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Full text of "Raccolta di favole morali, dei migliori favolisti italiani, ad uso di coloro che imparano la lingua"

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CAUTION 

Do  not  write  in  this  hook  or  mark  it  with 
pen  or  pencil.  Penalties  are  imposed  by  the 
Revised  Laws  of  the  Commonwcialth  of  Mas- 
sachusetts,  Chapter  208,  Section  83. 

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ÀfUiìQ 


FORM    NO       fin<l 


(\(k,cie«^)l(x,  (U.  I  a.vt)^  "Vwrc^o^ 


DEI    MIGLIORI    FAVOLISTI    ITALIANI 


A»?    USO    DI    COLORO    CHE   IMPARANO    T>A    LINGUA, 


Da  PIETRO  BACHI, 

PRECETTORE     NELL'    UNIVERSITÀ    HARVAROIA.NÌ 


•»     ••»       -•         ••» 


"  Dafn'e:^  libèlli  ùos  ^CT  (lubd  riduft»\noreì,  " 
Et  quod  pnjwlo.nti  vitcm  corsi'iojnonet." 
Phjcor 


BOSTON.  ^ 

PRESSO   LILLY,   WAIT,  COLMAN,  E   HOLDEW 

M    DCCC    XXXV, 


Entered  according  io  the  Act  of  Congress,  in  the  year  1S35, 

By  PIETRO  BACHI, 

in  the  Clerk/s  Office  of  the  District  Court  of  the  Districi  of  Maasa 
chusetta 


AVVERTIMENTO. 


Gl'  Italiani,  che  nel  trecento  producevano 
già  capi-lavori,  mentrechè  le  altre  nazioni 
sapevano  appena  leggere  ;  che  nel  cinque- 
cento erano  ricchissimi  di  Novelle  dettate 
con  aureo  stile,  e  traducevano  Esopo  in  prosa  e 
scrivevano  versi  bellissimi  ;  prima  del  sette- 
cento, quando  la  Francia  vantava  un  ottimo 
Favolista,  non  avevano  avuto  chi  nella  loro  lin- 
gua scrivesse  lodevolmente  Favole,  e  special- 
mente in  versi. 

La  fama  sparsa  in  tutta  V  Europa  delle  Favole 
del  La  Fontaine,  eccitò  i  poeti  Italiani  moderni 
a  voler  riempire,  per  dir  cosi,  questa  lacuna 
lasciata  dagli  antichi  nella  loro  letteratura. 
Quindi  sorsero  i  Crudeli,  i  Roberti,  i  Passeroni, 
i  Pignotti,  i  Bertela,  e  tanti  altri  ;  i  quali,  per 
la  naturalezza  dello  stile,  per  la  saviezza  della 
morale,  per  la  leggiadria  delle  immagini,  e  per 
la  loro  classica  ingenuità,  si  resero  degnissimi 


AVVRRTIMENTO. 


di  essere  collocati  coi   miglioii  Favolisti  delle 
altre  nazioni. 

Dalle  loro  opere  sono  state  principalmente 
tratte  le  seguenti  Favole  :  le  quali,  quantunque 
direttamente  destinate  a  coloro  che  imparano 
la  lingua,  non  riusciranno  men  care  agli  ama- 
tori della  letteratura  Italiana,  e  ad  ogni  eulta 
e  brillante  persona- 


Nota.— Alcune  Favole  m  prosa  sono  lìprodotte  nella  scionàa 
jjarte  della  seguente  Raccolta,  art  oggetto  di  facilitare  ai  principi 
anti  l'intelligenza  del  verso.  Queste,  eh'  ei  tradurranno'  le  prim<^ 
nella  secondo  parte,  e  dopo  di  averle  rilette  in  prosa,  si  trovano  »*!)' 
Indice  in  cartUtiri  corsivi. 


i 


PARTE     PRIMA 


FAVOLE    IN    PROSA 


La  Favola  è  un  componimento  originale,  anzi  unico,  nel  quale  la  filosofia,  e 
la  poesia  sembrano  esser  convenute  insieme  per  formar  un  innesto  prezioso  di 
follia  e  di  sapienza,  di  fole  e  di  verità,  per  istruire  trastullando  il  gran  bam- 
boccio dell'  uomo  ;  correggere  quella  serpe  dell'  amor  proprio  senza  irritarla  ;  e 
dar  infine  la  ragione  agli  animali,  per  insegnarla  a  quelli  che  so  ne  credono  i 
proprietarj.  Cesarotti.  —  Sag^o  sugli  Studj. 


RACCOLTA   DI   FAVOLE  MORALI 


PARTE    I. 
FAVOLE    IN    PROSA. 


FAVOLA   I. 

Il    Cane  Avido, 

Un  Cane  passava  un  fiume  a  nuòto,  portando  in 
bócca  un  pèzzo  di  carne.  Vedendo  nell'  acqua  la 
sua  immàgine,  credette  che  vi  fòsse  un  altro  Cane 
con  altro  pèzzo  di  carne.  Per  1'  ingordigia  di  ra- 
pirglielo aprì  la  bócca,  e,  lasciando  intanto  cadére 
quél  che  aveva,  rimase  privo  dell'  uno  e  dell'  altro. 

Non  siate  mài  tròppo   àvidi,  e  ricordatevi  del 
provèrbio  :  "  Chi  troppo  vuole  niènte  ha^\ 

FAVOLA   IL 

La  Cerva, 

Cieca  d'   un  òcchio  pascolava  una  Cerva  sul  lito 
del  mare.     Teneva  1'  òcchio  sano  rivòlto  alla  parte 


4  FAVOLE   MORALI. 

di  tèrra,  dónde  temeva  le  insidie  de'  Cacciatóri,  e 
1'  altro  vèrso  il  mare,  di  cui  non  temeva.  Passarono 
a  caso  de'  naviganti,  e,  adocchiatala  ben  bène,  la 
trafissero  con  un  dardo.  Quella  morèndo  si  lagnava 
dèlia  sua  sórte,  e  diceva  :  *^  Misera  me  !  che  la  dis- 
gràzia mi  venne  addòsso  di  là  dónde  non  V  aspet- 
tava^'. 


FAVOLA    III. 
Il  Ladro,  e  il  Cane, 

[La  stessa  in  Versi  ;  Parte  Seconda,  Fav.  III.] 

Un  Ladro,  volendo  rubare  di  nòtte  in  una  casa, 
gettò  al  Cane,  che  vi  èra  di  guàrdia,  del  pane, 
perchè  stèsse  zitto.  Ma  il  Cane  :  "  T'  inganni", 
disse,  "  amico,  se  speri  con  ciò  di  chiùdermi  la  bóc- 
ca", e  si  póse  ad  abbaiare  immantinènte  per  mòdo 
che  il  Ladro  dovè  fuggirsene  precipitóso. 

Imparate  dal  Cane  a  non  lasciarvi  mài  allettare 
da  chi  vi  offre  regali,  perchè  manchiate  al  vòstro 
dovére. 

FAVOLA   IV. 

//  Cerbiatto,  e  il  Cèrvo. 

Il  Cerbiatto  un  giórno  disse  al  Cèrvo  :  ''  Padre 
tu  sé'  più  grande,  e  più  velóce  de'  cani:  tu  inalberi 
dèlie  corna  supèrbe,  e  puoi  vendicarti  con  èsse. 
Perchè  adunque  gli  tèmi  così?"  Ed  égli  ridendo  : 
"Tu  dici  bène  mio  caro  figlio;  ma  so  bène  altresì, 


PARTE    PRIMA. 


che  appéna  sentito  1'  abbaiare  de'  cani,  mi  prènde, 
non  so  còme,  tanta  paura,  che  sono  spinto  alla 
fuga". 

Chi  è  tìmido  per  natura  difficilmente  guarisce. 


FAVOLA    V. 

//  Ragno,  e  la  Róndine. 

Un  Ragno  che  in  vasta  soffitta  si  teneva  aver 
diritto  esclusivo  di  còglier  le  mósche,  s'  ebbe  a  male 
che  una  Róndine  facesse  altrettanto  ;  e,  per  farsene 
rènder  cónto,  tése  una  fòrte  réte  attravèrso  quella 
finèstra,  per  cui  èssa  sovènte  entrava  ed  usciva,  af- 
finchè v'  incappasse  e  restasse  prèsa.  Dòpo  non 
mólto  la  Róndine  di  pièno  vólo  passa  per  la  finèstra, 
e  tira  séco  per  1'  ària  la  ragnatèlla  ed  il  Ragno. 

Mài  non  è  per  tornarvi  a  cónto  V  attaccar  briga 
con  uno  pia  fòrte  di  voi. 

FAVOLA  VL 
La  Rana,  e  il  Bue. 

[La  stessa  in  Versi  ;  Parte  Seconda,  Fav.  VI.] 

Una  Rana  vide  un  Bue,  che  pascolava  in  un 
prato,  e  pùnta  da  invidia  volle  cercare  di  eguagliar- 
lo ;  cominciò  dùnque  a  gonfiarsi,  e  domandò  a' 
ranòcchi  suoi  figli,  chi  fòsse  maggióre.  Essi  rispó- 
sero :  '^  Il  Bue".     Da  ciò  irritata  seguitò  a  gonfiarsi 

1* 


6  FAVOLE   MORALI. 

con  maggior  fòrza,  ma  sèmpre   indarno.     Ostinata 
volle  continuar  tuttavia  ;  ma  alla  fine  scoppiò. 

Guardai  evi  dall'  invìdia,  e  dalla  presunzióne  di 
voler  uguagliare  chi  è  pia  grande,  o  pia  potènte  di 
vói. 


FAVOLA   VII. 

La  Lùcciola,  e  il  Vermicèllo. 

"Non  ho  io",  diceva  ad  alta  vóce  una  Lùcciola, 
"  quésto  fòco  di  diètro  che  risplènde  ?  Ora  che  fo  io 
qui  in  tèrra  ?  Perchè  non  vólo  sulle  sfere  a  ruotare 
quésti  miei  nobilissimi  ràggi  dal  levante  al  ponènte, 
ed  a  formare  una  nuòva  stélla  fra  1'  altre  mie  sorèlle 
del  cielo  ?"  —  "  Amica",  le  disse  un  Vermicèllo,  che 
udì  i  suoi  vantaménti,  "  finche  con  quél  tuo  splèndi- 
do focherèllo  stài  fra  le  zanzare  e  le  farfalle,  verrai 
onorata;  ma  se  sali  dóve  tu  di',  sarai  nulla". 

Quésta  favolétta  aramonìsca  me,  e  mólti  altri. 

FAVOLA   vili. 

Il  Cane  di  Campagna,  e  i  Cani  dèlia  Città, 

Un  Cane  di  campagna  venuto  col  suo  padróne 
alla  città,  non  appéna  fu  sul  mercato,  che  mólti 
Cani,  méssisi  ad  abbaiare,  gli  córsero  cóntro.  Ei 
si  póse  a  fuggire  ;  e  quésti  tanto  più  lo  inseguivano. 
Finalménte,  stanco  di  quésto  giuoco,  si  fermò  risolù- 


PARTE  PRIMA.  7 

to,  e  digrignando  i  dènti,  si  fé'  vedére  adirato.  Al- 
lóra niùno  de'  Cani,  che  con  tanto  ardór  lo  incalza- 
vano, osò  più  avvicinàrglisi. 

Dice  bène  il  provèrbio  :  A  Càn  che  fugge  ognuno 
grida:  ''Dagli!  dagli V 

FAVOLA  IX. 

Lo  Sparvière,    e    V    Uccellatóre. 

[La  stessa  in  Versi  ;  Parte  Seconda,  Fav.  IX.] 

Neil'  impeto  d'  incalzare  una  colómba,  incappa 
lo  Sparvière  nelle  réti  d'  un  Uccellatóre.  Veden- 
dosi a  mal  partito,  adópra  tutta  la  sua  eloquènza  per 
ottener  d'  èsser  lasciato  in  libertà.  Tra  le  altre 
ragióni  gli  dice,  di  non  aver  égli  mài  fatto  a  lui  alcun 
male. —  '^  Sarà  véro",  rispóse  quésti,  '^  ma  neppùr 
la  colómba,  che  or  óra  perseguitavi  per  isbranàrla, 
non  ti  aveva  offéso  giammài". 

Chi  fa  male,  male  aspètti. 

FAVOLA    X. 

//  Cièco,  e  lo  Stòrpio. 

Un  Cièco  trovò  uno  Stòrpio,  e  lo  pregò  a  volérgli 
servire  di  guida.  —  ''  Io  il  farei  volentièri",  rispóse  lo 
Stòrpio,  '  ma  non  mi  posso  règgere  in  piedi.  Fac- 
ciàm  così  ;  tu  pòrtami,  ed  io  ti  verrò  insegnando  la 
strada  :  cosi  a  te  verranno  i  miei  òcchi,  a  me  le  tue 
gambe".     Il  Cièco  accettò  il  partito,  e  si  tòlse  lo 


8  FAVOLE    MORALI. 

Stòrpio  sulle  spalle  :  in  quésto  mòdo  ciò  che  diviso 
èra  inùtile  all'  uno  e  all'  altro,  unito  insième  divenne 
ùtile  a  tutti  e  due. 

Allo  stésso  mòdo  dobbiamo  nói  pure  aiutarci 
V  un  V  altro,  e  farci  del  bène,  dóve  possiamo, 
scambievolmente. 


FAVOLA   XL 

E  Lupo  e  la  Vólpe  in  giudìzio y  innanzi  alla  Scimia. 

Il  Lupo  accusava  la  Vólpe  d'  avergli  rubata  non 
so  che  còsa,  e  la  Vólpe  negava.  Scélsero  la  Scimia 
per  giùdice.  Quésta,  dòpo  aver  udite  le  ragióni  di 
ambidùe,  rispòse  :  ^'  Io  crederei  volentieri  che  tu,  o 
Lupo,  non  abbi  perduto  quél  che  pretèndi,  e  che  tu, 
o  Vólpe,  abbi  rubato  benissimo  quello  che  nèghi". 
Volle  con  ciò  la  Scimia  far  intèndere,  che  non  sapeva 
crédere  ne  all'  uno  né  all'  altro,  perchè  amendùe 
èrano  sòliti  a  mentire. 

Guardatevi  dal  dir  bugìe  :  chi  è  trovato  in  bugìa 
una  vòlta,  non  è  pili  creduto,  nemméno  quando  dice 
la  verità. 


FAVOLA   XIL 
//  Fanciullo,  e  i  Pastóri. 

[La  stessa  in  Versi  ;  Parte  Seconda,  Fav,  XIL] 

Un  Fanciullo  per  passar  1'  òzio,  méntre  pasceva 
le  pècore,  gridava  talora  sènza  motivo  :  "Al  lupo  !  al 


PARTE  PRIMA.  9 

lupo  !"  I  Pastóri,  che  1'  udivano,  accorrevano  in  di 
lui  soccórso  ;  e  con  tal  vézzo  égli  se  la  spassava 
qualche  tèmpo  con  èssi.  Ma  che  ?  Una  vòlta,  che 
fu  davvéro  assalita  la  sua  greggia  dal  lupo,  non  gli 
valse  pùnto  il  gridare,  perchè  quelli  che  1'  udirono, 
credendola  la  sòlita  bèffa,  non  si  mossero  pùnto. 
Sicché  ebbe  il  lupo  tutto  1'  àgio  di  portarsi  via  un 
agnèllo. 

Di  là  r  imprudènte  Fanciullo  potè  imparare,  che 
non  5'  hanno  a  dir  bugie   neppùr  per  ischérzo. 


FAVOLA   XIII. 

Z*'  Asino,  il  Leone,  e  il  Gallo. 

Un  Asino  stava  tranquillamente  sdraiato  in  un 
campo,  quando  un  Leone  venne  per  divorarlo.  Ma 
essendosi  un  Gallo,  che  a  caso  trovàvasi  lì  vicino, 
mésso  a  cantare,  il  Leone,  non  potendo  per  natura 
soffrire  quél  càntO;  si  mise  a  fuggire.  L'  Asino  da 
sciòcco  credendo  che  il  Leone  avesse  timor  di  lui, 
incominciò  ad  inseguirlo,  ed  a  ragliare  con  tutte  le 
fòrze.  Ma  quando  il  Leone  fu  tanto  lontano  che 
non  poteva  sentir  più  il  Gallo,  si  volse  indiètro,  e 
spiccatosi  sull'  Asino,  lo  sbranò. 

Allóra  1'  Asino  morèndo  disse  :  ''  Oh  !  stólto  che 
sono!  La  mia  asinità  mi  dà  la  mòrte^\ 


10  FAVOLE   MORALI. 

FAVOLA   XIV. 

Il  Gatto,  e  i  Tòpi. 

In  certa  casa  èrano  mólti  Tòpi.  Un  Gatto  venne 
a  saperlo,  e  s'  avviò  colà.  Ne  attrappàva  mólti 
ogniddì,  e  bellamente  se  li  mangiava.  I  Tòpi  allóra 
vedendosi  alle  strétte,  fecero  consiglio,  e  dissero  tra 
lóro  :  '^  Non  iscendiàmo  giù  dal  tétto,  che  altriménti 
morremmo  tutti  :  perchè  se  il  Gatto  non  può  venire 
quassù,  nói  vivremo  in  luògo  di  sicurézza".  Il  Gatto, 
che  vide  cangiata  la  scèna,  pensò  di  gabbarli  per  via 
d'  inganno.  Salì  dùnque  sur  una  piccola  trave,  e  di  là 
si  calò  giù  penzolóne,  fingendo  il  mòrto.  Allóra  un 
vècchio  de'  Tòpi,  facendo  capolino,  e  veduta  la 
trésca,  disse  :  "  Eh  !  galantuòmo  !  quand'  anche  tu 
fòssi  un'  ómbra  non  ti  verrei  da  vicino". 

Z/'  uòmo  prudènte  non  si  lascia  ingannare  alV  in- 
domani. 

FAVOLA   XV. 
Z/'  Infelice,  e  la  Mòrte. 

[La  stessa  in  Versi  ;  Parto  Seconda,  Fav.  XV.] 

Un  pòvero  Vècchio  procuràvasi  stentatamente  il 
vitto  col  raccògliere  tra  i  dirupi  qualche  fàscio  di 
legna,  che,  caricatosene  il  dòsso,  per  lunga  via  por- 
tava a  véndere  in  città.  Un  giórno  che  tornava  dal 
bòsco  opprèsso  più  del  sòlito  da  enórme  péso,  get- 
tà^^ol  .  tèrra:  '^Ah!  Mòrte",  disse,  "desiderata 
Mo*.  ,  vièntene  a  me".     Viene  èssa,   e  gli  dice: 


PARTE   PRIMA.  11 

"  Eccomi  prónta  a  compir  le  tue  brame  .  .  ,  .  "  —  "  Io 
t'  ho  chiamato",  rispòse  il  Vècchio,  pàllido  e  tre- 
mante, '' perchè  non  essendo  qui  altri,  m'  aiuti  tu  a 
caricarmi  le  spalle  di  quésto  fardèllo". 

Quando  la  Mòrte  è  lontana  pòco   spaventa^  ma 
qualóra  si  avvicina  élla  è  mólto  orribile. 


FAVOLA   XVI. 

Il  Pastóre,  e  il  Mare. 

Un  Pastóre  guidava  la  greggia  sulla  riva  del  Mare, 
e  vedendo  la  superficie  chéta  delle  acque,  sentì 
vaghézza  di  méttersi  a  trafficare  in  un  vascèllo. 
Perciò  vendute  le  pècore,  comperò  dèlie  sòme  di 
dàtteri,  e  fece  véla  :  quando  insórse  una  fièra  bur- 
rasca, talché  il  naviglio  èra  in  pericolo  di  sommèr- 
gersi. I  naviganti  gittàrono  in  Mare  tutte  le  mèrci, 
e  con  èsse  i  dàtteri  ;  ónde  alleggerire  del  péso  la 
barca,  che  a  gran  fatica  potè  ridursi  in  pòrto.  Da 
lì  a  qualche  tèmpo,  un  cèrto  Viandante  passò  lungo 
la  spiàggia,  e  vedendo  il  Mare  in  calma  :  "  Eh  ! 
costui",  disse,  ^'  vorrebbe  ancóra  de'  dàtteri  ;  e  perciò 
fa  le  viste  d'  èsser  tranquillo". 

Le    disgràzie  fanno  gli  uòmini  accòrti. 


12  FAVOLE    MORALI. 

FAVOLA   XVII. 

Mercurio,  e  il  Contadino. 

Un  Contadino  nel  potare  un  àlbero  sulla  riva 
d'  un  fiume,  ebbe  la  disgràzia  di  lasciarsi  fuggir  di 
mano  la  scure,  eh'  égli  non  potè  più  rinvenire. 
Méntre  stàvasi  dolènte,  piangendo  quésta  pèrdita 
gli  apparve  Mercùrio,  il  quale,  mostrandogli  una 
scure  d'  òro,  gli  disse  :  "  E  quésta,  galantuòmo,  la 
tua  scure  ?"  —  "  No",  rispòse  il  Contadino,  "  cotésta 
scure  non  è  la  mia".  —"È  dùnque  quésta  ?"  presen- 
tandogliene una  d'  argènto.  —  ^' No,  non  è  neppùr 
quella  che  mi  appartiene".  —  '^  Sarà  fórse  quésta?" 
sporgendone  una  di  fèrro.  —  ^^  Ecco  veramente  la 
scure  la  cui  pèrdita  m'  affligge".—  '^Prèndi  quésta", 
soggiùnse  Mercùrio,  "  ed  anche  le  due  altre.  Ricévile 
in  prèmio  dèlia  tua  buòna  fède". 

La  probità  è  la  miglior  polìtica. 

FAVOLA  XVIII. 
jL'  Asino,  e  il  Cavallo. 

[La  stessa  in  Versi  ;  Parte  Seconda,  Fav.  XVIII.] 

Un  Asino  ed  un  Cavallo  viaggiavano  insième, 
ambidùe  càrichi  dèlie  lóro  sòme.  L'  Asino  senten- 
dosi tròppo  aggravato,  disse  al  Cavallo  :  "  Pigliati 
in  grazia  un  pòco  del  mio  péso,  eh'  io  non  posso  or- 
mài più  resistere".  Al  che  rispòse  il  Cavallo  :  "  Io 
sono  abbastanza  aggravato,  e  non  sono  in  grado  di 
compiacerti".     Il  pòvero  Asinèlio  dòpo  pòchi  pàssi 


PARTE   PRIMA.  13 

cadde  sfinito  dàlia  fatica,  e  sótto  il  péso  morì.  11 
Cavallo  voltòssi  appéna  a  guardarlo,  e  tirò  innanzi  ; 
ma  il  padróne  córse  ben  tòsto  a  fermarlo,  e  lo  caricò 
di  tutta  la  sòma  che  1'  Asino  avéa.  — '^  Misero  me  !" 
disse  il  Cavallo  allóra,  ^'  ben  èra  mèglio  il  pigliarmi 
quél  pòco  péso  da  principio,  e  salvar  la  vita  a  quésto 
pòvero  animale,  che  vi  morì  sótto  per  mia  cagióne". 

Non  vi  rincrésca  di  soffrire  un  pòco  d^  incòmodo 
per  aiutare  chi  ha  bisógno  ;  altriménti  potrà  acca- 
dere anche  a  vói  di  dover  sopportare  una  maggior 
péna. 


FAVOLA  XIX. 

La  Gatta,  e  il  Gattino. 

Desinava  una  brigata  di  scioperóni,  in  tèmpo  di 
carnovale  ;  e  sènza  eh'  uòmo  se  n'  accorgesse,  una 
Gatta,  alla  presènza  di  picciolo  Gattino  suo  figlio, 
arraffò  un  pezzetto  di  carne  :  quindi  scappò  a  rim- 
bucàrsi  ;  e  il  Gattino  diètro.  Non  so  perchè,  vol- 
gendosi élla  altróve  còlla  carne  tra  le  zampe,  la  pic- 
ciola  bestiuóla  stèse  lo  zampétto,  e  stava  per  adden- 
tare quél  cicciolo.  Se  n'  accòrse  la  madre,  ed  ar- 
ricciando il  pélo,  dirugginando  i  dènti,  mòrse  il  tè- 
nero figlio,  e  ne  lo  ripigliò  agramente,  perchè  avesse 
tentato  di  rapirle  la  prèda.  Ei  prèsto  soggiùnse  : 
^*  Tu  pur  r  hai  rubata". 

Inségna  la  fàvola  quanto  pòssa   V   esémpio   dé^ 
genitori  nelle  tènere  ménti  de*  figlL 
2 


14  FAVOLE   MORALI. 

FAVOLA   XX. 

//  Pastóre,  e  la  Greggia. 

Un  Pastóre  una  vòlta  così  aringo  la  sua  Greggia  : 
'^  Codardi  e  imbecilli  che  siete!  Quando  da  lungi 
scorgete  il  lupo,  immantinènte  vi  date  alla  fuga» 
State  férmi,  aspettatelo  coraggiosamente  :  quésto 
sólo  basterà  per  intimorire  il  nemico".  A  tale  ram- 
pógna i  montóni,  le  pècore,  ed  anche  gli  agnèlli 
promisero  sulla  lóro  paróla  d'  onore,  non  sólo  di 
rimanére  intrèpidi  nelle  file,  ma  anche  di  difèndersi 
da  bravi.  Méntre  stavano  facendo  al  Pastóre 
quéste  bèlle  promèsse,  ècco  un  lupo  apparire  .  .  .  , 
anzi  non  èra  mica  un  lupo,  ma  sólo  la  sua  ómbra. 
A  tale  vista  tutti  dimenticano  le  fatte  promèsse  :  e 
la  Greggia  intéra  si  dà  alla  fuga. 

Fatti,  e  non  paròle. 

FAVOLA   XXL 

Il  Sorcio  Viaggiatóre. 

L"n  Sorcio  fece  un  viàggio.  Tornato  che  si  fu  a 
casa,  i  sorci  parénti  ed  amici  gli  furono  intórno  a 
rallegrarsi  dèlia  sua  buòna  venuta,  e  dèlia  sua  buòna 
céra  ;  ed  ognuno  voléa  saper  novità  spezialmente  di 
quelle,  che  potèano  interessare  la  lor  nazióne,  ed  il 
lóro  còrpo.  Egli,  dòpo  aver  raccontati  mólti  avveni- 
menti, in  cui  entravano  i  presciutti  e  i  formàggi, 
asserì  a  tutto  quél  concilio,  che  avèa  veduto  de'  tòpi 
còlle  ali,  i  quali  veracemente  volavano  per  1'  ària. 


PARTE   PRIMA.  15 

Tutta  V  assemblèa  restò  attònita,  e  ciascuno  augu- 
rava a  se,  ed  àgli  altri  quelle  ali  :  perchè  con  tal 
presidio  non  avrebbero  avuto  più  paura  del  gatto. 
Ma  che  ?  I  sorci  alati  veduti  da  colui  èrano  i 
pipistrèlli. 

/  viaggiatóri  non  di  ràdo  traveggono  per  la 
negligenza  di  osservare,  e  fanno  travedére  per 
V  ambizióne  di  far  maravigliare. 

FAVOLA   XXII. 
L'  Istrice,  e  la  Vólpe. 

[La  stessa  iu  Versi  ;  Parte  Seconda,  Fav.  XXII.]  .  '; 

L'  Istrice  tornava  dalla  guèrra  con  ima  cèrta 
Vólpe  ;  e  lamentandosi  con  lèi  eh'  èra  stracco,  e 
che  gli  dolèvan  tutte  le  ossa,  la  Vólpe  gli  disse  : 
"  Vòstro  danno,  Messère.  A  che  portare  tant'  arme 
addòsso^  óra  che  la  guèrra  è  finita  ?  Perchè  almanco 
la  séra,  quando  siete  giùnto  all'  osteria,  non  ve  le 
cavate  vói,  che  cosi  vi  riposerete  che  sarà  un  pia- 
cére ?"  Acconsentì  il  sémplice  dell'  Istrice.  E  la 
séra  sùbito  arrivato  all'  osteria,  tutto  si  disarmò,  e 
cenato  eh'  égli  ebbe,  se  n'  andò  a  riposare.  La 
trista  dèlia  Vólpe,  cóme  lo  vide  addormentato,  se 
n'  andò  alla  vòlta  sua,  e  trovandolo  del  tutto  dis- 
armato, lo  ammazzò,  e  mangiósselo  a  suo  grand'  àgio. 

Cosi  interviene  a  colóro,  i  quali  si  affidano  cie- 
camente a  ingannévoli  consigli. 


16  FAVOLE   MORALI. 

FAVOLA  XXIII. 

U  Aquila,  e  la  Biscia^ 

Li'  Aquila,  dòpo  aver  lunga  pèzza  contemplato  i! 
sóle,  rivòlse  1'  òcchio  alla  vasta  estensiòn  della  tèrra 
a  lèi  sottopòsta,  e  stava  librata  sull'  ale,  pascendosi 
di  quél  vàrio,  e  pompòso  spettàcolo.  Pòco  lungi  di 
là,  nella  spaccatura  d'  un  masso,  una  gròssa  Biscia 
la  guatava  con  òcchio  di  fuòco,  e  divincolandosi,  e 
aiutandosi  còlle  sue  spire,  facèa  pròva  di  lanciar- 
sele cóntro  ;  ma  non  potendo  règgersi  a  lungo, 
ricadeva  a  tèrra,  addentandola  di  dispétto,  e  di  ràb- 
bia. Veggèndo  adunque  tornarle  vano  ógni  suo 
sfòrzo,  si  pòse  a  zufolarle  diètro  con  un  furóre  pari 
all'  invidia  da  cui  si  sentiva  ródere.  L'  Aquila  final- 
ménte adocchiatala  :  "  Che  fai  tu",  disse,  "  villana 
béstia  ?  Che  hai  tu  a  fare  con  me  ?  T'  intèndo,  tu 
vorresti  provocare  il  mio  sdégno  a  rischio  d'  èssere 
straziata  dà'  miei  artigli  ;  vorresti  pure  eh'  io  t'  af- 
ferrassi e  t'  alzassi  mèco  nell'  ària.  Nò,  io  non  ti 
farò  quésto  onore  :  Zufola  pure  fin  che  tu  scòppi, 
ina  striscia^'. 

FAVOLA   XXIV. 

L'  Asino,  e  la  Lèpre. 

I  quadrùpedi  essendo  una  vòlta  in  guèrra,  il 
Leone  scélse  per  generalissimo  dèlie  sue  armate  un 
Órso  eh'  èra  riputato  valorosissimo  guerrièro.  In 
una  rasségna  delle  truppe,  che  facèvasi  alla  presènza 
del  monarca,   presentatisi  1'  Asino  e   la   Lèpre,  il 


PARTE   PRIMA.  17 

generale  rivólto  al  re  disse  :  ^'  Mandiamo  a  spasso 
quéste  razze  vili  e  pauróse,  che  in  un  fatto  d'  armi 
pósson  produr  disórdine  e  cagionar  pregiudizio,  non 
mài  èssere  d'  alcun  prò".  —  '^  Non  dite  così,  signor 
generale",  rispóse  il  Leone.  ''  Non  vi  è  soggètto 
alcuno  nello  stato,  che,  impiegato  secóndo  il  suo 
talènto,  non  sìa  utile  a  qualche  còsa.  Negli  esèr- 
citi fan  d'  uòpo  mólti  corrièri.  Chi  a  tal  uffizio  po- 
trebbe servir  mèglio  della  Lèpre  ?  L'  Asino  pòi  in 
qualità  di  trombétta  non  sólo  si  fa  sentir  da  tutto 
i'  esèrcito  ;  ma,  quél  eh'  è  mèglio,  métte  égli  in 
ispa vènto  i  nemici". 


FAVOLA    XXV 

Il  Ragno,  e  il  Bigatto. 

Un  Ragno  stava  occupatissimo  facendo  una  lun- 
ghissima téla,  che  giungeva  da  un  lato  dell'  appar- 
taménto all'  altro  ;  quando  un  Bigatto  gli  domandò, 
perchè  impiegasse  tanto  tèmpo  e  tanto  lavóro  nel 
fare  un  sì  gran  nùmero  di  linee  e  di  cérchi.  —  "  Taci, 
ignorante  insètto",  rispóse  il  Ragno  stizzito,  "  bada  a 
non  incomodarmi  più  còlle  tue  domande.  Io  lavóro 
per  tramandare  il  mio  nóme  ài  pòsteri,  e  la  fama  è 
r  ùnico  oggetto  dèlie  mie  fatiche.  Io  non  sono 
matto,  quale  tu  sèi,  e  non  mi  chiùdo,  cóme  tu  fai,  in 
un  bòzzolo,  per  ivi  pòi  morirvi  di  fame".  Ma  ècco 
che,  méntre  il  dótto  Ragno  stava  ragionando  con  tan- 
to ingégno,  una  serva,  che  portava  fòglie  di  mòro  pel 
Bigatto,  entrando  nella  càmera,  accòrtasi  del  lavóro 
del  Ragno,  con  un  cólpo  di  granata  distrùsse  nello 

2* 


18  FAVOLE   MORALI. 

stésso  tèmpo  il  Ragno,  il  suo  lavóro,  e  le  sue  bèlle 
speranze. 

Niènte  è  'più.  ridìcolo  che  usare  di  un'  arte  del 
tutto  inùtile. 


FAVOLA  XXVI. 

La  Vólpe,  il  Lfùpo,  e  il  Màio. 

[La  stessa  in  Versi  5  Parte  Seconda,  Fav.  XXVJ.] 

La  Vólpe  andando  per  un  bósco^  vi  trovò  un  MùlOj 
e  non  n'  avéa  mài  più  veduti.  Ebbe  gran  paura,  e 
cosi  fuggendo  trovò  il  Lupo  ;  dissegli  cóme  avéa 
trovato  una  novissima  béstia,  e  non  sapéa  il  suo 
nóme.  Il  Lupo  disse  :  "Andiàmvi;  ben  mi  piace"  : 
ed  incontanènte  furono  giùnti  a  lui.  Al  Lupo  parve 
più  nuòvo,  che  altresì  non  n'  avéa  mài  veduto.  La 
Vólpe  il  domandò  del  suo  nóme.  Il  Mulo  rispóse  : 
'^  Cèrto  io  non  V  ho  bène  a  ménte,  ma  se  tu  sài  lèg- 
gere, io  1'  ho  scritto  nel  pie  diritto  di  diètro".  La 
Vólpe  rispóse  :  "  Lassa  !  eh'  io  non  so  niènte,  che 
lo  saprei  mólto  ben  volentièri".  Rispóse  il  Lupo  : 
''  Lascia  fare  a  me,  che  mólto  lo  so  ben  fare".  II 
Mulo  sì  gli  mostrò  il  pie  diritto  di  sótto,  che  li  chióvi 
paréano  lèttere.  Disse  il  Lupo  :  "Io  non  le  véggio 
bène".  Rispóse  il  Mulo  :  "  Fatti  più  prèsso,  che  le 
son  minute".  Il  Lupo  gli  credette,  e  ficcóssegli  sót- 
to, e  guardava  fiso.  Il  Mulo  trasse,  e  diègli  un  càlcio 
nel  capo  tale  che  1'  uccise.  Allóra  la  Vólpe  se 
n'  andò,  e  disse  : 


*'  Ogni  uòmo  che  sa  lettera  non  è  sàvio'\ 


PARTE  PRIMA.  19 

FAVOLA  XXVII. 

iZ  Fuòco,  V  Acqua,  e  V  Onore, 

Il  Fuòco,  V  Acqua,  e  1'  Onore  fecero  un  tempo 
comunèlla  insième.  E  volendo  far  viàggio  in  com- 
pagnia, prima  di  partirsi,  dissero  che  bisognava  darsi 
fra  lóro  un  ségno  da  potérsi  ritrovare,  se  mài  si  fos- 
sero scostati  e  smarriti  1'  uno  dall'  altro.  Disse  il 
Fuòco  :  "  S'  é'  mi  avvenisse  mài  quésto  caso  eh'  io 
mi  segregassi  da  vói,  ponete  ben  ménte  colà  dóve 
vedete  fumo  ;  quésto  è  il  mio  segnale,  e  quivi  mi 
troverete  certamente".  Soggiùnse  1'  Acqua  :  ^^  Se 
vói  non  mi  vedete  più,  non  mi  cercate  colà  dóve  ve- 
drete seccóre,  e  spaccature  di  tèrra  ;  ma  dóve  scor- 
gerete sàlci,  alni,  canne,  o  èrba  molto  alta  e  vérde  ; 
andate  costà  in  tràccia  di  me,  e  quivi  sarò  io". 
'^  Quanto  è  a  me",  disse  1'  Onore,  ^^  spalancate  ben 
gli  òcchi,  e  ficcàtemigli  bène  addòsso,  e  tenetemi 
saldo,  perchè  se  la  mala  ventura  mi  guida  fuòri 
di  camrnìno,  si  di'  io  mi  pèrda  una  vòlta,  non  mi 
troverete  pia  mài'\ 

FAVOLA    XXVIII. 

//  Cane  Invitato. 

Un  galantuòmo  apparecchiava  gran  céna  per  con- 
vitare un  amico.  Il  Cane  di  casa  volle  invitare  un 
altro  Cane,  e  gli  disse  :  ^'  Buon  Amico  vieni  mèco  a 
céna".  Andò  in  fatti,  e  gongolava  tutto  di  piacére, 
mirando  1'  apparécchio  di  quella  céna  lautissima. 
^'Affè  mia",  diceva  tra  se,  *^  che  òggi  mi  tócca  la  gran 


20  FAVOLE  MORALI. 

fortuna  !  Che  delizióso  banchétto  !  io  mangerò  a 
pància  pièna,  e  dimani  non  avrò  fame".  Dicendo 
così  faceva  mille  carézze  al  suo  compagno,  e  dime- 
nava la  còda  piacevolmente.  In  quésto  mézzo  ve- 
dendolo il  cuòco  aggirare  per  la  cucina  lo  prése  per 
le  gambe,  e  lo  gittò  dalla  finèstra.  11  Cane  tutto 
ammaccato  fuggiva  abbaiando  fortemente.  Lo  in- 
contrarono per  via  degli  altri  Cani,  e  gli  dissero: 
"  Com'  hai  cenato  bène  ?"  E  costui  guardandoli 
sul  sèrio  rispòse:  '^Ho  tracannato  tanto  vino,  che 
non  mi  sono  avveduto  della  strada  che  feci  per 
venir  via". 

Non  vi  fidate  di  quelli  che  vogliono  farla  da 
benefattóri  a  spése  altrùi. 

FAVOLA  XXIX. 

I  Tre  Pésci. 

Venivano  un  giórno  cèrti  pescatóri  ad  un  lago .  . .  , 
dóve  tra  gli  altri  dimoràvan  tre  Pésci.  L'  uno  di 
quésti  èra  mólto  avveduto,  e  accòrto  ;  1'  altro  ardito, 
animóso,  e  gagliardo  ;  il  tèrzo  tanto  pauróso,  e  pi- 
gro, che  sèmpre  pareva  che  affogasse  né'  mócci.  Il 
primo,  sentendo  1'  apparécchio  che  facevano  i  pesca- 
tòri,  prevedendo  còlla  sua  prudènza  il  danno,  uscì 
sùbito  del  lago.  Il  secóndo,  che  mólto  si  fidava  duella 
sua  gagliardia,  non  si  curò  di  fare  altra  provvisióne, 
ma  pensò  d'  aspettare  il  succèsso  della  còsa  ;  il 
quale  còme  prima  si  vide  i  pescatóri  addòsso,  salito 
a  galla  sènza  muòversi  niènte,  mostrando  d'  èssere 
mòrto,  fu  prèso,  e,  còme  còsa  disùtile  e  corrótta, 


PARTE  PRIMA.  21 

gittàto  fuor  del  lago,  dov'  égli  sènza  dimenarsi  stétte 
tanto,  che  i  pescatóri  furono  partiti  ;  e  pòi  pian 
piano  se  ne  tornò  nell'  acqua.  Il  tèrzo,  che,  còme 
si  è  détto,  èra  una  cèrta  figuraccia  di  non  pensare  a 
nulla,  non  facendo  alcuna  provvisióne  a'  fatti  suoi, 
fu  prèso,  e  fritto,  e  mangiato. 

Non  si  deve  por  tèmpo  in  mèzzo  al  fare  le  débite 
provvisióni^  quando  minàccia  un  perìcolo. 

FAVOLA  XXX. 
La  Vólpe,  il  Gàlloy  e  i  Cani. 

[La  stessa  in  Versi  3  Parte  Seconda,  Fav.  XXX.] 

''  Fratèllo",  disse  una  Vólpe  di  buon  appetito  ad 
un  vècchio  Gallo,  che  riscdéa  sui  rami  d'  un'  antica 
quèrcia,  "  nói  non  siamo  più  in  guèrra  :  vengo  ad  an- 
nunziarti una  pace  generale.  Scéndi  prèsto  eh'  io 
t'  abbràcci". ~"  Amica",  rispòse  il  Gallo,  ^^  tiassicù- 
ro  eh'  io  non  poteva  sentire  nuòve  più  grate.  Ap- 
punto veggo  in  distanza  due  Vèltri  che  vengono  in 
frétta  a  recarci  la  nuòva  dèlia  pubhcaziòne  dèlia 
pace.  Vanno  prèsto,  e  saranno  qui  a  moménti. 
Aspetta  il  lóro  arrivo,  acciocché  possiamo  abbrac- 
ciarci tutti  insième".  —  '^  Umilissima  serva",  riprése 
la  Vólpe.  ''  Non  posso  trattenérmi  di  più.  Ma 
un'  altra  vòlta  faremo  fèsta  insième  per  un  si  Hèto 
evènto".  Ciò  détto,  partì  di  vólo,  mólto  scontènta 
del  suo  stratagèmma.  Allóra  il  Gallo  si  mise  a 
scuòtere  le  ah  per  la  giòia,  ed  a  cantare  per  beffarsi 
dell'  impostóre. 


22  FAVOLE   MORALI. 

FAVOLA  XXXI. 

U  Demònio,  e  la  Vècchia. 

Vedendo  una  volta  il  Demònio,  che  ben  tòsto  sa- 
rebbe una  Vècchia  caduta  da  un  cihégio  su  cui  s'  era 
incautamente  arrischiata  ;  chiamati  tòsto  notài  e 
testimònj,  disse  lóro  :  ^'  Vói  vedete  il  ciménto  nel 
quale  quésta  Vècchia,  che  già  già  sta  per  cadére, 
s'  è  méssa.  Fatemi  perciò  vói  buòna  testimonianza, 
che  quello  che  ha  fatto  costèi,  1'  ha  fatto  di  suo 
volére,  e  non  a  mia  istigazióne".  Appéna  ciò  détto, 
la  Vècchia  ècco  cade,  e  nel  cadére  grida  si  che  tutto 
accòrre  il  vicinato.  —  "Perchè  mài",  le  dice  ognuno, 
''  in  quell'  età  far  còsa  da  ragazzòtto  ?  Quàl  pazzia 
rischiarsi  sópra  un  tal  àlbero  ?"  —  "  E  stato",  rispónde 
élla  "certamente  il  Diàvolo^  oIir  mi  ha  indòtta  a  far 
quésto".  —  "  Tu  mentisci,  vecchiaccia",  dissele  1'  ac- 
cusato. E  chiamati  i  testimònj,  fece  autentica- 
mente costare,  eh'  égli  non  aveva  avuto  in  ciò  parte 
veruna. 

Volle  con  quésto  il  Demònio  mostrare,  che  non 
lui  incolpar  debbono  gli  uòmini  delle  lóro  follie^ 
còme  sovènte  fanno,  ma  sé  stéssi. 

FAVOLA   XXXIL 

//  Cèrvo. 

Andando  il  Cèrvo  a  zonzo  per  la  sélva,  fu  assalito 
da  gran  séte.  E  cosi  camminando  trovò  una  fónte 
con  beli'  acqua  chiara  còme  argènto  ;  e  bevendo  di 


PARTE  PRIMA.  23 

quest'  acqua,  e  specchiandosi  in  èssa,  prendeva 
gran  dilètto  dell'  ómbra  che  rendevano  le  sue  ra- 
móse corna  di  gran  bellézza  e  nobilita  ;  e  di  ciò  mólto 
le  commendava.  Ma  guardando  alle  gambe,  vedé- 
vale  magre  e  sécche  ;  e  di  ciò  avéa  gran  dolóre,  e 
portavano  gran  vergógna  ;  e  fra  sé  dicéa,  che  innanzi 
vorrebbe  èssere  sènza  gambe,  che  avérle  così  sózze. 
E  intanto  ècco  venire  cacciatóri,  che  co'  lóro  brac- 
chètti  ebbero  levato  il  Cèrvo.  Ed  esso  fuggendo 
per  la  sélva,  e  passando  tra  àlberi  bassétti,  le  sue 
lunghe  e  ramóse  corna  furono  attaccate.  E  così 
stava  prèso,  e  pregava  le  gambe  che  il  portassero 
via;  ma  le  lunghe  corna  negavano  alle  gambe  il 
corrimènto.  E  così,  quello  che  stimava  ùtile  e 
dilettèv^ole,  fu  cagióne  dèlia  sua  mòrte. 

Sprezzare  quello  che  fa  prò  e  onore,  e  amare 
quello  che  fa  danno,  è  scóncia  còsa. 


FAVOLA  XXXIII. 

1  Garòfani,  la  Ròsa,  e  la  Viola-Màmmola. 

Grandeggiavano  in  un  giardino  sópra  tutt'  i  fióri  i 
Garòfani  e  cèrte  Róse  incarnatine,  e  schernivano 
cèrte  Mammolette -Viòle,  che  stàvansi  sótto  1'  èrba, 
sicché  appéna  èrano  vedute.  — '^  Nói  siamo",  diceva- 
no i  primi,  '^  di  così  lièto  e  vàrio  colóre,  eh'  ógni  uòmo 
ed  ógni  dònna,  venendo  in  quésto  luògo  a  passeg- 
giare, ci  póngono  gli  òcchi  addòsso,  e  pare  che  non 
siano  mài  sàzj  di  rimirarci".  —  "E  nói",  dicevano  le 
secónde,  "  non  solamente  siamo  ammirate,  e  cólte  con 
grandissima  affezióne  dàlie  gióvani,  le  quali  se  ne 


24  FAVOLE   MORALI. 

adornano  il  séno  ;  ma  le  nostre  fòglie  spicciolate 
gittano  fuòri  un'  acqua,  che  col  suo  gratissimo  odóre 
riémpie  tutta  V  ària  d'  intórno.  Io  non  so  di 
che  si  pòssa  vantare  la  Viòla,  che  appéna  ha  tanta 
grazia  d'  odóre,  che  si  senta  al  fiuto,  e  non  ha  colóre 
ne  vistóso  ne  vivo,  còme  il  nòstro".  —  "  O  nobolissi- 
mi  fióri",  rispòse  la  Violétta  gentile,  "ognuno ha  sua 
qualità  da  natura.  Vói  siete  fatti  per  èssere  orna- 
ménto più  manifèsto,  e  più  miràbile  àgli  òcchi  delle 
gènti  ;  e  io  per  fornire  quest'  ùmile  e  minuta  erbét- 
ta, che  ho  qui  d'  intórno,  e  per  dar  grazia  e  varietà 
a  quésto  vérde,  che  da  ógni  lato  mi  circonda". 

Ógni  còsa  in  natura  è  buòna.  Alcuna  è  più  mi- 
ràbile, ma  non  perciò  le  pìcciole  debbono  èssere 
disprezzate. 

FAVOLA   XXXIV. 
Il  Contandìno,  il  Figlio,  e  V  Asino, 

[La  stessa  in  Versi  ;  Parte  Seconda,  Fav.  XXXIV.] 

Un  Contadino  con  un  suo  Figlio  menava  un  Asino 
al  mercato.  Incontrandoli  alcuni  :  "  Ve",  dissero, 
"  che  sciòcchi  l  han  1'  Asino,  e  vanno  a  piedi".  Ciò 
udito  il  Vècchio  vi  montò  sópra.  Ma  andarono  pò- 
co innanzi,  che  alcune  dònne  :  "  Guarda",  gridarono, 
"  che  Vècchio  indiscréto  !  cóme  éi  fa  tapinare  quél 
pòvero  Figlio  a  corrergli  diètro  a  piedi  !"  Éi  scése 
allóra,  e  sópra  vi  pòsa  il  Figlio.  Ma  pòco  dòpo 
alcuni  uòmini  attempati:  "Ragazzóne  !"  esclamaro- 
no, "  non  hai  tu  rossóre  di  starti  colà  a  sedére,  tu 
eh'  hai  buòne  gambe,  e  lasciar  cosi  a  piedi  ajSannàrsi 


PARTE    PRIMA.  25 

quésto  pòvero  Vècchio  ?"  Il  Vecchio  allóra  vi  montò 
anch'  égli  ;  ma  fatto  pòco  tratto  di  cammino  :  "  Pò- 
vera béstia!"  cominciarono  alcuni  a  dire  ;  *' colóro 
vogliono  ammazzarla".  Il  Contandino  più  non  sa- 
peva che  farsi.  Premendogli  dall'  altra  parte,  che 
r  Asino  arrivasse  frésco  al  mercato,  legategli  le 
gambe,  e  póstovi  un  bastóne  frammèzzo,  insième 
col  Figlio  si  mise  a  portarlo.  A  quésta  scéna  tutti 
dicevano,  ridendo  :  "  Vedi  beli'  agnellino  da  portar 
sul  bastóne  !"  Il  Contadino  alla  fine  disperato  :  "  E' 
non  v'  ha  mòdo",  disse,  "  di  far  tacére  le  male  lingue. 
E  mèglio  eh'  io  fàccia  quello  che  faceva  dapprima, 
e  làsci  che  ognuno  gràcchi  a  pósta  sua".  Depòse 
I'  Asino,  e  slegatolo,  il  lasciò  andare  da  sé,  sènza 
più  badare  a  quél  che  altri  dicesse. 

Non  si  deve  badare  a  quél  che  dicono  gV  igno- 
ranti 0  i  maligni,  ina  procurar  di  far  héne^  e  lasciar 
che  ognun  cianci  a  sào  talento. 


FAVOLA  XXXV. 

Il  Fantasma. 

Un  Fanciullo  còrse  una  séra  impaurito  da  suo  Pa- 
dre, e  tremando  disse  che  avéa  veduto  un  Fantasma 
terribile. — "  Udendo  rumor  nella  strada,  io  mi  son 
fatto",  disse,  "  alla  finèstra,  e  m'  è  apparsa  una  gran 
figura  tutta  bianca,  che  veniva  a  gran  pàssi,  e  faceva 
uno  strèpito  spaventévole".  Il  Padre,  dolcemente 
sorridendo:  "Fatti  ànimo",  disse,  "  domani  a  séra 
vedrai  che  còsa  èra  il  Fantasma".  Venuta  la  nòtte> 
attravèrso  alla  strada  égli  tèse  una  còrda.  Il  Fan- 
3 


26  FAVOLE   MORALI. 

tàsma  comparve  all'  óra  solita.  Il  Figlio  spaventato  : 
"Eccolo",  disse,  ''  ècco  che  viene".— "T'  accheta", 
rispóse  il  Padre,  "sta  zitto".  Il  Fantasma  frattanto 
avanzàvasi  a  gran  pàssi  ;  ma  arrivato  dov'  èra  la 
còrda,  senz'  avvedersene  vi  urtò  déntro,  e  cadde 
stramazzóne  per  tèrra.  Il  Padre  allóra  prèso  il  Fi- 
glio permane:  "Vieni  óra  a  vedére",  gli  disse,  "che 
còsa  èra  il  Fantasma".  Uscirono  insième,  e  trova- 
rono un  uòmo  avvoltolato  nel  fango,  e  tutto  lórdo. 
Costui  per  prèndersi  il  tristo  divertiménto  di  spa- 
ventare la  gènte,  si  èra  méssa  una  màschera  sul 
vòlto,  un  gran  lenzuolo  bianco  d'  attórno,  e  andava 
camminando  su  due  altissimi  tràmpoli  :  quella  séra 
però  pagò  caro  il  suo  divertiménto. 

Se  alcun  vi  parìa  di  Fantasmi^  di  Follétti,  di 
Befane,  di  mòrti  che  girati  di  nòtte,  e  di  còse  simili, 
non  credete  mài  nulla:  sono  tutte  finzióni  per  far 
paura  ài  fanciulli  e  agV  ignoranti. 

FAVOLA   XXXVI. 

Un  Padre,  e  tre  Figli. 

Un  ricco  Padre  divise  fra  i  suoi  tre  Figli  i  próprj 
bèni.  Si  riserbò  solamente  un  anello  prezióso:  "E 
quésto",  disse,  "  sarà  dato  a  chi  dì  vói  saprà  fare 
1'  azióne  più  bèlla  e  più  generósa".  I  Figli  partiro- 
no, e  tornarono  dòpo  tre  mési.  11  primo  disse  : 
"  Uno  stranièro  mi  ha  affidata  una  cassétta  pièna 
d'  òro  sènza  prènderne  sicurtà:  avrei  potuto  rubar- 
gliela a  man  salva,  ma  in  véce  al  suo  ritórno  glieP  ho 
fedelmente  restituita".     Il  Padre  rispòse  :  "Tubai 


PARTE  PRIMA.  27 

fatto  bene  ;  ma  non  hai  fatto  però  che  il  tuo  dovére  ; 
rubandola  saresti  stato  il  più  scellerato  uòmo  del 
móndo  ;  ognuno  deve  restituire  fedelmente  quél 
eh'  è  d'  altrùi".  Sottentrò  il  secóndo.  "  Io  pas- 
sava", disse,  "un  giórno  vicino  ad  una  peschièra; 
vidi  precipitarvi  un  fanciullo  ;  sènza  il  mio  aiuto  éi 
si  sarebbe  annegato  :  io  córsi  prónto,  e  lo  cavai  salvo 
dall'  acque".  —  "  Anche  la  tua  azióne  è  buòna", 
rispóse  il  Padre  ;  "  ma  anche  tu  non  hai  fatto  se  non 
quello  a  cui  tutti  siamo  tenuti,  che  è  di  soccórrerci 
né'  pericoli  scambievolmente".  Il  tèrzo  allóra  disse  : 
"'  Un  giórno  io  ho  trovato  un  mio  nemico  addormen- 
tato sull'orlo  d'un  precipizio:  voltandosi,  éi  vi 
sarebbe  caduto,  io  1'  ho  svegliato  dolcemente,  e  V  ho 
liberato  dal  pericolo".  —  "  Ah  Figlio  !"  disse  il  Pa- 
dre, abbracciandolo  teneramente,  "  a  te  si  deve 
V  anello". 

//  far  del  bène  àgli  stéssi  nemici,  è  V  azióne  ap- 
punto pia  bèlla  e  più  generósa. 


TAVOLA   XXXVII. 

La  Scimia,  e  V  Orinolo, 

Un  signóre  premuróso  d'  uscir  di  casa  lascia 
l'  Orinolo  appèso  a  canto  al  lètto.  Una  Scimia  ad- 
dimesticata, eh'  ha  per  costume  di  ricopiar  le  azióni 
del  suo  padróne,  prènde  1'  Orinolo,  e  coli'  aiuto 
d'  una  bènda  se  1'  applica  al  fianco.  Un  moménto 
dòpo  lo  tira,  e  lo  càrica  ;  pòi  lo  guarda,  e  :  "  Esso 
córre",  dice.  Apre,  e  volge  1'  indice  all'  indiètro, 
pòi  se  1'  adatta  di  nuòvo  al  fianco.    Passato  ancóra 


28  FAVOLE   MORALI. 

un  moménto,  lo  prènde  un'  altra  vòlta  in  mano  : 
*^  Oh  ve'  !"  dice  la  saggia,  "  óra  va  tròppo  lènto. 
Quésto  sì  eh'  è  un  imbròglio!  Còme  rimediarvi?" 
Gira  un  pocolino  còlla  chiavétta  il  registro  ;  pòi 
chiùde,  e  s'  applica  1'  Oriuòlo  garbatamente 
all'orécchio.  —  ''Quésta  battuta  è  falsa",  dice,  e 
gira  altriménti  la  chiave,  pòi  torna  ad  udire  ....  — 
"  Non  va  ancor  bène".  Apre  la  cassa,  guarda, 
esamina  in  ógni  parte  ;  tócca  quésta  ruòta,  férma 
quella,  muòve  quell'  altra  ....  In  sómma  la  mala 
béstia  tanto  urta,  agita,  scuòte  la  màcchina,  che  ha 
per  mano,  eh'  èssa  cèssa  in  fine  ógni  suo  mòto. 

Guardaci,  o  Ciéì  propizio,  dalV  assistenza  di 
quéi  guastamestièri  che  maneggiano  i  còrpi  umani, 
cóme  maneggiò  la  Scimia  lo  sfortunato  Oriuòlo. 

FAVOLA  XXXVIII. 
Il  Concìlio  dèi  Sorci. 

[La  stessa  in  Versi  ;  Parte  Seconda,  Fav.  XXXVIII.] 

Un  Gatto  vigilantissimo,  stabilitosi  in  un  vècchio 
abituro,  faceva  nòtte  e  giórno  aspra  guèrra  ài  Sorci. 
Ne  avèa  già  ammazzato  gran  nùmero,  e  quéi  eh'  èra- 
no avanzati  al  macèllo  non  ardivano  più  sbucare 
dalle  lor  tane  ;  sì  che  vi  èra  a  temere  che  morissero 
di  fame.  In  quésto  frangènte  si  raunàrono  in  con- 
siglio per  deliberare  de  periclitànte  repàblica. 
Quivi,  dòpo  vàrj  paréri  lungamente  discùssi,  uno 
dell'  assemblèa,  dimandato  con  viva  impaziènza  si- 
lènzio, si  mise  ad  aringàre  così  :  "  Signóri,  ho  tro- 
vato  r    infallibile,   e    1'   ùnico   mézzo    di    salvarci:. 


PARTE   PRIMA.  29 

Quest'  è  attaccare  al  còllo  del  Gatto  un  campanèllo. 
Così  quando  si  muoverà,  ne  saremo  sùbito  avvertiti, 
e  potremo  facilménte  métterci  in  sicuro".  A  quéste 
paròle  segui  un  vivo  applàuso  da  tutti  i  lati.  Ma 
tòsto  un  vècchio  Sorcio  levatosi,  disse  :  "  Bèllo  è  il 
consiglio  :  rèsta  sólo  a  sapere  chi  vorrà  attaccare  il 
campanèllo  al  còllo  del  Gatto".  All'  impensata 
propòsta  si  ammutolì  ciascuno  ;  e,  con  màssima  con- 
fusióne dell'  oratóre,  il  bel  parére  se  n'  andò  in  fumo. 

Prima  di  dare  un  consìglio  pensate  ài  mézzi  di 
porlo  ad  effètto. 

FAVOLA  XXXIX. 

//  Pittóre. 

Léggesi  nelle  stòrie  Orientali,  che  Ormuz  fu  un 
Califfo  pièno  d'  amòre  de'  pòpoli  suoi,  e  che  só- 
pra ógni  còsa  desiderava,  che  ciascun  uòmo  nelle 
città  e  nelle  sue  tèrre,  facesse  quell'  ufficio  e 
quell'  arte,  che  a  lui  apparteneva.  Venne  dinanzi 
a  lui  accusato  un  Dervis,  il  quale,  in  iscàmbio 
d'  attèndere  àgli  ufficj  suoi,  s'  èra  dato  del  tutto 
al  dipingere,  ed  a  fare  ritratti;  e  che,  per  non 
èssere  conosciuto,  vestivasi  al  mòdo  de'  giovinétti 
del  paese,  e,  dimenticatasi  la  decènza  della  sua  con- 
dizióne, entrava  ora  in  quésta  casa,  óra  in  quella, 
ed  esercitava  la  vietata  pittura,  nella  quale  però  égli 
avéa  piuttòsto  vòglia  d'  èssere  più  valènte  maèstro,  di 
quello  eh'  égli  fòsse  in  effètto.  Certificatosi  Ormùz 
dell'  erróre,  voléa  gastigàre  il  colpévole  con  gravis- 
sima péna.     Ma  un  peritissimo  Mago,  e  mólto  stu- 


30  FAVOLE  MORALI. 

dióso  della  natura  umana,  pensò  che  quésto  non 
fòsse  erróre  da  punire  con  tanta  rigidézza,  e  dissene 
il  suo  parére  al  Califfo,  esibendogli  1'  arte  sua  per  far 
ravvedere  il  Dervis  del  suo  fallo.  Consentì  il  Ca- 
liffo, e  lasciò  la  faccènda  nelle  mani  del  INlàgo;  il 
quale  fece  sì  con  1'  arte  sua,  che,  méntre  il  Dervis 
adoperava  il  pennèllo  per  dipingere  le  immàgini 
altrùi,  in  quello  scàmbio  sulla  téla  si  vedeva  sèmpre 
1'  immàgine  del  Pittóre,  e  all'  intórno  cèrte  figu- 
rétte,  eh'  esprimevano  allegoricamente  1'  intrinseco 
de'  suoi  pensièri,  e  mettevano  1'  ànimo  suo  sótto  gli 
òcchi  altrui.      Ónde  nàcque  il  provèrbio  : 

O  tu,  che  p'mgi  altrui,  guarda  te  stésso. 


FAVOLA  XL. 
Il  Gambero,  e  la  Vólpe, 

Vólpe.  '^  Ve'  che  strano  animale  !  perchè  cam- 
mini sì  a  rilènte  ed  a  ritróso?" — Gambero.  "Ep- 
pure io  córro  più  di  te  ;  e  se  noi  crèdi,  fanne  la 
pruòva". —  V.  "  E  quale  ?"  — 6r.  "  Ti  sfido  ad  una 
carrièra".  —  V.  "  Tu  ?  va,  bestiaccia  I  Son  ben  fòlle 
io  che  ti  ascólto". — G.  "  Furbàccia  !  tu  copri  col 
disprèzzo  la  paura  d'  èsser  vinta".— J^.  "Orsù; 
voglio  umiliarti:  accètto  la  sfida". —  G.  "Ed  io 
vò'  darti  anche  il  vantàggio  d'  un  passo  innanzi". 
'•—V.  "Anche  ciò!   Ebbène,  vedremo,  arrogante". 

La  Vólpe  si  fa  innanzi,  ed  il  Gambero,  alzando 
una  branca,  se  le  attacca  còlla  fòrbice  alla  còda. 
La  Vólpe  dòpo  aver  córso  un  ben  lungo  tratto,  si 
volge  con  impeto  :  in  quésto  il  Gambero  si  lascia 


PARTE   PRIMA.  31 

cadére,  e  pel  mòto  della  còda  si  trova  innanzi  più 
pàssi, 

V.  ''Ehi,  bestiuòla  presuntuósa,  dóve  sèi?" — 
G.,  didiètro.  "Sto  qui". —  V.,  rivolgendosi  con 
istiipóre.  "  E  còme  ti  trovi  là  tu  ?" — G.  "  Mi  ci 
trovo,  perchè  ho  còrso  più  prèsto  di  te".— F".  ''Per 
tutti  gli  Dèi  !  chi  r  avrebbe  mài  creduto  !" 

Coiài  è  il  véro  fàrho,  che,  sembrando  sciòcco,  in- 
ganna i  furbi, 

FAVOLA   XLI. 

/  dae  Matti. 

Due  Matti  imbacuccati  né'  lóro  mantèlli,  treman- 
do di  fréddo,  entrarono  in  cèrta  osteria,  e  pregarono 
1'  Oste  ad  accèndere  una  fascina,  e  così  ristorargli. 
L'  Oste  prónto  al  focolare  li  ména,  ad  attizza  un 
gran  fuòco,  pòi  se  ne  va.  Intanto  uno  di  quelli 
s'  accóncia  prèsso  al  fuòco  per  mòdo,  che  se  fòsse 
stato  di  pàglia,  è'  si  sarebbe  incenerito  allóra  allóra. 
L'  altro  si  férma  in  capo  dèlia  gran  stanza,  e  tratte 
fuóra  del  ferraiuólo  le  mani,  sta  còlle  braccia  tése 
al  focolare  per  riscaldarsi.  Ivi  a  pòco,  quégli 
eh'  era  in  sulla  bràge,  esclama  :  "Maledétto  fuòco  ! 
éi  mi  brucia".  Quésti  eh'  èra  lontano,  soggiùnse  : 
"Oh,  oh,  io  son  fréddo  fréddo,  cóme  prima"; 
e  chiamano  1'  Oste.  Vièn  égli,  ed  il  domandano 
tutti  e  due,  che  fuòco,  che  legna  fossero  quelle  ? 
Perchè  1'  uno  dicéa  d'  abbruciarsi,  e  1'  altro  di  non 
sentirvi  pùnto  di  calóre.  Rispòse  1'  uòmo,  accòrtosi 
che  non  istàvano  ben  in  cervèllo  :  "  Il  male  non  è 
nel  fuòco,  è  in  vói.     Tu,  accostati  al  fuòco  quattro 


32  FAVOLE   MORALI. 

pàssi,  e  ti  riscalderai  ;  e  tu,  due  tanti  ritirati,  che 
non  ti  brucerà  di  cèrto".  Com'  égli  disse,  fecero  : 
quindi,  prèso  un  pòco  di  confòrto,  se  ne  partirono, 
lodando  il  fuòco,  le  legna,  e  1'  avviso  dell'  Oste. 

Quésti  due  Pazzi  sono  il  ritratto  di  quelli,  che 
non  sapendo  usare  le  còse,  còme  richiède  la  lóro 
natura,  le  crédono  male,  tutto  che  buonissime,  e  se 
ne  lamentano.  Noìi  basta  il  bène  a  chi  non  sa 
farne  buon  uso. — Son  lodévoli  le  ricchézze,  ma  di- 
ventano biasimo  nelle  mani  di  chi,  o  pròdigo  le  gitta 
in  istravizj,  e  gozzovìglie  ;  od  avaro  le  tiene  in  uno 
scrigno  di  fèrro. 

FAVOLA   XLIL 
La  Lepre i  e  le  Rane. 

[La  stessa  in  Versi  ;  Parte  Seconda,  Fav.  XLIl.] 

Una  Lèpre  riflettendo  un  giórno  fra  se,  cosi  co- 
minciò a  ragionare  :  "  Che  sciagurata  vita  è  la  mia  ! 
Sèmpre  in  continui  timóri  !  Non  sarebbe  égli  mèglio 
morire  una  vòlta,  che  vivere  in  uno  stato  mille  vòlte 
peggiòr  dèlia  mòrte  ?...."  Volèa  più  dire,  ma  in 
queir  istante  uno  zeffirètto,  scuotendo  giù  alcune 
fòglie  da  un  àlbero  vicino,  intimorì  talménte  la 
timida  bestluòla  che,  sènza  più  dire,  partì  di  vólo. 
Nella  sua  fuga  veggéndo  da  lungi  un  lago,  ivi  tòsto 
indirizza  i  pàssi,  risoluta  di  por  fine  ad  una  vita  sì 
grama  col  gettàrvisi  déntro.  Ma  al  suo  avvicinarsi 
alla  riva,  un  gran  nùmero  di  Rane  che  quivi  si  sol- 
lazzavano, atterrite  al  rumóre  eh'  élla  fece,  rifuggi- 
ronsi  tòsto  al  lago,  in  cui  tutte  prestamente  si  som- 


PARTE   PRIMA.  33 

mòrsero.  "  Cóme  !  cóme  !"  disse  allóra  la  Lèpre. 
^^  Io  far  paura  a  tanta  gènte  !  Sono  adunque  anch'  io 
un  fulmine  di  guèrra  !  Veggo  bène  adèsso  non  ès- 
sere la  nòstra  spèzie  la  più  infelice  fra  gli  animali". 
Così  dicendo  si  ritira  dal  lago,  risoluta  di  soffrire  in 
pace  la  sua  condizióne. 

Chi  si  créde  infelice,  gètti  gli  ocelli  sópra  colóro 
che  hanno  maggior  ragióne  di  crédersi  tali;  e 
troverà  motivo  di  consolarsi. 


FAVOLA   XLIII. 

E  Tagliatóre  di  Legna,  e  la  Scimia. 

Tagliava  un  Boscaiuòlo  cèrte  legna  per  àrdere,  e, 
còme  è  usanza  de'  così  fatti,  volendo  fèndere  un 
querciuólo  assai  ben  gròsso,  montato  sópra  1'  un 
de'  capi  co'  piedi,  dava  suU'  altro  còlla  scure  di 
gran  cólpi,  e  pòi  metteva  nella  fenditura  che  faceva, 
cèrto  cònio  perchè  la  tenesse  apèrta,  e  acciocché 
mèglio  ne  potesse  cavar  la  scure  per  darvi  su  1'  altro 
cólpo  ;  e  quanto  più  fendeva  il  querciuólo,  tanto 
metteva  più  giù  un  altro  cònio,  col  quale  è'  faceva 
cadére  il  primo,  e  dava  luògo  alla  scure  che  più 
facilménte  uscisse  dalla  fenditura  ;  e  così  andava 
facendo  di  mano  in  mano,  sino  a  che  égli  avesse 
diviso  il  querciuólo.  Fòco  lontano,  dóve  quésto 
omicciàtto  faceva  tale  esercizio,  alloggiava  una  Sci- 
mia,  la  quale  avendo  con  grande  attenzióne  mirato 
tutto  quél  che  '1  buon  uòmo  aveva  fatto  ;  quando  fu 
venuta  V  óra  del  far  coleziòne,  e  che  '1  Tagliatóre, 
lasciati  tutti  i  suoi  struménti  sul  lavóro,  se  ne  fu  ito 


34  FAVOLE   MORALI. 

a  casa,  la  Scimia  sènza  discórrere  il  fine,  si  lanciò 
sùbito  alla  scure,  e  misesi  a  fèndere  uno  di  quéi 
querciuóli,  e  volendo  far  ne  più  ne  meno  che 
s'  avesse  veduto  fare  al  maèstro,  accadde  che,  ca- 
vando il  cònio  dèlia  fenditura,  ne  si  accorgendo  di 
métter  1'  altro  più  basso,  il  querciuòlo  si  riserrò,  e 
nel  riserràrsi  le  prèse  sprovvedutamente  1'  un  de'  pie- 
di in  mòdo,  eh'  élla  vi  rimase  attaccata  con  esso,  fa- 
cendo gran  laménti,  per  lo  estrèmo  dolóre  che  sùbito 
le  venne.  Al  romòr  de'  quali  còrse  sùbito  il  Ta- 
gliatóre, e  vedendo  lo  incàuto  animale  così  rimasto, 
còme  villàn  eh'  égli  èra,  in  càmbio  d'  aiutarlo,  gli 
diede  dèlia  scure  sulla  tèsta  sì  piacevolmente,  che 
al  primo  cólpo  gli  fece  lasciar  la  vita  su  quél  quer- 
ciuòlo ;  e  così  s'  accòrse  il  pazzerèllo,  che  mal  fan- 
no colóro,  che  vogliono  far,  còme  si  dice,  V  altrùi 
mestiéro. 


FAVOLA   XLIV. 

La  Zanzara,  e  la  Lùcciola. 

"  Io  non  crédo",  diceva  una  nòtte  la  Zanzara 
alla  Lùcciola,  "  che  ci  sia  còsa  al  móndo  viva, 
la  quale  sia  più  ùtile,  e  ad  un  tèmpo  più  nòbile 
di  me.  Se  1'  uòmo  non  fòsse  ingrato,  dovrèbbe 
èssermi  obbligato  grandemente.  Cèrto  non  crédo 
eh'  égli  potesse  aver  miglior  maèstra  di  morale  di 
me  ;  imperciocché  io  m'  ingégno  quanto  posso  con 
le  mie  acute  punture  di  esercitarlo  nella  paziènza. 
Lo  fo  anche  diligentissimo  in  tutte  le  sue  faccènde, 
perchè  la  nòtte  o  il  giórno,  quando  si  corica  per  dor- 
mire, essendo  io  nimica  mortale  dèlia  trascuràggìnej 


PARTE    PRIMA.  35 

non  làscio  mài  di  punzecchiarlo  óra  in  una  mano, 
óra  sulla  frónte  o  in  altro  luògo  della  fàccia,  accioc- 
ché si  désti. — Quésto  è  quanto  all'  utilità. — Quanto 
è  pòi  alla  dignità  mia,  ho  una  trómba  alla  bócca,  con 
la  quale,  a  guisa  di  guerrièro,  vo  suonando  le  mie 
vittòrie  ;  e  non  meno  che  quàl  si  vòglia  uccèllo,  vo 
con  le  ali  aggirandomi  in  qualùnque  luògo  dell'  ària. 
Ma  tu,  o  infingarda  Lùcciola,  quàl  bène  fai  tu  nel 
móndo?" — "Amica  mia",  rispóse  la  Lucciolétta, 
"  tutto  quello  che  tu  crédi  di  fare  a  benefizio  altrùi, 
lo  fai  per  te  medésima  ;  poicchè  da  tanti  benefizj  che 
fai  àgli  uòmini,  ne  ritràggi  il  tuo  vèntre  pièno  di 
sàngue  che  cavi  lóro  dalle  véne,  e  suonando  con  la 
tua  trómba,  o  disfidi  altrùi  per  pùngere,  o  ti  rallegri 
dell'  aver  pùnto.  Io  non  ho  altra  qualità,  che 
quésto  picciolo  lumicino,  che  mi  àrde  addòsso.  Con 
esso  procuro  di  rischiarare  il  cammino  nelle  tenebre 
della  nòtte  àgli  uòmini,  quant'  io  posso,  e  vorrei 
potére  di  più  ;  ma  noi  comporta  la  mia  natura,  né  vo 
strombazzando  quél  pòco  eh'  io  fo,  ma  tacitamente 
procuro  di  far  giovaménto. 


FAVOLA   XLV. 

E  Lavóro,  la  Salate,  e  la  Contentézza. 

Il  Lavóro,  primogènito  del  Bisógno  e  padre  della 
Salute  e  dèlia  Contentézza,  viveva  còlle  due  sue 
figlie  in  un'  angusta  capanna,  a  lato  d'  un  còlle,  in 
gran  distanza  dàlia  capitale.  Non  avevano  alcuna 
nozióne  dèlia  grandézza,  e  non  praticavano  miglior 
società  di  quella  dèi  rùstici  lor  vicini.  Ma  venendo 
lóro  desidèrio  di  vedére  il  móndo,  diedero  un  Addio 


36  FAVOLE    MORALI. 

ài  lóro  compagni  ed  alla  lóro  abitazióne,  e  si  deter- 
minarono di  viaggiare.  Il  Lavóro  dùnque  andava 
lungo  la  strada  còlla  Salute  alla  dritta,  che,  còlla 
vivacità  della  sua  conversazióne,  e  cògli  spiritósi  e 
gìolivi  suoi  canti,  addolciva  le  péne  del  viàggio: 
méntre  la  Contentézza,  sorridendo,  veniva  alla  sinis- 
tra sostenendo  i  pàssi  di  suo  padre,  e,  col  constante 
suo  buon  umóre,  accrescendo  il  brio  di  sua  sorèlla. 
In  tal  mòdo  viaggiarono  attraversando  forèste,  cit- 
tà, bórghi,  e  villàggi,  finché  giùnsero  alla  capitale 
del  régno.  Neil'  entrare  in  quella  gran  città,  il  padre 
scongiurò  le  figlie  di  non  lasciarlo  mài  di  vista  : 
"  Perchè",  diceva  égli,  "  era  decréto  di  Giòve,  che 
la  separazióne  fra  lóro  fòsse  seguita  dàlia  più  terri- 
bile ruina  di  tutti  e  tre".  Ma  la  Salute  era  d'  un 
naturale  tròppo  vivo,  perchè  tenesse  cónto  dèi  con- 
sigli del  padre.  Essa  si  lasciò  sviare  e  corrómpere 
dall'  Intemperanza,  e  finì  col  perire  nei  dolóri 
dell'  infermità.  La  Contentézza  in  assènza  di  sua 
sorèlla  s'  abbandonò  alla  seduzióne  dell'  Accidia,  e 
d'  indi  in  pòi  non  si  sentirono  più  nuòve  di  lèi. 

Intanto  il  Lavóro,  che  non  poteva  trovare  alcuna 
felicità  sènza  le  figlie,  andò  dapertùtto  in  cérca 
d'  èsse,  fintanto  che,  assalito  in  suo  cammino  dalla 
Stanchézza,  morì  nella  misèria. 


PARTE   PRIMA.  37 

FAVOLA  XLVI. 
Le  Scimie,  e  la  Lùcciola. 

[La  stessa  in  Versi  ;  Parte  Seconda,  Fav,  XLVI,] 

Sì  ragunàrono  (ma  nòtte   sópra  un   àrbore  cèrte 
Scimie  ;  e  cóme  fòsse   di  verno,  e  '1  fréddo  grande, 
veggéndo  rilucere  un  di  qué'  bacheròzzoli,  che  i  con- 
tadini chiamano  Lucciolati,  pensarono  che  la  fòsse 
una  favilla  di  fuòco  :  laónde  vi  miser  sópra  di  mólte 
legna  sécche  e  un  pòco  di  pàglia,  e   cominciarono  a 
a    soffiare   in    quél  buco,   per  accènder   del   fuòco. 
Un  Uccèllo,  eh'  èra  lì  vicino,  sentì  compassióne  dèlia 
vana  fatica  delle  pòvere  Scimie  ;   e  però  scendendo 
a  lóro,  disse  :   "Amiche,  il  dispiacer  ch'io  prèndo 
dell'  inùtil  travàglio  che  vói   vi  prendete  per  accèn- 
dere quésto  fuòco,  mi  ha  mòsso  a  venirvi  a  dire,  che 
vói  gittate  via  il  fiato  e  il  tèmpo  :   poiché  quello  che 
vói  vedete  rilucere  non  è  fuòco,  ma  un  animalùzzo, 
che  ha  naturalménte  quello  splendóre  abbacinato". 
A  cui  una  Scimia  più  dell'  altre  presontuósa,  e  fórse 
pazza,  disse  :   "  Le  pòche  faccènde  che  tu  hai,  Ser 
Uccellàccio,  ti  hanno  fatto  pigliare  briga  di  quello, 
che  nói  ci  facciamo,  còme   quél  che  non  consideri 
quanto  sia  ufficio  di   sciòcco  il  dare  consiglio  a  chi 
non  ne  dimanda.     Ritornati  a  dormire,  e  lascia  la 
cura  a  nói  de'  fatti  nòstri  :  che  se  tu  non  sé'  sàvio, 
tu  potresti  fórse  trovare  quél  che  non  vài  cercando". 
Il  sèmpHce  dell'  Uccèllo,  che  pensava  pur  còlla  sua 
importunità  farle   capaci   dell'  errór  lóro,  due  o  tre 
vòlte  si  mise  a  replicare  il  medésimo  ;  in  mòdo  che 
quella  Scimia,  montata  in  còllera,  gli  saltò  addòsso  ; 
4 


38  FAVOLE   MORALI. 

e  se  non  che  fu  dèstro,  e  valsesi  del  volare,  la  ne 
faceva  mille  pèzzi. 

Simile  alla  Scìwia  è  colai,  nel  quale  ne  consìglio 
né  ammonizióni,  hanno  pia  luògo. 


FAVOLA  XLVII. 

Il  Rosignuólo,  e  il  Cuculo. 

Vennero  un  giórno  a  lite  fra  di  lóro  a  cagióne  del 
canto  il  Rosignuólo  ed  il  Cuculo,  stimandosi  V  uno 
air  altro  d'  èssere  superiór  di  gran  lunga.  Diceva 
il  Cuculo,  che  il  suo  canto  èra  continuato,  e  con 
misura  :  il  Rosignuólo  asseriva,  aver  égli  assai  più 
armonia  di  quella  che  qualunque  altro  uccèllo 
s*  avesse  ;  e  quindi  per  non  venire  alle  bruite,  si 
conchiuse  tra  di  lóro,  di  riméttere  il  lóro  litigio  al 
giudizio  d'  un  tèrzo  qualùnque  si  fosse  ;  e  prèso  il 
vólo,  nel  passare  sópra  un  vérde  prato,  vi  scórsero 
un  solennissimo  Asino  con  un  pàio  d'  orécchi,  che 
èrano  pòco  meno  di  mézzo  bràccio  1'  uno.  Onde 
tutto  lièto  il  Cùcùlo  :  "  Non  andiamo  più  innanzi", 
disse  al  Rosignuólo,  ''chèi  pietósi  Dèi  ci  hanno  fatto 
dare  nel  giùdice  ;  perchè  consistendo  tutta  la  scièn- 
za di  quésta  matèria  nell'  udito,  chi  mèglio  di  luì 
potrà  dare  una  giusta,  e  ben  proporzionata  sentèn- 
za ?"  E  détto  fatto,  se  ne  volarono  sópra  un  basso 
arboscèllo  di  pére,  e  sópra  i  suoi  rami  strétti  su 
1'  ali  si  stettero,  e  quindi  umilmente  pregarono 
1'  Asino,  che  dar  volesse  un  incorrótto  giudizio 
sópra  la  lóro  quistióne.  L'  Asino,  che  aveva  più 
vòglia  di  mangiare,  che  di  fare   da  giùdice,  appéna 


PARTE   PRIMA.  39 

alzò  la  grave  lèsta  da  tèrra,  e  ritornòUa  ad  abbas- 
sare, e  dato  un  pàio  di  strepitóse  crollate  d'  orécchi, 
fece  capire  a'  due  litiganti,  che  per  quel  giórno  non 
teneva  giustizia  :  ma  èssi  lo  pregarono  tanto,  eh'  égli 
per  fine,  levatosi  dal  pascolare,  tenendo  alta  la  tèsta, 
e  gli  orecchióni  ritti,  a  manièra  di  lèpre  quando 
cammina:  "Cantate,  via",  disse  lóro,  "e  spaccia- 
tevi ;  che  cóme  ascoltati  io  vi  avrò,  vi  dirò  sùbito  il 
mio  débole  sentiménto".  11  Cuculo  si  mise  il  primo 
in  assètto,  e  disse  :  "  Attendete  ben,  signor  giùdice, 
alla  bellézza  del  canto  mio,  che  in  quésto  pùnto 
udirete  ;  e  sópra  il  tutto  badate  all'  artifizio,  con 
cui  lo  compóngo".  E  quindi,  fatto  òtto  o  dièci 
vòlte  cu  cu,  gonfiatosi  alquanto,  e  scòsse  tutte  le  sue 
pènne,  si  tacque.  Il  Rosignuólo  allóra  sènza  usare 
verùn  proèmio,  incominciò  il  suo  graziossimo  gor- 
gheggiare, e  tanta  varietà,  bellézza,  armonia  risul- 
tava dà'  suoi  soavissimi  vèrsi,  che  non  vi  èra  fièra 
in  què'  bòschi,  che  tratta  dall'  incredibile  dolcézza 
che  da  lóro  pioveva,  a  lui  non  corrèsse  ;  e  nel  mén- 
tre eh'  égli  s'  andava  vieppiù  nel  suo  canto  ingol- 
fando, il  giùdice  annoiato  dèlia  lunga  pruòva,  man- 
dato fuòra  un  villanissimo  ràglio  :  *'  Egli  può  èssere", 
disse  al  Rosignuólo,  "  che  il  tuo  canto  abbia  più 
grazia  di  quél  del  Cùcùlo  ;  ma  quél  del  Cùcùlo 
ha  più  mètodo". 


40  FAVOLE   MORALI. 

FAVOLA   XLVIII. 
Le  Pére. 

Narrano  le  antiche  crònache,  eh'  égli  fu  già  in 
Portogallo  un  uòmo  dabbène,  il  quale  avéa  un  suo 
ùnico  figliuòlo  da  lui  caramente  amato  ;  e  vedendo 
oh'  égli  èra  di  ànimo  sémplice,  e  inclinato  al  ben 
fare,  stàvagli  sèmpre  con  gli  òcchi  addòsso,  temendo 
che  non  gli  fòsse  guasto  dà'  corrótti  costumi  di  mólti 
altri.  Di  che  spésso  gli  tenèa  lunghi  ragionaménti^ 
e  gli  diceva,  che  si  guardasse  mólto  bène  dàlie  male 
compagnie  ;  e  gli  facèa  in  quella  tenerélla  età  com- 
prèndere chi  facèa  male,  e  perchè  facèa  male. 
Il  Fanciullo  udia  le  patèrne  ammonizióni  ;  ma 
pure  una  vòlta  gli  disse  :  ''  Di  che  volete  vói  temere  ? 
Io  son  cèrto  che  non  mi  si  appiccherà  mài  addòsso 
vizio  veruno,  e  spero  che  avverrà  il  contràrio, 
eh'  èssi  ad  esémpio  di  me  diverranno  virtuósi". 

Il  buon  Padre,  conoscendo  che  le  paróle  oon  fa- 
céano  quél  frutto  eh'  égli  avrebbe  voluto,  pensò  di 
ricórrere  alF  arte  ;  ed  empiuta  una  cestelhna  dèlie 
più  vistóse  pére  che  si  trovassero,  gliene  fece  un 
presènte.  Ma  riconosciuto  a  cèrti  piccioli  segnali, 
che  alcune  pòche  di  èsse  èrano  vicine  a  guastarsi, 
quelle  mescolò  con  le  buòne.  Il  Fanciullo  si 
rallegrò,  e  còme  si  fa  in  quell'  età,  volendo  égli 
vedére  quante  e  quali  fossero  le  sue  ricchézze, 
méntre  che  le  novera  e  mira,  esclama  :  '^  Oh  Pa- 
dre !  che  avete  vói  fatto  ?  A  che  avete  vói  me- 
scolate quéste  che  hanno  magagna  con  le  sane  ?"  — 
''  Non  pensar,  Figliuól  mio,  a  ciò",  rispósegli  il  Pa- 
dre ;  "  quéste  pére  sono  di  tal  natura,  che  le  sano 


PARTE   PRIMA.  41 

appiccano  la  salute  lóro  alle  triste''.  ^'Vói  ve- 
drete", ripigliò  il  Fanciullo,  *^  che  sarà  fra  pòchi 
giórni  il  contràrio".  —  '^Non  sarà".  —  "Sì,  sarà". 
Il  Padre  lo  prega  che  le  làsci  per  vedérne  la 
speriénza.  Il  Figliuòlo,  benché  a  dispétto,  se  ne 
contènta.  La  cestellina  si  chiùde  in  una  cassa,  il 
Padre  prènde  le  chiavi.  Il  putto  gli  èra  di  tèmpo 
in  tèmpo  intórno,  perchè  riaprisse;  il  Padre  indugia- 
va. Finalménte  gli  disse  :  "  Quésto  è  il  dì,  ècco  la 
chiave".  Appéna  potèa  il  Fanciullo  attèndere  che 
la  si  voltasse  nella  tòppa.  Ma,  apèrta  la  cestellina, 
non  vede  più  pére,  le  quali  èrano  tutte  copèrte  di 
muffa,  e  guaste.  "  Oh  !  noi  diss'  io",  grida  égli, 
"  che  così  sarebbe  stato  ?  Non  è  fórse  avvenuto 
quello  eh'  io  dissi  ?  —  Padre  mio,  vói  1'  avete 
voluto". 

"  Non  è  quésta  còsa  che  ti  debba  dare  tanto  do- 
lóre", rispòse  il  Padre,  baciandolo  affettuosamente. 
"Tu  ti  lagni  eh'  io  non  abbia  voluto  crédere  a  te 
delle  pére  ;  e  tu,  quàl  fède  prestavi  a  me,  quand'  io 
ti  dicèa  che  la  compagnia  de'  tristi  guasta  i  buòni  ? 
Crédi  tu,  eh'  io  non  pòssa  compensarti  di  quéste 
pòche  pére  che  hai  perdute  ?  Ma  io  non  so  chi 
potesse  compensar  me,  quando  tu  mi  fòssi  guasto  e 
contaminato". 


FAVOLA   XLIX. 

Gli  Animali  in  Pùblica  Penitènza. 

Un   flagèllo  che  spàrge    dapertùtto  lo  spavènto, 
jèllo  che  il  Cielo  concepì  nel  suo  furóre  per  pu- 
nire i  delitti  della  tèrra,  flagèllo  ancor  peggióre  dèlia 

4* 


42  FAVOLE   MORALI. 

medicina  e  della  tirannia,  la  péste  (poiché  in  sómma 
bisógna  chiamarla  col  suo  nóme),  capace  èssa  sóla 
d'  arricchire  1'  Acheronte  in  un  giórno,  faceva  terri- 
bil  guèrra  àgli  animali.  Non  morivano  tutti,  ma 
tutti  n'  èrano  cólti.  Non  più  occupazióni  tra  lóro 
per  sostenére  una  vita  moribónda  ;  non  più  il  lóro 
appetito  richiedeva  il  cibo.  Ne  le  Vólpi,  ne  i  Lupi 
tendevano  più  insidie  alla  prèda  ;  le  Tortorélle  si 
fuggivan  a  vicènda  ;  non  più  amóri,  non  più  giòie. 

Il  Leone  in  tal  frangènte,  tenuto  un  gran  consiglio, 
parlò  in  quésti  tèrmini  :  ''  Cari  amici  miei,  crèdo 
che  pei  nòstri  peccati  il  Cielo  abbia  permésso  che  ci 
còlga  quésto  disastro.  11  più  colpévole  di  nói 
dùnque  si  sacrifichi  alla  vendétta  celèste  :  fórse  che 
così  égli  otterrà  la  salute  comune.  C  inségna  la 
stòria  che  in  sì  fatti  accidènti  fànnosi  di  tali  sacrifizj. 
Non  ci  lusinghiamo  dùnque  affatto  :  esaminiamo 
sènza  indulgènza  lo  stato  dèlia  cosciènza  nòstra. 
In  quanto  a  me,  soddisfacendo  all'  avidità  del  mio 
appetito,  ho  divorato  in  vàrie  occasioni  mólte  pè- 
core. Che  tòrto  m'  avéano  fatto  le  poverétte  ? 
Nessuno.  Anzi  mi  accadde  alcune  vòlte  di  man- 
giare anche  il  pastóre.  Mi  sacrificherò  dùnque,  se 
fa  d'  uòpo,  ma  penso  èsser  giusto  che  ciascuno  si 
accusi,  cóme  io  fo,  in  una  generale  confessióne  ; 
poiché  débbesi  desiderare,  secóndo  ógni  giustizia, 
che  perisca  il  più  colpévole  di  tutti"  —  ."  Sire",  re- 
plicò la  Vólpe,  "vói  siete  un  monarca  tròppo  buò- 
no ;  i  vòstri  scrùpoli  manifestano  la  vòstra  sómma 
delicatézza.  E  che  !  mangiar  pècore,  agnèlli,  quel- 
la canàglia,  quella  stùpida  razza,  é  fórse  un  delitto  ? 
No,  no  ;  anzi  Vòstra  Maestà  eòi  suoi  dènti  augusti 
gli  onorò  grandemente.     E    quanto   al    pastóre,   si 


PARTE   PRIMA.  43 

può  dire  con  giustizia,  eh'  égli  era  dégno  d'  ógni 
guàio,  essendo  di  quella  ridicola  spèzie,  la  quale  si 
assume  un  chimèrico  impéro  sugli  animali".  Così 
parlò  la  Vólpe,  e  non  mancarono  da  ógni  lato  adu- 
latòri che  1'  applaudirono.  Nessuno  osò  scrutinar 
tròppo  addéntro  le  azióni  meno  dégne  di  perdóno 
ne  della  Tigre,  ne  dell'  Orso,  ne  delle  altre  potèn- 
ze :  tutti  i  più  famósi  accattabrighe  fin  anche  i  ma- 
stini, a  détto  d'  ognuno,  èrano  altrettanti  Santarelli. 
L'  Asino  venne  a  suo  tèmpo,  e  disse  :  "  Con  do- 
lóre mi  rammenta,  che  una  vòlta  passando  per  un 
prato  di  reverèndi  mònaci,  stimolato  dalla  fame  e 
dall'  occasione  di  vedére  quella  soave  verdura,  e 
fórse  anche  spinto  da  qualche  spirito  diabòlico,  ho 
còlto  alcuni  fili  di  quell'  èrba  tenerélla.     lo  non  ne 

avèa  alcun  diritto,  a  dirla  schiettamente "    A 

quéste  paróle,  da  tutti  i  lati  s'  udì  gridare  :  "  Ad- 
dòsso a  quél  furfante  !"  Un  Lupo,  alquanto  iniziato 
nella  cùria,  provò  con  un'  aringa  eloquentissima,  che 
bisognava  immolare  quél  malnato  animale,  quél  pe- 
lato, quél  rognóso,  sóla  cagióne  dell'  ira  del  Cielo. 
Quél  suo  peccadiglio  fu  giudicato  un  caso  da  fórca. 
—  Mangiare  1'  èrba  d'  altrùi  !  —  Che  abbominévole 
delitto  1  —  La  mòrte  sóla  èra  capace  d'  espiare  un 
tale  misfatto.     Ed  élla  in  fatti  1'  espiò. 

Secóndo  che  sarete  potènte  o  pòvero ^  i  giudizj  di 
córte  vi  renderanno  bianco  o  néro. 


44  FAVOLE   MORALI. 

FAVOLA   L. 
U  Amòrej  e  V  Interèsse. 

[La  stessa  in  Versi  ;  Parte  Seconda,  Fav.  L.] 

Narrano  le  antiche  stòrie  delle  Deità,  che  trovà- 
ronsi  un  giórno  nel  palàgio  d'  un  ricchissimo  uòmo 
r  Interèsse  e  1'  Amòre  ;  e  tutti  e  due  quivi  avéano 
faccènda  a  prò  del  padróne.  Soprintendeva  1'  In- 
terèsse àgli  affari  di  lui,  e  faceva  le  ragióni  dell'  en- 
trata e  dell'  uscita,  con  tanta  avvertènza  e  accura- 
tézza, che  tutte  le  còse  quivi  prosperavano.  Dall'  al- 
tro lato  Amòre,  secóndo  la  piacevolézza  del  suo 
costume,  avéa  condótto  il  padróne  dèlia  casa  ad 
amare  la  più  bèlla  e  la  più  vistósa  fanciulla, 
che  mài  si  fòsse  veduta  al  móndo,  e  rideva  in  fàccia 
all'  Interèsse,  perchè  la  giovanètta,  còme  che 
avesse  in  se  ógni  perfezióne  di  bellézza,  la  non 
èra  però  ricca,  né  avéa  altri  bèni,  fuorché  quelli 
de'  suoi  vaghissimi  òcchi,  d'  una  fàccia  veramente 
celèste,  e  d'  una  statura  e  un  portaménto  di  persó- 
na, che  pittóre  o  statuàrio  non  avrebbe  potuto  fare 
con  1'  invenzióne,  quello  che  in  lèi  avéa  fatto  natura 
in  effètto. 

Non  potèa  sofferire  1'  Interèsse,  che,  per  òpera 
del  baldanzóso  fanciullo,  gli  fòsse  tòlta  dàlie  mani 
una  ricca  dòte,  la  quale  avéa  égli  più  vòlte  già 
noverata  coli'  immaginazióne  ;  e  se  avesse  potuto, 
r  avrebbe  co'  dènti  tritato.  Tanto  èra  1'  òdio  che 
avéa  concepùto  cóntro  di  lui  !  Con  tutto  ciò  facendo 
quél  miglior  viso  che  potèa,  e  pensando  in  suo 
cuòre  in  quàl  mòdo  potesse  far  sì  che  Amóre  non 
avesse  più  autorità  di  comandare  àgli  umani  cuòri 


PARTE   PRIMA.  45 

quello  eh'  égli  voléa,  trovò,  come  eolui  che  tristo 
e  malizióso  èra,  un  inganno  di  quésta  sòrta.  Pòsesi 
un  giórno  a  sedére  con  un  mazzo  di  carte  in  mano, 
e  quasi  per  ischérzo  mescolandole,  e  facendole 
1'  une  fra  1'  altre  entrare,  giuocàva  da  sé  a  sé  alla 
bassòtta,  con  un  mónte  di  monéte  da  un  lato,  tutte 
d'  uro  che  ardeva,  e  coniate  allóra  allóra,  che 
avrebbero  invogliato  un  romito.  Amóre  a  pòco  a 
pòco  accostatosi,  póse  cèrti  pòchi  quattrini  in  sui 
primi  pùnti,  i  quali  1'  Interèsse,  che  avèa  nelle  un- 
cinate mani  ógni  maliziósa  perizia,  glieli  lasciò  vin- 
cere per  maggiormente  adescarlo  ;  ma  pòi  cominciò 
a  tirare  acqua  al  suo  mulino,  tanto  che  Amóre  ri- 
scaldatosi si  diede  a  pòco  a  pòco  al  disperato,  e  ad 
accréscere  quantità,  sperando  pure  che  la  mala  for- 
tuna si  cambiasse  in  buòna.  Ma  èra  tutt'  uno  ;  e  in 
brevissimo  tèmpo  Amóre  si  ritrovò  sènza  un  quat- 
trino, e  con  maggior  vòglia  di  giuocàre  di  prima. 
Che  volete  vói  più  ?  Avendo  égli  già  giuocàto  ógni 
còsa,  póse  sópra  un  maladètto  asso  fino  1'  armi  sue, 
e  avendo  quelle  perdute,  vi  lasciò  finalménte  1'  arco 
le  saétte,  il  turcasso,  e  finalménte  le  pènne  dell'  ali  ; 
per  mòdo  che,  vergognandosi  di  mài  più  compa- 
rire dinanzi  a  Vènere,  sua  madre,  s'  intanò  e  na- 
scóse per  mòdo,  che  non  si  sa  pòi  più  dóve  andasse. 
L'  Interèsse,  dèlia  vittòria  tutto  lièto,  si  legò  le 
pènne  alle  spalle  cóme  potè,  e,  pigliate  V  armi 
d'  Amóre,  va  oggidì  in  càmbio  del  legittimo  padróne 
di  quelle,  adoperandole  secóndo  che  gh  pare  che 
vi  sia  da  far  guadagno,  e  da  chi  non  è  informato 
dell'  istòria,  viene  Amóre  creduto, 


46  FAVOLE   MORALI. 

FAVOLA    LI. 

U  Sóle,  e  il  Ghébro. 

In  un  bel  giórno  di  state,  sórse  d'  improvviso  una 
fròtta  di  nùvole,  e  velò  la  fàccia  del  Sóle.  Un  buon 
Ghébro,  più  divòto  che  filòsofo,  si  mise  a  strillare 
ed  a  piagnere,  e  proruppe  in  querèle  ed  impreca- 
zióni cóntro  di  quelle  arditàcce,  che  violavano  1'  og- 
getto del  suo  culto.  "  Ohimè  !"  diceva  égli,  "Arima- 
no, il  figlio  dèlie  tenebre,  vuol  far  guèrra  al  primo- 
gènito d'  Oromazo?  Quésti  nugoli  son  suoi  ministri. 
Vedi  cóme  s'  aggruppano,  còme  s'  accavallano,  còme 
guastano  a  pòco  a  pòco  quella  divina  bellézza.  La 
metà  del  Sóle  è  già  fosca  ;  ben  tòsto  noi  vedrò  più. 
Ohimè  !  égli  èra  così  bèllo,  così  benèfico  !  ed  èsse 
il  vogliono  spènto  !  Che  sacrilègio  !  che  orróre  !" 
Mentr'  égli  così  diceva,  il  Sóle,  spuntando  con  un 
ràggio  dall'  órlo  d'  una  nùvola,  mandò  quéste  vóci  : 
"Buon  uòmo,  m'  è  grato  il  tuo  zèlo,  ma  tu  vaneggi 
sènza  saperlo,  e  pòco  meno  che  non  mi  bestemmi 
per  divozióne.  Quéste  nùvole  non  giùngono  sino  a 
me  ;  èsse  non  nuòcono  che  alla  tua  vista  :  quàl 
cólpa  ci  ho  io  se  per  quésto  vélo  tu  non  puoi  raffi- 
gurarmi cóme  per  lo  innanzi  ?  Il  tuo  timóre  è  ridi- 
colo. Quél  nugolóni  che  ti  spaventano  non  hanno 
fòrza  da  sostenérsi  :  attèndi  un  pòco  ;  ben  tòsto  tu 
li  vedrai  cader  da  sé  stèssi,  e  stemprarsi  in  piòggia. 
Io  allóra  ti  parrò  più  bèllo,  e  sarò  lo  stèsso.  Avverti, 
uòm  da  bène,  che,  lagnandoti  dèlie  nùvole,  ti  lagni 
di  me.  Non  sono  èsse  altriménti  figlie  d'  Arimano, 
ma  mie.  Esse  mi  son  care,  perchè  son  òpera  e 
testimònio   dèlia  mia  divina   influènza.     E  la  mia 


PARTE  PRIMA.  47 

fòrza  attiva,  è  il  mio  calór  penetrante,  che,  insinuan- 
dosi né'  còrpi,  n'  astrae  1'  ùmido,  e  lo  solleva, 
e  lo  tira  a  sé  ;  vorresti!  che  io  cessassi  d'  èsser 
il  Sòie,  per  non  vedérmi  offéso  da  un  pò'  di 
bùio?  Datti  pace,  e  rispetta  le  léggi  della  natura: 
ne  il  Móndo  può  star  sènza  Sóle  ;  né  il  Sol  sènza 
Nàvole^\ 


FAVOLA  LII. 
//   Garòfano. 

Era  felicissimo,  sópra  tutti  altri  fióri  del  giardino, 
un  Garòfano  piantato  in  un  pitale  di  créta  ;  perchè 
la  Géva,  contadinélla,  n'avéa  prèso  una  cura  grande 
fin  dal  suo  primo  nasciménto.  Al  primo  spuntar 
del  sóle,  ne  lo  traeva  fuòri  della  sua  capannétta,  e 
gli  facéa  godere  i  primi  ràggi  di  quél  benèfico  piané- 
ta ;  e,  quando  soverchiamente  cuocevano,  lo  rico- 
priva ;  ed  a  tèmpo  con  purissima  e  frese'  acqua 
d'  una  fontana  vicina  nel  ristorava,  alloggiandolo  la 
séra,  per  timóre  che  quàlque  sopravvenuto  némbo 
non  lo  guastasse,  o  fórse  non  gli  togliesse  la  vita. 
Parlava  spésso  col  fióre  la  sémplice  villanèlla,  e  gli 
dicèa:  — Tu  sé'  tutto  il  mio  amóre,  io  non  ho  altro 
pensièro,  ne  altra  cura  che  te.  —  E  sì  lo  rimirava 
di  quàndr  in  quando,  che  veramente  si  vedèa, 
eh'  élla  non  aveva  in  cuòre  altro  affètto,  che  lui 

Un  giórno  vèrso  la  séra,  entrò  nel  giardino  una 
gióvane  bèlla  e  vistósa,  cóme  quella  che  fornita  èra 
di  vestiménti  di  séta  e  d'  argènto,  ed  avéa  intórno 
le  più  nuòve  e  più  squisite  fóg2;e,  che  s'  usassero, 
non  dico  fra  le  signóre,   ma  dalle   più    capriccióse 


48  FAVOLE   MORALI. 

ballerine,  che  facciano  in  sui  teatri  di  se  spettàcolo 
e  móstra.  Ella  avéa,  fra  gli  altri  abbigliaménti, 
dall'  un  lato  del  petto  cèrti  fiorellini  di  più  stagióni, 
che  mossero  ad  invidia  il  Garòfano  ;  il  quale  con  un 
sospiro  disse  fra  sé  :  "  Vedi  sventura  eh'  è  la  mia  ! 
Non  son  io  bèllo?  Non  sono  io  garbato,  quanto 
ciascheduno  de'  fióri,  eh'  adornano  il  séno  di  cotèsta 
così  bèlla  e  gentile  creatura?  E  perchè  sono  io 
condannato  ad  èssere  possessióne  d'  una  villanèlla  ?" 
Udi  la  Signóra  le  paróle,  e  se  ne  compiacque  sorri- 
dendo alcun  pòco  ;  ma  pure  fingendo  di  non  aver 
pósto  ménte  alle  sue  paróle,  passeggiò  due  o  tre 
vòlte  il  giardino  ;  e  sèmpre  ritornava  per  la  medési- 
ma via,  per  udire  se  il  fióre  dicèsse  altro.  Che  più? 
Égli  rinnovava  la  spiegazióne  de'  suoi  desidèrj,  ed 
élla  finalménte  rivòltasi  a  lui,  con  pòche  paróle 
furono  d'  accòrdo  1'  uno  e  1'  altra  ;  sicché  la  dònna, 
gittàto  via  il  mazzolino  di  fióri  eh'  avéa,  còlse  il 
bellissimo  Garòfano  ;  e  lo  si  pòse  al  suo  séno. 
Trionfava  il  pòco  giudizióso  fióre,  e  non  si  curò 
d'  èssere  troncato  da  quelle  radici,  che  gli  davano 
la  sostanza  dèlia  vita  ;  perché  in  quél  principio  tutto 
gli  parve  felicità,  e  si  rallegrava  di  veder  gli  altri 
fiorétti  gittàti  dàlia  Signóra  sul  terréno;  e  senza  più 
ricordarsi  pùnto  né  dèlia  Géva  sua,  che  l'  avéa  cosi 
cordialmente  amato,  né  di  quella  tèrra,  che  nudricàto 
1'  avéa,  se  n'  uscì  trionfando  fuòri  del  giardino. 
Ma  non  andò  mólto  tèmpo,  che  gli  convenne,  prima 
a  suo  dispétto  trovarsi  con  altri  fióri  mescolato,  e 
finalménte  fu,  per  órdine  dèlia  Signóra,  cóme  una 
còsa  fràcida,  gittàto  fuòri  per  la  finèstra,  dando  loco 
ad  un  bocciuól  di  ròsa  nuovamente  venuto,  ed 
accòlto. 


PARTE   PRIMA.  49 

FAVOLA   LUI. 

//  Gambero,  e  V  Uccèllo  Aquatico. 

Stàvasi  un  Uccél  d'  acqua  éntro  a  un  lago  mólto 
grande,  intórno  al  quale  nella  sua  gioventù  si  èra 
saziato  di   pésce  ;  ma  poiché   gli  anni  gli  avevano 
fatto  sòma  addòsso,  a  gran   péna  potendosi  méttere 
neir  acqua  per  pescare,    èra  per  morirsi  di  fame. 
E  standosi  cosi  di  mala  vòglia,  venne  alla  vòlta  sua 
un  Gambero,  e  dissegli  :   "  Buon   dì  fratèllo  ;  e  che 
vuol  dire,  che   tu  stài  così  maninconiòso  ?"     A  cui 
V  Uccèllo  :  **  Còlla  vecchiézza   or   può  égli  èssere 
allegrézza,  o  còsa  nuòva  ?  còlla  giovanézza  poteva 
pescare,  e   vivévami  ;  óra   per   èssermi  còlla  vec- 
chiàia mancate  le  fòrze,  mi  muoio  di  fame  ;  perchè 
più  pescare  non   posso:  ma  dato  anco  eh'  io  pur 
potessi,    pòco   mi    gioverebbe  ;    conciossiachè    son 
venuti  cèrti  pescatóri,  i  quali  dicono  che  hanno  de- 
liberato di  non  si  partir  di  quésto  paese,  sino  a  tanto 
che  non    hanno    vóto    tutto    quésto    lago  ;   e    dòpo 
quésto,  vogliono  andare  ad  un  altro,  e  fare  il  medési- 
mo".    Udendo  il  Gambero  così  mala  novèlla,  sùbito 
se  n'  andò  a  ritrovare  i  pésci  del  lago,  e  contò  lóro 
cóme  passava  la  còsa  :  i   quali,  conoscendo  il  gran 
pericolo   eh'  è'  portavano,  sùbito  si  misero  insième, 
e  andarono  a  trovare   quell'  Uccèllo  per  chiarirsi 
mèglio  del  fatto.     Arrivati  a  lui,  gli  dissero  :  "  Fra- 
tèllo, ci  è  stata  raccontata  per  tua  parte   una  mala 
novèlla,  la   quale    quando    fòsse    véra,   le    persóne 
nòstre   sarebbero    in    grandissimo    pericolo.     Però 
desideriamo  da  te  pienamente  sapere  còme  il  caso 
passa  ;  acciocché,  avendo  da  te   quell'  aiuto  e  con- 


50  FAVOLE   MORALI. 

sigilo,  che  tu  giudicherai  a  propòsito,  nói  facciàm 
pòi  quella  provvisióne   che  ci  parrà   neccessària". 
A'  quali  1'  Uccèllo,  con  ùmile  e  pietóso  sembiante, 
disse  :   "  L'  amor  grande  eh'  io  vi  pòrto,  per  èssermi 
sino  da  fanciullo  creato  in  quésto  lago,  mi  sfòrza  ad 
aver  di  vói  pietà  in   tanto  pericolóso  accidènte  :  e 
perchè  1'  ànimo  mio  non  è  di  abbandonarvi  in  tutto 
quello  che  per  me  si  potrà,  vi   dico,  che  mio  parére 
sarebbe,  che  vi  discostàsle  dall'  affrónto  di  quésti 
pescatóri  ;  i  quali,  còme  già  vi  ho  détto,  non  la  per- 
doneranno a  veruno.     E  perchè  io,  mercè  dèlia  leg- 
gerézza dèlie   mie  ali,  ho  veduto  mólti  bèi  luòghi, 
dóve   sono  1'  acque   chiare  e  accomodate  al   vivere 
vòstro  ;  quando  vogliate,   io    ve   ne   insegnerò  uno 
mólto  al  propòsito  vòstro".     Parve  all'  universa!  di 
quéi  pésci  il  consiglio  assai  buòno  ;  e  nessun'  altra 
còsa  a  ciò  fare   dava  lor  nòia,  salvo  il  non  aver  chi 
gli  conducesse  al   luògo.     Perchè  il  sagace  Uccèllo 
si  offerse  lóro,  e   mólto   prontamente   promise  ógni 
suo  potére.     Sicché   ponendosi  gli  sventurati  pésci 
spontaneamente  nelle  sue  mani,  egli  ordinò  che  ógni 
dì  gliene   montasse   addòsso  cèrta  quantità,  quando 
égli   si  metteva   coccolóni   nell'  acqua,  perchè  così 
pian   piano   li  condurrebbe  pòi  al  luògo  disegnato  ; 
ónde  raccòltane  ógni  dì  quella  quantità  che  gli  pa- 
reva a   propòsito,  la  portava  in  cima   di  un  mónte 
ivi  vicino,  dóve  pòi  se  la  mangiava  a  suo  beli'  àgio. 
E  cóme  quésta  tàccola  fòsse  durata  mólti  giórni,  e  il 
Gambero,  eh'  èra  un   pò'  cattivèllo,  fòsse  entrato  in 
qualche  sospètto  ;  é'  supplicò  un  dì  all'  Uccèllo  che 
lo  menasse   a   veder  i  suoi  compagni.     L'  Uccèllo 
sènza  farsene  mólto  pregare,  còme  quello  che  aveva 
caro   levarselo   dinanzi,    perchè    non    gli  scoprisse 


PARTE  PRIMA.  51 

1'  inganno  ;  prèsolo  per  il  bécco,  mòsse  1'  ali  vèrso 
quél  mónte,  dov'  égli  si  aveva  mangiati  gli  amici 
suoi.  Il  Gambero  veggèndo  un  pèzzo  discòsto  le 
spogliate  lische  degli  sventurati  compagni,  s'  accòrse 
dell'  inganno  ;  e  sùbito  si  deliberò  salvare  a  sé  la 
vita,  se  possibil  fòsse,  e  vendicare  la  mòrte  di  tanti 
innocènti  ;  e,  facendo  vista  d'  aver  paura  di  cadére, 
distèso  r  uno  de'  bràcci  il  maggióre  vèrso  il  còllo, 
r  aggavignò  sì  fòrte  con  què'  dènti  aguzzi,  che  lo 
scannò  ;  sicché  amendùe  caddero  in  tèrra  ;  ma 
perchè  il  Gambero  rimase  di  sópra,  non  si  fece  mal 
veruno.  Tornatosene  pòi  pian  piano  dà'  compagni, 
contò  lóro  la  disgràzia  de'  mòrti,  e  il  pericol  suo 
e  il  lóro,  e  la  bèlla  vendétta  eh'  égli  aveva  fatto 
dell'  atróce  inganno  ;  e  n'  ebbe  da  tutti  lóro  mille 
benedizióni. 

Sovènte  vòlte  V  inganno  cade  sópra  V  inganna- 
tóre. 


FAVOLA  LIV. 

ha  Nébbia,  e  i  tre  Astrologi. 

Furono  già  tre  Astrologi  uòmini  dabbène,  che,  la- 
sciata indiètro  ógni  cura  del  còrpo,  s'  èrano  dati  a 
coltivare  con  la  lóro  sciènza  1'  intellètto,  ed  acqui- 
starsi fama  d'  uòmini  sàggi.  Costoro,  i  quali  vede- 
vano nell'  avvenire  con  quella  sicurézza  eh'  éi 
conoscevano  d'  aver  cinque  dita  per  ciascheduna 
mano,  furono  un  giórno  tutti  e  tre  insième  per  par- 
teciparsi una  novità  grande,  che  avèano  veduta  nelle 
stélle.     Dicevano  che  fra  dièci  di  si  dovéa  stèndere 


53  FAVOLE   MORALI. 

sópra  la  città  lóro  una  ^Nébbia,  così  gròssa  e  di  tanto 
maligna  natura,  che  con  la  malizia  sua  penetrando 
pégli  orécchi,  pégli  òcchi,  pel  naso,  e  per  la  bócca 
degli  abitanti,  gli  avrebbe  fatti  tutti  impazzare,  dal 
governatóre  sino  al  più  asinàccio  facchino.  Per  la 
quàl  còsa  incominciarono  cotesti  tre  sapiènti  a  ral- 
legrarsi, ed  a  dire  fra  lóro  in  quésta  fórma  :  "  Lodato 
sia  il  Cielo  !  è  venuto  finalménte  quél  pùnto,  in  cui 
saremo  reputati  dal  móndo  quelli  che  siamo,  e  la 
fama  di  nói  correrà  per  tutta  la  tèrra.  Quando  tutti 
saranno  pazzi,  é'  sarà  un  gran  nòstro  onore  a  trovar- 
ci sàvj  ;  óltre  di  che  avendo  nói  cura  di  guardarci 
bène  da  cotèsta  nébbia,  che  dèe  sopravvenire,  po- 
tremo pòi  fare  a  mòdo  nòstro,  e  règgere  tutti  i  pazzi 
con  quelle  lèggi  che  nói  vorremmo,  ed  èssere 
signóri  di  tutto".  Con  quésto  propòsito  delibera- 
rono di  sfuggire  a  tutto  lóro  potére  la  Nébbia  ;  si 
chiùsero  in  una  stanza  all'  oscuro,  serrarono  finè- 
stre ed  ùsci,  ed  a  péna  lasciarono  una  fessurélla 
per  dóve  potesse  entrare  ària,  non  che  altro.  Ve- 
ramente il  dècimo  dì,  còme  avéano  predétto,  venne 
la  pestilenziòsa  Nébbia,  e  per  tutta  la  città  s'  allar- 
gò, facendo  uscire  di  cervèllo  quanti  v'  èrano  dén- 
tro. I  tre  compagni,  che  s'  avéano  turati  gli  oréc- 
chi con  una  spugna  inzuppata  nell'  òlio,  e  nello 
stèsso  mòdo  il  naso  e  la  bócca,  quando  fu  passata 
quella  maledizióne,  si  sturarono,  e  ne  furono  vera- 
mente salvi.  E  quando  parve  lóro,  che  1'  ària  si 
fòsse  purgata  e  rischiarata,  apèrsero  un  finestrino,  e 
furono  spettatóri  d'  una  nuòva  e  strana  tragèdia,  o 
commèdia,  còme  la  vogliamo  chiamare.  Imperoc- 
ché incominciarono  a  vedére  per  le  vie,  vècchie 
con    nastri    vermigli     e    turchini,   che    danzavano  ; 


PARTE   PRIMA.  53 

vecchiòtti  tutti  guerniti  di  frànge  d'  òro  e  d'  ar- 
gènto ;  gióvane  e  gióvani,  che  vendevano  il  sénno, 
e  volevano  ammaestrare  ognuno  ;  i  dottóri  por- 
tavano per  la  città  i  pési,  ed  i  facchini  andavano  in 
còcchio  vestiti  da  gran  signóri,  e  contegnósi  còme 
principi  ;  véri  segnali  che  la  città  èra  divenuta  pazza 
dà'  fondaménti.  Non  vi  potrei  dire  quanto  i  tre 
sòcj  si  rallegravano,  e  dicevano  :  "  Oh  fortunati  nói, 
e  beata  la  sciènza  nòstra  !  eccoci  oggimài  padróni 
di  tutti.  Nói  signoreggeremo  tutte  quelle  tèste. 
Oh  quali  ordinazióni,  quali  statuti  faremo  in  quésto 
luògo  !  chi  potrà  contrastare  a'  nòstri  capi  ripièni  di 
giudizio  in  un  luògo,  dóve  non  si  trova  più  chi  ci 
pòssa  stare  a  frónte  ?  I  sàvj  siamo  nói  sóli". 
Così  détto  fra  lóro,  uscirono  di  quella  stanza, 
dov'  èrano  stati  rinchiùsi,  e,  perchè  la  gravità  è 
madre  del  buon  concètto,  andarono  fuòri  con  cèrti 
òcchi  tardi  e  gravi,  e  con  un  passeggiare  lènto  e 
nòbile  ;  ed  ad  ógni  pòco  si  stringevano  nelle  spalle, 
mostrando  a  qué'  pazzi,  con  quest'  atto,  che  cono- 
scevano le  pazzie  lóro,  e  talora  con  una  sublime 
intuonatùra  gli  correggevano.  —  *'  Dónde  sono  usciti 
quésti  tre  animali  ?"  dicevano  i  pazzi.  "  Che  si 
crédono  èssi  di  fare  con  quél  cèffo,  e  con  quéste  lóro 
ammonizióni  ?  Costoro  debbono  èssere  tre  pazzàcci 
solènni.  Agli  atti  mostrano  certamente  d'  èssere 
tali.  Non  guardano  còme  gli  altri  ;  camminano  in 
un  cèrto  mòdo,  che  qui  non  s'  usa  ;  dicono  còse,  che 
non  intendiamo".  Che  volete  di  più?  Tutto  il 
pòpolo  incominciò  a  ridere,  a  córrere  lóro  diètro,  a 
farsi  bèffe,  ed  a  dar  lóro  tanta  nòia  e  fastidio,  che, 
se  non  vollero  èssere  stimati  pazzi,  convenne  che  si 
fingessero  cóme  tutti  gli  altri,  e  che,  vestiti  tutti  e  tre 

5* 


54  FAVOLE   MORALI. 

da  dònna,  ballassero  una  gagliarda  in  piazza,  di  bel 
mézzo  giórno,  in  un  cérchio  di  fórse  trecènto  per- 
sóne, dimenticandosi  il  cervèllo,  che  avéano  in  capo; 
e  maledicendo  1'  óra  ed  il  pùnto,  che  s'  èrano  guar- 
dati dalla  Nébbia. 


FAVOLA  LV. 

Z#'  Onore,  e  il  Mèrito, 

L'  Onore  ài  tèmpi  di  Saturno  èra  giovine,  aiu- 
tante dèlia  persóna,  àgile  di  mèmbra,  e  d'  òcchio 
cerviere.  Egli  avèa  per  istinto  di  andar  sèmpre 
diètro  le  tràcce  del  Mèrito.  Ma  quésto,  pago  sol 
di  giovare  sènza  rivòlgersi  a  guardare  se  n'  èra 
seguito,  andava  per  la  sua  via  così  ratto,  che  si 
avéa  péna  a  raggiùngerlo.  Lióltre  égli  cangiava 
tratto  tratto  colóri  e  spòglie  ;  ne  pareva  aver  fórme 
pròprie,  che  '1  distinguessero.  Talvòlta  in  sem- 
bianza di  Re,  beava  un'  intéra  nazióne  con  sàvie 
léggi,  tal'  altra  coli'  élmo  e  1'  usbèrgo,  salvava  una 
città  minacciata  da  un  usurpatore  :  óra  in  mézzo  ad 
un  parlaménto,  calmava  i  furóri  d'  una  cièca  moltitù- 
dine ;  óra  portando  in  mano  1'  ulivo  ed  il  caduceo, 
riamicava  due  province  disunite  dàlia  discòrdia. 
Del  rèsto,  sémplice  e  schiètto  nell'  àbito,  nelle 
paròle  modèsto,  non  dava  innanzi  tratto  verùn  sen- 
tóre di  se,  ne  si  lasciava  riconóscere  se  non  dai  fatti. 
Allóra  sólo  la  sua  fórma  sembrava  farsi  maggior  di 
se  stéssa,  e  paréa  che  '1  suo  vólto  mettesse  ràggi . 
ma  non  sì  tòsto  crasi  manifestato  quasi  a  suo  mal- 
grado, che  togliévasi  all'  altrùi  sguardo,  e  celandosi 
sótto  altre  spòglie,  correva  ad  esercitar  il  suo  istinto 


PARTE   PRIMA.  55 

benèfico,  óve  più  lo  invitavano  i  bisógni  dell'  uma- 
nità. Il  vestito  dell'  Onore  èra  altrettanto  appari- 
scènte, quanto  sémplice  quello  del  Mèrito  ;  manto 
listato  e  spàrso  di  figure,  coróna  d'  allòro  in  capo, 
cintura  fregiata  d'  intàgli:  le  dita  splendèano  di 
gèmme  ;  aveva  alle  braccia  smaniglie,  monili  al  còllo  : 
caténe,  frenèlli,  piume,  fàsce,  nastri,  cifre,  e  frégi 
d'  ógni  fatta,  gli  guernivano  il  petto  ed  il  dòrso. 
Con  quéste  divise  correva  di  luògo  in  luògo  in  cérca 
del  Mèrito,  e  quando  gli  veniva  fatto  di  còglierlo  sul 
pùnto  di  qualche  nòbile  azióne,  si  spiccava  tòsto  di 
dòsso  alcuno  dèi  suoi  arnési,  e  si  godèa  di  fregiame- 
lo. Quelle  inségne  così  degnamente  collocate,  sfa- 
villavano d'  una  face,  che  incitava  lutti  gli  sguardi  ; 
ciascheduno  èra  vago  di  possedérle  :  la  brama  d'  aver 
le  spòglie  dell'  Onore,  indusse  più  d'  uno  ad  imitar 
le  imprése  del  Mèrito  ;  e  la  tèrra  godè  qualche  tèm- 
po dèi  frutti  dèlia  virtù.  Ma  sotto  il  régno  di  Giòve 
le  còse  cangiàron  di  fàccia  :  la  corruzióne  prevalse. 
I  vizj  tramarono  la  rovina  del  Mèrito  ;  1'  Invidia  lo 
perseguitò,  la  Calùnnia  1'  opprèsse  :  i  suoi  ammira- 
tóri intimoriti  si  tacquero,  ed  égli  stésso  proscritto 
nelle  propolóse  città,  fu  costretto  a  rifuggirsi  tra  le 
capanne,  e  tra  i  bòschi. 

L'  Onore,  dòpo  averlo  cercato  indarno  per  lungo 
tèmpo,  credendolo  spénto  per  sèmpre,  invecchiò  di 
tristézza,  e  distillòssi  in  làgrime  sì  fattaménte,  che 
ne  divenne  scerpellino  e  bircio.  La  tèrra  desolata 
dà'  vizj,  sentì  alfine  il  bisógno  del  Mèrito,  e  lo  rido- 
mandava con  alte  grida.  Allóra  alcuni  partigiani 
de'  suoi  nemici  pensarono  di  prevalérsi  dèlia  debbo- 
lèzza  dell'  Onore,  per  abusare  dèlia  credulità  ed 
ignoranza  del  vólgo.     Viveva  égli  ritirato  ed  oscuro, 


56  FAVOLE   MORALI. 

pascendosi  della  sua  dòglia.  La  Ricchézza,  gli  si 
pòse  a  frónte,  ed  abbarbagliandolo  col  chiaròr  delle 
gèmme  e  dell'  òro,  gli  slacciò  bellamente  la  sua  cin- 
tura, e  la  si  affibbiò.  L'  Ambizióne,  pòstaglisi  diètro 
le  spalle  sópra  una  scala,  gli  levò  di  capo  la  coróna, 
ed  inghirlandóssene.  L'  Adulazióne,  strascinandosi 
per  tèrra  a  guisa  di  sèrpe,  ed  avvoltolandosi  tra  i 
suoi  vestiti,  gli  spiccò  una  caténa,  che  gli  pendeva 
sul  petto.  La  Fròde,  gli  si  attraversò  tra  piedi,  e  fat- 
tolo inciampare,  mostrando  di  soccórrerlo,  gli  trasse 
di  dito  un  anello.  La  Fòrza,  appiccata  una  zuffa 
intórno  di  lui,  nella  confusióne  di  quella  mischia,  gli 
strappò  il  manto  :  le  piume,  i  nastri,  le  cifre  cadde- 
ro a  tèrra,  ed  i  più  arditi  dèlia  canàglia  le  si  ciuffa- 
rono.  Il  misero  vècchio  èra  cosi  istupidito  dalla  sua 
tristézza,  che  non  s'  accórse  del  furto.  Colóro  dòpo 
quésta  prèda  se  n'andarono  chi  qua,  chi  là:  cia- 
scheduno gridava  alla  moltitùdine  :  "  Eccomi,  io  son 
quello  che  vói  cercate,  io  sono  il  Mèrito  ;  1'  Onore 
mi  riconóbbe,  égli  mi  fregiò  dèlie  sue  inségne  ;  adora- 
temi". La  sciòcca  turba  lo  si  credè,  e  ciascun  di 
lóro  ebbe  cortigiani  e  poèti.  Una  tal  nuòva  giùnse 
all'  orécchio  del  Mèrito  colà  nei  buschi,  e  lo  ferì 
più  al  vivo  che  la  persecuziòn  dell'  Invidia.  — 
^' Ohimè  !"  diss'  égli,  "colèi  alméno  mi  rispettava, 
poiché  volèa  la  mia  mòrte  ;  ma  quésti  indégni  mi 
avviliscono,  e  disonorano  il  mio  nóme.  Andiamo, 
mostriamoci  al  móndo,  e  vediamo  s'  è  possibile  di 
smascherar  1'  impostura". 

Era  già  alle  pòrte  dèlia  città,  quando  si  ab- 
battè nell'  Onore,  che,  mèzzo  cièco,  e  pressoché 
imbarbogito,  se  n'  andava  a  capo  chino,  pen- 
sando   a    lui.  —  "Oli!"     diss'   égli,    *' è   quésto    il 


PARTE   PRIMA.  57 

mio  amico  ?  Vedi  com'  è  fatto  vècchio  !  com'  è 
divèrso  da  quél  di  prima  ?  Squàllido,  smùnto  ! 
chi  potè  farne  sì  rèo  govèrno  ?"  L'  Onore  il  ri- 
conóbbe alla  vóce:  ^'M'  inganno?"  gridò  tòsto, 
*^  sèi  pur  tu  désso  ?  Ah  !  io  non  ho  dùnque  vissuto 
indarno  ;  eh'  io  ti  càrichi  de'  miei  dóni,  io  te  li  sèrbo 
da  sì  gran  tèmpo".  Métte  la  mano  al  capo,  ne 
trova  più  la  coróna  ;  cercò  il  suo  manto,  è  sparito  ; 
si  tasta  il  petto  e  le  braccia,  e  si  scòrge  ignudo. 
—  "  Intèndo",  disse  allóra,  quasi  rinvenuto  da  un 
sógno,  "  le  mie  spòglie  fur  mèsse  a  sacco  ;  ma  non 
importa,  mi  rèsta  il  mèglio"  :  e  in  così  dire,  getta- 
tegli le  braccia  al  còllo  :  "  Prèndi",  soggiùnse  ;  "  al- 
tro è  1'  aver  ^e  mie  inségne,  altro  aver  me". 
Queir  abbracciaménto  fu  di  singolare  efficàcia  : 
1'  Onore  ringiovenì,  e  ricuperò  la  sua  vista.  li 
Mèrito,  accompagnato  dall'  amico,  non  ebbe  che  a 
comparire  per  farsi  conóscere,  e  trionfar  di  tutti  i 
cuòri  ;  i  suoi  indégni  rivali  ne  furono  svergognati  e 
confusi.  Ciascheduno,  per  non  èsser  ravvisato, 
volèa  rèndere  le  spòglie  mal  tòlte  ;  ma  1'  Onore 
volle  che  le  conservassero,  e  le  portassero  mài  sèm- 
pre indosso  per  ignominia  e  ludibrio.  L'  Onore  da 
lì  innanzi  non  perde  più  di  vista  il  Mèrito,  e 
què'  giórni  in  cui  si  mostrano  abbracciati,  danno  al 
móndo  il  più  leggiadro  spettàcolo. 


PARTE     SECONDA: 
FAVOLE     IN    VERSI 


Una  Donna  più  bella  assai  del  Sole, 
E  più  lucente,  e  di  maggior  etade, 
Mandata' giù  sulla  terrestre  mole 
Dalle  celesti  lucide  contrade, 
Per  dissipar  col  suo  divin  fulgore. 
La  cieca  nebbia  dell'  umano  errore. 

PiGNOTTi.  —  Origine  della  Favola, 


RACCOLTA  DI   FAVOLE  MORALI 


PARTE    II. 
FAVOLE    IN    VERSI. 


FAVOLA   I. 

H  Fiore,  e  la  Ròvere, 

Vedendo  Ròvere  annosa  e  fòrte, 

Un  Fior  lagnàvasi  della  sua  sòrte  : 
"  La  vii  d'  un  àlbero  fosca  verdura 
Pur  fino  al  tèrmine  d'  autunno  dura 
Ed  io  d'  amàbili  colori  adórno 
Ho  sol  la  misera  vita  d'  un  giórno". 

Udì  la  Ròvere,  e  al  Fior  rispòse  : 

^'  Son  tutte  fràgili  le  belle  cóse'\ 

FAVOLA  IL 

Il  Leone  Debitore. 

* 

Prese  il  Leone  in  certa  malattia 

Da  diversi  animali  i  cibi  in  prèsto  : 
Nulla  rendea  guarito,  e  poi  eh'  udia, 
Che  colóro  mal  paghi  eran  di  quésto  ; 
6 


62  FAVOLE  MORALI. 

Chiama  il  Lupo  a  consiglio,  e  vuol  che  dia 
Un  compenso  agli  affari  equo  ed  onèsto  : 
Il  Lupo  per  quietar  tutti  i  clamóri 
Divorò  ad  uno  ad  uno  i  creditóri. 


FAVOLA  III. 
Il  Ladro,  e  il  Cane. 

[La  stessa  in  Prosa  ;  Parte  Prima,  Fav.  III.] 

^*  Del  pane  eh'  io  ti  reco 

Perchè  con  guardo  bièco 

Fai  tu,  stolto,  rifiuto  ?" 

Disse  al  Cane  fedéle  il  Ladro  astuto. — 
*'  Perchè  mentre  t'  appressi  a  questa  sòglia 

Col  favóre  dell'  ómbre, 

Latrar  posso  a  mia  vòglia, 

Quando  le  fauci  ingómbre 

Non  sento  dal  tuo  pane"  ; 

Rispóse  al  Ladro  astuto  il  fido  Cane. 

FAVOLA  IV. 

Il  Lupo,  e  il  Pastore. 

Un  Lupo,  che,  già  vècchio,  non  potèa 

Sul  gregge  esercitar  lo  strazio  usàto^ 
Fé'  sapere  al  Pastòr,  eh'  egli  volèa 
Far  penitènza  d'  ogni  suo  peccato. 
Dalle  straggi  cessar,  da  ogni  òpra  rèa, 
Purché  parco  aliménto  gli  sia  dato. 
Disse  il  Pastòr  :   ^*  Si  umani  sentiménti 
Dovea  spiegarmi  quando  aveva  i  dènti". 


PARTE   SECONDA.  63 

FAVOLA   V. 

Le  due  Spighe. 

^^  Perchè  sì  umile,  e  china, 

Mentre  io  sì  dritta,  e  bèlla 
M'  èrgo  quasi  regina 
Della  vasta  pianura?" 
Dicéa  verde  sorèlla, 
A  una  Spigha  matura. 
Ma  le  rispónde  quella  : 
^'  T'  empi  di  grano,  allóra 
Ti  curverai  tu  ancóra". 

FAVOLA  VI. 


La  Rana,  e  il  Bue. 


[La  stessa  in  Prosa  ;  Parte  Prima,  Fav.  VI.] 

Vide  una  Rana  un  Bòve 

Grande  non  mèn  che  bèllo, 
E  a  farsi  come  quello 
Facèa  tutte  le  pròve. 

La  sua  grinzósa  pèlle 

Gonfiava  la  vii  Rana, 
Indi,  supèrba  e  vana, 
Diceva  alle  sorèlle  : 

"  Al  Bòve  sono  eguale  ?"  — 

^'  Eh  !  nò",  diss'  una  allóra.  — 
Gonfiandosi  ella  ancóra. 
Richiède  :  "  Or  chi  prevale  ?"  - 


64  FAVOLE   MORALI. 

"  Il  Bòve".  —  "  Or  che  ti  pare  ?"  — 
''  Eh  !  via".  —  '*  Ma  finamente  ?"  - 
*'  Nemmén".  —  *'  Or  state  attènte, 
Mie  sorelline  care". 

Gli  sfòrzi  allor  raddoppia 
Per  riportarne  il  vanto, 
E  si  distènde  tanto. 
Che  finalménte  scòppia. 

Ognun  nella  sua  sfera 
Modèsto  sempre  stia  : 
Lea  favoletta  mìa 
Per  chi  noi  fa  s'  avvera. 


FAVOLA  VII. 

i'  Uomo,  e  il  Cavallo. 

Padròn  d'  un  agilissimo 

E  dòcile  Destrièr, 

Un  Tal  traea  grand'  ùtile 

Facendo  da  corrièr. 
Ma  tanto  il  fece  córrere, 

Ma  tanto  1'  adoprò, 

Che  un  dì,  più  non  potendone, 

La  béstia  alfin  crepò. 

"  Talór  si  perde  il  mólto  che  si  ha 
Per  quella  péste  delV  avidità^' . 


PARTE   SECONDA.      '  65 

FAVOLA   Vili. 

Due  Torij  e  un  Cane. 

Stàvan  nello  steccato 

Due  Tàuri,  quando  veggono  da  un  lato 

Venir  velocemente 

Un  Cane,  che  abbaiava  fortemente. 

Il  più  gióvane  allor  si  spaventò, 

Ma  r  altro  disse  :   ''  Non  temerne,  nò, 

Costili  non  ci  sarà  d'  alcuno  intòppo, 

Perch'  égli  abbaia  tròppo". 

Guardati  dalV  irato,  che  non  parla  ; 
E  non  temer  la  còllera,  che  ciarla. 

FAVOLA   IX. 

Lo  Sparviere,  e  V  Uccellatore. 

[La  stessa  in  Prosa  ;  Parte  Prima,  Fav.  IX.] 

Lo  Sparvière  perseguiva 

La  colómba,  che  fuggiva 
Da  lui  timida  e  smarrita, 
E  vicin'  a  esser  ghermita 
Dalla  zampa  sua  grifagna. 
Per  ventura  in  una  ragna 
Incappò  quel  predatóre. 
Venne  a  lui  1'  Uccellatóre, 
Tra  le  mani  tosto  il  prése, 
E  1'  Uccèllo,  che  comprése 
Che  il  voleva  far  morire, 
Tai  paróle  gli  ebbe  a  dire  : 
6* 


66  FAVOLE   MORALI. 

''  A  te  mài  non  feci  male". 
L'  Uom  rispóse  :   "  Non  ti  vale 
Te  ne  fé  quell'  innocènte  ?" 
E  1'  uccise  immantinènte. 

Qui  s'  adàttan  questi  détti  : 

"  Chi  fa  male,  male  aspètti*^ 


FAVOLA   X. 

La  Gioventù,  e  il  Piacere. 

Nel  giardin  del  Piacére 

Entrò  1'  incàuta  gioventùde  un  di  : 
Cortése  il  giardinière 
I  suoi  fióri  le  offri  : 
Ma  tutti  in  un  instante, 
Avida,  possedérli  essa  voléa  ; 
Recise,  svèlse,  calpestò  le  piànte  ; 
Ma  quando,  paga  di  sua  vana  idèa, 
Guardossi  in  grembo,  vi  trovolli  tutti 
Pel  suo  folle  desio,  laceri  e  brutti. 

FAVOLA  XL 

Il  Gatto,  e  il  Formaggio. 

Col  teso  orécchio  il  timido  Castaldo 

Neil'  ùnta  sua  dispènsa  un  rumor  òde, 
E  s'  accòrge  che  un  sorcio  ingordo  e  baldo, 
Da  un  buco  entrato  con  secreta  fròde, 
Per  esercizio  del  suo  dente  saldo. 
Un  Marzolin  pinguissimo  si  róde  : 


PARTE    SECONDA.  67 

Chiude  entro  il  Gatto  ;  e  il  Gatto  prode  e  sàggio 
Uccise  il  tòpo,  e  poi  mangiò  il  Formàggio. 

Un  avido  alleato  talor  nóce 

Pia  che  il  nimico  tórbido  e  feróce, 

FAVOLA   XII. 
Il  Fanciullo,  e  i  Pastori. 

[La  stessa  in  Prosa  j  Parte  Prima,  Fav.  XII.] 

'^  Al  lupo,  al  lupo  !  aiuto  per  pietà", 
Gridava,  solamente  per  trastullo, 
Cecco  il  guardiàn,  sciocchissimo  fanciullo  : 
E  quando  alle  sue  grida  accorrer  là 
Vide  una  grossa  schièra  di  villani, 
Di  cacciatori  e  cani. 
Di  forche,  pali,  ed  archibùsi  armata, 
Fece  loro  sul  muso  una  risata. 

Ma  dopo  pochi  giórni  entrò  davvéro 

Tra  il  di  lui  gregge  un  lupo,  ed  il  più  fièro.  — 

"Al  lupo,  al  lupo!"  il  guardianèllo  grida; 

Ma  niùno  ora  1'  ascólta, 

O  dice  :   "  Ragazzàccio  impertinènte, 

Tu  non  ci  burli  una  seconda  vòlta". 

Raddoppia  invàn  le  strida. 

Urla  e  si  sfiata  invàn,  nessun  lo  sente  : 

E  il  lupo,  mentre  Cecco  invan  s'  affanna, 

A  suo  beli'  àgio  il  gregge  uccide  e  scanna. 

iS^e  un  uòmo  'per  bugiardo  è  conosciuto, 

Q^uand^  anche  dice  il  ver,  non  gli  è  creduto. 


68  FAVOLE  MORALI. 

FAVOLA   XIII. 

H  Toro,  il  Cavallo,  e  la  Volpe. 

Il  Tòro  al  córso  disfidò  il  Destriero, 
E  quésti  vincitòr  fu  nella  sfida  ; 
Gli  altri  animali  incontro  gli  si  fero 
Con  plausi  di  triónfo,  e  liete  grida. 
Sol  taceva  la  Vólpe  :  A  lei  1'  altèro, 
"  Dammi  ragion  del  tuo  silènzio",  grida. 
Essa  rispónde  :   ''  I  plausi  miei  consèrvo 
Pel  dì,  che  vincitòr  sarai  del  Cèrvo". 

Chi  sul  dehil  nimico  ebbe  vittòria 
È  ben  fólle,  se  affètta 
Vane  pómpe  di  glòria, 

FAVOLA   XIV. 

Il  Cane,  e  la  Sorte. 

Per  vendicarsi  d'  una  vecchia  ingiùria 
Venne  il  Cane  a  tenzóne 
Un  giorno  col  leone,  e  fu  sconfitto. 
Il  vinto  Càn  piangèa. 
Dicendo  :   "Oh,  Sorte  rèa, 
M'  abbandonasti  !  e  per  qual  mio  delitto  ?" 
'^  Per  quél".  Sorte  rispósegli, 
"  D'  aver  fatto  tenzóne 
Tu  meschinetto  Càn  con  un  leone". 

Chi  co'  pia  fòrti  incauto  cozzerà, 

Fia  sempre  vìnto,  e  sempre  torto  avrà. 


PARTE   SECONDA.  69 

FAVOLA   XV. 
jL'  Infelice,  e  la  Morte. 

[La  stessa  in  Prosa  j  Parte  Prima,  Fav.  XV.] 

Un  miserabil  Uóm  carico  d'  anni, 
E  non  pòchi  malanni, 
Portava  ansante  per  sassoso  calle 
Un  gran  fascio  di  légne  sulle  spalle. 
Ecco  ad  un  tratto  il  debol  pie  gli  manca, 
Sdrùcciola,  e  dentro  un  fòsso 
Precipita,  e  il  fastél  gli  cade  addòsso. 
Con  vóce  e  léna  affaticata  e  stanca 
Appella  disperato  allor  la  Mòrte, 
Che  ponga  fine  alla  sua  trista  sòrte.  — 
'^  Vieni,  Mòrte",  dicea,  "  fammi  il  favóre, 
Tòglimi  da  una  vita  di  dolóre  : 
Ch'  ho  a  fare  in  questo  móndo  ?  ovunque  miri, 
Non  vedo  che  misèrie  e  che  martiri. 
Qua  di  casa  il  padróne 
Domanda  la  pigióne  ; 
Il  fornaro  di  là  grida,  che  sènza 
Denari  ornai  non  vuol  far  più  credènza  : 
Se  tu  non  vieni,  la  mia  gran  nemica, 
La  fame,  porrà  fine  alle  mie  pène  ; 
Ma  morrò  troppo  tardi,  ed  a  fatica". 

Ai  replicati  inviti,  ecco  che  viene 

La  Morte  a  un  tratto  colla  falce  in  mano, 
E  gli  domanda  in  che  lo  può  servire. 
Sentissi  il  pover  Uóm  rabbrividire  ; 
Che  credèa  di  parlarle  da  lontano  : 
E  con  pallida  fàccia  e  sbigottita. 
Rispóse  in  voce  ràuca  e  tremolante  : 


70  FAVOLE  MORALI. 

''  Ti  chiamai  sòl  perchè  mi  dassi  aita 
A  portar  questo  fàscio  si  pesante". 

Quando  è  lontana,  pòco  ci  spaventa 

La  Morie;  ma  qualora  s^  avvicina, 
Oh,  che  bruita  figura  che  diventa  ! 


FAVOLA  XVL 
La  Vite,  e  il  Potatore. 

Al  Potatóre  dicea  la  Vite  : 

^'  Dèh  !  mi  risparmia  le  tue  ferite  ; 
Io  ti  prométto,  se  non  m'  affanni, 
Che  sarò  bèlla  più  che  gli  altri  anni  : 
Che  far  può  un  ramo  di  più,  di  meno  ? 
Possenti  sùcchi  mi  dà  il  terréno". 

Al  Potatóre,  che  P  ebbe  fède, 

Essa  gran  frutto  quell'  anno  diede  ; 
Ma  gli  anni  apprèsso  cangiò  di  tèmpre, 
E  tronco  inùtile  restò  per  sèmpre. 

Gli  errór  corrèggi  di  frésca  etade  : 
Guida  a  rovine  la  tua  pieiàde, 

FAVOLA   XVIL 

Il  Pino,  €  il  Melo- Granato. 

"  Fausta  ti  fu  la  sórte. 

Che  sótto  r  ombra  mia  nascer  ti  fèo"  ; 
Diceva  un  àmpio  ed  orgoglióso  Pino 
Ad  un  Melo-Granato  suo  vicino  : 


PARTE    SECONDA.  71 

'^  Allor  che  vien  mugghiando  il  nembo  orrèndo, 

Tu  di  lui  non  pavènti^  io  ti  difèndo".  || 

Rispóse  r  arboscèllo  :   ''  È  vero,  è  véro  :  "' 

Ma  méntre  un  ben  mi  dai, 

D'  un  maggior  ben  mi  spògli  ; 

Mi  difendi  dal  némbo,  e  il  Sol  mi  tògli". 

Così  talvòlta  un  protettór  sublime 

Par  che  ti  giòvi,  e  le  tue  forze  opprime* 

FAVOLA   XVIIL 
Z/'  Àsino,  e  il  Cavallo. 

[La  stessa  in  Prosa  ;  Parte  Prima,  Fav.  XVIIL] 

Conducéva  un  mulattière 

Un  Cavallo  ed  un  Somière. 
Il  Somiér  eh'  è  lento  al  còrso 
Grave  péso  avea  sul  dòrso, 
Ne  poteva  in  franco  mètro 
Al  compagno  tener  diètro  ; 
Onde  disse  afflitto  e  stanco  : 
"  Io  mi  sento  venir  manco, 
Se  da  tè  qualche  sollièvo 
Al  gran  péso  non  ricévo  : 
Tu  che  sé'  scarco  e  leggèro 
Dammi  aiuto,  o  buon  Destriero, 
Pria  eh'  io  manchi  per  la  via  ; 
Te  ne  priégo  in  cortesia". 
Il  Cavallo  andando  avànte 
Fece  orécchi  da  mercante. 
Lo  straccàrico  Asinèlio 
Nel  passare  un  fossarèllo 


72  FAVOLE   MORALI. 

Sotto  il  péso  estinto  giacque. 
Tratto  avendolo  dall'  acque 
Il  padróne  scaricóllo 
D'  ogni  arnése,  e  scorticóllo, 
Ch'  anche  il  cuòio  aver  ne  volle 
Benché  fòsse  stato  in  mòlle  ; 
E  ogni  còsa  pose  addòsso 
Al  Cavallo  grande  e  gròsso, 
Che  in  sentirsi  sulle  spalle 
Le  pesanti  unnide  balle  : 
"Ahimè!  disse,  sventurato, 
A  che  mài  serbommi  il  fato  ! 
Ah  pensiér  fallaci  e  fòlli  ! 
Io  testé  portar  non  volli 
Parte  alcuna  di  quel  péso 
Onde  r  Asino  era  offéso  ; 
Or  mi  tócca,  ah  caso  fièro  1 
A  portarlo  tutto  intéro. 
Soma,  basto,  e  pettorale, 
La  cavézza,  lo  straccale  ; 
Fino  i  fèrri  e  il  cuoio  stésso 
Sopra  gli  òmeri  mi  han  mésso'\ 

Quanti  simili  oggi  sano 

Al  Destriér,  di  cui  ragiono  ! 
Inflessibili  ai  laménti 
De'  Compagni,  de'  Parénti, 
Dar  aiuto  lor  non  vónno, 
Né  sollievo^  quando  panno  ; 
Di  cu'  pòi  con  grande  affanno 
Tutto  il  péso  a  portar  hanno, 
E  tra  sé,  come  il  Cavallo, 
Tardi  piàngono  il  lor  fallo. 


PARTE    SECONDA.  73 

FAVOLA   XIX. 

LéC  Nuvole,  e  il  Sole. 

Oltre  1'  usato  bello  e  sereno 

Lasciava  il  Sóle  dell'  onde  il  séno; 
Ma  oscure  Nùvole  sorsero  intórno, 
Ed  offuscarono  il  chiaro  giórno. 
Il  Sol  pien  d'  ira,  disse  :   '^  Al  mio  raggio 
Qual  nuovo  ostàcolo  vieta  il  passàggio  ? 
Dunque  un  terréno  denso  vapóre 
Sorge  a  confóndere  il  mio  splendóre  ?" 
Quelle  rispósero  :  "  Dall'  umil  suòlo 
Chi  ci  fé'  ascéndere  se  non  tu  sólo?" 

Del  mal  che  tanto  ti  dà  torménto. 

Se  tu  V  hai  cérco,  'perchè  ti  lagni  7 
Sol  con  te  stésso  fanne  laménto. 

FAVOLA  XX. 

R  Giorno,  la  Notte,  e  il  Crepùscolo. 

Vennero  a  fiera  lite,  e  a  cose  estrème 
11  Dì  e  la  Nòtte,  insième. 
Il  Crepùscolo  a  giùdice  fu  elètto  : 
Ei  si  pose  ad  udirgli  in  grave  aspètto. 
Il  Dì  gridò  :  ''  Costèi, 
Neil'  inverno  s'  usurpa  i  dritti  miei". 
Sclamò  la  Nòtte  :   "  Sappi  che  costui 
Neil'  està  quasi  tutto  ei  vuol  per  lui". 
Il  Crepùscolo  disse  :   "  Ornai  lasciate 
Questa  lite,  e  pensate 

7 


74  FAVOLE   MORALI. 

Che,  se  farete  i  cónti,  in  capo  all'  ànna^ 
Siete  pari  nell'  ùtile  e  nel  danno". 

Se  /assi  tra  congiunti  questióne, 

Per  lo  pia  tutti  han  tòrto,  ed  han  ragióne. 


FAVOLA  XXI. 
Il  Lupo,  e  V  Agnello. 

Mentre  beveva  un  Lupo  ingórdo  e  rio 

A  un  ruscèllo,  che  a  nói  scorre  vicino^ 
Tirsi,  più  sotto  a  lui  giugner  vid'  io 
Un  innocènte,  e  càndido  Agnellino. 

Ma  tratto  appéna  un  sórso  ebbe  il  meschino, 
Che  udi  il  Lupo  gridar  :   ^^  Mi  turbi  il  rio". 
Ed  èi  :   "  Coni'  esser  può,  se  il  cristallino 
Fónte  dal  labbro  tuo  discende  al  mio  ?" 

Pur  gli  rispose  il  fièro  :   "  Un  mese  o  sèi 

Sono,  che  m'  offendesti".  —  "Allora  io  nàto"; 
Disse  1'  Agnèl,  "  non  èra,  e  ciò  non  féi". — 

"  Dunque  fu  il  padre  tuo",  soggiunse,  e  irato 
Sbranóllo. —  O  Tirsi  1  Ah  !  contra  i  fòrti 
Non  vai  ragióne  in  jpovertà  di  stato, 

FAVOLA   XXn. 
Z#'  Istrice,  e  la  Volpe. 

[La  stessa  in  Prosa  ;  Parte  Prima,  Fav.  XXII.] 

*'  Dal  cammin  son  così  lasso". 

Disse  r  Istrice,  "che  appéna 
Posso  più  movere  il  passo".  — 


PARTE   SECONDA.  75 

^'  Credo  ben",  disse  la  Vólpe, 
Che  viaggiava  in  compagnia, 
^*  Che  r  andar  grave  a  te  sia: 
Tale  hai  sélva  d'  armi  indosso, 
Che  a  portarle  per  un'  óra 
Stancherebbero  un  colòsso. 
E  perchè  tanta  fatica  ? 
Qui  non  v'  è  gente  nemica 
Da  far  guèrra,  e  da  me  pòi 
Nulla  cèrto  temer  puoi. 
Bada  a  me  :  quando  fra  pòco 
Troverém  sicuro  loco 
Dove  star  potrem  la  nòtte, 
Là  dei  pòrti  in  libertà, 
Di  quel  péso  sollevarti, 
E  con  àgio  riposarti". 
Credè  1'  Istrice,  e  all'  albèrgo 
Giunse  appéna,  che  dal  tèrgo 
Gittò  i  dardi  ond'  era  armato, 
E  senz'  ómbra  di  sospètto, 
Sonnacchióso,  affaticato. 
Si  sdraiò  sopra  di  un  lètto. 
Lesta  allòr  la  Volpe  ria 
Accostòssegli  pian  piano, 
E,  veggéndo  che  dormia. 
Lo  sbranò  senza  contrasto, 
E  ne  fece  un  lauto  pasto. 

Chi  pentirsi  non  vorrà 

Di  seguir  V  altrui  consìglio^ 
Guardi  ben  chi  glielo  dà. 


76  FAVOLE   MORALI. 

FAVOLA  XXIII. 

La  Volpe,  e  il  Topo. 

Fra  1'  àuree  Tavolétte,  onde  erudì 

Fedro  V  antica  età,  scritto  lasciò, 
Che  per  un  buco  una  Volpétta  un  di. 
Smunta  di  fame,  in  un  granàio  entrò. 

E  il  caso  e  la  fortuna  benedì. 

Che  al  suo  bisógno  amica  si  mostrò, 
E  tanto  ella  mangiò,  tanto  inghiottì, 
Che  il  vuoto  vèntre  oltre  il  dover  s'  enfiò. 

Drizzò  satólla  al  varco  angusto  il  pie  ; 
E  di  là  dove  entrar  dato  le  fu. 
Provò  fuori  tornar,  ma  non  potè. 

Un  Tòpo  che  passò,  disse  :  "  A  che  più 

Tenti,  sorella,  in  vàn  ?  Modo  non  v'  è  :. 
Magra,  se  magra  entrasti,  uscir  dei  tù*\ 

FAVOLA  XXIV. 

La  Volpe,  e  il  Lepre. 

Dopo  che  avéalo 
Beneficato, 
E  in  urgentissimo 
Caso  salvato. 
La  Vólpe  videsi 
Da  un  Lèpre  sòrdida 
Un  dì  tradir. 
A  tal  tristizia 
Da  tutte  ingiùrie 
Altre  la  misera 


PARTE    SECONDA.  77 

Astiénsi,  e  dicegli  : 
"  Va  ;  merli  il  titolo 
Di  Lèpre  ingrato  ! 
Me  r  hai  provato  : 
Tel  posso  dir". 

I^oìi  dàssi  né  più  rèo,  né  più  spietato 
Di  cui  si  mérta  il  titolo  d*  ingrato. 


FAVOLA   XXV. 
La  Volpe,  il  Cavallo,  e  il  Lupo. 

["La  stessa  in  Prosa  ;  Parte  Prima,  Fav.  XXV.] 

Una  Vólpe  giovinetta, 

Ma  prudènte,  ma  furbétta, 
Un  Cavallo  un  dì  vedéa, 
Che  mai  visto  non  avéa. 
Ella  tòsto  al  Lupo  córre, 
E  in  tal  mòdo  gli  discórre  : 
"Là  nel  prato,  non  so  quale 
Sta  pascendo  un  animale, 
Bèllo,  grasso,  e  per  vivanda 
Che  la  sórte  a  noi  qui  manda. 
Vieni  mèco  che  tu  il  veda, 
Poi  si  tenti  farne  prèda". 

Vanno  :  il  Lupo  s'  avvicina 

Al  Destriero,  e  gli  s' inchina, 
Poi  gli  parla  :   "  Mio  signóre, 
Gli  son  ùmil  servitóre  : 
Deh  !  mi  dica  in  cortesia 
Quale  il  nóme  di  lei  sia, 
7* 


78  FAVOLE    MORALI. 

Per  trattar,  com'  è  dovére 
Un  sì  nóbil  forestière".  — 
"  Il  mio  nóme  ?"  il  Cavai  disse, 
*^  Chi  mi  calza,  melo  scrisse 
Nella  suòla  sotto  il  piede; 
E  chi  legger  sa,  lo  vede". 
A  tal  dire  la  Volpétta, 

Che  di  frode  lo  sospètta  : 

*^  Legger",  disse,  "non  saprei 

Senz'  aver  gli  occhiali  miei". 

Ma  quel  Lupo;   "  Non  tu  sóla. 

Ancor  io  son  stato  a  scuòla". 

AI  destriér  indi  s'  accòsta. 

Che  il  suo  piede  ben  gli  appósta, 

E  sul  cèffo  gli  dissèrra 

Tale  un  càlcio,  che  1'  atterra, 

E  gli  spèzza  molti  dènti. 

Sorge  il  Lupo  :   a  passi  lènti 

Si  rimbosca  ;  ma  gli  disse 

Pria  la  Vólpe  eh'  ei  partisse  : 

"  Tu  sai  lègger  :  e  mi  pare 

Che  ti  pòssa  ben  giovare. 

Ora  che  quelP  animale 

Un  ricòrdo  in  modo  tale 

Ti  scolpì  sulla  mascèlla, 

Quale  mài  non  si  cancella". 

Non  si  fidi  chi  è  prudente. 
Alla  cièca,  della  gente. 


PARTE   SECONDA.  79 

FAVOLA   XXVI. 
Il  Cignale^  e  V  Àsino. 

Arruolava  un  Cìgnàl  suoi  dènti,  e  si 

Passa  un  Somaro,  che  a  lui  dice  :   "  A  che 
Un'  opra  fai,  per  quanto  sembra  a  me, 
Ch'  eseguir  non  dovresti  ora  così  ? 

Son  lunge  i  tuoi  nemici,  e  ninno  ardì 
Finòr  di  presentarsi  contro  a  té, 
Che  pace  ovunque  a  spàrgere  si  die 

I  doni  suóij  che  pur  diffuse  qui". 
L'  altro  rispónde  :   "  11  fólle  più  ne  sa 

Tn  sua  magión,  che  il  savio  altróve,  e  fó 
Quel,  che  un'  ómbra  di  critica  non  ha. 
Credi  tu  fórse,  che  mentr'  io  starò 

Degli  avversar]  a  frónte,  in  libertà 

II  tempo  di  aguzzar  le  zanne  avrò?" 

Stolto  è  collii,  che  può 

Disbórsi  a  un'  òpra,  e  a  farlo  attende  il  brève 
Momento,  in  cài  solo  eseguir  la  deve. 

FAVOLA    XXVIL 
L'  Asino  in  Màschera. 

Disse  un  Asino  :   "  Dal  móndo 

Voglio  anch'  io  stima  e  rispètto  ; 

Ben  so  cóme".     E  cosi  détto, 

In  gran  manto  si  serrò. 
Indi  a'  pàscoli  comparve 

Con  tal  passo  maestóso, 


80  FAVOLE   MORALI. 

Che  all'  incògnito  vistóso 
Ogni  béstia  s'  inchinò. 

Lasciò  i  prati,  e  corse  al  fónte, 
E  a  specchiarsi  si  trattenne  ; 
Ma  sventura  !   non  contenne 
Il  suo  giubilo,  e  ragliò. 

Fu  scovérto,  e  fino  al  chiuso 

Fu  tra'  fischi  accompagnato  ; 
E  il  Somaro  Mascherato 
In  provèrbio  a  noi  passò. 

Tu  che  base  del  tuo  mérto 
Veste  splèndida  sol  fai, 
Taci  ogìiór  ;  se  no,  scovérto 
Come  V  Asino  sarai. 


FAVOLA   XXVIII. 

L'  Amore,  e  il  Tempo. 

Su  la  spónda  d'  un  fiume 

Si  scontrarono  un  dì  1'  Amóre  e  il  Tèmpo, 

E  i  due  Numi  immortali 

Non  so  cóme  obbliàte  avéano  1'  ali. 

Piccola  barca  al  lido 

Eravi  sì,  ma  di  nocchièro  priva, 

Per  traggitàrli  entrambi  all'  altra  riva.  — 

*^Oh  !"  volto  Amóre  al  Tèmpo, 

^^lo  passar  ti  farò",  disse  ;  e  sul  rèmo 

Atteggióssi  a  vogar.     Ràpida  1'  ónda, 

E  lontana  era  assai  1'  opposta  spónda. 

Giunsero  appéna  alla  metà,  che,  ansante 

E  mòlle  di  sudóre, 


PARTE   SECONDA.  81 

Perde  le  fòrze  e  si  arrestò  1'  Amòre. 

A  lui,  stanco,  in  soccórso 

Sottentrò  il  Tèmpo,  e  il  rèsto 

Ei  terminò  del  còrso. 

Fin  da  quel  giórno  a  quésto 

Patto  fra  lòr  si  stabilì,  che  Amòre, 

Da  principio,  faria  passare  il  Tèmpo, 

E  il  Tempo  pòi  faria  passar  1'  Amòre. 

FAVOLA   XXIX. 
La  Volpe,  il  Cane,  e  il  Gallo, 

[La  stessa  in  Prosa  j  Parte  Prima,  Fav.  XXIX.] 

Un  par  d'  amici  véri, 

11  Gallo,  e  P  altro  il  Cane, 

Volèan  per  vie  lontane 

Veder  lidi  stranièri. 
Partiron  in  quell'  óra, 

Che  con  ridènte  aspètto, 

Dall'  inàmabil  lètto, 

Fuggia  la  beli'  Auròra. 
In  una  sélva  antica 

Fur  giunti,  quando  in  cielo 

Stendeva  il  fosco  vélo 

La  nòtte  a'  ladri  amica. 
Ad  una  quèrce  allóra, 

I  nòstri  viaggiatóri, 

Insin  a  nuòvi  albóri 

S'  avvisan  far  dimòra. 
11  Cane  sott'  a  quella 

Ripòso  e  sonno  prènde  j 


82  FAVOLE   MORALI. 

Il  Gallo  in  cima  ascénde 
A  star  in  sentinèlla. 

Tutto  tacéa  :  soltàno 

Quel  vigile  cantóre, 
In  quel  notturno  orróre, 
Apriva  il  bécco  al  canto. 

L'  ode  una  Vólpe,  e  pensa  :  — 
La  sórte,  se  non  sogno, 
Intènde  il  mio  bisógno, 
Provvede  alla  mia  mènsa.  — 

E  corre  al  Gallo  in  frétta  : 
Ma  che  farà  ?  salire 
Non  può  :  sa  ben  mentire  : 
Onde  cosi  1'  alletta  : 

"  Tu  come  un  cigno  canti  ; 
Che  vóce  !  pare  un  èco  ; 
Deh  !  scéndi,  e  vieni  mèco 
A  star  alcun'  istanti. 

Sol  una  canzonétta 

Da  tè  sentir  vorrei, 

E  se  cortése  sèi 

Larga  mercéde  aspetta". 

Alla  volpina  lòde 

Il  Gallo  non  si  fida. 
E  con  tal  dir  confida 
Punir  frode  con  fròde  : 

"  Al  tuo  desir  mi  rèndo  ; 

Ma  un  mio  compagno  désta. 
Che  là  dormendo  rèsta, 
A  tèrra  mentre  scéndo. 

Egli  è  cantòr  perfètto, 

Non  gallo,  ma  cappóne  ; 
E  non  che  una  canzóne 
Saprai,  ma  un  bel  duétto". 


PARTE   SECONDA.  83 

La  Vólpe  presta  fède 

A  quél  eh'  ai  denti  giova, 

E  cérca  e  presto  trova 

Un  altro,  che  non  créde. 
Ben  tòsto  alla  sua  tana 

Colèi  fuggir  voléa  ; 

Ma  il  Càn,  che  desto  avéa. 

La  segue,  prènde,  e  sbrana. 

U  igannatòr  felice 

Bensì  ride  talora  : 

Ma  vién  V  istante  ancóra 

Che  piànge  V  infelice. 

FAVOLA    XXX. 
Il  Cardellino. 

Un  Cardellino  grato  a  un  nocchièro, 

Con  lui  fé'  il  giro  del  mondo  intéro. 

Stette  suU'  àncore  1'  Europeo  légno 

Presso  le  piàgge  d'  Indico  régno. 

Quivi  volavano  lungo  la  spónda 

Augèi,  scherzando  tra  fronda  e  frónda, 

E  vestian  piume  leggiadre  assai. 

Piume  in  Europa  non  viste  mài. 
Il  Cardellino  riguarda  e  gode, 

E  aspetta  il  canto,  ma  ancor  non  1'  òde. 

Più  giorni  passano  ;  tornano  ancóra 

Gli  augei  per  gli  àlberi  tacendo  ognóra. 
Il  forestièro  si  pone  in  tèsta, 

Che  d'  Oltremare  moda  sia  quésta  ; 

La  moda  piàcegli  :  riede  ove  nàcque. 


84  FAVOLE    MORALI. 

E  finche  visse,  sempre  si  tacque  ; 
Ed  alla  madre  che  lo  rampógna: 
"  Del  tuo  silènzio  non  hai  vergógna  1" 
Tal  solca  grave  risposta  dare  : 
"  E  nova  moda  presa  Oltremare". 

guanti  oggi  tróvansi  fra  noi  messèri, 

Che  il  peggio  tòlsero  dagli  stranièri  ! 


FAVOLA   XXXI. 
Il  Fanciullo,  e  le  Lucciolette. 

Mentre  la  notte  già 

Fanciul  per  cupa  via, 

Seco  solca  1'  aiuto 

D'  una  lantèrna  prèndere  ; 

Ma  pòi  eh'  ivi  ha  veduto 

Più  Lucciolette  splèndere, 

La  lantèrna  lasciò, 

E  a  quelle  si  affidò. 

Dietro  al  lume  volante 

Già  franco  il  piede  ha  mòsso  ; 
Ma  che  ?  dopo  un  istante 
Precipitò  nel  fòsso. 
Giurò  fiere  vendétte 
Contro  alle  Lucciolette, 
Che,  udendo  i  suoi  laménti, 
r||  Espressèr  questi  accènti: 

"  Si  lagni  di  sé  stésso. 
Se  in  mézzo  a'  guai  si  vede, 
Chi  il  certo  aiuto  ha  omésso, 
Dando  alV  incèrto  fède^\ 


PARTE    SECONDA.  85 

FAVOLA  XXXII. 

La  Lucertola,  e  il  Coccodrillo, 

Una  Lucertolétta 

Diceva  ai  Coccodrillo  : 

''Oh  quanto  mi  diletta 

Dì  veder  finalménte 

Un  della  mia  famiglia 

Sì  grande  e  sì  potènte  ! 

Ho  fatto  mille  miglia 

Per  venirvi  a  vedére. 

Sire,  tra  noi  si  sèrba 

Di  vói  memoria  viva  ; 

Benché  fuggiàm  tra  V  èrba 

E  il  sassóso  sentièro, 

In  sen  però  non  làngue 

L'  onòr  del  prisco  sàngue".  — 

L'  anfibio  ré  dormiva 

A  quésti  compliménti; 

Pur  sugli  ultimi  accénti 

Dal  sónno  si  riscòsse, 

E  addimandò  chi  fòsse. — 

La  parentèla  antica, 

Il  cammin,  la  fatica, 

Quella  gli  torna  a  dire  ; 

Ed  éi  torna  a  dormire. 

Lascia  i  grandi  e  i  potènti 
Di  sognar  per  parénti  : 
Puoi  cortési  stimarli, 
Se  dórmon  mentre  parli. 

8 


86  FAVOLE   MORALI. 

FAVOLA  XXXIII. 

La  Lucarina, 

Giva  una  Lucarina 

Dicendo  ad  ogni  augèllo 
(Ah  sémplice  augellina)  : 
^'  Io  de'  figli  ho  il  più  bèllo; 
Venitelo  a  vedére, 
Che  vi  darà  piacére. 
Non  anco  è  ben  piumóso, 
Ma  è  festóso,  è  scherzóso, 
Bécca,  saltella,  ed  ha 
La  grazia  e  la  beltà  : 
Venitelo  a  vedére, 
Che  vi  darà  piacére". 
Dicéalo  ai  buòni  ognóra, 
Ed  ai  malvagi  ancóra. 
Più  d'  un  augèllo  andò^ 
E  il  véro  ritrovò. 

Tornando  una  mattina 
L'  ingènua  Lucarina 
Da  un  campo  seminàto 
Del  favorito  miglio. 
Nel  nido  insanguinato 
Più  non  ritrova  il  figlio» 

T'  è  caro  il  ben  che  godi  7 
Guarda  con  chi  lo  lòdi. 


PARTE   SECONDA.  87 

FAVOLA    XXXIV. 
Il  Contadino,  il  Figlio,  e  V  Asino, 

[La  stessa  in  Prosa  ;  Parte  Prima,  Fav.  XXXIV.] 

Sopra  un  lènto  Asinél  se  ne  venia 

Un  Villàn,  curvo  il  tèrgo  ed  attempato  ; 
Il  Figlio  a  pie  facèagli  compagnia  ; 
E  giano  insième  ad  un  vicin  mercato. 

Scontràro  un  passeggiér,  che,  al  Padre  vòlto, 
Disse,  forse  per  prènderne  sollazzo  : 
'^  La  cosa  non  mi  par  discreta  mólto  ; 
Mandare  a  pie  quel  pòvero  ragazzo  !" 

Il  Vecchio  vergognòssi,  e  fece  il  Figlio 

Montare  in  sèlla,  e  a  pie  prese  il  sentièro  ; 
Ma  non  erano  andati  ancora  un  miglio, 
Incontrarono  un  altro  passeggièrO; 

Che  disse  :  ''Mal  creato  ragazzàccio, 
Che  una  forca  tu  sèi  certo  si  vede  ; 
Di  cavalcare  hai  cor  dunque,  asinàccio, 
E  il  vecchio  Padre  tuo  mandare  a  piede  ?" 

Il  Padre  allóra  :   ''  Io  vorrei  pur  contènto 

Rendere  alfm  ciascun  per  quanto  posso  : 
Facciamo  un'  altra  pròva"  ;  e  in  quel  moménto 
Dell'  Asino  ambedue  montano  addòsso. 

Ma  nuova  gènte  incontrano  in  cammino, 
Che  grida,  e  porge  lòr  nuove  molèstie  : 
''  Guardate  discreziòn  !  quel  bestiolino 
Ha  da  portar  due  così  gròsse  béstie  !" 
Grida  il  Vècchio  :   "  Oh  che  gente  stravagante  ! 
Eppure  un'  altra  ancor  ne  vo'  provare"  : 
Smontano  a  terra  entrambi,  e  scosso  avànte 
L'  Asino  a  senno  suo  lasciano  andare. 


88  FAVOLE  MORALI. 

Ecco  novello  inciampo  ;  e  dir  si  sente 

Qualcun  che  passa  :  *'  Io  non  conósco  afie 
Di  que'  due  più  stordita  e  sciocca  gènte  ; 
Mandan  1'  Asino  scòsso,  e  vanno  a  pie". 

Il  Vecchio  allor  gridò  :  "  Più  non  ci  rèsta 
Che  portar  nói  quell'  Asin,  ma  sarebbe 
Pazzia  si  strana  e  si  solènne  quésta, 
Che  V  Asin  stésso  se  la  riderebbe". 

Che  condudiàm  1   Che  aver  V  approvazióne 
Di  tutto  il  móndo,  e  star  con  esso  in  pàce^ 
Essendo  un^  impossìhil  pretensióne^ 
Sarà  meglio  di  far  quel  che  ci  piace. 

FAVOLA   XXXV. 

La  Rana,  e  il  Pesce» 

Dalla  casa  paludósa 

Sulla  strada  un  dì  se  n'  esce 

Una  Rana  coraggiósa, 

E  fa  tanto  che  pur  giùnge 

Presso  al  mar  che  non  è  lùnge. 

Là  s'  asside,  e  vede  un  Pésce 

Che  qual  fòrbice  d'  argènto 

Fende  il  liquido  eleménto. — 

"  Ferma,  férma",  ella  gridò, 

"  Teco  in  mar  venire  io  vò'  : 

Se  mio  amico  esser  prométti. 

Buona  insiém  vita  faremo  ; 

Del  nuotar  tutti  i  precètti 

Già  conósco,  e  il  mar  non  tèmo. 

Ferma,  aspetta,  io  vengo  all'  ónde". — 

^^  Rèsta",  il  Pésce  le  rispónde  : 


PARTE    SECONDA.  89 

"  Altri  amici  cercar  puoi  ; 

Un  ostàcolo  è  fra  nói 

D'  amistàde  a  stringer  làccio, 

Tu  ognor  gràcchi,  io  sempre  tàccio". 

amistà  non  dei  sperare 

Ove  oppósta  indole  appare, 

FAVOLA  XXXVl. 

E  Leone,  il  Cavallo,  la  Cagna,  la  Locusta,  e  V  Asino, 

Infieriva  un  tremèndo  temporale 

Nel  bòsco,  e  ne  scappava  ogni  animale. 
Un  Cavallo,  una  Cagna,  un  Asinèlio, 

E  una  Locusta  uniti  in  un  drappèllo 
Ad  una  gròtta  si  ricoverarono, 

Ma  che  v'  èra  il  Leon  non  osservarono. 
Egli  dormia.     Quegli  altri  si  ristettero 

Gelati,  e  un  punto  sòl  non  si  movèttero. 
Ma  il  povero  Cavallo  avea  la  tósse, 

E  non  potea  tenérsi  a  quelle  scòsse. 
La  Cagna  d'  un  suo  cane  in  gelosia 

Talora  a  suo  dispétto  ne  guaia. 
Alla  Locusta  sotto  trapelava 

Vulcànica  scintilla,  e  la  scottava 
Sì,  eh'  élla,  che  sentia  bruciarsi  diètro. 

Saltava,  e  non  potéa  restar  in  mètro. 
Pel  morto  figlio,  sebben  si  sforzasse, 

L'  Asin  non  potea  far  che  non  ragliasse. 
In  sómma  non  volendo  far  romóre, 

Ne  fero  sì  che  si  svegliò  il  signóre  ; 

8* 


90  FAVOLE   MORALI. 

Il  qual  colà  vista  la  turba  accòlta, 
Quei  miseri  mangióssi  uno  alla  vòlta. 

Ricordami  tal  fàvola 
Il  détto  (/'  un  autóre, 
Che  quattro  còse  non  si  pon  nascóndere, 
Li   amor,  la  tósse,  il  fòco,  ed  il  dolóre. 


FAVOLA  XXXVII. 
La  Scìmia,  V  Asino,  e  la  Talpa. 

^^  Erra",  dicea  la  Scimia,  ^^clii  natura 
E  la  sua  provvidènza  tanto  loda  ; 
Verso  di  nói  mostròssì  o  cièca  o  dura  : 
Còme  ?  non  darci  un  palmo  almen  di  còda  ? 

Fino  i  Topi  di  còda  ella  ha  provvisti  ; 

A  noi  sòl  manca  ;  ond'  è  che  con  maligno 

Occhio  ogni  giórno  gli  animali  tristi 

Ci  guardan  diètro,  e  poi  ci  fanno  un  ghigno". 

L'  Asin  rispónde  :   "  Io  non  la  stimo  niènte  ; 
A  che  mi  vài  ?  perchè  di  ragazzàcci 
Con  mille  insulti  un  stuolo  impertinènte 
Le  spine  sotto  quella  ognor  mi  cacci  ? 

È  una  disgràzia  il  non  aver  le  corna  : 
Ah,  son  le  corna  pur  la  bella  còsa  ! 
Rimira  il  Bue,  che  n'  ha  la  tèsta  adórna, 
Che  fàccia  alza  sublime  e  maetòsa  ! 

E  Capri,  e  Agnèlli,  e  s'  altra  inutil  v'  è 
Bestia,  di  corna  fia  dunque  guernita? 
E  non  1'  avrà  una  béstia  come  me  ? 
Non  me  ne  darò  pace  in  fin  che  ho  vita". 

Li  udì  una  Talpa,  e  lor  gridò  :   "  Tacete, 
E  per  conoscer  ben  fin  dove  arriva 


PARTE   SECONDA.  91 

Vostra  ingiusta  follia,  bestie  indiscréte, 
Guardate  me,  che  son  di  vista  priva". 

Chi  viver  vuol  tranquillo  i  gioì' ni  sài, 

JVoìi  cónti  quanti  san  di  lui  ina  liétif 
Ma  quanti  san  ]jia  miseri  di  lai. 

FAVOLA   XXXVIII. 
Il  Concilio  dei  Sorci. 

[La  stessa  in  Prosa  j  Parte  Prima,  Fav.  XXXVIIL] 

Il  gran  Buricchio,  il  più  tremendo  gatto. 
Era  de'  Tòpi  1'  Attila,  il  flagèllo; 
E  già  fatto  n'  avéa  cotal  macèllo, 
Che  quasi  il  popol  lóro  era  disfatto. 

Un  dì  che  quel  crudél  nella  vicina 

Campagna  er'  ito  a  càccia  ai  passeròtti; 
Squallidi  e  tristi  i  Tòpi  infra  le  bòtti, 
Adunàron  capitolo  in  cantina. — 

"Qui  bisogna  trovar  qualch'  espediènte". 
Il  Decàn  cominciò  :   *'  1'  opinion  mia. 
Venerabili  padri,  oggi  saria 
Al  Gatto  di  segare  e  l'unghia  e  il  dènte". 

O  poco  o  pùnto  applaudir  s'  intèse 

Questo  progètto  :  allóra  avendo  alzate 
Vecchio  Tòpo  le  lunghe  venerate 
Basette,  in  aria  grave  a  parlar  prèse  : 

'^  Io  che  son  sèmpre  al  ben  pùblico  intènto, 
Al  collo  del  canin  della  Signóra 
Vidi  un  sonàglio  tintinnar,  qualóra 
Ei  si  movesse  a  passo  prèsto,  o  lènto. 


92  FAVOLE  MORALI. 

Eccovi  col  sonàglio  il  suo  collare  : 

Quésto  attaccare  al  Gatto  ora  conviene  ; 
E  quando  verso  nói  furtivo  viene 
Quest'  assassin,  tosto  udirem  sonare''.  — 

"Bravo  !   bravo  !   una  stàtua  in  verità 
Si  merita",  s'  alzar  tutti  gridando  : 
"  S'  attacchi  tòsto  quel  sonàglio".     Quando 
Un  domandò  :   "  Ma  chi  1'  attaccherà  ?"  — 

''  Io  no". — "  No  ?  neppur  io",  risponde  un  altro. 
Un  tèrzo  :  "  Ed  io  nenimén".  Confusi  e  muti, 
Chi  di  qua,  chi  di  là,  come  venuti 
Erano,  si  partir  senza  far  altro. 

Tutti  son  huóni  a  fare  un  bel  progètto, 

Là  imbroglio  sta  nel  métterlo  ad  effètto. 

FAVOLA   XXXIX. 
Il  Corvo,  e  la  Volpe. 

Stava  il  Còrvo  sulla  cima 

D'  una  quèrce  in  un  boschétto, 

Bezzicando  un  formagètto 

Che  rubato  aveva  prima. 
Or  rubarlo  al  Còrvo  spèra 

Una  Vólpe  malandrina, 

E  pian  piano  s'  avvicina 

Sotto  r  àlbero  dov'  èra. — 
^^  Ehi  !"  gli  dice,  "  signorino. 

Pur  ti  vedo  ;  alfin  ritorni. 

Dove  fosti  tanti  giórni  ? 

Quanto  sèi  belio  e  carino  ! 


PARTE   SECONDA.  93 

Alle  pènne  se  il  tuo  canto 

Corrispónde,  oh  te  felice  ! 

Tu  di  quéste  selve  il  vanto, 

Tu  di  lur  sei  la  fenice". 
Tal  favèlla  il  Corvo  tenta  : 

Slarga  il  bécco,  cantar  créde  ; 

Cade  giù,  ne  se  n'  avvede, 

La  sua  prèda  :   essa  1'  addenta.  — 
^'Questo",  intanto  dice,  "  è  mio". — 

"  Volentièr  tei  renderei, 

Ma  di  ludi  sazio  sèi  ; 

Io  noi  sòn  :  tu  canta  ;  Addio". 

Imparate  a  non  dar  fède 
Ai  bifrónti  adulatòri  ; 
Che,  voìiiìni  ingannaiòri, 
Vento  véndono  a  chi  créde. 


FAVOLA  XL. 

La  Pècora,  e  lo  Spino, 

La  piòggia,  il  tuón,  la  gràndine 
Misti  al  fischiar  del  vènto 
Sonar  facèan  per  1'  aere 
Un  òrrido  concènto. 

Fuggia  pel  bòsco  timida 

In  questa  parte  e  in  quella, 
Cercando  alcun  ricóvero, 
Una  smarrita  Agnèlla.  — 

"Vieni",  disse,  ^'nascónditi", 

Lo  Spino,  "  entro  al  mìo  grembo 
Ti  copro,  qua  non  penetra 
Il  procellóso  némbo". 


94  FAVOLE  MORALI. 

V  entra  la  buòna  Pècora, 

E  fra  le  spine  intanto 

Tutto  s'  inrjpàccia  e  intricasi 

Il  suo  lanóso  manto. 
Dipoi  cessato  il  tùrbine, 

Quando  a  partir  s'  appresta, 

Sente  lo  Spin  che  prèsela 

Sì  fòrte  per  la  vésta. 
Che  uscir  non  spèra  libera 

Dall'  unghie  sue  rnbèlle, 

Se  la  lana  non  lasciavi, 

E  forse  ancor  la  pèlle. 
Escita  alfin  col  làcero 

Manto,  e  graffiata  il  tèrgo, 

Maledì  più  del  tùrbine 

Quali'  infedéle  albèrgo. 

Temete,  litiganti  sventurati, 

Più  delle  liti  stésse  gli  avvocati, 

FAVOLA   XLl. 
//  Figliolino  del  Padrone,  e  il  Giardiniere, 

Del  patèrno  glardin 

Per  le  aiuòle  odoróse 

Il  picciol  Padroncin 

Coglièa  viole  e  ròse. 
Ma  con  espèrla  man 

Piànta,  stèrpa,  recide. 

Travagliando  il  Villàn. 

Guarda  il  Fanciullo,  e  ride.  — 
"  E  a  che",  gli  dice,  "  a  che. 

Buon  Uóm,  tanti  sudóri  ? 


PARTE   SECONDA.  95 

Il  fertil  suol  da  se 

Ecco  prodùce  i  fióri". — 
"  T'  inganni  ;  anzi  che  fior, 

Sènza  le  mie  fatiche", 

Gli  rispóse  ilCultór, 

"  Ti  produrrebbe  ortiche. 
Ah  !  perchè  sia  il  terrèn 

Di  fior  cortese  e  largo, 

(Pensaci  per  tuo  ben) 

Di  sudór  lo  cospàrgo. 
Tu  pur,  tu  pur  cosi, 

Fra  quanti  affanni  e  stùdi 

Per  esser  sàggio  un  dì, 

D'  uopo  sarà  che  sudi  ! 
Ma  qual  n'  avrai  piacer, 

Mio  caro  Padroncino, 

Se  tanto  io  n'  ho  in  veder 

Fiorito  il  mio  giardino  1"^ 

Simil  a  fértil  suol 

Ben  è  la  nostra  ménte  : 
Saggia  sarà,  ma  vuol 
Cultura  diligènte, 

FAVOLA   XLII. 

La  Lepre,  e  le  Rane. 

[La  stessa  in  Prosa  ;  Parte  Prima,  Fav.  XLII.] 

La  Lepre  timida. 
Che  si  doleva 
Della  sua  misera 
Sórte,  diceva  : 


96  FAVOLE   MORALI. 

"Io  per  corrèggere 
Il  mio  difètto 
Faccio  il  possibile, 
Ma  senza  effètto. 

E  dovrò  vivere 

Sempre  in  paura  ; 
Che  all'  arte  cèdere 
Non  vuol  natura. 

Mille  pericoli 

Tèmo  nel  giórno, 
Sempre  sollécita 
Mi  guardo  intórno  ; 

Un'  ómbra,  un  trèmito 
Se  veggo,  o  sento. 
Il  cor  mi  palpita 
Già  di  spavènto". 

Così  lagnandosi 
Ella  sovènte. 
Soleva  vivere 
Mèsta  e  dolènte. 

Ma  pur  insòlito 

Caso  le  avènne. 

Un  dì  che  al  màrgine 

D'  un  lago  venne  : 

Neil'  acqua  saltano 
Tosto  le  Rane, 
E  si  nascóndono 
Nelle  lor  tane. 
La  Lèpre  attònita: 

"  Oh  !  quanta  gènte", 
Disse,  "  al  mio  giungere 
Paura  sente  ! 


PARTE    SECONDA.  97 

Fugge  precipite, 

Or  che  mi  vede  ! 

Di  guèrra  un  fulmine 

Dunque  mi  créde  ?" 
Ma  d'  onde  giungele 

Tanto  valóre  ? 

Del  suo  pia  timido 

È  d'  altri  il  core. 


FAVOLA   XLIII. 
La  Far/alletta,  e  il  Fiore. 

Farfallétta,  i  vanni  adórna 

Di  vaghissimi  colóri, 

Gira,  scherza,  fugge,  torna 

Fra  r  erbétte,  i  frutti,  e  i  fióri  ; 

Scorre  il  prato,  fende  il  pòggio, 

Ma  non  fissa  mai  d'  allòggio  : 

Fior  quanti  èrano,  èrbe,  e  frutti 

Conoscévanla  già  tutti. 

Qui  accarezza,  e  parte  ;   lassa 

Qua  un  sospir,  là  un  guardo,  e  passa  ; 

Officiósa,  benché  in  frétta. 

Più  d'  ogn'  altra  farfallétta. 

Ve'  però  fortuna  ingrata  ! 

Pur  da  un  sòl  non  era  amata  : 

Ella  intanto  esser  si  vanta 

L'  idolètto  d'  ogni  piànta. 
Non  so  quàl  de'  fióri  un  giórno 

Di  parlarle  ebbe  coràggio  : 

9 


98  FAVOLE    MORALI. 

''  Mentre  vóli  a  noi  dintórno 
Lusinghièra  nel!'  omàggio, 
Credi  invàno  ognun  contènto 
Del  tuo  brève  compliménto. 
Non  sperar,  se  non  t'  arrèsti, 
Che  in  alcuno  amor  si  désti. 
Il  fedèl,  1'  assiduo  amante 
Ad  amar  davvero  inségna  : 
Un  amàbile  incostante 
Ci  divèrte,  e  non  c'impegna". 

Se  con  mille  i  tuoi  moménti 
Dividèndo  ognor  tu  vài, 
Avrai  mille  conoscènti, 
E  un  amico  non  avrai. 


FAVOLA  XLIV. 

//  Leone,  la  Capra,  la  Pècora,  e  la  Giovenca. 

Il  Leon  re  d'  un  paese 
Invitar  volle  cortése 
La  Giovènca  coli'  Agnèlla, 
E  la  Capra  destra  e  snèlla, 
Seco  a  càccia  :  grande  onore 
E  1'  andar  con  tal  signóre  ; 
E  dovevano  spartire 
La  lor  prèda  con  quel  Sire  ; 
Che  promise,  fé  reale. 
Darne  lóro  parte  uguale. 
Sol  la  Capra  un  cervo  prése 
Nella  réte  eh'  ella  tèse, 


TARTE    SECONDA.  99 

Ed  allur  che  imbruna  il  giórno 
Tutti  essendo  di  ritorno, 
Il  Leone  di  quel  cervo 
Fé'  le  parti  ;  indi  protèrvo 
Disse  :   "  A  chi  spartì  si  dia 
Questa  prima  ;  è  dunque  mia  : 
Prendo  1'  altra  per  ragióne, 
Che  mi  chiamo  il  re  Leone  : 
Or  la  tèrza  dar  conviene 
Al  più  fòrte  ;  onde  a  me  viene  : 
E  quest'  ùltima  che  avanza. 
Chi  toccar  avrà  baldanza, 
Io  Io  stròzzo  immantinènte: 
Così  dico  ;  e  un  ré  non  ménte". 
A  tal  dir,  le  poverine 
Sen'  andar,  le  orecchie  chine, 
Con  gran  fame,  e  con  gran  péna, 
A  dormire  senza  céna. 

Le  'promésse  dei  signóri 

Sono  fròndi  ch^  han  bei  Jìóri, 
Ma  di  ràdo  fanno  il  frutto  : 
Cade  il  fiòr^  svanisce  tutto. 

FAVOLA   XLV. 

//  Viaggiatore,  e  il  Vento. 

Nel  bel  mézzo  di  Gennàio 
Fea  viàggio  non  so  chi  ; 
Di  gran  guanti  e  doppio  sàio 
Con  tra  il  fréddo  si  munì  : 
Ma  alla  piccola  sua  tèsta 
Largo  alquanto  il  cappel  già. 


100  FAVOLE    MORALI. 

E  da  un  Vènto,  che  si  désta, 
Gli  è  improvviso  tratto  via. 
Il  cappél,  quasi  abbia  piume, 
Rota  e  termina  nel  fiume.  — 

'^  Oh  cospètto  !"  il  Viaggiatóre 

Disse  al  Vènto,  e  montò  in  fùria  r 

"  Garbinàccio  traditóre, 

Fatto  a  me  cotale  ingiùria 

Alcun  Vènto  non  ha  mài, 

E  viaggiato  ho  mille  miglia 

Con  cappèl  più  largo  assai. 

Tutta  tutta  la  famiglia 

Sopra  i  mónti,  e  in  mezzo  all'  ónde 

Ho  de'  vènti  conosciuto, 

Ne  il  cappèllo  ho  mai  perduto". 

Ride  il  Vènto,  e  gli  rispónde  : 

"  Gran  ragion  di  tue  querèle  1 

D'  ignorar  non  hai  tu  scòrno, 

Viaggiatór  di  mille  miglia, 

Ch'  ove  è  rischio,  ognor  cautèle 

Contro  a'  rischi  il  saggio  piglia  ; 

E  che  occórrer  potea  un  giórno, 

Comminando  alla  bufèra. 

Ciò  che  occórso  ancor  non  t'  èra?'' 

Non  dir  mài  :  '*  Danni  io  non  tèmo, 
Perchè  ognór  ne  fui  digiuno^'  : 
Sei  de^  rìschi  neW  estremo, 
Non  temendone  nessuno. 


PARTE   SECONDA.  101 

FAVOLA  XLVI. 

Le  Scìmie,  e  il  Lucciolone. 

[La  stessa  in  Prosa  ;  Parte  Prima,  Fav.  XLVI.] 

Benché  fossero  alle  spalle 
Dell'  inverno  i  di  ridènti, 
Eran  bianchi  e  poggio  e  valle 
Di  notturne  brine  algènti. 

Or  due  Scimie,  intirizzite 

Per  r  acuta  aria  nevósa, 

A  ricóvero  eran  gite 

Sovra  piànta  assai  ramósa  ; 

Ma  sì  tremano,  che  sónno 

Ritrovare  ancor  non  pónno. 
Quando  ;  ^' Al  fòco",  grida,  '^  al  fòco". 

La  più  gióvane,  accennando 

Una  sièpe  ;  e  si  gridando 

Spicca  un  salto,  e  corre  al  loco 

Dove  vivida  favilla, 

Fra  i  cespùgli  luccicante, 

Ha  ferito  la  pupilla 

Dell'  afflitta  vigilante. 

L'  altra  ancor  discénde,  e  all'  òpra 

Denti  e  piedi  :  un  buon  fastèllo 

Fan  di  sàlci,  e  il  póngon  sópra 

Air  ardènte  carboncèllo  ; 

Né  vi  manca  un  po'  di  pàgha, 

Perché  fiamma  tosto  sàglia. 
Ecco  entrambe  a  terra  chine 

Con  tal  fòrza  soffiar  déntro, 

Che  non  fan  nelle  fucine 

Forse  i  mantici  più  vènto. 
9# 


102  FAVOLE    MORALI. 

Muso  intanto  avean  sì  fatto 
Per  la  scarna  guancia  enfiata, 
Che  da  Eraclito  avrian  tratto 
Senza  stènto  una  risata. 
Ma  già  soffiasi  da  un'  óra, 
Ne  s'  accènde  il  foco  ancóra. 

Cangian  pàglia,  cangian  sàlci, 

Al  fastèllo  aggiungon  tràlci  :  — 

"  Soffia,  amica,  il  legno  è  asciutto"  ; 

Ma  si  soffia  senza  frutto. 

Quando  alfine  entra  in  sospètto 
La  men  gióvane  più  scaltra. 
Meglio  guarda,  e  con  dispétto  : 
''  A  che  sóffi  ?"  dice  all'  altra  ; 
"  E  un  malnato  Lucciolóne, 
Ch'  abbiam  prèso  per  carbóne". 

Tal  jpiìi  rf'  un  che  soffia,  e  il  petto 
Vuol  da  Apólline  infiammato, 
Per  carhòn  prende  un  insètto. 
Perde  il  tempo,  e  gitta  il  fiato. 

FAVOLA  XLVII. 

La  Mosca,  e  il  Moscerino. 

Dall'  infiammate  ròte 

Febo  scotea  sul  suol  1'  estivo  ardore, 

E  il  robusto  aratóre 

Stava  air  àrso  terréno 

Col  vòmere  tagliènte  aprendo  il  séno 

Acceso  in  vólto,  di  sudor  bagnato, 

Col  crine  scompigliato. 


PARTE    SECONDA.  103 

Curvo  le  spalle,  il  cigolante  aratro 

Con  una  man  preméa, 

Che  col  chino  ginocchio  accompagnava  ; 

E  coli'  altra  stringéa 

Pungolo  acuto,  e  colla  rozza  vóce, 

E  coi  cólpi  frequènti. 

Affrettava  de'  bòvi  i  passi  lènti. 

Stava  sopra  1'  aratro  in  grave  vòlto, 

Ed  in  ària  importante 

Una  Mósca  arrogante, 

Ch'  òr  suir  irsuto  tèrgo 

De'  stanchi  buoi  volava. 

Ed  óra  al  tardo  aratro 

In  frétta  ritornava  ; 

E  quasi  in  alto  afFàr  tutta  occupata, 

Smaniànte  ed  affannósa 

Córre,  ronza,  s'  adira,  e  mai  non  pòsa. 

Un  Moscerino  intanto 

Passando  ad  èssa  accanto, 

Le  disse  :   ^'  E  perchè  mài 

Tanto  sudi  e  t'  affanni  ?  e  cosa  fai  ?" 

Rispóse  con  dispétto 

Queir  arrogante  insètto  : 

''  Noi  vedi?  è  necessario  il  domandare 

Qual  importante  affare 

Ci  occupi  tutti  adèsso  ?  ad  ignorarlo 

Veramente  sei  sólo  : 

Non  lo  vedi,  balórdo?  Ariamo  il  suòlo". 

A  tal  proposizión  rise  per  fmo 

11  piccol  Moscerino. 

E  asseti  commune  usanza 

Il  credersi  persona  d'  importanza. 


104  FAVOLE    MORALI. 

FAVOLA   XLVIII. 
La  Spica,  e  il  Papavero. 

Già  fluttuando  mòbile 

Del  mare  al  par  dell'  ónda 
Sopra  terréno  fèrtile 
La  mésse  arida  e  biònda. 

Sulle  compagne  ergévasi 
Altèra,  e  per  1'  aprica 
Aria  la  frónte  gràvida 
Scotèa  matura  Spica. 

Cònscia  del  pròprio  mèrito 
Mirò  con  torvo  ciglio 
Presso  di  se  un  Papàvero 
Ergere  il  crin  vermiglio  ; 

E  colle  rèste  stridule 

Sferzando  all'  àura  il  petto, 
Parlò  con  rauco  sibilo 
Pien  d'  ira  e  di  dispétto  : 

^'  O  dell'  inèrzia  simbolo, 
Tu  che  col  pigro  umóre 
Togli  al  còrpo  ed  all'  ànima 
Il  lor  natio  vigóre  ; 

Padre  di  quel  letàrgico 

Torpòr,  che  cosi  fòrte 
Sommerge  i  sènsi  in  stupida 
Calma  simile  a  mòrte  : 

Come  potesti  nàscere 

Di  Cèrere  nel  régno. 
Presso  me,  che  degli  uòmini 
Sono  il  miglior  sostégno  ?" 


PARTE    SECONDA.  105 

Quei  replicò  pacifico  ; 

'^  Non  mi  sprezzar,  o  suòra, 

E  le  mire  benèfiche 

Della  Natura  adora  : 
Tu  il  sostégno,  ed  il  bàlsamo 

E  il  sónno  alla  fatica. 

Par  che  accanto  ponendoci 

La  Natura  ci  dica  : 

"  Mortali,  non  lagnatevi 
Delle  misèrie  umane, 
Qualóra  non  vi  mancano 
Due  còse,  —  il  Sónno,  e  il  Pane  ?" 


FAVOLA   XLIX. 

Il  Cammello,  e  il  Topo. 

A  pascolare  per  un  campo  un  giórno 

Era  un  Cammèllo,  e  ad  una  gamba  avvòlto 

Libero  làccio  strascinando  già  : 

Quand'  ècco  in  quel  contórno, 

Per  non  so  qual  bisógna,  un  Topo  è  vòlto. 

Che  il  gibboso  animai  guarda  e  riguarda, 

Il  vago  còrso  della  fune  spia  ; 

Resta  alquanto  perplèsso, 

E  in  aria  grave  pòi  dice  a  se  stèsso  :  — 

Nulla  fé'  mai  di  ben  gente  codarda  ; 

Oh  che  nòbile  imprèsa, 

Se  in  séno  del  mio  buco 

Un  Cammèllo  io  condùco  I 

Cèrto  che  s'  io  tant'  òso. 

Sarò  fra  tutti  i  tòpi  il  più  famóso.  — 


106  FAVOLE    MORALI. 

Disse,  e  accintosi  all'  òpra, 
La  fune  afferra  e  tira  : 
Quello  naturalménte 
Dòcile  e  compiacente 
Ov'  è  tratto  si  gira, 
E  va  via  via  seguendo. 
Sudava  il  Tòpo  in  quel  lavòr  tremèndo  ; 
Ma  della  glòria,  che  n'  avrà,  1'  idèa 
Tutto  con  gran  piacer  soffrir  gli  fèa. 

Giungon  del'bùco  all'  órlo  ; 
E  1'  eròe  condottièro 
Entra  del  peso  della  fune  altèro, 
E  va  gridando  a  questo  tòpo  e  a  quello  : 
"  Loco,  loco,  compagni,  ecco  un  Cammèllo' 
Gli  sfòrzi  allor  raddoppia. 
Si  contòrce,  si  stroppia, 
S'  impazienta,  s'  adira, 
E  tira,  e  tira,  e  tira  ; 
Io  non  so  còme  non  perdesse  i  dènti.  — 

•'  O  stolido  !   che  tenti  ?" 

Disse  il  Cammèllo  alfm,  che  il  vano  scórse 
Disegno  di  colui  ;   "  gran  pòrta  fórse 
Può  questo  buco  divenir  ?  poss'  io 
La  mole  impiccolir  del  corpo  mio  ?" 

Quanti  Tòpi  il  móndo  ha  visti 
iVe'  sognanti  Progettisti  ! 


PARTE   SECONDA.  107 

FAVOLA     L. 
U  Amore,  e  V  Interesse. 

[La  stessa  in  Prosa  ;  Parte  Prima,  Fav.  L.] 

L'  Interèsse  con  1'  Amóre 

Si  trovare  un  tempo  uniti 

Nella  casa  d'  un  Signóre 

Tra  miir  altri  favoriti. 
Quel  faceva  la  ragióne 

Dell'  uscita  e  dell'  entrata  : 

Del  piacére  al  suo  Padróne 

Servia  1'  altro  a  camerata. 
A  giocare  alla  bassòtta 

Un  dì  misersi  tra  lóro. 

L'  Interèsse  il  banco  accétta  ; 

Fa  ad  un  lato  un  monte  d'  òro. 
Pone  alcuni  suoi  quattrini 

Lesto  Amor  su  certe  carte  : 

Ma  sa  ben,  per  far  bottini, 

L'  Interèsse  usar  dell'  arte. 
Resta  Amóre  in  un  moménto 

Senza  un  sòldo,  e  disperato 

Vuol  rifarsi  dell'  argènto, 

Che  sì  male  avea  giocato. 
Sovra  un  Asso  ei  tutto  métte. 

Tutto  quél  che  gli  restò  ; 

Anche  1'  Arco,  le  Saétte, 
E  il  Turcasso  vi  lasciò. 
Poverino  !  infin  le  Pènne 

Vi  perdette  a  poco  a  pòco; 
Spoglio  in  sómma  gli  convenne 
Con  rossór  partir  dal  giòco. 


108  FAVOLE    MORALI. 

L'  Interèsse,  oh  !  che  cervèllo  ! 
Vuol  r  usura  del  guadagno, 
Onde  studia  a  farsi  bèllo 
Con  le  spòglie  del  compagno. 

E  con  1'  Ali,  e  col  Turcasso 

Va  pel  móndo  a  suo  piacére, 
E  si  móstra  agli  atti,  al  passo, 
Franco  Aligero  ed  Arcière. 

Molti  il  fatto  ancor  non  sanno  ; 
Quindi  alcuno  se  lo  vede 
Non  s'  accòrge  dell'  inganno, 
E  sovènte  Amor  lo  erède. 


FAVOLA    LI. 

//  Fanciullo j  e  la  Vespa. 

Un  vispo  Fanciullino, 

Che  appena  il  suol  con  fermo  pie  segnava,. 

Se  ne  già  saltellando  entro  un  giardino, 

E  tra'  fióri  e  tra  1'  èrbe  egli  scherzava. 

Una  Vèspa  dorata, 

D'  acuto  dardo  armata, 

Si  librava  sul!'  ali 

Entro  il  vérde  soggiórno, 

E  s'  aggirava  al  Fanciullino  intórno. 

Al  lùcido  colóre, 

Dell'  òro  allo  splendóre, 

Onde  brillava  il  fraudolento  insètto, 

L'  àvido  Fanciullètto 

Dì  farne  prèda  subito  s'  invoglia  ; 

Tòsto  per  1'  aria  vuòta 

La  cava  man  velocemente  ròta 


PARTE   SECONDA.  109 

Dietro  del  susurrànte  Animaletto  ; 
Ma  cade  il  cólpo  invàno, 
E  la  Vèspa  di  là  vola  lontano. 
Ratto  la  segue  il  Fanciullino  ;  ed  élla 
Per  r  aere  agile  e  snèlla 
In  mille  giri  e  mille  si  rivòlge, 
E  alfin  stanca  si  pòsa 
Sul  molle  sén  d'  una  vermiglia  rósa. 
11  Fanciullino  attento, 
Tàcito,  e  lento  lènto 
Sulla  punta  de'  pie  lieve  cammina, 
E  a  lèi  già  s'  avvicina  : 
Rapida  allór  la  mano 
Sopra  del  fior  sospinge, 
E  la  rosa  e  la  Vèspa  insieme  stringe. 
La  Vespa  irata  allóra. 
Tratto  sùbito  fuóra 
L'  ascóso  ago  pungènte, 
La  tenerèlla  incauta  man  trafigge 
Con  ferita  cocènte  : 
Inalza  al  Cièl  le  strida 
Smaniante  il  Fanciullin  chiedendo  aiuto, 
E  cade  sopra  il  suol  quasi  svenuto. 

Giovinetti  inespèrti,  che  correte 

Dietro  un  desìr  che  hén  non  conoscete, 
Apprendete,  apprendete, 
Che  c?e'  più  bei  piacer  sovente  in  séno 
Sta  nascòto  il  veléno. 


10 


no  FAVOLE   MORALI. 

FAVOLA  LII. 
ha  Corte  del  Re  Leone. 

Volle  un  giórno  il  Leone 

Tutta  quanta  conóscer  quella  gènte 
Di  cui  il  Ciél  1'  avéa  fatto  padróne. 
Non  fu  sélva  orrida  e  oscura, 
Che  non  fóssene  avvisata  ; 
Circolava  una  scrittura 
Da  Sua  Lionésca  Maestà  firmata, 

E  lo  scritto  diceva  : 

Che  per  un  mese  intéro  il  Re  teneva 

Corte  plenària,  e  principiar  dovéasi 

Da  un  bèllo  e  gran  festino, 

Dove  un  cèrto  perito  Bertuccióne 

Dovea  ballar  vestito  da  Arlecchino.  — 

Tn  tal  manièra  il  Principe  spiegava 

La  sua  potènza  al  pòpolo  soggètto  : 

Ma  ecco  ornai  che  la  gran  sàia  è  pièna. 

Che  sàia  !   Oh  Dio,  che  sàia  ! 

Ella  era  anzi  un  orribile  macèllo, 

Sanguinóso,  e  fetènte 

A  tal  ségno,  che  1'  Orso 

Non  potendo  soffrir  quel  tetro  avèllo, 

11  naso  si  turò,  poco  prudènte, 

Spiàcque  il  rimèdio  :  il  Rè  forte  irritato 

Mandò  da  Ser  Plutone 

Il  Signor  Orso  a  far  il  disgustato. 

Lo  Scimiótto  approvò 

Quésta  serverità, 

E  di  Sua  Maestà 

La  còllera  lodò, 


PARTE   SECONDA.  Ili 

Lodò  la  regia  branca,  e  della  sala 

Disse  cose  di  fuòco,  e  quell'  odóre 

Sovra  1'  ambra  esaltò,  sovra  ogni  fióre. 

Ma  questa  adulaziòn  troppo  scempiata 

Fu  dal  Principe  accòrto 

Ben  presto  gastigàta  : 

Già  lo  sfacciato  adulatóre  è  mòrto. 

La  Volpe  éragli  accanto.  — 

''Or  ben",  le  disse  il  Sire  : 

''  Dimmi,  che  ne  di'  tu?    parlami  chiaro  ; 

Tu  vedi,  io  non  voglio  essere  adulato". — 

La  Volpe  allòr:  '*'  Sua  Maestà  mi  scusi, 

lo  son  molto  infreddata,  e  1'  odorato 

Ho  perso  affatto  ; 

Ond'  io  a  giudicar  atta  non  sono, 

Se  questo  odóre  sia  cattivo  o  buòno".  — 

Di  tal  rispósta  il  Ré  fu  soddisfatto. 

Voi  che  in  Córte  vivete, 

Apprendete,  apprendete  ; 

Non  siate  troppo  apèrti  adulatóri, 

Nemmén  troppo  sincèri  parlatóri  ; 

E  se  volete  alfm  passarla  nétta, 

Una  scusa  o  '/  silènzio 

Sarà  sempre  per  vói  buona  ricètta ^ 


112  FAVOLE  MORALI. 

TAVOLA    LUI. 
Il  Villanoj  che  trova  un  Tesoro. 

Un  Villano,  che  vivéa 

Col  lavóro  giornaliero, 
Altro  al  móndo  non  avéa 
Che  una  casa,  o  a  dir  più  véro, 
Che  un  ben  misero  tugùrio, 
Detto  Ostél  del  Mal-augùrio. 

Questo  nóme  gli  era  dato, 

Perdi'  esso  èra  mal  sicuro  : 

Era  tutto  scassinato  ; 

Screpolato  era  ogni  muro  ; 

E  la  bócca  non  di  ràdo 

Esso  apria  per  dire  :   "  Io  cado". 

11  Padrón  di  ristorarlo 

Non  avéa  modo,  o  diségno, 

E  credea  col  puntellarlo 

Or  con  quésto,  or  con  quel  légno, 

Di  poter  tenerlo  in  piede, 

Finche  andasse  ad  altro  erède. 

Ma  succèssegli,  che  un  giórno, 
Che  affannato  dal  lavóro 
All'  ostèllo  ei  fé'  ritórno, 
Per  confòrto  e  per  ristòro, 
Lo  trovò  bello  e  seduto  ; 
Trovò,  idést,  eh'  era  caduto. 

Diede  allóra  nelle  smànie 

Nel  veder  casa  e  puntèlli 
In  un  fàscio  :  cose  strànie 
Disse,  e  svèlsesi  i  capélli  ; 
E  tenendo  gli  occhi  bassi, 
Pianse  un  pèzzo  su  que'  sassi. 


PARTE    SECONDA.  113 

Mentre  estàtico  egli  tiene 

Fisse  e  immòbili  le  ciglia 

In  que'  sassi,  a  scorger  viene 

Con  sorprésa  e  maraviglia 

In  queir  òrrido  rottame 

Una  péntola  di  rame. 
La  scoperchia  pien  di  spème, 

E  in  veder  quel  che  contiene. 

Più  non  mormora,  e  non  géme, 

E  felice  egli  si  tiene  :  — 

Neil'  ostèllo,  eh'  è  caduto, 

Ha  trovato  il  proprio  aiuto. 
Di  monéte  tutte  d'  òro 

Quella  péntola  era  pièna  ; 

E  il  Villàn  senza  lavóro 

Vita  plàcida  e  seréna 

Menò  pòi  con  largo  vitto. 

Che  poc'  anzi  era  sì  afflitto. 
Quante  vòlte  quel  che  pare 

Un  flagèllo,  una  disgràzia, 

È  un  favor  particolare. 

Un  gran  bène,  ed  una  grazia. 

Per  qualunque  mal  gli  avvenga, 
A  smarrirsi  alcun  non  venga. 


10^ 


114  FAVOLE   MORALI. 

FAVOLA    LIV. 
I  Lupi,  e  le  Pècore. 

Per  molti  secoli 
In  sulla  tèrra 
Tra  Lupi  e  Pècore 
Durò  la  guèrra. 

Alfine  fecero 

Tra  lor  la  pace, 
Pace  durévole, 
E  non  fallace. 

Tutti  gli  articoli, 
E  tutt'  i  patti 
Con  ogni  formula 
Erano  fatti. 

Eran  reciprochi 
I  lor  vantàggi, 
E  si  mandarono 
Entrambi  ostàggi. 

Avean  le  Pècore 
I  Lupicini  ; 
I  Lupi  avevano 
I  lor  Mastini. 

Allor  trescavano 
Le  Pecorèlle 
Nei  verdi  pàscoli 
Sicure,  e  snèlle  : 

L'  onda  bevevano 
Di  chiara  fónte, 
E  s'  aggiravano 
Al  piano,  al  mónte  ; 


PARTE   SECONDA.  115 

E  sulle  mòrbide 

Frondose  rive 

Si  riposavano 

Air  ombre  estive. 
Ma  fu  brevissima 

Sì  lieta  sórte, 

E  la  scontarono 

Colla  lor  mòrte. 
I  Lupi  crébbero 

Pria  pargolétti, 

E  alfin  si  videro 

Lupi  perfètti. 
E,  mentre  stavano 

Lunge  i  pastóri, 

Strozzar  le  misere, 

Qual  traditóri  ; 
E  s'  imboscarono 

Lieti  e  contènti, 

Seco  portandole 

Ai  lor  parénti, 
I  quali  accòlsero 

I  figli  ladri, 

Come  degnissimi 

Dei  loro  padri. 
E  questi  pèrfidi 

Miser'  a  brani. 

Mentre  dormivano, 

Prima  i  lor  Cani. 

O  voi  che  fàcili 

A  creder  siete. 
Da  questa  fàvola 
Or  apprendete, 


116  FAVOLE   MORALI. 

Che  per  nascóndere 
Lor  artifici 
Molti  si  fingono 
Sinceri  amici. 


FAVOLA   LV. 

Le  Bolle  di  Sapone, 

Un  Fanciullin  scherzévole, 
A  trastullarsi  intènto, 
Getta  il  sapóne  e  1'  agita, 
In  pura  onda  d'  argènto. 

Sciolto  e  battuto,  ammontasi 
In  spuma  biancheggiante, 
Che  nel  viscóso  carcere 
Racchiùde  1'  aere  errante. 

Sottil  cannèllo  immèrgevi  ; 
Fra  i  labbri  indi  1'  aggira, 
E  il  fiato  tenuissimo 
Soavemente  spira. 

Stèndesi  1'  onda  dùttile 
Al  lènto  urto  gentile. 
Cède,  s'  allarga,  e  piegasi 
In  glòbo  ampio  e  sottile. 

Dal  tubo  allora  spiccasi. 

Nuota  dell'  aere  in  séno, 
Spinto  dai  lievi  zefiri 
Nel  liquido  seréno. 

Del  sóle  il  raggio  trèmulo, 
Mentre  lo  fere  e  indora, 
SuU'  ónda  curva  e  mòbile 
Vària  scherzando  ognóra. 


PARTE   SECONDA.  117 

Spiegando  ora  il  settèmplice 

Misterioso  lémbo, 

Forma  improvvisa  un'  iride 

Sul  curvo  ondoso  grembo  ; 
Or  come  in  spècchio  nitido 

In  breve  spàzio  strétti 

Confusamente  pingonsi 

1  circonstànti  oggetti. 
Lievi  rotar  si  mirano 

Sui  trèmuli  cristalli 

Le  tórri,  i  tétti,  gli  àlberi, 

I  monti,  e  insiém  le  valli. 
Un  Fanciullin  più  sémplice, 

Cui  '1  giòco  è  affatto  ignòto. 

Vi  ferma  1'  òcchio  attònito, 

Fiso  lo  guarda  e  immòto. 
Rotar  per  1'  ària  miralo 

Senza  saper  che  sia  ; 

Tosto  d'  averlo  invogliasi. 

Toccarlo  già  desia. 
Ondeggia  il  globo  lùcido, 

Or  sàie,  ora  dechina  ; 

Ratto  il  Fanciullo  séguelo, 

A  lui  già  s'  avvicina  : 
De'  piedi  in  pùnta  drizzasi. 

Le  mani  in  alto  stènde 

Quanto  più  puòte,  ed  àvido 

Già  quasi  il  tócca  e  prènde. 
Impaziente  lanciasi 

Ver  lui  con  lieve  salto. 

Ma  1'  aria  urtata  celere 

Lo  risospinge  in  alto. 
S'  infiamma  allòr  più  fèrvido 

II  Fanciullétto,  il  vólo 


118  FAVOLE   MORALI. 

Fiso  ne  segue,  ed  eccolo 
Cala  di  nuòvo  al  suòlo. 

Corre  il  Fanciùl,  che  pèrderlo 
Un'  altra  vòlta  téme, 
E  fra  r  ansióse  ed  àvide 
Palme  anelante  il  prème. 

Ma  tocco  appéna  pérdesi, 
Sparisce  in  aer  vano, 
Scòppia,  e  sol  góccia  sòrdida, 
Lascia  al  Fanciullo  in  mano. 

Uomo  ambizioso  e  cupido, 
Che  sudi  in  seguitare 
Un  ben  che  lusingandoti 
Si  bel  da  lungi  appare  ; 

Quando  sarai  per  strìngerlo 
In  sul  fatai  moménto, 
Deluso  allóra  e  stupido 
Stringerai  sólo  il  vento. 

FAVOLA   LVl. 
Il  Topo  Romito. 

Quando  1'  inverno  nei  cantòn  del  fòco 
La  Nonna  mia  ponévasi  a  filare, 
Per  trattenermi  séco  in  fèsta  e  in  giòco. 
Mi  soleva  la  séra  raccontare 
Cento  e  cento  novèlle  graziose, 
Piene  di  strane  e  di  bizzarre  còse. 

Or  le  ranòcchie  contro  i  tòpi  armate. 
Del  lupo,  della  vólpe  ì  fatti,  i  détti. 
Le  avventure  delP  òrco  e  delle  fate, 
E  le  burle  de'  spiriti  follétti, 


PARTE   SECONDA.  119 

Narrar  sapéa  con  sì  dolci  manière, 

Ch'  io  non  capiva  in  me  dal  gran  piacére. 

Or  mia  Nònna  sovviénmi  che  una  volta, 
Dopo  averla  pregata  e  ripregàta 
Con  mille  dolci  nómi,  a  me  rivòlta,    - 
Alfine  aprì  la  bocca  sua  sdentata, 
Prima  sputò  tre  vòlte  e  poi  tossì, 
Indi  a  parlare  incominciò  così  : 

'•'  C  era  una  vòlta  un  Tòpo,  il  qua!  bramóso 
Di  ritrarsi  dal  móndo  tristo  e  rio, 
Cercò  d'  un  santo  e  plàcido  ripòso, 
E  alle  cose  terréne  disse  Addio  ; 
E  per  trarsi  di  lóro  assai  lontano. 
Entrò  dentro  d'  un  càcio  Parmigiano. 

E  sapendo  che  al  Ciél  poco  è  gradito 

L'  uom  che  si  vive  colle  mani  al  fianco. 
Non  stava  punto  in  òzio  il  buon  Romito, 
E  di  lavorar  mài  non  era  stanco, 
Ed  andava  ogni  giórno  santamente. 
Intorno  intórno  esercitando  il  dènte. 

In  pochi  giórni  egli  distése  il  pélo, 

E  grasso  diventò  quanto  un  guardiano. — 
Ah  !  son  felici  i  giusti,  e  amico  il  Cielo 
Dispènsa  i  suoi  favóri  a  larga  mano 
Sopra  tutto  quel  pòpolo  devòto. 
Che  d'  esser  suo  fedéle  ha  fatto  vóto.  — 

Nacque  intanto  fra'  tòpi  in  quella  etàde 
Una  fiera  e  terribil  carestia  ; 
Chiuse  eran  tutte  ne'  granai  le  biade, 
Né  di  sussister  si  trovava  via. 
Che  il  crudel  Rodilàrdo  d'  ogn'  intórno 
Minaccioso  scorreva  e  notte  e  giórno. 

Onde  furon  dal  pùblico  mandati. 

Cercando  aita  in  questa  parte  e  in  quella. 


120  FAVOLE  MORALI. 

Col  sacco  sulle  spalle  i  deputati, 
Che  giùnser  del  Romito  anco  alla  célia  ; 
Gli  fecero  un  patetico  discòrso, 
E  gli  chièsero  un  pòco  di  soccórso. 

*  O  cari  figli  miei  ',  disse  il  Romito, 

^  Alle  mortali  o  buone  o  rèe  venture 
Io  più  non  penso,  ed  ho  dal  cor  bandito 
Tutti  gli  affètti  e  le  mondane  cure  : 
Nel  mio  ritiro  sòl  vivo  giocóndo  ; 
Onde  non  mi  parlate  più  del  móndo. 

Povero  e  nLdo  cosa  mli  può  fare 

Un  solitario  chiùso  in  queste  mura. 
Se  non  in  favor  vòstro  il  Ciel  pregare 
Ch'  abbia  pietà  della  comun  sventura  ? 
Sperate  in  Lui,  eh'  Ei  sòl  salvar  vi  può'. 
Ciò  détto,  r  uscio  in  fàccia  a  lor  serrò".  — 

"  O  cara  Nonna  mia",  le  dissi  allóra, 

"  Il  vostro  Tòpo  è  tutto  Fra  Pasquale, 

Che  nella  cèlla  tacito  dimòra, 

C  ha  una  pància  sì  gròssa  e  sì  badiale, 

Che  mangia  tanto  e  prèdica  il  digiuno, 

Che  chiede  sèmpre,  e  nulla  dà  a  nessuno". — 

*'  Taci",  la  buona  Vècchia  allor  gridò, 

"O  tristarèllo,  e  chi  a  pensare  a  male 

Contro  d'  un  religióso  t'  insegnò. 

Ed  a  sparlar  così  di  Fra  Pasquale  ?  — 

Oh  mondo  tristo  !  oh  mondo  pièn  d'  inganni  ! 

Ah,  la  malizia  viene  avanti  gli  anni  !  — 

Se  ti  sento  parlar  più  in  tal  manièra, 

Vo'  che  tu  vegga  se  sarà  bel  giòco". — 
Così  parlò  la  Vècchia,  e  fé'  una  céra, 
Che,  a  dirla  schiètta,  la  mi  piacque  pòco  : 
Ond'  io  credei  che  fòsse  prudenziale 
Lasciar  vivere  in  pace  Fra  Pasquale. 


PARTE    SECONDA,  V2Ì 

FAVOLA    LVII. 
La  Gallina^  e  i  Pulcini. 

•  Oi"  cLie  siete  satólli, 

E  eh'  io  su  quest'  erbóso 

Molle  cespo  mi  poso, 

Ite",  disse  a'  suoi  Pólli 

La  Gallina,  "  a  dipòrto 

Ite,  o  figli,  nell'  òrto". 
Con  pipilar  giulivo 

Sen  vanno  ;  e  giunti  appéna, 

Un  già  raspa  1'  aréna, 

Un  s'  ascónde  furtivo, 

Un  saltella,  un  svolazza: 

Ciascun  già  si  sollazza. 
Quand'  ècco  palpitante 

La  Madre  a  sé  li  chiama. 

E  :   "  Qua  qua,  figli",  esclama 

Con  vóce  gracidante  ; 

^'  Qua  qua,  figli,  tornate, 

Affrettate,  volate". 
V^òlgonsi  que'  Pulcini 

Dicendo  :   "  E  donde  quésto 

Richiamo  sì  molèsto  ?" 

Pur  prónti  i  poverini. 

Benché  non  senza  duòlo, 

Tornano  a  lèi  di  vólo. 
La  Chiòccia  allór  distènde 

L'  ali,  e  sótto  li  tira 

Ben  tutti  :  alfin  respira. 

Ma  il  perchè  non  s'  intènde 
11 


1^  FAVOLE   MORALI 

Da'  figli  ancóra  ;  ed  élla 

Cosi  ad  èssi  favèlla  : 

"'  Da  periglio  mortale 

D'  avervi  tratti  io  spéro  : 

E  se  volete  il  véro 

Scoprir,  fuor  di  quest'  ale 

Spignete  il  guardo,  e  quello 

Mirate  errante  augèllo. 

Voi  noi  vedeste  :  è  désso, 
\  _  _  _        ' 

E  il  Nibbio  traditóre. 
Ancor  mi  trema  il  core 
Dallo  spavènto  opprèsso  : 
Ei  v'  adocchiò  lontano  ; 
Ma,  grazie  al  Cielo,  in  vano. 

Oh  come  ha  il  piede,  il  ròstro. 
Fièro,  adunco,  sanguigno  ! 
Quanto  ha  V  òcchio  maligno  ' 
Il  gran  nemico  vòstro, 
Figli,  ornai  conoscete, 
E  a  fuggirlo  apprendete.  — 

Ecco  al  guardo  ei  s' invola. 
Qualche  Pulcin  malnato. 
Renitènte,  ostinato, 
Cèrto  a  ghermirsi  ei  vola. 
Ma  voi  sicuri  in  pace 
Ite  òr  dove  vi  piace". 

guanti  mali  e  'perìgli 

Scopre  r  òcchio  paterno, 
Che  voi  prendete  a  schérnoy 
O  non  vedete,  o  figli  !  — 
E  il  perchè  si  rintraccia  ?  — 
Ahy  s'  ubbidisca  e  tàccia. 


PARTE    SECONDA.  123 

FAVOLA   LVIII. 
La  Farfalla,  e  la  Nòttola. 

Stanca  una  Farfallétta 

L'  ali  raccòglie,  e  pòsa 

D'  una  vermiglia  ròsa 

Su  la  tremola  vétta  ; 

E  allòr  la  nòtte  in  cielo 

Stendeva  il  bruno  vélo. 
Ella  pur  anco  désta 

Gli  occhi  solleva,  e  i  tanti 

Astri  fissi  ed  erranti 

A  contemplar  s'  arresta, 

E  r  alta  osserva  immènsa 

Azzurra  vòlta  ;  e  pensa;  — 
Dell'  età  nòstra  è  vanto, 

Ch'  òggi  filosofésse 

Sien  le  Farfalle  anch'  èsse. — 

Dùnque— ella  pensa,  e  intanto 

Dice:   "Ah,  móndi  son  quelle 

Che  a  me  sembrano  stélle. 
Ma,  come  qui  tra  nói, 

E  mari,  e  valli,  e  mónti, 

Ed  èrbe,  e  fióri,  e  fónti 

Colà  vi  saran  pòi  ? 

O,  tanti  e  si  gran  móndi 

Fien  deserti  e  infecóndi?  — 
No  cèrto  :  ed  animali 

Vi  sono  ;  e  bianche,  e  gialle, 

Vario-pinle  Farfalle 

A  nói  in  tutto  uguali. 

Ah  che  mirare  io  bramo  ! 

Quasi  direi  eh'  io  V  amo" 


m  FAVOLE   MORALI. 

Cosi  per  mondi  ignòti, 

Ch'  e'  par  eh'  essa  li  véggia. 
Col  suo  pensiér  passeggia; 
E  i  perigli  mal  nòti 
Le  sono,  ond'  essa  è  cinta. 
Onde  vedràssi  estinta. 

Già  di  lèi  viene  a  càccia, 
Già  I'  assale  una  sózza 
Nòttola,  e  se  1'  ingozza, 
Mentre  di  móndi  in  tràccia 
Va  del  ciél  su  la  vòlta, 
Nò  a  sé  pensa  la  stólta. 

O  Farfallétia  mia, 

E  che  mài  ne  consigli  ?  — 
Che  a'  suoi  prójirj  perigli. 
Che  a  sé,  si  pensi  in  pria  ; 
E  che  alìòr  poi  si  puòte 
Cercar  di  cose  ignòte. 


FAVOLA   LIX. 


Gli  Occhi  Azzurri,  e  gli  Occhi  ^cri, 

A  contésa  eran  venuti 

Gli  Occhi  Azzurri  e  gli  Occhi  Néri.  — 

••'  Occhi  Néri,  fieri  e  ir.jti".  — 

■•Occhi  Azzurri,  non  sincèri".  — 

••  Color  bruno,  color  mèsto". — 

•'•  A  cangiar  1'  Azzurro  è  prèsto". — 

•'Siamo  immàsfine  del  Cielo".  — 

••  Siamo  faci  sotto  a  un  vélo".  — 

'•  Occhi  Azzurri  han  Palla  e  Giùno". — 


l^VRTE    SECONDA.  li 

'  avrian  détte  anche  altre  còse, 
Ma  fra  lóro  Amor  si  póse. 
Decidendo  tanta  lite 
In  tai  nòte,  che  ha  scolpite 
Per  suo  cènno  un  Pastor  Fido 
Sopra  un  còdice  di  Guido  : 

Il  primato  in  questi  o  in  quelli 
Non  dipènde  dal  colóre  ; 
Ma  quegli  Occhi  son  più  hélli^ 
Che  ri&póndono  più  al  córe'\ 


INDICE 

DELLE  FAVOLE,  E  DEGLI  AUTORI  DA  CDi 
SON  TRATTE. 


PARTE    I. 
FAVOLE   IN    PROSA. 


FÀVOLA        L 

Il  Cane  A'vido, 

Favolette  Morali. 

1> 

IL 

.     La  Cerva, 

Fàvole  Esopiane. 

3 

IIL 

//  Ladro,  e  il  Cane, 

Favolette  Morali. 

4 

IV. 

Il  Cerbiatto,  e  il  Cervo,     - 

Fàvole  Esopiane. 

4 

V. 

II  Ragno,  e  la  Róndine, 

Zaccaria. 

5 

VI 

.     La  Rana,  e  il  Bue,     - 

Favolette  Morali. 

5 

VII. 

La  Lùcciola,  e  il  Vermicello, 

Cesarotti. 

6 

VIII 

Il  Cane  di  Campagna,  e  i  Cani  della  Città, 

Zaccaria. 

6 

IX 

,     Lo  Sparviere,  e  V  Uccellatore, 

Marconi. 

7 

X. 

11  Cieco,  e  lo  Stòrpio, 

Favolette  Morali. 

"^ 

XI. 

Il  Lupo  e  la  Volpe  in  giudizio,  innanzi  alla 

Scimia,      -         -         .         - 

Favolette  Morali. 

8 

XIL 

Il  Fanciullo,  e  i  Pastori, 

Anònimo. 

8 

XIII. 

L'  A'sino,  il  Leone,  e  il  Gallo, 

Marconi. 

9 

XIV. 

Il  Gatto,  e  i  Topi,      - 

Fàvole  Esopiane. 

10 

XV. 

L'  Infelice  e  la  Morte,     - 

Marconi. 

10 

XVI. 

11  Pastore,  e  il  Mare, 

Fàvole  Esopiane. 

11 

XVII. 

Mercùrio,  e  il  Contadino, 

Marconi. 

12 

XVIII. 

V  Jì'sino,  e  il  Cavallo, 

Visài. 

12 

XIX. 

La  Gatta,  e  il  Gattino,  - 

Manzoni. 

13 

XX. 

Il  Pastore,  e  la  Greggia,     - 

-      Marconi. 

14 

XXI. 

Il  Sorcio  Viaggiatore,     - 

Roberti. 

14 

XXII. 

V  Istrice,  e  la  Volpe, 

Firenzuola. 

15 

XXIII. 

L'  A'quila,  e  la  Biscia, 

Cesarotti. 

16 

XXIV. 

L'  A'sino,  e  la  Lepre, 

Marconi. 

16 

XXV. 

11  Ragno,  e  il  Bigatto,    - 

Fabri. 

17 

XXVI. 

La  Volpe,  il  Lupo,  e  il  Mulo, 

■    JYovelle  Antiche. 

18 

XXVII. 

II  Fuoco,  r  A'cqua,  e  1'  Onore, 

Gozzi. 

19 

XXVIII. 

Il  Cane  Invitato, 

Fàvole  Esopiane. 

19 

XXIX. 

I  Tre  Pesci, 

Firenzuola. 

20 

XXX. 

La  Volpe,  il  Gallo,  e  i  Cani, 

.       '  -           Fabri. 

21 

XXXI. 

il  Demònio,  e  la  Vècchia, 

Marconi. 

22 

XXXII. 

11  Cervo,             .... 

Monterossi. 

22 

XXXIII. 

I  Garòfani,  la  Rosa,  e  la  Viola-Màmmola,     Gozzi. 

2:ì 

XXXIV. 

il  Contandino,  il  Fifflio,  e  V  Jì'si\ 

no,       ~         Visài. 

24 

INDICE. 


127 


XXXVI.  Un  Padre,  e  tre  Fi^li. 

XXXVII.  La  Scimia,  e  1'  Orinolo, 

XXXV III.  Il  Concìlio  dei  Sorci, 

XXXIX.  Il  Pittore, 

XL.  11  Gambero,  e  la  Volpe,     - 

XLI.  1  due  Matti,  .         .         .         -        - 

XLII.  La  Lepre,  e  le  Rane,  •         -         -         - 

XLI  li.  11  Tagliatore  di  Legna,  e  la  Scimia, 

XLIV.  La  Zanzara,  e  la  Lùcciola, 

XLV.  Il  Lavoro,  la  Salute,  e  la  Contentezza, 

XLVI.  Le  Scimie,  e  la  Lucciola, 

XLVII.  11  Rosignuolo,  e  il  Cuculo, 

XLVIII.  Le  Pere,         ----- 

XLIX.  Gli  Animali  in  Pùblica  Penitenza,    - 

L.  L'  Amore,  e  V  Interesse, 

LI.  Jl  Sole,  e  il  Ghebro,  -         -         - 

LII.  Il  Garofano,  .        -         .         - 

LUI.  11  Gambero,  e  i'  Uccello  Aquàtico,   - 

LIV.  La  Nébbia,  e  i  tre  Astrologi. 

LV.  L' Onore,  e  il  Merito,       -    '     - 


Pejre 

Visài. 

26 

Jìnónimo. 

27 

Marconi. 

2« 

Gozzi. 

29 

Rossetti. 

30 

-     Manzoni. 

31 

Marconi. 

32 

Firenzuola. 

33 

Gozzi. 

34 

Rota. 

35 

Firenzuola. 

37 

Fortegueiri. 

38 

Gozzi. 

40 

Marconi. 

41 

Gozzi. 

44 

Cesarotti. 

Aiì 

Gozzi. 

47 

Firenzuola. 

49 

Gozzi. 

51 

Cesarotti. 

54 

PARTE    II. 

FAVOLE    IN    VERSI. 

Fàvola  i. 

.     il  Fiore,  e  la  Rovere,         -         -         - 

Bettola. 

61 

Il, 

,     11  Leone  Debitore, 

De  Rossi. 

61 

III 

.     //  Ladro,  e  il  Cane,           -         -     Favolette  Morali. 

62 

IV. 

lì  Lupo,  e  il  Pastore,     - 

De  Rossi. 

62 

V. 

Le  due  Spighe,         -         .         -         - 

De  Rossi. 

63 

VL 

La  Rana,  e  il  Bue,         -         -         -         - 

Grillo. 

63 

VII. 

L'  Uomo,  e  il  Cavallo,     - 

■Alga  rotti. 

64 

Vili. 

Due  Tori,  e  un  Cane, 

Jllgarotti. 

65 

IX. 

Lo  Sparviere,  e  V  Uccellatore,     - 

Grido. 

65 

X. 

La  Gioventù,  e  il  Piacere,     - 

De  Rossi. 

66 

XL 

Il  Gatto,  e  il  Formaggio, 

Roberti. 

66 

Xll. 

//  Fanciullo,  e  i  Pastori, 

Pignotti. 

67 

XIII. 

11  Toro,  il  Cavallo,  e  la  Volpe, 

De  Rossi. 

68 

XIV. 

11  Cane,  e  la  tìor'e,      -         .         -         - 

Jllgarotti. 

68 

XV. 

U  Inj elice,  e  la  Morte, 

Pignutti. 

69 

XVI. 

La  Vile,  e  il  Potatore, 

Bertóla. 

70 

XVIL 

Il  Pino,  e  il  Melo-Granato, 

Bertela. 

70 

JfVlII. 

L'  A'sino,  e  il  Caoallo,  -         -         -         - 

Passcroni. 

71 

XIX. 

Le  Nuvole,  e  il  Sole,         -         -         - 

Chiappa. 

73 

XX. 

H  Giorno,  la  Notte,  e  il  Crepùscolo, 

Algarutti. 

73, 

XXI. 

Il  Lupo,  e  1'  Agnello,         .         .         - 

Gatti. 

74 

XXII. 

L'  l'strice,  e  la  Volpe,    -         -         -         - 

Bandi. 

74 

XXIII. 

La  \'olpe,  e  il  Topo,           -         -         - 

Frugoni. 

76 

XXIV. 

La  Volpo,  e  il  Lepre,     -         .         -         - 

Mgarotti. 

76 

XXV. 

La  Volpe,  il  Cavallo,  e  il  Lupo,  ~ 

-      Grillo. 

77. 

XXVL 

11  Cinghiale,  e  1'  A'sino, 

Orsini. 

79 

INDICE. 


12b 


VXVdl.  Li' An)i>re,  e  il  Tempo.        -         -         - 

XXiX.  La  Volpe,  il  Cane,  e  il  Gallo.    - 

XXX.  li  Cardeliino,       -         -         -         -         - 

XXXf.  il  Fanciullo,  e  le  LuccioleLte. 

XXXII.  La  Lucèrtola,  e  il  Coccodrillo,    - 

XXXill.  La.  Lucarina,'         -         -         -         -, 

XXXIY.  //  Contadino,  il  Figlio^  e  V  JÌ'siv.o, 

XXXV.  La  Rana,  e  il  Pesce,       -         - 

XXX Vi.  11  Leone,  il  Cavallo,  la  Cagna,  la  Lo- 
custa, e  i'  Ansino,     -       ,  - 

XXXVII.  La  Scìuiia.  ì'  A's'mu,  e  la  Talpa.     - 

XX XV 111.  n  Concilio  dà  Sorci, 

XXXlX.  il  Corvo,  eia  Volpe,      - 

XL.  La  Pècora,  e  lo  Spino. 

XLL  11  Figliolino  del  iradrone,  e  il  Giardi- 
niere,      ...         -  -         . 

\ijii.  Iai  Lepre,  eie  Rane.         -         - 

XLiil.  LaFarfaìletta,  e  «l  Fiore,     - 

XLIV.  11  Leone,  la  Capra,  la  Pècora,  e  la  Giù 

venca,  -         -    ■     - 

XLV.  Il  Viaggiatore,  e  il  Vento, 

XLVI.  Le  Scvhiie,  e  il  Lucciolone, 

XLVil.  La  Mosca,  e  il  Moscerino, 

XLVIÌl.  La  Spica,  e  il  Papàvero. 

XLiX.  11  Cammello,  e  il  Topo,       - 

L.  V  Amori',  e  P  Inter. i.-s,-:, 

Li.  il  Fanciullo,  e  la  Vespa,     - 

Lll.  La  Corte  del  lie  Leone, 

LUI.  Il  Villano,  che  trova  un  Tesoro, 

LiV.  I  Lupi,  e  ìe  Pècore,      .         .        - 

LV.  Le  Bolle  di  Sapone. 

LVI.  lì  Topo  Romito,      '    -         -         -         - 

LVll  La  Gallina,  e  i  Pulcini,     - 

LVIIl.  La  Fartalla,  e  la  Nòttola.      - 

LIX.  Gli  Occhi  Azzurri,  e  sa  Occhi  Neri,     • 


Bondi. 

Pag.- 

Grillo. 

^\ 

fìerióla . 

u-; 

Bertòln. 

84 

Bertóla. 

8.^ 

Bertóla. 

H') 

Fignotti. 

^7 

Btrtóia. 

86 

Aìgarotii. 

8:> 

J-ig-aoUi. 

Figaciti. 

iirillo. 

5)0 

Ds  Rossi. 

9;ì 

Pércgo. 

(rHllo. 

VA 

•     Ber  tota. 

•♦7 

Grillo. 

S)fi 

fieri  ola. 

9:  > 

lìcrtóìn. 

101 

PigJWtti. 

10.' 

Pignoni. 

.     iLrtùìa. 

104 

lor. 

Chiappa. 
Pignotti. 
Crudeii. 

'07 
10.S 
liO 

Passernni. 

112 

Grillo. 

114 

PioTLUtti. 

ne. 

Pignoni. 

118 

Firego. 

121 

-     Per  ego. 
•     Bertóla 

12:: 
124 

A 


FINE. 


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