studiata  la  Letteratura,  non  ci  sarà 
più  dato  di  osservare  tante  critiche  strambe  che  vo- 
gliono dare  all'arte  le  più  paradossali  interpetrazioni. 
Ma  non  bisogna  esagerar  troppo  queste  linee  fonda- 
mentali della  nostra  Letteratura  relativamente  alla 
lotta  poc'  anzi  accennata:  limitare  ad  essa  lotta  tutto 
il  nostro  movimento  artistico,  non  basta.  Di  fatti  il 
darwinismo  anche  e'  insegna  che  oltre  la  lotta,  v'  è 
costante  la  conquista  che  gli  esseri  meglio  organizzati 
fanno  nell'  adattarsi  a  nuovi  ambienti  e  nella  naturai 
selezione  d'elementi  nuovi.  Bisogna  anche  osservare, 
per  mezzo  della  storia,  quali  elementi  ci  vennero  di  fuori 
via:  quali  dal  Germanesimo,  quali  dai  provenzali  o. 
a  dir  meglio,  dalle  letterature  neolatine  in  lingua  d'  Oc 
e  in  lingua  d' (9/7;  e  come  queste  mischianze  forestiere 
abbiano  modificato  in  parte  la  fisonomia  dell'  arte  no- 
stra. Ma  questi  elementi  non  indigeni  e  che  ci  ven- 
nero di  fuori  non  ci  debbono    far   perdere  di  vista  il 


69 


disegno  principale  della  nostra  Storia  Nazionale  Let- 
teraria che  pur  adattandosi,  grado  a  grado  e  per  be- 
nefico influsso  d'una  civiltà  nuova,  a  diverse  condi- 
zioni etnologiche  e  fisiopsichiche,  prese  le  mosse  prime 
appunto  dall'antico  appropriandosi,  lungo  la  sua  via 
un  po'  impacciata  da  sempre  gravi  ostacoli,  di  altre 
sorgenti  più  moderne,  più  fresche  e  fecondamente  re- 
frigeranti. Largo  e  diffìcile  è  dunque  il  compito  del 
Critico  evoluzionista  per  sorprendere,  di  mezzo  ai  la- 
birinti del  nostro  svolgimento  artistico,  quelle  leggi 
storico  -  dinamiche  colle  quali  mtegrare  e  fissare  tutto 
intero  il  disegno  dell'Arte  nostra, 

3. 

Selezione  naturale,  E  la  seconda  legge  darwiniana, 
e  consiste  nel  processo  che  ha  la  natura  nella  scelta 
di  quegli  esseri  i  quali  meglio  cospirano  al  progres- 
sivo ed  evolutivo  avanzamento  della  natura  istessa. 
Così  anche  in  Arte.  Le  manifestazioni  estetiche  non 
partono  imjirovvise  —  come  credono  tanti  —  dal  cer- 
vello dello  scrittore  a  quella  guisa  che  Minerva,  giu- 
sta il  mito,  da  quel  di  Giove,  ma  sono  il  portato,  la 
naturale  emanazione  dal  clima  storico  dell'arte:  sono 
il  portato  spontaneo  e  incosciente  di  un  dato  mo- 
mento, etnico  e  climatico,  di  civiltà.  Che  cosa  è  V Iliade 
(V  Omero?  È  la  riflessione  del  sentimento  poetico,  nel 
primo  momento  della  civiltà  greca,  di  un  popolo  che, 
nella  collaborazione  e  molteplicità  rapsodica  di  mille 
canti  nazionali  i  quali  ci  rappresentano  lo  spirito  collet- 
tivo di  quell'epoca  felice,  die  fuori  una  poesia  popolar- 
mente spontanea  e  primitiva.  U  Iliade  non  fu  la  crea- 
zione d'  un  genio;  e  i  più  dotti  ellenisti  meglio  ne 
assicurano  che  quella  mirabile  opera  epica,  per  manco 
di  rigida  unità  nelle  parti  sue  e  per  molte  altre  ra- 
gioni, è  l'opera  uscita  fuori  della  cooperazione  di  tutta, 
si  può  dire,  una  civiltà,  di  tutto  un  popolo.  E  così 
nascono  tutte  le  epopee  che  segnano,  quando  primi- 
tive, r  età  prima  d'  un  popolo  nuovo.  «  In  questa 
prima  età,  tutto  il  popolo —  scrive  un  critico  insigne — 


fa  la  sua  poesia,  tutto  il  popolo  la  canta:  l'epopea  è 
l'aureola  della  nazione,  è  come  lo  splendore  che  cinge 
il  castello  de'  gloriosi  nel  limbo  di  Dante: 

un  loco 
Cii"  emisj»erio  di  tenebre  vincìa; 

meglio  ancora,  è  la  fiamma  e  la  luce  che  esce  dalla 
conflagrazione  e  dalla  incandescenza  dei  vari  elementi 
del  popolo  che  si  fondono  in  nazione.  Quella  è  l'età 
barbara,   l'età  eroica,   l'età  divina  »  (  i  ). 

Non  si  può  dir  meglio.  E  qui  il  critico,  quasi  invo- 
lontariamente, si  sente  come  trasportato  ad  affermare, 
senza  volerlo,  il  principio  della  teorica  darwiniana  della 
selezione  naturale.  Segno  che  la  teoria  è  vera.  E  allora 
come  possiamo  diversamente  darci  ragione  di  que- 
ste epoche  artistiche  primitive  senza  far  capo  al  dar- 
winismo? —  Dopo,  quando  la  civiltà  d'  un  popolo  si 
rende  men  rude  e  più  raffinata,  l'arte,  come  anche  le 
altre  esigenze  della  vita,  si  rende  riflessa  e,  sotto  varii 
aspetti,  individuale;  ma  questa  individualità  bisogna 
intenderla  in  un  senso  molto  relativo,  come,  cioè,  la 
espressione  propria  e  originale  di  chi  scrive,  ma  che 
ciò  non  ostante  piglia  dal  tempo  i  caratteri,  i  tipi  e 
le  mosse  prime.  È  impossibile  :  o  bisogna  essere  del 
proprio  tempo,  o  di  nessuno;  1'  uscirne  è  pericoloso, 
per  gli  uomini  di  scienza  e  di  azione.  Il  genio  è  ap- 
punto quello  che  sa  valersi  delle  forze  del  tempo  di- 
rigendole per  vie  migliori;  ma  non  le  crea  lui/  espli- 
care le  attività  acquisite  non  vale  il  crearle:  ex  nihilo 
nihil  fit.  Dunque,  è  la  natura  naturalizzante,  come  di- 
rebbe il  De  Domìnìcis,  che  crea  gli  ambienti  e  vi  di- 
rige lo  spirito  della  collettività  umana,  secondo  leggi 
immanenti,  eterne,  durature.  L'uomo  è  mosso,  e  l'at- 
tività sua,  originale  e  propria,  non  è  altro  che  l'atti- 
tudine che  ognun  di  noi  ha  per  incamminarsi  più  per 
questa  che  per  quella  via,  per  respirare  più  questa 
che  queir  aura  del  clima  storico. 


(*)  Carducci,    "Bo^^elti    Crìtici  e  Discorsi   Lelierari,    pagg.  445-46. 
Livorno,  Vigo,  1876. 


71 


Guardiamo  il  Trecento.  Ognuno,  anche  di  secoli 
da  quello  lontani,  si  ammira  di  quelle  forme  e  di  quei 
pensieri,  freschi  e  agevoli,  ingenui  e  primitivi,  sem- 
plici e  naturalissimi,  quali  un  popolo,  spontaneo  e 
primitivo  ,  potea  dar  fuori.  Oltre  quel  tempo  non 
possiamo  più  aver  quel!'  arte,  quell'ingenua  e  soave- 
mente infantile  manifestazione  del  pensiero  umano. 
Ora,  procedendo  nella  storia,  che  cosa  osserviamo? 
Osserviamo  che  l'arte,  anche  quella  de'  secoli  poste- 
riori, cerca  sempre  più  di  avvicinarsi,  per  una  ten- 
denza affatto  spontanea,  a  quelle  forme  leggiadre, 
cerca  rinnovellare  il  gusto  ,  omai  guasto  ,  di  tempi 
posteriori,  rinfrancandolo  e  rinfrescandolo  in  quelle 
chiare  fresche  e  dolci  acque.  Quanto  studio  non  han 
messo  i  nostri,  Alfieri,  Parlili,  Foscolo,  Leopardi, 
per  produrre,  su  quegli  esempii,  come  un  rinnovamento 
della  nostra  letteratura!  quanta  industria  non  si  mette 
da'  migliori  scrittori  per  formarsi  su  que'  classici  un 
gusto  proprio  e  corretto!  Perchè  non  si  son  rimessi 
in  onore  certi  scrittori  del  quattrocento?  perchè  certi 
altri  del  secolo  decimosesto?  Ecco,  anche  nell'arte 
come  nella  natura,  la  selezione  naturale,  intesa  come 
la  scelta,  in  tempi  o  periodi  di  ottimo  gusto,  di  quelle 
forme  migliori  atte  ad  essere  rinnovellate  e,  salvo  le 
debite  modificazioni,   rimesse  in  onore. 

Anche  nella  morfologia  delle  lingue  una  lettera, 
una  consonante,  una  sillaba,  non  son  messe  a  caso 
in  quelle  date  o  combinazioni  od  accoppiamenti,  ma 
seguono  una  legge  di  articolazione  fonetica  rispon- 
dente a  quel  gusto  o  a  quel  senso  di  armonia  che  un 
popolo,  più  o  men  culto,  più  o  men  raffinato,  si  è 
andato  formando  nel  corso  di  molti  secoli.  Questo 
della  morfologia  delle  lingue  e  della  parentela  che 
esse  hanno  fra  loro  ,  è  uno  studio  fecondissimo  di 
trovati  e  di  leggi  ,  studio  che,  per  quanto  poten- 
temente coltivato  nella  Germania,  è  presso  di  noi, 
se  ne  togli  l'Ascoli,  il  Flecliia,  il  Rajna  e  qualche 
altro,  quasi  negletto.  Ora,  se  le  lettere,  le  vocali,  le 
sillabe,  le  consonanti,  hanno  una  disposizione  storica 
e  naturale  nella   struttura    della    parola,    che  dire    di 


certe  forme  più  ampie  e  più  larghe,  di  certe  frasi,  di 
certi  costrutti,  di  certi  reggimenti?  che  dire  di  tante 
forme  attinte  da  lingue  straniere  e  di  certi  nessi 
sintattici  che  sono  inerenti  alla  intelaiatura  del  nostro 
periodo  ?  Uno  studio  comparativo  fra  le  lingue  clas- 
siche propriamente  dette  (la  greca  e  la  latina)  e  le 
lingue  neolatine  (  italiana  ,  francese  e  spagnola  )  , 
come  fra  queste  e  quelle  altre  appartenenti  al  ceppo 
propriamente  germanico;  uno  studio  comparativo,  dico 
fatto  secondo  i  dettami  della  dottrina  della  Evoluzione, 
ci  può  mettere  in  grado  di  disaminare  le  ragioni  mor- 
fologiche di  costrutti  e  forme  che  non  seguono  af- 
fatto i  capricci  dello  scrittore,  ma  hanno  una  origine 
storica  e  naturale.  Ogni  letteratura  ha  dei  processi 
evolutivi,  e  obbedisce  a  tutte  le  leggi  della  Evolu- 
zione, non  ultima  delle  quali  questa  scelta  naturale 
di  forme,  dizioni,  costrutti  e  suoni,  non  che  di  ele- 
menti psicologici,  che  una  civiltà,  nella  progressione 
sua,   raccoglie  e  si  assimila  nel  suo  cammino. 

4. 

La  terza  legge  è  quella  d^W Adattaviento,  anch'essa 
importantissima,  e  dipende  e  si  fonde  con  quella  so- 
prammentovata  della  selezione  naturale.  Abbiam  detto 
che  le  letterature  non  emergono  da'  capricci  degli 
scrittori,  ma  sì  dallo  ambiente,  e  che  seguono  e  per- 
corrono diversi  periodi  secondo  che  quello  diversa- 
mente le  plasma  o  ne  accomoda  la  fisonomia. 

L'arte  —  già  lo  dicemmo  —  è  la  riflessione  della 
vita,  di  tutta  la  vita,  di  un  popolo.  Ora  questa  non 
è  sempre  la  stessa,  salvo  i  fondamentali  caratteri  della 
medesima.  Non  è  vero  adunque  ciò.  che  dice  l'Ali- 
glliei'i  nella  sua  stupenda  terzina: 

\on  è  il  monJan  rumore  altro  che  flato 

Di  vento,  cli'or  vien  quinci  ed  or  vien  quindi, 

K  muta  nome,  perchè  muta  Iato. 

Ne'  culti,    nelle  aspirazioni,    nelle    tendenze,    ne'  bi- 


73 


sogni,  ne'  reggimenti  politici  la  vita  umana,  pur  re- 
stando la  stessa  ne'  fondamenti  ,  prende  diversi  moti, 
si  allarga,  si  espande,  si  continua  sino  a  tale  uno 
stadio,  che  non  è  più  quella  di  prima.  Chi  oserebbe 
affermare  la  vita  di  mill'  anni  fa,  essere  la  stessa  di 
quella  che  trascorriamo  oggi?  Ora,  sorta  una  nuova 
vita,  sorgono  per  necessità  esigenze  nuove;  e  lo  spi- 
rito umano  che  la  investe  tutta,  perchè  si  manifesti, 
non  può  essere  più  contenuto  nella  breve  orbita  di 
quelle  forme  e  di  quelle  manifestazioni  nelle  quali 
poteva  adagiarsi  la  vita  psicologica  del    passato. 

Il  dramma  umano  si  ripete  ne'secoli,  dicono  tanti. 
È  vero:  l'uomo  essendo  sempre  e  in  fondo  lo  stesso 
ne'  suoi  vizi  e  nelle  sue  virtù,  la  Commedia  umana  è 
fondamentalmente  identica.  Ma,  se  molti  alberi  hanno 
nelle  profonde  pieghe  del  terreno  le  istesse  radici, 
non  perciò  tutti  distendono  i  medesimi  germogli  a' 
soli  novelli.  Bisogna  guardare  non  solo  le  radici  della 
vita,  ma  anche,  e  più,  il  suo  esplicamento,  il  suo  pieno 
svolgimento,  il  suo  continuamento  progressivo.  Così, 
cambiando  la  vita,  anche  le  forme  hanno  bisogno  di 
seguirla  nelle  permutazioni  sue.  Pensiero  e  forma  na- 
scono a  un  parto:  sono  gemelli.  Non  è  vero  che  il 
pensiero  si  presti  solo  a  essere  rappresentato  colle 
medesime  forme,  ma  ha  bisogno  di  altre  meno  di- 
scordanti da  quella  organica  e  primigenia  colla  quale 
esso  ci  si  è  andato  determinando  nella  mente.  Di  qui 
il  bisogno  di  forme  nuove.  Allora,  quelle  forme  an- 
tiche che  possono  adattarsi  al  nuovo  ambiente  sociale, 
sopravvivono:  scompaiono  quelle  altre  che  non  pos- 
sono acconciarsi  a  un  nuovo  adattamento.  E  qui  os- 
serviamo due  specie  di  adattamenti.  Nel  primo  abbiam 
la  trasformazione  di  certe  forme  già  vecchie  che  pren- 
dono diversi  atteggiamenti,  diverse  combinazioni  mor- 
fologiche nella  struttura  organica  di  un'  arte  nuova. 
Nel  secondo  abbiamo,  invece,  la  genuina  riproduzione 
di  forme  già  vecchie.  Ma  non  sempre  ci  bastano  i 
materiali  preesistenti;  e  allora  vengon  fuori  forme  af- 
fatto nuove  che  il  pensiero  trova  oltre  i  confini  del- 
l'antico, adattandole,  secondo  il  genio   paesano,    alla 


74 


natura  del  proprio  linguaggio  ,  dell'  arte  nuova  e 
propria.  Questa  legge  di  adattamento  venne  anche 
riconosciuta  dagli  antichi:  ad  esempio,  da  Orazio,  nel 
suo  notissimo:   Multa  renascentur  quae  jam  cecidere. 

Le  condizioni  d'  un  nuovo  pensiero  hanno  dunque 
bisogno  di  nuove  forme  organiche  che  meglio  lo  rap- 
presentino. Possiamo,  alcune  volte  ,  rappresentare  il 
pensiero  nostro  con  forme  già  vecchie;  ma  in  questo 
caso,  siam  costretti  a  prendere,  non  la  via  più  diretta 
e  più  breve,  ma  la  più  lunga  e  meno  acconcia  alla 
rappresentazione  artistica  ,  adoperando,  cioè,  circon- 
locuzioni e  lungaggini,  che  il  più  delle  volte  lo  tra- 
visano o  ne  guastano  l'organica  espressione. 

Il  pensiero,  nella  sua  rappresentazione,  ha  tre  valori: 
stoi'ico,  estetico,  musicale.  Il  valore  storico  è  quello  che 
determina  e  raffigura  il  pensiero  individuandolo  nello 
stampo  suo  proprio  ,  nelle  caratteristiche  peculiari 
della  vita  psichica  che  lo  produce.  Ogni  pensiero 
dee  avere  questo  stampo,  questo  particolare  suggello 
storico:  altrimenti  si  è  fuori  dell'attualità  artistica  di 
quel  dato  periodo  letterario  che  lo  plasma  e  rileva. 
Il  pensiero  latino  nell'  età  augustea  ha  dei  caratteri 
che  mal  si  possono  ravvisare  nelle  età  posteriori,  ca- 
ratteri che  si  delineano  nelle  predilezioni  di  colori, 
di  figure  ,  d'  imagini,  di  fantasmi,  di  sentimenti,  di 
costrutti,  ecc.  11  valore  estetico  è  insito  nelle  partico- 
lari maniere  della  rappresentazione  artistica  ,  rispon- 
dente alle  particolari  condizioni  e  attitudini  che  ha 
un'epoca  letteraria  di  guardare  il  vero  secondo  le  sue 
percezioni  e  intuizioni  estetiche.  Il  valore  musicale., 
infine,  sta  nell'  armonia  della  parola  e  della  forma, 
armonia  ch'è  pur  rispondente  all'acustica  di  un  dato 
popolo,  che  ha  gusti  anche  speciali  nel  gustar  quella 
e  nel   ricercarla. 

Ecco  sotto  quali  manifestazioni  molteplici  bisogna 
considerare  1'  adattamento  in  letteratura.  La  scienza 
della  parola  dee  obbedire,  sopra  a  ogni  cosa,  alla 
legge  di  adattamento  ,  perchè  tutte  le  arti  sono  tra- 
smutabili per  mille  e  diverse  guise:  esse  rispecchiano 
lo  spirito,  i  gusti,  i  sentimenti,  le  predilezioni  di  una 


75 


data  civiltà  e  di  determinate  fasi  di  essa.  Senza 
questo  olimpico  sguardo,  la  letteratura  non  sarà  mai 
scienza,  ma  semplice  trastullo  e  giuoco  d'uomini  che 
vogliono,  con  diversi  materiali  ed  instrumenti,  passar 
da  questa  a  quella  manifestazione,  da  questo  a  quel 
rappresentamento  del   bello  e  del  vero. 

E  non  le  sole  forme  hanno  bisogno  di  adattamento, 
ma  anche  la  psicologia,  diciam  così,  ond'è  informata 
la  vita  ideale  d'un  dato  clima  storico.  Quel  sostrato 
di  pensieri,  che  cade  sotto  lo  incalzare  progressivo 
e  incessante  de'  tempi,  non  ha  più  ragion  di  esistere, 
e  l'arte  anche  lo  rigetta,  a  quel  modo  che  s'ispira  a 
quel  mondo  d'imagini,  d'intellezioni  e  di  fantasmi  che 
è  bene  risuscitare  e  che  desta  anche  negli  uomini 
presenti  curiosità  viva  e  diletto.  Il  Risorgimento,  che 
dall'umanesimo  greco  e  dalla  rigidità  sana  e  plastica 
del  mondo  latino  molto  derivò  di  pensieri  e  di  forme, 
seppe  renderci  di  quella  vita,  non  l'elemento  caduco 
e  transitorio  che,  sorpassato  dalla  evoluzione,  venne 
seppellito  colla  caduta  di  quelle  due  grandi  civiltà, 
ma  sì  quegli  elementi  superstiti  che  sempre  afferma- 
rono il  perenne  loro  immanere  nella  ricomposizione 
di  civiltà  nuove  e  moderne.  Tutta  la  realtà  cosmica 
consta,  adunque,  di  conservazione  e  d'  innovazione. 
Come  nella  crosta  geologica  anche  avanzano  strati 
tellurici  che  son  destinati  alla  composizione  di  nuove 
agglomerazioni  e  combinazioni  sismiche,  e  come  nella 
scala  zoologica  molti  esseri,  per  ragioni  di  adatta- 
mento ,  han  resistito  alla  forza  di  nuovi  climi  e  di 
nuova  posizione  geografica  nel  globo  ;  così  anche  le 
manifestazioni  artistiche  di  civiltà  passate  e  tramon- 
tate, secondo  regolari  adattamenti,  si  possono  ancora 
conservare  e  fondere  con  elementi  innovatori  che 
determinano  e  acconciano  i  lineamenti  antropologici 
di  un  dato  popolo  e  di  una  data  civiltà.  E  come  non 
tutti  gli  esseri  sono  suscettibili  di  adattamento,  il 
perchè  quelli  che  non  lo  sono,  scompaiono  affatto 
dalla  terra;  così  anche  tutti  quelli  elementi  letterari 
che  mal  si  adattano  al  nuovo  clima  artistico  ,  spari- 
scono pur  essi,  per  essere  sostituiti  da  altri  più  gio- 


venilmente  durevoli  e    più    resistenti    alle    condizioni 
cambiate  del  nuovo  ciclo  letterario. 

5. 

La  —  Sopravvivenza  del  più  adatto  — ■  è  la  quarta 
legge  darwiniana  che  anche  osserviamo,  e  in  grado 
mirabile  ,  in  Letteratura.  Di  fatti  —  lo  abbiamo  ac- 
cennato di  già  —  non  tutti  i  tipi  letterari  possono 
resistere  alle  innovate  condizioni  dell'  arte  :  alcuni 
scompaiono  e  altri  resistono  secondo  la  legge  succi- 
tata di  adattamento.  Ma  in  Letteratura  v'  è  sempre 
la  sopravvivenza  del  pili  adatto  F  Certamente  è  fuori 
di  dubbio.  E  allora,  dopo  l'aureo  Trecento,  con  qual 
processo  evolutivo  incontriamo  il  periodo  degli  eruditi 
e  de'  classicisti?  e  come  va  che,  dopo  l'elegantissimo 
Cinquecento,  c'imbattiamo  nelle  originalità  strane  del 
Seicento?  La  difficoltà  par  grave,  ma  non  è.  L' un 
secolo  e  1'  altro  furono  di  preparazione:  il  primo  al 
fecondissimo  ma  non  originale  Cinquecento,  e  l'altro 
al  movimento  letterario  de'  secoli  di  poi.  E  ognun 
sa  che  nei  periodi  di  transizione  o  di  preparazione, 
quando  da  forme  già  esaurite  si  passa  ad  altre  piìi 
fresche  e  più  recenti,  l'arte  accoglie  anch'essa,  nel- 
r  embrione  delle  sue  prime  faccettature  e  de'  suoi 
primi  lineamenti  ,  le  adombrature  non  ancora  chiare 
e  determinate  del  nuovo  periodo  letterario  che  sta 
per  venir  fuori.  In  un  altro  nostro  scritto,  anche  pub- 
blicato su  questa  «  Rivista  »  (i),  accennammo  più 
largamente  a'  periodi  o  cicli  storici  di  fronte  all'  e- 
voluzione;  il  perchè  ci  dispensiamo  di  ripeterci  o  di 
prolungarci  qui.  Laonde  quel  regresso  in  Letteratura 
è  invece  tutto  apparente  e  illusorio,  essendo  esso  la 
preparazione  di  due  nuovi  e  particolarissimi  periodi 
letterari  che,  secondo  il  progresso  embriogenico  e  di 
differenziamento  dalle  passate  condizioni  letterarie,  si 


(1)  (>HBccHiA,  Le  fnrma'^ioni  storiche  e  il  così  detto  periodo  delle 
inlermilten^e  secondo  i  dettami  della  filosofia.  «  Rivista  di  Filosofia 
scientifica  »,  marzo-aprile  1884,  voi.    Ili,  n.  5. 


n 


affermano    in    forme  apparentemente  false  o  balzane. 

È  inutile  sbraitare,  come  fanno  i  retori  e  i  pedanti, 
intorno  al  Seicento.  Oh,  non  vedete  ancora,  di  mezzo 
alle  stranezze  di  questo  secolo,  la  tendenza  del  pen- 
siero, soffocato  e  impedito  nel  passato  dalla  tirannide 
politica  e  spirituale,  ad  assorgere  a  più  larghi  e  liberi 
voli?  Quella  esuberanza  di  pensiero,  di  fantasmi  e  d'ima- 
gini,  non  trovando  un  acconcio  alveo  nel  quale  con- 
tenersi, sforzò  le  forme  e,  sotto  le  mentite  seduzioni  di 
originalità,  die'  nel  goffo  e  nel  manierato.  Sotto  questo 
solo  aspetto  può  studiarsi  il  Seicento.  La  Riforma, 
oltre  alle  solitarie  e  ardite  speculazioni  di  Vico  e  alle 
genialità  di  Gralilei  e  d'altri  nostri,  avea  svegliato  gli 
ingegni  i  quali  ,  nei  due  secoli  precedenti  e  special- 
mente nel  pontificato  di  Leono  X,  non  si  erano  del 
tutto  desti;  ma  liberi  alfine  dalla  servitù  ideale,  sen- 
tirono come  il  bisogno  di  espandere  prepotente- 
mente le  attività  loro.  Ciò  che  prima  fu  contenuto, 
ruppe  gli  argini.  Anche  il  popolo  italiano  sentivasi 
libero,  quand'anche  avesse  dinanzi  gli  occhi  il  rogo 
di  Giordano  Bruno  e  una  più  terribile  tirannia  spi- 
rituale: la  Riforma  gli  aveva  rifatto  la  fibra.  E  come 
la  servitù  nostra  fu  più  intensa,  così  nella  libertà 
ideale  si  oltrepassarono  i  limili,  e  fu  la  licenza:  nel 
pensiero  e  nell'  azione.  Quest'  eccesso  di  libertà  di- 
venne addirittura  un  morbo,  come  avviene  di  que' 
giovani  che,  liberi  appena  da  un  troppo  lungo  ritiro, 
si  sfrenano  assai  licenziosamente  nel  piacere  e  nella 
voluttà.   Così  nel    seicento. 

Andiamo  oltre.  Ma  v'  ha  sempre  la  sopravvivenza 
del  più  adatto?  Oh  perchè  no?  E  si  noti  che  io  am- 
metto anche  nell'arte,  come  già  in  tutto,  un  perenne 
progresso:  per  me  non  esistono  né  sospensioni  né  in- 
termittenze.' la  vita  si  evolve  e  si  continua  sempre 
progressivamente.  La  sopravvivenza  del  più  adatto  — 
dico  seguitando  —  ha  da  intendersi  anche  come  la 
sopravvivenza  in  arte  delle  forme  migliori  e  più  adatte 
al  nuovo  momento  storico  -  letterario.  E  allora,  furon 
migliori  le  forme  dell'Aretino  e  de' mille  petrarcheg- 
gianti  del  secolo  che,  come  disse   l 'Alfieri,    delirava? 


78 


Adagio.  Migliori,  apparentemente,  non  furono;  ma 
anche  in  quel  cozzo  ibrido  d'  imitazioni  e  di  rifaci- 
menti, di  lascivie  e  di  escandescenze,  di  smancerie  e 
d'  influssi  non  buoni  venutici  d'oltr'alpe,  l'arte,  pas- 
sando pel  crogiuolo  di  quegli  elementi  informi,  an- 
dava preparandosi  a  forme  men  scabre  e  più  pulite, 
men  diffìcili  e  più  correnti,  men  fìsse  e  più  moderne, 
meno  uniformi  e  più  recenti:  il  che  fu  vanto  dei  secoli 
di  poi.  In  questo  secolo,  dunque,  balzan  fuori  i  linea- 
menti primi  di  un  nuovo  periodo  letterario  nel  quale 
saran  grandi  il  Gozzi  e  1'  Alfieri,  il  Parini  e  il  Fo- 
scolo, il  Monti  e  il  Leopardi,  se  ci  si  potrà  permet- 
tere di  far  cominciare  dal  Ciozzi  insino  al  Manzoni  il 
momento  più  saliente  del  periodo  summentovato.  Ma 
soffermarsi  unicamente  alle  forme  —  1'  ho  detto  più 
volte  in  questo  scritto  —  è  come  considerare  la  cri- 
tica da  un  solo  de'  due  lati:  la  critica,  vo'  dire, 
scientifica. 

Guardiamo  ora  il  pensiero,  la  vita  psicologica  di 
quel  secolo  strano.  Fu  il  trionfo  della  voluttà,  anzi 
della  brutalità,  dicono  alcuni.  Vo'  ammetterlo.  Ma  que- 
sta voluttà  è  appunto  quella  che  constituisce,  fin  dal 
primo  scomparire  del  medioevo,  la  scaturigine  delle 
più  vere  e  delle  più  grandi  ispirazioni  artistiche.  E 
chi  sorprende  nella  storia  dell'  arte  nostra  lo  svolgi- 
mento di  questo  paganesimo  determinandone  i  carat- 
teri e  gli  stadi  evolutivi,  quegli  ancora  saprà  darsi 
ragione,  colle  leggi  darwiniane,  di  tanti  e  così  com- 
plessi fenomeni  letterari.  E  sappiasi  come  nel  Seicento 
quella  esagerazione  della  voluttà  che  si  infiltrò  in  tutte 
le  pieghe  della  vita  sociale,  la  licenza  e  la  sfrenatezza 
del  pensiero  e  dell'  azione  ,  hanno  da  considerarsi 
come  elementi  preziosi  per  meglio  determinare  le  età 
storiche  posteriori. 

A  noi  pare  che  anche  questa  legge  della  soprav- 
vivenza del  più  adatto  possa  esserci  guida  sicura,  nella 
storia  critica,  per  interrogare  le  ragioni  intime  di  certi 
svolgimenti,  di  certe  forme,  di  certi  tipi  e  anche  di 
quei  gravi  difetti  che  siam  usi  osservare  nei  tempi 
di  preparazione  o  di  passaggio  a  un  nuovo  periodo 
letterario. 


79 


Cosi  considerato  ogni  corso  della  nostra  Letteratura, 
essa  ci  parrà  non  una  serie  di  piccioli  organismi  senza 
alcun  addentellato  fra  loro,  ma  un  grande,  un  solo 
mirabile  organismo  che  si  continua  eternamente,  e  del 
quale  tanti  cicli  letterari  altro  non  sono  che  semplici 
sue  funzioni  in  cui  circolano  le  attività  complesse  di 
una  vita  sola,  la  vita  del  genere  umano  tutto  quanto. 


6. 


L'azione  del  clima  o  dell'  ambiente  sulle  forme  or- 
ganiche non  fu  forse  abbastanza  considerato  da  Carlo 
Darwin;  ma  le  ricerche  recenti  dei  naturalisti  che  ne 
seguirono  e  ne  completarono  la  dottrina,  hanno  dato 
vita  ad  una  scienza  nuova,  alla  Mesologia,  che  studia 
le  relazioni  degli  esseri  con  le  condizioni  fisiche  ed 
organiche,  in  mezzo  alle  quali  essi  vivono.  Noi  dob- 
biamo dunque  applicare  una  quinta  legge,  quella  del 
«  mezzo  esterno  »,  alla  genesi  ed  alla  evoluzione  delle 
forme  artistiche.  Più  sopra  abbiam  diverse  volte  par- 
lato di  «  clima  storico  »,  di  «  ambiente  letterario  », 
e  così  via.  Ora  il  clima  artistico  altro  non  è  che  l'at- 
tualità o,  diciam  meglio,  la  temporaneità  della  evolu- 
zione letteraria,  mercè  la  quale  il  senso  estetico  di 
un  popolo,  in  dato  periodo  della  civiltà  sua,  si  adatta 
e  atteggia  con  speciali  e  differenti  caratteri  o  tipi.  La 
elaborazione  artistica  attinge  il  suo  contenuto  dalle 
particolari  condizioni  dell'  ambiente  letterario  che  i 
rivolgimenti  politici  e  sociali,  i  culti  e  costumi  diversi, 
non  che  le  diverse  predilezioni  o  affezioni  psichiche, 
hanno  formato  e  predisposto.  Uno  scrittore,  che  la 
materia  piglia  fuori  del  proprio  tempo  e  che  s'  inspira 
a  fantasmi  e  a  sentimenti  che  son  fuori  dell'  orbita 
di  evoluzione  che  percorre  il  suo  momento  di  ci- 
viltà, non  sarà  artista  mai,  né  poeta.  E  come,  in 
determinati  cicli  storici,  balzano  fuori  manifestazioni 
recenti  o  anche  altre  già  vecchie,  ma  diversamente 
plasmate  o  atteggiate;  cosi  anche  certe  altre  cessano, 
non  operano  più. 


So 


Certo,  alcuni  monumenti  antichi  possono  rifarsi,  ma 
ricopiandoli  quali  essi  sono  o  ci  venner  tramandati 
dalla  più  lontana  antichità;  ma  arrogarsi  il  compito 
di  costruire,  con  nuovo  e  attuale  ardimento  architet- 
tonico, un  monumento  che  pur  abbia  quei  tipi  o  quelle 
linee,  non  è  da  noi:  farlo,  sarebbe  come  un  tra- 
visare la  grande  arte  antica,  non  avendo  noi  né 
quelle  predisposizioni  estetiche,  né  quell*  intelletto 
artistico.  Oggi,  ad  esempio,  si  vuole  ricopiare  la  eccel- 
lente arte  pompeiana,  e  molti  edifizi  ho  visto  di  stil 
pompeiano:  ma  questi  altro  non  sono  che  un  sem- 
plice, nudo,  genuino  rifacimento  di  questo  genere  di 
architettura  classica.  Che  sia  così,  possiam  vederlo  in 
certi  restauri  di  antichi  tempii,  anche  di  quelli  del 
Rinascimento,  i  quali  son  così  povera  cosa  e  fanno 
così  grave  contrasto  con  la  vera  architettura  classica, 
da  non  dar  luogo  a  confronti.  Se  1'  uomo  d'  oggi  — 
la  ragione  è  tutta  qui  —  si  ostinasse  a  formare  un  di- 
segno tutto  suo  in  quello  stile,  non  farebbe  opera  né 
antica  né  moderna.  Né  ciò  dipende  solo  da  inferio- 
rità artistica  nostra,  ma  sì  da  diversità  di  clima  sto- 
rico-estetico. Come  in  tutte  le  altre  arti,  così  anche 
in  letteratura. 

Ognuno  studia  ed  ammira  quel  grande  capola- 
voro dell'  arte  nostra  che  é  la  Divi?ia  Commedia.  Ora, 
provatevi  a  rifarmi  quella  poesia  della  vision  teologica 
del  medioevo!  L'  uomo  d'  oggidì  potrebbe  tollerare 
più  un  viaggio,  come  quello,  nell'Inferno,  nel  Purga- 
torio e  nel  Paradiso  ?  potrebbe  aver  interesse,  come 
già  l'uomo  del  medioevo,  a  vedersi  sfilar  dinanzi  e 
quei  personaggi  e  quelle  fantasmagorie?  —  Certo, 
noi  ammireremo  sempre  la  Divifia  Coìnmedia  come 
lavoro  d'  arte,  ma  nella  olimpica  serenità,  nella  re- 
gione elevata  della  storia  letteraria;  la  leggeremo  e 
la  daremo  sempre  allo  studio  de'  giovani,  ma  per  ciò 
che  è  permanente  e  duraturo  nell'arte.  E  però  quella 
che  io  direi  fisonomia  attuale  e  temporaneità  di  un' 
opera  d'arte  antica  non  possiamo  tollerarla  più:  si  è 
esaurita,   si  é  divelta  dalla  vita  nostra. 

Ciò  prova,   e  in   modo    incomparabimente    efficace. 


che  è  il  clima  storico  quello  che  acconcia,  rileva  e 
trasforma,  come  sur  un  rilievo  plastico  e  trasmuta- 
bile, la  fisionomia  nei  molteplici  prodotti  di  un  dato 
periodo  di  civiltà.  Legge  immanente,  necessaria,  im- 
portante, senza  della  quale,  ma  fuori  della  fissità  e 
dell'esclusivo  assolutismo  della  vecchia  scuola  retto- 
rica,  non  possiamo  assorgere  mai  a  quella  universa- 
lità sintetica  che  tutte  abbraccia,  nella  immensa  orbita 
dell'arte,  le  produzioni  estetiche  o  le  riflessioni,  in 
date  epoche  della  umanità,  dello  spirito  umano  e 
collettivo  nella  perenne ,  evolutivamente  progressiva 
ascensione  sua. 

7. 

I  caratteri  e  le  forme  sviluppatesi  per  relazione 
naturale  nella  lotta  per  la  vita,  quando  si  adattino  al- 
l'ambiente, vengono  trasmesse  per  la  legge  di  ere- 
dità, non  si  esclusivamente  però  che  non  possano 
altri  caratteri  antichissimi  resistere  lungamente  e  una 
volta  scomparsi  ricomparire  per  un  ritorno  atavico. 
Trasmissione  ereditaria  ed  Atavismo  son  dunque  due 
leggi  evoluzionistiche  che  si  completano  a  vicenda  e 
s'  integrano  in  una  sola.  Anche  in  arte  od  in  lette- 
ratura ogni  nuovo  fenomeno  non  comparisce  come  per 
incanto,  senza  avere  un  addentellato  nei  fenomeni  let- 
terari od  artistici  precedenti.  Quel  mondo  ideale,  col 
quale  l'artista  plasma  e  rileva  le  figure  sue,  ha  ben 
più  alte  scaturigini  che  non  sian  quelle  che  si  van 
determinando  nel  cervello  dello  scrittore  o  nel  clima 
estetico,  del  tempo  suo.  Il  pensiero  non  prorompe  vi- 
sceralmente originale  dalla  mente  di  chi  scrive  come 
un  prodotto  nato  per  generazione  spontanea.  Il  cre- 
dere alla  esistenza  di  uomini  provvidenziali,  fatali, 
olimpici,  che  abbiano  la  forza  di  scuotere  e  di  abbat- 
tere fin  dalle  fondamenta  tutto  l'edifizio,  storico  e  so- 
ciale, del  proprio  tempo,  è  una  chimera  non  più  cre- 
duta anche  da  quelli  che  la  propugnavano  calorosa- 
mente molti  anni  fa.  Ammiriamo  l'ingegno  anche  nelle 
sue  proporzioni  colossali,    e    anche    ammettiamo,   non 

6 


82 


la  fatalità,  ma  la  eccezionalità  dell'ingegno  istesso.  E 
insieme  ammettiamo  pure  che  questi  grandi  uomini, 
questi  uomini  provzndeiiziali,  come  li  chiamerebbe  con 
frase  teologizzante  Ruggero  Bonghi,  debbono  essere 
del  proprio  tempo  e  sollevarsi  ad  una  sfera  che  per 
quanto  elevatissima,  ha  pure  moti  periodici  in  armo- 
nia col  proprio  centro.  Se  essa  si  sposta  dal  centro 
suo,  va  in  dissoluzione.  Anzi  ,  quegli  uomini  che,  o 
per  anormalità  psichica  o  per  ambizione  soverchia, 
si  allontanano  troppo  dall'ambiente  nel  quale  debbono 
vivere,  sono  colpiti  presso  i  contemporanei  e  presso 
i  posteri  dall'inesorabile  oblio.  Questi  uomini  in  disar- 
monia col  proprio  tempo  si  dicono  «  spostati  »,  anzi 
oggi  meriterebbero  un  altro  aggettivo  felicissimamente 
formato  dal  nostro  Lombroso:  quello  di  «  mattoidi  ». 
Tanto  è  influente  la  forza  del  proprio  tempo  che  ci 
investe  in  tutte  le  pieghe,  diciam  così  ,  del  cuore  e 
dell'anima!  Il  perchè  tutta  la  vita  psichica  d'un  tempo 
ha  le  sue  predisposizioni  nel  passato  che  1'  accomoda 
e  ne  determina  le  mosse  future.  Ogni  fenomeno  si 
lega  coll'altro:  vi  si  continua,  vi  si  concatena.  Se  voi 
mi  togliete,  nella  vita  cosmica  tutta  quanta  ,  questa 
continuità  perenne  di  attività  e  di  moti  ;  se  voi  mi 
rompete  nella  connessione  necessaria  de'  differenti 
cicli  storici,  quell'intimo  e  attuoso  legame  che  coor- 
dina una  realtà  storica  coU'altra;  la  vita,  cui  interdite 
d'andare  avanti  e  di  congiungersi  nei  vari  elementi 
suoi,   non  ha  più   ragion  di  esìstere. 

Ora,  questa  continuità  di  bisogni,  di  ricerche,  di 
esperienze,  di  trovati,  questa  grande  e  perenne  con- 
tinuità costituisce  la  essenza  e  consistenza  psichica 
della  vita  umana.  Ciò  anche  nell'arte.  Guardiamo,  ad 
esempio^  dopo  il  Mille,  i  primi  vagiti  dell'arte  nostra, 
i  quali,  dalla  sirventese  de'  provenzali  che  andavano 
ramingando  in  questa  e  in  quella  corte  e  in  questa  e 
quella  regione,  insino  a'  canti  erotici  che,  sull'esempio 
della  poesia  trobadorica,  comparivano  in  rozzo  dia- 
letto nella  Marca  Trevigiana  e  in  altre  contrade  del 
settentrione,  nella  Sicilia,  nella  Toscana,  ci  rappre- 
sentano il  momento  primo  della    storia  letteraria  ita- 


I 


83 


liana.  Discendiamo  a'  tempi  di  Dante  seguendo  la 
evoluzione  di  quell'  arte  che  prendea  la  inspirazione 
dalla  voluttà  [el  gai  saber),  per  quindi  assorgere  nella 
Commedia  Divina  a  quelle  forme  poetiche,  gigante- 
sche e  colossali,  in  cui  l'umano  e  il  divino,  il  mistico 
e  il  sensuale,  il  passionato  e  l'ascetico  doveano  in- 
trecciarsi mirabilmente  in  una  splendida  unione  di 
fantasmagorie  e  di  voli;  seguiamo  questa  evoluzione, 
col  processo  medesimo,  nelle  altre  provincie  della 
Letteratura  nostra,  e  ci  daremo  ragione  di  questa 
grande  continuità  ereditaria  anche  nelle  estetiche  ma- 
nifestazioni. 

Nulla  va  perduto  nel  tempo  :  pur  le  più  piccole 
tracce  che,  nel  lavorìo  dell'  arte,  lascia  e  trasmette 
un'  età  scadente,  anche  originaria,  hanno  una  in- 
fluenza nella  estetica  elaborazione  delle  età  posteriori. 
Vo'  qui  riferire  le  parole  di  un  nostro  critico  insigne 
il  quale  afferma,  come  non  si  potrebbe  meglio,  questa 
importantissima  legge  della  eredità.  «  Nulla  va  perduto 
nel  mondo,  scrive  Giosuè  Carducci:  non  1'  orma  de' 
misteriosi  augelli  primitivi  su  1'  arena  di  tanti  secoli 
che  s'è  fatta  pietra,  e  né  pure,  quel  eh'  è  più  mira- 
bile ,  lo  sfiorar  dell'  ala  della  fantasia  umana  su  le 
brume  del  passato  sfumanti  in  vetta  alla  montagna 
dei  secoli.  Ma  1'  uomo  non  bada.  »  (*)  E  a  proposito 
di  quanto  noi  dicemmo  più  sopra,  come  suggello  del 
nostro  dire,  vo'  anche  riportare  le  parole  di  così  gran 
maestro.  «  Né  una  lingua  ,  né  un  sistema  di  poesia 
si  trova  o  si  crea  da  un  uomo,  e  immaginatelo  quanto 
volete  grande  e  potente.  Come  l'accozzo  degli  atomi 
nel  sistema  di  Epicuro  ,  una  infinità  di  elementi  ap- 
pena percettibili  ,  e  combinazioni  variatissime  ,  ed 
esperimenti  e  mutazioni  e  innovazioni  succedentisi 
per  lo  più  senza  nome  e  senza  storia  ,  compongono 
la  prima  età  di  una  letteratura:  ma  le  forme  ci  sono 
già  tutte  ,  quando  viene  l'uomo  fatale  che  sebbene 
non  le  abbia  create  egli,  perché  nulla  si  crea,  pur  le 


(')  Garducui,  «  Studi  Letterari  »  pag.  26,  Livorno,  Vigo,  1870. 


84 


fa  immortali  nella  sua  gloria  »  (*)  Per  i  darwiniani 
(e  chi  non  l'è  oggi?)  il  processo  è  evidente.  In  ogni 
periodo  letterario,  per  ragioni  ataviche  od  ereditarie, 
ogni  produzione  artistica,  risalendo  sempre  nella  storia 
dell'arte,  può  sminuzzarsi  all'infinito  sino  a  sorpren- 
derne gli  elementi,  informi  e  appena  percettibili,  del 
suo  momento  primo  ed  embriogenico.  Nell'arte,  come 
in  tutte  le  manifestazioni  biologiche,  non  vi  ha  cata- 
clismi o  avvenimenti  improvvisti,  ma  tutto  s'  esplica 
e  si  determina  dopo  una  lunga  e  precedente  gesta- 
zione ,    per    le   mille  attività  trasmesseci  dal  passato. 


Queste,  a  parer  mio,  le  linee  capitali  del  metodo 
storico  -  evolutivo  in  Arte  del  quale  fu  in  Italia  valido 
propugnatore  il  Prof.  Gaetano  Trezza.  Se  non  che  — 
e  qui  mi  diparto  alquanto  dal  dotto  filosofo  —  a  me 
non  pare  che,  nelle  condizioni  vigenti  della  Critica 
nostra,  possa  ancora  applicarsi,  con  felicità  di  risul- 
tato, a  tutte  le  manifestazioni  della  vita  artistica  ita- 
liana il  metodo  summentovato,  il  quale,  perchè  possa 
felicemente  generalizzarsi,  ha  bisogno  di  un  profondo 
sostrato  nella  ricerca  e  indagine  storica  fatta  con  me- 
todo rigidamente  critico  e  scientifico.  Lasciamo  che 
tutto  si  esplori  il  campo  delle  letterature,  nostra  e 
straniere,  e  che  col  metodo  unicamente  storico  — 
qual  è  quello  che  vige  tuttora  —  si  scoprano  nuovi 
documenti,  nuovi  fatti  letterari;  e  quando  questo  pa- 
ziente e  solerte  lavorio  di  ricerche  potrà  dirsi  compiuto 
sarà  allora  il  caso  di  rivolgerci  alla  costruzione  d'un 
quadro  storico,  propriamente  darwiniano,  di  tutta  la 
complessa  produzione  letteraria.  Ogni  scienza,  come 
anche  ogni  metodo,  ha  il  suo  tempo;  e  il  dare  a  quella 
ed  a  questo  uno  sviluppo  precoce,  è  come  travisarne 
i  caratteri  e  i  tipi. 

11  concetto  darwiniano  nella  letteratura  —  non  s'il- 
luda   nessuno  —  dee    poggiare    su    basi    solidamente 


(')  CARDUCCI,  «Studi  Letterari»  pag.  155,  187G  edit.  Zanichelli,  Bologna. 


85 


storiche,  a  quel  modo  che  la  filosofia  si  basa  sulle 
verità  naturali.  Come  il  darwinismo  biologico  è  uscito 
dalle  ammirabili  investigazioni  parziali  e  minute,  mor- 
fologiche e  fisiologiche  .  così  il  darwinismo  estetico 
deve  scorgersi  mercè  l'aiuto  di  un  metodo  rigorosa- 
mente analitico  applicato  a  tutte  le  forme  artisticlie 
e  letterarie,  e  specialmente  alla  loro  genesi  e  filiazione 
successiva.  Onde  a  ragione  il  Carducci  —  cito  spesso 
dalle  opere  di  questo  critico  insigne,  perchè  in  tal 
ragione  di  studi,  vede  più  acuto,  —  a  tal  proposito, 
scrive  di  sé  cosi  :  «  I  miei  studi  sono  aridi  e  limi- 
tati: un  po'  di  filologia,  un  po'  di  paleografia  ,  un 
pò  di  critica  ,  qualche  po'  più  di  storia,  e  ricerche, 
ricerche  molte  e  faticose,  su  molti  libri,  ecc.  Nondi- 
meno un  ideale  1'  ho  anch'io,  ed  è  questo  di  alzare, 
col  metodo  storico  più  severo,  la  storia  letteraria  al 
grado  della  storia  naturale  »  (*) 

E  non  è  vero,  come  pare  si  dia  a  credere  il  Trezza 
(1.  cit.)  ,  che  il  metodo  storico,  com'è  inteso  oggi, 
in  altro  non  consista  che  in  un  semplice  cumulo  di 
materiali  e  di  indagini,  e  che  le  opere  di  Pio  Rajna 
e  d'  altri  molti  ad  altro  non  intendano  che  a  questo. 
Il  metodo  storico  odierno  non  si  fonda  sulla  ricerca 
soltanto,  che  altrimenti  non  sarebbe  critico,  ma  su 
molteplici  elementi  che  concorrono  tutti  a  renderla 
seriamente  scientifica.  Critico  veramente  è  colui  che 
sa  osservare,  con  olimpico  sguardo,  le  ragioni  intime  — 
quali,  s'  intende,  può  offerirle  il  metodo  —  che  tro- 
vansi  nelle  varie  relazioni  e  giunture  de'  diversi  e 
immensi  materiali  letterari  che,  non  bastando  accu- 
mularli, è  necessario  unire  e  fondere  insieme  come 
in  un  pieno  e  armonico  organismo.  E  non  basta. 
Entro  le  fibre  di  questo  organismo  bisogna  anche 
saper  sorprendere  la  vita  estetica  de'  diversi  feno- 
meni letterari,  non  senza  una  intuizione  propria  e 
una  minuta  disamina  dell'opera  artistica  meglio  rile- 
vata, con  opportuni  raffronti,  nelle  relazioni  e  attività 
eh'  essa  ha  con  altre  del  proprio  o  d'altri  tempi. 


(*)  Carducci,  «  Gontessioni  e  Battaglie  »,  pag.  126,  Serie  I.  — Roma, 
Soinmatiiga,  1883. 


86 


Non  altrimenti  avviene  del  naturalista:  questi  non 
sarebbe  uno  scienziato  né  aiuterebbe  a  fare  dell'  os- 
servazione empirica  della  natura  una  vera  disciplina 
scientifica,  cioè  a  dire  un  organismo  di  conoscenze, 
se  si  limitasse  a  raccogliere  fatti  staccati  e  a  disporli 
in  un  rigido  casellario  senza  occuparsi  dei  loro  rap- 
porti di  contiguità  e  di  continuità.  L'  evoluzionismo 
ha  per  questo  riguardo  vivificato  tutta  la  biologia; 
ma  è  venuto  dopo  gli  studi  parziali  di  morfologia  e 
fisiologia  comparata. 

Il  compito,  come  ognun  vede,  è  grave  e  diflìcile. 
Il  metodo  darwiniano  non  dee  avere  altro  intento  se 
non  di  meglio  lumeggiare,  risalendo  alle  leggi  fon- 
damentali che  governano  anche  i  fenomeni  letterari, 
la  vita  artistica  tutta  quanta,  nelle  più  minute  sue 
fibre,  nelle  molecole,  anzi  negli  atomi  suoi  infinitesi- 
mali: essa  dee  completare,  e  correggere  dov'esso  falla, 
il  metodo  storico,  avvertendo  sempre  che  l'uno  dee 
fondersi  coH'altro  e  che  il  primo  dee  servir  di  base 
al  secondo.  Col  darwinismo  può  il  critico  oggi  inter- 
rogare, soltanto  sotto  un  aspetto  troppo  generico  e 
universale,  certi  fenomeni;  ma  scrutarne  tutti  i  labi- 
rinti, tutti  i  meati  onde  si  genera  e  s'  esplica  1'  idea 
artistica,  non  può  senza  evitare,  ne'  luoghi  oscuri  e 
difl^icili,  il  paradosso.  La  storia  letteraria  analitica  è 
ancora  in  via  di  formazione:  una  volta  che  saremo 
più  innanzi  su  codesta  via  ,  potremo  anche  con  più 
agevolezza  costrurre  una  storia  letteraria  sintetica  o 
genetica.  Seguiamo,  per  carità,  anche  nei  metodi 
quella  necessaria  graduazione  evolutiva:  aspettiamo: 
natura  non  facit  saltus. 

Di  fatti,  dal  Settembrini  al  Carducci,  la  Critica  in 
Italia  ha  fatto  un  vero  progresso,  ha  seguito  una  vera 
evoluzione.  Laonde  io  ritengo  che  non  è  bene  disto- 
gliere i  giovani  dalle  minute  indagini  storiche,  poiché 
questi  sarebbero  più  lieti  di  abbracciare  un  metodo 
malsicuro  e  più  brillante  —  come  quello  che  dà  ad 
essi  una  mano  perché  si  sbriglino  le  fantasie  loro 
nelle  nebulosità  d'una  nuova  metafisica,  —  anziché 
quello  storico  che  ha  bisogno  di  si  lunghi  confronti. 


87 


di  sì  pazienti  investigazioni.  E  d'altra  parte  è  bene 
che  dagl'  ingegni  più  forti  e  maturi  si  cominci  a 
tentare,  almeno  ne'  punti  meno  scabri  della  Lette- 
ratura nostra  ,  qualcosa  col  darwinismo,  senza  ecce- 
dere nell'applicazione  delle  leggi  a  fatti  un  po'  difficili 
e  oscuri.  Si  ritenga  intanto  che  il  metodo  darwiniano 
è  sempre  quello  che  quandochessia  correggerà  e  com- 
pleterà il  metodo  storico  ,  facendo  della  critica  una 
vera  scienza  evolutiva. 


Vili. 


È  morta  o  è  yiya  ? 


I^^'egregio  prof.  Policarpo  Petrocchi,  nel  suo 
,  ^|5,  dizionario  che  a  servizio  delle  scuole  ridusse 
^Lj'J^J^  da  un  altro  suo  più  grande  e  die  in  luce 
pe'  tipi  Tieves  di  Milano  (*),  accumula  a  pie  di  pa- 
gina un  largo  e  diffuso  reliquiario  della  nostra  lingua 
morta,  perchè  i  discenti  possano  più  agevoli  attin- 
gere all'uso  vivo.  11  volume  ha  più  pregi,  massime 
quello  delle  accurate  notizie  etimologiche;  sebbene 
più  compitezza  volesse  il  significato  delle  voci,  non 
di  rado  monco  o  non  facile.  I  giovinetti,  specie  se 
delle  classi  prime,  vogliono  essere  illuminati  assai 
largamente;  ne'  limiti,  s'  intende,  della  intelligenza 
ed  età  loro.  Eglino,  in  generale,  non  sono  scaltri  né 
vaghi  di  ricerca;  amano  poi  veder  tutto  senza  diffi- 
coltà. Onde  non  parmi  metodico  offrir  loro  a  briciole 
o  a  spuntini  il  cibo  delle  lettere,  troppo  amaro  cibo 
se  non  pòrto  abbondante  e  insieme  gustoso  e  soave. 
Neanche  parmi  felice  il  Petrocchi  nell'escludere  che 
fa  dall'uso  vivo  più  centinaia  di  voci  che  rimangon 
tuttavia  nell'uso  eletto  dei  migliori  scrittori,  anche 
moderni,  anche  recenti;  e  inoltre  mi  sembra  si  sia  in 
ciò  lasciato  lusingar  troppo  dall'orecchio,  dal  nativo 
gusto  e  da  un  assai  limitato  cerchio  di  ben  parlanti 
italiani.  Quello  che  ci  avvien  di  sentire  in  una  re- 
gione anche  da  colti,  non  ci  avvien  facilmente  di  sen- 
tirlo in  un'altra,  per  le  diverse  abitudini  e  occasioni 
e  disposizioni  degli  animi  e  degl'ingegni.   Quella  lin- 


(*)  Novo  TUzionàrio  scolàstico  della  lingua  italiana  dell'uso  e  fuori 
(Vuso.  Milano,  Treves,  1897. 


89 


gua  correttamente  arguta  che  suona  nelle  bocche  de' 
ben  parlanti  in  Napoli  più  di  frequente,  può  bene  in 
molte  dizioni  non  esser  quella  che  parlano  più  spesso 
i  colti  o  gli  eruditi  di  Milano,  di  Bologna,  di  Roma, 
di  altrove.  Resta  la  Toscana.  Sì;  ma  quanto  è  più 
difficile  scampar  dal  ribobolo  e  dagl'idiotismi  senza 
specchiarsi  prima  nel  ricco  vivaio  classico!  Tanto  più 
che  in  Toscana  le  migliori  sorgive  del  trecento,  o, 
meglio,  le  più  pure  e  native,  zampillano  dalla  lingua 
di  quel  popolo  che  men  si  conosce  da'  buongustai 
dell'artificio  o  della  scorretta  e  povera  facilità.  Nep- 
pur  dai  pochi  veri  scrittori  contemporanei  ha  diffusa- 
mente attinto  l'autore.  E  per  darne  una  qualche  prova 
m'indugio  un  po'  a  farne  qualche  riscontro  con  il 
Carducci,  che  tutti  gl'intelligenti  e  gl'imparziali  sanno 
bene  qual  maestro  di  lingua  e  di  stile   sia. 

Ecco  qui  un  lungo  glossario  di  voci,  che  il  Petroc- 
chi nel  mentovato  lèssico  o  non  riferì  o  allogò  severo 
nelle  gemonie  della  lingua  morta.  Io,  invece,  ho  avuto 
la  fortuna  di  riscontrarne  l'uso  vivo,  stilisticamente 
opportuno  anche  se  altamente  letterario,  in  due  vo- 
lumi del  Carducci:  Storia  del  Giorno  di  Giuseppe  Pa- 
rini  [*)  e  la  Libertà  perpetua  di  S.  Marino  (**);  l'uno 
e  l'altro  scritti  poi  che  non  si  può  meglio. 

Questo  qui  è  un  primo  elenco  di  voci  non  volute 
riportare: 

Dalla  Storia  del  Giorno 

1.  Efiualilurio.  sostenitore  dell'uguaglianza.  Nuovo  ed  effi- 
cace. —  Egualitario  civile  (pag.  20):  l'usò  anche  il  Bor- 
gognoni. Il  Petrocchi  noi  riporta,  ma  il  Pantani  ha 
egualità  ecc. 

2.  Realità  per  realtà  (p.  279). 

.3.  Mascheratura  per  mascheramento  (p.   279). 

4.  Accontenta ineìito  per  accomodamento  (p.  12).  —  Il  Fanfani 

ha  accoìitenfature. 
h.  Sfranchirsi  per    divenir   franco.  —  Il    Parini:  ....  s'era 

sfranchito  da  vero  (p.  61). 

(*)  Cardccci  G.  —  Storia  dui  Giorno  di  G.  "Parini.  Bologna  .  Za- 
nichelli, 1892. 

(**)  Idem.  —  l.a  libertà  perpetua  di  S.  éMnrino,  30  settembre  1894, 
Bologna,  Zanichelli, 


90 


6.  Predicatorio,  da  predica.   Terzine  predicatorie  (p.   103). 

7.  Gioiellile  per  giovanile  (p.  105). 

8.  Comutovimento  per  commozione.    Con  momentaneo  com- 
movimento retorico  (p-  106j. 

9.  Impoetico  per  non  poetico  (p.    144).  —  Il  Fanfani  ha    im- 
poetarsi e  impoetichire. 

10.  TriMiire  per  attribuire.   Tribuita  al  Parini  (p.  154). 

11.  Grecanico:  che  si  attiene  al  greco.  Voce  filologica;  Locu- 
zioni f/reconicJie  (p.  171). 

12.  Pantosofo:  onnisciente,  conoscitore  di  tutto  fp.  171). 

13.  Vulgare  \)er  divulgare.  È  vulgato  (p.  200). 

Dall'opuscolo  La  libei'tà  perpetua  di  S.   Marino: 

14.  Acco)>iandare  per  raccomandare  fp.  1).  — 11  Petrocchi  lia 
però  accornaìidolare  ecc..  d'altro  significato. 

15.  Velivolo:  sparso  di  vele.  .4^  velivolo  Adriatico  (p.  41). 

16.  Serenatore.    Vento  serenalore  (p.  1). 

17.  Vendilegge  (p.  15)  per  trafficatore  di  leggi.  —  Il    Fanl'ani 
ha   Vendifame. 

18.  Disservire  per  servir  male  o  a  danno.  Da  Ini   disservito 
(p.  15). 

19.  lenere  per  dominio,  potestà.  In  mezzo  ed  tenere   ponti- 
ficio  (p.  19). 

20.  Scoronare  per  togliere  la  corona  o  la  sovranità.  .4  scoro- 
nar me  (p.  21). 

Segue    quest'  altro    elenco  di     voci   riportate    come 
fuori  d'uso. 

Dalla  Storia  del    Giorno: 

21.  Intra  venire  per  intravvenire.   Intravenne  la    rivoluzione 
(p.  287). 

22-  Dizione  per    potestà.    Ogni   italiana  dizione   ricchezza  e 
'memoria  degli  Este  (p.  223). 

23.  Raggiungere,  raggiungersi,  per  ricongiungere  ecc.  .S7  rag- 
giunse alta  spedizione  fp.  218), 

24.  Conto  per  conosciuto.  Inezie  conte  (p.  62).  —  Dantesco:... 
le  tue  parole  fien  conte. 

25.  Roìnanzatore  per  romanziere,  ma  in  senso  storico  (p.  63). 

26.  Sorvenire  per  sopravvenire:  piìi  breve,  e  più  acconcio  in 
quel  luogo  fp.  266). 

27.  Trombalore  per  sonatore    di  tromba.    In  senso    ironico  e 
insieme,  nel  luogo,  efficace  (p.  269). 

28.  Aurigatore  per  dilettante,  amatore   di   coccia  fp.  269).  — 
Fanfani  ha  auriga,  aurigare. 


91 


29.  ImììiascheraììK'nto  per  mascheramento  (p.  294). 

30.  ImUff'erente  per  diverso,  non  difterente,  uguale.  Indiffe- 
renti.... da  quelli  (p.  280). 

31.  Miluogo  per  mezzo,  centro.  La  Francia  fu  il  miluogo 
spirituale  di  quel  secolo  (p.  11). 

32.  Sbricio  per  vestito  miseramente  (p.  16). 

33.  Baroccaggine  per  goffaggine  ,  in  senso  artistico.  Baroc- 
caggini  delle  Accadeutie  (p.  23). 

34.  Confluire  per  concorrere.  Ove  confluiva  tutta  la  nobiltà 
milanese  (p.  29j. 

35.  Ire,  letterario,  e  non  solo  familiare,  per  andare.  Per  ire 
ad  ammirare  (p.  33). 

36.  Poi'tatura  per  foggia  d'  abito.  Contro  le  portature  delle 
donne  (p.  106). 

37.  Affigurazione  (p.  107)  per  raffigurazione,  rappresentazione. 

38.  Coinportaiuento  per  portamento  (p.  143). 

39.  Stonacarsi  per  togliersi  la  tonaca,  abbandonare  V  ordine- 
(p.  147).  Oggi  dicono  anche  sfratarsi.  Però  stonacarsi 
non  è  neppure  riportato. 

40.  yomiìiata mente  per  specialmente  (p.  168). 

41.  Comìitendare  Cp.  70)  per  raccomandare. 


Dall'opuscolo  La  libertà  perpetua  di  S.  Marino: 


42.  Scelleranza  (p.  70)  per  scelleratezza. 

43.  Figurazione:  il  figurare.  Tesser  figurato.  Le  figurazioni 
de'  combattiììienti  Titani  (p.  4).  —  11  Petrocchi  non  dà 
neppure  raffigurazione,  usitatissima. 

44.  Portendere  per  minacciai'e,  pronosticare.  I  massi  porten- 
denti  ruina  (p.  4). 

45.  Bramito:  fremito  di  fiera.  I  bramiti  delle  belce  (p.  5). 

46.  Monasterio  (p.  7)  pei'  monastero. 

47.  Riotta  per  contesa.  Le  riotte  de'  vinti  (p.  li). 

48.  Oste,  nella  frase  a  oste  (p.  13). 

49.  Fellone  per  feroce  (p.  191j. 

50.  Attelare  per  mettere  in  ordinanza  i  soldati.  Erano  alle- 
iate le  milizie  (p.  20). 

51.  Ammantellare  per  ammantare.  Ammantellatoti  di  Cristo 
(p.  21). 

52.  Piacentiere  per  adulatore  (p.  22).  —  11  Fanfani  le  riporta 
tutte,  all'in  fuori  di  qualcuna. 

Non  impolveriamo  più  i  lettori.  Basta.  L'elenco  è 
abbastanza  lungo,   e  potremmo  seguitarlo. 

Ciò  abbiamo  fatto  a  dimostrazione  della  inanità  di 
certa  scoletta  contemporanea  che  si  vanta  manzoniana 
ed  è  solo  pedantesca  e    saccente.  Con    essa  non  ve- 


92 


gliam  certo  confondere  il  Petrocchi,  né  altri  egregi: 
Dio  ce  ne  guardi!  Però  anch'essi  si  lasciano  andar 
troppo  al  mutevole  vento  che    spira. 

Meglio  diremo  in  altro  scritto  come  la  lingua  si 
fletta,  si  varii,  si  atteggi  pe'  gradi  molteplici  dello 
stile  e  de'  generi  letterari.  Ci  basti  aver  ora  accen- 
nato come  pur  oggi  v'ha  scrittori,  i  più  insigni,  i 
quali  mostrano  a  prova  che  la  nostra  lingua  classica, 
quando  a  tempo  e  luogo  saputa  eleggere  ed  anco  rin- 
frescare, non  è  ancor  morta,  e  che  l'uso  vivo  non  è 
da  attingere  alle  povere  e  torbide  acque  di  un  gusto 
facile  e  decadente.  S'esso  è  guasto,  a  chi  scrive  e  a 
chi  istruisce  spetta  il  dovere  di  rinnovarlo.  Questo  è 
quello  che  ci  vuole. 


Letteratura  Domenicale.  C 

(Ricordi  di  un  brontolone) 
I. 


^h!  begli  anni  di  gloria,  sì  avidamente  cercata 
da  scrittori  novellini  e  promettenti,  all'ombra 
de'  periodici  domenicali,  liberati  a  volo  pel 
ciel  d'  Italia  nella  mentita  primavera  dell'  ultimo  de- 
cennio. Chi  li  ricorda  più  quegli  anni?  Quante  fio- 
renti speranze  deluse!  quante  aureole  sfumate!  quanti 
trepidi  cuori  già  spenti  nell'acuta  febbre  d'ideali  e  di 
sogni  svaniti!  quanti  giovanili  entusiasmi  che  non  tor- 
nano più!  Ora  è  già  troppo  se  neh'  edicole  di  rigat- 
tieri di  spicciola  letteratura,  di  tra'  mucchi  di  quella 
morta  vegetazione  policroma,  anche  avanzino  alcune 
vizze  foglioline,  alcune  povere  fronde,  ingiallite  dal 
tempo!  E  par  che  occheggieno  di  quando  in  quando, 
in  quel  cinereo  e  polver  oso  strato  di  morta  flora  let- 
teraria, alcuni  brandelli  di  elzeviri  ne'  quali  riposan  le 
mummie  di  povere  anime,  di  poveri  coricini  giovanili, 
che  non  ebber  mai,  o  per  poco,  il  forte  bacio  della 
dea,  la  potente  impronta  e  '1  vigoroso  sigillo  deirarte. 
Un  dì  correano,  correano  come  farfalle  ebbre  di  pri- 
mavera e  di  sole,  per  la  fiorita  di  belle  aiuole  ebdo- 
madarie ,  a  cercar  le  carezze  e  i  facili  vezzi  delle 
damine  gentili  ne'salotti  eleganti,  il  plauso  degli  uo- 
mini maturi  ne'  circoli  borghesi  e  nelle  accademie 
severe,  l'adorazione  degli  studiosi  in  tutte  le  palestre 


(*)  QuHslo  sellilo  l'u  priiiiaiiieute  pubblicato  Ira  l'agosto  e  il  settem- 
bre del  1892  nella  v^^cena  Illustrata  »  di  Firenze;  per  la  qual  cosa  po- 
trebbe dopo  sette  anni  non  piacer  più  certa  vivace  lepidezza  di  p-'nsiero 
e  certo  lenocinio  di  stile  che  allora  corrispondevo  alla  frivola  mondanità 
della  letteratura  domenicale. 


94 


della  gioventù  prima.  Corsero,  come  può  correre  una 
farfalletta  intorno  il  lume,  e  si  spensero;  corsero,  come 
poveri  viatori  che  non  sepper  mai  la  meta,  né  la  rag- 
giunsero mai.   Poveri  morti! 

E  que'  pochi,  i  quali  nel  turbine  della  rèc/ame,  sep- 
per trovare  qualche  truciolo  entro  la  morta  gora  delle 
lettere  contemporanee  ,  vi  si  congiunsero  come  po- 
vere vanità  che  paion  persone,  come  le  anime  nel- 
r  Inferno  dantesco;  e  credettero  di  non  morire,  e 
illusero  tanti  della  lor  vita  apparente  sol  perchè  vaneg- 
giano su  pe'  detriti  delle  ancor  vive  cricche  letterarie 
italiane.  Ma  son  morte  anch'es?e  queste  povere  anime 
purganti  !  E,  tra  una  settimana  e  l'altra,  misere  ombre, 
ci  vogliono  chiedere  il  refrigerio  della  nostra  pietosa 
memoria,  ci  voglion  chiedere  la  elemosina  della  nostra 
attenzione  o  compiacenza,  perchè  ,  almen  52  volte 
l'anno,   lor  concedessimo  due  o  tre  minuti  di  tregua. 

Poveri  morti  !   povere  ombre  ! 

Ove  se'  tu,  o  palmimede  e  perticale  Angelino  Som- 
marnga? 

Se' tu  che,  profugo  dall' Italia  dopo  uno  scandaloso 
processo  letterario,  facesti  morir  anzitempo  tanti  gio- 
vani cuori;  e  or  godi  se,  nella  faccendiera  e  positiva 
vita  di  Buenos-Ayres,  volgi  l'occhio  e  la  memoria  al 
baratro  dantesco  da  te  aperto  nella  letteratura  italiana 
contemporanea,  ove  tante  anime  in  pena,  tante  ombre, 
insistono  a  non  voler  movere  i  passi  verso  la  placida 
e  inerte  palude  dell'  oblio. 

O  Farfalla  lombarda!  o  palmipede  Angelino!  o  Cro- 
naca bizantina!  o  Nabab!  o  Domenica  letteraria  d'  un 
tempo  ! 


Ma  fra  tanti  morticini,  fra  tante  vanissime  ombre, 
giova  rammentare  i  morti  gloriosi,  di  oggi  e  di  ieri. 
I  più  degni,  come  luminose  meteore  su  1'  orizzonte 
letterario,  apparivano  a  brevi  o  a  larghi  intervalli,  e 
quali  ogni  domenica,  quali  ogni  quindici  o  trenta  giorni: 
viveano  bene    letterariamente  o  scientificamente,    ma 


95 


finanziariamente  assai  male,  troppo  male.  Mori  la 
dotta  e  severa  Rassegna  settimanale  che  fu  delle  radis- 
sime riviste  le  quali,  escludendo  ogni  germe  di  pro- 
duzione elzeviriana,  ci  facessero  seguire  con  serenità 
e  con  riposata  quiete  d'animo,  quanto  di  meglio  offe- 
risse, nelle  indagini  erudite  e  nei  razionali  raffronti, 
la  storia  letteraria  e  critica,  in  Italia  e  fuori;  e  vi  col- 
laboravano i  migliori  letterati  e  critici  nostri  che  sono 
e  saranno  ancor  vivi,  come  quelli  che  proseguono  il 
sacro  e  difficile  minìsterio  delle  lettere  con  dignità  e 
dottrina,  senza  impostura,  senza  ciarlataneria  boriosa. 

La  Domenica  del  Fracassa  visse,  vigorosa  ed  ele- 
gante, un  anno  solo;  e  la  diresse  da  par  suo  il  Chia- 
rini: poca  o  punta  letteratura  amena,  punti  elzeviri  e 
cianciafruscole,  punti  ninnoli  da  salotto:  intendeva, 
colla  collaborazione  de'  migliori,  a  far  rinsavire  i  fogli 
domenicali  d'allora,  o  a  seppellirli  tutti.  Fu  vera  illu- 
sione: l'Italia,  allora  com'  oggi,  disse  picche  a'  gene- 
rosi intendimenti,  e  ancor  si  piacque  delle  foglioline 
marce  ricoperte  da  una  mano  d'  orpello  di  quell'  ar- 
cadia poco  pulita  che  volea  parer  novità  ed  era  la 
tisi  dell'arte;  e  il  periodico  battagliero  morì  d'anemia 
finanziaria,  perchè  gli  mancavano  lettori. 

Così  pur  visse,  parecchi  anni  innanzi,  parmi  il  72, 
il  Mare  livornese,  né  il  Chiarini  stesso  e  il  Carducci 
valsero  a  dargli  lena  e  vigore  economico.  Chi  lo  ri- 
corda più  queir  elegantissimo  periodico  toscano  ove 
per  la  prima  volta  vennero  in  luce,  nella  lor  classica 
fragranza,   le  Primavere  elleniche? 

Il  romagnolo  Preludio.,  pur  sì  giovane  e  fiorente, 
fé'  male  a  mutar  le  sue  tende  da  Bologna  ad  Ancona: 
il  Vecchini  fé'  viver  di  stenti  pochi  altri  anni  ancora 
il  caro  e  simpatico  suo  amorino,  e  se  lo  vide  morir 
fra  le  carezzevoli  braccia  con  un  trepido  sospiro  e 
con  un  rimpianto  accorato.  Era  letterariamente  assai 
vegeto  e  sano,  e  la  critica  bibliografica,  spesso  fatta 
dal  Renier,  era  delle  migliori  fra  quante  ne  apparis- 
sero in  tutte  le  altre  riviste  italiane. 

Chi  non  ricorda  le  bolognesi  Lettere  ed  arti  del 
Panzacchi  ? 


96 


Chi  non  rammemora  più  ,  ne'  rosei  e  simpatici 
fregi  onde  in  prima  pagina  si  annunziava  a'  lettori 
curiosi,  l'elegante  periodico  domenicale  che  il  delica- 
tissimo autor  di  Lyrica  e  canzoni,  di  Ricordi,  di  Teste 
quadre  ,  mandava  pe'  salottini  eleganti  e  pe'  circoli 
e  le  accademie  sotto  il  suo  nome  e  col  solletico 
della  costante  opera  sua,  critica  e  poetica  insieme? 
Pareva  ,  a  prima  vista  ,  elzeviriano  ,  ma  contava 
poco  tra  i  fannulloni  d'  Italia,  e  ammanniva  prose  e 
versi  sol  fatti  pe'  lettori  di  gusto  e  per  gli  studiosi  o 
amatori  della  vera  e  solida  cultura.  E  troppo  pesante  e 
ligneo  e  disameno,  dicevano  gl'incolti,  e  lo  gettarono 
via:  è  troppo  restio  e  corrivo  ad  accoglier  la  nostra 
stampiglia  sgrammaticata,  seguitavano  gl'imberbi  scrit- 
torelli,  e  gli  negarono  i  lor  sorrisetti  galanti:  c'è  poca 
cipria,  disser  le  dame,  e  credettero  che  quella  troppo 
seria  cultura  letteraria  guastasse  loro  il  falso  profumo 
della  bellezza  e  la  morbida  civetteria,  e  lo  dettero  , 
senz'altro,  a'  lor  cagnoli.  E  così,  dopo  due  anni  di 
vita  feconda  pe'  pochi  lettori  serii,  passò  anch'esso, 
l'elegante  foglio  bolognese,  senza  rimpianti  e  senza 
rumore,   nel  gran   numero  dei  più. 

E  la  non  meno  elegante  e  seria  e  accurata  Vita 
nova  di  Firenze,  che  l'Orvieto  con  amorevoli  cure, 
tra  un  sorriso  di  novelle  piacenti  e  un  sospir  di  rime 
gentili,  educava  e  nutriva  pel  poco  culto  e  civile  po- 
polo borghese,  visse  due  anni,  visse  bene,  ma  morì 
permanco  di  cibo  economico.  I  lettori  dissero  no  alle 
classiche  volute  delle  rime  di  Giovanni  Pascoli  riso- 
nanti trilli  di  rusignoli  ne'  fiorenti  verzieri  dell'antica 
poesia  naturale;  le  incipriate  damettine  non  ammicca- 
vano spesso  e  faceano  dispettucci  alle  niente  clorotiche 
novelle  di  Fulvia  della  Cofitessa  Lara,  di  Neera;  gli 
azzimati  vagheggini  dell'  arte  galante  arricciarono  il 
niffolo  dinanzi  alla  prosa  critica  di  troppo  disameni 
collaboratori,  e  i  soliti  e  implumi  giovincelli  videro 
sfumare  la  loro  gloriola  senz'  ali  a  legger  cose  del 
Menegazzi,  del  Menasci.  E  la  Vita  nova  morì  darwi- 
nianamente, morì  per  manco  d' adattamento:  fu  sol  di 
pochi  la  prevaletiza  del  piii   adatto:  nel  novo  ambiente 


GIOSUÈ  CARDUCCI 


97 


del  romanzo  e  della  commedia,  e  i  più,  per  non  mo- 
rire, andarono  lontani  ,  e  cercaron  altre  aure  ,  men 
pure  certo,  ma  più  per  essi  spirabili  e  vitalmente  gio- 
conde. 

E  il  De  Gubernatis,  sì  mirabilmente  produttivo  a 
schiudere  e  a  rinnovar  fogli  e  riviste,  mi  par  come 
Varaba  fe?iice  della  stampa  letteraria:  l'opera  sua  ge- 
nerativa sempre  risorge  e  dispare,  e  di  trasforma- 
zione in  trasformazione,  di  sepolcro  in  sepolcro,  fa 
rinverdir  le  ceneri  della  morta  flora  letteraria  e  par 
che    le  raccolga  e  le  covi  di  quando  in   quando. 

Prima,  o  in  sulle  prime,  covò  la  Rivista  Europea, 
e  la  fé'  vivere  parecchio  e  non  male:  la  cultura  stra- 
niera e  la  parte  glottologica  aveano  in  Italia  vita  e 
svolgimento  in  quella  sola  rassegna.  Morì;  e  poco  di 
poi  ,  su  quelle  ceneri  ,  sorse  la  mensile  Rivista  con- 
temporanea che  visse  forse  men  di  due  anni,  ma  che 
mostrava  segni  di  lunghissima  e  vigorosa  vita.  Ora, 
mentre  tutto  parca  morto  e  desolante,  ecco  che  il  de- 
cembre  del  1891  fa  schiudere  al  De  Gubernatis,  con 
indizi  di  vita  veramente  prodigiosi,  e  poco  innanzi  al 
Natale  cristiano,  una  nuova  rassegna:  Aratura  ed  Arte. 
Qual  sia  mai  questa  novissima  qiii?idicina  letteraria  , 
lo  diremo  più  innanzi. 

E  la  Natura  mantegazziana  di  Casa  Treves,  la  Do- 
menica del  Pungolo  del  Fortis,  la  Napoli  letteraria  e 
il  Don  Chisciotte  bolognese,  passarono  tutti,  dopo  una 
vita  più  o  men  vegeta  e  fiorente,  nel  numero  de'  più, 
ma  non  senza  un  acerbo  rimpianto  di  alcune  anime 
buone  e  generose.   E  così  altri  pochi  periodici. 

Delle  grandi  e  voluminose  rassegne  venne  pur  ieri 
tumulata  la  Rivista  di  filosofia  scietitifica  del  Morselli, 
che,  per  bene  un  decennio,  proseguì  con  virili  e  one- 
sti intendimenti  tutto  il  moto  vivo  delle  dottrine  po- 
sitive nelle  diverse  lor  manifestazioni,  in  Italia  e  fuori. 
E  poco  prima  era  ancor  scesa  nel  sepolcro  la  Ras- 
segna critica  di  opere  filosofiche  e  letterarie,  che,  fon- 
data dal  non  mai  abbastanza  rimpianto  Andrea  An- 
giulli,  seguitò  a  venir  meno  sotto  la  direzione  del 
Colozza,   il  quale,    pur    valente,    non  seppe    né    potè 

7 


98 


prolungarle  la  esistenza.  L'una  e  l'altra  rivista  s'  in- 
tegravano a  vicenda:  la  prima  pubblicava  soprattutto 
ampie  e  originali  monografie  scientifiche  che  poi,  rac- 
colte in  volume,  formavan  studi  novi  ed  estesi  intorno 
a'  più  ardenti  problemi  della  scienza  evolutiva;  e  la  se- 
conda dava  specialmente  in  luce  larghissime  recen- 
sioni su  opere  di  gran  valore,  italiane  e  straniere.  La 
prima  ebbe  fra'  collaboratori  Spencer,  Sergi,  Ardigò, 
Canestrini,  Boccardo,  e  aprì  vie  gloriose  a  un  fortis- 
simo e  originale  ingegno,  al  redattore  Gabriele  Buc- 
cola, che,  con  il  libro  La  legge  del  tempo  né'  feno- 
meni del  pensiero,  die  alle  dottrine  psicologiche  aspetti 
nuovi  e  inesplorati  ,  e  morì  giovanissimo  ,  appena 
trentenne,  quando  l'Italia  aveva  più  bisogno  di  lui  ; 
e  la  seconda  fu  celebre  per  una  lunga  e  mirabile 
critica  dell'  Ardigò  %\x\V Inconoscibile  d'Erbert  Spencer, 
per  studi  bibliografici  importantissimi  dovuti  a'  mi- 
gliori filosofi  positivi  d'  Italia,  e  per  articoli  sulla 
scienza  delle  religioni,  sulla  pedagogia  scientifica,  su  le 
letterature  vèdiche,  del  Trezza,  dell'Angiulli,  del  prof. 
Michele  Kerbaker.  Passarono  entrambe,  sotto  silenzio, 
in  un  ambiente  avverso  alle  scienze  positive,  ma  ven- 
nero rimpiante  da  non  pochi  spiriti  culti  e  delle  scienze 
evoluttive  amorosi  cultori. 

Morì  anche  il  Barelli,  l'ottimo  periodico  scolastico 
fondato  da  Gian  Severino  Perosino:  morì  dopo  dicias- 
sette anni  di  vita  gloriosa  e  feconda.  Sino  a  che  lo 
diresse  il  Perosino,  latinista  insigne,  benemerito  inse- 
gnante e  compilatore  di  utilissime  operette  scolastiche, 
era  fatto  assai  bene  ed  era  1'  unico  organo  che  in 
Italia  rappresentasse  degnamente  le  tradizioni  delle 
lettere  latine,  sia  con  istudi  critici  e  originali  di  lati- 
nisti valorosi,  sia  con  ottime  versioni  latine  da  capo- 
lavori italiani  in  versi  o  da  poesie  di  buoni  collaborato- 
ri. Vi  mandavano  articoli  fra  gli  altri,  insigni  latinisti 
e  molti  prelati  assai  dotti  nelle  classiche  lingue.  Giova 
citarne  alcuni:  Diego  Vitrioli,  Pasqualigo,  Iacopo  Ber- 
nardi, Luigi  Goracci,  Giuseppe  Gando,  Giulio  Con- 
terno, Cesare  Beccaria,  ecc. 

Ultimi  a  dirigerlo  furon  l'Allievo  e  il  prof.   Rinaldi; 


99 


ma  il  Baretti  era  troppo  vissuto  per  pot(?r  vivere 
ancora  in  tempi  così  avversi  alla  cultura  classica  che 
fin  dalla  cattedra  non  si  perita  qualcun  de'  nostri, 
qualche  melanconico  ingegno,  di  bandirla  del  tutto 
dall'  educazion  letteraria  dei  giovani.  Ma  ancora  avan- 
zano riviste  che  non  sono  ancor  morte,  o  che,  almeno, 
paion  vivere  ancora. 

Discorriamone    con  pacatezza  e,  possibilmente,   con 
sufficienza. 


Una  di  esse  —  sembra  incredibile!  —  è  il  Fanfulla 
della  domenica,  che  fu  il  primo  a  importar  nell'  Italia 
la  letteratura  domenicale,  nel  1879.  E  quante  ne  ha 
viste  perire  il  buon  Fanfulla!  Conta  finora  quattro  pe- 
riodi d'esistenza.  Nel  primo,  il  più  rigoglioso,  lo  guidò 
per  mano,  con  vero  aff"etto  paterno,  un  commedio- 
grafo illustre:  Ferdinando  Martini.  Chi  ricorda  più  il 
1879,  il  primo  anno  della  letteratura  indomenicata  in 
Italia?  Oh!  com'  era  bello  scorrazzare,  su  per  le  co- 
lonne del  Fanfnlla,  a  caccia  di  poesie  o  articoli  del 
Carducci,  del  Chiarini,  del  Nencioni,  del  Panzacchi, 
del  Trezza,  del  D'Ancona,  del  Masi,  del  Mantegazza  ! 
che  fremito  vivo  di  curiosità  letteraria  in  quell'anno, 
e  che  calore  battagliero  nelle  discussioni  !  Ma,  poco 
di  poi,  il  Martini  abbandonò  il  primo  e  balioso  figliolo 
alle  cure  anche  amorose  dell'  Avanzini,  direttore  del 
Fanfulla  politico  quotidiano,  sotto  il  quale  visse  pur 
bene,  ma  talvolta  con  certe  moine  e  carezze  come  di 
femminucce,  e  non  senza  qualche  scorsa  da  birichino. 
Se  non  che  il  Martini  ne  procreò  un  altro,  forse  più 
bello  e  più  simpatico  del  primo,  \a.  Dome?tica  letteraria, 
che  abbandonò  presto,  distratto  da  cure  politiche,  pas- 
sando così  di  amore  in  amore.  Seguì  1'  esempio  di 
lui  l'Avanzini,  che  affidò  il  suo  amorino  alle  cure,  un 
po'  fredde  e  studiate,  di  Eugenio  Checchi,  sotto  il 
quale  è  vissuto  sempre  un  po'  malaticcio,  sino  a 
che  —  dopo  un  terzo  periodo,  di  catalessia  —  ora 
vivacchia  stentatamente  con  certe  gx-inze  e  con  certi 


languori  senili;  e  si  prolungherà  la  sua  vecchiaia  sino 
a  che  piacerà  agli  italiani  di  tollerarlo  più. 

La  diciannovenne  Illustrazione  italiana  di  Casa  Tre- 
ves,  ancor  s'  impunta  a  rimanere  in  vita.  Seguita  an- 
cora, con  illustrazioni  spesso  pregevoli  e  accurate,  a 
menarci  a  diporto  fra  statue  e  monumenti,  fra  pro- 
motrici  di  accademie  e  fra  esposizioni  nazionali,  fra 
spettacolosi  avvenimenti  politici  ed  artistici;  ma  si 
rimpiangono  i  tempi  d'oro  di  Gustavo  Dorè,  il  tìnis- 
simo  illustratore  do-W  Or la7ido  furioso.  La  parte  biblio- 
grafica è  sempre  affidata,  per  quel  che  tocca  il  frivolo 
movimento  della  nostra  povera  letteratura,  a  Carlo 
Raffaello  Barbiera/  ma  di  rado  o  non  mai  vi  appare, 
come  già  una  volta,  lo  studio  diligente,  industrioso, 
erudito  della  critica  storica.  La  letteratura  amena, 
manco  a  dirlo,  è  in  decadimento;  segno  dei  tempi. 
Cicco  e  Cola  ancor  e'  intrattiene  sulle  aneddotiche  e 
talvolta  piccanti  curiosità  del  giorno.  Però  la  rivista 
accusa  pur  certo  malessere  e  indolenzimento  che  ci 
fanno  accorti  della  senilità.  Ad  ogni  modo  è  nel  ge- 
nere suo  r  unico  periodico  che  ricrea  i  salotti  ele- 
ganti e  i  circoli  borghesi.  Le  cure  dell'  editore  non 
possono  essere  migliori;  ma  che  può  far  mai  il  bene- 
merito cav.  Treves  per  rinsanguare  la  troppo  vuota 
e  decrepita  letteratura  nostra  ? 

Che  può  far  mai  un  editore,  anche  illustre,  a  prò' 
di  un'  arte,  quando  questa  è  tuttavia,  a  dir  del  Car- 
ducci,  un  ìitero  ammalato? 

Volete  poi  qualche  cosa  di  civettuolo  e  di  fine,  di 
simpaticamente  leggiadro  ed  elegante  ?  Cercate  ancor  la 
variopinta  e  policroma  venustà  piacente  di  Angelino 
Sommaruga?  Ecco  qua  la  Scena  illustrata  di  Firenze 
che  il  Pollazzi  dirige  con  studiosa  cura  e  con  vero 
intelletto  d'amore. 

Volete  l'aneddoto  piccante  e  la  festevole  e  ricercata 
curiosità  del  giorno?  amate  la  caratteristica  novità  del 
costume  e  la  briosa  parlantina  de'  salotti  eleganti  ?  vi 
diletta  l'erotico  sospir  delle  dame  nel  profumato  bel- 
letto e  nello  stile  rococò  del  sensualismo  zoliano  ? 
vi  carezza  e  seduce  la  bizzarra    e    argutissima  forma 


lOI 


€  il  querulo  cicaleccio  scintillante  di  galanteria,  di 
raffinatezza,  di  cipria  ?  Venite  qua  e  la  Scena  vi  farà 
sorbillare,  come  goccette  odorose  sugli  abiti  vostri  , 
ogni  quindici  giorni,  tutto  che  il  coricino  vostro,  un 
po'  languido  ,  un  po'  malaticcio,  desidera  e  aspetta 
con  trepida  letizia.  E  tutto  questo  con  una  pinacote- 
china  d'illustrazioni  che,  alle  volte,  sono  un  vero 
bijou. 

Volete  uscir  dal  salotto,  prendere  una  boccatina 
d'aria,  e  poi  entrare  ne'  palchetti  signorili,  nelle  mor- 
bide poltroncine  de'  teatri  italiani  e  stranieri  ?  volete 
star  tutt'  orecchi  a  gustar  un'  opera  musicale  ,  gor- 
gheggiarla poi  nel  salottino  vostro  ?  Venite  qua,  e  la 
Scena,  eh'  è  proprio  fatta  per  questo  ,  vi  metterà  la 
voglia  in  corpo  di  abbandonare  più  spesso  il  circolo 
pel  teatro,  il  salottino  di  casa  per  le  tornate  di  mu- 
sica,  la  toilette  pe'  concerti  e  i  cafè-chantants . 

Questa  è  la  rivista:  è  ben  fatta  per  le  donnine  el- 
zeviriane, pe'  giovani  zerbinotti  incipriati,  per  le  dame 
eleganti,  per  tutti  quelli  che  amano  la  vita  de'  circoli., 
de'  salons,   de'  teatri,   de'  clubs. 

II. 

Parecchi  giornali  politici  vogliono  anche  pizzicar  di 
letteratura,  e  diventan  pure,  ogni  domenica,  letterari 
e  illustrati.  Ecco  qua  la  Tribuna  che  vuole  offrire 
un  solletico  a'  lettori  suoi  e  risciacquar  loro  la  bocca 
e  la  lingua,  inaridite  dalla  politica  di  tutti  i  giorni, 
con  una  spruzzatina  di  letteratura  mondana.  È  illu- 
strata, e  tien  più  della  Sce7ia  fiorentina  che  della  grave 
rivista  ebdomadaria  di  Casa  Treves.  É  spesso  fatta 
assai  bene,  e,  se  la  parte  veramente  letteraria  o  arti- 
stica lascia  qualcosellina  a  desiderare,  la  vita  aned- 
dotica del  giorno  è  resa  con  certa  attrattiva  e  con 
arguta  vivezza  di  forma,  che  seduce  e  ricrea  vera- 
mente. La  elegante  e  caustica  amenità  di  Richel,  del 
simpatico  Richel  che  tanto  esilara  e  piace  nel  suo  Giro 
pel  mondo  della  Tribuna  quotidiana,  comparisce  an- 
cora nel  giornale  domenicale  a  rapir  co'  suoi  frizzi  e 


I02 


mottetti  i  lettori  che  han  bisogno  del  suo  nativo  e 
scintillante  umorismo;  gli  tengon  dietro  altri  festevoli 
scrittori  ,  men  salaci  e  divertenti,  ma  pur  cari  e  gu- 
stosi. Conta  già  quattro  anni  di  vita  briosa  ,  e  par 
che  voglia  viverne  parecchi.  Auguri  e  felicitazioni. 

Un  altro  giornale  politico  che  vuole  anche  Jiccare  il 
?iaso  in  letteratura,  è  il  Secolo,  è  il  democratico  e 
rabbiosamente  anti-carducciano  Secolo.  Pubblica  e  il- 
lustra novelle,  pubblica  versi,  pubblica  qualche  volta 
prose  critiche  e  scottanti.  E  conia  molto  —  per  dirlo 
con  le  parole  d'un  nostro  grande  scrittore  —  fra  gli 
svogliati  d'  Italia  ,  e  fra  quelli  che  come  per  passa- 
tempo voglion  ivi  cominciar  a  fare  le  loro  prime  ar- 
mi. Poveri  maestri  della  povera  vita  delle  scuole 
elementari,  impiegatucci  bisognosi  di  retorica  lattigi- 
nosa e  cascante,  studentelli  bocciali  di  Liceo  o  d'Isti- 
tuto tecnico  ,  tutti  convengono  lì  d' ogni  paese  per 
democratizzarsi  —  mi  perdonino  il  gergo  —  nel  filan- 
tropico lavacro  della  letteratura  nazionale  moderna  a 
base  di  repubblica  o  di  socialismo.  E  difatti,  l'acuto 
solletico  delle  loro  novellette  illustrate  molto  li  seduce 
a  occupare  un  modesto  posticino  in  un  de'  cerchi  o 
de'  gironi  del  periodico  milanese,  il  quale  non  sempre 
si  mostra  severo_,  che  anzi,  da  buon  democratico,  il 
più  delle  volte  esclama  come  già  Cristo:  Sinite  pai~i<u- 
los  venire  ad  me.  Non  è  tirannico,  ohibò!  ,  neh'  acco- 
gliere e  nel  respingere  ;  ed  ha  qual  motto  sulla  sua 
bandiera  letteraria  V altruistica  parola  di  S.  Francesco 
da  Paola:  Charitas.  Sempre  cosi  vive  e  vivrà.  Oh  ! 
non  basta  dichiararsi  organi  della  democrazia  militante 
per  allevare  le  nuove  piccole  glorie  d'  Italia,  per  far 
trionfare  capolavori  musicali  novissimi,  per  esser  cer- 
cato, e  anche,  ch'è  meglio,  per  far  quattrini  in  barba 
a'  troppo  grassi   borghesi  ? 

Anche  la  quotidiana  Gazzetta  del  Popolo  vuole,  ogni 
domenica,  convitare  al  suo  desco  modesto  i  sotto-uf- 
fìcialelti  dell'esercito  italiano,  appetitosi  e  ghiotti  di 
spicciola  letteratura  amena.  E  come  se  la  sorseggiano, 
gustando,  come  un  biccherino  d'assenzio  o  di  rhicm, 
tutte  le  sante    domeniche  del   Signore  1  E  non  se    ne 


I03 


contentano.  Vogliono  pure,  di  quando  in  quando,  dige- 
rirla a  furia  di  bozzettucci,  di  novellette  e  madrigali  che 
mandano  alla  favorita  rivistuola,  anche  a  costo  di  bu- 
scarsi qualche  indigeribile  cesti?iatina.  Oh!  quanti  gen- 
tilissimi e  correttissimi  crucifige  nella  lunga  e  troppo 
fiorita  piccola  posta  letteraria,  nella  quale  anche  figu- 
rano tanti  martiri  borghesi.  Oh  !  non  per  nulla  si  è 
italiani  ,  cioè  instintivamente  istrionici  e  fecondi.  In 
Italia  è  odiata  a  morte  la  infecondità.  E  tutti,  scola- 
retti negligenti  e  soldatini  poco  battaglieri  ,  aman 
deporre  le  lor  ova  settimanali  nel  minuscolo  organino 
torinese,  che,  di  quando  in  quando,  pur  si  piace  farle 
covare  e  schiudere  come  per  burla.  Ha  dieci  anni  di 
vita,  e,  povera  vecchietta,  è  ancora  senilmente  gravida 
e  procreatrice.  Ma  oh!  quanti  degeneri  figliuoli  essa 
nutre  all'arte,  e  quante  facili  speranze,  quante  precoci 
promesse  ella  mette  in  mostra  dalle  sue  colonne  do- 
menicali! 

Anche  la  Gazzetta  letteraria  torinese  —  un  altro 
giornale  politico  che  fa  il  suo  chilo  letterario  ogni 
domenica  e  per  cinque  centesimi  lo  fa  fare  a  più  mi- 
gliaia d'  italiani  —  vuol  vivere  ancora  di  una  sana 
vecchiaia.  E  però,  se  fa  desiderare  i  tempi  d'oro  di 
Vittorio  Bersezio  ,  ora ,  sotto  le  amorevoli  cure  di 
Giuseppe  Depanis,  arzilla  e  rubiconda  vecchietta,  pur 
si  prova  a  dare  qualche  consiglio  e  qualche  provvido 
ammonimento  sull'  arte  e  sul  romanzo,  sulla  lirica  e 
sul  teatro  ,  a'  giovani  italiani  che  son  troppo  deside- 
rosi del  novo.  Essa,  un  po'  sorridente  ma  grave,  un 
po'  gaia  ma  appassita,  vuole  ancora  un  po'  d'arte  e  un 
po'  di  teatro,  un  po'  di  letteratura  amena  e  un  po' 
di  poesia.  Oh  1  chi  ha  mai  detto  che  alla  vecchiaia, 
quando  le  restino  ancora  pochi  denti  ma  buoni,  non 
sia  dato  masticare  qualche  buon  pezzo  di  carne  sana, 
quando  i  giovani,  che  pure  hanno  denti  forti  e  bene 
smaltati  ,  cercano  solo  manicaretti  e  salse  piccanti? 
Lasciamola  pur  vivere  così!  Morrà  bene,  stagionata, 
e  contentissima  del   mondo. 

Ora  vengono  i  giornali  novissimi,  i  giornali  de'  gio- 
vani o  della  gente  giovenilmente  matura. 


I04 


A  Milano  squilla  a  battaglia  la  settimanale  Cronaca 
d' arie  del  forte  romanziere  Ugo  Valcarenghi.  Le  brilla 
nelle  vene  il  buon  sangue  lombardo,  e  lombardi  sono 
i   più  de'   collaboratori. 

Mentre  tanti  confratelli  sonnecchiavano  in  molle  e 
soporifera  nirvana,  o  nelle  piccole  necropoli  dell'  arte 
godeano  il  dolcissimo  oblio,  essa  florida  di  salute 
e  di  giovinezza,  è  salita  sullo  storico  arco  del  Sem- 
pione  a  bandire  a'  dormienti  gì'  ideali  dell'  arte 
e  i  novissimi  problemi  sociali.  E  mentre  gli  altri 
pigliavano  refrigerio  sotto  le  ombrifere  piante  della 
giovane  arcadia  a  squittir  la  romanza  o  il  madri- 
gale o  il  ritornello  delle  false  muse  silvestri  o  delle 
nuove  zampogne  pastorali,  essa,  a  braccetto  della 
scienza,  ha  voluto  indagare  e  indaga  tuttavia,  nel  cer- 
vello di  Maupassant,  le  varie  manifestazioni  della  follia 
negli  uomini  d''  ingegno  e  di  genio.  Oh!  dunque,  in 
tempi  di  si  triste  decadimento,  c'è  pur  qualche  cosa 
che  sveglia  ne'  giovani  un  vivo  sentimento  della  vita, 
del  vero,  degl'  ideali   umani  ? 

E  ci  viva  pur  così,  per  molti  anni  ancora,  e  sia  la 
ben  vemita,  se  possiamo  con  essa  provarci  a  tentare 
i  problemi  sociali  e  civili,  che  c'interessano,  o  qualche 
problema  di  scienza,   che  ci  fa  risorgere. 


Auff!  respiriamo...  prendiamo  una  boccatina  d'aria... 
entriamo  ne'  parchi  frondosi  e  negli  eleganti  verzieri 
di  Natura  ed  Arte,  a  braccetto  d'un  vecchietto  sem- 
pre giovine  e  sorridente,  sempre  gaio  e  rubizzo,  a 
braccetto  del  conte  Angelo  De  Gubernatis.  Più  in  là 
ci  attendono  Strafìorello,  Archinti,  Cannizzaro,  Boc- 
cardo,  Cesareo,  Salvatore  Farina,  Bertacchi,  Errerà, 
Jak  la  Bolina,  Teza,  la  Contessa  Lara... 

Osserviamo  direttamente  questa  viva  natura,  questa 
natura  ravvivata  dall'  arte:  osserviamola  tutta  intera 
nel  vergine  suo  talamo.  Oh!  quanta  flora  e  quanta 
fauna  ne'  verdi  boschetti,  nelle  floride  oasi  e  ne*  ric- 
chi   palmizi    dell'arte!  Tutto    è    bello   e    rinfrescante 


T 

i 


IQ5 


in  questa  novissima  rivista  ne'  cui  sentieri  godremo 
la  natura  ne' viaggi  de'fortunati  esploratori,  nelle  sane 
inspirazioni  de'  pittori  maestri,  negl'  incantesimi  della 
musica  e  delle  muse;  nelle  cui  poetiche  aiuole  ve- 
dremo l'arte  ne'  capricci  fantasiosi  della  moda,  nella 
simpatica  leggiadria  de'  disegni  e  delle  vignette,  ne' 
pubblici  monumenti  e  nella  storia  degli  uomini  e  de' 
geni,  de'  traffichi,  delle  industrie,  dell'economia,  della 
ricchezza.  Ottima  questa  Natura  ed  Arte.  Ne  abbiamo 
sott'occhio  i  primi  sei  fascicoli,  É  ancora  una  pro- 
messa ,  ma  è  una  promessa  che  fa  sperare  e  fa  au- 
gurar bene. 


* 


Scendiamo  un  po'  verso  il  Tirreno,  e  vediamo  co- 
m'  è  a  Napoli  rappresentata,  e  se  degnamente,  la  let- 
teratura domenicale. 

Oh!  be'  tempi,  oh!  tempi  d'  oro  del  buon  Martino 
Cafiero,  che  carezzevole  e  modesto,  valente  e  gentile, 
teneva  con  sì  generosa  prodigalità  a  battesimo  tanti 
buoni  o  mediocri  scrittori   novellini. 

Oh!  bei  tempi  dell'  universitario  Giornale  napolitano 
di  lettere  e  d'arti. 

Chi  li  ricorda  più  que'  tempi?  e  chi  con  riconoscente 
affetto  rammenta  il  primo  Corriere  del  mattino  e  il  buon 
Cafiero  al  quale  tanti  devono  ancora  il  loro  buon  nome 
o  la  loro  impostura  letteraria?  Quanti  morti  e  quanti 
dimenticati  dopo  la  immatura  dipartita  del  buon  Mar- 
tino! Quanti  non  ebbero  neppure  la  forza  di  nascere, 
e  quanti  morirono  tenerelli  dopo  la  prima  covata  ! 
E  pur  ieri  si  aprì  una  tomba  recente  per  seppelirvi 
la  Cronaca  Partenopea,  che,  dopo  lunghissima  malat- 
tia, morì  di  contagio,  e  passò  nel  numero  di  que' 
confratelli  che  vissero  senza  infamia  e  senza  lodo. 

De'  vecchi  si  prova  a  restare  in  vita  ,  a  forza  di 
pillole  ricostituenti  ,  il  piccolino  e  linfatico  Fortimio 
di  Scalinger.  Ma  con  rigermogliamenti  di  fioriture 
novelle  ammiccano  al  pubblico  borghese,  rosei  e  ba- 


io6 


liosi,  tre  fogli  domenicali  napoletani:  Bios^  D.  Marzio 
della  domenica,    Tavola  rotonda. 


11  primo  —  conta  più  di  un  anno  di  vita,  il  che  è 
già  troppo  nel  fatale  languire  della  vita  letteraria  na- 
poletana —  è  il  grecizzante  e  piccolo  Bios  che  ha 
certo  brio  di  precoce  giovinezza.  Di  primo  mattino, 
e  spesso  molto  innanzi  all'aurora,  esce  pel  mondo:  i 
lettori  avidi  lo  leggono  tre  giorni  prima  della  domenica 
nella  quale  promette  uscire,  cioè  ogni  venerdì.  Molto 
gli  piace  la  vita  scenica  e  musicale,  1'  arguta  notizia 
letteraria,  l'aneddoto  curioso,  l'annunzio  promettente, 
e  qualche  volta  la  vignetta  illustrativa  ;  e  la  critica 
imparziale  gli  fa  buon  sangue.  È  un  po'  restio  a  covar 
novelle  rachitiche  e  stronzolini  di  bozzetti;  e  fa  bene. 
Vuol  vita  e  gioventù  :  noi  glie  le  auguriamo  tutt'  e 
due,   di  gran  cuore,   e  per  lungo  tempo. 


Ecco  qua  il  D.  Marzio  della  Domenica,  il  quale, 
affidato  alle  cure  dell'  avvocato  Sacerdoti,  fa  un  po' 
la  scimmia  al  Folchetto  e  al  Don  Chisciotte,  e  dal  suo 
pollaio  politico  passa  allegramente  al  pollaio  letterario 
per  far  la  voce  grossa  contro  il  Carducci,  per  bocca 
del  signor  Oriani,  e  a  favore  d'  ideali  più  o  meno 
democratici  o  sociali. 

Fuori  il  classicismo! — gridano  i  suoi  accòliti — dateci 
arte  nova  e  civile,  nuove  aspirazioni  e  nuovi  inten- 
dimenti letterari:  vogliam  la  politica  in  versi  rivolu- 
zionari,  lo  paea?i.' 

Volete  finalmente  venire  in  Via  Costantinopoli,  al 
num.  89,  poco  lungi  dal  Circolo  Filologico  di  V^ia 
S.  Sebastiano  e  poco  lungi  dal  neo-Sommaruga  sig. 
Luigi  Pierro  che  in  Piazza  Dante  cova  edizioni  a  scrit- 
tori vecchi  e  novellini?  Venite  con  me,  ed  entriamo: 
è  un  piccolo  e  modesto  cenacolo,  che  non  è  certo 
quel  di     Cristo  ,   ma  è   vecchietto    anzi    che   no  :   ap- 


107 


partiene  a'  cicli  della  cavalleria  medievale,  e  si  chiama 
La  tavola  rotonda.  È  una  vera  rotonda,  non  diversa 
da  quella  del  Gambrinus,  ove  si  dan  la  posta  e  con- 
vengono i  fiduciosi  e  azzimati  giovani  commensali, 
che  van  poi  a  smaltire,  nel  negozio  Pierro  e  nella 
ditta  Bideri,  la  loro  forbita  digestione  cavalleresca. 
Son  tutti  cavalieri  della  Tavola  rotonda  ,  e  li  guida 
in  capo  ,  schioccando  leggero  sul  sauro  nitriente 
la  sottile  e  aristocratica  frusta,  il  sig.  Gaetano  Mi- 
randa. Ma,  di  mezzo  al  trottetto  de'  profumati  cava- 
lieri gentili,  sbizzarrisce  e  s'  impenna  un  mal  domo 
palafreno,  cavalcato  da  un  arcangelo,  Gabriele  d'An- 
nunzio, che,  qua  e  là,  ora  innanzi  e  ora  indietro, 
sosta  e  scalpita  e  s'impenna  per  accorrere  su  tutti  i 
passi  sdrucciolevoli  della  breve  e  agilissima  compa- 
gnia. E  vanno,  questi  giovani  cavalieri  ,  in  cerca  di 
una  dama  che  qualche  volta  è  la  prosa  dell'  avvenire, 
spesso  la  poesia  dell'  avvertire,  tal'  altra  il  romanzo  del- 
l' avvertire.  Andate  pure,  o  cavalieri  gentili,  e  prepa- 
rateci l'avvenire  dell'  arte;  ma  scendete  pur  qualche 
volta  da' troppo  sensibili  palafrenini  vostri,  e  cogliete, 
di  tra'  rovi  della  vecchia  arte  classica,  qualche  buona 
e  modesta  erba  medica,  pria  di  raggiungere  la  cima 
del  colle,  la  vetta  estrema  del  troppo  lontano  avvenire. 


Anche  la  Vita  intima,  altro  carissimo  figliolino  del 
Mercati  ,  mena  a  bel  tempo  ,  pe'  diritti  sentieri 
dell'  arte  educativa,  i  molti  lettori  suoi  ,  cioè  i  mae- 
stri della  civiltà  i  quali  son  le  prime  balie  dell'infan- 
zia e  i  miseri  paria  del  lavoro.  Oh  !  sia  pur  dato 
ad  essi  un  ghiotto  bocconcino  di  letteratura  ricreatrice 
e  utile  ,  dopo  le  tante  ore  trascorse  pe'  banchi  di 
scuola,  e  come  a  refrigerio  dell'animo  loro  sì  triste  e 
si  desideroso  d'  un  avvenire  migliore.  Ma  quante  di 
queste  minime  cronachette  dovrebbero  piacere  a  tanti, 
che,  pur  troppo,  nuotano  ne'lazzi  e  nelle  pruriginose 
correnti  della  ineducata   e  lercia  arte  nostrana! 


io8 


Dovrei  dir  pure  qualche  cosa  delle  riviste  grandi, 
come  la  Nuova  Antologia  e  la  Rassegna  Nazionale;  de' 
periodici  sociali,  come  la  Rassegna  di  Scienze  sociali  e 
politiche  del  Ridolfi  e  del  Rossi,  e  la  battagliera  Cri- 
tica sociale  dell'ottimo  Turati;  d'organi  propriamente 
scolastici,  quali  la  succosa  Biblioteca  delle  scuole  ita- 
liane del  Pinzi  ,  molto  utile  agli  istituti  secondari!,  e 
la  bolognese  Rifor^na  dell'  insegnamento  superiore  del 
prof.  Tullio  Martello:  dovrei  parlare  delle  settimanali 
effemeridi  educative  ,  come  il  Risveglio  di  Milano 
e  V Avvenire  di  Palermo;  de'  periodici  critici  e  biblio- 
grafici, come  la  Cultura  di  Bonghi  e  la  Rivista  critica 
della  letteratura  italiana;  ma  d'esse  tratterò  a  lungo 
in  uno  studio  speciale,  che  avrà  per  titolo:  Movimento 
generale  della  cultura  itiliana  nel  giornalismo  contem- 
poraneo. Con  questo  scritto  ho  inteso  dar  una  succinta 
notizia  de'  vari  aspetti  che  finora  ha  preso  la  cultura 
letteraria  italiana  ne'  piccoli  giornali  a  cinque  o  dieci 
centesimi;  e  se  pure  si  è  parlato  di  qualche  grande 
rassegna,  lo  si  è  fatto  perchè  essa  mostrava  o  mostra 
caratteri  molto  affini  a  questa  spicciola  letteratura  do- 
menicale. 

III. 

Siamo  un  po'  stanchi,  e  la  corsa  è  stata  molto  ra- 
pida e  lunga.  Non  abbiamo  voluto  fermarci  in  tutte  le 
serre,  in  tutte  le  flore,  in  tutti  gli  orticini  della  facile 
ed  economica  letteratura,  di  quella,  cioè,  ch'è  più  in 
vista,  più  popolare,  più,  come  dicono,  di  consumo. 
Avremmo  potuto  soffermarci  pure,  qua  e  là,  nel  lu- 
brico di  certi  sentieri  a  osservare  i  miserrimi  germo- 
gli di  povere  pianticelle  soffocate  dall'  afa;  avremmo 
potuto  cogliere  qualche  basilico  ammiccante  da  cre- 
tacee grastoline  di  vecchie  terrazze;  avremmo  potuto 
errare  tra  ombrelliferi  boschetti  per  vedere  come  tra 
la  \-egetazione  di  salvie  e  di  timi  e  d'  altre  erbe 
silvestri   pur  intristisca  su  non  bonificate    aiuole  l'in- 


log 


carnatino  di  alcuni  fiori  e  1'  aromatica  verdezza  di 
alcuni  arboscelli:  non  abbiam  voluto  né  forse  potuto: 
la  via  troppo  lunga  ci  sospingeva  a  mover  frettolosi 
per  vedere    il    meglio   o   il  men  cattivo  e  nauseante. 

Questo  credo  lo  abbiamo  fatto  con  diligenza  e  con 
amore.  E,  dopo  tanto  peregrinare,  come  ci  è  parsa, 
in  generale,  la  letteratura  nostra,  tra  vivi  e  tra  morti, 
tra  periodici  ancor  giovani  e  tra  quelli  da  tempo 
passati  nel  numero  de'  più  ?  Oh  !  qual  desolante 
spettacolo.  E  come  scarsi  i  vigorosi  germogli  della 
letteratura  domenicale,  che  è  pur  quella  che  prepara 
il  libro  e  la  troppo  superficiale  cultura  e  istruzion 
parolaia  del  popolo  italiano  ! 

A  tal  proposito  mi  rifiorisce  nella  memoria  uno 
splendido  brano  delle  Anticaglie  del  Cavallotti,  e  mi 
piace  riferirlo  qui: 

«  questo  bisogno  di  rinnovamento  che  è,  direi, 

nel  sangue  e  nell'aria,  e  travaglia  gli  artisti  e  via  li 
porta  nella  sua  rapina,  si  traduce  a'  più  inconscienti 
in  una  ricerca  quasi  morbosa  del  novo  e  del  bizzarro, 
come  tale.  Del  processo  intimo  che  la  letteratura 
attraversa,  costoro  sentono  vagamente  il  soffio:  inten- 
dono che  qualcosa  intorno  ad  essi,  non  ne'  tipi  eterni, 
ma  nelle  forme  dell'arte,  si  modifica,  si  trasfigura:  e 
non  avendone  che  una  nozione  confusa,  tementi  solo 
di  rimanere  in  ritardo,  o  di  parer  fuori  del  movimento, 
corrono  dietro  affannosamente  ,  come  i  fanciulli  alle 
farfalle,  ad  ogni  larva  non  veduta  o  strana,  ad  ogni 
luccichio  che  passi  loro  davanti  agli  occhi,  per  l'aria. 
Ciò  che  nell'ingegno  dei  migliori  è  un  presentimento 
gagliardo  di  nove  vie  e  regioni  dell'  arte  ancor  non 
note,  ch'essi  vanno  tentando  ed  esplorando  con  orme 
insieme  malsicure  ed  audaci  ,  aumenta  1'  impazienza 
smaniosa  di  quelli  che  dietro  a  loro  s'affollano  a  far 
coda,  aspettando  che  i  nuovi  sbocchi  s'aprano.  Dove 
i  primi  mettono,  tastando,  il  piede,  e  tutti  là  corrono; 
se  uno  s'addentra  a  capriccio  in  un  viottolo,  solo  per 
vedere  ove  vada  a  por  capo,  e  tutti  dietro,  credendo 
che  egli  abbia  imbroccato  la  via:  se  quello  sotto  un 
andito  si  mette  a  cantare  per  sentire  se  c'è  1'  eco.   e 


tutti  a  far  eco  credendo  che  sia  quella  la  poesia 
nova. 

«  Quell'altro  avrà  poi  un  bel  tornare  indietro  ad 
avvertire  che  il  viottolo  era  chiuso,  e  che  sotto  l'an- 
dito egli  stava  solamente  provando   la  voce!... 

«  S'  è  detto  che  l'arte  nova  aborre  i  convenziona- 
lismi della  forma,  e  vuole  idea  e  forma,  nate  ad  un 
parto,  una  nell'  altra  compenetrate:  forma  nova,  in 
quanto  nova  l'idea.  Ma  non  essendo  da  tutti  aver  lì 
pronto  un  deposito  bello  e  allestito  di  idee  nove  , 
cosi  —  per  risparmiare  tempo  —  alla  novità  intima 
della  forma  si  è  sostituita  una  novità  eterna  di  acci- 
denti. E  visto  che  1'  arte  vecchia  cercava  alle  forme 
le  linee  .euritmiche  ,  si  è  creduto  di  sostituirvi  la 
soppressione  pura  e  semplice  dell'euritmia  »  (*). 

E  altrove:  «  Ebbe  la  Grecia  la  sua  arte  grande  — 
come  la  sua  vita  —  e  ben  fu  quella  del  vostro  Omero, 
del  vostro  Alceo,  di  quell'  Eschilo  vostro:  ma  quando 
queir  arte  nella  vita  greca  dormiva  ,  allora  fu  che 
Simmia  da  Rodi  si  trastullò  co'  metri  a  combinare 
le  figure  dell'ovo  e  della  siringa,  e  dell'ala  di  uccello 
e  della  scure. 

«  Che  quella  tale  famosa  scure  demolitrice  fosse 
mai  per  avventura  la  scure  di  Simmia?  »  (**) 

E  più  innanzi:  «  Torniamo  pure  all'antico  per  im- 
pararvi la  semplicità  e  la  naturalezza  squisite,  la  evi- 
denza del  disegno,  la  suprema  eleganza  della  linea, 
la  precisione  nel  profilo  dell'idea;  torniamoci  per  im- 
pararvi la  euritmia  nascosa,  la  rispondenza  meravi- 
gliosa,  spontanea,   fra  la  parola  e  il  pensiero  (***)  » 

E  l'arte  italiana,  salve  rarissime  eccezioni,  è  sol 
comparabile  co'  metrici  trastulli  di  Simmia  da  Rodi. 
Ma  quanti  de'  novi  e  giovani  scrittori  più  si  ricordano 
di  quel  gioiello  di  critica  scintillante  e  giudiziosa  che 
son  le  Anticaglie  del  Cavallotti,  ov'  è  tanto  sapor 
greco  di    forme  vive  agevoli    spigliate  ?  E  s'  io  ,  con 


(*)  Anticaglie  -  Roma,  tip.  del  Senato  di  Forzani  e  C,  pagg.  115-116. 
(**)  Anticaglie,  n.  119. 
(***)  Anticaglie,  n.  67. 


questa  mia  povera  prosa,  riuscissi  a  svegliar  ne'  gio- 
vani il  vivo  desiderio  di  rifarsi  la  bocca  con  quel 
libro,  mi  consolerei  di  aver  giovato  in  qualche  cosa 
i  lettori  miei,  non  foss'  altro,  per  aver  pòrta  ad  essi 
la  lettura  di  un  finissimo  lavoro  di  critica  polemica 
e  di  stile. 

* 

Si  parla  di  rinnovamenti,  e  si  è  smarrito  il  senso 
di  una  metrica  giusta  e  nativa,  che  solletichi  l'orec- 
chio e  lo  educhi;  e  si  scrivon  versi  orribili  con  sibili 
di  serpenti  e  con  ringhi  di  arrabbiati  molossi:  la  forma, 
il  contenuto,  1'  armonia  si  perdono  e  confondono  in 
una  vera  anarchia  di  legamenti  sintattici  e  logici,  e 
di  costrutti  e  dizioni  barbarissime.  Quello  che  dicon 
novità  è  un  informe  e  mostruoso  accozzo  di  voci,  di 
membri,  di  nessi,  di  giunture  scontrantisi  e  rincorren- 
tisi  nelle  sbilenche  e  rachitiche  volute  di  uno  stil  di- 
sarmonico, ostrogoto,  tufaceo,  bizantino.  E  il  periodo 
lascia  le  grucce  e  sgambetta  e  scodinzola  come  scim- 
mie briache  di  acquavite;  e  la  vii  prosa  verista  si 
scompagina  ne'  rotti  suoni,  nella  ruvidissima  orditura 
e  nella  pessima  lingua  primitiva  de'  basci-bouzuk.  Si 
pubblicano  come  novità  letterarie  poesie  turgide,  po- 
limetre,  policrome,  polisense,  slegate,  con  stridori  e 
rotture  di  jati,  con  orgie  di  pensieri,  di  fantasmi  e 
situazioni,  con  proteiforme  asperità  convulsa  di  linee 
e  contorni;  e  le  chiaman  monumenti  letterari,  e^  le 
ammanniscono  al  pubblico  con  fulgor  di  elzeviri,  nel 
Sanata  Sanctoruìn  delle  effemeridi  illustrate,  con  fregi 
e  con  richiami  solleticanti.  Siam  proprio  allo  sfacelo! 

Volete  essere  accetto  ?  volete  pur  voi  aggregarvi 
alla  nobile  schiera  ?  volete  esser  proprio  imbecille  di 
gusto?  Venite  qua  e  dateci  la  evirata  sensualità  delle 
baccanti  nella  cipria  e  nel  belletto  delle  forme;  dateci 
l'arcadia  nova  nei  versettini  scamiciati  e  nelle  smilze 
e  clorotiche  vacuità  delle  imagini  da  alcova  e  da  su- 
burra', dateci  il  minio  e  l'orpello  nella  venerea  civet- 
teria  delle    strofettine   galanti  e  manierose;  dateci  la 


melletta  de'  bagordi  e  il  can-can  nella  estetica  diti- 
rambica de'  clowns;  ma  ,  per  carità  ,  niente  lingua 
classica,  niente  tradizioni  letterarie,  niente  gramma- 
tica, niente  toscanesimo  elegante;  ma  le  forme  più 
ovvie  e  più  brutte  della  nostra  sboccatissima  e  triviale 
lingua  parlata.  O  Alessandro  Manzoni  ,  o  Promessi 
Sposi,  o  fra  Caldino  ,  voi  ramingate  invano  per  le 
scuole  di  Jtalia!  O  Fanfani  e  Rigutini,  fu  un  perditempo 
la  vostra  lingua  parlata:  i  nostri  giovani,  oggi,  v'in- 
sultano,  e  vi  chiaman  pedanti  e  linguaioli  ! 

Volete  esser  poi  pontefice  o  sacerdote  della  poesia 
civile,  politica,  sociale?  Venite  qua,  e  dateci  i  luoghi 
comuni  della  nuova  prosa  poetica,  con  libertà  massima 
di  metri  e  di  ritmi,  di  pensieri  e  d'immagini,  di  pe- 
riodi e  di  stile:  massima  libertà,  purché  riusciate  tu- 
ribulari  o  ico7ioclasti  di  questa  o  quell'  idea,  di  questo 

0  quel  contenuto,  di  questo  o  quel  crocchio,  e  basta: 
scrivete  pure  la  prosa  e  la  poesia  che  meglio  vi  garba, 
e  siate  barbari,  siate  strani,  siate  mattoidi,  per  carità, 
nella  peggiore,  nella  più  informe  ,  nella  più  barbara 
lingua  italiana. 

Per  portare  un  esempio,  Gabriele  d'Annunzio,  che 
pure  ha  ingegno  versatile  e  fecondo,  che  vuol  mai  rin- 
novare coi  novissimi  suoi  versi  barbari  ?  che  son  mai 
le  sue  elegie  romane  che  fan  copia  di  sé  con  civet- 
tuoli solletichi  ne'  periodici  più  sfolgoranti  di  elzeviri 
e  d'incisioni?  Ma  fatevi  un  po'  più  in  qua,  e  ditemi 
all'  orecchio  se  quella  é  veramente  poesia  italiana,  e 
se  veramente  possa  dirsi  tale  uno  stridulo  accozzo  di 
ritmi  orribili  ove  non  e'  é  barlume  di  limpide  e  chiare 
idee,  non  v'  é  getto  immediato  d'  immagini  e  fanta- 
smi, non  v'è  forza  nutrita  di  sentimenti  e  di  affetti, 
non  vi  è  alata  ascensione  di  pensieri,  e  d'ispirazioni. 

Molte  delle  liriche  sue  mi  sembran  proprio  i  me- 
trici trastulli  di  Simmia  da  "^odi  ;  non  son  poesia 
ma  geroglifico.  Ma  senza  farlo  sentire  agli  altri,  fatevi 
più  in  qua,  e  ditemelo  a  un  orecchio;  altrimenti,  guai! 

1  soliti  icotioclasti,  vigili  custodi  e  perpetui  adoratori 
del  Nume,  candide  vestali  dell'arte  per  la  quale  ten- 
gon  sempre  acceso  il  sacro  foco,    son  sempre  pronti 


FERDINANDO  MARTINI 


113 


a  inveire  contro  i  profanatori  del  tempio,  e  di  avven- 
tarli nelle  gemonie  del  loro  disprezzo  e  delle  loro  poco 
pulite  invettive. 

Questi  i  caratteri  che  a  me  par  di  notare  nell'arte 
italiana  quale  oggi  si  atteggia  e  manifesta  specialmente 
nella  letteratura  domenicale  ch'io  ho  voluto  studiare, 
anche  dove  ho  lodato,  in  riscontro  al  rapido  decadere 
delle  lettere  nostre  nel  peggiore  degli  ambienti  che 
possa  aver  mai  avuto  la  storia  della  cultura  italiana. 

Torniamo  all'  antico:  ecco  il  Verbo  dell'arte  nova, 
della  vera  arte  ^&\V avvenire.  Questo  avvenirismo  — 
povera  parola  per  più  povero  contenuto  —  è  il  simu- 
lacro del  decadimento  in  un  secolo,  o,  meglio,  in  uno 
scorcio  di  secolo  nel  quale  si  sono  inaridite  ed  es- 
siccate le  fresche  e  limpide  sorgenti  della  produzione 
creatrice.  Dissi  verbo  dell'  arte  nova,  non  perchè  l'arte 
sia  nova  veramente,  ma  perchè,  ben  lontani  da'  pe- 
riodi della  classica  letteratura,  una  rinnovazione  o 
restaurazione  dell'antico  eterno,  è  o  potrà  essere,  di 
fronte  al  mutevole  clima  storico  di  questo  momento 
transitorio  e  caduco,  una  grande  e  bene  attesa  novità. 
L'  arte  ha  correnti  e  sorgive  molto  antiche,  molto 
remote;  e  quando  la  nuova  produzione  estetica  le 
avrà  ritrovate  per  congiungervisi  con  alvei  novelli 
ove  possano  devolversi  più  freschi  rivoli  di  forme  e 
contenuti  recenti,  allora,  di  su'  meati  che  la  scienza 
moderna  avrà  naturalmente  predisposti  e  messi  in  vi- 
sta alle  potenze  affettive  e  creative  ,  potremo  avere 
V arte  dell' avvetiire.  E  avremo  la  scienza  —  gran  tor- 
mento e  massima  gloria  del  secolo  nostro  —  transfì- 
gurantesi  in  creazione  estetica  e  ne'  novissimi  monu- 
menti letterari;  e  a'  miseri  gingilli  da  salotto  e  alle 
povere  frange  del  nostro  poetico  tenerume  muliebre, 
avremo  sostituito  il  nerbo  di  forme  e  rappresentazioni 
intentate  ne'  vigorosi  e  larghi  disegni  del  contenuto 
originale.  Il  Verbo  dell'avvenire  sarà:  Arte  e  Scienza; 
ma  è  necessario  che  prima  scada  il  regno  della  cipria, 
e  che,  dopo  il  predominio  dei  nervi,  tenga  il  campo, 
unico  e  solo,  quel  dei  muscoli.   Rifaremo  la  fibra. 

L'arte,  nel  vario  e  mobile  atteggiarsi    delle    forme 

8 


114 


e  della  contenenza,  nel  progressivo  generarsi  di  germi 
e  d'  elementi  novelli,  non  dee  staccarsi  dall'  antico 
per  la  ragion  storica  che  noi  consente,  ma  deve  con- 
tinuarlo, sia  rispettando  quel  ch'è  eterno,  duraturo  e 
permanente  nell'arte,  sia  obbedendo  alle  leggi  della 
evoluzione  naturale,  la  quale  non  ammette  demolizioni 
repentine,  ma  spontanee,  graduali,  ascendenti  trasfor- 
mazioni rinnovatrici.  Sappiamo  trasformare  1'  antico, 
ma  dopo  che  si  saran  disseccate  le  sue  vive  sorgenti, 
e  allora  avremo  innovato;  ma  sino  a  quando,  quelle 
chiare,  fresche  e  dolci  acque  correranno  ancor  limpide 
di  pure  e  native  scaturigini  su  per  la  montagna  de 
secoli,  avremo  un  beli 'innovare:  la  innovazione  potrà 
essere  trastullo  di  menti  inferme  ,  di  poveri  ciechi 
vagolanti  nel  buio  e,  tastando  e  ritastando,  stoltamente 
peisuasi  di  trovare  in  ogni  ginepro  e  ortica  silvestre 
come  un  indizio  dell'arte  futura:  potrà  essere  vaneg- 
giamento di  infelici  sognatori  che  han  smarrita  la  lor 
via  ;  non  mai  lo  svolgimento  di  un  lato  nuovo  nella 
evoluzione  umana  dell'arte. 

L'arte,  per  ciò  che  si  attiene  alle  leggi  sue  primi- 
genie e  fondamentali  che  son  le  stesse  in  Omero, 
Dante,  Shakespeare  e  in  tutti  i  grandi  o  sommi,  è 
insuscettiva  di  transformazione,  è  immobile.  Io  para- 
gonerei l'arte  all'empireo  nel  Paradiso  di  Dante.  Cosi 
lo  descrive  e  luminosamente    tratteggia    il    Carducci: 

«  In  contrasto  alla  vertiginosa  rapidità  del  primo 
mobile  sta  in  sua  quiete  fermo  1'  empireo  ,  il  cielo 
della  teologia,  ove  è  Dio,  con  attorno  i  nove  ordini 
delle  tre  gerarchie:  e  ciascun  degli  ordini  move  con 
sua  virtù  informante  quel  cielo  che  a  lui  spetta  e  ri- 
sponde, e  quella  virtìi  è  l'amore,  che  raggia  da  Dio, 
e  compenetra  di  luce  tutto  l'universo  e  vi  sveglia  la 
vita  »  (*). 

Così  r  arte.  Ha  come  immobile  empireo  V  estetica 
primitiva  ,  fatale,  immutabile,  da  cui  raggia,  in  sua 
virtù  potenziale,  il  divenire  evolutivo  del  Bello:  i  nove 


(*)  Discorsi  letterari  e  storici.  —  Bologna,  Zaniclielli,  1889,  pag.  232. 


115 


ordini  delle  tre  gerarchie  sono  il  fuoco  —  per  dirla 
con   Dante  — 

Ch*  emisperio  di  tenebre  vincia: 

quel  fuoco  che  avvampa  di  luce  vivissima  il  castello 
de'   grandi  immortali  nel   Limbo. 

Questi  ordini  sono  i  numi  indigeti  dell'arte  ne'  pe- 
riodi suoi  migliori  ,  nella  sua  storia  più  luminosa  e 
più  viva;  essi,  questi  numi,  informano,  ciascuno  quel 
cielo  che  a  lui  spetta  e  risponde,  ciascuno  quel  ciclo 
d'arte,  quel  tipo,  quell'  orizzonte  che  meglio  illustrò 
e  scoperse  con  la  virtù  sua  ,  con  la  sua  gloria;  e  i 
cicli  della  vita  ,  eterna,  immanente,  progressiva,  gi- 
rano, si  movono,  si  trasformano,  ma  son  sempre  in- 
formati alla  virtù  eh'  è  1'  amore  ,  che  raggia  dall'  itti- 
viobile  empireo  delV  arte  e  compenetra  di  bice  tutto  Vn- 
niverso  e  vi  sveglia  la  vita. 

Moltissime  accidentalità  dell'arte  si  cambiano,  mol- 
tissime forme  spariscono,  moltissimi  generi  letterari 
e  modi  di  rappresentazione,  singolari  per  dati  tempi 
ed  età,  van  tutti  al  museo:  quel  che  è  dinamico  svol- 
gimento nelle  particolari  faccettature  e  nella  tipica 
fìsonomia  di  un  determinato  e  distinto  clima  storico y 
quel  ch'è  svolgimento  temporale,  circostanziato,  ere- 
ditario, di  razza,  quel  ch'è  stampo  fuggevole  dell'am- 
biente mobile  e  caduco,  ^ va  via,  sorpassato  dall'evo- 
luzione, e  più  non  torna  ;  e  a  tanti  cicli  della  vita 
scomparsa,  rispondon  tanti  cicli  dell'  arte  ,  che  non 
funzionano  più.  Ma  quella  grande  virtù  dinamica,  pri- 
migenia e  potenziale,  raggiunta  dai  gloriosi  fattisi  macri 
per  l'arte,  quel  ch'è  eterno  e  immutabile,  quel  eh'  è 
r  essenza  del  Bello  e  che  sempre  rimane  nel  fondo 
di  qualsiasi  opera  immortale  ,  non  può  non  essere 
come  il  gran  fondamento  di  tutti  i  possibili  periodi 
o  climi  dell'arte.  tL  morta  la  divina  e  teologica  Comme- 
dia di  Dante  nella  visione  ascetica  del  Medioevo,  ma 
n'è  rimasta,  e  sempre  ne  rimarrà,  la  vita  sostanziale, 
ciò  eh'  è  dramma  o  tragedia  di  passioni  ,  ciò    che  il 


ii6 


Poeta  ha  rappresentato  in  rispondenza  al  suo  immor- 
tale principio: 

r  mi  son  un  che  quando 
Amore  spira,  noto,  ed  a  quel  modo 
Che  detta  dentro,  vo"  signiflcando... 

Il  verbo  dell'arte  umana  è,  per  tutti  i  tempi,  questo 
che  io  dirò  colle  felicissime  parole  del  Barzellotti:  la 
selezion  naturale  del  buono  per  via  dell'  ottimo  nel  tipo 
mentale  umano. 

È  morto  da  più  che  cinque  secoli  il  divino,  ma  è 
rimasto,  e  sempre  rimarrà  ,  1'  mnano,  almeno  sino  a 
che  avrà  vita  la  specie. 

Omero,  Dante,  Shakespeare  non  sono  morti  ancora, 
non  morranno,  né  potranno  mai  morire.  Innoviamo 
pure  ma  torniam  sempre  a  quei  grandi  modelli:  tor- 
niamo all'  antico,  all'  immobile  empireo  dantesco  del- 
l'arte; e  allora  non  rappresenteremo  soltanto  la  pic- 
cola vita  di  un  ciclo  solo  ,  sì  la  vita  eterna  dell' 
Universo:  allora  l'arte  non  sarà  d'uno,  ma  di  tutti  i 
tempi;  non  d'una  ma  di  tutte  le  età;  non  d'  una  ma 
di  tutte  le  nazioni:  sarà  1'  arte  del  passato,  del  pre- 
sente, dell'avvenire. 

Ma  quali  più  grandi  avveniristi  di  Omero,  Pindaro, 
Alceo,  di  Virgilio  e  Orazio  ,    di    Dante,  Shakespeare 

Goete  ? 


5-^^;i 


XII. 

Il  Reale  nell'Arte. 

I. 


^OLTi  si  provarono  a  definir  W4rte,  ma  ben  po- 
chi, credo  io,  seppero  farlo  con  precisione 
e  con  interezza.  Che  è,  innanzi  tutto,  una 
definizione?  È,  o  dovrebbe  essere,  l'espressione  sinte- 
ticamente efficace  e  integralmente  esatta  del  Vero  uni- 
versale. Or  quest'ultimo  è  il  fondamento  obbiettivo, 
cioè  la  genesi  informatrice  delle  nozioni  e  delle  idee, 
ramificantisi  in  tante  famiglie  di  verità  speciali,  deri- 
vate, o  meglio,  propagginate  da  uno  stipite  comune. 
Onde  la  definizione  di  una  cosa  è  propriamente  una 
idea  madre  che  in  sé  compendia  tutt'i  possibili  svol- 
gimenti delle  nozioni  particolari  nella  nozione  gene- 
rale. Quando  dal  particolare  si  risale  al  generale,  ab- 
biamo la  sintesi:  viceversa,  scomponendo,  1'  analisi. 
E  quand'essa  la  definizione  non  assomma  in  sé  come 
r  embrione  di  tutt'i  possibili  particolari  delle  cose, 
né  almeno  li  adombra,  ,  non  è  vera  ,  o  non  é  com- 
piuta. Ecco  perchè  quando  si  è  trattato  di  definire 
V Arte  o  il  Bello  i  soliti  retori  nostri,  o  son  riesciti 
oscuri,  o  non  ci  hanno  resa  della  cosa  che  sola  una 
parte  .  Oh  !  che  amenità  di  espressioni  apodittiche 
nelle  tante  graziose  retoriche  che  oggi  svolazzano 
per  le  scuole  e  si  volatilizzano  ne'  cervelli  degli  ado- 
lescenti. Anche  noi  con  la  fiducia  di  non  recar  vasi 
a  Samo  o  nottole  ad  Atene,  ci  vogliamo  provare  a 
definire  compiutamente  V Arte  rispetto  al  vero. 

Ci  riusciremo?  Forse  no;  e  allora  il  lettore  non 
malevolo  ci  si  mostri  benigno  almeno  per  le  buone  in- 
tenzioni. 


ii8 


Noi  dunque  definiamo  V Arie  come  la  rappresetita- 
zione  attuale,  storica  e  climatica  del  vero  nel  bello,  idea- 
lizzato dalla  coscienza  e  concepito  da  un  temperamento. 
E  il  Bello  è  la  idealità  del  vero  nel  buono,  in  cui  si 
appaga  consapevolmente  l' anima  umana,  atta  a  compren- 
derla e  a  vagheggiarla. 

Ma  torniamo  alla  prima.  Essa  è  dunque  rappresen- 
tazione, cioè  colorito  e  rilievo  del  reale  od  anche  di 
una  particella,  di  una  spera,  di  un  barlume  di  esso 
più  intimamente  e  passionatamente  percepito.  Ecco. 
Tutti  possono  sorprendere  nella  vita,  interiore  o  sen- 
sibile, morale  o  psicologica,  una  mossa  o  inspirazione 
meglio  rispondente  alle  condizioni  dell'animo  o  del  sen- 
timento, e  in  un  modo  che  più  direttamente  consenta 
alle  attitudini  dell'  ingegno  e  più  rapidamente  susciti 
neir  anima  un  movimento  originale  d'  imagini  e  di 
pensieri.  Chi  sa  rendere  con  la  più  netta  e  colorita 
espressione  questo  momento,  è  artista  mero.  \J Arte 
insomma  si  può  riguardare  come  un  pieno,  luminoso, 
intellettuale  vagheggiamento  delle  cose  più  fortemente 
e  prontamente  avvertite,  e  più  fedelmente  espresse. 
E  come  non  tutti  a  un  modo  né  con  la  medesima 
intensità  o  larghezza  di  relazioni  ideali  giungono  a 
percepire  il  vero,  così  questo  ,  per  differenti  gradi, 
moltiplica  e  versa  il  suo  contenuto  in  temperamenti 
d'ingegno,  ora  sterili  o  mediocri,  ora  buoni  o  discreti, 
ora  alti  e  poderosi:  il  che  dà  luogo  a  tre  forme  al- 
meno fondamentali  dell'Arte,  la  propriamente  popo- 
lare o  ciompa,  la  comune  o  consuetudinaria  e  la  su- 
periore o  aristocratica  .  E  pure  entro  i  confini  di 
queste  tre  forme  v'han  gradazioni,  variazioni,  mani- 
festazioni infinite,  le  quali  corrispondono  di  individuo 
in  individuo  a  quel  tanto  d'  irradiazione  ideale  che 
ciascun  artista  nell'anima  sua  fa  splendere  intorno 
all'oggetto  dell'opera  propria;  e  più  d'alimento  si  dà 
alla  percezione,  e  più  n'  esce  un  lavoro  complesso;  più 
dal  fondo  associativo  delle  facoltà  si  deriva  di  no- 
zioni,  d'impressioni,   d'imagini,   e  più   il  parto  del  no- 


119 


stro  ingegno  acquista  carne  e  colore,  palpiti  e  sangue. 
Onde  a  quelli  che  troppo  alto  mirano  il  contenuto 
ideale  delle  cose,  spetta  il  diritto  e  di  vagheggiarlo 
inaccessibilmente  e  di  renderlo  con  impronte  mal  ri- 
spondenti al  gusto  de'  più:  questi  atleti  non  devono 
per  essere  intesi  aver  l'oroscopo  della  ignoranza.  A 
me  verrebbe  voglia  di  comparar  1'  arte  al  rovesciato 
imbuto  dell'  «  Inferno  »  dantesco  capovolto  in  su. 
Come  di  questo  nei  primi  ampissimi  gironi  soffrono 
le  anime  di  coloro  che  peccarono  per  fragilità  o  per 
debolezze  comuni  alla  grande  maggioranza  degli  uo- 
mini, a  quel  modo  che  ne'  cerchi  più  e  più  digra- 
danti e  sempre  più  ristretti  si  contengono  le  vanità 
di  quelli  che  in  assai  minor  numero  più  gravemente 
effesero  Dio  nelle  leggi  sue,  onde  apparvero  più  sin- 
golarmente ribelli  o  delinquenti:  così  i  primi  gironi 
dell'arte  abbracciano  nelle  larghissime  volute  la  grande 
maggioranza  de'  piccoli  o  comuni  scrittori,  de'  pro- 
duttori popolari  o  borghesi  nella  forma  plateale  e  con- 
suetudinaria. Questa,  via  via  che  sale,  vien  contenuta 
in  orbite  gradatamente  più  piccole  e  più  ascendenti, 
sino  al  punto  più  alto  dell'  ascensione  ideale  ove  la 
estetica  si  può  dire  il  privilegio  di  pochissimi  eletti, 
venendo  così  limitata  dall'  ultimo  e  minimo  cerchio. 
Non  che  l'arte  non  possa  in  alcuni  tempi  essere  o  la 
diretta  collaborazione  del  popolo,  od  un  bisogno  este- 
tico di  lui,  od  un  mezzo  di  rinnovamento,  o  produzione 
relativamente  democratica  per  iscambi  e  contatti  di 
idee  e  di  forme;  ma,  sempre  che  s'  intenda  nel  suo 
debito  valore  la  popolarità  nell'  arte,  quest'  ultima, 
quando  riesce  alta  elaborazione  riflessa  d'  individui  e 
non  dell'  intera  società,  non  può  essere  intesa  da 
ognuno  e  spesso  anche  da  molti;  e  credo  anche  che 
la  eccellenza  di  una  grande  opera,  considerata  asso- 
lutamente in  sé,  non  possa  in  ogni  età  esser  gustata 
per  intero  da  ciascuno,  sì  veramente  da  quelli  che 
Orazio  tanto  bene  diceva:  homines  enmnctae  naris,  cioè 
di  fiuto  squisitissimo. 


* 
*  * 

Verremo  ora  a  indicare  i  diversi  aspetti  ed  elementi 
che  concorrono  armonicamente  a  produrre  un'  opera 
letteraria  in  rapporto  all'  estetica.  Essa,  vera  e  indi- 
pendente repubblica  del  bello,  sotto  qualsiasi  forma  e 
contenuto  accoglie  fedelmente  tutte  le  manifestazioni 
ideali  della  vita;  sia  come  specchio  del  reale  umano, 
comune  a  tutte  le  generazioni,  reale  il  quale  non  passa 
anzi  si  perenna  per  tutt'  i  gradi  della  evoluzione, 
proprio  come  il  «  mondan  rumore  »  di  Dante  che 
«  muta  nome  perchè  muta  lato  »;  sia  come  specchio 
del  reale  che  fugge  col  venir  meno  dell'ambiente  che 
lo  produce.  Così  abbiamo  un  fondamento  di  vero  il 
quale  è  eterno  da  quanto  l'uomo,  e  un  fondamento  di 
vero  il  quale  è  temporaneo  e  caduco  da  quanto  l'età:  il 
primo,  riflesso  dall'anima  creatrice,  non  muore,  e  il  se- 
condo, dopo  avere  accompagnato  un  movimento  e  un 
mutamento  nella  società,  cede  il  posto  ad  altre  forme 
e  contenuti  accompagnanti  pur  essi  un  nuovo  periodo 
della  civiltà.  Ogni  epoca  porta  con  sé  queste  due  ma- 
nifestazioni che  rispondono  a  due  funzionamenti  del 
pensiero,  1'  assimilazione  e  la  disassimilazione ,  proprio 
come  nel  fenomeno  digestivo;  onde  le  generazioni 
novelle,  quando  non  decadono,  ritraggono  progre- 
dendo naturalmente  dal  primo  la  propria  vitalità.  Ne 
conseguita  che  della  vita  v'  hanno  nel  divenire  del 
Bello  diversi  momenti  e  quindi  diverse  ombre  o  fi- 
gure ideali:  com'  è  dunque  possibile  debba  esso  riu- 
scire universalmente  identico  e  ne'  limiti  di  un  solo 
esclusivo  contenuto  ?  L.\4rte  abbraccia  tutto  il  vero  di 
tutto  l'uomo  in  tutte  le  età. 


Or  quali  di  queste  manifestazioni  si  mantengono 
vive  anche  a  traverso  il  mutevole  clima  dei  popoli, 
incontrando  così  1'  assentimento  universale  di  tutt'  i 
tempi  ?  Propriamente  quelle  che  in  altissimo  grado 
conservano  nella  rappresentazione  il  primo  fonda- 
mento del  vero,  che  non  passa,   cioè    il  gran   dramma 


umano  che  si  ripete  ne'  secoli,  o,  meglio,  1'  eterno 
contrasto  dell'  anima:  amore,  dolore,  tremore;  virtù, 
abnegazione,  eroismo;  fiamma  di  affetti  e  scoppi  di 
sentimenti,  echi  di  gioia  e  rantoli  di  sdegni,  gemiti 
di  caduti  e  trionfi  di  vincitori,  la  passione  che  inalza 
e  quella  che  abbassa.  Tutto  questo  è  perenne  e  vivo 
e  presente  tanto  nella  concezione  dell'  Iliade  quanto 
in  quella  dell'  Eneide  e  della  Divifia  Commedia,  così 
in  Omero  che  in  Virgilio  e  Dante,  vuoi  nel  Prometeo 
di  Eschilo  vuoi  nel  Faust  di  Wolfango  Goethe,  sia 
nelle  Trachinie  e  nei  due  Edipi  di  Sofocle  sia  nel- 
V Amleto  e  nel  Macbeth  di  Shakspeare.  Il  resto  che 
fu  il  mutevole  contorno  e  il  temporaneo  svolgimento 
dell'  età,  è  destinato  fatalmente  a  sparire;  e  se  noi  vi 
torniamo  con  senso  storico,  è  per  quell'altro  vero  che 
ancora  ci  abbaglia.  Né  si  creda  possa  mai  1'  artista, 
sia  pur  grande  e  genialmente  assimilatore,  evocare 
idealizzando  un  contenuto  sorpassato  a  grande  inter- 
vallo dalla  evoluzione,  a  meno  che  e'  non  si  provi 
far  opera  di  artificio,  ricomponendo  con  pietruzze  di 
mosaico  tratte  dalle  necropoli  dell'arte  un  mondo  de- 
defunto. Quand'egli  non  si  lascia  movere  a'  palpiti 
di  gloria  e  di  sventura,  di  virtù  e  di  sacrifizio,  che 
rapiscono  ancora  1'  anima  de'  contemporanei;  quan- 
d'egli nelle  forme  possibili  dell'ambiente  non  sa  eleg- 
gere le  circostanze  e  la  inspirazione  per  l'opera  jiro- 
pria,  potrà  in  essa  versare  tutt'  i  lenocinli  e  tutte  le 
carezze  della  tecnica,  ma  non  riuscirà  mai  a  fondere 
nel  suo  lo  spirito  del  tempo,  non  saprà  cavare  dalla 
materia  greggia  pure  un  alito  di  vita,  né  alfine  eser- 
citare alcuna  efficacia  sul  senso  estetico  della  sua  ge- 
nerazione, la  quale  vuole  veder  riflessa  nella  rappre- 
sentazione solo  sé  stessa,  e  di  sé  tanto  quello  eh'  è 
immanente  e  continuo,  quanto  quello  eh'  é  caduco; 
nelle  proporzioni,  s'  intende,  delle  varie  e  anche  op- 
poste tendenze  del  presente.  Chi  si  proverebbe,  oggi 
e  sempre,  a  rifare  la  vision  teologica  della  Divina 
Commedia  ?  E  chi  la  leggerebbe  ?  1  grandi  monumenti 
del  pensiero  non  s'  imitano  né  si  rifanno,  se  non  si 
vogliano  parodie  o  bambocciate;  il  che  vale  anche  per 


le  cpere  minori  del  passato.  Ove  manca  un  intimo 
sostrato  d'  idealità  e  di  sincerità  è  impossibile  avere 
creazione  vera.  Si  potrà  forse  evocare  oggettivamente 
una  grande  leggenda  o  un  grande  avvenimento  sto- 
rico che  possa  tuttavia  esercitare  nella  memoria  o 
nella  fantasia  dei  contemporanei  un  grande  effetto, 
morale  o  sociale,  politico  o  religioso;  ma  sempre  che 
la  rappresentazione  ne  sia  colorita  e  spiccatamente 
impersonale.  Vi  si  provò  il  Carducci  nei  frammenti 
della  «  Canzone  di  Legnano  »  e  in  quella  «  Sui  campi 
di  Marengo  »,  nel  «  ^a  Ira  »  e  in  «  Faida  di  co- 
mune »,  nella  «  Torre  di  Federigo  »  e  in  «  Comune 
rustico  ».  Vi  si  provarono  raramente  anche  il  Maz- 
zoni, il  Ferrari,  il  Marradi  e  qualche  altro.  Ma  pur 
questo,  sia  come  impressione  estetica,  sia  come  ricor- 
danza, sia  come  corrispondenza  od  affinità  del  senso 
storico,  è  peregrinamente  e  artisticamente  possibile, 
purché  si  sappia  eleggere,  sobriamente  e  opportuna- 
mente,  la  materia  storica  o  leggendaria. 

IL 

Veniamo  ora  a  dire  qualche  altra  cosa  dell'  univer- 
sale contenuto  dell'arte. 

Come  r  uomo  primitivo,  a  cui  è  in  gran  parte  si- 
miglievole  l' ignorante  e  il  folle  nelle  civiltà  anche  più 
avanzate,  sur  un  fondo  di  errori  e  per  effetto  di  sug- 
gestioni esercitate  sull'  anima  dal  soprannaturale  e 
dall'  infinito,  intravvede  e  vagheggia  la  natura  con 
senso  mistico,  fingendosi  una  conoscenza  tutta  intes- 
suta di  aberrazioni  e  di  sogni,  e  concependo  in  tal 
modo  quella  che  a  lui  pare  la  verità;  così  1'  uomo 
dotto  o  almeno  dirozzato,  in  cospetto  della  medesima 
natura  che  a  grado  a  grado  gli  si  rivela  nei  feno- 
meni e  nelle  leggi,  concepisce  la  medesima  cosa  per 
suggestioni  diverse:  or  tanto  l'una  che  1'  altra  mani- 
festazione entrano  nell'  orbita  del  Bello.  Questo  è  di 
natura  sua  universale,  in  quanto  che  non  abbraccia 
l'assoluto  qual  è  inteso  da  una  setta,  da  un  partito, 
da  un  crocchio,    né    si  accorcia    o  si  strema    entro  i 


123 


confini  di  sola  una  dottrina  o  sistema  od  utopia:  ma 
raccoglie  il  conoscibile  di  tutte  le  scuole  in  ogni 
tempo,  quale  può  essere  anche  per  opposte  vie  idea- 
lizzato separatamente  e  distintamente  da  tutte  le  anime 
del  mondo:  cioè  quel  contenuto  che  ciascun  uomo 
sorprende  diverso  e  con  originalità  propria  secondo 
la  sua  particolare  intuizione,  anche  se  esso  sia  il  falso 
o  il  sovrannaturale.  Or  questo  contenuto  che  è  tutto 
l'uomo  e  tutto  1'  Universo,  si  moltiplica  nell'  anima 
umana,  d'individuo  in  individuo  e  di  generazione  in 
generazione,  in  una  serie  infinita  di  realità  particolari; 
ciascuna  delle  quali  è  per  lo  più  rispondente  ad  una 
sola  delle  diverse  tendenze  del  momento  storico,  a 
quella  propriamente  che  è  meglio  disposta  a  compren- 
derlo e  a  vagheggiarlo  nel  campo  del  bello;  e  quegli 
che  riuscisse,  purché  ne  avesse  le  attitudini  e  la  pre- 
parazione, a  rendere  con  fisonomia  propria  e  con  na- 
turale consapevolezza  quella  interiore  visione  delle 
cose  a  cui  consentano  e  il  bisogno  estetico  dell'  età 
sua  e,  pel  contenuto  fondamentale,  il  gusto  di  tutti 
i  tempi,  raggiungerebbe  senz'altro  i  fini  supremi  del- 
l' Arte. 

* 

Dissi  tendenze  del  momento  storico;  e,  infatti,  gene- 
ralmente in  ogni  epoca  od  anche  in  ogni  breve  pe- 
riodo della  civiltà  v'  hanno  diverse  scuole  e  molte- 
plici focolari  di  coltura  a  cui  non  tutti  consentono, 
all'  infuori  di  sola  una  parte  e  spesso  ben  piccola 
della  nazione:  onde  l'artista  che  vi  s'  inspira,  riesce 
gradito  solo  a  quella  classe  di  persone  o  lettori  cui 
piace  quel  dato  contenuto,  o  a  pochi  spiriti  eletti  che 
sanno  impersonalmente  ammirarlo  nel  solo  e  indipen- 
dente mondo  dell'  estetica.  Or  questa  parte  rappre- 
senta appunto  quello  che  dissi  tendenza  del  momento 
storico  .  Vi  ha  bensì  un  altro  contenuto  in  cui 
tutto  il  genere  umano  si  sente  solidale  ,  fuori  di 
ogni  scuola,  ed  è  proprio  quello  eh'  io  dissi  fonda- 
mentale ed  eterno;    e    chi    opportunamente   e  genial- 


124 


mente  lo  rendesse,  potrebbe  piacere  a  tutti.  V'hanno 
in  fine  termini  o  confini  di  civiltà  ne'  quali  mancano 
queste  scuole,  o  rappresentano  il  più  piccolo  numero; 
e  allora  la  letteratura  è  un  godimento  intellettuale  di 
tutta  la  nazione;  ma  quante  volte  questa  è  sul  rige- 
nerarsi o  rinnovarsi,  le  scuole  si  moltiplicano  pure 
intorno  ad  una  tendenza  prevalente.  Ma  generalmente 
il  molteplice  contenuto  ideale  del  tempo  spiccia  di- 
verso da  sorgive  differenti;  onde  chi  beve  ad  una, 
prova  ripugnanza  o  dispetto  e  pur  centellinare  poche 
gocciole  delle  altre.  Chi  oggi,  per  esempio,  a  propo- 
sito delle  ultime  vicende  affricane,  inneggiasse  alla 
pace  o  alla  guerra,  non  troverebbe  consenzienti  tutti; 
laonde  il  meglio  dell'  artista  è  quello  di  seguire  indi- 
pendentemente l'eco  fedele  della  sua  voce  intima  e 
sincera,  e  di  piacere  almeno  a  quel  piccolo  nucleo  di 
eletti  che  possano  giudicarlo  od  anche  ammonirlo 
nella  sola  religione  della  bellezza. 


Ma  se  questo  contenuto  è  così  personale,  com'  è 
mai  possibile  contentar  tutti,  o  i  molti,  o  i  pochi? 
Per  la  semplicissima  ragione  che  altro  è  il  reaie  in 
sé,  in  comunicazione  con  questa  o  quella  corrente 
ideale,  ed  altro  è  il  reale  artistico  o  meglio  estetico. 
Io  posso  ammirare  anche  quella  che  non  mi  pare  o 
non  è  per  me  la  realità,  purché  essa  pienamente  ri- 
sponda a  quel  palpito  del  cuore  e  a  quel  movimento 
delle  funzioni  psichiche,  pei  quali  la  mia  mente  e  il 
mio  gusto  lo  vedono  fedelmente  e  naturalmente  idea- 
lizzato. Ecco:  io  vedo  che  1'  artista  ha  concepito  il 
falso,  o  quello  che  a  me  sembra  tale:  se  riesco  a  im- 
personarmi in  lui  e  ad  accorgermi  (  questo  é  deile 
conscienze  indipendenti  e  ben  temperate  dalla  natura 
e  dalla  educazione  letteraria)  eh'  egli  lo  ha  rappresen- 
tato come  in  quelle  condizioni  di  animo  e  di  mente 
non  poteva  essere  altrimenti,  io  su  le  vie  del  bello 
giungerò  a  gustarlo  e  ad  ammirarlo  per  mezzo  della 
luminosa    idealizzazione    di    tutto    ciò    che   é  umano. 


125 


anche  del  falso,  umanamente  e  sinceramente  perce- 
pito. Sotto  questo  aspetto  l'arte  comprende  in  sé  tutti 
i  contenuti  e  tutte  le  forme,  tutt'  i  climi,  tutte  le  ten- 
denze, tutte  le  età. 

III. 

Dalle  cose  sin  qui  discorse  è  molto  agevole  de- 
durre i  vari  elementi  eh'  entrano  concordi  e  sotto  un 
certo  aspetto  simultanei  nell'  opera  letteraria.  Sono: 
clima,  fattore  storico,  attualità,  idealizzazione,  tempera- 
mento, tendenza.  Di  questa  dicemmo  abbastanza,  onde 
non  ci  resta  che  toccare  degli  altri  elementi. 

Il  clima  è  il  carattere  potenziale,  o,  meglio,  1'  im- 
pronta creatrice  eh'  è  tutta  nella  particolare  attitudine 
e  inclinazione  di  un  dato  periodo  della  civiltà,  rispetto 
alle  forme,  al  procedimento  e  a'  modi  di  concepire  e 
di  rappresentare  il  reale,  onde  risponde  a  un  deter- 
minato momento  evolutivo  della  vita  de'  popoli.  Il 
che  vuol  dire  che  la  sostanza  o  la  potenzialità  arti- 
stica di  questa  o  quella  tendenza  di  un  determinato 
momento  della  civiltà  è  in  fondo  la  stessa  così  in 
Italia  che  fuori  ;  e  ogni  nazione  senza  alternarne 
le  linee  capitali  vi  tesse  intorno  il  singolare  ordito 
dell'  anima  sua  secondo  il  genio  suo  particolare 
e  con  i  pregi  o  i  vizi  che  a  quest'  ultimo  si  avven- 
gono o  gli  son  propri.  Una  bella  poesia  d' argo- 
mento recente  può  certo,  anzi  dee  piacere  cosi  in 
Italia  che  in  Germania,  tanto  in  Francia  o  nell'  Inghil- 
terra quanto  nelle  Americhe  lontane.  In  ciò  il  cosmo- 
politismo dell'arte. 

Il  fattore  poi  storico  di  essa  è  quel  complesso  effet- 
tivo di  particolari  e  di  nozioni,  di  avvenimenti  e  di 
aspirazioni,  d'  impressioni  e  d'  idee,  che  in  generale 
risponde  al  clima  e  in  particolare  alle  varie  tendenze 
del  tempo.  Non  basta  cerchi  e  trovi  in  questo  1'  ar- 
tista le  fonti  del  suo  contenuto,  ma  gli  bisogna  nel- 
l'attrito della  vita  sociale  coglierne  le  occasioni  e  la 
opportunità,  il  che  forma  il  senso  storico  dell'  opera 
sua.  Una  vittoria  od  una  sconfitta,  l'esempio  recente 


126 


di  una  grande  sventura  o  di  una  gloriosa  impresa,  il 
vivo  ricordo  di  un  nobile  sacrifizio  o  di  una  disumana 
volgarità,  l'avvenimento  scientifico  di  una  invenzione 
o  di  una  scoperta,  i  trionfi  dell'industra  o  del  sapere, 
una  rivolta,  un  grido  di  generale  indignazione,  una 
esplosione  di  sentimenti  comuni,  e  via  dicendo:  ecco 
la  materia  storica  recente  che  può  esser  atta  a  dar  ali  al 
suo  pensiero  e  lampi  al  suo  cuore.  E  oltre  questa 
v'  è  pure  un'  altra  materia,  men  generale  ma  non 
meno  affettiva,  e  lo  scrittore  la  trova  nel  tempio  della 
famiglia  e  nel  sacrario  della  sua  conscienza,  su'campi 
ignorati  e  nelle  modeste  officine,  nell'amore  segreto, 
nelle  piccole  gioie  e  nelle  piccole  sventure:  egli  al- 
lora, rappresentando  sé  stesso  nel  breve  e  oscuro  suo 
mondo,  inconsapevolmente  rappresenta  tutti  gli  altri, 
e  nel  suo  particolare  quello  eh' è  generale,  e  nel  brano 
dell'anima  sua  un  brano  dell'anima  universale.  E  pero 
egli  osserva  questo  dal  minuto  spiraglio  e,  per  così 
dire,  dalla  minima  specola  del  suo  osservatorio  psico- 
logico ,  cioè  da  quel  fondo  di  nozioni  o  di  predile- 
zioni morali  e  civili,  politiche  e  religiose,  in  che  ri- 
posa r  ideale  di  quella  scuola  o  corrente  ,  alla  quale 
egli  appartiene,  e  di  cui  certo  veste  e  adorna  la  bella 
faccia  delia  sua  figura  o  del  suo  rilievo.  Onde  se 
egli  è  atto  a  rappresentare  della  sua  spera,  grande 
o  piccola  che  sia,  ciò  che  è  più  vicino  e  occasional- 
mente opportuno  alla  suggestione  sua  ideale,  otterrà 
certo  un  grandissimo  effetto  su  l'anima  commossa  di 
colui  che  lo  intende  e  si  sa  riconoscere  e  immedesi- 
mare in  lui:  ciò  propriamente  è  quello  che  noi  di- 
ciamo attualità.  E  non  si  creda  valga  solo  per  l'opera 
così  detta  di  occasione,  contro  la  quale  noi  ci  leviamo 
austeri  quando  la  é  falsa,  voluta  e  convenzionale: 
tutte  le  grandi  creazioni  sono  state  ispirate  da  un  solo, 
da  un  grande  momento  storico  di  attualità,  sia  indi- 
viduale sia  universale. 

Idealizzazione.  -  Questa  parola  offenderà  certo  l'orec- 


127 


chio  poco  casto  de'  veristi  vecchi  e  novellini  pe'  quali 
la  rappresentazione  è  copia  o  fotografia,  quasi  che 
fosse  possibile  all'  uomo  commoversi  e  appassionarsi 
a  una  cosa  senza  idealizzarla,  e  quasi  che  a  rappre- 
sentare anche  il  nudo  e  il  puro  oggettivo  naturale  si 
possa  fare  a  meno  dell'elemento  psicologico,  senso  e 
colore.  E'  assai  difficile  se  non  impossibile  definire  la 
idealizzazione,  la  quale  è  un  che  di  azzurro,  d'  impal- 
pabile, di  etereo  e  di  spirituale,  che  viene  dall'anima 
di  cui  non  si  palpa  né  si  brancica  1'  essenza,  come 
si  fa  di  un  bel  seno  di  donna;  e  se  quest'  ultimo  atto 
risveglia  pure  una  passione,  suscita  insieme  qualcosa 
che  non  è  più  materia:  or  come  si  fa  a  realizzarla 
materialmente,  cioè  meccanicamente,  in  poesia  o  in 
prosa  ?  Si  potrà,  tutt'  al  più,  materializzare  —  povera 
parola  per  più  povera  cosa  —  il  sensibile  o  l'osceno 
che  si  tocca,  non  mai  l'anima  umana:  e  se  quello, 
appunto  perchè  insensibile  o  inerte,  non  è  nulla; 
questa  invece,  perchè  appunto  materiata  di  affetti,  è 
bellezza.  Tutt'  i  capolavori,  antichi  e  moderni,  sono 
ideali  e  insieme  reali,  a  quel  modo  che  i  loro  autori 
sono  idealisti  e  realisti  a  un  tempo:  certo  perchè  nella 
rappresentazione  concorrono  di  pari  un  contenuto  del- 
l'animo e  un  contenuto  delle  cose.  Chi  più  realista  e 
idealista  di  Omero  e  di  Virgilio,  di  Dante  e  di  Shak- 
speare,  di  Donatello  e  di  Michelangelo,  di  Raffaello 
e  di  Tiziano,  di  Schiller  e  di  Gòthe,  di  Shelley  e  di 
Heine,  di  Byron  e  di  De  Musset  ?  A  Raffaello,  rac- 
contano, fu  domandato  un  giorno  qual  segreto  egli 
avesse  per  far  così  belle  le  sue  madonne  -  Nessuno  - 
rispose  — :  io  sento  in  me  qualcosa  che  non  so  espri- 
mere e  da  cui  mi  viene  tutto. — Proprio  così.  A  me  pare 
sia  la  idealizzazione  un  certo  novo  aspetto,  una  certa 
spiccata  fisonomia  delle  cose  che  l'anima  nostra  ricrea 
e  trasfigura  col  sole  della  intelligenza  e  col  calore 
dell'  affetto:  la  par  quasi  un  trasumanarsi  —  i  teologi 
direbbero  anche  transustanziarsi  —  dell'  oggettivo  o 
sperimentale,  della  materia,  del  fenomeno,  in  quel 
quasi  caleidoscopio  di  luce  che  son  1'  ingegno  e  il 
genio,    la    fantasia    e    la    invenzione,    la    fassione    e 


128 


il  sentimento,  le  quali  tutte  cose,  come  pensa  il  Lom- 
broso, diventano,  ne'  grandi  poeti,  genio  e  follia, 
quando  esse  sono  nella  più  alta  e  accaldata  incande- 
scenza de'  molteplici  elementi  di  fusione  o  di  compe- 
netrazione. Allora  noi  ricomponiamo  in  noi  stessi  come 
un  diverso  e  assai  più  vasto  mondo  entro  il  quale 
osserviamo  sotto  altri  aspetti  anche  il  sensibile,  ma 
non  in  modo  che  se  ne  alteri  o  disformi  la  sostanza 
primigenia  e  la  parvenza  fondamentale.  Se  noi  vedes- 
simo rappresentate  la  cose  proprio  cosi,  come  sono 
in  natura,  pel  quale  obbietto  servono  benissimo  le 
varie  discipline  didascaliche,  che  bisogno  allora  ci  sa- 
rebbe della  poesia,  della  eloquenza,  del  romanzo,  del 
dramma?  È  arte  non  la  espression  nuda  del  vero  nudo, 
il  che  è  superficie,  ed  è  il  brutto;  ma  1'  espressione 
molteplice  e  luminosa  dell'  anima  nel  vero,  il  che  è 
umano  e  insieme  estetico. 

* 
*  * 

Temperamento.  —  É  il  duplice  e  quasi  immediato 
passaggio  del  reale  dalla  natura  nella  conscienza  e 
dalla  conscienza  nell'arte,  proprio  in  sull'atto  e  sotto 
r  impulso  della  ispirazione  o,  come  dicono  oggi,  sug- 
gestione creatrice.  E  questi  due  momenti  paiono  con- 
temporanei neir  anima  umana  che  quasi  a  un  tempo 
li  accoglie  e  feconda  con  la  virtù  della  passione  e 
col  baleno  della  fantasia:  onde  si  può  dire  nascano  a 
un  parto  intuito  e  immaginazione,  forma  e  pensiero, 
disegno  e  rilievo:  e  1'  esercizio  industrioso  della  tec- 
nica e  il  maneggio  della  pialla  retorica  non  serviranno 
poi  che  a  temperare  e  a  riforbire,  con  lento  e  pen- 
sato equilibrio  di  lavoro,  il  puro  e  semplice  ordito 
della  rappresentazione.  É  in  ciò  il  particolare  carattere 
o  tipo  secondo  il  quale  lo  scrittore  percepisce,  mo- 
della, figura  o  compie  l'abbozzo  dell'opera  sua,  nata 
dalla  fusione  o  dall'  incontro  di  quei  due  momenti, 
ond'  egli  vien  così  ad  acquistare  una  impronta  tutta 
propria  e  tutta  individuale.  E  qui  hannosi  a  notare 
tre  distinte  relazioni  o  coefficienti,  i  quali  si  scontrano 


129 


e  si  compenetrano  inconsapevoli  con  graduali  e  omo- 
genee differenze,  quasi  come  i  cerchi  della  sfera:  di 
modo  che  il  primo  discende  e  digrada  nel  secondo, 
e  questo  nel  terzo  ,  1'  uno  men  particolarmente 
abbracciando  1'  altro.  L'ultimo  coefficiente  è  tutto  nel 
clima,  ed  è  il  più  generale:  da  questo  si  sale  al  se- 
condo, che  è  il  primo  particolare,  ed  è  la  tendenza; 
e  da  esso  al  particolare  del  particolare  che  è  1'  indi- 
viduo, cioè  il  temperamento;  il  quale  vien  così  ad  es- 
sere la  spiccata  personalità  dello  scrittore  riflessa  per 
sottoposti  gradi  dal  contenuto  specifico  della  tendenza 
e  da  quello  universale  di  tutto  Y ambierite .  In  altri  ter- 
mini l'artista,  ritraendo  sé,  specchia  pure  senza  ad- 
darsene  i  pensieri,  i  sentimenti,  gli  affetti,  le  aspira- 
zioni di  una  parte  almeno  dei  contemporanei,  e,  più 
universalmente,   il  genio  caratteristico  del  tempo. 

IV. 

Abbiam  creduto  sotto  novi  aspetti  e  con  pensato 
tentativo  indicare  i  diversi  elementi  eh'  entrano  in- 
sieme nella  vera  opera  letteraria,  e  ci  siamo  anche 
studiati  di  accennarne  le  relazioni.  Certo,  dubitiamo 
forte  non  altri  ci  combatta  o  ci  accusi  di  sottigliezza: 
comunque  sia,  crediamo  essere  nel  vero  affermando 
di  aver  lungamente  studiato  il  difficile  e  intricato  pro- 
blema, che,  se  non  ci  mancherà  1'  approvazione  dei 
migliori,  faremo  in  seguito  oggetto  di  più  maturo  e 
riposato  lavoro.  Questo  è  frattanto  un  abbozzo  o 
meglio  uno  schema  che  potrebbe  diventare  disegno 
compiuto  in  un  altro  nostro  studio  sul  Vero  nel  Bello, 
che  fra  breve  potremo  offrire,  se  ci  accorgeremo  di 
non  riescire  noiosi,  ai  lettori  di  questa  rivista. 

Se  noi  miriamo  al  modo  ond'è  fatta  la  critica  oggi, 
notiamo  anzitutto  quanto  la  si  diparta  da  un  criterio 
generale  e  da  un  pieno  assentimento  di  giudizio  an- 
che intorno  ai  canoni  fondamentali  del  Bello:  è  in 
essa  certo  notevole  un  fecondo  risveglio  storico,  vita- 
lissimo elemento  a  una  disamina  compiuta;  ma  spesso 
le  indagini  tolgono    al    critico  la  necessaria    avvedu- 

9 


I30 


tezza  nel  risalire  pe'  gradi  dell'estetica  a'  diversi  mo- 
menti della  elaborazione  artistica,  e  a  scoprirvi  i  vari 
flussi  e  riflussi  della  circolazione  del  vero  nell'anima 
creatrice,  e  insieme  quel  fondo  di  secrete  bellezze  che 
per  entro  i  molteplici  contenuti  fanno  1'  opera  lette- 
raria. Non  mancano  alcuni  che  vi  riescono  interamente, 
ma  in  generale,  o  la  critica  è  soltanto  opera  di  sen- 
timento, o  la  è  troppo  analiticamente  fossile.  tL  sem- 
pre cosi.  Quando  giunge  un  nuovo  indirizzo  nelle 
cose,  son  tutti  a  seguirlo  anche  oltre  la  portata  sua, 
sino  a  dimenticare  quanto  de'  vecchi  indirizzi  o  av- 
viamenti si  colleghi  al  recente.  Moltissimi  oggi  sono 
intesi  a  disseppellire  il  vecchio  e  a  dimenticare,  non 
pure  il  valore  dell'  estetica,  ma  anche  la  classica  de- 
cenza del  comporre,  la  eleganza  e  la  perspicuità  della 
forma,  i  vigori  dello  stile  molteplice  e  vario,  la  ricca 
e  complessa  orditura  e  architettura  del  grande  periodo 
veramente  italiano:  cose  codeste  che  devono  entrar 
tutte  nel  lavorio  critico  il  quale  mira  anche  a  un  raf- 
finamento aristocratico  dello  scrivere  e  a  un  esercizio 
finissimo  e  accuratissimo  dell'  arte  con  l'arte. 


I  sapienti  rivelatori  e  illustratori  del  bello  dovreb- 
bero essere  i  primi  a  farci  gustare  col  bello  medesimo 
Varie  che  tutto  sa  e  ìiulla  si  scopre,  cioè  il  grande  pa- 
radiso delle  forme  compenetrate  da  l'intimo  contenuto 
delle  più  riposte  bellezze:  dovrebbero  insomma  essere 
artisti  e  inventori  eglino  medesimi,  come,  per  più 
rispetti,  parve  essere  stato  quella  inesauribile  anima 
fascinatrice  di  Francesco  De  Sanctis,  e  come  fra' vivi 
è  certo  e  interamente  Giosuè  Carducci,  mirabile  con- 
ciliatore della  indagine  erudita  con  l'osservazione  este- 
tica, della  storia  con  l'arte,  dell'  analisi  sperimentale 
con  gli  splendori  dello  stile.  Manca  generalmente  agli 
altri,  e  soprattutto,  l'attitudine  alla  immedesimazione; 
e  s'egli  è  necessario,  come  con  isplendido  barbarismo 
si  espresse  Bonaventura  Zumbini,  che  il  critico  s'intuì 
neir  artista,   è  pur    bisogno  ci    dica  come  concorsero 


131 


in  quell'anima  tutt'  i  momenti  della  creazione,  tutt'  i 
materiali  delle  forme.  Siam  ora  tornati  ai  bizantinismo 
de'  retori  apocalittici,  e,  se  per  poco  divaghiamo  dalla 
storia  a  cui  diamo  1'  impronta  di  topi  roditori,  rie- 
sciamo  eterocliti  e  insieme  pedanti,  monchi  ed  esclu- 
sivisti, più  tosto  innovatori  di  formoie  che  di  organe- 
simi  ideali,  più  adatti  compilatori  di  elenchi  e  di 
sommarii  che  formatori  plastici  e  introduttori  di  av- 
viamenti nuovi  negli  svolgimenti  della  patria  lettera- 
tura. Vogliam  così  instaurare  la  lingua,  riducendo  in 
tanti  minuzzoli  di  toscanesimo  ciompo  la  materia  les- 
sicale antica,  il  ricco  e  ancor  vivo  patrimonio  dei 
nostri  avi;  vogliam  convertire  nella  così  detta  unità 
della  lingua  parlata,  studio  amoroso  e  costante  di 
retori  fanfaneschi  e  manzoniani,  la  mirabile  varietà 
della  lingua  classica,  armonica  e  flessuosa,  doviziosa 
ed  agile,  nobile,  inesauribile,  ed  elastica  e  plastica; 
come  quella  che  fu  sì  adatta  a  rendere  nel  complesso 
organesimo  delle  forme  tutti  gli  avvolgimenti  e  le  gra- 
dazioni dell'  anima,  tutte  le  adombrature  e  sinuosità 
del  pensiero,  tutte  le  pieghe  e  rotondità  del  periodo, 
tutte  le  intricate  correnti  e  diramazioni  dello  stile,  per 
tutt'  i  tasti  della  grande  orchestra  della  nostra  musica 
favellata.  E  ora?  Or  ci  vogliamo  impoverire,  rimpic- 
cinire, esinanire  per  bamboleggiare  senilmente.  A 
questo  si  riduce  nel  nome  del  Manzoni  la  smorfìetta 
infantile  de'  novi  linguai  dell'uso  parlato  e  la  spietata 
severità  de'  recenti  spazzaturai  dell'  uso  classico  sul 
ruvido  lastrico  dello  stile  contemporaneo.  Onde  bene, 
a  proposito  degli  ultimi  lessicografi,  scrisse  il  Car- 
ducci: —  Ora  leggo  i  dizionari.  E  credo  che  i  man- 
zoniani ridurrebbero  l'Italia  ad  armeggiare  nella  prosa 
con  cinquecento  vocaboli  e  uno  stile,  a  quel  modo 
che  i  cinesi  mangiano  il  riso  con  uno  stecchino  (*)  — 
Non  si  può  dir  meglio. 

Ancora:  ci  proviamo  con  la  medesima  lestezza  di 
spirito  a  rifar  grammatiche,  manuali,  antologie,  trat- 
tati didascalici,  con  angustie  di  metodi,   con  monche 


(*)   Confessioni  e  battaglie.  —  Bologna,  Zanichelli,  1890,  pag.  47 


132 


restrizioni  d'idee  e  di  forme,  con  sofistiche  innova- 
zioni di  precetti,  con  manco  di  unità  e  insieme  di 
varietà  nello  svolgimento  organico  ed  integro  della 
poesia  e  della  prosa.  È  necessario  restituire  alla  lingua 
l'avito  patrimonio  classico  con  razionale  aumento  di 
ricchezza  e  con  iscartamento  di  voci  veramente  anti- 
cate,  e  non  per  capricci  di  scriventi,  ma  col  concorde 
consiglio  de'  migliori,  su'  modelli  più  durevoli  della 
patria  letteratura  e  del  buon  gusto.  É  indispensabile 
restituire  allo  stile,  non  pur  la  conente  e  spigliata  fa- 
cilità de'  nostri,  ma  tutti  insieme  i  molteplici  pregi  e 
i  vigori  e  gli  splendori  della  elocuzione.  Bisogna  re- 
stituire all'arte,  con  le  varie  potenze  ideali  e  con  le 
diverse  rappresentazioni  innovatrici,  le  svariate  fonti 
del  vero  e  le  più  nobili  e  ancor  vive  tradizioni  di 
essa.  Ma  cotesto  dee  fondarsi  su  quella  universalità 
di  metodo  che  in  sé  abbraccia  e  raccoglie  tutto  il 
bello  e  tutto  il  vero,  la  parte  tradizionale  e  la  rivo- 
luzionaria, il  fogliame  ancor  non  vizzo  delle  forme 
antiche  e  la  vegetante  fioritura  del  nuovo  ,  ciò  ch'è 
omogeneo  nella  varietà  e  quello  anche  ch'è  graduale 
e  diverso  e  distinto  nella  ricca  e  complicata  armonia 
delle  invenzioni  e  dello  stile.  Anche  oggi  emergono 
dal  gran  numero  de'  produttori  quelli  che  mirano  a 
questo  avviamento  che  non  è  di  demolizione  ma  di 
conciliazione;  ed  anche  oggi,  pur  tra'  grandi  lor  vizi 
o  difetti,  non  mancano  metodi  e  indirizzi  che  devono 
durare  nel  compiuto  rinnovamento  letterario;  ma  è 
necessario  che  conspirino  insieme  —  vo'  dirlo  darwi- 
nianamente —  nella  lotta  per  la  esistenza  ideale  tutte 
le  sopravvivenze  delle  manifestazioni  più  adatte.  Ma 
primi  a  darcene  l'esempio  sieno  i  letterati  e  gli  scrit- 
tori con  nobile  gara  di  lavoro  e  con  opera  concorde 
di  restaurazione  e  d'instaurazione  a  un  tempo. 


Libro  II. 

STUDI  ANALITICI  E  MEDAGLIONI  (1) 


XIII. 
L'ultimo  romanzo  del  Guerrazzi.  *) 


jUESTA  del  Guerrazzi  non  è  opera  destinata  a 
passare  inosservata,  come  quella  che  rileva 
una  tempera  di  scrittore  singolaie  e  pode- 
rosa, e  della  quale  s'  è  ornai  perduto,  presso  noi,  lo 
stampo  (**).  Di  mezzo  alla  quantità  così  strabocche- 
vole di  pubblicazioni  leggère  e  scadenti  ,  la  forte 
prosa  dello  scrittor  livornese  vo'  sperare  sia  di  utile 
ammaestramento  alla  gioventù  italiana  per  quanto  è 
in  quella  di  nobile  e  di  puro,  eccezion  fatta  di  non 
poche  oblique  sentenze  che  rasentano  ancora  il  troppo 
rigido  esclusivismo  del  grande  romanziere.  Ma,  messi 
da  banda  certi  apprezzamenti  o  ingiusti  o  eccessivi, 
quel  ch'è  da  ammirare  non  manca,  anzi  soprabbonda. 
Anzitutto  campeggia  qua  e  là,  ben  rilevata  da  con- 
torni netti  e  da  atteggiamenti  precisi  ,  la  maschia  e 
vigorosa  figura  del  patriota  che,  dopo  raggiunto  quel 
che  fu  il  suo  ideal  supremo  ,  conserva  ancora  certe 
idee  e  certi  sdegni  contro  le  condizioni  politiche  de' 
tempi  a'  quali  è  ancor  contrario  l'animo  suo.  Anche 
di  mezzo  alle  passioni,  fortemente  sentite  e  incisiva- 
mente espresse,   tu    ti    vedi    ritta    innanzi    la    marzial 


(*)  K.  D.  Guerrazzi  —  Il  Secolo  che  muore  —  voi.  4  —  Casa  E'iilr.ce 
Carlo  Verdesi  —  Roma  —  ISSó-SG. 

(**)  Si  può  di'-e,  senza  tema  d'errare,  che  la  stampa  italiana,  troppo 
intenta  a  certe  pubblicazioni  novelline,  non  si  è  neanche  accorta  di  questo 
romanzo  postumo  del  Guerrazzi.  Se  ne  togli  il  Bonghi  che  accennò  alla 
comparsa  del  primo  volume  in  una  breve  pagina  della  sua  Cultura,  nes- 
suna, ch'io  sappia,  delle  Riviste  che  sono  in  voce  di  autorevoli,  si  degnò 
almeno  di  annunziarne  la  venuta  al  mondo.  Vergognai  Noi,  sebben  tardi, 
cerchiamo  riparare  alla  oltraggiosa  dimenticanza,  pubblicando  questo  no- 
stro vecchio  scritto  sul  Pensiero  dei  Giovani,  per  dimostrar  due  cose: 
che  l'Italia  moderata  ha  troppo  presto  dimenticato  i  suoi  grandi  maestri, 
i  suoi  grandi  fattori  lìeWUnilà  Nazionale,  e  che  i  giovani,  da  --è  soli  e 
senza  la  ispirazione  de'  lor  viventi  maggiori,  sanno  additare  a'  loro  vec- 
chi, nel  culto  de"  grandi  uomini,  la  religione  dell'eroismo  e  dell'ingegno. 
Questo  lavoro  fu  pubblicato  nel  nominato  periodico  nel  iyS7  -  Nota  dei  1899. 


134 


figura  di  un  uomo  grande,  austero,  integro  ,  d'  una 
singolare  personalità  d'uomo  e  di  scrittore  che  nulla 
ha  ancor  perduto  di  quelle  qualità  che  si  ebbero  ad 
ammirare  ne'  torbidi  della  Rivoluzione.  Vi  è  ancora 
in  questa  ultima  opera  sua  tutto  quel  fremito  e  ribol- 
limento di  passioni,  di  astii  e  di  atrocità,  che  il  tempo 
non  ha  per  anco  sedati;  ma  insieme  tu  ammiri  sempre 
la  purezza  mirabile  degli  intendimenti,  l'austerità  sana 
d'  un  carattere  immutabilmente  rigido  e  magnanimo, 
l'esempio  raro  d'un'anima  romana  che  flagella  senza 
pietà  la  tristizia  de'  tempi  pe'  quali  passa.  Non  deve 
far  quindi  meraviglia  se  la  elocuzione  non  piegasi 
sempre  alla  forza  del  concetto,  se  la  frase  è  quasi 
sempre  ricercata,  se  lo  stile  non  procede  semplice  e 
piano,  e  se  ne'  giri  vari  e  ne'  ligamenti  sottili  del 
periodo  la  forma  si  contorce  affannosa  e  molte  volte 
diflìcile  e  oscura.  Sotto  questi  aspetti  soltanto  lo  stil 
guerrazziano  non  può  offrirsi  modello  di  bello  scri- 
vere; che  anzi,  in  man  de'  giovani,  le  opere  del  li- 
vornese riescirebbero  assai  nocive  al  gusto,  sempre 
per  ciò  ch'è  forma,  spessissimo,  per  ciò  ch'è  giudizio 
d'  uomini  e  di  tempi.  E  così,  via  via,  si  andrebbe 
in  essi  formando  quell'ombroso  e  torto  giudizio  della 
vita  e  della  società,  e  alla  punta  del  sarcasmo  mal 
saprebbero  i  giovani  conciliare  la  placida  e  serena 
estimazione  delle  cose.  In  ciò  il  danno  artistico  e 
morale.  Il  perchè  io  son  di  credere  che  fra  le  mani 
della  gioventù  studiosa  si  troverebbero  per  bene  quelle 
opere,  o  que'  brani  di  classiche  scritture,  nelle  quali 
all'  ottimismo  de'  pensieri  si  vegga  congiunto  quel 
gaio  sapore  di  classicità,  quella  purezza  limpida  di 
linee,  quella  quasi  infantile  ingenuità  di  forma  e  di 
pensiero  che  rende  così  primitivi  gli  scrittori  del 
nostro  aureo  trecento.  Anche  dal  cinquecento  può  il 
giovane  attingere,  in  iscuola  e  fuori,  molta  parte  di 
bello,  ma,  via  via,  dopo  che  si  è  prima  imparentato 
co'  grandi  scrittori  del  secolo  summentovato.  E  di 
contemporaneo  nulla?  —  Anche  da'  contemporanei 
può  il  giovane  attingere  molto,  ma  in  ciò  io  credo 
si  richiegga  un  ingegno  già  provetto  e  ben  formato, 


135 


perchè  fra  i  contemporanei,  e  specialmente  fra  i  no- 
stri, non  ancor  si  han  comuni  que'  sani  criterii  di 
gusto  e  di  estetica  bellezza,  per  seguir  questa  piut- 
tosto che  quella  via.  Ciò  dipende  dal  soverchio  cri- 
ticismo che  invade  e  tormenta  le  menti,  togliendo  ad 
■esse  la  via  che  le  guidi  per  un  sentier  comune,  fa- 
cile e  sicuro.  Ecco  tutto. 

Il  lettor  maturo,  che  ha  uno  stil  proprio  e  un  suo 
originale  modo  di  sentire  e  di  concepire,  può  leggere 
il  Guerrazzi  ,  e  ,  a  tempo  e  luogo,  ammirarlo:  non 
tutto  in  quella  viril  prosa  è  da  schivare  e  da  fuggire, 
né  tutto  in  quei  giudizi  è  torto  ed  ombroso:  che 
anzi  molto  vi  è  da  accogliere,  molto  v'è  da  rigettare, 
ammirando.  Ora  questa  scelta  di  elementi  formali  e 
concettivi  può  farla  chi  ha  potente  e  maturo  il  magi- 
stèro dell'arte  e  del  giudicare,  e  non  i  giovani,  e  non 
altri. 

Questa  ultima  opera  del  Guerrazzi,  ben  s'  appone 
il  Chiarini,  è  migliore  delle  altre  come  lavoro  d'arte, 
perchè  i  vizi  soliti  dello  scrittore  vi  si  appalesano 
meno,  e  in  lor  vece  spiccano  più  mirabili  le  qualità 
di  quello  stile,  sempre  barocco,  ma  sempre  cosi  effi- 
cace, sempre  così  sarcasticamente  lingueggianta.  Ciò, 
per  altro,  riguarda  più  la  forma  dello  stile  che  non 
i  concetti,  i  quali  pare  che  da'  tempi  nuovi  abbiano 
pure  acquistato  maggiore  acredine  e  severità.  Per- 
chè ?  —  La  ragione  parmi  questa. 

Tutto  l'ideai  suo  di  politica  e  di  patria  non  venne 
pienamente  raggiunto,  e  così,  spinto  e  amareggiato 
dal  disinganno,  e'  molte  volte  accusa  ingiustamente 
uomini  e  cose.  Ad  esempio  ,  in  quel  capitolo  che 
incomincia  il  volume  secondo:  Custoza  e  Montesuello, 
e'  parmi  troppo  ingiusto  e  amaro  contro  il  Cialdini 
e  il  La  Marmora  ,  e  anche  contro  1'  Italia  politica 
d'allora.  E'  vero  che  quelli  e  questa  fecero  molto  di 
male,  ma  è  pur  vero  che  i  fulmini  del  Guerrazzi  son 
troppo  violenti  ed  atroci.  Il  tórre  ogni  virtù  patriot- 
tica e  militare  a  quelli,  e  a  questa  ogni  attitudine  e 
sentimento  di  grandezza  e  di  decor  nazionale,  anche 
per    chi    fosse    all'  oscuro     di    quei  fatti    intimi,    par 


136 


troppo.  Del  resto,  chi  è  quei  che  oserebbe  negarmi 
che  in  quelle  pagine  roventi  ,  in  quelle  narrazioni  e 
descrizioni  così  terribilmente  scottanti,  non  è  da  am- 
mirare ,  di  mezzo  alle  atrocità  della  censura,  la  elo- 
quenza del  patriottismo  che  trapela  da  ogni  periodo, 
da  ogni  verso,  da  ogni  parola?  —  E  ciò,  in  un'opera 
che  vede  oggi  la  luce,  non  è  poco. 

Quale  sia  lo  svolgimento,  quale  la  orditura  organica 
o,  a  dir  meglio,  il  sottile  e  intimo  tessuto  di  tutto  il 
romanzo,  io  non  dico.  Chi  ha  letto  il  Guerrazzi  nelle 
altre  opere  ,  saprà  intendere  bene  quest'ultima  sua. 
Nella  quale,  con  il  metodo  solito,  col  solito  e  rapido 
interrompersi  ,  col  tramezzar  la  narrazione  di  osser- 
vazioni politiche  e  sociali  ,  mena  a  diporto  i  perso- 
naggi del  suo  racconto  fra  cose,  uomini  e  fatti  che 
si  collegano  coli'  istoria  italiana  degli  ultimi  tempi 
sino  a  poco  avanti  il  1873,  anno  in  che  egli  morì — . 
Perciò  credo  sia  meglio  ch'io  seguiti  a  intrattenermi 
circa  le  qualità  dell'  opera  sua  letteraria,  facendo  fin 
d'ora  intendere  che  questo  ultimo  romanzo  del  Guer- 
razzi ,  come  intreccio  e  svolgimento,  è  ben  povera 
cosa. 

L'edizione,  che  ne  dà  il  sig.  Carlo  Verdesi,  è  splen- 
didissima, e  il  libro  la  merita  bene.  Ma  una  lode,  e 
non  picciola,  spetta  anche  al  Chiarini  ,  il  quale  la 
curò,  scrivendone  la  prefazione,  di  cui  vo'  dire  qual- 
che cosa. 

Non  parmi  giusto  ciò  che  1'  egregio  scrittore  dice 
del  tempo  nostro.  Non  so  se  vi  siano  uomini  straor- 
dinari della  tempera  del  Guerrazzi  ;  ma  che,  oggi, 
altro  non  si  faccia  se  non  che  un  po'  di  critica  e  di 
erudizione  soltanto,  è  certo  inesatto.  Tale  pessimismo, 
che  comincia  dall'alto,  esercita  una  non  bella  influenza 
su'  giovani  scrittori,  i  quali  così  s'abituano  a  giudicar 
male  de'  contemporanei,  e  a  portar  fin  nelle  coscienze 
loro  un  che  di  arcigno  e  di  duro.  Né  a  me  sembra 
equo  il  guardar  la  nostra  vita  letteraria  in  modo  da 
non  scorgervi  altro  che  ,  solitario  autocrate,  il  Car- 
ducci. Di  qui  ne  viene  quello  sprezzo  che  affettasi  da' 
giovani    contro  tutti  gli  altri,   e  il  seguir  troppo  ser- 


137 


vilmente  il  movimento  carducciano.  Tanto  più  torva 
e  ingiusta  sembrami  la  sentenza  chiariniana,  che  cioè 
in  Italia,  salvo  il  Carducci ,  non  sappiasi  ,  come  il 
Guerrazzi,  la  lingua  italiana,  quarito  più  io  reputo 
non  affatto  immeritevoli  di  nota  un  Bonghi,  uno  Zum- 
bini,   un   Comparetti,  ed  altri. 

In  tempi,  come  il  nostro,  di  transizione,  è  impos- 
sibile avere  ,  nel  campo  dell'  arte,  quell'alito  vivo, 
quella  forza  intimamente  geniale,  quale  può  darci  un 
popolo  vigorosamente  giovane  e  fecondo.  Il  perchè, 
relativamente  al  tempo  presente,  i  nostri  tentativi,  per 
quanto  incerti  e  consuetudinari  ,  sono  pur  qualche 
cosa  per  l'arte  dell'  avvenire.  E'  nella  natura  intima 
dell'  ambiente  che  noi  dobbiam  giudicare  il  valore 
della  produzione  letteraria,  non  mai  avendo  d'innanzi 
que'  secoli  per  eccellenza  artistici  delle  letterature 
europee. 

Per  ciò  poi  che  riguarda  la  lingua  usata  dal  Guer- 
razzi, anche  in  quest'ultimo  romanzo,  io  sono  ricisa- 
mente  della  opinione  dell'onorevole  Bonghi,  il  quale 
in  una  pagina  della  sua  «  Cultura  »,  affermò  con 
giusta  osservazione  che  il  Guerrazzi  conosceva  la 
lingua  più  da  lessicologo  che  da  artista.  Ed  è  vero. 
Quella  congerie  di  vocaboli,  molti  de'  quali  non  re- 
gistrati nel  Lessico,  tormentano  il  povero  lettore  in 
quella  che  egli  è  meno  disposto  a  ricercarne  il  signi- 
ficato. Ciò  è  male  per  un  romanzo,  il  cui  fine  è  ap- 
punto quello  di  dilettare.  Ora,  qual  diletto  si  produce 
neir  animo  del  lettore,  il  quale  è  costretto  a  deviar 
l'attenzione  sua  col  riscontrare  continuamente  i  lessici? 

Un  altro  grave  difetto,  spesse  volte  rimproverato 
al  Guerrazzi  in  occasione  di  altri  romanzi  pubblicati 
da  lui,   è  questo. 

Il  filo  del  racconto,  pel  brusco  interrompersi  che 
fa  lo  scrittore,  viene  a  perdere  quella  che  dicono  la 
vivacità  drammatica  de'  personaggi.  Quelle  osserva- 
zioni, quei  giudizi  che  usurpano  la  maggior  parte  del 
romanzo,  raffreddano  lo  spirito  del  lettore  più  paziente. 
E  ciò  è  un  difetto  di  tutti  gli  altri  romanzi  ,  anzi 
proprio  dell'  ingegno    del  Guerrazzi.   Di    fatti    questi,. 


ir.s 


giunto,  anche  per  incidenza,  a  un  dato  avvenimento, 
vi  si  ferma:  e  di  qui  una  fuga  di  pagine  sarcastiche, 
terribili,   brillanti. 

Questo  temperamento  soggettivo,  derivato  in  gran 
parte  dal  Guerrazzi  stesso,  possiede  da  noi  un  grande 
artista  contemporaneo  ancor  forte  e  vigoroso,  il  Car- 
ducci. Ma  il  soggettivismo  carducciano  ,  eminente- 
mente artistico,  piace,  perchè  serve  a  temperare,  col 
soffio  vivo  del  sentimento  ,  1'  aridità  e  la  freddezza 
delle  quistioni  letterarie  ;  il  soggettivismo  guerraz- 
ziano,  invece,  guasta  l'interesse  e  attenua  la  curiosità 
del  romanzo.  Ma  v'  ha  di  più.  Il  livornese  toglie  a' 
personaggi  quel  movimento  vivo  drammatico  richiesto 
dal  carattere  proprio  di  quelli,  e  insieme  le  passioni 
non  si  svolgono  oggettivamente  varie  ,  molteplici, 
complesse  nell'azion  viva  di  quelle  figure  umane  che 
popolano  la  grande  scena  del  romanzo,  nel  quale  è 
da  osservarsi  1'  intuizione  profonda  e  analiticamente 
varia  di  quelle  date  passioni  svolte  in  una  data  mossa 
eh'  è  quella  e  non  altra.  Niente  di  tutto  questo:  il 
Guerrazzi  fa  vibrare  una  nota  sola:  la  nota  dell'animo, 
delle  passioni,  del  cuor  suo. 

Questi  i  due  difetti  magii:iori  de'  romanzi  suoi  tutti, 
i  quali  piacquero,  solo  pel  patriottismo  che  vien  fuori 
potentissimo  da  ogni  pagina,  agli  uomini  di  quella 
forte  generazione  che  ci  rese  la  patria  e  la  libertà 

La  media  della  vitalità  d'  un  romanzo,  a  dargliela 
lunga,  è  di  25  anni  —  scrive  il  Carducci  (*).  Di  fatti, 
chi  è  quegli  che  vuol  prendere  interessamento  a  cose, 
a  fatti  che  non  sono  più  nella  viva  memoria  della 
generazione  presente?  So  bene  che  nella  storia  nostra 
è  importante  ,  per  quanto  non  bella,  la  pagina  che 
consacra  alla  memoria  i  fatti  di  Lissa  e  di  Custoza; 
ma  noi  allora  eravamo  ancor  fanciulli,  ed  ora  che 
Siam  giovani  maturi  amiamo  interessarci,  ne'  romanzi 
e  in  altri  lavori  d'arte,  di  fatti  di  maggiore  attualità. 
•Quel  periodo  per  l'artista  e  pel  lettore  è  passato  or- 


(*)  Domenica  dbl  Fracassa  —  Anno  II.  —  -N.  12. 


139 


mai:  ora  si  è  —  dice  ancora  egregiamente  il  Cm'- 
ducci  —  allo  stato  di  posa.  Ma,  dunque,  non  si  ha  da 
ammirar  nulla,  come  arte,  nelle  altre,  e  segnatamente 
in  questa  nuova  opera  del  Guerrazzi?  —  Tutt'altro. — 
■Ci  è  da  ammirare  quella  profonda  maestria  nel  rap- 
presentare di  scorcio,  e  quasi  in  alto  rilievo,  un  pen- 
siero, una  passione,  un  avvenimento;  ci  è  da  ammi- 
rare quella  potenza  meravigliosa  e  inesauribile  di 
umorismo  che  scatta  fuori  da  ogni  pagina,  ci  è  da  am- 
mirare l'impeto  del  sentimento,  la  nervosità  pode- 
rosa dello  stile,  la  forza  vigoreggiante  del  concetto 
che  fa  rèssa  in  quell'animo,  in  quell'  ingegno  cosi 
potentemente  pugnace  e  battagliero,  come  quegli  che, 
come  disse  egli  stesso,  non  avendo  potuto  combattere 
una  battaglia,  scrisse  un  libro;  ci  è  da  ammirare  la 
grande  efficacia  delle  espressioni,  le  quali  condensano 
in  poco  il  raggio  di  un  grande  pensiero. 

Tutto  questo  è  da  ammirarsi,  e  vi  par  poco?  —  Ma 
non  basta  —  Tutti  —  e  i  giovani  in  ispecie,  quelli, 
dico,  che  possono  leggerlo  —  hanno  da  ammirare  in 
queste  pagine  eloquenti  la  grande  e  potente  virilità 
del  pensiero,  la  nobiltà  degl'ideali,  la  singolare  inte- 
grità del   carattere. 

Ma,  anzitutto,  diceva  il  Chiarini  ,  bisogna  saperlo 
leggere;  e  dicea  bene. 


XIV. 
Da'  Juvenilia  alle  Terze  Odi  Barbare 


/KkSÌ^ME'  Juvenilia  il  Carducci  è  lo  scudiere  de'  clas- 
W^^Ù  sici:  il  poeta  è  tutto  in  Orazio  e  negli  altri 
^^i2S|y  classici  latini  (frigida  pugnabant  calidis  hu- 
mentia  siccis),  e  tra  le  reminiscenze  antiche  e  le  piccole 
parvenze  letterarie  del  tempo  in  cui  venner  composti 
questi  primi  suoi  versi,  egli  rappresenta  le  affezioni 
e  tendenze  letterarie  di  quel  ristretto  cenacolo  d'  ar- 
tisti e  letterati  che,  tra  il  50  e  il  60,  vollero  primi  ri- 
tornare all'antico  e  restituire  all'arte,  con  ispirito 
battagliero,  le  sane  tradizioni  della  vera  e  grande 
poesia  classica,  che  sì  splendida  fé  la  virilità  del  Fo- 
scolo ,  del  Monti  ,  del  Leopardi.  Molti  ,  anc'  oggi, 
son  rimasti  devoti  a  questa  prima  manifestazione  poe- 
tica, a  quel  modo  che  ,  come  nota  il  Panzacchi  ,  alcuni 
pittori  meglio  si  piacciono  delle  tele  peruginesche  del 
Raffaello,  che  delle  ultime  di  lui.  Ed  ecco  già  una 
scuola,  che  anche  oggi  non  manca  all'Italia,  la  quale 
venera  a  suo  modo,  e  con  suoi  gusti  particolari,  questa 
prima  elaborazione  dello  spirito  poetico  del  Carducci: 
è  una  scuola  e  anche  un  ciclo  d'arte  che  pur  giova 
oltrepassare. 


Ne'  Levia- Gravia  il  Carducci,  con  in  mano  le  odi 
di  Orazio  e  de'  poeti  stranieri,  francesi  e  alemanni, 
anche  allarga  la  sua  poesia  di  contenuto  e  di  forme: 
e'   comincia  a  mescolarla  alle  più  larghe  correnti  delle 


(*j  Da  un  mio  lun^o  Idvoio  critico  sul  Oariliicci,  di  cui  si  s-tiidia, 
nelle  liriche  e  iielKi  prosa,  tutta  la  evoluzione  dell'i  gegnu  sino  all'ultima 
opera  edita:  questo  franiiriento  è  poi  cavato  dal  fapitolo  intorno  alle  Ter^e 
odi  barbare,  delle  quali  partitamente  si    ragiona  nello  studio    ri  edesimo. 


141 


letterature  europee;  e,  meglio  guardando  a  certe  ra- 
gioni sociali  del  tempo  suo,  la  rende  men  fissa  e  più 
agile  e  corrente,  più  ricca  di  toni,  di  fantasmi,  di 
movenze,  più  grave  e  decorosa  nella  men  contorta 
orditura  delle  strofi,  e  anche  più  recente  e  immediata 
nelle  inspirazioni  ideali.  Il  poeta  esce  meno  impacciato 
e  più  libero  dal  cerchio  un  po'  ristretto  dell'arte  ri- 
flessa, ma  non  senza  alcuni  difetti  del  tempo  in  che 
vennero  in  luce  queste  poesie:  fa  la  sua  vigilia  d' armi. 
E  anch'  oggi  quella  poesia  piace  a  moltissimi,  e  no- 
nostante i  disgusti  per  essa  dell'illustre  poeta,  segna- 
tamente a  quella  scuola  che  ricerca  nell'arte  un  intimo 
contenuto  sociale.  E  che  questa  poesia  non  possa  dirsi 
propriamente  morta,  sperimentalmente  lo  prova  la 
mirabile  ode-elegia  Per  l' albo  cC una  ricca  signora,  ove 
stupenda  è  la  maniera  onde  l'artista  con  forme  inci- 
sive e  rende  e  scolpisce  la  ricchezza  di  fronte  alla 
miseria  nell'agonia  ultima  de'   morienti. 

Anche  questa  è  una  scuola  o  un  ciclo  d'arte  che 
pur  bisogna  oltrepassare;  ed  è  la  seconda  evoluzione 
poetica  dello  spirito  del  Carducci. 


Ne*  Giambi  ed  Epodi  «  dopo  i  primi  colpi  di  lancia 
un  po'  incerti  e  consuetudinari,  corre  le  avventure 
a  tutto  suo  rischio  e  pericolo.  »  Dinanzi  a  quel  tor- 
bido agitarsi  di  avvenimenti  intesi  a  riconquistar  Roma 
all'Italia,  di  fronte  all'eroismo  di  Villaglori  e  Mentana 
e  alla  ferocia  della  tirannide  papale,  il  Carducci, 
che  ne'  Levia- Gravia  anche  accennava  a  un  certo 
pessimismo  già  da  lui  significato  col  noto  vei-so 

Torniam  nell'ombra  a  disperar  per  sempre, 

sente  commoversi  la  vigorosa  fibra  patriottica,  e, 
dominato  quasi  repentinamente  dal  suo  spirito  bat- 
tagliero, lancia  nell'agone  letterario  una  fuga  di  epodi 
e  di  giambi  che  sono  —  lo  sappiano  alcuni  pedanti 
e  arcadi  viventi  —  la  miglior  poesia  giovenalesca  che 


142 


abbia  avuto  mai  l'Italia  e  quanto  di  meglio  e  di  più 
vegeto  e  sano  essa  possa  vantare  nella  lirica  patriot- 
tica dopo  il  "60.  Il  poeta,  uscito  allora  come  dal 
pelago  della  grande  poesia  straniera,  e  ancor  recente 
degli  studi  fatti  nella  letteratura  di  Heine,  di  Hugo 
e  di  Barbier,  seppe  cogliere  il  momento  più  favore- 
vole nel  quale  potè  svegliarsi  intera,  sotto  la  rapida 
manifestazione  della  poesia  giambica,  la  potenza  atle- 
tica della  sua  calda  vigoreggiante  inspirazione  poetica. 
É,  nel  suo  genere,  la  più  bella  poesia  ch'egli  abbia 
dato  all'Italia;  la  poesia  della  vera  e  matura  giovi- 
nezza; la  poesia  più  esuberante  di  vigoria,  di  calore, 
d'impeto  lirico;  la  poesia,  infine,  ove  meglio  io  trovo 
fuse  la  incandescenza  del  giovenile  suo  spirito  pugnace, 
e  la  versatilità  e  agilità  delle  forme  e  de'    motivi. 

E  quelli  che  affermano  che  ciò  non  è  vero,  dovreb- 
bero sperimentalmente  provare,  e  non  colle  solite  frasi 
vuote  e  agghindate,  che,  ad  esempio,  le  odi  giambiche 
che  han  titoli:  Per  Edoai'do  Corazzini,  Nelvigesimo  anni- 
versario dell'  8  agosto  1848,  Per  Giuseppe  Monti  e  Gae- 
tano Tognetti,  In  morte  di  Giovanni  Cairoti,  Avanti  / 
Avanti!  Per  il  LXXXÌ^III anyiiversario  della  proclama- 
zione della  repubblica  francese,  ecc.,  ecc.,  non  sieno, 
cogli   stessi  lor  difetti,   delle  stupende  cose. 

E  anche  adesso  questa  poesia  ha  piccioli  denigratori 
e  ammiratori  grandi;  ma  d'essa  più  si  piace  una  chie- 
suola politica,  la  repubblicana  e  socialista,  e  se  ne 
piace  tanto,  che  fuor  d'essa  non  trova  porto  di  salute, 
se  ne  spiace  invece,  com'è  naturale,  quella  casta  po- 
litica che  fu  gran  parte  de'  fatti  che  in  Italia  seguirono 
entro  i  termini  del  decembre  che  precedette  il   "70. 

E  pure  questa  poesia,  che  a  ogni  patto  non  può 
morire  perchè  fu  anzitutto  animata  da  un  grande  con- 
tenuto storico,  non  forma  che  la  terza  fase  dello  spirito 
poetico  del  Carducci,  e  una  scuola  ,  diciamo  pur 
così  ,  che  dal  Carducci  iniziata  col  Carducci  si 
esaurì  senza  imitatori;  ma  pur  bisogna,  oltre  i  termini 
di  essa,  trovar  altro  aere,  altra  materia  e  altre  forme 
a  una  lirica  pe'  tempi  novissima  e  che  non  può  non 
dispiacere  a  molti  che  ancor  restano  devoti  a  qualcuna 


143 


delle  prime  tre  precedenti  maniere,  forse  per  manco 
di  forze  o  d'intelletto  estetico  a  gustare  o  a  cercare 
più   in    là. 


Colle  Rime  Nuove  usciam  subito  da'  confini  delle 
prime  tre  maniere,  che,  come  dianzi  dicemmo,  sono 
tre  scuole  o  tre  cicli  d'arte,  e  raggiungiamo  un  quarto 
ed  ultimo  stadio  ove  il  Carducci  si  rivela  artista 
finissimo  nella  piena  evoluzione  poetica  dell'inge- 
gno suo. 

Come  le  Terze  odi  barbare  son  l'ultimo  punto  d'a- 
scensione dal  Carducci  raggiunto  nella  poesia  barbara, 
cosi  della  poesia  rimata  le  Rime  Nuove.  Queste  ultime, 
per  esuberante  ricchezza  di  metri,  di  forme,  di  motivi, 
or  nuovi  e  or  meglio  rimaneggiati  o  rinnovati;  per 
vigorosa  e  classica  plasticità  di  espressione  lirica;  pel 
meglio  affinarsi  dello  stil  poetico  in  una  più  aristo- 
cratica eccellenza  di  contenuto  e  di  rappresentazione, 
avanzano  di  molto  le  tre  precedenti  maniere.  Inoltre, 
per  la  più  perfetta  orditura  e  concinnità  della  strofe 
e  de'  ligamenti,  e,  ciò  ch'è  più,  per  la  potente  e 
spesso  originale  assimilazione,  con  soddisfacimento 
di  legittima  conquista,  di  quanto  v'è  di  meglio,  come 
valor  concettuale  e  formale,  nella  letteratura  nostra 
e  nelle  straniere  allargano  i  confini  della  lirica  tradi- 
zionale. Per  la  fusione,  adunque,  di  tutti  questi  ele- 
menti, esse,  le  Rime  Nuove,  fanno  assorger  la  lirica 
a  intentate  altezze  di  contenuto  e  di  esecuzione,  sino 
a  raggiungere  i  toni  e  la  grandiosità  dell'antico  canto 
epico:  esse  sono  insomma  la  più  veramente  ricca  e 
originai  poesia,  nel  senso  montiano  ed  eclettico,  che 
in  quest'ultimo  trentennio  sia  stata  prodotta  in  Italia. 

Questa  lirica  sorpassa,  almen  per  la  tecnica  e  per 
la  rappresentazione  plastica,  tutti  i  metri  e  tutti  i  motivi 
più  usitati.  Rinnova  l'agile  strofetta  de'  romantici  con 
aumento  di  vigore  e  di  varietà;  riprende  meraviglio- 
samente l'alessandrino  con  epico  andamento  in  argo- 
menti leggendari  o  storici  {Su'  Campi  di  Marengo — La 


144 


sacra  di  Enrico  V)  ;  perfeziona  l'ottonario  rendendolo 
discorsivo  e  drammatico  insieme  (Faida  di  Comune — 
In  Gamia  —  La  Torre  di  Teodo7'ico)  ;  riyinova  a  prova 
intentata  il  vecchio  sonetto  ne'  dodici  mirabili  sonetti 
del  pz  Ira;  nelle  Primavere  elleniche,  con  fragranza  e 
venustà  tutta  greca,  prenunzia  alle  Odi  Barbare;  nella 
poesia  Pel  processo  Padda  ci  rende  l'aspra  cesellatura 
oraziana  del  Parità  e  anche  un'eco  lontana  de'  Jave- 
nilia;  in  Serenata,  Mattinata,  Disperata,  Dipartita,  Vi- 
gnetta, la  inspirazione  erotica  ha  forme  e  concetti  nuo- 
vi, e  una  vaghezza  e  una  grazia  che  fan  ricordare,  con 
senso  moderno,  alcune  delle  antiche  ballate  classiche 
e  popolari;  traduce,  come  non  si  può  meglio  da  Heine, 
da  Uhland,  da  Platen,  da  Goethe;  nella  AHnna  nanna 
di  Garlo  V,  rende  con  metro  e  con  forme  mirabil- 
mente intentati,  il  gemito  cupo  e  straziante  de'  pre- 
sentimenti 'iella  tirannide;  e,  infine,  colle  odi  e  inni 
intitolati:  //  canto  dell'  amore.  Idillio  maremmano ,  Da- 
vanti Sa?i  Guido,  Notte  di  maggio.  Dalla  qual par  eh'' una 
stella  si  mova.  Ali  '  Autore  del  Mago ,  Intermezzo 
(9  e  io).  Congedo ,  la  poesia  carducciana  raggiunge 
altezze  a  cui  è  difficile  andare  piìi  innanzi:  il  poeta  , 
nella  pienezza  della  personalità  sua,  si  mostra  origi- 
nalmente tradizionale  e  rivoluzionario  in  arte.  Siamo 
nel  regno  di  Goethe  e  di  Heine,  e  nella  olimpica  se- 
renità delle  inspirazioni;  siamo  fuor  de'  marosi  e  della 
vita  torbida  e  tempestosa  de'  giambi,  cioè  nel  lim- 
pido paradiso  delle  forme  e  nella  placidità  oggettiva 
■e  soggettiva  della  creazione  interiore. 


Come  ne'  diversi  periodi  in  che  vennero  composte 
cioè  dal  '57  al  1887,  le  rime  carducciane  ,  prima  nella 
Toscana,  indi  nell'Emilia  e  nella  Romagna,  e  infine  per 
tutta  Italia  e  all'estero,  promossero  un  moto  vivo  di 
critiche  e  discussioni  intorno  al  nome  del  poeta  sino 
a  movere  in  favore  di  lui  anche  i  più  dubbiosi;  così 
le  prime  Odi  Barbare,  in  Italia  e  fuori,  promossero  il 
più  potente  risveglio  intorno  a  studi  già  dimenticati, 


145 


e  intorno  agli  uffici  della  poesia  e  della  critica,  e  più 
intorno  all'  ultimo  rinnovamento  del  Carducci  nella 
metrica  nuova.  Chi  non  ricorda  come  e  quanto  dis- 
sertò su  esse  la  critica  straniera?  chi  anc'  oggi  non 
rammenta  le  Aìiticaglie  del  Cavallotti  e  gli  studi  del 
Chiarini,  del  Trezza,  delio  Stampini,  del  Borgognoni? 
Chi  anche  non  pensa  a  ciò  che  ne  scrisse  lo  stesso 
Teodoro  Mommsen?  Fu  quella  come  una  primavera 
letteraria,  e  fu  peccato  che  troppo  breve  si  volse  il  pe- 
riodo in  che  essa  durò  e  che  ci  fé  gustare  i  suoi  frutti, 
ahi!  non  sempre  maturi  e  saporosi.  Ci  fu  chi  disse  che 
s'altro  vanto  non  avessero  le  Odi  Barbare,  han  certo 
quello  di  aver  promosso,  non  senza  qualche  efficacia, 
tanto  moto  di  studi,  di  ricerche  e  disquisizioni.  Esse 
non  furon  solo  un  rinnovamento  di  forme  e  di  metri, 
ma  anche  d'inspirazione  e  di  contenuto:  il  Carducci, 
evocando  con  senso  moderno  tutto  un  passato,  ne 
derivò  fantasmi  e  pensieri  e  metri  e  motivi  che,  no- 
nostante i  vecchi  saggi  del  Tolomei  e  del  Chiabrera, 
sono  un  potente  e  meraviglioso  tentativo  di  originale 
e  squisitissima  poesia  che  non  par  destinata  a  morire. 
Esse  per  me  non  sono  che  la  ideal  trasmutazione 
dell'inno  a  Febo  Apolline  e  dell'inno  a  Satana  in  una 
inspirazione  tutta  nuova  e  fulgidamente  immediata  e 
serena:  son  la  idealizzazione  più  limpida  e  tranquilla 
dell'antico  umanesimo  nelle  grandi  memorie  del  pas- 
sato, rinnovellate  o  riecheggiate,  con  moderna  con- 
cezione, di  fronte  alla  realità  del  fuggevole  pre- 
sente: sono  il  rinnovamento  dell'  arte  classica  ne' 
metri  e  nei  motivi  ,  i  quali  han  come  contenuto  il 
trionfo  dell'antico  senso  pagano  in  contrapposto  a 
quello  miticamente  teocratico  e  medioevale;  sono,  in 
fine,  nella  mirabile  plasticità  della  forma  e  nella  in- 
superata eccellenza  dei  paesaggi  ,  la  più  splendida 
elevazione  lirica  del  naturalismo  moderno.  Queste 
le  Odi  Barbare.  La  forma  è  superbamente  aristocra- 
tica e,  sciolta  dalla  rima,  finamente  ,  interamente  , 
classicamente  poetica;  e  1'  armonia  ,  anzi  che  ricon- 
centrarsi o  perdersi  nelle  strette  della  rima,  si  move 
e    ricircola   variatissima  di    suoni    e    di    movenze  en- 

lO 


146 


tro  il  corpo  del  verso  che  ,  libero  delle  vecchie 
frange,  dà,  per  chi  sa  leggerlo,  melodia  e  accenti 
nuovi  nella  lirica  italiana.  Questo  il  segreto  di  quella 
poesia  tanto  piìi  eccellente  quanto  poco  o  nulla  intesa 
da'  più. 

*  * 

Le  Nuove  Odi  Barbare  continuano,  nella  inspira- 
zione e  nelle  forme,  le  prime,  e  sempre  in  meglio. 
In  esse  il  rimpianto  pagano  è  fuso,  con  maggior  lar- 
ghezza di  contenuto  e  con  più  magistrale  opera  di  rin- 
novamento formale  e  concettuale  ,  colle  impressioni 
del  mondo  moderno. 

Il  poeta  ritorna,  sì,  all'  antico  ,  ma  ne  dilarga  la 
contenenza  ;  oltrepassa  i  confini  del  mondo  greco  e 
latino,  e  intesse  di  reminiscenze  vediche  alcuna  delle 
sue  odi,  quella,  per  esempio,  sW Aìirora;  dà  alla  con- 
cezione un  sentimento  più  profondamente  umano  e 
sociale,  come  nell'Ode  per  Napoleone  Eugenio,  nella 
quale  s'inspira,  con  intuito  altamente  filosofico,  alle 
leggi  della  storia  di  fronte  alla  catastrofe  de'  na- 
poleonidi;  e  infine  fa  alitare  intorno  alle  forme  an- 
tiche un'  anima  di  più  pura  e  di  più  attuai  poesia. 
I  metri  son  meglio  elaborati,  più  snelli  e  disinvolti  , 
più  ricchi  di  movenze  e  di  toni  ;  il  paesaggio  è 
reso  con  maggior  densità  e  vigoria  plastica  di  co- 
lori: più  vari  e  importanti  sono  gli  argomenti,  e  la 
reminiscenza  storica  meglio  si  collega  al  fatto  mo- 
derno. Insomma  il  Carducci  qui  raggiunge  ,  come 
artista  e  stilista  un  degli  ultimi  gradi  della  sua 
ascensione  poetica.  Colle  odi  All'Aurora,  Sirmione  , 
Alla  Regina  d''  Italia  ,  Saluto  italico  ,  La  Madre  ,  Per 
le  nozze  di  mia  figlia,  il  poeta  ha  vinto  definitiva- 
mente un'  altra  grande  battaglia  neh'  arte  :  ha  im- 
posto nel  metro  antico  e  col  classico  rinnovamento 
delle  foime  una  contenenza  e  una  rappresentazione 
tutta  nuova  nella  lirica  italiana. 

* 

*  * 

Mentre  molti  credeano  che  il  poeta  si  fosse  come 
esaurito   con  queste    odi,  e  che  la  gioventù    sua    do- 


147 


vesse,    quindi    innanzi,    cominciar    a    declinare,    ecco 
venir  fuori,   come  inaspettate,   le    Terze   Odi  Barbare. 

Accenneremo  qui  soltanto  alcune  ragioni  di  arte  e 
■di  stile  che  ci  par  riscontrare  in  esse. 

Il  più  notevole  de'  rinnovamenti,  come  notammo, 
compiuti  dal  Carducci  nella  lirica  italiana,  è  quello  che 
si  riferisce  in  gran  parte  alla  tecnica  la  quale  in 
questo  volume  ci  pare  assai  più  perfetta  che  negli 
altri  due  che  gli  vanno  innanzi. 

Più  che  rendere  co'  soliti  luoghi  comuni  e  colle  so- 
lite astrazioni    il  pensiero    poetico,    il    poeta  si  piace 
incarnarlo  nel  tipo  plastico  della  natura,  di  guisa  che 
il   fantasma  vien  convertito  in    una    forma    geometri 
camente  sensibile. 

L'  imagine  lirica  ,  anziché  perdersi  nella  evane- 
scenza de'  traslati  e  de'  tropi,  vien  come  ad  appun- 
tarsi e  determinarsi  nel  rilievo  caratteristico  del  feno- 
meno esterno  quale  il  poeta  lo  sente  e  percepisce 
vivo  e  immediato  nel  momento  più  attuale  e  spontaneo 
della  inspirazione  sua;  il  perchè  il  reale  insensibile, 
fantastico,  psicologico,  diventa  oggettivamente  ombra 
o  figura,  carne  e  colore.  Non  è  la  semplice  e  pura 
similitudine,  mobile  e  poco  determinata,  quale  ce  la 
resero  gli  antichi  anche  migliori,  ma  è  il  fatto  esterno 
che,  nell'azion  viva  della  rappresentazione,  transfi- 
gura, idealizzandolo,  il  concetto,  il  pensiero,  il  sen- 
timento. 

Insomma  il  poeta  vuol  come  farci  toccar  con  mano 
e  far  spicciare  dalla  natura  vergine  e  viva,  nella  sua 
verità  di  suoni,  di  sensi  e  di  colori,  il  limpido  e  soave 
risvegliarsi  delle  memorie  dal  fondo  dello  spirito,  or 
triste  e  gemebondo,  e  or  vigoreggiante  d'  ideali  e 
di  affetti  potenti.  Osserviamo  il  pensiero  che  moven- 
dosi e  specializzandosi  in  quella  data  raffigurazione 
sorpresa  e  colta  nel  mondo  esterno,  attinge  altri  e 
altri  motivi  che  ne  formano  la  piena  esplicazione. 

Si,  anche  gli  antichi  ebbero  mirabili  personificazioni: 
Dante  ne  ha  d'  impareggiabili;  eppur  esse  non  mi 
sembrano  così  maneggevoli  e  sensibili  senza  che  qual- 
che astrazione  o  mobilità  d'  imagini  non  le  guasti  o 
trascenda. 


148 


Nel  Carducci  invece  —  ed  è  proprio  questa  la  no- 
vità più  spiccata  di  queste  ultime  odi  —  è  il  reale 
esterno  che  parla,  che  pensa,  che  imagina,  che  ride  e 
folleggia,  che  piange:  è  esso  proprio  che  si  fa  azione, 
e  da  esso  spira  V anima  delle  cose:  l'eccellenza  del  poeta 
è  qui  veramente  meravigliosa  nel  sapervisi  immedesi- 
mare, e  nel  rendere  i  palpiti  suoi  ne'  palpiti  della 
natura.  Questo  è  il  segreto  del  Carducci.  Ma  si  badi 
eh'  esso  non  appar  qui  la  prima  volta:  questo  sottil 
magistero  anche  lo  notiamo  gradualmente  negli  altri 
volumetti;  ma  qui  —  è  utile  affermarlo  —  come 
ci  si  manifesta  nella  sua  maggior  perfezione  tecnica, 
così  anche  con  alcuni  caratteri  di  vera  novità.  Il 
più  importante  a  noi  pare  che  sia  il  trasmutarsi  del- 
lo spirito  in  un  quasi  dramma  del  fenomeno  ogget- 
tivo ,  e  il  convertirsi  della  visione  interiore  in  una 
delle  tante  scene  sensibili,  non  propriamente  come 
personificazione  o  simbolo  ,  ma  come  rappresenta- 
zione diretta  e  immediata  del  vero  per  mezzo  del  tipo 
il  quale  faccia  come  per  proprio  conto  1'  ufficio  del 
poeta  che  pensa  e  immagina  e  sente:  il  lirico  non 
dice  ciò  che  scruta  o  prova  lui,  ma  ciò  che  scruta 
e  prova  il  tipo  da  lui  trovato,  e  in  tale  immedesima- 
zione oggettiva  brancichiamo,  come  si  fa  di  cosa  ma- 
terialissima  ,  quell'  intimo  senso  del  vero  che  ci  oc- 
cupa e  strugge  dentro:  è  il  massimo  e  il  colmo  del 
vero  e  schietto  e  scientifico  realismo  moderno. 

Chi  legge,  per  citarne  soltanto  alcune,  queste  odi, 
Miramare,  Canto  di  ìnarzo,  Primo  vere,  Roma,  Su 
monte  Mario,  Alessandria,  Presso  l'urna  di  P.  B. 
Shelley,  Scoglio  di  Quarto,  a  Margherita  regina  d' Italia, 
avverte  tutto  codesto. 

Rileggendo  queste  poesie,  pur  fedele  alla  sempre 
progressiva  vitalità  del  poeta,  mi  vien  sempre  pensato 
che,  almeno  pel  tempo  nostro,  sarà  difficile  scoprire 
orizzonti  più  vasti.  Ed  è  sempre  dolce,  in  tanto  sca- 
dere di  classici  studi,  il  felicitarci  di  un  grande  poeta 
che,  di  fronte  a  tante  volgarità,  non  ci  sembra  proprio, 
come  altri  pur  disse,  del  tempo  nostro. 

Ricordiamolo,  reverenti  e  grati  ! 


XV. 

Rime  nuove.  (*) 

I. 


JuESTo  del  Carducci.,  come  già  tutti  gli  altri 
del  poderoso  e  classico  poeta,  è  un  gran 
libro,  una,  cioè,  di  quelle  artistiche  produ- 
zioni geniali  che,  pur  collegandoci  alle  splendide  tra- 
dizioni del  passato,  ci  rappresentano  un  rinnovamento 
e,   nel  tempo  stesso,   una  rivoluzione  nell'  arte. 

Queste  Rime  Nuove  sono  il  sesto  volume  della  serie 
delle  poesie  carducciane  di  cui  l'editor  Zanichelli  da 
vari  anni  ci  sta  dando  le  edizioni  definitive:  non  son 
tutte  inèdite  e  originali;  la  maggior  parte  è  di  poesie 
comparse,  qua  e  là,  su  diversi  periodici  e  riviste 
i^JSuova  Antologia,  Rassegna  Settimanale ,  Illustrazio7ie 
Italiaìia,  Cronaca  Bizantina,  Fanfulla  della  Domenica, 
Domenica  Letteraria  ,  Domenica  del  Fracassa  ),  nelle 
Nuove  Poesie  (ediz.  Zan.),  nelle  Odi  Barbare,  nelle 
Poesie  (ed.  Barbèra  )  e  in  diversi  opuscoletti  elzevi- 
riani pubblicati  dallo  Zanichelli.  Di  nuove  e  inèdite 
non  vi  sono,  parmi,  che  queste  poesie  —  A  un  Asiyio^ 
A  una  bambina,  A  Madamigella  Maria  L.,  San  Gior- 
gio di  Dotiate  Ilo,  Primavera  ci?iese,  Vig?ietta,  Mattino 
alpestre,  Tedio  ifivernale,  Ballata  dolorosa,  Davanti 
una  cattedrale,  Era  7in  giorno  di  festa  e  luglio  ardeva, 
J  due  Titafii,  Faida  di  Comuìie,  Ninna  tianna  di  Carlo  V, 
Il  Passo  di  Roìicisvalle,  Gherardo  e  Gaietta,  La  Lavan- 
daia di  S.  Giovanni.  Venti  componimenti  appena,  se 
pure  del  tutto  inèditi,  de'  quali  gli  ultimi  tre  sono 
traduzioni.  Ma  ve  ne  ha  tre  i   quali,  già  pubblicati  a 


I")  Carducci  Giosuè  -  Rime  nuove  -  Bologna,  Zanichelli,  1887.  Questo 
studio,  il  precedente  e  gli  altri  seguenti,  qui  ripubblicati  senz' altra 
•emendazione  che  di  parole,  t'uron  composti  ben  dodici  anni  fa,  e  di  quel 
tempo  cons<rTvano  ancora  il  troppo  acceso  entusiasmo  e  la  forma  un  po' 
troppo  colorita  e  sonante:  non  li  ripudio  o  rifiuto  perché,  tranne  diverse 
«sagerazioni  o  incertezze,  han  tuttavia  un  fondo  di  critica  che  ano'  oggi 
mi  par  vero  dopo  studi  più  maturi,  più  larghi  e  più  ordinati. 


150 


frammenti,  qui  ricompaiono  compiuti;  sono  :  Inter- 
mezzo, Davanti  San  Guido  (lo  pubblicò  in  parte  il  eh. 
prof.  Borgognoni  nella  bella  biografia  carducciana  che 
venne  apposta  al  volume  delle  Poesie  di  Enotria  Ro- 
mano èdite  dal  Barbera),    Congedo. 

Ma  lasciamo   queste  poco  utili  minuzzaglie  d'erudi- 
zione e  veniamo,   senz'  altro,   alle  «  Rime  nuove  ». 


II. 


Chi  rilegga  anche  una  volta  queste  poesie  già  vec- 
chie e  qui  meglio  riordinate,  prova  quel  conforto  e 
quel  pieno  soddisfacimento  che  solo  le  opere  degli 
artisti  e  poeti  grandi  producono  nell'  animo  degli  uo- 
mini di  gusto  squisito  {emunctae  naris),  E  ci  vuole,  a 
dir  vero,  gusto  finissimo  e  aristocraticamente  educato 
nelle  difficoltà  dell'arte  specialmente  classica,  per  in- 
tenderle davvero.  I  parrucchieri  —  come  il  Carducci 
stesso  li  chiama  —  in  poesia,  quelli,  cioè,  che  non 
san  movere  due  passi  oltre  i  confini  della  rettorica  e 
dell'  arcadia  ,  e  quelli  che  a  gustar  la  poesia  non 
hanno  altro  aiuto  se  non  quello  delle  orecchie,  gli  orec- 
chianti vo'  dire  non  possono  intendere  la  poesia  car- 
ducciana. Per  intenderla  è  anzitutto  necessaria  una 
larga  cultura  letteraria  e  un  pieno  intendimento  delle 
due  classiche  letterature:  ciò  che  manca,  quasi  affatto, 
all'  Italia  d'  oggidì. 

La  lirica  carducciana  è  il  portato,  spontaneo  e  im- 
mediato, d'una  vigorosa  cultura  critico- filologica  e 
d'  una  vasta  e  sintetica  erudizione  storica:  è  il  classi- 
cismo sposato  alle  correnti  più  mosse  e  più  fresche 
del  mondo  moderno  entro  una  forma  incisivamen- 
te audace  che  qua  e  là  s'  atteggia,  con  movenze 
o  tipi  un  cotal  po'  bruschi  ma  scultorii  e  vivi, 
con  rilievi  plastici  e  finiti,  nel  martellato  lavorio  delle 
strofe  àulica  e  dotta.  Non  è  il  tipo  della  poesietta  de- 
ìHussettiana,  perchè  ha  più  nerbo  e  più  larghezza  di 
contenuto;  non  è  la  fantasiuccia  mingherlina  dell'é";-^- 
iismo   contemporaneo,   perchè  è  più  maschia  e  gladia- 


151 


toria  e  vigoreggiante  anche  nella  incandescenza  del- 
l'amore; non  è  il  gèttito  di  poveri  ideali  in  poveri 
metri  e  forme,  ma  è  la  sintesi  del  pensiero  fortemente 
nutrito  di  meditazione  e  di  scienza  ed  espresso  con  la 
suprema  eleganza  della  linea  classica.  E  una  poesia 
così  finamente  elaborata  non  può  accomodarsi  all'orec- 
chio de'  moderni,  a  quel  modo  che  l'eco  potente  della 
poesia  vera,  ch'è  aristocratica  sempre,  va  come  smar- 
rita nella  strumentazione  assordante  della  rimeria 
odierna. 

Così  la  poesia  carducciana  riman  come  il  lavorìo 
solitario,  òstico  a  tutte  le  imitazioni,  d'  un  siny:olare 
e  potentissimo  ingegno.  Oh!  chioserebbe  rifarmi  qual- 
cuna di  queste  Rime  Nuove  —  l'Idillio  maremmano, 
ad  esempio  —  in  quel  metro  e  in  quelle  forme?  chi 
si  attenterebbe  di  emular  mai  la  delicatissima  arte 
delle  Primavere  Elleniche  e  la  tacitiana  ed  epica  evi- 
denza de'  12   perfettissimi  sonetti  del  Ca  Ira? 

Dinanzi  a  queste  meraviglie  è  troppo  lieve  lo 
scalfir  degli  unghioli  degli  evirati  cantori  moder- 
nissimi. Ecco  perchè  il  Carducci  non  ha  avuto , 
almeno  sin'  ora,  come  già  lo  Stecchetti,  imitatori,  né 
potrà,  in  tal  deficienza  di  cultura,  averne  giammai: 
gli  avran  rubato  qualche  frase,  qualche  aggiunto, 
qualche  metro,  ma  nessuno  ha  saputo  mai  rinnovel- 
larmi  1'  adorabile  classicità  della  men  bella  delle  sue 
finitissime  poesie:  nessuno.  E  io  poi  ho  sempre  pen- 
sato che  se  la  poesia  leggèra  si  presta  al  convenzio- 
nalismo delle  imitazioni,  la  poesia  r^Z/^:  respinge  anche 
questo:  potete  metterla  in  parodia,  rifarla  non  mai. 
Oh!  che  non  son  parodie  le  contraffazioni  dantesche 
del    Oiiadriregio  e  del  Dittamondo  f 

Ammessa  la  immensurabile  differenza  tra  Dante  e  il 
Carducci,  quest'  ultimo  —  è  inutile  dissimularcelo 
dopo  tanti  trionfi  —  appartiene  alla  categoria  dei 
grandi  classici,  e  la  sua  lirica  già  appartiene  al  ciclo 
della  poesia  alta.  Chi  ne  dubita  più? 


152 


III. 

Il  Carducci  rappresenta  stupendamente  nelle  forme 
più  varie  il  mondo  moderno  riverberato  nella  viva 
luce  dell'  antico  classicismo:  dirò  meglio,  e'  rappre- 
senta, con  vigorosa  determinatezza  pittorica,  tutta 
la  realtà  del  vigente  momento  storico,  in  un  eclettismo 
di  forme  e  di  contenuti  che  con  una  quasi  perfetta  ar- 
monia d'organica  struttura  ha  saputo  convertire  in  un 
tipo  'ì:utto  suo  e  originalmente  artistico  e  attuale. 

L'arte  di  Goethe,  A' Hugo,  di  Lamarti?te,  l'arte  clas- 
sica de'  greci  e  de'  latini  e  segnatamente  d^  O^'azio, 
V  arte  di  Dante,  di  Parini,  di  Monti,  di  Foscolo,  di 
Leopardi;  tutta  quest'  arte  insomma,  con  molteplice 
addentellato  e  con  nesso  lucidissimo  di  giunture, 
vive  originalmente  rinnovellata  e  con  senso  di  momen- 
taneità  nella  poesia  carducciana  e,  per  più  rispetti, 
specialmente  in  queste  Rime  Nuove,  nelle  quali,  almen 
per  le  forme  tradizionali,  c'è  dato  osservar  le  linee 
ultime  dell'ascensione  di  questo  fervidissimo  ingegno. 

Co'  sonetti  Sole  e  Amore,  Qui  regna  Amore,  Visione, 
Traversando  la  maremma  pisana,  e  segnatamente  con 
quelli  intitolati  Colloqìii  cogli  alberi  e  //  Bove;  colle 
erotiche  che  han  titoli  Idillio  di  Maggio,  Pianto  a?itico, 
Mattino  alpestre.  Autunno  romantico.  Primavera  clas- 
sica. Panteismo,  Tedio  Invernale,  Nostalgia,  ecc.;  con 
questi  componimenti,  dico,  il  poeta  contempla  la  na- 
tura e  r  intimo  de'  sentimenti  e  degli  affetti  con  in- 
tuizione calma  e  profonda,  limpida  e  serena,  del  vero 
immediatamente  percepito  ,  con  solennità  plastica  e 
con  lucida  e  decorosa  efficacia  ,  a  mo'  del  Goethe. 
Qui  non  è  più  il  poeta  de'  Giambi  ed  Epòdi  che,  col 
verso  ansante  di  Archiloco  e  di  Giovenale  e  coli'  im- 
peto lirico  di  Victor  Hugo  ,  saetta  e  flagella  ,  non 
senza  uno  strale  di  Aìigusto  Barbier,  i  tempi  a'  quali 
è  ancor  ribelle  1'  animo  suo.  Qui  non  è  più  la  sacra 
bile  del  cittadino  e  del  patriota  il  quale  dà  sfogo  alle 
punture  del  patriottismo  che  trapela  lingueggiante  da 
ogni  parola,  da  ogni  verso.  Qui  invece  è  il  poeta  che 
contempla  con  raccoglimento  la  natura  e  la  riproduce 


splendidamente  rifatta  colla  pacata  elevazione  dell'e- 
stro; qui  è  il  poeta  che,  mosso  da  sentimento  vero  e 
immediato,  rende  l'amor  suo  colla  erotica  comprcnsi- 
vità del  panteismo  moderno,  con  largo  ondeggiamento 
di  ritmo  poetico  e  con  abbondante  vena  d'affetto.  Si 
leggano  le  Primavere  Elleniche  e  di  queste  specialmente 
la  terza  (Alessandrina);  si  legga  quel  gioiello  di  saffica 
intitolata  Una  Rama  d'alloro;  e  ogni  buongustaio  am- 
mirerà con  quale  purezza  di  linee  classiche  e  con 
quale  semplicità  di  disegno  son  rese  la  rimembranza 
pagana,  la  passeggiata  degli  amanti  in  camposanto  e 
la  mitica  fantasia  d'  una  fronda  d'  alloro  a  proposito 
deir  amica  risanata.  Queste  quattro  odi  sono  d'  una 
leggiadria  e  d'una  venustà  tutta  greca,  e  d'un  senso 
cosi  recente  e  reale  che  la  stessa  mitologia  non  guasta 
anzi  rende  più  vivi  e  salienti  i  quadri  e  le  concezioni. 
E  la  classica  reminiscenza  non  è  nella  poesia  carduc- 
ciana, com'altri  crede,  un'opera  di  musaico:  tutt'altro; 
il  Carducci,  intimamente  pagano  per  attitudini  e  tra- 
dizioni domestiche  e  per  educazione  letteraria,  rende 
il  momento  simpatico  o  antipatico  del  suo  animo  con 
novità  tutta  sua  e  con  verità  di  sentimento,  pur  attin- 
gendone le  inspirazioni  in  un  mondo  e  in  una  civiltà 
ormai  sorpassati  dalla  evoluzione.  Ma  nota  il  Trezza, 
a  proposito  delle  Odi  Barbare,  che  il  ritorno  alla  sto- 
rica antichità,  col  rimpiangerne  quanto  di  nobile  e  di 
puro  ci  venne  tolto,  è,  di  fronte  alla  brusca  realtà 
del  presente,  di  una  efficacia  tutta  recente  e  moderna. 
E  questo  rimpianto  pagano  che  noi,  oltre  che  nelle 
Odi  Barbare,  osserviamo  spesso  anche  in  queste  Rime 
Nuove,  è  un  de'  motivi  nuovi- che,  se  ne  togli  alcuni 
frammenti  leopardiani  e  foscoliani  di  ben  diversa  rap- 
presentazione, il  Carducci  ha  importato  di  original- 
mente suo  nella  lirica  italiana:  che  anzi  questo  è  il 
più  notevole  rinnovamento  operato  dal  Carducci  nella 
lirica  nostra. 

IV. 

In  questo  volume  abbiamo,   più   che  negli  altri  del 
Carducci,  una  ricca  miniera    d'  argomenti,  di  metri  e 


154 


generi  poetici  diversi;  e  non  solo  la  lirica  vi  cam- 
peggia,  ma  vi  fa  capolino  anche  l'epopea. 

V'è  il  motivo  erotico,  candido  e  schietto,  del  ma- 
drigale e  della  ballata  —  vedi  Serenata,  Afattinafa,  Di- 
partita, Ballata  dolorosa  —  reso  con  mirabile  splendi- 
dezza di  popolarità  riflessa  ne'  bei  metri  del  quattro- 
cento: i  due  primi  sono,  nel  loro  genere,  due  rari 
gioielli,  unici  nella  nostra  poesia  popolare  contempo- 
ranea, 

V'è  il  Caìito  dell'  Amore  ch'io  direi  il  capolavoro  delle 
Rime  Nuove  se  troppo  vicino  non  gli  fossero  i  dodici 
mirabili  sonetti  del  Ca  Ira.  Non  so  chi  disse  questo 
Caìito  nvC iibbriacatiira  d' azzurro,  ma  è  certo  la  poesia 
più  fortemente  inspirata  del  Carducci,  la  poesia  che 
ha  voli  veramente  lirici  e,  in  alcune  quartine,  un  co- 
lorito dantesco:  essa  di  fronte  alle  teoriche  e  agli 
ideali  sociali  moderni,  abbraccia,  in  un  fulgido  pan- 
teismo di  paesaggi  meravigliosi,  con  estatico  rapi- 
mento la  natura  e  1'  amore.  E  il  poeta  che,  contem- 
plando un  paesaggio  dell'  Umbria,  in  un  dolce  oblìo 
delle  ingiustizie  sociali,  afferma  commosso  1'  ugua- 
glianza e  la  fratellanza  di  tutto  il  genere  umano.  È 
il  più  bel  canto  che  abbia  il  socialismo  contempo- 
raneo. 

Bellissima  la  chiusa: 

Aprite  il  ^'aticano.  Io  piglio  a  braccio 
Quel  di  sé  stesso  antico  prigionier. 
^'ieni:  a  la  libertà  brmdisi  io  faccio: 
Cittadino  Mastai.  bevi  un  bicchier. 

Fu  tradotto  in  tedesco  dallo  Schaiiz  e  da  altri  molti— 
V'è,  parmi,  una  traduzione  anche  in  boemo;  e  d'esso 
furon  lodate  alcune  quartine  {E  il  Sol  nel  radiante  az- 
zurro immenso —  Quel  eh' io  se^itiva  e  picciol  verso  or' è) 
nientemeno  che  dalla   Civiltà   Cattolica.' 

De'  dodici  sonetti  del  Ca  Ira  non  vo'  dir  nulla: 
son  troppo  noti  in  Italia  e  già  troppo  ne  parlai  al- 
trove. 

Il  Carducci  ravvivò  con  essi  —  son  sue  parole  —  a 
rappresentazione  intentata  il  vecchio    sonetto.  Apparten- 


155 


gono  al  genere  di  rapprese7itazione  epica  come  già 
molti  altri  componimenti  di  questo  volume,  fra'  quali 
notevolissimi,  per  la  ricca  e  varia  orditura  delle  strofi 
e  per  la  robustezza  della  verseggiatura,  questi:  La 
Leggenda  di  Teodorico,  Su'  Campi  di  Marengo,  La  Sa- 
gra di  Enrico    l\  Faida  di  Comune. 

In  questi  ultimi  anni  il  Carducci  non  ha  tolto  ma- 
teria ai  suoi  canti  che  dalla  erudizione  storica;  ed  è 
novità  tutta  sua,  in  Italia  almeno,  dopo  i  pochi  e  po- 
veri saggi  del  Prati  (Conte  Rosso)  e  del  Tomtnaseo 
(Contessa  Matilde),  questa  di  rendere,  a  tratti  miche- 
langioleschi e  come  in  alto  rilievo,  un  brano  di  leg- 
genda o  un  notevole  frammento  od  episodio  di  avve- 
nimento storico. 

V. 

Non  vorrei  dir  nulla  del  pregio  delle  traduzioni, 
perchè  non  ne  ho  né  la  competenza  né  la  facoltà;  ma 
a  leggerle  così,  senza  riscontrarle  con  l'originale,  mi 
sembran  tutte  notevoli,  e  alcune,  anzi,  stupende.  Vi 
si  ammira  sempre  quel  fare,  riciso  e  nervoso,  delle 
poesie  originali:  della  traduzione,  da  Z(?2X?^rf/r///^  di //. 
Heine,  de'  Tessitori  si  disse  ch'è  molto  più  bella  dell'ori- 
ginale tedesco.  E  delle  liriche  heiniane  è  peccato  che 
il  Carducci  non  ci  abbia  dato  una  traduzione  com- 
piuta: egli,  come  il  Chiarini  per  l'Atta  Troll,  riesce 
insuperabile,  e  anche  orginale,  nel  render  italiani  i 
lield  del  poeta  tedesco.  Ma,  più  che  nelle  altre,  il 
Carducci  riesce  a  meraviglia  nelle  liriche  heiniane  d'ar- 
gomento o  allusioni  politiche:  di  queste  nelle  Rime 
Nuove  v'ha  tre  perfettissime  traduzioni;  sono:  Carlo  I 
(dal  Romanzerò),  V  Imperatore  della  Cina  e  i  Tessitori 
cit.  (da  Zeitgedichte).  E  dal  Heine  il  Carducci  qual- 
che cosa  pur  derivò  nelle  poesie  sue  originali,  e  però  — 
dicono  quelli  che  lo  posson  sapere  —  par  ne  sia  ori- 
ginata piuttosto  una  stonatura;  ma  non  sempre,  a  pa- 
rer mio.  Il  Canto  dell'  Italia  che  va  in  Campidoglio  tra- 
dotto in  tedesco  dal  Hillebrnnd  e  da  altri,  e  che  ha 
un  felicissimo    movimento  heiniano,  a  me    pare  riveli 


iS6 


come  al  Carducci  non  è  affatto  estraneo  il  cinismo  sa- 
tirico tanto  familiare  al  Heiiie. 

L'  italiano  s'  immedesima  nelle  liriche  heiniatie  ri- 
spondenti a  quei  sensi  e  passioni  che  gli  si  movon 
per  l'anima,  e  le  rende  in  una  forma  spiccatamente 
classica:  è  come  se,  traducendo,  anche  rendesse  un 
brano,  uno  scatto  della  anima  sua  di  poeta  e  d'uomo 
di  libertà.  Ma  non  son  da  passare  inosservate  due 
altre  pregevoli  traduzioni  da  Heine:  In  Maggio  (da 
Letze  Gedichte)  e  Lungi  lungi  [àaW Intermezzo).  Nella 
prima  la  terribilità  straziante  dello  sconforto  psicolo- 
gico è  resa  con  molta  evidenza  di  espressioni  e  con 
molta  felicità  di  ritmo,  e  ricorda  alcune  elegie  de'  Le- 
via Gravia;  nella  seconda  il  desiderio  accorato  d'  un 
soggiorno  felice  è  reso  con  calma  e  soavità  metrica 
nel  trotto  variato  e  rapido  del  decasillabo  manzoniano, 
metro  usato  dal  Carducci  unicamente  in  questa  tra- 
duzione. 

E  le  traduzioni  di  questo  volume  non  son  tutte  dal 
Heiìie:  ve  ne  ha  da  Goethe,  da  Uhland  (quella  bellis- 
sima de'  Tre  Canti),  da  Herder,  da  Piateti;  sono  in 
tutto  quattordici  e  tutte  fedelmente   belle. 

VI. 

Ritorniamo  ancora  alle  poesie  originali. 

Volete  gustare  un  amore  di  sonetto  nel  quale  il 
poeta  vi  mette  innanzi  e  ritrae,  con  bellissima  arte, 
i  tipi  e  i  caratteri  diversi  del  sonetto  italiano  quale, 
nella  verità  de'  sensi  e  colori,  lo  maneggiaron  Da?ite, 
Petrarca,    Torquato,  Alfieri,   Foscolo  ? 

Leggete  appunto  //  Sonetto. 

Volete  deliziarvi  nella  pace  idillica  del  paesaggio  e 
della  vita  beata  de'  campi,  nella  elegiaca  rimembranza 
d'un  dolce  passato,  d'un  caro  amore  perduto,  ove  la 
linea  classica  vi  balza  innanzi  nell'  atteggiamento 
scultorio  del  ritmo  e  nella  vivezza  pittorica  de'  con- 
torni, in  una  poesia  ove  la  parola  e  il  metro  e  l'or- 
ditura armonica  della  strofe  rendono  lo  errar  melan- 
conico   del    pensiero    e    de'  sensi    con    una  vaghezza 


157 


tutta  nova  di  verso  ?  Leggete  e  rileggete  Idillio  Ma- 
remmano, Davanti  San  Guido  ,  all'  Autore  del  JMago, 
Notte  di  Maggio,  Idillio  di  Maggio. 

Volete  ammirare  la  prepotenza  dell'  ingegno,  onde 
una  pura  teorica  e  l'erudizione  storico-letteraria  sono 
rese,  con  oggettività  d'invenzione  e  colle  impressioni 
immediate  del  fenomeno  esterno,  in  un  plastico  7iatu- 
ralistno  di  pensiero  e  di  forme  ? 

Leggete  Classicismo  e  Romanticismo,  Vendette  della 
Luna.,  Alla  Rima. 

Volete  gustare,  nello  stil  vigoroso  dell'elegia  e  nella 
intentata  originalità  del  metro  e  dell'ispirazione,  un 
gener  novo  di  brindisi  ove  la  mesta  rimembranza  del 
figliuolo  perduto  rievoca,  nella  torva  e  accorata  mente 
del  poeta ,  imagini  soavemente  tristi  e  doloranti  , 
facendo  come  rivivere  nella  vita  delle  tombe  un  dolce 
passato  ? 

Leggete  Brindisi  fiinebre. 

Volete,  infine,  osservare  come  la  realtà  storica  è 
resa,  a  tòcchi  e  a  sbòzzi  e  co'rilievi  del  paesaggio — 
la  nota  paesista  nel  Carducci  non  manca  mai  —  nel- 
l'aspra cesellatura  del  verso,  che  si  snoda  colla  larga 
e  nervosa  comprensività  oraziana  e  cogli  splendori 
e  co'  colori  del    canto  epico  ? 

Leggete  i  sonetti  Ora  e  sempre,  S.  Maria  degli 
A7igeli,  Momento  epico,  Fiesole. 

VIL 

Riassumiamo  ora,  per  sommi  capi,  la  variatissima 
e  mirabile  fioritura  di  queste  Rime  Nuove. 

Non  mai  la  poesia  italiana,  dopo  il  Monti  ^  il  Foscolo  , 
si  era  felicitata  di  tale  inesauribile  ricchezza  d'argo- 
menti e  motivi  lirici,  di  forme  e  metri  nuovi  e  inusi- 
tati, di  reminiscenze  e  di  originalissime  assimilazioni 
da  letterature  classiche  e  da  straniere:  è  l'eclettismo 
antico  più  variamente  e  classicamente  rifatto  in  un 
più  armonico  e  perfetto  organismo  e  in  una  più  larga 
rappresentazione  di  veri  e  di  idealità  attuali. 

Ha  derivato  dal  Parini  e  da   Orazio  ,    meglio  con* 


158 


temperandola  al  gusto  moderno,  la  rude  asprezza  in- 
cisiva del  verso  classicamente  tornito,  ma  dal  primo 
soltanto  la  nobile  bile  e  1'  alto  disdegno  dell'  uomo 
integro  e  ribelle  alla  volgarità  dei  tempi  suoi.  Esempio 
ne  sia,  per  non  uscir  da  queste  Rime,  l'ode  giambica 
A  proposito  del  Processo  Padda. 

Ha  dal  Pascolo  e  dal  Leopardi  derivate  certe  pre- 
dilezioni di  forme  e,  in  diversi  tempi,  certi  intrecci 
e  orditure  e  giri  levigatissimi  di  strofi  e  di  stanze; 
ma  dal  primo  soltanto  il  paganesimo  tutto  greco  di 
pensieri  e  d'imagini. 

Dal  Monti  ha  imparato  il  culto  del  vero  variamente 
e  fortemente  percepito  in  tutte  le  manifestazioni  ed 
espressioni  sue,  guardando  l'arte,  con  olimpico  sguar- 
do, oltre  i  confini  della  letteratura  nostra,  non  senza 
mescolarla  alle  nuove  e  diverse  correnti  della  poesia 
moderna  e  straniera.  Così,  rendendo  1'  arte  cosmopo- 
litica quasi,  non  ha  mancato  di  renderla  di  genio  alta- 
mente italiano  e  paesano. 

Ha  derivato  dal  Goethe  la  limpida  euritmia  del  reale 
poeticamente  colto  ed  espresso  nella  solenne  e  calma 
movenza  del  verso:  esempi  inimitabili  i  sonetti  //  Bove 
e  il  Colloquii  cogli  alberi  (cit.);  da  Hugo  certa  lar- 
ghezza, certa  smania  archilochèa,  certo  colorito  passio- 
nato nel  riguardare,  nella  diamantina  e  lingueggiante 
poesia  giambica,  la  questione  sociale;  da  Heine  certa 
terribilità  cinica  e  satirica,  e  anche  certo  movimento 
lirico  della  strofe,   ne'  versi  d'argomento  politico. 

E  questa  è  la  parte  intimamente  tradizionale  del 
poeta  che,  non  con  rimaneggiamenti  servili  o  tocchi 
pedestri  ,  ma  ha  saputo  render  nostra  con  linee  e 
colori,  con  rilievi  e  contorni  ,  con  metri  e  ritmi  e 
disegni  spesso  assimilati  ma  di  una  caratteristica  vigo- 
rosa e  talvolta  strana  personalità.  Pochi  scrittori  e  poeti 
nostri  ,  lo  notò  anche  il  Panzacchi,  son  riconoscibili 
come  il  Carducci  ne'  suoi  versi,  non  esclusi  i  giova- 
nili, e  anche,  aggiungo  io,  nelle  sue  prose  ,  dove, 
forse  un  pò  più  che  nelle  poesie,  stampa,  con  insu- 
perabile eccellenza  di  stile  e  di  forma,  il  suo  indivi- 
duale suggello. 


159 


Vili. 

Veniamo  ora,  ma  in  breve,  alla  parte  propriamente 
rivoluzionaria. 

Non  solo  alla  parte  tradizionale  si  limita  il  rinno- 
vamento classico  operato  dal  Carducci  nella  poesia 
italiana:  egli  ha  importato  in  questa,  senza  attingerli 
altrove,   diversi  elementi  radicalmente  nuovi. 

Ha  sollevato  la  lirica  a  una  più  vasta  comprcnsi- 
vità di  sentimenti  e  di  veri,  di  realtà  storiche  e  ob- 
biettive ,  d'  inspirazioni  e  di  concepimenti,  mediante 
una  simmetria  tutta  plastica  e  un'animata  rappresen- 
tazione che,  per  lo  innanzi,  non  ancora  avea  raggiunta 
tanta  varietà  almeno  di  lavorìo  formale  e  concettuale. 
Non  ci  dà  solo  il  concento  dell'  ode  e  dell'  inno,  ma 
e  della  satira,  de' giambi,  dell'elegia,  del  sermone,  del- 
l'epopea, della  commedia,  della  poesia  didascalica  e 
gnomica;  tutti  questi  vari  e  diversi  elementi,  dico,  in 
una  contemperanza  non  sempre  organica  ma  splen- 
dida di  colorito  e  di  rilievo,  compiono  con  varietà 
inesauribile  di  motivi  e  d'argomenti  e  di  metri,  tutto, 
diciam  così,  il  ciclo,  della  lirica    carducciana. 

Da'  luvenilia  a'  Levia- Gravia,  da'  Giambi  ed  Epodi 
alle  Odi  e  alle  Nuove  Odi  Barbare,  da  quest'  ultime 
alle  Rime  Ntiove  il  Carducci,  con  una  progressione  ar- 
tistica notevolissima  ,  dà  esempio  d'  un'  evoluzione 
d'  ingegno  piuttosto  unica  che  rara  nella  letteratura 
italiana  moderna  dopo  il  Manzoni  e  il  Leopardi,  e  dopo 
il  Monti  e  il  Foscolo,  a'  quali  ultimi,  per  più  ragioni 
di  affinità,   bisogna  congiungerlo. 

Al  sonetto  ha  dato  ,  con  nerbo  e  vigore  tacitiano, 
un  andamento  più  risoluto  e  nervoso  e  vigoreggiante, 
sollevandolo  sino  alle  intentate  altezze  della  rappre- 
sentazione epica:   esempio  inimitabile    pz  Ira. 

Ha  rifatto  e  originalmente  rinnovato  V alessaìidrino, 
un  bel  metro  del  quattrocento,  rendendolo  più  ser- 
rato e  armonioso,  più  sostenuto  e  ondeggiante,  in  ar- 
gomenti ne'  quali  il  reale  storico  e  il  fantastico  epico 
si  fondono   insieme  in  una    rude    efficacia  e  genialità 


lÒO 


rappresentativa  :  esempi  notevolissimi  Su'  Campi  di 
Marengo  e  la  Sagra  di  Enrico  Quinto. 

Ha  reso  anche,  per  argomenti  storici  e  d'  indole 
epica,  in  un  pieno  condensamento  di  pensiero  e  di 
forma,  più  vigorosamente  vario  e  ritmicamente  armo- 
nico l'ottonario:  vedi  Leggeìida  di  Teodorico,  Faida  di 
Comune,   In   Carnia. 

Abbiam  notato,  più  innanzi,  la  novità  importata 
nella  lirica  italiana  dal  Carducci  col  riprodurre  coi 
colori  e  coi  tratti  epici  la  materia  storica  e  leggen- 
daria;  è  inutile,   quindi,   ritornarvi  sopra. 

Ma  r  altra  nota,  veramente  originale  di  plasticità 
antica  e  di  senso  intimamente  moderno,  nella  poesia 
del  Carducci,  è  il  paesaggio.  Non  mai,  in  tutta  la 
poesia  italiana  contemporanea  ,  aveva  il  paesaggio 
raggiunto  tale  idillica  e  imitativa  vigoria  di  realismo 
naturale  ,  tale  nutrita  determinatezza  pittorica  di  ri- 
lievi e  di  scorci,  tale  naturalezza  rusticana  di  scene 
campestri.  Per  limitarci  unicamente  a  questo  volume, 
ricorderemo  soltanto  i  paesaggi  viventi  de'  componi- 
menti intitolati:  Il  Canto  dell'  Amore,  Davanti  San  Guido, 
Idillio  Maremmano. 

Abbiamo,  spesse  volte  nel  nostro  scritto,  fatto  cenno 
dell'attitudine  meravigliosa  onde  il  Carducci  rende  il 
pensiero  suo,  con  incisiva  densità  di  getto  e  imme- 
diato: due  o  tre  linee  gli  bastano,  due  o  tre  mosse, 
e  certe  volte  una  breve  apostrofe  animata,  un'  escla- 
mazione potente  che  vi  ricorda  quel  di  Stazio:  Parvus 
videri  sefitirique  ingens. 

Alcuni  accusano  nel  Carducci  la  terribile  astocrazia 
dello  stile  senza  ricordare  o  conoscere  che  il  poeta 
se  r  è  proposto  per  fine.  Ne  ragiona  da  par  suo  in 
una  pagina  delle  sue  Confessiotii  e  Battaglie  (Serie,  i.): 
cito: 

«  Mi  ricordo  di  aver  letto  non  so  più  in  qual  libro 
che  il  poeta  ha  da  piacere  a  tutti  o  a  pochi:  garbare 
ai  molti  è  cattivo  segno.  Dura  e  sconfortante  sen- 
tenza, ma  non  per  ciò  meno  vera;  su  la  quale  ragio- 
nerei così.  La  poesia  oggimai  è  cosa  affatto  inutile: 
che  se  anche  mancasse  del  tutto,  verun  minimo  con- 


i6i 


gegno  della  macchina  sociale  ne  andrebbe  men  bene: 
il  perchè,  penso  ancora,  il  poeta  non  dee  tenersi  ob- 
bligato di  obbedire  a  certe,  come  si  direbbe,  esigenze 
del  tempo.  Che  se  la  cetera  dell'  anima  sua,  anziché 
agitarsi  sotto  1'  ala  della  psiche  fugace  e  rispondere 
agli  echi  del  passato,  agli  aliti  dell'  avvenire,  al  ru- 
more solenne  dei  secoli  e  delle  generazioni  proce- 
denti, si  lascia  carezzare  all'auretta  che  move  dai  ven- 
tagli delle  signore  e  dai  pennacchi  dei  soldati,  s'  in- 
crespa al  fruscio  della  toga  professorale  o  allo  spie- 
gazzare della  gazzetta,  guai  al  poeta,  guai  al  poeta,  se 
pure  è  poeta!  Affacciarsi  alla  finestra  a  ogni  variare  di 
temperatura  per  vedere  quali  fogge  vesta  il  gusto  della 
maggioranza  legale,  distrae,  raffredda,  incivettisce  l'a- 
nima. Il  poeta  esprima  sé  stesso  e  i  suoi  convinci- 
menti morali  ed  artistici  più  sincero,  più  risoluto  che 
può:  il  resto  non  é  afifar  suo  (*).  » 

E  altrove,  a  proposito  della  male  intesa  popolarità 
in  arte:  «  Degnamente,  il  popolo  vuoisi  rialzare;  non 
rimpiccolir  noi  né  bamboleggiare  senilmente,  per  man- 
tenerlo sempre  in  condizion  di  minore  (**).  » 

E,  a  proposito  di  queste  citazioni,  non  vo'  mancar 
di  dire  che  l'unico  mezzo  d'intendere  il  Carducci  poeta, 
é  quello  appunto  di  studiarlo  in  tutte  le  opere  sue  di 
prosa;  bisogna  studiare  il  Carducci  col  Carducci,  il 
quale  ci  offre  sufficienti  materiali  per  uno  studio  sif- 
fatto al  quale,  secondo  le  mie  modeste  forze,  da  pa- 
recchi anni  mi  sono  accinto.  Sarebbe  un  lavoro  finora 
intentato  e  utilissimo  a  tanti  giovani  scrittori  che  han 
sempre  in  bocca  il  Carducci  e,  come  scrive  il  Pan- 
zacchi,  nel  suo  nome  si  esaltano. 

IX. 

Ma  ho  finito,  dolente  di  non  aver  potuto  ragionare 
di  queste  J^ime  Nuove  con  maggiore  ampiezza  ed  in- 
terezza. 


(*)  Confessioni  e  'Battaglie.  Serie  I,  Roma,'' Sommaruga,  1883,  pagine 
52-53. 

(**)  Carducci:  Sludi  Letterari,  Livorno,  Vigo,  1874;  pag.  50. 

II 


102 


Salutiamo  anche  una  volta,  o  giovani  italiani,  que- 
sta vigorosa  gioventù  fiorente  cui  l'arduo  sentiero  del- 
l'arte par  si  pieghi  sempre  docile  nel  raggiungimento 
di  sempre  nuove  e  più  finite  elaborazioni  artistiche; 
salutiamo  anche  una  volta  l'unico  nostro  vivente  poeta 
classico  nazionale  che,  ricongiungendoci  a  tante  no- 
bili tradizioni  di  poesia  e  d'arte  e  rinnovellando,  con 
braccia  tenaci,  il  culto  di  Dante,  è,  o  almeno  dovreb- 
b'esserci,  l'unico  maestro  in  tanto  scadimento  di  clas- 
sica cultura.  Ho  detto  che  il  Carducci  ha  rinnovel- 
lato in  Italia  il  culto  di  Dante,  e  con  piacere  saluto 
con  vera  lode  la  intenzione  del  Ministro  della  Istru- 
zione pubblica  di  invitare  il  Carducci  alla  Cattedra 
dantesca  in  Roma.  Non  si  potea  fare  scelta  migliore, 
tanto  più  che  il  Carducci  ha  un  che  di  dantesco  nella 
fibra,  nel  carattere,  nel  pensiero,  negli  ideali  —  come 
dicea,  in  un  vigoroso  suo  scritto,  l'onor.  Bovio  a  pro- 
posito di  chi  dovea  esser  destinato  a  quella  Catte- 
dra — ,  per  potere  a  Roma  far  risonare  potente  nel 
mondo  civile  la  sua  voce  intorno  il  culto  dell'  arte, 
della  poesia,  delle  tradizioni  dantesche.  Il  Comune  di 
Bologna  ascolti  questa  volta,  non  l'eco  dei  nobili  sen- 
timenti di  glorie  locali,  ma  la  volontà  imperiosa  di 
di  tutta  una  Nazione.   (*) 

E'  bisogno  de'  bene  intenzionati  di  rifarsi,  avendo 
a  guida  un  grande  maestro  contemporaneo,  dalla  in- 
continenza artistica  d'una  modernità  malferma  col  cibo 
nutriente  e  sano  della  nostra  arte  antica. 

Questa  guida  è  appunto  il  Carducci,  come  quello 
che  ha  scosso  con  braccia  di  Sansone,  per  servirmi 
d'una  bella  espressione  del  Marradi,  e  con  omeri  er- 
culei e  tenaci,  1'  edifizio  crollante  dell'  Arcadia,  av- 
viando r  arte,  col  richiamo  delle  più  belle  tradizioni 
antiche,  sulle  sue  vie  naturali,  e  mediante  un'  opera 
eflScace,  e  progressiva,  opera  che  non  può  dirsi  an- 
cora, fortunatamente,  finita. 


(*)  Abbiamo  accennato  altrove  come  il  Carducci  rifiutò  poi   questa  G]at- 
tedra. 


XVI. 

Vita  di  Griosuè  Carducci. 

I. 

Autobiografia  del  Poeta  e  la  sua  fede  politica. 


JL  poeta  medesimo,  per  quel  nativo  senso  di 
lotta  eh'  è  sempre  congiunto  alla  più  vigo- 
rosa affermazione  de'  suoi  ideali,  ha  sentito 
spesso  il  bisogno  di  scagionarsi  da  violente  accuse  e 
da  torti  e  ombrosi  giudizi  intorno  all'  opera  sua  di 
scrittore,  di  cittadino  e  di  uomo,  ond'  è  riuscito  a 
darci  la  miglior  biografia  di  sé.  Perciò  alle  sue  pro- 
prie fonti  più  che  ad  altre  è  bene  attingere  quella 
larga  messe  di  fatti  che  meglio  ci  rendon  di  lui  lo 
spirito  molteplice  e  vivace  il  quale  compenetra  di  luce 
talvolta  sanguigna  il  progressivo  e  mutevole  ascen- 
dere dell'  arte  sua  che  così  nelle  prose  come  nelle 
poesie  è  guidato  armonicamente  da  un  solo  processo 
critico  e  da  un  medesimo  indirizzo  di  formazione.  Ma 
l'opera  che  meglio  ci  mena  alla  conoscenza  intima 
del  poeta  è  il  celebre  volume  delle  Confessioni  e  bat- 
taglie, a  cui  bisogna  aggiungere  un  prezioso  fram- 
mento di  un  suo  studio  polemico  intitolato  «  Di  al- 
cuni giudizi  su  Alessandro  Manzoni  »  apparso  nel 
volume  de'  Bozzetti  e  scherme,  eh 'è  il  terzo  della  edi- 
zione definitiva  che  di  tutte  le  opere  del  Carducci  da 
oltre  dieci  anni  vien  pubblicando  lo  Zanichelli.  Quelli 
che  studian  1'  opera  del  poeta  in  frammenti  staccati, 
non  possono  coglierne  lo  spirito  in  tutte  le  manife- 
stazioni del  troppo  lungo  e  industrioso  lavoro,  né  riu- 
sciranno mai  a  ricomporre  fedelmente  un  vivo  e  com- 
piuto ritratto  di  lui,  un  ritratto  che  ci  rivelasse  un' 
anima  sempre  uguale  a  sé  stessa  anche  nelle  appa- 
renti antinomie  della   fede  politica    e  della  letteraria, 


104 


antinomie  determinate  dai  continui  contrasti  che  do- 
verono certo  sviare  a  intervalli  le  aspirazioni  del  poeta, 
non  sen»a  turbarle  talvolta. 

Ed  anche  dove  il  Carducci  parve  mutevole  e  incoe- 
rente, bisogna  guardare  come  e  perchè,  dopo  gli 
amari  disinganni  dell'  ideale  suo,  egli  sentisse  il  bi- 
sogno di  quel  razionale  adattamento  che  non  istrane 
e  impossibili  utopie  ma  solo  gli  persuase  nell'  età 
matura  quel  senso  profondamente  storico  che  tanta 
parte  compenetra  delle  sue  varie  e  mirabili  fatiche. 
La  sua  fede  politica,  se  rimase  ferma  ed  integra  nella 
coscienza,  non  potè  essere  la  stessa  nelle  forme  di 
fronte  al  mutevole  clima  storico  onde  si  regge  1'  or- 
dinamento dello  Stato.  La  sua  fede  politica  è  tutta 
in  queste  sue  parole,  tratte  dal  discorso  pronunziato 
agli  elettori  del  collegio  di  Lugo  nel  banchetto  offer- 
togli il  9  novembre  1896,  cioè  proprio  quando  egli 
era  nel  fervore  del  suo  repubblicanesimo:  —  Ma  la 
repubblica  mia  non  è  la  repubblica  per  sorpresa:  an- 
che questa  potrebbe  sorgere  a  certi  momenti,  ma  non 
è  la  più  desiderabile  ai  veri  repubblicani,  come  troppo 
difficile  a  mantenere  e  ad  assodare.  E  né  meno  è  la 
repubblica  oligarchica  di  un  partito  anche  ottimo,  e 
tanto  meno  la  repubblica  dittatoria  d'  una  fazione. 
Non  per  questo  io  credo  che  quella  della  repubblica 
sia  solamente  questione  di  forma:  la  repubblica,  per 
me,  è  l'esplicazione  storica  e  necessaria  e  1'  assetta- 
mento morale  della  democrazia  nei  suoi  termini  ra- 
zionali: la  repubblica,  per  me,  è  il  portato  logico 
dell'  umanesimo  che  pervade  oramai  tutte  le  istitu- 
zioni sociali  (*).  E  nel  1882,  nella  prefazione  a'  suoi 
«  Giambi  ed  Epodi  »,  scrisse:  —  Con  la  rivendica- 
zione di  Roma  all'  Italia,  comunque  andasse,  il  su- 
premo ideale  della  mia  politica  nazionale  fu  raggiunto, 
e  finì  la  bella  età  leggendaria  della  democrazia  ita- 
liana. Con  la  riforma  elettorale  è  quasi  raggiunto,  o 
si  può  agevolmente  finir  di  raggiungere,  l'altro  ideale 


(')    Confessioni  e  'Battaglie.  —  Bologna,  Zaniclielli,  1890,  —  Voi.  IV, 
pagg.  326-27. 


i65 


della  mia  politica  democratica,  il  suffragio  universale; 
e  con  questo  la  democrazia,  anzi  tutta  la  nazione  entra 

in  una  fase  d'  agitazione  e  d'evoluzione Io  non 

debbo  né  voglio  far  qui  la  storia  della  mia  fede  e  la 
storia  delle  tradizioni  repubblicane  nella  letteratura  e 
nella  educazione  politica  degl*  italiani.  Io  .  .  .  dico  sol- 
tanto che  in  Italia,  dopo  Cesare  Balbo,  Camillo  di 
Cavour,  Alfonso  La  Marmora,  Vittorio  Emanuele,  non 
conosco  monarchici  altro  che  sentimentali  e  opportu- 
nisti; opportunisti,  per  amore  dell'  unità  e  per  timore 
del  mutamento:  io  dico  .  .  .  che  né  anche  la  Maestà 
del  re  Umberto  non  è  un  vero  e  proprio  monar- 
chico (*').  E  altrove,  molto  più  ricisamente:  —  Io  non 
ho  esitato  e  non  esito  di  giurarmi  obbediente  alla 
monarchia  italiana,  anche  per  la  semplicissima  ragione 
che  cotesta  monarchia  la  ho  creata  un  po'  anch'  io, 
co  '1  mio  voto,  nel  plebiscito  del  1860;  in  quel  glo- 
rioso anno  in  cui  Giuseppe  Mazzini  sollecitò  ad  ac- 
cettarla come  segnacolo  e  suggello  dell'  unità,  in  cui 
Giuseppe  Garibaldi  le  conquistò  1'  Italia  e  la  con- 
quistò all'  Italia.  La  monarchia  oggi  in  Italia  é  la  le- 
gittima depositaria  della  rappresentanza  della  Sovra- 
nità popolare....  Giuseppe  Mazzini  nei  mesi  ultimi 
della  sua  vita  profetò,  che,  da  poi  che  la  monarchia 
s'  era  trasportata  a  Roma,  la  ci  durerebbe  per  più 
generazioni:  il  che  non  arrideva  al  gran  triumviro  ; 
ma  il  vero  vinceva  con  la  sua  forza  storica  il  bandi- 
tore e  l'assertore  dell'  idea  unitaria  (**).  Queste  son 
parole  del  19  maggio  1886,  tratte  dal  «  Discorso  al 
popolo  nel  teatro  nuovo  di  Pisa  ».  Ma  dove  il  Carducci 
toglie  di  mano  agli  avversari  tutte  le  armi  ,  é  nelle 
ultime  pagine  della  sua  celebre  polemica  sul  Qa  Ira, 
documento  mirabile  d'alta  sapienza  storica  e  politica, 
che  tutti  dovrebbero  rileggere:  in  esse  egli  ragiona 
da  par  suo  del  ruinoso  disfacimento  de'partiti  in  Italia, 
facendone  una  viva  e  fedelissima  pittura. 

Non  potendo    per  amor    di  brevità    qui    riprodurle 


D  Op.  cit.  —  Pag.  170,  epagfr  172-7?. 
(**)  Op.  et.  —  Pagg.  482  -  80. 


i66 


intere,  mi  contenterò  di  citar  solo  questi  brevissimi 
tratti:  —  Dopo  ciò  posso  dir  francamente  che  né  au- 
guro né  invoco  alla  patria  una  repubblica  come  la 
francese  del  '92  o  dell'  og-gi:  non  come  quella  del 
'92,  perché  gli  uragani  non  s'  imitano  né  si  rifanno; 
non  come  quella  dell'  oggi,  perché  essa,  per  difetto 
d'  idee  e  di  forza  ,  per  abondanza  di  cupidigie  e  di 
imbrogli,  é  anche  da  meno  del  governo  parlamentare 
nostro,  é  un  che  fra  la  trapezitarchia  e  la  pornocrazia; 
e  perché  in  fine  sorse  dalla  disfatta  nazionale,  e  sa- 
rebbe un  traditore  della  patria  chi  volesse  la  Ma- 
rianna con  tale  una  culla.  Dico  di  più:  ora  come  ora, 
io  non  vorrei  in  Italia  la  repubblica  per  solo  amore 
della  repubblica:  perché  un  tale  mutamento  nelle  con- 
dizioni dell'assetto  del  paese  e  de'  suoi  bisogni  e  con 
le  forze  rispettive  de'  diversi  partiti  non  potrebbe  non 
produrre  un  indebolimento  almeno  temporaneo  al  di 
dentro  e  l'isolamento  al  di  fuori;  e  questo  isolamento 
e  questo  indebolim.ento  ci  darebbero  in  soggezione 
della  Francia;  e  io,  tutt'  altro  che  nemico  a'  Fran- 
cesi, non  però  vorrei  per  nessuna  guisa  nessuna 
nuova  repubblica  cisalpina.  Dico  anche  di  più:  du- 
bito forte  che  ora  come  ora  la  repubblica  possa  riu- 
scire o  attecchire  in  Italia.  Il  partito  repubblicano 
storico,  quello  che  fu  un  grande  onore  e  una  gran 
forza  della  patria,  ha  perduto  dopo  il  1870  molta  di 
quella  sua  forza  e  dell  intensità  e  dell'  unione...  Ve- 
nuta meno  con  l'acquisto  di  Roma  l'aspettazione  delle 
eroiche  avventure  per  una  compiuta  rivendicazione 
nazionale,  non  avverandosi  d'altra  parte  mai  l'avve- 
nimento delle  barricate  a  scadenza  fissa  ,  l'idealismo 
dell'azione  mancante  fermentò  in  certe  teste  fino  a 
volere  una  inoculatezza  italica  del  comunismo  pari- 
gino. Passata  l'ebrietà  tempestosa,  spiccò  per  altro 
in  secco  un  partito  socialista  misto,  con  parecchie 
idee  buone  e  giuste  che  han  da  passare  prima  o  poi 
nella  legislazione,  ma  con  teoriche  non  accettabili  in 
solido  mai  da  nessun  governo  o  partito  politico  (nel 
senso  greco  della  parola),  con  intendimenti  e  proce- 
dimenti  per  lo  meno  arruffati,  quando  non  urtanti  per 


167 


istolide  e  cattive  declamazioni...  E  i  socialisti  intanto 
affrontano  il  partito  repubblicano  storico,  lo  punzec- 
chiano, lo  assillano,  lo  urtano,  lo  sospingono,  lo  mi- 
nacciano. E  al  caso  vorranno  molto  più  di  quello  che 
ora  mostrin  di  chiedere,  vorranno  tutto,  vorranno  al- 
meno quello  che  i  repubblicani  politici  non  potranno 
mai  dare.  Di  che,  o  la  repubblica  si  farà  subito  dit- 
tatura o  si  verrà  alla  guerra  civile,  e  di  conseguente 
anche  alla  dittatura  di  qualunque  sia  la  parte  che  vinca, 
perchè  l'anarchia  non  esclude  la  dittatura,  anzi.  A 
me  la  dittatura  non  par  mica  abbominevole,  come  le 
porte  d'  inferno:  ma  la  vorrei  dei  giusti  e  dei  forti, 
e  di  tali  non  ne  vien  su  dal  detrito  delle  rivoluzioni 
sociali,  dopo  che  l'odio  ha  fornicato  con  la  cupidigia 
nel  pattume  della  licenza  (*).  —  Chi  de'  partiti  an- 
che estremi,  purché  logico  ed  equanime,  non  sotto- 
scriverebbe queste  mirabili  e  profetiche  parole,  che, 
scritte  fin  dal  1884,  sono  state  confermate  da'  fatti 
negli  ultimi  quindici  anni  ?  A  scanso  di  un  troppo 
lungo  discorso,  cito  qui  le  fonti  che  gì'  intelligenti  e 
gli  onesti  possono  con  profitto  riscontrare  nel  citato 
volume  delle  Confessioni  e  battaglie:  queste  fonti  sono 
i  capitoli  così  intitolati:  —  luvenilia  ;  Levia  Gravia  ; 
Giambi  ed  Epodi;  Per  la  poesia  e  per  la  libertà;  Eterno 
fenmiiniìio  regale;  fa  ira;  Agli  elettori  del  Collegio  di 
Pisa;  e  in  essi  è  tutta  la  storia  della  fede  politica 
del  poeta,  il  quale,  pur  serbandola  pura  e  inconta- 
minata nella  coscienza,  non  ha  potuto  né  dovuto, 
nell'età  della  esperienza,  farne  scudo  o  vessillo  di 
parte;  e  così  egli,  devoto  alla  legge  del  vero  storico, 
ne  ha  seguito  i  necessari  svolgimenti  al  di  sopra  di 
tutt'  i  partiti.  Da  ciò  alla  incoerenza  e  voltabilità  po- 
litica corre  un  abisso,  o  almen  quello  che  intercede 
tra  la  vuota  e  faziosa  utopia  che  declama  quando 
non  tumultua,  e  la  logica  e  riposata  affermazione  della 
evoluzione  storica,  necessaria,  anche  se  torbida,  nella 
vita  di  un  popolo,  necessaria  come  la  nèmesi  fatale 
a  cui  tutti  gli  uomini  ragionevoli  e  non  anòmali  pie- 
gano sempre  il  capo. 


(*)  op.  cit.  —  Pdgg.  455-57. 


i68 


IL 

Priìicìpali  critici  e  biogì'ajì  del  Poeta. 

Molti  sono  i  biografi  e  i  critici  del  Poeta,  o,  meglio, 
troppi  son  quelli  che  a  diritto  o  a  rovescio  parlarono 
o  sparlarono  di  lui  ,  lodando  talvolta,  e  più  spesso 
maledicendo;  vero  è  che  da  oltre  un  trentennio  si  è 
in  mezzo  a'  più  fieri  contrasti  meglio  stabilita,  in 
Italia  e  fuori,  la  sua  fama  letteraria  ,  ma  della  sua 
fede  politica  si  dice  ancora  male  specialmente  da 
coloro  che  sempre  lo  cercano  e  invano  lo  ritrovano 
nel  loro  crocchio.  Furon  tante  battaglie  quante  vit- 
torie a  cui  giunse  col  feroce  accanimento  di  un  atleta 
che  passa  innanzi  affaticato  e  non  stanco  col  vessillo 
del  suo  ideale  ,  ond'  egli,  critico  e  artista,  prosatore 
e  poeta,  storico  e  politico,  richiamò  intorno  a  sé  il 
più  vario  movimento  d'idee  e  di  studi,  finché  impose 
coll'insegnamento  e  coll'esempio  l'arte  sua  a  tutta  la 
Nazione.  Per  questo  egli  esercitò,  come  pochi  o  nes- 
suno innanzi  a  lui  ,  la  più  feconda  influenza  sugli 
scrittori  e  promosse  l'unico  risveglio  nella  letteratura 
contemporanea  che  Dio  non  voglia  s'arresti  tutta  in 
lui. 

* 
*  * 

Primo  suo  critico  e  biografo  fu  Giuseppe  Chiarini 
che  del  '69  inaugurò  nella  «  Rassegna  Contempora- 
nea »,  dopo  «  tante  mele  fracide  che  dalle  mani  de' 
suoi  concittadini  piovvero  addosso  »  al  poeta  fin  dal 
1857,  un  serio  e  largo  movimento  d'  idee  intorno  al 
contrastato  autore.  Egli  con  analisi  dotta  e  acuta  ne 
ricercò  il  vario  processo  di  formazione,  dalle  «  luve- 
nilia  »  che  col  titolo  di  Rime  il  poeta  stesso  pubblicò 
pe'  tipi  Ristori  in  San  Miniato  al  Tedesco  a'  23  lu- 
glio 1857,  «  con  r  intendimento  e  1'  ardita  speranza 
di  pagare  i  suoi  debiti  »,  fino  a'  Levia  Gravia  che 
sotto  il  mentito  nome  di  Enotrio  Romano  vennero 
primamente    in    luce  del   1868  in  elegante  volume  di 


log 


228  pagine  pe'  tipi  Nicolai  e  Quarteroni  di  Pistoia. 
Anzi  quest'  ultimo  volume  forni  al  Chiarini  la  occa- 
sione al  citato  lavoro  il  quale  è  anche  ricco  di  notizie 
biografiche.  Più  larga  messe  di  fatti  e  di  osservazioni 
si  hanno  in  questi  altri  lavori  del  Chiarini  che  appar- 
vero assai  dopo:  —  /  critici  italiani  e  la  metrica  delle 
odi  barbare,  che  il  Trezza  giudicò  uno  studio  dei  piii 
dotti  e  dei  pili  splendidi  della  letteratura  italiana,  e  che 
prima  servì  di  prefazione  alla  seconda  edizione  delle 
Odi  barbare  (*);  un  importante  capitolo  che  sotto  il 
titolo  «  Giosuè  Carducci  »  apparve  nel  bellissimo 
volume  delle  «  Ombre  e  Figure  »  (**),  e  finalmente, 
oltre  tanti  altri  disseminati  qua  e  là,  un  lungo  e  pre- 
zioso articolo  pubblicato  nella  «  Nuova  Antologia  » 
il   16  luglio  1899. 

Enrico  Panzacchi  colla  prefazione  che  mise  innanzi 
alle  «  Nuove  Poesie  »  nella  edizione  zanichelliana 
del  '79,  la  quale  fu  poi  integralmente  riprodotta  in 
Teste  quadre  (***),  fu  anche  de'  primi  a  delinearci  il 
progressivo  svolgersi  dell'ingegno  del  Carducci  a  lui 
congiunto  da  intimi  legami  d'arte  e  di  affettuosa  ami- 
cizia. Giova  qui  riportare  un  tratto  dove  il  poeta  con 
grato  animo  si  ricorda  del  Chiarini,  del  Panzacchi  e 
di  altri  intimi  fra  i  quali  crebbe  e  si  esercitò  la  sua 
giovinezza  ideale:  —  E  sentirei  di  essere  ingrato  se 
non  ricordassi  almeno  a  me  stesso  quanto  io  debbo 
al  fraterne  ingegno  di  Enrico  Nencioni  che  mi  fu 
sin  dai  primi  anni  eccitatore  coll'ardor  suo  e  coU'e- 
sempio  al  culto  di  tutto  ciò  che  è  bello  in  ogni  forma, 
al  giudizio  amorevole  di  Giuseppe  Chiarini  che  mi 
ha  spronato  a  tempo  e  a  tempo  infrenato,  alla  dot- 
trina gentile  di  Emilio  Teza  che  mi  ha  rafforzato  e 
fatto  allungare  il  passo  ,  al  senso  acuto  e  retto  di 
Enrico  Panzacchi  che  mi  ha  emendato.  E  pure  non 
dedico  a  loro  questo  mio  libro,  e  non    lo    dedico  né 


(•)  liologna  —  Z.inichelli  —  1878. 

(**)  G.  Chiarini: — Ombre  e  Figure  — Argelo  Sominaruga  Editore  — 
1883. 

(***)  E.  Panzacchi:— Té-s^e  quadre  —  Bologoa  —  Zanichelli  —  1880. 


I/o 


meno al   mio    editore  G.  Barbera;  il  quale  a  me 

ignoto  e  bisognoso  offrì  co'l  lavoro  il  mezzo  di  addi- 
mostrarmi, il  quale  mi  ha  giovato  d'aiuto  paterno  in 
qualche  caso  difficile  della  vita  (*). 

É  degno  ancora  di  particolare  ricordo  Adolfo  Bor- 
gognoni, il  critico  valoroso  che  immaturo  ci  fu  rapito 
alle  lettere  pochi  anni  dopo  che  entrò  professore  nella 
Università  di  Pavia.  Egli  parlò  del  poeta  con  affetto 
e  con  minuta  larghezza  di  notizie  nella  bella  prefa- 
zione che  mise  innanzi  alla  terza  delle  quattro  edi- 
zioni fiorentine  ('71,  '74,  '78  e  '80)  di  Gaspare  Bar- 
bera; e,  durante  la  clamorosa  polemica  intorno  alle 
Odi  barbare,  anch'egli  intervenne  con  un  grave  arti- 
colo apparso  nella  Nuova  Aìitologia  del    1877. 

Quarto  viene  il  prof.  Leopoldo  Barboni  che  in  un 
suo  volumetto  intitolato  «  Giosuè  Carducci  e  la  ma- 
remma »  (Livorno,  R.  Giusti,  1875),  scrisse  preziose 
notizie  intorno  a'  luoghi  ove  crebbe  fanciullo  e  gio- 
vinetto il  poeta,  il  quale  in  una  breve  nota  apposta 
al  XV  libro  delle  sue  Rime  Nuove  (Bologna,  Zanichelli, 
'94,  p.  320),  scrisse  amorevolmente  di  questo  volu- 
metto ,  del  quale  ,  egli  dice  ,  vorrei  dir  bene  se  V  au- 
tore non  dicesse  troppo  bene  di  me  :  a  ogni  modo  gli 
son  grato  pel  fedele  amore  onde  ritrae  i  paesaggi  ma- 
remmani. 

Ettore  Stampini  scrisse  anche  un  pregevole  vo- 
lume su'  metri  oraziani  e  le  Odi  Barbare,  ed  altri 
molti  ,  come,  fra  i  nostri,  F.  D.  Guerrazzi,  Terenzio 
Mamiani,  Ruggiero  Bonghi,  Gaetano  Trezza,  Alberto 
Mario,  Emilio  Teza,  Quirico  Filopanti,  Felice  Caval- 
lotti ,  ecc.  ecc.  ,  e  ,  fra  gli  stranieri  ,  Carlo  Hille- 
brand  ,  Adolfo  Pichler  ,  Carlo  di  Thaler,  Teodoro 
Mommsen,  Marco  Mounier  ,  Giulio  Schanz,  Amedeo 
Roux,  ecc.,  tradussero,  cementarono,  illustrarono  la 
nova  opera  carducciana  la  quale  perciò  ebbe  anche 
il  merito  di  restaurare  e  rinfrescare  le  più  belle  tra- 
dizioni della  cultura  umana,   allargandola    con    gì'  in- 


(')  Confessioni  e  Baltaglie  —  Pag.  61  — Dalla  prefazione  della  prima 
edizione  delle  "Poesie  pe'  tipi  Barbera  di  Firenze,  anno  1871. 


flussi  delle  lettere  straniere  ,  come  dopo  il  Monti 
ninno  avea  fatto  prima  di  lui  in  Italia,  Dopo  il  Fo- 
scolo, il  Monti,  il  Leopardi  e  il  Manzoni,  nessun 
libro  italiano  ebbe  specialmente  fuori  un  così  largo 
movimento  ideale:  le  rime  e  le  Odi  barbare  furon 
tradotte  in  latino,  in  greco,  in  francese,  in  spagnolo, 
in  tedesco  ,  in  inglese  ,  e  firn'  anco  in  boemo  e  in 
croato,  e,  pur  difficili,  ascesero  anche  agli  onori  delle 
antologie  dove  però  in  Italia  si  vedono  per  disgrazia 
accomunate  a  liriche  troppo  mediocri  e  prosaiche. 
Che  dir  poi  degl'imitatori  i  quali  ,  specialmente  nel 
passato  decennio,  non  fecero  altro  che  rimaneggiare 
o  mantrugiare  quelle  poesie  che  sono  e  rimarranno, 
come  sempre  avviene  de'  grandi  e  solitari  novatori, 
inimitabili. 

Dal  Borgognoni  e  un  pò  più  dal  Chiarini,  quando 
non  da  fonti  personali  e  dirette,  abbiamo  attinto  pel 
nostro  lavoro  notizie  e  dettagli  che  riferiamo  però  e 
ricomponiamo  con  parole  nostre  e  con  diverso  ordine; 
ma  più  abbiamo  attinto  alle  opere  del  poeta,  e  spe- 
cialmente alle  «  Confessioni  e  Battaglie  »  ,  onde  ci- 
tiamo più  spesso  e  talvolta   rimandiamo  alle    fonti. 

III. 

Proge7iitori  ayitichi  —  Cenni  intorno  al  nonno,  al  padre 
e  alla  madre  prima  educatrice  e  ispiratrice  del  Poeta. 

Giosuè  nacque  da  Michele  Carducci  e  da  Ildegonda 
Celli  il  27  luglio  1836  in  Valdicastello,  piccolo  borgo 
d'origine  longobardica  nella  provincia  di  Pisa  presso 
Pietrasanta:  questo  borgo  ,  ricordato  da  una  carta 
dell'anno  855,  è  noto  per  un  antichissimo  monastero 
dove  secondo  la  tradizione  riparò  dopo  la  battaglia 
di  Benevento  un  ministro  di  re  Manfredi,  Matteo  di 
Thermes.  La  sua  famiglia  ,  ridottasi  allora  a  vivere 
tra  Serravezza  e  Pietrasanta,  è  originaria  di  Firenze, 
anzi  discende  dal  gonfaloniere  Francesco  Carducci, 
fatto  decapitare  dai  Medici  nel  1529  dopo  1'  assedio 
di   Firenze,   e  da  messer  Baldassarri,   un'altra  piccola 


gloria  della  casa,  la  quale  vanta  molti  altri  fasti  gen- 
tilizii  anche  più  antichi,  e  di  cui  gloriavasi  tanto  il 
nonno  di  Giosuè,  Francesco  Giuseppe,  un  ferdinandèo 
in  spada  e  colino,  che  primo  fece  dipingere  in  una 
sala  del  suo  palazzo  1'  arme  di  nobiltà:  tre  liste  ifi 
cmnpo  d' argento,  tagliate  da  una  banda  d' oro.  Francesco 
•Giuseppe  era  anche  provveditore  della  confraternita 
della  Madonna  del  Sole,  del  cui  tesoro  la  vide  poi 
spogliata  nella  invasione  francese  del  1799,  con  grande 
amarezza  dell'animo  suo. 

Intimo  del  poeta  Fantoni,  ne  pregiava  l'ingegno,  e 
di  frequente,  ma  più  spesso  del  1801,  si  trovavano 
insieme  a  Volterra  in  geniali  ritrovi,  dove  il  poeta 
improvvisava  dei  versi,  ed  egli  divertiva  la  brigata 
col  violino,  che  sonava  benissimo. 


Il  padre,  il  dott.  Michele,  era  un  uomo  assai  buono; 
un  pò  rigido  forse,  ma  di  cuore:  era  poi  colto  e  assai 
versato  in  latino. 

All'opposto  di  Francesco  Giuseppe,  spirito  conser- 
vatore e  pio,  egli  avea  1'  animo  acceso  ad  ogni  più 
vivo  sentimento  di  libertà;  era  anzi  carbonaro  e  co- 
spiratore. Or  mentre  il  figliuolo  gli  crescea  d'intorno 
con  le  mille  capestrerie  di  un  fanciullo  irrequieto,  ei 
si  viveva  in  maremma,  medico  d'una  società  francese 
che  provvedeva  a  cavar  piombo  argentifero  dalle  mi- 
niere allora  sorgenti  tra  Valdicastello  e  Serravezza. 
Eran  quelli,  tempi  rivoluzionari;  e  il  dott.  Michele, 
di  condotta  in  condotta  ,  passava  ramingando  non 
senza  pericoli  tra  un  paesetto  e  l'altro  della  maremma. 
Fu  prima  a  Bòlgheri,  donde  poi  fuggì,  poiché  quei 
contadini,  cui  non  andava  a  genio  il  suo  liberalesimo, 
un  bel  giorno  ne  presero  a  schioppettate  la  casa.  Da 
Bòlgheri  andò  poi  nel  '48  a  Castagneto,  dove  1'  aria 
politica  era  troppo  accesa,  più  accesa  di  quanto  a 
lui  piacesse,  onde  contro  sua  voglia  dovè  capitanarvi 
una  dimostrazione  di  rivoluzionari  che  incendiarono 
^  raserò  al    suolo    il    palazzo  dei  conti  della  Gherar- 


173 


desca.  Nel  novembre  del  '48  si  recò  a  Pisa  dove  il 
Guerrazzi  lo  fé'  capo  di  una  spedizione  contro  Ca- 
stagneto che  allora  avea  proclamato  una  specie  di 
Coìnutie,  e  tornò  a  Castagneto  per  arrestarvi  i  comu- 
nardi; ma  sùbito  dovè  fuggire  per  aver  salva  la  vita. 
Andò  poi  medico  interino  a  Laiatico  dove  i  moderati 
ricasoliani  lo  bastonarono  e  gli  fecero  baciare  un 
busto  in  gesso  di  Leopoldo,  con  parole  ignominiose 
contro  il  Guerrazzi,  e  al  grido:  —  L'infame  tricolor.... 
Viva  rimperator.  —  Fu  poi  a  Firenze  fino  al  1851, 
e  da  Firenze  a  Celle  nel  Montamiata,  e  da  ultimo  a 
Santa  Maria  a  Monte  dove,  nel  1858,  io  mesi  dopo 
che  il  figlio  primogenito  Dante  a  ventun  anno  si 
suicidò  ,  ne  morì  di  dolore  che  non  avea  ancora 
cinquant'anni. 

* 
*  * 

La  signora  Ildegonda,  la  madre  del  poeta,  fu  donna 
assai  eulta  e  d'alti  e  nobili  spiriti.  Egli,  ricordandola 
con  affetto,  scrive  di  lei  così:  —  Oh  begli  anni  dal 
"61  al  "65  vissuti  in  pacifica  e  ignota  solitudine  tra 
gli  studi  e  la  famiglia,  la  quale  tu  governavi  ancora, 
o  madre  veneranda,  che  m'  insegnasti  a  leggere  su 
l'Alfieri  e  non  m'inculcasti  la  superstizione!  (*)  —  E 
altrove,  a  proposito  del  patriottismo  manzoniano  raf- 
frontato a  quello  di  altri  più  insigni  agitatori  di  libertà, 
scrive  anche  di  lei:  —  Versi  benedetti  (Su!  nell'irto 

increscioso  Alemanno ):  anche    oggi,  ripetendoli, 

mi  bisogna  balzare  in  piedi  e  ruggirli,  come  la  prima 
volta  che  gl'intesi.  E  gli  intesi  da  una  voce  di  donna, 
dalla  voce  di  mia  madre!  (**) —  É  naturale  che  con 
queste  origini  e  con  queste  tradizioni,  con  simili  bur- 
rascose vicende  domestiche  e  così  alta  e  magnanima 
educazione  materna,  dovessero  germinare  nel  cuore 
del  poeta  quegli  aff'etti  e  quei  fantasmi,  quelle  iridi 
e  quelle  folgori  di  poesia  e  di  prosa,  e  insieme   quel 


(■)  Confessioni  e  Battaglie  —  EJ.  cit.  —  Pag.  56. 

(**)  'Boi^elti  e  Scherme  —  Bologna,  Zanichelli—  1889  —  Pag.    180. 


174 


culto  severo  delle  patrie  memorie,  che  fan  di  lui  lo 
scrittore  più  vigorosamente  e  sinceramente  civile  ed 
umano  che  in  questo  volger  di  secolo  abbia  mai  avuto 
l'Italia.  Del  nonno  Francesco  Giuseppe  par  che  nulla 
sia  giunto  nell'anima  di  lui  all'infuori  di  certo  amore 
alla  poesia  del  Fantoni  che  poi  dottamente  illustro, 
non  senza  derivarne  qualcosa  nella  lirica  sua;  ma  da' 
fasti  gentilizi  della  sua  nobile  famiglia  trasse  certo 
l'aristocratica  austerità  del  carattere  e  dell'  ingegno, 
cosi  nella  forma  solitaria  e  perspicua  dello  stile  come 
nella  indipendente  nobiltà  e  sanità  del  pensiero  critico 
e  civile,  e  forse  più  che  tutto  lo  spirito  agguerrito 
nelle  battaglie  continue  per  l'ideale. 

IV. 

Fanciullezza  del  poeta:  primi  studi  e  primi  amori,  prime 
bizzarrie  e  prime  composizioni  —  Suo  amore  alle  bestie  -- 
//  sarto  Scalzini. 

Le  rischiose  avventure  del  dott.  Michele  si  accom- 
pagnarono alle  torbide  irrequietudini  del  figliuolo, 
Giosuè,  che,  avido  fin  d'  allora  di  libertà,  mostrava 
nella  precoce  fanciullezza  quegl'impeti  e  quelle  fero- 
cie liberali  che  maturo  gli  divamparono  nell'  anima 
al  vivo  contatto  degli  avvenimenti  da  cui  trassero  la 
ispirazione  violenta  i  Giambi  ed  Epodi.  Il  selvatico 
fanciullo  —  così  lo  chiama  il  Borgognoni  —  seguì 
con  qualche  interruzione  il  padre,  dal  1838  al  1849, 
a  Bòlgheri,  a  Castagneto,  a  Firenze,  a  Celle  nel  Mon- 
tamiata;  e,  a  dir  vero,  fin  da'  primi  anni,  ei  mostrò 
nell'indole  qualcosa  che  potè  suggerire  al  nominato 
biografo  quell'aggettivo.  Di  fatti  egli,  in  mezzo  ad 
avide  e  segrete  letture,  rivelava  certi  strani  amori  a 
uccelli  di  rapina  e  a  bestie  feroci.  Il  fiero  fanciullo 
con  gelosissima  cura  allevava  un  lupacchiotto,  un  falco 
ed  una  civetta;  ma  il  padre  ammazzò  il  secondo  e 
donò  il  primo  a  un  amico  di  Livorno,  onde  il  figliuolo 
addoloratissimo,  uscì  dispettosamente  di  casa  e  andò 
errando  per  più  giorni  ne'  boschi,  lungo  il  mare;  ma 


175 


gli  rimase,  unico  ed  ultimo  amore,  la  civetta,  per  la 
cui  morte  egli  ancora  decenne  scrisse  un  sonetto.  In 
quell'anno  compose  anche  delle  terzine  sulla  morte  di 
Cesare,  e  alcune  ottave  sulla  presa  di  Bòlgheri  e  la 
distruzione  di  Donoratico.  In  questo  torno,  tra  il 
"  46  e  il  "48,  da  Bòlgheri  il  padre  lo  mandò  a  Ca- 
stagneto presso  un  suo  collega,  perchè  guarisse  di 
una  violente  febbre  maremmana  che  gli  durò  due 
anni,  e  che,  irritatogli  il  sistema  nervoso,  gli  provo- 
cava delirii  e  visioni;  ma,  come  spesso  avviene  in 
simili  nature,  gli  raccese  più  fortemente  l'ingegno.  A 
Castagneto  il  piccolo  Giosuè,  menando  vita  più  libera 
e  senza  la  vigile  soggezione  paterna,  si  die  in  braccio 
alle  più  romorose  follie,  incitato  a  ciò  da  un  sarto, 
certo  Scalzini,  un  repubblicano  rovente,  nella  cui  bot- 
tega ei  recitava  e  comentava  con  feroce  entusiasmo 
le  poesie  del  Giusti,  che  dieci  anni  di  poi,  nel  "59, 
pubblicò  nella  edizione  diamante  di  Gaspare  Barbera, 
alla  quale  mise  innanzi  una  lunga  ed  erudita  prefa- 
zione al  cui  nervoso  e  vivacissimo  stile  dovè  contri- 
buir molto  il  vivo  ricordo  dell'apostolato  letterario 
dei  suoi  undici  anni.  Al  contatto  del  sarto  Scalzini 
divampò  assai  più  acceso  il  suo  animo  :  così  egli 
passava  dal  comento  democratico  delle  poesie  del 
Giusti  a  pericolose  dimostrazioni  di  piazza;  e  quando 
Carlo  Alberto  sancì  lo  Statuto  non  si  peritò  di  scri- 
vere, fra  gli  altri,  questi  versi: — Esecrato  Carignano — 
Va  il  tuo  nome  in  ogni  gente  — ;  e  in  altra  occasione, 
unito  a  molti  dimostranti,  gridò:  —  Abbasso  tutti  i 
re  —  Viva  la  Repubblica!  —  Il  demone  della  poesia 
ben  presto  s'era  impossessato  di  lui,  e,  di  quegli 
anni,  come  seppe  della  morte  dello  Chateaubriand, 
cominciò  a  scrivere  per  l'occasione  un'ode  saffica  che 
poi  non  finì.  Ma  nell'  aprile  del  1849,  quand'egli  era 
tanto  contento  della  sua  romorosa  libertà,  il  padre  lo 
richiamò  a  Firenze,  dove  lo  allogò  a  studio  dagli  Sco- 
lopi  che  gl'insegnarono  retorica.  Anch'egli  ricorda  i 
begli  anni  della  sua  fanciullezza  e  de'  primi  studi  in 
alcune  pagine  di  un  suo  capitolo  polemico  sul  Man- 
zoni e  i  suoi  critici  o  interpetri,  e  da  esse  mi   piace 


176 


togliere  questo  curioso  e  squisitissimo  frammento:  —  ... 
fino  a  quattordici  anni  non  ebbi  quasi  altro  maestro 
che  mio  padre,  il  quale  altro  non  m'insegnava  che 
latino;  ma,  un  pò  per  l'indole  sua,  un  pò  per  i  do- 
veri di  medico,  mi  lasciava  molta  libertà  e  molto 
tempo  per  leggere.  E  io  insieme  alle  opere  del  Man- 
zoni lessi  l'Iliade,  l'Eneide,  la  Gerusalemme;  e  la 
storia  romana  del  RoUin,  e  la  storia  della  rivoluzione 
francese  del  Thiers;  i  poemi  con  ineffabile  rapimento, 
le  storie  con  un  serio  oblio  di  tutto  il  resto:  e,  aiu- 
tato da  qualche  conversazione  di  mio  padre  con  certi 
amici  ed  ospiti,  per  ragazzo  ne  intendevo  anche  troppo. 
Invasato  così  di  ardore  epico  e  di  furore  repubblicano 
e  rivoluzionario,  io  sentivo  il  bisogno  di  traboccare 
il  mio  idealismo  nell'azione;  e  perciò  in  brigata  co' 
miei  fratelli  e  con  altri  ragazzi  del  vicinato  organiz- 
zava sempre  repubbliche,  e  repubbliche  sempre  nuove, 
ora  rette  ad  arconti  ora  a  consoli  ora  a  tribuni,  pur 
che  la  rivoluzione  fosse  la  condizion  normale  dell'es- 
sere ,  e  cosa  di  tutti  i  giorni  l'urto  tra  i  partiti  e  la 
guerra  civile.  La  nostra  repubblica  consisteva  di  ra- 
gunanze  tumultuose  e  di  battaglie  a  colpi  di  sassi  e 
bastoni,  con  le  quali  intendevamo  riprodurre  i  più  bei 
fatti  de'  bei  tempi  di  ?oma  e  della  rivoluzione  fran- 
cese (*)  E,  dopo  il  racconto  di  un  curiosissimo  aned- 
doto intorno  a  queste  «  ragunanze  tumultuose  »  ,  e 
a  un  certo  anacronismo  storico  di  simili  scene  fan- 
ciullesche, seguita  così  :  —  Ma  il  rumore  di  questi 
grandi  fatti  giungeva  qualche  volta  alle  orecchie 
del  mio  manzoniano  padre  ,  il  quale  allora  ,  nulla 
commosso  dalle  mie  oneste  ferite  ,  mi  condannava 
pur  troppo  a  lunghe  prigionie  ;  in  mezzo  alle  quali 
egli  di  quando  in  quando  riappariva  per  rivedermi 
il  latino  ,  e  mi  lasciava  tre  libri  sul  tavolo  ,  dicen- 
domi serio  ed  asciutto  —  Leggete  qui  e  persuadetevi 
che  il  taratantara  classico  non  è  più  per  questi 
tempi.  —   I  tre  libri  erano  la  Morale  cattolica   di   Ales- 


(*)  Bo^^eiti  e  Scherme  —  Ed.  cit.  —  Pag.  144. 


177 


Sandro  Manzoni,  i  Doveri  dell' iiotno  di  Silvio  Pellico, 
e  la    Vita  di  San   Giuseppe  Calasanzio  scritta  da  certo 

padre    Tosetti  (parmi)  del  secolo  passato :   so  che 

d'allora  in  poi  per  un  gran  pezzo  morale  cattolica  e 
frati  ,  doveri  dell'uomo  e  santini,  furono  per  me  la 
stessa  cosa;  e  odiai,  odiai,  quei  libri,  d'un  odio  ca- 
tilinario (*).  —  E  a  chi  ancora  non  lo  abbia  fatto, 
consiglio  di  rileggere,  nel  citato  volume,  il  resto  di 
questa  mirabile  prosa  domestica  che  dovrebbe  trovar 
posto  in  tutte  le  antologie.  E  della  sua  nobile  fierezza 
di  carattere  egli  dà  brevissimo  cenno  in  un  altro  cu- 
rioso aneddoto  della  prima  sua  fanciullezza,  e  proprio 
in  un  capitoletto  intitolato  «  Ricordo  d'infanzia  ».  — 
Un  grave  signore  ,  con  gran  barba  nera  e  con  un  li- 
bro in  mano,  e  cui  molto  tempo  dopo  seppe  marito 
putativo  d' una  ynoglie  altrui,  disturbò  lui  e  una  bam- 
bina dell'età  sua  da  un  giuoco  innocente;  allora  egli, 
brandendo  la  fune  ,  come  fosse  un  flagello  ,  se  gli  fece 
incontro  gridandogli:  Via  ,  via  ,  brutto,  te!  Z?'  allora 
in  poi  —  così  seguita  —  ho  risposto  sempre  cosi  ad 
ogni  autorità  che  sia  venuta  ad  ammonirmi,  con  un  libro 
in  mano  e  un  sottinteso  in  corpo,  a  nome  della  inorale. 
(**)   —  E'   proprio  vero! 

V, 

Adolescenza  —  Suoi  studi  in  Firenze  e  a  Pisa.  Sue 
gra?idi  letture  —  Esami  di  laurea  —  Gli  amici  pe- 
danti —  Prime  polemiche. 

Dell'insegnamento  allora  impartito  dagli  Scolopi  il 
Carducci,  nel  luogo  citato,  dà  questo  ricordo:  —  E 
agli  Scolopi  vidi  la  venerazione  di  Manzoni  classifi- 
cata per  iscuole:  a  grammatichina  imparavasi  a  mente 
«  Dormi,  o  fanciul ,  non  piangere  »;  a  grammatica 
superiore,  «  E'  risorto,  or  come  a  morte  »;  a  uma- 
nità, «  O  tementi  dell'ira  ventura  »;  a  retorica,  «  Ma- 


(♦)  'Bo^ieia  e  Scherme  —  Ed.  cit.  —  Pag.  145-46. 
(**)  Confesxioni  e  battaglie  —  Ed.  cit.  —  Pag.  4^ 


178 


dre  dei  santi,  imagine  ».  E  del  Foscolo  e  del  Leo- 
pardi, che  io  avea  allora  incominciato  a  conoscere, 
non  si  parlava  mai  o  quasi  mai,  o  con  la  bocca  stretta 
e  non  senza  certi  epiteti.  A  me  quelle  tonache  agi- 
tantisi  per  entusiasmo  manzoniano  richiamavano  a 
mente  la  Morale  cattolica  venutami  la  prima  volta  a 
mano  nella  prigione  paterna  insieme  con  la  vita  di 
un  santo  scritta  da  un  frate  (*). 

* 
*  * 

A  Firenze  il  Carducci,  con  tutto  il  naturale  suo  un 
po'  scabro  e  ritroso  .  si  conciliò  presto  1'  amore  e 
l'ammirazione  di  discepoli  e  di  maestri.  Un  giorno 
portò  a  scuola  in  vecchia  edizione  un  Quinto  Curzio, 
e  mentre,  incurioso  della  lezione,  era  tutto  intento  a 
leggerlo,  fu  sorpreso  dal  maestro  che  lo  invitò  poi  a 
tradurne  alcune  pagine;  ed  ei  le  tradusse  con  rara 
disinvoltura  e  con  la  più  grande  meraviglia  del  maestro 
e  dei  compagni.  Era  buono,  cordiale,  espansivo  verso 
chi  sapesse  prenderlo  pel  suo  verso,  e  aiutava  i  com- 
pagni che  ricorressero  a  lui  ,  ma  guai  a  chi  facesse 
contro  il  suo  volere:  irrompeva  violento  allora,  anche 
con  vie  di  fatto.  Un  giorno  un  suo  compagno,  dai 
capelli  rossi  e  ricciuti  ,  insisteva  perchè  gli  facesse 
il  componimento.  —  Chetati  —  gli  rispose  —  se  no 
ti  brucio  il  pennecchio.  —  Ma  seguitando  1'  altro  a 
infastidirlo,  egli  accese  un  fiammifero  ed  eseguì  la 
minaccia.  Il  suo  amore  a'  libri  era  poi  delirio,  tanto 
più  che  allora  non  era  facile  procurarli.  Com'  ebbe 
un  giorno  un'edizione  del  Foscolo,  corse  a  casa  tutto 
pazzo  di  gioia;  salì  ginocchioni  le  scale,  e,  vista  la 
madre,  volle  s'inginocchiasse  anche  lei,  e  che  baciasse 
il  libro;  e  al  Gargani,  che  il  dì  seguente  fu  a  trovarlo, 
egli,  non  ancora  del  tutto  vestito,  si  mise  a  leggere 
con  frenesia  il  volume,  e  volle  che  senz'altro  anche 
l'amico  partecipasse  alla  sua  gioia  e  al  suo  entusiasmo. 
Essendo  a  scuola  di  retorica  in  Firenze,  facea  grandi 


{*)  'Bo^^etti  e  Sellerine  —  Ed.  cit.  —  Pag.  147 


179 


letture,  le  più  varie  e  disparate,  ma  in  confuso,  come 
sempre  avviene  nella  prima  età  degli  studi:  leggeva, 
con  gl'incitamenti  del  Nencioni,  innamoratissimo  fin 
d'allora  delle  letterature  straniere,  e  romantico  ar- 
dente, leggeva  Victor  Hugo  e  Lamartine,  Leopardi  e 
Foscolo  (specialmente  le  Grazie),  il  manuale  del  Nan- 
nucci  e  i  prosatori  e  poeti  del  200  che  riscontrava 
anche  su'  codici  alla  Magliabecchiana,  Orazio  e  Fon- 
tano, Poliziano  (le  cose  latine)  e  il  Navagero  cogli 
altri  umanisti  della  Rinascenza.  Questa  febbre  di  studi 
anche  se  incerti  e  tumultuari  gli  aprì  meglio  l'ingegno 
che  a  Celle  nel  Montamiata,  ove  si  recò  a  raggiunger 
la  famiglia  nel  "53,  ricevè  uno  svolgimento  più  lim- 
pido e  ordinato.  L'aria  sana  e  i  dolci  e  ridenti  spet- 
tacoli di  quei  colli  e  di  quelle  campagne,  la  soave 
solitudine  del  luogo  addolcita  da'  conforti  e  dalle  in- 
timità della  famiglia,  e  più  anche  il  puro  e  schietto 
parlare,  che  tanto  si  avvicina  al  senese,  di  quei  buoni 
montagnoli,  infusero  ne'  suoi  studi  e  ne'  continui 
esercizi  letterari,  una  pacata  e  serena  freschezza  di 
pensiero  e  di  espressione.  Egli  stesso  lo  ricorda  in 
queste  poche  parole:  —  E  confesso  che  mi  giovò  molto 
l'esser  cresciuto  e  ingiovanito  alla  campagna,  dove  il 
popolo  toscano  parla  meglio,  con  purezza  vigorosa 
di  vocaboli,  con  agilità  elegante  di  scorci  nella  sintassi. 
Venuto  a  città  e  a  scuola,  la  natività  non  mi  sarebbe 
bastata  più;  perchè  la  scuola  in  Toscana  guasta  tutto, 
e,  nelle  città,  la  trascuraggine  ciompa  e  1'  infrancio- 
samento  da  parucchieri  (*).  E  seguita  narrando  come 
gli  si  rivelasse  il  Trecento  e  come,  pel  fresco  vivaio 
della  lingua  francese  e  coU'assiduo  tradurre  all'Uni- 
versità da  Cicerone  da  Sallustio  e  da  Tacito,  riuscisse 
a  comporsi,  avendo  sempre  di  mira  il  Trecento  e  ad- 
domesticandosi poi  co'  cinquecentisti,  l'esemplare  della 
sua  prosa. 

* 
*  * 

V'era  allora  in  Firenze,  fra  gli   scolari    degli    Sco- 
lopi,  un'accademia  letteraria   poetica  fondata  dal  Car- 

(*)  Confessioni  e  'Battaglie  —  Ed.  cit.  —  Pagg.  45-46. 


i8o 


ducei  e  da  Giuseppe  Torquato  Gargani,  la  quale  di 
quando  in  quando  invitava  alle  sue  tornate,  com'oggi 
dicono,  tutti  i  soci  che  poi  venivano  in  gara  di  studi  e  di 
esercizi  letterari.  In  una  di  quelle  il  Carducci,  ch'era 
ancora  a  Celle  nel  Montamiata,  mandò  alcuni  sciolti 
su  le  Crociate,  che  piacquero  assai  a  tutti  gli  astanti, 
e  fra  questi  al  Cempini,  amico  del  Giusti  e  che  fu 
il  primo  a  scrivere  la  vita  onde  il  Carducci  trasse 
notizie  pel  suo  citato  studio  intorno  al  medesimo 
poeta;  piacquero  anche  a  certo  canonico  Sbricia  e  a 
un  certo  padre  Barsottini,  sovrintendente  dell'  Acca- 
demia e  rettore  allora  dell'Università  pisana,  i  quali 
erano  fra  gli  astanti.  Il  prof.  Barsottini,  pregatone 
dal  canonico  Sbricia,  consigliò  il  Carducci  a  concor- 
rere a  un  posto  allora  vacante  nella  scuola  normale 
di  Pisa.  Il  Carducci  sùbito  concorse  e  ottenne  il  posto. 
Egli  incominciò  a  frequentare  quella  scuola  sul  finire 
del  "53  e  ne  compì  il  corso  nell'estate  del  "56  che 
non  avea  ancora  vent'anni;  e  n'uscì  dottore  in  lettere 
e  filosofia.  Vi  studiò  latino  col  prof.  Ferrucci,  ma  fi- 
schiava spesso  il  prof,  di  filosofia;  e  di  que'  tumulti 
universitari  egli  e  il  collega  Ferdinando  Cristiani  eran 
sempre  i  capri  espiatorii. 

Di  quell'insegnamento  e'  ci  dà  una  ben  fosca  pit- 
tura in  una  sua  lettera  a  un  amico  nel    "56,   di    cui 

riporto  queste  sole  parole:  —  Se  tu    vieni    qua 

avrai,  i»  un  professore  ciarlone,  che  ti  stancherà  a 
forza  di  citazioni  e  di  date  quando  fa  bene,  quando 
cioè  copia  da  tutti  i  libri  che  può  aver  nelle  mani, 
senza  mentovar  mai  nessuno...:  e  così  correranno  i 
tuoi  tre  anni  di  studi  sulla  letteratura  latina,  sulla 
quale  perderai  molti  giorni  senza  imparare  altro  che 
date...  Per  la  letteratura  greca  avrai  tre  uomini  che 
il  greco  lo  sanno....;  ma  della  filosofia  di  cotesta  di- 
vina letteratura  greca,....  nulla,  nulla,  nulla:  che  co- 
teste  menti  son  nate  per  declinare  verbi,  non  per  sen- 
tire e  far  sentire  il  bello:  guai,  guai  nella  scuola 
normale  a  colui  che  pensa!  Della  filosofia  razionale 
e  morale  non  ti  parlo;  ti  avviso  però  che  della  razio- 
nale avrai  a  ripetitore  un  collegiale,...  il  quale....    ti 


comincerà  a  dir  male  delle  arti  e  lettere  greche  e  ti 
leverà  alle  stelle  i  Goti;  e  tu  fteddamente  1'  ammaz- 
zerai, e  allora  ti  manderanno  in  galera...  Bandita  la 
letteratura  italiana:  già  saprai  da  te  come  i  giovani 
usciti  fin  ora  dalla  scuola  normale  adulterano  laida- 
mente la  lingua  toscana:  imparerai  il  gergo  conven- 
zionale, grammatico,  rettorico,  filosofico:  la  lingua  in 
cui  scrissero  Dante,  Machiavelli,  Leopardi,  fa  paura 
a  questi  vili  oppressori  e  castratori  degli  ingegni 
giovanili...  —  E'  un  quadro  assai  livido,  ma  ispida- 
mente brioso  e  pieno  di  verità:  così,  presso  a  poco, 
erano  tutte  le  scuole  italiane  d'avanti  il   "59. 

Agli  esami  di  laurea  gì'  intervenne  un  caso,  non 
raro,  ma  abbastanza  curioso  e  strano.  Ebbe  da  svol- 
gere questo  tema:  —  Influenza  provenzale  nella  lirica 
del  secolo  XIII.  —  Nessuno  de'  suoi  compagni  avea 
come  lui  intorno  all'argomento  insolito  nozioni  più 
larghe  e  più  minute,  avendo  egli  letto  e  riletto  le 
opere  del  Fauriel  e  del  Raynouard;  e  pure  ebbe  nel- 
l'approvazione due  voti  contrari.  Non  così  pel  tema 
di  filosofia:  —  Del  culto  interno  ed  esterno,  —  il  cui 
svolgimento  copiò  tutto  dal  Rosmini;  ond'ei  venne  ap- 
provato a  pieni  voti.  Anche  di  questi  suoi  esami  ei 
dà  notizia  vivace  in  un'altra  lettera  a  un  suo  amico, 
del  3  luglio  1856,  con  quel  suo  stile  tutto  pieno  di 
sali  e  di  scatti,  tutto  vibrante  di  nervosa  elettricità:  — 
Ieri  ebbi  l'esame,  o  meglio  feci  la  lezioncetta  (*)  ,  e 
l'esito  ne  fu  per  me  più  che  gradevolissimo.  A  pena 
cominciai,  ebbi  l'uditorio  dei  chiarissimi  in  capelli 
bianchi  e  in  toga,  e  dei  chiarissimi  in  erba,  e  degli 
oscurissimi  ancora,  contro  il  costume,  attentissimo  e 
silenzioso  per  un'ora  (e  dovevo  parlare  mezz'ora):  e 
io  lo  padroneggiai    col    portamento    e    con  la    voce. 

Vi  fu  chi  disse  ch'era  rimasto  spaventato  dalle  mie 
citazioni  fatte  a  memoria.  Non  potei  finire  del  tutto 
il  mio  ragionamento,  perchè  il  Provveditore  mi  disse 
da  ultimo  ,    vedendo    che    non    la   finivo  più:   Debbo 


(*)  Il  tema  da  lui  scelto  per  la  letteratura  italiana  fu:  —  Della  poesia 
cavalleresca  o  trovadorica. 


annunziare  al  Dott.  Carducci  ,  con  mio  dispiacere, 
che  il  tempo  assegnatogli  dalla  legge  è  di  già  scorso 
da  due  quarti  d'ora.  E  sonò  il  campanellino.  E  allora 
io  birichinescamente  feci  un  salto  col  quale  dalla  cat- 
tedra fui  in  terra  tutto  d'un  pezzo.  E  l'uditorio  ri- 
mase meravigliato  anche  della  mia  agilità  nel  far 
salti.  Poi  vennero  i  mirallegro,  gli  abbracciamenti,  i 
baci  dei  chiarissimi  e  non  chiarissimi,  e  tutte  le  per- 
sone della  sala  mi  si  raccolsero  intorno.  Poi  andò  a 
finire  in  un  gran  simposio. 


Durante  il  suo  soggiorno  in  Pisa,  spesso  andava  a 
Firenze  dove  lo  aspettava  a  braccia  aperte  1'  allegra 
e  romorosa  comitiva  degli  amici  pedanti,  come  volle 
intitolarla  un  d'essi,  Giuseppe  Torquato  Gargani,  il 
quale,  a  proposito  di  alcuni  versi  di  Braccio  Bracci 
e  d'  altri  simili  poetastri  ,  stampò  nel  '56  contro  il 
Passatempo,  giornaletto  umoristico  diretto  allora  da 
Pietro  Fanfani  ,  un  poetico  libretto  a  cui  avevano 
cooperato  lutti  gli  amici,  e  che  aveva  per  titolo:  — 
Diceria  su'  poeti  odiernissimi.  —  Era  la  satira  atroce 
di  una  conventicola  romantica  che  sotto  l'orpello  della 
forma  e  del  toscanesimo  elegante  nascondeva  l'asso- 
luta vuotezza  de'  pensieri  e  degl'ideali.  Poco  di  poi, 
e  nel  medesimo  anno,  uscì  fuori,  a  cura  del  medesimo 
Gargani  ,  un  secondo  volumetto  di  160  pagine,  dal 
titolo:  —  Giunta  alla  derrata:  Ai  poeti  odiernissimi  e 
ior  difensori  gli  amici  pedanti.  —  Conteneva,  fra  altri 
scritti,  quattro  lepidissimi  sonetti  e  due  discorsi  del 
Carducci:  —  Della  moralità  e  italianità  de^  nostri  poeti 
odiernissimi  — ,  che  naturalmente  furon  dall'  autore 
composti  d'accordo  coll'allegra  comitiva.  Quei  quattro 
sonetti,  e  più  altri  non  meno  lepidi  dall'autore  com- 
posti in  quegli  anni,  fanno  ora  parte  delle  luvenilia 
quali  si  leggono  nel  sesto  volume  della  edizione  de- 
finitiva dello  Zanichelli. 


i83 


VI. 


Vt^a  allegra  in  San  Miniato  al  Tedesco  —  Vivi  ricordi 
dei  colleghi  e  degli  amici  —  Suo  innamoramento  — 
Nuovi  studi  e  miove  letture. 

Tra  il  novembre  del  "56  e  il  settembre  del  "57  il 
Carducci  fu  in  San  Miniato  al  Tedesco  dove  alla 
quarta  e  quinta  classe  di  quel  ginnasio  insegnava 
retorica,  cioè  facea  tradurre  e  spiegare  a  due  ragazzi 
pili  Virgilio  e  Orazio,  piii  Tacito  e  Dante  che  potessero; 
e  buttava  fuor  di  finestra  gl'inni  sacri  del  Manzoni.  La 
sua  famiglia  allora  si  trovava  non  molto  lontano,  cioè 
in  Santa  Maria  a  Monte  nel  Valdarno  inferiore,  dove 
il  dott.  Michele  avea  trovato  un'  altra  condotta,  che 
fu  poi  l'ultima  e  più  dolorosa.  Quel  primo  anno  d'in- 
segnamento fu  pel  Carducci  assai  pieno  di  scapatag- 
gini e  di  clamorose  trovate;  fu  1'  anno,  com'  ei  dice, 
delle  risorse.  Altro  che  risorse!  Di  quella  vita  romo- 
rosamente  goliardica  agitata  in  un  paesetto  di  bac- 
chettoni e  retrògradi,  egli  ci  dà  un  vivissimo  racconto 
in  un  suo  capitolo  di  prosa,  intitolato  appunto  «  Le 
risorse  di  San  Miniato  al  Tedesco  »,  e  ch'è  de'  più 
freschi  e  perfetti  delle  sue  «  Confessioni  e  battaglie  ». 
Questa  prosa  s'  apre  d'  incanto,  tra  ricordi  greci  e 
latini,  con  una  meraviglia  di  descrizione  del  canto 
delle  cicale  e  di  tutto  ciò  che  in  quell'  anno,  tra  il 
polveroso  della  graìide  estate ,  viveva  ardeva  fremeva 
sotto  il  regno  del  sole  nel  cielo  incandescente. 

Dopo  questa  grande  ubriacatura  di  sole  e  di  canti 
estivi  ,  cominciano  a  sfilare  i  plastici  ritratti  degli 
amici  o  colleghi:  di  Pietro,  filosofo  giobertiano ,  profilo 
di  Don  Chisciotte  e  buon  senso  di  Sancio  Panza,  forte 
a  disputare  dell'  ente  e  a  rompere  con  un  colpo  della 
testa  le  impòste  de W uscio;  di  Trombino  (Ferdinando 
Cristiani),  così  detto,  per  avere  in  una  ripetizione  ai 
letteratura  latina  trasformato  allegramente  così  il  severo 
Frontino;  del  professore  di  grammatichina  (prima  gin- 
nasiale), un  vero  maestro  con  cravattona  e  pancia,  C07i 
mazza  e  scatola  di  tabacco:  egli,  il  poeta,  era  conosciìito 


i84 


anche  pt'7'  Pinini,  causa  un  raddoppiamento  spostato  ?ietla 
co7iiugazio7ie  del  verbo  utv£  v.  Seguitano  i  profili  del 
sotto-prefetto,  del  quale  vede  ancora  l'ombra  del  bm- 
ghissimo  ìiaso;  di  Afrodisio,  l'oste  tassoniano;  del  Mi- 
cheletti,  da  la  ben  rasa  pulitezza  di  uìi  caffettiere  gol 
doniano  ,  e  del  Ristori  tipografo  piccoletto  ,  bruno  e 
vivo,  come  un  bel  topolino.  E  poi  s'intrecciano,  vaghi 
e  varii  di  ombre  di  linee  di  colori,  gli  ameni  e  pia- 
cevolissimi ricordi  della  Toi-re  biaìica,  cioè  la  casa  de' 
maestri,  della  bergamascata  durante  la  messa  nel  domo, 
e  dello  scandaloso  desinare  alla  taverna  del  piano  il 
venerdì  santo  del  "57;  e  i  lieti  rumori  degli  amici — 
Nencioni,  Chiarini,  Gargani  —  che  nelle  belle  dome- 
niche di  aprile,  di  maggio  e  di  giugno,  venivano  da 
Firenze  a  trovarlo  nella  «  Torre  bianca  »  che  in  que' 
giorni  spargeva  intorno  strepiti  pili  gloriosi;  e  poi  le 
notturne  e  poetiche  escursioni  fatte  col  Gargani  tacitae 
per  amica  silentia  lunae,  e  i  giovanili  desinari  da  Gigi 
Porco;  e  poi  l'innamoramento  accompagnato  al  canto 
infausto  del  cuculo  la  cui  voce  singhiozzava  dalla 
rocca  di  Federigo  II  in  utia  odorosa  sera  di  viaggio; 
e  finalmente  co'  ricordi  de'  debiti  comuni  pe'  quali 
dovettero  fuggire,  inseguiti  da'  creditori,  segue  1'  ul- 
tima macchietta  su  la  prima  edizione  delle  Rime,  ch'è 
il  fondo  del  simpatico  racconto,  e  che  insieme  l'apre 
e  lo  chiude.  Tutto  cotesto,  che  qui  solo  è  un  cenno 
assai  sbiadito,  è  reso  nel  citato  racconto  con  tanta 
limpidezza  di  eloquio,  con  tale  perspicuità  di  scorci 
e  di  rilievi,  e  con  si  vispa  e  festiva  arguzia  toscana, 
che  non  dubitiamo  affermare  esser  queste  le  più  belle 
pagine  autobiografiche  della  letteratura  moderna.  Di 
Torquato  Gargani,  morto  «  d'amore  e  d'idealismo  in 
Faenza  il  29  marzo  1862  »,  qui  l'amico  rinnova  con 
tenerissimo  affetto  e  con  efficace  dipintura  il  ritratto 
che  di  lui  già  dette  l'anno  stesso  che  morì,  e  ch'ora 
si  legge  non  senza  tristezza  nel  quinto  volume  della 
definitiva  raccolta  (*). 


(*)  Ceneri  e  Faville  —  Zanichelli — Bologna  —  1891  —  Pagg.  501-508. 


i85 


Bisogna  ch'io  torni  un  pò  indietro.  Fra  il  settem- 
bre e  r  ottobre  del  '56  il  Carducci  avea  ripreso  con 
gran  lena  i  suoi  studi:  lesse  ben  quattro  volte,  capi- 
tolo per  capitolo  e  con  profonda  applicazione  ,  tre 
libri  del  Guicciardini  e  uno  del  Machiavelli;  tre  volte 
lesse  la  Congiura  de'  Baroni  di  Camillo  Porzio,  con 
estratti  di  fatti  e  di  parole;  studiò  anche  la  filippica 
seconda  di  Cicerone,  il  primo  libro  delle  Georgiche, 
e  tutto  Fedro;  rilesse  Orazio  ;  e  da  memorie  e  da 
appunti  scrisse  250  osservazioni  di  lingua  e  di  stile. 
Questi  forti  studi  venner  solo  interrotti  dalla  vita 
giovenilmente  strepitosa  di  San  Miniato:  fra  poco  il 
poeta,  punto  dal  più  acuto  bisogno,  si  darà  tutto  a 
un'aspra  vita  di  sacrifizio  e  di  lavoro. 

VII. 

Da  San  Miniato  a  Firenze,  a  Pistoia,  a  Bologna  — 
Morte  del  padre  e  del  fratello  —  Strettezze  della  fa- 
miglia —  La  moglie  e  i  figliuoli. 

Passò  parte  dell' autunno  del  "57  in  seno  alla  fa- 
miglia in  Santa  Maria  a  Monte,  e  poco  prima' del  no- 
vembre si  stabili  in  Firenze  dove  per  vivere  dava 
lezioni  private,  quando  all'  improvviso  fu  incolto  da 
una  grave  e  inattesa  sciagura  domestica,  la  morte  del 
fratello  Dante  che  il  4  novembre  si  morì  di  ferro: 
tornò  allora  sùbito  in  famiglia  dove  trovò  il  padre 
immerso  nel  più  straziante  dolore  e  già  tòcco  dal 
male  che  io  mesi  dopo  lo  condusse  al  sepolcro.  Dopo 
la  morte  del  padre,  che,  com'  egli  scrisse,  gli  lasciò 
per  tutta  eredità  io  paoli  {non  importa  da  vero  far  la 
riduzione  in  moneta  Jiuova),  egli,  nelle  più  dure  stret- 
tezze della  vita,  rimase  unico  sostegno  della  famiglia, 
composta  della  madre,  che  poi  gli  morì  nel  1870,  e 
del  fratello  Valfredo,  che  fu  prima  maestro  elemen- 
tare a  Monte  San  Giuliano,  ed  ora  è  da  più  anni 
professore  di  lettere  italiane  nella  scuola  normale 
Giosuè  Carducci  di  Forlimpopoli.  I  dolorosi  ricordi 
domestici  gli  acuirono  1'  ingegno,  e  spesso  gì'  ispira- 


i86 


rono  versi  di  elegiaca  tenerezza  e  di  più  immediata 
concezione:  avea  già  scritto,  fin  dal  "57,  una  ben 
triste  canzone,  d'  intonazione  classica  e  di  profumo 
leopardiano,  in  morte  del  fratello  Dante,  e  più  sonetti, 
pregni  di  quei  ricordi,  qualche  anno  dopo:  1'  una  e 
gli  altri  son  raccolti  ora  nel  volume  delle  Itivenilia  e 
de'  Levia  Gravia.  Sin  da  quel  tempo  un'  aura  di  pes- 
simismo avea  invaso  il  forte  animo  del  poeta  che 
dovè  proprio  al  bisogno  e  alle  sorti  della  famiglia 
povera  la  salvezza  così  fisica  come  morale.  Ei  lo  ri- 
corda in  questi  versi  della  canzone  funebre  a  suo 
fratello  Dante: 

Ben  io  vivrò:  che  a  me  l'anima  avvinta 
Di  più  tenace  ci'eta  ha  la  natura, 
E  oCflcio  torse  e  carità  il  suade:  .... 


Sii    meco  eterno;  e  nel  tuo  sangue  tinta 

Del  verso  vibrerò  l'alta  saetta 

A  far  nel  mondo  reo  dolce  vendetta  (*). 

In  questi  versi  è  tutto  un  presentimento  della  sua 
vita  letteraria  e  civile:  l'anima  sua  forte,  alimentata 
dalla  sventura,  si  chiuse,  dirò  così,  nel  passato,  e  ne 
rivisse  la  vita;  onde  la  sua  poesia  specialmente,  par 
tutta  nutrita  della  ispirazione  delle  tombe  e  de'  ricordi 
della  fanciullezza  e  della  gioventù,  della  famiglia  sua 
e  della  maremma  nativa,  della  patria  eroica  e  della 
patria  vile,  ispirazione  e  ricordi  che  spandono  il  mi- 
glior profumo  nella  sua  lirica  patriottica  o  civile,  do- 
mestica o  storica,  giambica  o  idillica.  Eccone  saggi: 
Idillio  viarenmiano  e  hi  morte  di  Giovanni  Cairoli;  Per 
Eaoarao  Corazziiii  e  Davanti  San  Giusto  ;  Per  G, 
Monti  e  G.  7 ognetti  q  XX  settembre  i88g;  Traversaiido 
la  maremma  pisana  e  Brindisi  funebre',  Per  la  morte 
di  Napoleone  Eugenio  e  La  madre;  Sogno  d'  estate  e 
Pilori  alla   Certosa  di  Bologna;    Presso  l'urna  di   S/iel- 


(*)  luvenilia    e    [.evia    Gravia    —    Bologna  —  Zanichelli  —  lS9i  — 
Pag.  157. 


187 


ley  e  Scoglio  di  Quarto;  Miramar  e  Colli  toscani;  Era 
un  giorno  di  festa  e  Notte  di  maggio;  Avanti  !  Avanti 
e  II  Canto  dell'  Amore;  Intermezzo  (3  e  8)  e  Nostalgia; 
Alla  rima  e  Congedo.  Ho  scelto,  così  di  fuga,  un  po' 
da  per  tutto. 

Cito  qui  sotto  una  terzina,  1'  ultima  del  sonetto  in- 
titolato a  punto  //  sonetto y  e  dov'  è  espresso  nobil- 
mente il  suo  verbo  di  fede: 

Sesto  io  no,  ma  postremo,  estasi  e  pianto 
E  profumo,  ira  ed  arte,  a"  miei  di  soli 
Memore  innovo,  ed  a  i  sepolcri  canto. 

Nel  "58  la  famiglia  si  rimase  ancora  in  S.  Maria  a 
Monte,  mentre  il  Carducci  era  tuttavia  a  Firenze, 
dove  abitava  una  camera  mobiliata  in  Via  Romana: 
campava  assai  poveramente  del  suo  lavoro,  improbo 
sì  ma  poco  ben  remunerato:  dava  lezioni,  riscontrava 
codici,  pubblicava  versi  e  prose  nel  «  Poliziano  », 
nelle  «  Veglie  letterarie  »  e  nella  «  Rivista  con- 
temporanea »  di  Torino;  mandava  periodicamente  alla 
Nazione  appendici  letterarie  e  in  fine  curava  pel  Bar- 
bera alcune  critiche  edizioni  di  classici  che  gli  veni- 
vano pagate  a  lire  100  il  tomo.  Con  gli  aiuti  di  Vin- 
cenzo Salvagnoli,  ministro  allora  del  culto  in  Toscana, 
da  cui  era  molto  stimato,  ottenne  nel  "59  dal  ministro 
della  Istruzione  Ridolfi  la  nomina  di  maestro  di  greco 
nel  ginnasio  di  Arezzo,  che  per  concorso  avea  già 
ottenuto  l'anno  innanzi  dal  municipio  di  quella  città, 
se  non  che  il  governo  granducale  non  volle  appro- 
varla, a  incitazione  forse  di  Pietro  Fanfani,  il  linguista, 
che  avea  saputo  nel  governo  della  restaurazione  con- 
servare r  ufficio  che  gli  era  stato  conferito  dal  go- 
verno democratico  del  Guerrazzi:  il  Carducci  dovè  per 
ragioni  di  famiglia  rinunciare  alla  nomina  ,  ma  indi 
a  un  mese  fu  nominato  professore  di  greco  nel  liceo 
di  Pistoia,  il  quale  insegnamento  gli  fu  poi  mutato 
in  quello  dell'  italiano  e  del  latino.  Ivi  —  son  sue 
parole  —  ei  si  viveva  contentissimo  della  sua  sorte. 


quando  venne  a  trovarlo  nel  "60  la  memore  benevo- 
lenza di  Terenzio  Mamiaìii  nmiistro  del  Regno  con 
r  offerta  di  una  cattedra  7iell''  Uìiiversità  di  Bologna. 
Bisogna  però  fare  un  passo  indietro  per  dire  qualche 
altra  cosa  delle  sue  condizioni  domestiche  e  dell'opera 
di  sacrifizio  da  lui  prestata  a  servigio  della  famiglia. 
Egli,  fin  dal  1859,  avea  condotto  la  famiglia  a  Fi- 
renze, dove  abitava  una  casa  in  Borg'  Ogfiissanti ,  a 
Ufi  piaìio  molto  in  su,  anzi  a  una  soffitta.  Due  donne 
vivevano  allora  in  quella  soffitta  con  altra  ge?ite;  .  .  ,  e 
quelle  due  donne  e  quell'  altra  gente  dovea  mantenerle 
lui.  Di  quelle  due  donne  l'una  era  la  madre,  1'  altra 
una  giovinetta  che  aspettava  il  compimento  di  una 
promessa  del  poeta  che  dovea  farla  sua;  e  di  fatti  ei 
la  sposò  poco  prima  che  si  recasse  a  Bologna:  fu  la 
Elvira  Celli,  che  ancora  fortunatamente  gli  vive,  e  da 
cui  ebbe  come  primogenito  Dante  Bruto  Augusto,  bel- 
lissimo bambino  che  di  soli  io  anni  morì,  nel  1870, 
e  proprio  quando  i  Prussiani  stringeano  d'  assedio 
Parigi.  Della  morte  di  quel  bambino,  di  precocissimo 
ingegno  e  che  ancora  arriso  di  vision  leggiadre  for- 
mava la  migliore  sua  gioia  e  temperava  il  rimpianto 
del  fratello  suicida,  egli  rimase  per  più  anni  incon- 
solabile, e  di  quel  bambino  volle  anche  dar  tenero  ri- 
cordo in  un  vaghissimo  sonetto  (^Funere  emersit  acerbo) 
e  nel  Brindisi  funebre. 

Dalla  sua  buona  Elvira,  un'  ottima  e  cara  signora 
che  ha  per  lui  un  culto  e  la  più  tenera  affezione,  ebbe 
anche  tre  figliuole,  affettuose,  intelligenti,  modeste, 
che  vissero  di  lui  e  per  lui,  fino  a  che  non  il  desi- 
derio della  ricchezza,  ma  del  buon  costume  e  del  la- 
voro, le  unì  poi  a  tre  uomini  integri  e  degni  del- 
l' amor  loro  e  dell'  amore  del  padre  che  pure  avrebbe 
potuto  più  altamente  collocarle.  La  prima  è  Beatrice, 
la  pensosa  vergine  che  crescea  sotto  lo  splendore  della 
musa  paterna 

quand'  ella  prese  d'assalto  intrepida 
i  clivi  dell'  arte  e  piantovvi 
la  sua  bandiera  garibaldina. 


i89 


Il  20  settembre  1880  andò  sposa  al  rimpianto  prof. 
Carlo  Bevilacqua  del  R.  Liceo  di  Livorno,  un  uomo 
d'ingegno  ma  soprattutto  buono,  conterraneo  o  quasi 
di  Giosuè,  e  che  nel  1878  fu  mio  professore  di  ma- 
tematica nel  liceo  di  Lucerà:  ei  morì,  immaturo,  due 
anni  or  sono,  lasciando  inconsolabile  la  Bice  che  dovè 
tornare  dal  padre  in  Bologna,  dove  forse  ripensa  i 
giorni  d'  una  volta,  e  insieme  s'  allegra  della  gloria 
che  circonda  gli  ultimi  anni  del  poeta  che  già  per  le 
auspicate  nozze  della  figliuola  scrisse  con  l'anima  una 
bellissima  alcaica  epitalamica  {O  nata  quando  su  la 
mia  povera)  eh'  è  la  più  cordialmente  alata  di  tutte  le 
odi  barbare.  Neil'  ottobre  del  1899  la  signora  Elvira 
e  la  figliuola  Bice  trepidarono,  come  forse  non  mai, 
per  la  vita  del  poeta  incolta  da  inatteso  malore  che 
gli  tolse  la  parola  e  gl'impedì  i  movimenti  articolari, 
per  effetto  di  un  lungo  ed  improbo  lavoro  che  lo 
rese  instancabile  anche  negli  ozi  estivi;  ma  fortuna- 
tamente egli  nel  mite  clima  di  Firenze  si  è  quasi  in- 
teramente riavuto,  sotto  le  cure  e  in  casa  del  dott. 
Luigi  Billi,  vecchio  suo  amico  fin  dalla  prima  giovinezza 
e  già  ammiratore  ardente  della  canzone  «  Italia  e 
Vittorio  Emanuele  »  e  di  tutte  le  altre  cose  del  poeta. 

Le  altre  due  figliuole  si  chiaman  Laura  e  Libertà 
(la  Titti  del  bellissimo  idillio  Davanti  San  Guido)  an- 
ch' esse  da  più  anni  maritate,  1'  una  a  un  valoroso 
ingegnere,  che  vive  in  Bologna,  e  1'  altra  a  un  mo- 
desto giovane,  che  il  poeta  ebbe  per  molto  tempo 
nel  suo  studio,  e  a  cui  trovò  poi  un  ufficio  modesto 
neir  amministrazione  delle  ferrovie.  Mirabile  alterezza 
d'  animo  in  un  uomo  che  nel  fastigio  della  sua  gloria 
preferisce  alla  pompa  di  un  più  nobile  stato  l'onestà 
dell'  ingegno  e  la  pia  gioia  del  lavoro  !  Aristocratico 
nella  vita  del  pensiero,  e  più  che  democratico  nel  ci- 
vile costume  e  nelle  domestiche  abitudini.  Ho  cono- 
sciuto in  Monte  San  Giuliano  (Sicilia)  un  cugino  del 
poeta,  Valerio,  che  da  moltissimi  anni  si  vive  colà  col 
tenue  stipendio  di  maestro  elementare;  e  a  me  che 
lo  consigliai  di  chieder  altro  con  gli  aiuti  del  fratello, 
rispose    con  dignità:  —  Meglio    qui    che    altrove:  in 


IQO 


questa  oscura  e  lontana  solitudine,  io  mi  sento  più 
libero  e  perciò  più  contento,  avendo  a  compagna  la 
povertà  e  il  solo  conforto  del  lavoro.  Giosuè  mi  scrive 
e  m'  incita  a  uscire  di  qui;  ma  oramai  so  di  non  sa- 
pere far  altro,  e  mi  sento  poi  troppo  legato  a  questa 
terra  eh'  io  considero  come  seconda  mia  patria.  — 
In  queste  parole  sentii  meglio,  ammirando,  quelle  ci- 
vili virtù  che  in  questa  nobile  progenie  di  gonfalo- 
nieri e  di  ribelli  son  tradizione  antica. 

Vili. 

Vita  del  poeta  a  Bologna.   Dov  egli  abitò.  Suo  studio. 
Ricordi  patrii. 

Giunto  così  presto  e  per  inattesa  ma  meritata  for- 
tuna all'alto  ufficio  di  professore  universitario,  il  Car- 
ducci non  mutò  affatto  le  sue  vecchie  abitudini;  anzi 
pur  potendo  vivere  con  signorile  agiatezza,  ha  sempre 
preferito  un  vivere  oscuro,  parsimonioso  e  modesto. 
Di  fatti,  dal  1860  fino  al  1874  abitò  in  via  Broccain- 
dosso,  una  delle  più  romite  ed  oscure  della  città,  una 
piccola  casa;  e  dal  1874  al  1889  si  avvicinò  molto 
alle  due  torri,  e  abitò  in  via  Mazzini  un  ultimo  piano 
del  palazzo  Rizzoli,  finché  si  ridusse  a  vivere  presso 
le  mura  di  porta  Mazzini,  nel  quartiere  di  un  villino 
che  abita  ancora:  ivi  ha  la  vista  aperta  de'  colli  tante 
volte  da  lui  cantati,  ha  la  sana  distesa  delle  campa- 
gne solitarie,  ed  ha  un  piccolo  orto  che  forse  gli  ri- 
chiama alla  mente  la  idillica  vita  campestre  di  Orazio 
e  di  Tibullo.  La  più  gran  parte  della  sua  abitazione 
è  tutta  occupata  dalla  sua  immensa  biblioteca.  La  più 
ampia  e  luminosa  delle  sue  camere  è  quella  di  lavoro, 
in  cui  s'aprono  su  la  campagna  tre  larghissime  finestre; 
è  tutta  circondata  da  scaffali  dove  si  ammirano  splen- 
didamente rilegate  più  e  più  edizioni  di  classici,  con 
una  lunga  serie  di  codici  antichi  e  di  palinsesti,  e  in  fine 
una  collezione,  la  più  ricca  forse,  di  storici  italiani  e 
stranieri,  con  una  infinità  di  piccole  e  grandi  mono- 
grafie, di  volumetti,  di  opuscoli,  che  si  riferiscono  spe- 


191 


cialmente  alla  storia  del  risorgimento  patrio.  In  un 
angolo,  presso  una  delle  finestre,  è  un  gran  tavolo, 
tutto  circondato  da  grossi  volumi  che  in  gran  parte 
son  lèssici  di  ogni  ordine  e  metodo,  antichi  e  mo- 
derni ;  e  intorno  alle  pareti  più  ricordi  patrii,  del 
Mazzini,  del  Cairoli,  di  Garibaldi,  di  Alberto  Mario, 
del  Bertani,  di  altri  molti,  e  fra  questi  dentro  un 
quadretto  pende,  preziosa  reliquia  ,  una  bellissima 
ciocca  di  Goffredo  Mameli. 

Quella  tenace  prepotenza  di  lavoro  il  Carducci  non 
ismise  mai  neppure  nelle  ore  e  ne'  giorni  in  cui  tutti 
sentono  il  naturale  bisogno  dell'  ozio  e  dello  svago. 
Finire  —  così  dice  a  proposito  delle  sue  Rime  —  era 
per  me  cessazione  di  godimento,  e,  come  avevo  pur 
bisogno  di  godere  un  poco  anch'  io,  così  non  finivo 
mai  nulla.  Questo  fu  il  metodo  di  tutta  la  sua  vita. 
Figlio  di  padre  costretto  dolorosamente  a  vivere  di 
terra  in  terra  col  frutto  spesso  amaro  del  suo  lavoro, 
e  sostegno  unico  poi  di  tutta  la  famiglia,  dovè  im- 
parar presto  co'  feroci  disinganni  dell'  esistenza,  e 
fin  dalla  più  giovane  età,  le  aspre  difficoltà  del  vivere. 
E  quest'  abito  di  fare  e  insieme  di  godere  non  valse 
e  non  volle  dismettere  mai  più.  Egli  ha  una  grande 
religione  di  tutto  ciò  che  sia  perfetto  o  frutto  almeno 
di  ostinato  studio  e  di  ritentato  lavoro,  e,  unico  forse 
dei  nostri,  è  perciò  gran  nemico  della  fretta:  —  Oh, 
la  fretta  -  egli  scrive  - 

Che  V  onestate  ad  ogni  aito  dismaga 

io  non  r  ho  avuta  mai  se  non  forse  nel  mover  dei 
passi.  Quanto  al  mover  dei  pensieri,  la  Musa  della 
procrastinazione  ha  salvato  1'  Italia  da  molte  opere 
mie  di  verso  e  di  prosa.  E  come  nello  scrivere  non 
mi  lascio  andar  mai  né  pur  mandando  tre  righe  a  un 
giornale,  così  di  quello  che  scrivo  io  sento  e  voglio 
aver  l'obbligo  di  rispondere,  quando  sia  il  caso,  non 
pur  dinanzi  alla  legge,  ma  e  dinanzi  al  giudizio  degli 
uomini  autorevoli  e  degli  onesti,  anche  se,  anzi  spe- 
cialmente se,  avversari.    (*) 


(*)  Confessioni  e  battaglie  —  Ed.  cit.  —  Pag.  434. 


192 


Queste  parole  spiegano  e  illustrano  tutto  l'uomo  e 
tutto  lo  scrittore,  ma  specialmente  il  polemista.  Ec- 
co qui  poche  altre  parole  che  ci  dicono  in  breve 
com'  ei  viva  in  Bologna  :  —  Io  poi  ,  per  rimanere 
indipendente  affatto  e  di  spirito  e  di  cuore  si  nella 
critica  sì  nell'  arte  ,  mi  condannai  fin  dalla  gio- 
ventù alla  solitudine  e  alla  segregazione,  special- 
mente dagli  scrittori.  Per  ciò,  soffrendo  i  danni  della 
condizione  che  mi  feci,  intendo  goderne  almeno  i 
pochi  e  magri  vantaggi:  sono:  fare,  pensare,  scrivere, 
combattere  di  mio  moto,  a  modo  mio,  senza  rispetti 
ipocriti,  senza  vigliacche  sentimentalità,  dentro  i  limiti, 
s'intende,  del  giusto,  o  di  ciò  che  il  mio  ragiona- 
mento mi  dice  essere  giusto.  (*j 

Altrove,  accennando  a'  primi  anni  del  suo  profes- 
sorato in  Bologna,  scrive:  —  Allora  mi  levavo,  anche 
nel  gennaio  ,  la  mattina  alle  tre  per  prepararmi  a 
trattar  del  Petrarca  dinanzi  a  scolari  dilettanti  ,  che 
non  lo  volevano  e  non  lo  potevano  capire  ;  ma  di 
quella  noia  mi  rifacevo  la  sera  attaccando  lite  con 
questo  e  quello  per  il  generale  Garibaldi  ;  erava- 
mo presso  Aspromonte  (**i.  Era  prossimo  il  periodo 
de'  Giambi  ed  Epodi  a  cui  accenneremo  fra  poco. 

IX. 

Dal  '60  al  '70  —  Periodi  de'  Levia  Gravia  e  de' 
Giambi  ed  Epodi  —  Studi  e  battaglie  —  Trasferi- 
mento e  sospe7isione. 

Dopo  il  '60,  e  proprio  dal  '61  al  '65,  il  poeta  pare 
abbia  vissuto  i  più  bei  giorni  della  sua  vita  letteraria; 
ed  ei  lo  ricorda  largamente  in  un  elegantissimo  ca- 
pitolo (Raccoglimenti)  delle  sue  «  Confessioni  e  Bat- 
taglie ».  In  quegli  anni,  che  furon  tutti  di  larga  e 
profonda  preparazione,  il  Carducci  attese  quasi  uni- 
camente   allo    studio,  da   cui  dopo  il  '67  derivò  poi. 


(*)  Op.  cit.  —  PagK.  367  -  68. 
(**)   Op.  cit.  —  Pagg.  47-48. 


193 


di  sotto  le  ceneri  della  erudizione,  quella  meravigliosa 
fecondità  di  poesie  e  di  prose.  Nel  '62  cominciò  a 
studiare  sotto  la  guida  di  Emilio  Teza  il  tedesco,  a 
cui  die  opera  maggiore  nel  '68,  traducendo  e  pro- 
fondandosi nella  lettura  de'  migliori  modelli,  ma  spe- 
cialmente del  Goethe  e  del  Heine,  i  quali  certo  influi- 
rono a  una  delle  manifestazioni  più  rinnovanti  della 
lirica  sua:  de'  francesi  meglio  lo  attrassero  Victor 
Hugo  e  Andrea  Chenier.  In  quel  crogiuolo  di  ele- 
menti così  vari  e  complessi  lo  spirito  suo  potè  allar- 
garsi a  più  audaci  e  liberi  voli,  non  senza  portarne, 
sotto  l'urto  degli  avvenimenti  e  con  lo  strappo  vio- 
lento del  suo  cuore,  qualche  fiaccola  o  almeno  qual- 
che scintilla.  Ma,  com'  è  natura  delle  grandi  anime, 
ei  riuscì  a  infondere  nelle  sue  cose  tale  una  spiccata 
personalità,  da  mostrarsi  quasi  sempre  originale,  pur 
quando  sembra  aver  tolto  ad  altri  qualche  linea  o 
qualche  atteggiamento.  Fin  dal  "61,  in  quel  fecondo 
periodo  della  sua  esplicazione,  egli  ebbe  in  mente 
un  larghissimo  disegno  di  concezioni  poetiche.  Eccone 
tutto  un  repertorio,  quale  ce  lo  dà  il  Chiarini.  In 
quell'  anno  ei  meditava  un  canto  su  la  Plebe,  versi 
sciolti  sui  Martiri,  e  una  marsigliese  italiana:  pensava 
anche  poemi  filosofici  come  il  Prometeo  di  cui,  come 
primo  nucleo  od  embrione,  ricordiamo  un  frammento 
che  fa  parte  del  libro  IV  delle  luvenilia.  Nel  "63  pen- 
sava canti  come  questi:  Alla  guerra;  Gli  Slavi;  La 
Polotiia;  Il  carme  secolare  della  Libertà,  e  un  epodo 
satirico  «  L'Arcadia  nuova»,  caricature  dell'Italia  uffi- 
ciale d'  allora  con  interlocutori  bucolici:  Titiro  ,  Me- 
libeo,  Coridone;  poi  canti  contro    la  società. 

Meditava  idilli  storici,  come  //  campo  di  Vercelli  e 
di  Aix  (rotta  de'  Cimbri),  La  sepoltura  di  Alarico, 
Gli  ultimi  pagani  e  i  primi  cristiani,  Carlo  Magno  e  i 
Paladini,  Il  calen  di  maggio  del  ispo;  anche  drammi, 
come  Giano  della  Bella.  Pare  che,  a  seconda  de'  vari 
impulsi  che  riceveva  a  quando  a  quando  dagli  studi 
molteplici  e  diversi,  cioè  secondo  i  flussi  e  riflussi, 
dirò  così,  della  straordinaria  dottrina  che  colle  forti 
e  diuturne    letture    si    andava    procurando,    provasse 

13 


194 


come  un  solletico  anzi  il  bisogno  di  prorompere  nel 
lavoro  proprio  ed  originale  forse  infrenato  da  quella 
stessa  vita  troppo  intensa  e  riflessa  di  studi,  da'  quali 
venner  fuori  i  Levia  Gravia  soltanto.  Di  fatti  scrisse 
molto  più  canti  nel  breve  periodo  di  tre  anni  ("67-"7o) 
che  non  dal  "60  al  "67.  Dopo  Aspromonte  il  poeta  uscì 
tutto  in  armi  da  quella  solitudine,  che  parea  pace  ed 
era  feconda  preparazione  di  battaglie  prossime,  e  dalla 
quale  di  tanto  in  tanto  mandava  un'  eco  potente  dello 
spirito  suo  che  si  levava  commosso  e  non  di  rado 
feroce  dal  torvo  spettacolo  delle  umane  ingiustizie, 
come  nelle  odi  Per  un  albo  di  bella  signora  e  Carne- 
vale; usci,  ripeto,  da  quella  solitudine,  e  si  slanciò 
come  un  atleta  nelle  più  atroci  battaglie  delle  riven- 
dicazioni morali  e  nazionali.  Questo  è  il  periodo  de' 
Giambi,  la  più  immediata  e  affocata  delle  sue  poesie. 
Sulle  prime  odi,  Per  Edoardo  Corazzifii  e  Per  G. 
Monti  e  G.  TognelH,  si  levò  un  coro  di  ammirazione 
dagl'  ingegni  più  alti.  Il  Mamiani  scrisse  che  colla 
prima  il  Carducci  avea  comi?icialo  un  genere  novo,  che 
era  presso  alla  vera  nmsa  del  secolo  decimonono ,  e  che 
certe  cose  Orazio  non  le  avrebbe  dette  meglio:  della 
stessa  il  Panzacchi  scrisse  eh'  era  uno  de  piic  insigni 
mo7mme7iti  della  poesia  moderna;  e  di  recente  il  Chia- 
rini, a  proposito  di  tutti  i  Giambi  ed  Epodi,  ha  scritto 
che  si  può  sentire  V amore  di  patria  come  il  Carducci, 
ma  no7i  piii;  e  che  quei  canti  si  avvicifiano  sempre  pili 
alla  perfezione ,  la  qìiale  può  dirsi  quasi  raggiunta  dagli 
ultimi.  Tremendo  e  agitatissimo  periodo  cotesto,  nel 
quale  il  poeta  ebbe  a  soffrir  persecuzioni  che  gli  ven- 
nero dal  Governo  moderato  nel  '68:  un  decreto  di 
trasferimento  a  Napoli  con  l'insegnamento  del  latino, 
che  fu  poi  revocato  per  opera  specialmente  dell'  edi- 
tore G.  Barbèra  e  de'  più  autorevoli  amici,  e  ciò  per 
aver  egli  fieramente  osteggiato  la  candidatura  Min- 
ghetti  a  Bologna;  e  poco  di  poi,  in  seguito  a  un'  in- 
chiesta, la  sospensione  per  un  anno  dall'  ufficio  e 
dallo  stipendio  per  aver  partecipato  a  un  banchetto 
commemorativo  della  repubblica  romana  del  "49  e  per 
avere  scritto  e  firmato  un  indirizzo  al  Mazzini;  sospen- 


195 


sione  che  fu  assai  fruttifera  per  le  lettere,  poiché  in 
queir  anno  il  poeta  preparò  in  gran  parte  il  celebre 
suo  comento  al  Petrarca,  che  quest'  anno,  ridotto  per 
le  scuole,  ha  coli'  aiuto  di  un  suo  vecchio  alunno,  Se- 
verino Ferrari,  pubblicato  intero.  Di  questo  il  Car- 
ducci parla  diffusamente  in  una  delle  più  belle  e  ca- 
ratteristiche prose  delle  sue  Confessio7ii  e  battaglie,  ed 
è  anche  utile  leggere,  nella  prima  serie  delle  Ceneri 
e  faville,  tre  lettere  di  lui  all'editore  Barbèra,  che  lo 
aiutò,  come  altrove  pur  scrisse  e  noi  citammo,  in 
quel  caso  difficile  della  sua  vita. 

X. 

Amicizie  del  poeta  a  Bologna  —  Elezioni  politiche  e  am- 
ministrative —  Sua  sospensione  —  Cattedra  dantesca  — 
Uffici  e  cariche. 

11  Carducci  a  Bologna  coltivò  fervide  e  nobili  ami- 
cizie, come  quella  di  Francesco  Rocchi,  archeologo 
insigne,  creatura  di  Bartolommeo  Borghesi  e  già  amico 
di  Vincenzo  Monti;  di  Emilio  Teza,  che  gì'  insegnò 
il  tedesco  ,  che  fu  compare  del  suo  bambino  natogli 
nel  giugno  del  1860  e,  come  abbiam  detto,  mortogli 
nel  settembre  del  1870,  e  col  quale  si  addentrò  nello 
studio  de'  tragici  greci;  di  Pietro  Ellero  e  di  Enrico 
Panzacchi.  Fra  il  "67  e  il  "73  dalle  serene  e  feconde 
amicizie  letterarie  passò  alle  ardenti  amicizie  politiche 
di  Giuseppe  Ceneri,  di  Quirico  Filopanti,  di  Costanzo 
Giani,  di  Pietro  Piazza,  dando  scritti  a  giornali  de- 
mocratici, alla  Voce  del  Popolo,  diretta  allora  da  Fran- 
cesco Pais,  e  al  Popolo  diretto  da  un  giovane  avvo- 
cato, certo  Bordoni,  suo  grande  ammiratore.  In  questi 
anni,  pur  di  mezzo  alle  più  agitate  controversie,  fé' 
studi  profondi  su  ogni  lato  della  letteratura  italiana  e 
delle  straniere,  alternandoli  costantemente  con  la  pro- 
duzione originale  e  propria  e  con  1'  azion  viva  della 
politica;  e  di  fatti  politici  son  quasi  tutti  i  versi  di 
quel  torno;  ma  nel  lavoro  critico  si  mantenne  invece 


196 


profondamente  calmo  e  sereno.  Il  Chiarini  ricorda 
che  dopo  il  '63  lesse,  fra  tante  altre  cose,  la  Storia 
dell'  Asia  di  Daniello  Bartoli,  le  Vite  de'  Santi  Padri 
del  Cavalca,  le  Lettere  ed  altri  scritti  del  Giordani, 
fra'  quali  il  Peccato  impossibile  che  gli  parve  tuia  me- 
raviglia di  stiipcfida  scrittura.  Il  poeta  ha  sempre  avuto 
una  certa  predilezione  per  gli  scrittori  ascetici  del 
Trecento.  Ecco  quello  che  scrive  in  una  pagina  della 
sua  polemica  intorno  al  Ca  Ira:  — tutte  le  mat- 
tine butto  addosso  al  corpo  quanta  più  posso  acqua 
fredda,  all'anima  un'ora  o  una  mezz'ora  di  lettura  di 
testi  di  lingua  massime  ascetici.  Così  mi  son  ripas- 
sato i  Dialoghi  e  i  Morali  di  San  Gregorio  Magno  , 
le  Meditazioni  e  V Albero  della  Croce  di  San  Bonaven- 
tura, la  Esposiziojie  del  Pater  iioster  di  Zucchero  Ben- 
civenni  e  le  Prediche  del  Beato  Giordano  da  Rivallo: 
carissimo  frate  questo,  e  scrittore  molto  più  dilette- 
vole e  garbato  e  acuto  ed  arguto  che  non  i  direttori 
ài^iV  Opinione  e  della  Nazione  (*).  Il  Carducci,  nell'am- 
mirazione dello  stile  ,  non  guarda  né  ad  ordini 
né  a  scuole:  ecco  quello  che  scrisse  del  Bartoli: — 
Che  ricchezza  spropositata  di  lingua  ,  di  modi  ,  di 
colori  1  che  padronanza  superba  di  stile  in  cotesto 
magnifico  scrittore  !  E'  ti  passa  per  tutti  i  tuoni 
dal  più  umile  al  più  alto,  senza  che  tu  te  ne  accor- 
ga. E  come  narra!  come  descrive!  come  leva  la  sua 
grande  voce  nell'  alta  eloquenza  !  Di  così  grandi 
maestri  di  stile  1'  Italia  ne  ha  pochi;  di  così  vari, 
forse  niuno,  oltre  lui.  E'  mi  fa  il  medesimo  effetto 
di  Livio:  parmi  di  andare  con  gran  pace  con  animo 
sereno  e  sollevato  ad  alti  pensieri  per  un  vasto  per 
un  immenso  mare  tranquillo,  sotto  cielo  tranquillo, 
seminato  d' isole  verdissime  amenissime,  rasentando 
anche  sublimi  e  selvose  scogliere,  e  di  quando  in 
quando  vedere  il  turbine  affollarsi  lontano.  E  questo 
grande  effetto  tutto  di  scrittore  antico,  me  lo  fa 
sebbene  le  cose  da  lui  trattate  sieno  vili,  sciocche, 
risibili  ,    quando    non    sono    abominabili  .   Tremendo 


(*)  Confessioni  e  Battaglie  —  ed.  cit.  —  Pag.  408. 


197 


uomo  che  fa  leggere  con  ammirazione  le  imprese 
de'  Gesuiti.   (*) 

Dopo  il  "74  il  poeta  cominciò  a  provare  come  un 
senso  di  noia  e  di  ripugnanza  alla  vita,  come  spesso 
avviene  a  chi,  dopo  una  fierissima  lotta,  si  vede  sfio- 
rire a  poco  a  poco  il  compimento  dell'  ideale  pel 
quale  tanto  ha  combattuto;  onde  pensava  di  farsi  mo- 
naco o  di  chiudersi  in  un  solitario  convento  degli 
Appennini.  Ma  queste  non  furono  che  ubbie  a  cui 
presto  seguì  lo  svolgimento  di  un  nuovo  e  più  fe- 
condo lavoro.  Di  fatti  nel  "76  si  volse  di  proposito 
alla  politica  attiva  ,  e  nel  luglio  del  medesimo  anno 
riuscì  con  pieno  suffragio  di  voti  deputato  del  colle- 
gio di  Lugo;  ma,  sorteggiato  poi  il  nome  suo  alla 
Camera  de'  deputati  fra  altri  d'  impiegati  e  profes- 
sori, fu  poi  nella  seconda  votazione  eletto  un  antico 
competitore  moderato,  certo  Bonvecini,  contro  ogni 
aspettazione,  credo,  del  Carducci  il  quale  lodò  di  fer- 
mezza e  d'indipendenza  il  popolo  romagnolo  nel  di- 
scorso elettorale  che  lesse,  come  abbiam  visto,  a  Lugo 
prima   che   avvenisse   la  prima  elezione. 

Dopo  il  "76,  finite  le  lotte  letterarie  e  politiche  più 
accese,  il  Carducci  si  dette  a  una  vita  interamente 
serena  e  tranquilla,  a  una  vita  solitaria  e  tutta  volta 
agli  studi  più  fecondi  della  maturità:  fu  questo  il  pe- 
riodo, limpido  e  classico,  delle  Odi  Barbare,  fu  il 
periodo  del  suo  grande  paganesimo  in  arte,  pagane- 
simo che  ebbe  tutta  una  evoluzione  in  tutto  il  pro- 
gressivo e  svariatissimo  lavoro  dell'adolescenza  e  della 
giovinezza. 


(•j  Nuova  Antologia  —  Anno  34.  —  16  luglio  1899  —  Art.  di  G.  Chia- 
rini —  Pag.  210. 


XVII. 


La  Guerra. 


,vL  poeta,  come  già  per  le  prime  sue  rime  del 
'J  1857,  potrebbe  ripetere  di  non  aver  mai  cre- 
duto che  il  dolce  paese  d' Italia  gentile  poiessQ 
produrre  ancora  tante  mele  fr acide  quante  glie  ne  son 
piovute  recentemente  addosso  dalle  mani  de'  conna- 
zionali suoi,  che,  pur  ieri,  lo  salutavan  grande  e  im- 
mortale. E  la  guerra  dal  poeta  cantata  come  l'affer- 
mazione d'una  inelutabile  legge  storica,  si  è  raccesa 
ancor  più  viva  nel  diviso  agone  della  stampa  special- 
mente politica.  Né  l'occasione  è  mancata:  il  recentis- 
simo e  istrionico  Congresso  della  pace  l'ha  offerta  al 
poeta,  e  questi,  coll'alcaica  sua,  l'ha  pòrta  a'  mimi 
ed  a'   giullari  della  critica  bassa. 

Due  preconcetti  a  me  par  di  notare  nei  troppo 
assoluti  giudizi  di  questi  giorni  avventati  contro 
l'autore  delle  Odi  barbare;  il  color  politico  e  la  pre- 
minenza del  contenuto;  il  primo  si  è  anche  cercato 
confondere  colla  vita  privata  del  poeta  da  una  chie- 
suola politica,  la  repubblicana;  e  il  secondo  è  una 
reminiscenza  del  sistema  critico  settembriniano.  Sem- 
bra d'esser  tornati  alle  viete  quisquilie  accademiche 
d'un  trent'anni  fa,  quando  imperava  padrona  assoluta 
la  (-ritica  ortodossa  in  contrapposto    alla    critica  ghi- 


199 


bellina:  1'  una  e  1'  altra  faceano  lor  idoli  diversi  e 
abbatteano  culti  ed  altari;  e  in  sì  torbido  sconvolgi- 
mento d'ideali  e  di  fedi,  si  perdea  d'occhio  il  gra- 
duale e  naturai  divenire  della  evoluzione  nell'arte. 
E'  sempre  così:  quando  l'arte  è  sparita,  su  le  sue 
ceneri  si  svolge,  querula  e  vana,  la  critica  bilingue, 
come  a  scusar  l'impotenza  della  creazione  e  della 
produzione. 

La  critica  severa  e  dotta  veramente,  neanche  dopo 
la  pubblicazione  della  Guerra  ha  voluto  rompere  il 
suo  silenzio  decennale:  non  cosi  la  critica  politica 
che,  violenta  e  rabbiosa,  ha  voluto  gridare  V alto  là 
al  poeta,  e  interdirgli  l'andare  avanti.  E  quando  la 
politica,  occasionai  portato  del  mutevole  momento 
storico,  si  fa  innanzi  a  occupare  i  minareti  e  i  batti- 
fredi  della  letteratura,  è  segno  che  l'arte  è  finita  o 
si  va  trasformando,  o  che  infine  non  c'è  più  tra  l'ar- 
tista e  il  pubblico  una  qualsiasi  concordia  nell'adora- 
zione della  bellezza.  Tutti  tre  questi  fattori  a  me  par 
di  notare  nella  letteratura  vigente.  Ma  ritorniamo 
alla   Guerra. 


É  preceduta  da  un  pensiero  del  Cattaneo  che  ac- 
cenna alla  perpetuità  della  Guerra  sulla  terra,  che, 
colla  conquista  e  gli  esilii  e  le  colonie  e  le  alleanze, 
fa  nascer  dal  contatto  delle  nazioni  più  remote  nuove 
stirpi  e  lingue  e  religioni  e  nazioni  civili,  ossia  più 
largamente  sociali,  fondando  il  diritto  delle  genti,  la 
società  del  genere  umano,  il  mondo  della  filosofia.  E 
invano  il  Ghisleri  si  provò  a  dimostrare  con  altri 
passi  dell'insigne  filosofo  lombardo  che  questi  non 
fu  rettamente  inteso  dal  Carducci,  il  quale  fé'  del 
citato  pensiero  l'argomento  e  la  ispirazione  dell'al- 
caica  sua. 

Altri,  com'è  naturale,  ripeterono  quel  che  scrisse 
il  Ghisleri^  e  durò  parecchio  questa  smorfia  di  ripe- 
titori su  pe'  giornali  e  le  gazzette,  sol  notevoli  pe' 
vitupèri   addensati  contro  ii  Carducci. 


L'ode  è  di  sole  venti  strofe,  e  vo'  studiarla,  sere- 
namente e  a  rapidi  tocchi,  sotto  tre  aspetti:  metrica, 
valore  estetico  del  contenuto,   rappresentazione. 

*  * 

Il  metro  dell'ode  è  l'alcaica  latina,  quale  può  ren- 
dersi coll'accoppiamento  de'  versi  italiani  risonanti 
secondo  gli  accenti  nostri  in  quei  giri  e  in  quelle 
volte  di  strofi  cui  manca  la  misura  degli  antichi 
gruppi  ritmici  —  Giova  notar  subito  che  a'  primi  due 
versi  —  decasillabi  sdruccioli  —  nessuna  varietà  o 
innovazione  apportò  mai  il  poeta.  Non  così  per  gli 
ultimi  due.  Il  terzo  ,  nelle  prime  Odi  barbare,  è 
sempre  un  novenario  con  accenti  su  la  seconda  , 
quinta  e  ottava.  Nelle  seconde  è  spesso  un  novenario 
con  le  arsi  su  la  prima  o  seconda,  su  la  quarta,  sesta 
ed  ottava:  risponde  benissimo  al  latino,  come  si  può 
notarlo  nelle  alcaiche:  Figurine  vecchie,  La  Madre, 
Per  la  morte  del  Principe  Napoleo7ie.  Fu  primo,  o  dei 
primi,  il  Chiarini  a  plasmarlo  così  nelle  sue  Lacry- 
mae  (v.  O  vecchi  amici,  libri  carissimi).  Talvolta  ha 
accenti  su  la  prima  o  seconda,  quarta  e  ottava,  e 
non  su  la  sesta:  tal'altra  su  la  seconda,  quarta  e 
quinta;  e  qualche  volta  è  un  ottonario,  come:  «  fulvi, 
i  tuoi  vespri,  o  Toscana  ».  Nelle  terze  odi  e  nell'al- 
caica  alla  Guerra  il  Poeta  ritorna  al  novenario  delle 
prime  odi  barbare,  e  veramente  è  più  armonico  e 
risonante,  e  acquista  nuovi  vigori  e  varietà  di  suoni 
nell'ode  che  disaminiamo. 

Il  quarto  verso  è  un  decasillabo,  sempre,  sdruc- 
ciolo o  piano.  Nelle  prime  odi  ha  quasi  sempre  il 
trotto  serrato  del  troppo  monotono  decasillabo  man- 
zoniano: nelle  seconde,  è  un  decasillabo  a  due  qui- 
nari, o  un  decasillabo  formato  d'un  quinario  sdruc- 
ciolo e  d'un  quaternario  piano,  o  un  decasillabo  colle 
arsi  su  la  terza  e  la  settima  ;  nelle  terze  o  è  un 
decasillabo  a  due  quinari,  o  il  decassillabo  manzo- 
niano, in  più  odi  compaiono  tutte  quattro  queste 
forme,  e  in  qualcuna  il  decasillabo  ha  accenti  su    la 


prima  o  seconda,  su  la  quinta,  settima  e  nona,  come 
nell'alcaica  delle  prime  odi:  Nel  XXI  d'aprile  del- 
l' anìio  MMDCXXX  dalla  fotidazioìie  di  Roma. 

In  quest'ultima  alcaica  rimangono  due  forme  sole: 
decasillabo  a  quinario  sdrucciolo  e  quaternario  piano, 
e  decasillabo  con  accenti  su  la  terza  e  su  la  settima. 
Dunque  in  quest'ode,  il  rinnovamento  metrico  manca 
del  tutto  di  fronte  agli  schemi,  ma  tutta  la  intelaia- 
tura della  strofe  acquista  maggior  vigoria  e  densità. 
Salvo  che  non  s'abbia  l'orecchio  foderato  di  piombo, 
ne'  primi  tre  versi  il  ritmo  squilla  rapido  e  vibrante, 
la  strofe  vola  agile  e  sicura,  e  nell'alata  concinnità 
de'  toni  ascendenti  parmi  avvertire  col  passo  caden- 
zato delle  arsi  e  delle  tesi  cert'asperità  e  rudezza  di 
vibrazioni  che  mi  fan  sentire  il  fremito  e  l'anelito 
della  ferocia  umana  beverata  di  sangue  nel  lavacro 
delle  ve7ie  7iìnane.  Ma  il  quarto  verso  par  stoni  tal- 
volta, specialmente  quando  non  è  sdrucciolo  o  quando 
è  formato  da  un  quinario  e  un  quaternario  piani  , 
con  accenti  su  la  seconda  o  terza,  sulla  quinta  e  no- 
na, come: 

E  intorno  al  sepolcro  scoverchiato... 
Lungo  errare  armato,  al  venturiere. 

Qualche  volta  ha  certa  efficacia  e  densità  statuaria 
che  ben  si  presta  a  quella  evocazione  storica  di 
grande  potenza  oggettiva  e  icastica,  come  in  questi 
epici  due  versi: 

Dal  Pàrtenon  grande  a  la  tua 
Casa  càndida,   Wasingtòno. 

Par  di  sentir  proprio  l'èpico  rombo  nella  sovrana 
romanità  delle  forme. 


II  contenuto,  guardato  esclusivamente  nel  suo  va- 
lore estetico  ,  è  materia  da  epopèa:  tutta  la  storia 
umana!  Or  potea  mai  il  poeta,  in  una  lirica  sola, 
abbracciarla  e  comprenderla  tutta?  O  avrebbe  dovuto 


darci  la  rigida  enumerazione  degli  avvenimenti,  e 
avremmo  avuto  la  storia  fuor  d'ogni  genere  lirico;  o 
avrebbe  dovuto  darci  '1  meraviglioso,  il  che  era  im- 
possibile, e  allora  avremmo  avuta  la  epopèa  sotter- 
rata da  un  pezzo.  Ma  non  avrebbe  potuto  darci  il 
dramma,  la  commedia,  la  tragedia?  Ma  in  nessuna 
di  queste  forme  è  possibile  tanta  vastità  di  contenuto. 
Non  gli  rimaneva  che  la  lirica,  la  lirica  sola,  e  nella 
lirica  l'alcaica,  come  quella  che  più  facilmente  gli  si 
prestava  a  far  guizzare  con  lingueggianti  fiammelle, 
e  come  in  tanti  solchi  di  vivissima  luce,  quattro  o 
cinque  punti  che  son  come  rilievi  e  puntelli  su  cui 
si  regge  tutta  la  storia  degli  uomini  di  fronte  alle 
battaglie  della  specie.  E  doveva  uscirne,  come  n'é 
uscita,  una  sintesi  potente.  Dal  primigenio  fango  di 
Prometeo,  al  rosso  Adamo;  dal  lavorante  primo  cre- 
sciuto all'esilio,  ad  Abele;  dal  Parthe?i07i  gratide,  aWa. 
casa  candida  di  W asÌ7igtÒ7io\  ecco  i  passi  di  tutta  la 
civiltà  umana,  che  forman  la  cornice  dell'immenso 
disegno  che  può  dividersi  in  più  quadri. 

Primo  quadro  :  dal  troglodita  che  rizzandosi  su 
l'orso  a  terra  steso  brandisce  per  l'aere  la  clava,  a' 
feri  figli  che  acuiscon  per  la  strage  la  selce  che  vider 
luccicare  tra'  massi  cruenti  nel  sol  rossastro:  dagli 
abitatori  de'  palafitti  laghi  e  de'  fumidi  antri  scavati, 
a'  superstiti  che,  coi  petti  aneli  verso  il  dominio  e 
colle  menti  accese  del  vago  incognito,  guardano  dal 
superato  colle  i  fiumi  vasti,  l'Oceano  moltisono  e  le 
caliganti  alpi;  da  tutto  questo  corre  la  guerra  pe- 
renne,  cavalla  indomita,    pel  mondo. 

Secondo  quadro:  dagli  abitatori  del  fuoco  che  l'aurea 
Persèpoli  manda  contro  gì'  idoli,  all'  inclita  storia  di 
Maratona,  al  bello  Alessandro,  ad  Aristotile  medita- 
bondo, si  svolge  tutta  una  grande  civiltà,  la  greca, 
in  un  oceano  di  sangue. 

Terzo  quadro:  nel  gran  duello  per  secoli  agitantesi 
tra  '1  falcato  ferro  dell'arabo  profeta  e  lo  scoverchiato 
sepolcro  del  Crocifisso,  tra  Maometto  e  Cristo,  l'Eu- 
ropa e  r  Asia  infiammano  la  sanguinosa  civiltà  delle 
crociate. 


203 


Quarto  quadro:  dal  Flavio  Autari ,  al  venturiere 
spagnòlo  Balboa  che  armato  di  spada  e  di  scudo  cavalca 
l'onde  nuove  terribili  a  vista  del  gravide  Oceano  pel 
regio  imperio  della  Spagna,  è  tutta  una  marea  di  vit- 
time, è  una  fatale  sublime  insania. 

Quinto  quadro:  Bonaparte,  su  le  Piramidi,  chiama 
quaranta  secoli  di  storia,  e  parla  al  musulmano  so- 
lenne i  diritti  dell'uomo.  Come  sfondo  è  la  storia  di 
Roma  resa  in  due  versi  e  un   emistichio: 

Oh  !  tra  le  mura  che  il  fratricidio 
Cementò  eterne,  pace  è  vocabolo 
Mal  certo. 

Son  più  quadri  che  ben  convengono  insieme  in  un 
solo  disegno,  il  quale  ha  come  irradiazione  il  perenne 
conflitto  delle  schiatte  umane,  il  darwiniano  struggle 
for  life;  come  cornice,  le  prime  tre  strofe,  e  come 
sfondo  r  ultima.  Poche  volte  la  lirica  carducciana,  e 
non  mai  la  poesia  degli  ultimi  tempi  ,  seppe  racco- 
gliere e  condensare  con  maggiore  unità  compresiva, 
con  più  scultorio  rilievo,  una  più  vasta  concezione  e 
una  più  solenne  evocazione  storica:  par  1'  Universo 
scolpito  o  inciso  sur  un  cammèo  antico. 


La  rappresentazione  è,  dunque  ,  meravigliosa.  Par 
di  sentire  il  fiotto  del  sangue  umano  gorgogliante 
per  que'  bassorilievi  o  altorilievi  di  strofi  ne'  quali 
la  forma  simula  condensa  vigorìa  l'atrocità  e  il  rombo 
delle  umane  battaglie  ne'  corsi  evolutivi  della  storia^ 
Son  tante  figure  ,  tante  drammatiche  scene  ,  tanti 
quadri  ne'  quali  son  resi  in  tanti  abbozzi  poderosi  i 
diversi  momenti  della  umana  civiltà  nell'  incessante 
svolgersi  de'  cruenti  conflitti  de'  popoli.  E  1'  evoca- 
zione non  è  una  pura  reminiscenza  d'indole  gnomica,, 
non  un'astrazione  d'indole  riflessa  o  critica  ,  non  un 
paradimma  di  dottrine  politiche  o  civili;  ma  è  il  fatto 
che  appuntandosi  in  quel  dato  tipo  ,  eh'  è  come  il 
germe  o  1'  embrione    di    tutto  un  divenire  di  civiltà,. 


204 


diventa  rilievo  ,  persona  ,  figurazione  storica.  E'  il 
segreto  della  grande  arte  del  Carducci.  Voi  vedete 
rizzarsi  il  troglodita  che  brandisce  la  clava:  ne  vedete 
i  fieri  figli  che  acuiscono  per  la  strage  la  selce:  voi 
vedete  le  biade  verzicanti  nel  lavacro  delle  vene 
umane;  vedete  i  superstiti  che  guardan  dal  superato 
colle  l'Oceano;  vedete  su  le  Piramidi  Bonaparte  che 
chiama  ben  quaranta  secoli  di  storia:  son  tanti  con- 
torni, tanti  abbozzi  ne'  quali  si  movono  le  umane 
civiltà:  son  1'  èpico  e  il  lirico  fusi  insieme  con  una 
potenza  di  disegno  monumentale,  statuario.  E  la  forma 
è  incisiva:  senza  retorica,  senza  luoghi  comuni,  senza 
frasi  ,  non  colora  ma  scolpisce  ,  non  stèmpera  ma 
plasma  ,  non  dissipa  ma  condensa  o  rilèva.  Non  so 
dir  meglio,  e  così  ho  inteso  il  Carducci  neh'  ultima 
lirica  sua.  Il  Bonghi  scriveva  di  lui  nella  Cultura 
(15  ott.,  '87),  a  proposito  delle  Rime  Nuove:  «  Il  Car- 
ducci è  grande  nella  poesia  grande;  in  quella  che  sa 
rivestire  di  forma  supremamente  squisita,  studiata, 
lavorata,  intimamente  classica  concetti  di  grande  va- 
lore storico  o  di  viva  importanza  morale  e  sociale. 
Iddio  gli  ha  negato  il  talento  del  piccolo,  del  min- 
gherlino, del  ridicolo  umano.  Ebbène,  non  se  ne  di- 
spiaccia; e  di  quello  che  ha,  si  contenti.  » 

Non  si  può  dir  meglio,  e  il  giudizio  calza  benissimo 
al  nostro  proposito:  esso  ci  fa  intendere  coni'  è  giu- 
dicato il  Carducci,  spassionatamente  e  imparzialmente, 
pria  d'  esser  Senatore  o  qualcos'  altro  ,  da'  migliori 
intelletti  della  Nazione. 

E'  oscuro:  dicono  alcuni.  Sì  ,  in  qualche  strofe. 
Quelle  sole  che  a  prima  lettura  io  non  intesi  furon 
la  sesta  e  la  sedicesima.  E  questo  è  naturale  in  una 
lirica  di  cosi  potente  comprensione  e  densità.  Ma  le 
altre  posson  parere  oscure  per  difetto  di  cultura  e  di 
dottrina  specialmente  classica.  Se  non  che  i  bimbi 
d Italia  S071  tutti  Balilla;  ma  questi  bambini — ve  n'  è 
ch'han  varcata  la  settantina  —  non  gustano  se  non  i 
ninnoli  della  letteratura  facile  e  sbilenca. 

Si  potrà  facilmente  demolire  il  poeta  coU'agile  fan- 
tasia degli  eunuchi;  ma  senza  una  cultura  superiore, 


205 


senza  un  gran  fondamento  di  storia,  di  filosofia,  di 
critica,  senza  una  sufficiente  conoscenza  di  tutta  l'o- 
pera carducciana  in  versi  e  in  prosa,  non  si  può  in- 
tendere assolutamente  quella  finissima  e  poderosa  ari- 
stocrazia di  stile  e  di  contenuto.  I  giudizi  de'  più 
contro  di  lui,  son  luoghi  comuni. 

L'ode  alla   Guerra  è  degna  del  Carducci. 

Lasciamo  che  il  Poeta,  in  tempi  di  sì  torpido  oblìo, 
nutrito  di  storia  di  scienza  e  filosofia,  canti  e  s'  in- 
spiri a'  più  alti  ideali  umani.  Egli  è  ancor  vegeto  e 
sano,  e  dalla  sua  musa  l'Italia  aspetta  molto  ancora, 
molto  spera  dalla  sua  vigorosa  e  potente  virilità  nella 
quale  le  forze  sono  più  valide,  più  omogenei  l'inge- 
gno e  il  cuore,  più  equilibrate  le  facoltà. 

E'  l'unico  esempio  che  ci  avanzi,  in  sì  rapido  de- 
cadere d'ideali  e  di  fedi,  d'arte  e  di  coltura,  di  bel- 
lezza e  di  poesia. 


XVIII. 
La  Chiesa  di  Polenta, 


JUASI  Ogni  anno  il  Carducci,  dopo  i  salutari  e 
l^  fecondi  riposi  alpini,  pubblica  come  per  rito 
una  sua  ode  barbara  che  spesso  appare  tra 
l'agosto  e  il  settembre;  quest'ultimo  mese  particolar- 
mente è  per  lui  tutto  pregno  di  memorie  e  di  risve- 
gli: così  la  natura  ne'  dolci  tepori  dell'estate  morente 
schiude  al  corpo  ed  a'  sensi  un  sereno  e  sano  refri- 
gerio di  pace  e  di  richiami,  coli'  ultimo  fiorire  e  ve- 
getare dell'anno.  Settembre  e  ottobre  son  quasi  l'ul- 
tima primavera  della  maturità  cui  sottentra  subito 
l'inverno  della  vecchiezza.  Cosi  apre  il  poeta  l'ode 
sua  giambica  ,  o  meglio  1'  epòdo,  dal  titolo:  Per  il 
LXXVIII  anniversario  dalla  proclamazione  della  repub- 
blica fraìicese,  composto  appunto  il  21  settembre  1870: 


Sol  di  settembre,  tu  nel  cielo  stai 
Come  l'uom  che  i  migliori  anni  lini 
E  suarda  triste  innanzi: 


Proprio  vero.  Il  settembre  dovè  troppo  arridere  al 
cuore  del  poeta  che,  tutto  chiuso  nel  passato,  volle 
spesso  evocarne  i  ricordi  ,  come  forti  richiami  al 
tempo  in  cui  meglio  riposa  1'  animo  suo.  Cosi  nel 
Brindisi  funebre  dirà: 

Io  giù  tra  i  morti  scesi 
Ed  ho  sepolto  il  cuor. 


207 


Così  altrove,  presso  l'urna  di  Percy  Bysshe  Shelley, 
esclamerà: 

L"orH  presente  è  invano,  non  fa  che  percuotere  e  fugge: 
Sol  nel  passato  è  il  bello,  sol  ne  la  morte  è  il  vero. 

Questi  versi,  a  cui  molti  altri  di  consimili  si  po- 
trebbero aggiungere,  sono  il  suo  verbo  di  fede  che 
specialmente  si  rivela  negli  ultimi  canti,  i  quali  riful- 
gono ancora  della  miglior  gioventù  cui  1'  età  decli- 
nante non  valse  a  spegnere.  Felice  giovinezza  di  un 
uomo  di  cui  invano  si  cerca  il  tramonto  ! 

E  di  settembre  furon  composti:  il  Cesarismo  e  Ver- 
saglia  nel  '71,  il  Canto  dell'  Italia  che  va  in  Campidoglio 
nel  '72,  il  pz  Ira  nel  1887,  Per  le  nozze  di  mia  figlia 
nel  1880,  //  liuto  e  la  lira  a  Margherita  di  Savoia 
nel  '91,  ecc.  ecc. 


Quest'ultima  ode  fu  anch'essa  una  giovane  e  forte 
concezione  di  settembre.  Anche  i  mesi,  anche  le  sta- 
gioni hanno  la  lor  parte  nell'anima  de'  vati  e  nel- 
r  Olimpo  della  poesia,  come  nel  Pensiero  e  meteore 
pur  si  prova  a  dimostrare  il  Lombroso.  E,  di  fatti, 
perchè  non  dovrebbe  al  clima  della  natura  non  ri- 
spondere un  clima  dell'  anima  ?  alla  meteora  delle 
stagioni  la  meteora  dell'  intelletto  ?  Nella  critica  re- 
cente ,  cioè  quella  improvvisa  che  ogni  giorno  si  fa 
ne'  diari  politici,  si  vollero  tentare  a  sproposito  de' 
raffronti;  e  si  volle  anche  esplorare  se  quest'  ultima 
poesia  per  pregi  di  tecnica  e  per  valore  concettuale 
ceda  o  avanzi  le  migliori  del  poeta.  Oziosa  e  avven- 
tata ricerca.  Chi  si  piacque  compararla  a  un'  altra 
ben  vecchia,  del  '68,  dal  titolo:  Agli  amici  della  valle 
tiberina;  ma  è  difficile  scorgervi  alcun  contatto  di  pen- 
siero e  di  stile.  Chi  poi  volle  paragonarla  alla  celebre 
ode  saffica  Alle  fonti  del  Clitumno  dove,  con  qualche 
tocco  di  apparente  somiglianza  come  il  mirabile  ac- 
cenno al  medioevo,  spicca  ben  diverso  il  motivo  nel 


20S 


signorile  maneggio  della  strofe  avente  una  concinnità 
tra  oraziana  e  virgiliana,  e  un  senso  storico  ben  dif- 
ferente. Chi  alfine  volle  raffrontarla  al  Piemonte  ;  ma 
dov'è  in  questa  Chiesa  di  Polenta  quella  rappresenta- 
zione molteplice,  intimamente  geografica,  di  tutta  una 
regione,  dove  co'  rapidi  accenni  patrii  1'  ispirazione 
storica  alfine  si  fissa  su  la  regal  Torino  e  su  Carlo 
Alberto,  a  cui  servon  di  contorno  e  di  luce  le  me- 
morie gloriose  di  tante  città?  Certo  anche  nel  Piemonte 
v'  ha  qualche  somiglianza  nel  paesaggio  e  qualche 
nota  ,  la  finale  ,  di  senso  liturgico;  ma  è  ben  diverso 
il  punto  essenziale  e  l'intimo  svolgimento  di  questa 
singolare  concezione.  E'  naturale  che  ogni  ode  car- 
ducciana qua  e  là  comprenda  o  raccolga  elementi  e 
forme  sparsi  in  tanti  canti  di  concepimento  diverso, 
ben  fusi  in  un  disegno  proprio  e  distinto;  ma  il  mo- 
mento originario  e  la  radice  dell'ispirazione  ne  risul- 
tano assai  caratteristici,  con  marchio  o  impronta  as- 
solutamente originale. 


* 
*  * 


Quest'ultima  è  un'ode  profondamente  ieratica  come 
ve  n'  è  poche  o  nessuna  in  tutta  la  letteratura  con- 
temporanea, se  non  forse  anche  antica.  Ma  niun  certo 
intese  o  rese  mai,  con  animo  moderno,  con  fede  di- 
versa e  con  ispirito  sereno,  un  momento  storico  so- 
lenne nel  suo  intimo  significato  religioso.  In  ciò  la 
grandezza  veramente  epica  di  essa. 

S'apre,  com'  è  naturale  nella  poesia  del  Carducci, 
con  uno  scorcio  mirabile  di  paesaggio.  Son  cinque 
strofe  che  con  equilibrio  di  linee  classiche  ritraggono 
un  riscontro  storico  geografico  tra  il  passato  e  il 
presente. 

Ricordano  pel  descrittivo  il  Piemonte  ,  ma  forse 
r  avanzano  per  sol)rietà  e  densità,  e  più  anche  per 
variata  orchestra  di  suoni.  Ecco    subito   un  tratto  di 


209 


filosofia  morale,  in  due  strofe,  di  cui  non  possiamo 
non  riportare  la  seconda  ,  tanto  è  peregrinamente 
bella: 

Fuga  di  tempi  e  barbari  silenzi 
Vince  e  dal  dotto  de  le  cose  emerge 
Sola,  di  luce  a'  secoli  affluenti 
Faro,  l'idea. 

Questi  versi  fan  ripensare  per  poco  a  tre  strofe 
della  Bicocca  di  San  Giacomo  (Passa  1'  istoria  opera- 
trice eterna,  ecc.  ecc.);  se  non  che  qui  è  1'  idea  che 
a  traverso  la  storia  non  passa. 


Che  cos'è  mai  questa  idea  nella  Chiesa  di  Polenta"? 
Il  poeta  lo  dice  in  ben  venti  strofe,  veramente  epiche 
di  svolgimento  e  di  rappresentazione.  La  barbarie 
interrompe  il  pensiero  latino  nella  selva  selvaggia  del 
medioevo.  Avari  ed  Unni  la  invadono  per  farvi  de- 
serto; e  nelle  chiese,  pe'  sepolcreti,  nelle  selve  quei 
servi  chiedono  pace  nel  mistero  e  nell'  oblio  del 
mondo,  cioè  nella  chiesa,  patria,  casa,  tomba.  Quivi 
chiedono  mercè  a  Dio  de  Valla  stirpe  e  della  gloria 
di  Roma.  Ma  in  questa  duplice  barbarie  portata  dalla 
necessità  de'  tempi  pur  corre  un  filo  di  tradizione 
romana,  che  non  muore,  che  resiste,  che  avanza;  e 
questa  tradizione  è  il  comune  che  all'  ombra  della 
chiesa  ,  intorno  a  cui  squilla  V Ave  Maria,  accoglie 
insieme,  affratellati  e  liberi,  percossi  ^  dispogliati,  per- 
cussori e  spogliatori,  la  civiltà  e  la  barbarie;  come  la 
fervente  vendemmia  màcera  e  calpesta  1'  uva  bianca 
e  la  nera  per  farne  vino  comune.  E  in  questa  chiesa 
di  liberi  Dante  vide  da  presso  Iddio,  e  lo  evocò  nel- 
l'esilio pensando  alla  patria  e  al  suo  bel  Sa?i  Giovanni, 
mentre  giubilava  il  salmo  In  exitu  Israel  de  Aegypto; 
lo  evocò,  non  più  come  asceta,  ma  come  uomo  che 
si  sente  scorrere  nelle  vene  sangue  romano.  E  a 
questo  Dio  s'inchina  anche  Aroldo,  s'inchinano  tutti, 
quanti    son    fratelli    desiosi    di    quiete.   Quindi    X Ave 

14 


Maria  è  il  richiamo  degli  oppressi,  di  quelli  che  più 
non  han  fede  nel  mondo,  e  sono  stanchi;  e  in  quel- 
l'asilo di  pace  cantano,  pregano,  obliano.  Questo  sen- 
timento, che  dura  perenne  nel  mondo  pur  di  contro 
alle  più  opposte  fedi,  resta  sempre  un  bisogno  umano 
e  una  grande  realtà  storica;  e  questo  sentimento  in 
una  sintesi  meravigliosa,  che  ha  sol  contatti  con  la 
Gìierra  per  la  rapida  comprensività  della  contenenza, 
rende  il  Carducci  in  questa  ode,  innestandovi  come 
motivo  essenziale  la  evoluzione  del  comune  ,  della 
tradizione  romana  ,  della  libertà,  a  traverso  la  bar- 
barie importata  dal  bieco  Settentrione  in  tutte  le  ma- 
nifestazioni della  civiltà  latina. 

E  dovunque  splenda  questo  sogno  di  libertà.  Vitata 
gente  da  le  molte  vite  vede  sempre  il  suo  poeta  che 
la  rivendicò  nel  canto  divino.  E  tutto  questo  è  asso- 
lutamente nuovo  nella  lirica  del  Carducci  e  nella  li- 
rica italiana.  Altro  che  confronti  ! 

Questa  quasi  perennità  del  nome  e  del  culto  di 
Dante  nella  storia  d'  Italia  il  poeta  evocò  sempre  in 
tutta  l'opera  sua,  e,  poco  innanzi,  nelle  sue  classiche 
terzine:  Treyito  a  Dante  Alighieri  ,  ma  specialmente 
nell'ultima: 

Cosi  di  tempi  e  genti  in  vario  assalto 
Dante  si  spazia  da  ben  cinquecento 
Anni  de  l'Alpi  sul  tremendo  spalto. 
Ed  or  s'è  fermo,  e  par  ch'aspetti,  a  Trento. 

In  quest'  ultima  saffica  quando  il  poeta  risale  a 
Dante,  e  quando  incide  i  ricordi  nel  rilievo  della 
rappresentazione,  la  lirica  ascende  alata  in  una  visione 
tra  ascetica  e  storica,  tra  religiosa  ed  umana,  tra  li- 
berale e  biblica;  e  il  canto  n'acquista  una  freschezza  e 
una  limpidezza  tutta  drammatica.  Anche  nella  Chiesa 
gotica  e'  vede  l'Allighieri;  ma  ivi  è  Dante  che  scruta 
Iddio  nel  gemvieo  pallore  di  una  femmina,  mentre  nella 
Chiesa  di  Pole?ita  è  il  grande  fuoruscito  che  nel  pa- 
radiso, tra  i  lucidi  faiitasmi,  vede  disegnarsi  tutto  un 
mondo  di  gloria  e  di  civiltà  entro  la  breve  cerchia 
della  sua  Firenze. 


Anche  nelle  undici  strofe  intorno  agli  efferati  sogni 
del  medioevo  ricordiamo  un  tratto  dell'ode  Alle  fonti 
del  Clitiimno;  ma  non  è  altro  che  un  ricordo,  perchè 
in  quest'ultima  sua  ode  il  Carducci  tenta  una  quasi 
violenta  rappresentazione  della  mistica  e  politica  bar- 
barie medioevale,  dove  forse  la  forma  è  troppo  risen- 
tita e  non  senza  audacia,  ma  in  compenso  tutta  piena 
di  vigorìa  giambica  che  rinnova  solo  la  ferocia  degli 
epòdi.  Checché  ne  dicano  i  mestieranti,  questo  a  me 
pare  un  avanzamento  nell'arte  del  Carducci;  il  quale, 
con  incisione  veramente  epica  e  con  potenza  invidia- 
bile di  scorci,  ritrae  ciò  che  fu  veramente  quell'  età 
barbara,  nello  spirito,  nell'arte,  nella  vita. 


In  quest'ode  il  Carducci  rende  anche  allo  stile  mo- 
derno un  verbo  latino,  s?ibsa?mare,  un  verbo  di  Persio 
e  Giovenale,  di  Tertulliano  e  San  Girolamo;  ma  come 
ben  si  presta  a  dar  senso  icastico  e  vigore  grottesco 
agli  effetti  esteriori  della  paurosa  sguaiataggine  sata- 
nica nel   riso  beffardo: 

:  di  dietro  al  battistero  un  fulvo 

Picciol  cornuto  diavolo  guardava 
E  subsannava. 

Anche  le  due  rime  servono  all'effetto,  che  non  può 
essere  più  esteticamente  orrido;  come  non  può  essere 
più  opportunamente  feroce  la  novità  di  render  così, 
personificando,  la  forza  vindice  della  ragio?ie  contro  la 
barbarie,   come  già  nel  Sataìia. 

Subito  dopo,  quattro  altre  strofe  ,  dov'  è  nuova  e 
insieme  audace  la  similitudine  tra  il  tino  nella  spii- 
meggiante  vendemmia  e  la  fusione  nel  comune  libero 
de'  bianchi  e  de'  7ieri.  de'  romani  e  de'  barbari.  Siamo 
finalmente  aìVAve.  E'  la  parte  più  gustata  ed  intesa, 
e  più  veramente  ispirata.  Ci  dispensiamo  citarla,  per- 
chè tutti  l'avran  letta  ne'  giornali  politici.  Qui  finisce 
la  nostra  povera  critica,  perchè  queste  sette  ultime 
strofe  sono  senz'altro  la  più  bella  meraviglia  di  tutta 


la  lirica  italiana  contemporanea  ,  e  per  ciò  stesso 
schive  d'ogni  commento.  E'  volo,  è  canto,  è  musica, 
è  storia;  è  tutto  questo  a  un  tempo.  E  il  verso  vola 
come  le  colombe  di  Dante.  Quando  mai  dopo  l'AUi- 
ghieri  e  il  Petrarca,  dopo  il  Tasso  e  il  Manzoni,  la 
sacra  poesia  seppe  ispirare  alle  anime  una  sinfonia 
spiritale  più  nobile,  più  umana,  più  ideale  di  questa? 
Quando  mai  in  anima  moderna  e  non  cattolica  ebbe 
la  religione  una  più  sana  e  imparziale  interpretazione 
storica  ?  E'  fortuna  de'  tempi  il  progressivo  fiorire 
di  questo  poeta,  che,  pur  avanzando  negli  anni,  nulla 
ancora  ha  perduto  della  sua  più  verde  giovinezza. 


XIX. 
Rime  e  Ritmi.  **' 


"Jhimè,  qual  deserto  in  Italia  nella  poesia  di 
quest'ultimo  decennio  !  I  più  celebri,  cioè 
quelli  che  furon  più  lodati  nel  bizantino  pe- 
riodo sommarughiano  e  anche  d'avanti,  o  tacciono  da 
un  pezzo  ,  o,  se  non  riescono  sterili  ripetitori  di  sé 
stessi,  cercan  quasi  per  capriccio  da  piccola  e  tenue 
vena  la  ispirazione.  Che  anzi  molti,  ne'  lor  soliloqui 
idillici  e  amorosi,  meglio  si  piacciono  di  fuochi  fatui 
che  d'imagini  alate  e  di  forti  e  durevoli  concezioni: 
ei  mi  sembrano  più  tosto  manifattori  di  chincaglie 
che  formatori  plastici  di  statue  e  di  gruppi;  più  tosto 
vagheggiatori  di  ninnoli  e  gingilli  che  non  del  nutrito 
e  del  vigoroso  nella  tradizione  italiana  ancor  viva. 
Altri  fan  cataloghi  o  inventari  di  un  naturalismo  ba- 
rocco; ed  altri  civettano  la  natura  con  ismorfie  da 
cicisbei  e  con  gerghi  da  bamberottoli  e  da  ciani.  E 
i  giovani?  —  Oh,  i  giovani  !  —  Amiamo  —  dicono 
essi  —  l'arte  facile,  l'arte  ciompa,  l'arte  ch'è  più  di 
consumo;  e  il  lor  facile  è  lo  sbilenco  nel  falso,  lo 
sguaiato  nel  futile,  l'aspro  e  il  selvaggio  nel  mingher- 
lino umano.  Gli  altri  giovani  ,  per  converso,  fanno 
a  rovescio:  usano  il  sibillino  nel  mostruoso,  e  questo 
chiamano  simbolismo. 

Questi  e  quelli,  secondo  il  facile  o  il  difficile  del- 
l'arte loro,  m'han  l'aria  de'  prodighi  e  degli  avari 
nella  quarta  lacca  dell'Inferno  dantesco:  d'ima  parte 
e  d' altra  coti  grand'  urli  voltano  pesi  a  forza  di  poppa 
su  la  frollaggine  del  pubblico  grosso,  che  spesso  am- 
mira anche  non  comprendendo.  Indizi  questi  di  ro- 
vinoso decadimento,  indizi  di  una  forma    d'arte  e  di 


►)  Bologna,  Zanichelli,  1899. 


214 


poesia  che  muore.  Fortuna  che  nella  breve  òasi  di 
questo  deserto  non  manca  un  sorriso  di  verde  e  un 
po'  d'ombra  riparatrice;  fortuna  che  a  ristorarci  da 
tanta  desolazione  ci  suona  a  quando  a  quando  con 
mònito  severo  una  voce  solitaria:  è  quella  del  Car- 
ducci intorno  a  cui  si  raccolgono  con  amore  operoso 
e  con  forte  ingegno  pochi  discepoli  insigni.  A  pro- 
posito, pur  ieri  ci  fu  dato  leggere  e  ammirare  un 
saggio  potente  di  lirica  patriottica  rappresentativa  in 
terzine  mirabili,  cioè  la  Rapsodia  garibalditia  di  Gio- 
vanni Marradi  {*);  il  qual  saggio  è  un  originale  portato 
della  grande  poesia  storica  del  maestro,  di  quella 
poesia  ond'è  pieno  quest'ultimo  leggiadro  volumetto. 


A  dispetto  di  quelli  che  in  grazia  di  un  feticismo 
politico  e  letterario  lo  dissero  da  un  pezzo  retrogrado 
e  decadente,  il  Carducci  ha  voluto  in  più  anni,  dal 
1888  al  '98,  prima  spargere  attorno  per  le  riviste,  e 
ora  accogliere  qui  in  volumetto,  questo  prezioso  ma- 
nipolo di  canti.  Non  è  il  caso  di  vedere  il  più  o  il 
meno  di  queste  ultime  odi  in  raffronto  alle  altre  di 
lui:  la  poesia  del  Carducci  è  tutta  un  Parnaso,  tanta 
è  la  ricchezza  de'  tipi,  degli  atteggiamenti,  delle  for- 
me, che  appaiono  come  tanti  vivi  e  diversi  organe- 
simi  di  concezioni  le  quali  si  sono  in  più  tempi, 
secondo  il  particolare  spirito  che  le  compenetra  , 
naturalmente  evolute,  dirò  così,  nell'anima  del  poeta; 
onde  il  ritentarle,  dato  il  corso  dell'età  e  il  vario  ca- 
rattere delle  impressioni,  è  come  il  provare  un  arco 
già  troppo  teso  e  omai  rilassato.  Resta  invece  a  ve- 
dere quali  altri  spiriti  si  evolvono  ancora  nella  sua 
matura  e  ancor  feconda  giovinezza.  V'ha  più  età  della 
poesia  nelle  facoltà  veramente  complesse  de'  grandi 
poeti.  Per  non  dir  d'altre,  ve  n'è  una,  forse  l'ultima, 
nella  quale  l'artista,  quasi  annoiato  della  lotta  contro 
la  vita,  si  riposa  forte  e  sereno  nelle  grandi  memorie 
del  passato;  e  in  questo  riposo,    non  meno  potente  di 


(*)  V    Tiivista  d'Italia,  fascicolo  I,  15  gennaio  1899,  pagg.  46-52. 


215 


quella  lotta  ch'è  ozioso  ornai  ritentare,  ei  sale  sul 
monte  de'  secoli  donde  spazia,  come  di  su'  minareti 
dell'arte  sua,  a  contemplare  il  vero  che  meglio  arride 
al  suo  cuore,  il  vero  delle  tombe,  il  vero  che  non 
passa.  In  questo  periodo  il  poeta,  quando  veramente 
è  grande,  riesce  a  dare  nell'ultimo  suo  canto,  ch'è 
apoteòsi,  il  riflesso  puro  e  tranquillo  delle  origini  e 
delle  glorie  della  nazione  onde  usci.  Questa  è  l'età 
del  Carducci  negli  ultimi  suoi  versi  ;  e  già  egli  , 
quando  cominciò  a  varcarne  la  soglia,  presso  l'urna 
di   Percy  Bysshe  Shelley  scrisse: 

L'ora  presente  è  in  vano,  non  ta  che  percuotere  e  fuggi  ; 
Sol  nel  passato  è  il  bello,  sol  ne  la  morte  è  il  vero. 

Egli  avea  detto  lo  stesso  anche  prima  in  più  altre 
odi,  le  quali  anche  specchiano  un  suo  istinto  classico 
della  nobile  visione  del  passato  così  negli  spiriti  come 
nelle  forme. 

* 
*  * 

L'autore  che  fra  le  altre  scrisse  le  odi  Su  l'Adda, 
A  Giuseppe  Garibaldi,  Presso  l'tirna  di  Percy  Bysshe 
Shelley  ,  Il  liuto  e  la  lira,  Sirmione,  All'  Aurora,  Le 
due  torri,  Alessandria,  Scoglio  di  Quarto,  Per  la  morte 
di  Euge?iio  Napoleone,  Miramar,  già  rese  da  tempo, 
variandolo  e  spesso  complicandolo  di  elementi  diversi, 
il  distinto  e  rapido  passaggio  del  vero,  percepito  come 
presente  e  vivo,  nel  campo  della  storia  e  in  quello 
dell'arte.  Ciascuna  di  queste  odi  e  di  molte  altre  con- 
simili, ha  un  momento,  una  mossa,  un'ispirazione  a 
sé;  tranne  le  ultime  due  dove  il  poeta,  con  inven- 
zione tutta  nuova,  rappresentò  nella  visione  mitica 
fantastica  il  fatale  andare  della  giustizia  e  della  legge 
storica  verso  il  tragico  decadere  delle  tirannidi:  queste 
due  odi  ne  ricorderebbero  un'  altra  di  questi  Ritmi, 
quella  Alle  Valchirie,  se  in  essa  il  finale  non  ci  riportasse 
alla  contemplazione  serenamente  classica  del  mondo 
ellenico.  Ma  questi  e  quelli  son  canti  che  non  escono 
dal  soggettivo  umano,  dal  più  stretto  campo  della  lirica, 


2l6 


quantunque  in  essi  non  manchino  qua  e  là  echi  e 
tumulti  di  fantasia  e  di  azione  epica  e  drammatica. 
Molti  ricordano  male  a  proposito  le  prime  Odi  barbare, 
una  perfezione  monumentale,  e  che  rappresentano  un 
momento  già  finito  nello  spirito  del  poeta:  in  esse  la 
concezione  è  assolutamente  diversa;  son  meditazione 
e  rappresentazione  lirica  nel  contrasto  tra  il  mondo 
pagano  e  il  medievale;  o  meglio,  sono  nel  rimpianto 
della  civiltà  classica  una  grande  elegia  storica  pro- 
venuta direttamente  ^òW Inno  a  Satana.  Opportuno  è 
invece  il  confronto  con  altre  odi  più  sinceramente 
epiche,  dove  senza  alcuna  ombra  di  personalità  e  senza 
alcuno  spirito  lirico  è  con  fantastici  contorni  reso  al 
vivo  e  con  la  più  fedele  espressione  un  fatto  od  una 
leggenda  che  di  per  sé  presenta  o  simula  il  meravi- 
glioso o  il  solenne  del  canto  epico.  Saggi  stupendi  e 
assolutamente  nuovi  di  questa  poesia  si  hanno  nelle 
rime:  Su''  campi  di  Marengo,  Faida  di  comune,  La  torre 
di  Federigo,  ma  specialmente  nei  dodici  insuperabili 
sonetti  del  p?  Ira  e  in  un  frammento  della  Canzone 
di  Legyiano  che  da  circa  un  ventennio  il  Carducci 
non  ha  per  anche  finita.  Ma  so  che  l'autore  ha  per  detta 
Canzone  studiato  a  lungo  coi  Bertolini  i  piani  lombardi 
che  furon  teatro  di  questo  glorioso  episodio  de'  co- 
muni italiani:  tutti  attendiamo  in  essa  forse  il  finale 
capolavoro  di  lui,  a  cui  deve  attendere  di  certo,  an- 
che perchè  il  frammento  pubblicato  del  1881  non  è 
compreso  in  quest'ultimo  volumetto. 

Ad  ogni  modo  anche  queste  non  sono  in  tutto  com- 
parabili con  le  ultime,  tranne  forse  una  sola,  Jaiifrè 
Rudel;  sia  perchè  in  esse  v'è  solo  il  racconto  di  un 
fatto  singolo  e  distinto,  sia  perchè  vi  manca  l'ispira- 
zione lirica  che  anima  almeno  le  più  belle  di  questa 
raccolta;  ma  nel  pz  Ira,  e  propriamente  ne'sonetti  se- 
condo, terzo,  settimo,  decimo,  e  un  po'  dappertutto, 
il  racconto  è  qua  e  là  avvivato  inconsapevolmente 
dal  colorito  e  dal  sentimento  lirico  ,  e  il  contenuto 
storico  ha  vaste  proporzioni  epiche.  Sono  il  maravi- 
glioso  della  storia  nel  maraviglioso  delle  forme. 

Dunque  il  Carducci  ha  il  maneggio  della  storia  da 


217 


assai  tempo,  la  quale  passa  per  diversi  metri  e  con- 
tenuti, e  fra  i  più  vari  strumenti  dell'arte  e  della 
poesia:  ei  si  è  venuto  quasi  costantemente  svolgendo 
sino  a  raggiunger  la  perfezione  delle  odi  Piemonte, 
Chiesa  di  Polenta,  Bicocca  di  San  Giacomo,  A  Feri'ara, 
la  Giteri'a,  Cadore,  Per  il  monumento  di  Dante  a  Trento, 
alle  quali  non  credo  si  possano  opporre  in  meglio, 
almeno  per  l'ampiezza  e  il  carattere  specifico  della 
rappresentazione,   le  odi  precedenti  anche    più    belle. 


In  questi  ultimi  canti,  con  effetti  d'arte  veramente 
mirabili  e  non  di  rado  inusitati,  prevalgono  il  natu- 
ralismo alpino  e  il  naturalismo  storico.  Anche  altrove, 
ma  più  ne'  tre  volumetti  delle  Odi  barbare,  non  man- 
cano, come  abbiamo  accennato,  saggi  di  queste  me- 
raviglie, anzi  vi  abbondano;  ma  ivi  l'oggettivo  pla- 
stico della  natura  come  quello  della  storia  restano 
sempre  più  limitati  se  non  meno  profondi,  certo  con 
impressione  e  concezione  diversa.  In  questi  Ritmi  e 
rimeìa.  rappresentazione,  ch'ha  movimento  epico,  lirico 
e  drammatico  giambico,  presenta  una  più  varia  e 
ricca  mistura  di  elementi  diversi  e  in  parte  nuovi  o 
più  risentiti:  la  visione  quasi  jeratica  {Pieìuonte:  ul- 
time otto  strofe);  la  visione  mitica  tra  greca  e  nor- 
dica {Alle  Valchirie);  il  sospiro  idillico  e  religioso, 
di  senso  quasi  liturgico  o  ambrosiano  {Chiesa  di  Po- 
lenta: ultime  sette  strofe);  il  racconto  erotico  passionale 
ed  elegiaco,  eoa  movimento  tra  narrativo  e  dramma- 
tico, in  agili  e  freschi  novenari  {Jaufrè  Riidel);  il  me- 
raviglioso del  paesaggio  alpino  di  un  pittoresco  mo- 
numentale e  qua  e  là  panteistico  (un  po'  da  per 
tutto  ma  più  nelle  due  odi  citate:  meglio  nel  Pie- 
monte, prima  parte);  1'  epica  solennità  dell'  eloquio 
poetico,  in  un  connubio  tra  la  forma  classica,  l'arcaica 
e  la  nuova,  sempre  opportunamente  e  originalmente 
(odi  citate,  le  terzine  dantesche  Per  il  moìiumento  di 
Dante  a  Trento,  tutte  le  altre  odi  più  veramente  sto- 
riche); una  più  profonda  intuizione  della  storia  e  della 


2l8 


preistoria  intorno  a  tutto  uno  svolgimento  artistico, 
quello  della  poesia  cavalleresca  (A  Ferrara);  l'evo- 
cazione di  grandi  avvenimenti  vicini  tra  lirica,  giam- 
bica e  drammatica  [Cadore)  ;  una  più  calda  fusione 
dello  spirito  lirico  colle  forme  e  co'  baleni  della  elo- 
quenza (da  per    tutto). 

Qui  dunque  il  poeta  mostra  una  più  armonica  e  vigo 
rosa  coordinazione  della  materia  storica  o  leggendaria, 
congiunta  a  una  più  complessa  ampiezza  di  svolgimento; 
mostra,  non  più  il  fatto  singolo  o  solo  un  episodio, 
ma  la  sapiente  orditura  del  gruppo  informante  tutto 
un  corso  di  avvenimenti.  Essa  brevemente  ci  dà,  per 
entro  le  più  ricche  forme  dell'arte,  la  fantastica  e 
lirica  evocazione  di  un  gran  tratto  di  storia:  il  poeta 
elegge  opportunamente  due  o  più  momenti  di  essa 
che  dan  come  il  carattere  e  l'intonazione  a  tutta  un'e- 
poca; e  in  ciò  egli  ferma  il  suo  disegno  con  sicurezza 
di  tocco,  con  brusca  e  risentita  plasticità  di  rilievo, 
con  audacie  d'immagini  classiche  e  moderne. 

* 

■»  * 

Tutti  questi  elementi  che,  come  dicemmo,  ebbero 
sempre  nella  precedente  opera  poetica  una  manifesta 
preparazione,  qui  toccano  l'ultimo  segno  e  si  trovano 
spesso  insieme,  ma  alcuni  più  spiccatamente  in  questo 
che  in  quel  canto.  Nel  Carducci  l'arte  è  in  continua 
fermentazione,  ma  le  note  dominanti  o  meglio  le  ca- 
ratteristiche di  essa  non  è  diffìcile  sorprenderle  in 
tutte  le  progressive  variazioni  del  suo  molteplice 
lavoro;  che  anzi  più  linee  e  più  contorni  di  quest'ul- 
tima produzione,  specialmente  per  certa  nervosa  con- 
cinnità oraziana  e  per  certi  insoliti  ardimenti,  meglio 
ci  ricordano  qua  e  là  i  più  bei  tratti  delle    luveiiilia. 

Qui  finalmente  tutte  le  sue  simpatie  d'arte  e  rifles- 
sioni di  vita,  andatesi  per  tanti  anni  formando  nel 
triplice  vivaio — classico,  moderno  e  straniero — si  con- 
temperano in  una  finale  concordia  di  lavoro  e  di  gusto, 
senza  nulla  perdere  della  forza  e  ardenza  di  gioventù. 
Come  scorgere  i  segni  di  decadenza  in  un  poeta  che 


2  19 


si  sente  ancora  nell'anima  la  violenza  di  passione  e 
di  lotta  che  talvolta  si  sveglia  anzi  più  gagliarda, 
come  nella  stupenda  trilogia  o  rapsodia  del  Cadore? 
Chi  non  vede  progresso  tra  il  medioevo  dell'ode  Alle 
fonti  del  Clitumno  e  il  medioevo  della  Chiesa  di  Po- 
lenta? Dove  ha  mai  avuto  la  poesia  recente  qualcosa  che 
ricordi  questa  pindarica  elevazione  di  canto  che  tutto 
abbraccia  nel  suo  svolgimento  un  corso  lunghissimo  di 
civiltà,  e  dove  la  rappresentazione  poetica  ascende  mol- 
teplice dal  grottesco  pauroso  del  medioevo  alla  visione 
mistica  di  Dante,  dai  terrori  delle  invasioni  barbariche 
al  primo  sorgere  del  Comune  italiano,  dagli  ardenti 
occhi  di  Francesca  temprati  al  sorriso  fino  al  melo- 
dioso rapimento  <ìq\V Ave  Maria?  Dove  mai  la  poesia 
contemporanea,  fuori  dell'oscuro  simbolismo,  ha  po- 
tuto sollevarsi  alla  luminosa  concezione  ieratica  e 
storica  delle  più  belle  manifestazioni  della  vita  italiana? 
Il  Carducci,  come  già  tutti  i  grandi  poeti  vissuti  in 
sul  confine  di  un  lungo  periodo  di  civiltà  ,  è  propria- 
mente il  vate  della  Nazione,  il  quale  ha  saputo  spec- 
chiare  co'  migliori  presentimenti  dell'avvenire  tutto 
un  passato  in  un'alta  opera  di  bellezza,  la  quale  ac- 
coglie le  più  durevoli  forme  e  il  più  sano  contenuto 
di  una  lunga  evoluzione  storica  avente  per  fondamento 
tutto  il  Rinascimento  italiano. 

* 

*  * 

Prima  di  finire  ci  tocca  dir  qualche  altra  cosa  del 
naturalismo  alpino  di  cui  tanti  saggi  abbiamo  qui 
anche  in  componimenti  a  parte.  Da  più  anni  usa  il 
poeta  passar  l'estate  su  le  Alpi:  prima  a  Courmayeur, 
ma  ora  per  ragioni  di  salute  si  reca  a  Medesimo  ; 
e  in  quel  dolce  e  sano  riposo  ei  si  piace  di  prendere 
un  rinfresco  di  poesia  montana,  a  quel  modo  che 
ama  ritemprare  la  energia  del  corpo  nel  consolante 
lavacro  di  quelle  acque  salutari.  E  com'è  simpatica 
e  forte  la  visione  di  quei  luoghi  solenni!  com'è  fre- 
sca, trasparente,  cristallina  la  forma  che  li  colorisce 
e  li  specchia!   Già  nel  Piemonte  con    mirabile    perca- 


zione  icastica  della  natura  avea  sentito  e  reso  il  ro- 
tolar de  le  valanghe  per  le  selve  croscianti  e  il  volo 
solenne  dell'aquila;  già  nelle  altre  odi,  //  liuto  e  la 
lira  e  Courmayeur,  ci  aveva  dato  in  soavissimi  nu- 
meri e  con  fantasia  nuova  l'orrido,  il  patetico,  il 
meraviglioso  di  quelle  valli  e  di  quelle  scintillanti 
vette.  Ora  qui  ama  contemplare  spettacoli  men  so- 
lenni ma  più  dolci,  in  una  felicissima  concordia  del 
domestico  e  del  pittoresco,  come:  1'  esequie  della 
guida,  ch'è  una  forte  elegia  alpigiana  di  senso  iera- 
tico e  democratico;  l'effetto  del  mezzogiorno  estivo 
sotto  la  gran  caldura  d'estate,  e  l'ostessa  di  Gaby 
che  mesce  lo  scintillante  vino;  la  voce  mormorante 
del  Lys  che  gl'ispira  il  ritorno  al  suo  Petrarca,  la 
festa  di  Sant'Abbondio,  e  lo  scintillar  delle  nevate 
alpi  che  han  sembianza  di  anime  umaiie  da  V amor 
percosse.  É,  come  si  vede,  non  solo  il  nudo  e  crudo 
di  quei  luoghi,  ma  anche  la  vita,  semplice  e  bella, 
che  vi  si  agita  dentro,  la  vita  della  natura  e  della 
famiglia,  del  lavoro  e  della  gioia,  del  pericolo  e  del 
lutto:  è  la  vita  che  nessuno  de'  nostri  poeti,  tranne 
forse  Fogazzaro,  seppe  mai  svegliare  cosi  pura  e  così 
potente  per  quelle  forre  e  per  quei  ghiacciai  diasprati. 
E  poi  tutto  questo  ha  nel  verso  la  visibile  trasparenza 
della  forma  e  delle  imagini  dove  spira  una  selvatica 
freschezza  di  montagna  e  di  campagna.  Caratteristica 
è  la  Elegia  del  monte  Spluga  dove  con  singolare  ma 
un  po'  studiato  panteismo  il  poeta  vede  a  traverso 
tutte  le  forme  della  terra  e  del  cielo  la  imagine  della 
sua  donna  che  gli  è  volata  fuori  della  veduta:  è  come 
un  pezzo  di  antica  mitologia  animata  e  impressa  dal 
naturalismo  moderno.  Un  altro  bel  saggio  di  natura- 
lismo mitologico  è  la  Moglie  del  Gigante  in  agilissimi 
ottonari,  dove  è  rinverdita  una  fantasia  popolare  bo- 
lognese con  curiosa  piacevolezza  d'invenzione  e  con 
quel  forte  e  concettoso  che  spesso  manca  a'  metri 
brevi  e  a  simili  componimenti;  questa  odicina  mostra 
che  il  poeta  sa  portare  anche  nel  facile  e  nella  trita 
snellezza  delle  strofette  il  vigoroso  e  il  peregrino  del- 
l'arte sua. 


Seguono  ora  componimenti  assai  brevi,  e  primi 
vogliono  esser  ricordati  i  sonetti.  Interamente  origi- 
nali di  forma  e  di  concepimento  storico  panteistico 
è  un  primo  gruppo  (4),  Nicola  Pisafio,  che  però  mo- 
strano un  che  di  faticoso  nell'innesto  tra  l'elemento 
mitico  e  il  cristiano.  Sono  di  squisitissima  fattura,  e 
rappresentano  il  risorgimento  ellenico  nell'  arte  di 
Nicola  Pisano  sorta  dallo  studio  di  un'antica  scultura 
greca  che  formava  il  sepolcro  della  contessa  Matilde 
nel  duomo  di  Pisa:  è  la  prima  rinascenza  toscana  per 
cui  passa  sotto  le  sembianze  della  fede  nuova  lo  spi- 
rito dell'umanesimo.  Anche  un  secondo  gruppo  (4), 
Carlo  Goldoni,  sono  una  meraviglia,  per  profonda  im- 
pressione del  vero  storico  nel  fantasma,  e  per  la  inci- 
sione lapidaria  del  verso  che  dà  al  sonetto  come 
un'aria  nuova;  ma  forse  è  un  po'  soverchia  la  com- 
prensione e  la  densità.  Han  di  questo  stile  due  so- 
netti minori,  e  tutt'insieme  provano  che,  anche  dopo 
il  pz  Ira  che  rimane  inimitabile,  il  Carducci  ha  se- 
guitato a  dare  a  questo  breve  e  amplissimo  carvie  un 
modo  e  un  carattere  di  rappresentazione  che  certo 
prima  non  aveva.  Gli  altri  brevi  componimenti  rendon 
del  vero  come  un  attimo  psicologico  o  fantastico, 
cioè  quel  mobile  e  rapido  momento  della  impressione 
poetica  che  vola  e  si  dilegua  dopo  un  breve  sospiro, 
dopo  un  fugace  palpito,  dopo  un  ricordo  fuggente. 
Son  due  o  tre  sprazzi,  due  o  tre  linee,  due  o  tre 
tocchi  come  di  bassorilievo  in  cui  si  appunta  l'im- 
magine, son  come  1'  abbozzo  del  vero:  talvolta  son 
come  l'ombra  di  una  forte  percezione  che  non  può 
tutta  rompere  fuori  dell'anima  nell'analisi  di  una  pas- 
sione o  di  una  rimembranza.  Tengono  di  quest'arte, 
ne'  lor  pregi  e  difetti,  le  odicine  seguenti:  Alla  si- 
gnoriìia  Maria  A.  (preludio);  Nel  chiostro  del  Santo; 
In  una  villa;  Ad  Aìinie;  La  mietitura  del  Turco;  Sa- 
bato santo;  Presso  una  Certosa;  Coìigedo;  Alla  figlia 
di  Francesco  Crispi,  la  quale   ultima  quantunque    non 


vi  manchino  strofe  alate,  fu  1'  ode  che  più  die  occa- 
sione al  ripetio  de'  paperi,  e  alla  chiacchiera  imperti- 
nente delle  a:azzette. 


Nel  complesso  tutte  queste  odi,  ma  specialmente 
le  storiche,  segnano  un  novo  progresso.  Avendo  in- 
nanzi tutta  l'opera  del  Carducci,  si  potrà  forse  ancora 
discutere  intorno  ad  alcuni  elementi  soggettivi  di  essa, 
che  rimangono  come  le  peculiari  caratteristiche  di  un 
ingegno  cosi  vigorosamente  originale  ed  eclettico: 
certo  alcune  forme  un  po'  troppo  scabre,  alcune  ima- 
gini  un  po'  troppo  audaci  ,  alcune  singolarissime 
espressioni  con  alcuni  particolari  segreti  di  tecnica, 
potranno  morire  con  lui  o  rimaner  solo  aderenti  al- 
l'arte sua;  ma  di  questa  resterà  sempre  un  fondu,  un 
gran  fondo  estetico,  destinato  a  ravvivar  la  poesia  di 
tutt'i  tempi  e  di  tutte  le  scuole.  Egli,  la  cui  molte- 
plice vena  d'ispirazioni  offre  anche  oggi  materia  per 
tutt'i  gusti,  rimane  in  Italia  esempio  mirabile  ed  unico 
di  un  rinnovamento  universale,  avendo  mescolate  a 
tutte  le  correnti  dell'arte  antica  e  dell'europea  i  con- 
tinui rivolgimenti  del  suo  progressivo  lavoro,  il  quale 
viene  ad  accogliere  in  sé  tutta  la  tradizione  italiana, 
gran  parte  della  straniera,  e  tutta  la  vita  moderna 
specialmente  patriottica. 

Di  lui,  fra  tante  novità  di  forme,  non  potrà  certo 
morire  il  sublime  rinnovamento  della  grande  poesia 
storica,  del  naturalismo  nel  paesaggio  e  nella  vita, 
dello  spirito  classico  infuso  a  tante  meraviglie  di  me- 
trica e  di  stile.  É  bene  conchiudere  col  giudizio  di 
un  uomo  insigne  e  non  sospetto,  del  più  ricco  e  ver- 
satile ingegno  ch'ebbe  in  questi  ultimi  tempi  l'Italia, 
di  Ruggero  Bonghi,  il  quale,  a  proposito  delle  Rime 
nuove,  scrisse  nella  sua  Cultura:  -  Il  Carducci  é  grande 
nella  poesia  grande;  in  quella  che  sa  rivestire  di  forma 
supremamente  squisita,  studiata,  lavorata,  intimamente 


223 


classica  concetti  di  grande  valore  storico  o  di  viva 
importanza  morale  o  sociale.  Iddio  ijfli  ha  negato  il 
talento  del  piccolo,  del  mingherlino,  del  ridicolo  umano. 
Ebbène,  non  se  ne  dispiaccia;  e  di  quello  che  ha,  si 
contenti.  (*) 


(*)  Cullura  —  IJ  ottobre  1S87 


XX. 

LE  OPERE  DEFINITIVE 

di  GIOSUÈ  CARDUCCI 

Voi.    I,    II,    III    e    IV    (*) 

I. 


||xo  de'  pregi  più  spiccatamente  notevoli  ch''o 
^I^M  ^nimiro  nell'ingegno  del  Carducci,  è  la  piena 
ed  assidua  evoluzione  che  l'arte  e  il  pensier 
suo  van  sempre  assumendo,  come  giorno  per  giorno, 
in  opere  sempre  varie  e  moltiformi,  così  pel  conte- 
nuto   come  per  lo  stile. 

Chi  ben  guardi,  nessun  grande  scrittore  italiano, 
antico  o  moderno,  pur  eccellente  nella  introduzione 
e  nella  innovazione  di  modi  ed  elementi  nuovi  nella 
letteratura,  ha  così  variamente  e  instancabilmente 
proseguito,  a  ondate  ora  eguali  e  ora  intermittenti 
o  torbide,  i  gradi  diversi  e  le  complesse  manifesta- 
zioni dell'arte  via  via  ascendente,  su  gli  esempi  stra- 
nieri e  i  nostrani,  a  un  tipo  sempre  più  organica- 
mente perfetto.  Non  che  gli  altri  scrittori  cedono  al 
Carducci,  o  che  questi  gli  avanzi,  no:  sarebbe  assai 
prematuro  l'affermarlo  oggi;  ma  non  credo  possa  revo- 
carsi in  dubbio  che  nel  Carducci,  per  la  versatilità 
e  molteplicità  dell'ingegno  suo,  per  certe  ragioni  de' 
tempi,  e  anche  per  la  sovrabbondanza  degli  elementi 
tecnici  e  de*  materiali  diversi,  lo  svolgimento  più 
intimamente  artistico  accenni  sempre  a  un'opera  pro- 
gressiva di  rinnovamento  e  anche  a  una  maggior 
forza  di  espansione  concettuale    e    formale    verso  un 


(•)  I.  Trimi  Sogt:!,  Bologna.  Zanichelli,  i880.  —  II.  'Boz^^tti  e 
Scherme,  Boli^gna,  Zanichelli,  1SS9.  —  III.  Confessioni  e  Battaglie, 
Bologna,  Zanichelli,    1S90. 


225 


tipo  d'arte  più  organico  e  fisso,  nazionale,  sì,  pel 
contenuto  paesano  che  vi  circola  dentro,  ma  ancora, 
per  la  universalità  sua,  piuttosto   europeo  che  italiano. 

Certo,  dopo  il  Monti,  almen  pel  secolo  nostro,  è  il 
Carducci  il  più  industre  ed  eclettico  innovatore  del- 
l'arte italiana,  sì  in  poesia  che  in  prosa,  salvo  che 
in  questa  ha  ben  radi  scrittori  che  lo   avanzino. 

Si  discuta  pure  di  metri  barbari  e  di  odi  barbare: 
quello  che  non  può  negarsi  è  che  il  Carducci,  almen 
dopo  il  Leopardi  e  il  Manzoni,  è  il  più  perfetto  pro- 
satore del  secolo;  se  non  che,  badando  meglio  alla 
conservazione  della  tradizione  classica  ,  non  credo 
possa  aver  molti  emuli  in  tutta  la  letteratura  italiana 
che  lo  sorpassino  per  la  tecnica  e  vigorosa  varietà 
dello  stile. 

II. 

Alcuni  credono  che  nel  Carducci  l'opera  del  pro- 
satore avanzi  quella  del  poeta:  il  che  a  me  par  vero 
solo  in  parte,  o  sotto  certi  aspetti  e  sino  a  un  certo 
segno.  Per  me  il  poeta  e  il  prosatore  procedon  di 
conserva;  se  non  che  più  volte  il  prosatore  par  che 
mova  qualche  passo  innanzi  al  poeta,  sino  a  che,  su 
per  una  via  più  diritta  e  più  agevole  e  piana,  si  ri- 
scontrino uguali. 

E  questa  armonia  è  anche  dimostrata  dal  fatto  che 
più  forme  e  pensieri  e  inspirazioni  delle  prose  si  ri- 
producono e  rinnovellano  anche  nelle  poesie.  Per 
addurne  esempi,  è  utile  ricordare  quel  frammento  di 
descrizione  il  quale,  nello  studio  A  proposito  di  certi 
giudizi  su  Alessandro  Ma?izo?ii  (*),  illustra  colla  dolce 
rimembranza  del  lunedì  di  Pasqua  del  1847  alcune 
strofe  patriottiche  {Su!  7iell'irto  increscioso  alevianno 
etc),  raffrontate  ad  alcune  altre  del  Manzoni  {Voi 
che  a  stormo  gridaste  in  que^  gior?ii  etc.  ).  Or  quella 
ricordanza  e  quel  frammento  ritornano  non  meno 
agevoli  e  opportuni  in  una  elegia  delle  seconde    Odi 


(*)  "Boi^^etti  e  Scherme,  pagine  179-80. 

15 


220 


barbare,  ne!  Sogno  di  estate.  In  alcune  strofe  alate 
dell'alcaica  In  una  cattedrale  gotica    delle    prime    Odi 

barbare  {^Non  io  le  angeliche  glorie  né  i   demoni ), 

riappare  l'accenno  critico  di  una  breve  pagina  degli 
Studi  letterari  (*j  ove  si  dimostra  la  influenza  del 
misticismo  su  le  canzoni  dantesche;  e  il  pensiero  e 
le  imagini  ritornan  gli  stessi  nell'  andamento  delle 
strofi  e  nelle  movenze  dello  stile.  E  l'ode  Sirmio 
delle  seconde  Odi  barbare  anche  riecheggia  il  secondo 
bellissimo  intermezzo  della  celebre  critica  polemica 
sul    Ca  ira. 

III. 

È  pur  vero  che  il  Carducci  è  spesso  discorde 
dalle  concezioni  e  dagli  ideali  dei  contemporanei 
suoi,  e  che  nell'anima  sua  vibran  note  potenti  ma  poco 
o  niente  affini  a  quelle  dell'  arte  consuetudinaria  e 
della  facile  letteratura  de'  tempi  nostri;  e  però  ei 
non  resta  men  vero  ed  umano  quando,  pur  in  con- 
trasto con  le  aff"ezioni  del  suo  tempo,  rende,  incu- 
rioso del  volgo  degli  orecchianti,  gli  echi  e  i  battiti 
del  solo  suo  cuor  di  poeta.  Oh!  forsecchè  ogni  grande 
scrittore  non  è  sempre  un  po'  discorde  dall'età  sua? 
e  cessa  di  essere  men  vera  l'arte  quando,  pur  pog- 
giando sul  contenuto  storico  delT ambiente,  ne  rende 
le  impressioni  diverse  con  motivi  e  innovazioni  ai 
quali  non  consentano,  sì  per  lo  scadere  delle  lettere 
sì  per  ragioni  politiche  o  sociali,  le  simpatie  dei 
contemporanei  ?  Tutti  quelli  che  operano  qualsiasi 
rinnovamento,  scientifico  o  letterario,  politico  o  sociale, 
han  sempre  in  sé,  per  naturai  forza  propria,  attitu- 
dini e  caratteri  che,  prima  apparentemente  soggettivi 
e  personali,  diventano  universali  in  età  migliori  e 
succedenti,  quando  cioè  a  que'  contenuti  e  a  quelle 
forme  meglio  si  trovano  adatti  gli  ambienti  futuri. 
Quelli  che,  pur  grandi,  si  rigiran  solo  torno  torno 
all'ambiente  nel  quale  vivono  senza  prenunziar  l'av- 
venire, rimangon  solo  gli  uomini  del  lor  tempo,  ma 
non  di  tutti  i  tempi;  e  sia  pure  eccellente  l'opera  loro. 


(*)  Studi  letterari.  Bologna,  Zanichelli,  93,  Pag.  62. 


227 


IV. 

Queste  considerazioni  mi  venner  dettate  rileggendo 
i  quattro  volumi  della  collezione  definitiva  che  la 
benemerita  Ditta  Zanichelli  sta  compiendo  di  tutte 
le  opere  del  Carducci;  e  or  ch'è  apparso  il  quarto 
volume,  quello  delle  Confessioni  e  Battaglie  ,  non 
credo  inutile  di  parlarne  brevemente  insieme  cogli 
altri  due  che  gli  vanno  innanzi. 

Il  secondo  volume  della  serie  s'intitola  dai  Primi 
Saggi,  e  contiene  in  gran  parte,  novamente  èdite  con 
nuovi  ritocchi  di  stile,  le  prefazioni  che  il  Carducci 
mise  innanzi  a  parecchie  edizioni  critiche  de'  classici, 
affidate  alle  sue  cure  dall'editor  fiorentino  Gaspare 
Barbèra.  E  come  le  edizioni  de'  classici  criticamente 
curate  rimangono  pur  oggi  importanti  e  necessarie 
a  quanti  vogliono  o  intendono  con  nuove  ricerche  di 
codici  e  di  lezioni,  migliorarle  e  renderle  più  defini- 
tive; così  questi  discorsi  mantengono  ancora  l'attrat- 
tiva di  veri  e  notevoli  quadri  di  non  piccola  parte 
della  nostra  storia  letteraria.  Lorenzo  de'  Medici, 
Alessandro  Tassoni,  Salvator  Rosa,  Alessandro  Mar- 
chetti, Vittorio  Alfieri  ,  Giuseppe  Giusti  ,  Gabriele 
Rossetti,  F.  D.  Guerrazzi,  Luisa  Grace  Bartolini  sono 
in  questi  saggi,  quali  in  tutto  e  quali  in  parte,  de- 
gnamente illustrati  nella  vita  e  nelle  opere.  E  come 
vari  e  gradevoli  gli  argomenti,  così  sono  acute  le 
osservazioni  e  finamente  elaborati  il  periodo  e  lo 
stile.  Sotto  la  impressione  di  questi  studi  vennero 
fuori  in  massima  parte  i  Juvenilia,  i  Levia-Gravia  e 
qualcosa  dei  Giambi  ed  Epòdi;  ed  è  utile  il  notarne 
i  contatti  di  pensiero  e  di  forma:  così  lottano  insieme 
il  critico  e  l'indagatore,  l'erudito  e  l'artista,  il  pro- 
satore e  il  poeta.  Parlarne  minutamente,  è  impossi- 
bile; ma  giova  il  segnalare  all'attenzione  e  alla  am- 
xnirazione  de'  lettori  lo  studio  su  Lorenzo  de'  Medici, 
il  più  compiuto  sin'ora;  quello  su  Alessandro  Tassoni, 
anc'oggi  necessario  agli  storici  della  nostra  letteratura; 
quello  sul  Giusti,  a  proposito  del  quale  è  notevole 
quanto  scrisse  il  Carducci    nei  suoi  Bozzetti  critici  e 


228 


Discorsi  letterari  in  un  articolo  intitolato  Dopo  quin- 
dici atini;  e  quello  su  Alessandro  Marchetti,  mirabile 
per  erudizione,  e  pel  quale  il  Camerini  chiamò  mae- 
stro di  critica  il  Carducci. 

In  tutti  è  sempre  notevole  il  finissimo  magistero 
dello  stile,  la  varia  orditura  del  periodo,  lo  splendore 
delle  imagini,  il  calore  della  eloquenza,  la  novità  e 
originalità  delle    impressioni  e    delle    osservazioni. 

E'  vero  che  spesse  volte  i  legamenti  paion  troppo 
cercati:  è  pur  vero  che  non  sempre  svelta  e  agile  e 
corrente  si  snoda  la  forma,  e  che  talora  contorto  e 
sinuoso  procede  lo  stile  periodico;  ma  chi  ricorda 
quegli  anni  e  il  fervore  che  metteano  negli  studi 
classici  pochi  giovani  toscani  fra'  quali  il  Carducci, 
anche  penserà  che  questi  difetti  dovean  procedere 
per  naturai  conseguenza  dall'  indole  stessa  dei  loro 
studi  e  dall'animo  e  dal  calore  col  quale  li  prosegui- 
vano  indefessi. 

Questo  volume  contiene  prose  quali  vennero  in 
luce  durante  tutto  un  decennio,  dal  1857  al  1867: 
periodo  nel  quale  vennero  pure  scritti,  come  accen- 
nammo ,  i  Juveyiilia ,  i  Levia-Gravia  e  in  parte  i 
Giambi  ed  Epòdi.  Un  utile  riscontro  tra  quelle  prose 
e  queste  poesie  non  è  inopportuno  a  dimostrare  come 
in  detto  periodo  procedono,  nel  loro  primitivo  svol- 
gersi, quasi  sempre  di  pari  passo  il  poeta  e  il  pro- 
satore senza  forse  diverger  mai.  Anche  altre  prose 
vennero  composte  entro  i  termini  di  detto  decennio; 
ma  l'Autore,  per  la  lor  contenenza,  ne  farà  un  volume 
a  parte.  Giova  infine  osservare  come  almeno  in  tre 
saggi,  quelli  sul  Marchetti,  sulla  Bartolini  e  sulle 
Alc2i7ie  condizioni  della  presente  letteratura,  lo  stile 
viene  ad  assumere  un'assai  maggiore  facilità  e  fran- 
chezza e  un  procedimento  più  libero  ed  elegante  seb- 
bene men  vigoroso,  procedimento  che  prenunzia  i 
Discorsi  letterari  ;  sicché  parmi  che  il  primo  periodo 
possa  smembrarsi  in  due  periodi  più  brevi:  quello 
che  dal  1857  va  sino  al  1862,  e  quello  che  dal  1862 
va  sino  al  1867.  Utile  a  notare  a  chi  vuol  seguire, 
passo  passo  e  gradualmente,  tutta  intera  la  evoluzione 
dell'opera  carducciana. 


229 


Bozzetti  e  Scherme,  è  il  terzo  volume  della  serie  e 
contiene,  adatte  a  tal  titolo,  prose  dal  Carducci  pub- 
blicate dal  1867  sino  al  1889.  Sicché  questo  volume 
può  benissimo  offerirci  materia  a  percorrere  i  gradi 
diversi  di  tutto  il  rimanente  svolgersi  dell'  ingegno 
carducciano.  Ecco  gli  anni  diversi  ne'  quali  furono 
pubblicate  tutte  le  prose  di  questo  volume:  1867, 
1869,  1872,  1873,  1879,  1880,  1881,  1882,  1884,  1886, 
1887,  1889.  Quasi  tutte  queste  prose  apparvero  già 
ne'  Bozzetti  critici  e  Discorsi  letterari,  nelle  Confes- 
sioni e  Battaglie  e  nelle  Conversazioni  critiche  edite 
dal  Sommaruga:  le  altre,  nella  Cronaca  Bizantina,  nel 
Fanfulla  della  Domenica,  nella  Nuova   Aritologia,   etc. 

Colla  intitolazione  Bozzetti  qui  ricompaiono  veri  e 
proprii  studi  intorno  agli  offici  della  critica  e  del- 
l'arte; e  anche  se  brevi  per  estensione  materiale,  con- 
servan  sempre  nella  sintesi  vigorosa,  nutrita,  com- 
prensiva, materia  e  contenuto  per  più  diffuse  e  larghe 
monografìe. 

La  letteratura  contemporanea,  qual  essa  si  atteggia 
e  manifesta  nella  prosa  critica  e  nelle  poesie,  è  in 
questi  Bozzetti,  come  profondamente  lumeggiata  di 
scorcio  e  a  tocchi  e  a  sbozzi,  così  anche  studiata  in 
quel  ch'ha  di  manco  per  avviarsi  o  ravviarsi  sul  di- 
ritto cammino  della  tradizione    classica. 

S'  apre  il  volume  con  uno  studio  su  la  Dora  del 
Regaldi,  notevole  per  gli  accenni  alla  preminenza  del 
descrittivo  nell'arte  de'  nostri,  e  anche  pel  modo  onde 
ci  è  delineata,  tutta  intera,  la  figura  del  Regaldi  pro- 
satore, che  anche  c'induce  a  presentire  quel  eh'  egli 
sarà  come  poeta. 

Lo  stile  poi  di  questo  studio  ha  molta  parentezza 
con  quelle  prose  de'  Primi  saggi  che  venner  pubbli- 
cate dal  1862  al  1867:  piana  e  mormorante  la  forma, 
minor  levigatezza  ma  più  maschia  e  piacente  sempli- 
cità ne'  giri  e  ne'  contorni  del  periodo,  calmo  e  se- 
reno il  pensiero  rispecchiantesi  nel  placido  andamento 
dello    stile.  Il    poeta  è  uscito  dal  pugilato  letterario, 


230 


e  guarda  tranquillo  dalle  cime  del  suo  ideale  alle 
diverse  manifestazioni  dell'arte:  ancora  un  poco,  e  il 
poeta  ridiventerà  battagliero,  ma  in  altro  campo,  in 
quello  della  politica  di  fronte  alla  libertà  e  al  risor- 
gimento nazionale,  e  in  quello,  di  rimpetto  di  essa, 
della  poesia  giambica.  Questo  delle  prime  prose  di 
detto  volume  e  delle  ultime  di  quello  che  immedia- 
tamente gli  va  innanzi,  è  come  il  declinare  del  pe- 
riodo cui  accenna  il  Carducci  ne'  suoi  Raccoglimenti, 
periodo  che  comprende  i  begli  aìtni  da  lui  vissuti  in 
pacifica  e  ignota  solitudine  fra  gli  studi  e  la  famiglia. 
Egli  è  vero  che  questo  periodo  il  Carducci  lo  incastra 
entro  i  termini  del  quinquennio  dal  1861  al  1865;  ma 
sino  al  19  gennaio  1868,  quando  venne  pubblicato  il 
terribile  epòdo  Per  Edoardo  Corazzini,  io  noto  sempre 
nelle  prose  e  nelle  poesie  del  Carducci,  sempre  de- 
clinante se  vuoisi  ,  questa  quiete  d'animo  e  questa 
serenità.  Tal  periodo  è  importantissimo  a  chi  osservi 
come  la  forma  della  prosa  carducciana  ,  sempre  più 
liberandosi  da'  contorcimenti  del  classicismo  riflesso, 
acquisti  sempre  più  omogeneità  e  compattezza.  Nel 
1868,  coll'epòdo  citato,  s'inaugura  un  altro  periodo: 
la  piena  fusione  organica  tra  la  vigorosa  semplicità 
e  il  tacitiano  condensamento  del  pensiero  e  dello 
stile.  E  pure,  lo  studio  sul  Calderon  meglio  mi  riporta 
alla  prosa  sul  Regaldi  che  alle  altre  di  questi  Bozzetti 
e  Sellerine,  nonostante  venisse  pubblicato  del  1869. 

I  tre  studi  sul  Mameli,  sul  Muratori  e  sul  Manzoni, 
che  sono  i  migliori  del  volume,  e  che  vanno  fra  le 
più  perfette  prose  del  Carducci,  ci  attestano  interi  i 
caratteri  di  questa  terza  evoluzione  che  assume  l'arte 
del  nostro  scrittore.  Egli  sa  di  aver  combattuto,  e 
ferocemente  combattuto,  contro  1'  Italia  ufficiale,  ha 
ancora  frementi  i  polsi  di  vigor  battagliero,  ha  i  mu- 
scoli forti;  e  perciò  un  lampo  di  quelle  lotte,  un  fre- 
mito di  quelle  battaglie,  entra  pur  esso  nella  sua  prosa 
anche  quando  dovrebbe  essere  più  serena,  e  lo  stile 
ne  acquista  pregi  insuperabili  di  robustezza  e  di  den- 
sità. E  sotto  questo  aspetto  ritornano  in  queste  prose 
alcuni  caratteri  de'   primissimi    suoi    saggi,    ma  privi 


231 


de'  lor  difetti,  perchè  allora  non  erano  ben  fermi, 
come  adesso,  gì'  intendimenti  dell'  arte  e  i  securi 
mezzi  per  asseguirli:  ora  abbiamo  lo  scrittore  finito, 
che  plasma  e  scolpisce.  Il  periodo  si  move  co'  vecchi 
contorni  e  con  levigatissimi  giri,  ma  quelli  e  questi 
son  corretti  dalla  padronanza  che  ha  lo  scrittore  dello 
stile  e  dalla  maestria  che  ha  per  maneggiarlo,  rivol- 
gerlo, variarlo.  Ritornano  i  complicati  e  spessi  liga- 
menti,  le  radissime  interpunzioni,  le  trame  sottili  e 
variatissime  de'  membri  che  metton  l'anelito  e  moz- 
zano il  fiato;  ma  tutto  è  mirabilmente  fuso  colla  sim- 
metria perfettissima  delle  parti  e  colla  plastica  e  stu- 
diatissima  architettura  del  periodo,  dove  s'  incontrano 
molti  generi  diversi:  il  racconto  e  la  descrizione,  la 
parte  didascalica  e  1'  oratoria,  1'  elemento  satirico  e 
l'  umoristico,  l'elemento  discorsivo  e  il  polemico;  e 
in  tutto  e  da  per  tutto  il  pensiero  é  reso  intero  e  ma- 
neggevole, ricco  di  sfumature  di  colori  di  sfondi, 
nella  piena  rispondenza  tra  il  valor  concettuale  e 
quello  formale.  E  questi  caratteri  meglio  si  semplifi- 
cano e  s'  integrano  in  altre  prose  minori  per  la  con- 
tenenza e  per  lo  studio  delle  forme;  ma  il  tipo  unico, 
organico,  fisso  che,  più  o  meno  elaborato  o  palleg- 
giato, si  riscontra  in  tutte  le  prose  ulteriori,  mi  par 
sempre  quello  ch'io  non  rifinisco  di  ammirare  nelle  tre 
citate  magistralissime  prose.  Sono  ancor  notevoli  in 
questo  volume  le  prose  che  han  titoli:  Tibulliana,  la 
celebre  polemica  tra  il  Carducci  e  il  De  Zerbi;  Dieci 
armi  addietro,  importantissima  a  chi  vuol  conoscere 
le  condizioni  della  letteratura  italiana  dal  1870  al 
1880;  Maria  Teresa  Serego  -  Gozzadini,  mirabile  e  per 
lo  stile  e  per  gli  accenni  a  grandi  scrittori  co'  quali 
ebbe  relazioni  e  contatti  la  Serego;  Giovaìini  Prati, 
il  migliore  studio  che  nonostante  la  brevità  sua,  ab- 
bia r  Italia  intorno  al   Romanticismo. 

VI. 

Adesso  ci  resta  a  parlare  del  quarto    volume  della 
serie,  delle  Cofifessioni  e  Battaglie,  V opera  d'arte  mag- 


232 


giore  del  Carducci,  in  prosa.  Contiene,  in  massima 
parte,  scritti  pubblicati  ne'  tre  volumi  editi  dal  Som- 
maruga  sotto  la  medesima  intitolazione.  E  però  alcune 
di  quelle  polemiche,  le  quali  non  riguardano  diretta- 
mente la  difesa  degli  intendimenti  dallo  scrittore  pro- 
seguiti neir  opera  sua,  ma  alcuni  vizi  della  critica  e 
dell'arte  contemporanea,  vennero  pubblicate,  sotto  il 
titolo  Scherme,  nel  precedente  volume.  Queste  prose, 
invece,  hanno  attinenza  diretta  coli'  opera  propria  e 
personale,  di  cui  il  Carducci  difende  le  ragioni  criti- 
che ed  estetiche,  e  sono  vere  confessioni  e  battaglie, 
molte  delle  quali,  di  minor  valore,  verranno  prossi- 
mamente pubblicate  in  altro  volume,  in  Ceneri  e 
Faville. 

Queste  prose  abbracciano,  in  grandissima  parte,  il 
medesimo  terzo  periodo  di  che  più  innanzi  toc- 
cammo; se  non  che  in  alcune  polemiche  di  questo 
quarto  volume,  lo  stile,  pur  conservando  il  medesimo 
tipo,  s'atteggia  nella  maggior  sua  perfezione  per  la 
tecnica  delle  forme  e  per  la  eccellenza  del  contenuto: 
è  l'ultimo  grado  dello  svolgimento  che  raggiunge  la 
prosa  carducciana  per  quello  ch'è  determinatezza  di 
ideali  e  intendimenti  letterari  e  per  quel  ch'è  personalità 
e  soggettività  di  tutto  intero  l'uomo  e  lo  scrittore.  Qui 
abbiamo  l'artista  che,  combattute  molte  battaglie  e 
ancor  tenace  nella  lotta,  ha  già,  disdegnoso,  battute  le 
porte  dell' avve?iire.  Lo  scrittore  ha  già  fermato  il  pie 
saldo  Sili  termine  ad  combattendo  valse  raggiungere ,  ha 
già  preso  d' assalto  i  clivi  de  ir  arte,  piantandovi  la  sua 
batidiera  garibaldina.  Son  come  le  ultime  battaglie 
campaci  che  menano  all'apoteosi  del  trionfo,  dopo  le 
quali  l'artista,  calmo  e  sereno,  si  riposa,  e  ricercale 
cime  quiete  della  poesia  e  della  prosa.  E  però  alcune 
prose,  come  le  Polemiche  Sataniche,  risalgono  a  pe- 
riodi anteriori,  perchè  qui  il  Carducci,  come  in  altri 
volumi,  salvo  solo  i  Primi  Saggi,  non  ci  dà  cronolo- 
gicamente i  gradi  diversi  della  sua  operosità  lettera- 
ria, ma  solo  i  frammenti  dell'opera  sua  che  meglio 
si  attagliano  a  questo  o  a  quel  titolo:  quindi  non  è 
da  meravigliare  se  con  prose  recentissime   anche    ne 


233 


compaiono  di  vecchie  e  di  primitive.  E  però  1'  arte 
maggiore  è  da  ravvisare  in  quei  quattro  capolavori  di 
stile  che  han  titoli:  Le  Risorse  di  San  Miniato  al  Te- 
desco, Critica  e  Arte,  Eterno  Femminino  regale ,  Ca 
ira.  E  capolavori  son  veramente,  per  la  contenenza 
e  per  la  idealità,  per  il  drammatico  movimento  dello 
stile  e  per  la  mistura  degli  elementi  più  diversi  .  E 
son  tali  e  tanti  gli  elementi  concettuali  e  i  formali, 
che  ne  risulta  un'arte  tutta  soggettiva  e  classicamente 
perfetta,  e  una  prosa,  si  può  dire,  senza  esempi  in 
tutta  la  letteratura  almeno  contemporanea. 

Quello  che  notammo  di  tre  prose  del  terzo  volume, 
può  dirsi  ancora  di  queste  quattro,  se  non  che  qui 
è  assai  più  vario  e  animato  il  magistero  dello  stile, 
con  qualcosa  di  più:  l'umorismo  cinicamente  lettera- 
rio e  la  plastica  e  sensibile  determinatezza  del  pae- 
saggio nella  insuperabile  attrattiva  della  narrazione  e 
della  descrizione. 

Quando  mai  la  odierna  prosa  italiana  si  mostrò  sì 
ricca  di  generi  e  di  forme,  sì  comicamente  aristofane- 
sca o  terribilmente  archilochèa  ,  e  con  tali  impeti 
d'eloquenza,  come  in   Critica  e  Artef 

Quando  mai  la  prosa  contemporanea,  quando  mai 
la  facile  letteratura,  sollevandosi  sulle  misere  affezioni 
di  parte,  ebbe  la  idealità  e  la  perfezione  dell'  Eterno 
femminino  regale? 

Quando  mai  tra  la  linea  luminosa  del  paesaggio  e 
le  punture  atroci  dell'umorismo  letterario,  la  narra- 
zione e  la  descrizione  ebbero  tanta  incisiva  comprcn- 
sività e  magia  di  colori,  tanto  vero  e  schietto  reali- 
smo, e  tanta  correttezza  di  linee  e  di  contorni,  come 
in  tutti  questi  quattro  originalissimi    capolavori? 

E  sì  che  a  considerar  sì  fatti  pregi  viene  anche  a 
me  il  dubbio  se  non  debbasi,  qualche  volta,  preferire 
il  prosatore  al  poeta,  e  se  mai  il  primo  non  debba 
durare  più  del  secondo;  tanta  e  sì  ricca  è  la  eccellenza 
dell'arte  di  queste  prose! 

Intanto  felicitiamoci  che,  in  tanto  scadere  del  vivo 
senso  estetico,  in  tanto  abbassamento  di  cultura,  TI- 
talia  abbia  un  grande  e  inimitabile  esempio  da  com- 


234 


parare  agli  antichi,  almen  per  la  tenace  operosità  di 
spingere  la  Nazione  Italiana,  dimentica  del  suo  pas- 
sato e  delle  sue  tradizioni,  verso  i  più  alti  ideali  di 
arte  e  di  patria,  verso  il  compiuto  rinnovamento  delle 
lettere  e  della  coltura.  Ma  P Italia,  pur  troppo,  non  si 
Piove!  E  per  questo,  affettando  di  parlar  di  barbarie 
a  proposito  del  Carducci,  non  ci  accorgiamo  che  a  noi 
manca  l'intimo  senso  e  un  concetto  adeguato  di  quello 
che  dicesi  cultura   superiore. 


XXI. 
Ferdiiiando  Martini. 

BIOGRAFIA 


Sua  nascita  -  Il  padre  commediografo  -  Siici  maestri 
e  primi  suoi  studi. 


i^KACQUE  da  Vincenzo  Martini  e  da  Marianna  de' 
^s^|y  marchesi  Gerini  il  30  luglio  1841  in  Mon- 
summano,  bella  e  irrigua  terra  della  Valdi- 
nievole  ,  patria  di  Giuseppe  Giusti  ,  e  ricca  ora  di 
ricercati  stabilimenti  termali.  Tolse  in  moglie  donna 
Giacinta  nata  contessa  Mariscotti  e  n'ebbe  figliuoli. 
Una  sua  figlia  ,  essendo  egli  ancor  ministro  per  la 
pubblica  istruzione,  andò  sposa  a  un  ricco  gentiluomo 
lombardo  ;  il  che  dette  il  volo  a  prose  ,  a  versi  ,  a 
esumazioni  storiche  onde  critici  e  poeti  vollero  col 
fior  della  cultura  auspicare  1'  illustre  e  felice  imenèo. 
Suo  padre  fu  commediografo  lodato,  e  scrisse,  fra 
le  altre,  queste  due  commedie:  La  donna  di  quaranf 
antii  e  //  Cavaliere  d'industria,  che  parvero  le  migliori 
all'autore  medesimo,  e  ad  esse,  raccolte  interamente  in 
un  bel  volume  uscito  nel  "56  in  Firenze,  il  figliuolo  Fer- 
dinando mandò  innanzi  una  prefazione,  o,  meglio,  uno 
studio  di  cui  fra  le  cose  sue  anche  più  vantate  meglio 
si  ricorda  e  compiace.  Dunque  la  famiglia  e  il  paese 
nativo,  così  pregni  di  aure  benefiche,  gli  aprirono  il 
passo  alla  gloria;  ma  sterili  e  monchi  (l'autore  stesso 
lo  narra)  furono  i  primi  studi  i  quali  dagli  otto  insino 
a'  dieci  anni,  in  patria,  e,  per  alcun  tempo  di  poi, 
dagli  Scolopi  per  la  fisica  e  la  filosofia,  egli  fornì 
sotto  maestri  pedanti  e  non  buoni;  all'  in  fuori  del 
latino,  insegnatogli  bene  da  un  prete  colto,  un  tal  Ter- 
zoni, che  davagli  vacanza  anche  il  sabato  perchè 
troppo  infervorato  nella  cabala  e  nel  giuoco  del  lotto. 


236 


Sentì  allora  bisogno  di  migliore  ossigeno,  onde  scappò 
di  scuola  e  riparò  in  biblioteca,  ove  intese  con  assidue  e 
assai  lunghe  letture  (anch'  egli  si  meraviglia  come  la 
la  durasse  allora  a  leggere  per  sedici  o  diciotto  ore 
continue)  a  studi  più  geniali  e  liberi  che  con  tali 
esercizi  autodidattici  lo  crebbero  scrittore  e  cittadino. 
Le  opere  sue  molteplici,  tendenti  tutte  alla  cultura 
della  scuola  e  della  vita,  si  possono  dividere  ne'  se- 
guenti gruppi:  commedie,  racconti,  prose  varie  e  po- 
lemiche. 

Le  sue  commedie  e  i  suoi  racconti. 


È  naturale  che  su  1'  esempio  paterno  un  de'  primi 
suoi  amori  fosser  le  commedie;  ed  a  queste  ei  volse 
r  animo  con  crescente  alacrità. 

Per  consiglio  di  Gaetano  Gattinelli,  intorno  al  1863, 
die  con  successo  una  prima  sua  commediola  in  due 
atti:  L' uomo  propone  e  Dio  dispo?ie.  Sùbito  dopo,  anche 
applaudita,  un'  altra,  /  nuovi  ricchi,  la  quale,  sebben 
premiata  al  concorso  drammatico  governativo  di  Fi- 
renze, non  più  par  lodevole  all'  autore  medesimo  che 
fu  sempre  troppo  severo  giudice  delle  cose  sue.  Nel  "67 
altre  due:  Fede  e  Un  bel  matrimonio,  eh'  ebber  suc- 
cesso dubbio,    o,   come  oggi  dicono,   di  stima. 

Nel  "67  il  pubblico  fiorentino,  che  per  questo  a  lui 
pare  il  migliore  e  insieme  il  più  esigente  e  intellet- 
tuale d'  Italia,  non  accolse  1'  altra,  Z,'  elezione  d'  un 
deputato,  che,  come  a  dispetto,  altrove  non  dispiacque. 
Nel  giugno  del  "71  apparvero  due  altre  commedie, 
tutte  di  un  atto  e  in  versi  martelliani  (l'unico  metro 
che  mai  tentasse  il  Martini),  cioè  La  strada  più  corta 
di  squisitissima  e  arguta  leggiadria,  recitata  nel  feb- 
braio e  per  la  prima  volta  in  Firenze  al  Teatro  delle 
Logge,  ^  Il  peggio  passo  è  quello  de W uscio ,  il  più  vivo 
e  il  più  nativo  de'suoi  proverbi,  ormai  popolarissimo, 
e  applaudito  per  la  prima  volta  nel  Politeama  di  Pisa 
il  29  giugno  del  medesimo  anno.  Finalmente  il  27 
novembre  1894  nel  Teatro  Alfieri  di  Torino  si  ascoltò 


237 


per  la  prima  volta  un'  altra  sua  commediola,  Vipera, 
l'ultima  e  in  prosa,  anch'  essa  applauditissima  e  che 
del  "95  il  Treves  raccolse  con  le  tre  altre  precedenti  in 
elegantissimo  volumetto.  Sembrano  l'elenco  di  un  re- 
pertorio teatrale;  e  in  esse  ,  o  almeno  nelle  più  celebri, 
non  sai  se  più  lodare  la  vispa  e  varia  spigliatezza 
del  dialogo  con  la  briosa  loquacità  de'  personaggi  e 
l'elegante  profumo  della  lingua  paesana,  o  il  pronto 
e  sicuro  intuito  della  vis  comica  ne'  rapidi  e  felicis- 
simi scorci  dell'azione  scenica. 

Dopo  le  commedie,  i  racconti  e  le  prose  pole- 
miche: è  naturale.  Dopo  1'  ignoto  libriccino  del  "62, 
dove  crede  di  aver  fuso  male  con  la  vii  prosa  de'tra- 
duttori  da  romanzi  francesi  la  cinquecentistica  e  clas- 
sica del  Bembo  e  del  Casa,  e  dopo  aver  dato  in  luce 
r  inedito  volgarizzamento  della  Natura  del  voto  di 
Eroìte  Alessandrino  fatto  da  Bernardo  Davanzati  e  ci- 
tato dalla  Crusca;  pubblicò  del  "72  il  volume  «  Pec- 
cato e  penitenza  »  che  uscì  coi  tipi  della  Nazione  in 
Firenze,  e,  nel  "76,  la  Marchesa  e  più  altri  racconti 
che  dalle  riviste  vennero  co'  primi  raccolti  in  volume 
dal  Treves.  Ne'  racconti  il  Martini  come  anche  in 
tutte  le  sue  prose  mostra  una  levigata  e  garbata  con- 
cinnità tra  il  facile  discorrere  delle  conversazioni  e 
l'acuta  e  arguta  eleganza  delle  sue  prose  più  raffinate 
e  peregrine  che  mal  dissimulano  l'acconcia  politezza 
dello  stile  classico,  e  dove  con  una  venatura  qua  e  là 
del  Giusti  gli  spiccia  per  più  fresche  sorgive  la  cor- 
rente dell'  humor. 

Prose  critiche  e  polemiche. 

Ma  l'autore  seppe  anche  unire  1'  arte  alla  critica. 
E  di  fatti,  l'anno  istesso  che  die  al  teatro  il  noto 
proverbio:  —  77  peggio  passo  è  quello  dell'  uscio  — , 
cioè  nel  "73,  fece  una  conferenza  alla  Università  di 
Pisa  su  la  Morale  e  il  Teatro,  che  fu  una  difesa  lu- 
minosa dell'  Arte  per  V arte,  cioè  della  morale  sovra- 
nità della  Bellezza,   dentro    e    fuori    ogni    contenuto, 


238 


e  ne'  semplici  e  liberi  confini  dell'  estetica;  prin- 
cipio questo  che  primo  il  De  Sanctis  impose  e  propagò 
in  Italia,  ma  che  oggi,  dopo  tanti  dibattiti  e  accese 
controversie,  non  par  tutto  vero,  non  potendo  l'arte 
assorgere  mai  alla  ideale  sua  bellezza  senz'accogliere 
gli  spiriti  e  le  nobili  aspirazioni  del  tempo,  in  una 
severa  ed  alta  comunità  di  pensieri  e  di  forme 
e  in  una  piena  concordia  di  contenuto  estetico  e  di 
morale,  di  fronte  al  benessere  della  società  e  al  mi- 
glioramento umano. 

Dunque  dopo  i  racconti  formano  un  terzo  gruppo 
le  prose  varie  e  polemiche,  tutte  scintillanti  di  brio 
e  d'  ironica  comicità.  Nel  ''68,  qual  segretario  della 
regia  commissione  nel  3°  concorso  per  la  facciata  del 
Duomo  di  Firenze  (S.  Maria  del  Fiore),  ne  scrisse 
da  par  suo  la  relazione,  ottimo  documento  di  quel 
tempo  per  ispirito  d'  arte  e  di  critica.  E  di  poi,  in 
più  tempi  e  per  giornali  molteplici,  si  seguirono  queste 
altre  prose:  La  scoperta  della  Germania,  Teofilo  Gau- 
thier,  Pietro  Lachambeaudie,  La  Desclèe,  Su  l' uscio  di 
Alontecitorio;  e  in  esse  versò  il  sale  dello  spirito  pronto 
e  del  finissimo  gusto  critico  per  argomenti  vari  e  di- 
versi. Accusato  di  plagio,  nel  "71  compose  un'arguta 
e  brillante  prefazione  al  suo  Sosia,  Fantasia,  mor- 
dente saggio  di  critica  ardita  ch'ebbe  l'onore  di  più 
edizioni.  Versatile  in  tutto,  si  provò  anche  nel  gior- 
nale, e,  del  1871,  entrò  nel  Fa7ifulla,  ove  prese  due 
motti  di  arme,  Faritasio  e  Fox\  e  scrisse,  a  lungo 
scrisse  di  questioni  gravi  e  piccine,  di  politica  e  di 
letteratura,  di  prose,  di  poesie,  anche  di  pettegolezzi, 
con  fuggitivo  e  improvviso  lavoro  che  non  parve  da 
gazzette  ma  da  uomo  di  buon  gusto;  e  il  meglio,  sotto 
il  titolo  «  Tra  tot  sigaro  e  l'  altro  »,  pubblicò  di  poi 
in  Milano  il  1877,  con  una  prefazione  che  ci  rivela  i 
palpiti  e  gli  entusiasmi  di  lui  giovinetto  quando  inco- 
minciò a  scrivere  su  pe'  giornali.  Circa  il  "79  fé'  na- 
scere dal  Fanfjilla  politico  il  Fanfulla  della  Domenica, 
primo  o  de'  primissimi  saggi  della  facile  letteratura  a 
due  soldi,  e  vi  accolse  una  settimanale  covata  di  scritti 
brevi  ma  variatissimi,  dovuti  a'  migliori  ingegni  d'I- 


239 


talia.  Poco  di  poi  diresse  anche  la  Domeìiica  lettera- 
ria., ma  questa  ben  presto  si  spense  sotto  la  direzione 
dello  Scarfoglio  che  passò  veloce  dall'aringo  letterario 
al  politico  col  Corriere  di  Roma  e  via  via  con  il  Cor- 
riere di  Napoli  e  col  Mattino  dove  meglio  si  svolse  o 
esorbitò  quell'ingegno  tumido  e  irrequieto;  e  1'  altro, 
il  buon  Fanfulla,  che  durò  e  dura,  in  mano  d'altri  diven- 
ne una  spugna  di  ciarle,  leggerissima  fruttificazione  di 
giovini.  Seguono  in  quarto  gruppo  le  prose  gravi  ed 
organiche  in  più  volumi:  Meìnorie  di  Giuseppe  Giusti, 
Il  Giusti  studente,  una  conferenza  su  lo  stesso,  Nel- 
l'Affrica italiana,  più  altre  conferenze  letterarie  di 
cui  r  ultima  fu  quella  sul  Goldoìii,  una  lunga  serie 
di  scritti  che  van  sotto  il  titolo  Intorno  al  teatro,  e 
altri  scritti  molteplici  versati  con  larga  mano  su  la 
Nuova  Antologia,  nel  Corriere  di  Napoli  e  qua  e  là  in 
tante  altre  riviste,  ebdomadarie,  politiche,  scolastiche, 
letterarie,  e  che  ancora  aspettano  il  volume  o  più  vo- 
lumi. Ma  gli  studi  sul  Giusti  e  quelli  descrittivi  su 
l'Affrica  italiana  son  fra  le  migliori  cose  da  noi  pro- 
dotte in  questi  ultimi  anni.  Il  volume  su  1'  Affrica  ei 
lo  scrisse  quando  fu  segretario  d'una  Commissione  al- 
l'Eritrèa, e  sempre  battè  poi  su  1'  argomento  in  cui 
è  molto  versato  ;  e  come  a  premio  della  sua  larga 
esperienza  politica  in  questa  materia  fu  da  un  anno 
nominato  Governatore  della   Colonia  eritrèa. 

L'  Inseg?iante,  il  Ministro  e  il  Pedagogista. 

Ora  ci  resta  a  dir  di  lui  come  insegnante,  come 
riformatore  e  come  pedagogista.  Questa  fu  la  parte 
più  utile  e  più  sana,  a  cui  mirò  sempre  anche  trattando 
di  altro,  fin  da  quando  incominciò  a  scrivere  e  a  com- 
battere. Io  ho  sempre  riconosciuto  nella  mirabile  ver- 
satilità del  suo  spirito  e  del  suo  ingegno  una  grande 
attitudine  a  convertire  e  disciplinare  in  ammaestra- 
mento tutto  quello  che  sa,  e  insieme  la  facilità  ve- 
nusta d' illeggiadrire  gli  argomenti  più  aridi  e  di  ren- 
derli col  diletto  e  con  la  lucidità  dello  stile  accessibili 
a  tutti.  E.<li  nacque  in  una    parola    maestro    di  sé  e 


24© 


degli  altri;  e  già  vedemmo  come,  fuggendo  la  scuola 
dei  vecchi  retori,  tutto  fece  da  sé;  egli  fu  ed  è,  come 
aman  dire  oggi,  un  mdodidattico ,  onde  se  sa  la  via 
propria,  gli  riesce  agevole  anche  aprirla  altrui.  Entrò 
pure  egli  nella  scuola,  che  forse  dovea  riuscire  il  suo 
più  glorioso  arringo;  e  de'  ministri  che  sì  vari  e  di- 
versi si  seguirono  alla  Minerva,  fu  l'unico  e  solo  che 
fece  le  prime  armi  e  s'  impratichì  nelle  scuole  infe- 
riori, in  quelle  poi  da  cui  vengono  o  dovrebbero  ve- 
nire le  fondamentali  norme  della  pratica  pedagogia. 
E,  di  fatti,  nei  tSóg  entrò  come  professore  di  lettere 
italiane  e  di  storia  nella  R.  Scuola  Normale  femmi- 
nile di  Vercelli,  donde  poi  passò  in  quella  maschile 
di  Pisa;  ma,  nel  1872,  incitato  da  altre  cure,  lasciò 
r  insegnamento,  di  cui  serba  ancora  il  più  bel  ricordo, 
onde  dedicò  a'  suoi  alunni  la  sua  prima  antologia  sco- 
lastica (Prose  italiane  moderne)  che  pe'  tipi  del  San- 
soni di  Firenze  pubblicò  nel  1894,  la  quale  ebbe  già 
una  seconda  edizione  ed  altre  se  ne  ripromette.  E' 
questo  un  libro  veramente  degno  di  lui,  com'  è  anche 
un  de'testi  migliori  che  vanno  tuttavia  per  le  scuole. 
L'autore  nell'elegante  prefazione  con  che  accompagna 
il  volume,  dice  la  ragione  del  metodo  da  lui  seguito, 
eh'  è  appunto  quello  di  rinfrescare  con  prosa  cor- 
rente e  semplice,  varia  ed  amena,  e  istruttiva  e  pro- 
gressiva, le  menti  de'  nostri  giovani,  mostrando  come 
i  saggi  un  po'  anticati  della  classica  letteratura,  unico 
amore  delle  vecchie  antologie,  meno  si  prestino  a  svel- 
tire e  rinfrancare  gì'  ingegni  nel  primo  maturare  del- 
l' adolescenza.  E'  un  consiglio  veramente  seguito  an- 
che da  altri;  ma  in  quest'  operetta  par  meglio  di- 
sposta e  ripartita  la  materia,  più  sobria  e  accurata 
la  scelta,  più  fresca  e  più  viva  nella  lingua  e  nello 
stile  la  succosa  novità  e  utilità  de'  soggetti.  Se  non 
che  a  noi  parrebbe  che  più  di  un  brano  per  questi 
rispetti  vorrebbe  essere  sostituito,  come  pure  non  si 
vorrebbe  escludere  delle  ricche  miniere  classiche  quei 
ch'è  non  meno  semplice  ma  certo  più  purgato,  più 
vario  e  più  elegante.  Alla  prosa  recente,  non  sem^pre 
franca  e  di  rado,  negli  atteggiamenti  dello  stile  e  nella 


241 


lingua,  efficace  e  propria  e  pura,  può  benissimo  es- 
sere accompagnata  pur  nelle  classi  inferiori  la  prosa 
ingenua  del  secolo  aureo  e  1'  altra  più  complessa  e 
più  organica  de'  secoli  migliori.  A  questo  volume,  pur 
edito  dal  Sansoni,  seguì  presto  nel  "95  un  altro, 
quello  della  Prosa  viva  d  '  ogni  secolo  della  letteratura 
italiana,  proposto  alle  scuole  complementari  e  normali, 
alle  classi  superiori  de'  ginnasi  e  alle  inferiori  degli 
istituti  tecnici.  Qui  l'autore  tenta  e  indica  primo  un 
metodo  nuovo  di  compilazione;  ed  è  proprio  originale 
il  metodo  d'incominciare  lo  studio  della  lingua  e  delle 
forme  per  inversione  cronologica,  cioè  da'  più  recenti 
a'  più  antichi  scrittori,  come  in  alcune  scuole  si  fa  o 
si  fece  con  la  storia:  è  un'  evoluzione  retrospettiva 
degli  svolgimenti  naturali  della  nostra  favella,  o  me- 
glio, come  dicono  i  moderni  ,  è  una  hivoluzione  di 
metodo.  Il  quale  è  almeno  discutibile.  Resta  ancora 
a  provare  se  movendo  dal  De  Amicis  che,  sia  detto 
di  volo,  non  é  così  mondo  come  vivo  descrittore  , 
per  arrivare  insino  a  Dante  ,  cioè  dalle  forme  a 
noi  più  vicine  alle  più  lontane  ,  non  vi  sia  ragion 
di  noia  o  di  sconforto,  non  vi  sia  un  certo  ina- 
ridimento, delle  facoltà  che  si  svogliano  ben  presto 
nel  faticoso  cammino.  Meglio  con  1'  aiuto  e  1'  av- 
vicendamento de'  moderni  partire  da'  più  antichi,  i 
quali,  se  scelti  bene,  mostrano  il  naturale  cammino  e 
il  progressivo  divenire  della  lingua  e  dello  stile,  in 
conformità  alla  scienza  della  evoluzione,  la  quale  ci 
indica  la  via  e  il  procedimento  che  tennero  a  grado 
a  grado  gli  scrittori  dalle  forme  più  semplici  alle 
più  elaborate  .  E  ciò  anche  ci  fa  accorti  come  più 
curiose  si  volgono  le  menti  a  vedere  e  seguire  in 
qual  guisa  si  andò  di  mano  in  mano  e  di  tem- 
po in  tempo  formando  il  ricco  patrimonio  della 
nostra  favella,  e  quella  organica  tradizione  che  non 
è  bene  interrompere  sia  ne'  corsi  inferiori  che  ne' 
superiori,  perchè  ne  risulti  poi  uno  stile  più  mosso 
ed  agile  sì,  ma  anche  infuso  di  quegli  elementi  com- 
plessi eh'  ebbe  la  prosa  antica  e  non  ha  la  nuova, 
in  cui  mal  si  confonde  la  sofìstica  facilità  con  la  fran- 

16 


!42 


chezza  e  la  variata  armonia;  e  perchè  infine  ne  derivi 
un'  opera  concorde  di  compenetrazione  e  d'  integra- 
mento. Un'  altra  piccola  novità  di  quest'  antologia  è 
quella  di  aver  quasi  esumato  e  offerto  allo  studio  de' 
giovani  alcune  prose  spigliate  e  schiette  di  scrittori 
ignoti  e  non  recenti.  Anche  questo  pare  indizio  di 
quel  senso  storico  attuale  che  ci  mena  tutti  anche  a 
viete  curiosità  di  erudizione,  Ma,  tornando  al  Martini. 
c'era  egli  bisogno  di  produrre,  ora,  scritture  ignorate? 
Mancava  forse  di  meglio?  Ho  voluto  mostrare  mode- 
stamente un  mio  dubbio  che  nulla  toglie  alla  grande 
autorità  del  compilatore,  il  cui  libro  resterà  sempre 
un  saggio  originale  di  antologia  scolastica,  al  quale, 
ciò  non  ostante,  molto  e  bene  possono  attingere  i 
maestri,  cominciando  come  credono  e  con  quell'ordine 
meglio  da  essi  seguito.  Neil'  un  volume  e  nell'  altro 
v'  ha  note,  brevi  sì  ma  nutrite  e  succose,  e  forse 
meglio  avrebbe  fatto  l'autore  a  darne  di  più:  infine 
li  chiude  un'  accorta  e  sobria  biografia  di  tutti  gli 
scrittori  di  cui  si  riportano  prose  e  poesie,  le  quali 
ultime,  e  non  solo  nel  primo  volume,  vogliono  essere 
di  gran  lunga  accresciute  nelle  future  edizioni  che 
auguriamo  rapide  e  molte. 

Il  Martini  scrisse  poi  molt'altro  in  materia  d'istru- 
zione; e  se  gli  svariati  articoli  che  dette  per  tanti 
anni  a  giornali  politici  e  scolastici,  raccogliesse  e  or- 
dinasse in  volumi,  renderebbe  un  grande  servizio  alla 
causa  della  scuola,  monito  e  guida  a  ministri  che 
verranno,  a  professori,  a  maestri.  Di  cose  pubblicate 
in  libri  non  ricordiamo  altro  che  le  Lettere  aperte  a 
S.  E.  il  Mbiistro  dell'Istruzione  Pubblica,  ^  Dell'  Or di- 
7iameìito  della  Scuola  Secondaria;  ma  son  pubblicazioni 
non  facilmente  reperibili. 

Da  parecchie  legislature  egli  è  deputato  al  Parla- 
mento dove  è  oratore  simpatico  e  ascoltatissimo,  come 
altrove  è  conversatore  ameno  e  conferenziere  affa- 
scinante. Fu  sottosegretario  di  stato  sotto  il  ministro 
Ceppino  nel  i8b6,  e,  dal  i6  maggio  1892  al  14  di- 
cembre 1893,  ministro  per  la  pubblica  istruzione:  da 
polemista  a  critico ,    da    scrittore  e  direttore  di  gior- 


243 


nali  a  conferenziere  e  orator  parlamentare  ,  da    com- 
mediografo a  compilatore    di  antologie,    da    modesto 
insegnante  a  ministro,   e'  fece  i  passi  di  Nettuno,  sin- 
golare esempio  in  Italia.  Alla  Minerva  die  opera  a  un 
largo  e  illuminato  riordinamento  di  servizi,   ed  anche 
intese  a  infondere  in  tutto  1'  insegnamento  quella  sa- 
lutare e  feconda  libertà  che  mal  s'adagia  nelle  pastoie 
dei  vecchi  metodi  e  delle    vecchie    prescrizioni  rego- 
lamentari.  E  tutti  ricordano    in  proposito    quella    sa- 
piente e  animosa  circolare  che  nel  '92  fece  il  giro  di 
tutte  le  scuole:    con    essa    il  ministro,   osteggiando    il 
faticoso  e  inutile  lavoro  di  alunni  e  di  professori,  con- 
sigliò a  questi  ultimi  sotto  la  loro  responsabilità  la  libera 
ricerca  di  que'  metodi  che  meglio    reputassero  adatti 
al   proprio  insegnamento,   porgendo     così  incitamento 
alle  particolari    energie  di  ciascuno.  E  fu  provvido  e 
utile  consiglio,   che  già    accennava    a    un    disegno  di 
più  larghe  e  moderne  riforme,  che  per  manco  di  tempo 
non  potè  neppure  avviare.  E  fu  lui  che  promosse  l'in- 
segnamento facoltativo    del    greco,    che    anche    dopo 
dimostrò  utilissimo  e  opportuno  per  mezzo  della  stampa, 
svegliando  così  una    grave  discussione    fra'  dotti  che 
ancora  è  ardente,  e  forse    lo    sarà  sempre,   o  almeno 
fino  a  quando  balenerà  alle  menti  di  tutti  il  nome  di 
Omero  con  quello  di  Virgilio   e  di   Dante.    Fu  anche 
sua    una    riforma    organica    sul    riordinamento    della 
scuola  secondaria  che    poi  deputato    presentò  in  una 
dotta   relazione   alla  Camera  de'  deputati,   i  quali,  per 
tutt'  altri    motivi  che  scolastici,    1'  avversarono  prima 
che  venisse  in  esame  e  in  discussione  dinanzi  al  Par- 
lamento.  E  pure  quella  riforma  era  destinata  a  vivere, 
perchè  ad  essa  in  fondo    mirava    nel  suo    obliato  di- 
segno di  legge  r  on.    Gianturco.    Si    tratta  della    fu- 
sione della  scuola   tecnica    col    ginnasio,  il  cui  corso 
il  Martini  limitava    a  quattro    anni,    come    scuola    di 
preparazione,   la  quale  darebbe  adito  per  due  vie  di- 
verse all'  istituto  tecnico   e    al  liceo  anche  quadrien- 
nali.   Intese  pure  il    Martini  ,    scrittore  ,    deputato    e 
ministro,a  ravvivare  1'  insegnamento  elementare;  e  di 
fatti  egli  è  un  partitante  non  acceso    dell'  avocazione 


244 


di  queste  scuole  allo  Stato:  fu  lui  che  sempre  ne  di- 
fese il  miglioramento  economico  e  morale,  come  a  lui 
devono  in  gran  parte  i  maestri  elementari  e  normali 
tutto  quello  che  in  questi  ultimi  anni  si  fece,  perchè 
egli  aprì  ogni  varco  alla  discussione  e  propagò  col- 
l'autorevole  parola  il  movimento. 

Il  Martini  è  un  beli'  uomo,  roseo,  aitante,  diritto, 
e  più  tosto  alto;  se  non  che  una  importuna  calvizie 
gli  luccica  sul  capo,  ed  egli  se  ne  dispiace.  Ha  gli 
occhi  scintillanti  d'  arguzia  e  d'  intelligenza,  è  sano 
di  corpo,  di  signorile  eleganza  e  garbatissimo  di  modi; 
e  tutto  questo  lo  rende  simpatico  a  tutti.  E',  come  di 
cemmo,  conterraneo  del  Giusti,  e  se  ne  vanta.  Ama 
gì'  ingegni,  e  ne  promove  l'avvenire:  gli  ama  e  pro- 
segue di  conforti  a  quel  modo  che  adora  ogni  cosa 
bella  e  gentile.  Ei  serba  nell'  animo  e  nell'  ingegno 
le  qualità  migliori  della  nativa  regione,  ma  soprat- 
tutto la  piacevolezza  satirica  e  l'arguzia  morbida  e  leg- 
giadra. Politico  di  elevato  senso  pratico,  è  fra'  mi- 
gliori oratori  parlamentari;  e  se  lasciò  presto  1'  inse- 
gnamento, ha  volto  sempre  alla  scuola  V  animo  e  il 
pensiero,  onde  l'Università  di  Padova,  con  unanime 
assentimento,  lo  nominò  dottore  honoris  causa.  E  così 
questo  brillante  scrittore  ,  politico  ,  commediografo  , 
letterato,  rende  nella  molteplice  opera  sua  il  vivo 
esempio  della  varia  e  luminosa  genialità  del  vecchio 
popolo  toscano. 


xxri. 

Griovanni  Marradi. 


I. 

de'  giovani  lirici  italiani,  cioè  di  quei  pochi 
che  intorno  alla  rovere  carducciana  creb- 
bero e  fiorirono  vigorosi  nel  fecondo  de- 
cennio 1877-87,  il  più  riccamente  e  naturalmente 
poeta.  Non  vo'  dire  quel  tempo  essere  stato  per  la 
poesia  italiana  come  un  novo  rinascimento;  che  troppo 
io  credo,  pur  dinanzi  a'  radi  bagliori  di  una  produ- 
zione più  sana,  a  un  fatale  decadimento  delle  lettere 
patrie.  Se  però  in  quel  torno  apparvero  le  Rime  ?iuove 
con  le  Odi  barbare  di  Giosuè  Carducci;  le  Postuma 
e  la  Nova  polemica  di  Olindo  Guerrini;  il  Lucifero  e 
il  Giobbe  di  Mario  Rapisardi;  i  versi  di  Enrico  Pan- 
zacchi,  le  Lacrymae  e  le  versioni  di  Giuseppe  Chia- 
rini, gli  ultimi  canti  di  Giacomo  Zanella,  le  Anticaglie  di 
Felice  Cavallotti,  e  in  fine  le  poesie  di  Vittorio  Betteloni^ 
di  Aurelio  Costanzo,  di  Domenico  Gnoli,  di  Antonio 
Fogazzaro,  di  Corrado  Ricci,  di  Luigi  Pinelli,  di  Ar- 
turo Graf,  di  Domenico  Milelli,  di  Alessandro  Arna- 
boldi  e  di  altri  molti;  se  tutto  cotesto  potè  apparire 
come  una  improvvisa  e  prodiga  germinazione  su  quel 
deserto  di  poesia  appena  ristorato  qua  e  là  da  qual- 
che òasi  aleardiana:  si  dee  pur  credere,  per  le  spe- 
ciali condizioni  de'  tempi,  a  un  certo  inatteso  risveglio 
degli  animi  e  degl'  ingegni.  E  questo  è  forse  più 
chiaramente  dimostrato  dal  sèguito  infinito  di  pole- 
miche e  dissertazioni  critiche  intorno  all'  opera  del 
Carducci  e  a  quella  del  Guerrini.  Tutti  questi  nomi 
anche  indicano  che  il  movimento  fu  spesso  ineguale 
od  incerto,  e  meglio  lo  direbbero  i  versi  degli  ado- 
lescenti i  quali  resero  troppo  da  presso  gli  echi  della 


246 


lirica  carducciana  e  della  stecchettiana,  se  di  loro  po- 
tesse avanzare  un  ricordo.  Ma  intanto  non  bisogna 
dimenticare  que'  pochi  che  su  1'  esempio  o  con  l'ispi- 
razione del  Carducci  si  misero  a  rinfrescare  alcuni 
classici  motivi  di  antiche  canzoni  o  ballate,  come  Se- 
verino Ferrari,  Giuseppe  Picciola  e  qualche  altro;  o 
alcune  forme  volute  acconciare  alla  brava  con  lavorìo 
troppo  fino  di  cesello  e  di  tornio,  come  Giovanni 
Pascoli;  o  alcuni  metri  latini  sul  fondo  di  storiche 
leggende,  come  Guido  Mazzoni;  o  finalmente  gli  in- 
cantesimi del  paesaggio  con  più  libero  ed  espansivo 
abbandono  dell'  anima,  come  il  nostro  Marradi.  Il 
quale,  dopo  i  primi  esercizi  d'  imitazione,  e  proprio 
negli  anni  che  scrisse  una  lirica  al  Carducci  che  io 
ricordo  cominciare  così:  —  A  Te,  Sansone,  dell'arte 
italica...  — ;  si  ritrasse  in  sé,  e,  ascoltando  i  palpiti 
dell'anima  sua,  li  specchiò  nell'arte  con  pienezza  d'in- 
spirazione e  con  esuberante  originalità  e  spiritualità 
di  trovate. 

* 
*  * 

Ei  cercò  le  cime  della  poesia  nella  divina  voluttà 
del  paesaggio  e  nell'  onda  larga  morbida  fluente  del 
verso  melodico.  Il  poeta  si  abbandona  intero  nel  pieno 
godimento  dell'  anima  sensuale  quando  ha  dinanzi  i 
più  begli  aspetti  della  natura  vergine  e  viva;  e  al- 
lora come  dalle  intime  viscere  si  bea  di  quelle  fantasie 
e  di  que'  sogni  che  spicciano  da  quel  fondo  affettivo 
in  che  ha  radice  il  sentimentale.  E  tutto  questo  egli 
sveglia  con  risonanze  ritmiche  e  con  echi  di  sinfonia 
melodica  che  gli  mormorano  nell'anima  proprio  come 
r  indefinito  de'  sogni.  Sentite: 

E  il  sognatore  ascolta.  Traversano  la  tenebra 
ale  di  canto,  ondate  di  melodia  dispersa, 
e  a  larghi  sorsi  ei  beve  1"  indefinihU  inurmure 
che  spira,  alito  enorme,  dall'anima  universa  (*) 


(*)  y-Mvl     '■"•Iti  —  Fratelli    Treves  —  Milano    —    1891  —  pag.  229 
(Hannonia). 


247 


Sembra  un  commento  ch'ei  faccia  alla  poesia  sua, 
ch'è  tutta  faccettata  così.  Ond'e'  mira  soprattutto  alla 
superfìcie  delle  cose  sensibili,  all'esteriore  magnifico, 
al  magico  e  luminoso  paradiso  delle  forme  che  più 
versino  colore  al  suo  meraviglioso  pennello.  Sentite 
ancora: 

Cantino  i  versi  in  gloria  nell" umbra  solitudine 
come  vibranti  corde  d"un"arpa  eolia  al  vento... 
Prorompano  le  rime  vittoriose,  e  in  echi 
metallici  di  squille  rispondansi  fra  lor... 
Oh!  che  vigor  selvaggio  di  poesia  sintonica 
dai  i-ivoli  dai  venti  dalle  boscaglie  esala... 
É  canto  il  verso,  è  nota  dell'inno  musicale 
che  dalla  terra  il  cielo  tumultuando  va; 
è  voce  luminosa,  che  palpita,  che  sale, 
che  rideal  persegue  nell'alta  immensità  (*) 

É  poesia  ed  è  musica  insieme  da  cui  si  levano, 
quasi  meteore  salienti  della  fantasia  e  del  senso,  guiz- 
zi di  luce  tendenti  a  spegnersi  verso  le  rive  mistiche 
dell'ideale,  come  il  canto  profetico  antico.  E  pensare 
che  questa  poesia  qui  si  andava  maturando  in  quel- 
l'anima, proprio  quando  stagnava  in  Italia  la  mefite 
del  verismo  lirico,  che  fu  la  negazione  di  ogni  ideale 
e  di  ogni  fantasia. 

Ecco  un  altro  saggio: 

Se'  tu.  divin  silenzio,  forse  il  linguaggio  incognito 

dell'inlìnita,  arcana,  pensosa  eternità?... 

Lente,  alla  luna  intorno,  si  svolgono  le  nuvole 

e  calan,  vaporando,  diafane,  giù,  giù. 

0  nuvole  calanti,  siete  voi  forse  i  placidi 

sogni  che  al  cor  dell'uomo  discendon  di  lassù?  (*') 


0  poesia,  del  Vero  luce  ideal,  che  a^^li  uomini 

sorridi  nel  silenzio  de'  secoli  profondo 

Tu  che  dovunque,  occulta  nel  tuo  divin  sopore. 

d'intimo  foco  avvivi  quanto  si  move  o  sta 

E  cinto  dai  tuoi  veli  fantasiosi  io  cada, 

si  come  cade,  avvolto  nel  manto  d'oro,  un  re.  ("•). 


I*)    Nuovi    Canti  -  Fratelli    Treves  -  Milano  -    1S91  -  pagg.    r)3  -  54 
(Sintonia  umbra) 

(**)  Nuovi  Canti  —  Pag.  113  (Mistero). 
(•'*)  Ibidem  —  Pag.  3-4  (Invocazione). 


248 


Questi  versi  che  nel  ritmo  alessandrino  trottano 
uguali  e  cadenzati  con  simpatica  monotonia  di  suoni, 
e  certo  non  ricordano  il  dattilico  scalpitare  del  cavallo 
virgiliano: 

(Juadrupedante  putrein  sonitu  quatit  ungula   cainpum, 

rendono  a  pieno  nel  metro  sonnolento  che  tanto  piac- 
que a  Carlo  Martelli,  il  fantastico  ascendere  dell'  a- 
nima,  che  palpita,  che  sale,  quasi  naufraga  v\€iV indefi.- 
nibil  murnmre  de'  sogni.  Ma  che  musiche  in  quelle 
strofi  non  sai  più  se  polizianesche  o  tassiane!  Il  poeta 
è  proprio  fatto  così,  come  in  questi  versi  si  descrive 
da  sé.  Non  chiediamogli  di  più.  Contentiamoci  in  lui 
del  Bellini,  anche  a  costo  di  prender  le  vertigini  della 
melodia;  e  gustiamolo  a  tratti,  come  chi  beve  poco, 
ma  spesso  e  bene:  altrimenti,  queir  assidua  sinfonia 
melo'lica  stanca  1'  orecchio  e  mortifica  un  po'  il  san- 
gue che  pur  deve  fluire  nelle  vene  della  poesia.  Ma 
intanto  notino  i  lettori:  quegli  accenti  e  que'  numeri 
neir  ordito  della  strofe,  non  fanno  una  grinza,  e  ne 
esce  un  flusso  d'  aria  che  si  può  bene  respirare  a 
pieni  polmoni,  dopo  aver  ?,Q^&r\.o  n^W usata  poesia  ^€' 
nostri  moltissima  caldura  od  afa  soffocante.  Ed  anche 
quell'assidua  sinfonia  non  più  si  avverte  nelle  liriche 
ultime,  che  son  più  severamente  melodiche,  e  spe- 
cialmente nella  Rapsodia  gafibalditia  di  cui  parleremo 
fra  breve.  In  esse  il  pensiero  meglio  si  allarga  in 
una  più  forte  e  comprensiva  determinatezza  di  espres- 
sione e  di  rappresentazione,  ed  indica  chiaramente 
l'assiduo  progredire  del  poeta  verso  la  perfezione 
che  può  dirsi  quasi  raggiunta  da  qualcuna  delle  liriche 
più  largamente   storiche. 

IL 

Veniamo  ora  ai  dettagli.  Il  poeta  accolse  in  un  vo~ 
lumetto  elegante  della  tipografia  Triverio  (Poesie,  To- 
rino, 1887),  cui  volle  dedicare  a  Ferdinando  Martini, 
solo  una  scelta,  parca  e  giudiziosa,  di  que'  versi  che 
uscirono  del  '79  pe'  tipi  Zanichelli  di    Bologna  sotto 


249 


il  titolo  di   Caii20fd  moderne.,  e  dell'    '8i    a    Pistoia  in 
un  altro  volumetto  intitolato  Fa7itasie  marÌ7ie. 

Forse  avrebbe  fatto  meglio  a  potare  di  più;  ma  il 
poeta  dice  che  troppo  ristretto  ne  sarebbe  riuscito  il 
piccolo  volume,  il  che  non  sarebbe  piaciuto  all'editore 
che  lo  voleva  più  denso  e  ricolmo.  Ecco  perchè  sono 
in  parte  scusabili  i  sonetti  Nox  (  pag.  15  ),  e  Lady 
Macbeth  (pag.  41),  e  l'odicina  Ricordanza  (pag.  18).  Ma 
bisogna  dire  che  pur  fra'  tentativi  un  po'  incerti  o  co- 
muni ne'  quali  fa  egli  la  sua  vigilia  d'' armi  nelle  pri- 
me due  parti  del  volume,  pur  fra  le  strane  audacie 
della  forma  e  alcuni  spacchi  delia  dizione;  fa  spesso 
capolino  una  frescura  di  foresta  vergine  e  il  mite  ru- 
more di  acque  correnti.  Noto  qui  di  volo  alcune  for- 
me, o  imagini,  o  similitudini,  che  a  me  pare  velino 
un  poco  la  determinatezza  della  idea  e  la  purità  del 
disegno: 

(3ome  l'inverno  che  avviluppa  il  mondo  (Congedo,  13). 

Come  in  ciel  plumbeo  schiera 

di  procellose  gru  (Confìteor,  10). 

E  a  voi  ne  fuggon  gli  agili   fantasmi 

qual  nidiata  d'aquile  dal  monte  (Nox,  pag  15). 

E  sta  greve  sull'acque  il  firmamento 

come  il  coperchio  d'ìin'iiumensa  tomba  (Sul  mare,III,  p  .51). 

Fra  tanta  folla,  su  cui  la  musica 

passa  cova'ampia  romba  di  turbine  (Vita  Nuova,  p.  53) 

Con  lei  soave,  con  lei  bellissima, 

con  lei  che  il  serpe  della  calunnia 

calpesta  col  piede  regcde 

dal  suo  trono  di  gloria,  e  sorride  (Vita  Nuova,  p.  54). 

Peggio  nelle  strofe  seguenti  ove  nella  mistica  figura 
di  Magdala  il  poeta  ha  immaginato  scorgere  la  donna 
del  suo  cuore,  con  una  strana  mistura  di  paganesimo 
o  realismo  recente  e  di  liturgia,  eh'  è  artificio  più 
che  schietta  espressione  del  vero  .  Eccovi  1'  ultima 
strofe: 

E  come  Cristo  morrei  per  gli  uomini, 
o  rediviva  santa  di  Magdala. 
se  anch'ella  il  mio  forte  martirio 
consolasse  di  baci  e  di  pianto. 


11  poeta  è  ancora  intorno  a'  trent'anni;  e  tra  la  bi- 
richina nota  goliardica  della  romorosa  brigata  fioren- 
tina che  intorno  alla  torre  di  Arnolfo  beve  l'assenzio 
della  vita  e  dello  spirito,  e  la  infinita  nostalgia  del 
suo  bel  mare  toscano,  egli  indulge  alle  muse  e  all'a- 
more con  ispirazione  un  po'  troppo  libera  e  capric- 
ciosa, un  po'  impertinente  e  audace;  e  spesso  un'aura 
stecchettiana  e  beaudelairiana,  più  che  non  paia  a  lui 
medesimo,  viene  a  turbare  quel  sereno  palpito  del 
paesaggio  che  fra  poco  raggiungerà  le  cime  della  per- 
fezione. 


Perchè  il  poeta  sentisse  al  cuore  un  veemente  flusso 
di  sangue,  gli  era  necessario  un  forte  e  sano  con- 
tatto con  la  vita;  quand'ecco  la  morte  immatura  della 
sorella  Itala,  fiorente  di  anni  e  di  amore,  e  sposa  e 
madre  recente.  Per  lei  scrisse,  umide  di  lagrime  e 
calde  di  passione,  le  splendide  elegie.  Epicedio  e  In 
ire7io,  le  migliori  gemme  del  terzo  libro  ,  Morhiaria. 
Qui  il  semplice  ricamo  del  paesaggio  non  è  più  su- 
perficie, ma  pianto  dell'  anima  quasi  emergente  da' 
vari  aspetti  delle  cose. 

In  Nevicata,  un'odicina  snella  ma  un  po'  livida,  a 
me  non  piace  strofe  per  strofe  1'  artificioso  innesto 
tra  le  immagini  grottesche  della  natura  e  le  impres- 
sioni dell'anima:  e'  mi  pare  che  il  pensiero  elegiaco 
non  spicci  naturale  né  immediato  in  quel  quasi  in- 
dentamento  meccanico  ne'  termini  e  ne'  riscontri  cor- 
rispondenti. 

Ma  nel  Monte  alle  Croci  la  lirica  ascende,  in  quel 
palpito  di  storia  e  di  tristezza  funerea  in  cui  prendon 
luce  e  movimento  le  vive  imagini  della  natura  e  del- 
l'arte su  quel  fiorito  e  constellato  asilo  di  morte.  Se- 
guono in  meglio  i  Ricordi  fiorentini  :  non  ostante  il 
monotono  e  largo  ondeggiamento  della  strofe  che  si 
dondola  con  ritmo  isocrono  come  di  pendolo  .  con 
l'accento  che  l'endecasillabo  de'  sonetti  ha  quasi  sem- 
pre su   la  quarta  e  su  l'ottava;   vi  circola  tant'aria    e 


251 


tanta  luce  di  poesia  e  di  musica,  che  ci  par  fresca  e 
presente  la  visione  storica  ed  estetica  de  '  mirabili 
monumenti  fiorentini. 


Ne'  Ricordi  lirici  (  '82  -  '84)  e  nelle  Rime  sfiarse^S^- 
'86),  se  la  nota  del  canto  non  è  così  intima,  certo 
acquista  sapore  di  novità  negli  argomenti.  Qua  e  là, 
come  lamento  di  arpa  lontana,  anche  appare  il  ricordo 
mesto  della  sorella  morta;  ma  altri  echi,  più  o  men 
rochi  e  gementi,  giungono  al  suo  orecchio  che  meglio 
si  ferma  intorno  ai  martiri  di  Siberia  o  della  Pampa. 
Qui  rompe  dal  cuore  del  poeta  uno  schianto  di  elegia 
sociale  che,  come  ne'  Drammi  moderni  e  specialmente 
ne'  sonetti  II  e  VI,  lascia  profonda  una  ferita  nell' 
anima  del   lettore. 

Se  i  Ricordi  lirici  ne'  quali  ultimi  il  racconto  cede 
all'impeto  lirico  (citiamo  i  Sonetti  intivii,  i  So ?iet ti  ele- 
giaci, Brumalia,  i  migliori),  non  son  veramente  rim- 
petto  ai  Mortìiaria  un  avanzamento,  ciò  si  può  dire 
benissimo  di  alcuni  mirabili  pezzi  delle  Rime  sparse, 
come  i  citati  Drammi  moderni,  Lucrezia  Borgia,  Da- 
vanti alla  Maiella,  Sul  Morite  Luco,  Serenata  nuziale. 
Dal  Motite  di  Spoleto,  Si?ifonia,  almeno  come  condotta 
lirica  e  come  finezza  di  tecnica.  Ma  su  questi  ritor- 
neremo presto,  perchè  fan  parte  di  un  secondo  vo- 
lume, Nuovi  canti  (*).  Ma  a  voler  dare  un  qualche 
giudizio  del  primo,  diremo  francamente  di  aver  se- 
guito con  vero  conforto  l'ideale  progredire  e  matu- 
rare di  questo  elettissimo  ingegno,  e  i  tentativi  da  lui 
fatti  per  francarsi  dalla  soggezione  continua  del  na- 
turale esteriore,  il  che  forma  la  parte  più  originale  e 
più  simpaticamente  bella  della  lirica  sua  e  della  gio- 
vine lirica  contemporanea. 

III. 

Ne'  Nuovi  canti  l'autore  volle  accogliere  quasi  tutte 

e  )  Op.  citata. 


252 


le  rime  che  primamente  die  in  luce  nell'  ultima 
parte  delle  Poesie.  In  essi  egli  mostra  di  quanta  fan- 
tasia sappia  adornare  la  bella  faccia  della  natura,  con- 
ciliando con  squisita  arte  il  bello  esteriore  con  il  con- 
tenuto della  storia;  e  in  ciò  ha  imparato  dal  Carducci. 
Il  verso  che  prima  incerto  si  fissava  troppo  intorno 
alla  natura  inerte,  spopolata,  assorbente  —  rubo  questi 
tre  aggiunti  al  Carducci  — ,  allarga  meglio  le  ali  e 
raggia  sfavillando  in  una  più  larga  comprensione 
della  vita;  e  nell'estasi  in  cui  s'immerge  l'anima  sua, 
se  non  rugge  sempre  la  passione  con  il  dissidio  in- 
teriore, vaneggia  assai  spesso  un  certo  incantamento 
mistico,  quasi  biblico,  nel  quale  anche  1'  evocazione 
d'eremi  e  di  frati  acquista  senso  moderno  e  non  di 
rado  appaga.  Certo,  se  avesse  meglio  rilevato,  in  una 
realità  più  intensa  e  drammatica,  quell'  incantamento 
e  quell'estasi,  e  se  avesse  infuso  in  quelle  bellezze 
marmoree  molto  più  di  sangue  e  qualche  tratto  mi- 
chelangiolesco, sarebbe  potuto  nel  genere  suo  riescire 
men  di  rado  perfetto.  Ma  pei  tempi  non  è  poco  quel 
colpo  d'  ala  che  inalza  e  quel  montiano  rapimento, 
anche  se  dia  iridi  e  fosforescenze  più  che  durevoli 
bagliori  alla  poesia. 


Si  apre  il  volumetto  con  un  preludio,  Invocazione, 
che  sembra  un  motivo  di  Beethoven,  a  cui  tratto  tratto 
seguono  altri  canti:  Sinfonia  umbra.  Sinfonia  ?iel  bosco. 
Mistero,  Harmonia.  Son  l'inno  moderno  che  sale  vapo- 
rando come  un  canto  gregoriano.  Sono  il  misticismo 
della  scienza  che  attinge  il  cielo  e  l'infinito  come  un 
inno  profetico.  Questo  potrà  anche  non  piacere,  ma 
di  gran  lunga  è  preferibile  alla  prosa  rimata  de'  no- 
stri e  alle  dissonanze  di  qualche  novatore. 

In  piroscafo  è  una  descrizione  delle  navi  e  del  mare, 
bella,  accurata,  elegante,  ma  lunghetta  anzi  che  no. 
Se  più  tratti,  come  quello  dell'ultima  parte,  la  com- 
penetrassero d'intimità  soggettiva,   piacerebbe  di  più. 


253 


Vigilia  di  nozze  è  un  idillio  di  una  candidezza  e  di 
una  leggiadria  quasi  greca,  e  vi  alita  un  molle  tepore 
d'  imagini  che  per  le  agevoli  forme  della  strofe  fan 
sentire  una  freschezza  primaverile.  Come  bene  risalta 
in  quei  versi  il  contrasto  tra  i  sogni  migranti  con  l' ala 
gelata,  e  i  sogni  della  vita  e  de  ir  amore  ridente  i?i  fiore 
neW anima  della  giovinetta  che  il  dimani  anderà  sposa! 
Qui  il  poeta  mostra  anche  di  saper  a  tempo  conver- 
tire in  fantasma  il  nudo   pensiero  e  l'arido  vero. 

D''  Oltremare  è  una  poesia,  come  chi  dicesse  intima; 
e,  se  ne  togli  qua  e  là  alcune  grinze  che  fa  il  verso 
o  la  rima,  è  veramente  bella  di  sentimento  umano  e 
sociale,  specie  quando  la  sobria  linea  del  paesaggio 
o  il  vero  esteriore  palpita  o  piange  nella  mesta  e  pa- 
cata elegia  dei  domestici  ricordi,  e  nel  dolore  che  si 
annida  negli  angiporti  igyioti  al  sole 

da  cui  scova  la  fame  un  volgo  affranto 
popolato!-  della  terrestre  mole. 

Serenata  nuziale,  composta  per  le  nozze  di  Severino 
Ferrari,  che  fu  al  poeta  compagno  di  arte  e  di  scuola, 
è  fresca  e  fragrante  di  una  classica  primavera  di  sen- 
timento e  d'imagini;  e  vi  spira  come  un'aura  del  dolce 
stil  novo  e  delle  musicali  ballate  del  quattrocento.  Vi 
è  nell'eloquio  ritmico  e  nello  stile,  nel  movimento  e 
nella  lingua,  ed  anche  nella  nova  luce  dei  fantasmi, 
una  così  molle  grazia  di  toscanesimo  elegante,  che 
sembra  quasi  una  modesta  e  moderna  rifioritura  de'dol- 
cissimi  canzonieri  del  trecento;  e  tutto  ciò  fuso  con 
una  così  peregrina  nostalgia  di  ricordi  fiorentini,  che 
la  è  tutta  una  meraviglia.  E  bene  il  Marradi  volle  qui 
ritornar  classico,  e  intingere  nell'antico  la  sua  vena, 
poiché  la  sua  ballata  e  il  suo  saluto  erano  per  un  a- 
mico  che  seppe  rinfrescare  il  verso  recente  ne'  rivoli 
di  quelle  acque  che,  dice  il  Carducci,  ancora  mormo- 
ran  chiare  discendendo  a  cascatelle  dal  santo  verde  monte 
delV antichità  italiana  nei  serbatoi  del  popolo. 

In  Monte  Maiella  e  in  Monte  Luco,  due   meraviglie 


254 


del  genere,  il  poeta  ci  porge  un  aspetto  nuovo  o  ap- 
pena tentato  da'  suoi  coetanei.  La  poesia  ha  qui  un 
volo  veramente  lirico,  e  la  ispirazione  raggia  in  una 
intimità  tutta  storica  e  naturale.  La  natura  non  è  più 
superficie,  ma  quasi  panteismo:  essa  tra  i  forti  aspetti 
dei  monti  e  i  ruderi  della  rocca  spoletana  è  compene- 
trata da  una  fulgida  visione  di  memorie,  le  quali,  su 
le  ruine  del  passato,  e  da'  macri  visi  degli  anacoreti, 
si  appuntano  modernamente  nel  trionfo  della  sempre 
verde  forza  della  Dea  Natura.  Paesaggio,  sentimento, 
storia:  ecco  i  tre  elementi  di  fusione  informanti  que- 
sta mirabile  lirica  rappresentativa.  Quando  1'  autore 
riesce  a  variare  in  tal  modo  le  linee  del  paesaggio, 
si  avvicina  alla  perfezione. 

Non  così  belli  invece  mi  paiono  i  dieci  sonetti  sul 
jMontenero  dove  i  ricordi  storici  si  succedono  senza 
contorni  gli  uni  dopo  gli  altri,  come  in  processione. 
Ma  quanto  è  poi  vero  il  concetto  che  informa  i  tre 
eleganti  sonetti.  Arte  e  Poesia,  dedicati  a  Gabriele 
D'Annunzio,  dov'è  resa  così  bene  la  falsa  poesia,  ch'è 

...  gelido  silenzio  in  quella  trista 

serenità  lunare  in  cui  sorridi 

con  la  freddezza  del  tuo  marino  pariol 

Col  Saluto  primaverile,  due  sonetti  squisitamente 
sinfonici,  si  torna  all'aere  e  all'azzurro  della  poesia  sil- 
vana, ch'ha  un  getto  largo  lento  magnifico  di  epiteti 
e  di  voci  musicali,  e  un  molle  abbandono  dell'anima 
per  entro  le  leggiadre  e  fluide  fantasie  della  giovine 
natura:  come  chi  7iavighi  somiolenlo  pel  ca?ioro  e  magico 
specchio  deir  acque,  il  poeta  naviga  e  sogna  rapito  a 
volo  dall'ondeggiare  della  strofe,  fuor  del  senso  e  della 
vita.  Ma  questa  placida  onda  letèa,  di  cui  lo  spirito 
degli  orecchianti  meglio  si  piace,  è  chiaror  stanco  di 
luna,   non  vivo  bagliore  di  sole. 

Ma  la  poesia  risorge  epica  nelle  mirabili  stanze  su 
Lucrezia  Borgia.  E'  semplicemente  un  capolavoro:  nel 
verso  regalmente  maestoso  rifulge  tale  una  limpida 
e  serena  infusione  di  fresca  fantasia  storica,  da  risen- 
tirvi gli  echi    della  rappresentazione  epica.  É    insom- 


255 


ma  una  di  quelle  poesie  epico  descrittive  che  moderna- 
mente ricordano,  se  non  il  p?  Ira  perchè  non  vi  è 
quel  getto  di  sangue  e  di  passione  impersonalmente  og- 
gettiva, alcune  altre  pur  potenti  ma  tranquille  perfezioni 
del  genere  che  in  metri  diversi  primo  il  Carducci  im- 
portò nella  lirica  nuova.  E  nel  metallico  squillo  della 
classica  ottava  del  quattro  e  cinquecento,  metro  saputo 
eleggere  con  arte  e  opportunità  sapienti,  si  ritorna  col 
gusto  a  lontane  rimembranze  dell'Ariosto  e  del  Tasso. 
Vi  si  sente  un  po'  di  antico  anche  nella  lingua,  come 
flava  bellezza,  chioma  abbo7idanie ,  implacata  luce,  aerea 
mole,  opima  capigliatura,  Arce,  voce  quest'  ultima 
ringiovanita  dal  Carducci  nel  primo  verso  del  sonetto 
a  Fiesole.  Ed  esso  il  Carducci  dev'esser  lieto  che  dal 
suo  fresco  vivaio  di  lirica  storica  sieno  uscite  queste 
ed  altre  meraviglie  del  Marradi,  del  Mazzoni,  del  Ferrari, 
di  altri.  Ricordo  qui  Crepuscolo  mari?io  e  Notte  a  Fer- 
rara. Notevole  il  primo,  in  quartine,  per  la  storica 
evocazione  della  Meloria,  di  Ugolino,  di  Shelley,  del 
Guerrazzi^  e  più  pel  bellissimo  riscontro  tra  i  due 
fari,  l'antico  e  il  nuovo,  che  gli  dàn  senso  e  movi- 
mento recenti.  Nella  seconda,  in  quartine  con  intreccio 
di  due  settenari  tronchi  e  di  due  novenari,  vi  è  più 
canto,  più  sentimento,  più  ala,  nella  mistura  del  sog- 
gettivo lirico  e  dell'  oggettivo  con  che  si  rinfresca  la 
memoria  dell'Ariosto  e  del  Tasso  di  fronte  al  palazzo 
estense,  sotto  il  mite  chiarore  della  luna  che  invita 
il  poeta  a  sognare  e  a  dimenticar  per  l'arte  e  per  la 
poesia  immortali,  i  vecchi  tiranni. 

Ridente  di  serena  letizia  e  di  naturale  concepimento 
è  Sabato  Sa?tto:  il  poeta  inneggia  alla  Pasqua  di  ri- 
surrezione con  un  inno  di  gloria  alla  vita;  e  l'anima 
sua,  quasi  romita  aquila  che  gelate  ebbe  le  penne,  dalla 
quasi  funeraria  ombra  del  mistero  leva  alto  le  ali 
nella  luce  del  sole  rinascente. 

Sinfonia  nel  bosco.  Son  cinque  frammenti  di  poesia 
descrittiva,  non  tutti  belli,  specie  il  terzo  dove  il 
poeta  si  affatica  invano  a  palleggiare  la  immagine 
nella  rassomiglianza  fantastica.  Meglio  ne'  primi  due; 
ma  r  ultima  ottava  è  un  incanto.  Noto  di  passaggio, 


^56 


a  pagina  109,  una  ripetizione  su  Veliera:  l'immagine 
è  proprio  la  stessa  nelle  due  stanze.  Ma,  a  dir  vero, 
non  mi  par  lirico  il  succedersi  d'  impressioni  anche 
oggettive,  come  affreschi  in  tante  lunette. 

Do  fine  a  questo  tritume  di  dettagli  con  Epistola 
senese  e  con  Silentia  lunae.  L'una  e  1'  altra  belle  per 
la  comprensione  storica  del  paesaggio  rivivente  nelle 
dolci,  nelle  care  memorie  dei  luoghi,  degli  studi,  del- 
l' infanzia,  dell'amicizia  ideale.  E  passo  sotto  silenzio^ 
per  ragione  di  brevità,  ben  poche  altre  liriche  del 
volume. 

IV. 

Eccoci  in  fine  alle  Ballate  ìuoderne,  V  ultimo  volu- 
metto dell'autore  impresso  in  Roma  nel  1895,  pe'  tipi 
di  Enrico  Voghera.  Sono  anch'esse  un'altra  ma  ori- 
ginale emanazione  del  vivaio  carducciano  ,  se  non 
che  ,  per  esser  tutte  di  quattordici  versi,  m'  han  più 
l'aria  di  sonetti  che  di  ballate  ,  anche  pel  minimo 
divario  delle  rime.  Io  avrei  preferito  il  sonetto  anche 
contro  l'opinione  dell'autore,  come  quello  che  meglio 
si  prestava  alla  vigorosa  comprensione  lirica  della 
contenenza   storica. 

Sono  cinquanta,  e  non  tutte  ugualmente  belle,  che 
ve  n'ha  di  mediocri  per  lo  spirito  lirico  e  per  la  forma. 
Ma  ve  n'ha  pure  di  mirabili  che  segnano  un  avanza- 
mento, specie  dove  la  storia  è  incisa  nel  rilievo  della 
rappresentazione.  Per  esempio,  Passa?ido  il  Furio  è 
una  perfezione  insolita  nell'autore.  Il  verso,  non  più 
molle  qui,  ha  1'  efficacia  del  grandioso:  narra  e  scol- 
pisce, ed  ha  il  fare  e  qualche  rimembranza  o  eco  del 
Carducci.  E  su  questo  stampo  son  presso  a  poco  tutti 
i  Ricordi  metaurensi,  sette  ballate,  le  migliori  o  fra  le 
migliori  del  volume.  Qui  la  poesia  è  più  forte  e  im- 
mediata, ed  ha  uno  sgorgo  di  sangue  vivido  che  non 
fluisce  così  altrove.  In  ciò  il  progresso  sensibile  del- 
l' autore  che  abbandona  per  poco  il  blando  riso  di 
terre  e  di  marine,  per  mirar  più  alto  dal  lontano  oriz- 
zonte della    storia  alle  novelle  aspirazioni   della  vita. 


I 


/, 


i  i 


-^Ti 


3 


Z 

z 

1- 


o 


257 


A'  Ricordi  nietaurensi  fan  degno  riscontro  parecchie 
ballate  de'  Fantasyni  sefiesi,  di  cui  ricorderemo:  In 
duomo  (III.  e  V.  sonetto),  Porta  Cmnollia,  Vittorio  Al- 
fieri e  Santa  Caterina,  la  quale  ultima  ha  un'  ispira- 
zione quasi  ieratica,  Nelle  Ballate  d'  inverilo  il  poeta 
ritorna  alla  natura,  ma  con  altro  cuore:  dallo  squal- 
lido aspetto  delle  cose  spicciano  gemendo  gli  affetti 
memori  della  famiglia,  dell'  infanzia,  de'  tuguri  senza 
fuoco  e  senza  pane.  Ricordo  passando  queste  gemme: 
Fra  i  campi.  Quercia  abbattuta.  Neve  bi  campagna, 
Martedì  grasso.  Negli  Ozi  Apuani  la  contemplazione 
de'  monti  e  delle  nevi,  delle  piante  e  de'  marmi,  sve- 
glia nell'animo  del  poeta  sentimenti  intimi  e  dal  pro- 
fondo strazianti  quando  tocca  la  corda  sociale  o  quando 
risale  alla  storia,  come  in  Ricordo  dantesco,  bellissimo, 
o  finalmente  quando  il  paesaggio  melanconico  ha  il 
sospiro  di  un'elegia,  come  Neil' oliveta,  ch'è  una  me- 
raviglia. Dovrei  citare  di  più,  ma  termino  qui.  Il  poeta 
in  parte  non  è  più  quello  delle  Poesie  e  de'  Nuovi 
Canti,  perchè,  pur  mirando  alla  natura,  si  accosta  di 
più  alla  vita,  e  parla  più  al  cuore  che  alla  fantasia. 
Anche  ne'  citati  volumi  lo  vedemmo  discendere  dal- 
l' alto  del  suo  aere  azzurro,  ove  il  suo  verso  aveva 
per  lo  più  un  mover  di  cherubino,  più  che  di  uomo. 
In  questi  ultimi  versi  è  più  giovine,  è  più  forte,  è 
più  completo.  Or  non  gli  resta  che  allargar  la  con- 
tenenza a'  suoi  canti  in  metri  men  fissi  e  più  varii; 
e  allora  veramente  potremo  aver  da  lui,  in  tanto  de- 
cadere di  studi  geniali,  il  fior  maturo  e  non  ultimo 
della  sua  più  vitale  e  rinnovante  giovinezza.  I  tempi 
avanzano,  e  il  vero  straripa  dalle  sorgenti  della  vita. 
Dunque   avanti! 

Questo  io  scrivevo  tre  anni  fa,  ma  ora  devo  con 
entusiasmo  segnalare  all'ammirazione  de'  migliori  un 
nuovo  e  più  maturo  frutto  dell'  ingegno  di  Giovanni 
Marradi  il  quale  ci  ha  dato  quest'  anno  il  definitivo 
capolavoro    suo,   la  Rapsodia   Garibaldina  (*),   un    ma- 


(*)  Milano— Tipografia  Editr  ce  Veni— Via  Annunciata,  8— MDCCCXCIX. 

17 


258 


gico  gruppo  di  terzine,  divise  in  cinque  frammenti, 
quasi  canti  di   un  breve  poema  eroico. 

Dalle  mirabili  terzine  da  lui  scritte  in  morte  della 
sorella  Itala  circa  vent'  anni  fa,  e  di  cui  si  adornano 
a  profitto  de'  giovani  le  recenti  antologie,  a  queste 
altre  che  son  le  seconde  e  insieme  le  ultime,  il  pro- 
gresso è  assai  grande:  quelle  son  forse  la  più  bella 
gemma  della  sua  lirica  giovanile,  e  queste  il  più  vero 
capolavoro  della  sua  lirica  matura.  Che  ricchezza  di 
armonia  nelle  ampie  e  magnifiche  volute  del  verso 
che  qui  riesce  men  diffuso  e  ambizioso  e  più  oppor- 
tunamente colorito,  fulgido,   solenne! 

Il  poeta  s'inspira  commosso  all'  èsodo  glorioso  dei 
profughi  garibaldini  che,  nel  1849,  da  Roma  —  fu- 
mante ancora  di  battaglia  e  rosseggiante  del  sacrifi- 
zio di  Mameli  e  di  Montalti,  di  Manara  e  di  Morosini, 
di  Masini  e  di  Dandolo,  di  Daverio  e  di  Pietramel- 
lara  —  s'  avviano  ramingando,  d'agguato  in  agguato, 
verso  l'ignoto,  s'avviano  tra  i  pericoli  della  morte  e 
fra  le  tenebre  notturne  per  oscuri  e  difficili  sentieri 
vigilati  dalle  soldatesche  nemiche  che  son  loro  alle 
spalle,  ma  guidati  e  protetti  dalla  lucida  visione  del 
loro  ideale.  Non  mai  canto  di  storia  ebbe  nella  gio- 
vine lirica  contemporanea  un'accensione  di  tinte  più 
vigorose  e  un'  ala  d'  imagini  più  pittoriche  intorno  a 
un  contenuto  moderno,  anzi  recente.  L'autore  ci  rap- 
presenta passo  passo  l'Eroe  nel  suo  viaggio  fatale;  e 
q2iel  lacero  gi-uppo  di  sconfitti  ci  balena  davanti  nella 
sua  marcia  leggendaria,  insieme  con  1'  ardita  Donna 
dall'  Eroe  travolta  —  nel  turbinoso  voi  de  la  S2ia  vita.  Noi 
vediamo,  come  vivo  e  presente,  il  quadro  sanguinoso 
di  quel  mitragliato  ava?izo  di  legionari  dovunque  s'a- 
vanzi o  riposi,  dovunque  passi  o  bivacchi,  così  nel 
sile7izio  di  Tivoli  come  sotto  il  sole  di  Luglio  per  la 
verde  Umbria  solenne  e  su  V eremo  Appennifio ,  così  pei 
greppi  verso  r Adria  gialli  e  pe'  borri  della  Marca  mo7i- 
tuosa  come  in  cima  al  Titano  ne  l'ospite  suolo  di  San 
Marino,  e  finalmente  per  l'Adria  sur  un  palischermo 
che  arranca  Ì7i  lotta  co7i  la  grossa  marea,  finché  il 
Duce  si  getta  naufrago  su  le  so7inolenti  dune,  portando 


259 


sopra  le  braccia  una  dontia  vwretite.  Nel  quinto  fram- 
mento la  poesia  della  morte  tocca  veramente  il  su- 
blime in  una  commoventissima  scena  che  inalza  il 
racconto  alla  visibile  potenza  del  dramma.  É  una  pro- 
fonda elegia  tra  domestica  ed  eroica,  tutta  originale 
di  concepimento  e  d'ispirazione;  è  un  quadro  superbo, 
a  grandi  linee,  a  rilievi  e  contorni  vigorosi,  e  di  sem- 
plice e  finissimo  disegno:  è  un  quadro  dove  io  credo 
che  il  Marradi  abbia  dato  la  vera  misura  dell'ingegno 
suo.  In  questo  episodio,  che  s'incastra  nella  rapsodia 
storica  e  stupendamente  la  chiude,  non  so  qual  sia 
più  mirabile,  se  1'  appassionata  intimità  del  sospiro 
elegiaco  e  1'  alta  intonazione  del  patetico,  o  la  dolo- 
rante e  sostenuta  armonia  del  ritmo,  l'una  cosa  e  l'al- 
tra degne  del  soggetto  veramente  epico.  Originalis- 
simo è  il  punto  che  più  mi  vince,  quello  in  cui  è  reso 
nella  sua  grandiosità  eroica  il  primo  ed  unico  pianto 
di  questo  fatale  Ulisse  della  patria  sul  cereo  viso  di 
Anita  a  cui  morente,  mentre  si  vede  impallidire  sti  la 
ra'oegnaiia  pineta  il  cielo  e  scolorire  il  mondo,  tornano 
i  ricordi  delle  interminabili  e  deserte  distese  della 
Pampa  dove  conobbe  ed  amò  il  suo  compagno,  biondo 
come  il  sole:  par  1'  eroismo  della  vita  che  si  abbracci 
dell'ultimo  tenace  amplesso  con  l'eroismo  della  morte. 
Il  poeta  qui  veramente  si  è  rivelato  intero  nelle 
forme  che  avran  forse  il  loro  trionfo  dopo  il  secolo 
che  muore. 

V. 

Abbiamo  voluto  brev^emente  illustrare  la  più  parte 
delle  cose  migliori  del  Marradi,  dopo  una  diligente  e 
riposata  lettura.  Naturalmente  ci  siam  fermati  anche 
un  po'  su  qualche  truciolo  di  mende  o  imperfezioni 
che  nulla  tolgono  al  pregio  intimo  di  esse;  e  crediamo 
di  averlo  fatto  con  animo  franco  ed  onesto.  Trattan- 
dosi del  Marradi,  era  giusto  esprimere  candidamente 
quella  che  ci  è  parsa  la  verità.  Molto  di  leggieri  pos- 
siamo esserci  ingannati,  e  ne  ringrazieremmo  il  cielo 
se  fosse  cosi. 


200 


Or  non  ci  resta  che  dar  1'  ultimo  tocco  al  nostro 
studio.  11  Marradi,  già  lo  dicemmo,  è  poeta  mero,  ha 
cioè  la  nativa  attitudine  di  versar  su  le  cose  il  vivo 
raggio  della  idealità  con  le  iridi  della  fantasia:  vede 
e  sente  i  colori  e  i  suoni  per  entro  il  magico  spec- 
chio della  natura  e  della  storia,  le  due  voci  dell'anima 
sua,  come  abbiam  visto  in  più  luoghi  di  questi  mu- 
sicalissimi  canti.  Ma  troppo  ei  s'indugia,  spesse  volte, 
intorno  al  dovizioso  ricamo  del  naturale  esteriore;  che 
anzi  lo  carezza  e  lo  stanca  con  la  insaziabile  voluttà 
di  un  grande  amatore.  Vero  figlio  del  mare  —  nacque 
egli  in  Livorno  il  1852,  —  e  tratto  inconsapevolmente 
dal  nativo  Tirreno  alla  visione  del  vago  e  dell'infinito, 
se  ne  lascia  pienamente  impossessare  per  una  simpa- 
tica illusione  del  suo  spirito,  anche  dinanzi  a  lembi 
di  cielo  o  aspetti  di  terre  o  di  marine  dove  altri  vede 
una  parte  appena  del  suo  sogno  animatore.  Par  che 
d'altro  non  si  appaghi  se  non  del  meraviglioso,  e  ciò 
lo  porta  anche  al  mistico  e  al  metafisico,  anche  al 
sovrannaturale  e  al  liturgico  .  Or  questo  produce 
più  effetti  non  buoni  :  spesso  il  descrivere  ,  per 
manco  d'intimità  psicologica  ,  non  è  che  superficie 
o  fantasticaggine  :  tal'  altra  è  come  un  ripetere  o 
sbozzare  un  medesimo  disegno,  onde  per  ammirarlo 
si  è  talvolta  costretti  di  gustarlo  a  sorsi  e  non  tutto 
d'  un  fiato.  La  sua  facoltà  fantastica  nel  paesag- 
gio mi  ha  più  volte  fatto  pensare  a  una  grande  fon- 
tana aurea  la  quale  per  moltissimi  gorghi  versi  tutte 
in  una  volta  e  presto  esaurisca  le  sue  acque.  Ma  in 
compenso,  quando  son  veramente  belle,  le  liriche  sue 
hanno  un  così  superbo  zampillo  d'imagini  vive  e  non 
di  rado  plastiche,  che  anche  in  quella  fuga  aerea  di 
razzi  pioventi,  l'anima  prova  un  crescente  bisogno  di 
contemplazione  e  di  visione.  E  ciò  avviene  quando 
le  son  compenetrate  da  un  sentimento  vero  e  distinto 
e  nettamente  rilevato.  In  più  altri  componimenti  le 
scene  storiche,  per  quanto  non  sempre  popolate  di 
anime  e  di  creature  viventi,  aggiungono  sempre  un 
lampo  di  vitalità  interiore  alle  linee  ed  a'  contorni 
del  paesaggio.   Ma    sopra    tutti  i  nostri    lirici,   tranne 


201 


qualcuno,  ha  la  rara  facoltà,  non  sempre  facile  anche 
ne'  grandi  poeti,  di  convertire  in  fantasma  ogni  pen- 
siero, e  di  dar  sempre  ali  alla  strofe  balzante.  Pochis- 
simi han  così  ricca  e  smagliante  la  tavolozza  del  pae- 
saggio, cosi  intonata  e  musicale  la  strofe,  cosi  ima- 
ginosa  e  poetica  la  rappresentazione  del  naturale  este- 
riore; ed  anche  a  por  mente  a'  canti  suoi  migliori  e 
recenti,  e  specialmente  ad  alcune  delle  sue  Ballate 
moderne,  è  facile  accoigersi  quanto  il  poeta  mostri  di 
potere,  volendolo,  imprimere  al  pensiero  un  solco  più 
profondo,  e  infondere  un  che  di  drammatico  al  con- 
tenuto storico  della  descrizione.  A  tutto  questo  si  deve 
aggiungere  la  squisita  maestria  della  tecnica,  un  fre- 
quente odore  di  classicismo  e  di  buon  gusto  nella 
lingua  e  nella  elocuzione,  e,  pure  accennando  imma- 
gini e  forme  e  comparazioni  non  di  buona  lega,  una 
gran  cura  del  periodo  ritmico  e  dello  stile. 

Intanto,  a  confortare  il  mio  giudizio,  mi  giova  ri- 
portar quello  che  il  Carducci  espresse  in  una  bella 
pagina  de'  suoi  Bozzetti  e  Scheryne: — Il  Ferrari  avrebbe 
più  d'una  volta  bisogno  della  facilità  corretta  del  Maz- 
zoni; e  il  Mazzoni,  pure  serbando  la  sua  piana  ele- 
ganza, dovrebbe  alle  volte  cercare  la  piena  intona- 
zione di  canto  che  ha  sempre  un  altro  di  quel  grup- 
petto d'amici,   Giovanni  Marradi. 

Il  Marradi,  un  altro  toscano,  e,  se  mal  non  ricordo, 
livornese,  ha  la  fervida  prontezza  delle  impressioni 
che  si  manifesta  nel  largo  e  rumoroso  parlare  di  quel 
popolo. 

E  rivedrò  la  mia  città  nativa, 

La  mia  bella  città  romoreo-<iiante. 

E  il  mar  diffuso  e  l'incantata  riva 

Che  di  freschi  misteri  ombran  le  piante: 

E  rivedrò  la  darsena  giuliva 

Che  su  dall'oleosa  acqua  stagnante 

Una  foresta  inalbera  d'antenne 

In  faccia  all'orizzonte  am[iio  e  solenne. 

Proprio  vero,  e  come  francamente  detto,  anzi  can- 
tato! E  come  è  sentito  e  reso  in  questi  altri  otto  versi 
il  colore  delle  primavere  fiorentine! 


>Ó2 


Ecco  sui  colli  e  sui  fastigi  il  sole, 
Ecco  sui  marmi  il  sul  di  primavera 
Nel  cui  sorriso  esaltasi  la  mole 
Di  Brunellesco,  olimpica  e  severa. 
Neiraria  calda,  aulente  di  viole, 
11  campanil  meravic;lioso  impera, 
E  al  pieno  odor  delle  vicine  aiole 
Si  spalanca  fìammando  ogni  vetriera. 

In  somma,  il  verso  ha  da  cantare  insieme  e  volare 
gittando  lume.  Non  dico  che  il  verso  del  Marradi  sia 
sempre  così:  qualche  volta  suona  soltanto  e  suona 
troppo.  É  un  difetto  della  natura  toscana,  faconda, 
abondante,  colorita;  ma  poco  poetica,  o  almeno  poco 
lirica,  nel  sentimento  e  nella  imaginazione.  Dopo  il 
quattrocento  la  Toscana  non  ebbe  poesia,  salvo  qual- 
che semipoeta  o  artefice  di  versi  finissimi  e  forti, 
il  Rucellai,  per  esempio,  ed  il  Casa.  Dopo  il  Filicaia 
poi,  nel  concetto  che  il  toscano  generalmente  si  fa 
della  poesia  prevale  la  rotondità  delle  forme,  la  so- 
norità del  verso,  la  fluidità  numerosa  ,  la  sentimenta- 
lità colorata,  il  lirismo:  oppose  il  Fantoni  al  Parini,  il 
Niccolini  al  Manzoni.  Tornando  al  Marradi,  egli  ha 
il  verso  dal  pieno  petto,  ha  1'  inspirazione  della  me- 
lodia: ma  gli  bisogna  non  lasciarsi  vincere  alla  natura 
toscana;  gli  bisogna,  avventiam  la  parola,  pensare  più 
forte.  Tanto  più  ch'egli  è  da  natura  poeta  mero:  im- 
possibile a  lui  mortificare  l'ingegno  nella  vii  prosa,  sì 
della  critica  e  della  filologia,  sì  del  bozzetto  e  della 
novella.  Canti  dunque  e  canti  le  intuizioni  profonde 
della  vita  e  della  storia:  ha  dato  prova  di  poterlo 
bene.  Dal  suo  libro  {^Ricordi  lirici,  Sommaruga,  1884), 
che  ha  ormai  due  anni  di  vita  ed  è  passato  tra  di- 
verse lodi,  non  posso  citare:  il  tempo  stringe  e  manca 
lo  spazio:  accenno  i  sonetti  fiorentini  e  quelli  su  le 
relegazioni  in  Siberia.  E  ricordo,  non  so  più  in  qual 
giornale,  altri  sonetti;  uno  su  la  Rocca  di  Spoleto, 
bellissimo,  per  la  comprensione  del  sentimento  storico 
nella  impressione  del  paesaggio  (*). 


(*)  Boz-{eUi  e  Scherme,   Bologna,  Zanichelli,  1889,  pag.  435-37 


203 


Benissimo.  Se  non  che  mi  par  severo  il  giudizio 
sulla  natura  toscana,  tanto  più  perchè  espresso  da  un 
toscano  il  quale  mi  sembra  immune  da  quei  difetti. 


E'  dolce  a  ripensare  con  quanta  sincerità  di  con- 
vincimento e  con  quale  fedeltà  d'  intendimenti  il  no- 
stro poeta  volle  seguir  poi  il  consiglio  benevolo  del 
suo  autorevole  maestro.  E  di  fatti,  de'  non  pochi  suoi 
compagni  d'arte  e  di  studi,  fra  i  quali  il  Mazzoni,  il 
Biagi,  il  Casini,  il  Della  Giovanna,  il  Ferrari,  il  Brilli, 
lo  stesso  Pascoli,  usciti  quasi  tutti  dalla  palestra  car- 
ducciana dentro  e  fuori  1'  Ateneo  bolognese,  egli  fu 
il  solo  che  non  volle  mortificare  1'  ingegno  nella  vii 
prosa  si  della  critica  sì  della  filologia,  ma  volle  invece 
obbedire  alle  voci  dell'  anima  sua,  le  quali  dalla  co- 
scienza onesta  uscirono  ad  animare,  non  una  volta, 
le  intuizioni  della  vita  e  della  storia.  Ben  rade  prose, 
che  non  siano  brevi  prefazioni  a'  suoi  versi  o  fugge- 
voli cenni  di  arte,  un  de'  quali  ricordo  essere  apparso 
nella  Domenica  del  Fracassa  del  '95,  egli  pubblicò  fin 
da  giovinetto;  e  ciò  prova  quanto  ei  sia  consapevole 
dell'arte  sua  alla  quale  non  reputa  opportune  le  inda- 
gini della  critica  o  della  filologia.  E  per  questo  la 
poesia,  non  turbata  o  intormentita  da  studi  fossili  o 
grinzosi  anche  se  utili,  gli  prorompe  dal  core  sincera, 
immediata,  quasi  primitiva.  Ciò  non  toglie  che  non 
gusti  e  non  ami  la  cultura,  che  non  segua  e  non  in- 
tenda il  ricco  movimento  della  critica  intorno  alla 
storia  dell'  arte  nostra.  E  come  sa  immedesimarvisi! 
Sia  che  parli  o  che  reciti,  sia  che  legga  o  che  con- 
versi, ei  riesce  sempre  artista  o  sognatore  ,  riesce 
a  commovervi  e  allettarvi,  perchè  ha  sempre  l'attitu- 
dine di  comunicarvi  fedelmente  e  simpaticamente  l'a- 
more e  il  fascino  d'  ogni  bellezza.  In  somma  egli  è 
tutto  quale  si  descrive  in  questi  mirabili  versi,  che 
son  tutta  la  storia  dell'anima  sua: 

odi:  Se  a  te  (la  Poesia)  sereno  sempre  elevai  lo  spirito 
e  i  sogni  che  m'impenna  d'ali  sonore  il  verso, 


204 


se  lungamente,  pago  d'altera  solitudine, 
t'interrogai  nel  giro  del  limpido  universo, 

illumina  di  lampi  la  mia  solinga  strada, 

di  visioni  accendi  questi  occhi  ebri  di  te, 

e  cinto  da'  tuoi  veli  fantasiosi  io  cada. 

sì  come  cade,  avvolto  nel  manto  d'oro,  un  re  ('). 

Proprio  cos'i!  —  Pago  d'altera  soliiudine,  egli  non 
cerca  né  aspetta,  come  tanti  altri  anche  più  popolari 
di  lui  ,  né  la  lode  venale  ,  né  uffici  più  alti  ,  né  il 
plauso  delle  turbe.  La  sua  vita  sempre  ci  apparve 
semplice  e  modesta,  tra  gli  studi  e  la  famiglia,  senza 
episodi  mondani,  senza  aneddoti  piccanti,  senza  ru- 
mori e  senza  battaglie.  La  sua  poesia  arrivò  al  cuore 
di  tutti  senza  contrasti,  e  sùbito  venne  ammirata:  le 
sue  liriche  parvero  come  tante  ghirlande  di  fiori  colti 
in  un  ricco  verziere.  Giovinetto,  compì  i  suoi  studi  a 
Pisa  e  all'Istituto  di  studi  superiori  in  Firenze,  dove 
insieme  con  altri  amici  diede  alla  luce  una  rivista  giove- 
nilmente  battagliera.  l7iuovi  Goliai^di,  la  quale  a  quando 
a  quando  accoglieva  gli  echi  e  le  inspirazioni  di  quella 
forte  ondata  di  poesia  che  veniva  da  Bologna.  Pub- 
blicò di  poi,  a  grado  a  grado,  i  seguenti  volumi:  Caìi- 
Z071Ì  moderne  di  G.  M.  Labronio,  tutte  pregne  degli 
effluvi  della  nuova  lirica  carducciana;  Poesie;  Ricordi 
lirici  (Sommaruga  1884);  Episodio;  Fantasie  mariìie.  Il 
meglio  e  il  definitivo  di  tutti  questi  volumetti,  meglio 
accolto  dall'  autore  ,  si  raccoglie  e  condensa  ne'  tre 
volumi  da  noi  qui  disaminati. 

Fece  intanto  una  splendida  carriera  nell'  insegna- 
mento liceale  per  le  lettere  italiane,  e  lo  compiè  in 
Siena,  dove  attinse  più  d'  una  inspirazione  pe'suoi 
canti  e  per  le  sue  ballate.  Nel  1893  fu  Provveditore 
a  Pesaro,  donde  l'anno  di  poi  venne  trasferito  col 
medesimo  ufficio  a  Massa,  ed  ora  si  trova  a  Pisa, 
dove  si  vive  contento  e  tranquillo,  perché  vicino  ha 
il  suo  mare,  la  sua  darsena  giuliva,  i  suoi  cari  con- 
giunti, i  testimoni  de'  primi  suoi  affetti  e  delle  prime 
sue  inspirazioni.  E  come  adora  la  famiglia!  Adora  tutto, 
la  musica  e  la  poesia,    l'amicizia  e  il  valore,    la  giu- 


(*)  Nuovi  Canti.  Treves    1891  —  Pag.  4. 


265 


stizia  e  la  pietà;  adora  gli  oppressi  de'  quali  più  e  più 
volte  si  ricordò  ne'suoi  canti;  adora  in  fine  tutto  che 
gli  schiuda  un  raggio  della  bellezza  e  un  gemito  della 
sociale  ingiustizia;  ma  il  suo  mondo  migliore  è  lì, 
neir  incantato  paradiso  della  natura  che  nessuno  sa 
rappresentare  meglio  di  lui.  E  questa  poesia  della 
natura  ei  non  la  cerca  di  forza,  fantasticando  o  leg- 
gendo ;  ma  la  sorprende  immediata  su'luoghi  che 
contempla  con  lo  stesso  bisogno  e  con  lo  stesso 
sfogo  eh'  egli  mostra  cantando  .  E  come  li  cerca 
questi  luoghi  benedetti  dell'  anima  sua!  Dovunque 
egli  è  stato  spontaneamente  o  per  ragioni  di  ufficio, 
ha  lasciato  un  brano  dell'  anima  sua  buona  e  fanta- 
siosa, lo  me  lo  immagino  come  un  di  quei  nuovi  cro- 
ciati e  sognatori  della  idea,  che  soli  pel  mondo,  e 
verso  le  cime  più  alte  dell'  ideale,  salgono,  salgono, 
contemplando  giù  in  terra  ciò  che  s'  inalza  e  ciò  che 
si  abbassa;  e  vergini  e  puri  in  quella  loro  olimpica 
ascensione,  chiamano  e  invitano  lassù  altre  anime 
contemplanti,  lungi  da  questa  se/va  selvaggia  ed  aspra 
e  forte. 

Seguita,  o  poeta,  a  salire;  che  i  buoni  ed  i  mo- 
desti ascenderanno  con  te  verso  1'  alma  luce  ideale: 
in  tanto  inaridire  di  animi,  la  tua  voce  ci  scenderà 
dall'  alto  come  la  più  bella    promessa    dell'  avvenire. 

Il  poeta,  come  abbiam  visto,  ha  di  molto  allargato 
il  contenuto,  1'  inspirazione  e  le  forme  ai  suoi  canti, 
ha  raggiunto  ormai  quel  tipo  di  poesia  in  cui  riposa 
tutta  intera  la  sua  personalità.  Lo  attendiamo  quindi 
con  fiducia  ad  altre  prove  che  certo  non  saran  le  ul- 
time del  suo  fervido  ingegno  il  quale  ci  mostra  an- 
cora la  fecondità  rinnovatrice  della  sua  matura  gio- 
vinezza. Intanto  ei  resta  sempre  il  poeta  più  since- 
ramente umano  e  più  fantasticamente  originale  fra 
tutti  quelli  della  sua  generazione.  Può  dunque  dire 
con  franchezza,  e  senza  consiglio  altrui:  Incipit  a  me  vita 
7iova,,  perchè  egli,  oh!  lui  fortunato,  è  in  cima  del 
monte  a  cui  mirano  invano  dalle  rad'ci  tanti  e  tanti 
altri  che  giù  nella  valle  trovansi  ancora  tra  i  cardi  e 
le  ortiche  dell'  a7'ido  vero,  che  dei  vati  è  tomba. 


XXIII. 
0  riuiioyarsi,  o  morire. 


^  josi  esclama  il  D'' Annunzio  al  principio  dell'ul- 
*|?^^    timo  suo    volume    (*).    Bene.    Nelle    vigenti 
condizioni  dell'arte  è  proprio  indispensabile 
un  pieno  e   radicale  rinnovamento. 

Dunque,  o  rinnovarsi,  o  morire.  Non  recente  è  la 
massima,  ma  noi  contemporanei  la  invochiamo  spesso 
a  designar  le  mentite  apparenze  di  quello  che  ci  par 
novità.  Ma  quale  potrà  esser  mai  questo  rimwvanientof 
Lo  dice  l'autore  di  Giovaìiìii  Episcopo,  il  quale  scrive 
così:  —  bisogna  studiare  gli  uomini  e  le  cose  diretta- 
meìiie,  senza  transposizioìie  alcuna — .  Forse  lo  scrittore 
ha  voluto  significare  che  1'  artista  dee  proporsi  sol- 
tanto di  espi'imere  —  vo'  dirlo  con  le  parole  del  Car- 
ducci —  «  con  la  maggiore  sincerità  ed  efficacia  pos- 
sibile certe  fantasie  e  certe  passioni...  e  di  rappresen- 
tarle proprio  col  colore  e  con  l'attitudine  del  momento 
in  cui  le  sente  e  le  vede  lui,  e  non  coi  colori  e  le 
attitudini  d'  ieri  l'altro  o  di  domani,  e  non  coi  colori 
e  le  attitudini  in  cui  altri  voglia  dargli  a  credere  che 
piacerà  meglio  agli  altri  di  vederle  o  in  cui  gli  altri 
possano  vederne  o  sentirne  di  consimili.  »  E  però 
questo  non  può  avvenir  mai  senza  transposizione  al- 
cuna ,  senza  che  1'  artista  s''  oggettivi  e  a  un  tempo 
s*  inlui  —  è  un  felicissimo  verbo  dello  Zumbini  — 
in  un'  anima  per  sorprenderne  la  passione  intima  ,. 
drammatica,  tragica.  Può  egli  mai  avvenire  che  un'a- 
nima entri  in  un'altra  anima  senza  uscirne  un  cotal 
po'  ricreata  dalla  soggettività  dello  scrittore?  Oh!  ci 
sia  dato  il  vero  che  sgorghi    da   tutte  le  vergini  sor- 


(*)  Giovanni  Episcopo.  Napoli,  I>uigi  Pieiro  editore,  1892. 


207 


genti  della  vita  e  che  penetri  le  anime  per  uscirne 
verità  e  fantasma,  luce  e  passione,  verme  e  farfalla, 
materia  greggia  ed  arte  ,  reale  ed  ideale.  L'arte  è 
oggettiva  e  soggettiva  insieme,  non  fotografica;  e  il 
diretto  e  immediato  studio  delle  cose  e  degli  uomini 
è  decrepito  da  quanto  Omero  e  più.  Non  e'  è  rap- 
presentazione senza  immedesimazione  ,  senza  tran- 
sposizione. 

Ma  veniamo  a    Giovanni  Episcopo. 


* 


Giovanni  Episcopo  è  un'  anima  complessa.  Ama  po- 
tentemente, e  sente  svegliarsi,  dagl'intimi  sostrati  pel 
cuore,  l'adorazione  per  una  giovinetta,  una  cameriera 
d'osteria,  ch'ei  non  conosce  e  che  sente  nominare  ap- 
pena; odia  mortalmente  la  prepotenza,  ma  la  solletica 
e  carezza  perchè  la  teme;  ha  un  culto  per  l'onestà  e 
per  la  virtù,  e  istintivamente  e  in  segreto  abomina 
gli  uomini  che  ne  affettano  lo  spregio,  ma  ad  essi  fa- 
cilmente e'  si  sottomette,  e  soffre,  e  ubbidisce:  ha  un 
senso  di  ribellione  e  di  ripulsione  contro  gli  uomini 
volgari,  ma  nel  tempo  stesso  ha  un  che  di  triviale  e 
di  servile  nell'  anima  e  nel  cuore:  è  oltraggiato,  ma 
soffre  l'oltraggio,  e  coll'oltraggio  la  servitù  che  gl'im- 
pone  l'ofiFensore.  Ei  passa  da  una  servitù  all'altra,  da 
una  ad  altra  vergogna,  da  Giulio  Wanzer  a  Ginevra-. 
è  forte  ed  è  debole,  è  padrone  ed  è  servo,  è  ribelle 
ed  è  vile:  solo  in  ultimo,  di  ricontro  a  Wanzer  e  per 
amore  di  Ciro  dalle  cui  palpitanti  viscere  pur  insorge 
l'istinto  della  vendetta,  l'anima  sua  esplode,  ei  diventa 
uomo,  si  vendica  e  si  rivendica,   uccide. 

Questo,  se  bene  l'ho  reso,  è  tutto  il  carattere  dì E- 
piscopo,  ed  è  r  intima  trama  del  monologo  con  che 
comincia  e  finisce  il  libro. 

L'autore  ha  voluto  rinnovarsi,  per  non  morire.  Ma, 
ha  voluto  soltanto  rinnovar  sé  stesso,  o  ha  pur  voluto 
rinnovar  un'arte?  Giovcmni  Episcopo  accenna  forse  a 
una  rivoluzione  nell'arte,   o  ad  una   nuova  fase  di   un 


268 


forte  ingegno?  E  lo  scrittore  è  mai  riuscito  nell'  una 
cosa  e  nell'altra? 

Sarà  quello  che  vedremo. 

Vediamo  se  mai  è  riuscito  a  rinnovare  un'arte. 

Giovanni  Episcopo  racconta  il  suo  passato,  le  vicis- 
situdini, le  sciagure,  gli  atroci  dolori  della  vita  e  del- 
l'animo suo.  Ei  narra,  fedelmente,  cinicamente,  spie- 
tatamente, le  sue  passioni,  la  sua  servitù,  le  sue  ver- 
gogne: denuda  e  fa  sanguinar  le  piaghe  del  suo  cuore: 
senza  pietà,  senza  veli,  senza  incertezze,  fa  la  più 
minuta  ed  efferata  notomia  di  sé  stesso.  Questo  può 
darsi,  ma  solo  in  parte,  in  un'  anima  superiore,  che 
da'  casi  della  vita  risalga  al  minuto  e  difficile  studio 
degli  uomini  e  delle  cose:  è  sol  possibile  in  un  animo 
grande  saputosi  esercitare  ed  affinare  alla  cote  delle 
grandi  e  sublimi  sventure;  ma,  in  un  povero  martire 
e  servo  ch'è  mezzo  uomo  e  mezzo  imbecille,  non  par 
troppo  inverosimile  un  sì  complesso  e  molteplice  ca- 
rattere? Ed  è  poi  possibile,  nei  casi  più  occorrenti 
della  vita,  un  sì  feroce  e  spietato  cinismo?  Giovanili 
Episcopo  fa  il  dramma  di  sé  stesso:  e'  sogghigna  e 
folleggia,  ricorda  ed  irride,  rammemora  e  piange: 
pensa  infine  da  filosofo  e  medita  da  moralista,  e  vuol 
fiutare,  disaminare,  penetrare  l'intimo  suo  e  l'intimo 
di  altre  anime  che  lo  tormentano.  Oh!  non  é  troppo 
inverosimile,  o  almen  difficile  ad  accadere  ?  Ma  il 
fatto  —  ci  si  potrà  dire  —  é  verissimo:  lo  scrittore 
lo  ha  sorpreso  nella  vita.  Ancora:  chi  non  si  sente  ri- 
mescolare il  sangue,  chi  non  dà  un  grido  d'indigna- 
zione contro  l'efferate  sevizie  onde,  nella  Siberia  e  in 
Russia,  tanti  uomini  e  tanti  servi,  tanti  martiri  e  tante 
vittime,  sono  inesorabilmente  colpiti  e  schiacciati  sotto 
la  più  dura  e  tirannica  schiavitù?  Chi  non  si  commuo- 
ve alla  lettura  di  romanzi  slavi?  Ora  il  d'Annunzio  che 
pur  ha  viscere  d'uomo  pietoso,  ha  voluto  farne  ri- 
percòtere  gli  occhi  dolorosi  anche  nell'  arte  nostra. 
Gaetano  Miranda,  in  un  numero  della  Tavola  Rotonda 
(anno  II,  N.°  5),  scrive  a  tal  proposito  così:  «  Epi- 
scopo ricorda  certi  malfattori  e  certi  infelici  di  Tol- 
stoi  e  di  Dostoiewsky  che  non  hanno  volontà  propria, 


269 


non  hanno  mai  neppur  pensato  di  averne  una.  Agi- 
scono ciecamente  e  cadono  nel  delitto  e  nel  fango 
come  un  cieco  che,  lasciato  solo,  dopo  aver  invano 
brancolato  nelle  tenebre,  precipita  in  un  burrone,  e  vi 
muore.  Un  grido  di  grande  compassione  ci  viene  ora 
dalla  Russia;  e  questo  grido  è  gittato  da'  più  grandi 
romanzieri  slavi,  che  hanno  visto  il  popolo  russo  sof- 
frire e  morire  in  Siberia.  Di  là  si  è  levato  potente  il 
grido  della  umanità  afflitta  ed  infelice.  E  questo  ge- 
mito si  è  ripercorso  nobilmente  nel  cuore  del  d'An- 
nunzio, e  gli  ha  forse  suggerito  di  scrivere  Giovanni 
Episcopo,  la  storia  dolorosa  ed  obbrobriosa  di  questo 
padre,  di  questo  marito,  di  questo  infelice  rassegnato. 
Mai  miseria  umana  fu  crudamente  e  semplicemente 
narrata.  Episcopo  ha  qualche  cosa  del  Giobbe  biblico. 
La  sua  rassegnazione  mi  ricorda  quella  dell'  antico 
servo  del  Signore  ,  poiché  Episcopo  è  il  servo  di 
Wanzer  ». 

Se  me  lo  permetterà  l'egregio  e  giovine  critico  ,  a 
me  pare  che  un  tale  giudizio,  certo  dettato  con  con- 
vincimento e  colle  intenzioni  migliori,  sia  privo  al- 
l'intutto  di  solido  fondamento.  Tra'  romanzi  slavi  e 
Giovanni  Episcopo  non  vi  è,  né  vi  può  essere  assolu- 
tamente, affinità  o  simiglianza:  qui  é  un  carattere  com- 
plesso ed  eccezionale  che  si  svolge  in  ambiente  non 
suo,  e  lì  son  caratteri  e  tipi  informanti  tutta  una  so- 
cietà, tutto  un  ambiente  d'oppressione  e  di  schiavitù: 
qui  è  il  rantolo  doloroso  di  un'anima  sola  fra  tante 
anime  diverse,  e  lì  é  il  ràntolo  funereo  di  tutte  le 
anime  e  di  tutte  le  coscienze  ribelli  e  forzatamente 
servili:  qui  é  un  uomo  che  si  fa  servo  per  naturale 
svolgimento  di  un  carattere  morboso,  e  lì  son  uomini 
voluti  servi:  quest'ultimo  ha  sol  valore  eccezionale  e 
staccato,  e  i  primi,  più  che  altro,  han  valore  sociale 
e  anche  politico;  e  perciò  i  romanzi  slavi  possono 
piacer  solo  in  romanzieri  slavi  che  direttamente  os- 
servino il  reale.  Che  c'è  mai  in  Italia  che  pur  adom- 
bri il  viver  servile  e  la  società  di  Russia  e  di  Siberia? 
Che  c'è  mai  nella  nostra  nazione  che  possa  giustifi- 
care e  rendere  interessante  un  libro  come  questo  del 


270 


D'Annunzio?  può  esso  aver  mai,  in  Italia,  uno  scop- 
pio d'anime  che  si  riscontrino  nell'anime  di  Giovanni 
Episcopo?  Poteva  mai  lo  scrittore  ,  che  pure  vuole 
osservar  le  cose  senza  h-ansposizione  alcuna,  uscir  da 
un  ambiente  per  rappresentarne  un  altro  da  lui 
non  direttamente  osservato?  e  possono  gl'italiani,  che 
pur  credono  d'essere  ritratti  in  quel  libro,  riconoscer- 
vi sé  stessi?  Queste  domande  —  com'  è  naturale  — 
includono  tante  risposte,  e  avrei  caro  se  alcuno  si 
provasse  a  dissipare  i  dubbi  miei.  Ancora:  tra  il  Giob- 
be biblico  ed  Episcopo  c'è  un  abisso;  l'uno  è  un  ca- 
rattere umano  e  nel  tempo  stesso  universale,  sublime, 
purissimo:  l'altro  un  carattere,  complesso  sì,  ma  sin- 
golare, disorganico,  morboso;  l'uno,  nella  tradizione, 
rappresenta  l'individuo  nell'Universo  che  tutto  gli  so- 
miglia nel  dolore,  la  virtù  paziente  nella  completa  one- 
stà di  tutta  la  vita,  l'uomo  che  è  solo  servo  di  Dio, 
padrone  del  Creato;  mentre  l'altro  è  l'individuo  epi- 
demico di  una  società  affatto  diversa,  ed  è  1'  uomo 
che  si  fa  servo  di  tutti  gli  uomini,  che  sdrucciola  nel 
vizio  e  vi  riposa  per  necessità,  che  ha  continui  con- 
trasti di  vizi  e  di  virtù  in  una  coscienza  scompagi- 
nata e  anormale.  Pur  dando  importanza  a'  giudizi  di 
tanti  valorosi  intorno  a  Giovanni  Episcopo,  a  me  pare 
che  questi  sia  un  carattere  fuori  della  vita,  di  quella 
vita  studiata,  come  si  deve,  non  solo  nelle  più  risal- 
tanti manifestazioni  e  nella  fisonomia  tipica  di  tutto 
un  ambiente  sociale,  ma  ancora  nel  suo  dato  e  par- 
ticolare momento  storico. 

Ma  dove  sarebbe  allora  il  colore  dell'ambiente,  la 
immediata  e  paesa?ia  oggettività  del  reale,  la  italianità 
dei  tipi  e  delle  anime?  Oh!  ma  l'arte  è  cosmopolitica: 
non  dee  circoscriversi...  Sta  bene,  ma  anche  l'artista 
dee  proporsi  per  fine  o  l'ambiente  in  che  vive  lui,  o 
l'ambiente  in  che  vivono  altri;  e  s'egli  non  avrà  in- 
telletto né  disposizioni  a  far  questo  miracolo  ,  stia, 
per  carità,  in  Italia,  e  ci  rappresenti  l'Italia,  ma  non 
risalga  alla  Russia  o  alla  Siberia  per  farne  contenuto 
dell'arte  nostra:  quelle  ce  le  rappresentino  Tolstoi 
e  Dostoiewsky,  e  noi,  nel  loro  ambiente,  li  ammire- 
remo. 


271 


Giovanni  Episcopo  sarà  russo,  ma  italiano  non  è. 
E  se  mi  diceste  ch'è  un  eccezionale  carattere  sì,  ma 
che  l'autore  l'abbia  sorpreso  in  Italia,  si  risponde  che 
un  fatto  isolato,  eccezionale,  singolare,  non  può  esser 
mai  soggetto  d'arte,  né  può  esser  materia  d'arte  quello 
che  non  ispiega  e  denuda  anche  una  menoma  parte 
dell'ambiente  ne'  caratteri  suoi  più  spiccati  e  più  in 
vista.  La  eccezionalità  del  reale  è  sol  materia  di  sto- 
ria.   Giovanni  Episcopo  sarà  storia,  ma,  certo,  romanzo 

italiano  non  è. 

* 
*  * 

Ma  non  per  questo  l'ultimo  libro  del  D'  Annunzio 
è  da  gettarsi  ai  cani:  è  una  nuova  rivelazione  d'  un 
forte  ingegno.  Studiamo  il  carattere  d' Episcopo  nella 
rappresentazione  e  nella  tecnica  delle  forme  e  dello 
stile. 

L'analisi  è  sottile,  anatomica,  minuta.  L'artista  s'è 
provato  a  scrutar  l'intime  pieghe  di  quest'  anima  in 
pena,  per  farla  vibrar  nell'arte  con  rilievi  nervosi  di 
scorci  e  con  rapidissimi  scatti  di  stile  il  quale  stride 
e  lingueggia  come  la  passione  che  scoppia  e  rugge 
dentro  in  rantoli  e  fremiti  strazianti.  E  i  periodi  squil- 
lano e  s'  inseguono  ,  un  dopo  1'  altro,  agili  ,  brevi  , 
vibranti:  son  tanti  bassorilievi.  Qui  tutt'i  pregi  e  qui 
tutt'i  difetti  del  D'Annunzio. 

Ma  quest'analisi  nutrita,  spietata,  nervosa  gli  anti- 
chi ,  e  in  sommo  grado  Omero,  Dante,  Shakspeare, 
l'ebbero  più  meravigliosa  e  più  intensa.  De'  moderni 
il  Foscolo  e  il  Leopardi  pur  la  resero  insuperabilmente 
soggettiva:  il  primo,  nelle  prose,  con  brividi  e  con 
scoppii  di  passioni  procellose  e  violente,  e  il  secondo 
con  la  mentita  quiete  della  classica  ,  impeccabile  , 
serena  arte  greca.  E  dei  contemporanei  chi  meglio  del 
Verga,  con  originalissime  e  atletiche  forme,  esplorò 
e  ritrasse  l'intimo  dramma  psicologico  non  di  una, 
ma  di  più  anime  ,  ne'  selvaggi  contrasti  e  co'  fortis- 
simi colori  dell'ambiente  paesanoì 

Ma  quando  mai  la  forma  —  questa  povera  dimen- 
ticata dell'  arte — si  piegò  sì  agile  e  nervosa,   sì  rapi- 


272 


da  ed  efficace  ?  Ma  il  D'  Annunzio,  oltre  che  il  Verga, 
potea  avere  dinanzi  a  sé  il  Carducci,  il  quale,  pur  non 
essendo  né  romanziere  né  novelliere,  è  un  finissimo 
e  perfettissimo  artista  in  prosa.  Chi  prima  del  Car- 
ducci, nella  seconda  metà  di  questo  secolo,  fé'  squil- 
lare a  battaglia  la  prosa  italiana  con  più  nutriti 
vigori  di  rappresentazione,  con  più  meravigl'osa  tecnica 
di  stile,   con  più  plastico  rilievo  di   forme? 

Lasciateci  dunque  ammirare  anche  Giovanni  Epi- 
scopo del  D'Annunzio  ma  a  patto  che  non  più  ci  par- 
liate, a  questi  chiari  di  luna,  né  di  rinnovamenti  né 
di  rivoluzioni  in  arte. 


Or  vediamo  se  l'autore  ha  rinnovato  sé  stesso. 

A  me  pare  che  il  D'Annunzio  mostri  nelle  prose 
un  moto  ascendente,  e  un  moto  declinante  nella  poe- 
sia. Tra  il  Primo  vere  (il  primo  suo  volumettino  di 
liriche  èdito  a  Lanciano  dal  Carabba  innanzi  al  ro- 
moroso  e  lilipuziano  periodo  sommarughiano)  e  il  Canto 
Novo  ,  tra  1'  Isottèo  e  Chimera  e  le  ultime  liriche 
(V annunziane  delle  quali  son  constellati  tanti  periodici 
settimanali  e  letterari,  parmi  che  progresso  non  vi 
sia,  ma  piuttosto  decadimento.  Nelle  prime,  nonostante 
l'assidua  imitazione  carducciana,  sfolgora  e  brilla  una 
più  immediata  percezione  del  vero  e  un  più  alato  e 
giovenil  movimento  di  pensieri  e  di  forme:  nelle  ulti- 
me la  strofe  é  troppe  volte  oscura  e  prosastica,  troppo 
riflessa  o  cercata  l'inspirazione,  e  men  lucido  il  pen- 
siero: tal'altra  i  versi  non  hanno  guizzi  e  lampi  di 
vera  poesia  ,  plumbeo  e  troppo  strascicato  è-  il  me- 
tro antico,  specialmente  l'elegiaco,  e  manca  quasi  in- 
teramente il  disegno  o  la  linea  sicura.  E'  par  che  lo 
scrittore,  senza  fare  spicciar  spontanea  la  sua  vena 
da  prossime  sorgenti,  sol  si  piaccia  ricercare  e  rin- 
correr la  imagine  e  il  fantasma  con  isforzo  delle  fa- 
coltà e  con  la  smania  di  riescire  o  di  parere  origi- 
nale. Diro  meglio  intorno  a  ciò  ad  una  prossima 
pubblicazione   di  rime    del  d' An?iutizio.    Non  così  tra 


P.  AGOSTINO    DA   MONTEFELTRQ 


273 


Terra  Vergine  e  il  Piacere,  e  tra  '1  Piacere  e  Gio- 
vanni Episcopo:  un  rinnovamento  c'è.  Lo  stile  è  più 
rapido,  più  immediato,  più  denso:  più  organica  l'or- 
ditura e  più  propria  e  pura  la  forma;  meno  ambiziosa 
riluce  la  imagine,  la  similitudine,  l'epiteto  ,  la  frase, 
ed  è  men  ricercato  lo  strano  e  il  paradossale.  Il  pro- 
gresso è  evidente.  Se  non  che  in  Giovarmi  Episcopo 
la  nervosità  rappresentativa  mi  sembra  in  più  luoghi 
soverchia.  Lo  stile  mi  par  spesso  sciupato  o  strozzato 
da  quei  periodettini  che  si  rincorrono,  di  proposizione 
in  proposizione,  con  singhiozzi  e  con  iscatti  di  lega- 
menti minuscoli  e  talvolta  monchi,  e  che  mi  tolgono 
il  gusto  di  quella  complicata  e  magistrale  euritmia 
del  periodo  carducciano  in  cui  è  perspicua  e  meravi- 
gliosa la  sobria  efficacia  e  il  giusto  e  lucidissimo 
rilievo  nella  quasi  matematica  distribuzione  delle  linee, 
de'profili,    de'contorni. 

L'anima  umana  ha  e  deve  avere  certi  complicati  e 
variatissimi  svolgimenti  che  richiedono  una  ricca  e 
molteplice  architettura  di  stile:  questo  perciò  dee  con- 
torcersi di  quando  in  quando  per  entro  meandri  di 
giunture  e  di  ligamenti  e  di  membri  nella  lucidissima 
trama  del  periodo.  Quel  che  ci  rugge  dentro  dee  spic- 
ciar fuori  in  tutte  le  sinuosità  e  in  tutti  gli  avvolgi- 
menti delle  umane  passioni:  dee  simulare  le  intrica- 
tissime fila  del  sentimento,  i  continui  ondeggiamenti 
e  scabrosità  del  pensiero 


Qualcos'altro  potremmo  dire  intorno  a  Giova?ini  Epi- 
scopo in  rapporto  all'ambiente  e  al  genere  letterario, 
intorno  alla  verità  di  quel  carattere  complesso  ,  in- 
torno allo  svolgimento  di  quell  '  anima  ne  '  forti  e 
cupi  contrasti  della  vita.  Certo,  è  un  romanzo  quello 
di  Giovanni  Episcopo.  Dirò  meglio  :  non  è  tutto  il 
romanzo,  ma  un  abbozzo,  uno  schizzo  vigoroso  di  ro- 
manzo. Altrimenti  che  cosa  è  mai?  Un  bozzetto?  Non 
può  essere;  non  ne  ha  né  i  limiti  né  1'  indole.  Una 
novella?  Neppure:  il  monologo  non    può    essere    una 

l8 


274 


novella.  Un  dramma,  una  tragedia  in  prosa?  Nem- 
meno: il  dramma  e  la  tragedia  han  bisogno  di  più 
anime  che  si  movano  sulla  scena.  Non  si  può  uscire 
dal  romanzo:  Giovarmi  Episcopo  fa  il  romanzo  di  sé 
stesso.  E  però  quel  monologo  è  il  dramma  d'un'ani- 
ma  sola  che  accorcia  e  sopprime  tante  altre  anime 
che  le  appartengono.  E'  l'embrione  del  romanzo,  ma 
è  il  romanzo  nella  materia  sua  greggia  ,  direbbe  lo 
Zumbini.  L'autore  ha  cominciato  a  rinnovarsi.  Quan- 
d'egli ci  avrà  dato  il  romanzo  intero  ,  quando  avrà 
compiuto  il  rinnovamento  di  sé  stesso,  é  facile  spe- 
rare che  avremo  anche  il  rinnovamento  d' un'arte,  del- 
l'arte contemporanea.  Giova^ini  Episcopo  è  una  bella 
promessa.  Il  D'Annunzio  é  fjrte,  non  ha  compiuto 
ancora  la  sua  evoluzione,  e  può  farlo  intcr')  questo 
rinnovamento. 

Questo  l'augurio  nostro.   Intanto,     fiduciosi  ,   aspet- 
tiamo. 


XXIV. 
^  L'Innocente  „ 


In  acre  sapore  d'adulterio,  un  venefico  senso 
^  ^//^M  *^'  innaturale  e  morbosa  voluttà  esala,  irrita 
'■^e  punge  tra  linea  e  linea  ,  tra  pagina  e  pa- 
gina di  questo  monologo  ,  che  ,  con  cruda  ed  ispie- 
tata  analisi,  pel  filtro  sottile  delle  più  torbide  passioni 
scovre  e  denuda,  notomizza  e  disamina  l'intimo  agi- 
tarsi di  un'anima  eccezionalmente  depravata,  e  gl'im- 
piari  stimoli   sensuali  d'una  natura  posticcia  e  bestiale. 

Se  non  impossibile  ,  è  assai  difficile  ricercar  nella 
letteratura  russa,  da  cui  pur  l'ultima  opera  d'annun- 
ziana  più  o  men  direttamente  deriva,  una  più  strana 
e  mortificante  anormalità  di  carattere  ,  e  un  più  pu- 
trido senso  di  libidine  ,  acuta  e  nauseante,  come  di 
fogna:  710/1  voglio  essere  che  quello  che  sono  :  fango  nel 
fango.  Puah  !  Evidentissimo  nell'  autore  lo  sforzo  di 
trasf  jndere  nel  carattere  di  Tullio  Hermil  ,  quasi  a 
partito  preso  ,  istinti  e  sensazioni  e  impulsi  impossi- 
bili a  sorprendere  nella  vita.  Tutto  il  romanzo  é  come 
l'apoteosi  della  più  falsa  e  disumana  corruzione,  sog- 
gettivamente  voluta  :  è  come  lo  sforzo  d'un  forte  e 
scompaginato  ingegno  tendente  smaniosamente  ,  col 
solletico  d'una  forzata  e  convenzionale  originalità,  a 
snaturare  e  smascolinare  l'indole  sua  colla  ricerca  as- 
sidua e  sottile  di  creature  che  sono  ,  per  usare  un 
S'UO  barbaro  neologismo,   irreali. 

E  lo  sfjrzo  è  notevolissimo  dappertutto  :  nelle  di- 
zioni e  nella  frase  ,  nelle  situazioni  e  nell'intreccio, 
nelle  giunture,  nello  stile  ,  nello  svolgimento  organi- 
co, E  anche  dove  meglio  apparisce  1'  opera  del  ce- 
sello e  del  tornio  ,  anche  ne'  più  bei  quadri  sfolgo- 
ranti di  colore  e  d'  anima  lirica  ,  anche  nei  rilievi  e 
negli  agili  contorni  onde  è  resa  la  natura  viva  ,  il 
reale  intitaaniente  oggettivo  s'appanna,  l'intimo  senso 


della  vita  ,  veramente  vissuta  ,  sparisce  ;  il  dramma 
interiore  vien  come  strozzato  nelle  sottili  disquisizioni 
del  pensatore  e  nella  marmorea  rigidità  della  forma 
che  par  funeraria.  Siam  lungi  dall'  ambiente  ,  e  nel 
mondo  dall'  autore  voluto  l'anima  si  trova  a  disagio, 
e  il  cuore  sente  i  pizzicori  d'  una  voluttà  sì  corrotta 
e  brutale  ,  che  instintivamente,  tra  brividi  di  aborri- 
mento e  di  schifo,   irrompe  e  si  ribella.  Vediamo. 

Tullio  Hermil  é  una  natura  posticcia  e  insieme  per- 
versa; egli  é  nmltanime,  è,  com'ei  si  crede,  uno  spi- 
rito raro:  sorbilla  e  deliba  ,  come  tante  goccioline  di 
veleno,  le  più  crude  e  opposte  seduzioni  ,  gli  incita- 
menti più  diversi  e  più  impuri  ,  le  voluttà  più  mor- 
bose e  brutali.  E'  passa  ,  cinicamente  ,  da  una  brut- 
tura all'  altra  ,  da  uno  ad  altro  disegno  ,  dal  più  ri- 
buttante tradimento  per  una  donna  eroica,  Giuliana, 
al  più  disumano  e  meditato  delitto,  alla  soppressione 
violenta  del  morticino  in  fasce,  del  povero  innocente: 
l'idea  fissa  lo  dirige  allo  scopo  come  su  per  una  Luna 
d'acciaio,  chiara,  rigida  ,  senza  fallo.  È  un  malvagio 
singolare  e  stranamente  complesso  ,  diverso  da  tutti 
gli  altri,  e  come  tale  ha  un  diverso  concetto  della 
vita;  e  come  crede  che  il  suo  spirito  raro  abbia  ra- 
rità d'azioni,  che  ciascun  suo  atto  lo  distingua  dal- 
l' universale  ,  così  pensa  potersi  egli  sottrarre  alla 
legge  comune,  disprezzar  l'opinione  altrui,  viver  nel- 
l'assoluta sincerità  della  sua  natura  eletta  :  come  ri- 
conosce la  superiorità  della  sua  intelligenza  ,  cosi 
crede  giustificabili  i  disordini  della  sua  vita  ,  perchè 
scusati  da  dottrine  morali  opposte  a  quelle  professate 
apparentemente  dalla  maggioranza  degli  uomini.  Così 
egli  diventa  un  raffinatissimo  calcolatore  dei  sentimenti 
e  degli  affetti,  un  mostruoso  egoista  ,  un  ragionator 
demoniaco,  che  ,  colle  acute  sottigliezze  del  sofisma, 
provasi  equilibrare  al  proprio  pensiero  perverso  la 
pravità  del  sentimento,  l'ignominia  della  morale  con- 
dotta; vuol  come  legittimare  l'opera  propria  alla  stre- 
gua di  principii  paradossali  e  sfuggenti  al  senso  co- 
mune. La  grandezza  morale  risultando  dalla  violenza 
dei  dolori  superati,  perchè   ella  avesse  occasione  d'es- 


277 


sere  eroica  era  necessario  che  soffrisse  quel  che  le 
ho  fatto  soffrire:  ecco  il  suo  raro  principio,  cosi  im- 
morale che  rompe  tutte  le  dighe  del  sentimento  uma- 
no. Essere  costantemente  infedele  a  U7ia  donna  costan- 
temente fedele:  ecco  la  illazione  nefanda.  Bella  equa- 
zione,  davvero,   di  principio  morale  1 

Egli  è  dunque  multa7iime.  Dopo  la  luna  di  miele, 
dopo  il  dolcissimo  idillio  nuziale  di  Villalilla,  dopo  i 
primi  atti  d'intima  vita  coniugale,  Tullio,  per  la  prima 
volta,  si  dà  in  braccio  di  due  amiche  della  moglie  e 
specialmente  di  Teresa  Raffo  ;  e  Giuliana  tutto  sa  e 
tollera  con  eroico  sacrificio.  Dopo,  e'  torna  a  lei  ma 
per  cominciare  una  vita  nova,  non  più  coniugale, 
ma  fraterna  e  senza  turbamenti  di  sensi  ,  una  vita 
tutta  sentimentale  e  mistica  :  Giuliana  ,  ora  ,  gli  fa 
rivivere  1'  adorata  imagine  di  Costanza,  della  povera 
sorellina  di  lui,  che  gli  ha  lasciato  nell'anima  un  irie- 
sauribile  tesoro  ,  il  tesoro  della  tenerezza  ,  e  un  do- 
lore quasi  mistico.  Giuliana  si  transfigura  di  moglie 
in  sorella,  e  ricorda,  in  arte,  la  convenzionale  Statua 
di  cai'ìte  di  Teobaldo  Cicconi.  Ma  questo  amor  soro- 
rale non  gli  impedisce  di  raggiunger  Teresa  a  Fi- 
renze, e  di  abbandonare  la  mistica  sorella.  Ancora 
un  poco,  e  Tullio  ritornerà,  per  la  seconda  volta  ,  a 
Giuliana;  ma  oh!  come  la  ritrova  mutata  e  sofferente. 
Poco  di  poi  e'  dubita  di  lei  :  il  libro  di  Filippo  Ar- 
borio,  //  segreto,  a  lei  dedicato  con  un  motto  amaro, 
turris  eburnea,  gli  acuisce  il  dubbio.  E'  troppo  tardi, 
forse  ? — e'rimugina  in  mente.  Sì  :  prima  la  madre, 
indi  l'eroica  martire,  candidamente,  gli  confessano  il 
vero:  sconto,  dice  l'adultera,  coìi  guest  'inferno,  u?i  mi- 
nuto di  debolezza.  Cerca  ,  in  Roma  ,  Arborio  ,  ma 
si  consola  quando  lo  sa  gravemente  ammalato  di 
paralisi  bulbare  progressiva.  Quel  che  ha  primo 
presentito  ,  ora  è  un  fatto  ,  ed  è  ancora  un  fatto  il 
frutto  adulterino  di  quell'amore  impuro;  ma  e'  sente 
il  bisogno  di  amar  Giuliana  anche  nell'impurità.  Mon- 
dino sarebbe  nato  :  e  già  in  quel  cuore  sorge  e  si 
matura  l'idea  del  delitto.  Mondino  nasce  ,  ma  come 
è  roseo  e  vivo  e  promettente  !   Quel  morticino    in  fa- 


27S 


sce  dee  morire;  e  lì  ,  all'aria  gelata,  il  povero  Mon- 
dino coglie  i  brividi  della  morte:  V  Innocente  muore. 

Chi  può  mai  sorprendere  in  questo  racconto  sola 
una  nota  che  gli  paia  vibrare  fra*^  concenti  della  vita,. 
o  un  episodio  nel  protagonista  che  non  paia  esalar 
dal  fango  ?  Non  voglio  essere  che  qìiello  che  sono:  fango 
nel  fango:  così  dice  di  sé  Tullio  Hermil! 

Tra  Giovanni  Episcopo  e  1'  Innocente  —  nessuno» 
ch'io  mi  sappia  ,  1'  ha  notato  —  può  bene  instituirsi 
un  confronto.  Son  due  caratteri  diametralmente  op- 
posti ma  pur  convergenti  in  un  comune  principio. 
Giovanni  Episcopo  ,  questo  Chrislus  patiens  di  una 
società  corrotta,  è  uno  spirito  raro  nella  servitù,  nella 
morale  abiezione,  nella  impostagli  e  subita  infelicità: 
è  la  vittima  rassegnata  di  ognuno  che  lo  domini  e 
deprima,  è  la  morbosa  singolarità  d'un  carattere  im- 
possibile nella  vita,  e  per  ciò  stesso  è  un'anima  eroica 
nell'abnegazione.  Tullio  Hermil  è  invece  uno  spirito 
raro  nella  malvagità  deprimente,  attiva,  sensuale,  alla 
quale  obbedisce  ,  pur  vittima  rassegnata,  un'  anima 
eroica.  Il  primo  è  una  natura  eletta,  da  tutte  le  altre 
diversa,  nella  passività,  nel  dominio  altrui;  il  secondo 
è  una  natura  privilegiata  ,  distinta,  nell'  azione,  nel- 
l'altrui sacrificio.  Giovanni  Episcopo  si  scontra  con 
Giuliana:  Giulio  Wanzer  e  Ginevra  con  Tullio  Her- 
mil. Episcopo  alfine  si  ribella  e  uccide  Wanzer  :  Gi- 
nevra, non  meno  ribelle  ,  tradisce  Tullio.  Tullio  ed 
Episcopo  s'  abbattono  infine  nel  rappresentare,  l'uno 
l'anormalità  degradante  nella  servitù  eroica  ,  1'  altro 
l'anormalità  deprimente  nella  nequizia  e  nell'  adulte- 
rio, ed  operante  in  anime  non  meno  eroiche  la  me- 
desima servitù  ed  abnegazione.  L'uno  e  l'altro,  spi- 
riti rari  ed  eletti  ,  son  fuori  del  circolo  della  vita;  e 
tutti  e  due  appartengono  al  medesimo  processo  psi- 
cologico, il  quale  fu  proprio  voluto  dall'autore.  Questi, 
anziché  far  procedere  dall'  inspirazione  immediata  e 
dalla  intuizione  inconsciente  il  mondo  delle  sue  ani- 
me non  {sfuggenti  alla  vita,  ha  tentato  di  animare  la 
povera  argilla  ,  la  greggia  materia  delle  sue  note  ed 
osservazioni,  delle  sue  disamine  e   ricerche  ,  col  vio- 


279 


lento  tentativo  di  crear  nature  posticce  pur  di  farle 
rispondere  al  preconcetto  suo  ,  a  quello  eh'  egli  ha 
voluto,  a  quanto  gli  si  è  andato,  prima,  determinando 
nella  mente  come  studio  psicologico:  altro  che  studio 
diretto  e  senza  transposizione  alcuna  !  Ammettiamo, 
per  poco,  la  esistenza,  nella  vita,  di  questi  spiriti  rari. 
Tradurli  però  nell'arte  vai  come  trar  questa  a  ritroso 
della  sua  naturalità.  L'  arte  non  rappresenta  una  co- 
scienza sola,  eccezionale  ,  distinta  :  essa  è  il  riflesso 
luminoso  d'infinite  conscienze  in  una  sola  conscienza, 
del  particolare  nel  generale  ,  dell'  individuo  nell'uni- 
verso. L'anima  è  un  mondo  di  anime  ,  e  1'  arte  dee 
rappresentar  questo  mondo.  Il  resto  appartiene  alla 
storia.  Di  Giovanni  Episcopo  io  scrivevo:  «  Che  c'è 
mai  nella  nostra  nazione  che  possa  giustificare  e  ren- 
dere interessante  un  libro  come  questo  del  D'  An- 
nunzio ?  può  esso  aver  mai  ,  in  Italia  ,  uno  scoppio 
d'  anime  che  si  riscontrino  nell'  anima  di  Giovanni 
Episcopo  ?  Poteva  mai  lo  scrittore  ,  che  pure  vuole 
osservar  le  cose  senza  transposizione  alcuna  ,  uscir 
da  un  ambiente  per  rappresentarne  un  altro  da  lui 
non  direttamente  osservato  ?  e  possono  gì'  italiani, 
che  pur  credono  d'  essere  ritratti  in  quel  libro,  rico- 
noscervi sé  stessi  ?  »  Può  dirsi  lo  stesso  dell'  «  In- 
nocente »  ch'è.  a  senso  mio,  la  prepotenza  del  falso 
e  del  convenzionale  studiato  e  lambiccato  nell'arte  da 
un  prepotente  ingegno,  il  quale  quelle  nature  non  le 
ha  viste  e  sentite,  ma  sol  pensate  e,  dirò  così  ,  sil- 
logizzate; e  perciò  ha  snaturato  l'arte.  Mi  piacerebbe 
assimieliar  1'  «  Innocente  »  a  un  camposanto  dell'anima 
tutto  sparso  di  bellissime  tombe,  e  constellato  di  verdi 
aiuole,  d'alberelle,  di  fiori,  e  ove  l'aere  balsamico  non 
inondi  o  purghi  che  il  lezzo  de'  cadaveri.  Questa  ima- 
gine  sempre  mi  rifiorisce  in  mente  quante  volte  mi 
avvenga  d'abbattermi,  qua  e  là  nel  romanzo,  in  bel- 
lissimi quadri  ove  alita  e  respira  la  natura  vera  ,  la 
natura  viva;  ed  ove  l'aereato  cilestrino  del  cielo  ha 
magici  riflessi  nel  ciel  cristallino  dell'arte. 


28o 


Ciò  che  anche  uccide  il  romanzo,  è  quel  monologo, 
quel  continuo  e  monotono  soliloquio  che  non  può  dar 
anima  diversa  a  tanti  tipi,  né  coglierli  vivi  vivi  e 
immediati,  cioè  sorprenderli  in  atto  e  balzanti  su  nella 
vita,  né,  infine,  renderli  con  arte  oggettiva  e  imper- 
sonale. E'  impossibile  che  il  protagonista  s'oggettivi 
e  si  distingua  in  tante  anime  ,  eh'  e'  sia  1'  attore  di 
tanti  attori.  E  lo  stile  ,  pur  nella  cristallina  tersità 
della  forma,  si  scolora,  o  certo  perde  di  vivezza,  di 
vigore  e  varietà:  l'intreccio,  la  rappresentazione  e  il 
contenuto  psicologico  si  dimezzano,  s'accorciano,  spa- 
riscono entro  i  viluppi  e  gì'  intricati  labirinti  d'  un 
solo  dramma  interiore  mentre  ve  n'  é  tanti  ;  e  infine 
il  dialogo  —  parte  essenziale  —  impallidisce  e  si  snerva, 
perchè  non  può  render  tratto  tratto  1'  anima  intima, 
e  come  il  flusso  e  rifluseo  di  più  conscienze  in  per- 
sone diverse.  E  il  romanzo  ,  per  necessità  ,  diventa 
soggettivo.  Neil'  Innoceìite  chi  non  avverte  ,  sempre, 
anche  nelle  mosse  liriche  onde  ridonda  ,  anche  nei 
quadri  e  nelle  scene  naturali  di  per  sé  così  splendide, 
e  più  in  quella  minuta  penetrazione  dell'  analisi  psi- 
cologica, l'anima,  la  coscienza,  le  impressioni,  lo  stil 
personale  di  Gabriele  d'  Annunzio  ?  Chi  dubita  non 
sia  lui  Tullio  Hermil?  Oh!  come,  nella  quasi  marmo- 
rea rigidità  dello  stile  ,  irrita  e  stanca  ,  pe'  meandri 
di  una  troppo  sottile  analisi  patologica  ,  quel  mono- 
tono, sillogistico  e  arido  ragionamento  che  par  lezione 
accademica  di  filosofo  ,  più  che  coscienza  intima  e 
persona  facentesi  dramma  e  operante  sulla  scena  della 
vita.  Oh!  come  ,  tranne  dove  il  fior  della  poesia  lo 
avviva  e  colora,  tranne  dove  l'aspetto  delle  più  pure 
e  limpide  scene  campestri  lo  innalza  e  fa  sfolgorare; 
oh!  come  agghiaccia  quello  stile,  così  monoritmo  e 
uniforme,  che  dà  sempre  un  senso  di  freddo.  Bellis- 
sime e  terse  quelle  forme  —  la  lingua  però  dovrebbe 
essere  men  ricercata  e  più  fresca  in  molti  luoghi  — , 
ma  sembrano  i  lineamenti  e  profili  di    un    bellissimo 


28  I 


cadavere  non  ancora  disfatto:  peccato  che  quei  sim- 
metrici e  spesso  classici  periodi  sien  foggiati  .  quasi 
sempre,  sur  uno  stampo! 

Ancora:  la  scena  del  romanzo,  né  può  essere  altri 
menti,  è  assai  ristretta:  vi  tornan  sempre  ,  con  assi- 
dua noia,  due  persone  sole:  Tullio  Hermil  e  Giuliana. 
•Gli  altri  tipi,  Federico,  Filippo  Arborio,  Giovanni  di 
Scòrdio,  vi  appaion  si  ,  ma  come  ombra  :  il  dramma 
s'appunta  li,  in  quei  due  caratteri  soli  ,  mentre  gli 
altri,  a  tratti,  vi  s'intravvedon  solo  alla  sfuggita  e  di 
lontano,  come  figure  vaporose  e  sfumanti  che  l'occhio 
più  a  lungo  vorrebbe  seguire  con  cara  illusione.  Che 
anzi  la  figura  di  Filippo  Arborio,  pur  si  importante, 
non  vi  appare  affatto  se  non  come  fuggevole  ricordo, 
o  sol  nella  conscienza  dubbiosa  di  Tullio.  Due  son 
dunque  gli  attori  che  vediamo,  e  sono,  a  dir  vero,  i 
men  belli  e  possibili:  il  primo  è  assai  falso  e  ribut- 
tante, e  il  secondo,  non  meno  innaturale,  è  una  nova 
■Signora  dalle  camelie  nella  spasmodica  voluttà  e  nel 
mortale  languore  di  una  povera  e  sofferente  itterica, 
di  cui  più  non  iscorgiamo  gli  ultimi  palpiti  e  aneliti, 
l'ultima  crisi,  dopo  la  morte  dell'  «  Innocente».  Quelli 
che  veramente  illuminano  del  sereno  dell'  innocenza 
e  del  patetico  della  vera  sventura  lo  sfondo  del  romanzo, 
e  che  insieme  fan  dimenticare  tanto  fango  che  sale, 
son  due,  Federico  e  Giovanni  di  Scòrdio.  Ma  di  Fe- 
derico, di  questo  Gesii  della  gleba  —  creazione  tutta 
tolstoiana  —  son  pochi  i  tratti  che,  in  conspetto  della 
vera  natura  avvivata  dal  beato  idillio  d'una  innocenza 
primitiva  e  rusticana,  ce  1q  fanno  benedire  ed  amare; 
e'  presto  ci  sfugge  come  nube  vaporosa  sulla  mefite 
d'una  marcia  palude.  E  dell'altro,  del  povero  martire 
della  gleba  ,  del  paziente  lavoratore  ,  eh'  è  un  novo 
Christns  patiens ,  una  seconda  incarnazione  di  Gio- 
vanni Episcopo,  e  che  tiene  a  battesimo  e  di  affetto 
paterno  poi  prosegue  1'  innocente  Mondino,  il  morti- 
cino in  fasce,  di  questo  povero  martire  non  sorpren- 
diamo neppur  di  lontano  ,  neppur  com'  ombra  ,  la 
simpaticafigura  che  ci  si  appanna  quando  meglio  c'indu- 
giamo a  cercarla,  dopo  il  lezzo,   neh'  aere  vergine    e 


282 


puro  dell'innocenza  e  della  sublime  pietà.  Manca  al 
romanzo  la  tela,  e  alla  tela  la  sottil  trama  fatta  di 
creature  vive  e  possibili.  Da  una  parte  la  innaturalità 
de'  principali  caratteri  e  dall'  altra  il  monologo  rom- 
pono quella  ricca,  varia  e  vigorosa  unità,  quel  lucido 
organesimo  di  forme  viventi,  quell'intreccio  e  quello 
svolgimento  derivanti  da  un  sano  concetto  della  vita. 
E  la  inevitabile  conseguenza  di  questo  violento  ten- 
tativo è  quella  di  crear  nature  fìnte  e,  a  ritroso  del 
vero  e  delle  tradizioni  letterarie  migliori,  tratte  a  forza 
nel  falso  olimpo  dell'arte  riflessa.  Questo  1'  Inìiocente 
che  ci  Siam  provati  a  studiare  con  diligente  impar- 
zialità. 


Il  D'  Annunzio  è  un  ingegno  esclusivamente  sog- 
gettivo e  assimilatore:  gli  manca  il  talento  della  og- 
gettività, della  impersonale  genialità  inconsciente,  ma 
tutta  spirante  dall'anima  delle  cose.  Per  lui  non  fa  il 
romanzo  ,  né  altri  generi  affini.  E  il  suo  torto  è  di 
volere,  a  ogni  costo,  ritorcer  la  sua  via,  andar  contro 
natura  ;  e  mentre  e'  tenta  rinnovarsi  ,  ecco  eh'  ei  si 
trova  nelle  mani  non  altro  che  forme  ,  bellissime  se 
vuoisi,  ma  pure,  rigide  forme,  senza  un  gran  conte- 
nuto vitale  ,  senza  un  sano  e  profondo  intuito  del 
mondo  ,  degli  uomini  e  delle  cose.  E  quando  più  e' 
si  prova  a  superare  colla  forza  dell'ingegno  tutti  gli 
altri,  a  sorpassarli  con  un'opera  d'arte  originale,  più 
si  contorce  nelle  spire  di  contenuti  innaturali  e  riflessi. 
Vorrebb'essere  un  caposcuola,  ma  per  questo  e'  scom- 
pagina l'arte  sua,  mentre,  imitando,  e  mantenendosi 
ne'  generi  soggettivi,  potrebbe  darci  qualcosa  di  men 
brutto,  o  certo  di  assai  più  fresco  e  peregrino.  Il  suo, 
veramente,  è  un  poderoso  ingegno  assimilatore;  egli 
è  un  adoratore  della  forma,  un  colorista  potente:  può 
dunque  trar  profìtto  da  queste  qualità  pur  grandi,  per 
darci  una  poesia  assai  men  brutta  delle  Elegie  l'omane^ 
e  una  prosa  tutta  propria  e,  in  dati  generi,  personale, 
rendendoci  le  impressioni  sincere  dell'anima  sua,  del 


283 


suo  cuore:  allora  il  colore  sarà  più  giusto,  più  armo- 
nico e  uguale  lo  stile,  e  la  forma,  avvivandosi  di  un 
contenuto  vero,  sarà  più  limpida  e  naturale.  Ma  è 
bene  che  si  liberi  dalle  camarille  letterarie  ,  che  di- 
mentichi il  pubblico  e  la  lode  eccessiva,  che  si  ripieghi 
sopra  di  sé:  così  solo  potrà  rinnovarsi,  per  non  mo- 
rire. Allora  di  gran  cuore  noi  pei  primi  godrem  sa- 
lutarlo come  —  così  scrive  il  Capuana  —  /'  autore 
covipiiitameute  liberato  da  ogni  tabe  patologica  e  corrotta 
che  ora  ispira  le  sue  creazio7ii  ,  rinnovato  addirittura,, 
schietto  italiano,  e  degnanietite  trionfante.  A  questo  patto 
soltanto  potrà  avverarsi  l'augurio  nostro  ,  in  questa 
stessa  rivista  (*i  espresso  a  proposito  di  Giovanni  Epi- 
scopo, di  ricever  da  lui  quel  rinnovamento  tanto  ne- 
cessario in  sì  rapido  scadere  di  alti  studi  e  di  cultura 
virile.  Lo  aspettiamo  ancora  alla  prova  ,  con  fiducia, 
perchè  ne  ammiriamo  l'ingegno,  ma  senza  encomio 
o  assentimento  codardo. 
Vorrà  egli  rinnovarsi  così? 


(*)  Scena  Illuslrala  di  Firenze  —  Fase,  di  Luglio  —  Agosto  1892; 


XXV. 
"  La  Città  Morta  „  *' 


\\E  non  si  guardi  al  facile  applauso  di  un  suc- 
"i'k^x>''/((  cesso,  come  dicono,  dissima,  questa  trasredia, 
ۓf^^^  rappresentata  di  recente  a  Parigi,  fu,  come 
il  Sogno  di  ìoi  mattino  di  pì-imavera  ,  una  vera  acca- 
demia pel  teatro,  e  una  nuova  disillusione  per  l'arte. 
Quel  che  si  disse  trionfo,  fu  certo,  come  spesso  av- 
viene di  cose  inattese  o  studiosamente  lanciate  al- 
l'applauso ,  un  vanto  ,  quasi  unico  e  solo  ,  di  Sarah 
Bernhardt:  con  altra  attrice  non  dubito  che  questa 
tragedia  si  sarebbe  rivelata  in  tutti  i  suoi  difetti.  Ag- 
giungi quel  senso  di  appagamento  che  nel  più  delle 
anime  desta  il  sentimentale  del  lirismo,  cioè  quel  ra- 
pimento affettivo  e  fantasioso  che  in  tutti  produce  la 
meteora  dell'amore  quando  mova  da  una  poesia  anche 
barocca  purché  recitata  bene.  La  critica  italiana,  l'alta 
■e  la  bassa,  ne  ha  detto  tutto  il  male  possibile  ,  con 
ragioni  spesso  giuste  ma  troppe  volte  avventate  ;  e 
però  non  posso  non  ricordare  in  proposito  un  bel- 
lissimo articolo  di  un  frate  (M,  Pier  Leon  de  Gistille) 
che  ne  discusse  con  molta  eleganza  e  con  molta  ve- 
rità in  uno  degli  ultimi  fascicoli  della  Rassegna  Ara- 
zionale di  Firenze. 

Ecco  il  racconto  triste,  quasi  mistico  ,  anzi  fatale. 
Sembra  un  tragico  episodio  del  fato   antico. 

Siamo  in  Grecia,  fra  le  rovine  di  Micene,  la  città 
morta.  Quivi,  in  cospetto  di  quelle  tombe  e  di  quegli 
avanzi  funerei,  tra  le  fosche  memorie  di  quel  passato 
solenne  ,  si  svolge  e  si  compie  ,  come  nella  trilogia 
eschilèa  e  nell'Antigone  di  Sofocle,  una  tragedia  ne- 
fanda, una  tragedia  che  vorrebbe  parere  antica,  ma  che 
non  può  essere  né  antica  né  moderna.  Due  famiglie. 


(*)  Fratelli  Treves,  Milano.  H"  migliaio. 


285 


avvinte  da  fraterna  amicizia  ,  sognano  e  folleggiano 
tra  quelle  meste  ruine:  Leonardo,  l'archeologo  ,  con 
la  sorella  Bianca  Maria;  e  Alessandro,  il  poeta  ,  con 
la  moglie  cieca,  Anna,  la  quale  è  vigilata  e  assistita 
dalla  nutrice  che  la  crebbe  bambina. 

Non  altri.  Pochissime  persone  in  assai  brevi  confini 
di  azione;  e  pur  tra  esse  sorgono  e  divampano  pas- 
sioni tragiche  che  non  sembrano  umane:  1'  adulterio 
e  l'incesto,  e  quindi  il  suicidio  nel  pensiero  di  Anna, 
e  in  ultimo  il  delitto  vero,  il  delitto  fraterno,  freddo, 
meditato,  sceneggiato  con  la  più  torva  crudezza.  Siamo 
nell'ambiente  degli  spiriti  rari,  de'  superno mmi:  crea- 
ture tutte  dannunziane.  —  Bianca  Maria  e  Alessandro 
si  amano  ,  si  adorano  ,  prima  tacendo  ,  poi  con  un 
senso  che  vorrebbe  parer  di  purezza  ma  è  di  passione 
furente:  quella  mutua  rivelazione  è  un  idillio,  un  po' 
greco  e  un  po'  moderno,  perchè  quelle  due  ani- 
me si  manifestano  1'  amore  cantando.  La  povera 
cieca,  la  martire,  tutto  vede,  tutto  sa  ,  tutto  soffre: 
eroica  nella  sventura  fisica  e  nella  morale  ,  sa  che 
non  può  dare  la  felicità  al  suo  Alessandro,  ma  vuole 
che  quelle  due  creature  elette  e  privilegiate  si  amino 
perchè  da  natura  han  diritto  alla  felicità  ;  e  perciò 
ella,  consapevole  vittima  del  suo  destino  ,  medita  il 
sacrificio  di  sé  medesima,  il  suicidio:  così  allora  que' 
due  cuori  saran  liberi  e  felici.  Ma  il  suicidio  non  av- 
viene, perchè  Leonardo  uccide  la  sorella  ,  anche  lei 
vittima  del  ferreo  destino  ,  per  serbarla  pura  ,  per 
non  farle  amare  quell'uomo,  ma  più  forse  per  allon- 
tanare da  sé  il  pensiero  tremendo  di  un  amore  ince- 
stuoso ,  concepito  là  ,  accanto  al  fuoco  ,  quando  un 
giorno  la  vide  assopita  ,  e  co'  piedi  nudi.  Anna  ,  la 
cieca,  esterrefatta,  alla  vista  del  cadavere  che  bran- 
colando tocca,  ha  una  strana  apparizione,  e  prorompe: 
—  Ah!..  Vedo!  Vedo!  —  Così  la  tragedia  finisce.  Quale 
tragedia! 

Basterebbe  solo  questo  cenno  per  dimostrar  falsi 
e  impossibili,  nella  società  nostra  e  nell'antica,  anime 
e  creature  come  quelle.  Se  non  che  e'  vorrebbe  rifare 
la  tragedia  greca  con  lo  spirito  greco.  Ma  come  ?  Si 


286 


potrà  forse  intendere  anc'oggi  Nausicaa  con  Ulisse, 
Agamennone  con  Ifigenia,  Egisto  con  Clitennestra,  Ore- 
ste con  Elettra,  Antigone  con  Ismene  e  Polinice,  Me- 
dea con  Giasone  ,  pur  circonfusi  da'  miti  ;  ma  ne' 
tempi  eroici  dell'antica  Grecia,  con  quel  culto  ,  con 
quella  vita,  con  quel  clima  storico:  materia  alla  epo- 
pea di  Omero  e  di  Esiodo,  sostanza  alla  tragedia  di 
Eschilo,  di  Sofocle,  di  Euripide,  Quelle  son  creature 
stupendamente  belle  e  meravigliosamente  vere;  e  un 
folle  scoperchiatore  di  tombe  può  anche  ammirarle. 
Ma  come  ei  fa  a  imitarle,  a  immedesimarsene  l'azione, 
a  sdoppiarle  nella  vita,  nella  passione  ,  nel  delitto, 
nell'incesto?  Siamo  fuori  del  secolo,  della  vita  ,  del 
momento  ond'emana  una  vera  opera  d'arte;  né  il  ri- 
torno al  passato,  quando  non  sia  d'anime  durature  e 
perenni,  può  mai  produrre  opera  di  rinnovamento: 
similmente  la  rigidità  aristotelica  dell'unità  di  tempo 
e  di  luogo  (  povero  Manzoni!  )  come  qui  ha  fatto  il 
d'Annunzio,  non  può  mai  dar  movimento  a  un  dramma, 
^  una  tragedia,  a  un'a'.ione  qualsiasi  ,  sceneggiata  o 
no.  Al  d'Annunzio,  visceralmente  soggettivo,  manca 
il  temperamento  drammatico,  manca  l'attitudine  alla 
5cena:  o  in  prosa  o  in  versi  egli  si  àzzima,  s'  imbel- 
letta, si  agghinda,  e  poi  canta.  E  accademico  sempre. 
Taluno  mette  innanzi  lo  stile;  e,  pur  di  recente,  un 
Oietti  marzocchiano  ha  predicato  che  quello  è  il  più 
alto  stile  italiano  di  tutto  il  secolo,  è  un  perfeziona- 
mento di  quello  regale  del  Carducci.  Ha  ragione,  per- 
chè chi  scrive  male,  cioè  con  forma  greve,  flaccida, 
arcaica,  slombata,  può  anche  non  intendere  altro  stile 
che  quello.  Le  son  baie  di  gente  che  non  sa  leggere 
nel  Leopardi  e  nel  Manzoni,  nel  Carducci  e  in  altri 
pochi,  men  regali  ma  più  semplici  e  chiari:  il  Mar- 
tini, ad  esempio.  E  l'Oietti,  mentre  tanto  si  accalora 
contro  la  peste  dannunziana  degl'imitatori,  parla  pro- 
prio di  corda  in  casa  dell'impiccato.  Meno  male  che 
se  n'accorge  egli  medesimo,  e  finisce  esclamando:  — 
Vertite  in  me  arma  Riduli  (veramente  Virgilio  dice:... 
in  me  convertite  ferriim,   —  RiitiiW). 

Ecco.  Ciò  che  in  questa  tragedia  meglio  seduce  gl'in- 


2S7 


cauti,  è  l'addobbo  nel  cercato  lenocinlo  del  paesaggio; 
è  l'effetto  ingombrante  di  luce  e  di  colori;  è  il  sospiro 
dell'idillio  o  dell'elegia  nelle  continue  evocazioni  della 
Grecia  antica,  fra  i  ruderi  della  città  morta  ;  è  certa 
studiata  vaghezza  nel  disegno  di  alcuni  quadri  :  è 
tutto  questo  in  alcuni  luoghi  dell'opera  frammentaria, 
non  mai  nel  complesso,  nella  interezza  organica,  cioè 
nel  dramma  intimo  che  anima  1'  azione  e  illumina  la 
scena.  E  anche  quello  studio  della  parola  nel  blandito 
ritmo  della  poesia,  quella  smaniosa  ricerca  della  mu- 
sica favellata  nel  voluttuoso  giro  della  frase  e  nel  le- 
vigato ordito  del  periodo;  tutto  questo  potrà  piacere, 
ma  per  poco;  tutto  questo  non  può  esser  mai  la  prosa 
che  scatta  improvvisa  dal  cuore  commosso  e  che  me- 
glio rende  l'impeto  della  passione.  Qui  le  anime  so- 
gnano e  cantano;  non  operano:  qui,  ne'  quasi  mono- 
loghi della  rappresentazione,  spesso  lunghi  ,  freddi, 
monotoni,  i  personaggi  si  scambiano  squarci  lirici, 
un  po'  anche  metastasiani,  e  ricamano  l'idillio  co'  tra- 
punti della  elegia.  E'  arte  qujsta  qui?  è  stile?  è  rai)- 
presentazione? 

Sotto  tale  aspetto  anche  questo  lavoro  resta  artifìcio, 
un  mirabile  artifìcio,  come  svolgimento  e  come  ese- 
cuzione. Da  ben  altri  rivi  può  scaturire  l'opera  vera 
di  1  innovamento;  ma  questa  qui,  con  tutta  la  pompa 
dello  strano  e  del  decoramentale,  con  tutte  le  veneri 
di  uno  stile  aureo  ,  come  i  cadaveri  che  Leonardo 
scruta  nelle  tombe,  di  uno  stile  fatto  a  scatti,  a  sospiri, 
a  singhiozzi,  a  ripetizioni,  a  punti  sospensivi  ,  con 
tutto  il  sovrano  magistero  della  bellezza  barocca,  que- 
sta qui,   ripeto,   è  arte  fossile  e  morta. 


<r=^^^^ 


XXVI. 
"  La  Gioconda  „  (' 


(l  volume,  impresso  a  grandi  caratteri  e  coi  so- 
|(  liti  eleganti  elzeviri  de'  fratelli  Treves,  ha  la 
copertina  di  color  fragola  vivo,  quasi  san- 
guigno. Dopo  il  titolo  è  un  verso  di  Francesco  Pe- 
trarca (**)  guasto  da  Leonardo  da  Vinci:  «  Cosa  bella 
mortai  passa,  e  non  d'arte  ».  Dentro  è  questa  dedica 
breve:  «  Per  Eleonora  Duse  —  dalle  belle  mani  ». 
Sùbito  dopo,  una  indicazione  latina:  Dramatis  perso- 
nae.   In  fine  alla  tragedia,   una  parola  greca  (tsXo;). 

Ultima  segue  una  versione  di  un  frammento  della 
Iliade  (raps.  Ili)  dove  si  parla  de'  principi  Troiani 
assai  trepidi  del  pericoloso  incanto  di  Elena,  simiglie- 
vole  in  bellezza  alle  iddie  immortali,  da  cui  certo  l'au- 
tore vuol  trarre  una  peregrina  rassomiglianza  alla  sua 
Gioconda.  Così  la  protagonista  non  dee  simboleggiare 
la  donna  della  vita,  sì  quella  dell'Olimpo,  cioè  d'  un 
mondo,  com'ei  direbbe,  irreale,  e  che  si  pone  a  studio 
d'una  faticosa  bellezza  archetipa.  Tutto  è  qui  sottil- 
mente ricercato:  copertina,  colore,  tipi,  motto,  dedica, 
nota.  Amminicoli  questi  o  meglio  inezie  che  anche 
rivelano  le  strane  qualità  di  un  raffinato  dell'  arte  il 
quale  vuol  essere  o  parer  prezioso  in  tutto,  anche  nel 
piccolo,  anche    ne'  ritagli  del  suo  industrioso  lavoro. 


La  favola  della  tragedia  è  assai  breve.  Lucio  Set- 
tala,  scultore,  s'  innamora  perdutamente  di  Gioconda 
Dianti,  donna  di  animo    imperioso    che    gli   serve  da 


(*)  Milano,  Fratelli  Treves,  editori,  1S99.  —  Seconlo  migliaio. 

(**)  Sonetto  GXC-210  (Ed.  Rigutini,  Hoepli,  '90).  Ultimo  verso  delia 
seconda  quartina:  «  Cosa  bella  mortai  passa  e  non  dura  «Vedi  «Sonetti 
in  vita  di  madonna  Laura  ». 


289 


modella,  e  in  cui  vede  la  necessaria  e  consapevole 
ispiratrice  delle  sue  statue:  per  questo  ella  esercita 
un  dominio  irresistibile  che  l'amante  non  sa  vincere. 
Questi  ama  meno  ardentemente  la  moglie  Silvia,  da 
cui  ha  un  tesoro  di  figliuola,  la  piccola  Beata.  Silvia 
è  una  donna  di  animo  forte  e  tutta  fremente  di  pas- 
sione: odia  mortalmente  la  rivale,  ma,  povera  martire, 
adora  il  suo  Lucio  per  cui  soffre  le  più  amare  torture 
di  queir  abbandono.  Neil'  animo  dell'  infedele  sorge 
sùbito  un  fiero  dissidio  tra  i  più  santi  vincoli  della 
famiglia  e  le  più  strane  seduzioni  di  quella  maliarda, 
onde  un  bel  giorno,  nel  suo  studio  in  Firenze,  tenta 
uccidersi  per  estinguer  colla  morte  quella  duplice  mor- 
bosa passione.  Feritosi  gravemente,  trova  nelle  cure 
affettuose  della  moglie  la  sua  guarigione.  É  ancora 
convalescente  che  già  la  Dianti  gli  manda  una  lettera 
per  invitarlo  alla  vita  di  una  volta,  alla  vita  dell'amore 
e  dell'arte.  Essa  lo  attende  lì,  nel  solito  studio  in  cui 
ha  diritto  di  entrare  come  assoluta  padrona,  perchè 
quello  è  il  tempio  dell'arte  e  non  della  famiglia;  ivi 
sorge  ancora  quella  statua  ch'ella  crede  sua,  quasi 
una  creatura  della  sua  bellezza  ispiratrice,  anzi  della 
sua  conquista.  Lucio  si  lascia  vincere  ancora  da  quella 
passione;  ma  la  moglie  a  nome  del  marito  e  ad  insa- 
puta di  lui  si  reca  impavida  nello  studio  per  cacciarne 
la  rivale:  ivi  l'attende,  ivi  s' incontrano  a  faccia  a 
faccia  e  si  contendono  quell'uomo,  l'una  in  nome  del- 
l'amore e  dell'  arte,  l'altra  in  nome  dell'amore  e  della 
famiglia.  Divampano  di  sdegno  e  si  slanciano  violente 
contro  la  statua  la  quale  finalmente  cade  e  si  rompe, 
ma  stritola  anche  le  bellissime  mani  di  Silvia.  Sùbito 
dopo  sopraggiunge  Lucio  che,  vista  la  statua  muti- 
lata e  quella  straziante  scena,  riman  di  sasso,  ma  non 
si  ravvede,  poiché  non  sa  resistere  al  fascino  di  quella 
donna  a  cui  di  nuovo  si  abbandona.  La  povera  mar- 
tire si  divide  dal  marito  e  si  reca  alla  casa  paterna 
in  Pisa  dove  ha  luogo  l'ultima  scena,  la  più  bella  e 
la  più  vera,  cioè  l'arrivo  della  piccola  Beata  che, 
inconsapevole,  vuol  baciare  alla  madre  le  mani,  le 
tronche  mani,  che  questa  le  nasconde;  e,  in  quell'  in- 

19 


290 


contro,  la  povera  mutilata  non  sa  resistere  al  pianto 
perchè  sente  nell'anima  il  più  crudo  tormento,  forse 
più  crudo  della  morte.  La  piccola  innocente,  com- 
mossa, le  dice:  «  Piangi?  piangi?  »  Così  la  tragedia 
finisce. 


*  * 

Che  v'ha  di  tragico  in  questo  racconto?  Nulla,  ve- 
ramente, all'  infuori  di  due  sole  scene  di  grande  po- 
tenza drammatica.  L'intreccio  è  assai  breve,  o,  meglio, 
monco,  e  senza  compatta  unità;  anzi  non  lascia  neppur 
trasparire  il  nodo  intricatissimo  di  fatti,  di  situazioni, 
di  scene  cospiranti  all'organico  svolgimento  della  vera 
azione  tragica.  Non  vi  appare  1'  ingegnosa  combina- 
zione dei  particolari,  i  quali  qui  non  si  concatenano,  poi- 
ché procedon  disgiunti,  slegati,  disuguali.  Di  fatti, 
non  v'è  nell'  unità  del  procedimento  la  proporzione 
delle  parti:  quella  della  protagonista  è  messa  in  mi- 
nor luce,  poiché  la  vediamo  in  una  scena  sola  dei 
quattro  atti:  e  la  figura  di  Lucio  è  anch'essa  avvolta 
nell'ombra,  perchè  di  lui  sappiamo  sol  quello  che  ce 
ne  dicono  gli  altri  personaggi,  i  quali  hanno  maggior 
movimento:  il  carattere  più  determinato  e  più  svolto 
è  quello  di  Silvia,  perchè  il  più  vero.  Ma  soprattutto 
manca  il  midollo  della  tragedia,  cioè  il  fatto:  o  meglio, 
quel  grandioso  nel  patetico,  quel  meraviglioso  nel  fa- 
tale, quel  doloroso  nel  terribile,  in  cui  si  sviscera  la 
rappresentazione  tragica,  la  quale,  per  ampiezza,  me- 
glio si  avvicina  alla  epopea.  Qui  il  fatto  è  troppo 
piccolo  in  sé  per  essere  veramente  tragico.  Per  esem- 
pio, niun  de'  personaggi  muore,  niuno  ricorda  quella 
terribilità  d'azione  che  forma  il  nòcciolo  della  tragedia 
di  tutt'  i  tempi  e  di  tutt'  i  popoli.  Invano  questa  ter- 
ribilità s'  incontra  nella  lotta  delle  due  rivali  dinanzi 
alla  statua,  la  quale  è  solo  una  scena  che  per  impor- 
tanza e  per  effetto  non  è  cosi  profondamente  discorde 
da  tante  altre  più  o  meno  violente  rivendicazioni  co- 
niugali. E  la  catastrofe  invano  si  cerca  nell'altra  più 
mirabile  scena,  quella  dell'  incontro  della  figliuola  in- 


291 


nocente  colla  madre  tradita  che  si  sente  morir  di  do- 
lore; come  la  fatalità  tragica  non  può  esser  quella  di 
una  donna  che  avvince  a  sé  profondamente  un  uomo 
sol  perchè  il  suo  amore  è  congiunto  a  quello  del- 
l' arte. 


Ma  che  v'  è  di  vero  in  questo  lavoro  ?  o  meglio, 
che  v'  è  in  esso  della  vita  contemporanea  ?  Dubito 
forte  vi  possano  oggi  esser  nature  come  quella  di 
Lucio;  di  un  artista  che  crudelmente  tradisce  anche 
nel  momento  supremo  della  gratitudine  e  della  sven- 
tura, che  rinunzia  proprio  allora  agli  affetti  più  santi 
della  famiglia,  che  dimentica  di  esser  padre,  dimen- 
tica una  donna  che  lo  ha  salvato,  lo  ha  guarito,  si  è 
mutilata  per  lui;  e  ciò  per  una  statua  che  si  rompe,  e  per 
una  audace  donna  che  glie  la  ispira,  quasi  che  un  capo- 
lavoro dipenda  unicamente  dal  fascino  di  una  modella! 
Ho  voluto  domandare  a  un  grande  scultore  italiano 
se  mai  nella  vita  dell'  arte  sia  possibile  una  natura 
come  questa,  e  se  vi  sia  mai  stata.  La  risposta  pie- 
namente negativa  mi  conferma  che  il  carattere  di 
Lucio  è  falso,  o,  se  mai,  non  rappresenta  un  ambiente. 
Come  tanti  altri  personaggi  d'annunziani,  come,  ad 
esempio,  Tullio  Hermil  nell'  Imiocente,  Lucio  Settala 
è  anch'egli  uno  spirito  raro  e  vmltanime,  un  raffinato 
della  vita  e  del  pensiero;  anch'  egli  ha  una  sen- 
sibilità morbosamente  squisita  e  superiormente  e- 
stetica,  per  la  quale  nulla  di  lui  ha  da  esser  si- 
miglievole  alla  comune  degli  uomini  .  Or  questo 
carattere  nel  procedimento  della  tragedia  può  esser 
mai  la  espressione  individua  di  tutto  un  ambiente,  di 
tutta  una  classe,  di  tutto  un  gruppo,  anche  se  cor- 
rotto e  degenerante  ?  Date  pure  la  più  ampia  libertà 
allo  scrittore,  dategli  pure  ogni  contenuto  non  sano; 
s'  egli  non  riesce  a  improntar  nel  tipo  suo  la  realità 
molteplice  della  vita,  egli  é  fuor  di  essa  e  anche  del- 
l'arte. Questo  sforzo  anzi  lenocinlo  del  singolare  e  del 
raro  come  vero  e  come    rappresentazione,    anche    se 


2  92 


riveli  un  simbolo  od  una  idealità  superiore,  è  la  parte 
più  manchevole  e  più  falsa  dell'opera  d' annunziana 
e  della  sua  scuola;  poiché  in  questi  tipi  manca  il  ca- 
rattere sostanziale  dell'  arte,  ch'è  il  riconoscimento  e 
il  riscontro  del  vero  della  vita  nel  vero  idealizzato, 
cioè  la  espression  diretta  del  particolare  nel  generale 
e  viceversa,  fondamento  di  ogni  opera  letteraria  ma 
segnatamente  oggettiva,  come  il  romanzo,  la  tragedia, 
il  dramma;  se  non  che  la  seconda  è  da  tempo  finita 
né  può  risorgere  per  la  co7itraddizion  che  noi  con- 
sente. 


A  quei  critici  che  dicono  non  esser  questo  un  la- 
voro scenico  ma  solo  estetico  per  sé,  più  adatto  alla 
lettura  che  al  teatro,  noi  rispondiamo  che  non  é  pos- 
sibile concepir  la  bellezza  oltre  i  cancelli  di  quelle 
forme  dove  vuol  porla  chi  la  produce. 

Ridir  poi  ai  lettori  della  Scena  quello  che  sempre 
ci  é  parso  della  tecnica  d'annunziana,  è  proprio  ozioso: 
questo  nuovo  lavoro  ha  tutt'  i  difetti  e  tutt'  i  pregi 
de'  precedenti,  se  non  che  vi  apparisce  qualche  mu- 
tamento che  lo  strano  simbolismo  della  Città  morta 
non  ha.  Più  d'  una  scena  alla  lettura  piace  molto  per 
verità,  per  efficacia,  per  potenza  drammatica  ed  anche 
per  istile;  e  la  diremmo  perfetta  se  non  ne  turbasse  l'eu- 
ritmia certa  prolissità  idillica  o  patetica  che  ha  più  del 
lirismo  che  della  rappresentazione.  Troppe  altre  cose 
avrei  a  dire  del  d'Annunzio  e  dell'opera  sua,  ma  la 
brevità  dello  spazio  m'  induce  a  finire.  L'  autore  po- 
trebbe, se  volesse,  ritrovar  la  via  a  cui  lo  richiamano 
r  ingegno  e  gli  studi,  poiché,  quando  vuole,  sa  far 
scaturire  dalla  viva  fonte  del  bello  più  d'  un  rivo  di 
freschezza  e  di  spontaneità.  Ma  gli  bisogna  coi  pre- 
giudizi di  scuola  abbandonar  lo  studio  del  falso  e  del 
peregrino,  lo  studio  di  quello  che,  adir  del  Carducci, 
è  stento  d'  inezie  laboriose;  e  anche  dovrebbe  accogliere 
il  mònito  di  quei  maestri  che,  presentandolo  ancor 
giovinetto  all'  Italia,  primi  additarono  in  lui  una  nova 
promessa  dell'arte  e  della   patria. 


XXVII. 

Luigi  Tinelli . 

I. 


di  quei  veneti  che,  come  l'abate  Zanella,  infu- 
sero nell'ingegno  e  nelle  facoltà  una  sana  e 
fresca  nutrizione  classica  la  quale  veniva  dalle 
scuole  di  Padova  ancora  illustrate  dalla  tradizione  del 
Porcellini;  ed  è  un  superstite  della  generazione  che 
venne  su  dopo  la  morte  del  Leopardi  in  quel  torno 
di  tempo  che  il  classicismo  era  per  dare  la  volta  o 
per  sviarsi  dietro  le  nuove  manifestazioni  della  scuola 
romantica,  ma  che  finì  poi,  per  più  rivi  o  tendenze, 
pessimismo  leopardiano  o  manzoniano,  enfasi  eroica 
■e  patriottica,  accademia  scolastica  e  manierismo  ideale, 
sottigliezza  filosofica  e  più  spesso  biblica.  Questo 
r  aere  intellettivo  che  spirò  fanciullo  e  giovinetto  il 
Pinelli,  nato  1'  8  maggio  1840  in  S.  Antonio  sul  Sile, 
luogo  ameno  e  ridente  che  torna  spesso  ,  fresco  di 
memorie,  nelle  sfumanti  linee  del  paesaggio  di  alcuni 
suoi  canti.  La  lirica  vera  di  quegli  anni  bolliva  tutta 
nell'azione  ;  e,  quando  non  era  1'  inno  del  Mameli  o 
il  fiotto  sanguigno  del  Berchet  e  del  Rossetti  ,  era 
artificio  retorico  o  lenocinlo  di  scuola  :  onde  la  più 
bella  lirica  giovenilmente  patriottica  del  Pinelli  furon 
le  battaglie  della  Indipendenza  a  cui  prese  parte:  di 
fatti  egli,  ancora  studente  in  Venezia,  combattè  a  S. 
Martino,  e  di  poi,  professore  in  Sondrio,  a  Bezzecca 
nel   1866. 

Si  laureò  in  lettere  e  storia  nella  Regia  Scuola 
Normale  Superiore  di  Pisa ,  e  insegnò  successiva- 
mente, oltre  che  nel  liceo  di  Sondrio  ,  in  quelli  di 
Caltanissetta,  di  Como  e  di  Udine:  ora  è  preside  amato 
del  regio  liceo  di  Treviso.  É  un  celibe  sereno,  anzi 
stoico;  e  pure  ha  tanto  fior  di  poesia  per  la  famiglia, 
pe'  bambini,  per  la  donna!  La  sua  vita  si  svolse  tutta 
fra  la  scuola  e  gli  studi,  libera,  indipendente,  mode- 
sta; senza  fremiti    di  gare,  senza  curiosità  di    avven- 


294 


ture,  senza  quelle  studiate  e  procurate  occasioni  a 
cui  molti  devono  la  loro  effimera  popolarità. 

E'  più  tosto  ignorato  ne'  soliti  cerchi  della  saccen- 
teria contemporanea,  perchè  fugge  sempre  ogni  con- 
venticola, ogni  chiesuola,  ogni  sacrario  della  vanità. 
E  per  questo  anche,  è  più  degno  di  affetto,  di  lode  e 
di  ricordanza. 

Ora  diremo  con  informata  coscienza  e  con  ispirilo 
indipendente  di  tutta  l'opera  sua,  ch'è  quasi  interamen- 
te lirica,  e  della  quale,  in  più  tempi  e  con  diverse  lodi, 
si  occuparono  di  proposito  Giosuè  Carducci,  Gaetano 
Trezza,  Tito  Vignoli,  e  altri  molti  nella  Vùa  //alzana, 
nel  Fanfiilla  della  Domenica,  nella  Gazzetta  Ufficiale 
del  Regno,  nella  Opinioìie  Liberale.  neW Ateneo  Ve7ieto, 
nel  Giornale  di  Udine,  nella  Gazzetta  di  Treviso,  nel- 
V Adriatico ,  nella  Perseveranza,  nel  Comune  di  Padova^ 
ne'  Fiori  d' iìiverno,  r\.€[V Emporio  pittoresco,  ecc.,  ecc. 
Noi  in  questo  studio  avremo  sott'occhio  que'  volu- 
metti che,  se  non  tutta  l'opera,  ne  comprendon  certo 
la  miglior  parte. 

IL 

Più  momenti  io  riconosco  nella  molteplice  poesia 
del  Pinelli.  Il  primo,  reminiscenza  patriottica  del  1848 
e  degli  anni  di  poi  ,  ha  suo  libero  svolgimento  dal 
1860  al  1876,  e  comprende  le  vere  primizie  dell'  au- 
tore ,  il  quale  ancor  giovinetto  si  arrolò  ,  come  ve- 
demmo, volontario  milite  della  patria.  Il  secondo  corre 
dal  1876  all'  80,  e  rispecchia  quel  movimento  scien- 
tifico che  risonò  nell'  agile  strofetta  classica  dello 
abate  Zanella;  ma  veramente  il  poeta  attinse  la  inspi- 
razione e  il  contenuto  dall'opera  di  Gaetano  Trezza 
il  quale  tenne  ambo  le  chiavi  del  cuor  di  lui.  Terzo  e 
ultimo  periodo  fu  quello  che  si  svolse  di  poi,  e  rap- 
presenta nel  maturo  vigore  degli  anni  una  maggior 
franchezza  e  gioventù  di  pensiero  :  furon  materia  e 
forma  a'  suoi  canti  il  rinnovamento  metrico  del  Car- 
ducci, cui  spesso  mirò  il  nostro  anche  d'avanti ,  e  il 
così  detto  verismo  lirico  che  parve  novità  neir  opera 


295 


di  Lorenzo  Stecchetti;  al  che  giova  congiungere  più 
di  un  motivo  che  ruppe  fuori  dell'  agitazione  sociale 
degli  ultimi  tempi.  Più  metri  ne'  vari  suoi  voluny  ha 
seguiti  o  introdotti  l'autore,  ma  non  è  un  virtuoso  in 
rima  o  in  barbarie  ritmica. 

Io  credo  sia  meglio  riuscito  nel  sonetto  specie 
quando  vigoreggia  nel  rilievo  del  paesaggio  o  della 
rappresentazione  oggettiva.  Anche  ne'  metri  brevi, 
se  non  efficacia,  mostra  spesso  rapidità  e  facilità  ;  e 
se  sapesse  a  tempo  schivar  la  monotonia  ,  avrebbe 
orecchio  a  temperar  meglio  le  alcaiche,  le  saffiche  e 
i  distici  che  trae  dalla  vecchia  maniera  del  Carducci, 
senza  curarsi  di  modellarli  con  la  progressiva  varietà 
delle  combinazioni  metriche.  Diremo  qui  appresso 
quello  che  ci  è  apparso  di  peregrino  o  di  men  bello 
nella  varia  fiorita  de'   molti  canti  suoi. 

* 

I  canti  patriottici  occupano  quasi  intero  il  quarto 
libro  delle  Poesie  varie  (*)  ,  e  ve  n'  ha  sparsamente 
anche  in  altri,  ma  i  più  recano  la  data  del  1860  che  il 
poeta  era  ancora  ventenne,  nel  succhio  dell'  età  più 
che  dell'inspirazione.  E  di  fatti  paiono  più  frementi 
di  passione  e  di  calor  giovanile  i  versi  che  scrisse 
intorno  ai  quarant'anni  che  non  quelli  intorno  a'  venti: 
anche  nell'amore  il  celibe  maturo  e  impenitente  in- 
dulge alle  grazie  e  alle  veneri  quando  1'  arco  degli 
anni  è  per  discendere  o  piegare  oltre  il  mezzo  cam- 
mino della  vita.  Il  metro  eletto  per  tal  contenuto  è 
la  canzone  ,  eco  lontana  della  elegia  petrarchesca  e 
più  immediato  riflesso  della  disperata  lirica  leopar- 
diana; ma  al  Leopardi  il  Pinelli  non  badò  né  per  la 
movenza  della  strofe  ,  né  per  la  insensibilità  tutta 
greca  del  canto,  né  per  la  classica  trasparenza  e  sem- 
plicità della  linea;  sì  veramente  per  qualche  elemento 
o  truciolo  di  tecnica:  non  altro.  Queste  sue  canzoni 
sono  la  parte    men    bella    della    raccolta  :    manca    in 


(*)  Bologna  —  Zanichelli  —  1888. 


296 


esse,  o  almeno  non  vi  abbonda  ,  quel  soffio  caldo  e 
quell'impeto  di  sentimento  che  dan  fiamma  ed  ala  al 
pensiero  lirico  e  che  tu  senti  anche  nelle  forme  rudi, 
ma  vivide  e  balzanti  ,  della  nostra  vera  poesia  pa- 
triottica. 

Gli  è  che  l'immagine  non  spiccia  sempre  libera  o 
immediata  negli  avvolgimenti  spesso  affannosi  di  quei 
settenari  ed  endecasillabi,  tra  quelle  zeppe  della  me- 
ditazione e  della  riflessione  filosofica  o  sociale  ,  tra 
quelli  incagli  delle  sottigliezze  gnomiche  in  cui  mal 
si  adagia  il  fantasma.  Onde  avviene  che  a  danno  della 
chiarezza  e  della  semplicità  abbiamo  non  di  rado  l'ar- 
tificio che  rende  ombroso  il  pensiero  e  turba  la  lu- 
cidezza dei  disegno;  e  a  stento  vi  scorgi  quel  palpito 
interiore  e  quel  guizzo  della  passione  che  solo  riescono 
a  commovere  chi  legge. 


Era  cotesta  la  educazion  letteraria  del  tempo  la  cui 
parte  migliore  divampò  tutta,  come  notammo  ,  nella 
lirica  d'azione;  e  il  poeta  istesso  mostrò  farla  così 
quando  prese  il  fucile  e  corse  sui  campi  di  battaglia. 
Altro  clima  ci  voleva  ed  altro  campo  perchè  egli 
schiudesse  all'arte  la  vera  sua  natura  di  poeta  ,  e  si 
francasse  a  poco  a  poco  da  questa  servitù  di  forme 
e  di  maniera  oltre  i  cancelli  della  rigidità  scolastica. 
Ma  intanto  è  d'uopo  ricordare  che  anche  le  altre  can- 
zoni patrie  da  lui  composte  assai  tardi,  ne'  termini 
deirSo,  sono  il  più  fedele  riflesso  delle  prime,  poiché 
non  gli  riuscì  agevole  liberarsi  da  quella  sua  vecchia 
abitudine  di  modellar  la  canzone  che  volle  soprattutto 
gnomica  e  non  liberamente  affettiva.  Ma,  dopo  quella 
eroica  epopea  garibaldina  di  sacrifizio  per  la  patria, 
potè  raccogliere  di  su  la  coltura  libera  del  tempo 
quel  contenuto  e  quegl'ideali  che  meglio  arrisero  alla 
sua  coscienza  di  artista  e  di  poeta.  Natura  intima- 
mente psicologica  e  meditativa,  fantasia  molteplice  e 
raccolta,  spirito  disposto  a  fruttificar  dentro  anzi  che 
al  di  fuori,   si  trovò  nel   suo  mondo  quando  gli    arri- 


297 


varono  gli  echi  di  quelle  scienze  positive  che  furon 
così  gran  parte  della  stessa  generazione  venuta  su 
nel  1848  o  poco  innanzi,  e  se  ne  imbevve  tutto,  sino 
alla  vertigine.  Ancora:  in  quel  torno  di  tempo  erano 
apparsi,  quasi  meteore  improvvise  alle  nature  giovani, 
la  Critica  moderna,  il  Lucrezio  ed  altre  opere  di  Gae- 
tano Trezza  che  riuscirono  a  sbalordire  gli  animi 
teneri;  e  il  nostro  se  ne  innammoro  tanto  ,  che  da 
esse  derivò  non  solo  un  culto  assiduo  per  l'idolatrato 
maestro,  ma  la  ispirazione  della  più  parte  delle  sue 
rime.  Da  un  capo  all'altro  d'Italia  era  tutto  un  risve- 
glio scientifico;  era,  per  dirla  col  Trezza  istesso  ,  il 
clima  novello  dell'età.  Gl'Italiani  erano  allora  inebriati 
di  scienza  come  prima  lo  furono  della  patria  e  della 
libertà;  tanto  che  anche  le  anime  pie  e  timorate,  an- 
che gli  abati  e  i  contemplanti,  ne  furon  tocchi  come 
da  un  contagio;  che  altri  gittò  la  tonaca  o  la  divisa 
sacerdotale,  come  l'Ardigò;  altri  scese  dal  pergamo 
dove  prima  aveva  predicato  di  Dio  ,  per  propagare 
in  altro  arringo  il  verbo  della  scienza  nuova  ,  come 
€sso  il  Trezza;  ed  altri,  pur  fedele  a'  suoi  santi,  cantò 
la  patria  e  la  scienza  con  un  senso  di  conciliazione 
con  la  religione  '1e'  padri,  come  il  vicentino  Zanella. 
E  di  quest'ultimo  piacque  molto  in  quegli  anni,  tra 
le  classiche  reminiscenze  di  Virgilio  e  di  Orazio  ,  di 
Catullo  e  di  Lucrezio,  la  mite  e  vereconda  intonazione 
di  una  lirica  quasi  muliebre  ,  semplice  ed  elegante, 
decorosa  e  spesso  ardita,  con  echi  o  risonanze  che 
parvero  nuove  dopo  la  lirica  del  1848,  e  con  un  con- 
tenuto sano  e  pacato  che  parea  diffondere  le  ali  in- 
torno al  vero  nuovo.  Chi  non  ricorda  ancora  di  quegli 
anni  la  spirale  movenza  ,  la  sdrucciolevole  e  breve 
leggiadria  e  il  volubile  intarsio  della  Conchiglia  fossile'^ 
Eran  questi  gli  anni,  gli  elementi  ,  i  ricordi  fra' 
quali  crebbe  il  Pinelli  e  si  corresse  e  riusci  finalmente 
poeta. 

III. 

Già  egli  avea  saputo  dare,  nel    1864  e  nel  1869,  un 
movimento   novo  alla    sua    lirica    con    le    Memorie    di 


298 


Pisa,  dove  nella  classica  ottava  è  fuso  con  le  storiche 
reminiscenze  un  palpito  della  vita  recente  ,  e  con  il 
Pensiero,  un'ode  settenaria  alata,  piena  di  slancio  e 
d'intonazione  rapida  e  concitata,  che  canta  i  nuovi 
ideali  e  le  nuove  aspirazioni  dell'  umanità.  Del  1878 
è  l'ode  A  mia  noìina,  un  primo  bel  saggio  di  elegia 
domestica  che  più  in  là,  negli  anni  maturi,  avrà  una 
più  libera  e  calda  effusione  di  sentimento  in  alcuni 
sonetti:  qui  il  settenario  piano  imprime  nelle  care 
memorie  del  vedovo  nido  materno  il  dolce  e  risognato 
idillio  domestico  di  queir  amato  capo  canuto  eh'  era 
de'  penati  il  piii  caro  antico  simulacro  venerato  ogni 
sera. 

Del  1870  è  il  suo  Canto  del  falegname,  notato  anche 
dal  Carducci:  è  un'odicina  audace  anche  nel  metro, 
ma  un  po'  balzana  e  contorta,  un  po'  livida,  un  po' 
oscura;  poiché  mostra  nel  bieco  umorismo  sociale  una 
studiata  sottigliezza  di  personificazioni  e  d'  imagini, 
che  turba  troppo  la  naturale  sorgente  dell'  humor;  e 
perciò  la  trovata  originale  cade  nell'artificio.  Ma  in- 
tanto è  un  segno  dello  spirito  che  riceve  un'aura  nuova 
anche  se  non  spirabile. 

Pace^  del  1874,  in  strofe  intessute  di  endecasillabi 
e  settenari  belli  di  numero  e  di  armonia,  è  un  altro 
idillio  di  famiglia  nella  nativa  casetta,  tutta  popolata 
di  ricordi  e  consacrata  alla  religione  del  cuore,  e  in 
cui  splendono  le  assise  del  povero  martire  fratello 
morto  di  ferite  nella  campagna  romana.  Con  questi 
versi  il  cuore  del  poeta  si  apre  meglio  alla  vita  ed 
al  vero,  e  meglio  sente  l'uomo  e  la  natura  nella  inef- 
fabile e  secreta  comunanza  del  dolore  e  degli  affetti. 
Egli  è  passato  per  più  vive  ispirazioni  e  per  molte- 
plici prove  dall'  artificio  retorico  alla  espressione  su- 
bitanea della  verità  sentita  e  provata,  la  quale  spira 
una  idealità  più  umana  e  più  universale.  Così  nel 
1876,  anno  in  che  si  schiuse  la  sua  fiorente  prima- 
vera ideale,  potè  darci  il  più  ricco  manipolo  di  canti 
che  meglio  ci  dimostrano  la  sua  esuberante  fecon- 
dità. Fu  quello  per  lui  un  degli  anni  più  intimamente 
poetici. 


299 


Ricordo  il  Canto  de'  morti,  pur  lodato  dal  Carducci 
come  lavoro  d'arte;  la  qual  poesia  nella  breve  com- 
prensione della  storia  umana  inalza  l'animo  e  il  senso 
con  spiritale  fulgidezza  alle  ascendenti  armonie  della 
vita,  dietro  i  richiami  del  passato,  verso  le  novelle 
età.  Seguono:  Ad  Anacreonte ,  A  le  montagne.  Insazia- 
bilità, Credo,  diversi  d'arte,  d'impeto,  di  movimento, 
e  che  dalla  limpida  reminiscenza  anacreontica  e  dal 
sereno  naturalismo  de'  greci  risalgono,  or  con  pen- 
siero meditativo,  or  con  varietà  di  metri  e  di  conce- 
pimento, al  riflesso  panteismo  moderno,  spirando  un 
senso  d'  intimità  oggettiva  intorno  a'  vari  aspetti 
delle  cose  che  di  forma  in  forma  passano  rinnovel- 
landosi, 

\J  Inno  agi'  illustri  veterani  de IV arte  superstiti,  citato 
dal  Carducci  e  dal  Vignoli,  in  istrofe  di  endecasillabi 
e  di  settenari  alternati,  è  una  delle  più  belle  poesie 
del  volume  ,  per  finitezza  d'  arte  ,  per  forza  di  senti- 
mento, per  nobiltà  di  affetti,  e  specialmente  per  l'ac- 
cenno al  Leopardi,  mirabile  di  verità  e  di  espres- 
sione critica  e  lirica  insieme.  L'autore  s'inchina  con 
entusiasmo  e  con  sincerità  di  devozione  civile  alla 
grandezza  di  que'  superstiti,  di  que'  sacri  canuti  che 
ci  affidarono  il  retaggio  glorioso  della  prosa  viva  e 
del  giovin  verso;  ma  più  è  notevole  il  canto  per  quella 
nota  recente  che  il  poeta  trae  dal  progresso  umano 
anche  nel  culto  dell'antica  gloria. 

Seguono  Canto  notturno  di  donna  e  Abisso.  Notevole 
il  primo,  di  senso  leopardiano,  per  la  mesta  elegia 
de'  ricordi  compenetrati  dal  pensiero  filosofico  intorno 
alla  infinita  armonia  dell'Universo;  ma  qua  e  là  viene 
a  turbarne  l'ispirazione  1'  aridità  meditata  del  verso 
scientifico.  Più  originale  e  più  bello  è  invece  il  secondo, 
in  cui  la  simbolica  personificazione  dell'abisso  ha  una 
caratteristica  mistura  di  fantasmi  che  ritraggono  lumi- 
nosamente e  con  eflfìcaci  contrasti  l'umanità  che  vive  e 
quella  ch'è  trapassata,  aggiungendo  all'  invenzione  un 


che  di  drammatico    e    di    fantasmagorico    insieme,   il 
che  non  è  frequente  nell'  usata  poesia. 

Fu  lodato  dal  Carducci  e  dal  Vignoli.  Pure  del  1876 
appaiono  molti  componimenti  erotici  che  non  son  tutti 
né  in  tutto  belli,  né  per  la  trovata,  né  pel  metro,  né 
per  le  forme;  ma  i  migliori  mi  sembrano  quelli  che 
recano  le  date  dall'  80  in  poi,  e  che  attestano  nel- 
l'uomo maturo  di  età  e  di  esperienza,  con  un  certo 
anacronismo,  una  più  fervida  gioventù  di  pensiero 
anche  nell'  amore. 

Di  poesia  amorosa  in  Italia  si  è  fatto  oggi  tale  un 
consumo  ed  un  abuso  in  tutti  i  capricci  e  in  tutte  le 
sensualità,  da  non  sentirne  veramente  né  bisogno  né 
allettamento.  Anche  il  nostro  ne  fa  di  capricciosa  e 
di  sensuale:  pur  egli  cede  a  certe  avventataggini  le- 
ziose della  nudità  contemporanea;  ma  rispetto  agli 
altri  può  anche  parere  castigato.  Spesso  il  vero  è  più 
cercato  e  meditato  che  non  sentito:  ama  anch'  egli 
talvolta  indulgere  al  tempo  più  che  al  sentimento; 
tal'  altra  non  sa  fermare  il  fantasma  sur  una  diretta 
realtà  particolare  e  plastica  dell'affetto  e  dell'  adora- 
zione, o  questi  non  tralucono  con  quelle  lingueggianti 
fiammelle  che  sprizzano  sempre  dalle  vere  meteore  del- 
l'amore, ma  in  fondo,  più  che  non  paia  al  Carducci, 
egli  idealizza  1'  amore  convertendolo  più  d'  una  volta 
in  una  madonna  Laura  moderna,  a  quel  modo  ch'e- 
gli riesce  più  gradevole  quando  si  prova  a  va- 
gheggiare con  tutta  r  anima  la  natura.  E'  inutile:  al 
poeta  riesce  meglio  l'amor  della  natura  e  delle  cose 
alte,  con  una  penombra  di  verità  sillogizzate  e  riflesse. 
Restano  ad  ogni  modo  belle  queste  poesie:  Gusto 
semplice.  Ovunque,  Messaggio  furtivo.,  Sera  di  giugno, 
Tramonto,  A  te.  Farfalle,  Catulliana,  Ritorno,  almeno 
per  qualche  tocco  di  panteismo  ben  reso  o  accon- 
ciamente derivato,  e  per  la  impressione  del  fantastico 
nel  descrittivo,  non  ostante  qualche  evidente  imita- 
zione dal  Carducci  e  da  altri. 


30I 


IV. 

Eccoci  al  terzo  e  ultimo  periodo,  quello  della  ma- 
turità ideale.  Già  ne  toccammo  più  innanzi.  Tutti  i 
componimenti  di  questo  periodo  son  compresi  in  più 
volumi:  nelle  Poesie  citate  e  in  gran  parte  disaminate, 
nelle  Reliquie  e  negli  Epigrammi  e  satire,  i  quali  ul- 
timi appaiono  composti  in  più  tempi.  Delle  Poesie 
giova  più  ricordare,  dell'80,  Al  fiumicello  del  mio  vil- 
laggio, Paesaggio  fimeslo,  Coìitemplando  utia  fotografia 
di  mia  sorella  morta,  La  bara;  tutti  sonetti,  variamente 
belli  per  espressione  e  per  sentimento,  ma  più  forse 
pel  sobrio  ed  efficace  rilievo  del  descrittivo  nel  quale 
è  fusa  con  le  memorie  l'imagine  ancor  viva  dei  luo- 
ghi. Qui  il  ricordo  accorato  della  sorella  morta  è  più 
passionale  che  nell'ode  a  lei  dedicata  del   1875. 

Eccone  un  altro  gruppo:  Gli  uccelli,  ode  lodata  dal 
Vignoli,  e  mirabile  di  verità  e  di  fantasia  naturale; 
1  malevoli ,  poesia  schietta  di  umorismo  impresso 
nel  divino  senso  della  natura;  //  poeta  vecchio,  un  po' 
come  la  precedente  e  che  ha  un  sano  intuito  di  quelle 
fonti  di  piacere  e  di  gioia  che  più  al  poeta  vecchio 
non  possono  rendere  l'anima  della  giovinezza;  Saluto 
nel  bosco,  ove  la  storia  e  la  natura  son  congiunte  in- 
sieme da  una  nota  di  panteismo;  Frate  Alberto,  ca- 
ratteristica, curiosa  e  a  un  tempo  arguta  nel  racconto 
del  frate  innamorato  nella  pace  del  chiostro;  Al  Sonno, 
che  spira  nelle  morbide  strofe  una  soave  elegia  di 
ricordi.  Con  due  mirabili  sonetti  chiudiamo  il  volume: 
Temporale  fra'  monti  e  Rivedendo  un  vecchio  castagno. 
Son  forse  i  più  belli  dell'autore,  per  rilievo  di  linea, 
per  densità  rappresentativa,  per  comprensione  icastica. 
E  qui  tralascio  di  rilevare  intorno  a  queste  Poesie  più 
difetti  o  audacie  di  forma  e  di  elocuzione. 

* 

Eccoci  alle  Reliquie  (*},  venute  in  luce  che  non 
sono  ancora  due  anni. 


{*)  Seconda  edizione  —  Treviso  —  Tipografia  di  Luigi  Zoppelli  —  1896. 


302 


Le  odi  elegiache  In  riva  al  Sile  e  //  Canzoniere  di 
Peirarca  le  credo  composte  ad  imitazione  e  dopo  la 
bellissima  del  Carducci  nelle  Rime  7iuove,  dal  titolo: 
Notte  di  maggio.  Son  due  componimenti  a  sestine  pe- 
trarchesche, trecentisticamente  leggiadre  di  armonia 
e  di  senso.  Sono  anche  monoritme,  cioè  tornano  per 
tutte  le  sei  strofe  le  sei  rime  della  prima,  come  la 
saliente  nota  de'  ricordi  mesti  balza  e  torna  nel  cuore 
di  chi  sente  rivivere  un  passato  lontano.  Noto  di  volo: 
Ora  gioiosa  (distici),  Elegia  (sestine),  Notturni  (ende- 
casillabi, settenari  e  novenari),  Giove  toìiante  (nove- 
nari), Sogno  e  A  mia  madre  (sonetti),  Cimitero  alpe- 
stre (saffica).  V  ha  indizi  di  arte  più  sicura,  di  più 
diretta  comprensione  del  vero,  di  più  agevole  varietà 
di  metri,  e  il  contenuto  è  men  turbato  o  interrotto 
dal  pensiero  meditativo,  come  la  natura  raggia  in  una 
più  musicale  leggiadria  di  ritmo  e  in  una  più  mossa 
semplicità  di  svolgimento  e  d'ispirazione. 

XJ astro  di  Venere  è,  s'io  non  m'inganno,  il  primo 
o  de'  primi  tentativi  di  un'ode  distica  in  rima,  il  che 
aggiunge  alla  strofe  una  più  naturale  armonia;  ed  ha 
tm  sapor  classico  di  forma  e  di  concepimento,  e  in- 
sieme una  fragranza  quasi  greca.  I  sonetti  patriottici 
mi  sembrano  anche  qui  la  parte  men  bella  del  vo- 
lume: non  vi  è  soffio  né  ala.  Non  così  gli  altri,  fra' 
quali  mirabile  di  armonia  e  di  rappresentazione  è 
quello,  musicalissimo,  A  Tarcento,  a  canto  al  quale 
bisogna  ricordare  una  splendida  elegia  latina:  Tar- 
■centi  laiides  —  Vengono  dopo,  pur  leggiadri  di  va- 
rietà, di  amor  rusticano  e  d'idillici  ricordi,  gli  altri: 
Da  Sxmmar degna.  La  mia  villeggiatura,  Fiorella,  A 
■Sappada,  Colloqui  fra''  monti.  Di  sera,  A  Norina.  I 
silenzi  sono  come  chi  dicesse  tre  miniaturine  in  qua- 
dretti, le  quali  infondono  anche  nella  tenue  semplicità 
del  piccolo  verso  un  senso  nostalgico  della  vita  e  del- 
l'amore, del  Creato  e  dell'Infinito.  Anche  le  epigrafi, 
in  rime,  efficaci  per  storica  e  incisiva  concettosità  ed 
eleganza,  sono  una  bella  novità  della  raccolta.  Se  poi 
volete  gustare  nella  piccante  snellezza  del  quinario  e 
inelle  ridenti  linee  del  paesaggio  un  inno  cordialmente 


303 


convivale,  frizzante  di  buon  umore  e  di  spirito  e, 
pieno  di  certa  grazia  casalinga,  di  certa  confidente  fe- 
stevolezza, e  in  fine  animato  dallo  storico  e  funebre 
ricordo  à^gV meliti  di  Lissa  vinti,  leggete  la  Sagra  di 
JVimis,  Sono  pur  degne  di  nota  l'ode  alcaica  A  Giii- 
*  seppe  Verdi,  fluida  e  scorrente,  e  piena  d'  impeto  e 
d'  armonia,  e  le  saffiche  barbare:  A  un  amico  poeta, 
umoristica  ed  originale;  Montecanino,  un  bassorilievo, 
di  senso  e  movimento  carducciano;  e  Altri  tetnpi,  di 
squisitezza  classica  ne'  domestici  ricordi  e  nel  vigore 
scultorio  del  paesaggio.  E  taccio  di  altre.  La  raccolta 
ha  pur  versioni  da  Lucrezio,  da  Catullo,  da  altri,  fe- 
delissime; ma  il  metro  elegiaco,  il  più  ostico  e  diffi- 
cile, quando  non  è  reso  con  finissima  arte  musicale 
e  variato  nel  ricco  ordito  de'  distici,  è  da  posporre 
alla  prosa  specie  nelle  traduzioni. 

* 

E  siamo  agli  Epigrammi  e  alle  Satire  {*).  Ve  n'ha 
di  belli  e  di  mediocri;  molti  anche  potevano  bene  non 
esser  tratti  in  luce.  Ad  ogni  modo,  quando  il  vero 
scatta  vivido  ed  efficace,  e  quando  le  allusioni  son 
comprensibili,  non  mancano  i  sali,  che  spesso  paion 
più  cercati  che  naturali.  Ce  n'  è  di  tutt'  i  metri  e  di 
tutte  le  salse,  per  ogni  ordine  di  persone,  e,  si  può 
dire,  su  tutti  gli  argomenti;  ma  il  verso  non  è  spesso 
caustico:  talvolta  non  mostra  neppure  la  punta.  No- 
tiamo di  volo,  delle  Satire:  Invito,  Il  pubblico.  Una 
caricatura.  Chi  vieti  dopo.  Ad  un  prete  emancipato,  La 
famiglia  di  due  epoche  (dialogo  con  scene),  Dialogo. 
Degli  Epigrainmi  citeremo:  Per  7in  libro  uscito  in  mal 
punto,  A  un  invidioso  della  fama  altrui.  Fotografia  e 
poesia,  Per  una  donna  di  spirito,  Un  nuovo  figurino. 
Apologo,  Le  età  della  vita  umana,  E'  antica  e  la  mo- 
derna fama,  L'uomo  quaV è.  Pensiero  d'uno  scettico.  Lo 
stile  è  V  ìiomo.  La  sorte  di   molti,  Per  uoyno  vano,    Un 


(*)  Treviso  —  Luigi  Zoppelli,  editore  —  1896. 


304 


ìiiercante  in  riposo.  Contemplando  un  vecchio,  Dialogo, 
Il  mio  epigramma.  Ne  ho  voluto  dare  una  serqua  di 
diverso  valore,  e  fra'  più  felici;  ma  devo  anche  dire 
che  non  di  rado  il  vero  spirito  manca,  o  sprizza  a 
centellini  come  sugo  da  frutto  immaturo.  Vi  si  sente 
lo  sforzo  e  lo  stento,  o,  meglio,  più  i  palliativi  del-  ' 
l'ingegno  letterario  che  tenta  con  le  risorse  della  cul- 
tura o  della  erudizione  di  colmar  le  lacune  della  vena, 
che  non  l'umore  di  buona  lega.  Ma,  ad  ogni  patto, 
queste  qui  citate  si  leggono  non  senza  diletto.  E  qui 
infine  ricordo,  di  passaggio,  un  ultimo  volumetto  del 
Pinelli,  ma  di  prose:  Ritagli  di  tempo  (*j.  Ed  è  un 
libriccino  veramente  pregno  di  pensieri  e  di  verità, 
e  insieme  utilissimo  alle  famiglie  e  alle  scuole  per  le 
sane  e  concettose  osservazioni  intorno  all'anima  umana, 
alla  natura,  alla  vita.  I.o  raccomando  anche  ai  pro- 
fessori di  lettere  perchè  ne  ritraggano  temi,  e  la  messe 
vi  è  abbondante,   in  servizio  de'   loro  alunni. 

V. 

Abbiam  visto  ne'  vari  volumetti  qui  disaminati  quanto 
ricca  sia  la  tavolozza  del  Pinelli,  e  quanto  versatili 
sieno  le  sue  attitudini  che  non  poterono  pienamente 
esplicarsi  per  colpa  forse  de'  tempi  o  delle  sue  cure 
scolastiche.  Alla  poesia  vera,  disinteressata,  artistica 
occorre  molto  più  tempo  che  non  paia  agli  orecchianti 
novelli:  vuole  essa  tutto  l'uomo  a  sé;  né  sempre  ab- 
bondano all'  anima  i  felici  momenti  di  calda  ispira- 
zione per  versar  su  le  cose  un  luminoso  getto  d'ima- 
gini  e  di  colori.  Tuttavia  il  Pinelli  é,  almeno  per  arte 
se  non  per  impeto,  un  de'  migliori  fra'  più  lodati 
poeti  contemporanei  della  sua  e  della  presente  gene- 
razione. Non  ha  certo  attitudini  e  facoltà  per  le  alte 
creazioni,  com'è  ben  lungi  dall'emulare  solo  un  tòcco 
di  quel  grandioso  che  spesso  vive  ne'  suoi  celebrati 
maestri.  Il  suo  mondo  è,  almeno  come  soggettivo  con- 
cepimento, assai  più  modesto,  ma  pur  vario  di  aspetti. 


(*)  Gividale  —  Tipografia  di  Giovanni  Folvire  —  1893. 


305 


La  patria  e  la  libertà,  la  scienza  e  la  natura,  l'amor 
della  donna,  della  famiglia,  di  tutte  le  cose:  ecco  le 
sfere  del  suo  mondo  ideale,  abbastanza  vasto,  inter- 
minabile anzi;  ma  il  poeta  vi  si  raccoglie  entro  brevi 
confini,  e  leva  poco  alto  il  volo  spesso  interrotto  dalle 
scogliere  della  filosofia.  Con  tutto  questo,  quando  la 
vena  gli  abbonda,  anche  intorno  a  quel  piccolo  volo 
sa  scoprir  delle  cose  un  aspetto,  una  linea,  un  con- 
torno che  imprimono  nell'  anima  un  palpito,  un'ima- 
gine,  un  risveglio  di  ricordi  da  cui  fluisce  un'  onda 
calda  di  poesia;  e  a  chi  legge  piace  riguardare  com- 
mosso quelle  miniaturine  di  luoghi,  quei  quadretti 
della  vita  semplice,  quelle  piccole  scene  di  terra  ver- 
gine. Com'è  bello  e  sereno  quel  lembo  di  cielo  e  di 
terra  che  splende  sopra  e  intorno  al  suo  nativo  Sile! 
e  come  palpita  e  ride  il  paesaggio  su  Tarcento  e  da- 
vanti alla  sagra  di  Nimis  ! 

Quanto  sospiro  di  elegia  e  di  ricordi  non  alita  nelle 
odi  e  ne'  sonetti  per  la  sorella  Carlotta!  e  quale  pu- 
rezza greca  non  rinnova  1'  Astro  di  Venere!  Il  poeta 
è  sempre  più  immediato  quando  ci  rappresenta  le 
gioie  e  i  dolori  della  famiglia  e  dell'amicizia,  il  riso 
della  natura,  il  pianto  degli  oppressi,  o  quando  ci  dà 
un'  imagine  del  classico  mondo.  Già  dicemmo  degli 
elementi  che  a  grado  a  grado  concorsero  al  suo  svol- 
gimento lirico,  da  quando  un  po'  retore  attinse  forme 
e  ispirazioni  dalla  scuola  che  precesse  e  seguì  il  1848, 
un  po'  arcaica,  un  po'  latineggiante,  insino  alle  più 
naturali  e  più  semplici  manifestazioni  del  pensiero 
moderno  a  cui  giunse  per  mezzo  di  Lucrezio  e  del 
Trezza  intorno  alle  migliori  fonti  classiche.  E  appunto 
questa  infusione  di  antico  e  di  recente  rende  preferibili 
i  suoi  canti  alla  prosa  rimata  e  slombata  dell'  usata 
poesia.  Disposto  da  natura  ad  assimilare  ogni  rinno- 
vamento, fini  imitatore  del  Carducci  su  1'  esempio 
delle  Odi  barbare;^  riuscì  a  darci  in  que' metri, — il 
fior  più  puro  della  sua  maturità,  —  anche  un  senso 
musicale  e  ritmico  che  manca  in  quasi  tutti  gli  altri 
imitatori,  temperando  essi  metri  o  con  la  rima  o  con 
una  più    regolata    concinnità  e  mistura  di  suoni  non 

20 


3o6 


ostante  la  monotonia  che  pur  si  osserva  qua  e  là.  Per 
tutto  questo  il  Pinelli  va  degnamente  ricordato  fra' 
più  veri  poeti  contemporanei;  e  da  lui,  che  appar  di- 
menticato fra  tanti  versaioli  che  accattano  la  falsa  po- 
polarità, possiamo  attenderci  ancora  una  più  ricca  e 
più  matura  messe  di  canti. 

E'  pur  vero  che,  in  tanto  debaccare  di  prosa  e  di 
poesia  giovane  o  dell'avvenire,  si  dee  mirare  ancora 
a'  superstiti  della  generazione  che  anche  concorse  a 
fare  l'Italia.   Fra  que'   superstiti  è  certo  il   Pinelli. 


XXVIII. 
Padre  Agostino  da  Moutefeltro  ^"* 


u^NTORNO  a  questo  frate,  la  cui  vita  ha  più  tratti 
^f^i  veramente  caratteristici  o  curiosi,  si  è  for- 
mata, nella  conscienza  degl'  increduli  e  dei 
credenti,  una  strana  leggenda.  E  come  tutte  le  anti- 
che leggende,  ancor  questa  è  come  circonfusa  da  un' 
aureola  mistica,  da  un  fantastico  miraggio  di  vapo- 
rosa  idealità. 

Questa  del  frate  parmi  la  storia  commovente  di  un'a- 
nima che  dagli  amori  e  dai  traviamenti  mondani  si 
levi  e  si  purghi  nel  lavacro  della  fede,  che  alla  fede 
vigorosamente  s'  abbranchi  ,  e  per  la  fede  ragioni  e 
combatta.  E  come  intorno  a  queste  povere  anime  pec- 
catrici, le  quali  resesi  a  vita  di  spirito  voglion  pu- 
rificare con  una  vita  di  mistico  sacrifizio  il  lor  pec- 
cato di  terrena  fragilità,  nel  cuor  de'  credenti  e  nel- 
l'agile fantasia  del  popolo  si  vien  come  tessendo  una 
fulgida  tela  d'  imaginose  e  iridescenti  credenze  ;  così 
intorno  a  Padre  Agostino  ,  nella  quasi  idolatria  dei 
fedeli  e  nella  dolce  venerazione  degli  scettici  ,  si  è 
venuta  componendo  una  curiosissima  istoria  tutta  in- 
tessuta di  vaghi  ma  falsi  racconti,  di  amori  strani  e 
di  duelli,  di  reminiscenze  patriottiche  e  guerresche  e 
anche  di  peggio  ,  coi  tenui  sfumanti  contorni  d'  un 
romanticismo  ascetico.  Strana  apparizione  davvero  in 
questo  volger  di  secolo  sì  crudamente  scettico.  Non 
parrebbe  credibile,  in  chi  lo  ignorasse  per  saper  solo 
di  lui  ciò  che  ne  dicono    i    giornali  ,  quel    quasi  re- 


(•)  Questo  studio  fu  inspirato  dal  troppo  acceso  entusiasmo  che  troppi 
anni  fa  provocò  in  tutti  la  parola  di  Padre  Agostino.  Ora  è  debito  d'impar- 
zialità l'aggiungere  qui  in  nota  che  mollo  si  d.-ve  attenuare  delle  lodi  che 
qui  vengon  tributate  all'oratore,  la  cui  eccellenza  non  esce  di  troppo  dai 
puri  confini  delle  forme  estf-riori  e  della  mimica  sacra,  chi'  anch'essa  va 
perdendo  cogli  anni  l'attrattiva  di  una  volta  da  cui  sommamente  dipen- 
deva la  generale  suggestione  degli  ascoltatori  entusiasti  ,  suggestioue  di 
cui  vengono  in  questo  medesimo  studio  additate  le  cagioni. 


5oS 


li.u:ioso  commovimento,  quella  febbrile  curiosità,  quel- 
r  instintivo  senso  d'  ammirazione  che  il  solo  aspetto 
del  frate  comunica  a  tante  anime,  a  tanti  ascoltatori 
di  fede  diversa,  sia  che  se  lo  sentano  vicino,  sia  che 
pur  di  lontano  n'  odano  il  lieve  calpestio  degli  agili 
passi. 

*  * 

Innanzi  tutto,   un  pò  di    storia. 

La  storia  ,  com'  io  la  narrerò  ,  è  breve  ,  ma  vera. 
Proprio  il  frate  la  riferì  all'illustre  benedettino  Padre 
Tosti;  ed  io  la  seppi  da  un  frate  riformato  ,  dello 
stesso  ordine  francescano  al  quale  appartiene  Padre 
Agostino.  Il  nome  suo  vero  che  lo  Stato  Civile  re- 
gistra, il  nome  suo  secolare  non  è,  naturalmente,  Ago- 
stino ,  ma  «  Luigi  Vicini.  »  Il  frate  ha  60  anni  :  eì 
nacque  il  i.  marzo  del  1839  da  Giambattista  Vicini 
e  da  Orsola  Mariani  in  S.  Agata  di  Montefeltro,  ch'è 
un  piccol  comune  (ab.  4765)  della  provincia  di  Pe- 
saro, ed  è  capoluogo  di  mandamento  del  circondario 
di  Urbino.  La  prima  sua  educazione  fu  religiosa,  ed  e' 
l'ebbe  nel  vicino  seminario  di  Pennabili,  altro  piccol  co- 
mune del  circondario  medesimo;  ma  ne  uscì  presto,  as- 
sai prima  di  compiervi  gli  studi.  Il  padre,  che  era  un 
onesto  fabbro  ferraio,  volea  farne  un  sacerdote;  ma,  a 
corto  di  mezzi,  fu  costretto  richiamarselo,  per  fargli  ap- 
prendere l'arte  sua.  Ed  egli,  ancora  adolescente,  stiè 
nell'officina  del  padre,  non  d'altro  desideroso  che  di 
riescire  un  buono  e  onesto  operaio.  Ma  per  solo  un 
anno  ei  l'ebbe  nella  modesta  officina  sua  :  il  figliolo 
ben  presto  ritornò,  per  la  generosità  del  vescovo  dio- 
cesano e  pe'  consigli  d'  un  mecenate  sacerdote  ,  nel 
seminario  di  Pennabili,  ove  si  segnalò  per  la  mitezza 
dell'indole  buona,  per  certa  muliebre  soavità  e  gen- 
tilezza tenera  d'animo,  e  più  per  l'ingegno  acuto  con- 
giunto a  un  grande  amore  agli  studi  ecclesiastici. 
Certa  voluttuosa  mobilità  della  dolce  natura  ,  certa 
mollezza  di  sentire,  certa  squisita  sensibilità  di  cuore 
lo  portavano  inconsciamente  a  un   mistico   sentimen- 


309 


talismo,  al  sovrasensibile  e  a  una  idealità  d'  inspira- 
zioni non  mai  spoglie  d'una  cotal  debolezza  tutta  uma- 
na, tutta  mondana,  non  mai  prive  di  quel  non  so  che 
di  tenero,  di  carezzevole,  di  piacente  ch'è  sempre  in 
fondo  alle  anime  sol  fatte  per  l'amore,  per  la  pietà. 

Queste  qualità  rivivono  eloquentissime  nella  parola 
sua  d'oratore  mirabile  e  seducente. 

Forniti  gli  studi  ecclesiastici  ,  venne  ordinato  sa- 
cerdote; e  poco  di  poi,  primeggiando  per  le  non  co- 
muni qualità  dell'ingegno,  fu  nominato  canonico  del 
Duomo. 

In  questo  tempo  prese  a  educare  e  istruire  un'av- 
venente giovinetta,  e,  solleticato  irresistibilmente  dal 
dolce  peccato,  ei  l'amò:  in  ogni  umana  instituzione, 
in  ogni  anima  teneramente  voluttuosa  ,  anche  nella 
mistica  spiritualità  della  religione  ,  e'  é  il  fiore  della 
poesia,  e,  terrena  seduttrice,  la  donna.  Dunque  l'amò, 
e  n'  ebbe  una  figliuola.  Sùbito  dopo  fuggì  ,  inosser- 
vato, in  un  eremo  della  Toscana:  ivi  si  diede  a  vita 
di  spirito,  e  scelse  l'ordine  dei  Riformati:  solo  nella 
pace  del  poverello  d'  Assisi  poteva  trovar  confor- 
to, potea  purgarsi,  povera  anima  !  Così  visse,  igno- 
rato, per  parecchi  anni.  Ma  quando  tutto  parca  av- 
volto come  nella  penombra  dell'  oblio,  egli  apparve, 
come  una  visione,  sui  migliori  pergami  d'  Italia,  nel 
santo  apostolato  della  fede  e  della  compunzione  ;  e 
dal  commovente  episodio  di  un  amor  peccaminoso  egli 
ci  è  apparso,  luminosa  meteora,  nel  fulgido  orizzonte 
dell'arte. 

Ma  pur  troppo  ei  sa  congiungere  all'arte  la  carità. 
E'  a  Pisa  un  pio  istituto,  da  lui  fondato,  di  povere 
orfanelle:  lì  educò  e  crebbe  alla  pietà  la  figliolina  sua, 
€  per  queir  instituto  il  simpatico  fraticello  chiede  e 
accetta  l'obolo  dei  fedeli:  ivi  è  tutto  il  suo  mondo  e 
l'avvenire.  Egli  ama  instintivamente  gli  sventurati. 
Quando  fu  a  Milano  a  farvi  il  quaresimale  nella  chiesa 
di  San  Marco  ,  spesso  fu  visto  andare  a  visitare  e  a 
soccorrere  una  povera  giovinetta  nel  Pio  Istituto  dei 
Ciechi,  il  che  dette  luogo  a  una  curiosa  leggenda  ch'è 
bene  tacere.  E  qui  tralascio  molti  altri  particolari  della 


3IO 


sua  vita,  i  quali  dettero  il  volo  a  troppe  invenzioni 
romanticamente  leggiadre. 

Dunque  ,  anche  i  fatti  ,  in  parte  avventurosi  ,  di 
Luigi  Vicini  ,  canonico  della  collegiata  di  Pennabili, 
maestro  e  amante  di  una  gentil  giovinetta,  e  poi  pro- 
fugo e  frate  e  oratore  ,  molto  si  prestano  a  colorire 
una  romantica  leggenda  ,  che  ha  sì  gran  parte  nel- 
l'animo di  quei  fedeli  che  provano  come  un  sussulto 
di  trepida  venerazione  dinanzi  alla  bella  persona  e 
alla  fascinatrice  parola  del  padre.  La  breve  storia  del 
frate  è  per  sé  sola  fantasticamente  caratteristica  e  ha 
un  non  so  che  di  potenza  ammaliatrice  ,  non  vera- 
mente per  la  novità  e  singolarità  dei  casi  ,  non  per 
gli  episodi  che  le  dian  sfumature  come  di  romanzo, 
ma  perchè  ha  seduzioni  in  quel  senso  d'  umanesimo, 
di  terrena  fragilità  ,  vorrei  dir  di  carnalità  e  di  sen- 
sualismo, che  fa  amare  ,  che  fa  idoleggiare  le  anime 
che  peccarono  per  amore,  e  che  poi  vollero  purgare 
il  peccato  facendone  ammenda  nello  spirabil  aere  della 
fede.  E  questo,  che  pure  avviene  in  ispiriti  volgari, 
provoca  seduzioni  di  gran  lunga  più  intense  in  quelle 
anime  superiori  che,  sia  con  opere  d'ingegno  che  di 
mano,   più  fecondamente  operarono  dentro  di  noi. 

Tutto  questo  diventa  idealità  e  insieme  leggenda, 
culto  e  poesia,  miraggio  e  venerazione  ;  è  il  mistici- 
smo del  sentimento  nella  pietà  pei  grandi  caduti,  nel- 
l'adorazione della  bellezza. 

Come  allora  spiegar  diversamente  que'  fremiti  di 
entusiasmo  che  in  tutti  trasfonde  la  bella  parola  e 
l'attraente  persona  del  Padre  dovunque  e'  vada  a  por- 
tare l'ideale  di  Dio  e  della   fede? 

La  dolce  figura  del  frate  mi  fa  rifiorire  in  mente  e 
più  nel  cuore  l'angelicata  e  spirituale  sembianza  del 
Beato  Angelico  che  alla  festa  de'  colori  conciliava 
quella  dello  spirito  nel  simultaneo  rapimento  della 
fede  e  dell'arte.  Ma  il  nostro  frate  ha  pure  qualcosa 
che  a  quelle  care  imagini  mancava  o  appena  appariva, 
com'ombra,  di  tra  i  vaporosi  veli  che  le  avvolgevano 
tutte  nella    immobilità   dell'  estasi  :    ha    qualcosa  che 


311 


nell'Angelico  cedea  all'ascetica  visione  della  fede  an- 
che nelle  belle  movenze  e  nelle  delicatissime  minia- 
ture delle  sue  madonne.  Padre  Agostino  coli'  alata 
parola  anche  dipinge  e  colora  con  quella  trepida  e 
soave  dolcezza  che  invade  le  anime  pie  sotto  la  inef- 
fabile e  inebriante  impressione  della  fede:  dipinge  e 
colora  come  se  un'altra  mano  movesse  la  sua,  come 
se  la  voluttà  di  Dio  imprimesse  inconsciamente  la  vo- 
luttà dell'arte.  E  pure  non  parmi  così  immobile  l'arte 
di  quest'oratore  che  ha  ancora  certa  accensione  e  certo 
fremito  interiore  che  valgon  più  di  quel  rapimento  e 
di  quell'estasi.  L'anima  sua  in  cospetto  di  Dio  s'agita 
e  rugge  con  gli  stessi  turbamenti  che  hanno  le  umane 
passioni  ne'  loro  contrasti  i  quali  si  fanno  arte  e  fede, 
idealità  e  palpito,   commozione  e  adorazione. 

Il  frate  a  Dio  sale  ,  non  angelo  o  fantasma  ,  ma 
uomo,  non  sovrasensibile  farfalla,  ma  peccatore,  nel- 
l'azzurro mistico  della  religione  e  nella  mondanità 
dell'arte.  Ma  la  fede  si  umanizza  in  Dio  su  per  le  vie 
dell'ascetismo. 

E  dove  il  Segneri  —  salvo  la  grande  differenza  del- 
l'ingegno e  dell'arte  —  pur  si  abbandona  a  certo  le- 
vigato paludamento  di  forme  e  a  certo  contenuto  in- 
timamente metafisico  e  trascendentale  ;  e  dove  altri 
insigni  oratori  lasciano  perdere  la  lor  parola  in  circon- 
locuzioni evanescenti;  Padre  Agostino  ha  solo  un  so- 
spiro che  gli  vien  dall'anima  e  che  si  desta  in  tutte 
le  anime,  ha  solo  un  palpito  che  gli  vien  dal  cuore 
e  che  si  sveglia  in  tutt'i  cuori:  ha,  nell'incrociamento 
quasi  voluttuoso  delle  braccia,  ne'  morbidi  e  delicati 
profili  dell'  acceso  volto,  ne'  misurati  e  composti  at- 
teggiamenti della  bella  persona  ,  agile  ,  diritta,  slan- 
ciala, un  acuto  profumo  di  poesia  che  di  terra  si  leva 
come  un'ala  verso  il  cielo,  con  dolce  e  umano  rapi- 
mento ,  nella  insinuante  parola  del  perdono  e  della 
preghiera.  E'  sente  Iddio  e  insieme  il  mondo,  il  pec- 
cato e  la  sua  purificazione  :  sente  il  desiderio  e  il 
palpito  delle  anime  nel  desiderio  e  nel  palpito  della 
fede.  La  sua  parola  ha  1'  elevazione  del  canto  e  la 
soavità  dell'  idillio  ,  ha  il  misticismo  del   sovrannatu- 


312 


rale  sfumante  da'  ripostigli  della  conscienza  umana  e 
il  senso  del  paganesimo  nel  contenuto  della  liturgia: 
par  che  la  terra  si  perda  e  vanisca  nell'  azzurro  e 
che  il  divino  concento  delle  cose  aliti  e  attinga  il  cielo 
su  l'ali  dell'inno;  ma  da  quell'olimpica  visione  eterea 
anche  traspare  la  terra,  la  umanità  caduca,  come  nel 
Paradiso  dell'Alighieri  la  flagellante  e  passionale  pa- 
rola di  Pietro  contro  la  corruzione  mondana  dei  pon- 
tefici. 


Tutto  questo  par  nuovo  nell'oratoria  sacra  moder- 
na; e  tutto  questo  piace,  commuove,  seduce.  Niente 
di  quel  ringhio  rabbioso  e  declamatorio  de'  soliti  la- 
ceratovi di  ben  costrutti  orecchi:  il  frate,  tenero  e  com- 
mosso, piange  e  ragiona,  maledice  e  ricrea,  conforta  e 
ciba  di  speranza  buona  le  anime.  Non  si  divincola  con- 
vulso sbatacchiando  le  nocche  della  mano  sul  pergamo, 
come  energumeno;  egli  incrocia  amorosamente  le  brac- 
cia, e  trepido  e  accorato  volge  al  popolo  e  al  croci- 
fisso le  mani  supplichevoli  ,  la  pia  faccia  lacrimosa, 
e,  in  quel  dolce  e  fervoroso  abbandono  ,  prega  ,  so- 
spira,  medita,   canta. 

L'arte  sua,  per  me,  è  in  quel  gorgheggio  come  d'usi- 
gnuolo, in  quel  trillo  come  d'allodola,  in  quel  quasi 
cinguettio  di  voce  che  risona  gì'  intimi  concenti  del- 
l'anima commossa:  é  in  quel  volgere  ,  or  pio  e  sor- 
ridente, or  lacrimoso  e  accorato,  il  bel  volto  a'  fedeli, 
in  quel  lieve  e  tremulo  dondolar  del  capD  e  dell'agile 
persona,  in  quell'intrecciar  delle  belle  dita  affusolate 
e  candidissime,  cioè  in  tutti  que'  moti  i  quali  colla  pa- 
tetica dolcezza  della  voce,  che  par  canto,  producono 
il  fascino  e  la  commozione. 

L'arte  sua  è  tutta  di  sentimento,  tutta  umana,  tutta 
vera. 


Il  frate  adunque  sa  sposare  sempre  al  contenuto  teo- 
logico uno  squisito  senso  di  puro  e  vergine    umane- 


313 


Simo,  e  in  ciò  è  il  maggior  segreto  dell'arte  sua.  Ma 
quando  lo  coglie  una  sùbita  ira  o  un  grande  ideale 
morale  e  civile,  la  sua  parola  diventa  canto  inspirato, 
e  corre  e  si  snoda  velocissima  nelle  duttili  e  fluidis- 
sime spire  delle  articolazioni  e  dei  suoni  che  impe- 
discono di  seguirlo  e  spesso  di  comprenderlo:  allora 
e'  tutto  si  accende  nel  volto  ,  e  1'  uditorio  si  sente 
scosso  come  da  elettrica  scintilla:  gli  tremano  in  quel 
momento  le  vene  e  i  polsi,  e  il  suo  accento  diventa 
meraviglioso,  sia  che  benedica,  sia  che  maledica;  sia 
che  scoppi  in  singhiozzi  di  disperazione,  sia  che  rom- 
pa in  enfasi  di  adorazione. 

Non  si  propone  di  dire  verità  astruse  o  altamente 
teologiche,  e  perciò  incomprensibili:  dice  cose  spesso 
umili,  ma  le  comunica  originalmente,  rendendole  col 
fior  dell'arte,  col  fior  della  poesia,  accessibili  a' 
fedeli,  a  tutt'  i  fedeli.  Sale  per  poco  nel  cam- 
po delle  astrazioni,  ma  subito  ne  discende  per  toc- 
car da  vicino  il  cuore  del  popolo.  Non  sempre  com 
batte  con  accanimento  la  incredulità  ,  ma  spesso  la 
respinge,  commosso,  umile,  persuasivo:  la  sua  parola, 
pur  quando  è  polemica,  risuona  sempre  nell'anima 
di  tutti,  financo  de'  nemici  della  chiesa,  come  una  dolce 
e  voluttuosa  carezza  che  consola,  anche  non  persua- 
dendo, e  con  un'arte  che  lascia  soddisfatti,  anche  senza 
convincere.  E  questo  come  idillio  di  pace  ha  di  quella 
carità  serafica,  di  quel  socialismo  cristiano,  che  fu  del 
poverello  d'Assisi.  Ecco  perchè,  anche  nel  suo  mondo 
di  fede,  spesso  si  sente  il  dolcissimo  nome  di  patria, 
di  libertà.  E  come  si  accende  e  si  eleva  il  nobile  frate 
quando  nel  suo  cuor  d'uomo  moderno  sente  palpitare 
quella  carità  che  sotto  la  tonacella  di  francescano  gli 
fa  fremere  la  parola  col  santo  ideale  della  patria  e 
della  fede  nel  simpatico  apostolato  patriottico  della 
religione  e  della  umanità  civile  1 


XXIX. 
Doineuico  3Iilelli, 


_(j\V)j^^ERO  figlio  delk  forte  Calabria,  di  cui  soprat- 
fr^^'fSÉ)  tutto  rivela  la  fierezza  dell'animo  e  l'accesa 
'*S^^^^  vigorìa  dell'ingegno,  ei  nacque  in  Catanzaro 
il  25  febbraio  1S41  da  Caterina  de  Siena  e  da  Giu- 
seppe Milelli  di  stirpe  nobile  e  antica.  Neil'  agosto 
del  1888  tolse  in  moglie  la  cosentina  Antonietta  Mar- 
tire da  cui  ha  finora  avuto  due  figliuoli,  Guido  ed 
Ugo,  il  quale  ultimo,  di  pronto  e  vivacissimo  ingegno, 
lo  accompagna  sempre  nelle  sue  continue  peregrina- 
zioni artistiche.  Compì  i  primi  suoi  studi  nel  semi- 
nario di  Catanzaro  dove  i  genitori  vollero  per  tempo 
mandarlo  con  la  pia  intenzione  di  avviarlo  al  sacer- 
dozio; ed  ivi  ebbe  i  migliori  fondamenti  nel  greco  e 
nel  latino  che  seguitò  poi  a  studiare  da  sé,  sotto  gl'in- 
flussi de'  tempi  nuovi  e  della  nuova  filologia  che  ap- 
prese altrove  col  vivo  contatto  d'insigni  maestri.  Ebbe 
anche  una  grande  inclinazione  all'arte  del  disegno  di 
cui  giovinetto  fu  innamoratissimo,  ma  dovè  poi  mu- 
tarne gli  amori  con  lo  studio  e  con  1'  esercizio  con- 
tinuo della  poesia  ove  trasportò  la  fantastica  vivezza 
e  lo  smagliante  colore  del  divino  paesaggio  meridio- 
nale. 

Nel  1864,  essendo  ancora  in  Calabria,  scrisse  e  pub- 
blicò un  inno  al  Foscolo  che  un  anonimo  tradusse  poi 
in  inglese.  Per  una  di  quelle  curiose  e  insieme  strane 
contingenze,  non  insolite  nella  nostra  letteratura  e 
nelle  straniere,  avvenne  questo  singolarissimo  fatto: 
lo  stesso  fu  poi  tradotto  in  italiano  da  un  tale  che  si 
firmò  con  le  iniziali  F.  U.  (Felice  Uda?)  e  che  lo  cre- 
dette di  fonte  inglese!  Quando  poi,  nel  1865,  lasciò 
la  sua  nativa  regione,  ei  patria  7ion  conobbe  altra  che 
il  cielo',  e  fino  al   1873    andò  peregrinando    per   tutta 


315 


l'Italia  avendo  solo  a  geniale  compagna  la  poesia,  a 
cui  spesso  non  mancarono  i  sorrisi  della  gloria  in 
mezzo  alla  più  dura  e  travagliata  esistenza  che  non 
di  rado  gli  negò  lo  scarso  e  amaro  pane  che  ramingo 
andava  cercando.  Fu  dei  pochi,  se  non  forse  il  solo, 
che  dalla  immeritata  sventura  e  dalla  nobile  povertà 
attinse  in  questi  ultimi  tempi  col  valido  ingegno  forza 
e  alimento  di  pensieri  alti  e  di  aspirazioni  magnanime. 
L'unico  suo  rifugio  è  quello  dell'Arte  e  della  Poesia. 
Tutt'  i  colti  lo  conoscono  e  lo  ammirano  come  uno 
de'  più  forti  e  ispirati  poeti  della  sua  generazione;  e 
se,  più  per  colpa  del  bisogno  e  delle  agitate  vicende 
che  non  sua,  si  mostra  talvolta  ombroso  e  rude  per 
un  che  di  selvatico  del  carattere  e  dell'ingegno,  a 
chi  sa  prenderlo  pel  suo  verso  e  intimamente  lo  co- 
nosce appar  più  di  frequente  assai  buono  di  fondo, 
cordiale,  espansivo,  e  non  di  rado  generoso.  Turpe 
leggenda,  com'è  sorte  di  tutti  quelli  che  menan  vita 
irrequieta  e  vagabonda,  ne  perseguita  la  fama,  e  lo 
ritrae  come  un  uomo  volgare,  ingrato,  nequitoso,  sui- 
cida morale,  odiatore  della  famiglia.  Non  è  vero,  o 
tutto  questo  può  solo  parere  da  certi  impeti  selvaggi 
che  ne  offendono  1'  esteriore  ma  non  1'  intimo,  eh'  è, 
come  abbiamo  accennato,  ruvidamente  e  bruscamente 
buono.  Egli  ama  potentemente  la  famiglia,  e  per  essa 
non  ha  mai  pace  sotto  un  sol  tetto,  sotto  un  mede- 
simo cielo;  l'ama  sino  al  segno  di  vederlo  fremere  od 
insorgere  come  leone  ferito  al  solo  pensiero  di  non 
aver  nuove  di  lei,  che  in  parte  si  vive  a  Catanzaro: 
quivi  è  la  sua  Antonietta  con  l'altro  figlio  Guido. 


Ecco  ora  in  breve  i  diversi  passi  del  peregrino  suo 
ingegno.  Nel  1873  pubblicò,  non  senza  contrasti,  il 
primo  suo  volume  di  versi,  dal  titolo  «  In  giovi- 
nezza »;  nel  '75  la  Gioconda;  nel  '76  nuove  liriche, 
Hyenialia,  e  sino  al  '79  altri  versi  pei  giornali  e  prose 
critiche  e  polemiche,  finché,  nel  '79,  vennero  fuori 
le  sue  Odi  pagane  ch.Q  gli  aprirono  il  primo  vero  passo 


i6 


alla  gloria  e  che  meglio  segnarono  i  caratteri  e  la 
forza  della  vera  sua  facoltà  poetica.  Nel  1880  lo  vidi 
a  Napoli,  dove  lo  conobbi  in  un  bel  cerchio  di  ani- 
mosi giovani  repubblicani  che  anche  indulgeano  ne' 
facili  e  troppo  liberi  ozi  alle  muse  e  all'  amore:  era- 
vamo presso  il  periodo  inaugurato  da  Angelo  Som- 
maruga  nel  cui  cenacolo  non  entrò  o  non  volle  mai 
entrare  il  nostro  amico  che  proprio  in  quell'anno  in- 
tendeva alla  composizione  di  un  suo  primo  e  origi- 
nale poemetto,  il  Kokodé,  di  cui  durante  una  splen- 
dida notte  di  agosto  da  noi  romorosamente  trascorsa 
sul  mare  incantato  di  Posillipo  cominciò  a  leggere  a 
me,  all'  amico  Farnese,  a  Giuseppe  Mezzanotte  e  ad 
altri  molti,  alcuni  bellissimi  canti.  Dal  1880  insino  al 
'97  ei  si  visse  come  appartato  dal  mondo  e  lungi  da 
quel  covo  di  pappagalli  lusingatori  che  dal  «  Corriere 
del  Mattino  »  di  Napoli  passarono  poi  a  schiamazzare 
nella  «  Cronaca  bizantina  »  di  Roma,  in  quella  men- 
tita primavera  di  poesia  che  parve  insolito  risveglio 
di  gioventù:  da  qualche  tempo,  costretto  a  vivere  in 
piccole  città  per  tutt'  altro  bisogno  che  della  gloria, 
e'  volse  l'animo  e  l'ingegno  a  un  ordine  più  alto  di 
poesia,  alla  poesia  storica,  nella  quale  infuse,  con  san- 
guigni e  accesi  colori^  quella  parte  del  suo  spirito 
ribelle  che  non  ancora  si  era  tutto  rivelato,  e  che  a 
grado  a  grado  usciva  impetuoso  dal  primitivo  invo- 
lucro. Era  questa  la  poesia  de'  suoi  poemetti  che  da 
soli  due  anni  e'  va  recitando  qua  e  là  per  tutta  l'I- 
talia, e  che  ovunque  desta  intorno  a  lui  un  crescente 
palpito  di  ammirazione:  è  l'ultimo  stadio,  forse,  della 
più  vera  e  della  più  compiuta  e  organica  sua  perso- 
nalità. Mentre,  quasi  fino  a  ieri,  tutti  lo  credeano 
fioco  per  lungo  sile?izio,  eccolo  apparire,  come  lumi- 
nosa meteora,  più  bello,  più  vivo,  più  raggiante,  sul 
pallido  orizzonte  dell'  arte  contemporanea.  Innanzi  a 
quest'  ultimo  definitivo  svolgimento  dell'  arte  sua,  si 
andava  man  mano  preparando  a  più  sicure  e  più  fran- 
che elaborazioni  e  a  più  recenti  e  immediati  conce- 
pimenti attinti  alle  vive  fonti  dello  spirito  moderno; 
e  cosi  intorno  all'  '80  ei  scrisse  tre  odi  su  la  Povertà, 


317 


e  via  via  il  Novo  Canzoniere ,  il  Rapimento  di  EleJia, 
i  Diporti  letterari  e  finalmente  il  Verde  antico,  ricco 
manipolo  di  versioni  ammirate  dal  Bonghi  e  da  altri 
insigni  e  che  anc'  oggi  rivelano  la  profonda  sua  cul- 
tura classica  di  cui  non  danno  esempio  i  più  de'  no- 
stri giovani  rimatori  ed  anche  alcuni  fra'  più  lodati. 
E  taccio  di  tanti  altri  versi  e  prose  e  versioni  che 
quasi  alla  chetichella  e  come  inavvertite  apparvero 
per  più  anni  in  riviste  anche  minori. 

Tanto  lavorìo  di  preparazioni  quasi  continue,  da 
lui  fatto  per  bisogno  di  pane  che  non  mai  gli  abbondò, 
ci  fa  presentire  quell'aura  nuova  e  più  accesa  del- 
l' epica  sua  trilogìa  di  cui  fan  parte  tre  poemetti,  il 
Prometeo,  già  pubblicato  in  edizione  elegantissima  (*), 
e  il  Laocoonte  e  V Ercole  tuttora  inèditi,  che  tutti  in- 
sieme vengono  a  comporre  una  originale  rappresen- 
tazione di  quasi  tutta  la  mitica  e  storica  evoluzione 
umana,  percorsa  da  una  continua  iliade  di  dolori,  di 
lotte  e  di  trionfi  in  cui  fin'oggi  si  agitò  1'  anima  ap- 
passionata di  tutt'i  popoli  e  di  tutt'i  tempi.  Tema  va- 
sto e  superbo,  e  insieme  vero  e  presente,  tema  finora 
intentato  fra  noi  con  si  profonda  larghezza  e  con  sì 
audace  concepimento.  Il  poeta  lo  affronta,  e  a  un 
tempo,  ebbro  di  fede  e  d'ideali,  lo  conquista  e  lo  im- 
pone all'ammirazione  degli  ascoltatori,  i  quali  si  sen- 
tono anche  attratti  dalla  mirabile  poesia  della  sua  pa- 
rola viva.  Un  altro  poemetto,  il  Kokodè,  già  da  noi 
ricordato,  e  i  Poemi  de  la  Notte,  pubblicati  pochi 
mesi  fa  (**),  son  due  manifestazioni  di  arte  diversa:  il 
primo,  più  sinceramente  umano  di  contenenza,  è  certo 
men  forte  e  poderoso  de'  primi  ,  ma  di  più  limpida 
e  schietta  inspirazione  democratica  e  domestica,  e  di 
forme  più  classicamente  spigliate  e  correnti;  e  gli  ul- 
timi son  come  tante  miniature  della  natura  tutta  com- 
penetrata dal  dolore  umano,  son  come  tanti  abbozzi 
o  quadretti,  di  semplice  e  purissimo  disegno,  dove, 
se  desiderasi  maggiore  unità  e  una    più    larga  deter- 


(')  Salvatore  Marino,  Caserta,  1899. 

(■*)  Salvatore  Manno,  editore  —  Caserta,  1899. 


3i8 


minatezza  di  linee  e  di  scorci,  è  pur  notevole  quel 
patetico  nel  vaporoso  e  sfumante  del  pianto  delle  cose 
infuso  alla  infinita  tristezza  degli  animali  e  degli  uo- 
mini, al  dolce  lume  della  luna,  ne'  calmi  e  pur  do- 
loranti chiarori  della  notte. 

* 

*  * 

Raccogliamo  ora  in  rapido  riassunto  quello  che  a 
noi  pare  di  tutta  l'arte  del   Milelli. 

Assai  luminoso  è  dunque  il  suo  ingegno,  il  quale 
particolarmente  si  rivela  nella  mirabile  attitudine  di 
dar  vita  fantastica  alle  più  simpatiche  idealizzazioni 
del  vero,  e  meglio  risplende  nel  tenace  vigore  nativo 
che  dà  al  canto  la  immediata  freschezza  e  1'  acuto 
profumo  come  di  terra  vergine.  De'  poeti  giovani 
ninno  è  più  schietto,  più  forte  e  più  vivo  di  lui:  de' 
men  giovani  forse  il  Marradi  lo  avanza  per  melodia 
e  per  ala  se  non  per  impeto  e  per  forza  di  fantasia 
pittrice,  e  per  nervo  di  poesia  ha  eguali  ben  pochi 
della  sua  generazione  e  di  quella  di  poi;  per  gusto 
classico  non  molti  lo  superano,  ed  ha  col  Rapisardi 
più  contatti  d'animo  e  d'ingegno.  Fu  il  solo  o  almeno 
de'  pochi  che  seppe  schivar  bene  la  fanghiglia  del  così 
detto  verismo,  e  non  imbozzacchirsi  dopo  nella  gof- 
faggine smorfiosa  de'  superuomini  simbolici  e  dei  ma- 
nipolatori di  geroglifici.  A  dir  vero,  non  sempre  il 
colore  è  sobrio,  non  sempre  la  inspirazione  è  imme- 
diata; ma,  nella  selvaggia  esuberanza  de'  sentimenti 
e  delle  passioni,  negl'  impeti  mal  repressi  d'  ire  mal 
dome  e  di  amari  disinganni,  nelle  irruenti  aspirazioni 
a'  nuovi  ideali  della  vita,  la  rappresentazione  acquista 
tale  potenza  giambica  e  tal  nobile  ferocia  d'  ispira- 
zione, da  non  saperle  trovare  molti  riscontri  in  si- 
mili concezioni  politiche  e  sociali  d'  altri  lirici  con- 
temporanei, dopo  l'autore  de'  Giambi  e  dopo  il  poeta 
del  Lucifero,   delle    Odi  religiose  e  di  Justitia. 

Di  lui  scrissero  o  parlarono  con  vera  ammirazione 
così  il  Carducci  come  il  Rapisardi,  così  il  Guerrini 
come  il  Marradi,  così  il  Pessina  come  il  Bovio,  e  al- 


I 


319 


tri  e  altri  dì  questo  stampo;  ed  a'  tempi  del  Som- 
maruga  gli  furono  intorno  per  accattar  fama  o  pro- 
tezione molti  dei  giovani  che  ebbero  od  han  tuttavia 
qualche  lampo  di  celebrità.  Il  Cavallotti,  nelle  sue  fa- 
mose Anticaglie ,  fu  il  primo  a  dargli  il  battesimo  di 
gloria;  e  a  gara  scrittori  italiani  e  stranieri  lo  addi- 
tarono fin  d'  allora  come  una  delle  più  belle  manife- 
stazioni della  poesia  giovine  e  ribelle.  Ne'  migliori 
anni  della  sua  vita  romorosa  e  vagabonda,  girò  tutte 
le  città  italiane  ove  conobbe  i  più  chiari  ingegni  e 
coltivò  le  più  ambite  amicizie.  Andò  pure  ramingando 
qua  e  là  come  professor  di  lettere  o  direttore  di  gin- 
nasi comunali;  ma  questa  vita  non  deve  piacergli 
troppo,  o  gli  piace  solo  con  molta  libertà  e  indipen- 
denza. Non  per  nulla  egli  è  un  poeta  ribelle.  Ma 
sembra  incredibile  come  in  tempi  così  grigi  per  l'arte 
e  per  gì'  ideali,  ei  possa  destare  da  per  tutto  tanto 
desiderio  di  sé.   E'   il  vero  tipo  dell'antico  rapsodo. 

Il  Milelli  è  anche  un  mirabile  conferenziere:  ha  la 
parola  fervida  e  ricca,  colorita  e  vigorosa,  onde  av- 
viene che  chi  l'ascolta  rimane  come  sedotto  sino  alla 
fine  da  un  continuo  e  crescente  senso  di  meraviglia 
sempre  nuova  e  inaspettata.  Non  mai  poeta  italiano, 
tranne  forse  il  Giacosa  che  in  verità  non  è  poeta  vero, 
e  il  musicalissimo  e  soavissimo  Marradi  insuperabile 
cantore  della  natura,  die  pubblica  lettura  di  versi  con 
tanto  successo,  e  niuno  de'  nostri  dicitori  anche  più 
celebri  provocò  mai  così  larga  corrente  di  simpatie 
fra  gli  ascoltatori  di  tante  regioni,  pur  così  diverse 
di  civiltà,  d'animo  e  di  coltura. 


Il  Milelli  è  di  piccola  statura,  ma  vegeto  e  sano 
di  corpo;  ha  gli  occhi  un  po'  torvi,  ma  scintillanti 
d'intelligenza  e  di  arguzia:  ampia  la  fronte,  le  soprac- 
ciglia aggrondate,  calvissimo  il  capo,  e  quasi  sempre 
un  cinico  sorriso  su  le  labbra.  Nelle  conversazioni  è 
genialissimo  parlatore  e  sempre  destro  a  tener  viva 
per  lunghe  ore  la  brigata    con    una    inesauribile    mi- 


320 


niera  di  allegre  trovate  e  di  aneddoti  piccanti,  che 
sa  cavare  colla  più  spedita  disinvoltura  insieme  con 
gli  infiniti  ricordi  d'  arte  e  di  artisti,  di  cui  conosce 
fino  i  pettegolezzi,  dalla  sua  fertilissima  e  tenace  me- 
moria. 

È  socialista  convinto  e  pugnace,  tutto  acceso  a 
diffondere  e  a  propagar  le  idee  e  i  principii  del  partito 
a  cui  è  ascritto;  e  in  lui  il  socialismo  italiano  vanta 
il  più  fedele  e  il  più  forte  rappresentante  artistico. 
Fu  garibaldino  ardente  e  fé'  parte  alle  battaglie  della 
indipendenza  e  della  libertà;  e  oh!  come  s'  accende 
al  richiamo  di  quelle  memorie  e  de'  più  alti  ideali 
umani  e  civili  che  avvivano  di  tanta  luce  i  più  bei 
quadri  de'   suoi  poemetti. 

Questo  l'uomo,  il  cittadino,  il  poeta,  che  vive  po- 
vero, e  a  cui  la  società  non  ha  saputo  dare,  non  la 
gloria,  ma  il  pane,  la  pace  e  il  lavoro,  o  meglio  i 
mezzi  di  un  vivere  più  riposato  e  tranquillo,  e  co' 
quali  egli,  a  preferenza  di  tanti  istrioni  della  cattedra 
e  de'  più  ambiti  uffici,  avrebbe  potuto  produrre  più 
feconde  e  più  nobili  cose  a  incremento  della  cultura 
e  dell'arte. 


320  -  A 


XXX. 


Angelo  Sommar uga.  (*) 

(RICORDI    d'arte) 

Wo  vidi  la  prima  volta  a  Napoli,  dell' Si,  nei 
..^  lim  Piccolino  ed  elegante  cenacolo  editoriale  di 
iScrT^^  I-uigi  Pierro,  lì  a  Piazza  Dante  ,  num.  76. 
Numeri  e  date  e  uomini,  pel  tempo  a  cui  si  riferiscono 
i  ricordi,  assai  importanti.  Luigi  Pierro  è  ancor  vivo 
e,  nella  medesima  piazza  e  nel  negozio  segnato  dal 
numero  istesso,  fa  1'  arte  sua  di  sommarughino  ope- 
roso e  di  ricercato  mecenate.  Gli  fan  codazzo  i  gio- 
vani e  tutti  que'pochi  che  soprannuotarono  nel  gran 
naufragio  di  Angelino.  Ed  egli,  munifico  elargitore  di 
notorietà  e  di  minuscola  fama,  prosegue  d'amorevoli 
cure  le  gloriole  sue  e  ne  assiste  da  buon  ostetrico  i 
parti,  addestrandoli  con  studioso  amore  nell'  aringo 
del  quarto  stato,  sotto  una  biancicante  nevicatina  di 
nitidi  elzeviri  e  di  libercolini  volanti.  E'  un  omarino 
perticale  ancor  lui,  e  ha  nel  volto  grinzoso,  tra  ruga 
e  ruga,  cert'  ombra  di  mistero  che  dà  un  senso  di 
freddo. 

E'  Angelino  in  persona,  o  meglio,  nacquero  en- 
trambi da  una  medesima  covata,  editoriale  e  fisiolo- 
gica; se  non  che  quegli  ha  nell'osseo  sviluppo  perti- 
cale del  flessibile  corpo,  un  più  rapido  movimento  di 
articolazioni:  gli  corron  fremiti  di  vita  per  le  misere 
polpe,  e,  su  le  labbra,  è  un  alito  maliziosetto  e  sar- 


(•)  Questo  medaglione,  pubblicato  nel  1893  dalla  «Scena  Illustrata» 
eli  Kii-cnze,  fu  scritto  sotto  la  viva  inipiessione  degli  ultimi  scandali  som- 
marugliiaiiì  clie  l'urono  in  parte  smentiti  da  alcuni  diarii,  e  insieme  sotto 
l'acceso  risveglio  de'  giovanili  ricordi  di  quell'ambiente  d'arte  che  andò 
sotto  il  nome  di  Angelo  Soinmaruga:  a  ciò  si  deve  il  caustico  e  il  crudo 
dello  stile  il  quale  non  fa  che  rendere  tedelniente  e  con  immediata  fran- 
chezza 1'  intimo  spirito  e  i  vizi  e  gli  etfetti  di  quella  cultura  leziosa  the 
sotto  mentite  apparenze  potò  sembrare  rinnovamento  e  fervore  di  gio- 
ventù. 

20  a 


320  -  B 


donico  di   cinico  riso,   come    d'  un    gran  burlone  che 
la  sa  lunga  e  che  si  ride  del  mondo.    Proprio  così! 

* 
*  * 

Quand'  io  lo  vidi  un  fugace  lampo  di  pensiero  rav- 
vivava, con  fosforescenza  di  troppo  libera  vita  e  di 
più  libera  arte,  un  eletto  manipolo  di  giovani  napo- 
letani, che  poi  in  gran  parte  migrarono  a  Bisanzio, 
guidati  per  mano  da  lui. 

Allora  il  buon  Martino  Cafìero,  anima  di  galan- 
tuomo e  cuore  d'artista,  avea  aperto  nella  terza  pa- 
gina del  Corriere  del  Mattino,  eh'  era  in  quel  tempo 
letterariamente  il  più  educato  diario  meridionale,  un 
covo  quotidiano  di  novelline,  di  poesie,  di  bozzetti. 
Che  un  giornal  politico  desse  ogni  giorno  questo  caro 
solletico  a'  lettori  suoi,  parve  e  fu  veramente  una  me- 
raviglia. Oh  quanti  pigolii  di  pulcini  ancora  implumi 
allora  allora  esciti  dalla  covata!  e  oh  quanti  quoti- 
diani starnazzamenti  d'allodole,  in  quel  caro  e  tepido 
nido,  che  tubava  d'amore!  Come  si  rincorreano  gar- 
ruli e  festivi  gli  uccellini  mattinieri  !  e  oh  quanti 
cuculi  facevano  schiudere  le  loro  ova  da  pennuti  uc- 
celli e  assai  poco  mattutini  .  Come  squittivano  i 
richiami  !  Ma,  in  genere,  era  una  covata  quotidiana 
assai  passabile.  Martino  Cafiero  vi  portava  la  politezza 
azzimata  della  sua  prosettina  elegante:  Federigo  Ver- 
dinois  la  verve  del  suo  molteplice  ingegno;  Matilde 
Serao  lo  scintillante  cinguettio  del  bozzetto  coli'  idil- 
lica e  femminina  spiritualità,  e  la  fantastica  luce  del 
divino  paesaggio  meridionale;  Domenico  Ciampoli,  fra 
tocchi  e  sbozzi  del  paesaggio  abrutino,  facendo  scor- 
rerie nel  territorio  slavo,  anglo  -  sassone  e  greco  mo- 
derno, russeggiava,  e  parca  il  Mezzofanti  risorto  di 
tutte  le  letterature  europee:  Gabriele  D'Annunzio,  un 
promettente  germoglio  del  giovane  e  forte  Abruzzo  , 
era  ancora  nell'  involucro,  e  dal  suo  guscio  covava, 
nel  R.  Liceo  Cicognini  di  Prato,  il  Primo  vere,  e  tra- 
duceva Orazio.  Salvatore  di  Giacomo,  Vittorio  Pica, 
Vincenzo  della  Sala,  Nicola    Misasi,    Francesco    Cim- 


32Ó  -  e 


mino,  Giuseppe  Mezzanotte  ,  Onorato  Fava  e  cento 
altri  ivi  arrotavano  le  loro  prime  armi.  Nel  1881  tutti, 
o  quasi,  erano  letterariamente  trasmigrati  a  Roma, 
duce  Sommaruga:  dagli  uffici  del  «  Mattino  »  parte- 
nopeo eran  passati  in  Via  due  Aface//t  deWa  città,  eterna:, 
da  un  Mecenate  all'altro.  Veramente,  eran  prima  an- 
dati in  Via  dell'  Umiltà,  e  se  la  memoria  non  mi  falla, 
al  n.  79:  subito  dopo,  in  Via  due  Macelli  che  rimase 
il  loro  Pantheon  di  gloria.  Cominciò  immediatamente 
il  gerarchico  pellegrinaggio  letterario  nazionale:  da 
Bologna,  da  Milano,  da  Napoli,  da  Firenze,  da  Ge- 
nova, da  Catania,  da  Livorno,  da  Palermo,  da  Mes- 
sina, da  tutta  Italia,  i  fratelli  come  per  incanto  s'uni- 
rono a'  fratelli,  e,  attratti  dagl'incantesimi  del  mago, 
fecero  tutti  comunione  insieme,  e  la  conventicola  sù- 
bito fu  fatta. 


Angelino  avea  già  aperto  un  Olimpo,  di  dèi  mag- 
giori e  di  minori,  d'evie  e  di  ninfe,  di  fauni  e  di  sa- 
tiri. Ma  chi  dovea  consacrarlo?  Allora  egli,  cacciatore 
lungo  e  feroce  ,  andò  sùbito  a  cercarlo  ,  e  colle 
seduzioni  del  suo  libertino  e  irresistibile  fascino  edi- 
toriale lo  adocchiò  a  Bologna ,  lungo  le  logge  del 
Pavaglione  e  dinanzi  al  cenacolo  di  Nicola  Zanichelli, 
all'  ombra  del  monumento  marmoreo  del  Galvani,  e 
l-o  invescò.  Il  gran  mago  editore  si  unì  presto  al  gran 
mago  poeta.  E  la  consecrazione  fu  fatta.  I  giovani, 
dèi  minori  e  semidei  ,  s'  inchinarono  al  loro  Giove. 
Il  tempio  fu  battezzato:  Cronaca  bizantina.  Sul  frontone 
moresco  inscrissero: 

Impronta  Italia  dimandava  Roma 
Bisanzio  essi  le  lian  dato. 

I  versi  gli  avevan  scalpellati  da  un  bassorilievo  di 
ode  giambica  carducciana,  ed  erano  gli  ultimi  due 
versi  dell'ode  ultima  del  volumetto:  Giambi  ed  Epodi. 
Era  intitolata  :   Per    l^incenzo   Caldesi.  E  il  senso  ripo- 


320  -  D 


sto  rispondea  benissimo  a'  tempi  e  agi'  intendimenti 
de'  novissimi  vati.  La  Cronaca  bizantina  era  la  mensa 
comune,  come  gli  uffici  del  giornale  n'  erano  il  più 
gradito  epicurèo  ritrovo.  Lì,  pe'  gironi  salienti  dell' 
Olimpo  letterario  ch'era  come  il  CÌ7-co  massimo  dell' 
arte  novissima,  davan  tutti,  per  gradi,  l'opera  loro  ; 
ivi  sedean  tutti  in  circolo,  epuloni  chiacchierini  e  le- 
pidi e  lascivi,  al  culto  di  Bacco  e  di  Venere  Anadio- 
mène ;  e  il  trionfale  fiasco  di  Chianti  facea  scoppiet- 
tare la  frizzante  allegria  e  il  salacissimo  humor  de'  sa- 
cerdoti olimpi!  e  delle  procaci  sacerdotesse  le  quali 
non  avean  voluto  dedicarsi  al  virgineo  culto  di  Ve- 
sta. Ma  poi  ciascuno,  amante  di  certa  autonomia, 
producea  da  sé  :  meglio,  eiaculavan  tutti,  in  forma 
più  o  men  libera  e  scurrile,  il  novo  verbo  della  scuola, 
la  quale  volea  parer  bolognese  o  carducciana,  ma  in 
fondo  riesciva  tutto  l'opposto  di  quegl'indirizzi  d'arte 
che  il  poderoso  poeta,  pur  dando  del  suo  alla  rivista 
e  alla  collezione  sommarughiana,  proseguiva  con  li- 
bero animo  e  con  intendimenti  sicuri,  ma  quasi  sem- 
pre non  intesi  da  quelli  che  si  provarono  educarsi 
alla  religione  sua.  Nel  bizantino  Olimpo  sùbito  creb- 
bero gli  altari,   e  vi  si  canonizzarono  novi  santi. 

Primo  di  tutti,  tenuto  a  battesimo  di  gloria  dal 
Chiarini,  Gabriele  D'Annunzio.  Sùbito  dopo,  Edoardo 
Scarfoglio  e  Giulio  Salvadori,  i  quali,  un  dopo  1'  al- 
tro, per  turno,  reggeano  il  pastorale  o  tenean  la  coda 
agli  Dei  massimi,  i  quali  ogni  quindici  o  trenta  giorni 
vi  dicean  messa  solenne  :  tenean  poi  bordone  a'  ca- 
nonici mitrati  e  a'  cantori  che,  nel  coro  augusto,  in- 
tonavano le  lor  salmodie.  Il  D' Annunzio,  dopo  un 
bagno  di  sole  carducciano,  s'era  gettato  a  capofitto 
nella  morta  gora  delle  più  lubriche  nudità  veriste, 
che  gli  valsero  i  rimbrotti  dello  stesso  Chiarini  che 
si  dolse  poi  d'averlo  tenuto  a  battesimo  di  gloria  ; 
Giulio  Salvadori,  poi  convertito,  dicono,  al  misticismo, 
facea  sermoni  bizantini  su  1'  arte  nova,  e,  qualche 
volta,  novellava  tra  un  sacrilegio  e  l'altro  commesso 
dinanzi  l'ara  delle  muse  :  Edoardo  Scarfoglio  vomi- 
tava fiele  contro  tutto    e    tutti,    e,    or    doìicìiisciottava 


320  -E 


prosaicamente,  or  poeticamente papaz'ereg-^'tava.  Era  un 
convocio  in  quella  torre  di  Babele  dell'arte.  Fuor  di 
chiesa,  nidificavano.  Com' eran  chiacchierini  e  lasci- 
vetti  quei  nidi  !  Poi  nidi  s'  aggiungeano  a  nidi,  al- 
l' ombra  di  frondosi  alberi  solenni  da'  ben  nocchiuti 
tronchi. 


Nell'Olimpo  la  folla  si  pigiava,  e  gli  altari  più  non 
bastavano.  Sotto  il  volo  delle  aquile  roteanti  squitti- 
vano i  cuculi,  le  allodole,  i  passeri,  i  fringuelli  e  più 
i  pappagalli  lusingatori  ;  e  mesceano  le  lor  voci  squil- 
lanti e  le  variopinte  penne  nel  gran  parco  sommaru- 
ghiano,  che  parca  il  bosco  incantato  di  Armida.  Come 
fulgeano  civettolamente  svenevoli  que'  libercolini  in 
elzevir  !  Ogni  giorno  novissimi  voli,  nuovi  canti,  nuove 
penne,   nuovi  colori. 

Eran  solleticanti  bagliori  di  carta  fragrante,  solcata, 
qua  e  là,  da  ninnoli  tipografici  che  venian  dalle  offi- 
cine àeW Arte  della  stampa  di  Firenze  :  eran  fulgidi 
ricami  variopinti  che  incorniciavan  soavemente  di  gè 
roglifici  e  di  frange  le  bellissime  lettere  delle  testate 
smaglianti  :  eran  seducenti  fogliolini  d'orpello  ove  il 
giallo,  il  roseo,  il  violaceo,  il  turcliino  e  il  verde  con- 
fondevano le  lor  malie  tentatrici  :  era  tutta  una  fiorita 
di  miniaturine  appetitose  e  di  filagrane  sgargianti.  E 
così,  tutta  questa  processione  di  gingilli  barocchi  riem- 
piva le  dorate  vetrine  sommarughiane,  ammiccanti 
con  sorrisetti  muliebri  all'  uzzolo  de'  curiosi.  —  Gli 
elzeviri  paiipii lavano ,  colle  lor  variegate  penne  di  pa- 
vone, gl'incipriati  ripostigli  e  le  voluttuose  bacheche 
bizantine,  e  pareano  tante  odorose  bomboniere  di 
quella  galante  pasticceria  letteraria. 

* 
*  * 

Oltre  i  citati  scrittori,  moltissimi  altri,  grandi  e  pic- 
cini, concorreano  all'industrioso  lavoro. 

Ruggero  Bonghi  ,  il  platonico  puttin  pieno  d'ingegni, 
lasciati  in  disparte  Platone  e  le   tormentose  cure  della 


320  -  F 


politica,  volle  indulgere  ne'  brevi  ozii  all'arte  bizan- 
tina col  dare  il  volo  alle  sue  Horae  subsecivae  :  En- 
rico Panzacchi,  appisolandosi  al  rezzo  di  quel  tenero 
fogliame,  accarezzava  figurine  mondane  nella  cipria 
della  novellina  e  del  bozzetto  ;  Vittorio  Imbriani,  il 
livido  misantropo  e  il  famoso  ghigliottinatore  delle 
fame  KSìirpate,  avea  lasciato  la  poesia  del  canape  per 
avventurare  alla  pubblicità  —  chi  '1  crederebbe  ?  — 
un  volumettino  elegante  :  Dìo  7ie  scampi  dagli  Orse- 
iiigo  ;  Emma  Ivon,  l'atletica  eroina  d'un  processo  ce- 
lebre, abbagliò  mille  lettori  e  mille  lettrici  avidissime 
delle  sue  memorie  :  Rocco  De  Zerbi,  il  brillante  scrit- 
tore or  ora  scomparso  dalla  scena  della  vita,  il  pole- 
mista tibulliano  che  osò  cimentarsi  col  Carducci  e  lo 
sfolgorante  direttore  del  Piccolo  di  Napoli,  lanciò  in 
quell'agone  due  romanzi  saturi  di  romanticismo  emo- 
zionante :  Pietro  Sbarbaro,  con  «  Regina  o  Repub- 
blica ?  »,  col  «  Re  Travicello  »,  con  «  Medico  e  Mi- 
nistro »,  già  facea  presentire  i  brividi  delle  ^w^  For- 
che caudine  imminenti.  E  Gaetano  Trezza,  Giovanni 
Marradi,  Giovani  Pascoli,  Giuseppe  Chiarini,  Guido 
Mazzoni,  Ugo  Fleres,  Cesario  Testa  (Papiliunculus), 
Carlo  Pisani  (Carlo  Dossi),  Giovanni  Verga,  Luigi 
Capuana,  e  altri  cento,  quali  con  articoli  e  quali  con 
libercolini  mondani,  fornian  leccornie  e  intingoli  alla 
bizantina  imbandigione.  Alla  Cronaca  tenne  subito 
dietro  la  Domenica  letteraria,  la  seconda  figliuola  del 
Martini  ,  la  quale  divenne  una  seconda  palestra  pe' 
giovani  animosi  :  era  un  supplementino  all'  organo 
magno,  un  piccolo  oratorio  nel  Sancta  Sanctorum  del- 
l'Olimpo. Ma,  quando  la  capelluta  cometa  stava  per 
disparire  dall'  orizzonte  economico  sommarughiano, 
ecco  sopraggiungere  ,  con  fremiti  di  focosissime  ca- 
valle nitrienti  e  con  satanici  squilli  di  battaglia  ,  le 
Forche  cavdine.  Furono  un  fuggevole  ristoro  al  crac 
finanziario  di  Angelino  :  furono  il  diabolico  giudizio 
universale  sull'  Italia  adultera  :  furono  un  infernale 
tribunale  di  accusa  contro  uomini  puri  voluti  confon- 
dere, non  senza  impunità,  con  satiri  corruttissimi  e 
con   famigerati   lenoni.   La  cometa    era    riapparsa    più 


320  -  G 


fulgida  e  crinita  su  l'orizzonte  bizantino,  ma  questa 
volta  era  sanguigna.  —  Facea  presentire  cose  tristi 
sotto  l'influsso  di  stelle  maligne.  E  quando,  di  scan- 
dalo in  scandalo,  neppur  la  parola  di  Sbarbaro  valse 
a  ristorare  la  povera  finanza  di  Angelino,  questi,  con 
novo  ardimento,  procreò,  prima  il  Messaggero  illu- 
strato., indi  il  Nabab,  diretto  da  Enrico  Panzacchi.  Ma 
gl'italiani  non  voleano  più  saperne  né  di  cronache 
e  cronacatori  né  di  dometiiche  né  di  messaggeri  né  di 
Nahab  :  eran  fracidi  seccati. 

Scomparsa  la  cometa,  ecco  subito  due  scandalosi 
processi:  quel  di  Pietro  Sbarbaro  e  quello  di  A.  Som- 
maruga.  Di  costui  si  potè  dire:  cadde,  risorse  e  giac- 
que. Ma  il  mago  avea  detto: 

:^ie^lractij.s  illabatur  orbis  0.^c^     ' 

Impavidum  &fìferient  riiinae. 


E  fuggì  in  America.  E  mentre  Pietro  Sbarbaro  con- 
fortava l'animo  suo  col  brevissimo  e  illusorio  trionfo 
di  Pavia,  Angelo  Sommaruga,  a  Buenos-Ayres,  creava 
un  emporio,  una  Banca  e  la  Patria  italiana:  fondava 
un  novissimo  Olimpo  letterario-editoriale:  giocava  au- 
dacemente alla  Borsa.  Ogni  tanto  ci  giungea  dal  Nuovo 
Mondo  l'eco  di  qualche  sua  nuova  magia.  Un  giorno 
si  disse  che  avea  vinte  alla  Borsa  non  so  più  quante 
centinaia  di  migliaia  di  lire.  Ma,  pochi  giorni  or  sono, 
con  un  laconico  telegramma  di  tacitiana  evidenza, 
l'Agenzia  Stefani  annunziava: — La  Banca,  l'emporio  e 
la  Patria  italiana,  in  Buenos-Ayres,  hanno  sospeso  i 
pagamenti.  Sommaruga  é  fuggito — E,  qualche  giorno 
di  f)oi,  ci  giungea  dal  Nuovo  Mondo  un'altra  notizia: 
Sommaruga  avea  portate  con  sé  anche  nove  mila  lire, 
frutti  di  una  sottoscrizione  da  lui  promossa  in  soc- 
corso d'una  povera  famiglia  italiana.  Angelino  avea 
tentato  anche  un  tranello  di  borghese  filantropia.  E 
così  questo  Dottor  Pertica  (era  il  bizantino  pseudo- 
nimo suo),  questo  palmipede  dell'  imbroglio,  questo 
istrione  dell'industria,  questo  cospiratore  delle  borse, 
incarna,  anche  nella  singolarità  del  belluino  suo  corpo, 


320  -  H 


le  forme  e  i  caratteri  di  un  perniciosissimo  Falstaff 
moderno.  Colla  Farfalla  di  Milano,  organino  dome- 
nicale fatto  da  ottentotti,  arrotava  le  prime  sue  armi. 
Colla  Cronaca  bizaìitbia  creava  il  Sancta  Sa?ictoriim  del- 
l'industria. Vi  si  trafficavano  le  anime  e  i  cuori,  sotto 
l'egida  impura  di  dèi  tenebrosi.  Cattedre  universita- 
rie, classiche  e  tecniche;  concorsi  ed  esposizioni;  uf- 
fici e  gradi  e  onorificenze,  tutto,  tutto,  tutto  dipondea 
da  quella  casa  del  diavolo  orpellata  da  fogliolini  in  ei- 
zeinr.  Ma  si  dovea  prima  pagare  assai  caramente,  non 
senza  una  trafitta  al  cuore,  il  pedaggio  della  celebrità 
e  degl'impieghi,  altissimi  e  infimi.  Il  \^oto  di  Michetti 
informi.  Colle  Forche  caudine  inaugurava  il  regno  de- 
gli attentati  all'onore  qual  cespite  d'industria.  A  Bue- 
nos-Ayres,  transfuga  audacissimo,  ha  la  forza  di  ri- 
sorgere colle  mentite  apparenze  di  giovare  alla  colonia 
italiana.  E  cade  per  l'ultima  volta,  e  fugge,  e  lascia 
sul  lastrico  mille  famiglie,  ma  prima  ha  voluto,  tanto 
per  parere  più  audacemente  e  ingegnosamente  ne- 
fando, servirsi  della  carità  cittadina  come  sorgente  di 
nuove  rapine. 

Dove  sarà  andato,  ora,  e  che  cosa  farà,  questo  ven- 
turiere  dell'immoralità?  Non  dubitate.  Il  vecchio  e  il 
novo  mondo  più  non  gli  basteranno.  Andrà  e  saprà 
scovarne  un  altro,  per  lui!  Ma  di  che  non  è  capace 
questo  Ebreo  errante  del  ladroneccio  e  delle  più  strane 
e  audaci  avventure? 


(Tiri® 


Libro  III. 


QUELLI  CHE  FURONO 


Kiiggero  Bonghi. 


I. 


li^tóox  era  ancor  vecchio.  Aveva  di  poco  varcato 
-  fc^'^  '^  sessantasette  anni,  e  pur  ne  mostrava  ot- 
iASkl^©  tanta.  Nato  in  Napoli  di  padre  Incerino  il  20 
marzo  1S28,  dei  sessantasette  anni  che  visse,  certo 
cinquanta  li  visse  fortemente  pensando.  Egli  era  già 
noto  che  non  aveva  ancora  vent'anni,  quando,  cioè, 
fu  a  Roma  segretario  della  Commissione  guidata  da 
Pietro  Leopardi,  per  promuovere  una  lega  nazionale 
contro  l'Austria. 

Una  meravigliosa  e  infaticabile  operosità  intellet- 
tuale, che  non  gli  die  pace  fino  agli  ultimi  momenti, 
ne  avea  spezzato  la  fibra  tenace,  la  quale  produsse 
tanta  mole  di  lavoro,  che  la  parrebbe  incredibile  avesse 
potuto  resistere  cosi  a  lungo.  Egli  si  è  spento  come 
un  filosofo  antico  e  come  un  antico  eroe,  avendo  an- 
cor fiso  il  pensiero  ai  più  alti  ideali  della  nazione,  e 
sempre  vividi  e  pronti  l'ingegno  e  il  sentire  al  pugi- 
lato della  vita.  Quanto  fulgido  lume  di  molteplice  cul- 
tura avvivò  quella  mente  e  quel  cuore!  quanta  veloce 
e  svariata  esuberanza  di  contenuto  ideale  seppe  egli 
assimilare  e  raccogliere  con  ispirito  acuto  e  con  fiuto 
squisitissimo  da  tutte  quante  le  discipline  umane  ! 

Son  forse  ancor  troppo  vive  nel  cuor  dei  contem- 
poranei le  acri  e  velenose  punture  di  quelle  sue  pole- 
miche, perchè  si  conservi  intatto  e  puro  il  fiore  lacri- 
mato della  tomba:  ma,  di  qui  a  poco,  quando  di  questo 
uomo,  così  ostico  a  molti    vivi,    non    rimarrà  che   la 


324 


vergine  memoria  e  1'  ideale  astrazione,  quando  alfin 
taceranno  le  bizze  piccine  della  politica  e  qualche 
spunto  della  sua  vita  privata,  ninno  oserà  dissimulare 
che  con  lui  è  mancato  all'  Italia  il  più  vasto  e  illu- 
minato intelletto.  Certa  volubilità  della  sua  elastica 
natura,  e  insieme  la  troppo  ricca  e  non  sempre  salda 
compagine  della  sconfinata  erudizione,  voluta  rapida- 
mente attingere  a  discipline  disparate  o  discordi,  non 
fermarono  in  quel  così  versatile  intelletto  un  orga- 
nesimo  durevole  di  convinzioni  e  di  principii,  ai  quali 
gli  fosse  agevole  di  attenersi  almen  lungamente. 

Quindi  egli  passava  con  passo  troppo  spedito,  se- 
condo le  ultime  rapide  impressioni  del  sempre  nuovo 
contenuto  ideale,  da  una  ad  altra  incoerenza,  da  questa 
a  queir  affermazione  che  mal  gli  riesciva  di  conca- 
tenare anche  per  sofistiche  e  ingegnose  elaborazioni 
della  mente  con  quanto  gli  venia  detto  d'innanzi.  Non 
ebbe  pari  alla  pronta  e  smisurata  conquista  dello  sci- 
bile in  tutt'  i  continenti  delle  lettere,  delle  scienze  e 
delle  arti,  il  fermo  sigillo  di  una  personalità  propria 
e  omogenea. 

Ei  pare  che  il  vario  e  progressivo  pensiero  del 
tempo  si  stampasse  nella  sua  mente  come  sur  una 
cera  che  sotto  altro  fuoco  perdesse  la  vecchia  im- 
pronta per  lasciarvene  un'  altra  anche  mutevole  dopo 
il  primo  raffreddamento;  e  così  in  quella  mente  quasi 
eteroclita  avevan  posto  tutte  le  idee,  tutti  i  principii, 
tutte  le  scuole,  tutte  le  idealità,  per  disfarsi  e  sosti- 
tuirsi a  vicenda.  Ma  la  sua  vera  grandezza  era  in 
questo:  che,  cioè,  anche  lungi  da  quelle  dottrine  che 
avea  professate  d'  avanti,  recava  intorno  alle  nuove 
un  possesso  sicuro  della  materia  e  una  dialettica  vi- 
gorosa se  non  scintillante,  e  se  non  atta  a  convincere, 
certo  a  maravigliare;  di  guisa  che,  in  seno  alle  mede- 
sime dottrine  di  cui  si  faceva  rispetto  alle  precedenti 
come  un  diverso  clima  intellettuale,  ragionava  abba- 
stanza diritto,  con  discorso  lucido  e  filato,  e  con  in- 
tuito originalissimo  e  perspicace.  Si  poteva  spesso 
convenir  con  lui,  purché  si  fosse  dimenticato  o  affatto 
sconosciuto  lo  scrittore  di  prima:  sempre,  si  intende. 


325 


secondo  1'  ordine  delle  dottrine    di  cui  si    fosse  stati 
seguaci. 

In  una  parola  egli,  sotto  qual  luce  si  mettesse,  sa- 
peva farla  mirabilmente  riverberare  da  per  tutto.  E  que- 
sto fu  indizio  di  un  cervello  multanime  e  di  un  compli- 
catissimo congegno  delle  funzioni  psichiche,  alle  quali 
molto  nocque  la  continua  diversità  dell'  apprendere,  e 
la  grande  eccitabilità  di  quella  ricca  natura.  In  questo 
il  segreto  di  quella  mirabile  incoerenza,  che  fu  insieme 
il  suo  difetto  e  la  sua  grandezza. 


Ma  se  pur  si  guardi  oltre  la  prima  pelle,  egli  ebbe 
sempre  un  fondamento  di  fede  a  principii  e  indirizzi, 
politici  o  sociali,  scientifici  o  letterari,  religiosi  od 
etici,  che  non  mai  violò  od  ismentì,  in  questo  inces- 
sante fluttuare  e  naufragare  di  veri  che  han  spesso 
fatto  tremar  la  coscienza  di  molti  uomini  anche  grandi 
ed  integri. 

Ho  piacere  che  sia  di  questa  opinione  anche  1'  il- 
lustre scrittore,  avvocato  Benedetto  de  Luca,  che  ne 
discorre  da  par  suo  nel  bellissimo  studio  che  ha  pub- 
blicato sul   Bonghi  nelle  sue    Cronache  minime.   (*)   — 

Come  politico  e'  fu  sempre  moderato,  e  prosegui 
rigido  e  intollerante  una  certa  aristocrazia  tradizionale 
e  conservatrice  di  un  forte  Stato  italiano;  né  oscillò 
mai  di  fronte  a  una  probabile  conquista  del  potere  e 
verso  una  certa  mobilità  di  trasformismi  o  arrapina- 
menti  politici  contro  cui  scatenò  spesso  la  sua  ful- 
gida ira,  la  quale  infine  lo  ridusse  a  far  parte  da 
sé,   lungi  da  tutt'  i  partiti. 

Ma  con  ciò  troppo  sovente  dovè  lottare  anche  con- 
tro sé  stesso,  e,  di  opposizione  in  opposizione,  rom- 
pere gli  argini  della  misura  e  della  opportunità;  anzi  che 
temperarli  o  correggerli,  sorpassò  sempre  tutt'i  partiti  o 
li  molestò,  anche  quando  fé  getto  di  una  teoretica  sapien- 
za politica  e  di  una  dialettica  stringente,  veramente  pre- 


(*)  Lucerà  -  Stamperia  editrice  -  1899  -  Pagg.  70-71. 


326 


ziosa  e  degna  di  un  grande  statista,  del  quale  ebbe,  come 
forse  nessuno,  la  prepotenza,  quantunque  non  geniale  e 
gradevole,  delle  argomentazioni  sottili,  e  la  mirabile 
attitudine  a  menar  l'avversario  per  vie  delle  quali  egli 
solo  conosceva  1'  uscita.  Ei  fu  un  singolare  tempera- 
mento politico  eh'  ebbe  1'  Italia  in  questo  suo  periodo 
di  transizione,  nel  quale  mal  si  concilia  la  febbre  del 
nuovo  con  le  persistenti  simpatie  dell'  antico.  Incli- 
nato per  istinto  alla  opposizione,  e  consapevole  della 
sua  grandezza,  tentò  di  soverchiare  tutti,  ma  nessuno 
e'  seppe  aggiogare  al  carro  della  sua  onnipotente  dot- 
trina sofistica;  e,  mancatagli  ogni  egemonia,  tutti  fe- 
cero un  vuoto  intorno  a  quella  che  fu  una  vox  cla- 
mayitis  in  deserto.  Di  politica  scrisse  come  nessuno  de' 
nostri,  anche  su  riviste  straniere,  ma  più,  fra  le  ita- 
liane, sulla  Perseveranza,  sulla  Nuova  Antologia  e  sulla 
sua  Cultura,  nella  quale  ultima  fu  meraviglioso  come 
egli,  quasi  unico  collaboratore,  potesse  parlar  con  dif- 
ficile competenza  di  tutte  le  pubblicazioni  che  a  lui 
arrivavano,  in  tutt'  i  rami  dello  scibile,  da  ogni  plaga 
del  mondo. 

Forse  non  vi  fu  argomento,  dall'  economico  al  fer- 
roviario, dal  militare  all'  educativo,  eh'  egli  non  isvi- 
scerasse  con  arguzia  e  con  dottrina  temibile.  Se,  non 
ostante  le  molte  disparità  delle  idee,  si  raccogliessero 
i  tanto  sparsi  materiali,  si  otterrebbe  una  vera  biblio- 
teca politica,  che  molto  conferirebbe  alla  storia  cri- 
tica degli  ultimi  tempi  ;  e  sarebbe  opera  degna  che 
la  promovesse  il  Governo  italiano  ad  aumento  di  quel- 
la molta  coltura  che  ancora  ci  manca. 


Come  filosofo,  fu  rosminiano  convinto.  Il  Rosmini 
ei  conobbe  a  Stresa  nelle  dubbie  prove  dell'  esilio, 
quand'  era  ancora  nella  fiorente  giovinezza  del  cuore 
e  del  pensiero;  e  ne  fu  ospite  graditissimo.  In  quel 
torno  la  sua  grande  cultura  versatile  si  formò  con  i 
vivi  contatti  eh'  ebbe,  non  pure  col  Rosmini,  ma  con 
altri  grandi  del  tempo  e  specialmente  col  Manzoni, 
di  cui  fu  ospite  dal   '54  al  '60. 


327 


E  dalla  grande  familiarità  con  l' illustre  lombardo 
anche  attinse  il  culto  di  quella  filosofia  gloriosa  e  in- 
sieme cattolicamente  razionale  che  gli  s'insinuò  nella 
mente  non  senza  una  certa  lar;^hezza  e  deviazione 
libera,  venutagli  dal  pensiero  democratico  ramificante 
dal  validissimo  tronco  della  Enciclopedia.  E  l'esempio 
di  quel  grande  ebbe  nella  formazione  della  mente  di 
lui  una  non  piccola  parte. 

Cito  a  proposito  queste  parole:  «  Sì,  in  quell'ampia 
organatura  della  testa  di  Alessandro  Manzoni  il  ra- 
zionalismo giacobino  dei  primi  suoi  anni  seguitò  a 
ramificare  per  entro  la  superedificazione  cattolica,  scal- 
zandola e  fendendo  qua  e  là  di  crepacci  la  incrostatura 
o  intonacatura  rosminiana.  »  (*  '  A  questa  scuola 
crebbe  con  influenze  diverse  il  vasto  ingegno  del 
Bonghi:  e,  tra  il  Manzoni  e  il  Rosmini  che  insieme 
confluirono  come  in  un  sol  vivaio  di  libera  e  geniale 
cultura,  egli,  vivido  ingegno  meridionale  e  spirito  po- 
tentemente eclettico,  profuse  nelle  elastiche  sue  facoltà 
una  troppo  ricca  propaggine  di  contenuto  ideale:  onde 
nella  sua  mente  duttile  e  pronta  si  andarono  formando 
come  tanti  stili  diversi  che  spesso  nocquero  a  quel- 
l'unità di  studi  e  d'  indirizzi  per  entro  i  quali  lasciò 
libero  il  passo  a  tutte  le  discipline.  Il  Prati,  in  un 
satirico  suo  sonetto,  lo  chiamò  «  platonico  puttin 
pieno  d'ingegni  »;  e  non  senza  umorismo  espresse  con 
senso  del  vero  il  tipo  dell'  uomo  e  dello  scrittore. 

Ma  pur  derivando  da  questo  e  da  quello  1'  in- 
gegnosissimo e  ricco  assortimento,  dirò  così,  del 
suo  sapere,  ebbe  sempre  dinanzi  il  Manzoni  ed  il  Ro- 
smini, i  quali  informarono  la  parte  men  labile  e  fugace 
delle  sue  convinzioni.  Se  risalì  a  Platone  per  istudio 
di  filologia  e  di  critica  com' anche  di  filosofia;  se  non 
potè  liberarsi  interamenie  dalle  nuove  dottrine,  come 
nella  Vita  di  Gesii,  che  non  lasciò  paghi  né  i  cre- 
denti, né  gli  eterodossi;  se  nell'  intricato  campo  della 
politica  volle    assorbire    tutte  le    influenze  del  dottri- 


(*)  Carducci  —  «  Confessioni  e    battaglie  »  —  pag.  101    —  Bologna, 
Zanichelli,  189J. 


328 


narismo  parlamentare,  egli  fu  costretto  di  poi  a  tem- 
prare l'ingegno  nelle  purissime  linfe  dell' opera  man- 
zoniana e  nella  profusa  enciclopedia  dottrinale  dello 
insigne  filosofo  di  Rovereto.  Ma  divagò  sempre  tra 
l'antico  ed  il  novo,  e  finì  per  ispiacere  ai  seguaci 
dell'  uno  e  dell'  altro:  troppo  egli  era  credente  per 
assentire  al  positivismo  dei  tempi,  e  fu  troppo  libero 
razionalista  per  accogliere  in  sé  tutta  la  fede  dei  padri. 
Onde  si  generò  in  lui  un  feroce  dissidio  che  lo  mise 
in  antinomia  con  tutti  gli  uomini  e  con  tutte  le  cose: 
fenomeno,  questo,  che  incontra  spesso  di  notare 
in  cicli  o  periodi  di  grande  transizione  ideale.  E 
perciò  il  Bonghi  può  dirsi  il  più  largo  rappre- 
sentante di  questo  scadere  di  età,  in  cui  nelle  troppo 
varie  manifestazioni  trasformatrici  la  cultura  dei  tempi 
ondeggia  fra  le  più  opposte  correnti;  ond'  egli  nel 
vasto  organismo  della  sua  mente,  V  assomma  tutta  e 
la  raccoglie.  Ingegni,  codesti,  indisciplinati,  ma  grandi; 
assimilatori  plastici,  e  instancabili  e  irrequieti  produt- 
tori; essi,  luminose  meteore  fuggenti,  appaiono  per 
lo  più  nella  storia  dell'  arte  o  della  scienza  quando 
dalla  vecchia  scorza  sta  per  romper  fuori  l'ultimo  ma- 
turo getto  ideale.  Tale  il   Bonghi. 

Qui  cade  in  acconcio  riprodurre  il  mirabile  rilievo 
che,  due  anni  dopo  la  pubblicazione  di  questo  studio 
apparso  nel  Diritto  di  Roma  (13  e  14  novembre  "95), 
dette  il  Carducci  del  Bonghi  nel  fascicolo  del  16  marzo 
1897  della  Vita  Italiana  (pag.  580):  —  Non  dico  fosse 
una  testicciuola  Ruggero  Bonghi:  tutt'aitro:  ei  fu,  nel 
miglior  senso,  una  testa  forte,  acuta,  secca.  Ma,  non 
so  perchè,  a  me  non  vien  fatto  di  raffigurarmi  la  fisio- 
nomia letteraria  del  Bonghi  altro  che  in  un  busto  di 
rubizzo  sofista  acerbamente  freddo.  Ampia  coltura,  se 
non  sicura  sempre:  pronta  facoltà  d'  assorbire,  anche 
non  digerendo  subito:  grande  facoltà  di  aggirare  il 
volubile  discorso  nelle  forme  del  ragionamento;  forte 
e  agguerrita  audacia  nell'occupare  gli  argomenti;  di 
un  territorio  ideale  o  dottrinale  gli  bastava  aver  ve- 
duto le  frontiere  perchè  gli  bastasse  la  voglia  a  cor- 
rerlo tutto  per  suo:  non  cercava  sempre  la  verità,  ma 


spesso  la  soddisfazione  de'  suoi  capricci,  o  un  eser- 
cizio ginnastico  nel  contraddire:  eloquenza  negativa, 
senza  accensione,  senza  espansione,  senza  cordialità: 
antipatico  per  divertimento  —  . 

Un  po'  rigido  forse  ma  tutto  vivo  e  palpitante  di 
verità  è  questo  ritratto  che  risponde  benissimo,  salvo 
qualche  contorno,   a  quello  che  ne  abbiamo  dato.  noi. 


II. 


Ma  dal  Manzoni  anche  derivò,  insieme  con  i  fonda- 
menti delle  lettere  e  della  storia  ,  quell'umor  vivo  e 
salace,  quella  finissima  arguzia  che  seppe  poi  inne- 
stare a  certa  nativa  comicità  tutta  napoletana,  la  quale 
non  fu  l'ultimo  pregio  del  suo  carattere  complesso.  E 
come  il  grande  lombardo  seppe  versare  intorno  all'ope- 
ra sua,  di  su  le  fonti  della  Enciclopedia,  sobriamente 
e  con  serena  castigatezza,  il  nutrito  e  sintetico  sapere 
di  molte  discipline  e  di  molte  arti;  così  egli,  pur  senza 
quella  mirabile  omogeneità,  avviò  il  suo  spirito  allo 
apprendimento  e  allo  studio  di  tutto  lo  scibile  umano, 
onde  pare  che  troppo  spesso  la  dottrina  sua  dilaghi 
oltre  i  margini  di  una  larga  e  ben  fissata  mèta  di 
studi.  E  dovè  a  questa  prolifica  ed  animosa  fecondità 
dottrinale  la  mobilità  del  sentire  e  del  concepire  ;  e 
ad  essa  anche  dovè  i  sommi  onori;  onde,  come  l'Ate- 
neo romano  l'ebbe  professore  emerito,  così  l'Associa- 
zione della  stampa  lo  vantò  suo  presidente;  e,  oltre 
che  deputato,  fu  consigliere  di  Stato,  cavaliere  e  con- 
sigliere del  merito  civile  ,  grande  ufficiale  dei  SS. 
Maurizio  e  Lazzaro,  gran  Croce  della  Corona  d'Italia, 
accademico  cruschevole  e  linceo,  membro  di  tutte  le 
migliori  Accademie  italiane  e  straniere,  ed  in  fine, 
come  lo  vezzeggiò  il  Carducci,  professore  di  tutte  le 
cose  in  tutte  le  Università  del  Regno.  Oh  quanto 
deve  l'Italia  a  lui  ! 

Ho  di  questi  giorni  letto  in  molti  periodici  che  tutto 
di  lui  anderà  perduto,  allo  infuori  di  una  temporanea 
ricordanza;   ed  è  vaniloquio  degno  di  gazzettieri,  co- 


>30 


stretti  a  scrivere  di  tutto.  Ma  quanti   di  questi  lo  han 
letto  veramente  anche  in  menoma  parte  ? 

Io  mi  limiterò  a  dire  che,  come  letterato  e  filologo, 
ebbe  la  forza  e  l'utile  costanza  di  promuovere  e  diffon- 
dere dentro  e  fuori  la  scuola,  anche  di  contro  ad  una 
validissima  voce  che  opportunamente  e  non  senza  acre 
dine  si  levò  contro  certe  esagerazioni  postume  ,  lo 
studio  del  Manzoni,  specialmente  per  quello  che  tocca 
lo  stile  e  r  unità  della  lingua.  Chi  meglio  di  lui  co- 
nosceva il  Manzoni  ?  e  quanti  libri  abbiamo  noi  che 
valgano  quello  del  Bonghi  :  Perchè  la  letteratura  ita- 
liana 7ion  sia  popolare  in  Italia  ?  Fu  delle  opere  sue 
quella  che  meglio  ne  ritrasse  l'ingegno  e  che  più  lar- 
gamente lo  fé  conoscere  ed  apprezzare  al  di  fuori;  la 
pubblicò  che  era  ancor  giovane,  pieno  ancora  la  mente 
della  conversazione  e  dell'  amicizia  di  quel  grande, 
non  ultimo  frutto  della  quale  fu  quella  sentenza  ce- 
lebre che  va  per  le  bocche  di  tutti  in  tutte  le  scuole: 
«  Pensaci  su  »  ,  a  proposito  del  miglior  mezzo  per 
iscrivere    bene. 


Dalla  Vita  e  i  tempi  di  Valentino  Pasini,  ai  Dialoghi 
di  Platone  tradotti;  dalla  Tempesta  di  W.  Shakespeare 
e  il  Calibano  di  Ernesto  Rèìian,  a  Pio  IX  ed  il  papa  fu- 
tiiro]  dai  Discorsi  e  saggi  sulla  pubblica  istruzione,  a 
Leone  XIII  ed  il  governo  italiano]  dall'  Alleanza  pinis- 
siana  e  l' acquisto  di  Venezia,  alla  Roma  pagana;  dalla 
Storia  di  Roma  ,  a  Francesco  di  Assisi  ;  dalla  Storia 
Orientale  e  Greca,  alla  Perequazione  fondiaria  ;  dalla 
Vita  di  Gesti  ,  alle  Horce  subsecivos  ;  da  Cavour  ,  Bi- 
smarck  e  Thiers,  a  Disraeli  e  Gladstone,  al  Coìigresso 
di  Berlino,  al  Coficlave,  ai  Partiti  aìiarchici,  alla  Co7i~ 
ciliazione ,  alle  Questioni  del  giorno  :  dal  Filebo  ,  dai 
primi  sei  libri  della  Metafisica  di  Aristotile  tradotti,  e 
dalle  Lezio7ii  di  Logica,  alle  centinaia  di  articoli  e  studi 
sparsi  su  tutti  i  giornali  di  Europa:  da  tutto  codesto 
noi  abbiamo  lo  svolgimento  di  un  moltiforme  e  ve- 
locissimo pensiero  che  trascorre  con  la  medesima  si- 


331 


carezza  e  competenza  dagli  argomenti  politici  ai  re- 
ligiosi, dalla  filologia  al  diritto,  dall'  estetica  alla  po- 
litica, dalla  storia  all'  educazione  ,  con  tale  agilità  e 
plasticità  d'  ingegno,  da  riconoscere  in  lui  più  e  più 
eruditi  del  Cinquecento  che  rivivano  moderni  ,  fusi 
insieme  in  un  solo  inesauribile  intelletto. 

Oh  qual  passo,  e  quanta  fecondità,  dal  suo  vecchio 
e  modesto  maestro  di  greco,  il  Margaris  ,  ai  geniali 
suoi  studi  su  Platone  e  Aristotile;  dall'acuto  suo  pro- 
fessore di  diritto,  il  Bavarese,  alle  dotte  sue  opere  in 
materia  di  politica  e  di  legislazione;  dal  suo  vigoroso 
insegnante  di  scienze  naturali  e  di  filosofia,  l'illustre 
e  ancor  vivente  Luigi  Palmieri  ,  alle  più  alte  specu- 
lazion  ideali  nella  scuola  rosminiana  e  manzoniana  ! 
Furon  passi  da  gigante,  come  proteiforme  fu  la  fecon- 
dità. 


Com'è  mai  possibile  dimenticare  e  non  aver  sempre 
presente  un  uomo  che,  come  porta  la  grazia  e  il  sor- 
riso e  l'arguzia  ne'  più  alti  salotti  mondani,  così  reca 
l'acredine  mordace  e  l'anelito  battagliero  nella  poli- 
croma e  sofistica  discussione  parlamentare;  che,  mentre 
all'estero  e  in  Italia  dirige  congressi  ,  promove  isti- 
tuzioni, inaugura  convegni,  presiede  tutte  le  associa- 
zioni, tutti  i  circoli,  tutti  i  meetings  ^  trova  anche  il 
tempo  a  correggere,  per  esempio,  le  bozze  di  Pla- 
tone, a  scriver  lettere  e  indirizzi  per  gli  orfani 
e  le  orfanelle  di  Assisi  e  di  Anagni,  a  preparare  ar- 
ticoli omnibus  a  riviste  nazionali  e  straniere,  a  entrar 
contemporaneamente  in  tutti  i  labirimti  della  chiac- 
chiera e  della  scienza  quotidiana,  religiosa,  politica, 
economica,   letteraria,   sociale  ? 

Come  si  può  mai  dissimulare  la  grandezza  di  un 
uomo  che  nel  corso  di  24  ore  fa  più  cose  diverse,  e 
dopo  aver  vegliato  la  notte  seguente  a  una  giornata 
di  continuo  lavoro,  viaggia  con  la  fresca  suppellettile 
de'  suoi  libri,  e  scrive  anche  in  ferrovia  articoli,  ap- 
punti, osservazioni;  che,  mentre  attende  a  minuscole 


332 


cure  domestiche  o  a  piccinerie  elettorali,  balza  subito 
a  improvvisar  discorsi  di  circostanza;  che,  infine,  come 
per  congegni  e  lambicchi  diversi,  distilla  sottigliezze 
ed  arguzie  e  verità  amare  come  da  una  perenne  sor- 
gente da  cui  scorrano  o  si  moltiplichino  tutte  le  acque 
e  tutte  le  correnti  ?  Ingegno  veramente  fenomenico  e 
universale,  che  potrebbe  anche  parer  leggendario.  Ma 
intanto  tre  grandi  cose  veramente  durevoli  egli  lascia 
legate  a  un  nome  immortale  :  la  fondazione  di  due 
Istituti  altamente  educativi  ed  umanitari  ,  quel  d'As- 
sisi e  quel  d'Anagni;  la  «  Società  Dante  Alighieri  », 
associazione  nobilissima  e  degna  veramente  di  un 
grande  patriotta,  per  la  conservazione  della  lingua  e 
della  tradizione  latina;  e,  come  dicemmo,  l'unità  della 
lingua  secondo  l'avviamento  manzoniano  verso  la  sem- 
plicità omogenea  della  parola  ,  per  liberare  il  nostro 
idioma  da  quegl'  impacci  e  da  quei  nodi  che  spesso 
ebbe,  all'infuori  dei  moltissimi  pregi,  la  vecchia  forma 
letteraria  classica. 

E  con  tutto  questo  ci  dette,  in  tempi  di  così  grande 
scadimento  intellettuale,  l'esempio  mirabile  di  uno  stu- 
dio e  di  una  cultura  veramente  superiore,  conciliata 
ad  un'intima  religione  del  sapere,  onde  egli  fu  il  più 
grande  degli  ultimi  nostri  che  seppe  all'  estero  im- 
porre riverenza  e  culto  al   nome  d'Italia. 


Ma  il  suo  principale  e  più  tenero  amore  fu  pei  con- 
vitti di  Assisi  e  di  Anagni  ;  e  come  Garibaldi,  negli 
umili  ozi  di  Caprera,  si  ridusse  a  vivere  come  un  ro- 
mano antico  neir  idillica  pace  dei  campi  ;  così  egli 
rasserenava  il  suo  spirito  in  quella  fiorita  di  orfani  e 
di  orfanelle  che  lui  chiamavano  padre,  ed  a  lui  tesero 
testé  le  mani  benedicenti.  V^iveva  sempre  in  mezzo 
ad  essi,  ma  più  si  piaceva  delle  orfanelle  di  Anagni, 
e  quivi  trascorreva  gran  parte  dell' ultima  sua  vita:  era 
commovente  il  vederlo  baciare  da  quel  tesoro  di  fan- 
ciulle orbate  di  padre,  ma  che  sapevano  di  trovarne 
un  altro  in    lui. 


333 


«  Papà  Bonghi  »  lo  chiamavano  tutte.  Nessuno  più 
di  lui  intese  e  protesse  la  missione  alta  del  maestro: 
nessuno  come  lui  approfondi  i  più  alti  problemi  della 
istruzione  e  della  educazione.  In  queste,  come  già  in 
tutte  le  cose,  ei  mirava  alto,  troppo  alto,  e  idealizzava. 
Desiderava,  su  l'esempio  dell'Inghilterra,  che  cono- 
sceva benissimo  e  a  cui  avrebbe  voluto  somigliasse 
in  ogni  cosa  l'Italia  ,  un'  istruzione  e  un'  educazione 
intimamente  nazionale,  aristocratica,  potentemente  in- 
spiratrice.  Ma  l'Italia  non  lo  ascoltò,  o  meglio  gli  rise 
in  faccia.  Come  ministro  ei  non  lasciò  molte  vive  sim- 
patie, ma  certo  la  sua  non  era  una  legislazione  sco- 
lastica bambagina  ed  inefficace;  la  voleva  alta,  fecon- 
dissima e  rinnovante.  Come  sarebbe  utile  oggi  vi  si 
ritornasse  ! 

Non  credo  possa  avere  per  molto  tempo  l'Italia  chi 
ne  colmi  il  vuoto.  Con  lui,  che  non  passa  nella  me- 
moria dei  superstiti,  manca  imo  che  fu  veramente  più 
che  un  uomo,  fra  tanti  e  tanti,  pur  vecchi,  che  forse 
non  sono  neppur  uomini,  e  che  son  passati,  o  certo 
passeranno,   prima  del  tempo. 

Salute,  o  nobile  italiano  ;  possa  1'  Italia  coglier  da 
te,  che  fosti  1'  ultimo  dei  grandi  rimasti  fra  gli  eroi 
del  pensiero,  oggi  che  è  il  mesto  giorno  de'  morti  e 
delle  memorie  ,  il  fiore  ,  non  della  morte  ,  ma  della 
ideale  e  morale  tua   risurrezione! 


II. 

Giacomo  Zanella. 


^'l  maggio  del  iS88,  nella  sua  patria  nativa,  morì 
^  1^^  l'abate  Giacomo  Zanella,  l'illustre  poeta  vicen- 
tino e  il  classicissimo  autore  della  Conchiglia 
Fossile  e  della  Veglia;  l'autore  delle  più  belle  traduzioni 
da  poeti  stranieri,  e  di  Astichello.  Morì  nella  placida  se- 
renità di  chi  ha  compiuto  la  sua  giornata,  senza  rumor  di 
rimpianti  e  senza  scalpore  di  camarille  letterarie,  quasi 
inavvertito:  morì  in  seno  a'  suoi  ,  fra'  cordiali  e  gen- 
tili vicentini,  ch'ei  tanto  amava.  La  sua  dipartita  la- 
sciò a  parer  mio  una  grave  lacuna  nella  letteratura 
contemporanea. 

Egli  fu  r  ultimo  fedel  rappresentante  del  neo-clas- 
sicismo guelfo,  rifatto  a  novo,  e,  come  sotto  clima  più 
sano,  animato  dalle  patrie  libertà  e  mescolato  alle 
più  mosse  e  fresche  correnti  della  cultura  moderna. 
Egli,  liberale  schietto  e  nobile  anima  di  patriota, 
fu  un  prete  un  cotal  po'  mondanetto,  fu  uno  scrittore 
classico  ed  erudito  quale  i  seminarii  veneti,  ancor  rifio- 
renti tra  la  filologia  del  Porcellini  e  lo  studio  intenso 
degli  antichi,  poteano  dar  fuori.  E  amò  la  patria  e  la 
libertà,  amò  1'  Indipendenza  Nazionale  ,  amò  l'Italia, 
colla  dolcezza  dell'  amor  suo  gentile  ,  aborrente  dal 
fluttuar  delle  passioni  e  de'  contrasti  umani;  e  proseguì, 
mitemente  sereno,  le  più  schiette  tradizioni  dell'arte 
antica,  senza  audacie  ma  con  purità  d'intendimenti, 
senza  impeti  e  ire  ma  con  profumata  morbidezza  di 
linee  e  colori,  in  poesie  c'han  volute  e  ondeggiamenti 
così  squisitamente  classici,  che  rimarranno  tra  le  più 
belle  cose  della  letteratura   nostra. 

Chi  limita  la  più  bella  lirica  dell'abate  Zanella  uni- 


335 


camente  a  due  odi,  la  Veglia  e  la  Conchiglia  Fossile, 
non  è  giusto,  né  onesto;  a  quella  guisa  che  non  può 
esser  sincero  chi  lo  dice  traìisigente  in  politica.  Ap- 
parentemente ,  certo  ,  lo  fu  ,  come  lo  fu  il  Manzoni 
cui  la  schietta  fede  religiosa  e  cattolica  non  tolse  di 
esser  poeta  e  liberale  insigne. 

Come  artista  e  poeta,  sentì  profondamente  le  bel- 
lezze antiche,  specialmente  latine,  e  nobilmente  le  rese 
nei  suoi  versi  che,  se  per  lo  più  senza  vita  e  senza 
passione,  son  belli  sempre  per  splendore  di  forma  e  per 
delicatezza,  quasi  muliebre,  di  affetti  e  di  sensi;  e  in 
ciò  ha  certi  contatti  —  salva  sempre  la  immensura- 
bile distanza  dell'ingegno  —  coU'autor  suo  prediletto, 
il  Manzoni. 

Spirito  candidamente  eclettico  ,  sentì  e  riprodusse 
poeticamente  la  scienza  contemporanea  ,  con  alata  e 
virginea  candidezza  d'inspirazioni  e  con  gradevole  pla- 
cidità  di  ritmo. 

Animo  liberale  ,  dovè  aborrire  dal  gesuitesimo 
e  dal  ringhiare  minaccioso  della  corte  papale,  e  così 
ei  fu  l'uomo  de'  tempi  novi,  de'  tempi  della  libertà  e 
della  costituzione  patria  cui  ,  pur  disobbedendo  a 
Pietro,  ricisamente  non  volle  negare.  Non  dee  dunque 
far  meraviglia  s'  egli  ,  poeta  e  patriota,  liberi  a  volo 
versi  squisitissimi  a  Vittorio  Emanuele  e  a  Pio,  e  se, 
morti  entrambi,   in    un'ode  sua  finisca   così: 

E  senil  man  levarsi 
Benedicendo,  e  palme 
Giungersi  a  palme,  e  l'alme 
In  Dio  baciarsi. 

E  a  questi  sensi  venne  informato  un  carme  suo  la- 
tino, da  lui  composto  nel  1887,  quando  parlavasi  d'una 
conciliazione  tra  il  Vaticano  e  il  Quirinale  ,  e  in  cui 
invitava  il  Papa  a  benedir   l'Italia. 

Noi  abbiam  pure  altri  obblighi  con  lui  per  le  tra- 
duzioni ch'ei  fece  fedelissime  dal  greco  e  dal  latino, 
dal  tedesco  e  dall'inglese,  dal  francese  e  dall'  ameri- 
cano. E  le  sue  traduzioni  ,  specie  dal  latino  ,  sono 
delle  più  belle  ,  delle  più  finite.   Peccato   che  ,    come 


già  il  Maflei,  non  ci  abbia  fatto  gustar  più  largamente 
la  poesia  d'oltr'alpe! 

Fu  anche  critico  e,  a  volte,  originalissimo  e  acuto; 
e  fu  dei  pochi  che  conoscessero  addentro  le  lettera- 
ture straniere,  delle  quali  è  un  grande  peccato  non 
ci  abbia  lasciato  de'  saggi  critici.  Ma  errò  spesso  nel  giu- 
dizio ch'ei  diede  delle  cose  nostre,  e  ciò  dipese  dal  sa- 
cerdozio che  assai  volte  lo  preoccupò,  e,  più  ancora, 
dal  troppo  mite  animo  suo,  che  rifuggiva  ,  come  ab- 
biam  detto,   dalle  passioni. 

Sentì  e  rese  la  natura  da  vero,  da  grande  artista, 
e  anche  con  certo  elegiaco  profumo  virgiliano;  e  l'ul- 
timo bell'esempio  che  ci  diede,  è  la  splendida  corona 
di  sonetti,  che  intitolò:  Astichello.  E  dopo  dato  un 
amplesso  alla  natura,  ch'egli  amò  tanto,  Giacomo  Za- 
nella, ultimo  glorioso  superstite  d'una  pleiade  di  neo- 
classici guelfi  ,  e  l'unico  vero  classico  ,  dopo  il  Car- 
ducci, che  a  noi  restasse  oggi,  ci  fuggi  dinanzi 
quale  colomba  dal  disio  chiamata  ,  placidamente  come 
visse,  e  senza  lasciare  accorger  l'Italia  ,  a  ben  altro 
intesa,  della  dipartita  sua.  Grave  davvero  per  chi,  di 
fronte  allo  scadere  dell'arte  nostra,  amò  nel  poeta  vi- 
centino, animo  pie  e  soave,  il  culto  vero  delle  clas- 
siche tradizioni,   greche  e  latine. 


i 


$ 


III. 

Felice  Cavallotti.  (*) 

MORTO  SU  l'arena  come  un  eroe  antico,  con 
(73  t^Vi»^  l'arma  formidabile  dell'ingegno  e  con  quella 
'i^^L^i.^  non  meno  temibile  del  braccio  :  la  sorte  av- 
versa, come  per  fatale  destino,  non  ha  più  voluto  ri- 
sparmiarlo alla  patria  ,  anzi  l'ha  crudelmente  trafìtto 
proprio  in  quella  bocca  da  cui  fluirono  sempre  fiotti 
veementi  di  passioni  e  di  pensieri  ,  come  i  fiotti  di 
sangue  che  lo   spensero. 

E'  morto  come  un  eroe  di  Eschilo  o  di  Sofocle  que- 
sto Cinegiro  dell'Italia  contemporanea  ,  che  somigliò 
tanto,  nel  pensiero  e  nella  vita,  a  que'  poeti  dell'an- 
tica Grecia  che  fra  un  inno  e  una  battaglia  cadevano, 
pieni  la  mente  e  il  cuore  di  nobili  visioni;  ed  egli,  il 
cantor  di  Tirleo,  di  Alcibiade  e  de'  Messeni,  egli  che 
ebbe  in  petto  tanta  poesia  ed  anima  ellenica  ,  non 
seppe  né  volle  disparire  dal  mondo  senza  gioventù  di 
pensiero,  senza  1'  impeto  e  la  poesia  delle  antiche 
battaglie. 

Natura  intimamente  greca  e  spirito  schiettamente 
pugnace,  nacque  troppo  tardi  perchè  la  virtù  sua  po- 
tesse diventare  feconda;  onde  quello  che  parve  difetto 
a  coloro  che  dell'  uomo  mirano  soltanto  1'  apparente 
debolezza  di  carattere  non  fu  altro  che  il  prepotente 
bisogno  di  espandere  la  propria  forza  ,  la  quale  fu 
veramente  grande  in  confini  di  azioni  o  di  circostanze 
che  spesso  furono  esigui  per  difetto  de'  tempi. 

Sia  che  davanti  avesse  un'  ombra  anzi  che  una  fi- 
gura, sia  che  volgesse  il  pensiero  a  un  più  alto  segno, 


(*)  Questo  medaglione  tu  pubblicato  nel  num.  del  13  Marzo  1S9S  del 
Foglietto  <ii  Lucerà  qualche  giorno  dopo  la  morte  dell'  insigne  patriota, 
ed  é  qui  riprodotto  integraiment>i  senza  alcuna  aggiunta  e  senza  alcun 
ritocco. 


338 


egli  era  sempre  su  la  breccia,  fortemente  agguerrito 
di  cultura  molteplice  e  di  fede  incontaminata  ne'  più 
santi  ideali  della  Nazione;  ed  anche  dove  a  molti  parve 
aver  egli  oltrepassato  i  limiti  del  giusto,  porto  sempre 
nell'anima  un  senso  puro  di  rettitudine,  ravvivato  da 
baleni  di  fulgida  ira  e  di  vergine  poesia.  Fu  in  lui, 
come  in  tutte  le  anime  riccamente  dotate  di  virtù  e 
di  sai)ienza,  un  feroce  dissidio  tra  la  conscienza  sua 
e  quella  dell'ambiente  politico  o  sociale  ,  pubblico  o 
privato;  e,  a  castigo  de'  malvagi  o  de'  vili,  credè  sin- 
ceramente esser  suo  dovere  lo  smascherarli  con  tutti 
gli  stili  e  con  tutte  le  arti  del  combattimento.  E'  na- 
turale che  a  queste  tempere  d'  ingegni  nati  per  la 
lotta  nel  bene,  manchi  spesso  il  senso  della  misura  e 
la  saggia  opportunità  delle  occasioni.  A  torto  un  diario 
della  capitale,  forse  mosso  da  personali  e  intime  ra- 
gioni, nel  recente  lutto  ha  detto  che  in  lui  non  fu 
pari  alla  grandezza  della  mente  la  bontà  del  cuore. 
Ebbe  cuore  di  forte  e  di  lottatore  ,  non  d'uomo  pa- 
cifico e  contemplativo;  la  sua  vita  fu  una  pugna  con- 
tinua, la  quale  apparve  come  un  bisogno  di  quell'animo 
e  di  quell'ingegno:  laonde  ogni  causa,  anche  piccola, 
che  a  lui  paresse  giust?,  ogni  uomo,  anche  oscuro,  che 
gli  sembrasse  nocivo,  ogni  lieve  e  anche  futile  offesa 
al  suo  amor  proprio  ,  erano  per  lui  scintille  di  com- 
battimenti, in  cui  si  lanciava  collo  stesso  ardore  col 
quale  si  batteva  per  le  cause  grandi.  Questo  il  suo 
difetto  e  insieme  la  sua  forza.  Ad  ogni  modo  ,  qua- 
lunque giudizio  si  possa  mai  portare  intorno  a'  lati 
anche  manchevoli  della  sua  vita,  questo  credo  resterà 
immutabile  nella  storia  :  ei  fu  soprattutto  un  grande 
uomo  di  azione,  un  vero  atleta  dell'ideale,  con  inge- 
gno prepossente  e  con  vasta  e  temibile  cultura:  spirito 
antico  redivivo  in  cuor  di  leone.  E  tutto  questo  è  an- 
che provato  dal  fatto  che,  non  ostante  le  verità  amare 
da  lui  dette  a  tutti,  ben  pochi  ebbero  così  universale 
e  spontaneo  suffragio  di  ammirazione  in  tutta  Italia  e 
fuori.  Tanta  virtù  in  tempi  migliori  avrebbe  esercitato 
nella  vita  italiana  una  influenza  assai  più  durevole  e 
feconda,  se  non  meno  gagliarda.  Certo  egli  valse  nella 


339 


politica  a  infondere  forza  e  vitalità  al  suo  partito,  e 
a  dar  movimento,  dentro  e  fuori  della  Cameia  ,  alle 
più  alte  e  più  difficili  questioni  morali  contro  uo- 
mini e  contro  cose. 

La  sua  vita  fu  complessa  come  la  sua  ricca  natura. 
Nel  '60  e  nel  '66  fu  insieme  con  Garibaldi  sui  campi 
di  battaglia,  e  questa  continuò  animoso  dal  '67  al  '73, 
fra  processi  e  duelli,  per  mezzo  della  stampa,  contro 
tutte  le  turpitudini  del  tempo  e  contro  le  instituzioni,' 
onde  fu  esule  in  Isvizzera,  e  poi  per  tre  mesi  in  car- 
•cere.  Come  deputato  seguitò  ancora  a  combattere,  e, 
se  non  fosse  morto,  neppur  vecchio  si  sarebbe  ritirato 
dall'agone.  Infierendo  il  colera  a  Napoli  nel  1884,  e  a  Pa- 
lermo nel  1885,  vi  accorse  intrepido  con  una  schiera  di 
volontari  toscani,  volendo  cosi  cementare  la  italianità 
del  Mezzogiorno  con  quella  del  Settentrione.  Anima 
essenzialmente  lirica  ,  infuse  ne'  drammi  e  ne'  canti 
patrii  la  stessa  passione  e  lo  stesso  accanimento  che 
spiegava  nella  lotta  di  tutti  i  giorni;  e,  se  per  manco 
■di  quiete  non  riuscì  perfetto,  si  rivelò  sempre  poeta, 
un  vero  e  sincenssimo  poeta  ideale  che  per  più  con- 
tatti parve  rendere  o  rinnovare  il  romanticismo  del 
Mìmeli,  del  Berchet  ,  del  Rossetti  ,  sur  un  fondo  di 
cultura  classicamente  greca.  La  sua  poesia  ,  special- 
mente quella  degli  anni  per  lui  più  tempestosi,  non  ha 
sempre  colla  varia  e  sobria  concinnità  della  strofe  il 
plastico  rilievo  e  la  determinatezza  organica:  vi  si  de- 
sidera spesso  più  pensata  levigatezza  di  forme  e  più 
sapiente  maestria  di  tecnica  ;  ma  ,  in  compenso  ,  ha 
sempre  impeto  ed  ala,  e  una  esuberante  vena  di  fan- 
tasia e  di  passione  ,  proprio  quello  che  manca  alla 
simbolica  barbarie  di  tanti  rimatori  odierni  ,  pur  ce- 
lebri. Ma  se  n'avesse  avuto  il  tempo,  avrebbe  certo 
raggiunto  la  cima  della  perfezione,  come  ce  ne  assi- 
curano molti  stupendi  frammenti  e  molti  squarci  di 
liriche  meravigliosamente  belli.  La  sua  prosa  poi,  spe- 
■cialmente  quando  è  un  pò  temperata  dal  lavorio  della 
lima  come  quella  che  scriveva  sino  a  dieci  anni  fa, 
è  limpida  e  perspicua,  agile  e  corrente,  con  impasto 
■di  classico  e  di  moderno,   e  non  senza    qualche  linea 


340 


di  fattura  greca.  Fu  ellenista  insigne  ,  cioè  dell'  arte 
greca  ebbe  un  fiuto  squisitissimo  e  un  fine  sentimento, 
e  seppe  mostrarlo  in  certi  saggi  che  pubblicò  a  dispetto 
de'  metri  barbari,  e  forse  meglio  ne'  drammi;  ed  ebbe, 
col  sicuro  intuito  di  ogni  cosa,  una  dottrina  molteplice 
e  salda  compenetrata  sempre  da  una  forte  passione  e 
da  una  idealità  tutta  sua.  Come  polemista,  fu  un  velite 
brillante  ,  insuperabile  :  forte  ,  indomito  ,  aggressivo, 
come  ne'  duelli.  Come  orator  parlamentare,  non  ebbe 
uguali  se  non  forse  quelli  dell'antico  parlamento  su- 
balpino, e  forse  di  lui  rimarranno  nella  storia  delle 
lettere,  con  diversi  canti  patriottici  e  con  alcuni  dram- 
mi, non  pochi  de'  moltissimi  discorsi  che  pronunziò 
alla  Camera  e  un  pò  da  per  tutto. 
Di  recente  in  un  album  aveva  scritto: 

E  più  s'abbuia  il  cielo 

[liu  chiaro  ti  discerno 

bel  sogno  del  passato 

marciando  all'avvenir  ! 

Che  il  cor  dà  il  tuo  sembiante 

all'ideale  eterno 

per  cui  mi  è  oscuro  Fato 

combattere  e  morir  ! 

Questi  versi,  che  chiudono  una  splendida  poesia  in 
morte  di  una  sua  figlia,  sembrano  un  vaticinio  della 
immatura  sua  fine  ! 

Tanta  luce  d'ingegno,  di  cuore  e  di  vita,  nel  vigore 
de'  suoi  56  anni,  si  è  spenta  improvvisamente,  dopo 
32  altri  duelli,  per  un  colpo  di  punta  e  per  mano  di 
un  oscuro,  di  Ferruccio  Màcola. 

Oh  !  s'egli  fosse  morto  come  Pindaro,  inneggiando 
alle  grandezze  della  Patria  ! 


IV. 
Gaetano  Trezza. 


3^  Pl^^o  precede  nel  sepolcro  ventisei  giorni  innanzi 
Ernesto  Renan.  —  Gaetano  Trezza,  per  ine- 
luttabile malore  che  da  più  anni  insistente 
lo  tormentava,  morì  il  28  ottobre  1S92,  in  Firenze, 
ov'  era  illustre  professore  di  letteratura  latina  in  quel- 
r  Instituto  regio  di  studi  superiori  e  di  perfeziona- 
mento: avea  soli  sessantaquattro  anni.  Già  cinque  anni 
innanzi  ei  mi  scriveva  che  un  perverso  mal  di  ven- 
tricolo lo  toglieva  agli  studi  prediletti,  ma  non  mi 
faceva  disperare  del  prossimo  suo  ritorno  alla  vita 
del  pensiero:  qualche  giorno  prima  della  morte  gli 
avevo  dedicato  un  mio  lavoro  sulla  morte  del  Re- 
nan; e  quando  ancora  da  lui  mi  attendevo  una  risposta, 
ch'era  sempre  un  pensiero  un  consiglio  un  conforto, 
me  ne  giungeva  improvvisa  1'  eco  dolorosa  della 
immatura  dipartita  che  mi  trafisse  il  cuore.  Dovè  pur 
troppo  essere  assai  acerba  a  quelli  che  ne  amavano 
e  seguivano  le  dottrine,  e  ne  adoravano  l' ingegno. 

* 
*  * 

Provocò,  libero,  animoso,  costante,  nel  campo  della 
cultura  scientifica,  un  gran  dibàttito  d'idee,  quali  favo- 
revoli e  quali  avverse  alla  scienza  sua;  ma,  dopo  il 
discorso  commemorativo  su  Giordano  Bruno  da  lui 
pronunziato  in  Roma  nel  giugno  1889  —  fu  1'  ultima 
cosa  sua  eh'  io  lessi  e  ch'egli  pubblicò  — ,  si  era  fatto 
grande  silenzio  intorno  a  questo  insigne  filosofo  ve- 
ronese, che,  non  ostante  le  invettive  degli  avversari, 
fu  in  Italia  g'"an  parte  del  movimento  positivo  nella 
scienza  di  quest'  ultimo  trentennio.  Fu  milite  e  apo- 
stolo, e  prosegui  di  tenace    alacrità    tutto  quello   che 


342 


dalle  sorgive  del  darwinismo  a  lui  pareva  si  dovesse 
derivare  in  ogni  ramo  delle  umane  discipline:  s'  inte- 
ressò d'arte,  di  religione,  di  critica  letteraria,  di  storia, 
di  tutto,  e  in  ogni  caso  mostrò,  anche  dove  fu  poco 
sobrio  o  nel  falso,  il  fecondo  e  geniale  suo  spirito  di 
polemista  e  di  pensatore. 

Qualcuno  lo  chiamò,  non  ingiustamente  a  parer  mio, 
il  Renan  d'  Italia:  ringhiarono  i  bòtoli,  ma,  con  le 
debite  distanze  e  differenze,  non  sou  pochi  i  contatti 
che  il  nostro  ebbe  col  grande  filosofo  francese;  l'uno 
e  l'altro,  spesso  procedendo  concordi,  si  riscontrarono 
qualche  volta  faccia  a  faccia  sul  medesimo  terreno  di 
combattimento.  Furono  sotto  alcuni  aspetti,  simiglievo- 
li:  simiglievoli,  ci  s'intende,  non  per  la  profondità  delle 
intuizioni,  ma  pe'  caratteri  sostanziali  onde  da  natura 
eran  disposti  a  studiare  i  grandi  problemi  della  scienza: 
entrambi,  ravvivati  da  un  grande  apostolato  e  mossi 
da  un  vivo  soggettivismo  ideale,  andarono  più  in  là,. 
varcarono  i  confini  de'  metodi  e  quasi  li  annebbia- 
rono, solleciti  e  premurosi  dell'  estetica  conciliata  alla 
scienza  nel  sovrano  olimpo  dell'  arte.  Furono  artisti 
e  poeti  veri;  ma  si  sviarono,  come  sospinti  da  una 
forza  che  m  più  spirabil  aere  li  traesse,  nel  paradiso 
delle  forme  e  in  certo  spiritualismo,  spesso  nebuloso 
nel  nostro,  della  propria  dottrina  di  positiva  ascen- 
dente quasi  a  metafisica.  Perciò  ne  esagerarono  il  con- 
tenuto, e  ne  sostituirono  le  lacune  con  un  eccesso 
quasi  trascendentale  d'  intellezioni  e  d'  intuizioni  per- 
sonali spesso  sfuggenti  al  misurato  tràmite  della  og- 
gettività. Ma  il  francese,  com'  ebbe  più  largo  campo 
nello  studio  delle  religioni,  così  anche,  meno  infervo- 
rato nelle  nuove  dottrine  sperimentali,  mirò  più  diritto 
alla  sua  meta,  e,  con  più  largo  corredo  di  ricerche  e 
d'indagini  proprie,  fu  profondamente  omogeneo,  equi- 
librato, geniale:  l'italiano,  evoluzionista  più  visceral- 
mente convinto,  sorpassò  di  troppo  i  confini  e  i  pos- 
sibili portati  della  scienza,  e,  meno  organico  e  più 
esclusivista,  toccò  le  rive  dell'  ateismo. 

Ma,  pur  ammesso  tanto  divario,    idealizzarono  en- 
trambi e,  se  mi  si  permetta  dirlo,  spiritualizzarono  le 


343 


proprie  dottrine,  e  divagarono  nell'arte.  II  Renan  fu 
un  positivista  un  po'  conservatore:  il  Trezza  fu  ^n 
positivista  radicale,  e  rappresentò  quasi  la  estrema  si- 
nistra della  filosofia;  e  i  suoi  studi  si  aggirarono,  seb- 
bene con  una  esegesi  molto  più  ristretta  e  con  un 
contenuto  storico  assai  meno  analitico,  intorno  a  sva- 
riatissimi  problemi,  molti  dei  quali  non  vennero  nep- 
pur  tòcchi  dal  grande  francese.  Ma  come  questi  fu 
il  gran  propagatore  della  scienza  delle  religioni  in 
tutto  il  mondo  e  insieme  l'apostolo  convinto,  il  Trezza" 
lo  fu  in  Italia  delle  dottrine  darwiniane  applicate  al- 
l' arte,  alla  filosofia,  alla  critica  estetica,  alle  religioni, 
a  tutte  le  manifestazioni  della  vita  moderna  ideale. 


Avendo  accennato  alla  natura  e  all'  indirizzo  scien- 
tifico del  nostro  filosofo,  molto  è  agevole  delinearne 
la  simpatica  figura  di  scrittore.  Fu  prete  e  insieme 
ardentissimo  oratore  sacro;  e  perciò  dalla  vita  sua 
religiosa  derivò,  anche  quando  si  convertì  alla  scienza, 
un  afflato  quasi  dommatico  e  una  forma  iridescente 
e  vaporosa,  nonché  certo  sentimentalismo,  certo  calor 
battagliero  che  dà  alla  sua  prosa  un  po'  d'  artifizio, 
un  ondeggiamento  spesso  tronfio,  un  rombo  quasi  fru- 
goniano  di  epiteti,  e,  infine,  un  fulgor  d'  immagini  e 
di  frasi  che  ricordano  1'  accademico  paludamento  del- 
l'oratoria sacra.  Ma  questi  difetti  ci  fanno  amar  lo 
scrittore  in  quella  così  luminosa  venustà  di  forme  an- 
che agghindate  onde  illustra  e  idoleggia  il  favorito 
soggetto,  al  quale  trascina  con  seduzione  fin'anco  il 
più  scettico  lettore.  Ha  la  grande  virtù  di  farsi 
leggere,  virtù  ben  ignota  alla  più  parte  de'  filosofi 
nostri,  de'  quali  ben  pochi  possono  stargli  accanto  per 
pregi  di  forma  e  di  stile.  Fu  polemista:  combattè  per  la 
scienza  sua  con  quell'istesso  accanimento  onde  parlava 
di  Dio  a'  fedeli  quand'era  prete,  e  quando,  democratico 
e  patriota,  fulminò  lo  straniero  con  parole  che  gli  val- 
sero l'onor  del  carcere  per  la  libertà.  Ed  è  proprio  vero 
che  i  rinnegatori  convinti  d'  una  fede  sono  i  più  ra- 


344 


dicali  e  ferventi  sostenitori  dell'  altra  che,  dopo  una 
grande  disillusione,  abbracciano  di  poi.  Chi  legge  le 
sue  mirabili  «  Confessioni  d'  uno  scettico  »  non  può 
non  sentire  i  brividi  che  induce  nell'  anima  il  fiero 
passaggio  da  una  fede  ad  un'  altra.  E'  un  bellissimo 
libro,  e  non  si  può  leggerlo  senza  commozione.  E'  la 
storia  vera  d'  una  grande  anima  in  pena.  E  perciò  fu 
indomito  apostolo  della  sua  nova  fede  scientifica;  ed 
è  naturale  che  questi  intrepidi  militi  del  vero,  che 
tutto  il  core  consacrano  al  loro  ideale,  nell'ardor  del 
combattimento  trasmodino  per  eccesso  di  fede,  quasi 
rompendo  le  dighe  dello  stesso  ideale  che  propugnano. 
Sono  i  grandi  utopisti  della  scienza,  ma  di  quella 
scienza  che  non  è  pura  ricerca,  ma  convinzione  fer- 
vente, quasi  religione,  e  che  perciò  si  converte  in 
pugilato,  in  arnese  di  battaglia.  In  ciò  la  grandezza 
vera  del  Trezza,  la  cui  opera,  a  preferenza  di  altre 
tante  anche  più  dotte  e  originali,  avvampò  di  con- 
venzione ne'  novi  veri  l'animo  di  quest'  ultima  gene- 
razione che,  per  cooperazione  specialmente  sua,  si 
convertì  all'  evoluzionismo.  Uno  di  questi  convertiti 
son  proprio  io,  e  perciò  adorai  sempre  quest'  uomo 
che  anche  mi  proseguì  di  quei  conforti  e  consigli  che 
non  isgagliardano  ma  solleticano  a  farsi  innanzi.  Que- 
sti operai  del  pensiero  non  solo  illuminano  la  mente, 
ma  educano  il  cuore:  sono  educatori  e  pensatori  a  un 
tempo. 


La  sua  operosità  fu  veramente  grande.  Nel  «  Lu- 
crezio »  e  neir  «  Epicuro  e  1'  epicureismo  »  ei  pre- 
sentì nell'antichità,  non  senza  qualche  paradosso,  gli 
antesignani  del  positivismo  contemporaneo.  E  furono 
le  prime  sue  cose  che  ne  fecero  levare  alto  il  nome 
fra  credenti  e  ribelli  ,  fra  seguaci  ed  avversari.  Con 
la  «  Critica  moderna  »,  il  suo  libro  d'  oro,  portò  in 
Italia  una  quasi  rivoluzione  scientifica  nell'  àmbito 
della  letteratura  ,  e  fu  il  primo  che  fra  noi  si  provò 
ad  applicare  la  grande  ipotesi  darwiniana  a'diversi   e 


345 


molteplici  fenomeni  letterari,  onde  la  critica  estetica  ne 
subì  una  vera  trasformazione  radicale;  è  un'opera  ori- 
ginalissima e  degna  di  studio  anche  dove  riesce  un 
po'  troppo  paradossale,  ed  è  pure  un  libro  d'arte:  le 
felici  intuizioni  su'  climi  storici  furon  quasi  una  ri- 
velazione. Col  «  San  Paolo  »,  che  è  il  libro  suo  che 
meglio  lo  avvicina  al  Renan,  studiò  profondamente 
le  ragioni  intime  del  delirio  religioso  ;  e  gli  tenne 
dietro  un  altro  preziosissimo  libro  :  Origini  delle  re- 
ligioni,  nel  quale,  con  una  erudizione  veramente  me- 
ravigliosa e  con  isplendido  intelletto  artistico,  di  sul 
vivaio  della  diversa  cultura  positiva  ,  riunì  e  organò 
in  corpo  di  solida  dottrina  tutto  quello  che  all'argo- 
mento si  atteneva  e  che  rifluì  da  sparse  ricerche  e  da 
parziali  studi  intorno  al  difficile  problema  delle  reli- 
gioni. Ne'  «  Saggi  Critici  »  e  in  altre  opere  minori 
mostrò  grande  penetrazione  e  un  originalissimo  in- 
tuito nello  studiare  il  meglio  dell'arte  contemporanea: 
pochissimi  meglio  di  lui  intesero  la  importanza  delle 
Odi  barbare  che  provocarono  una  vera  insurrezione 
d'idee  nel  campo  della  critica  letteraria.  Nel  «  Com- 
mento di  Orazio  »  si  fé  conoscere  insigne  latinista  e 
de'  maggiori:  lo  studio  ch'ei  fece  de'  metri  nelle  odi 
oraziane  è  de'  più  acuti  ,  eruditi  ed  originali  che  noi 
abbiamo,  e  gli  valse  lodi  da  illustri  filologi  tedeschi: 
era  codesta  tutta  materia  sua,  che  insegnava  con  onore 
nell'Istituto  di  studi  superiori  in  Firenze;  ma  da  essa, 
per  instintivo  bisogno  del  vero,  volle  risalir  sempre, 
anche  su'  classici  esemplari  che  avea  tra  mani  ,  alla 
investigazione  de'  più  astrusi  problemi  della  scienza. 
Fu  uno  de'  principali  cooperatori  alla  dottissima  «Ri- 
vista di  Filosofia  Scientifica  »  fondata  e  sempre  di- 
retta dal  Morselli,  e  alla  «  Rassegna  di  opere  scien- 
tifiche e  letterarie  »  fondata  dall'insigne  pedagogista 
Andrea  AngiuUi;  e  v'  ebbe  a  compagni  1'  Ardigò,  il 
Sergi,  il  Boccardo,  il  Canestrini,  l'Herzen,  il  Buccola 
ed  altri  grandi  scienziati.  Ora  queste  due  ottime  riviste, 
uscite  dal  cervello  e  dal  cuore  di  due  veri  scienziati, 
non  sono  più,  perche  gl'italiani,  ahimè,  non  son  mu- 
nifici e    generosi  per  la  cultura  veramente  superiore  ! 


>40 


Da  quello  che  abbiam  detto  è  chiaro  dedurre  quanto 
lume  di  svariata  dottrina  si  assommava  nell'anima  e 
nel  cuore  di  Gaetano  Trezza,  latinista  e  filologo  in- 
signe, erudito  luminoso  ,  critico  acuto  ,  filosofo  ge- 
niale, artista  e  apostolo  di  verità:  con  lui  disparve, 
della  precedente  generazione  che  anche  cooperò  alla 
grandezza  d'Italia  ,  un  dei  pochi  intelletti  superiori 
che  ci  fossero  veramente  rimasti:  chi  ne  colmerà,  via 
via,  i  vuoti  e  le  lacune  che  la  morte  ogni  anno  va 
inesorabilmente  producendo? 

Ricordiamolo,  o  giovani,  o  militi  dell'Italia  risorta, 
o  generazione  novella;  ricordiamolo  riconoscenti  e 
animosi,   ma  sempre  col   pensiero  rivolto   all'avvenire. 


<^S5#> 


Pietro  Siciliani. 


?opo  le  feste  commemorative  di  Pietro  Siciliani 
\a.  Firenze,  volli  aggiungere  poche  parole  ir>- 
Itorno  al  filosofo  e  al  pedagogista,  che,  sebben 
tardi,  non  è  inopportuno  pubblicare  qui.  (*) 

L'inscrizione  che,  a  lettere  d' oro,  leggesi  dinanzi 
al  busto  nella  cappella  gentilizia  del  rimpianto  filosofo 
in  San  Miniato  ,  ha  questa  linea  :  Inauguratore  della 
Pedagogia  Scientifica. 

La  iscrizione  potrebbe  parer  bella,  se  più  vera;  ma 
quando  trattasi  d'iscrizioni  onorarie,  il  più  delle  volte 
la  storia  è  serva  dell'  entusiasmo,  e  la  retorica  non 
manca  mai.  In  quanto  a  me,  avrei  consigliate  queste 
parole,  più  romanamente  efficaci:  A  Pietro  Sicilia7ii  — 
i  maestri  d''  Italia.  —  E  così  forse  si  sarebbe  evitato  di 
dare  un  tuffo  nella  esagerazione. 

Dunque  :   Inauguratore  della  Pedagogia  Scientifica. 

Non  mi  par  vero,  né  vi  si  acquieterebbero  i  più 
dei  positivisti  italiani  e  stranieri. 

11  Siciliani,  certo,  fu  grande,  ma  non  cotesta  fu  la 
grandezza  sua. 

Altri  prima  e  meglio  di  lui,  in  Italia  e  fuori,  inau- 
gurarono la  scienza  dell'  educazione.  Ed  eccone  al- 
cune prove. 

Negli  sgoccioli,  diciam  così,  della  scuola  classico  pe- 
dagogica, della  scuola  di  Erasmo,  di  Montaigne,  di 
Rabelais,  di  Loke  e  di  Rousseau,  di  Kant  e  di  Pe- 
stalozzi,  di  Basedow  e  di  Fròbel,  di  Gioberti  e  di  Ro- 
smini, di  Rayneri,  di  Aporti,  di  Lambruschini;  quando, 
cioè,  codesta  scuola  gloriosa  stava  per  dar    la   volta, 


(*)  V.    Avvenire    Educativo    di    Paleuiio  —  Cd.    R«iino   Sandron  — 
Direttore    Gabriele  Clabrif-lli  —  Annata  del  1888. 


348 


cominciò  a  venir  su,  come  dalle  sorgive  della  espe- 
rienza non  ancora  allor  darwiniana,  il  primo  abbozzo 
della  scienza  nova  della  educazione.  Ma  il  fatto  spe- 
rimentale avea  suoi  limiti  nella  esperienza  puramente 
razionale  ,  nella  logica  pura.  E  però  quando  ,  anche 
prima  di  Carlo  Daiwin,  il  fatto  sperimentale  cominciò 
a  scorgersi  anche  nello  studio  degli  esseri  inferiori  ; 
quando,  dopo  l'apparizione  della  Origine  della  Specie, 
la  Sociologia  seguì  via  via  lo  svolgersi  e  1'  esplicarsi, 
lungo  tutta  la  scala  zoologica,  del  concetto  dinamico 
della  evoluzione;  quando  fu  certezza  il  postulato  che 
l'uomo  fin  dai  suoi  stadi  embrionali,  non  fa  che  ri- 
fare il  cammino  della  specie;  fu  allora  che,  assai  pri- 
ma del  Siciliani  e  della  scuola  positivista  italiana,  co- 
minciò a  sorgere,  per  la  necessità  che  l'imponeva, 
nei  trattati  sperimentali  di  medici  e  zoologisti,  di  chi- 
mici e  antropologi  ,  in  Germania  e  in  Inghilterra  ,  la 
nuova  scienza  della  educazione,  la  quale  ha  una  fa- 
lange d'inauguratori,  come  quella  che  emerse  dall'  a- 
zione  collettiva  di  mille  scienziati  e  di  mille  indagini 
antropo -biologiche. 

Fu  Herbert  Spencer,  il  più  gran  filosofo  de'  tempi 
novi,  quegli  che,  ne'  Primi  Principi  e  nella  Introdu- 
zione allo  Studio  della  Sociologia,  ci  die'  come  le  linee 
maestre  e  fondamentali  d'  una  vera  Sociologia  educa- 
tiva; fu  lui  che,  innanzi  a  tutti,  inaugurò  splendida- 
mente il  grande  principio  :  la  educazione  dev'  essere, 
ed  è,  funzione  immediata  dell'  organismo  sociale,  a 
quel  modo  ch'essa  s'esplica  e  move  secondo  le  leggi 
dell'evoluzione.  E  ciò  prima  di  Alessandro  Bain  e  di 
Perez,  di  Badestock  e  di  Re?iouvier,  di  James  Sully  e 
d'altri  molti,   per  non  uscir  dal  territorio  straniero. 

In  Italia,  prima  e  meglio  del  Siciliani,  avea  lumeg- 
giato, su  per  le  riviste  e  ne'  libri,  il  problema  peda- 
gogico in  rapporto  alla  famiglia  e  alla  società,  un  al- 
tro pugliese  illustre,  il  Prof.  Andrea  Angiulli  della  R. 
Università  di  Napoli.  E  il  Prof.  Emmanuele  Latino  e 
il  Prof.  De  Dominicis  per  una  via,  e  il  Prof.  Sergi 
per  l'altra,  avean  gettato,  su  le  orme  sperimentali, 
luce  maggiore  e  più   nova  intorno  al    medesimo    prò- 


349 


blema;  e  nel  suo  libro  su  la  Paura  il  prof.  A.  Mosso, 
pur  fisiologo,  era  risalito  a  indagini  e  osservazioni 
originalissime  intorno  al  fatto  sperimentale  à.&W lìifan- 
zia.  E  così  altri  ancora. 

Il  Siciliani  ebbe  un  merito  grande,  anzi  in  Italia 
singolare  :  quello  d'  essere  stato  come  1'  inoculatore 
ne'maestri  italiani  della  febbre  pedagogica;  quello  di 
aver  avviato,  colla  parola  e  coli'  esempio,  la  vera 
Scuola  positiva;  quello  d'esser  stato,  meglio  di  tutti, 
anche  nella  cattedra  ,  il  vero  maestro  della  Scuola 
laica  e  nazionale.  E  questo  nobile  apostolato,  come  lo 
rende  benemerito  dei  maestri  italiani,  così  lo  racco- 
manda alla  memoria  de'  posteri.  Egli,  più  che  scien- 
ziato, fu  Educatore  ;  più  che  professore,  fu,  nel  senso 
antico  della  parola,  maestro  ;  più  che  novatore  di  si- 
stemi nuovi  o  di  dottrine  proprie,  fu  un  brillante,  e- 
clettico  assimilatore  degli  altrui. 

Ingegno  vigorosamente  meridionale,  avea  1'  animo 
espansivo,  e  così  ancora  le  facoltà  :  e  perciò  tutto 
che  da  noi  o  d'oltralpe  giungeva  a  lui,  egli,  ape  in- 
dustre,  raccoglieva  e  mettea  insieme  nell'  organismo 
della  dottrina  sua,  che  voleva  esser  conciliatrice  delle 
opposte  tendenze  filosofiche.  Non  sentiasi  però  la 
forza  d'  imbroccare  una  via  maestra,  e  di  seguirla 
sempre,  no.  Oggi  all'animo  suo  parea  schiudersi  un 
sentiero  ignoto,  e  giù  per  quella  via;  domani,  solle- 
ticato dalla  vegetante  rifioritura  di  una  vecchia  via, 
vedeasi  costretto  a  retrocedere,  come  doman  1'  altro, 
per  una  scorciatoia  ,  prendea  lena  a  farsi  innanzi. 
Nato  con  abitudini  metafisiche,  e  trasportato  a  sentir 
bene,  più  che  a  percepire,  le  dottrine  nove  e  posi- 
tive ,  Pietro  Siciliani  non  potè  avere  una  coscienza 
sicura,  e  divenne  come  il  caposaldo  del  giusto  mezzo. 
Ma  il  giusto  mezzo  —  me  lo  perdonerà  il  prof.  Tocco 
—  non  è  la  scienza.  E  così  il  filosofo  di  Galatina  ri- 
man  come  il  superstite  del  passato,  che  ancora  bran- 
cola tra  il  vecchio  e  il  nuovo,  e  morì  senza  aver  po- 
tuto aver  di  quest'  ultimo  una  intuizione  netta  e 
geniale. 

Così  fu,   a  parer  mio,  il  Siciliani.  —  E  però  noi  Ita- 


350 


liani,  che  tanto  ci  sentiamo  a  lui  legati,  non  possia- 
mo non  rammemorare  che  egli  delle  dottrine  nuove 
fu  gran  parte,  e  che,  assai  meglio  di  tutti,  ne  fu  l'a- 
postolo e  il   banditore. 

Unico  ed  utile  esempio,  in  tanto  vociar  di  retorica 
curiale  e  accademica,  che  avanzasse  all'  Italia  dell' 
antico  maestro.  E  non   fu  poco. 

Ricordiamolo  riconoscenti,   o  italiani  e  maestri  ! 


VI. 

Andrea  AiigiuUi.  (*) 

I. 


I  quest'illustre  pensatore,  non  è  guari  rapito 
yfjji  immaturamente  alle  scienze  filosofiche  e  alle" 
- -^^  pedagogiche,  par  che  la  stampa  autorevole, 
o  quella  che  va  per  la  maggiore,  appena  siasi  accorta: 
salvi  pochi  cenni  biografici,  qua  e  là  apparsi  sur  ef- 
femeridi scolastiche  che  non  vanno  per  le  mani  di 
tutti,  nessuna  grande  rivista  o  periodico  quotidiano, 
ch'io  mi  sappia,  ha  sin'ora  parlato  degnamente  di  lui, 
come  filosofo  e  pedagogista.  Neanche  in  alcune  grandi 
riviste  ho  letto  un  cenno  pur  fuggitivo  della  morte 
soltanto.  E  non  senza  accoramento  sempre  più  si  è 
spettatori  di  quell'inesorabile  oblio,  onde  vengon  fatti 
segno  uomini  anche  sommi,  quand'essi  non  si  dipar- 
tono dalla  scena  politica  o  da  alcune  fattizie  institu- 
zioni  dello  Stato. 

Ed  è  proprio  vero  che  la  filosofia,  questa  povera  e 
nuda  disciplina,  come  invocavala  il  Petrarca,  non  me- 
riti neppure  il  rimpianto  o  una  pia  ricordanza  pe' 
cultori  immortali  che  sonosi   fatti  macri  per  lei? 

Par  che  zXV Aìigiulli  sia  seguito  quel  che  al  Secchi 
nel  1878,  molto  il  primo  f'Oco  innanzi  ad  Amedeo  di 
Savoia  ,  e  il  secondo  ne'  recenti  lutti  di  Vittorio  E- 
mauuele  II  e  di  Pio  IX:  la  piccola  eco  della  lor  dipar- 
tita passò  come  inosservata  di  mezzo  alle  funebri 
commemorazioni  —  mi  si  perdonino  queste  brutte 
parole  —  del  trono  e  dell'altare. 

Eppure  Andrea  Aìigiulli  non  mori  come  Emilio  Lit- 
irè,  cui  negli  ultimi  istanti  il  cattolicismo  rapì  apo- 
stata alla  scienza  sua;   non    come  Augusto    Vera,  che 


(*)  Publilicato  nell"  oAvvenire  Educativo  di  Palermo.  —  Annata  flel 
1890.  —  Ediinre  Remo  Sandron.  —  Direttore  Gabriele  Gabiiell:. 


352 


chiuse  gli  occhi  tra'  conforti  della  religione:  mori  come 
Vittore  Hugo,  come  Terenzio  Mamiani,  come  altri  in- 
signi: morì  qual  visse,  lasciando  ai  giovani  non  pe- 
rituro documento  di  vita  e  di  opere;  né  il  rombazzo 
del  cattolicesimo  clericale  andò  movendosi  intorno  alla 
sua  bara  recente,  mormorando  nenie  d'oltretomba. 


II. 


Di  lui,  come  pensatore,  mi  proverò  a  dare,  come 
in  agile  profilo,  netta  e  determinata  la  figura,  ma  ne' 
limiti  da  questo  volume  consentiti. 

Andrea  Anginlli  è  come  conterraneo  di  Pietro  Sici 
liani,  cioè  l'uno  e  l'altro  appartengono  a  due  Provin- 
cie della  regione  pugliese:  quella  di  Bari  e  quella  di 
Lecce.  Entrambi  dalle  pure  e  rigide  speculazioni  filo- 
sofiche, passarono  alla  scienza  della  scuola,  alla  Pe- 
dagogia: entrambi  esercitarono  in  Italia,  per  vie  di- 
verse e  talvolta  anche  opposte,  una  grande  e  fecon- 
dissima influenza  sulla  scuola  italiana,  primaria  e  po- 
polare soprattutto:  entrambi  mossero  alfine  e  risolle- 
varono, con  iscrollamento  vigoroso,  i  maestri  elemen- 
tari verso  i  più  alti  ideali  dell'educazione  moderna. 


III. 


Egli  è  vero  che,  qualche  volta,  l'un  fu  in  apparenza 
come  aborrente  dalla  dottrina  dell'altro:  è  vero  che, 
pochi  anni  addietro,  alcuni  contrasti  o  torbide  anti- 
nomie di  dottrina,  che  sempre  sono  in  fondo  a  ogni 
metodo  o  scienza,  vennero  a  turbare  1'  asciutta  sere- 
nità della  lor  mente;  ma  salvi,  qua  e  là,  alcuni  ten- 
tennamenti o  indeterminazioni  della  disciplina  da  lor 
professata,  essi  si  riscontrarono  securi  nell'ideale  me- 
desimo e  nel  medesimo  apostolato  :  essi  furono,  in 
generale,  i  più  liberi  interpreti,  in  Italia  ,  della  cul- 
tura positiva  avente  per  fine  il  rinnovamento  della 
scuola  nazionale. 


Il 


u 
u 

<: 

N 

< 

cu 

O 
y 

S 

W: 


353 


IV. 


Il  Siciliani,  anima  ribollente  e  incuriosa  di  qualsiasi 
giogo,  intelletto  libero  e  pugnace,  assentiva  con  se- 
cura  e  facile  compiacenza  a  tutto  il  moto  che,  oltre 
Alpi,  andavasi  determinando  e  diffondendo  nel  campo 
della  scienza  positiva.  Raccoglitore  ecletticamente  in- 
dustre  delle  varie  parvenze  del  pensiero  europeo,  ne 
assommava  nell'anima  sua  d'  idealista  fervido  ed  en-, 
tusiasta  la  sintesi  suprema  come  in  un  connubio  d'una 
sola  e  universale  disciplina,  che,  non  sempre  francata 
dalle  esagerazioni  diverse  di  questo  o  quel  portato 
filosofico,  non  sempre  dispogliata  di  alcuni  anche  gravi 
errori  che  pur  rimangono  in  fondo  a  ogni  particolare 
speculazione  scientifica,  veniva  ad  assumere  in  Italia 
una  manifestazione,  nuova  sì,  ma  indeterminata  ed 
oscillante. 

Niente  di  tutto  questo  nell'  AngiuUi.  Il  quale,  spi- 
rito rigido  e  più  seriamente  organico,  miglior  disco- 
pritore del  reale  nelle  attinenze  diverse  tra  la  storia 
e  la  critica,  tra  il  divenire  del  fatto  psicologico  e  la 
trasformazione  e  mutabilità  dell'ambiente,  tra  gli  ele- 
menti informi  e  quelli  resistenti  ancora  al  clima  sto- 
rico, come  il  Trezza  direbbe,  dello  spirito  moderno, 
sapea  fondere  insieme,  in  una  visione  tutta  propria  e 
originale,  quel  che  delle  dottrine  diverse  meglio  si 
affaceva  al  metodo  suo,  alla  sua  ricerca. 

E  cosi  l'Angiulli  rimase  in  Italia  lo  scienziato  più 
armonico  e  più  integro  ne'  confini  della  Pedagogia 
scientifica.  Ed  esplorò,  sereno,  impassibile,  tenace,  non 
con  divinazioni  oltrepassanti  il  limite  del  conoscibile, 
come  Spencer  direbbe,  cioè  del  reale  storico  ultima- 
mente asseguito  dalla  ricerca  scientifica,  non  con  so- 
stitìdivi  ideali  intesi  a  colmar  le  lacune  della  scienza 
o  del  metodo,  ma  con  riposata  quiete  d'  animo,  con 
moderazione;  esplorò,  ripeto,  quel  dato  della  specu- 
lazione positiva,  che  meglio  rispondeva  alle  esigenze 
del  tempo  e  al  determinato  grado  o  ascendente  della 
evoluzione  sua.  Insomma,   come  i  grandi  filosofi  o  ri- 

23 


354 


cercatori,  tedeschi  e  inglesi,  discoprì  quel  tanto  che 
solo  fu  possibile  come  universalmente  accetto  nella 
filosofia  contemporanea. 

Non  che  ravvivò  la  scienza,  non  che  scoprì  in  essa 
orizzonti  nuovi  o  vie  inesplorate,  no,  ma  seppe,  con 
sapiente  e  mirabile  elezione,  derivare  dal  grande  la- 
vorio della  cultura  scientifica  moderna  quel  che  me- 
glio conferiva  a  render  la  ricostruzione  sua  più  or- 
ganica e  determinata,  come  metodo  e  come  ricerca. 

Seppe  in  altri  termini  conquistare  l'altrui,  e  dell'al- 
trui il  meglio,  ricreandolo  con  intuizione  originale  e 
propria  nella  coscienza  sua  di  filosofo,  non  eclettico 
e  sistematico,  ma  solidamente  ed  organicamente  spe- 
culativo. 

V. 

E  s'anco  è  vero,  come  credo  io,  che  l'idea  ha  bi- 
sogno d'  una  forma  gemella  colla  quale  essa  ci  si  va 
determinando  nella  mente,  questo  anche  trovo  nello 
stile  del  nostro  filosofo.  Difatti  chi  legge  le  opere  sue, 
e  specialmente  l'ultimo  volume  (La  filosofia  e  la  Scuola) 
che  dovea  darne  le  linee  ultime  della  sua  evoluzione: 
chi  legge,  ripeto,  ogni  scritto  del  celebre  filosofo  di 
Castellana,  si  sente  come  attratto  da  uno  spirito  fe- 
condamente rinfrescatore  ,  il  quale  aleggia  entro  uno 
stile  limpido,  uguale,  tranquillo;  e,  nella  correttezza 
e  italianità  della  forma,  che  non  sempre  trovi  nel  Si- 
ciliani  e  in  altri  nostri,  anche  fiuti  la  lucidezza  e  in- 
sieme la  profondità  del  pensiero,  dell'  analisi  e  della 
meditazione. 

I  ricercatori  più  propriamente  sperimentali,  quelli 
cioè  che  meglio  si  abbandonano  alla  ricerca  che  alla 
sintesi  ideale,  alla  disgregazione  che  alla  ricostruzione, 
alla  raccolta  industre  di  materiali  scientifici  tratti  da 
discipline  diverse  ed  affini,  che  alla  induttiva  e  dedut- 
tiva derivazione  psicologica  interiore;  tutti  questi  ri- 
cercatori, vo'  dire,  si  riscontrano  bene  con  i  nostri 
storici  della  Letteratura,  anche  attesi  troppo  esage- 
ratamente alla  pura  e  rigida  ricerca  e  assai  poco  alla 


355 


ricomposizione:  si  riscontrano,  ripeto,  anche  in  que- 
sto, che  scrivono  pedestri  e  barbaramente  scorretti, 
con  poca  o  nessuna  chiarezza  e  con  aridità  mortifi- 
cante: parrebbe  che  quella  materia  ancor  greggia  e 
materialmente  rude,  anche  si  conciliasse  colla  rudezza 
della  forma  e  —  perchè  non  dirlo?  —  del  pensiero. 
L'  Angiulli  invece,  come  pochi  nostri  e  come  in  ge- 
nerale gli  scienziati  francesi,  pur  tenendo  conto  di 
que'  materiali,  ricostruisce,  e  ricostruisce  bene,  e  in 
ciò,  ch'è  il  temperamento  vero  del  filosofo  vero,  egli 
anche,  forse  senza  addarsene,  si  mostra  scrittore  pur- 
gato e  corretto  se  non  sempre  elegante:  scrive  certo 
meglio  di  alcuni   bozzettisti  e  romanzieri  del    giorno. 

VI. 

Questo  r  Angiulli.  Forse,  come  ammiratore  entu- 
siastico del  reale  filosofico,  come  inoculatore  e  pro- 
pagatore degli  alti  veri  della  scienza  moderna,  gli  va 
innanzi  il  Siciliani,  che  virilmente  educò,  in  questi 
ultimi  tempi,  tutta  una  generazione  di  maestri,  de- 
viandoli sensibilmente  dalla  vieta  tradizione  meccanica 
della  scuola  e  dell'educazione  antica;  ma,  come  scien- 
ziato e  filosofo  intero,  come  fedele  interprete  della 
scienza  moderna,  lo  avanza  di  mille  tanti.  E  per  aver 
meglio  affinato  l'ingegno  cogli  studi  che  fé'  in  Ger- 
mania, la  terra  classica  della  filosofia,  e  un  tempera- 
mento più  omogeneo  e  un  più  armonico  e  sereno  in- 
telletto, non  si  lasciò  trasportare,  come  il  Siciliani, 
dalla  rapina,  dirò  così,  delle  tante  dottrine  che  sor- 
sero e  si  svolsero  sul  tronco  del  metodo  positivo; 
però  entrambi  attinsero  largamente  alle  fonti  della  fi- 
losofia sperimentale,  ed  entrambi  venner  mossi  dal 
medesimo  impulso,  quello  di  rinnovare,  con  impavido 
coraggio,   la  scuola  della  propria  nazione. 

VII. 

Così  ho  io  intese  e  seguite  le  diverse  manifesta- 
zioni filosofiche  di  quest'insigne  filosofo  pugliese,  che 


350 


non  isdegnò  circondarmi  di  consigli  e  di  incoraggia- 
menti, e  che  tanto  rai  rincorò  a  fare  e  a  proseguire. 
A  lui  spetta  un  luogo  luinÌ7ioso  fra'  migliori  intelletti 
della  nazione  in  quest'ultimo  trentennio;  e  chi  ne  ha 
studiato  con  sereno  animo  le  opere,  come  si  dorrà 
della  repentina  e  immatura  disparizione  di  un  così 
acuto  ingegno,  così  dee  cercare  in  lui,  meglio  che 
in  altri  egregi,  le  mosse  e  la  inspirazione  nel  culto 
della  disciplina  da  lui  così  nobilmente  professata. 

Neir  opera  Lo  Stato,  la  Famiglia  e  la  Scuola,  dì 
mezzo  ai  clamori  del  clericalesimo  ignorante,  oppose 
al  beato  servilismo  d'  ideali  vecchi  e  cadenti,  la  ri- 
forma della  scuola  nazionale  sopra  solide  basi  mo- 
derne, e  su  le  ruine  del  vecchio. 

Al  ringhiare  impotente  della  frolla  e  anemica  so- 
cietà napoletana,  che  raccogliea  nel  domo  di  S.  Gen- 
naro le  inspirazioni  e  le  idealità,  religiose  e  civili, 
rispose  col  proseguire,  impavido  e  sereno,  noncurato 
professore  dell'Ateneo,  su  la  via  della  scienza  posi- 
tiva, il  suo  nobile  apostolato  di  educatore  e  maestro. 
Avvertì  il  bisogno  di  risvegliare,  presso  noi,  un  vivo 
focolare  di  cultura  positiva,  e  primo  nell'Italia,  nella 
terra  di  Bruno  e  Campanella,  di  Vico  e  Romagnoli,, 
lanciò  nell'agone  scientifico  per  più  e  più  anni,  la  sua 
Rassegna  di  opere  filosofiche,  scientifiche  e  letterarie,. 
la  quale,  poco  di  poi,  venne  seguita  dalla  Rivista  del 
Morselli. 

Dopo  aver  pubblicato  1'  ultimo  suo  volume,  la  più 
bell'opera  degna  di  lui,  la  Filosofìa  e  la  Scuola,  e  dopo 
aver  lasciato  il  verbo  di  fede  della  sua  scienza  fra. 
non  pochi  discepoli  degni,  chiuse  immaturo  gli  occhi 
alla  luce. 

Ecco  come  si  assomma  la  vita  del  nostro  filosofo,, 
che  visse  e  meditò  combattendo  ed  educando. 


Vili. 


Ma  —  dicono  alcuni  —  perchè  l'AngiuUi  non  ebbe 
quel   lampo  di  popolarità  e  di  ammirazione  universale 


3  57 


che  prosegui,  in  suo  vivente,  il  rimpianto  filosofo  di 
Galatina? 

Ecco.  Io,  che  conobbi  di  persona  l'AngiuUi,  e  che 
instintivamente  l'amai,  so  eh'  egli  era  un'  anima  sin- 
ceramente e  candidamente  schiva  e  modesta,  deside- 
rosa di  pace  e  di  quiete,  rifuggente  dalle  pubbliche 
lodi  e  dagli  accattati  entusiasmi,  tutta  chiusa  nello 
studio  e  nella  meditazione.  —  Così  l'Angiulli  fu  come 
appartato  da  quella  plejade  di  scrittori  e  filosofi  an- 
che celebri,  che  continuarono  1'  opera  loro  su  verdi 
sentieri  e  in  mezzo  a  nimbi  di  fiori;  egli,  tacito  e  inos- 
servato, segui  per  la  sua  via;  e  gli  onori  non  li  cercò, 
né  li  attirò  all'  amo  della  sua  gloria:  gli  ebbe  non 
chiesti  né  procurati.  —  Perciò  egli  ci  rimane  ancora 
quel  che  dicesi  un  carattere,  cioè  un  uomo  onesto,  un 
galantuomo,  un  cavaliere:  e  non  fu  poco  in  tanta  bas- 
sezza di  tempi  falsi  e  servili. 

IX. 

Infine  come  1'  Ateneo  napolitano  perde  un  profes- 
sore insigne  che,  colla  facile  e  limpida  parola,  infor- 
mava alla  scienza  nova  una  gioventù  di  promettenti 
cultori,  così  r  Italia  rimpiangerà  uno  dei  più  illustri 
e  liberi  propagatori  di  quelle  scienze  che,  oggi  o  do- 
mani, abbatteranno  del  tutto  il  giogo  del  vecchio 
domma  o  della  vecchia  metafisica. 

Morì  sulla  breccia,  come  un  eroe  antico:  mori  sul- 
r  aprirsi  dell'  ultimo  decennio  di  questo  secolo  così 
fortunoso  e  così  grande;  morì  nell'Olimpo  della  scienza, 
reduce  da  Roma,  ove  venne  primamente  colpito  da 
quel  morbo  che  doveva  ucciderlo;  da  Roma,  ove  erasi 
recato  a  compiere  nel  Ministero  della  Pubblica  Istru- 
zione il  suo  dovere  di  Educatore  e  di  Italiano. 


VII. 


Diego  Yitrioli.  <*) 


I. 


Pi 


mi 


ANTi  mai  in  Italia,  anche  fra  quelli  che  più 
sono  in  voce  di  critici  e  di  artisti,  conoscono 
pur  di  nome  Diego  Vitrioli,  l'insigne  latinista 
calabrese?  e  quanti  in  Italia,  in  quest'ultimo  scadere 
del  secolo  decimonono,  si  recano  a  pregio  d'ingegno 
il  dar  vita  a  fantasie  originali  nelle  classiche  forme, 
greche  e  latine?  e  quanti  poi  son  quelli  che  sanno 
intendere  bene  ,  oggi,  un  esametro  di  Lucrezio  o  di 
Virgilio  ? 

Ciò  eh'  io  sostengo,  è  propriamente  questo:  i  più 
in  Italia,  anche  fra  quelli  che  scrivono  più  spesso, 
non  hanno  veruna  intelligenza  della  lingua  e  dello 
stile  negli  esemplari  greci  e  latini,  né  sanno  coglierne 
lo  spirito  interiore  nella  plastica  varietà  delle  forme, 
né  san  fiutarne  le  riposte  bellezze  con  opportuni  ri- 
scontri: il  criticismo  filologico  ,  che  in  fondo  vien 
risolvendosi  in  disamine  di  puro  e  meccanico  morfo- 
logismo  d'  elementi  sterili,  tende  a  dissociar  sempre 
più  il  gusto  degli  studiosi  da'  vivi  contatti  de'  classici 
nostri.  E  pure  il  ritornare  alVantico,  sentenza  troppo 
ridetta  ma  da  nessuno  o  da  pochissimi  intesa,  sarà 
sempre  il  bisogno  ideale  di  un  popolo  che,  su  l'e- 
sempio de'  maggiori  suoi,  vorrà  realmente  e  degna- 
mente rinnovarsi.  Il  grido  della  Nazione  italiana  non 
sarà  mai  quello  de'  giovani  licealisti  napoletani  di 
parecchi  anni  fa:  Morte  a  Senofonte,  né  l'ideale  nostro 
sarà  quello  di  ricercare  se,  in  tempi  sì  diversi,  valga 
dimostrare  inopportuno  lo  studio  del  latino.  Crediamo 


(*)  Pubblicato  il  189i)    nella    Biblioieca  Je'le  Scuole  Italiane  diretta 
dal  Pi-of.  Giuseppe  Pinzi. 


.59 


di  affermar  grandi  cose  mentre  sarebbe  molto  oppor- 
tuno l'accorgerci  che  è  indizio  di  decadenza  il  divel- 
lere dalla  nostra  coscienza  la  tradizione  classica  e 
quello  spirito  di  conservazione  che  nessuna  dottrina 
meglio  delle  sperimentali  ed  attuali  dimostra  neces- 
sario e  immanente  alla  evoluzione  di  qualsiasi  idea  e 
di  qualsiasi  civiltà. 

Ma  parliamo  del  Vitrioli. 

II. 

Quest'  illustre  latinista  reggino  è,  dunque,  quanto 
in  Italia  men  noto  tanto  più  celebre  all'  estero,  ove 
gli  studi  classici,  se  non  sempre  proseguiti  con  opere 
originali  fatte  nelle  lingue  morte,  son  certo  assai  bene 
intesi.  Il  Vitrioli,  anima  fervidamente  sensibile  e  na- 
tura intimamente  classica  ,  appartiene  alla  plejade 
degli  umanisti  che  s'onorano  co'  nomi  di  Fracastoro, 
di  Flaminio,  di  Vida,  di  Sannazzaro,  di  Fontano;  ed 
è  l'unico  umanista  che,  nella  metà  seconda  di  questo 
secolo,  abbia  avuto  1'  Italia  da  comparare  a'  grandi 
del  400  e  de'  secoli  di  poi  ;  che  anzi  e'  ti  sembra 
uomo  d'altri  tempi  in  opere  le  quali,  come  sono  abor- 
renti dalla  popolarità  della  facile  letteratura,  cosi  non 
ti  pajono  adatte  a  trovar  diffusione  e  fortuna  mercan- 
tile a  chi  le  ha  date  in  luce.  Di  fatti,  qual  mai  rivista 
odierna  pubblica  scritti  del  Vitrioli?  e  quale  ne  parla? 
e  qual  mai  casa  editrice,  in  edizioni  più  o  meno  el- 
zeviriane, ne  fa,   come  dicesi,   la  reclame'? 

Il  Vitrioli  è  uno  spirito  singolarmente  solitario  per 
quanto  libero  e  gentile:  come  ideale  domestico  ,  ha 
la  patria  sua,  Reggio  di  Calabria,  di  dorè  non  si  move 
mai  per  volgere  più  in  là  lo  sguardo  su  per  una  più 
vasta  distesa  di  terre  e  di  marine.  Tutto  chiuso  negli 
studi  suoi,  onorato  e  amato  da'  conterranei  ,  cono- 
sciuto e  ammiratissimo  all'  estero,  e'  si  piace  della 
solitudine  per  revocare  nell'anima  sua  di  poeta  quel 
mondo  sereno  di  fantasie  e  di  miti  ellenici  che  la 
greca  fenice  de'  lidi  nativi  gli  richiama  a  quando  a 
quando    nella  mente.   In  quel  confine  Calabro  che  ha 


36o 


come  termine  l'Italia  e,  di  rincontro,  la  costa  sicula, 
in  quella  terra  promessa  di  memorie  e  di  fantasmi, 
vi  è  tutta  una  poesia  di  leggende  o  di  miti  antichi  , 
vi  è  tutta  una  sorgente  di  umanesimo  greco  che  non 
può  non  esser  risognato  e  vagheggiato  da  chi  conosce 
quella  vita  e  quell'istoria.  Fra  que'  monti  e  su  quelli 
scogli  ,  fra  Lipari  caliginosa  e  Didime  e  Termessa, 
fra  i  gioghi  di  Kricòde  e  il  Peloro  e  la  riviera  sicula, 
lo  spirito  sereno  de'  greci  intravide  o  sorprese,  con 
purezza  e  venustà  di  sensi  umani,  un  popolo  di  fan- 
tasie e  di  leggende:  il  revocar  quelle  memorie  del- 
l'antico culto  nella  storia  ancor  viva  de'  luoghi,  può 
essere  indizio  d'inspirazione  non  antica,  ma  moderna, 
anzi,  recente. 

IH. 

E  tutto  questo  ottiene  il  Vitrioli  nell'  opera  sua 
maggiore,  lo  Xifia  (*),  poemetto  latino  premiato  dal 
Reale  Istituto  Belga  di  Amsterdam.  Quante  volte  ri- 
leggo, il  che  mi  avviene  spesso,  questo  elegantissimo 
poemetto  latino  ,  sempre  mi  ricordo  di  un  vecchio 
mio  maestro,  un  prete,  che  primo  me  lo  fé  conoscere 
e  gustare:  dolce  n  è  la  memoria.  E  anche  ripenso  a' 
be'  giorni  che,  nella  scuola  di  questo  prete,  venivamo 
in  gara  a  bella  prova  di  latino  ,  non  senza  alcune 
nerbate  che  scoppiettavano  tra  un  esametro  e  l'altro, 
eh'  era  un  bene  di  Dio  !  Quel  eh'  io  trovo  in  questo 
poemetto,  è  ciò  che  noi  moderni  diciam  Vanima  delle 
cose:  è  certo  senso  vivido  e  plastico  della  natura 
vergine,  è  certa  freschezza  palpitante  d'imagini  vive 
e  colte — con  icastica  storica — dalla  visione  de'  luoghi; 
è  infine  certa  pagana  reminiscenza  delle  antiche  fan- 
tasie elleniche  ringiovanite  coli'  intimo  senso  della 
realità  vivente.  E  questo  non  è  meno  moderno  di  quel 
che  ammiriamo  nelle  Odi  Barbare,  almeno  per  certa 
fusione,   in  un  panteismo  storico  e    cosmico,  dell'ele- 


(*)  Reggio  di  Calabria.  Voi.  I  delle  opere  scelte  di  D.  Vitrioli.  18S9, 
presso  la  libreria  di  D.  D'Angelo. 


301 


mento  psicologico  e  del  naturale,  senso  e  colore.  E 
il  ritmo  latino  procede  così  ben  fuso  col  metro,  e 
con  sì  varia  peregrinità  di  forme,  che  il  poeta  non 
mi  par  così  musicalmente  virgiliano  eh'  io  ,  qualche 
volta,  noi  riscontri  con  Lucrezio  e  con  altri  antichi, 
come  Catullo,  Orazio.  E  la  novità  di  questo  carme?i 
è,  più  ch'altro,  nella  tenuità  dell'argomento:  la  pesca 
del  pesce  spada.  Come  un  argomento  sì  semplice 
possa  al  poeta  dare  il  volo  a  bellissimi  episodi,  non 
par  possibile;  e  pure  il  Vitrioli  ottiene  tutto  questo 
con  ispontaneità  mirabile  e  con  ispirazione  non  vo- 
luta ,  non  cercata.  Il  poemetto  è  diviso  in  3  parti, 
intitolate  dal  nome  di  tre  Grazie:  Aglaja,  Talia,  Eu- 
frosine.  Nella  prima  parte  (Aglaja)  si  descrive  ,  con 
evidenza  pittorica  meravigliosa  e  con  senso  moderno, 
la  pesca  che  del  pesce  fanno  i  marinaj  reggini,  e  la 
descrizione  mette  capo  al  mirabile  episodio,  —  una 
classica  fioritura  virgiliana  nello  stil  dell'Eneide,  — 
della  Fata  morgana.  La  seconda  parte  (Talia)  è  tutta 
un  episodio  ove  si  ringiovanisce  nella  poesia  de'  luo- 
ghi la  mitica  fantasia  di  Glauco.  Scilla  e  Circe.  La 
terza  (Eufrosine)  è  alfine  uno  stupendo  convivale  ove 
alcuni  de'  pescatori,  assisi  intorno  al  pesce  come  in 
àgape  fraterna,  narrano  e  descrivono  la  lor  valentìa 
e  i  pericoli  della  pesca  pe'  mari  lontani,  dall'  Eliade 
alla  Britannia  e  a'  Paesi  Bassi,  e  insieme  la  vita  di 
tanti  altri  pesci,  di  tanti  altri  luoghi  corsi  e  osservati, 
facendo  rivivere  tutto  un  passato  di  memorie  e  di 
sogni  ,  e  rinfrescando  il  bellissimo  ricordo  di  Saffo 
e  di  Paone;  e  questa  terza  parte  alfine  si  chiude  con 
la  trionfale  apostrofe  ultima  colla  quale  Meronte, 

qui  munere  divae 

Indigenae,  Xiflam  trifldà  mactaverat  hastà, 

inaugura  a  Scilla  divina  il  trofeo  del  pesce  da  lui 
mortalmente  colpito  nel  dorso  con  trisulca  punta. 

Questo  il  celebre  carme  del  Vitrioli,  il  quale  incom- 
parabilmente anche  lo  traduce  in  isciolti  ;  e  giova 
anche    ricordare    la   bella  ed  elegante  traduzione  che 


302 


ne  die  V  onor.  Michele  Ceppino,  più  volte  Ministro 
dell'Istruzione  in  Italia. 

Molte  altre  opere  latine  die  in  luce  il  Vitrioli:  no- 
tevolissime fra  queste  le  Elegie  latine  e  le  Elegie 
pompeja7ie  in  distici,  alcune  delle  quali  vennero  pub- 
blicate dal  Perosino,  nel  Barelli.  Ma  l'opera  sua  mag- 
giore, anche  a  giudizio  dell'autore,  riman  sempre  lo 
Xifia  ;  e  sarebbe  utile  che  qualche  Antologia  latina 
non  trascurasse  di  offerirne  a'  giovani  come  saggio 
di  classica  eleganza  qualche  importante  frammento, 
come,  ad  esempio,  la  descrizione  della  pesca  o  l'epi- 
sodio della  Fata  morgana  della  parte  prima  (Aglaja). 

Era  un  debito  di  noi  italiani  il  parlare,  oggi  che 
con  nuove  correzioni  ritorna  in  luce  con  tipi  nuovi, 
di  questo  poemetto  prezioso,  documento  a'  giovani 
italiani  che  ,  nella  terra  di  Cicerone  e  di  Virgilio, 
anche  in  tempi  come  i  nostri  ,  non  manca  qualche 
singolare  e  peregrino  esempio  vivente  della  nostra 
grande  arte  antica,  non  foss'  altro  ,  come  antidoto 
alle  ingiurie  che  ci  fanno  gli  stranieri  dotti  i  quali 
cercano  storicamente  dimostrare  nientemeno  che  la 
oscurazione  delle  stirpi    latine  ! 


exrn--^^^^ 


vili. 

Enrico  Neiicioni. 


JORI  giovane,  a  56  anni.  Era  egli  nato  il  1840 
in  Firenze,  ove  quasi  sempre  visse  ed  ebbe 
offici,  ed  ove  immaturo  e  quasi  inavvertito 
disparve  il  27  agosto  1896.  Non  a  Firenze  veramente, 
ma  morì  ad  Antignano,  presso  Livorno.  Visse  sobrio 
e  modesto,  né  la  patria  gli  largì  alte  cariche  ed  o- 
nori  :  fu  solamente  professore  di  lettere  italiane  all' 
Istituto  normale  femminile  superiore  di  Firenze,  e  am- 
mirato scrittore  di  riviste  :  la  più  parte  della  vita  la 
consumò  studiando  e  adorando.  Ma  quanto  di  lui 
ci  venne  meno,  per  manco  di  alimento  e  di  clima,  e 
d'aere  e  di  luce  intellettiva,  che  dovevano  venirgli 
da'  tempi  !  Peccato  !  Ei  non  si  svolse  e  non  si  esaurì, 
e  morì  giovane  d'età  come  sempre  fu  giovane  di  pen- 
siero. In  questi  ultimi  anni  lo  spirito  suo  taceva,  o 
almeno  non  si  manifestò  più  nella  stampa  periodica  : 
il  momento  suo  più  fecondo,  la  sua  vera  primavera, 
si  schiuse  e  fiorì  tra  il  '79  e  l'SS,  in  quello  che  parve 
un  novo  rinascimento  italiano  nelle  lettere,  e  che  si 
fuse  o  s'incastrò  nel  periodo  bizantino,  il  quale  fu  la 
svariata  fecondazione  sommarughiana.  Fu  il  tempo 
delle  Poesie  e  de'  Medagliorii. 

Egli,  in  Italia,  fu  il  più  accolto  e  applaudito  rap- 
presentante del  femminino  nell'  arte  e  nella  critica, 
onde  la  sua  prosa  meglio  piacque  alle  dame;  e  1'  a- 
nimo  suo  si  aprì  sempre,  almeno  esternamente,  gen- 
tile come  un  fiore,  e  fresco  e  sereno  come  un  mattino  di 
aprile:  avea  sempre  una  carezza  per  tutti  e  per  tutte 
le  cose,  una  dolce  carezza  che  parve  blandimento 
mondano  e  garbo  di  eleganza,  e  fu  invece  tenerezza 
di  cuore  e  soavità  di  costume;  ma  pure  internamente 
ebbe  spesso  baleni  di  passione  e  fulgori  di  sentimenti 
in  tempesta  quando  era  a  contatto  della  grande    vita 


564 


riflessa  dall'arte.  In  quella  ideale  accensione    dell'  a- 
nima  sua,   non  era  più  lui. 


Fu  come  il  De  Sanctis  un  grande  adoratore  e  so- 
gnatore della  bellezza.  —  Ma  il  napoletano  impresse 
nella  critica  nostra  un  solco  più  profondo  e  pene- 
trante di  genialità  estetica;  non  cosi  il  toscano  che 
meglio  riuscì  a  idealizzare  con  improvviso  spirito  di 
ammirazione  tanta  parte  dell'  arte  straniera  nella 
quale  più  del  meridionale  fu  certo  versato.  Anima 
candida  e  verginalmente  aperta  a  tutte  le  idealità,  di- 
venne in  letteratura  più  squisitamente  e  intimamente 
poeta  che  non  in  rima  :  i  suoi  Medaglioni  son  più 
poetici  delle  stesse  sue  Poesie  di  cui  meno  si  piac- 
quero i  più  caldi  ammiratori  di  lui.  Fu  in  critica 
quello  che  oggi  direbbero  un  impressionista  :  fu  il  vo- 
luttuoso crociato  d'  ogni  cosa  grande  e  gentile  nelle 
moltiformi  manifestazioni  dell'arte  e  della  poesia  mo- 
derna, nostrana  e  straniera.  E,  come  i  crociati  medie- 
vali, ebbe  un  culto  e  una  fede,  una  quasi  religione 
della  bellezza,  sotto  qualunque  forma  o  contenuto  od 
estensione  ;  sia  che  ella  spargesse  l'arte  di  fiori  e  di 
primavere,  sia  che  la  compenetrasse  d'  impeti  e  di 
bagliori  ideali,  sia  che  la  svegliasse  alle  grandi  pas- 
sioni con  forti  nitriti  di  battaglia  :  l'arte  e  la  poesia 
d'ogni  colore,  d'ogni  calore  e  d'ogni  svolgimento. 


Fu  anche  come  il  De  Sanctis  un  grande  innamo- 
rato dell'arte,  ma  non  un  artista,  che  l'uno  e  l'altro 
furono  come  aborrenti  da  ogni  cura  della  lima  e  dal 
fine  lavorìo  della  forma  e  dello  stile. 

Potete  voi  leggere  in  entrambi  squarci  stupendi  di 
prosa  calda  ed  animata,  molte  volte  più  vivida  e  più 
lirica  di  un  idillio  o  di  un'ode  da  essi  commentata; 
potete  ammirarvi  1'  anima  fascinatrice  la  quale,  tutta 
rapita  dallo  stesso  momento  d'inspirazione,  s'  imme- 
desima tanto    nell'opera    dello    scrittore  ,    che    senza 


365 


addarsene  spesso  ne  rimane  come  abbagliata,  e  ne 
varca  i  limiti  e  la  trascende  :  è  cotesta  più  tosto 
un'estasi  intellettiva  che  non  una  tranquilla  e  razionale 
contemplazione  del  vero  idealizzato  col  sigillo  del- 
l'arte. Ma  come  avviene  in  costoro  ,  se  non  il  di- 
sprezzo, certa  spensieratezza  della  forma  e  una  cer- 
ta incuria  dello  stile  e  della  rappresentazione  ?  A 
me  non  par  difficile  spiegarlo.  V'hanno  anime  e  na- 
ture di  scrittori  che  per  certi  impeti  o  furie  di  sen- 
timenti, per  certo  irrefrenabile  trasporto  verso  la 
contemplazione  ideale,  si  lasciano  vincer  la  mano  alla 
passione  estetica,  si  lasciano  interamente  assorbire  da 
quasi  un  miraggio  di  bellezza  ;  e,  sotto  quell'  impeto 
o  quell'assorbimento  di  tutte  le  facoltà,  obbediscono 
pur  non  volendo  a  uno  sfogo  dell'  anima,  la  quale 
non  riesce  a  fermarsi  o  a  temperarsi  intorno  alle  per- 
fezioni della  tecnica  o  allo  studio  paziente  delle  in- 
dagini nella  compiuta  disamina  critica.  Ricordate,  per 
esempio,  il  Farinata  di  Dante  ne'  Nuovi  saggi  critici 
del  De  Sanctis,  e  lo  studio  intorno  aXV  Umorismo,  un 
de'  più  letti,  di  Enrico  Nencioni.  É  difficile  trovare 
oggi  in  Italia  più  pagine  di  critica  che  valgano  per 
la  estetica  le  pagine  luminose  del  primo  ;  e  neppure 
è  comune  rispetto  all'argomento  la  intelligenza  ne' 
nostri  dei  tanti  scrittori  stranieri  che  il  secondo  di- 
samina o  ricorda  di  scorcio,  trattando  una  questione, 
superficialmente  sì,  ma  appena  tócca  o  tentata  da  al- 
tri. Ma  quanta,  e  nell'una  e  nell'  altra  prosa,  incer- 
tezza o  vaporosità  nella  locuzione,  indeterminatezza  e 
improprietà  nello  stile  ,  mancanza  di  freschezza  di 
agilità  elegante  nel  periodo  ! 


*  * 

Nel  De  Sanctis  anche  prevalse  un  sentimento  di 
smodata  reazione  al  rigido  purismo  del  Puoti,  la  quale, 
come  ogni  prima  reazione,  degenerò  ne'  vizi  opposti: 
e  fu  male.  Così  per  altra  via  sull'anima  del  Nencioni 
influì  per  poco,  non  1'  esempio  del  Manzoni,  ma  la 
scuola  che  con  infelici  deviazioni  ne    derivò    rispetto 


366 


alla  unità  della  lingua  e  dello  stile  ;  e  ciò  in  effetti 
non  pure  fu  impotenza  e  oblio  del  culto  intellettivo 
di  quella  novissima  arte,  ma  irrazionale  disprezzo  di 
ogni  lingua  e  di  ogni  stile  letterario.  E  pure  il  Nen- 
cioni  fé'  parte  di  quell'  allegra  brigata  toscana  cui 
appartennero  il  Carducci  e  il  Chiarini,  di  quel  ge- 
nialissimo  gruppo  di  giovani  ammirati  dal  Guerrazzi, 
i  quali  intorno  al  '59,  sotto  le  impressioni  della  fre- 
mente prosa  del  livornese,  per  ispontanea  ribellione 
alla  tradizione  guelfa  nel  culto  del  paganesimo,  tem- 
perarono e  sveltirono  l'ingegno  con  lo  studio  e  con 
la  imitazione  non  di  rado  servile  de'  classici.  Era  il 
periodo  carducciano  delle  Iiiveìiilia  quand'egli  appunto, 
il  grande  poeta,  si  disse  scudiero  de'  classici.  Ma  quel- 
li furon  pochi  anni  di  studio  fra  le  scuole  di  uma- 
nità e  l'Ateneo,  che  presto,  dopo  il  '59,  gli  amici  o 
i  commilitoni  si  divisero  ;  e  di  essi  il  Carducci  solo 
prosegui  da  Bologna  col  medesimo  fervore  quella  ten- 
denza, e  un  po'  tepidamente  il  Chiarini  da  Livorno. 
Un  altro  di  quella  brigata  ,  Torquato  Gargani,  che 
forse  avrebbe  saputo  continuare,  era  morto  giovane, 
troppo  giovane,  con  la  sua  edizione  di  Esopo  ;  gli 
altri,  sbalestrati  qua  e  là  dagli  uffici,  si  dispersero 
infecondi  o  discordi.  Ho  voluto  rinfrescare  questi 
dolci  ricordi  di  arte  perchè  forse  ci  aiutano  a  inten- 
der meglio  la  prosa  e  la  poesia  del  nostro.  Il  quale 
tien  molto  di  quella  scuola,  e  certo  quella  larghezza  e 
quella  fiamma  nell'ammirar  l'arte,  come  dicemmo,  in 
ogni  contenuto  e  in  ogni  forma,  iti  ogni  tempo  e  in 
ogni  nazione.  Ma  egli  più  s'innamorò  de'  poeti  stra- 
nieri specie  inglesi,  di  Shelley  e  di  Swinburne,  di 
Browning  e  del  Tennison,  e  risali  a  Pope,  a  Shake- 
speare, a  Marlowe  :  e  su  essi  versò  tutta  la  poesia 
del  suo  cuore,  tutta  la  gentilezza  del  suo  animo,  tutti 
i  fiori  della  sua  gioventù  che  sino  agli  ultimi  momenti 
gli  arrise  gioiosa  come  nella  prima  età.  —  Ma  la  sua 
quasi  biblica  suggestione  del  bello,  d'  ogni  bello,  di 
tutto  il  bello,  e  più  lo  studio  che  assiduo  prosegui 
sui  poeti  stranieri,  e  un  certo  distacco  o  interruzion 
di   contatto  con  la  tradizione  più    veramente  classica, 


non  gli  dierono  lena  e  tempo  e  desiderio  di  curar 
meglio  lo  stile,  d'illustrar  1'  arte  con  1'  arte,  come  i 
vecchi  suoi  compagni  d'arme,  il  Carducci  ed  il  Chia- 
rini. 


Per  lui  lo  sfogarsi  come  meglio  seppe  e  potè,  così 
alla  buona,  senza  nobiltà  e  senza  gala,  senza  misura, 
senza  preparazione  critica  e  specialmente  storica,  in- 
torno alle  recenti  impressioni  delle  svariate  letture 
che  lo  inebriavano  e  lo  abbagliavano,  fu  un  grande 
bisogno  ideale  come  ogni  vero  bisogno  umano:  cosi,  " 
il  pensiero  e  l'ammirazione  gli  fluivano  dall'anima  come 
una  visione  aurea  ,  come  dal  libero  estro  di  un  poeta 
improvviso  una  irrompente  vena  di  poesia  tutta  di 
getto.  Se  avesse  avuto  sicuro  e  pieno  il  maneggio 
della  tecnica  e  ferma  intenzione  di  divenir  poeta,  sarebbe 
veramente  riuscito  un  grande  poeta,  un  poeta  inglese, 
tipo  Shelley  :  di  fatti,  pochi  più  di  lui  mostrano  di 
saper  ammirare  la  infinita  poesia  della  Natura  ,  di 
cui  v'  è  come  un'ombra,  come  una  sfumatura  un  po' 
nebbiosa  e  vaporante  nelle  sue  Poesie  ,  brevi  e  ge- 
menti ritmi  di  un'anima  appassionata,  nata  per  amare 
e  per  isvolgersi  in  orbita  molto  più  spaziosa  di  quella 
in  che  troppo  si  restrinse  e  che  forse  fu  costretta  a 
vivere. 

Ond'egli  a  parer  mio  rimane  come  un  simpatico  e 
brillante  improvvisatore  estetico,  come  un  De  Sanctis 
toscano,  e  perciò  anche  uno  scrittore  di  finissimo 
gusto.  E  fu  uomo  di  gran  cuore  e  di  grande  bontà  : 
di  lui  ne'  Raccoglimenti  si  ricorda  il  Carducci,  quando 
scrive  :  «  E  sentirei  di  essere  ingrato  se  non  ricor- 
dassi almeno  a  me  stesso  quanto  io  debbo  al  fraterno 
ingegno  di  Enrico  Nencioni  che  mi  fu  sin  dai  primi 
anni  eccitatore  coll'ardor  suo  e  coll'esempio  al  culto 
di  tutto  ciò  che  è  bello  in  ogni  forma  (*)  ».  E'  il 
migliore  elogio  che   rimarrà  di  Enrico  Nencioni. 


(*)  Confessioni  e  Tiatla<jlie.  Bologna,  Zaiichelh,  ISOO.  Pag.  61 


3Ó8 


Più  che  i  Ricordi  di  Giaìi  Battista  Niccolitii.,  utilis- 
simi e  a  torto  dimenticati,  il  più  noto  e  popolare  li- 
bro di  lui  sono  i  Medaglioni,  storiche  miniaturine  che 
contengono,  parmi,  troppo  piccola  parte  di  quell'  in- 
gegno e  di  queir  animo,  i  quali  meglio  sì  rivelano 
ne'  moltissimi  saggi,  in  gran  parte  splendidi  di  acume 
critico  e  di  penetrazione  estetica,  che  per  più  anni 
e'  diffuse  qua  e  là  nelle  riviste  maggiori  e  special- 
mente su  la  Nziova  Aìitologia. 

Sarebbe  opera  provvida  ed  utile  agli  studi  nostri 
raunare  con  indulgente  animo  tutte  queste  fronde 
sparte,  e  comporre  un  libro,  il  più  bel  libro  di  En- 
rico Nencioni,  e  l'unico  libro  che  ci  faccia  accorti  in 
Italia  della  esistenza  di  una  vera  letteratura  straniera 
moderna;  in  Italia,  ove  per  difetto  d'  ingegno  o  me- 
glio di  buona  volontà,  troppe  cose  mancano  per  un' 
alta  e  sana  cultura. 

Salute,  o  nobile  morto  :  con  te  si  diparte  da  noi 
anche  un  altro  di  q^uel  ristretto  covo  di  anime  che 
nelle  vigilie  dell'arte,  scolte  animose,  sognarono  1'  I- 
talia  risorta,  ma  non  questa  età,  dal  cui  grembo  rom- 
pono ora  troppo  sterili  germi  per  appagare  il  vostro 
sogno,  per  sanare  almeno  una  ferita  dell'  animo  no- 
stro. E  a  noi  non  resta  ora  che  il  rimpianto  di  voi, 
nostri  padri  e  maestri,  e  solo  il  culto  de'  morti  e 
delle  tombe  ! 


_2^k^ 


IX. 
Michele  Lessona. 


\i  lui  ,  nella  celebre  sua  polemica  sul  pz  Ira, 
cosi  scriveva  il  Carducci  : — Michele  Lessona, 
che  io,  se  mi  fosse  lecito  contaminare  una 
qualificazione  rigidamente  moderna  con  un'antica  ele- 
ganza, direi  scienziato  di  molte  arti,  ed  è  amico  buono 
e  collega  utile,  specialmente  in  certe  gravi  sessioni, 
per  le  tante  storie  allegre  e  le  tante  persone  ralle- 
granti che  ei  sa  con  efficacia  riimovatrice  raccontare 
e  imitare,  scotendo  l'ampia  capelliera  grigiastra  con 
tutta  la  testa  scultoria,  con  tali  impeti  e  scatti  di  riso 
da  parere  un  Padre  eterno  che  faccia  in  un  momento 
d'allegria  un  terremoto  sussultorio;  il  Lessona,  dico, 
nell'aprile  scorso,  mi  raccontava  d'un  amico  suo  pie- 
montese, un  capitano  in  riposo,  il  quale  a  ogni  motto 
che  un  gli  facesse  dei  casi  più  spesso  occorrenti,  un 
marito  tradito,  un  banchiere  fallito,  un  ministero  ca- 
duto o  un  pollaio  derubato,  soleva,  puntando  forte  il 
piede  sinistro,  avanzando  il  destro,  con  le  braccia  in- 
crociate su  '1  petto,  e  caracollando  leggermente  o- 
bliquo  il  viso  abbronzato  tra  i  folti  mustacchi,  uscire 
in  questa  esclamazione  interrogativa  :  Sas  in  e'  al  è 
fori  f  Pochi  giorni  dopo,  in  una  di  quelle  date  ses- 
s,eni,  io,  tra  una  discussione  e  l'altra,  mi  attentai  di 
passare  al  Lessona  i  famosi  sonetti  nelle  prove  di 
stampa,  un  dopo  l'altro,  come  pillole  o  ciliege  a  un 
bambino.  L'amico  abboccava,  e  ne  chiedeva  tuttavia. 
Dunque  eran  ciliege.  Finito  che  ebbe, — E  che  titolo 
metti  a  questa  diavoleria  ?  —  pz  Ira  —  Sas  tu  e'  al  è 
fortf  —  Sì,  fu  proprio  forte,  o  Michele  Lessona  (*). 


(•)  Carducci,  Confessioni   e    battaglie.    Pag.    389.    Bologna  ,    Zani. 
chelli,  1S90. 

24 


37» 


In  queste  brevi  linee  è  tutto  un  profilo  dell'  uomo 
e  dello  scrittore.  Fu  veramente  il  Lessona  uno  scien- 
ziato di  molte  arti.  Egli,  pur  facendo  professione  di 
scienza  come  scrittore  e  come  insegnante,  volle  dif- 
fondere, spesso  tra  '1  riso  e  le  allegre  facezie,  la  vo- 
lubile assimilazione  delle  sue  facoltà  lucide  e  serene 
sur  un  più  largo  campo  di  discipline  o  di  arti  che  pur 
svariate  e  diverse  si  afifaceano  tutte  allo  spirito  suo 
limpido  e  quieto;  e  in  esse  facea  circolar  sempre  quel 
nativo  senso  di  bonomia  leggiadra  e  di  arguta  piace- 
volezza che  ne  rendevano  ricercata  l'opera  da  editori 
e  giornalisti,  i  più  vari  e  diversi.  E'  fu  una  di  quella 
anime  temperate  e  insieme  candidamente  miti  e  soavi 
le  quali  paion  disposte  a  mirar  delle  cose  tutto  che 
è  piacente  e  gentile,  attratte  come  sono  da  un  così 
largo  e  benefico  ottimismo  che  riescono  a  temperare 
anche  il  tristo  e  l'amaro  con  un  dolce  e  vago  senso 
di  compatimento  e  di  rimpianto.  Così  egli,  instinti- 
vamente  buono,  rifuggiva  sempre  dal  male,  o  lo  scu- 
sava ;  dolce  e  pacato,  non  aspirava  alla  lotta  e  a  dis- 
sidi civili  o  intellettivi  :  laborioso  e  modesto,  ma  un 
po'  trepido  e  diflSdente,  non  sentì  il  pungolo  della 
gloria  né  cercò  per  essa,  o  forse  non  potè,  altre  vie 
e  nuovi  orizzonti  :  in  una  parola,  e'  fu  molto  ligio 
alla  vita  che  circondava  benefico  di  una  simpatica 
carezza  ;  e  se  non  volle  andare  più  in  là,  valse  però 
a  raccogliere  e  assimilare  fecondamente  tutte  le  par- 
venze e  tutti  gli  spiriti  del  tempo.  Fu  dunque  un  in- 
gegno assimilatore,  ma  fortemente  e  luminosamente 
organico  e  chiaro;  e  se  gli  mancò  \2l  follia  del  genio , 
come  la  chiama  il  nostro  Lombroso,  ebbe  per  altro 
ciò  che  manca  a  molti  uomini  di  genio  nella  scienza, 
la  facoltà  nitida  della  esposizione,  il  brio  e  la  vivacità 
della  forma,  la  simpatica  attrattiva  dello  stile  e  1'  or- 
dine mirabile  con  l'omogeneità  delle  idee  e  delle  ri- 
cerche. La  genialità  sorprendente  e  la  divinazione 
precoce  e  superiore  non  furono  possibili  in  uno  spi- 
rito e  in  un  temperamento  placido  ed  uguale  come  il 
suo  ;  ma  ebbe  un  così  trasparente  senso  di  misura  e 
di  equilibrio  che  riesci  molto  più  efficace  sulle  molti- 


371 


tudini,  di  parecchi  altri  scienziati  novatori;  popolarizzò 
co'  suoi  libri  e  col  suo  insegnamento  molta  parte 
delle  nove  dottrine  che  paiono  spesso  avvolte  da  troppi 
veli  e  da  troppe  nebbie  ne'  nostri,  anche  sommi.  Fu 
meno  smagliante  e  colorito  del  nostro  Mantegazza, 
ma  certo  più  di  lui  serio  e  ordinato,  e  non  fu  mai 
.fantastico  o  vago. 

Se  lo  avesse  voluto,  sarebbe  riescito  un  artista  non 
volgare,  al  che  molto  gli  avrebbe  giovato  la  molte- 
plice versatilità  dell'ingegno.  Di  fatti  com'egli  narra, 
:studiò  troppe  cose  da  giovine,  musica,  disegno  ,  lin- 
gue :  pensò  anche  a  tentar  le  scene  e  a  intraprendere 
la  carriera  militare.  E  di  queste  arti  od  uffici  cosi 
diversi,  e  di  quella  varia  lettura  a  cui  lo  abituò  Se- 
bastiano Canavesio,  allor  chierico  ed  or  padre  con 
famiglia  in  Mondovì,  rende  spesso  esempio  nelle  sue 
variatissime  scritture  apparse  con  sì  mirabile  fecon- 
dità di  aneddoti  e  racconti  in  tanti  fogli  domenicali, 
in  tante  riviste  e  in  tanti  libri  e  libercolini  fatti  pel 
pubblico  che  legge. 

Fan  sorridere  que'  cosi  detti  critici  che  lo  dicon 
povero  di  lingua  e  d'  idee,  quasi  che  oggi  in  Italia, 
all'infuori  di  due  o  tre  eccezioni,  gli  scienziati  scri- 
vano bene  e  si  manifestino  originali  ;  e  quasi  che 
anche  coloro  che  fan  solo  professione  di  lettere  come 
critici  o  come  produttori  di  arte,  ci  si  rivelino  puri 
e  immacolati  nella  italianità  della  forma.  Il  Lessona 
fu  scienziato  veramente  e  nel  più  largo  senso  della 
parola,  come  quegli  che  ebbe  con  solo  pochissimi  de' 
nostri  una  vivida  e  chiara  percezione  e  insieme  una 
facile  e  comunicante  rappresentazione  del  moderno 
pensiero  scientifico,  il  che  appunto  lo  rese  ricercato 
e  popolare.  Certo,  e'  dovè  anzitutto  questa  sua  grande 
popolarità  a  quell'aureo  volume  uscito  vittorioso  da 
un  concorso  bandito  molti  anni  fa  dal  geniale  editore 
Gaspare  Barbèra,  cioè  al  fortunatissimo  suo  Volere  è 
potere  che  per  1'  Italia  ebbe  il  successo  che  nell'  In- 
ghilterra e  di  poi  in  tutto  il  mondo  un  altro  assai 
più  celebre  libro,  di  Samuele  Smiìes  :  Aiutati  che  Dio 
f  aiuta.  Ma  questo  che  nella  storia  delle  lettere  e  delle 


scienze  è  un  fenomeno  che  sempre  si  ripete,  costi- 
tuendo esso  la  prima  e  più  salda  radice  della  cele- 
brità d'uno  scrittore,  non  dee  farci  dimenticare  quanto 
l'Italia  è  al  nostro  autore  obbligata  per  moltissimi  al- 
tri libri,  i  quali,  pur  non  essendo  originalissimi,  re- 
stano ancora  eccellenti  saggi  o  manuali  nelle  nostre 
scuole  e  nelle  mani  di  adulti  avidi  di  buone  e  utili 
letture.  E  della  sua  svariata  e  copiosa  produzione  è 
necessario  attingere  le  cause  o  le  prossime  occasioni 
dalle  curiose  e  diverse  vicissitudini  della  prima  sua 
educazione  e  della  sua  gioventù,  ma  specialmente  dai 
viaggi  ch'e'  fece  attraverso  l'Europa  e  le  altre  parti 
del  mondo,  in  Egitto,  in  Turchia,  in  Persia.  Frutto 
di  que'  viaggi  e  di  ulteriori  studi  rimangono  le  se- 
guenti opere  :  //  mare.  Gli  acquari,  Sulla  riproduzione 
delle  parti  in  molti  atiimali,  Sulla  resistenza  vitale  delle 
vwsche  nel  vino,  e  la  veramente  utile  e  magistrale  tra- 
duzione A€iV  Origine  dell'uomo  di  Carlo  Darwin  che 
con  quella  fatta  dal  Canestrini,  àeW  07'igi7ie  della  spe- 
cie, riman  tuttavia  una  delle  più  importanti  e  ricer- 
cate pubblicazioni  scientifiche  di  quest'ultimo  venten- 
nio in  Italia. 

Fin  qui  dello  scrittore  e  dell'uomo;  ma  ancora  ci 
resta  a  dire  del  maestro  e  dell'educatore.  In  ciò  e' 
potè  subito  guardare  alle  belle  tradizioni  domestiche,, 
al  cui  proposito  scrive  :  —  Figlio,  nipote,  fratello,  co- 
gnato, padre,  zio  d'insegnanti  ,  nacqui  e  crebbi  in 
una  scuola,  magari  prima  di  sapere,  come  quel  cotale 
del  Gii  Blas  che,  mentre  insegnava  a  leggere,  impa- 
rava a  scrivere.  —  Cotesto  fu  uno  de'  lati  migliorìi 
della  sua  vita  onde  più  vivo  è  il  rimpianto.  Più  che 
dottrinario  o  cattedrante,  e'  fu  maestro  nel  senso  an- 
tico, e  dovrei  dir  latino,  della  parola  :  all'aridità  ver- 
bosa o  alla  pompa  dell'  eloquio  togato,  alla  preten- 
zione  enfatica  e  alla  saccente  gravità  dell'accademia, 
e'  sostituì,  come  usa  in  Germania  anc'  oggi  e  come 
solo  pochissimi  de'  nostri  fanno,  la  cordiale  e  acces- 
sibile efficacia  diretta  dell'insegnamento  pratico  e  quel- 
J'apostolato  dell'anima  che  forma  il  nerbo  della  edu- 
cazione vera.   Egli  non  formò  omuncoli  o  mestieranti,, 


373 


né  accademici  o  dottrinari,  ma  uomini  savi  e  probi  , 
utili  per  la  vita  e  per  la  patria.  Fu  per  questo  che 
con  sentimento  concorde  lo  amarono  tutti  ,  amici  e 
colleghi  d'ogni  disciplina  e  facoltà,  giovani  e  scrittori, 
padri  di  famiglia  e  giornalisti,  industriali,  operai,  di- 
pendenti. Ricordo  che  il  giorno  proprio  della  sua 
morte,  trovandomi  nella  Pitiacoteca  dell'  Accademia  delle 
Scienze  in  Torino,  lo  sentii  ricordare  colle  lagrime 
agli  occhi  da  piccoli  impiegati  e  da  persone  del  po- 
polo; ed  io,  cui  fu  spesso  consigliere  benevolo  ed  ef- 
ficace inspiratore,  e  che  speravo  poterlo  conoscere  per- 
sonalmente vivo,  così  come  l'avevo  conosciuto  in  i- 
spirito,  non  potei  se  non  accompagnarne  la  salma  al 
cimitero,  al  quale  trasse  tutta  la  migliore  e  più  di- 
versa cittadinanza  torinese. 

Le  Confessioni  d'un  rettore  sono  il  secondo  suo  li- 
bro d'oro  che  attesterà  quant'  anima  di  lui  rimarrà 
nella  fida  memoria  di  chi  lo  conobbe  e  nella  storia 
dell'  insegnamento  superiore.  Amò  i  giovani  e  pei 
giovani  scrisse  questi  altri  libri  :  Storia  Naturale  ad 
uso  de'  Licei,  Traduzione  della  filosofia  zoologica  del 
Van  der  Hoeven,  Adozioni  elementari  di  zoologia,  Con- 
versazioni scientifiche,  ecc.,  che  seguitano  a  fare  in 
parte  il  giro  delle  nostre  scuole.  Così  con  lui  dispare 
un  carattere  nobile  e  incorrotto,  un'anima  buona,  un 
esempio  di  vita  intemerata,  di  costanza  e  di  fede,  uno 
spirito  de'  più  benefici  e  utili  alla  società  fra  cui 
visse.  Nato  appiè  delle  Alpi,  in  Venaria  Reale,  ebbe 
de'  monti  nativi  la  tenacia  de'  propositi  e  la  instan- 
cabilità del  lavoro;  si  spezzò  quasi  improvviso,  paci- 
fico e  sereno  come  visse,  in  mezzo  alle  famiglie  che 
amò  tanto;  morì,  securo  paladino  della  verità  e  del 
dovere,  su  la  breccia  poco  più  che  settantenne  (e' 
nacque  nel  1823).  Poco  innanzi  di  trarre  l'ultimo  re- 
spiro, al  dottore  Tibone  che  gli  disse: —  Ma  lei,  pro- 
fessore, abusa  troppo  delle  sue  forze,  lavora  troppo, 
si  logora  troppo;  lei  non  ascolta  che  la  voce  del  do- 
vere —  e'  rispose,  quasi  esamine,  così  :  —  É  l'unica 
voce  che  mi  resta  ancora  ! 


X. 
Pietro  Sbarbaro. 

o  conobbi  a  Roma    in    una  fulgida    serata  di 

lì  a  Piazza    Colonna.  Venni 

fedeli.    Dalla 

rude  e  foltissima  barba,  grigiastra  e  intonsa,  e  dalla 
scompigliata  capelliera  traspariva  un  non  so  che,  tra 
di  Prometeo  e  di  Màrsia,  tra  di  protervia  leonina  e  di 
neroniana  ferocia,  paurosa  ed  imbelle.  Avea  nelle  li- 
vide occhiaie  due  luci  torbide  e  sinistre,  che  parean 
rivelare  il  fiotto  di  un'anima  già  dòma,  ma  ancora  in 
tempesta.  Le  vesti  avea  troppo  umili  e  disadorne,  una 
gran  tuba  in  testa,  e  al  collo  una  povera  cravatta 
nera. 

Avrei  voluto  parlargli  a  lungo  e  stuzzicare  un  poco 
la  sua  ringhiosa  vanità;  ma  forse  non  potei,  o  me  ne 
mancò  il  tempo.  Avevo  conosciuto  abbastanza,  anche 
nel  fisico,  l'uomo  e  lo  scrittore;  e  mi  parve  temerità 
o  provocazione  il  sospingerlo  in  quel  momento  a  qual- 
che sùbito  sdegno  mal  represso.  Quella  sera  mi  parve 
assai  sereno,  anzi  molto  corretto  e  gentile.  Solo  mi 
disse  che  adorava  i  napoletani  per  l'indole  loro  espan- 
siva e  virilmente  e  nobilmente  schietta.  Altro  non 
ricordo  personalmente  di  lui.  Poco  di  poi  ci  conge- 
dammo ,  ma  ho  ancor  viva  fra'  nervi  1'  impronta 
vigorosa  della  sua  mano  fremente  .  Fin  d'  allora 
queir  uomo  mi  parve  quasi  finito  nel  pugilato  della 
vita:  mi  parve  stremo  di  forze  fisiche  e  morali;  avea 
troppo  combattuto  quando  la  sua  voce  altro  non  era 
che  il  solletico  della  curiosità  plebèa.  Ora  egli  è  morto, 
quasi  improvviso,  come  una  metèora  da  più  tempo 
già  spenta.  I  debaccatori  della  facile  sua  gloria  di  ieri 
oggi  non  ne  hanno  neppure  accompagnata  la  povera 
salma  al  cimitero:  è  morto  povero,  e  senza  voce,  quando 
gli  ultimi  scandali  bancari  parea  volessero  risuscitare  la 


375 


sua  coscienza  tribunizia,  o  i  suoi  terribili  appelli,  che  ri- 
mangono ancora  nella  fida  memoria  di  quelli  che  un 
giorno  lessero  le  Forche  caudine.  La  Penna  d' oro  e  i 
primi  numeri  della  Libera  parola  i\ixon\'w\\ÀV!\o  ^\\\zzo 
di  fiamma.  Era  già  stanco,  come  stanche  furono  le 
plebi  di  troppo  applaudirlo.  Fu  il  Fetonte  d'  un'  ora 
nel  plebiscito  di  Pavia:  poco  innanzi  era  stato  il  Robe- 
spierre della  moralità  nelle  Forche  caudine;  indi  fu  il 
quatriduano  Lazzaro  risorto  neh'  ultima  libertà,  lar- 
gitagli dalla  clemenza  di  un  Re  magnanimo,  che,  lui 
morto,  donò  l'ultimo  ausilio  alla  martire  vedova;  ma, 
prima  e  dopo,  fu  il  Sisifo  della  nova  Italia  risorta-r- 
almeno  dicono  così! — condannato  a  sospingere  e  a  ro- 
tolare il  sasso  —  a  diletto  o  a  scudiscio  di  volghi  o 
d'  oligarchi  —  della  bizantina  vigliaccheria  nazionale. 
Dinanzi  a  quel  sasso,  ancor  vivo  e  vegeto  e  sano  di 
corpo  e'  si  corrose  e  si  spense  prima  che  la  terribile 
dea  desse  un  asilo  di  pace,  e  non  più  una  tregua  , 
all'  anima  sua  irrequieta. 

* 
*  * 

Cerchiamo  ora  dir  di  lui  quello  veramente   che  fu. 

Quanti  conobbero  lo  Sbarbaro,  quand'  era  profes- 
sore di  Università,  lo  ricordano  entusiasti  e  con  af- 
fetto di  discepoli;  ma  rammemorano  ancora  qualche 
tratto  od  episodio  del  suo  spirito  ribelle. 

Nessuno  direbbe  ora  eh'  egli  sortisse  da  natura,  in- 
sieme con  la  tèmpera  forte  e  gagliarda,  un  sano  equi- 
librio delle  facoltà.  Natura  essenzialmente  nevrotica, 
non  avea  la  calma  necessaria  perchè  il  molteplice  in- 
gegno suo  riposasse  limpido  e  sereno  su'  molti  pro- 
blemi di  scienza  specialmente  filosofica  che  meglio  si 
affaceano  alle  sue  attitudini  speculative  e  alle  parti- 
colari sue  ricerche.  Era  egli  veramente  un  carattere 
nient'  affatto  organico  e  speculativo,  ma  rapidamente 
e  instintivamente  assimilatore.  Dotato  di  una  feno- 
menale memoria,  riesciva  sùbito  a  immagazzinare  nel 
suo  cervello  tutto  che  da  molteplici  e  troppo  rapide 
letture  veniva  man  mano  derivando;    ma,    nel    tempo 


2>1^ 


stesso,  non  valeva  a  organare  e  a  dare  assetto  nella 
sua  mente  a  questi,  per  discipline  non  proprie,  quasi 
minùzzoli  e  ritagli  di  cultura  e  di  erudizione.  Quella 
convulsa  irrequietudine  nervosa  —  forse  gli  fu  ere- 
ditaria— che  lo  rendea  mutabile  nelle  idee  e  ne'  sen- 
timenti, nelle  afifezioni  politiche  e  nelle  morali,  negli 
odi  e  negli  amori  d'uomini  e  di  cose,  sconvolse*  e  scom- 
paginò quella  forte  e  complessa  tèmpera  di  scrittore 
e  di  polemista  che,  più  sano  e  più  sereno,  avrebbe 
saputo  dare  un  vitale  e  durevole  organesimo  a  tutta 
una  dottrina  sua  propria.  E'  poteva  dire,  come  dì  sé 
in  una  fortissima  strofe  il  Carducci: 

Io  sento  in  me  (lualeosa  di  Nerone. 

Ma  più  puro  e  Giocondo: 
Non  sangue  o  teste,  io  voglio,  in  conclusione, 

\'vi'  schiaffeggiare  il  mondo. 

E'  potea  essere  lo  schiaffeggiatore  giambico  della 
novissima  Italia,  o,  meglio,  di  quel  breve  periodo  nel 
quale  fiorirono  di  scandali  le  sommarughiane  Forche 
caudine;  ma  sempre  che  fosse  stato  —  il  che  gli  era 
impossibile  —  più  organico,  più  circoscritto,  più  sodo. 
Invece  e'  fu  un  vituperatore  antropofago  e  spesso  un 
calunniatore  bilioso  di  notissimi  uomini  e  di  persone 
non  sospette  eh'  ebbero  sempre  incontaminata  la  vita: 
tolse  da'  bagordi  e  andò  raccattando  pe'  trivi  una 
manata  di  fango,  per  bruttarne  la  faccia  dei  diso- 
nesti pe'  quali  fu  scusa  e  forse  lode  il  luogo  o  la 
persona  onde  quell'  ira  mosse,  e  de'  purissimi  galan- 
tuomini dinanzi  a'  quali  e'  si  chiarì  delinquente  for- 
sennato e  pazzo  da  catena.  Quel  fango  piacque  solo 
alle  plebi  sitibonde  di  scandali,  e  da  esse  gli  venne 
quella  facile  gloria  e  quel  lampo  di  celebrità  che  sol- 
tanto gli  valse  a  render  paga  per  brevi  momenti  l'in- 
nata follia  e  la  grandissima  vanità,  e,  insieme,  a  sem- 
pre più  disquilibrarne  1'  ingegno.  La  sua  prosa,  né 
meditata  né  psicologicamente  ordinata  anche  nelle  in- 
vettive e  nelle  accuse,  fu  essa  stessa  uno  scandalo 
della  moralità  e  del  buon  senso.  Ma  giova  risalir  prima 
alle  cause  più  immediate  e  più  recenti  di  questo  feno- 


377 


meno  —  diciamolo  cosi  —  patologico.  Di  un  povero 
morto  è  bene  toccar  pure  la  parte  sua  d'  irresponsa- 
bilità morale. 

Quand'  egli  cominciò  ad  apparire  ribelle  dalla  cat- 
tedra e  in  pubbliche  concioni  sociali,  allorché,  colpito 
forse  ingiustamente  nell'  amor  proprio,  volle  bollare 
d'  infamia  uomini  e  tempi,  come  per  isgravio  della 
sua  coscienza  offesa;  fu  allora  che  ricorsero  plaudenti 
alla  concitata  sua  facondia  libellatrice  quanti  furono 
amatori  di  scandali;  e  quanti,  per  fini  politici,  lo  cre- 
derono docile  strumento  di  partigiani  rancori  e  di  vol- 
garissime  ire.  A  lui,  allora  allora  esonerato  brutalmente' 
dall'  ufficio  di  professore  e  per  conseguenza  bisognoso 
di  lavoro,  ricorse  l'audace  Somtnaruga  affin  di  rialzare 
con  uno  scandaloso  giornale  la  sua  piccola  fortuna 
economica,  ormai  scossa  da  troppo  fugaci  industrie 
librarie  e  Ja  troppo  ambiziosi  disegni. 

Quel  carattere,  ormai  guasto  e  invelenito,  non  avea 
bisogno  d'altro  che  di  un'  occasione  o  di  un'  offerta 
come  questa;  e  così,  come  tutti  sanno,  esso  esplose 
veemente,  come  instrumento  atto  a  dar  suoni  confusi 
e  strappi  violenti  e  vari  secondo  la  frenetica  mano 
di  chi  lo  tocca.  Da  un  lato  queste  prossime  cagioni, 
e  dall'altro  le  troppo  facili  lodi  del  volgo  che  legge, 
insorsero  insieme  a  far  sì  che  quel  torrente,  ornai 
gonfio,  rompesse  le  dighe  e  dilagasse.  Così  fu,  E  av- 
venne che  quello  avvenne.  Dalle  Carceri  nuove  di  Roma 
per  un  colpo  improvviso  di  vento  benefico  e'  passò 
al  trionfo  quasi  nazionale  di  Pavia;  quell'avvenimento 
fu  per  lui  come  l'intimo  risvegliarsi  della  conscienza 
popolare  che  volea  giustizia;  ma  la  gloria  non  diffuse 
così  durevoli  come  abbaglianti  le  larghe  sue  ali  , 
e  gli  lasciò  nella  mente  e  più  nel  cuore  l'efficacis- 
sima impronta  di  quella  follia  morale  che  i  frenologi 
chiamano  megalomanìa:  questa  impronta  fu  per  lui 
così  salda  che  non  lo  lasciò  nemmeno  nell'agonia, 
quando,  perchè  lo  sapessero  i  giornali  per  accennare 
a  lui,  volle  far  propagare  anzi  tempo  la  voce  ch'e' 
moriva,  e  che  voleva  a  un  tempo  un  postumo  ricordo. 
Ma  duole  a  me  dir  male  ancora  d'un  povero   morto. 


37« 


Egli  fu  onesto,  rudemente  e  instintivamente  onesto; 
e  questa  è  per  quel  povero  perseguitato  e  persegui- 
tante la  lode  migliore.  Quell'impavida  fibra  dovè  per 
colpa  de'  tempi  spezzarsi:  dovè,  anche  quando  mirò 
direttamente  a  fini  nobilissimi,  quasi  movere  a  ritroso 
del  senso  morale  per  voglia  o  libidine  di  chi  seppe  a 
tempo  deviare  un'indole  onesta  e  un  uomo,  in  fondo, 
nato  e  fatto  bene.  Egli  non  fu  un  malvagio,  ma  un 
infelice,  non  un  rèttile  o  un  rinnegato,  ma  un  illuso; 
non  un  lenone  o  un  vii  carabiniere  dell'  onestà,  ma 
un  animo  sano,  guasto  e  tormentato  dall'  altrui  ne- 
quizia e  malvagità. 

Morì  povero  e  incontaminato,  come  povero  e  in- 
contaminato visse;  e  pazzo  o  folle  morale  lo  fecero 
gli  altri,  consiglieri  fallaci,  laudatori  volgari,  editori 
venali.  Fu  —  checché  altri  ne  dica  —  una  mente  assai 
eulta:  forse  le  molteplici  idee  e  gli  opposti  sentimenti 
la  irraggiavano  come  con  riverberi  di  troppe  luci  di- 
verse dalle  quali  egli  rim^nea  quasi  abbagliato — in  ciò 
il  disorientamento  suo  psicologico  e  morale; —  ma  fu 
certo  un'intelligenza  non  volgare  e  di  gran  lunga  su- 
periore a  tanti  istrioni  della  cattedra  che  usurparono 
il  luogo  che  vacava  all'onestà  e  all'ingegno. 

Troppo  egli  scrisse,  e,  se  ne  togli  qualche  prmio 
lavoro — giova  per  esempio  almeno  ricordare  il  dotto  suo 
studio  su  la  Libertà — nulla  per  avventura  rimarrà  dure- 
vole, perchè  la  sua  prosa,  così  ricca  ed  esuberante 
di  erudizione,  non  ebbe  mai,  o  quasi,  un  organico  e 
temperante  concentramento  logico  né  un  lucido  dise- 
gno ideale  e  formale;  e  perciò  essa  parve  l'opera  ete- 
roclita d'  un  megalomane.  Ma,  nella  conscienza  degli 
onesti,  egli  lascia  il  vivo  rimpianto  che  onora  oltre 
la  tomba  un  forte  ingegno,  un'  anima  nativamente 
buona  e  una  vera  vittima  de'  tempi  i  quali  altro  non  ci 
danno  che  scandali  e  falsissime  glorie,  e,  per  di  più, 
una  condennenda  gioventù  degenere  cui  bene  è  di- 
retto lo  squillante  grido  del  Carducci  che  la  imprecò 
insuperabilmente  così:  «generazioncelluccia  di  stoppa, 
ricoperta  d'una  mano  di  gesso  tinta  a  color  di  ferro  >■>. 


Libro  IV. 
TOCCHI  E  SBOZZI 


La  donna  nella  musica  e  nella  poesia.  (*) 


SOMMARIO 

Saffo  —  Vittoria  Colonna  e  altre  poetesse  o  donne  eulte  nelle 
lettere  e  nelle  scienze  dal  1500  al  1848  —  Erminia  Foà  Fusinato  — 
Giannina  Milli  —  Beatrice  Bugelli  del  Pian  degli  Ontani  —  Vittoria 
Aganoor  —  Olinda  Bonacci -Brunamonti  —  Clelia  Bertini  —  Attilj 
—  Eva  Cattermole  Mancini  —  Elda  Gianelli  —  Ada  Negri  ^-  Grazia 
Modesani  -  Deledda. 


JKANTA  miniera  di  affetti  non  chiude  in  se  il  cuore  della 
donna?  Qual  mirabile  orchestra  di  suoni  e  di  vocali  me- 
lodie non  è  in  quell'ugola  squillante  che  ha  tanta  malia 
e  tanto  imperio  su  l'anima  delle  moltitudini  ?  Quanta  bellezza  e 
quanta  grazia,  quanto  riso  e  quanta  pietà,  quanto  dolore  e  quanta 
passione  non  è  mai  nel  seno  di  quella  fragile  natura  in  cui  si  cova 
il  seme  della  specie  e  il  frutto  della  vita  {  Par  ella  fatta  a  schiu- 
dere dell'essere  tutti  quanti  i  tesori  e  tutte  le  debolezze,  madre  e 
maestra,  seduttrice  ed  amante,  farfalla  e  genio,  ministra  di  gioie 
e  di  sventure  :  anche  par  nata  a  largire  fra'  doni  suoi  più  rari  non 
sol  quello  del  canto  ma  anche  l'altro,  ugualmente  meraviglioso, 
della  poesia.  —  E  pure  essa  —  sembra  incredibile!  —  non  ci  ha  dato 
musica  mai,  in  tutt'i  tempi  e  presso  tutt'i  popoli:  non  mai  da  quel 
cuore  ch'è  tutto  una  musica  d'incanti  sgorgò  l'armonico  ordito  di 
un  dramma  lirico,  ne  sola  una  nota  che  pur  di  lontano  ricordasse 
ì&yonna  o  la  Lucia,  il  Guglielmo  Teli  o  la  Traviata,  il  Fausto  il 
Mefistofele.  Qual  mai  opera  muliebre  fu  cantata  in  su  le  scene  ?  — 
Questa  nobile  figlia  della  Grazia  non  si  provò  una  volta  neppur 
nella  musica  minore.  Di  fatti,  qual  popolare  e  celebre  motivo  di 
lei  corse  mai  per  le  bocche  di  tutti  ? 
Lo  stesso,  per  la  poesia. 


(*)  Questo  breve  mio  studio  servi  per  una  pubblica  conferenza,  e  di  essa  ha. 
il  colore  e  il  calore  ed  anche  la  leggerezza. 


382 


Erra  ancora  fra  le  memorie  delle  più  leggiadre  fantasie  dell'El- 
iade, più  tosto  simbolo  o  ideale  che  storico  e  vivo  retaggio,  l'eterno 
femminino  dell'amore  nel  fulgido  genio  di  Saffo  un  cui  divino  fram- 
mento, in  una  breve  saffica  celebre,  il  Foscolo  rinverdì  di  forme 
liriche  nostre,  dove  spira  mirabilmente  soggettivo  il  greco  suo  spi- 
rito zacintio,  nato  cresciuto  allevato  sotto  i  materni  soli.  Molti 
credono  che.  come  Omero,  sia  pur  Saffo  un  mito  ,  un  di  que'  miti 
fulgidamente  sereni  che  invescarono  per  secoli  la  florida  giovinezza 
pura  del  popolo  ellenico,  di  quel  popolo  che  inebriato  di  umanesimo 
senti  virginalmente  e  impresse  nell'arte  della  parola  e  del  disegno 
tutta  la  poesia  della  natura,  tutta  l'estetica  della  vita.  Niente  di 
più  facile  0  credibile  che  in  quella  rinnovante  primizia  del  genere 
umano,  in  quella  felice  e  feconda  verdezza  di  pensiero  e  di  senso, 
il  divino  fantasma  del  verso  sbocciasse  come  un  flore  anche  dall'a- 
nima delle  donne,  e  spargesse  fra  gli  uomini  i  suoi  colori,  le  sue 
fragranze,  i  suoi  profumi,  a  continuare  e  a  flnire  le  ultime  linee  di 
quel  meraviglioso  quadro  della  bellezza. 

Tuttavia  anche  nella  leggenda  altro  non  rimane  che  il  nome  e 
questo  frammento  della  grande  poetessa  di  Lesbo  ;  il  che  a  senso 
mio  prova  che  la  poesia  non  arrise  munifica  al  cuore  e  all'anima 
di  questa  fida  compagna  dell'uomo,  né  cosi  spesso  come  nei  maschi 
spiegò  e  diffuse  in  lei  la  sua  moltivola  ala  dalle  penne  dorate  e 
iridescenti.  Potè  sempre  la  donna  delibare  della  musica  e  del  canto 
le  più  secrete  armonie  :  potè  suggerne  tutto  il  fascino  e  tutta  la 
voluttà;  ma  rado  o  non  mai  seppe  accoglierne  e  fecondarne  1'  ani- 
ma creatrice.  Se  ella  forse  più  dell'uomo  riesce  a  versare  a  piene 
mani  su'  cuori  tutt' i  divini  concenti  della  musica  polifonica  e  della 
favellata;  s'ella  può  imbeverne  come  attraverso  tutt'  i  filtri  dell'a- 
nima tutte  le  melodie  e  tutti  gli  accordi  ;  se  vale  ad  assimilarne 
tutti  gli  echi,  tutte  le  sfumature,  tutti  i  motivi  :  par  d"  altro  canto 
non  inclini  a  trovarli  e  a  comporli  di  per  sé,  mancandole  in  ciò  la 
libera  signoria  del  genio.  Questa  grande  maliarda  degli  affetti,  que- 
sta divina  creatura  della  Grazia,  ha  1' instrumento  solo  ma  non 
l'aria,  il  trillo  ma  non  il  segreto  della  melodia,  il  gorgheggio  ma 
non  la  nota  primigenia  del  suono  ;  ha  la  corda  ma  non  il  canto 
intimo,  ha  l'eco,  ma  non  la  voce  :  è  più  tosto  la  mirabile  esecutrice 
di  orchestra  che  non  la  maestra:  è  meglio  la  sapiente  alunna  di 
Orfeo,  0  la  fantasiosa  modulatrice  della  strofe,  che  non  la  geniale 
poetessa.  Essa  rifa,  o  ripete,  o  riflette  ;  non  crea. 


383 


Quante  volte  non  ci  è  avvenuto  di  sentir  recitare,  in  qualclie 
salottino  mondano  o  in  un  gradito  ritrovo  di  conversazione  ele- 
gante, una  lirica  bella,  modulata  soavemente  e  melodicamente  ar- 
peggiata dalla  rosea  bocca  di  una  vergine  o  di  una  freschissima 
sposa?  Con  qual  dolce  passione  e  con  quanta  spiritale  melodia 
non  ci  è  parsa  risentire  per  virtù  altrui  un'ode,  una  romanza,  una 
canzone,  parto  invidiato  della  nostra  mente  e  sfavillante  guizzo  del 
nostro  cuore  I  E  li  sotto  il  verone  l'ammirato  maestro  come  spesso 
si  è  fermato  estatico  a  gustar  la  sua  musica  breve,  gorgheggiata 
da  un'ugola  canora  di  donna  con  freschezza  vellicante  di  trilli  !  E 
ne'  grandi  o  ne'  piccoli  teatri,  i  più  splendidi  olimpi  in  cui  la  donna 
è  veramente  sovrana,  quanta  frenesia  di  anime  e  qual  folle  rapi- 
mento di  cuori  non  ha  fra  gli  echi  ripetuti  degli  applausi  circon- 
fuso come  di  un'aureola  quel  frin-frin  di  voce,  quel  cantante 
flautetto  di  vocali  melodiev  Ma  si  può  dire  siasi  dileguata  da 
tempo  anche  l'eco  di  tante  eroine  di  teatri,  superbe  conquistatrici 
di  cuori  e  di  fortune  invidiate  o  di  onori  :  della  Pasta  e  della  Ma- 
libran,  della  Frezzolini  e  della  Lablanche,  della  Ungher  e  della  Te- 
scher  ,  e  ,  fra  le  viventi ,  della  Bellincioni  e  della  medesima  Patti. 
Ma  ancora  son  vivi  e  giovani  e  ammirati  il  Paisiello,  il  Donizetti,  il 
Mercadante  e  il  Petrella.  Ei  mi  pare  sia  1'  artista  di  canto  come 
una  iridata  farfalla,  che  gira  e  gira  e  gira,  e  poi  si  spegne  intorno 
al  vivido  lume  della  sua  gloria;  ma  il  maestro  e  il  canto  restano  . 
Mi  pare  come  un  fiore  che  dopo  avei*e  dal  calice  odorato  diffuso  in- 
torno tutta  la  sua  poesia  di  odori,  prima  sotto  il  rorido  bacio  del- 
l'aurora e  poi  del  fulgido  sole,  reclina  su  lo  stelo  il  vergine  capo, 
avvolto  da'  rosei  tepori  del  sole  morente,  nel  cui  ultimo  bacio  av- 
vizzisce e  muore.  Cosi  il  fugace  trionfo,  tutto  fatto  di  arpeggi  e  di 
trilli,  nella  gorgia  di  una  donna,  dopo  l'ultimo  bacio  della  gloria, 
della  gloria  caduca  dell'attimo.  L'anima  sua  non  resta. 

Ma  per  la  poesia  la  Donna  —  sento  spesso  ripetermi  —  fece 
qualcosa  di  più:  creò  veramente  talvolta.  Ecco:  rimane  assai  poco 
a  dir  di  lei  come  poetessa.  Scrisse  versi,  potè  certo  piacere  ,  ma 
non  creò:  nessun  canto  di  donna  ci  è  durato  ne'  cuori.  Certo  an- 
ch'ella,  meraviglia  del  tempo  in  che  visse,  si  esercitò  largamente 
in  più  discipline  e  in  più  arti:  lettere  umane  e  dottrine  teologiche, 
prosa  e  poesia,  filosofia,  matematiche,  diritto;  e  in  esse  potè  anche 
rivelare  precocità  e  vivezza  d'ingegno,  cultura  vasta  e  acuta,  eru- 
dizione varia  e  attitudini  molteplici,  le  quali  doti  si  videro  spesso 
congiunte  a  virtù  domestiche  e  civili,  ad  amor  di  patria  e  di  li- 
bertà, ad  azioni  nobili  e  generose,  e  a  più  altre  manifestazioni  che 


384 


appunto  perchè  emanazioni  di  donna  furono  dai  contemporanei  ce- 
lebrate oltre  il  segno.  Ma  con  questo  non  deve  dirsi  che  tali  donne 
improntarono  Topera  loro  di  un  durevole  suggello  di  originalità  e 
di  un'intima  forza  psicologica  destinata  a  perpetuarsi,  a  cementarsi 
nel  comune  patrimonio  de"  secoli,  col  lume  eternamente  vivo  del 
Genio:  1"  opera  loro,  a  scrutarla  veramente  addentro,  non  uscì,  né 
forse  poteva,  dalla  debole  e  duttile  natura  della  donna:  in  poesia, 
fu  rapido  baleno  di  facili  fantasie,  o  fosforescenza  d'imagini,  o  lan- 
guore di  affettività,  di  mollezza  sentimentale,  di  voluttuosa  tene- 
rezza domestica,  senza  vigore  di  analisi,  senza  nutrimento  di  pen- 
siero, senza  quel  novo  e  quel  profondo  della  vera  creazione;  e  ciò 
tutto  perché  ella  senti,  imaginó,  inventò  fuori  del  grande  dissidio 
della  vita,  politica,  civile,  sociale,  a  cui  direttamente  non  partecipò, 
e  senza  della  quale  non  e*  é  forza  d"  ingegno  che  crei  o  che  rin- 
novi. 

Volendo  restare  in  casa  nostra  noi  ricorderemo  innanzi  tutto 
Vittoria  Colonna  (1490-1547)  di  cui  si  piacque  il  divino  Michelangelo 
e  a  cui  l'Ariosto  contribuì  a  dare  la  immortalità.  Ebbene,  amerei 
sapere  qual  canto  di  lei  ancor  viva  fra  noi.  E  s'ella  dovè  a'  due 
celebri  artisti  il  niondan  ro,no>-f  della  sua  grande  e  non  breve  no- 
minanza, non  potè  affidare  alla  storia  il  nome  onorato  se  non  per 
virtù  dell'  illustre  famiglia  onde  uscì  e  soprattutto  del  suo  ideale 
amatore;  ma  la  sua  poesia  non  si  legge  e  non  s'  recita  più  neppur 
da'  raccoglitori  d'inventari.  Divina  la  disse  il  secolo  suo;  e  certo 
l'essere  nata  di  famiglia  che  tra  i  fasti  gentilizii  vantava  un  papa, 
molti  cardinali,  un  precettore  di  re,  e  fra'  duci  gloriosi  ^Slarcanto- 
nio  e  Fabrizio  del  quale  ultimo  era  figliuola,  dovè  movere  principi, 
scultori,  poeti  intorno  al  nome  di  lei  che  a'  vanti  di  gentildonna, 
di  baronessa,  di  marchesa  congiungeva  con  quello  della  bellezza 
il  dono  della  poesia,  e  insieme  il  pregio  della  dottrina  elegante, 
della  virile  bontà,  del  vivo  sentimento  religioso  e  quasi  mistico. 
Virtù  iiueste  che  doverono  meritamente  influire  a  celebrarla:  sto- 
ricamente però  il  suo  ricordo  migliore  è  assai  più  di  donna  che  di 
poetessa.  Ma  la  poesia  è  poesia,  e  quando  zampilla  da  un  cuore  di 
donna,  la  è  sempre  cosa  divina.  Non  è  guari  un  critico  illustre.  Bo- 
naventura Zumbini,  volle  rinverdirne  la  fama  in  una  sua  mirabile 
prosa  (*)  eh'  è  tutta  pregna  della  divina  poesia  dell'  isola  d'  Ischia 
sul  cui  castello  la  gran  donna  visse  e  poetò.  Sarebbe  assai  vero 
quello  che  il  critico  dice  o  meglio   canta   di    lei,  se  1*  ammirazione 


(♦)  Studi  di  Litleratura  Italiana  —  Firenze  —  Suf;ce$sori    Lo   Monnier  — 
1S94  —  Pagg.  3-31. 


385 


non  ci  paresse  un  pò"  eccessiva,  se  dopo  rilette  le  Rime  (*)  della 
Colonna  non  pensassimo  ancora  che  ben  poco  è  in  esse  che  ricordi 
la  immortale  poesia,  e  se  non  credessimo  tuttavia  che  dal  Petrarca 
molto  essa  derivò  d'inspirazioni,  di  trovate,  di  movenze,  di  pensieri, 
di  forme,  pur  dove  parve  a"  suoi  o  può  pareri;  anc'oggi  si  delinei  una 
flsonomia  tutta  propria  e  personale.  Certo  la  Colonna  —  e  qui  siamo 
collo  Zumbini  —  resta  nella  vita  e  nelle  lettere  italiane  il  più  sin- 
golare spirito  femminile,  a  quel  modo  che  la  sua  poesia,  pur  pro- 
venuta dal  Petrarca,  si  serba  sincera  e  mostra  quello  che  lo  Zum- 
bini istesso  dice  leopardianamente  il  pensiero  dominante  di  lei;  il 
che  di  fronte  a  tante  bambocciate  di  poeti  e  poetesse  petrarcheg- 
gianti  del  500  e  de'  secoli  di  poi  potè  certo  parere  genialità  —  Ma 
con  tutto  questo  seguiteremo  a  credere  che  le  sue  Ri/ìie,  appunto 
perchè  infuse  di  quel  misticismo  che  annebbia  troppo  la  natura  e 
la  vita,  non  hanno  e  non  possono  avere  l'eterno  sir/iUo  della  poesia 
geniale,  la  quale  è  appunto  la  poesia  della  vita  e  delle  cose;  onde 
la  Colonna  porta  solo  la  impronta  del  secolo  onde  usci  e  nel  quale 
si  chiuse  la  sua  dicinilà. 


Ma  le  altre  poetesse  del  500  non  si  ricordano  oggi  neanche  di 
nome:  morirono  anch'esse  con  le  lor  corti  d'amore.  E  cosi  tutte  le 
altre  de"  secoli  successivi.  Però  il  tempo  nel  quale  vissero  le  glo- 
i-ificò  co'  più  insigni  e  iperbolici  nomi.  Cassandra  Fedele  nata  in 
Venezia  nel  14G5  e  morta  nel  1558,  la  quale  su  la  sua  cetra  improv- 
visava in  musica  versi  latini,  era  detta  la  Decima  Musa  —  Tullia 
d' Aragona,  discendente  da  una  superba  dinastia  di  re  e  figlia  na- 
turale di  un  cardinale,  l'arcivescovo  Pietro  di  Palermo,  bellissima 
e  lasciva  giovinetta  morta  poi  come  una  santa  nel  1550,  fu  amata, 
adorata,  corteggiata  come  nessun'alti'a  mai  prima  e  dopo  di  lei;  in 
gioventù  scrisse  versi  di  provocante  voluttà,  ma  datasi  matura  a 
una  rigida  vita  di  spirito,  corresse  la  non  virginale  bellezza  de' 
canti  giovanili  con  rime  assai  men  belle  ma  più  pudiche;  e  Jacopo 
Nardi,  il  traduttore  di  Livio,  la  disse  erede  di  Cicerone  per  la  ele- 
ganza della  sua  cultura  latina. 

Gaspara  Stampa,  nata  a  Padova  nel  1523  e  morta  di  amore  il 
1554,  fu  detta  la  Saffo  rediviva;  e  finalmente  di  Teresa  Benedettini, 
nata  in  Lucca  il  1763  e  morta  il  1837,  bellissima  donna  e  ballerina 


(*)  liime  e  lettere  di  Vittoria    Colonna  —  Firenze,  G.  Barbera,  1800. 

25 


386 


proi-ace  e  improvvisatrice  in  tutt'i  generi  di  poesia,  si  disse  che 
cantarci  come  una  Musa,  e  danzava  come  una  Grazia:  scrisse  più 
poemi.  V Adone,  la  Teseide,  Viareggio  (quesf  ultimo,  didascalico), 
e.  come  già  il  Petrarca,  fu  incoronata  in  Campidoglio. 

Eccone  altre  in  più  tempi  e  delle  più  diverse  regioni  italiane: 
Tarquinia  Melza  {1542  -  1G17),  di  Modena,  scrisse  versi  italiani  e 
latini  di  spontanea  concezione,  e  pur  imitatrice  del  Petrarca,  tu 
quella  che  meno  se  ne  lasciò  mA\xem».ve;  Laura  Maria  Bassi  (\~t\l- 
1778)  di  Bologna,  dottissima  in  filosofia  e  profonda  in  greco  e  in 
latino,  arcade,  cattedratica,  poetessa,  verseggiò  in  italiano  e  die 
con  ammirabili  successi  anche  pubblici  esperimenti  di  sé  e  in  con- 
troversia con  insigni  professori  parlando  latino;  Diodala  Salti  zzo 
Itoi'ro  (1764-  1849),  nata  in  Torino,  scrisse  in  terza  rima  un  poema 
filosofico.  Ipazia,  e  insieme  novelle  e  altre  prose  ;  la  napolitana 
Giuseppina  Guacci,  nata  povera  e  vissuta  tra  il  1800  e  il  1848.  di 
precocissima  vena  poetica,  cantò  con  viva  ispirazione  meridionale, 
lasciandoci  versi  che  quando  non  dettati  pel  bisogno  e  a  richiesta 
di  tanti  conservano  ancora  la  freschezza  della  miglior  gioventù  e 
insieme  forti  sensi  di  patria  e  di  libertà;  e  finalmente  Giuseppina 
Turrisi  Colonna  (1822-1848),  palermitana,  versata  in  greco  e  in  la- 
tino, scrisse  canti  patrii  pieni  di  fede  e  di  calore,  e  mori  giovanis- 
sima, a  26  anni  :  il  Byron  la  conobbe  e  la  celebrò. 

Ecco  una  terza  lista  di  donne,  non  poetesse,  ma  profondamente 
esercitate  nelle  lettere  e  nelle  scienze. 

Per  la  eloquenza  si  segnalò  Costanza  di  Varano,  nata  in  Ca- 
merino il  1428  e  morta  diciannovenne  nel  1447.  Come  protettrice 
delle  lettere  e  delle  arti  si  ricorda  Giulia  Gonzaga,  morta  a  Man- 
tova nel  1550:  di  nobil  sangue  antico  e  di  elegantissimo  ingegno, 
fu  delle  più  ammirate  gentildonne  dell"  aristocrazia  italiana.  Per  le 
lettere  greche  e  latine,  per  le  discipline  filosofiche,  per  la  poesia 
fu  celebre  Olimpia  Morato  (1526  -  1555),  educata  e  istruita  alla  Corte 
estense:  fu  il  più  vasto  ingegno  e  il  più  forte  animo  femminile  del 
600,  come  quella  che  non  pure  insegnò  con  gloria  lettere  greche  e 
latine  nella  università  di  Eidelberga,  ma  abbracciò  ancora  e  ani- 
mosamente propugnò  in  Germania  la  dottrina  della  Riforma. 

Anche  nel  diritto  erano  versate  quelle  donne,  onde  ricorderemo 
Pellegrina  Amoretti  nata  ad  Oneglia  il  1756  e  mortali  1786:  fu  au- 
trice di  un  libro  celebre.  Diritto  delle  doti,  e  il  Parini.  in  occasione 
della  laurea  da  lei  conseguita  in  ambe  le  leggi  nella  Università  di 
Pavia  l'anno  1777,  la  celebrò  con  la  canzone  la  quale  è  appunto 
intitolata  La  Laurea  [Quell'ospite  gentil  die  tiene  ascoso...)  —  Un" 
altra  donna  di  molteplice  ingegno  e  versata  nelle  lettere  classiche, 
nella  filosofia  e  soprattutto  nelle  matematiche   che,    per   invito    di 


387 


Benedetto  XIV,  inseminò  con  tanta  fama  nella  Università  di  Bolo- 
gna, è  Maria  Gaetana  Agnesi  nata  a  Milano  nel  1718  e  morta  nel 
1779,  la  quale  ci  lasciò  le  Istituzioni  analitiche. — Finalmente  ricorde- 
remo un'altra  donna,  di  attica  bellezza  e  pur  greca  di  spirito  e  di 
nascimento,  la  Isabella  Teutochi  Albiriozi,  nata  a  Corfù  nel  1763 
•e  morta  nel  183(i.  Versatissima  nelle  scienze  sociali,  ci  lasciò  i 
Ritratti,  che  son  tanti  quadri  viventi  della  vita  di  allora.  Fu  am- 
mirata e  idolatrata  da'  più  celebri  scrittori  e  artisti  del  tempo  : 
l'Alfieri  la  ricordò  nella  sua  Vita,  il  Byron  la  conobbe  e  la  sublimò, 
■e  il  Canova  ne  ritrasse  nel  marmo  la  viva  e  bellissima  ima^ine. 

Tanto  lume  di  svariata  cultura  e  di  nobile  animo  clie  la  donna 
italiana  ditt'use  dal  500  al  1848,  non  credo  brilli  oggi  ugualmente 
nelle  prose  e  ne"  versi  delle  nostre  donne  le  quali  non  hanno  in 
generale  né  quel  nutrimento  di  studi,  né  quella  decorosa  nobiltà 
di  sentire,  né  quella  potenza  d'ingegno  che  tu  allora  tanto  più  pro- 
digioso quanto  più  si  rivelò  nelle  angustie  della  servitù.  Le  nostre 
scrittrici  coetanee  dimostrano  solo  quelle  qualità  che  son  più  tosto 
S(jontanea  irradiazione  della  natura  che  non  di  un  saldo  carattere 
e  di  una  torte  e  sana  educazione  letteraria  specialmente  clas- 
sica ,  quantunque  oggi  non  manchino  mezzi  e  instituti  dove  pos- 
sono esse  molto  più  facilmente  formarsi.  Noi  ammiriamo  le  antiche, 
•e  c'inchiniamo  riverenti  dinanzi  a  cosi  insigni  esempi  di  virtù 
operosa,  di  virile  bontà  ,  di  versatile  cultura ,  di  spirito  pronto  e 
precoce  ;  ma  esse,  pur  avendo  un  ricordo  nella  storia,  non  hanno 
tuttavia  quella  i  dì  mortalità  che  è  solo  serbata  alle  manifestazioni 
<li  quel  vero  che  dura  eterno  nelle  progressive  evoluzioni  dei  secoli 
succedenti,  di  quel  vero  il  quale  ha  in  sé  queir  intima  gioventù 
di  pensiero  che  né  innovazioni  o  mutamenti  varranno  a  spegnere 
mai  nel  cuore  di  tutte  le  generazioni ,  in  cui  resterà  sempre  du- 
revole il  solco  profondo  del  Genio,  del  Genio  che  non  passa.  Que- 
st'unico vanto  spetterà  pur  troppo  al  maschio,  tinche  egli  rimarrà 
il  solo  lottatore  nella  vita. 


Veniamo  un  po'  al  tempo  nostro  in  cui  vedono  alcuni  un  rin- 
novamento della  donna  anche  nella  poesia.  E  cominciamo  da  Er- 
minia Foà  Fusinato  che  insieme  con  Arnaldo  rinfrescò  di  un  rivolo 
pratiano  di  poesia  l'ultima  stagione  del  romanticismo  decadente.  Ma 
se  del  marito  anche  avanzano,  tra  quel  morto  fogliame  che  vegetò 
rigoglioso  di  ubertà  sua  in  quell'albore  lunare  di  sentimentalismo 
lirico  che  fu  l'età  innanzi  al  '<30,  avanzano  intrecci  di  strofe  mira- 


388 


bili  ed  eclii  di  poesia  veia  con  liyunanze  classiclie;  della  Fucinato 
non  si  legge  né  si  declama  più  neppure  la  più  bella  e  simpatica 
ballata  de"  nostri  primi  anni  :   la  è  appena  un  ricordo. 

Emula  di  lei  fu  Giannina  Milli  che  versò  peregrina  per  tutta 
Italia  il  suo  canto,  e  che  molto  visse  in  Firenze,  la  quale  institui 
per  lei  honoris  causa  una  pensione  vitalizia  come  alla  prima  poe- 
tessa della  penisola.  Multo  si  può  certo  perdonai-e  alla  donna  ma 
non  alla  Milli,  all'infuori  di  una  molto  facile  vena,  la  eccessiva 
leggerezza  di  tocco,  il  manco  di  vitalità  nel  pensiero  affettivo  e  nel 
fantasma  lirico,  e  la  poco  nutrita  efficacia  della  rappresentazione; 
senza  poi  nulla  dire  della  forma,  spesso  incerta  e  prosastica,  sem- 
pre un  po'  cedevole  e  slegata.  Di  lei  che  attrasse  la  passata  ge- 
nerazione non  resta  che  il  ricordo  ,  e  anche  questo  non  vivo  e 
durevole.  Poiché  siamo  in  Toscana  cade  qui  in  acconcio  nominare 
Beatrice  Bugelli  del  Pian  degli  Ontani,  la  fantasiosa  e  illetterata 
pastorella  di  Cutigliano  nel  Pistoiese,  morta  ottuagenaria  e  poe- 
tando :  di  lei  nel  1885  Renato  Fucini  rinfrescò  la  memoria  in  una 
bella  pagina  della  Domenico,  del  Fracassa.  Ma  que'  canti  freschi  e 
inspirati,  quelle  numerose  ottave,  son  di  quelle  grazie  rusticane 
che  saltellano  allegre  passando  pel  ritmo  popolare  senza  lasciar 
traccia  di  sé  :  son  la  superficie  anche  leggiadra  «Ielle  cose  e  del 
sentimento,  ma  non  la  passione  della  vitale  poesia. 


Abbiamo  le  viventi:  Vittoria  Aganoor.  Alinda  Bonacci  -  Bra- 
naiHonti,  Clelia  Berlini-  Attili,  Eva  Cottermole  -  Mancini,  Annie 
Viranti,  Elda  Gianelli,  Ada  Negri,  la  più  celebre.  Grazia  Madesani- 
Deledda.  La  prima,  veneto-armena  di  sangue  e  di  sentimento,  già 
alunna  dell"  abate  Giacomo  Zanella,  ha  dal  Vicentino  attinto  più 
di  un  tocco,  cioè  un  pò"  di  (luelTonda  snella,  fresca,  mormorante:  e 
ostenta,  a  preferenza  delle  altre,  una  maggior  varietà  di  contenuto, 
di  forza,  d"  inspirazione;  ma  la  sua  lirica  non  esce  da"  margini  della 
femminilità  :  é  di  quelle  che  passano.  Un'altra  poetessa,  fedele  a- 
lunna  e  poi  amica  di  Giacomo  Zanella  col  quale  e  col  MafFei  ebbe 
già  un'assidua  dimestichezza  ideale,  é  la  perugina  Alinda  Bonacci 
-Briinamonti,  che  di  que'  due  maestri  rende  appunto  ne'  suoi  versi  il 
profumo  della  espressione  e  la  gentilezza  del  pensiero  :  ha  del  pri- 
mo una  certa  larghezza,  o  meglio  ridondanza,  dell'eloquio  poetico, 
più  discorsivo  che  lirico,  e  del  secondo  un  certo  tepore  d'  imagini 
e  un  pò"  di  quella  fresca  e  limpida  vena  d"inspirazioni  calme  e  de- 
licate. Ma  con  tutto  questo  la  lodata  autrice  de"    Canti,    de"    Canti 


389 


n&zionali,  della  Roccia,  de'  Versi  campestri,  della  Polonia,  della 
Esule,  ecc.,  non  pare  che  schiuda  dall'animo,  insieme  co'  pensieri 
•e  cogli  affetti  compenetrati  dai  dolori  della  vita,  quel  soffio,  queir 
impeto,  quell'ala,  che  e  il  vdro  carattere  della  grande  e  durevole 
poesia,  né  quella  classica  leggiadria  di  torme  che  ancora  ci  fa  am- 
mirare ed  amare  le  pia  care,  le  più  belle,  le  più  alate  poesie  del 
lirico  vicentino. 

Clelia  Bertini  -  Attili  nelle  liriche  sue,  che  son  varie  e  di  ama- 
bile contenuto,  non  ha  né  la  forza  ne  la  vena  della  Brunamonti. 
ma  tuttavia  mostra  una  sana  e  corretta  facilità  di  concezioni  e  di 
trovate  le  quali  non  son  comuni  alla  più  parte  delle  nostre  giovani 
poetesse  che  tormentano  o  sciupano  molto  il  motivo  erotico  e  pas- 
.sionale.  Donna  assai  eulta  nelle  lettere  e  nelle  arti,  conferenziera 
applaudita,  educatrice  e  insegnante  valorosa,  ha  meritamente  ao- 
•qiiistato  cogli  studi  gentili  e  col  versatile  ingegno  una  bella  nomi- 
nanza fra  le  nostre  più  lodate  scrittrici.  E  se  nel  verso,  che  troppe 
volte  procede  un  po'  scolorato  e  dimesso,  quasi  prosastico,  sapesse 
infondere  un  pò  più  di  vita  e  di  efficacia,  saprebbe  darci  una  più 
alata  poesia  ;  e  forse  per  questo  ella  riesce  più  ammirevole  nella 
decorosa  e  piana  agilità  della  prosa,  eh'  è  nutrita  di  più  fecondi 
pensieri  e  di  più  accesi  sentimenti.  Chi  non  ricorda  ai  be'  tempi 
d'oro  di  Angelo  Sommaruga,  il  Cesare  Augustolo  della  giovane  let- 
teratura italiana,  un  dodici  o  quindici  anni  fa,  con  qual  coro  di 
laudi  vennero  accolti  i  versi  della  Contessa  Lara  in  cui  parve  sdop- 
piarsi l'anima  lirica  di  Lorenzo  Stecchetti?  Or  mi  dicano  gli  editori 
quante  altre  edizioni  di  quelle  tenui  rime  vennero  in  luce  ?  Già  i 
lettori  accolsero  un  po'  stanchi  e  dubbiosi  un  secondo  volume  di 
versi  della  medesima  autrice,  la  quale  ne  prima  ne  poi  seppe  uscire 
dal  circolo  riflesso  del  maestro  di  cui  la  fama  sempre  più  cede  e 
dilegua;  che  anzi  di  poi  la  signora  Mancini  ,  la  poetessa  infelice, 
si  die  a  scrivere  sempre  novelline  e  bozzetti  o  prosa  critica,  e  non 
più  poesie,  pe'  fogli  letterari;  a  quel  modo  che  al  maestro,  tranne 
le  rade  volte  che  si  abbandona  alle  strane  fantasie  di  Argia  Sbo- 
lenfi,  ora  da  tempo  piace  più  il  segreto  nido  di  una  pubblica  biblio- 
teca, che  non  un  lembo  del  Parnaso  o  le  placide  linfe  d'Ippocrene. 
Chi  ricorda  più  Annie  Vivanti  che  una  breve  prefazione  del  Car- 
ducci fé'  presto  celebre  i  Chi  di  quella  scapigliata  forma  erotica, 
in  cui  parve  impressa  nella  mistura  del  sangue  sassone  e  dell'  ita- 
lico un'anima  molteplice  e  geniale,  sa  eleggere  oggi  pur  un  fram- 
mento anche  pe'  salotti  eleganti  ì 

La  triestina  Elda  Gianelli  parrebbe  avere  più  coi'de  alla  sua 
vergine  lira:  è  certo  delle  nostre,  se  non  la  più  forte  e  inspirata, 
|a  più  ideale  e  composta  nella  delineazione  e  comprensione  del  fan- 


390 


tasma  lirico  e  del  contenuto  affettivo;  ma  pur  ammirando  ne"  suoi 
versi  la  mite  e  serena  purezza  del  concepire  e  del  sentire,  le  manca 
spesso  il  vigore  risentito  e  la  ori<i:inalità  delle  trovate,  onde  ha  ben 
pochi  componimenti  da  poter  consacrare  alle  Grazie  e  alle  Muse  le 
quali,  si  sa,  concedono  severe  il  lor  .sorriso  solo  all'arte  che  dura 
e  che  rimane.  Trionfa  invece  oggi  la  lirica  virile  di  Ada  Negriy. 
lodigiana,  alunna  di  Paolo  Tedeschi,  già  maestra  in  Motta  Visconti 
e  poi  nella  R.  Scuola  normale  Gaetana  Agnesi  di  Milano:  fu  vinci- 
trice del  concorso  Milli  in  F'irenze,  e  dal  10  marzo  del  volgente 
anno  (1897)  compagna  felice  del  signor  Gaetano  Garlanda,  ricco  indu- 
striale di  Strona  nel  Biellese.  Cosi  Fumile  vita  da  lei  cantata  in 
versi  che  piacquero,  la  sollevarono  su  le  ali  della  poesia  alla  for- 
tuna e  alla  felicità  della  gloria  e  della  famiglia:  esempio  codesto- 
assai  raro,  anzi  curioso  contrasto  della  vita  e  dell'  umano  destino. 
Canterà  ancora,  la  fortunata  poetessa,  le  lacrime  degli  oppressi,  o 
almeno  lo  farà  con  quel  naturale  impeto  di  inspirazione  che  la  rese 
cosi  celebre  \  Non  avrei  dillicoltà  di  assegnare  una  sede  fra  gl'immor- 
tali dell'  Olimpo  alla  rinomata  autrice  di  Fatalità  e  di  Tenrpi'sie  se,  per 
tacer  di  altro,  la  sua  non  mi  paresse  più  tosto  una  forte  narra- 
zione o  descrizione  lirica  della  doglia  sociale,  che  non  una  ricca- 
mente alta  e  rinnovante  poesia,  sul  cui  facile  successo  molto  intìui 
la  scottante  novità  del  contenuto  e,  più  ch'altro  ,  V  opera  industre 
di  un  noto  editore  lombardo.  Ma  se  lirica  vera  non  è  soltanto  la 
rappresentazione  o  la  narrazione  pur  singhiozzante  e  gagliarda  del 
gemito  moderno,  manca  in  essa  sul  fondo  storico  od  oggettivo  il 
colpo  d'ala,  e,  nella  irradiazione  del  fantasma,  l'ètere  1'  azzurro,  il 
volo  dell'estro,  errante  con  sigillo  proprio  e  con  flusso  e  riflusso 
di  tutte  le  correnti  affettive  per  Veplacordo  dell'  anima. 

Sorvoliamo  su  molte  altre  verseggiatrici,  fra  le  quali  ricordiamo 
passando  la  llachele  Botti-  Binda,  versata  cosi  nella  inusica  come 
nella  poesia,  e  per  manco  di  spazio  terminiamo  con  Grazia  De- 
ledda,  la  quale  di  recente  ò  andata  sposa  al  signor  Palmiro 
Madesani  nella  sua  Xuoì'o  dove  si  vive  delle  più  accese  e  calde 
memorie  dell'  isola  nativa.  Nelle  poesie,  nelle  novelle,  ne"  romanzi 
ci  rende  la  vita  della  Sardegna  con  quella  forza  che,  tranne  la 
Negri,  non  ci  par  notare  nelle  emule  sue.  C  è  nel  suo  spirito  un 
che  di  novo,  di  virile,  di  selvatico,  di  vivo  che  dà  alle  sue  prose  e 
a"  suoi  versi  come  la  espressione  vergine  di  una  terra  abbando- 
nata ma  pur  feconda  di  vigore  e  di  gioventù.  Ninno  meglio  di  lei, 
o  almeno  cosi  largamente,  ci  ha  cantato  o  descritto  la  selvaggia  e 
rude  bellezza  di  quelle  terre;  ma  ci  aspettiamo  da  lei  molto  ancora 
di  più.  perchè  ella  è  giovanissima,  di  soli  27  anni,  ci  aspettiamo  di 
veder  congiunta  questa  sua  forza  nuova  a  un'  arte  molto  più  ela- 
borata e  Hnita. 


391 


Si,  la  poesia  della  donna  fu  sempre  monocorde:  ahimè,  oltre  la 
suiierficie  delle  cose  e  al  di  là  del  gemito  o  del  sospiro  ch"è  come 
uno  zèffiro  dell'anima,  essa  non  squilla  e  non  canta  più  nella  mi- 
rabile polifonia  de*  concenti. La  poesia  è  in  fondo  lo  stesso  che  la  mu- 
sica come  la  concepì  e  la  eseguì  Riccardo  Wagner,  ma  più  vasta,  più 
complessa,  più  riverberante.  La  lirica  femminile  e,  in  gran  parte, 
quella  maschile  dell"  oggi,  è  tutta  qui:  facilità  facilità  facilità,  con 
un  pizzico  d'arcadia,  e  narrare  e  descrivere  a  un  tempo:  non  altro. 
E  non  si  vuol  capire  che  tutto  codesto  è  la  morte,  è  la  ossessione 
della  lirica,  la  quale  è  tutta  un'  orchestra  di  suoni  nel  molteplice 
ordito  dell'anima,  è  il  rapidissimo  scorcio  di  tutto  un  draunua  psi- 
cologico nei  rapimento  fantastico  e  nel  momento  passionale  di  un 
solo.  Ma  il  maschio  tutto  questo,  che  può  solo  in  alcuni  tempi  non 
avvenire  per  manco  d'arte  o  di  vita,  lo  ha  sempre  nella  complicata 
natura  sua;  e  anch'oggi  non  manca  in  alcuni  pochi.  In  lei  no.  per 
quello  che  già  dissi  :  qual  Divina  Coinniedia  o  Iliade  fu  mai  ten- 
tata nel  corso  dei  secoli  da  uno  spirito  di  donna  ?  E  purè  questa 
ha  la  sua  propria  poesia  e  in  più  alto  grado  che  il  maschio.  Que- 
sta poesia  è  la  famiglia,  la  figliolanza,  la  maternità.  La  donna  è 
una  grande  poetessa  di  azione.  Qual  musica  melica  o  favellata  può 
mai  d'intorno  alle  innocenti  cune  superar  di  lei  la  infinita  malia 
del  cuore,  superar  quello  che  sì  bene  espresse  il  Giusti  nella  sua 
celebre  lirica;  Affetti  di  una  madre?  Come  il  maschio  per  istinto 
creativo  è  tutto  intorno  alle  creature  della  sua  mente,  di  cui  si 
strugge  su  la  cote  deU'arte  proprio  come  la  madre  fa  coi  baci  sul 
bambino,  cosi  questa  fila  e  compone  la  sua  poesia  in  un  continuo 
struggimento  di  sé  stessa  per  la  naturale  e  viva  creaturina  sua, 
frutto  dell'amore  e  delle  sue  viscere.  Ancora  :  per  la  vera  poesia  è 
necessario  il  dissidio,  il  grande  dissidio  dell'anima  nel  dissidio  della 
vita,  che  manca  alla  donna  la  quale,  tutta  chiusa  nel  candido  suo 
nido,  non  conosce  altro  martirio  oltre  quello,  per  lei  dolcissimo  . 
della  maternità.  Molti  oggi  la  chiamano  su  l'agone  della  vita,  su  la 
tempestosa  palestra  dell'ambiente,  più  letterata  ciie  madre,  più  dot- 
trinaria che  massaia,  meno  educatrice  e  più  poetessa.  Ah  !  no:  la- 
sciamola vivere  li,  nell'unico  suo  terrestre  paradiso,  in  quel  pla- 
cido covo  di  anime,  in  ((uell'aereato  e  luminoso  asilo  di  bellezze  e 
di  promesse  crescenti,  donna,  signora,  madre,  maestra  ;  non  chie- 
diamole di  più  :  è  lì  ch'ella,  operaia  di  affetti  e  inspiratrice  di  ani- 
me, tesse  e  ritesse  la  più  bella,  la  più  vergine,  la  più  vera  poesia 
del  mondo  e  della  specie. 


11. 

Le  tradizioni  classiche  nella  prosa 
de'  critici  contemporanei  **' 


Video  ìiieliora  proboque,  deteriora  seqiior 

Ovidio^ 

mjvu  l'argomento  e  degno,  più  che  a  prima  vista  non  paia, 
di  miglior  trattazione,  certo,  di  più  larga  e  accurata  di- 
I^^^Ìa  samina.  Vorrei  invitare  a  studiarlo  —  ed  è  questo  che, 
più  ch'altro,  propongomi  fare  in  questo  articolo  —  quelli  che  della 
cultura  odierna  han  più  minuta  conoscenza  o  più  pratica  esperienza. 

Diam  dunque  uno  sguardo,  rapido  e  fuggente  ,  alla  cultura  no- 
stra quale  si  atteggia  e  manifesta,  non  nei  lavori  d'  arte,  ma  in 
quelli  soltanto  di  critica  e  prosa. 

I  critici  contemporanei  —  quelli,  almeno,  che  son  reputati  più 
insigni  —  possono  andar  distribuiti,  secondo  la  maggiore  o  minor 
importanza  dell'opera  loro,  in  due  distinte  e  spiccate  categorie  : 
Dii  tìiaiorum  et  Dii  ìiiinorum  gentium,  come  Petr uccelli  della  Gat- 
tiìia,  il  celebrato  e  versatile  scrittore  non  mai  abbastanza  rimpianto, 
studiò  gli  uomini  parlamentari  dei  tempi  nostri. 

Fra  i  primi,  Dii  maiorum  genti nìiì,  piacerai  segnalar  questi:  (rio- 
suè  Carducci,  Emilio  Teza,  Ruggiero  fìonghi,  Alessandro  d' Ancona, 
Pio  Ragna,  Isidoro  del  Lungo,  Ernesto  Monaci,  Ernesto  Masi,  Bo- 
naventura Zunibini,  Tulio  Massarani,  Domenico  Comparetti,  Gra- 
ziadio  Ascoli,  Adolfo  Bartoli. 


{')  Questo  giovanile  tentativo  di  critica  spicciola  e  minuta  l'u  composto  circa 
venti  anni  fa,  ma  ben  tardi,  cioè  nel  Luglio  -  Agosto  1892,  venne  primamente  in 
luce  nel  "Pensiero  italiano  di  Milano;  e  di  quegli  anni  ha  certi  vizi  o  difetti  e 
certa  facilità  o  letrgerezza  di  giudicare  e  di  sentire  la  critica  e  1'  arte.  Dovendo 
parlare  qui  de'  critici  nostri  maggiori,  di  cui  più  a  lungo  discorreremo  altrove  o 
in  un  secondo  volume,  riportiamo  per  intero  questo  nostro  studio,  ma  non  senza 
avvertire  che  la  sostanza  di  esso  ci  pare  ancora  in  gran  parte  vera  o  ahneno  plau- 
sibiJp.   Vien  però  riprodotto  con  giunto  e  correzioni. 


393 


E  tra"  secondi  questi  altri  :  Giuseppe  Chiarini,  Arturo  Graf\ 
Adolfo  Borgognoni,  Olindo  Guerrini ,  Guido  Mazzoni,  Gaetano 
Trezza,  Corrado  Ricci,  Enrico  Panzacchi.  Enrico  Nencioni,  Felice 
Cavallotti,  Rodolfo  Renier. 

E  altri  ancora  vorrei  notare,  ma  è  bene  mi  fermi  a  considerar 
questi,  come  quelli  che,  se  non  tutti  più  letti,  son  forse  \ni\  auto- 
revoli, 0  quasi. 


Certo,  l'Italia  ha  obblighi  grandi  segnatamente  coi  primi.  Quanto 
debbasi  al  Carducci,  al  Bonghi,  al  Teza,  è  inutile  dire.  Ad  Ales- 
sandro d'Ancona  dobbiam  certo  —  è  pur  utile  ricordarlo  —  la  ge- 
niale ed  eruditissima  ricostruzione  storica  del  nostro  Teatro  popo- 
lare; a\  Rayna,  le  origini  e  le  fonti  dell'Orlando  Furioso:  ìa,  Cronaca 
di  Dino  Compagni,  meglio  e  più  profondamente  studiata  ne'  tempi 
e  nella  autenlicità  sua,  a  Isidoro  del  Lungo  ;  a  Ernesto  Masi  gli 
studi  su  la  Riforma  :  al  Monaci,  importanti  ricerche  storiche  e  pa- 
leografiche intorno  al  periodo  delle  Origini:  al  Comparetti  uno  stn- 
dio  originalissimo  e  intentato  su  le  fantasie  leggendarie  onde  il 
Medio  Evo,  come  di  un'aureola  tradizionale  e  superstiziosa,  incoronò 
la  maggiore  opera  virgiliana,  1'  Eneide  :  allo  Zinabini,  una  critica 
dotta  e  in  più  punti  meravigliosa  intorno  al  Boccaccio,  e  studi  com- 
parativi da  noi  affatto  novi  e  peregrini  circa  i  nostri  messi  a  ri- 
scontro con  poeti  d'oltr'alpe,  fra'  quali  il  Monti  riscontrato  col 
Klopstok,  e  intorno  a'  due  poeti  inglesi,  puritani  di  sentimento  e 
di  concezione,  Bunyan  e  Milton;  studi,  infine,  glottologici  al  me- 
raviglioso ingegno  dell'Accodi,  e  una  mirabile  e  voluminosa  rico- 
struzione storica  della  letteratura  italiana,  ancor  da  finire,  e  attinta 
da  ricerche  proprie  e  dalle  altrui,  all'acutissimo  «  brillante  ingegno 
di  Adolfo  Bartoli.  E  agli  altri,  e  segnatamente  al  Massarani,  al 
Chiariììi,  al  Graf,  al  Mazzoni,  nuovi  obblighi  che  io  non  dico, 
sebbene  minori. 


Ma  all'opera  critica,  o  a  dir  meglio  storica,  mal  corrispondono 
quasi  in  tutti  la  forma  e  lo  stile,  che  risentono  troppo  spesso  la 
fretta  che,  come  dicea  Dante,  l'onestate  ad  ogni  atto  dismaga,  e  an- 
che, ch'è  peggio,  la  trascuratezza  o  negligenza. 

E  fa  meraviglia  che  scrittori  cosi  insigni,  i  quali  riusciron  fe- 
lici a  indagare  e  a  penetrar  bene  il  lavorio  artistico  degli  altri,  non 
riusc'sser  buoni  —  e  veramente  non  si  curarono  o  non    si    propo- 


394 


sero  Tarlo  —  a  conservare  o  a  proseguire,  integre  e  finite,  le  tra- 
dizioni classiche,  delle  quali  è  troppo  se  in  essi,  tranne  radissime 
eccezioni ,  si  possano  sorprendere  come  un  indizio  e  un  presen- 
timento. 

Nelle  bolognesi  Lettere  e  Arti  del  Panzacchi  (Anno  IL  n.°  40, 
pag.  ()33  -  35)  disaminai  largamente  la  questione  della  prosa  con- 
temporanea  ne'  nostri  scrittori  di  novelle,  romanzi  e  bozzetti,  e  a 
pagina  634  scriveva,  ricavandole  da  un  mio  scritto  altrove  venuto 
in  luce,  queste  testuali  parole  : 

«  Anzi  tutto,  che  sono  mai  codeste  tradizioni  classicJi''.  nella 
forma  e  nello  stile  ? 

Lo  diro  subito. 

Le  tradizioni  classicìie  si  comprentlon  tutte  in  queste  parole 
sole:  culto  della  forma,  cli'è  quanto  dire,  lavorio  industre  e. accu- 
ratissimo dello  stile,  o,  ch'e  meglio,  educazione  aristocratica  nel 
portamento  e  negli  abiti  del  proprio  pensiero.  —  È  il  limae  labor, 
come  diceva  Orazio,  dell'opera  letteraria,  critica  o  artistica  che  siasi. 

E,  cos'i,  esse  possono  scorgersi  nell'orditura  squisitamente  ela- 
borata del  periodo  che,  non  con  mosse  comuni  o  consuetudinarie, 
ma,  senza  innaturati  contorcimenti,  s'atteggia  e  si  snoda  agile  e 
multiforme,  denso  e  vigoroso,  scultorio  e  vibrante,  nelle  opportune 
trasposizioni  e  ne'  sottili  e  levigatissimi  giri  e  contorni  e  ligamenti 
tlella  frase,  delle  proposizioni,  de'  membri. 

Questo  fecero  gli  antichi,  e  a  questo  sarebbe  riescito,  se  non 
l'avesse  distratto  la  politica  de"  tempi  tumultuosi,  quell'atletico  in- 
gegno di  Francesco  Domenico  Guerrazzi,  e  a  questo  è  alfine  riu- 
scito un  solo  vivente  prosatore:  Giosuè  Carducci. 

Certo,  anche  nelle  opere  del  Bonghi,  del  Teza,  del  Graf,  dello 
Zumbini,  del  Cornparetti,  àeì  Massarani,  àel  Chiarini,  y\e\  Mazzoni, 
del  Bartoli,  del  D' Ancona,  ecc.,  non  mancano  alcuni  tocchi  e  certe 
linee  di  fattura  classica;  ma  anch'essi,  al  pari  degli  altri,  aman  la 
forma  corrente  e  consuetudinaria  che  sol  qualche  volta,  se  ne  togli 
i  primi  cinque  ora  citati,  danno  al  loro  stile  uno  stampo  spiccatis- 
simo di  classica  personalità.  Rado  o  non  mai  la  formasi  snoda  e  si 
atteggia  nelle  varie  e  marcatissime  volute  de'  membri  e  delle  tran- 
sposizioni leggiadre;  nella  elegante  e  maschia  concinnità  dei  rilievi, 
de*  contorni,  de'  chiaroscuri,  degli  sfondi;  nelle  industriose  e  agevoli 
sinuosità  e  nei  lucidi  e  complicati  ondeggiamenti  ch'ha  la  classica 
architettura  dell'antico  stil  periodico.  Tutti  dàn  sempre  al  loro  pe- 
riodo certa  nativa  e  spontanea  peregrinità  o  sdrucciolevole  corren- 
tezza di  forme  men  scabre  ma  più  liquidamente  correnti,  men  ric- 
che e  vigorose  ma  più  facilmente  naturali,  men  gravi  e  solenni  ma 
più  access'ibili  e  comuni;  e  in  alcuni  soli,  e  soprammodo  nello  Zum- 


395 


bini,  anche  noti  e  fiuti  con  gusto  e  diletto  la  cristallina  tersità  e 
l'aristocratica  trasparenza  dello  stil  manzoniano:  e  però  quasi  tutti 
non  sempre  aman  conciliare  alla  paesana  popolarità  delle  forme  la 
doviziosa  e  magistrale  intelaiatura  e  1'  impeccabile  e  signorile  fi- 
nezza del  classico  stile. 


Enrico  Xencioni  ("),  che  l'u  pure  il  favorito  scrittore  dei  salotti 
eleganti  e,  nel  gener  suo.  il  più  letto  e  gradevolmente  ricercato, 
non  sempre  alla  smagliante  lucentezza  e  alla  simpatica  idealità 
della  disamina  estetica  te"  andar  congiunto  il  tornio  di  uno  stile  fi- 
nitissimo e  leggiadro;  non  sempre  all'imaginosa  e  magica  attrattiva 
delle  sue  calde  e  cordiali  impressioni  su  le  letterature  straniere, 
delle  quali  fu  fervidissimo  ammiratore  e  cultore  studiosissimo, 
seppe  0  volle  accoppiare  la  sapiente  orditura  di  quelle  forme  ch'e  ' 
si  piace  ammirar  tanto  nelle  prose  del  Carducci.  Certe  sue  criticiie 
mirabili  che .  quali  colombe  dal  disio  chiamate  ,  gli  volavano  e 
rompevano  immediate  dal  cuore  nobilissimo,  oh  I  come  conquiste- 
rebbero meglio  l'ammirazione  sincera  degli  uomini  di  seria  cultura  se 
avessero  il  magistero  sapiente  della  forma  eh' è  dell'arte  grandis- 
sima parte.  E  pure  egli,  il  prosatore  poeta,  il  critico  artista,  fu 
parte  di  quel  ristretto  cenacolo  di  scrittori  toscani  giovanissimi 
che  intorno  al  57,  tra  Pisa  e  Firenze,  si  affermarono  solidali  a  rom- 
pere le  loro  lance  e  a  non  risparmiare  le  loro  frecce  in  favore  del- 
l'arte classica  e  contro  i  Facci  filologi  del  tempo:  allora  il  Carducci  in- 
neggiava a  Diana  Trivia  e  a  Febo  Apolline,  e  gli  amici  Tribolati, 
(rargani.  Cristiani,  Chiarini  e  Xencioiii  votavano  loro  e  orterivan 
libagioni  a  furia  di  tappi  saltanti.  Dolci  questi  ricordi  a  chi  vuole 
studiare  fin  da  quel  tempo  le  origini  dell'opera  carducciana  e  d'al- 
tri scrittori  contemporanei  ancor  vivi  nell'arte  o  nella  critica. 

Ed  Enrico  Panzacchi,  che  può  dirsi  un  altro  di  ([uella  brigata 
sebben  giunto  un  po'  dopo,  è  critico  acuto  e  artista  finito.  —  Adora 
la  musica,  e  sa  intenderla  anche  nelle  opere  di  Riccardo  Wagner. 
Non  so  se  sia  pittore.  Ma  è  certo  che  la  pittura  e'  1"  ama .  e 
sa  ammirarla  con  isquisito  senso  d'uomo  di  buon  gusto.  11  suo  è 
un  temperamento  molto  alfine  a  quello  del  Nencioni  ;  ma  questi  è 
femminilmente  geniale,  e  più  serio  e  non  meno  acuto  l'altro  :  en- 
trambi .  senza  le  ortiche    della   critica  storica  ,  più  col   cuore   che 


e*)  Vedi  a  proposito  nel   libro  III   il  nieilaglione  che  gli  abbiamo  dedicato. 


396 


•col  cfirvello  amano  e  studiano  l'arte,  e  fan  bene.  Se  non  che  il  Pan- 
zacciii  è  poeta  in  rima. 

Il  Nencioni  anche  scrisse  de'  versi,  ma  farei  torto  a  lui  se  di- 
cessi ch'egli  è  buon  rimatore  come  critico  buono. 

Dunque,  il  Panzacchi,  che  pure  è  gran  conferenziere,  die  pure 
ammira  la  prosa  del  Carducc'i  ed  è  col  Nencioni  un  de'  pochi  che 
Ja  sappiano  intendere  bene,  par  che  ne  rifugea  nell'opera  sua  cri- 
tica più  che  ne'  bozzetti  e  nelle  novelle,  e  anche  pare  che,  se  vo- 
lesse, e'  potrebbe  darci  qualcosa  di  men  corrente  e  di  più  signoril- 
mente peregrino,  poiché  il  Panzacchi  è,  soprattutto,  uomo  di  gusto 
superiore.  Sembra  incredibile  :  pare  che  il  materialismo  del  tempo 
che  ci  brancica  tutti  e  tutti  c'investe,  a  poco  a  poco  vada  sottra- 
endo anche  ne'  migliori  quanto  loro  anche  avanza  delle  più  belle 
tradizioni,  classiche  e  antiche.  Secoi  si  rinnova  :  dicono  tanti.  Ma 
—  potrebbe  domandarsi  —  ci  è  mai  rinnovamento  senza  instaura- 
zione dell'antico  più  eletto  e  ancor  vigente  nel  china  storico  no- 
vello \  0  non  ò  più  giusto  il  dire:  Inìioviamo  rinnovando  ì 


Giuseppe  Chiarini,  un  altro  della  brigata  toscana,  e  Guido 
Mazzoni,  clie  può  dirsi  un  buon  alunno  di  quella  scuola,  amano  e 
sentono  altamente  l'arte  classica,  e  come  la  rendono  assai  bene 
nelle  lor  traduzioni  metriche  da  classici  latini  e  greci,  cos'i  la  pro- 
seguono spesso  nelle  lor  poesie  originali.  E  però  non  può  dirsi  che 
non  la  dimentichino  mai  nelle  opere  di  prosa  criticra,  che  il  primo, 
pur  lucido  e  castigatissimo  nella  forma  e  nello  stile,  par  che  riesca 
più  volte  un  po'  monotono  e  disadorno  nella  troppo  rigida  sempli- 
cità dei  suoi  studi  e  delle  sue  conversazioni  letterarie:  ed  il  secondo. 
pur  forbito  ed  elegante,  non  ci  sa  rendere,  almeno  in  parte,  il  fre- 
sco profumo  e  l'agile  intarsio  delle  Voci  della  Fifa  in  que' finissimi 
saggi  di  critica  non  impolverati  o  inariditi  dai  fossile  tritume  della 
erudizione  stantia. 

Gaefaìio  Trezza  fu  dei  critici  nostri  il  più  smagliante  e  imagi- 
noso  nell'accademica  venustà  della  sua  prosa  letteraria,  ma  poco 
v'  ha  di  classico  in  certo  fruf/oìiisaéii  del  suo  stile  il  quale  spesso 
dà  in  ismancerie,  e  che  troppe  volte  ricorda  certe  predilezioni  d'o- 
ratoria sacra,  nella  quale  dovè  essere  valente  ne'  migliori  anni  del 
suo  sacerdozio  da  cui,  con  utile  grande  delle  lettere  e  della  filoso- 
fia, inaspettatamente  fece  poi  divorzio  ('). 


(*)   Vedi  inedaglione  nel  libro   IIF. 


397 


Olindo  Guerrini  e  Corrado  liicci  sono  due  bell'anime  di  artisti, 
ed  entrambi,  uomini  di  gusto  squisito,  si  piacciono  d"  illustrare  la 
lor  nativa  Romagna  con  opere  d'erudizione.  Tutti  due  poeti,  tutti 
due  cultori  della  forma  ;  e  però  la  troppo  semplice  facilità  loro,  co- 
me toglie  alle  lor  poesie  la  densità  e  il  rilievo  plastico,  cosi  alla 
prosa  che  scrivono,  quella  piacevolezza  profumata  ed  elegante  de- 
gli stessi  loro  versi.  E  d'intimamente  classico  pare  che  ci  abbiano 
dato  nulla,  o  ben  poco,  non  ostante  le  influenze  dell'  arte  carduc- 
ciana che  qua  e  là  si  avvertono  spesso  nell'opera  loro. 

Quegli  che  possedeva  davvero  il  gusto  dell'antico,  era  un  illu- 
stre professore  dell'atenèo  pavese,  e  già  egregio  avvocato  di  Ra- 
venna e  chiaro  insegnante  di  quel  Liceo:  Adolfo  Borgognoni. 

Forse  le  consuetudini  che  ebbe  frequenti  col  Carducci,  e  l'esser 
egli  nato  in  R,omagna.  la  quale  è  forse  una  delle  poche  regioni 
d'Italia  che  abbia  recenti  memorie  e  tradizioni  classiche,  danno  alla 
sua  prosa  un  ondeggiamento  latineggiante;  e  se  le  cure  del  foro 
cui  attese,  o  cure  altre  maggiori,  non  lo  avesser  troppo  distratto 
nella  miglior  gioventù,  e  se  alla  sottile  critica  sua  avesse  voluto 
infondere  anche  un'anima  di  poesia  su  l'esempio  del  maestro  suo, 
il  Carducci,  certo  avrebbe  saputo  finire. 


Domenico  Comparetti  e  Isidoro  del  Lungo  son  certo  due  fra  i 
più  perspicui  prosatori  e  critici  nostri;  ma  riuscirebbero  forse  i  più 
genialmente  perfetti  se  alla  peregrina  novità  del  contenuto  dell'  o- 
pera  loro  originalissima  avesser  voluto  dare ,  1'  uno  il  frutto  delle 
studiose  ricerche  su'  classici  esemplari  dell'  aureo  trecento  volute 
mettere  a  profitto  dell'autenticità  della  Cronaca  di  Dino  Compagni ^ 
e  l'altro  la  eccellenza  degli  studi  suoi  sulla  letteratura  greca  e  sulla 
latina  ;  che  il  primo  ha  certo  sapor  greco  nella  squisitezza  del  suo 
attico  ingegno,  e  il  secondo  certo  nerbo  e  certi  portamenti  vari  nella 
elegante  orditura  del  periodo.  Ma  e  l'uno  e  l'altro  sono  fra  le  più 
pure  glorie  del  secolo  che  cade. 

Qualità  grandi  si  trovano  certo  nella  prosa  di  Bonaventura  Zum- 
hini,  di  Ernesto  Masi,  di  Ernesto  Monaci,  di  Alessandro  D'Ancona, 
di  Pio  Ragna,  di  Tulio  Massarani,  di  Rodolfo  Renier,  di  Adolfo 
Bartoli  ;  ma  se  il  primo  tutto  consecrato  alla  critica  estetica  più 
che  alla  storica,  ha  un  che  di  classico  nella  spontanea  lucidità  del 
suo  stile,  agli  altri  la  troppo  assidua  e  vorrei  dir  polverosa  ricerca 
storica  toglie  spesso  le  occasioni  di  far  prosa,  non  dirò  classica, 
ma  almeno  snella  e  luminosamente  elegante. 


39« 


Bonaventura  Zurtibini  è  de"  critici  nostri  quegli  che  meglio 
segue,  uiigliorandole  assai  e  profondamente  dilargandole,  le  buone 
tradizioni  di  Francesco  De  Sanctis;  e  se  non  ha  la  incomparabile  e 
fervida  penetrazione  del  maestro,  se  non  la  forza  e  1"  arte  molte- 
plice del  Carducci,  certo  sa  ristorare  d'un  fresco  alito  di  mite  e  ri- 
creante poesia  il  contenuto  critico  dell'  opera  sua.  E  lo  stile,  com'è 
agevole  e  piano,  cosi  pure  ha  certa  euritmia  che  par  trecentistica 
certa  limpida  perspicuità  e  una  soave  e  muliebre  morbidezza  di  for- 
me correnti  e  spigliate  che  ti  fan  ricordare  1'  arte  del  Manzoni,  e 
infine  certo  greco  lepore,  più  naturale  che  assimilato,  d' imagini  e 
di  sensi,  particolarmente  dove  la  sua  prosa  è  men  calma  e  più 
poetica. 

Ernesto  Masi  è  uno  di  que"  pochi  che  pur  tra  le  cure  noiose 
dell"  ufficio  trova  il  tempo  di  volger  1"  ingegno  a'  più  geniali  studi 
di  storia  e  di  letteratura,  senza  vaghezza  di  polverose  ricerclie  o 
di  erudizione  mortificante,  ma  con  acuto  senso  dell'arte  e  del  vero. 
Autore  di  studi  non  ponderosi,  ma  di  agile  e  sicura  dottrina,  in- 
torno al  Savonarola  e  al  Giusti^  al  (ro:rzi  e  a  Napoleone,  al  Goldoni 
e  alla  Monarchia  di  Savoia,  a  Renata  d' Este,  &'  Burlanincchi ,  a 
Giovanni  di  Gamorra  e  i  drammi  lacrimosi  .  egli  meritamente  ò 
ritenuto  uno  de'  critici  più  autorevoli  fra  noi.  Prosatore  garbato  e 
piacente,  ei  ti  fa  avvertire  a  quando  a  quando  certa  sdrucciolevole 
e  mormorante  fluidità  di  forme  che  ti  fan  presentire  il  conferen- 
ziere simpatico  e  l'artista  non  volgare:  ma  ohi  come  piacerebbero 
meglio  que'  troppo  liquidi  suoni  dello  scriver  corrente  se  un  po' 
più  di  nerbo  e  di  varietà  dessero  alla  prosa  sua,  almeno  più  spesso, 
qualche  aria  o  qualche  tocco  del  grande  e  aristocratico  stile. 

Alessandro  D'Ancona.  Pio  Rayna  ed  Ernesto  Monaci  son  tre 
dottissimi  e  infaticabili  ricercatori;  e  s'  essi  potessero  o  volessero 
scotere  da'  lor  codici  e  palinsesti  la  vecchia  polvere  delle  antiche 
biblioteche,  farebbon  opera  veramente  degna  della  lor  grave  dot- 
trina; che  il  primo  riuscirebbe  grave  e  poderoso  stilista  come  spesse 
volte  mostra  parerlo  in  alcuni  tratti  delle  sue  eruditissime  prose; 
il  secondo  avviverebbe  di  un  qualche  lume  d'  arte  le  sue  ricche  e 
nutrite  esumazioni  su  le  origini  e  le  fonti  della  poesia  ariostesca, 
il  cui  contenuto  anche  greggio  è  pur  pieno  d'imagini  e  di  fantasmi; 
e  in  fine  il  terzo  detergerebbe  l'arido  contenuto  delle  sue  indagini 
paleografiche  con  un  profumo  di  poesia  da  cui  non  parrebbe  alieno 
il  suo  spirito  che  ci  si  rivela  cosi  fresco  e  cosi  vivo  in  que"  saggi 
che  sono  men  tormentati  dall'accidiosa  polvere  della  erud'izione. 

Non  si  può  non  almeno  accennare  alla  grande  efficacia  che 
questi  tre  maestri,  ma  specialmente  il  primo,  hanno  esercitato  su 
più  generazioni  di  giovani,  de'  quali  alcuni  sono  ormai  celebri  per 


! 
1 


399 


gravi  e  onorevoli  fatiche.  Alessandro  D'  Ancona  ha,  si  può  dire, 
compenetrato  di  sé  tutto  il  moto  vivo  della  critica  storica  contem- 
poranea, con  gl'insuperati  suoi  studi  su  le  Sacre  rappresentazioni 
de'  secoli  .YiT',  .YFe  XVI,  su'  Precursori  e  su  la  Vita  Nuova  di 
Dante,  su  Attila  flagellum  Dei,  su  le  Origini  del  Teatro  in  Italia, 
sui  primi  secoli  della  letteratura  italiana,  su  Tommaso  Campanella 
e  su  tanti  altri  argomenti,  ricchi  di  acume,  di  dottrina,  di  con- 
quiste.  e  a  cui  altri  non  potè  forse  andare  innanzi  almeno  per 
la  sconfinata  larghezza  de*  materiali  raccolti  e  con  accurato  esame 
riordinati. 

Gli  studi  poi  del  liai/aa  e  di  Ernesto  Monaci,  quelli  su  tutte  le 
fonti  ariostesche  e  questi  su  svariate  e  originalissime  questioni 
intorno  a'  poeti  provenzali,  intorno  alle  origini  della  nostra  lingua 
e  della  nostra  letteratura  e  intorno  alle  più  antiche  scritture  me- 
dievali, hanno  ricreato  anche  presso  di  noi  il  vasto  campo  della 
storia  e  della  filologia  romanza  e  della  cultura  paleografica. 

Tulio  Massaratii  ha  forse,  appunto  perchè  poeta  vero,  mag- 
giore genialità  di  tutti  gli  altri  or  ora  nominati.  Egli  appartiene 
alla  buona  scuola  lombarda,  e  ne  prosegue  le  tradizioni  migliori. 
E  se  al  signorile  e  ampissimo  paludamento  del  suo  stile  difl'uso  e 
ridondante,  se  alla  piacente  venustà  di  quelle  forme  un  po'  agghin- 
date ma  sempre  lussuriosamente  peregrine,  volesse  infondere  un 
che  di  classica  simmetria  o  di  plastico  rilievo  nella  trama  sottile  del 
risonante  periodo,  e'  riescirebbe  uno  di  quegli  scrittori  più  adatti  a 
rendere  co'  materiali  nostrani  l'ampiezza  togata  e  la  romana  gran- 
diosità di  Livio  e  Cicerone  :  pregi  codesti  da'  cui  contatti  sempre 
più  ci  divide,  e  con  violenza,  la  voluta  bambolaggine  e  la  puerile 
semplicità  de'  contemporanei  novatori.  Veramente  nobile  nell'esem- 
pio del  benefizio  e  in  quello  dell'operoso  ingegno,  pensatore  ed  ar- 
tista, critico  e  poeta,  politico  e  pittore,  sembra  che  accolga  in  so 
come  le  anime  di  più  cittadini  o  scrittori  del  Cinquecento  ,  con 
questo  di  più,  che  allo  spirito  molteplice  di  quel  secolo  gran  le  nel- 
l'arte e  infelice  nella  vita  congiunge  i  più  liberi  e  magnanimi  sensi 
di  un  popolo  nuovo,  di  un  popolo  restituito  a  quell'ordinamento  a 
cui  lo  richiamavano  le  tradizioni  romane  e  più  secoli  di  lotte  ani- 
mose e  di  sacrifizi  eroici. 

Adolfo  Barloli  fu  de'  critici  propriamente  eruditi  il  più  fecondo 
e  imaginoso.  Instancabile  a  proseguir  di  dotte  ricerche  la  nostra 
letteratura  tutta  quanta,  e'  tenne  dietro  con  studioso  amore  al  vital 
movimento  della  vigente  critica  storica  nelle  minute  indagini  de' 
letterati  nostrani  e  degli  stranieri;  ed  anche  intese,  con  istudi  suoi 
propri  e  cogli  altrui,  a  darci  un'opera  magistrale  e  ricostruttrice  in  - 
torno  alla  storia  documentata  delle  lettere  patrie,    con     una    lunga 


400 


serie  (li  vulutni  la  (juale  per  la  morte  immatura  di  lui  non  potè  es- 
sere compiuta  ma  clie  forma  tuttavia  una  vera  Vjiblioteca  che 
sarà  sempre  come  uno  de'  piii  ricercati  codici  dell'arte  nostra- 
ni sapeva  trasfondere  nell'opera  sua  vasta  uno  spirito  profonda- 
mente geniale  e  un'artistica  idealità  die  alla  produzione  monogra- 
fica de"  nostri  manca  in  generale,  o  certo  non  abbonda,  da  pochis- 
simi esempi  all'infuora.  E  s'  egli  non  si  fosse  lasciato  andar  spesso 
alla  rapina  e  alla  smania  frettolosa  a  cui  la  soverchia  via  lo  so- 
spingeva, avrebbe  potuto  conferire  alla  sua  prosa  critica  anche 
quella  classica  idealità  di  stile  che  l'esempio  degli  scrittori  sottil- 
mente disaminati  avrebbe  potuto  dettargli  o  inspirargli:  1"  industre 
lavorio  della  lima  gii  mancò,  e  fu  peccato,  perchè  pochi  o  nessuno 
avevano  iti  massimo  grado  conciliata,  coU'acuto  senso  critico  e  con 
la  pazienza  della  ricerca,  una  cosi  esuberante  facoltà  artistica  e 
imaginosa. 


.Ma  un  altro  breve  manipolo  di  scrittori  geniali  vogliono  esser 
tratti  in  un  canto,  e  sono  sei  :  Giosui'  Carducci,  Arturo  Graf,  Fe- 
lice Cavallotti,  Emilio  leza,  Ruggiero  Bonghi  e  Graziadio  Ascoli. 
Però  tre  soli  restano  veramente  in  disparte  e  come  appartati,  nella 
lor  vita  solitaria,  dal  movimento  cui  cooperano  gii  altri  tutti:  Gio- 
suè Carducci,  Emilio  Teza  e  Ruggiero  Bonghi. 

Del  primo  dissi  assai  in  diversi  miei  lavori  (*),  e,  per  brevità, 
non  ne  vo'  dir  altro;  tanto  più  che  molti  anche  ne  discorsero  ,  e 
meglio  di  tutti  il  Panzacchi  e  il  Chiarini.  Del  resto,  nel  secondo  libro 
io  ne  studio  largamente  la  vita  e  le  opere.  Restami,  infine,  a  par- 
lare degli  altri. 

Chi  non  conosce  Y Ascoli  pe'  lavori  suoi  di  glottologia'^  Ma  Tes- 
ser egli  nato  nel  Trentino  imbarbarito  da  mischianze  forestiere  , 
e  il  viver  troppo  in  mezzo  a  elementi  formali  e  tecnici  e  morfolo- 
gici de"  suoi  studii  prediletti,  tolgono  alla  sua  prosa  spesso  la  ele- 
ganza, talvolta  la  correttezza:  il  nerbo,  mai.  E  però  parmi  risentire 


I 


(')  la)    Vita  nuova,  Firenze  1890,  numeri  14  e  23. 

(h)  Pensiero  dt'  Giovani,  anno  11  (1887),  n.  16,  5  agosto. 

(e)  Rivista  Contemporanea  di  Fuenze,  anno  I,  voi.  III.    tas. 
glie  1838. 

(d)  Scena  illustrala  —  V.  annate  1897  e  1899. 


< 
< 

in. 

< 


O 

-1 


< 

Di 

O 
O 

H 
< 


40Ì 


in  alcuni  tratti  delle  opere  sue  cosi  dotte  e  originali  corto  martellar 
vigoroso  e  statuario,  certo  rude  rilievo,  che  più  di  una  volta  mi 
fa  pensare  alla  maschia  efficacia  del  classico  stile.  E  veramente  a 
desiderarsi  da  questi  grandi  nosti-i  maestri  quel  culto  delle  forme 
e  insieme  quell'arte  a  cui  potrebbero  guidarli  gli  studi  profondi 
ch'essi  con  tanto  amore  fanno  intorno  alla  evoluzione  defili  spiriti 
e  delle  manifestazioni  estetiche  della  civiltà  andatasi  formando  su 
l'immenso  detrito  delle  alluvioni  de'  popoli. 

Ruggero  Bongln  (*),  ingegno  versatile  e  arguto,  ha  1'  animo 
classico  e,  in  arte,  tendenze  platoniche.  E  se  non  fosse  che  molte 
opere  sue,  di  politica  in  ispecie,  risenton  troppo  spesso  la  fretta, 
e'  ci  avrebbe  data  senza  dubbio,  forse  pe'  contatti  che  ebbe  assidui 
coir  autor  suo  prediletto  ,  una  prosa  tutta  greca.  Non  sempre 
platonica,  perchè  il  suo  autore  è,  per  lo  più,  largamente  diffuso  ; 
ma  greca  sempre  per  certe  movenze  efficaci  del  suo  periodo  il  quale 
ha  molto  anche  del  latino  per  quella  determinatezza  concisa  che 
conferisce  allo  scriver  suo  molta  densità  e  vigorìa  nervosa.  Una 
delle  opere  che  mi  paion  meglio  riuscite,  è  la  mirabile  prefazione 
ai  dialoghi  di  Platone  tradotti.  Le  lettere  critiche,  poi,  manifestano 
uno  stile  addirittura  platonico.  Bello  ingegno  davvero  e  singolare 
temperamento  assimilatore,  in  tempi,  come  i  nostri,  cosi  ostili  alle 
belle  e  classiche  lettere. 

Eììiilio  Teza  è  un  ingegno  mirabilmente  sintetico.  Il  suo  stile 
laconico  e  scultorio  ha  tale  potenza  di  rilievi  e  di  scorci,  ha  tale 
icastica  incisiva  e  rude  e  stridente  di  linee  e  di  contorni,  e  vibra  e 
lingueggia  con  iscatti  si  rapidi  e  squillanti  nel  brevissimo  giro  del 
periodo,  che  è  proprio  da  rimpiangere  la  natura  de'  troppo  aridi 
studi  suoi  che  non  gli  permettono  di  far  prosa  erudita  e  artistica 
insieme:  è  proprio  da  rimpiangere  la  eccessiva  brevità  di  quei 
periodi  smozzicati  e  dirugginiti  in  troppo  sobrie  giunture,  e  non  nelle 
ampie  volute  del  periodo  antico.  Fu  lui  che  addestrò  il  Carducci 
alla  rappresentazione  gladiatoria  dell'aristocratico  stile,  fu  proprio 
lui  che  dopo  la  edizion  critica  del  Poliziano,  consigliò  1'  amico  a 
contenere,  a  reprimere,  a  frenare  ne'  duttili  e  serrati  confini  della 
prosa  tacitiana  la  imaginosa  attrattiva  e  il  troppo  ampio  paludamento 
della  sua  prosa  oratoria  e  discorsiva. 

E  s'egli,  troppo  inteso  a  lavori  morfologici  e  glottologici  intorno 
alle  lingue  slave,  pensasse  a  darci  un  organismo  di  studi  novi  ed 
estetici  su'  più  importanti  e  poetici  strati  della  letteratura  nostra. 


(')  Vedi  relativo  medaglione  nel  libro  III. 

26 


402 


riescirebbe  di  gran  lunga  superiore  al  discepolo  suo  che,  in  latto 
di  stile,  pur  tanto  lo  avanza.  Certo  egli  e  il  Carducci  restan  sempre 
i  più  nervosi  e  vigorosamente  concisi  prosatori  che  meglio  si 
avvicinino,  correggendola  e  sgrafliandola  d'ogni  esagerazione  e  da 
ogni  convenzionalismo  paradossale,  alla  gran  prosa  stilistica  di 
Francesco   Doiitenico   Guerrazzi. 

Quante  volte  mi  ricorre  in  mente  i^e^tce  Cai:«ZZof<i,  provo  sempre 
un  senso  di  rammarico  e  come  di  sdegno.  Nessuno  forse,  meglio 
di  lui ,  avrebbe  potuto  darci  un'  opera  intimamente  artistica  e 
geniale  :  nessuno,  meglio  dell'autore  del  Tirteo,  avrebbe  potuto  in 
si  rapido  scadere  degli  studi  nostri ,  darci  un  vero  monumento 
letterario  di  poesia  e  di  prosa.  È  proprio  da  compiangere  nel  fiero 
e  indomito  repubblicano  la  vita  parlamentare,  che  lo  distrasse  fin 
troppo,  e  il  preconcetto  politico  ch'ei  mise  a  fondamento  dell'opera 
sua,  e  clie,  piii  ch'altro,  gli  fé'  cogliere  allori  nella  tribuna  e  d' in 
su  le  scene. 

Il  Cavallotti  mi  parve  più  valoroso  e  atletico  polemista  che  non 
commediografo  .  più  fulgido  lirico  e  oratore  che  non  politico.  Fu 
prosatore  squisitissimo  e  uno  splendido  e  attico  ingegno.  La  sua 
prosa  polemica  non  ti  fa  sempre  avvertire  1'  ardente  battagliero 
sotto  le  maglie  tenuissime  e  a  traverso  la  trasparente  lucidezza 
del  greco  suo  stile,  ch'or  procede  e  si  move  con  fulgori  d' imagini 
smaglianti  e  di  nervosissimi  rilievi,  or  sdrucciola  elegantissimo 
come  un  rivolo  corrente,  or  scoppia  e  vigoreggia  tra  baleni  di 
sentimenti  e  tra  lampi  di  fulgidissima  ira.  Nella  prosa  critica  e 
polemica,  e  particolarmente  in  alcuni  luoghi  delle  Aìiticaglie,  piacque 
talvolta  quel  cristallino  e  quel  trasparente  del  suo  stile,  il  quale 
dava  al  pensiero,  quando  non  era  troppo  agguerrito ,  una  certa 
aristocratica  finezza  e  la  viva  imagine  dell'anima  sua  buona. 

Peccato  ch'ei  non  intese  a  lasciare  il  teatro  per  la  poesia  e  per 
la  prosa  letteraria:  peccato  ch'e*  non  si  concesse  più  lunghi  e  più 
sereni  momenti  per  far  cose  più  durevoli  e  consistenti  !  peccato 
che  nelle  battaglie  democratiche  e  peggio  nei  duelli  personali  si 
consumò  e  si  spense  ! 

Arturo  Graf  (*),  l'autore  di  Dopo  il  traitionto,  de  Le   Danaidi, 


(*)  Son  proprio  lieto  che  il  Prof.  G.  Alfredo  Cesareo,  nalfasc.  del  1°  tebbraio 
1900  della  «  Nuova  Antologia  »,  espose  intorno  al  Graf  un  giudizio  quasi  identico 
al  mio,  già  da  me  dato  molti  anni  fa,  e  apparso  nel  fascicolo  di  Luglio- Agosto 
1S92  del  «  Pensiero  Italiano  »  insieme  con  questo  studio  che  lo  conteneva.  Ma 
il  giudizio  del  Cesareo  si  avvantaggia  sul  mio  di  osservazioni  piti  larghe  e  più 
peregrine,  espresse  poi  con  quello  stile  ciré  cosi  imaginoso  e  cosi  vivo  ed 
efficace. 


4o: 


di  Medusa,  è  anch'  egli  poeta ,  e  spesso  di  vena  ;  ed  è  insieme 
uno  de'  più  geniali  e  profondi  critici  nostri.  E'  ancor  giovine  ,  e 
dalla  vita  sua  un  po'  forse  melanconica  e  triste ,  e  anche  da'  suoi 
studi  0  indagini  faticose,  ha  potuto  derivare  nelle  poesie  certa 
ombra  di  mistico  pessimismo,  certa  mentita  serenità  o  dolorante 
compostezza  dell'animo  suo  buono. 

Ha  nello  stile  cosi  della  prosa  come  della  poesia  certa  classica 
simmetria  e  certo  euritmico  riposo  die  lo  fa  indugiar  spesso  .  tra 
membro  e  membro,  e  talvolta  tra  frasi  e  parole,  ne'  geometrici 
ligamenti  del  periodo  ciie  di  tanto  in  tanto  sosta  e  respira  colle 
interpunzioni  frequentissime  ma  ben  adoperate.  —  E'  par  che  il 
pensiero  si  volga  intorno  e  si  specchi,  trepido,  dubitoso,  inquieto: 
a  mo'  dello  scettico,  che  non  crede  a  nulla,  ma  pur  tastasi  e  si 
cerca,  non  e'  fosse  vanissima  ombra,  e  tasta  e  ricerca  il  mondo 
che  gli  è  intorno,  e  tatto  esamina  e  pondera  a  quella  guisa  che  di 
tutto  dubita  e  teme.  Farmi  avvertire  nel  tersissimo  stile  del  Graf 
una  decorosa  compostezza,  che  mi  par  manzoniana ,  un  equilibrio 
meraviglioso  delle  facoltà  in  forme  sobrie  e  misurate,  eh'  ha  del 
classico,  una  lucidezza  penetrante  e  serena  ma  come  velata  da  un' 
ombra  di  pessimismo,  che  sembra  leopardiana,  e  una  lingua  corret- 
tissima e  purgata,  che,  tranne  pochissimi,  non  è  di  nessun  de' 
nostri.  E  se  quello  stile  non  procedesse  un  po'  monotono  e  uni- 
forme, un  po'  anemico  e  incolore,  un  po'  melanconico  e  triste  ,  e 
avesse  tutti  i  suoni  della  classica  orchestra  di  que'  grandi  scrittori 
che  sì  profondamente  disamina  e  conosce ,  egli ,  senza  dubbio  , 
riescirebbe  un  prosatore  perfetto. 

Certo,  è  de"  pochissimi  che  vanti  tra'  migliori  la  troppo  povera 
letteratura  contemporanea. 

Dovrei  ora  parlare  de'  giovani,  che  son  molti  e  tutti  nutriti  di 
larga  cultura  e  insieme  solerti  nelle  indagini  faticose;  ma  vo'  fer- 
marmi per  ora  a  Rodolfo  lìenier,  un  trevigiano  di  colto  ingegno  e 
di  lettere  eleganti.  E'  condirettore  del  «  Giornale  storico  della  Let- 
teratura Italiana  »,  ed  autore  di  pregiati  studi  di  erudizione  intorno 
alle  cose  nostre  più  oscure  del  medioevo  e  del  secolo  di  Dante. 
Scrive  facile  e  spigliato,  e  alla  spigliatezza  delle  parole  risponde 
ancora  la  lucidezza  delle  idee  e  delle  sobrie  ma  sicure  indagini  eru- 
dite. La  sua  non  è  quella  spigliatezza  consuetudinaria  eh'  hanno  i 
più  de'  nostri,  ma  è  la  risultante  di  un  ben  nutrito  pensiero  in  una 
forma  che  talvolta  è  anche  trasparente  e  luminosa.  Ora  se  un  po' 
più  di  colore  e  di  calore  sapesse  o  volesse  infondere  a  quelle  forme, 
e  s'  anche  intendesse  variarle  e  condensarle  con  efficaci  movenze 
e  atteggiamenti  di  periodi,  riuscirebbe  forse  a  far  prosa  compiuta 
o  almeno  quella  prosa  elegante  e  colorita  che  su  l'esempio  degli  an- 


404 


tiolii  tanto  studiati  da  cotesti  giovani,  dovrebbe  esser  complemento  di 
ciò  ch'ha  di  meglio  lo  scrivere  parlato  s  corrente  de'  contemporanei, 
troppo  agile  talvolta  ma  troppo  monotono  e  scolorato  e  disadorno, 
come  certo  non  era  lo  scrivere  peregrino  de'  grandi  scrittoi'i. 


Da  quanto  abbiam  detto  nella  nostra  rapida  disamina  di  alcune 
condizioni  della  letteratura  vigente,  quale  si  manifesta  ne"  critici  e 
prosatori,  è  facile  indurre  un  convincimento  e  un  giudizio  quasi 
air  intutto  negativi  e  mortificanti.  Gloriosi  gli  studi  de'critici  nostri, 
ma  sterili  pur  troppo  di  fronte  al  valore  artistico  e  anche  stilistico 
dell'  opera  loro.  E  pure  son  essi  i  soli  che  dalla  natura  di  quelle 
indagini  sul  territorio  della  classica  letteratura,  potrebbon  derivare 
opere  di  erudizione  e  di  arte  insieme.  Quelli  che  credon  di  produrre 
in  quest'  ultima,  vi  si  accingono  con  una  ben  misera  suppellettile 
di  classica  cultura,  paghi  di  una  superficiale  preparazione  e  di 
un  valore  ideale  solo  attinto  all'ingegno  loro  e  ad  una  naturale 
genialità:  nessuna  nutrita  educazion  letteraria  hanno  essi  veramente. 
Quanti  degli  scrittori  che  più  son  popolari  o  ricercati,  —  e  son  gio- 
vanissimi i  più  —  si  ricordano  di  Dante  o  del  Petrarca,  di  Boccaccio 
e  del  Caro,  degli  elegantissimi  cinquecentisti  o  de'  trecentisti  puris- 
simi, usciti  appena  dalle  lor  scuole  di  ìinianesimo  ora  bestemmiate 
col  brutto  nome  di  secondarie  ì  La  vera  scuola  umanistica,  oggi, 
di  tra  le  sterili  esumazioni  della  scienza  morfologica  e  della  glotto- 
logica, la  vera  scuola  umana  del  Rinascimento,  va  di  giorno  in 
giorno  disparendo  nel  classico  insegnamento  e  nel  personale  e 
domestico  lavorio  degli  scrittori  in  formazione.  Certo  clemocratlcisino 
di  forme  scabre  e  plateali,  di  vilissime  dizioni  e  di  lingua  cianesca, 
or  tiene  il  campo  col  pretesto  di  voler  guardare  al  popolo  soprattutto: 
l'arte  si  è  fatta  ciompa  e  la  borghesia  letteraria  si  è  fatta,  non 
popolana,  ma  scurrile.  Della  vecchia  scuola  umanistica  assai  pociù 
avanzano,  e  i  più  sono  morti.  Oh!  qual  vuoto  lasciarono  il  Correnti, 
il  Minghetti,  lo  Stoppani,  lo  Zanella,  che,  pur  votati  a  discipline 
od  uffici  disparatissimi,  furono  artisti  e  prosatori  veramente  invi- 
diabili. Quanti  oggi  fan  ricordare  la  peregrina  e  manzoniana  ele- 
ganza del  primo,  la  lucidissima  e  tersìssima  organicità  stilistica  del 
secondo,  la  smagliante  e  poetica  dottrina  del  terzo  ,  e  la  piena  e 
mite  e  decorosa  classicità  dell'  ultimo  %  Quanti,  per  addurre  anche 
un  esempio  in  un  vivente  scrittore  di  quella  scuola  si  educata  nella 
forma,  scrivono  con  la  elegante  e  forbita  italianità  A\  Augusio  Conti' 
E  pure  cotesti  non  fecero  tutti  professione  veramente  di  letterati;^ 
chi  fu  politico,  quale   sociologo  o  storico,  e  quale   massimo  seien- 


405 


ziato.  Ora,  in  tanto  decadimentu  di  generi  letterari  e  di  scrittori,  in 
tanto  insorgere  di  democrazia  letteraria,  a  me  pare  che  possa,  anzi 
debba  aver  vita  un  genere  più  utile  e  consentaneo  a"  tempi  nostri, 
un  genere  aristocratico,  il  genere  gnomico.  E  a  produrlo  non  vi 
sarebbero  altri  che  gli  eruditi  critici  nostri  i  quali  dal  grembo  di 
quell'alta  cultura  classica  ch'essi  studiano,  possono  proporsi  di 
trarre  opera  di  erudizione  e  di  arte  a  un  tempo. 

E  poicliè  eglino,  attesi  a  staccate  monografìe,  scrivon  solo  pei 
dotti,  sarebbe  necessario  che  ravvivassero  di  un"  anima  di  poesia 
le  squallide  ceneri  e  i  polverosi  avanzi  della  morta  tiora  letteraria, 
a  quel  modo  che  fa  il  Carducci  il  qual  riesce  e  dotto  ricercatore  e 
prosator  grande,  e  critico  e  stilista,  ed  erudito  e  poeta  insieme.  E 
ne'  confini  del  genere  gnomico  tre  forme  almeno  potrebbero  essere 
nobilitate:  la  rappresentazione  estetica,  la  eloquenza  critica,  e  la 
storica  esposizione  discorsiva,  le  quali  potrebbero  anclie  essere 
avvivate  dagl'  impeti  e  dagli  spendori  della  polemica. 

Cosi  il  greggio  materiale  delle  ricerche  diverrebbe  il  contenuto 
artistico  di  nuove  manifestazioni,  e  il  genere  gnomico,  quando  rin- 
novato da  letterati  cosi  insigni,  potrebbe,  nel!'  olimpo  dell'alta  let- 
teratura, seppellire  una  volta  per  sempre  la  morbosa  fecondità  de' 
romanzi  e  delle  novelle  dell'arte  novissima,  e  de'  bozzetti  e  de'mo- 
nologhi  de' nostri  più  o  men  giovani  fecondatori.  Elaborando  noi 
adunque  in  tal  modo  questa  manifestazione  aristocratica,  riusci- 
remmo forse  a  fare  scienza  ed  arte  insieme. 

Non  sarebbe  mai  codesto  un  salutare  consiglio  contro  la  mor- 
tificante e  impotente  ciarlataneria  letteraria  de'  nostri  ciurmadori  ? 
Vorrei  che  alcuno  dei  nostri  critici  grandi  ripensasse  la  cosa  la  quale 
a  me  pare  almeno  un  preservativo  se  ad  altri  non  voglia  parere 
rimedio.  Che  ne  diranno  il  D'  Ancona,  il  Rayna,  il  Del  Lungo,  il 
Monaci  ? 

Ma,  potrebbe  dirmi  il  lettor  malevolo,  in  die  mai  la  prosa 
corrente  si  differenzia  dalla  classica  e  antica?  Molti,  che  si  affer- 
mano manzoniani  e  sono  pedanti,  credono  che  la  prosa  corrente 
altro  non  faccia  che  render  gli  echi  della  manzoniana.  Ma  non 
vorrei  ricordar  qui  ciò  che  acutamente  scrisse  il  Borgognoni  nel 
primo  numero  della  Domenica  del  Fracassa  (1885)  intorno  al- 
l'Autore de'  Promessi  Sposi. 

Quello  che  ò  certo  si  è  che  la  prosa  contemporanea  è  nuli'  af- 
fatto inanzoniana,  se  è  vero  che  la  puerilità  delle  espressioni  e  la 
improprietà  delle  parole,  la  mancanza  assoluta  di  lucidezza  e  di 
perspicuità,  ili  accuratezza  ostinata  e  di  finissimo  studio,  di  colo- 
rito e  di  disegno,  che  sono  le  pecche  maggiori  della  prosa  odierna, 
non   lo    furon   mai    della    manzoniana.  E  però,  se   il    Maìizoni.  al 


4o6 


contrario  degli  scrittori  contemporanei,  ebbe  cura  assidua  e  amo- 
revole del  suo  stile,  se  lo  rese  più  paesano  e  moderno,  più  agile  e 
corrente,  gli  mancò,  non  dirò  l'attitudine,  ma  l'intenzione  di  finirlo, 
di  ripulirlo,  di  educarlo  co'  colori  e  co'  vigori  deli'  antico  periodo, 
e  colle  movenze  e  cogli  atteggiamenti  della  grande  prosa  classica 
latina  e  del  nostro  bel  Rinascimento.  E  a  tal  proposito  vo'  qui 
riferire,  per  quanto  si  attiene  al  ritorno  all'  antico  e  all'  arte  del 
Manzoni,  e  come  a  suggello  del  mio  dire,  questo  che  io  scrissi  al- 
trove (*). 

«  Ora  un  logico  e  non  esclusivo  ritorno  al  Manzoni  e,  con  sem- 
pre in  mano  questo  prezioso  modello,  agli  esemplari  migliori  de' 
classici  nostri,  non  senza  una  sana  nutrizione  di  greco  e  di  latino; 
un  ritorno,  dico,  al  Manzoni,  che  scaltri  di  movenze  nuove  e  più 
correnti  questa  lingua  italiana  che  al  Bj'ron  parve  come  una  musica 
favellata,  e,  nel  tempo  istesso,  alle  tradizioni  più  intimamente  clas- 
siche de'  secoli  o  periodi  migliori  della  nostra  letteratura,  un  tale 
ritorno,  io  dico,  sarà  certo  un  grande  bisogno  del  nostro  avvenire 
letterario. 

Il  Manzoni  solo,  non  basta.  Il  grande  lombardo,  ancor  pieno  la 
mente  delle  influenze  umanitarie  e  filantropiche  della  cultura  fran- 
cese, dedusse  dalla  letteratura  di  Francia  quel  che  all'arte  classica 
mancava  o  non  prevaleva,  cioè  un  più  libero  e  spedito  andamento 
dello  stile  nell'arte;  ma,  si  pel  carattere  suo,  si  per  l'ideale  religioso 
che  proseguiva  costante,  si  per  colpa  de"  tempi,  non  trasfuse  nell'arte 
quell'anima  e  quella  vita,  quell'orchestra  di  suoni  e  di  armonie, 
quella  varia  e  sottil  compagine  dello  stil  classico  antico:  egli,  simi- 
glievole  in  ciò  a  ogni  grande  novatore  —  vo'  dirlo  colle  parole 
efficaci  del  primo  pensatore  vivente  —  come  xi  fu  impossessato  di 
'/nello  stile,  lo  stancò  colle  furie  delle  carezze  di  un  primo  amore. 
Or  quale  sarebbe  invero  l'ideale  da  raggiungere  in  fatto  di  stile? 

Mi  si  permetta  eh"  io  lo  dica  colle  parole  d'  un  altro  novator 
grande,  del  Carducci,  che  ce  ne  dà  esempi  mirabili  e  viventi. 

Il  Carducci  scrive:  «  Ne  parrà  audace  per  avventura  il  conget- 
turare che  l'Italia  fosse  per  tenere  dell'industre  e  sapiente  eclettismo 
romano,  della  contemperazione  artistica  che  1"  Italia  tutta  fece  nel 
secolo  decimoquarto  e  decimosesto  tra  V  antichità  e  il  medio  evo. 
Ella  sarebbe  chiamata  a  trovar  la  .s-o/)-o.vùie  classica  delle  letterature 
surte  0  rinnovate  dalla  rivoluzione  »  (**). 


(*)  Lettere  e  Arti.  n.  40,  pagg.  034-035,  Bologna,  15  ottobre  IS.iO. 
(**)  Carducci,  Discorsi  letterari  e  storici.  i>agg.  317-lS,  Bologna.  Zani.lielli, 
18S9. 


J 


407 


Non  si  può  dir  meglio! 

E  nella  prosecuzione  di  tale  ideale,  soggiungo  io.  non  avrebbe 
parte  ultima,  per  quel  che  concerne  lo  stile  moderno,  la  ellicace 
influenza  dell'immortale  autore  dei  Promessi  Sposi. 

Cosi  potrà  esserci  dato  di  aspettare  il  T'erfto  dell"  arte  futura, 
nella  poesia  e  nella  prosa. 

Ma  per  raggiungere,  almeno  in  parte,  un  tale  ideale,  è  pur  bi- 
sogno di  rialzare  di  molto,  nelle  nostre  scuole  e  segnatamente  ne" 
nostri  instituti  secondari  il  troppo  basso  livello  della  cultura  classica 
e  nazionale. 

Potremo  almeno  sperarlo? 

E  non  si  dica  che  i  tempi  sien  contrarli  alle  tradizioni  greche 
e  latine,  quando  il  culto  d'  esse  non  manca  a"  più  grandi  critici 
nostri. 

Limitiamo  un  poco  queste  indagini  storiche,  e,  usciti  dalle  pol- 
veri degli  archivi  all'aure  sane  del  cielo  latino,  educhiamo  il  nostro 
^usto  alle  vere  bellezze  antiche,  che  son  la  parte  integrante  della 
rappresentazione  del  reale. 

E  facciamo  si  che  le  lettere  umane,  più  che  patrimonio  di  poche 
menti  solitarie,  addivengano  la  eredità  di  tutti,  nella  scuola,  nel- 
Taccademia,  nel  Parlamento. 

In  ciò  le  ragioni  intime  e  vere  d'  un  radicale  rinnovamento 
classico,  inteso  con  senso  moderno,  nelle  esplicazioni  varie  e  mol- 
tiformi  delle  arti  e  delle  scienze. 

Non  lo  dimentichiamo! 


III. 

L'  arte  della  Prosa 

iiella  filologia  e  nella  critica  contemporanea 


M.giJEi.  precedente  studio,  composto  troppi  anni  la  e  pubblicato 
soltanto  nel  "92  ('),  abbiamo  dato  appena  un  assaggio , 
non  ordinato  né  compiuto,  di  alcune  qualità  de'  critici 
nostri  in  raffronto  alle  buone  tradizioni  della  prosa  classica.  In 
questo  e  ne*  seguenti  capitoli  daremo  appunti  intorno  ad  alcune 
condizioni  o  meglio  manifestazioni  della  cultura  filologica  o 
scientifica  di  pochi  nostri  scrittori  che  meritano  almeno  qualche 
ricordo  per  quello  ch'essi  valgono,  non  pure  nella  chiara  e  facile 
esposizione    ma  ancora  in  certi  spiccati  caratteri  dell'  opera  loro. 

Ecco  intanto  questi  pochi  i  quali  vengono  a  delinearci  nella 
ricca  varietà  delle  attitudini  anche  qualche  atteggiamento  o  impronta 
diversa. 

Fra'  napoletani,  o  meglio  meridionali,  cito  de'  morti  il  Ih' 
Sanclis,  il  Tari,  V  Imbriani.  e  de'  viventi  il  Kerhaker^W  D'Ovidio, 
Francesco  Torraca,  il  Viilari  :  fra'  marchigiani  il  Mestica  :  fra  gli 
emiliani  il  Casini;  fra  gli  umbri  il  Morandi. 

Di  Francesco  De  Sanctis  è  quasi  una  ingiuria  il  dar  qui  non 
altro  che  un  appunto  :  intorno  a  lui  abbiamo  già  pronto  più  che 
uno  studio  che  pubblicheremo  in  altro  volume;  a  ogni  modo  ne 
parlarono  ben  altri  i  quali  poterono  farlo  tanto  meg'io  di  noi  che 
l^ure  qua  e  là  in  questa  raccolta  di  bricciche  lo  abbiamo  piìi  di  una 
volta  ricordato. 

Antonio  Tari  e  Vittorio  Imbriani  furono  i  più  originali  e  biz- 
zarri spiriti  del  Mezzogiorno.  Il  primo,  scrittore  faticoso  ed  oscuro» 
e  spesso  eteroclito  ed  informe,  non  ebbe  pari  alla  grande  penetra- 
zione soggettiva  e  alla  mirabile  suggestione  divinatrice  nelle  i)iù 
alte  espressioni  dell'arte  —  prosa  e  poesia,  musica  e  statuaria, 
pittura  e  architettura  —  la  pienezza  e  limpidezza  dello  stile  ;  e  al 
buon  gusto  del  pensiero  critico  non  mai  rispose  il  buon  gusto  della 


{*)    Fascicoli    XIX -X   (Luglio  -  Agosto   1S92)    del    «Pensiero    Italiano»  — 
Milano  —  Tipografia  cooperativa  Insubria. 


409 


forma  quantunque  il  suo  discorso  parlato  fosse  cosi  facile  e  luminoso 
nelle  celebri  lezioni  che  dava  con  tanto  plauso  nella  Università  di 
Napoli.  Fu  insomma  parlatore  genialissimo  e  cattedratico  eloquente, 
e  con  lui  si  chiuse,  si  può  dire,  tutta  la  serie  de'  cultori  di  questa 
importante  disciplina,  a  proposito  della  quale  giova  qui  nominare 
un  giovane  ricco  d'ingegno  e  versato  con  uguale  attitudine  nelle 
più  disperate  branche,  cioè  il  Prof.  Mario  Pilo,  che  pur  naturalista 
ci  ha  dato  il  primo  e  miglior  trattato  elementare  e  scientifico  di 
estetica  (*)  il  quale  dovrebbe  richiamar  meglio  1"  attenzione  de' 
colti. 

L'altro,  ispido  e  selvatico  ingegno,  fu  de"  più  strani  ed  eccen- 
trici scrittori,  un  critico  acerbo  e  spesso  ingiusto,  ma  dotato  su' 
più  vasti  e  svariati  confini  della  cultura  moderna  e-  dell'antica  di 
una  maravigliosa  dottrina  nella  quale  infuse  uno  spirito  cosi  impul- 
sivo e  incomunicabile  da  rimanere  il  più  solitario  fra'  nostri  lette- 
rati anche  nelle  forme  della  prosa,  astiosa  rugginosa  nervosa,  tutta 
a  scatti  a  interruzioni  a  singiiiozzi,  una  prosa  rigida  stecchita  e 
pure  stridente,  una  prosa  che  punge  e  stuzzica  come  un  vespaio. 

Il  feroce  autore  delle  Fame  usurpate  e  l'erudito  e  cervellotico 
disquisatore  dell'opera  dantesca,  pur  venuto  di  nobile  e  antica 
famiglia  di  patrioti,  si  rimase  singolarissimo  anche  nella  politica  e 
nelle  aspirazioni  sociali  e  civili;  e  fra'  due  altri  fratelli,  Giorgio  e 
Matteo  Renato,  clie  tanto  cooperarono  al  risveglio  della  libertà,  si 
mantenne,  nel  pensiero  e  nel  sentimento,  il  vero  autore  dell'  Iiìììo 
al  canape  in  cui  tutto  si  specchia  l'uomo  e  lo  scrittore. 

A  questo  gruppo  anche  appartiene  Pasquale  Villari,  amoroso 
compagno  e  dotto  ammiratore  del  De  Sanctis,  di  cui  forse  è  il 
miglior  critico  ed  interprete.  De'  napoletani  è  colui  che  più  sere- 
namente e  signorilmente  ha  schiuso  le  fonti  sterminate  del  vero 
storico  in  cui  forse  per  copia  di  notizie  gli  va  solo  innanzi  il  sici- 
liano Michele  Amari.  Ci  ha  dato  lavori  ampi  e  insieme  organici  in 
cui  alle  dotte  e  minute  indagini  vedi  congiunto  lo  spirito  più  calmo 
se  non  meno  profondo  dell'incomparabiie  amico;  ond'ei  dotò  l'Italia 
di  almeno  due  opere  che  valgon  da  sole  a  illustrare  tutto  un  secolo 
di  letteratura  storica,  e  clie  son  degne  veramente  di  esser  compa- 
rate alle  migliori  fra  le  straniere  :  Storia  di  Gerolamo  Savonarola. 
e  de'  suoi  tempi,  e  Xiccolò  Machiavelli.  L'altro  suo  volume  intito- 
lato «  Arte  storia  e  filosofia  »  rivela  in  lui  un  ingegno  molteplice 
e  una  versatile  cultura,  un  ingegno  che  dalle  profonde  disamine 
organiche  passa  animosamente  alle  più   varie    dissertazioni  anche 


(*)  Milano  —  Editoie  Ulrico  Iloepli  —  1894. 


410 


spicciole  eli  letteratura  e  di  fllosofla;  e  in  Une  con  le  Lettere  meri- 
(Uoiiali  ei  tocca  o  sviscera  le  questioni  più  ardenti  intorno  alle 
tristi  condizioni  del  Mezzogiorno  d'Italia  di  cui  primo  e  con  libero 
animo  additò  le  piaghe  e  i  mezzi  per  curarle,  onde  queste  Lettere 
dovrebbero  essere  Ira  le  cose  piij  lette  dagli  uomini  anche  pii^i  culti 
delle  nostre  regioni. 

Michele  Kerbaker  e  Francesco  1)'  Ovidio  sono  fra  i  più  degni 
rappresentanti  della  scienza  filologica  e  critica  in  Italia;  ma  il  primo 
è  per  lo  più  inteso  a'  più  larghi  studi  intorno  alle  lingue  e  alle 
letterature  orientali,  e  Taltro  alla  critica  storica  delle  lettere  patrie 
quantunque  con  più  pronto  e  versatile  ingegno  spazi  di  sovente  sui 
più  vari  e  più  nuovi  argomenti. 

Michele  Kerbaker  non  è  veramente  napoletano  se  non  per  vec- 
chia consuetudine  di  animo  e  di  vita.  Ei  nacque  in  Torino  nel  1S3G, 
e  della  regione  conserva  1'  operosa  tenacia  nell"  assiduo  lavoro  , 
eerta  rigida  gravità  del  carattere  e  l'amore  ardente  a  discipline  un 
pò"  troppo  aride  per  altre  tempere  d'animi  e  d'ingegni;  ma  queste 
(jualità  son  poi  illeggiadrite  e  come  incalorite  sotto  griuflussi  del 
bel  cielo  partenopeo  da  cui  forse  ha  attinto  la  pura  e  serena  luci- 
dezza della  bella  sua  prosa,  cosi  agile  e  dotta,  e  cert'ala  o  movi- 
mento nel  facile  verso  delle  sue  mirabili  versioni  dal  vedico  con  le 
quali  ei  si  mostra  l'unico  rimatore  della  numerosa  e  pallida  scliiera 
de'  ricercatori  e  degli  eruditi.  Ila  pubblicato,  fra  tante  altre  cose 
anche  su  argomenti  biblici,  il  Bhagavad  gita  (versione);  La  morte 
del  re  Dacaratha  ;  La  Storia  di  Xalo;  l'Inno  a  Soma;  V  Hermes - 
-  Saramei/a  ;  La  filosofia  comparata  e  la  filosofia  classica;  Varnuna 
e  gli  Aditga  ;  Sopra  un  luogo  dello  Shakespeare,  imitato  da  Vin- 
cenzo Monti  ;  Il  Carrnccio  d'Argilla  (versione),  etc.  Di  lui  scrisse 
il  Carducci  :  —  11  canto  degli  Aria  fu  a  posta  ritessuto  con  parec- 
chie rimembranze  degl'  inni  vedici,  de'  quali  il  professore  Kerbaker 
va  da  qualche  tempo  pubblicando  versioni  metriche,  dove  non  sai 
se  più  ammirare  la  larga  e  forte  dottrina  o  la  corretta  e  varia 
facilità  e  felicità  del  verseggiare  italiano.  Di  codeste  versioni  e 
dell'altra  pur  bellissima  in  ottava  rima  d'un  episodio  del  Maliàbhà- 
rata,  è  un  torto  della  critica  giornaliera  essersi  a  pena  avveduta... 
(•)  (v'ueste  parole  sono  più  che  un  giudizio  intorno  al  critico  e 
intorno  al  traduttore,  il  quale  ci  richiama  alla  mente  un  altro 
orientalista  insigne,  il  prof.  Emilio  Teza,  il  più  grande  poliglotta 
che  oggi  vanti  l'Italia,  e  di  cui  innanzi  abbiamo  pur  detto  qualche 
cosa  in  particolare  ;  e  dobbiamo  anche  ricordare   in   questo    hiogo 


(■)  «Confessioni  e  Battaglie»  —  Bologna,   Zanichelli,  1S90  —  Pag.  362. 


411 


la  maravigliosa  erudizione  filologica  del  rimpianto  Giacomo  Lignana, 
già  decoro  della  Università  di  Roma,  dove  gli  è  succeduto  il  pro- 
fessore Angelo  De  Gubernatis,  il  più  facile  e  proliflco  autore  in 
tutte,  si  può  dire,  le  provincie  della  cultura  umana,  dalla  mitologia 
alla  storia,  dalla  prosa  alla  poesia,  dalla  compilazione  scolastica 
elementare  al  giornalismo  !  Cade  qui  in  acconcio  almeno  accennare 
la  recente  e  ancor  viva  controversia  incominciata  appunto  dal 
Kerbaker  e  dal  D'Ovidio,  e  seguitata  poi  da  altri,  intorno  al  vigente 
ordinamento  classico  secondario,  che  il  primo  vorrebbe  limitato  alla 
libera  scelta  de'  discenti  entro  i  naturali  confini  delle  proprie  atti- 
tudini, e  l'altro  invece  conservato  secondo  gli  attuali  programmi  i 
quali  aiuterebbero  sensibilmente  la  cultura  e  la  intelligenza  de' 
giovani  che  non  son  poi,  come  si  crede,  fuorviati  o  danneggiati  da* 
medesimi  programmi  ;  ma  pare  che  la  questione  non  appaia  ancora 
definitivamente  risoluta,  se  pure  lo  sarà  mai. 

Interamente  napoletano  di  origini  e  di  studi,  di  animo  e  d'in- 
gegno, è  invece  Francesco  D'Ovidio,  vero  figlio  del  Molise.  E  de" 
più  forti  e  levigati  intelletti  d'Italia.  Larga  e  molteplice  la  cultura, 
sempre  avvivata  da  uno  spirito  pronto  e  da  un  intuito  proprio  di 
ricerche  e  di  raffronti;  forbitissimo  e  luminoso  lo  stile,  pieno  di 
nerbo  e  di  vivacità,  e  insieme  limpido  e  corrente  negli  agili  e  tal- 
volta ridondanti  legamenti  del  periodo;  disamina  accorta,  spesso 
minuta,  de'  luoghi  anche  più  scabri  della  critica,  di  cui  sa  sco- 
prire con  queir  acume  che  molti  gì'  invidiano  ciò  che  non  di  rado 
sfugge  anche  a'  più  celebri  nella  ricerca  è  sobrio,  non  pesante  o 
tedioso;  nella  critica  è  intero;  nelle  comparazioni,  originale  o  almeno 
ingegnoso;  e  alla  pazienza  in  altri  inerte  o  sola  del  ricercatore 
congiunge  sempre  il  lume  della  osservazione  estetica. 

Uscito  dalla  scuola  del  De  Sanctis,  l'ha  corretta  o  certo  temperata 
con  il  più  diretto  studio  delle  fonti;  manzoniano  fervente,  ne  ha 
promosso  forse  un  po'  troppo  il  culto  che  ne"  seguaci  e  specialmente 
ne'  mediocri  diventa  per  lo  più  quisquilia  di  chiacchiere  sottili  più 
che  sapiente  avvedutezza  di  dottrina  organica.  Con  tali  doti  ei  con- 
cilia mirabilmente  le  più  sane  qualità  del  Settentrione  con  quelle, 
in  lui  più  corrette,  del  Mezzogiorno. 

Ultimo  Francesco  Torraca  è  un  altro  fedele  e  nobile  alunno 
del  De  Sanctis:  ha  studi  più  modesti  «la  che  son  forse  i  soli  sulla 
nostra  letteratura  napoletana,  alla  quale  dà  veramente  un  molto 
prezioso  contributo  d'  indagini  e  di  osservazioni.  Appartengono  ad 
essi  queste  opere: — Iacopo  Sannazzaro:  Gl'imitatori  del  Sannazzaro: 
Studi  di  storia  letteraria  napoletana.  Un'altra  utile  opera  ei  pubblicò 
a  servizio  delle  scuole,  ed  è  il  Manuale  di  letteratura  italiana,  una 
delle  più  accurate  compilazioni,  acuì  non  manca  di  apportar  mano 


412 


mano  i  maggiori  e  più  opportuni  ritocclii  secondo  i  lumi  e  i  pro- 
gressi della  critica  storica  contemporanea.  E  in  fine,  oltre  tanti 
altri  studi  ed  articoli  sparsi  nelle  riviste,  compose  un  libro  su 
V FAÌìtcazione  moderna  e  le  scuole  tecniche,  il  quale  è,  si  può  dire, 
un  argomento  tutto  proprio,  frutto  maturo  della  sua  larga  espe- 
rienza cosi  nella  scuola,  di  cui  fu  uno  de'  migliori  ornamenti,  come 
negli  uffici  che  da  più  anni  riveste  nel  Ministero  della  istruzione 
dove  è  uno  de*  più  provetti  e  competenti  funzionari.  Spirito  ealmo, 
studioso,  diligente,  osservatore  spesso  acuto,  ei  porta  nella  prosa 
critica,  se  non  l'ardenza  e  l'elevatezza  della  scuola  onde  uscì,  una 
parca  ma  utile  efficacia  di  ammaestramenti,  congiunti  a  una  piana 
e  facile  naturalezza  di  espressione  in  cui  parrebbe  spirare  come 
un'  aura  e  un  fresco  alito  degli  studi  manzoniani  in  cui  tanto  è 
versato. 

Giovanni  Mestica,  il  lodato  autore  delle  Istituzioni  di  letteratura 
italiana  nel  secolo  decimonono  non  clie  d'altre  assai  pregevoli  com- 
posizioni originali,  è  un  vero  marchigiano  d'animo  e  di  cultura,  di 
tradizioni  e  di  abitudini.  E  per  questo,  forse  meglio  di  tutti,  ei  volse 
particolarmente  l'animo  e  l' ingegno  allo  studio  della  vita  e  dell'o- 
pera leopardiana  che  amorevolmente  illustrò  e  commentò  con 
minuta  diligenza  di  ricerche  e  con  acuto  intelletto  di  critico.  Frutto 
de'suoi  lunghi  studi  intorno  all'autore  prediletto  sono  questi  ricercati 
lavori:  Le  poesie  di  Giacomo  Leotjardi,  da  qualche  anno  assai  più 
compiutamente  riordinate  secondo  le  più  recenti  indagini;  (x^i  fn^o?'; 
di  Giacomo  Leopardi;  Il  verismo  nella  poesia  di  Giacomo  Leopardi: 
Le  hiUioteca  leopardiana  a  Recanaii. 

A  questo  proposito,  oltre  i  più  insigni  quali  il  Carducci  e  lo 
Zumbini ,  vogliono  qui  esser  meritamente  ricordati  questi  altri 
ricercatori  o  comentatori:  Giuseppe  Chiarini,  Alfredo  Straccali,  ¥ì- 
lippo  Sesler,  Raffaello  Fornaciari,  Alfonso  Cerquetti,  Alfredo  Cesareo, 
Licurgo  Pieretti,  Giuseppe  l^iergili ,  Ildebrando  della  Giovanna. 
Nicola  Zingarelli,  t^ilippo  Marietti  (  per  qualche  recente  documento 
prodotto  in  occasione  del  centenario  leopardiano),  e,  per  le  indagini 
faticose  anche  se  non  criticamente  appurate  o  collazionate,  il  non 
avventurato  commediografo,  ora  profugo  dopo  un  processo  dal- 
l'Italia, Camillo  Antona  Traversi.  Oltre  alle  Quattordici  fìlipjpiche 
di  Cicerone,  con  tanto  buon  gusto  tradotte,  ed  altre  opere  degli  anni 
giovanili  e  de'maturi,  restano  pur  notevoli  queste  altre;  Federigo  li 
in  relazione  con  lo-  civiltà  italiana,  Vittorio  Enianuele  eia  lettera- 
tura politica,  non  che  le  due  prime  citate,  cioè  le  Istituzioìii  e  il 
Manuale,  che  son  veramente  i  più  bei  libri  che  su  l'argomento  si 
siano  pubblicati  in  Italia.  Scrittore  limpido,  facile,  elegante;  critico 
largo,  sereno,    luminoso:   compilatore   accurato,    minuto,  metodico; 


413 


osservatore  perspicace  e  prosatore  di  squisitissimo  fiuto  classico, 
riesce  uno  de"  più  gradevoli  e  simpatici  letterati  anclie  per  le  veneri 
dello  stile  che  conserva  qualcosa  delle  migliori  tradizioni  letterarie 
della  nativa  regione,  non  che  una  certa  freschezza  che  attinse  alle 
fonti,  non  pure  del  Leopardi,  ma  ancora  del  Manzoni  del  quale  è 
anche  intenditore  finissimo,  e  non  soltanto,  come  tanti  manzoniani, 
per  la  sola  eterna  questione,  ornai  sistematica,   della  lingua. 

Tommaso  Casini,  nativo  di  Bazzano  in  quel  di  Bologna,  è  uno 
de'  più  fedeli  alunni  del  Carducci,  nel'a  cui  scuola  crebbe  all'  arte 
e  alla  vigorosa  e  compiuta  genialità  del  metodo  critico  nelle  misu- 
rate indagini  e  negli  acuti  raffronti  dell'opera  storica.  E  per  certa 
almeno  apparente  affinità  di  educazione  letteraria,  forse  meglio  di 
tanti  altri  discepoli  pur  valenti,  da  quella  solitaria  scuola  di  buon 
gusto  ha  derivato  un  vivo  spirito  di  arte  che  dà  spesso  al  suo  siile 
un  odore  di  peregrinità  nella  elocuzione,  una  certa  movenza  clas- 
sica ne'  costrutti  e  insieme  un  qualche  lepore  della  grande  prosa 
del  maestro  con  un  che  di  flessuoso  e  di  luminoso  ne' facili  e  ricchi 
avvolgimenti  del  periodo.  E  per  questo  de'  giovini  critici  nostri  è 
forse  il  più  felice  artista  della  parola,  certo  è  de'  pochi  che  da'  forti 
studi  di  erudizione  nelle  più  varie  branche  della  letteratura  deriva 
qualche  lume  di  ben  assimilata  nutrizione  estetica.  Oltre  a  brevi 
ma  dotte  monografìe  su  argomenti  diversi,  ed  oltre  a'  suoi  lunghi 
studi  su  l'opera  dantesca,  egli  ha  dato  alle  scuole  compilazioni 
veramente  preziose,  come  il  Manuale  di  letteratura  italiana,  e  il 
Commento  della  Divina  Commedia;  e  in  fine,  per  la  natura  degli  uffici 
eh'  ha  spesso  esercitati  anche  nel  Ministero  della  Istruzione,  mostra 
una  matura  e  pratica  esperienza  della  scuola  e  dell'  insegnamento. 

Luigi  Morandi,  un  umbro  di  agevole  e  versatile  cultura,  e  già 
precettore  del  Principe  di  Napoli,  è  conterraneo  ili  Fra'  lacopone; 
e  della  grande,  austera,  verde  Umbria,  che  tanto  piacque  al  Carducci, 
illustrò  amorosamente  cosi  i  luoghi  come  i  proverbi  e  le  leggende- 
Vecchio  garibaldino  e  patriota  di  azione,  fu  nel  1867  a  Monterotondo, 
ma  di  ricordi  patri  non  ci  ha  lasciato  che  solo  un  libro,  Mazzini 
educatore.  Manzoniano  troppo  acceso  e  troppo  intollerante,  intese 
e  intende  a  diffondere,  coU'opera  e  coll'insegnamento,  l'adorazione 
incondizionata  più  che  il  libero  studio  del  Manzoni  nelle  scuole:  al 
che  si  oppose  da  par  suo  il  Carducci  che  volle,  prima  che  il  Morandi 
la  risollevasse,  ridurre  ne'  debiti  confini  la  questione  manzoniana 
e  temperarne  le  dommatiche  esagerazioni  che  riescono  a  una  quasi 
tirannide  pedantesca  dell'  uso  vivo  della  lingua  parlata.  Effetto  di 
questo  pedantismo  è  l'ostinata  imposizione  della  scuola  e  de'  precetti 
manzoniani,  senza  varietà  e  larghezza  d' intendimenti,  senza  lumfr 
e  vigore  di  stile,  senza  rispetto  alla  tradizione  classica;  il  che  tutto 


414 


diventa  nel  Morandi  conae  una  fissazione  di  tutta  l'opera  sua,  rigida, 
intransigente ,  sistematica.  Un  altro  manzoniano,  il  pistoiese  prof. 
Policarpo  Petrocchi,  1"  autore  del  Xnovo  Dizionario  della  Lingua 
Italiana  dell'  uso  e  fuori  d"  uso  e  del  Commento  storico,  estetico  f 
filologico  de'  Promessi  Sposi,  segue  questo  falso  indirizzo  con  anche 
maggiore  angustia  e  rigidità  di  metodo,  lo  segue  sino  all'  intonti- 
mento, e  con  danno  assai  grave  della  libertà  veramente  geniale  del 
concepire  e  dello  scrivere.  Ma  quando  il  Morandi  si  libera  da  queste 
pastoie  ed  è  tutto  lui,  come  ne'  Saggi  critici,  nelle  Corti  e  sentenze 
d'amore  e  specialmente  nell'utilissima  Antologia  della  nostra,  critica 
letteraria  moderna,  allora  riesce  un  critico  e  un  compilatore  giudi- 
zioso e  a  volte  di  larghe  e  simpatiche  vedute.  Ad  ogni  modo  tanto 
egli  che  il  Petrocchi  son  certo  pregevoli  anche  nella  illustrazione 
e  nella  intelligenza  dell'  opera  manzoniana  quando  non  si  lasciano 
adescare  dalle  preoccupazioni  del  loro  sistema,  le  quali  spesso  ne 
turbano  il  giudizio  e  la  serenità  della  osservazione. 

Dovrei  ora  parlare,  a  lungo  e  degnamente,  di  più  altri,  ma  in 
particolare  di  Pietro  Fanfani,  di  Giuseppe  Bigutini  e  di  Augusto 
Conti,  che  furono  gli  educatori  di  più  generazioni  di  studiosi;  e  Io 
farei  volentieri  se  i  confini  di  questo  volume  me  lo  permettessero. 
e  se  quelli  non  fossero  già  troppo  noti  a  tutti.  D' altra  parte 
essi  non  son  propriamente  novatori  o  importatori  di  modi  nuovi 
nella  nostra  lingua  e  nella  nostra  arte:  artisti  o  stilisti,  se  non 
forse  un  po'  il  Conti,  non  mai  si  rivelano,  ma  dispensatori  munifici 
del  vivo  tesoro  della  lingua  paesana  o  meglio  toscana:  sono  più 
tosto  insigni  filologi  o  linguisti  che  non  veramente  e  compiutamente 
prosatori.  Ad  ogni  modo  restano  sempre  fra'  più  limpidi  e  pui-gati 
.scrittori,  e  fra'  compilatori  o  illustratori  più  utili  e  più  ricercati. 

Il  primo,  morto  da  venfanni,  fu,  come  volle  vezzeggiarlo  sati- 
ricamente il  Carducci,  V  Epulone  e  il  Trimalcione  de'  lacchezzi  e 
bocconcini  gJnotti,  che  spazzava  via  di  c/iiando  in  quando  colla 
salvietta  delle  sue  eleganze  dalla  imbandigione  del  bel  parlare.  Fu, 
penso  io,  quello  che  un  gesuita  quasi  a  lui  contemporaneo,  Antonio 
Bresciani,  che  l'autore  del  Dizionazio  de'  pretesi  francesismi.  Pro- 
spero Viani,  chiamò  cosi  bene  il  patricello  vezzoso.  II  secondo, 
-compilatore  e  lessicografo,  traduttore  e  accademico  della  Crusca, 
con  più  opere  notabili  e  meglio  col  Vocabolario  della  lingua  parlata 
composto  con  l'aiuto  del  Fanfani,  diffuse  e  popolarizzò,  non  senza 
profitto  delle  scuole,  l'idea  manzoniana  sull'unità  della  lingua,  non 
dividendo  per  altro  le  strane  e  morbose  utopie  de'  discepoli.  Il 
■terzo,  più  toscano  degli  altri  due  e  quasi  fiorentino,  pur  non  essendo 
propriamente  un  filologo  od  un  letterato  di  professione,  fa  sentire 
nelle  sue  prose  castigatamente  morali  e  frescamente  educative  quel 


415 


tepore  di  eleganza  e  quell'  aura  di  buon  gusto  di'  egli  attinse  pur 
giovinetto  alle  più  belle  tradizioni  della  scuola  toscana  classica. 

Dovrei  ora  parlare  assai  diffusamente  di  Terenzio  Mamiani, 
erudito,  critico,  poeta,  prosatore,  filosofo;  una  delle  più  pure  glorie 
dell'  ultimo  rinascimento  italiano  nelle  scienze  e  nelle  arti,  nella 
vita  politica  e  nelle  agitazioni  patriottiche.  Marchigiano  di  animo  e 
d'ingegno,  fu  l'ultimo  fedel  rappresentante  di  quel  vivo  lume  di  cultu- 
ra classica  che  intorno  al  Monti  e  al  Leopardi  meglio  si  allargò  e  si 
diffuse,  e  fu  in  istretta  comunione  di  pensiero  col  grande  Recanatese 
che  nella  Ginestra  riporto  di  lui  con  amore  intellettivo  alcuni  versi 
che  son  parte  cos'i  vitale  di  quella  mirabile  poesia  tra  lirica  e  di- 
scorsiva, tra  giambica  e  gnomica,  tra  immediata  e  riflessa:  l'ultimo 
vero  canto  uscito  da  quel  petto  spezzato  dal  dolore.  Ma  di  lui  come 
di  altri  molti  mi  occuperò  a  lungo  in  un  secondo  volume:  in  questo 
mi  bastano  qui  alcune  linee  per  dire  qualcosa  de'  vivi  soltanto, 
poiché  de'  grandi  trapassati  sol  per  incidenza  si  parla. 

Potrei  dunque  seguitare  in  questi  appunti,  ma  io  non  ho  voluto 
indugiarmi  se  non  su  que'  critici  o  filologi  che  han  pure  nominanza 
di  buoni  prosatori  o  iniziatori  almeno  di  qualche  movimento  lette- 
rario, falso  0  vero  che  sia.  Intanto,  pur  vari  e  diversi  ne'  pregi 
dello  scrivere  o  nelle  ricerche  erudite  o  nell'  una  cosa  e  nell'altra, 
ecco  qui,  per  branche  diff'erenti,  cinque  gruppi  di  scrittori  che  io  cito 
di  fuga  e  come  mi  vengono  in  mente: 

De'  critici,  e  fra'  morti:  — Cesare  Guasti,  Giovanni  Battista  Giu- 
liani, Pio  Ferrieri;  —  fra'  vivi: —  Dino  Mantovani,  Antonio  Fradeletto 
(conferenziere),  Vittorio  Fiorini,  Adolfo  Venturi.  Gaetano  Negri, 
Francesco  Flamini,  Vittorio  Gian,  Michele  Sciierillo,  Alberto  Ron- 
dani.  Angelo  Solerti,  Guido  Biagi.  Ugo  Brilli,  Vincenzo  Crescini, 
Cesare  de  Lollis,  Carlo  Raffaello  Barbiera,  Giovanni  Battista  Giorgini, 
Francesco  Novati,  Orazio  e  Vittorio  Bacci,  Valentino  Giachi,  Albino 
e  Oddone  Zenatti,  Giulio  Salvadori,  Francesco  Colagrosso,  Antonio 
Zardo,  Corrado  Corradini.  Raffaello  Giovagnoli,  Giuseppe  Cugnoni, 
Vito  Fornari  il  quale  ultimo  è  da  soli  pochi  giorni  morto.  De"  com- 
pilatori 0  comentatori:  —  Francesco  Zambaldi,  Gustavo  Strafforello 
(  ha  scritto  di  tutto  )  ,  Paolo  Tedeschi  ,  Felice  Martini  ,  Giuseppe 
Puccianti ,  Raffaello  Fornaciari ,  Francesco  Salveraglio,  Francesco 
Trevisan,  Giovanni  Federzoni,  Antonio  Ronzon,  Guido  Falorsi,  Giu- 
seppe Finzi ,  Giovanni  Targioni  Tozzetti ,  Alfonso  Bertoldi ,  Italo 
Pizzi. 

De'  latinisti  o  ellenisti,  e  fra'  morti:  —  Tommaso  Vallauri,  Giu- 
seppe MuUer,  Onorato  Occioni,  Eugenio  Ferrai — :  fra' vivi:  —  Giam- 
battista Gandino,  Giovanni  Pascoli,  Felice  Ramorino.  Pietro  Gavaz- 
za, Ettore  Stampini,  Luigi  Michelangeli,   Vigilio  Inama,  Antonio  Ci- 


4i6 


pollini,  Antonio  Cima,  Carlo  Fumagalli,  Fausto  Gherardo  Fumi, 
Enrico  Cocchia,  Pelliccioni  Gaetano,  Fraccaroli  Giuseppe,  Stefano 
Grosso  ,  Enea  Piccolomini ,  Remigio  Sabbadini ,  Flechia  Giovanni, 
Carlo  Giussani,  Cortese  Giacomo.  — 

De'  critici  di  arti  belle,  fra' morti:  —  Filippo  Filippi,  Francesco 
D'Arcais  e  Giuseppe  Alessandro  Biaggi  — ;  fra'  vivi:  —  Pompeo 
Gherardo  Molmenti,  Luigi  Chirtani,  Aurelio  Gotti,  Camillo  Boito, 
Alfredo  Melani.  Vittorio  Pica,  Ugo  Fleres,   Benedetto  De  Luca. 

Degli  storici;  fra'  morti:  —  Celestino  e  Nicomede  Bianchi.  Ercole 
Ricotti.  Nicola  Marselli,  Giuseppe  Massari,  Marco  Tabarrini,  Cesare 
Albicini,  Alberto  Mario,  Gabriele  Rosa,  Giovanni  De  Castro;  —  fra' 
vivi: — Augusto  Franchetti,  lessie  Withe  vedova  Mario,  Iginio  Gentile, 
Carlo  Conte  Cipolla,  Ettore  Pais,  Ariodante  Fabretti,  Francesco 
Bertolini,  Giuseppe  Carlo  Abba,  Luigi  Alberto  Ferrai,  De  Leva  Giu- 
seppe, Giuseppe  Schiaparelli,  Luigi  Frati,  Amedeo  Crivellucci.  An- 
tonio p4,olando. 

In  questo  lungo  e  incompleto  rosario  di  nomi,  messi  alla  rinfusa 
e  senza  ordine  di  metodo  e  di  merito  (a  che  mai  servirebbe,  qui  ?), 
non  sono  compresi  quelli  citati  o  disaminati  altrove:  de'  morti  son 
citati  alcuni  soli,  quelli  di  cui  è  ancor  viva  la  memoria  o  la  influenza 
su  gli  studi  contemporanei;  e  si  de*  morti  che  de"  vivi  non  mancano 
diversi  che  non  han  vero  pregio  di  prosatori,  che  anzi  alcuni  scrivon 
assai  male  e  non  di  rado  contro  la  sintassi;  del  resto  non  si  è  cre- 
duto tacerli  per  1'  utile  che  lia  tuttavia  l'opera  loro  la  quale  è  ricca 
di  un  largo  e  prezioso  corredo  di  notizie  e  d' indagini,  storiche, 
letterarie,  artistiche,  nelle  lettere  umane,  nelle  arti  belle,  nella  critica 
erudita  o  comparata. 


OY'AO 


a> 


H 

2 

ai. 

O 
li, 

O 
Q 
O 


< 

< 

cu 

< 

u 

O 

B 


t: 


z 


IV. 
L'arte  della  Prosa 

nel  bozzetto,  nella  novella,  nel  romanzo 


eco  pochi  tratti  di  soli  alcuni  fra'  nostri  più  popolari  o 
più  nominati  scrittori,  cioè  di  quelli  che  mostrano  rispetto 
all'arte,  se  non  un  vero  indirizzo  novo,  forse  un  parti- 
colare 0  spiccato  carattere  di  rappresentazione:  certo  influiscono 
alcun  poco  su  l'animo  de'  giovini  e  di  molti  de'  nostri  instancabili 
e  assai  facili  produttori. 

Cominciamo  dal  più  popolare  e  avventurato  di  essi,  da  quello 
che  fu  il  nostro  più  caro  amore  della  prima  gioventù,  cioè  da  Ed- 
mondo De  Aniicis.  A  chi  mai  anche  fra  gli  alunni  delle  scuole  pri- 
marie è  ignoto  il  celebrato  autore  del  Cuore  di  cui  furono  tratte  in 
luce  circa  200  edizioni  ?  Qual  mai  opera  italiana  fu  più  fortunata 
di  questa,  ch'è  un  lavoro  di  scuola  e  insieme  di  arte  ?  Egli  ,  come 
tutti  sanno,  è  il  gran  mago  della  parola  e  il  più  ricco  signore  delle 
imagini  ;  e  per  questa  sua  privilegiata  potenza,  più  nativa  che  acqui- 
sita, più  spontanea  che  disciplinata  da  una  compiuta  educazione 
letteraria,  egli  é  veramente  il  più  letto,  anche  perchè,  come  direb- 
bero oggi  i  coniatori  di  frasi  fresche,  è  il  più  suggestionante.  Ed 
è  proprio  cosi.  Il  De  Amicis  è  una  di  quelle  nature  cosi  largamente 
dotate  di  un'intima  forza  psicologica  e  affettiva  che  non  possono 
essere  interamente  corrette  e  temperate  dal  freno  dell'arte;  una,  cioè, 
di  quelle  nature  prepotenti  e  insieme  indipendenti  che  sentono  per 
questo  il  bisogno  di  espandersi,  di  allargarsi,  senza  limiti,  senza 
l'itegno,  ma  gettando  sempre  barbagli  di  luce  in  ogni  manifesta- 
zione del  naturale  esterioi'C;  e  da  ciò  gli  derivano  con  pregi  assai 
notevoli  difetti  grandi  :  piemontese  di  nascita,  è  poi  tutto  meridio- 
nale d'anima  e  di  concepimento.  E  allo  svolgimento  di  questa  sua 
facoltà  molto  conferirono  i  lunghi  viaggi  da  lui  minutamente  de- 
scritti, e  gli  aspetti  meravigliosi  dei  luoghi  che  doverono  secondare 
pienamente  e  spesso  a  danno  della  osservazione  serena  e  calma  e 
perciò  più  profonda  quella  fantasia  cosi  ricca  e  quel  cosi  vivo  sen- 
timento. 

Ecco  la  ragione  della  immensa  diffusione  de'  suoi  libri  che  per 
questo  rispetto  gareggiano  co'  più  diffusi  di  Francia  e    d'  altrove  ; 

27 


4i8 


elle  anzi  l)en  pochi  volumi  stranieri  possono  vantare  le  edizioni  dei 
Cuore. 

E'  naturale  quindi  che  un'anima  cosi  fervidamente  appassionata 
del  molteplice  e  del  vago,  che  un  cuore  tanto  sensibile  a'  più  attraenti 
spettacoli  della  terra,  del  mare  e  del  cielo,  che  una  fantasia  cosi 
esuberante  e  vivace,  lo  aiutassero  a  divenir  sùbito,  fin  da"  primi 
libri  che  son  molti  e  di  contenuto  vario  e  descrittivo,  il  pittore  più 
luminoso  e  il  colorista  più  diffuso  della  natura  :  fu  anche  poeta,  o 
meglio,  scrisse  dei  versi  di  ridondante  e  monotona  sonorità,  ma  egli 
è  assai  più  poeta  in  prosa  che  in  rima. 

Ninno  in  Italia  ha  la  magica  tavolozza  del  De  Amicis,  e  ninno 
più  di  lui  sa  versar  su  le  cose,  su  tutte  le  cose,  tanta  dovizia  di 
luce  e  di  colori,  d'ombre  e  di  chiaroscuri,  di  sfumature,  di  grada- 
zioni, di  sfondi,  che  ci  rendono  del  sensibile  le  apparenze  più  vaghe, 
i  toni  più  vari  e  diversi.  Ma  questo  vizio  di  descrivere  per  solo 
amore  del  descrivere,  che  parmi  l'unica  preoccupazione  degli  odierni 
scrittori;  questo  smanioso  aggirarsi  intorno  all'  oggettivo  puro  e 
nudo  senza  infondervi  la  vita  psicologica  de'  caratteri  umani  a  cui 
la  natura  dovrebbe  solo  servir  da  contorno  e  da  scena;  questo  sen- 
suale attaccamento  alla  materia  col  solo  bisogno  di  leccarla  e  non 
di  osservarla  per  introdurvi  o  riflettervi  tipi  di  anime  nella  loro  azio- 
ne più  mossa  e  più  feconda;  tutto  codesto,  ripeto,  è  lusso,  è  pompa, 
è  vanità  ;  tanto  è  vero  che  l'abito  del  descrivere,  come  quello  del 
secolo  XVIII,  segnò  sempre  il  decadimento  dell'  arte  anche  presso 
le  nazioni  più  eulte;  e  solo  il  Parini  fra  noi  potè  valersene  per  farne 
mezzo  o  strumento  della  sua  mirabile  ironia  satirica  tra  epica  e 
didascalica,  senza  i  quali  elementi  quella  poesia  non  rimarrebbe 
altro  che  mirabile  prodigio  di  tecnica.  La  descrizione  è  mezzo  a- 
dunque,  non  fine. 

Tornando  al  De  Amicis,  ninno,  credo,  vorrà  negare  che  troppo 
spesso  il  colore  non  è  sobrio,  non  uguale  o  proporzionato  il  disegno, 
non  limpida  e  netta  la  elocuzione ,  non  opportuna  o  temperata  la 
fantasia  che  anzi  si  sfrena  a  imagini  strane ,  direi  quasi  parados- 
sali, a  similitudini  ambiziose,  a  figure  secentistiche  o  di  conio  troppo 
personale,  onde  gli  effetti  ne  riescono  falsi  o  poco  naturali.  Troppe 
volte ,  più  che  rapire  abbaglia ,  più  che  allettare  seduce ,  più  che 
sollecitare  il  gusto  dei  buoni  sorprende  e  non  di  rado  stordisce. 
Egli,  non  appena  l'anima  lirica  lo  attrae  verso  un  punto  qualsiasi, 
verso  un  aspetto  di  luoghi  anche  poco  bello  e  seducente  ,  verso 
fenomeni  anche  non  lieti  o  poco  adatti  in  altri  al  rapimento  o  alla 
inspirazione,  vi  si  abbandona  con  tutto  io  slancio  e  con  tutta  la 
passione  di  un  grande,  di  un  fervido  amatore,  finché  lo  spirito  suo 
non  se  ne  stanchi  o  non  versi  il  suo  pennello  tutte  le  tinte  e  tutti 


419 


i  colori;  e  allora,  se  avviene  che  seduca  gl'incauti  Ano  alla  vertigine, 
lascia  un  po'  incerti  o  ristucchi  i  lettori  di  buon  gusto  che  non 
sempre  son  vaghi  di  seguirlo  in  que'continui  giochi  di  luce  e  di  ab- 
bagliamenti spesso  ritornanti  in  altri  quadri  e  in  altre  scene  dove 
l'esausta  tavolozza  non  ha  più  colori  per  nuove  trovate  e  per  nuovi 
disegni,  perché  ornai  stemperati  troppo  nelle  descrizioni  precedenti. 

Ma  con  tutti  questi  difetti  ,  provenuti  necessariamente  dalle 
particolari  attitudini  del  suo  ingegno,  il  De  Amicis  resta  sempre  il 
più  geniale  e  il  più  naturalmente  artista  o  poeta  fra  tutti  i  prosa- 
tori contemporanei.  Ne'  molti  suoi  libri  s'incontrano  spesso  qua  e 
là  quadri  e  scene  che  con  gli  stessi  lor  vizi  di  composizione  sono 
d'incomparabile  bellezza  descrittiva  e  di  straordinaria  fantasia  pit- 
trice :  in  essi  le  imagini  o  le  parvenze  delle  cose  si  moltiplicano  , 
s'inseguono,  si  confondono  rapide,  improvvise,  inconsulte,  come  in 
un  magico  prisma  di  colori,  come  in  un  caleidoscopio  inesauribile 
di  bagliori. 

E  alle  fantasie  risponde  benissimo  lo  stile,  cosi  ridondante  di 
tropi  audaci,  di  costrutti  ambiziosi,  di  frasi  caratteristiche,  di  le- 
gamenti liberi  e  capricciosi.  Alcuni  credono  che  il  De  Amicis  renda 
nelle  sue  prose  l'arte  e  lo  stile  de'  Promessi  Sposi.  Niente  di  più 
avventato,  che  non  v'ha  artista  oggi  in  Italia  più  antimanzoniano  di 
lui,  nella  lingua,  nella  interpunzione  e  nella  costruzione  o  model- 
latura del  periodo,  il  quale  ha  un'orditura  tutta  sua  propria  e  un 
movimento  non  di  rado  sbrigliato  :  esso  procede  a  tratti,  a  scatti, 
a  sbalzi,  breve  e  stretto,  e  come  a  saltellini  di  giunture  e  di  membri, 
onde  può  ricordar  solo  la  prosa  francese  e  non  sempre  in  quello, 
che  questa  ha  di  più  trasparente,  di  più  fresco  e  peregrino  E' vero 
che  lo  stile  del  De  Amicis  mostra  in  più  d'un  luogo  qualche  fiuto 
della  prosa  manzoniana  in  cui  egli  ha  certo  profondamente  studiato, 
ma  non  oltre  qualche  truciolo  di  tecnica  sparsa  o  di  meccanica 
linguistica;  non  altro.  Di  fatti  dov'è  un  tratto  ne' molti  volumi  del 
De  Amicis  che  accenni  o  ricordi  alla  lontana  quel  magnifico  nel 
vario,  quel  largo  nel  misurato,  quell'uguale  nell'armonioso,  ch'è  la 
perfetta  architettura  del  periodo  manzoniano,  cosi  lucido  e  perspi- 
cuo nella  linea,  nel  rilievo,  ne'  contorni,  in  tutta  la  mirabile  sim- 
metria delle  parti.  Forse  il  De  Amicis  ha  qualcosa  che  non  è  frequente 
ne'  Promessi  Sposi:  il  color  vivo  e  l'impeto  della  passione.  Di  uno 
scrittore  cosi  celebre  e  che  va  per  le  mani  di  tutti  ma  specialmente 
de'giovani  studiosi,  abbiamo  voluto  in  mezzo  al  coro  troppo  uni- 
forme delle  laudi  notar  pure  i  difetti,  che  del  resto,  se  sminuiscono, 
non  tolgono  que'  grandi  pregi  che  in  parte  scusano  i  difetti  mede- 
simi e  insieme  rivelano  una  maravigliosa  e  singolarissima  tempra 
di  scrittore  e  di  uomo. 


420 


Tale  dunque  mi  è  parso  il  celebrato  autore  dei  Bozzetti  e 
delle  Novelle,  della  Spagna  e  del  Marocco,  deli' Olanda  e  di  Costan- 
tinopoli, deir  Oceano  e  de'  Ricordi  di  Londra,  delle  Porte  d'Italia 
e  delle  Pagine  Sparse,  degli  Atuici  e  delle  Poesie,  de'  Ricordi  di 
Parigi  e  de'  Ritratti  letterari,  del  Cuore  e  del  Romanzo  di  un 
'maestro,  del  libro  Fra  scuola  e  casa  e  del  Vino  (conferenza),  della 
Carrozza  'per  tutti,  delle  Memorie,  Speranze  e  glorie,  e  il  futuro 
autore  di  Bambini  e  scolari  e  di  Pagine  pai-late. 

Di  Giovanni  Verga  abbiamo  già  discorso  innanzi  (*)  ;  onde  qui 
ci  limitiamo  a  ricordare  ch'egli  è  il  più  poderoso  rinnovatore  del 
romanzo  oggettivo  e  della  novella  di  costume  o,  come  già  dicemmo, 
campagnola. 

Non  corretto,  anzi  talvolta  ruvido  e  pedestre  nello  stile  ,  ha 
però  la  mirabile  attitudine  a  dar  vita  psicologica  e  movimento 
insolito  ai  suoi  personaggi,  e  di  ritrarli  nella  brusca  e  non  di  rado 
selvaggia  crudezza  locale;  onde  spesso  ne  risulta  un  cosi  bieco 
realismo  anche  delle  più  basse  passioni,  che  1'  animo  del  lettore 
ne  risente  come  una  irritante  impressione.  Ma  ninno  più  e  meglio 
di  lui  possiede  il  magistero  finissimo  di  variare  con  abili  scorci  la 
trama  del  romanzo,  di  sorprendere  nella  vita  e  modellar  poi  sul 
teatro  o  ne'  libri  scene  originalissime  e  vive  e  immediate,  e  in  fine 
di  crear  tipi  e  combinare  e  atteggiar  situazioni  con  sicurezza  di 
tocco,  con  rapido  intuito  de'  caratteri,  con  profonda  percezione  e 
visione  del  vero. 

Cosi  fatto  è  l'autore  di  Eros  e  di  Eva,  de'  Malavoglia  e  del 
Marito  di  Elena,  di  Per  le  vie  e  della  Storia  d'una  capinera,  della 
Tigre  reale  e  della  Cavalleria  rusticana,  di  Mastro -doti  Gesualdo 
e  de'  Ricordi  del  Capitano  d'Arce,  di  doìi  Candeloro  e  C.  e  di  Xedda^ 
del  Vagabondaggio  e  delle  Novelle  rusticane,  de'  Drammi  iritimi  e 
di  più  altri  romanzi  o  novelle. 

Luigi  Capuana  è  un  prosatore  vario  e  di  molteplice  ingegno  r 
poeta  e  novelliere,  romanziere  e  critico,  commediografo  e  autore  di 
libri  ameni  per  bambini,  direttore  della  Cenerentola  e  professor  di 
lettere  italiane  nella  Scuola  Superiore  di  magistero  femminile  in 
Roma. 

Come  poeta  de'  Semiritmi,  delle  Parodie  e  de'  Paralipomeni 
al  Lucifero  di  Mario  Rapisardi,  che  non  ostante  il  metro  novo  e 
assai  libero  pur  mostrano  qua  e  là  qualche  vena  di  schietto  umo- 
rismo, non  pare  sia  stato  molto  ammirato;  e  neanche  pare  abbia 
avuto  fortuna  col  teatro  in  cui  novamente  e  di  recente  si  è  provato; 


(•)  Nel  capitolo  «  Novelle  » 


421 


ma  con  la  Giacinta,  clie  passò  con  grandi  lodi  e  non  senza  un 
qualche  contrasto,  volle  primo  in  Italia  importare  il  crudo  realismo 
zollano  su  basi  sperimentali.  Questo  fu  il  solo  vero  romanzo  che 
egli  avesse  composto  e  di  cui  a  torto  si  è  dileguata  la  memoria. 
Fu  anche  più  fortunato  nelle  novelle,  ne'  bozzetti  e  in  altri  piccoli 
lavori,  ma  forse  un  po'  meglio  in  que'  vivi  e  allegri  racconti  pieni 
di  care  e  di  soavi  fantasie,  da  lui  composti  per  l'infanzia  e  per  la 
fanciullezza,  come,  C'era  una  volta:  Il  regno  delle  fate  ;  Fanciulli 
allegri:  Le  paesane:  Il  drago. 

Un  altro  breve  nucleo  di  composizioni  han  questi  titoli  :  Storio, 
fosca.  Homo,  Ribrezzo,  Fumando,  Garibaldi,  Vanitas  vanitatum. 
Il  piccolo  archivio.  Profili  di  donne,  ecc.  ecc.  Scrisse  anche  alcune 
opere  intorno  all'arte  odierna,  come.  Il  teatro  italiano  contempora- 
neo. Studi  su  la  letteratura  conte>iiporanea.  Per  l'arte,  ecc.  ecc.;  e 
in  esse,  se  non  rivela  la  fossile  ricerca  de'  soliti  esumatori  di  bric- 
ciche storiche,  si  mostra  spesso  critico  acuto  ed  arguto  su  argomenti 
che  meglio  rispondono  al  suo  vero  esercizio  di  scrittore  e  di  artista. 
e  insieme  un  uomo  di  molto  fine  buon  gusto  e  intenditore  di  molti 
segreti  che  a  tanti  teorici  dotti  o  sfuggono  o  son  veramente  ignoti: 
se  queste  opere  non  sono  interamente  profonde  e  dense  di  spirito 
nuovo  e  di  cultura  classica,  son  però  piene  di  largo  senso  estetico 
•e  di  osservazioni  proprie  e  opportune. 

Scrittore  facile,  spigliato  ,  talvolta  elegante  e  magnifico,  è  uno 
de'  più  lodati  fra'  nostri  prosatori  e  un  de'  critici  più  autorevoli  in 
materia  d'arte  contemporanea. 

11  romanziere  più  veramente  e  variamente  fecondo  è  Anton 
Giulio  Barrili ,  ligure  (  nacque  a  Savona  il  14  dicembre  1836  ).  E 
come  vario  lo  scrittore  cosi  varia  e  avventurosa  è  stata  la  sua  vita. 
Si  laureò  in  legge  nella  Università  di  Genova  ;  fu  nel  "59  volon- 
tario nell'esercito  regolare ,  e  tra  il  '60  e  il  '67  garibaldino  ;  fu 
giornalista,  deputato  al  Parlamento  nella  XIII  legislatura,  e  consi- 
gliere comunale  e  provinciale  di  Genova  nel  cui  Ateneo  insegna 
dal  1889  letteratura  italiana.  E  romanziere  e  novelliere,  verseggia- 
tore cosi  latino  come  italiano,  articolista  e  conferenziere  applaudi- 
tissimo.  Ha  finora  scritto  circa60  volumi  tra  di  novelle  e  di  romanzi, 
di  commedie  e  di  discorsi,  di  studi  letterari  e  di  versi,  di  articoli 
€  di  conferenze.  De'  romanzi  citiamo,  fra'  più  lodati.  Il  tesoro  di 
Golconda,  il  Capitan  Dodèro,  L' Olmo  e  V Edera,  La  donna  di  Picche, 
Fior  di  Mughetto,  Il  Conte  Bosso,  Arrigo  il  Savio,  La  bella  Gra- 
ziana,  Amori  alla  macchia,  L'undecimo  comandamento;  delle  com- 
medie. La  legge  Oppia  e  Lo  Zio  Cesare  ;  de'  racconti  ,  Uomini  e 
bestie:  dei  discorsi  commemorativi  o  patrii,  Giuseppe  Garibaldi  e 
Vitlor  Hugo. 


422 


E  dei  nosti'i  novellieri  e  romanzieri  più  celebri  un  de'  poclii  se 
non  forse  il  solo  che  sa  conciliare  alla  mirabile  l'acilità  delle  trovate 
uno  spirito  calmo  e  rinl'rescatore,  un  contenuto  sano  e  insieme 
arguto  e  festivo,  ma  soprattutto  la  spigliata  purezza  e  lucidezza 
della  espressione  che  ha  spesso  un  sapore  di  classica  venustà  e  di 
gioiosa  leggiadria,  a  cui  certo  hanno  contribuito  i  larghi  studi  che 
ha  fatti  quasi  da  solo  intorno  alle  letterature  antiche  e  moderne. 
Ma  la  sua  prosa  più  eletta  nella  tecnica  dello  stile  è  certo  quella 
de"  discorsi  per  circostanze  solenni  come  quella  su  Garibaldi  e  su 
THugo  :  ha  nervosa  e  vigorosa  efficacia  quel  periodo  vibrato  e  rac- 
colto nel  vivo  e  ben  modellato  rilievo  del  costrutto  e  della  rappre- 
sentazione. 

Spirito  sereno  ma  di  briosa  piacevolezza,  animo  benefico  e 
soave,  ingegno  pronto,  luminoso,  versatile,  aspetto  pieno  di  grazia, 
di  vita,  di  bontà,  egli  riesce  lo  scrittore  più  attraente  e  simpatico 
de'  nostri  salotti  eleganti  e  l'autore  più  letto  nelle  nostre  famiglie, 
anche  nelle  più  schive  alla  lettura  di  libri  moderni,  poiché  non  mai 
egli  si  mostra  volgare,  né  licenzioso.  É  anclie  ammirato  per  le  più 
amabili  qualità  :  è  conversevole  e  faceto,  compiacente  agli  amici» 
caro  a  tutti  ;  è  ,  in  fine ,  uno  de'  ben  radi  esempi  di  prosatori 
che  non  han  voluto  cercar  fama  e  originalità  nelle  studiate  esage- 
razioni e  nella  pozzanghera  del  verismo  recente  o  nelle  nebbie  del 
simbolismo  patologico  ,  ben  pago  delle  buone  tradizioni  della  nostra 
vera  arte  e  della  nostra  vera  cultura. 

Ecco  ora  due  cari  tipi  di  prosatori  toscani,  lorick  (Pietro  Fran- 
cesco Leopoldo  Coccoluto  Ferrigni),  da  due  anni  rimpianto,  e  Neri 
Tanfucio  (Renato  Fucini):  l'uno  già  avvocato  e  giornalista  e  più 
innanzi  garibaldino  di  valore,  ferito  a  Milazzo  e  decorato  della 
medaglia  al  valor  militare;  e  l'altro  —  chi  mai  lo  crederebbe  se 
non  lo  sapesse  ^  —  regio  ispettore  delle  scuole  elementari  in 
S.  Miniato  !  L'autore  della  Storia  de'  burattini,  del  Su  e  giù  per 
Firenze,  del  Vedi  Napoli  e  poi  .  .  .  ,  della  Festa  de'  fiori,  della 
Morte  di  una  musa  e  di  molte  altre  simili  pubblicazioni,  di  viaggi» 
di  critica,  di  arte,  non  che  di  molte  centinaia  di  articoli  e  relazioni 
artistiche  mandati  a  molteplici  diarii  italiani,  fu  lo  scrittore  più 
genialmente  brioso  ed  arguto  che  in  questi  ultimi  tempi  abbia  avuto 
l'Italia. 

Memoria  maravigliosa,  erudizione  assai  larga,  spirito  pronto  e 
vivace,  cuore  appassionatissimo  di  tutte  le  cose  belle,  fantasia  lucida 
e  ricca,  fronte  ampia  e  aspetto  simpaticamente  sereno  sotto  il  cui 
sorriso  brillava  sempre  la  più  fine  ironia,  egli  ebbe  del  toscano  le 
qualità  migliori  e  tutte  le  seppe  versare  a  piene  mani  ne'  quadri 
viventi  de'suoi  racconti  e  delle  sue  descrizioni  che  vanno  fra  le  più 


423 


belle  cose  delia  recente  letteratura.  Qual  mai  scrittore  (parlo  de'più 
giovini)  può  vantare  una  prosa  cosi  fresca,  così  alata,  cosi  viva  co- 
me quella  intitolata  AW  istituto  de'ciechi  {nel  su  e  fjii'c  per  Firenze) 
che  noi  facciamo  anche  leggere  nelle  nostre  antologie  ?  Men  forte 
del  De  Amicis,  non  ne  ebbe  però  tutt'  i  difetti. 

Renato  Fucini  è  invece  temperamento  ben  diverso  di  artista  ; 
è  un  serio  e  limpido  rinfrescatore  della  vita  campagnola  nella  pura 
schiettezza  del  dialetto  nativo  in  cui  compose  i  suoi  Sonetti  che 
sono  quanto  di  più  grazioso  e  di  più  immediato  abbia  la  nostra 
poesia  popolare  contemporanea,  la  quale  nel  Fucini,  quantunque 
studiata  e  riflessa ,  è  però  colta  con  agile  purezza  dalla  viva 
bocca  e  dal  cuore  del  popolo  ;  e  questo  spirito  consolatore  e  sano 
di  campagna  e  di  montagna,  questa  naturale  e  quasi  voluttuosa 
rappresentazione  di  scene  casalinghe,  di  paesaggi,  di  figure  rusti- 
cane, meglio  forse  rivelasi  nelle  sue  prose,  certo  vive  e  belle  di 
squisita  toscanità  di  forme,  ma  sempre  un  po' compenetrate  e  quasi 
imbevute  del  dialetto  pisano  e  del  pistoiese. 

Chi  legge  le  Veglie  di  Neri  e  i  Paesaggi  e  figure  della  campagna 
toscana  può  ammirare  tutto  questo.  Ma  chi  pur  voglia  seguire  que- 
sto caro  autore  in  racconti  di  più  larga  e  di  più  accesa  rappresen- 
tazione, dove  meglio  si  allarga  il  suo  spirito  e  la  sua  osservazione, 
legga  'Napoli  a  occhio  nudo.  E  insomma  uno  de'  più  ameni  e  de' 
più  nativi  scrittori  nostri,  o  forse  quello  che  meglio  ricorda,  senza 
esserselo  proposto  per  fine,  qualcosa  del  Trecento  a  cui  tanto  è 
accostevole  il  popolo  semplice  della  campagna  toscana. 

Segue  ora  un  novo  tipo  di  scrittore  vario  e  simpatico  in  Giu- 
seppe Giacosa,  narratore,  descrittore,  poeta,  commediografo,  con- 
ferenziere. E'  un  piemontese,  e  nacque  a  Colloretto  Parella  in  quel 
d' Ivrea  il  21  ottobre  1847.  Come  il  De  Amicis,  anch'  egli  non  con- 
serva delle  Alpi  native  quel  non  so  che  di  rigido  e  di  smorto  nello 
spirito  eh"  è  invece  tutto  vivo  e  luminoso  e  che  in  entrambi  ha  più 
tosto  del  meridionale  che  del  piemontese,  almeno  per  gli  accesi 
colori  della  loro  cosi  ricca  tavolozza.  Ciò  non  ostante  tra  1'  uno  e 
r  altro  non  corre  alcuna  linea  di  contatto  o  di  somiglianza.  E  il 
Giacosa  noto  innanzi  tutto  come  un  signorile  e  affascinante  con- 
ferenziere: ha  r  atteggiamento  grave  e  insieme  elegante,  ha  la 
parola  agile,  armoniosa,  perfettamente  modulata,  ha  l'aspetto  fina- 
mente aristocratico  e  piacente.  Tale  il  prosatore:  morbido  e  luminoso, 
fluido  ed  efficace,  profumato  e  decorosamente  mondano.  Si  rivelò 
buon  artefice  di  versi  e  commediografo  geniale  con  la  Partita  a 
scacchi  che  troppo  aspramente  il  Carducci  condannò  per  alcune 
scorse  di  storia  letteraria  provenzale ,  ma  che  tuttavia  ci  risona 
ancora  all'  orecchio  per  quel!'  onda  carezzevolmente  musicale  onde 


424 


non  l'u  mai  maneggiato  in  questi  ultimi  tempi,  tranne  che  dal  Ca- 
vallotti, con  tanta  facilità  e  con  tanta  bravura.  Negli  altri  lavori, 
Trioìifo  iV  aìHore,  Tristi  muori.  Resa  a  discrezione.  Fratello  cV  ar- 
mi.  Il  Conte  Itosso,  Affari  di  banca.  La  signora  di  Clwllant,  Diritti 
deU'aniìua,  è  sempre  lui:  il  più  fine  e  ridente  e  quasi  lezioso  cesel- 
latore della  prosa,  fra'  nostri  commediografi,  anche  dove  manchi  il 
forte  o  il  profondo  degl"  intrecci  e  delle  situazioni;  e  finalmente  nei 
Castelli  della  Valle  d'Aosta  è  un  descrittore  e  raccontatore  magnifico 
come  ne  ha  pochi  la  letteratura  contemporanea.  Che  serena  e  gio- 
iosa pienezza  di  sentimento  e  di  fantasia  è  in  quella  piana  e  armonica 
leggiadria  di  .stile  eh'  è  a  un  tempo  limpido  e  uguale,  senza  mai 
stancare  il  lettore  più  schivo  e  insieme  di  buon  gusto!  Ricordiamo 
passando  1'  ultimo  suo  dramma ,  Coute  le  foglie  ,  applaudito  viva- 
mente ,  non  è  guari,  a  Milano  ed  altrove:  è  forte  l'opera  sua  più 
originale  e  compiuta,  e  quella  che  meglio  ne  rappresenta  la  matura 
evoluzione  dell'ingegno. 

Vittorio  Bersezio  è  un  altro  piemontese  che  ha  dato  alla  nostra 
letteratura  uno  svariato  assortimento,  dirò  cosi,  di  libri  in  ogni 
ordine  di  contenuto  e  in  ogni  genere  di  arte.  Patriota  e  soldato , 
andò  come  volontario  alle  battaglie  del  1848-49,  e  fu  anche  depu- 
tato al  Parlamento  Nazionale. 

Come  scrittore  è  stato  adunque  de*  più  versatili  e  laboriosi: 
giornalista  e  commediografo,  novelliere  e  romanziere,  storico  e 
biografo.  F'ra  le  novelle  e  i  romanzi  ebbero  voga  ed  anc'oggi  sono 
in  parte  ricordati  il  Novelliere  conteui foraneo.  La  mano  di  neve. 
La  Plebe,  Il  piacere  della  vendetta.  La  carità  del  prossimo,  Cava- 
lieri, anni  ed  amori.  Gli  angeli  della  terra.  Il  debito  paterno.  Povera. 
Giovanna  !  Il  beniamino  della  famiglia;  fra  le  sue  commedie  ricor- 
diamo La  bolla  di  sapone,  Da  galeotto  a  marinaio.  Due  contendeìiti, 
1  mettimale.  Zio  milionario,  I  violenti.  Fratellanza  artigiana.  Il 
perdono,  e  le  veramente  celebri  che  van  sotto  i  titoli  di  Miserie  di 
Monsignor  Travetti  e  Le  prosperità  di  Monsignor  Travetti  le  quali 
ultime  furon  veramente  una  rivelazione  e  rimarranno  forse  come 
la  cosa  più  viva  del  teatro  comico  contemporaneo. 

De"  suoi  lavori  storici  sono  degni  di  particolare  osservazione 
Massimo  d'Azeglio  e  il  Regno  di  Vittorio  Emanuele;  e  fra  le  sue 
memorie,  Note  autobiografiche  e  le  f  isioni  del  passaAo.  Quanta  lar- 
ghezza e  quanta  fecondità! 

De'  molti  che  pure  si  provarono  in  molti  generi  di  prosa  è  forse 
il  solo  che.  Sii  non  la  originalità  delle  invenzioni,  mostra  quasi  sem- 
pre una  esperienza  sicura  nel  vario  maneggio  dell'arte  e  nell'uso  dei 
mezzi  per  conseguirla  o  almeno  adattarla  al  gusto  de'  contemporanei. 
In  questi  ultimi  anni  è  men  ricordato  di  prima,  forse  perchè  nulla 


425 


più  ci  ha  dato  di  suo,  essendo  vezzo  o  leggerezza  de'  critici  novelli 
il  far  chiasso  intorno  all'opera  fresca  e  recente  a  cui  donano  sol- 
tanto un  giorno  di  gloria  o  di  dannazione;  ciò  non  ostante  il  Ber- 
sezio  rimarrà  forse  e  non  per  poco  come  uno  di  que'  felici  e  ardenti 
spiriti  del  Settentrione  che  dopo  la  dura  e  agitata  vita  delle  antiche 
battaglie  sostenute  per  la  indipendenza  e  per  la  libertà  esercitarono 
poi  in  tempi  calmi  e  tranquilli  quella  medesima  forza  operosa  e 
onesta  nel  campo  non  meno  agitato  degli  studi  e  dell'  arte  dove 
esplicarono  con  la  virtù  dell'  ingegno  il  frutto  maturo  della  loro 
esperienza  civile  e  patriottica.  {*) 

Anche  la  Sardegna,  insieme  col  poeta  Felice  UJa,  col  fratello 
Michele,  giornalista  e  romanziere,  e  ultimamente  con  Grazia  Deledda, 
giovane  poetessa  e  giovane  sposa,  e  scrittrice  di  novelle  e  romanzi, 
anche  la  Sardegna  ci  ha  dato  uno  de"  più  vantati  novellieri  nostri 
in  Salvatore  Farina ,  nato  a  Sorso  in  provincia  di  Sassari  il  10 
gennaio  1846.  Egli  è  degno  di  esser  comparato  anche  ad  alcuni  fra 
gli  stranieri  di  bella  fama,  com'  è  uno  de'  pochi  fra'  nostri  meglio 
conosciuti  al  di  fuori.  Viaggiò  e  peregrinò  molto  per  l'Italia  e  per 
l'Europa,  ma  da  gran  tempo  dimora  in  Milano  dove  giovinetto  si  legò 
di  fraterna  amicizia  con  Iginio  Ugo  Tarchetti,  il  doloroso  poeta, 
ammalato  di  passione  e  morto  di  amore,  il  sentimentale  poeta  di  cui 
scrisse  anni  fa  con  memore  affetto  alcune  pagine  che  ce  ne  raccon- 
tano non  senza  lacrime  1'  animo  infermo  e  la  vita  infelice.  Povero 
Tarchetti,  ultimo  delicato  tìore  di  una  generazione  di  forti! 

Il  Farina  fu  chiamato  una  volta  il  Dickens  italiano,  il  che  non 
mi  par  vero  per  lo  spiccatissimo  divario  se  non  forse  contrasto 
tra  la  natura  dell'  Inglese  e  quella  dell'  Italiano  in  cui  non  vedo 
splendere  quel  vivo  lume  di  schietto,  urbano,  incomunicabile  umo- 
rismo, e  quella  fine,  inesauribile,  morbidissima  genialità  d'invenzioni 
sempre  nuove  e  di  forme  squisitamente  peregrine.  Ma  il  Farina, 
se  non  ha  lo  spirito  inventivo  del  Dickens,  se  non  ha  del  Verga  la 
forza  e  la  violenza  efficace  della  rappresentazione,  se  non  del  Bar- 
rili la  facilità  e  fecondità  degli  svolgimenti,  se  non  di  altri  l'acceso 
colore  e  la  fervida  immaginazione ,  con  più  altre  doti  del  genio 
paesano,  originalmente  assimilatore  e  vario;  forse  avanza  i  nostri 
per  quella  muliebre  tenerezza  e  per  quella  elegiaca  e  serena  spiri- 
tualità infusa  di  dolce  e  sano  umorismo,  che  alitano  con  voluttuosa 
e  signorile  pacatezza  e  con  sobria  euritmia  di  disegno  per  entro 
la  rappresentazione   più    umile    ma  più  casalinga,  più  limitata  ma 


(')  Il  Rersezio  mori  il  30  gennaio  di  quest'anno  (  1900)  in  Torino,  quando 
cioè  era  già  composta  questa  breve  raccolta  di  mìniaturine  degli  scrittori  con- 
temporanei. 


426 


l)iù  democratica  dell'  ambiente  domestico.  Fra  i  più  celebrati  suoi 
lavori  ,  molti  dei  quali  furon  pure  tradotti  in  più  lingue  straniere, 
van  ricordati  i  seguenti:  Due  amori;  Un  segreto'^  Fiamma  vagabonda; 
Il  romanzo  d'un  vedovo;  Il  tesoro  di  Donnina;  Amore  bendato;  Un 
tiranno  ai  bagni  di  mare;  Oro  nascosto;  Mio  figlio;  Il  signor  Io; 
Caporal  Silvestro;  L'ultima  battaglia  di  Padre  Agostino;  Carta  bol- 
lata; Il  mimerò  13.  Osservatore  fino,  accurato,  non  minuzioso;  animo 
dolce  e  pieno  delle  più  gentili  sensazioni;  ingegno  alacre  ma  non 
vigoroso,  ei  si  piace  di  ritrarre,  senza  sforzo  di  originalità,  senza 
eccessiva  vivezza  di  colori,  senza  impeti  o  slanci  di  passione,  scene 
brevi  ma  pur  care  per  certa  pura  e  serena  letizia  di  anime  e  di 
azioni,  avventure  simpatiche  non  per  la  novità  ma  per  la  grazia  del 
racconto,  luoghi  e  paesi  e  figure  che,  sia  pe'  soggetti  sia  per  gl'in- 
trecci di  semplicissima  orditura  e  condotta,  destano  e  rinnovano 
nel  lettore  buono  le  più  grate  e  le  più  amabili  impressioni.  E  tutto 
questo  non  solo  piace  ma  è  quasi  nuovo  nel  nostro  romanzo;  e  il 
Farina  insieme  col  Barrili  riesce  perciò,  o  dovrebbe  almeno  riuscire, 
il  romanziere  più  accetto  alle  nostre  donne,  più  caro  alle  nostre 
famiglie,  più  profittevole  a'  nostri  giovani  che  dovrebbero  oramai 
esser  sazii  di  quel  crudo  e  di  quel  turpe  onde  son  pieni  i  romanzi 
e  le  novelle  anche  de'  nostri  più  insigni  e  ricercati  scrittori. 

Gerolamo  liovetta,  nato  a  Brescia  nel  1850,  è  uno  di  quelli  in 
cui  brilla,  per  dirla  col  Manzoni,  il  buon  sangue  lombardo;  e  della 
città  natale,  la  leonessa  d' Italia,  ha  l' impeto  e  il  fuoco  e  la  forza 
nella  ispirazione  e  nello  stile.  Ejdi  fatti,  la  sua  prosa  é  tutta  sangue, 
nella  lingua,  nella  frase,  nel  periodo,  nella  rappresentazione  calda 
e  animata;  e  fra  i  giovani  romanzieri  e  commediografi  è  quegli  che 
senza  avventataggini  di  ricercate  novità,  ed  anche  senza  il  polso 
della  maschia  e  rude  prosa  del  Verga,  dà  il  più  vitale  movimento 
e  la  più  larga  e  intrecciata  orditura  alla  ricca  e  colorita  trama  de' 
suoi  romanzi.  Mentre  il  Verga  par  tutto  ristretto  nella  vita  selvaggia 
dell"  isola  sua,  il  Rovetta  i-isale  invece  ai  cerchi  della  vita  gentilizia 
di  cui  ritrae  il  fasto  e  la  mondanità,  la  vita  spendereccia  e  il  lusso 
vano  ,  i  capricci ,  le  più  sfrenate  volgarità ,  le  più  accese  e  inve- 
reconde passioni,  non  senza  discendere  alle  lacrime,  alle  miserie, 
alle    ingiustizie    crudeli    de'   più    bassi    e    ignorati    ordini    sociali. 

Cos'i  egli  è  l'analizzatore  e  il  rappresentatore  di  quella  società 
tra  mercatante  e  aristocratica,  tra  nobile  e  spiantata,  tra  borghese 
e  titolata,  tra  impiegata  e  quattrinaia,  tra  operaia  e  plebea,  di  cui 
fa  specchio  con  quanto  vide  particolarmente  nella  capitale  morale 
d'Italia,.  Per  questo  l'arte  sua  riesce  più  vigorosa,  più  mossa,  più 
informata  al  vivo  senso  delle  cose  presenti,  che  non  sia  l'altra  de' 
suoi  coetanei,  troppo  intesi  al   torpido,  al  molle  e  anzi  all'  evirato 


I 


427 


del  miserevole  pessimismo  de"  tempi,  sempre  che  non  imitino  o 
derivino  o  copiino  1'  opera  non  sana  degli  altri.  Tale  mi  è  parsa 
essere  l'arte  de'  suoi  celebrati  lavori.  Fra  i  romanzi  giova  ricordare: 
Mater  dolorosa  (una  delle  più  originali  e  notevoli  opere  sue);  Un 
volo  dal  nido;  Gli  Zulù  nella  letieratura;  La  moglie  di  iJon  Gio- 
vanni; La  contessa  Maria;  Ninnoli;  Tiranni  minimi;  1  Barbaro  o 
Le  lagrime  del  prossimo;  Sott'acqua;  Il  primo  amante:  Labaraonda; 
e,  fra  le  sue  commedie  più  applaudite,  La  Trilogia  di  Dorina;  Gli 
uoiìiini  pratici;  Collera,  cieca... 

Il  Senatore  Giovanni  Faldella  ci  dà  Analmente  1'  esempio  del- 
l'uomo politico  e  insieme  dell'artista,  come  già  il  Cavallotti,  ma  con 
tal  differenza,  che  questi  fu  sempre  l'acceso  milite  dell'idea  dentro 
e  fuori  del  Parlamento,  mentre  l'altro  rivolge  alla  politica  quella 
piena  e  austera  e  calma  serietà  d'intendimenti  pratici  che  ne  fanno 
uno  de'  più  degni  e  autorevoli  rappresentanti.  Nacque  a  Saluggia 
nel  Piemonte  il  2(5  settembre  1846,  e  nel  '(&  si  laureò  in  giurispru- 
denza nella  R.^  Università  di  Torino;  ma  in  Saluggia,  presso  i  vec- 
chi e  venerati  genitori  che  tanto  1'  adorano,  trascorre  il  più  bel 
tempo  della  vita.  Quivi,  sotto  il  calore  degli  affetti  domestici,  ei 
scrisse  la  più  gran  parte  de'  suoi  lavori  che  ben  presto  ne  rileva- 
rono l'ingegno  forte  ed  ardente.  Pur  nato  sotto  le  Alpi,  non  è  al- 
pigiano se  non  in  alcune  tinte  vigorose  e  rubeste  della  sua  origi- 
nalissima prosa,  piena  di  difetti  e  di  pregi,  bizzarra,  eccentrica, 
paradossale,  nella  elocuzione,  ne'neologismi,  nelle  rischiose  imagini 
figurate,  nel  contenuto,  in  tutto.  Si  vede  che  il  suo  è  uno  spirito  di 
vergine  forza  mal  frenata  dal  pieno  impeto  di  gioventù;  e  il  suo 
ingegno  mi  par  come  una  potenza  nuova  e  fresca,  piena  di  rigoglio, 
la  quale  vuol  tutta  uscire  dal  giovine  involucro  e  romper  quasi  di 
schianto  la  ruvida  e  tenace  scorza  non  senza  lasciar  qualche  vio- 
lenta rottura  nella  compagine  ancor  greggia  e  nodosa.  E  cosi  fatto 
è  il  suo  stile  che  ha  qualche  affinità  con  quello  smisuratamente 
singolare  e  caratteristico  eh'  ebbe  già  Petruccelli  della  Gattina,  il 
più  strano  e  inimitabile  esempio  di  prosatoi'e  moltiforme,  cioè  di 
giornalista,  di  polemista,  di  romanziere,  di  storico,  di  politico,  di 
tutto  ciò  insomma  eh'  ei  si  provasse  a  scrivere  e  a  tentare.  Ecco 
intanto,  come  chiusa  di  questo  mio  abbozzo,  quel  che  ne  pensava  il 
Carducci  nel  frammento  di  una  sua  lettera  a  lui; — Ma  ella  ha  (dolce 
e  invidiabile  colpa)  difetti  di  giovane;  aggruppa,  condensa,  epigram- 
mateggia  un  po'  troppo  :  certe  sue  pagine  paiono  cataloghi  di  bei 
motti,  0  di  eleganze  classiche,  o  di  ardiri  popolareschi. 

Molte  altre  sono  miniate,  disegnate,  scolpite,  tornite,  finite  come 
io  vorrei  fosse  sempre  la  imaginosa  e  giovane  prosa  italiana.  Ad 
ogni  modo,  ove  ella  anche,  a  parer    mio,    pecoa,    pecca    per    altro 


428 


sempre  da  buon  italiano  :  che  é  molto  bene  ....  —  Tutto  questo  si 
osserva  sùbito  in  tutti  i  suoi  lavori  eh"  ò  bene  ricordare  almeno  in 
parte  : 

A  Vienna,  gita  con  il  lapis;  Figurine;  Yerhanine;  Un  viaggio 
a  Roma  senza  vedere  il  Papa  ;  Un  serpe  ;  La  contessa  de  Ritz  ; 
RoHia  borghese;  Ammaestramenti  de'  moderni;  Clericali;  Il  tempio 
del  Risorgimento  italiano;  Madonna  di  fuoco  e  di  neve  ;  La  salita 
di  Montecitorio  ;  La  dinamica  del  Velocipede  ;  Male  dell'  Arte  ;  Ro- 
vine; Conquiste;   Storia  d'Italia,  ecc.  ecc. 

Dovrei  ora  parlare  de'  commediografi  se  non  credessi  meglio  di 
farne  oggetto  in  più  capitoli  che  vedran  la  luce  in  un  altro  volume, 
e  se  anche  non  mi  paresse  che  la  prosa  delle  commedie  e  de'  drammi 
moderni  è  poco  o  nulTaffatto  degna  d'ammirazione  per  veri  pregi  di 
stile  e  di  arte  all'in  fuori  degli  effetti  unicamente  scenici.  Ho  però 
accennato  in  più  luoghi  di  ([uesto  volume  ma  più  particolarmente 
in  un  capitolo  speciale  (Per  l'Avvenire  del  Teatro  Nazionale)  ad 
alcune  manifestazioni  recenti  della  commedia  contemporanea.  Per 
tutte  queste  ragioni  chiudo  qu'i  la  breve  serie  de'  miei  appunti, 
non  potendo  per  manco  di  spazio  dire  di  più  :  come  altrimenti  si 
potrebbe  parlare  di  tutti  ?  Ad  ogni  modo  ho  qui  voluto  toccar  solo 
di  quegli  scrittori,  ciascun  de'  quali  indica  o  accenna,  come  già 
dissi  in  principio,  un  proprio  e  spiccato  atteggiamento  di  stile ,  e 
quasi  un  tipo  sostanzialmente  diverso  d"  ingegno,  d'  indirizzo,  di 
rappresentazione;  e  senza  mirare  se  non  per  incidenza  agli  scrit- 
tori morti  anche  da  poco.  Notevoli  i  pregi  di  molti  altri,  come  del 
Fogazzaro,  del  Fambri,  del  Mantovani,  del  Molmenti,  del  Vecchi  , 
della  Serao,  della  Sperani,  di  Elena  Zuccaro  Radius,  di  alti-i  e  di 
altre;  ma  essi  od  esse  in  generale  non  rivelano,  tranne  forse  il  Fo- 
gazzaro, nulla  0  ben  poco  di  singolarmente  proprio  e  peregrino,  che 
anzi  i  più  possono  facilmente  riscontrarsi  in  questo  o  quel  modello 
da  noi  offerto  dinanzi. 

Di  loro,  come  più  largamente  di  quelli  già  da  noi  brevemente 
ritratti,  mi  occuperò  bene  ne"  volumi  che  seguiran  presto,  come  mi 
auguro,  a  questo  primo,  ov'esso  incontrerà  la  fortuna  e  1'  acco- 
glienza de"  lettori  buoni  e  imparziali. 


V. 
Filosofi  e  Prosatori 


[iccx  in  Italia  tra'  viventi  la  messe  de'  filosofi  special- 
mente positivi  alcuni  de"  quali,  come  il  Vignali,  il  Bovio, 
il  Sergi,  lì  Barzellotti,  V  Asturaro,\\  De  Dominicis,  il  La- 
briola ,  son  veramente  autorevoli  per  efficace  assiduità  di  lavoro  e 
per  geniale  potenza  di  pensiero  :  de'  non  positivisti ,  o  meglio  fra 
quelli  che  sono  oscillanti  fra  il  vecchio  e  il  novo  ,  v'  è  anche  una 
eletta  schiera,  fra  cui  giova  nominar  IMcri,  il  Tocco,  Carlo  Cantoni, 
il  Masci,  il  Ragnisco  ,  il  Paoli,  V Allievo,  il  Turbiglio;  degli  orto- 
dossi veri  ma  non  illiberali  ci  resta  ancora  Augusto  Conti.  Ma  il 
fior  fiore  della  nova  scienza  è  in  ben  altre  discipline ,  e  meglio  si 
mostra  nelle  branche  speciali,  onde  nominiamo  soltanto  di  esse  i  più 
illustri  0  i  novatori:  per  la  fisiologia  a  base  filosofica  e  dovrei  dire 
artistica  ,  Angelo  Mosso  ;  per  la  diffusione  potente  delle  dottrine 
dai'winiane,  il  Canestrini,  morto  da  qualche  mese;  pel  diritto  e  le 
scienze  economiche  e  sociali ,  il  Lombroso ,  il  Ferri  ,  il  Loria  ,  il 
Cognetti  -  De  Martiis  ,  il  De  lohannis  ,  il  Puglia  ,  il  Colaianni  ; 
per  la  psichiatria,  il  Lombroso,  innanzi  a  tutti,  il  Morselli,  il  Ta- 
MASSiA,  il  Tamburini;  per  le  altre  scienze  naturali,  Giuseppe  Can- 
toni, il  Delpino,  il  Marinelli,  il  Maitirolo,  il  Regalia,  il  Romiti. 

Non  è  compito  nostro  di  parlar  qui,  come  pure  vorremmo,  de' 
filosofi  e  degli  scienziati  rispetto  al  valore  della  loro  dottrina,  sia 
perchè  sarebbe  questo  un  tema  assai  vasto  e  superbo  e  perciò  asso- 
lutamente superiore  alle  povere  nostre  forze,  sia  perchè  il  presente 
volume  ha  un  fondamento  quasi  esclusivamente  letterario.  Accen- 
neremo soltanto  a  que'  pochissimi  i  quali,  come  più  noti  o  popolari, 
così  pure  sono  limpidi  e  corretti  e  imaginosi  nella  forma  e  nel  det- 
tato delle  rispettive  dottrine.  Non  è  vanto  de'  nostri  filosofi  lo 
scriver  agile  e  peregrino,  ma  ve  n'ha  alcuni  che  sia  per  istudi  di 
arte  sia  per  naturale  genialità  riescono  notevoli  anche  per  alcune 
qualità  della  loro  prosa  scientifica.  Fra  questi  ha  un  luogo  assai 
notevole  il  Prof.  Giacomo  Barzellotti.  Nato  in  Firenze  il  7  luglio 
del  1844,  si  laureò  in  lettere  e  filosofia  nella  R.^  Università  di  Pisa, 
e  giovinetto  si  esercitò  largamente  nell'  arte  della  poesia  e  della 
prosa;  ma  se  vi  avesse  durato  sarebbe  certo  riuscito  uno  de'  nostri 
più  insigni  artisti  o  geniali  rappresentatori  della  natura  psicologica 
e  della  sensibile. 


430 


Tanto  lume  di  educazione  e  di  sentimento  ei  lo  porta  nel  campo 
della  filosofia  a  cui  dopo  volse  Tanimo  e  l'ingegno  come  ultima  e 
definitiva  sua  meta  :  vi  divenne  celebre,  ed  ora  è  vanto  ed  orna- 
mento delle  Università  italiane.  Dotato  adunque  di  una  veramente 
profonda  cultura  letteraria  e  scientifica,  come  delle  nuove  dottrine 
positive  ci  rende  1*  indirizzo  più  sanamente  organico  ed  eclettico  , 
temperandolo  genialmente  con  le  piìi  durevoli  tradizioni  dell'antico 
le  quali  ad  alcuni  danno  come  un'aria  del  sistema  metafisico;  cos'i 
in  letteratura  ei  resta  quasi  il  solo  de'  filosofi  che  il  contenuto 
dottrinale  e  psicologico  sa  rendere  co'  vigori  delle  forme  classiche 
meglio  avvivate  e  rinfrescate  con  senso  recente  dal  toscanesimo 
elegante  che  gli  è  proprio  e  nativo. 

Egli  dunque,  come  una  volta  ne  lo  lodò  il  Bonghi  nella  sua 
Cultura,  si  rivela  anche  stilista  animoso  e  artista  squisito  ;  è  sti- 
lista nel  sottile  e  spesso  intricato  ricamo  del  periodo,  e  nelle  larghe 
e  lussuriose  volute  de'  contorni,  che  non  son  pregi  comuni  a'  nostri 
prosatori  più  vantati;  ed  è  artista  nella  fedele  e  viva  rappresenta- 
zione del  naturale  esteriore  ed  anche  nella  fine  analisi  di  un  fatto 
psicologico  0  patologico.  L'una  cosa  e  l'altra  si  vedono  congiunte 
specialmente  nel  suo  capolavoro  letterario  e  ad  un  tempo  scienti- 
fico, ch'è  intitolato  : — David  Lazzaretti  di  Arcidosso  detto  il  Santo, 
i  suoi  seguaci,  la  sua  leggenda  — ,  e  di  cui  già  largamente  e  a  suo 
tempo  ci  occupammo  altrove  (").  Quando  mai,  prima  di  questo  piccolo 
libro,  la  scienza  antropologica  e  la  psichiatrica,  non  che  la  lettera- 
tura storica,  era  stata  mai  sollevata  a  una  cos'i  luminosa  e  plastica 
idealizzazione  e  insieme  rappresentazione  del  vero  umano  ? 

Tali  pregi  veramente  insoliti  ne'  nostri  scienziati  si  rivelano 
pure  nel  volume  intitolato  Santi,  solitari  e  filosofi,  il  quale  accoglie 
anche  lo  studio  mentovato ,  e  ne'  suoi  Studi  e  ritratti,  vivi  e  sal- 
tanti rilievi  dell'  anima  e  delle  cose  ,  venuti  in  luce  nel  1893.  Le 
precedenti  opere.  Delle  dottrine  filosofiche  dei  libri  di  Cicerone,  del 
1867,  e  La  morale  nella  filosofia  -positiva,  del  1871,  c'indicano  i  passi 
sempre  più  veloci  e  sicuri  ch'egli  progredendo  mosse  dalla  vecchia 
ideologia  alla  scienza  nuova  in  cui  ha  stampato  un'impronta  pro- 
pria anche  se  un  po'  conciliante.  Oltre  questi  lavori  nomineremo 
l'ultimo  suo,  dal  titolo  «  Ippolito  Adolfo  Taine  »,  prima  pubblicato 
nella  Nuova  Antologia  e  poi  in  volume  nel  1893  :  libro  cotesto  ve- 
ramente grave  di  forma  e  di  dottrina,  e  che  non  esitiamo  ritenere 
come  uno  de'  più  profondi  saggi  fra  i  pochi  che  intorno  alla  let- 
teratura straniera  abbiamo  oggi  in  Italia. 


(•)  Rivista  di  Filosofia  Scientifica  —  Milano  -  Anno  18S6  -  Voi.  V  .  Fasci- 
colo di  settembre  -  Serie  II  -  pagg.  561  -  67. 


431 


Un  altro  filosofo  che  anche  in  letteratura  mostra  qualità  forse 
non  inferiori  a  quelle  dello  scienziato,  è  Giovanni  Bovio  ,  il  più 
simpatico,  il  più  popolare  e  il  più  poderoso  filosofo  del  Mezzogiorno. 
Animo  franco,  indole  pugnace ,  spirito  indipendente,  egli  senza 
scuola  e  senza  indirizzi  o  precetti  altrui,  riusci  da  solo  e  con  auto- 
didattico esercizio  a  creare  tutta  una  scuola  intorno  a  sé.  Scrittore 
magnifico,  concettoso,  originalissimo,  come  V  animo  e  il  pensiero 
cosi  pure  ha  lo  stile,  il  quale,  con  tutt'  i  difetti  e  certe  oscurità 
volute  a  torto  esagerare,  è  davvero  mirabile  :  l'autore  con  esso  si 
piace  di  cogliere  a  volo  il  pensiero,  e,  più  che  riverberarlo  ne' 
particolari  più  minuti,  ha  cura  di  renderlo  di  scorcio  e  quasi  di 
inciderlo  in  una  di  quelle  sentenziose  e  ricise  espressioni  sotto  le 
quali  lo  condensa  e  spesso  lo  adombra.  Ei  pare  che  non  si  contenti 
0  non  si  quieti  se  il  suo  discorso  nella  forma  togata  della  elocu- 
zione non  prenda  un  atteggiamento  tutto  proprio  e  un  marcatissimo 
rilievo  ;  e  ne  risulta  uno  stile  quasi  magniloquente  che  spesso 
avvicina  il  nostro  filosofo  al  Carducci  il  quale  per  altro  ha  un 
risalto  più  naturalmente  classico  e  più  seriamente  organico.  Tale 
lo  scrittore  che  forse  per  effetto  di  questa  quasi  supremazia  del 
suo  pensiero  su  l'animo  de'  più,  è  riuscito  a  conquistare  quell'af- 
fettuosa ammirazione  e  quella  cordiale  popolarità  che  gì'  invidiano 
molti  di  quelli  che  ne  affettano  lo  spregio  o  ne  ostentano  la  non- 
curanza colla  insidiosa  tortura  del  silenzio.  Di  lui  già  scrissi  altrove 
cosi  :  —  Ma  quanti,  d'altra  parte,  han  come  lui  ,  non  dirò  1'  arte 
che  spesso  è  maravigliosa  come  in  niuno  de'  nostri  scienziati,  ma 
la  potenza  d'integrare  dopo  un  rapido  processo  di  fatti  tutta  una 
legge  storica  nel  rilievo  scultorio  d'una  definizione  ?  e  chi  come  lui 
ha  la  forza  di  veder  profondo  e  con  sintesi  immediata  per  entro  i 
più  intricati  rapporti  della  filosofia  e  della  storia,  di  scoprire  il  se- 
me più  recondito  di  una  controversia  ,  di  formular  questioni  diffi- 
cili e  accumularsele  con  aria  di  trionfo  sul  campo  della  sua  terribile 
dialettica  ? 

Il  Bovio,  nella  terra  del  Bruno,  del  Telesio,  del  Vico,  del  Cam- 
panella, è  l'ultimo  fedel  rappresentante  della  metafisica  positiva,  a 
quel  modo  che  il  suo  ingegno,  per  educazione  e  per  attitudini,  è 
schiettamente  speculativo.  È  tutt'altra  natura  da  quella  del  Lom- 
broso, spirito  analitico  quant'altri  mai,  e,  nel  campo  positivo  delle 
indagini,  un  de'  più  forti  e  levigati  intelletti  d'Italia  ;  ma  bastano 
le  sue  ricerche  a  integrare  tutta  una  dottrina  intorno  al  Genio, 
senza  una  profonda  intuizione  del  fattore  estetico,  indispensabile  e 
vital  fondamento  di  un'opera  creatrice  specialmente  artistica  e  sto- 


k 


432 


rica  ?  ha  egli  la  penetrazione  e  l'intuito  del  Bovio  nell'  assorgere 
alle  leggi  supreme  di  una  dottrina  dell'  arte  e  del  genio  ì  Alle 
scienze  positive  è  avvenuto  quel  che  alle  lettere:  come  in  quelle  lo 
studio  faticoso  de'  fatti  si  restringe  e  si  strema  entro  le  pure  e 
sistematiche  indagini  antropologiche  che  non  bastano  a  dar  vita  e 
piena  organicità  a  una  dottrina;  cosi  in  queste  le  ostinate  e  fossili 
esumazioni  de"  rigidi  documenti  storici,  che  tormentano  ingegni 
anche  vigorosi,  non  riescono  a  ricomporre,  a  coordinare,  a  rico- 
struire r  intimo  spirito  d'un'  opera  d'arte,  che  richiede  in  noi  non 
pur  la  preparazione  e  T  esercizio  estetico,  come  1'  ebbe  profondis- 
simo il  De  Sanctis,  ma  soprattutto  quella  naturale  e  geniale  potenza 
d' immedesimazione  e  divinazioue  intorno  a  quelle  che  io  direi  le 
acclimazioni  del  vero  idealizzato  dentro  di  noi.  (') 


Paolo  Mantegazza  e  Paolo  Lioy  fra  i  vecchi  o  maturi,  e  Fer- 
ruccio Ritratti  e  Mario  Pilo  fra  i  giovani  —  noto  caratteri  e  ten- 
denze diverse,  e  per  manco  di  spazio  taccio  d'altri  pochi  —  son  quelli 
che  aspirano  all'  ideale  di  popolarizzare  la  scienza  o  almeno  d' in- 
fondere uno  spirito  d'arte  nel  contenuto  scientifico  dell'opera  loro. 

Il  celebrato  e  genialissimo  autore  di  Un  giorno  a  Madera^  della 
Fisiologia  deWamore,  del  dolore^  del  piacere  e  delV  odio,  delle  Tre 
Grazie,  deW  India,  dell'arte  di  esser  felici  e  di  altri  simili  volumi, 
è  come  un  romanziere  della  scienza,  nella  quale  importa  una  facile 
ma  non  sempre  profonda  varietà  di  contenuto,  con  una  grande 
vaghezza  degli  effetti  di  luce  e  di  colore  a  cui  non  sempre  risponde 
il  vivo  lume  dell'idea  e  il  rigoroso  metodo  della  scienza.  Ma  in 
compenso  ne'libri  migliori  ci  dà  il  conforto  di  tanta  luminosa  idealità 
e  di  tanta  succosa  e  suggestionante  attrazione,  che,  non  ostante  i 
molti  difetti  di  lingua  e  di  stile,  è  preferito  a  tanti  altri,  accumu- 
latori di  scienza  gravida  e  ponderosa.  Come  il  De  Amicis  pe'viaggi 
e  pe'  bozzetti  cosi  fra  gli  scienziati  egli  è  il  più  letto  e  ricercato  in 
Italia,  quantunque  non  abbia  incontrato  fortuna  negli  ultimi  libri 
che  non  han  de' primi  né  l'opportunità,  né  la  sostanza.  Meno  ima- 
ginoso  e  men  fecondo  ma  più  corretto  e  formato  scrittore  è  il  Lioy, 
conterraneo  dell'abate  Zanella  e  del  Fogazzaro,  co'  quali  pare  abbia 
comuni  alcune  qualità  e  soprattutto  il  senso  dell'arte  nella  idealiz- 
zazione del  vero,  e  già  cospiratore  audace  per  la  libertà.  E"  autore 
di  questi  volumi:  Escursione  nel  cielo;  Escursione  sotterra;  In 
'montagna;  Neil'  Omhra;  La   Vita  nelV  Universo,  e  di  parecchi  altri 


(•)  Scena  Illustrata  di  Firenze,  anno  1899,  num.  15,  1."  agosto. 


PAOLO  MANTEGAZZA 


<: 

►j 

3 

Q 

O 
Z 

Z 

o 
z 


NI 
N 

s 

g 

u 
u 

D 


433 


studi,  ne"  quali  tutti  sembrano  fuse  insieme  la  sobria  freschezza 
dell'arte  veneta  e  la  voluttuosa  e  fantastica  leggiadria  de'  meri- 
dionali. Egli  dunque,  come  pure  il  Mantegazza,  non  accumula,  non 
ricerca,  non  diluisce,  ma  si  piace  di  scrivere  a  diletto  de"  più  come 
tanti  bozzetti  di  scienza,  da  cui  spira  una  tal  quale  mollezza  di 
espressione  pittrice,  e,  tranne  un  pò"  di  abuso  qua  e  là  di  certa 
tavolozza  che  sa  di  maniera,  un  garbo  d'invenzione  e  una  corret- 
tezza di  linea  che  solo  i  buoni  studi  letterari  gli  fanno  conseguire 
e  insieme  un  sentimento  finissimo  della  natura  e  delTarte. 

Ferruccio  Rizzatti  e  Mario  Pilo,  l'uno  emiliano  e  i"  altro  lom- 
bardo, s' incontrarono  nella  medesima  scuola  ed  ebbero  quasi  il 
medesimo  lievito  di  coltura  e  di  studi  a  Bologna,  ed  entrambi  dal 
mondo  della  scienza  risalgono  talvolta  o  meglio  ritornano  a'  buoni 
studi  di  letteratura;  onde  l'uno  e  l'altro,  con  versatile  applicazione, 
han  tentato  il  bozzetto  e  la  novella,  il  racconto  autobiografico  e  la 
poesia,  l'osservazione  letteraria  e  la  scientifica.  Il  primo,  spirito 
certo  più  versatile  e  imaginoso,  dopo  i  lunghi  viaggi  fatti  in  Ame- 
rica ed  altrove,  si  formò  un  corredo  assai  ricco  di  osservazioni 
proprie  che  studi  più  severi  valsero  a  nutrir  meglio  e  a  fecondare, 
onde  con  meravigliosa  facilità  passa  rapidamente  da  un  argomento 
all'altro,  da  uno  ad  un  altro  ordine  di  studi  o  discipline;  e  di  questi 
molteplici  frutti  del  suo  ingegno,  son  pieni,  si  può  dire,  tutt'i  diarri, 
tutt'  i  periodici,  tutte  le  riviste,  non  pur  gravi  ma  ancora  mediocri 
0  futili.  Ma  s"  egli  volesse  contenere  un  po'  tanta  smania  o  tanta 
pompa  di  lavoro  diffuso  in  centinaia  di  articoli  brevi  e  mondani, 
riuscirebbe  certo  uno  scienziato  sodo  e  insieme  un  artista  di  grande 
valore.  L'altro,  meglio  oi'ganico  e  forse  più  nutrito  anche  se  meno 
imaginoso,  studia  il  fatto  estetico  in  rapporto  colla  scienza  speri- 
mentale, e  dopo  la  pubblicazione  del  suo  manualetto  già  da  noi 
ricordato  in  altro  capitolo,  ha  seguitato  a  darci  altri  brevi  ma  suc- 
cosi articoli  intorno  al  difficile  argomento  che  niuno  aveva  studiato 
cosi  largamente  prima  di  lui.  Ma  forse  gli  sarà  bisogno  di  non  av- 
venturarsi troppo  nelle  chimeriche  spiegazioni  di  alcuni  fenomeni 
estetici  che  subordinati  soltanto  alla  scienza  non  riescono  che  in- 
dovinelli 0  paradossi. 

Enrico  Morselli  e  Leonardo  Bianchi,  due  fra  i  nostri  più  larghi 
e  luminosi  spiriti  nell'  àmbito  della  scienza,  san  congiungere  ancora 
alla  profonda  osservazione  e  al  vasto  contenuto  delle  dottrine  psi- 
chiatriche un'agevole  e  piana  freschezza  e  limpidezza  di  espressione, 
che  anzi  il  secondo  mostra  talvolta  con  un  acuto  profumo  di  poesia 
qualche  lume  di  signorile  e  squisita  eleganza;  e  l'uno  e  l'altro,  pur 
diversi  d'anima  ricreatrice  e  di  temperamento  scientifico,  riescono 
a  dare  all'opera  loro,  sempre  spoglia  dello  strano  e  del  paradossale, 

28 


434 


un  armonico  e  sobrio  equilibrio  dottrinale .  un  organesimo  vero 
di  osservazioni,  d"  induzioni  e  di  ricerche.  Certo,  Cesare  Lombroso 
gli  avanza  di  larghezza  e  facilità  d' intuizioni  potenti  e  di  ricostru- 
zioni genialissime  e  inaspettate ,  ma  non  ha  di  quelli  né  la  luci- 
dezza, né  lo  stile  e  l'educazione  letteraria,  né  la  sobrietà,  né  intìne 
la  misura  o  la  vera  proporzione  tra  il  l'atto  sperimentale  e  la  legge 
che  ne  deriva. 

Enrico  Ferri  è  almeno  Ira"  giovani  il  più  fervido  e  vigoroso 
diffonditore  delle  nove  dottrine  cosi  antropologico- criminali  come 
sociologiclie  e  politiche;  e  in  esse  egli,  anima  entusiastica  e  spirito 
molteplice,  porta  sempre  queir  impeto  di  lotta ,  quel  fuoco  di  gio- 
ventù e  quello  splendore  d'imagini  e  di  sentimenti,  che  lo  rendono  lo 
scrittore  più  suggestivo  o,  come  dicono  oggi,  più  brillante.  Spirito 
largo,  aeile.  vivo;  animo  audace,  libero,  franco;  ingegno  plastico, 
assimilatore,  potente,  ha  in  sé  tutte  le  qualità  di  un  vero,  di  un 
grande  artista  della  parola,  e  di  un  efficace  e  luminoso  propagan- 
dista d'  idee  e  di  principii.  E  tutto  questo,  congiunto  a  una  cultura 
vasta  e  leuiibile,  &i  vede  ritie.sso  in  uno  stile  rapido  ,  naturale, 
immediato,  e  pur  tanto  più  attraente  di  quello  di  cui  si  piacciono 
molti  de"  nostri  pretesi  artisti,  cioè  bozzettisti  e  descrittori,  più 
glorificati  dalla  servii  maggioranza  de'  lettori.  Accanto  a  lui  nomino 
passando  tre  altri  giovani  che  portano  nella  lor  prosa  scientifica 
quella  vita  e  quell'anima  che  tanto  manca  nell'opera  letteraria  ed 
artistica  dei  nostri,  e  cioè  Guglieluio  Ferrerò,  Francesco  Saverio 
Xitti  e  Napoleone  Colaianni:  ma  de"  men  giovani  o  già  maturi  è 
onesto  ricordare  anche  di  fuga  per  certo  senso  di  arte  che  spira 
dall'  opera  loro  Ferdinando  Puglia  e  Raffaele  ScJiiattarella,  cosi 
efficaci  cooperatori  al  movimento  positivo  delle  dottrine  giuridiche  e 
sociologiche  in  Italia.  E  a  proposito  di  sociologia  mi  si  conceda  che, 
per  un  senso  di  onesta  franchezza,  citi  anche  il  nome  di  un  mio  con- 
giunto, il  nome  di  un  solitario  che  vive  in  un  lontano  eremo  delia 
Calabria,  solo  forse  arriso  dalle  divine  bellezze  del  cielo  e  del  mare, 
cioè  il  nome  del  Prof.  Antonino  de  Bella,  il  quale,  come  dicono 
tutti  i  competenti,  si  è  cimentato  da  qualche  tempo  alla  più  diffi- 
cile prova  che  in  materia  di  scienze  sociali  sia  sorta  in  Italia,  cioè 
quella  di  dare  un  corso  intero  ed  organico  di  sociologia  in  cinque 
grossi  volumi,  de'  quali  son  venuti  in  luce  i  primi  due  che  gì'  in- 
tendenti, anche  se  discordanti  dal  metodo,  dicono  assai  gravi  di 
dottrina  e  di  ricerche.  Egli  è  anche  noto  pe'  Prolegomeni  di  filosofia 
scientifica,  l'unico  manuale  completo  che  a  servizio  del'e  scuole  sia 
stato  composto  con  criterii  interamente  positivi,  e  degno  di  esser 
nominato  dopo  quello  del  Sergi  che  però  tratta  della  sola  Psicologia. 
A  confortare  le  mie  parole  che  a"  malevoli  potrebbero  parere  iute- 


435 


ressate,  cito  alcuni  giudizi  de"  pivi  insigni  scrittori:  Lombroso  lo 
disse  libro  stupendo  e  geniale;  il  Ferri,  opera  eccellente  sotto  tutt'  i 
rapporti;  Alimena,  volume  magistrale.  Lo  lodarono  senza  riserve 
Richel,  Bibot,  Benedikt,  Lubbock,  Asturaro,  Bovio,  Morselli...  E  noi 
conchiudiamo  col  dire  che  altri  riconoscono  nelle  opere  del  de  Bella 
una  lucidezza  di  pensiero  congiunta  a  una  grande  perspicuità  di 
espressione,  più  naturale  che  acquisita,  e  che  non  ci  pare  sia  la 
qualità  migliore  di  tanti  altri  scienziati  i  quali  per  acume  e  per 
larghezza  lo  avanzano;  onde  i  suoi  libri,  degni  di  assai  miglior  for- 
tuna, s'intendono  da  tutti  e  si  leggono  d'un  flato. 


P'ra  i  pili  celebri  naturalisti  o  meglio  fisiologi  è  noto  in  Italia 
il  prof.  Angelo  Mosso,  della  R."  Università  di  Torino.  Di  lui  già  il 
Nencioni  ebbe  a  darci  un  fedele  e  amoroso  profilo  in  un  fascicolo 
della  ?\uova  Antologia  nel  1884.  Degli  scienziati  propriamente  detti, 
o  meglio  de'  naturalisti,  è  il  più  schietto  e  vivo  esempio  di  prosatore 
e  il  più  vero  artista  della  parola.  E  non  solo  nell'anima  e  nel  sen- 
timento della  natura,  ciie  alcuni  altri  hanno  forse  da  quanto  lui, 
ma  ancora  nella  felice  e  armonica  rappresentazione  di  essa  mostra 
attitudini  e  qualità  che  non  è  facile  riscontrare  negli  stessi  nostri 
descrittori  e  romanzieri.  Osservatore  limpido  e  calmo,  e  simpatico 
e  attraente  espositore  della  dottrina  fisiologica,  ei  trova,  pur  senza 
cercarla  e  riforbirla  con  lo  studio,  la  parola  corretta,  animata, 
lucida.  Ha  sobrio  e  bene  intonato  il  colore,  fresca  e  nativa  la  im- 
magine, e  vergine  e  schietta  l' espressione:  questi  singolarissimi 
effetti  gli  scaturiscono  tutti  dal  vero  profondamente  osservato  e 
spontaneamente  percepito;  e  ciò  senza  pompa  o  lusso  di  descrizione 
come  spesso  fa  il  De  Amicis,  senza  eccesso  di  fantasia,  senza  sforzo 
di  stile,  senza  sproporzione  e  senza  maniera.  Cosi,  pur  non  avendo 
diretti  e  larghi  studi  di  critica  e  veri  e  pensati  esercizi  di  lettera- 
tura, ha  la  spontanea  consapevolezza  di  tutto  quello  che  propria- 
mente dicesi  arte,  e  della  quale  viene  in  possesso  col  solo  aiuto 
della  osservazione  propria,  fedele,  pronta,  genialissima,  fuori  d'ogni 
lenocinlo  di  scuola  ed  oltre  ogni  abuso  di  mezzi  tecnici  od  ogni 
preoccupazione  di  scienza.  Questo  il  Mosso  almeno  nelle  sue  opere 
meglio  riuscite  e  più  fresche,  fra  le  quali  hanno  il  miglior  luogo 
quelle  intitolate  La  Paura  e  Su  le  Alpi. 

Fra  i  giuristi  che  spendono  anche  il  tempo  in  esercizi  letterari, 
e  non  senza  bravura,  è  il  prof.  Salvatore  Cognetti  de  Martiis  della 
Università  di  Torino  dove  insegna  con  onore  economia  industriale, 
di  cui  è  cultore  dottissimo.  Egli,  versato  com'è  anche  nelle  lettere 


436 


antiche,  ha  tradotto  i  Captivi  di  Plauto  in  versi  martelliani,  della 
qual  traduzione  ecco  quello  che  scrive  il  Carducci: — Il  Cognetti,  che 
pure  ha  studiato  il  suo  testo  con  la  rigidità  di  un  dotto,  rende  poi 
il  senso  di  Plauto  accostevole  ai  lettori  non  inculti  con  abilissimo 
maneggio  di  artista.  Certa  scioltezza  nella  dicitura  e  nella  verseg- 
giatura gli  è  scusata  dalle  troppe  maggiori  libertà  che  l'autor  suo 
si  piglia  in  latino;  pur  tuttavia  qualcuno  desidererà  forse  nelle 
future  traduzioni  un  po'  più  d'  elezione  nell'  uso  e  un  po'  meno  di 
certe  sineresi  ne'  versi.  Il  resto  e  il  più,  benissimo...:  oggi  è  un 
professore  di  economia,...  che  traduce  Plauto,  in  versi  tutti  mo- 
derni; domani  sarà  un  diplomatico,  il  conte  Costantino  Nigra,  che 
tradurrà  e  illu.strerà,  con  ricchezza  di  filologia  e  d'  arte,  Catullo. 
Deh  fosse  vero,  e  1'  Italia  tornasse  alle  gloriose  tradizioni,  della 
letteratura  cioè  accordata  con  la  scienza,  della  politica  conciliata 
all'arte  (*).  Questo  giudizio  ci  dispensa  dal  dir  altro  sia  del  Cognetti 
de  Martiis  che  d'altri  simili. 

Prima  di  chiudere  questi  rapidi  cenni  devo  anche  ricordare 
alcuni  che  ci  rappresentano  in  Italia  il  miglior  movimento  nella 
storia  della  filosofia  e  nella  storia  critica  del  Cristianesimo:  fra' 
primi  nominiamo  Alessandro  Chiappelli,  dell'  Università  di  Napoli, 
e  l'elice  Tocco,  dell'  Istituto  Superiore  di  Firenze;  e,  fra'  secondi, 
Raffaele  Mariano,  dell'  Ateneo  di  Napoli ,  e  Baldassarre  Labanca, 
di  quello  di  Roma.  I  primi  due  sono  i  più  celebri,  per  sicurezza  di 
dottrina  agile  e  varia,  per  acume  e  originalità  d'ingegno,  per  vivezza 
di  stile  e  per  larga  conoscenza  delle  migliori  tradizioni  letterarie, 
e  per  più  altre  doti;  se  non  che  il  Chiappelli,  giovanissimo  di  età 
ma  più  che  vecchio  di  senno  e  di  dottrina,  ha,  forse  pe"  contatti 
assidui  co'  greci  scrittori,  un  che  di  attico  nella  cristallina  fulgi- 
dezza del  suo  stile,  di  guisa  che  talvolta  non  sai  se  il  letterato 
avanzi  lo  scienziato.  Gli  altri  due  son  più  tosto  eruditi  che  novatori 
0  almeno  originali  assimilatori;  ma  il  Mariano,  più  corretto  dell'altro 
nella  forma,  più  imaginoso,  più  vivace,  è  forse  meno  moderno  per 
certa  ortodossia  delle  sue  idee;  mentre  il  prof.  Labanca,  che  può 
dirsi  il  solo  che  tratti  in  Italia  su  basi  scientifiche  la  storia  critica 
del  Cristianesimo,  ha  più  larghezza  d'  idee  e  più  bontà  di  metodo, 
quantunque  egli  pure  oscilli  tra  1'  antico  e  il  novo,  e  non  sempre 
appaia  dove  campeggi  la  storia  e  dove  la  psicologia  od  antropologia 
de'  fatti  0  meglio  de'  processi  etico-religiosi. 

Dovrei  parlare  di  tanti  altri  che  pure  han  qualche  pregio  come 
prosatori:  tali  il  Labriola,  il  Marinelli,  il  Loria  ,    1'  Asturaro,  il  De 


(')  Carducci  —    Studi    saggi  e  discorsi  —  Bologna    —  Zanichelli  —  1898  — 
Pagg.  304  -  305. 


437 


Dominicis,  il  Fornelli,  il  Valdarnini,  il  Colozza,  il  Cantoni,  ed  altri 
ed  altri;  ma  d'essi  avrò  occasione  di  parlar  degnamente  nel  secon- 
do 0  nel  terzo  volume  di  questi  miei  saggi,  dove  con  più  agio  po- 
tremo ritornare  a  discorrere  degli  altri  filosofi  o  scienziati  di  cui 
qui  per  via  d'appunti  non  abbiamo  dato  clie  un  assaggio,  il  quale 
per  manco  di  spazio  non  possiamo  più  oltre  continuare. 


VI. 
La  lirica  di  due  generazioni 

nel  secolo  che  muore 


oj^O  iNQUE  altri  anni  mancano  ancora  a  questa  fin  di  secolo: 
^^1^  (la  frase  è  ormai  di  moda  per  significare  le  innovatrici 
futilità  del  tempo,  e  trova  degno  riscontro  nella  vuota 
linguetta  contemporanea),  la  quale  precipita  a  valle  proprio  come 
il  masso  manzoniano:  batte  sul  fondo  e  sta.  E  pure,  quanto  fece, 
vide  e  tentò,  ne'  primi  sessanta  anni,  il  fortunoso  secolo  decimo- 
nono !  La  libertà,  nutrita  di  cospirazioni  e  splendida  di  martirio  ; 
la  indipendenza,  sorta  dalla  scuola,  dal  pensiero,  dalle  armi  e  dallo 
eroismo  :  lo  abbattimento  di  queir  idra  medievale,  il  feudalesimo, 
che,  sentenziato  dall'  Enciclopedia,  venne  compiuto  dal  più  gran 
genio  militare  della  storia;  e,  banditrice,  la  scienza,  un  rinnova- 
mento quasi  radicale  in  tutte  le  umane  instituzioni.  Ma,  in  questi 
ultimi  trentacinque  anni  che  sono  secondo  il  salmista  il  messo  del 
cammin  di  nostra  vita  {dies  annoruia  nostrorum  ....  septiiaginta 
anni  :  salmo  LXXXIX,  10),  qual  nova  luce  han  fatto  riverberare  le 
generazioni  novelle  ?  che  di  durevole  ed  eterno  han  prodotto  nella 
scienza,  nelle  lettere,  nelle  arti,  nella  vita  ?  quali  veri  monumenti 
hanno  esse  fatto  sorgere  a  canto  a  quelli  che  ci  vennero  tramandati 
da'  prossimi  nostri  maggiori  ? 

Che  ci  ha  dato  nella  p(>esia,  questa  divina  allettatrice  de'  cuori 
e  delle  azioni  magnanime,  la  fecondissima  terra  di  Francia,  dopo 
la  morte  del  grande  Vittore  ì  Par  che  dopo  l'ultimo  suo  cigno  abbia 
la  irrequieta  nazione  fatto  deserto  intorno  a  sé  medesima,  grande 
messaggera  una  volta  degl'ideali  e  della  libertà.  La  Germania  fé' 
troppo  presto  silenzio  fin  dal  1832  colla  morte  del  Goethe;  e  i 
pochissimi  altri  che  vennero  di  poi  furon  più  tosto  esercitanti  di 
filologia  che   non    veramente  vati,  che  meglio  si  piacquero  di  ver- 


439 


sioni  da  lingue  straniere  che  di  un  proprio  e  fecondo  lavoro;  ma 
certo,  dopo  il  grande  autore  del  Faust,  non  ebbe  la  dotta  Ger- 
mania solo  un  poeta  che  oltre  il  circolo  della  nazione  fosse  escito 
con  ispirito  rinnovante  a  migrare  pel  mondo. 

E  l'Inghilterra,  la  privilegiata  e  classica  terra  dell'  equilibrio 
nella  scienza,  nella  politica,  nella  vita,  dopo  il  Lonyfelloic,  un  ame- 
ricano fattosi  inglese  di  coscienza  e  di  sentimento,  il  Tenmjson,  lo 
Swinbhurne ,  i  Broioìiinrj,  par  che  smetta  interamente  anche  la 
cetra  di  Bacchilide. 

La  Russia,  la  grande  simpatica  terra  de'  grandi  sventurati  e 
de'  grandi  ribelli,  con  la  lunga  pleiade  che  splendidamente  si  chiude 
col  Turgheniew,  sembra  ch'abbia  cessato  dal  tessere  e  ritessere  le 
liriche  fila  alle  sorti  della  libertà  e  all'avvenire  della  naziune.  Che 
dir  poi  della  Grecia,  dell'Olanda  e  del  Belgio,  della  Spagna  e  del 
Portogallo  ì  I  pochissimi  rimasti  son  proprio  i  fra  Guittone  e  i 
Cecchi  rì'  Ascoli  della  lor  nazione. 

Resta  r  Italia.  Quivi  soltanto  pare  che  si  conservi  ancora  su 
l'ara  delle  muse  un  po'di  foco  alimentatore.  Col  Manzoni  si  chiude 
quasi  interamente  l'ultimo  svolgimento  del  romanticismo  classico  - 
-guelfo  COI  felici  presentimenti  di  una  forma  più  semplicemente 
moderna,  e  con  una  matura  e  originale  opera,  nutrita  di  osserva- 
zioni peregrine  e  limpida  di  stile  agile  e  mosso;  il  perchè  il  grande 
lombardo  parve  inaugurare,  tanto  nel  celebre  romanzo  quanto  nella 
lirica,  una  scuola  rinnovante  cosi  nelle  forme  dello  stile  come  nella 
intima  omogeneità  e  genialità  del  contenuto,  psicologicamente  ana- 
litico e  vitale. 

Con  lui  —  è  inutile  dissimularlo  —  abbiamo  il  più  compiuto  e 
quasi  marmoreo  equilibrio  nell'arte,  con  assenza  di  passione,  con 
misurata  e  serena  elezione  e  perspicuità  di  elementi  e  di  orditura, 
con  mirabile  uguaglianza  di  parti,  con  profonda  ricerca  quasi  spe- 
rimentale dei  fenomeni  più  complessi  dell'anima  umana  ;  e  tutto 
questo  si  rivela  stupendamente  in  un  saggio  di  stile  aristocratico  e 
finissimo  pur  quando  si  mostra  apparentemente  umile  e  dimesso. 
E  pure  da  cosi  preziose  manifestazioni  ruppe  fuori,  già  principe 
V Aleardi,  il  romanticismo  borghese,  che  si  può  dire  ben  morto  per 
opera  dell'odierno  democraticismo  alluvionale,  anarchico,  slombato, 
eteroclito  dell'usata  poesia  verista. 


Si,  dopo  il  Manzoni,  è  mancata  all'Italia  una  lirica  intimamente 
organica,  una  lirica  ben  fusa  e  signorilmente  temperata  dall'equi- 
librio delle  forme  e  del  contenuto. 


440 


Cosi  anche,  dopo  il  classico  trecento,  il  gran  secolo  che  secondo 
l'Altieri  parlava,  più  non  avemmo  quella  poesia  primigenia  e  come 
per  sé  stessa  mossa  per  entro  i  purissimi  laySievì  del  dolce  stil  novo, 
nò  quella  semplice  e  naturale  armonia,  prorompente  dalle  più  sane 
sorgive  del  cuore  con  un  getto  spontaneo  di  motivi,  di  effetti  e  di  sen- 
si. Bisogna  ritornare  a  que'  primitivi  nostri  maggiori  per  saggiar 
delle  strofe  ch'escano  dall'anima  con  un  volo  come  di  colombe,  si- 
mili a  quelle  di  Dante  le  quali 

dal  desio  chiamate 

con  l'ali  aperte  e  ferme  al  dolce  nido 
Volan  per  l'aer  dal  voler  portate. 

Questa  poesia  è  inutile  cercarla  anche  nel  Manzoni,  oltre  qualche 
facile  ricordo  di  pure  e  semplici  forme,  e  fuori  de'  soavissimi  can- 
zonieri di  Dante  e  di  Gino  ,  del  Guinizelli  e  del  Petrarca.  E  però 
dopo  il  Manzoni  slam  troppo  a  capofitto  caduti,  qui  nella  lirica 
meditata  e  riflessa,  e  li  nell'  erotica  discinta  e  liberamente  scapi- 
gliata e  lasciva. 

L'una  e  l'altra,  anche  quando  risalgono,  quella  alle  perenni 
fonti  classiche,  e  questa  a  certa  immediata  e  spontanea  ispirazione, 
vengon  come  circonvolgendosi,  per  vi'ghezza  di  novità,  di  troppo 
disformi  materiali  ed  elementi,  di  troppo  innaturali  fusioni  ed  in- 
nesti, onde  procedono  sempre  a  tentoni  di  motivo  in  motivo,  senza 
mai  cercare  e  trovar  definitivamente  anche  nel  medesimo  poeta  una 
forma  ultima  e  propria. 

Per  la  qual  cosa  in  questo  continuo  peregrinare  di  metri,  di 
motivi  e  di  forme,  l'anima  ben  di  rado  s'appaga,  e  spesso  il  lettore 
domanda  a  sé  stesso  :  or  dove  siamo  ?  ad  oriente  o  a  tramontana  ? 
e  per  quali  novi  sentieri  ci  sarà  dato  di  toccare  l'ultima  vetta  del 
colle,  0  l'ultimo  varco  di  uscita 'J  Questi  in  fondo  i  difetti  e  le  incer- 
tezze della  recente  lirica  italiana,  la  quale,  come  dissi,  mi  sembra 
corra  insistente  all'assidua  ricerca  di  sé  stessa  e  mai  non  si  trovi 
in  quel  suo  faticoso  disorientamento. 

Ma  sarebbe  ingiusto  il  disconoscere  come  prima  o  dopo  il  "73, 
anno  che  mori  Alessandro  Manzoni,  non  abbia  avuto  l'Italia  su 
l'innesto  o  troncone  classico  una  veramente  alta  e  durevole  lirica 
riflessa,  per  opera  forse  esclusiva  del  Carducci,  il  quale  sembra  che 
più  sempre  si  avvicini  a  una  forma  decisiva  e  finale,  in  cui  s'  in- 
tegri con  industrioso  e  mirabile  lavoro  di  fusione  l'ancor  vergine  e 
viva  tradizione  classica,  cioè  quello  che  di  quel  tempo  è  tuttavia 
fresco  e  zampillante,  con  le  migliori  e  le  più  libere  e  vitali  manife- 
.stazioni  dell'  arte  nuova  e  recente.  Si  può  dire  che  il  geniale  autore 


441 


delle  Odi  barbare  e  delle  lìime  nuove  inauguri  veramente  una  scuola: 
è  certo  che  quasi  tutti  i  giovani,  pur  quelli  che  attinsero  al  Guer- 
rini,  derivano  da  lui  direttamente  e  originalmente  cosi  i  metri  e  le 
forme  come  l'indirizzo  artistico,  i  motivi  e  certe  predilezioni  este- 
tiche; ma  un  ben  eletto  manipolo,  di  cui  diremo  qui  appresso  ,  si 
può  dire  che  molto  più  da  vicino  e  fedelmente  lo  segua  in  generi 
di  lirica  che  prendon  le  mosse  dall'antico,  e  in  agili  trovate  o  brevi 
quadretti  della  vita  individuale  o  della  sociale  in  cui  spira  benefico 
il  soffio  del  pensiero  moderno. 

Quindi  egli,  a  traverso  il  limo  de'  moltissimi  pappagalli  lusin- 
gatori, apre  libero  un  varco  e  un  asilo  sicuro  alla  felice  del  latin 
metro  reiìia,  e  pel  contenuto  nuovo  alla  lirica  barbara  compene- 
trata di  senso  classico;  e  cosi  forse  avverrà  che  manterremo  il  filo 
della  tradizione  anche  oltre  il  secolo  che  cade,  sino  a  che,  compiuto 
r  ultimo  svolgimento  di  questa  mirabile  opera  di  fusione  ,  sorgerà 
luminosa  e  più  densa  di  contenuti  sani  e  vigorosi  l'arte  dell'avve- 
nire. Ma  è  necessario  lumeggiare  questi  cenni  con  una  rapida  no- 
tizia intorno  alle  due  ultime  generazioni  della  lirica  nostra. 

II. 

Ma  ricorderemo  innanzi  tutto  i  morti,  quelli  cioè  che  mori- 
rono poco  innanzi  o  poco  dopo  il  Manzoni,  il  quale  quasi  quarant' 
anni  prima  della  sua  morte  avvenuta  il  22  maggio  1S73  avea  chiuso 
tutto  uno  svolgimento  d'arte  e  di  pensiero  che  parve  inaugurare  fra' 
superstiti  un  periodo  novo;  ricorderemo,  ripeto,  quelli  che  noi 
ci  siamo  visti  disparire  davanti  tra  il  primo  sbocciare  della  fan- 
ciullezza e  lo  sterile  maturare  della  gioventù  :  gran  corso  cotesto 
di  tempo  clie  comincia  colla  morte  di  Angelo  Brofferio  (25  maggio 
186G)  e  finisce  con  quella  di  Carlo  Baravalle  (11  febbraio  1900), 
Ecco  intanto  tutto  un  repertorio  di  nomi  che  ci  richiamano  con 
manifestazioni  diverse  a  quel  vivo  rinascimento  delle  lettere  patrie 
che  fluttuò  nell'azione  della  vita  e  in  quella  del  pensiero  tra  il 
romanticismo  classico  e  quello  sentimentale  e  mistico,  tra  il  roman- 
ticismo naturale  e  democratico  e  quello  spettrale  o  accademico,  tra 
il  romanticismo  patriotico  e  quello  borghese.  E  noi  giovinetti  tra 
gli  spumoni  della  lirichetta  borghese,  in  un  ambiente  saturo  di 
facili  godimenti  e  di  retorica  trionfale,  ci  vedemmo  a  poco  a  poco 
mancare,  senza  forse  neppure  scorgerla  di  lontano,  1'  ultima  viva 
luce  che  ci  sembrava  piovere  dalle  appassite  memorie  del  "48;  ci 
vedemmo  ad  uno  ad  uno  mancare,  quasi  inconsapevoli  della  loro 
grandezza,  queste  ultime  meteore  del  pensiero  e  della  libertà: 
Angelo  Brofferio  che  nelle  sue  dialettali  Canzoni  piemontesi,    non 


442 


ancora  obliate,  facea  rivivere  in  Italia  le  piacevoli  e  argute  fanta- 
sie del  Bèranger  [(tre  anni  innanzi  era  anch'esso  sparito  un  altro 
poeta  dialettale,  un  poeta  genialissimo  che  colle  più  saporite  tro- 
vate le"  strazio  per  molti  anni  della  Corte  pontificia,  il  poeta  roma- 
nesco Giuseppe  Gioaccìiiiio  Belli  (7  settembre  1791  -  21  dicembre 
1863)J;  Luigi  Cibrario  (1802-1)S70),  patriota  insigne  e  valido  cooperatore 
alla  politica  di  Camillo  Benso  di  Cavour,  storico  illustre  della 
Dinastia  Sabauda  e  insieme  poeta  civile  e  de'  migliori  del  tempo 
suo  per  vigorosa  e  calda  genialità  d'ispirazione  e  di  vena;  Fran- 
cesco Dall' Ongaro  (1808  -  1873),  poeta  e  soldato,  già  prete  e  poi 
libero  insegnante  a  Trieste,  autore  di  drammi  fra'  quali  celebre  il 
Fornaretto  ma  dopo  assai  più  lodato  per  le  sue  Ballate  e  meglio 
pe'  suoi  Stornelli,  vivi  e  fresclii  di  spirito  rusticano  o  d'  impeto 
patriottico,  specialmente  alcuni  che  corsero  per  le  bocche  de'  volon- 
tari che  combatterono  contro  l'Austria;  Niccolò  Tommaseo  (1802  - 
-  1873),  il  dalmata  illustre  che  del  suo  molteplice  ingegno  e  della 
sua  sconfinata  dottrina  riempi  quasi  tutto  un  secolo  di  cultura,  e 
che  scrisse  anche  delle  poesie  le  quali  se  non  sempre  infuse  di  vera 
anima  creatrice  restano  tuttavia  di  mirabile  eleganza  e  di  classico 
lepore  (juando  non  le  turba  o  non  le  sciupa  il  troppo  riflesso  ma- 
neggio delle  reminiscenze  letterarie;  il  veronese  Aleardo  Aleardi 
(4  novembre  1812  -  16  luglio  1878)  che  nell'ebbrezza  del  canto  e  nel 
troppo  levigato  lenocinlo  della  strofe  meglio  sedusse  gli  animi  della 
generazione  venuta  dopo  il  60,  ma  che  poi  fln'i,  per  la  blandita  e 
leccata  vacuità  del  contenuto,  come  il  più  fedel  rappresentante  del 
verso  che  suona  e  che  non  crea,  onde  oggi  è  interamente  dimenti- 
cato; il  romano  Pietro  Cossa  (1829  -  1881),  l'autor  celebre  del  Nerone 
e  della  Messalina,  il  quale,  tutto  pieno  dell'  antico  spirito  quirite, 
sbalordi  per  molti  anni  il  pubblico  italiano  per  le  tragiche  rappre- 
sentazioni della  vita  romana  imperiale  a  cui  infuse  un  feroce  e 
sanguigno  vigore  che  fu  la  nota  che  meglio  le  fece  applaudire,  ma 
che  poi  finirono  anch'esse,  perchè  troppo  estranee  alla  vita  contem- 
poranea, finirono  dimenticate  dopo  la  morte  dell'ultimo  fedel  rap- 
presentante del  teatro  classico;  Giuseppe  Cocc/a  (14  novembre  1813- 
-20  ottobre  1881),  da  Todi,  autore  di  poesie  sacre,  politiche  e  varie, 
d'isjìirazione  calma  e  vereconda,  e  di  spontanea  e  facile  vena  nella 
squisita  e  flessuosa  musicalità  del  ritmo;  Giuseppe  Regalai  (1809- 
-1883),  di  Novara,  il  poeta  che  riprovato  per  colpe  forse  di  riiua 
in  un  esame  di  legge  passò  laureato  in  poesia  dal  plauso  popolare, 
il  poeta  che  dalle  corti  di  Parma  e  di  Modena  andò  sempre  pere- 
grinando per  tutta  la  terra,  in  Italia,  in  Francia,  in  Egitto,  diffon- 
dendo ovunque  il  suo  canto  improvviso  ,  il  più  bel  canto  che  tra 
la  prima  e  la  seconda  metà  del   secolo  sia  mai  uscito  dal  petto  di 


443 


un  vero  cantore  ,  ond"  egli  certo  avrebbe  diritto  alla  immortalità 
se  quell'infinita  ricchezza  di  fantasie  avesse  avuto  un  più  durevole 
suggello  neir  arte  adamantina  della  parola  ;  Giovanni  Prati  (27 
gennaio  1815  -  9  gennaio  1884),  1'  irredento  poeta  di  Dasindo.  il 
fantasioso  e  melico  signore  del  verso  e  della  rima,  che  in  tutti  i 
toni  dell'antico  romanticismo  e  del  nuovo,  nel  canto  popolare  e 
nella  romanza,  nella  leggenda  e  nella  ballata,  nell'ode  patria  e  nel 
racconto  cavalleresco  ed  epico,  accolse  per  oltre  cinquanfanni  entro 
le  più  varie  e  libere  forme  tutti  gli  echi  e  tutti  gli  spiriti  del  suo 
tempo  colle  fluide  e  carezzevoli  risonanze  della  sua  vera  musica 
favellata;  il  pesarese  Terenzio  Maiìiiani  (1799  -  1885),  mente  limpida 
e  larga  ,  filosofo  insigne  ,  prosatore  calmo  e  perspicuo  ,  autore  di 
inni  sacri  ,  d'  odi  patrie  e  di  morali  poesie  belle ,  di  signorile  ele- 
ganza e  pregne  di  pensiero  alto  e  civile,  e  reso  poi  celebre  nel  canto 
della  Ginestra  dal  cugino  suo  Giacomo  Leopardi  il  quale  delle  pa- 
role di  lui  formò  il  notissimo  verso  «  Le  magnifiche  sorti  e  pro- 
gressive »  ;  il  triestino  Giuseppe  Revere  (  1812  -  1889) ,  patriota , 
esule ,  combattente ,  nelle  cinque  giornate  milanesi,  ingegno  com- 
plesso ,  mentre  ricca  e  versatile  ,  prosatore  e  poeta  di  pari  valore 
e  non  senza  originalità  mal  voluta  disconoscere  in  questi  ultimi 
anni  cosi  falsi  e  servili  negli  ideali  d"  arte  o  di  patria  ;  e  a  com- 
piere questo  primo  elenco  ricordo  passando  Francesco  Paolo  Par- 
zanese  (1810-1857),  di  Ariano ,  1'  unico  vero  sacerdote  che  cantanto 
pensasse  al  popolo,  e  l'autor  celebre  della  Cieca,  la  più  schietta  e 
sentita  poesia  popolare  del  Mezzogiorno  d' Italia  ;  e  ricordo  Giam- 
battista Maccari  (nato  a  Prosinone  il  19  ott.  1832  e  morto  a  Roma 
il  19  ott.  18G8),  il  poeta  Paolo  Emilio  Castagnola,  critico  arguto  ed 
acuto  pur  ieri  morto  ,  ricordò  con  affetto  ,  e  che  fece  alitare  nelle 
sue  castissime  rime  la  verginità  del  pensiero  e  della  espressione 
non  senza  un  fiuto  dell'arte  classica. 

E  Iginio  Ugo  Tarchetti,  il  poeta  infelice  che  sognò  e  visse  di 
amore,  ed  Emilio  Praga,  anch'egli  ammalato  nel  fisico  e  tutto  pieno 
de'  languori  dell'ultimo  parossismo  romantico,  e  in  fine  Ippolito 
Nievo,  il  poeta  soldato,  cara  e  simpatica  schiera  di  dolci  anime  con 
tutti  i  loro  difetti,  ci  han  lasciato  profondo  il  rimpianto  di  quella 
vera  e  vissuta  poesia  della  vita  e  dell'anima  anche  se  inferma,  da 
cui  ci  ha  dissociati  questo  misero  e  infecondo  lenocinlo  di  simbo- 
lismo barocco,  d'artifizio  nebuloso,  di  meccanismo  degenerante  • 
essi  furon  gli  ultimi  forse  a  farci  sentire  gli  echi,  o  di  quella  malattia 
del  secolo  che  dal  pessimismo  leopardiano  classico  passò  e  si  esaurì 
nell'ultimo  romanticismo  sentimentale,  o  di  quell'intima  vita  d'azione 
anche  intinta  di  romanticismo  ma  che  si  agitò  con  eroico  sacrificio 
dal  1848  in  poi. 


444 


E  più  da  vicino  abbiamo  visto  disparire  questi  altri  :  Bernar- 
dino Zendrini  (nato  a  Bergamo  il  6  luglio  1839  e  morto  a  Palermo 
il  2  agosto  1879),  il  quale  col  faticoso  esercizio  delle  sue  facoltà  non 
poetiche  e  con  l'ostinata  forza  della  volontà  si  sforzò  e  non  riusci 
veramente  poeta,  ma  che  tuttavia  ci  lasciò  un  mirabile  e  singolare 
esempio  di  tentativi  infecondi  si  ma  nobilmente  e  lungamente  durati 
verso  una  meta  che  non  ostante  i  forti  studi  da  lui  fatti  nella 
letteratura  nostra  e  nelle  straniere  la  ribelle  ed  ostica  natura  non 
gli  fece  raggiungere;  Vincenzo  Riccardi  di  Lantosca,  di  cui  un 
poeta  gentile  e  un  critico  valoroso,  Guido  Mazzoni,  ha  pur  di 
recente  voluto  rinfrescar  la  memoria,  riunendone  in  volume  le 
sparse  e  obliate  poesie  da  cui  spira  queir  acuto  profumo  di  affetti 
puri  e  delicati  verso  la  patria,  la  libertà,  la  famiglia,  e  insieme 
quell'accensione  alata  anche  se  un  po'  retorica  di  spiriti  e  di  sensi 
che  nutr'i  le  forti  anime  di  quella  generazione  che  ci  die  la  indi- 
pendenza e  l'unità;  Eliodoro  Lombardi,  un  altro  poeta  che  visse 
aXVoinhra  di  fama  occulta  e  bruna,  ma  che  ci  rese  nel  ritmo  sonante 
ma  imaginoso  ed  animato  uno  degli  episodi  più  belli  della  eroica 
vita  italiana  nel  poema  polimetro  Culataflmi,  che  piacque  tanto  a 
Francesco  Perez,  l'uom  dotto  e  profondo  anche  dove  un  po'  fanta- 
stico e  paradossale,  l'autore  quasi  dimenticato  della  Beatrice  svelata: 
e  da  pochi  giorni  un  ultimo  superstite  della  bella  scuola  patrio- 
tica  del  '48,  Carlo  Baravalle,  un  di  que'  retori  di  azione,  come  il 
chiamerebbe  il  nostro  popolo  borghese,  un  di  que'  retori  che,  noto 
sotto  lo  pseudonimo  di  Ascanio  Bonsenso,  ci  fé'  gustare  quella  lirica 
la  quale  tutta  compenetrata  di  pensiero  civile  e  di  sentimento  acceso, 
ruppe  fresca  e  immediata  dal  polline  fecondo  onde  ci  venne  l'eroismo 
dell'idea  e  quello  della  vita. 

E  cosi  pure  Carlo  Gargiolli,  un  altro  di  quella  brigata,  Vittorio 
Xalmini,  l'autore  del  Polichordon,  Carmelo  Enrico,  il  giovine  poeta 
de*  Convolvoli  che  cominciò  a  rivelarsi  nel  periodo  sommarughiano, 
Leopoldo  Marenco,  non  veramente  poeta  ma  commediografo,  e  che 
volle  esumare  negli  ultimi  anni  suoi  alcuni  versi,  piccolo  e  retorico 
ricordo  di  gioventù;  e  cosi  altri  ed  altri  ne  sono  gli  uni  dopo  gli 
altri  mancati,  e  non  senza  qualche  rimpianto.  Dell'  abate  Giacomo 
Zanella,  di  Enrico  Nencioni  e  di  Felice  Cavallotti  abbiamo  innanzi 
detto  abbastanza,  e  di  questi  ultimi  daremo  pure  un  cenno  nelle 
jiagine  seguenti  :  essi  ci  sono  i-imasti  ancora  nell'anima  ne  ci  pare 
di  scontrarli  spesso  ne'  superstiti  e  ne'  nostri  compagni  di  lavoro. 
Ahi!  questo  è  un  vero  camposanto  di  morti  su  le  cui  aiuole  la  nuova 
generazione,  da  pochi  esempi  all'infuora,  non  fa  germinare  né  quella 
luce  di  pensiero,  né  quel  fervore  di  vita,  né  quello  spirito  di  arte, 
anch'  essi  caduchi  forse  in  gran  parte,    ma    già  fecondi  nel  tempo 


I 


445 


in  cui  si  svolsero.  E  se  i  fatti  maf;nanimi  e  le  azioni  generose,  a  cui 
quella  poesia  si  congiunse,  non  è  ancor  morta  nella  storia,  potranno 
i  buoni  tornare  a  quelle  sante  e  nobili  memorie  da  cui  dovrebbe 
venirci  quel  benefico  frutto  della  vita  che  non  ancora  si  vede 
apparire  nelle  generazioni  novelle. 

Dopo  dato  questo  postumo  tributo  di  memorie  a  quelli  che  fu- 
rono, ci  tocca  ora  parlare  de'  superstiti  cosi  della  vecchia  come 
della  nuova  generazione. 

III. 

Dunque  una  velocissima  corsa  sul  vigoroso  terriccio  della  vecchia 
tradizione  poetica  e  anche  a  traverso  1"  incomposto  seminato  della 
cosi  detta  lirica  verista^  gioverà  meglio  a  ritrarre  nei  due  eletti 
manipoli  delle  due  generazioni,  l'una  apparsa  intorno  al  '  30  e  che 
seguitò  a  sbocciare  in  sino  al  "45,  e  l'altra  venuta  su  tra  il  "50  e  il  "65, 
i  caratteri  e  quasi  la  flsonomia  di  questi  e  di  quelli:  gli  uni,  i  più 
vecchi ,  ebbero  il  succhio  dalle  migliori  memorie  del  Monti  e  del 
Foscolo,  del  Leopardi  e  del  Manzoni,  del  Prati  e  del  Berchet,  tra* 
brividi  della  rivoluzione  e  della  tirannide  ;  e  gli  altri ,  i  più 
giovani,  apriron  gli  occhi  alla  luce  in  età  strema  di  vita,  indolente, 
flaccida,  sbadigliante.  Parleremo,  s'  intende,  degli  uni  e  degli  altri. 
Cominciamo  dal  primo  manipolo  che  in  ordine  di  età  è  formato  da 
questi  nomi:  Alessandro  Arnalboldi  (nato  il  19  novembre  1827),  Fe- 
lice Uda  (nato  il  25  febbraio  1832),  Giuseppe  Chiarini  (nato  il  1833), 
Domenico  Gnoli  (nato  il  1836),  Tommaso  Cannizzaro  (nato  il  1838  ), 
Enrico  Nencioni  (nato  il  1840),  Vittorio  Betteloni  (nato  il  1840),  En- 
rico Panzacchi  (nato  il  1841),  Milelli  Domenico  (nato  il  1841),  Fogaz- 
zaro Antonio  (nato  il  1842),  Cavallotti  Felice  (nato  il  1842),  Boito 
Arrigo  (nato  il  1842),  Giuseppe  Aurelio  Costanzo  (nato  il  6  marzo 
1844,  Mario  Rapisardi  (nato  il  1845),  Olindo  Guerrini  (nato  il  4  ot- 
tobre 1845).  Gli  ultimi  due  e  il  Carducci  per  vie  ben  differenti,  ma 
tutti  tre  essenzialmente  moderni,  inaugurano  o  dirigono  tre  diverse 
manifestazioni  di  lirica,  seguite  parzialmente  o  interamente  dal 
manipolo  che  vien  dopo.  Gli  altri  seguono  tre  distinte  scuole  pre- 
cedenti; la  classica  (Arnalboldi,  Chiarini,  Gnoli,  Milelli,  Costanzo), 
la  romantica  mista  (Uda,  Nencioni,  Cannizzaro,  Betteloni,  Panzac- 
chi, Fogazzaro,  Boito)  e  la  romantica  patriottica  (Cavallotti).  E  però 
é  bene  osservare  che  alcuni  di  questi,  come  il  Milelli  e  il  Chiarini, 
pur  conservando  certa  originale  libertà  e  un  che  de'  pregi  e  de' 
vizi  delle  relative  scuole,  tendono  sempre  verso  il  rinnovamento 
operato  dal  Carducci. 

Chi  ricorda,  o  meglio,  chi  mai  ha  letto  i  Versi  e  i  Nuovi  versi 


446 


dell'  Avìiaboldi,  il  quale  sa  infondere,  pur  tra  le  ricordanze  clas- 
siche, un  senso  alto  della  vita  e  della  patria,  e  uno  squisito  e 
peregrino  lavorio  di  versi,  per  entro  gli  avvolgimenti  della  vecchia 
strofe?  So  che  piacquero  assai  a  Bonaventura  Zumbini,  l'illustre 
critico  cosentino,  a  preferenza  di  molta  lirica  contemporanea.  Giu- 
seppe Chiarini  nelle  originali  liriche  sue,  ma  specialmente  nelle 
Lacryinae  —  un  vero  gioiello  e  il  più  prezioso  saggio  di  elegia  o 
meglio  tragedia  domestica  —  ci  rende  con  perspicua  semplicità  e 
con  tibulliana  finezza  anche  le  più  tenere  sfumature  dell'  afifetto  e 
l'intimo  strazio  della  passione  paterna,  dandoci  pur  saggi  mirabili 
di  metrica  barbara  con  ellicace  maestria  di  tecnica  ;  come  anche 
ci  porge  nelle  relative  versioni  il  finissimo  spirito  della  satira  hei- 
niana  e  il  complicato  atteggiarsi  del  pensiero  straniero  in  una  pla- 
stica e  disinvolta  leggiadria  e  facilità  di  verseggiatura.  Domenico 
Gnoli,  lirico  caldo  e  inspirato,  ci  fa  gustare  nelle  Odi  tiberine  e 
nelle  Elegie  romane  un  grato  effluvio  delle  memorie  classiche, 
mescolate  non  senza  toni  recenti  alle  più  belle  memorie  patrie.  Il 
Milelli  è  forse  più  moderno  de'  primi,  e  con  industrioso  e  spesso 
felice  intarsio  di  forme  antiche  e  di  nuove,  fa  spirare  ne'  metri 
bai-bari  e  ne'  rimati  un  senso  di  paganità  e  i  brividi  della  vita 
sociale:  e  cosi  in  Giovinezca,  in  Iliemalia,  nelle  Odi  pagane,  ne' 
frammenti  del  Kokodé,  nel  Xuovo  Canzoniere,  pur  da  altri  deri- 
vando scorci  e  movimenti  lirici,  ci  porge  una  certa  concordia  tra 
la  colorifrice  esuberanza  meridionale  e  la  nervosa  concinnità  car- 
ducciana. Il  Costanzo  co'  molti  suoi  canti  ma  specialmente  con  Gli 
eroi  della  soffitta  sta  di  mezzo  a  questa  brigata  e  a  quella  che 
comincia  col  Ra[)isardi:  natura  vivamente  siciliana,  stempera  un 
po'  le  forme  e  le  amplifica,  e,  attratto  dal  miraggio  della  fantasia 
e  della  facile  vena,  chiude  questo  piccolo  ciclo  con  una  più  impen- 
sata e  spontanea  inspirazione,  ma  anche  con  certa  leggerezza  di 
svolgimento,  più  presto  procedente  dalla  facoltà  fantastica  che 
non  da  una  riposata  elaborazione  artistica. 


Felice  Uda,  questo  sardo  animoso  dall'  animo  nobile  e  gentile, 
non  ha  sempre  pari  alla  soprabbondanza  della  immaginazione  e 
alla  forza  del  sentimento,  il  simmetrico  ordito  della  strofe,  la  quale 
sia  ne'  pregi  che  ne'  difetti  ricorda  1'  ondeggiante  e  lusinghevole 
indeterminatezza  del  romanticismo  pratiano,  più  tosto  che  il  sobrio 
e  misurato  movimento  della  serena  ed  uguale  compostezza  della 
lirica  manzoniana. 

Tommaso  Cunnizzaro  è  una  di  quelle  nature  meridionali  troppo 


447 


vive  e  fantastiche,  troppo  naturalmente  poetiche,  si  che  possano 
essere  infrenate  dal  sobrio  magistero  dell'arte  o  corrette  e  levi- 
gate dal  forte  equilibrio  del  senso  estetico;  onde  gli  manca  la  cal- 
lida iunctìira  e  il  lucidus  ordo  tra  gl'impeti  della  facile  e  ricca  ispira- 
zione e  la  concisa  e  ben  rilevata  efficacia  delle  forme.  Cosi  l'autore  di 
tanti  libri  di  versi  in  francese  e  in  italiano,  come  La  voir!  A  pro- 
pos  de  l'insurrectioìi  de  Candle,  Ore  segrete.  In  solitudine,  Carmina, 
Spine  e  rose,  ecc.  ecc.,  se  mostra  spesso  la  bizzarra  fecondità  del- 
l' ingegno,  l'esuberante  varietà  delle  imagini  e  de'  fantasmi,  la 
creazione  larga  e  suggestiva  anche  se  scapigliata  o  paradossale, 
sembra  d'altra  parte  si  prenda  giuoco  della  tecnica  eh'  egli  muta, 
rivolge,  trasforma,  stempera  o  restringe,  in  mille  modi,  in  tutt"  i 
sensi,  co'  pivi  audaci  ma  scorretti  congegni;  onde  la  potenza  inven- 
tiva, che  pur  gli  si  snoda  così  duttile  e  pronta,  si  rivela  gonfìa, 
verbosa,  inestetica,  in  metri  novi  ma  strani,  in  ritmi  sbilenchi  e 
in  troppo  libere  forme,  ambiziose,  slombate.  E  pure  quel  vivo  senso 
della  natura  e  quella  percezione  profonda  del  vero,  quanta  vita 
di  schietta  poesia  non  darebbe,  se  fosse  domata  dal  fine  lavorio 
della  strofa  e  dal  martellato  rilievo  della  espressione!  Con  tutto 
ciò  egli  resta  nel  fondo  uno  de'  più  nativi,  de'  più  singolari  e  ori- 
ginali poeti;  ma  la  sua  lirica  non  è  arte,  e  resta  sol  bella  couie 
essenza  primigenia,  come  forza  naturale,  materia  greggia.  Ciò  non 
toglie  eh'  egli  talvolta,  pur  senza  volerlo,  non  ci  dia  strofe  ed  anche 
poesie  mirabili  insieme  e  d'arte  e  d"  ispirazione. 

A  questo  proposito  cito  passando  un  altro  poeta,  non  meridio- 
nale, ma  toscano  e  giovine,  Camillo  Checcucci,  autore  di  un  poema 
in  quindici  canti  nel  vecchio  metro  della  canzone  maneggiata  a 
piacere,  dal  titolo   Vita.  (') 

E'  questo  un  poema  di  forte  concezione  naturalistica,  originale, 
impressionante;  ma  vi  è  tale  audacia  di  fantasie  e  tanta  scompigliata 
libertà  di  orditura,  di  locuzioni,  di  stile,  che  sembra  abbia  il  poeta 
voluto  crearsi  una  sintassi,  una  lingua  e  un'  arte  tutta  sua,  e  in- 
sieme sfrenarsi  a  tutti  gli  ardiri  della  immaginazione,  a  tutte  le 
sti'anezze  delle  trovate,  a  tutte  le  capricciosità  delle  forme,  si  che 
ne  risulta  un  insieme  come  di  geroglifico  e  di  grottesco,  di  brut- 
ture e  di  meraviglie,  di  splendido  e  di  goffo.  E  pure  l'autore  avea 
saputo  trovare  un  argomento  e  un  disegno  nuovo  e  maraviglioso; 
e  s' egli  fosse  riuscito  a  congiungere  il  sapiente  magistero  del- 
l'arte co'  preziosi  doni  della  sua  grande  facoltà  poetica  e  fantastica, 
ci  avrebbe  dato  quasi  certamente  un  capolavoro. 


(*)  Firenze  —  Fratelli  Bocca,  editoii.  1891. 


448 


Enrico  Xe))ciù)n,{'}  il  sentimentale  e  favorito  scrittore  delle  donne, 
è  più  veramente  poeta  nelle  prose  critiche  su  le  letterature  straniere 
che  non  fosse  nelle  pochissime  liriclie  dove  ci  dà  il  voluttuoso  fevi- 
niinino  dell'  arte  come  impregnato  da  una  morbida  e  seducente 
idealità.  Ma  di  lui  abbiamo  innanzi  parlato  abbastanza ,  onde  qui 
ci  dispensiamo  dal  dirne  altro. 

Di  Vittorio  Betteloni  già  dette  il  Carducci,  in  una  forte  sua 
prosa  apparsa  la  prima  volta  nel  Fanfulla  della  Dometnca  del  22 
febbraio  e  22  marzo  1880  (**),  un  giudizio  assai  lusinghiero  che  per 
manco  di  spazio  non  riporto  qui  nemmeno  in  parte. 

In  fondo  egli  disse  che  il  poeta  veronese  fu  il  primo  in  Italia 
a  uscire  e  a  liberarsi  dal  romanticismo  pur  componendo  in  versi  un 
romanzo  d'amore,  che  senti  e  rese  con  pura  freschezza  e  con  sin- 
cerità immediata  più  che  l'esteriore  delle  cose  o  la  superficie  della 
passione  l' intimo  e  pieno  svolgimento  di  essa,  e  che  in  fine,  cosi 
nelle  prove  originali  come  nelle  derivate  o  tradotte,  mostrò  quasi 
sempre  finezza  di  gusto  e  una  larga  e  nutrita  educazione  classica. 
Fra'  giudizi  del  Carducci  questo ,  a  dir  vero,  è  quello  che  non  mi 
ha  mai  persuaso  con  tutta  la  buona  intenzione  di  gustare  e  ammi- 
rare la  poesia  del  Betteloni  a  cui  non  mancheranno  forse  buone 
qualità  di  rimatore  e  certa  spontaneità  e  verginità  di  affetti  e  di 
espressione ,  non  mancheranno  delle  cose  che  negli  anni,  a  cui  si 
riferiscono  le  lodi  del  Carducci,  potevano  sembrare,  e  forse  furono, 
buone  promesse  di  arte  e  di  poesia,  ma  certo  mancò  l'originalità 
e  la  vena.  Di  fatti  a  molti  ,  con  tutte  queste  lodi ,  non  pare  che 
l'autore  del  libro  «  In  primavera  »,  de'  N^uovi  versi,  di  alcune  no- 
velle verseggiate  (L'  ombra  dello  sposo  ,  Stefania  ,  ecc.) ,  della  ver- 
sione in  ottava  rima  del  Don  Juan  del  Byron  e  dell'altra  in  versi 
sciolti  àeW Ahasver  in  Rom  di  Roberto  Hamerling,  ecc.,  meriti  un 
luogo  degno  fra"  veri  poeti,  mancandogli  soprattutto  la  forza  del- 
l'ispirazione e  l'ala  della  fantasia  non  che  l'eloquio  spiccatamente 
poetico;  e  d'altra  parte  il  fatto  che  il  suo  nome  è  quasi  oscuro  a' 
I)iù,  e  che  intorno  a  lui  la  stessa  parola  del  Carducci  non  valse  a 
diffondere  neppure  un'  eco  fievole  e  accetta  ,  viene  a  provare  qual 
virtù  abbia  quella  poesia  e  da  quale  anima  la  sia  uscita. 

Enrico  Panzacchi  nelle  tenui  rime  d'amore,  più  per  musica  da 
camera  che  per  biblioteca,  dà  la  prima  tenacissima  carezza  alla 
variopinta  e  profumata  mondanità  dell'  arte,  con  romantico  velli- 
camento  di  suoni  e  di    facili  e  vaporose   melodie,    con  graziosi  ma 


(*)  Questo  studio  Cu  in  gran  parte  scritto  assai  prima   della  morte  del  Nen- 
cioni  e  del  Cavallotti. 

(**)  «  Bozzetti  e  Scherme  »  —  Bologna,  Zanichelli,  1889  —  Pagg.  282-287. 


e 


u 

< 

ce 

t: 


< 

cn 
cn 

d 


449 


piccoli  voli,  con  soavi  ma  sottilissimi  sgorghi  di  affetti,  con  leggeri 
impennamenti  di  fantasmi,  senza  urti  di  passioni  e  senza  foga  e 
impeto  di  sentimenti:  quelle  musicali  rime  m'han  l'aria  di  candide 
tortore,  clie  vadan  quasi  radendo  la  terra,  ben  lontane  da'  culmini 
alti  e  dall'  ampie  volute  dell'  aquila.  " 

Arrigo  Boilo,  il  solitario  poeta  e  il  forte  compositore  musicale, 
nel  Re  Orso  e  nel  Libro  dei  Versi,  e  talvolta  anche  nei  libretti  per 
musica,  gode  e  si  sforza  di  riforbire  la  strofe ,  martellandola  con 
nei'vosità  tra  nordica  e  romantica,  e  spesso  la  morde  con  rude  e 
selvaggia  armonia  di  suoni  aspri  o  pedestri,  ma  non  senza  vigorosa 
e  fantastica  genialità,  la  quale  è  però  guasta  talvolta  da  una  scor- 
retta e  strana  scapigliatezza  di  tecnica. 

Col  Fogazzaro  torniamo  alla  diffusa,  evanescente  idealità  del 
romanticismo;  e  nelle  fantastiche  odi,  sature  di  spirituale  e  quasi 
liturgico  sentimentalismo,  e'  si  piace  di  veder  errare  il  fantasma  in 
una  quasi  biblica  elevazione  di  affetti  e  di  sospiri  che  van  come 
avvolgendosi  d'  ombra  e  di  mistero,  in  un  al  di  là  di  sogni.  E  per 
tutto  questo  e'  dà  la  mano  al  Werner  e  al  Thiek. 

Conterraneo  e  discepolo  amoroso  dell'  abate  Giacomo  Zanella, 
ci  reca  nel  verso  e  nella  prosa,  non  già  quel  pacato  o  quel  mite  e 
gemente  sospiro  dell'  anima,  ma  un  po'  di  quel  tenero  e  virgineo 
sentimento  che  con  classica  freschezza  spira  nelle  morbide  e  ries- 
suose  strofe  del  vicentino.  Il  quale,  pur  prete,  ebbe  però,  forse  per 
efì'etto  della  sua  nutrizione  classica  che  fu  meglio  avvivata  ed 
allargata  dalla  sicura  conoscenza  delle  letterature  straniere,  un 
senso,  più  umile  si,  ma  più  misurato,  più  sensibile,  più  umano, 
cosi  delle  cose  terrene  come  delle  divine;  fu,  in  una  parola,  un  idea- 
lista più  pratico  e  un  credente  più  positivo  e  mondano.  Il  Fogazzaro 
alla  sua  volta ,  spirito  più  fervido,  anima  più  entusiastica ,  cuore 
più  mobile  alle  seduzioni  del  soggettivo  e  del  fantastico,  per  una 
spiccata  inclinazione  alle  parvenze  eteree  della  vita,  si  lascia  mag- 
giormente attrarre  dagl'incanti  del  sovrasensibile  e  dell'infinito, 
con  un  più  acceso  rapimento  verso  le  spirituali  impressioni  della 
natura,  della  scienza  e  dell'arte  e  con  una  più  esaltata  adorazione 
dell'uomo  e  di  Dio.  Egli  insomma  è  un  idealista  vaporoso  e  un 
sognatore  quasi  mistico  della  bellezza,  e  perciò  riesce  a  trasfondere 
nel  lettore  un  senso  di  ammirazione ,  fugace  si ,  ma  più  spirituale 
e  confortante  E'  uno  de'più  veri  poeti  cosi  della  rima  come  della 
prosa,  dove  però  non  sempre  è  pari  a  quello  della  ispirazione  lo 
splendore  dell'arte.  Cosi  dunque  mi  è  parso  il  suggestivo  autore 
di  Miranda  e  di  Valsolda,  di  Malombra  e  di  Daniele  Cortis  ,  di 
Profumo  e  del  Mistero  del  poeta. 

Felice  Cavallotti  non  è  punto  della  sua  brigata:  egli    aspira  al 

29 


450 


fumo  delle  battajrlie;  e  nella  venustà  quasi  greca  de'suoi  canti, 
splendidi  di  passione  e  di  verità,  porge  invece  la  raano  al  Korner 
e  al  Mameli. 

Mario  lìapisardi  è  un  romantico  classico,  e  il  più  naturalmente 
poeta  di  tutti  nel  senso  più  vaporoso  della  parola,  e  in  ciò  ch'ha  più 
d*  etereo  e  d'azzurro  la  poesia.  Di  fatti  nella  parte  più  bella  del- 
l'opera sua,  e  specialmente  quando  non  è  guasta  e  ritorta  dalla 
cercata  inspirazione  polemica  e  giambica,  egli  ci  rappresenta  un 
certo  connubio  non  sempre  felice  tra  le  concezioni  e  le  forme  clas- 
siche e  i  motivi  dell'arte  romantica  pur  rendendo  con  signorile 
pompa  di  stile  e  con  ampiezza  proteiforme  di  verso  un  contenuto 
intimamente  moderno.  Per  tali  rispetti  il  geniale  poeta  del  Lucifero 
par  che  faccia  parte  da  se.  e  che  all'infuori  del  Cesareo  e  di  qual- 
che altro  non  abbia  dato  movimento  a  quel  che  si  dice  una  scuola. 

Gioi^aiini  Alfredo  Cesareo  è  fra'  meridionali  quello  che  fra' 
toscani  è  il  Marradi,  salvo,  s'intende,  le  differenze  d'insegno,  d'in- 
dirizz.j  e  di  regione.  Anche  il  Cesareo  ha  da  natura  la  fervida  e 
piena,  e  facile  e  feconda,  vena  della  ispirazione;  anch'  egli  ha  quel 
getto  largo  e  fluido  di  agevoli  fantasie  e  di  naturali  trovate;  anche 
egli  infine  ha  senza  bisogno  di  studio  e  di  lungo  e  faticoso  esercizio 
di  tecnica  quell'immediato  e  quel  vivo  nel  magico  e  luminoso  prisma 
dell'  anima  creatrice,  cioè  quel!'  intimo  sofiio  dello  spirito  lirico  dove 
soltanto  può  il  poeta  trovare  il  vero  suo  clima  estetico. 

Di  veramente  e  naturalmente  poeti  è  ben  difticile  trovarne  fra' 
giovani  un  terzo;  che  negli  altri,  anche  fra  quelli  che  più  sono  lodati, 
non  s'incontra  se  non  quella  poesia  la  cui  vena  vien  come  spillata 
a  forza  e  a  fatica  da  un  tenue  rivo  d'ispirazione,  con  gli  strumenti, 
troppo  alla  lunga  maneggiati,  della  cultura  minuta  e  della  critica 
erudita.  Non  cosi  il  Cesareo  a  cui  forse  non  si  addice,  o  si  addice 
assai  meno ,  1'  improba  fatica  della  dottrina  letteraria  sia  pur  lu- 
minosa e  riverberante  come  la  sua;  che  a  simili  nature  nuoce  assai 
il  sottile  magistero  della  ricerca,  o  almeno  toglie  ad  esse  quel  sog- 
gettivo e  queir  incomunicabile  della  vera  creazione  lirica,  eh'  ha 
da  essere  tutta  spontanea  e  nuli'  affatto  mantrugiata  e  riflessa.  Se 
l'autore  lodato  delle  Occidentali,  del  Don  Juan,  de'Canti  della  culla., 
del  mirabile  lìmo  alV  Uomo,  avesse  come  il  Rapisardi  e  il  Marradi 
voluto  seguitar  poeta  e  lasciar  le  ortiche  della  critica  e  le  spine 
dell'insegnamento,  avrebbe  saputo  trovar  certamente  in  un  più 
geniale  e  definitivo  lavoro  d'arte  l'ultima  nobile  voce  dell'anima 
sua;  ed  è  peccato  il  non  averla  cercata. 

Una  scuola  veramente,  con  un  determinato  indirizzo  o  avvia- 
mento d'arte,  comincia  col  Carducci  e  col  Guerrini,  rispetto  al  con- 
tenuto e  alle  forme;  e  sembra  la  si  adagi   sur  un   fondo  d' imagini 


451 


e  di  spiriti  e  di  armonie  risonanti  gli  echi  dell'  antico  paga- 
nesimo, rinnovato  da  tutta  la  passione  moderna.  Ma  anche  qui 
giova  distinguere  due  maestri  e  due  scuole.  Il  Carducci,  visceral- 
mente classico  d"  animo  e  di  studi,  con  prodigioso  e  assiduo  lavorio 
di  stile  e  di  rappresentazione,  e  con  insuperabile  maestria  di  tecnica, 
tenta  ed  elabora  tutte  le  forme,  versandovi  il  molteplice  contenuto 
attinto  da  tutte  le  fonti  del  pensiero  antico  e  del  moderno.  Ond"egli 
riesce  un  poderoso  eclettico  nel  senso  montiano  della  parola.  Ma 
rimane  sempre  nella  mutevole  opera  sua  un  gran  fondo  tradizio- 
nalmente classico  e  un  forte  e  nutrito  contemperamento  di  conser- 
vazione e  di  rinnovazione.  E  in  questa  sua  continua  e  progressiva 
ricerca  de"migliori  e  più  adatti  elementi  artistici  par  che  si  avvicini, 
e  specialmente  nelle  ultime  sue  produzioni ,  come  dissi  di  già,  ad 
una  finale  e  decisiva  opera  di  fusione,  che  potrà  diventare  come 
il   tipo  unico  deir  arte  dell"  avvenire. 

Non  cosi  il  Gueri'ini.  Egli  non  elabora  e  non  rinnova  nulla, 
cosi  nella  forma  come  nella  contenenza.  Anzi,  con  buona  pace  dei 
poeti  veristi,  accoglie  in  effetti  e  forse  inconsapevolmente  1"  opera 
del  Manzoni  che  i  poeti  della  seconda  generazione  devono  consi- 
derare, come  avverti  il  Carducci  medesimo,  il  loro  più  aitine  rap- 
presentante artistico.  Lorenzo  Stecchetti  è  un  vero  e  proprio  ro- 
mantico. Non  è  forse  un  novo  aspetto  del  vecchio  romanticismo 
quella  pur  lasciva  notomia  dell'anima,  vinta  dalia  nevrosi  dell'amore, 
e  quell'assiduo  rifrugare  nella  coscienza  erotica  per  distillarne  a  parte 
a  parte  tutt'  i  sospiri,  tutf  i  vaneggiamenti,  tutta  la  voluttà?  Ora 
il  Guerrini  con  ciò  non  fé"  altro  che  importare  il  De  Musset  di 
Francia  in  Italia  entro  le  agevoli  e  spontanee  e  facili  volute  del 
verso  che  spira  una  lontana  eco  dell'opera  manzoniana  in  fatto  di 
forme  e  di  stile.  Ecco  le  due  diverse  correnti  che  lusingai-ono  aper- 
tamente l'animo  dei  giovani.  Se  non  par  che  taccia  da  tempo  il 
tanto  favorito  autore  delle  Postuma,  e  col  maestro  sembra  che  tac- 
ciano pure  i  mille  imitatori  che  anni  fa  gli  furono  intorno  come  un 
vespaio.  Fra  tanti  pappagalli  lusingatori  mi  trovo  sgomento  a  tro- 
vare una  diecina  di  buoni  nomi,  e  mi  fermo  a  Ulisse  Tanganelli,  il 
simpatico  autore  di  Auiurnnalia,  di  Aestiva,  di  Botia  Dea,  il  quale 
sa  cosi  bellamente  sposare  sul  fondo  stecchettiano  la  prontissima 
vena  della  sempre  poetica  inspirazione  con  la  nativa  e  originale 
mollezza  e  freschezza  dell'eloquio  toscano.  Ma  intorno  al  Carducci 
si  raccoglie  e  lavora  un  bel  nucleo  di  giovani:  Giovanni  Marradi, 
Severino  Ferrari,  Guido  Mazzoni,  Giovanni  Pascoli,  Giuseppe  Pic- 
ciola,  Alfredo  Baccelli,  Gabriele  d'Annunzio,  e  son  essi  il  più  vitale 
germoglio  della  seconda  generazione. 


452 


IV. 

Giovanni  Mai-radi,  vera  anima  toscana  e  temperamento  livornese, 
è  il  più  idealmente  e  sinceramente  poeta  della  sua  scliiera;  e  con 
quel  largo  e  risonante  giro  di  strofe,  con  quel  munifico  e  musicale 
rapimento  verso  i  piìi  begli  aspetti  della  natura  e  intorno  a'  più 
disperati  casi  della  elegia  sociale,  ei  ci  fa  gustare  una  voluttuosa 
e  nobile  poesia  ricca  di  toni  se  non  sempre  densa  di  passione, 
morbida,  carezzevole,  mormorante  per  quei  metri  agevoli,  semplici, 
scorrenti,  pieni  tutti  di  una  certa  malia  classica.  E' vero  che  spesso 
ci  rende  come  la  sola  superficie  delle  cose:  è  vero  che  per  la  molle 
ridondanza  dell'eloquio  e  delTimmaginazione  ricorda  i  meridionali  ; 
ma,  come  i  meridionali,  in  quel  libero  e  fantastico  volo,  trascina, 
palpita  e  canta. 

Severino  Ferrari,  il  simpatico  autore  tlel  Mai/o  e  dei  Bordatini, 
non  è  poeta  ammaliatore  come  il  Marradi ,  ma  ,  lolle  innamorato 
del  trecento,  ne  rende  gli  echi  ne'  suoi  madrigali  e  nelle  sue  ballate, 
che  piacciono  si,  ma  come  un  rinnovato  saggio  della  lirica  antica, 
come  un  felice  restauro  di  quella  dolce  poesia,  come  un  profitte- 
vole esercizio  di  finita  arte  riflessa. 

Molto  prossimo  a  lui,  emiliano  di  Alberino,  è  il  fiorentino  Guido 
Mazzoni,  meraviglioso  schermitore  di  metri,  anche  a  detta  del  maestro 
suo,  il  Carducci,  al  quale  lontanamente  somiglia  solo  in  questo, 
eh'  egli  si  esercita  in  tutti  i  metri,  in  tutte  le  forme  e  in  tutti  i 
contenuti.  Nel  sicuro  maneggio  degl'  instrumenti  classici,  è  il  mi- 
gliore alunno  di  quella  scuola,  e  conosce  tutti  i  segreti  della  me- 
trica antica;  come  fu  col  Chiarini  il  più  gustoso  e  sapiente  imitatore 
0  meglio  prosecutore  dell'Odi  barbare.  Ne'  primi  suoi  esperimenti 
ben  di  rado  la  sua  poesia,  cosi  vaga  e  oscillante  tra  le  moltiformi 
imitazioni  e  versioni  e  rimaneggiamenti,  ascende  alto  con  vt;ro 
afflato  lirico  e  con  caldo  soffio  d' inspirazione  propria;  ma  nelle 
f'oci  della  vita  sa  infondere  tanta  musica,  tanto  spirito  recente  e 
tanta  originalità  nell'onda  snella  del  quinario  e  d'altri  metri  brevi 
e  insieme  tanta  semplicità  di  linee  e  di  contorni,  che  ci  pare  sia 
egli  uscito  dal  greco  mondo  e  dal  latino  per  versare  a  piene  mani 
r  intimo  fluire  dell'anima  nelle  agili  e  perspicue  forme  di  Ana- 
creonte  e  di  Catullo.  Con  questo  generino  di  odi,  ond*  egli  mi  pare 
come  un  Chiabrera  odierno,  si  può  dire  abbia  trovato  e  si  sia  aperta 
una  via  tutta  sua;  veramente  cominciò  ad  aprirsela  fin  da  quando 
ci  fé'  saggiare  1"  idillica  inspirazione  domestica,  così  riboccante  di 
affetto  e  di  verità,  e  di  cui  restano  saggi  insigni  le  odi:  La  niac- 
cìtina  da  cucire,  e  Un  mazzo  di  chiavi.  Più  pel  contenuto  che  per 


453 


le  forme  va  ricordato  a  canto  a  lui  il  romano  Alfredo  Baccelli, 
l'inspirato  autore  di  Germina,  di  Diva  Natura,  delle  Leggemie  del 
cuore,  delle  Vittime  e  ribelli',  anzi  egli,  con  ispirito  veramente  ro- 
mano che  nella  sua  famiglia  è  tradizione,  sa  mettere  nelle  metriche 
forme  del  Carducci,  1"  ideale  scientifico  del  tempo;  e  in  ciò  ha  pur 
egli  a  lato  una  poetessa,  la  lodata  autrice  di  Fatalità,  Ada  Negri, 
la  quale,  senza  nulla  derivare  dai  classici  nuovi  e  da"  vecchi,  e 
anche  senza  la  originalità  che  molti  le  danno,  mira  solo  al  più 
simpatico  contenuto  sociale  ,  in  che  pare  più  si  accosti  a  Filippo 
Turati  che  nella  prima  giovinezza  volle  mettere  nelle  forme  del 
Guerrini  la  passione  e  il  fremito  del  socialismo  contemporaneo. 

Giovanni  Paacoli,  il  solitario  e  ignorato  poeta  latino,  è  il  più 
originale  di  tutti  nell'incidere  la  dolorante  anima  sua  e  la  più  stra- 
ziante passione  domestica  in  quelle  celliniane  cesellature  di  strofi, 
brevi,  scultorie,  classicissime,  come  tanti  rilievi  di  cuori  che  spic- 
cino sangue.  E  poiché,  per  esser  egli  il  più  sapiente  modellatore  di 
antiche  figurine,  ha  certi  scoi'ci  di  rappresentazione  di  gusto  troppo 
aristocratico,  molti  non  l'intendono,  non  lo  leggono  e  non  lo  ricor- 
dano; ond'  egli  è  il  men  lodato  e  ricercato  fra  tutti  quelli  che  ap- 
partengono alla  giovine  pleiade  carducciana. 

Col  Picciola,  il  simpatico  lirico  triestino,  ritorniamo  a  gustare 
nel  circolo  riflesso  dell'  arte ,  come  già  notammo  a  proposito  del 
Ferrari,  1'  antico  marmoi'eo  luccicore  della  sestina,  della  ballata  e 
del  madrigale  del  trecento,  nelle  cui  forme  spira  cosi  bene  il  fan- 
tasma a  traverso  il  dolce  rosato  di  vesperi,  di  aurore,  di  tramonti. 

E  col  d'  Annunzio,  di  cui  spesso  e  a  lungo  abbiamo  parlato 
in  questo  volume,  siamo  nel  regno  dell' artifìcio:  uno  splendido  e 
meraviglioso  mosaico,  nient"  altro,  ma  un  mosaico  nel  quale  —  qui 
alludo  soltanto  alle  i^rime  poesie  e  specialmente  al  Canto  novo  — 
prevalgono  le  più  belle  pietre  raccolte  nelle  miniere  carducciane. 
Ma  nelle  ulteriori  composizioni,  e  più  in  quelle  nelle  quali  questo 
grande  virtuoso  del  verso  e  della  prosa  s'  impunta  a  voler  essere 
originale,  passiamo  dal  mosaico  al  geroglifico,  eh'  è  tutto  dire.  Ci 
fermeremmo  qui  se  a  meglio  delineare  il  gruppo  carducciano  non 
ci  venisse  in  mente  un  tentativo  oscuro  ma  notevole  e  insieme  ori- 
ginale, cioè  il  primo  ed  unico  saggio  di  una  rappresentazione  sce- 
nica in  esametri  barbari,  saggio  offertoci  ben  dieci  anni  fa  da 
Annibale  Fasiani  nelle  sue  Scene  romane  dal  titolo  Lucilla  {'),  nelle 
quali  il  metro  elegiaco  antico  si  mostra  e  si  atteggia  con  più  vigo- 
roso rilievo  che  in  tanta  barbarie  ritmica    di    molti   e   assai  meno 


(*)  Genova  —  Stabilimento  tipografico  genovese  —   Piazza  S.  Giorgio  N.  33, 
1889.  — 


454 


ignoti  imitatori.  Un  altro  novo  e  più  originale  tentativo  fu  quello 
di  Cesare  Pascarella  che  si  provò  con  vero  ardimento  a  sollevare 
il  dialetto  romanesco  nativo  a  rappresentazione  intentata  col  suo 
celeljre  poemetto  Villa  Gloria  (*),  nel  quale  ci  rese  co'  più  vivi  co- 
lori epici  e  come  in  altorilievo  uno  de'  più  eroici  episodi  del  Risor- 
gimento italiano.  E  del  periodo  sommarughiano  ricordiamo  qui, 
quasi  a  compiere  i  contorni  della  bella  scuola  carducciana,  questi 
altri  pochi,  già  fedeli  compagni  del  d'Annunzio:  Edoardo  Scarfoglio, 
de'  cui  Papaveri  il  Carducci  scrisse  che  ve  .n'  ha  di  fioriti  bene; 
Giulio  Salvadori,  il  più  serio  e  studioso  della  brigata;  Cesario  Testa, 
l'arguto  e  simpatico  Papiliunculus\  Uyo  Fleres,  che  spesso  spesso 
nel  verso,  nel  romanzo,  nella  novella  e  nella  critica  d'  arte  ci  fa 
risentire  gli  echi  o  rinnovare  i  ricordi  di  quel  goliardico  e  ameno 
convegno  di  cultura  e  di  arte,  pieno  troppo  di  strepiti  forse  ma 
tutto  ardente  di  gioventù  e  di  liete  promesse:  tranne  quest'ultimo, 
gli  altri  si  tacciono  da  un  pezzo  come  poeti,  poiché  d'essi  chi  è 
distratto  dal  giornalismo  pugnace,  chi  dalla  burocrazia  e  chi  dal- 
l' insegnamento.  Un  po'  di  quella  brigata,  ma  con  poca  o  nessuna 
influenza  carducciana,  fu  Giuseppe  Mantica,  giovine  di  arguto  e 
acuto  ingegno,  di  varia  e  larga  cultura,  di  ricca  fantasia  e  di  vivo 
spirito  meridionale.  Egli  è  calabrese,  anzi  reggino,  e  della  sua  regione 
di  cui  furon  lulia  e  Padula  e  a  cui  appartiene  il  nostro  Mileìli, 
reca  ne' versi  e  nelle  prose,  se  non  sempre  l'impeto  e  la  forza, 
certo  la  freschezza  delle  imagini  e  de' sentimenti  nelle  più  native 
e  spontanee  sue  composizioni.  E"  critico,  traduttore,  poeta,  roman- 
ziere, e  ,  fra  tante  altre  cose,  ci  ha  dato  Lo  Scanderheij  ,  poema 
tutto  pieno  di  vita  e  di  umorismo.  Le  rime  gaie,  A  me  i  bimbi,  La 
coda  della  gatta,  la  versione  del  Geistercher  dello  Schiller,  e  più 
altre  traduzioni  da  Heiìie,  da  Goethe  da  Holdalin.  Ultimamente 
ci  ha  dato  il  Figurinaio,  bellissimo  saggio  di  prosa  umoristica. 

Scrive  anche  cose  amene  e  gaie  per  la  fanciullezza,  e  con  facile 
e  pronto  intuito  passa  dagli  argomenti  più  gravi  a'  più  tenui  o  gio- 
cosi, mostrando  sempre  quel  fine  e  signorile  umorismo  ch'è  il  pregio 
migliore  delle  cose  sue  più  belle.  Se  le  cure  non  lievi  dell'  uflìcio 
non  lo  distraessero  troppo,  saprebbe  darci  ancora  di  più.  Dovrei 
discorrere  ancora  di  altri;  ma,  a  voler  parlare  di  tutti,  troppo  ci 
vorrebbe,  e  poi  non  ci  sarebbe  nò  il  bisogno  ne  1'  opportunità.  \d 
ogni  modo  bastano  questi  pochi,  che  in  effetto  sono  i  più  nominati, 
addarci  i  lineamenti  e  i  contorni  dello  svolgimento    lirico  nella  ge- 


*)  Roma  —  Forzarli,  1SS6. 


o 


<: 


o 
u 


-J 


o 
u 

S 

'-D 

U 


l»»;™«-.»aB!MWBOl.«B!!2*i-"   -jfe^..-      _!_-    'V^ 


455 


nerazione  sorta  tra  il  "50  e  il  "70.  Intanto  diamo  qui  di  passaggio 
un  brevissimo  elenco  di  altri  nomi:  Corrado  Corradini,  autore  di 
versi  eleganti,  di  pregiate  opere  critiche  e  di  applaudite  conferenze; 
Fernando  Fontana^  autore  del  Canto  dell'Odio,  scritto  in  risposta 
al  Canto  delV Amore  del  Carducci,  del  Convento,  ù.e\ie  Nuove  poesie, 
di  Hellenia  moderna ,  di  libretti  per  musica  e  ballo  e  di  note 
commedie  anche  in  dialetto;  Arturo  Colautti,  autore  di  versi  e  prose 
scintillanti  di  verve  ma  di  forme  troppo  audaci  e  bizzarre;  Giorgio 
Stia  velli  autore  del  Serraglio  e  di  Dogali:  Edouì-do  Boìier,  autore 
di  versi  e  prose  e  versioni  di  grave  ma  un  po'  troppo  rigido 
contenuto  forse  derivatogli  dalle  letterature  nordiche  in  cui  è 
molto  versato  ;  Guido  Menasci,  autore  di  notevoli  versi  italiani  e 
francesi  e  di  pregiate  opere  critiche  su  argomenti  di  letteratura  stra- 
niera; Angelo  Orvieto,  autore  della  Sposa  mistica  e  d'  altri  versi; 
Renato  Fucini,  autore  di  fresche  e  vive  poesie  dialettali  toscane; 
Gerolamo  Ragusa  -  Moleti,  autore  di  prose  e  versi  ricchi  di  fan- 
tasia e  di  originale  e  spesso  sbrigliata  invenzione;  Edmondo  De 
Amicis,  che  pur  non  uscendo  dalla  ridondante  sonorità  della  vec- 
chia abitudine  arcadica,  reca  qualche  volta  anche  nelle  rime  il 
colorito,  il  lume  e  il  sentimento  delle  bellissin^e  sue  prose;  e  in  fine 
a  dar  come  un  assaggio  de'  vari  e  curiosi  passaggi  che  fa  la  poesia 
recente  dall'  agile  vena  di  alcuni  buoni  o  mediocri  verseggiatori  al- 
l' imparaticcio  scolastico  od  accademico,  fra  vecchi  e  fra  giovani, 
fra  uomini  di  scienza  e  di  lettere,  fra  insegnanti,  giornalisti,  dram- 
maturghi, filologi  od  anche  pedagoghi,  eccone  qui  un'  altra  serqua: 
Achille  Torelli,  Francesco  Prudenzano,  Francesco  Trevisan,  Pier 
Enena  Guarniero,  RatfasUo  Giovagnoli,  Augusto  Berta,  Oscar  Pio, 
Cosimo  Bertacchi,  Mario  Pilo,  Ferruccio  P^izzatti,  Giuseppe  Finzi, 
Vincenzo  Morello,  Luigi  Conforti,  Ettore  Strinati,  Diego  Garoglio, 
Pietro  Mastri,  Luigi  Grilli,  Ettore  Sanfelice,  Nicola  Marchese,  Guido 
Chialvo,  Cesare  Ugo  Posocco  ecc.  ecc.  A  ripensare  un  po'  molti  e 
molti  versi  di  questi  verseggiatori  mi  rifiorisce  in  mente  la  nota 
terzina  dantesca  del  canto  XIII  dell'  Inferno: 

Non  fiondi  verdi,  ma  di  color  losco; 
Non  rami  schietti,  ma  nodosi  e  involti; 
Non  pomi  v'eran,  ma  stecchi  con  tosco. 

Ahimè!  —  E  pure  di  recente  due  egregi  scrittori,  l'uno  poeta  e 
critico  e  l'altro  poeta  e  romanziere,  Arturo  Graf  e  Luigi  Capuana, 
han  tenuto  a  battesimo  di  gloria  e  di  poesia  due  giovani,  Giovanni 
Cena  e  Antonio  rfa.'to  Porto.  Voglia  il  cielo  che  questo  battesimo  ci 
schiuda  alfine  fra  tante  steppe  un  rivolo  anche  tenue  di  poesia  vera 
e  non  artificiosa. 


456 


Ecco  intanto  un  ultimo  gruppo:  ò  un  gruppo  d'oscuri  clie  a  di- 
spetto di  tanta  [loesia  simbolica  e  saccente  e  grinzosa,  vo'  ricordare 
alla  flne  di  questo  mio  volume,  già  troppo  grosso  si  che  io  mi  di- 
lunghi a  presentare  molti  altri.  Son  essi  Auc/usf.o  Serena,  Guglielmo 
Capitelli.  Gaetano  Panhianco,  Giuseppe  Gigli  e  Vincenzo  Marano 
Attanasio,  i  quali  indicano  tendenze  o  leggerezze  diverse. 

Più  veramente  poeta  è  Augusto  Serena,  un  giovine  che  il  vario 
e  acutissimo  ingegno  esercita  largamente  cosi  nel  vasto  campo  della 
dottrina  filologica  e  critica  come  in  quello,  assai  piii  geniale  e  con- 
sentaneo alle  sue  facoltà,  della  poesia,  che  gli  si  move  agilissima  e 
fresca  da  ogni  contenuto  della  vita,  da  ogni  spiraglio  delle  impres- 
sioni affettive  e  delle  fantasticlie.  È  anch'  egli  uno  di  quelli  in  cui 
lo  studio  troppo  riflesso  della  critica  sperimentale  ed  erudita  nuoce 
assai  alle  potenze  creative  che  non  vogliono  esser  troppo,  lo  ripe- 
tiamo, tormentate  dallo  studio  e.  peggio,  dalla  ricerca  polverosa.  É 
autore  di  parecchi  saggi  critici  e  storici  ne' quali  porta  anche  un 
po'  della  sua  poesia  e  un  molto  vivido  lume  di  analisi  estetica,  come, 
per  citarne  alcuni,  le  illustrazioni  o  ricerche  sulla  nativa  Monte- 
belluna,  su  le  Rime  a  stampa  di  Francesco  Va7ino:zo  da  Voipago, 
sul  Parini.  su  Giuseppe  Revere  e  altrettanti  argomenti.  11  primo 
suo  libro  di  versi  è  quello  intitolato  Sogni  buoni,  a  cui  seguirono 
le  Epistole,  le  Rime  nuove,  le  Fantasie  vespertine;  e  da  per  tutto, 
in  ogni  argomento,  e  quasi  in  ogni  genere  di  lirica,  ei  mostra  faci- 
lità volubilità  varietà  d' ispirazione  e  di  vena,  e  a  un  tempo  un 
certo  tepore  di  forme  classiche  quasi  sempre  bene  assimilate.  A 
darne  in  complesso  e  assai  brevemente  un  più  determinato  e  im- 
parziale giudizio,  diremo  qui  ciò  che  qualche  anno  fa  scrivemmo 
altrove.  —  Il  Serena  ha  dalla  natura  e  dagli  studi  tutto  quello  che 
ci  vuole  a  essere  veramente  poeta:  dalla  natura,  la  pienezza  del 
canto,  la  ricca  vena  della  ispirazione,  la  pronta  e  viva  facilità  delle 
trovate;  e  dagli  studi,  la  spirale  movenza  e  fiessibilità  della  strofe, 
il  largo  possesso  delle  forme,  la  doviziosa  agilità  della  espressione. 
Tutto  questo,  s"  intende,  ne"  componimenti  migliori.  Ha  molto  im- 
parato da'  classici,  di  cui  rende  tra  linea  e  linea  anclie  quel  che 
non  è  bene  rinnovare:  ma  più  mostra  seguire  nel  movimento  della 
imagine,  e  meglio  nella  frase,  la  intluenza  i>otente  e  assorbente  del 
Carducci.  La  poesia  è  per  lui  talvolta,  com'  è  tendenza  di  anime 
assai  nobilmente  liriche,  una  tentatrice  pericolosa:  tutto  che  se  gli 
afìacci  alla  osservazione,  cosi  lo  sterile  o  il  minuto  come  il  grande 
e  il  molteplice,  cosi  la  vista  di  un  asino  come  quella  di  un  gabel- 
liere, ciò  insomma  che  nella  greggia  materia  del  vero  ha  o  non  ha 
la  essenza  virtuale  della  poesia  affine  al  suo  temperamento  sen- 
suale e  fantastico:  tutto  codesto  lo  move  non  di  rado  a  cercare  fuori 


u 


0-, 
D-i 
W 
C/i 

O 


w 
u 
u 

< 

o 


< 


AUGUSTO   SERENA 


457 


di  se  la  vena  del  canto,  clie  non  sempre  gli  spiccia  vergine  e  imme- 
diata. E  lo  noti,  qua  e  là,  in  certo  errar  di  parole  e  di  ritmi,  in 
certi  giri  levigati  di  emistichi,  in  certi  avvolgimenti  ambiziosi  di 
strotì  secondarie,  a  cui  talvolta  non  risponde  il  guizzo  della  idea. 
Ma  quando  trova  in  sé,  non  stuzzicata,  l'ala  della  ispirazione,  quando 
un  improvviso  aspetto  di  luoghi  gli  cercano  Tanima,  allora  egli  ha 
r  arte  forte,  e  fa  scorrere  ne"  versi  un  getto  d' immagini  e  un  volo 
di  fantasie  veramente  liriche.  Tutte  le  sue  poesie  son  la  rivelazione 
di  una  balda  gioventù  di  pensiero,  e  una  lieta  promessa  dell'  arte: 
l'autore  anche  tra  le  imperfezioni  mostra  il  progressivo  divenire 
dell'arte  sua  verso  una  più  spiccata  e  personale  fisonomia:  egli 
avanzando  sempre,  saprà  finalmente  raggiungerla.  Ma  forse  gli  è 
necessario  comprendere  in  più  brevi  spire  un  più  raccolto  raggio 
di  pensiero,  meglio  temperando  l'ardenza  del  sentimento  e  l'eccesso 
della  fantasia  colla  plastica  densità  delle  strofe  e  colla  forte  sobrietà 
della  linea. 

Ad  ogni  modo,  in  tanto  dilagare  di  barbarie  nuova,  il  Serena 
appartiene  al  solitario  manipolo  di  quei  pochi  che  intorno  alla  ro- 
vere carducciana  ci  fan  risentire  ancora,  su  1'  innesto  dell'  antico 
col  nuovo,  un'eco  sincera  dell'arte  sana  e  vigorosa. 

Il  conte  Guglielmo  Capitelli  è  forse  l'unico  esempio  in  Italia  di 
un  vecchio  burocratico  il  quale  è  anche  autore  di  ver.si,  e  di  versi 
non  volgari,  certo  migliori  di  quelli  manifatturati  da  tanti  facili 
istrioni  della  poesia  molto  più  noti  o  celebrati  di  lui.  Nato  in  Napoli 
da  Domenico,  giureconsulto  e  patriotta  venerando,  il  quale  nel  "48 
fu  presidente  del  Parlamento  napoletano,  continuò  degnamente  le 
più  belle  tradizioni  del  suo  casato;  e,  di  fatti,  nel  1860,  non  a  pena 
laureato  in  lettere  e  in  legge,  fu  parte  di  quel  manipolo  di  patrioti 
che  prepararono  nel  Mezzogiorno  il  risorgimento  nazionale;  e,  con- 
stituita  la  patria,  occupò  subito,  e  giovanissimo,  le  più  alte  e  am- 
bite cariche:  fu  prima  consigliere  comunale,  a  soli  22  anni,  indi 
Sindaco  di  Napoli  a  26,  e  a  32  Prefetto  del  Regno.  Di  diplomatici 
poeti  abbiamo  qualche  altro  esempio  in  Costantino  Nigra,  ma  di 
prefetti  nessuno  innanzi  o  dopo  il  Capitelli,  il  quale  rimane  in  questo, 
singolarissimo  esempio  in  Italia.  Tutt'i  suoi  versi  in  sul  finire  dello 
scorso  anno  ei  raccolse  in  un  elegantissimo  volume  (ed.  Le  Mounier) 
dal  doppio  titolo  Erato-Humana,  ma  essi  vennero  prima  già  editi 
in  altre  ediziopi  anch'  esse  eleganti:  segno  questo  che  le  cose  del 
Capitelli  son  lette  in  Italia;  ma  è  torto  della  critica  alta  l'aver  dis- 
simulata la  importanza  di  esse  su  cui  troppo  fugacemente  si  fermò  o 
non  si  fermò  affatto,  come  doveva.  E'  ancora  per  questo  ch'io  qui  amo 
darne  un  cenno  breve  ma  sufficiente.  Il  Capitelli  è  veramente  un 
poeta  dell'anima  e  del  sentimento:  è  un  poeta  della  vita  e  insieme 


458 


del  verso.  Questa  ricca  raccolta  di  canti  mostra  in  lui  più  qualità 
veramente  buone:  agilità  schietta  d'invenzione,  certo  garbo  e  certo 
profumo  di  eleganza  cosi  nella  parola  come  nel  pensiero,  gentilezza 
e  castigatezza  squisite  di  affetti  e  di  sensi,  onda  melodiosa  e  ridon- 
dante di  ritmo,  largo  cedevole  scorrente,  come  il  romoroso  e  vo- 
luttuoso eloquio  del  suo  popolo.  La  sua  i^oesia  in  generale  mi 
ricorda  quella,  un  po'  troppo  diffusa  un  po'  troppo  piena  e  anche 
un  po'  troppo  accademica,  de'  nostri  padri,  cioè  di  quelli  che,  tra 
la  scuola  e  la  rivoluzione  ,  levavano  alto  la  voce  contro  i  vecchi 
tiranni:  mi  ricorda  anche  quella  de'  nostri  padri  retori,  forse  un 
po'  più  orecchianti  che  artisti,  che  amavan  troppo  il  discorso  togato 
e  sonante  e  che  amavano  mostrarsi  in  dovizioso  e  quasi  regale  pa- 
ludamento. Sonava  troppo  quel  verso  come  suona  ti'oppo  il  verso 
del  Capitelli,  il  quale  però  non  di  rado  è  animato  da  un  vivo  soflio 
di  creazione  veramente  geniale.  Al  Capitelli  manca,  non  l'ingegno, 
ma  il  tempo  di  far  poesia  veramente  artista,  elaborata,  finita,-  ciò 
non  ostante  quella  che  ci  dà  è  naturalmente  vera,  schietta,  mor- 
morante, onde  la  venne  lodata  da  Matilde  Serao,  da  Rocco  De  Zerbi, 
da  Ruggero  Bonghi,  da  Felice  Cavallotti,  da  Giuseppe  Giacosa,  da 
Gabriele  D'  Annunzio,  da  Giovanni  Marradi,  da  Guido  Mazzoni,  da 
Tommaso  Cannizzaro,  da  iMario  Rapisardi.  Questi  nomi  mi  dispen- 
sano dal  dire  altro. 

Parliamo  ora  di  un  poeta  che  in  un  remoto  paese  degli  Abruzzi 
(Loreto  Aprutino  in  provincia  di  Teramo)  consacra  alle  muse  e  alla 
famiglia  l'animo  e  l'ingegno,  quasi  incurioso  del  gridio  assordante 
delle  cricche  letterarie  tanto  sollecite  di  lodi  venali  a  verseggiatori 
mediocri  od  impuri.  E  questi  Gaetano  Panhianco  ,  un  giovine  che 
sorti  da  natura  una  facile  vena  d' inspirazioni  e  di  fantasmi,  e  che 
con  esempio  non  certo  comune  ha  saputo  in  essi  infondere  una 
fresca  e  consolante  fragranza  di  affetti  intimi  e  dolci,  di  sensi  cor- 
diali e  delicati,  che  han  spesso  radice  ne'  puri  e  soavi  ricordi  di 
famiglia.  L'autore  fin  da'  primi  tentativi  mostra  buoni  studi  classici, 
de"  quali  non  è  orma  in  molti  de'  nostri  anche  lodati;  e  ci  è  con- 
forto il  venire  notando  come  1'  armonia  che  prima  procede  un  po' 
brusca  e  discorde,  sempre  più  acquisti  di  motivo  in  motivo  un'onda 
più  snella  e  corrente  di  ritmo;  e  come,  quanto  più  il  poeta  si  ap- 
pressi alle  scerete  gioie  domestiche,  più  libera  e  spesso  gemente 
gli  spicci  la  vena.  Ha  in  più  anni  pubblicato  i  seguenti  volumetti: 
Primi  versi;  Canti  lirici;  la  Amaritudine;  Cuor  di  padre;  Alcune 
elegie  di  Alhio  Tibullo  voltate  in  distici  italiani,  ecc.  —  Giova  integrar 
meglio  il  giudizio  intorno  a  tutta  1'  opera  lirica  di  lui.  Ecco:  egli  è 
nato  poeta,  cioè  ha  genialmente  sortito  da  natura  la  potenza  incon- 
scia di  trasfigurare  in  fantasma  il  reale  percepito,  ma  troppo  ei  si 


w 

H 
Cu 
< 
U 

o 


o 

D 


O 
U 

z 

< 
S 

< 

cu 
O 

<: 
< 


459 


piace  immergerlo  in  quell'onda  azz.urra,  sovrasensibile,  eterea  in  che 
lia  radice  il  fantastico  e  il  sentimentale;  il  perchè,  oltre  quello  che 
è  canto,  etere,  volo,  poco  avanza  alla  determinatezza  plastica,  intima, 
piena  della  rappresentazione  artist'ca.  E  quando  «li  viene  dal  naturale 
suo  la  facilità  di  quell'abbandono  e  di  quel  quasi  vellicamento  de' 
sensi  e  delle  facoltà,  verso  quella  plaga  superiore  entro  la  quale 
nuota  ed  annega  l'anima  umana  quando  è  vinta  dalla  dolce  infinita 
malia  de*  fantasmi,  ei  non  cura  l'ermar  con  V  arte  netto  e  distinto 
il  contorno  del  quadro. 

Onde  carezza  fantasie  per  enumerazion(!,  aspetti  e  scene  che 
s'inseguono  ratte,  linee  fuggenti,  profili  e  ombre  che  talora  appan- 
nano 0  scolorano  1"  unità  piena  d'  un  intimo  svolgimento.  Anche 
inchina  al  patetico,  anzi  è  questa  la  prima  radice  di  tutte  le  sue 
inspirazioni;  ma  non  osa  rendere  a  tratti  rapidi  e  bruschi  il  dolore 
che  sanguina,  sì  quello  che  gli  risponde  con  un  gemito  che  consoia, 
con  la  molle  voluttà  di  quel  sentimentale  che  è  come  un  soave 
strazio  di  che  1'  anima  struggendo  sé  stessa  troppo  si  piace:  a  lui 
ridono  sempre  le  lucide  linfe  onde  emergono  fantasie  soavi  che  son 
poi  singhiozzi  di  anime  in  pena,  ma  che  non  lasciano  durevole  come 
la  lusinga  di  quell'abbandono  ritmico  un  solco  profondo  nell'anima. 
Veramente  ei  qualche  volta  brancica  una  lama  luccicante  come  per 
insorgere,  ma  tosto  ritorna  al  suo  sospiro.  —  Nella  forma  è  sempre 
corretto  se  non  sempre  proprio  ed  elegante,  e,  all'infuori  di  alcuni 
spacchi  di  dizione  o  rotture  di  periodi  o  d'  incisi,  la  lingua  e  la 
sintassi  procedono  regolarmente,  né  mancano  qua  e  là  buone  prove 
di  coltura  classica,  che  non  dispiace  mai  quando  non  si  regge  sol- 
tanto su  poco  opportune  reminiscenze  o  poveri  trucioli  non  voluti 
lasciar  via  alla  relorica  pialla.  —  Ancora:  nello  stile  gli  è  forse 
necessario  infondere  qualche  varietà  per  liberarlo  da  ogni  monotonia: 
come  pure  certe  imagini  come  appiccicate  deono  dar  luogo  alla  de- 
terminatezza classica  della  linea  e  alla  compiuta  euritmia  delle  parti 
e  de'  contorni.  Ed  è  pure  desiderabile  che  alla  sua  tavolozza  si 
aggiunga  altro  colore,  il  color  vivo  e  risentito  eh'  è  una  parte  si 
larga  della  rappresentazione.  Ma  intanto  è  da  notare  fra  altre  qualità 
buone  quella  quasi  lusinga  mormorante  di  verso  che  scorre  pe'  tasti 
delle  ottave,  delle  quartine  e  di  altri  metri,  e  insieme  quello  spirito 
rinfrescatore  che  placido  e  melodioso  rende  in  più  luoghi  il  fremito 
interno  con  una  mentita  quiete  elegiaca,  che  finirà  di  piacere  inte- 
l'amente  ov'essa  verrà  di  tanto  in  tanto  variata  ma  non  turbata  da 
maggior  forza  di  sentimento.  E  una  consolante  serenità  e  certa 
blanda  melodia  di  strofe  è  il  pregio  maggiore  specialmente  degli 
ultimi  canti.  Questo  pregio  e  altri  molti  da  noi  detti,  e  specialmente 
quello  di  saper  maneggiare  con   maestria  i  metri  diversi  e  in  par- 


460 


ticolare  l'ottava  e  il  distico,  non  son  poca  cosa  nella  lirica  elegiaca 
di  Gaetano  Panbianco,  che  in  tutte  queste  sue  prove,  alle  quali 
certo  altre  seguiranno  di  gran  lunga  migliori,  ha  saputo  darci  un 
esempio  di  poesia,  sincera,  affettuosa,  di  vena,  e  in  più  luoghi  in- 
timamente e  originalmente  elegiaca,  quando  cioè  e'  rende  gli  affetti 
e  i  dolori  di  famiglia  come  pochissimi  de'  nostri  sanno:  una  poesia, 
ripeto,  nobile  e  sovente  inspirata,  che  l'arte  poi  saprà  senza  dubbio 
compiere  e  perfezionare. 

Giuseppe  Gigli  è  un  altro  giovine  che  con  un  vario  assortimento 
di  libri  —  poesie,  romanzi,  studi  di  critica  letteraria  e  storica,  con- 
ferenze, ecc. — ,  ci  ha  dato  finora  saggi  notevoli  0  abbastanza  lodati. 
Egli  è  soprattutto  un  aìitodidattico.  e,  di  fatti,  deve  a  sé  solo  e  alla 
costante  sua  operosità  tutto  quello  che  nel  corso  di  piii  anni  ha 
quasi  senza  interruzione  prodotto.  È  autore  di  piii  libri,  fra'  quali 
citiamo  i  seguenti:  Scrittori  manduriani:  Superstizioni,  pregiudizi 
e  tradizioni  in  terra  d." Otranto:  Atti  de'  solenni  parentali  di  Luigi 
avelli;  Rime:  Satana  innamorato:  Le  Sorelle,  romanzo.  Paolo 
Bourget,  che  fu  suo  ospite  nella  nativa  Manduria  (Lecce^,  lo  nomina 
e  loda  nelle  Sensations  d.' Italie.  Come  poeta,  egli  non  mostra  certo 
ne  originalità  nò  impeto  e  forza  d'imagini  e  di  sentimenti,  ma  piace 
tuttavia  per  un  che  di  tenero  e  di  voluttuoso  che  spira  ne'  tenui 
contorni  delle  sue  liriche  amorose  e  gentili:  gli  affetti  ha  puri  e 
carezzevolmente  soavi,  delicate  tutte  le  impressioni  della  natura 
che  a  lui  risponde  con  un  sorriso  blando  come  di  fanciulla  vereconda, 
pacata  la  invenzione  che  ha  piccoli  voli  ma  franchi  e  sicuri,  e  infine 
un  temperamento  mite,  affettuoso,  molle  0  quasi  femmineo.  E  con 
tutto  questo  ei  sa  rendere  con  molta  sincerità  e  con  candida  fre- 
schezza quel  breve  lembo  di  cielo  e  quell'ameno  angolo  di  terra  che 
meglio  arride  al  suo  cuore,  e  lo  rende  anche  con  trepido  abbandono 
dell'  anima,  con  accorato  sospiro,  con  vaghezza  d'  imagini  lievi  e 
sfumanti.  Ma  l'autore  pur  volle  cimentarsi  a  una  prova  assai  difficile 
col  Satana  innamorato  che  ricordo  esser  piaciuto  tanto  al  Barrili. 
Ma  non  mi  pare  gli  sia  veramente  riuscito  il  tentativo,  sia  perchè 
questo  eterno  prototipo  di  poesia  fu  già  da  troppi  insigni  poeti 
levato  alla  maggior  perfezione,  e  quindi  esaurito;  sia  perchè  manca 
alla  concezione  del  nostro  cosi  1'  epico  delle  forme  e  specialmente 
della  verseggiatura  sciolta  assai  manchevole  quando  non  addirittura 
prosastica,  come  la  sapiente  e  organica  mistura  tra  la  sostanza  leg- 
gendaria antica  e  quella  psicologica  contemporanea,  se  pur  da  essa 
potrà  mai  la  poesia  recente  derivare  il  meraviglioso  della  epopea 
antica.  Potrà  il  Gigli  esercitare  l' ingegno  suo  nel  genere  lirico  e 
specialmente  nell'  elegiaco,  come  spesso  ha  fatto  non  senza  alcun 
vantaggio  delle  facoltà  sue  e  dell'arte. 


461 


Nominiamo  in  fine  Vincenzo  Mai-ano  Attanasio  che  mi  piace 
presentare  a'  lettori  anche  per  alcune  doti  veramente  caratteristiche 
o  curiose.  È  un  siciliano  di  precoce  e  versatile  operosità.  Nato  in 
Acireale  nel  1872,  ben  presto  ei  volse  1"  animo  e  1"  ingegno  a  più 
cose  diverse,  onde  riuscì  insieme  giornalista,  polemista,  poeta,  no- 
velliere ,  romanziere.  A  18  anni  diresse  in  Acireale  un  vecchio 
giornale  settimanale,  politico  e  amministrativo,  X«  Patria:  a  venti, 
pubblicò  un  primo  volume  di  versi.  Foglie  appassite:  nel  1894  ritornò 
al  giornalismo,  suo  primo  amore,  dirigendo  una  rivista  quindicinale 
di  lettere  ed  arti,  dal  titolo  Pensiero  ed  arte;  ne'  primi  del  ""95 
ritornò  poeta,  e  pubblicò  in  R,oma  un  secondo  volume  di  versi. 
Fiori  sparsi;  tra  il  "96  e  il  '"97  diresse  il  «  Corriere  della  Domenica  », 
periodico  settimanale  illustrato  della  casa  Ferino;  nel  "97  cominciò 
romanziere  con  un  romanzo  psicologico  illustrato,  dal  titolo  Perduto; 
nel  "98  pubblicò  un  terzo  volume  di  versi ,  Istantanee,  e  da  tre 
anni  dirige  in  Roma  II  Gran  Mondo,  una  bella  rivista  mondana, 
illustrata  a  colori:  nel  l"  giugno  1899,  come  a  premio  di  tante  fatiche, 
fu  insignito  della  onorificenza  di  Cavaliere  della  Corona,  d'  Italia. 
È  questo  un  vero  inventario  di  pubblicazioni  le  quali  provano  a 
Ijunlo  quella  precoce  versatilità  di  cui  dissi  più  innanzi,  congiunta 
a  quella  esuberante  pienezza  dell'indole  meridionale  ma  più  special- 
mente siciliana,  forza  e  difetto  di  tutte  le  cose  sue. 

Il  nostro  autore,  sia  dal  giornalismo  che  tanto  seduce  Tanimo 
e  turba  l'ingegno  de"  giovani,  sia  dalla  celerità  del  molteplice  lavoro, 
trasse  una  certa  incuria  dello  scrivere  e  del  concepire,  incuria  che 
egli  ha  comune  con  quasi  tutti  gli  scrittori  giovanissimi.  Non  che 
gli  manchi  la  preparazione  che  nelle  sue  prose  particolarmente  mi 
semVjra  assai  buona,  ma  la  temperante  pazienza  del  correggere  e 
dell"  aspettare:  lo  studio  costante  della  lima  insomma  e  quello  de" 
più  sani  modelli  non  mi  pare  che  lo  guidino  sempre  alla  perfezione; 
egli,  dunque,  ha  vaghezza  di  far  presto  e  di  far  troppo.  Ed  è  peccato, 
poiché  trovo  nelle  sue  composizioni  tant'  agilità  di  pensiero,  tanta 
freschezza  d'inspirazioni,  tanti  tratti  di  vera  arte,  che  potrebbe 
riuscir  meglio  di  molti  a  trovar  bene  la  sua  via  e  a  superarla,  non 
di  scorcio  0  a  salti,  ma  con  lena  vigorosa  e  con  sobria  misura  degli 
effetti  più  durevolmente  artistici.  La  fantasia  egli  ha  veramente 
poco  fulgida  e  calda;  non  ricca  la  vena,  ne  sempre  immediata;  non 
agile  r  ispirazione  ,  né  varia  ;  non  piena  1'  armonia  ,  ne  colorita  e 
raccolta.  Il  contenuto  è  tenue ,  troppo  tenue  forse  ;  la  passione  è 
sincera,  ma  senza  impeti:  ha  invece  una  semplicità  di  linea  e  una 
limpidezza  d' imagini  che  non  è  di  tutti:  spesso  rivela  qualche  tic 
di  originalità,  con  la  prontezza  delle  trovate  e  la  purezza  del  motivo.' 
ha  infine  più  d'una  volta  la  parsimonia  della  elocuzione  e  la  euritmia 


462 


del  disegno:  non  ambizione,  non  avventataggine,  non  ricercatezza 
di  parole,  di  colori,  di  numero.  Così  la  sua  poesia  come  la  sua  prosa 
non  hanno,  si  può  dire,  sentore  di  artificio  e  di  nebulosità;  e  questo, 
oggi,  è  un  pregio  assai  notevole  ne'  giovani.  Non  so  veramente  se 
il  novo  ufficio  che  ha  nel  Ministero  delle  Poste  gli  possa  concedere 
ozi  suillcienti  a  far  dell'arte;  certo  è  dotato  di  un'  attività  maravi- 
gliosa,  onde  potrà  di  leggieri  correggersi,  allargarsi,  tentare,  riuscire: 
noi  lo  auguriamo  a  lui  e  insieme  all'arte. 

Questi  gli  oscuri,  che  fin  da  principio  ho  nominato  cosi  perchè 
non  sono  messi  troppo  in  vista  da'  clamori  della  piazza,  e  di  cui, 
senza  far  torto  a  tanti  miglioi'i  già  ricordati  da  altri  ,  ho  voluto 
dare  qui  un  piccolo  ricordo,  poiché  è  pur  debito  del  critico  trarre 
al  sole  pur  tra'  ginepri  di  un  campo  selvatico  0  incolto  qual- 
che margheritina  degna  di  appartenere  alla  ricca  ghirlanda  della 
bellezza. 


Già  vedemmo  che  dal  '30  al  '70  le  tre  forme ,  la  classica,  la 
romantica  mista  e  la  romantica  patriottica,  influirono  su  1'  animo 
e  sulle  facoltà  della  precedente  generazione;  anzi  spesso  si  mesco- 
larono insieme,  e,  pur  attirando  ciascuna  entro  il  nativo  confine  i 
poeti  disposti  più  all'una  che  all'altra  forma,  riescirono  a  comporre 
un  quasi  eteroclito  individualismo  poetico.  Onde  tutti  sono  sempre 
un  po'  pagani,  un  po'  classici,  un  po'  rossettiani,  un  po'  pratiani, 
un  po'  manzoniani,  e  cosi  via.  In  nessuno  di  essi  spicca  limpida  e 
distinta  un'  evoluzione  organica:  accolsero  di  qua,  raccattarono  di 
là,  e  diedero  primi  1'  esempio  di  quello  che  può  essere  una  poesia 
senza  un  sicuro  e  concorde  indirizzo  d'arte  e  di  scuola. 

E  questo  esempio  è  pur  quello  che  ha  imitatori  in  quasi  tutti  i 
poeti  della  seconda  generazione,  i  quali,  appunto  perchè  liberi  di 
sé,  guastano  e  dilagano  anarchicamente,  secondo  1'  umore  e  il  ca- 
priccio, tutte  le  forme  e  tutti  i  generi;  ma ,  ali  'infuori  dell'  eletto 
manipolo  carducciano, scrivono  senza  nessun  freno  d'arte  e  senza  nes- 
suna educazione  letteraria.  Forse  avremo  colla  fine  del  secolo  anche 
la  fine  de'  tre  scadimenti:  il  classico,  il  romantico  misto  e  il  roman- 
tico patriottico;  e  su  le  loro  ceneri  è  bene  almeno  augurarsi  rimanga 
l'ultimo  e  definitivo  svolgimento  della  lirica  carducciana  e  della  re- 
lativa scuola,  ma  con  più  aereata  semplicità  ed  unità  di  forme,  con 
maggiore  e  decisiva  concordia  d'indirizzo,  con  quella  sofrosine  clas- 
sica cKò,  come  dice  il  Carducci,  non  pure  presentimento ,  nato  do, 
asinità,  del  hello  classico,  ina  vera  affinità  elettiva  con  quello  spirito 


463 


d'intelligente  e  discreta  lìroporzione  in  tutte  le  cose  che  è  l'essenza 
fondamentale  di  esso  bello.  (')  Altrove  il  medesimo  critico  scrive: 
Ella  (l'Italia)  sarebbe  chiaìuata  a  trovare  la  sofrosine  classica  delle 
letterature  surte  e  rinnovate  dalla  rivoluzione  (**).  E  in  questa  com- 
piuta forma  organica  definitiva  speriamo  di  veder  riflessa  la  più  alta 
lirica  dell'avvenire,  compenetrata  di  tutte  le  passioni  e  di  tutte  le 
idealità  presenti. 


(*)  Carducci.  Discor;i  letterari  e  storici,  p.  114.  Bologna,   Zanichelli,  1889. 
(")    Id.  Opera  citata,  p.  318. 


INDICE  DE'  CAPII  OLI 


Dedica Pag.  5 

Ai  lettori »    VII-XVI 

LIBRO    I. 

Cap.  I.  —  Proso,  contemporanea    (Prima  com- 

posizione, anno  1885;  ultima  pub- 
blicazione nella  rivista  Lettere  ed 
Arti  di  Bologna,  anno  II.  n.  40. 
18  ottobre  1890         ....    Pag.      8-17 

»  II.  —  Per  l'avvenire  del  Teatro  Nazionale 

(pubb.  nella  Scena  Illustrata  di  Fi- 
renze, anno  xxviii,  n.  23,,  1.  decem- 
bre  1892)     .        ,        .        .        .        .        »       18-26 

»  III.  —  Novelle  [(Prima  composizione,  anno 

1880;  ricorretta  e  pubblicata  nella 
Napoli  Letterario,  del  15  maggio 
1887,  n.  19,  anno  iv.  (nuova  serie)]        »       27  -  35 

»  IV.  —  L'Arte  ninore  (Prima  composizione, 
anno  1880;  rifatta  e  pubblicata  nella 
Scena  Illustrata,  anno  xxxi  num.  4, 
15  febb.  1895) »       36-42 

»  V.  —  Lingua    corrente  e  letteratura  sta- 

gnante (  Pubb.  nella  Rassegno, 
Scolastica  di  Firenze,  anno  ii,  fase. 
VI,  16  dicembre  1896)       .        .        .        »       43-48 

»  VI.  —  Vecchi  e  novi  retori.  —  I  prodighi 
e  gli  avari-  (Imparaticcio  del  1877, 
ricorretto  e  pubb.  nella  Scena,  Illu- 
strata, anno  xxix  num.  3,  1.  febb. 
1893) »      49-51 

*  VII.  —  Alla,  ricerca  de'  novi  microbi  colerici 

(Imparaticcio  del  1878,  ricorretto  e 
pubblicato  nella  Scena  Illustrata, 
anno  XXIX,  num.  2,  15  gennaio  1893)        »       52-56 


466 


Cap.  Vili.  —  Sta lìi'pa  periodica  (Dal  giornale  Sbe, 
che  si  pubblicava  a  Loreto- Apru- 
tino\  anno  1.  1  giugno  1896)  .        .    Pag.    57-63 

>  IX.  —  Del  metodo  storico  -  evolutivo   nella 

Critica  Letteraria  (Dalla  Rivista  di 
Filosofìa  Scientifica  di  Milano  , 
anno  vi,  voi.  vi,  gennaio  1887).    .        »       64-87 

».  X.  —  E'  morta,  o  è  viva?  (Dalla  Rassegna 
Scolastica,  anno  2,  fase,  xa^ii,  16 
giugno  1897  ) »       88-92 

s>  XI.  —  Letteratura   Domenicale  —  Ricordi 

di  un  brontolone  (Dalla  Scena  Il- 
lustrata, fascicoli  del  1.  e  15  agosto 
e  del  1.  sett.  del  1892)    ...»       93-116 

s>  XII.  —  U  Reale  nell'Arte  (Dal  Pensiero  Ita- 
liano di  Milano,  anno  vii,  aprile 
1897) »      117-132 

LIBRO    II. 

»  XIII.  —  L'  ultimo    romando    del    Gnerrazti 

(Prima  composizione,  anno  1886; 
prima  pubb.  nel  Pensiero  de'  gio- 
vani di  Campobasso,  anno  ni,  nu- 
mero 5,  16  aprile  1888)  ...»       133-139 

j>  XIV.  —  Dalle  Juvenilia  alle  Terze  Odi  Bar- 

bare {Fvhmmento  di  un  lungo  studio 
accomodato  poi  con  più  ritocchi  ed 
emendamenti  per  un  articolo  ve- 
nuto la  prima  volta  in  luce  nella 
Vita  \uova  di  Firenze,  anno  ii, 
n-  23,  8  giugno  1890)      ...»        140-148 

»  XV.  —  Rime  Nuove  { Composto    su    vecchi 

materiali  il  1881,  ma  poi  rifatto  e 
pubblicato  nel  Pensiero  de'  giovani 
anno  ii.  n.  15,  7  agosto  1887)        .        »       149-162: 

»  XVI.  —   Vita  di  Giosuè  Carducci  (  Fu  com- 

p('Sta  espressamente  pel  volume  il 
gennaio  del  1900)    ....        »       163-197 

»  XVII.  —  La  (T?<e)Ta  (Prima  pubblicazione  nel 
Bios  di  Napoli,  anno  ii,  n.  17,  21 
febbraio  1892 »       198-205- 

»        XVIIl.  —  La  chiesa  di  Polenta    (  Dalla  Scena 


467 


Illustrata,  anno  xxxiii,  n.  22, 15  no- 
vembre 1897) Pag.     206-212 

€ap.        XIX.  —  Rime  e  Ritmi  {Bciììa.  Scena  Illustrata, 

anno  xxv,  n.  8,  15  aprile  1899)      .        »       213-223 

»  XX.  —  Le  Opere  definitive  di  Giosuè  Car- 

ducci -  Volumi  ir,  IH  e  iv  (Dalla 
Vita  Nuova  di  Firenze,  anno  11, 
n.  14,  6  aprile  1890)        ...»       224-234 

»  XXI.  —  Ferdinando  3/ar^wn  -  Biografia  (In 
parte  inedita  e  in  parte  pubblicata 
nel  Dizionario  ili.  di  Pedagogia; 
ed.  Vallardi) »       235-244 

»  XXII.  —  Giovanni  Marradi  (Prima  composi- 
zione, nel  1892;  ultima  composi- 
zione definitiva  pubblicata  neir-4- 
spasia  di  Bari,  I.  e  16  novem- 
bre 1899)  .        .        .        .        .        .        »       245-255 

»  XXIII.  —  0  rinnovarsi,  0  morire  (  In  parte 
nella  Scena  Illustrata,  num.  4,  15 
febbraio  1892;  e  in  parte  nel  Bios 
di  Napoli,  num.  8,  28  febb.  1892)        »       266-274 

»  XXIV.  —  L' Innocente  (Dalla  Scena  Illustrata 
anno  xxviii,  n.  13-14,  1-15  luglio 
1892) »       279-283 

»  XXV.  —  La  Città  morta  (  Dalla  Scena  Il- 
lustrata, anno  xxxiv  (  n.  61  ),  15 
mar/o  1898) »       284-287 

»  XXVI.  —  La  Gioconda  (  Dalla  Scena  Illu- 
strata, 1.  febbraio  1899)        .        .        »       288-292 

»  XXVII.  —  Luigi  Pinelli  (  Dal  «  Pensiero  Ita- 
liano »  voi.  XX,  anno  vii,  maggio 
1897  ) »       293-306 

»  XXVIIl.  —  Padre  Agostino  da  Montefeltro  — 
(Prima  composizione,  nell'anno 
1891;  prima  pubblicazione,  nella 
Scena  del  1.  aprile  1893)        .        .        »      307-313 

»  XXIX.  —  Domenico  Milelli  —  (  Dalla  rivista 
«  Scienza  e  Diletto  »  di  Cerignola, 
24  dicembre  1899)  ...»       314-320 

»  XXX.  —  Angelo  Sommaruga,  Ricordi  d'Arte, 
(Dalla  Scena  Illustrata  del  15  marzo 
1893,  anno  xxix,  num.  num.  6)  .        »       320A-H 


468 


LIBRO    III. 

Quelli  che  furono. 

Capitolo  I.  —  Rugtjiero  Bongln  (  Dal  Diritto  di 
Roma,  anno  lxii,  n.  317-18,  13-14 
novembre  1895)       ....    Pag.     323-333 

»  II.  —  Giacomo  Zanella  (DàìVA-pìdia  di  San 

Severo,  27  maggio  1888         .        .        »       334-336 

5>  III.  —  Felice    Cavallotti    (  Dal    Foglietto    di 

Lucerà,  n.  12,  13  marzo  1898)      .        »       337-340 

»  IV.  —  Gaetano  Trezza  (  Dal  periodico  Ebe 

(li  Loreto  Aprutino,  anno  i,  num.  3 
1.  luglio  1896:  fu  però  coinposto  il 
il  29  ottobre  1892)  ....        »       341-346 

»  V.  —  Pietro  Siciliani  (DaAVAvvenire  edu- 

cativo di  Palermo,    15    nov.    1888;  ' 

ed.  R.  Sandron)      ....        »       347-350 

»  VI.  —  Andrea  AngiuUi  (DM' Avrenire  edu- 

cativo, ecc,  15  otiobre  1890)  .        »       351-357 

»  VII.  —  Diego  Vitrioli  (Dalla  Biblioteca  delle 
Scuole  Italiane,  dir.  Pinzi,  Verona, 
16  giugno  1890)       ....        »        358-362 

»  VIII.  —  Enrico  Nencioni  (  Dalla  scena  Illu- 
strata, 15  settembre  1896        .        .        »       363-368 

»  IX.  —  Michele  Lessona  (Dalla  Scena  Illu- 

strata, 15  settembre  1894)     .        .        »       369-373 

»  X.  —  Pietro  Sbarbaro  (Dalla    Tavola    Ro- 

tonda di  Napoli,  25  decembre  "93- 
1.  gennaio  "94}       ....        »       374-378 

LIBRO   IV. 

Capitolo  I.  —  La  donna  nella  musica  e  nella  poe- 
sia (Fu  prima  una  breve  confe- 
renza pubblicata  dalla  Scena  Illu- 
strata del  1.  ottobre  1896;  ma  con 
molti  ritocchi  e  con  aggiunte  il 
lavoro  è  stato  quasi  interamente 
rifatto  per  questo  volume)  .  .  »  381-391 
»  II.  —  Le  tradizioni   classiche   nella  prosa 

de'  critici  contemporanei  (  Questo 
studio,  qui  in   gran    parte  rifatto, 


469 


venne  prima  in  luce,  sotto  il  titolo 
«  Critici  e  prosatori  »,  nel  Pensiero 
Italiano  di  Milano,  fascicoli  xix  e 
XX  (luglio-agosto  1882;  ma  la  pri- 
ma composizione  risale  al  1880)  .  Pag.  392-407 
Capitolo  III.  —  L'Arte  della  prosa  nella  filologia  e 
nella  critica  contemporanea  (Questo 
e  i  seguenti  studi  furono  espres- 
samente composti  0  rimaneggiati 
pel  volume,  e  l'assoluta  mancanza 
di  spazio  e  di  tempo  ha  impedito 
all'  autore  di  far  quello  che  pure 
avrebbe  potuto  e  voluto)  .  .  »  408-416 
»  IV.  —  L'Arte  della  Prosa  nel  bozzetto,  nella 

novella  e  nel  roìuanzo  ...»       417-418 
»  V.  —  Filosofi  e  prosatori  .        .        .        .        r>       429-437 

»  VI.  —  La  lirica    di    due   generazioni    nel 

secolo  che  muore  (Fu  solo  in  parte 
pubblicato  dalla  Scena  Illustrata 
ne'  fascicoli  del  1  febbr.-15  marzo 
1896:  vien  qui  ripubblicato  con 
molti  emendamenti  e  con  moltis- 
sime aggiunte)        ....       »       438-463 


■iliH 


PLEASE  DO  NOT  REMOVE 
CARDS  OR  SLIPS  FROM  THIS  POCKET 

UNIVERSITY  OF  TORONTO  LIBRARY 


BRIEF 

0009942 


mm: