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CAUTION
Do not write in this hook or mark it with
pen or pencil. Penalties are imposed by the
Revised Laws of the Commonwcialth of Mas-
sachusetts, Chapter 208, Section 83.
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ÀfUiìQ
FORM NO fin<l
(\(k,cie«^)l(x, (U. I a.vt)^ "Vwrc^o^
DEI MIGLIORI FAVOLISTI ITALIANI
A»? USO DI COLORO CHE IMPARANO T>A LINGUA,
Da PIETRO BACHI,
PRECETTORE NELL' UNIVERSITÀ HARVAROIA.NÌ
•» ••» -• ••»
" Dafn'e:^ libèlli ùos ^CT (lubd riduft»\noreì, "
Et quod pnjwlo.nti vitcm corsi'iojnonet."
Phjcor
BOSTON. ^
PRESSO LILLY, WAIT, COLMAN, E HOLDEW
M DCCC XXXV,
Entered according io the Act of Congress, in the year 1S35,
By PIETRO BACHI,
in the Clerk/s Office of the District Court of the Districi of Maasa
chusetta
AVVERTIMENTO.
Gl' Italiani, che nel trecento producevano
già capi-lavori, mentrechè le altre nazioni
sapevano appena leggere ; che nel cinque-
cento erano ricchissimi di Novelle dettate
con aureo stile, e traducevano Esopo in prosa e
scrivevano versi bellissimi ; prima del sette-
cento, quando la Francia vantava un ottimo
Favolista, non avevano avuto chi nella loro lin-
gua scrivesse lodevolmente Favole, e special-
mente in versi.
La fama sparsa in tutta V Europa delle Favole
del La Fontaine, eccitò i poeti Italiani moderni
a voler riempire, per dir cosi, questa lacuna
lasciata dagli antichi nella loro letteratura.
Quindi sorsero i Crudeli, i Roberti, i Passeroni,
i Pignotti, i Bertela, e tanti altri ; i quali, per
la naturalezza dello stile, per la saviezza della
morale, per la leggiadria delle immagini, e per
la loro classica ingenuità, si resero degnissimi
AVVRRTIMENTO.
di essere collocati coi miglioii Favolisti delle
altre nazioni.
Dalle loro opere sono state principalmente
tratte le seguenti Favole : le quali, quantunque
direttamente destinate a coloro che imparano
la lingua, non riusciranno men care agli ama-
tori della letteratura Italiana, e ad ogni eulta
e brillante persona-
Nota.— Alcune Favole m prosa sono lìprodotte nella scionàa
jjarte della seguente Raccolta, art oggetto di facilitare ai principi
anti l'intelligenza del verso. Queste, eh' ei tradurranno' le prim<^
nella secondo parte, e dopo di averle rilette in prosa, si trovano »*!)'
Indice in cartUtiri corsivi.
i
PARTE PRIMA
FAVOLE IN PROSA
La Favola è un componimento originale, anzi unico, nel quale la filosofia, e
la poesia sembrano esser convenute insieme per formar un innesto prezioso di
follia e di sapienza, di fole e di verità, per istruire trastullando il gran bam-
boccio dell' uomo ; correggere quella serpe dell' amor proprio senza irritarla ; e
dar infine la ragione agli animali, per insegnarla a quelli che so ne credono i
proprietarj. Cesarotti. — Sag^o sugli Studj.
RACCOLTA DI FAVOLE MORALI
PARTE I.
FAVOLE IN PROSA.
FAVOLA I.
Il Cane Avido,
Un Cane passava un fiume a nuòto, portando in
bócca un pèzzo di carne. Vedendo nell' acqua la
sua immàgine, credette che vi fòsse un altro Cane
con altro pèzzo di carne. Per 1' ingordigia di ra-
pirglielo aprì la bócca, e, lasciando intanto cadére
quél che aveva, rimase privo dell' uno e dell' altro.
Non siate mài tròppo àvidi, e ricordatevi del
provèrbio : " Chi troppo vuole niènte ha^\
FAVOLA IL
La Cerva,
Cieca d' un òcchio pascolava una Cerva sul lito
del mare. Teneva 1' òcchio sano rivòlto alla parte
4 FAVOLE MORALI.
di tèrra, dónde temeva le insidie de' Cacciatóri, e
1' altro vèrso il mare, di cui non temeva. Passarono
a caso de' naviganti, e, adocchiatala ben bène, la
trafissero con un dardo. Quella morèndo si lagnava
dèlia sua sórte, e diceva : *^ Misera me ! che la dis-
gràzia mi venne addòsso di là dónde non V aspet-
tava^'.
FAVOLA III.
Il Ladro, e il Cane,
[La stessa in Versi ; Parte Seconda, Fav. III.]
Un Ladro, volendo rubare di nòtte in una casa,
gettò al Cane, che vi èra di guàrdia, del pane,
perchè stèsse zitto. Ma il Cane : " T' inganni",
disse, " amico, se speri con ciò di chiùdermi la bóc-
ca", e si póse ad abbaiare immantinènte per mòdo
che il Ladro dovè fuggirsene precipitóso.
Imparate dal Cane a non lasciarvi mài allettare
da chi vi offre regali, perchè manchiate al vòstro
dovére.
FAVOLA IV.
// Cerbiatto, e il Cèrvo.
Il Cerbiatto un giórno disse al Cèrvo : '' Padre
tu sé' più grande, e più velóce de' cani: tu inalberi
dèlie corna supèrbe, e puoi vendicarti con èsse.
Perchè adunque gli tèmi così?" Ed égli ridendo :
"Tu dici bène mio caro figlio; ma so bène altresì,
PARTE PRIMA.
che appéna sentito 1' abbaiare de' cani, mi prènde,
non so còme, tanta paura, che sono spinto alla
fuga".
Chi è tìmido per natura difficilmente guarisce.
FAVOLA V.
// Ragno, e la Róndine.
Un Ragno che in vasta soffitta si teneva aver
diritto esclusivo di còglier le mósche, s' ebbe a male
che una Róndine facesse altrettanto ; e, per farsene
rènder cónto, tése una fòrte réte attravèrso quella
finèstra, per cui èssa sovènte entrava ed usciva, af-
finchè v' incappasse e restasse prèsa. Dòpo non
mólto la Róndine di pièno vólo passa per la finèstra,
e tira séco per 1' ària la ragnatèlla ed il Ragno.
Mài non è per tornarvi a cónto V attaccar briga
con uno pia fòrte di voi.
FAVOLA VL
La Rana, e il Bue.
[La stessa in Versi ; Parte Seconda, Fav. VI.]
Una Rana vide un Bue, che pascolava in un
prato, e pùnta da invidia volle cercare di eguagliar-
lo ; cominciò dùnque a gonfiarsi, e domandò a'
ranòcchi suoi figli, chi fòsse maggióre. Essi rispó-
sero : '^ Il Bue". Da ciò irritata seguitò a gonfiarsi
1*
6 FAVOLE MORALI.
con maggior fòrza, ma sèmpre indarno. Ostinata
volle continuar tuttavia ; ma alla fine scoppiò.
Guardai evi dall' invìdia, e dalla presunzióne di
voler uguagliare chi è pia grande, o pia potènte di
vói.
FAVOLA VII.
La Lùcciola, e il Vermicèllo.
"Non ho io", diceva ad alta vóce una Lùcciola,
" quésto fòco di diètro che risplènde ? Ora che fo io
qui in tèrra ? Perchè non vólo sulle sfere a ruotare
quésti miei nobilissimi ràggi dal levante al ponènte,
ed a formare una nuòva stélla fra 1' altre mie sorèlle
del cielo ?" — " Amica", le disse un Vermicèllo, che
udì i suoi vantaménti, " finche con quél tuo splèndi-
do focherèllo stài fra le zanzare e le farfalle, verrai
onorata; ma se sali dóve tu di', sarai nulla".
Quésta favolétta aramonìsca me, e mólti altri.
FAVOLA vili.
Il Cane di Campagna, e i Cani dèlia Città,
Un Cane di campagna venuto col suo padróne
alla città, non appéna fu sul mercato, che mólti
Cani, méssisi ad abbaiare, gli córsero cóntro. Ei
si póse a fuggire ; e quésti tanto più lo inseguivano.
Finalménte, stanco di quésto giuoco, si fermò risolù-
PARTE PRIMA. 7
to, e digrignando i dènti, si fé' vedére adirato. Al-
lóra niùno de' Cani, che con tanto ardór lo incalza-
vano, osò più avvicinàrglisi.
Dice bène il provèrbio : A Càn che fugge ognuno
grida: ''Dagli! dagli V
FAVOLA IX.
Lo Sparvière, e V Uccellatóre.
[La stessa in Versi ; Parte Seconda, Fav. IX.]
Neil' impeto d' incalzare una colómba, incappa
lo Sparvière nelle réti d' un Uccellatóre. Veden-
dosi a mal partito, adópra tutta la sua eloquènza per
ottener d' èsser lasciato in libertà. Tra le altre
ragióni gli dice, di non aver égli mài fatto a lui alcun
male. — '^ Sarà véro", rispóse quésti, '^ ma neppùr
la colómba, che or óra perseguitavi per isbranàrla,
non ti aveva offéso giammài".
Chi fa male, male aspètti.
FAVOLA X.
// Cièco, e lo Stòrpio.
Un Cièco trovò uno Stòrpio, e lo pregò a volérgli
servire di guida. — '' Io il farei volentièri", rispóse lo
Stòrpio, ' ma non mi posso règgere in piedi. Fac-
ciàm così ; tu pòrtami, ed io ti verrò insegnando la
strada : cosi a te verranno i miei òcchi, a me le tue
gambe". Il Cièco accettò il partito, e si tòlse lo
8 FAVOLE MORALI.
Stòrpio sulle spalle : in quésto mòdo ciò che diviso
èra inùtile all' uno e all' altro, unito insième divenne
ùtile a tutti e due.
Allo stésso mòdo dobbiamo nói pure aiutarci
V un V altro, e farci del bène, dóve possiamo,
scambievolmente.
FAVOLA XL
E Lupo e la Vólpe in giudìzio y innanzi alla Scimia.
Il Lupo accusava la Vólpe d' avergli rubata non
so che còsa, e la Vólpe negava. Scélsero la Scimia
per giùdice. Quésta, dòpo aver udite le ragióni di
ambidùe, rispòse : ^' Io crederei volentieri che tu, o
Lupo, non abbi perduto quél che pretèndi, e che tu,
o Vólpe, abbi rubato benissimo quello che nèghi".
Volle con ciò la Scimia far intèndere, che non sapeva
crédere ne all' uno né all' altro, perchè amendùe
èrano sòliti a mentire.
Guardatevi dal dir bugìe : chi è trovato in bugìa
una vòlta, non è pili creduto, nemméno quando dice
la verità.
FAVOLA XIL
// Fanciullo, e i Pastóri.
[La stessa in Versi ; Parte Seconda, Fav, XIL]
Un Fanciullo per passar 1' òzio, méntre pasceva
le pècore, gridava talora sènza motivo : "Al lupo ! al
PARTE PRIMA. 9
lupo !" I Pastóri, che 1' udivano, accorrevano in di
lui soccórso ; e con tal vézzo égli se la spassava
qualche tèmpo con èssi. Ma che ? Una vòlta, che
fu davvéro assalita la sua greggia dal lupo, non gli
valse pùnto il gridare, perchè quelli che 1' udirono,
credendola la sòlita bèffa, non si mossero pùnto.
Sicché ebbe il lupo tutto 1' àgio di portarsi via un
agnèllo.
Di là r imprudènte Fanciullo potè imparare, che
non 5' hanno a dir bugie neppùr per ischérzo.
FAVOLA XIII.
Z*' Asino, il Leone, e il Gallo.
Un Asino stava tranquillamente sdraiato in un
campo, quando un Leone venne per divorarlo. Ma
essendosi un Gallo, che a caso trovàvasi lì vicino,
mésso a cantare, il Leone, non potendo per natura
soffrire quél càntO; si mise a fuggire. L' Asino da
sciòcco credendo che il Leone avesse timor di lui,
incominciò ad inseguirlo, ed a ragliare con tutte le
fòrze. Ma quando il Leone fu tanto lontano che
non poteva sentir più il Gallo, si volse indiètro, e
spiccatosi sull' Asino, lo sbranò.
Allóra 1' Asino morèndo disse : '' Oh ! stólto che
sono! La mia asinità mi dà la mòrte^\
10 FAVOLE MORALI.
FAVOLA XIV.
Il Gatto, e i Tòpi.
In certa casa èrano mólti Tòpi. Un Gatto venne
a saperlo, e s' avviò colà. Ne attrappàva mólti
ogniddì, e bellamente se li mangiava. I Tòpi allóra
vedendosi alle strétte, fecero consiglio, e dissero tra
lóro : '^ Non iscendiàmo giù dal tétto, che altriménti
morremmo tutti : perchè se il Gatto non può venire
quassù, nói vivremo in luògo di sicurézza". Il Gatto,
che vide cangiata la scèna, pensò di gabbarli per via
d' inganno. Salì dùnque sur una piccola trave, e di là
si calò giù penzolóne, fingendo il mòrto. Allóra un
vècchio de' Tòpi, facendo capolino, e veduta la
trésca, disse : " Eh ! galantuòmo ! quand' anche tu
fòssi un' ómbra non ti verrei da vicino".
Z/' uòmo prudènte non si lascia ingannare alV in-
domani.
FAVOLA XV.
Z/' Infelice, e la Mòrte.
[La stessa in Versi ; Parto Seconda, Fav. XV.]
Un pòvero Vècchio procuràvasi stentatamente il
vitto col raccògliere tra i dirupi qualche fàscio di
legna, che, caricatosene il dòsso, per lunga via por-
tava a véndere in città. Un giórno che tornava dal
bòsco opprèsso più del sòlito da enórme péso, get-
tà^^ol . tèrra: '^Ah! Mòrte", disse, "desiderata
Mo*. , vièntene a me". Viene èssa, e gli dice:
PARTE PRIMA. 11
" Eccomi prónta a compir le tue brame . . , . " — " Io
t' ho chiamato", rispòse il Vècchio, pàllido e tre-
mante, '' perchè non essendo qui altri, m' aiuti tu a
caricarmi le spalle di quésto fardèllo".
Quando la Mòrte è lontana pòco spaventa^ ma
qualóra si avvicina élla è mólto orribile.
FAVOLA XVI.
Il Pastóre, e il Mare.
Un Pastóre guidava la greggia sulla riva del Mare,
e vedendo la superficie chéta delle acque, sentì
vaghézza di méttersi a trafficare in un vascèllo.
Perciò vendute le pècore, comperò dèlie sòme di
dàtteri, e fece véla : quando insórse una fièra bur-
rasca, talché il naviglio èra in pericolo di sommèr-
gersi. I naviganti gittàrono in Mare tutte le mèrci,
e con èsse i dàtteri ; ónde alleggerire del péso la
barca, che a gran fatica potè ridursi in pòrto. Da
lì a qualche tèmpo, un cèrto Viandante passò lungo
la spiàggia, e vedendo il Mare in calma : " Eh !
costui", disse, ^' vorrebbe ancóra de' dàtteri ; e perciò
fa le viste d' èsser tranquillo".
Le disgràzie fanno gli uòmini accòrti.
12 FAVOLE MORALI.
FAVOLA XVII.
Mercurio, e il Contadino.
Un Contadino nel potare un àlbero sulla riva
d' un fiume, ebbe la disgràzia di lasciarsi fuggir di
mano la scure, eh' égli non potè più rinvenire.
Méntre stàvasi dolènte, piangendo quésta pèrdita
gli apparve Mercùrio, il quale, mostrandogli una
scure d' òro, gli disse : " E quésta, galantuòmo, la
tua scure ?" — " No", rispòse il Contadino, " cotésta
scure non è la mia". —"È dùnque quésta ?" presen-
tandogliene una d' argènto. — ^' No, non è neppùr
quella che mi appartiene". — '^ Sarà fórse quésta?"
sporgendone una di fèrro. — ^^ Ecco veramente la
scure la cui pèrdita m' affligge".— '^Prèndi quésta",
soggiùnse Mercùrio, " ed anche le due altre. Ricévile
in prèmio dèlia tua buòna fède".
La probità è la miglior polìtica.
FAVOLA XVIII.
jL' Asino, e il Cavallo.
[La stessa in Versi ; Parte Seconda, Fav. XVIII.]
Un Asino ed un Cavallo viaggiavano insième,
ambidùe càrichi dèlie lóro sòme. L' Asino senten-
dosi tròppo aggravato, disse al Cavallo : " Pigliati
in grazia un pòco del mio péso, eh' io non posso or-
mài più resistere". Al che rispòse il Cavallo : " Io
sono abbastanza aggravato, e non sono in grado di
compiacerti". Il pòvero Asinèlio dòpo pòchi pàssi
PARTE PRIMA. 13
cadde sfinito dàlia fatica, e sótto il péso morì. 11
Cavallo voltòssi appéna a guardarlo, e tirò innanzi ;
ma il padróne córse ben tòsto a fermarlo, e lo caricò
di tutta la sòma che 1' Asino avéa. — '^ Misero me !"
disse il Cavallo allóra, ^' ben èra mèglio il pigliarmi
quél pòco péso da principio, e salvar la vita a quésto
pòvero animale, che vi morì sótto per mia cagióne".
Non vi rincrésca di soffrire un pòco d^ incòmodo
per aiutare chi ha bisógno ; altriménti potrà acca-
dere anche a vói di dover sopportare una maggior
péna.
FAVOLA XIX.
La Gatta, e il Gattino.
Desinava una brigata di scioperóni, in tèmpo di
carnovale ; e sènza eh' uòmo se n' accorgesse, una
Gatta, alla presènza di picciolo Gattino suo figlio,
arraffò un pezzetto di carne : quindi scappò a rim-
bucàrsi ; e il Gattino diètro. Non so perchè, vol-
gendosi élla altróve còlla carne tra le zampe, la pic-
ciola bestiuóla stèse lo zampétto, e stava per adden-
tare quél cicciolo. Se n' accòrse la madre, ed ar-
ricciando il pélo, dirugginando i dènti, mòrse il tè-
nero figlio, e ne lo ripigliò agramente, perchè avesse
tentato di rapirle la prèda. Ei prèsto soggiùnse :
^* Tu pur r hai rubata".
Inségna la fàvola quanto pòssa V esémpio dé^
genitori nelle tènere ménti de* figlL
2
14 FAVOLE MORALI.
FAVOLA XX.
// Pastóre, e la Greggia.
Un Pastóre una vòlta così aringo la sua Greggia :
'^ Codardi e imbecilli che siete! Quando da lungi
scorgete il lupo, immantinènte vi date alla fuga»
State férmi, aspettatelo coraggiosamente : quésto
sólo basterà per intimorire il nemico". A tale ram-
pógna i montóni, le pècore, ed anche gli agnèlli
promisero sulla lóro paróla d' onore, non sólo di
rimanére intrèpidi nelle file, ma anche di difèndersi
da bravi. Méntre stavano facendo al Pastóre
quéste bèlle promèsse, ècco un lupo apparire . . . ,
anzi non èra mica un lupo, ma sólo la sua ómbra.
A tale vista tutti dimenticano le fatte promèsse : e
la Greggia intéra si dà alla fuga.
Fatti, e non paròle.
FAVOLA XXL
Il Sorcio Viaggiatóre.
L"n Sorcio fece un viàggio. Tornato che si fu a
casa, i sorci parénti ed amici gli furono intórno a
rallegrarsi dèlia sua buòna venuta, e dèlia sua buòna
céra ; ed ognuno voléa saper novità spezialmente di
quelle, che potèano interessare la lor nazióne, ed il
lóro còrpo. Egli, dòpo aver raccontati mólti avveni-
menti, in cui entravano i presciutti e i formàggi,
asserì a tutto quél concilio, che avèa veduto de' tòpi
còlle ali, i quali veracemente volavano per 1' ària.
PARTE PRIMA. 15
Tutta V assemblèa restò attònita, e ciascuno augu-
rava a se, ed àgli altri quelle ali : perchè con tal
presidio non avrebbero avuto più paura del gatto.
Ma che ? I sorci alati veduti da colui èrano i
pipistrèlli.
/ viaggiatóri non di ràdo traveggono per la
negligenza di osservare, e fanno travedére per
V ambizióne di far maravigliare.
FAVOLA XXII.
L' Istrice, e la Vólpe.
[La stessa iu Versi ; Parte Seconda, Fav. XXII.] . ';
L' Istrice tornava dalla guèrra con ima cèrta
Vólpe ; e lamentandosi con lèi eh' èra stracco, e
che gli dolèvan tutte le ossa, la Vólpe gli disse :
" Vòstro danno, Messère. A che portare tant' arme
addòsso^ óra che la guèrra è finita ? Perchè almanco
la séra, quando siete giùnto all' osteria, non ve le
cavate vói, che cosi vi riposerete che sarà un pia-
cére ?" Acconsentì il sémplice dell' Istrice. E la
séra sùbito arrivato all' osteria, tutto si disarmò, e
cenato eh' égli ebbe, se n' andò a riposare. La
trista dèlia Vólpe, cóme lo vide addormentato, se
n' andò alla vòlta sua, e trovandolo del tutto dis-
armato, lo ammazzò, e mangiósselo a suo grand' àgio.
Cosi interviene a colóro, i quali si affidano cie-
camente a ingannévoli consigli.
16 FAVOLE MORALI.
FAVOLA XXIII.
U Aquila, e la Biscia^
Li' Aquila, dòpo aver lunga pèzza contemplato i!
sóle, rivòlse 1' òcchio alla vasta estensiòn della tèrra
a lèi sottopòsta, e stava librata sull' ale, pascendosi
di quél vàrio, e pompòso spettàcolo. Pòco lungi di
là, nella spaccatura d' un masso, una gròssa Biscia
la guatava con òcchio di fuòco, e divincolandosi, e
aiutandosi còlle sue spire, facèa pròva di lanciar-
sele cóntro ; ma non potendo règgersi a lungo,
ricadeva a tèrra, addentandola di dispétto, e di ràb-
bia. Veggèndo adunque tornarle vano ógni suo
sfòrzo, si pòse a zufolarle diètro con un furóre pari
all' invidia da cui si sentiva ródere. L' Aquila final-
ménte adocchiatala : " Che fai tu", disse, " villana
béstia ? Che hai tu a fare con me ? T' intèndo, tu
vorresti provocare il mio sdégno a rischio d' èssere
straziata dà' miei artigli ; vorresti pure eh' io t' af-
ferrassi e t' alzassi mèco nell' ària. Nò, io non ti
farò quésto onore : Zufola pure fin che tu scòppi,
ina striscia^'.
FAVOLA XXIV.
L' Asino, e la Lèpre.
I quadrùpedi essendo una vòlta in guèrra, il
Leone scélse per generalissimo dèlie sue armate un
Órso eh' èra riputato valorosissimo guerrièro. In
una rasségna delle truppe, che facèvasi alla presènza
del monarca, presentatisi 1' Asino e la Lèpre, il
PARTE PRIMA. 17
generale rivólto al re disse : ^' Mandiamo a spasso
quéste razze vili e pauróse, che in un fatto d' armi
pósson produr disórdine e cagionar pregiudizio, non
mài èssere d' alcun prò". — '^ Non dite così, signor
generale", rispóse il Leone. '' Non vi è soggètto
alcuno nello stato, che, impiegato secóndo il suo
talènto, non sìa utile a qualche còsa. Negli esèr-
citi fan d' uòpo mólti corrièri. Chi a tal uffizio po-
trebbe servir mèglio della Lèpre ? L' Asino pòi in
qualità di trombétta non sólo si fa sentir da tutto
i' esèrcito ; ma, quél eh' è mèglio, métte égli in
ispa vènto i nemici".
FAVOLA XXV
Il Ragno, e il Bigatto.
Un Ragno stava occupatissimo facendo una lun-
ghissima téla, che giungeva da un lato dell' appar-
taménto all' altro ; quando un Bigatto gli domandò,
perchè impiegasse tanto tèmpo e tanto lavóro nel
fare un sì gran nùmero di linee e di cérchi. — " Taci,
ignorante insètto", rispóse il Ragno stizzito, " bada a
non incomodarmi più còlle tue domande. Io lavóro
per tramandare il mio nóme ài pòsteri, e la fama è
r ùnico oggetto dèlie mie fatiche. Io non sono
matto, quale tu sèi, e non mi chiùdo, cóme tu fai, in
un bòzzolo, per ivi pòi morirvi di fame". Ma ècco
che, méntre il dótto Ragno stava ragionando con tan-
to ingégno, una serva, che portava fòglie di mòro pel
Bigatto, entrando nella càmera, accòrtasi del lavóro
del Ragno, con un cólpo di granata distrùsse nello
2*
18 FAVOLE MORALI.
stésso tèmpo il Ragno, il suo lavóro, e le sue bèlle
speranze.
Niènte è 'più. ridìcolo che usare di un' arte del
tutto inùtile.
FAVOLA XXVI.
La Vólpe, il Lfùpo, e il Màio.
[La stessa in Versi 5 Parte Seconda, Fav. XXVJ.]
La Vólpe andando per un bósco^ vi trovò un MùlOj
e non n' avéa mài più veduti. Ebbe gran paura, e
cosi fuggendo trovò il Lupo ; dissegli cóme avéa
trovato una novissima béstia, e non sapéa il suo
nóme. Il Lupo disse : "Andiàmvi; ben mi piace" :
ed incontanènte furono giùnti a lui. Al Lupo parve
più nuòvo, che altresì non n' avéa mài veduto. La
Vólpe il domandò del suo nóme. Il Mulo rispóse :
'^ Cèrto io non V ho bène a ménte, ma se tu sài lèg-
gere, io 1' ho scritto nel pie diritto di diètro". La
Vólpe rispóse : " Lassa ! eh' io non so niènte, che
lo saprei mólto ben volentièri". Rispóse il Lupo :
'' Lascia fare a me, che mólto lo so ben fare". II
Mulo sì gli mostrò il pie diritto di sótto, che li chióvi
paréano lèttere. Disse il Lupo : "Io non le véggio
bène". Rispóse il Mulo : " Fatti più prèsso, che le
son minute". Il Lupo gli credette, e ficcóssegli sót-
to, e guardava fiso. Il Mulo trasse, e diègli un càlcio
nel capo tale che 1' uccise. Allóra la Vólpe se
n' andò, e disse :
*' Ogni uòmo che sa lettera non è sàvio'\
PARTE PRIMA. 19
FAVOLA XXVII.
iZ Fuòco, V Acqua, e V Onore,
Il Fuòco, V Acqua, e 1' Onore fecero un tempo
comunèlla insième. E volendo far viàggio in com-
pagnia, prima di partirsi, dissero che bisognava darsi
fra lóro un ségno da potérsi ritrovare, se mài si fos-
sero scostati e smarriti 1' uno dall' altro. Disse il
Fuòco : " S' é' mi avvenisse mài quésto caso eh' io
mi segregassi da vói, ponete ben ménte colà dóve
vedete fumo ; quésto è il mio segnale, e quivi mi
troverete certamente". Soggiùnse 1' Acqua : ^^ Se
vói non mi vedete più, non mi cercate colà dóve ve-
drete seccóre, e spaccature di tèrra ; ma dóve scor-
gerete sàlci, alni, canne, o èrba molto alta e vérde ;
andate costà in tràccia di me, e quivi sarò io".
'^ Quanto è a me", disse 1' Onore, ^^ spalancate ben
gli òcchi, e ficcàtemigli bène addòsso, e tenetemi
saldo, perchè se la mala ventura mi guida fuòri
di camrnìno, si di' io mi pèrda una vòlta, non mi
troverete pia mài'\
FAVOLA XXVIII.
// Cane Invitato.
Un galantuòmo apparecchiava gran céna per con-
vitare un amico. Il Cane di casa volle invitare un
altro Cane, e gli disse : ^' Buon Amico vieni mèco a
céna". Andò in fatti, e gongolava tutto di piacére,
mirando 1' apparécchio di quella céna lautissima.
^'Affè mia", diceva tra se, *^ che òggi mi tócca la gran
20 FAVOLE MORALI.
fortuna ! Che delizióso banchétto ! io mangerò a
pància pièna, e dimani non avrò fame". Dicendo
così faceva mille carézze al suo compagno, e dime-
nava la còda piacevolmente. In quésto mézzo ve-
dendolo il cuòco aggirare per la cucina lo prése per
le gambe, e lo gittò dalla finèstra. 11 Cane tutto
ammaccato fuggiva abbaiando fortemente. Lo in-
contrarono per via degli altri Cani, e gli dissero:
" Com' hai cenato bène ?" E costui guardandoli
sul sèrio rispòse: '^Ho tracannato tanto vino, che
non mi sono avveduto della strada che feci per
venir via".
Non vi fidate di quelli che vogliono farla da
benefattóri a spése altrùi.
FAVOLA XXIX.
I Tre Pésci.
Venivano un giórno cèrti pescatóri ad un lago . . . ,
dóve tra gli altri dimoràvan tre Pésci. L' uno di
quésti èra mólto avveduto, e accòrto ; 1' altro ardito,
animóso, e gagliardo ; il tèrzo tanto pauróso, e pi-
gro, che sèmpre pareva che affogasse né' mócci. Il
primo, sentendo 1' apparécchio che facevano i pesca-
tòri, prevedendo còlla sua prudènza il danno, uscì
sùbito del lago. Il secóndo, che mólto si fidava duella
sua gagliardia, non si curò di fare altra provvisióne,
ma pensò d' aspettare il succèsso della còsa ; il
quale còme prima si vide i pescatóri addòsso, salito
a galla sènza muòversi niènte, mostrando d' èssere
mòrto, fu prèso, e, còme còsa disùtile e corrótta,
PARTE PRIMA. 21
gittàto fuor del lago, dov' égli sènza dimenarsi stétte
tanto, che i pescatóri furono partiti ; e pòi pian
piano se ne tornò nell' acqua. Il tèrzo, che, còme
si è détto, èra una cèrta figuraccia di non pensare a
nulla, non facendo alcuna provvisióne a' fatti suoi,
fu prèso, e fritto, e mangiato.
Non si deve por tèmpo in mèzzo al fare le débite
provvisióni^ quando minàccia un perìcolo.
FAVOLA XXX.
La Vólpe, il Gàlloy e i Cani.
[La stessa in Versi 3 Parte Seconda, Fav. XXX.]
'' Fratèllo", disse una Vólpe di buon appetito ad
un vècchio Gallo, che riscdéa sui rami d' un' antica
quèrcia, " nói non siamo più in guèrra : vengo ad an-
nunziarti una pace generale. Scéndi prèsto eh' io
t' abbràcci". ~" Amica", rispòse il Gallo, ^^ tiassicù-
ro eh' io non poteva sentire nuòve più grate. Ap-
punto veggo in distanza due Vèltri che vengono in
frétta a recarci la nuòva dèlia pubhcaziòne dèlia
pace. Vanno prèsto, e saranno qui a moménti.
Aspetta il lóro arrivo, acciocché possiamo abbrac-
ciarci tutti insième". — '^ Umilissima serva", riprése
la Vólpe. '' Non posso trattenérmi di più. Ma
un' altra vòlta faremo fèsta insième per un si Hèto
evènto". Ciò détto, partì di vólo, mólto scontènta
del suo stratagèmma. Allóra il Gallo si mise a
scuòtere le ah per la giòia, ed a cantare per beffarsi
dell' impostóre.
22 FAVOLE MORALI.
FAVOLA XXXI.
U Demònio, e la Vècchia.
Vedendo una volta il Demònio, che ben tòsto sa-
rebbe una Vècchia caduta da un cihégio su cui s' era
incautamente arrischiata ; chiamati tòsto notài e
testimònj, disse lóro : ^' Vói vedete il ciménto nel
quale quésta Vècchia, che già già sta per cadére,
s' è méssa. Fatemi perciò vói buòna testimonianza,
che quello che ha fatto costèi, 1' ha fatto di suo
volére, e non a mia istigazióne". Appéna ciò détto,
la Vècchia ècco cade, e nel cadére grida si che tutto
accòrre il vicinato. — "Perchè mài", le dice ognuno,
'' in quell' età far còsa da ragazzòtto ? Quàl pazzia
rischiarsi sópra un tal àlbero ?" — " E stato", rispónde
élla "certamente il Diàvolo^ oIir mi ha indòtta a far
quésto". — " Tu mentisci, vecchiaccia", dissele 1' ac-
cusato. E chiamati i testimònj, fece autentica-
mente costare, eh' égli non aveva avuto in ciò parte
veruna.
Volle con quésto il Demònio mostrare, che non
lui incolpar debbono gli uòmini delle lóro follie^
còme sovènte fanno, ma sé stéssi.
FAVOLA XXXIL
// Cèrvo.
Andando il Cèrvo a zonzo per la sélva, fu assalito
da gran séte. E cosi camminando trovò una fónte
con beli' acqua chiara còme argènto ; e bevendo di
PARTE PRIMA. 23
quest' acqua, e specchiandosi in èssa, prendeva
gran dilètto dell' ómbra che rendevano le sue ra-
móse corna di gran bellézza e nobilita ; e di ciò mólto
le commendava. Ma guardando alle gambe, vedé-
vale magre e sécche ; e di ciò avéa gran dolóre, e
portavano gran vergógna ; e fra sé dicéa, che innanzi
vorrebbe èssere sènza gambe, che avérle così sózze.
E intanto ècco venire cacciatóri, che co' lóro brac-
chètti ebbero levato il Cèrvo. Ed esso fuggendo
per la sélva, e passando tra àlberi bassétti, le sue
lunghe e ramóse corna furono attaccate. E così
stava prèso, e pregava le gambe che il portassero
via; ma le lunghe corna negavano alle gambe il
corrimènto. E così, quello che stimava ùtile e
dilettèv^ole, fu cagióne dèlia sua mòrte.
Sprezzare quello che fa prò e onore, e amare
quello che fa danno, è scóncia còsa.
FAVOLA XXXIII.
1 Garòfani, la Ròsa, e la Viola-Màmmola.
Grandeggiavano in un giardino sópra tutt' i fióri i
Garòfani e cèrte Róse incarnatine, e schernivano
cèrte Mammolette -Viòle, che stàvansi sótto 1' èrba,
sicché appéna èrano vedute. — '^ Nói siamo", diceva-
no i primi, '^ di così lièto e vàrio colóre, eh' ógni uòmo
ed ógni dònna, venendo in quésto luògo a passeg-
giare, ci póngono gli òcchi addòsso, e pare che non
siano mài sàzj di rimirarci". — "E nói", dicevano le
secónde, " non solamente siamo ammirate, e cólte con
grandissima affezióne dàlie gióvani, le quali se ne
24 FAVOLE MORALI.
adornano il séno ; ma le nostre fòglie spicciolate
gittano fuòri un' acqua, che col suo gratissimo odóre
riémpie tutta V ària d' intórno. Io non so di
che si pòssa vantare la Viòla, che appéna ha tanta
grazia d' odóre, che si senta al fiuto, e non ha colóre
ne vistóso ne vivo, còme il nòstro". — " O nobolissi-
mi fióri", rispòse la Violétta gentile, "ognuno ha sua
qualità da natura. Vói siete fatti per èssere orna-
ménto più manifèsto, e più miràbile àgli òcchi delle
gènti ; e io per fornire quest' ùmile e minuta erbét-
ta, che ho qui d' intórno, e per dar grazia e varietà
a quésto vérde, che da ógni lato mi circonda".
Ógni còsa in natura è buòna. Alcuna è più mi-
ràbile, ma non perciò le pìcciole debbono èssere
disprezzate.
FAVOLA XXXIV.
Il Contandìno, il Figlio, e V Asino,
[La stessa in Versi ; Parte Seconda, Fav. XXXIV.]
Un Contadino con un suo Figlio menava un Asino
al mercato. Incontrandoli alcuni : " Ve", dissero,
" che sciòcchi l han 1' Asino, e vanno a piedi". Ciò
udito il Vècchio vi montò sópra. Ma andarono pò-
co innanzi, che alcune dònne : " Guarda", gridarono,
" che Vècchio indiscréto ! cóme éi fa tapinare quél
pòvero Figlio a corrergli diètro a piedi !" Éi scése
allóra, e sópra vi pòsa il Figlio. Ma pòco dòpo
alcuni uòmini attempati: "Ragazzóne !" esclamaro-
no, " non hai tu rossóre di starti colà a sedére, tu
eh' hai buòne gambe, e lasciar cosi a piedi ajSannàrsi
PARTE PRIMA. 25
quésto pòvero Vècchio ?" Il Vecchio allóra vi montò
anch' égli ; ma fatto pòco tratto di cammino : " Pò-
vera béstia!" cominciarono alcuni a dire ; *' colóro
vogliono ammazzarla". Il Contandino più non sa-
peva che farsi. Premendogli dall' altra parte, che
r Asino arrivasse frésco al mercato, legategli le
gambe, e póstovi un bastóne frammèzzo, insième
col Figlio si mise a portarlo. A quésta scéna tutti
dicevano, ridendo : " Vedi beli' agnellino da portar
sul bastóne !" Il Contadino alla fine disperato : " E'
non v' ha mòdo", disse, " di far tacére le male lingue.
E mèglio eh' io fàccia quello che faceva dapprima,
e làsci che ognuno gràcchi a pósta sua". Depòse
I' Asino, e slegatolo, il lasciò andare da sé, sènza
più badare a quél che altri dicesse.
Non si deve badare a quél che dicono gV igno-
ranti 0 i maligni, ina procurar di far héne^ e lasciar
che ognun cianci a sào talento.
FAVOLA XXXV.
Il Fantasma.
Un Fanciullo còrse una séra impaurito da suo Pa-
dre, e tremando disse che avéa veduto un Fantasma
terribile. — " Udendo rumor nella strada, io mi son
fatto", disse, " alla finèstra, e m' è apparsa una gran
figura tutta bianca, che veniva a gran pàssi, e faceva
uno strèpito spaventévole". Il Padre, dolcemente
sorridendo: "Fatti ànimo", disse, " domani a séra
vedrai che còsa èra il Fantasma". Venuta la nòtte>
attravèrso alla strada égli tèse una còrda. Il Fan-
3
26 FAVOLE MORALI.
tàsma comparve all' óra solita. Il Figlio spaventato :
"Eccolo", disse, '' ècco che viene".— "T' accheta",
rispóse il Padre, "sta zitto". Il Fantasma frattanto
avanzàvasi a gran pàssi ; ma arrivato dov' èra la
còrda, senz' avvedersene vi urtò déntro, e cadde
stramazzóne per tèrra. Il Padre allóra prèso il Fi-
glio permane: "Vieni óra a vedére", gli disse, "che
còsa èra il Fantasma". Uscirono insième, e trova-
rono un uòmo avvoltolato nel fango, e tutto lórdo.
Costui per prèndersi il tristo divertiménto di spa-
ventare la gènte, si èra méssa una màschera sul
vòlto, un gran lenzuolo bianco d' attórno, e andava
camminando su due altissimi tràmpoli : quella séra
però pagò caro il suo divertiménto.
Se alcun vi parìa di Fantasmi^ di Follétti, di
Befane, di mòrti che girati di nòtte, e di còse simili,
non credete mài nulla: sono tutte finzióni per far
paura ài fanciulli e agV ignoranti.
FAVOLA XXXVI.
Un Padre, e tre Figli.
Un ricco Padre divise fra i suoi tre Figli i próprj
bèni. Si riserbò solamente un anello prezióso: "E
quésto", disse, " sarà dato a chi dì vói saprà fare
1' azióne più bèlla e più generósa". I Figli partiro-
no, e tornarono dòpo tre mési. 11 primo disse :
" Uno stranièro mi ha affidata una cassétta pièna
d' òro sènza prènderne sicurtà: avrei potuto rubar-
gliela a man salva, ma in véce al suo ritórno glieP ho
fedelmente restituita". Il Padre rispòse : "Tubai
PARTE PRIMA. 27
fatto bene ; ma non hai fatto però che il tuo dovére ;
rubandola saresti stato il più scellerato uòmo del
móndo ; ognuno deve restituire fedelmente quél
eh' è d' altrùi". Sottentrò il secóndo. " Io pas-
sava", disse, "un giórno vicino ad una peschièra;
vidi precipitarvi un fanciullo ; sènza il mio aiuto éi
si sarebbe annegato : io córsi prónto, e lo cavai salvo
dall' acque". — " Anche la tua azióne è buòna",
rispóse il Padre ; " ma anche tu non hai fatto se non
quello a cui tutti siamo tenuti, che è di soccórrerci
né' pericoli scambievolmente". Il tèrzo allóra disse :
"' Un giórno io ho trovato un mio nemico addormen-
tato sull'orlo d'un precipizio: voltandosi, éi vi
sarebbe caduto, io 1' ho svegliato dolcemente, e V ho
liberato dal pericolo". — " Ah Figlio !" disse il Pa-
dre, abbracciandolo teneramente, " a te si deve
V anello".
// far del bène àgli stéssi nemici, è V azióne ap-
punto pia bèlla e più generósa.
TAVOLA XXXVII.
La Scimia, e V Orinolo,
Un signóre premuróso d' uscir di casa lascia
l' Orinolo appèso a canto al lètto. Una Scimia ad-
dimesticata, eh' ha per costume di ricopiar le azióni
del suo padróne, prènde 1' Orinolo, e coli' aiuto
d' una bènda se 1' applica al fianco. Un moménto
dòpo lo tira, e lo càrica ; pòi lo guarda, e : " Esso
córre", dice. Apre, e volge 1' indice all' indiètro,
pòi se 1' adatta di nuòvo al fianco. Passato ancóra
28 FAVOLE MORALI.
un moménto, lo prènde un' altra vòlta in mano :
*^ Oh ve' !" dice la saggia, " óra va tròppo lènto.
Quésto sì eh' è un imbròglio! Còme rimediarvi?"
Gira un pocolino còlla chiavétta il registro ; pòi
chiùde, e s' applica 1' Oriuòlo garbatamente
all'orécchio. — ''Quésta battuta è falsa", dice, e
gira altriménti la chiave, pòi torna ad udire .... —
" Non va ancor bène". Apre la cassa, guarda,
esamina in ógni parte ; tócca quésta ruòta, férma
quella, muòve quell' altra .... In sómma la mala
béstia tanto urta, agita, scuòte la màcchina, che ha
per mano, eh' èssa cèssa in fine ógni suo mòto.
Guardaci, o Ciéì propizio, dalV assistenza di
quéi guastamestièri che maneggiano i còrpi umani,
cóme maneggiò la Scimia lo sfortunato Oriuòlo.
FAVOLA XXXVIII.
Il Concìlio dèi Sorci.
[La stessa in Versi ; Parte Seconda, Fav. XXXVIII.]
Un Gatto vigilantissimo, stabilitosi in un vècchio
abituro, faceva nòtte e giórno aspra guèrra ài Sorci.
Ne avèa già ammazzato gran nùmero, e quéi eh' èra-
no avanzati al macèllo non ardivano più sbucare
dalle lor tane ; sì che vi èra a temere che morissero
di fame. In quésto frangènte si raunàrono in con-
siglio per deliberare de periclitànte repàblica.
Quivi, dòpo vàrj paréri lungamente discùssi, uno
dell' assemblèa, dimandato con viva impaziènza si-
lènzio, si mise ad aringàre così : " Signóri, ho tro-
vato r infallibile, e 1' ùnico mézzo di salvarci:.
PARTE PRIMA. 29
Quest' è attaccare al còllo del Gatto un campanèllo.
Così quando si muoverà, ne saremo sùbito avvertiti,
e potremo facilménte métterci in sicuro". A quéste
paròle segui un vivo applàuso da tutti i lati. Ma
tòsto un vècchio Sorcio levatosi, disse : " Bèllo è il
consiglio : rèsta sólo a sapere chi vorrà attaccare il
campanèllo al còllo del Gatto". All' impensata
propòsta si ammutolì ciascuno ; e, con màssima con-
fusióne dell' oratóre, il bel parére se n' andò in fumo.
Prima di dare un consìglio pensate ài mézzi di
porlo ad effètto.
FAVOLA XXXIX.
// Pittóre.
Léggesi nelle stòrie Orientali, che Ormuz fu un
Califfo pièno d' amòre de' pòpoli suoi, e che só-
pra ógni còsa desiderava, che ciascun uòmo nelle
città e nelle sue tèrre, facesse quell' ufficio e
quell' arte, che a lui apparteneva. Venne dinanzi
a lui accusato un Dervis, il quale, in iscàmbio
d' attèndere àgli ufficj suoi, s' èra dato del tutto
al dipingere, ed a fare ritratti; e che, per non
èssere conosciuto, vestivasi al mòdo de' giovinétti
del paese, e, dimenticatasi la decènza della sua con-
dizióne, entrava ora in quésta casa, óra in quella,
ed esercitava la vietata pittura, nella quale però égli
avéa piuttòsto vòglia d' èssere più valènte maèstro, di
quello eh' égli fòsse in effètto. Certificatosi Ormùz
dell' erróre, voléa gastigàre il colpévole con gravis-
sima péna. Ma un peritissimo Mago, e mólto stu-
30 FAVOLE MORALI.
dióso della natura umana, pensò che quésto non
fòsse erróre da punire con tanta rigidézza, e dissene
il suo parére al Califfo, esibendogli 1' arte sua per far
ravvedere il Dervis del suo fallo. Consentì il Ca-
liffo, e lasciò la faccènda nelle mani del INlàgo; il
quale fece sì con 1' arte sua, che, méntre il Dervis
adoperava il pennèllo per dipingere le immàgini
altrùi, in quello scàmbio sulla téla si vedeva sèmpre
1' immàgine del Pittóre, e all' intórno cèrte figu-
rétte, eh' esprimevano allegoricamente 1' intrinseco
de' suoi pensièri, e mettevano 1' ànimo suo sótto gli
òcchi altrui. Ónde nàcque il provèrbio :
O tu, che p'mgi altrui, guarda te stésso.
FAVOLA XL.
Il Gambero, e la Vólpe,
Vólpe. '^ Ve' che strano animale ! perchè cam-
mini sì a rilènte ed a ritróso?" — Gambero. "Ep-
pure io córro più di te ; e se noi crèdi, fanne la
pruòva". — V. " E quale ?" — 6r. " Ti sfido ad una
carrièra". — V. " Tu ? va, bestiaccia I Son ben fòlle
io che ti ascólto". — G. " Furbàccia ! tu copri col
disprèzzo la paura d' èsser vinta".— J^. "Orsù;
voglio umiliarti: accètto la sfida". — G. "Ed io
vò' darti anche il vantàggio d' un passo innanzi".
'•—V. "Anche ciò! Ebbène, vedremo, arrogante".
La Vólpe si fa innanzi, ed il Gambero, alzando
una branca, se le attacca còlla fòrbice alla còda.
La Vólpe dòpo aver córso un ben lungo tratto, si
volge con impeto : in quésto il Gambero si lascia
PARTE PRIMA. 31
cadére, e pel mòto della còda si trova innanzi più
pàssi,
V. ''Ehi, bestiuòla presuntuósa, dóve sèi?" —
G., didiètro. "Sto qui". — V., rivolgendosi con
istiipóre. " E còme ti trovi là tu ?" — G. " Mi ci
trovo, perchè ho còrso più prèsto di te".— F". ''Per
tutti gli Dèi ! chi r avrebbe mài creduto !"
Coiài è il véro fàrho, che, sembrando sciòcco, in-
ganna i furbi,
FAVOLA XLI.
/ dae Matti.
Due Matti imbacuccati né' lóro mantèlli, treman-
do di fréddo, entrarono in cèrta osteria, e pregarono
1' Oste ad accèndere una fascina, e così ristorargli.
L' Oste prónto al focolare li ména, ad attizza un
gran fuòco, pòi se ne va. Intanto uno di quelli
s' accóncia prèsso al fuòco per mòdo, che se fòsse
stato di pàglia, è' si sarebbe incenerito allóra allóra.
L' altro si férma in capo dèlia gran stanza, e tratte
fuóra del ferraiuólo le mani, sta còlle braccia tése
al focolare per riscaldarsi. Ivi a pòco, quégli
eh' era in sulla bràge, esclama : "Maledétto fuòco !
éi mi brucia". Quésti eh' èra lontano, soggiùnse :
"Oh, oh, io son fréddo fréddo, cóme prima";
e chiamano 1' Oste. Vièn égli, ed il domandano
tutti e due, che fuòco, che legna fossero quelle ?
Perchè 1' uno dicéa d' abbruciarsi, e 1' altro di non
sentirvi pùnto di calóre. Rispòse 1' uòmo, accòrtosi
che non istàvano ben in cervèllo : " Il male non è
nel fuòco, è in vói. Tu, accostati al fuòco quattro
32 FAVOLE MORALI.
pàssi, e ti riscalderai ; e tu, due tanti ritirati, che
non ti brucerà di cèrto". Com' égli disse, fecero :
quindi, prèso un pòco di confòrto, se ne partirono,
lodando il fuòco, le legna, e 1' avviso dell' Oste.
Quésti due Pazzi sono il ritratto di quelli, che
non sapendo usare le còse, còme richiède la lóro
natura, le crédono male, tutto che buonissime, e se
ne lamentano. Noìi basta il bène a chi non sa
farne buon uso. — Son lodévoli le ricchézze, ma di-
ventano biasimo nelle mani di chi, o pròdigo le gitta
in istravizj, e gozzovìglie ; od avaro le tiene in uno
scrigno di fèrro.
FAVOLA XLIL
La Lepre i e le Rane.
[La stessa in Versi ; Parte Seconda, Fav. XLIl.]
Una Lèpre riflettendo un giórno fra se, cosi co-
minciò a ragionare : " Che sciagurata vita è la mia !
Sèmpre in continui timóri ! Non sarebbe égli mèglio
morire una vòlta, che vivere in uno stato mille vòlte
peggiòr dèlia mòrte ?...." Volèa più dire, ma in
queir istante uno zeffirètto, scuotendo giù alcune
fòglie da un àlbero vicino, intimorì talménte la
timida bestluòla che, sènza più dire, partì di vólo.
Nella sua fuga veggéndo da lungi un lago, ivi tòsto
indirizza i pàssi, risoluta di por fine ad una vita sì
grama col gettàrvisi déntro. Ma al suo avvicinarsi
alla riva, un gran nùmero di Rane che quivi si sol-
lazzavano, atterrite al rumóre eh' élla fece, rifuggi-
ronsi tòsto al lago, in cui tutte prestamente si som-
PARTE PRIMA. 33
mòrsero. " Cóme ! cóme !" disse allóra la Lèpre.
^^ Io far paura a tanta gènte ! Sono adunque anch' io
un fulmine di guèrra ! Veggo bène adèsso non ès-
sere la nòstra spèzie la più infelice fra gli animali".
Così dicendo si ritira dal lago, risoluta di soffrire in
pace la sua condizióne.
Chi si créde infelice, gètti gli ocelli sópra colóro
che hanno maggior ragióne di crédersi tali; e
troverà motivo di consolarsi.
FAVOLA XLIII.
E Tagliatóre di Legna, e la Scimia.
Tagliava un Boscaiuòlo cèrte legna per àrdere, e,
còme è usanza de' così fatti, volendo fèndere un
querciuólo assai ben gròsso, montato sópra 1' un
de' capi co' piedi, dava suU' altro còlla scure di
gran cólpi, e pòi metteva nella fenditura che faceva,
cèrto cònio perchè la tenesse apèrta, e acciocché
mèglio ne potesse cavar la scure per darvi su 1' altro
cólpo ; e quanto più fendeva il querciuólo, tanto
metteva più giù un altro cònio, col quale è' faceva
cadére il primo, e dava luògo alla scure che più
facilménte uscisse dalla fenditura ; e così andava
facendo di mano in mano, sino a che égli avesse
diviso il querciuólo. Fòco lontano, dóve quésto
omicciàtto faceva tale esercizio, alloggiava una Sci-
mia, la quale avendo con grande attenzióne mirato
tutto quél che '1 buon uòmo aveva fatto ; quando fu
venuta V óra del far coleziòne, e che '1 Tagliatóre,
lasciati tutti i suoi struménti sul lavóro, se ne fu ito
34 FAVOLE MORALI.
a casa, la Scimia sènza discórrere il fine, si lanciò
sùbito alla scure, e misesi a fèndere uno di quéi
querciuóli, e volendo far ne più ne meno che
s' avesse veduto fare al maèstro, accadde che, ca-
vando il cònio dèlia fenditura, ne si accorgendo di
métter 1' altro più basso, il querciuòlo si riserrò, e
nel riserràrsi le prèse sprovvedutamente 1' un de' pie-
di in mòdo, eh' élla vi rimase attaccata con esso, fa-
cendo gran laménti, per lo estrèmo dolóre che sùbito
le venne. Al romòr de' quali còrse sùbito il Ta-
gliatóre, e vedendo lo incàuto animale così rimasto,
còme villàn eh' égli èra, in càmbio d' aiutarlo, gli
diede dèlia scure sulla tèsta sì piacevolmente, che
al primo cólpo gli fece lasciar la vita su quél quer-
ciuòlo ; e così s' accòrse il pazzerèllo, che mal fan-
no colóro, che vogliono far, còme si dice, V altrùi
mestiéro.
FAVOLA XLIV.
La Zanzara, e la Lùcciola.
" Io non crédo", diceva una nòtte la Zanzara
alla Lùcciola, " che ci sia còsa al móndo viva,
la quale sia più ùtile, e ad un tèmpo più nòbile
di me. Se 1' uòmo non fòsse ingrato, dovrèbbe
èssermi obbligato grandemente. Cèrto non crédo
eh' égli potesse aver miglior maèstra di morale di
me ; imperciocché io m' ingégno quanto posso con
le mie acute punture di esercitarlo nella paziènza.
Lo fo anche diligentissimo in tutte le sue faccènde,
perchè la nòtte o il giórno, quando si corica per dor-
mire, essendo io nimica mortale dèlia trascuràggìnej
PARTE PRIMA. 35
non làscio mài di punzecchiarlo óra in una mano,
óra sulla frónte o in altro luògo della fàccia, accioc-
ché si désti. — Quésto è quanto all' utilità. — Quanto
è pòi alla dignità mia, ho una trómba alla bócca, con
la quale, a guisa di guerrièro, vo suonando le mie
vittòrie ; e non meno che quàl si vòglia uccèllo, vo
con le ali aggirandomi in qualùnque luògo dell' ària.
Ma tu, o infingarda Lùcciola, quàl bène fai tu nel
móndo?" — "Amica mia", rispóse la Lucciolétta,
" tutto quello che tu crédi di fare a benefizio altrùi,
lo fai per te medésima ; poicchè da tanti benefizj che
fai àgli uòmini, ne ritràggi il tuo vèntre pièno di
sàngue che cavi lóro dalle véne, e suonando con la
tua trómba, o disfidi altrùi per pùngere, o ti rallegri
dell' aver pùnto. Io non ho altra qualità, che
quésto picciolo lumicino, che mi àrde addòsso. Con
esso procuro di rischiarare il cammino nelle tenebre
della nòtte àgli uòmini, quant' io posso, e vorrei
potére di più ; ma noi comporta la mia natura, né vo
strombazzando quél pòco eh' io fo, ma tacitamente
procuro di far giovaménto.
FAVOLA XLV.
E Lavóro, la Salate, e la Contentézza.
Il Lavóro, primogènito del Bisógno e padre della
Salute e dèlia Contentézza, viveva còlle due sue
figlie in un' angusta capanna, a lato d' un còlle, in
gran distanza dàlia capitale. Non avevano alcuna
nozióne dèlia grandézza, e non praticavano miglior
società di quella dèi rùstici lor vicini. Ma venendo
lóro desidèrio di vedére il móndo, diedero un Addio
36 FAVOLE MORALI.
ài lóro compagni ed alla lóro abitazióne, e si deter-
minarono di viaggiare. Il Lavóro dùnque andava
lungo la strada còlla Salute alla dritta, che, còlla
vivacità della sua conversazióne, e cògli spiritósi e
gìolivi suoi canti, addolciva le péne del viàggio:
méntre la Contentézza, sorridendo, veniva alla sinis-
tra sostenendo i pàssi di suo padre, e, col constante
suo buon umóre, accrescendo il brio di sua sorèlla.
In tal mòdo viaggiarono attraversando forèste, cit-
tà, bórghi, e villàggi, finché giùnsero alla capitale
del régno. Neil' entrare in quella gran città, il padre
scongiurò le figlie di non lasciarlo mài di vista :
" Perchè", diceva égli, " era decréto di Giòve, che
la separazióne fra lóro fòsse seguita dàlia più terri-
bile ruina di tutti e tre". Ma la Salute era d' un
naturale tròppo vivo, perchè tenesse cónto dèi con-
sigli del padre. Essa si lasciò sviare e corrómpere
dall' Intemperanza, e finì col perire nei dolóri
dell' infermità. La Contentézza in assènza di sua
sorèlla s' abbandonò alla seduzióne dell' Accidia, e
d' indi in pòi non si sentirono più nuòve di lèi.
Intanto il Lavóro, che non poteva trovare alcuna
felicità sènza le figlie, andò dapertùtto in cérca
d' èsse, fintanto che, assalito in suo cammino dalla
Stanchézza, morì nella misèria.
PARTE PRIMA. 37
FAVOLA XLVI.
Le Scimie, e la Lùcciola.
[La stessa in Versi ; Parte Seconda, Fav, XLVI,]
Sì ragunàrono (ma nòtte sópra un àrbore cèrte
Scimie ; e cóme fòsse di verno, e '1 fréddo grande,
veggéndo rilucere un di qué' bacheròzzoli, che i con-
tadini chiamano Lucciolati, pensarono che la fòsse
una favilla di fuòco : laónde vi miser sópra di mólte
legna sécche e un pòco di pàglia, e cominciarono a
a soffiare in quél buco, per accènder del fuòco.
Un Uccèllo, eh' èra lì vicino, sentì compassióne dèlia
vana fatica delle pòvere Scimie ; e però scendendo
a lóro, disse : "Amiche, il dispiacer ch'io prèndo
dell' inùtil travàglio che vói vi prendete per accèn-
dere quésto fuòco, mi ha mòsso a venirvi a dire, che
vói gittate via il fiato e il tèmpo : poiché quello che
vói vedete rilucere non è fuòco, ma un animalùzzo,
che ha naturalménte quello splendóre abbacinato".
A cui una Scimia più dell' altre presontuósa, e fórse
pazza, disse : " Le pòche faccènde che tu hai, Ser
Uccellàccio, ti hanno fatto pigliare briga di quello,
che nói ci facciamo, còme quél che non consideri
quanto sia ufficio di sciòcco il dare consiglio a chi
non ne dimanda. Ritornati a dormire, e lascia la
cura a nói de' fatti nòstri : che se tu non sé' sàvio,
tu potresti fórse trovare quél che non vài cercando".
Il sèmpHce dell' Uccèllo, che pensava pur còlla sua
importunità farle capaci dell' errór lóro, due o tre
vòlte si mise a replicare il medésimo ; in mòdo che
quella Scimia, montata in còllera, gli saltò addòsso ;
4
38 FAVOLE MORALI.
e se non che fu dèstro, e valsesi del volare, la ne
faceva mille pèzzi.
Simile alla Scìwia è colai, nel quale ne consìglio
né ammonizióni, hanno pia luògo.
FAVOLA XLVII.
Il Rosignuólo, e il Cuculo.
Vennero un giórno a lite fra di lóro a cagióne del
canto il Rosignuólo ed il Cuculo, stimandosi V uno
air altro d' èssere superiór di gran lunga. Diceva
il Cuculo, che il suo canto èra continuato, e con
misura : il Rosignuólo asseriva, aver égli assai più
armonia di quella che qualunque altro uccèllo
s* avesse ; e quindi per non venire alle bruite, si
conchiuse tra di lóro, di riméttere il lóro litigio al
giudizio d' un tèrzo qualùnque si fosse ; e prèso il
vólo, nel passare sópra un vérde prato, vi scórsero
un solennissimo Asino con un pàio d' orécchi, che
èrano pòco meno di mézzo bràccio 1' uno. Onde
tutto lièto il Cùcùlo : " Non andiamo più innanzi",
disse al Rosignuólo, ''chèi pietósi Dèi ci hanno fatto
dare nel giùdice ; perchè consistendo tutta la scièn-
za di quésta matèria nell' udito, chi mèglio di luì
potrà dare una giusta, e ben proporzionata sentèn-
za ?" E détto fatto, se ne volarono sópra un basso
arboscèllo di pére, e sópra i suoi rami strétti su
1' ali si stettero, e quindi umilmente pregarono
1' Asino, che dar volesse un incorrótto giudizio
sópra la lóro quistióne. L' Asino, che aveva più
vòglia di mangiare, che di fare da giùdice, appéna
PARTE PRIMA. 39
alzò la grave lèsta da tèrra, e ritornòUa ad abbas-
sare, e dato un pàio di strepitóse crollate d' orécchi,
fece capire a' due litiganti, che per quel giórno non
teneva giustizia : ma èssi lo pregarono tanto, eh' égli
per fine, levatosi dal pascolare, tenendo alta la tèsta,
e gli orecchióni ritti, a manièra di lèpre quando
cammina: "Cantate, via", disse lóro, "e spaccia-
tevi ; che cóme ascoltati io vi avrò, vi dirò sùbito il
mio débole sentiménto". 11 Cuculo si mise il primo
in assètto, e disse : " Attendete ben, signor giùdice,
alla bellézza del canto mio, che in quésto pùnto
udirete ; e sópra il tutto badate all' artifizio, con
cui lo compóngo". E quindi, fatto òtto o dièci
vòlte cu cu, gonfiatosi alquanto, e scòsse tutte le sue
pènne, si tacque. Il Rosignuólo allóra sènza usare
verùn proèmio, incominciò il suo graziossimo gor-
gheggiare, e tanta varietà, bellézza, armonia risul-
tava dà' suoi soavissimi vèrsi, che non vi èra fièra
in què' bòschi, che tratta dall' incredibile dolcézza
che da lóro pioveva, a lui non corrèsse ; e nel mén-
tre eh' égli s' andava vieppiù nel suo canto ingol-
fando, il giùdice annoiato dèlia lunga pruòva, man-
dato fuòra un villanissimo ràglio : *' Egli può èssere",
disse al Rosignuólo, " che il tuo canto abbia più
grazia di quél del Cùcùlo ; ma quél del Cùcùlo
ha più mètodo".
40 FAVOLE MORALI.
FAVOLA XLVIII.
Le Pére.
Narrano le antiche crònache, eh' égli fu già in
Portogallo un uòmo dabbène, il quale avéa un suo
ùnico figliuòlo da lui caramente amato ; e vedendo
oh' égli èra di ànimo sémplice, e inclinato al ben
fare, stàvagli sèmpre con gli òcchi addòsso, temendo
che non gli fòsse guasto dà' corrótti costumi di mólti
altri. Di che spésso gli tenèa lunghi ragionaménti^
e gli diceva, che si guardasse mólto bène dàlie male
compagnie ; e gli facèa in quella tenerélla età com-
prèndere chi facèa male, e perchè facèa male.
Il Fanciullo udia le patèrne ammonizióni ; ma
pure una vòlta gli disse : '' Di che volete vói temere ?
Io son cèrto che non mi si appiccherà mài addòsso
vizio veruno, e spero che avverrà il contràrio,
eh' èssi ad esémpio di me diverranno virtuósi".
Il buon Padre, conoscendo che le paróle oon fa-
céano quél frutto eh' égli avrebbe voluto, pensò di
ricórrere alF arte ; ed empiuta una cestelhna dèlie
più vistóse pére che si trovassero, gliene fece un
presènte. Ma riconosciuto a cèrti piccioli segnali,
che alcune pòche di èsse èrano vicine a guastarsi,
quelle mescolò con le buòne. Il Fanciullo si
rallegrò, e còme si fa in quell' età, volendo égli
vedére quante e quali fossero le sue ricchézze,
méntre che le novera e mira, esclama : '^ Oh Pa-
dre ! che avete vói fatto ? A che avete vói me-
scolate quéste che hanno magagna con le sane ?" —
'' Non pensar, Figliuól mio, a ciò", rispósegli il Pa-
dre ; " quéste pére sono di tal natura, che le sano
PARTE PRIMA. 41
appiccano la salute lóro alle triste''. ^'Vói ve-
drete", ripigliò il Fanciullo, *^ che sarà fra pòchi
giórni il contràrio". — '^Non sarà". — "Sì, sarà".
Il Padre lo prega che le làsci per vedérne la
speriénza. Il Figliuòlo, benché a dispétto, se ne
contènta. La cestellina si chiùde in una cassa, il
Padre prènde le chiavi. Il putto gli èra di tèmpo
in tèmpo intórno, perchè riaprisse; il Padre indugia-
va. Finalménte gli disse : " Quésto è il dì, ècco la
chiave". Appéna potèa il Fanciullo attèndere che
la si voltasse nella tòppa. Ma, apèrta la cestellina,
non vede più pére, le quali èrano tutte copèrte di
muffa, e guaste. " Oh ! noi diss' io", grida égli,
" che così sarebbe stato ? Non è fórse avvenuto
quello eh' io dissi ? — Padre mio, vói 1' avete
voluto".
" Non è quésta còsa che ti debba dare tanto do-
lóre", rispòse il Padre, baciandolo affettuosamente.
"Tu ti lagni eh' io non abbia voluto crédere a te
delle pére ; e tu, quàl fède prestavi a me, quand' io
ti dicèa che la compagnia de' tristi guasta i buòni ?
Crédi tu, eh' io non pòssa compensarti di quéste
pòche pére che hai perdute ? Ma io non so chi
potesse compensar me, quando tu mi fòssi guasto e
contaminato".
FAVOLA XLIX.
Gli Animali in Pùblica Penitènza.
Un flagèllo che spàrge dapertùtto lo spavènto,
jèllo che il Cielo concepì nel suo furóre per pu-
nire i delitti della tèrra, flagèllo ancor peggióre dèlia
4*
42 FAVOLE MORALI.
medicina e della tirannia, la péste (poiché in sómma
bisógna chiamarla col suo nóme), capace èssa sóla
d' arricchire 1' Acheronte in un giórno, faceva terri-
bil guèrra àgli animali. Non morivano tutti, ma
tutti n' èrano cólti. Non più occupazióni tra lóro
per sostenére una vita moribónda ; non più il lóro
appetito richiedeva il cibo. Ne le Vólpi, ne i Lupi
tendevano più insidie alla prèda ; le Tortorélle si
fuggivan a vicènda ; non più amóri, non più giòie.
Il Leone in tal frangènte, tenuto un gran consiglio,
parlò in quésti tèrmini : '' Cari amici miei, crèdo
che pei nòstri peccati il Cielo abbia permésso che ci
còlga quésto disastro. 11 più colpévole di nói
dùnque si sacrifichi alla vendétta celèste : fórse che
così égli otterrà la salute comune. C inségna la
stòria che in sì fatti accidènti fànnosi di tali sacrifizj.
Non ci lusinghiamo dùnque affatto : esaminiamo
sènza indulgènza lo stato dèlia cosciènza nòstra.
In quanto a me, soddisfacendo all' avidità del mio
appetito, ho divorato in vàrie occasioni mólte pè-
core. Che tòrto m' avéano fatto le poverétte ?
Nessuno. Anzi mi accadde alcune vòlte di man-
giare anche il pastóre. Mi sacrificherò dùnque, se
fa d' uòpo, ma penso èsser giusto che ciascuno si
accusi, cóme io fo, in una generale confessióne ;
poiché débbesi desiderare, secóndo ógni giustizia,
che perisca il più colpévole di tutti" — ." Sire", re-
plicò la Vólpe, "vói siete un monarca tròppo buò-
no ; i vòstri scrùpoli manifestano la vòstra sómma
delicatézza. E che ! mangiar pècore, agnèlli, quel-
la canàglia, quella stùpida razza, é fórse un delitto ?
No, no ; anzi Vòstra Maestà eòi suoi dènti augusti
gli onorò grandemente. E quanto al pastóre, si
PARTE PRIMA. 43
può dire con giustizia, eh' égli era dégno d' ógni
guàio, essendo di quella ridicola spèzie, la quale si
assume un chimèrico impéro sugli animali". Così
parlò la Vólpe, e non mancarono da ógni lato adu-
latòri che 1' applaudirono. Nessuno osò scrutinar
tròppo addéntro le azióni meno dégne di perdóno
ne della Tigre, ne dell' Orso, ne delle altre potèn-
ze : tutti i più famósi accattabrighe fin anche i ma-
stini, a détto d' ognuno, èrano altrettanti Santarelli.
L' Asino venne a suo tèmpo, e disse : " Con do-
lóre mi rammenta, che una vòlta passando per un
prato di reverèndi mònaci, stimolato dalla fame e
dall' occasione di vedére quella soave verdura, e
fórse anche spinto da qualche spirito diabòlico, ho
còlto alcuni fili di quell' èrba tenerélla. lo non ne
avèa alcun diritto, a dirla schiettamente " A
quéste paróle, da tutti i lati s' udì gridare : " Ad-
dòsso a quél furfante !" Un Lupo, alquanto iniziato
nella cùria, provò con un' aringa eloquentissima, che
bisognava immolare quél malnato animale, quél pe-
lato, quél rognóso, sóla cagióne dell' ira del Cielo.
Quél suo peccadiglio fu giudicato un caso da fórca.
— Mangiare 1' èrba d' altrùi ! — Che abbominévole
delitto 1 — La mòrte sóla èra capace d' espiare un
tale misfatto. Ed élla in fatti 1' espiò.
Secóndo che sarete potènte o pòvero ^ i giudizj di
córte vi renderanno bianco o néro.
44 FAVOLE MORALI.
FAVOLA L.
U Amòrej e V Interèsse.
[La stessa in Versi ; Parte Seconda, Fav. L.]
Narrano le antiche stòrie delle Deità, che trovà-
ronsi un giórno nel palàgio d' un ricchissimo uòmo
r Interèsse e 1' Amòre ; e tutti e due quivi avéano
faccènda a prò del padróne. Soprintendeva 1' In-
terèsse àgli affari di lui, e faceva le ragióni dell' en-
trata e dell' uscita, con tanta avvertènza e accura-
tézza, che tutte le còse quivi prosperavano. Dall' al-
tro lato Amòre, secóndo la piacevolézza del suo
costume, avéa condótto il padróne dèlia casa ad
amare la più bèlla e la più vistósa fanciulla,
che mài si fòsse veduta al móndo, e rideva in fàccia
all' Interèsse, perchè la giovanètta, còme che
avesse in se ógni perfezióne di bellézza, la non
èra però ricca, né avéa altri bèni, fuorché quelli
de' suoi vaghissimi òcchi, d' una fàccia veramente
celèste, e d' una statura e un portaménto di persó-
na, che pittóre o statuàrio non avrebbe potuto fare
con 1' invenzióne, quello che in lèi avéa fatto natura
in effètto.
Non potèa sofferire 1' Interèsse, che, per òpera
del baldanzóso fanciullo, gli fòsse tòlta dàlie mani
una ricca dòte, la quale avéa égli più vòlte già
noverata coli' immaginazióne ; e se avesse potuto,
r avrebbe co' dènti tritato. Tanto èra 1' òdio che
avéa concepùto cóntro di lui ! Con tutto ciò facendo
quél miglior viso che potèa, e pensando in suo
cuòre in quàl mòdo potesse far sì che Amóre non
avesse più autorità di comandare àgli umani cuòri
PARTE PRIMA. 45
quello eh' égli voléa, trovò, come eolui che tristo
e malizióso èra, un inganno di quésta sòrta. Pòsesi
un giórno a sedére con un mazzo di carte in mano,
e quasi per ischérzo mescolandole, e facendole
1' une fra 1' altre entrare, giuocàva da sé a sé alla
bassòtta, con un mónte di monéte da un lato, tutte
d' uro che ardeva, e coniate allóra allóra, che
avrebbero invogliato un romito. Amóre a pòco a
pòco accostatosi, póse cèrti pòchi quattrini in sui
primi pùnti, i quali 1' Interèsse, che avèa nelle un-
cinate mani ógni maliziósa perizia, glieli lasciò vin-
cere per maggiormente adescarlo ; ma pòi cominciò
a tirare acqua al suo mulino, tanto che Amóre ri-
scaldatosi si diede a pòco a pòco al disperato, e ad
accréscere quantità, sperando pure che la mala for-
tuna si cambiasse in buòna. Ma èra tutt' uno ; e in
brevissimo tèmpo Amóre si ritrovò sènza un quat-
trino, e con maggior vòglia di giuocàre di prima.
Che volete vói più ? Avendo égli già giuocàto ógni
còsa, póse sópra un maladètto asso fino 1' armi sue,
e avendo quelle perdute, vi lasciò finalménte 1' arco
le saétte, il turcasso, e finalménte le pènne dell' ali ;
per mòdo che, vergognandosi di mài più compa-
rire dinanzi a Vènere, sua madre, s' intanò e na-
scóse per mòdo, che non si sa pòi più dóve andasse.
L' Interèsse, dèlia vittòria tutto lièto, si legò le
pènne alle spalle cóme potè, e, pigliate V armi
d' Amóre, va oggidì in càmbio del legittimo padróne
di quelle, adoperandole secóndo che gh pare che
vi sia da far guadagno, e da chi non è informato
dell' istòria, viene Amóre creduto,
46 FAVOLE MORALI.
FAVOLA LI.
U Sóle, e il Ghébro.
In un bel giórno di state, sórse d' improvviso una
fròtta di nùvole, e velò la fàccia del Sóle. Un buon
Ghébro, più divòto che filòsofo, si mise a strillare
ed a piagnere, e proruppe in querèle ed impreca-
zióni cóntro di quelle arditàcce, che violavano 1' og-
getto del suo culto. " Ohimè !" diceva égli, "Arima-
no, il figlio dèlie tenebre, vuol far guèrra al primo-
gènito d' Oromazo? Quésti nugoli son suoi ministri.
Vedi cóme s' aggruppano, còme s' accavallano, còme
guastano a pòco a pòco quella divina bellézza. La
metà del Sóle è già fosca ; ben tòsto noi vedrò più.
Ohimè ! égli èra così bèllo, così benèfico ! ed èsse
il vogliono spènto ! Che sacrilègio ! che orróre !"
Mentr' égli così diceva, il Sóle, spuntando con un
ràggio dall' órlo d' una nùvola, mandò quéste vóci :
"Buon uòmo, m' è grato il tuo zèlo, ma tu vaneggi
sènza saperlo, e pòco meno che non mi bestemmi
per divozióne. Quéste nùvole non giùngono sino a
me ; èsse non nuòcono che alla tua vista : quàl
cólpa ci ho io se per quésto vélo tu non puoi raffi-
gurarmi cóme per lo innanzi ? Il tuo timóre è ridi-
colo. Quél nugolóni che ti spaventano non hanno
fòrza da sostenérsi : attèndi un pòco ; ben tòsto tu
li vedrai cader da sé stèssi, e stemprarsi in piòggia.
Io allóra ti parrò più bèllo, e sarò lo stèsso. Avverti,
uòm da bène, che, lagnandoti dèlie nùvole, ti lagni
di me. Non sono èsse altriménti figlie d' Arimano,
ma mie. Esse mi son care, perchè son òpera e
testimònio dèlia mia divina influènza. E la mia
PARTE PRIMA. 47
fòrza attiva, è il mio calór penetrante, che, insinuan-
dosi né' còrpi, n' astrae 1' ùmido, e lo solleva,
e lo tira a sé ; vorresti! che io cessassi d' èsser
il Sòie, per non vedérmi offéso da un pò' di
bùio? Datti pace, e rispetta le léggi della natura:
ne il Móndo può star sènza Sóle ; né il Sol sènza
Nàvole^\
FAVOLA LII.
// Garòfano.
Era felicissimo, sópra tutti altri fióri del giardino,
un Garòfano piantato in un pitale di créta ; perchè
la Géva, contadinélla, n'avéa prèso una cura grande
fin dal suo primo nasciménto. Al primo spuntar
del sóle, ne lo traeva fuòri della sua capannétta, e
gli facéa godere i primi ràggi di quél benèfico piané-
ta ; e, quando soverchiamente cuocevano, lo rico-
priva ; ed a tèmpo con purissima e frese' acqua
d' una fontana vicina nel ristorava, alloggiandolo la
séra, per timóre che quàlque sopravvenuto némbo
non lo guastasse, o fórse non gli togliesse la vita.
Parlava spésso col fióre la sémplice villanèlla, e gli
dicèa: — Tu sé' tutto il mio amóre, io non ho altro
pensièro, ne altra cura che te. — E sì lo rimirava
di quàndr in quando, che veramente si vedèa,
eh' élla non aveva in cuòre altro affètto, che lui
Un giórno vèrso la séra, entrò nel giardino una
gióvane bèlla e vistósa, cóme quella che fornita èra
di vestiménti di séta e d' argènto, ed avéa intórno
le più nuòve e più squisite fóg2;e, che s' usassero,
non dico fra le signóre, ma dalle più capriccióse
48 FAVOLE MORALI.
ballerine, che facciano in sui teatri di se spettàcolo
e móstra. Ella avéa, fra gli altri abbigliaménti,
dall' un lato del petto cèrti fiorellini di più stagióni,
che mossero ad invidia il Garòfano ; il quale con un
sospiro disse fra sé : " Vedi sventura eh' è la mia !
Non son io bèllo? Non sono io garbato, quanto
ciascheduno de' fióri, eh' adornano il séno di cotèsta
così bèlla e gentile creatura? E perchè sono io
condannato ad èssere possessióne d' una villanèlla ?"
Udi la Signóra le paróle, e se ne compiacque sorri-
dendo alcun pòco ; ma pure fingendo di non aver
pósto ménte alle sue paróle, passeggiò due o tre
vòlte il giardino ; e sèmpre ritornava per la medési-
ma via, per udire se il fióre dicèsse altro. Che più?
Égli rinnovava la spiegazióne de' suoi desidèrj, ed
élla finalménte rivòltasi a lui, con pòche paróle
furono d' accòrdo 1' uno e 1' altra ; sicché la dònna,
gittàto via il mazzolino di fióri eh' avéa, còlse il
bellissimo Garòfano ; e lo si pòse al suo séno.
Trionfava il pòco giudizióso fióre, e non si curò
d' èssere troncato da quelle radici, che gli davano
la sostanza dèlia vita ; perché in quél principio tutto
gli parve felicità, e si rallegrava di veder gli altri
fiorétti gittàti dàlia Signóra sul terréno; e senza più
ricordarsi pùnto né dèlia Géva sua, che l' avéa cosi
cordialmente amato, né di quella tèrra, che nudricàto
1' avéa, se n' uscì trionfando fuòri del giardino.
Ma non andò mólto tèmpo, che gli convenne, prima
a suo dispétto trovarsi con altri fióri mescolato, e
finalménte fu, per órdine dèlia Signóra, cóme una
còsa fràcida, gittàto fuòri per la finèstra, dando loco
ad un bocciuól di ròsa nuovamente venuto, ed
accòlto.
PARTE PRIMA. 49
FAVOLA LUI.
// Gambero, e V Uccèllo Aquatico.
Stàvasi un Uccél d' acqua éntro a un lago mólto
grande, intórno al quale nella sua gioventù si èra
saziato di pésce ; ma poiché gli anni gli avevano
fatto sòma addòsso, a gran péna potendosi méttere
neir acqua per pescare, èra per morirsi di fame.
E standosi cosi di mala vòglia, venne alla vòlta sua
un Gambero, e dissegli : " Buon dì fratèllo ; e che
vuol dire, che tu stài così maninconiòso ?" A cui
V Uccèllo : ** Còlla vecchiézza or può égli èssere
allegrézza, o còsa nuòva ? còlla giovanézza poteva
pescare, e vivévami ; óra per èssermi còlla vec-
chiàia mancate le fòrze, mi muoio di fame ; perchè
più pescare non posso: ma dato anco eh' io pur
potessi, pòco mi gioverebbe ; conciossiachè son
venuti cèrti pescatóri, i quali dicono che hanno de-
liberato di non si partir di quésto paese, sino a tanto
che non hanno vóto tutto quésto lago ; e dòpo
quésto, vogliono andare ad un altro, e fare il medési-
mo". Udendo il Gambero così mala novèlla, sùbito
se n' andò a ritrovare i pésci del lago, e contò lóro
cóme passava la còsa : i quali, conoscendo il gran
pericolo eh' è' portavano, sùbito si misero insième,
e andarono a trovare quell' Uccèllo per chiarirsi
mèglio del fatto. Arrivati a lui, gli dissero : " Fra-
tèllo, ci è stata raccontata per tua parte una mala
novèlla, la quale quando fòsse véra, le persóne
nòstre sarebbero in grandissimo pericolo. Però
desideriamo da te pienamente sapere còme il caso
passa ; acciocché, avendo da te quell' aiuto e con-
50 FAVOLE MORALI.
sigilo, che tu giudicherai a propòsito, nói facciàm
pòi quella provvisióne che ci parrà neccessària".
A' quali 1' Uccèllo, con ùmile e pietóso sembiante,
disse : " L' amor grande eh' io vi pòrto, per èssermi
sino da fanciullo creato in quésto lago, mi sfòrza ad
aver di vói pietà in tanto pericolóso accidènte : e
perchè 1' ànimo mio non è di abbandonarvi in tutto
quello che per me si potrà, vi dico, che mio parére
sarebbe, che vi discostàsle dall' affrónto di quésti
pescatóri ; i quali, còme già vi ho détto, non la per-
doneranno a veruno. E perchè io, mercè dèlia leg-
gerézza dèlie mie ali, ho veduto mólti bèi luòghi,
dóve sono 1' acque chiare e accomodate al vivere
vòstro ; quando vogliate, io ve ne insegnerò uno
mólto al propòsito vòstro". Parve all' universa! di
quéi pésci il consiglio assai buòno ; e nessun' altra
còsa a ciò fare dava lor nòia, salvo il non aver chi
gli conducesse al luògo. Perchè il sagace Uccèllo
si offerse lóro, e mólto prontamente promise ógni
suo potére. Sicché ponendosi gli sventurati pésci
spontaneamente nelle sue mani, egli ordinò che ógni
dì gliene montasse addòsso cèrta quantità, quando
égli si metteva coccolóni nell' acqua, perchè così
pian piano li condurrebbe pòi al luògo disegnato ;
ónde raccòltane ógni dì quella quantità che gli pa-
reva a propòsito, la portava in cima di un mónte
ivi vicino, dóve pòi se la mangiava a suo beli' àgio.
E cóme quésta tàccola fòsse durata mólti giórni, e il
Gambero, eh' èra un pò' cattivèllo, fòsse entrato in
qualche sospètto ; é' supplicò un dì all' Uccèllo che
lo menasse a veder i suoi compagni. L' Uccèllo
sènza farsene mólto pregare, còme quello che aveva
caro levarselo dinanzi, perchè non gli scoprisse
PARTE PRIMA. 51
1' inganno ; prèsolo per il bécco, mòsse 1' ali vèrso
quél mónte, dov' égli si aveva mangiati gli amici
suoi. Il Gambero veggèndo un pèzzo discòsto le
spogliate lische degli sventurati compagni, s' accòrse
dell' inganno ; e sùbito si deliberò salvare a sé la
vita, se possibil fòsse, e vendicare la mòrte di tanti
innocènti ; e, facendo vista d' aver paura di cadére,
distèso r uno de' bràcci il maggióre vèrso il còllo,
r aggavignò sì fòrte con què' dènti aguzzi, che lo
scannò ; sicché amendùe caddero in tèrra ; ma
perchè il Gambero rimase di sópra, non si fece mal
veruno. Tornatosene pòi pian piano dà' compagni,
contò lóro la disgràzia de' mòrti, e il pericol suo
e il lóro, e la bèlla vendétta eh' égli aveva fatto
dell' atróce inganno ; e n' ebbe da tutti lóro mille
benedizióni.
Sovènte vòlte V inganno cade sópra V inganna-
tóre.
FAVOLA LIV.
ha Nébbia, e i tre Astrologi.
Furono già tre Astrologi uòmini dabbène, che, la-
sciata indiètro ógni cura del còrpo, s' èrano dati a
coltivare con la lóro sciènza 1' intellètto, ed acqui-
starsi fama d' uòmini sàggi. Costoro, i quali vede-
vano nell' avvenire con quella sicurézza eh' éi
conoscevano d' aver cinque dita per ciascheduna
mano, furono un giórno tutti e tre insième per par-
teciparsi una novità grande, che avèano veduta nelle
stélle. Dicevano che fra dièci di si dovéa stèndere
53 FAVOLE MORALI.
sópra la città lóro una ^Nébbia, così gròssa e di tanto
maligna natura, che con la malizia sua penetrando
pégli orécchi, pégli òcchi, pel naso, e per la bócca
degli abitanti, gli avrebbe fatti tutti impazzare, dal
governatóre sino al più asinàccio facchino. Per la
quàl còsa incominciarono cotesti tre sapiènti a ral-
legrarsi, ed a dire fra lóro in quésta fórma : " Lodato
sia il Cielo ! è venuto finalménte quél pùnto, in cui
saremo reputati dal móndo quelli che siamo, e la
fama di nói correrà per tutta la tèrra. Quando tutti
saranno pazzi, é' sarà un gran nòstro onore a trovar-
ci sàvj ; óltre di che avendo nói cura di guardarci
bène da cotèsta nébbia, che dèe sopravvenire, po-
tremo pòi fare a mòdo nòstro, e règgere tutti i pazzi
con quelle lèggi che nói vorremmo, ed èssere
signóri di tutto". Con quésto propòsito delibera-
rono di sfuggire a tutto lóro potére la Nébbia ; si
chiùsero in una stanza all' oscuro, serrarono finè-
stre ed ùsci, ed a péna lasciarono una fessurélla
per dóve potesse entrare ària, non che altro. Ve-
ramente il dècimo dì, còme avéano predétto, venne
la pestilenziòsa Nébbia, e per tutta la città s' allar-
gò, facendo uscire di cervèllo quanti v' èrano dén-
tro. I tre compagni, che s' avéano turati gli oréc-
chi con una spugna inzuppata nell' òlio, e nello
stèsso mòdo il naso e la bócca, quando fu passata
quella maledizióne, si sturarono, e ne furono vera-
mente salvi. E quando parve lóro, che 1' ària si
fòsse purgata e rischiarata, apèrsero un finestrino, e
furono spettatóri d' una nuòva e strana tragèdia, o
commèdia, còme la vogliamo chiamare. Imperoc-
ché incominciarono a vedére per le vie, vècchie
con nastri vermigli e turchini, che danzavano ;
PARTE PRIMA. 53
vecchiòtti tutti guerniti di frànge d' òro e d' ar-
gènto ; gióvane e gióvani, che vendevano il sénno,
e volevano ammaestrare ognuno ; i dottóri por-
tavano per la città i pési, ed i facchini andavano in
còcchio vestiti da gran signóri, e contegnósi còme
principi ; véri segnali che la città èra divenuta pazza
dà' fondaménti. Non vi potrei dire quanto i tre
sòcj si rallegravano, e dicevano : " Oh fortunati nói,
e beata la sciènza nòstra ! eccoci oggimài padróni
di tutti. Nói signoreggeremo tutte quelle tèste.
Oh quali ordinazióni, quali statuti faremo in quésto
luògo ! chi potrà contrastare a' nòstri capi ripièni di
giudizio in un luògo, dóve non si trova più chi ci
pòssa stare a frónte ? I sàvj siamo nói sóli".
Così détto fra lóro, uscirono di quella stanza,
dov' èrano stati rinchiùsi, e, perchè la gravità è
madre del buon concètto, andarono fuòri con cèrti
òcchi tardi e gravi, e con un passeggiare lènto e
nòbile ; ed ad ógni pòco si stringevano nelle spalle,
mostrando a qué' pazzi, con quest' atto, che cono-
scevano le pazzie lóro, e talora con una sublime
intuonatùra gli correggevano. — *' Dónde sono usciti
quésti tre animali ?" dicevano i pazzi. " Che si
crédono èssi di fare con quél cèffo, e con quéste lóro
ammonizióni ? Costoro debbono èssere tre pazzàcci
solènni. Agli atti mostrano certamente d' èssere
tali. Non guardano còme gli altri ; camminano in
un cèrto mòdo, che qui non s' usa ; dicono còse, che
non intendiamo". Che volete di più? Tutto il
pòpolo incominciò a ridere, a córrere lóro diètro, a
farsi bèffe, ed a dar lóro tanta nòia e fastidio, che,
se non vollero èssere stimati pazzi, convenne che si
fingessero cóme tutti gli altri, e che, vestiti tutti e tre
5*
54 FAVOLE MORALI.
da dònna, ballassero una gagliarda in piazza, di bel
mézzo giórno, in un cérchio di fórse trecènto per-
sóne, dimenticandosi il cervèllo, che avéano in capo;
e maledicendo 1' óra ed il pùnto, che s' èrano guar-
dati dalla Nébbia.
FAVOLA LV.
Z#' Onore, e il Mèrito,
L' Onore ài tèmpi di Saturno èra giovine, aiu-
tante dèlia persóna, àgile di mèmbra, e d' òcchio
cerviere. Egli avèa per istinto di andar sèmpre
diètro le tràcce del Mèrito. Ma quésto, pago sol
di giovare sènza rivòlgersi a guardare se n' èra
seguito, andava per la sua via così ratto, che si
avéa péna a raggiùngerlo. Lióltre égli cangiava
tratto tratto colóri e spòglie ; ne pareva aver fórme
pròprie, che '1 distinguessero. Talvòlta in sem-
bianza di Re, beava un' intéra nazióne con sàvie
léggi, tal' altra coli' élmo e 1' usbèrgo, salvava una
città minacciata da un usurpatore : óra in mézzo ad
un parlaménto, calmava i furóri d' una cièca moltitù-
dine ; óra portando in mano 1' ulivo ed il caduceo,
riamicava due province disunite dàlia discòrdia.
Del rèsto, sémplice e schiètto nell' àbito, nelle
paròle modèsto, non dava innanzi tratto verùn sen-
tóre di se, ne si lasciava riconóscere se non dai fatti.
Allóra sólo la sua fórma sembrava farsi maggior di
se stéssa, e paréa che '1 suo vólto mettesse ràggi .
ma non sì tòsto crasi manifestato quasi a suo mal-
grado, che togliévasi all' altrùi sguardo, e celandosi
sótto altre spòglie, correva ad esercitar il suo istinto
PARTE PRIMA. 55
benèfico, óve più lo invitavano i bisógni dell' uma-
nità. Il vestito dell' Onore èra altrettanto appari-
scènte, quanto sémplice quello del Mèrito ; manto
listato e spàrso di figure, coróna d' allòro in capo,
cintura fregiata d' intàgli: le dita splendèano di
gèmme ; aveva alle braccia smaniglie, monili al còllo :
caténe, frenèlli, piume, fàsce, nastri, cifre, e frégi
d' ógni fatta, gli guernivano il petto ed il dòrso.
Con quéste divise correva di luògo in luògo in cérca
del Mèrito, e quando gli veniva fatto di còglierlo sul
pùnto di qualche nòbile azióne, si spiccava tòsto di
dòsso alcuno dèi suoi arnési, e si godèa di fregiame-
lo. Quelle inségne così degnamente collocate, sfa-
villavano d' una face, che incitava lutti gli sguardi ;
ciascheduno èra vago di possedérle : la brama d' aver
le spòglie dell' Onore, indusse più d' uno ad imitar
le imprése del Mèrito ; e la tèrra godè qualche tèm-
po dèi frutti dèlia virtù. Ma sotto il régno di Giòve
le còse cangiàron di fàccia : la corruzióne prevalse.
I vizj tramarono la rovina del Mèrito ; 1' Invidia lo
perseguitò, la Calùnnia 1' opprèsse : i suoi ammira-
tóri intimoriti si tacquero, ed égli stésso proscritto
nelle propolóse città, fu costretto a rifuggirsi tra le
capanne, e tra i bòschi.
L' Onore, dòpo averlo cercato indarno per lungo
tèmpo, credendolo spénto per sèmpre, invecchiò di
tristézza, e distillòssi in làgrime sì fattaménte, che
ne divenne scerpellino e bircio. La tèrra desolata
dà' vizj, sentì alfine il bisógno del Mèrito, e lo rido-
mandava con alte grida. Allóra alcuni partigiani
de' suoi nemici pensarono di prevalérsi dèlia debbo-
lèzza dell' Onore, per abusare dèlia credulità ed
ignoranza del vólgo. Viveva égli ritirato ed oscuro,
56 FAVOLE MORALI.
pascendosi della sua dòglia. La Ricchézza, gli si
pòse a frónte, ed abbarbagliandolo col chiaròr delle
gèmme e dell' òro, gli slacciò bellamente la sua cin-
tura, e la si affibbiò. L' Ambizióne, pòstaglisi diètro
le spalle sópra una scala, gli levò di capo la coróna,
ed inghirlandóssene. L' Adulazióne, strascinandosi
per tèrra a guisa di sèrpe, ed avvoltolandosi tra i
suoi vestiti, gli spiccò una caténa, che gli pendeva
sul petto. La Fròde, gli si attraversò tra piedi, e fat-
tolo inciampare, mostrando di soccórrerlo, gli trasse
di dito un anello. La Fòrza, appiccata una zuffa
intórno di lui, nella confusióne di quella mischia, gli
strappò il manto : le piume, i nastri, le cifre cadde-
ro a tèrra, ed i più arditi dèlia canàglia le si ciuffa-
rono. Il misero vècchio èra cosi istupidito dalla sua
tristézza, che non s' accórse del furto. Colóro dòpo
quésta prèda se n'andarono chi qua, chi là: cia-
scheduno gridava alla moltitùdine : " Eccomi, io son
quello che vói cercate, io sono il Mèrito ; 1' Onore
mi riconóbbe, égli mi fregiò dèlie sue inségne ; adora-
temi". La sciòcca turba lo si credè, e ciascun di
lóro ebbe cortigiani e poèti. Una tal nuòva giùnse
all' orécchio del Mèrito colà nei buschi, e lo ferì
più al vivo che la persecuziòn dell' Invidia. —
^' Ohimè !" diss' égli, "colèi alméno mi rispettava,
poiché volèa la mia mòrte ; ma quésti indégni mi
avviliscono, e disonorano il mio nóme. Andiamo,
mostriamoci al móndo, e vediamo s' è possibile di
smascherar 1' impostura".
Era già alle pòrte dèlia città, quando si ab-
battè nell' Onore, che, mèzzo cièco, e pressoché
imbarbogito, se n' andava a capo chino, pen-
sando a lui. — "Oli!" diss' égli, *' è quésto il
PARTE PRIMA. 57
mio amico ? Vedi com' è fatto vècchio ! com' è
divèrso da quél di prima ? Squàllido, smùnto !
chi potè farne sì rèo govèrno ?" L' Onore il ri-
conóbbe alla vóce: ^'M' inganno?" gridò tòsto,
*^ sèi pur tu désso ? Ah ! io non ho dùnque vissuto
indarno ; eh' io ti càrichi de' miei dóni, io te li sèrbo
da sì gran tèmpo". Métte la mano al capo, ne
trova più la coróna ; cercò il suo manto, è sparito ;
si tasta il petto e le braccia, e si scòrge ignudo.
— " Intèndo", disse allóra, quasi rinvenuto da un
sógno, " le mie spòglie fur mèsse a sacco ; ma non
importa, mi rèsta il mèglio" : e in così dire, getta-
tegli le braccia al còllo : " Prèndi", soggiùnse ; " al-
tro è 1' aver ^e mie inségne, altro aver me".
Queir abbracciaménto fu di singolare efficàcia :
1' Onore ringiovenì, e ricuperò la sua vista. li
Mèrito, accompagnato dall' amico, non ebbe che a
comparire per farsi conóscere, e trionfar di tutti i
cuòri ; i suoi indégni rivali ne furono svergognati e
confusi. Ciascheduno, per non èsser ravvisato,
volèa rèndere le spòglie mal tòlte ; ma 1' Onore
volle che le conservassero, e le portassero mài sèm-
pre indosso per ignominia e ludibrio. L' Onore da
lì innanzi non perde più di vista il Mèrito, e
què' giórni in cui si mostrano abbracciati, danno al
móndo il più leggiadro spettàcolo.
PARTE SECONDA:
FAVOLE IN VERSI
Una Donna più bella assai del Sole,
E più lucente, e di maggior etade,
Mandata' giù sulla terrestre mole
Dalle celesti lucide contrade,
Per dissipar col suo divin fulgore.
La cieca nebbia dell' umano errore.
PiGNOTTi. — Origine della Favola,
RACCOLTA DI FAVOLE MORALI
PARTE II.
FAVOLE IN VERSI.
FAVOLA I.
H Fiore, e la Ròvere,
Vedendo Ròvere annosa e fòrte,
Un Fior lagnàvasi della sua sòrte :
" La vii d' un àlbero fosca verdura
Pur fino al tèrmine d' autunno dura
Ed io d' amàbili colori adórno
Ho sol la misera vita d' un giórno".
Udì la Ròvere, e al Fior rispòse :
^' Son tutte fràgili le belle cóse'\
FAVOLA IL
Il Leone Debitore.
*
Prese il Leone in certa malattia
Da diversi animali i cibi in prèsto :
Nulla rendea guarito, e poi eh' udia,
Che colóro mal paghi eran di quésto ;
6
62 FAVOLE MORALI.
Chiama il Lupo a consiglio, e vuol che dia
Un compenso agli affari equo ed onèsto :
Il Lupo per quietar tutti i clamóri
Divorò ad uno ad uno i creditóri.
FAVOLA III.
Il Ladro, e il Cane.
[La stessa in Prosa ; Parte Prima, Fav. III.]
^* Del pane eh' io ti reco
Perchè con guardo bièco
Fai tu, stolto, rifiuto ?"
Disse al Cane fedéle il Ladro astuto. —
*' Perchè mentre t' appressi a questa sòglia
Col favóre dell' ómbre,
Latrar posso a mia vòglia,
Quando le fauci ingómbre
Non sento dal tuo pane" ;
Rispóse al Ladro astuto il fido Cane.
FAVOLA IV.
Il Lupo, e il Pastore.
Un Lupo, che, già vècchio, non potèa
Sul gregge esercitar lo strazio usàto^
Fé' sapere al Pastòr, eh' egli volèa
Far penitènza d' ogni suo peccato.
Dalle straggi cessar, da ogni òpra rèa,
Purché parco aliménto gli sia dato.
Disse il Pastòr : ^* Si umani sentiménti
Dovea spiegarmi quando aveva i dènti".
PARTE SECONDA. 63
FAVOLA V.
Le due Spighe.
^^ Perchè sì umile, e china,
Mentre io sì dritta, e bèlla
M' èrgo quasi regina
Della vasta pianura?"
Dicéa verde sorèlla,
A una Spigha matura.
Ma le rispónde quella :
^' T' empi di grano, allóra
Ti curverai tu ancóra".
FAVOLA VI.
La Rana, e il Bue.
[La stessa in Prosa ; Parte Prima, Fav. VI.]
Vide una Rana un Bòve
Grande non mèn che bèllo,
E a farsi come quello
Facèa tutte le pròve.
La sua grinzósa pèlle
Gonfiava la vii Rana,
Indi, supèrba e vana,
Diceva alle sorèlle :
" Al Bòve sono eguale ?" —
^' Eh ! nò", diss' una allóra. —
Gonfiandosi ella ancóra.
Richiède : " Or chi prevale ?" -
64 FAVOLE MORALI.
" Il Bòve". — " Or che ti pare ?" —
'' Eh ! via". — '* Ma finamente ?" -
*' Nemmén". — *' Or state attènte,
Mie sorelline care".
Gli sfòrzi allor raddoppia
Per riportarne il vanto,
E si distènde tanto.
Che finalménte scòppia.
Ognun nella sua sfera
Modèsto sempre stia :
Lea favoletta mìa
Per chi noi fa s' avvera.
FAVOLA VII.
i' Uomo, e il Cavallo.
Padròn d' un agilissimo
E dòcile Destrièr,
Un Tal traea grand' ùtile
Facendo da corrièr.
Ma tanto il fece córrere,
Ma tanto 1' adoprò,
Che un dì, più non potendone,
La béstia alfin crepò.
" Talór si perde il mólto che si ha
Per quella péste delV avidità^' .
PARTE SECONDA. ' 65
FAVOLA Vili.
Due Torij e un Cane.
Stàvan nello steccato
Due Tàuri, quando veggono da un lato
Venir velocemente
Un Cane, che abbaiava fortemente.
Il più gióvane allor si spaventò,
Ma r altro disse : '' Non temerne, nò,
Costili non ci sarà d' alcuno intòppo,
Perch' égli abbaia tròppo".
Guardati dalV irato, che non parla ;
E non temer la còllera, che ciarla.
FAVOLA IX.
Lo Sparviere, e V Uccellatore.
[La stessa in Prosa ; Parte Prima, Fav. IX.]
Lo Sparvière perseguiva
La colómba, che fuggiva
Da lui timida e smarrita,
E vicin' a esser ghermita
Dalla zampa sua grifagna.
Per ventura in una ragna
Incappò quel predatóre.
Venne a lui 1' Uccellatóre,
Tra le mani tosto il prése,
E 1' Uccèllo, che comprése
Che il voleva far morire,
Tai paróle gli ebbe a dire :
6*
66 FAVOLE MORALI.
'' A te mài non feci male".
L' Uom rispóse : " Non ti vale
Te ne fé quell' innocènte ?"
E 1' uccise immantinènte.
Qui s' adàttan questi détti :
" Chi fa male, male aspètti*^
FAVOLA X.
La Gioventù, e il Piacere.
Nel giardin del Piacére
Entrò 1' incàuta gioventùde un di :
Cortése il giardinière
I suoi fióri le offri :
Ma tutti in un instante,
Avida, possedérli essa voléa ;
Recise, svèlse, calpestò le piànte ;
Ma quando, paga di sua vana idèa,
Guardossi in grembo, vi trovolli tutti
Pel suo folle desio, laceri e brutti.
FAVOLA XL
Il Gatto, e il Formaggio.
Col teso orécchio il timido Castaldo
Neil' ùnta sua dispènsa un rumor òde,
E s' accòrge che un sorcio ingordo e baldo,
Da un buco entrato con secreta fròde,
Per esercizio del suo dente saldo.
Un Marzolin pinguissimo si róde :
PARTE SECONDA. 67
Chiude entro il Gatto ; e il Gatto prode e sàggio
Uccise il tòpo, e poi mangiò il Formàggio.
Un avido alleato talor nóce
Pia che il nimico tórbido e feróce,
FAVOLA XII.
Il Fanciullo, e i Pastori.
[La stessa in Prosa j Parte Prima, Fav. XII.]
'^ Al lupo, al lupo ! aiuto per pietà",
Gridava, solamente per trastullo,
Cecco il guardiàn, sciocchissimo fanciullo :
E quando alle sue grida accorrer là
Vide una grossa schièra di villani,
Di cacciatori e cani.
Di forche, pali, ed archibùsi armata,
Fece loro sul muso una risata.
Ma dopo pochi giórni entrò davvéro
Tra il di lui gregge un lupo, ed il più fièro. —
"Al lupo, al lupo!" il guardianèllo grida;
Ma niùno ora 1' ascólta,
O dice : " Ragazzàccio impertinènte,
Tu non ci burli una seconda vòlta".
Raddoppia invàn le strida.
Urla e si sfiata invàn, nessun lo sente :
E il lupo, mentre Cecco invan s' affanna,
A suo beli' àgio il gregge uccide e scanna.
iS^e un uòmo 'per bugiardo è conosciuto,
Q^uand^ anche dice il ver, non gli è creduto.
68 FAVOLE MORALI.
FAVOLA XIII.
H Toro, il Cavallo, e la Volpe.
Il Tòro al córso disfidò il Destriero,
E quésti vincitòr fu nella sfida ;
Gli altri animali incontro gli si fero
Con plausi di triónfo, e liete grida.
Sol taceva la Vólpe : A lei 1' altèro,
" Dammi ragion del tuo silènzio", grida.
Essa rispónde : '' I plausi miei consèrvo
Pel dì, che vincitòr sarai del Cèrvo".
Chi sul dehil nimico ebbe vittòria
È ben fólle, se affètta
Vane pómpe di glòria,
FAVOLA XIV.
Il Cane, e la Sorte.
Per vendicarsi d' una vecchia ingiùria
Venne il Cane a tenzóne
Un giorno col leone, e fu sconfitto.
Il vinto Càn piangèa.
Dicendo : "Oh, Sorte rèa,
M' abbandonasti ! e per qual mio delitto ?"
'^ Per quél". Sorte rispósegli,
" D' aver fatto tenzóne
Tu meschinetto Càn con un leone".
Chi co' pia fòrti incauto cozzerà,
Fia sempre vìnto, e sempre torto avrà.
PARTE SECONDA. 69
FAVOLA XV.
jL' Infelice, e la Morte.
[La stessa in Prosa j Parte Prima, Fav. XV.]
Un miserabil Uóm carico d' anni,
E non pòchi malanni,
Portava ansante per sassoso calle
Un gran fascio di légne sulle spalle.
Ecco ad un tratto il debol pie gli manca,
Sdrùcciola, e dentro un fòsso
Precipita, e il fastél gli cade addòsso.
Con vóce e léna affaticata e stanca
Appella disperato allor la Mòrte,
Che ponga fine alla sua trista sòrte. —
'^ Vieni, Mòrte", dicea, " fammi il favóre,
Tòglimi da una vita di dolóre :
Ch' ho a fare in questo móndo ? ovunque miri,
Non vedo che misèrie e che martiri.
Qua di casa il padróne
Domanda la pigióne ;
Il fornaro di là grida, che sènza
Denari ornai non vuol far più credènza :
Se tu non vieni, la mia gran nemica,
La fame, porrà fine alle mie pène ;
Ma morrò troppo tardi, ed a fatica".
Ai replicati inviti, ecco che viene
La Morte a un tratto colla falce in mano,
E gli domanda in che lo può servire.
Sentissi il pover Uóm rabbrividire ;
Che credèa di parlarle da lontano :
E con pallida fàccia e sbigottita.
Rispóse in voce ràuca e tremolante :
70 FAVOLE MORALI.
'' Ti chiamai sòl perchè mi dassi aita
A portar questo fàscio si pesante".
Quando è lontana, pòco ci spaventa
La Morie; ma qualora s^ avvicina,
Oh, che bruita figura che diventa !
FAVOLA XVL
La Vite, e il Potatore.
Al Potatóre dicea la Vite :
^' Dèh ! mi risparmia le tue ferite ;
Io ti prométto, se non m' affanni,
Che sarò bèlla più che gli altri anni :
Che far può un ramo di più, di meno ?
Possenti sùcchi mi dà il terréno".
Al Potatóre, che P ebbe fède,
Essa gran frutto quell' anno diede ;
Ma gli anni apprèsso cangiò di tèmpre,
E tronco inùtile restò per sèmpre.
Gli errór corrèggi di frésca etade :
Guida a rovine la tua pieiàde,
FAVOLA XVIL
Il Pino, € il Melo- Granato.
" Fausta ti fu la sórte.
Che sótto r ombra mia nascer ti fèo" ;
Diceva un àmpio ed orgoglióso Pino
Ad un Melo-Granato suo vicino :
PARTE SECONDA. 71
'^ Allor che vien mugghiando il nembo orrèndo,
Tu di lui non pavènti^ io ti difèndo". ||
Rispóse r arboscèllo : '' È vero, è véro : "'
Ma méntre un ben mi dai,
D' un maggior ben mi spògli ;
Mi difendi dal némbo, e il Sol mi tògli".
Così talvòlta un protettór sublime
Par che ti giòvi, e le tue forze opprime*
FAVOLA XVIIL
Z/' Àsino, e il Cavallo.
[La stessa in Prosa ; Parte Prima, Fav. XVIIL]
Conducéva un mulattière
Un Cavallo ed un Somière.
Il Somiér eh' è lento al còrso
Grave péso avea sul dòrso,
Ne poteva in franco mètro
Al compagno tener diètro ;
Onde disse afflitto e stanco :
" Io mi sento venir manco,
Se da tè qualche sollièvo
Al gran péso non ricévo :
Tu che sé' scarco e leggèro
Dammi aiuto, o buon Destriero,
Pria eh' io manchi per la via ;
Te ne priégo in cortesia".
Il Cavallo andando avànte
Fece orécchi da mercante.
Lo straccàrico Asinèlio
Nel passare un fossarèllo
72 FAVOLE MORALI.
Sotto il péso estinto giacque.
Tratto avendolo dall' acque
Il padróne scaricóllo
D' ogni arnése, e scorticóllo,
Ch' anche il cuòio aver ne volle
Benché fòsse stato in mòlle ;
E ogni còsa pose addòsso
Al Cavallo grande e gròsso,
Che in sentirsi sulle spalle
Le pesanti unnide balle :
"Ahimè! disse, sventurato,
A che mài serbommi il fato !
Ah pensiér fallaci e fòlli !
Io testé portar non volli
Parte alcuna di quel péso
Onde r Asino era offéso ;
Or mi tócca, ah caso fièro 1
A portarlo tutto intéro.
Soma, basto, e pettorale,
La cavézza, lo straccale ;
Fino i fèrri e il cuoio stésso
Sopra gli òmeri mi han mésso'\
Quanti simili oggi sano
Al Destriér, di cui ragiono !
Inflessibili ai laménti
De' Compagni, de' Parénti,
Dar aiuto lor non vónno,
Né sollievo^ quando panno ;
Di cu' pòi con grande affanno
Tutto il péso a portar hanno,
E tra sé, come il Cavallo,
Tardi piàngono il lor fallo.
PARTE SECONDA. 73
FAVOLA XIX.
LéC Nuvole, e il Sole.
Oltre 1' usato bello e sereno
Lasciava il Sóle dell' onde il séno;
Ma oscure Nùvole sorsero intórno,
Ed offuscarono il chiaro giórno.
Il Sol pien d' ira, disse : '^ Al mio raggio
Qual nuovo ostàcolo vieta il passàggio ?
Dunque un terréno denso vapóre
Sorge a confóndere il mio splendóre ?"
Quelle rispósero : " Dall' umil suòlo
Chi ci fé' ascéndere se non tu sólo?"
Del mal che tanto ti dà torménto.
Se tu V hai cérco, 'perchè ti lagni 7
Sol con te stésso fanne laménto.
FAVOLA XX.
R Giorno, la Notte, e il Crepùscolo.
Vennero a fiera lite, e a cose estrème
11 Dì e la Nòtte, insième.
Il Crepùscolo a giùdice fu elètto :
Ei si pose ad udirgli in grave aspètto.
Il Dì gridò : '' Costèi,
Neil' inverno s' usurpa i dritti miei".
Sclamò la Nòtte : " Sappi che costui
Neil' està quasi tutto ei vuol per lui".
Il Crepùscolo disse : " Ornai lasciate
Questa lite, e pensate
7
74 FAVOLE MORALI.
Che, se farete i cónti, in capo all' ànna^
Siete pari nell' ùtile e nel danno".
Se /assi tra congiunti questióne,
Per lo pia tutti han tòrto, ed han ragióne.
FAVOLA XXI.
Il Lupo, e V Agnello.
Mentre beveva un Lupo ingórdo e rio
A un ruscèllo, che a nói scorre vicino^
Tirsi, più sotto a lui giugner vid' io
Un innocènte, e càndido Agnellino.
Ma tratto appéna un sórso ebbe il meschino,
Che udi il Lupo gridar : ^^ Mi turbi il rio".
Ed èi : " Coni' esser può, se il cristallino
Fónte dal labbro tuo discende al mio ?"
Pur gli rispose il fièro : " Un mese o sèi
Sono, che m' offendesti". — "Allora io nàto";
Disse 1' Agnèl, " non èra, e ciò non féi". —
" Dunque fu il padre tuo", soggiunse, e irato
Sbranóllo. — O Tirsi 1 Ah ! contra i fòrti
Non vai ragióne in jpovertà di stato,
FAVOLA XXn.
Z#' Istrice, e la Volpe.
[La stessa in Prosa ; Parte Prima, Fav. XXII.]
*' Dal cammin son così lasso".
Disse r Istrice, "che appéna
Posso più movere il passo". —
PARTE SECONDA. 75
^' Credo ben", disse la Vólpe,
Che viaggiava in compagnia,
^* Che r andar grave a te sia:
Tale hai sélva d' armi indosso,
Che a portarle per un' óra
Stancherebbero un colòsso.
E perchè tanta fatica ?
Qui non v' è gente nemica
Da far guèrra, e da me pòi
Nulla cèrto temer puoi.
Bada a me : quando fra pòco
Troverém sicuro loco
Dove star potrem la nòtte,
Là dei pòrti in libertà,
Di quel péso sollevarti,
E con àgio riposarti".
Credè 1' Istrice, e all' albèrgo
Giunse appéna, che dal tèrgo
Gittò i dardi ond' era armato,
E senz' ómbra di sospètto,
Sonnacchióso, affaticato.
Si sdraiò sopra di un lètto.
Lesta allòr la Volpe ria
Accostòssegli pian piano,
E, veggéndo che dormia.
Lo sbranò senza contrasto,
E ne fece un lauto pasto.
Chi pentirsi non vorrà
Di seguir V altrui consìglio^
Guardi ben chi glielo dà.
76 FAVOLE MORALI.
FAVOLA XXIII.
La Volpe, e il Topo.
Fra 1' àuree Tavolétte, onde erudì
Fedro V antica età, scritto lasciò,
Che per un buco una Volpétta un di.
Smunta di fame, in un granàio entrò.
E il caso e la fortuna benedì.
Che al suo bisógno amica si mostrò,
E tanto ella mangiò, tanto inghiottì,
Che il vuoto vèntre oltre il dover s' enfiò.
Drizzò satólla al varco angusto il pie ;
E di là dove entrar dato le fu.
Provò fuori tornar, ma non potè.
Un Tòpo che passò, disse : " A che più
Tenti, sorella, in vàn ? Modo non v' è :.
Magra, se magra entrasti, uscir dei tù*\
FAVOLA XXIV.
La Volpe, e il Lepre.
Dopo che avéalo
Beneficato,
E in urgentissimo
Caso salvato.
La Vólpe videsi
Da un Lèpre sòrdida
Un dì tradir.
A tal tristizia
Da tutte ingiùrie
Altre la misera
PARTE SECONDA. 77
Astiénsi, e dicegli :
" Va ; merli il titolo
Di Lèpre ingrato !
Me r hai provato :
Tel posso dir".
I^oìi dàssi né più rèo, né più spietato
Di cui si mérta il titolo d* ingrato.
FAVOLA XXV.
La Volpe, il Cavallo, e il Lupo.
["La stessa in Prosa ; Parte Prima, Fav. XXV.]
Una Vólpe giovinetta,
Ma prudènte, ma furbétta,
Un Cavallo un dì vedéa,
Che mai visto non avéa.
Ella tòsto al Lupo córre,
E in tal mòdo gli discórre :
"Là nel prato, non so quale
Sta pascendo un animale,
Bèllo, grasso, e per vivanda
Che la sórte a noi qui manda.
Vieni mèco che tu il veda,
Poi si tenti farne prèda".
Vanno : il Lupo s' avvicina
Al Destriero, e gli s' inchina,
Poi gli parla : " Mio signóre,
Gli son ùmil servitóre :
Deh ! mi dica in cortesia
Quale il nóme di lei sia,
7*
78 FAVOLE MORALI.
Per trattar, com' è dovére
Un sì nóbil forestière". —
" Il mio nóme ?" il Cavai disse,
*^ Chi mi calza, melo scrisse
Nella suòla sotto il piede;
E chi legger sa, lo vede".
A tal dire la Volpétta,
Che di frode lo sospètta :
*^ Legger", disse, "non saprei
Senz' aver gli occhiali miei".
Ma quel Lupo; " Non tu sóla.
Ancor io son stato a scuòla".
AI destriér indi s' accòsta.
Che il suo piede ben gli appósta,
E sul cèffo gli dissèrra
Tale un càlcio, che 1' atterra,
E gli spèzza molti dènti.
Sorge il Lupo : a passi lènti
Si rimbosca ; ma gli disse
Pria la Vólpe eh' ei partisse :
" Tu sai lègger : e mi pare
Che ti pòssa ben giovare.
Ora che quelP animale
Un ricòrdo in modo tale
Ti scolpì sulla mascèlla,
Quale mài non si cancella".
Non si fidi chi è prudente.
Alla cièca, della gente.
PARTE SECONDA. 79
FAVOLA XXVI.
Il Cignale^ e V Àsino.
Arruolava un Cìgnàl suoi dènti, e si
Passa un Somaro, che a lui dice : " A che
Un' opra fai, per quanto sembra a me,
Ch' eseguir non dovresti ora così ?
Son lunge i tuoi nemici, e ninno ardì
Finòr di presentarsi contro a té,
Che pace ovunque a spàrgere si die
I doni suóij che pur diffuse qui".
L' altro rispónde : " 11 fólle più ne sa
Tn sua magión, che il savio altróve, e fó
Quel, che un' ómbra di critica non ha.
Credi tu fórse, che mentr' io starò
Degli avversar] a frónte, in libertà
II tempo di aguzzar le zanne avrò?"
Stolto è collii, che può
Disbórsi a un' òpra, e a farlo attende il brève
Momento, in cài solo eseguir la deve.
FAVOLA XXVIL
L' Asino in Màschera.
Disse un Asino : " Dal móndo
Voglio anch' io stima e rispètto ;
Ben so cóme". E cosi détto,
In gran manto si serrò.
Indi a' pàscoli comparve
Con tal passo maestóso,
80 FAVOLE MORALI.
Che all' incògnito vistóso
Ogni béstia s' inchinò.
Lasciò i prati, e corse al fónte,
E a specchiarsi si trattenne ;
Ma sventura ! non contenne
Il suo giubilo, e ragliò.
Fu scovérto, e fino al chiuso
Fu tra' fischi accompagnato ;
E il Somaro Mascherato
In provèrbio a noi passò.
Tu che base del tuo mérto
Veste splèndida sol fai,
Taci ogìiór ; se no, scovérto
Come V Asino sarai.
FAVOLA XXVIII.
L' Amore, e il Tempo.
Su la spónda d' un fiume
Si scontrarono un dì 1' Amóre e il Tèmpo,
E i due Numi immortali
Non so cóme obbliàte avéano 1' ali.
Piccola barca al lido
Eravi sì, ma di nocchièro priva,
Per traggitàrli entrambi all' altra riva. —
*^Oh !" volto Amóre al Tèmpo,
^^lo passar ti farò", disse ; e sul rèmo
Atteggióssi a vogar. Ràpida 1' ónda,
E lontana era assai 1' opposta spónda.
Giunsero appéna alla metà, che, ansante
E mòlle di sudóre,
PARTE SECONDA. 81
Perde le fòrze e si arrestò 1' Amòre.
A lui, stanco, in soccórso
Sottentrò il Tèmpo, e il rèsto
Ei terminò del còrso.
Fin da quel giórno a quésto
Patto fra lòr si stabilì, che Amòre,
Da principio, faria passare il Tèmpo,
E il Tempo pòi faria passar 1' Amòre.
FAVOLA XXIX.
La Volpe, il Cane, e il Gallo,
[La stessa in Prosa j Parte Prima, Fav. XXIX.]
Un par d' amici véri,
11 Gallo, e P altro il Cane,
Volèan per vie lontane
Veder lidi stranièri.
Partiron in quell' óra,
Che con ridènte aspètto,
Dall' inàmabil lètto,
Fuggia la beli' Auròra.
In una sélva antica
Fur giunti, quando in cielo
Stendeva il fosco vélo
La nòtte a' ladri amica.
Ad una quèrce allóra,
I nòstri viaggiatóri,
Insin a nuòvi albóri
S' avvisan far dimòra.
11 Cane sott' a quella
Ripòso e sonno prènde j
82 FAVOLE MORALI.
Il Gallo in cima ascénde
A star in sentinèlla.
Tutto tacéa : soltàno
Quel vigile cantóre,
In quel notturno orróre,
Apriva il bécco al canto.
L' ode una Vólpe, e pensa : —
La sórte, se non sogno,
Intènde il mio bisógno,
Provvede alla mia mènsa. —
E corre al Gallo in frétta :
Ma che farà ? salire
Non può : sa ben mentire :
Onde cosi 1' alletta :
" Tu come un cigno canti ;
Che vóce ! pare un èco ;
Deh ! scéndi, e vieni mèco
A star alcun' istanti.
Sol una canzonétta
Da tè sentir vorrei,
E se cortése sèi
Larga mercéde aspetta".
Alla volpina lòde
Il Gallo non si fida.
E con tal dir confida
Punir frode con fròde :
" Al tuo desir mi rèndo ;
Ma un mio compagno désta.
Che là dormendo rèsta,
A tèrra mentre scéndo.
Egli è cantòr perfètto,
Non gallo, ma cappóne ;
E non che una canzóne
Saprai, ma un bel duétto".
PARTE SECONDA. 83
La Vólpe presta fède
A quél eh' ai denti giova,
E cérca e presto trova
Un altro, che non créde.
Ben tòsto alla sua tana
Colèi fuggir voléa ;
Ma il Càn, che desto avéa.
La segue, prènde, e sbrana.
U igannatòr felice
Bensì ride talora :
Ma vién V istante ancóra
Che piànge V infelice.
FAVOLA XXX.
Il Cardellino.
Un Cardellino grato a un nocchièro,
Con lui fé' il giro del mondo intéro.
Stette suU' àncore 1' Europeo légno
Presso le piàgge d' Indico régno.
Quivi volavano lungo la spónda
Augèi, scherzando tra fronda e frónda,
E vestian piume leggiadre assai.
Piume in Europa non viste mài.
Il Cardellino riguarda e gode,
E aspetta il canto, ma ancor non 1' òde.
Più giorni passano ; tornano ancóra
Gli augei per gli àlberi tacendo ognóra.
Il forestièro si pone in tèsta,
Che d' Oltremare moda sia quésta ;
La moda piàcegli : riede ove nàcque.
84 FAVOLE MORALI.
E finche visse, sempre si tacque ;
Ed alla madre che lo rampógna:
" Del tuo silènzio non hai vergógna 1"
Tal solca grave risposta dare :
" E nova moda presa Oltremare".
guanti oggi tróvansi fra noi messèri,
Che il peggio tòlsero dagli stranièri !
FAVOLA XXXI.
Il Fanciullo, e le Lucciolette.
Mentre la notte già
Fanciul per cupa via,
Seco solca 1' aiuto
D' una lantèrna prèndere ;
Ma pòi eh' ivi ha veduto
Più Lucciolette splèndere,
La lantèrna lasciò,
E a quelle si affidò.
Dietro al lume volante
Già franco il piede ha mòsso ;
Ma che ? dopo un istante
Precipitò nel fòsso.
Giurò fiere vendétte
Contro alle Lucciolette,
Che, udendo i suoi laménti,
r|| Espressèr questi accènti:
" Si lagni di sé stésso.
Se in mézzo a' guai si vede,
Chi il certo aiuto ha omésso,
Dando alV incèrto fède^\
PARTE SECONDA. 85
FAVOLA XXXII.
La Lucertola, e il Coccodrillo,
Una Lucertolétta
Diceva ai Coccodrillo :
''Oh quanto mi diletta
Dì veder finalménte
Un della mia famiglia
Sì grande e sì potènte !
Ho fatto mille miglia
Per venirvi a vedére.
Sire, tra noi si sèrba
Di vói memoria viva ;
Benché fuggiàm tra V èrba
E il sassóso sentièro,
In sen però non làngue
L' onòr del prisco sàngue". —
L' anfibio ré dormiva
A quésti compliménti;
Pur sugli ultimi accénti
Dal sónno si riscòsse,
E addimandò chi fòsse. —
La parentèla antica,
Il cammin, la fatica,
Quella gli torna a dire ;
Ed éi torna a dormire.
Lascia i grandi e i potènti
Di sognar per parénti :
Puoi cortési stimarli,
Se dórmon mentre parli.
8
86 FAVOLE MORALI.
FAVOLA XXXIII.
La Lucarina,
Giva una Lucarina
Dicendo ad ogni augèllo
(Ah sémplice augellina) :
^' Io de' figli ho il più bèllo;
Venitelo a vedére,
Che vi darà piacére.
Non anco è ben piumóso,
Ma è festóso, è scherzóso,
Bécca, saltella, ed ha
La grazia e la beltà :
Venitelo a vedére,
Che vi darà piacére".
Dicéalo ai buòni ognóra,
Ed ai malvagi ancóra.
Più d' un augèllo andò^
E il véro ritrovò.
Tornando una mattina
L' ingènua Lucarina
Da un campo seminàto
Del favorito miglio.
Nel nido insanguinato
Più non ritrova il figlio»
T' è caro il ben che godi 7
Guarda con chi lo lòdi.
PARTE SECONDA. 87
FAVOLA XXXIV.
Il Contadino, il Figlio, e V Asino,
[La stessa in Prosa ; Parte Prima, Fav. XXXIV.]
Sopra un lènto Asinél se ne venia
Un Villàn, curvo il tèrgo ed attempato ;
Il Figlio a pie facèagli compagnia ;
E giano insième ad un vicin mercato.
Scontràro un passeggiér, che, al Padre vòlto,
Disse, forse per prènderne sollazzo :
'^ La cosa non mi par discreta mólto ;
Mandare a pie quel pòvero ragazzo !"
Il Vecchio vergognòssi, e fece il Figlio
Montare in sèlla, e a pie prese il sentièro ;
Ma non erano andati ancora un miglio,
Incontrarono un altro passeggièrO;
Che disse : ''Mal creato ragazzàccio,
Che una forca tu sèi certo si vede ;
Di cavalcare hai cor dunque, asinàccio,
E il vecchio Padre tuo mandare a piede ?"
Il Padre allóra : '' Io vorrei pur contènto
Rendere alfm ciascun per quanto posso :
Facciamo un' altra pròva" ; e in quel moménto
Dell' Asino ambedue montano addòsso.
Ma nuova gènte incontrano in cammino,
Che grida, e porge lòr nuove molèstie :
'' Guardate discreziòn ! quel bestiolino
Ha da portar due così gròsse béstie !"
Grida il Vècchio : " Oh che gente stravagante !
Eppure un' altra ancor ne vo' provare" :
Smontano a terra entrambi, e scosso avànte
L' Asino a senno suo lasciano andare.
88 FAVOLE MORALI.
Ecco novello inciampo ; e dir si sente
Qualcun che passa : *' Io non conósco afie
Di que' due più stordita e sciocca gènte ;
Mandan 1' Asino scòsso, e vanno a pie".
Il Vecchio allor gridò : " Più non ci rèsta
Che portar nói quell' Asin, ma sarebbe
Pazzia si strana e si solènne quésta,
Che V Asin stésso se la riderebbe".
Che condudiàm 1 Che aver V approvazióne
Di tutto il móndo, e star con esso in pàce^
Essendo un^ impossìhil pretensióne^
Sarà meglio di far quel che ci piace.
FAVOLA XXXV.
La Rana, e il Pesce»
Dalla casa paludósa
Sulla strada un dì se n' esce
Una Rana coraggiósa,
E fa tanto che pur giùnge
Presso al mar che non è lùnge.
Là s' asside, e vede un Pésce
Che qual fòrbice d' argènto
Fende il liquido eleménto. —
" Ferma, férma", ella gridò,
" Teco in mar venire io vò' :
Se mio amico esser prométti.
Buona insiém vita faremo ;
Del nuotar tutti i precètti
Già conósco, e il mar non tèmo.
Ferma, aspetta, io vengo all' ónde". —
^^ Rèsta", il Pésce le rispónde :
PARTE SECONDA. 89
" Altri amici cercar puoi ;
Un ostàcolo è fra nói
D' amistàde a stringer làccio,
Tu ognor gràcchi, io sempre tàccio".
amistà non dei sperare
Ove oppósta indole appare,
FAVOLA XXXVl.
E Leone, il Cavallo, la Cagna, la Locusta, e V Asino,
Infieriva un tremèndo temporale
Nel bòsco, e ne scappava ogni animale.
Un Cavallo, una Cagna, un Asinèlio,
E una Locusta uniti in un drappèllo
Ad una gròtta si ricoverarono,
Ma che v' èra il Leon non osservarono.
Egli dormia. Quegli altri si ristettero
Gelati, e un punto sòl non si movèttero.
Ma il povero Cavallo avea la tósse,
E non potea tenérsi a quelle scòsse.
La Cagna d' un suo cane in gelosia
Talora a suo dispétto ne guaia.
Alla Locusta sotto trapelava
Vulcànica scintilla, e la scottava
Sì, eh' élla, che sentia bruciarsi diètro.
Saltava, e non potéa restar in mètro.
Pel morto figlio, sebben si sforzasse,
L' Asin non potea far che non ragliasse.
In sómma non volendo far romóre,
Ne fero sì che si svegliò il signóre ;
8*
90 FAVOLE MORALI.
Il qual colà vista la turba accòlta,
Quei miseri mangióssi uno alla vòlta.
Ricordami tal fàvola
Il détto (/' un autóre,
Che quattro còse non si pon nascóndere,
Li amor, la tósse, il fòco, ed il dolóre.
FAVOLA XXXVII.
La Scìmia, V Asino, e la Talpa.
^^ Erra", dicea la Scimia, ^^clii natura
E la sua provvidènza tanto loda ;
Verso di nói mostròssì o cièca o dura :
Còme ? non darci un palmo almen di còda ?
Fino i Topi di còda ella ha provvisti ;
A noi sòl manca ; ond' è che con maligno
Occhio ogni giórno gli animali tristi
Ci guardan diètro, e poi ci fanno un ghigno".
L' Asin rispónde : " Io non la stimo niènte ;
A che mi vài ? perchè di ragazzàcci
Con mille insulti un stuolo impertinènte
Le spine sotto quella ognor mi cacci ?
È una disgràzia il non aver le corna :
Ah, son le corna pur la bella còsa !
Rimira il Bue, che n' ha la tèsta adórna,
Che fàccia alza sublime e maetòsa !
E Capri, e Agnèlli, e s' altra inutil v' è
Bestia, di corna fia dunque guernita?
E non 1' avrà una béstia come me ?
Non me ne darò pace in fin che ho vita".
Li udì una Talpa, e lor gridò : " Tacete,
E per conoscer ben fin dove arriva
PARTE SECONDA. 91
Vostra ingiusta follia, bestie indiscréte,
Guardate me, che son di vista priva".
Chi viver vuol tranquillo i gioì' ni sài,
JVoìi cónti quanti san di lui ina liétif
Ma quanti san ]jia miseri di lai.
FAVOLA XXXVIII.
Il Concilio dei Sorci.
[La stessa in Prosa j Parte Prima, Fav. XXXVIIL]
Il gran Buricchio, il più tremendo gatto.
Era de' Tòpi 1' Attila, il flagèllo;
E già fatto n' avéa cotal macèllo,
Che quasi il popol lóro era disfatto.
Un dì che quel crudél nella vicina
Campagna er' ito a càccia ai passeròtti;
Squallidi e tristi i Tòpi infra le bòtti,
Adunàron capitolo in cantina. —
"Qui bisogna trovar qualch' espediènte".
Il Decàn cominciò : *' 1' opinion mia.
Venerabili padri, oggi saria
Al Gatto di segare e l'unghia e il dènte".
O poco o pùnto applaudir s' intèse
Questo progètto : allóra avendo alzate
Vecchio Tòpo le lunghe venerate
Basette, in aria grave a parlar prèse :
'^ Io che son sèmpre al ben pùblico intènto,
Al collo del canin della Signóra
Vidi un sonàglio tintinnar, qualóra
Ei si movesse a passo prèsto, o lènto.
92 FAVOLE MORALI.
Eccovi col sonàglio il suo collare :
Quésto attaccare al Gatto ora conviene ;
E quando verso nói furtivo viene
Quest' assassin, tosto udirem sonare''. —
"Bravo ! bravo ! una stàtua in verità
Si merita", s' alzar tutti gridando :
" S' attacchi tòsto quel sonàglio". Quando
Un domandò : " Ma chi 1' attaccherà ?" —
'' Io no". — " No ? neppur io", risponde un altro.
Un tèrzo : " Ed io nenimén". Confusi e muti,
Chi di qua, chi di là, come venuti
Erano, si partir senza far altro.
Tutti son huóni a fare un bel progètto,
Là imbroglio sta nel métterlo ad effètto.
FAVOLA XXXIX.
Il Corvo, e la Volpe.
Stava il Còrvo sulla cima
D' una quèrce in un boschétto,
Bezzicando un formagètto
Che rubato aveva prima.
Or rubarlo al Còrvo spèra
Una Vólpe malandrina,
E pian piano s' avvicina
Sotto r àlbero dov' èra. —
^^ Ehi !" gli dice, " signorino.
Pur ti vedo ; alfin ritorni.
Dove fosti tanti giórni ?
Quanto sèi belio e carino !
PARTE SECONDA. 93
Alle pènne se il tuo canto
Corrispónde, oh te felice !
Tu di quéste selve il vanto,
Tu di lur sei la fenice".
Tal favèlla il Corvo tenta :
Slarga il bécco, cantar créde ;
Cade giù, ne se n' avvede,
La sua prèda : essa 1' addenta. —
^'Questo", intanto dice, " è mio". —
" Volentièr tei renderei,
Ma di ludi sazio sèi ;
Io noi sòn : tu canta ; Addio".
Imparate a non dar fède
Ai bifrónti adulatòri ;
Che, voìiiìni ingannaiòri,
Vento véndono a chi créde.
FAVOLA XL.
La Pècora, e lo Spino,
La piòggia, il tuón, la gràndine
Misti al fischiar del vènto
Sonar facèan per 1' aere
Un òrrido concènto.
Fuggia pel bòsco timida
In questa parte e in quella,
Cercando alcun ricóvero,
Una smarrita Agnèlla. —
"Vieni", disse, ^'nascónditi",
Lo Spino, " entro al mìo grembo
Ti copro, qua non penetra
Il procellóso némbo".
94 FAVOLE MORALI.
V entra la buòna Pècora,
E fra le spine intanto
Tutto s' inrjpàccia e intricasi
Il suo lanóso manto.
Dipoi cessato il tùrbine,
Quando a partir s' appresta,
Sente lo Spin che prèsela
Sì fòrte per la vésta.
Che uscir non spèra libera
Dall' unghie sue rnbèlle,
Se la lana non lasciavi,
E forse ancor la pèlle.
Escita alfin col làcero
Manto, e graffiata il tèrgo,
Maledì più del tùrbine
Quali' infedéle albèrgo.
Temete, litiganti sventurati,
Più delle liti stésse gli avvocati,
FAVOLA XLl.
// Figliolino del Padrone, e il Giardiniere,
Del patèrno glardin
Per le aiuòle odoróse
Il picciol Padroncin
Coglièa viole e ròse.
Ma con espèrla man
Piànta, stèrpa, recide.
Travagliando il Villàn.
Guarda il Fanciullo, e ride. —
" E a che", gli dice, " a che.
Buon Uóm, tanti sudóri ?
PARTE SECONDA. 95
Il fertil suol da se
Ecco prodùce i fióri". —
" T' inganni ; anzi che fior,
Sènza le mie fatiche",
Gli rispóse ilCultór,
" Ti produrrebbe ortiche.
Ah ! perchè sia il terrèn
Di fior cortese e largo,
(Pensaci per tuo ben)
Di sudór lo cospàrgo.
Tu pur, tu pur cosi,
Fra quanti affanni e stùdi
Per esser sàggio un dì,
D' uopo sarà che sudi !
Ma qual n' avrai piacer,
Mio caro Padroncino,
Se tanto io n' ho in veder
Fiorito il mio giardino 1"^
Simil a fértil suol
Ben è la nostra ménte :
Saggia sarà, ma vuol
Cultura diligènte,
FAVOLA XLII.
La Lepre, e le Rane.
[La stessa in Prosa ; Parte Prima, Fav. XLII.]
La Lepre timida.
Che si doleva
Della sua misera
Sórte, diceva :
96 FAVOLE MORALI.
"Io per corrèggere
Il mio difètto
Faccio il possibile,
Ma senza effètto.
E dovrò vivere
Sempre in paura ;
Che all' arte cèdere
Non vuol natura.
Mille pericoli
Tèmo nel giórno,
Sempre sollécita
Mi guardo intórno ;
Un' ómbra, un trèmito
Se veggo, o sento.
Il cor mi palpita
Già di spavènto".
Così lagnandosi
Ella sovènte.
Soleva vivere
Mèsta e dolènte.
Ma pur insòlito
Caso le avènne.
Un dì che al màrgine
D' un lago venne :
Neil' acqua saltano
Tosto le Rane,
E si nascóndono
Nelle lor tane.
La Lèpre attònita:
" Oh ! quanta gènte",
Disse, " al mio giungere
Paura sente !
PARTE SECONDA. 97
Fugge precipite,
Or che mi vede !
Di guèrra un fulmine
Dunque mi créde ?"
Ma d' onde giungele
Tanto valóre ?
Del suo pia timido
È d' altri il core.
FAVOLA XLIII.
La Far/alletta, e il Fiore.
Farfallétta, i vanni adórna
Di vaghissimi colóri,
Gira, scherza, fugge, torna
Fra r erbétte, i frutti, e i fióri ;
Scorre il prato, fende il pòggio,
Ma non fissa mai d' allòggio :
Fior quanti èrano, èrbe, e frutti
Conoscévanla già tutti.
Qui accarezza, e parte ; lassa
Qua un sospir, là un guardo, e passa ;
Officiósa, benché in frétta.
Più d' ogn' altra farfallétta.
Ve' però fortuna ingrata !
Pur da un sòl non era amata :
Ella intanto esser si vanta
L' idolètto d' ogni piànta.
Non so quàl de' fióri un giórno
Di parlarle ebbe coràggio :
9
98 FAVOLE MORALI.
'' Mentre vóli a noi dintórno
Lusinghièra nel!' omàggio,
Credi invàno ognun contènto
Del tuo brève compliménto.
Non sperar, se non t' arrèsti,
Che in alcuno amor si désti.
Il fedèl, 1' assiduo amante
Ad amar davvero inségna :
Un amàbile incostante
Ci divèrte, e non c'impegna".
Se con mille i tuoi moménti
Dividèndo ognor tu vài,
Avrai mille conoscènti,
E un amico non avrai.
FAVOLA XLIV.
// Leone, la Capra, la Pècora, e la Giovenca.
Il Leon re d' un paese
Invitar volle cortése
La Giovènca coli' Agnèlla,
E la Capra destra e snèlla,
Seco a càccia : grande onore
E 1' andar con tal signóre ;
E dovevano spartire
La lor prèda con quel Sire ;
Che promise, fé reale.
Darne lóro parte uguale.
Sol la Capra un cervo prése
Nella réte eh' ella tèse,
TARTE SECONDA. 99
Ed allur che imbruna il giórno
Tutti essendo di ritorno,
Il Leone di quel cervo
Fé' le parti ; indi protèrvo
Disse : " A chi spartì si dia
Questa prima ; è dunque mia :
Prendo 1' altra per ragióne,
Che mi chiamo il re Leone :
Or la tèrza dar conviene
Al più fòrte ; onde a me viene :
E quest' ùltima che avanza.
Chi toccar avrà baldanza,
Io Io stròzzo immantinènte:
Così dico ; e un ré non ménte".
A tal dir, le poverine
Sen' andar, le orecchie chine,
Con gran fame, e con gran péna,
A dormire senza céna.
Le 'promésse dei signóri
Sono fròndi ch^ han bei Jìóri,
Ma di ràdo fanno il frutto :
Cade il fiòr^ svanisce tutto.
FAVOLA XLV.
// Viaggiatore, e il Vento.
Nel bel mézzo di Gennàio
Fea viàggio non so chi ;
Di gran guanti e doppio sàio
Con tra il fréddo si munì :
Ma alla piccola sua tèsta
Largo alquanto il cappel già.
100 FAVOLE MORALI.
E da un Vènto, che si désta,
Gli è improvviso tratto via.
Il cappél, quasi abbia piume,
Rota e termina nel fiume. —
'^ Oh cospètto !" il Viaggiatóre
Disse al Vènto, e montò in fùria r
" Garbinàccio traditóre,
Fatto a me cotale ingiùria
Alcun Vènto non ha mài,
E viaggiato ho mille miglia
Con cappèl più largo assai.
Tutta tutta la famiglia
Sopra i mónti, e in mezzo all' ónde
Ho de' vènti conosciuto,
Ne il cappèllo ho mai perduto".
Ride il Vènto, e gli rispónde :
" Gran ragion di tue querèle 1
D' ignorar non hai tu scòrno,
Viaggiatór di mille miglia,
Ch' ove è rischio, ognor cautèle
Contro a' rischi il saggio piglia ;
E che occórrer potea un giórno,
Comminando alla bufèra.
Ciò che occórso ancor non t' èra?''
Non dir mài : '* Danni io non tèmo,
Perchè ognór ne fui digiuno^' :
Sei de^ rìschi neW estremo,
Non temendone nessuno.
PARTE SECONDA. 101
FAVOLA XLVI.
Le Scìmie, e il Lucciolone.
[La stessa in Prosa ; Parte Prima, Fav. XLVI.]
Benché fossero alle spalle
Dell' inverno i di ridènti,
Eran bianchi e poggio e valle
Di notturne brine algènti.
Or due Scimie, intirizzite
Per r acuta aria nevósa,
A ricóvero eran gite
Sovra piànta assai ramósa ;
Ma sì tremano, che sónno
Ritrovare ancor non pónno.
Quando ; ^' Al fòco", grida, '^ al fòco".
La più gióvane, accennando
Una sièpe ; e si gridando
Spicca un salto, e corre al loco
Dove vivida favilla,
Fra i cespùgli luccicante,
Ha ferito la pupilla
Dell' afflitta vigilante.
L' altra ancor discénde, e all' òpra
Denti e piedi : un buon fastèllo
Fan di sàlci, e il póngon sópra
Air ardènte carboncèllo ;
Né vi manca un po' di pàgha,
Perché fiamma tosto sàglia.
Ecco entrambe a terra chine
Con tal fòrza soffiar déntro,
Che non fan nelle fucine
Forse i mantici più vènto.
9#
102 FAVOLE MORALI.
Muso intanto avean sì fatto
Per la scarna guancia enfiata,
Che da Eraclito avrian tratto
Senza stènto una risata.
Ma già soffiasi da un' óra,
Ne s' accènde il foco ancóra.
Cangian pàglia, cangian sàlci,
Al fastèllo aggiungon tràlci : —
" Soffia, amica, il legno è asciutto" ;
Ma si soffia senza frutto.
Quando alfine entra in sospètto
La men gióvane più scaltra.
Meglio guarda, e con dispétto :
'' A che sóffi ?" dice all' altra ;
" E un malnato Lucciolóne,
Ch' abbiam prèso per carbóne".
Tal jpiìi rf' un che soffia, e il petto
Vuol da Apólline infiammato,
Per carhòn prende un insètto.
Perde il tempo, e gitta il fiato.
FAVOLA XLVII.
La Mosca, e il Moscerino.
Dall' infiammate ròte
Febo scotea sul suol 1' estivo ardore,
E il robusto aratóre
Stava air àrso terréno
Col vòmere tagliènte aprendo il séno
Acceso in vólto, di sudor bagnato,
Col crine scompigliato.
PARTE SECONDA. 103
Curvo le spalle, il cigolante aratro
Con una man preméa,
Che col chino ginocchio accompagnava ;
E coli' altra stringéa
Pungolo acuto, e colla rozza vóce,
E coi cólpi frequènti.
Affrettava de' bòvi i passi lènti.
Stava sopra 1' aratro in grave vòlto,
Ed in ària importante
Una Mósca arrogante,
Ch' òr suir irsuto tèrgo
De' stanchi buoi volava.
Ed óra al tardo aratro
In frétta ritornava ;
E quasi in alto afFàr tutta occupata,
Smaniànte ed affannósa
Córre, ronza, s' adira, e mai non pòsa.
Un Moscerino intanto
Passando ad èssa accanto,
Le disse : ^' E perchè mài
Tanto sudi e t' affanni ? e cosa fai ?"
Rispóse con dispétto
Queir arrogante insètto :
'' Noi vedi? è necessario il domandare
Qual importante affare
Ci occupi tutti adèsso ? ad ignorarlo
Veramente sei sólo :
Non lo vedi, balórdo? Ariamo il suòlo".
A tal proposizión rise per fmo
11 piccol Moscerino.
E asseti commune usanza
Il credersi persona d' importanza.
104 FAVOLE MORALI.
FAVOLA XLVIII.
La Spica, e il Papavero.
Già fluttuando mòbile
Del mare al par dell' ónda
Sopra terréno fèrtile
La mésse arida e biònda.
Sulle compagne ergévasi
Altèra, e per 1' aprica
Aria la frónte gràvida
Scotèa matura Spica.
Cònscia del pròprio mèrito
Mirò con torvo ciglio
Presso di se un Papàvero
Ergere il crin vermiglio ;
E colle rèste stridule
Sferzando all' àura il petto,
Parlò con rauco sibilo
Pien d' ira e di dispétto :
^' O dell' inèrzia simbolo,
Tu che col pigro umóre
Togli al còrpo ed all' ànima
Il lor natio vigóre ;
Padre di quel letàrgico
Torpòr, che cosi fòrte
Sommerge i sènsi in stupida
Calma simile a mòrte :
Come potesti nàscere
Di Cèrere nel régno.
Presso me, che degli uòmini
Sono il miglior sostégno ?"
PARTE SECONDA. 105
Quei replicò pacifico ;
'^ Non mi sprezzar, o suòra,
E le mire benèfiche
Della Natura adora :
Tu il sostégno, ed il bàlsamo
E il sónno alla fatica.
Par che accanto ponendoci
La Natura ci dica :
" Mortali, non lagnatevi
Delle misèrie umane,
Qualóra non vi mancano
Due còse, — il Sónno, e il Pane ?"
FAVOLA XLIX.
Il Cammello, e il Topo.
A pascolare per un campo un giórno
Era un Cammèllo, e ad una gamba avvòlto
Libero làccio strascinando già :
Quand' ècco in quel contórno,
Per non so qual bisógna, un Topo è vòlto.
Che il gibboso animai guarda e riguarda,
Il vago còrso della fune spia ;
Resta alquanto perplèsso,
E in aria grave pòi dice a se stèsso : —
Nulla fé' mai di ben gente codarda ;
Oh che nòbile imprèsa,
Se in séno del mio buco
Un Cammèllo io condùco I
Cèrto che s' io tant' òso.
Sarò fra tutti i tòpi il più famóso. —
106 FAVOLE MORALI.
Disse, e accintosi all' òpra,
La fune afferra e tira :
Quello naturalménte
Dòcile e compiacente
Ov' è tratto si gira,
E va via via seguendo.
Sudava il Tòpo in quel lavòr tremèndo ;
Ma della glòria, che n' avrà, 1' idèa
Tutto con gran piacer soffrir gli fèa.
Giungon del'bùco all' órlo ;
E 1' eròe condottièro
Entra del peso della fune altèro,
E va gridando a questo tòpo e a quello :
" Loco, loco, compagni, ecco un Cammèllo'
Gli sfòrzi allor raddoppia.
Si contòrce, si stroppia,
S' impazienta, s' adira,
E tira, e tira, e tira ;
Io non so còme non perdesse i dènti. —
•' O stolido ! che tenti ?"
Disse il Cammèllo alfm, che il vano scórse
Disegno di colui ; " gran pòrta fórse
Può questo buco divenir ? poss' io
La mole impiccolir del corpo mio ?"
Quanti Tòpi il móndo ha visti
iVe' sognanti Progettisti !
PARTE SECONDA. 107
FAVOLA L.
U Amore, e V Interesse.
[La stessa in Prosa ; Parte Prima, Fav. L.]
L' Interèsse con 1' Amóre
Si trovare un tempo uniti
Nella casa d' un Signóre
Tra miir altri favoriti.
Quel faceva la ragióne
Dell' uscita e dell' entrata :
Del piacére al suo Padróne
Servia 1' altro a camerata.
A giocare alla bassòtta
Un dì misersi tra lóro.
L' Interèsse il banco accétta ;
Fa ad un lato un monte d' òro.
Pone alcuni suoi quattrini
Lesto Amor su certe carte :
Ma sa ben, per far bottini,
L' Interèsse usar dell' arte.
Resta Amóre in un moménto
Senza un sòldo, e disperato
Vuol rifarsi dell' argènto,
Che sì male avea giocato.
Sovra un Asso ei tutto métte.
Tutto quél che gli restò ;
Anche 1' Arco, le Saétte,
E il Turcasso vi lasciò.
Poverino ! infin le Pènne
Vi perdette a poco a pòco;
Spoglio in sómma gli convenne
Con rossór partir dal giòco.
108 FAVOLE MORALI.
L' Interèsse, oh ! che cervèllo !
Vuol r usura del guadagno,
Onde studia a farsi bèllo
Con le spòglie del compagno.
E con 1' Ali, e col Turcasso
Va pel móndo a suo piacére,
E si móstra agli atti, al passo,
Franco Aligero ed Arcière.
Molti il fatto ancor non sanno ;
Quindi alcuno se lo vede
Non s' accòrge dell' inganno,
E sovènte Amor lo erède.
FAVOLA LI.
// Fanciullo j e la Vespa.
Un vispo Fanciullino,
Che appena il suol con fermo pie segnava,.
Se ne già saltellando entro un giardino,
E tra' fióri e tra 1' èrbe egli scherzava.
Una Vèspa dorata,
D' acuto dardo armata,
Si librava sul!' ali
Entro il vérde soggiórno,
E s' aggirava al Fanciullino intórno.
Al lùcido colóre,
Dell' òro allo splendóre,
Onde brillava il fraudolento insètto,
L' àvido Fanciullètto
Dì farne prèda subito s' invoglia ;
Tòsto per 1' aria vuòta
La cava man velocemente ròta
PARTE SECONDA. 109
Dietro del susurrànte Animaletto ;
Ma cade il cólpo invàno,
E la Vèspa di là vola lontano.
Ratto la segue il Fanciullino ; ed élla
Per r aere agile e snèlla
In mille giri e mille si rivòlge,
E alfin stanca si pòsa
Sul molle sén d' una vermiglia rósa.
11 Fanciullino attento,
Tàcito, e lento lènto
Sulla punta de' pie lieve cammina,
E a lèi già s' avvicina :
Rapida allór la mano
Sopra del fior sospinge,
E la rosa e la Vèspa insieme stringe.
La Vespa irata allóra.
Tratto sùbito fuóra
L' ascóso ago pungènte,
La tenerèlla incauta man trafigge
Con ferita cocènte :
Inalza al Cièl le strida
Smaniante il Fanciullin chiedendo aiuto,
E cade sopra il suol quasi svenuto.
Giovinetti inespèrti, che correte
Dietro un desìr che hén non conoscete,
Apprendete, apprendete,
Che c?e' più bei piacer sovente in séno
Sta nascòto il veléno.
10
no FAVOLE MORALI.
FAVOLA LII.
ha Corte del Re Leone.
Volle un giórno il Leone
Tutta quanta conóscer quella gènte
Di cui il Ciél 1' avéa fatto padróne.
Non fu sélva orrida e oscura,
Che non fóssene avvisata ;
Circolava una scrittura
Da Sua Lionésca Maestà firmata,
E lo scritto diceva :
Che per un mese intéro il Re teneva
Corte plenària, e principiar dovéasi
Da un bèllo e gran festino,
Dove un cèrto perito Bertuccióne
Dovea ballar vestito da Arlecchino. —
Tn tal manièra il Principe spiegava
La sua potènza al pòpolo soggètto :
Ma ecco ornai che la gran sàia è pièna.
Che sàia ! Oh Dio, che sàia !
Ella era anzi un orribile macèllo,
Sanguinóso, e fetènte
A tal ségno, che 1' Orso
Non potendo soffrir quel tetro avèllo,
11 naso si turò, poco prudènte,
Spiàcque il rimèdio : il Rè forte irritato
Mandò da Ser Plutone
Il Signor Orso a far il disgustato.
Lo Scimiótto approvò
Quésta serverità,
E di Sua Maestà
La còllera lodò,
PARTE SECONDA. Ili
Lodò la regia branca, e della sala
Disse cose di fuòco, e quell' odóre
Sovra 1' ambra esaltò, sovra ogni fióre.
Ma questa adulaziòn troppo scempiata
Fu dal Principe accòrto
Ben presto gastigàta :
Già lo sfacciato adulatóre è mòrto.
La Volpe éragli accanto. —
''Or ben", le disse il Sire :
'' Dimmi, che ne di' tu? parlami chiaro ;
Tu vedi, io non voglio essere adulato". —
La Volpe allòr: '*' Sua Maestà mi scusi,
lo son molto infreddata, e 1' odorato
Ho perso affatto ;
Ond' io a giudicar atta non sono,
Se questo odóre sia cattivo o buòno". —
Di tal rispósta il Ré fu soddisfatto.
Voi che in Córte vivete,
Apprendete, apprendete ;
Non siate troppo apèrti adulatóri,
Nemmén troppo sincèri parlatóri ;
E se volete alfm passarla nétta,
Una scusa o '/ silènzio
Sarà sempre per vói buona ricètta ^
112 FAVOLE MORALI.
TAVOLA LUI.
Il Villanoj che trova un Tesoro.
Un Villano, che vivéa
Col lavóro giornaliero,
Altro al móndo non avéa
Che una casa, o a dir più véro,
Che un ben misero tugùrio,
Detto Ostél del Mal-augùrio.
Questo nóme gli era dato,
Perdi' esso èra mal sicuro :
Era tutto scassinato ;
Screpolato era ogni muro ;
E la bócca non di ràdo
Esso apria per dire : " Io cado".
11 Padrón di ristorarlo
Non avéa modo, o diségno,
E credea col puntellarlo
Or con quésto, or con quel légno,
Di poter tenerlo in piede,
Finche andasse ad altro erède.
Ma succèssegli, che un giórno,
Che affannato dal lavóro
All' ostèllo ei fé' ritórno,
Per confòrto e per ristòro,
Lo trovò bello e seduto ;
Trovò, idést, eh' era caduto.
Diede allóra nelle smànie
Nel veder casa e puntèlli
In un fàscio : cose strànie
Disse, e svèlsesi i capélli ;
E tenendo gli occhi bassi,
Pianse un pèzzo su que' sassi.
PARTE SECONDA. 113
Mentre estàtico egli tiene
Fisse e immòbili le ciglia
In que' sassi, a scorger viene
Con sorprésa e maraviglia
In queir òrrido rottame
Una péntola di rame.
La scoperchia pien di spème,
E in veder quel che contiene.
Più non mormora, e non géme,
E felice egli si tiene : —
Neil' ostèllo, eh' è caduto,
Ha trovato il proprio aiuto.
Di monéte tutte d' òro
Quella péntola era pièna ;
E il Villàn senza lavóro
Vita plàcida e seréna
Menò pòi con largo vitto.
Che poc' anzi era sì afflitto.
Quante vòlte quel che pare
Un flagèllo, una disgràzia,
È un favor particolare.
Un gran bène, ed una grazia.
Per qualunque mal gli avvenga,
A smarrirsi alcun non venga.
10^
114 FAVOLE MORALI.
FAVOLA LIV.
I Lupi, e le Pècore.
Per molti secoli
In sulla tèrra
Tra Lupi e Pècore
Durò la guèrra.
Alfine fecero
Tra lor la pace,
Pace durévole,
E non fallace.
Tutti gli articoli,
E tutt' i patti
Con ogni formula
Erano fatti.
Eran reciprochi
I lor vantàggi,
E si mandarono
Entrambi ostàggi.
Avean le Pècore
I Lupicini ;
I Lupi avevano
I lor Mastini.
Allor trescavano
Le Pecorèlle
Nei verdi pàscoli
Sicure, e snèlle :
L' onda bevevano
Di chiara fónte,
E s' aggiravano
Al piano, al mónte ;
PARTE SECONDA. 115
E sulle mòrbide
Frondose rive
Si riposavano
Air ombre estive.
Ma fu brevissima
Sì lieta sórte,
E la scontarono
Colla lor mòrte.
I Lupi crébbero
Pria pargolétti,
E alfin si videro
Lupi perfètti.
E, mentre stavano
Lunge i pastóri,
Strozzar le misere,
Qual traditóri ;
E s' imboscarono
Lieti e contènti,
Seco portandole
Ai lor parénti,
I quali accòlsero
I figli ladri,
Come degnissimi
Dei loro padri.
E questi pèrfidi
Miser' a brani.
Mentre dormivano,
Prima i lor Cani.
O voi che fàcili
A creder siete.
Da questa fàvola
Or apprendete,
116 FAVOLE MORALI.
Che per nascóndere
Lor artifici
Molti si fingono
Sinceri amici.
FAVOLA LV.
Le Bolle di Sapone,
Un Fanciullin scherzévole,
A trastullarsi intènto,
Getta il sapóne e 1' agita,
In pura onda d' argènto.
Sciolto e battuto, ammontasi
In spuma biancheggiante,
Che nel viscóso carcere
Racchiùde 1' aere errante.
Sottil cannèllo immèrgevi ;
Fra i labbri indi 1' aggira,
E il fiato tenuissimo
Soavemente spira.
Stèndesi 1' onda dùttile
Al lènto urto gentile.
Cède, s' allarga, e piegasi
In glòbo ampio e sottile.
Dal tubo allora spiccasi.
Nuota dell' aere in séno,
Spinto dai lievi zefiri
Nel liquido seréno.
Del sóle il raggio trèmulo,
Mentre lo fere e indora,
SuU' ónda curva e mòbile
Vària scherzando ognóra.
PARTE SECONDA. 117
Spiegando ora il settèmplice
Misterioso lémbo,
Forma improvvisa un' iride
Sul curvo ondoso grembo ;
Or come in spècchio nitido
In breve spàzio strétti
Confusamente pingonsi
1 circonstànti oggetti.
Lievi rotar si mirano
Sui trèmuli cristalli
Le tórri, i tétti, gli àlberi,
I monti, e insiém le valli.
Un Fanciullin più sémplice,
Cui '1 giòco è affatto ignòto.
Vi ferma 1' òcchio attònito,
Fiso lo guarda e immòto.
Rotar per 1' ària miralo
Senza saper che sia ;
Tosto d' averlo invogliasi.
Toccarlo già desia.
Ondeggia il globo lùcido,
Or sàie, ora dechina ;
Ratto il Fanciullo séguelo,
A lui già s' avvicina :
De' piedi in pùnta drizzasi.
Le mani in alto stènde
Quanto più puòte, ed àvido
Già quasi il tócca e prènde.
Impaziente lanciasi
Ver lui con lieve salto.
Ma 1' aria urtata celere
Lo risospinge in alto.
S' infiamma allòr più fèrvido
II Fanciullétto, il vólo
118 FAVOLE MORALI.
Fiso ne segue, ed eccolo
Cala di nuòvo al suòlo.
Corre il Fanciùl, che pèrderlo
Un' altra vòlta téme,
E fra r ansióse ed àvide
Palme anelante il prème.
Ma tocco appéna pérdesi,
Sparisce in aer vano,
Scòppia, e sol góccia sòrdida,
Lascia al Fanciullo in mano.
Uomo ambizioso e cupido,
Che sudi in seguitare
Un ben che lusingandoti
Si bel da lungi appare ;
Quando sarai per strìngerlo
In sul fatai moménto,
Deluso allóra e stupido
Stringerai sólo il vento.
FAVOLA LVl.
Il Topo Romito.
Quando 1' inverno nei cantòn del fòco
La Nonna mia ponévasi a filare,
Per trattenermi séco in fèsta e in giòco.
Mi soleva la séra raccontare
Cento e cento novèlle graziose,
Piene di strane e di bizzarre còse.
Or le ranòcchie contro i tòpi armate.
Del lupo, della vólpe ì fatti, i détti.
Le avventure delP òrco e delle fate,
E le burle de' spiriti follétti,
PARTE SECONDA. 119
Narrar sapéa con sì dolci manière,
Ch' io non capiva in me dal gran piacére.
Or mia Nònna sovviénmi che una volta,
Dopo averla pregata e ripregàta
Con mille dolci nómi, a me rivòlta, -
Alfine aprì la bocca sua sdentata,
Prima sputò tre vòlte e poi tossì,
Indi a parlare incominciò così :
'•' C era una vòlta un Tòpo, il qua! bramóso
Di ritrarsi dal móndo tristo e rio,
Cercò d' un santo e plàcido ripòso,
E alle cose terréne disse Addio ;
E per trarsi di lóro assai lontano.
Entrò dentro d' un càcio Parmigiano.
E sapendo che al Ciél poco è gradito
L' uom che si vive colle mani al fianco.
Non stava punto in òzio il buon Romito,
E di lavorar mài non era stanco,
Ed andava ogni giórno santamente.
Intorno intórno esercitando il dènte.
In pochi giórni egli distése il pélo,
E grasso diventò quanto un guardiano. —
Ah ! son felici i giusti, e amico il Cielo
Dispènsa i suoi favóri a larga mano
Sopra tutto quel pòpolo devòto.
Che d' esser suo fedéle ha fatto vóto. —
Nacque intanto fra' tòpi in quella etàde
Una fiera e terribil carestia ;
Chiuse eran tutte ne' granai le biade,
Né di sussister si trovava via.
Che il crudel Rodilàrdo d' ogn' intórno
Minaccioso scorreva e notte e giórno.
Onde furon dal pùblico mandati.
Cercando aita in questa parte e in quella.
120 FAVOLE MORALI.
Col sacco sulle spalle i deputati,
Che giùnser del Romito anco alla célia ;
Gli fecero un patetico discòrso,
E gli chièsero un pòco di soccórso.
* O cari figli miei ', disse il Romito,
^ Alle mortali o buone o rèe venture
Io più non penso, ed ho dal cor bandito
Tutti gli affètti e le mondane cure :
Nel mio ritiro sòl vivo giocóndo ;
Onde non mi parlate più del móndo.
Povero e nLdo cosa mli può fare
Un solitario chiùso in queste mura.
Se non in favor vòstro il Ciel pregare
Ch' abbia pietà della comun sventura ?
Sperate in Lui, eh' Ei sòl salvar vi può'.
Ciò détto, r uscio in fàccia a lor serrò". —
" O cara Nonna mia", le dissi allóra,
" Il vostro Tòpo è tutto Fra Pasquale,
Che nella cèlla tacito dimòra,
C ha una pància sì gròssa e sì badiale,
Che mangia tanto e prèdica il digiuno,
Che chiede sèmpre, e nulla dà a nessuno". —
*' Taci", la buona Vècchia allor gridò,
"O tristarèllo, e chi a pensare a male
Contro d' un religióso t' insegnò.
Ed a sparlar così di Fra Pasquale ? —
Oh mondo tristo ! oh mondo pièn d' inganni !
Ah, la malizia viene avanti gli anni ! —
Se ti sento parlar più in tal manièra,
Vo' che tu vegga se sarà bel giòco". —
Così parlò la Vècchia, e fé' una céra,
Che, a dirla schiètta, la mi piacque pòco :
Ond' io credei che fòsse prudenziale
Lasciar vivere in pace Fra Pasquale.
PARTE SECONDA, V2Ì
FAVOLA LVII.
La Gallina^ e i Pulcini.
• Oi" cLie siete satólli,
E eh' io su quest' erbóso
Molle cespo mi poso,
Ite", disse a' suoi Pólli
La Gallina, " a dipòrto
Ite, o figli, nell' òrto".
Con pipilar giulivo
Sen vanno ; e giunti appéna,
Un già raspa 1' aréna,
Un s' ascónde furtivo,
Un saltella, un svolazza:
Ciascun già si sollazza.
Quand' ècco palpitante
La Madre a sé li chiama.
E : " Qua qua, figli", esclama
Con vóce gracidante ;
^' Qua qua, figli, tornate,
Affrettate, volate".
V^òlgonsi que' Pulcini
Dicendo : " E donde quésto
Richiamo sì molèsto ?"
Pur prónti i poverini.
Benché non senza duòlo,
Tornano a lèi di vólo.
La Chiòccia allór distènde
L' ali, e sótto li tira
Ben tutti : alfin respira.
Ma il perchè non s' intènde
11
1^ FAVOLE MORALI
Da' figli ancóra ; ed élla
Cosi ad èssi favèlla :
"' Da periglio mortale
D' avervi tratti io spéro :
E se volete il véro
Scoprir, fuor di quest' ale
Spignete il guardo, e quello
Mirate errante augèllo.
Voi noi vedeste : è désso,
\ _ _ _ '
E il Nibbio traditóre.
Ancor mi trema il core
Dallo spavènto opprèsso :
Ei v' adocchiò lontano ;
Ma, grazie al Cielo, in vano.
Oh come ha il piede, il ròstro.
Fièro, adunco, sanguigno !
Quanto ha V òcchio maligno '
Il gran nemico vòstro,
Figli, ornai conoscete,
E a fuggirlo apprendete. —
Ecco al guardo ei s' invola.
Qualche Pulcin malnato.
Renitènte, ostinato,
Cèrto a ghermirsi ei vola.
Ma voi sicuri in pace
Ite òr dove vi piace".
guanti mali e 'perìgli
Scopre r òcchio paterno,
Che voi prendete a schérnoy
O non vedete, o figli ! —
E il perchè si rintraccia ? —
Ahy s' ubbidisca e tàccia.
PARTE SECONDA. 123
FAVOLA LVIII.
La Farfalla, e la Nòttola.
Stanca una Farfallétta
L' ali raccòglie, e pòsa
D' una vermiglia ròsa
Su la tremola vétta ;
E allòr la nòtte in cielo
Stendeva il bruno vélo.
Ella pur anco désta
Gli occhi solleva, e i tanti
Astri fissi ed erranti
A contemplar s' arresta,
E r alta osserva immènsa
Azzurra vòlta ; e pensa; —
Dell' età nòstra è vanto,
Ch' òggi filosofésse
Sien le Farfalle anch' èsse. —
Dùnque— ella pensa, e intanto
Dice: "Ah, móndi son quelle
Che a me sembrano stélle.
Ma, come qui tra nói,
E mari, e valli, e mónti,
Ed èrbe, e fióri, e fónti
Colà vi saran pòi ?
O, tanti e si gran móndi
Fien deserti e infecóndi? —
No cèrto : ed animali
Vi sono ; e bianche, e gialle,
Vario-pinle Farfalle
A nói in tutto uguali.
Ah che mirare io bramo !
Quasi direi eh' io V amo"
m FAVOLE MORALI.
Cosi per mondi ignòti,
Ch' e' par eh' essa li véggia.
Col suo pensiér passeggia;
E i perigli mal nòti
Le sono, ond' essa è cinta.
Onde vedràssi estinta.
Già di lèi viene a càccia,
Già I' assale una sózza
Nòttola, e se 1' ingozza,
Mentre di móndi in tràccia
Va del ciél su la vòlta,
Nò a sé pensa la stólta.
O Farfallétia mia,
E che mài ne consigli ? —
Che a' suoi prójirj perigli.
Che a sé, si pensi in pria ;
E che alìòr poi si puòte
Cercar di cose ignòte.
FAVOLA LIX.
Gli Occhi Azzurri, e gli Occhi ^cri,
A contésa eran venuti
Gli Occhi Azzurri e gli Occhi Néri. —
••' Occhi Néri, fieri e ir.jti". —
■•Occhi Azzurri, non sincèri". —
•• Color bruno, color mèsto". —
•'• A cangiar 1' Azzurro è prèsto". —
•'Siamo immàsfine del Cielo". —
•• Siamo faci sotto a un vélo". —
'• Occhi Azzurri han Palla e Giùno". —
l^VRTE SECONDA. li
' avrian détte anche altre còse,
Ma fra lóro Amor si póse.
Decidendo tanta lite
In tai nòte, che ha scolpite
Per suo cènno un Pastor Fido
Sopra un còdice di Guido :
Il primato in questi o in quelli
Non dipènde dal colóre ;
Ma quegli Occhi son più hélli^
Che ri&póndono più al córe'\
INDICE
DELLE FAVOLE, E DEGLI AUTORI DA CDi
SON TRATTE.
PARTE I.
FAVOLE IN PROSA.
FÀVOLA L
Il Cane A'vido,
Favolette Morali.
1>
IL
. La Cerva,
Fàvole Esopiane.
3
IIL
// Ladro, e il Cane,
Favolette Morali.
4
IV.
Il Cerbiatto, e il Cervo, -
Fàvole Esopiane.
4
V.
II Ragno, e la Róndine,
Zaccaria.
5
VI
. La Rana, e il Bue, -
Favolette Morali.
5
VII.
La Lùcciola, e il Vermicello,
Cesarotti.
6
VIII
Il Cane di Campagna, e i Cani della Città,
Zaccaria.
6
IX
, Lo Sparviere, e V Uccellatore,
Marconi.
7
X.
11 Cieco, e lo Stòrpio,
Favolette Morali.
"^
XI.
Il Lupo e la Volpe in giudizio, innanzi alla
Scimia, - - . -
Favolette Morali.
8
XIL
Il Fanciullo, e i Pastori,
Anònimo.
8
XIII.
L' A'sino, il Leone, e il Gallo,
Marconi.
9
XIV.
Il Gatto, e i Topi, -
Fàvole Esopiane.
10
XV.
L' Infelice e la Morte, -
Marconi.
10
XVI.
11 Pastore, e il Mare,
Fàvole Esopiane.
11
XVII.
Mercùrio, e il Contadino,
Marconi.
12
XVIII.
V Jì'sino, e il Cavallo,
Visài.
12
XIX.
La Gatta, e il Gattino, -
Manzoni.
13
XX.
Il Pastore, e la Greggia, -
- Marconi.
14
XXI.
Il Sorcio Viaggiatore, -
Roberti.
14
XXII.
V Istrice, e la Volpe,
Firenzuola.
15
XXIII.
L' A'quila, e la Biscia,
Cesarotti.
16
XXIV.
L' A'sino, e la Lepre,
Marconi.
16
XXV.
11 Ragno, e il Bigatto, -
Fabri.
17
XXVI.
La Volpe, il Lupo, e il Mulo,
■ JYovelle Antiche.
18
XXVII.
II Fuoco, r A'cqua, e 1' Onore,
Gozzi.
19
XXVIII.
Il Cane Invitato,
Fàvole Esopiane.
19
XXIX.
I Tre Pesci,
Firenzuola.
20
XXX.
La Volpe, il Gallo, e i Cani,
. ' - Fabri.
21
XXXI.
il Demònio, e la Vècchia,
Marconi.
22
XXXII.
11 Cervo, ....
Monterossi.
22
XXXIII.
I Garòfani, la Rosa, e la Viola-Màmmola, Gozzi.
2:ì
XXXIV.
il Contandino, il Fifflio, e V Jì'si\
no, ~ Visài.
24
INDICE.
127
XXXVI. Un Padre, e tre Fi^li.
XXXVII. La Scimia, e 1' Orinolo,
XXXV III. Il Concìlio dei Sorci,
XXXIX. Il Pittore,
XL. 11 Gambero, e la Volpe, -
XLI. 1 due Matti, . . . - -
XLII. La Lepre, e le Rane, • - - -
XLI li. 11 Tagliatore di Legna, e la Scimia,
XLIV. La Zanzara, e la Lùcciola,
XLV. Il Lavoro, la Salute, e la Contentezza,
XLVI. Le Scimie, e la Lucciola,
XLVII. 11 Rosignuolo, e il Cuculo,
XLVIII. Le Pere, -----
XLIX. Gli Animali in Pùblica Penitenza, -
L. L' Amore, e V Interesse,
LI. Jl Sole, e il Ghebro, - - -
LII. Il Garofano, . - . -
LUI. 11 Gambero, e i' Uccello Aquàtico, -
LIV. La Nébbia, e i tre Astrologi.
LV. L' Onore, e il Merito, - ' -
Pejre
Visài.
26
Jìnónimo.
27
Marconi.
2«
Gozzi.
29
Rossetti.
30
- Manzoni.
31
Marconi.
32
Firenzuola.
33
Gozzi.
34
Rota.
35
Firenzuola.
37
Fortegueiri.
38
Gozzi.
40
Marconi.
41
Gozzi.
44
Cesarotti.
Aiì
Gozzi.
47
Firenzuola.
49
Gozzi.
51
Cesarotti.
54
PARTE II.
FAVOLE IN VERSI.
Fàvola i.
. il Fiore, e la Rovere, - - -
Bettola.
61
Il,
, 11 Leone Debitore,
De Rossi.
61
III
. // Ladro, e il Cane, - - Favolette Morali.
62
IV.
lì Lupo, e il Pastore, -
De Rossi.
62
V.
Le due Spighe, - . - -
De Rossi.
63
VL
La Rana, e il Bue, - - - -
Grillo.
63
VII.
L' Uomo, e il Cavallo, -
■Alga rotti.
64
Vili.
Due Tori, e un Cane,
Jllgarotti.
65
IX.
Lo Sparviere, e V Uccellatore, -
Grido.
65
X.
La Gioventù, e il Piacere, -
De Rossi.
66
XL
Il Gatto, e il Formaggio,
Roberti.
66
Xll.
// Fanciullo, e i Pastori,
Pignotti.
67
XIII.
11 Toro, il Cavallo, e la Volpe,
De Rossi.
68
XIV.
11 Cane, e la tìor'e, - . - -
Jllgarotti.
68
XV.
U Inj elice, e la Morte,
Pignutti.
69
XVI.
La Vile, e il Potatore,
Bertóla.
70
XVIL
Il Pino, e il Melo-Granato,
Bertela.
70
JfVlII.
L' A'sino, e il Caoallo, - - - -
Passcroni.
71
XIX.
Le Nuvole, e il Sole, - - -
Chiappa.
73
XX.
H Giorno, la Notte, e il Crepùscolo,
Algarutti.
73,
XXI.
Il Lupo, e 1' Agnello, . . -
Gatti.
74
XXII.
L' l'strice, e la Volpe, - - - -
Bandi.
74
XXIII.
La \'olpe, e il Topo, - - -
Frugoni.
76
XXIV.
La Volpo, e il Lepre, - . - -
Mgarotti.
76
XXV.
La Volpe, il Cavallo, e il Lupo, ~
- Grillo.
77.
XXVL
11 Cinghiale, e 1' A'sino,
Orsini.
79
INDICE.
12b
VXVdl. Li' An)i>re, e il Tempo. - - -
XXiX. La Volpe, il Cane, e il Gallo. -
XXX. li Cardeliino, - - - - -
XXXf. il Fanciullo, e le LuccioleLte.
XXXII. La Lucèrtola, e il Coccodrillo, -
XXXill. La. Lucarina,' - - - -,
XXXIY. // Contadino, il Figlio^ e V JÌ'siv.o,
XXXV. La Rana, e il Pesce, - -
XXX Vi. 11 Leone, il Cavallo, la Cagna, la Lo-
custa, e i' Ansino, - , -
XXXVII. La Scìuiia. ì' A's'mu, e la Talpa. -
XX XV 111. n Concilio dà Sorci,
XXXlX. il Corvo, eia Volpe, -
XL. La Pècora, e lo Spino.
XLL 11 Figliolino del iradrone, e il Giardi-
niere, ... - - .
\ijii. Iai Lepre, eie Rane. - -
XLiil. LaFarfaìletta, e «l Fiore, -
XLIV. 11 Leone, la Capra, la Pècora, e la Giù
venca, - - ■ -
XLV. Il Viaggiatore, e il Vento,
XLVI. Le Scvhiie, e il Lucciolone,
XLVil. La Mosca, e il Moscerino,
XLVIÌl. La Spica, e il Papàvero.
XLiX. 11 Cammello, e il Topo, -
L. V Amori', e P Inter. i.-s,-:,
Li. il Fanciullo, e la Vespa, -
Lll. La Corte del lie Leone,
LUI. Il Villano, che trova un Tesoro,
LiV. I Lupi, e ìe Pècore, . . -
LV. Le Bolle di Sapone.
LVI. lì Topo Romito, ' - - - -
LVll La Gallina, e i Pulcini, -
LVIIl. La Fartalla, e la Nòttola. -
LIX. Gli Occhi Azzurri, e sa Occhi Neri, •
Bondi.
Pag.-
Grillo.
^\
fìerióla .
u-;
Bertòln.
84
Bertóla.
8.^
Bertóla.
H')
Fignotti.
^7
Btrtóia.
86
Aìgarotii.
8:>
J-ig-aoUi.
Figaciti.
iirillo.
5)0
Ds Rossi.
9;ì
Pércgo.
(rHllo.
VA
• Ber tota.
•♦7
Grillo.
S)fi
fieri ola.
9: >
lìcrtóìn.
101
PigJWtti.
10.'
Pignoni.
. iLrtùìa.
104
lor.
Chiappa.
Pignotti.
Crudeii.
'07
10.S
liO
Passernni.
112
Grillo.
114
PioTLUtti.
ne.
Pignoni.
118
Firego.
121
- Per ego.
• Bertóla
12::
124
A
FINE.
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cates the date on or before which this
book should be returned to the Library.
Please do not remove cards from this
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^r-
"^